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Title: Il Diavolo
Author: Graf, Arturo
Language: Italian
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                              ARTURO GRAF


                                   IL
                                DIAVOLO


                            QUARTA EDIZIONE.



                                 MILANO
                        FRATELLI TREVES, EDITORI
                                  1890



                         PROPRIETÀ LETTERARIA.

                      _Tutti i diritti riservati._

                     Milano. Tip. Fratelli Treves.



A EDMONDO DE AMICIS.


  Caro Edmondo,

_Questo libro lo dedico a te, che fosti soldato e non hai paura dei
brutti musi._

_Non è, a dir proprio, una storia ordinata e compiuta del diavolo,
perchè non credo si possa fare di tale storia un libro popolare; e
un libro popolare appunto intesi far io, un libro cioè che si potesse
leggere senza fatica, ma forse non senza qualche gusto, da chiunque non
faccia profession di erudito._

_Perciò mi sono studiato di ritrarre il diavolo nelle sue svariate
sembianze, e nei casi e nelle operazioni più notabili di quella
lunga, affaccendata e rimescolata sua vita; e poichè gli anni migliori
della vita di lui, gli anni, direi, della virilità rigogliosa e della
maggiore operosità e potenza, sono i secoli di quello che noi chiamiamo
il medio evo, così entro i termini del medio evo, assai larghi del
resto, costringo la più gran parte del mio racconto._

_Narro e descrivo assai più che non ragioni, e credo d'aver fatto
bene, e che di ciò tu m'abbia a dare piuttosto lode che biasimo.
Assai volte, importando quelle innumerevoli tresche, mariolerie e
meraviglie diaboliche, e le credenze e le superstizioni, e i sogni di
cui si pascevano quelle anime dei padri nostri, intenebrate di paura
e d'ignoranza, avrei potuto indicare i fatti fisiologici e psicologici
d'onde il tutto deriva, e dissertar serrato, e farmi onore; ma coloro
pe' quali io voleva scrivere, o non m'avrebbero inteso, presto si
sarebbero stancati d'intendermi. Mi venne in mente ciò che fanno i
marinai soprappresi dalla burrasca, quando, per salvare una parte del
carico, buttano in mare l'altra; e, un po' a malincuore, imitai il loro
esempio._

_Qualcuno potrebbe dirmi: perchè hai tu scritto di un vano fantasma?
perchè non piuttosto di cose vive e reali? e confesso che questa
medesima domanda fec'io più d'una volta a me stesso. Ricordo giorni
in cui rimasi come sgomento in pensare che il diavolo, il formidabile
re dell'abisso, la cagione di tante cadute, di tanti dolori, di tanti
terrori, l'oggetto di tanti ragionamenti, di tante dispute, di tante
dottrine, colui per cui furono versati fiumi di sangue e d'inchiostro,
non esiste, non è esistito mai, più inconsistente della nebbia, più
vano dell'ombra. E mi parve doloroso e stolto far di quel nulla un
libro._

_Ma poco duravo in quei pensieri, e di non esserci durato mi applaudo.
Chi segna il limite che separa la vita dalla morte, il reale dal non
reale? Terribile, incoercibile è la forza delle cose che non sono, e
molti fra i più poderosi fattori della storia della umanità non sono
tra le cose reali, non furono, non saranno mai. Satana fu un sogno; ma
un sogno che rapì nei caliginosi avvolgimenti suoi le generazioni ed i
secoli._

_Non lo dimentichino coloro che rimpiangono (nè io so loro dar torto)
le fedi e le speranze di un'altra età, e i conforti ineffabili che ne
venivano alle anime travagliate. Il sangue di Cristo fu veramente come
un balsamo prezioso versato sulle ferite sanguinanti dei figli del
peccato; ma dietro a Cristo c'era Satana, e nelle ferite sanguinanti
Satana stillava la velenosa sua bava. Il trepido credente era come
sospeso fra il cielo e l'inferno, e dal cielo si sentiva scendere in
cuore una soave letizia e dall'inferno si sentiva salire al cuore un
orror disperato. L'anima di lui era come questo povero nostro pianeta,
che sempre ha l'una parte rivolta al sole e l'altra immersa nel bujo;
essa, come quello, rotava, ed ogni suo punto passava per una perpetua
vicenda di luce e di tenebra, di speranza e di terrore. Le storie dei
santi e delle sante, cui arrise da ultimo il sole della vittoria, sono
là a farne fede._

_I santi e le sante, i campioni della fede e i martiri della carità,
i meravigliosi asceti, i quali non d'altro cibo si pascono che di
speranza, anime di foco appese ad un tenue raggio che scaturisce dalle
profondità immensurabili dell'infinito! Dovunque io spinsi il piede
sulle buje tracce di Satana, io li scontrai, e fui lunghi giorni in
lor compagnia. I casi meravigliosi, e le formidabili istorie, che tu,
Edmondo, potrai leggere in queste pagine, io raccolsi, per molta parte,
nelle antiche memorie della vita e degli atti loro, isole sopravanzate
di un mondo sommerso, tutte dipinte dei fiori vivaci della leggenda.
Altri s'inerpica su pei dirupi, e sfida le insidie e le asprezze dei
ghiacci perpetui, pur di cogliere un gracile fiorellino spuntato dal
greppo vivo a uno sguardo di sole; a me giova spesso arrancarmi pei
ghiareti del latino barbaro, e avvilupparmi tra' pruni del solecismo,
pur di cogliere alcuno di quei fiori di leggenda, così caldi di colore,
così pregni di strano ed acuto olezzo._

_Accetta, amico mio, questo libro, non pel valore suo proprio, ch'è
ben poco, ma per l'antico affetto di cui vuol essere un segno, e
ch'è molto. E se in leggerlo ti parrà di sentirti dentro quella mite
angoscia che prepara ed annunzia lo sbadiglio, tienti il libro a ogni
modo, e manda pur me a colui che mi diede materia a scriverlo. Vedendo
l'opera mia, e più che l'opera le buone intenzioni; e conoscendo lo
zelo, la sincerità e la liberalità con cui io scrissi dei fatti suoi,
vorrà usarmi qualche riguardo, e trattarmi men male di quello faranno
forse i critici._

  _Torino, marzo 1889._

                                                                  Tuo
                                                             A. GRAF.



CAPITOLO PRIMO.

ORIGINE E FORMAZIONE DEL DIAVOLO.


Tutti conoscono il poetico mito della ribellione e della caduta degli
angeli. Questo mito, che inspirò a Dante alcuni tra i più bei versi
dell'_Inferno_, e al Milton un indimenticabile episodio del _Paradiso
perduto_, fu da varii Padri e Dottori della Chiesa variamente foggiato
e colorito; ma non ha altro fondamento che la interpretazione di un
versetto d'Isaia e di alcuni luoghi, abbastanza oscuri, del Nuovo
Testamento. Un altro mito, di carattere molto diverso, ma non meno
poetico, accolto da scrittori così ebraici come cristiani, narra di
angeli di Dio, che invaghitisi delle figliuole degli uomini, peccarono
con esse, e furono in punizione del loro peccato esclusi dal regno dei
cieli, e convertiti di angeli in demonii. Questo secondo mito ebbe nei
versi del Moore e del Byron consacrazione perpetua. Così l'un mito come
l'altro fa dei demonii angeli caduti, e la caduta rannoda a un peccato:
superbia o invidia nel primo caso; amor colpevole nel secondo.

Ma questa è la leggenda, non già la storia di Satana e dei compagni
suoi. Le origini di Satana, considerato quale personificazione universa
del principio del male, sono meno epiche assai e in pari tempo assai
più remote e profonde. Satana è anteriore, non solo al Dio d'Israello,
ma a quanti altri dei, possenti e temuti, lasciarono ricordo di sè
nella storia degli uomini; egli non precipitò giù dal cielo, ma balzò
fuori dagli abissi dell'anima umana, coevo a quegli oscuri iddii delle
antichissime età di cui nemmeno una pietra ricorda i nomi, e a cui gli
uomini sopravvissero, dimenticandoli. Coevo ad essi e spesso confuso
con essi, Satana comincia embrione, come le cose tutte che vivono, e
solo a poco a poco cresce e si fa persona. La legge di evoluzione, che
governa gli esseri tutti, governa lui pure.

Nessuno, che abbia qualche educazione scientifica, crede oramai che
le religioni più rozze sieno nate dalla corruzione e dal disfacimento
di una religion più perfetta; ma sa benissimo che le più perfette
si sono svolte dalle più rozze, e che in quelle per conseguenza si
debbono cercare le origini del tenebroso personaggio che sotto varii
nomi rappresenta il male e se ne fa principio. Se quello che si chiama
periodo terziario nella storia del nostro pianeta vide già l'uomo,
forse il vide tanto simile al bruto da non potersi scernere in lui
sentimento religioso propriamente detto. L'uomo quaternario più antico
conosce già il fuoco, e sa far uso di armi di pietra; ma abbandona
i suoi morti, segno certo che le sue idee religiose, se pur ne ha,
sono quanto mai si possa dire scarse e rudimentali. Bisogna giungere
a quello che si chiama dai geologi il periodo neolitico per ritrovare
le prime tracce sicure di religiosità. Quale si fosse la religione dei
nostri antenati in quella età noi non possiamo sapere direttamente, ma
possiamo arguirlo, guardando a quella di molte popolazioni selvagge che
vivono ancora sopra la terra, e riproducono fedelmente le condizioni
della umanità preistorica. Sia che il feticismo preceda l'animismo, sia
che questo preceda quello nella evoluzione storica delle religioni, le
credenze religiose di quei nostri antenati dovettero essere simili in
tutto a quelle che ancora professano i Negri d'Africa, o le Pelli Rosse
d'America. La terra, che insieme con le vestigia delle loro abitazioni,
con l'armi e gli utensili, ha serbato i loro amuleti, ce ne porge
testimonio. Essi immaginarono un mondo ingombro di spiriti, anime delle
cose, e anime di morti, e da quelli riconobbero quanto incontrava loro
di bene o di male. Il pensiero che alcuni di questi spiriti fossero
benefici, altri malefici, alcuni amici, altri nemici, era suggerito
dalla esperienza stessa della vita, nella quale profitti e danni
si avvicendano costantemente, e si avvicendano in modo che, se non
sempre, assai spesso, si riconoscono diverse le cause degli uni e degli
altri. Il sole che illumina, il sole che in primavera fa rinverdire e
rifiorire la terra, e matura i frutti, doveva essere considerato come
una potenza essenzialmente benefica; il turbine, che riempie di tenebre
il cielo, schianta le piante, svelle e spazza i mal connessi tugurii,
come una potenza essenzialmente malefica. Gli spiriti si raccoglievano
in due grandi schiere, secondochè agli uomini pareva di riceverne
beneficio o nocumento.

Ma non per questo si costituiva un vero e risoluto dualismo. Gli
spiriti benefici non erano ancora nemici dichiarati e irreconciliabili
dei malefici, e quelli non erano benefici sempre, nè sempre malefici
questi. Il credente non era mai sicuro della disposizione degli
spiriti che lo avevano in loro balìa; temeva di offendere non meno gli
amici che i nemici, e con eguali pratiche si studiava di renderseli
favorevoli tutti, non troppo fidandosi di nessuno. Tra buoni e cattivi
non era contraddizione morale propriamente detta, ma solo contrasto di
opere. Essi non potevano avere un carattere morale che mancava ancora
ai loro adoratori, usciti appena dalla condizione dell'animalità, e
solo in tanto si possono chiamare buoni e cattivi in quanto par bene
all'uomo primitivo tutto ciò che gli giova, male tutto ciò che gli
nuoce. I selvaggi adoratori li immaginavano in tutto simili a sè,
mutabili, vinti dalla passione, quando benevoli, quando crudeli, e non
istimavano i buoni più alti e più degni dei tristi.

Certo, nei tristi appare già un'ombra di Satana, si delinea lo spirito
del male, ma del male puramente fisico. Male è ciò che nuoce, e spirito
malvagio è quello che vibra la folgore, accende i vulcani, sommerge
le terre, semina la fame e la malattia. Esso non giunge ancora a
rappresentare il male morale, perchè il discernimento del bene e
del male morale non s'è ancor fatto nella mente degli uomini: delle
due facce di Satana, il distruggitore e il pervertitore, una sola è
ritratta da lui. Esso non ha una propria indegnità, non ha chi gli stia
sopra e lo domini.

Ma a poco a poco la coscienza morale si qualifica e si determina, e la
religione acquista un carattere etico che prima nè aveva, nè poteva
avere. Lo spettacolo stesso della natura, dove forze contrastano a
forze, e dove l'una distrugge ciò che l'altra produce, suggerisce
l'idea di due opposti principii che reciprocamente si neghino e si
combattano; poi l'uomo non tarda ad accorgersi che oltre al bene ed
al male fisico c'è un bene ed un male morale, e crede riconoscere in
sè quello stesso contrasto che vede e sperimenta in natura. Egli si
sente buono o cattivo, si concepisce migliore o peggiore; ma la bontà o
reità propria non conosce come sua, come l'espressione della sua natura
medesima. Uso ad attribuire a potenze divine e demoniche il bene ed il
male fisico, egli attribuirà similmente a potenze divine e demoniche
il bene e il male morale. Dallo spirito buono verranno allora, non
solamente la luce, la sanità, tutto quanto sostenta ed accresce la
vita, ma la santità ancora, intesa quale complesso di tutte le virtù:
dallo spirito malvagio verranno, non solamente le tenebre, i morbi, la
morte, ma ancora il peccato. Così gli uomini, spartendo con giudizio
meramente soggettivo la natura in buona e cattiva, e impastando con
quel buono e con quel cattivo fisico il buono e il cattivo morale che
loro appartiene, foggiano gli dei e i demonii. La coscienza morale già
desta, che naturalmente afferma la superiorità del bene sul male, e
vagheggia il trionfo di quello su questo, fa sì che il demonio appaja
subordinato al dio, e colpito di una indegnità tanto maggiore quanto
più quella coscienza è viva e imperiosa. Il demonio, che in origine si
confondeva col dio in un ordine di spiriti neutri, capaci così di bene
come di male, se ne distingue a poco a poco e se ne stacca in ultimo
del tutto. Egli sarà lo spirito delle tenebre e il suo avversario lo
spirito della luce; egli lo spirito dell'odio e il suo avversario lo
spirito dell'amore; egli lo spirito della morte e il suo avversario
lo spirito della vita. Satana abiterà negli abissi, Dio nel regno dei
cieli.

Così si stabilisce e si determina il dualismo; così il concetto di
esso si disviluppa per lento lavorio di secoli dal concetto che gli
uomini hanno e della natura e di sè stessi. Se non che quella che ho
indicata è la storia per così dire schematica ed ideale del dualismo,
non la concreta e reale. Il dualismo si trova, o svolto, od in germe,
o espresso o sottinteso, in tutte, o quasi tutte le religioni; ma esso
corre per diversi gradi, assume varie forme e variamente si specifica a
seconda della diversità delle genti e delle civiltà.


Abbiam veduto che spiriti malefici compajono già nelle religioni più
rozze e manco differenziate; ma definiti malamente e come diffusi
nelle cose. Nelle religioni più elevate, mano mano che l'organismo
di esse si circoscrive e si compie, gli spiriti malefici si mostrano
meglio definiti, vanno acquistando attributi e persona. Tra le
grandi religioni storiche la religione dell'antico Egitto è quella
di cui abbiamo più remota e più sicura notizia. In essa a Ptah,
a Ra, ad Ammone, a Osiride, a Iside, ecc., divinità benefiche,
largitrici di vita e di prosperità, si contrappongono il serpente
Apep, che personifica l'impurità e le tenebre, il formidabile Set,
il devastatore, il perturbatore, padre d'inganno e di menzogna. I
fenici opposero a Baal e ad Aschera, Moloc e Astarte; in India, il
generatore Indra, il conservatore Varuna, ebbero contrari Vritra e gli
Asuri, e il dualismo penetrò nella stessa Trimurti; in Persia Ormuz
ebbe a contendere con Arimane per la signoria del mondo; in Grecia
e in Roma tutto un popolo di genii e di mostri malefici sorse di
fronte alle divinità dell'Olimpo, esse stesse non sempre benefiche, e
furono Tifone, Medusa, Gerione, Pitone, demonii malvagi d'ogni fatta,
lemuri e larve. Il dualismo appare similmente per entro alla mitologia
germanica, alla slava, e, in generale, a tutte le mitologie.

In nessun'altra delle antiche e delle nuove religioni il dualismo
raggiunse la forma piena e spiccata che raggiunse nel mazdeismo, o
religion dei persiani antichi, quale ce la fa conoscere lo Zend-Avesta;
ma in tutte esso si lascia scorgere, e in tutte, per qualche parte
almeno, si può rannodare ai grandi fenomeni naturali, alla vicenda
del giorno e della notte, all'alternare delle stagioni. I concetti
varii, le figurazioni, gli avvenimenti in cui esso prende forma e si
esplica, ritraggono, non solo dell'indole e della civiltà del popolo
che gli dà luogo nel sistema delle proprie credenze, ma ancora del
clima, delle condizioni naturali del suolo, delle vicende storiche.
L'abitatore di tale regione calda riconosce l'opera dello spirito
maligno nel vento del deserto che affoca l'aria e uccide le biade;
l'abitatore delle plaghe settentrionali la riconosce nel freddo che
assidera la vita intorno a lui e lui stesso minaccia di morte. Dove la
terra è scossa da terremoti frequenti, dove vulcani vomitano cenere
e lave devastatrici, l'uomo immagina facilmente demonii sotterranei,
giganti malvagi sepolti sotto ai monti, spiracoli dell'inferno: dove
frequenti procelle turbano il cielo, immagina demonii trasvolanti e
urlanti per l'aria. Se un nemico invade, vince e soggioga, il popolo
soggiogato non mancherà di trasferire nello spirito malvagio, o negli
spiriti malvagi cui crede, i caratteri più odiosi dell'oppressore.
Così la religione è il risultamento composto di una moltiplicità di
cause, le quali non sempre, certo, si possono rintracciare e additare.
I greci non ebbero propriamente un Satana, come non l'ebbero i romani,
e può sembrare strano che questi, i quali divinizzarono una quantità
di concetti astratti, come la gioventù, la concordia, la pudicizia,
non abbiano immaginata una vera divinità e potestà del male, sebbene
abbiano immaginato una dea Robigo, una dea Febris ed altre così fatte.
Non mancano tuttavia nelle religioni dei greci e dei romani potestà
antagonistiche e figure che presentano come un duplice aspetto, e se
per poco si approfondisce l'indole dei due popoli, e le condizioni
di vita e la storia, si vede che il dualismo presso di loro non
avrebbe potuto prendere forma gran che diversa da quella che prese. Si
consideri tra l'altro che in Grecia e in Roma non vi fu un libro sacro
di morale, un codice teocratico propriamente detto.


Il dualismo assume forma e caratteri speciali nel giudaismo prima, nel
cristianesimo poi, e se in altre religioni, se nelle stesse religioni
primitive, si può scorgere come una larva di Satana, o come una forma
che, rubando il vocabolo alla chimica, potrebbe dirsi allotropa,
diversamente qualificata, e alcuna volta ingrandita, il Satana vero,
con le qualità e gli attributi che gli son proprii, e ne formano
la persona, non appartiene che a quelle due religioni, e, anzi, più
particolarmente alla seconda.

Satana tiene ancora assai poco posto nel mosaismo; direi che esso vi
tocca soltanto l'adolescenza o la giovinezza, senza poter raggiungere
la maturità. Nel Genesi il serpe non è se non il più accorto ed astuto
degli animali, e solo in virtù di una tarda interpretazione si tramuta
in demonio. L'Antico Testamento tutto intero non conosce Beelzebub
se non come divinità degli idolatri; al quale proposito è da notare
che gli ebrei, prima di negar l'esistenza degli dei delle genti, il
che s'indussero a fare solamente assai tardi, credettero che quegli
fossero dei davvero, ma meno possenti e meno santi di Jeova, loro dio
nazionale. In fatti, il primo comandamento del Decalogo non dice già:
_io sono il Dio tuo, e tu non devi credere vi sieno altri dei fuori di
me_; ma bensì: _Io sono il Dio tuo, e tu non adorerai altri dei fuori
di me_. Ora è noto che molte volte gli ebrei si lasciarono trascinare
ad adorare altri dei che non era il loro. Azazel, lo spirito immondo
a cui abbandonavasi nel deserto il capro emissario, carico dei peccati
d'Israele, appartiene assai probabilmente a credenze anteriori a Mosè;
ma la figura sua manca di perspicuità e di rilievo, e forse altro non
è che un pallido riflesso dell'egizio Set, e un ricordo dei tempi della
schiavitù sofferta nella terra dei Faraoni.

È opinione comunemente accettata che solo dopo la cattività di
Babilonia gli ebrei abbiano avuto circa i demonii concetti chiari e
precisi. Trovandosi durante quel tempo, in contatto, se non intimo,
almeno continuo, col mazdeismo, gli ebrei ebbero opportunità di
conoscerne alcune dottrine e di appropriarsele in parte, e tra queste
la dottrina concernente l'origine del male dovette trovar facile
accesso negli spiriti loro, preparati e predisposti a riceverla dalle
recenti calamità e dalle preoccupazioni di un fosco avvenire. Tale
opinione dà luogo a qualche dubbio, e più di una obbiezione le si può
fare; ma non è però meno certo che se la nozione di spiriti malefici,
e la credenza nelle opere loro, non mancavano agli ebrei prima
dell'esilio, Satana non comincia a rivestir la figura e i caratteri
che gli son proprii se non in iscritti posteriori all'esilio stesso.
Nel libro di Giobbe, Satana appare tuttavia fra gli angeli in cielo, e
non è propriamente un contraddittore di Dio e un perturbatore delle sue
opere. Egli dubita della santità e della costanza di Giobbe, e provoca
l'esperimento che deve precipitar costui dal sommo della felicità nel
più basso fondo della miseria. Non è per anche un fomentator di peccato
e un operator di sciagure; ma già egli dubita della santità, e alcuno
dei mali che colpiscono il patriarca innocente viene da lui.

A poco a poco Satana cresce e si compie. Zaccaria lo rappresenta quale
un nemico e un accusatore del popolo eletto, desideroso di frustrar
questo della grazia divina. Nel Libro della Sapienza, Satana è un
perturbatore e un corruttore dell'opera divina, colui che instigò per
invidia i primi parenti al peccato, e per invidia introdusse la morte
nel mondo. Egli è il veleno che guasta e contamina la creazione. Ma nel
Libro di Enoc, e propriamente nella parte più antica di esso, i demonii
altro non sono che angeli innamoratisi delle figlie degli uomini, e
impigliatisi per tal modo nei lacci della materia e del senso, quasi
che si voglia con sì fatta finzione evitar di ammettere un ordine di
enti originariamente diabolici; mentre in altra parte, più recente,
dello stesso libro, i demonii sono i giganti nati da quegli amori.

Nelle dottrine dei rabbini Satana acquista sembianze e caratteri nuovi,
ma nell'Antico Testamento la sua figura spicca ancora assai poco, e
può dirsi evanescente confrontata con quella che egli ebbe di poi. Le
ragioni di ciò possono essere parecchie: tuttavia la principale è da
rintracciare senza dubbio nell'indole stessa del monoteismo giudaico,
il quale è così fatto che assai difficilmente può dar luogo a una
concezione dualistica un po' risoluta. Jeova è un dio assoluto, un
signore despotico, estremamente geloso della potenza e dell'autorità
propria. Egli non può soffrire che gli si levino a fronte esseri,
sia pure di lui meno possenti, ma che si arroghino di contrastargli,
si atteggino ad avversarii suoi, osino attraversare l'opera sua. Il
voler suo è unica legge, la quale governa il mondo, e ha obbedienti
sotto di sè le potestà tutte, meno forse quelle divinità delle genti
di cui non si nega l'esistenza, ma che non entrano come elementi
vivi nell'organismo della religione di Jeova. Perciò nel Libro di
Giobbe Satana apparisce più che altro come un ministro di Dio, un
provocatore di giudizii e di esperimenti divini. Ma c'è di più. Basta
por mente alquanto all'indole di Jeova per avvedersi subito che dove
è un tal dio, un demonio non ha più troppa ragion di essere. In Jeova
le contrarie potenze, gli opposti elementi morali che, distinti e
separati, dànno luogo al dualismo, sono ancora come confusi insieme,
il che certamente non dà un alto concetto della morale degli ebrei
primitivi. Jeova è geloso, feroce, inesorabile; le pene che egli
infligge son fuori d'ogni proporzione con le colpe commesse, le sue
vendette sono spaventose e bestiali, colpiscono senza discernimento
rei ed innocenti, uomini e bruti. Egli tormenta i suoi devoti con
prescrizioni assurde che li fan vivere in un perpetuo terror di
peccato, e impone loro di passare a fil di spada le popolazioni delle
città espugnate. Egli dice per bocca di Isaia: “Io formo la luce,
e creo le tenebre, faccio la pace, e produco il male: io sono il
Signore che faccio tutte queste cose.„ In lui dio e Satana sono ancora
congiunti: la separazione che lentamente si va facendo di essi, e
l'antagonismo risoluto cui mette capo, sono sintomi di un più squisito
senso morale, e segni dell'approssimarsi del cristianesimo.


Satana è già in parte formato, ma non raggiunge la pienezza dell'esser
suo se non nel cristianesimo, nella religione che dice di voler
compiere il giudaismo, ond'è uscito, e che per tanta parte lo nega. Qui
noi ci troviamo dinanzi un intreccio e un viluppo di cause morali e di
cause storiche, le quali han tutte per effetto di rilevar sempre più,
colorire, ingrandire la sinistra figura di Satana. Anzi tutto Jeova
si trasforma in un dio incomparabilmente più sereno e più benigno, in
un dio d'amore, che necessariamente respinge da sè, come elemento non
assimilabile, ogni elemento satanico; e quando Cristo sarà ancor egli
assunto alla divinità, la mite e radiosa figura del nume che per amor
degli uomini si fece uomo, che per essi versò il suo sangue e patì la
morte ignominiosa, farà per ragion di contrasto spiccare in modo al
tutto nuovo la truce e tenebrosa figura dell'avversario. La tragedia
umana, fusa con la tragedia divina, rivelerà le intime ragioni del suo
meraviglioso processo, suscitando negli animi nuovi concetti morali,
nuove immagini delle cose, nuova pittura del cielo e della terra. Gli
è dunque vero che Satana indusse i primi parenti a peccare, e che in
virtù della colpa provocata da lui, tolse a Dio l'umana famiglia, ed il
mondo in cui questa vive. Quale non deve essere la potenza di lui, la
saldezza dell'usurpato dominio, se a riscattare i perduti è forza che
lo stesso figliuol di Dio si sacrifichi, si dia in preda a quella morte
che per fatto appunto del nemico penetrò nel mondo! Prima che Dio dèsse
mano all'opera della redenzione Satana poteva posare nella sicurezza
del possesso; ma ora che la redenzione si compie, anzi è già compiuta,
non dovrà egli far l'estremo d'ogni sua possa per contendere al
vincitore il frutto della vittoria, e racquistare, almeno in parte, il
perduto? Ecco; egli osa di tentare il redentore medesimo, e l'apostolo
lo dipinge quale un leone ruggente, in traccia di preda da divorare.

Ma se le condizioni del riscatto, se la qualità di colui che l'aveva
a compiere, davano a Satana una grandezza e un valore che non avrebbe
avuto altrimenti, la redenzione stessa non toglieva a costui tanta
preda quant'egli ne aveva fatta e quanta ancora era per farne, e
la vittoria di Cristo non prostrava così la potenza di lui come il
desiderio dei riscattati poteva sperare. San Giovanni dice che il mondo
aveva ad essere giudicato e discacciato il suo principe; San Paolo
afferma che la vittoria di Cristo era stata piena ed intera, e con la
sua morte aveva distrutto il re della morte: ma il principe di questo
mondo veramente non fu spodestato; ma il re della morte non fu ucciso,
anzi seguitò come prima a spargere intorno la morte, non meno l'eterna
che la temporale. Cristo frange le porte dell'inferno, irrompe nel
regno delle tenebre, spopola l'abisso; ma dietro di lui le porte si
risaldano, le tenebre si ricongiungono, l'abisso si ripopola. Strano
a dire! mai fra gli uomini fu tanto parlato di Satana, mai Satana fu
tanto temuto quanto dopo la vittoria di Cristo, dopo la redenzione
compiuta.

Nè ciò avveniva per un semplice error di giudizio, per una
contraddizione logica. Il male è con sì fatti caratteri impresso nel
libro di nostra vita che non basta una dottrina religiosa, non basta un
sogno di fede e di amore a cancellarnelo. Lo spettacolo desolante di un
mondo in dissoluzione si offriva da ogni banda agli sguardi dei nuovi
credenti: il fior delicato e odoroso della dottrina di Cristo spuntava
di mezzo al fimo di Satana. Non era opera dell'eterno prevaricatore
quel politeismo variopinto che aveva affascinati e sedotti gli
spiriti? Non erano Giove e Minerva, Venere e Marte, e gli dei tutti che
popolavano l'Olimpo, incarnazioni di lui, o ministri del suo volere,
esecutori de' suoi disegni? Quella civiltà rigogliosa e gioconda del
paganesimo, quelle arti fiorite, quella filosofia temeraria, quelle
ricchezze e quegli onori, quegli amori e quegli ozii, e quelle infinite
lascivie, non erano trovati suoi, inganni suoi, forme e strumenti
della sua tirannide? Non era l'impero di Roma l'impero di Satana? Sì,
veramente; Satana era adorato nei templi, celebrato nelle pubbliche
feste; Satana sedeva in trono con Cesare, Satana saliva coi trionfatori
in Campidoglio. Chi sa quante volte i pii fedeli, raccolti nelle
catacombe, udendosi passar sopra il capo il fremito e il mugghio di
quella vita, paventarono non fosse la procella diabolica per sommergere
in tutto la navicella di Cristo, e fra le braccia stesse della croce si
sentirono minacciati e premuti.

Così Satana ingigantiva di tutta la grandezza del mondo pagano raccolta
in lui. In ogni parvenza di quella vita che la stringeva tutto allo
intorno il cristiano ravvisava una sembianza del _forte armato_ che
Cristo era venuto a vincere, e che, vinto, era fatto più audace e più
impetuoso di prima. E l'anima sua si riempiva di costernazione e di
terrore; giacchè come guardarsi dalle insidie, come difendersi dagli
assalti di un nemico più velenoso dell'Idra, più moltiforme di Proteo?
Tertulliano ammonirà, ed altri ammoniranno, di non frequentare pagani,
di non partecipare alle feste e ai giuochi loro, di non esercitar
professione alcuna che possa, direttamente o indirettamente, servire
al culto degli idoli; ma come osservare tale divieto e vivere? o come,
osservatolo, assicurarsi di serbar puro il cuore, se la terra che si
calca, se l'aria che si respira è fatta d'impurità e di peccato?


E Satana non si contenta del lenocinio o della insidia; con altre armi
ancora egli tenta di riconquistare il perduto. Egli assalta d'ogni
parte la Chiesa appena fondata, e come un ariete dal capo di bronzo,
ne percote giorno e notte e ne sfalda le mura. Suscita le persecuzioni
spaventose, e la nuova fede cerca di annegare nel terrore e nel sangue.
Promuove le grandi eresie e sbranca innumerevoli agnelle dal gregge di
Cristo. Tristi tempi, vita piena di periglio e di dolore! No, il regno
di Cristo non è giunto ancora; ma gli spiriti contristati cui dà le sue
ali la fede, credono di scorgerne da lungi, nei sogni apocalittici, i
rutilanti bagliori, e annunciano la seconda venuta del redentore, e la
finale sconfitta dell'antico serpente.

Sogni vani, deluse speranze! Il redentore non viene, e l'antico
serpente, fatto più velenoso che mai, moltiplicale sue spire,
avvolge più sempre il mondo. Una prova tra l'altre se ne può avere
dalla dottrina di alcune sètte che travagliarono la Chiesa, più
particolarmente nei primi tre secoli, e che tutte s'industriarono
d'introdurre nel cristianesimo un dualismo poco diverso da quel
dei persiani. Quelle dottrine formano nel loro complesso ciò che si
chiama lo gnosticismo, e le più eccessive hanno per comune tendenza
di attribuire a Satana assai più importanza che non avesse innanzi,
di considerar Satana quale creatore della natura corporea, di far del
male un principio originario e indipendente, non sorto da defezione
o scadimento, ma coeterno al bene e in lotta con esso. Per tal modo
cresceva la potenza di Satana, e l'opera della redenzione si faceva
più difficile, la salute più incerta. Clemente Alessandrino e Origene
avevano sostenuto che tutte le creature tornerebbero a Dio, loro comune
principio; ma Sant'Agostino pensò che Dio salverebbe solo alcuni
eletti, e che la massima parte del genere umano sarebbe preda del
diavolo.

Non è punto agevole, nel cozzo delle opposte dottrine e nella
contrarietà degli influssi, traverso le speculazioni della filosofia,
specie neoplatonica e cabalistica, le brillanti fantasie della gnosi,
il dogma ortodosso ancor vacillante, farsi un chiaro ed esatto concetto
delle variazioni e degli accrescimenti di Satana nei primi secoli della
Chiesa. Chi sa a quale sincretismo strano e mostruoso fosse giunta
la religione di Roma, facilmente immagina che da quell'indefinibile
miscuglio di credenze assurde e di pratiche pazze Satana dovesse
derivare più d'uno degli elementi della sua rinnovata persona.
Veramente il Satana cristiano esce dallo scontro, dal mutuo penetrarsi
di svariate civiltà, di filosofie repugnanti, di religioni nemiche, e
quando la Chiesa trionfa, quando il dogma è fermato, egli stende sul
mondo uno spaventoso dominio.

La insanabile corruzione pagana dà nuovo rilievo all'idea del male
e fa giganteggiare colui che personifica quell'idea. I cristiani
credevano il mondo pagano fattura di Satana; invece gli è il mondo
pagano che foggia in gran parte Satana nella fantasia dei cristiani.
Senza l'impero di Roma Satana sarebbe riuscito molto diverso da quello
che egli è, o fu. Tutto il turpe e tutto il diabolico diffuso per
entro la civiltà pagana, si raccoglie in lui, si condensa in lui; egli
diventa il natural richiamo di quanto appar peccato alla timorata e
ritrosa coscienza cristiana, cioè una varietà infinita di pensieri,
di costumanze, di opere. I numi che avevano avuto altari e templi non
muojono, non dileguano, ma si trasformano in demonii, perdendo alcuni
l'antica formosità seduttrice, serbando tutti la pravità antica,
accrescendola. Giove, Giunone, Diana, Apollo, Mercurio, Nettuno,
Vulcano, Cerbero, e fauni e satiri, sopravvivono al culto che loro era
reso, ricompajono fra le tenebre dell'inferno cristiano, ingombrano
di strani terrori le menti, provocano fantasie e leggende paurose.
Diana, mutata in demonio meridiano, invaderà i disaccorti troppo
obbliosi di lor salute, e la notte, pei silenzii dei cieli stellati,
si trarrà dietro a volo le squadre delle maliarde, instruite da lei.
Venere sempre accesa d'amore, non meno bella demonio che dea, userà
negli uomini l'arti antiche, inspirerà ardori inestinguibili, usurperà
il letto alle spose, si trarrà fra le braccia, sotterra, il cavaliere
Tanhäuser, ebbro di desiderio, non più curante di Cristo, avido di
dannazione. Un pontefice, Giovanni XII, reo, diranno i suoi accusatori,
di aver bevuto alla salute del diavolo, invocherà, giocando a dadi,
l'ajuto di Giove, di Venere e _degli altri demonii_. Satana sarà spesso
rappresentato in figura di fauno, di satiro, di sirena.

Quando la Chiesa trionfa, la storia di Satana par cognita in ogni
sua parte, e piena la figura di lui. Si conoscono, cioè si crede
di conoscere, le sue origini, le prime e le posteriori vicende, i
procedimenti e le opere. I Padri l'hanno narrato e descritto. Satana fu
creato buono, e si fece perverso; cadde per suo peccato, trascinando
nella ruina un innumerevole popolo di seguaci. Si dirà più tardi che
la decima parte della milizia celeste fu precipitata quaggiù, sommersa
negli abissi, e s'immaginerà una schiera di angeli neutrali, non
ribelli a Dio, non avversi a Satana, spettatori della pugna combattuta
fra quello e questo; angeli che san Brandano incontrerà nel corso delle
sue avventurose peregrinazioni; che Parzival udirà ricordare laggiù
nell'ultimo Oriente, dove si custodisce la santa reliquia del Graal;
che Dante porrà nel vestibolo dell'inferno insieme con gli sciagurati
vigliacchi _che mai non fûr vivi_.


Ma Satana non ha ancora finito di crescere, la sua persona non è per
anche perfetta; lunga è la storia di lui, e quando un'èra ne è chiusa,
un'altra incomincia. Gli asceti, che avevano creduto fuggirlo fuggendo
il mondo, e nel deserto l'avevano ritrovato, più maligno e più possente
che mai, e avevano sperimentate le sue innumerevoli insidie, sostenuti
gli insulti feroci, non lo conoscevano ancora sotto tutti i suoi
aspetti.

Alle antiche calamità altre successero; a una età di corruzione
profonda tenne dietro una età di dissoluzione violenta, che parve
schiantare dai cardini il mondo. Giù dal settentrione caliginoso,
i barbari irrompono come un mare che abbia travolte le dighe, e
l'impero di Roma al loro urto si sfascia con fragorosa rovina. La rea
e maledetta civiltà pagana si spegne, ma per dar luogo a una tenebra
disperata di barbarie, per entro a cui non è possibile scorgere
lume di salvezza. Par che il regno umano sia per finire, sia invece
per cominciare sulla terra un regno ferino. L'immane sciagura,
quale da Salviano fu narrata con eloquenza focosa, fece dubitar
della provvidenza; e offrendo spettacolo di mali incogniti prima,
innumerevoli, incommensurabili, diede, com'era naturale, nuovo rilievo
alla figura di colui che è di tutti i mali principio e promotore.
Satana cresceva dell'opera dei barbari, ma in pari tempo cresceva
di molte loro credenze, attirando a sè quanto, e non era poco, nella
loro religione, trovava conforme e omogeneo al suo essere. A contatto
con la vita greca e romana, egli, in una certa misura, si grecizzò e
romanizzò; a contatto con la barbarie settentrionale si germanizzò.
Numerose figure della mitologia germanica, il dio Loki, il lupo Fenris,
ed elfi, e silfi, e gnomi, si trasfondono in lui, e gli conferiscono
nuovi aspetti, nuovi caratteri e nuove movenze. Così Satana si
costruisce e si forma, quando con accrescimenti rapidi, quando
con lenti, in virtù di stratificazioni successive, d'infiltrazioni
continue, variando senza posa, passando pei gradi di una evoluzione
faticosa e lunga. Semplice potenza elementare in origine, egli acquista
a poco a poco il carattere morale che gli appartiene, e quando lo si
guarda cresciuto, quando si scruta dentro il suo essere, si rimane
stupiti e sopraffatti vedendo la sua grandezza, vedendo la moltiplicità
e diversità degli elementi che lo compongono. Non solo le forze della
natura, non solo gli dei di varie mitologie diventano Satana, ma
gli uomini ancora. In poemi e leggende del medio evo Pilato, Nerone,
Maometto, si convertono in diavoli.


Satana tocca il sommo grado di esplicazione e di potenza nel medio
evo, nella torbida e travagliosa età in cui più vigoreggia il
cristianesimo. Egli perviene a maturità insieme con le istituzioni
varie e con le forme proprie di quella vita; e quando l'arte gotica
fiorisce nei templi cuspidati, anche il mito di lui fiorisce, tetro e
meraviglioso, nella coscienza delle genti cristiane. Chiuso il secolo
XIII, egli declina e disviene, come declinano e disvengono il papato,
la scolastica, lo spirito feudale, lo spirito ascetico. Satana è figlio
della tristezza. In una religione come la greca, tutta serena, tutta
irradiata di luce e di colore, egli non avrebbe potuto metter persona;
a farlo crescere e prosperare son necessarie l'ombre, son necessarii
i misteri di peccato e di dolore, che, simili a un velo funereo,
avvolgono la religione del Golgota. Satana è figlio del terrore, e il
medio evo è l'età del terrore. Presi d'invincibil ribrezzo, gli animi
temono la natura gravida di portenti e di mostri, il mondo corporeo
opposto al mondo dello spirito e suo irreconciliabile nemico; temono la
vita, perpetuo fomite e periglio di peccato; temono la morte, dietro
a cui si spalanca dubbiosa l'eternità. Sogni e farnetichi turbano
le menti. L'eremita estatico, da lunghe ore ginocchioni in preghiera
dinanzi all'uscio della sua cella, vede trasvolar per l'aria eserciti
spaventosi, tregende di mostri apocalittici: le notti si illuminano
di segni fiammeggianti, gli astri si sfigurano e si bagnan di sangue,
tristi presagi di sciagure imminenti. In occasione di morbi che
falciano gli uomini come spiche mature si vedono saette, vibrate da
mani invisibili, fendere l'aria, sparir sibilando: e ogni po' corre
traverso la cristianità esterrefatta come un brivido di finimondo, e la
sinistra novella che l'Anticristo è già nato, e sta per cominciare il
formidabile dramma annunziato dall'Apocalisse.

Satana cresce nella mestizia e nell'ombra delle cattedrali spaziose,
dietro i massicci pilastri, nei recessi del coro; Satana cresce nel
silenzio dei chiostri, invasi dallo stupor della morte; Satana cresce
nel castello merlato, dove un occulto rimorso rode l'anima al torvo
barone; nella cella recondita dove l'alchimista tenta i metalli;
nel bosco solitario, dove il mago, la notte, ordisce le sue malie;
nel solco, dove il servo affamato getta imprecando il seme che dovrà
nutrire il signore. Satana è in ogni luogo: infiniti l'hanno veduto,
infiniti hanno favellato con lui.


La credenza era ben radicata, e la Chiesa non mancò di darle favore,
di accrescerle forza. La Chiesa si giovò di Satana, fece di lui uno
strumento efficacissimo di politica, e quanto più potè gli crebbe
credito, giacchè ciò che gli uomini non facevano per amor di Dio, o
per ispirito d'obbedienza, facevano per paura del diavolo. Satana fu
offerto sotto tutti gli aspetti, dipinto e scolpito, alla sgomenta
contemplazion dei devoti; Satana venne in coda a ogni frase di
predicatore, a ogni ammonizione di confessore; Satana diventò l'eroe di
una leggenda senza fine, che ebbe riscontri ed esempii per tutti i casi
della vita, per ogni azione, per ogni pensiero. Non poche Visioni del
medio evo mostrano quale applicazione si sapesse fare del diavolo alla
politica in genere: certo alla politica ecclesiastica il diavolo servì
assai più della inquisizione e dei roghi, sebbene e quella e questi
l'abbiano servita abbastanza. Sino dall'anno 811 Carlo Magno accusava
in un suo capitolare i chierici di abusar del diavolo e dell'inferno
per truffar denari e carpir possessioni.

Se grande era la paura che si aveva di Satana, l'odio che si
nutriva contro di lui non era punto minore. Tale odio non era certo
ingiustificato, giacchè odiando lui si odiava l'autor di ogni male, e
quanto più si amava Cristo tanto più si doveva odiare il suo nemico. Ma
anche in questo caso la paura e l'odio produssero gli effetti consueti,
stravaganza di opinioni, ed esagerazion di giudizii. La figura di
Satana ebbe a risentirne le conseguenze, e l'eccesso avvertito da
alcuno di mente più temperata, diede origine al proverbio che dice: _Il
diavolo non è poi così brutto come si dipinge_.



CAPITOLO II.

LA PERSONA DEL DIAVOLO.


Gli uomini non riescono se non con somma difficoltà, se pur vi
riescono, a formarsi il concetto di una sostanza incorporea,
essenzialmente diversa da quella che cade loro sotto i sensi.
L'incorporeo per essi non è di solito altro che un'attenuazione, una
rarefazione del corporeo, uno stato di minima densità, paragonabile,
anche se minore, a quella propria dell'aria, o della fiamma. Per tutti
gli uomini non civili, e per la massima parte ancora di quelli che
si chiamano civili, l'anima è un fiato, o un vapor leggiero, e si può
vedere sotto apparenza di _ombra_. Gli déi di tutte le mitologie sono
o poco o molto corporei; quelli della greca si nutrono d'ambrosia e di
nettare, e se si cacciano, come usan di fare, nelle zuffe dei mortali,
corron pericolo di toccare, come i mortali, di buone busse. Per ciò non
deve sembrare strano che le dottrine pneumatologiche, così giudaiche,
come cristiane, attribuiscano di solito un corpo agli angeli e ai
demonii.

Dottori e Padri della Chiesa, son quasi unanimi nel credere che i
demonii sieno provveduti di un corpo, già posseduto da essi quando
ancora duravano nella condizione di angeli, ma fatto, dopo la caduta,
più denso e più grave. La densità di quel loro corpo, assai più lieve
sempre che non sia il corpo degli uomini, non è da tutti stimata
egualmente: nel secondo secolo Taziano la faceva simile a quella
dell'aria o del fuoco, e un corpo formato d'aria dava ai demonii
Isidoro di Siviglia in principio del settimo. Altri, come san Basilio
Magno, inchinarono ad attribuir loro un corpo anche più sottile. Ma ben
s'intende come non potesse esservi in sì fatto argomento una opinione
unica, da doversi seguire universalmente, e come potesse Dante, senza
offendere la coscienza di nessuno, dare al suo Lucifero, là fra i
ghiacci di Cocito, un corpo saldo e compatto, al quale egli e Virgilio
si aggrappano come ad una roccia.

Avendo corpo, i demonii debbono anche avere certe necessità naturali,
come hanno tutti gli esseri corporei viventi; prima fra tutte quella
di riparar l'organismo, la cui trama, con l'esercizio della vita,
perpetuamente si logora. I diavoli debbono aver bisogno di nutrirsi,
e in fatti, Origene, Tertulliano, Atenagora, Minucio Felice, Firmico
Materno, san Giovanni Crisostomo, ed altri parecchi, dicono che
i diavoli assorbono avidamente il vapore e il fumo delle vittime
sacrificate dai pagani; cibo poco sostanzioso a dir vero, ma non
disdicevole alla complessione loro. Alcuni rabbini, largheggiando
un po' più, e pensando a introdurre nella diabolica vivanda qualche
maggior varietà, dissero che i diavoli si nutrono dell'odore del fuoco
e del vapore dell'acqua, ma sono anche avidissimi di sangue, quando ne
possono avere, e un proverbio tedesco soggiunge che il diavolo, quando
è affamato, mangia le mosche.

Il popolo parla volentieri di diavoli vecchi e di diavoli giovani, e
sono parecchi i proverbii che, in varie lingue, traggono il tema da
quella sua credenza. Si sa che il diavolo, divenuto vecchio, si fece
eremita, e parrebbe ragionevole che ancor egli dovesse invecchiare,
dacchè tutti gli esseri che hanno organismo invecchiano; ma il già
citato Isidoro di Siviglia afferma che non invecchiano, e noi non
possiamo dir altro fino a che l'anatomia e la fisiologia diabolica non
sieno meglio studiate. Se non invecchiano, non debbono neanche morire,
e una grande bugia avrebbero detto quei rabbini i quali asserirono
che anch'essi, come gli uomini, muojono, non tutti veramente, ma la
maggior parte. Ammalare sembra che dovrebbero potere; tanto è vero che
le streghe, quando ce n'erano, giunsero a dire qualche volta nelle loro
deposizioni, dopo ricevuti due o tre tratti di corda, che il diavolo di
tanto in tanto cadeva ammalato, e che allora toccava ad esse vegliarlo
e curarlo.

Alcuni Padri e Dottori, come, per non ricordarne altri, san Gregorio
Magno, vollero i diavoli al tutto incorporei; ma fu questa, come ho
detto, l'opinione meno accreditata. Ad ogni modo si poteva credere
così o così, come meglio piaceva, e san Tommaso, riferite le contrarie
sentenze, concludeva con dire che, abbiano i demonii o non abbiano
corpo, ciò poco importa alla fede. Ma se poco importa alla fede, molto
importa alla fantasia, e il popolo non mancò mai di dare ai diavoli un
corpo quanto più sodo gli fu possibile.


E come era fatto cotesto corpo? Badisi che qui si tratta del corpo che
i diavoli hanno naturalmente, non di quello che essi possono assumere a
lor piacimento e di cui dovrò parlare più innanzi.

In generale, e di regola, il corpo dei demonii aveva forma umana. Ciò
non deve recar meraviglia: l'uomo che ha fatto a propria immagine gli
déi, ha fatto pure a propria immagine gli angeli e i diavoli. Se non
che, quando si dice forma umana, non si deve intendere forma in tutto
simile alla nostra. In conseguenza del peccato e della caduta. Satana

    La creatura ch'ebbe il bel sembiante,

come dice l'Alighieri, e con Satana gli altri ribelli, videro, non
solo il corpo loro farsi più denso e più grossolano, ma ancora mutarsi
in obbrobriosa deformità la bellezza sovrana di cui Dio li aveva
vestiti. La forma dei diavoli è pertanto una forma umana deturpata e
mostruosa, nella quale il ferino si mescola con l'umano, e non di rado
soperchia; e se per ragion della forma si dovesse assegnare ai diavoli
(mi perdonino i naturalisti) un posto nella classificazione zoologica,
bisognerebbe raccoglierli per buona parte in un'apposita famiglia di
antropoidi.

Una bruttezza eccessiva, quando spaventosa e terribile, quando
ignominiosa e ridicola, fu dunque tra i caratteri, dirò così, fisici
del diavolo, il più spiccato ed appariscente; e non senza ragione,
giacchè se non è vero, come si volle far dire a Platone, che il bello
è lo splendore del buono, è per contro verissimo che gli uomini sono
tratti da una specie d'istinto di cui non cercheremo ora le origini,
ad accoppiare bellezza e bontà, malvagità e bruttezza. Dare a Satana
una bruttezza eccessiva fu considerato come un'opera meritoria, che
per sè stessa faceva bene all'anima, e nella quale trovava anche
legittimo sfogo l'odio contro un nemico non mai temuto abbastanza.
Autori di leggende, pittori, scultori, spesero in raffigurar Satana
il meglio della lor potenza inventiva, e così bene, o, se vogliamo
dir più giusto, così male lo raffigurarono, che Satana stesso ebbe a
risentirsene, sebbene sia da credere che egli della sua bellezza non si
tenga troppo. È nota la storia, narrata da molti nel medio evo, di quel
pittore, che avendo dipinto un diavolo più brutto assai dell'onesto,
fu da esso diavolo precipitato dal palco su cui lavorava. Buon per lui
che una Madonna, da lui figurata bellissima, sporse il braccio fuor del
dipinto, e lo sostenne, a mezz'aria.

Del resto non c'era bisogno d'inventar nulla di proposito. Il diavolo
molti l'avevano veduto co' proprii occhi, e potevan dire com'era fatto:
nella vorticosa fantasia dei visionarii, egli ad ogni minimo urto,
si formava di rottami e di cascami d'immagini, a quel modo che si
formano, di pezzetti di vetro multicolore, le capricciose figure del
caleidoscopio.

I manichei, eretici famosi sorti verso il mezzo del terzo secolo,
attribuivano al principe dei demonii, non solo forma umana, ma
gigantesca, e gli uomini dicevano fatti ad immagine sua. Sant'Antonio,
che sotto tanti altri aspetti ebbe a vederlo, lo vide appunto una
volta in figura di smisurato gigante, che toccava col capo le nubi,
e tutto nero; ma un'altra volta in figura di un fanciullo, nero del
pari, ed ignudo. Il color nero si trova dato ai diavoli, come loro
color naturale, sino dai primi secoli del cristianesimo, e le ragioni
che suggerivano di darglielo si palesan da sè, tanto sono ovvie e
spontanee. Più di un anacoreta della Tebaide vide il demonio in figura
di Etiope, il che prova una volta di più come il demonio ritragga
sempre de' tempi e de' luoghi in mezzo ai quali si muove, o è fatto
muovere; ma infiniti altri santi di poi continuarono a vederlo a quel
modo, non ultimo san Tommaso d'Aquino. La figura gigantesca non è
nemmen essa senza ragione, giacchè in tutte le mitologie, i giganti
sogliono essere malvagi. Nella greca i Titani sono gli avversari di
Giove, e però Dante li pone in inferno. Lo stesso Dante fa gigantesco
il suo Lucifero: nelle epopee francesi del medio evo i giganti sono
assai spesso diavoli, o figli di diavoli. Nella Visione di Tundalo,
composta verso il mezzo del XII secolo, il principe dei demonii, che in
eterno cuoce sopra una graticola, non solo è gigantesco, ma ha, come
Briareo, cento braccia, e simile a Briareo, con cento mani e cento
piedi, lo vide nel secolo XIV santa Brigida. Per contro qualche volta
il diavolo è rappresentato come nano, probabilmente per influsso di
miti germanici, di cui non serve ora discorrere.

Il Lucifero di Dante ha tre facce, ma non è Dante il primo a dargliele.
La Trinità fu qualche volta rappresentata nel medio evo sotto specie
di un uomo con tre volti; e poichè il concetto della Trinità divina
suggerisce, per ragion di contrasto il concetto di una Trinità
diabolica, e poichè, inoltre, nello spirito del male si supponeva
essere tre facoltà o attributi opposti e contraddicenti a quelli che
si spartiscono fra le tre persone divine, così era naturale che si
ricorresse per rappresentare il principe dei demonii a una figurazione
atta a far riscontro a quella con cui si rappresentava il Dio trino
e uno. Questo Lucifero con tre facce, che è come l'antitesi della
Trinità, o come il suo rovescio, appare in iscolture, in pitture su
vetro, in miniature di manoscritti, quando cinto il capo di corona,
quando sormontato di corna, tenendo fra le mani talvolta uno scettro,
tal altra una spada, o anche due. Quanto tale figurazione sia antica
è difficile dire, ma certo è anteriore a Dante che la introdusse nel
suo poema, e a Giotto che prima di Dante la recò in un suo affresco
famoso: essa si trova già nel secolo XI; e di un Beelzebub tricipite è
cenno nell'Evangelo apocrifo di Nicodemo, il quale, nella forma che ha
presentemente, non è posteriore al secolo VI.


Come più cresce negli animi e si dilata nel mondo la paura di Satana,
più la bruttezza di lui si fa orrenda e fantastica; ma s'intende bene
che a fargli dare piuttosto una che un'altra figura contribuivano
non poco le occasioni, le credenze, i temperamenti. La forma più
semplice di cui egli sia stato vestito è quella di un uomo alto,
macilento, fuligginoso o livido, straordinariamente magro, con occhi
accesi e sbarrati, spirante da tutta la sua tetra persona un orrore
di larva. Tale lo descrive più di una volta nel secolo XIII Cesario
di Heisterbach, monaco cisterciense, il cui nome ricorrerà frequente
in queste pagine, e tale lo introduce ancora Teodoro Hoffmann nel
suo strano racconto, che appunto s'intitola l'_Elisir del diavolo_.
Un'altra forma, infinite volte rappresentata dalle arti, è quella di
un angelo annerito e deturpato, con grandi ali di pipistrello, corpo
asciutto e peloso, due o più corna in capo, naso adunco, orecchie
lunghe ed acute, denti porcini, mani e piè con artigli. Così è fatto
il demonio che nell'inferno dantesco butta giù nella pegola spessa dei
barattieri uno degli anziani di Santa Zita:

    Ahi, quanto egli era nell'aspetto fiero!
      E quanto mi parea nell'atto acerbo,
      Con l'ale aperte e sovra i piè leggiero!
    L'omero suo, ch'era acuto e superbo,
      Carcava un peccator con ambo l'anche,
      E quei tenea de' piè ghermito il nerbo.

Questa forma non esclude una certa eleganza; ma appunto perchè non
l'esclude doveva facilmente trovare chi l'imbruttisse. Le corna
diventarono spesso corna di bue, le orecchie, orecchie d'asino; la coda
si munì in cima di una bocca di serpente; ceffi mostruosi, simili a
mascheroni di fontana, copersero le giunture, boccheggiarono sul petto,
sul ventre, sulle natiche; il membro virile s'inserpentì, si contorse
in istrane fogge, così da ricordare certe bizzarre creazioni dell'arte
antica; le gambe si mutarono in gambe di capro, reminiscenza del satiro
pagano, o l'una di esse soltanto in gamba di cavallo; i piedi furono
talvolta artigli d'uccel di rapina, o zampe d'oca.

Ma con ciò non si toccavano ancora gli ultimi termini del mostruoso.
Una strana credenza voleva che il corpo dei diavoli non avesse che
la parte anteriore, e fosse cavo dentro, simile a quei vecchi tronchi
d'albero cui una lenta dissoluzione ha votato della sostanza legnosa.
San Furseo vide una volta una turba di diavoli con lunghi colli e capi
come caldaje di rame. Certi altri diavoli, veduti da san Gutlaco,
avevano grandi teste, colli lunghi, volto lurido e macilento, barba
squallida, orecchie ispide, fronte torva, occhi truci, denti equini,
chiome arsicce, bocca ampia, petto sollevato, braccia scabre, ginocchia
nodose, gambe arcate, calcagna massicce, piedi stravolti. Di giunta
avevano voce clamorosa e rauca, e dalla bocca vomitavano fuoco. E
questo vomitar fuoco dalla bocca non è gran cosa, perchè di solito
schizzavano fiamma viva da tutte le aperture del corpo. A santa Brigida
apparve una volta un diavolo che aveva il capo simile a un mantice
munito di lunga canna, le braccia come serpenti, le gambe come un
torchio, i piedi come uncini.

Ma chi mai potrebbe descrivere sotto tutti i suoi aspetti questa
nuova Chimera? L'opinione che ciascun demonio dovesse avere una sua
forma particolare, conveniente al suo particolar carattere, al suo
grado, e alla natura del suo magistero infernale, moltiplicava le
immaginazioni strane, accresceva la confusione. Abbiam veduto membra
bestiali accoppiarsi nel corpo dei demonii alle umane; non di rado
il bestiale soperchia l'umano, e in tal caso si ha poniamo, una fiera
con capo d'uomo, come il Gerione di Dante: talvolta ancora il bestiale
esclude interamente l'umano, e allora si ha una fiera diabolica, la
quale può essere anche una bestia composita, fatta di pezzi tolti di
qua e di là, un mostro che fa violenza alla natura, un vivo simbolo di
prevaricazione e di disordine.


Durante tutto il medio evo il diavolo s'immagina, come abbiam veduto,
bruttissimo, e a questa regola, più morale ancora che estetica, gli è
molto difficile trovare eccezione. Tuttavia qualche rarissima eccezione
si trova. Una Bibbia latina del IX o X secolo, la quale si conserva
nella Biblioteca Nazionale di Parigi, ha tra molt'altre una miniatura
che rappresenta Satana e Giobbe. Satana vi è ritratto in modo da non
potersi dir brutto. Dell'angelo antico esso serba ancora le ali e, cosa
assai più strana, il nimbo che cerchia il capo; ma i piedi ha muniti di
artigli, e nella mano sinistra tiene un vaso pien di fuoco, col quale
sembra voglia dar segno dell'esser suo. Un diavolo che il poeta chiama
bello, ma che nondimeno ha gran bocca e naso adunco, è descritto in
un'epopea francese del XII secolo, la _Bataille Aliscans_. Federigo
Frezzi, vescovo di Foligno, e autore del _Quadriregio_ (m. 1416), trova
in inferno, contro l'aspettazion sua, un Satana bellissimo:

    Credea veder un mostro dispettoso,
      Credea veder un guasto e tristo regno,
      E vidil trionfante e glorïoso.
    Egli era grande, bello, e sì benegno
      Avea l'aspetto, di tanta maesta,
      Che d'ogni riverenza parea degno.
    E tre belle corone avea in testa,
      Lieta la faccia e ridenti le ciglia
      E con lo scettro in man di gran podesta.
    E benchè alto fosse ben tre miglia,
      Le sue fattezze rispondean sì eguali,
      E sì a misura ch'era maraviglia.
    Dietro alle spalle sue avea sei ali,
      Di penne sì adorne, e sì lucenti.
      Che Cupido e Cillen non l'han cotali.

Ma non è questa se non una bugiarda apparenza, e il poeta, guardando
attraverso lo scudo adamantino di Minerva, sua guida, vede il principe
dei demonii qual è veramente, di ferissimo aspetto, tutto nero, con
gli occhi accesi, cinto il capo, non di corona, ma di draghi, mutati in
serpi i capelli e i peli tutti del corpo, le braccia armate di artigli,
il ventre e la coda come di smisurato scorpione. Satana comincia a
rabbellirsi alquanto col sopravvenire, o meglio con l'esplicarsi del
Rinascimento, e si capisce come una età innamorata della bellezza,
e che al culto della bellezza diede il meglio delle proprie energie,
non dovesse comportare nemmeno in Satana una deformità troppo turpe
e spaventosa. Nel _Giudizio_ di Michelangelo le figure dei demonii
non sono gran che diverse da quelle dei dannati, e fanno impressione
più per la terribilità loro che per l'orridezza. I demonii del
Milton serbano nella caduta non piccola parte dell'antica bellezza e
dell'antica maestà; ma quelli del Tasso hanno _strane_ ed _orribili_
forme, anzi riproducono i mostri tutti dell'antichità. La figura del
cavaliere, col giustacuore di velluto, il mantello di seta, il berretto
adorno di una lunga penna di gallo, la spada al fianco, è immaginazione
moderna.

I demonii, che avevano le proprie lor forme, potevano anche, a
piacimento, assumerne altre; ma tanta è la varietà, e tanto il viluppo
dell'une e dell'altre, che non sempre vien fatto distinguerle. In
genere si può dire non esservi forma che il diavolo non possa rivestire
all'occorrenza, e questa sua attitudine lo rende ben meritevole del
nome di Proteo infernale che gli fu dato. Il Milton ben lo sapeva. Gli
spiriti, egli dice, parlando appunto degli angeli caduti,

    Pigliano a grado lor l'un sesso e l'altro,
    O li fondono insieme. È tanto molle,
    Semplice tanto la spirtale essenza,
    Che libera da fibre e da giunture,
    E non come la carne al frale appoggio
    Dell'ossa accomodata, in qual sia forma
    lucida od opaca, o rara o densa,
    Può gli aerei seguir divisamenti,
    Ed all'opre dell'ira e dell'amore
    Dar l'effetto proposto.

Vediamo un po' di raccapezzarci in mezzo a questa interminabile
mascherata infernale.

I diavoli, brutti per natura, potevano procacciarsi con artifizio un
aspetto bello e seducente; potevano anche procacciarsi una deformità
diversa da quella lor propria. A seconda degli intendimenti e dei
bisogni loro, facevano l'una cosa o l'altra.

Che i diavoli, specie nel tempo più antico, apparissero alcuna volta
ai cristiani in figura delle tali o tali altre divinità pagane, non
parrà strano a nessuno. San Martino, il famoso vescovo di Tours, ebbe
a vederli camuffati da Giove, da Mercurio, da Venere, da Minerva.
Ma san Martino visse nel IV secolo, in un tempo in cui il paganesimo
era, se non vegeto, vivo ancora, e però quelle sue visioni s'intendono
facilmente: non così facilmente s'intende che vedesse ancora diavoli
in figura di Giove, di Venere, di Mercurio, di Bacco, di Ebe, san
Rainaldo, vescovo di Nocera nel secolo XIII. In questo secondo caso
dobbiam riconoscere gli effetti di certe letture di autori classici,
e i sintomi dell'approssimarsi del Rinascimento. Le ragioni stesse
che inducevano i demonii a mascherarsi da divinità pagane, potevano
indurli a vestirsi delle sembianze di illustri antichi. Nel X secolo,
a un grammatico di Ravenna, per nome Vilgardo, apparvero una notte
alcuni diavoli sotto le spoglie di Virgilio, di Orazio, di Giovenale,
e ringraziatolo della diligenza che egli adoperava intorno ai loro
scritti, gli promisero di farlo dopo morte partecipe della stessa loro
gloria.

Spessissimo i diavoli, che già avevano, di solito, forma umana,
ne prendevano un'altra, pure umana, ma più conveniente al bisogno
loro. Innumerevoli storie di santi ci narrano di decmonii apparsi in
figura di donne avvenenti, e infinite storie di sante ci narrano di
demonii nascosti sotto le apparenze di bei giovani procaci. Su queste
apparizioni pericolose dovrò ritornare quando parlerò del diavolo
tentatore. Non di rado i diavoli si prendevano il gusto di capitare
innanzi a colui o a colei cui volevano dar noja, sotto sembianze di
amici, di parenti, di persone in altro modo cognite e familiari; dal
che poteva venire, e venne qualche volta, danno e scandalo grande. La
venerabile Maria di Maillé scoperse il diavolo sotto la scorza di un
eremita che tutti reputavano santo. Alla beata Gherardesca Pisana,
e ad altre sante, il diavolo apparve in figura degli sposi loro; in
figura di cavaliere uscì un giorno dalla camera da letto di santa
Cunegonda. Una volta poi ne fece una anche più grossa. Prese l'aspetto
di san Silvano, vescovo di Nazaret, scoperse ad una fanciulla il suo
amore, e si lasciò trovare sotto il letto di lei. Messosi un giorno
alla finestra, Tommaso Cantipratense, domenicano del secolo XIII,
vide il diavolo in figura di un prete, che (bisogna dirlo in latino)
si mostrava _nudato inguine, ex tento asinino veretro velut ad urinam
faciendam_. Chiamatolo, quello immantinente sparì. Lo stesso Tommaso
racconta che nell'anno 1258, presso Colonia, fu veduta una gran ridda
di diavoli, in figura di monaci bianchi, trascorrere danzando pei
prati.


Assai di frequente i diavoli si lasciarono vedere sotto forma di varii
animali. Non parlo del drago, perchè non s'intende bene se quella del
drago sia una propria forma di alcuni diavoli, oppure una forma assunta
accidentalmente. Come drago, senz'altro, appare Satana nell'Apocalisse,
e sono molti i santi a cui apparvero draghi diabolici. Nel secolo VIII
Giovanni Damasceno descriveva i demonii come draghi volanti per l'aria.
Alcuna volta il drago sembra un essere intermedio fra il demonio e la
bestia. Ma infinite altre forme animalesche usavano rivestire i demonii
per tormentare, intimorire, infastidire i buoni fedeli. Sant'Antonio,
là nel deserto, ebbe a vederli in forma di belve ruggenti, e muggenti,
di serpi e di scorpioni, e, più di mille anni dopo, santa Coleta li
vedeva ancora trasformati in volpi, in serpenti, in rospi, in lumache,
in mosche, in formiche. Nel secolo XIII sant'Egidio riconobbe il
demonio sotto il guscio di una smisurata testuggine. In figura di leone
il demonio uccise un fanciullo, cui sant'Eleuterio, vescovo di Tournay,
ridiede la vita; in figura di corvo si mostrò a molti. Nella leggenda
di san Vedasto si ricorda che i diavoli furono veduti una volta
oscurare il giorno sotto forma di un nugolo di pipistrelli. Cane, il
diavolo si fece compagno di papa Silvestro II, sospetto di magia; cane
apparve a Fausto, e cane fu veduto custodire tesori nascosti sotterra;
caprone, si lasciò vedere nelle tregende; gatto, si strofinò nelle
cucine delle maliarde; mosca, ronzò ostinatamente intorno ad uomini
dabbene. Insomma non è animale feroce, o deforme, o schifoso, sotto le
cui sembianze i demonii non siensi celati talvolta.

Tutta questa zoologia diabolica non deve recar meraviglia. Non solo
era naturale che i demonii prendessero, per raggiungere i particolari
loro fini, quali forme animalesche più loro piacessero; ma tra gli
animali stessi, o almeno tra parecchi di essi e i demonii, era una
certa affinità, era talvolta una vera medesimezza di natura. Lasciamo
stare che nel simbolismo cristiano parecchi animali, come il serpente,
il leone, la scimia, rappresentano il diavolo; lasciamo stare che i
demonii stessi sono molto sovente chiamati col nome poco complimentoso
di bestie; ma certi animali sono a dirittura trasformati in demonii,
o confusi coi demonii. In un'antica formola di esorcismo si prega
Dio di voler preservare i frutti della terra da bruchi, topi, talpe,
serpenti ed altri _spiriti immondi_. Da altra banda mi ricordo di aver
veduto in un antico _Bestiario_, o trattato zoologico del medio evo,
il diavolo messo in ischiera con l'altre bestie. Ho già notato che il
drago era alcun che di mezzo tra il demonio e la bestia; altrettanto
può dirsi del basilisco. Il rospo, che molto spesso compare in
compagnia delle streghe, riesce in certi racconti assai più demonio
che bestia. A provarlo può bastare la seguente spaventevole istoria
narrata da Cesario di Heisterbach. Un fanciullo trova in un campo
un rospo e lo ammazza. Il rospo morto perseguita il suo uccisore,
non dandogli requie nè giorno nè notte; ammazzato più altre volte,
continua a perseguitarlo, e non ismette nemmeno dopo essere stato arso
e ridotto in cenere. Il povero perseguitato, non trovando altro modo
di liberarsi, si lascia mordere dal suo nemico, e sfugge alla morte
tagliando rapidamente via con un coltello la carne in cui era penetrato
il morso velenoso. Appagato il suo furore di vendetta, il terribile
rospo non si lasciò più vedere.

San Patrizio, san Goffredo, san Bernardo, altri santi parecchi,
scomunicarono mosche e altri insetti nocivi, o anche rettili, e
liberarono dalla loro presenza case, città, province. I processi
fatti agli animali nel medio evo, e ancora in pieno Rinascimento, sono
famosi nella storia della superstizione: si citavano le bestie, come
si citavano i diavoli. Nel 1474 i magistrati di Basilea giudicarono e
condannarono al fuoco un gallo diabolico, che aveva ardito di fare un
uovo. Se gli animali si trasformavano in demonii, era pur giusto che i
demonii si trasformassero in animali.

Nè bastava loro di trasformarsi in animali, chè si trasformavano
ancora in cose inanimate. San Gregorio Magno narra il lacrimevole caso
di una monaca, la quale, credendo di mangiare una foglia di lattuga,
mangiò il diavolo, e se lo tenne in corpo un pezzo. Un discepolo di
sant'Ilaro, abate di Galeata, vide una volta il diavolo sotto forma di
un appetitoso grappolo d'uva. Ad altri, secondo i casi e le occorrenze,
il diavolo si lasciò vedere sotto specie di un bicchiere di vino, di
un pezzo d'oro, di una borsa piena di monete, di un tronco d'albero,
di una botte che ruzzola, e perfino di una coda di vacca. Non senza
ragione dunque l'olandese Gerolamo Bosch, e qualche altro tra' più
famosi pittori di diavoli, avvivarono spesso di diabolica vita alberi,
pietre, fabbriche, suppellettili casalinghe, arnesi di cucina.

Se non che non finiscon qui gl'immascheramenti diabolici, e se quelli
che ho ricordati dànno prova di non poca versatilità di natura e di non
picciola fantasia, altri ne sono che rivelano grandissima temerità ed
impudenza veramente diabolica. Più di una volta osò Satana di assumere
le venerate sembianze di alcun santo famoso, vivo ancora, o già morto
e levato all'onor degli altari. Assai spesso ancora si lasciò vedere
in figura di angelo, splendente di luce e di gloria. Ponendo il colmo
all'audacia egli apparve a parecchi in sembianza della Vergine Maria,
di Cristo crocifisso, o risorto, dello stesso Dio Padre, e insieme co'
satelliti suoi giunse talvolta a simulare, a porre in iscena l'intera
corte celeste.


I demonii potevano, addensandosi l'aria d'attorno, o foggiando
acconciamente alcun altro elemento, fingersi il corpo che loro meglio
piaceva; ma potevano anche cacciarsi in un corpo bell'e formato, e
servirsene non altrimenti che se fosse il loro proprio. Non intendo
qui parlare della possessione, di cui avrò a dire a suo luogo, e che i
demonii esercitavano invadendo corpi tuttora vivi; ma della intrusione
loro in corpi morti, che per loro virtù ostentavano le apparenze della
vita. Dante fa dire a frate Alberigo de' Manfredi che i traditori della
patria, puniti nella Tolomea, hanno tal sorte, che mentre l'anime loro
penano nell'ultimo fondo d'inferno, i corpi, governati da demonii,
durano per un certo tempo nel mondo, ancora vivi in apparenza. Questa
fu giudicata una ingegnosa fantasia di Dante, e non è. Cesario racconta
la lugubre storia di un chierico morto, il cui corpo era animato e
tenuto su da un diavolo. Questo chierico di contrabbando cantava con
voce così soave che tutti in udirlo trasecolavano; ma un bel giorno
un sant'uomo, dopo averlo ascoltato alquanto, disse senza smarrirsi:
“Questa non è voce d'uomo, anzi è voce di un dannatissimo diavolo;„ e
fatti suoi bravi esorcismi, forzò il diavolo a venir fuori, e quando
il diavolo fu fuori, il cadavere cascò in terra. Tommaso Cantipratense
racconta come un demonio entrò nel corpo di un morto, che era deposto
in una chiesa, e tentò con sue ciurmerie di spaventare una santa
vergine che pregava; ma la santa vergine, conosciuto l'inganno, diede
al morto un buon picchio sul capo, e lo fece chetare. Di un diavolo,
che per tentare un povero recluso tolse il corpo di una donna morta,
narra Giacomo da Voragine (m. 1298) nella sua _Legenda aurea_. Ma
questa immaginazione è assai più antica. Di un diavolo che, entrato
nel corpo di un dannato, traghettava a un fiume i viandanti, con
isperanza di farli affogare, si legge nella Vita di san Gilduino:
di un altro, che teneva vivo il corpo di un malvagio uomo, si legge
nella Vita di sant'Odrano. I teologi ammisero ciò che le leggende
narravano; solo determinarono in loro sapienza che i diavoli non
potessero cacciarsi nei morti di buona riputazione, approvati dalla
Chiesa. La credenza, con o senza questa restrizione, non è così innocua
come potrebbe a primo aspetto sembrare. Ad essa si legano parecchie
superstiziose opinioni circa il male che corpi morti possono fare, e
parecchie orribili pratiche intese a impedir che lo facciano. Se uno
creduto morto faceva alcun movimento, tosto si pensava esser quella
una illusione del diavolo, e al morto che voleva esser vivo davasi
sepoltura in tutta fretta. La credenza durava tuttavia in pieno
Rinascimento, e nel secolo XVIII non era ancora del tutto dileguata.


Il diavolo poteva a posta sua assumere forme onorate e piacenti, ma non
cessava però d'essere diavolo; fatta invisibile, la diabolicità sua non
cessava di raggiargli da tutta la persona come un influsso maligno.
Anche quando si celava sotto le sembianze di una bella fanciulla, o
sotto quelle di un angelo, della Vergine Maria, di Cristo medesimo,
egli col suo appressarsi turbava e sgomentava l'umana natura, inspirava
ribrezzi inesplicabili, o lasciava dietro sè ansie e terrori profondi.
L'influsso pernicioso poteva rafforzarsi d'assai se egli si lasciava
vedere sotto il proprio suo aspetto, o sotto alcun altro aspetto
mostruoso. Il bravo Cesario mostra, con varii esempii, quanto pericolo
porti la vista del diavolo. Due giovani ammalarono dopo aver veduto il
diavolo in figura di donna; parecchi, dopo averlo veduto, morirono.
Tommaso Cantipratense dice che la vista del diavolo fa ammutolire.
Dante, giunto in presenza di Lucifero, divien _gelato e fioco_, non
muore e non è vivo. Nè ciò deve far meraviglia se si pensa che alla
donna bianca e ad altri spettri fu spesso data facoltà di uccidere con
lo sguardo e con l'aria del volto.

Infinite erano le forme sotto cui il diavolo poteva celarsi, e
infiniti gl'inganni che per esse poteva fare altrui; ma c'era pure
chi, come san Martino, sapeva scovarlo sotto le forme più inusitate
e più ingannevoli. Scoperto, il diavolo travisato si dileguava
improvvisamente, o riprendeva l'aspetto suo consueto.

Questa era la natura fisica del diavolo: della morale non parlo ora,
giacchè noi la vedremo esplicarsi nei capitoli seguenti. Dirò solo che,
contro alla sentenza di san Tommaso d'Aquino, il quale non gl'imputa
altro peccato che la superbia e l'invidia, la opinion popolare ha
regalato al diavolo tutti e sette i peccati capitali.



CAPITOLO III.

NUMERO, SEDI, QUALITÀ, ORDINI, GERARCHIA, SCIENZA E POTENZA DEI DIAVOLI.


Parlar del diavolo, come se il diavolo fosse uno solo, non è esatto:
i diavoli erano molti, e quando si dice diavolo, al singolare, s'ha a
intendere il principe loro, oppure s'ha a intendere la diabolica razza
tutta intera, collettivamente presa, e rappresentata dall'individuo.

I diavoli, non solo erano molti, ma erano innumerevoli. Si ammetteva
generalmente dai teologi che degli angeli la decima parte si fosse
ribellata a Dio; ma ci fu chi non si contentò di una supputazione così
vaga, e sottopose il popolo infernale a regolare censimento. Un teologo
più diligente degli altri, approfondito l'esame della cosa, trovò che i
diavoli dovevano essere non meno di 10,000 bilioni.

Per tanta gente ci voleva del posto, e perciò le sedi dei diavoli erano
due, la sfera dell'aria, e l'inferno; quella perchè avessero agio di
tentare e tormentare i vivi, questa per punizione lor propria, e perchè
dessero ai morti il meritato castigo. La sede aerea era loro concessa
solo fino al dì del giudizio: pronunziata la finale sentenza essi
dovevano tutti stiparsi in inferno per non uscirne più mai.


I diavoli non erano tutti di una qualità e di una condizione. C'erano
diavoli acquatici, che si chiamavano Nettuni; ce n'erano di quelli
che abitavano nelle spelonche e nelle selve, ed erano detti Dusii;
c'erano gl'Incubi, i Succubi, ecc. Inoltre non tutti avevano le
stesse attitudini: questo riusciva meglio a far la tal cosa; quello
riusciva meglio a far la tal altra. Di qui la divisione del lavoro e
la necessità di un certo ordinamento sociale. Parve a taluno che fra
i demonii, i quali appunto personificano il disordine e la confusione,
un ordinamento così fatto non ci dovesse, nè ci potesse essere; ma tale
non è la opinione di san Tommaso e dei teologi più accreditati, i quali
vogliono ci sia una gerarchia fra i diavoli, come c'è una gerarchia
fra gli angeli rimasti fedeli. Anzi la gerarchia dei diavoli parrebbe
più salda e più intera che non quella degli angeli, perchè, mentre
quelli hanno un capo che sta sopra tutti, ed a tutti comanda, questi
non l'hanno, o l'hanno solamente in Dio, che è monarca universale e non
loro soltanto. Principe e monarca dei diavoli è Beelzebub, secondo si
afferma negli Evangeli di Matteo e di Luca, e si tiene dai teologi in
generale; ma bisogna dire che qualche incertezza regna a tale riguardo.
Alcuna volta comparisce capo Satana, alcun'altra Lucifero, e Dante,
forse per tôrsi d'impaccio, fa di Satana, di Lucifero, di Beelzebub un
solo e medesimo diavolo, contrariamente alla opinione di altri, che ne
fanno tre diavoli distinti e non eguali in potenza fra loro.

Di ordini diabolici si parla già nel così detto Libro di Enoc,
anteriore al cristianesimo, e se ne parla poi nel Nuovo Testamento.
San Tommaso fa espressa menzione di diavoli superiori ed inferiori
e di ordini gerarchicamente costituiti, senza entrare per altro
in troppi particolari. Ma un tale riserbo, se poteva convenire ai
teologi in genere, non conveniva ai demonografi in ispecie, e a quanti
attendevano a studio o a pratica di magia. A tutti costoro importava di
conoscere esattamente la gerarchia diabolica, e insieme la condizione
e le operazioni di ciascun ordine in essa compresa, anzi, quando
fosse possibile, di ciascun singolo demonio. Del resto il principio
dell'ordinamento non fu da tutti inteso ad un modo, e se alcuni Padri
pensarono che gli ordini si distinguessero secondo le varie specie di
peccati che i demonii promuovono, altri credettero si distinguessero
secondo il grado della potenza e la qualità dell'azione.

Dante chiama Lucifero imperatore del doloroso regno: per lui l'universo
si spartisce simmetricamente in tre grandi monarchie, la celeste in
alto, l'infernale in basso, l'umana tra le due, nel mezzo. Ma questo
concetto di un regno satanico non è un concetto proprio di Dante, e
neanche del medio evo, sebbene nel medio evo acquisti il massimo di
pienezza e di precisione. Esso già si trova negli Evangeli e negli
scritti di alcuni Padri, e di qui venne l'uso di attribuire a Lucifero,
quali insegne della sua potestà, scettro, corona e spada. In più di una
leggenda ascetica Satana appare seduto in un trono eccelso, cinto di
regia pompa, accompagnato da grande stuolo di ministri e di seguaci.
E si andò tant'oltre in questa fantasia da immaginare a dirittura
una corte satanica, simile in tutto alle corti dei gran principi
della terra. Nel libro magico di Giovanni Fausto, di quel Fausto la
cui formidabile istoria diede argomento al capolavoro del Goethe, si
legge che re dell'inferno è Lucifero, che Belial è vicerè, che Satana,
Beelzebub, Astarotte e Plutone sono governatori, che Mefistofele con
altri sei sono principi, e che nella corte di Lucifero si trovano
cinque ministri, un segretario e dodici spiriti familiari. In altri
libri magici e demonologici è fatto ricordo di duchi, di marchesi,
di conti infernali, e di ciascuno è detto appuntino quante legioni di
diavoli abbia sotto i suoi ordini.

Legioni e capi formano un esercito. I demonii sono di lor natura
spiriti militanti, e la milizia loro si contrappone alla milizia del
cielo. Qual meraviglia che una tal milizia s'immagini simile in tutto
alle milizie terrestri? Nella leggenda della beata Maria di Antiochia
si vede, di nottetempo, passar sopra un carro il re dei demonii,
circondato e seguito da innumerevole esercito di cavalieri. Pietro il
Venerabile (m. 1156) narra di una immensa turba di guerrieri diabolici,
armati di tutto punto, che passò una notte attraverso un bosco. E
quante volte non si videro le legioni armate trasvolar come nembi per
l'aria?

Se l'inferno era un regno, e se Satana aveva, come re, la sua
corte, non parrà strano che in tal corte si tenessero consigli, si
esaminassero questioni, si pronunziassero giudizii e sentenze, nè
che, di tanto in tanto, Satana, desideroso di svago, movesse con parte
de' suoi seguaci a qualche caccia furibonda traverso le foreste della
terra, sbarbando nel corso gli alberi secolari, e spargendo all'intorno
il terrore e la morte. Con meno impeto, ma non sempre con minor danno,
cacciavano in quei tempi i principi d'ossa e di polpe. Come re, Satana
pretendeva l'omaggio di chi si dava a lui.

Circa il sapere dei demonii i teologi non vanno troppo d'accordo,
sebbene si ammetta da tutti che l'intelletto loro siasi ottenebrato
dopo la caduta, di maniera che, se vince ancora, e di molto, l'umano,
è di gran lunga inferiore all'angelico. Conoscono le cose passate e
le presenti, anche più occulte; ma le presenti Dio può sempre, quando
il voglia, celarle loro. Alcuni Padri asserirono che Satana ignorò
molte cose attinenti a Cristo e al mistero della sua incarnazione,
o, a dirittura, che non riconobbe in Cristo il dio fatto uomo. Tale
ignoranza gli costò cara, perchè, procacciando egli la ingiusta morte
di lui, diè luogo all'opera della redenzione e compiè la propria
rovina. In fatti nell'Evangelo di Matteo, Satana dice a Cristo: “Se sei
figliuolo di Dio fa che queste pietre si convertano in pani;„ parole
che mostrano come egli non abbia sicura contezza di colui che tenta.

I demonii conoscono tutti i secreti della natura; ma conoscono essi
egualmente quelli dell'animo umano? Possono essi penetrare nell'intimo
della coscienza, spiare i pensieri e gli affetti nostri? Anche su ciò
le opinioni sono divise. Parve a taluno che se tale facoltà fosse loro
concessa, l'uomo sarebbe tutto in loro balía e senza possibile difesa
contro le suggestioni e le tentazioni. E in vero, fate che io abbia
cognizione piena e sicura dell'animo di un uomo, e quell'uomo, per poco
che l'ingegno mi ajuti, io potrò governarlo a mio modo. Perciò molti
affermarono che i demonii non possono veder l'animo umano, ma solo da
segni esteriori argomentano quanto in esso si muove, facendo così, con
accorgimento incomparabilmente maggiore, ciò che anche l'uomo può fare.
Altri invece pensarono che i demonii leggessero nell'animo nostro come
in un libro aperto, e di questa opinione è il principe dei teologi, san
Tommaso d'Aquino. Qualcuno prese la via di mezzo.

Così Onorio Augustodunense (m. dopo il 1130) pretende che i demonii
conoscano le male cogitazioni degli uomini, ma non già le buone. Fatto
sta che più di un povero esorcista, mentre si affaticava a cacciare
il diavolo fuori del corpo di un indemoniato, ebbe la mortificazione
di sentirsi recitare _coram populo_ dal maledetto la lista de' peccati
suoi più secreti, compresi quelli di pensiero.

Sanno i diavoli il futuro? Altra ingarbugliata questione. I più dei
teologi dissero che no, e con ragione, sembra; giacchè, se sanno il
futuro, come sanno il presente e il passato, in che mai la scienza
loro è diversa dalla scienza di Dio? E come può Dio patire che i
diavoli conoscano anticipatamente quant'egli sarà per fare nei secoli
dei secoli? Una tal cognizione non dovevano essi avere nemmeno prima
della loro cacciata dai cieli, perchè se l'avessero avuta, sapendo
come la cosa doveva andare a finire, non si sarebbero ribellati. In
fatti si dice che gli angeli buoni non hanno neppur essi cognizione
diretta del futuro, ma in tanto lo conoscono in quanto lo leggono nella
mente di Dio, e in quanto Dio concede loro sì fatta lettura. Anche in
ciò del resto si trova modo di conciliare le opposte ragioni. Origene
voleva che i demonii argomentassero il futuro dagli aspetti e dai
movimenti degli astri, opinione non troppo conciliabile, parmi, con
quella di Lattanzio, che dell'astrologia faceva appunto una invenzion
dei demonii. Sant'Agostino credeva che i diavoli non conoscessero per
vision diretta il futuro, ma in grazia della facoltà ch'essi hanno di
tramutarsi da luogo a luogo con più che fulminea velocità, e in grazia
ancora dell'acume dei loro sensi e del loro intelletto, potessero
argomentarlo, immaginarlo, indovinarlo. San Bonaventura afferma che non
conoscono le cose future contingenti, ma bensì quelle che obbediscono a
leggi certe, avendo essi pienissima notizia del corso della natura.

I diavoli avevano a mente dunque tutte le scienze, e gli è
probabilmente per ciò che la Chiesa non mancò mai, ogniqualvolta un
uomo di scienza fece manifesta a' suoi simili qualche gran verità, di
gridare: Dálli al diavolo! e di bruciarlo vivo potendo. Tuttavia Dante
nega che i demonii possano filosofare, _perocchè amore è in loro del
tutto spento, e a filosofare... è necessario amore_. Ciò non toglie
che lo stesso Dante faccia argomentare in assai buona forma il diavolo
che se ne porta l'anima di Guido da Montefeltro, indebitamente assolto
da papa Bonifacio VIII, e gli permetta di chiamarsi da sè stesso un
_loico_, non altrimenti che se fosse un dottor di Sorbona. Dicesi (e
il famoso Giovanni Bodin lo scrive nella sua _Demonomania_) che il
celeberrimo Ermolao Barbaro, patriarca di Aquileja (m. 1493), evocò una
volta un diavolo per sapere da lui che cosa Aristotile avesse inteso
di dire con la sua entelechia. Ad ogni modo, se ignaro della buona
filosofia, il demonio doveva essere assai versato nella sofistica, anzi
maestro d'essa; al quale proposito va ricordata la spaventevole storia
di quello scolare di Parigi, che morto, e andato a perdizione, apparve
all'esterrefatto maestro con indosso una cappa ricamata di sofismi,
storia narrata dal buon Passavanti ad ammonimento ed a confusione di
quanti non fanno buon uso del sillogismo.

Ma se i demonii non avevano a sapere di filosofia, parrà strano a
taluno ch'ei potessero saper di teologia, e avere a mente le Scritture,
e disputar dei misteri con quella stessa chiarezza e precision di
concetti che si ammira nei teologi di professione. E pure è così.
Infinite volte, per bocca degli indemoniati del cui corpo s'erano fatti
padroni, essi citarono luoghi dell'Antico e del Nuovo Testamento,
recarono in mezzo opinioni e sentenze di Padri e di Dottori della
Chiesa, proposero quesiti imbarazzanti, con non piccola vergogna di chi
standoli a udire, o pretendendo di scongiurarli, si avvedeva di saperne
assai meno di loro. In una delle Visioni di San Furseo, i demonii
disputano assai dottamente con gli angeli di peccati e di penitenza,
citano le Scritture, e non si mostrano men buoni dialettici che teologi
amplissimi. Altri esempii simili non mancano: si sa che il diavolo
disputava assai acremente di teologia con Lutero.

Del resto non bisogna credere che tutti i diavoli avessero lo stesso
sapere e fossero tutti d'una levatura. C'erano anche tra loro i più
e i meno dotti, come c'erano i più e i meno avveduti. A suo luogo
c'imbatteremo nel diavolo sciocco ed ignorante, concetto non così
irragionevole come parrebbe a prima giunta. Se a un diavolo un certo
sapere riusciva più gradito di un altro poteva, sembra, approfondirsi
in quello. Cesario narra di un diavolo consigliere, per nome Oliviero,
il quale era assai buon causidico. Altri diavoli si dilettavano più
delle cose naturali, e questi ajutavano a cuocer filtri, a trasmutar
metalli e a compier altre così fatte bisogne.


Chi dice scienza dice potenza, e però non deve far meraviglia che i
diavoli potessero grandi cose. Certo, anche la loro potenza aveva dei
limiti; ma dov'eran essi? difficile il dirlo con esattezza. Matteo
chiama Satana uno spirito potente, e, in verità, non a torto. La sua
potenza non è paragonabile alla onnipotenza di Dio, ma è pur grande
e formidabile. Ribelle, è vinto, e la vittoria non gli sorriderà più
mai; ma tuttochè vinto, risorge e si vendica. Egli penetra nella felice
dimora dei primi parenti e v'introduce il peccato; turba l'armonia
dell'opera divina e v'introduce la morte. Egli attossica il mondo e lo
fa apostatare da Dio; egli diventa il signore e l'arbitro di questo
mondo pervertito, _princeps hujus sæculi_. Si dice, è vero, che egli
tanto solo può quanto Dio gli permette; ma bisogna riconoscere che
molto Dio gli permette, e che quanto egli opera, opera in virtù di
una forza che è in lui, che è connaturata con lui. Quanto è di male al
mondo viene in principio da lui, e l'eccesso del male fa ingigantire
il concetto della sua potenza. E questa sua potenza, l'opera della
redenzione che doveva fiaccarla, non l'ha fiaccata. Si narra che il
diavolo apparve una volta a sant'Antonio e gli disse essere ingiuste
le maledizioni che senza fine gli uomini scagliavano contro di lui,
poichè, regnando Cristo, egli non poteva più nulla. Ma il diavolo che
così diceva mentiva. Col paganesimo cessava forse il suo pieno dominio
sopra la terra, non cessava già la potenza. Cristo l'ha vinto, ma
non l'ha disarmato, ed egli rappicca incontanente la zuffa, e corre
novamente la terra per sua, disputando anima per anima al vittorioso
avversario questa misera umanità. Egli popola di schiavi il suo regno,
e passati più e più secoli dalla morte del redentore chi mai, guardando
questo povero e tribolato mondo direbbe di trovarsi in un mondo
redento?

La potenza dei demonii è grande, così sulle cose della natura, come su
quelle della umanità, e l'esercizio di tale potenza è loro agevolato
da facoltà portentose. Essi possono, in un baleno, volare da un termine
del mondo all'altro, profondarsi nell'acqua e nella terra, compenetrar
gli elementi.

La natura corporea è ad essi in particolar modo soggetta. Non si
dimentichi che parecchie sètte di eretici considerarono la materia
quale fattura di Satana, e che come più, nell'idea religiosa, si
faceva vivo il contrasto fra materia e spirito, e la materia veniva in
concetto di vile o di corrotta, più le fantasie dovevano inchinare a
vedere nella natura il gran laboratorio, il regno proprio di Satana.
Le ragioni per cui pajono sì rari e sì esigui nel medio evo i segni
di quel particolare sentimento che noi chiamiamo ora sentimento della
natura, sono certamente parecchie; ma non può mancare fra esse il
sospetto e il terrore che della natura si aveva come di cosa, se non
prodotta da Satana, almeno contaminata da lui. Il peccato che corruppe
i primi parenti pervertì, nel tempo medesimo, la natura, e se l'umanità
fu redenta da Cristo, la natura non fu redenta.

Il fuoco, che ebbe in India antichissimi adoratori, e che il mito
ellenico immaginò rubato a Giove dall'audacia di Prometeo, il fuoco è
il proprio elemento dei demonii. Ma noi abbiam veduto che i demonii
hanno una delle lor sedi nell'aria; perciò ragion vuole che anche
sull'aria essi esercitino il loro formidabile dominio. I teologi sono
generalmente concordi nell'ammettere che essi possono a lor piacimento
(salvo sempre il voler divino) suscitar venti impetuosi, addensar le
nubi, vibrar le folgori, rovesciar sulla terra a torrenti le acque del
cielo. L'urlo della bufera è fatto di grida di demonii inviperiti. San
Tommaso dice, gli è vero, che tali sconvolgimenti son da essi prodotti
soltanto _artificialiter_, e non _naturali cursu_; ma in pratica
viene ad esser lo stesso. Nell'Antipurgatorio Dante fa raccontare
a Buonconte da Montefeltro, morto a Campaldino, come il corpo suo,
che dopo la battaglia non si trovò, fosse travolto dalle acque di
una ruinosa procella suscitata dal diavolo. Ai demonii fu attribuita
facoltà di provocare tutti in genere i fenomeni atmosferici, e Tommaso
Cantipratense credeva opera loro le illusioni della Fata Morgana.

Non minore potestà avevano i demonii sopra la terra, ed è cosa
ragionevole se si pensa che nel centro della terra appunto si poneva
l'inferno. I terremoti erano, o potevano essere, opera loro, e così
ancora le eruzioni vulcaniche, e i vulcani si credeva generalmente
fossero bocche e spiragli dell'inferno. Quando un diavolo frettoloso
voleva prendere la via più diritta per far ritorno alla sua buja
magione, ordinava alla terra di aprirsi, e spariva nella voragine
spalancata come in un trabocchetto di teatro.

Ma non tutte le cose in natura erano egualmente soggette alla potestà
dei demonii: ce n'erano alcune le quali obbedivano loro interamente,
e si facevano, senza contrasto, strumento e ricettacolo della
loro malvagia potenza; ce n'erano altre le quali mostravansi loro
risolutamente contrarie. La fantasia e la superstizione trovarono in
così fatte credenze abbondantissimo pascolo. I demonii prediligevano
i luoghi solitarii e spaventosi, i monti dirupati, le foreste dense
e tenebrose, le spelonche, i precipizii, e ciò perchè in cotali
luoghi la potenza loro era più intera ed irresistibile. Già gli ebrei
consideravano il deserto come la propria stanza degli spiriti malefici,
e tutti sanno a quali e quante angherie e vessazioni diaboliche
soggiacessero nel deserto gli anacoreti. Alcune piante, come per
esempio, il noce e la mandragora, si può dire che appartenessero al
diavolo, mentre altre, come l'aglio, gli erano del tutto nemiche.
Il carbone, la cenere gli conferivano, ma il sale gli toglieva ogni
vigore, e lo stesso dicasi di alcune gemme. Gli animali anch'essi non
si comportavano con lui tutti ad un modo: il rospo era un suo buon
servitore, e il gallo un suo grande avversario.


Ho detto che molto poteva Satana sulle coso della umanità, e a
persuadersene basta ricordare che la perdizione del genere umano fu
opera sua. Ma anche in ciò bisogna distinguere. La potestà sua sopra
l'umana natura, depravata dopo il peccato, era assai grande, ma non
isconfinata, non assoluta. C'è l'uomo fisico e c'è l'uomo morale;
c'è il corpo e c'è l'anima; e la potenza di Satana non si estendeva
sopra entrambi egualmente. Il corpo, altrimenti detto la bestia, è in
certo modo un amico, un vassallo di Satana, e ci furono degli eretici
i quali dissero chiaro e tondo che esso è fattura di lui e non di
Dio. Il corpo, che è la prigione dell'anima, e un perpetuo fomentator
di peccati, si piega docilmente ai voleri di chi non tende ad altro
che a corromper l'anima. Se tra l'anima e il corpo c'è la discordia
che tutti sanno, ne viene di conseguenza che il corpo è il naturale
alleato del diavolo. E il diavolo ne profitta. Il diavolo blandisce
il corpo e lo fa prosperare affinchè sempre più s'inorgoglisca contro
quella meschinella dell'anima, e le cresca addosso; egli ne aguzza
gli appetiti, ne inasprisce gli stimoli, ne corrobora le energie,
ne moltiplica le sfacciate richieste, tanto che l'anima perde la
bussola e si lascia trascinare a rimorchio. Ma può anche tenere il
modo contrario. Per far rinnegare all'anima ogni pazienza, per farla
invelenire e disperare, Satana può infestare il corpo di morbi, può
tribolarlo con mille accidenti, come fece a quel pover'uomo di Giobbe.
Le epidemie si credeva da molti fossero opera sua, e così ancora le
epizoozie.

L'anima era di solito meno soggetta, ma non però sottratta alla potenza
e agli influssi del diavolo. I teologi sono tutti d'accordo nel dire
che egli non può far forza alla volontà, che il libero arbitrio non
può essere manomesso da lui. Ma se era questa la regola, la regola
pativa eccezione. In fatti gl'indemoniati sono interamente in balía di
Satana, il quale fa loro dire e fare ciò che a lui piace; e secondo
una opinione molta diffusa sin dai primi secoli della Chiesa, erano
similmente in potestà di Satana gli scomunicati e tutti coloro che non
erano stati riscattati mediante il battesimo. Quanto agli indemoniati
la cosa può intendersi agevolmente, perchè il demonio non solo si
cacciava nei corpi, ma penetrava ancora le anime. Più difficile a
intendere è per contro come avvenisse questa specie di ipostasi o di
endosmosi diabolica.

Ma molto poteva il demonio anche sulle anime di coloro che non erano,
come gl'indemoniati, in sua potestà; al qual proposito bisogna aver
presente che ogni peccato commesso è come una porta aperta al nemico.
Il demonio suscita nelle anime pensieri riottosi, immaginazioni
scomposte, affetti disordinati, mille larve e cogitazioni di peccato;
egli le assalta nel sonno, quando il giudizio è offuscato, quando
la volontà è assiderata, e le insidia e le oppugna con visioni e con
sogni che si lasciano dietro turbamenti e sollevamenti pericolosi. Le
anime stesse dei santi non vanno immuni dal suo influsso; egli soffia
sopr'esse e le fa vacillare come fiaccole al vento.

La vita di ogni singolo uomo era per non picciola parte governata da
Satana; ma così ancora era quella delle nazioni e della intera umanità.
Dato che la storia sia opera della Provvidenza, bisogna concedere
che essa è pure opera di Satana; e veduto qual essa fu nel corso
dei secoli, è forza riconoscere che la parte di Satana è rilevante e
cospicua. E per vero i Padri e i Dottori tutti si dànno l'intesa per
dire che le false religioni sono inventate da lui, le scienze occulte
(e le non occulte?) trovate da lui, le eresie suscitate da lui; egli
getta i semi di tutte le discordie, suggerisce le congiure, matura le
ribellioni, prepara le carestie, promuove le guerre, mette in trono
i malvagi principi, consacra gli antipapi, detta i cattivi libri, e
negl'interstizii che lasciano tra loro le maggiori calamità, semina
incendii, ruine, naufragi, uccisioni, rapine, scandali e subissamenti.
Notisi che egli conosce ed ha in sua potestà tutti i tesori nascosti
nelle viscere della terra, ed è espressamente detto che l'Anticristo,
suo figliuolo e vicario generale, se ne servirà per farsi, quando sia
tempo, signore del mondo. Ora, tutti sanno che l'oro è un nerbo, non
soltanto della guerra, ma della storia in genere, ed è probabilmente
per torlo di mano al nemico che i papi cercarono sempre di arraffarne
quanto più fu loro possibile.

Ma non finisce qui il discorso della potenza di Satana: non ho ancor
detto nulla di quella che si potrebbe chiamare la sua abilità tecnica.
Il diavolo sa fare tutti i mestieri; ma naturalmente, sdegna gli umili,
e solo in cose grandi si piace di misurare la sua forza e la sua
destrezza. Egli ha una passione, quella delle fabbriche. La vecchia
Europa è piena di ponti, di torri, di muraglie, di acquedotti, di
edifizii d'ogni maniera costruiti da lui. La famosa muraglia eretta per
ordine di Adriano tra l'Inghilterra e la Scozia fu creduta opera sua, e
lo stesso fu creduto di altre muraglie e difese. Il ponte di Schellenen
in Isvizzera, il ponte sul Danubio a Regensburg, il ponte sul Rodano
ad Avignone, e cent'altri, si credettero fabbricati da lui, e molti
portano ancora il suo nome e si chiamano ponti del diavolo. In tempi
di barbarie e di povertà le ingenti costruzioni romane, comprese le
strade, parvero eccedere la potenza degli uomini, e facilmente furono
attribuite all'artefice maledetto. Più strano parrà che il diavolo
con le proprie sue mani si mettesse a fabbricar chiese e conventi; ma
egli poteva ciò fare, o per suoi fini occulti, o sforzato da potestà
superiore. Le piante e gli altri disegni delle chiese di Colonia e di
Acquisgrana furono, dicesi, fatti da lui; anzi quest'ultima chiesa
fu, almeno in parte, da lui fabbricata. L'abbazia di Crowland in
Inghilterra è opera sua. E da tanto egli si teneva in quest'arte che
una volta ardì sfidare l'arcangelo Michele, l'antico suo vincitore, a
chi fabbricherebbe sopra un monte di Normandia, che appunto è detto di
San Michele, la più bella chiesa. L'arcangelo vinse, come di ragione;
ma anche il diavolo si fece onore. Nè il miracolo era, di solito tanto
nell'opera compiuta, quanto nella misura del tempo accordatogli a
compierla. Spesso una notte doveva bastare, e bastava nel fatto, se non
c'entrava di mezzo l'inganno, un inganno, intendiamoci, fatto non da
lui, ma a lui. Nello spazio di una notte, se, per esempio, trattavasi
di una chiesa, il diavolo portava, di regioni talvolta lontanissime, i
materiali tutti necessarii alla fabbrica, i gran quarti di granito, le
lastre e i cubi dei marmi variopínti, magari le colonne enormi rubate a
qualche antico tempio pagano, le roveri poderose, gli sperticati abeti,
le ferramenta, e senza mai prender fiato tagliava, scalpellava, puliva,
scortecciava, riquadrava, impostava, commetteva, dipingeva, scolpiva,
tanto che, sopraggiunto il giorno, il primo raggio del sole accendeva
in cima alle guglie le palle di bell'oro brunito, e faceva balenare
i gran vetri dipinti dei finestroni. E non c'era pericolo che dopo un
anno o due le mura si scrostassero, o venisse giù il soffitto.

Tutto ciò richiedeva non solamente ingegno e destrezza e alacrità
somma; richiedeva ancora una forza, dirò così, muscolare, veramente
portentosa. Di cotal forza io non ho detto nulla; ma le prove di essa
sono senza numero, sparse nelle storie e per il mondo. Non è regione
d'Europa dove non si veda qualche smisurato macigno, portato a braccia
dal diavolo in mezzo a una pianura, da un monte lontano, e le buone
genti dei campi, interrogate in proposito, sanno dirvi per filo e per
segno come andò la cosa. Qua era in antico un romitorio, abitato da un
uomo di santissima vita, il quale passava in preghiera i giorni intieri
e le intiere nottate: il diavolo, indispettito, tentò di schiacciar
lui e la sua cella sotto quel masso che vedete, ma non tolse bene la
mira, e il sant'uomo se la cavò con un po' di paura. Laggiù, quel gran
buco nel monte, fu fatto dal diavolo, un giorno che, pazzo di rabbia,
scaraventò per l'aria il maglio enorme della sua fucina. Per tutto, i
gran massi erratici che i ghiacciai delle età preistoriche trascinarono
a miglia e miglia lungi dai monti loro, si credette fossero stati
lanciati o rotolati dal diavolo, e così pure si credette delle pietre
druidiche.

Ma la forza strabocchevole non esclude in Satana l'agilità e la
destrezza, chè anche queste sono in lui meravigliose. Egli possiede
le arti tutte del giocoliere e del funambolo, e non è operazione così
delicata da cui non sappia levare destramente le mani. Tertulliano
afferma che fu veduto il diavolo portar acqua in un crivello.

Le fabbriche del diavolo, dicevo, sono solide e degne di tanto
artefice; ma si capisce che debbano risentirsi in qualche modo
dell'origine loro, ed avere in sè alcun che di soprannaturale.
Generalmente parlando, se il diavolo le lascia incompiute, non è dato
ad altri di compierle. Con pensiero analogo a questo fu creduto in
molti luoghi che se il diavolo recava a un edifizio alcun danno, il
danno non poteva più essere riparato.


In uno dei canti che compongono la _Légende des siècles_, Vittore
Hugo racconta una gara che il diavolo ebbe con Dio, a chi facesse la
cosa più bella. Il diavolo chiese al suo avversario una gran quantità
d'ingredienti, di cui aveva bisogno, e avutili si mise all'opera.

    Et grondant et râlant comme un boeuf qu'on égorge,
    Le démon se remit a battre dans sa forge;
    Il frappait du ciseau, du pilon, du maillet,
    Et toute la caverne horrible tressaillait;
    Les éclairs des marteaux faisaient une tempête;
    Ses yeux ardents semblaient deux braises dans sa tête;
    Il rugissait; le feu lui sortait des naseaux,
    Avec un bruit pareil au bruit des grandes eaux
    Dans la saison livide où la cigogne émigre.

Tanta forza e tanta fatica non riescono ad altro che a produrre una
cavalletta, mentre Dio, con solo guardarlo, fa di un ragno il sole. Ma
il poeta ha torto. Ben maggiori cose, e senza punto affannarsi, poteva
fare il diavolo, e la potenza di lui era veramente grande e terribile.

Ciò nondimeno quella potenza aveva pure i suoi limiti, e spesso assai
più angusti che non parrebbe. Come vedremo in seguito, non solo c'erano
contr'essa ripari e difese, ma, cosa ben più importante, c'era anche
modo di assoggettarla e dirigerla. Ciò che mi preme far notare sin da
ora si è che, secondo un'opinione divulgatissima, il diavolo non può
esercitare la sua potenza se non la notte, o, se la esercita durante
il giorno, non la esercita più con la stessa efficacia. I primi albori
che imperlino il cielo, la squillante chicchiriata del gallo, volgono
il diavolo in fuga, o, almeno, gli dimezzan le forze. Del resto
non è punto irragionevole che il re delle tenebre abbia vigor dalle
tenebre, e che in mezzo ad esse la potenza sua riesca più intera e più
formidabile.


Ma non si creda che Satana, sebbene assai volentieri faccia mal uso
del suo potere, sia assolutamente e sempre un campione della violenza,
il principale seguitator della massima che ha tanti altri seguaci: la
forza vince il diritto. S'egli fa ciò che fa, se con portamenti da
despota scorrazza la terra, se tratta gli uomini come nemici o come
schiavi; ha pure il diritto di far tutto ciò, o, se non lo ha più, lo
ebbe. Ireneo, il santo vescovo di Lione, fu il primo, già nel secondo
secolo della Chiesa, a porre in chiaro cotal diritto. Il peccato diede
legittimamente gli uomini in mano a Satana, e gli è per legittimamente
ricomperarli, senz'uso di violenza, che Cristo versò il suo sangue.
Satana, procacciando ingiustamente la morte di un giusto, perdette
ogni diritto precedentemente acquistato. Tale dottrina incontrò molto
favore, e, sino al principiare del medio evo, tutti gli scrittori
ecclesiastici ammisero, più o meno, l'antico diritto di Satana,
cancellato da Cristo. Satana, dal canto suo, non volle riconoscere
cancellazione di sorta, e seguitò ad esercitare il diritto suo quanto
e come meglio potè; e noi dobbiamo confessare che se lo esercitò
illegalmente, non lo esercitò senza frutto. Per meglio far trionfare
il suo, vuoi legittimo, vuoi usurpato diritto, Satana ebbe cura di
ordinare il suo regno e le sue milizie, e di imitare, per quanto gli
fu concesso, le istituzioni e gli ordinamenti divini, imitazione che
gli valse il nome vilificativo di scimia di Dio. Alla Chiesa di Cristo
egli contrappose la propria sua Chiesa, ed ebbe sacerdoti, culto, e,
affermava già Tertulliano, sacramenti.

Abbiam veduto qual fosse il diavolo, quale la sua potenza ed industria;
vediamo ora come egli combattesse contro gli uomini, e contro Dio,
cotidiana battaglia, vediamolo nell'opera sua principale.



CAPITOLO IV.

IL DIAVOLO TENTATORE.


Satana non ispera più di riconquistare in cielo il posto che ha
perduto. Egli rimpiange l'antica felicità, ma nel rimpianto non
anneghittisce, anzi procura di accrescere a sè stesso grandezza e
potenza. Egli è re; vasto e popoloso è il suo regno, ed ei può farlo
maggiore e popolarlo vie più. Se l'umanità non sarà più sua tutta
intera, sarà ancora sua la più parte. Rendere labile e scarso, quanto
più far si possa, il frutto della redenzione; moltiplicar sulla faccia
della terra l'errore; far della terra, invano bagnata del sangue di
Cristo, un altro inferno, e della storia umana una sequela rovinosa di
mali, dove peccato e dolore s'indentano l'uno nell'altro; tale sarà
il suo costante proposito, tale il perpetuo suo studio. Ogni peccato
commesso, ogni anima rubata al cielo e guadagnata all'inferno, segnerà
un suo trionfo. Sia pure forte e salda la Chiesa come uno scoglio
in mezzo ai marosi; egli saprà bene investirla e percuoterla d'ogni
intorno, facendola tremare sin nelle fondamenta, e staccandone di tanto
in tanto alcuna pietra angolare. Vigili il pastore, e vigilino i cani
a custodia del gregge; egli, come un lupo affamato, anzi come il leone
ruggente ricordato dall'apostolo, non cesserà dal rapire delle dieci
pecorelle le nove.

Satana non può far sue le anime se prima non le intrida e non le
corrompa di peccato; ma l'umana natura, tuttochè redenta, è proclive
e pronta al peccato. Satana non può far forza al libero volere; ma
può di tal maniera moltiplicargli le insidie d'attorno che esso abbia
quasi necessariamente a soccombere. Satana è il grande, l'infaticabile
tentatore. Egli tenta Eva e ardisce di tentar Cristo: qual meraviglia
se tenta gli uomini anche più santi? Anzi gli è contro ai più santi
ch'egli usa ogni sua industria, giacchè i non santi, senza troppo
contendere, gli si fanno seguaci e servitori.

Questo della tentazione era un esercizio molteplice e vario, irregolare
e malagevole, che prendeva norma dalle occasioni e dalle condizioni,
si piegava e mutava secondo le persone, i tempi, i luoghi, richiedeva
sottile accorgimento, e non di rado grande perseveranza. La tentazione
era un'arte in cui Satana dava a conoscere tutto il suo ingegno e tutta
la sua destrezza.

Le occasioni del tentare erano innumerevoli. San Paolo aveva detto:
“Non fate luogo al diavolo;„ ma il diavolo sapeva farsi luogo da sè.
Aveva anche detto: “Resistete al diavolo ed egli fuggirà da voi;„ ma
spesso spesso chi più strenuamente resisteva era più ostinatamente
assalito. Sottrarsi interamente al suo influsso non era possibile;
non era nemmeno possibile evitare in tutto il suo pernicioso contatto.
L'anima timorata poteva fare come la testuggine, restringersi tutta nel
suo guscio; ma per fare che facesse lasciava sempre aperto un qualche
adito, entro a cui il demonio poteva spingere l'ugna acuta e rapace.
Chi viveva nel mondo, e della vita del mondo, non solo s'imbatteva
in Satana ad ogni passo, ma si può dire vivesse in Satana, perchè la
mondanità, nel tutto insieme delle sue parvenze ingannevoli, de' suoi
lenocinii e delle sue lascivie, non è se non Satana. Vivere nel mondo
e non peccare, gli è come voler tuffarsi nel mare e non bagnarsi. Chi
viveva nel mondo era dunque soggetto ad una tentazione continua; ma
chi se ne ritraeva non cessava d'esser tentato. I buoni cristiani,
che scandalizzati e nauseati della corruzione cittadina, e di tutta
quella che appunto chiamavasi la pompa del diavolo, cominciarono, sin
dai tempi di Costantino il Grande, a disertar la città, a fuggire
il consorzio degli uomini, a cercare il deserto, ritrovarono nelle
solitudini dell'Egitto e dell'Asia quel medesimo Satana che con tanto
studio avevano voluto fuggire. E non altrimenti incontrò a quegli
altri fuggiaschi del mondo che, senza disertar le terre popolate e
le stesse città, cercarono fra le mura dei chiostri un asilo sicuro
contro il temuto avversario. E gli uni e gli altri ritrovaronsi a
fronte quel medesimo Satana, anzi un Satana molto più insidioso e più
acerbo. L'assalto suo non cessava, ma mutava alquanto di qualità. Nel
mondo la tentazione era continua, minuta, diffusa in certo qual modo
nelle cose ch'erano perpetuo incentivo di peccato, e però non violenta
d'ordinario: in solitudine si faceva acuta, subitanea, intermittente,
ritraeva del parossismo. Nel mondo la tentazione sembrava muovere più
dalle cose esteriori; in solitudine toglieva argomento dalle mal vinte
energie dell'organismo, da ogni moto dell'animo che potesse in qualche
maniera essere avviamento a peccato. Nessuna occasione di tentazione,
per quanto fuggevole, per quanto dubbia si fosse, fu mai trascurata da
Satana. Come si credette che ciascun'anima avesse, durante il terrestre
pellegrinaggio, compagno un angelo, che si adoperava a guidarla sulla
via della salute, così si credette ancora avesse compagno un diavolo
che senza posa si studiava di trarla a perdizione. A destra l'angelo
custode, a sinistra il diavolo tentatore.


Tutti gli uomini potevano esser tentati, ma la tentazione variava,
secondo il sesso, l'età, la condizione propria di ciascuno, quando
semplice e poco o punto dissimulata, quando artificiosa e fraudolente.
Mezzi sicuri a preservarsi dalla tentazione non c'erano, giacchè quegli
stessi che avevan più credito ed erano più universalmente preconizzati,
spesso spesso si mostravano inefficaci alla prova. I santi erano,
come ho già detto, assaltati e perseguitati con più furore, perchè,
dicevasi, importa a Satana assai più trionfare di uno di loro che
non di mille altri. Noi, guardando la cosa sott'altro aspetto, potrem
dire che i santi, a cagione appunto di quella continua ed angosciosa
preoccupazion di peccato che turbava le anime loro, e delle macerazioni
insensate cui assoggettavano il corpo, credendo così di nettarlo da
ogni mala prurigine di carnali appetiti, si esponevano assai più che
altri alle fiere battaglie della tentazione. Vero è altresì che tali
battaglie erano da essi spesso invocate e cercate, come quelle in cui
la virtù loro brillava di lume più vivo, e ritraeva dal trionfo vigore
novello. Ma checchessia di ciò, Satana sapeva, il più delle volte,
commisurare alla qualità e condizion di ciascuno il grado e la forma
della tentazione, e così facendo si dava a conoscere non meno buono
psicologo di quello fosse buon _loico_.

Come i tempi non tutti, così non tutti i luoghi erano egualmente
opportuni e propizii all'opera della tentazione. Quel della notte
era il tempo più acconcio, non solo perchè cresce col crescere delle
tenebre la potenza diabolica, ma ancora perchè nelle tenebre i fantasmi
suscitati da Satana non così facilmente si scoprono bugiardi. E l'ora
fra tutte più propizia era quella in cui il sonno comincia a occupare
le membra affaticate, quando si smarriscono i sensi, non però chiusi
ancora alle impressioni del mondo esteriore, e cessa nell'anima la
vigilanza della volontà e del giudizio. Ond'è che non senza ragione san
Pacomio dormiva seduto, e chiedeva a Dio l'insonnia per poter meglio
combattere il nemico.

I modi e le forme della tentazione erano innumerevoli, come sono
innumerevoli gli atti dell'anima e i fatti della vita. Non c'era così
tenue pensiero, non così picciolo avvenimento da cui Satana non sapesse
cavare argomento di tentazione, e quando l'occasione mancava, egli la
faceva nascere. Quegli strani documenti della credenza cristiana che
sono le leggende dei santi, riboccano di racconti che il provano, e
forniscono non di rado notizie e indizii preziosi per la cognizione
dell'umana natura.


Talvolta la tentazione era assai semplice, si offriva con poco o punto
apparato, e si raccoglieva tutta in un solo momento. Sant'Antonio,
le cui tentazioni sono diventate famose e proverbiali, viaggiando
una volta nel deserto, trovò in terra un disco d'argento: era una
insidia del demonio che voleva fargli nascere in cuore un peccaminoso
rincrescimento delle lasciate ricchezze. Sant'Ilarione, affamato, si
vedeva improvvisamente davanti gran copia di vivande squisite. A santa
Pelagia, che un tempo era stata commediante in Antiochia, ed erasi poi
ritirata a vita contemplativa in una spelonca del Monte Oliveto, il
diavolo offriva, oggetto di desiderii antichi, anelli, monili, gemme
d'ogni sorta. Queste immagini bugiarde si dileguavano così subitamente
come erano apparse.

Alcun'altra volta l'apparato e l'ostentazione eran maggiori, le larve
allettatrici o paurose si moltiplicavano e si variavano, la tentazione
si sceneggiava. Sant'Ilarione, mentre pregava, si vedeva schizzar
sotto gli occhi lupi ululanti, volpi squittenti, assisteva a pugne
improvvisate di gladiatori, vedeva i morenti rotolarsi a' suoi piedi,
e gli udiva implorare da lui la sepoltura. Una notte, mentre vegliava
com'era consueto, cominciò a udire vagito di bambini, belato di greggi,
muglio di buoi, rugghio di leoni, pianto di donne, un murmure vasto,
come di esercito in campo. Conosciuto il diabolico ludibrio, si butta
in ginocchio, si segna in fronte, e si guarda d'attorno, aspettando
nuovo portento. Ed ecco, subitamente, al lume della luna, vede un
cocchio, trascinato da focosi cavalli, farglisi addosso. Invocato
dal santo il divin nome di Cristo, incontanente s'apre la terra ed
inghiotte il fantasma. Il tutto era opera di Satana, voglioso di
stogliere il buon servo di Dio dalla meditazione e dalla preghiera,
e di rendergli incresciosa, popolandola di terrori, la solitudine. Le
storie dei santi riboccano di sì fatti esempii.

Queste, che Satana esercitava col sussidio di larve ingannevoli,
o, come pure accadeva, con quello di cose reali e corporee, erano
tentazioni assai poderose, perchè occupavano i sensi, e attraverso
i sensi investivano l'anima, sempre così pronta a farsi ancella dei
sensi; ma tra esse tutte la più formidabile era quella che toglieva
argomento dai pervicaci istinti della generazione e dell'amor sessuale.
Era questa la tentazione che procurava a Satana i maggiori trionfi.


Il cristianesimo ha maledetto la carne, ha infamato l'amore. L'atto
vario e molteplice ne' modi, ma uno nel principio, per il quale le
creature si riproducono, e a cui gli antichi avevano preposta una delle
maggiori, e certo la più radiosa fra le divinità dell'Olimpo, è, agli
occhi del cristiano, essenzialmente malvagio e turpe, e la malvagità e
turpitudine sua possono a mala pena, nella progenitura d'Adamo, essere
emendate dal sacramento. Il celibato è pel cristiano, se non altro in
teorica, condizione di vita assai più pregevole e degna che non il
conjugio, e la continenza è virtù che va tra le maggiori. Lattanzio
afferma essere la verginità come il fastigio di tutte le virtù, e il
grand'Origene, detto l'adamantino, non aveva aspettato l'affermazion
di Lattanzio per porsi, con le proprie sue mani, nella impossibilità di
perderla.

Non è dunque da stupire se gli asceti consumarono spesso il meglio
delle forze loro nella disperata fatica di spegnere in sè medesimi
ogni favilla di concupiscenza, di sedare ogni benchè involontario
e minimo fremito della carne; ma non è da stupir similmente, se in
cotal opera di ribellione contro alla natura, essi, più di una volta,
furono soperchiati e vinti. Per fuggir le insidie di Venere, riparavano
nei deserti, si muravan nei chiostri; e Venere rinasceva dentro di
loro, dall'orgoglio degli umori, come già altra volta dalla spuma del
mare, e soggiogava le lor fantasie. Per sottrarsi al temuto contagio,
ricusavano di vedere, dopo anni ed anni di separazione, le madri e
le sorelle; ma la donna invadeva le loro celle egualmente, immagine
vagheggiata e detestata ad un tempo. A un accenno fortuito, a un
pensier fuggitivo, la virilità, compressa, ma non vinta, insorgeva
con impeti belluini, mordeva e dilaniava quelle carni esacerbate dalle
mortificazioni. Ed erano battaglie spaventose che lasciavano affranto,
anche se vittorioso, l'atleta di Cristo. Oh quante volte, scriveva
san Gerolamo alla vergine Eustochia, essendo io nel deserto, in quella
vasta solitudine arsa dal sole, che porge ai monaci orrenda abitazione,
immaginava d'essere tra le delizie di Roma! Sedeva solo, piena l'anima
di amarezza, vestito di turpe sacco, e fatto nelle carni simile ad
un Etiope. Non passava giorno senza lacrime, senza gemiti, e quando
mi vinceva, mio malgrado, il sonno, m'era letto la nuda terra. Nulla
dico del mangiare e del bere, essendochè i monaci, anche ammalati,
non bevono se non acqua, e stimano lussuria ogni vivanda cucinata. E
quell'io, che per timor dell'inferno m'era dannato a tal vita, e a non
avere altra compagnia che di scorpioni e di fiere, spesso m'immaginava
d'essere in mezzo a schiere di fanciulle danzanti. Il mio volto era
fatto pallido dai digiuni, ma nel frigido corpo l'anima ardeva di
desiderii, e nell'uomo, quanto alla carne già morto, divampavano
gl'incendii della libidine. Allora, privo d'ogni altro soccorso, mi
gettavo ai piedi di Gesù, li bagnavo di lacrime, li tergevo co' miei
capelli, e la carne ribelle soggiogavo col digiuno di una intera
settimana. Non arrossisco in confessare la mia miseria; anzi piango
di più non essere qual fui. E mi sovviene che assai volte, gridando e
pregando, vidi succedere al giorno la notte, e come non cessassi dal
percuotermi il petto finchè, alla voce di Dio, non fosse in me tornata
la calma.


Sono senza numero i santi a cui il diavolo apparve in figura di
leggiadra fanciulla, o di nobil matrona pomposamente vestita, e non
rarissimi quelli che non seppero vincere la terribile tentazione. Di
solito la falsa e diabolica donna fingeva d'avere smarrita la via,
d'essere stata soprappresa dal mal tempo o dalla notte, ovvero anche,
come l'Abimelech del Boccaccio, d'avere abbandonato la casa e la
famiglia per darsi al servizio di Dio, e con volto dimesso, con grande
umiltà e onestà di parole, chiedeva al sant'uomo asilo e protezione. E
se il sant'uomo, mosso da intempestiva pietà, o troppo fidente nella
virtù propria, accoglieva nella sua celletta, appena capace di due
persone, la bella supplicante, c'era pericolo, ma pericolo grande, che
la cosa andasse a finir male. Ruffino d'Aquileja narra a tale proposito
una storia degna d'essere scelta fra cento.

Viveva nel deserto, e abitava in una spelonca un monaco, uomo di
grandissima astinenza, adorno di tutte le virtù, solito di passare in
orazione i giorni e le notti. Costui, vedendo il profitto che faceva in
santità, cominciò a montare in superbia, e a dare tutto a sè il merito
che solo apparteneva a Dio. Il demonio, ciò conoscendo, non tarda
ad apparecchiare e tendere i suoi lacci. Ed ecco, una sera, giunge
dinanzi alla spelonca del santo uomo una bellissima donna, la quale,
entrata dentro, fingendosi al tutto vinta dalla stanchezza, si getta ai
suoi piedi, e con ogni istanza lo prega di volerle dare ricovero: la
notte l'ha colta in quel deserto; non la lasci, per carità, in preda
alle fiere. Egli, impietosito, l'accoglie benignamente, e comincia
a chiederle la ragion del suo viaggio; ella narra una sua storia,
ingegnosamente ordita, e con arte sparge di blandizie e di lusinghe il
racconto, ora mostrandosi degna di commiserazione, ora meritevole di
difesa, e con la eleganza e soavità del discorso circuisce e soggioga
l'animo di lui. A poco a poco il colloquio si fa più intimo; alle
parole si mescolano il riso e gli scherzi, ed ella, fatta ardita, non
tarda a stendere la mano alla barba di lui, ad accarezzargli dolcemente
la nuca e il collo. Ed ecco, è già vinto il milite di Cristo. Divorato
dalle fiamme della concupiscenza, dimentico del suo passato, non
curante del frutto di tante fatiche strenuamente sostenute, egli,
fatto simile a un bruto (dice Ruffino), già si accinge agli osceni
amplessi. Ma in quella appunto, la menzognera immagine, gettando un
urlo spaventevole, fugge dalle sue braccia, lasciando lui in assai
indecoroso (Ruffino dice più e meglio) e ridicolo atteggiamento. Allora
i demonii, che in grande moltitudine erano ivi congregati nell'aria,
spettatori del turpe fatto, lo scherniscono, gridando a gran voci:
“O tu, che ti estollevi sino al cielo, come sei così precipitato in
inferno? Conosci ora che chi si innalza sarà umiliato.„ Dopo così
dolorosa avventura, il mal consigliato monaco, disperando della
salute, fece ritorno al mondo, e tutto si abbandonò all'impudicizia e
all'iniquità, e si diede irrevocabilmente in preda a Satana.

Avverte Ruffino che il monaco avrebbe potuto con le lacrime del
pentimento lavarsi del peccato commesso, e ritornare, con le astinenze
e le orazioni, nella grazia di prima. In fatti, san Vittorino, vescovo
d'Amiterno, cadde nello stesso peccato; ma seppe con formidabile
penitenza riscattarsi dalle mani del vittorioso nemico. E così fecero
altri parecchi. C'è appena bisogno di dire che quando si trattava, non
di santi, ma di sante, il diavolo assumeva l'aspetto di un bel giovane,
non meno audace che tenero. In tal forma appunto egli si mostrò a santa
Francesca Romana, che molto ebbe a soffrire della sua importunità.

Non sempre il diavolo si piegava a far la parte che in questi racconti
si vede, o non sempre lo giudicava necessario. Egli poteva contentarsi
talvolta di far nascere certi desiderii, perchè i desiderii sono già
peccato per sè stessi, e la sua naturale tristizia poteva trovare una
soddisfazione tutta particolare in far nascere quei desiderii e in non
dare poi modo di appagarli. Narra san Gregorio Magno che il diavolo
accese una volta in corpo a san Benedetto una concupiscenza così
rabbiosa e spasimata che il povero santo, a chetarla, non trovò altro
rimedio che di spogliarsi ignudo e voltolarsi ben bene in uno spineto.
Quando altro non poteva, il diavolo provocava polluzioni notturne, le
quali, tuttochè involontarie, potevano essere peccato, se accompagnate
da immagini lascive e da sentimento di voluttà, e bastavano, a ogni
modo, a tener deste certe energie, a metter la fantasia in subbuglio.


Volentieri il diavolo prendeva questa o quella forma, sia per tentare
più efficacemente, sia per indurre altrui piuttosto in uno che in
altro peccato. Ai santi uomini si lasciava spesso vedere in figura
di angelo, circonfuso di luce, o di santo, o di Cristo stesso, con
in fronte i segni della divinità, e ciò a fine di farli salire in
superbia, provocando in essi un esagerato concetto della lor santità,
o anche per suggerir loro false e malvage dottrine, funesti propositi.
Gli è con quest'arte che egli riuscì, più di una volta, a persuadere
il suicidio ad uomini d'impeccabile vita, che avevano insino allora
respinto vittoriosamente ogni suo assalto. Si narra di un monaco Erone,
che da cinquant'anni menava nel deserto austerissima vita, per modo
che nemmeno il giorno di Pasqua allentava il rigore delle astinenze.
Un giorno il diavolo gli appare in figura d'angelo, e gl'impone di
gettarsi capofitto in un pozzo, ciò ch'egli fa senza indugio, fermo
nella opinione che ne uscirà illeso, e che sarà questa una grande e
irrefragabile prova della sua santità e della grazia divina. Altri
monaci riescono con grande fatica a trarnelo fuori, ed egli in capo di
tre giorni si muore.

Altro esempio. Guiberto di Nogent (m. 1124) racconta la storia di un
giovane che aveva peccato con una donna, e che pentito se n'era andato
in pellegrinaggio a San Giacomo di Gallizia. Un bel giorno gli apparve
il diavolo sotto le sembianze del santo, e gl'impose per penitenza di
tagliarsi, prima ciò che il discreto lettore vorrà indovinare senza
ch'io il dica, e poi la gola. Obbedì l'incauto giovane, e sarebbe
andato senza remissione in inferno, se la beata Vergine non l'avesse
in buon punto risuscitato. Tornò vivo, ma non riebbe più ciò che s'era
tolto con le proprie sue mani.

Certi santi invece, per quanto s'immascherasse, il diavolo non riusciva
a ingannarli. Ho già ricordato san Martino. Una volta il diavolo gli si
presentò con la porpora indosso, la corona in capo, i calzari dorati, e
gli disse: “Non mi conosci? io sono Cristo.„ Ma il santo: “Che Cristo!
Cristo non ebbe nè porpora, nè corona, ed io non lo conosco se non
ignudo, quale fu sulla croce. Tu sei il diavolo.„ Se i papi avessero
meditato questa risposta!

Più raro era il caso che il demonio venisse a tentare sotto l'aspetto
suo proprio, ma anche questo caso si dava. Satana non si trasformò, nè
si travestì per tentar Cristo. Una volta san Pacomio vide una torma
di diavoli trascinare un fastello di foglie e fingere di durarci una
grande fatica, non per altro che per muoverlo al riso. Ora, il riso, se
non era peccato, poteva essere semente di peccato. I migliori monaci
non ridevano mai, anzi piangevano spesso, come quel sant'Abramo di
Siria, che non passò mai un giorno senza piangere.

Non parlo delle mille tentazioni minute e leggiere che intravenivano
pressochè del continuo, e non avevano altro scopo che di distogliere
dalla meditazione e dalla preghiera, o di far rinnegare la pazienza a
chi le pativa; come, per esempio, ripetere, a guisa d'eco, le parole
dei leggenti, fare sternutire ripetutamente un predicatore nel più
bel punto del suo discorso, fare che una mosca importuna si posasse
dieci volte di seguito sul viso di chi stava per abbandonarsi al
sonno, ecc. ecc. Ma abbiasi a mente che non è tentazione così piccola
e lieve la quale non possa divenir principio d'irreparabile caduta.
Mettete un seme in terra, e se non fanno difetto gli elementi e le
condizioni necessarie alla vegetazione, il seme diventa pianta. Così il
diavolo, che sa queste cose, riesce con una prima tentazione, spesso
leggierissima, a porre nell'animo un primo germe di peccato, e questo
germe, ajutato da lui, subito alligna, cresce, si fa pianta e reca
in breve i perniciosi suoi frutti. C'era un eremita, che menava vita
austerissima, e aveva grande riputazione di santità. Un giorno gli
capita innanzi il diavolo, in sembianza di un uom dabbene, e gli dice:
“Voi vivete così solo; perchè non togliete con voi un gallo che vi
serva di compagnia, e vi faccia la mattina levare a tempo?„ Il povero
eremita ricusa da prima, poi esita, ma finalmente segue il consiglio e
toglie il gallo. Che sarà? un gallo non è mica il diavolo. Ma il gallo
a star solo s'annoja, smagrisce di giorno in giorno. Allora l'eremita,
per sentimento di carità, gli provvede una gallina. Non l'avesse mai
fatto! La vista di certi spettacoli ridesta nell'animo suo ardori
antichi, e che egli certamente credeva spenti per sempre. Si innamora
della figlia di un gentiluomo del vicinato, assai giovane e bella, e
pecca con lei; poi per celar la sua colpa e sottrarsi alla vendetta dei
parenti, uccide la giovane, e la nasconde sotto il letto. Ma si scopre
il misfatto, e il colpevole è condannato all'ultimo supplizio. Salendo
il patibolo egli esclama: “Ecco a che termine m'ha condotto un gallo!„

Queste erano tentazioni che davano al diavolo poca faccenda, e che
quasi da sè venivano al fine loro; ma ce n'erano altre che il diavolo
preparava di lunga mano, e a cui attendeva con diligenza indefessa,
con pazienza miracolosa. Una storia che ebbe nel medio evo grandissima
voga, e che fu narrata tra gli altri dal nostro Bernardo Giambullari,
racconta come il diavolo, una volta, si fece bambino, e, in tal
forma, chiese ed ottenne d'essere accolto in un monastero il quale
era in grandissimo odore di santità. L'abate, uomo dabbene, lo fece
istruire, e vedendo che il fanciullo imparava ogni cosa con somma
facilità, ed era di ottima indole, e assai costumato, stimava avere
il convento fatto un grande acquisto e ne ringraziava Iddio. Quando
il fanciullo fu cresciuto, ed ebbe l'età, vestì l'abito, con grande
giubilo dei fratelli; e morto, dopo qualche anno, il vecchio abate,
egli n'ebbe, per voto unanime, la dignità. Ma non andò molto che la
regola del convento cominciò ad allentarsi, i costumi a corrompersi.
Il nuovo abate migliorò assai il vitto, accordò facilmente dispense, e
agevolò in tutti i modi le relazioni dei suoi monaci con le suore di
certo monastero ivi presso. Lo scandalo era grande e si faceva ogni
giorno maggiore. Il papa, informatone, mandò sul luogo due monaci
di santa vita, e di sua fiducia, perchè vedessero e provvedessero.
Costoro cominciarono le loro indagini, e a un certo punto il diavolo,
sentendosi scoperto, gettò le insegne dell'usurpato officio, e si
sprofondò nella terra. I monaci traviati fecero penitenza, e l'antico
ordine fu restaurato. In Danimarca, in Germania, in Inghilterra, fu
notissima un tempo la storia di frate Ruus, Rush, o Rausch, un diavolo
che si pose per cuoco in un convento, fece da mezzano all'abate e
agli altri monaci, fu dopo sette anni ricevuto nell'ordine, e tutto il
convento avrebbe condotto in perdizione, se non fosse stato scoperto
per caso.

Come si vede, il demonio, da quel volpone ch'egli è, non prendeva
sempre la via più diritta per venire ai suoi fini, ben sapendo che
non sempre la più diritta è la più corta, e la più sicura. Anzi, non
di rado, egli prendeva una via che sembrava doverlo condurre ad un
fine affatto opposto a quello che s'era prefisso, ma tanto più sicura
per lui quanto meno sospettata dagli altri. Così, se vedeva un uomo
tutto dedito alle pratiche di devozione, chiuso ad ogni lusinga,
inaccessibile all'errore, egli non perdeva il tempo a stuzzicarlo
con tentazioni di carattere più o meno mondano; ma, all'incontro,
lo esortava a perseverare, lo stimolava a inasprire vie più le
macerazioni, a moltiplicare le preghiere, a esagerare le pratiche tutte
dell'ascetismo, e giungeva persino ad inspirargli una grande conoscenza
delle Scritture, come se ne può vedere esempio nella Vita di san
Norberto, vescovo di Magdeburgo. Di san Simeone Trevirense si racconta
che i diavoli volevano fargli dire la messa per forza, lo toglievano
dal letto, lo menavano davanti all'altare, gli ponevano indosso le
vesti sacerdotali. La conseguenza non insolita di tutto ciò era che il
sant'uomo, meravigliando della propria santità, cominciava a levarsi
in superbia, e a perdere, per questo solo peccato, il frutto d'ogni
sua virtù. Così per voler essere troppo santi si finiva qualche volta
all'inferno.

Ad esercitare questa specie di tentazioni il diavolo di rado si valeva
di argomenti esteriori, che potessero fare impressione sui sensi, ma si
giovava, d'ordinario, della pericolosa facoltà ch'egli ha di sommuovere
gli animi umani e d'influirvi in vario modo. Nè quelle erano, come può
bene immaginarsi, le sole tentazioni che egli, in grazia di quella sua
facoltà, potesse esercitare. Dato che la volontà non patisca violenza
da lui, tutte le altre potenze dell'anima umana soggiacciono al suo
influsso, e questo influsso si risolve in un lavoro di tentazione
continua. Ed anche qui le Vite dei santi abbondano di esempii e di
prove. Sullo specchio dell'anima egli faceva passar l'ombre che più
gli piacevano, e nella viva sostanza di lei spargeva a larga mano i
più svariati fermenti. Suscitava fantasmi fascinatori, evocava ricordi
pungenti, acuiva desiderii, sollevava dubbii, incuteva terrori,
fomentava inquietudini dolorose e profonde, promoveva quell'intimo e
generale turbamento dello spirito entro a cui si forma e si addensa
il peccato come si forma e si addensa la nube negli avvolgimenti della
bufera.

Così il diavolo era sempre attorno alle anime per sedurle e per
rapirle, e gli è perciò ch'ei fu chiamato cacciatore, pescatore,
stupratore, ladrone, omicida delle anime. San Gerolamo ebbe a chiamarlo
pirata, perchè, veramente, questo mondo è come un mare in tempesta,
dolorosamente navigato da noi, e corso trionfalmente da lui. Dico da
lui e dovrei dire da loro. Perchè tutti i diavoli facevano mestiere
di tentatori, ed era anzi opinione ricevuta comunemente che ciascun
vizio avesse suoi particolari demonii, che l'insegnavano e fomentavano.
Costoro ricevevano dal principe gli ordini necessarii e le opportune
istruzioni, poi, compiuta l'opera, tornavano a darne conto, e quelli
che s'erano fatti poco onore trovavano assai brutte accoglienze.
San Gregorio Magno racconta di un così fatto consesso o conciliabolo
diabolico, tenuto in un tempio di Apollo. Nelle Vite dei Santi Padri
è un curioso racconto, il quale prova che i diavoli avevano un bel da
fare a contentare il principe. Il figlio di un sacerdote degli idoli,
entrato un giorno nel tempio, vede Satana in trono, circondato della
sua milizia, e in atto di esaminatore e di giudice. Viene un demonio,
e l'adora, e Satana gli domanda: “Dove fosti, e che facesti?„ Quegli
risponde: “Fui nella tal provincia, e suscitai guerre e turbazioni
grandissime, e feci versar molto sangue.„ “E quanto tempo chiede
Satana, spendesti in tal opera?„ — “Trenta giorni.„ — “Tanto, ti ci
volle?„ dice Satana, e senz'altro ordina che sia bastonato ben bene.
Capita un altro diavolo. — “D'onde vieni, che hai fatto?„ — “Fui sul
mare, e levai grandi burrasche, e sommersi molte navi; feci morire
assai uomini.„ — “In quanto tempo?„ — “In venti giorni.„ — “Troppi!„
esclama Satana, e ordina subito che anche questo sia bastonato.
Sopraggiunge un terzo diavolo, e ricomincia l'interrogatorio: “A
te; dove fosti, e che facesti?„ — “Fui nella tal città, e mentre si
festeggiavano certe nozze, eccitai gli animi, accesi litigi e zuffe,
e procurai molte uccisioni, e ammazzai anche lo sposo.„ — “In quanti
giorni?„ — “In dieci.„ — “Oibò!„ dice Satana, e lo dà in mano ai
bastonatori. Ecco finalmente un quarto diavolo. “D'onde vieni? che
facesti?„ — “Fui nel deserto, dove tentai un monaco lo spazio di
quarant'anni, e solo la scorsa notte riuscii a vincerlo e a farlo
fornicare.„ In udir ciò Satana si leva da sedere e bacia il demonio;
poi la propria corona gli pone in capo, e se lo fa sedere a fianco,
dicendo: “Gran cosa facesti e ti comportasti da valoroso.„

Questa storia lascia intendere, fra altre cose parecchie, che la
tentazione poteva essere qualche volta opera assai laboriosa; ma
quanto laboriosa fosse la resistenza alla tentazione, non dice. I
Dottori affermano, gli è vero, che la tentazione non supera mai le
forze del tentato, così chiedendo la bontà e la giustizia di Dio; ma
gl'infiniti tentati che caddero dovettero essere, in generale, d'altro
avviso. Comunque sia, sta il fatto che resistere alla tentazione non
era, alcuna volta almeno, senza grande pericolo. Cesario racconta il
lacrimevole caso di un brav'uomo, il quale, avendo ricusato di fare
all'amore con un diavolo, fu dal diavolo afferrato per i capelli,
levato in aria, e poi scaraventato in terra, per modo che, dopo un
anno, se ne morì.

Tutti gli uomini erano, come abbiam veduto, esposti alla tentazione, e
la tentazione durava tutta la vita. Il santo, anzichè andarne immune,
la sperimentava più violenta e più assidua di ogni altro: ciò nondimeno
egli aveva un modo di liberarsene del quale non potevano fruire i
miseri peccatori. Quando egli aveva domati in sè tutti gli istinti
e tutte le energie; quando a furia di digiuni, di flagellazioni, di
veglie, di orazioni, aveva uccisa la carne, scombujata la memoria,
spenta la fantasia, assiderato l'intelletto; quando aveva fatto
dentro di sè il silenzio e la immobilità della morte, la tentazione
cessava, come cessa la fiamma, quando più non trovi a che appigliarsi.
Chi abbia, come san Simeone Stilita, passato mezzo secolo in cima a
una colonna, può ridersi di tutte le arti del tentatore. Il santo,
diventato un sasso, ha raggiunto la perfezione.



CAPITOLO V.

BURLE, TRUFFE, SOPRUSI, ANGHERIE E VIOLENZE DEL DIAVOLO.


Ma Satana non si contenta del tentare. Sedurre gli uomini, trascinarli
per mille strade al peccato, e, mercè il peccato, all'inferno, alla
dannazione senza riscatto, non basta all'odio suo, alla sua invidia.
Bisogna ancora che egli, in mille modi, li affligga e li tormenti, ed
amareggi loro la vita con noje infinite, quando, per altri suoi fini,
non gli piaccia di abbellirla loro, allietandola di falsi guadagni e di
gioje bugiarde.

Satana, è, come abbiam veduto, un infaticabile operatore di calamità
e di sciagure: le guerre, i morbi, le carestie, le ruine d'ogni
maniera, le infinite disgrazie grandi e piccole che contrassegnano
ogni istante del tempo che fugge, hanno in lui, il più delle volte,
cagione e principio. Nè questo ancora gli basta. La notte, il dì, senza
intermissione, egli, con l'innumerevole suo popolo, affronta buoni
e perversi, picchia gli uni, strazia ed uccide gli altri, e quanti
più può truffa e defrauda. Egli è, oltrechè un tentatore, anche un
tormentatore di professione, e il suo ufficio di tormentatore esercita
non meno sopra la terra che in inferno. Chi lo chiamò nemico ed
avversario, omicida e ladro, pose mente, senza dubbio, a entrambi gli
offici.

Satana fu chiamato il primo bugiardo, e, sembra, non senza ragione. Gli
esempii delle sue menzogne, e dei danni che mercè loro egli reca a chi
gli crede, sono infiniti. Narra alcun cronista del medio evo che egli
apparve una volta, sotto figura di Mosè, a molti giudei che vivevano
in Creta, e dato loro ad intendere di volerli condurre nella Terra
Promessa, li fece tutti imbarcare, e poi in alto mare li sommerse. Guai
a chi presta fede alle sue promesse ed ai suoi oracoli, o non è più che
guardingo nel giovarsene! E quelle e questi sogliono essere espressi
con parole artifiziose ed equivoche, tali che fanno nascere in chi le
ascolta aspettazione contraria all'evento.

Dice il proverbio che la farina del diavolo va tutta in crusca. Non
sempre, ma molto sovente, le cose ch'egli mostra di fare in servigio
altrui, e quelle che procaccia, riescono ben diverse da ciò che a primo
aspetto sembravano: i denari, di cui suol essere largo donatore, si
convertono in foglie secche, le gemme in carboni spenti, le vivande
in sterco o in sassi. Prudenzio sapeva quel che diceva quando chiamava
Satana un prestigiatore.

Satana si piace di fare alla gente burle e dispetti di molte sorta.
Sono senza numero i pollaj disertati, i granaj votati, le cantine
asciugate da lui. A san Morando monaco strappava la coltre dal letto;
a santa Gudula spegneva il lume mentre era in orazione, e rovesciava
il candelliere a san Teodeberto; a santa Francesca Romana empieva
di mosche l'acqua da bere; ad altri rubava la tonaca, nascondeva
l'uffizio, imbrattava la minestra. Ai monaci di san Dunstano
sparecchiava a dirittura la tavola. I discepoli di san Benedetto
stavano costruendo il cenobio. Bisognava mettere a posto una gran
pietra; ma per quanto ci si affaticassero intorno non c'era verso di
smuoverla: il diavolo ci s'era seduto sopra, e bisognò che venisse il
santo in persona a cacciarlo via. Ma la burla peggiore, la più villana,
a mio avviso, era questa: cogliere uomo e donna in flagrante peccato
carnale e annodarli in indissolubile amplesso, _more canino_.

I santi erano fra tutti i più tormentati, e così doveva essere. Il
diavolo odia i santi, non solo perchè servi di Dio, ma ancora perchè
ogni loro atto, le preghiere, i digiuni, le pie opere, sono a lui
ingiuria e tormento. Inoltre, certe nature d'uomini, inclinate alla
melanconia, e nelle quali la fantasia sormonta, sembrano attirare il
diavolo, e dargli buon giuoco. Dice Amleto che il diavolo ha grande
potestà sopra nature come la sua. Del resto bisogna fare a questo
proposito una distinzione. Il diavolo poteva contentarsi di tormentar
l'uomo esteriormente, moltiplicando le offese e le angherie; poteva
anche tormentarlo interiormente, cacciandosi in lui, invasandolo. Nel
primo caso si aveva la ossessione propriamente detta; nel secondo si
aveva la possessione. Ora, i santi, erano del continuo esposti alla
ossessione, ma dalla possessione andavano, generalmente parlando,
immuni.


La ossessione aveva, come la tentazione, alla quale andava molto spesso
congiunta, forme e gradi infiniti, e a darne un concetto che in qualche
modo si raccosti al vero, bisogna ricorrere senz'altro agli esempii,
i quali, per buona sorte, sono infiniti ancor essi, e ci permettono
di tener dietro al formidabile _crescendo_ di quest'altro capitale
esercizio diabolico.

La ossessione più leggiera e più semplice era quella che il demonio
esercitava con solo esser presente. Nè c'era bisogno che la presenza
sua fosse avvertita, che egli la facesse in qualche modo sentire.
L'uomo il quale si credeva assiepato tutto intorno da una gran caterva
di diavoli, che con occhi intenti e spalancati perpetuamente spiavano
l'occasione di tentare e di nuocere, doveva provar l'emozione e il
cruccio di chi si trovi solo in una foresta popolata di ladroni, o in
mezzo a un grande stuolo di nemici poderosi e crudeli. Ma i diavoli
potevano anche lasciarsi vedere, o sotto gli aspetti loro naturali, o
sotto altri aspetti mostruosi e terribili, e per la via degli occhi
gelar gli animi di terrore. Potevano anche farsi udire, e allora
erano angosce d'altra maniera, e noje insoffribili. Infiniti santi, a
cominciare da sant'Antonio, li udirono ruggire come leoni, urlare come
lupi, stridere come aquile, fischiare come serpi, e li videro in figura
di così fatti animali, venir loro incontro, aggirarsi loro d'attorno,
tumultuosamente, rabbiosamente. Santa Margherita di Cortona, nella
sua cella, li udiva cantare a squarciagola canzoni oscenissime. Altre
volte erano invettive furibonde, contumelie atroci, spaventose minacce.
Fuggendo, i diavoli, dopo aver torturato gli occhi e le orecchie,
affliggevan le nari, lasciandosi dietro un odor nauseabondo, a cui
nessun fetore della terra poteva paragonarsi.

Ma questo era nulla ancora. I diavoli non eran gente da rimanersi
con le mani alla cintola, e o prima o poi venivano ai fatti. Qualche
volta se la pigliavano con le cose inanimate, guastando, distruggendo,
sperperando quanto capitava loro sotto; ma questa specie di danno
recavano più volentieri ai profani che ai santi, i quali, o non
possedevano nulla, o delle cose proprie non si curavano punto. Tuttavia
un demonio tentò una volta con una scure di demolire la cella del
santo eremita Abramo, là nel deserto, e un'altra volta diede fuoco
alla stuoja su cui il santo dormiva. Se si trattava di santi, assai più
volentieri che alle cose, i diavoli si attaccavano alle persone.

Per cinque anni continui san Romualdo dovette soffrire che il
diavolo venisse ogni notte a sederglisi sulle gambe e sui piedi. A
sant'Egidio, una volta, il diavolo saltò sulle spalle e ci si aggrappò
così fortemente, che per più tempo non ci fu verso di levarglielo di
dosso. Da questi due si fece sostenere e portare; altri, per contro,
sostenne e portò egli stesso, ma, si può credere, con poco loro gusto.
Più e più volte levò per l'aria, e trasportò da questo a quel luogo,
la buona beghina Gertrude da Oost. Santa Francesca Romana fu da lui
ripetutamente sollevata per i capelli, e una volta tenuta sospesa
sopra carboni ardenti. I diavoli detti dusii avevano in uso di rapir le
persone vive, portarle in luoghi spesso remotissimi da quelli ove prima
avevano stanza, e lasciare in loro luogo immagini ad esse somiglianti.

Santa Francesca Romana ebbe, del resto, a soffrirne di tutti i
colori. Un giorno, non sapendo che altro farle, il diavolo la legò
a un cadavere putrefatto, e cominciò a voltolarla per terra come una
fascina. Ma non so s'ella avesse più ragion di dolersi che la beata
Cristina da Stommeln, che un sozzo demonio imbrattava villanamente di
sterco.

Innumerevoli sono i santi che ebbero a patire violenze anche più
gravi. San Simeone Stilita, il Giovane, ebbe una volta strappata
dalla barba una man di peli; sant'Everardo fu schiaffeggiato notte e
giorno, senza intermissione, dal Venerdì Santo alla Pentecoste, ossia
cinquantadue giorni di fila. San Niccolò da Rupe fu ravvoltolato ben
bene in un roveto. I santi Romano e Lupicino ricevevano addosso una
gragnuola di sassi quando si mettevano in orazione; san Dunstano fu
ancor egli preso a sassate. Dalle sassate alle legnate poco ci corre.
Una notte sant'Antonio fu assalito da uno stuolo di diavoli, i quali
lo lasciarono mezzo morto a furia di bastonate. A san Romualdo toccò
la stessa disgrazia un giorno che s'era messo a cantare i salmi, e
le busse furono tali che gliene rimasero i segni fin che visse. A
santa Coleta i diavoli non si contentavano di dare le più villane
bastonate di cui si abbia memoria, ma portavano ancora in cella i corpi
degl'impiccati. A Tolentino si conservava, e forse si conserva ancora,
il nodoso bastone con cui il diavolo aveva dato più di un carpiccio a
san Niccolò che appunto si chiama da Tolentino. Il beato Giovanni di
Dio fu ancora legnato in pieno secolo XVI.

Nè la cosa finisce qui. I diavoli minacciavano santa Francesca Romana
di gettarla in un pozzo e di ucciderla; lasciavano mezzo accoppato
san Mosè Etiope; tentavano di uccidere santa Caterina di Svezia;
si studiavano di bruciar vivo in letto san Guglielmo di Roeskilde;
precipitavano dalla cima di un monte sant'Alferio, fondatore della
celebre abbazia della Cava; per poco non istrangolavano sant'Antonio
da Padova. A san Domenico, un giorno che stava pregando in chiesa,
scagliarono dall'alto una grandissima pietra, e poco mancò che il santo
non ci rimanesse sotto. Ai poveri tribolati non sempre mancava, in tali
frangenti, il soccorso del cielo; ma il soccorso del cielo era un po'
come il proverbiale soccorso di Pisa. Il diavolo picchiava la beata
Gherardesca, la stramazzava a terra, tentava di affogarla in Arno, e
quando s'era stracche le braccia in così fatto esercizio, giungevano
la Vergine e gli angeli e picchiavano il diavolo. Figuriamoci in quali
peste dovesse trovarsi la povera santa Cristina da Stommeln, tormentata
da 200,000 diavoli, e qual vita dovesse essere quella di certo prete
di Colonia, del quale racconta Cesario che i diavoli lo inseguivano e
tormentavano persino nella latrina.

Si possono contar sulle dita i santi che, in tutto il corso di vita
loro, non soffrirono dal diavolo offesa e danno alcuno. Uno dei
pochissimi fu san Niccolò, patrono di Trani: egli morì delle gran
legnate che gli fece dare un vescovo. I peccatori erano poco tormentati
dai diavoli, com'erano poco tentati, e spesso anzi ne avevano favori
e carezze; ma pagavan cara qualche volta, anche in questo mondo,
l'apparente immunità loro. Molti di essi furono da ultimo squartati
vivi, fracassati, e abbruciati dai diavoli; molti furono portati via
interi interi.


La ossessione più formidabile era quella a cui andavano soggetti
i moribondi, fossero essi peccatori o santi. Il diavolo aspettava
che l'uomo fosse disteso sopra un letto di dolore, vinto dal male,
angosciato dal pensiero della morte imminente e del giudizio che lo
attendeva, e gli dava allora l'ultimo e più terribile assalto. Secondo
un'antica credenza, Satana aveva assistito, sul Calvario, alla morte
del Redentore, anzi, dicevano alcuni, aveva osato, simile a un uccel
di rapina, posarsi sopra uno dei bracci della croce; non doveva egli
dunque assistere all'agonia delle sciagurate creature per la salute
delle quali il Redentore aveva sparso il suo sangue? Non una, ma molte
ragioni lo inducevano a far così, e non facevano se non confermare una
divulgata opinione i vescovi di Reims e di Rouen, che in una lettera da
essi scritta l'anno 858 a Luigi il Germanico, dicevano essere i demonii
sempre presenti alla morte degli uomini, così dei giusti, come dei
malvagi. In fatti, in quell'ultima ora della vita, i diavoli potevano
sperimentare un'ultima e decisiva tentazione; potevano impedire, o
render manchevole il pentimento; potevano cogliere a volo, e senza
ritardo alcuno, l'anima rea che doveva, per l'eternità, farsi loro
compagna; potevano, quand'altro non era loro concesso, far l'agonia più
angosciosa e più orrenda. Certo, morire in una camera piena di diavoli
arrabbiati e mostruosi, sopra un letto squassato da mani uncinate e
impazienti, doveva essere una tortura ineffabile, ignota agli antichi.
Lodovico il Pio cacciava da sè gli avversarii ansando con l'estremo
anelito: “Fuori! fuori!„ Santa Caterina da Siena, essendo già in
transito, ancora contrastava loro e teneva lor testa. La più crudele
battaglia si doveva sostenere in quella appunto che l'ultime forze
mancavano. Morire in tal modo e in tali condizioni doveva essere ardua
e terribil cosa, e perciò non è da meravigliare se nel 1542 Domenico
Capranica, vescovo di Fermo, raccogliendo gli ammaestramenti di molti
suoi predecessori, scriveva un libro ch'ebbe molta fortuna e molte
edizioni, e che s'intitola _Ars moriendi_, l'_Arte di morire_.

Che la tentazione potesse ancora trovar luogo quando l'uomo era ormai
fuor dei sensi e quando sembra dovesse avere tutt'altra voglia che
di peccare, parrà strano a molti, e pure era così. Si racconta di un
povero giovane di Loreto, che avendo sempre menato vita onestissima,
da ultimo s'innamorò di certa donna, ed ebbe con lei peccaminoso
commercio. Infermatosi improvvisamente, e giunto in fin di vita, piange
contrito il suo fallo, e fa una devotissima confessione, tanto che
coloro che lo assistono si tengono sicurissimi della sua salvazione.
Ma all'ultimo momento, quando egli era già per spirare, ecco farglisi
accosto il diavolo, sotto le sembianze della donna amata, e chiedergli
con voce tronca dai singhiozzi: “Adunque mi abbandonerai tu, amor mio?„
Il poveretto, dimenticando a quella vista e a quelle parole sè stesso,
preso da un ultimo spasimo di tenerezza, raccoglie quanto gli rimane
di fiato e mormora: “Mai non ti abbandonerò, mia diletta.„ Muore in
quel punto, e il diavolo se ne porta l'anima all'inferno per tutta
l'eternità. In altri casi il diavolo teneva altro modo: ricordava al
moribondo tutti i peccati commessi e ne esagerava a bello studio la
gravità, gliene imputava anche molti d'immaginarii, e lo assicurava
ch'era irremissibilmente dannato; il tutto per farlo morir disperato
e dannar veramente. Procurava anche di fargli credere che non ci fosse
più tempo a pentirsi, e che il pentirsi era inutile.

Il diavolo finiva spesso i moribondi che sapeva suoi. Il venerabile
Beda e il buon Passavanti narrano la storia di un vizioso cavaliere
d'Inghilterra che, avendo rifiutato di confessarsi, quando era già
preso dal male, morì per le mani di due diavoli che si posero con due
gran coltellacci a tagliarlo, l'uno da capo e l'altro da piede. Cesario
fa menzione di corvi diabolici che ai peccatori strappavano col becco
l'anima dal petto.

Ho detto che quando non potevano, o non volevano altrimenti nuocere, i
diavoli si studiavano di rendere l'agonia più angosciosa e terribile.
I moribondi se li vedevano intorno al letto in sembianza di uomini
smisurati e tetri, fuligginosi e torvi, i quali ficcavan loro nel
viso gli occhi accesi e spalancati; li vedevano in figura di corvi
e di avvoltoi volar per la stanza, in forma di serpenti pendere dal
soffitto, e di rospi saltellare sul pavimento. San Gregorio Magno fa
ricordo di un giovane che, combattendo con la morte, credeva d'essere
divorato da un orribile drago. Spesso ancora i moribondi udivano il
clangor formidabile delle trombe infernali, il frastuono e il fracasso
delle enormi caldaje, delle smisurate graticole, dei ponderosi
martelli, delle tenaglie, delle catene e degli altri stromenti di
tortura senza posa ammanniti, rimescolati e tramestati dai diavoli, e
l'incessante, disperato, spaventoso urlar dei dannati.


Ma assai più proficua della ossessione, quale l'ho definita e
descritta, tornava ai diavoli la possessione. L'ossessione procacciava
sfogo all'astio e alla invidia loro; ma la possessione era quella che
li faceva padroni veri e assoluti degli uomini. Tanto che dovevano
starsi paghi al tentare e al tormentare, i diavoli erano simili
a soldati che assediino una fortezza, nella quale entreranno, o
non entreranno, secondo i casi; ma quando dalla tentazione e dalla
ossessione venivano alla possessione, erano come soldati vittoriosi,
entrati nella fortezza e diventati padroni d'ogni cosa.

Chi è tentato e tormentato dal diavolo ha ancora di suo, se non
altro, la volontà; ma chi è posseduto da lui, chi è indemoniato, gli
appartiene tutto intero, anima e corpo, e se altri non lo libera, dopo
aver trascinato alcun tempo la più scellerata vita che immaginar si
possa, finisce inevitabilmente in inferno. L'anima dell'indemoniato è
un'anima invasa da Satana, un'anima privata della vita sua propria,
e che non si muove e non opera se non in quanto Satana la stimola,
l'agita, la violenta e la travolge a suo senno.

Come mai poteva il diavolo così cacciarsi dentro l'anima altrui?
Non è facile il dirlo. Sant'Ildegarde afferma che il demonio non
penetra l'anima con la propria sostanza, ma solo l'investe con
l'ombra e la nigredine sua. L'anima s'immergerebbe nella diabolica
tenebra come un astro che si eclissa s'immerge nel cono d'ombra di un
altro. Ma questa opinione si regge male, e giova più credere a una
vera e propria penetrazione e commistione, le quali si compievano a
volte con fulminea rapidità. Ogni pretesto era buono ai diavoli per
invadere chi non si guardava e non si premuniva. Se l'anima non era
più che intera e più che salda, correva pericolo grande e continuo,
giacchè una incrinatura bastava a Satana per penetrarvi. Ogni peccato
commesso, anche se minimo, era come una porta aperta al nemico, e non
solamente ogni peccato, ma ancora ogni più leggiera negligenza, ogni
più piccola sbadataggine. Un fanciullo ha sete e chiede da bere. Appare
subitamente un diavolo travestito e gli porge un bicchier d'acqua:
il povero bambino la beve senza pensare di farci su il segno della
croce, e il diavolo gli entra in corpo. Questo si legge nella storia
della invenzione di San Celso. A questo modo a un di presso una monaca
si cacciò in corpo il diavolo mangiando una lattuga: lo attesta san
Gregorio Magno. Di una puerpera che inghiotti il diavolo Fumareth
bevendo un bicchier d'acqua su cui s'era dimenticata di fare il segno
della croce, si legge nella vita di san Bononio, abate di Lucedio.
Chi poi era in peccato, non si poteva tener sicuro in luogo alcuno,
e di nulla si poteva fare scudo. Nella leggenda di san Costanzo,
arcivescovo di Conturbia, è riferito il caso di certo monaco giovane,
invaso dal diavolo mentre cantava l'evangelo della messa. C'erano poi
gl'indemoniati nati, ed erano tutti coloro i quali, venuti al mondo
col peccato originale, non si erano lavati nelle acque del battesimo;
tant'è vero che molte volte furono veduti i demonii uscir loro di bocca
proprio nel punto che si battezzavano. I Massaliani, eretici del IV
secolo, sputavano continuamente per espellere il demonio che credevano
d'avere dentro.

Non sempre, del resto, l'invasione era improvvisa e subitanea. In una
storia della morte e dei miracoli di Leone IX il diavolo ha la bontà di
dire che molte volte egli, prima d'invadere l'anima, ingombra il corpo,
tenendovisi occulto, ma generando sonnolenza, pigrizia e fame. Era
questo, come si vede, il periodo d'incubazione della possessione. Anzi
il corpo si poteva considerare come un ordinario abitacolo di demonii.
Dice santa Brigida nelle sue Rivelazioni che il diavolo sta nel cuor
dell'uomo come il verme nel pomo, nei genitali come un nocchiero in
nave, fra le labbra come un sagittario con l'arco teso.

L'invasione poteva essere di un diavolo solo, o di molti, e i molti
potevano non invadere tutti in una volta, ma a più riprese, in varii
stuoli, secondo chiedeva il bisogno. Di un indemoniato, in cui erano
entrati 6666 diavoli, si legge già nell'Evangelo di San Luca. Gregorio
Magno racconta: Una giovane sposa, in Toscana, doveva recarsi alla
cerimonia della solenne dedicazione di una chiesa a San Sebastiano. La
notte precedente all'andata cercò ed ebbe, in mal punto, le carezze del
marito. Entrata la mattina seguente nel santuario, fu subito invasa
da un diavolo che, scongiurato, saltò addosso al prete. I congiunti
condussero la donna, non bene guarita, sembra, a certi incantatori,
i quali non ottennero altro con l'arte loro se non di farla invadere
da 6666 diavoli nuovi. Questi finalmente cedettero alle preci di un
sant'uomo per nome Fortunato. Una indemoniata, che sant'Ubaldo liberò
con molti stenti, ne aveva addosso 400,000: in altri casi si vide un
diavolo solo posseder più persone. Interrogato, il diavolo diceva di
solito il suo nome, e indicava la ragione e il modo della invasione.


La possessione si rendeva manifesta per un gran numero di fenomeni, o
strani, o prodigiosi, parte fisici e parte psichici. Negli indemoniati
le condizioni e le funzioni tutte della vita erano più o meno alterate
e turbate. In molti una voracità straordinaria era il sintomo più
spiccato della infezione diabolica; e lo storico Teodoreto, nel V
secolo, ricorda il caso di certa donna la quale divorava ogni giorno
non meno di trenta polli. Spesso tale voracità era accompagnata
da perversione profonda dell'appetito e del gusto, e allora si
vedevano gl'indemoniati inghiottire avidamente le cose più sudice e
stomachevoli, il che sembrava del resto convenirsi assai bene alla
sozza natura dei diavoli. Altri indemoniati, per contro, mostravano per
qualsiasi cibo repugnanza profonda, e duravano in digiuni lunghissimi
senza che ne venisse loro danno alcuno. Del resto i diavoli facevano
dei posseduti da loro quello che lor meglio piaceva. Centuplicavano
in essi le forze, o li facevano cadere in deliquio e in catalessia; li
sollevavano da terra, tenendoli sospesi a mezz'aria, o li stramazzavano
al suolo; li piegavano in due, li capovolgevano, li raggomitolavano,
li facevano girare su sè stessi come trottole, ruzzolar come cercini,
capitombolare, gesticolare e contorcersi in mille guise, strane,
ridicole, spaventose. Ancora, li facevano latrare come cani, muggir
come buoi, gracchiar come corvi, fischiar come serpi, urlar com'anime
dannate, e spesso per le loro bocche eruttavano fiamme e fetidissimo
fumo. Governati dai diavoli a questo modo, molti indemoniati avevano
il viso macilento, l'occhio vitreo, la carnagione terrea, il corpo
consunto; ma altri apparivano vegeti, pingui, rubicondi, e davano
così nuovo esempio e nuova prova della molteplicità degli artifizii
diabolici.

Queste erano le meraviglie e le singolarità d'ordine fisico; ma c'erano
ancora, e più notabili, le meraviglie e le singolarità intellettuali e
morali.

La persona morale dell'indemoniato era una persona mutata di pianta,
o in vario modo alterata; non di rado soppressa interamente, oppure
ritagliata e sminuita. In fatti, nell'indemoniato non c'era più
un'anima sola; ma ce n'erano almeno due, e potevano essercene le
centinaja e le migliaja, se a centinaja od a migliaja si contavano i
demonii invasori, e la vita psichica di lui, tanto che la possessione
durava, era il risultamento e il prodotto della sovrapposizione;
dell'intreccio, della fusione di quelle due, o di quelle cento, o mille
anime. L'indemoniato, secondo che variava l'influsso diabolico, secondo
che l'accesso sopravveniva o si dileguava, perdeva o racquistava
coscienza di sè, ricordava o non ricordava il passato, era lui, o non
era lui, o era solamente una parte e un frammento di sè.

Gl'indemoniati mostravan di solito profondo pervertimento morale.
Bestemmiare Iddio, la Vergine, i santi; deridere le verità della fede,
e le cerimonie del culto; mostrare una ripugnanza estrema, anzi un vero
ribrezzo pei sacramenti e per tutto quanto appartiene alla religione
e ai suoi ministri, erano portamenti e atti che assai sovente, se non
sempre, li facevano riconoscere a primo aspetto. Essendo il diavolo
padre di menzogna, gli è naturale che gl'indemoniati di consueto
mentissero, ma giova pure avvertire che non mentivano sempre, e
che qualche volta dicevano la verità, spontaneamente, senza esservi
sforzati. Anzi, cosa più notabile ancora, la verità da essi detta
tornava sovente in danno lor proprio, cioè di quel demonio che avevano
in corpo, e in onor della Chiesa e della religione. Così si ricordano
indemoniati i quali molto sanamente argomentarono contro l'idolatria e
l'eresia; indemoniati che indicarono sepolcri ignoti di uomini santi;
indemoniati che svelarono le altrui turpitudini occulte, e le altrui
ignorate virtù; indemoniati che designarono la persona che con frutto
poteva esorcizzarli. Non si dimentichi poi che la possessione poteva
anche in certi casi accompagnarsi con la pietà più profonda e con le
pratiche tutte di devozione.

Le facoltà mentali dell'indemoniato ora apparivano depresse ed ottuse,
ora invece, ed era questo il caso più frequente, esaltate ed acuite;
c'era l'indemoniato muto, e c'era l'indemoniato loquace. Infiniti
parlarono lingue non mai apprese, rivelarono segreti occultissimi,
indicarono i luoghi dove si sarebbero ritrovate cose perdute o rubate,
diedero conto, come se le avessero presenti, di cose che avvenivano in
remoti paesi, predissero alcuna volta persino l'avvenire. Una smania
degli indemoniati fu spesso quella di palesare i peccati non confessati
delle persone che capitavano loro dinanzi: più di un esorcista, mentre
attendeva al malagevole suo officio, ebbe la sgradita sorpresa di
sentirsi così recitare in pubblico la lunga e poco edificante litania
dei peccati commessi.

La possessione, la quale era più frequente assai tra le donne che non
tra gli uomini, assumeva alle volte carattere contagioso. Un primo
indemoniato ne suscitava un secondo, un terzo, e ne poteva suscitare
altri cento. Così è che si videro più di una volta gli abitanti di
un intero villaggio, o i frati, e più spesso le suore, di un intero
convento essere invasi in brevissimo tempo dai diavoli. Basterebbe
ricordare a tale proposito il celebre esempio delle Orsoline di Loudun,
uno dei meno antichi e dei più noti. A cominciare dalla badessa, suor
Giovanna degli Angeli, le diciassette suore del chiostro furono tutte
invase dal diavolo, e le rivelazioni ch'esse fecero agli esorcisti
e ai magistrati costarono la vita al povero Urbano Grandier, che
era stato loro confessore, e che fu arso per mago. L'esempio delle
monache di Loudun può dirsi in certo modo recente, perchè del secolo
XVII; ma esempii molto più antichi non mancano. Nel 1490, le suore
del monastero di Quercy, nel Belgio, furono invase dai diavoli, e
rimasero indemoniate quattr'anni. Nel 1124 furono invasi dai diavoli
i religiosi del monastero di Prémontré, fondato da san Norberto. Le
danze epidemiche, le quali a più riprese, e in varie province d'Europa,
apparvero nel corso del medio evo, erano ancor esse fenomeni di
possessione generale e contagiosa.

L'indemoniato da sè non si poteva liberare; bisognava che altri lo
ajutasse. La operazione di liberare altrui dal demonio si chiamava
esorcismo, e a così fatto esercizio provvide la Chiesa istituendo
appunto l'ordine degli esorcisti. Vedremo più là quali argomenti
si adoperassero contro il demonio nell'esorcismo; ma voglio dire
subito che la pratica non andava senza difficoltà grandi, e, qualche
volta, senza grande pericolo. Spesso il diavolo, uscito di corpo
all'indemoniato, entrava in corpo all'esorcista.

La possessione poteva essere acuta, con un certo decorso, o cronica: la
beata Eustochia da Padova fu posseduta tutta la vita.

Il diavolo usciva sempre di mala voglia, e più tardi che poteva, e
quando era costretto a far piazza pulita, s'ingegnava ancora di nuocere
e spaventare fuggendo. Spesso metteva urli terribili, e sgusciando
via si portava dietro l'uscio o un pezzo di soffitto, o la cappa del
camino, oppure, lasciato l'uomo tramortito in terra, si cacciava in
corpo a un bue, a una pecora, o ad altro animale. E ora usciva con la
forma sua propria, ora con la forma di un pipistrello, di una biscia,
di un rospo, di un uccello nero, o come un fumo denso e nauseabondo.
Molti indemoniati guarirono subitamente dopo aver vomitato il desinare,
oppur dopo una colica violenta, o un copioso flusso di ventre.

Gl'indemoniati ora non si curano più dagli esorcisti, ma dai medici,
e ciò malgrado che il gesuita Giovanni Perrone abbia nelle sue
_Prælectiones theologicæ_ con molta diligenza enumerati i segni in
virtù de' quali si può sicuramente distinguere la possessione da certe
malattie che hanno con essa alcuni caratteri comuni. In questa materia
il reprobo Charcot sa ciò che nessun teologo ha mai saputo.



CAPITOLO VI.

L'INFESTAZIONE DIABOLICA.


Abbiamo veduto qual fosse la potenza di Satana, e come egli tentasse
e tormentasse gli uomini; ma siam lontani ancora dall'avere un giusto
concetto della parte ch'egli aveva in questo povero mondo, del luogo
ch'egli teneva nella vita del genere umano, delle infinite faccende che
si trovava e delle infinite noje che dava.

Chi non aveva il diavolo addosso, lo aveva dattorno, sempre desto,
pronto sempre a cogliere tutte le occasioni d'importunare o di nuocere.
Ogni più semplice atto della vita poteva dargli pretesto a mal fare.
Gregorio di Tours racconta la storia di un prete Pannichio, che
trovandosi con amici a tavola, e stando per recarsi il bicchiere alle
labbra, si accorse di una mosca, la quale gli ronzava importunamente
d'intorno, e pareva volesse imbrattargli il vino. Pratico di tali
faccende, Pannichio capì quella non esser mosca, ma diavolo, e con un
segno di croce pose fine allo scherzo. Vero è che il vino si sparse
miracolosamente in terra, e il buon prete non lo bevve per quella
volta.

Figuriamoci che vita dovesse essere quella di coloro che, non di tanto
in tanto, ma sempre, così di notte come di giorno, così nel sonno come
nella veglia, si trovavano esposti a queste insidie, a queste burle,
a queste soperchierie. Il più perseguitato dei perseguitati fu forse
un certosino, a nome Ricalmo, abate di Schoenthal nel Vürtemberg, non
si sa precisamente in qual tempo. Questo dabben uomo compose, o fece
comporre, in latino, un _Libro delle insidie, degli inganni e dei
dispetti che i diavoli fanno agli uomini_, il quale è per certo uno dei
più curiosi documenti delle credenze del medio evo che sieno pervenuti
sino a noi. Egli racconta i dispetti fatti a lui e quelli fatti agli
altri. I diavoli, senza un rispetto al mondo pel suo carattere e la
sua età, lo chiamavano immondo sorcio pelato, gli gonfiavano e movevano
il ventre, gli davan nausea e capogiri, gli appesantivano le mani per
modo che non poteva quasi più farsi il segno della croce, lo facevano
addormentare in coro, e poi russavano per far credere agli altri monaci
ch'egli fosse colui che russava. Parlavano con la sua voce, lo facevano
tossire, lo stimolavano a sputare, si cacciavano in letto con lui,
gli tappavano il naso e la bocca per modo da non lasciargli avere il
fiato, lo forzavano ad orinare, lo pungevano a guisa di pulci, e se
per combattere il sonno egli esponeva al freddo le mani, essi gliele
tiravano sotto le vesti per riscaldargliele. Qualche volta a tavola gli
facevano passar l'appetito, ed egli allora cercava di ajutarsi con un
granello di sale, che ha grande virtù contro i demonii. Tutte queste
cose, ed altre assai, racconta Ricalmo a un discepolo. Il fruscio che
le sue vesti pajono fare, quand'egli si muove, è cicalio di demonii.
Tutti i rumori che escono dal corpo umano, tutti quelli che vengono
dalle cose, sono pure opera di maligni spiriti, meno il suono delle
campane che è opera di spiriti buoni. La raucedine, il dolor di denti,
certi affiochimenti di voce, gli errori commessi nel leggere, i moti e
le smanie degli infermi, i tristi pensieri, i mille piccoli accidenti
della vita del corpo e della vita dell'anima son dovuti a potenza
diabolica. A un certo momento il frate che ascolta si ravvolge tra le
dita un filo di paglia; insidia del demonio anche quella. Tutto ciò
che noi diciamo di buono viene dagli angeli, tutto ciò che diciam di
cattivo viene dai diavoli, così che, confessa il povero Ricalmo, io
non so più quel che mi dica io. Egli aveva almeno questo vantaggio, che
udiva e intendeva tutti i discorsi che i diavoli facevano tra di loro,
ed era informato di tutte le loro trame, e di tutti i loro maneggi. Di
ciò i diavoli si dolevano assai; ma la colpa era loro, perchè, invece
di parlare una lingua incognita a Ricalmo, si ostinavano a parlar
latino, e si sforzavano di parlarlo correttamente. Per difendersi
dagli assalti continui del popolo infernale, Ricalmo si segnava dalla
mattina alla sera, nel viso, nel petto, e col pollice della mano destra
nella palma della sinistra, e consigliava di segnarsi tutto il corpo,
fin dove fosse possibile di giungere con le mani. Confessava per altro
che, stante la grande ressa dei demonii, il segno della croce rimaneva
inefficace talvolta, come un'arma di cui per troppa calca di nemici più
non si possa far uso. Ciò spiega come anche l'angelo custode, sebbene
non abbandoni mai l'uomo, ma con tutte le forze anzi si adoperi in
sua difesa, possa alle volte dar poco ajuto. I diavoli, dice Ricalmo,
sono nell'aria come è il pulviscolo in un raggio di sole; anzi l'aria
stessa è come una gelatina di demonii, nella quale l'uomo è immerso
e sommerso. Si può anche dire che i diavoli involgono l'uomo come
il guscio la testuggine, o che gli stanno addosso come uno strato di
cenere. Un frate, essendo ancora novizio, vide una sera, dopo compieta,
venir giù dal cielo una gran pioggia di diavoli, e correre l'onda
impetuosamente, rigurgitando, per tutto l'atrio, e durar l'acquazzone
finchè egli ebbe recitato per intero quattro volte il salmo _Beati
quorum_. Come si vede, non colsero tutto il vero quei cabalisti i quali
dissero che ciascun uomo aveva 1000 diavoli da man destra e 10,000 da
mano manca; ciascun uomo ne aveva pure dinanzi e di dietro e di sopra;
e che l'aria ne fosse tutta pregna è anche provato dalla testimonianza
dell'anacoreta Gutlaco, il quale se li vedeva schizzare in cella
attraverso le fessure dell'uscio.


Secondo alcuni gnostici la natura è opera di angeli maledetti, e la
materia è il male, il contrario di Dio. Gli Albigesi professarono la
stessa dottrina. Senza giungere a una affermazione così categorica,
la credenza ortodossa del medio evo le si raccosta, in quanto inclina
a considerare la natura tutta intera come contaminata, come caduta
in potestà di Satana dopo il peccato dei primi parenti. La natura è
indemoniata; lo spirito di Satana la pervade e la soggioga. Il frate,
che vive murato nel suo convento come in una fortezza, la contempla
con vago senso di terrore, e vede in essa quasi l'accampamento
degli innumerevoli suoi nemici. Le selve profonde e nereggianti, le
accigliate creste dei monti, una rupe smisurata, pendente sull'orlo
del precipizio, una valle orrida e cupa, un lago immobile in mezzo a
una pianura deserta, un torrente che balza spumeggiando e mugghiando
fra travolti macigni, sono per lui come gli aspetti di una scena
minacciosa, dietro alla quale si trama un'immensa e formidabile
insidia, e d'onde prorompe ogni poco e penetra nello stesso asilo di
lui la potenza impetuosa del male. Se quello che noi diciamo sentimento
della natura sembra nel medio evo pressochè estinto, non bisogna
farsene meraviglia. Satana è nelle nuvole procellose che s'incalzan
per l'aria, nella nebbia che si stende sulle terre e sui mari, nella
pioggia che fa straripare i fiumi, nella grandine che distrugge i
raccolti, nel vortice che inghiotte la nave; Satana rugge nel vento,
divampa nella fiamma, si diffonde nella tenebra, urla nel lupo,
gracchia nel corvo, fischia nel serpe, si cela in un frutto, in un
fiore, in un granello di sabbia, è in ogni luogo, è l'anima delle cose.

Ma sebbene la giurisdizione di lui si stendesse sopra tutta la natura;
sebbene egli potesse in ogni parte della terra fermar la sua sede ed
esercitare la sua potestà, pur nondimeno v'erano luoghi nei quali
egli e il suo popolo dimoravano più volentieri che altrove, e che
parevano essere da loro in più particolar modo occupati e dominati.
Tali erano i luoghi deserti in genere, certe foreste, certi cucuzzoli
di montagna, certe isole, alcuni laghi e fiumi, le città abbandonate,
i castelli smantellati, le chiese diroccate. San Peregrino confessore,
capitato un giorno in una tenebrosa foresta, ode improvvisamente un
fragore spaventoso, e si vede accerchiato da una infinita moltitudine
di demonii, che tutti gridano a squarciagola: A che sei venuto? questa
selva ci appartiene, e serve all'esercizio della malvagità nostra.
Gervasio di Tilbury racconta in sul principio del secolo XIII che in
Catalogna è un monte dirupatissimo, sulla cui cima si raccoglie un
lago quasi nero e d'imperscrutabile profondità, e sorge, invisibile
al comune degli uomini, un palazzo abitato da demonii. San Filippo
d'Argirone cacciò i diavoli dal monte Etna. San Cutberto liberò l'isola
di Farne dai demonii che l'occupavano; e nelle storie della fondazione
di molti conventi si legge come fu necessario di togliere il luogo ai
nemici, i quali non lo lasciarono se non dopo lunga ed ostinata difesa.
Nella storia dei miracoli di San Guglielmo di Orange è ricordato un
fiume, di cui i diavoli s'erano fatti padroni. Ugone d'Alvernia trovò
in Oriente, durante la sua lunga e faticosa peregrinazione, una città
tutta intera popolata di diavoli. San Sulpizio, andato a pregare
una notte, mentr'era ancor fanciullo, in una chiesa diroccata, fu
villanamente assalito da due diavoli neri che ci stavano di casa.


Se c'erano luoghi preferiti dagli spiriti malvagi e frequentati più
volentieri da loro, non c'erano, per contro, luoghi in cui essi non
potessero penetrare e attendere alle loro faccende. Le alte e spesse
mura, le porte ferrate e munite di ponderosi catorci, non impedivano
loro d'irrompere nei chiostri; e le chiese stesse, debitamente
consacrate e regolarmente officiate, non erano sicure dalle loro
invasioni. Il chiostro e la chiesa erano come due fortezze, rimaste in
mano dei legittimi padroni in mezzo a un paese già corso e conquistato
dai nemici.

I monasteri, reputati luoghi di salvazione, erano cinti di perpetuo
assedio, e per quanto quei di dentro s'ingegnassero di far buona
guardia, non era possibile sempre vietar l'ingresso a quegli avversarli
così leggieri e spediti. Dov'erano frati e monache era sempre una
gran ressa e un grande rimescolamento di diavoli d'ogni generazione.
San Macario d'Alessandria, vissuto nel quarto secolo, vide una volta
nella sua propria città una moltitudine di piccoli diavoli, simili
a fanciulli neri, aggirarsi affaccendati tra i monaci, e tentarli in
varii modi. Alcuni accarezzavano ai servi di Dio le palpebre per farli
dormire; altri cacciavano loro in bocca le dita per farli sbadigliare.
Pietro il Venerabile narra le tribolazioni d'ogni maniera che i diavoli
davano ai santi abitatori dell'abbazia di Cluny. Cesario racconta di
un abate Ermanno, il quale vedeva i diavoli balzar fuori dalle pareti,
gironzar pel convento, mescolarsi coi monaci, correre a guisa di
picciolissimi nani su e giù per il coro, schizzando faville, o trarre
in volta gran corpi tenebrosi, con volti affocati, come di un ferro
rovente. Turbato da tali visioni, chiese per grazia a Dio d'esserne
liberato, e gli fu concesso; ma il capo di quei demonii gli si mostrò
un'ultima volta, in forma di un occhio aperto e luminoso, grande come
il pugno, pieno di vita e di malizia. Come l'occhio di Dio, l'occhio
del diavolo era per tutto, vedeva tutto. Non avevano dunque il torto
quegli antichi monaci, che a tutela dei chiostri e di sè ponevano la
notte, di contro al nemico, scolte e sentinelle: l'apostolo li aveva
messi in sull'avviso: _Vigilate!_


Nelle sculture e nelle pitture che adornano le chiese del medio evo,
i diavoli sono ritratti infinite volte, in tutti i modi, sotto tutti
gli aspetti; ma, oltrechè scolpiti e dipinti, ci si lasciavano vedere
vivi e sani, allegri e sfacciati, come in casa loro. Quanti monaci,
stando a pregare in coro, non videro i diavoli ruzzar davanti l'altare,
correre in questa banda e in quella, fare a rimpiattino tra le
panche, rotolar per terra, spenzolarsi dai capitelli, spegnere i ceri,
rovesciar le lampade, metter sozzure nei turiboli, voltar sottosopra
i messali, senza un timore, senza un rispetto al mondo! Quante volte
i maledetti non frastornarono gli oranti, non guastarono le sacre
funzioni, frammettendo ai canti sacri stonature risibili, arruffando
e confondendo nelle bocche innocenti le parole dei salmi, troncando
sul più bello il fiato agli organi, mentre il demonio Tutivillo,
serbato a quest'officio, andava raccogliendo di sulle bocche ogni
error di lettura, ogni sfarfallone di pronunzia, e ne faceva fardello,
da tirar poi fuori e sciorinare a suo tempo, nell'ora del giudizio,
dinanzi all'anime intontite! La fanciulla, nel cui seno s'agitava una
prima vampa d'amore; la moglie che non ogni pensiero aveva dato al
marito; la suora cui terribili e pur cari fantasmi turbavano i sonni,
s'accostavano tremando al confessionale, presso a cui, dietro il
bruno pilastro, era acquattato il demonio, consigliero di peccaminose
reticenze, e di più peccaminose menzogne. Forse, chi sa? quel monaco
oscuro, immobile sotto la tonaca, perduto il volto nell'ombra del
cappuccio, quel monaco silenzioso ed austero, dalle cui labbra doveva
venire la santa parola dell'esortazione e del perdono, era egli stesso
un diavolo camuffato. Se n'eran veduti di questi casi, e si ricordavano
con raccapriccio.

Racconta il già citato Gregorio di Tours come Eparchio, vescovo degli
Alverni ai tempi del re Childeberto, trovasse una notte la chiesa
sua piena di diavoli, seduto il principe loro, in figura di laida
meretrice, sulla cattedra episcopale. Cesario narra, giustamente
sdegnato e scandalizzato, di una torma di diavoli, i quali entrarono
in certa chiesa sotto forma di un branco di porci, sozzi e grugnenti.
Moltissimi indemoniati furono invasi in chiesa. Non ebbe dunque torto
l'antico ed ignoto artefice, che nella loggia esterna della chiesa
di Nostra Donna in Parigi, pose una statua di demonio, appoggiata al
parapetto, in postura di persona che stia a tutto suo agio, in luogo
non vietato, ma familiare; e non ebbe torto il Lessing, quando immaginò
di cominciare certo suo dramma non finito di Fausto con un conciliabolo
di diavoli in una chiesa. Nel dramma del Longfellow intitolato _La
leggenda aurea_, Lucifero, vestito da prete, entra in una chiesa, si
genuflette per ischerno, si meraviglia che luogo così scuro ed angusto
abbia il nome di casa di Dio, pone alcuna moneta nella cassetta delle
elemosine, ben sapendo a quale uso queste si serbino, filosofeggia
e deride, si siede nel confessionale e confessa il principe Enrico,
assolvendolo con una maledizione, poi se ne va pei fatti suoi.


Il mondo fisico era in preda a una vera infestazione diabolica; ma così
ancora era il mondo umano. In tutti i fatti della storia Satana era
immischiato, sia per promuovere, sia per contrastare e confondere. Egli
suscitava le eresie, egli poneva la tiara in capo agli antipapi e la
superbia in cuore agli imperatori, egli sommoveva i popoli, preparava
e capitanava le ribellioni e le invasioni. Le armi e le vittorie di
quei saraceni che misero in periglio la cristianità, erano armi sue,
vittorie sue. Della interminabile e varia tela della storia egli era
il tessitore più operoso e più industre. I mali costumi e le cattive
leggi, il fasto ed il lusso, gli spettacoli profani, il denaro per
cui tutto si compra e si vende, erano sue invenzioni. Gli istrioni,
i giullari, i bagatellieri, lavoravano per lui, sotto i suoi ordini.
L'uomo che si mena in casa gl'istrioni e i saltimbanchi, dice Alcuino
in una sua lettera, non sa quanto gran turba di spiriti immondi li
segua. Le danze erano un trovato di Satana, ed ogni agio che altri
potesse concedersi, ed ogni spasso, anche innocentissimo a primo
aspetto, poteva celare, e celava quasi sempre, una diabolica insidia,
e apriva l'adito alle diaboliche prepotenze. San Francesco d'Assisi,
un giorno che era fieramente travagliato da un gran male di capo e
di denti, chiede un guanciale di piuma per adagiarvi il capo; ed ecco
subito farglisi addosso il diavolo e non dargli requie fino a tanto che
il santo non abbia gettato lungi da sè il guanciale. Guiberto di Nogent
narra la storia di certi cacciatori, che credendo d'inseguire un tasso,
inseguono un demonio, lo prendono e lo mettono in un sacco; ma tosto
assaliti da una infinita moltitudine di demonii, lo lasciano andare,
e giunti a casa muojono. Finalmente Satana era bellezza, ricchezza,
ingegno, scienza: egli era in ogni vizio e poteva celarsi dietro ogni
virtù. Aveva ragione Salviano quando esterrefatto gridava: _ubique
daemon_, il diavolo è per tutto.

Con giurisdizione così larga, con tanti svariati ufficii, i diavoli
poco potevano stare in ozio. La vita loro era un perpetuo scorazzare i
mari e le terre in busca di preda, un perpetuo affaticarsi in provocar
peccati e preparare occasioni di peccato, un travagliarsi senza posa
in mille opere di nocumento. Notte e giorno la bocca dell'inferno
vomitava sopra la terra, sopra la misera umanità, le legioni dei
diavoli arrabbiati, smaniosi di far nuovo male, e ringojava le
legioni di quelli che, tentando, seducendo, insozzando, scompigliando,
distruggendo, avevano fornito il cómpito. La tresca non aveva nè fine,
nè tregua.

Al pensiero di una potenza malvagia così diffusa in ogni luogo, vigile
sempre, sempre operosa, e per giunta invisibile, gli animi dovevano
empiersi, e veramente si empievano, di terrore. La storia del medio evo
è tutta intera come aduggiata dall'ombra immane che getta sopr'essa
il nemico implacabile. Secondo una immaginazione degli arabi, in
quella estrema e sconosciuta parte dell'Oceano Atlantico che aveva
nome di Mar Tenebroso, mare seminato di portenti e di perigli, si
vedeva sorgere di mezzo all'acque, all'orizzonte, la mano smisurata
e nera del principe dei demonii, minaccia formidabile a' troppo
temerarii navigatori. Così di mezzo al mondo medievale, sopra le
città che si raccolgono intorno alle chiese cuspidate come il gregge
intorno al pastore, si leva tenebrosa e terribile, quasi in segno di
dominazione, la mano di Satana. E quel terrore che ingombra gli animi
prende forma e colore e plasticità nelle bieche visioni, nelle fosche
leggende, e in tutta un'arte tormentata e mostruosa. Chi dicesse che
nel medio evo la più gran moltitudine dei credenti fu governata assai
più dal terrore di Satana che non dall'amore di Dio, assai più dal
raccapriccio dell'inferno che dal desiderio del paradiso, non direbbe
se non il vero. Mille spedienti e mille mezzi erano stati immaginati
per contrastare alla potenza del terribile avversario, e per eludere
le sue arti; ma si andò anche più oltre, e si cercò modo di mitigare
la ferocità sua, di placarne il furore, come si userebbe con un
dio malvagio sì, ma strapotente. Satana ebbe preghiere, oblazioni e
vittime. Un benedettino francese, Pietro Bersuire (m. 1362), racconta,
in un suo libro di esempii morali, la seguente istoria. Fra certi
monti prossimi alla città di Norcia, in Italia, è un lago, abitato
da demonii, che prendono e rapiscono chiunque si avvicini ad esso,
meno gli stregoni di professione. Tutt'intorno al lago fu costruita
una muraglia, vigilata da custodi, affinchè non possano andarvi
i negromanti e consacrare i libri loro al nemico. Ma la cosa più
terribile è, che in ciascun anno, quella città deve mandare in tributo
ai demonii, sulla sponda del lago, un uomo vivo, che incontanente da
quelli è fatto a brani e divorato. La città sceglie ogni anno, a tal
fine, alcuno scellerato, degno di così miserabile morte; chè se nol
facesse, se volesse mancare del consueto tributo, sarebbe in punizione
devastata e distrutta dalle procelle.

Ad aumentar quei terrori squillava di tanto in tanto, simile al
clangore delle novissime trombe, in mezzo alla cristianità stupefatta,
l'annunzio della prossima fine del mondo. Ora, si sapeva che per un
tempo, prima della fine del mondo, la potenza di Satana, sarebbe, Dio
concedente, cresciuta a dismisura. Il bene doveva trionfare da ultimo;
ma il suo finale trionfo sarebbe stato preceduto da tale strabocco
di perversità e di mali di ogni sorta, quale non s'era veduto innanzi
sulla faccia della terra, e quale la più fervida fantasia non avrebbe
potuto immaginare. Satana doveva esser vinto; ma non senza aver dato a
Dio e alla sua Chiesa un'ultima e disperata battaglia.



CAPITOLO VII.

AMORI E FIGLI DEL DIAVOLO.


Tentando, tormentando, invadendo le anime come rocche espugnate,
Satana e gli spiriti suoi erano in perpetuo commercio con gli uomini
e stringevano con essi legami varii e molteplici. La possessione
era il legame più intimo, e comunque lo si spiegasse, riusciva pur
sempre un connubio, una specie di copula, da cui poteva seguitare una
fecondazione maligna, e una proliferazion di peccato. Ma la possessione
era una semplice copula spirituale, e i diavoli, sempre intenti a far
guadagno, con tutti i mezzi e per tutte le vie, dovevano desiderare
anche l'altra, dovevano tentare di congiungersi carnalmente con gli
uomini, di fondere in mostruose geniture l'umano e il diabolico, e
procrear figliuoli, che fossero, sino dal concepimento, consacrati
all'inferno. E procrearono figliuoli, e il mondo li conobbe, e più
d'una volta sentì il peso di lor malvagia potenza.

La cosa, per altro, non è al tutto chiara. Come fanno i diavoli a
generare? Che ne avessero facoltà pareva accertato da un luogo del
Genesi, dove sembra si dica che gli angeli ebbero commercio con le
figlie degli uomini, e generarono i giganti; e da molti si credeva
che i demonii fossero per l'appunto quegli angeli peccatori, che la
celeste loro natura avevano bruttata del fango della sensualità. Ciò
nondimeno molti dubbii si mossero, e molte difficoltà si fecero su
questo proposito da teologi di grande e di piccola levatura, e le
opinioni loro non sono gran fatto concordi. Secondo i cabalisti, i
demonii s'accoppiano regolarmente fra loro, e si propagano al modo
stesso degli uomini. In Germania è spesso ricordata tra il popolo
la nonna del diavolo, una signora non troppo cattiva, provveduta di
novecento teste; e tra gl'italiani del mezzogiorno è conosciuta, e
torna spesso nei discorsi, la mamma di lui. I rabbini nominano le
quattro mogli di Samaele, madri d'infiniti demonii. Il greco Michele
Psello, segretario dell'imperatore di Costantinopoli, monaco del Monte
Olimpo in Bitinia, filosofo, matematico, medico, oratore, alchimista
e teologo, vissuto sin verso la fine dell'XI secolo, afferma in certo
suo trattato delle operazioni dei demonii, che questi possono benissimo
generare, provveduti come sono di quanto si richiede al bisogno. Ma qui
appunto le opinioni discordano. San Tommaso d'Aquino, san Bonaventura
e infiniti altri teologi, dicono risolutamente che i diavoli non hanno
seme proprio, e perciò non generano, nel vero senso della parola; ma,
facendosi succubi, ricevono il seme dell'uomo, e poi trasformandosi
in incubi, impregnano di quel seme la donna con cui si accoppiano,
e così generano. La loro sarebbe dunque una peculiar maniera di
paternità putativa, la quale tuttavia non esclude la trasmissione di
certe qualità diaboliche alla prole generata in tal modo. Aveva torto
dunque Lodovico Dolce, quando a certo Fra Girolamo di una sua commedia
intitolata _Il Marito_ faceva dire con troppo dogmatica sicumera:

    .... i demonii non possono concipere,
    O per dir meglio ingravidar le femine,
    Perchè non hanno seme; nè l'Altissimo
    Permetteria che donna con battesimo
    Ingravidata fosse dal dimonio.
    Lascia pur ch'altri ciarli, che i teologi
    Tutti d'accordo quant'io dico affermano.

Ma l'Altissimo permetteva al diavolo tant'altre cose; perchè avrebbe
dovuto vietargli questa? E le donne che non erano _con battesimo_?
Il popolo, che poco intende e meno gusta le distinzioni, le arguzie e
gli arzigogoli dei signori teologi, credette da senno, e senza volersi
torre la briga di venire in chiaro del modo, che i diavoli potessero
procreare figliuoli, e così séguita a credere ancora oggi giorno, per
tutto dove non abbia scosso un pochino da sè le antiche superstizioni e
l'antica ignoranza.

E perchè non avrebbero potuto i diavoli generare, se fantasmi di
donne morte potevano concepire e partorire? L'inglese Gualtiero Mapes
(m. c. 1210) racconta in certo suo libro _De nugis curialium_, ossia
_Delle frascherie dei curiali_, la mirabile storia di un cavaliere di
Brettagna, che cavalcando una notte per una valle recondita, trovò in
mezzo a una schiera di donne che si sollazzavano al cheto lume della
luna, la propria moglie, già morta da un pezzo, la rapì, come si fa di
un'innamorata, visse con lei molt'anni felicemente, e n'ebbe parecchi
figliuoli, che per soprannome furono detti i figliuoli della morta,
_filii mortuæ_.


I diavoli facevano quando da incubi, quando da succubi; quando cioè
da maschi e quando da femmine, secondo il gusto e l'opportunità; ma
mi affretto a dire, senza pretendere di darne le ragioni, che essi
volevano essere piuttosto maschi che femmine. Tommaso Cantipratense
assicura d'avere ricevuto assai volte la confessione di donne che si
dolevano d'essere state violate da incubi; e nella vita di san Bernardo
si narra la scandalosa istoria di un incubo sfacciatissimo, il quale
per più anni di fila giacque cotidianamente con certa femmina, senza
un ritegno o rispetto al mondo, tanto che si cacciava in quello stesso
letto in cui anche il povero marito dormiva.

Che la natura umana potesse essere profondamente turbata e sconvolta
da quegli spaventosi contatti; che gli amplessi diabolici potessero
tornare alle volte mortali, non parrà strano a nessuno, e chi ne
voglia gli esempii può trovarne a bizzeffe negli scrittori. Tommaso
Walsingham, monaco di sant'Albano d'Inghilterra circa il 1440, racconta
la terribile storia di una fanciulla, che contaminata da un diavolo,
morì in capo di tre giorni, enfiata per tutto il corpo, spandendo
intorno orribile fetore. Cesario va più in là e racconta di una donna,
la quale abbracciata (non altro che abbracciata) da un diavolo vestito
di bianco, impazzì subitamente e morì poco dopo; e di un'altra, cui un
diavolo travestito da servo toccò la mano, e che ebbe la stessa sorte.

Ben più strano parrà, credo, che donne di carne e d'ossa potessero
reggere per anni ed anni a quei connubii senza troppo risentirsene: e
pure anche di ciò sono prove ed esempii; celebre tra gli altri quello
di un diavolo e di una donna i cui amori durarono un quarto di secolo.
E sembra che alle volte i diavoli innamorassero per davvero, a dispetto
dei teologi, i quali pretendono che in quella loro depravata natura
l'amor non alligni. Gervasio di Tilbury, gran conoscitore di tutti
questi secreti, dice chiaro: certi demonii amano con tanta passione le
donne, che per possederle ricorrono ad ogni arte e ad ogni inganno.

Ardori nefandi, ma rispondenti ai loro, si producevano poi in certe
donne, nelle cui anime l'idea di soprannaturali abbracciamenti
suscitava strani fantasmi e concupiscenze mostruose. A quante non
dovette sembrare terribile, ma pure invidiabile ventura avere amante
un angelo del fuoco! Alvaro Pelagio, vescovo di Silva, che circa il
1332 compose in latino un libro _Del pianto della Chiesa_, dice d'aver
conosciuto molte monache, le quali volentariamente si sottoponevano
al diavolo. Le streghe erano le concubine ordinarie e volenterose dei
diavoli, che nelle assemblee e nei bagordi di cui dovrò parlare più
oltre, usavano con loro pubblicamente. Sono senza numero quelle che
nei processi confessarono apertamente e senza vergogna i turpi amori, e
sul rogo ne pagarono la pena; e più d'una ebbe a svelare questa strana
particolarità, che il seme dei diavoli è freddo come il ghiaccio.

Michele Lermontov, uno dei maggiori poeti che abbia avuto la Russia
in questo secolo, morto a ventisett'anni in duello, nobilitò il tema
di tante fosche leggende in un poema ch'è tra i suoi più belli, e
s'intitola appunto _Il demone_. Satana s'innamora perdutamente, là,
fra le aspre e meravigliose solitudini del Caucaso di una fanciulla
bellissima, per nome Tamara. Costei, mortole il fidanzato, si
seppellisce in un chiostro; ma l'innamorato demone anche quivi la
persegue, e ottiene ch'ella s'innamori di lui, e giura di voler per
quell'amore rinnegare il suo passato e rendersi a Dio. Gli amplessi del
superbo caduto uccidono la fragile creatura, che perdonata e benedetta
è dagli angeli assunta in cielo, mentre quegli, non ravveduto, si
risommerge nelle tenebre sempiterne.


I demonii succubi non erano meno sfacciati e pericolosi degl'incubi.
Cesario racconta di un converso, che abbracciato e baciato in letto da
un diavolo vestito da monaca, infermò e in tre giorni morì; e ricorda
il caso di un uomo dabbene, che non avendo voluto consentire alle
lubriche voglie di un succubo, fu da questo tratto a volo per l'aria
e scaraventato in terra, così che, dopo avere stentato un anno, se ne
andò all'altro mondo. Ma di quanti succubi vide il medio evo, il più
fascinatore fu Venere, quella Venere che mutata, come le nuove credenze
volevano, di nume in demonio, innamorò di sè il gentil cavaliere e
poeta Tanhäuser, ed altri assai, cui fu larga de' suoi favori. Fu amata
da molti e taluno forse anche amò, come in antico; certo era gelosa
dei diritti o bene o male acquistati e s'ingegnava di farli valere.
Lo prova il seguente caso narrato da parecchi, e che io riferisco,
voltando in volgare il forte e colorito latino di un cronista inglese,
Guglielmo di Malmesbury, che nel XII secolo ne fece primo il racconto.

Un giovane cittadino romano, ricco di molto censo, e nato d'illustre
famiglia senatoria, avendo condotto moglie, invitò gli amici a
banchetto. Levate le mense, e stimolata coi vini più generosi
l'ilarità, uscirono i commensali in un prato, desiderosi di alleggerire
danzando e sbalestrando, in altri giuochi esercitando il corpo, gli
stomachi aggravati dal cibo. Lo sposo, re del convito, e maestro del
giuoco, chiese una palla, e trattosi l'anello nuziale, questo pose
in dito a una statua di bronzo ch'era ivi presso. Ma poichè tutti i
compagni, giocando, in lui solo inveivano, egli, affannato ed acceso,
si ritrasse primo dal campo, e volendo riavere il suo anello, trovò
piegato sulla palma della mano il dito della statua, che prima si
vedeva disteso. Avendo quivi penato un pezzo, senza potere nè strappare
l'anello, nè frangere il dito, taciuta la cosa ai compagni, affinchè,
lui presente, nol deridessero, o, assente, non involassero l'anello,
in silenzio se ne partì. Tornatovi poi con alcuni familiari a notte
scura, ebbe a stupire vedendo raddrizzato il dito e sparito l'anello.
Tuttavia, dissimulato il danno, si lasciò dalle carezze della sposa
rasserenare, e giunta l'ora di coricarsi si adagiò accanto a lei.
Ma, come appena si fu adagiato, sentì alcun che di nebuloso e denso
voltolarsi fra sè e lei, la qual cosa si poteva sentire, ma non
vedere. Vietatogli da tale impedimento l'amplesso conjugale, udì una
voce che diceva: “Giaciti meco, dacchè oggi pure tu m'hai sposata. Io
sono Venere, a cui tu ponesti l'anello in dito: l'anello è in poter
mio, e più nol renderò.„ Spaventato da tanto prodigio, nulla osò,
nulla potè rispondere il giovane, e passò insonne l'intera notte,
esaminando tacitamente nell'animo il caso. Corse gran tempo, e in
qualunque ora tentasse egli di accostarsi alla sposa, sempre sentiva e
udiva il medesimo: del rimanente era validissimo e atto a checchessia.
Alla fine, mosso dalle querele della moglie, scoperse ogni cosa ai
parenti, i quali, avuto consiglio fra loro, ne informarono un prete
suburbano per nome Palumbo. Aveva costui virtù di suscitare per arte di
negromanzia figure magiche, e d'incutere terror nei demonii, facendoli
obbedire come più gli era a grado. Pattuita pertanto la mercede, che
doveva esser grande, e tale da riempirgli d'oro la borsa quando fosse
riuscito a far congiungere gli sposi, usò quegli il supremo dell'arte
sua, e composta una espistola, diedela al giovane dicendo: “Va alla
tale ora di notte al crocicchio, dove la via si spartisce in quattro,
e poni mente a ciò che tu vedrai. Passeranno di colà molte figure
umane, d'ambo i sessi, d'ogni età, d'ogni grado e condizione, alcune
a cavallo, altre a piede, quali con la fronte volta alla terra, quali
col ciglio superbamente levato; e quante sono insomma le forme, e le
sembianze dell'allegrezza e della tristezza, tutte le potrai vedere nei
volti e nei gesti loro. Non favellare a nessuna, quando pure quelle
favellassero a te. Seguirà alla turba uno di maggior statura degli
altri e più corpulento, sedente in un carro; a lui porgi silenzioso
l'epistola, e incontanente sarà appagato il tuo desiderio, purchè tu
faccia tanto d'essere d'animo risoluto.„ Il giovane si avviò, come
gli era stato prescritto, e stando la notte a ciel sereno, vide la
verità di quanto avevagli detto il prete, chè nulla non mancò alle
promesse. Fra gli altri che di là passavano, scorse sopra una mula una
donna vestita a modo di meretrice, sparsi i capelli giù per le spalle,
e stretti in capo da un'aurea benda. Teneva colei in mano una verga
d'oro, con la quale governava la cavalcatura, e per la tenuità delle
vesti mostrandosi quasi ignuda, faceva ostentazione d'atti impudichi.
Che più? l'ultimo, che pareva il signore, ficcando i terribili occhi
nel viso al giovane, dal carro superbo, tutto composto di smeraldi e di
perle, chiese la cagion del suo venire; ma quegli, nulla rispondendo,
stesa la mano, porse la epistola. Il demonio, non osando disprezzare il
noto suggello, lesse lo scritto, e tosto, levate al cielo le braccia:
“Dio onnipotente,„ esclamò, “insino a quando soffrirai tu la iniquità
di Palumbo?„ E senza por tempo in mezzo, mandò due suoi satelliti,
perchè togliessero a Venere l'anello, la quale, dopo molto contrastare,
finalmente lo rese. Così il giovane, venuto a capo del suo desiderio,
potè godere dei sospirati amori; ma Palumbo, com'ebbe udita la lagnanza
che di lui il demonio aveva mossa a Dio, intese esser prossima la sua
fine; per la qual cosa, fattosi di suo arbitrio troncar tutti i membri,
morì con miserevole penitenza, avendo confessato al papa e a tutto il
popolo le inaudite sue scelleraggini.

Così Guglielmo; il quale avverte da ultimo come ancora al tempo suo, in
Roma, e in tutta la circostante provincia, le madri usassero raccontare
il caso ai figliuoli, affinchè ne fosse tramandata ai posteri la
memoria.

Non lascerò i succubi senza dire che la bellissima Elena, ricordata
nella leggenda quale concubina di Simon Mago, era, secondo la più
fondata opinione, un diavolo, e che da amori con succubi tolsero
argomento, il Cazotte a quel suo strano romanzetto intitolato _Le
diable amoureux_, e il Balzac ad uno dei suoi _Contes drôlatiques_.

Forzare i diavoli a lasciar le pratiche di loro gusto non era cosa
agevole, nè priva di pericolo. In una delle innumerevoli leggende
della Vergine si narra di una donna, la quale era invano ricorsa ai
segni di croce, all'acqua benedetta, alla preghiera, alle reliquie,
per liberarsi da un gran diavolo che la teneva in luogo di moglie:
finalmente, un giorno, trovandosi all'usato cimento, levò le braccia
al cielo invocando il santo nome di Maria, e il drudo maledetto non fu
più buono a nulla. Cesario di Heisterbach racconta un'altra storia. Un
diavolo seduce nella città di Bonna la figliuola di un prete e si giace
con lei. La fanciulla confessa la cosa al padre, il quale, per tagliar
corto alla tresca, allontana la figliuola da casa e la manda oltre il
Reno. Cápita il diavolo, e non trovando più la sua ganza, corre dal
padre e gli grida: “Malvagio prete, perchè mi hai tu tolta la moglie?„
e gli dà tale un picchio nel petto che dopo due giorni il pover uomo
rende l'anima.


Abbiam veduto che i diavoli, o a torto, o a ragione, generavano, e
poichè essi erano innumerevoli, non è a meravigliare se grandissimo era
il numero dei loro figliuoli. Giordane, storico dei Goti nel VI secolo,
afferma che gli Unni nacquero dal commercio di orribili maliarde
con demonii incubi; e durante tutto il medio evo ci fu una spiccata
tendenza a considerare come figliuoli del diavolo i bambini deformi ed
i mostri, che per ciò appunto sperdevansi senza scrupulo alcuno. Nel
1265, una dama che aveva passata la cinquantina, Angiola de Labarthe,
confessò in Tolosa d'aver generato col diavolo un figliuolo con testa
di lupo e coda di serpe, che bisognava nutrire con carne di bambini.
Secondo un'altra opinione, confermata da notabili esempii, i figli del
diavolo erano robusti, animosi, pieni d'ingegno e d'ardore. Lo storico
Matteo Paris (m. 1259) ricorda il caso di un bambino che a sei mesi era
grande quanto un giovane di diciott'anni. La Chiesa chiamò, e chiama
ancora, figliuolo di Satana chiunque si scosti un pelo dal catechismo;
ma questa è una metafora e nulla più.

Avviene dei figliuoli di Satana ciò che dei figliuoli degli uomini: i
più passano incogniti e immeritevoli di fama; alcuni si traggon fuori
della volgare schiera, ed empiono il mondo del loro nome e del grido
delle loro gesta; taluno pure ve n'ha, che vincendo la fatalità della
origine e la maledizione della propria natura, si redime dall'inferno
per sempre, acquistando il cielo. Io non parlerò se non dei principali.

Il più antico è Caino, il primo omicida. Assicurano i rabbini che
Adamo ebbe commercio con succubi ed Eva con incubi, un bel modo, come
si vede, di dar principio alla razza umana: di uno di questi incubi fu
figliuolo Caino, che mostrò chiaramente con l'opere l'origine sua. Tale
credenza, del resto non fu dei soli rabbini: il greco Suida (sec. XI)
la ricorda in certo suo _Lessico_.

Attila, il Flagello di Dio, fu figliuolo del diavolo secondo alcuni, di
un mastino secondo altri; e del diavolo fu figliuolo Teodorico re dei
Goti, in prova di che gettava fuoco dalla bocca, e vivo ancora andò a
raggiungere il padre in inferno.


La storia del mago e profeta Merlino, è, per questa parte, più
particolareggiata e più celebre. L'inferno, debellato e spogliato da
Cristo, sentiva il bisogno di rifarsi della patita jattura. Satana, cui
più sta a cuore la cosa, risolve di procreare un figliuolo che propugni
la sua causa fra gli uomini, e disfaccia l'opera redentrice di Gesù.
L'impresa è di gran momento, perigliosa e difficile, e chiede lunga
e diligente preparazione. Ecco: per le forze congregate dell'inferno
una famiglia onorata e cospicua è tratta a rovina, gettata in preda al
disonore e alla morte. Di due figliuole superstiti, l'una si abbandona
al più svergognato libertinaggio, l'altra, bella e casta, resiste
lungamente ad ogni tentazione, sino a che trovandosi una notte, per
aver dimenticato di farsi il segno della croce, temporaneamente priva
della protezione del cielo, dà agio al diavolo di sopraffarla e di
compiere il meditato disegno. Conscia e inorridita di sua sventura, la
fanciulla si studia di ricomprare, con le austerità di una penitenza
angosciosa, il non suo peccato, e giunto il termine posto dalla natura,
dà alla luce un figliuolo, che nel corpo stranamente peloso reca i
segni dell'origine sua. Il fanciullo è battezzato, senza, s'intende, il
consentimento del padre, e riceve il nome di Merlino: poi si pensa in
cielo che sarebbe non piccolo trionfo quello di strappare all'inferno
lo stesso figliuolo di Satana, e il buon Dio ci provvede. Satana aveva
impartito al figliuolo la cognizione del passato e del presente;
Dio v'aggiunge quella dell'avvenire. Quale arma migliore contro
gl'inganni del mondo e le insidie del diavolo? E Merlino, crescendo,
operò molte cose mirabili, come si legge nel Venerabile Beda, nelle
antiche croniche, nelle istorie della Tavola Ritonda, e fece molte e
bellissime profezie, delle quali parecchie già si avverarono, e altre
si avvereranno quando che sia, con l'ajuto del cielo. Di suo padre non
si diede un pensiero al mondo, anzi lo rinnegò a dirittura. Morì, non
si sa precisamente come nè quando; ma tutto fa credere che sia andato
in luogo di salvazione.


Se non che, salvarsi quando Dio ci vuol salvi, non è poi merito così
grande, e più assai di Merlino mi par degno d'ammirazione quel Roberto
il Diavolo della cui storia si fecero poemi, drammi, fiabe, esempii
morali e persino un'opera in musica. Terribile storia in verità, ma
piena di nobile insegnamento.

C'era dunque una duchessa di Normandia, che si struggeva dal desiderio
d'aver figliuoli, e non ne poteva avere. Stanca di raccomandarsi a Dio
che non l'esaudisce, si raccomanda al diavolo, ed è tosto appagata.
Nasce un figliuolo, una saetta. Bambino, morde la balia e le strappa
i capezzoli; fanciullo, sventra a coltellate i maestri; giunto a
vent'anni si fa capitano di ladri. L'armano cavaliere, credendo
così di vincere in lui quella furia d'istinti malvagi; ma dopo ei
fa peggio di prima. Nessuno lo passa di forza e di bravura. In un
torneo vince ed ammazza trenta avversarii; poi va gironi pel mondo;
poi ritorna in patria, e si rimette a fare il bandito e il ladrone,
rubando, incendiando, assassinando, stuprando. Un giorno, dopo avere
sgozzato tutte le monache di un'abbazia, si ricorda della madre, e va
a trovarla. Come prima lo scorgono, i servitori scappano, chi di qua e
chi di là; nessuno s'indugia a domandargli d'onde venga, che voglia.
Allora, per la prima volta in sua vita, Roberto stupisce dell'orrore
che inspira a' suoi simili; per la prima volta ha coscienza di quella
sua mostruosa malvagità, e sente trafiggersi il cuore dal dente acuto
del rimorso. Ma perchè mai è egli più malvagio degli altri? Perchè
nacque, chi lo fece tale? Un'ardente brama lo punge di penetrare
il mistero. Corre dalla madre, e con in pugno la spada sguainata
le impone di svelargli il segreto de' suoi natali. Saputolo, freme
ed inorridisce, sopraffatto dallo spavento, dalla vergogna e dal
dolore. Ma la sua forte natura non s'accascia per questo, non cede
alla disperazione; anzi, la speranza di un laborioso riscatto, di
una mirabil vittoria, stimola e solleva l'anima sua tracotante. Egli
saprà vincere l'inferno e sè stesso, saprà render vani i disegni dello
spirito maledetto che in proprio servigio lo creava, che aveva voluto
far di lui un docile strumento di distruzione e di peccato. E non
frappone indugi. Va a Roma, si butta ai piedi del papa, si confessa
a un santo eremita, si assoggetta ad asprissima penitenza, e giura
di non prender più cibo se non sia strappato alla bocca di un cane.
Per ben due volte, essendo Roma assediata dai saraceni, egli combatte
sconosciuto per l'imperatore, e procaccia la vittoria ai cristiani.
Riconosciuto finalmente, rifiuta i premii e gli onori, la corona
imperiale, la stessa figliuola del monarca, e si ritrae a vivere col
suo eremita nella solitudine, e muore come un santo, ribenedetto da Dio
e dagli uomini. In altri racconti gli si fa sposare da ultimo la bella
principessa innamorata di lui.

Ma non sempre i figliuoli del diavolo fecero così bella fine, ed
Ezzelino da Romano, tiranno di Padova, ne può con più altri far fede,

    Ezzelino, immanissimo tiranno,
    Che fia creduto figlio del demonio.

Tale fu creduto, e tale fu veramente, se le storie non mentono. Nella
sua tragedia intitolata appunto _Eccerinis_, Albertino Mussato fa
svelare l'orribile arcano dalla stessa madre del mostro, Adelaide.
Ezzelino, e il fratel suo Alberico, furono tutt'e due generati dal
diavolo, che prese per l'occorrenza la forma di un toro. Giove non
aveva a' suoi tempi sdegnato di fare lo stesso. Conosciuta l'origine
sua, Ezzelino se ne rallegra e se ne gloria, e promette di fare in modo
che il mondo l'abbia a conoscere per degno figliuolo di tanto padre. E
mantiene la promessa. Il diavolo questa volta non si vedrà rinnegato
da coloro stessi cui diede la vita, nè defraudato delle speranze sue
più legittime. Ezzelino diventa signore di Padova, e con l'ajuto del
fratello compie lo scellerato disegno, e imperversa a guisa di Furia,
chiuso ad ogni senso di umanità, sordo agli avvertimenti che il cielo
non lascia di dargli. Ma il castigo, troppo meritato, non si fa molto
aspettare. Vinto al Ponte di Cassano, l'iniquo muore disperato, e il
fratel suo non tarda a seguirlo.


Noto, così di passaggio, che anche Lutero fu dagli avversarii suoi,
tenuto figliuolo del demonio, che s'era nascosto sotto le vesti di un
giojelliere, e vengo al maggiore tra i generati da Satana, a colui
che non è nato ancora, ma deve nascere, a quel formidabile campione
dell'inferno che sarà l'Anticristo. Il suo nome esprime la sua natura e
narra le sue opere.

Già altra volta tentò Satana, se non mente un poema anglosassone del
secolo IX, di contrapporre un suo figliuolo a Gesù, anzi di porlo nel
luogo stesso di questo. Fallitagli allora l'impresa, egli aspetta più
propizia occasione, e rinnovellerà la prova quando saranno maturi i
tempi e prossima la fine del mondo. Le sue supreme speranze s'accolgono
tutte in quel nascituro prediletto.

Intorno al quale corsero molte e varie opinioni. Nell'Apocalissi
l'Anticristo è Nerone, che si vede poi, in certe leggende paurose del
medio evo, diventar demonio. Nell'VIII secolo si riconobbe l'Anticristo
in Maometto, nel XIII in Federico II. Del modo del suo nascimento
molto ebbe a dirsi. Sant'Efrem, vescovo di Edessa, vissuto, secondo
si crede, nel IV secolo, affermava ch'egli nascerebbe da una donna
di mala vita; altri invece dicevano da una vergine, opinione cui
contrasta nel X secolo Assone, nel trattato suo _De Antichristo_.
Alcuni si contentarono di credere ch'egli avrebbe a genitore un uomo,
ma sarebbe posseduto dal diavolo sino dall'ora del concepimento; altri
assicurarono che padre gli sarebbe lo stesso principe dell'inferno. E
questa fu l'opinione più generalmente accettata.

Gl'innumerevoli trattati che intorno all'ultimo avversario di Cristo e
a' suoi fatti lasciò il medio evo, molti dei quali giacciono inediti
e dimenticati nelle biblioteche, fan fede a noi dell'ansietà e del
terrore che teneva desti negli animi il pericolo sempre imminente
e al tutto inevitabile della sua venuta. Si ricordavano i segni
terribili che al mondo esterrefatto dovevano prenunziare la prossima
apparizione di lui, e ponevasi mente se già non se ne vedesse qualcuno.
Si moltiplicavano, e si aggravavano con la fantasia gli orrori
degli ultimi tempi; ed ogni po' correva per mezzo la cristianità la
spaventosa novella che l'uomo fatale era nato, o stava per nascere.
Intorno al 380 Martino, vescovo di Tours, lo credeva già nato, e
così pure credeva intorno al 1080 il vescovo Ranieri di Firenze, e
alcuni decennii più tardi Norberto, arcivescovo di Magdeburgo. Ai
tempi d'Innocenzo VI, un frate minore ne annunziava la nascita per
l'anno 1365, e per l'anno 1376 la prediceva Arnaldo di Villanova. Nel
1412 Vincenzo Ferrer sapeva di certa scienza, e ne faceva avvertito
l'antipapa Benedetto XIII, che il gran nemico era già d'età di nove
anni. Dinanzi al sacro tribunale dell'Inquisizione non poche streghe
confessarono d'averlo conosciuto e praticato.

Ma gli anni passavano, sbugiardando novellatori e profeti, ai quali,
del resto non pochi, nè poco validi argomenti opponevansi da chi
era di men facile credenza e di fantasia più composta. Non per anche
vedevansi i segni infallibili. La corruzione e l'apostasia non avevano
ancora in tutto guasto il genere umano. Il sacro Impero di Roma
tuttavia si reggeva, il quale doveva al tutto sfasciarsi all'apparire
del terribile avversario. L'Anticristo non era ancor giunto; ma forse
poco più tarderebbe. E si conoscevano gli atti dell'intera sua vita, e
narravasi la sua storia come fosse storia passata e non avvenire. Egli
raccoglierà nelle sue mani le ricchezze tutte della terra, strumento
massimo di corruzione e di signoria. Abbatterà il famoso muro di
Alessandro Magno, e le gran porte di ferro, e i mostruosi popoli di
Gog e Magog strariperanno come un oceano irresistibile. Non fu mai
cavaliere o capitano che lo pareggiasse in valore e in iscienza di
guerra. All'armi sue nessuno potrà contrastare: egli metterà a fuoco
e a sangue città e reami, ucciderà di propria mano i profeti Enoc ed
Elia, scesi indarno a difendere la Chiesa, e riunite sul suo capo
tutte le corone, sederà unico re della terra soggiogata. Ma allora
sopravverrà pure l'inevitabile e ben meritato castigo: l'usurpator
scellerato, il figliuolo e il campione di Satana, sarà ucciso da
Cristo in persona, o dal principe delle milizie celesti, lo strenuo e
pugnace arcangelo Michele, e con lui sarà vinta e fiaccata per sempre
la potestà dell'inferno. Allora le porte dell'abisso saranno chiuse e
suggellate per sempre: finirà il regno di Satana, ricomincerà per non
più finire il regno di Dio.


Come gl'incubi potevano generare, così i succubi potevano concepire
e partorire. In Inghilterra si credette un tempo, e i cronisti nol
tacciono, che uno degli antenati di Goffredo Plantagenet avesse sposato
un demonio e procreato con esso parecchi figliuoli. Di Balduino conte
di Fiandra, ed eroe di un vecchio romanzo francese, si narra una storia
consimile, ma più particolareggiata. Gonfio d'orgoglio, il conte sdegna
di sposare la figliuola del re di Francia, e sposa una dama di grande
bellezza e prestanza, ch'egli incontrò un giorno in un bosco, e che
gli disse esser figliuola di un potentissimo re dell'Asia. Passato
un anno, nascono due gemelle bellissime. Il conte aspetta notizie di
quel reame d'Oriente; ma notizie non vengono, e intanto un eremita, il
quale ha fiutato l'inganno, comincia a mettergli certi dubbii e certi
sospetti nell'animo. Un giorno il sant'uomo capita in corte, nell'ora
del banchetto, entra in sala, e senza più cerimonie ordina alla signora
contessa, figlia del re d'Oriente, di tornarsene difilata all'inferno,
ond'è venuta. La signora contessa, cioè il demonio, non se lo fa dire
la seconda volta, e schizza via come una saetta, gettando all'aria
un orribile e veramente diabolico grido. Il conte, per espiare il suo
peccato, imprende una crociata e ammazza molta gente. Quanto alle due
figliuole, non fanno poi quella mala riuscita che c'era da aspettarsi,
essendo nate di cotal madre.


Oltre ai naturali, generati da loro, i diavoli potevano avere dei
figliuoli adottivi e avventizii, dei quali non si davano meno pensiero
che degli altri, sia che li rubassero, sia che li avessero da genitori
malvagi o disavveduti. Molte storie edificanti si potrebbero raccontare
a tale proposito; a me basterà ricordarne qualcuna.

Una fanciulla rimasta incinta (così racconta circa il 1200 l'annalista
inglese Ruggero di Hoveden), non volendo si conosca il suo errore,
fugge dalla casa paterna, quando è già prossima al parto. Vaga sola
pei campi, mentre infuria una orrenda procella, e stanca d'invocare
indarno l'ajuto di Dio, chiama in suo soccorso il demonio. Ed ecco
le apparisce il demonio in figura di giovane, e le dice: Seguimi.
Obbedisce la donna, e quegli la mena a un ovile, e fattole quivi un
letto di paglia, acceso un buon fuoco, va a cercar da mangiare. Due
uomini, che passavano di là, veduto il fuoco, entrano nell'ovile,
interrogano la giacente, e saputo com'erano andate le cose, corrono ad
avvertire il curato e i parrocchiani di un villaggio poco discosto.
Torna il diavolo, recando del pane e dell'acqua, e refocillata la
donna, raccoglie a mo' di levatrice il bambino che viene al mondo.
Sopraggiunge in quell'ora il curato, munito di croce e d'acqua
benedetta, scortato da gran brigata, e comincia i suoi esorcismi; il
diavolo non potendo resistergli, fugge con la creatura nata appena fra
le braccia e più non si lascia vedere. La buona madre, nulla curandosi
del figliuolo, ringrazia Dio d'averla salvata dal nemico, e torna a
casa.

Un'altra storia, non meno meravigliosa, ma di più felice esito, narra
il benedettino Gualtiero di Coincy (m. 1236) in una sua raccolta di
miracoli della Vergine. C'erano due sposi di gran condizione e virtù, i
quali, dopo avere avuto parecchi figliuoli, fecero a Dio e alla Vergine
voto di castità. Ma la carne è fragile, e mai non cessa dalle insidie
il demonio. Una notte di Pasqua egli accende di tanta concupiscenza
l'animo del marito, che questi scorda ogni suo proposito e vuole ad
ogni modo infrangere il voto. La moglie prega, ammonisce, minaccia; ma
poi, non potendo contrastare più oltre, grida: “Se dal nostro peccato
un figliuolo ha da nascere, sappi che io ne fo dono al diavolo.„
Dopo nove mesi, viene al mondo un bambino, così bello e gentile che
quanti lo vedono se ne meravigliano. Passano alcuni anni, e il bambino
cresce di svegliatissimo ingegno, di bonissima indole, adorno d'ogni
bel costume. La madre, che teneramente lo ama, si strugge in lacrime,
pensando alla sua imprecazione e agli effetti che ne debbon seguire.
Quando il fanciullo ha compiuto il dodicesimo anno, appare a lei un
orribile demonio, e l'avverte che di lì ad altri tre anni verrebbe a
prendere colui che per diritto gli appartiene, e a cui non rinuncerebbe
per cosa del mondo. La povera donna si dispera, e un giorno, cedendo
alle supplicazioni del figliuolo, svela il secreto. Il figliuolo dà
allora in un pianto dirotto:

    S'il est dolenz n'est pas merveille,
    Quar l'aventure est moult amère.

A mezzanotte abbandona la casa de' suoi genitori, e solo si pone in
viaggio. Giunge a Roma, e, come il cavaliere Tanhäuser, si presenta al
papa, e gli narra la dolorosa sua storia. Il papa a così nuovo caso
non sa che dire, e manda il fanciullo al patriarca di Gerusalemme,
il più saggio uomo che sia sulla terra. Ecco il nostro pellegrino
in Gerusalemme, dopo molte fatiche e molti pericoli. Il patriarca,
come il papa, non ci vede rimedio; ma si ricorda in buon punto di un
eremita, il quale abita in una grande e perigliosa foresta, ed è di
così santa vita che gli angioli scendono dal cielo per intrattenersi
con lui: da lui forse potrà aversi consiglio ed ajuto. Piangendo
amaramente, invocando Dio e la Vergine, il fanciullo si rimette in
cammino; ma intanto i tre anni sono quasi passati, e non manca più che
un giorno allo spirare del termine fatale. Il sabato innanzi Pasqua
trova l'eremita, il quale, udita la strana avventura, rimane ancor
egli, a bella prima, come smarrito; ma tosto ripreso animo, conforta
il fanciullo, lo esorta a sperar bene, e provvede a dargli valido
ajuto. Passano entrambi la notte in orazione, poi venuta la mattina,
l'eremita, posto il garzone fra sè e l'altare, comincia a celebrare la
messa. Ma ecco il diavolo, con dietro una masnada de' suoi, irrompe in
chiesa, e pone lo mani addosso al poveretto. L'eremita chiama a gran
voce la Vergine che venga in soccorso, e la Vergine gloriosa scende
dal cielo, e in un baleno volge in fuga i nemici. Il fanciullo è
salvo. Pien di riconoscenza s'accomiata dal suo benefattore e ritorna
in patria, dove è ricevuto con indicibile giubilo dalla madre, e dove
tutto si consacra poi al servizio della Vergine benedetta.

In un'altra storia il diavolo rapisce, appena nato, il fanciullo che
gli fu consacrato, lo fa nutrire, e lo mena poi con sè in giro pel
mondo, trattandolo con ogni riguardo sino all'età di quindici anni.
Allora san Giacomo glielo toglie e lo restituisce ai genitori. In
altri racconti i figliuoli sono, non donati, ma venduti al diavolo,
il quale fa come i ladri: quando non può rubare, compra. Nè tali
mercati si facevano coi figliuoli soltanto. In una storia che dovrò
riferire più oltre, un cavaliere fa un patto col diavolo, e s'impegna
di dargli la propria moglie dopo trascorsi sette anni: quanti in
suo luogo gliel'avrebbero data subito! In un'altra si vede come al
diavolo potessero esser date persone affatto estranee, e come il
diavolo, almen qualche volta, volesse che quelle donazioni fossero
fatte col cuore, e non con la bocca soltanto. Eccola. Un pessimo
esattore, avaro e crudele, andava un giorno a certo villaggio, per
farvi una delle solite esazioni. Per via si accompagnò con lui un
tale, che egli subito conobbe essere il diavolo, e non è a dire se,
conosciutolo, desiderasse, per sue buone ragioni, di levarselo da
torno. Incontrano un uomo, che conduceva un porco, il quale lo faceva
disperare, cosicchè quegli rinnegava la pazienza e gridava: “Il diavolo
ti porti!„ L'esattore dice al diavolo: “Non odi? colui ti dà il porco;
va e prendilo.„ — “No, risponde il diavolo, non me lo dà di cuore.„ Un
po' più oltre trovano una madre, che a un suo bambino piangente gridava
stizzita: “T'abbia il diavolo!„ — “O perchè non lo prendi?„ esclama
l'esattore. — “Non me lo dà, di cuore, risponde il diavolo: quello è un
modo di dire.„ Giungono intanto al villaggio, e quei poveri villici,
vedendo venire il lor carnefice, gridano in coro: “Il diavol t'abbia!
possa tu servire al diavolo!„ E il diavolo: “Questi si che mi ti danno
di cuore, e però tu sei mio.„ E, senz'altro aggiungere, acciuffatolo,
sel portò via.



CAPITOLO VIII.

I PATTI COL DIAVOLO.


Il diavolo, quando non può adoperare la violenza per venire a' suoi
fini, adopera l'astuzia, e volentieri usa i modi legali, se dai modi
legali si ripromette guadagno. Dove non gli è dato rubare, patteggia
e traffica; compra, a più o men caro prezzo, quanto non gli sarebbe
donato; stipula contratti, assume obblighi e li osserva.

L'idea di un possibile patto col diavolo fu, nei tempi di più viva ed
ingenua credenza, un'idea che s'offerse spontanea agli spiriti, e che
molti ne dovette tentare con acri e strane lusinghe. Se il desiderio
più vivo del principe delle tenebre era quello di sedurre anime, e se
per vedere appagato questo suo desiderio egli usava tutto il suo potere
e tutta l'arte sua, come non credere che l'uomo potesse vendergli
l'anima a prezzo di ricchezze, o di onori, o di qualsivoglia altro bene
mondano, ond'egli, quale signore del mondo, era facile dispensiero? E
come non credere ciò, se negli stessi Evangeli si vede Satana offrire
a Cristo i regni della terra a patto d'essere riconosciuto per signore
e adorato da lui? Naturalmente ancora doveva il patto vestir la forma,
e accompagnarsi di quelle cautele che, tra gli uomini, sono prova
di legalità e validità, e assicurano l'osservanza reciproca degli
obblighi. Di qui la scrittura debitamente distesa e firmata, che il
diavolo chiede a chi, in iscambio di tale o tal cosa, s'impegna di
dargli, dopo un tempo stabilito, l'anima propria; ed è curioso che
mentre il diavolo sente il bisogno di assicurare con un documento in
regola e ben chiaro, la fede del suo contraente, questi, di solito,
non sente il bisogno di assicurarsi, nello stesso modo, della fede di
quello. Vero è che il demonio, quasi sempre, sta ai patti, o almeno,
se non allo spirito, alla lettera dei patti, e che gli uomini molto
spesso non ci stanno, s'ingegnano di riaver le scritture, e riavutele,
si gabbano di chi ha loro creduto. Forse fu per dar più valore al
contratto che, a cominciare dal secolo XIII, il diavolo volle si
scrivessero i patti col sangue, il quale, come ben dice Mefistofele, è
un certo succo affatto particolare. A tali scritture anche il demonio
soleva apporre alcun segno. In una, di cui dà notizia Gilberto di
Vos (sec. XVII) in certo suo libro di teologia, il diavolo lasciò
l'impronta abbronzata della sua mano, stesa sopra una croce.

Sono innumerevoli le storie in cui si racconta di patti stretti col
demonio, e parecchie assai antiche: non ispiacerà, spero, al lettore,
che io ne riferisca qualcuna.


In una vita di san Basilio arcivescovo di Cesarea, attribuita ad
Amfilochio vescovo d'Iconio (sec. IV), si legge quanto segue. Un
senatore cristiano, per nome Proterio, ha un'unica figliuola, cui egli,
dopo aver visitato i luoghi santi, risolve di consacrare a Dio. La
fanciulla è lieta di ciò; ma il demonio, che mai non dorme, si accinge
tosto a contrariare il santo disegno. Egli accende nell'animo di un
giovane servo una passione violenta per la nobil donzella. Sapendo
di non potere in altro modo conseguire il suo desiderio, il servo
ricorre ad un negromante, e gli promette, quand'ei voglia ajutarlo in
quell'amore, grandissima quantità di denaro. Il negromante acconsente,
e fattogli, prima d'ogni altra cosa, rinnegare il Redentore, gli dice:
“Va alla tale ora di notte, e ponti sul sepolcro di alcun pagano,
tenendo levata in alto questa lettera che io ti do: tosto vedrai
apparire chi ti condurrà alla presenza del demonio mio signore, dal
quale potrai avere l'ajuto che chiedi.„ Il servo fa puntualmente quanto
gli è detto, e giunta l'ora è da alcuni spiriti condotto alla presenza
del principe dei demonii, che siede in un trono eccelso, con le sue
milizie d'attorno. Letta la lettera del mago, dice il principe al
servo: “Credi tu in me?„ e quegli: “Credo.„ Ma il demonio: “Voi altri
cristiani siete gran tergiversatori, e poco sicura è la vostra fede.
Quando avete bisogno di me, venite a cercarmi; raggiunto poi il fine,
ve ne tornate al vostro Cristo, il quale, buono e misericordioso com'è,
vi accetta novamente per suoi. Però se tu vuoi il mio patrocinio,
bisogna che per iscritto rinunzii a lui e al battesimo, obbligandoti
d'esser meco il giorno del giudizio, e di soggiacere insieme con me
alle pene eterne dell'inferno.„ Promette il servo, e scrive di proprio
pugno ogni cosa. Allora il principe manda alcuni suoi satelliti, i
quali suscitano nell'animo della giovane un incomposto amore, e le fan
detestare la santa vita cui stava per consacrarsi. Ella si getta ai
piedi del padre, e tanto prega, e tanto piange, che quegli, pien di
cordoglio e di amarezza, concede alfine che le nozze si facciano. E
le nozze si fanno. Passato picciol tempo, certuni notano che lo sposo
non entra mai in chiesa, nè mai s'accosta ai sacramenti, e lo dicono
alla donna. Questa si dispera, interroga il marito, viene a cognizione
dell'orribil secreto, e inorridita corre dall'arcivescovo Basilio
a implorare consiglio ed ajuto. Il sant'uomo non perde tempo, e dà
mano ai ripari. Interroga a sua volta il giovane, gli chiede se sia
pentito, se creda in Dio e nella sua infinita misericordia, e vedutolo
in ottima disposizione, lo chiude in una stanza, dove si custodivano
i sacri indumenti, e passa tre giorni in orazione. Intanto i demonii,
stizziti, assediano il fedifrago, lo vituperano, lo percuotono, gli
sciorinano sotto gli occhi la scrittura da lui vergata, rinfacciandogli
la sua mala fede. Passano alcuni giorni, e la diabolica infestazione
a poco a poco va rimettendo della sua furia: il giovane ode ancora le
grida minacciose, ma più non vede i suoi nemici. Scorso il quarantesimo
giorno, l'uom di Dio trae il peccatore fuor del suo carcere, convoca
il clero ed il popolo, narra il caso, esorta tutti a pregare perchè
il demonio sia vinto. Mentre la chiesa risuona di devote preci, ecco
il diavolo farsi addosso al giovane, forzarsi di trascinarlo con sè,
mostrare in prova del proprio diritto la funesta scrittura. Ma il santo
non si perde d'animo per questo, tien testa coraggiosamente al nemico,
e ordina ai fedeli di gridare senza intermissione _Kyrie eleison_,
tenendo le braccia levate al cielo, sino a tanto che non siasi ottenuta
vittoria. Dopo lung'ora si vede volar per l'aria la scrittura, e
posarsi tra le mani del santo, che si affretta a lacerarla. Il giovane
è salvo, e ottenuta la benedizione, e rifatto partecipe dei sacramenti,
torna a vivere lieto con la sua sposa, frodando il diavolo e fruendo
tranquillamente dei suoi beneficii.

In questa istoria, rinarrata con qualche leggiera diversità da Giacomo
da Voragine e da altri, chi fa la più trista figura non parmi sia il
diavolo, il quale, avendo fedelmente mantenuto le sue promesse, vuole
con ragione che l'altro patteggiatore faccia lo stesso. Il suo diritto
è pieno ed inoppugnabile, e san Basilio non può spogliarnelo, se non
carpendogli la scrittura che lo sancisce.


In altra istoria, che ora riferisco, il peccatore pentito non riesce a
riavere la scrittura, e qualche dubbio rimane della salvazion sua. In
che tempo avvenissero i casi vi si narrano non si sa propriamente; ma
e i casi, e l'anonimo racconto greco che li contiene, sono, senz'alcun
dubbio, antichissimi.

Nella città d'Antiochia viveva una vedova dabbene, con una sua
figliuola per nome Maria. Madre e figlia menavano vita esemplare,
tutta consacrata al servizio di Dio, e la buona fanciulla aveva fatto
proposito di serbare illesa la sua verginità e di darsi tutta allo
sposo celeste. Un Antemio, uomo assai denaroso, e dei principali della
città, s'innamora perdutamente di lei, e comincia a tentarla con doni,
a insidiarla con mezzane, e a profferirsele per isposo, quando vede
di non poterla avere altrimenti. Ma nulla gli giova. Respinto da lei
e dalla madre, e sempre più acceso di mala passione, egli giura di
venire a capo del suo disegno, checchè sia per costargli. Fa conoscenza
con un negromante di grandissimo potere, chiamato Megas, cioè Grande,
e narratogli il caso, ne ha promessa che la fanciulla verrebbe a
trovarlo di notte tempo nella propria sua casa e nel proprio suo letto.
E così segue. La fanciulla è con inganno tratta da un demonio nella
camera di Antemio; ma riesce a fuggirgli di mano con la promessa di
voler quanto prima tornare a lui, consenziente o non consenziente la
madre. Veduti gli effetti dell'arte magica, Antemio vuol esser mago
egli pure, e prega Megas che tale lo faccia. Megas, accertatosi prima
ch'egli è pronto a rinnegare Cristo e il battesimo, gli dà una polizza
e gli dice: “Esci dalla città, senz'aver cenato, e nell'ora che la
notte è più cupa, vientene su questo ponticello, e tieni a braccio
teso in alto cotesto breve; ma per cosa che tu veda, bada bene di
non aver paura e di non fare il segno della croce.„ Antemio fa quanto
gli è detto, e stando a mezzanotte sul ponte, vede giungere una gran
cavalcata e un principe seduto in un carro. Porge la lettera; ma il
principe non accoglie subito fra' suoi colui che la reca: egli vuole
un'abjura scritta. La scena si ripete tre volte, e negli intervalli
Antemio si consiglia col mago. La terza volta il principe, ricevuta la
scrittura, grida, levando al cielo le braccia: “O Gesù Cristo, questi
che già fu tuo ti rinnega per iscritto. Di ciò non io sono autore, ma
egli, che con ripetute istanze ha chiesto di poter essere mio. Però
in avvenire non ti curar più di lui.„ Udite queste parole, che il
principe ripete tre volte, Antemio è preso da subitaneo terrore e da
grande ambascia, e ridomanda la sua scrittura. Ma invano: il principe,
senza più dargli ascolto, passa oltre, lasciandolo prosteso a terra,
immerso in lacrime di dolore e di pentimento. Il dì seguente, Antemio,
tagliatisi i capelli, vestito di sacco, va a trovare il vescovo di una
città vicina, gli si getta ai piedi, gli narra ogni cosa, lo scongiura
di ribattezzarlo e di salvarlo. Il vescovo gli dice di non potergli
dare nuovo battesimo, lo esorta ad avere buona speranza in Dio, prega
e piange con lui. Tornato a casa, Antemio libera tutti i suoi schiavi,
distribuisce alle chiese ed ai poveri le sue ricchezze, dona tre libbre
d'oro alla madre di Maria, e mentre Maria entra in un chiostro, egli si
rende tutto a Dio, alla cui misericordia nessuno ricorre invano. Della
scrittura, che il demonio aveva ricusato di restituire, dicendo che la
produrrebbe dinanzi al giudice eterno nel giorno del supremo giudizio,
non si fa più parola.


In entrambe le leggende che precedono, la causa che spinge gli
sconsigliati a ricercare l'ajuto del demonio, e a stringere un patto
che dovrebbe costar loro la salute dell'anima, è l'amore; in altri è
cupidigia di ricchezze e di onori, o brama di un sapere vietato.

La leggenda di Teofilo, non troppo opportunamente chiamato da taluno
il Fausto del medio evo, risale al sesto secolo, e si trova la prima
volta narrata da un Eutichiano, che si spaccia per discepolo di esso
Teofilo, e afferma d'aver veduto co' propri suoi occhi le cose che
narra. In Adana, città di Cilicia, era un vicedomino, o vogliam dire
economo di quella chiesa, uomo adorno di molte e rare virtù, chiamato
Teofilo. Essendo venuto a morte il vescovo, il clero e il popolo di
comune accordo, designan lui per succedergli, di che il metropolitano
si mostra assai lieto; ma egli, allegando la insufficienza e indegnità
propria, ricusa la nuova dignità, nè per esortazioni o preghiere si
lascia smuovere dal suo proposito. È fatto un altro vescovo, il quale,
contr'ogni giustizia e ragione, toglie l'ufficio dell'economato a
Teofilo. Subito il diavolo comincia a usar le sue arti, e nel mite
animo dell'uomo dabbene versa il fermento delle malvage passioni,
suscita un'acre brama di grandezze e di onori. Teofilo va a trovare
uno scelleratissimo ebreo, famoso stregone, gli narra l'ingiuria
sofferta, gli apre l'animo suo, lo richiede di ajuto. A mezzanotte il
mago lo conduce nel circo ch'era presso alla città, e gli dà il solito
avvertimento: “Checchè tu oda o veda, non temere, e non ti fare a patto
alcuno il segno della croce.„ Ecco una grandissima caterva di demonii,
vestiti di clamidi bianche, con molta luminaria, e in mezzo ad essi
il principe in trono. Teofilo bacia i piedi del principe, e stende un
breve, in cui dichiara di rinnegar Cristo e la madre sua, e al quale
appone il proprio suggello. Tosto se ne vede l'effetto. Il vescovo
revoca il precedente decreto, ripone Teofilo nell'antico suo officio,
e lo colma di onori. Ma non passa gran tempo, e Teofilo, considerando
l'enormità del suo fallo, si sente lacerar dai rimorsi. Disperando di
ogni altro soccorso, egli ricorre all'avvocata dei peccatori, alla
benignissima Vergine, si macera coi digiuni, si strugge in lacrime,
passa in ferventissima preghiera quaranta giorni e quaranta notti,
implorando perdono e misericordia. La quarantesima notte gli appare la
Vergine corucciata, e gli rimprovera aspramente il commesso peccato,
non senza versargli tuttavia sul cuore esulcerato il balsamo della
speranza. Teofilo passa altri tre giorni in chiesa a pregare, senza
prender cibo, e la Vergine gli appare una seconda volta, e gli porge
il lieto annunzio dell'ottenuto perdono. Trascorsi ancora tre giorni,
la Vergine, in una terza apparizione, gli restituisce il chirografo
maledetto. Il dì seguente, giorno di domenica, Teofilo fa manifesto
al vescovo e a tutti i fedeli congregati in chiesa il memorabile
avvenimento; poi inferma, e indi a poco, distribuito ai poveri ogni suo
avere, devotissimamente si muore e va a fruire della gloria eterna del
paradiso. A sant'Egidio la cosa non riuscì così agevolmente. Lasciata
la magia, e fattosi domenicano, egli stentò sett'anni prima di poter
riavere, con l'ajuto della Vergine, la sua scrittura.

La storia di Teofilo, tradotta di greco in latino, nel settimo secolo,
da Paolo, diacono di Napoli, messa nell'undecimo, se non nel seguente,
in versi leonini da Marbodo, vescovo di Rennes, godette, durante tutto
il medio evo, di un favore grandissimo, e porse in molte province
d'Europa argomento a drammi devoti. In uno di tali drammi, composto
dal trovero francese Rutebuef, che morì verso la fine del secolo XIII,
Teofilo, perduto l'officio, e venuto in povertà, si scaglia contro Dio,
e si duole di non poterlo giungere e conciare a suo talento.

    Ha! qui or le porroit tenir
    Et bien batre à la retornée,
    Mult auroit fait bone jornée;
    Mès il s'est en si haut leu mis
    Por eschiver ses anemis
    C'on n'i puet trère ne lancier.
    Se or pooie à lui tancier,
    Et combatre, et escremir,
    La char li feroie frémir!

E infine la Vergine minaccia il diavolo, che non vuol restituire la
scrittura, di pestargli la pancia coi piedi.


Non meno famosa, anzi più, è la storia di quel Gerberto che fece
stupire con la sua dottrina il secolo X e fu papa sotto il nome di
Silvestro II. La credenza ch'egli dovesse al diavolo, non solo la
scienza miracolosa di cui diede molteplici prove, ma ancora la suprema
dignità ecclesiastica, e che avesse col diavolo stretto un patto in
regola, s'andò formando a poco a poco, s'andò allargando, e nel XII
secolo fiorì in una meravigliosa leggenda che numerosi storici ripetono
a gara. Il benedettino inglese Guglielmo di Malmesbury dice nel libro
II delle sue Storie dei re d'Inghilterra, che le cose ch'ei narra di
Gerberto volavano allora di bocca in bocca. Gerberto nacque in Gallia,
e fanciullo ancora si consacrò al monacato; ma presto fastidito del
chiostro, oppure invaso da riprovevole cupidigia di gloria, fuggì
di notte tempo in Ispagna, e stando coi saraceni attese a studiare
astrologia e magia. In poco tempo diventa dottissimo in ogni maniera
di scienza, così lecita come illecita. Ruba ad un filosofo saraceno,
che l'ospitava in sua casa, un libro magico e fugge. Evoca il demonio,
stringe con lui un patto, e si fa portare oltre il mare. Di ritorno
in Francia, apre scuola, acquista gran nome, e ha molti discepoli, fra
cui Roberto, che divenuto re di Francia lo fa vescovo di Reims. Quivi
costruisce, con mirabile artificio, un orologio e un organo. Essendo
in Roma penetra in un sotterraneo incantato, dove sono accumulati e
gelosamente custoditi i tesori di Ottaviano imperatore, poi divien
papa. Fabbrica una testa magica, la quale ad ogni sua domanda risponde,
e lo assicura ch'ei non morrà insino a tanto che non celebri messa in
Gerusalemme. Esulta il pontefice, e fa proponimento di non veder mai
la terra bagnata del sangue di Cristo; ma in capo di certo tempo va
a celebrare, senza sospetto alcuno, in quella delle basiliche di Roma
che appunto è detta di Santa Croce in Gerusalemme. Ammala di subito,
e consultata la testa loquace, scopre l'inganno, e conosce imminente
la propria fine. Allora, convocati innanzi a sè i cardinali, confessa
pubblicamente i gravissimi suoi peccati, in espiazion dei quali, vivo
ancora, si fa tagliare a pezzi, e gettare, come immondizia, fuori della
casa di Dio.

Altri narrano alquanto diversamente, o aggiungono a tale racconto
qualcosa. Il diavolo, sotto forma di un cane nero, accompagnava
sempre Gerberto, e da lui direttamente, non da una testa artefatta,
ebbe questi l'insidioso responso. La morte imminente è annunziata al
pontefice da un gran tumulto di diavoli, che vengono per torne l'anima.
Egli ordina che i brani dello scellerato suo corpo sieno posti sopra
un carro tirato da buoi, e seppellito nel luogo dove gli animali
spontaneamente si fermeranno. Le ossa di lui si squassano nell'arca
marmorea, e questa suda acqua in copia, quando sta per morire alcun
pontefice. Taluno, come il cronografo Sigeberto, morto nel 1113, non
sa nulla di penitenza, e riferisce una voce secondo la quale il pessimo
vicario sarebbe stato accoppato dal diavolo.

Non fu, del resto, Silvestro II il solo pontefice di cui la leggenda
abbia narrato la colpevole pratica col demonio; Giovanni XII, Benedetto
IX, Gregorio VII, Alessandro VI, furono essi pure accusati d'essersi
venduti a colui, dal cui malvolere e dalle cui insidie appunto
avrebbero dovuto difendere il gregge alle loro cure affidato.

La leggenda di Gerberto ci porge esempio di una di quelle frodi onde il
diavolo si serve per trarre in inganno chi a lui si affida, senza però
mancare formalmente alle promesse, anzi serbandosi fedele alla lettera
di quelle: un altro esempio, degno d'esser ricordato, ce ne offre una
leggenda cresciuta addosso ad una delle vittime illustri della Santa
Inquisizione, Cecco d'Ascoli, l'autor dell'_Acerba_, l'emulo di Dante.

Non è questo il luogo per rinarrar la sua triste istoria: e come egli
fu condannato una prima volta in Bologna dall'inquisitore fra Lamberto
del Cingolo, che gl'ingiunse di non più leggere astrologia, nè quivi,
nè altrove; e come venutosene egli in Firenze, fu da frate Accursio
novamente citato, sotto l'accusa d'insegnare astrologia giudiziaria,
di aver dato, per astrologia, ragione di tutta la vita di Cristo,
di avere asserito che con l'ajuto dell'astrologia può l'uomo venire
in cognizione di tutte le cose, e negato il libero arbitrio; e come
finalmente, avendo sempre risposto alle accuse: _Così dissi, così
insegnai e così credo_, fu dato in potestà del braccio secolare, e arso
pubblicamente l'anno della salute 1327. La leggenda cui accennavo,
formatasi alquanto più tardi, afferma che Cecco s'era accordato col
diavolo, il quale gli aveva esplicitamente promesso ch'ei non morrebbe
se non tra Africa e Campo di Fiori. Condotto al supplizio, Cecco
mostrava animo intrepido, e di non curar punto la morte, tenendo per
fermo che all'ultimo momento l'amico suo sarebbe venuto a liberarlo;
ma saputo, quand'era già sul rogo, ch'ivi presso era un fiumicello
chiamato Africo, e pensato che Campo di Fiori dovesse essere la città
che dai Fiori appunto deriva il suo nome, cioè Fiorenza, intese il
diabolico inganno e morì disperato.

Il diavolo, come gli oracoli dell'antichità, volentieri si serviva di
parole equivoche per meglio assicurar gl'interessi suoi; ma quando,
stringendo il patto, aveva promesso di lasciar passare tale o tal
numero di anni prima di valersi del suo diritto, osservava la promessa
fedelmente, e non anticipava di un'ora il termine pattuito. Non così
scrupolosi si mostravano, come abbiam potuto vedere per parecchi
esempii, coloro che ricorrevano al suo ajuto; e però bisogna dire che
egli non avesse tutto il torto se contro i mancatori usava di qualche
avvedimento e di qualche trappola. Comunque sia, i più gli sfuggivano
di mano con opportuno ravvedimento; ma qualcuno anche ci rimaneva, e
questi pagava per sè e per gli altri. Un monaco, di cui narra la storia
san Pier Damiano, aveva pattuito che il diavolo dovesse annunziargli
la morte tre giorni prima, pensando di potere così provvedere in tempo
alla salute dell'anima. Il diavolo osserva il patto; ma il monaco,
appena tenta di confessarsi, cade in letargo, e ripetendosi il fatto
più volte, muore senza confessione. Per più notti la tomba di lui è
custodita da negri cani.


Nell'immortale dramma del Goethe Fausto si salva; non si salva invece
nella storia popolare, divulgatasi la prima volta per le stampe l'anno
1587; e al nostro bisogno ora fa più questa che quello. Fausto è mosso
al patto da sete di scienza e da bramosia di piacere. Egli verga col
proprio sangue la scrittura in cui sono espressi i reciproci impegni
e le condizioni della loro osservanza: _Io, Giovanni Fausto, Dottore,
dichiaro quanto segue, in questa lettera scritta di mio proprio pugno.
Messomi a scrutar gli elementi, vedendo che le facoltà graziosamente
largitemi dal cielo non son sufficienti a penetrar la natura delle
cose, e che dagli altri uomini non può essere appagato il mio
desiderio, io mi sono dato a questo spirito ch'è qui presente, il quale
si chiama Mefostofile, ed è un servitore del principe dell'inferno,
perchè m'insegni ciò ch'io desidero di sapere, e mi sia, come
promette, sottomesso e obbediente. Da canto mio prometto, che passati
ventiquattro anni dal giorno della presente scrittura, io lascerò
ch'egli faccia di me, dell'anima mia e della mia carne, del mio sangue
e de' miei averi, ciò che gli sarà in piacere, e questo per l'eternità.
A tal fine io rinnego gli esseri tutti che vivono, sia nel cielo, sia
sulla terra. In fede di che scrivo e sottoscrivo di mia propria mano e
col proprio mio sangue._

Fausto fruisce largamente dei beneficii che gli assicura il contratto.
In compagnia di quel suo Mefostofile (che sarà poi ribattezzato
in Mefistofele), o ajutato da lui, egli viaggia tutta la terra,
percorre i cieli, ha al piacer suo le più belle donne che si trovino,
sguazza nelle ricchezze, opera ogni sorta di meraviglie. In Erfurt
legge pubblicamente l'Iliade di Omero, e fa comparire dinanzi agli
uditori stupefatti gli antichi eroi, vestiti di loro armi, e negli
atteggiamenti che lor si convengono; e ai dottori di quell'Università
offre di metter loro tra mani tutte le commedie perdute di Plauto e di
Terenzio, beneficio che essi, per timore di qualche diabolico inganno,
rifiutano. Scorso il diciassettesimo anno, Fausto, che aveva lasciato
scorgere qualche intenzione di ravvedimento e di penitenza, verga col
proprio sangue, e forzato dal demonio che minaccia di farlo a pezzi se
non obbedisce, una seconda scrittura che conferma la prima. Il tempo
vola e il termine della terribile scadenza si approssima. Durante
l'ultimo anno, il demonio, per istordirlo e consolarlo, gli dà per
concubina Elena greca. Giunge finalmente il dì fatale. Fausto invita
tutti gli amici suoi ad un banchetto, narra loro la sua storia, e li
prega di non partirsi, ma di andare a dormire intanto ch'egli aspetta
la fine sua inevitabile. Poco oltre la mezzanotte, gli amici sentono
una folata di vento impetuoso investir la casa e scuoterla come se
dovesse spiantarla dalle fondamenta, odono sibili orrendi e le grida
disperate di Fausto che chiama soccorso. Inorriditi, esterrefatti, non
ardiscon di muoversi. Venuta la mattina, entrano nella camera di lui,
e la trovano tutta imbrattata di sangue: le cervella dello sciagurato
vedevansi sprazzate sulle pareti; gli occhi, strappati dall'orbite, e
alcuni denti giacevano in terra. Il corpo, tutto pesto e stracciato, fu
poi rinvenuto fuori della casa, sopra un letamajo. Cristoforo Marlowe,
il precursore dello Shakespeare, recò sulla scena le spaventose angosce
di Fausto aspettante la morte e la dannazione.

Di poco posteriore a Fausto è il polacco Twardowsky, autore anch'egli
di molte meraviglie, e finito malamente al par di lui. Egli aveva
scritto il patto funesto col proprio sangue, sopra una pelle di bue.
Un giorno, mentre in un'osteria faceva stupire gli astanti co' suoi
prodigi, ecco il demonio, che gli ricorda esser giunto il termine
pattuito. Lì per lì lo sventurato si salva avvicinandosi ad un bambino
che dorme in una culla; ma avendogli il demonio rimproverata la sua
malafede, e dettogli che parola d'uomo nobile non dee mutarsi, egli fa
animo risoluto e indi a poco gli si dà nelle mani. Bisogna riconoscere
che un tale sentimento dell'onore fu assai raro tra coloro che si
obbligarono al diavolo e largamente si valsero dell'opera sua.



CAPITOLO IX.

LA MAGIA.


Coloro che facevano patti col diavolo molto spesso li facevano per
potere esercitare le arti illecite della magia; ma il patto non sempre
importava quell'esercizio, e quell'esercizio poteva andar senza il
patto. Mi spiego. C'erano casi in cui il demonio volenterosamente si
obbligava di fare quanto dal mago gli fosse richiesto, a patto che
questi gli desse l'anima in premio; e c'erano casi in cui il mago,
in virtù dell'arte propria, forzava il demonio a fare ciò che per sè
stesso il demonio non avrebbe nè dovuto, nè voluto. C'erano, come si
vede, due magie, che gli scrittori non distinguono abbastanza, ma che
quanto alle origini, se non quanto agli effetti, erano profondamente
diverse; l'una prodotta da un volontario assoggettamento della potenza
diabolica all'arbitrio dell'uomo, l'altra nascente da un vero e proprio
dominio acquistato dall'uomo su quella potenza, e acquistato (si ponga
mente) non in grazia di un consentimento divino, ma in grazia di una
scienza e di un'arte, che avevano i loro canoni, che si studiavano
con certo tirocinio, che si potevano possedere più o meno; la scienza
e l'arte di magia. I teologi e i dottori affermano, gli è vero, che
di questa scienza malvagia e fallace, di quest'arte perniciosa, era
inventore lo stesso Satanasso, uso a giovarsene pel conseguimento dei
fini suoi; ma nasce dubbio che nella opinione loro vi possa essere
qualche errore, quando si vede quella scienza e quell'arte imporsi
al presunto inventore per modo che questi non può non obbedire a chi
per esse gli comanda. Molta parte della magia presuppone l'esistenza
in natura, e la cognizione per parte dell'uomo, di virtù arcane che
hanno forza di muovere e di legare i demonii. Ma comunque il mago
avesse acquistato la sua formidabile potestà, l'esercizio di essa era
colpevole e vietato, e conduceva da ultimo i trasgressori in inferno.
Generalmente parlando, e guardando agli effetti, maghi e streghe
possono considerarsi come alleati e coadiutori di Satana.

Le sorgenti della magia sono nella passione e nella ignoranza, che
fanno quasi tutto l'uomo. Il desiderio sempre rinascente, e che non
riesce a saziarsi nelle ordinarie condizioni della vita, suscita
nella mente il sogno di una potenza incontrastabile per la quale
ogni appetito si appaghi; e l'ignoranza delle leggi inflessibili che
governano la natura lascia credere che il corso di questa possa essere
signoreggiato e mutato in conformità di quel sogno; il quale, quando
abbia raggiunto un certo grado d'intensità, spontaneamente tende a
trasformarsi in azione. L'amore, l'odio, il desiderio della sanità,
delle ricchezze, del potere, della scienza medesima, sono cause
produttrici della magia, e suoi perpetui stimoli, ond'è che noi vediamo
questa praticata dovunque son uomini, nell'antichità più remota,
nel medio evo, e presentemente ancora, non solo fra le popolazioni
barbariche o selvagge, ma fra le stesse genti che si dicono civili.
Cesario racconta di uno scolare, il quale non imparando nulla con lo
studio, si procacciò una pietra che dava a chi la teneva in mano ogni
sapere: è questa in iscorcio tutta la storia della magia.

Col crescere e con l'afforzarsi della credenza in Satana la magia
doveva acquistare nuovo credito e nuovo vigore. Tutto quanto si sapeva
o si credeva sapere di lui, della sua natura, de' suoi costumi, de'
suoi propositi, doveva tendere a produr questo effetto. Egli era la
potenza sempre viva ed inquieta che circuiva e penetrava tutte le cose,
il principe di questo mondo, il dominatore della natura pervertita;
egli era in ogni luogo, e aveva sotto ai suoi ordini una milizia
innumerevole, sempre parata ad ogni cimento. Con l'ajuto dell'opera
sua non era così difficile impresa, non era miracolo che non si
potesse compiere, e l'ajuto di quell'opera egli porgeva senza troppo
farsi pregare. Si sapeva che di buon grado egli s'associava all'uomo
per venire più facilmente a capo de' suoi disegni. La Chiesa stessa,
a furia di predicare la potenza e l'astuzia di Satana, a furia di
mostrare, con infiniti esempii, gli effetti della sua dominazione sul
mondo, e più popolato assai l'inferno che il paradiso, era riuscita
dove non credeva nè voleva riuscire, aveva lasciato germogliare negli
animi come una vaga credenza che il padrone foss'egli e non Dio,
aveva, qua e là, alla paura e all'orrore, sostituita l'adorazione.
Nel XIII secolo i Luciferiani furono accusati di adorare il diavolo, e
la stessa accusa fu lanciata contro i Templari, contro gli Albigesi,
contro i Catari, contro parecchie altre sètte. Molte volte, senza
dubbio, l'accusa fu calunniosa, dettata da astio religioso e da
perfidia ecclesiastica; ma alcuna volta dovette pur cogliere nel segno.
La spaventosa istoria dei processi contro le streghe ne porge prova
incontestabile, e la diabolica assemblea ch'ebbe in Francia il nome
di _sabbat_, e in Italia quello di giuoco della signora, suppone un
vero e proprio culto satanico, del quale dovrò dire qualche cosa più
oltre. Finalmente non si dimentichi che le condizioni della vita furono
sovente nel medio evo così dure ed insopportabili, sotto la duplice
oppressione ecclesiastica e baronale, da spingere intere classi di
uomini derubati, affamati, disperati, a cercare nella magia, o alcun
sollievo agl'infiniti lor mali, o alcun'arme di vendetta. Per costoro
darsi al diavolo era la suprema via di salvezza, era trovare un amico
e un ajutatore, qual ch'ei si fosse. Satana era men tristo del barone e
del prete.

La più parte diventavano stregoni e streghe con solo mettersi nel
gregge di lui, e con fruire dì quei beneficii e di quel tanto potere di
cui egli voleva farli partecipi; ma, come ho detto, oltre a questa più
bassa magia, prodotta da una specie di delegazione di potestà, c'era
una magia più alta, frutto dello studio e del volere, una magia fondata
sulla cognizione di forze a cui gli stessi demonii obbedivano, ma che
nulla avevano di divino.

Di questa erano tenuti gran maestri i saraceni e gli ebrei, e v'erano
scuole famose, in cui dicono s'insegnasse, come Salamanca e Toledo in
Ispagna, Cracovia in Polonia. La più celebre nel medio evo fu quella
di Toledo, dove la leggenda fece studiare Virgilio, trasformato di
poeta in mago, Gerberto, il beato Egidio di Valladares prima della sua
conversione (m. 1265) ed altri assai.

La prima delle magiche operazioni, quella che avviava a tutte l'altre,
era l'evocazione, con cui si forzava Satana, o alcuno de' diavoli
suoi, a comparire; operazione non difficile quando se ne conosceva
il modo, ma pericolosa a chi vi procedesse sbadatamente, senza le
opportune cautele. Si faceva più comunemente di notte, anzi nel punto
di mezzanotte; ma poteva farsi anche di pien mezzogiorno, essendo
quella l'ora in cui ha più vigore il diavolo meridiano. Facevasi nei
bivii, nei trivii, nei quadrivii, nel fondo di selve cupe, sopra lande
deserte, tra rovine antiche. L'evocatore si chiudeva in un cerchio, o,
per più sicurezza, in tre cerchi, tracciati in terra con la punta di
una spada, e doveva badar bene di non lasciar cogliere fuor di quel
limite la più piccola parte di sè, e di non concedere a patto alcuno
cosa che il diavolo potesse chiedergli. Ne andava la vita. Il solito
Cesario racconta di un prete, che adescato a uscire del cerchio, fu
tutto fracassato dal demonio, per modo che in capo di tre giorni morì;
e racconta di uno scolare di Toledo, che avendo sporto fuor del cerchio
un dito, verso un demonio che in figura di leggiadra danzatrice gli
offeriva un anello d'oro, fu subito rapito e trascinato in inferno,
d'onde non uscì se non per le insistenti preghiere del negromante che
l'avea menato a quella festa.

Le formole di evocazione erano molte e strane, alcune lunghissime,
quali più, quali meno efficaci, nè tutte si addicevano a tutti i
diavoli. La più piccola omissione poteva bastare a renderle inefficaci
affatto, se il demonio era svogliato o indispettito. Qui cade in
acconcio una osservazione. Abbiam veduto per esempii assai numerosi che
il diavolo si presenta volentieri, senza farsi troppo pregare, anche a
chi lo chiama così alla buona e nel linguaggio consueto, e che spesso
si presenta senza che altri pensi a chiamarlo. Gregorio Magno racconta
il caso di un prete, che avendo detto al proprio servo: “Vieni,
diavolo, e trammi gli stivali,„ si vide comparire innanzi il diavolo
in persona, a cui non pensava in quell'ora. Altre volte il diavolo
si mostra pigro e restio, e allora bisogna rinforzare e replicar gli
scongiuri, ai quali da ultimo è pur necessario ch'ei ceda, sempre che
non vi sia difetto. L'ultimo dei Carraresi lo chiamò invano quando,
nel 1405, essendo Padova afflitta dalla peste, e stretta d'assedio dai
Veneziani, egli non aveva più uomini da far difesa.

Evocato, il diavolo poteva apparire con accompagnamento di varii
prodigi, e sotto varie forme, salvo che il mago gl'imponesse di
prenderne una determinata. Un cavaliere tedesco, di cui racconta la
storia Cesario, stando entro il cerchio insieme con un negromante amico
suo, vide da prima tutto intorno un'acqua fluttuante, poi udì mugghio
di bufera e grugnito di porci, e, dopo altri portenti, vide apparire,
più alta degli alberi della foresta, la figura del demonio, di così
spaventoso aspetto, ch'egli ne rimase smorto tutto il rimanente di sua
vita.

Nelle formole d'evocazione erano molte parole strane di suono ed
inintelligibili, e quanto più erano strane ed inintelligibili, tanto
maggior virtù si attribuiva loro. Nel qual fatto si rivela una tendenza
assai nota della natura umana, e della quale si potrebbe discorrere a
lungo. La parola _Abracadabra_ si scriveva già dai greci sugli amuleti,
e conservò nel medio evo l'antica riputazione. Lo stesso dicasi
della parola _Abraxas_. Per l'uomo incolto la parola è inscindibile
dalla cosa, s'immedesima con la cosa. Nella coscienza, essa suscita
repentinamente l'immagine di questa, onde la credenza di un misterioso
legame fra le due, e di una potenza quasi creativa di quella. Il suono
è Brama, dicesi in un libro sacro dell'India: Dio disse: Sia la luce
e la luce fu; e in principio era il Verbo. Secondo una superstizione
sparsa su tutta la faccia della terra, certe cose non si debbono
nominare, perchè i nomi si traggono dietro le cose. Coloro che si
convertivano al cristianesimo mutavano il nome, per gettar via con esso
tutto il loro passato, e così lo mutava chi, rinunziando al mondo,
entrava in un chiostro. Virtù magica si attribuiva, oltrechè alle
parole, anche ai numeri, ai caratteri, alle figure, e la più parte di
tali credenze ha origine antichissima.

Di parole, di cifre, di figure era composto il libro magico, altrimenti
detto libro del comando, il quale dava a chi n'era possessore facoltà
di scongiurare i diavoli, di comandar loro e di operare per mezzo loro
ogni maniera di meraviglie. Non v'è mago di qualche reputazione che
non abbia avuto il suo. Gerberto rubò, come abbiam veduto, quello del
proprio maestro, e Fausto n'ebbe uno di grandissima virtù. Secondo
una leggenda che ho già ricordata, presso Norcia era l'antro della
Sibilla, e un lago popolato di diavoli, al quale accorrevano a frotte
gl'incantatori per consacrare i lor libri magici. Col suo, Malagigi fa
miracoli per entro ai poemi cavallereschi. Ordinaria compagna del libro
era la famosa bacchetta.

Ma oltre alla bacchetta e al libro c'erano pure altre cose con le quali
si potevano vincolare e signoreggiare i demonii: tali certe gemme
e certe erbe che si trovano descritte nei lapidarli e negli erbarii
del medio evo. Più di un mago riuscì ad avere un demonio chiuso in
un'ampolla, o dentro un anello, in guisa da potergli comandare come
a uno schiavo; e ciò ad imitazione di Salomone, che molti demonii,
secondo si legge in racconti ebraici ed arabici, ridusse in ischiavitù.
Del famoso medico ed astrologo Pietro d'Abano, morto l'anno 1316 nelle
carceri dell'Inquisizione, si dice avesse chiusi in una fiala sette
diavoli, per tacer di una borsa a cui tornavano fedelmente i denari
spesi; e il famosissimo Paracelso (m. 1541) aveva non so se uno o più
diavoli chiusi nel pomo della spada. Con l'ajuto dell'arte magica poi
e dell'astrologia, si potevano costruire ingegni ed ordigni che, in
parte almeno, rendevano superflua la cooperazione dei demonii, come
quelle teste artifiziate che rispondevano alle domande, e di cui una
costrusse, come s'è già veduto, Gerberto, un'altra Alberto Magno, una
terza Ruggero Bacone, altre altri.


I maghi e le streghe non erano tutti di una valentia e d'una forza:
come in ogni altra condizione umana, anche nella loro c'era disparità
di potenza e di grado. Ciò nondimeno non era così misera fattucchiera,
nè così fallito stregone, che non potesse con l'ajuto dell'arte sua
far cose mirabili, e tali da vincere ogni umano potere ed ogni umano
avvedimento. Chi volesse fare un elenco delle svariatissime operazioni
dell'arte magica dovrebbe comporre un volume, e non riuscirebbe a dir
tutto, giacchè per essa si poteva far presso a poco quanto cade nella
fantasia, quanto può essere oggetto di desiderio. Il mago, con acconci
filtri, o giovandosi dell'opera di accorti demonii, poteva forzare
all'amore, poteva mutare l'amore in odio, poteva strappar l'amata
all'amante, o far che quella volasse di notte tempo, per l'aria, fra
le braccia di questo. Egli si vendicava de' suoi nemici, o dei nemici
di chi ricorreva a lui per ajuto, facendo divampare l'incendio nelle
loro case, rovesciando la tempesta sui loro campi, sommergendo in mare
le navi; o pure li faceva morire, infiggendo in una figura di cera,
fatta a loro immagine, un ago, o uno stiletto, o pure, senz'altro
apparecchio, con una semplice imprecazione, con un'occhiata velenosa.
Per lui non erano distanze, non vie malagevoli e perigliose. In groppa
ai demonii egli volava da una ad un'altra estremità della terra,
spendendo poche ore là dove altri consumavano mesi ed anni, e allo
stesso modo faceva viaggiare coloro cui egli favoriva dell'opera sua.
Fabbricava amuleti e talismani acconci ad ogni uso, armi fatate che
sfidavano il ferro ed il fuoco, e, in una notte, palazzi sontuosi,
castelli inespugnabili, intere città murate. Con una parola oscurava
l'aria, faceva imperversare un'orrenda procella, apriva sopra la terra
le cateratte del cielo; con una parola faceva riapparire il sereno, e
risplendere il sole più sfolgorante di prima. Alzando il dito sgominava
un esercito, o ne faceva saltar su un altro, tutto di demonii sbucati
dall'inferno. Ov'egli s'intrometteva la natura perdeva la sua usanza
e il suo essere. Egli trasmutava le cose l'una nell'altra; faceva
oro del fango e fango dell'oro; e similmente trasformava d'una in
un'altra le creature viventi e sensitive, i maschi in femmine, le
femmine in maschi, gli uomini in bruti. Egli aveva cognizione delle
cose più nascoste; vedeva in un bacino d'acqua ciò che gli premeva
vedere, prediceva senza errore il futuro, e, miracolo più di tutti gli
altri gradito, racquistava egli stesso, e faceva racquistare altrui la
giovinezza perduta.


I maghi maggiori molto si compiacevano di fare stupire le più illustri
assemblee con lo spettacolo dei prodigi che sapevano operare. Nel
cuor dell'inverno, Alberto Magno pregò l'imperatore Guglielmo di
volere andare un giorno, con tutta la corte, a desinare in sua casa.
V'andò l'imperatore, e il buon mago lo menò, insieme col seguito, in
un giardino, dove tra gli alberi sfrondati, in mezzo alla neve ed al
ghiaccio che coprivano ogni cosa, si vedeva apparecchiato il convito.
I cortigiani cominciarono a mormorare, parendo loro uno strano scherzo
quello dell'ospite; ma come il re fu seduto a mensa, e gli altri
similmente, ciascuno secondo il suo grado, ecco splendere in cielo
un sole estivo, ecco disfarsi in un baleno la neve ed il ghiaccio, la
terra e gli alberi germinare e coprirsi di verzura e di fiori, brillar
tra le fronde i frutti maturi, e l'aria d'intorno sonare del soavissimo
canto d'infiniti uccelli. In breve la caldura crebbe di sorta, che
i convitati cominciarono a tôrsi le vesti di dosso, e, seminudi,
ripararono all'ombra delle piante. Fornito il mangiare, i numerosi
e leggiadri valletti che avevan servito, sparvero come nebbia, e di
subito il cielo si rabbujò, e le piante si dispogliarono, e un orrido
gelo coperse novamente ogni cosa, con sì acerba freddura, che gli
ospiti tremando corsero in casa, e si accalcarono intorno al fuoco.

Molte altre simili storie si raccontano. Michele Scotto che, a
testimonianza di Dante,

                             veramente
    Delle magiche frode seppe il gioco,

e che perciò fu da lui posto con gli altri incantatori in inferno,
trovandosi un giorno alla corte di Federico II, illuse sì fattamente
con le sue arti un cavaliere per nome Ulfo, che questi credette d'aver
lasciato Palermo e la Sicilia, e, dopo lunga navigazione, passato lo
stretto di Gibilterra, d'esser giunto in istranie e remote contrade,
e quivi aver vinto ripetutamente in battaglia poderosi nemici,
conquistato un vasto s florido reame, condotto moglie, e avutone
più figliuoli, consumando in tali fatti un tempo che parve a lui di
vent'anni e in realtà non fu se non di poche ore.

Verso il 1400 frequentò la corte del re di Boemia e imperatore
Venceslao, soprannominato il Beone e il Fannullone, un mago di
nome Zito, o Zitek, il quale faceva le più strane gherminelle del
mondo: entrava in un guscio di noce e si faceva tirare a carretta
da due scarafaggi addestrati; mostrava un gallo che attaccato a una
pesantissima trave, se la traeva dietro trionfalmente, come fosse
stata un fuscello; mutava in porci i manipoli di fieno e per porci li
vendeva. Alcune di tali gherminelle si raccontarono poi di Fausto.
Nel secolo XVI un rabbino di Praga per nome Löw giunse a tal segno
di potenza che nemmeno la morte poteva nulla contro di lui. Questa da
ultimo si celò in una rosa, e il rabbino morì fiutandola.


La credenza alla magia fu universale nel medio evo, e continuò
ad essere universale dopo, turante il Rinascimento. Le leggi
ecclesiastiche e civili che condannavano e punivano i cultori dell'arte
diabolica, non facevano se non ravvivare e rafforzare quella credenza,
a cui s'accompagnavano naturalmente il sospetto e il terrore. Come si
vedevano diavoli in ogni banda, così vedevansi streghe e stregoni,
e non vi fu uomo insigne su cui non pesasse l'accusa di magia, a
cominciare dai grandi dell'antichità morti da secoli, da Aristotele, da
Ippocrate, da Virgilio, e a venir giù sino ai contemporanei di Leone
X e oltre. Di magia fu sospettato il Petrarca, e in pieno secolo XVII
si fece un processo ad Alessandro Tassoni, per essergli stato trovato
in casa, entro una boccia di vetro, uno di quei diavoli che servono
a trastullare i fanciulli, e che si chiamano diavoli di Cartesio.
Parecchi papi, come Leone III, il già ricordato Gerberto, Benedetto
IX, Gregorio VI, Gregorio VII, Clemente V, Giovanni XX, soggiacquero
alle medesime accuse. Sul finire del secolo XI, il cardinale Benno
pretendeva nella sua Vita d'Ildebrando (Gregorio VII) che c'era in Roma
una scuola di magia da cui quello ed altri papi erano usciti; e del
secolo XII, e del XIV, ci sono lettere autentiche di Satana, scritte
ai principi della Chiesa, amici e cooperatori suoi. Un dotto francese,
Gabriele Naudè, potè stampare nel 1625 un grosso libro in cui si fa
l'apologia dei grandi uomini d'ogni condizione cui toccò la stessa
sorte.

Ma gl'incantatori illustri non eran più che falange a fronte dello
sterminato esercito degli incantatori minuti, degli stregoni e
delle streghe, e di queste in più particolar modo, giacchè tutti gli
scrittori di sì fatte cose s'accordano in dire che per un maschio
dedito all'arti magiche, si avevano a dir poco dieci femmine. Qualcuno
degli illustri riuscì da ultimo a frodar Satana e a sgusciarli di
mano, e seppe anche adoperare a buon fine l'arte malvagia, forzando
Satana a far più bene che non avrebbe voluto. Tale Ruggero Bacone, il
quale liberò un cavaliere che a Satana aveva venduta l'anima, e sulla
fine della sua vita, bruciati tutti i libri di magia, si chiuse in
una cella, d'onde non uscì più, e dove morì santamente dopo due anni
consacrati alla preghiera e alla penitenza. Ma queste erano eccezioni,
e degli stregoni spiccioli, non si salvò forse nessuno, e tutti
meritarono la mala lor fine, la quale assai volte fu di bruciar vivi in
questo mondo prima di andar a bruciar morti eternamente nell'altro.

Costoro erano il gregge e la mandria del diavolo, tanto è vero che
non nell'anima solamente, ma nel corpo ancora recavano, come pecore
e giovenchi bollati, il marchio del padrone, il così detto _stigma_
o _sigillum diaboli_, il quale era un punto fatto privo, per virtù
soprannaturale, di ogni sensitività. Spesso, in un medesimo corpo,
erano parecchi di tai suggelli, e gl'inquisitori figgendovi un ago
facilmente si assicuravano della colpa o dell'innocenza dell'accusato.

Streghe e stregoni si congregavano in certi tempi e luoghi per rendere
omaggio e far festa al loro signore. Eran quelle le corti bandite del
diavolo. Ogni paese aveva suoi luoghi appositi per così fatte riunioni,
le quali contavano a volte, se i racconti non mentono, migliaja e
migliaja di persone. In Francia il principale era il Puy de Dôme; la
Germania aveva il Blocksberg, l'Horselberg, il Bechtelsberg e altri
assai; la Svezia il Blakulla; la Spagna la landa di Baraona, le sabbie
di Siviglia; l'Italia il famosissimo Noce di Benevento, il monte
Paterno presso Bologna, il monte Spinato presso la Mirandola, ecc. ecc.
Assemblee si tenevano ancora sulle rive del Giordano e sul monte Hecla,
nella remota Islanda. Facevansi di solito una volta la settimana, ma in
giorni diversi, secondo i paesi, e c'erano poi, nell'anno, riunioni più
generali e solenni, le quali ponevansi di preferenza in giorni prossimi
alle maggiori feste religiose. In Germania la principale solennità
delle streghe cadeva la notte di Santa Valpurga, come sanno quanti
hanno letto il _Fausto_ del Goethe.

Le streghe (giacchè degli stregoni era, come ho detto, scarsissimo
il numero) si recavano al giuoco dopo essersi unto il corpo di certi
unguenti, a cavalcioni di granate, di forconi, di pale da forno, di
sgabelli, o anche di caproni, di porci e di cani diabolici. Volavan
per l'aria, non molto alto da terra, e dovevano por mente di non
pronunziare, durante il viaggio, il nome di Cristo, e di non lasciarsi
cogliere dal suono mattutino dell'_Ave Maria_, se non volevano
capitombolar giù, con pericolo grande di fiaccarsi il collo.


Le cerimonie, i riti e gli spassi del giuoco variavano secondo i
paesi, mutarono coi tempi; e chi volesse conoscerli tutti dovrebbe
leggere i trattati speciali, i così detti _Martelli_ o _Flagelli delle
streghe_, scritti dai più gran luminari della Santa Inquisizione, e i
constituti delle streghe medesime negli innumerevoli processi. Satana
si lasciava vedere a' suoi devoti sopra un trono, o sopra un altare,
in figura d'uomo, di caprone, di cignale, di scimia, di cane, secondo
i casi. Se in figura d'uomo, talvolta si mostrava arcigno, uggito,
rabbujato, talaltra ilare e ridente, e in tal caso scherzava con le
streghe, sonava, cantava. Queste gli rendevano omaggio, come a loro
signore, s'inginocchiavano davanti o dietro a lui, gli baciavano i
genitali, o le natiche, o altra parte del corpo, gli si confessavano,
raccontandogli tutte le ribalderie che avevano commesse in suo onore
dopo l'ultimo congresso. Egli ascoltava, lodava o biasimava, e puniva
di bastonate, o con una buona multa, quelle che avessero trascurato
di venire alle assemblee, o in qualche altro modo mancato al loro
dovere. Accoglieva le nuove devote, le battezzava in suo nome, le
istruiva e ammoniva. Diavoli minori in gran numero facevano corona
al principe, partecipavano insieme con le streghe alle cerimonie,
tra le quali spiccava una specie di parodia dei riti ecclesiastici,
della messa, dei sacramenti, con profanazione di ostie consacrate e
altri sacrilegi orribili e turpissimi. Non mancava un'acqua benedetta,
o maledetta che si voglia dire, scura e puzzolente, con cui quegli
strani sacerdoti aspergevano gli astanti. Finite le cerimonie si
banchettava allegramente. Il convivio era rischiarato da streghe, che
stavano carponi, con candele accese confitte tra le natiche: i cibi
erano quando delicati e squisiti, quando orribili e stomacosi, degni
in tutto della infernal cucina. Spesso si mangiavano bambini lattanti,
o cadaveri strappati alle sepolture. Da ultimo si ballava, al suono
di diabolici strumenti; poi ciascun demonio ghermiva la sua strega, e
_coram populo_ si sollazzava con lei. Dico che si sollazzava con lei;
ma le streghe affermano che, per esse almeno, quegli abbracciamenti di
solito non erano troppo gradevoli: una di loro poi, introdotta da Pico
della Mirandola in certo suo dialogo intitolato appunto _La strega_,
entra in particolari ch'io passerò volentieri sotto silenzio.

Le streghe, del resto, non vedevano i loro demonii solamente al
giuoco; ma ne ricevevano visite frequenti nelle proprie lor case,
in quelle tetre officine dov'erano insieme accozzati gli ordigni,
le suppellettili e le mille sozzure dell'arte; andavano con esso
loro a diporto, li tenevano in luogo di mariti, e in segno di cara
dimestichezza li chiamavano con nomi, non diabolici, ma umani, e spesso
carezzevoli, oppure con soprannomi curiosi e bizzarri. Quelli erano
con le drude larghi di donativi, i quali, per altro, mostravansi ancor
essi non di rado pieni di diabolica falsità, convertendosi le monete
in foglie secche e in trucioli, le gemme in mota, se non in peggio.
Ingravidate dai diavoli, le streghe spesso partorivano mostri, i quali
avevano, quando figura umana, e quando belluina. I diavoli poi, non
contenti delle infinite streghe ond'era già pieno il mondo, andavano
in giro facendo i bellimbusti, vestiti da cavalieri, e seducevano,
e traevano ai loro servigi donne e ragazze. Per poter attendere più
liberamente ai fatti loro, le streghe usavano di tramutarsi in gatte,
e così tramutate andavano attorno la notte; onde si diè più d'una
volta il caso che taluna ne rimanesse, trovandosi in quello stato,
ferita, o mutilata, e tornando poi donna, e mostrando la piaga aperta,
o la mancanza di un membro, dèsse a conoscere la sua qualità e il suo
delitto.


Il benedettino tedesco Giovanni Trithemio (1462-1516), grandissimo
teologo e grandissimo storico, scrisse appositamente un libro, da lui
intitolato _Antipalus maleficiorum_, col quale insegna a tutti gli
uomini dabbene a guardarsi dalle streghe e dalle scellerate lor arti. I
ripari e i rimedii da lui suggeriti sono senza numero, e passabilmente
ridicoli: il riparo più serio, il rimedio più efficace era, secondo
l'opinione concorde degl'inquisitori, il rogo.

Nulla v'è che della formidabile potenza di Satana dia così adeguato
concetto come la storia delle streghe, e la storia delle persecuzioni
che Santa Madre Chiesa promosse contro di loro. Poco mancò (se gli
storici dicono il vero) che Satana non trascinasse alle maledette
pratiche, al mostruoso peccato di magia l'intero genere umano, e i
zelantissimi e oculatissimi inquisitori avrebbero volentieri abbruciato
l'intero genere umano, pur di vincere l'iniquità e debellare il nemico.
Io non intendo rinarrar qui cose note, e, benchè note, meritevoli
sempre di meditazione e di studio: qualche rapido cenno potrà bastare
al proposito mio.

Le persecuzioni contro le streghe imperversarono più particolarmente
sul finire del secolo XV e nei due secoli che vennero poi. Non già
che non se ne trovino esempii anche prima, e parecchi; ma, strano a
dire, essi diventano più frequenti e più terribili come più i tempi
procedono, scostandosi dalla barbarie medievale e approssimandosi
alla civiltà nuova del Rinascimento. In uno dei capitolari di Carlo
Magno è detto espressamente che coloro i quali attendono alle arti
fallaci della magia debbono, come seguitatori della superstizione
pagana, essere presi e ammoniti; se perseverano nell'errore, debbon
essere tenuti in carcere fino a tanto che non si sieno emendati. In
altro capitolare il glorioso imperatore dice più saviamente ancora:
“Se alcuno sia che, ingannato dal diavolo, creda, secondo l'usanza
dei pagani, esservi stregoni e streghe divoratori di uomini, e, mosso
da tale credenza, quelli abbruci, o ne dia le carni a mangiare, sia
condannato nel capo.„ Intorno all'800 dunque Carlo Magno giudicava
fallaci le arti della magia e puniva di morte gli uccisori dei presunti
maghi: gl'inquisitori sarebbero stati freschi se egli si fosse trovato
ai tempi loro.

Agobardo, vescovo di Lione, morto nell'840, uno degli spiriti più
illuminati e più liberali che abbia avuto la Chiesa, non pure in
quello, ma in tutti i tempi, biasimava come superstizioni assurde le
credenze volgari attinenti a magia, e deplorava i mali trattamenti
usati dal popolo ignorante ai presunti stregoni. La credenza circa
il viaggio aereo delle streghe, quell'orribil viaggio che doveva
porgere agl'inquisitori argomento di accuse capitali, è antichissimo;
ma antichissimo pure è il giudizio che se ne faceva come di cosa in
tutto illusoria e fantastica; e nel XII secolo, dopo altri, Giovanni
Sarisberiense lo diceva un inganno del demonio, e più recisamente,
nel XIII, Stefano di Borbone lo giudicava una fantasia di donne che
sognavano. Per lungo tempo la Chiesa non adoperò contro i rei di
magia altre pene che le spirituali, e più di un pontefice sorse, come
Gregorio VII, a condannare e vietare qualsiasi procedimento criminale
instruito contro chi non era d'altro colpevole che di una vana e
sciocca superstizione. E la Chiesa non era sola allora a dar prova di
così sano giudizio: Coloman, che dal 1095 al 1114 fu re di Ungheria,
di un paese cioè quasi barbaro, diceva chiaro ed esplicito in un suo
decreto: _Non ci sono streghe, e contro quelle che tali si stimano non
deve farsi procedura alcuna_.

Ma tanta saviezza e umanità di giudizii e di consigli non dovevano,
pur troppo, perpetuarsi. Nel secolo XIII, san Tommaso d'Aquino, quel
san Tommaso che doveva diventar poi e rimanere l'oracolo della Chiesa,
quello stesso che si rimette ora innanzi ai popoli civili stupefatti
quale unico lume della filosofia, dichiarava che, secondo la fede
cattolica, la stregoneria è cosa, non già illusoria, ma reale. In quel
medesimo secolo la inquisizione sopra l'eretica pravità è affidata ai
domenicani, i quali ne fanno l'uso che tutti conoscono, e Innocenzo
IV introduce la tortura, contro la quale un altro papa, Nicolò I,
s'era quattro secoli innanzi scagliato con nobilissime e memorabili
parole. Comincia allora uno strano e doloroso spettacolo. La Chiesa
si fa tutrice e banditrice di superstizione, accarezza i più bassi
istinti della plebaglia, li promuove e li attizza. Confonde insieme,
deliberatamente, e conscia di ciò che fa, eresia e stregoneria, e
crea una mostruosa promiscuità d'interessi, dove l'ignoranza, la
paura, la stupidità, la malvagità, si accordano insieme e si porgono
vicendevolmente la mano. Cominciano i processi contro le streghe,
divampano i primi roghi: col volger degli anni il furore, invece
di scemare, cresce. I pontefici gareggiano di zelo e di ferocia in
quest'opera, ch'essi chiamano una battaglia di Dio contro Satana:
Gregorio IX, Giovanni XXII, sono, tra i più antichi, i più ardenti.
Così si giunge all'anno di grazia 1484, nel quale anno, il 5 di
decembre, il glorioso pontefice Innocenzo VIII promulga la sua famosa
bolla _Summis desiderantes affectibus_, con cui dà ordine e norma
alla inquisizione sopra la stregoneria, ferma e regola i diritti e i
doveri degl'inquisitori, e apre tale un'èra di terrore e di lutto che
non ha riscontro nella storia degli uomini. La Chiesa volentieri ne
tace per parlare a suo agio del Terrore onde va tristamente famosa la
Rivoluzione francese, e questo durò appena due anni, quello più di due
secoli.

Il domenicano inquisitore Jacopo Sprenger scrive allora il suo
insensato e terribile _Malleus maleficarum_, o _Martello delle
streghe_, il quale diventa il Vangelo o il codice degl'inquisitori
di tutta Europa, e a cui molti altri libri consimili, terribili ed
insensati, tengono dietro, che tutti insegnano la santissima arte di
scoprire, esaminare, torturare, arrostire la strega, a dispetto di
ogni ciurmeria e impostura del demonio, suo naturale amico e padrone.
Da indi in poi si moltiplicano i roghi e più non si spengono: i papi
vi soffian su terribilmente, Leone X fra gli altri, l'umanissimo e
magnifico Leone, protettore di letterati e di artisti, amico d'ogni
gentilezza. Nella sola Lorena, in ispazio di quindici anni, si bruciano
novecento persone, e novecento, in ispazio di cinque, nella diocesi
di Vürzburg; cento l'anno se ne bruciano nella diocesi di Como; il
Parlamento di Tolosa ne brucia quattrocento in una volta. Non v'è
nessuno che si possa tener sicuro da un'accusa di stregoneria, e
l'accusa si risolve quasi sempre in condanna, e la condanna è quasi
sempre al rogo: il mostrar di non credere alle malíe è già per sè
stesso un indizio grave, se non a dirittura una prova di colpa. La
tortura fa miracoli, strappa ai più protervi e ai più riottosi la
confessione dello scellerato loro commercio con Satana, provoca sequele
interminabili di denunzie le une legate alle altre, le quali, dal
tribunale del giudice, si protendono, come i tentacoli di uno smisurato
polipo, per mezzo i popoli esterrefatti. Più di un inquisitore si
domanda atterrito se l'umanità tutta intera non sia passata al servigio
del diavolo. Per veder di rendere l'opera riparatrice della giustizia
più sollecita che non sia la stessa propagazione del male, si procede
a precipizio, s'interrogano gli accusati secondo certi formularli che
pongono loro in bocca la confession del delitto, s'inaspriscono e si
moltiplicano le torture, si abbrucia quanto è sospetto d'infezione,
uomini, donne, vecchi, bambini: in qualche luogo i carnefici, oppressi
dal soverchio lavoro, stracchi, istupiditi, rifiutano l'opera consueta,
rinunzian l'officio.

Gli effetti di tale giustizia sorpassano l'aspettazione di coloro
stessi che l'amministrano: Niccolò Remy, giudice in Lorena, esclama in
un accesso di legittimo orgoglio: “la mia giustizia è così ben fatta
che in un anno sedici streghe si sono uccise di propria mano per non
capitarle sotto.„ Bisogna pur dire, a onor del vero, che i protestanti
non si mostravano punto da meno dei cattolici in così fatta bisogna.
Lutero, non solo credeva alle streghe, ma esprimeva il desiderio
che fossero tutte bruciate, e fra coloro che più si adoperarono a
tener deste le false credenze, e a rendere più violenta la procedura,
tiene principalissimo luogo Giacomo I d'Inghilterra, il re pedante e
poltrone. Così in tre secoli, mercè il concorde lavoro di cattolici e
di riformati, furono spente, non decine, ma centinaja di migliaja di
vite umane.


Ora è da por mente che il giudice, nei processi, aveva a fronte,
visibile, la strega, invisibile, il diavolo, giacchè, come di giusto,
il diavolo non abbandonava la sua protetta, la sua amica, la sua druda.
Egli (sono gl'inquisitori che lo affermano, e gl'inquisitori lo devono
sapere) le ajutava a mentire, e a sostenere valorosamente la tortura;
egli faceva perdere la memoria ai testimoni, e ingarbugliava le idee ai
giudici, e metteva la stracchezza addosso ai carnefici. Tutto veniva
da lui. Se la strega durante la tortura moriva, era il diavolo che
l'aveva strozzata, per impedirle di parlare; se la strega si uccideva
da sè stessa, era il diavolo che a ciò l'aveva spinta, affinchè non
si potesse più fare il processo. In Lindheim, villaggio dell'Assia,
cinque o sei donne furono accusate d'aver dissotterrato un bambino e
d'essersene servite per la manipolazione della consueta broda delle
streghe. Torturate in regola, esse confessarono il delitto. Allora
il marito di una di esse tanto s'adoperò che potè ottenere si facesse
una visita al camposanto, per meglio accertarsi della cosa. Aperta la
fossa, il corpicino apparve intatto nella sua bara; ma l'inquisitore,
senza punto smarrirsi, disse che quella doveva essere una illusione
del diavolo maledetto, e che essendoci la confessione delle colpevoli
non era da cercar altro, ma era da dar corso alla giustizia, a onore e
gloria della santissima Trinità: e le donne furono bruciate vive.

Per render vane le frodi e le gherminelle del diavolo, si usavano in
varii luoghi varii accorgimenti e rimedii: si vestiva la strega di una
camicia tessuta e cucita in un sol giorno, le si dava bere un intruglio
fatto di cose benedette, si aspergevano d'acqua benedetta gli stromenti
di tortura, si bruciavano certe erbe, ecc. ecc. Fosse in grazia di
tali pratiche, fosse per altra ragione, certo si è che assai di rado
riusciva il diavolo a porgere alle streghe e agli stregoni amici suoi
ajuto veramente efficace e durevole. Lo storico siciliano Tommaso
Fazello (1498-1570) narra di certo mago Diodoro, che ajutato dal
diavolo scappava di mano alle guardie, e volava per l'aria, da Catania
a Costantinopoli. Il giuoco durò un pezzo; ma finalmente il vescovo
Leone potè mettergli le mani addosso, e lo fece gettar vivo in una
fornace ben accesa, d'onde quegli non uscì più, o uscì solo per andar
capofitto in inferno.

Il primo a insorgere contro la odiosa superstizione, e contro gli
orribili effetti suoi, fu nel secolo XVI il famoso Cornelio Agrippa
di Nettesheim, seguito e superato dal suo proprio discepolo Giovanni
Weier (1518-88) il cui libro fa epoca. I difensori della retta ragione
e della umanità si moltiplicarono poi rapidamente; ma la battaglia
da essi combattuta non fu coronata di vittoria se non assai tardi. Le
ultime vittime della superstizione caddero in Europa nella seconda metà
del secolo scorso: fuori d'Europa, nel Messico, due roghi si accesero
ancora nel 1860 e nel 1873.

L'Inquisizione è morta, e sono finiti i processi per istregoneria; ma
non è morta la stolta credenza, nè sono finiti i lamenti di coloro che
la serbano viva; e non passa anno senza che venga alla luce, scritto
da un qualche teologo fallito e frenetico, un libro in cui si grida
che il mondo è nelle mani del diavolo, e che i satelliti del diavolo,
ammaestrati da lui, corrompono con l'arti loro ogni cosa, insidiano e
sopraffanno i buoni. Il mondo è pieno di stregoni, camuffati in altra
maniera, ma non meno tristi e pericolosi degli antichi, e, quel ch'è
peggio, il diavolo, lor buon signore, ha finalmente trovato il modo
d'impedire che sieno bruciati. Se si potessero ancora bruciare, a tutto
ci sarebbe rimedio.



CAPITOLO X.

L'INFERNO.


Immaginate un mondo spartito in tre piani. Nel piano di sopra è
il paradiso, la reggia di Dio, la dimora degli angeli e dei beati,
sfolgorante di luce, risonante d'ineffabili armonie, odorosa di fiori
immarcescibili; è il regno della santità incorruttibile e della eterna
letizia. Nel piano di mezzo è questo mondo terreno, popolato da una
umanità decaduta e dogliosa, che pecca anelando al riscatto, e spasima
sognando beatitudine; è il regno della perpetua vicenda, del cimento
sempre rinovellato nella mescolanza del bene e del male. Nel piano
di sotto è l'inferno, la voragine tenebrosa, dove Satana e gli angeli
suoi, con l'infinito popolo dei dannati, pagano alla divina giustizia
un debito che mai non si salda; è il regno del peccato irreparabile,
della scelleratezza irredimibile, del dolore smisurato, disperato ed
eterno. A quest'ultimo regno è congiunta una regione dove il peccato
si ripara e si purga, dove il dolore è alleviato dalla speranza; è il
purgatorio, vestibolo bujo del cielo radioso.

Il regno di mezzo è come un vivajo immenso di anime, le quali
ininterrottamente ne emigrano, spartite in doppia corrente, l'una che
sale al cielo, l'altra che scende all'inferno. Satana e la innumerevole
sua milizia non intendono ad altro fine, non ad altro usano l'arte e
la malvagità loro, che a trarre all'ingiù quante più anime possono,
a popolare l'inferno a scapito del paradiso. E della loro riuscita in
tale intento non si possono lagnare.


Ma dov'era propriamente l'inferno? Dice sant'Agostino, nel suo libro
della _Città di Dio_, che nessun uomo lo può sapere se Dio stesso
non glielo ha rivelato. Ciò non tolse tuttavia che le più disparate
e le più strane opinioni fossero espresse in proposito; e il regno
dei dannati fu posto nell'aria, nel sole, nella Valle di Giosafat,
sotto i poli, agli antipodi, dentro ai vulcani, nel centro della
terra, nell'ultimo Oriente, in isole remote, perdute in grembo di
oceani sconosciuti, o, a dirittura, fuori del mondo. Qualche esempio a
tale riguardo potrà bastare. Gregorio Magno racconta di un solitario
dell'isola di Lipari, che vide una volta il papa Giovanni e Simmaco
precipitar nella bocca di quel vulcano l'anima di Teodorico. Alberico
delle Tre Fontane, cronista francese morto nel 1241, dice, parlando
dell'Etna, che le anime dei dannati erano quivi portate quotidianamente
a bruciar tra le fiamme. Aimoino, monaco di Fleury sul finire del
secolo X, e Cesario di Heisterbach, narrano fatti e storie consimili.
San Brandano, navigando fuori dei termini del mondo conosciuto, vide
un'isola ignivoma, dove demonii in figura di fabbri ferrai martellavano
sulle incudini le anime arroventate. Nell'_Huon de Bordeaux_, poema
francese del secolo XIII, si dice che l'inferno è in un'isola chiamata
Moysant, e nell'_Otinel_, altro poema pure francese, che esso è
posto sotto la Tartaria. Ugone d'Alvernia trova l'adito infernale
nell'ultimo, favoloso Oriente.

L'opinione più comune tuttavia, e nel tempo stesso più naturale, era
quella che poneva l'inferno nelle viscere della terra, conformemente a
quanto già avevano creduto gli antichi. Così l'abisso era spalancato,
insidia e minaccia perpetua, sotto ai piedi dei peccatori e dei giusti,
e la corteccia terrestre diveniva un tenue solajo che trepidava e
fremeva per l'impeto delle fiamme penaci e pel mugghio degli eterni
tormenti. La terra, illuminata fuori dal sole, lieta di floridi campi
e di selve, rorida di acque, era come un frutto bacato che, sotto vaga
buccia, abbia fradicio il midollo; era com'un di quei pomi che a detta
dei viaggiatori nascevano sulle rive del Mar Morto, e che coloriti e
odorosi di fuori, erano, dentro, pieni di cenere. Il baco che aveva
ròsa e guasta la terra era Satana, cui Dante chiama il _verme reo che
il mondo fora_, e alla cui caduta dal cielo fa seguire, con mirabile
fantasia, la formazione del baratro infernale.

L'inferno doveva avere le sue bocche e i suoi aditi, necessarii, se non
altro, al disimpegno di quelle mille faccende che i diavoli avevano,
al loro andare, venire, frullare perpetuo. Negli Evangeli è cenno
di porte dell'inferno che non prevarranno contro la Chiesa; Cristo,
accingendosi a penetrar nei regni buj, grida ai principi delle tenebre
di aprir quelle porte, e non obbedito, le infrange. Dove fossero non si
sa con certezza. Gervasio di Tilbury dice ch'eran di bronzo, e che si
vedevano ancora, così infrante, in fondo a un lago, presso Pozzuoli.
Dante entra in inferno per una porta senza serrame, su cui si leggono
le parole di colore oscuro. Altre entrate ad ogni modo non mancavano.
Più di una caverna tortuosa e cupa, più di una voragine sprofondante
sotterra, fu creduta una bocca dell'inferno, e se alcuni pensavano
che dentro i vulcani abitassero i demonii e fossero tormentate le
anime dannate, altri dicevano i vulcani essere più propriamente
bocche e spiracoli dell'inferno, d'onde esalavano gli ardori e il fumo
dell'eterna fornace. In Irlanda il famoso pozzo di San Patrizio metteva
in purgatorio e in inferno. Nè mancavano, oltre gli aditi ordinarii
e stabili, gli straordinarii e avventizii. Il suolo si lacerava per
lasciar passare i demonii, o per ingojare vivi gli scellerati maggiori.
L'inferno era come un mostro immane sul cui corpo si moltiplicavano le
bocche, avide di procacciare nuova pastura al ventre voraginoso. Non
senza ragione dunque si vede rappresentato l'inferno, nelle pitture
e nei misteri del medio evo, sotto la forma di una mostruosa bocca di
drago che divora anime e vomita turbini di fiamme e di fumo.


L'inferno è il regno del dolore e del bujo, come il paradiso è il regno
della letizia e della luce. Le tenebre vi sono dense, profonde, fatte
in qualche modo consistenti. La dolorosa valle d'abisso, dice Dante,

    Oscura, profond'era e nebulosa,
      Tanto, che per ficcar lo viso al fondo,
      Io non vi discernea nessuna cosa.

Essa è il _cieco mondo_, il _loco d'ogni luce muto_, la cui eterna
caligine è rotta solo dai sanguigni lampeggiamenti di quei nembi e
vortici di fiamme, dal corruscare delle brage ammontate, dei metalli
colati. Non mancò del resto chi disse il fuoco infernale aver l'ardore
e non la luce, esser nere le fiamme che mai non si spengono.

Il regno _della morta gente_ è vasto e profondo, come si conviene
all'infinito popolo che vi si accoglie. In un antico poema anglosassone
si dice che Cristo ordinò a Satana di misurarlo, e Satana trovò che dal
fondo alla porta correvano 100,000 miglia. Giova per altro avvertire
che il gesuita Cornelio a Lapide (1566-1637), autore di dieci volumi
di commento sopra la Sacra Scrittura, afferma non avere l'inferno più
di dugento miglia italiane di larghezza. Un buon teologo tedesco andò
più in là e calcolò che una capacità di un miglio per ogni verso basta
a centomila milioni d'anime dannate, le quali non hanno già a stare al
largo e a loro agio, ma le une sulle altre, pigiate, come le acciughe
nel barile, o gli acini dell'uva nel tino.

Dante ci descrive un inferno geometricamente costruito, diviso in
cerchi, che facendosi sempre più angusti, vanno digradando verso il
centro della terra. Tale struttura si ritrova in alcuni degli imitatori
del divino poeta, ma non in quelli che si possono in qualche modo
chiamare precursori suoi, negli autori delle Visioni. Qui l'inferno
descritto rassomiglia a una regione terrestre, salvo che è più orribile
assai d'ogni più orribile luogo che conoscano gli uomini, e non vede
mai lume di cielo. Vi si trovano montagne dirupate ed ignude, valli
asserragliate e ronchiose, precipizii spalancati, foreste d'alberi
strani, laghi color di bitume, paludi putride e tetre. Lo traversano
per lungo e per largo fiumi pigri o impetuosi, alcuni dei quali
scaturiti dalle viscere dell'Averno antico, l'Acheronte, il Flegetonte,
il Lete, il Cocito, lo Stige, che anche Dante descrive, o ricorda.

Non mancavano nel doloroso regno le città e le castella. Dante dipinge
la città di Dite, vallata d'alte fosse, con le torri eternamente
affocate, con le mura di ferro. Spesso l'inferno tutto intero è
considerato come una gran città, che prende il nome di Babilonia
infernale, e si oppone alla Gerusalemme celeste, come Satana si oppone
a Dio. Immaginate, dice san Bonaventura, una città vasta ed orribile,
profondamente tenebrosa, accesa di oscurissime e terribilissime fiamme,
piena di clamori spaventevoli e di urla disperate; tale è l'inferno.
Un poeta francescano del secolo XIII, Giacomino da Verona, descrisse in
due suoi poemi assai rozzi, ma accesi di fede, le due città contrarie,
l'una a riscontro dell'altra. La Gerusalemme celeste è cinta d'alte
mura, fondata di pietre preziose, munita di tre porte più lucenti che
stelle, adorna di merli di cristallo. Le sue vie e le sue piazze sono
lastricate d'oro e d'argento; i palazzi risplendono nello sfoggio
dei marmi, dei lapislazzuli, dei metalli preziosi. Acque cristaline
corrono per ogni banda e dànno alimento ad alberi meravigliosi, a
fiori soavissimi: l'aria pervasa da un lume divino, è tutta un olezzo,
e vibra di armonie sovrumane. Ben diversa da quella è la Babilonia
infernale.

    La cità è granda et alta e longa e spessa

coperchiata da un irrefrangibile cielo di ferro e di bronzo, murata
tutt'intorno di macigni e di monti, corsa da torbide acque più amare
che il fiele, piena d'ortiche e di spine acute e taglienti come
coltelli, divorata da un furioso e perpetuo incendio. L'aria vi è
pregna d'incomportabile puzzo, sonante di spaventoso fragore.

Tra le cose più notabili di quella terra maledetta è, per testimonianza
di molti, un ponte sottilissimo su cui debbono passare le anime, e
d'onde precipitano nel baratro sottostante tutte quelle cui grava
troppa soma di peccati; immaginosa finzione del lontano Oriente venuta
a cacciarsi, non si sa come, nelle Visioni cristiane del medio evo, se
pure non sorse spontanea tra noi, come sorse spontanea laggiù.

Il doloroso regno ha la sua topografia; ma ha ancora la sua
meteorologia, la sua flora e la sua fauna. Lo infestano venti
impetuosi, gelidi gli uni, gli altri infocati, piogge dirotte che mai
non ristanno, grandine e neve. Le piante cui nutre l'orribile suolo,
sono irte di spine e recan frutti gonfii di tossico. Gli animali, o
sono tali veramente, o son demonii contraffatti, Cerbero, Gerione, cani
rabbiosi, draghi, vipere, rospi, insetti nauseabondi.

In inferno capitavano anime d'ogni qualità e condizione, anime di papi
e d'imperatori, di frati e di cavalieri, di mercanti e di giullari,
di donne impudiche e di fanciulli malvagi; tutte le classi, tutte le
professioni gli pagavan tributo e tributo larghissimo. Il cómpito
principale dell'umanità, il fine de' suoi lunghi travagli pareva
esser quello di vettovagliare l'inferno. Le anime, o erano catturate
e trasportate dai diavoli, o precipitavano nell'abisso come tratte da
una specifica gravità di peccato. Un eremita dell'ottavo secolo, san
Baronto, vide i demonii portar l'anime in inferno con la frequenza
che mostrano le api, quando, fatto il loro bottino, se ne tornano
all'alveare; sant'Obizzo (m. c. 1200) vide cader le anime in inferno
fitte come neve, e santa Brigida dice in una delle sue Rivelazioni che
le anime le quali piombano ogni giorno in inferno sono più numerose
delle arene del mare. Quante ce n'entrano in paradiso? Nessuno lo dice.

Molte volte furono vedute le turbe dei diavoli portare le anime a
volo per l'aria. Così ne fu portata l'anima di Rodrigo, ultimo re dei
Goti di Spagna; così quelle di molti altri scellerati, pari suoi. Ma i
demonii, anche in ciò mutavano modo volentieri. Certi monaci, racconta
Giacomo da Voragine, stavano una volta, prima dello spuntar del
giorno, sulla riva di un fiume, e s'intrattenevano in frivoli ed oziosi
discorsi. A un tratto veggono venir oltre, sull'acqua, una barca piena
di remiganti, i quali remavano con grandissimo impeto. “Chi siete voi?„
chiedono essi. E quelli: “Noi siam demonii, che portiamo all'inferno
l'anima di Ebroino, maggiordomo di Neustria.„ Udendo ciò i monaci
allibiscono di terrore, e gridano: “_Santa Maria, ora pro nobis!_„ —
“Voi fate bene a invocar Maria,„ dicono i demonii, “perchè era nostro
pensiero di lacerarvi e di sommergervi in punizione di questo vostro
cicalar dissoluto e fuor di tempo.„ I monaci non se lo fan ripetere,
e tornano al convento, mentre i demonii si affrettano alla volta
d'inferno.


Del resto i diavoli non si contentavano di portarsi via le anime; ma
spesse volte rapivano vivi gli scellerati, anima e corpo. Cesario di
Heisterbach racconta di un soldato della diocesi di Colonia, giocatore
arrabbiato, il quale una volta giocò a dadi col diavolo e perdette: per
rifarlo della perdita, il diavolo se lo portò via attraverso il tetto
della casa, lasciandone gl'intestini attaccati alle tegole.

Per compiere tali rapine il diavolo prendeva volentieri la forma di
un cavallo nero, o di un cavaliere montato sopra un cavallo nero. Un
giorno Teodorico, vecchio oramai, si stava bagnando, quando udì uno de'
suoi famigli gridare: “Laggiù corre un cavallo nero di tanta bellezza e
vigoria ch'io mai non vidi l'eguale.„ Il principe barbaro balza fuori
dell'acqua, si copre alla meglio e comanda che tosto gli si conducano
il suo proprio cavallo e i suoi cani. Ma tardando i servi a tornare,
egli, impaziente, salta sul cavallo nero, il quale tosto si mette a
fuggire, più rapido di un uccello. Lo insegue, ma indarno, con tutti
i cani sguinzagliati, il miglior cavaliere della scorta. Teodorico,
sentendo essere nel cavallo che lo rapisce alcun che di soprannaturale,
si sforza di scendere, ma non può. Il cavaliere da lungi gli grida:
“Signore, perchè corri tu in cotal guisa, e quando farai ritorno?„ e
quegli: “È il diavolo che mi porta. Tornerò quando piacerà a Dio e alla
Vergine Maria.„

Jacopo Passavanti racconta nel suo _Specchio della vera penitenza_:
“Leggesi iscritto da Elinando, che in Matiscona fu uno conte, il
quale era uomo mondano e grande peccatore, contro a Dio superbo,
contro il prossimo spietato e crudele. Et essendo in grande stato,
con signoria e colle molte ricchezze, sano e forte, non pensava di
dovere morire, nè che le cose di questo mondo gli dovessero venir
meno, nè dovere essere giudicato da Dio. Un dì di Pasqua, essendo
egli nel palazzo proprio attorniato di molti cavalieri e donzelli,
e da molti orrevoli cittadini, che pasquavano con lui; subito uno
uomo iscognosciuto, in su uno grande cavallo, entrò per la porta del
palazzo, senza dire a persona niente; e venendo in sino dove era il
conte con la sua compagnia, veggendolo tutti e udendolo, disse al
conte: Su, conte, lévati su e séguitami. Il quale, tutto ispaurito,
tremando si levò, e andava dietro a questo isconosciuto cavaliere, al
quale niuno era ardito di dire nulla. Venendo alla porta del palazzo,
comandò il cavaliere al conte, che montasse in su uno cavallo che ivi
era apparecchiato; e prendendolo per le redini e traendolosi dietro,
correndo alla distesa, lo menava su per l'aria, veggendolo tutta
la città, traendo il conte dolorosi guai, gridando; Soccorretemi,
o cittadini, soccorrete il vostro conte misero, isventurato. E così
gridando, sparì dagli occhi degli uomini, e andò a essere senza fine
nello inferno co' demonii.„ Prima che dal Passavanti e da Elinando, si
trova narrata una storia in tutto simile da Pietro il Venerabile nel
suo libro _De Miraculis_.

In questo lor mestiere d'acchiappar le anime, o anche gli uomini vivi,
i diavoli non la guardavano tanto pel sottile, e spesso mettevan le
mani addosso a chi non dovevano. Morto l'imperatore Enrico II, un
eremita vide una turba di diavoli portarne l'anima, sotto forma di un
orso, al giudizio, che riuscì favorevole al prigione. Gregorio Magno
racconta la storia di certo uomo nobile per nome Stefano, il quale,
essendo in Costantinopoli subitamente ammalò e morì. Condotto dinanzi
al giudice infernale, il morto udì questo gridare: “Io ho ordinato
di portar giù Stefano ferrajo e non costui.„ Incontanente fa ritorno
al mondo Stefano nobile, e Stefano ferrajo muore in suo luogo. Altri
esempii, e più strani ancora, di anime mandate e rimandate non mancano.
Eccone uno raccontato da Tommaso Cantipratense. Muore un fanciullo
disobbediente, e i diavoli ne ghermiscono l'anima per portarla in
inferno. Sopraggiunge l'arcangelo Michele, che la toglie loro, e la
porta in cielo. Quivi un vecchio (certamente san Pietro) si oppone al
suo ingresso, e ordina a Michele di rimetter l'anima nel corpo suo.


All'inferno era facilissimo andare come inquilino perpetuo;
difficilissimo, per contro, l'andarci come semplice visitatore. Ciò
nondimeno molti lo visitarono, a cominciare dalla Vergine Maria, che
vi andò accompagnata dall'arcangelo Michele, e da numerosa schiera di
angeli, secondo è narrato in certa apocalissi greca. Subito dopo lei
v'andò san Paolo, secondo una leggenda molto divulgata nel medio evo,
e che Dante certamente conobbe. Sì fatte discese nel regno dei dannati
solevano essere effetto della divina grazia, sollecita della salute
di alcun peccatore, o di quella di un intero popolo, dimentico dei
precetti e degli ammonimenti divini; ma non sempre la grazia c'entrava,
almeno in modo diretto. San Gutlaco, di cui ho già ricordato più di una
volta il nome, è assalito nella sua cella, una notte, da una legione
di diavoli, che con molti tormenti lo trascinano a vedere le pene
dell'inferno. Ugone d'Alvernia, l'avventuroso cavaliere, va in inferno
per ordine espresso del suo re, che voleva tributo da Lucifero. L'anno
1218 un conte di Geulch offre gran premio a chi sappia dargli notizia
della condizione del padre, morto poco innanzi. Un intrepido cavaliere
offre i suoi servigi, scende con l'ajuto di un negromante in inferno,
e quivi trova il vecchio conte, il quale dice che le pene gli saranno
alleviate, se si restituiranno alla Chiesa certi beneficii da lui tolti
indebitamente. Quando la grazia divina operava in modo diretto, un
angelo soleva guidare il visitatore.

La visita poteva compiersi in ispirito soltanto, e anche corporalmente.
Nel primo caso si aveva la visione propriamente detta; nel secondo, una
vera e propria peregrinazione. Le visioni toccavano di solito a chi era
in istato di sovreccitazione mentale, o spossato da lunga infermità:
mentre l'anima viaggiava per conto suo, il corpo rimaneva in istato di
profondo letargo, simile alla morte. Io non debbo qui entrar nell'esame
delle condizioni psicologiche e patologiche del fenomeno; mi basta
di recar qualche esempio. San Furseo, monaco irlandese del settimo
secolo, essendo ammalato da tre giorni, fu condotto a vedere le pene
dell'inferno da due angeli, preceduti da un altro angelo, che aveva
una spada sfavillante e uno scudo luminoso. Una notte, Carlo il Grosso
stava per coricarsi, quando udì una voce terribile gridargli: “Carlo,
l'anima tua lascerà il corpo, e sarà condotta a vedere i giudizii di
Dio;„ e così fu. Alberico, figliuolo di un barone della Campania, fu
soprappreso, all'età di nove anni, da un deliquio che durò nove giorni,
durante il qual tempo, guidato da san Pietro e da due angeli, visitò
l'inferno e il paradiso. L'anno 1149, un cavaliere irlandese per nome
Tundalo, uomo empio e di mali costumi, fu pressochè ucciso con un
colpo di scure da un suo debitore. Rinsensato, raccontò ciò che aveva
veduto delle cose dell'altro mondo. Altri invece, come Ugone d'Alvernia
e Guerino il Meschino, già ricordati, e il cavaliere Owen, andarono
all'inferno in carne ed ossa, imitando gli esempii di Ulisse e di Enea.
Dante v'andò allo stesso modo.

Comunque ci si andasse del resto, col corpo o senza il corpo, l'andata
non era senza pericolo: san Furseo portò tutto il tempo di vita sua le
tracce del fuoco infernale che l'aveva tocco. I demonii vedevano assai
mal volentieri aggirarsi pel regno loro chi non doveva restarci, e
si studiavano di nuocere in tutti i modi agli intrusi. Essi tentarono
di uncinar Carlo il Grosso con uncini arroventati, e di afferrare con
ignee tenaglie un buon uomo di Nortumbria di cui narra la visione il
Venerabile Beda. Il giovane Alberico, il cavaliere Owen, altri assai,
furono da loro in varii modi minacciati o tormentati. Senza l'ajuto di
Virgilio e del messo celeste, Dante si sarebbe trovato più d'una volta
a mal partito.



CAPITOLO XI.

ANCORA L'INFERNO.


L'inferno c'è per comun punizione dei dannati e dei diavoli, dei
tormentati e dei tormentatori. Satana ha in se più qualità e più
officii, che pajono, a primo aspetto, non potersi conciliare fra
loro. Cagion prima del male nel mondo, suscitatore instancabile di
peccato, e seduttore perpetuo di anime, egli è nel tempo stesso il
gran giustiziere, egli è colui per la cui opera il male è represso e il
peccato si espia.

Non è così picciolo atto, nè così tenue pensiero, nella vita e nella
mente degli uomini, di cui i demonii non serbino memoria, quando siavi
in quelli alcuna parte, alcun fermento di colpa. Sant'Agostino vide
una volta un diavolo che recava sulle spalle un grandissimo libro,
dove erano notati per ordine tutti i peccati degli uomini. Più spesso
c'era per ogni singolo peccatore un particolar volume, ponderoso e
tetro, che i diavoli portavano ostentatamente in giudizio, opponendolo
al piccioletto ed aureo in cui l'angelo custode aveva amorosamente
descritte le azioni buone e meritorie, e scaraventandolo talora, con
iscalpore e con ira, in uno dei piatti della bilancia divina. In più
chiese del medio evo, come, per esempio nel duomo di Halberstadt, si
vede dipinto il diavolo che scrive i nomi di coloro i quali dormono
nella casa di Dio, o chiacchierano, o in altro modo non serbano
il contegno dovuto. Nella vita di sant'Aicadro si legge che avendo
un pover uomo osato di tagliarsi i capelli in giorno di domenica,
fu veduto, appiattato in un angolo della casa, il diavolo, che
frettolosamente scriveva il peccato sopra un foglietto di pergamena.


Di regola il peccatore indegno di misericordia è punito in inferno;
ma talvolta Satana, coltolo sul fatto, anticipa la vendetta divina e
lo castiga mentre è ancor vivo. Gli uccisori di san Regolo, vescovo,
furono strozzati, l'assassino di san Godegrando fu portato via dal
diavolo; certa donna di mala vita, che voleva trascinare al peccato
sant'Elia Speleota, fu da lui conciata pel dì delle feste. Se non mente
lo storico Liutprando, il pessimo pontefice Giovanni XII fu ammazzato
a furia di legnate dal diavolo, che lo colse in letto, fra le braccia
di una concubina; e sì che il pontefice usava, mentr'era vivo e sano,
di bere alla salute di colui che doveva fargli fare così misera fine.
Fra Filippo da Siena racconta la terribile storia di certa donna
non meno vana che leggiadra, usa di spendere l'ore in lisciarsi ed
ornarsi, la quale fu una bella volta lisciata dal diavolo, e sfigurata
in modo che di vergogna e di paura se ne morì. Ciò avvenne in Siena,
l'anno di grazia 1322. Ai 27 di maggio del 1562, alle sette ore di
sera, nella città di Anversa, il diavolo strangolò una fanciulla,
che invitata a nozze, aveva osato comperare certa tela a nove talleri
il braccio, per farsene uno di quei collari crespi a ventaglio, come
usavano allora. Spesso il diavolo picchia, strozza, o porta via chi si
mostra irriverente alle reliquie, o deride le sacre cerimonie; entra
in corpo a chi assiste distrattamente alla messa; rimprovera ad alta
voce, con gran confusione dei colpevoli, peccati secreti. Spesso il
furore diabolico non si cheta se non dopo essersi esercitato anche
sul cadavere del peccatore, e molte orribili storie si raccontano di
corpi che furono strappati a furia fuor delle chiese, o bruciati negli
avelli, o lacerati a brani.


Santa Teresa chiese una volta a Dio di poter fare, per propria
edificazione, un piccolo saggio delle pene dell'inferno. Le fu
conceduta la grazia, e dopo sei anni il ricordo dello strazio sofferto
la gelava ancora di terrore. Sono molte le storie in cui si narra di
dannati usciti per breve ora dall'inferno, a solo fine di dare a' vivi
alcun segno delle inenarrabili torture a cui vanno soggetti. Jacopo
Passavanti racconta quella di Ser Lo, maestro di filosofia in Parigi,
e di certo suo scolare, “arguto e sottile in disputare, ma superbo e
vizioso di sua vita,„ il quale essendo morto, apparve dopo alquanti
giorni al maestro, e gli disse d'essere dannato, e per fargli conoscere
in qualche modo l'atrocità dei tormenti che pativa, scosse un dito
sovra la palma della mano di lui, facendovi cadere una piccola goccia
di sudore, che “forò la mano dall'uno lato all'altro con molto dolore e
pena, come fosse stata una saetta focosa et aguta.„

Le pene infernali sono, al dir dei teologi, non solo continue nel
tempo, ma continue ancora nello spazio, in questo senso, che non è
nel dannato neppur una minima particella che non soffra intollerabile
strazio, e sempre egualmente intenso. Strumento principale di pena è
il fuoco. Origene, Lattanzio, san Giovanni Damasceno, credettero che
il fuoco infernale fosse un fuoco puramente ideale e metaforico; ma la
grande maggioranza dei Padri tenne contraria opinione, e sant'Agostino
disse che se i mari tutti della terra confluissero in inferno non
potrebbero temperarvi l'ardore delle orribili fiamme che perpetuamente
vi divampano. Oltre il fuoco v'è il ghiaccio, vi sono i venti impetuosi
e le piogge dirotte, vi sono animali orribili, e mille qualità di
tormenti, che i diavoli inventano e adoprano. San Tommaso prova che
i diavoli hanno il diritto e il dovere di tormentare i dannati; che
essi fanno quanto possono per ispaventarli e torturarli, e che per
giunta li deridono e li scherniscono. La pena maggiore ad ogni modo
viene ai dannati dall'esser privi in eterno della beatifica visione di
Dio, e dall'aver conoscenza della letizia dei santi. Su quest'ultimo
punto per altro gli scrittori non troppo si accordano, essendovene
alcuni i quali affermano che i santi vedono le pene dei reprobi, ma
questi non vedono il gaudio di quelli. San Gregorio Magno assicura
che le pene dei dannati sono agli eletti gradito spettacolo, e san
Bernardo di Chiaravalle si scalmana a dimostrare che i beati godono
dello spettacolo che i tormenti dei dannati offrono alla lor vista,
e ne godono per quattro ragioni propriamente: la prima, perchè quei
tormenti non toccano a loro; la seconda, perchè dannati tutti i rei,
non potranno i santi più temere malizia alcuna, nè diabolica, nè umana;
la terza, perchè la loro gloria apparirà, per ragion di contrasto,
maggiore; la quarta, perchè ciò che piace a Dio deve piacere ai giusti.

E certo lo spettacolo era tale, per varietà ed intensità, da appagare
qualsivoglia più difficile gusto. Procuriamo di farcene spettatori
anche noi un istante, almeno con la fantasia, e a tal fine mettiamoci
dietro a qualcuna di quell'anime pellegrine ch'ebbero in sorte di
visitare il _regno della morta gente_.


Un monaco per nome Pietro, di cui fa memoria Gregorio Magno in uno de'
suoi Dialoghi, vide le anime dannate immerse in uno sterminato mare
di fiamme. Furseo vide quattro gran fuochi, alquanto distanti l'uno
dall'altro, nei quali penavano quattro diverse classi di peccatori,
e molti demonii affaccendati intorno ad essi. Queste visioni sono
tra le più antiche, appartenendo esse al VI ed al VII secolo, e ne
mostrano una pena non ancora differenziata, una pena semplice ed unica:
nelle visioni de' tempi che seguono cresce a poco a poco la varietà
e la complicazion dei castighi, e l'inferno si rivela in tutta la
molteplicità degli orrori e de' terrori suoi.

Il monaco Wettin, di cui narrò la visione in sul principiare del
secolo IX un abate del monastero di Reichenau, giunse, scortato da un
angelo, a certi monti d'incomparabile altezza e bellezza, che parevano
essere di marmo, e cui cingeva da piede un grandissimo fiume di fuoco.
In quell'onde era immersa una innumerevole moltitudine di dannati,
e altri dannati erano in mille altri modi tormentati. In un gran
fuoco si vedevano molti ecclesiastici, di vario grado, legati a certi
pali, ciascuno rimpetto alla propria concubina, similmente legata, e
l'angelo disse a Wettin che quei peccatori erano flagellati nelle parti
genitali tutti i giorni della settimana meno uno. In un castello tetro
e fuligginoso, dal quale denso fumo esalava, stavano prigioni alcuni
monaci, ed un di loro era, per giunta, rinserrato in un'arca di piombo.


Ben più vario l'inferno veduto dal monaco Alberico in principio del XII
secolo, quand'era ancora fanciullo. In una valle spaventosa molte anime
stavano immerse nel ghiaccio, alcune sino alla caviglia, o sino al
ginocchio solamente, altre sino al petto, altre sino al capo. Sorgeva
più oltre un terribile bosco, formato di alberi alti sessanta braccia,
e irti di spine, da' cui rami aguzzi e taglienti pendevano per le
mammelle quelle triste donne che ricusarono di nutrire del loro latte i
bambini orfani di madre; due serpi suggevano a ciascuna il mal ricusato
seno. Per una scala di ferro rovente, alta trecentosessantacinque
cubiti, salivano e scendevano coloro che nelle domeniche e nelle
feste dei santi non seppero astenersi dalla copula, e quando l'uno,
quando l'altro di essi precipitava in una gran caldaja piena d'olio,
di pece e di resina, che bolliva da basso. In terribili fiamme, simili
a quelle di una fornace, erano puniti i tiranni; in un lago di fuoco
gli omicidi; in uno smisurato tegame, pieno di bronzo, di stagno, di
piombo in fusione, mescolati con zolfo e con resina, i parrocchiani
poco zelanti che tollerarono le scostumatezze dei loro parroci. Si
spalancava più oltre, simile ad un pozzo, la bocca del più profondo
baratro infernale, pieno di tenebre orrende, di fetore e di strida.
Ivi presso era legato con una catena di ferro un serpente smisurato,
dinanzi a cui stava, sospesa in aria, una moltitudine di anime; ed ogni
volta che traeva a sè il fiato, il serpente ingozzava di quelle anime,
non altrimenti che se fossero mosche, e quando emetteva il fiato, le
vomitava accese a guisa di faville. I sacrileghi bollivano in un lago
di metallo liquefatto, le cui onde si agitavano crepitando; in un altro
lago, formato d'acqua sulfurea, pieno di serpenti e di scorpioni,
annegavano in perpetuo i traditori e i falsi testimoni. I ladri e i
rapinatori erano legati con gran catene di ferro arroventate, e loro
pendevano dal collo gravi pesi, similmente di ferro.


Ma di quante descrizioni dell'inferno ci tramandò il medio evo, la
più terribile, quella in cui più grandeggia la poesia dell'orrore,
e in cui è maggior dispendio di fantasia inventiva, è la descrizione
che si legge nella Visione di Tundalo, ricordata più sopra. Sfuggita
dalle mani d'infiniti demoni, l'anima di Tundalo, guidata da un
angelo luminoso, giunse, attraverso fittissime tenebre, in una orribil
valle, piena di carboni ardenti, e coperchiata da un cielo di ferro
arroventato dello spessor di sei cubiti. Su quell'immane coperchio
piovono senza intermissione le anime degli omicidi, e quivi, penetrate
dallo spaventoso calore, si struggono come il lardo nella padella, e
liquefatte, colano attraverso il metallo, come fa la cera attraverso
il panno, e sgocciolano sui carboni sottostanti, dove tornano nel
primo stato, rinnovate all'eterno tormento. Più oltre è una montagna
di meravigliosa grandezza, piena d'orrore in vasta solitudine. Vi si
accede per un angusto sentiero, che dall'una parte ha fuoco putrido,
sulfureo e tenebroso, e dall'altra grandine e neve. Il monte è pieno
di demonii, armati di roncigli e di tridenti, i quali demonii assalgon
le anime degli insidiatori e dei perfidi che si mettono per quel
sentiero, e le travolgono giù, e con perpetua vicenda le scaraventano
dal fuoco nel ghiaccio e dal ghiaccio nel fuoco. Ecco un'altra valle,
tanto cupa e tenebrosa che non se ne vede il fondo. L'aria vi mugghia
pel rombo di un fiume sulfureo che corre laggiù, e per l'incessante
ululo dei dannati, mentre la ingombra un fumo d'incomportabil fetore.
Unisce le opposte pareti di quella voragine un ponte lungo mille
passi, largo non più di un piede, e impervio ai superbi, che da esso
precipitano nei tormenti senza fine. Dopo lungo e malagevol cammino,
si scopre all'anima esterrefatta una bestia, più grande che le più
grandi montagne, e piena in vista d'intollerabile orrore. Gli occhi
suoi pajono due colline ardenti, e la bocca è così smisurata che
vi potrebbero capire novemila uomini armati. Due giganti tengono, a
guisa di colonne immani, spalancata quella bocca, d'onde erompe un
inestinguibile incendio. Sollecitate e sforzate da un esercito di
demonii, le anime degli avari si precipitano contro le fiamme, entrano
nella bocca, e dalla bocca sono travolte nel ventre del mostro, d'onde
si sprigiona l'urlo di miriadi di tormentati. Vien poscia uno stagno,
grandissimo e procelloso, pieno di bestie muggenti e terribili,
attraversato da un ponte lungo due miglia, largo un palmo, irto di
acutissimi chiodi. Le bestie si raccolgono lungo il ponte, sbuffando
vampe di fuoco, e inghiottono le anime tutte che ne cadono, le quali
sono di ladri e di rapinatori. Da un edificio smisurato, rotondo,
e simile a un forno, guizzano fiamme che a mille passi di distanza
mordono e brucian le anime. Davanti alle porte, in mezzo all'incendio,
stanno carnefici diabolici, muniti di coltelli, di falci, di trivelle,
di scuri, di zappe, di vanghe, e d'altri strumenti, coi quali scojano,
decapitano, forano, squartano, frastagliano, per poi darle al fuoco,
le anime dei golosi. Più là siede sopra uno stagno gelato una bestia
disforme da tutte l'altre, la quale ha due piedi, due ali, lunghissimo
collo, e un rostro di ferro che erutta fiamme inestinguibili. Questa
bestia divora quante anime le vengono a tiro, e le digerisce, e
digerite che l'ha, come si fa del cibo le espelle. La poltiglia delle
anime cade sullo stagno gelato, dove ciascun'anima si rintegra, e
rintegrata, subito ingravida, sia femmina o maschio. La gravidanza
segue il naturale suo corso, e durante quel tempo le anime stanno sul
ghiaccio, e si sentono lacerare le viscere dalla prole concetta. Venuto
il termine partoriscono, così gli uomini come le donne, e partoriscono
bestie mostruose, che hanno capi di ferro rovente, e rostri acutissimi,
e code irte di uncini. Tali bestie escono da qualsivoglia parte del
corpo, e nell'uscire stracciano e si traggono dietro le carni e le
viscere, graffiando, azzannando, ruggendo; e questa è la pena dei
lussuriosi, e più specialmente di coloro che, entrati al servigio di
Dio, non seppero signoreggiare la carne. In altra più remota valle
son molte fucine, e innumerevoli demonii in figura di fabbri ferrai,
i quali afferrano le anime con tenaglie ardenti, e le gettano sulla
bragia perpetuamente avvivata dal soffio dei mantici; poi, quando
quelle son fatte roventi e malleabili, con gran forconi di ferro
le traggon dal fuoco, e ammassatene insieme venti o trenta, o anche
cento, gettano quella massa ignea sopra le incudini, e con i magli
la percuotono a gara, e così martellata e compressa la scaglian per
l'aria ad altri non meno terribili fabbri, che riafferratala con le
ferree tenaglie ricominciano il giuoco. Lo stesso Tundalo è sottoposto
al supplizio, il quale è preparato a coloro che cumulano peccato sopra
peccato. Sostenuta la formidabile prova, l'anima perviene alla bocca
dell'ultima e più profonda voragine infernale, simile in figura ad una
cisterna quadrangolare, d'onde esala un'altissima colonna di fuoco e di
fumo. Un'infinita moltitudine di anime e innumerevoli demonii salgono
dentro quella colonna a guisa di faville, poi ricadon nel baratro.
Ivi, nella più remota e spaventosa profondità dell'abisso, stassi il
principe delle tenebre, steso e legato sopra una enorme graticola di
ferro, e assiepato di demonii, che attizzano sotto a quella, e avvivano
coi mantici, i carboni crepitanti. Esso è di smisurata grandezza,
negro come le penne del corvo, e mille mani, armate di ferrei artigli,
agita nelle tenebre, e divincola una lunghissima coda, tutta aspra di
dardi acutissimi. Freme e si torce l'orribile mostro, e furiando di
dolore e di rabbia, avventa quelle mille sue mani per l'aria tenebrosa,
tutta impregnata di anime, e quante ne coglie tante si spreme
nell'arsa bocca, come dì un grappolo d'uva fa il villano assetato;
poi, sospirando, le soffia fuori e le sparpaglia, e quando riprende
il fiato, tutte a sè le ritrae novamente. Così sono puniti coloro che
non isperarono nella misericordia di Dio, o in Dio non credettero, e
così pure gli altri peccatori tutti, i quali, sostenuti alcun tempo
gli altri tormenti, sono da ultimo assoggettati a quello, supremo ed
eterno.


Altri descrisse l'inferno più propriamente simile a un'immensa e
orrenda cucina, e a uno spaventoso tinello, dove i diavoli fanno da
cuochi e da banchettanti, e le vivande sono di anime di dannati, in
varii modi preparate ed acconce. Il già ricordato Giacomino da Verona
dice che il cuoco Belzebù, mette l'anima ad arrostire _com'un bel porco
al fogo_, la condisce con una salsa fatta di acqua, sale, fuliggine,
vino, fiele, aceto forte, e uno schizzo di veleno buono, e così
appetitosamente concia, la fa servire in tavola al re dell'inferno, il
quale, assaggiatala, tosto la rimanda indietro, non parendogli cotta
abbastanza. Un trovero francese dei tempi di Giacomino, Radulfo di
Houdan, descrive in certo suo poemetto intitolato _Le songe d'enfer_,
un gran banchetto infernale, cui gli fu dato di assistere, un giorno
che il re Belzebù teneva corte bandita e generale concilio. Appena
entrato in inferno, egli vide una gran moltitudine affaccendata in
apparecchiar le tavole. Entrava chi voleva, e non si rimandava indietro
nessuno. Vescovi, abati e chierici lo salutarono caramente; Pilato e
Belzebù gli diedero il benvenuto; e, giunta l'ora, tutti sedettero
a mensa. Più pomposo banchetto, e più rari cibi non vide mai corte
di re. Le tovaglie erano fatte di pelli di usurai, e i tovaglioli di
pelli di vecchie bagasce: serviti e inframmessi non lasciavan nulla a
desiderare: usurai grassi lardellati, ladri e assassini in guazzetto,
baldracche in salsa verde, eretici allo spiedo, lingue fritte di
avvocati, e più manicaretti d'ipocriti, di frati, di monache, di
sodomiti, e d'altro buon selvaggiume. Il vino mancava; chi aveva sete
beveva spremitura di villanie.


I diavoli avevano officio di aguzzini e di carnefici. Ad essi toccava,
come si è veduto, arrostire, lessare, scorticare, squartare le
anime. Tale officio aveva le sue suddivisioni e i suoi gradi; e come
i tormentati erano distribuiti per le regioni infernali secondo il
peccato loro chiedeva, così erano distribuiti i tormentatori, secondo
chiedeva il castigo alle speciali loro cure affidato; e come ciascuna
colpa aveva proprii diavoli instigatori, così aveva proprii diavoli
punitori. Ma i punitori, mentre attendevano a quell'ufficio, sentivano
essi il castigo meritato dalla malvagità loro? erano essi straziati nel
tempo stesso che straziavano?

Intorno a ciò sono varie opinioni. Non mancano scrittori, e di gran
credito, i quali affermano che i diavoli non soffrono delle pene
infernali, perchè se ne soffrissero, assai di mal animo potrebbero
attendere all'officio di tentare e di tormentare, officio ch'essi
mostrano, per contro, di esercitare con singolare compiacimento. Nelle
Visioni, come nel poema di Dante, Lucifero suol essere assoggettato
nell'ultimo fondo d'inferno, e in conformità di quanto è detto
nell'Apocalissi, ad asprissimo supplizio; ma degli altri demonii non
si dice, di solito, che patiscano gravi tormenti. Che alcuna volta
si tormentassero a vicenda, si azzuffassero e si picchiassero, sembra
più che naturale, e se ne può vedere esempio nella visione stessa di
Tundalo e nella _Divina Commedia_, là dove è descritta la bolgia dei
barattieri. Nè ai maledetti mancavano svaghi e godimenti. Come ogni
opera buona era loro cagion di tormento, così era cagion di letizia
ogni opera rea, e quanto sappiamo dell'andamento delle cose umane
lascia supporre ch'essi avessero assai più frequente occasione di
rallegrarsi che di dolersi. Spesso, nelle pietose leggende, si veggono
i diavoli far grande tripudio intorno all'anima che diventa loro
concittadina. Dice Pietro Cellense (m. 1183) in uno de' suoi sermoni
che il diavolo, sommerso nelle fiamme infernali, sarebbe morto di fame
da un pezzo, se non lo rifocillassero i peccati degli uomini; e Dante
assicura che egli in inferno si placa vedendo le cose di questo mondo
andare a modo suo. Anche ammettendo che la pena dei diavoli fosse
gravissima, refrigerio non le mancava.


I teologi sono comunemente d'accordo nel dire che in purgatorio non ci
sono demonii a tormentare le anime; ma moltissime Visioni rappresentano
il purgatorio pieno anch'esso di diavoli, intesi a farvi il consueto
officio di tormentatori. La Chiesa, che solo nel 1439, nel concilio
di Firenze, fermò il dogma del purgatorio, la cui dottrina era stata
innanzi svolta da san Gregorio e da san Tommaso, non si pronunziò sopra
questo punto particolare. Dante, che quanto alla situazione e alla
struttura del purgatorio ha immaginazioni e concetti tutti proprii,
quanto alla relazione di esso coi demonii tiene la opinion dei teologi
e lascia quella dei mistici. L'antico avversario tenta, gli è vero, di
penetrare nel purgatorio del poeta in forma di biscia,

    Forse qual diede ad Eva il cibo amaro;

ma gli angeli, gli _astor celestiali_, lo volgono in fuga. Sia qui
notato di passaggio che le pene del purgatorio furono da taluno credute
più aspre che non quelle dell'inferno, e ciò perchè non duravano
eterne, come l'altre duravano.


L'inferno era l'ordinaria dimora dei dannati, e il luogo dov'essi
soffrivano regolarmente il meritato castigo; ma non si creda che la
regola fosse a dirittura senza eccezione. Lasciando stare per ora certi
dannati avventurosi che per ispecialissima grazia divina furono tratti
dall'abisso e ammessi in cielo, dei quali avrò a parlare più oltre,
si vuol notare che i dannati potevano in certi determinati casi, e
per un tempo più o meno lungo, uscire dalla lor prigione, e che c'era
pure, se così può dirsi, un inferno fuori dell'inferno. Apparizioni di
dannati erano, come s'è veduto, frequenti; ma nulla giovava ad essi
l'essere fuori del luogo consueto di pena, perchè la pena li seguiva
lo stesso, come l'ombra il corpo. Altri dannati non erano ricevuti
in inferno, ma penavano in qualche strano luogo della terra, forse
perchè potessero essere di salutare ammaestramento a chi, peregrinando,
s'imbatteva in loro. Così è che san Brandano, navigando alla scoperta
del Paradiso terrestre, trovò in un gran gorgo di mare il massimo dei
rei, Giuda Iscariote, perpetuamente sbattuto dall'onde infuriate; e
che uno degli eroi della leggenda epica carolingia, Ugone di Bordeaux,
errando in Oriente, trovò Caino chiuso in una botte di ferro, irta
dentro di chiodi, la quale andava senza posa ruzzolando per un'isola
deserta. Giovanni Boccaccio, rifacendo a modo suo più antichi racconti,
narra la paurosa storia di quel Guido degli Anastagi, che uccisosi di
propria mano per disperazione d'amore, e dannato agli eterni castighi,
insegue ogni giorno, quando per questa, quando per quella campagna,
montato sopra un cavallo nero, con uno stocco in mano, e due mastini
innanzi, la donna spietata e crudele, dannata ancor essa, la quale
a piedi e ignuda gli fugge davanti, finchè raggiuntala, egli con lo
stocco la trafigge, con un coltello la spara, e il cuore e gli altri
visceri getta in pastura ai cani affamati. Stefano di Borbone (m.
c. 1262) parla di certi fantasmi che, in luogo prossimo all'Etna, si
vedevano, tutta la settimana, affaccendati a costruire un castello, il
quale precipitava nella notte del sabato, e per opera loro ricominciava
a sorgere dalle fondamenta la mattina del lunedì; ma sembra fossero
piuttosto anime purganti che dannate.

Più d'una volta fu veduto, nel colmo della notte, l'intero popolo
infernale andare a processione, per l'aria, o passar per un bosco, con
ordinanza come di sterminato esercito in marcia. Il monaco Otlone,
vissuto sin verso la fine del secolo XI, racconta di due fratelli,
che cavalcando un giorno, videro improvvisamente nell'aria una turba
grandissima, la quale passava non molt'alto da terra. Esterrefatti,
chiesero, facendosi il segno della croce, a quegli strani viaggiatori
chi fossero. Uno, che pel cavallo che montava e per le vesti, sembrava
cavaliere di conto, si diede loro a conoscere, dicendo: “Io sono
il padre vostro, e se voi non rendete al convento, cui lo tolsi
ingiustamente, il fondo che sapete, sarò irremissibilmente dannato, e
con me saranno tutti i successori miei che terranno il maltolto.„ Il
padre dà ai figliuoli un saggio degli orribili tormenti che soffre,
e i figliuoli riparano la colpa di lui, e in tal modo lo liberano
dall'inferno.

Ma una storia più meravigliosa e spaventosa di questa trovasi narrata
da un altro monaco, il cronista Orderico Vital, vissuto sin verso il
mezzo del XII secolo. Un prete di nome Gualchelmo, curato di Bonneval,
tornava una notte dell'anno 1091 dall'aver visitato un infermo, lungi
un buon tratto dalla sua casa. Mentr'egli attraversava i campi deserti,
illuminati dalla luna che alta splendeva nel cielo, gli percosse
l'orecchio un rumor vasto e formidabile, come di grandissimo esercito
che valicasse. Preso dallo spavento, fa per nascondersi tra certe
piante, che quivi erano, quand'ecco un gigante, armato di una smisurata
mazza, gli vieta il passo, e senza altrimenti nuocergli, gl'ingiunge di
non muoversi. Il prete resta come inchiodato, e assiste a uno strano e
terribile spettacolo. Passa da prima una turba innumerevole di pedoni,
i quali trascinano con sè grande quantità di bestiame, e vanno carichi
d'ogni sorta di masserizie. Si lamentano tutti in grave modo, e l'un
l'altro sollecita. Segue una torma di sotterratori, i quali recano
cinquanta feretri, e su ciascun feretro siede un orribile nano, con
capo enorme, a guisa di dolio. Sopra un gran tronco, che due tenebrosi
etiopi recano in ispalla, è strettamente legato un malvagio uomo, il
quale empie l'aria di orrendi ululati. Un mostruoso demonio gli sta
sopra a cavalcioni, e con isproni affocati gli lacera il tergo ed i
lombi. Viene dopo una cavalcata senza fine, tutta di donne peccatrici:
il vento solleva ogni tratto quegli aerei lor corpi all'altezza di un
cubito, e subito li lascia ricader sulle selle irte di chiodi roventi.
Alla cavalcata s'accoda una schiera di ecclesiastici d'ogni condizione,
e a questa tien dietro un esercito di cavalieri, vestiti di tutte
le armi, cavalcanti corsieri grandissimi, e spieganti all'aria negri
vessilli. Il prete ha con uno di quei cavalieri un colloquio che qui
non importa riferire: il cronista Orderico afferma d'avere udito dalla
stessa bocca di lui l'intero racconto.


Nell'Apocalissi detta di san Giovanni si legge che lo strazio dei
dannati durerà nei secoli, e non avrà lenimento nè di giorno, nè di
notte, e gli scrittori ecclesiastici sono unanimi in affermare che
Dio abbandona affatto i dannati e si scorda di loro. San Bernardo dice
esplicitamente, in uno de' suoi sermoni, che in inferno non è luogo a
indulgenza, come non è possibilità di penitenza. È questa la opinione
fermata dalla rigida teologia dogmatica; ma ad essa un'altra opinione
contrasta, suggerita da una teologia più tollerante e più umana, da
una teologia che ignora le sottigliezze della dialettica, e vien dal
cuore per andare al cuore; e secondo quest'altra opinione la infinita
misericordia di Dio non si ferma dinanzi alle porte dell'inferno,
ma, come un raggio di luce benefica, penetra nell'abisso, e consola
di alcun blandimento e di alcuna requie le torture inenarrabili dei
dannati.

Il poeta cristiano Aurelio Prudenzio (c. 348-408?) parla, in un
suo inno, di riposo conceduto alle anime dannate, la notte della
risurrezione di Cristo. In un'apocrifa apocalissi di san Paolo,
composta verso la fine del quarto secolo da un qualche monaco greco, si
racconta una discesa dell'apostolo delle genti nel regno dell'eterna
perdizione. Guidato dall'arcangelo Michele, l'apostolo ha già tutto
percorso il _doloroso regno_, ha veduto i varii ordini di peccatori e
gli aspri castighi a cui li assoggetta la divina giustizia, ha versato
a quella vista lacrime di pietà e di dolore. Egli sta per togliersi
all'orror delle tenebre, quando i dannati gridano ad una voce: “O
Michele, o Paolo, movetevi a compassione di noi; pregate per noi il
Redentore!„ L'arcangelo dice loro: “Piangete tutti, ed io piangerò
con voi, e con me piangeranno Paolo e i cori degli angeli: chi sa che
Dio non v'usi misericordia.„ E i dannati gridano: “Miserere di noi,
figliuolo di David!„ ed ecco scende dal cielo Cristo incoronato, e
rinfaccia ai reprobi la malvagità loro, e ricorda il sangue inutilmente
per essi versato. Ma Michele, e Paolo, e migliaja di migliaja di
angeli, s'inginocchiano dinanzi al figliuolo di Dio, e chiedono
misericordia; e Gesù, mosso a pietà, concede alle anime tutte che sono
in inferno tanta grazia che abbiano requie, e sieno senza tormento
alcuno, dall'ora nona del sabato all'ora prima del lunedì.

Questa, che è forse la più bella tra quante leggende divote nacquero
dalla fantasia cristiana, ebbe più tardi, volta di greco in latino, e
di latino in varii volgari d'Europa, grande divulgazione e celebrità,
e gli è più che probabile che Dante l'abbia conosciuta e n'abbia fatto
ricordo nel suo poema divino; ma il pensiero che la informa non le
è così proprio che anche in più altre leggende del medio evo non si
ritrovi. San Pier Damiano racconta sulla fede dell'arcivescovo Umberto:
Presso a Pozzuoli sorge, fra acque fetide e negre, un promontorio
sassoso e ronchioso. Da quell'acque pestifere sogliono levarsi, a tempi
determinati, uccelli spaventosi, i quali si lasciano vedere dal vespro
del sabato sino al mattino del lunedì. Durante questo tempo volano
come emancipati, di qua e di là intorno al monte, spandono l'ale, si
ravviano col becco le piume, e pajono godere di alcun refrigerio e
di alcun riposo loro conceduto. Nessuno mai li vide cibarsi, nè v'è
cacciatore che possa, per qualunque ingegno v'adoperi, insignorirsene.
Come appar l'alba del lunedì, ecco sopraggiunge un corvo, di grandezza
simile a un avvoltoio, e comincia con un gracchiar grave a sollecitar
quegli uccelli, e a cacciarseli innanzi. Essi, gli uni dopo gli altri,
s'immergono tutti nello stagno, e più non si lasciano vedere sino al
sabato seguente; onde da alcuni si crede sieno anime di dannati, alle
quali, ad onore della risurrezione di Cristo, è largita la grazia
dì poter riposare la domenica e le due notti ancora che fra sè la
comprendono.

Ma con o senza temporanea mitigazione e temporaneo riposo, le pene
infernali duravano per l'eternità. La dottrina propugnata nel terzo
secolo da Origene, uno dei più grandi spiriti per certo ch'abbia
prodotto l'antichità cristiana, la dottrina cioè della salvazione
finale di tutte le creature, e del ritorno a Dio di tutto quanto venne
da Dio, pure insegnata, nel secolo successivo, da Gregorio di Nazianzo
e Gregorio di Nissa, era caduta sotto la riprovazione dei più gelosi
custodi della verità dogmatica, sotto l'anatema dei concilii, e aveva
in tutto ceduto il luogo alla dottrina della dannazione eterna ed
irrevocabile. La spaventosa minaccia era perciò perpetuamente presente
agli spiriti, e di ogni mezzo si usava perchè fosse rincalzata a dovere
e impressa con più forza, più addentro. Le arti a gara ajutavan la
fede; e Giotto nell'Arena di Padova, l'Orcagna sopra una parete di
Santa Maria Novella in Firenze, un pittore non accertato nel Campo
Santo di Pisa, in luogo consacrato all'eterno riposo, altri altrove,
ritraevano con pennelli di fiamma i terrori e gli orrori dell'abisso
infernale. Nei Misteri drammatici si vedeva comparir sulla scena la
bocca voraginosa del simbolico drago, trangugiatore di anime. Dante
descriveva alle universe genti il regno delle tenebre, sulla cui
orribile porta scolpiva:

    Lasciate ogni speranza, o voi ch'entrate.

Dal pulpito il frate, levando con l'una mano il crocifisso a testimonio
delle sue parole, noverava, una per una, le torture dei maledetti
caduti in signoria di Satana, e quand'egli aveva finito, l'organo
cominciava a muggire, e sotto le volte profonde, nel crepuscolo delle
marmoree navate, risonava un terribil canto, e narrava gli orrori della
spaventosa voragine,

    Ubi tenebræ condensæ,
      Voces diræ et immensæ,
      Et scintillæ sunt succensæ
        Flantes in fabrilibus.
    Locus ingens et umbrosus,
      Fætor ardens et fumosus,
      Rumorque tumultuosus,
        Et abyssus sitiens.



CAPITOLO XII.

LE DISFATTE DEL DIAVOLO.


Satana aveva, come s'è veduto, numerosi fautori; ma aveva anche
numerosi avversarii: quelli in inferno e sulla terra, questi sulla
terra e nel cielo. Fautori suoi erano tutti gli altri demonii, e
tutti gli uomini malvagi, specialmente gli eretici e gli stregoni;
avversarii, tutti gli uomini buoni, e in più particolar modo i santi,
vivi e morti, e gli ecclesiastici, in grazia, se non di loro virtù, di
loro ministerio; poi i varii ordini degli angeli, la Vergine Maria,
Dio Signore. Dio, come nel tempo della prima ribellione, poca parte
prendeva alla lotta, aspettando la pienezza dei tempi e il termine
fatale segnato alla diabolica tracotanza: contro l'indegno nemico
egli lasciava combattere la madre sua, i suoi santi, tutte le celesti
milizie, e gli uomini cui non veniva meno la sua grazia e l'ajuto di
Santa Chiesa. Ed era battaglia cotidiana, perpetuamente rinnovata,
giacchè, vinto appena, Satana risorgeva, e cacciato da una parte,
ricompariva da un'altra. Qualche volta ancora Satana diventava, di
vinto, vincitore.

Vediamo prima quali vittorie riportassero sul grande avversario gli
uomini d'ossa e di polpe, e vedrem poi quali vittorie riportassero su
di lui gli abitatori del cielo.


Il cristiano, che per la salvezza dell'anima propria pugnava contro
Satana, non mancava di armi, acconce di offesa e di difesa, quali
si richiedevano a così terribil combattimento; ed erano armi parte
spirituali, parte materiali. Egli aveva anzi tutto il sussidio della
divina grazia, senza di cui non era speranza di salute; poi aveva la
fede e la virtù, dietro a cui si riparava come dietro alle mura di una
rocca ben munita e forte. Le pratiche religiose cui egli diligentemente
attendeva, la preghiera, la frequentazione dei sacramenti, i digiuni,
le prolungate vigilie, erano come tante fazioni di guerra, atte a
tener lontano il nemico, o a fargli perdere novamente terreno, se
mai si fosse già troppo inoltrato. Arme formidabile, sempre pronta al
bisogno, e di facile uso, era il segno della croce, non meno buona per
l'offesa che per la difesa. Innumerevoli diavoli ebbero a confessare
di propria bocca che non era loro possibile resistere alla virtù del
sacratissimo segno, il quale li empieva di confusione e di sgomento.
Col segno della croce, non solamente si cacciavano i demonii, ma si
estinguevano incendii, si sedavan procelle, si guarivano infermi,
si ammansavano animali inferociti, e molte altre cose difficili si
facevano. Grande efficacia pure avevano i nomi di Dio Padre, di Gesù,
della Vergine Maria, invocati con fervore di fede, e gettati come una
sfida in volto ai dannati. Poi veniva l'acqua benedetta, più cocente
alle cervici e alle terga scellerate che non la pece bollente e il
piombo fuso delle caldaje infernali. Le campane, che empievano l'aria
di lor voce squillante, invitando i fedeli alle cerimonie del culto,
alla meditazione, alla preghiera, annunziando le feste piene di grazia,
mettevano in rotta i demonii tutto all'intorno, dissipavano le procelle
da questi suscitate assai volte, e producevano altri mirabili effetti;
onde l'inno della campana:

    Laudo Deum verum,
      Plebem voco,
      Congrego clerum.
    Defunctos ploro,
      Pestem fugo,
      Festa decoro.
    Funera plango,
      Fulgura frango
      Sabbata pango.
    Excito lentos,
      Dissipo ventos,
      Paco cruentos;

e in fine, talvolta, il terribile verso:

    Est mea cunctorum terror vox dæmoniorum.

Le reliquie dei santi che avevano trionfato di tutti gli assalti e
di tutte le insidie di Satana, ajutavano altri infiniti a conseguire
consimili trionfi, e lo stesso dicasi di certi brevi benedetti, da
portare appesi al collo, o cuciti nei panni, e di certi amuleti. Nè
mancavano cose puramente naturali, le quali erano contrarie e nocive
ai diavoli; tali alcune gemme, come il crisolito e l'agata, che
li volgevano in fuga, e il zaffiro, che riconciliava con Dio; tali
certe piante, come l'aglio e la ruta, e un'erba detta dai francesi
_permanable_, che aveva virtù d'incantare i demonii. Il sale era una
delle cose di cui questi si mostravano più paurosi. Il gallo era,
come già s'è notato, un loro grande avversario, e con la mattutina
sua strombettata, foriera del giorno, li forzava (ma non tutti) a
nascondersi. Finalmente, in certi casi, il cristiano poteva anche usare
felicemente, come vedremo, delle sue braccia e di un buon bastone. Chi
poi era caduto in signoria del nemico poteva, con penitenze più o meno
aspre e lunghe, riscattarsi e mettersi sotto i piedi il tristo padrone.

Tuttavia è da dire che quelle armi e quei ripari non sempre giovavano,
come per chiari esempii si può vedere nelle vite di molti santi,
non pur dei minori e dei mezzani, ma degli eccellentissimi. Accadde
assai volte, qual che ne fosse la cagione, che i diavoli sfacciati
e protervi, ripeterono parola per parola, con ischerno, le sante
orazioni con cui altri s'ingegnava di tenerli in rispetto, e i salmi
stessi del libro sacro; che ghignarono atrocemente alla vista di quella
croce a cui di solito volgevano, fuggendo, le spalle; che trescarono
tripudiando sotto l'aspersorio, e che tanto più gli assalti loro
diventarono rabbiosi e frequenti, quanto maggiori furono le difese.


I santi erano, tra gli uomini, i più terribili avversarii di Satana,
quelli che combattevano senza riposo contro di lui, sia per difendere
sè medesimi, sia per difendere gli altri, e porre argine al suo mal
fare. Molte insidie e infinite noje essi dovevano soffrire da lui;
ma spesso se ne ricattavano con usura, e quanto più aspra e lunga
era stata la battaglia, tanto più glorioso e pieno era il trionfo. Si
potrebbe riempire un libro con la storia autentica degli sfregi, delle
strane burle e delle sante correzioni che Satana e gli spiriti suoi
ebbero da buoni servi di Dio, così dell'uno come dell'altro sesso, da
anacoreti con tanto di barba bianca, e da pie vergini uscite appena di
fanciullezza.

Sant'Antonio, primo eremita, che aveva pazientemente sopportato dai
diavoli mille dispetti, e persino fierissime battiture, un giorno, per
far intendere ad uno di quei suoi nemici quanto poco conto facesse
di lui e delle sue capestrerie, gli sputò nel viso, e quegli, tutto
smarrito, se la svignò. Ora è da dire che lo sputo dei santi poteva
avere qualità che non ha lo sputo degli uomini ordinarii: tanto è vero,
che il vescovo Donato, ai tempi di Arcadio e di Onorio, uccise uno
smisurato e spaventoso drago con solo sputargli in bocca.

Abbiam veduto quanta virtù fosse nel segno della croce. Con un segno
di croce san Sulpizio e san Frodoberto, essendo ancora fanciulli,
cacciavano via il diavolo che voleva impedir loro di recarsi alla
scuola. Usando di quella medesima arme, altri uomini santi ottennero
effetti anche più meravigliosi. Narra Pietro il Venerabile che
essendosi un diavolo introdotto nell'abbazia di Cluny, col proposito
di tentarvi non so che monaco, il priore, che era uomo di grande
avvedutezza e di non minor santità, con un segno di croce, senz'altro
apparecchio, lo cacciò nelle latrine.

Nessuno si meravigli se san Sulpizio e san Frodoberto si schermivano
così bene dal diavolo, anzi lo volgevano in fuga, essendo ancora
fanciulli. Come molte volte era precoce la santità, così erano precoci
certe facoltà e potestà conferite per essa. San Pacomio abate fu, sino
dagli anni più teneri, un grandissimo ed implacabile avversario del
diavolo; san Vittore d'Archiaco incuteva terrore ai demonii essendo
ancora nel ventre di sua madre. Nè questo è maggior miracolo di quello
che operavano le immagini di sant'Ignazio Lojola di fausta memoria, le
quali, così dipinte o scolpite com'erano, facevano levar le calcagna ai
più petulanti e temerarii fra gli spiriti maledetti.

Molti santi legarono il diavolo, quali con catene, quali con un
semplice filo. San Silvestro papa, quel medesimo che, secondo le più
autentiche storie, guarì l'imperator Costantino dalla lebbra, e n'ebbe
in premio Roma e tutto l'impero d'Occidente, san Silvestro acchiappò in
una profonda caverna il diavolo, che aveva presa la forma di un drago,
lo legò con un filo, e gli suggellò con un segno di croce la bocca.
In Ibernia, il santo abate Munna lo legò con una catena infocata.
Altri santi non vollero prendersi cotal briga, o non ci pensarono, e
adoperarono in altro modo.

Sant'Apollonio, abate in Tebaide, colse un giorno il demonio della
superbia sotto le sembianze di un piccolo etiope e lo seppellì
nell'arena. San Contesto, venutogli a tiro una volta non so che
demonio, il quale sotto forma di gigante lo sollecitava a lussuria,
gli gettò attorno al collo la propria stola, e lo menò in giro, come
un cane, per tutta la città. Sant'Illidio ne forzò uno a trasportare
due colonne da Treviri nell'Alvernia; san Procopio di Praga forzava
parecchi a menar l'aratro sui sassi. Il beato Notchero Balbulo, entrato
una notte in chiesa, vi trovò il diavolo sotto forma di cane: gli
ordinò di aspettarlo, e tolto un buon bastone, ch'era stato già di san
Colombano, glielo ruppe addosso. San Dunstano, abate di Glastonbury,
lo trattò anche peggio. Il degno uomo stava un giorno lavorando nella
sua fucina da fabbro ferrajo, com'era solito fare nell'ore disoccupate,
quand'ecco gli si presenta il diavolo tentatore in figura di bella e
giovane donna. Il santo finge di non riconoscerlo, e s'intrattiene
famigliarmente con lui, aspettando che un par di tanaglie, messe
sui carboni, sieno arroventate a dovere. Vedutele com'ei le vuole,
colto il momento opportuno, le afferra, le brandisce, e con mirabile
destrezza attanaglia il naso del malcapitato, traendo e dimenando
con tanto furore, che quegli per l'angoscia, s'avvolge come una
trottola, mugghia come un bufalo, e, appena può, sguizza via come
una saetta. San Domenico fu alquanto più umano. Stando una notte il
santo a studiare, eccoti il diavolo venirgli intorno e dargli briga.
Il santo non si turba nè si spazienta; ma presa la candela al cui
lume leggeva, la pone in mano al demonio, ordinandogli di tenerla
ben ferma, poi come se nulla fosse, si rimette a leggere. Il diavolo
è forzato d'obbedire; la candela arde, si consuma, ed egli si brucia
tutte le dita. Questo stesso giuoco si dice gli abbiano fatto anche
sant'Antonio e san Bernardo. In un caso presso a poco simile, Lutero
si contentò di gettargli in capo il calamaio; ma Lutero non era un
santo; anzi era, dicono, suo figliuolo. I santi non avevano da usar
riguardi. San Bernardo di Chiaravalle viaggiava una volta con un carro.
Viene il diavolo e gli fracassa una ruota. Tanto peggio per lui: il
santo gli ordina di trasformarsi in ruota, e di far l'officio di quella
fracassata.

Spesse volte i diavoli, quando hanno da fare coi santi, si lasciano
cogliere nei lor proprii tranelli. Certo giorno, uno di essi fa venire
una grandissima sete a san Lupo che appunto stava in orazione. Il
santo si fa recare un bel vaso d'acqua fresca, e il diavolo subito ci
si caccia dentro, con la fondata speranza di potergli così entrare in
corpo; ma quegli, placidamente, pone sul vaso il guanciale del letto,
e tien prigione il presuntuoso sino alla mattina seguente. Altri santi
fecero ai loro nemici questo brutto scherzo di chiuderli, e per più
lungo tempo. San Conone Isaurico chiudeva i diavoli in vasi suggellati,
e li poneva nelle fondamenta della sua casa. Maestro di tutti costoro
era stato Salomone, del quale si narrava che avesse rinchiuso in un
vaso di rame non so quante legioni di diavoli, e sprofondato poi il
vaso in una palude presso Babilonia. I diavoli vi sarebbero ancora,
se gl'ingordi babilonesi non avessero ripescato e aperto in mal
punto il vaso, credendo che il più savio dei re ci avesse nascosto un
tesoro. E che dovrei dire di san Chiuppillo, un santo che non si trova
registrato nel calendario, ma che i napoletani conoscono assai bene,
e ricordano spesso? Nessun altro santo s'avvisò, ch'io sappia, di fare
all'arrogante diavolo tentatore lo scherzo che san Chiuppillo gli fece,
e di dirgli le assennate parole ch'egli per ammonimento gli disse. Se
io ne taccio, gli è per non divulgar troppo la vergogna del maledetto.

Le sante non si mostrarono da meno dei santi nel dare al diavolo quel
che si meritava. Un pajo d'esempii può bastare a provarlo. Santa
Giuliana non aveva voluto accettar per isposo Eulogio, prefetto di
Nicomedia, perchè adoratore degl'idoli. Il prefetto, avendola invano
pregata e ammonita, perduta la pazienza, la fece prima battere con le
verghe, poi ordinò che fosse appesa pei capelli, e che le si versasse
in capo piombo liquefatto. Non potendole nuocere in modo alcuno, la
fece caricar di catene e gettare in un carcere. Nel carcere appare alla
vergine il diavolo, in figura di angelo, che le dice: “O Giuliana, io
sono l'angelo di Dio, il quale a te mi manda perchè tu ti risolva di
adorare gl'idoli, e non voglia morire di così mala morte.„ Ma Giuliana
volge una fervida preghiera al cielo, e lo stesso demonio è costretto
a scoprirsi. Allora la valorosa fanciulla, per insegnargli a non più
tentare le sante vergini, gli lega le mani dietro la schiena, lo getta
a terra, e senza punto commuoversi alle sue grida, con quella stessa
catena che avvinceva lei, lo flagella ben bene. Il prefetto ordina
che Giuliana sia tratta di carcere e sottoposta a nuovi tormenti: ella
esce, tirandosi dietro il suo nemico. Questi si duole e si raccomanda:
“O Giuliana, non mi rendere a questo modo ridicolo, perchè io non potrò
più tentar cosa alcuna contro nessuno. Si dice pure che i cristiani
sono misericordiosi; perchè non hai tu misericordia di me?„ Ma Giuliana
non gli bada, lo mena in trionfo per tutto il foro, e lo getta da
ultimo in una latrina. Quel forsennato del prefetto ha veduto ogni
cosa e non se ne dà per inteso. Ordina che la fanciulla sia lacerata
sulla ruota; ma un angelo spezza la ruota e la fanciulla torna più
sana di prima. Infiniti spettatori di tanto miracolo si convertono
alla fede di Cristo, e lì per lì sono decapitati cinquecento maschi e
centotrenta femmine. Il prefetto fa immergere Giuliana in una caldaja
piena di piombo fuso. Tornata vana anche questa prova, comanda che sia
senz'altro decollata. In quel punto ricomparisce il demonio in figura
di giovane, e aizza i carnefici, ricordando le offese fatte agli dei
e a lui; ma Giuliana con solo aprire alquanto gli occhi lo volge in
fuga. Da ultimo ella consegue la palma del martirio. Un'altra Giuliana,
priora di Monte Cornelio, quando il demonio le dava troppa noja, se lo
cacciava sotto ai piedi, e lo pigiava come si fa dell'uva nel tino.

Più poetico, se non più mirabile, è il caso di una santa Gertrude, non
so quale delle parecchie ch'ebbero tal nome.

Qui il diavolo non è picchiato, nè legato; ma ciò ch'ei fa prova
quanto potesse sopra di lui la santa. Un cavaliere s'era perdutamente
innamorato della bellissima vergine, la quale, aliena da ogni amore
mondano, non d'altre nozze bramosa che di quelle eterne con lo sposo
celeste, s'era chiusa in un chiostro, e viveva di contemplazione e di
preghiera. Non potendo altro fare, il gentil cavaliere dona tutto il
suo all'ordine cui s'era ascritta Gertrude, e in ispazio di tre anni
si riduce in povertà. Doglioso, non di questo, ma di non potere più
oltre spendere a onore della sua dolce amica, egli va errando per la
campagna, e una notte s'imbatte nel diavolo, che gli promette di farlo
assai più ricco di prima, quand'egli, passati sette anni, s'impegni
di dargli l'anima. Accetta l'innamorato, scrive col proprio sangue la
obbligazione, e, divenuto più ricco di prima, spende e spande a onor
della sua dama. Gli anni passano intanto, giunge il termine stabilito.
Il cavaliere va ad accommiatarsi dalla fanciulla e le lascia intendere
qual sorte l'aspetti; poi, bevuto un bicchier di vino che quella gli
porge, monta a cavallo, e da uomo leale, a mezzanotte, si reca al
luogo dove il terribile creditore gli diede la posta. Ma il demonio,
al vederlo, è preso da gran turbamento, e restituisce, senza nulla
chiedere, la scrittura: egli aveva scorta, seduta in groppa, dietro al
cavaliere, la vergine Gertrude, venuta a soccorrere il suo innamorato.

Più d'una volta la naturale inimicizia che era tra diavoli e santi
produsse vere sfide e veri duelli e lotte a corpo a corpo. San Vulstano
se ne stava un giorno in chiesa, a pregare dinanzi all'altare. Capita
quel mal consigliato del diavolo, e lo invita a lottare insieme. Il
santo accetta, lo avvinghia, lo butta in terra e lo concia pel dì delle
feste. Sant'Andrea di Scizia ebbe una volta una curiosa visione. Gli
pareva d'essere in un circo, e che da una parte fosse una moltitudine
di etiopi, cioè di diavoli, dall'altra una moltitudine d'uomini in
vesti candide, cioè di cristiani. Gli etiopi discorrevano fra loro
di corsa e di lotta, e sembravano pendere dal cenno di uno smisurato
moro, che tutti gli avanzava in forza e statura. Dubitavano i candidi
chi potesse affrontarsi con costui. Andrea lo affronta e lo vince.
I candidi fanno risonare il circo di applausi, e un angelo reca in
premio al vincitore tre corone. Parecchi narrano la storia di un
lombardo, uomo devoto, e fornito di buone braccia, il quale desiderava
ardentemente di potersi misurare col diavolo, e pregava Dio gliene
facesse la grazia. Un giorno, trovandosi egli in Ispagna, ai tempi
di san Vincenzo Ferrer, gli capita innanzi, in un campo, una povera
vecchia, incartapecorita e sgangherata: egli crede sia il diavolo, e
senza domandar altro, le salta addosso e la finisce di busse.

Chi volesse dire tutto il bene che i santi fecero, mentr'erano ancora
in questo basso mondo impedendo ai diavoli di far male, avrebbe da
dire per un pezzo. Infinite volte essi li forzarono a dire ciò che
più quelli avrebbero voluto tacere, a confessare ogni loro secreto
e ogni loro proposito, le birbonate commesse e quelle da commettere.
Molti santi riconoscevano il nemico sotto qualsiasi forma gli piacesse
nascondersi; altri lo sentivano all'odore come il bracco la preda.
Da tutto ciò grandissimo giovamento doveva venire alla buona causa,
e s'intende assai. bene come possa esser vero ciò che i biografi più
avveduti affermano, cioè che in pieno secolo XV il solo che impedisse
ai diavoli di mandare a soqquadro e in rovina questa sciagurata Italia
fosse san Francesco da Paola.


L'uomo, anche non santo, poteva, usando armi acconce, vincere il
diavolo quando questi assaliva di fuori; ma se il diavolo, simile ad
un nemico che per occulte vie penetri in una fortezza, gli era entrato
in corpo, il vincerlo diveniva assai più malagevole, e di solito, per
forzarlo a sgombrare, era necessario, come abbiam veduto, l'altrui
soccorso. Tommaso Cantipratense ricorda, gli è vero, il caso di un
chierico indemoniato, il quale si liberò da sè, bruciando un eretico;
ma queste erano eccezioni. Anche ammessa l'efficacia del rimedio, non
sempre l'indemoniato aveva sotto mano un eretico da bruciare; e poi gli
eretici li bruciavano gl'inquisitori, gelosissimi delle prerogative
del loro mestiere. Di regola l'indemoniato era un uomo posto fuori
di combattimento, e la battaglia si combatteva, non tra il demonio e
lui, ma tra il demonio e un campione più o meno agguerrito, il quale,
per di fuori, usava, con varia fortuna, varie arti di guerra. A rigor
di termine l'indemoniato era un castello, entro a cui il diavolo, o i
diavoli, si riparavano dagli assalitori, e spesso vittoriosamente li
respingevano.

Molti erano i modi usati a cacciare i demonii, e la loro efficacia
dipendeva, in parte, dalla qualità lor propria, in parte dalla qualità
di coloro che li adoperavano. Gran differenza era, per questo rispetto,
dall'umile esorcista, il quale non aveva altro che il suo carattere
ecclesiastico, al santo miracoloso, uso ad appender la cappa a un
raggio di sole, o a mutar l'acqua in vino. Dove quegli non vinceva se
non dopo lunghe e faticose pratiche, correndo talvolta il pericolo
d'essere invaso da quello stesso demonio onde liberava altrui, il
santo vinceva con una parola, un gesto, uno sguardo. L'esorcismo era
una operazione lunga e intricata, o semplicissima e breve, secondo i
casi. Poteva richiedere preghiere insistenti, formule rituali, digiuni
e altre macerazioni, candele accese, suffumigi, ecc.; ma poteva anche
far di meno di tutte queste cose. Bisogna poi dire che non tutti i
diavoli erano di una natura o di un umore; e come ce n'eran di quelli
che voltavan le spalle alle prime avvisaglie, anzi al primo rumore di
guerra, così ce n'erano altri, i quali facevano difesa disperata, e
che bisognava cavar di corpo agl'indemoniati come si trae il chiodo
dall'asse, con le tenaglie. Molti indemoniati rimasero liberi con solo
toccare le reliquie di un santo famoso, o bevendo un po' d'acqua in cui
era stato infuso un pizzico di polvere grattata via dal sepolcro di un
santo famoso; parecchi furono guariti, o vogliam dire riscattati, con
l'acqua che aveva servito a lavare i santissimi zoccoli di sant'Elia
Speleota. Esorcizzati da santi, i diavoli solevano dare qualche
segno sensibile di loro confusione e di loro sgomento. Un diavolo
esorcizzato da sant'Apro, uscì dal primo uscio che gli venne innanzi,
rumorosamente, e, dice il fedele biografo, con grande flusso di ventre.
Degna fuga di così laido nemico.

Erasmo da Rotterdam, in quello de' suoi _Colloquii_ che s'intitola
_Exorcismus sive Spectrum_, si burla allegramente di tutte le formole,
di tutti i riti e di tutti gli anfanamenti degli esorcisti; ma si
sa che la sua ortodossia non fu troppo sicura, e i suoi scherni
non tolsero a un cappuccino mantovano di comporre, verso la fine
del secolo XVI, un libro latino, il cui titolo, recato in italiano,
suona così: _Flagello dei demonii, contenente esorcismi terribili,
potentissimi ed efficaci, e provatissimi rimedii, atti a espellere
di corpo agl'indemoniati i maligni spiriti e ogni sorta di maleficii,
con le sue benedizioni e tutte l'altre cose che a detta espulsione si
richieggono_. Non dimentichiamo che tra i rimedii provatissimi era
anche il bastone, e che più di un energumeno, bastonato ben bene da
qualche santo nerboruto, fu veduto raumiliarsi come per miracolo, e
guarire senza bisogno d'altro esorcismo.



CAPITOLO XIII.

SEGUITANO LE DISFATTE DEL DIAVOLO.


Dalle vittorie che riportavano sul diavolo gli uomini vivi, passiamo
a veder le vittorie che su di lui riportavano gli uomini morti fatti
cittadini del cielo, e gli altri spiriti celesti, voglio dire i santi,
gli angeli d'ogni grado, la Vergine Maria. I santi, gli angeli, la
Vergine, erano sempre pronti ad accorrere in ajuto di chi, con salda
fede e mente pura, li invocava nella perpetua battaglia contro il
nemico. Qualche volta, se aveva il diritto dalla sua, il diavolo la
vinceva contro gli avversarii celesti; ma il più delle volte, anche
avendo dalla sua il diritto, la perdeva. Se ci entrava di mezzo la
Vergine perdeva sempre, e rimaneva col danno e con le beffe.

I santi, guadagnatosi il cielo, non dimenticavano la terra, anzi
volentieri assai seguitavano a ingerirsi nelle cose di quaggiù, dove
erano chiese innalzate in loro onore, ordini monastici istituiti
da loro, intere città e regni che si gloriavano d'averli patroni e
protettori. A tutti i fedeli in genere, ma in più particolar modo
ai loro devoti, essi erano larghi di ajuto, specie se si trattava di
combattere il diavolo, e quando il bisogno lo richiedeva, non esitavan
punto a scendere di cielo in terra, e a vestir novamente, in apparenza
almeno, il peso della carne. Molti esempii se ne potrebbero recare;
quello che segue è uno dei più illustri.

C'era una volta un vescovo, il quale aveva una speciale venerazione
per sant'Andrea apostolo, e sempre lo invocava, e qualunque cosa si
accingesse a fare, sempre cominciava con queste parole: “A onor di
Dio e di sant'Andrea.„ Invidioso e fastidito di tanta santità, il
diavolo mette mano alle insidie. Prende l'aspetto di una fanciulla
bellissima, va a trovare il vescovo, e gli racconta una sua favola
molto artificiosa: com'ella sia figliuola di un re; come il padre la
volesse dare in moglie ad un principe possente; come, volendo serbare
la sua verginità allo sposo celeste, ella sia fuggita dal suo paese
ove non potrebbe tornare senza gravissimo pericolo. Udite queste
cose, il buon vescovo, pieno d'ammirazione, la loda, la incoraggia,
le offre protezione ed asilo, la invita a desinare. A tavola non
sono soli; ma il vescovo, come più guarda la fanciulla, più la trova
bella; come più l'ode parlare, più la giudica sensata ed eloquente,
tanto che se ne innamora, e già aspetta con impazienza tempo e luogo
opportuno da poterle scoprire la sua passione. A un tratto, s'ode
giù gran rumore, alla porta. È un pellegrino, a tutti sconosciuto,
il quale picchia a colpi replicati, e a gran voce chiede d'entrare.
Il vescovo interroga la fanciulla: vuol ella che il pellegrino sia
introdotto? E quella: “S'introduca; ma a patto che, dando giusta
risposta a tre domande difficili, si mostri degno di sedere con voi a
mensa.„ Per desiderio del vescovo e dei convitati le domande sono da
lei proposte, e il nunzio le reca, successivamente al pellegrino, e
torna con le risposte. La prima domanda è: Delle piccole cose fatte
da Dio qual è la più mirabile? Il pellegrino risponde: “La faccia
dell'uomo,„ adducendo ragioni, che pajono a tutti giustissime. Alla
seconda domanda, in qual luogo la terra sia più alta del cielo, il
pellegrino risponde: “Nell'empireo, ove è il corpo di Cristo, fatto di
terra, come quello degli uomini.„ Alla terza domanda, che distanza sia
dal cielo alla terra, il pellegrino risponde: “Chi m'interroga ha a
saperlo meglio di me, perchè egli è il diavolo che tutta la percorse,
quando fu precipitato giù dal paradiso.„ A tale risposta inaspettata il
diavolo sfuma. Il pellegrino è sparito ancor esso; ma al vescovo, che
piange e confessa il suo peccato, si dà a conoscere in sogno: egli è
sant'Andrea.


Gli angeli fedeli, che in antico avevano vinto e cacciato i ribelli,
seguitavano a combattere contro di loro: alla fine dei tempi
l'arcangelo Michele, di cui si custodivano gelosamente, nella città di
Tours, la spada e lo scudo adoperati nel primo combattimento, vincerà
Satana di bel nuovo e per sempre. La credenza che ciascun uomo abbia
un suo proprio angelo custode è assai antica, giacchè si trova già nel
secondo secolo dopo Cristo; anzi da molti si crede che ciascun uomo
vada accompagnato nella vita da un angelo a destra, da un demonio a
sinistra. La natural nimistà ch'è tra i celesti e gl'infernali è qui
fatta più acre dalla comunità dell'oggetto su cui le contrarie potenze
si esercitano, l'anima dell'uomo. L'angelo si sforza di tirar l'anima
in cielo, il demonio si sforza di tirarla in inferno. Strano a pensare
e doloroso a dire, l'anima razionale, e provveduta di libero arbitrio,
ajuta nella maggior parte dei casi chi la vuol perdere contro chi la
vuol salvare: in questa battaglia, se non nelle altre, vince assai più
volte il demonio che l'angelo.

Ma nulla vince il demonio, anzi perde ogni suo guadagno ed ogni suo
potere, e rimane miseramente sconfitto e scornato, quando, bella ed
insuperabile avversaria, gli si leva contro la purissima donna che ha
intorno al capo una corona di stelle, e schiaccia sotto ai piedi il
serpe velenoso, l'avvocata di tutti i peccatori, la consolatrice di
tutti gli afflitti, la madre di Gesù redentore, la dolcissima Vergine
Maria. Ella è la regina del cielo e la dominatrice dell'inferno. Satana
trema dinanzi a lei, trema e si nasconde solo che oda pronunziare
il suo nome soavissimo. Ella è la salute, non pur degl'infermi, ma
dell'intero genere umano, perchè, da una parte, non lascia fare a
Satana la centesima parte del male ch'ei vorrebbe e potrebbe fare;
da un'altra placa l'ira di Dio, e ottiene che non si rovesci, come
giustizia vorrebbe, sui peccatori. San Damiano, rapito in estasi, la
vide che con le sue preghiere tratteneva Cristo da distruggere il mondo
pieno d'ogni scelleraggine e d'ogni bruttura. I fedeli costantemente
la invocano, a lei confessano colpe e bisogni, in lei pongono ogni
speranza: la salutazione angelica sale perpetuamente da questa valle di
miserie al suo trono; le lunghe litanie formano come tanti invisibili
lacci d'amore per cui le anime si sospendono a lei. Il suo potere
è illimitato, e pari al potere è in lei la misericordia. Ella nulla
sdegna e nulla tralascia di quanto può giovare a chi le si raccomanda,
sia pure il più malvagio e indurito peccatore di questo mondo. Ella
scende in terra, parla nelle immagini, si mostra in persona, ammonisce
i vacillanti nella fede, dà da mangiare agli affamati, guarisce
gl'infermi, salva i pericolanti, conforta i moribondi, affronta il
demonio ogni qual volta è bisogno. Qui viene opportuno un esempio che
Giacomo da Voragine narra presso a poco nel seguente modo.

Un cavaliere di nobile lignaggio e ricchissimo aveva, con indiscreta
liberalità, dilapidato ogni suo avere, ed era venuto in tanta povertà,
che dove prima soleva largheggiare nelle cose massime, ora persin le
minime gli facevan difetto. Avvicinandosi una solennità, nella quale
era uso di fare doni e largizioni grandissime, egli, non avendo più
che dare, si recò, pieno di confusione e di tristezza, in un luogo
deserto, col proposito di starci finchè la festa fosse passata. Ei
v'era giunto appena, quando gli si fece incontro, seduto sopra un
terribil cavallo, un più terribile cavaliere, che gli chiese la ragione
della sua tristezza. Uditala, disse: “Quando tu voglia concedermi
cosa di picciol momento, avrai da me più ricchezze e più gloria che
mai non avesti in passato.„ Promette il cavaliere, e tosto a lui
il principe delle tenebre: “Torna a casa, e nel tale luogo troverai
tanta quantità d'oro e d'argento, e tanta di pietre preziose: tu in
compenso, nel tale giorno, mi condurrai qui tua moglie.„ È da sapere
che costei era donna pudicissima e in sommo grado devota della Vergine
Maria. Tornato a casa, il cavaliere trova ogni cosa come gli era stato
detto, e subito compra palazzi, riscatta fondi, procaccia servi, e dona
altrui largamente, com'era suo costume. Giunto il dì fissato, dice alla
moglie: “Sali a cavallo, perchè bisogna che tu venga con me alquanto
lontano.„ La donna tremando obbedisce, e raccomandatasi devotamente
alla Vergine, cavalca dietro al marito. Cammin facendo passano davanti
a una chiesa. La donna scende da cavallo, entra in chiesa, e mentre il
marito aspetta di fuori, si raccomanda di nuovo alla sua protettrice
e si addormenta. La Vergine allora prende l'aspetto di lei, in modo da
sembrar lei medesima, esce di chiesa, monta a cavallo, e col cavaliere
prosegue il viaggio. Giunti al luogo stabilito, ecco venir oltre, con
grande impeto, il principe dell'abisso, poi fermarsi a un tratto, e
fremendo e tremando esclamare: “O il più infedele degli uomini, perchè
mi hai tu ingannato a questo modo, e perchè tal premio mi rendi de'
miei beneficii? io ti dissi di condurmi tua moglie e tu mi conduci
la madre del Signore; io voleva tua moglie e tu mi conduci Maria.„
Allora la Vergine: “O spirito maledetto, quale temerità fu la tua, che
presumesti di poter nuocere a una mia devota? Torna in inferno, e non
sia mai più in te tanta tracotanza.„ Il demonio fugge ululando, e il
cavaliere si getta pentito ai piedi della donna del paradiso, che gli
ordina di ritorsi la sua fedele compagna, e di sperdere le ricchezze
avute dal maledetto. Così egli fece, e non perciò fu povero, perchè
nuove e maggiori ricchezze ebbe poi dalla Vergine misericordiosa.

Come la Vergine togliesse al demonio le scritture dei malconsigliati
che stringevano patti con lui, abbiam già veduto; ma ella aveva
anche altri modi di riscattar le anime cadute, per una o per un'altra
ragione, in balía del nemico. In più racconti popolari, di origine
certo assai antica, si dice come il diavolo e la Vergine si facessero,
l'uno compare, l'altra comare di un fanciullo, quello per condurlo in
perdizione, questa per salvarlo. Di solito c'è di mezzo una promessa
che il padre fece al demonio, e che favorisce molto la causa di questo;
ma da ultimo, superato ogni ostacolo, trionfa la Vergine.


Molte volte le potenze celesti vincono Satana con solo mostrarsi, o
con ordinargli imperiosamente di cedere il campo e lasciar la preda;
molte altre volte non lo vincono se non dopo un contrasto più o meno
lungo, il quale varia di qualità e di procedimento, e va dalla semplice
discussione, o dal diverbio un po' vivo, sino all'accapigliatura e al
pugilato, o anche alla battaglia ordinata, quando sieno molte le forze
impegnate dall'una parte e dall'altra. Non di rado pure il contrasto
prende le forme e l'andamento di un vero e proprio piato giudiziale. La
vittoria non sempre rimane ai celesti.

Le cause di tali contrasti erano parecchie; ma i più si facevano
per decidere della sorte delle anime novellamente sciolte dai corpi:
gl'infernali avrebbero voluto trascinarle tutte in inferno, i celesti
condurle tutte in paradiso. Cominciava il contrasto intorno al letto
dei moribondi. Venivano i diavoli, recando il libro in cui erano
scritti tutti i peccati commessi da chi stava per uscir di vita;
venivano gli angeli, recando il libro in cui erano scritte tutte le sue
buone opere. Quello era, di solito, un libraccione ponderoso e negro,
tutto vergato di spaventosi caratteri; questo un libriccino nitido e
minuto, scritto di lettere d'oro. Cotai libri, insieme con la giusta
bilancia in cui angeli e diavoli pesavano azioni buone e cattive,
compajono assai spesso nei giudizii ove si decide la sorte delle anime.

È abbastanza conosciuta (ed io l'ho già ricordata) una terribile
istoria narrata dal venerabile Beda, e ripetuta con qualche leggiera
diversità da Jacopo Passavanti nel suo _Specchio della vera penitenza_.
Un cavaliere del re Coenredo, uomo prode e di grande animo, ma vissuto
assai malamente, infermò, ed esortato a confessarsi, non volle farlo,
tanto che giunse presso a morte. Allora, aspettando la fine sua, egli
vide comparire al suo letto due angeli, i quali si posero a leggere
un libriccino in cui erano segnate alcune buone opere fatte da lui
grandissimo tempo innanzi, mentre era giovine ancora. Di ciò egli
si rallegrava e prendeva speranza, quando vide entrare due orribili
demonii, che squadernatogli sul viso il volume de' suoi peccati,
dissero agli angeli: “Che fate voi qui? voi non avete nessuna ragione
in costui, che è nostro.„ E gli angeli, guardatisi l'un l'altro, senza
poter nulla rispondere se ne andarono, e i demonii, presi due coltelli
affilati, cominciarono a tagliare il reo cavaliere da capo e da piede,
tanto che in brev'ora morì e fu dannato.

Ma non sempre il grosso libro dei diavoli la vinceva sul libro piccino
degli angeli; e si diè caso che quello non servì a nulla, sebbene gli
angeli non avessero da opporgli nemmeno una pagina. Nella Visione di
Frate Alberico si narra di un potente malvagio, che prima di morire si
pentì, e chiese perdono a Dio. Al suo letto di morte si presentano un
angelo e un demonio, questi con un gran volume di peccati, quegli con
le mani vuote. Il demonio si crede sicuro del fatto suo; ma l'angelo
sparge sul libro lo lacrime versate dal pentito e tutto il cancella. Il
peccatore ravveduto è salvo.


Spesso i santi vennero in soccorso di anime che i diavoli si forzavano
di trarre in inferno; e bisogna dire che, così facendo, obbedivano
molto più a un sentimento di speciale benevolenza pei loro devoti,
che non ai dettami della stretta giustizia. Gli esempii abbondano.
I diavoli se ne portavano entro una barca l'anima del re Dagoberto,
quando scesero improvvisamente di cielo, fra tuoni e fulmini, san
Dionigi, san Maurizio e san Martino, che senza stare a disputare della
ragione e del torto, la tolsero loro di mano e la menarono in paradiso.
Morto Carlo Magno, l'anima sua fu condotta al giudizio. Viene un
nugolo di demonii che caricano de' suoi peccati l'un dei piatti della
bilancia. Questa trabocca; ma san Giacomo di Compostella e san Dionigi
mettono nell'altro piatto tutte le chiese e tutti i monasteri fondati
da lui, e subito la bilancia trabocca dall'altra parte, in suo favore.
Un monaco, stando in orazione la notte (così racconta Leone Marsicano,
morto nel 1115) vede passare con grande rombo e ruina una turba di
diavoli. Chiamatone uno, gli chiede ove vadano con tanta furia, e
avutone in risposta che vanno a torsi l'anima dell'imperatore Enrico
III, protesta di non credere che Dio possa darla loro nelle mani, e
gl'impone di venirne al ritorno e narrargli tutto l'evento. Passati
due giorni, ecco riapparire il malvagio spirito, con volto dimesso,
con portamento lugubre, e narrare al monaco la disfatta propria e de'
suoi. Già era durata un pezzo la contesa fra gli angeli ed essi, quando
di comune accordo fu deliberato di pesare con una bilancia le buone
e le cattive azioni del morto, e decidere così chi dovesse prenderne
l'anima. Dato mano all'esperimento, già traboccava la bilancia in favor
dei demonii, quand'ecco accorrere tutto anelante quell'abbrustolito di
san Lorenzo, e gettar con grand'impeto nel piatto contrario un calice
d'oro, che tempo innanzi l'imperatore aveva donato a una basilica di
lui. Incontanente la bilancia trabocca da quella parte, e i diavoli
debbono, confusi e scornati, rinunziare alla preda e prendere il volo.

Ma non sempre i santi potevano ricorrere a così ponderosi argomenti,
e allora, qualche volta, finiva che dovevano cedere a chi aveva più
ragione di loro. Quando morì Guido da Montefeltro, resosi frate dopo
aver menato una vita scelleratissima, venne san Francesco in persona
per raccorne l'anima e recarla in cielo; ma uno _de' neri cherubini_
(così dice Dante) gli si levò a fronte garrendo:

                  Nol portar; non mi far torto:
    Venir se ne dee giù tra' miei meschini,
      Perchè diede il consiglio frodolente,
      Dal quale in qua stato gli sono a' crini;
    Ch'assolver non si può chi non si pente,
      Ne péntere e volere insieme puossi
      Per la contradizion che nol consente.

Il consiglio frodolente cui qui si accenna fu d'aver suggerito al
_principe de' nuovi Farisei_, cioè a papa Bonifacio VIII, il modo di
prendere con inganno la rocca di Palestrina, ch'era dei Colonnesi. San
Francesco non seppe che obbiettare alle ragioni del demonio, il quale,
acciuffando l'anima trista, le disse sbeffandola:

                             Forse
    Tu non pensavi ch'io loico fossi.

Vedremo qualche altro caso in cui il demonio si addimostra _loico_, e
de' buoni.

Bastava invece una lacrima di pentimento sincero per far perdere al
demonio ogni sua ragione, o almeno per indurre i celesti a non tenere
le sue ragioni in conto alcuno. Dice lo stesso Dante che quando il
figliuolo di Guido da Montefeltro, testè ricordato, Buonconte, ferito
alla battaglia di Campaldino, rese l'anima col nome di Maria sulle
labbra, tosto venne l'angelo dì Dio, e prese l'anima del pentito; ma il
demonio, accorso ancor egli, gridò:

              O tu dal ciel, perchè mi privi?
    Tu te ne porti di costui l'eterno
    Per una lagrimetta che il mi toglie;
    Ma io farò dell'altro altro governo.

L'angelo non gli bada e non gli risponde nemmeno. Allora il demonio
chiama in suo ajuto i venti, congrega le nubi, suscita una furiosa
procella, e fa che le acque dilagate travolgano l'_altro_, cioè il
corpo di Buonconte, per modo che più non se n'ebbe novella.


Noi abbiamo qui, e nell'esempio precedente, il contrasto nella forma
sua più semplice e temperata, perchè non si può dire che vi sia
propriamente neanche diverbio. In fatti, san Francesco nulla risponde
alle buone ragioni del diavolo _loico_, e nulla risponde l'angelo ai
rimproveri del vinto avversario. Ma una tale forma, appunto perchè
troppo semplice e temperata, difficilmente avrebbe potuto appagare
la fantasia dei mistici e del popolo. Talvolta le parole son molte
fra gli avversarii. In una delle Visioni di san Furseo, i demonii
disputano assai dottamente con gli angeli di peccati e di penitenza,
citano le Scritture, e fanno grande sfoggio di dialettica. Sovente alle
parole tengono dietro i fatti. San Gregorio Magno narra di un'anima
contrastata, che i diavoli tirano per le gambe verso l'inferno, e
gli angeli per le braccia verso il cielo. Per l'anima di Baronto
contrastano due demonii e l'arcangelo Raffaele. Disputano un giorno
intero, senza venire a nessuna conclusione: finalmente l'arcangelo,
perduta la pazienza, taglia corto ai ragionamenti, e tenta di tirar
l'anima in cielo; ma invano, perchè l'uno dei demonii l'afferra e la
tira dal lato destro, mentre il suo compagno, da tergo, la tambussa
di calci. La battaglia dura un pezzo e si fa più aspra, con molta
consolazione di quell'anima tapina. Sopraggiungono altri quattro
demonii in ajuto dei due, altri due angeli in ajuto dell'arcangelo.
Dagli e picchia, finalmente quelli han la peggio e questi trionfano.
Alcuna volta furono veduti angeli e diavoli, sotto forma di colombi e
di corvi, combattere insieme pel possesso di un'anima.

Ho accennato anche a combattimenti più generali, in cui erano impegnate
molte milizie dell'una e dell'altra parte, e che avevano ragioni pure
più generali. Una volta, nel deserto, l'abate Isidoro mostrò all'abate
Mosè, dalla parte di occidente l'esercito dei diavoli, dalla parte
di oriente l'esercito degli angeli, quello in procinto di assaltare
i santi uomini, questo pronto a difenderli. Un tale, di cui narra
la visione san Bonifacio, apostolo della Germania, assistette a una
specie di contrasto generale di angeli e di demonii, questi intesi
ad accusar le anime e gravare i peccati, quelli intesi ad alleviare e
scusare. Non sarà finalmente fuor di luogo avvertire che il più antico
esempio conosciuto di contrasto fra angelo e demonio, è nella così
detta Epistola cattolica di Giuda, che i critici hanno comunemente ora
in conto di apocrifa, ma che si trova già ricordata nel secondo secolo
dell'era volgare.

Talvolta, se angeli e santi non riuscivano a tenere a segno i diavoli,
e a far lasciar loro la preda, veniva in mezzo la Vergine e subito la
contesa finiva. In un esempio recato da san Pier Damiano, i diavoli,
dopo avere disputato a lungo con gli angeli, lasciate le parole,
ricorrono alla violenza, e si sforzano di trascinare l'anima in
inferno. Già è men risoluta la difesa degli angeli sopraffatti, quando
appare improvvisa fra i combattenti, in un nembo di luce sfolgorante,
la Vergine cinta di milizie celesti. Si rinnova la disputa, e la
Vergine, riconosciuto non avere i diavoli tutto il torto, ordina
all'anima di rientrare nel corpo e di confessare un gravissimo peccato,
sempre per vergogna taciuto. Così i diavoli rimangono frodati del
loro diritto. Non senza qualche ragione dunque dice Satana a Maria nel
_Giobbe_ del Rapisardi:

                          Gelosa
    Del mio scarso poter sovra i mortali,
    Tu mi contendi ogni vittoria; chiudi
    L'umane orecchie a' detti miei; debelli
    Le mie schiere, le mie reti dismagli.
    Tal che d'ogni conforto e d'ogni preda
    Digiuno in mal feconde opre mi scarno,
    E meno a Dio che a me stesso rincresco.

I contrasti fra Satana e la Vergine sono assai numerosi, e parecchi
tra essi provocati, non dal disputato possesso di un'anima, ma dallo
stesso antagonismo incessante che è tra il bene e il male, tra il
cielo e l'inferno. Tale, e per più rispetti singolare, è quello che nel
XIII secolo compose, in rozzi versi, un frate del terzo ordine degli
Umiliati, Bonvesin o Buonvicino da Riva. Satana in esso si mostra assai
più _loico_ del diavolo di Dante, e oppone alle invettive della Vergine
certi argomenti che danno assai da pensare. Perchè ella, che a tutti
i peccatori è tanto pietosa, non ha per lui pietà alcuna? perchè, tra
gl'infiniti peccati che si commettono tuttodì nel mondo, solamente il
suo, quello per cui egli fu cacciato dal cielo, non può essere espiato?
perchè si compiace ella di defraudarlo continuamente d'ogni suo giusto
guadagno e di torgli quanto per legittimo diritto gli appartiene? Se
ella è madre di Dio, non è a lui che ne va debitrice? perchè senza dì
lui non vi sarebbe stato peccato, e senza peccato non vi sarebbe stato
bisogno di redenzione, e se di redenzione non ci fosse stato bisogno,
ella non avrebbe partorito il Redentore. E perchè Dio non creò lui
così buono che non potesse peccare? E se di tanta grazia non voleva
essergli largo, perchè, antivedendo il suo peccato, lo creò? Se Dio
non l'avesse creato, egli non sarebbe demonio, e non brucerebbe per
l'eternità, senza speranza, nel fuoco d'inferno. Sembra che Dio gioisca
di sua irreparabile miseria. Cristo mori pel peccatore umano, e non già
per lui, demonio: a lui nulla toccò del beneficio della redenzione, e
lo stesso beneficio del peccato gli è tolto continuamente contro ogni
ragione e giustizia. In qualche altro contrasto tiene il luogo della
Vergine Cristo in persona.

Notisi che Satana ha un concetto assai chiaro e saldo del proprio
diritto; di quel diritto che, mercè il peccato dei primi parenti, egli
acquistò sulla umanità tutta intera, e sulla natura; di quel diritto
che Padri e Dottori della Chiesa ripetute volte riconobbero in lui,
e del quale l'opera della redenzione lo spogliò solamente in parte,
non in tutto. Ora, l'affermazione di un tale diritto da parte sua, le
continue lesioni recate ad esso dagli avversarii celesti, i dubbii
circa la sua vera natura e i suoi limiti, danno luogo a una vera
controversia giuridica e a una formal procedura. Ne nasce il così detto
Processo di Satana, che diede materia a giureconsulti di professione, e
di cui sono varie forme.


L'idea di esso sembra essere molto antica e risalire sino a Marcione,
l'eresiarca del secondo secolo. In una delle già citate Visioni di
san Furseo, il demonio e l'angelo non potendosi accordare sopra il
possesso di un'anima, deliberano di appellarsi a Dio. A forma piena
tuttavia il processo non perviene se non per opera del famoso Bartolo
da Sassoferrato (1313-1357), di cui si ha in latino, un _Trattato della
questione ventilata innanzi al Signor Gesù Cristo, fra la Vergine
Maria dall'una parte e il diavolo dall'altra_. Il demonio accusa il
genere umano, Maria lo difende, Cristo è giudice, Giovanni Evangelista
notajo e scrivano della curia celeste. Il processo comincia con una
regolare citazione, e la prima udienza è fissata, a dispetto di Satana,
pel venerdì santo. Satana tenta di ricusare l'avvocata della parte
avversaria per due ragioni, la prima perchè madre del giudice, la
seconda perchè donna; ma non gli riesce. Invoca allora, in appoggio
del suo diritto, la prescrizione, e dall'una parte e dall'altra si
cita a gara con grandissimo impegno il _Corpus juris_. La sentenza,
favorevole al genere umano e contraria al suo avversario, reca la data
del 6 aprile 1311. Più altri processi consimili si hanno in latino,
in italiano, in francese, in tedesco. In essi il querelante è sempre
il demonio, l'accusato il genere umano, o la Vergine Maria, la quale
talvolta si presenta invece come avvocata, il giudice, di solito,
Cristo. Qualche altra volta l'accusato è Cristo medesimo, a cui il
demonio rimprovera di avere, contro il diritto, salvato il genere
umano e spogliato l'inferno. Nel _Processus Luciferi_ di Jacopo degli
Ancarani da Teramo (m. 1410), la causa va di appello in appello,
giudicata prima da Salomone, poi da Giuseppe, finalmente da Geremia,
Isaia, Aristotile, Augusto imperatore. Lucifero è condannato ai danni
ed alle spese. Il processo si fa sempre più complicato e più lungo.
Quello composto sul finire del secolo XVI dal poeta drammatico tedesco
e dottore in ambe le leggi Jacopo Ayrer, conta, nella edizione del
1680, senza l'indice, 860 pagine in quarto. In tutti il demonio si
mostra valentissimo legulejo, ma senza frutto. In un poemetto francese
del secolo XIV, l'_Advocacie Nostre Dame_, egli, dopo avere addotto
inutilmente in sua difesa molte e ottime ragioni, vedendo che nulla gli
giovano, se ne va esclamando:

    Ah! qu'est justice devenue!

Ma per lui non v'è giustizia, come non v'è misericordia. Nemmeno nel
proprio suo regno, nemmeno in inferno, egli può tenersi sicuro dalle
offese degli avversarli. Cristo vi discese una volta, e ne trasse
tutto un popolo di anime: la Vergine, gli angeli, i santi, vi scendono
ancora, come abbiam veduto, di tanto in tanto, e vi turbano gli
ordini stabiliti sotto la sua signoria, concedono, senza chiedergliene
licenza, alleviamento di pena e riposo ai dannati. Anzi fanno assai
più: strappano i dannati all'inferno e, dopo ragionevole espiazione,
o anche senza di essa, li portano in cielo a godere della beatitudine
eterna. Questi casi non sono, se vogliamo, tanto frequenti, ma non sono
nemmen poi tanto rari. A furia di preghiere san Gregorio Magno liberò
dall'inferno l'anima di Trajano imperatore. Sant'Agostino racconta
come Dinocrate fu liberato per le preghiere di sua sorella Perpetua.
Santa Viborada liberò nello stesso modo un fanciullo, e sant'Odilone,
abate di Cluny, rese tale servigio all'anima di Benedetto IX papa,
che veramente non lo meritava. Di un certo Evervach, dannato, a cui
Dio permette di tornare al mondo per farvi penitenza, narra Cesario di
Heisterbach, e sono numerose le leggende in cui tale miracolo si compie
per intercessione della Vergine. In un dramma, o Mistero tedesco della
fine del secolo XV, si vede la stessa papessa Giovanna, di leggendaria
memoria, liberata dall'inferno, e condotta in cielo, per le preghiere
di Maria Vergine e di san Niccolò, e per le mani dell'arcangelo
Michele, che respinge con la spada i diavoli contrastanti. Ma c'è di
più. Nella Visione di un monaco Ansello (sec. X) si dice che tutti
gli anni, nel giorno della Risurrezione, Cristo scende all'inferno, e
libera le anime dei peccatori meno malvagi. In un favolello francese,
un giullare, lasciato dai diavoli a custodia dell'inferno, giuoca le
anime a dadi con san Pietro, il quale vince, e tutte le conduce in
paradiso. Tra esse ci doveva essere anche l'anima di Aristotile, la
quale non aveva potuto prima ottener tanta grazia. Nella Vita di san
Bonifacio vescovo di Losanna (m. 1258 o 1259) si legge che questo santo
aveva gran dispiacere della dannazione di Aristotile, e spesso pregava
Dio perchè volesse salvarlo, finchè un giorno venne una voce dal cielo,
e gli disse che ogni sua preghiera era inutile, giacchè Aristotile non
aveva fondato la chiesa di Cristo, come poi fecero san Pietro e san
Paolo.


Come si vede, se grande era la potenza di Satana e degli spiriti suoi,
più grande era la potenza di Dio, e della Vergine, e dei santi, e
degli angeli. La croce trionfava dell'inferno, era a un tempo stesso
arme e simbolo di vittoria. Cristo era maggior signore di Satana, e la
storia di quel buon gigante che fu san Cristoforo mette questa verità
in azione. Cristoforo era un uomo di terribile aspetto, e alto dodici
cubiti, cui venne in fantasia di voler servire il maggior signore che
fosse nel mondo. Andò a trovare un gran re, di cui diceva la fama che
fosse il più possente di tutti e il più magnifico, e si pose ai suoi
servigi. Avvenne un giorno che uno di quei giullari di corte si mise a
cantare una sua canzone in cui ricorreva frequente il nome del diavolo,
e il re, ch'era cristiano, ogniqualvolta l'udiva pronunziare si faceva
il segno della croce. Stupì Cristoforo, e ne chiese la ragione, e
saputo che il re si segnava a quel modo per difendersi dal demonio,
comprese questo essere maggior signore di quello, e osservando il
suo proposito, subito si partì e andò in traccia del nuovo padrone.
Camminando per certa solitudine, trova uno sterminato esercito, il
cui capitano, fiero e terribile in vista, gli chiede ove vada e la
cagion dell'andare. Io vado cercando, risponde Cristoforo, messer lo
demonio, perchè voglia tormi al suo servigio. “Colui che tu cerchi sono
io medesimo.„ dice il capitano, e Cristoforo, lieto dell'incontro,
gli si obbliga servitore in perpetuo. Se ne vanno in compagnia, e
in certa strada trovano una croce. Vedutala appena, il demonio, pien
di terrore, scappa, e trascinandosi dietro il nuovo servo, passa per
luoghi aspri e deserti, e solo in capo di certo tempo ritorna sulla
strada di prima. Si meraviglia Cristoforo, e vuol sapere la ragione
del fatto. Il diavolo, sebbene mal volentieri, gliela dice: “Sappi che
un uomo, chiamato Cristo, fu appeso in croce, ed io temo assai questa
croce, e fuggo quando la veggo.„ E Cristoforo: “Quel Cristo è dunque
maggiore e più possente di te? Orbene, rimanti in buon'ora, perchè io
voglio servire, non te, ma lui.„ Ciò detto si parte, e dopo avere a
lungo chiesto e cercato di Cristo, trova un'eremita che lo istruisce
nella fede cristiana, e gli fa conoscere quel padrone da cui più non si
partirà.



CAPITOLO XIV.

IL DIAVOLO RIDICOLO E IL DIAVOLO DABBENE.


Satana si mostra sotto due diversi e contrarii aspetti, di vincitore
e di vinto. Vincitore, egli appare terribile, e riempie gli animi
di orrore e di paura; vinto, appar soltanto vituperoso, e provoca il
disprezzo ed il riso. Allora, coloro stessi che hanno tremato al suo
nome, si rinfrancano, e allegramente si fanno beffe di lui. Bisogna
notare ancora che, indipendentemente dalle disfatte cui soggiaceva
troppo spesso, Satana, nel concetto popolare, non poteva serbare
intera la terribilità sua, ma doveva assumere, in certe determinate
condizioni, un carattere più mite, e starei per dire più umano. Il
popolo, tratto dall'indole del suo pensiero, e più da un bisogno
dell'anima, ha sempre famigliarizzato, più o meno, i suoi numi. Le
plebi cristiane fecero scendere di cielo in terra, andar gironi pel
mondo, entrare nelle case degli uomini, assidersi alle lor mense,
attendere a mille svariate faccende, non pure gli angeli e i santi e
la stessa Vergine Maria, ma ancora Gesù Cristo e Dio Padre. Come non
avrebbero esse dato talvolta un consimile carattere di famigliarità
al diavolo, a quel diavolo che essi credevano fosse continuamente in
mezzo a loro, e il cui nome ricorreva così frequente nei loro discorsi?
In un grandissimo numero di credenze e di fiabe popolari noi vediamo
comparire un diavolo profondamente diverso da quello dei teologi e
delle leggende ascetiche, un diavolo che ha figura e indole d'uomo,
ha una casa come hanno gli uomini, faccende e brighe quali potrebbe
avere un agricoltore o un artigiano; un diavolo che mangia, bee e veste
panni, è qualche volta indebitato, qualche altra ammalato, e nulla più,
o ben poco, serba di diabolico. Questo diavolo ammansato non si chiama
più con nomi solenni o terribili, ma con nomi umili, ridicoli gli uni,
quasi carezzevoli gli altri: Farfanicchio, Fistolo, Berlic, Farfarello,
Tentennino, Culicchia, Ticchi-Tacchi in Italia; Old Nick, Gooseberry in
Inghilterra; Don Martin o Martin Piñol in Ispagna, e così via.


Durante tutto il medio evo l'aspetto sotto cui si rappresenta il
diavolo, se ha del terribile, ha più del ridicolo. Veggasi come, non
immaginando di suo capo, ma seguitando la tradizione, Teofilo Folengo
dipinge il diavolo Rubicano nella decimottava maccheronea del _Baldo_:

      Ille super lapidem ventosis fertur ab alis,
    Quæ sunt de guisa veluti gregnapola gestat.
    Quattuor in testam fert stantes vertice cornas,
    Instar montonis tortas, dependet aguzzus
    Nasus, qui semper vomit atro sulphure flammas.
    Plus asini longas hinc inde volutat orecchias.
    Deque cavernosis oculis duo brasida volgit
    Lumina, nec minor est muso sua bocca lupino,
    Extra quam dentes ut porcus grignat aguzzos.
    Barba velut becchi marzo de sanguine pectus
    Imbrattat, quo testa canis stat ficca tesini,
    Quæ semper bau bau faciens sua labra biassat.
    Vergognosa caput serpentis pars sua vibrat
    Sibila, sed retro dependet cauda leonis.
    Gambæ subtiles pedibus gestantur ochinis,
    Undique sulphureum da corpore mittit odorem.

Baldo e i compagni, vedendo gli scambietti e sberleffi suoi, schiattano
dal ridere.

Nè i demonii son sempre torvi e dispettosi; anzi ridono volentieri fra
loro, e talvolta eccitano al riso gli uomini, con lazzi e capestrerie
da buffoni. Un sant'uomo, ricordato da san Gerolamo, vide un giorno
un diavolo che sgangheratamente rideva. Chiestagliene la cagione,
quegli rispose che un suo compagno diavolo, il quale stava seduto
sullo strascico di una donna, era tombolato per terra nel momento
che, dovendo passare un luogo fangoso, la donna s'era tirata su
la veste. San Caradoc, essendosi un giorno stancato a lavorare, si
tolse la cintura e la tonaca e le gettò in un canto. Venne il diavolo
furtivamente e tolse la cintura con la borsa che v'era appesa. Andato
il santo per riprenderle, non le trovò, e vide poco lungi il demonio
che ruzzava allegramente.

Il diavolo ridicolo è anche un diavolo rimminchionito, al quale si
possono dare ad intendere le più gran panzane di questo mondo, che
si lascia abbindolare da false promesse, non vede i tranelli che gli
si tendono, e dà spesse volte prova della più strana e più supina
ignoranza. D'ingannatore, egli si tramuta in ingannato, e dove soleva
guadagnare, perde. Il primo e maggiore inganno gli è fatto da Dio.
Secondo alcuni Padri, l'opera della redenzione non fu se non una divina
e solenne frode ordita ai danni del nemico, il quale fu preso come un
pesce all'amo, con l'esca della croce. Il diavolo s'immaginò di potere
aver l'anima di Cristo in cambio delle anime degli uomini, e perdette
queste, senza potere guadagnar quella. In più di una novellina popolare
si vede Dio ingannare il demonio con promesse e concessioni di cui
questi non può in nessun modo giovarsi.

Così ancora lo ingannano i santi e gli uomini comuni. Un giorno, in
una caverna, Virgilio mago trova un demonio, il quale per arte di
negromanzia era stato chiuso in un foro suggellato. Il demonio prega
il poeta di liberarlo da quell'angustia, e il poeta acconsente, a
patto ch'ei gli insegni la magia. Tolto il suggello, il demonio esce
fuori, e mantien la promessa; ma allora Virgilio mostra di dubitare
ch'ei potesse capir veramente in così angusta prigione. Il demonio,
per farnelo certo, ci si raccoglie novamente dentro, e Virgilio, chiuso
il foro come prima, se ne va pei fatti suoi. Press'a poco allo stesso
modo, Paracelso trasse fuor da un abete un diavolo, e poi ve lo fece
rientrare, dopo avere ottenuto da lui una medicina che sanava tutti i
mali, e una tintura che mutava ogni cosa in oro.

Altri inganni si hanno in numerosi racconti popolari. Un contadino si
obbliga di dar l'anima al diavolo, a patto che questi gli costruisca
una casa, o gli ari un campo, o gli renda altro servigio, prima che il
gallo canti. Il diavolo si pone all'opera tranquillamente; ma quando
egli sta per finire, il contadino con qualche sua astuzia induce il
gallo a cantare, e quegli è forzato di partirsi, senza aver premio
alcuno della sua fatica. Il diavolo, in beneficio di tale o tale città,
costruisce un ponte, con la condizione che l'anima del primo che vi
passerà sopra gli abbia ad appartenere. Costruito il ponte, ci si fa
passar sopra un cane, o altro quadrupede, e il diavolo deve contentarsi
di quella preda. Di più d'uno si racconta che, invece dell'anima e del
corpo, lasciò al diavolo l'ombra. Il diavolo insegnava una volta magia
nella città di Salamanca. Egli aveva dichiarato ai suoi uditori che,
a corso finito, avrebbe tolto in pagamento, anima e corpo, colui che
rimarrebbe ultimo nell'aula. Venuto il giorno stabilito, gli uditori
traggono a sorte chi debba soddisfare il debito. Rimane ultimo uno
studente, il quale al diavolo, che sta per ghermirlo, addita l'ombra
propria sul muro. Il diavolo, stimandola persona, s'avventa per
acciuffarla, e intanto lo studente se la svigna. Questa novelletta
diede argomento a una poesia di Teodoro Körner. Nel noto romanzetto del
Chamisso il diavolo si toglie l'ombra di Pietro Schlemihl, ma sapendo
ciò ch'ei si fa.

La dabbenaggine e la credulità di certi diavoli minori passano ogni
limite. Il trovero francese Rutebeuf, già ricordato, narra di uno, che
pensandosi di raccogliere in un sacco l'anima di un villano moribondo,
raccolse.... un'altra esalazione. È celebre il diavolo di Papefiguière,
di cui racconta le miserevoli avventure il Rabelais. Di grandissima
dabbenaggine danno pure esempio i diavoli che vengono sulla terra a tor
moglie, come quel Belfagor, di cui narrano la storia il Machiavelli e
lo Straparola, e quell'altro di una novella popolare spagnuola, chiuso
dalla suocera in un fiasco, e abbandonato sulla cima di una montagna.


I diavoli che Dante trova nella quinta bolgia del cerchio ottavo,
se hanno del terribile, hanno anche del comico, sia nell'aspetto e
negli atti, sia nei nomi. Essi sono Malacoda, Scarmiglione, Alichino,
Calcabrina, Cagnazzo, Barbariccia, Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto,
Graffiacane, Farfarello, Rubicante, e hanno per giunta il nome
collettivo di Malebranche. Essi stringono la lingua coi denti per
far cenno al loro duce, come è usanza dei monelli, e il loro duce fa
trombetta di ciò che non occorre rammentare. Si lasciano ingannare
da Ciampolo, o chi altri si sia il _famiglio del buon re Tebaldo_, e
due di loro, Alichino e Calcabrina, si azzuffano per ciò, e cadono
nel bel mezzo del bollente stagno, d'onde i compagni li traggono
coi raffii. Somigliantissimi a questi di Dante sono i diavoli che si
vedono trescare per entro ai Misteri e alle Moralità del medio evo e
della Rinascenza, e l'officio principale loro è quello di far ridere
gli spettatori, con l'aspetto buffonescamente mostruoso, coi lazzi
e con le smorfie, rincorrendosi e picchiandosi sulla scena. Essi
appajono frequentissimi in drammi di sacro argomento francesi, inglesi,
tedeschi; molto meno nelle Sacre Rappresentazioni italiane.

In un Mistero francese composto nella seconda metà del secolo XV da
Arnoul Greban, e intitolato _La nativitè, la passion et la résurrection
de N. S. Jésus-Christ_, Mistero che conta 34574 versi e non meno di
393 personaggi, sono parecchie scene in cui i demonii hanno parte
assai ridicola. Saputo che il mondo sta per essere redento, Lucifero
fa convocare a suon di tromba tutti i demonii: chi non risponde alla
chiamata, chi manca al consesso, è frustato senza pietà, trascinato
sulle natiche attraverso l'inferno, immerso sette volte nel più
profondo del pozzo infernale. Satana, di ritorno dalla terra, ove
non ha potuto in modo alcuno nuocere a Cristo, è scamatato a dovere,
sebbene si appelli all'inferno tutto. In un'altra scena, Satana,
Astarot e Berich sono presenti all'ascensione di Cristo; ma Satana
solo può dire d'averla veduta. Astarot, quando vuole alzar gli occhi
al cielo, cade riverso con le gambe all'aria, e Berich riceve un gran
picchio sul capo. Si risolvono di tornare in inferno, sebbene sappiano
qual festa li aspetti:

    _Astarot_: Ce ne sera pas sans sentir
               des miches de nostre couvent.

    _Berich_: Bé! nous en sentons bien souvent,
               par quoy ne m'en fait point si mal.

Un'altra volta Satana è legato con catene arroventate e trascinato per
l'inferno: Lucifero gli domanda se suda. Nel Mistero di San Desiderio,
composto circa quello stesso tempo da Guglielmo Flamang, i diavoli
escono in vantamenti ridicoli, adoperando un linguaggio ridicolo e
sconcio. In un altro, intitolato _Pierre le changeur marchand_, i
diavoli, vedendosi tolta per intercession della Vergine un'anima,
inveiscono arrabbiati e confusi contro Dio, che pronunziò sentenza a
loro sfavorevole:

    Autrement ne l'oseroit faire,
    Et s'il le faisoit, abatuz
    Seroit de sa mère et batuz
    Dessus ses fesses.

In un Mistero tedesco della Passione Lucifero parla ai demonii della
caduta sua e loro e della superbia che ne fu la cagione; ma quelli
lo ingiuriano e lo picchiano, perchè non vogliono udir prediche. In
un altro Mistero tedesco, intitolato la _Resurrezione di Cristo_, e
composto nel 1464, Lucifero, dopo aver veduto spogliato il suo regno
dal Redentore, è messo in una botte e legato con catene. Satana e gli
altri demonii si partono in busca di anime da predare; ma, partiti
appena, Lucifero li richiama, e tanto si sgola per farsi udire da loro
che gliene viene mal di capo. Ritornati quelli. Lucifero non sa più
perchè li abbia chiamati, ed essi lo rimproverano e si dolgono delle
anime perdute. Satana si mette di nuovo in viaggio, e prolungandosi
l'assenza di lui, Lucifero comincia a essere in angustie, e a
temere di qualche disgrazia. Sarebbe egli ammalato? l'avrebbero per
caso accoppato? Finalmente Satana ritorna, portando l'anima di un
ecclesiastico, e Lucifero a ridere, meravigliandosi che capitino in
inferno coloro che dovrebbero guidar gli altri in paradiso; ma l'astuto
ecclesiastico gli risponde per le rime, e lo assorda con le parole per
modo, che quegli ordina di lasciarnelo andare al più presto.

Ricorderò ancora una commedia spagnuola, dove il diavolo fa assai
trista figura, _El diablo predicador_, d'ignoto autore. La commedia
è del secolo XVII, ma assai più antica di certo è la novella che le
dà il soggetto. Il diavolo ha con sue arti messo in mala vista della
popolazione un convento di francescani nella città di Lucca. I poveri
frati sono a mal partito, quando l'arcangelo Michele scende di cielo
col bambino Gesù in braccio, e ordina al calunniatore di riparare al
mal fatto, e di riporre i calunniati nella riputazione di prima. Si può
immaginare con che gusto il diavolo eseguisca il comando.

Il diavolo Scarapino, che il Bojardo descrive in un luogo dell'_Orlando
Innamorato_, appartiene alla famiglia dei diavoli ridicoli:

      Era un demonio questo Scarapino,
    Che de l'inferno è proprio la tristizia,
    Minuto è il giottarello e piccolino.
    Ma bene è grosso e grande di malizia;
    A la taverna, dove è miglior vino,
    O del gioco e bagascie la divizia.
    Nel fumo de l'arrosto fa dimora,
    E qua, tentando ciaschedun, lavora.

Alla stessa famiglia appartengono i diavoli che Lorenzo Lippi
introdusse nel suo _Malmantile_.


La derisione che colpiva il diavolo doveva, o prima o poi,
naturalmente, colpire anche certe cose che si supponeva avessero
stretta attinenza con lui, fossero da lui favorite e promosse: la
magia e le strane sue pratiche. E questa derisione comincia appunto
a farsi sentire quando cominciano a imperversare i processi contro le
streghe. Nessuno la fece sonar più alto di Teofilo Folengo, l'arguto,
immaginoso e festevole autore del _Baldo_, il principe dei maccheronici
(1496-1544). Nella maccheronea VII di questo poema egli si burla
dei domenicani, cui era affidata la inquisizione, e dice essere loro
officio porre le streghe a cavallo degli asini,

    Officiumque gerunt asinis imponere stryas.

Nella maccheronea XXI descrive in modo oltre ogni dire ridicolo
l'officina, la scuola, il lupanare delle streghe, nel regno di
Culfora, e si scusa di non dire tutto ciò che sa, trattenuto dalla
paura degl'inquisitori, i quali potrebbero giudicarlo degno della
mitera e del rogo. In una scena della sua _Cortegiana_, Pietro Aretino
introduce l'Alvigia a piangere la morte della maestra sua, una vecchia
strega che l'Inquisizione fa abbruciare; che era tenuta “una Salamona,
una Sibilla, una Cronica da sbirri, da osti, da facchini, da cuochi,
da frati e da tutto il mondo;„ che osservava tutte le vigilie, e
che a lei, sua scolara, lascia tutte le sue masserizie e le cose
del mestiere: un'ampolla piena di lagrime d'amanti, carta non nata,
orazioni da far dormire, ricette da far ringiovanire, un diavolo chiuso
in un orinale, ecc. ecc. In una scena della _Spiritata_ del Lasca dice
il Trafela: “Come altri s'intabacca e comincia punto a credere a malie
e streghe, agli spiriti e agl'incanti, si può dir ch'ei sia l'oca;„
e spesso i negromanti e le operazioni magiche sono argomento di celia
nelle commedie e nelle novelle nostre del Cinquecento.

Quel capo ameno (per non dirgli altro) di Benvenuto Cellini racconta
nella sua Vita una curiosa istoria, che fa molto al proposito nostro, e
che qui non può essere passata sotto silenzio. Egli aveva, _per certe
diverse stravaganze_, presa amicizia in Roma con un prete siciliano,
di molto ingegno, di gran sapere, e assai profondo in negromanzia.
Confidato a costui come tutto il tempo di vita sua avesse avuto
grandissimo desiderio di vedere o udire alcuna cosa di quell'arte,
n'ebbe promessa che ogni sua voglia sarebbe stata appagata, se si
sentiva d'animo forte e sicuro, quale richiedeva l'impresa. Una notte,
tolti con sè due compagni, se ne andarono nel Colosseo, e quivi il
prete, paratosi secondo l'usanza, cominciò a disegnar circoli in terra,
a bruciar profumi, a fare scongiuri, e quanto altro abbisognava. Dopo
un'ora e mezzo che queste cerimonie duravano, comparvero parecchie
legioni di diavoli, tanto che il Colosseo n'era pieno, e Benvenuto,
invitato a domandar qualche cosa, domandò di poter essere con la sua
Angelica siciliana. Per quella notte non ebbe risposta, e il prete gli
disse che bisognava tornarvi un'altra volta, e ch'ei menasse con sè
_un fanciulletto vergine_. Così fu fatto. Ricominciate le cerimonie
e ripetuti gli scongiuri, più solenni quelle e più terribili questi,
non andò molto che il Colosseo fu pieno di cento volte più diavoli
che non ne fossero apparsi la prima fiata. Benvenuto rifece la sua
domanda, e n'ebbe risposta che in capo di un mese il desiderio suo
sarebbe appagato; ma tanto era il numero dei demonii, e così minaccioso
l'aspetto loro, che il prete cominciò a smarrirsi e a tremare, e con
lui i compagni, e Benvenuto medesimo. Il negromante allora cominciò
a usare modi dolci e soavi, per vedere di licenziare quei maledetti,
e raccomandò di bruciare dell'assa fetida. In quel punto, un dei
compagni, certo Agnolino Gaddi, il quale era mezzo morto di paura,
fu colto da una irresistibile e strepitosa soccorrenza di ventre, la
quale, dice Benvenuto (che usa parole più significative e più spicce),
ebbe maggior virtù che non l'assa fetida. Benvenuto allora si mise
a ridere, e il fanciullo, levati a quel riso gli occhi, disse che i
diavoli _se ne cominciavano andare a gran furia_, e quando venne a
sonar mattutino, disse il fanciullo che pochi ancora ne rimanevano
e discosto. Dopo un altro po' il prete, Benvenuto e gli altri se ne
uscirono dal circolo in cui s'erano tenuti stretti, e senz'altro danno
che della paura avuta se ne tornarono alle lor case.

Il diavolo ridicolo è, se non meno tristo in sè, certo meno pericoloso
e nocivo del diavolo serio, e facilmente si passa da lui al diavolo
dabbene. Dare il predicato di buono al diavolo, il quale è il principio
stesso del male, pare che non si possa senza contraddizione patente;
e pure gli è un fatto che il popolo immaginò una specie di diavolo
buono, contrapposto al diavolo malvagio, e che teologi di professione
pensarono a una possibile, o a dirittura necessaria conversione finale
dei superbi ribelli.

E qui mi bisogna ricordar di nuovo che non tutti gli angeli caduti
avevano peccato a un modo ed erano egualmente malvagi. Molti ce ne
furono, secondo afferma Origene, che nella gran battaglia combattuta
nei cieli, erano rimasti neutrali, e son quelli di cui Dante dice che

                            non furon ribelli,
    Nè fûr fedeli a Dio, ma per sè foro.

Dante li pone nel vestibolo dell'inferno, insieme con

                 l'anime triste di coloro
    Che visser senza infamia e senza lodo.

E prima e dopo di Dante altri ebbe a dire di loro. Nel corso della sua
avventurosa navigazione san Brandano giunse ad un'isola, dove trovò un
albero meraviglioso, popolato di uccelli candidissimi, i quali erano
appunto angeli caduti, ma non malvagi. Essi non soffrivano castigo; ma
eran fuori dell'eterna beatitudine. Ugone d'Alvernia trovò angeli così
fatti vicino al Paradiso terrestre, i quali lodavano Dio ed erano senza
castigo alcuno la domenica.

Il diavolo dabbene si dà anzi tutto a conoscere come diavolo
servizievole; egli ajuta gli uomini nei pericoli e nei bisogni,
spontaneamente, senza mala intenzione, e senza chiedere premio alcuno,
o contentandosi di piccolissimo compenso. Gli esempii e le prove sono
innumerevoli.

In molti racconti si vede un demonio trasportar per l'aria, da luogo
a luogo, e a distanze grandissime, un eroe, affinchè egli possa
giungere in tempo a recar soccorso, o a impedire che si compia alcuna
cosa in suo danno. Un giorno d'inverno (così si narra in una vecchia
cronaca tedesca) un povero demonio tutto intirizzito dal freddo
entrò in casa del cavaliere Wernhard von Strätlingen. Questi, mosso
a compassione, gli regala un mantello; poi, da lì a qualche tempo va
in pellegrinaggio. Viaggio facendo, è preso e trattenuto prigione sul
monte Gargano. Allora gli appare il diavolo con in dosso il mantello
donatogli, e gli dice d'essere mandato dall'arcangelo Michele per
riportar lui a casa, ove la moglie sua sta per rimaritarsi. E lo
riporta a casa davvero.

Parecchi altri cavalieri e parecchi santi viaggiarono a questo stesso
modo, senza che la magia c'entrasse per nulla. Di sant'Antidio, morto,
come si crede, nel 411, raccontano che si fece portare a Roma da un
diavolo per dare una lavata di capo al papa, il quale aveva commesso
non so che peccatuzzo contro il sesto comandamento.

Di molti diavoli si legge che servirono volonterosamente in casa di
persone dabbene e persino in conventi. Certo, questi servigi loro
non sempre erano disinteressati, e potevano recare pericolo grande
a chi se ne giovava. Nel VI secolo sant'Erveo scoverse un diavolo
sotto le vesti di un servitore, in casa del conte Eleno, e un altro
ne scoverse nel convento del santo abate Majano: entrambi confessarono
le malvage loro intenzioni. Gualtiero di Coincy narra la storia di un
demonio, che si pose ai servigi di un ricco uomo, e tentò, non solo
di distorlo dalla virtù, ma di ucciderlo a dirittura. Questa poteva
esser la regola; ma anche tra i servitori diavoli qualcuno di buono
se ne trovava. Un diavolo si pone per valletto con un cavaliere, e lo
serve con somma fedeltà e discrezione, anzi, in certa congiuntura,
scampa lui e la moglie da sicura morte. Scopertane la natura, il
cavaliere non osa più tenerlo con sè, ma gli dice di chiedere qual
premio più gli piaccia de' suoi servigi. L'onesto demonio chiede una
piccola somma, e avutala la restituisce al padrone, pregandolo di voler
comperare con essa una campana per certa chiesa povera. Così racconta
il nostro Cesario. Un altro diavolo stette più tempo ai servigi del
vescovo di Hildesheim, secondo attesta il Trithemio. In un vecchio
racconto italiano si legge di un diavolo che stava con certi monaci
e faceva con grandissima diligenza e puntualità il lavoro di dieci
servitori: “onde subitamente apparecchiava la mensa e sparecchiava, e
spazzava, e lavava le scodelle, e così molti altri servigi: e che più
è, sonata la prima volta al mattutino, toglieva un bastone e picchiava
le celle, sollicitandogli ch'andassero a dire mattutino nella chiesa.„
Un esempio ancora e poi potrà bastare. Il cronista tedesco Bernardo
Hederich (secolo XVI) racconta la storia di un diavolo, il quale servì
lungo tempo onestamente in un convento di francescani, nella città di
Schwerin, e non chiese al partirsi altro premio che una veste di più
colori, con molti sonagli intorno, già pattuita innanzi.

Ma anche in altro modo sanno rendersi utili i diavoli dabbene. Uno di
essi una volta fece scommessa coll'arcangelo Michele a chi avrebbe
fabbricata la più bella chiesa sul monte di Normandia che appunto
ha nome dall'arcangelo. Un altro giunse a insegnare a san Bernardo
sette versetti dei salmi, che, recitati ogni giorno, assicuravano
il paradiso. Un altro, senz'essere richiesto, trasportò l'anima di
un cavaliere ammalato a Roma e a Gerusalemme, e gli fece racquistare
la sanità perduta. Questi erano certamente diavoli nobili e di gran
levatura: quelli di minor conto facevano ciò che potevano. Cesario
racconta di uno che per una cesta d'uva custodì una vigna.


Che diremo del diavolo credente, che recitava orazioni e confessava le
verità della fede? Di uno, che entrato in corpo a una vecchierella,
cantava inni, salmi e il _Kyrie eleison_, si narra nella Vita di san
Giovanni Gualberto. Nella storia popolare di Fausto ricordata più
sopra, questi ragiona di teologia con Mefostofile. Il demonio dice,
con molta verità, della bellezza ond'era adorno nel cielo il suo
signore Lucifero; della caduta sua e degli angeli ribelli, provocata
dalla superbia; delle tentazioni che i diavoli adoperano contro gli
uomini; dell'inferno e de' suoi tremendi castighi. Una volta Fausto gli
domanda: “Se tu fossi uomo e non demonio, che faresti per piacere a Dio
e agli uomini?„ ed egli risponde sorridendo: “Se io fossi uomo, come tu
sei, io m'inchinerei dinanzi a Dio sin che avessi fiato, e farei quanto
fosse da me per non l'offendere e per non muoverlo a sdegno. Osserverei
la sua dottrina e la sua legge; non invocherei, loderei, onorerei se
non lui, e mi guadagnerei così dopo la morte, la beatitudine eterna.„

Ma il più savio, buono e cortese diavolo che mai sia stato al mondo
è quell'Astarotte che Luigi Pulci introduce in certa parte del suo
_Morgante Maggiore_. Malagigi, il mago benefico, ha scoperte le frodi
del traditor Ganellone, e prevede la sciagura che sta per incogliere
Orlando e gli altri paladini in Roncisvalle. Egli allora evoca il
demonio Astarotte per sapere dove sieno Rinaldo e Ricciardetto.
Astarotte narra una lunga storia delle loro avventure in Asia ed in
Africa, poi, a un certo punto gli scappa detto che il Figliuolo non sa
tutto ciò che sa Dio Padre. Malagigi rimane di ciò confuso, e vuole
averne ragione; ed ecco il diavolo entrare in un nuovo discorso, in
cui molto dottamente, e in modo al tutto ortodosso, ragiona della
Trinità, della creazione, della caduta degli angeli; e avendo Malagigi
notato che questa caduta non par si concilii con la infinita bontà
di Dio, egli va sulle furie, e afferma che Dio fu egualmente buono e
giusto per tutti, e che i caduti non d'altri si debbono dolere che di
sè stessi. Dopo di ciò, tolto in sua compagnia il demonio Farfarello,
se ne va in Egitto, per prendere Rinaldo e Ricciardetto, cui usa,
tornando, mille cortesie. Provvede vivande squisite, sventa l'inganno
di un altro demonio, Squarciaferro, mandato da un negromante nemico,
e a Rinaldo descrive molti strani animali che sono in Africa e in
Asia, e chiarisce, come a Malagigi, alcun punto più oscuro della fede,
affermando che

    Vera è la fede sola de' Cristiani,
      E giusta legge, e ben fondata e santa.

Giunti tutti insieme in Roncisvalle, egli, nell'accommiatarsi, può dir
con ragione:

    Non creder nello inferno anche fra noi
      Gentilezza non sia;

e Rinaldo, che del suo partire si duole, _quanto fussi fratello_,
afferma di credere che sia in inferno,

    Gentilezza, amicizia e cortesia;

invita lui, e Farfarello, e Squarciaferro ancora, fatto di nemico
amico, a venirlo a vedere, e prega Dio che perdoni loro.

Il diavolo zoppo del Guevara e del Lesage è, esso pure, un buon diavolo.


Fu notato che nel diavolo bonario e servizievole riappajono alcuni
caratteri proprii di esseri mitologici benigni, come gnomi, elfi,
silfi; ma il concetto di un diavolo così fatto, anzi di un diavolo che
potesse ravvedersi e redimersi, doveva sorgere spontaneamente negli
animi, senza bisogno di suggestioni derivate di lontano.

Nel secondo e nel terzo secolo dopo Cristo, Giustino, Clemente
Alessandrino e il grande Origene ammisero come possibile, o a dirittura
come necessario, il ravvedimento del diavolo; Didimo di Alessandria
e Gregorio di Nissa professarono nel IV la stessa opinione. Ma la
opinione contraria, che cioè il diavolo non potesse pentirsi, e
che la dannazione sua fosse eterna e irreparabile, prevalse, e dal
sesto secolo in poi fu considerata come la sola ortodossa. Nel medio
evo la eretica dottrina non è più sostenuta che da Scoto Erigena, e
sant'Anselmo la combatte ad oltranza; san Tommaso, lume della teologia,
nega recisamente che il diavolo possa diventar migliore. Nella Vita
di san Martino, scritta da Venanzio Fortunato nel sesto secolo, si
dice che il diavolo, se potesse pentirsi, sarebbe salvo; ma ciò che
si negava appunto era la possibilità del pentimento in lui, e per
negare quella possibilità, senza da altra banda negare il libero
arbitrio, il quale era in lui non meno che negli uomini, si annaspavano
strane e sottili dottrine; si diceva, per esempio, che il diavolo
non poteva fare penitenza, per non essere in lui che una sola natura,
la spirituale, mentre l'uomo, in virtù della penitenza, ascendeva da
carne a spirito. Ma i teologi di professione avevano un bell'annaspare
e un bell'arzigogolare; il popolo, il quale sente assai più che non
ragioni, non riuscì mai a capacitarsi interamente di quella malvagità
non necessaria, e pure irrimediabile del diavolo; ammise, se non altro,
in più di un demonio, il desiderio di far penitenza; e se l'avessero
lasciato fare, qualcuno in cielo ne avrebbe portato di certo. Ebrei e
maomettani furono in ciò più larghi di manica che non i cristiani. Fu
opinione dei rabbini, che come l'inferno un giorno sarà purificato e
santificato, così i demonii saranno convertiti novamente in angeli; e
di demonii convertiti si parla nel Corano.

Desiderio del cielo perduto, e pentimento della stolta ribellione
mostrarono in varii tempi più diavoli. Di uno, assai degno di
compassione, racconta l'inesaurabile Cesario: in un vecchio poema
inglese, _The develis parlament or parlamentum of feendis_, diavolo
si oppone a Cristo venuto a liberare le anime dell'inferno, e non
potendogli contrastare, chiede di essere liberato con loro. Da questo
desiderio di redenzione poteva nascere la volontà di adoperare i mezzi
che conducevano a redenzione: si capisce per altro come quei mezzi
dovessero riuscire alquanto ostici a diavoli di professione, e come,
fattone il saggio, questi smettessero e si tirassero indietro.

Sant'Ipazio domandò una volta a un diavolo perchè non si pentisse,
mentre, pentendosi, avrebbe potuto ottenere facilmente perdono: il
diavolo ch'era dei più protervi, non volle riconoscersi peccatore. Era
questo, come ognun vede, un assai cattivo principio, perchè la prima
cosa che il peccatore ha da fare è di riconoscere d'aver peccato, e
pentirsi. In un contrasto italiano fra Cristo e Satana, questi si lagna
dei Redentore, che amò l'uomo, creatura vile, più di lui, creatura
angelica, e l'uomo redense, lasciando lui in disperata miseria. Cristo
gli dice: “Se io non t'ajuto, questa sì è la casgione che tu medesmo
non ti vuoli ajutare. Perciò ajuto l'omo ch'elli medesmo s'ajuta.
Così salverei io tei come lui, se tu ti vollessi ajutare pentendoti
et adorandomi et dimandandomi misericordia et dicendo tua colpa et
adorandomi come singnore.„ Ma Satana risponde orgogliosamente: “Io mi
pento ch'io caddi di cielo; ma non perchè io ti vogla adorare, nè dire
mia colpa. Innansi vorrei andare in profondo di inferno, in cento milia
cutanta pena ch'io sia, non ch'io ti volesse adorare.„

Tristo diavolo anche questo! altri di miglior indole pensarono sul
serio a convertirsi, e giunsero sino a volersi confessare. Che i
diavoli si confessino è caso raro; assai più frequente invece che
facciano essi da confessori, e allora bisogna guardarsi bene e
raccomandarsi a Dio, perchè, ad ogni peccato che odono recitare, per
quanto brutto e grave esso sia, hanno in uso di dire: “Non è nulla ciò;
non v'è male alcuno; non vi badate.„ Pure qualcuno se ne confessò;
al qual proposito è da ricordare che spesse volte diavoli cicaloni,
fecero, non chiesti, conoscere ad uomini di santa vita, le arti
loro più nascoste e più frodolenti, e Pietro il Venerabile s'ingegna
di spiegare perchè essi, pur tanto astuti, facciano ciò. Il solito
Cesario racconta che un diavolo s'andò un giorno a confessare, sperando
perdono. Il confessore, prete caritatevole e discreto, non gl'impose
altra penitenza se non d'inginocchiarsi ogni giorno tre volte, e
dire con animo contrito: _Signore Iddio, mio creatore, ho peccato,
perdonami_. Ma il diavolo, ch'era pur sempre un diavolo, la trovò
troppo aspra al suo orgoglio, e non se ne fece altro. Guglielmo di
Wadington, già ricordato altra volta, autore di un Manuale dei peccati,
racconta la storia di un altro diavolo, che vedendo i meravigliosi
effetti della confessione, e come molti si salvassero per essa, volle
una volta confessarsi, e andò a recitare a un sant'uomo la sterminata e
spaventosa lista de' suoi peccati; ma senza effetto, perchè rifiutò di
far penitenza. Altri sacramenti dovevano riuscir men gravi ai maledetti
superbi. Dal famoso processo di Mora in Isvezia, nel 1669, venne fuori,
insieme con altre moltissime cose, che nei consueti ritrovi delle
streghe il diavolo chiamava un prete e si faceva battezzare.

Nell'immortale poema del Milton, Satana, sopraffatto dall'orrore della
miseria in cui è precipitato, e più dall'orror di sè stesso, rimpiange
il commesso peccato, il paradiso per sempre perduto; ma sente di non
poter chiedere nè ottenere perdono, e, disperato, prorompe in queste
terribili parole:

               Or bene, addio, speranze!...
    Ecco in vece di noi, dannati, espulsi,
    L'uom, sua gioja, ha creato, e questo mondo
    Tutto per lui. Speranze, or dunque addio!
    Addio paure! addio rimorsi! Il bene
    Morto al tutto è per me. Sii tu, tu solo
    Ora, o male, il mio ben: per te diviso
    Terrò lo scettro col motor de' cieli,
    E forse io regnerò sovra gran parte
    Dell'universo, e l'uomo e questa nova
    Terra lo apprenderanno in picciol tempo.

Non meno tenace si mostra, nè meno fiero parla l'Adramelecco del
Klopstock; ma e l'uno e l'altro vince il Lucifero del Byron, l'altero e
indomabile Lucifero, che a Caino, il quale gli ricorda Dio, signore del
tutto, risponde:

                         Ah no! pel cielo
    Dov'ei siede e governa, per l'abisso,
    Per le stelle infinite, e per la vita
    Che comune ho con lui, no!... sul mio capo
    Ho solo un vincitor, non un sovrano.
    Ei l'omaggio otterrà dell'universo,
    Ma non il mio. Con esso io duro in guerra
    Come un tempo lassù. Per tutta quanta
    L'eternità, nel baratro dell'ombre,
    Negli spazii profondi immensurati,
    Sull'ala infaticabile del tempo,
    Tutto io vo' contrastargli, astro per astro,
    Pianeta per pianeta, ed universo
    Per universo! E fin che il gran conflitto
    Non cessi, ondeggeranno in dubbia lance:
    E cessar non potrà se l'uno o l'altro
    Spento non sia....

Ma nella stessa _Messiade_ del Klopstock è il demonio Abbadona, che
piange il proprio peccato e la morte di Cristo, e rientra, ribenedetto
da Dio, nel paradiso. La Sand nel _Consuelo_, e il Montanelli in un
suo poema drammatico intitolato _La Tentazione_, mostrarono un Satana
convertito e redento; Alfredo de Vigny, in un poema immaginato,
ma non composto, _Satan sauvé_, voleva narrare la storia di Satana
salvato dall'amore di Eloa, angelo nato da una lacrima di Cristo; e
Vittore Hugo, in un poema rimasto incompiuto, _La fin de Satan_, la
riconciliazione di Satana con Dio.



CAPITOLO XV.

LA FINE DEL DIAVOLO.


Alla conversione e alla redenzione del diavolo c'è un impedimento a cui
non hanno pensato i teologi, e che i teologi negherebbero anzi, se ci
pensassero: il diavolo è morto, o sta per morire; e morendo, egli non
rientrerà nel regno dei cieli, ma rientrerà e si dissolverà nell'umana
fantasia, nella stessa matrice ond'è uscito.

Secondo la opinion dei rabbini molti demonii sono mortali. Nei processi
contro le streghe più di una volta le accusate narrarono che il diavolo
ammalava di tanto in tanto, giungeva in punto di morte, poi si riaveva:
in molte fiabe popolari, tuttora vive qua e là per l'Europa, il diavolo
muore a dirittura. Mi basterà di ricordarne una mantovana, dove un
giovane prende varie forme per isfuggire al diavolo, che varie ne
prende egli pure inseguendolo. Da ultimo il giovane, mutatosi in faina,
uccide il suo persecutore che s'era mutato in gallina: “è questa la
ragione,„ conclude il racconto, “perchè non c'è più il diavolo.„

Strana e significativa un'affermazion così fatta nella bocca del
popolo. Il diavolo non c'è più: prima di lasciar lui e la sua storia,
vediamo qualche sintomo e qualche ragione del suo disvenire. Il
diavolo nacque di certe cause, visse e prosperò in certe condizioni,
adattandosi come potè meglio al loro lento ma continuo variare. Alla
legge di variazione, che governa tutte le cose, soggiacque egli pure,
e, come un organismo vivo, percorse tutti i gradi della evoluzion
della vita: mancate le cause e le condizioni dell'esser suo, egli si
estenua e muore, come farebbe un animale dei tropici trasportato sotto
il rigido cielo settentrionale. Egli muore perchè la sua funzione è
cessata, e perchè l'idea che lo fece vivere non riesce più, nel vasto
agone della concorrenza vitale, a tener testa ad altre idee, più
vigorose e più giovani.

Per iscorgere i sintomi del suo morire basta guardarsi d'attorno. Che
cosa è ora l'opera sua a riscontro di quella d'altri tempi? Dove sono
le spaventose sue apparizioni, le insidie perpetue, le offese d'ogni
maniera, le meraviglie paurose? dove sono le formidabili milizie con
cui egli di nottetempo attraversava pianure e foreste, o trasvolava
per l'aria? dove i neri cavalli su cui rapiva gli uomini scellerati?
dove gl'incendii suscitati da lui, le procelle scatenate da lui, le
malattie devastatrici da lui cagionate? La Chiesa stessa, la quale non
può concedere che il diavolo muoja, deve pur riconoscere ch'egli va
assai più rattenuto di prima, e ha cessato di far molte cose che prima
faceva.

E negli animi il pensiero, il sospetto e la paura di lui sono venuti
sempre più mancando, non solo tra le persone colte, ma ancora tra
il volgo; non solo nelle città, dove è più sollecito il rinnovamento
delle idee e dei costumi, ma ancora nei campi, dove persiston più a
lungo le antiche credenze e le consuetudini antiche. Il nome di lui
ricorre frequente nel linguaggio famigliare, in proverbii, apostrofi
e maniere di dire; ma l'immagine sua è, di solito, assente dagli
spiriti. Pratiche magiche usano ancora tra le plebi ignoranti; ma è
rarissimo ormai il caso che ci si faccia entrare il demonio, e dei
famosi _sabbats_, o ritrovi, o giuochi, più nessuno parla. A chi mai
ora potrebbe venire in mente, salvo ch'ei fosse matto spacciato, di
evocare il demonio, di stringere un patto con lui, di dargli l'anima,
di ripromettersi da lui ricchezze ed onori? La Chiesa stessa, di tali
e simili peccati, che in altri tempi puniva col fuoco, oramai più
non discorre, e volentieri pare che se ne dimentichi. Anzi va più là,
e del demonio stesso parla il meno che può; e mentre fu sua cura in
passato di richiamarne sempre, in tutti i possibili modi, alla memoria
degli uomini, il nome, l'aspetto, la potenza, le opere, ora sembra
che di tutto ciò più non si ricordi essa stessa. Così riman provata
la legge di evoluzione in quegli stessi organismi che a cotal legge si
mostrano più ribelli, e più s'illudono d'essere perpetui ed immutabili.
Paragonate una predica di ora con una predica di cinque secoli
addietro. In questa il diavolo salta in mezzo ad ogni frase, mostruoso
e terribile, illuminato dai bagliori spaventosi dell'eterna fornace;
in quella sarà molto se di passata se ne pronunzia il nome. Paragonate
una chiesa moderna con una chiesa del medio evo. In questa il diavolo
sotto tutti gli aspetti, in tutti gli atteggiamenti, dipinto, scolpito,
intagliato, nei quadri, nei bassorilevi, negli scanni del coro, nei
capitelli, nei fregi, sempre in iscena, personaggio immancabile di un
dramma lungo e vasto quanto la storia stessa dell'umanità; in quella il
più delle volte, non un'ombra, non un segno di lui.

Nessuno ora, viaggiando, teme più di capitare in tenebrose foreste,
in solitudini alpine, in orrende spelonche, in laghi senza fondo,
in gorghi di mare infestati da demonii traditori ed omicidi. Se un
peccatore ostinato sparisce improvvisamente senza lasciar traccia di
sè, a nessuno più viene in fantasia che il diavolo l'abbia preso pei
capelli, e portato a volo in inferno; ma si fanno indagini, si mandano
avvisi, con la ferma persuasione che, o vivo o morto, egli abbia ad
essere in un qualche luogo, non dell'altro, ma di questo mondo. Se si
trova un pover uomo strangolato in letto, nessuno crede più che sia
stato il diavolo quegli che gli diè la stretta; ma si dice senz'altro
che un delitto è stato commesso, e la polizia si dà le mani attorno
per iscoprire il colpevole. Le donne non temono più gli abbracciamenti
notturni del diavolo, e di diventar madri di diabolica prole, o di
vedersi portar via da un diavolo, supposto padrino o tutore, i figli
delle loro viscere. Chi ammala, più non s'immagina d'essere stregato,
o d'avere il diavolo in corpo, e ricorre, non all'esorcista, ma al
medico; chi muore, non si vede più intorno al letto una corona di
diavoli fuligginosi e tetri, con le mascelle irte di denti aguzzi,
con gli occhi strabuzzati, con distese le mani uncinate, in atto di
ghermirgli l'anima. Una prova, fra l'altre, che la preoccupazione
diabolica è mancata negli animi, o è, almeno, straordinariamente
scemata, si ha nel fatto che le così dette demonopatie sono divenute
rarissime, e tendono a sparire del tutto. Nei secoli scorsi, e sino
a tempi non molto da noi lontani, certe malattie nervose, e in più
particolar modo certe forme d'isterismo, davano luogo regolarmente ai
fenomeni dell'ossessione e della possessione diabolica, appunto perchè
le menti erano piene del pensiero e del terrore del diavolo: ora invece
si risolvono in manifestazioni di tutt'altra natura, determinate dal
modo del viver presente, dal mutato indirizzo delle idee, da nuovi
interessi e da preoccupazioni nuove. I medici l'hanno veduto e detto
da un pezzo. I miracoli già fatti dagli esorcisti nelle chiese si fanno
ora dai medici nelle cliniche.

La civiltà umana, procedendo nell'opera del suo meraviglioso e
sterminato edifizio, muta e rimuta continuamente gli strumenti del
lavoro, abbatte essa stessa e distrugge le impalcature e i ponti e
gli altri ajuti onde si servì per innalzarlo. Ciò che in un tempo le
fu necessario, le diviene in un altro inutile o nocivo, ed essa se ne
sbarazza a dispetto di chi non vuole e di chi le contrasta. La civiltà
nostra espelle da sè il diavolo, che la servì in altri tempi, ma che
ora le è divenuto un inutile ingombro; lo espelle da sè, come espelle
la schiavitù, il privilegio, il fanatismo religioso, il diritto divino
e tant'altre cose, e come tant'altre ne espellerà in avvenire. A ciò
non è riparo possibile. Il diavolo era parte integrante e principale di
tutto un ordine di cose e d'idee, di un reggimento complesso e potente,
che raccolse per secoli sotto di sè tutta intera la vita. Mutato
quel reggimento in certa misura, bisognò mutasse la parte serbata
in esso al diavolo; proceduta più oltre la mutazione, bisogna che il
diavolo n'esca. Una religione più grossolana, una morale più acerba e
l'ignoranza introdussero il diavolo, e ne fecero il mostro che abbiam
veduto; una religione più culta, una morale più matura e la scienza
gli tolgono a mano a mano le orribili qualità e la spaventosa potenza,
lo premono da ogni banda, lo cacciano dalla coscienza, dalla vita, dal
mondo. Lo spirito che nega è negato a sua volta.


Chi voglia esser giusto non deve troppo rimproverare alla Chiesa d'aver
lasciato crescere la figura del tenebroso avversario per modo da farne
quasi un altro Arimane, e d'aver così offeso il diritto e snaturato
il concetto del regno d'Iddio: chi, senza i debiti temperamenti e la
voluta indulgenza, rinfaccia alla Chiesa di non essersi strettamente
attenuta alla semplice e pura dottrina degli Evangeli, mostra di
conoscer male la natura umana, e d'avere della storia, de' suoi
procedimenti e delle sue necessità un assai falso concetto. Il diavolo
è un portato della storia, e, come tale, dotato, finchè durano certe
condizioni, d'invincibile e indomabile vitalità. La Chiesa, quando
pure l'avesse saputo e voluto fare, non sarebbe stata in grado di
soffocarlo e di sopprimerlo, giacchè egli perpetuamente si rigenerava
nella coscienza dei singoli, e dalla coscienza dei singoli prorompeva
con nuovo impeto nella storia. Immaginare nel medio evo una religione,
non professata solo da pochi, ma comune a infiniti, e senza diavolo,
sarebbe impossibile, come sarebbe impossibile immaginare in altre
condizioni di tempi e di civiltà una religione senz'idoli, senza
oracoli, senza sacrificii cruenti. Il diavolo del medio evo ha, senza
dubbio, la origin sua e la sua radice in un dogma religioso anteriore a
quella età; ma è quella età, presa nel tutto insieme del suo pensiero,
delle sue istituzioni e de' suoi costumi, che gli dà la pienezza
dell'essere e la perfezion del carattere. Esso è necessario allora, ed
è così vero ciò, che la Riforma non lo tocca e lo accetta qual è.

Ma una religione muta a poco a poco al par di ogni altra cosa che
viva; muta negli animi, se non nei dogmi, nei sentimenti, se non nei
libri. Anche il cristianesimo muta, e mancati gli ostacoli che gliel
vietavano prima, ritorna a poco a poco alla purità delle origini, tende
sempre più a spiritualizzarsi, e a ridiventare essenzialmente, quale
fu nei primordii, religione di speranza e d'amore, di letizia e di
pace, rimovendo da sè tutto il tenebroso e il terribile che la barbarie
di lunghi secoli le trasfusero in seno. Tale lavoro, pur troppo, non
ancora si compie nei dogmi, nè coloro lo fanno che si chiamano custodi
e ministri di verità, sieno essi di qual grado si vogliano; ma si fa
da sè, spontaneamente e silenziosamente, a poco a poco, nell'intimo
e nel secreto delle coscienze. Quanti cristiani ho io conosciuti e
conosco, e dei più profondamente religiosi, e dei più degni, che del
diavolo non vogliono udir discorrere, e risolutamente negano che un
Dio di misericordia e d'amore possa dannare ad un perpetuo inferno,
ad una malvagità irreparabile, ad un castigo spaventoso ed inutile,
appunto perchè eterno, le sue povere creature! Ora, la religione vera
(l'abbiano a mente coloro che se ne credono maestri) non è quella
che rigida e assiderata si costringe nei dogmi, ma quella che viva
e mobile, a guisa di fiamma, divampa negli animi, e li riscalda, e
illumina le vie della vita.


Come muta la religione, così muta ancor la morale, e le due mutazioni
non possono andar disgiunte l'una dall'altra, ma l'una è coordinata
all'altra, e determinata dall'altra, ed entrambe sono condizionate
da altre mutazioni via via, e a volta loro le condizionano, compiendo
così quel vasto e labile cerchio di cause e di effetti per cui si muove
infaticabilmente la vita storica della umanità.

Checchè altri possa dire in contrario, mosso da preconcetto, o da
erronea cognizione di tempi e di cose, la morale cresce nel mondo,
inteso, sotto il nome un po' vago di morale, l'insieme di quegli stati
mentali e di quelle forme di operosità che assicurano l'esistenza e la
prosperità dei singoli uomini e delle associazioni loro, e favoriscono
le manifestazioni più alte della vita individuale e sociale. L'uomo
si umanizza a poco a poco, discostandosi sempre più dalla belva, e
la morale, attraverso i secoli, si affina, si allarga, s'innalza. C'è
più umanità nel mondo ora che non un secolo fa, assai più che non nel
medio evo, infinitamente più che non nell'età della pietra. So che
i fautori di una morale rivelata e immutabile negano, come possono
meglio, tutto ciò; ma guai per loro se ciò che essi negano a priori
non fosse vero. E le prove che sia vero sono infinite, sparse a piene
mani in ogni pagina di qualsiasi libro di storia si apra. Volerle
riferire, anche per piccola parte, sarebbe stucchevole; ma facciamo una
semplice supposizione. Supponiamo che il medio evo, co' suoi re e co'
suoi baroni, con le sue fazioni e le sue città divise, con le guerre
di conquista, con le guerre civili e con le guerre religiose, avesse
avuto i mezzi formidabili di distruzione che la scienza ha dato a noi;
ci sarebbero ancora nel mondo mura di città e di castella, ci sarebbero
ancora popoli civili? È lecito dubitarne.

Gli uomini, pel fatto stesso della convivenza sociale, diventano sempre
più morali; vivendo in società essi sempre più si adattano e si piegano
a quelle forme e condizioni di vita che sono necessarie o proficue
all'esistenza della società medesima. È un caso questo di quel generale
fenomeno ch'è l'adattamento degli organismi all'ambiente. La moralità
diventa un abito, si fa istintiva, come tutti gli atti di volontà
eccessivamente ripetuti, e si trasmette per via di generazione; e come
più diventa istintiva, meno abbisogna del precetto o del divieto della
legge e della sanzion della pena. Se le leggi si van facendo sempre
men aspre, e men aspri i castighi, è questo un segno, non di scemata,
ma di cresciuta moralità: l'imperiosità esterna della legge si fa
imperiosità interna della coscienza, e il castigo, che di sua natura
non corregge, si fa rimorso, cioè ravvedimento. Ecco perchè sparisce
dalle legislazioni moderne la pena di morte, e spariscono molt'altre
pene atroci che già furono in uso; ecco ancora perchè vien meno e si
perde la credenza in un diavolo tormentatore e in un inferno pien di
dannati a cui nessuna speranza sorride. Nel medio evo, per ogni più
lieve colpa il giudice minaccia la morte, il confessore l'inferno, e
con ragione, giacchè ogni altro argomento sarebbe scarso a trattener
dal mal fare uomini rozzi e violenti; ma a trattener dal mal fare
uomini raggentiliti bastano argomenti meno terribili, e la pena di
morte è abolita e il diavolo si dilegua. Come più gli uomini divengono
atti ad essere governati con la ragione, più divengono disadatti
e ricalcitranti ad essere governati col terrore. Perciò ancora ai
reggimenti despotici sottentrano i liberali; e quando altri fatti
nol provassero, basterebbero a provare che la morale è cresciuta, la
cessazione del despotismo, la mitigazion delle leggi e delle pene, la
sparizione del diavolo.


Finalmente c'è la scienza, che compie il lavoro cominciato da una
religione più illuminata e da una morale più perfetta, e che sarebbe in
grado di tutto farlo da sè, anche senza il concorso di quelle. Chi dice
scienza, dice, tra l'altro, il contrario di demonismo. Il demonismo
nasce spontaneo nella storia, non per opera di ciurmadori; e risponde
a certa condizione degli spiriti, e a certi modi di cognizione. L'uomo
rozzo non riesce altrimenti a spiegarsi i fenomeni della natura che
ponendo una volontà simile alla sua dietro a ciascuna cosa, popolando
il mondo di esseri superiori alla natura, buoni o cattivi. È questo
il demonismo. Viene la scienza, e fa vedere che dietro le cose non
ci sono volontà capricciose, ma forze disciplinate, e che la natura
non obbedisce ad arbitrii, ma a leggi. Il demonismo è, perciò solo,
incontanente e irreparabilmente distrutto. Gli uomini del medio evo
veggono e sentono il diavolo per tutto, nel vento che imperversa,
nell'onda che irrompe, nella fiamma che divampa, nella folgore,
nella grandine, nel fuoco fatuo, nelle malattie, nel pensiero e nel
sentimento lor proprio; gli uomini moderni, per poco che abbiano
qualche coltura, non veggono nella vita delle cose se non una perpetua
fluenza di cause e di effetti, della quale si può, ogniqualvolta
soccorra cognizion sufficiente, predire e descrivere il moto. Essi
hanno dinanzi a sè, non il regno dell'arbitrio, ma il regno della
necessità. Come si caccia di posizione in posizione un nemico, la
scienza ha cacciato d'uno in altro fenomeno il diavolo, e non gli ha
lasciato più, sulla terra e nel cielo, un angolo solo ov'egli possa
fermare il piede, e d'onde possa gettar novamente la sua ombra sul
mondo. Essa ha fatto anche di più: ha mostrato come e perchè il diavolo
sia nato, di quali elementi dell'animo nostro sia stato formato, e
l'ha reso assai più cognito a noi, che lo neghiamo, di quello fosse nei
secoli andati a coloro che ci credevano. Arrigo Heine dice, in una sua
poesia, d'avere evocato una volta il diavolo, e d'aver ravvisato in
lui, guardandolo bene, un antico suo conoscente. Noi possiam dire di
più; noi possiam dire che nel diavolo, guardandolo bene, riconosciamo
noi stessi.

La scienza combatte e caccia dinanzi a sè tutte le superstizioni, di
qualunque natura esse sieno, dovunque le trovi, e non poserà finchè
tutte non le abbia vinte e dissipate; ma essa non le affronta tutte
con eguale impeto, nè di tutte trionfa egualmente. Le minori si salvano
dal suo urto più facilmente che non le maggiori, appunto perchè offrono
minor presa, e di poco spazio e di poco nutrimento si contentano; così
l'erbe del prato sono appena agitate dal turbine che passa, mentre gli
alberi più poderosi sono divelti. La scienza può lasciar sussistere
l'umile superstizione, di piccolo significato e di poca efficacia,
vegetante a fior di terra; ma non la superstizione rigogliosa e tenace,
che con le infinite propaggini le attraversa ogni tratto la via; non
la superstizion prepotente che aveva empiuto del diavolo le cose e le
anime, la natura e la storia. Questa superstizione essa necessariamente
combatte ad ogni passo che muove, dovunque la incontri; ed ecco perchè,
mentre continuano a vivere indisturbati nella fantasia popolare molti
fantasmi, prole vivace della paura e dell'ignoranza, il diavolo vien
meno, il diavolo muore, il diavolo sfuma.


Strana vicenda delle cose di quaggiù! muore e sfuma per virtù della
scienza quel diavolo che già fu creduto suscitatore delle inquiete
curiosità e delle silenziose ribellioni dello spirito, onde nasce
appunto e inorgoglisce la scienza. _Satis scis si Christum scis_,
abbastanza sai se Cristo sai, diceva la sapienza degli asceti e dei
santi; ed ogni altro sapere era guardato con sospetto, e si accusavano
d'aver patteggiato col diavolo gli uomini che delle cose della natura
avessero qualche lume, col diavolo, l'antico bugiardo, che sedusse
la donna promettendo la scienza. E i trionfi della scienza, e il
crescere di una civiltà nuova di cui la scienza, ogni giorno più, si fa
moderatrice e maestra, furono pianti e maledetti come opere e vittorie
del diavolo.

Ed ecco il diavolo trasformarsi nel sogno e nell'accesa parola del
poeta, e diventare un simbolo luminoso e mirabile, il simbolo della
scienza imperterrita e indomita, che dirocca i dogmi e sbarba le
superstizioni; della ribellione, che abbatte tutte le tirannie; della
libertà, sotto le cui grand'ale una nuova vita s'instaura. Il Voltaire
chiamava _frères en Belzébuth_ gli amici suoi migliori, che, come il
D'Alembert e il Diderot, cooperavano con lui al grande rinnovamento
filosofico e civile. Il Michelet, nella _Sorcière_, narrò questo Satana
simbolico, e a questo sciolse il suo inno il Carducci:

    Salute, o Satana,
      o ribellione,
      o forza vindice
      della ragione!
    Sacri a te salgano
      gl'incensi e i voti!
      hai vinto il Geova
      de' sacerdoti.

Satana fu Dio a sua volta ed ebbe adoratori e preci; e un altro poeta,
il Baudelaire, nelle ambasce d'un dolor senza nome, lo chiamava in suo
ajuto:

    O toi, le plus savant et le plus beau des Anges,
    Dieu trahi par le sort et privé de louanges,
    O Satan, prends pitié de ma longue misère!

    O Prince de l'exil, à qui l'on a fait tort,
    Et qui, vaincu, toujours te redresses, plus fort,
    O Satan, prends pitié de ma longue misère!
    . . . . . . . . . . . . . . . .
    Pére adoptif de ceux qu'en sa noire colère
    Du Paradis terrestre a chassé Dieu le Père,
    O Satan, prends pitié de ma longue misère!

Il vinto si muta in vincitore, rientra in quel cielo onde fu bandito, e
uccide il suo nemico. L'empio Rapisardi narrò in mirabili versi questa
suprema vittoria di Lucifero:

      Così dicendo (ed additava il sole
    Che sotto ai passi gli sorgea), toccollo
    De l'acuto suo raggio, e parte a parte
    Lo trapassò. Stridea, come rovente
    Ferro immerso ne l'onda, il simulacro
    Fuggitivo del Nume; e, a quella forma
    Che crepitando si scompone e scioglie
    Fumigante la calce a l'improvviso
    Tasto de l'acqua o del mordente aceto,
    Tale al raggio del Ver struggeasi il vano
    Fantasima; e in vapore indi converso,
    Tremolando si sciolse, e a l'aria sparve.

Ma questi sono simboli e miti poetici, a cui altri poeti non mancarono
di contraddire. Nell'_Armando_ del Prati, Mastragabito, cioè Satana,
muore di sfinimento: in un poemetto di Massimo Du Camp, _La mort du
Diable_, Satana chiede in grazia a Dio la morte, e muore sotto il piede
di Eva, l'antica madre ingannata, che compie così, non un'opera di
vendetta, ma un'opera di misericordia. Il buon Béranger pretendeva che
il diavolo fosse morto sino dai tempi di sant'Ignazio di Loyola, e per
opera del santo medesimo:

    Du miracle que je retrace
    Dans ce récit des plus succincts
    Rendez gloire au grand saint Ignace,
    Patron de tous nos petits saints.
    Par un tour qui serait infâme
    Si les saints pouvaient avoir tort,
    Au diable il a fait rendre l'âme.
    Le diable est mort, le diable est mort.

    Satan, l'ayant surpris à table,
    Lui dit: Trinquons, ou sois honni.
    L'autre accepte, mais verse au diable,
    Dans son vin un poison béni.
    Satan boit, et, pris de colique,
    Il jure, il grimace, il se tord;
    Il crève comme un héretique.
    Le diable est mort, le diable est mort.

    Il est mort! disent tous les moines;
    On n'achetera plus d'_agnus_.
    Il est mort! disent les chanoines;
    On ne paira plus d'_oremus_.
    Au conclave on se désespère:
    Adieu puissance et coffre-fort!
    Nous avons perdu notre père.
    Le diable est mort, le diable est mort.

Ma, soggiunge il poeta, sant'Ignazio chiese ed ottenne il posto del
morto, ed ereditò l'inferno. Finalmente è da ricordare che Guglielmo
Hauff in Germania, e Federico Soulié in Francia, scrissero le Memorie
del Diavolo, e che le memorie si sogliono scrivere di chi è morto, non
di chi è vivo.

In realtà la scienza, che tante cose uccide, mentre tante altre ne
crea, uccide, o finisce di uccidere anche il diavolo, del cui ajuto,
se mai ebbe, ora non ha più bisogno. Per essa si avverano le parole
memorabili del vecchio Virgilio:

                         Felice
    Chi delle cose la cagion conobbe;
    E i terror vani, e il fato inesorabile
    Sotto ai piedi si pose, e dell'avaro
    Acheronte lo strepito.

Ma che il diavolo sia morto, o moribondo, non si ammette da tutti,
e molti s'ostinano a veder l'opera sua (poichè altrove oramai non la
possono vedere) negli oscuri fenomeni, o nelle troppo chiare ciurmerie,
del magnetismo animale e dello spiritismo: e or è qualche anno la
Santità infallibile del Sommo Pontefice Leone XIII, commossa da non
so che diavoleria di spiriti e di visioni, onde per due settimane
di seguito fecero gazzarra i giornali della Penisola, volse calda
preghiera all'arcangelo Michele, perchè volesse impugnar di nuovo la
spada formidabile, e gettato ai quattro venti, sopra e sotto la Via
Lattea, il grido della battaglia, scendere anco una volta in campo
contro l'antico e mal vinto avversario, e torgli il ruzzo dal capo.
Beatissimo Padre! Io non so qual risposta sia stata fatta di lassù
al vostro invito; ma a che pro turbare i riposi al degno paladino del
cielo? L'opera incominciata da Cristo diciotto secoli sono la civiltà
l'ha compita. La civiltà ha debellato l'inferno e ci ha per sempre
redenti dal diavolo.


  FINE.



INDICE.


  _Dedica_                                                     Pag. V

  CAPITOLO I.
  Origine e formazione del diavolo.

  La leggenda e la storia. — Il principio del male. —
  Religioni primitive. — Spiriti buoni e spiriti malvagi. —
  Il dualismo. — Divinità malefiche degli egizii, dei
  fenici, degl'indiani, dei greci, dei romani. — Il mazdeismo:
  Ormuz ed Arimane. — Satana nel giudaismo. —
  Satana nel cristianesimo. — Satana e i Barbari. — La
  figura di Satana giunge a perfezione nel medio evo.           »   1

  CAPITOLO II.
  La persona del diavolo.

  Corpo dei demonii e sue qualità. — Fisiologia diabolica.
  — Figura dei demonii. — Bruttezza spaventosa. —
  Diavoli belli. — Varie forme assunte dai diavoli.
  — Zoologia diabolica. — Diavoli che si appropriano
  corpi morti. — Aspetto pernicioso dei diavoli. — Peccati
  diabolici.                                                    »  37

  CAPITOLO III.
  Numero, sedi, qualità, ordini, gerarchia, scienza
  e potenza dei diavoli.

  Diecimila bilioni di diavoli. — Diavoli nell'aria, diavoli
  nell'inferno. — Ordinamenti sociali e divisione del lavoro.
  — Monarchia infernale. — Intelligenza diabolica.
  — Ciò che sanno i diavoli. — Ciò che possono i
  diavoli.                                                      »  69

  CAPITOLO IV.
  Il diavolo tentatore.

  Ragioni, condizioni, modi, tempi e luoghi della tentazione.
  — La tentazione semplice. — La tentazione composta
  e sceneggiata: sant'Ilarione. — La tentazione amorosa.
  — Confessione di san Gerolamo. — Caso doloroso di un
  santo monaco, che cessò d'esser santo, — Avvedimento
  di san Benedetto. — Altre tentazioni e trappole. —
  Credulità del monaco Erone. — Dabbenaggine di un
  povero giovine che andò in pellegrinaggio a San Giacomo
  di Gallizia. — Accortezza di san Martino. —
  Storia terribile di un eremita, di un gallo e di una
  gallina. — Tentazioni laboriose e lunghe. — Il diavolo
  frate e abate. — Tentazioni indirette e tortuose. —
  Concilio diabolico. — Rimedio contro le tentazioni.           » 101

  CAPITOLO V.
  Burle, truffe, soprusi, angherie e violenze del diavolo.

  Un nuovo Mosè. — Piccole noje date a grandi santi. —
  La ossessione; suoi gradi e forme. — Tribolazioni di
  san Romualdo, di sant'Egidio, di santa Gertrude da
  Oost, di santa Francesca Romana, della beata Cristina
  da Stommeln, e di altri santi e sante di molta reputazione.
  — Il soccorso di Pisa. — Angosce e terrori dei
  moribondi. — L'_Arte di morire_. — La possessione;
  come si producesse. — Quattrocentomila diavoli in un
  corpo solo. — Sintomi, caratteri, effetti della
  possessione.                                                  » 133

  CAPITOLO VI.
  L'infestazione diabolica.

  Il prete Pannichio. — Vita tribolatissima e sante dottrine
  dell'abate Ricalmo. — Acquazzone di diavoli. —
  La natura indemoniata. — I diavoli nei conventi. —
  I diavoli in chiesa. — _Ubique dæmon_. — Il lago
  di Norcia.                                                    » 163

  CAPITOLO VII.
  Amori e figli del diavolo.

  Come generano i diavoli? — Caso quasi incredibile di una
  donna che concepì e partorì parecchi anni dopo la sua
  morte. — Gl'incubi. — I succubi. — Venere demonio.
  — Il prete di Bonna. — Figliuoli del diavolo. — Gli
  unni, Caino, Attila, Teodorico. — Il mago e profeta
  Merlino. — Roberto il Diavolo. — Ezzelino da Romano.
  — Lutero. — L'Anticristo. — I figliuoli di Goffredo
  Plantagenet e di Balduino conte di Fiandra. — Figliuoli
  adottivi e avventizii del diavolo. — Il diavolo
  e l'esattore.                                                 » 185

  CAPITOLO VIII.
  I patti col diavolo.

  Perchè e come si facessero. — Scritture vergate col sangue.
  — Storia di un servo innamorato. — Storia del
  ricco Antemio. — Storia del buon Teofilo. — Storia
  del dotto Gerberto, che fu papa con l'ajuto del diavolo.
  — Altri papi che si vendettero al diavolo. — Perchè
  Cecco d'Ascoli non abbia potuto scampare dal rogo.
  — Come sia mal fatto fidarsi alle parole del diavolo.
  — Esempio notabile narrato da san Pier Damiano. —
  La bellissima e terribile storia di Fausto. — Probità
  dello scellerato Twardowsky.                                  » 221

  CAPITOLO IX.
  La magia.

  Di quante maniere fosse. — Ragioni di essa. — Scuole
  in cui s'insegnava. — La evocazione del diavolo; suoi
  pericoli. — Esempii di un prete anonimo e di uno scolare
  di Toledo. — Caso narrato da san Gregorio Magno. —
  L'ultimo dei Carraresi. — Il libro magico. —
  Diavoli prigionieri. — Maghi maggiori e minori. —
  Miracoli dei maghi. — Il banchetto magico. — Michele
  Scotto e il cavaliere Ulfo. — Il mago Zito; il rabbino
  Löw. — Filosofi, poeti e papi stregoni. — I maghi dabbene:
  Ruggero Bacone. — Le streghe. — I congressi
  delle streghe. — I processi per istregoneria.                 » 247

  CAPITOLO X.
  L'inferno.

  Dove fosse. — Le porte dell'inferno. — Ampiezza, struttura,
  topografia dell'inferno. — La città infernale. —
  Il ponte del cimento. — Meteorologia, flora e fauna
  del doloroso regno. — Affluenza incessante di anime
  dannate. — I diavoli rapitori. — Ultima avvertenza di
  Teodorico re dei goti. — Orrenda fine del conte di
  Matiscona. — _Qui pro quo_ diabolico. — Anime senza
  recapito. — Visitatori ed esploratori dell'inferno.           » 285

  CAPITOLO XI.
  Ancora l'inferno.

  Il libro dei peccati. — Punizioni anticipate. — Violenza
  e qualità delle pene infernali. — Esperimento di santa
  Teresa. — Lo scolare parigino. — Natura del fuoco
  infernale. — Uno dei molti gaudii dei beati. — Ciò
  che si vedeva in inferno. — Relazion di viaggio del
  monaco Wettin; del giovane Alberico; del cavaliere
  Tundalo. — Abbominazione della desolazione. — Il
  cielo di ferro arroventato. — Il monte spaventoso. —
  Il ponte di mille passi. — La bestia voraginosa. —
  Lo stagno procelloso. — Il terribil forno. — La bestia
  che divora e digerisce. — Le anime che ingravidano.
  — I fabbri diabolici. — L'ultimo fondo d'abisso. —
  Il re delle tenebre. — Cucina e banchetti infernali.
  — Pene dei diavoli. — Il purgatorio. — Dannati fuor
  dell'inferno. — Le anime dannate a processione. —
  Storie orribili. — Eternità e mitigazione delle pene
  infernali. — La vision di san Paolo. — Gli uccelli
  neri di Pozzuoli. — _Lasciate ogni speranza, o voi
  ch'entrate_.                                                  » 307

  CAPITOLO XII.
  Le disfatte del diavolo.

  Gli avversari del diavolo. — Armi varie. — L'inno della
  campana. — Bravura dei santi. — Sante correzioni date
  da essi al nemico. — Il nemico legato. — Il nemico
  bastonato. — Il nemico imprigionato. — Burle e sfregi
  varii: li gloriosissimo san Chiuppillo. — Storia edificante
  di santa Giuliana. — Storia non meno edificante
  di santa Gertrude. — Il pugilato col diavolo. — Guerra
  contro i diavoli invasori. — Come si liberasse certo
  chierico indemoniato. — Esorcismi ed esorcisti.               » 339

  CAPITOLO XIII.
  Seguitano le disfatte del diavolo.

  Santi che scendono di cielo. — Storia di un vescovo
  molto devoto di sant'Andrea. — Angeli e diavoli. —
  La Vergine trionfatrice. — Storia del cavaliere impoverito.
  — Contrasti di più maniere. — Esempio del
  mal cavaliere del re Coenredo. — Il libriccino delle
  buone opere. — Anime strappate di mano ai diavoli.
  — Re Dagoberto. — Carlo Magno imperatore. — Enrico
  III. — Il contrasto nella forma più semplice. —
  Zuffa tra celesti e infernali. — Fra due liganti il
  terzo spasima. — Battaglia campale. — Satana e la Vergine.
  — Dialettica satanica. — Il diritto di Satana. —
  Il processo celeste. — Storia di san Cristoforo.              » 363

  CAPITOLO XIV.
  Il diavolo ridicolo e il diavolo dabbene.

  Diavolo popolare. — Bruttezza ridicola. — Diavolo
  mattacchione. — Diavolo rimminchionito. — Inganni e frodi
  che gli si fanno. — I diavoli nei Misteri. — La magia
  derisa. — Profumato racconto di Benvenuto Cellini. — Gli
  angeli neutrali. — Il diavolo servizievole. — Riconoscenza
  diabolica. — Il servitore del conte Eleno. —
  Altri esempii. — Il diavolo credente. — Il diavolo
  galantuomo. — Astarotte e Farfarello. — La conversione del
  diavolo. — La confessione del diavolo. — Il
  diavolo impenitente.                                          » 395

  CAPITOLO XV.
  La fine del diavolo.

  Il diavolo muore, il diavolo è morto. — Cagioni e sintomi.
  — Affinarsi del sentimento religioso. — Affinarsi
  della morale. — La scienza. — Satana simbolo. —
  L'opera di Cristo è compiuta.                                 » 431



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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