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Title: Alcibiade, la critica e il secolo di Pericle
Author: Cavallotti, Felice
Language: Italian
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                               ALCIBIADE,
                   LA CRITICA E IL SECOLO DI PERICLE


                                LETTERA

                                   DI
                           FELICE CAVALLOTTI

                                   A
                        YORICK FIGLIO DI YORICK



                                 MILANO
                     TIPOGRAFIA FRATELLI RECHIEDEI
                                  1874



  =Caro Yorick figlio di Yorick,=


Difendono i ministri i loro spropositi, difendono i filosofi le loro
utopie, difendono le mamme i loro mostricini, possono ben difendere gli
artisti i loro lavori, fossero anche aborti delle Muse.

E poiché sono venuto nella idea di rispondere alle critiche da varie
parti piovute sul mio povero _Alcibiade_; e bisognava pur trovare
qualcuno a cui parlare per tutti — come a suocera veneranda, perchè
le nuore pudiche della critica intendano, — ho pensato che quest'uno
potevate benissimo essere voi.

Ciò per parecchie ragioni: delle quali salto subito subito, di piè
pari, la prima — perchè dovrei discorrere della bacchetta di direttore
che voi tenete da tempo con diritto incontestabile nell'orchestra,
un po' scordata, della critica giornalistica italiana. Ora qui da
un lato sdrucciolerei ne' complimenti, e in fatto di complimenti,
io mi dichiaro confratello degli orsi delle caverne di Berna e del
_Pessimista_ dell'_Arte Drammatica_ di Milano; dall'altro forse nelle
scortesie, e nel lodare il direttore non vorrei offendere i violini di
spalla.

Un'altra ragione riguarda me. — E questa lasciatemela pigliar dalla
lunga.

La vita dell'arte, come quella della politica, non è stata per me tutta
rose. In politica ho avuto addosso i _nemici di partito_; in arte — oh
in arte, assai di peggio: ho avuto addosso i _critici imparziali_. Voi
non immaginate che spaventosa parola sia questa per i poveri autori.
In arte, si sa, è valuta intesa, non ci sono, non ci possono essere
partiti, nè simpatie od antipatie partigiane: la legge di Solone
che voleva i cittadini partigiani per forza, pena l'infamia, nella
repubblica delle lettere, si sa, non ha corso; qui, non si parla, non
si scrive, non si giudica che per semplice, solo, purissimo _amore
dell'arte_. L'amore dell'arte ha messo al mondo in un solo parto i genj
abortiti, gli autori fischiati — e i _critici severi ma imparziali_.
E poichè l'amore, per legge di natura, quanto più è contrastato ed
infelice, tanto più ne' contrasti s'accende e s'inasprisce, così
questo amor divino dell'arte rende terribili coloro a cui l'arte
ha negato le sue carezze. Con una abnegazione feroce, resa tale dal
loro _amor disperato_ — essi servono le caste Pimplee da cui furono
messi alla porta. Appollajati lì sull'uscio che non possono varcare,
se ne sono costituiti i portinaj e ne vietano agli altri o ne fanno
pagar caro l'ingresso. Ributtati dalle vergini divine, si son fatti
custodi inesorabili del loro onore. Controllano i doni, le primizie, le
vivande, le offerte votive — drammi o commedie, romanzi o poemi — che
ad esse vengono recate; non lasciano passare le indegne o nocive alla
salute; i temerarj offerenti castigano; e siccome l'amoroso zelo li fa
rigorosi, così nocive od indegne trovano quasi tutte; e giù botte da
orbi ai _fedeli_ che portano la roba, mentre, frattanto, alle divine
fanciulle per troppo amore non lasciano arrivare in tavola più niente
— e le poverette rischiano di morir di inedia — come Sancio Panza
governatore, quando il medico sorvegliava la sua mensa.

Scherzi a parte, e fuori di metafora, oggi la critica si trova in
Italia, fatte le debite ed onorande eccezioni, anzichè no a mal
partito. Un certo numero di persone che non hanno potuto terminar bene
i loro studj non sono riuscite nei tentativi dell'arte, o non sanno
rassegnarsi all'ingiustizia di madre natura che fu loro nell'ingegno
matrigna, si sono messe, in mancanza di meglio, a far della critica.
Ufficio il più difficile e il più facile, secondo la maniera di
pigliarlo: per costoro — il più facile. Non portando nell'esercizio di
questo ufficio nessun chiaro concetto sulla missione dell'arte e sui
suoi varj ideali, nessun criterio estetico determinato, nessun corredo
di cognizioni sode e nessuna sapienza d'analisi, essi vi portano in
compenso un'altra dote, che essi hanno convenuto di chiamare — la
_imparzialità_. Infatti, essi sono imparziali in questo senso che tutte
le scuole per loro sono uguali: tutti gli ideali si valgono: per loro
è indifferente sia l'una piuttosto che l'altra: non si tratta di dar
già all'arte questo o quell'altro indirizzo, di misurare alla stregua
di questo o di quel criterio artistico il valore di un'opera d'arte:
ne importa giusto assai a loro dell'opera d'arte! A loro importa di
far sapere che essi ne hanno fatto la critica. Il loro _giudizio
critico_, è questa per essi la _vera opera d'arte_, ed essi si
figurano già e pregustano, scrivendo, la impressione che essa farà sul
pubblico. L'autore è scomparso: chi ne sa più nulla della sua fatica
e de' suoi studj? il problema è mostrare che qualunque siano l'autore
e la sua opera e i suoi studj, il critico ne sa _sempre_ di più: e
tanto più se ne sa naturalmente quanto più si trova da correggere
e da ridire: correggere e biasimare bisogna dunque e ad ogni costo:
e la _severità_ è di prammatica. Non si può essere indulgenti senza
derogare e confondersi col volgo — o comparir parziali. — «_La tal
cosa è sbagliata, la tale altra assurda; questa va male, quest'altra
così così;_» eh? com'è presto detto! e il lettore che nel suo grosso
criterio prima trovava la cosa passabile e credeva l'autore dovesse
averci studiato sopra chi sa quanto, or pensa già con ammirazione
a quel che ne sarebbe uscito se, invece di quell'asino di autore,
quella tal cosa l'avesse scritta quella cima del critico. I meriti
dell'artista senza i suoi sudori: fare il critico a questi patti
dev'essere una specie di voluttà.

Questa professione non va esente certo anch'essa da' suoi rischi:
viene il giorno che il pubblico, anche col suo grosso criterio, ride
del critico o che il critico si trova per davvero imbrogliato a dare
il giudizio su quel tal lavoro, che sfugge affatto al suo ordine di
cognizioni. Ci sono però anche le risorse. Si aspetta che un critico
— _di quegli altri_ — voi per esempio — abbia aperto bocca e detta
la sua: e allora, senza darsene l'aria, a tempo e luogo, sul motivo
dato si eseguiscono le variazioni. Ciò non obbliga, beninteso, a saper
la ragione delle cose che avete detto voi o a trarne i giudizj che
ne avete tratto voi: anzi, il bello è pigliar della vostra critica
quel tanto che basta per orientarsi, e poi concludere all'opposto.
Io conosco dei critici che mettono sempre diligentemente da parte,
in serbo, le appendici critiche di Yorick e dei critici francesi più
in voga, per presentarle all'occasione ricucinate da loro: e i quali
sarebbero maledettamente impacciati se dovessero spiegare la tale o
tal altra cosa, la tale o tal altra parola, che hanno copiata a occhi
chiusi, senza saperne il perchè. Ma in compenso, se vedeste, con che
severità e con che sussiego ne fanno all'autore, come fosse roba loro,
la girata!

Un'altra risorsa per questi critici è l'apparizione di un lavoro
storico — o in cui c'entri per qualche verso la storia. Oh un dramma
storico! è la loro festa. Quel giorno essi salgono di cento gradini
nella scala della riputazione e si pigliano più autorità che non ne
abbian presa in cento critiche di altri lavori. Perchè in altri bisogna
discorrere poco o tanto di concetti artistici, di forme artistiche, di
poesia, di psicologia, di morale, e che so io: tutte cose che legano
i denti: e che permettono al lettore profano di essere di un parer
diverso: ma qui! qui è un altro affare. Qui si piglia una Enciclopedia
o un trattato di storia: e in due tratti di penna l'autore è spacciato.
Qui si tratta di cognizioni serie, positive, su cui non ci possono
essere dispareri. Come si fa, quando l'autore si è occupato di quel
tal fatto o di quel tal personaggio storico, e il critico vi sentenzia
con tutta la gravità che quel tal fatto è accaduto all'opposto, che
il tipo di quel personaggio è sbagliato, che quella tal circostanza
storica importantissima è stata ignorata, che il colore storico locale
è falsato, e lì una bella citazione di tre o quattro o cinque nomi
di autori in fila — come si fa, dico, a non trovare che il lavoro è
un aborto che non regge alla discussione e a non ammirare il critico
sapiente che ha saputo farne giustizia! «— Oh! hai letto la critica
di X intorno al lavoro di Y? — Certo! Come te lo concia per le feste
quell'Y! — E lì non si scherza! il critico si vede che è uno che sa il
fatto suo! — Se lo sa! Pensare che volevano farlo passare per un buon
lavoro! — Già! già! si vede ora che roba è. Ma neh che talento quell'X!
che erudizione! come sa scrivere! come sa la storia! — E come gli prova
a quel povero diavolo tutti i suoi spropositi citandogli gli autori
sulle dita! — E come conosce a menadito Aristofile, Plutone, Tucilide e
tutti quegli altri! Scommetto che l'autore non li aveva neppure letti!
— Ah questi sì sono critici coi fiocchi!...» — E segue il resto delle
litanie.

Ma se il povero autore strapazzato fosse lì in un angolo e provasse
a quei signori che il critico conosce Platone, Aristofane, Tucidide e
tutte quelle altre brave persone a un di presso come le conoscono loro
— che non ha mai visto dei loro libri pure il cartone — e che tutta la
scienza è stata improvvisata lì per lì dalla sera alla mattina sopra
un articolo della Enciclopedia, quei signori giurerebbero che l'autore
parla per dispetto. Eppure da molti, da troppi la critica non si fa che
così.

Allato a questa categoria, ve n'ha, di critici, un'altra più
coscienziosa, ma per gli autori non meno molesta. Sono ottime persone
— talora qualche diligente professore, il più spesso dei bravi giovani
che han riportato il premio nelle scuole — e che _effettivamente sanno_
qualche cosa: ma che hanno (certo con maggior diritto degli altri) il
bisogno irresistibile di farlo sapere e di mettere in mostra tutto
quello che sanno. Anche questi d'arte s'occupano poco: per loro il
lavoro d'arte non è che un eccellente mezzo per isfoderare la loro
dottrina, smerciare la loro mercanzia e metter fuori tutto il bagaglio
delle loro cognizioni. Anche quando questa mania non si scompagna da
una certa benevolenza, la noia per gli autori non è minore. Perchè essi
rimproverano l'autore che nello sviluppo di quel tal periodo storico
ha dimenticato i tali personaggi; che i tali altri li ha rappresentati
incompletamente; che nell'orditura di quella tal scena ha trascurato
di valersi di quelle date circostanze storiche, di quelle date teorie
filosofiche, di quelle date risultanze della critica storica e via via.
Essi sanno benissimo probabilmente per i primi che se l'autore avesse
fatto entrare nel suo dramma tutta quella roba, ne sarebbe risultato
uno zibaldone impossibile, una mole indigesta da far dormire un morto
in piedi: essi lo sanno, ma non importa — non si tratta di farcela
entrare quella roba, che, tanto, il lavoro è già fatto — si tratta di
far sapere che essi sapevano in proposito tutto quel mondo di belle
cose e che l'autore ha avuto il torto di non pensarci.

Ci è poi ancora una classe di Aristarchi, anch'essi a loro modo
coscienziosi. Questi hanno in arte degli ideali fatti, delle teorie
fatte: e condannano irremissibilmente _a priori_ tutto quello che
esce o si allontana da quegli ideali e da quelle teorie. Per costoro,
la libertà dell'arte non esiste; l'arte non è ammissibile, non è
concepibile che sotto date forme: fuor di là, tutti aborti. Questi la
confina nel mondo puramente fantastico; quest'altro in quello della
realtà presente, pura e nuda. L'uno pretende l'osservanza rigorosa
delle regole aristoteliche; l'altro, che è in progresso, le sopprime,
ma per aver il diritto di sostituirvene dell'altre altrettanto rigorose
ed altrettanto anguste.

Conosco un mio amico, ingegno egregio e critico acuto,[1] il quale in
buona fede si crede rivoluzionario in arte, perchè pretende che ella
debba essere nient'altro che la fotografia di quello che esiste in
natura, e _come_ vi esiste; e che i suoi uomini non debbano portare che
il _frac_ e le sue donne non debbano vestire che colle mode dell'ultimo
figurino. Fantasia, poesia, idealizzazione del vero, evocazione d'altre
età, tutte robe scolastiche da far dormire: prosa da conversazione
ha da essere, e un po' di spirito di osservazione, per riprodurre,
_tal quale_, quel che succede ogni dì, e un po' di raziocinio per
coordinarlo; un problema sociale od economico da risolvere, o un
adulterio pudico da legittimare. Shakespeare, o Byron, o Victor Hugo!
Che arte stramba è questa vostra che cava da mondi impossibili Falstaff
e Jago, Sardanapalo e Ruy Blas! Persone vere, a modo nostro, vogliamo,
e vestite dei nostri panni e facciano quello che facciam noi, e parlino
come parlano i cristiani: stramberie di cervelli malati le vostre e non
arte: l'arte è là — nella _camera oscura_.

Andate dunque a presentare a questi critici un lavoro di un genere che
non sia quel ch'essi ammettono! Andate dunque a dir loro che sono essi
i retrogradi, essi che dell'arte non accettano che una forma sola, che
pretendono misurarle avaramente il tempo e lo spazio; provatevi a dir
loro che _tutti i tempi_ e _tutti i luoghi_ sono dominio dell'arte,
perchè tutti ponno essere dominio del _vero_; che il classicismo era
_falso_, come il loro realismo è _falso_, perchè entrambi pretendono
di imporre indistintamente al vero che è _universale_ le idee e il
linguaggio di un solo paese[2] e di una sola età; che una sola forma
l'arte respinge, ed è il brutto; che è ufficio dell'artista scovrir
del vero le armonie più intime, afferrarne i rapporti più segreti
e lontani, riunirne le linee _sparse_ qua e là nella natura, farle
rivivere in creazioni che la sola riproduzione meccanica del vero in
natura non dà; che l'osservazione fredda e sola a ciò non basta, se la
fiamma santa dell'ideale non la scalda; che sotto tutte le forme l'arte
vuol essere _creazione_, cioè _poesia_: che non è lecito proscrivere
Michelangelo e i suoi arcangeli in nome di Clerici e de' suoi gatti, —
e quei critici _rivoluzionarj_ vi rideranno per compassione sul muso!

E tutti questi ancora sono brava gente. _Uomini serii_ dell'arte,
_Brid'oison_ della critica, _Marchesi Colombi_ dell'erudizione, le loro
sentenze sono perniciose, ma le loro intenzioni sono innocenti.

Or dove lascio le eccellenti persone, che si servono della critica come
di un emolliente per la espettorazione del catarro e di tutti i cattivi
umori dello stomaco? Esser rosi di dentro dalla bile dell'impotenza,
dal tarlo della vanità; cercare ogni dì in fondo all'anima una
scintilla di estro, e non trovarvi che una goccia di fiele; ogni
dì frugare nella mente per trovare una imagine, una idea, pescarvi
un'insolenza o una banalità; e allora, non potendo far dell'arte,
ricattarsene col far della politica; non potendo servire alla
riputazione propria, aver bisogno di pigliarsela coll'altrui, servendo
ai rancori dell'alto ed alle invidie del basso; sempre rodersi,
sempre odiare, odiare come in politica si odia: e dopo tutto questo,
trovarsi d'aver dinnanzi un lavoro d'arte, una penna, un po' di carta,
un dizionario e un calamajo, — ah, per Dio, negatemi che allora non
diventi uno sfogo salutare, non diventi una cura igienica la critica!
Quando il critico ha ridotto in pezzi il lavoro d'arte, ha dimostrato
che è un aborto od un plagio, coperto di irrisione l'autore e le sue
fatiche, — egli tira il respiro più libero: egli si sente il cuore più
leggiero, e le tempie più fresche. Ciò fa bene alla salute.

E ciò permette degli sfoghi che non mancano neppure del loro lato
estetico. Si può fingere la santa indignazione di Giovenale e darsi
l'aria di menar lo staffile — quello di S. Ambrogio magari — per
cacciare i profani dal tempio! si può incominciar l'opera deplorando
il compito ingrato: — una speranza di più andata perduta per l'arte,
l'amarezza di doverla registrare, perchè la verità va innanzi a tutto,
e di esporsi alla taccia di partigiani, per aver avuto il coraggio di
dir forte quello che gli altri non dicono che a bassa voce: — allora
ogni staffilata all'autore diventa un atto di abnegazione del critico
— a ogni brandello del lavoro, ch'ei strappa, è il suo cuor che ne
piange, e che ne sanguina. È il console Bruto che decapita suo figlio.
Santo, divino amore dell'arte, tu solo puoi ispirare questi sublimi
eroismi, perchè fortemente colpisce, chi fortemente ama!

                                   *
                                  * *

Ebbene da tre anni che il caso mi buttò nell'arena dell'arte, ho avuto
anch'io che fare, come tutti i miei colleghi, con questi Minossi della
critica, resi feroci dall'imparzialità, dalla giustizia e dall'amore.
Di che sarebbe ingenuità o incomportabile superbia il lamentarmi:
perchè a me, degli ultimi venuti nell'arringo e non certo ai primi
posti, non ispetta lagnarmi di quel ch'è toccato anco a' maestri,
che vi siedono da un pezzo prima di me e innanzi a me. Ma qualche
circostanza antecedente della mia vita, affatto estranea all'arte, ha
fatto che parecchi di quei signori si dedicassero a me con voluttà
speciale; e che ai miei poveri pargoletti ne toccassero speciali
tenerezze.

Però fu una grata e perfino strana sorpresa per me, nel tempo che
più mi si prodigavano quelle carezze caritatevoli, il trovare un bel
mattino, proprio nelle file de' miei avversarj politici, lì sulle rive
dell'Arno, un critico che acconsentiva a giudicarmi come artista, senza
chieder prima l'ispezione delle mie fedine nè politiche, nè criminali
(molto sporche, tra parentesi, molto sporche)[3]; un critico pieno di
erudizione, di quella vera, ma senza saccenteria; pieno di dottrina, di
quella soda, ma senza pedanteria; che mi criticava senza mordermi, mi
consigliava senza annojarmi, e — fenomeno raro pei tempi — le critiche
erano scritte in italiano così puro che pareva di Crusca, e i consigli
avevano tanto senso comune che pareva perfino — ed era difatti —
buon senso. Quel critico — era un moderato, e reclamava per l'arte la
santa libertà: mi parlava de' suoi ideali con convinzione, mi dava il
benvenuto nel suo tempio con cortesia. — Yorick, figlio di Yorick, quel
critico eravate voi.

Son passati da allora quasi tre anni; ma dovendo indirizzare la
presente a qualcuno, ho amato di ricordarmene.

                                   *
                                  * *

E adesso soltanto ve ne ricordate? E per questo mi scrivete le vostre
frottole?

— Oh, non adesso e non per questo solo. Quando il mio _Alcibiade_
venne ad esporre la coda del suo cane in riva all'Arno, per consultar
sul da farsene, io mi occupai naturalmente di sapere che cosa il
severo Yorick, figlio di Yorick, ne pensava: e quando seppi che egli,
quantunque _moderato_, approvava il taglio della coda, ho detto fra di
me: _sono salvo!_ ho ripiegato diligentemente in quattro l'appendice
della _Nazione_ e me la son messa in tasca come un talismano contro i
malefizj dei don Basilii.

Ma ahimè! l'appendice aveva anch'essa una coda, un pezzettino di
quell'altra tagliata via: e nella coda tutta bianca c'era un piccolo
punto nero ed io non lo avevo visto: e il punto nero era nientemeno
(cerchiamo una frase originale) era la nuvola foriera della tempesta.

Voi avevate detto tra di voi: Per il mio amico Alcibiade e per
l'operazione del taglio, vada: ma tra amici qualche scherzo di buon
genere è permesso; e se Alcibiade ne ha fatto uno simile al suo cane,
io posso ben farne un altro a lui. Per aver della dottrina — non
è necessario rinunziare a far dello spirito: e qui è il caso d'una
facezia che farà ridere tutta la platea. Alcibiade, democratico e il
suo compare Cavallotti strapazzano i _repubblicani_ dell'Atene antica:
io, _monarchico_ dell'Atene moderna, li difenderò. E la _Nazione_
sarà l'asta che impugnerò, paladino della repubblica, contro il poeta
anticesareo, e tutta Italia saprà che il rappresentante di Corteolona
è stato richiamato al rispetto verso l'_A. R. U._ e le altre lettere
repubblicane dell'alfabeto, da Celestino Bianchi che è commendatore, e
da me, che sono Yorick.

«Ah che burla! ah che burla!» L'avete detto — e lo avete fatto — come
potevate farlo voi. La difesa vostra dei poveri nepoti di Milziade e
di Temistocle, indegnamente calunniati da un loro correligionario,
è un modello del genere: giammai una tesi intrapresa per burletta
fu sostenuta con più spirito e con più erudizione: l'illusione di
quelle splendide pagine è così affascinante, così completa, che quasi
io stesso, dimenticando per un momento i miei libri e le mie idee,
finivo per restarci preso sul serio e giunto a quella solenne patetica
apostrofe: — _Ateniesi d'Italia rendete omaggio alla repubblica
caduta!_ — portai involontariamente una mano all'occhio perchè mi
pareva di sentirvi spuntare una lagrima di pentimento. Se la lagrima
non c'era, egli è che le mie glandule lacrimali sono molto resistenti.

Ma intanto quella burla doveva avere delle conseguenze per me. Perchè
voi non pensaste all'autorità delle vostre parole. Quello che voi
avete scritto per ischerzo, gli altri in buona fede lo hanno copiato
sul serio. Da che s'è saputo che Yorick, mi aveva accusato del delitto
di offesa repubblica (constato che, prima di voi, _nessuno_ in cento
critici ci aveva mai pensato neppure per sogno), l'accusa ha fatto
il giro — e non c'è stato più critico che si rispettasse il quale
non si credesse in dovere di ripeterla. Ma l'originalità dell'idea e
l'erudizione della forma se n'erano andate: e del frizzo di buon genere
riuscito bene non restava più che uno sproposito copiato male.

«Per questa volta, grida l'uno, tocca ai monarchici mostrarsi più
repubblicani del rappresentante di Corteolona[4].

«Quella repubblica ateniese, grida l'altro, non merita lo scudiscio dai
lacerti avvelenati. Il deputato di Corteolona avrebbe dovuto, in vista
della repubblica avvenire, usar un po' più di cortesia verso una delle
più grandi repubbliche del passato[5].»

«Il popolo d'Atene,[6] ribatte il terzo, era forte, gagliardo, pieno
d'amore per la patria: e il signor Cavallotti lo ha calunniato; ha
falsato la storia e ha fatto offesa alla giustizia.» E tira via.

Tutto questo si stampa e si grida sul serio in coro, da quella vostra
facezia in poi: ah, voi certo non pensavate, scrivendola, che m'avreste
buttato sulle braccia tutto questo stormo di pappagalli.

                                   *
                                  * *

Ora che l'accusa (vorrei dire la calunnia) è formulata, bisogna
bene che io me ne difenda. E per difendermene, niente di meglio che
rimontare alla origine e rispondere a quello che l'ha messa in giro.

Mi difendo, per rispetto a me, e a' miei principj; mi difendo per
rispetto alla verità storica — la quale anch'essa è una dama che merita
di essere rispettata.

Poichè avverto qui — una volta per tutte — e prego i maligni a
tenerselo per detto — che non è già del merito artistico dello
_Alcibiade_ che si tratta in queste pagine mie. Quello lo abbandono
intero al pubblico ed ai critici di tutte le specie e di tutte le
categorie: io per il primo so benissimo d'avere scritto tutt'altro che
un capolavoro; anzi spesse volte mi arrabbio contro di me, pensando
alle tante e belle cose che vi avrei voluto mettere e che non ho
saputo o potuto; perchè qui la ragion del dramma, lì la ragion poetica,
altrove la ragione storica me lo impedivano, e alla scarsezza del mio
ingegno non era dato di armonizzare e combinare insieme tutti quei
criterj diversi.

Sul valore intrinseco dell'_Alcibiade_, ripeto, non solo intendo
nel senso più ampio la libertà de' giudizj del critico, competente
o incompetente, benevolo o malevolo — ma rinunzio alla parola per
difendermi.

Io non ho a difendermi se non dalle critiche che toccano la mia
coscienza d'artista — e un po' anche d'uomo politico. Questo è il
mio diritto, e il critico egregio dell'_Opinione_ ha la bontà di
riconoscerlo. Mi si accusa di aver falsata la storia: chiedo licenza
di interrogarla. Si interpretano a rovescio i miei intendimenti: chiedo
licenza di spiegarli.

                                   *
                                  * *

Perchè di intendimenti, nello scrivere l'_Alcibiade_ — e nelle
proporzioni in cui l'ho scritto — io ne ho avuto parecchi. E vada per
il signor Roberto Stuart che mi rimprovera di non averne avuto nessuno.
Non li avrò raggiunti: d'accordo: chi troppo vuole, nulla stringe:
colpa mia. A me basta far sapere quali erano.

Primo: Un intento _drammatico_ (non ne dispiaccia a coloro che si
sbizzarrirono intorno a quel mio titolo di scene e vi vollero scorgere
— troppo benevoli — una scusa e una attenuante per me). Scrivere un
dramma — proprio, un dramma — in cui fossero — compatibilmente colle
forze mie — i requisiti per ciò richiesti — _azione_, _passione_,
_caratteri_ — e sopratutto verità. E in questo, caro Yorick, vi
ringrazio d'aver indovinato il mio pensiero[7]. Perchè se non avessi
avuto intenzione di scrivere un lavoro _drammatico_, avrei cominciato
col non dare il lavoro alle scene. Soltanto, è una mia idea, e di
qualcun altro, che ciò che chiamasi il _dramma_ possa svolgersi tanto
in un ordine di fatti del mondo esterno, quanto nel fondo dell'anima
d'un uomo. È una mia idea che dramma voglia dire _contrasto di
passioni_, e che questo contrasto, questa lotta possa succedere tanto
_fra_ più individui, quanto _in_ un individuo solo: anzi tanto più
violento, quanto più angusto il campo. In un caso l'azione drammatica
risulta da un intreccio di fatti materiali e di persone, che esige,
perchè l'_urto_ delle passioni e dei caratteri abbia a scaturirne,
una tal quale unità materiale esterna, rispetto al tempo e al luogo:
nel secondo caso, l'azione drammatica risulta da un intreccio di fatti
psicologici molteplici e contrarii dai quali appunto sviluppasi l'urto
in causa dell'unità del personaggio.

In un caso il rapporto di necessità è fra gli avvenimenti; nell'altro
è fra le passioni del personaggio e le fasi della sua vita. Unità
materiale l'una, unità psicologica l'altra, unità drammatiche entrambe.
Tocca all'artista il fare che questa seconda unità sia poi veramente
tale; che cioè non consista soltanto nella identità del personaggio
(non ci è sugo nè costrutto nè senso drammatico a divider per
scene la vita di un personaggio sia pure insigne, al solo scopo di
rappresentarne la vita) ma che le fasi scelte della sua vita abbiano
la loro _ragione_ e il loro _nesso_ in quelle date passioni, da cui
risulti l'armonia del concetto drammatico e l'unità del contrasto.

Questo ebbi di mira scrivendo l'_Alcibiade_, e scegliendo per ciò a
preferenza il tipo di un uomo che fu appunto la sintesi più mirabile
di quanti contrasti si sia mai divertita ad accumulare in un solo
individuo la natura. S'io abbia raggiunto quel mio intento, ripeto
che non so, anzi son lontano dall'affermare; soltanto so, che, di
quelle mie idee sul dramma e su modi varj di intenderne l'unità,
potrei appellarmi ai grandi maestri dell'arte. Chi cerca il _rapporto
di necessità_ fra le scene del _Coriolano_? Chi lo cerca fra le scene
del _Sardanapalo_? Eppure in pochi capolavori l'unità drammatica è
più potente. Nel _Nerone_ del mio ottimo amico Cossa quale rapporto
di _causalità_ materiale, quale nesso necessario di avvenimenti, quale
ragione risultante dall'intreccio della commedia, perchè al primo atto
debba succedere la scena della taverna, e poi nel palazzo la scena
coll'astrologo, e poi quella del triclinio, e poi quella nella Suburra?
Quale ragione, se tutte quelle scene stanno da sè, affatto indipendenti
una dall'altra? oh bella, la ragione che il mio amico Cossa voleva far
scaturire il dramma dal carattere del protagonista e chiese il nesso
armonico fra le scene all'armonia tra le fasi del carattere. Lo chiese
— e l'ottenne nel modo splendido che si sa. E non mi si venga a dire
che ivi l'azione è sempre in Roma e gli atti non son separati che da
ore o da giorni: una volta _tolto_ il _rapporto di necessità_ fra un
avvenimento e l'altro — che la distanza che li separa sia di ore o di
anni, di un chilometro o di mille, al dramma che ne fa? Il distacco è
lo stesso e la questione in faccia all'arte è la stessa.

Ma perchè dunque chiamar _scene_ il lavoro? L'ho chiamato _scene_
perchè in esso l'intento drammatico era il primo, ma non il solo;
perchè ve n'era qualcun altro a cui quel titolo s'attagliava; perchè
non m'immaginavo che i pedanti si sarebbero fatti un'arma contro di me
di quella parola e ne avrebbero cavate delle critiche, a cui, se io non
l'avessi posta, non avrebbero pensato; e perchè in fine — oh bella! —
mi è piaciuto di chiamarlo così. E sfido a provarmi che questa non sia
una ragione che taglia la testa al toro.

Ma i caratteri? e i personaggi? di questi, se permettete, parleremo
poi: e vengo alla _seconda_ ragione del lavoro.

                                   *
                                  * *

Una ragione storica, critica e filologica: offrire agli studiosi una
pittura, dei quadri, delle scene della vita greca del secol d'oro,
colta nella sua fase forse più caratteristica e culminante: in quel
periodo cioè di transizione — della guerra peloponnesiaca — che
conservava ancora il _riflesso_ delle grandi memorie antiche e di tutti
gli splendori del secolo di Pericle e aveva già in sè sviluppati tutti
i germi di corruzione, tutti i fenomeni politici che provocarono la
caduta della repubblica d'Atene. Presentar quella vita studiata nel
linguaggio, nelle idee, nelle leggi, nei costumi — nel linguaggio,
sopratutto: giovandomi delle fonti classiche antiche e dei lavori
critici più recenti. Ho detto sopratutto nel linguaggio: perchè in
questo almeno mi pareva di poter tentare, colle mie povere forze,
qualche cosa di utile e di non tentato ancora.

La letteratura moderna, specialmente straniera, ha rievocato e ha
ricostruito, in opere romantiche, la vita greca dell'antica età. Per
non parlar dei viaggi di _Anacarsi_ del buon Barthelemy e dei viaggi
di _Antenore_, i romanzi greci di Wieland nel secolo scorso, e nel
nostro il _Caricle_ (_Bilder des griechischen Privatlebens_) di Becker
e il _Pericle e Aspasia_ di Laudor hanno contribuito a popolarizzare,
fra le classi meno dedite agli studj eruditi, i costumi, le leggi e le
dottrine della Grecia del secol d'oro.

Ma il linguaggio vivo — che è pur lo specchio del genio di quel
popolo e della fisionomia di quell'epoca — sfuggiva naturalmente
per la massima parte a questo lavoro di ricostruzione. Il linguaggio
vivo sfugge alla forma del racconto, non può altrimenti ritrarsi e
popolarizzarsi che per la forma viva del dialogo — la forma drammatica.
D'altra parte, non era certo a ritrarre quel linguaggio che servivano
i drammi e le tragedie greche del secolo scorso e più addietro — non
aventi di greco altro che il nome — e le traduzioni che usavansi fare
dei comici, dei tragici e degli altri autori greci, sopratutto de'
prosatori: dove il traduttore si faceva un obbligo di coscienza di
tradurre a senso, ossia interpretare la parola greca, la frase greca
con un ribobolo o un proverbio di stampo tutto moderno; e credeva
aver raggiunto il _non plus ultra_ della bravura quando era riuscito
a travestir completamente il povero greco all'ultima moda, tanto che
fosse bravo chi capisse che quello era un greco che parlava. Più tardi,
è vero, all'estero e in Italia, si cominciò a tradurre i classici
con più coscienza dell'arte e più rispetto all'autore: le licenze
dell'abbate Cesarotti, per quanto figlie d'ingegno ardito, cominciarono
a passare per quel che erano, per delle irriverenze belle e buone.
E quando si ha nome Omero e Demostene si può pretendere a un poco
di creanza. — Il buon Gozzi, ingegno greco, dava il buon esempio e
traduceva squisitamente Luciano. Più tardi sorgeva Foscolo: più tardi
doveva nascere Leopardi. Ma già dai principj del secolo Francesco
Negri e il Lamberti regalavano all'Italia traduzioni mirabili di greca
fedeltà ed eleganza: in attesa che Felice Bellotti le desse il teatro
de' tragici. Oggi nell'_Aristofane_ del Cappellina, nel _Luciano_ di
Settembrini, nel _Tucidide_ di Peyron, nel _Demostene_ dell'Anelli e
dell'egregio mio collega Mariotti (più elegante ed efficace il primo,
più fedele il secondo, attici entrambi) possiede l'Italia traduzioni
insigni che rendono la fisionomia degli scrittori e onorano gli
studj e la letteratura. Ruggero Bonghi andò alquanto più in là e gli
scrupoli della fedeltà lo portarono all'esagerazione. Egli dimenticò
che la forma del traduttore dev'essere greca, senza cessare di essere
italiana. Le sue traduzioni platoniche rispettano perfino nella
giacitura delle parole le membrature più minute del periodo di Platone,
ma rompono le ossa qualche volta alla grammatica del Fornaciari. E il
buon gusto insieme molte volte se ne va: egli è che il traduttore che
traduce un artista dev'essere artista anche lui. Con tutto questo la
fedeltà resta un merito notevole delle traduzioni bonghiane, reso più
notevole dalla erudizione ampia che le accompagna. Ma le versioni del
Negri e del Settembrini e del Mariotti e del Bonghi forse ancora non
servono a famigliarizzare il gusto italiano colle forme della prosa
ellenica: voi sapete, Yorick, meglio di me quanti sono che leggano
e conoscano in Italia ai dì nostri Demostene e Luciano, Platone ed
Alcifrone: e voi siete troppo virtuoso e pudico (migliore certo in
questo della fama) per consigliare ai giovanetti di aspirare il profumo
delle eleganze greche nel profumatissimo Aristofane del Cappellina.

Pensai che l'arte scenica è fra tutti i fattori della coltura il più
popolare e il più efficace: e che poteva per avventura tornare non
inutile affatto un modesto tentativo inteso a ritrarre colle forme
popolari del dramma una parte essenziale della greca antichità: perchè
il linguaggio di un popolo è il prodotto della sua indole, delle sue
tendenze, del suo genio artistico, delle sue idee — e la verità del
linguaggio è necessaria a far vivere i fantasmi dell'età lontana nel
mondo della realtà. Lo pensai, perchè senza credermi un pedante, senza
correr dietro alla retorica del classicume, e con tutto il rispetto
possibile agli scrittori della scuola realista, sono intimamente
convinto che l'ostracismo bandito all'arte greca dai moderni innovatori
non ha nulla di serio; perchè credo che la lingua nostra e le
tradizioni dell'arte e del genio nostro ci rendano pur debitori di
qualche cosa a quei poveri nonni di Atene, e che se l'influenza degli
studj classici, senza riportarci agli sproloqui dell'Arcadia, si verrà
armonizzando colle nuove forme dell'idioma create dai nuovi bisogni
e dalle nuove idee, — la purezza della lingua, l'eleganza, e il buon
gusto ci guadagneranno un tanto.

Naturalmente, accennando a questo mio tentativo, accenno al lavoro
nella forma prima in cui lo scrissi, in cui vedrà fra poco la luce
per le stampe. Nella riduzione pel teatro, attuare il tentativo era
impossibile fuor che in parte. Molto dovetti concedere alla ragione
drammatica: gran numero di locuzioni greche soppressi: altre modificai
per l'intelligenza delle scene: serbai della forma prima solo quel
tanto che significasse l'intento letterario del lavoro. S'io abbia
avuto torto di propormelo, o se io l'abbia in parte raggiunto, il
lettor cortese del dramma stampato giudicherà.

                                   *
                                  * *

_Terzo_ intento del lavoro: un intento morale. Di questo non si
scandalizzeranno almeno coloro i quali opinano che il teatro dev'essere
un pulpito e che ogni lavoro drammatico deve avere la sua brava
tesi morale da risolvere. Senza ambire il vanto di moralista nè di
predicatore, per una volta tanto la mia tesi ce l'ho messa anch'io.
Intendiamoci: siccome io non la penso come quei signori, alla tesi già
non sagrificai lo sviluppo dell'azione; e mi guardai bene dal processo
dimostrativo; ma da che mi si affacciò — e un concetto morale scaturiva
spontaneo dallo argomento — no 'l trascurai: anche perchè dava al
dramma un altro carattere di unità.

E il concetto è accennato nella comparsa appositamente fuggitiva (quasi
staccata dal resto della scena) del misantropo Timone nel 2.º atto, che
si lega alla catastrofe del dramma.

Mentre Alcibiade inganna il popolo ed empie Atene delle sue
dissolutezze, Timone lo maledice e preconizza in lui il flagello
della città. Alla fine, Alcibiade il dissoluto rotto a ogni vizio, il
demagogo intrigante, ambizioso, e corruttor della plebe, Alcibiade,
fatto migliore dalla sventura e dall'amore[8], riscatta le colpe della
vita coll'opere generose, coi propositi generosi degli ultimi giorni,
con una morte da eroe. Egli è che non bisogna disperar mai della natura
dell'uomo, la più corrotta e pervertita, finchè essa sia aperta alla
voce di un affetto, e in lei vibri la corda — sia pure una sola — di un
solo nobile istinto.

E intorno ad Alcibiade, due altri esseri smentiscono Timone. Là in
mezzo alle brutture che deturpano e trarranno a rovina la gloriosa
città di Milziade, il misantropo disperato impreca l'umanità malvagia;
alla fine, Alcibiade proscritto sogna il misantropo riconciliato
coll'umanità[9], perchè la virtù non è scomparsa dalla terra: e delle
due classi della società più disprezzate, sono i due esseri che soli
restan fedeli al proscritto nella sua sventura. I nepoti di Temistocle
e di Aristide condannano a morte i capitani vittoriosi delle Arginuse,
pagano Alcibiade d'ingratitudine nera; una _etèra_ e un _parassito_ si
sagrificano per lui. È la fede nell'umanità, attraverso i suoi delitti
e le sue sventure, opposta al misantropismo e alla disperazione de'
suoi destini.

                                   *
                                  * *

Eccomi infine ad un ultimo intento dell'_Alcibiade_ mio: e questo si
racchiude in una considerazione _storica e politica_, — che Socrate
accenna fino dal principio del dramma.

_La repubblica più grande e gloriosa della Grecia antica rovinò, quando
le virtù repubblicane — che l'avevano fatta gloriosa e grande — se ne
andarono._

È il concetto che si affaccia spontaneo a chi appena scorre dello
sguardo la storia del periodo in cui l'_Alcibiade_ si svolge.

E qui, eccomi a voi, caro Yorick, eccomi da lei, signor marchese
D'Arcais — paladini egregi della repubblica contro di me: contro di me
repubblicano, che appunto per ciò, da un pezzo ho dato alla grandezza
d'Atene la mia ammirazione e ho negato agli Ateniesi della decadenza le
mie simpatie. Artista, faccio a Pericle di cappello e vado in estasi
davanti al suo secolo: uomo politico, gli voglio male. Non amo la
repubblica di Eucrate, di Cleone e di Iperbolo, uscita dal grembo della
corruzione sapiente di Pericle, come non amo la repubblica francese del
1848, uscita dal grembo della corruzione borghese della monarchia di
luglio. L'una prepara i Trenta e la tirannide macedone; l'altra prepara
il secondo Impero. È esatto peraltro il dire che il secondo Impero fu
già esso medesimo la immagine più completa e più fedele del regime del
flgliuol di Zantippo.

Sì, è vero, caro Yorick, verissimo, signor marchese, senza che Ella me
lo insegni: non solo Atene grandeggiò nella Grecia, ma se mai grandezza
antica fu meritata e fu vera ed ebbe spiegazione nella storia, ella è
questa di Atene. Sentinella avanzata della Grecia e dell'Europa verso
l'Asia, là in faccia all'Egeo, la natura, il mare, il tepido cielo
le avean segnato i destini. Era impossibile che un popolo immaginoso,
poeta, cresciuto nel mondo fantastico e splendido della sua mitologia,
dotato di tutta la vivacità, la svegliatezza arguta e l'attività
irrequieta, febbrile della razza jonica — costretto a dimorare su un
terreno sterile, angusto, montuoso, insufficiente alla vita, quasi
sull'alto di uno scoglio: e di là, sotto il raggio ardente de' suoi
soli, al chiarore delle sue notti tepide e serene, vedendo a sè dinanzi
il mare — il mare che lo invitava e gli apriva le braccia immense,
misteriose — era impossibile che quel popolo non corresse entusiasta
all'invito. Al mare! al mare! Ivi sarà la culla della prosperità, della
grandezza d'Atene, e della sua forte democrazia.

Poichè il commercio e le ricchezze dal commercio derivanti altereranno
man mano col tempo le condizioni economiche rispettive delle classi
antiche; sopprimeranno le distinzioni fra di esse e promuoveranno
l'uguaglianza nei diritti; poi le triremi, una volta che saran divenute
il nucleo della città, reclameranno esse sole i quattro quinti dei
cittadini e si riempiranno di popolani, consapevoli di essere la forza
di Atene.

«_Per la dominazione del mare_, attesterà Isocrate poi, _i nostri
padri furono necessariamente costretti a calare all'odierna forma di
democrazia»[10]._

«_I poveri ed il popolo_ — scriverà Senofonte — _sono in Atene
giustamente da più dei nobili e dei ricchi. E per questo motivo: che
il popolo è quello che spinge le navi e procaccia potenza alla città.
Poichè i piloti, i comiti, i capi di cinquanta, i sopraintendenti alla
prora, i costruttori di navi sono quelli che acquistano potenza allo
stato assai più che non i cittadini, i nobili, e gli ottimati_»[11].

E la democrazia, ordinata dalla sapienza delle leggi di Solone, di
Clistene, e di Aristide, fa grande difatti Atene al tempo delle guerre
mediche. Poichè tutto, tutto, cospira allora a questa sua grandezza.

L'antagonismo di Sparta non è ancor nato e Salamina oscura ogni vanto.
Le navi hanno salvato la Grecia e quelle navi sono la maggior parte
ateniesi. Un spirito magnanimo di emulazione, di disinteresse, di
amore alla gran patria greca anima i compatrioti di Temistocle; e
mentre a Maratona li fa combattere da soli, e a Salamina li fa accettar
volonterosi, benchè maggiori di numero, il comando di Sparta, e a
Platea li move a cedere il posto d'onore ai Tegeati, — concilia loro
l'ammirazione e le simpatie di tutta la Grecia.

Una costituzione squisitamente studiata sull'indole stessa del popolo,
ne sviluppa i lati migliori, ne corregge i cattivi, ne stimola il
valore, ne tempera mirabilmente le private e politiche virtù.

Ed era bello il dirsi in quei giorni cittadino ateniese: nome che era
lo spavento della Media, l'orgoglio della Grecia: titolo d'onore ambito
— e indarno — dai re.

Abolita la nobiltà ereditaria, fondata sulla rendita la divisione delle
quattro classi, la dignità del cittadino s'era rialzata e rafforzata
nel sentimento dell'uguaglianza: il cittadino trovava nel merito
individuale, nel censo, e quindi nel lavoro che lo creava, la via per
giungere agli alti gradi: l'esercizio dei pubblici uffizj, esteso da
Aristide anco all'ultima classe, rappresentava ad un tempo per lui
l'adempimento di un dovere, e l'uso di un diritto che era il più ambito
compenso a sè medesimo.

Non pagato nelle assemblee, non pagato nei tribunali, il cittadino
ritrovava pura e completa nel suo disinteresse la coscienza della
sua sovranità: e questa ispirava gli alti, magnanimi propositi: e
l'emulazione nobile, severa, per il pubblico bene governava le libere
adunanze.

Indi più profondo il sentimento del dovere: indi più grande l'idea
della patria. In essa era tutto, per essa tutto: e caro al cittadino lo
ecclissarsi innanzi a lei. L'ambizione individuale non pensava a cercar
le vie della tirannide. Ai valorosi e benemeriti compenso sufficiente
una modesta iscrizione sulle Erme[12], e l'essere da uguali in virtù
tenuti degni di primeggiar fra loro[13]. E niuno sdegnava tal gloria:
niuno diceva: _a Salamina Temistocle, a Maratona Milziade pugnò: ma
bensì là gli Ateniesi: qui la repubblica_[14].

E in quella modestia ispirata dal senso dell'uguaglianza e del dovere
ritempravasi la repubblicana austerità. «_Le case di que' prodi da
noi tutti venerati sì modeste apparivano e sì temperate a popolare
uguaglianza, che se alcuno di voi oggi vedesse quelle di Temistocle,
di Cimone, di Aristide, di Milziade e di molti altri magnanimi, non le
discernerebbe dalle vicine_»[15].

E ritempravasi nella emulazione, più fecondo e magnanimo, il
disinteresse: allora Aristide disponendo di tutti i tributi neppur
d'una dramma crebbe gli averi e morto dovette fargli le esequie la
repubblica[16]: allora il popolo, consigliato da Temistocle, rinunziava
volonteroso alle distribuzioni dell'argento del Laurion, assegnato
ai men ricchi cittadini: e con quell'obolo spontaneo del povero si
costruivano le navi che dovean salvare la Grecia[17].

Tenuta la corruttela delitto esecrando in tanta gara di disinteresse
e di virtù, la legge puniva di morte e di infamia i corruttori per
danaro del popolo e dei giudici; e i corrotti insieme; e non parea pena
soverchia[18]: chè la austerità del costume e la pubblica coscienza la
sanzionavano.

«_Vi aveva allora, Ateniesi, ne' petti nostri quello ch'ora mancò,
quello che trionfò dell'opulenza persiana, che serbò libera la Grecia
e in terra, in mare indomabile. Allora chi vendeasi ai tiranni, ai
corruttori della Grecia, tutti l'esecravano: la corruttela era orribil
misfatto: atrocissimo il castigo: taceano le brighe e la pietà. E non
della opportunità, non della greca concordia, non dell'odio ai barbari
e ai tiranni niun oratore, niun duce facea mercato_»[19].

Indi la virtù fatta scala agli onori e al governo della cosa
pubblica: poichè a capo di questa stavano gli oratori che dirigeano le
discussioni e i voti nelle popolari assemblee: e il nobile diritto di
dar consigli alla città non bastava a conferirlo il talento — ma sì la
vita irreprensibile. Indi sindacata la condotta privata degli oratori;
espulsi dalla bigoncia coloro dei quali le private virtù non dessero
garanzia delle pubbliche; i prodighi, gli scioperati, i trascurati
verso i genitori, i tardi e i riluttanti a pigliar l'armi e i segnati
di viltà nelle battaglie; gl'impudichi, i notati di turpi vizi, i
dediti all'orgie e alle voluttà[20]: perchè giustamente stimavasi
indegno di consigliare il popolo, chi i consigli non accompagnasse
colla austerità degli esempj.

Poi che l'esercizio della sovranità non era ancor fatto impiego venale,
e di esso non si campava, e ancor non era la bazza dei tre oboli nè
del dicastico nè dell'_ecclesiastico_, — tanto più onorato e rispettato
il lavoro: salite in dignità le arti, i mestieri[21] (attento, sig. Z
della _Livornese_, che in proposito ne ha dette di grosse); invigilarsi
dagli Areopagiti di che arte ognun campasse onestamente la vita; punito
l'ozio, la questua: notato d'infamia il recidivo[22].

Santo e rispettato il lavoro, santo e rispettato il vincolo della
famiglia: l'unione degli sposi fatta qualcosa più che semplice affar
di interesse o accoppiamento di sessi; rafforzati coi doveri dei
figli verso i genitori, i doveri de' genitori verso i figli; punito,
secondo i casi, di morte, d'infamia, di altre pene, severissime sempre,
l'adulterio — consumato o tentato, adulteri e adultere ad una — e delle
pene medesime il concubinato[23]; e di morte i lenoni[24].

Forte, virile la educazione. «_Nel buon tempo antico, quando fiorivano
gli antichi costumi_ — scrive Aristofane — _i giovanetti affrontavano
il verno senza mantello, benchè la neve venisse giù come farina; non
mangiavano come oggi delicate vivande, non posavano in atteggiamenti
svenevoli; la loro musica era maschia e marziale, i loro costumi
decorosi e casti. Così furono educati gli uomini che pugnarono a
Maratona._»[25]

E il regno delle _etére_ non era ancora sorto. La corruzione
ingentilita non aveva ancor pensato a far bella la prostituzione
del nome santo dell'amicizia e a decorare del dolce nome d'_amiche_
(ἐταίρα, _compagna_, _buona amica_) le alunne impudiche della Venere
Volgare[26]. Demostene non iscriveva ancora: _Abbiamo le etere per
il piacere dell'animo, le donne legittime per la procreazione della
prole_[27]. Ristretta a poche schiave comperate all'uopo (πόρναι) e
confinate rigorosamente ne' bordelli, la prostituzione ancora non
rappresentava che un'istituzione di pubblica igiene[28], sotto la
vigilanza dello stato. Il pubblico dispregio manteneva un cordone
sanitario di isolamento intorno a quelle case, intese a prevenire
il concubinato e a preservare dalla corruzione e dall'adulterio
le famiglie. Siamo ancora lontani dal tempo che donne affrancate e
libere eleggeranno spontanee la condizione lucrosa di _cortigiane_,
usurperanno per proprio conto tutto il posto delle mogli, e rotti i
vincoli delle famiglie faranno delle proprie case il luogo elegante di
convegno del fiore della città.

E non era ancora il tempo dei _parassiti_, nel senso novissimo
ed ignobile della parola. Essi ancora non erano che i venerandi
_commensali_ dei sacerdoti; eletti fra gli ottimi dei cittadini e
soprintendenti alla scelta e alla percezione del frumento sacro[29] e
dell'altre primizie offerte agli Dei. — La gola e l'infingardaggine non
avevano ancora messa al mondo, sotto quel nome, un'altra generazione
di commensali; in una città che obbligava i poveri all'onesto lavoro,
non c'era ancor posto per quella casta di poveri scioperati e viziosi,
che doveva più tardi divenire l'elemento caratteristico di una corrotta
società.

E non era ancora il tempo dei sofisti. Le _sapienti_ sottigliezze
idealistiche della scuola eleatica e della megarica e dell'altre
scuole non avean ancora sviluppato il funesto contagio della
filosofia _eristica_; colla sua falange di ignoranti e ciarlataneschi
cavillatori. Le ciancie vuote di senso non avevano ancora preso il
posto dei fatti virili.

Questi — e non prolungo gli esempj — i costumi, le leggi, gli uomini. I
fatti — si chiamavano Maratona e Artemisio; Salamina e Platea; Micale e
Menfi.

In meno di otto lustri dalla cacciata dei Pisistratidi il piccolo
popolo di montanari, di coloni e di pescatori, dimenticato là in un
angolo di terra, sugli scogli di Sunio — è divenuto il primo fra gli
stati della Grecia, è divenuto Atene la libera, la forte, la _pingue_,
la gloriosa, i cui soldati portano la libertà fra i Greci dell'Asia
e le cui triremi scorrono da padrone il mare, dal Ponte Eusino
all'Egitto.

Atene raccoglie il frutto della sua grandezza morale e la lega degli
stati greci congregata in Delo, nel santuario della stirpe Jonica,
conferisce ad Atene, col patto di Bisanzio, l'egemonia (477 a. E. V.).
Ella fa giurare ai collegati i patti dell'alleanza fraterna e della
guerra ad oltranza contro lo straniero; e duce della lega, depositaria
del giuramento, per bocca d'Aristide, impreca con riti solenni agli
spergiuri[30].

                                   *
                                  * *

Ma già da quel momento comincia a verificarsi un fenomeno frequente
nella storia degli stati. La prosperità genera l'insolenza. Atene la
liberatrice dei Greci non tarderà a trovar troppo scarsa la gloria del
primato morale e materiale, e a sentire il bisogno di signoreggiare la
Grecia con ben altro impero[31].

Che Sparta dovesse cominciare a rammaricarsi della nuova potenza di
Atene e del primato perduto, era ovvio; che la superba oligarchia
dorica si dovesse adombrare di questo imponente allargarsi della jonica
democrazia, era naturale; ma che Atene si affrettasse a legittimare
le gelosie della sua emula, e a fornir pretesto a' suoi reclami, è
altrettanto incontrastabile.

Già ella si vien preparando astutamente le vie del dominio, prolungando
ad arte contro il Persiano la guerra che non ha più ragione di essere;
ad arte stancando gli alleati, costretti a seguirvela, fin ch'essi
non prescelgano esonerarsi, con tributo in denaro, dalla sovvenzione
pattuita di uomini e di armi[32]. E intanto che Atene concentra
in sè tutte le forze militari, gli imbelli alleati si van man mano
convertendo in tributarj.

Undici anni appena sono scorsi, e Nasso, stanca di una lega la quale
più non serve oramai che alle viste particolari di Atene, domanda
d'uscirne: essa crede che l'alleanza sia libera come nel giorno in cui
v'è entrata. Atene non tarda a disingannarla. Assedia Nasso e la riduce
in servitù[33]. Sciro, Caristo, Samo, gli altri alleati che seguono
Nasso nelle sue velleità, non tardano a seguirla nella sua sorte.

Però Atene non aveva aspettato fino allora a far chiari i suoi
intendimenti. Già il suo primo atto come egemone era stato un atto di
prepotenza diretto a togliere alla lega, ch'essa divisava di opprimere,
il primo mezzo dell'indipendenza: il danaro; in attesa di toglierle le
armi.

Pochi anni dopo il patto federale, a dispetto dei giuramenti giurati
e col pretesto di mettere il tesoro della lega al sicuro dai Persiani,
essa lo trasporta da Delo nell'acropoli ateniese[34], ove non tarda a
confonderlo col tesoro cittadino, e a servirsene, come di cosa propria,
per i bisogni della città. Più tardi, ad aumentar viemaggiormente le
sue risorse e le sue ricchezze e a convertire il primato in assoluta
signoria, essa graverà di nuovi tributi le città alleate insorte e
ricostrette all'obbedienza, si impadronirà delle loro navi, distribuirà
fra coloni ateniesi le terre dei vinti, ridotti da proprietarj alla
condizione di fittabili, obbligherà i nativi delle città fatte suddite
a recarsi per le loro cause civili e criminali in Atene, — nuova bazza
e cospicua di introiti e di guadagni per il suo erario e per i suoi
giudici cittadini[35].

Autore e consigliatore di quel primo passo al dominio che fu il
trasporto del tesoro degli alleati in Atene — un vero furto — era stato
un oratore giovane e già insigne: Pericle, figliuolo a Zantippo. Era il
medesimo che ai danni di Atene stessa già macchinavane un altro: — il
furto delle sue libertà.

                                   *
                                  * *

Ingegno vasto ed acuto, accortamente ambizioso, studiatore profondo
di uomini e di cose, Pericle conosceva il suo popolo e il suo tempo.
L'ambizione smisurata ed il talento degno dell'ambizione, lo chiamavano
in alto; la riflessione e l'esperienza glie ne spianavano la via. Al
primo giungere agli affari, trovò, egli, di stirpe nobile, la parte
aristocratica stretta intorno a Cimone, del quale era vano emular la
gloria dell'armi: la democrazia, potente di numero per il cresciuto
navilio, per i politici ordinamenti. Comprese che la democrazia
soltanto poteva essergli sgabello a salire.

Solone, Clistene, Aristide, avean dato molto al popolo, per renderlo
sovrano di sè stesso: bisognava dargli di più, per renderlo soggetto.
Le virtù antiche, il disinteresse antico avevano fatta e mantenuta
libera Atene dai Pisistratidi in poi; bisognava intaccare quelle virtù
alla radice, per intaccar l'albero della libertà. E la libertà era la
seconda vita d'Atene; perchè Atene si acconciasse a perderla, bisognava
darle in compenso qualcosa d'altro che ne tenesse il posto.

Bisogna rendere al popolo — e ad usura — in beni e godimenti materiali,
ciò che gli si toglie di beni morali. Bisogna che il corpo stia bene,
perchè l'anima si contenti di poco. Antica massima del despotismo
sapiente — in tutte le età.

Cimone, figliuol di Milziade — insigne per le virtù, per la gloria
dell'imprese, per l'appoggio della fazione aristocratica fatta
autorevole dalla maestà dell'areopago — Cimone sbarra a Pericle la
via del primato e del dominio. A Cimone, alla sua fazione, bisognerà
contrapporre il basso popolo e cattivarselo nell'assemblea.

Ma Cimone, ricco, era beneviso al popolo per la sua generosità: lui
del proprio imbandir cene ai poveri, fornirli di vesti, sovvenirli
di danaro: lui togliere da' suoi campi le siepi perchè il coglierne i
frutti fosse libero ad ognuno[36]. Pericle, men ricco e più taccagno,
pensa di superarlo, con minore spesa; e introduce — a gran festa della
plebe — la mercede dei _tre oboli_ per l'intervento alle assemblee
(μισθὸς ἐχχλεσιαστιχὸς). Cimone non dà al popolo che delle elemosine
incerte. Pericle gli dà degli stipendi fissi. Cimone gli apre la
propria borsa, che a lungo andare s'asciuga; Pericle, più furbo, gli
spalanca le casse dello stato. Il popolo naturalmente non esita nella
scelta; e Cimone è sbandito coll'ostracismo. Tucidide lo seguirà.

Così l'esercizio di un grande dovere e del diritto più nobile del
cittadino diventa un impiego; e la _sovranità popolare_ è fatta venale.

Ma i cinquecento del senato son scelti anch'essi tra il popolo: è il
senato che propone i decreti, dirige le adunanze; bisogna ingraziarsi,
per salire, anco il senato. Pericle paga anche i senatori e assegna
loro la mercede di una dramma per ogni seduta.

Però il partito aristocratico è ancor potente nei tribunali: domina
nell'areopago, magistrato supremo, correttor de' costumi. Anco
ne' tribunali bisognerà contrapporgli ed ingraziarsi la plebe. Le
attribuzioni dell'areopago saran mutilate e deferite ai giudici
popolani (_eliasti_); e questi saran portati a seimila, e giudicheran
tutte, quasi, le cause civili e criminali; ogni Corte di giustizia
dell'Eliea avrà aspetto di una vera assemblea politica e giudicherà
colle passioni di quella[37]. Perchè la somiglianza sia più completa,
Pericle paga anche gli Eliasti: e assegna ai giudici cittadini la
mercede di un obolo per ogni seduta in giudizio, di una dramma ai
senatori (μισθὸς δικαστικὸς)[38]. E perchè i giudizî e gli oboli
fiocchino, tutte le cause dei cittadini dell'altre città — alleate di
nome — già suddite di fatto — sono avocate ai tribunali d'Atene.

Così l'esercizio di un altro officio augusto della sovranità diventa un
altro impiego: l'avidità degli oboli distacca i cittadini dal lavoro,
e genera la manìa dei giudizii; e la _giustizia_ è fatta anch'essa
venale.

Ma gli aristocratici disciplinati da Tucidide[39] resistono, e sono
ancora per l'ambizione di Pericle una minaccia; poi, quest'amore della
vita pubblica, alimentato nel popolo dalle paghe, può degenerare col
tempo in pericolo. Quando le franchigie e gli uffici della sovranità
popolare son adoprati a stromento di dominio, bisogna che il popolo
non se ne pigli se non quel tanto che può giovare a chi li adopra.
Il troppo discorrere nel foro, l'applicazione troppo intensa agli
uffici publici, agli affari publici, a lungo andare, alla tirannide
non giovano; il popolo bisogna divagarlo. Pericle ci penserà. Si
aumenteranno le feste, si bandiranno in teatro nuovi spettacoli;
e siccome a teatro l'ingresso è stato fin allora gratuito, ma i
ricchi aristocratici pagan due oboli per sedersi e il popolo sovrano
che non paga sta in piedi, Pericle riparerà l'ingiustizia e farà
pagare sull'erario publico due oboli ai popolani per recarsi a
teatro (θεωρικὸν). Ma il teatro non sempre è aperto tutte le feste:
e nell'altre i ricchi la scialano in sagrifizi e banchetti tra di
loro: perchè il popolo non resti a bocca asciutta, Pericle a spese
dell'erario darà lauti banchetti anche al popolo e gli farà pagare
dallo Stato i due oboli anche in tutte l'altre feste[40]. Le feste
in Atene son molte, il doppio che negli altri Stati: i popolani
sono a migliaia: e la mercede festiva, che svilupperà nel popolo le
abitudini dell'ozio e del vizio, peserà sull'erario per grosse cifre di
talenti[41]. Verrà il giorno che Platone chiamerà la democrazia d'Atene
convertita in _teatrocrazia_[42]; che Plutarco farà il conto _aver gli
Ateniesi nelle Bacche, nelle Fenisse, negli Edipi, nelle Antigoni,
nelle disgrazie di Medea, speso assai più che non nelle guerre
sostenute per la libertà contro i barbari_[43].

Ma non anticipiamo gli eventi: e sentiamo per ora il giudizio di
Plutarco, gran lodatore di Pericle, su quelle sue mercedi:

«Distribuendo denari per gli spettacoli e per le giudicature, e
dispensando altre mancie, premj e donazioni, Pericle corruppe la
moltitudine, dell'opera della quale servivasi contro il senato
dell'Areopago....: onde essendo il popolo stesso malavezzato, _divenne
per tali istituzioni scialaquatore e dissoluto, di sobrio ch'egli era e
avvezzo a procacciarsi il sostentamento co' proprj lavori._»[44]

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                                  * *

In tanto scialaquo di paghe che aveano rotta l'antica austerità, e
fatto merce di ogni diritto, un solo servizio pubblico restava ancora
gratuito: la milizia. Dai tempi più antichi il diritto di difendere
la patria coll'armi era stato tenuto il primo e il più santo dei
doveri del cittadino ateniese: e dalla gara in adempierlo ripeteva
Atene le sue glorie. Servivano i cittadini delle quattro classi a
proprie spese, fornivan del proprio, secondo il vario censo, quelli
la trireme, quegli altri il cavallo, questi altri le armi. Ma ormai
anco il servizio dell'armi doveva per forza seguir la sorte degli
altri. I facili e lauti guadagni delle nuove mercedi han presto
sviluppate le abitudini della mollezza, dell'ozio, del viver dolce:
come costringere, ad affrontare — e a proprie spese — la vita aspra
dei campi e delle triremi, e i rischi delle battaglie, dei cittadini
ormai avvezzi a scialarla metà dell'anno nelle feste, spossati dai
divertimenti, abituati a pigliar danaro d'ogni parte e come niente,
stando beatamente seduti a chiacchierare in teatro, nel foro, nella
eliéa? Come costringerveli? Buon Dio! sarebbe stato il modo più sicuro
per farsi mandar da quella gente a benedire e per perdere il frutto di
tutte le mercedi spese a guadagnarsela. Poi, che che bisogno d'armi?
Il barbaro è vinto per sempre: e Atene primeggia fra i Greci. Pure
un esercito ci vuole per conservar la signoria: ci vuole per tener a
segno gli alleati indocili che cominciano a trovar l'alleanza d'Atene
troppo pesante ed incomoda. E Pericle ha bisogno di armi per le sue
vaste mire sulla Grecia: e la forza maggiore di Atene è nelle navi, e
il contingente navale è dato quasi tutto dalla plebe, che bisogna aver
devota ad ogni costo. Quindi Pericle, cassato il severo obbligo antico,
retribuirà di stipendio anco il servizio militare: e per contentare il
popolo e allettarlo, fisserà la paga per ogni soldato o marinajo ad una
dramma il giorno, il doppio cioè della mercede dei giudizj e del foro.
Questo naturalmente non basterà per ridestare l'emulazione militare di
Salamina: ma darà in mano a Pericle un altro elemento di popolarità e
di forza, e svilupperà più tardi la piaga, già aperta, dei mercenarj.

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                                  * *

Così Pericle, già padrone dei voti nel foro, nei giudizj, già divenuto
l'idolo del popolo, si vien spazzando davanti gli ultimi ostacoli
dell'avverso partito: il capo di esso, Tucidide, colpito anch'egli
di ostracismo, segue Cimone nell'esilio e Pericle rimane solo, senza
emuli: Pericle, per cui la signoria di Atene non era nulla, se non
significava in pari tempo la signoria di tutta la Grecia.

Naturalmente, tutto quello scialaquo di mercedi ha dissanguato le
casse: l'erario di Atene non vi basta più. Pericle vi supplisce, come
abbiam visto, col tesoro degli alleati, e fa complice il popolo, per
cui lo spende, nella propria prepotenza; in attesa di averlo complice
in altre prepotenze e in altre ingiustizie. Gli alleati protestano,
e Pericle persuade il popolo a non farne conto; si ribellano, e
Pericle li vince coll'armi, li multa in tributi, ne confisca le navi,
ne confisca le terre, impone loro condizioni di servitù. La iniqua
ripartizione delle terre dei Greci vinti, fra i coloni ateniesi,
diventa un nuovo titolo di Pericle in faccia alla democrazia d'Atene.
Il giogo imposto agli antichi alleati diventa un nuovo titolo della sua
grandezza. Atene, fatta pingue delle spoglie conquistate ai Greci dei
quali avea giurato difendere contro il barbaro gli averi e la libertà,
Atene seguirà Pericle più docilmente e gli obbedirà più mansueta. Si
obbedisce più volontieri quando si comanda a qualcuno.

Il tributo delle città federate — ormai tributarie — da 460 è portato
a 600 talenti: e aumenterà ancora: finchè ai tempi della guerra del
Peloponneso toccherà le cifra dei 1200 (sei milioni e mezzo).[45]

L'aumento della marina ha vinto la concorrenza commerciale di Egina,
di Megara, di Samo, di Corinto, e dato ad Atene anche il monopolio del
commercio nell'Jonio e nell'Egeo. All'argento del Laurion si è aggiunto
l'oro di Taso. La città di Cecrope gavazza nell'oro e Pericle pensa al
modo di spenderlo. Atene «_la incoronata di viole_»[46] avrà un'altra
corona più superba di statue, di palazzi e di monumenti.

La ricchezza diventata opulenza ha rammorbidito le tempre, ingentilito
e rammollito il costume, moltiplicati i bisogni. Le gioje pure della
famiglia più non bastano a un popolo di gaudenti, annojato del lavoro.
Bellezze famose convengono in Atene e i ricchi ateniesi corrono lor
dietro. Il regno delle etère comincia e quello delle donne oneste se ne
va. Pericle dà il buon esempio, ripudiando la moglie per una cortigiana
di Mileto: e la casa di Pericle e di Aspasia, la gentile etèra fornita
di tutti i doni delle Muse, diventa ad un tempo il luogo di convegno
della società equivoca femminile e del fiore della società maschile
di Atene. Là convengono le bellissime etère a dividere colla milesia
l'impero della bellezza, della grazia e dello spirito: là convengono
i più distinti Ateniesi a ricrearsi dalle brighe della vita pubblica e
dalle noje del matrimonio. Le arti, le lettere, le scienze eleggon la
sede in quelle adunanze geniali: e gli artisti, i poeti, i filosofi,
vi accorrono. Si chiamano Sofocle ed Euripide, si chiamano Fidia,
Mnesicle, Polignoto, si chiamano Anassagora: si chiamano Socrate. Il
genio greco irraggia da quel centro sulla città, tutto investendo,
anco il vizio, delle più splendide forme. La vita di una _coquette_ è
la vita di Atene: e Pericle adorna, indora, abbellisce Atene come una
_coquette_[47]. Mentre nelle Panatenee e nelle Dionisiache si recitano
la _Fedra_ e l'_Edipo_, si ascolta la storia di Erodoto, Mnesicle
innalza i Propilei, Ittino e Callicrate il Partenone, Corebo il tempio
di Eleusi, Fidia modella il _Giove_ e la _Minerva_, Polignoto e Zeusi
dipingono i Portici. Il Greco e il barbaro accorrono d'ogni parte ad
Atene ad ammirare i nuovi miracoli dell'arte, e il popolo ateniese,
uscendo dall'assemblea ove è stato a sentir gli oratori commensali di
Pericle, recandosi allo Pnice e ai dicasteri a guadagnarvi i tre oboli
largiti da Pericle, andando a teatro a papparsi i due oboli, dono della
larghezza di Pericle, — s'arresta con orgoglio, nominando Pericle,
innanzi ai colossali monumenti, che ricorderanno la grandezza della sua
patria alle età più lontane, ma diventeranno anche le pietre sepolcrali
della sua libertà.

Egli deve troppo a Pericle per non lasciarsene governare e condurre
a suo talento; a un uomo che ha fatto Atene così ricca, così grande,
così bella, si può bene fidare ad occhi chiusi anche il deposito delle
franchigie che l'han fatta libera e virtuosa.

E Pericle governa per 40 anni la democratica Atene con tanta pienezza
d'autorità quanta a pochi sovrani assoluti sia stata concessa mai.

Sentiamo Plutarco: «Distrutta ogni fazione contraria, ei trasferì tutto
in sè medesimo il dominio d'Atene: _tutto dipendeva da lui quanto
dipendeva prima dagli Ateniesi_, i tributi, le spedizioni militari,
le triremi, l'isole, il mare: _egli solo_ avea autorità e potenza
grande dinanzi ai Greci, dinanzi ai barbari. Però non era già più
quel desso di prima; non cedea più così facilmente alla moltitudine:
ma tirando la briglia a quel troppo rilassato popolare governo, lo
fece aristocratico, anzi pur quale è quello che dipende da un solo
re.... Chiamavano i comici nuovi Pisistratidi i famigliari suoi, a
dinotar l'eccesso del suo potere, troppo gravoso e sproporzionato
a governo democratico. Teleclide poi dice che gli Ateniesi posero
in di lui mano i tributi della città e le città medesime, sicchè
potesse altre legarne, altre disciorne a suo talento, e l'autorità
di alzar mura, di atterrar le inalzate: e insomma _le convenzioni,
la pace, le forze, le ricchezze, la felicità loro. Nè questo già in
circostanze che così richiedessero_, nè solo nel breve tempo che era
in vigore l'amministrazione sua: ma primeggiò per lo spazio di ben
quarant'anni.... e dopo l'ostracismo di Tucidide per ben quindici
anni: _avendo ristretta in sè medesimo e renduta una sola l'autorità e
possanza ch'era divisa in annue magistrature_.»[48]

                                   *
                                  * *

Furono è vero, quarant'anni di un'epoca splendida, unica nella storia;
e avete ragione, caro Yorick, di ricordarlo, la memoria di essa va
sfidando i secoli.

Che importa che in quei quarant'anni di _minorità politica_ si vada
man mano alterando e perdendo nel popolo la dignità e l'abitudine del
vivere libero, la coscienza di sè stesso e della sua sovranità, sicchè,
quando alla morte di Pericle crederà di averla ripresa, si troverà
tornato bambino e inetto a valersene, e della libertà ricuperata non
troverà più in sè le virtù nè per usarla nè per mantenerla?

Che importa che si vadan perdendo via via gli istituti, le leggi, i
costumi severi, lo spirito di abnegazione, gli slanci magnanimi, e
tutte le austere virtù repubblicane dei padri che avean dato ad Atene
le pagine più belle della sua storia?

Che importa che Atene vada smarrendo la coscienza della sua grande
missione democratica e liberatrice, ond'era sorta un giorno, per libera
elezione dello affetto reverente dei popoli, al primato morale nella
Grecia?

Che importa che in mezzo a tutti quei nuovi splendori si prepari
sordamente la corruzione morale e politica che crescerà rapida e
gigante dopo la morte di Pericle, quando la mano sapiente di lui,
che ne ha gittati i germi, non sarà più là per correggerne, e
infrenarne almeno lo sviluppo? Che quelle apparenze di prosperità
materiale debbano un giorno comparire al giusto Socrate niente più
di un'_enfiatura marciosa_, perchè in mezzo ad essa si sarà spento il
senso morale del popolo, divenuto _ingiusto ed intemperante_?[49]

Che importa che tutti quelli splendori, tutte quelle magnificenze siano
il prodotto di una _tirannide odiosa_[50] sulle città greche, del loro
danaro e delle loro spoglie[51] assai più che non delle spoglie e del
danaro dei barbari? Che alle feste ed alle allegrezze di Atene faccian
lugubre contrasto le stragi e le catene servili di Nasso, di Samo,
della Eubea? Che quel fasto, quelle pompe, quei prodigi dell'arte siano
il prezzo delle lagrime, del sangue, e dell'_odio_ (notatela la parola,
caro Yorick, voi che mi parlate degli _amici_ di Atene) dell'_odio_,
dico, dei Greci!

Che importa, che importa!! «La nostra tirannide ci ha fatti _odiosi_
e _gravosi_, lo sappiamo; ma è massima antica che il forte tenga
il debole in riga: e ancora ci ringraziino se non li tiranneggiamo
di più.»[52] L'essere al presente esosi e gravi, dirà Pericle al
popolo, _è sorte inevitabile di quanti reputarono sè stessi degni di
signoreggiare altrui; ma chi per alti fini si attira odio, quegli
rettamente si consiglia. Imperocchè l'odio non contrasta a lungo;
laddove il subitaneo splendore e la fama avvenire rimane sempre mai
memoranda._»[53]

E il popolo batte le mani, il popolo è contento. Atene serve ad un
uomo, ma comanda a molte città. È odiata, è corrotta, ma è splendida.
Venga pur l'odio! è dolce raccoglierlo all'ombra del Partenone.

                                   *
                                  * *

Vero è che in quella affettazione di sicurezza celavasi alcunchè di
forzato e Pericle in fondo non era così tranquillo sulle conseguenze
della sua politica come ostentava di esserlo. Nel bel cielo sereno di
quella prosperità viaggiano nuvolette annunziatrici di tempesta. Poche
repressioni parziali e brutali non bastano a rendere più spontanea la
soggezione della Grecia e a far accettare con maggior rassegnazione
l'arrogante tirannia dell'antica liberatrice. Atene lo sa e lo sente.
Ella comprende che le città greche non le stan più soggette che per
la _prepotenza dell'armi_[54] e confessa a sè medesima che il giorno
in cui quella prepotenza venisse meno, quelle se gli volterebbero
contro[55]: pericolo e minaccia permanenti. Gli odii da lei soffocati
colla forza perdurano latenti e van guadagnando sordamente intorno
a lei di estensione e di intensità. Atene pensa con inquietudine al
giorno che quel contagio propagandosi avrà stretto le città greche
in una tacita lega contro di lei: perchè colla stessa facilità delle
repressioni isolate, non le sarà dato estinguere l'incendio fatto
generale.

Ma ciò che Atene sente, Sparta, la vigile, la gelosa, l'emula Sparta,
lo osserva. L'Olimpio Pericle è inquieto, perchè qualcuno lo sta
spiando; perchè sente istintivamente l'occhio di Sparta posato su di
lui: occhio in apparenza calmo, immobile, ma a cui nulla sfugge: che
studia la situazione e calcola il momento. Sparta d'uno sguardo ha
misurato i disegni di Atene, e le resistenze de' suoi sudditi. Quelle
resistenze abbisognano di una mano che le aiuti a prorompere, intanto
che sono ancor fresche e tenaci e Atene è costretta a difendersene: più
tardi, quando Atene avrà rassodato colla forza il suo dominio, elle
saranno rese impotenti a farsi vive. Più tardi, Atene, se è lasciata
fare, avrà realizzato il suo sogno d'impero assoluto su tutta quanta
la Grecia; e sarà tardi per opporsele; chè nella parte soggetta, ella
già vien spazzando un dopo l'altro gli ultimi avanzi delle greche
autonomie; e le triremi di Pericle van sempre più lontano; e una nuova
conquista non aspetta l'altra; e dopo aver soggiogata la Grecia jonica,
Atene già intende palesemente ad intaccar la Grecia dorica. Infatti
alleata con Argo ha già distrutto Micene; ha messo la mano su Megara;
si è impadronita d'Egina; vincitrice ad Enofiti è entrata in Tebe[56];
ha battuto quei di Corinto e di Sicione[57]; ha preso Zante e Naupatto;
devastate le coste di Laconia; alleatisi gli Achei. È tempo per
Isparta, per la metropoli dorica, di muoversi — e provvedere ai casi
proprii.

E certo era naturale che Sparta fosse gelosa di Atene; ma sarebbe stata
anche sciocca — e avrebbe smentito la sapienza del suo legislatore —
se non avesse approfittato delle occasioni che Atene le forniva per
ovviare al pericolo che si veniva realmente avvicinando. Le città
greche mordono impazienti il giogo di Atene; anelano a liberarsene,
come un tempo dai Persiani; e Sparta, oscurata da Atene nella propria
gloria, ferita nell'amor proprio, danneggiata nella propria potenza
fra i popoli dorici, minacciata nella propria indipendenza e libertà, —
Sparta sarebbe rimasta inoperosa, le braccia conserte, ad attendere che
l'emula finisse l'opera incominciata e già condotta sì innanzi?

Era troppo pretendere dalla sua abnegazione.

La guerra tra Corcira e Corinto e le mosse di Atene a Corcira e a
Potidea (dove Alcibiade comincierà la sua carriera) segnano a Sparta il
momento aspettato. Corinto ricorre a Sparta e Sparta non si fa pregare.
La scintilla è accesa e la guerra del Pelopponneso scoppia.

                                   *
                                  * *

Come, con che veste, con che titolo scende Sparta sul campo?

  «Dalla vetta de' suoi monti, spingendo lo sguardo oltre lo spesso
  cerchio degli Iloti curvi sulla gleba, lo Spartano cercava ansioso
  il tremulo orizzonte marino e pel ceruleo piano dell'Egeo indagava
  fra i gruppi delle ridenti isolette il numero ognora più grande
  degli _amici_ e degli alleati d'Atene... d'Atene la miscredente,
  la scettica[58], che osava inalberare il vessillo della libertà,
  fondare gli ordini dello Stato sul consenso dei cittadini....
  Bisognava trovare un pretesto per metter fine allo scandalo.... E
  il pretesto fu subito trovato.... Atene _durò un pezzo a schermirsi
  dalla necessità_ di impugnare le armi contro i vecchi commilitoni
  delle vittorie sui barbari, ma _provocata in mille guise_[59],
  _messa colle spalle_ al muro, obbligata a battersi o a perdere
  inonoratamente la sua preminenza, scese finalmente in campo, e
  cominciò la lotta tremenda che doveva finire così miseramente per
  lei....»[60].

È bella, caro Yorick, è commovente, è poetica questa vostra narrazione
delle origini della guerra: ma ahimè! la storia, la nuda, la prosaica
storia, sciupa le tinte della vostra poesia e mi guasta maledettamente
il vostro racconto.

Certo l'antipatia di razza entrava per qualcosa nelle origini della
guerra; v'entrava il contrasto degli ordinamenti politici; non tutto
era puro nelle intenzioni della gelosa Lacedemone e l'assegnamento
fatto sugli ajuti dello straniero basterebbe a provarlo[61]. Ma quante
dunque doveva averne fatte Atene, perchè allo scoppiar della guerra,
nell'opinione di tutta la Grecia, le intenzioni di Sparta apparissero
nobili, e la sua causa diventasse la giusta!

Io interrogo la storia ed essa mi dice che Sparta iniziava la guerra
in nome dell'indipendenza dei popoli greci, in difesa delle greche
autonomie.

Interrogo la storia e mi dice che Sparta prendea le armi nel momento
che l'ambizione di Pericle, deposta la maschera, camminava diritta
ed ardita a far serva _tutta_ la Grecia[62]; che Sparta prendea le
armi come protettrice della libertà greca, e accompagnata del libero
appoggio, dal plauso e dai voti de' suoi proprj alleati e delle stesse
città suddite di Atene.

Questo schierarsi risoluto delle simpatie di tutta l'opinione nazionale
greca dal lato di Sparta è un fatto altrettanto incontrastabile
e riconosciuto dagli storici[63], quanto poco considerato finora,
secondo me, nel suo valore rispetto alle origini della guerra. Noi
vedremo più tardi nel corso di questa le città alleate di Sparta
rimanerle generalmente fedeli, anco nella contraria fortuna dell'armi;
e all'opposto le città tributarie di Atene ribellarsi e passare a
Sparta non appena un qualche rovescio degli Ateniesi o qualche altra
vicenda della guerra ne fornisca loro l'occasione[64]. Un giorno son
quei di Eritrea e di Chio, della _fedele_ Chio, che si rivoltano; un
altro giorno i Milesj; un altro i Rodii, gli Abideni, i Bizantini, gli
Eubei[65]. Questo fatto, caro Yorick, che influirà sull'esito finale
della guerra, assai più della defezion d'Alcibiade — da voi reputata
sola causa del disastro — questo fatto mi pare valga la pena di tenerne
conto, prima di dipingermi, come fate, la mistica, la feroce, la
despotica Sparta che esce dal chiuso del suo covile per uccidere in
Grecia la libertà. O come mai allora ella si trova aver tutta la Grecia
per complice? Alla libertà i Greci di quel tempo ci tenevano pure
qualche poco, e la loro opinione — nel giudicar da che parte stessero
o almeno prevalessero il diritto e la giustizia — _la loro opinione_
di interessati e competenti in causa mi sembra debba pure pesar per
qualche cosa; magari, se lo permettete, qualche cosa più della vostra e
della mia.

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                                  * *

Se fosse qui il caso d'intercalare un confronto storico, (anche
per far la parte, caro Yorick, a ciò che havvi di vero nei giudizî
vostri) direi che la fisionomia della guerra del Peloponneso offre
una singolare analogia con quella della guerra di liberazione che sul
principio del nostro secolo finiva a Lipsia e a Waterloo. Napoleone I
rappresenta ben Pericle, come la Francia democratica serva dell'uno,
rappresenta la democratica Atene serva dell'altro: tutti e due han
dato, l'uno alla Francia, l'altro ad Atene, la gloria e il triste
vanto di tiranneggiar sugli altri, in compenso della perduta libertà.
Atene trascina per forza nella guerra le città alleate tributarie
Chio, Samo, Lesbo, ecc., come il primo impero vi trascina, legati
per forza alla fortuna delle sue bandiere, i soldati d'Italia e
della Confederazione del Reno. E contro Atene la colta, la gentile,
la democratica, si leva la rozza, l'aristocratica Sparta; contro la
Francia imperiale, la splendida erede degli Enciclopedisti dell'89, si
levano l'aristocratica Inghilterra, la Germania feudale e patriarcale,
la Russia semibarbara. Naturalmente la Santa Alleanza pensava e
mirava a qualche cosa d'altro, oltre la liberazione e la fratellanza
dei popoli iscritte nella sua bandiera; ma chi negasse che la guerra
del 1813 non fosse per la Germania una guerra di liberazione; che
non fosse splendido l'entusiasmo divampante dai palazzi ai tugurî
che suscitava come un solo uomo i popoli tedeschi contro l'invasore;
che non fosse giusta la causa santificata dagli inni e dal sangue
di Körner, costui negherebbe la storia. Il disastro di Sicilia e il
disastro di Russia annunziano alla Grecia serva di Atene, all'Europa
serva della Francia, l'ora propizia della libertà. I confederati
del Reno disertano le odiate bandiere sul campo di battaglia come i
confederati Joni disertano da Atene. Le defezioni e le cospirazioni
interne completano il quadro, e dentro Parigi come dentro Atene
preconizzano e affrettano la catastrofe: qua Francesi che preparano la
ristaurazione e cospirano con Wellington e con Blücher; là Ateniesi
che instaurano l'oligarchia e cospirano collo Spartano; qua le trame
di Marmont e di Fouché, là le trame di Pisandro e di Antifonte[66]:
tristi, ignobili spettacoli entrambi, ma frutti della spossatezza
generale, del bisogno di pace, della reazione dei tempi. E il giorno
che le due catastrofi succederanno, che sotto i colpi della coalizione
esterna e delle interne congiure cadranno i due imperi, alla distanza
di ventidue secoli i popoli manderanno lo stesso respiro più libero,
alzeranno lo stesso grido di soddisfazione e lo saluteranno egualmente
come un giorno foriero di libertà. Verranno poi gli storici al minuto,
abituati a veder le cose in piccolo, e, dimenticando le grandi leggi
della storia, attribuiranno a piccoli episodii le due grandi cadute;
qua al tradimento di Grouchy a Waterloo, là alla defezion di Alcibiade,
al tradimento dei capitani in Egospotamos. Intanto la storia, guardando
dall'alto, dirà che i due imperi caddero per legge fatale di eventi:
perchè l'opinione del tempo e la congiura dei popoli stavano contro di
loro. Vero è che i popoli saranno delusi nelle loro speranze, perchè
all'indomani della vittoria i vincitori avran dimenticate le loro
promesse: e la egemonia di Sparta, fatta tirannica, infierirà nella
Grecia dopo Egospotamos, come la reazione imperverserà sull'Europa dopo
Waterloo. Ma alla umiliazione della Francia sotto l'asta del Cosacco
come a quella di Atene sotto la verga dei Trenta, sopravviveranno
gli splendori del genio di entrambe; e le due grandi decadute, pure
espiando i loro errori, conserveranno il loro posto nella storia della
civiltà.

Non è però ancora una ragione perchè la storia non sia severa e
imparziale anche con loro, e non constati in quei loro errori la vera
causa delle loro catastrofi.

                                   *
                                  * *

Voi mi parlate degli _amici_ di Atene! Ma allo scoppiar della guerra,
lo abbiam veduto, Atene non ne aveva di amici! Avea città suddite
che la seguivano per forza, e da cui sapevasi e da cui confessavasi
_odiata_.

Mi parlate delle provocazioni di Sparta! Certo Sparta fu quella che
mandò prima le intimazioni[67]; ma ciò riguarda il principio materiale
della guerra[68]: e Atene non aveva aspettato fin allora per far capire
dove miravano le sue conquiste, e far sapere ai popoli dorici la sorte
che li aspettava. Ho già ricordato più sopra i suoi colpi di mano su
Megara, Corinto, Egina, Tebe, Sidone, Naupatto. Sparta trae la spada
dal fodero all'ultimo momento, quando il pericolo ai Dori sovrasta
imminente[69] e i suoi confederati già le rimproverano altamente gli
indugi[70].

                                   *
                                  * *

Del resto a mostrar come Sparta rappresentasse realmente in quella
lotta la difesa delle autonomie greche, basta uno sguardo di confronto
alle due confederazioni avversarie. La jonica, come mostrai, non ha più
di confederazione che il nome, ad ironia: le città greche tributarie
si trovano in faccia ad Atene nello stato di _servitù_ (δουλεία)
come Nasso, o di _schiavitù_ (ἀνδραποδισμὸς) come Ejone, o come
Sciro: quelle che serve addirittura non sono, pur serbando le forme
democratiche, obbediscono a soprastanti ateniesi (ἐπίσκοποι, φύλακες),
dipendono da Atene pei tributi, per le leggi, pei giudizî, per le navi,
per tutto, la seguono nelle imprese militari, senza alcun diritto nè di
consiglio nè di voto. E Atene decreta la guerra senza pur degnarsi di
interpellarne i confederati.

Nella confederazione dorica è tutto all'opposto. I confederati, dalla
egemone Sparta all'ultima città, conservano nella lega la loro piena
autonomia, si governano ognuno secondo le patrie leggi. Autonomi
i giudizi in ciascuna città; delle contese fra alleati decide non
l'egemone, ma l'oracolo di Delfo o una città qualunque scelta arbitra
dai contendenti. La pace, la guerra, gli altri interessi comuni,
trattati e decisi in comune assemblea, che la egemone convoca, ma la
cui convocazione può essere chiesta dalle città; e nell'assemblea,
parità di voto per ogni città confederata, dalla più grande alla più
piccola: obbligatorie le decisioni della maggioranza. Gli alleati non
pagano a Sparta nessun tributo: ma, a guerra votata, uno dei due re
di Sparta ha il comando supremo delle forze, e ciascun confederato
contribuisce il suo contingente stabilito di provvigioni, di denaro,
di soldati e di navi[71]. Naturalmente, in quella lega così stabilita
sul piede di un'_assoluta eguaglianza_, l'unione tra i confederati era
vieppiù cementata dalla spontaneità dell'adesione, dalla libertà del
voto, dalle affinità di sangue e dalla somiglianza delle istituzioni,
foggiate dal più al meno a repubblica aristocratica, secondo l'indole e
il genio delle razze doriche.

Questa la _grande tirannia_ con cui Sparta si fa innanzi a nome dei
Greci, sullo scoppiar della guerra![72] E non vi si decide se non dopo
che l'assemblea delle città confederate a maggioranza di voti l'ha per
ben due volte decretata[73]; e incaricata di dar corso al decreto,
tenta prima se mai l'apparato delle forze basti a smuovere Atene
da' suoi disegni; reclama libera Potidea, libera Egina, revocato il
decreto contro i Dori di Megara. E poi che Pericle risponde con ripulse
superbe, qual'è l'_ultimatum_ della tirannica Sparta?

«_Vogliono i Lacedemoni la pace: e si avrà, se lascerete che i Greci
vivano indipendenti, e si governino colle proprie leggi._»[74].

È onesto, è giusto; ma è precisamente quello che Atene non può
accordare e non accorderà. Perchè la sua nuova grandezza, le sue
ricchezze, il suo commercio, sono il frutto della sua tirannia, ed
essa ormai vive _necessariamente_ di questa; perchè gli _odj_ che
la tirannide le ha attirati, se appena la tirannide rallentasse,
scoppierebbero[75]; perchè rendere ai Greci la libertà significherebbe
per lei restar sola e decadere dal primato.

La sua politica è netta, ed è logica; e le sue risposte sono degne
della sua politica.

— Sì, è vero, il nostro imperio è tirannico; ma or che l'abbiamo, il
timore e l'utile ci prescrivono di tenercelo[76].

Sì, è vero, la nostra tirannide è odiata: ma è massima costante che il
forte detti la legge al debole[77].

Sì, è vero, abbiam tolto ai greci alleati il diritto di reggersi
colle leggi proprie; ma essi devono ringraziarci se _dal nostro grado
ci abbassiam fino a loro_, e se nei litigi facciam loro l'onore di
giudicarli colle leggi nostre![78]

È vero, è verissimo, abbiam tolto loro la libertà; ma essi devono
_esserci riconoscenti se non li privammo di maggiori beni_.[79]

Così risponde Pericle; rispondono a Sparta gli inviati di Atene; di
questa povera, innocente, virtuosa Atene, ingiustamente aggredita,
_provocata in mille guise, messa colle spalle al muro_, che ha
impietosite le viscere — pietose sempre — di Yorick! Risposte, nel
cinismo, incredibili, se uno storico ateniese e contemporaneo — il più
rispettato e il più autorevole degli storici antichi — non ce le avesse
conservate — e se le opere non avessero fatto fede delle parole!

Son questi i nuovi principj, le nuove idee di fratellanza e di
patriottismo che la Atene di Pericle annunzia al mondo greco; questa
è la missione di libertà, di giustizia, di uguaglianza, che la
repubblicana Atene, l'antica liberatrice, inalbera e proclama innanzi
alla Grecia, cinquantasette anni dopo Maratona, quarantotto anni dopo
Salamina, quarantacinque anni dopo il patto fraterno giurato in Delo!

Ah, la politica _materiale_ di Pericle ha già ben lavorate le coscienze
ateniesi, ha già ben trasformato i rigidi repubblicani! Il carattere
ateniese è ben mutato dal giorno che i padri, sul campo di Platea,
offrian di cedere al Tegeati il posto d'onore, niun'altra gara
chiedendo che di fortezza e di virtù![80]

Una profonda rivoluzione morale evidentemente si è già compiuta
all'ombra dei magnifici monumenti del secol d'oro; e alla distanza
soltanto di mezzo secolo, un abisso separa due periodi della vita e
della storia della stessa città. Ma l'autore di quella rivoluzione non
arriverà in tempo a vederne tutte le conseguenze morali e materiali:
fortunato ancora, egli non vedrà che l'alba dei giorni tristi che la
sua mano ha preparato ad Atene, e morirà ancora in tempo per potersi
gloriare dei giorni di splendore che le ha procacciati. Egli morirà in
tempo per potersi illudere, dal letto di morte, sul giudizio e sulla
severità della storia; egli, il più grande certo e relativamente il
più onesto, fra quanti corruttori di popoli si sian mai fatti grandi,
sagrificando all'utile il giusto. Il ricordo delle sue glorie verrà
solo a visitarlo al capezzale: eppure forse sarà un rimorso e un
presentimento segreto, sarà un segreto bisogno di farsi perdonare
qualche cosa dai suoi concittadini e dai posteri, quello che morendo
lo spingerà a reclamare, per la memoria del suo nome, fra tante glorie,
una sola:

«_Nessun Ateniese, per cagion mia, non si è mai vestito a bruno._»

Parole sante. Ma la storia non le accetterà. Essa accorderà a Pericle
il suo posto nel Panteon: ma fra i colpevoli illustri. Perchè il
pervertimento lento, blando del senso morale, dell'anima di un popolo,
è colpa più triste delle violenze e degli eccessi della tirannide
brutale. Questi hanno già in sè ed affrettano da sè stessi il rimedio:
quello lascia più lungo e più funesto il suo solco nel tempo. Atene
sorge più balda, più forte dalla tirannide sanguinaria di Ippia: ma il
veleno lento di Pericle la consegnerà morta al Macedone. Da Tarquinio
v'è appello a Bruto: ma dalla corruzione del magno Cesare, si va
diritto a Comodo e a Caracalla.

Nel nostro secolo, che ha visto difendere tutte le tesi, si doveva
veder difesa — che dico? malamente copiata in trono — anche la politica
di Pericle. Grote, il principe degli storici della Grecia, andrà ancora
un passo innanzi, e secondando lo spirito ardito di critica innovatrice
che ha invaso le regioni della storia, intraprenderà la difesa anche
dei demagoghi successori di Pericle, e prenderà sotto il suo sapiente
patrocinio Cleone il conciapelli e i suoi illustri colleghi. Ma la
morale resta una sola sotto tutte le forme politiche, e formula le
sue condanne, anche dopo tutte le scoperte della critica sapiente ed
erudita[81].

                                   *
                                  * *

_Malamente copiata in trono_ — ho detto dianzi: e certo sarebbe uno
studio interessante quello di chi, senza fermarsi a Cesare, nè ad
Augusto, nè a Leone X, nè a Cosimo o Lorenzo de' Medici, nè a Luigi
XIV, cercasse i punti di confronto tra il figliuolo di Zantippo e il
suo infelice imitatore morto in esilio a Chislehurst. Entrambi arrivano
al potere puntellandosi sulla democrazia. Entrambi si accattano
popolarità, ostentando zelo per il benessere delle classi inferiori,
e facendo al bisogno del socialismo di falsa lega. L'uno spazza via
l'opposizione cogli ostracismi, l'altro cogli esilii e le deportazioni.
E l'uno e l'altro fanno il popolo rassegnato alla perdita delle sue
franchigie, adescandolo coi vantaggi materiali, e paralizzando le
virtuose resistenze col contagio della venalità. L'uno mette a prezzo
tutti gli uffici della sovranità popolare; l'altro apre mercato di
impieghi, dallo stallo del senatore e del consigliere di Cassazione
all'ultimo dei sostituti Procuratori. Là senatori a una dramma il
giorno, qui senatori a trentamila lire l'anno. Là un'assemblea venale,
qui un Corpo legislativo cortigiano. Là eliasti venali, qui giudici
compiacenti e servili.

E all'uno e all'altro abbisogna il lustro dell'armi. Quello assolda
per la prima volta la milizia, e colla lue dei mercenari corrompe
nell'esercito le tradizioni pure ed eroiche del patriottismo; questo
satolla l'esercito di favori, di paghe e ne dissocia gli interessi e
gli affetti dagli affetti e dagli interessi del paese.

Intanto l'uno si vanta che, se dipende da lui solo, _i suoi
concittadini ponno far conto di vivere sempre immortali_[82]. L'altro
rimette la formula a nuovo e annunzia che l'impero è la pace.

Ciò non impedisce naturalmente agli Ateniesi di morire nelle spedizioni
lontane del Chersoneso e del Ponto Eusino, a Samo, a Tanagra, a Sidone,
nell'Eubea; e quanto alla pace dell'impero, essa pianta i suoi ulivi
in Crimea e in Africa, nel Messico e in Cocincina, a Gravellotte ed a
Sedan.

Ma per giungere al primato materiale anco un po' di prestigio morale,
di influenza morale sui popoli non guasta. Qualche bella iniziativa
pacifica od umanitaria, a tempo e luogo, è tanta polvere eccellente
nell'occhio dei popoli. _Per alzar l'animo del popolo a pensieri
più grandi_,[83] (intanto che lavora a farne la libertà un po' più
piccola) Pericle invita ad un _congresso_ in _Atene_ _tutti gli Stati
greci dell'Europa e dell'Asia_, tutte le città grandi e piccole, per
consultare in comune sui sagrifici agli Dei, sulle cose del mare, sui
modi di provvedere alla sicurezza della navigazione, del commercio,
alla conservazione della pace. Ventidue secoli dopo, il Napoleonide
trova l'idea ancora ottima; e siccome anch'egli ha bisogno di dare alla
Francia qualche soddisfazione morale in cambio delle tante di cui l'ha
privata, così anch'egli bandisce il suo bravo _congresso_, e invita i
Potentati _a Parigi_ per discutere sui mezzi di assicurare ai popoli
la pace e la prosperità. E come in _illo tempore_ gli staterelli più
piccoli tra i Greci — i piccini sono sempre di buona pasta — così fan
ressa ad accettare i sovranelli europei; ma Sparta capisce il latino —
anzi il greco — di Pericle e gli manda sul più bello il suo congresso
in fumo; la Prussia capisce il francese delle Tuileries e manda l'altro
congresso a farsi benedire.

Dai fiaschi morali però c'è sempre ricorso alle rivincite. Pericle
si consola del fiasco del suo congresso, colla guerra sacra — la
spedizione a Delfo — e il Napoleonide del fiasco del suo, con un'altra
guerra sacra — il secondo intervento a Roma. Pericle va contro Delfo
in odio di Sparta,[84] perchè questa ha la strana idea di pretendere
che Delfo, la città santa, appartenga ai Delfiesi; Napoleone va contro
Roma in odio di Bismark, perchè sospetta la sua zampa dietro quella
di Garibaldi, e trova assurda la pretesa che Roma, la città santa,
appartenga ai Romani.

È vero che la pietosa Eugenia di Montijo soffia nel fuoco; la mano
gentile di una donna dirige nelle Tuileries il mestolo della politica e
spinge il compiacente marito a sperimentare sui volontarj le meraviglie
dei nuovi Chassepot. Era probabilmente per non invidiar nulla ad
Aspasia, l'antica e gentile mestatrice politica, consigliatrice
dell'olimpico marito; ad Aspasia, _per le cui istanze e per compiacere
alla quale_[85] Pericle anch'egli si risolve alla iniqua spedizione
contro Samo, e va a sperimentare su quei poveri isolani che difendono
la loro libertà, le nuove macchine guerresche di Artemone «_la novità
delle quali recava perfino meraviglia a lui stesso_»[86]!

Inique meraviglie; esperimenti infami: d'accordo. Ma intanto, di
impresa in impresa, la gloria delle armi sorride al genio del figlio di
Zantippo e alla fortuna del suo coronato imitatore. Atene e la Francia
servono ad un uomo; ma il loro orgoglio nazionale è soddisfatto. Al
di fuori la gloria delle armi e il primato fra i popoli le compensano
entrambe della perduta libertà. Al di dentro, la prostrazione morale
dei caratteri è nascosta sotto uno strato di prosperità materiale. I
due despotismi camminano entrambi per le stesse vie; spargono entrambi
sui loro passi il vizio colle sue magnificenze, perchè sia semenza di
servi. Chiamano complici entrambi dell'opera le Muse, perchè la loro
presenza dissimuli la scomparsa della gran Dea che se n'è andata. Atene
e Parigi, divenute belle, magnifiche, grandiose, vedono rifiorir l'era
degli artisti e dei letterati, delle _lorettes_ e delle _cocottes_.
La casa di Pericle e di Aspasia ha per succursali l'Academia e i tempj
di _Venere etéra_; i ricevimenti delle Tuileries completano le sedute
dell'Istituto e i balli di Mabille. Si assiste alla efflorescenza delle
menti e alla depravazione dei costumi; le arti sono in rialzo e le
coscienze sono in ribasso.

E in mezzo a tutto ciò, ad Atene come a Parigi, una irrequietudine
vaga, incessante, prodotto di una quantità di cattivi umori che la
tirannide ha fomentato, di cattivi istinti che essa ha accarezzato;
un senso indefinito, profondo di malessere, il senso della mancanza
di qualche cosa, che lascia il popolo insoddisfatto, che sveglia
incessantemente in lui desiderî, rancori, memorie, passioni, a cui
bisognerà pur trovare uno sfogo, perchè non diventino un pericolo.
Atene, malcontenta fra i suoi splendori, guata il Peloponneso; la
Francia, malata in mezzo alla sua opulenza, adocchia il Reno. Antipatie
di razza, ad arte fomentate, aizzano le funeste cupidigie; e le due
tirannidi, felici di aver trovato al di fuori questo potente diversivo
ai pericoli di dentro, slanciano i due popoli a cuor leggiero sulla
via delle grandi catastrofi e delle grandi espiazioni. E nel secolo V
avanti l'Era volgare come nel secolo XIX il mondo assiste egualmente
all'identico spettacolo di un popolo elegante, spiritoso, ciarliero,
leggiero, vivacissimo; banditore un giorno di libertà agli altri,
incapace a serbarla per sè; democratico di principj, arrogante di
fatti; rappresentante di una civiltà splendida, raffinata, ma corrotta,
snervante, dissolutrice della famiglia e del senso morale; di questo
popolo che si scaglia ad un duello tremendo contro una stirpe ruvida,
tarda, riflessiva, austera, fatta gagliarda dalla ferrea disciplina,
dalla severità del costume, dal culto religioso della patria e della
famiglia; più che sobria di parole, lenta, ponderata al risolvere,
tenacissima all'opere. E perchè il riscontro sia più completo, tutte
e due le volte è la nazione democratica che provoca alla lotta colla
prepotenza; ed è il popolo cresciuto nella tradizione autoritaria che
prende l'armi a difesa della sua indipendenza minacciata. L'urto è
terribile e le vicende dei due conflitti son diverse, ma l'esito finale
è il medesimo; perchè è forse scritto nelle leggi segrete della storia
che agli stessi errori dei popoli presiedano gli stessi castighi. Il
calcolo la vince sulla leggerezza; la disciplina sull'avventataggine,
la scienza militare sulla presunzione, Lisandro su Tideo. — La
ignoranza superba dei generali d'Atene in Egospotamo dà l'esercito
ateniese, quasi senza colpo ferire, tutto quanto prigione in mano di
Lisandro, e l'incapacità vanitosa dei marescialli consegna a Moltke
gli eserciti della Francia. Lisandro entra ad Atene e Moltke a Parigi.
La grandezza politica dell'Atene di Pericle finisce nella umiliazione
di Lampsaco, la potenza del secondo impero nel fango di Sedan; e i due
popoli espiano ben duramente la complicità morale coi loro padroni,
nella provocazione della lotta spaventosa.

Atene, tornata libera e datasi ai demagoghi dopo la morte di Pericle,
avea continuato nondimeno la guerra, come la continuò la Francia
tornata repubblicana dopo caduto Napoleone III. Ma gli uomini erano
scomparsi, e le conseguenze della loro opera restavano; ed erano queste
— appunto queste — che rendevano ai due popoli non iscongiurabile il
destino.

                                   *
                                  * *

Però Atene fu assai più tarda a subirlo, e potè lottare contro di
esso per ben trent'anni: e perchè potentissima la sua marina, e perchè
troppo diverse le circostanze e i metodi di guerra; e perchè in tempo
la sovvenne il genio militare di Alcibiade: e perchè infine lo stato di
Atene, quando Pericle morì, era ancora lungi dall'essere così fracido
come lo stato della Francia alla caduta di Napoleone III. I germi,
i fattori della dissoluzione sociale e morale che doveano portar lo
stato alla rovina, Pericle pur troppo ve li avea deposti già tutti
e alimentati da un pezzo: ma, come dissi più addietro, essi avean
trovato lui, vivente, un correttivo nella sua moderazione, nel suo
genio, nella sua stessa onestà relativa: era alla morte di lui che
essi dovevano trovare il loro pieno e tristo sviluppo, invadere senza
ritegno e corrodere dalle radici tutto quanto l'organismo politico e
sociale dello Stato. Ciò dovette esigere qualche tempo: ma i risultati
dovettero esserne ugualmente ben terribili, perchè nè la marina
potentissima, nè il genio di Alcibiade non bastassero più neppur essi
a scongiurarli, e Atene dovesse un bel giorno cader in mano del suo
nemico come una pera fracida distaccata del ramo.

E alla morte di Pericle che troviamo la demagogia ateniese, come un
pupillo malamente educato ed uscito in mal punto di tutela, impaziente
di rifarsi dei suoi quarant'anni di inazione perduti; tanto più avida
di far valere, per dritto o per traverso, la sua sovranità, quanto più
priva per il lungo disuso e per la indecorosa abdicazione di tanti
anni, delle virtù necessarie al suo esercizio; provvista di tutti i
mezzi, di tutti gli incentivi di corruzione che Pericle le ha posto
in mano, senza saperli, come lui, indirizzare a qualche altezza di
fini politici;[87] prorompente sfrenata e vanagloriosa dappertutto,
spargente dappertutto il contagio dei vizi che la _sapienza_ di Pericle
le ha inoculati, ma già abbastanza lontana, per distanza di tempo,
dalle grandi tradizioni del principio del secolo, perchè il riflesso ne
arrivi come un rimprovero sino a lei, e le imponga almeno il pudore del
rispetto per la memoria delle antiche virtù.

È in quest'epoca che si svolge il mio dramma — e le leggi austere e i
costumi virtuosi dell'epoca solonica quanto sono già lontani, quanto
sono lontani da lei!

E l'epoca di cui abbiamo le informazioni in Aristofane, in Tucidide,
in Platone, in Senofonte, in Isocrate, e nelle lettere di Alcifrone e
nei _Caratteri_ di Teofrasto: di cui possiamo chieder conto allo stesso
Demostene; perchè sebbene ei sia vissuto nel secolo dopo, _il periodo
morale e storico è uno solo_ e medesimo: le piaghe morali che danno
Atene in mano al Macedone sono le stesse che l'han data in mano di
Sparta: e son già tutta roba ereditata dai contemporanei di Socrate i
bei progressi del costume fulminati dall'eloquenza del Peanese[88].

Le Assemblee del popolo — ormai cessate negli ultimi tempi di Pericle
(da che egli non avendone omai più bisogno, avea trovato più comodo
di farne senza) — richiamano di nuovo il popolo in folla, colla
raddoppiata avidità de' tre oboli. — Ma la nuova tèmpra del costume
ha reso già troppo incomode e viete le prescrizioni di Solone, che
pretendeano escludere dal foro gl'indegni, gli oziosi, i rotti ai vizi,
e sottoporre a sindacato la moralità degli oratori. Tanto varrebbe
spopolar le adunanze. Anzi, al contrario, da che i vizi hanno invaso
tutto, i peggiori, i più corrotti son quelli naturalmente che più
gridano, più si danno attorno, più spadroneggiano nell'Assemblea. Una
moltitudine _pigra, cianciatrice, avara, ingorda di salarj_[89], venuta
su nell'ozio e nelle tristi abitudini dell'ozio[90], ascolta oratori,
senza onestà e senza meriti, rotti a ogni bruttura, a ogni mercato[91],
ladri dell'erario[92], corrotti e corruttori, dediti alle ambizioni
più basse e all'adulazione più servile[93]. Siam lontani dal tempo che
la legge puniva i venali, i ladri, i corruttori, d'infamia e di morte:
oggi gli oratori in voga, i capi del popolo, i beniamini dell'Assemblea
si chiamano Cleone che ruba a man salva i talenti dell'erario, e
Iperbolo le cui laidezze arriveranno a disonorar l'ostracismo. Oggi non
si tratta più per gli oratori di dar giusti e sapienti consigli per il
bene della città; si tratta di salire in alto, mendicando suffragi per
le piazze[94] e raggirando il popolo colle arti de' sofisti; perchè ora
sono i sofisti — eviratori di menti e di caratteri — che da Pericle
in poi tengono il campo, e il nuovo gusto del popolo vuol oratori
usciti dalle loro scuole. Egli non vuol più che bei giuochi di parole e
adulazioni ben condite. Non va più allo Pnice per sentirsi rampognare
o far la predica da un Aristide o da un Cimone: ma per essere
_spettatore di discorsi_[95] che siano bene declamati e gesticolati,
o di buffonerie che lo tengano di buon umore: e ride e batte le mani
al ciarlatano Cleone che entra già ubbriaco all'assemblea, avvisando
il popolo ch'egli non ha tempo di parlar d'affari, e che differirà la
seduta a un altro giorno perchè ha invitato degli amici a pranzo.

La lotta di influenza tra gli oratori ridotta gara di smancerie: a chi
più basso, adula il popolo, lo liscia di più.[96] Il resto lo fa il
danaro. La corruzione regola i voti, crea le improvvise fortune.

«Ora tutto come in mercato sta a prezzo ed è scambiato da passioni
che già appestarono la Grecia: avara sete di mancie: riso a chi
la confessa: perdono al convinto: e tutte l'altre necessità di
corruzione.»[97]

«Una volta i convinti di corruzione eran dannati nel capo; ora vengono
eletti generali.»[98]

Una volta s'ammiravano le case modeste di Temistocle e di Cimone: ora
i poveri, venuti da jeri agli affari, andar in cocchio a tiro due;[99]
«alzar case più sontuose e superbe de' pubblici edificj, comprar sì
vaste distese di terreno, che _neppur sognando l'avrebbero potuto
sperare_.»[100]

E non il foro soltanto ma i tribunali or sono teatro a' mercati. I
cittadini a frotte abbandonano le officine, i ginnasj, per correre
all'Eliea, poi che la mancia del _dicastico_ è stata portata da
un obolo a tre:[101] addio sane ed oneste abitudini del lavoro;
la manìa dei giudizj moltiplica i processi, le condanne: la plebe,
invasa dalla epidemia litigiosa, è tutta una vasta _confraternita
di triobolisti_[102]. La vita del cittadino è un perpetuo conflitto
legale: non passa dì, tranne le feste, ch'ei non sia occupato d'affari
legali, o come giudice, come parte, o come procuratore, o come
testimone[103]. Non vede, non pensa, non parla che di processi; «di
notte non dorme e se chiude gli occhi un pocolino, la sua mente vola
intorno alla clessidra dei giudizj; nel sonno sogna aver in mano il
ciottolo dei voti, e scrive sulle porte: _Bello è il bossolo dei voti_.
Se il gallo canta in sulla sera, grida che si è lasciato corrompere
per isvegliarlo, e ha preso danaro dagli accusati. Dopo cena, corre al
tribunale; sul far del giorno corre al tribunale, ci dorme appoggiato a
una colonna, e tira dormendo lunghe righe in segno di condanna; in tal
modo vaneggia e ha sempre la mente rivolta a quel suo giudicare[104].

E la manìa dei giudizj sviluppa naturalmente la manìa delle accuse:
fioccano le false denunzie, pullula d'ogni parte — nuova piaga del
senso morale — la ignobile genìa dei sicofanti. Un triste, incessante,
sospettarsi a vicenda: e più sospettar di coloro che più si tengono
appartati dal contagio de' costumi; già si mormora di Socrate perchè
s'astiene da' giudizi e dal foro[105]. Se altre accuse mancano affatto,
ci son quelle di irreligione o di cospirazione, che non mancan mai.

«L'accusa di _cospirar_ per la tirannide è fatta più comune della
carne salata. Se alcuno compera triglie e lascia le sardelle, tosto
grida colui che lì presso vende le sardelle: _sembra che costui di
tali viveri provvedendosi, abbia in animo di farsi tiranno._ Se alcuno
poi chiede un porro per condire le acciughe, l'erbivendola, guatandolo
coll'occhio del porco, gli dice: _dimmi un po': tu chiedi il porro:
vuoi forse farti tiranno?_»[106]

E quel che avanza di tempo ai giudizj e alle condanne, le feste e gli
spettacoli se lo portan via. Il _diobolo_ di Pericle fa furore, e il
popolo è sempre più puntuale nell'esigerlo. Altro che i tempi in cui
rinunziava ai danari del Laurion per provveder di navi la città! Ora
in un giorno delle Dionisiache, in ecatombi di buoi per un banchetto
popolare, l'Erario spende l'importo di intere spedizioni navali[107];
or fra poco si bandirà pena di morte contro chi _tenterà di stornare
per le spese militari i denari delle feste_[108]; ora fra poco
sentiremo Demostene prorompere indignato: _Voi popolo invilito, fiacco,
spiantato, derelitto, più non siete che schiavi: e tanto sol che vi
snocciolino il denaro degli spettacoli o vi ingoffino di un pezzo di
bue ne fate gran festa; così incatenandovi nella patria stessa, vi
ammansano ad abbiettezza e servitù_: chè non sorge a grandi e generosi
sentimenti chi infiacchisce in vili cure, e dai costumi del vivere non
van disformi i pensieri.[109]

Infatti, tra quelli ozj, tra quelle baldorie, la fortezza de' padri
se n'è andata. La legge, sopraffatta dall'ignavia del costume, non
colpisce più come un tempo dei rigori estremi — chè troppi dovrebbe
colpirne — i renitenti, i disertori, i codardi, che nelle battaglie
fuggirono, abbandonarono l'armi e le schiere[110]. Già sotto Pericle,
come accennai, la paga di una dramma a mala pena bastava ad allettare
i cittadini poveri all'armi; dopo Pericle, diminuita di due oboli, per
sopperire agli scialaqui e ai vuoti dell'erario, e ridotta a quattro
oboli soli, non basta più. In fuor di quelli che non han proprio altro
modo di procacciarsi il vitto[111], la ripugnanza alla milizia si va
ogni dì facendo più estesa; invano le liste di leva dei cittadini sono
affisse alle statue degli eroi; è di forestieri, di mercenarj traci,
tessali, cretesi ed acarnani che bisogna riempir per forza i vuoti
delle falangi e delle triremi[112].

Nè già i ricchi fan fronte al contagio: chè come i poveri ricusano il
servizio, ed essi ricusano il denaro delle triremi[113]: alla guerra
poi non amano andarci, perchè troppe mollezze li adescano nelle case,
e in campo rifuggono dal trovarsi colla ciurmaglia de' mercenarj.
Frattanto illanguidirsi ogni spirito di emulazion militare; ogni
gara di valore; più frequenti in battaglia gli esempj di codardia,
non puniti tutt'al più che da qualche motteggio de' comici[114];
moltiplicarsi invece in ragione inversa, e prodigarsi a piene mani,
e immeritati, gli onori, le ricompense serbate in antico solo a'
fortissimi; d'altrettanto scaderne lo allettamento ed il pregio;
incapaci ed indegni salire spesso a' primi gradi dell'armi[115]; indi
affievolirsi la disciplina, la fiducia, e tutte le virtù che in campo
fanno valente il soldato, e le armate salde e poderose.

E intorno intorno a questo quadro di costumi publici, la brutta cornice
de' costumi privati: una licenza, una oscenità di modi, di linguaggio,
di usanze, così laidamente sfacciata, che Aristofane per flagellarla è
costretto a far uso di altrettanta sfacciataggine[116]; rotti i vincoli
della famiglia; i giovani _spendere tutto il dì per le bische e per
le case di suonatrici di flauto_[117]; l'adulterio, il concubinato,
sottratti ai rigori delle leggi antiche, liberamente, publicamente
ostentati; comune usanza de' mariti il publico trescar colle etere;
e queste — bandite da Sparta — qui cresciute di numero, di fasto, di
importanza, occupare sole il posto serbato alla donna nella società; le
mogli — laggiù a Sparta così influenti e rispettate — qui fatte arredi
di casa, appartate da ogni vita sociale, confinate in fondo a' ginecei,
a lavorar di conocchia e di cucina, e là nelle lascivie riscattarsi
della perduta libertà[118]; lenoni, buffoni, barattieri, sofisti,
parassiti, — non più ministri di riti sacri, ma scrocconi di mense
profane — invadere i trivii, le piazze, le case, rallegrar l'orgie de'
voluttuosi _Calocágati_, spargere fra il popolo la scioperataggine
e le dissolutezze delle classi più ricche, spargere fra i ricchi la
trivialità e le sconcezze della plebe.

Questa l'epoca. I fatti, le stragi di Melo e di Scione; il bando
di Alcibiade; la condanna dei capitani delle Arginuse; la condanna
di Socrate. La conclusione — per il momento Egospotamo: più tardi
Cheronea.

                                   *
                                  * *

E poichè l'epoca era tale, e tutte le eleganze fiorite della vostra
prosa, caro Yorick, non valgono a cambiarla — io, repubblicano, amante
della mia fede e credente nel suo avvenire, non auguro alla repubblica
del mio paese nè di alcun altro i _progressi morali_ di quel periodo
della repubblica ateniese.

Sono stato ingiusto io dunque, nel mio dramma, verso Atene? bugiardo in
faccia alla storia?

Ma come crederlo, quando voi per il primo siete costretto a darmi
ragione e ridotto a non poter sostenere la vostra tesi altrimenti che
con curiosi anacronismi, con una strana confusione di tempi e di date,
che nessuno storico vi può menar buona, e che ancora non capisco come
al vostro acume storico possa essere sfuggita?

Come crederlo, quando voi stesso, per dar le prove della vostra
affermazione, siete costretto a risalire ad un periodo che non ha
nulla, _nulla_ di comune col periodo del dramma mio; e le vostre prove
me le andate pescando in un'epoca la cui grandezza morale e le cui
virtù formano appunto il rimprovero più eloquente alla ignavia dei
tempi che il mio dramma dipinge?

Io attacco i costumi dell'età di Alcibiade: e voi, per difenderli, che
cosa mi rispondete? Ah, sentiamovi un po', che val la pena:

  «Il popolo ateniese non era poi quella peste che il signor
  Cavallotti ci dipinge.... Quale splendida epopea nel gran movimento
  nazionale che _respinse l'invasione di Dario!_ Che meravigliosa
  costanza di propositi, che slancio ardente di patriottismo nella
  cacciata di Serse, _proprio allora_ (proprio davvero? adagio
  Yorick!) che Atene _teneva in Grecia il primato_ delle armi, delle
  lettere, delle arti!... Come si battevano bene i demagoghi ateniesi
  e quante volte la salute della Grecia fu dovuta alle sanguinose
  vittorie di quella democrazia turbolenta e ciarliera!... Lo
  dicano gli eroi di Artemisio, celebrati nei versi di Pindaro quali
  fondatori della greca libertà; lo dicano i guerrieri di Salamina
  e di Platea, trionfatori della possanza persiana, dopo che le
  sorti della Grecia erano cadute con Leonida e co' suoi Trecento
  nella funesta stretta delle gole tessaliche! _Un pover'uomo
  che non sappia tutte queste bellissime cose_ deve tornarsene a
  casa singolarmente turbato nell'anima dalla lezione di storia
  sceneggiata dal sig. Cavallotti.»

Ebbene, un pover'uomo _che le sappia_ tutte queste bellissime cose,
dirà che tutto questo è magnificamente scritto, ma non è serio, perchè
tutto questo si chiama cambiar le carte in mano! Ma chi ve li attacca
— che Dio vi benedica! — i vostri eroi di Artemisio, di Platea e di
Salamina? Non ho io speso fin qui tante pagine (il mio amico carissimo,
l'editore Rechiedei, che sa il suo Cornelio a memoria, mi assicura anzi
che sono fin troppe) non ho io speso tante pagine ad esaltarli! Certo,
all'epoca che essi cacciavano Serse, Atene non teneva proprio un bel
niente di tutto quel che voi dite; nè il primato dell'armi, nè quello
delle lettere e dell'arti[119]; ma fu per loro virtù che Atene in poco
tempo potè alzarsi al colmo della sua grandezza, e ci voleva l'ignavia
dei degeneri nepoti per precipitamela!

Ora dunque, se è di quest'epoca che mi parlate, aspettate prima
ch'io abbia scritto un _Temistocle_, od un _Aristide_, non già un
_Alcibiade_. Se è di quest'epoca e di quegli uomini che mi parlate,
non solo io cavo loro di cappello insiem con voi, ma prego voi per
il primo a rispettarli un po' di più. Perchè tutte le concessioni
che andate facendo al mio dramma, per quella brava gente, diventano
tante calunnie; non era, no, non era nè venale, come voi dite, nè
_inchinevole alla gozzoviglia e ai brutali piaceri del senso_, quel
popolo che fabbricava le sue navi coll'obolo volontario dei poveri, e
le cui leggi — _modellate_, come voi dite benissimo, sui _costumi_ —
punivano di pene severissime i turpi vizj e facevano santi il lavoro e
i vincoli della famiglia![120]. E non era no all'epoca di Salamina che
Atene vedea tra le sue mura la _ignobile vendita degli impieghi e delle
dignità elettive al miglior offerente_[121] e vi sfido a citarmene,
nelle fonti storiche, un esempio solo!

Ma se non è quella l'epoca del dramma mio, oh allora per carità, caro
Yorick, tralasciamo di sfondar le porte aperte! Lasciamo alle scuole di
retorica i pregiudizî che per lungo tempo non permisero — come ben dice
il Cappellina — di vedere dei popoli liberi dell'antichità che il lato
grande ed eroico.

Non rivanghiamo le storielle solite sulla rivoluzione francese!
Non venite a parlarmi della clemenza dell'Atene di Alcibiade e
successori[122]; perchè la strage dei Mitilenesi[123] e gli abitanti
di Melo e di Scione passati a fil di spada son là per ismentirvi![124]
Non mi parlate dell'assenza delle esecuzioni capitali; perchè i
supplizj per il processo delle Erme, e la condanna a morte dei dieci
generali colpevoli d'aver vinto in battaglia il nemico, e i supplizj
della rivoluzione dei Quattrocento, e la cicuta di Prodico, e quella
di Socrate, e quella più tardi di Focione vi potrebbero guastar
le citazioni! Non venite a vantarmi la moralità dei magistrati e
degli oratori _vigilata dall'Areopago_[125], perchè già da un pezzo
questo sindacato, prescritto dalla legge solonica, l'Areopago non lo
esercitava più[126]: da un pezzo Pericle avea messo freno all'autorità
e alla vigilanza di quell'incomodo sorvegliatore[127] e ormai da un
pezzo Atene vedea gli onori della bigoncia e delle cariche dischiusi a'
libertini, ai truffatori dell'erario e ai ciarlatani!

È dunque solo lo spirito militare e patriottico che nell'Atene di quei
tempi vorreste darmi per vivo?

  «Quando nella funesta spedizione di Sicilia Atene ebbe perduto il
  fior de' suoi guerrieri e l'eletta de' suoi marinaj, pochi mesi
  bastarono ai cittadini della grande repubblica per armare nuove
  triremi, per radunare nuovi eserciti! Gli eleganti Ateniesi, i
  molli, i cialtroni, gli effeminati, gli oziosi, corsero tutti
  a impugnare la spada e a curvare il dorso sul remo, e questa
  forza d'animo nel momento della sventura era l'espressione del
  patriottismo di un popolo intero.»

Così canta Yorick. Ma così non canta la storia. Dalla storia frattanto
a ogni buon conto imparo che all'epoca della spedizion di Sicilia lo
spirito militare era già così svanito, che per quella impresa, la quale
era pur tanto popolare e solleticava tanto le speranze ateniesi, si
dovettero adescare i cittadini al servizio alzando di nuovo il soldo
militare ad una dramma; e ancora quell'aumento non allettò a mala
pena che i proletarj; e di 5100 opliti che Atene potè riunire per
quell'impresa a gran fatica, soli 1500 erano _opliti di catalogo_,
cioè delle prime tre classi, iscritti sui ruoli; il resto si dovette
comporre di proletarj dell'ultima classe e di mercenarj, come di
mercenarj si dovettero in massa riempire le milizie leggiere, e le
ciurme delle triremi.[128]

Questo innanzi il disastro di Sicilia: e dopo il disastro? Ah, dopo,
poi — state attento, caro Yorick, è l'illustre storico grecista
italiano Amedeo Peyron, che parla citando — _terminata la spedizione
di Sicilia, talmente crebbe la tepidezza degli Ateniesi per le armi_,
che Isocrate così scriveva: «Noi, mentre vogliamo dominare sopra tutti,
_ricusiam di militare, abbiamo eserciti mercenarj_, composti di uomini
esuli, disertori, malfattori, oltraggiatori de' nostri figliuoli, che
abbandonano noi, se altri li paghi di più. Noi che difettiamo del vitto
quotidiano prendemmo ad alimentare codesti forestieri.» — Ed altrove:
«_Noi talmente trascuriam le cose attinenti alla guerra, che non
andiamo alle rassegne se non pagati._»[129].

_Questo_ era, caro Yorick, lo zelo, era questo il patriottismo degli
Ateniesi dopo la catastrofe di Siracusa. Non erano no i _molli,
gli effeminati, gli oziosi_ Cecròpidi che dopo il disastro vestiron
l'armi o andarono, come voi dite, a curvarsi sul remo; erano le nuove
leve di mercenarj della Tessaglia, della Acarnania, che formavano i
nuovi eserciti, le nuove flotte; eran forestieri di Caria, di Tracia
e di Creta, i soldati a cui Atene confidava tra quei rovesci la sua
salvezza!

                                   *
                                  * *

Certo, non tutto, non proprio tutto nella città era abjezione.
Quegli stessi eserciti di forestieri assoldati, quelle flotte di
mercenarj improvvisate, lo furono con una prontezza di consigli e di
provvedimenti, con una larghezza di contributi che fece onore alla
città. Vi ebbero Ateniesi molti che in quei frangenti udirono la voce
della patria in pericolo ed accorsero a combattere per lei.

Certo, anche questo periodo di prostrazione, di dissoluzione morale,
appare qua e là solcato, ad istanti, ad intervalli, da fuggevoli
lampi delle antiche virtù: a dati giorni, a date ore, questo popolo
che degenera ritrova in sè ancora qualcosa della tempra antica,
per prendere a tempo una decisione patriottica nell'assemblea, per
afferrare a volo una vittoria sul mare, per rialzarsi con isforzi
d'animo tra i rovesci della fortuna.

E chi non sa che il genio, la natura di nessun popolo non si
ecclissano, non possono ecclissarsi interamente a sè medesimi in un
giorno solo? Non v'ha nella storia nessuna epoca così corrotta che
qualche raggio di virtù ancora non vi brilli, che qualche coraggiosa e
generosa protesta non vi si faccia sentire: a maggior ragione in Atene,
dove ogni pietra quasi, ogni lembo di suolo o di marina rammentava
esempli fortissimi, tradizioni magnanime, dove passeggiavano ancora
sotto i portici, gloriosi di canizie e di cicatrici, gli avanzi dei
vecchi che avevano combattuto in Salamina.

Noi assisteremo anche più tardi, alla vigilia della conquista macedone,
quando quelle memorie saranno ancor più lontane, a qualcuno di questi
sussulti del gigante antico: ma saranno sussulti galvanici, sforzi
spasmodici di una vitalità che reca la morte nel seno. Vedremo ancora
splendide figure, quasi meteore luminose attraversare il tempo; udremo
fra le brutture dell'età tuonare la indignazione virtuosa di Demostene,
come un dì calma e mesta sorridere la ironia santa di Socrate. Ma esse
appunto varranno a _stimmatizzarle, non a redimerle_; sarà il _buon
genio_ dell'Eliade antica, della gran madre degli _eroi_, che prima di
spirare tra l'ignavia dei nepoti, vorrà svincolare dalla catastrofe la
propria responsabilità e il proprio nome — e rimetterà per mano di quei
giusti — suoi esecutori testamentarj — la sua protesta alla storia.

                                   *
                                  * *

E questa protesta, come la storia l'ha raccolta, così tentai
consegnarla nel dramma. Queste ultime voci mandate come un rimprovero
da una generazione virtuosa che muore a una generazione corrotta che
sorge, m'era parso che il poeta potesse e dovesse raccoglierle; m'eran
parse interessanti per la morale della storia e per il contrasto della
scena.

Giacchè non è poi niente vero che sian tutti fior di mariuoli quelli
che parlano e si muovono nel dramma mio; non è niente vero che della
faccia dell'epoca io non abbia guardato che un _lato solo_ — il lato
più brutto ed ignobile[130]. S'io non erro, sono due le correnti morali
che da capo a fondo traversano il dramma, e _intorno_ ad Alcibiade
e _dentro di lui_. Se io non erro, Socrate, che rinfaccia le virtù
del tempo passato, Timone che impreca i vizj del presente, Lamaco ed
Eufemo, i soldati valorosi e leali; Timandra, la cortigiana che alla
voce del dovere e della virtù presta le lusinghe divine dell'amore,
appartengono a una corrente morale diversa, da quella in cui si
muovono Tessalo e Cleonimo, e Diocare ed Aminia; e al basso fra il
popolo Cimòto, il parassita di buon cuore, segna il punto di contatto
fra le due correnti; in alto, fra i patrizî, Alcibiade segna la
sintesi delle due età. Infatto, nessuna figura personificò mai nella
storia più al vivo, e con più spiccati colori, i contrasti, le lotte
intime d'un periodo di transizione; l'influenza di Alcibiade tra i
suoi contemporanei fu straordinaria, perchè egli era il prodotto più
naturale, _più vero e più completo_, della sua epoca. Alcibiade è la
risultante degli splendori di Pericle, delle glorie eroiche d'Artemisio
e Maratona, della corruzione di Cleone e di Iperbolo. È egli la
personificazione delle virtù che se ne vanno, e dei vizj che arrivano;
è egli stesso il _demos_ d'Atene, del quadro di Parrasio[131]; egli il
popolo ateniese colle qualità che lo han fatto grande e con quelle che
lo tirano a rovina. Nel fondo della sua anima, come dintorno a lui, le
due epoche si incontrano; e il rimprovero severo di Socrate lo disputa
alle lascivie d'una cortigiana; il sarcasmo di Timone lo rimorde tra
gli intrighi del foro; Cleonimo, il vigliacco lo insidia, e Làmaco
il valoroso lo difende. La faccia di Alcibiade è metà rivolta verso i
crepuscoli di uno splendido giorno che tramonta, metà verso l'ombre che
sopraggiungono. Socrate scomparirà dalla scena, perchè è alla notte
che spetta la vittoria; lui scomparso, la resistenza morale, da lui
rappresentata nella forma più intransigente, più elevata e più pura,
continuerà ancora, ma dovrà cercarsi più al basso altri rappresentanti
quali il tempo lo consente, battere alla porta delle caste che la
corruzione del tempo ha fatto sorgere.

Questo concetto storico (che almeno nel dramma completo si sviluppa
di più), questo contrasto d'idee e di colori, di ombre e di luce, la
povera tavolozza del poeta non sarà bastata a ritrarlo: d'accordo:
ma al poeta non par troppo il domandare che almeno si piglino le sue
intenzioni per quel che furono, pigliando la storia per quella che è;
che non si tiri il collo a questa, per dare lo scambio a quelle; e dove
egli vuol fare dell'arte a modo suo, non gli si faccia fare, per forza,
della politica a modo degli altri. Se politica ci è nell'_Alcibiade_,
adagio un po' — caro Yorick e compagni — a sciuparmela: che non l'ho
fatta per voi. O che strani, che cocenti amori son questi, signori
monarchici d'Italia, che vi pigliano ad un tratto per la repubblica
d'Atene? Certo, il vedervi divenuti così fieri repubblicani in causa
mia, mi commove nelle viscere, mi insuperbisce e mi consola; che
affè non vi sapevo così rossi di dentro, e richiamerò sopra il fatto
l'attenzione del Ministero. Ma siate prudenti! Volete si dica che la
repubblica per poter piacere a voi, bisogna prima che il vizio l'abbia
ben bene imputridita? Volete si dica che per rendervela accettabile,
per conciliarvi subito con lei, bisogna prima ch'ella mandi le virtù
repubblicane a dormire; che ella metta in carcere Socrate, come
Mazzini; che paghi a misura di carbone i vincitori delle Arginuse, come
il vincitore di Milazzo; che dia in fatto di corruzione tutto quello
che può dare una monarchia?

Quanto a me, non credo proprio che la repubblica possa farmi il viso
arcigno, se nei torti del suo passato raccolgo qualche insegnamento del
suo avvenire[132].

                                   *
                                  * *

E con questo, (permettete Yorick, ho bisogno di dir due parole, a
questo signore, qui, dalla barba lunga, che ci ascolta) con questo,
gentilissimo signor marchese d'Arcais, mi trovo aver risposto
abbondantemente, se non erro, anche alle prime e capitali delle sue
censure. Censure ch'Ella ha copiato — ormai, via, lo confessi qui a sei
occhi, che il nasconderlo è inutile, dal bravo Yorick qui presente[133]
— le ha copiate nella gran fretta, senza controllarle; e quindi,
naturalmente, ha detto delle.... _facezie_: delle quali non le faccio
torto: ma bensì della _fretta_ che gliele ha fatte dire. Con tutto il
possibile rispetto per lei, Ella mi ammetterà, signor marchese, che
quando un autore — sia pur mediocre — ha investigato, se non altro, con
pazienza e cura un'epoca storica così complessa come quella d'Atene — e
presenta al pubblico il frutto, sia pur povero, di indagini parecchie
e di studj coscienziosi — _non è serio_ (noti bene la parola signor
marchese), _non è serio, dopo poche ore_ dalla recita, uscir fuori come
ha fatto lei, con dodici colonne di roba stampata, a sentenziare lì
per lì sul valore _storico_ dell'opera, e sul complesso dei problemi
storici che l'opera solleva: a meno di posseder già sulla materia
degli studj estesi e delle cognizioni che evidentemente — senza farle
torto (Ella s'intende a fondo di musica, mi dicono, e non ha obbligo
di intendersi anche di storia greca) senza farle torto, a lei mancano,
a cominciar dagli elementi. — Dio mi guardi dal credere, calcolando
il tempo materiale che a me di solito occorre per raccoglier le idee
(ma io sono molto lento, sa!) che tutto quell'ammasso di roba stampata
nell'_Opinione_, _poche ore_ appena dopo finita la prima recita del
dramma, che tutta quella roba fosse scritta già prima: ma se invece di
buttar giù tante pagine di manoscritto con tanta furia, a rischio di
storpiarsi qualche dito, Ella si fosse preso almeno un giorno di tempo
— e avesse prima almeno data un'occhiata, non dirò alle fonti storiche,
ma a qualche buon compendio di storia greca per le scuole — lo Smith
per esempio — ella avrebbe potuto forse risparmiarsi qualcheduno dei
granchi ch'Ella ha preso. Poichè Ella vede bene — tutto quanto il
giudizio, che in mano di Yorick (l'erudizione e il brio nascondono
molte cose — non è riuscito Yorick a farsi passare anche per botanico?)
in mano di Yorick poteva parere un paradosso ingegnoso, ora in mano
sua, non è proprio più che un granchio solo.

Ella mi parla della grandezza dell'antica Grecia, e di Atene (grandezza
di cui più addietro le ho anche spiegato le ragioni), e non s'accorge
che la mi confonde insieme due o tre epoche fra di loro; poichè non è
l'epoca della grandezza, ma della decadenza politica e morale quella
in cui vive Alcibiade e in cui il mio dramma si svolge. Non siamo
all'indomani delle grandi vittorie, siamo alla vigilia delle grandi
catastrofi. Ella mi afferma che col mio dramma quella grandezza d'Atene
non si spiegherebbe più: anzi, a chi conosce la storia, resta spiegata
benissimo; poichè essa se ne va coll'andarsene delle virtù che l'han
prodotta; poichè — Dio buono! — non è già la _grandezza_, ma è la
_caduta di Atene ch'io spiego!_

Ella mi afferma che la _civiltà greca_ bisogna cercarla _altrove che
nei parassiti, nelle cortigiane, nei vaniloqui dei politicastri_.
Sicuramente! la civiltà greca (che razza di confusioni la mi fa mai!)
ha dato qualche cosa di assai meglio, e più in su glie n'ho mostrato
anche il come; ma all'epoca di cui le parlo, se appena Ella vorrà farvi
qualche studio sopra, vedrà che appunto i _parassiti_, le _cortigiane_,
i _politicastri_ — v'aggiunga pure, se crede, i sofisti[134], i
mercenari, gli eliasti venali e tutto il rimanente — sono prodotti
_caratteristici_ di quella civiltà; ed è precisamente perchè i prodotti
son diventati questi, che i vincitori ed i liberi di un secolo innanzi,
diventeranno i vinti ed i servi del secolo dopo. E se non vuol credere
a me, creda agli scrittori del tempo; e per pigliarne uno solo, creda
al pittoresco Alcifrone, il qual volendo descrivere i costumi di quella
età, non parla che di etère e di parassiti, di sofisti e di barattieri!

Le figure del dramma non son però queste sole. Ella afferma che
io dell'epoca non ho riprodotto che un lato solo, il più ignobile;
eppure il lato più nobile, come mostrai, gli ruba almeno la metà dei
personaggi e del posto; glie ne ruba, per ragioni d'arte, assai più di
quello che la storia non concederebbe!

Ella afferma che la corruttela del costume forma il lato _meno
importante_ della età che io descrivo. Eppure è precisamente il
contrario che è vero! È il nuovo ambiente morale di Atene che prepara e
matura le sue catastrofi.

Perchè giammai le grandi crisi dei popoli avvennero isolate e senza
causa, per capricci del caso; un popolo grande jeri, non muore oggi, lì
per lì, di morte fortuita, per una battaglia perduta, per una tegola
cascata sulla testa. Ma all'epoca d'Alcibiade il guasto morale aveva
invaso tutto, e la virtù era divenuta l'eccezione. Se quell'epoca
invece corrispondesse alla idea falsa che il signor marchese se n'è
formato — allora sì _le catastrofi di Atene e della Grecia non si
spiegherebbero_, e la storia conterebbe un enigma di più.

                                   *
                                  * *

A cert'altre delle sue censure (sulla questione del titolo di _scene_
mi pare d'essermi spiegato già) permetterà, signor marchese, ch'io
passi sopra. Ella vede bene, noi siamo un po' lontani dall'intenderci.
Ella parte da un concetto dell'epoca sbagliato e vorrebbe che io
adattassi il mio dramma alle sue idee storiche sbagliate. Ella
mi richiama al rispetto della verità storica e vorrebbe che per
accontentarla io commettessi degli anacronismi. Ma per contentar lei,
dovrei disgustare gli intelligenti e i grecisti, come per esempio il
chiarissimo cav. A. Franchetti dell'_Antologia Italiana_ e il signor
Garofalo dell'_Unità Nazionale_, che pur criticandomi in parecchie
cose, mi dichiarano, se non altro, fedele alla storia[135]. Or Ella
certo è troppo discreto per volere ch'io esiti tra l'autorità dei
competenti in materia e la sua.

Ella mi invita a una discussione seria: ma è il _discutere con lei_ che
è già un affar troppo serio. I suoi giudizi sono di quelli dai quali
un povero autore non sa come difendersi, per il semplice motivo che
sfuggono alla discussione.

Quand'Ella dice «_uno scambio di madrigali non basta a richiamare alla
mente tutta la greca poesia_» cosa vuole mai ch'io le risponda? Eh mio
Dio, sicuro che non basta; ma la «_greca poesia_» da Omero in giù,
messa in volumi, mi occupa una libreria: ed io credevo di avercene
già messa, per saggio, più del bisogno, tanto più che altrove Ella
mi accusa di non _saper fare che declamazioni_! come si fa dunque a
contentarla!

Quand'Ella dice che _poche parole di Socrate_ non bastano a riprodurre
tutta la greca filosofia, cosa vuole che io le risponda? Certamente
che la _greca filosofia_ di chiacchiere ne ha fatto assai di più; ma
a mettere nell'_Alcibiade_ tutti i dialoghi di Platone tradotti da
Ruggiero Bonghi, c'era pericolo che il pubblico mi tirasse le panche
sulla scena.

E poi, chi le dice che Socrate sia lì per quello, e ch'io abbia voluto
riprodurre nell'_Alcibiade_ tutti i sistemi filosofici della Grecia
antica? Sarei stato matto da legare se a questo scopo e a questi lumi
di luna mi fossi messo a scrivere un dramma! Questo suo giudizio è
tanto serio quanto quell'altro che io abbia preteso di _giudicare
col furto di una torta tutta quanta la legislazion di Licurgo_! Ma le
pare! Queste pretese io le lascio a lei, che in due tratti di penna —
e con quegli studj che lei possiede — lì sui due piedi mi sa risolvere
i problemi più complicati della storia! Io mi ero contentato, vede,
trovandomi a Sparta, di buttar là qualche schizzo comico di leggi e di
usanze spartane; certo non tutte, perchè un dramma non è un bollettino
di leggi ed è molto strana — in bocca a lei che rimprovera il mio
dramma di non essere abbastanza _teatrale_! — la pretesa ch'io avessi
a farne anche un trattato enciclopedico di poesia, di filosofia, e di
legislazione! Ma che poi delle usanze di Sparta io non abbia accennato
che una _sola_, la legge famosa sul furto, quest'è una semplice sua
_bugia_ — signor marchese — e niente più: di leggi e di tratti del
costume spartano, per dare un'idea dello ambiente, io ne avrò accennate
— vede — almeno una _trentina_: naturalmente, se Ella avesse qualche
cognizione della materia, li avrebbe subito a volo riconosciuti: ma
non è ancora una ragione per isputar sentenze così a tondo su cose che
si ignorano: e poi la scena di Cinesia (che ella trova _triviale_ e il
Fanfulla trova _mirabile_: oh diversità dei giudizi umani! facciamo il
male in mezzo e mettiamo che non sia nè l'uno nè l'altro) la scena di
Cinesia non è che una parte di quel quadro di costumi: e l'eforo Endio
e il soldato Brasida ci entrano pure per qualche cosa![136]

Perchè, signor marchese, — se lo lasci dire — ciò che urta i nervi
singolarmente nelle sue critiche è il tòno. _Errare humanum est_,
e tutti possono benissimo commettere degli errori giudicando di un
lavoro d'arte, come io certo nello scriverne, e sarebbe strano che
l'infallibilità fosse privilegio dei critici: ma non tutti buttan là i
loro errori con quel sussiego con cui li butta lei. — Non tutti si dan
l'aria, come lei, di buttar fuori degli oracoli. Dove meno Ella ne sa,
e più Ella ingrossa la voce. Pur dovrebbe conoscere l'adagio: _ne sutor
ultra crepidam_. Veda, per es., perfino quella storiella de' baffi!
Ella non si contenta di dire, sia dritta o storta, la sua; ma impone
addirittura al signor Emanuel di tagliarseli i baffi (povero Emanuel
che ci tien tanto) — e perchè mai? Perchè io, marchese D'Arcais,
1.º e solo — «=posso assicurarlo= _che Alcibiade non li portava_!»
_Posso assicurarlo!_ E perchè Emanuel non si crede ancora abbastanza
_assicurato_ e se li tiene, Ella monta in collera e accusa il signor
Emanuel di mancarle d'obbedienza e di rispetto! Ma perchè mo' invece
di sciupar tempo e fiato in tante _assicurazioni_, non la si piglia in
mano un volume del Winkelmann o dell'Ennio Quirino Visconti, o non la
va — Ella che parla di far la barba ai moderni — non la va in qualche
museo ad istruirsi prima sul modo con cui se la facevano gli antichi?
perchè essendo Ella in tanta intimità con Alcibiade, non è andata
_almeno una volta_ a fargli visita al Campidoglio e al Vaticano? Come!?
Ella impone ad Emanuel in nome di Alcibiade di _radersi i baffi_ e non
si informa prima se il suo amico Alcibiade ne è contento? Ella abita da
un pezzo in Roma, discorre di cose d'arte, e non visita nè il museo del
Vaticano, nè quello del Campidoglio, e ignora che in quest'ultimo ci è
un marmo antico di Alcibiade, e nel primo ce ne sono _tre_ — tutti co'
baffi![137] Ma sa che è grossa — e basta per far perdere la voglia di
credere alle sue _assicurazioni_! mi dirà che non sapeva che quei marmi
fossero Alcibiadi, perchè non c'era sotto il nome, e quello che lo ha,
lo ha scritto in greco, ed ella non è obbligata a capirlo: ma allora
non si discorre di cose greche!

Ed è Ella che giudica del grado maggiore o minore della erudizione mia!

Ecco perchè, signor marchese, più sopra dicevo che discutere con lei
è un guajo serio. Ella afferma, trincia, sentenzia con un tono di
autorità, con una sicurezza che sconcerta: e, a non volerle mancare
di rispetto, non si sa da che parte pigliarla. O dovrei occuparmi a
ribattere la sua caritatevole insinuazione, che la buona fortuna fin
qui arrisa all'_Alcibiade_ è dovuta a _ragioni estranee all'arte_, cioè
alla _claque_ de' miei amici politici? O dovrei spiegarle — a lei che
mi onora di giudizi così serii e così pii — spiegarle perchè ho riso
tanto di quell'altra sua notizia faceta, colla quale informa da sè i
suoi lettori, come e qualmente Ella è un critico _imparziale_, che non
fa in arte della politica di partito? _Excusatio non petita_, ecc.

Ma queste son cose che si.... ammirano e non si commentano. — Passiamo
oltre, passiamo oltre.

                                   *
                                  * *

Poichè la via lunga ne sospinge — ed ho ancora a difendere da parecchi
capi d'accusa il mio povero protagonista. Il quale in vita sua ha
viaggiato molto: ma si è trovato che nel mio dramma non ha viaggiato
abbastanza. Uno si lamentò per non averlo visto ad Atene, nel ritorno;
un altro voleva vederlo anche a Samo: un altro anche a Sardi, alla
corte di Farnabazo, e così via, in questa o quest'altra circostanza
omessa della sua vita.

Rispondo: il carattere di Alcibiade è così complesso, presenta un
tal numero di lati, che a volerli ritrarre, almeno _tutti i più
essenziali_, — nei limiti di un dramma e della _ragion drammatica_ —
bisognava procedere con _economia_. — Perciò, _scegliere_ tra le fasi
della vita dell'uomo; seguir sì dal principio alla fine le passioni
dominanti e costanti, ma nel loro mutar delle forme per certi tratti
del carattere contentarsi di un incidente solo, di una scena sola;
evitar le fasi, le scene in cui si ripetesse su per giù lo stesso
lato morale; affinchè dalla varietà degradante nelle tinte principali,
uscisse più vivo il contrasto, più completa la fisionomia.

Nel caso concreto, il quadro del ritorno ad Atene, era stato
fatto[138]; ma dovendo pur sopprimerne per la scena qualcuno, ho
soppresso questo: Alcibiade il glorioso, il beniamino del popolo e
maneggiatore delle sue passioni, è già comparso nell'atto secondo.

A Samo poi non l'ho seguito; perchè Alcibiade, il patriota generoso che
pensa a salvare, a dispetto degli ingrati e dei malvagi, la sua città,
lo ritroveremo più tardi in faccia ai capitani in Egospotamo.

È vero che questo mi tirerà addosso un altro guajo. Un critico sapiente
di un foglio milanese, e il signor Roberto Stuart del _Daily News_,
si scandalizzeranno di veder un Alcibiade che prega[139]. Neh, che
scandalo! Questi signori critici si son fatti degli eroi a modo loro
— tutti d'un pezzo, come nella tragedia antica — e con un orgoglio di
fabbrica loro speciale. Uno poi di quei signori avendo sentito dire
per combinazione[140], che c'era stato al mondo un certo signor _Ajace
Oileo_ così fiero e superbo, ch'era morto sfidando gli Dei, voleva
ch'io facessi fuori del mio Alcibiade un altro Ajace. Ma Alcibiade era
un eroe più _umano_. Il suo orgoglio era altissimo — ma non orgoglio
zotico, brutale: orgoglio d'un uomo rotto ai casi della vita, che
ha la forza di adattarsi agli eventi per lottare contro di loro, che
ha l'anima capace di alti sentimenti e aperta alle grandi passioni.
La superbia insomma di tutti i grandi uomini della storia, buoni
e cattivi, sia che si lascin battere, come il superbo Temistocle,
pensando alla salute della patria, sia che _servano_ come il Corso
fatale _pensando al regno_. Ed è perciò forse che Shakespeare — il
quale del cuore umano ne sapeva un po' più di quei critici e di me
insieme — costrinse alla preghiera fin Coriolano, che fu un uomo di una
superbia ben più feroce e più intrattabile dell'Ateniese.

Che cosa vuol dir mai non pensarla allo stesso modo! Quei signori
critici trovano che un Alcibiade che _prega_ è un Alcibiade
_rimpicciolito_: ed io invece gli faccio dire da Timandra: _Prega
Alcibiade, e sarai più grande!_ Quei signori — basati sulle loro
_profonde_ ricerche — accusano me di aver _alterato_ con quelle
preghiere il carattere di Alcibiade; ed io — basato sui miei studi
incompleti — affermo che questa accusa è la prova più _palmare_ che
quei signori non solo mancano di criterio drammatico, ma non sanno nè
dove il carattere di Alcibiade stia di casa, nè _chi_ egli sia stato. —
E il bello è che uno di quei signori critici, con una _intuizione così
acuta_ dei grandi caratteri storici, aveva avuto la faccia franca di
mettersi a compilare un libro sui caratteri: per fortuna l'han fermato
sul principio.

Nel fatto concreto poi, non solo la scena ha un fondamento storico
— prego quei critici che, vedo, non lo sanno, a legger Plutarco[141]
ed informarsene — ma a me era parso (spiego il mio concetto soltanto
— e potrà ben darsi che la povertà delle mie forze lo abbia tradito)
che lì fosse uno dei lati _essenziali_ del carattere di Alcibiade,
senza il quale la sua figura sarebbe rimasta addirittura affatto
incompleta, e quindi non vera. — Migliorato dall'amore e dalla sventura
il fondo dell'uomo[142], anco il suo orgoglio ha migliorato le forme;
è una nuova faccia di questo suo orgoglio che si palesa; è un'altra
grandezza morale — a lui nuova — che amaramente lo tenta. Alcibiade
prega, ma, com'egli ha cura di rammentarlo ai duci, solo =perchè= _è
per Atene ch'egli prega_; perchè sente che questo motivo è il solo
che gli dà ancora nella sua sventura una _superiorità morale_ sui
duci competitori; perchè Timandra è là, testimone affettuosa della
sua eroica abnegazione. — Lo sforzo ch'egli fa sopra sè medesimo, è
esso stesso l'elemento drammatico della scena; che se, tornate vane le
preghiere, la fierezza antica d'Alcibiade rompe le barriere e prorompe,
egli è che — per le nature che non son di santi — tutte le prove morali
hanno i loro limiti.

Ora, tornando a quella tal ragione dell'economia che dicevo, è
verissimo che il mio protagonista non l'ho neppur seguito — come altri
volevano — in Persia, tra le effeminatezze del fasto asiatico. Egli è
che l'Alcibiade effeminato, dedito al lusso, al fasto e alle mollezze,
era già apparso ad Atene; e se il figliuol di Clinia in Persia, per
tornare quel d'una volta non dovette far molta fatica, — in teatro, il
ritoccar le stesse corde avrebbe potuto produrre molta noia.

E sempre per la stessa ragione — e per un'altra ancora — visto che
la coscienza del mio protagonista era già non troppo pulita — l'ho
alleggerita della distrazione commessa a Sparta colla moglie del re
Agide, la bella Timea. Di che, grande scalpore del signor Garofalo
nell'_Unità Nazionale_ e del signor Z. nella _Gazzetta Livornese_.
L'uno, il pudico signor Z., in nome della _moralità_, che mi accusa di
aver offeso coi discorsi di Cinesia, voleva ch'io mostrassi «_un'altra
donna accesa di amorosa passione_» e Alcibiade occupato a soffiar la
moglie a quel povero diavolo di re: l'altro, il dottissimo signor
Garofalo mi assicura che per i contrasti e per il dramma quella
seduzioncella proprio ci voleva, come le stacchette di garofano nel
ragù. Ebbene, di _donne accese di amorosa passione_ per quella buona
lana del figliuolo di Clinia, io credeva di averne già mostrato un
numero sufficiente in Aspasia, in Eufrosine, in Glicera ed in Timandra;
e del talento del mio uomo nel condur l'acqua delle donne al suo
mulino, avendo egli già dato qualche saggio, non mi pareva necessario
di fargli ritentar la prova, a meno di rubar a Ovidio il mestiere
e di ridurre tutto il dramma ad un trattato teorico e pratico sulla
materia. Invece a Sparta c'era qualche _altro lato_ del suo carattere
_non ancora sviluppato_ e che secondo me meritava di esserlo: e siccome
appunto pensavo a fare un _dramma_ e non delle _scene sconnesse_ — così
mi premeva continuar l'azione di Timandra — e dopo aver visto Alcibiade
scherzante cogli amori da burla, metterlo alle prese, nelle lotte della
vita, con un amor vero.

Sono contenti quei signori? Se no, me ne rincresce tanto: ma l'autore
drammatico, quando mette un grand'uomo in iscena, ha qualche cos'altro
a fare che non pigliar le situazioni della sua vita e metterle in fila
una dietro l'altra: scimunitaggini queste dei critici da un soldo
la dozzina. L'autor drammatico alla storia non può sagrificare il
_dramma_; ed Ella in ispecie, signor Garofalo, che di storia ne sa — la
storia me la insegni pure — ma il dramma me lo lasci fare a modo mio. —
Veda: tutti mi rimproverano di aver fatto il dramma troppo lungo: lor
signori sono i primi a farmene un torto: e poi se dovessi dar retta a
loro, e aggiungere tutto quel che loro vogliono, dieci volumi in quarto
non basterebbero. — Questo si chiama metter gli autori in croce, e
prova che il criticare è una cosa, e il fare è un'altra.

                                   *
                                  * *

Ma e allora, se ci tenevi tanto a evitar le ripetizioni, perchè quella
scena dell'atto sesto che riproduce in parte la situazione del quarto?
Perchè è una fase nuova e diversa del tipo di Alcibiade che volevo
porre in luce e la cui diversità non poteva balzar fuori che dal
confronto e dall'_analogia_ delle situazioni. Nel quarto atto Alcibiade
a cui le calunnie e l'ingratitudine sbarrano il sentiero della gloria,
_si vendica_; nel sesto, Alcibiade, in cui il bisogno della gloria è
soddisfatto, attaccato dalla calunnia e dall'ingratitudine, _perdona_.

  «_Alcib_..... No, per i Numi! gli oboli della paga ai giudici che
    devono sentenziar di Alcibiade, non son coniati ancora.

  _Timandra_ (_inquieta_, _supplichevole_) Alcibiade, ricordati di
    Catania!

  _Alcib_. Oh rassicurati! La ingratitudine e la invidia mi ritrovano
    oggi ben più forte di allora. Allora era la fama che mi rubavano;
    oggi è di questa che mi fanno una colpa. Allora mi toglievano
    un nome: oggi non possono togliermi più che il comando.... o la
    vita anche: perchè oggi, se anche morissi, ricorderebbe il mondo
    che c'è stato un Alcibiade. Tu vedi che mi basta — e non ho più
    bisogno di una colpa per vendicarmi.»

                                   *
                                  * *

E non bastan le accuse. Gran cosa l'amor della storia! Per amore della
storia un critico veneto, avendo letto che Alcibiade mangiava l'_erre_
e incespicava nel parlare, mi biasimò di non aver fatto Alcibiade anche
balbuziente! E per amor della storia, invece, un altro critico, quel
della _Stampa_, si lamentò che io non avessi snodato abbastanza al
mio eroe lo scilinguagnolo! Perchè l'eloquenza politica di Alcibiade
— secondo lui — non l'ho che abbozzata appena nel secondo atto: egli
voleva invece dei bei discorsi alla Pasquale Stanislao Mancini: ma
se l'aggiusti dunque con Cicerone che afferma caratteristica della
eloquenza politica di Alcibiade la brevità concettosa spinta quasi
fino all'oscurità[143]; se l'aggiusti col signor D'Arcais il quale mi
rimprovera di averne, di discorsi, fatti troppi! Oh, la storia di quel
tale che conduceva l'asino al mercato!

                                   *
                                  * *

Cimoto, il buon Cimoto, ha diviso col suo padrone anche la sorte dei
giudizj: a cominciar dal critico egregio del _Diritto_, che ha trovato
da ridir sul suo mestiere. Il critico del _Diritto_ voleva trovar nel
_parassito_ l'antica professione di questo nome[144]. Ma come già da
un pezzo il vocabolo avesse mutato fortuna — e ai tempi di Alcibiade
significasse un'altra casta — progenitrice rispettabile de' parassiti
de' nostri dì — il critico egregio potrà chiarirsene leggendo il libro
VI di Ateneo.

Eccogli intanto, se vuole, la metamorfosi spiegata da un parassita in
persona, in una commedia di Diodoro da Sinope:

  «La mia professione è sempre stata gloriosa ed onesta. La nostra
  città che rende grandi onori ad Ercole, fa sagrificj in tutti i
  borghi, dando a questo Dio dei parassiti, scelti fra i primissimi
  della città, per queste cerimonie sacre. In seguito di tempo,
  alcuni cittadini agiati, volendo imitare ciò che facevasi per
  Ercole, si impegnarono a prendere un numero di parassiti per
  mantenerli; ma non scelsero già persone veramente ammodo: presero
  invece adulatori sempre pronti a colmarli di elogi: di modo che se
  il padrone loro rutta sul naso dopo aver mangiato del rafano o del
  pesce stantìo, essi lo complimentano per le rose e le violette con
  cui ha pranzato. O p....... egli vicino all'uno all'altro? quegli
  gira il naso fiutando qua e là, e domanda: Dove prendi tu questo
  profumo squisito? — È così che i parassiti hanno fatto di ciò che
  era onesto e rispettato una professione ignobile qual è oggi.»[145]

E' all'inclita categoria di questi parassiti del nuovo stampo che
appartiene il _Filippo_ del _Simposio_ Senofonteo: e su questo prodotto
caratteristico della corruzione ateniese dallo scorcio del V secolo
in giù, chi brami saperne più in là delle storielle di Ateneo, può
divertirsi colle _Lettere_ di Alcifrone e con parecchi degli scritti
del Samosatense.

                                   *
                                  * *

Ma ammessa la patente del suo mestiere, il povero Cimoto non è ancora
fuor de' guaj. L'essere diventato da mariuolo un galantuomo non pare,
per i tempi che corrono, una cosa lecita ed onesta. In ogni modo, il
signor D'Arcais dell'_Opinione_ e il signor Stuart del _Daily News_,
e un altro critico o due, non la intendono: peccato che, in fuor di
loro, critici e publici l'hanno intesa tutti: e non è parsa strana
a nessuno. — Infatti è impossibile che un vero birbante diventi mai
arnese da Paradiso: com'è vero che un'indole non cattiva nel fondo, ma
solo corrotta dall'ambiente e dalle circostanze della vita, può sperar
sempre di aspirare un dì o l'altro al premio Monthyon. Il qual assioma
morale non l'ho già scoperto io: credo l'abbia scritto il marchese di
Lapalisse sopra i boccali di Montelupo.

  «Ma questa conversione doveva essere in qualche modo _preparata_
  da uno studio psicologico che il Cavallotti non ha fatto, e che,
  _siamo giusti, non poteva fare, senza darci un dramma anzichè delle
  scene_.»

Ebbene io affermo, signor marchese, che l'idea di Cimoto di far la
fine del quarto di agnello — idea che nè a lei nè a me (per conto
mio) verrebbe in mente — è così stramba, così curiosa, che se la
_conversione_ di Cimoto non fosse stata — come lei dice — _preparata_,
avrebbe fatto scoppiar dalle risa _qualunque pubblico_ di questo mondo.
Perchè certe _sgrammaticature_ psicologiche nessun pubblico le passa
— laddove un critico, sia pur lei o il signor Stuart, può benissimo
avere sbagliato, senza accorgersene, i suoi studj di psicologia. Che se
nessun pubblico ride dell'arrosto dell'ultimo atto — bisogna che una
ragione ci sia. Una ragione potrebbe esser questa, che il pubblico ha
già assistito da un pezzo al risvegliarsi progressivo della coscienza
morale in Cimoto: questa coscienza è già viva, sebben latente, sin
dal primo atto, quando Cimoto confessa a sè medesimo con rimorso la
disonestà dell'azione commessa: traluce nel secondo, nel terzo e nel
quarto, quando Cimoto attacca i nemici di Alcibiade, e si affeziona
a lui e lo segue; è venuta crescendo, ed è vivissima nel quinto, dove
il parassita si rammarica e si impietosisce sulle disgrazie di Atene,
ama davvero il suo padrone e pur lo rimprovera del suo tradimento,
gli rinfaccia i caduti per colpa sua, lo richiama al sentimento del
suo dovere, accorre giojoso ad associarsi alla vittoria riportata
dallo affetto di Timandra. E questa coscienza è già fatta abnegazione
affettuosa e virtù di sagrifizio nell'atto sesto, quando Cimoto,
accortosi della disgrazia di Alcibiade che sta per fuggire, si affaccia
a domandargli di dividere la sorte con lui nello esilio e nella
sventura. Sicchè la progressione[146], nel settimo, non lascia ormai
più posto che al sagrifizio, senza di che essa sarebbe stata affatto
inutile; e il parassita vi reclama come titolo al sagrifizio quello che
fu il suo titolo di disonore. Così l'avevano intesa tutti i publici e
quasi tutti i critici[147]; così l'aveva intesa l'autore, quando tentò
di rappresentare in quel carattere la influenza rigeneratrice che sulle
piccole nature esercita il contatto delle grandi. Ma per avvertir la
progressione, bisognava nientemeno che star a sentire il dramma: e,
_siamo giusti_, il signor D'Arcais non aveva tempo di starlo a sentire,
dovendo scrivere le dodici colonne dell'appendice del giorno dopo.

                                   *
                                  * *

Socrate fu più fortunato di Cimoto: anzi gli han preso a voler tanto
bene, che certuni gli han fatto un carico di parlar troppo poco e di
scomparir troppo presto. È vero che nel dramma completo Socrate fa
un'altra breve apparizione: prego però quei signori a riflettere che se
avessi voluto farlo parlare di più, allora avrei scritto un _Socrate_
e non un =Alcibiade=. Perchè a me la figura del grande filosofo era
parsa una di quelle che, dove entrano, hanno diritto a pigliarsi per sè
sole tutto il posto che trovano: e se questo non si può o non si vuol
fare, allora le esigenze del protagonismo insegnano a non mostrarle
che disegnate di _profilo_, nello sfondo, quasi appartate dal resto
dell'azione, perchè non restino impicciolite dal frammischiarsi a
questa, come figure secondarie, e di lontano conservino nella mente
dello spettatore la grandezza ideale dei contorni. E questo m'ero messo
in mente, volta che della figura di Socrate, in un quadro drammatico di
Alcibiade e della sua età, non si potea far a meno: e al grande maestro
bisognava pur fare la sua parte nelle lotte morali del carattere
di Alcibiade, e premea chiarir da principio la posizione delle
etére[148] rispetto al mondo intellettuale di Atene. Certo, se è libero
all'artista di non isbozzare che un profilo, s'intende però sempre
che il profilo ha l'obbligo di essere fedele al vero: che quello di
Socrate il fosse, la maggior parte de' critici me ne avea dato lusinga
fin qui: toccava a quel profondo filosofo che è il signor Stuart il
disingannarmi!

— Ecco, io avevo detto fra me; bisognerà che m'ingegni di far parlare
Socrate colle sue idee e col suo metodo divenuto proverbiale; accennerò
di volo il lato _poetico_ e il lato _pratico_ della sua dottrina,
secondo la tradizione de' maggiori fra' suoi discepoli; e quanto al
primo, qual poema più bello del _Fedro_? e quanto all'ultimo, poichè
non posso occuparmene che _nei riguardi del dramma_, e il dramma
è _Alcibiade_ — quale imagine più vera, più bella, più completa
dell'azione morale del gran maestro sul suo vizioso discepolo, di
quella che Platone ci presenta nel _Primo Alcibiade_ e nel _Convito_?
Quale sintesi più fina di questa parte nobile, moralizzante della
filosofia socratica, di quel breve dialogo nel III dei _Memorabili_ di
Senofonte, che riproduce l'identico concetto del _Primo Alcibiade_ e
mostra Socrate intento a reprimere la baldanza prosuntuosa di Carmide?
Piglierò l'idea cardinale di que' dialoghi, me ne servirò per l'azione
del dramma, ossia per la spedizione di Sicilia; accomoderò ai limiti
e alle esigenze della scena le lungaggini del dialogare socratico, pur
conservandone la fisionomia; presenterò così in iscorcio i rapporti fra
Alcibiade e il suo maestro; e in bocca al grande vecchio, là in mezzo
allo ambiente depravato che lo circonda, farò suonare la santa sdegnosa
protesta della virtù. —

Non l'avessi fatto! Ecco il sapiente sig. Stuart — che dei dialoghi
platonici non ha neppure la nozione più lontana — il quale mi incolpa
di non aver fatto entrare nel carattere di Socrate i suoi rapporti con
Platone, col vecchio Critone, coll'ambizioso Crizio (voleva dir Crizia)
e la condanna a morte e la cicuta — e perfino (ah questa poi non
l'avrei mai indovinata) le sue relazioni col «matto Apollodoro» e collo
«scettico Pirro» (voleva dire Pirrone), il quale, poveretto,.... ebbe
la disgrazia di nascere un po' troppo tardi dopo che Socrate era già
morto, per poterlo conoscere!

Ecco qua un altro critico che conta nel dialogo di Socrate i punti
interrogativi e mi dice che quello non è il suo metodo, perchè non
l'ho scritto come un catechismo, tutto a domande e risposte! Ma se
quel critico volesse ascoltar meglio, s'accorgerebbe che il dialogo
procede precisamente tutto per interrogazioni, fino a che Socrate non
ha costretto l'avversario a scoprirsi; e se non tutte le interrogazioni
finiscono _materialmente_ col punto interrogativo, egli è che l'indole
del dialogo socratico consiste in ben altro; e molte domande son fatte
nella forma _suggestiva_, caratteristica della socratica ironia.

Ma ecco appunto qui il peggio; Socrate, proseguendo quella forma
ironica, finge di dar ragione alle risposte del suo discepolo, per
meglio ridurlo nelle strette, ed attaccarlo poi. Ebbene, capita un
critico che mi piglia quella finzione sul serio, e mi biasima di aver
fatto che Socrate «_finisca col ceder così debolmente accettando ad
occhi chiusi i progetti ambiziosi del suo discepolo!_» — Ma se ve
lo dico io, caro Yorick, che è meglio fare il lustrascarpe che non
l'autore drammatico!

                                   *
                                  * *

Ed anche Glicera — (ah pallido, romantico Yorick, che Glicera stupenda,
se vedeste, la signora Giulia Zoppetti!) anche alla povera Glicera è
toccata la sua. Ma vi pare? Una _etera_, una _grisette_ di quei tempi,
essere così ingenua, così sentimentale, così virtuosa, così ignorante
di certe cose che dovrebbero sapere fin le donne oneste, e farsi menare
a quel modo per il naso! Un critico di Trieste[149] non l'ha voluta
mandar giù.

Eppure mi facevan credere gli storici e i comici che di queste ingenue
allieve Aspasia ne crescesse e ne istruisse parecchie in casa sua:
eppure doveva essere tanto carina quella ragazza ricordata in Antifane:

  «Avea costui per vicina una giovane cittadina: appena la vide che
  la fece sua amante: cosa tanto più facile ch'ella non aveva nè
  tutori nè parenti: era una ragazza dalle inclinazioni più virtuose,
  oneste, d'aurei costumi: insomma quel che può dirsi veramente una
  _meretrice_ (ἑταίρα), diversa da altre che disonorano un nome così
  bello.»[150]

Ed era una _grisette_ di buoni costumi e niente più scaltra della mia
Glicera la bellissima Pizia di Aristeneto:

  «Benchè ella sia etera di condizione, pure conserva la nativa
  ingenua semplicità e l'indole irreprensibile e i costumi assai
  migliori della di lei condizione: nulla tanto mi fece innamorare di
  lei quanto la sua innocenza!»[151]

E non era un portento di astuzia femminile neppur la piccola etera
Filemazio che a' suoi galanti scriveva:

  «Voi credete di facilmente ingannarmi, perchè sono una fanciulla
  senza alcuna esperienza di amore, non ancora iniziata ai misteri di
  Venere; e potermi accalappiare più facilmente che non possa il lupo
  una agnellina dormente.»[152]

È persuaso quell'egregio critico che c'erano a que' tempi delle _etere_
anche più ingenue di qualche ragazza da collegio dei nostri giorni?

Me ne appello a voi Yorick, ed invoco in appoggio, sulla materia, la
vostra sapiente autorità.

                                   *
                                  * *

Glicera mi richiama a Timandra. Imitazione di _Atte_![153] Nego. Il
mio amico Cossa, nel suo impareggiabile _Nerone_, ha pensato, per le
sue buone ragioni, ad una cosa, ed io ho pensato ad un'altra: perchè
la diversità dei protagonisti riflette una luce diversa sui loro amori.
La passione di _Atte_ è essenzialmente una passione fisica: perchè, se
nol fosse, una donna che sente e pensa come Atte non potrebbe amar un
uomo che pensa e sente come Nerone. La passione di Timandra si scalda
ad altre fiamme che a quelle sole della Venere sensuale. L'amor di Atte
e di Nerone è quello di due nature _opposte_, che non hanno niente di
comune, nessuna corda unisona, nessun punto di contatto fra loro, unite
da una specie di fatalità che è più forte di loro: quello di Timandra
e di Alcibiade è l'incontro di due anime sorelle, che han molte corde
comuni, che si sentono affini nella energia della tempra e nello
istinto del piacere, nello amore del bello e della gloria; di due anime
fatte per intendersi, naturalmente chiamate una verso l'altra, e che
perciò, al loro primo incontrarsi nella vita, subito si ravvisano e si
riconoscono. È il riconoscimento istantaneo delle anime, descritto da
Socrate nell'Atto Primo. Atte _si impone_ a Nerone, dal quale la separa
un'abisso morale, colla ferrea energia che all'altro manca; gli parla
un linguaggio che l'altro non può, non deve intendere; e Nerone subisce
riluttante il suo fascino[154]; — Timandra _si insinua_ in un carattere
che è energico quanto il suo; tocca una dopo l'altra in lui delle corde
di cui ella conosce e l'altro sente, suo malgrado, l'efficacia; e anche
quando ella investe Alcibiade più irruente e più severa, l'armonia
segreta di quelle due anime non cessa un istante solo. Degli attacchi
di Atte, Nerone, sempre conseguente a sè, si annoja o si impaurisce;
dinanzi agli attacchi di Timandra, Alcibiade quando va in collera si
giustifica, e quando non vuol rispondere si commuove.

                                   *
                                  * *

Ma io ho un bel ricorrere a Socrate; quella teoria del _riconoscimento_
subitaneo delle anime, o, per così dire, degli innamoramenti _a colpo
di sole_, i critici posati e flemmatici non me l'accettan per buona: e
fra le categorie della specie non me la ammettono.

  «L'amore di Timandra ad Alcibiade è posticcio: non ha causa
  apparente nel dramma: viene non si sa da dove, nasce lì per lì, non
  si sa come»[155].

Nego. E ho spiegato or dianzi perchè nego. Mostrare al critico poi,
nella ragione psicologica dei due caratteri e nella ragione intima
del dramma, la causa di quell'amore dov'è; e il perchè quell'amore,
a differenza degli altri, l'ho fatto nascere a quel modo, e il _come_
di quella fiamma che s'accende istantanea al primo contatto delle due
nature — mi porterebbe a discutere col critico sopra le leggi del cuore
umano, per sentirmi rispondere che egli non le intende a modo mio.
Questione di gusti! risparmio la fatica e me ne appello a Stendhal e
alla sua _Fisiologia dell'amore_. E se Stendhal non basta — oh allora
poi — me ne appello alle donne.

                                   *
                                  * *

Un altro critico egregio piglia la cosa in altro modo. «_O non era
assai più naturale dare a Timandra nel primo quadro la parte commessa
a Glicera, e farla poi ricomparire nel terzo a ricevere il premio del
suo affetto gentile?_» E subito un terzo: _Sicuro! Sicuro! Glicera e
Timandra non son che un duplicato_[156].

Sicuro un bel niente! Perchè sono due tipi affatto diversi, messi lì
appunto a porre in luce due faccie diverse dell'anima del protagonista.
Perchè la innocente e ingenua Glicera, _quale mi occorreva_ nel
primo atto, non era mai la donna che potesse esercitare la menoma
influenza sul carattere di Alcibiade, a meno di cessar di essere
un carattere _vero_, e di diventare il solito _angiolo del bene_,
rubando il mestiere alla _Alice_ del _Roberto il Diavolo_; viceversa
poi, la donna capace di esercitare un fascino e un dominio sull'animo
del _Don Giovanni_ ateniese, _non poteva_ mai essere la vittima
delle sue gherminelle dell'atto primo. Perchè infine, quel fascino,
quell'influenza, è il risultato di una armonia morale fra Timandra
ed Alcibiade, che appunto manca tra i caratteri di Alcibiade e di
Glicera; di un'armonia che permette a Timandra di leggere subito nel
fondo dell'anima dello eroe, di indovinarvi i più nascosti pensieri e
impadronirvisi delle più segrete emozioni, mentre la povera Glicera
ne sa tanto del suo seduttore, da restar presa lì subito, come un
pesciolino all'amo, al sentimentalismo delle sue bugie.

                                   *
                                  * *

Ora se permettete, Yorick — intanto che il signor marchese D'Arcais
è andato a prendermi i volumi della _greca filosofia_ da incastrar
nell'_Alcibiade_ — per ingannare il tempo finirò qui col signor Roberto
Stuart il discorso più sopra incominciato.

E non la si inquieti, signor Stuart, che sarò corto. Già veramente sul
suo _erudito_ opuscolo intorno al mio _Alcibiade_[157] io potrei porre
una piccola question _pregiudiziale_.

Ella _opina_ che la _censura deve aver mutilato in gran parte_ il mio
dramma; lo opina perchè l'_Alcibiade_ secondo lei «=doveva= _essere
un mezzo per isvelare delle opinioni politiche_» e perchè le _tirate_
che ci si _poteano_ far sopra non essendovi, è _impossibile_ — proprio
_impossibile_ — _che la loro assenza non sia effetto delle forbici
governative_; e dal momento che le _mie idee personali_ la censura _me
le aveva soppresse_, non c'era più ragione di pubblicare il lavoro, ed
anzi era meglio non farlo, perchè prova soltanto che gli _adulatori del
popolo (ch'a son peui mi) sono i primi a conoscere i loro polli_, — e
via via dicendo con tante altre amenità di questo stampo.

Ebbene, signor Stuart, ciò ch'ella _opina_ è un'opinione storta, perchè
la censura nel mio dramma non ci ha messo becco, e il solo taglio che
vi si trovi è quel tale della coda che lei sa. Ma io invece _opino_
e sostengo e mantengo, che quando in una critica d'arte _si opinano_
di queste cose; quando si ha tanta _intuizione_ nello interpretar gli
intenti di un autore, e intorno al dramma storico si possiedono di
quelle idee, e non si capisce nè il come nè il perchè io non abbia
scelto l'occasione dell'_Alcibiade_ per fare il mio manifesto ai miei
elettori di Corteolona e Belgiojoso; quando in una critica artistica si
dicono queste sorti di banalità, — coll'aggiunta di tutte quell'altre
sul collare dell'_Annunziata_, e sugli zuavi pontificj e sui preti del
Vaticano, ecc.[158] — fior di roba greca come si vede — si può essere
senz'altro ad occhi chiusi rifiutati come giudici in cose d'arte,
perchè ciò dimostra, non dirò l'incompetenza, ma la più completa
(non se n'abbia male, sa!), la più fenomenale assenza del _criterio
artistico_. E quando son queste le idee nuove ed elevate e profonde
ch'Ella reca nel campo dell'arte, ah, per Dio, io posso ben consolarmi
ch'Ella non abbia trovato nel mio dramma _nè un solo pensiero nuovo
nè un solo concetto ardito_: vorrei ben vedercelo io quel concetto che
_a lei_ potesse parer bello o parer nuovo, per conciarlo subito colle
forbici come si deve!

Ma ha Ella fatto almeno una critica storica? da quell'erudito inglese
che Ella è, scorgendo che il mio dramma non è riuscito per mancanza di
studî — (già noi Italiani siam molto indietro su queste cose) — Ella
ha la bontà di venire in soccorso alla mia ignoranza e di indicarmi
le fonti dalle quali avrei potuto ricavare qualche maggior lume per
l'opera mia!

Ella _mi informa_ che avrei potuto raccogliere le notizie dalla storia
di Tucidide, dalle commedie di Aristofane, dai dialoghi di Platone,
_dalla memorabilia_ — sic — (_I Memorabili_, vuol dire?) di Senofonte,
dal _Pericle ed Aspasia di Laudor_ e dal _Caricle the Beker_[159].

Ed è qui tutto? Ahimè, signor Stuart, pur troppo mi son digeriti —
lo sa il mio stomaco — alcune altre dozzine di volumi ancora; e pur
troppo, se la sua erudizione non va niente più in là di quei volumi,
ho paura che Ella non abbia che una cognizione _molto_ incompleta del
mondo greco. Ma viceversa poi ho un terribile sospetto.... che quei
pochi libri che Ella mi indica, Ella..... non li abbia letti neppur
quelli!

Ne vuole una _prova_?

Apro il suo opuscolo e ne piglio a caso una pagina; e la trovo tanto
_bella_, tanto _saporita_, che la riferisco per paura di guastarla, e
perchè è una pagina che, l'assicuro io, _farà epoca_ nel mondo erudito.

È di Tucidide — uno di quei della sua lista — che Ella parla. Attenti
tutti!

  «Noi abbiamo troppo l'abitudine di contemplare la storia a traverso
  lenti moderne. _La spedizione di Sicilia_, _per esempio_, fu un
  grand'affare per Atene. Ma il genere comune dei combattimenti,
  per il numero dei combattenti e per i _risultati ottenuti_, erano
  _molto al disotto_ di quelli annunciatici da 18 mesi a questa parte
  nella lotta dei carlisti.

  «Imaginarsi una cronaca non interrotta che ci narrasse come il
  sindaco e le truppe di Albano avessero marciato contro il sindaco
  e le truppe di Frascati: che una lotta importante fosse sorta e
  che _quattro_ abitanti di Albano fossero rimasti feriti ed _uno_
  prigioniero.

  «Un combattimento più importante gli succede. Le truppe di Tivoli
  si combattono con quelle di Subiaco, quei di Subiaco _lasciano un
  uomo_ sul campo.

  «_E di questo genere, senza troppo esagerare, sono i combattimenti
  narrati da Tucidide._»

Ma, o... eruditissimo signor Stuart, a chi crede Ella di venire a
contare in Italia queste fandonie?

Il primo venuto che abbia letto Tucidide più in là del cartone le
sa dire che quasi _tutti_ i combattimenti di Tucidide eguagliano
per numero di morti (se si tratta solo di una ventina di morti e un
centinaio di feriti, Tucidide non li tratta che da scaramuccie) i
grossi combattimenti dei tempi nostri, e parecchi presentano tali cifre
di rimasti sul campo, quali appena le danno le nostre battaglie!

Perchè veda, Tucidide (lasci un po' adesso che la informi io) — il
quale è l'autore di una _Storia della guerra del Peloponneso_ in otto
libri, ed è con Senofonte il più esatto e scrupoloso degli storici
greci — Tucidide di solito non conta che i _morti_, e quando li conta;
e lascia a lei la cura di istituire _poi in proporzione_ (ch'è in media
generale quella del triplo) il calcolo dei feriti.

Apra dunque Tucidide e veda per es. che al combattimento di Potidea
(I. 63) i Potideali perdono _300 morti_, e gli Ateniesi _150_, totale
450 di _soli_ morti, senza contare i feriti; che a quello di Spartolo
in Epitracia (II. 79), gli Ateniesi sconfitti dai Calcidesi, perdono
430 morti oltre tutti i capitani; e i feriti Ateniesi e le perdite dei
Calcidesi son da aggiungersi al conto; che a quello di Egitio (III.
98) contro gli Etoli, dei soli Ateniesi sconfitti restan morti sul
campo _centoventi opliti_ — e lo stesso Procle uno dei capitani — senza
contare i loro alleati _dei quali molti morirono_ — e che dovettero
essere assai di più!

Alle battaglie navali sulle coste dell'Acarnania, (II. 84, 92), i
Peloponnesj sconfitti da Formione perdono nella prima dodici navi,
nella seconda sei con tutti gli equipaggi,[160] su cui gli Ateniesi
fanno man bassa.

A Milazzo in Sicilia (all'epoca delle prime spedizioni) in una
scaramuccia gli Ateniesi attaccano due coorti di Messeni (III. 90) e ne
fanno _strage_.

Al combattimento di Olpe (III. 107 e seg.), i Peloponnesj ed
Ambracioti, sconfitti dagli Ateniesi di Demostene, perdono _300_ morti;
senza contar la strage successiva degli Ambracioti, che assaliti nelle
gole di Idomene lasciano oltre _un migliaio_ di morti! (III. 113).

Alla battaglia di Delio (ch'ella, signor Smith mi confonde con Delo!)
_ventimila Beoti_ comandati da Pagonda combattono contro gli ottomila
Ateniesi di Ippocrate; vi restan _morti_ dei Beoti =cinquecento=; degli
sconfitti Ateniesi _mille_ fra cui il capitano Ippocrate, _oltre ad una
quantità di fanti leggieri e di saccardi_ (IV. 101) dei quali il numero
dovette _uguagliar per lo meno_ quello degli opliti: e ancora i feriti,
come sempre, non entrano nel conto!

Alla battaglia di Novara non ne son morti tanti!

Al combattimento di Anfipoli _che fu_, scrive Tucidide, _non
un'ordinata battaglia, ma un semplice scontro improvviso_, (V. 11) gli
Ateniesi sconfitti lasciano _seicento morti_, compresovi il comandante
Cleone; i Lacedemoni vincitori, sette morti, compresovi il fortissimo
Brasida.

Alla battaglia di Mantinea (V. 74), degli Ateniesi _muojono duecento_,
compresi i due capitani; dei loro confederati _novecento_; dei
Lacedemoni vincitori _trecento_. Totale _millequattrocento morti_ —
senza il resto!

Il numero circa, se non erro, dei morti nostri alla battaglia di San
Martino!

Nella fazione di Mileto, gli Argivi, sconfitti dai Milesj, perdono essi
soli _trecento_ morti (VIII. 25)

Al combattimento navale di Eretria (VIII. 95) gli Ateniesi perdono
_ventidue_ navi, sui cui equipaggi i Lacedemoni fanno man bassa.

Alla battaglia navale di Abido (VIII. 106) gli Ateniesi vincitori
perdono quindici navi; i Peloponnesi sconfitti oltre a venti.

                                   *
                                  * *

Quanto poi a quella _spedizion di Sicilia_, — che Ella chiama
compassionandola un _grand'affare per que' tempi_, ma non sarebbe,
secondo lei, ai tempi nostri, che una bazzecola da ragazzi — oh,
vediamola un po' questa bazzecola! Atene si contenta di spedire
in Sicilia, da principio — con Alcibiade, Nicia e Lamaco — 136
navi rappresentanti un effettivo di 38500 uomini (tra cui 5100
opliti), a cui tengon dietro di rinforzo — oltre 500 tra arcieri e
cavalieri sbarcati a Catania — le 73 navi della seconda spedizione
di Demostene ed Eurimedonte con un effettivo di 25000 uomini. Totale
delle forze mandate da Atene a quell'impresa, _duecentonove_ navi e
_sessantaquattromila_ uomini!

A Lissa, tra le forze italiane e le austriache insieme, non credo che
sommassero a quella cifra.

E i fatti d'arme? alla fazione dell'Olimpiéo i _morti_ dei Siracusani
son 260, degli Ateniesi 50; all'altra di Epipole, ove muor Lamaco, il
numero di morti non è precisato, ma dovettero esser ancor di più; alla
prima battaglia navale nel porto i Siracusani sconfitti perdono 11
navi, gli Ateniesi 3; nelle altre battaglie navali nel gran porto, gli
Ateniesi perdono una volta (VII. 41) sette navi (_degli uomini_ «_quali
fatti prigioni e quali uccisi_»), un'altra volta (VII. 53) _diciotto_
«_delle quali furono uccisi tutti gli uomini_»; il resto dei legni, in
fuori di una sessantina, lo perdono nell'ultima funesta battaglia (VII.
72), a cui seguono la ritirata disastrosa, gli ultimi sforzi disperati
dell'esercito, la resa dei seimila di Demostene, la strage al varco
dell'Asinaro e infine la resa di Nicia.

A 24 mila uomini, tra morti, feriti e dispersi, sommavan già le perdite
degli Ateniesi innanzi l'ultima battaglia nel porto; altri 40 mila ne
costò la catastrofe, dei quali 7 mila soltanto furono fatti prigioni.

Un totale (non contando i prigionieri) di circa 50 mila perduti in una
guerra di poco più d'un anno!

E quella sanguinosa del 1859 non costò alla Francia che 18 mila uomini,
al Piemonte 6600, all'Austria 38 mila!

Queste sono le fazioni di Tucidide, scoperte dal signor Stuart, dove i
terrazzani di Subiaco o di Boffalora col sindaco alla testa, ammazzano
un uomo in battaglia a quei di Frascati o di Abbiategrasso!

                                   *
                                  * *

E così si studia Tucidide da' concittadini di Grote! meglio non lo si
studia — perchè già, signor Stuart gentilissimo di qui non s'esce — è
evidente come la luce del sole, quando splende a mezzogiorno, che Ella
Tucidide _non lo ha letto_. Ed è lei che mi raccomanda di leggerlo!!!!

E non avendo letto Tucidide, via, la sia franca, ella ne sa un po'
troppo poco per dar giudizj critici di storia su di un dramma che
tratta di Alcibiade e della guerra del Peloponneso. Per prender sul
serio la sua autorità non ci voleva che il signor marchese D'Arcais,
che di storia e letteratura greca ne sa ancora meno di lei!

Avesse almeno letto quegli altri dei quali m'ha raccomandato la lettura!

Ma permetterà che io vada adagio nel crederlo. — Prima di tutto, dopo
quel primo saggio; poi perchè mi regala, in poche pagine, certi altri
granchii e certe storpiature di parole, che sulla sua erudizione danno
molto da pensare. Ed è chiaro, molto chiaro, che non si tratta già di
errori di stampa; perchè una certa pratica di cose di stampa, veda,
io la ho; e se la sintassi e la lingua del suo opuscolo non son molto
corrette, il testo però, quale Ella lo ha scritto, appare evidentemente
correttissimo, e di quelle parole ch'Ella poteva sapere, senza sudar
troppe camicie, non ce n'è sbagliata neppur una.

Ella mi cambia in _Leochitide_, il re spartano Leotichide (Leotychides
o Leutychides) che soppiantò Demarato nel regno.

Ella mi cambia in _Pontidea_ il nome della città di Potidea, nella
Calcidica, dove ebbe luogo la battaglia, e dove Alcibiade fece le prime
sue armi.

Ella mi confonde _Delo_, l'isola dell'Egeo ov'era la sede e il
santuario della Confederazione Ionica e dove non ci furon battaglie,
col borgo di _Delio_ situato tra l'Attica e la Beozia, a due marcie
da Atene, dove fu data la battaglia così funesta agli Ateniesi, e dove
Alcibiade protesse infatti la vita di Socrate, come narra Platone nel
_Lachete_.

Ella mi tramuta in _Farnambazo_ il satrapo persiano _Farnabazo_ — e mi
inventa un _Crizio_ al posto di _Crizia_ il discepolo di Socrate che fu
più tardi uno dei trenta tiranni.

Ella mi scrive che i Greci a Salamina intuonarono il gran _Peama_:
voleva dire probabilmente il _peana_ o _peane_ (παιὰν) come chiamavasi
il cantico militare che i Greci, particolarmente i Dori, intuonavano in
battaglia prima di lanciarsi all'attacco.

Ella mi cambia in _Eudio_ il nome dell'eforo _Endio_ col quale
Alcibiade aveva rapporti di prossenìa.

E per compiere il _bouquet_ con qualche fiore degno di lei, Ella ha
la bontà di informarmi che Socrate sedusse — oh sentiamo un po' chi
sedusse: «l'ambizioso Crizio, lo scapestrato Aristippo, lo _scettico
Pirro_ e il matto _Apollodoro_»!!

Vada per Crizia e per Aristippo: benchè se volessi appena guardarla
pel sottile, per uno che mi biasima di aver ignorato di Socrate tante
cose, mi pare che quella scelta bizzarramente erudita di quei due nomi
soli tradisca già una nozione di Socrate un poco incerta e confusa;
e che per uno il quale, a mostrar di saperne, ama andar tanto nei
particolari, _e di quei pochi che sa non se ne lascia scappar neppur
uno_, si sarebbe potuto e dovuto mostrar di saperne un po' di più. Come
mai il signor Stuart, il quale crede di dover indicarmi le persone che
subirono la influenza personale di Socrate, e trova perciò necessario
di occuparsi «dello _scettico Pirro e del matto Apollodoro_» — mi
dimentica nientemeno che Senofonte ed Antistene, il fondatore della
scuola Cinica; ed Euclide, il fondator della Megarica, che, per sentir
Socrate, sfidava il bando severissimo di Atene contro i Megaresi, e
veniva da Megara in Atene la sera, travestito da donna, rifacendo alla
mattina le dodici miglia di strada; ed Eschine di cui Socrate diceva
ch'era il solo che _avesse appreso ad onorarlo_ — Μόνος ἡμὰς οἶδε τιμᾷν
— e Simone, e Fedone, e Simmia e Cebete, i fedeli consolatori degli
ultimi istanti del filosofo, e Liside, e Lamprocle e Teeteto e Glaucone
fatti da Socrate migliori? Che diamine! Insegnarmi chi fu Socrate e
togliere tutti questi scolari al maestro di Platone e di Critone!

Ma il signor Stuart m'insegna invece che egli ammaestrò lo _scettico
Pirro_ e il _matto Apollodoro_!

Quanto ad Apollodoro, supposto che il signor Stuart non voglia parlare
nè del comico della nuova commedia che fiorì ai tempi di Menandro,
nè del grammatico discepolo di Aristarco che fiorì verso il primo
secolo innanzi l'Era volgare, nè del pittor celebre che fu maestro
di Zeusi e visse sì ai tempi di Socrate, ma non è affatto ricordato
per rapporti con lui, a chi ha inteso d'alludere il signor Stuart? Al
filosofo epicureo ricordato da Cicerone e Diogene Laerzio? Ma Epicuro
che fu il suo maestro fiorì dopo Alessandro il grande, e il soprannome
che Diogene appiccica a questo Apollodoro è quello di _illustre_,
ἐλλόγιμος e non di _matto_. allo scultore ricordato da Plinio che fu
detto difatti l'_insensato_ perchè spezzava le sue statue di cui non
era contento mai? Ma neppur di questo si ricorda che Socrate abbia
avuto che fare con lui. Ah, ora ci sono! Il signor Stuart vorrà parlare
dell'Apollodoro falerèo, ricordato di passaggio insiem con altri nel
_Fedone_ e nell'_Apologia_, come uno degli assistenti in lagrime
alla morte di Socrate e dei mallevadori per lui nel suo processo;
soprannominato appunto il _matto_, μανικὸς, da Platone nel _Convito_,
viceversa poi soprannominato il _molle_, μαλακὸς, da Senofonte nella
lettera a Santippe. Ma di questo Apollodoro, in fuor del nome e dei
soprannomi, non si sa altro; nè nella storia nè nella filosofia del
suo tempo è alcuna traccia o memoria di lui; egli non è introdotto che
come una comparsa in quelle due o tre scarse menzioni dei dialoghi
socratici, fra i tanti seguaci affettuosi del grande maestro! E il
signor Stuart, che del dramma socratico mi dimentica le più grandi
figure — mi va a pigliare le comparse! e me le cita _per antonomasia_,
con quella prosopopea affatto priva di discernimento che è tutta
propria degli _indotti_, quando vogliono spacciarla da eruditi!

E lo scettico Pirro! Ahimè, allo _scettico Pirro_ (se il signor Stuart
conoscesse questo signore almen di nome, lo chiamerebbe _Pirrone_,
Πύῤῥων — in quella stessa guisa che scrive Platone, Critone, ecc., che
son in greco desinenze identiche), allo scettico _Pirrone_ l'eliense,
discepolo di Anassarco, il buon Socrate non ebbe mai il piacere di
dare nè il buon giorno nè la buona notte, per la semplice ragione che
Pirrone, come dissi già, aspettò a nascere quando Socrate moriva, anzi
se non erro, dopo che era già morto! In ogni modo gli storici lo fanno
fiorire verso il 370 — e quindi trentun anni circa dopo la morte di
Socrate.

Da qualunque lato dunque la si pigli la dotta citazione del signor
Stuart, ell'è un'altra amenità da mettere nel mazzo dell'altre, e la
quale dimostra che delle faccende di Socrate egli è tutt'altro che al
chiaro.

Eppure, il signor Stuart, perchè io non ho messo nel ritratto di
Socrate nè il suo signor Pirro nè il suo signor Apollodoro — e perchè
ho fatto discorrer Socrate sull'amore — il signor Stuart ignora certo
dialogo di Platone che si intitola il Fedro — il signor Stuart mi
accuserà che Socrate nel mio dramma è — al pari di Alcibiade — _neppure
un'ombra deforme del vero!_

                                   *
                                  * *

Il che — diamine! — suppone che l'_idea vera_ del carattere
d'Alcibiade, il signor Stuart, benchè ignori Tucidide, la possieda lui!

E per darmela, l'idea _vera_, l'idea _giusta_, il signor Stuart, prima
di tutto — naturalmente — mi insegna che un Alcibiade che si abbassa a
pregare, col suo orgoglio, è _assurdo_; poi mi informa che l'orgoglio
di Alcibiade, se fosse vissuto ai nostri dì, sarebbe stato quello di
aspirare «_al posto di prefetto o al gran collare dell'Annunziata!_»
Alcibiade, a cui la gloria di Pericle era troppo poca, a cui eran poche
la Grecia e l'Europa, Alcibiade che avria preferito non vivere anzichè
rinunziare ad essere padrone anche dell'Asia e a spargere il suo nome e
la sua potenza per tutto il genere umano[161] — Alcibiade al posto del
prefetto Torre, con al collo la decorazione di Lanza e di Minghetti!

Vi basta? Ebbene, se non basta, il signor Stuart, completa il ritratto
morale di Alcibiade, e ne trova l'imagine in.... «_Mazzini!_» Povero
Mazzini! Se fosse al mondo a sentirlo!

Ciò dimostra a luce di sole che il signor Stuart ha capito
perfettamente _chi_ era Alcibiade, e che l'arte ci guadagnerebbe un
tanto ad avere, invece del mio «_neppur ombra deforme del vero_» un
ritratto artistico di Alcibiade al vero e al naturale, uscito dalle
mani del signor Stuart!

Via dunque, dottissimo figlio della dotta Albione, non la si
faccia pregare, la ce lo dia questo ritratto di Alcibiade; non dica
modestamente, come dice nel suo opuscolo, che per farlo le manca «_la
pazienza_»; un po' di pazienza, diamine! quando non manca che questa,
volendo la si trova; la trovi, la trovi, per amor dell'arte, che col
mio sgorbio — ombra deforme del vero — ho profanato!

                                   *
                                  * *

Ora, tornando a noi, diteglielo un po' caro Yorick, diteglielo voi al
signor Stuart, che il trovarsi _distante_, com'ei dice, _un abisso,
quanto a politica, dall'onorevole Cavallotti_, può essere una ragione
che spieghi alcune cose; ma non le spiega e non le scusa tutte: — e
che le rabbiuzze di partito non le si accettano in arte per passaporto
di corbellerie. Quelle del signor Stuart son tali che mi avrebbero
dato diritto a dispensarmi dal rispondere, se non fosse parso mancar
di riguardo a uno straniero, e se la sua critica, mandata in luce
con pomposa solennità, non avesse prodotto uno scherzo d'ottica
curioso. _Fanfulla_, che pure in arte sa il suo conto e di corbellerie
sull'_Alcibiade_ non ne ha scritte, piglia in mano il fascicoletto
elegante, stampato in Roma coi tipi dell'_Italie_, lo scorre a volo,
ci vede a ogni pagina una filza di nomi greci di bellissimo effetto,
e così giudicandolo ad occhio e croce, senza guardar tanto più in là,
si affretta ad annunziare: _Il signor Roberto M. Stuart ha pubblicato
un saggio critico, nel quale, dopo avere minutamente sfogliato e
compulsato uno per uno tutti gli autori antichi e moderni, conclude per
la condanna del lavoro del deputato di Corteolona._

E subito gli altri giornali a ripetere in coro: _Il signor Stuart, nel
suo saggio critico, dopo avere minutamente sfogliato e compulsato uno
per uno...._ ecc. ecc. (Segue come sopra).

Cosa vogliono mai dir le frasi fatte!

E il signor Roberto M. Stuart, serio serio come un figlio di Albione, a
pigliarsi quei complimenti in buona fede!

                                   *
                                  * *

Però gli spropositi del signor Stuart — e qui sono d'accordo col
_Fanfulla_ — se non altro son tutti suoi: un altro, il signor Z. della
ufficiale _Gazzetta Livornese_, se li fabbrica con minor fatica.

La lunga severa appendice del foglio ufficiale livornese è ricalcata
da capo a fondo, giudizio per giudizio, periodo per periodo, frase
per frase, su quella del signor Garofalo nell'_Unità Nazionale_: che
sugo poi ci sia a far della critica a questo modo non so: ma il signor
Z., prevedendo appunto l'obiezione, ci ha incastrato qua e là qualche
coserella di suo: e dove incastra sbaglia; e dove sbaglia mi rincresce,
perchè mi dicono che il signor Z. sia _professore_, ed io penso
naturalmente ai suoi scolari.

Il signor professore Z. — là dove incastra — mi _informa_ che la
mia scena dei costumi di Sparta è un _anacronismo_: perchè «_quelle
antiche costituzioni, quelle antiche costumanze essendo anteriori di
quattro secoli a quell'epoca erano già tolte dall'uso._» Davvero?
Allora io _informerò_ il signor professore Z. che quelle antiche
costituzioni, quelle antiche costumanze ci vengono confermate dal
coetaneo e condiscepolo di Alcibiade, Senofonte; che Senofonte è fra
tutti gli scrittori greci il più autorevole nelle cose attinenti agli
Spartani[162] fra i quali lungamente visse e coi quali lungamente
militò; e quelle leggi ed usanze egli le registra siccome ancora
esistenti ed in vigore a Sparta al tempo suo, nella _Repubblica di
Lacedemone_, ch'è uno degli opuscoli della sua vecchiaia, scritto in
conseguenza molti anni dopo che Alcibiade stesso era già morto!

Cito questa ragione, che taglia la testa al toro, per farla spiccia;
che se poi volessi essere severo, allora con rincrescimento dovrei
trovare sconveniente e _fenomenale_ che un critico _professore_ ignori
come la costituzione di Licurgo era appunto nel suo più bel fiore ai
tempi e di Alcibiade e di Platone, il quale, dopo studiatala sul vivo,
la tolse a modello ne' suoi libri politici della _Repubblica_ e delle
_Leggi_; che un critico professore ignori la testimonianza di tutti gli
scrittori sulla fenomenale durata delle leggi di Licurgo, delle quali
Tucidide e Lisia parlano siccome in pienissimo vigore al loro tempo,
già dopo finita la guerra del Peloponneso[163]; delle quali Plutarco
ricorda come traversassero intatte ed inalterate lo spazio di _oltre
cinque secoli_[164] da Licurgo (800 circa av. l'E. V.) in giù; anzi di
_sette secoli_, sino all'anno 190 avanti l'E. V., secondo Livio[165]
e secondo Cicerone[166]; anzi di _otto secoli_, se si vuol dar retta
a Macchiavelli: «_Licurgo ordinò in modo le sue leggi a Sparta, che
dando le parti sue ai re, agli ottimati, ed al popolo, fece uno stato
che durò più che ottocento anni con somma laude sua e quiete di quella
città_»[167]. — Ma fermiamoci ai cinque secoli abbondanti di Plutarco,
che son la cifra giusta, e ce n'è d'avanzo. —

E ancora, se volessi esser severo, noterei che quello sproposito
del signor professore lo denota affatto digiuno di studj di critica
storica; poichè se è logico e naturale che l'autore drammatico faccia
attribuire da uno Spartano le leggi di Sparta a Licurgo, viceversa è
strano che un _professore_ ignori come le così dette _leggi di Licurgo_
non fossero in ultima analisi che le antiche costumanze di tutti i
popoli dorici, assai più antiche di Licurgo stesso, delle quali egli —
od altri per lui — non fece verosimilmente che ravvivar l'osservanza,
riportandole al tipo primitivo, che se n'era conservato più che altrove
fedele in Creta; che Licurgo non è in fondo se non la personificazione
— alquanto mitica — (come lo attesta il culto tributatogli in Isparta)
di usanze e di leggi che non potevano già essere l'opera improvvisa ed
isolata di un uomo, ma bensì il portato del genio, dell'indole, del
carattere della stirpe, e perciò nate può dirsi insiem con lei, fra
i dirupi delle sedi native, a piè dell'Olimpo; che una costituzione
infatti, la quale toccava le corde più intime della natura umana, e
regolava a suo modo i più importanti e gelosi fra i diritti naturali
dell'uomo, non avrebbe potuto durar rispettata, nonchè cinque secoli,
neppure cinque anni, da tutto un popolo, se non fosse stata ingenita
alla sua natura stessa, già fatta per così dire carne e sangue con lui
e confondentesi colle sue origini;[168] il che spiega appunto come e
perchè quelle leggi abbiano potuto durar tanto, e come, per istabilirne
così cervelloticamente come fa il prof. Z. la data del principio e
quella della fine, quelle leggi bisogna non averle affatto affatto nè
studiate nè capite.

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                                  * *

Altra scoperta del signor critico professor Z. che, speriamo almeno,
non sia professore di storia greca.

  «Ad Atene i plebei erano possidenti e chi non possedeva poteva
  essere commerciante, agricoltore, artigiano, ma non perveniva
  giammai alla cittadinanza, al godimento dei diritti politici.»

Ohibò! ohibò! Ad Atene, giusta la costituzione solonica, la quarta
classe dei _cittadini_ abbracciava appunto i plebei _proletarj_ (θῆτες,
_capite censi_) che o non possedevano che al disotto di 150 dramme di
rendita annua, _o non possedevano un bel niente_ — e si guadagnavan la
vita _col lavoro_. Ed essi _godevano dei diritti politici_ (sicuro,
signor Z.) comuni alla loro classe e alle altre tre, esercitando il
loro ufficio di cittadini, sia come popolo sovrano nell'assemblea, sia
come eliasti ne' tribunali[169].

Meglio ancora. Perfino gli schiavi e i _meteci_, anche non possedendo,
potevano passare nella classe dei cittadini per benemerenze verso la
repubblica o i loro padroni, servigi in campo o sulle triremi, ecc.,
ecc.

Via, sentiamone un'altra — sempre del signor Z:

  «Ad Atene erano schiavi tutti quelli che esercitavano le arti
  manuali. La repubblica non permetteva il lavoro: non riconosceva
  per cittadini quelli che erano obbligati a corrompere il corpo
  esercitando un mestiere. Chi faceva da governatore, da giudice e
  da soldato, chi costituiva la democrazia e la repubblica non era la
  moltitudine che lavorava.»

Ecco: era precisamente e semplicemente tutto il rovescio.

Ad Atene le leggi soloniche punivano l'ozio, e, lungi dal proibire
il lavoro, lo _imponevano_ ai cittadini per obbligo; e un _mestiere_
bisognava averlo; di Solone[170], scrive Plutarco ch'egli _ai mestieri
aggiunse dignità_ (ταῖς τέχναις ἀξίωμα περιέθηκε) e gli Areopagiti
vigilavano perchè i cittadini poveri si guadagnassero tutti la vita con
qualche _arte manuale_.

E appunto perchè i cittadini poveri, dovendo attendere a bottega al
mestiere di cui campavano, non potevano frequentare abbastanza il
foro, e i ricchi quindi, nemici a Pericle, vi restavano in maggioranza,
Pericle ci rimediò chiamando i poveri coi tre oboli: ai quali un po'
per volta essi pigliarono tanto gusto, che ai tempi di Alcibiade il
più degli artigiani piantavano lì la mattina il loro lavoro e i loro
arnesi, per andar a far da giudice nei tribunali. Ecco perchè, signor
Z., nel secondo atto del mio dramma, la vede correre al foro cittadini
falegnami, mercanti e calzolai. Ed eccole come _la moltitudine che
lavorava_ — ma, per quegli oboli benedetti, trascurava il suo lavoro,
— _governava proprio essa la repubblica_; laonde il buon Senofonte
introduce Socrate a lamentarsi perchè a' suoi tempi il foro (attento
signor Z.) appunto riboccava _di lavoratori, di calzolai, di fabbri, di
agricoltori, di mercanti_ e simili[171]: e Platone anch'egli, sempre
per bocca di Socrate, enumerando i cittadini che dan consigli nella
Assemblea sulla amministrazione della città, nomina «_architetti,
fabbri-ferraj, calzolaj, mercanti, nocchieri ecc._»[172].

Ed Ella mi scrive che il foro era vietato agli artigiani! come si fa,
ai nostri giorni, con tanti studj e tanti progressi della critica
storica sull'antichità, a parlare ancora di storia greca a questo
modo![173]

                                   *
                                  * *

Quanto agli altri giudizi del signor Z., per quanto severi, Dio mi
guardi dal pigliarmela con lui.

Il signor Garofalo scrive[174], da quel buon monarchico ch'egli è, che
«_il popolo corrotto di Atene è il popolo di tutti i tempi e di tutti
i luoghi in una repubblica democratica_» — e il signor professor Z.
mi ripete[175], che «_infine quel popolo così corrotto è il popolo di
tutti i tempi, di tutti i luoghi, quando la democrazia impera, quando
la repubblica governa._»

Il signor Garofalo scrive che Timandra è fredda «_perchè manca nel
suo carattere la causa di tanto amore e ciò che non ha causa non
commuove_» — e il signor Z. mi ripete, che «_in Timandra manca ciò che
più importa, la causa dell'amore e un amore che non è definito non può
commuovere._»

Il signor Garofalo scrive: «_Alcibiade così felicemente delineato
nei primi atti, dopo non è più il medesimo: l'autore lo abbandona:
e diventa monotono, malinconico, irresoluto, non pensa più a donne
e piaceri_» — e il signor Z. saviamente osserva: «_Alcibiade è ben
delineato nei primi atti: ma dopo diventa monotono, malinconico,
irresoluto, non pensa più alle donne, i piaceri non lo esaltano più._»

Il signor Garofalo mi avverte che «_il vero Alcibiade non si attristò,
non si ammalinconì giammai_» — (oh, bella! questa poi, ammesso che
Alcibiade fosse un uomo, non la sapevo!) — e il signor Z. egregiamente
ribadisce: «_L'Alcibiade della storia non si contristò, non si afflisse
giammai._»

Riassumendo, il signor Garofalo sentenzia, che «_alcune parti
dell'Alcibiade sono bellissime e perfette, ma l'opera tutta
insieme è sbagliata_» — e il signor Z. sapientemente conclude, che
«_nell'Alcibiade vi sono scene perfettamente riuscite, ma l'insieme del
lavoro è sbagliato._»

Evidentemente io sarei troppo ingiusto se volessi male pe' suoi giudizi
al signor Z... poichè non è la buona volontà che gli manca, ed è chiaro
che egli avrebbe cantato un'altr'aria, se il signor Garofalo avesse
suonato un'altra musica.

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                                  * *

E ho citato questo caso non per farne un torto speciale al signor Z.,
ma solo per mettere in luce un altro lato della critica italiana ai
nostri giorni. È rincrescevole a dirsi, ma è un fatto che i due terzi
delle critiche che compaiono in Italia su pei giornali, quando non sono
scritte colla sapienza storica del marchese D'Arcais, si scrivono colla
originalità critica del signor Z.

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                                  * *

Quanto al signor Garofalo è certo che di storia egli ne sa, ciò che mi
consola: anzi ci tiene a saperne fin troppo, ciò che mi disturba.

Per esempio egli mi avvisa e mi ammonisce «_che il mio Zamolchi colle
sue feste religiose non è mai giunto fino al Chersoneso, perch'egli è
il mitico legislatore dei Geti, e non dei Traci._»

Che Zamolchi avesse culto fra i Geti, verissimo: però noti il signor
Garofalo che Tucidide chiama Sitalce figlio di Tere _re dei Traci_ e
sotto questo nome comprende tanto i Traci propriamente detti, di qua
del monte Emo e del Rodope, quanto i Geti di là dell'Emo: e che tra
gli uni e gli altri, e i Triballi, e i Dii e i varj popoli traci in
generale era affinità quasi completa di carattere e di costumanze e di
riti[176]: e per questo Giovanni Boemo Aubano, che raccolse le usanze
dei popoli antichi, nomina Zamolchi _legislatore dei Traci_, ricorda il
culto dei Traci per lui, e descrive come usanza di tutti i _Traci_[177]
il famoso invio del messo sulla punta dell'aste, col celerissimo per
l'altro mondo.

Che se poi il libro di Boemo Aubano il signor Garofalo non lo ha letto,
un grecista suo pari dovrebbe però aver letto almeno Luciano: anzi
avrebbe l'obbligo strettissimo di saperlo a memoria: ora nel mio caso
è Luciano in persona che avvisa ed ammonisce il signor Garofalo come
il Dio Zamolchi sia proprio _precisamente e particolarmente il Dio
dei Traci_ — e non d'altri![178] E l'autorità del signor Garofalo sarà
grande quanto si vuole, ma quella di Luciano lo sarà sempre un po' di
più.

È contento, signor Garofalo? Oh bravo — non la mi secchi altro.

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                                  * *

Perchè non la finirei proprio più, se dovessi aggiustarmela con tutti i
critici.

Uno del Veneto, non mi ricordo più quale, mi ammonì che la mia Glicera
è troppo più ingenua e troppo meno spiritosa che nol fosse l'amante di
Menandro. Ma l'amante gentile del gentile poeta, che vive ancor bella
delle grazie antiche nelle pagine d'Alcifrone, ed in quelle di Wieland,
non poteva essere la Glicera mia, perchè Alcibiade visse un secolo
prima di Menandro.

Un altro, triestino, mi rimproverò di non aver messo Pindaro nel
dramma. Ma non potevo metterlo, perchè Alcibiade visse un secolo dopo
di Pindaro!

Un altro, veneziano, scrive che gli Ateniesi tenevano le adunanze
del popolo nel Partenone. Ma il Partenone era il tempio di Minerva
sull'Acropoli, e le adunanze del popolo si tenevano invece nel Teatro
di Bacco o nello _Pnice_!

Un altro, ferrarese,[179] parlando della mia Aspasia, la chiama la
_famosa reggitrice del Cinosarge_. Ma il Cinosarge era un ginnasio
fuori la porta Diomea, consacrato ad Ercole e riserbato ai poveri, ai
figli dei liberti e ai bastardelli: e la splendida moglie di Pericle
non ci avea che fare. Anzi — a rendere il granchio più ameno — invece
dalla poetica e poco virtuosa società della Milesia e delle sue vaghe
alunne, ci bazzicava proprio in quel luogo della gente virtuosissima,
che facea scappar la poesia lontano mille miglia: nientemeno che
Antistene, l'austero filosofo, che nel Cinosarge aperse la scuola de'
suoi cinici, le cui sucide persone sapevano ben d'altri profumi che non
delle essenze e degli unguenti delle elegantissime etere.

Poi lo stesso critico scrive che Socrate «è quello che a _Delio salvò
la vita ad Alcibiade_.» La cosa è all'opposto. Fu Alcibiade che a Delio
la salvava a Socrate.

Poi nota sapientemente che il grammatico del terzo atto è Aristarco:
se fosse, lo avrei chiamato col suo nome. Potrà darsi che sia della
famiglia; ma in ogni caso è un dei nonni: perchè Aristarco non venne al
mondo che quasi tre secoli dopo!

Poi nota....

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                                  * *

Noti quel che vuole, è tempo che mi fermi. Perchè questa lettera
comincia ad esser lunga, minaccia già di passare il peso di tariffa dei
20 centesimi, e non vorrei, caro Yorick, farvi pagare la sopratassa:
e per quello che intendevo di provare, credo di averne detto quanto
basta.

Certo una cosa non riuscirò a provar mai: che il mio dramma sia
un capolavoro, o giù di lì. Pur troppo ce ne vuole. E il papà
dell'_Alcibiade_ è il primo a non trovarsi, in fondo, del tutto
contento del suo figliolo. Parecchie altre idee su questo lavoro
mi frullavano pel capo, allorchè, orditone il disegno, mi posi a
scriverlo, cominciando dall'ultimo quadro; e alle quali, giunto
alla fine del lavoro, al primo quadro, mi trovai di non aver potuto
dar corpo. Il piano _geometrico_ preventivo del lavoro, e la cura,
probabilmente eccessiva in opera d'arte, di certe corrispondenze
simmetriche deve averci prodotto dei guasti. S'intende poi che le
mie stortatine di collo alla storia o alla cronologia, qua e là, di
soppiatto, col pretesto dell'arte, me le son permesse, e il bello è
che sono _precisamente quelle_ di cui i critici sapienti non si sono
accorti.

Potrebbe anche darsi che quei critici medesimi che presi uno per
uno han detto delle corbellerie storico-critiche, presi poi tutti in
blocco, avessero ragione nell'insieme: _censores mali viri, censura
autem bona bestia_. E infine se mi mettessi a farla io, la critica
all'_Alcibiade_ e a rivedergli le buccie, avrei da scriverne per una
lettera assai più lunga di questa: ma non son così matto nè così
ingenuo per farlo, visto che son tante le anime pie che sarebbero
pronte a prendermi in parola.

Una cosa però credo di aver provato: che la critica in Italia,
fatte le debite ed onorande eccezioni[180], è ancora per la maggior
parte un po' lontana da quel grado di serietà e di competenza che
le è necessaria per adempiere la sua missione. Deficienza di studi,
incoerenza, confusione od assenza di criterj artistici; mancanza di
idee nette sullo indirizzo dell'arte, sull'ufficio del critico; culto
pedantesco delle frasi fatte, delle idee fatte, dei pregiudizi fatti;
preoccupazione grande di mostrare quel che vale il critico e pochissima
di cercare quel che val l'autore; precipitazione, leggerezza,
superficialità molta nei giudizi, prosunzione molta nelle forme —
queste ed altre, per non parlare dei moventi meno nobili, sono le cause
che tengono la critica fra noi ad un livello ben inferiore a quello di
altri paesi.

Eppure — parlo qui come artista in un interesse generale — bisogna
che tutto questo cambii, se vogliamo davvero che l'arte progredisca.
La vita della critica è troppo indissolubilmente legata a quella
dell'arte: ed oggi che il teatro italiano, per parlar di questo solo,
àuspici Ferrari e Cossa e Marenco e Torelli e Castelnuovo e tanti
altri, accenna ad un progresso serio e incontestabile, è necessario
assolutamente che la critica si decida a far lo stesso. È impossibile
che l'uno cammini, e l'altra rimanga indietro stazionaria: perchè guai
per la critica, se l'arte comincia ad abituarsi all'idea di poter
camminare senza di lei. Guai alla critica, a questo _trainard_, se
l'arte, strada facendo, sul più bello si voltasse indietro per farsi
dare il braccio da lei, e non trovandosi più al fianco la compagna,
s'accorgesse che è già da un pezzo ch'ella cammina da sè. Ella
finirebbe per ricordarsi che Omero scriveva l'_Iliade_ ed Aristarco non
era nato ancora.

Quel giorno la missione della critica sarebbe finita e non sarebbe,
no, l'arte che ci avrebbe guadagnato. Perchè se è vero che la critica
per il genio non esiste e non ha mai esistito, se è vero che egli ha
sempre fatto e farà sempre senza di lei, a modo suo, di genj in arte
non ne sorgono ogni anno, in ogni paese, a ogni canto di via: da Omero
ad Eschilo, da Eschilo a Dante, da Dante a Shakespeare, quattro nomi in
ventiquattro secoli.

Il secolo nostro non ne ha visti che due: Byron e Victor Hugo.

Ma poche gigantesche apparizioni, isolate nel tempo e nello spazio,
non sono l'arte esse sole: dell'arte quelli sono i grandi legislatori,
in nome della natura umana della quale hanno ascoltato le voci più
ignorate e profonde, in nome della _verità_ che si è loro palesata sul
Sinai, nelle sue linee più segrete. Le loro leggi, le loro tradizioni,
forme divine dello eterno ideale, la critica le ha raccolte; se ne è
fatta depositaria, custode: e bene sta. Ella si è assunto l'obbligo di
rammentarle costantemente a coloro che alla ricerca di quello ideale si
vanno affannando, con desiderio intenso, ma fatto amaro e periglioso
dalla scarsezza delle forze. Perchè anche costoro, a mente calma, le
conoscono quelle leggi, al par di lei; ma la tensione della mente, la
fatica del viaggio, la trepidanza del non riuscire, soventi loro le fan
perdere di vista. Corrono, corrono innanzi, e tra l'ansia e la fretta,
non vedono le lapidi miliarie lasciate dai grandi maestri sulla via,
e non s'accorgono che tardi d'aver sbagliato strada. Essa, la critica,
appunto perchè non è assorta nè distratta dalla fatica affannosa della
ricerca, dalla tensione dello sforzo creativo, dalla trepidanza del
rischio, essa ha la mente più tranquilla e più serena per vedere i
pericoli del viaggio, accorgersi dei sassi e dei fossati della strada,
avvertire l'artista quando sbaglia direzione e fuorvia. Essa può
gridargli: «Ferma! di lì si va a casa della _Femme de Claude_! Guarda i
segnavia: lì è scritto _Sardanapalo_: qui _Cesare_: e lì _Amleto_: per
di lì è passato Shakespeare: di là Byron: e il Conte Ricciardi per di
qui.»

A questo patto, in questo modo, amica, consigliera, compagna fedele
dell'arte, la critica può aiutarla, sorreggerla, serbarla al culto
delle grandi tradizioni, preservarla dalle corse sfrenate, salvarla
dalle grandi cadute.

Ma bisogna che la critica faccia questo: se non vuol diventare inutile
e dannosa. E per farlo, bisogna che il critico studj quanto l'artista:
che le facoltà riflessive dell'uno lavorino anch'elle quanto le facoltà
imaginative dell'altro.

Le leggi dell'arte, sola stregua del giudizio critico, non si imparano,
la finezza del senso critico non si improvvisa nè in un giorno nè in
due: e _fin dove_ le ricerche dell'arte vanno, bisogna che la critica
abbia _tanto di studj_ da potervela seguire.

Altrimenti succederà quel che ho detto: che l'arte andrà innanzi da
sè, a proprio rischio e pericolo. — Per poco che la critica continui
di questo passo a lavorare da sè al proprio discredito, a mettere
ogni dì in luce la propria insufficienza, a far ridere delle proprie
corbellerie, — noi assisteremo nell'arte ad un fatto del quale vediamo
prodursi già i sintomi: la insurrezione degli autori contro la critica.
Il brillante ingegno di Ferdinando Martini dimostrava, dì sono, la tesi
discutibile che il teatro non ha migliorato nessuno; qualcheduno potrà
essere tentato di affrontare un'altra tesi più facile, e di chiedere
quali sono gli autori, che la critica, da alcuni anni a questa parte,
fatta com'è ora, ha migliorato. Sarebbe più facile dimostrare i danni
ch'ella ha prodotti, arrogandosi (salvo sempre le eccezioni onorande)
funzioni che non le spettano, e non rendendosi conto della gravità
de' suoi doveri. Perchè una censura leggiera, ingiusta, assurda, o può
uccidere da' primi passi, coll'amarezza dello sconforto, una vocazione;
o se l'artista vi ha già fatto il callo, può produrre nel suo animo —
_poetæ irritabile genus_ — una reazione dannosa: e dal ridere oggi di
uno sproposito, all'abituarsi a ridere domani di un biasimo giusto, il
passo è breve.

Una volta cacciata, a furia di corbellerie critiche, in testa
all'autore l'idea, che, dando ai critici ascolto, egli non farà nulla
di buono, e dirà degli spropositi da far rabbrividire, egli si metterà
in guardia contro que' signori; l'amor proprio naturale non domanderà
di meglio che di secondarlo in quella sua disposizione; ed egli finirà
per involgere tutta la critica in un giudizio solo, e non farà più
distinzione tra le censure ridicole e le assennate, per riserbarsi il
diritto di infischiarsi egualmente di tutte. Il danno verrà poi: chè
il suo esempio troverà subito imitatori in tutti i poveri di spirito,
i quali non chiedon di meglio che d'essere convinti del proprio genio
e della propria infallibilità: ed ogni più infelice scrittorello si
terrà autorizzato a vilipendere ogni censura più equa: e la rivolta
cominciata dalle coscienze artistiche contro la prosunzione, finirà
nella rivolta della prosunzione contro il senso comune.

Se non è a questo che si vuol venire, pensiamoci: e dopo aver detto in
Italia a noi medesimi anni sono: _facciamo il teatro_, — io domando se
non sia tempo di aggiungere: _facciamo la critica_.

Lo domando a voi, caro Yorick, che avete autorità di rispondermi: e se
le mie parole avessero soltanto efficacia di richiamar l'attenzione su
questo che parmi un problema ormai grave per l'avvenire dell'arte, non
sarà stata inutile del tutto la mia fatica.

                                   *
                                  * *

Quanto a' miei moderni fratelli di fede, ai quali ve n'andaste oratore
sì facondo, a sporgere contro di me la querela dei fratelli del tempo
antico, — non io certo m'aspettavo siffatto ambasciatore: poichè ci
siete, compite l'opera e portate loro la mia risposta.

È proprio delle cause che non hanno un _domani_, riporre ogni risorsa
negli errori e nelle colpe degli avversarj. Matteo Visconti, profugo,
aspetta in Verona che _gli errori dei Torriani siano maggiori dei
suoi_. Le cause che hanno un avvenire hanno anche un compito più
alto innanzi a sè: pensare a meritarselo. Triste, infeconda pausa,
sarebbe quella imposta, per poco, dagli eventi alle speranze della
democrazia, se questa non ne approfittasse per raccogliersi in sè, e
domandare a sè medesima le cagioni che tante volte han reso vane le sue
vittorie. Nè ella mostrerebbe fiducia alcuna dei proprj destini, nè
ella meriterebbe le vittorie materiali che l'aspettano un giorno, se
non affermasse fin d'ora sui proprj nemici questa grande superiorità
morale: del confessare a sè stessa i proprj errori. Domandiamo il
perchè di tanti disinganni; il perchè la democrazia tante volte sia
stata fatta zimbello di coloro ch'essa aveva innalzato sugli scudi.
Domandiamci s'ella ha sempre risposto alle grandi voci solitarie,
che la chiamavano sulla via del dovere; se molti santi appelli non
siano caduti inascoltati tra l'infiacchimento morale delle tempre e
l'indifferentismo utilitario dell'età.

Chiediamoci s'ella abbia sempre vegliato alla severità del costume
e della disciplina sotto le onorate bandiere; s'ella non abbia mai
prestato troppo facile orecchio ai troppo facili adulatori, annoiata
de' suoi vecchi austeri brontoloni; s'ella sia stata sempre rigorosa
nel chiedere a coloro a cui accordava l'onore di parlare in di lei
nome, il santo connubio voluto dal greco legislatore antico tra le
private e le pubbliche virtù. Di quante diserzioni, di quante apostasie
publiche — preparate dall'ozio o dai facili costumi privati — ella si
sia a torto meravigliata; di quante intestine discordie sue, di quante
ingiuste accuse a' suoi migliori, ella abbia reso più forti i suoi
nemici; di quanta parte di pregiudizî, di prevenzioni ingiuste contro
di lei, ella stessa abbia fornito involontaria e inconsapevole le
cause. Quante propizie occasioni, per pigrizia per conflitti fraterni,
ella si sia lasciato sfuggire; quanta parte della forza apparente de'
suoi avversarj sia il frutto di improvvide colpevoli abdicazioni alla
sua propria influenza ed ai diritti suoi. Cerchiamo al passato ed al
presente le lezioni del futuro: e perchè la Spagna, addormentatasi alla
rivoluzione di settembre nelle braccia di pochi ambiziosi, camuffati
da repubblicani, oggi si risveglia nelle braccia del Carlismo: e perchè
in Francia la democrazia sopraffatta da un ambiente morale pervertito,
ammalata nell'organismo sociale, sconta sì caramente la pena di essersi
data tanti anni in balìa di un Pericle rimodernato.

E se mai l'arte ci riconduce nelle regioni lontane della storia,
non abbiam paura di chiedere alla storia come cadde la prima e più
illustre delle repubbliche ch'ella ricordi: non sagrifichiamo all'arte
la verità: perchè anco l'arte la chiamano repubblica e la verità è
repubblicana.

                                   *
                                  * *

Addio Yorick.

  _Milano 13-25 Luglio 1874._

                                                   FELICE CAVALLOTTI.



NOTE:


[1] Che sia il _Pessimista_?

[2] E come son curiosi certi critici realisti quando si arrabbiano e
danno dell'asino al pubblico italiano, perchè non sempre apprezza e non
sempre intende sui teatri nostri le pitture di certi fatti e fenomeni
sociali della società parigina, rispondenti a un'ideale dell'arte così
vasto da non poter essere inteso fuor della cerchia di Parigi!

[3] Rivolgersi per informazioni in Milano a S. E. il procurator
generale Robecchi, e in Roma a S. E. il ministro Vigliani, lettore
assiduo delle mie _Poesie_ e autore della nuova teoria dei _subjettivi_
o degli _objettivi_.

[4] _Opinione_ 22 giugno.

[5] _Popolo Romano_ 21 giugno.

[6] _Gazzetta Livornese_ (ufficiale) del 15 giugno.

[7] «Le _Scene greche_ sono un dramma bell'e buono.» Yorick, appendice
sull'_Alcibiade_ nella _Nazione_.

«Che parlano alcuni di scene che non forman dramma! queste scene
sono la vita colle sue lotte, e vita e lotte son dramma.» C. Romussi,
appendice sull'_Alcibiade_ nel _Secolo_.

[8] Ch'io non abbia avuto gran torto di fare Alcibiade migliore
in fondo che non sia di moda nella opinione volgare il ritenerlo;
che parecchie delle sue colpe fossero colpe più del tempo e delle
circostanze, che non dell'indole; che l'amore della città nativa
potesse alla fine in lui più delle vicende e dell'ingiustizia degli
uomini lo attestano tre delle pagine più belle della sua vita — Atene
salvata a Samo — la gita al campo di Egospotamos — e l'ultima in Persia
ove morì; lo attestano, per tacer di Plutarco, le pagine di Platone
e quelle di Tucidide, lo storico più severo, più coscienzioso e più
imparziale dell'antichità.

[9] _Alc._ «... E la turba e le voci via via confusamente si dileguavan
lontano, finchè non mi parve più udirne che una sola: ed era la voce
di Timone il misantropo che seduto alla riva, raspando la terra, —
guardavami fisso come quel giorno che incontratomi per via mi maledì.
Ma la sua voce non era più imprecazione: il suo aspetto non era più
d'uom che odia: il suo sguardo parea sguardo d'amore. _Timone_, io
venivo gridandogli, _ringrazia gli Dei che smentirono i tuoi auguri!
Il giovinastro che preconizzasti flagello d'Atene n'è divenuto il
salvatore! Timone riconciliati cogli uomini! la virtù e l'espiazione
esistono ancora sulla terra, — e la legge della terra è amore._ — Ed io
correa verso lui le braccia aperte.... ma Timone già era scomparso....
il suo volto s'era mutato nel tuo....» ecc. _Alcibiade_, Quadro ultimo,
scena 2.ª

[10] Isocrate, _Panaten._ 44.

[11] Senofonte, _Repub. Aten._ I.

[12] Demostene, _Adv. Leptinem_.

[13] Demost. _Contr. Aristocrat._

[14] Demost. _Contr. Aristocr._ — _Syntax_.

[15] Demost. _Syntax_.

[16] Demost. _Contr. Aristocr._

[17] Plutarco in _Temistocle_.

[18] Isocr. _De pace_. — Demost. _Contr. Mid._ — id., _Adv. Leptinem_.
Meursius, _Them. Att._ I. 8.

[19] Demost. _Philipp._ III.

[20] Eschine, _Contr. Timarco_ — _Din. contr. Demostene_. — Demost.
_Contr. Androz._ — Siriano, _Comm. in Hermog._ — Diog. Laerz. _Solone_
I.

[21] Plutarco, in _Solone_.

[22] Diog. Laert. _Solone_. — Plutarco, _Solone_. — Polluce, lib. VIII.
6. — Demost. «_in Eubulid._» — Meurs. _Them Att._ II. 18.

[23] Plutarco, _Solone_. — Ermogene, _Part. Stat._ — Siriano,
_Comment._ — Demostene, _C. Neera_. — Marco Vittorino in _Cicer.
Rhet._ lib. II. — Lisia, _Sull'uccisione di Eratostene_. — Curio
Fortunaziano, _Rhet. Schol._ lib. I. — Massimo Tirio, _Dissert._ II. —
Sopater, _Divis. Quaest._ — Meursius, _Them. Att._ I. 4. 5. Era tra la
pena agli adulteri anco la ραφανίδωσις, _la pena del rafano_. — (Vedi
Alcifr. _Lett._ III. 62). Ma la spiegazione di questa è un po'.... dirò
così.... delicata: caro Yorick la lascio a voi.

[24] Eschin. _C. Timarc._

[25] Aristof. _Nubi_.

[26] Vedi Ateneo, _Deipnos_. XIII. 571.

[27] Demost. _C. Neera_.

[28] «O Solone, tu fosti veramente il benefattore del genere umano:
perchè tu per il primo pensasti a una cosa assai vantaggiosa al popolo
e alla pubblica salute. Tu considerasti la nostra città piena di
giovani dal temperamento bollente e che sarebbero quindi trascorsi ad
eccessi punibili. Perciò tu comperasti delle donne e le hai poste in
luoghi ove provviste di quanto è a lor necessario, divengono comuni
a quanti le bramano. Eccole nude; perchè non ti ingannino, ispeziona
ben tutto. La porta è aperta: paga un obolo ed entra: qui non si farà
la ritrosa. Qua subito, se vuoi, e nel modo che vuoi.» — Filemone ne'
_Delfi_ in Ateneo XIII, 569.

[29] Οἱ δ' ἐπὶ τῆν τοῦ ἱεροῦ σὶτου ἐκλογὴν αἱρούμενοι — Aten. VI. 235.
— Ed era scritto nella legge del re: «Il re avrà cura che si creino
i magistrati: e dalle varie borgate sian scelti a norma delle leggi,
i parassiti: i quali dai magazzeni di grano della rispettiva classe
e tribù scelgano ciascuno un sestiere di orzo, affinchè gli Ateniesi
se ne cibino secondo il patrio rito.» E altrove: «Che il sacerdote
coi parassiti faccia i sacrificj d'ogni mese. Chi rifiuterà d'essere
parassito sarà tradotto ai tribunali.» E altrove, sotto le offerte
votive a Pallene: «I magistrati e i parassiti, cinto il capo di corona
d'oro offersero questi doni.» — Aten., l. c. — Polluce VI. 7. — Meurs.
_Them. Att._ II. 35.

Vede l'egregio critico del _Diritto_ che la origine della parola la
so anch'io al par di lui. Soltanto, egli non sa che ai tempi del mio
dramma la parola significava un'altra cosa.

[30] Plutarc. _Arist._ 24. 25. — Tucidid. VI. 76.

[31] Plutarc. _Arist._ 25.

[32] Tucidid. I. 99. — Plutarc. _Cimone_ 11.

[33] Tucidid. I. 98 (anno 466 a. E. V.).

[34] Plutarc. _Arist._ 25. — Diod. Sic XII. 38. 40. — Giustino,
_Histor._ III. 6. — Andocide, _Della Pace._ — La contribuzione federale
annua che gli alleati portavano in Delo era di 460 talenti (circa 2
milioni e mezzo di franchi). E al tempo che il tesoro fu trasportato in
Atene, la somma accumulata doveva già ammontare a 2000 talenti (da 11
milioni di franchi): somma per i tempi cospicua.

[35] Tucidid. I, 19. 114. III, 3. 50. — Plutarco in _Pericle_. —
Peyron, _Egemonia_.

[36] Plutarco in _Cimone_ e in _Pericle_.

[37] Fenomeno caratteristico di tutte le tirannidi e di tutti i
governi moralmente viziati, dalle età più antiche ai nostri dì, è la
intrusione della politica nelle sfere della giustizia. E i dicasteri
popolani della Eliea funzionanti al tempo di Pericle erano appunto
vere assemblee politiche: poichè quello che gli eliasti prestavano,
nell'assumere le loro funzioni di giudici, era un effettivo _giuramento
politico_, come lo attesta la formula che ce ne fu conservata da
Demostene, — _C. Timocr._

[38] Aristot. _Polit._ II. 9 3. — Aristof. _Nubi_, v. 861.

[39] Plutarc. in _Pericle_.

[40] Schol. in _Demost._ Olint. I. — Plutarco, in _Pericle_. — Peyron.
_La politica e l'amministrazione di Pericle_.

[41] Senofonte, Rep. Athen. III. 8.

[42] Platone, _Gorgia_.

[43] Plutarco, _Guerra o pace_. 5.

[44] Plutarco, in _Pericle_, 9.

[45] Boeckh, _Echon. polit. des Athen._ III. 19.

[46] Aristofane, _Acarnesi_.

[47] ὥσπερ ἀλαζόνα γυναῖκα. — Plutarco in _Pericle_, 12.

[48] Plutarco, in Pericle, _passim_. — Cfr. Tucidide, II. 65.

[49] Socrate nel _Gorgia_ di Platone: «_Tu invitato a nominare abili
politici citasti Cimone e Pericle, perchè apprestarono agli Ateniesi
quanto bramar potessero le loro cupidigie, e renderono, come suol
dirsi, grande la città. Ma non t'avvedi che la grandezza della città
procurata da tali politici riuscì ad essere un'enfiatura marciosa,
imperocchè empierono la città di porti, di cantieri, di mura, di
tributi, senta curarsi della temperanza e della giustizia?_»

[50] Tale la chiamavano i Greci; (Tucid. I. 122, 124) tale la
confessavano ingenuamente e senza tanti complimenti gli stessi
Ateniesi, Pericle per il primo. «_Sappiam benissimo_ — dichiaravan
gli inviati Ateniesi a Sparta — _di esserci fatti odiosi e gravosi ai
nostri confederati: ma è massima vecchia che il potente tenga il debole
in riga._ (Tucid. I. 76). _Il nostro imperio_, dice schietto Pericle
agli Ateniesi, _ci ha fatto al presente esosi e gravi: ma non possiam
più rinunciarvi, senza esporci al pericolo degli odi che esso ci
attirò. Il nostro imperio è omai come una tirannide: ma se l'occuparlo
è ingiustizia, il rinunziarvi è pericolosissimo._» Tucid. II. 63, 64.
E lo stesso demagogo Cleone: «_Il vostro imperio sui confederati,
o Ateniesi, è una tirannide: voi comandate a gente ritrosa, che
vi ubbidisce, per la prepotenza delle vostre forze, non già per
affezione._» Tucid. III. 37.

E Isocrate nell'_Areopagitica_ si lamenta a più riprese dell'_odio_ in
cui Atene è venuta a tutti i Greci.

[51] Nei mille talenti che ai tempi di Pericle formavano l'entrata
complessiva di Atene, le entrate esterne (cioè il tributo imposto ai
confederati greci) figuravano per 600 talenti; e soltanto per gli altri
400 le entrate interne della città. Più tardi, ai tempi di Alcibiade,
nell'anno decimo della guerra del Peloponneso, quando le entrate
complessive delle città furono di 2000 talenti (11 milioni di franchi
circa) il tributo dei confederati ci entrava per 1200. — Tucidid. II.
13. — Plutarco, _Aristide_, 24. — Eschin. _De falsa legat._ — Aristof.
_Vespe_, v. 657 — Boeckh, Echon. _Polit. des Athen._ III. 19.

[52] Tucid. I. 76. 77.

[53] Tucidid. II. 64.

[54] Tucidid. III. 37.

[55] Tucid. I. 75; II. 63; III. 37.

[56] 456 a. l'E. V.

[57] 454 a. l'E. V.

[58] Che processava Eschilo, condannava Diagora, bandirà più tardi
Alcibiade per aver violato e profanato i misteri; che condannava
Protagora per aver dubitato degli Iddii, processava Anassagora per
averne negato l'esistenza, farà bere a Prodico la cicuta per aver loro
mancato di rispetto: e più tardi per lo stesso motivo farà a Socrate lo
stesso scherzo.

[59] Povera innocentina!

[60] Appendice di Yorick sull'_Alcibiade_, nella _Nazione_, 26 aprile
1874.

[61] Discorso del re Archidamo, Tucid. I. 82.

[62] Ambizione che non muore con Pericle, ma che ancora ad Alcibiade
sorriderà. Tucid. VI. 91.

[63] «Generalmente gli animi assai più propendevano per Lacedemone,
siccome quelli che promettevano di liberare la Grecia; epperò tutti e
privati e città procacciavano a poter loro di sovvenirli col consiglio
e coll'opera, cotanta era l'_indegnazione_ contro agli Ateniesi; _chi
voleva sottrarsi alla loro signoria, e chi temeva di soggiacervi_. Con
tal animo e con tali preparativi si movevano alla guerra.» Tucid. II.
8.

[64] Vedi in Tucid. VIII. 2. le disposizioni e le speranze degli
alleati di Atene alla notizia del disastro degli Ateniesi in Sicilia.

[65] Tucid. VIII. 14. 17. 44. 62. 80. 95.

[66] Tucidid. VIII. 90.

[67] Plutarco in _Pericle_, 45. 46. — Tucidid. I. 126. 139.

[68] Far dipendere la guerra dalle intimazioni spartane per il decreto
di Megara, sarebbe come dire che fu, non il Piemonte nè il popolo
italiano, ma bensì l'Austria che _volle_ la guerra del 59, perchè fu
essa che, allorquando la guerra divenne inevitabile mandò per la prima
a Torino, alla vigilia dello scoppio, l'intimazione del disarmo.

[69] Tucidid. I. 118.

[70] Tucidid. I. 69-71.

[71] Tucidid. I. 23. 40. 119. 125. 141; II. 10; III. 16, V. 17. 30. 77.
79.

[72] Dico allo _scoppiar della guerra_, perchè è verissimo che, a
guerra vinta e finita, l'orgoglio della vittoria porterà anche Sparta
a mutar di costume: e in mano di Lisandro e più tardi di Agesilao, la
egemonia lacedemone finirà col diventare assoluta e tirannica al par di
quella d'Atene.

[73] Tucidid. I. 87. 119. 125. — Fu tenuta l'assemblea definitiva
nell'autunno del 432.

[74] Tucidid. I. 139. 140.

[75] Tucidid. II. 63.

[76] Tucid. I. 76.

[77] Tucid. I. 75. 76. 77.

[78] Tucid. I. 77.

[79] Tucid. I. 77.

[80] Conciso, esatto e caratteristico è il giudizio che intorno
ai principj della guerra peloponnesiaca reca l'insigne storico
repubblicano Anelli, nella _Prefazione_ a Demostene: «Gli Ateniesi che
da virtù si levarono in sublime, non seppero poi, per mancanza di sì
valido sostegno, mantenere nè modestia, nè moderazione; anzi abusando
il potare ad eccessi di comando, a tirannide di leggi e tributi sugli
alleati e sui soggetti, destarono a poco a poco sdegni, riluttanze,
lamenti, guai, vendette, passioni tutte scoppiate alla fine, nella
guerra peloponnesiaca, che sovvertì Atene e riempì la Grecia di lutto,
di corruzione, di avvilimento e dispotismo. Così questa guerra _non
agitata da spirito di libertà e generosa difesa_, divenne macello di
cittadini, carnificina di fratelli, mercato di servitù, trasse Atene a
bassezza e ad obbedienza dell'emula Sparta.»

L'Anelli è repubblicano, modello di scrittore onesto e di storico
austero: e mi corsero alla mente le sue parole, quando intesi Yorick
rivendicare ad Atene in quella iniqua guerra «_tutte le simpatie delle
anime generose, delle menti elette, e de' cuori temprati all'affetto
pel vero e pel giusto._»

[81] Un nuovo storico, ammiratore di Pericle, il signor Henry Houssaye,
autore di una storia recentissima di _Alcibiade e della repubblica
ateniese_, (Paris, Didier, 1874) abbastanza esatta nei fatti, ma
piuttosto superficiale nello spirito di indagine e nello studio delle
cause, — dopo aver difeso la massima parte degli atti di Pericle e
della sua politica e riferite le ultime parole di Pericle morente,
è tuttavia costretto a concludere: «En parlant ainsi, l'agonisant
ne cherchait-il pas à étouffer ses remords d'avoir pris Athènes des
mains de Cimon et d'Aristide puissante et prospère, et de la laisser,
malgré l'éclat éphémère qu'il avait fait rayonner sur elle, avec des
possessions menacées, un territoire envahi, les habitants décimés par
la guerre et la peste? A cet instant suprême, Périclès ne regretta-t-il
pas douloureusement d'avoir entraîné les Athéniens à cette guerre,
qui allait peut-être tourner à la chute de la cité, à la division
des forces de la Hellade, et au futur asservissement de toute la race
grecque?»

Il signor Houssaye dimentica e non vede il più; dimentica che
Pericle lasciava dietro di sè qualcosa di peggio. Aveva raccolto
Atene virtuosa, di spiriti gagliardi e generosi, disinteressata,
patriottica, e la lasciava avviata a gran passi sulla via dell'egoismo,
dell'ingiustizia, dell'effeminatezza e della corruzione.

[82] Plutarco, in Pericle.

[83] Plutarco, in _Pericle_.

[84] Tucid. I. 112.

[85] Plutarco, in _Pericle_.

[86] Plutarco, in _Pericle_.

[87] Su questo proposito l'illustre Müller: «Die Demokratie (in Athen)
blühte, so lange grosse Männer durch eine imposante Persönlichkeit
sie zu lenken verstanden; sie sank, als, _durch schmählichen Lohn
angelockt_, der gierige und müssige Pöbel sich überall' vordrängte.» K.
O. Müller, _Die Dorier_ III. 1.

[88] Ai dì nostri, non potendo distruggere questo fatto della
testimonianza concorde di tutti gli scrittori antichi contro Atene,
si è trovato il modo di disfarsene, mettendoli tutti a fascio in
quarantena, sotto l'accusa di _aristocratici_ e di _partigiani_. E
lo spediente ha sedotto anche Yorick. Il vero è, che, quando s'è ben
fatta tutta la parte imaginabile alle licenze e alle esagerazioni
della commedia, ai voli dell'eloquenza e allo spirito di partito di
alcuni degli scrittori — ne resta ancora _assai più del bisogno_ per
poter cavare un criterio storico _giusto ed esatto_ da quella unanimità
schiacciante di deposizioni — da Aristofane a Tucidide, da Platone a
Senofonte — fatta più grave dalla onestà degli uni, dalla gravità e
dall'autorità degli altri — e quel ch'è più, dalla concordanza dei
fatti storici. Quando _tutta_ l'antichità, con tutte le sue voci
più autorevoli, depone contro la _moralità politica_ dell'Atene di
Pericle e successori, e ne dà le ragioni, il farne l'apologia è
un po' difficile. Sopra Aristofane e i comici in particolare, la
cui testimonianza è la più attaccata di tutte, sono notevoli le
considerazioni dal Cappellina:

«Certo i comici, egli dice, per l'indole stessa dell'arte che
professano, sono proclivi all'esagerazione; ma è pur vero che
l'attualità de' fatti di cui parlavano e l'importanza de' personaggi
che ponevano sulla scena, erano un gran freno che loro impediva
di travisare il vero soverchiamente, onde sotto la caricatura e
l'esagerazione resta un fondo di verità e una base reale: tanto più che
molti de' comici, e specialmente Aristofane, apparteneano alla classe
de' liberali conservatori, meno degli altri proclivi agli eccessi, ed
avevano un giusto concetto della grandezza dell'arte, nè avrebbero
mai voluto deturparla colla calunnia e la palese ingiustizia. Il
che tanto più si deve credere, quando le asserzioni del poeta, come
avviene delle più importanti di Aristofane, hanno una _sicura conferma_
nell'autorità di altri gravissimi scrittori, intesi non alle finzioni
della filosofia, ma alla severità della storia, della politica e delle
filosofiche discipline.» — Cappellina, _Prefaz. ad Aristofane_.

[89] Platone, _Gorgia_. — Isocr. _Areop._ — Tucid. III. 38.

[90] Plutarco, _Pericle_ 9, 11.

[91] Demost. _Filipp._ III.

[92] Aristof. _Cavalieri_, _Acarnesi_, _Vespe_, ecc. ecc.

[93] Demost. _Cose del Chersoneso._ — Aristof. _Cavalieri_.

[94] Demost. _Distribuzione del danaro_.

[95] Tucidid. III. 38.

[96] «_I vostri oratori vi inebbriano di tante lodi che ne' parlamenti
vi gustano solo le adulazioni e la repubblica lasciate alle sue
estreme miserie._» Demost. _Cose del Cherson._ — Ma già assai prima di
Demostene, Aristofane avea scritto la mordacissima pittoresca scena
delle adulazioni al vecchio _Demo_ tra il cuojajo e il salsicciajo
nella commedia i _Cavalieri_. Cfr. la parabasi degli _Acarnesi_.

[97] Demost. _Filipp._ III. — Cfr Isocr. _Areopag._

[98] Isocrate, _Della pace_.

[99] Aristof. Tesmof., _Caval._

[100] Demost. _Distribuzione del denaro_.

[101] Schömann, _De Comitiis Atheniensium_.

[102] φράτορας τριβόλου, Aristof. _Vespe_.

[103] Wieland, _Aristippo_. I. 6. — Aristofane nella _Pace_ dice agli
Ateniesi: «_Null'altro fate che risolver liti._» — E «_città piena di
liti e di accuse_» è chiamata Atene da Isocrate, nell'_Areopagitica_. —
In Luciano, Menippo riconosce dal cielo gli Ateniesi perchè occupati a
giudicare, ὁ Ἀθηναῖος ἐδικάζετο. Luc. _Icaromenippo_.

[104] È il comico ritratto del vecchio eliasta Fitocleone nelle Vespe
di Aristofane.

[105] Platone, _Apologia_.

[106] Aristof. _Vespe_.

[107] Demost. _Filipp._ I. — Isocr. _Areopag._

[108] Ulpiano, in Demost. _Olint._ I.

[109] Demost. _Olint._ III.

[110] Aristotile, _Ethic. Nicom._ V. 1. Marcellino, Siriano, Sopatro,
in _Hermog._ — Problem. Rhetor. XL. — Meursius. _Them-Att._ I. 9.

[111] Isocr. _Panatenaico_.

[112] Isocrate, _Sociale_, 16 — _Areopag._ 38.

[113] Aristof. _Rane_.

[114] Vedi in Aristof. nelle _Nubi_, nei _Cavalieri_, nella _Pace_,
ecc., i frequenti frizzi contro Cleonimo, che fuggì in battaglia,
gettando lo scudo.

[115] Nella guerra del Peloponneso, se ne togli il genio militare
di prim'ordine di Alcibiade, e qualche abile capitano come Nicia,
Demostene, Frinico — l'inferiorità assoluta degli altri duci Ateniesi
nella condotta della guerra, di fronte alla valentia dei generali
Spartani come Lisandro, Brasida, Archidamo, Agide, Gilippo, Assioco,
Mindaro, Callicratida, ecc., rivelossi evidente.

[116] Paolo Ferrari, nella sua splendida risposta a Ferdinando Martini,
_Sulla morale in teatro_. — _Rivista Italiana_ di Milano (fascicolo di
luglio).

[117] Isocr. _Areopag._

[118] Aristof. _Tesmoforie_. — In fatto, la donna di famiglia
non compare quasi affatto nel quadro che gli scrittori antichi ci
presentano dell'Atene di questa età. Platone, Senofonte, Alcifrone, i
comici non ci parlano di donne che non siano cortigiane. In Aristofane
quando non sono cortigiane in iscena, son donne che delle cortigiane
usurpano i modi, il parlare, le scostumate licenze.

[119] Gli anacronismi, caro Yorick, son come le ciliege: uno tira
l'altro. Al tempo della battaglia di Salamina badate che il primato
era di Sparta, e appunto per questo fu Sparta che a Salamina comandò:
gli Ateniesi non diventano egemoni che 3 anni dopo, pel trattato di
Bisanzio. Quanto al primato delle lettere e delle arti, anche questo,
fu _solo parecchi anni dopo_, sotto Pericle, che Atene lo conquistò.
— Nei tempi precedenti, il genio jonico non si era manifestato che
tra le colonie dell'Asia, ed ivi, dopo le splendide epopee del ciclo
omerico, era venuto quasi spegnendosi, come esaurito dalla sua stessa
precoce fecondità; nè prima d'allora, nè poi, fino a Pericle, sul suolo
della madre patria, produsse nulla che potesse reggere il confronto
colle mirabili creazioni del genio eolico e dorico. _Eolii_ Esiodo,
Terpandro, Arione, Saffo, Corinna, Erinna, Alceo; Dorici Alcmano,
Stesicoro, Teognide, Pindaro; _Jonici_, è vero, Anacreonte, Archiloco,
Simonide, ma di Teo, e di Paro e di Ceo. Ed è a Sparta fra i Dori
che Archiloco fiorisce; è a Sparta che fioriscono Taleta, Ferecide,
Anassimandro: Tirteo stesso, il solo nome che Atene potesse rivendicare
in quella età, appartiene anch'esso ai Dori; perchè sebbene ateniese
(lo Hölbe ed il prof. Lami si permettono di negare anche questo) tra i
Dori visse, e in dialetto dorico poetò. Egualmente nell'architettura,
gli stati dorici di Sicione, di Egina, di Corinto, contendono agli
jonici il vanto. E precisamente _fino alle guerre persiane_, come
osservano bene il Müller e il Bulwer, non è già Atene, ma la ruvida
Sparta che occupa per fama il _primato_ fra i Greci, come cultrice
delle arti, e degli studj severi e geniali: ed è Sparta il punto
di convegno dei poeti più illustri, dei musici e dei filosofi di
quell'età. — Il genio d'Atene frattanto raccoglievasi in sè stesso,
aspettando la sua ora.

[120] Meursius, _Themis att._, l. c.

[121] Appendice citata di Yorick.

[122] «_La democrazia d'Atene_, così calunniata e vilipesa, seppe
combattere Sparta e il gran re, senza scannare nelle prigioni le
fanciulle e i vecchi sospetti d'_incivismo_, e senza opporre al terrore
dell'invasione straniera il terrore della mannaja patriottica.» Yorick,
appendice citata.

[123] Vinti quei di Mitilene, gli Ateniesi per consiglio di Cleone,
decisero di passarli tutti a fil di spada come poi fecero dei Melii.
Persuasi poi da Eucrate, contromandarono l'ordine e si contentarono di
accoppare tutti quelli ch'eran stati mandati prigioni in Atene «_poco
più di mille_!» — Tucid. II. 50. — E questo passò nella storia come
esempio proverbiale di clemenza!

[124] Tucid. V. 32. 116.

[125] «L'areopago, vigile custode delle leggi e difensore della
costituzione dello Stato, teneva gli occhi aperti sulla condotta
pubblica e privata di chi metteva le mani nelle faccende del paese.»
Yorick, appendice citata.

[126] Isocrate lo attesta categoricamente; vedi l'_Areopagitica_.

[127] Plutarco in _Pericle_.

[128] Tucid. VI. 43.

[129] Peyron, _Polit. e amministr. di Pericle_, 9. — Isocr. _Sociale_.
16. _Areopag._ 38.

[130] Appendice del signor D'Arcais nell'_Opinione_ del 23 giugno.

[131] «_Pinxit — Parrhasius — et Demon Atheniensium argumento quoque
ingenioso; volebat namque varium, iracundum, injustum, incostantem,
eundem exorabilem, clementem, misericordem excelsum, gloriosum,
humilem, ferocem, fugacem, et omnia pariter ostendere_» — Plinio.
_Hist. Nat._ lib. XXXV. c. 10.

[132] Nelle parole di Socrate nell'atto primo, intese a preparare le
scene dell'atto secondo, cercai riassumere appunto questo concetto
storico del dramma:

  «_Socr._ Guarda alla repubblica cadente, da che le virtù della
    repubblica se ne andarono! Guarda le discordie de' cittadini, le
    leggi scadute da che Pericle governò; i rotti e molli costumi
    che generano l'ignavia nelle tende e sulle navi; l'ingordigia
    de' salarj, le industrie rovinate dalle ciancie del foro e
    della Eliea, dai mercenarj e dalle feste; le campagne desolate
    dall'asta Spartana. Tu che agogni ad essere eroe, comincia
    ad essere cittadino! Tu che vuoi vincere il mondo, comincia a
    vincere te stesso.»

[133] Ecco il _corpo del reato_ sorpreso indosso al signor marchese,
cioè il suo giudizio critico copiato dall'appendice di Yorick:

«Yorick a Firenze ha _dimostrato_ che il signor Cavallotti
nell'_Alcibiade_ aveva calunniato la repubblica. E tale è veramente
l'impressione che si riceve da questo lavoro, il quale pare a prima
giunta una sfuriata del Cavallotti contro i suoi amici politici
dell'antica Grecia. Per questa volta spetta ai giornali monarchici il
mostrarsi più repubblicani dell'onor. deputato di Corteolona. E invero
nè la grandezza dell'antica Grecia si _spiegherebbe, nè in ispecie
quella di Atene_, e il potente impulso da esse recato alla civiltà di
que' tempi, se le _scene greche_ di cui fummo spettatori fossero lo
specchio fedele di quella società che a traverso i secoli risplende
ancora di tanta luce. _Bisogna cercare la società greca altrove che nei
parassiti nelle cortigiane, e nei vaniloqui dei politicastri._ Questo
valga a _dimostrare_ (!) che il signor Cavallotti, il quale aveva un
vastissimo soggetto per le mani, non ne ha visto e riprodotto che un
aspetto solo, e _il meno importante_.»

Tanti periodi — tante.... facezie storiche!

[134] Nel dramma completo per le stampe, vi sono anche questi.

[135] Così, per es. il signor Garofalo nell'appendice dell'_Unità
Nazionale_ 3 giugno 1874: «L'imagine ridente di Atene che il
chiarissimo _Yorick_ si è formata (e che — aggiungo io — il chiarissimo
D'Arcais ha copiata) è combattuta dai fatti, consacrati in quelle
storie a cui egli nega una piena fede. — In quanto a storia sono col
Cavallotti e credo che la sua descrizione della società ateniese sia
giusta e vera. Facendo un dramma storico egli ha seguito la storia, e
di essa ha nudrita la sua imaginazione. E chi abbia letto Tucidide o
Senofonte non dirà ch'egli abbia caricato le tinte, mostrandoci gli
intrighi delle elezioni, la facilità della seduzione collo sfoggio
dello spirito, dell'ingegno e anche della bizzarria, la corruzione dei
parassiti, ecc.»

[136] Per dare una semplice idea della _serietà critica_ del signor
marchese, cito un saggio delle sue parole:

«Il signor Cavallotti col furto di una torta fa la critica delle
istituzioni di un popolo. Allo stesso modo che gli Ateniesi del signor
Cavallotti non ci spiegherebbero la grandezza d'Atene, così pure i
suoi Spartani torrebbero fede alla fortuna di Sparta. A questi giudizi
leggieri ed ingiusti è pur forza contrapporre una protesta.»

Chi legge queste parole senza conoscere il dramma, non potendo supporre
che il signor D'Arcais lavori di fantasia, crederà che io abbia messo
in iscena una quantità di Spartani tutti ladri e furfanti. Ebbene
di Spartani nell'atto di Sparta non ce ne sono che _tre_ soli: e di
questi tre, _due_ sono appunto introdotti a rappresentare la virtù
del carattere spartano, e a _dar ragione della fortuna di Sparta_:
l'eforo Endio nella austerità dell'amor proprio nazionale e nel senso
severo del retto che gli fa disprezzare il tradimento di Alcibiade; il
soldato Brasida nella semplicità dell'eroismo disinteressato, nel culto
magnanimo del dovere, nello affetto alla patria e alla famiglia: tutti
e due nella sobrietà laconica delle parole annunziante la fortezza
dell'opere.

E il signor marchese D'Arcais protesta in nome di Sparta, accusandomi
di calunnia e parla — lui!!! — di _leggerezza_ e _ingiustizia_ di
giudizj!!

[137] Dei tre marmi d'Alcibiade nel Vaticano — che son tra le
pochissime effigie a noi pervenute del grande Ateniese — uno, (corr.
Chiaramonti, N. 44) è stato riprodotto dall'Houssaye nella sua
_Histoire d'Alcibiade_; l'altro, (Sala delle Muse, N. 510) dall'Ennio
Quirino Visconti (_Icon. Gr._ I. tav. XVI. 1 e 2.) Il primo rappresenta
Alcibiade giovane sui 25 anni; ha barba appena nascente e baffi;
l'altro, che fu scavato sul monte Celio, è Alcibiade adulto; il profilo
è meno bello, la barba corta, arricciata, e i baffi più grossi. Il
Visconti lo ritiene una copia del busto che l'imperatore Adriano fece
porre a Melissa in Frigia sulla tomba di Alcibiade. Il terzo marmo,
ch'è una statua intera, e il busto del Campidoglio somigliano agli
altri due.

L'Ennio Quirino Visconti reca alla tav. XVI n.º 3, un'altra testa di
Alcibiade, copiata da una pietra antica del gabinetto di Fulvio Orsino,
riprodotta da Faber: è Alcibiade giovane e bello: baffi staccati dalla
barba nascente, cappelli arricciati. — Una sesta effigie infine si
trova nel Museo di Napoli: è Alcibiade adulto; baffi e barba cresciuta:
e questa almeno avrebbe dovuto conoscerla quel sapiente critico
napoletano di un foglio milanese, che anche lui si era fitto in mente
di voler far radere i baffi ad Alcibiade!

[138] Giovanni Emanuel, — splendida natura di artista, a cui l'autore
dell'_Alcibiade_ deve assai — ha rappresentato anche questo quadro al
Corea di Roma.

[139] Non parlo dell'Alcibiade che s'inginocchia, perchè questa è una
fantasia dei critici sullodati, alla quale l'autore non ha mai pensato.

[140] Dico questo perchè la citazione mi par sospetta, e avverto a
ogni buon conto il critico del _Corriere di Milano_ — il quale non par
forte nè in grammatica greca, nè in nomi greci — che il suo eroe non
si chiamava _Ajace Oileo_, in quella guisa che Achille non si chiamava
_Achille Peleo_: Oileo era il nome del padre: e il figlio Ajace di
Oileo ossia Oiliade, (Ὀιλιάδης) anche lui, come il Peliade Achille, di
gamba buona: Ὀιλῆος ταχὺς Αἴας. — A pedante, pedante e mezzo.

[141] In _Lisandro_ e in _Alcibiade_. Cfr. Cornelio Nipote.

[142] Vedi la nota a pag. 22.

[143] «_Subtiles_, _acuti_, _breves_» chiama Cicerone, come oratori,
Pericle, Alcibiade, e Tucidide, per distinguerne la eloquenza da quella
più copiosa e prolissa di Crizia, Teramene e Lisia; _De Orat._ II. 22.
Altrove egli pone insieme Alcibiade con Crizia e Teramene, e chiama
questi tre «_crebri sententiis, compressione rerum breves et ob eam
caussam interdum subobscuri_.» Cic. _Brutus_, 7.

[144] Vedi sopra la nota a pag. 31.

[145] Athen. _D. ipnos._ VI. 239 d.

[146] Che nel dramma completo si sviluppa e procede per un numero anche
maggiore di gradazioni.

[147] Taluno fra essi, come il critico egregio del giornale ufficiale
la _Provincia_ di Pisa, notò per lo appunto una per una tutte le
gradazioni successive del carattere di Cimoto.

[148] _Etére_ e non _eterie_, come veggo che da moltissimi, anche
de' miei critici, erroneamente si scrive: poichè ἑταίρα è il nome
greco equivalente di _amica_. L'eteria (ἑταιρία, ἑταιρεία), avverto i
critici, vuol dire invece tutt'altra cosa, e puzza di politica: poichè
con questo nome si chiamavano ad Atene quelle che noi oggi chiamiamo —
Domine ajutami — .... le _consorterie_.

[149] _Corriere di Trieste_, marzo 1874.

[150] Antifane, presso Aten. XIII. 572.

[151] Aristen. _Lett._ I. 12.

[152] Aristen. _Lett._ I. 14.

[153] _Gazzetta_ ufficiale _Ferrarese_ e _Corriere di Milano_.

[154]

    «Tu Atte mi sei
    in ogni giorno più odïosa....
    ..... Ma non farne grave conto.
    Benchè odiosa eserciti dominio
    Sulla mia volontà.»
                  Cossa, _Nerone_, Atto II.

[155] _Unità Nazionale_ di Napoli.

[156] _Gazzetta Ufficiale di Sassari_, appendice del signor Delogu. —
_Arte e Scienza_ di Roma, del mio amico Tito Zanardelli.

[157] A _proposito dell'Alcibiade_ di F. Cavallotti, saggio critico di
Roberto M. Stuart, corrispondente da Roma del _Daily-News_. Pubblicato
in Roma coi tipi dell'_Italie_. Lire una.

[158] Vedi il succitato opuscolo, pag. 15-pag. 18.

[159] O perchè mo, a differenza degli altri, proprio soltanto per il
Becker, che è un tedesco, la mi mette il genitivo in inglese! Per far
credere forse che i _Bilder des Griechischen Privatlebens von W. A.
Becker_ colle appendici di Hermann, siano opera di un inglese? O perchè
avendone solo sentito parlare, senza averlo letto, Ella stessa lo crede
davvero un libro inglese?

[160] Una trireme — ch'era la nave da guerra greca — di solito contava,
giusta i computi del Boeckh, _duecento_ uomini: e cioè 10 soldati di
fanteria di marina (ἐπιβάται), 40 soldati di fanteria greve (opliti):
gli altri 150 fra i rematori dei tre ordini (traniti, zigiti, talamj) e
marinai e ufficiali addetti al servizio della nave.

[161] Καὶ εἰ αὖ σοι εἴποι ὃ αὐτὸς οὗτος θεὸς, ὅτι Αὐτοῦ σε δεῖ
δυναστεύειν ἐν τῇ Εὐρώπῃ, διαβῆναι δ' εἰς τὴν Ἀσίαν οὐκ ἐξέσται σοι,
οὐδ' ἐπιθέσθαι τοῖς ἐκεῖ πράγμασιν — οὐκ ἂν αὖ μοι δοκεῖς ἐθέλειν οὐδ'
ἐπὶ τούτοις μόνοις ζῆν, εἰ μὴ ἐμπλήσεις τοῦ σοῦ ὀνόματος καὶ τῆς σῆς
δυνάμεως πάντας ἀνθρώπους. — Platone. Primo Alcib. II.

[162] Anche il dottissimo Müller, per il quale la _Repubblica di
Lacedemone_ forma, autorità, chiama Senofonte «_der beste Kenner
dorischer Sitten_». — Dorier, II. 291.

[163] «_Al fine di questa guerra_ (del Peloponneso) _Lacedemone conta
un po' più di quattrocento anni dacchè_ =si regge= _cogli stessi ordini
politici_» Tucid. I. 18. — Tucidide scriveva queste linee dopo il suo
ritorno dall'esilio in Atene, epoca in cui pubblicò la prima parte
della sua storia, e cioè intorno al 403 av. l'E. V., circa un dieci
anni dopo l'epoca assegnata alla mia scena di Sparta! — Cfr. Lisia,
_Olimpico_, 7.

[164] Plutarco, _Licurgo_, 4.

[165] Liv. 33. 34.

[166] Cic. _Pro Flacco_, 26.

[167] Macchiavelli, _Discorsi_ I. 2.

[168] «_Sparta's Gesetzordnung als die wahrhaft Dorische angesehen,
und deren Ursprung mit dem des Volkes überhaupt für identisch gehalten
wurde_». — C. O. Müller, _Dorier_, II. 11. Perciò Ellanico, il più
antico degli scrittori delle cose di Sparta, potè attribuire, senza
anacronismo, ai primissimi due re di Sparta, del tempo del ritorno
degli Eraclidi (80 anni dopo l'assedio di Troja) _tutte quante_ le
leggi che furono poi note sotto il nome di leggi di Licurgo, vissuto
secoli dopo. Questo punto critico storico fu del resto diffusamente
trattato col solito acume dal Müller nella sua classica opera, e
in parte adombrato dal Peyron, nella monografia sulla _Politica di
Licurgo_.

[169] Vedi Plutarco, _Solone_. — Senof. _Repub. Ateniese_. — E le opere
speciali di Hüllmann, e di Schömann sulla Costituzione di Atene.

[170] Vedi Plutarco e Diogene Laerzio in _Solone_.

[171] Senof. _Memorab._ III. 7.

[172] Plat., _Protagora_, X.

[173] Il signor professore Z. ha confuso evidentemente — confusione
inesplicabile in un professore — i costumi jonici con quelli dorici,
e le leggi ateniesi con quelle spartane. È a Sparta difatti che per
la necessità dell'organizzazione militare, su cui poggiava l'esistenza
stessa della repubblica, troviamo — all'opposto di Atene — vietate ai
cittadini le arti meccaniche: «_tutto quel ch'era d'arte meccanica
volevano i Lacedemoni si esercitasse non per le mani de' cittadini,
ma de' servi_» Plutarco, Apoft. Lac. — Però il signor Z., se non
aveva letto nè Senofonte nè Platone, avrebbe almeno dovuto conoscere
quell'episodio narrato da Plutarco che caratterizza così nettamente
la diversità delle due legislazioni ateniese e spartana a questo
riguardo. Essendosi un Lacedemone (certo Eronda) trovato ad Atene in
un giorno di seduta dell'Eliea, ed avendo sentito che un cittadino
perchè non esercitava nessun mestiere nè arte manuale e viveva in
_ozio_, era stato dai giudici condannato (intende signor Z.?), e se ne
ritornava dalla condanna tutto addolorato, mesti anche gli amici che lo
accompagnavano — egli pregò gli astanti che gli mostrassero quest'uomo
«_ch'era stato condannato per aver vissuto nobilmente da uomo libero._»
— Plutarco, in _Licurgo_ e negli _Apoftemmi_. — E son molti anche nei
tempi nostri che intendono a questo modo la libertà!

[174] App. dell'_Unità Nazionale_, 3 giugno 1874.

[175] App. dell'ufficiale _Gazzetta Livornese_, 15 giugno 1874.

[176] Habent autem (Thraces) multa nomina singularum regionum singula,
moribus tamen ac opinionibus consimilibus imbuti, praeter Getas et
Trausos et qui supra Crestonas incolunt. — J. Boemus Aubanus, _Mores,
leges omnium gentium_, lib. III.

[177] J. Boem. Aub. _Ibid._

[178] «Bene, o Timocle, mi fai ricordare delle diverse credenze dei
popoli; v'è una confusione grande ed ogni gente ha sua credenza e
culto. Gli Sciti adorano la Scimitarra, i _Traci Zamolchi, un fuggitivo
di Samo che si riparò fra di essi_, i Frigi la luna, gli Etiopi il
giorno, gli Assirj una colomba, ecc.» — Luciano, _Giove tragedo_.

[179] R. Ghirlanda, nella _Scena_ di Venezia e nella ufficiale
_Gazzetta Ferrarese_.

[180] A proposito di eccezioni, per quel che personalmente mi concerne,
mancherei a un debito di giustizia se non ricordassi tra coloro che
scrissero con dottrina e competenza di studj e acume artistico sul
dramma mio, con più o meno severità o con più o meno indulgenza,: il
cav. Augusto Franchetti dell'_Antologia Italiana_, l'avv. Forlani,
direttore della _Gazzetta di Trieste_ e autore di un bel lavoro sulla
_Legislazione attica_, Felice Uda nella _Lombardia_, Carlo Romussi
nel _Secolo_, Carlo Angelini nell'_Indicatore_ di Livorno, il signor
Augusto Boccardi nell'_Arte_ di Trieste, il prof. Lazzarini nella
_Provincia_ di Udine e qualch'altro egregio di cui mi sfugge con
dispiacere il nome.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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