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Title: La città italiana nell'alto Medio Evo - Il periodo langobardo-franco
Author: Mengozzi, Guido
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "La città italiana nell'alto Medio Evo - Il periodo langobardo-franco" ***


                             GUIDO MENGOZZI


                           La città italiana
                          nell'alto medio evo

                      Il periodo langobardo-franco



                                  ROMA
                         ERMANNO LOESCHER & Cº
                             (W. REGENBERG)



                SIENA 1914 — STAB. ARTI GRAFICHE LAZZERI



_A MIO PADRE

CON AFFETTO PARI ALLA STIMA_



INTRODUZIONE


_La storia delle condizioni delle città italiane nell'alto medio evo fu
oggetto di gravi e fondamentali ricerche, per opera di numerosi storici
italiani e stranieri, a cominciare dal Muratori, dal Fumagalli, dal
Sismondi, dal Pagnoncelli e dal Savigny. Ai tempi della preparazione
del nostro Risorgimento questo tema fu anzi discusso con particolare
attenzione dal Manzoni, dal Balbo, dal Troya dal Capponi e da molti
altri perchè si volle quasi in quelle remote origini rinvenire l'anima
più spontanea della nazione, ricercandovi i diritti della nazionalità._

_Ma quelle dotte discussioni non riuscirono ad appagare in tutto
i desiderî degli studiosi. Sta di fatto che l'opera di Carlo Hegel
fu poco appresso una grave critica di quei risultati: e più tardi
tutti gli studiosi, in Italia e fuori, dovettero muovere da ricerche
e da argomentazioni nuove e diverse. Il problema delle condizioni
giuridiche dei vinti Romani, quello della sorte dei municipii e
delle corporazioni, quello dell'organizzazione ecclesiastica, quello
dell'origine dei Comuni furono, si può dire, ripresi _ex novo_,
e recarono luce feconda alla storia generale del diritto pubblico
italiano del medio evo._

_Tuttavia non si è ancora portata la ricerca, in modo abbastanza ampio
e profondo, sul punto centrale di tutti questi studii: la città,
considerata nelle sue condizioni territoriali, nelle sue divisioni
giuridiche, nella sua compagine particolare, per cui si distingue
da ogni altro elemento: organizzazione generale, circoscrizione
provinciale, circoscrizione ecclesiastica, borghi, pievi, ville, centri
rurali: la città, voglio dire, nel suo aspetto geografico, storico,
giuridico._

_È stato mio proposito di assumere questo tema, di natura intimamente
ed esclusivamente giuridica, per esaminarlo con tutte le mie forze,
senza pretendere di affrontare e di risolvere tutti quei problemi,
che con quel tema stanno senza dubbio in diretta connessione, ma che
qualche volta hanno contribuito, con la loro imponenza, a sviare il
giudizio degli studiosi. Da una ricerca circoscritta a questo argomento
capitale e d'indole schiettamente giuridica, ho creduto che si potesse
derivare lume anche su quei problemi, per quanto ciò dovesse avvenire
per via indiretta e talvolta soltanto per accenni, che potranno
apparire anche incompleti._

_Ma in un tema così vasto, che ha domandato alle mie forze una lunga e
faticosa indagine, non ho pretesa di aver portato se non un contributo
di metodo e di resultati._

_Nell'atto di licenziare il mio libro mi rimane tuttavia la convinzione
che dai competenti il metodo possa essere giudicato giusto e che i
resultati non siano del tutto vani._



PARTE PRIMA

La città romana, gota e bizantina[1]

  § 1. L'antica cerchia di Roma primitiva. — § 2. La cerchia murata
  del IV sec. av. Cr. — § 3. I _Mille Passus_. Determinazione
  territoriale. — § 4. Determinazione dei _Mille Passus_ riguardo
  alle magistrature. — § 5. _Mille Passus Urbs e suburbium._ — § 6.
  Differenza fra Roma e le altre città: _Pomoerium e Continentia
  Aedificia_. — § 7. Determinazione dei _Mille Passus_ rispetto
  ai plebei. — § 8. Determinazione dei _Mille Passus_ rispetto ai
  beni pubblici. — § 9. Determinazione dei _Mille Passus_ rispetto
  al culto. — § 10. Città e campagna negli ultimi anni dell'impero
  d'occidente. — § 11. La conquista gota. — § 12. Città e campagna
  sotto i Bizantini. — § 13. Le divisioni territoriali interne delle
  città. — § 14. Conclusione.


§ 1. — Nei primi tempi storici Roma fu costituita dall'esiguo numero
delle _gentes_ delle tre tribù dei Ramnes, dei Tities e dei Luceres,
costrette più che disposte ad unirsi su di un territorio assai limitato
per necessità della comune difesa contro l'ostilità convergente degli
elementi circostanti. Ognuna di esse, infatti, conservava inalterato
l'assetto genetico interno sotto il potere, più di coordinamento
che di effettivo comando, del «rex», insieme col quale cooperavano
— per diritto proprio e non per nomina di lui — i capi delle singole
«gentes».

Questa condizione di cose fece sì che le linee fondamentali
dell'organizzazione politica romana si formassero in modo singolare.
Il perdurare delle lotte interne ed esterne indusse a costituire un
nucleo più saldo e durevole, favorito dalle condizioni topografiche,
nucleo che divenne così capoluogo ad un tempo del territorio e centro
di organizzazione della difesa. Ed a questo fenomeno, per cui già
si divergeva dal primitivo sistema barbarico, nel quale, pur in sedi
relativamente fisse, oltre la rotazione delle terre, troviamo la vita
in villaggi facilmente abbandonabili, si aggiunse, come effetto a
causa, quello della maggior considerazione della terra stessa. Questa,
appunto perchè limitata, ebbe tanta importanza da superare quella
dei rapporti familiari, prevalenti nell'organizzazione barbarica, e
costituì la base di ogni rapporto giuridico.

Sotto l'auctoritas del pater[2], oltre i parenti, vivevano anche tutti
coloro che, per vicenda sfortunata di guerra — deditio — o per patto
amichevole — applicatio — si trovavano alla sua dipendenza[3].

Lo Stato primitivo costituisce — si sa — un cielo chiuso entro cui non
si entra che attraverso l'«hospitalitas»[4]. Nell'epoca in cui prevale
il potere dei capi delle «gentes» di fronte a quello del re, che, in
tempo di pace, si limita a regolare i «Sacra» e lo sviluppo edilizio,
anche questo diritto di rappresentanza è esercitato prevalentemente
dai «patres». Più tardi, però, il potere regio, favorito dalla
naturale scissione degli antichi gruppi gentilizi in più piccoli nuclei
famigliari riconnessi al capostipite ma da esso distinti e separati, fu
avvantaggiato enormemente per il rapido incremento della popolazione.
Quest'aumento, dovuto in parte alla necessità di soddisfare bisogni,
ai quali il sistema agnatizio non sopperiva affatto o inadeguatamente,
e, in parte di gran lunga maggiore, causato dall'immissione di
elementi vinti ritenuti meno pericolosi se tolti dal luogo di origine,
portò alla costituzione entro la «civitas» di una classe speciale in
condizione giuridica inferiore a quella dei «cives» originarii.

E, questa classe si formò sotto la _manus_ del re.

È certo che le leggende dell'«asylum» e del ratto delle sabine, con
cui si risolveva il problema dell'aumento della popolazione, sono
di origine forestiera e quindi, presumibilmente, ostili ai romani;
ma appare altrettanto evidente, dal complesso dei miti con i quali
questi ultimi cercarono di modificarle, la modestia delle origini e
il lungo perdurare nello stadio primitivo[5]. Di più noi sappiamo
per testimonianza concorde delle disposizioni dell'antico diritto
quiritario e delle narrazioni degli scrittori[6] che intorno ad ogni
«domus» correva un _ambitus_ di origine sacrale[7] che la cingeva da
tutti i lati e che l'_insula_ dei quartieri popolari — quel vasto
agglomerato di case a diversi piani e a muri comuni — è di epoca
posteriore.

Popolazione scarsa, dunque, ed occupante nello spazio limitato della
città un'estensione relativamente assai lata.

Si aggiunga che la scienza ha dimostrato — il Vico con meraviglioso
genio l'aveva intuito — che le divinità adorate in appositi templi
fuori del «pomoerium» non che diverse erano addirittura straniere a
quelle adorate in Roma. E se si riconnettono tutti questi dati con la
leggenda dell'uccisione di Remo, la cui importanza, notata anche dal
vecchio Varrone, consiste nel carattere sacro attribuito alla fossa,
destinata a raccogliere la città entro un cinto inviolabile che non può
essere oltrepassato se non in luoghi appositamente determinati e cioè
le porte; se ne deduce la conseguenza che in immediata vicinanza della
città, ma separati dal vallo e dalla fossa, ci dovessero essere quei
popoli vinti che per misura di sicurezza Roma strappava al suolo nativo
e aggregava a sè collocandoli sotto l'«hospitalitas» del re.

Ho parlato di vallo e di fossa e non di mura perchè la costruzione ed
il culto di queste è posteriore: la leggenda parla di Romolo che uccide
il fratello per aver superato di un salto la fossa già scavata o il
solco dell'aratro che segnava il luogo ove avrebbe dovuto esser quindi
scavata[8]. Non si parla affatto di mura. E il contatto continuo del
vincitore col vinto, ostile per odio recente e per diversità antica
di origine e di culto, spiega perchè fosse considerato come delitto
capitale il traversare il vallo fuori che per le porte[9]. I nomi dei
luoghi adiacenti alla Roma primitiva, infatti, sono tutti eponimi di
genti plebee; stirpi diverse, cioè, da quelle originarie di Roma.
Così il _Celius_, le due _Exquiliae_, l'_Oppius_, il _Cespius_, e
così via. Invece entro il «pomoerium» si trovavano in pari condizione
giuridica le tre tribù originarie, le cui divinità si mantennero
contemporaneamente e con pari vigore fino al tardo prevalere di Giove
capitolino, che personifica e rappresenta l'unificazione di Roma.

Ma un allargamento di questo concetto non avviene che nel secolo
IV, quando, con la costruzione delle mura, si inizia un'amplissimo
movimento di riforme che rinnuova tutta la vecchia Roma. Infatti
la definizione del pomerio dataci dai libri auspicali[10] come di
un «locus intra agrum effatum per totius urbis circuitum pone muros
regionibus certis determinatus, qui facit finem urbani auspicii» è
posteriore, come si scorge chiaro dalla menzione delle mura, alla
costruzione delle mura stesse ed è stata presa a torto come prova
dell'identità del «pomoerium» col cerchio murale. La prova si evince,
a mio parere, da una induzione, che ritengo legittima, intorno
all'antichissima distinzione degli auspici in urbani e non urbani (ben
differente dall'altra «domi et militiae»); poichè se si tien presente
che il diritto di consultare la volontà divina spettava esclusivamente
ai patrizi[11] si dovrà anche ammettere che tale diritto in origine
spettasse soltanto alle «gentes» comprese entro il pomerio. E così
si spiega pure come l'Aventino, in tempi posteriori a quelli indicati
dalla tradizione, ma anteriori alla costruzione delle mura, rimanesse
fuori della cinta per il suo carattere forestiero e plebeo, essendo
abitato dai cittadini delle città latine vinte e dagli schiavi che ivi
si rifugiavano nell'«asylum»[12]. E si chiarisce l'altro fenomeno, non
meno importante, che solo dopo lunghe lotte la triade capitolina riuscì
a prevalere sulle altre divinità[13].


§ 2. — Il nostro Bonfante, con un'indagine tenacemente perseguita,
ha dimostrato che nella famiglia romana sui membri che compongono
il gruppo familiare vi è un'autorità di natura politica tanto forte
da tenere il predominio sull'elemento patrimoniale nel passaggio
ereditario: autorità che ha una corrispondenza completa e mirabile
nel campo del diritto pubblico e che fa sì che al modo stesso con cui
nello Stato il capo apparisce come il rappresentante di un gruppo che
non muore mai, così anche la famiglia è un perenne organismo politico
il cui capo si perpetua per la designazione del successore fatta
dal predecessore[14]. Ma questo stato di cose che poteva prevalere
finchè le organizzazioni politiche di ordine superiore erano scarse o
fiacche, doveva mutarsi quando le forze centrali dello Stato operarono
con efficacia. Ne venne che questo acquistò tanto maggior consistenza
quanto più quelle, suddividendosi, formarono nuovi nuclei legati alle
«gentes» originarie da vincoli che andarono sempre più indebolendosi
fin quasi a sparire del tutto.

Noi sappiamo come di diritto facevano parte del senato quei «patres»
che, successori dei capostipiti delle genti originarie, erano i
custodi di ciò che costituiva l'anima della gente stessa: i _sacra_,
le _feriae_, i _sepulcra_. E ci sedevano — come irrefutabilmente
dimostra la mancanza di un sistema di maggiorascato e l'uso assoluto
del regime della designazione — appunto perchè tali e non per ragioni
di parentela[15]. Il fulcro della gente era costituito dal suo culto
interno: chi dal «pater» morente era ritenuto il più atto ed il più
degno a succedergli acquistava con la designazione (dopo la relativa
accettazione) tutti i diritti annessivi, dai _decreta gentilicia_
all'_auctoritas_ senatoriale. Il tratto caratteristico dell'eredità
romana per cui all'erede è imposto ex iure — e questa è la peculiarità
— l'onere della custodia e del mantenimento dei «sacra» anche quando,
come al tempo di Cicerone, era divenuto gravissimo, non si spiega
se non pensando ad un'epoca in cui invece costituiva l'elemento di
maggior rilievo di tutta l'eredità medesima, la quale — si badi — era
impossibile senza designazione di erede. E quest'epoca, per la natura
eminentemente religiosa dei «sacra», corrisponde a quello stadio
primitivo in cui l'elemento religioso predomina e, cioè, l'epoca regia.

Era dunque la proprietà dei _sacra_ e dell'_hedificium_ in cui questi
si conservavano che dava diritto di partecipare all'assemblea la cui
«auctoritas» aveva come scopo precipuo l'osservanza, il mantenimento e
sopratutto il contemperamento dei vari _mores ritusque majorum_[16].

I rami derivati dai ceppi primitivi — patres minores — non potendo
vantare eguali diritti, furono logicamente esclusi dal senato. Però,
come compievano essi pure funzioni vitali per lo Stato, ottennero
di partecipare al pubblico reggimento mediante un'altra assemblea
— _comitia curiata_ — cui aprivano l'adito requisiti differenti,
adeguati al contributo fisico, intellettuale e finanziario che
questi rami portavano a prò della collettività. E come questo non
poteva aversi senza la presenza _assidua_ — è il termine usato dalle
fonti — nello Stato: e questa, alla sua volta, inconcepibile senza
un valido substrato economico, non poteva basarsi che sulla terra,
questi requisiti ebbero anch'essi per base l'elemento realistico della
proprietà.

Ma intanto ne conseguì che, pur rimanendo inalterata la base realistica
dei diritti pubblici subiettivi, accanto ad una proprietà quasi
sacrale, cui ex iure essi erano vincolati, se ne ammise un'altra di
minor efficienza intima alla quale era necessaria la concomitanza di
elementi personali.

Nè l'evoluzione si fermò qui: questi elementi personali, una volta
ammessi, agirono con intensità sempre più forte fino al punto di avere
a base non più la proprietà ma l'abitazione. Così entrarono i plebei.

Insieme con i plebei vivevano intorno alla città anche quei clienti che
per varie e note cause si erano staccati dalle originarie dipendenze
patronali e, sempre crescenti di numero, formavano un insieme ben
distinto — come lo prova l'esistenza dei _concilia plebis_ — dai
«patres» e dai «patricii». I loro nuclei davano luogo, attraverso
ad una lenta e faticosa selezione, ad un elemento nuovo, ricco,
forte e potente, il quale, per la diversità di culto e di origini,
poteva esplicare tendenze disgregatrici. Inoltre i plebei, cooperanti
anch'essi alla vita cittadina e alle guerre, erano indotti a ribellarsi
— e lo fecero con tenacia e moderazione mirabili — a quella condizione,
imposta loro dall'egemonia assoluta delle classi più elevate, per
la quale il loro contributo di forze e d'armi era considerato dallo
Stato come il correspettivo dell'occupazione del suolo pubblico su
cui abitavano[17]. Lungamente vissuti su quelle terre nella stessa
posizione di fronte allo stato che i clienti di fronte ai patroni[18]
e ormai ignari dei remoti patti con cui i loro progenitori erano
entrati nella «civitas», si sentono — e vogliono esser riconosciuti —
meritevoli di una maggior tutela giuridica e di un più ampio godimento
dei frutti delle vittorie.

Per la pressione delle contingenze esterne, per il timore di un
dissolvimento dell'unità così a lungo e con tanta fortuna mantenuta,
verso la fine del IV secolo av. Cr. i dominatori, stremati
dall'invasione gallica, vennero a patti con i plebei e concordarono
con essi una di quelle leggi eminentemente contrattualistiche, la cui
natura è stata messa in luce dal Dallari[19].

Da allora, giustamente, il Pais fa datare il risorgimento definitivo di
Roma per la sua fatidica missione. La piccola cinta primitiva cede il
posto ad un valido muro che racchiude in più ampio giro la cittadinanza
rinnovellata da nuova costituzione. Entro il muro furono chiusi anche
tutti coloro che, topograficamente, già formavano un tutto unico con
la città stessa. Ma neanche così, presumibilmente, si giunse ad aver
sufficiente numero di braccia per il compimento impellente di opere
pubbliche, sopratutto di difesa[20], e fu necessario attribuire alla
città una parte del territorio circostante, il quale venne determinato
con l'antichissimo sistema decimale dei latini.


§ 3. — Documenti sincroni o sicuri che indichino l'estensione precisa
della zona esterna attribuita alla città, ma con una serie di caute
deduzioni mi sembra di poter giungere ad un'accettabile soluzione del
problema.

In primo luogo è pacifico che la prima e principale funzione del
pretore plebeo è quella di proteggere la plebe dalle «angariae».
Ora è altamente significativo che questo magistrato abbia sempre
esercitato la sua giurisdizione oltre che nella città anche mille passi
all'intorno. Non solo: la prima magistratura che compare negli albori
repubblicani non è costituita dai consoli, ma dal _praetor_[21] o
_judex_, al quale questi sono succeduti. E questa oscura magistratura
di transizione, su cui le successive hanno trovato fondamento, mi
pare di importanza peculiare per la storia costituzionale di Roma,
perchè, oltre a segnare il passaggio dal sistema monarchico a quello
repubblicano, essa indica anche che si è allargata la originaria base
del cittadinatico concedendolo anche a coloro che abitavano fuori delle
mura purchè a distanza non maggiore di un miglio, con il diritto di
partecipare alla vita pubblica nelle assemblee relativamente assegnate.

Già verso la metà del secolo V, epoca presumibile delle leggi delle
dodici tavole, la norma in esse sancita, che nessuno sia bruciato
o seppellito entro la città, dimostra come sia attenuato il vecchio
concetto dei «sacra». La gran comunità cittadina è ormai formata: resta
che gli elementi destinati a comporla riescano a trovare un equilibrio
più equo ed una compenetrazione più piena ed a questo tendono — e con
fortuna — i plebei, sia dentro le mura che fuori fino a mille passi.

Il Mommsen, indagando la struttura del diritto pubblico romano, ne
ha indicata con ragione la chiave nella distinzione fra l'«imperium
domi» e l'«imperium militiae», ma ne ha trascurato troppo il
modo con cui essa si è formata. Se nell'epoca più florida della
repubblica il concetto territoriale predomina assoluto senza nessun
conto dell'elemento personale (cittadinanza, patriziato, plebe) e
della natura dei singoli reati; a questo non si è giunti che per
un'evoluzione di cui solo l'ultimo stadio, tipicamente cristallizzato,
è stato da lui rilevato. I limiti rigidi segnati all'esercizio del
potere assoluto — chè questo è il contenuto dell'«imperium militiae» —
significano che originariamente coloro che si trovavano nel territorio
sacrato — _effatum_ come dicono i libri auspicali — ed erano ammessi
alla cittadinanza, godevano una protezione accordata loro in virtù di
un patto giurato da tutti gli ordini dei cittadini — «lex sacrata» —
e logicamente negata ai non cittadini. Infatti, costruite le mura e
attuata la divisione delle quattro tribù territoriali urbane, se da
una parte l'unità della città si rafforzava, dall'altra i nuovi gruppi
aggregati, per essere rimasto sempre ai patrizi l'_jus auspiciorum_,
venivano a perdere l'autonomia religiosa e amministrativa mantenuta
fino ad allora, si sarebbero trovati in condizione peggiore di prima,
se loro non fossero stati accordati congrui compensi e benefici a
cominciare da quello della partecipazione alle curie[22].

Nel diritto privato, invece, più compenetrato di elementi religiosi
e in mano dei soli patrizî, il principio contrattuale della virtù
legislativa, che aveva per funzione di creare un vincolo sempre più
stretto di interdipendenza fra le varie «gentes» nell'epoca regia e fra
le varie classi di cittadini in quella successiva, non si manifestò
affatto. E quindi mentre il campo del diritto pubblico fu chiuso
ostinatamente agli stranieri, ai vinti, agli alleati: fu aperto loro
con gran facilità quello del diritto privato, la cui elaborazione fu
abbandonata ai giuristi ed ai magistrati[23].


§ 4. — L'importanza dei «mille passus» nel campo del diritto pubblico
fu già rilevata dagli studiosi, ma restano a mettere in luce alcuni
punti fin qui trascurati del tutto o male intesi.

A questo mirò già in parte lo Zdekauer con un geniale e profondo
contributo rimasto, pur troppo, interrotto[24]. Egli è riuscito
a dimostrare che anche nel diritto privato i _mille passus_ si
differenziano dal rimanente territorio e sono uniti alla città, così
per l'«actio aquae pluviae arcendae», per la «locatio-conductio»,
per la dazione dei tutori, per la sorveglianza delle vie da parte
dell'edile, per le fontane e per la determinazione del luogo di
nascita. E, di più, ha messo in rilievo la esistenza e la natura di
una differenza di regime giuridico, fra gli edifici che vi si trovano
sparsi irregolarmente e quelli che si staccano dalle mura con contatto
immediato formando le vie che partono dalle porte.

La fonte più importante a questo proposito è data da un passo di Emilio
Macro, tolto dal primo libro della sua opera sulla vigesima[25], che
stabilisce il principio che per Roma «mille passus non a miliario urbis
sed a continentibus aedificiis numerandi sunt»; vale a dire che a Roma
i «mille passus» si contano non dalle mura (come si faceva in tutte
le altre città) ma dall'ultima casa ad esse direttamente congiunta in
senso radiale.

Lo Zdekauer, premesso giustamente che tale maniera eccezionale di
misura mostra che anteriormente anche a Roma si seguì la regola comune
di contare le miglia dal segno infisso nelle mura cittadine presso ogni
porta, ritiene che il passo in questione sia da mettersi in relazione
con quello di Modestino, il quale fa obbligo al tutore testamentario,
che vuole scusarsi, di presentarsi personalmente al giudice entro un
termine di tempo fissato in proporzione della distanza[26].

E realmente anch'esso si riconnette alla questione se i «continentia
aedificia» sieno considerati o no come facenti parte della città. Non
credo, però, che questa sia la disposizione principale.

In primo luogo c'è una diversità non piccola, avvertita anche dallo
Zdekauer, ma non spiegata, fra l'uso assoluto che della formula
_mille passus_ fa Macro e il modo di esprimersi di Modestino, il
quale, illustrando la nota costituzione imperiale, parla senz'altro
di _miliaria_. Nè vale il dire che non conosciamo l'opera dal cui
insieme è stata tolta l'espressione: qualunque interpretazione se ne
voglia dare, sta il fatto che l'espressione «mille passus» è quasi un
anacronismo nel Digesto e che in tutto il titolo «De excusationibus»
si parla sempre di «miliaria» e mai di «mille passus». Dal momento che
quantitativamente indicavano la stessa misura non mi par ammissibile
che in questo titolo se ne debba trovare la spiegazione.

Io credo invece che si debba muovere da un punto di partenza diverso.

Bisogna anzitutto riflettere che i «mille passus» come tali sono una
statuizione di diritto pubblico, sulla quale, appunto perchè tale, le
modificazioni sono entrate a stento e tardivamente: di più, sebbene
rientranti nel disegno del diritto privato con il ciclo evolutivo
messo in luce dal Bonfante[27], conservano tracce tutt'altro che scarse
della loro origine. Perciò io ritengo che si debba ricorrere all'esame
degli istituti di diritto privato che più da vicino si riconnettono col
diritto pubblico e cioè l'eredità, la tutela e la curatela.

La _Lex municipalis tarentina_[28] e la _Lex coloniae genetivae
juliae_[29], fanno obbligo a coloro che vogliono partecipare alle
magistrature cittadine di avere un domicilium nella città stessa o nei
mille passi circostanti. Il principio, contenuto in germe nella _lex
Acilia repetundarum_ del 122 o 123 av. Cr. con l'essere stato applicato
a due colonie così diverse fra loro mostra più che probabile che fosse
tenuto normalmente a base nell'opera di ricostituzione delle città
italiane, iniziata subito dopo la «lex julia de civitate», con la quale
si concesse a tutti gli italiani il diritto di cittadinanza romano[30].

Ora tale possesso urbano che dava luogo a così gravi conseguenze
politiche ebbe naturalmente una più ferma, quasi direi speciale
protezione giuridica.

Fra le imposte stabilite da Augusto ci fu la «vigesima hereditatum», la
quale, come si sa, non era variabile a seconda del grado di parentela
dell'erede col defunto. Ponendo mente che il passo di Macro proviene da
un'opera sulla vigesima e tenendo presente che fino alla fine del sec.
IV dopo Cr. gli immobili entro le città furono immuni da imposte[31],
e che, d'altra parte, i «mille passus» furono sempre considerati come
parte integrante della città murata, io ritengo che tali beni fino a
quest'epoca fossero esenti dalla vigesima.

E in quest'opinione mi conforta l'esame del complesso delle norme
concernenti l'alienazione, la permuta, l'ipoteca etc. dei beni dei
minori. La prima disposizione imperiale che ci interessi è l'orazione
di Settimio Severo del 195 con cui si proibiscono ai tutori gli
atti dispositivi senza il «decretum judicis». Al suo tempo, si badi,
l'antica costituzione municipale era già così profondamente modificata
da presentare le stigmate della decadenza ormai vicina e, sebbene non
ancora molto esteso il sistema dell'obbligatorietà e dell'ereditarietà
delle cariche e degli uffici, più non si avevano gli antichi sistemi
autonomici con cui dalla metà del 1.º secolo av. Cr. Roma aveva tentato
unificare tutta l'Italia certo e forse tutto l'impero.

Orbene tale orazione[32] si esprime precisamente così: «Praeterea,
patres conscripti, interdicam tutoribus et curatoribus ne praedia
rustica vel suburbana distrahant, nisi ut id fieret, parentes
testamento vel codicillis caverint». E tanto nel principio del titolo,
che è un commento di Ulpiano, come in tutte le altre leggi che a questa
si riconnettono, troviamo uniti i «praedia suburbana» con i «rustica».
Una sola fa eccezione e secondo me, importantissima: la legge con cui
l'imperatore Gordiano estende all'agnato del furioso le cautele imposte
al curatore ed al tutore, dicendo che non a torto si viene ad estendere
il beneficium dell'orazione del divo Severo, per il quale «possessiones
rusticas sine decreto Praesidis pupillorum seu adolescentium distrahi
vel obligari prohibitum est». Come si vede secondo questo passo
l'orazione non si sarebbe occupata dei «praedia rustica et suburbana»
in contrapposto ai beni urbani, ma dei soli «praedia rustica». E
«praedia rustica», si osservi, non per la loro destinazione, secondo
il concetto elaborato dalla giurisprudenza, ma, come è chiaramente
indicato dall'unione con i «suburbana», per la loro situazione
territoriale.

Ora, poichè la disposizione gordiana del 239 è solo di pochi anni
posteriore a quella di Severo, io ritengo molto probabile che il testo
primitivo di questa parlasse solo di «praedia rustica» e che si debba
ad interpolazioni di poco posteriori l'aggiunta dei «suburbana» passata
in tutti i testi successivi.

La regola giuridica che richiede per i soli «praedii» fuori del
suburbio l'interposizione del Preside può essere illuminata da un
doppio punto di vista. Prima di tutto da quello interno della famiglia.
Il capo di essa aveva così ampia sfera di azione che anche dopo la
morte la sua volontà aveva valore e quindi la sua designazione si
considerava perfetta nella scelta e nella destinazione specialmente
per quei beni che costituivano il nucleo più importante dell'eredità.
Si sa, infatti, che sotto un certo aspetto si può dire che l'erede
continua la personalità del defunto. In secondo luogo può essere
interpetrato dal punto di vista fiscale, per l'imposta ereditaria
della vigesima la quale, attuata la prima volta da Augusto, sparisce
prima della radicale riforma dioclezianea. Ed è logico che sia così:
concessa da Caracalla la cittadinanza romana a tutti gli abitanti
dell'impero e preso a base degli «honores» il censo determinato in base
all'entità e non alla situazione territoriale[33], i primitivi concetti
puramente romani, vigenti sopra tutto per l'Italia, andarono in disuso
ed ebbero conseguenze del tutto opposte a quelle che si sarebbero
potute immaginare. Infatti quei beni urbani e suburbani che lo Stato,
in riguardo alla loro funzione lasciava a disposizione più immediata
e rigorosa dell'autorità familiare e indenni da gravami ereditari,
quando in seguito, i concetti ereditari romani più che trasformarsi si
rovesciarono, si trovarono meno tutelati degli altri. Il preside oltre
e più dell'esazione, della vigesima, tardi entrata e presto sparita,
curava la salvaguardia degli interessi del minore. Si diminuiva la
forza creativa della designazione del de cuius ma si aumentava la
tutela del patrimonio dell'erede. Anzi, come dapprima questa vigilanza
si esercitava solo su i predi rustici, quando su questi venne invece
a fondarsi la partecipazione agli «honores», non si capì più —
specialmente trattandosi di disposizioni che dovevano aver valore nella
immensa varietà dell'impero — il nesso storico che aveva guidato a quel
resultato. E come al tempo di Cicerone non si comprendeva l'evoluzione
ereditaria nè le fasi per cui la tutela e la curatela da istituti a
vantaggio della famiglia si erano capovolti in vantaggio del minore
contro di essa; così dopo Alessandro Severo più non si comprese la
distinzione originaria dei beni in urbani e rustici e si formò la
corrente giurisprudenziale che intese a spiegarla in base alla funzione
da loro adempiuta. E come questa era diretta ad uno scopo economico
cui servivano senza contingenze di elementi politici, la legislazione
si uniformò ai criteri elaborati dalla scienza. Con questo in più: che
quei beni rustici, i quali si trovarono più tutelati perchè riguardo
a loro lo Stato restrinse gli antichi rigidi vincoli dell'autorità
familiare, resultarono più tardi a maggior vantaggio di questa perchè
nel periodo di maggior sviluppo economico furono considerati come
l'elemento indispensabile per il godimento degli «honores». Ed al
legislatore il problema si presentò in maniera del tutto opposta a
quella con cui si era impostato, perchè le prime cose che si vendevano
oltre i mobili, gli argenti, gli ori e le cose preziose erano le case
cittadine, in cui, come dice Costantino[34], era morto il padre e era
cresciuto il minore con davanti agli occhi le statue degli antenati.
Questo, dove l'eredità romana aveva trovato il suo fulcro genetico, per
cui era lasciata libera al padre la «designatio» decisiva, veniva ora
ad essere la parte del patrimonio esposta per la prima alla vendita.

E Costantino, che ebbe sacro il culto familiare, insorse contro tali
alienazioni profanatrici con una legge basata su criteri di distinzione
dei «praedia» in «rustica» ed «urbana» importantissimi per noi.
Infatti egli mette insieme «mobilia pretiosa, urbana etiam praedia,
et mancipia, domos, balnea, horrea atque omnia, quae intra civitatem
sunt», in contrapposto a «mancipia et praedia rustica». Poichè, — come
già da più di un secolo Ulpiano aveva insegnato[35], — urbanum praedium
non locus facit sed materia, — le «domus», i «balnea», gli «horrea»
etc. sono predi essenzialmente urbani, la specificazione di _intra
civitatem_ deve avere una significazione speciale e questa non credo
possa essere che quella della città insieme col territorio che le è
intorno strettamente avvinto e distinto dal rimanente. Ed allora, se
solo i «praedia rustica» sono contrapposti a quelli della città ed,
anzi, insieme con questi sono considerati i suburbani, si avvalora
l'ipotesi da me espressa che Severo ed Ulpiano abbiano parlato di
«suburbana» solo per l'interpolazione che i loro passi hanno dovuto
subire[36].

La trasformazione sostanziale dei concetti su cui si basava la
partecipazione agli «honores» è importantissima per spiegare anche un
altro istituto di diritto privato: la fiducia. È noto che l'ipoteca
è un istituto di origine piuttosto tarda: le sue parti furono per
lungo tempo sostenute dalla fiducia che ne differiva sostanzialmente
perchè dava al creditore la proprietà della cosa oggetto del negozio.
Ponendo in relazione questo fatto con la norma che a base dei diritti
pubblici metteva la proprietà di una «domus», cioè di un palazzo, di
una casa signorile[37] appaiono chiare le conseguenze terribili per il
debitore fiduciario che, privato della proprietà della sua «domus»,
si trovava ipso fatto privato del diritto della cittadinanza che
garantiva e tutelava più di ogni altro i cives romani. E la _fiducia_,
che si basa su un immobile, serve solo per le classi più elevate —
«patres» e «patricii» — mentre per i plebei si ha il _nexum_ che è il
titolo esecutivo personale, che dà il debitore insolvente in mano al
creditore. Solo più tardi, dopo la lunga lotta dei plebei (nella quale
è noto quanta parte avesse la questione dei debiti) così la _fiducia_
come il _nexum_ perdono il loro carattere politico e divengono puri
istituti di diritto privato.

La natura oligarchica della costituzione romana, insieme con le
condizioni economiche, la maggior garanzia data al creditore e la
tendenza conservatrice italica, permise a tale istituto di mantenersi
a lungo; ma anch'esso, sebbene non sparisse dal diritto privato,
perdette ogni forza nel diritto pubblico quando la magistratura poggiò
non più sulla «domus» ma sul «praedium» e non fu più ritenuta come
indispensabile la specifica proprietà dell'«hedificium».


§ 5. — Da quanto si è detto fin qui si apre la via ad una congettura di
fondamentale importanza.

Se leggi speciali sanzionano per Roma il principio che i «_continentia
aedificia_» fanno parte della città, se ne può dedurre che per le altre
città vigeva il principio opposto, vale a dire la separazione fra la
città murata e le costruzioni in immediata vicinanza di essa e, cioè,
— poichè queste, per necessità di cose non potevano aggrupparsi che
presso le porte — i borghi della città stessa[38].

Lo Zdekauer[39] ha avanzata l'ipotesi che i borghi fossero preveduti
nel momento della fondazione della città e non già frutto e conseguenza
di un successivo incremento della popolazione. Ed ha perfettamente
ragione.

Per quanto sieno scarsissime le fonti a questo proposito, l'importanza
del problema che esse concernono è tale che non si può almeno non
intravederlo, perchè in questo punto sta la chiave della spiegazione
del problema dell'incolato.

Luciano[40], il mordace filosofo eclettico del secondo secolo dopo Cr.,
con il suo abituale sarcasmo contrappone gli ’επήλυδες καὶ ξένοι dei
sobborghi agli indigeni — ’αυθεγευῆς θὲ ούδεις — della città, in cui
è cittadino chiunque voglia esserlo. Perciò, egli dice, i barbari sono
molti.

E anche più esplicita è l'iscrizione affricana di Sicca Veneria che
ci parla di «incolae quae intra continentia coloniae nostrae aedificia
morabuntur»[41]. E lo stesso fenomeno è confermato per i sobborghi di
Samos[42].

Ora, come si è visto, soltanto a Roma i «continentia aedificia»
facevano parte della città. In tutte le altre città, invece, erano
compresi nella zona dei «mille passus». Ma non erano in tutto
regolati dallo stesso regime giuridico che reggeva le città. Oltre
alle magistrature maggiori, la cui autorità si estendeva su tutto il
territorio giurisdizionalmente soggetto alla «civitas»[43], ve ne
erano delle minori, delle quali alcune esercitavano il loro potere
sulla città e sui mille passi adiacenti e altre soltanto entro la
cinta murata. Asconio nel commento alla quarta orazione di Cicerone
contro Verre distingue nettamente il MAGISTRATUS INTRAMURANUS dal
MAGISTRATUS URBANUS[44], mentre due iscrizioni comensi ricordano il
SEXVIR URBANUS[45], che non è poi così inaudito e inesplicabile, come
è apparso al Mommsen[46], perchè esaminando tutta la scala delle
cariche[47], i collegi[48], la popolazione[49], fra la città e i
sobborghi si trovano sempre delle differenze: differenze di cui si
hanno tracce anche prostazioni finanziarie[50] e nella costruzione
dei monumenti[51]. Di più nella generalità delle città, Roma compresa,
le divinità del suburbio sono differenti da quelle cittadine[52] e da
quelle rurali.

Qualora si metta in rapporto questo insieme di elementi col diritto
di cittadinanza romano, si può concludere che originariamente entro
la città abitavano solo i «cives», mentre i sobborghi erano rilasciati
agli «incolae». Ed è per questo che si spiega come fino da quando una
città si fondava, si prevedevano i sobborghi[53].


§ 6. — La trasformazione del regime giuridico dei beni urbani e
suburbani, di cui ho parlato or ora, è relativamente tarda per le altre
città, ma antichissima per Roma, la quale si trova ad aver sorpassato
questo stadio gran tempo prima che si sia iniziato il movimento di
unificazione dei municipi e delle colonie italiane, che, secondo i
Gracchi, dovevano costituire con Roma il fulcro organico e congruo
dell'impero. Di qui la ragione della permanenza del passo di Macro nel
Digesto.

Se il primo miglio da Roma comincia dove i «continentia» aedificia
finiscono, questi sono, evidentemente, considerati come un tutto
unico con Roma stessa. E questo è tanto vero che chi è nato nei
«continentibus aedificiis» è considerato come nato a Roma. Se non
erro la chiave per spiegare tale differenza è data dalla disposizione
per la quale chi era cittadino di Roma, per nascita o per domicilio
— poichè anche per questo valeva la stessa regola — aveva diritto
a partecipare alle distribuzioni annonarie ed ai _congiaria_ che,
immesse in modo stabile fra le spese pubbliche dalla _lex sempronia
frumentaria_ del 133 av. Cr., non furon più tralasciate. Dapprima la
distribuzione era fatta dietro un lieve correspettivo; ma verso la
metà del 1.º secolo av. Cr. divenne completamente gratuita. È qui che
balza fuori l'importanza del «pomoerium», ben differente da quella dei
secoli antecedenti. Lo Zdekauer ha dimostrato come non sia accettabile
l'opinione del Mommsen che il pomerio si mantenga quel cerchio
intramurano che gira intorno città[54]: ma io ritengo che non si debba
accogliere nemmeno l'altra accettata dallo Zdekauer, dal Detlefsen[55],
dall'Uelsen[56], dal Nissen[57] e dal Merlin[58], che il pomerio
si porti avanti non con l'ingrandimento della città, ma quando si
allargano i confini dell'impero e che rappresenti presenti una cerchia
sacrale e non un limite amministrativo o di diritto privato.

Il pomerio, per me, conserva sempre il suo carattere peculiare che è
quello di servire a separare i cittadini della città murata da quelli
che ne son fuori: esso si allontana dalla sua base primitiva, cioè le
mura, quando le condizioni peculiarissime di Roma lo richiedono. Per
la parte politica non necessitano trasformazioni, chè la divisione
in tribù urbane e rustiche permane fino a che tutto non si accentra
nelle mani dell'imperatore. Ma la cosa è ben diversa nel campo
amministrativo: per partecipare alle distribuzioni bisognava esser
cittadini di Roma città. Ciò è tanto vero che la rubrica VII della
legge «julia municipalis», posteriore di un'ottantina d'anni, la quale
stabilisce che l'edile debba sorvegliare in egual modo le vie «in urbem
Romam propriusve urbem Romam passus mille» non conosce la distinzione
dottrinaria fra «urbs» e Roma[59], che non si era ben delineata nemmeno
ai tempi di Alfeno[60].

Ora a chi consideri la natura dell'equilibrio delle forze patrizie
e plebee nella costituzione di Roma non può sfuggire come la forza
del veto tribunizio sia tale da impedire ai patrizi quasi tutto ciò
che alla plebe non piace. Quando il sistema repubblicano decade e
si prepara l'avvio al principato e la corruzione serpeggia con le
fraudolente ed arbitrarie inclusioni di cittadini nelle tribù fatte dai
censori e le violenze della «turba forensis» — ben note e frequenti dai
tempi di Tiberio Gracco a quelli di Augusto — elemento indispensabile
per riuscire a dominare era appunto il favore di questa turba. Favore
interessato, ben inteso, che si risolveva nella concessione delle
cariche meglio fruttifere ai più potenti e nella distribuzione di pane
e di circensi agli altri. Varî erano i modi di contentare i primi;
unico quello di soddisfare i secondi: aumentare il numero di quelli
che avevano diritto alle distribuzioni annonarie e renderle sempre
più abbondanti e gratuite. Si vede bene che il concetto genetico era
l'attuazione pratica di un calmiere da parte dello Stato a favore
dei meno favoriti suoi membri, per render loro possibile l'acquisto
delle derrate alimentari al minor costo che la produzione annuale e le
condizioni dell'erario permettevano.

La «lex Octavia» dell'85 av. Cr. ridusse a 5 i modi assegnati a
ciascun cittadino, ma lasciò immutato il sistema. Invece Clodio, il
turbolento e facinoroso strumento di Cesare, nel 58 av. Cr. introdusse
il principio assoluto della gratuità trasformando l'istituzione
economico-filantropica in uno strumento di dominio che Cesare ed
Augusto non si lasciarono sfuggire di mano. Il primo portò il numero
dei partecipanti a 150000, il secondo a 200000. Gli storici son
concordi su questo punto.

Si è tentato variamente di spiegare il modo tenuto per arrivare a
questo resultato ed il Willems[61] ha messo bene in evidenza il sistema
della redazione delle liste che potevano favorirlo: ma queste erano la
conseguenza del mezzo adottato per riempirle, non il mezzo stesso.

Questo mezzo era l'allargamento del pomerio.

L'unico storico che si occupi un po' a lungo delle vicende del pomerio
è Tacito, che ne parla nei suoi annali[62]. Questi, messi in relazione
con le modificazioni più su accennate, concordano perfettamente. Egli
dice che il pomerio cittadino fu allargato da Sulla, da Cesare, da
Augusto e da Claudio e aggiunge che i termini posti da quest'ultimo
e di cui era stato redatto atto pubblico erano visibili ancora ai
suoi tempi. È vero che egli dice a proposito di Cesare che questo
allargamento fu fatto secondo quel «more prisco quo iis qui protulere
imperium, etiam terminos urbis propagare datur». Ma la consistenza
di questo antico costume appare evidente nel capitolo successivo nel
quale egli descrive il cerchio del pomerio segnato da Romolo e da Tazio
dopo le loro vittorie[63]. Nessun rancore si deve tenere al sobrio
storico se da buon romano egli accoglie volentieri le magniloquenti
leggende glorificanti l'Urbs; ma nessun timore che egli ne tenga a
noi, se noi che lo possiamo, vagliamo con critica severa i dati che
egli ci somministra. E questi son tutt'altro che da accogliere per
l'epoca regia. Tratto in inganno dalla somiglianza delle condizioni
nelle quali Sulla, Cesare ed Augusto avevano ampliato il pomerio con
quelle attribuite dalla tradizione a Romolo ed a Tazio egli le mette
in relazione. Ma, per quanto vi sia una remota corrispondenza di fatti,
non sono e non possono essere in relazione.

Queste notizie servono a consentire una determinazione approssimativa
per giudicare quando entrò nella legislazione romana la massima che
considerava come parte di Roma gli edifici continenti senza soluzione
di continuità lungo le strade. Non prima di Claudio perchè egli
fissò limiti ben determinati, non dopo Papiniano perchè il passo del
Digesto[64] che parifica i nati nei «continentibus aedificiis» a quelli
nati entro le mura è tolto dal suo terzo libro «ad legem Juliam et
papiam». Dunque fra il 54 e il 212 dopo Cristo e, date le condizioni
generali dell'impero, piuttosto più vicino al secondo termine che al
primo.

La mia conclusione si allontana alquanto da ciò che resultò allo
Zdekauer e agli altri autori ricordati. Se il pomerio include i
«continentia aedificia» e questi segnano il limite estremo del diritto
dei cittadini alle distribuzioni annonarie e il massimo termine entro
il quale il tutore, che vuole scusarsi, si considera come presente
entro la città, mi pare che sia da giudicarlo come un limite di
carattere amministrativo e di diritto privato insieme.

Così, oltre alle trasformazioni dei domicilia suburbani, son venuto a
parlare della condizione speciale dei plebei di Roma.

È tempo di occuparsi della plebe cittadina delle altre città.


§ 7. — «Plebs», secondo l'opinione concorde di tutte le fonti, di
qualunque tempo da Gaio[65], a Paolo[66] a Teodosio il giovane[67]
giù giù fino a Giustiniano[68], sotto l'aspetto personale, ha un unico
concetto negativo: è costituita dai «ceteri cives sine senatoribus».
Secondo alcuni scrittori[69] questa parola, presa in senso più stretto,
indica quella parte della cittadinanza che, non avendo alcuna fortuna
patrimoniale, è esonerata da ogni imposta[70]: ma siccome, appunto per
questo, è esclusa da ogni partecipazione alla vita pubblica attiva,
così non ne terrò conto che quando la sua posizione giuridica apparrà
modificata.

Sotto l'aspetto della sua connessione territoriale la «plebs» è stata
fino ad ora divisa in due grandi categorie: urbana quella entro le mura
— fatta eccezione per Roma i cui «continentia aedificia», come vedemmo,
sono considerati parte integrante della città; — rustica l'altra.

Questa bipartizione, secondo me, è errata e deve cedere il posto ad
una tripartizione così formulata: PLEBS _urbana_ — PLEBS _extra muros
posita_ — PLEBS _rustica_.

Fondamentale a questo proposito è il tit. 55. (Ut rusticani ad ullum
obsequium vocentur) del libro XI del codice giustinianeo, che contiene
queste due leggi:

«Ne quis ex rusticana plebe, quae, extra muros posita, capitationem
suam detulit et annonam congruam praestat, ad ullum aliud obsequium
devocetur, neque a rationali nostro mularum fiscalium vel equorum
ministerium subire cogatur».

«Si qui eorum, qui provinciarum rectoribus obsequuntur quique in
diversis agunt officiis principatus et qui sub quocumque praetextu
muneris publici possunt esse terribiles, rusticano cuipiam necessitatem
obsequii quasi mancipio sui iuris imponant aut servum eius vel
forte[71] bovem in usus proprios necessitatesque converterint [sive
xenia aut munuscula quae canonica ex more fecerunt, extorserit, vel
sponte haec, quae inprobata sunt, oblata non refutaverit], ablatis
omnibus facultatibus, perpetuo subiugetur exilio[72]: et nihilo
minus rusticanum, qui se in eiusdem operas sponte propria detulisse
responderit, par poenae severitudo constringat. [Eadem vero circa eos
censura servetur qui xenia aut munera deferri sibi a possessoribus
cogunt aut oblata non respuunt]»[73].

Lo scopo di queste due disposizioni — ce lo dice il titolo — è di
impedire le concussioni e le sopraffazioni di cui erano vittime i
_rusticani_ e di proteggerli contro le arbitrarie imposizioni di ogni
_obsequium_. Quest'ultima parola ha usi svariatissimi nelle fonti
giustinianee e pregiustinianee, nelle quali ora ha significato di
_officium_, ora di _munus_, ora di _ministerium_, oscillando da un mero
contenuto di prestazione di opera ad uno più ampio di contributo di
opera e di materia.

Nel nostro caso però, se non m'inganno, il senso ne è reso chiaro
da un'altra legge[74] strettamente connessa con le nostre. In essa
s'impone al Prefetto del Pretorio di far cessare quella _praebitio
operarum, quae inlicite a provincialibus hactenus expetita est_.

Ora nella legge di Valentiniano, Valente e Graziano, che è la fonte di
questa disposizione e che, oltre ad esser più lunga, è diretta ad un
fine diverso, non solo questa «operarum praebitio», è qualificata come
un «obsequium», ma è anche specificata: essa si prestava _cum animalia,
quibus prosecutio debeatur, advenerint_.

Ed in questa interpetrazione concorda anche il senso della parola
«ministerium» quale la troviamo usata in tutti e due i passi. Essa
non indica soltanto l'opera che si presta con l'intervento di una
determinata persona, ma anche un certo sacrifizio pecuniario da parte
di quest'ultima: sacrifizio che può giungere fino ad una contribuzione
vera e propria, strettamente connessa con l'opera prestata come, per
esempio, nella legge dell'anno 406 con cui Onorio e Teodosio limitano
ai soli Comites e Magistri militum il diritto di pretendere dalle città
il riscaldamento dei loro bagni privati (ministerium)[75].

Lo scopo generico delle due disposizioni dunque è eguale: vediamo ora
se lo stesso si può dire del fine specifico di ciascuna di esse.

Nella prima si impone ai Rationales di non costringere al «ministerium»
delle mule e dei cavalli del fisco la plebe _rusticana extra muros
posita_ che adempie a certi obblighi. Nella seconda si proibisce a
tutti gli ufficiali sottoposti ai rettori delle provincie di trattare
il «rusticanus» come un proprio mancipio e di usare dei servi e dei
buoi di lui come di cosa propria.

Intanto _mancipes_ ha qui un senso specifico chiarito da numerose leggi
del codice teodosiano[76]: la parola indica coloro che, preposti alle
singole _stationes_ e _mutationes_ del _cursus publicus_, ne curavano
il buon andamento guardando che gli animali non fossero rubati,
trattati male, troppo percossi, privati del pascolo etc.[77].

La legge dunque vuole che questi magistrati non facciano abuso dei
poteri da essi tenuti sui provinciali fino a costringerli a fornir
loro tutto il necessario per i loro viaggi, precisamente come per
il servizio pubblico erano tenuti a farlo gli appositi mancipi e,
sopratutto, non adoperino per loro esclusivo e particolare vantaggio
i servi o i buoi di essi, sempre, ben inteso, sotto lo specioso
pretesto che si trattasse di un pubblico tributo. Infatti è da tener
presente che mentre il «cursus publicus» vero e proprio è un servizio
instaurato dagli imperatori[78] e mantenuto con le contribuzioni
delle città e dei privati, tali contribuzioni non giungono tuttavia
a rivestire un carattere specifico di destinazione esclusiva a quel
particolare scopo, come avviene invece per le contribuzioni dell'annona
e dell'«hospitalitas»[79].

Ma in breve si aggiunse un sussidiario servizio di trasporto — _cursus
clabularis_ — cui erano adibiti i buoi. E questi buoi non erano forniti
dallo Stato ma dai proprietari fondiari sicchè tale fornitura gravava
sui fondi come un onere reale[80] insieme col «ministerium» occorrente
e cioè col mantenimento e con la cura degli animali stessi: cioè la
paglia, il fieno etc. ed il servo o i servi necessari. Costantino, che
mirava a risollevare le condizioni già tristi dell'agricoltura e a non
opprimere troppo i possessori rustici, con una legge dell'anno 315,
oltre a proibire che i buoi aratori ed i servi coltivatori potessero
essere pignorati per debiti fiscali[81], volle che i primi fossero
esclusi dal «cursus publicus» a cui dovevano servire soltanto animali
appositamente destinati[82].

Disgraziatamente le condizioni dell'impero, come è noto e come vedremo
meglio in seguito, peggioravano sempre più e gli imperatori non
avevano ormai altro scopo che di estorcere il massimo denaro dalle
provincie. E perciò anche la maggior parte dei saggi provvedimenti
del codice teodosiano rivolti al miglioramento ed al progresso dello
stato o spariscono del tutto o si trasformano profondamente nel codice
giustinianeo. Così avviene della legge tutelatrice costantiniana di cui
più non troviamo traccia e così avviene della legge 2 che ho riportato
integralmente e della quale le mutilazioni triboniane hanno del tutto
cambiato il senso e lo scopo.

Importantissimo per lumeggiare questo fatto è il vedere che i due passi
— strettamente connessi l'uno all'altro — non riportati nel codice
giustinianeo da una parte ci parlano di «xenia» e di «munuscula» e
dall'altra di «possessores», dimostrando così in modo non dubbio —
anche se non bastasse il fatto che il titolo sotto cui si trova la
legge è «ne damna provincialibus inferantur», — che la legge tratta
e si occupa di «provinciales», cioè di «possessores». Invece — e
questo è il punto fondamentale — nel codice giustinianeo si occupa
dei «possessores», dei «provinciales» la legge unica del titolo «ne
operae a conlatoribus exigantur»[83] e la legge teodosiana che prima
li regolava, è trasformata completamente. Invece che i «provinciales»
e i «possessores» essa concerne quei rustici i quali risiedono su una
terra, della quale non sono proprietari, dal momento che la «praebitio
operarum» col suo contenuto economico, colpisce questi e non essi,
mentre li colpisce invece col suo contenuto di prestazione di opera,
con le angariae[84], per usare il termine tecnico delle fonti.

Ma se noi osserviamo da questo lato la prima delle leggi prese
in esame, vediamo subito una differenza enorme. Quì la «plebs
rustica» paga la «capitatio» e presta l'«annona»: anzi è appunto
il soddisfacimento di questi oneri che dá diritto all'esenzione
dal «ministerium» delle mule e dei cavalli del fisco, tanto che,
argomentando a contrario, si può dedurre che fra quelli della plebe
rustica _posita extra muros_ tale imposta grava solamente su coloro che
sono esenti dalla «capitatio» e dall'«annona».

Ora nella categoria dei coltivatori di terre altrui, genericamente
indicati col nome di «plebs rustica» due leggi del codice teodosiano
fanno una distinzione che permane anche nel codice giustinianeo[85],
da una parte di coloni originali[86] e dall'altra di «plebs
adscripta»[87]; ma quantunque ne costituiscano quasi la totalità
sia con l'opera che con i frutti nè questa nè quelli sono chiamati
direttamente al soddisfacimento dei «munera», dei quali risponde allo
Stato il «possessor». È giusta l'osservazione fatta dal Leicht[88] che
in realtà tali tributi, in via ordinaria, erano pagati dai coltivatori,
ma non condivido la sua opinione che questi ultimi stieno direttamente
di fronte allo Stato in qualità di contribuenti. Un caso in cui ciò
sembra avvenire è quello della legge con cui Valentiniano e Valente
concedono ai «coloni rei privatae» l'_adhaeratio_ nella _conlatio
equorum_[89] che consisteva nel pagare 23 soldi invece di ogni cavallo
da consegnarsi all'esattore[90]. Ma, anche a non considerare che questa
legge non è stata accolta da Giustiniano, bisogna pensare che siamo nel
caso specialissimo di coloni non già di un privato qualunque ma della
_res privatae_, di fronte alla quale essi per l'indissolubile legame
che ormai li avvince al fondo, appaiono nel rapporto più similiare a
quello possessorio. E per di più si tratta di coloni dell'Africa, il
paese classico del colonato e dei _saltus_, le cui «leges», come è
noto, hanno un processo di formazione[91] ed un'azione rispetto agli
abitanti del saltus, paragonabile, almeno in parte, a quella delle
leggi ordinarie per i cittadini dello Stato.

E sopratutto poi bisogna tener presente una fondamentale distinzione
fra i redditi dei _tituli canonici_ dell'annona e dei tributi
amministrati, curati e sorvegliati dal «Comes sacrarum largitionum»
e che pervenivano al _Fiscus_, da quelli dei beni e dei «fundi» della
«res privata» che erano amministrati dal «Comes rerum privatarum»[92].

La legge su citata non ha carattere pubblico se non in quanto si
possono considerare di diritto pubblico le cose che compongono la
«res privata» del principe. In questo caso si tratta dei «saltus»
africani di cui il principe è proprietario nè più nè meno di un privato
qualunque[93] onde non si può avere che un rapporto puramente privato
di natura non diversa da quelli che nascono dalle disposizioni delle
«leges saltus».

E questo è tanto vero che l'obbligo della collazione di cavalli, in
natura o in moneta, non grava su tutti i coloni del «saltus» ma solo
su quelli che, come interpetra acutamente Gotofredo, sono _obnoxii et
adscripti terrae_ sotto la vigilanza dei _procuratores saltus_ detti
anche _procuratores rei privatae._

Qui non si giunge ad un concetto di diritto pubblico se non attraverso
la persona di carattere prevalentemente pubblico del principe, ma la
natura del rapporto è privata.

L'unico caso in cui si possano veramente vedere i coloni soggetti
direttamente all'imposta è dato dai coloni dei _praedia fiscalia_.
Questi appariscono in tale condizione dalla legge che esplicitamente li
sgrava dai «munera» della «civitas»[94].

Ma questo caso ha pur esso la sua spiegazione. Ciò avviene perchè,
per la mancanza del concetto di persona giuridica dello Stato,
concetto limitato al Fiscus, il diritto romano non concepisce dei beni
fiscali tributari dello Stato e quindi, mancando il soggetto diretto
dell'imposizione, si vuole impedire che questa venga a gravare su
coloro che con la terra appartenente al fisco hanno maggiori vincoli e,
cioè, per la parte affittata e subaffittata, al colono, al servo della
gleba che rimangono sempre vincolati al suolo per quanto gli affittuari
cambino; e per la parte dominica al «procurator»[95].

Ora, dunque, nel primo caso s'impone al colono una gravezza che rientra
nella categoria di quelle che gli incombono per la natura della sua
condizione giuridica. Non si deve, quindi, in questo caso parlare di
soggezione all'imposta da parte dei coloni.

Parrebbe invece che legittimamente se ne potesse parlare per il secondo
caso; ma qui questo assoggettamento avviene per l'incompletezza della
teoria romana in un punto specialissimo, limitato, circoscritto e non
estensibile ad alcun altro caso[96].

C'è però una legge importantissima del codice teodosiano[97] che dice:
«decurio pro ea portione (sc. tributorum) conveniatur in qua vel ipse
vel colonus vel tributarius eius convenitur et colligit (fructus);
neque omnino pro alio decurione vel territorio conveniatur». Questa
legge è riportata dal Leicht[98] a sostegno della sua tesi e forma,
anzi, la base ed il fulcro della sua dimostrazione[99].

Ma a me sembra, che l'interpetrazione più piana debba considerare
il «convenitur» come riferentesi al decurione, ed il «colligit»
a «colonus vel tributarius» onde l'espressione significhi che il
decurione è responsabile del pagamento dei soli tributi delle terre che
gli appartengono e di quelle di cui gode i frutti attraverso l'opera
della «plebs rustica». Ora la natura di questa «plebs» ci è chiarita
dalle fonti che ce la mostrano assegnata, distribuita e vincolata alla
terra[100] e comprendente tutta quella scala sociale di individui che
dal servo addetto ai lavori rustici, saliva attraverso al colonato,
fino a quegli inquilini e subaffittuari sui quali specialmente,
dovevano gravare le conseguenze della scarsa certezza del diritto,
sopra tutto per il fatto che risiedevano su terra altrui[101]. Tutte
queste persone non giungevano al diritto pubblico che attraverso al
«dominus» della terra e di fronte a questo dal _servus_, che non aveva
affatto personalità, si andava fino al _colonus_ che ne aveva una
così distinta da poter annullare in parte il contenuto dispositivo
della proprietà dominica e fino al _tributarius_ personalmente
ancor più indipendente e libero del colono. Per ciò a me pare esatta
l'espressione della legge «colligit fructus»: tanto il colono, quanto
— e più — il «tributarius» hanno una sfera di attività e di produzione
indipendente o almeno autonoma di fronte all'attività dominica; ma lo
Stato ritiene responsabile il «dominus» del pagamento delle imposte
di ogni terra da cui tragga vantaggio chiunque è legato a lui e al suo
fondo.

Stando così le cose, se si mettono a confronto le due leggi del titolo
48, salta agli occhi una differenza importantissima: quella _plebs
rustica_ che è _extra muros posita_ paga la _capitatio_ e presta
l'_annona_ direttamente; l'altra no: la prima è soggetto, la seconda
oggetto dell'imposta.

E, spingendo anche più avanti l'indagine, vediamo sorgere evidente
anche un'altra differenza fra i due passi: nel primo l'imperatore si
rivolge al «Rationalis», nel secondo al «Rector provinciae».

Il _Rationalis_, detto nei primi tempi dell'impero _Procurator
Caesaris_[102], prima aveva la cura della sola «res privata» del
principe, ma, quando la fortuna del capo dello Stato s'ingrossò
del fisco[103], anche per esso si ebbero dei «rationales». detti
_rationales summae_, o _summarum_. Non è facile distinguere con
precisione le funzioni degli uni da quelle degli altri: entrambi sono
egualmente ricordati nella _Notitia imperii_ come ufficiali del _comes
sacrarum largitionum_ e del _comes rei privatae_[104]. Quel che a
noi importa osservare è che essi sono ben distinti dai presidi e dai
rettori delle provincie: a questi era affidata l'_administratio_, a
quelli l'_actus_.

Ora qual'è la ragione per cui, mirando ad uno stesso scopo generico,
il codice giustinianeo per alcuni incarica il «rationalis» e per altri
«il rector provinciae»? Non perchè si tratti di cosa del fisco — il
«cursus publicus» era «fiscalis» — tanto l'un servizio con i cavalli
e le mule quanto l'altro con i buoi lo erano. — Non perchè si tratti
di opere e prestazioni di natura diversa: in tal caso, (ne abbiamo un
esempio nella legge teodosiana accolta da Giustiniano) il legislatore
si sarebbe rivolto contemporaneamente a tutti e due, perchè, — è
bene ricordarlo — Triboniano modifica la legge teodosiana in modo
da adattarla a quella «plebs» che giustamente Gotofredo equipara ai
coloni[105]; mentre qui invece abbiamo proprio una «plebs» distinta dai
«possessores» di cui si occupa un'altra legge e questa «plebs» appare
di condizione ben diversa a seconda che sia indicata o no come _extra
muros posita_. E, di più, questa differenza di opere è legata con
una differenza giuridica rilevantissima, riguardo alla soggettività;
soggettività equiparabile e simile, ma certo non identica a quella dei
«possessores», dal momento che di questi si occupa una legge a parte.
L'aver potuto riconoscere che esiste una speciale categoria di «plebs
rustica» direttamente assoggettata all'imposta è cosa di importanza
rilevante, che dà a questa categoria una fisonomia singolare ed una
autonomia tutta propria così di fronte alla città come di fronte al
resto della _plebs rustica_ del contado, in un ambito che tutto porta a
credere essere stato quello dei _Mille Passus_. Questo riconoscimento
modifica, se non m'inganno, ciò che fino ad ora si è ritenuto in
proposito e mostra come la concezione della città e del suo territorio
avuta fino ad oggi non sia stata completa. E siccome uno studio delle
nostre città medioevali deve muovere da un esame accurato della città
romana, ognun vede l'importanza di questa constatazione. Essa sarà
ancor meglio messa in evidenza nel corso del lavoro.

Intanto vediamo se si hanno altre prove dell'esistenza di una zona di
territorio intorno alla città governata da un regime giuridico diverso
da quello del restante territorio e i limiti e l'estensione di essa.

Vediamo dei beni pubblici.


§ 8. — Senza scendere ad un esame della distinzione fra la «res
publica» e la «res in patrimonio fisci»[106], che non c'interessa
ex professo, vediamo come gli scrittori hanno distinto i beni comuni
pubblici.

Unico, si può dire, che abbia tentato una classificazione in questa
materia, è il Rudorff[107], alla cui opinione hanno acceduto tutti gli
scrittori successivi dal Brugi[108], al Roberti[109], al Calisse[110],
al Finocchiaro-Sartorio[111]. Secondo il Rudorff tali beni si possono
distinguere in tre categorie. La prima comprende tutti i beni che
appartengono al municipio come persona giuridica ben distinta dai
suoi componenti e che — e questa è considerata come caratteristica —
non possono essere alienati. Tali sono, per un verso, le strade, le
piazze, le mura, le porte e gli edifici pubblici, «theatra, stadia
et similia» e dall'altro quelle terre, quei pascoli e quelle «silvae»
che «in tutela rei urbanae adsignatae sunt». Nella seconda categoria
sono i beni — anch'essi generalmente pascoli e boschi — appartenenti
alla comunità non come ente, ma come aggregato di persone che di essi
potevano godere dietro il correspettivo di un canone. La terza era
costituita dai beni appartenenti non a tutti i cittadini, ma ad un
gruppo di essi, con un rapporto di diritto prevalentemente pubblico,
quantunque non scevro di infiltrazioni, talvolta molto forti, di
diritto privato. I beni di queste due ultime categorie, a differenza di
quelli delle prime, erano alienabili.

Secondo il Rudorff, dunque, i beni dell'«universitas» sono inalienabili.

Io non condivido la sua opinione.

Beni comuni a tutti i cittadini, intanto, sono soltanto le cose
«publicatae, ab eo qui jus publicandi habuit»[112], sulle quali tutti
i cittadini hanno «iure civitatis», non «quasi propria cuiusque»[113],
diritto di uso conforme alla destinazione e limitato in modo da rendere
possibile uguale uso da parte degli altri. Ma non erano inalienabili:
le fonti ci mostrano la procedura facile e piana con cui si toglievano
all'«usus publicus» e si alienavano[114]. Non era il carattere di uso
pubblico che ostasse, ma il consenso dell'imperatore, rappresentante
della volontà preminente del popolo romano. E quando, dopo Caracalla,
ogni predominio di Roma fu giuridicamente spento nell'equiparamento
comune, anche il consenso imperiale, poggiato soltanto su ragioni
finanziarie, per il fatto che ogni bene delle città fu considerato come
la garanzia delle imposte, non tardò a sparire. Teodosio e Valentiniano
nel 443 autorizzano espressamente le città a vendere i loro beni in
caso di bisogno[115].

Nè meno impreciso è il carattere preso a distinzione fra i beni della
prima e della seconda categoria. È vero che per i beni della seconda
specie si ha il pagamento di un «vectigal»[116]; ma questo non può
essere preso come criterio distintivo. Lo stesso Igino, che chiama
«vectigal» il canone pagato, distingue in diverso modo gli «agri
vectigales», i quali, secondo lui, «sunt obligati quidam reipublicae
populi romani, quidam coloniarum aut municipiorum aut civitatum
aliquarum». Egli, dunque, distingue i «bona vectigalia» dello Stato
romano da quelli delle città suddistinte alla lor volta in «coloniae»,
«municipia» e «civitates»[117].

In realtà, se non m'inganno, a base della teoria del Rudorff sta
un equivoco causato dalla tendenza a trasportare idee moderne sulle
condizioni antiche troppo naturalmente diverse.

Nell'epoca nostra, quantunque tale materia presenti difficoltà non
lievi[118], si hanno sicuri elementi di giudizio. Lo Stato nostro non
è più costituito da un insieme di classi o di persone una sola delle
quali domina e governa; ma risulta dalla stretta unione di un nucleo
di abitatori con un determinato territorio, su cui si aderge un governo
che è l'emanazione della volontà di questi e che ha per mira il bene di
tutti con il minor sacrificio possibile dei singoli. E questo grande
concetto è mirabilmente servito dal duttile istituto della persona
giuridica, che, teoricamente perfezionata da Savigny, ha preso ora
larghissimo e degno sviluppo. Ne consegue che criterio di distinzione
fra i diversi beni sarà, oltre l'appartenenza, la destinazione; e a
questo criterio potrà tener dietro, sebbene non sempre, ed in ogni modo
sempre come effetto non necessario, anche l'amministrazione.

Nel diritto romano manca il grande concetto delio Stato moderno e
di più nell'antichità, quantunque lo Stato sia un'entità concreta,
mirabilmente perfetta, della fenomenologia sociale, non è un'entità di
diritto. Lo Stato, come soggetto di diritto, coincide con il «populus
romanus» e tutto ciò che a questo appartiene e che lo concerne, fu
considerato come parte integrale della sua natura pubblicistica, così
per le cose, come per i crediti e le obbligazioni patrimoniali e per
l'acquisto dei diritti[119]. Inoltre nell'antico diritto romano ogni
istituto di diritto pubblico trova il suo substrato in un istituto di
diritto privato, poichè rami interi di questo, originariamente estranei
al diritto pubblico, vi sono col tempo trapassati[120]. Si deve anche
aggiungere che l'elemento, più che principale, unico, considerato
dal diritto romano nelle persone giuridiche è quello personale;
l'«universitas», il «collegium»[121]. E così se originariamente
pubblici erano solo i beni del popolo romano[122], come pubblico
era solo il diritto che «ad statum rei romanae spectat»[123], più
tardi, essendosi l'imperatore considerato come il rappresentante del
popolo romano, i beni di lui, appunto perchè suoi, furono investiti
di carattere pubblico anche se per destinazione e per uso non erano
tali. Invece sotto altri aspetti si faceva una deviazione a questo
principio. Infatti come conseguenza dell'applicazione del sistema di
autonomia così usato dai Romani nelle conquiste, a poco a poco, più o
meno intensamente nei diversi casi, si equipararono le singole città
all'«Urbs» e si finì col chiamare pubblici, sebbene impropriamente,
anche i beni di queste.

E, inoltre, la teoria rudorffiana pecca anche per altre inesattezze
non lievi. Non tien conto del fatto, rimarcato per la prima volta
dal Niehbur e confermato dalle indagini successive[124], della gran
varietà di condizioni di elementi e di vita delle città, ammessa e
consentita da Roma che si limitò, anche in seguito, ad adattarlo e
generalizzarlo[125]. E, per di più, ha raccolto indifferentemente
materiali di ogni tempo e di ogni provenienza senza esaminare se l'uno
poteva essere accoppiato con l'altro.

Quel «vectigal» — prendo l'esempio più alla mano — sul pagamento o meno
del quale egli fa gran conto, indica propriamente il reddito ricavato
dai beni pubblici e riscosso per mezzo dei pubblicani[126]. Invece più
tardi da Ulpiano[127] esso ha avuto il significato di reddito di beni
pubblici comunque pagato e riscosso. E tale cambiamento di significato
fu, come ben si comprende, la conseguenza delle modificazioni subite da
quei beni che, tolti ai vinti e dichiarati suolo pubblico, formarono
la parte più importante e più produttiva dei beni dello Stato durante
la repubblica e furono poi in massima parte distribuiti ai privati con
le leggi agrarie del settimo secolo[128]. Considerare il pagamento del
«vectigal» come peculiarità di certi beni — come fa il Rudorff — non è
giusto per un duplice ordine di ragioni: anzitutto perchè il concetto
l'estensione ed il valore se ne modifica rapidamente col modificarsi
della costituzione di Roma e poi perchè non tutte le città, quando
furono assoggettate all'egemonia di Roma, furono trattate alla stessa
maniera[129]. E — aggiungo — anche se lo fossero state, beni pubblici
delle città non furono mai quei «bona vectigalia» che furono, come si
sa, distribuiti ai privati[130]; mentre invece ad esse fu conservata
un'aliquota o la totalità dei beni, che già erano goduti in comune dai
cittadini fino dalla fondazione della città stessa. Questi beni, in
quanto avevano subìto più o meno intense modificazioni nella natura
e nella funzione, si trovavano ad essere in condizioni diverse e,
conseguentemente, sotto un regime giuridico differente da quello che
regolava i beni comuni delle colonie, sia che fossero fondate «ex novo»
oppure con una «deductio».

E così il Rudorff non tien conto, da una parte, della mancanza di
uniformità nei concetti giuridici sostanziali, dall'altra dei criteri
differenziali portati dalla varietà dei tempi.

Per quest'ultimo riguardo si potrebbe fare a mio parere una distinzione
in tre periodi: uno (da suddividersi in altri minori, a seconda delle
vicende della città presa a studiare) fino agli imperatori; un altro
dal secolo primo alla fine del quinto e l'ultimo che comprenda le
modificazioni apportate dagli ultimi imperatori romani di occidente e
quelle ancor più gravi della legislazione gota e bizantina.

Data la differenza enorme su accennata fra lo Stato romano ed il
moderno, io non credo che la destinazione abbia in quello l'importanza
che ha in questo e che, invece, criterio distintivo peculiare debba
essere il sistema di amministrazione, che è, nel diritto attuale, un
criterio quasi tutto affatto secondario.

Non bisogna dimenticare, però, come la deficiente costituzione
giuridica dello Stato romano impedisca che questo, come ogni altro
sistema di distinzione, vada esente da qualche deviazione.

Nell'anno 372 Valentiniano Valente e Graziano inibirono ai curiali
la facoltà «conducendorum praediorum et saltuum reipublicae»[131];
ventotto anni dopo ne completarono la disposizione con la legge «de
locatione fundorum iuris enfiteutici et reipublicae et templorum»[132].
Dal confronto di queste leggi si vede l'errore del Rudorff nel
comprendere fra i «communia» delle città, considerate come persone
giuridiche, le porte, le strade, le mura _et similia_; e le terre, i
pascoli e le selve assegnati «in tutela rei urbanae».

Nella seconda di queste leggi si considerano i «loca reipublicae,
quae aut includuntur moenibus aut pomeriis sunt connexa», insieme con
i «praedia» ed i «saltus» di cui parla la legge del 372, proibendo
degli uni e degli altri la «conductio» ai curiali. Questi ultimi
beni vengono distinti dalle mura, porte, strade, piazze, teatri e
stadi, di cui parla Marciano[133], ossia «omnia aedificia publica
sive iuris templorum intra muros posita vel etiam muris coherentia»,
i quali, nel caso che «nullis censibus patuerint obligata», Arcadio e
Onorio stabilirono nel 401 che «curiales et collegiati teneant atque
custodiant»[134].

E ciò, si badi, senza che manchi un esatto criterio di distinzione
fra le due prime specie di beni: nell'un caso si parla di «loca»,
nell'altro di «praedia» e di «saltus». «Locus», ce lo dice
Fiorentino[135], «sine aedificio in urbe area, rure autem ager
appellatur»: esso non è un «fundus,» come nota Ulpiano[136], «sed
portio aliqua fundi». Ed è chiaro anche il processo di modificazione
del concetto delle mura e delle porte. Da prima, per il simbolico
e religioso modo con cui erano costruite, si consideravano come
sante e pubbliche in quanto edifici destinati al culto, il quale
era considerato come funzione di Stato. Più tardi un logico senso
di differenziazione, senza far loro perdere il carattere religioso,
li separa dagli edifici più propriamente destinati al culto,
riconnettendoli ai beni pubblici ai quali erano da ascriversi per
l'appartenenza, per la destinazione e per l'amministrazione.

Arcadio e Onorio, con le due leggi del 400 e del 401, disciplinano
nuovamente il regime dei beni pubblici, con la mira di stringere
ancor più il cerchio di ferro, che univa le persone al luogo di
origine[137]. Essi vogliono che i beni enumerati vengano affidati
in perpetua conduzione, mediante il pagamento di un annuo canone
congruamente determinato, ai _municipes collegiati et corporati_[138].
Gotofredo, nel commento a questa legge, ritiene che «municipes»
indichi i curiali, i decurioni; ma io penso invece che la parola abbia
proprio il senso originario ristretto di «muneris participes recepti in
civitate»[139]. Contro l'interpetrazione comune data da Paolo[140], a
me sembra che urti la lettera della legge: _penes municipes corporatos
et collegiatos_ URBIUM _singularum conlocata permaneant_. Ora _urbs_,
lo sappiamo, ha un significato tecnico che ne circoscrive l'ambito
al cerchio delle mura[141]. E sappiamo pure che base esclusiva
dell'organizzazione agraria dei romani era la città, e che solo in
essa i cittadini abitavano e risiedevano[142], con esclusione, come ho
cercato di dimostrare, anche dei sobborghi[143].

E c'è di più.

Costantino proibisce ai curiali la conduzione dei PRAEDIA e dei SALTUS
_reipublicae_, Onorio e Arcadio prima vogliono che i «LOCA _reipublicae
quae_ (si noti) _aut includuntur moenibus aut pomeriis sunt connexa_
penes municipes corporatos et collegiatos conlocata permaneant»; e
l'anno dopo danno delle norme per l'_amministrazione_ di tutti gli
AEDIFICIA PUBLICA _intra muros posita vel etiam muris coherentia_, i
quali «aedificia», se «nullis censibus patuerint obligata», «curiales
et collegiati teneant atque custodiant».

Anche non ponendo mente che gli imperatori medesimi, regolando la
stessa materia, non potevano dimenticare la norma emessa pochi mesi
prima — onde si può credere che avrebbero usata la stessa frase se
avessero voluto esprimere lo stesso concetto —; vi è un altro argomento
che porta, se non erro, un valido sussidio alla mia ipotesi; ed è la
clausola che non fossero obbligati a nessun censo, clausola che non può
indicare se non l'occupazione di suolo pubblico permessa ad un privato,
dietro il correspettivo di un canone, il cui nome tipico è appunto
censo.

Ed allora, se non m'inganno, scaturisce chiara una triplice distinzione
dei beni comuni delle città:

1) _praedia_[144] e _saltus_, cioè appezzamenti di terreno coltivabile
o ad uso di pascolo da essere locati al migliore offerente;

2) terre, aree, appezzamenti di terreno[145] entro la città o
riconnessi al pomerio[146], da locarsi a cittadini collegiati o
corporati;

3) _aedificia_ entro la città o ad essa ricongiunti, i quali, fatta
eccezione di quelli vincolati a privati dietro il pagamento di un
censo, devono essere tenuti e custoditi dai curiali.

I primi, del cui reddito i cittadini godevano solo indirettamente,
potevano essere liberamente locati al miglior offerente. Ma gli altri
beni, che si trovavano entro la città o in immediata vicinanza e ne
toccavano più da presso la vita, potevano esser locati soltanto a
cittadini («omnis venientis extrinsecus... ademptatione remota»),
i quali offrissero serie garanzie, evitandosi modi di «occultae
conductionis». Si richiedevano cittadini collegiati e corporati,
uniti, cioè, in quei collegi ed in quelle corporazioni che, per la loro
importanza, erano giustamente detti _membra urbis_[147]. Ad essi soli,
che sostenevano carichi e pesi pubblici, si concedeva il vantaggio
dei redditi di questi beni, dietro il correspettivo di un canone, che
il ristretto numero dei concorrenti rendeva assai tenue; mentre se ne
escludeva quella _plebs urbana_, che Costantino aveva dichiarata immune
dalla _capitatio_[148] e che veniva a goderne indirettamente a traverso
al censo annuo riscosso dal municipio ed adoperato a comune vantaggio.
E, finalmente, gli edifici in città o nella cerchia del pomerio —
rispettate le concessioni già perfette al momento della promulgazione
della legge — non potevano essere ceduti; ed i decurioni, come
rappresentanti della città, dovevano esercitare l'ufficio di vigilanza
e di custodia di questi beni, che formavano parte integrante della
città e dei quali tutti i cittadini godevano. Dunque, accanto a fondi
comunque appartenenti alle città e dovunque situati, si distinguono le
terre e gli edifici che sono entro le città stesse o sono ricongiunti
ai loro pomerii.

Quale sia il limite territoriale di questa ricongiunzione la legge non
dice: segno evidente che la teorica e la pratica concordavano a pieno
a questo riguardo. E poichè noi non conosciamo altro termine usato dai
Romani fuori di quello dei _mille passus_, ritengo che appunto questo
limite fosse pacificamente riconosciuto a base della costituzione dei
tempi imperiali.


§ 9. — Si è visto come la legge di Arcadio ed Onorio accenni anche agli
edifici _iuris templorum_. Nessuna meraviglia che fossero considerati
come pubblici in uno Stato in cui il culto era riguardato come una
funzione statuale:[149] per il problema nostro importa vedere se
abbiano qualche importanza le divisioni territoriali e più specialmente
quella dei mille passi. Ammesso come vero ciò che io son venuto fin
qui esponendo sulla differenziazione di questa cinta suburbana, nulla
impedisce di supporre che il noto adattamento della Chiesa nelle
circoscrizioni territoriali laiche non si sia arrestato davanti a
quella. Ho già ricordato che i templi fuori delle mura sono così
frequenti da essere giudicati di rito fino dalle prime età di Roma. Ma,
se non è raro il caso di luoghi ove città suburbio e contado abbiano
ognuno divinità differenti, come Roma, Aventicum, Selinunte, Segeste,
Taormina, Samo, Fotidea ed altre[150]; le leggi di Arcadio ed Onorio
del 400 e del 401, insieme con altri elementi, mostrano che questo
stato di cose, fatta eccezione di Roma e, forse, di qualche altra
città, col modificarsi della costituzione romana[151], finì col dare il
posto ad un altro, nel quale le divinità del suburbio furono accolte
fra quelle cittadine e la città ebbe un _pagus suburbanus_ ad essa
ricongiunto per ragioni di culto.

Tale è il _Pagus Aug. Felix suburbanus_ di Pompei[152].

Il Mommsen, illustrando le numerose iscrizioni che lo ricordano, non
ha creduto di poter giungere ad alcuna conclusione sicura, ed il Voigt
non si è occupato di tale questione. Ma, considerando come la Chiesa
cattolica si sia fatta un'arma contro il paganesimo soppiantandone le
manifestazioni del culto[153] e sostituendo le proprie istituzioni,
anche nelle divisioni territoriali già da quello costituite, a me
pare che, se fonti più tarde e documenti attendibili mostrano con
evidenza che la Chiesa, come norma generale, considerò la città insieme
ad un cerchio più o meno esteso di territorio all'intorno[154], lo
stesso si debba presumere essere avvenuto antecedentemente. E valga
il vero: un documento pontificio interessantissimo toglie ogni dubbio
a questo riguardo. Nell'aprile del 596 Gregorio Magno si rivolge a
Mariniano «episcopo ravennati cum caeteris fratribus et coepiscopis
et sacerdotibus, levitis, clero, nobilibus, populo militibus civitate
Ravenna consistentibus vel _ex ea foris_ degentibus»[155]. Numerosi
documenti, che appartengono ad un periodo successivo, provano il
perdurare inalterato di uno stato di cose da secoli in vigore e
spiegano il valore della espressione _ex ea foris_, che potrebbe essere
interpretata in senso più lato che la frase non consenta. Per economia
del lavoro e per non ripetermi, dovendo esaminare ad uno ad uno i
documenti in parola nella seconda parte, riporterò ivi i testi, dai
quali resulterà che l'unica ipotesi accettabile è che il pago suburbano
si circoscrivesse nel limite dei _mille passus._


§ 10. — Parlando del limite dei _mille passus_ rispetto al culto, ho
accennato ad uno dei mutamenti su essi portati dagli ultimi secoli
dell'impero d'occidente. Bisogna ora considerare tale questione in modo
più ampio. E perciò è necessario gettare un colpo d'occhio, per quanto
rapido, sulla vita cittadina nel suo complesso. Non intendo entrare
in un esame minuto, quantunque non le condivida, nè dell'opinione del
Declareuil[156], il quale ha sostenuto che la decadenza dell'impero è
posteriore di un secolo a quanto si ritiene comunemente; nè di quella
del Baudi di Vesme[157], il quale, in antitesi piena col Declareuil,
pensa che già alla metà del secolo quarto l'organizzazione sia stata
così completamente trasformata da essere del tutto spariti gli antichi
duumviri giusdicenti, e sostituiti dovunque da un _comes_. A me basta
considerare le trasformazioni del giuoco delle forze cittadine e le
conseguenze che esse hanno avuto.

La plebe, nel senso moderno della parola, cioè i nulla tenenti, non
aveva obblighi e non aveva diritti: l'autorità risiedeva nelle curie
e nei magistrati. Però, essendo tali organi troppo rigidi; siccome si
era venuta formando lentamente una nuova classe, uscita dalla plebe per
ragione di aumentate ricchezze, i suoi componenti, che erano i _minores
possessores_[158], mentre venivano aggregati alle curie per tutti gli
oneri, non avevano poi alcun vantaggio, nè difesa speciale. Di ciò fu
incaricato il _defensor_[159], che fu istituito come rappresentante e
tutore dei loro interessi dagli imperatori, i quali ne rilasciarono
la nomina alle città: e queste vi procedettero per mezzo delle
magistrature e delle curie, senza partecipazione alcuna della plebe,
che, per essere stata esentata dalla _capitatio_ da Costantino e per la
sua povertà, non poteva aver bisogno di uno speciale rappresentante,
nè, logicamente, partecipare all'elezione di esso. La plebe non
partecipava alla vita pubblica che attraverso alla Chiesa. La Chiesa,
centro fino dal terzo secolo, di interessi per tutti coloro che dalla
potestà laica erano meno favoriti, ottenuto pieno riconoscimento
giuridico e politico, avocò a sè a poco a poco le funzioni degli
antichi culti, ed al modo di essi fu considerata come funzione
pubblica e le fu affidata parte rilevante di quell'azione civile che
lo Stato più non poteva espletare. E poichè, come gli antichi canoni
sanciscono[160], il vescovo, nominato dal clero e consacrato dal
pontefice, deve essere eletto da tutti i fedeli; così anche quella
parte della popolazione che ne era altrimenti impedita, riuscì a
conseguire una partecipazione, per quanto tenue, alla vita cittadina.

Per necessità di cose, però, la Chiesa, entrata nell'orbita delle
istituzioni statuali ed uniformandosi ad esse, aveva ristretto
l'originario _corpus christianorum_ nel _sacrum venerabile concilium_
costituito dal corpo dei sacerdoti e l'azione della plebe nella
costituzione politica sarebbe stata ben presto ridotta al nulla, se
altre e più forti cause non avessero agito vigorosamente. Cominciata
verso la fine del secolo quarto la serie delle invasioni barbariche,
s'imposero riattamenti di mura e riordinamento dell'esercito. All'una
ed all'altra cosa gli imperatori tentarono provvedere. Abolita
l'antica libertà di disposizione di cui godevano le città per il
riattamento e la conservazione delle mura[161], Arcadio e Onorio nel
395 vollero destinata a tale scopo la terza parte del canone «qui ex
locis fundisque reipublicae annua praestatione confertur»[162]: ma,
essendosi questo reddito manifestato insufficiente, malgrado che alle
città fossero state restituite le «possessiones» tolte ad esse dagli
imperatori cristiani e donate alla Chiesa[163], l'anno dopo stabilirono
un'imposta apposita, confermata più tardi da Onorio e Teodosio[164],
che colpiva tutti indistintamente gli abitanti delle città — _ordines
et incolae_[165].

L'imposta alla quale _universi_ erano soggetti _portione suae
possessionis et jugationis_, era reale e colpiva solo i possessori,
compresi quei minori, più su ricordati[166]. Ma non bastava costruire
e mantenere le mura: bisognava difenderle. E agli imperatori, riuscito
vano ogni tentativo di riforma dell'esercito[167], ormai divenuto una
esosa ed obbligatoria contribuzione di uomini e di denaro e precipitato
dagli antichi nobilissimi elementi romani in un'accozzaglia spregevole
di barbari, di servi, di schiavi e di coloni[168]; come era riuscito
vano ogni tentativo di riorganizzare le curie e i collegi[169], non
rimase che concedere ai cittadini l'uso, fino allora proibito[170],
delle armi[171] ad esortarli a combattere per la difesa delle loro
persone e delle loro case. Tale appello muove _ad populum_[172]
Valentiniano, quando nel 440 Genserico si presenta minaccioso in
Italia; e lo ripete in speciale modo ai Romani, che le mura aureliane,
terminate da Onorio e restaurate da Probo, più non riuscivano a
difendere[173], imponendo a tutti indistintamente — «nullus penitus
excusetur» — la restaurazione e la «custodia murorum portarumque».

Tutti i cittadini, ormai, anche i nullatenenti dovevano cooperare
alla difesa della città: quegli oneri che prima gravavano direttamente
sui patrimoni e sulle terre, si trasformano in pesi personali. Non si
tratta soltanto di fornire i tironi e i cavalli: occorrono le forze e
il braccio di tutti; ed il ferro barbarico, aprendo aspre ferite, pur
nello strazio immane che ne consegue, oltre a deporre il germe fecondo
del sentimento della necessità che tutti combattano e tutti difendano
la propria città portò altre non meno gravi conseguenze.

Prima di tutto si veniva lentamente formando quell'insieme dei meno
favoriti, del quale si vede lo sviluppo successivo nell'_exercitus_
cittadino delle città bizantine, che comprende tutti gli armati _qui in
civitate inventi sunt a puero usque ad senem_[174].

Inoltre fin che gli oneri gravavano su coloro che possedevano terre, il
diritto di decisione spettava ai curiali, e più tardi, per mezzo del
_defensor,_ a tutti i _possessores_; ed il maggior vantaggio spettava
a quei _collegiati_ e a quei _corporati_ che soddisfacevano a tante
necessità della vita pubblica: mutate le condizioni e resa necessaria
la cooperazione di tutti; anche i minimi, che solo la Chiesa aveva
uniti alla collettività cittadina, ebbero diritto alla partecipazione
alla vita pubblica. E mentre già dal 443 Teodosio e Valentiniano[175]
avevano riconosciuto loro il diritto di decidere in merito
all'alienazione dei beni della città, i quali possono essere alienati
solo _cum communi consensu_[176], così da Maioriano li vediamo ammessi
all'elezione del _defensor: municipes, honoratos,_ PLEBEMQUE....
_adhibito tractatu atque consilio_, egli stabilisce, _sibi eligant
defensorem, factumque dematurent_[177].

Ed anche la posizione giuridica di tali beni venne, conseguentemente, a
mutare.

Che le alienazioni di questi fossero divenute frequenti è dimostrato
dalla costituzione del 443, che le proibisce quando non sieno promosse
da uno stato di estrema necessità. Tali beni pubblici segnano ora il
correspettivo dei nuovi aggravi militari richiesti ai cittadini, oltre
l'obbligo normale imposto dalla costituzione politica. Di fronte allo
Stato certe terre rappresentavano un certo contributo di soldati, di
annona, di tributi: _praebitio tironum, praestatio annonae, tributorum,
hospitalitatis_ etc. Talune, anzi, _terrae limitaneae, burgariae,_
avevano questa sola massima e specifica funzione di servire agli
obblighi della milizia. E da un punto massimo, segnato da queste terre
limitanee, sulle quali, per l'intensità con cui erano colpite da oneri
militari nessun'altra imposta gravava[178], si scendeva ad un minimo in
quelle terre che dovevano fornire contributi di varia indole, ciascuno
dei quali, e quello militare fra questi, era, necessariamente, meno
rigido e meno esteso che nelle terre della prima specie. Oramai anche
le città, per le continue esigenze della difesa, venivano accostandosi
alla condizione giuridica di quelle colonie militari, per cui il
servizio armato era scopo principale, e, come queste, erano obbligate
alla _munitio_[179]. Tale obbligo era generale; sola differenza era che
i coloni, appunto perchè tali, erano tutti proprietari di una terra;
i cittadini no; e, quindi, nelle città le terre pubbliche dovevano
più intensamente servire quasi di correspettivo al servizio personale
richiesto ai cittadini. L'economia, ormai poverissima, non s'imperniava
più sul denaro, ma sulla terra, che divenne il fattore dominante: e
ne conseguì, naturalmente, l'aumento considerevolissimo delle persone
risiedenti _in terra aliena_: come pure altre deviazioni giuridiche,
tra cui quella che riconosce l'autorità di scacciare il _metator_, non
soltanto al proprietario, ma anche alla stessa plebe, concepita così
come in un rapporto stabile con la terra[180]. Questa ascensione della
_plebs_ è importante anche da un altro lato: prima, come abbiamo visto,
della tutela della _plebs_, sia _urbana_ che _rustica_ era incaricato
il _defensor_. Di esso qui non si parla: prova evidente, a mio credere,
che esso andava restringendo la sua autorità entro la cerchia delle
mura o pochissimo al di fuori, anche prima che Maiorano con la sua
costituzione del 458 sanzionasse ufficialmente questo mutamento[181].

Questo forzato equiparamento di tutte le classi, fatta eccezione dei
_senatores_ e dei più potenti, porta alla decadenza irrimediabile
del _defensor_, e dà luogo alla trasformazione finale fattane da
Giustiniano, il quale, quando riconquistò l'Italia, lo ridusse alla
condizione di un semplice emissario del governo centrale[182].


§ 11. — Tra le disposizioni di Maioriano e quelle di Giustiniano non
corre soltanto un secolo: cade fra esse il regno di Odoacre e quello
degli Ostrogoti. Nè l'uno nè l'altro furono senza conseguenze sulla
costituzione italiana, ma il primo, per la sua corta durata, non segnò
che il principio di un sistema, che divenne normale solamente con i
Goti.

Odoacre, come è noto, concesse ai suoi soldati il terzo delle
terre romane, e queste, dopo la sconfitta di Ravenna, furono date
agli Ostrogoti. Siccome questi erano in maggior numero dei primi
ed accolsero anche nelle loro file numerosi gruppi dei precedenti
conquistatori[183] furono necessarie altre terre, le quali vennero
distribuite con equanimità rimasta famosa, dalla _tertiarum deputatio_
presieduta da Liberio e furono assegnate con i _pittacii_[184].

Le terre pubbliche, nella terribile condizione in cui si trovavano
le curie[185], vennero incamerate dal fisco del re, il quale, per
mezzo del _curator_, sotto il controllo diretto del _comes Gothorum_,
invigilò sui prezzi, sulle vendite, sulle distribuzioni dei generi di
prima necessità[186].

Ma se questo fu l'andamento generico, noi non sappiamo con precisione
le vere condizioni dell'assegnazione. Bisognerebbe conoscere la grande
varietà di usi e di consuetudini, che risalivano ai primi tempi della
conquista romana; usi che l'Impero non aveva unificato e di cui si
intravede l'esistenza in quel diritto romano volgare, formatosi nella
pratica accanto al diritto romano classico[187]: diritto volgare che
ebbe, come si vedrà, singolari manifestazioni anche nel campo del
diritto pubblico.

L'importanza dei Goti non deve essere considerata soltanto per la
azione che i resti di questo popolo sopravvissuti alla sconfitta finale
e rimasti in Italia, possono avere esercitata, servendo quasi di ponte
di passaggio verso la più fiera invasione germanica[188]; bensì deve
essere considerata per l'influenza decisiva che la costituzione gotica
ebbe in Italia durante il regno barbarico.

È fuori di dubbio che le curie rimasero, benchè in tristissime
condizioni. Quanto al rimanente della popolazione urbana, il Gaudenzi,
basandosi sul cap. 64 dell'editto teodoriciano, che stabilisce
che l'uomo libero _nulli obnoxius civitatis_, che abbia violata
un'ancella altrui vergine, sia sottoposto ad una vigorosa fustigazione
e poi _vicinae civitatis collegio deputetur_, ritiene che lo Stato,
obbligando tutti i collegi solidalmente al pagamento integrale della
_lustralis collatio_, li abbia costretti a fondersi in un collegio
unico divenuto servo della città[189].

L'idea contiene, secondo me, gran parte di vero; ma non mi pare che
quella fusione dei collegi, diversi per attribuzioni, per mansioni
e per lavoro ed ognuno dei quali, in quanto «obnoxius civitati», era
obbligato a certe peculiari prestazioni, sia avvenuta nel modo indicato
dal Gaudenzi. Io ritengo che la diversità etnica dei Goti e dei
Romani, la differente condizione sociale ed economica e la differenza
di culto, abbiano strette tutte le classi romane meno elevate — non
le sole corporazioni — in un rude isolamento. I Goti soli avevano il
diritto alle armi, ed essi soli erano esenti da imposte[190]; e, di
più, il concetto politico di Teodorico, che giustamente prevedeva
nell'affratellamento livellatore della Chiesa cattolica,[191]
l'affievolirsi di ogni egemonia del suo popolo, tenne lontani i
vincitori dai vinti, dei quali, come abbiamo veduto, anche gli infimi
erano entrati a far parte della vita cittadina. Oltre le imposte in
denaro ed in natura, bisognava richiedere di continuo le prestazioni
personali, per la necessità della difesa, delle fortificazioni, dei
trasporti, dei servizi sussidiarï, delle opere pubbliche[192]. E
come da un lato la popolazione diminuiva sempre più[193] e dall'altro
l'artigianato andava ognor più disgregandosi[194], gli Eruli prima ed
i Goti dopo, furono tratti a considerare la città tutta — corporati e
non corporati compresi — come solidalmente responsabile delle imposte
e delle prestazioni, ed ogni individuo come legato ad una determinata
città: _obnoxius civitati_, come dice Teodorico[195].

Già le fonti romane degli ultimi anni del secolo quarto parlano del
_consortio_ cittadino ad _portus et aquaeductus instaurationem_, ed al
tempo di Giustiniano lo si vede esteso alla _murorum extructionem_,
da cui nessuno può essere scusato[196]. Teodorico, parlando delle
persone che potevano esser possedute per un trentennio ricorda i
curiali, i collegiati ed i servi[197]. Ma, a provare che con la
parola _collegiati_ non s'intendono solo i corporati, ma tutti i
cittadini vincolati alla città, mi sembra decisivo il raffronto col
Breviario Alariciano[198], il quale conserva la disposizione del Codice
Teodosiano,[199] con cui si richiamano alla loro città i collegiati
fuggitivi, mentre non conserva alcuna delle molte costituzioni che
concernono le corporazioni.

Dunque _collegium_ indica tutti i vinti legati alla città, non i soli
corporati.

Di più i Goti portarono una modificazione sostanziale che, se ebbe poca
efficacia dove la dominazione bizantina potè cancellarne gli effetti,
ne ebbe però grandissima nel territorio conquistato dai Langobardi.
Essendo stato tolto ai Romani l'uso delle armi, ma non gli aggravi
accessori ed annessi al servizio militare, questi, uniti agli altri
obblighi finanziarî ed amministrativi ed ormai consuetudinarî, si
fusero e si confusero con essi, e gli oneri delle albergarie, dei
trasporti, del rifacimento e costruzione delle mura, delle strade,
degli edifici pubblici[200] etc., per i quali occorreva così il
materiale, come la mano d'opera, cambiarono la loro natura giuridica.

Per il fatto che tutti vi erano sottoposti, sparì l'antica massima
romana che distingueva gli oneri rurali dai cittadini, per ragione
della sostituzione possibile solo nei secondi: per il fatto che
vi erano astretti anche i nullatenenti, venne una limitazione al
tradizionale concetto dei _munera patrimoniorum_[201], dalla quale
scaturì un sistema che ebbe a base l'ibrido concetto dell'abitazione.

E così fu ristretto ancor più l'elemento personale poggiato su una
capacità che già da tempo si era venuta ognor più limitando nel diritto
di mutar sede, ed il quadro fu completato: soggetto all'_auctor_ il
commendato, soggetto al proprietario il residente in terra altrui,
vincolato il colono alla terra, legato l'operaio alla corporazione, il
decurione alla curia e, ora, anche il cittadino alla città.

Il dualismo fra il partito nazionalista e quello romanizzante,
scoppiato violento alla morte di Teodorico e terminato con la disfatta
finale dei Goti, stremando ancor più l'Italia con rovine e con stragi,
ribadì il ferreo anello che strozzava le città.

Le terre comuni cittadine furono incamerate, come ho detto, dal fisco
regio, il quale ne ebbe la proprietà fino ad allora goduta dalle città;
ma, apparentemente, non si portarono modificazioni gravi allo stato di
cose precedente, perchè i cittadini continuarono a goderne. Si instaurò
così un diritto d'uso che trovava la sua base nella consuetudine
anteriore e i suoi limiti nella volontà regia[202].


§ 12. — Le prime circoscrizioni ecclesiastiche, le urbane,
sostituendosi a quelle pagane, ne avevano calcato le linee. E come
queste comprendevano con la città i mille passi, anche la parrocchia
cittadina ebbe a conseguire gli stessi confini. Infatti un'antichissima
tradizione cattolica, consacrata nei canoni e nei concili, considera
il vescovo, oltre che come supremo gerarca nell'ambito della diocesi,
anche come titolare della parrocchia della città cui il vescovo
è preposto: il pontefice stesso, prima di essere il capo della
cristianità, è il parroco di Roma, e come tale, fino al penultimo papa,
il primo atto compiuto da lui era la visita alla chiesa di S. Giovanni
in Laterano, considerata come la matrice di Roma.

In questo ambito, la Chiesa, come chiesa cittadina, esercitò le sue
funzioni religiose e le statuali; ma non riuscì ad equiparare le
condizioni della plebe rustica _extra muros posita_ a quelle della
plebe cittadina. Due cause egualmente invincibili vi si opposero: da
un lato il criterio dell'inamovibilità dal fondo, ormai predominante;
dall'altro l'azione del fisco bizantino che subentrò a quello gotico
con qualche nuova e maggiore estensione.

Infatti nella costituzione del Codice giustinianeo[203] riportata
più su, si mira a proteggere la _plebs rustica extra muros posita_,
sia che risieda in terra pubblica che in privata, dalle angherie del
_rationalis_, mentre quella rustica in genere è tutelata contro le
angarie di coloro che «rectoribus provinciarum obsequuntur». E questo
e la diversità dell'_obsequium_, che l'una e l'altra plebe è costretta
a fornire, provano come la prima rientrasse nelle grandi linee
della plebe rustica piuttosto che di quella urbana: tanto più che la
legislazione imperiale mirava a considerarla come assimilabile a quella
dei fondi imperiali[204].

Ma se la Chiesa non riuscì a fondere la _plebs rustica extra muros
posita_ con la _plebs urbana_, nemmeno all'impero riuscì ad equipararla
a quella colonica. E ciò per varie cause: la mancanza nella nostra
Italia del latifondo, nel senso che questa parola ha per l'Africa;
il formarsi del colonato dal fissarsi dei patti stabiliti nelle
prestazioni coloniche, prima a tempo e poi perpetue; il mantenersi
immutato delle circoscrizioni romane, per le quali le terre ove questi
abitavano furono sempre distinte dal contado e sottratte all'arbitrio
modificatore di un singolo; l'azione coordinante della chiesa per la
quale tutti i membri di una determinata circoscrizione sono parificati
nel diritto di eleggere il proprio antistite; la breve durata
della legislazione bizantina. Tutte queste cause impedirono che la
legislazione imperiale avesse il suo effetto e favorirono il mantenersi
di questa classe singolare fra la popolazione cittadina e quella
propriamente rurale.

Così al quadro delle classi sociali si deve aggiungere una nuova
gradazione fin qui ignorata; così al confronto del Beaudoin fra i
doveri dei cittadini verso la città e i doveri dei coloni verso il
_fundus_, bisogna immettere un terzo elemento medio — la _plebs rustica
extra muros posita_ — alla quale realmente si possono contrapporre gli
altri due, perchè quest'ultimo ha diritti ed oneri, che corrispondono
alla condizione giuridica degli altri.


§ 13. — Resta che consideriamo ora le divisioni territoriali interne
della città.

La grandezza di Roma cominciò quando le originarie tribù precittadine
si fusero in nuovi nuclei legati alle circoscrizioni territoriali,
che delle antiche tribù conservarono solo il nome, ciò che è segno
dell'armonica e completa fusione degli elementi etnici cittadini. Le
tribù cittadine, che per lungo tempo rimasero immutate nel numero e nei
confini, erano indicate tutte con nomi locali: _suburana, esquilina,
collina_ e _palatina_. La posteriore divisione del territorio, su
diciassette tribù, dà un solo nome locale: _clustumina_, mentre le
altre portano tutte il nome di qualche gente patrizia[205], sotto il
patronato della quale si trovavano.

La tribù era insieme una divisione territoriale ed amministrativa,
in base alla quale, sotto la direzione dei _curatores tribuum_, si
faceva il reclutamento, il censimento e la percezione del _tributum_.
Per esse si compievano anche offici religiosi, per mezzo di collegi
— _collegia compitalicia_ — presieduti dai _magistri_, onorando
i _lares compitales_ con feste annuali che ebbero appunto il nome
di _compitalia_, e si provvedeva alla _cura urbis_ per mezzo dei
pretori[206].

L'importanza della tribù aumentò con la repubblica, a tutto scapito
dell'elemento strettamente territoriale di essa, poichè, rimasta
politicamente intatta, finì con l'essere sostituita amministrativamente
dai _vici_, nati e causati dall'enorme incremento della città.

Il Marquardt[207] sostiene che i _vici_ ricevettero un carattere
amministrativo officiale da Augusto, ma a me sembra che il passo di
Svetonio, dove si parla del _recensum populi_ ordinato da Cesare come
_praefectus morum_ e compiuto _nec more nec loco solito sed_ VICATIM
_per dominos insularum_[208], sia da interpetrare come l'annuncio di un
nuovo sistema officiale della distribuzione della popolazione per vici
nella costituzione politica. Difatti lo stesso Svetonio, nella vita
di Augusto[209], si limita a dire che egli ripetè ciò che aveva fatto
Cesare. Non per questo io intendo dire che il concetto del Marquardt
sia privo di base; ma esso va inteso nel senso che Augusto, iniziatore
del principato, attuando questo sistema, ne rendeva normale l'uso per i
propri successori.

È logico ammettere che, anche prima del loro riconoscimento giuridico,
questi vici compissero funzioni necessarie alla vita sociale del tempo
e, verosimilmente, funzioni religiose.

Festo conosce tre specie di _vici_: i _rustici_, aggregati di case in
campagna; i _suburbani_, aggruppamenti di edifici, «continentia» alle
mura della città che «itineribus regionibusque dissimilibus discriminis
causa sunt dispartita»[210] e, finalmente, gli _urbani_ propriamente
detti, i quali originariamente erano costituiti dal _pervium_ per il
quale «habitatores ad suam quisque habitationem habent accessum». Il
Digesto ha appunto un passo in cui si delimitano i casi, in cui questi
vici debbono essere considerati come _viae publicae_ e come _viae
privatae_[211]: e da esso appare come questi strettissimi vicoli,
_angustissimae semitae_, come dice Cicerone[212], o _tenues vici_,
come li chiama Marziale[213], erano contrapposti alle _viae_, dette
anche _plateae_ dal glossario latino parigino[214], che erano le _viae
latae a porta in portam_, e che, secondo l'antichissimo sistema latino
accolto da Roma e da questa applicato in tutte le colonie, dividevano,
intersecandosi perpendicolarmente nel _forum_, la città in quattro
parti.

I vici, come istituzione amministrativa, erano una specialità di Roma
e forse, ma è molto discutibile, di qualche altra città. Cesare,
nelle prescrizioni di edilizia e di viabilità della sua _lex Julia
municipalis_, non parla mai di _vici_, ma sempre di _viae_. Il De
Marchi[215], che tende a non far distinzione fra Roma e le altre città,
crede che queste ultime, infinitamente più piccole della metropoli, —
come conosciamo dall'estensione, molto ristretta, del loro circuito
— non avessero altra divisione che quella in quartieri e che questi
fossero delimitati dalle _viae_. Infatti delle grandi città solo la
_notitia urbis_ di Costantinopoli nomina per quartiere un certo numero
di «collegiati qui e diversis corporibus ordinati, incendiorum solent
casibus subvenire». Ma anche ammettendo — e non si può farlo senza
grandi riserve — che qui per quartiere si intenda proprio la quarta
parte della città, il Declareuil[216] fa giustamente osservare che
altri passi[217] fanno ritenere che questo fosse l'eccezione e non la
regola. Ed in realtà solo a Bisanzio, a Roma, più tardi a Ravenna e a
Napoli, troviamo la divisione in _regiones_: divisione di cui non si ha
traccia quasi in nessun'altra città[218].

Attribuzioni specifiche di vero interesse municipale non vengono
affidate a questi quartieri durante la repubblica ed i primi secoli
dell'impero: ma non per questo debbono essere rimasti senza importanza
per la popolazione cittadina, specialmente plebea, per ragioni del
culto speciale che in essi si celebrava. Lo dimostra il fatto che hanno
continuato a sussistere per tutto questo tempo; e più tardi, quando,
forse per l'avvento del cristianesimo, stavano per perdere la loro
ragione di essere, furono rinvigoriti dal sistema delle distribuzioni
granarie.

Si è molto discusso se tali largizioni, almeno come istituzioni normali
e periodiche, avvenissero in tutte o almeno in gran parte delle città
dell'impero[219]. In realtà i municipi non erano obbligati a nutrire
la plebe e fare ad essa distribuzioni gratuite[220]: i rescritti
imperiali di Marco Aurelio e di Vero stabilivano i prezzi cui si
poteva e doveva vendere il frumento[221], ma lo zelo dei particolari vi
suppliva così spesso che le fonti stesse parlano di queste elargizioni
e le disciplinano. Inoltre se varii indizi fanno pensare che queste
costituzioni imperiali sieno decadute nell'osservanza durante il corso
del terzo secolo, come si dovrebbe indurre dal passo di Erodiano in cui
si parla delle casse frumentarie della città della Gallia, di cui si
impadronì Massimino: la presunzione diviene sempre più sicura quanto
più, coll'avanzarsi della decadenza, si trasforma la costituzione
politica, e la plebe, caduta nella desolazione generale, entra a far
parte della cittadinanza.

Come dissi, il suo primo ingresso essa lo fa indirettamente attraverso
la Chiesa, la quale, con quella virtù di adattamento splendidamente
lumeggiata dal Fustel de Coulanges, si appropriò quanto più potè
degli ordinamenti laici statali. A quel modo stesso che, come risulta
certo, fu affidata al vescovo la sorveglianza sulla vendita del pane
e degli altri commestibili[222], possiamo presumere che, quando la
miseria impose le distribuzioni gratuite[223], queste fossero fatte,
con tutta probabilità dal vescovo[224]. E dato che tutte le classi
della città erano chiuse nei rispettivi collegi, ordini e numeri, fatta
eccezione della parte della cittadinanza a cui queste particolarmente
si rivolgevano e che pure doveva esser determinata, la divisione
unica possibile sembra essere stata quella dei quartieri, i quali —
mantenutisi sempre — si rendevano ora necessari anche per la difesa
e la manutenzione delle mura imposte a tutti i cittadini. Oltre alle
conseguenze già accennate, ne scaturì il bisogno di una divisione
territoriale della città più consona ad accogliere il nuovo sistema
dell'_exercitus civium_. Nei grandi centri, dove la costituzione
corporatizia perdurò più a lungo, l'influenza della schola bizantina
si fece assai sentire, anche nella distribuzione territoriale delle
_regiones_. Così a Roma, a Ravenna, a Napoli ed in qualche altra città.
Negli altri luoghi, dove il centro urbano non si era scostato molto
dalla primitiva distinzione in quartieri, questi restarono a base di
tutto l'ordinamento.

I _corpora_, gli _ordines_, i _numeri_, ormai stremati, erano incapaci
di un'azione salda e forte; e così furono assegnate alle divisioni
territoriali tutte quelle incombenze di cui la città, auspice ormai la
Chiesa, era tuttora capace. Ed era pur fatale che fosse così! Ormai
tutto faceva pernio sulla terra ed anche le divisioni delle città
subirono la prevalenza dell'elemento terriero.

La venuta dei Goti, più che modificato, sembra che abbia aggravato e
reso più rigido questo sistema, il quale serviva mirabilmente a fondere
la città nell'unico _collegium civitatis_.

Nè diversamente agì la breve dominazione bizantina. Ma questa, però,
portò una modificazione sostanziale, di cui le fonti gotiche non ci
danno nessun indizio e che, quindi, si deve attribuire esclusivamente
al sistema tributario bizantino.

Sappiamo che il fisco del re goto si era appropriato la massima parte
delle terre pubbliche, ma non pare che toccasse la posizione giuridica
della _plebs rustica extra muros_ nella sua relazione con la città e
più propriamente col vescovo: tanto più dato il sistema di tolleranza
adottato da Teodorico.

Giustiniano, invece, col sostituire il fisco suo a quello dei Goti,
non riuscì ad eguagliare le terre intorno alla città alle altre terre
fiscali, come era sua intenzione, nè a staccarle dalla città, cui la
parrocchia cittadina ed i diritti di uso le legavano, ma privò coloro
che vi risiedevano dei vantaggi inerenti alla città stessa e cioè della
partecipazione alle distribuzioni ed alle elemosine, che il vescovo
faceva alla plebe delle città, preparando così il terreno a successive
modificazioni ancor più gravi, delle quali studieremo lo svolgimento
nel capitolo seguente.


§ 14. — In conclusione, mentre nella città la popolazione,
tradizionalmente divisa negli antichi nuclei, si polarizza verso le
nuove più pratiche e più feconde divisioni territoriali, le quali,
pur senza acquistare per varî secoli ancora consistenza giuridica,
esercitarono tuttavia notevole azione sulla vita cittadina; al di
fuori, in contatto immediato, si mantiene una classe che non è più
di liberi, ma non è nemmeno di coloni. Ed a questa classe è dovuta in
gran parte, come vedremo, la meravigliosa fioritura dei nostri comuni
medioevali.

La vecchia Roma, negli ultimi suoi secoli, preparava il terreno agli
istituti che, rinsanguati dai Germani, formarono poi il sistema
dello Stato barbarico; ma quella fatidica fattrice di civiltà non
dimenticò il mezzo perchè anche il feudo, con l'evolversi dei tempi,
avesse a cadere, e perchè su di esso si formasse una nuova e più
elevata civiltà. Ed attorno alla città, dove restò la culla delle
manifestazioni civili, pose una mirabile cinta contro cui si spuntò
l'ira rapace dei dominatori terrieri e si infranse l'azione torpida del
sistema curtense. E come già dalla fine del secolo quinto aveva dato il
nome all'elemento fondamentale del feudo, — il _beneficium_ — alla fine
del sesto non mancò di darlo a questo circuito. E l'una e l'altra volta
con la voce dell'organo allora più vitale della romanità: la Chiesa.
Come Pietro Crisologo ricorda il «beneficium»[225], così Gregorio Magno
parla della _massa_ nel senso di quella parte più aderente alla città
e pur fuori di essa, che serve a nutrir questa e ne forma quasi una
necessaria appendice.[226]



PARTE SECONDA

La città langobarda-franca

  § 1. _Territorium._ — § 2. _Suburbium_. — § 3. _Campanea_. — § 4.
  _Bona publica_ e _arimanniae_. — § 5. Il _populus_ cittadino. — §
  6. I suoi elementi: _pars ecclesiae, pars publica, cives_. — § 7.
  La Chiesa come istituzione cittadina. La pieve: origine, elementi
  (territorio, clero, parrocchiani, decime, oblazioni, beni) e
  sviluppo. Modificazione di essa e origine della parrocchia a tipo
  moderno; le chiese cardinali. — § 8. Il mercato cittadino. — § 9.
  Il centro urbano e la sua natura giuridica. — § 10. L'assemblatorio
  cittadino. — § 11. L'assemblea regionale langobarda. — § 12. Azione
  dell'uno e dell'altra nella costituzione della città. — § 13. Le
  divisioni territoriali interne della città. Conclusione.


§ 1. — Ai tempi della discesa dei Langobardi, il territorio
giurisdizionalmente soggetto ad ogni città era, adunque, costituito dal
_territorium_, dal _pagus suburbanus_ e dall'_urbs_.

Bisogna ora vedere se la nuova invasione abbia portato cambiamenti e
quali.

Cominciamo dal _territorium_.

Per il primo il Muratori suppose che, pur con qualche eccezione[227],
le circoscrizioni ecclesiastiche normalmente coincidessero con quelle
civili[228] e, più tardi, le giuste osservazioni del Beretta[229],
confermate da buone ricerche particolari[230] e completate
dall'esauriente indagine del Pabst[231], ne convalidarono l'opinione
con prove così sicure, che un insistervi da parte mia sarebbe
completamente superfluo, se con il problema da essa prospettato non
fosse intimamente connessa un'altra questione, sulla quale, per la
sua importanza, da gran tempo s'affaticano gli studiosi, senza essere
riusciti fino ad ora a conclusioni soddisfacenti: la questione,
notissima, delle controversie vescovili per l'estensione del territorio
diocesano.

Gli scrittori ammettono tutti come sicuro che prima dei Langobardi
i confini ecclesiastici coincidessero perfettamente e dovunque con
quelli civili e che ai Langobardi si debba il perturbamento di cui
le controversie in parola sono la manifestazione. Qualcuno[232], più
radicale, sostiene senz'altro che i Langobardi non assegnassero ai
distretti amministrativi gli stessi confini delle diocesi: altri,
seguito dai più, ha ritenuto più probabile che i Langobardi, per
sistema, mantenessero le antiche divisioni territoriali e che le
vertenze vescovili sieno nate dal fatto che nei luoghi dove l'invasione
proruppe più cruenta e si mantenne più feroce, alcuni vescovi furono
costretti a fuggire e l'amministrazione spirituale dei loro fedeli
fu affidata ad antistiti vicini, i quali, in buona o mala fede,
ritennero alcune pievi, anche quando la primitiva sede episcopale fu
ricostituita[233].

Come si vede, causa unica ed assoluta del perturbamento — diretta o
indiretta che sia — è da tutti ritenuta l'invasione langobarda.

Non è improbabile, invece, che le cause si debbano rintracciare
in una condizione di cose preesistente rimasta immutata — salvo le
poche ed inevitabili perturbazioni inerenti ad un così brusco e rude
passaggio[234] — anche con i Langobardi.

La _lex julia municipalis_[235] ricorda solamente _municipia, coloniae,
praefecturae, fora, conciliabula, vici_ e _castella_, e queste furono
certamente le sole divisioni amministrative romane da Cesare in
poi: ma, d'altra parte, è altrettanto certo che fra le indicazioni
topografiche richieste dalla _forma censualis_[236] c'è anche quella
del pago, e i monumenti romani, che ancora possediamo, a cominciar
dalla tavola alimentaria velleiate[237], ci attestano la persistenza
del _pagus_. Il _pagus_ — è merito del Voigt l'averlo dimostrato[238]
— ente a base prevalentemente religiosa, sotto la direzione dei
_magistri pagorum_, curò anche gli interessi più strettamente locali
affidatigli dal municipio, nel largo sistema di autonomia proprio della
costituzione romana fino al terzo e quarto secolo dell'impero. Più
tardi, sparita l'autonomia, questo agglomerato di tradizioni religiose
e di bisogni comuni servì alla pubblica amministrazione come efficace
strumento per le cure dell'esazione finanziaria.

Dato l'originario carattere dell'istituzione, ne era a centro un
tempio, un luogo sacro, in cui i pagensi convenivano. Si ebbe così
una circoscrizione composta di varî territorî, qualcuno dei quali era
molto spesso incluso e sottoposto alla giurisdizione di un diverso
municipio, ma che pure potevano far capo ad un centro comune tutto
loro proprio, distinto dai municipi stessi. Il cristianesimo, divenuto
religione ufficiale dell'impero, non mancò di insediarsi anche nei
pagi, molto numerosi in Italia; ma portò un'innovazione, di cui non si
tardò a sentire le conseguenze. Il pago viveva di propria ed autonoma
vita: la pieve, per l'organizzazione sua, non poteva non dipendere
direttamente da un vescovo; il primo prescindeva da ogni capoluogo
municipale, la seconda doveva far necessariamente capo alla _civitas_.
Criterio distintivo, naturalmente fu tenuto quello della giurisdizione
ecclesiastica, e così tali pievi dipendettero dall'episcopio a cui
spettava l'ordinazione dei titolari.

La Chiesa stabilì sino dai primissimi tempi — «sicut in regulis
contineatur antiquis» — che la diocesi era costituita non dal
territorio giurisdizionale della città in cui il vescovo risiedeva
— _territorium non facere diocesim_ — ma dalle parrocchie _unicuique
ecclesiae pristina dispositione deputatae_[239]. Poteva avvenire che
la pieve fosse costituita da due o più vici di uno stesso territorio,
ed allora i parrocchiani si univano pacificamente per la nomina
dell'arciprete: tale è il noto caso della pieve di Mosciano, la cui
_plebs congregata_ comprende due centene, che compariscono insieme con
i loro centenari[240]. La cosa era ben più grave quando i territori
erano giurisdizionalmente separati: la pieve legava fortemente alla
città, cui faceva capo per l'episcopio, parte del territorio di altra
città. Di qui i lunghi ed acri conflitti.

Il Leicht[241] crede che solo all'epoca carolingia, rendendosi
frequente la costruzione di nuove chiese, _plebs, fundus_ e _vicus_
venissero regolarmente a coincidere. Si può ammettere che solo
in quest'epoca la voce _plebs_ acquisti un carattere non soltanto
religioso, come all'epoca langobarda, ma anche pubblico; come è certo
dai capitolari franchi che numerose chiese furono costruite al tempo
franco, oltre quelle, già frequenti, degli ultimi tempi langobardi.
Ed è pure da accettarsi l'idea che il sistema curtense, largamente
favorito dall'unione del potere religioso con quello civile, tendesse
fortemente a stringere la «curtis» intorno alla chiesa che ne era
considerata come il centro. Ma a queste considerazioni non si può
rigidamente legare la costituzione di nuove pievi, almeno in linea
generale; ce ne accerta l'opposto sistema con cui la legislazione
carolingia tratta le chiese battesimali rispetto alle altre (cappelle,
oratori etc.). Solo alle prime, sorte sotto il primitivo ordinamento
cristiano della quadripartizione (di cui larghe tracce si conservano,
però, anche in tempi assai tardi), spettano le decime. E le usurpazioni
del feudo tendono più spesso ad una abusiva riscossione di esse, che
non ad un frazionamento territoriale a beneficio di una chiesa non
insignita di tal diritto[242]. Il moltiplicarsi delle parrocchie rurali
si avvera massimamente quando la reazione alla simonia imposta la
parrocchia su nuove basi e si vale abilmente della _nova consuetudo_,
invalsa presso i grandi signori nel secolo decimoprimo, di frazionare i
loro dominî[243] per suddividere molte delle antiche pievi in un numero
più o meno ampio di parrocchie, il cui popolo, per antica tradizione,
oltre il nome di _plebs_, conservò anche quello di _populus_.


§ 2. — Ancor più grave, perchè del tutto trascurata dagli storici del
nostro diritto, e, pur tuttavia, di anche maggiore importanza, è la
questione del _suburbium._

Base di ogni ricerca e punto di partenza di ogni indagine mi sembra che
debba essere il progetto di divisione dell'impero fatto da Carlo Magno
nell'anno 806, e che è, del resto, anche l'unica fonte legislativa che
dia luce sull'argomento.

In questo progetto le città italiane vengono specificate così:
_civitates cum suburbanis et territoriis suis atque comitatibus que ad
ipsas pertinent_[244].

La voce _suburbium_, di evidente derivazione, proviene da quel _sub
urbe_ romano[245] che si è conservato a lungo intatto in alcune parti
d'Italia e specialmente nella regione emiliana[246]; ma, pur mantenendo
inalterato il senso generico di vicinanza alla città, riceve vario
valore e diversa significazione specifica a seconda del variare dei
tempi e dei luoghi, onde l'indagine è resa assai difficile ed è tenuta
a procedere con gran cautela ed a far conto anche dei più esigui
elementi.

Se numerosi documenti, dovendo indicare il territorio prossimo alla
città, invece di _suburbium_, usano dire _prope, extra, iuxta, foris,
ad civitatem_ o _ad muros civitatis_ o adoperano qualche altro termine
consimile, ve ne sono altri molto notevoli, per quanto poco numerosi,
che adoperano espressioni meno generiche, le quali possono essere prese
come esponenti di uno stato di cose generale o, almeno, molto diffuso.

Primo esempio di tale uso tecnico, per ordine di tempo, è il testamento
con cui il monaco Grato di Monza dispose nell'anno 769 delle cose sue,
curando che tutte capitassero in buone mani, riferendosi specialmente
a quelle che aveva «in civitate boloniensi vel _foris circa ipsa
civitate_»[247].

Un secondo esempio ci è dato dal diploma con cui nell'815 Lodovico il
Pio conferma al monastero di S. Zenone, «constitutum _in suburbium
civitatis Verone_», le numerose elargizioni di Pipino, e fra le
altre la chiesa dei SS. martiri Fermo e Rustico con le decime e le
pertinenze, fra le quali l'«horreum _infra_ civitatem Veronam cum suis
areis _in circuitu_ (civitatis)»[248].

Anche più evidente, per questo rispetto, è la concessione di alcune
terre fatta nell'873 da Gherardo, vescovo di Lucca, a un certo
Cristiano, con l'obbligo, fra gli altri, di tre giorni di opere per
settimana, «ubique utilitas fuerit _in circ[uit]o civitatis_»[249].
E più importante ancora è un altro documento lucchese appartenente,
secondo alcuni critici, al secolo ottavo o alla prima metà del
successivo[250], secondo altri — e forse non a torto — alla seconda
metà del secolo nono[251]. È un polittico del vescovado, redatto,
molto probabilmente, nel momento burrascoso, in cui numerose liti,
destinate a sminuirne il patrimonio, rendevano necessaria una rassegna
accurata delle sue terre e delle persone che comunque ne dipendevano.
Poichè le varie possessioni, sparse su un esteso raggio di territorio,
non furono riunite in un'unica «curtis», si hanno più polittici
riguardanti ciascuno una speciale massa di beni. Quello di cui ora si
tratta concerne le terre situate nel territorio lucchese e distingue
nettamente quelle _in circuitu civitatis_ da quelle esistenti fuori.

Ed altri documenti usano lo stesso termine: sappiamo di un pascolo
comune _in circuitu Civitatis Nove_[252], della chiesa di S. Tommaso
apostolo, «que sita est in Regio civis vetere cum suo domocultila intus
et foris _in circuitu Regio_»:[253] pure di Reggio conosciamo delle
«res que sunt _in circuitu civitatis_ que vocatur Aemilia»[254] ed
abbiamo ricordo delle selve della chiesa cremonese situate _in circuitu
civitatis_[255].

E gli esempi potrebbero susseguire più numerosi, se si scendesse
ancora nel tempo: cosa che, per l'esattezza della dimostrazione, non è
necessario ora di fare[256].

Accanto a quest'espressione, ce ne è anche un'altra di minore
appariscenza e di uso meno frequente; e ciò — io credo — per aver
subito più rapidamente dell'altra mutamento di significato. Parlo
dell'avverbio _infra_. Originariamente esso indicava uno spazio fra
due punti determinati; ma, nel corso dei secoli, ha subito tali
modificazioni che la frase _infra civitatem_, per esempio — ed è
quella che a me preme esaminare — si è intesa come rispondente al
concetto: «entro la città». Non nego che, in molti casi, talvolta
anche nei documenti anteriori al secolo XI e quasi normalmente
in quelli posteriori, tale interpetrazione sia esatta; ma vi sono
documenti in cui simile significato è in opposizione diretta con la
verità dei fatti. Nella donazione che, nel 767, il re Desiderio fece
a sua figlia Angelberga di _molinas duas insimul molentes positas in
aqua quae exit de cuniculo qui decurrit_ INTRA SUPRASCRIPTA CIVITATE
BRIXIANA FORIS MUROS CIVITATIS _ante portam beatissimorum martirum
Faustini et Jovite_[257], è evidente che intra indica tutt'altro che
l'interno del recinto murato. E il famoso monastero di S. Salvatore,
sempre detto _infra civitatem_[258], è fuori delle mura; come sono
fuori delle mura un _ortellum pertinentem de veronense comitatu
situm_ INFRA CIVITATEM VERONAM _non longe a Curte Alta_, donato da
Berengario I a Ingelfredo[259] ed una casa ed alcune terre «_infra_
civitatem Pistoriensem» donate da Rasperto all'oratorio in onore dei
SS. Paolo Pietro e Anastasio da lui costruito «_intus_ Pistoriensem
civitatem»[260]. E identico significato ritroviamo in documenti
lucchesi, piacentini e bolognesi[261] per l'Italia settentrionale e
centrale; e, per il mezzogiorno, nei documenti beneventani, i quali
tutti, per indicare un luogo entro le mura, usano _in_ con l'ablativo o
_intus,_ e adoperano _infra_ per indicare un luogo fuori delle mura ma
vicino ad esse[262].

Mi sembra da escludere che _infra_ nei casi indicati accenni una
vicinanza immediata alle mura, e ciò perchè documenti sincroni e
della stessa regione in genere adoperano _prope_: PROPE _muros_, PROPE
_civitatem_, o qualche altro avverbio consimile. D'altra parte è pure
da escludere in modo assoluto il significato di una distanza molto
grande.

A spiegare perchè tale voce in alcuni casi eccezionali abbia questo
significato è da pensare all'uso che ne fa Costantino nella legge con
cui distingue i beni urbani dai rustici in base non alla destinazione,
ma all'ubicazione, comprendendo fra i primi, come ho cercato di
dimostrare nella prima parte[263], quelli che sono INTRA _civitatem:_
entro la città murata, cioè, e nell'ambito di mille passi. Si può
ritenere che ai termini ed agli istituti antegiustinianei, conservatisi
a lungo nella nostra Italia, sia da aggiungere anche questo
avverbio[264]. Così si vede pure come a produrre la grande varietà
dei nostri formularî notarili abbiano contribuito anche elementi che
risalgono a tempi non bassi dell'epoca romana. Determinare in quale
proporzione ciò sia avvenuto non è facile, perchè più tardi le tracce
del tecnicismo dell'alto medio evo, che si ricollega a tradizioni
allacciate al diritto teodosiano, furono cancellate dall'opera
livellatrice ed in parte distruggitrice del rifiorito studio del
diritto giustinianeo: sicuramente non è privo di importanza. Non è,
però, compito mio indagarlo: io debbo, invece, ricercare se il medioevo
offra altri elementi a provare l'unione giuridica del _suburbium_ alla
città.

Oltre alle fonti giuridiche possono essere di grande aiuto quelle
ecclesiastiche. L'esistenza di un pago suburbano connesso alla
città per ragioni di culto, è accertata in modo inconfutabile per
alcune regioni italiane, come Pompei[265] ed è presumibile con molto
fondamento per le altre, specialmente dopo il secolo quarto, quando
la Chiesa, divenuta organo della religione dello Stato, si adattò alle
divisioni territoriali di questo.

Molti documenti di sicura autenticità mostrano il territorio suburbano
ecclesiasticamente congiunto alla città e formante con essa un'unica
parrocchia, con perfetta continuità con la situazione a noi nota per la
precedente epoca romano-bizantina.

Il monaco Giona, originario di Susa, vissuto a lungo nel monastero di
S. Colombano e più tardi abate in quello di Enona presso Mastricht,
dove morì verso il 670, nella vita di S. Eustasio di Luxeuil[266],
narra che questo santo costruì _in suburbano Bituricensis urbis_ molti
e floridi monasteri della regola di S. Colombano, cominciando da uno
_in insula supra fluvium Milmandram_.

Un secolo dopo il pontefice Stefano III (768-772) si duole fortemente
con Ariberto, vescovo di Narbona, che la «plebs judaica» possegga terre
frammiste a quelle dei cristiani «in villis et _in suburbanis_»[267].

Il primo capitolare di Teodulfo vescovo aurelianense, dell'anno
797[268], stabilisce che i _sacerdotes qui_ IN CIRCUITU URBIS _aut_ IN
EADEM URBE _sunt, conveniant in unum_ il popolo _ad publicam missarum
celebrationem_ alla chiesa matrice episcopale: e il secondo capitolare,
di poco posteriore[269], a togliere ogni dubbio, nel ripetere la stessa
disposizione, parla di sacerdoti _urbani_ e _suburbani_.

E il concilio di Pavia dell'850[270], confortato da documenti che
ci attestano altrettanto per Roma[271], Verona[272], Pavia[273],
Ferrara[274], Parma[275], Bergamo[276], etc., conferma come regola
generale il principio che i _singuli urbium vicini et suburbani_
sieno retti _per municipalem archipresbyterum_, con netta separazione
dai parrocchiani delle singole pievi rurali: _suburbane terre que
dividuntur a plebibus_, dice un atto parmense[277].

Quanto alla estensione di questo territorio suburbano, che non deve
essere esigua, se il passo di Giona vi include l'isola del fiume
Milmandra; essa è messa ancor più in evidenza dal diploma dell'842 di
Ramperto, vescovo di Brescia, al monastero di Faustino e Giovita[278],
che include nel suburbio un vico intiero, con le sue terre. E il
vico è detto _vico suburbano episcoporum_, mostrando la generale
applicazione, almeno territorialmente, della norma amministrativa
della Chiesa romana che distingueva il patrimonio in _suburbana,
massae et coloniciae_[279]. E la vita di S. Ebrulfo, di autore anonimo
ma _perantiquo_, come si esprime il Mabillon, ne narra l'elezione ad
abate _in suburbanis Ambianensium_ nel monastero sorto nel luogo «ubi
Fulcianus et Victoricus glorioso certaverunt martyrio» e che dista da
Ambiano due leghe[280].

E a questi esempi se ne possono aggiungere altri se si ricorre
all'aiuto offerto dalla decima. Questa, come è noto, si pagava solo
alle chiese matrici[281]. Nella città essendo matrice la cattedrale,
tutti i luoghi che appaiono soggetti per la decima alla città fanno
parte del suburbio[282]. A Bergamo, per esempio, il territorio soggetto
alla decima non si limitava al solo monte su cui la città è situata, ma
si estendeva circa quattro miglia[283]. Lo stesso è a dirsi di Brescia,
posta anch'essa sopra un monte: «in montem Brixiam civitatis», dice
Luitprando[284].

Il Roberti[285], sulla traccia dello Schupfer[286], che giustamente
aveva asserito che il «mons Bergomi» era un bene comune della città,
volle dedurre di qui una regola generale e affermò che allora ogni
città edificata sopra un monte, aveva il monte stesso come bene comune.
Tale asserzione, inesatta nel fatto — numerosi documenti provano
l'esistenza di non poche proprietà private sul monte stesso — non mi
pare giustificata nemmeno come tentativo di spiegare la specificazione
possessoria usata dalle fonti, perchè il monte è considerato come
spettante alla città non perchè fosse gravato, ammettiamo pure, nella
maggior parte della sua estensione da diritti civici; ma perchè incluso
in quel suburbio che faceva parte integrante della città in ogni caso:
anche — in ipotesi — se i beni comuni ne fossero stati tutti al di
fuori.

Molto vasto era pure il suburbio di Verona[287] quale ce lo raffigura
un documento dei primissimi anni del secolo IX; e di non piccola
estensione dovevano essere quelli di Pavia, di Torino, di Ivrea, di
Vercelli, di Reggio, di Città Nuova e di Modena[288].

E non cito qui altri documenti posteriori, perchè il ricorrere
indifferentemente a documenti anteriori e posteriori al gran movimento
di concessione di terre suburbane ai vescovi, iniziato negli ultimi
anni del secolo nono, porterebbe a unire situazioni giuridicamente
assai diverse.

Non mi sembra inutile invece un'altra osservazione.

Non si deve credere che il territorio suburbano assegnato probabilmente
a tutte le città, fosse delimitato da per tutto con la stessa
unità di misura. Fra gli antichissimi usi indigeni accolti dagli
agrimensori romani[289], ci fu senza dubbio la _lega_ gallica, che
troviamo esplicitamente ricordata dagli agrimensori stessi e da
Ammiano Marcellino[290] e che constava di 1500 passi. Il _bannilega_
— giurisdizione su una lega di territorio intorno alla città[291] o
al mercato[292] — si basa senza dubbio sulla _lega_ e non sul miglio
romano ed era, conseguentemente, più ampio di cinquecento passi del
corrispondente _pagus suburbanus_ romano; quando non lo era di molto
di più, come ad Ambiano dove il «suburbium» era costituito da due
leghe[293].

Considerando che in Francia, sino da antichissimi tempi, questo
territorio apparteneva alle città entro gli stessi confini[294] e che
in Italia oltre che a Bergamo e a Verona, anche a Lodi e nelle altre
città italiane dell'antica Gallia[295] il territorio suburbano appare
di un'estensione maggiore che altrove, inclino a concludere che, dove
non si hanno speciali condizioni topografiche, ci si trovi dinanzi ad
un'antichissima divisione territoriale rimasta inalterata nel passare
dei secoli e dei popoli[296].

Vediamo ora in quale rapporto questo suburbio si trova colla città e da
quale regime giuridico fu governato: vedremo più tardi — dopo studiate
le condizioni interne della città in questo periodo — le modificazioni
apportatevi dall'azione reciproca della città e del suburbio.

Il passo del sinodo romano _in causa Formosi pape_ distingue nel
patrimonio ecclesiastico tre elementi: i _suburbana_, le _massae_ e le
_coloniciae_[297]. Se questa originariamente fu una pura distinzione
topografica, non credo che tale si mantenesse più tardi. E di fatto,
per quale ragione si dovrebbe credere che nel suburbio, che conosciamo
assai esteso, non esistessero terre in rapporto massaritico o colonico
con la Chiesa? Forse perchè la città era tutta contornata da beni
comuni? No certo: il fatto stesso dell'esistenza di beni suburbani
di proprietà di una chiesa esclude la possibilità che fossero tutti
beni comuni. O forse perchè entro il suburbio non si potevano avere
massari o coloni? Nemmeno: nessuna legge, che io mi sappia, contiene
simile disposizione, la quale, del resto, sarebbe sempre contradetta
da numerosi documenti, che provano l'esistenza di massari e di coloni
non soltanto nel suburbio, ma anche entro le mura. D'altra parte la
espressione è così chiara che non lascia luogo a dubbi di sorta: i
suburbana son differenti dalle massae e tutt'e due dalle coloniciae.

Il diritto romano dei tempi classici, è noto, concepisce la persona
fisica nei due soli stati di libertà e di servitù. Invece il diritto
germanico — che conosce già quella categoria intermedia degli aldi,
così difficile a definire ed a cogliere nella sua vera natura, poichè
tiene del libero e del servo ad un tempo — venuto in Italia a regolare
i rapporti giuridici di persone vinte e che la residenza in terra
altrui, riducendo il rapporto di soggezione da personale in reale,
aveva anche prima menomato molto nella libertà personale, finì con
l'ammettere infiniti gradi nelle condizioni dei soggetti; onde si
venne a costituire una scala, all'ultimo gradino della quale stava il
servo, mentre il primo era costituito dal figlio di famiglia e dalla
donna[298].

Nel passo del sinodo romano, l'elemento più basso è quello colonico,
a cui da quello suburbano si scende non direttamente, ma con il
gradino intermedio del massaro. È vero che la posizione giuridica del
massaro non è eguale nè da per tutto nè in ogni tempo[299], ma però
è certo che, generalmente, era più autonoma se non libera di quella
del colono[300]. E, logicamente, i coltivatori delle terre che la
Chiesa possedeva nel suburbio, dovevano trovarsi in una condizione
giuridica anche migliore. Ma se questo è, si deve anche ammettere che
tale fenomeno non poteva esser dovuto unicamente ed esclusivamente
alla Chiesa: questa non poteva porre a base una tal distinzione
soltanto perchè certe terre erano vicine alla città, mentre altre ne
erano lontane. Ci voleva una causa più forte; e questa è da trovarsi
nella diversa condizione giuridica delle classi suburbane; diversa
condizione giuridica mantenutasi per il consolidamento di una antica
consuetudine[301], per la quale i lavoratori delle terre suburbane
erano costretti a prestazioni meno onerose, per numero e per quantità,
di quelle a cui erano obbligati i massari e, più dei massari, i coloni.

Perchè, bisogna aggiungere, non è la Chiesa di Roma soltanto che usa
questo sistema: tutte le altre tengono lo stesso procedimento. Un
esempio ne abbiamo da quella di Lucca, che distingue le terre possedute
nel territorio lucchese in due grandi categorie, a seconda che sieno
poste o no _in circuitu civitatis._

Infatti tanto nelle une come nelle altre la popolazione è divisa nelle
due categorie dei _redditales_ e degli angariales: i primi obbligati
a prestazioni in danaro o in natura, i secondi a queste ed, inoltre,
a un certo numero di opere ogni settimana. Ma si hanno differenze
notevolissime.

Nelle terre suburbane il vescovado possiede 65 _redditales_ e 25
_angariales_, mentre nelle terre situate nel comitato la proporzione è
del tutto invertita: 50 angariales di fronte a 19 _redditales_[302].
E, di più, gli angariales in circuitu, oltre ad un numero fisso di
angarie — abitualmente tre per settimana — pagano quasi sempre metà
del vino e dell'olio; mentre gli _angariales_ delle altre terre sono
esenti da queste ultime prestazioni. E differenze sensibili si notano
anche riguardo ai _redditales_, dei quali alcuni di quelli in vicinanza
della città davano, oltre al censo abituale, anche un terzo e talvolta
perfino la metà «de omne lavoratione» o «de lavore maiore».

A escludere che si tratti di un caso eccezionale, basta la concomitanza
col documento bresciano e più ancora con quello romano.

D'altra parte si vede bene, come i _redditales_, considerati come tali,
stanno all'apice della categoria dei non liberi risiedenti su terra
altrui, e vi sono vincolati meno strettamente dei massari e, a ragione
maggiore, dei coloni. E un'altra cosa che dà da pensare è la differenza
fra persone della stessa classe a seconda della loro situazione
topografica.

Non si può credere che la prevalenza dei _redditales_ sugli
_angariales_ nel suburbio sia dovuta all'azione o all'influenza del
mercato cittadino sulle classi servili: noi ci troviamo, nel caso
del documento lucchese, davanti ad una percentuale molto forte di
_redditales_, che nulla impedisce di supporre estesa anche alle terre
possedute da altri nel suburbio cittadino: se realmente essi avessero
a poco a poco migliorato la loro condizione per i benefici influssi
del mercato cittadino e della città e, più spesso ancora, del suburbio
stesso, come sede di quello, non si arriva a capire come questi
angariali, frequentemente ricordati, sieno in peggiore condizione
degli angariali comitatini, e come e perchè i _redditales_ che
risentono il contatto cittadino si trovino più gravati di quelli che
ne sono distanti. In verità apparirebbe — non dico che sia — tutto il
contrario.

Dunque la spiegazione di tale stato giuridico deve essere cercata,
in un altro campo, quello cui ho già accennato: l'irrigidimento dei
vincoli e dei contratti rurali iniziato negli ultimi tempi romani.
Io trovo una continuazione diretta con la condizione dei lavoratori
della terra nei _mille passus_ romani, quando furono anch'essi travolti
nella gran rovina che li privò della libertà e li legò come gli altri
alla gleba, lasciando loro l'unico vantaggio di fronte agli altri
coloni, a cui la legislazione giustinianea tentò di equipararli,
di un quantitativo diverso e meno oneroso di prestazioni; e queste
continuarono inalterate nei secoli successivi, in modo che, quantunque
i lavoratori, su cui gravavano, fossero, al pari degli altri, chiamati
_redditales_ ed effettivamente rientrassero in tale classe, pure se ne
differenziarono.

Quanto poi alla coesistenza di un esiguo numero di _angariales_,
mi pare che questo fatto, oltre ad escludere ancora una volta che
tutti i dipendenti della Chiesa, solo perchè suburbani, godessero di
posizione privilegiata, escluda anche che ciò sia dovuto ad un'azione,
comunque esercitata, della parrocchia cittadina (comprendente come
sappiamo, anche il suburbio); perchè in tal caso, nè gli _angariales_
sarebbero rimasti più gravati dei loro confratelli comitatini, nè i
_redditales_, che erano anche più numerosi, si sarebbero trattenuti
dall'avvantaggiarsi di più.

Del resto il fenomeno mostrato dal polittico lucchese non è isolato:
un'altra pagina interessante per la storia della condizione dei
lavoratori della terra del suburbio può essere offerta dall'esame
comparativo di due diplomi concernenti Asti.

Nell'anno 924 un certo Oberto chiese a re Rodolfo, di cui era
_fidelis_, il castello vecchio di Asti ed alcuni _servientes infra
eamdem civitatem commanentes_, singolarmente nominati, con le mogli
ed i figli _cum massariciis illorum et omnibus rebus mobilibus
et inmobilibus_. E il re, con diploma del 5 decembre dello stesso
anno[303], gli concesse il castello con le sue pertinenze e _cum
servis et ancillis et omnibus mobilibus ad eosdem iuste et legaliter
pertinentibus_.

Basta un'occhiata per accorgersi di un fatto abbastanza strano in un
diploma: la _dispositio_ non corrisponde esattamente alla _narratio_:
in questa si domandano dei _servientes_ con le loro massaricie ed i
loro beni mobili ed immobili: in quella si concedono degli immobili con
i servi e le ancelle che li lavorano e con i beni mobili — i soli beni
mobili — che ad essi appartengono legalmente: con tutta probabilità si
accenna al peculio.[304]

Ho detto che questa dissonanza è un fatto abbastanza strano (e chiunque
conosca un po' le norme delle cancellerie regie ed imperiali, lo sa);
ma esso diviene ancor più strano per il ripetersi di questa stessa
discrepanza in un altro diploma regio, di poco posteriore a questo,
che concerne le stesse precise cose di cui si tratta in questo[305]. È
un diploma del 23 luglio 938 con il quale Ugo e Lotario confermarono
al vescovo Brunengo questi stessi beni pervenuti al vescovado nel
frattempo: sembra per una donazione _mortis causa_. Nella _narratio_
si parla di _massaritia sex cum servis et ancillis ea rettinentibus_:
nella _dispositio_ si usa la formula consueta in tutte le _concessioni:
casis massaritiis ac famulis utriusque sexus_.

Il contrasto è meno stridente che nel diploma del 924, ma non meno
evidente perchè la parola _rettinentibus_ — qualunque significato abbia
il verbo _retinere_ — indica pur sempre qualche cosa di diverso da
quello che si sarebbe desunto se il diploma avesse detto che quei servi
e quelle ancelle _pertinebant_ alle massaricie donate. La correlazione
fra i due diplomi impedisce di pensare ad un errore qualunque da parte
della cancelleria regia e quindi si deve ricercare per altre vie una
spiegazione dell'incognita.

Si può osservare — rifacendo la via a ritroso attraverso ai due
diplomi — che la _narratio_ del secondo parte dalla _dispositio_
del primo e che la _dispositio_ del secondo segna l'ultimo punto
della trasformazione della condizione di questi lavoratori. Essi da
prima appaiono in tale stato che se non possono esser detti veri e
propri _servi_, ci si avvicinano tanto da essere qualificati come
_servientes_: eppure, per un altro lato — quello di esser considerati
come soggetti di un diritto su una terra — se ne allontanano così
profondamente, che il cancelliere di re Rodolfo, non sapendo come
meglio conciliare questi due elementi così profondamente antitetici
e per i quali il diritto del tempo non offriva alcun riscontro, li
qualifica come veri e propri servi concedendo loro il diritto del
peculio. Ugo e Lotario ne peggiorano ancor più la condizione perchè non
fanno nemmeno accenno al loro peculio.

Non mi pare si possa negare che il punto di partenza, quale ci è
fornito dal diploma del 924, è dato dalla condizione ibrida, che ha
del servo e del non servo; fatta di vincoli personali e di diritti
d'indole reale che sembrerebbero inconcepibili con i primi. Come è nata
e come si è formata tale condizione? Per rispondere a questa domanda il
miglior mezzo è, forse, il cominciare col determinare il luogo in cui
essa appare.

Questi lavoratori si trovavano nel suburbio della città di Asti. Ciò
mi sembra dimostrato dall'espressione _infra_ _civitatem_ usata dal
diploma di re Rodolfo: espressione che non può indicare _entro la
città_ perchè per indicare il castello vecchio (che si sa di sicuro
essere stato situato dentro le mura della città) lo stesso diploma
dice _in civitate A_. L'avverbio _infra_ ha conservato anche qui il suo
antichissimo significato e ci offre modo, se non m'inganno, di spiegare
come si sia potuto avere fra le varie classi sociali anche quella di
questi _servientes_.

Discendenti da antichi lavoratori di terre suburbane, pubbliche fino
dal tempo romano, o divenute tali in seguito: essi, al sopravvenire dei
Langobardi, furono considerati come più vicini ai _servi_ che ad ogni
altra classe, ma, essendo addetti alla lavorazione della terra, come
tutti i lavoratori della terra in genere, ebbero continuate anche in
seguito le condizioni antecedenti. Furono, così, chiamati servientes
invece che servi ed ebbero riconosciuti consuetudinariamente dei
diritti che i veri e propri servi non avevano. Solo quando l'autorità
pubblica, nel donarli, si trovò costretta a determinare la loro
situazione giuridica, essi rientrarono nel quadro delle classi di
lavoratori, quale si concepiva, secondo le leggi, nel secolo IX. e
nel X.: e non fu certo a loro vantaggio. Fino ad allora essi avevano
continuato a mantenersi, salvo, forse, delle deviazioni che oggi
più non si possono determinare, ma che non furono certamente molto
sensibili, in uno stadio che solo la speciale condizione giuridica del
suburbio al tempo romano aveva potuto contribuire in modo decisivo a
far nascere.

A questo modo si può avere un'idea, certo molto approssimativa ma non
trascurabile, delle modificazioni che la venuta dei Langobardi portò
nel territorio suburbano. Il quale — non va dimenticato — fu soggetto
più che ogni altro a perturbazioni, perchè, sia per ragioni strategiche
che sociali e politiche, le guerre si risolvevano nella conquista
delle città, intorno alle quali veniva necessariamente a decidersi la
maggior parte delle battaglie. L'invasione, infatti, diviene conquista,
quando, prese le città, i Langobardi ne occupano il territorio e vi si
insediano stabilmente.

E perciò io credo che intorno alla massima parte delle città italiane
continuasse l'antico suburbio romano e su di esso prevalessero le
antiche consuetudini rimaste quasi completamente inalterate.


§ 3. — Però l'atto di Carlo Magno non parla soltanto di terre
suburbane: _civitates_, dice, _cum suburbanis et_ TERRITORIIS SUIS.
Questi _territoria_ non erano quelli dipendenti giurisdizionalmente
dalla città: proseguendo, il documento aggiunge _et cum comitatibus
que ad ipsas pertinent_. Come tali _territoria_ non s'identificano con
le terre suburbane, distintamente ricordate, così non si confondono
con i singoli comitati. Non resta che pensare ai beni comuni, la cui
continuazione ininterrotta dall'epoca romana fino al basso medio
evo, negata contro il Savigny dal Bethmann Hollweg e dal Roberti,
ammessa invece dal Tamassia[306] e vittoriosamente dimostrata dallo
Schupfer[307] è stata ormai riconosciuta dalla opinione comune[308].

Questi beni, posti alla dipendenza del duca o del gastaldo insieme con
i beni pubblici — _publicum_ — a cui l'autorità suprema li avvicinava
con l'equipararli amministrativamente all'organismo della _curtis
regia_, soddisfacevano con i diritti d'uso alle necessità dei cittadini
e si distinguevano da quelli più propriamente pubblici, perchè, a
differenza di questi, gli utenti ne potevano godere senza l'obbligo di
pagarne il canone corrispondente.

Anzi, esaminando più attentamente il noto reclamo dei provinciali
istriani contro le usurpazioni del duca franco Giovanni[309], non mi
sembra azzardato il pensare che, più che di diritti di uso, si tratti
di un vero e proprio diritto di condominio dei cittadini sulle terre
del comune[310]: NOSTRAS _silvas, unde nostri parentes herbatico
et glandatico tollebant_, dicono essi, _terras_ NOSTRAS, NOSTRAS
_runcoras_, NOSTRA _prada_, NOSTRA _pascua_. E non è a dirsi che si
potesse ingenerare confusione per il fatto che queste, come le altre
terre pubbliche, si trovavano sotto la dipendenza del duca. Il duca
riconosce esplicitamente di aver compiuto gli atti che gli si imputano,
ma dichiara di averlo fatto in buona fede ritenendoli beni pubblici.
«Istas silvas et pascua quae vos dicitis — ecco le sue parole — ego
credidi quod ex parte d. imperatoris _in publico_ esse deberent».

Anche ammesso e non concesso che non si trattasse che di diritti
di uso, questi sono tali da incidere così profondamente l'elemento
dominico da annientarne quasi il lato dispositivo.

Ma poi, se non m'inganno, la teoria dello Schupfer è sopratutto basata
sulla terminologia dei documenti: _comunalia, compascua publica,
campora comunalia, res comunes, comunes, comunanciae, vicanalia_, etc:
tutte queste espressioni che richiamano alla mente — è innegabile —
l'idea di una compartecipazione.

Ma non sono le sole.

Alcuni nostri documenti, che concernono importantissime città
langobarde, a incominciare dalla capitale del regno fino a quella
Brescia in cui densi si stabilirono i nobili langobardi[311], ne usano
anche un'altra.

Il placito pavese del 14 marzo 914[312], ricorda un _hortum suburbium
huius Ticinensis, non multo longe a basilica S. Theodori sive et braida
una in_ CAMPANIA _huius Ticinensis_. E la stessa parola, oltre che nel
diploma con cui nel 989 Ottone III concede al monastero di S. Pietro
in Ciel d'oro _omnem terram in_ CAMPANIA _papiensis urbis_[313], la
troviamo nel diploma del 1014 di Ottone conte palatino e di Pietro
vescovo al monastero del Salvatore costruito _foris in_ CAMPANEA
_ticinensis civitatis_[314].

A Piacenza nel 1085 fu celebrato un «concilium generale» in CAMPANEA
_civitatis P. ubi est ecclesia S. Victorie martyris et virginis_[315].

Qualche decennio prima il vescovo di Brescia Odofredo si era obbligato
a non fare alcun «hedificium» in Monacello e nessuna proibizione e
interdizione ai bresciani «pasculandi, incidendi et capellandi» sul
Monte Degno e sul Monte Canedulo, a cui «coherent ab una parte via q.
d. mantuana, ab aliis omnibus _campania_»[316].

Il primo documento pavese, col simultaneo ricordo del _suburbium_ e
della _campanea_, esclude ogni possibilità di sinonimia tra queste
voci.

E un bel documento veronese[317] ce ne mostra l'intima natura.
Essendo potestà di Verona Grimerio Visconte piacentino e lamentandosi
che, poco tempo prima della sua podesteria, _communis campania
Veronae_ «a quampluribus esset capta et caperetur», con tal perdita
che «communis utilitas taliter diminui videbatur quod ad maximum
universitatis detrimentum spectare posset», pensò di provvedere. E,
avuto il consiglio dei suoi giudici ed assessori e dei causidici, dei
militi e dei negozianti e in special modo di tutti coloro che avevan
giurato di dargli consiglio in buona fede, pose molte persone giurate
«ad jam dictam _communem campaniam Veronae_ per suum sacramentum a
praediis privatorum hominum discernendam et separandam», e quindi, con
queste persone e con molte altre di Verona andava «circumiens eamdem
_communem campaniam Veronae_ et eam, secundum juratorum sacramenta, ab
_allodiis_, ponendo terminos, segregans».

Si tratta, evidentemente, di beni pubblici cittadini, per i quali — e
per essi soltanto — è da credere perdurasse a Verona, come a Pavia, a
Brescia e a Piacenza il termine di CAMPANEA.

Se questa _campanea_ risulta diversa dal suburbio e dal comitato e —
come si ammette da tutti — alle città rimasero in proprietà in uso
— questo per ora non ci riguarda — dei beni; possiamo pensare che
nell'atto di Carlo Magno tale parte del territorio sia indicata dai
_territoria_ tenuti distinti dai _suburbanis_ e dai _comitatibus_.
Ma, in quest'atto, di fronte al vincolo più tenue, per il quale il
comitato _pertinet_ alle singole città, se ne ha uno più intimo per
cui e le terre suburbane ed i _territoria_ sono ambedue dichiarati
proprî delle città — _civitates cum suburbanis et territoriis_
SUIS. — Ora se si pensa che le terre suburbane non appartenevano
affatto, nella loro totalità e nemmeno nella maggior parte, alle
città, in proprietà privata, o ad altro titolo simile, sia pure sotto
l'amministrazione ducale o gastaldale; nè vi avevan su, se non in
caso eccezionale e fortuito, diritti di uso; bisogna concludere che
la triplice distinzione del territorio di fronte alla città, porta al
riconoscimento della città — come tale e non come sede di autorità
pubblica — al grado di persona giuridica pubblica con facoltà e con
diritti distinti da quelli dell'autorità regia e con beni separati da
quelli che l'autorità pubblica aveva nell'ambito della circoscrizione
territoriale della città. Il documento è chiaro: son proprie delle
città — _suae_ — terre di cui i privati non hanno nè proprietà nè
uso di natura privata e che non si confondono con le proprietà del
publicum, per riguardo al diritto pubblico.

Esaminiamo più da vicino questi due punti: mancanza di diritto di
proprietà o di uso e distinzione dai beni del _publicum_.

Poichè l'atto di Carlo M. chiama proprie delle città — _suae_ — le
terre suburbane, di cui la proprietà spettava a chiese o a privati, ed
a queste terre equipara senza differenza alcuna le terre appartenenti
alle città stesse: esaminando a fondo il documento bresciano, veniamo
a concludere che fra le terre, sulle quali il vescovo riconosceva dei
diritti ai cittadini, e la _campanea_ circostante c'era sicuramente una
differenza. Ammesso che la parola _campanea_ a Verona indica beni della
città, — e non c'è nessuna ragione che induca a credere che a Pavia,
Brescia, Piacenza etc. avesse significato differente — ne consegue
che fra i beni pubblici delle città esistevano distinzioni di vario
genere, per il diverso titolo di proprietà, per il diverso uso a cui
erano destinate. Nei beni pubblici esaminati dallo Schupfer l'elemento
predominante è l'uso comune e lo prova — come ho detto — il complesso
dei termini usati per indicarli[318]. Ma nei casi da me raccolti
questo concetto dell'uso comune non è indicato nè punto nè poco: eppure
resulta che la _campanea_ apparteneva alla città e non al _publicum_.
Infatti nè a Pavia e in un placito, nè a Brescia, in un atto di tanta
importanza, si sarebbe mancato di farne risaltare il carattere, se
si fosse veramente trattato di terre demaniali, mentre il genitivo
possessivo — _huius Ticinensis_ — le dichiara della città.


§ 4. — Ma oltre a queste terre, nella costituzione langobarda, ve
ne sono altre che appaiono collegate a determinati centri abitati,
fra i quali anche le città, e che occorre quindi esaminare: le terre
arimanniche.

Il Muratori[319] sostenne per il primo, con il suo meraviglioso
intuito storico, che si trattava di beni concessi dal fisco; e con
lui, più tardi, si sono schierati il Roth[320], il Leicht[321] e il
Checchini[322]. Nessuno di questi scrittori, però, ha considerato a
fondo quella che mi pare la legge fondamentale in rapporto ai beni
arimannici e l'unica che veramente sia di applicazione generale.

Tale legge è la nota costituzione emanata da Federigo I nella famosa
dieta di Roncaglia del 1158 e passata poi nel libro delle consuetudini
feudali. Con essa, volendo rivendicare i diritti dell'impero, Federigo
I determinò la serie delle così dette regalie.

E cominciò proprio colle arimannie. _Regalia autem sunt: ARIMANNIAE,
viae publicae, flumina navigabilia et ex quibus fiunt navigabilia,
portus, ripatica, vectigalia, quae vulgo dicuntur monetae_ etc.

Poichè è certo che, anche a quel tempo, esistevano terre spettanti al
_publicum_ e invece la legge fridericiana, se si eccettua la parola
_arimanniae_, non ne parlerebbe mai[323], è evidente, data l'importanza
dell'argomento, che con questa parola s'indicarono proprio i beni di
pertinenza dell'impero[324].

Con questa conclusione non si accorda nè l'opinione del Leicht[325], al
quale, tuttavia, spetta il merito di aver lumeggiata la riconnessione
dell'arimannia alle terre pubbliche, nè quella del Checchini[326]: il
primo ritiene che l'arimannia sia non la proprietà dell'arimanno, bensì
il diritto che egli gode su terre prative e boschive, originariamente
concesse dal pubblico al gruppo di cui egli fa parte. E pure il
Checchini parla solo di originaria appartenenza delle arimannie ai beni
del fisco.

In conclusione, se non m'inganno, l'uno e l'altro affermano che questi
beni, prima di proprietà del fisco, sono stati da questo ceduti
a determinate persone e queste vi hanno conseguito un diritto di
proprietà, che può esser limitato da restrizioni così gravi da giungere
fino al divieto di alienazione, ma che non cessa, per questo, di essere
un vero e proprio diritto di proprietà.

A me invece pare che qui si abbia la concessione non di un diritto di
proprietà, quale s'intende nella coscienza giuridica del tempo; ma
di un semplice diritto di possesso ispirato proprio a quei concetti
barbarici della gewere, i quali, se non giungono, forse, allo sviluppo
creduto dallo Schupfer, non me ne sembrano, in verità, così lontani
come il Leicht prima ed il Checchini poi hanno sostenuto: possesso,
in opposizione al quale Federigo I aveva rivendicata l'alta proprietà
pubblica, in quanto egli si considerava come continuatore dell'idea
imperiale in cui si impersonava il _populus romanus_, supremo detentore
degli attributi della sovranità.

Io credo che l'istituzione dell'arimannia sia una delle manifestazioni
più rilevanti, se non unica, dello Stato germanico, la quale non abbia
quasi affatto subito influenza da elementi estranei e che — appunto per
questo — ci possa offrire una riprova delle energie circostanti che la
rinchiusero in limitatissima cosa.

Il Leicht[327] ha trovato alcuni punti di analogia fra l'arimannia e
le terre limitanee romane: altrettanti se ne trovano, secondo me, con
le terre pubbliche delle città, le quali compiono funzione analoga così
negli ultimi tempi dell'impero romano, come anche in seguito, durante i
tempi goti e bizantini.

Certo alcune di queste terre — il Leicht ha ragione — dallo Stato
romano, appunto perchè le destinava a barbari, furono dotate di quegli
speciali privilegi che potevano renderle più conformi ai barbari che
Roma assoldava per costituire la massima parte delle sue milizie. Ma
è ormai noto come fra grandi civiltà decadenti e nuove civiltà tuttora
nel sorgere sieno molti e notevoli punti di contatto, senza per questo
che ne derivi la conseguenza che le prime abbiano agito sulle seconde.

E qui, mi pare, siamo proprio nel caso.

Il Checchini è sostenitore assoluto dell'influenza bizantina
sull'arimannia langobarda, la quale, secondo lui, riproduce esattamente
l'organizzazione dei fondi militari di confine[328].

Non posso — ora — fermarmi a lungo su questa questione, incidentale
per la mia ricerca, e debbo quindi tralasciare di occuparmi così del
problema che riguarda lo stato personale degli arimanni — gli arimanni
eran liberi, ma la loro libertà non credo punto fosse quella dei veri
e proprî _exercitales_ — come dell'esame del modo con cui istituti
bizantini avrebbero potuto influire sulla costituzione di gruppi
arimannici già in azione nei primi anni successivi all'interregno, non
che di tutte le altre questioni relative. Ma non posso fare a meno —
non foss'altro per giustificare la mia affermazione così recisamente
opposta — di esaminare un po' attentamente i punti di identità che il
Checchini ha voluto trovare fra l'arimannia e gli istituti militari
bizantini.

Egli dice che molti documenti riferentesi all'arimannia riproducono
esattamente l'importante prescrizione imperiale per cui i «fundi
limitanei» erano «ab omni munere vacui» e così (son le testuali
parole del Checchini)[329] «il diploma di Carlo il Grosso alla
chiesa di Arezzo, — a. 882 — prescrive: «...... in omnibus liberis
et erimannis prefatae S. Aretinae Ecclesiae filiis.... _iubemus ut
ab eis nec donaria aut redibitiones neque pignorationes vel iniustae
districtiones exigantur_», ed un altro diploma di Enrico IV: «nullus
dux, archiepiscopus ecc..... in eorum domos albergare _theloneum, vel
aliquam publicam functionem dare eos_ (arimannos) _cogat_».

«Siamo così in grado di trovare (diciamolo tra parentesi), la ragione
dell'errore in cui sono caduti molti autori, che, avendo constatata
quest'immunità dell'arimannia da qualsiasi onere fiscale, l'hanno presa
per una terra allodiale».

I documenti — in verità — suonano in modo un po' diverso da quello con
cui il Checchini li ha citati.

Il primo è il famoso diploma immunitario alla chiesa aretina che il
Muratori[330] credette generale per tutte le chiese d'Italia.

L'imperatore, avendo conosciuto come i suoi ministri «contempto
timore Dei et abiecta a predecessoribus (nostris) interdicta, per
plebes et ecclesias seu ecclesiastica praedia et domos placita
teneant, districtiones in liberos, massarios super ecclesiasticas
res residentes, et servos et aldiones faciant tributa; ab eis
exigant census et donaria, angarias etiam et opera[s; et] non solum
ab eis sed ab omnibus liberis eri[man]nis et ecclesiae filiis»,
vuole assolutamente con la sua imperiale autorità «omnes has
superstitiones et importunas violentias funditus abolendas» e a
questo scopo stabilisce (statuentes) che «in sancta aretina ecclesia
nullus comes, nullusque judex vel quelibet iuditiariae potestatis
persona tam in plebibus quamque et in monasteriis, titulis aliisque
ecclesiis vel domibus seu urbanis vel rusticis possessionibus ad eam
pertinentibus placita tenere, massarios et colonos, liberos, aldiones
vel servos quosque residentes super res ad predictam sanctam ecclesiam
pertinentes quolibet modo distringere, pignorare, angariare, census
et redibitiones et donaria aliqua exigere quoquomodo presumat; sed
liberos, massarios, quos legalis coactio exigit querere ad placitum,
per patronum seu a[dvoc]atum ad placita ducan[tur] ut legal[is
diffi]nitio legalem contentionis finem impo[nat]; ac etiam in omnibus
liberis et erim[a]nnis praef. s. aretinae ecclesiae filiis et eiusdem
diocesi commanentibus massariis et colonis observari omnimodis iubemus;
videlicet ut ab eis nec donaria aut redibitiones neque pignora neque
iniustae districtiones exigantur, sed unusquisque cum legalis censura
exigit a patrono suo ad placitum deducatur, ne pignorationis occasio
aditum rapine depredatoribus in aliquo prestet»[331].

Come si vede — ed è ben noto — l'imperatore per evitare i soprusi, che
i suoi ministri commettevano nell'esercizio della giustizia, proibisce
loro l'introito nel territorio diocesano reso immunitario, stabilendo
che gli abitanti ne siano presentati al placito da apposito avvocato.

Gli _erimanni_ — chiunque si voglia indicare con questo nome — non
sono trattati diversamente da tutti gli altri abitanti della diocesi
aretina, qualunque ne sia la condizione, dal servo al libero; perchè
unico e solo scopo dell'imperatore è di sottrarli tutti alle arbitrarie
vessazioni dei ministri regi: non si tratta affatto di imposte: ma
di esenzione da obblighi giurisdizionali, e quindi, da arbitri e da
soprusi.

Il diploma di Enrico IV è anche più refrattario all'interpetrazione del
Checchini.

L'imperatore, per intercessione di Adalbergo vescovo di Amburgo,
concede «cunctis hominibus de vico Viglevani et Serpi atque Pedulae et
Viginti Columnae, cunctis filiis filiabusque eorum nec non et hominibus
eorum omnibus _ut ab arimannia exeant_, et nullus dux, archiepiscopus,
episcopus, marchio, comes, vicecomes, gastaldio, sculdasius nullaque
regni persona in eorum domos albergare, theloneum vel aliquam publicam
functionem dare eos cogat, nec eos nec eorum posteritatem placitum
custodire compellet ultra nostrum placitum»[332].

Tutta la concessione deriva dal primo inciso — non riportato dal
Checchini — «ut ab arimannia exeant».

E l'altro documento, citato in nota dal Checchini, e che è l'atto di
pace del 1114 fra la contessa Matilde ed il vescovo di Parma Bernardo;
fra le altre clausole, ha la promessa del vescovo che agli «_arimannis
de Monticulo nullos alios_ USUS _vel_ FACTIONES _deinceps requisierit,
nisi quos eius antecessores_ SOLUMMODO IN PACE _et non in guerra ex
illis habuerant_»[333].

«Ergo — io non saprei come dir meglio del Muratori — arimanni
tempore etiam pacis ad quaedam obsequia, servitia et factiones
obligabantur»[334].

Tutti i documenti dal Checchini stesso citati, non che suffragarne
l'opinione, ne provano precisamente l'opposto, e rendono quindi
superfluo il ricordo del _districtu et integro servitio quod de jure
debebant_ all'imperatore i due arimanni ceduti nel 1159 da Federigo
I alla chiesa di S. Alessandro di Bergamo[335] e dell'_omni debito,
districtione et notione atque placitu_ cui erano costretti quei _liberi
homines qui vulgo herimanni dicuntur_ i quali, insieme col castello
di Romagnano, Ottone I donò al monastero di S. Zenone di Verona[336];
e di tutti gli altri documenti — e sono molti — da cui appare in
modo irrefutabile come gli arimanni fossero soggetti a tributi e a
prestazioni[337].

E non è soltanto in questo che la voluta analogia fra «fundi limitanei»
ed arimannie non esiste.

Il Checchini, per dimostrare che comune agli uni e alle altre era anche
il divieto di alienazione, cita il diploma di Enrico III agli arimanni
di Sacco con cui l'imperatore stabilisce che «_non liceat ipsam
erimanniam suam vendere aut archiepiscopo, aut patriarche aut duci, aut
marchioni, comiti, vicecomiti nec aliquibus ex potentioribus_».

Ma è evidente invece che l'imperatore permette loro la più ampia
facoltà di vendita e di cessione, fatta unica e sola eccezione delle
persone più potenti degli arimanni stessi, le quali — i livelli delle
chiese ne danno una prova evidente — avrebbero avuto di mira e di
resultato lo scompaginamento di un insieme di forze e di individui,
che l'imperatore voleva invece, seguendo un sistema tradizionale,
tenere unito. Anche nei giuramenti di fedeltà e di sottomissione è
abituale l'eccezione di guerreggiare contro l'imperatore o contro
il papa ed altre determinate persone. Si dovrebbe sostenere che il
giuramento di fedeltà non esiste? Nè il procedimento è diverso: sono
le manifestazioni sociologiche, diciamo così, che confermano, con
l'eccezionalità di qualche disposizione, la generalità di una norma o
di un istituto.

Nei «fundi limitanei» esiste un vero e proprio divieto di alienazione;
mentre qui si ha in diritto una facoltà di alienare la quale può essere
completa, come nelle arimannie friulane[338], o limitata come nel
caso su citato; ma in ogni modo esiste sempre senz'altra limitazione
che quella che il concessionario debba subentrare negli obblighi a
cui sottostava il concedente, in quanto titolare di una terra, su cui
incombevano speciali oneri.

E appare anche un'altra differenza fondamentale fra l'istituto
bizantino e quello langobardo. Nel primo la proprietà della terra
passava dallo Stato al soldato ed ai suoi successori: nel secondo no;
il _publicum_ conserva sempre un diritto eminente di proprietà che
non si manifesta solo in caso di inadempienza degli obblighi e per
la risoluzione di una condizione; è un diritto che si affievolisce
coll'andar del tempo e sotto l'azione di numerosi elementi ed, in
alcuni casi, si trasforma, ma non si estingue. Nei primi anni il
_publicum_ esercita il suo diritto di distribuzione delle terre comuni
concesse in precaria ad un determinato gruppo, come nel noto caso
della _fiurvaida_ pisana, mentre più tardi di questo esercizio di
autorità non si ha menzione. Ma il diritto eminente dello Stato permane
e lo si vede apparire nella imposizione fridericiana riguardo alle
_arimanniae_, nella quale si comprendono tutte le terre sulle quali lo
Stato vantava diritti non annullati da concessioni speciali.

E in tal modo si viene ad un altro punto più interessante ancora; la
determinazione del patrimonio dell'arimanno.

Secondo il Leicht, l'arimanno possederebbe, come tale, una terra
speciale, che sarebbe appunto l'arimannia, oltre il suo allodio:
l'arimannia, secondo quest'autore, sarebbe solo la terra pascolativa,
almeno originariamente. Io credo, invece, che arimannia non sia
soltanto questa ma sia la terra, la _sors_, concessa ad ogni singolo
arimanno, insieme col diritto sul compascuo e sulle prestazioni, di
cui queste due terre dovevano rispondere, per mezzo della persona a cui
erano state concesse.

In tal modo si rende spiegabile la frase del diploma imperiale
agli arimanni, con la quale si concede a questi _hereditatem et res
communes_. Nè può far meraviglia il fatto che la terra sia chiamata
hereditas: con tal nome sappiamo esser stata indicata non soltanto la
terra allodiale ma anche quella colonica, la quale — ed è questo un
punto di contatto con l'arimannia — senza staccarsi dal patrimonio
del «dominus», è suscettibile di cessione, di alienazione e di
donazione[339] anche fuori dell'ambito del _mithio_, entro il quale i
coloni fiscalini hanno facoltà anche più ampie[340]. Senza contare che
ripugna al concetto della costituzione di un gruppo arimannico l'idea
della mancanza di una terra propria di ciascuno, perchè è proprio
questo il campo nel quale il sistema della _sors_ e della terra comune
ad essa assegnata si può e si deve manifestare. Il Leicht[341] ha
combattuto giustamente, seguito dal Checchini, l'opinione dell'Andrich
che gli arimanni nei piccoli castelli fossero i soli comunisti
ed aggiunge che però è innegabile che al gruppo vicinale stesso,
come ente, gli imperatori ed i loro succedanei sovente investono
l'arimannia, la quale viene così ad immedesimarsi col comune: così a
Mantova, a Cremona. Ed è vero. Io aggiungerò che, dall'insieme dei
documenti, risulta la prevalenza dell'elemento cittadino-romano su
quello arimannico-germanico.

Nel diploma di Enrico II del 1014[342], si parla esclusivamente di
arimanni, mentre in quello di Enrico III del 1055[343] si parla di
tutti i cittadini di Mantova, dei quali gli arimanni, in virtù del
diploma del 1014, erano potuti entrare a far parte. Infatti con
quest'ultimo diploma l'imperatore prende sotto la sua protezione tutti
gli arimanni — _cunctos arimannos_ — che abitano — _habitantes_ — nella
città di Mantova, nel comitato di essa ed in alcuni vici espressamente
nominati — _in civitate Mantue, sive in Castro qui d. Portus sive
in vicoras q. n. S. Georgio, Formicosa, Cepada, seu et in comitatu
mantuano_ con tutte le loro cose e cioè _cum omni eorum hereditate,
paterno vel materno jure, proprietate, communaliis sive omnibus rebus
que ab eorum parentibus possessa fuerunt et eorum adquisita sive
adquirenda_.

Invece dal diploma di Enrico III del 1055 appare che l'imperatore,
volendo estirpare le «superstitiosas exactiones et importunas
violentias» di cui gli arimanni mantovani erano vittime, stabilisce ed
impone che «nulla magna parvaque persona _predictos cives, videlicet
ermannos in Mantua civitate habitantes_ (ossia quegli arimanni che
erano entrati ad abitare come cittadini in Mantova) de suis personis,
sive de illorum servis et ancillis vel de liberis hominibus in eorum
residentibus terra, vel DE EREMANNIA _et_ COMMUNIBUS REBUS AD PREDICTAM
CIVITATEM PERTINENTIBUS ex utraque parte flumine mincii sitis, sive
de beneficiis, libellariis, precariis, seu eciam de omnibus eorum
rebus mobilibus et immobilibus iuste conquisitis et iuste conquerendis
inquietare, molestare, disvestire, sine legali judicio presumat». Ora
si potrebbe ricordare che a Lucca era avvenuto altrettanto parecchi
secoli prima: nel 786[344] gli arimanni erano entrati a far parte dei
cives ricordati fino dal 722[345]. Ma quello che a me preme rilevare
è la differenza che corre fra i due passi concernenti la terra
arimannica: nella prima abbiamo l'_hereditas_ distinta ma unita con
le terre comuni dei singoli gruppi arimannici; nel secondo l'una e le
altre, sotto la comprensiva dizione di _eremania_, sono nettamente
separate dai beni comuni pertinenti alla città. E su quest'ultimo
diploma si modellano quelli successivi del 1090, del 1133 e del 1159 di
Matilde[346], di Lotario II[347] e di Federigo Barbarossa[348].

A qualunque distanza fossero le arimannie dalle mura cittadine,
costituivano sempre un'organizzazione distinta da quella della città,
la cui configurazione territoriale rimane individuata anche per questo
lato.

Nè si potrebbe obbiettare che si può avere una confusione quando,
invece di terre lasciate in proprietà alle città, si tratta — ed è il
caso più frequente — di terre così dette comuni delle quali alle città
è concesso solo l'uso mentre la proprietà rimane al re.

Prescindendo dal caso del _Palatium_ o _Curtis regia_ che non si
distingueva dalle altre _curtes_, — lascio da parte la questione, per
me irrilevante, della distinzione fra fisco e patrimonio privato del
re, che il Sohm afferma già delineata mentre è negata dall'Hartmann
— non si distingueva, dico, se non per un più rapido formarsi del
diritto che scultoriamente fu detto dal Solmi[349] curtense; delle
altre terre regie bisogna fare una bipartizione. V'erano terre, prati,
selve, laghi etc. sulle quali dal re potevano venir concessi diritti e
facoltà di uso, dietro il correspettivo di un canone o magari senza.
E queste erano terre non specificatamente addette ad una comunità di
persone. E c'erano poi altre terre sulle quali, in quanto e perchè
facevano parte di un determinato gruppo politico, i componenti di esso
avevano speciali diritti. Le une e le altre terre si trovavano sotto il
dominio eminente del «publicum»; ma nel primo caso predominava assoluto
l'elemento patrimoniale; nel secondo questo era quasi tutto, per non
dire addirittura tutto, assorbito dall'elemento pubblico. Conseguenza
non improbabile del modo con cui sull'esempio dei re goti, i re
langobardi si considerarono come successori del fisco bizantino[350].
E la differenza si manifestava anche nel diverso modo di agire della
potestà pubblica sugli uni e sugli altri: nel primo caso il diritto
d'uso scaturiva immediatamente dalla concessione regia; nel secondo
indirettamente; perchè il re, se non commetteva un arbitrio che può,
magari, giungere fino alla spogliazione, possibile senza dubbio,
ma, per la sua stessa natura, eccezionale, non poteva ammetterlo
al godimento dei diritti di uso se non costringendo il gruppo, che
non avesse voluto accogliere il nuovo venuto di buona volontà, ad
accettarlo col vigore del suo _preceptum_[351].

Ma nel primo caso il re, sieno beni suoi o dello Stato, può disporne
come vuole; nel secondo riconosce la consistenza del gruppo dei vicini.

Nel caso nostro della città.

Ed è ormai tempo di avviarsi a ricercare la natura di questa
consistenza.


§ 5. — Una prima osservazione si impone.

Dal momento che i Langobardi rispettarono le antiche divisioni
territoriali, è certo che esse dovettero avere un'importanza effettiva,
perchè non è possibile ammettere che ai barbari, pochi e selvaggi,
convenissero le divisioni territoriali di un popolo evoluto fino alla
decadenza e, per quanto decimato dalle carestie, dalle pestilenze e
dalle guerre[352], infinitamente più numeroso; mentre è pure giocoforza
convenire che ai langobardi ariani, tali divisioni non poterono esser
date dalla chiesa cattolica.

Prima che il Solmi negasse la continuazione medioevale delle vecchie
corporazioni romano-bizantine, si era sostenuto unanimemente che
queste servissero ai dominatori come strumento di estorsione. Dopo di
lui nessuno si è occupato di colmare la lacuna che veniva lasciata
scoperta, quantunque — se non m'inganno — non si possano del tutto
accogliere i risultati negativi a cui egli è pervenuto.

Si hanno tracce sicure di prestazioni _quas homines exinde in publico
habuerunt consuetudinem faciendum_[353]: Pipino[354] parla del
rifacimento delle mura, delle porte, delle strade, dei ponti e degli
edifici pubblici, come di _antiqua consuetudo_ e Carlo Magno[355]
ricorda _mansionaticos, paraveredos et operas_; tutti dimostrano
la continuazione ininterrotta dal tempo romano di tutti questi
aggravi[356] e compiono il quadro datoci dalla famosa _pensio_ dei
saponai di Piacenza[357], dal taglio e trasporto delle legna dei
cittadini di Benevento[358], dalle prestazioni dei Veronesi per il
rifacimento delle mura[359], da quelle dei Cremonesi per l'uso delle
acque[360] e anche da quella dei Lucchesi[361] e dei Pisani[362] per
il palazzo imperiale. E che più? Chi non conosce — anche a voler
tralasciare gli aggravi del triplice placito annuale[363] — il
famigerato passo di Paolo Diacono che parla di _populi adgravati?_

Il Tamassia[364], nella sua recensione al libro del Solmi sulle
associazioni precomunali, osservando come il documento piacentino del
744 sia una conferma regia di una più antica concessione di privilegi,
per la quale da Liutprando è confermata al vescovo di Piacenza
_pensionem illam de sapone h. e. libr. XXX. quae palatii nostri in
civitate Plac. inferebantur et ab ipso patruo nostro ad pauperes
lavandum concessa sunt_, crede probabile che la chiesa piacentina
ottenesse dal re langobardo la continuazione di un antichissimo diritto
a suo favore e gravante gli esercenti dell'industria del sapone.

Egli ritiene così che non si possa disconoscere un certo vincolo
di dipendenza fra gli operai e la Chiesa, la quale, con i suoi
organismi associativi, nei secoli V e VI servì di rifugio allo
spirito corporatizio romano, strangolato dalle istituzioni coatte
dell'ultimo diritto imperiale; ed in quelli successivi, pur senza
implicare necessariamente l'esistenza di un _corpus_, ebbe non scarsa
importanza[365]. Effettivamente, il Tamassia ha messo felicemente
in rilievo — il Solmi stesso lo ha riconosciuto[366] — l'influsso
esercitato, in questo rapporto, dalla Chiesa. Ed io credo che la
Chiesa abbia esercitato nell'epoca langobarda un'azione di eccezionale
importanza e ne tratterò più innanzi; ma non mi pare che ciò sia
avvenuto nel modo indicato dal Tamassia e dal Solmi[367].

Per provare l'asserto da essi voluto, sarebbe stato necessario
dimostrare l'esistenza di un vincolo, intercedente fra il vescovo e
gli artigiani cittadini, nei rapporti della vita pubblica delle città.
Invece il documento veronese[368] e quello senese[369] dal Solmi
citati mostrano, è vero, una certa organizzazione artigiana, se non
industriale; ma essa nasce, si esplica e si circoscrive nel complesso
dei beni di proprietà del vescovado: onde non ha nulla di diverso
dall'organizzazione interna di ogni _curtis_ regia, ecclesiastica,
o privata, e, sia che il centro ne sia dentro o fuori le mura,
costituisce sempre un organismo fuori della vita cittadina.

E lo stesso è a dirsi dei monasteri in questo periodo normalmente
in dipendenza se non in potestà diretta del re[370]. Non aveva
certo alcun contatto con l'artigianato cittadino quel _laboratorio_
del monastero femminile di San Michele in Firenze, in cui per il
convento di Nonantola ogni anno si confezionavano le famose _quinque
bone stamineae_; e lavoravano dodici ancelle, mandate dal convento
stesso insieme con la materia prima necessaria per le tele e le
vesti dei monaci[371]; come non aveva nulla di comune con la città
l'altro monastero femminile, anch'esso fiorentino, di Sant'Andrea,
che pure doveva essere un centro di produzione non disprezzabile,
se era obbligato all'annuo tributo di un vestito di lana di capra
_in parte palatii persolvendum_[372]. Abbazie e monasteri, anche nei
rari casi in cui non erano favoriti da quelle concessioni immunitarie
che avevano come conseguenza precipua di isolarli da ogni contatto
esterno, non ricorrevano _ad magistros et manuales_ estranei che in
caso di necessità assoluta ed anche allora solo per costruire _a petre
et calcina_ gli edifici _ubi sunt omnes officine sicut abbatia habere
debet_[373].

Facendo capo a quanto ho detto sulla trasformazione subita dalle
città negli ultimi tempi dell'impero, accentuata nell'epoca gotica ed
aggravata ancor più in quella bizantina, io ritengo che i Langobardi
abbiano considerato ogni centro abitato, sia urbano che rustico,
solidalmente responsabile degli aggravi e delle imposte. Poichè è
certo che se le corporazioni sparirono, d'altra parte le imposte, sia
pur modificate, rimasero; mi pare che tale spiegazione sia, se non
accettabile, ammissibile: tanto più che consente anche di arrivare ad
un'interpetrazione del passo di Paolo Diacono, la quale oso sperare non
sia la più campata in aria delle moltissime tirate fuori fin qui.

Il Leicht[374] ritiene che _populi_ si possa riferire con
verosimiglianza alle popolazioni rustiche dei grandi possessi romani
prima soggetti alle _tertiae_. Ed è vero: ma _populus_ non indicò
solo questa popolazione; indicò anche gli altri gruppi vicinali che si
raccoglievano nel _vicus_ e nell'_urbs_. Ogni _locus_, ogni _vicus_ —
ce lo dice Rotari[375] — aveva il suo territorio e così quelli vicini
alla città venivano a chiuderla tutto intorno in un ambito, che si può
seguire attraverso le divisioni ecclesiastiche, e che era costituito
dal centro murato e da una certa estensione di territorio di cui la
città era dotata al pari di ogni vico: non come sede di un _judex_.
La parola _populus_ nel diritto romano classico indicava abitualmente
l'insieme degli abitanti in una _civitas_[376], così che la provincia
si poteva dire divisa in città o _populi_; ma più tardi, forse per
l'azione della Chiesa[377], anche le circoscrizioni minori furono
chiamate col nome di _populi_[378], aprendo e facilitando la via al
sistema goto-bizantino, che, staccando le classi militari e le più
elevate dalla rimanente popolazione, chiamò _populus_ quest'ultima in
tutti i suoi agglomerati, fossero essi urbani o rustici[379].

A risolvere il famoso passo di Paolo Diacono, a mio modo di vedere,
si possono addurre tre elementi sicuri: la coincidenza delle
circoscrizioni civili con quelle ecclesiastiche, l'esistenza di varie
prestazioni e la ripugnanza incoercibile dei Langobardi a pagare
imposte e contribuzioni.

Considerando che i Langobardi erano pochi, ariani e barbari, la
coincidenza — ripeto — non può essere spiegata, come alcuni autori
inclinano a credere, con la supposizione che per un certo tempo tali
divisioni territoriali sieno state usate solo dalla Chiesa e che i
Langobardi l'abbiano riprese da essa. È molto più verosimile che i
Langobardi le abbiano conservate perchè tale conservazione apparve
loro di utilità immediata e indiscutibile: tanto è vero che, dove tale
utilità generica fu sorpassata da una necessità impellente, non si
peritarono di procedere a nuove e diverse divisioni[380].

Esaminando le varie prestazioni, di cui si ha notizia per l'epoca
langobarda, si vede che di una — la _tertia pars frugum_, alla quale
furono soggetti i romani verso i conquistatori — nessun testo ci dice
in modo preciso come veniva corrisposta; delle altre i documenti e le
leggi franche (che ricordandole sino dal 782 come _antiqua consuetudo_
ne provano sicuramente l'antichità) ce le mostrano come gravanti
collettivamente su nuclei vicinali determinati per pievi[381]. E poichè
accanto alla pieve rurale coesiste e predomina la pieve urbana; nè la
ragione consiglia nè i documenti permettono di credere che tali nuclei
sieno solamente rurali[382]. Di più dalle più antiche leggi barbariche
che si conoscano, si vede concepita ed attuata una responsabilità
collettiva che colpisce un insieme di individui determinato soltanto
territorialmente con i confini entro i quali abita e vive il gruppo
vicinale[383]: responsabilità e determinazione che corrisponde
perfettamente ai documenti langobardi che possediamo[384].

Finalmente dal momento che i Langobardi non contribuirono certamente
(almeno nei primi tempi: vedremo in seguito perchè questo stato di
diritto fu più tardi mutato) alle gravezze ed alle imposte, queste
colpirono soltanto ed esclusivamente i romani.

Premesso questo e tenuto presente il sistema di responsabilità
collettiva, al quale erano state condotte le singole circoscrizioni
territoriali dalla decadenza romana e più ancora da quella
goto-bizantina, mi sembra sintomatica, ma non strana, la disposizione
imperiale che, proprio a proposito dell'hospitalitas, abbandona i
classici concetti romani, che basano la persona giuridica sull'elemento
personale, e riconosce non irrilevanti facoltà giuridiche in un amorfo
complesso di individui determinati unicamente in base all'elemento
ibrido dell'abitazione senza alcuna considerazione dell'elemento
e dello stato delle persone[385]. Tale pervertimento non può esser
dovuto che all'irrefrenabile dilagare di una decadenza che i consueti
mezzi giuridici non eran capaci nè di contenere nè di regolare e che
preparava favorevole terreno alle successive istituzioni barbariche.

A questa stregua il passo in cui Paolo Diacono dice che _populi tamen
adgravati per Langobardos hospites partiuntur_ mi pare suscettibile
di questa spiegazione. I singoli _populi_, ossia le singole città
con le terre cittadine ed il suburbio[386], al pari ed insieme con i
singoli _vici_ e _loci_ con il loro respettivo territorio, prima furono
obbligati collettivamente e solidalmente al tributo della _tertia pars
frugum_[387]; e più tardi, quando, dopo l'interregno, la conquista
prese un assetto definitivo, furono divisi fra i Langobardi a seconda
ed in proporzione della necessità e dei bisogni: necessità e bisogni
che si conguagliavano alle esigenze della difesa[388], al numero
dei componenti i singoli gruppi, ai loro desideri[389] e alle loro
tendenze[390].

Questi _populi, adgravati_ dai duchi che si vollero rifare della parte
di patrimonio ceduta al re, furono senza dubbio soggetti al rifacimento
delle mura, delle porte, delle strade, dei ponti, degli edifici
pubblici, delle cloache e, nelle città fluviali, anche dei porti; e,
dove fu possibile, come a Cremona, a Piacenza, a Benevento e altrove,
anche ad altri aggravi speciali e furono divisi, secondo l'opportunità
e la convenienza dei vincitori, fra i vari duchi e fra i diversi
aggregati di _fare_, che, sotto la loro guida, si distribuirono nel
paese conquistato, dividendosene le terre.

E come nelle continue e terribili devastazioni, ormai da gran tempo
imperversanti, la terra abbondava, mentre i grandi possessi dei nobili
romani uccisi al tempo di Clefi soddisfacevano, o quasi, le richieste
dei maggiori langobardi; le terre che pur rientravano nei singoli
_populi_ ma dagli scarsi abitanti non erano utilizzate, furono divise
fra gli altri Langobardi[391], mentre agli indigeni fu lasciata,
oltre la proprietà privata di ciascuno, un'altra terra di uso comune,
necessaria ed indispensabile quanto l'altra. E in alcuni luoghi, in
cui la terra abbondava ancor più, ne fu lasciata alle città anche
dell'altra su cui i cittadini non esercitavano un diritto di uso nè
come tali, nè come facenti parte di un qualche consorzio di diritto
privato con terre a comune; era una terra che a nessuno di essi
spettava in proprietà, ma che dallo stato langobardo era riconosciuta
spettante alla città stessa, in quanto forniva a questa i sassi, le
pietre, il legname e le altre cose necessarie per il rifacimento delle
mura, dei ponti, e per le altre speciali imposizioni, cui la città
doveva sopperire.

Del resto, si accetti o no questa mia interpretazione, confido non
si possa negare che al tempo langobardo la città si differenziava
territorialmente dalla _judiciaria_ di cui è a capo.


§ 6. — Bisogna ora vedere se e quanto è rimasto dell'antico concetto
romano della _civitas_, per passare poi all'esame degli elementi
principali che lo costituiscono.

Cominciamo dal primo punto.

L'atto di fondazione del famoso monastero di Senatore in Pavia, del
novembre del 714, è stato steso da Felice _subdiaconus et notarius
sancte ticinensis ecclesie_, e sottoscritto da Todo _notarius regie
potestatis_ e da Aufrit _notarius regius_[392].

In un altro documento pavese[393], di poco posteriore, — è del 729 — si
legge:

«Quam donationis seu confirmationis nostre paginam Magno _notarius
sancte ticinensis ecclesie_ ex iussu Benedicti venerabilis _subdiaconi
et exceptoris ticinensis_ scribendo rogavimus et subter confirmantibus
testibusque obtulimus roborandum.

Ego qui supra Magnus _notarius sancte ticinensis ecclesie_ scriptor
huius cartule donationis post tradita complevi et dedi».

È evidente che Felice e Magno erano notari della chiesa pavese, ma non
_exceptores ticinenses_ e tanto meno notari _regie potestatis_: e che
Benedetto era ad un tempo suddiacono e _exceptor_; come era suddiacono
e _exceptor civitatis_ il suo confratello piacentino Vitale che in un
documento dell'anno 721[394] si qualifica _Vitalis v. v. subdiaconus
exceptor civitatis Placentinae_.

C'erano, dunque, notai del re, notai della chiesa e notai della
città[395]. L'esistenza dei primi due non fa meraviglia; ma riguardo
agli ultimi non si può non osservare che la forza della _civitas_
non deve essere stata tenue se riuscì a tenersi distinta dal potere
pubblico anche nella città in cui esso aveva posto la sua sede
principale; e che ciò è tanto più notevole in quanto, sparite, con
la dominazione langobarda, le curie, le corporazioni e le maggiori
autorità romano-bizantine, erano venuti a mancare i cardini sui quali
avrebbe potuto poggiare più agevolmente per mantenersi.

Riservando ogni congettura a quando sieno stati raccolti tutti i dati,
che ho potuto rinvenire, prendiamo atto della tripartizione che si vede
delineata e proseguiamo.

Un altro bellissimo documento che, per la sua importanza, merita di
esser segnalato in prima linea, è una _notitia_ veronese dell'837
riferentesi a fatti avvenuti nell'818[396], sulla quale, ormai quasi
del tutto trascurata dopo l'Hegel[397], richiamò or non è molto,
l'attenzione il Leicht[398] e si è servito anche il Mayer[399]. È una
«notitia» _qualem pedaturam murorum veronensis civitatis pars domus
episcopii sancti Zenonis praeteritis temporibus facere solita fuerit_.

Al tempo della puerizia di Pipino, verso gli ultimi del 700, essendo
frequenti le irruzioni degli Ungari, Carlo M. pensò di riparare le più
importanti città di confine e fra queste Verona, per la massima parte
distrutta e «muros, turres, fossasque per urbis girum fecit adiectisque
palis fixis a solo usque munivit». Ma allora _de faciendis muris et
fossis_ sorse una contesa _inter cives, et urbis judices, ac partem S.
Zenonis_; perchè mentre i giudici volevano che l'episcopio contribuisse
per la terza parte; la Chiesa (compresi in essa quattro monasteri, di
cui tre regi e due xenodochi, pure regi) «quod ad comparationem tanti
populi exigua esset», _volebat non tertiam sed quartam sicut antiquitus
fuerat, dare_. E non si veniva a capo di nulla perchè da una parte il
vescovo non voleva cedere e dall'altra la «pars publica» non poteva
provare quello che sosteneva, sia perchè era passato molto tempo da
che la città non era stata munita, sia perchè al tempo dei Langobardi
«nihil indigebat, _publico studio munita_: si quid modicum ruebat,
statim a vicario civitatis restituebatur». Finalmente si ricorse al
giudizio di Dio, che riuscì favorevole al vescovo e pose termine ad
ogni questione. Tanto che quando nell'837 l'imperatore Lotario mandò
a Verona i suoi due messi Mario, conte di Berg, e Erimberto, vescovo
di Lodi, al vescovado ed ai suoi soci fu affidato il rifacimento della
quarta parte delle mura della città presso la porta nuova e dei muri
del castello. E «opus illud perfecit».

Sull'attendibilità e l'autenticità di questo documento nessuno ha
sollevato dubbi: l'Hegel e il Mayer se ne servono per provare che le
mura e le costruzioni difensive romane continuarono ad esistere anche
nell'epoca langobarda; il Leicht per mettere in rilievo il saldo
vincolo dal quale appaiono uniti i cives accanto al rappresentante
del pubblico potere: e solo si deve tener presente che non è un vero
e proprio atto pubblico, ma una memoria, una _notitia_, fatta redigere
dalla chiesa veronese, qualche tempo dopo, a ricordo degli avvenimenti
occorsile e a scopo di evitare possibili contestazioni future[400].

Questo era da premettere per allontanare qualunque possibile obiezione
da un documento che offre la prima prova sicura del mantenersi in
Italia di una parte importantissima di sistemi di diritto pubblico
prettamente romani.

Non si può dubitare che, ancora nel secolo ottavo, la ragione
per cui la «pars pubblica» veronese si riconosceva obbligata a
contribuire alla terza parte dell'opera, si debba trovare nell'antica
disposizione di Arcadio e Onorio[401], passata integralmente nel
Codice Giustiniano[402], che assegnava alla riparazione delle mura ed
al mantenimento delle terme la _tertiam partem de redditibus fundorum
iuris reipublicae_; e può nascere questione soltanto nel determinare
con esattezza a quale delle varie raccolte, in cui essa è stata
inclusa, sia da attribuire. Io credo che non si debba pensare nè al
Codice Teodosiano nè a quello Giustinianeo, ma sibbene al Breviario
Alariciano: e ciò perchè l'_Interpretatio_ visigotica trasforma la
legge in maniera che si attaglia in modo perfetto alle condizioni
dell'_Emilia_ e della _Tuscia_ — le due grandi regioni in cui era
divisa l'Italia al tempo dei Franchi — quali ci sono mostrate dal
documento di Verona e dalle fonti legislative, mentre non si potrebbe
dire altrettanto del rimanente della penisola.

Nel Breviario Alariciano la disposizione, di cui ci stiamo occupando
suona così: _Quotiens aedificia vetustate consumpta necesse fuerit
reparari, ad ipsam reparationem tertiam partem de proprio fiscus
impendat_. Si è omessa ogni menzione della _subustio thermarum_ e si
è sostituita l'espressione «fundi iuris reipublicae», che poteva dar
luogo ad incertezze (per determinare se si fosse trattato di fondi del
fisco o della città), con il termine _fiscus_, di indubbio significato.
E la _notitia_ veronese mostra chiaramente la partecipazione del fisco
regio al riattamento delle mura, mentre un capitolare sicuramente
italico parla di piazze e di cloache restaurate a totale carico
dell'erario pubblico e di ponti e di «reliquis similibus operibus»
mantenute dallo Stato in cooperazione con gli abitanti e con le
singole chiese senza mai far parola di terme[403]. Invece nella
parte inferiore dell'Italia centrale la _Summa Perusina_[404] ricorda
ancora le terme e solo ha una leggiera variante nell'indicazione dei
redditi pubblici: _moenia publica et therma de tertia parte reditibus
publicis reparetur_; e nell'Italia meridionale, attraverso alla
concessione fatta nel 774 dal duca Arechi di Benevento al monastero di
S. Sofia[405], si vede limpidamente come, per tradizione o per testi
giuridici, si sia mantenuto il sistema romano-bizantino delle terme
e del loro riscaldamento per opera del fisco e dei cittadini. E se si
mantenne nelle regioni langobarde, a più forte ragione è da pensare che
si conservasse nella parte d'Italia rimasta più a lungo bizantina.

Un solo testo, generalmente attribuito all'Italia, fa eccezione: la c.
d. _Legge Romana Udinese_.

Questa legge mostra evidentemente di avere calcato in questo punto,
come in molti altri, il Breviario Alariciano ma svisandolo e,
conseguentemente, allontanandosi del tutto dalla massima romana e
dalle applicazioni che, in modo non da per tutto uniforme, ma sempre
inspirato ad identico concetto, essa ebbe in Italia. In questa, come
abbiamo visto, si considerano due termini: le mura della città e
le terme. Di quest'ultime il Breviario non parla, mentre estende la
comprensione dell'altro termine a tutti gli edifici pubblici, con lo
scopo evidente di imporre in un numero maggiore di casi l'obbligo della
prestazione ai cittadini ed alla chiesa vescovile. Ora la legge c.
d. romana udinese con la sua seconda interpr. alla legge I del libro
XVI dice: _Si aliquis judex antiqua publici habitacionem in civitatem
renovare voluerit, tercia parte cum adiutore fisci ipsum aedificium
renovet_. Non solo non si parla più delle mura; ma, pure a voler passar
sopra — conoscendo lo spropositato latino del compilatore — alla
differenza fra una _reparatio_ necessaria ed una _renovatio_ voluta
dall'«judex», anche il centro della disposizione è spostato perchè si
parla di un'_habitacio_ che riguarda unicamente l'«judex», al quale, se
vorrà ripararla, verrà concessa la partecipazione del terzo della spesa
da parte del fisco.

Per questo punto almeno la c. d. Legge rom. udin. non ha certamente
avuto applicazione in Italia. Non voglio dire che se ne possa
senz'altro dedurre che perdano ogni vigore le numerose argomentazioni
fatte per sostenerne l'italianità, dalle magistrali memorie dello
Schupfer alle geniali supposizioni del Gaudenzi; ma sta il fatto che su
una questione determinata con precisione e per la quale si hanno come
termine di paragone documenti e testi sicuramente italiani, la legge
romana udinese si è trovata in contrasto aperto.

Dal documento veronese, dunque, si vede come alla riparazione ed al
mantenimento delle opere pubbliche concorressero insieme, ed oltre ai
_cives_, la Chiesa e lo Stato.

Di questo fatto si hanno anche altre conferme.

La partecipazione della Chiesa è provata da un Capitolare italico,
del quale Lodovico il Pio, riportandolo nel suo Capitolare dell'817,
ci attesta la larga applicazione in Italia[406]. In esso si conferma
l'_antiquam et justam consuetudinem_ per la quale gli ecclesiastici
erano obbligati alla costruzione dei ponti e di altre simili opere
insieme _cum reliquo populo_ e si stabilisce che il rappresentante
della pubblica autorità non deve chiamarli direttamente al lavoro —
_per alium exactorem ecclesiastici homines non compellantur_ — ma deve
rivolgersi al rettore della chiesa — _rector ecclesiae interpelletur_ —
e questi risponde dell'esecuzione del lavoro.

L'esempio di Verona calza a capello anche a questo proposito: insieme
col vescovado si vedono formare la quota della Chiesa varî monasteri e
due xenodochi.

E poichè si parla di _antiqua consuetudo_ è più che probabile che le
cose non procedessero con sistema diverso al tempo dei Langobardi, i
quali, presumibilmente, lo ricevettero dai Goti attraverso alla breve
dominazione bizantina.

È al tempo dei Goti che la Chiesa cattolica comincia a staccarsi
dallo Stato, per divenire la Chiesa di una sola parte — e della parte
vinta — della popolazione; ed è allora che si può concepirla gravata
di una parte dell'onere del rifacimento dei pubblici edifici. Il
Codice Giustinianeo non ha accolto alcuna delle numerose costituzioni
imperiali, che da Costantino in poi, avevano costituito alla Chiesa
una condizione privilegiata in fatto di imposte e di esazioni ed
ha equiparato in tutto e per tutto gli ecclesiastici ai laici,
immobilizzandoli, al pari di questi, nelle singole circoscrizioni
e sottomettendoli a quegli oneri che, prima _sordida munera_, son
qualificati da lui come nobili e necessari; ma per quanto potesse
colpirne i membri, non credo che la legislazione bizantina, che
tanto si valeva della Chiesa da affidarle funzioni pubbliche molto
importanti, sia potuta giungere a concepire il _corpus_ della Chiesa
nel suo complesso come un congruo e possibile soggetto di esazione
tributaria. A questo, secondo me, arrivarono senza sforzo i Goti che
erano barbari ed ariani; distinti, cioè, per razza e per culto dai
vinti, fra i quali non poteva essere difficile scorgere e colpire
quella che formava la parte più importante della loro vita.

Nè le cose dovettero passare altrimenti sotto i Langobardi: soltanto
la collettività cittadina non avendo raggiunta sotto di loro quella
consistenza della quale vigorosi sintomi economici non appaiono
che alla fine del secolo ottavo ed ai primi del successivo, nè la
Chiesa essendo ancora pervenuta all'importanza politica e sociale,
riconosciutale da Carlo Magno; l'attività del rappresentante della
pubblica autorità risaltava per modo da offuscare la partecipazione
d'opere e di spesa alla quale, sotto la sua direzione ed il suo
comando, i cittadini e la Chiesa dovevano sobbarcarsi[407].

Per quel che concerne la partecipazione dello Stato alle opere
pubbliche, le tracce forniteci dal documento veronese vengono
illuminate, completate e prospettate nelle loro proporzioni nel quadro
delle istituzioni cittadine del tempo, da un capitolare franco che,
col carattere generale, proprio delle disposizioni legislative, affida
che il caso di Verona è da considerarsi non come isolato e particolare
ad una sola città, ma come un episodio corrispondente al sistema degli
ordinamenti pubblici che reggevano le città italiane conquistate dai
Franchi: sistema proprio e caratteristico dell'Italia e tutto affatto
distinto da quello di ogni altra regione.

Il Capitolare tratta «de plateis vel cloacis curandis _unius cuiusque
civitatis de regno Italiae_ ut singulis annis curentur» e stabilisce
che ciò sia fatto a cura e carico totale dello Stato — _non volumus
quod exinde pandum aliquis ad partem palatii nostri persolvat_[408].

Ora — si badi bene — una cura vigile delle cloache e delle piazze
cittadine, di per sè stessa poco consona all'organizzazione statuale
barbarica, non si può assolutamente concepire staccata da quel sistema
delle angarie che, se ebbe una consistenza giuridica speciale nel
sistema feudale, ebbe una applicazione non meno estesa nel precedente
sistema barbarico. Perchè dei bisogni locali fossero soddisfatti dallo
Stato senza un contributo specifico, destinato ad un particolare scopo,
degli individui che ne erano avvantaggiati, ci voleva un paese nel
quale fosse viva e forte la concezione dello Stato come un ente saldo
ed omogeneo personificante l'insieme di tutti i cittadini. E questo
paese, anche se la legge non lo dichiarasse in modo esplicito, non
poteva esser che l'Italia. E la cosa è resa ancor più notevole dal
fatto che tale tradizione appare non nei primi tempi della conquista
langobarda, ciò che avrebbe potuto non recar meraviglia, ma quando essa
è sostituita da quella franca. Dal confronto del documento veronese
con il capitolare ora ricordato appare indiscutibile la partecipazione
diretta, a spese proprie, dello Stato ad opere di pubblica utilità
e necessità; partecipazione non sporadica e saltuaria, ma generale
e sistematica, che i re franchi non avrebbero, non saprei dire se
piuttosto subita o accolta, se una speciale condizione di cose non ve
li avesse costretti. Nessun altro capitolare, infatti, parla mai di
simile contribuzione da parte dello Stato.

E anche questo elemento ebbe la sua importanza per la costituzione
delle nostre città. L'autorità pubblica, che con il rapido e
progressivo decadere del potere centrale, si avviava al sistema
feudale; costretta a supplire con mezzi propri alle necessità della
difesa, rese sempre più impellenti dalle invasioni ognor più frequenti
e minacciose, fu tratta fatalmente ad affidare tale onere (che le
tristi condizioni della sua finanza e la debolezza dei suoi organi
non le permettevano di sostenere) alle energie locali. Ma queste,
giuridicamente non obbligate affatto o solo in parte, non vi si
sobbarcarono che verso congrue concessioni che diminuirono sempre più
la forza del governo centrale e dei suoi rappresentanti sulle città
e le avviarono vigorosamente, attraverso al governo, notoriamente
mite, dei vescovi, alla completa autonomia. I _cives_, infatti, erano
anch'essi obbligati a contribuire, come abbiamo veduto a Verona, per
una certa parte, e questo conferma anche per un altro lato l'ipotesi
accennata or ora che, per rendere loro possibile di soddisfare a tali
oneri fossero rilasciati alle città alcuni beni, anche quando, sotto
il gastaldo, dipendevano direttamente dal re. La discordia ben nota,
fra i duchi ed i gastaldi, fomentata dalle guerre intestine e dalle
dissensioni fra il partito nazionalista e quello romanizzante, non fu
nè la sola nè la principale causa per la quale, istigati e sorretti
dal duca desideroso di abbattere la concorrente autorità del gastaldo
— specialmente quando l'uno e l'altro coesistevano nella stessa città —
i cittadini diminuirono sempre più la facoltà del gastaldo e del re sui
beni pubblici.

E da questo stato di cose derivò anche un'altra conseguenza. Quando
l'elemento cittadino riprese vita e vigore, non si accontentò di un
diritto di uso su quei beni, ma ne pretese la piena proprietà perchè ed
in quanto considerò l'uso fino ad allora fattone non come un diritto
in sè stesso finito, ma come la manifestazione esterna di un vero
e proprio diritto di proprietà, capace di escludere ogni ingerenza
dell'autorità pubblica.

Non è soltanto a Verona che si vede l'insieme dei cittadini ben
distinto dalla Chiesa e dalla _pars publica_.

Lo stesso è a Cremona.

Cremona resistè molti anni all'invasione langobarda, finchè nel 603
Agilulfo, che ne temeva grave pericolo per la vicinanza alla capitale
mosse contro di essa, la conquistò e ne divise il territorio fra la
_curtis regia_ di Sospiro ed il ducato di Brescia[409]. E ciò per non
disturbare i potenti duchi di Bergamo e di Brescia i quali fin dal
momento dell'invasione avevano occupato gran parte del territorio di
Cremona[410]. La città in breve risorse, favorita dalla sua felice
condizione topografica; tanto che la troviamo ricordata nel famoso
patto del 730 fra Liutprando e i militi comaclensi[411].

Mentre verso la metà del secolo nono Lodovico teneva il suo placito
generale in Pavia comparvero Rothecario, Dodilo, Gudiberto _et
ceteri habitatores de civitate Cremona_ e proclamarono che il vescovo
aveva fatto loro grandi ed ingiuste violenze riguardo alle loro navi
costringendoli a pagare «ripaticum, palificturam seu pastum» (sono le
imposizioni del patto del 730) che nè loro nè i loro parenti avevan mai
pagato.

L'imperatore mandò a Cremona il suo consigliere Teodorico, al ritorno
del quale si tenne un nuovo placito; ma essendo apparso insufficiente
il materiale di prova, si rimise la decisione della controversia ad
un successivo placito che fu tenuto dallo stesso Teodorico «in domo
ecclesiae» di Cremona nell'852[412]. Vennero di nuovo i sopradetti
_habitatores cum reliquis habitatoribus de ipsa civitate_ confermando
le primitive accuse che il vescovo ingiustamente li costringeva agli
stessi obblighi dei militi comaclensi. Ad essi il vescovo, dopo aver
detto che a lui la _palifictura_ e il ripatico spettavano di diritto
«iuxta istud pactum quod Dominus b. m. Karolus inperator confirmavit»,
produsse idonei testimoni i quali provarono che quegli uomini che
agivano «de ipso porto» contro la chiesa, _nec ipsi nec parentes sui
naves habuerunt nisi tempore Pancoardi et Benedicti episcopi_ e che
fino ad allora avevano portato il sale da Comacchio comuniter con i
militi comaclensi e _comuniter ripaticum et palificturam dabant_ PARTI
REGIE _et_ ECCLESIE CREMONENSI; e che anche dopo che negli ultimi
trent'anni cominciarono a commerciare con navi proprie da Comacchio,
davano il ripatico e la palifittura. E la deposizione di questi
testimoni fu così completa e convincente che Teodorico, dopo aver
sentito dal gastaldo e dall'avvocato della regia corte di Sospiro che
la corte stessa non aveva da accampare alcun diritto, giudicò che «ipsi
homines ripaticum vel palificturam de suis navibus iuxta ipsum pactum
de antea dare deberent».

Da questo documento si vede come la vita cittadina cominciasse
veramente a svolgersi a Cremona nei primi anni del secolo nono e
che solo allora i cremonesi cominciarono a possedere navi proprie
ed esercitare da sè stessi il commercio e ad affacciare pretese di
indipendenza economica. Prima di allora il complesso della cittadinanza
era ben distinta dalla Chiesa e dalla parte pubblica, ma formava un
complesso incolore, incapace, a quanto pare, di possedere in proprio:
almeno se stiamo a quel che si dice delle navi.

Nè quest'affermazione è in opposizione con quanto sono venuto esponendo
rispetto alla personalità giuridica della città; perchè accadde alle
nostre città quello che era avvenuto in Roma ai _collegia tenuiorum_,
i quali furono riconosciuti come capaci di diritto, quantunque i loro
membri, singolarmente presi, non fossero soggetti di diritto, per
ragioni fiscali e di opportunità amministrativa.

Di fronte alla fiacchezza congenita dello Stato barbarico, resa più
grave dall'indebolimento proprio e caratteristico del periodo feudale;
fra due grandi forze della società: lo Stato e la Chiesa; la vittoria
doveva fatalmente arridere a quest'ultima, ricca di donazioni recenti
e sempre più numerose: forte di antiche, care e solide tradizioni
rinvigorite dallo spirito di romanità; centro non unico ma prevalente
della cultura; salda in una organizzazione temprata dalle lunghe
traversie.

Erano ecclesiastici i due _exceptores_ di Pavia e di Piacenza e così a
Verona come a Cremona aveva arriso alla Chiesa l'esito del giudizio.
E in qualche luogo essa giunse a coprire con un suo membro anche
quell'ufficio di _curator_ di così certa derivazione romana e di così
incerta determinazione nel medio evo: a Lucca in un documento del 740
troviamo _Gaudentium presbitero in christo pater curator nostro_[413].

Alla Chiesa, dunque, prima che allo Stato è da rivolgere l'attenzione.


§ 7. — La religione cristiana ha esercitato sullo sviluppo della nostra
civiltà un'influenza vasta e complessa che, considerata da un punto
di vista generale e d'insieme, si comprende nell'espressione generica
di azione della Chiesa; però gli elementi, di cui tale azione resulta,
sono così ingenti per numero e così differenti per origine, per natura,
per sviluppo e per intensità, che è indispensabile una specificazione;
e questa specificazione deve esser consona alla natura speciale
dell'indagine presente.

Avendo per scopo lo studio della costituzione delle nostre città,
è ovvio che ci si deve occupare dell'azione della Chiesa in tanto
ed in quanto ha rapporto con essa; e, quindi, si deve stabilire
fra le varie manifestazioni del fenomeno religioso una gradazione
di importanza, per cui dalle forme di contatto più immediato e di
azione più diretta si scenda alle ultime e più remote ripercussioni
del sentimento religioso[414]. Siccome la Chiesa, oltre che come un
unico grande corpo, si può considerare anche come la resultante della
unione dei varî centri locali che la compongono; e questi, in quanto
costituiscono l'organo intermediario fra quella ed i proprî fedeli,
sono, per necessità, in continuo contatto con quei centri locali: è
evidente che nel caso nostro il primo e principale istituto da studiare
è quello con il quale la Chiesa si organizzò nella città e, cioè, la
chiesa cittadina; e che si deve individuarlo ed esaminarlo di contro
e di preferenza ad ogni altro. Inoltre, poichè questa indagine mira a
valutare quale sia stata l'azione esercitata dalla Chiesa nel periodo
langobardo-franco, deve basarsi, come punto di partenza e di paragone,
sulla conoscenza di tale azione nel periodo anteriore: e questa
conoscenza, alla sua volta, deve esser raggiunta esaminando come la
Chiesa si è stabilita ed organizzata nella città e quali conseguenze ne
sono derivate in rapporto alla vita cittadina.

A risalire fino ai più antichi tempi ed a condurre l'indagine con
questo criterio induce anche un'altra considerazione.

La Chiesa primitiva per rendere più rapida e proficua la propaganda
e più salda l'organizzazione, ebbe gran cura di adattarsi il più
possibile ai gusti, alle tendenze, ai costumi, alle usanze dei singoli
luoghi e concesse ampia facoltà ai vescovi di adottare le formule ed i
riti ritenuti più consoni alle varie popolazioni, lasciandoli arbitri
di giudicare fino a qual punto questa che in alcuni casi, giunse ad
esser piuttosto indipendenza che autonomia, fosse compatibile con
l'unità dogmatica indispensabile alla Chiesa[415]. Solo dopo la metà
del secolo quinto si comincia ad avvertire una qualche tendenza ad
una unificazione specialmente nella Gallia[416] e nella Spagna[417];
ma in maniera così blanda, che non si andò più in là di un semplice
coordinamento della dottrina e degli usi nell'ambito ristretto dei
varî concilî sinodali e metropolitani. Oltre le grandi differenze
che distinguono la chiesa latina da quella greca[418]; differenze
notevoli si riscontrano fra le varie chiese componenti la prima e
cioè l'italiana, la gallica e la spagnuola[419]; ed altre tutt'altro
che insignificanti si riscontrano pure fra i varî centri di ciascuna
di esse. Nella nostra Italia, dove traccie numerose attestano la
forza delle prische razze italiche, il lungo perdurare delle loro
tradizioni[420] e il vigore del loro diritto[421]; nella nostra Italia,
la terra classica delle città, questa varietà di liturgia, e non di
liturgia soltanto, si manifestò più fortemente e persistè più a lungo
che in ogni altro paese.

Fra i numerosi _ordines officiorum_, che si cominciarono a raccogliere
nelle cattedrali delle varie città dopo la lotta contro la simonia
e per le investiture e che rappresentano una tendenza decisa verso
l'unificazione generale; tendenza che fu accentuata e vittoriosa
solo con Innocenzo III; fra questi _ordines officiorum_, dico, si
riscontrano differenze profonde. E la cosa è tanto più notevole in
quanto la diversità non appare soltanto fra i riti maggiori e più
noti quali quello romano[422], l'ambrosiano[423], il ravennate[424],
e, magari, l'eusebiano dovuto in gran parte al noto vescovo
vercellese del secolo IV[425]; ma anche fra tutti gli altri: la
chiesa fiorentina[426] mostra una liturgia ben differente da quella
senese[427], come da quella pisana[428], dalla lucchese[429], dalla
pistoiese[430] etc.; come quella piacentina[431] non si confonde
affatto con la parmense[432] o la modenese[433] o la bolognese[434]
o la padovana[435]. E così via. Ogni chiesa, per quanto fedele figlia
di Roma e di professione ortodossa, ha riti e liturgie speciali tanto
che nemmeno il concilio tridentino (che pure snaturò e capovolse
tante istituzioni della Chiesa e volle ridurla ad assetto organico ed
omogeneo) riuscì a rimuoverle del tutto.

Ora queste differenze non si sarebbero mantenute tanto a lungo se non
avessero risposto ad un'esigenza speciale dei luoghi e dei tempi; e
non si sarebbero tenacemente radicate se non fossero state sinceramente
sentite e fortemente volute. Siccome la Chiesa, in quanto proveniente
da un'unica origine, ha dovuto avere in ogni tempo cura o almeno,
tendenza precipua della sua unità di fede e di culto, è logico pensare
che dove questa unità appare rotta od attenuata, ciò dipenda non da
arbitrarî mutamenti dovuti a quella parte dell'elemento locale che
costituiva per il suo carattere l'organo della Chiesa centrale, cioè,
del clero; ma da infiltrazioni eterogenee e cioè laiche da quello
dovute subire o che il clero credette bene di accogliere. Dimostrare
che tali deviazioni si manifestano da per tutto e differenti da luogo a
luogo, significa dimostrare che non si trovavano in contraddizione col
dogma e che cooperavano validamente alla sua diffusione e, cioè, che
la organizzazione primitiva della Chiesa fu tale che comportò, se non
resultò a dirittura di elementi particolaristici, tenuti insieme da un
certo numero di vincoli e di legami generali.

Rilevare ed esaminare questo aspetto della costituzione della
Chiesa riguardo alla città significa conoscere una delle principali
istituzioni della città stessa[436]. Le differenze di liturgia erano
la conseguenza di concessioni destinate a soddisfare particolari e
speciali esigenze che provenivano da differenze non già dogmatiche, ma
etniche e territoriali, tanto più forti e, quindi, tanto più importanti
quanto più a lungo si sono mantenute. Erano una manifestazione
ed una conseguenza di differenze di natura laica e, perciò, un
esame comparativo di esse può condurre a rilevare se e quanto del
particolarismo, a tutti noto, delle nostre città nell'epoca comunale
risalga nel tempo e può condurre ad offrire un termine di confronto per
vedere e giudicare i mutamenti e le innovazioni prodottesi nel corso
dei secoli. Si intravede così, se non m'inganno, qualche cosa (se non
pure un vero e proprio lato) di quella corrente oscura ma innegabile
che ha fluito ininterrotta dalla repubblica di Roma alle repubbliche
d'Italia e per esse, che dello Stato moderno posero le prime basi,
al tempo nostro: corrente che ha congiunto queste a quella senza
che lo splendore dell'Urbe spengesse o assorbisse ogni personalità
delle altre città, le quali, invece, nel compenetrarsi di essa hanno
trovato la forza ed il mezzo per conservare la parte più intima e più
caratteristica di sè medesime.

L'unità di misura e di base delle istituzioni della Chiesa fu la
pieve. Il primo punto, da determinare è la consistenza e la natura
dell'istituzione civile su cui la pieve s'insediò perchè solo in
tal modo si può pervenire a determinare quale è stata l'azione della
Chiesa, così rispetto al tempo romano, come a quello successivo.

Già si è avuto occasione di rilevare che la pieve della città comprende
la città ed il suburbio e che corrisponde in modo perfetto alla
circoscrizione civile: per determinare quanta parte di tale coincidenza
è dovuta alla Chiesa, è necessaria un'indagine relativamente ampia
dell'istituzione su cui la Chiesa si adagiò e, cioè, del pago. Si
avrà così anche il vantaggio di conoscerla non soltanto nella sua
costituzione interna, ma anche nei rispetti e nei rapporti con le pievi
rurali che la circondano e di avere un punto fisso onde giudicare se
e quanto degli istituti anteriori all'invasione langobarda, si sia
conservato per opera della Chiesa.

Il pago ebbe una costituzione saldissima, a formare la quale hanno
cooperato tre fattori: quello economico, quello civile e quello
religioso, ognuno dei quali deve esser esaminato a parte.

Cominciamo da quello economico.

Il re Astolfo con un diploma dell'anno 753 fece ai monaci di Nonantola
questa concessione: «in quibuscumque comitatis vel locis cellas
acquisiveritis aut _villas ubi silve communes sunt_, vestram semper
portionem habere[437]».

Al suo tempo, dunque, il regno era costituito da comitatus divisi
in _loci_, suddivisi in _ville_ e _celle_[438] e a queste ultime
(celle e ville) potevano spettare delle selve, dei beni comuni. E
questi diritti spettavano loro per un diritto di natura pubblica,
perchè la concessione, in sostanza, è una limitazione che l'autorità
regia stabilisce ed impone all'esercizio normale e giuridico (non già
arbitrario) del proprio potere e questo non può esplicarsi che nel
campo del diritto pubblico[439].

Per precisare meglio la posizione giuridica dei beni comuni di queste
minime circoscrizioni territoriali, occorre scendere per un momento
a documenti molto posteriori per poi valersi di altri anteriori che
da questi sono completati, mentre, alla lor volta, contribuiscono
validamente a illuminare i primi.

In un documento lombardo del 1201 si vedono esistere sino da
antichissimo tempo varî pascoli e _vicanalia_ nel _loco_ Veliate[440].
_Vicanalia_ in tutta l'Italia langobarda sono detti i beni comuni
dei _vici_, compresi nelle loro circoscrizioni territoriali e ad essi
spettanti[441]: dunque in un solo _locus_ si trovavano più _vici_ e
ciascuno di essi aveva pascoli e beni comuni distinti e separati da
quelli di tutti gli altri _vici_ e — si può aggiungere — anche da
quelli del _locus_ stesso considerato nel suo complesso. Infatti fra
le consuetudini di Milano ce ne è una[442] che distingue i beni comuni
dei loci del distretto in _communia_ e _vicanalia_ e li distingue
in modo che appare chiaro che i _communia_ sono dei _vicanalia_
sui quali il signore di tutto il distretto — _dominus cui est totum
districtum_ — ha una facoltà così estesa che in caso di vendita ha
diritto alla metà del prezzo ricavatone. Questo _dominus_, in sostanza,
è il rappresentante, la personificazione della giurisdizione del
distretto[443] e siccome questo distretto è costituito dal _locus_,
i _communia_ si trovano rispetto al _locus_ in un rapporto nel quale
non si trovano i _vicanalia_. E poichè nella consistenza di fatto sono
identici, come è dimostrato dalla consuetudine stessa che a proposito
di _communia_ parla del prezzo di «illarum omnium _viganalium_»; la
differenza fra essi è costituita dalla presenza o meno di un rapporto
diretto col _locus_[444]. Infatti tanto nell'un caso come nell'altro la
partecipazione e la presenza simultanea dei _domini_ e dei _vicini_ al
ricavato della vendita delle terre comuni o dei loro frutti, assicura
che ci troviamo fuori da rapporti d'indole e di natura privata. Ma
nel caso della vendita di _vicanalia_ tutti i comunisti partecipano
con eguali facoltà e nella medesima proporzione; mentre invece se si
tratta di _communia_, il _dominus_, in quanto è investito di facoltà
giurisdizionali sul distretto intiero, ha diritto alla metà del
ricavato totale ed in quanto, poi, è comunista ossia possiede delle
terre partecipa alla distribuzione della metà che rimane in proporzione
delle terre stesse: «_partem accipit pro parte terrarum quam in ipso
loco habet_».

I _vicanalia_ sono beni destinati agli abitanti del vico per sopperire
alle necessità proprie di ogni centro abitato in periodo economico di
livello molto basso; prevale in essi la considerazione dell'elemento
personale e, quindi, su di essi hanno indistintamente eguali diritti
tutti coloro che abitano nel vico, sieno essi _domini_ o semplici
_vicini_. Invece i _communia_ non sopperiscono ai bisogni delle
persone ma a quelli dei fondi e la loro funzione è di completare
l'ossatura economica del _locus_ nei rispetti delle terre lavorative
che lo compongono, le quali necessitano di altre terre che ne formano
il complemento indispensabile. Su queste terre comuni a più fondi,
i vicani hanno diritto solo se possessori dei fondi stessi ed in
proporzione della loro entità. Ed inoltre, siccome i _communia_ sono
beni comuni per un rapporto di diritto pubblico che li distingue
in modo assoluto dalle comunioni di terre originate dall'eventuale
incontro di volontà di due o più proprietarî; colui che dell'autorità
pubblica è il rappresentante nel distretto, ha su questi beni una
facoltà preminente ed assoluta che in caso di vendita è valutata
economicamente alla metà del ricavato totale.

In un tempo in cui l'economia naturale predomina dappertutto;
nessun'altra base per l'esercizio delle funzioni militari e politiche
e amministrative tornava possibile e nessun'altra sarebbe stata più
solida e appropriata del possesso della terra. Per questo ogni capo
ottiene grandi possessi. Però accanto a questi possessi che alimentano
l'economia privata di coloro che sono investiti dell'esercizio di
pubbliche funzioni[445], si hanno, sempre all'identico scopo di
sostenere le funzioni stesse, altre facoltà sui beni comuni alle terre
che formano ciascun distretto. E si conosce anche l'entità di queste
facoltà. Se al _dominus_ (come ci attesta il Libro delle consuetudini
milanesi) in quanto _dominus_ spettava la metà dell'intiero ricavato
della vendita di un bene comune, la sua autorità doveva valere in
eguale proporzione anche nella deliberazione da cui la vendita traeva
origine, perchè la vendita non è che la conseguenza e la manifestazione
esterna di un atto volitivo, a formare il quale hanno cooperato le
varie volontà aventi diritto su quel bene comune.

La stessa distinzione fra _communi_ e _vigano_[446], fra _communantiae_
e _viganalia_[447], si trova in documenti anteriori all'epoca in cui le
consuetudini milanesi sono state raccolte[448] e si conserva inalterata
negli statuti posteriori[449].

E la continuazione ininterrotta da tempo remotissimo è provata dal
sussistere di nomi della bassa latinità e perfino del parlare comune e
volgare.

Un documento laudense del mille[450], per esempio, parla di_
vicanalibus atque conciliis_. Che i _concilia_ sieno qui rispetto
al _vicanalia_ quello che nei documenti ricordati or ora sono i
_vicanalia_ rispetto ai _communia_, non mi pare si possa negare.
Prima di tutto resulta dal contesto e poi, in ogni modo, l'atto
aggiunge subito dopo: «cum _ecclesiis_ et _capellis_», mettendo in
correlazione evidente l'_ecclesiae_ con i _vicanalia_ e le _capellae_
con i _concilia_; ed il termine _ecclesia_, — ne ha data da più di
un secolo completa dimostrazione il nostro vecchio e bravo Lupi — di
regola indica esclusivamente le pievi, delle quali se ne aveva una
per ogni capoluogo[451] di fronte agli oratorî e alle cappelle private
liberamente sparse per il pago.

Nè si hanno _concilia_ solo a Lodi: si sa di _concelibus locis_ a
Gravedona[452] e nel Canton Ticino[453], di _concilibus locas_ sul
Lago Maggiore[454] e a Bergamo[455], di _concilibus locis_ in quel di
Como[456]. E se ne possono trovare anche altri esempi; mentre io mi
limito a quel tanto che mi sembra sufficiente a dimostrare che il fatto
è generale.

Ma non c'erano soltanto terre pertinenti ad un solo _concilium_:
ce ne erano anche di pertinenti a più _concilia_ insieme e che si
chiamavano _interconciliaricia_; e come i varî _concilia_ facevano
capo al _vicus_; così questi beni erano _interconciliaricia_ rispetto
ai _concilia_, ma _communia_ rispetto al vico, il quale costituiva una
circoscrizione maggiore ed unitaria che li comprendeva ed univa tutti.
_Interconciliaricia_ è una parola sicuramente e genuinamente romana
e, quindi, lascia supporre che anche l'altra parola _concilia_ sia
un'antica parola romana o volgare, accolta dai compilatori dell'Editto
langobardo, perchè già in uso nella pratica. Rotari, infatti, distingue
nettamente il _concilium_ dal _vicus_: ambedue sono rustici, ma il
primo, distinto anche topograficamente dal secondo, è considerato come
l'infima suddivisione dello Stato e composta di elementi servili[457].
Del resto a confermare che l'antica ossatura romana rimase inalterata,
si può fare anche un'altra considerazione. Il sistema dell'agricoltura
non muta dall'epoca romana nella successiva[458] e, quindi, è
presumibile che nemmeno la parte dell'organizzazione dei _vici_
relativa ad essa abbia subito modificazioni.

Aggruppati nel respettivo pago questi _vici_ formavano, insieme con le
minori suddivisioni nelle quali si frazionavano, dei complessi omogenei
ed organici. Siculo Flacco attesta che della _munitio_ delle vie
vicinali erano incaricati i _magistri pagorum_, i quali dovevano curare
la prestazione delle opere necessarie da parte dei possessori[459] ed
avevano anche altri ufficî, conservati loro dalle leggi teodosiane e
giustinianee e dalla consuetudine[460], che mostrano chiaramente che il
pago ed i suoi _magistri_ erano il centro ed il perno dei varî _vici_
di cui esso è composto, e che tale condizione di cose si è mantenuta
per secoli e secoli con modificazioni scarse e minime.

Per quanto cautamente si proceda non si riesce a trovare una differenza
fra le disposizioni delle fonti romane e quelle del secondo capitolo
mantovano generale con cui Carlo Magno si duole che per la dolosa
complicità dei _magistri_ (consentientibus magistris), alcuni
riescano a sottrarsi all'obbligo della restaurazione della chiesa
battesimale[461]. Quest'obbligo dalle più vetuste fonti è ricordato
sempre insieme con quello della restaurazione delle strade, dei ponti
e delle mura ed insieme con esso — come abbiamo veduto — è sempre
qualificato come _antiqua consuetudo_[462]; ciò che ci assicura che il
sistema non è stato importato dai Franchi e ci spinge, anche per questo
lato, a ricercare la riconnessione dell'onere verso la chiesa con
l'onere verso lo Stato nel tempo romano ed a rilevare fino da ora la
posizione subordinata che in questa opera di conservazione s'intravede
aver avuto la Chiesa.

E ciò si vedrà ancor meglio continuando l'individuazione del pago dal
lato religioso.

Il pago romano aveva _feriae_ speciali che traevano origine dalla sua
natura economica e corrispondevano alla sua costituzione civile[463].
Un solo tempio — _compitum_ — serviva a tutti gli abitanti, i quali,
uniti nei _sacra_ che si facevano nei crocevia in onore dei Lari e
nelle varie lustrazioni con le quali si invocava dalla divinità che le
messi e le sementi granissero — _ambarvalia_ — e crescessero — _feriae
sementivae_ —[464] erano ancor maggiormente stretti fra loro da una
processione che girava torno torno ai confini e ne faceva annualmente
così esatta ricognizione che oltre a fornir materia ai poeti[465], se
ne potevano valere agrimensori e giuristi[466].

I medesimi bisogni, lo stesso timore di eguali pericoli, la medesima
speranza in un soccorso divino[467], per la nota adattabilità della
Chiesa cristiana, fecero sì che i riti della nuova religione fossero
quanto mai simili a quelli dell'antica: la _plebs_ al posto del
_compitum_; chiamati i fedeli dal caro e ben noto suono delle stesse
campane che avevano chiamato a quello i gentili[468]; accolte per la
maggior parte le vecchie usanze dalla mietitura alla vendemmia[469];
sostituito il contenuto (e non tutto) ma non la forma dei canti
lustrali con le litanie, suppliche solenni, in forma dialogata,
appositamente adottate, per invocare la protezione divina sopra i
beni della terra, che si recitavano nelle stesse epoche percorrendo
gli stessi itinerarî che per secoli avevano percorso le lustrazioni,
attraverso gli stessi vici e gli stessi campi nei _pagi_ rustici;
uscendo e rientrando per le stesse porte e passando per le stesse vie
e per gli stessi crocicchi nel pago cittadino al quale, superato lo
stadio primitivo in cui la città coltivava divinità diverse e superiori
a quelle del suburbio, fu aggregato anche il pago suburbano[470]. E
come la _lustratio_ e le altre funzioni del culto particolare della
città erano affidate ai _Flamines_[471], mentre nei più larghi confini
a cui giungeva l'autorità della magistratura cittadina, ogni incombenza
di culto spettava al _Sacerdos_; così il vescovo, capo della diocesi,
è indicato paganamente col nome di _sacerdos_[472] e, accanto a lui,
è, non meno romanamente, qualificato come _municipalis_ — al pari
dell'antico flamine — l'arciprete che è preposto agli abitanti della
città e del suburbio[473].

Il cristianesimo continuò la stessa precisa via del paganesimo e
cementò e rafforzò sempre più la preesistente e persistente unità
del pago. Fu suo principio assoluto che non vi potesse essere che
una sola pieve in una medesima circoscrizione plebana: _plures
ecclesiae baptismales in una terminatione esse non possunt_[474];
che non si potessero frazionare le diocesi primitive altro che in
caso di necessità evidente riconosciuta ed in ogni modo e sempre
con le maggiori cautele; nè si potessero ridurre pievi a semplici
cappelle[475], nè creare nuove pievi, quantunque normalmente si
trovassero a molta distanza fra loro[476].

Le pievi furono erette nel capoluogo dei singoli _pagi_, di cui
constava ogni _civitas_ e ad esse accorrevano i fedeli di tutti i
_vici_ circostanti e delle _villae_ pertinenti al pago stesso per
partecipare nei giorni stabiliti alla sacra sinassi e prender parte
agli uffici divini[477]. Verso la fine del quarto secolo e ancor più in
seguito, furono costruite nella maggior parte dei _vici_ del pago altre
piccole chiese, oltre che nelle ville e nei fondi dei ricchi; ma furono
soggette alle chiese più antiche del territorio ove si trovavano[478].

Come al capoluogo del _pagus_ erano soggetti civilmente i _vici_,
i _castra_ e le _villae_, di cui constava; così le _basilicae_ e
gli _oratoria_ compresi nella circoscrizione delle singole pievi,
furono messi alla dipendenza rigida e diretta dell'_ecclesia_ matrice
e dell'arciprete che ne era a capo; ed i confini ecclesiastici
coincidettero perfettamente con quelli civili in tutta l'Italia[479].

La città per questo lato, s'inquadra nelle stesse linee generali. Al
pari di ogni pago ebbe (come si è veduto nei primi paragrafi di questa
seconda parte) il suo territorio — _territorium civitatis_ —[480] che
per la sua posizione (_sub urbe_) fu indicato col nome di suburbio,
separato dal contado e comprendente le sue terre ed i suoi beni comuni,
ben distinti dalle altre terre pubbliche e private e costituì un
organismo in sè stesso finito e capace di sopperire quasi completamente
a sè stesso.

La cattedrale era la sua pieve, nella quale risiedeva con il
vescovo anche l'arciprete[481] e che era la pieve della città per
eccellenza: _plebs civitatis_[482], _plebs de civitate_[483], _plebs
brixiana_[484], _plebs, ecclesia mediolanensis_[485], etc. e la
matrice di tutte le altre chiese che si trovavano nella città e nel
suburbio. Ad essa sola spettava conferire il battesimo, amministrare i
sacramenti, celebrare la sacra sinassi, convocare la popolazione alla
celebrazione dei divini ufficî e ricevere le oblazioni dei fedeli[486].
Nelle grandi solennità di Natale, della Pentecoste, della Pasqua
e dell'Ascensione alla chiesa della città dovevano recarsi tutti i
fedeli della diocesi[487] perchè vi si trovava il vescovo che era capo
spirituale di tutti: ma in tutto il resto dell'anno, essa funzionava
come una qualunque pieve e godeva di eguali prerogative.

Era obbligatorio in modo assoluto per tutti coloro che abitavano nella
città e nel suburbio di assistere ai divini ufficî nella cattedrale
perchè soltanto ad essa si doveva convenire — _legiptimus est ordinatus
conventus_[488] — così come dopo morti non potevano essere seppelliti
in altro cimitero che in quello della cattedrale. Entro la città
erano altre chiese ed oratorî; ma lettere e decisioni di papi, rituali
antichissimi, canoni di concilî e documenti varî[489] attestano tutti
unitamente che non vi si potevano celebrare messe, nè amministrare il
battesimo, nè fare le vigilie negli anniversari dei santi. Neanche
il vescovo, nonchè concedere l'autorizzazione ad un prete, poteva
dir messa in un oratorio[490]: si arrivava fino al punto di ritenere
che fosse meglio non ascoltare e non celebrare la messa piuttosto che
celebrare o assistere al sacrificio divino fuori della pieve[491]; anzi
della propria pieve, perchè l'obbligo era tanto rigoroso che prima di
incominciare le funzioni l'officiante doveva domandare ai fedeli se fra
di loro ve ne fosse alcuno appartenente ad altra pieve e la ragione per
cui aveva abbandonato il suo pastore[492].

Il pago suburbano si trovava rispetto alla città nello stesso rapporto
che il territorio di ogni pago rurale rispetto al proprio capoluogo.
Però se la natura del rapporto di soggezione sostanzialmente non
differiva, non si poteva dire altrettanto dei due termini del rapporto
stesso, perchè nel suo contenuto intrinseco, nè alla città può essere
equiparato il centro rurale, nè al suburbio di quella il territorio
di questo. La città, infatti, giunge ad esistere solo quando il
nucleo originario ha raggiunto un certo numero di elementi naturali,
artificiali e giuridici di cui i centri rurali sono privi e la sua
consistenza di centro urbano si assoda col differenziarsi da essi:
allora essa lega a sè con vincolo diretto una quantità determinata
dal territorio che la circonda e l'assoggetta al regime giuridico
più conveniente al proprio sviluppo; ciò che fa nascere una nuova
differenziazione fra questo ed il rimanente territorio soggetto alla
città. Abbiamo vedute alcune delle caratteristiche giuridiche così del
centro murato come dei _mille passus_ e dei loro rapporti scambievoli:
vedremo ora le ulteriori conseguenze che da tale stato di fatto e
di diritto derivano, così per la natura speciale della pieve come
per l'intima connessione delle istituzioni ecclesiastiche con quelle
civili.

Verso la fine del secolo ottavo cominciano ad apparire i primi segni di
due fenomeni, l'uno sostanzialmente economico, l'altro prevalentemente
religioso, che per vie diverse iniziarono un movimento simultaneo e
convergente il quale nella pieve cittadina, e soltanto in essa, ruppe
la coincidenza delle circoscrizioni ecclesiastiche con quelle civili
e allargò le prime, lasciando le seconde immutate, a tutto vantaggio
dei vescovi, ai quali fornì il primo e principale coefficiente
per ottenere dall'autorità pubblica quelle ingenti concessioni di
territorio suburbano, che caratterizzano l'inizio e il primo periodo
della loro signoria: concessioni che, nella loro generalità, furono
il riconoscimento giuridico pubblico di uno stato di fatto che già
esisteva e che non fu punto creato da esse; che segnarono il momento
forse più appariscente, ma non certo costitutivo, di un fenomeno
maturatosi indipendentemente da ogni azione diretta del potere regio ed
imperiale.

Il risveglio economico generale, di cui appare qualche barlume negli
ultimi tempi langobardi e che si accentua sempre più in seguito,
specialmente lungo la grande arteria padana, si manifestò anche nel
territorio rurale dove l'aumento di popolazione prodottosi nelle città,
centro prevalente degli scambi, rese necessario un aumento dei mezzi
di sussistenza, per produrre il quale fu messa a coltura una quantità
di terre sempre maggiore, scelta di preferenza entro e vicino alle
città. E poichè le disponibilità offerte dal territorio suburbano erano
minori che altrove, perchè, appunto per la sua vicinanza alla città,
non era mai stato disertato del tutto di lavoratori, si mise mano non
di rado a lavorare anche le terre comuni e, fra queste, talvolta, anche
quelle pubbliche, le quali, per l'esigenza delle necessità sociali cui
dovevano soddisfare, si trovavano a non molta distanza dalle mura[493].

Su queste zone, così guadagnate alla coltura, i vescovi, forti
dell'appoggio delle leggi franche, non mancarono di imporre una decima,
la quale in vista e ragione dei beni, fino ad allora nuovi all'opera
agricola, fu appunto, chiamata _decima novalium_.

E questa decima speciale ci servirà appunto di strumento d'indagine per
rintracciare la speciale condizione del territorio suburbano; così come
l'istituto generale della decima ci ha servito a rilevare il quadro
generale dei rapporti fra le divisioni territoriali dello Stato e
quelle della Chiesa.

Con la riscossione della _decima novalium_ non si iniziò una vera e
propria trasformazione giuridica: quelle terre incolte, sia private
che pubbliche, pertinevano alla città: i frutti che di esse si dovevano
alla chiesa, spettavano, quindi, alla chiesa della città e, per essa,
al vescovo che ne era a capo. Ma ciò nonostante — senza fermarci ora
a considerare l'aumento di importanza e di forza che questo aumento
di redditi conferiva al vescovo di fronte alla immutata e quindi, in
confronto, diminuita condizione del rappresentante del potere pubblico
entro la città — merita di esser rilevato un fatto. Prima il territorio
parrocchiale di decimazione corrispondeva in modo perfetto al suburbio,
e, perciò, siccome questo si distingueva dalle terre pubbliche e
comuni, anche se comprese entro il suo perimetro, anch'esso se ne
era distinto. Ora l'antica armonia delle divisioni ecclesiastiche con
quelle civili cominciò ad esser turbata a danno di quest'ultime, le
quali per di più furono sorpassate, dalla Chiesa anche per un altra
via.

Il forte sentimento religioso dell'epoca — troppo noto perchè occorra
anche solo accennarne le prove — produsse, insieme con le frequenti
fondazioni di oratorî e di cappelle, altrettante donazioni di terre
per il loro mantenimento. Di tali chiese, numerose da per tutto, non
poche furono costruite anche vicino alle città. In questo caso poteva
avvenire che i fondi donati all'oratorio fossero tutti situati entro
il suburbio e si estendessero solo _usque ad suburbii fines_[494]; ma
più frequentemente avveniva che se ne spingessero al di fuori. Allora,
siccome facevano capo all'oratorio e questo — per la decima — alla
città; quest'ultima, prevalente sulla chiesa rurale per la superiore
autorità del vescovo di fronte a quella dell'arciprete, di tanto estese
i suoi confini di decimazione a detrimento di quella di quanto spazio
tali terre occupavano entro i suoi confini. Si aggiunga che non di
rado simili fondazioni e dotazioni erano dovute a gruppi, relativamente
numerosi, di persone che si riunivano a questo scopo[495]. La quantità
delle terre donate, allora, era anche maggiore e la loro estensione
più ampia: erano germi fecondi di nuovi centri imminenti, nuclei di
prossime _villae_, quando non erano veri e proprî _vici_ addirittura,
che venivano a formare con l'antico territorio suburbano un unico
_territorium decimationis_ (come dicono i documenti)[496], i cui
confini — _fines, confines decimariae_ — si allontanavano sempre più
dal perimetro del suburbio civile.

Ad Asti si parla fino dal secolo nono di _quicquid de decimis
amplius adiacet civitati_:[497] e si può ritenere antica di secoli la
tripartizione che delle decime cittadine fa un documento bresciano
del secolo decimosecondo, che ricorda le decime dei cittadini, dei
suburbani e del territorio appartenente alla pievania cittadina: _omnes
decimas civium et suburbanorum_ ET TERRITORII AD CIVITATIS PLEBATICUM
PERTINENTIS.[498]

Naturalmente questa espansione fu tutt'altro che regolare in quanto
si manifestava e si accentuava a seconda del capriccio dei fondatori;
per modo che mentre in alcuni punti i confini ecclesiastici ancora
coincidevano con quelli civili, in altri se ne allontanavano di poco
ed in altri anche di qualche miglio. A Bergamo, per esempio, a detta di
una testimonianza della prima metà del mille e cento, erano considerati
come sacerdoti cittadini tutti i sacerdoti delle chiese della città,
dei sobborghi e delle _villae.... circa civitatem illam duo miliaria et
in tali parte etiam infra tria et infra quatuor et ultra_[499].

Circa nello stesso periodo di tempo la pieve cittadina cominciò a
differenziarsi da quella rurale anche per un altro lato, che ne tocca
più da vicino la costituzione.

I cristiani, fino dai primissimi tempi, ebbero grande venerazione per
coloro che erano morti per la fede soffrendo il martirio o che avevano
condotta una vita di devozione e di sacrificio: ne raccolsero con
cura amorosa i resti mortali e tributarono loro un gran culto[500];
tanto che, avendo l'abitudine di raccogliersi a pregare, oltre che
le domeniche ed insieme con il vescovo, anche tutti gli altri giorni
e privatamente, preferirono sopratutto quei luoghi dove i confessori
avevano subito il martirio od erano tumulati i loro corpi o raccolte
le loro reliquie e quivi furono erette chiese precipuamente destinate
al culto di essi e che ebbero, appunto perciò, il nome di oratoria,
martiria e memoriae[501]; mentre, già dal tempo di Costantino,
abolendosi a questo riguardo le antiche disposizioni romane[502],
cominciò l'uso delle traslazioni[503] e divenne ben presto norma comune
e molto osservata quella di consacrare le basiliche col collocarvi
reliquie di santi[504], che con la maggior solennità venivano deposte
sotto gli altari[505]; e ivi celebrare in modo speciale i loro _dies
festi_ che erano l'anniversario della morte o del martirio[506].
In queste chiese nei primi tempi non si faceva alcun servizio di
culto, come non si faceva in alcun'altra chiesa all'infuori di quella
matrice e solo vi si recitavano orazioni, salmi ed inni[507]; e gli
ecclesiastici che vi si trovavano non dovevano nè potevano far altro
che assistere i fedeli in tali orazioni e curare la custodia e la
conservazione dell'edificio e dei sacri arredi. Però verso la fine
del secolo secondo, probabilmente per iniziativa ed opera di Gregorio
Taumaturgo, si cominciò a solennizzare con maggior devozione del solito
l'anniversario della morte, il natale dei santi più venerati[508]. Il
vescovo con tutto il clero ed il popolo con grande pompa si recava
in processione dalla cattedrale alla chiesa del santo ed ivi, oltre
alla recitazione degli inni e delle salmodie particolari a quel
santo, compiva anche tutti quegli uffici del culto che abitualmente si
celebravano nella chiesa matrice. Nel quarto secolo queste processioni
si celebravano già numerose volte dell'anno per uno stesso santo,
come ci fanno sapere sant'Ambrogio e sant'Agostino[509] ed in seguito
aumentarono tanto che nel secolo ottavo l'officiante, prima di prendere
commiato dal popolo, ebbe costume di annunziare in qual chiesa si
sarebbe officiato la volta successiva[510].

Queste processioni e le relative officiature fin dall'epoca più remota
— _iuxta antiquam ecclesiae observantiam_ — come dice il vescovo
Amulone che pontificò a Lione sulla metà del secolo nono[511], si
fecero in giorni determinati e solo in quelle chiese che per le
reliquie di santi molto venerati, ne furono dichiarate e riconosciute
meritevoli: ciò che fece nascere fra tali chiese e la cattedrale un
vincolo ed un rapporto che non esisteva con le altre chiese private.
Inoltre la consuetudine romana della posizione dei cimiteri fuori
delle mura[512], insieme con il sistema, osservato scrupolosamente
per molti secoli dalla Chiesa, di non rimuovere le reliquie che in
via eccezionale[513] e senza disgregarne e separarne le varie parti,
(come si fece in seguito[514]) e, sopra tutto, la proibizione rigorosa
di deporre corpi di santi in oratorî di campagna[515], ci spiega
facilmente come la costruzione di simili cappelle fosse frequente
dentro ed in prossimità delle mura; mentre, d'altra parte, il sistema
preferito della Chiesa, di andare ad occupare proprio gli stessi
edificî che prima erano adibiti al culto pagano, portava pure che
nella città e nel suburbio, ove più numerosi erano stati i templi e le
divinità pagane, più numerose fossero le nuove chiese e risentissero
della precedente organizzazione.

La frequenza dei fedeli presso queste chiese fu tanta che il vescovo,
oltre a recarvisi varie volte all'anno insieme con tutto il clero,
fu costretto a stabilire un turno settimanale fra i sacerdoti della
cattedrale perchè ve ne fosse sempre qualcuno ad assisterli e guidarli
nella recitazione delle preghiere e dei salmi[516].

A Milano, fino dal secolo nono si ha traccia di _decomani_[517].

La forma _decomanus_, _degomanus_ e _dogmanus_ è da considerare come
una varietà derivata dalla pratica di acconciare a foggia latina le
voci vernacole e dalla consuetudine di scriverle secondo la ragione del
suono, ossia secondo che erano pronunziate volgarmente, della parola
_ebdogmanus_ e _dogmanus_, che si trova anche in altri documenti[518].
E questa parola _dogmanus_, a sua volta, è una pretta scorciatura della
voce _hebdogmanus_ nella quale degenerò, conformemente all'indole
del dialetto lombardo, la più comune e latina _hebdogmadarius_ e
_hebdomadarius_.

I _decomani_, ossia gli _ebdomadarii_, milanesi originariamente erano
dei sacerdoti della chiesa cattedrale deputati per una settimana, come
dice il loro nome, ad officiare una determinata chiesa; ma più tardi,
per l'aumentare della frequenza dei fedeli presso le chiese preferite,
l'arcivescovo fu indotto a deputarvi degli ecclesiastici che vi
risiedessero in permanenza in modo stabile e fisso.

Il più antico esempio di questo mutamento ci è offerto dalla chiesa di
S. Ambrogio.

Verso la metà del secolo ottavo il clero milanese, affaticato dal
servizio che doveva prestare presso la cella di questo santo — _diutius
laborantibus in eadem ecclesia_ — domandò all'arcivescovo di nominarvi
ed istituirvi un apposito monastero di monaci che di continuo e
pubblicamente vi celebrassero gli uffizî e le laudi — _ante sancta
corpora continuatim indifferenter ac publice officia et divinas laudes
concelebrent_ — e l'arcivescovo li accontentò con un diploma dell'anno
789[519].

I monaci ebbero in tal modo alcune facoltà che nè il custode Forte,
a cui prima era affidata la chiesa, nè alcun altro custode di chiesa
privata aveva. Esse erano di tale entità da trasformare il primitivo e
modesto oratorio privato — _cella_ — in una chiesa fornita di facoltà
tali da meritare la qualifica di _ecclesia_[520], propria delle sole
pievi, pur senza trasformarne il carattere in una vera e propria pieve.

Poichè dall'anno 789 — in cui l'arcivescovo institui il monastero —
all'anno 864, nel quale sono ricordati i _decomani officiales_ della
chiesa di S. Ambrogio, non avvenne di sicuro (come si rileva da un
documento di cui ci occuperemo ben presto) alcun cambiamento presso di
essa, si ha fondata ragione di ritenere che i preti decumani di cui si
parla nel secondo documento sieno i monaci ai quali vennero concessi
col primo speciali facoltà. Ed in tal caso, siccome il testamento di
prete Gregorio non accenna a differenza alcuna fra i decumani delle
varie chiese che ricorda; la concessione, fatta dall'arcivescovo
Pietro, di celebrare pubblicamente e di continuo gli uffizi e le
laudi, può esser presa come punto di base e di partenza per determinare
l'ufficiatura propria dei decumani.

Si è accennato ad un documento concernente la chiesa di S. Ambrogio.

Con esso l'abate ottenne dall'arcivescovo Tadone che alcuni sacerdoti,
che, poco prima per sua utilità, aveva raccolti e collocati presso la
chiesa per celebrarvi i maggiori ufficî del culto fossero annoverati
nel consorzio dei sacerdoti cittadini[521]. Ai monaci si aggiunsero,
dunque, dei preti esclusivamente incaricati dell'officiatura;
l'officiatura stessa si estese fino alla celebrazione della messa
cantata ed i preti furono ascritti all'_ordo_ della cattedrale.

I privilegi speciali concessi ai preti istituiti dall'abate nel
monastero di S. Ambrogio presso la sua chiesa, concernono due obietti
distinti: le persone di questi preti e le loro facoltà liturgiche.

Essi ottennero di essere annoverati nella congregazione dei preti
cittadini per una concessione eccezionale dell'arcivescovo in
conseguenza degli speciali ufficî del culto che furono autorizzati a
compiere e che erano ben differenti da quelli dei monaci, ai quali,
appunto perchè ritenuti non idonei, furono aggiunti.

Per la celebrazione dei maggiori ufficî del culto non era meno
necessaria della capacità dell'officiante (che doveva aver raggiunto il
presbiterato) la capacità del luogo, che doveva essere chiesa pievana;
e la prima era subordinata alla seconda per modo che solo i preti di
una chiesa pievana potevano compierli.

In virtù della concessione dell'arcivescovo Tadone la chiesa di S.
Ambrogio fu equiparata per certe parti della liturgia alla pieve
cittadina ed i suoi sacerdoti nel compierle furono equiparati ai
sacerdoti della cattedrale: ed una volta equiparati venne naturale
conseguenza che fossero loro aggregati.

Questa concessione è dell'866. Un documento di due anni prima, cioè
dell'864, ricorda i _decomani officiales_ di varie chiese cominciando
da quella di S. Ambrogio e nell'atto stesso l'autore ha cura di
specificare che fa parte dell'_ordo_ della santa chiesa milanese.
Dunque in quest'anno gli _officiales decomani_ di Sant'Ambrogio non
emergevano per alcun verso di fronte ai decumani delle chiese di S.
Valeria, di S. Nabore e di S. Vittore e, al pari di essi, non facevan
parte del clero maggiore. Anzi si può dire qualche cosa di più:
quei preti che col diploma arcivescovile vengono aggregati al clero
cittadino non sono mai stati nè mai divengono _officiales decomani_:
Berengario I nel suo diploma del 2 decembre 894 ricorda i preti
distintamente dai monaci che son detti ufficiali — _presbiteris_ ATQVE
_officialibus S. Ambrosii_[522]. Ed anche in seguito gli uni furono
distinti dagli altri pure nella gestione patrimoniale affidata ai soli
monaci.

È evidente che i decumani delle altre chiese, a cominciare dai monaci
stessi della chiesa ambrosiana, non ebbero mai i privilegi concessi dal
diploma tadoniano e si trovarono tutti nell'identica posizione.

Decumani s'incontrano anche a Parma[523] e a Monza[524]; e se in
quest'ultima città, forse, furono istituiti a somiglianza ed imitazione
della metropoli lombarda — ciò che, del resto, è tutt'altro che sicuro,
perchè, fra l'altro, in essa si seguì il rito romano e non quello
ambrosiano —; il trovarli a Parma esclude che le chiese decumane sieno
una caratteristica di Milano e fa pensare che come la causa prima
della loro origine e, cioè, il culto dei santi, fu diffusa dovunque,
anche altrove sieno sorti eguali resultati, se pure indicati con nome
diverso.

Carlo il Grosso in un diploma dell'883 alla chiesa di Bergamo ricorda
tre specie di chiese: plebane, cardinali e private — _ecclesiis
baptismalibus aut_ CARDINALIBUS _seu oraculis_[525].

Le chiese cardinali sono nettamente distinte dalle chiese battesimali:
la particella disgiuntiva _aut_ è così evidente che non richiederebbe
nemmeno la conferma dell'altro diploma, pure di Carlo il Grosso, alla
chiesa di Piacenza, nel quale accanto alle pievi dell'episcopato si
menzionano le chiese cardinali della città — _ecclesiis baptismalibus
seu quae intra predictam cardinales habentur_[526] — e quella, ancor
più esplicita, offerta dal diploma di Ugo e Lotario al vescovo di
Pavia[527], in cui si parla di cappelle cardinali — _omnes cardinales
capellas_ —.

Se erano cappelle non potevano essere pievi.

D'altronde, mentre erano prive delle speciali facoltà di cui godevano
le pievi, la qualifica speciale di _cardinales_ le distingue pure
dalle altre cappelle ed oratori. _Cardinalis_ è ciò che spetta, che
appartiene, che è in un qualche modo direttamente o strettamente
legato, vincolato al _cardo_. Nell'alto medio evo con il nome di
_cardo_ si è indicata solo ed esclusivamente la chiesa plebana della
città[528]; dunque la qualifica di _cardinales_ indica che le chiese
qualificate con tal nome si trovavano in un rapporto più intimo che le
altre con la cattedrale.

Siamo proprio nel caso delle chiese decumane di Milano e di Parma,
di cui si può, per mezzo di queste, conoscere il lato di maggiore
rilevanza per noi.

Il diploma di Carlo il Grosso parla di chiese cardinali _intra
civitatem_. Quest'espressione indica romanamente anche nel caso
presente il territorio urbano e suburbano insieme. Lo dimostra il
can. 56 del concilio di Meaux dell'845 con cui si impone ai vescovi di
ordinare canonicamente i titoli cardinali costituiti nelle città e nei
suburbii — _titulos cardinales_ IN URBIBUS ET SUBURBIIS _constitutos_
—. Siccome è inammissibile che il concilio volesse intendere con questa
disposizione di imporre ai vescovi il rispetto e l'osservanza delle
norme della chiesa e dei dettami della giustizia solo per le chiese
cittadine e suburbane, lasciando loro facoltà di agire disonestamente
e simoniacamente per le chiese cardinali rurali; è chiaro che chiese
cardinali — _tituli cardinales_ — esistettero solo nella città e nel
suburbio.

Costituirono, dunque, una peculiarità della pieve cittadina.

Anche a Vercelli si trovano chiese cardinali, ma non in tutte le città
furon chiamate con lo stesso nome[529]: a Lucca, dove la chiesa matrice
della città è detta _sedes_[530], furon dette _sedales_[531], a Verona
semplicemente _tituli_ e _titularii_ gli officianti[532]; del nome
che ebbero in altre città, se pur l'ebbero, non ci rimangon documenti
che ci dieno notizia, mentre ci offrono elementi sufficienti per
individuarle[533].

Queste chiese si distinsero da tutte le altre perchè tennero ad
un tempo della pieve e della cappella. Nei giorni feriali vi si
celebrarono da appositi ecclesiastici le messe piane e le altre
orazioni minori con la partecipazione del popolo[534] mentre fino
ad allora questo non era lecito che nella cattedrale e dal clero di
essa. E si iniziò così un'ampia trasformazione che introdusse nella
costituzione della chiesa la parrocchia a tipo moderno, priva del fonte
battesimale e delle maggiori prerogative delle antiche chiese matrici,
e che dette alla città quelle cappelle che formarono tanta parte della
sua ossatura nell'epoca comunale.

Cominciarono a formarsi sul finire del secolo ottavo, come è dimostrato
dal documento del 789, che se ne può considerare come il primo esempio
perchè S. Ambrogio fu il santo più venerato di Milano[535] e Milano
fu sempre e in ogni campo la prima fra tutte le città del territorio
lombardo-tosco; e già agli albori del successivo erano largamente
diffuse.

Esse ebbero anche altre peculiarità, ma di queste sarà opportuno
parlare dopo avere almeno accennato alcuni altri elementi generali
della pieve.

Il clero nei primi tempi della Chiesa riconosciuta viveva intorno al
suo antistite, in qualche raro caso — e mai per lungo tempo[536] —
riunito insieme nel modo in cui vissero più tardi i canonici[537],
in generale con un sistema di vita meno rigidamente regolato; e
lo assisteva nelle cerimonie del culto e nell'amministrazione dei
sacramenti, recandosi per tal fine quà e là per la diocesi, secondo il
bisogno, finchè, stabilite le pievi nei capoluoghi dei singoli pagi, fu
in gran parte assegnato in modo fisso a ciascuna di esse ed intorno al
vescovo ne rimase solo un esiguo numero.

Anche in questo la Chiesa fu fedele al suo sistema ed al suo
programma di assimilare l'ordinamento civile romano. La città aveva
i suoi magistrati, il suo ordo: la chiesa della città ebbe il clero
disposto ad immagine di essa[538] e chiamato con lo stesso nome
di ordo[539] che continua ininterrotto nel medio evo ed origina il
termine di _ordinarii, ordinarii cardinales_[540]. E come il regime
municipale ebbe per pernio la città e fu caratterizzato da un sistema
urbano accentratissimo[541], così la città fu la cellula anche del
nuovo organismo ecclesiastico ed in questo pure emerse una tendenza
accentratrice che sopravvisse dovunque all'organizzazione civile
romana[542] ed in qualche caso si mantenne inalterata per parecchi
secoli. Il principio, per esempio, che per esser eletto a capo di una
chiesa bisognava avervi percorso tutti i gradi fino dall'inizio[543],
lo si trova in pieno vigore a Milano nel secolo decimosecondo[544]
quantunque le condizioni fossero profondamente diverse, essendosi
formata una nuova classe di ecclesiastici cittadini.

Originariamente, infatti, il clero cittadino era formato esclusivamente
dagli ecclesiastici che officiavano la cattedrale. Quelli a cui era
affidata la custodia delle cappelle e degli oratori, onde, appunto, il
loro nome di custodes, e che erano, di solito, dei semplici chierici,
quantunque qualche volta potessero essere anche preti e diaconi e
magari occupare una posizione sociale elevata[545], non potevano
compiere presso la loro chiesa, come già si è detto, alcun ufficio
liturgico.

Più tardi, creati i decumani[546] per togliere agli _ordinarii_ il
carico del ministerio quotidiano presso altre chiese della città;
questi risiedettero presso la propria chiesa ed ebbero una competenza
rituale proporzionata al carattere della chiesa di cui era loro
affidata la speciale officiatura. E perciò, in quanto non appartenevano
alla cattedrale non furono aggiunti al clero di essa; ma poichè le loro
chiese si trovavano entro il perimetro della chiesa della città[547] e
le loro facoltà di officiatura erano ben maggiori di quelle dei custodi
degli oratorî privati; costituirono una classe intermedia che fu detta
_ordo minor_ per distinguerla dall'_ordo major_ della cattedrale e dal
_reliquo clero_ della città[548].

Gli _ordinarii cardinales_ comprendevano tre ordini: preti, diaconi e
suddiaconi[549]; i decumani, in ragione delle loro attribuzioni, erano
tutti preti[550] e, quantunque sparsi nelle varie chiese della città,
costituirono anch'essi una congregazione, alla quale, a Milano, fino
dal secolo nono è a capo un primicerio[551], che continua a risiedere
nella stessa chiesa di cui è officiale[552] pure quando, qualche
tempo dopo, non volendosi aumentare il numero degli _ordinarii_[553],
furono istituiti dei decumani anche presso la cattedrale[554]:
riprova non dubbia che l'origine loro è dovuta ad una spinta che
muove dall'elemento laico che vive nella città e non dall'elemento
ecclesiastico che fa capo alla pieve cittadina. L'arcivescovo Ariberto,
fondando nel 1042 la loro canonica[555] li chiama _peregrini_ appunto
perchè di fronte agli _ordinarii_, che nella metropolitana erano a casa
loro, i decumani stavano come ospiti e pellegrini tanto è vero che nel
compiere le funzioni sacre stavano fuori del coro, che era la parte
della chiesa riservata al clero officiante[556].

L'_ordo_ si distingueva e quasi si contrapponeva all'elemento laico,
identicamente a quanto avveniva nella costituzione civile, che era
stata tenuta a modello[557], ma viveva con essa in stretta unione.

Per l'ordinazione degli ecclesiastici tutti, dal più umile chierico
all'arcivescovo, era necessario l'assenso dei laici[558], il quale,
dice S. Agostino[559], doveva manifestarsi secondo la consuetudine
della Chiesa: consuetudine, che, come già si è avuto occasione di
accennare, variava da luogo a luogo.

Nella nostra Italia dove lo Stato, per ragioni prevalentemente
finanziarie, riconobbe nelle minori circoscrizioni una consistenza
distinta da quella del capoluogo, l'autorità del vescovo,
contrariamente a quanto avveniva nei paesi franco-germanici[560], fu
limitata al punto che nelle chiese rurali non poteva esser ordinato un
ecclesiastico che già non vi fosse appartenuto[561]; ma, in compenso,
il diritto di partecipare all'elezione del vescovo, che, in virtù del
principio che chi a tutti è preposto da tutti deve essere eletto[562],
sarebbe spettato a tutti i diocesani, fu ristretto ai soli componenti
della pieve cittadina[563].

E accanto a questa indipendenza del gruppo vicinale della città dal
resto della diocesi è opportuno accennare subito quella di cui godeva
di fronte allo Stato.

La Chiesa, scioltasi, quando in Italia si costituì il regno ariano
dei Goti, dai legami che l'avevano fino ad allora tenuta avvinta
all'Impero, fu libera nei suoi rapporti religiosi e, quando vennero i
Langobardi, ariani anch'essi e venuti come nemici dichiarati di Roma e
dell'Impero, svolse la sua attività secondo i principi costituzionali
conseguiti anteriormente[564]; ed anche in seguito, quando si furono
convertiti al cattolicesimo ed i loro re mirarono a favorire, per
fini politici, la nuova religione, permase tuttavia la libertà
dell'elezione[565]: libertà, anche questa, che mancava nei paesi
franco-germanici[566]. Sopraffatti i Langobardi, conquistata l'Italia
e rinnovato l'antico Impero, Carlo M. credette di attuare anche in
Italia il suo sistema, che continuava quello dei Cesari romani, di far
degli organi della Chiesa organi dello Stato, ma l'elezione del vescovo
continuò a spettare unicamente ed esclusivamente a coloro che facevan
parte della pieve cittadina[567].

La città, dunque, anche per questo lato emerse di fronte alla diocesi
ed a tutte le altre pievi.

Naturalmente l'intervento dei laici non si avverava sempre nè
nello stesso modo. La designazione, che era la parte sostanziale
dell'elezione, spettava a tutti, laici ed ecclesiastici, sebbene non
nella stessa proporzione. Le formule ed i documenti ecclesiastici
dall'epoca romana[568] all'alto medio evo, sono concordi[569] nel
graduare questo diritto per modo che dopo una logica preminenza del
clero (ritenuto più idoneo a giudicare delle attitudini dell'eligendo
nel disimpegno delle sue mansioni principali[570]) è fatta larga
parte all'autorità delle classi più elevate, riservando agli strati
più bassi una facoltà prevalentemente negativa che consiste quasi
sempre in un semplice atto di presenza. Dal decretum in cui veniva
raccolta la documentazione dell'avvenuta elezione[571] si vede chiaro
che il predominio del clero era tutt'altro che assoluto: non di
rado era equiparato e sorpassato da quello dei _seniores_[572], dei
_nobiles_[573] e qualche volta anche dall'impetuoso prorompere della
turba dei fedeli[574].

La consacrazione, come atto esclusivamente liturgico, era compiuta dai
soli ecclesiastici[575]; ma anch'essa offre un lato degno di rilievo
nei riguardi della costituzione cittadina in quanto che, sorte le
chiese cardinali, per la loro speciale natura occorse una speciale
consacrazione. Una testimonianza lucchese a proposito della natura e
della qualità di una chiesa dichiara che il vescovo l'ordinava come le
altre chiese sedali — sicut alias _ecclesias sedales_ —[576]. Mentre,
invece, la designazione del titolare avveniva nello stesso modo che
per la pieve[577] fatto solo eccezione di una tendenza a restringerla
a coloro ai cui bisogni prevalentemente serviva, la quale si accentua e
si fissa solo dopo il secolo nono.

E ancor più intimi erano i rapporti fra ecclesiastici e laici nel
campo patrimoniale. Al loro sostentamento si provvide per parecchi
secoli con una _mensurna divisio_ prelevata dalla cassa comune
della comunità formata col contributo di tutti[578]. Tale contributo
originariamente volontario si trasformò ben presto in obbligatorio per
gli sforzi tenaci del clero favorito dalla posizione preminente del
pontefice in Italia, tanto che, quantunque lo Stato tentasse ripetute
volte di opporvisi[579], verso la metà del quinto secolo erano già
stabiliti appositi giorni per queste collette — _dies collectarum_
— che essendo fruttuosissime all'incremento della Chiesa si ritenne
bene di render perpetue[580]; e per assicurarsele in modo sempre più
certo si introdusse anche il sistema di obbligare i fedeli a giurare di
osservare questo precetto[581].

Alla fine del secolo sesto queste collette erano regolarmente diffuse:
Gregorio I parla come di cosa normale della _«collecta facta inter
civitatis januensis habitatores»_ in una lettera del 599 al vescovo di
Genova Costanzo che invita ad esonerarne un vecchio povero e cieco di
nome Filagrio[582].

Genova allora non faceva parte del regno langobardo; ma anche in esso
i fedeli corrispondevano alla chiesa il loro contributo annuale, il
quale costituiva un obbligo di sola coscenza, di natura esclusivamente
religiosa e privo di ogni riconoscimento da parte dello Stato.

La misura in cui si pagava corrispondeva ad una proporzione largamente
in uso nell'antico sistema fiscale romano di cui avevan conservata
ininterrotta ed immutata la tradizione gli scrittori ecclesiastici[583]
ed a una non meno antica consuetudine rimasta inalterata negli usi
civili[584] e si conguagliava alla decima parte dei proventi.

Di quì il nome di _decima_; ma questo nome, quantunque non sconosciuto
in Italia[585], ebbe però la maggiore diffusione al tempo dei Franchi,
chè le cose cambiarono con loro e cambiarono profondamente: non già
perchè essa sia sparita o perchè il nuovo Stato, essendo confessionale,
considerò come doveri pubblici i principali obblighi del credente — e
fra questi la _collecta_ — e subordinò i diritti civili e politici al
soddisfacimento di quelli — ciò che avrebbe segnato solo un progressivo
e, magari, naturale svolgimento — quanto e sopratutto perchè con essi
fu introdotto un nuovo e tutt'affatto diverso istituto, il quale si
unì e si confuse con la vetusta _collecta_ italiana e ne perturbò
profondamente la funzione ed il sistema e ne sostituì anche il nome.

Carlo Martello nella necessità di costituire un nerbo di cavalleria
capace di far fronte alle mobilissime schiere degli arabi che premevano
minacciosi al confine orientale, non potendosi valere di terre del
fisco perchè depauperato dalle pazze prodigalità dei suoi antecessori;
mise la mano sulle terre delle chiese e le distribuì ai privati
con concessioni revocabili il cui scopo principale era l'obbligo di
mantenere e fornire un proporzionato numero di cavalli e di cavalieri.

Dopo di lui la Chiesa non volendo rinunziare alle terre confiscatile,
nè lo Stato alla facoltà che vi esercitava, nè i concessionari al
loro godimento; sotto la minaccia di una nuova invasione, si venne
ad un contemperamento delle varie tendenze, il quale originò un nuovo
istituto giuridico.

Quest'istituto fu il _beneficio_.

Con esso le Chiese conservarono la proprietà delle terre tolte loro, il
re la facoltà di disporne con concessioni non oltrepassanti al massimo
la vita del concessionario; e quest'ultimo, che delle terre stesse
aveva il godimento per volontà del re e per opera della chiesa, fu
obbligato a corrispondere al primo un proporzionato servizio militare
ed a pagare annualmente alla seconda un censo in denaro di un solido
d'argento per ogni manso ed un contributo in natura fissato nella
decima e nona parte dei frutti ed a concorrere in modo equo al restauro
della chiesa stessa in caso di bisogno[586].

L'assetto definitivo il beneficio lo ricevette da Carlo Magno col
capitolare aristallense del 779.

E questo, dopo l'approvazione della dieta langobarda, passò anche in
Italia; quantunque con una clausola — si exinde usque nunc ad partem
ecclesiae decima et nona exivit[587] — che ne mostra tutto il carattere
esotico che essa aveva per l'Italia e che, in conclusione, nei rispetti
del passato ne annullava lo spirito perchè l'applicava solo nei casi
nei quali il concessionario di un fondo ecclesiastico corrispondeva
già la nona e la decima parte dei frutti: ciò che non poteva essere
avvenuto che per scambievole convenzione privata, non avendo avuto
luogo in Italia alcuna confisca di terre ecclesiastiche.

E più tardi il capitolare italico ritorna sull'argomento imponendo
ai conti ed ai fedeli tutti che chiunque aveva in beneficio terre
di una chiesa doveva corrispondere alla chiesa stessa regolarmente
e completamente le decime e le none e concorrere secondo il bisogno
e la possibilità alla sua restaurazione — ut quicunque de rebus
æcclesiæ beneficia habent pleniter nonas et decimas ad ipsas ecclesias
donent.... et iuxta possibilitatem et quando necessitas exigit de opera
ad ipsas ecclesias restaurandas adiutorium faciant —[588].

E anche Lodovico il Pio, alla sua volta, insistè sull'uno e sull'altro
obbligo, aggiungendo una forte pena in caso di inadempienza, per
ricordare ai renitenti che avrebbero finito col perdere il beneficio —
et insuper bannum nostrum solvat, ut ita castigatus caveat, ne sæpius
iterando beneficium amittat —[589].

Con questo l'antica _collecta_ italiana non cessò di esistere nè fu
messa da parte. I vescovi langobardi nel capitolare concordato l'anno
successivo o poco dopo al capitolare aristallense, ebbero caro di fare
inserire la disposizione che ciascuno dovesse pagare alla pieve secondo
il costume e la sacra consuetudine: — De decimis. Ut unusquisque
suam decimam ad ecclesiam offerat sicut mos vel sacra consuetudo esse
dinoscitur[590]. —

E, più tardi, Lotario stabilì per legge la procedura da seguire per
facilitarne la riscossione e renderne obbligatorio il pagamento[591].

La decima franca, quale è configurata dai capitolari, è, dunque, un
diritto reale che nasce ex iure per esplicita disposizione di legge a
favore di una chiesa sui beni di essa concessi dal re in beneficio;
nasce simultaneamente con gli altri obblighi che la legge addossa
al concessionario ed è uno degli elementi da cui resulta lo speciale
istituto del beneficio.

La decima italiana, invece, originata da un volontario contributo dei
fedeli, trasformato in seguito dalla Chiesa in obbligo di coscenza
rinvigorito dal giuramento e consolidato nella misura, è dovuto ad
una sola chiesa — la pieve — ed ha carattere e natura esclusivamente
personale in quanto che investe la persona del parrocchiano, il quale
appunto e soltanto per questa sua qualità, è tenuto a conferire alla
pieve, ed alla sua pieve soltanto[592], la decima parte dei suoi
proventi e questo suo contributo è, insieme con altri e minori obblighi
della stessa natura, il titolo che gli dà diritto all'assistenza
religiosa ed all'esercizio delle facoltà proprie del parrocchiano.

Fra questi altri obblighi si deve ricordar per primo il rifacimento e
la riparazione degli edifici del culto perchè sebbene la Chiesa abbia
stabilito fin da antichissimo tempo che si dovesse provvedere con la
quarta parte dei redditi e delle oblazioni; sia per la difficoltà della
trasformazione delle offerte in natura sia per l'analogia con l'obbligo
imposto ai concessionarî di benefici ecclesiastici, sia per altra
ragione, le fonti italiane del tempo franco — e si rimettono sempre ad
antica consuetudine[593] — la ricordano separatamente. Ciò che attesta
anche per questo lato quell'autonomia di formazione e di sviluppo, di
cui già si è avuto occasione di far parola.

La stessa trasformazione della collecta da volontaria a obbligatoria
subì quella parte di oblazioni che i fedeli facevano in momenti di
maggiore solennità ed importanza e cioè il battesimo, il matrimonio, e
la morte[594]. Anzi fu facilitata dalla natura di fatto straordinario
che ognuno di questi momenti segnava nella vita di ciascun individuo;
come dalla necessità in cui si trovò la chiesa di proibire le grandi
agapi, riannodantesi ad antichissimi usi pagani, che si tenevano
in chiesa per solennizzare questi avvenimenti e che, accolte da
prima perchè accumunando ricchi e poveri rispondevano ai sentimenti
dell'uguaglianza e della carità, eran divenute ben presto causa di
inconvenienti e di disordini[595]. I banchetti in chiesa furon proibiti
ed una parte della somma che prima essi richiedevano devoluta alla
chiesa.

Queste oblazioni assunsero così l'aspetto e la natura di una vera
e propria tassa — diritti di stola — corrisposta per un determinato
servizio e siccome l'unica chiesa autorizzata all'esercizio del culto
era la pieve conversero tutte a suo favore aggiungendosi agli altri
obblighi del parrocchiano e rinsaldarono anche per questo lato gli
stretti vincoli che lo univano alla sua chiesa.

Accanto ed insieme con queste oblazioni c'erano, poi, anche tutte le
altre che la pietà dei fedeli offriva alla chiesa di sua spontanea
volontà e anche queste, naturalmente, spettavano tutte alla sola pieve.

Sorte le chiese cardinali, le quali avevano una speciale officiatura
per la quale, fatta eccezione di speciali giorni, vi potevano esser
celebrate le messe e compiuti i servizi e gli uffici divini: ed essendo
sorte per il culto speciale e straordinario che i fedeli professavano
per alcuni santi; nacque un contrasto fra i diritti della pieve e la
volontà dei fedeli. Contrasto talvolta sanato dall'esplicito intervento
del vescovo e nella più gran parte delle volte causa ed origine prima
dei conflitti numerosi fra i canonici della chiesa cattedrale e gli
officianti delle chiese più frequentate delle varie città.

Esempio del primo caso è il diploma tadoniano, già tante volte
ricordato, a favore del monastero di S. Ambrogio.

Con esso l'arcivescovo non si limita a confermare le donazioni di
terre e di immobili che il monastero stesso aveva ricevuto in passato
o avrebbe ricevuto nell'avvenire — quicquid in iamdicta ecclesia S.
Ambrosii..... collatum fuerit — come nel diploma dell'arcivescovo
Pietro dell'anno 789; ma concede anche la facoltà di ricevere tutte
le oblazioni che dai fedeli fossero comunque offerte: CONCEDIMUS atque
_confirmamus_.... OMNES OBLATIONES que a Cristifidelibus... quoquomodo
a majoribus five a minoribus delate fuerint, _omnesque res omnesque
possessiones_ ibidem collatas etc.[596]. E la concessione di queste
oblazioni è ritenuta di maggior importanza della conferma del possesso
dei beni perchè è fatta precedere.

In generale, però, alle chiese cardinali era lasciata solo una parte
delle oblazioni, riservandone il rimanente al clero della cattedrale
il quale aveva diritto anche ad un gran pranzo e ad altri minori atti
di ossequio, quando vi si recava collettivamente ed in gran pompa nella
festa del santo a compiervi l'ufficiatura solenne[597].

Decime ed oblazioni non erano, però, i soli proventi della Chiesa.

Quantunque nella Chiesa di Roma fino al secolo sesto — a concorde
testimonianza di Teodoro lettore e del _Liber Pontificalis_ — si sia
avuto per sistema di non tenere altri immobili che quelli strettamente
necessarî all'esercizio del culto, vendendo le terre e le case
donate e distribuendone il ricavato fra la chiesa, il vescovo e il
clero; tale sistema o fu esclusivo della Chiesa di Roma o non durò
molto a lungo; e, comunque, il problema dell'assetto giuridico della
proprietà immobiliare della pieve non si pone per gli edifici del culto
diversamente che per gli altri immobili.

Divenuto il cristianesimo religione ufficiale dello Stato — chè
l'anteriore ed incerta condizione giuridica[598] non c'interessa —
lo Stato ebbe nella nuova religione quell'ingerenza che aveva prima
esercitato sugli altri culti e che segnava quasi il correspettivo della
protezione accordatale e della posizione di privilegio fattale, ed i
templi ed i loro beni furon considerati come pubblici e tutelati con
norme particolari, in continuazione precisa del sistema tenuto con i
culti anteriori — fatta eccezione, tuttavia, di un punto speciale che è
proprio quello che c'interessa.

Anteriormente fra i numerosi culti tollerati nell'Impero il maggior
numero di facoltà e di diritti fu concesso solo ad alcuni di massima
importanza, ai quali fu concessa anche la _testamentifactio_ passiva;
e titolare di tali diritti fu istituito il tempio nel quale ciascuna di
queste divinità era maggiormente e per antonomasia venerata[599].

In seguito, colla religione cattolica, nella necessità di contemperare
il rispetto all'unità della Chiesa con le ragionevoli esigenze
locali dei fedeli e rendere agevole il funzionamento delle proprietà
immobiliari, si andò formando una prassi, riconosciuta e completata
poi dalle leggi, per cui erede dei beni per volontà di testatore o
in forza di legge devoluti alla chiesa, fu la chiesa del luogo del de
cuius[600]; e siccome la Chiesa si era insediata e organizzata sulle
basi dell'organizzazione pubblica romana e con essa si trovava quindi
in piena armonia; e la sua unità di organizzazione fu la pieve: così la
pieve, impersonata dalla sua chiesa, ebbe tutte le facoltà di una vera
e propria persona giuridica.

Caduto l'impero romano, sopraffatti i Goti e disfatti i bizantini;
con i Langobardi cessò ogni diritto dello Stato all'ingerenza
nell'amministrazione della Chiesa ed ogni pieve fu libera nella sua
organizzazione interna.

E questa presenta due speciali elementi: uno nei rispetti della pieve
in generale, sia urbana che rustica, l'altra nei soli riguardi della
prima.

L'una si è che cessata l'ingerenza dello Stato, lontano e non
ancora completamente assodato nè affermato rigidamente come più
tardi avvenne, il diritto di intervento dell'autorità pontificale,
riconosciuta anche dalla legge — ciò che sta a provare anche qui una
vera e forte resistenza di usi anteriori, contro i quali urtarono
inutilmente i sistemi franchi — l'autonomia finanziaria della pieve
dall'episcopato[601]; autonomia che da documenti di ogni parte
del territorio langobardo ci è dimostrata non minore nei rispetti
dell'elezione dell'arciprete e delle altre mansioni in cui partecipava
l'elemento laico[602]; avveratasi con l'invasione langobarda una
tendenza a restringersi entro la pieve ed i propri correligionarî;
la comunità cristiana raccolta entro la pieve stessa sia urbana che
rustica — unita anche per altri legami economici e giuridici in parte
già accennati e di cui ci occuperemo nei paragrafi seguenti — costituì
un vero e proprio _corpus_ nel quale l'elemento laico intimamente si
fondeva con l'elemento ecclesiastico. E, ritornando in parte sotto
il contatto straniero ed eretico degli ariani, ai primi tempi ed ai
primitivi sistemi, questa persona giuridica esplicava la sua azione
nei rispetti del culto per mezzo del clero, assistito dai laici e, nei
rispetti patrimoniali, per mezzo dei laici sorvegliati dal clero.

La pieve urbana dell'alto medio evo, poi, è caratterizzata dalla
gradazione con cui le facoltà d'intervento nell'amministrazione del
suo patrimonio sono distribuite fra i suoi parrocchiani; che è quella
stessa che si riscontra nel culto dei primi stadî di formazione
della città e mantenutasi inalterata pur col mutar dei culti e degli
Stati. In virtù di essa classe dirigente, suddivisa in altre in modo
vario secondo i tempi, sono solo gli urbani mentre ai suburbani,
pure uniti nella stessa pieve, è permessa solo una pallida e passiva
partecipazione.

Laici ed ecclesiastici costituivano insieme una unità sola nella
quale l'azione degli uni o degli altri prevaleva a seconda che si
trattava di uffizi divini o di cose terrene: ma che agiva sempre con
la compartecipazione obbligatoria di tutti, creando un complesso di
rapporti nel quale le speciali facoltà di ognuno erano a volta a volta
doveri o diritti.

Alle condizioni del parrocchiano si contrappone quella del fondatore
di una chiesa privata, al quale, secondo l'antico sistema romano
pienamente concordante con quello germanico, ne spetta la completa
proprietà con le sole limitazioni riguardo all'esercizio del culto
derivanti dall'organizzazione generale della Chiesa.

Le chiese cardinali, le quali non erano nè pievi nè cappelle ed alle
quali quindi mal si adattavano i sistemi delle une e delle altre,
furono costrette ad andare cercando un adattamento fra il sistema
parrocchiale e quello della chiesa privata: e qualche volta, poi, si
trovavano in una singolare condizione.

Prendiamo il caso della chiesa di Sant'Ambrogio di Milano.

Dopo il diploma del 866 in essa si avevano: una chiesa titolare del
diritto di proprietà sui beni, un corpo di monaci ai quali ne era
affidata l'amministrazione ed ai quali in effetto erano concesse e
donate le oblazioni e gli immobili dai fedeli, una congregazione,
consortium, di sacerdoti i quali erano incaricati dell'officiatura
ed ai quali era pure riconosciuto un diritto di natura economica nei
rispetti dei beni della Chiesa[603].

La delineazione giuridica precisa del diritto di questi ultimi il
diploma arcivescovile del 866 non la fa; ma essa risulta dai documenti
che illustrano le lunghe liti che a proposito di esso ebbero in seguito
monaci e canonici[604].

Era la stessa posizione precisa in cui si trovavano gli _ordinarii_
della Chiesa di S. Giovanni di Monza rispetto ai _custodes_ della
Chiesa stessa i quali erano i rappresentanti del diritto di proprietà
dei beni della chiesa.[605]

La posizione non era troppo semplice; pur tuttavia di colpo non
furono creati istituti nuovi; furon piegati e modificati con clausole
speciali i vari istituti romani, non mai abbandonati dalla Chiesa[606]
che meglio si prestavano. Ma queste modificazioni moltiplicandosi,
consolidandosi, acquistarono delineazione e configurazione sempre più
distinte da quelle da cui originariamente furono costituiti e formarono
alla lor volta un nuovo istituto giuridico, destinato a grande
avvenire.

Quest'istituto fu il _beneficio ecclesiastico_[607].

La pieve italiana — concludendo ormai in poche parole questa ricerca
che la mancanza assoluta di ogni lavoro al riguardo ha reso così lunga
— continuò un'antichissima unità territoriale che ebbe vita in Italia
prima di Roma e che appunto perchè italiana e non romana rimase anche
quando Roma non fu più e sopravvisse perchè era un complesso omogeneo e
completo di elementi economici, giuridici e religiosi.

La città col suo suburbio e le sue pertinenze: il pago rurale col suo
capoluogo, i suoi vici e le respettive terre comuni furono uniti dal
culto cattolico come da quelli pagani e dal sistema finanziario dei
Langobardi come da quello dei Romani e dei Bizantini.

Ogni parrocchiano fu vincolato alla sua parrocchia e l'unione fu
tale che uffici divini ed affari terreni richiedettero egualmente la
simultanea presenza e partecipazione degli ecclesiastici e dei laici;
nè questi potevano senza gravissimo e giustificato motivo astenersi
dalle funzioni e dagli uffici del culto, nè quelli, senza questi,
essere eletti o comunque trattare o disporre dei beni della pieve e la
fissità del domicilio già forte negli ultimi tempi romano-bizantini
e ancor maggiore in seguito, concordando pienamente col criterio di
autonomia delle varie pievi, in uso nella Chiesa, strinse ancor più
i vincoli già così rigidi, che avvincevano il parrocchiano alla sua
pieve, nei riguardi della decima e delle oblazioni.

Verso la fine del secolo ottavo, però, la pieve urbana comincia a
differenziarsi da quella rurale allargando i suoi confini all'esterno
e dando origine nel suo interno a nuovi nuclei i quali acquistano
parte delle facoltà e dei diritti che prima spettavano alla sola
pieve. Questi nuclei sono le chiese cardinali, le quali formandosi con
linee sempre più precise costituiscono la parrocchia a tipo moderno,
la quale rompe l'unità della antica pieve, le sottrae molte delle sue
prerogative e dà luogo all'origine di formule e istituti rispondenti
alla sua speciale natura. E queste formule e questi istituti, essendo
sorti per complemento necessario di un organismo che era sorto
per naturale conseguenza e soddisfacimento di bisogni veramente e
fortemente sentiti, risposero ad essi in modo conveniente e congruo per
modo che non solo nella maggior parte non furon toccati dalle profonde
modificazioni che in seguito furono apportate in tanti campi nè dalle
deformazioni del concilio tridentino; ma qualcuno di essi si allargò
a disciplinare un immenso numero di rapporti e fu caratteristico
dell'organizzazione ecclesiastica intiera. E questo fu il _beneficio
ecclesiastico_.


§ 8. — Per studiare l'origine e la costituzione della pieve si è dovuto
prima ricercare la natura e la consistenza dell'antica circoscrizione
civile su cui essa s'insediò e a tale scopo è stata dedicata la prima
parte del capitolo precedente: ora essa — ed appunto per ciò si è
tenuta un po' più diffusa di quanto a prima vista poteva apparire
strettamente necessario — ci mette in grado d'indagare anche la
manifestazione più saliente della sua struttura civile ed economica.

Quantunque lo Stato e la Chiesa lo avessero proibito ripetute
volte[608], l'abitudine di tener mercato nei giorni festivi si mantenne
così tenace[609] che lo stesso Carlo Magno fu costretto a permettere
espressamente ed esplicitamente che UBI ANTIQUITUS FUIT si continuasse
a tener la riunione del mercato _in die dominico_.

Poichè gli uffici divini si celebravano ordinariamente di domenica,
e pure di domenica ordinariamente si teneva mercato, è chiaro che lo
scambio dei prodotti avveniva di regola nell'occasione della festa
religiosa che radunava molta gente nel capoluogo; e siccome ogni
parrocchiano era obbligato ad adempiere i suoi doveri presso la propria
pieve e soltanto presso di essa e le singole pievi erano normalmente
molto distanti fra loro[610], era difficile e perciò improbabile il
potersi recare nello stesso giorno ad una pieve per gli ufficî divini
e ad un'altra per il mercato e quindi ne conseguiva che il mercato era
normalmente composto dei soli parrocchiani di ciascuna pieve[611]. La
pieve della città era costituita da _urbs_ e dal _suburbium_: dunque al
suo mercato abituale partecipavano solo gli urbani ed i suburbani.

«_Per forum_, in circuitu ecclesiae — narra Landolfo Seniore in un
passo della sua storia[612] — _erant tunc causa negotiandi tam civiles
viri quam suburbani pariter congregati_.

E alla stessa conclusione si giunge anche seguendo un altro filo
conduttore, il quale permette anche di conoscere pure la natura di
questo speciale mercato.

Il Capitolare di Carlo Magno «De truste facienda si esprime così: nemo
presumat, ad nos venienti mansionem vetare et _quae ei necessaria sunt
sicut vicino suo vendat_»[613].

Questa disposizione ha un carattere di privilegio che appare evidente
appena la si metta in relazione con l'altro Capitolare, pure di Carlo
Magno, che concerne gli _iterantes_[614]. Quest'ultimo si occupa degli
_iterantes_, dei viaggiatori in genere, sia che si rechino dal re che
altrove: — «De iterantibus, qui ad palatium aut alicubi pergunt» — per
scopi e ragioni di loro privata e particolare spettanza e proibisce che
sieno comunque assaliti e che sia ad essi negata l'erba indispensabile
per i loro animali. Invece nel primo Capitolare si parla di quella
classe speciale di viaggiatori, che si recano dal re non per ragioni
a vantaggio proprio, ma per servizio pubblico. Infatti si conoscono
due specie di _trustis_: una è la comitiva eletta dal re, la guardia
più fida e più cara; l'altra è una specie di squadra incaricata di
perseguitare i delinquenti e organizzata sino dal tempo dei Merovingi,
dalle cui leggi è passata in quelle carolingie e con esse, anche in
Italia[615].

In ambedue i casi si tratta di un servizio speciale, per il quale il re
concede delle facilitazioni di alloggio e di vitto che nega a tutti gli
altri.

Ora se il re vuole che ad essi le cose necessarie sieno vendute come
il vicino le vende al vicino, è chiaro che tra i vicini tali scambi
avvenivano in un modo diverso che fra vicini ed estranei e che questo
modo offriva speciali vantaggi e, infine, che questa diversità aveva
natura e consistenza giuridica. Infatti il re, col solo fatto di
determinare così specificatamente e con un Capitolare le persone alle
quali era concesso di godere alcuni vantaggi del rapporto di vicinatico
senza esserne compartecipi, viene a riconoscere anche per questo lato
del mercato, l'esistenza del gruppo vicinale e dei rapporti giuridici
che vi si imperniano; così come la riconosce quando, invece di una
limitazione parziale e temporanea come questa, glie ne impone una
maggiore e più duratura obbligandolo ad accogliere entro di sè un
estraneo, già da esso rifiutato[616]. Anche in questo caso dal fatto
che solo al re con uno speciale preceptum è possibile e lecito vincere
la resistenza del gruppo vicinale, sgorga limpida la conseguenza che
in tutti gli altri casi questa resistenza è incoercibile: è cioè,
lecita, riconosciuta e protetta. Vicinus nei Capitolari come negli
editti[617] e nelle leggi[618] e nei documenti[619] ha un senso tecnico
ben definito: indica chi fa parte di una determinata unità, di un
determinato comune, per usare il termine che comparisce in Francia sin
dal secolo ottavo[620] e di cui si hanno tracce nella nostra Italia
fino dai tempi di Carlo Magno[621]. Il comune cittadino — lo si è visto
— comprende con la città anche il suburbio ed il rapporto vicinatico,
quindi, unisce anche rispetto al mercato, urbani e suburbani e non
altri[622].

Il cap. 11 fa obbligo al vicino di vendere a colui che viaggia in
servizio e per conto del re, come vende al suo vicino — _sicut vicino
suo vendat_ —: lo scambio, dunque, avveniva direttamente fra vicino
e vicino senza intromissione di alcun intermediario che comprasse per
rivendere e non per consumare. D'altra parte i Capitolari parlano[623]
di telonea solo a proposito di negotiatores, delle persone, cioè, come
a maggior chiarimento si soggiunge, che a scopo di commercio — _causa
negotiandi_ — si recano a piccole tappe — _de una domo ad aliam_ — di
luogo in luogo con la loro _substantiam_ che volta volta si rinnova nel
contenuto mentre rimane immutata nella destinazione di esser comprata
per esser rivenduta. I _vicini_ che non si muovono dal loro _comune_ ed
acquistano e vendono per i bisogni immediati del proprio consumo, non
hanno alcun carattere di commercianti di professione e, quindi, sono
immuni dai _telonea_. E, per conseguenza, sono immuni da quei tributi
che fino dal tempo romano colpivano i generi di commercio[624], anche
i generi che essi si scambiano e che si possono conoscere grazie al
cap. 11, il quale parla di _necessaria_: dei commestibili di prima
necessità.

Le cose più minute ed i generi di prima necessità che formavano
questo mercato, erano prodotte, nella loro quasi completa totalità,
nelle terre urbane e suburbane e tutti coloro che vivevano su queste
terre, essendo obbligati a convenire alla pieve cittadina per i doveri
cultuali, trovavano in quest'occasione un incentivo e una spinta a
portare i propri prodotti, che nel concorso di numerose persone avevano
maggior facilità di esito; mentre, per un altro verso, essendo molti
i venditori e potendosi trattenere a lungo in città per essere giorno
festivo, si rendeva inutile e non gradita l'opera di intermediari.

Questo mercato minuto e piccolo, in quanto soddisfaceva bisogni sentiti
in ogni tempo da qualsiasi centro abitato, durava ininterrottamente
da secoli e secoli e le fonti continuano a chiamarlo _forum_ come
al tempo romano[625]; e come al tempo romano si era differenziato
dalle nundinae[626], così nel medioevo si distingue dalle fiere e
dai mercati tenuti ad intervalli maggiori[627] e con regime giuridico
speciale[628] e si tiene tutte le domeniche per provvedere le cose e le
cibarie indispensabili all'alimentazione degli abitanti di un angusto
territorio; mentre nelle più note feste della Chiesa e nelle ricorrenze
dei santi più venerati dei singoli luoghi[629] se ne tengono altri, nei
quali, per mezzo di mercanti venuti di fuori affluiscono generi di ogni
natura, di cui la città sente il bisogno o il desiderio. Ed in questi,
che si tenevano a distanza di tempo non breve l'uno dall'altro, si
rendeva necessario il commercio in terza mano, perchè solo dei mercanti
di professione potevano portare merci e derrate da luoghi lontani
e partecipare ai varî mercati. Ed è proprio ed esclusivamente il
commercio in terza mano che è soggetto ai gravami riconnessi al diritto
di regalia, per poter riscuotere i quali si voleva che tali mercati si
tenessero sempre nello stesso luogo[630].

Un bel documento fornisce a questo proposito elementi preziosi. È
un atto nel quale è raccolta la decisione di alcuni _viri antiqui
noscentes usum curadiae_, eletti dal vescovo di Asti sul finire del
secolo decimosecondo, a ripristinare gli antichi usi del mercato
astese, turbati da alcune innovazioni fiscali che avevano dato luogo
ad una perniciosa guerra di tariffe con i marchesi di Ponzono[631].
Il documento è assai tardo rispetto all'epoca langobardo-franca; ma la
concessione del mercato al vescovo di Asti risale ai primissimi albori
del secolo decimo, nè si fa accenno a modificazioni anteriori a quelle
che gli «antiqui viri» sono chiamati ad eliminare e si può credere che
la disposizione concernente la cibaria risalga ad epoca molto remota,
perchè i Capitolari non accennano minimamente ad alcuna imposizione
su di esse nè si conosce alcun provvedimento dei re d'Italia a questo
proposito.

Il documento, dopo aver riportato l'elenco della gabella di tutte le
voci, dice che _de agmis et haedis nihil sicut et de fructibus et de
ovis et de his omnibus quae brachio portantur. Idem de pullis et de
piscibus recentibus._

Questo mercato, dunque, resulta costituito esclusivamente dal traffico
dei commestibili di minor portata: agnelli, pecore, ortaggi, frutta,
pollame etc. e sussiste accanto e di fronte ad un altro mercato che si
distingue così da questo più minuto commercio, come dal grande traffico
che metteva capo alle fiere[632]. Un diploma carolingio è esplicito:
esso concede il _forum_ ed il _mercatum_ che si tenevano nel giorno di
S. Zeno nella città di Verona[633].

È evidente che il _forum_ non era la stessa cosa del _mercatum_.

Il mercato nel quale le merci sottostanno a norme e a gravami
speciali si raduna ad intervalli sempre più brevi con l'aumentare
dell'importanza e della vita della città e verso la fine dell'epoca
franca, là dove la città è stata in grado di sostenere e di mantenere
o, ciò che è lo stesso, di aver bisogno di uno scambio così frequente;
diviene anch'esso ebdomadario[634]; e si sovrappone a quello minuto
vicinale, del quale, però, anche dopo vari secoli si possono qua e
là trovare delle tracce[635]. Ma questo mercato a cui convengono i
mercanti delle regioni vicine e delle regioni lontane per portarvi
prodotti altrove comprati e comprarvi prodotti altrove vendibili, non
avrebbe potuto sorgere se non fosse stato congruamente preceduto da
un altro sistema di scambio capace di fornire alla città le cose più
necessarie con un flusso periodico, normale, frequente e continuo:
i due requisiti che nei diplomi che fanno concessione di mercati
compariscono più tardi di tutti gli altri. Ed è proprio su questo
sistema di ristretto scambio vicinale dei prodotti di prima necessità,
che deve fermare l'attenzione a preferenza ed in modo speciale chi
voglia conoscere della costituzione e del diritto delle nostre città
nell'alto medio-evo, cioè nell'epoca anteriore a quella nella quale il
commercio formò la parte prevalente della loro energia.

Il noto tipo del mercante franco-germanico che sotto una speciale
protezione del re, gira di regione in regione e risale e discende
il corso dei fiumi[636], ha presso di noi dei precursori e dei
contemporanei nei _negotiatores de Langobardia_ che fino dal 629, e
probabilmente anche prima, si recano alla fiera di Parigi, aperta loro
dal re Dagoberto in quest'anno[637]: e nei mercanti che percorrono
il corso del Po e ne rendono attivi la navigazione ed i porti[638]:
ma questi, come quelli, per quanto fattori eminenti dell'energia
economica delle nostre città, nulla offrono che in qualche modo ci
illumini sulle loro particolarità più intime e più speciali, perchè
il commercio ha per funzione e per scopo di mettere a contatto luoghi
e persone e prodotti diversi e, quindi, per necessità è tratto ad
avere un carattere internazionale, che si accentua sempre più quanto
esso maggiormente si estende. Invece quel piccolo, ristretto scambio,
limitato entro angusti e ben noti confini, a poche cose ed a poche
persone, che si perpetua da secoli quasi nello stesso modo e nelle
stesse proporzioni, è proprio il terreno favorevole per eccellenza
al conservarsi delle antiche usanze e delle vetuste consuetudini
particolari ai singoli luoghi.

A Milano il _forum_ si trovava davanti ed intorno alla cattedrale[639],
ma tale ubicazione si può considerare come un'eccezione[640]. Nelle
nostre città, generalmente regolari[641], il _forum_ era costituito
dalla piazza formata dall'incontro del _cardo maximus_ col _decumanus_,
che erano le due vie principali, intersecantesi perpendicolarmente: era
il punto centrale della città, l'antico _templum_[642]. Per il modo con
cui sorse e si sviluppò il cristianesimo, per le difficoltà incontrate
prima di poter essere tollerato e riconosciuto come culto ufficiale
e per l'ostacolo, quasi per ogni dove insormontabile, rappresentato
dalla preesistenza di edifici e fabbriche intorno al foro; quasi mai
la Chiesa cattolica potè costruire la sede vescovile sul foro, che
rimase invece il luogo consueto del mercato. Così a Vercelli[643],
a Cremona[644], a Brescia[645], a Lucca[646], a Piacenza[647], a
Bergamo[648], a Parma[649], a Pavia[650], a Pisa[651], a Ferrara[652],
a Verona[653], a Firenze[654], a Arezzo[655], etc.[656].

Il mercato settimanale anche se non si trovava davanti alla chiesa,
aveva sempre luogo, dunque, dentro alla città, dentro alle sue mura;
mentre la fiera ed il mercato maggiore, di solito si tenevano fuori.
E ciò è da rilevare perchè può fornire un buon punto di partenza per
giungere a formulare un criterio di differenziazione della costituzione
delle città italiane da quelle franco-belgo-germaniche.

La città italiana mantiene sempre una posizione elevata e distinta
di fronte al territorio circostante, che le è annesso e soggetto
ed è caratterizzata da un complesso di norme di natura giuridica,
che rientrano nella più ampia organizzazione dello Stato, ma, come
abbiamo già veduto, sono speciali alla sola città ed al suo suburbio;
e costituiscono il nocciolo da cui con evoluzione progressiva, senza
alcun distacco da un periodo di tempo all'altro, si è venuto formando e
sviluppando quel particolarismo che raggiunge nel medioevo comunale il
momento di maggiore sviluppo[657].

Agli elementi che hanno formato il diritto cittadino deve essere,
dunque, aggiunto anche il mercato vicinale, in quanto che anch'esso si
restrinse alla città ed al suburbio e cooperò validamente al formarsi
di consuetudini e di norme giuridiche, distinte e diverse da quelle del
territorio rurale[658].

Per determinare con precisione tale azione e per rilevare le differenze
e le affinità fra gli usi prodotti dagli scambi vicinali, occorrerebbe
entrare in un'indagine comparativa delle varie consuetudini che si
trovano sparse negli statuti comunali o raggruppate e raccolte insieme
fino dal secolo decimoterzo, la quale esorbiterebbe dal campo di studi
prefisso a questo volume nel quale si vuole esaminare solo la funzione
economica, in quanto rientra nella costituzione delle nostre città
nell'alto medioevo, e si mira ad aprire ed indicare soltanto le linee
generali da cui resulta. Ma non si può fare a meno di determinare
quale è il colore di fondo del quadro di cui le molteplici consuetudini
locali rappresentano le gradazioni, le tonalità e l'ultimo sviluppo.

Anche oggi si conserva fra campagnoli e mercanti di bestiame l'uso di
stringersi a vicenda la mano per conchiudere i contratti; cosicchè il
momento della perfezione risiede non già nella manifestazione verbale
della volontà, ma sibbene nella stretta di mano[659]. Questo accordo
di buona fede, essendo senza alcun valore di fronte alla legge, non
può essere originato dalla legge stessa; tanto è vero che se ne trova
traccia fino al secolo decimoterzo anche nei documenti medioevali[660],
che ne specificano la natura giuridica e lo chiamano col nome tecnico
di _mercato_.[661] E si può risalire ben più innanzi se si osserva
che la frase comune, che, appunto perchè comune è certamente antica,
dell'uso trecentesco «_impalmare la fede_» corrisponde perfettamente,
sia nella forma esterna che nel contenuto giuridico, alla formula
«_manu fidem facere, fidem facere_ e _manum facere_», che si trova
nei documenti del più remoto medioevo[662]. E, quindi, finchè non
sia dimostrato che fra l'una e l'altra si è avuta una soluzione di
continuità, durante la quale è stato in vigore un sistema diverso,
si deve ritenere che il modo di dire volgare sia divenuto comune in
quanto continuava un uso antichissimo dovunque diffuso. E se questo è,
siccome tale formula è sicuramente romana[663] ed è dalle fonti romane
che è passata nei documenti medioevali[664], si può constatare che
questo sistema si trova in perfetto accordo con il rigido formalismo
dell'antico diritto romano, il quale non dette mai all'istrumento
scritto altro valore che probatorio[665]; e si può concludere che anche
questo formalismo resiste alla pressione dell'ultimo diritto romano,
insieme ed al pari di tutti quegli istituti del diritto teodosiano che
si mantennero in Italia malgrado e dopo la legislazione giustinianea;
e che potè trovare favorevoli condizioni di ambiente nel formalismo
dei diritti germanici e, specialmente del diritto salico, ma che
preesistette ad essi e, quindi, non potè esserne originato.

Il che, in conclusione, significa che anche in questo campo si trovano
elementi che vivono in Italia ininterrottamente sino dal tempo di Roma
repubblicana.

Il mercato vicinale ha per scopo il sostentamento della città: esso
le fornisce i mezzi necessarii alla sua esistenza e che da sè stessa
non si può procurare perchè prevalentemente costituita da edifici e da
abitazioni; e li fornisce soprattutto alle classi meno elevate della
popolazione prive di _curtes_ e di terre da cui poterli ricavare. Esso
vive, perciò, della vita della città, si attenua col suo decadere,
progredisce e si trasforma col suo progredire. Intimamente legato ad
essa, ne è elemento sussidiario importante. Non unico però. Quindi
le norme giuridiche originate da questo scambio costituiscono solo
una parte del sistema giuridico proprio della città e si aggiungono a
quelle che già si sono rilevate: ma non completano il quadro; e, per di
più, per determinare l'importanza e la quantità di questa parte occorre
prima ricercare o determinare gli altri elementi che hanno formato la
costituzione e il diritto delle nostre città.


§ 9. — I Langobardi quando, assodata la conquista, si fissarono
stabilmente nel nostro paese, trovarono nelle città e nei castelli, che
erano luoghi forti e muniti, degli ottimi strumenti di dominio contro
i vinti e di difesa contro le incursioni esterne e vi si insediarono di
preferenza curando assiduamente la guardia[666] e la manutenzione delle
mura[667].

La città ed il castello erano contraddistinti appunto dalla presenza
della cinta murata: Rotari, impadronitosi di alcune città della
Liguria, per punirle della resistenza oppostagli, le ridusse a semplici
_vici_ abbattendone le mura: «_muros_ earum usque ad fundamentum
_destruens_, _vicos_ has _civitates_ nominari praecepit»[668].

Ma la città si distingueva anche dal castello: il capitolo 39
dell'Editto stabilisce che quando un reato è stato commesso entro la
città, la pena ordinaria e consueta sia aggravata di una multa speciale
a vantaggio del fisco. Si aggiunge, cioè, alla figura normale di ogni
reato, un nuovo reato che consiste nell'ingiuria alla terra il cui
mantenimento in buono e pacifico stato, la cui _pace_, per usare il
termine tecnico, il re impone in modo particolare — _iniuria terrae_
—; e si fa della città — solo della città, chè del _castrum_ non si fa
parola — un terreno giuridicamente protetto in modo speciale[669].

Questa zona di particolare natura giuridica ha nelle mura dei confini
rigidamente ed immutabilmente fissati. Si ha, dunque, aperta la via a
ricercare da che cosa sia stata costituita in quest'epoca la città nel
senso giuridico della parola; a ricercare, cioè, se sia esistito e di
quale natura ed entità e in quali proporzioni un regime giuridico di
natura pubblica proprio ed esclusivo della sola città, del solo centro
murato cinto di mura; e la posizione di questo regime nell'ordinamento
politico.

Con la disposizione del capitolo 39 non si pone il primo substrato
di una particolare consistenza giuridica della città: se ne
delinea, piuttosto, il riconoscimento ufficiale, completando con un
provvedimento consono ai criteri del diritto pubblico dell'epoca e,
cioè, di natura germanica, uno stato di fatto e di diritto in molta
parte preesistente.

È tutta romana la distinzione delle città e dei castelli, in quanto
cinti di mura dai _vici_ e dai _loci_, aperti ed indifesi[670]; come è
tutta romana la disposizione che punisce severamente chi ne scavalchi
di soppiatto le mura[671]. È tolta di peso da un passo di Modestino
riportato nel Digesto e corrisponde in modo perfetto anche allo scopo
di esso, chiaramente mostrato dal titolo — _de re militari_ — in cui
è contenuto: si può e si deve considerarla come un'altra e nuova prova
che i compilatori dell'Editto ebbero conoscenza delle fonti romane non
solo attraverso a rifacimenti barbarici ma anche direttamente.

I Langobardi, i più feroci dei barbari feroci, ripugnanti ed alieni
dalle sedi fisse e dagli agglomerati numerosi, abituati a vivere
sparsi e disseminati in piccoli gruppi — _vicatim_ — furon tratti,
inconsapevolmente[672], a riconoscere ed accettare la sottile
distinzione fra _urbs_ e _castrum_, perchè la loro venuta, se spazzò
via gli ultimi avanzi dell'organizzazione burocratica romano-bizantina,
non distrusse le basi prime della struttura economica della città,
consolidata da lunghi secoli e che i due regni barbarici degli Eruli
e dei Goti e la trista dominazione bizantina, prostrandola fino
all'ultimo grado di decadenza, avevan dolorosamente preparato a
sopportare senza urti troppo violenti la loro rude signoria.

In Italia non era mai cessato l'antichissimo sistema, probabilmente
preesistente alla stessa conquista romana[673], per cui le più elevate
facoltà giuridiche erano prerogativa esclusiva di coloro che avevano
diritto alla qualifica di _urbani_, i quali in tutti i rami del vivere
civile, dalle magistrature — _magistratus urbanus_ — ai collegi e
corporazioni — _collegium urbanum, collegia urbanorum_ — alle opere
— _opereis urbanorum_ — alla cittadinanza tutta, insomma, intesa nel
senso ristretto del gruppo dei rapporti fra l'individuo e la città, di
cui è cittadino — _urbani_ — _civis urbanus_ — godevano una preminenza
assoluta ed incontestata.

Anche con la legge dell'anno 400 — e già la rovina di tutte le
istituzioni premeva — gli edifici, gli orti e le aree dei pubblici
edifici ed i luoghi pubblici situati entro la città ed il suo suburbio,
insieme ed al pari dei beni ecclesiastici, furono locati in perpetua
conduzione ai soli urbani collegiati e corporati delle singole città.
E più tardi fu solo alla plebe urbana che fu riconosciuto diritto di
partecipare alla cosa pubblica, specialmente riguardo ai beni comuni,
quando fu costretta ad aggiungere il suo contributo personale a quello
ormai insufficiente delle curie e delle corporazioni.

Nè lo perdette quella specie di collegio cittadino, in cui per lo
sbiadirsi sempre maggiore delle proprie caratteristiche individuali,
andaron fondendosi in forzata coesione le varie classi sociali dei
vinti al tempo dei Goti[674].

I Langobardi trovaron tale stato di cose e non lo mutarono.

Erano urbani — _civitatis Reatine habitatoribus_ — quei Reatini i
quali nel 774 ricercarono i confini del _gualdo publico_ presso la loro
città, insieme con il notario Insario incaricatone dal re Rachi, con il
messo del duca Lupone, con il loro gastaldo Immone, con due sculdasci
ed il _marphais_, ed ai quali fu inviato uno dei quattro brevi redatti
alla presenza del duca di Spoleto «et quartum (breve) quidem direximus
ad supradictos _homines in Reate_»: dice il documento[675].

E la presenza del gastaldo stesso di Rieti alla compilazione ed
all'invio del breve mostra che la solidità e la consistenza giuridica
del gruppo da essi formato di fronte allo Stato, di cui egli era il
rappresentante, non era minore di quella, che già si è avuto occasione
di accennare, dei cittadini di Pavia, di Piacenza, di Cremona, di
Verona, etc.; i quali erano _urbani_ al pari di questi; come è provato
dalla qualifica di _habitatores_ urbis, de civitate, con cui li
vediamo chiamati[676] quando, come in quest'ultima città, non son detti
addirittura urbani.

Il conte Nannone, per esempio, incaricato da Ottone I. di dirimere
una controversia fra il vescovo Raterio ed i suoi concittadini, il 30
giugno 968, seduto al suo tribunale, interroga e si rivolge ai soli
urbani — «ita orsus est loqui: quid vobis videtur, _urbani_, de isto
prato?» —[677].

Nella nota convenzione stipulata nel 1037 tra il vescovo Olderico ed i
cittadini di Brescia, a proposito dei beni comuni della città[678], la
concessione dei medesimi non è fatta a tutti i _vicini_ della _civitas_
di Brescia; ma solo a quelli di essi che abitavano entro le mura:
vos qui supra — (presbisteris ceterisque liberis hominibus Brixiam
habitantibus) — _vicinos_ eiusdem _Brixiae civitatis habitantes_
vestrosque filios et heredes, et proheredes simulque omnem progeniam
vestram.

E ancor più evidente è quello che avviene a Mantova, dove, col diploma
imperiale del 1055, sono detti e qualificati cives anche gli arimanni
entrati ad abitare entro le mura e sono protetti in modo speciale
e differente da tutti gli altri arimanni sparsi per il territorio
mantovano — predictos cives, videlicet _ermannos in Mantua civitate
habitantes_[679].

A Bergamo nel 1081 il vescovo Arnulfo decide una grave controversia
che da tempo si agitava fra i canonici di S. Vincenzo e quelli di S.
Alessandro per causa di certe decime, con l'aiuto e il consiglio di
«multorum clericorum, _civium, extraque urbem manentium sapientum et
nobilium._[680] Dei non urbani (extra urbem manentes) non partecipano
che i nobili e i sapienti[681] mentre i cittadini partecipano tutti e
chi fossero questi cives lo indica la contrapposizione e la preminenza
su quelli che vivevano fuori delle mura: erano gli urbani.

A Pavia nel 1084[682] comparve nella corte del vescovo, alla presenza
dei capitanei, dei valvassori e dei cittadini maggiori e minori della
città — presentia capitaneorum, vavasorum et _civium majorum seu
minorum ipsius civitatis_ — l'abate Veridiolo per querelarsi contro
l'abbadessa del Monastero di S. Maria Teodota; ed il predetto popolo
dei maggiori e minori cittadini — _predictus popolus tam majorum
quamque minorum_ — stabilì di prendere il monastero sotto la propria
_defensio_ — la parola ed il significato corrispondono pienamente a
quelli dei diplomi regi ed imperiali — affinchè nessuno osasse turbarlo
e sempre rimanesse «_in ipsorum istorum civium majorum seu minorum
potestatis defensione_».

Dato che il notaro Eurico dichiara di avere scritto questo _decretum_
per invito dei _capitanei_ dei _valvassori_ e dei _cives_ — per
ammonitionem istorum capitaneorum et vavasorum et _civium_ —: è
chiaro che questi _cives_ costituiscono una classe sociale distinta
ed inferiore — dal momento che è ricordata per ultima — alle due prime
nell'ordine politico: ma di autorità tale da aver diritto di cooperare
con esse in affari di primaria importanza. Che anzi, dal documento
appare in modo non dubbio che a prendere l'iniziativa furono proprio e
soltanto i _cives_.

Nel documento — e l'osservazione vale anche per i documenti ricordati
più avanti — _civitas_ indica sempre il complesso delle abitazioni
chiuse entro le mura: il monastero di S. Pietro, per es., è detto
«extra murum predictae civitatis»; e un altro documento dello stesso
anno e dello stesso luogo[683] specifica che un tal Uberto, ottimo
milite, è _civis Papiae urbis_. Il significato di _urbs_ non ha bisogno
di spiegazioni; così come è sintomatico che il poeta bergamasco Mosè
del Brolo, fiorito nella prima metà del secolo decimosecondo[684],
chiami cives solo coloro che abitano entro le mura e urbana negotia
tutti gli affari d'importanza[685].

Nè si può passar sotto silenzio — pur tralasciando tutti gli altri
documenti in cui si ricordano cives — l'esempio, che ha con quello
pavese bei punti di contatto, fornito dalla «Relatio de innovatione
ecclesie sancti Geminiani» scritta probabilmente verso la fine del
1106[686].

La vecchia chiesa di S. Geminiano di Modena minacciando rovina, l'_ordo
clericorum_ e l'_universus eiusdem ecclesiae populus_ cominciano a
discutere sui provvedimenti da prendersi.

Finalmente in tempo di sede vacante, cioè probabilmente dopo la morte
del vescovo Benedetto nel 1099, per consiglio concorde così del clero,
come dei cittadini e degli arcipreti di tutte le pievi rurali e dei
militi della chiesa stessa — _unito consilio_ non modo _clericorum_...
sed et _civium_ universarumque _plebium prelatorum_ seu _etiam eiusdem
ecclesie militum_ — si decide la costruzione di una nuova chiesa.

Nel 1099 _mutinenses cives et omnis populus_ danno principio alla nuova
fabbrica. Nel 1106, sotto il vescovado di Dodone, la fabbrica del nuovo
tempio è giunta a tal punto che vi si può trasportare il corpo di S.
Geminiano.

Fissata la traslazione per il primo giorno di maggio se ne dà avviso
non solo a tutta la diocesi ed alle «comprovintiales civitates»
ma anche alle «adiacentes». Si raduna quindi in Modena un «maximum
episcoporum _concilium_, clericorum, abbatum et monacorum, fitque
_congregatio militum_, fit et _conventus populorum_ utrisque sexus»
come a memoria d'uomo non si era visto mai. Vi accorre anche «cum suo
exercitu» la contessa Matilde.

Avvenuta la traslazione nasce una disputa abbastanza vivace fra
i vescovi ed i _cives_ perchè i _presules_ desiderano revelare le
reliquie del santo ed i _cives autem et omnis populus_ ci si oppongono
recisamente. Si ricorre alla contessa Matilde la quale si toglie
d'imbarazzo consigliando di attendere la prossima venuta di Pasquale
II; e giunto il papa nell'ottobre, per suo consiglio si procede
all'apertura del tumulo dopo aver deputato alla custodia del corpo di
S. Geminiano _sex viros de ordine militum et bis senos de civibus_
obbligatisi prima con giuramento a custodirlo e salvarlo da ogni
pericolo di violazione.

La città, dal punto di vista ecclesiastico, resulta dell'_ordo
clericorum_ e dell'_universus eiusdem ecclesiae populuis_ e cioè degli
ecclesiastici e dei laici viventi entro i suoi confini: ma di questi
ultimi alla deliberazione effettiva con cui si decide la ricostruzione
della chiesa, insieme con gli arcipreti del contado ed i vassalli del
vescovado partecipano solo i _cives_; soltanto i _cives_ hanno diritto
di opporsi al parere dei prelati riguardo alle reliquie e solo i
_cives_ hanno l'onore di vegliarle e possono pretendere ed ottenere di
essere in numero doppio di quello dei militi onde pareggiare col numero
lo squilibrio della diversità di armamento e esser posti in pari grado
con loro.

Eppure alla ricostruzione della chiesa non sono soltanto i _cives_, ma
anche tutto il _populus_ che partecipa e concorre.

_Populus_ indica tutti i parrocchiani di una pieve, urbana o rustica
che sia, maschi e femmine indistintamente — populi utriusque sexus
— ma fra questi — nel primo caso, che è quello ora in esame — si
distingue una classe speciale, la quale ha facoltà così energicamente
assodate che anche nella decisione di affari di apparenza e di veste
esterna prevalentemente religiosa — di sostanza non si può dire per
l'intimo legame che univa la cattedrale alla città — non solo supera,
ma esclude addirittura l'intervento di quegli altri che pure fanno
parte integrante dell'identica ed unica istituzione, che li accomuna
egualmente alla stessa chiesa, allo stesso fonte battesimale, allo
stesso culto.

_Cives_ sono i soli _urbani_: i suburbani costituiscono il rimanente
del _populus_.

E della distinzione, della separazione anzi, fra gli uni e gli altri si
ha anche la riprova.

I consoli di Bergamo, avendo deciso nel 1171[687] di erigere in
borgo franco il castello di Romano nuovo, stabilirono che i burgensi
dovessero fare «ostem, vardam, et laborem et tractum» secondo i loro
precetti, pagare i dazî e le imposte solo quando li avrebbe pagati
la città e godere di una libertà pari a quella di uno dei borghi di
Bergamo: «ad modum burgi debent stare et esse et _ita debent esse
liberi ut unus ex burgis civitatis Bergomi_».

Questi borghi sono quelli attaccati alle mura cittadine — i consoli,
dice il documento, devono comandare a quelli di Romano nuovo
_sicuti hominibus suburbiorum suorum_ —; e il documento, accennando
esplicitamente alla libertà dei borghi sorti presso le porte della
città, fa risaltare in modo evidente che la città doveva godere una
libertà diversa e, per conseguenza, maggiore: il limite fra i due
regimi giuridici non poteva esser segnato che dalle mura.

Non si avverte, se non m'inganno, soluzione di continuità fra il più
antico materiale epigrafico e quest'ultimo documento.

La conversione dei Langobardi al cattolicismo, favorita dalla
condiscendente negligenza dei sacerdoti ariani, riconosciuta perfino
da papa Gregorio I, fu rapida e grande: Autari — tanta era già la
frequenza dei battesimi — proibì che i neonati fossero battezzati e
a pochi decenni dall'invasione il cattolicismo penetra anche nella
corte regia, con effetti deleterî per la costituzione langobarda. Il
culto, come abbiamo veduto, legava con vincoli fortissimi gli adepti
e li strappava allo Stato: chi, convertito, entrava nella comunità
cristiana, entrava a viver la vita non soltanto religiosa, ma la
vita civile, che si assommava in gran parte in quella religiosa,
del popolo vinto e con l'entrarci dell'elemento germanico vincitore
ne alzava il livello sociale; e con moto irresistibile spianava la
via all'equiparazione nel campo del diritto pubblico. La decima
che il nuovo convertito si obbligava con giuramento a pagare per
sè e per i suoi successori, era per lui un obbligo volontario
liberamente contratto: ma per quelli che venivano dopo di lui e
che si trovavano obbligati per virtù del patto da lui giurato e da
essi inconsapevolmente accettato con l'involontario ricevimento del
battesimo nei primi anni della loro puerizia, assumeva l'aspetto di
una vera e propria imposta facilitata nel pagamento, piuttosto che
confermata nel diritto e apriva pian piano l'adito alla partecipazione
di tutti i cittadini, di qualunque origine e di ogni nazionalità,
agli oneri che gravavano sulla città: oneri, che avevano al momento
della conquista un carattere in completa opposizione con la natura
dei Langobardi e che dai Langobardi, nei primi tempi, certamente non
furono sopportati, mentre poco tempo dopo si vedono gli habitatores
tutti di varie città obbligati indistintamente a tali prestazioni ed
oneri: difesa, costruzione e riparazione delle mura etc. etc. ripartite
secondo il vecchio sistema romano e con una cooperazione dello Stato
inconcepibile nella organizzazione germanica: segno innegabile di
un predominio di concetti e sistemi proprî dei vinti e dai vincitori
accolti e condivisi. Ed in tutti i rami della vita civile l'elemento
romano assorbiva dentro di sè, trasformandolo ed infondendogli la
propria civiltà e le proprie consuetudini, l'elemento germanico.

Artefice e fucina di questa trasformazione fu la città.

La città non perdette mai la sua preminenza sul territorio rurale. La
sua importanza economica attraeva irresistibilmente i Langobardi sia
che ancora conservassero la _sors_ guadagnata con la vittoria, sia,
ed ancor più, se l'avevano perduta e la sua importanza strategica
aumentava rapidamente il livello sociale dei suoi abitanti,
richiedendone la cooperazione nella difesa e nella guardia delle mura
a cui l'esercito vero e proprio, mai molto numeroso ed in progressiva
diminuzione per l'uso di combattere a cavallo, era del tutto
insufficiente.

Rotari stesso parla della sculca come di un servizio che di poco
differisce dal servizio militare vero e proprio[688]. E questa sculca,
che i documenti chiamano, e giustamente, col suo bel nome romano di
excubiae[689]; comprende ed indica quei varî servizi di riparazione
e di guardia e di difesa delle mura che gli urbani continuavano a
sostenere dal tempo romano e che ora, condivisi anche dai vincitori,
vanno perdendo il carattere umiliante che loro era stato inflitto dai
Goti. E così gli urbani, riacquistato il diritto alle armi, assurgono
ad un grado elevato nella considerazione sociale e politica e formano
anch'essi un esercito: l'esercito degli abitanti della città, dei
cittadini — _exercitum senensium civitatis_, dice un documento del
730[690] — distinto dall'esercito formato da quegli altri che abitano
nel territorio giurisdizionalmente soggetto alla città.

Ma non manca, però, una vigorosa azione germanica la quale con forza
ed indirizzo prevalentemente negativo in parte non piccola distrusse,
in parte erose ed in parte trasformò la costituzione della città, per
modo che quella che ne resultò se fu meno lontana dall'antico municipio
romano che dal rude _gau_ barbarico, ebbe natura, funzioni, caratteri
ed elementi tutti suoi proprî.

Nella costituzione langobarda anche quando, conquistata l'Italia, il
potere regio, sotto l'esempio e l'azione del diritto romano e della
Chiesa, si fu affermato vigorosamente sui gruppi famigliari e gentilizi
ed ebbe sostituito pene pubbliche ed irrogate d'autorità pubblica alle
vetuste pene private, permane e si conserva il criterio barbarico per
il quale la convivenza sociale piuttosto che dall'azione regolatrice di
un potere centrale, è assicurata dalla pace intervenuta fra i gruppi
parentali, in seguito alla coesione spontanea a scopo di difesa e di
conquista da cui ebbe origine lo Stato; e per il quale la violazione
del diritto è considerata reato nei rispetti della collettività in
quanto, riaccendendo uno stato di guerra e di inimicizia fra i nuclei
che la compongono, perturba questa pace.

Sulla considerazione degli elementi intrinseci del reato (che si fa
strada a stento e scarsamente, appena per qualcuno dei più generali,
quale l'elemento subiettivo ed individuale) continua a prevalere la
considerazione degli elementi oggettivi ed esterni: il danno alla
pace pubblica ed il danno alla parte lesa. E così, mentre dalle
composizioni private stabilite per convenzione volontaria delle parti
nasce il guidrigildo, commisurato sullo stato e la qualità della
persona e completato dal minuto formalismo delle disposizioni penali;
così entro la protezione generale che si stende su tutto e su tutti
si disegna un'altra protezione particolare che il re, per mezzo del
suo _banno_, concede in modo e misura variabili a persone ed a luoghi,
proporzionandola, nel primo caso, alla loro condizione, nel secondo
alla loro importanza. La prima è il _mundio_; la seconda è la _pace_.

Questa _pace_ è tutta germanica.

Quando l'Impero romano raggiunse il massimo splendore, una pace immensa
e maestosa ne illuminava l'estesissimo territorio dove il diritto e
la giustizia dominavano sovrani, di contro alle tenebrose regioni
barbariche, turbate di discordie e di stragi nelle perenni guerre
interne. E sorse un vero e proprio culto per questa _immensa romanae
pacis majestas_[691] che formò dal secondo secolo dopo Cristo in poi,
il substrato di tutti i pensieri politici nell'orbe romano[692] e
che culminava nel concetto di cittadinanza, per la quale il _civis
romanus,_ soggetto delle più ampie ed elevate facoltà giuridiche,
emergeva su tutto e su tutti nel vasto dominio soggetto a Roma e retto
dal suo diritto.

Invece la _pace_ di cui il re langobardo protegge la città è
l'esponente della mancanza di unità di criterî giuridici e di impotenza
di applicazione dei medesimi, per la quale il diritto, non applicato
ovunque con gli stessi criterî e con lo stesso vigore, forma quà e
là entro i confini dello Stato delle oasi privilegiate. Fra queste
tiene il primo posto la città. La città, che era stata anche al tempo
romano l'unica circoscrizione conosciuta, apparve sino dai primordi
della conquista come l'unica base del governo locale. E poichè così
per le contingenze della difesa presente come per le tradizioni e
le consuetudini dell'antico tempo[693], si chiudeva nelle mura, si
sviluppò un diritto di cittadinanza ristretto al solo centro murato e
le cui facoltà, riservate esclusivamente a coloro che vivevano entro le
mura, non si irradiarono al di là del suburbio ed ogni città fu centro
e termine di una cittadinanza ed in ognuna _civis_ fu solo l'_urbanus_.

E siccome lo Stato barbarico era incapace di coordinare le varie
energie locali in modo da fonderle in un unico e saldo organismo, come
aveva fatto lo Stato romano; questo ristretto sistema di cittadinanza
si affermò con continuo e crescente vigore nella costituzione
politica e vi rappresentò e costituì una vera e propria classe sociale
suscettibile anche di gradazioni interne, distinta da tutte le altre,
di fronte alle quali, anzi, conquistò una posizione di indiscussa
egemonia.

A Bergamo i _cives_, l'abbiamo veduto or ora, son chiamati a decidere
delle questioni più gravi insieme con i _nobiles_ ed i _sapientes_;
a Modena, a Milano, a Pavia nel secolo decimoprimo, distinti in
_majores_ e _minores_, contemperano l'azione dei _capitanei_ e dei
_valvassori_ e il movimento toccò in breve il suo culmine, chè con i
Comuni il _diritto_, che si può chiamare _urbano_, e che anticamente
era stato il primo e meno elevato gradino del diritto di cittadinanza,
fu fine e termine a sè stesso e il paese resultò formato di tante ed
autonome città senz'altro vincolo comune e reciproco che le ideologiche
costruzioni della monarchia e dell'Impero.


§ 10. — L'organizzazione degli antichi municipî riposava sulle curie
e sui magistrati e queste e quelli, insieme con le corporazioni
che costituivano come le membra della città, pensavano al disbrigo
degli affari. Ma dai primi del secolo quinto, sotto la pressione
irresistibile delle necessità di difendersi contro le invasioni da
ogni parte irruenti, fu chiamata a vigilare e a combattere anche
la plebe urbana ed in correspettivo, le furon riconosciute delle
speciali facoltà nei rispetti della cosa pubblica le quali si
aggiunsero, integrandole, a quelle degli organi già esistenti, in
proporzione del contributo portato dai nuovi venuti; e fecero sì che
per i provvedimenti di maggiore importanza fu necessario il _communi
consensu_ di tutti i cittadini[694].

Per manifestare questo comune consenso che richiedeva una generale
riunione, fu scelto il luogo nel quale era già antica consuetudine
che tutti indistintamente si riunissero accomunati dalla fede e cioè
sul sagrato della Chiesa, alla quale lo Stato affidava, per non dire
addirittura abbandonava, una parte sempre più ampia dei suoi impegni e
dei suoi doveri.

E così la Chiesa, oltre ai veri e proprî compiti che disimpegnava già
prima come religione ufficiale dello Stato, coprì con la sua protezione
questa nuova e speciale assemblea che aveva per carattere distintivo
una funzione suppletiva ed integratrice dell'amministrazione normale
della città.

Con i Goti questa funzione suppletiva si accentuò in proporzione
della decadenza sempre maggiore delle curie e delle corporazioni ed
in correlazione del formarsi di un unico e forzato _collegium_ che
comprendeva tutta la città. E di più avendo essi riserbato soltanto
a sè stessi l'uso delle armi e l'esenzione dalle imposte ed avendo
incamerati nel Fisco regio i beni pubblici delle città, sanzionarono di
diritto e di fatto agli italiani una condizione di inferiorità civile e
ridussero le loro facoltà su tali beni a semplici diritti di uso.

I Langobardi spazzaron via con gli ultimi avanzi delle curie e
delle corporazioni quanto ancora rimaneva dell'antico organismo
burocratico romano-bizantino; ma non ebbero ragione di impedire la
riunione degli indigeni dinanzi alla Chiesa, sia perchè esternamente
e superficialmente si presentava di natura religiosa, sia perchè
funzionava molto bene come mezzo di pubblicità e di estorsione di
imposte; ed in nessun modo poi, allo stato in cui l'avevano ridotta
i Goti, dava ombra od ostacolava la dispotica volontà dell'ufficiale
pubblico preposto alla città.

Rotari, inspirandosi al cap. 58 dell'Editto di Teodorico, accenna al
_conventus ante ecclesiam_ come al luogo dove si poteva far bandire
dal precone il rinvenimento di un animale smarrito e di cui si
fosse ignorato il proprietario[695]; quasi come un semplice mezzo
di pubblicità, così come al tempo goto, durante il quale non fu
infrequente il caso che anche le leggi, incise in tavole di marmo,
fossero murate negli atrî delle chiese. Ma, quantunque Rotari, sia
stato ariano intransigente, nazionalista convinto e per conseguenza
ostile all'elemento indigeno ed alla parte romanizzante del suo popolo
e abbia inteso a raccogliere in iscritto le antiche consuetudini e le
vecchie leggi dei suoi per conservar loro quel predominio assoluto,
che era andato rapidamente diminuendo; pur dalla stessa sua legge
appaiono dei sintomi che accennano ad un notevole aumento di importanza
del convegno che ogni giorno festivo si raccoglieva sul sagrato della
pieve.

Egli distingue nettamente le riunioni illecite sia dei rustici —
rusticanorum seditiones, concilios[696] — che dei cittadini — zavas et
adunaciones... per singulas civitates[697] — dalle altre; e queste, in
conseguenza e conformità dell'antico sistema germanico per il quale
non si concepisce un'assemblea senza carattere politico giudiziario,
appaiono investite di uno spiccato carattere legale. Tutte le riunioni
e le adunanze contemplate e consentite dall'Editto, invero, sono
protette con la pena gravissima di 900 solidi — «si quis (stabilisce
infatti il cap. 8) in consilio vel quodlibet conventu scandalum
commiserit noningentos solidos sit culpabiles regi» —. Ora dal momento
che il cap. 343 parla di un _conventus_ ed il cap. 8 protegge con tale
pena tutti i _conventus_ indistintamente — _quodlibet conventu_ — e
dall'Editto non è sanzionata alcuna eccezione a tale proposito, si deve
ammettere che anche il _conventus ante ecclesiam_ sia stato protetto
dalla stessa pena. Ed allora, essendo certo che la gravità della pena
non può essere stata causata dalla vicinanza del _conventus_ ad un
luogo sacro, perchè lo stesso Rotari limita a 40 solidi la pena di
chi commette uno scandalo in chiesa[698]; il fatto che Rotari abbia
tutelato il _conventus ante ecclesiam_ con la pena di 900 solidi, che
è la pena massima che protegge la funzione politico-giudiziaria, anche
se non si vuol giungere alla conseguenza che egli l'abbia considerato
come un vero e proprio organo di essa, è, però, un indizio sicuro che
al suo tempo l'assemblea davanti alla chiesa, nella quale il precone
esercitava normalmente e giuridicamente le sue abituali funzioni,
e che, per certi riguardi, era equiparata all'azione dello stesso
giudice, era qualche cosa di diverso dalle umili e mal sopportate
riunioni dei fedeli in cui — nei primi anni dell'invasione — si
trattavano affari e cose esclusivamente religiose.

Venuti come nemici e stabilitisi come conquistatori, i Langobardi
continuarono a reggersi con i sistemi originarî escludendone
completamente i vinti e intesero di conservarsi un assoluto e completo
predominio. Gli effetti furono precisamente opposti. Ciò fece sì che
quando gli Italiani, riavutisi un po', cominciarono a rialzarsi, ogni
loro spinta verso l'alto fu un colpo di piccone alla costituzione di
quelli.

E il fulcro e l'organo primo di questo movimento fu appunto
l'assemblea cittadina la quale era una forma semplice quant'altra mai
di amministrazione e si attagliava perfettamente alle consuetudini
germaniche alle quali si avvicinava in modo singolare per quanto
concerneva i beni pubblici comuni, rispetto ai quali gli urbani
avevano un diritto paragonabile, almeno nella manifestazione esterna,
a quello di cui nell'organizzazione germanica godono i commarcani sui
beni comuni della marca. Ed offriva un ottimo punto di riunione agli
elementi germanici che la religione cattolica, la civiltà romana, la
costituzione cittadina ed il variare delle condizioni economiche e
speciali strappavano alle schiere dei Langobardi.

Dalla venuta dei Langobardi quest'assemblea perde il carattere di
organo suppletivo e diviene l'organo esclusivo dell'amministrazione
interna degli urbani e inizia un'evoluzione per la quale dal
momento in cui, sotto il duca o il gastaldo, le sono permesse solo
ristrettissime facoltà, attraverso ad un progressivo incremento,
sboccia nell'assemblea generale che elegge i consoli e origina e forma
il Comune.

Rotari, sia pure involontariamente, riconosce alla riunione dinanzi
alla chiesa un certo valore anche perchè equipara il bando fatto in
essa dal precone alla denunzia fatta al giudice ed ancor più fortemente
accentua la consistenza del gruppo vicinale — dal quale non eran certo
esclusi gli indigeni — nel cap. 176 dove dichiara che per l'espulsione
del lebbroso è indifferente che la constatazione della malattia sia
fatta dal giudice o dal popolo — judici vel populo certa rei veritas
—[699].

Lotario dopo aver stabilito che i documenti dovessero essere redatti
da veridici ed onesti notai alla presenza del conte, dei vicarî o degli
scabini, volle che quando questo non era possibile, come, per esempio,
per i testamenti, la carta fosse mostrata o agli ufficiali pubblici o
nel convegno davanti alla chiesa — statim charta ostendatur vel ante
comitem judices vel vicarios, _aut in plebe_, ut verax agnoscatur
esse[700].

Nei capitolari langobardici dell'803[701], prendendo alla lettera un
antico concetto della romanità decadente, è detto che certi soprusi
«_ipsa plebs_ non patiatur» e fu consuetudine che le ordinanze che
imponevano l'eribanno dovessero esser lette _coram populo_.

E la riunione consueta del popolo era davanti alla pieve.

Più importante di tutti, poi, a lumeggiare l'entità e la consistenza di
questa riunione è ciò che si sa di Piacenza.

Pipino nel suo Capitolare del 790 circa si esprime testualmente così:
«Non est nostra voluntas ut homines _Placentini per eorum praeceptum_
de curte palatii illos aldiones _recipiant_[702].

Il diploma parla in modo non dubbio di un _praeceptum_ fatto dai
Piacentini. Quest'atto, dunque, non era dovuto nè al rappresentante
dell'autorità pubblica nella città, nè al vescovo; tanto nell'uno che
nell'altro caso si sarebbe usata una formula diversa. Si sa quanto
scrupolosa esattezza sia stata usata dai notai e non è credibile che
mentre si hanno tante disposizioni che concernono i conti e gli altri
ufficiali pubblici ed i vescovi e gli altri ecclesiastici, proprio
in questo documento che ha tutto il carattere di una legge, si fosse
arrivati ad un'aberrazione simile.

Non era il conte, non era il vescovo che aveva formato il _praeceptum_:
era la _civitas placentina_: quella civitas che si distingueva
egualmente dallo Stato e dalla Chiesa e che aveva anche il suo notaro
— _exceptor civitatis placentinae_ — distinto dal notaro del re e dal
notaro della Chiesa; e che si radunava a discutere e a risolvere, con
un'energia giuridica che in qualche caso giungeva fino a tentare di
sovrapporsi a quella regia, le questioni che più la interessavano.
Infatti essi in questo caso non trattano dei beni comuni, ma esercitano
la loro azione anche in altri campi e di grande rilievo. E da troppo
poco tempo era cessata la dominazione langobarda perchè si possa
pensare che tale sviluppo si sia avuto solo nei pochi anni del regno
franco, il quale, è noto ma è bene ricordarlo, non ha portato troppe
innovazioni in Italia, nè — mai — senza il consenso dei Langobardi.

E ben a ragione Pipino parla di _praeceptum_, adoperando il termine
che è usato per indicare l'espressione giuridica della volontà delle
persone pubbliche in atti di grande importanza.

Questo _praeceptum_ in sostanza è una vera e propria concessione di
cittadinanza con la quale i piacentini accolgono fra loro — recipiunt —
gli aldî regi e illumina internamente quella consistenza del gruppo dei
_cives_, che i documenti fin qui riportati lumeggiano esclusivamente
nei rapporti con l'esterno.

Esso dimostra, infatti, che per essere ammessi a farne parte non
bastava un'accettazione tacita, ma occorreva una dichiarazione solenne
la quale era fatta da tutti i _cives_ e soltanto da loro e solennemente
era consacrata in scritto e comprova così l'importanza del gruppo
stesso.

E quel che avveniva a Piacenza si può con grande verosimiglianza
ritenere che sia avvenuto da per tutto. A Rieti, a Verona, a Cremona ed
in altre città i documenti esaminati nelle pagine precedenti provano
tutti concordi e sicuri l'esistenza del gruppo ben determinato dei
_cives_, degli _urbani_, i quali costituiscono una vera e propria
_universitas_ giuridicamente riconosciuta, così nei rispetti delle
persone come del territorio ed alla quale inoltre sono perfino
riconosciute in modo preciso delle terre e dei beni pertinenti con
rapporti varî di diritto: una _universitas_ che può stare legalmente
in giudizio presentandosi collettivamente o facendosi rappresentare,
in quel modo che consentiva la rudimentale procedura dei giudizî del
tempo, da proprî e speciali delegati, i quali erano riconosciuti come
tali anche in controversie nelle quali gli _urbani_ stavano contro
l'autorità pubblica dello Stato e dei suoi rappresentanti e contro la
Chiesa; un'_universitas_, infine, che ha anche un proprio e speciale e
caratteristico notaio — l'_exceptor civitatis_.

È all'_universitas_ degli urbani che è dovuto il _praeceptum_
piacentino.

E gli urbani si raccoglievano per discutere e per decidere nella piazza
davanti alla Chiesa.

L'uso era così generale che qualche volta dava anche il nome alla
piazza stessa: a Milano il Foro pubblico (che si trovava dinanzi
alla Cattedrale) ne fu detto _asamblatorium_. Ce lo fa sapere un bel
documento del 789[703] e di certo non è a credere che si cominciasse
proprio da quell'anno.

Nè l'assemblee che in esso si raccoglievano avevano soltanto o
prevalentemente carattere religioso: la prova offerta da quanto si è
detto fin qui, è tale da render superfluo la menzione della riunione
nella quale, verso la fine del secolo nono[704], l'abbate Pietro del
monastero di Sant'Ambrogio, chiese ed ottenne dall'arcivescovo, dal
conte, dal clero e dal popolo, la concessione di una strada — pro qua
Petrus abbas a venerabile antistite Anspertum seu comite Alberico seu
cuncto clero et populo devotissime petiit —.

E l'ascensione degli urbani e della loro assemblea, una volta sbocciata
in pieno sole al tempo dei Franchi così favorevoli alla Chiesa,
progredisce sempre più rapida con i re d'Italia e con gli Ottoni che
dei vescovi fanno il pernio principale del governo dello Stato e quello
esclusivo del governo della città. E l'assemblatorium cambia ancora
il suo nome per denotare il nuovo e più ampio complesso di funzioni:
diviene il consulatus civium. «Actum in civitate Mediolani in consulatu
civium prope ecclesiam sancte Marie» dice un documento del secolo
decimoprimo[705].

E questi _cives_ sono proprio e soltanto gli urbani, i quali si
raccolgono nella gran piazza per discutere e provvedere ai loro
particolari bisogni — _consulere_ — separatamente dalle classi feudali
dei capitanei e dei valvassori e che si uniscono a questi solo per
gli affari di comune e principalissima importanza quale ad esempio
l'esenzione per sei giorni della _curtadia_, una speciale tassa di
mercato durante le feste dei SS. Gervasio e Protasio e la tregua di
sedici giorni per tutti coloro che vi fossero accorsi, stabilite nel
1098 ed allora, tutti insieme, formano il _communi consilio totius
civitatis_ presieduto dall'arcivescovo[706].

Due anni dopo questa generale assemblea si trova qualificata come
_magistratum_: — Tunc ante Magistratum praeterea sancimus ut etc.[707].

E l'uso ed il senso di tale parola non è nè eccezionale nè isolato.
Ecco la formula di un documento del 1056 rogato a Bologna con cui
la contessa Willa vedova del Duca e marchese Ugo di Toscana dona la
libertà alla sua serva Cleriza. «Abeatis vias apertas, dice ad un certo
punto l'atto, portas Paradisi, portas Civitatis, portas Castellis, _in
placitis et in conventis locis ambulare et stare_ et Wadia pro te dare
et omnes fines facere comodo melius potueritis vel volueritis»[708].

L'espressione «ambulare et stare» messa fra la menzione del placito e
quella della wadia, ha un senso tecnico giuridico corrispondente alla
lettera al nostro «andare e stare in giudizio»; e fra quei «conventis
locis», che non sono delle riunioni qualsiasi dal momento che la
formula li ricorda così esplicitamente, tiene di certo il primo posto
il _conventus ante ecclesiam_.

Ancora un passo e la città incapace di _consulere_ direttamente da sè
stessa in tutti i numerosi bisogni e nell'impossibilità di assistere
volta per volta i suoi delegati e bisognosa di un organismo più consono
al suo progredito sviluppo ed ai suoi maggiori bisogni e all'aumento
della sua popolazione nominerà in _colloquio facto sonantibus
campanis_[709] con mandato generico, in maniera stabile e a tempo
determinato, varie persone, incaricate di _consulere_ abitualmente
al disbrigo normale delle evenienze le quali verranno così ad averne
l'antico e fatidico nome di _consules_ richiamantesi alla più pura
romanità: e sarà sorto il Comune.

Così, spinti dalla necessità di seguire la corrente dalle origini fino
al momento in cui fluisce luminosa in ampia e meno sconosciuta pianura,
siamo giunti fino al termine dell'epoca storica di cui in questo volume
si intende solo studiare gli inizi.

Rifacciamoci dunque indietro.


§ 11. — Il _consilium civitatis_ è un vero e proprio elemento dinamico
di primissimo ordine nella costituzione della città. Ma non è il solo.

C'è un altro e non meno importante fattore di norme giuridiche,
il quale fu importato dai Langobardi e che richiede ora la nostra
attenzione.

L'_assemblatorium_ milanese non ebbe di certo nulla a che fare con
la maggiore assemblea del regno langobardo. Questa era composta dei
primati o ottimati e di tutto il felicissimo esercito e si radunava
non già sulla piazza della cattedrale; ma nell'antico anfiteatro romano
che si trovava presso, ma al di fuori delle mura di Milano — _in circo
apud Mediolanum_, — dice Paolo Diacono narrando l'incoronazione di
Adaloaldo, e queste parole ci lasciano supporre che con ciò si seguisse
una consuetudine da gran tempo invalsa, quando speciali esigenze
specialmente militari, non la chiamavano altrove[710].

E fin qui nulla di strano: l'assemblea generale aveva carattere
straordinario, eleggeva il re, trattava gli affari di generale
importanza per tutto il regno, come la formazione e la pubblicazione
delle leggi, la dichiarazione di guerra o la stipulazione di trattati
etc. Dovunque si fosse raccolta, si distingueva facilmente, per la
costituzione e per le funzioni d'indole generale, dalla ristretta
riunione dei componenti di un'unica pieve.

Ma i Langobardi non si sono assisi soltanto a Milano sulle
ampie gradinate degli anfiteatri romani.

A Lucca in un atto dell'808 l'antico anfiteatro è detto
_parlascium_[711] ed il termine non è romano perchè le fonti romane
non lo hanno, ch'io sappia, mai usato in questo senso e non è
d'origine germanica[712] perchè, anche senza contare che i documenti
lucchesi medioevali hanno un sapore di romanità piuttosto classica che
decadente[713], a poca distanza da Lucca lo stesso termine è stato
dato ad un luogo dove non è mai esistito alcun anfiteatro[714], ciò
che prova che il vocabolo non è usato ad indicare i soli anfiteatri,
ma anche altri luoghi, i quali servissero a simile uso. L'ipotesi più
plausibile è che il nome sia derivato dalla funzione a cui il luogo
era adibito; e quale fosse questa funzione è facile congetturare
dalla relazione intima ed appariscente ed in perfetta armonia con
la condizione del linguaggio di quel tempo a Lucca (dove appaiono
prestissimo notevoli e numerosi segni del nuovo volgare italico) della
parola _parlascium_ col verbo _parlare_, di cui è evidente filiazione:
era il luogo dove si parlava, dove si discuteva per eccellenza. E
queste discussioni, se dettero all'edificio un nuovo nome, dovettero
essere frequenti, numerose ed importanti.

Non è soltanto a Lucca che questo avviene: ad Arezzo[715], a Pisa[716],
a Firenze[717], in Toscana; a Cremona[718], a Bergamo[719]; in tutta
Italia, insomma, gli antichi anfiteatri sono chiamati con voci che
ripetono l'origine dal verbo parlare, più o meno trasformati dal
vernacolo dei vari luoghi e dal trascorso dei secoli: _parlascium,
parlasium, perlasium, perilasium, perlassi_, etc.

A Firenze, anzi, c'eran due _parlasci_: il _parlascium majus_ ed il
_perilasio picculo_, del quale a noi oggi conservano notizia solo
documenti non anteriori al secolo decimoprimo; ma la cui remota
esistenza è ben provata dalla qualifica di maggiore data al primo,
offerta da documenti molto più antichi e che non può esser nata che dal
bisogno di distinguerlo da un altro più piccolo e più antico.

Di anfiteatri romani a Firenze, come in ogni altro luogo, ce n'era
uno solo; ed ambedue i _parlasci_ eran fuori delle mura. Resta
a vedere quale altro luogo ebbe questo nome. Fuori delle mura,
oltre l'anfiteatro, ci fu fino alla metà del secolo decimo anche
la cattedrale, allora dedicata ad una santa siriaca ora quasi
sconosciuta[720]. Ed a chiunque sappia per quanti secoli si sono
conservati e qualche volta si conservano tutt'oggi, più o meno
deformati, antichi nomi germanici e perfino romani, non parrà troppo
strana l'ipotesi che questi documenti conservino il ricordo di due
antichissime riunioni e ne mostrino anche la diversa considerazione in
cui erano tenute.

La riunione davanti alla chiesa risale ai primi tempi del cristianesimo
e fu formata, com'è naturale, dai soli fedeli. I Langobardi venuti in
Italia cinque secoli e mezzo dopo, ariani, nemici e vincitori, non si
accostarono a quest'umile assemblea dei vinti, da cui anche i Goti,
che pur ripetevano dall'Impero romano il titolo giuridico della loro
signoria, si erano tenuti lontani.

Se si trova traccia di un'altra riunione — chè del _conventus ante
ecclesiam_ parla l'Editto stesso — questa non può essere stata composta
che dei Langobardi, e poichè dell'esistenza di quest'ultima offrono
indizi documenti di regioni diverse, si ha ragione di ritenere che sia
la loro originaria assemblea regionale.

Anche dopo venuti in Italia, i Langobardi continuarono a reggersi
secondo l'avita costituzione e tutti gli ufficiali pubblici, a
cominciare dal re, furono coadiuvati dall'assemblea dei liberi atti
alle armi che, a maggioranza di consensi, deliberavano intorno a tutto
ciò che interessava la vita politica comune dello Stato e delle varie
regioni.

Ma il rapido consolidamento dell'autorità regia, dopo l'interregno, e
l'aumento del suo potere, reso indispensabile dalla necessità di dar
compattezza ed unità allo Stato, onde potesse resistere alle pericolose
pressioni che lo minacciavano ai confini e allo sgretolamento interno
in cui si sarebbero risoluti i ribelli antagonismi dei duchi, affievolì
l'originaria cooperazione dell'assemblea nazionale fino a ridurla ad
una forma di partecipazione, non di rado quasi del tutto passiva, che
serviva come mezzo di pubblicazione a ciò che la _clementia_ sovrana
aveva già decretato — _decrevit_ — come dice Liutprando[721] o che,
come ancor più romanamente si esprime Astolfo[722], _principi placuit_.

E con lo scadere della maggiore, furono sminuite anche di più le minori
assemblee regionali, alle quali, oltre la trattazione degli affari
regionali dello Stato, fu sottratta anche la nomina dei gastaldi e dei
duchi, la prima riservata totalmente, l'altra in gran parte, al re.

Così che la parte di gran lunga maggiore delle loro attribuzioni si
ridusse all'esercizio della funzione giudiziaria che in tutti i regimi
barbarici è un complemento ed una prerogativa del potere militare.

Il _thinx_ ed il _gairethinx_, se pure originariamente ebbero
significazione diversa[723], già al tempo dell'Editto indicano
egualmente l'adunanza popolare e la ricordano a proposito della
conferma delle leggi, della donazione e della manomissione. Ma ormai
non si trattava più che di un ricordo e di una tradizione, mantenuti
quasi esclusivamente in vita dal nome, perchè si giunge fino alla frase
_thingare absconse_, che è proprio antinomica col concetto primitivo di
_thinx_.

Ciò era in diretta relazione ed in parte anche in conseguenza del
mutamento avvenuto nel sistema militare. In esso il primo posto, che
in origine era riservato alla fanteria, fu preso ben presto dalla
cavalleria mentre rimaneva inalterato l'originario sistema per il
quale milizia e cittadinanza formavano un indissolubile binomio che
si assommava nell'_exercitalis_ al quale soltanto spettavano i pieni
diritti civili e politici. E ciò accentuò maggiormente, a beneficio
di coloro che erano provvisti del possesso fondiario (indispensabile
al mantenimento dei cavalli), le disuguaglianze fra i liberi che le
nuove condizioni economiche create dalla conquista avevan prodotto in
pochissimi anni.

Già molto tempo prima di Liutprando, che ne parla come di consuetudine
generale e diffusa «consuitudo enim est», con la parola _exercitalis_
si designava una classe composta di persone della più varia condizione
economica e giuridica, di cui alcune godevano di un guidrigildo doppio
di quello assegnato a coloro che stavano all'ultimo gradino ed avevano
a pena i titoli necessari e sufficienti per meritare la qualifica di
esercitale — _minima persona, qui exercitalis homo esse invenitur_
centum quinquaginta solidos componatur et _qui primus est_, trecentos
solidos[724].

E questi ultimi, privi di case e di terre, — minimi homines qui nec
casas nec terras suas habent, — quando, nei casi e nei limiti stabiliti
dalla legge, erano dispensati dal servizio militare attivo, potevano
essere obbligati ad un determinato numero di opere per settimana a
vantaggio del giudice, dello sculdascio e, perfino, del saltario.

La trasformazione diviene ancor più grave, come è noto, ai tempi di
Astolfo.

Si era ben lontani dalla primitiva ed indomita fierezza germanica
per la quale l'intonsa capellatura, la lancia e le armi erano ambite
prerogative del libero, che riconosceva piena autorità ai capi e si
piegava ai loro comandi solo in tempo di guerra.

La trasformazione si ripercosse fortemente nell'ordinamento politico.
In questo, mentre le maggiori facoltà erano ormai riservate al re con
detrimento dell'assemblea dei liberi, non più chiamati a dividere il
potere con i capi, si vennero formando nuove e differenti condizioni
di idoneità a base delle quali stava, oltre la libertà, che prima era
l'unico requisito, anche il possesso fondiario, divenuto ora elemento
indispensabile per l'esercizio completo delle armi.

Con questo mutamento, non mancando il popolo vinto di terre, nè
essendo stato ridotto in servitù, fu aperto l'accesso all'esercito e
all'assemblea anche agli indigeni, ai quali non mancava neppure un
certo titolo di carattere militare, per il servizio di guardia, di
restaurazione e di difesa delle mura, che si assommava nella sculca, e
di cui già si è accennato.

E tanto più facilmente avvenne l'accettazione dei vinti in questa
assemblea in quanto che col progredire del movimento discendente
spariva sempre più il lato onorifico di tale facoltà, lasciando e
facendo sentire le conseguenze gravose dell'obbligo che esso imponeva.

Non era soltanto un onore il rendere giustizia; era anche un dovere
e questo dovere già grave in sè stesso era reso ancor più molesto
dall'ingorda speculazione degli ufficiali pubblici, i quali, con il
pretesto di render giustizia, convocavano con ininterrotta frequenza
tali assemblee onde ottenere i donativi che era antica consuetudine
offrire a chi presiedeva il tribunale, o, più spesso, per estorcere
arbitrarie contribuzioni in cambio dell'esonero dal presentarsi volta
volta concesso.

Le cose erano giunte a tal punto che una riforma s'imponeva; ma essa
non fu dovuta ai Langobardi; nessuno dei loro re osò porre le mani
sull'antichissima istituzione quantunque ormai degenerata. Fu Carlo
Magno che introdusse una modificazione sostanziale, stabilendo che non
si potesse convocare tutti i liberi in assemblea generale più di tre
volte all'anno e che per il soddisfacimento dei bisogni della giustizia
quotidiana volle istituito un corpo stabile e fisso di persone elette
in numero di sette per ogni pieve e chiamate _scabini_[725].

A questo punto termina il primo periodo dell'antica organizzazione
germanica. Già mutata profondamente nella costituzione interna; con
i Franchi la vecchia assemblea si scinde in due ed acquista funzioni
determinate. Così nasce, sorge il _placito_: placito annuale, generale,
l'uno, composto di tutti i liberi forniti di possesso fondiario e con
funzioni in prevalenza giudiziarie, ma di grado più elevato ed alle
quali ne vanno congiunte anche altre, sebben limitate, politiche e
sociali; placito quotidiano l'altro, e ristretto al solo esercizio
della giustizia e composto di un numero preciso di individui, i quali
finiscono col formare una vera e propria classe distinta nell'assetto
sociale.

Ambedue hanno un'unica origine nell'assemblea regionale germanica,
la quale già prima della trasformazione di Carlo Magno senza perdere
la sua intima natura, subì modificazioni più o meno gravi a seconda
dell'azione più o meno energica, secondo i tempi ed i luoghi, su di
essa esercitata dall'elemento indigeno delle varie regioni e dal suo
diritto, cioè dal diritto italiano; ma in ogni modo e sempre queste
variazioni devono essere considerate come contingenti, non mai come
sostanziali. In alcune regioni si conserva inalterato il sistema della
partecipazione attiva di tutti i liberi al giudizio; in altre tale
facoltà è ristretta a quelli degli _astantes_ e dei _circumanentes_ che
sono giudici ed assessori; ed in altre infine, romanamente, la sentenza
è demandata al solo giudice[726].

Ed anche alla riforma carolingia l'organizzazione sociale e giudiziaria
che si era venuta formando in Italia oppose una resistenza che non
deve esser passata sotto silenzio, perchè prova l'intensità delle varie
energie locali e degli elementi indigeni italiani che le animavano.

Non di rado nel giudizio presieduto dal conte, insieme con gli scabini,
si trovano e presenziano anche altri ufficiali pubblici e qualche volta
partecipa, e con facoltà attive, anche un numeroso concorso pubblico;
presenza e partecipazione piuttosto in contrasto con le disposizioni
della legge, la quale non sempre viene applicata anche riguardo al
numero degli scabini che, almeno nei documenti fin qui conosciuti, non
si vedono mai comparire in sette come essa dispone[727]. E pure nella
determinazione della competenza — specialmente nei riguardi del placito
inferiore del centenario — la legge trova forti ostacoli: lo stesso
capitolare italico di Carlo Magno ha due disposizioni, il cap. 35 ed il
cap. 93, in aperto contrasto l'una con l'altra.


§ 12. — Ad ogni modo però, ed è ciò che a noi preme ora accertare,
nelle linee generali, la riforma fu attuata; e da allora si delineano
netti due sistemi di placiti: uno generale in cui alle facoltà
giudiziarie ne vanno congiunte altre di natura più propriamente
politica e di alta amministrazione, ed uno quotidiano di competenza
esclusivamente giudiziaria.

E quest'ultimo, che a noi soltanto interessa, ebbe nei riguardi della
città un'azione di primaria importanza.

Gli scabini erano eletti a consenso di popolo — totius populi consensu
— e la città col suo suburbio costituiva un _populus_: il primo dei
_populi_.

Con la riforma di Carlo Magno essa ottenne che l'amministrazione della
giustizia fosse affidata a persone di sua scelta e di sua fiducia.

E così la città che, forte dell'unione col suburbio, aveva una salda
ed omogenea ossatura, era regolarmente alimentata dal suo mercato
settimanale ed aveva già, oltre ad un proprio notaio, un organo,
embrionale quanto si vuole, ma esclusivamente suo, per provvedere ai
suoi speciali bisogni — il consiglio cittadino —: venne ad avere un
organo proprio anche per l'amministrazione della giustizia.

Fino ad ora la città aveva costituito un complesso organismo di
persone e di cose che si era mantenuto distinto e in condizione
eminente dal territorio rurale; quando potè provvedere da sè stesso
sia pure in parte, ma in parte principale, ai bisogni della giustizia,
senza l'intervento continuo e la presenza dell'autorità dello Stato,
cominciò a staccarsene addirittura, poichè ormai essa veniva a trovarsi
congiunta al paese aperto circostante soltanto con vincoli di diritto
pubblico sempre meno efficaci e meno sentiti, e questi, in meno di un
secolo, con le concessioni immunitarie ai vescovi, si spezzano quasi
del tutto.

I capitolari carolingi stabiliscono, come si è detto, che gli scabini
debbano essere eletti dal conte e dal popolo insieme, _totius populi
consensu_; ma nemmeno per questo lato ebbero in Italia applicazione
completa nè uniforme.

In qualche luogo l'elezione avvenne in una maniera tutta speciale. A
Lucca, per esempio, si vedono comparire normalmente accanto a persone
qualificate col semplice nome di _scabini_, altri individui detti
_scabini ecclesiae_[728] mentre altri documenti ci conservano il
ricordo di _scabini comitatus_[729]. Queste tre specie di scabini —
chè la specifica qualifica delle ultime due classi non lascia dubbio
sulla loro sostanziale diversità — provano l'intensità ed il vigore
di preesistenti sistemi conservatisi in onta alla nuova legislazione e
si trovano in perfetta corrispondenza con la triplice partizione della
città — di tradizione sicuramente non germanica — in _pars pubblica_,
_pars ecclesiae_ e _cives_[730] e sembrano indicare che l'autorità
pubblica, la Chiesa ed i cittadini abbiano eletto ognuno un certo
numero di scabini per conto proprio.

Comunque, pur ammettendo che questo sistema sia esclusivo della città
di Lucca, la quale presenta una costituzione sensibilmente diversa da
altre città tosco-lombarde anche in certe linee fondamentali, non è
meno vero che allorquando il conte ed il popolo partecipavano insieme
e simultaneamente, a norma dei capitolari, alla scelta degli stessi
scabini, il consenso di quest'ultimo fu manifestato secondo lo speciale
sistema giuridico che regolava la costituzione cittadina, in quanto che
la giurisdizione territoriale degli scabini si estese sulla città e sul
suburbio insieme; ma la loro nomina fu demandata solo agli urbani.

Non è a credere che in questo caso si dovesse fare eccezione alla
regola per cui eran riserbate ad essi le maggiori facoltà, ed anche
senza tener conto di alcuni pochi documenti nei quali si parla di
«scabini _urbis_»[731] se ne può ricavar la prova dal modo con cui
si faceva l'elezione. Questa, richiedendo un generale consenso,
aveva luogo nell'assemblea cittadina e quindi dal momento che la
partecipazione attiva alle deliberazioni di questa era prerogativa
degli urbani; era anch'essa, al pari delle altre facoltà, sottratta ai
suburbani.

E lo stesso è a dirsi della competenza.

Riservato al re il giudizio delle cause più gravi e dei maggiori reati
ed al conte i casi più rilevanti in cui si trattasse della vita e della
libertà di una persona e della restituzione di immobili[732], tutte
le altre questioni divennero competenza del centenario nel comitato e
degli scabini in città.

La delimitazione non fu regolata con criterî troppo precisi — lo nota
anche l'_Expositio_[733] — nè applicata dovunque nello stesso modo —
prova anche questa e sensibile di resistenza di un organismo giuridico
abituato a funzionare indipendentemente e magari in opposizione alla
legge; ma cominciò allora a formarsi la antitesi fra il _placitum_ e
il _bannum_, che si trova più tardi consolidata in modo preciso[734];
per la quale le maggiori facoltà giudiziarie sono comprese nel banno
e le minori nel placito e queste ultime, varie di numero e di qualità
da luogo a luogo, sono caratterizzate dalla mancanza assoluta di ogni
giurisdizione criminale.

Il consolato del placito conservò, sotto il nome del resto solo in
parte nuovo, l'antica ed originaria natura di tribunale popolare. È
composto solo di cittadini ed anche nell'epoca più tarda basta che uno
solo sia giudice; e questo compie, volta a volta, secondo le esigenze
della causa ed il proprio criterio, funzioni di arbitro e di giudice;
ma è completamente privo di ogni giurisdizione criminale mentre il
nucleo centrale della sua competenza civile è costituito dagli atti
dei minori e delle donne; competenza che si spiega solo dove e quando
ai minori e alle donne da norme di carattere singolare è fatta una
condizione giuridica tutta speciale: e questa condizione speciale gli
uni e le altre l'ebbero solo nel diritto germanico[735] per il quale al
re è affidata la protezione dei più deboli e dei meno difesi: minori,
donne e forestieri.

Questa protezione dal re affidata, con lo stabilirsi in Italia, ai suoi
rappresentanti locali, passò, con la riforma carolingia, agli scabini,
ai quali, per il modo con cui si formò la costituzione cittadina, fu
affidata anche un'altra — e ben importante — incombenza: quella del
riconoscimento e dell'autenticazione degli atti notarili.

Con i Langobardi, cessate del tutto le curie, l'_exceptor civitatis_,
che era il trascrittore degli atti municipali, perdette il suo ufficio;
ma soddisfacendo ad un bisogno sicuramente sentito, quale quello
di stendere memoria di atti che se pure eran perfetti all'infuori e
prima della redazione in scritto, trovavano nello scritto una maggiore
quanto innegabile sicurezza, andò acquistando sempre maggiore autorità;
e questa autorità, rilevata anche da Liutprando[736], diviene con
Rachi[737] quella di _scrivane publico_ per eccellenza onde già nel
periodo franco[738], il notaio diventa _la persona privilegiata
ad negotia hominum publice et authentica conscribenda_[739],
caratteristica del territorio langobardo.

Assurto alla dignità ed all'importanza di persona il cui intervento
è indispensabile per la validità della confezione di un documento e
divenuto uomo di fede pubblica, esso non può essere più soltanto lo
scrivano della città e dei suoi abitanti — exceptor civitatis — ma deve
essere investito della sua autorità da chi della fede pubblica è la
personificazione per eccellenza e cioè dal re e da quegli a cui egli
abbia delegata tale facoltà (conti palatini), ed allora esso esercita
nella città la funzione cui il re lo ha esplicitamente abilitato,
onde diviene il notaio del re nella città — _notarius regis_ —. Ma per
l'opera tecnica di questo ufficiale, che doveva conseguire la fiducia —
e non sempre se la meritava — dei cittadini, era naturale procedimento
che, creato il corpo degli scabini, a questi, eletti dalla fiducia dei
cittadini e scelti talvolta nella categoria dei notai, poichè tutti
al pari degli altri giudici, dovevano essere «legibus eruditi et bonae
opinionis»[740] fosse demandata la cognizione di tale materia.

Così in tratti generalissimi si son seguite le linee dello sviluppo
dell'assemblea cittadina e dell'assemblea germanica.

L'una e l'altra hanno origine, natura, sviluppo ed azione diversa.

E questo costituisce una fondamentale differenza fra la costituzione
della nostra Italia tosco-lombarda e tutti gli altri paesi.

Nei territori germanici, il potere politico e giudiziario si raccoglie
in un'unica assemblea, che è naturalmente l'assemblea barbarica per
eccellenza; che si riunisce intorno ai capi ed è da questi presieduta —
_conventus_, dice la legge alamannica, secundum antiquam consuetudinem
fiat in omni centena coram comite aut suo misso aut centenario — che
costituisce il placito — ipsum placitum fiat de sabbato in sabbatum
aut quali die comes aut centenarius voluerit — e nel quale si discutono
tutti gli affari di qualche rilievo della comunità[741].

Nella Gallia avviene un contemperamento ed una fusione degli antichi
istituti romani con le nuove istituzioni germaniche, le quali finiscono
con una vittoria completa, sicchè l'assemblea dei liberi prende il
primo posto nell'organizzazione civile e giudiziaria, e scalza con
fortuna le basi delle vetuste magistrature romane[742].

Non altrimenti in Spagna il _conventus publicus vicinorum_, che la
legge Visigotica menziona a proposito di eredità, di fughe di servi, e
di esecuzione di sentenze, è il nocciolo del _concilium_ che nei secoli
successivi costituisce l'assemblea giudiziaria degli uomini liberi
presieduta dal conte[743], da cui origina più tardi il Comune.

Nella nostra Italia, invece, per la speciale condizione in cui
era ridotto il paese quando lo conquistarono i Langobardi e per il
carattere ostile dei conquistatori, vincitori e vinti ebbero, sul
principio, costituzione separata e diversa.

Allora a fulcro dell'organizzazione barbarica fu l'assemblea dei
liberi, mentre germe della organizzazione indigena fu la riunione
davanti alla chiesa; e poichè da prima lontane l'una dall'altra, in
seguito si avvicinarono e più tardi, pur senza toccarsi e confondersi,
si completarono a vicenda per sopperire ai bisogni della società
e per formare un unico e nuovo organismo politico e giuridico, la
costituzione italiana si presentò come il resultato di questo doppio
processo di formazione storica.

Ed invero, l'umile riunione davanti alla chiesa, già elevatasi al tempo
langobardo e sviluppatasi ancor più in seguito, produce l'assemblea
generale, che origina il Comune: l'assemblea germanica, strumento
principale di governo nei primissimi anni, perde rapidamente le
sue funzioni politiche, si trasforma in un organismo giudiziario e,
divenuto cittadino, prepara e fucina il diritto che occorre alle nuove
esigenze, ai nuovi tempi e fonde armonicamente antiche consuetudini
e nuovi sistemi, sicchè divenuti insufficienti gli uni e gli altri
ricorre ai vecchi e non mai dimenticati testi romani e dai rudimenti
delle istituzioni e dai casi pratici del Codice, assurge al sistema
e riprende il Digesto. Ed è allora — quando il Comune drizza superbo
il suo bel gonfalone e la voce solenne degli antichi giuristi viene
riascoltata ed intesa — che l'antica costituzione d'Italia, non di
Roma, ha la sua _rinascita_.


§ 13. — La città italiana, Roma compresa, si è formata aggruppandosi
con preordinato sviluppo intorno alla piazza formata dall'incrociarsi
perpendicolare del _cardus maximus_ col _decumanus_ i quali si spingono
fino ai confini del suburbio e formano così quattro zone entro la città
ed altrettante nel suburbio, perfettamente corrispondenti e subordinate
a quelle.

In virtù di tale sistema i componenti di ogni quartiere uniti
dall'esercizio dei diritti d'uso collettivo dei boschi e dei pascoli e
delle terre comuni, situate nella zona suburbana corrispondente al loro
quartiere e stretti dal vincolo intimo della responsabilità collettiva
del gruppo per il delitto di un singolo, provvedevano congruamente
al sostentamento di tutto il centro urbano, evitando pericolosi
antagonismi e cooperavano efficacemente al mantenimento della quiete
interna; mentre ad ogni quartiere era assegnata in modo semplice ed
equo la parte di mura e la porta da difendere come era determinato il
concorso che doveva ricevere dai suburbani.

Con lo sciogliersi della città dai primi e rudimentali viluppi ed il
progressivo affinarsi della sua costituzione fino a raggiungere il
fulgido organismo del municipio in pieno fiorire, nei nuovi organi si
trasmuta la primitiva struttura, sempre attestata tuttavia in modo più
formale che reale, da fugaci accenni delle fonti.

Ma quella indigena struttura tornò in prima linea quando la rovina
economica, sociale e politica e l'imperversare delle invasioni
riportarono le città italiane alle condizioni terribili della lotta
primitiva per l'esistenza[744].

Allora queste divisioni, che rispondevano a bisogni sentiti da
qualsiasi convivenza — sostentamento, quiete interna, difesa contro
l'esterno — furono da prima tollerate e poscia accolte dai Langobardi i
quali fissatisi in Italia con un brusco distacco dallo stadio nomade in
cui erano fino ad allora vissuti, impossibilitati così per incapacità
propria come per insuperabile resistenza dell'ambiente a crearsi una
costituzione improntata alla loro stirpe, furono attratti da quella
rudimentale a cui era ridiscesa l'Italia.

Fu anche qui l'antica ossatura italiana che affiorò, mentre la grande
Roma dell'evo antico moriva e che fornì lo scheletro alla nuova
costituzione, la quale non poteva averlo dai Langobardi, nomadi e senza
coesione, nè poteva riceverlo dal mondo romano, poichè la rovina di
questo non consentiva più qualsiasi azione energica.

Le prime fonti medioevali, continuando più antica abitudine, indicano
il quartiere col nome della porta[745] a cui mette capo; e questo nome
talvolta era determinato da ragioni topografiche e locali; come la
_porta romana_ di numerose città, la _porta vercellina_ di Milano etc.
e non di rado — specialmente in seguito — fu quello di un santo[746].

Arechi, il noto duca di Benevento, nel 774 con una munificentissima
donazione[747] al Monastero di S. Sofia da lui fondato, concesse a
quest'ultimo fra l'altro cento carrate annue di legna. I boschi da
cui dovevano esser tratte pertinevano tutti nello stesso modo alla
città; ma ciò nonostante l'onere fu distribuito in modo irregolare:
una _porta_ fu esclusa dalla contribuzione e delle altre tre la _Porta
turrea_ doveva corrispondere 50 carri, la _Porta Rufini_ 30 e 20 la
_Porta Sicardi_.

Documenti langobardi della maggior purezza provano, dunque, che i varî
quartieri di una stessa città potevano esser gravati in proporzione
diversa l'uno dall'altro; ed allora si rende verosimile l'ipotesi che
pure al tempo langobardo, continuando ininterrottamente un più vetusto
uso italiano, risalga il sistema di distribuire per quartiere i dazî e
le imposte gravanti sulla città.

Lo Statuto di Verona, pervenuto a noi nella redazione del 1228, ma che
contiene in gran parte disposizioni di età di gran lunga anteriore,
vuole che «datia solvantur in waitis propriis»[748].

E — a riprova — si può aggiungere che queste _guaite_, che son
ricordate anche da Carlo Magno nelle sue leggi italiche, non sono altro
— come abbiamo veduto — che la _sculca_ langobarda e, attraverso ad
essa, l'_excubiae_ romane, e tutte si facevano per quartieri[749].

A questa differenziazione negli oneri naturalmente corrispondeva
un'altra differenza di natura, diciamo così, attiva che completava la
figura del quartiere con un ambito limitato ma determinato ed effettivo
di attribuzioni e di facoltà distinte da quelle degli altri quartieri
e non assorbite — almeno normalmente e di regola — dai diritti della
città, complessivamente considerata.

E questa autonomia reciproca e di fronte alla città va aumentando
col tempo. Due documenti milanesi del 1158 e del 1175[750] ricordano
i _Consules electi a comunantia Porte Vercelline de pascuis: pro
desbrigandis et recuperandis pascuis ipsius porte_.

Della consistenza delle portae è altra e più sicura prova la menzione
esplicita degli _urbium vici_ fatta dal sinodo ticinese dell'850[751],
la quale illumina la disposizione del capitolare langobardo dell'803
che ordina che si eleggano quattro o otto uomini in ciascuna pieve
per risolvere le eventuali questioni fra laici ed ecclesiastici
per la prestazione delle decime. E altra prova può considerarsi la
caratteristica variante portata da uno dei due vetustissimi codici
santambrosiani che contengono le leggi langobarde[752].

Il cap. 141 di Liutprando stabilisce che le donne che istigate dai
propri mariti avessero fatta irruzione o commessa violenza in un vico
o in una casa, debbano essere decalvate e condotte per i vici più
prossimi ed ivi fustigate — publicus faciat eas decalvare et frustare
per _vicus vicinantes ipsius loci_ —.

Il codice in parola — almeno se è vera la lezione datane dal Muratori —
ha «_vicos civitatis_»[753].

L'amanuense — e non è punto detto che sia stato il primo a iniziare
la variante — aveva davanti agli occhi la visione delle condizioni
reali della città. Ed ho parlato di amanuense per non dire, come ne
avrei gran voglia, che non è punto improbabile che la variante sia la
conseguenza pensata e voluta dell'opera di un giurista.

Questi quartieri, però, erano strettamente uniti nella città che li
comprendeva e li completava e come non ebbero personalità giuridica
distinta da quella della città nel tempo romano[754]; così non ne
ruppero la compagine nemmeno nell'epoca successiva, sebbene sieno
giunti ad avere una fisonomia propria molto accentuata[755].

I vicini dei singoli quartieri avevano tutti eguali facoltà rispetto
alla porzione dei beni comuni assegnata al loro quartiere: ma le
maggiori facoltà dispositive riguardo a tali beni erano loro sottratte
e demandate al gruppo intiero di tutti i vicini della città; e la città
tutta intiera rispondeva solidalmente, come si è veduto, se la suprema
autorità non imponeva altrimenti, degli oneri imposti ad una sua parte.

La compagine della città non fu allentata nemmeno in seguito quando
sulle antiche divisioni per quartiere se ne andarono sovrapponendo
altre di varia natura. Fra queste, per l'importanza acquistata in
seguito, meritano di essere ricordate per le prime quelle che traevano
origine dal formarsi entro l'ambito urbano di nuovi centri di vita,
di azione e di interessi, che si popolarizzavano intorno a quelle
chiese cardinali, di cui già ci siamo occupati, e che, moltiplicandosi
rapidamente, giunsero a costituire in un'epoca più tarda il sistema
predominante di divisione del suolo intramurano.

Nè valse a diminuire la coesione del centro urbano un altro elemento di
cui pur si sarebbe potuto credere assai potente l'azione disgregativa.

In ogni città c'era una _curtis regia_[756] la quale era il centro
dell'amministrazione pubblica, a cui convergevano le prestazioni
civiche e le finanze; e questa _curtis_ era di solito a capo del vasto
conglomerato di terre che costituivano la dotazione della corona e
che non di rado si trovavano accanto ai fondi assegnati all'autorità
pubblica preposta in modo speciale alla città, onde costituivano
anch'essi un complesso imponente di beni che avevano uno sbocco entro
la città attraverso alla cella.

Quantunque normalmente, quando era consentito dalle condizioni
del luogo la corte regia si sia installata entro l'arce che non
infrequentemente si trovava nell'interno delle antiche città
italiane[757] emergendo anche materialmente di fronte al resto della
città; e quantunque questo castello attraverso le donazioni dei
fiacchi discendenti di Carlo Magno sia passato in mani più energiche,
pur tuttavia queste _curtes_ non hanno agito in modo sensibile nella
costituzione cittadina nemmeno nei rapporti esterni delle divisioni
territoriali.

Almeno io non ne ho trovato traccia alcuna.

E dal momento che non ha influito la _curtis_ più potente e
maggiormente fornita di facoltà di natura pubblica oltre che
privata, corre appena l'obbligo di accennare che nessuna azione han
potuto esercitare le altre curtes private di cui serbano ricordo i
documenti[758].



CONCLUSIONE


La costituzione della nostra Italia, fino dai tempi più antichi ai
quali si può risalire, fu una costituzione di città, ed i vari gruppi
etnici furono leghe di città.

I gruppi primitivi si erano, in una certa fase del loro sviluppo,
fondati su una piccola zona di territorio, la quale provvedeva ai
bisogni della pastorizia e dell'agricoltura, ed aveva il suo centro
nel luogo più facilmente difendibile, rafforzato da opere stabili di
difesa.

I limitatissimi scambî di prodotti avvenivano, probabilmente, in un
ambito ristrettissimo che non oltrepassava il cerchio delle _gentes_.

_Forum_, secondo la più arcaica delle cinque definizioni datene da
Varrone (v. 145) le quali segnano altrettante fasi per cui è passata
l'idea adombrata dalla parola, è la piazzetta davanti al sepolcro
familiare «quod nunc vestibulum sepulchri dici solet». Sono i sepolcri
gentilizi intorno ai quali si riunivano, nei giorni di _sacra_, tutte
le famiglie appartenenti alla medesima _gens_. I primi contratti,
lo scambio delle derrate e delle merci, la consegna delle cose date
in permuta si compiva in presenza delle famiglie contraenti; e la
stessa _mancipatio_ con i suoi cinque classici testimoni, si spiega
più agevolmente nella sua genesi in un convegno gentilizio che in un
pubblico mercato. I patti primitivi delle _gentes_, in mancanza di
garanzia dello Stato, non avevano altra sanzione che la sacertà: e
_sacer_ doveva essere, prima ancora delle XII tavole e non soltanto a
Roma, colui che violasse i patti privati, fossero questi di cambio, di
vendita, di mutuo etc. Nè a proteggere i patti s'invocarono gli Dei del
cielo, ma bensì gli Inferi; chè presso lo Stige si giurano i patti e
gli spiriti dei defunti sono quelli che vegliano sulla fede dei vivi.

Questo carattere sacrale si spiega facilmente riflettendo che il
formulario dell'antico diritto romano — e si può, quindi, agevolmente
comprendere quanta parte del diritto stesso — proviene dai pontefici,
ed è senza dubbio sacrale il formulario dei _negotia per aes et
libram_, vale a dire dei negozî che servono tanto a trasferire diritti
di proprietà — _mancipatio_ — quanto a creare rapporti obbligatorî —
_nexum_ —.

Ed inoltre se obbligare allude, secondo il Perozzi, alla garanzia del
terzo — il _praes_ o _vindex_ — perchè il _nexus_ rimane in catene;
la parola latina _contrahere_ richiama alla mente la figura di un
terzo il quale avvicina le parti e rende possibile lo scambio, ossia,
giuridicamente parlando, perfeziona il negozio e questo terzo, nel
primitivo ordinamento, non può essere un estraneo, dev'essere un
congentile.

In seguito, per la diuturna lotta per l'esistenza, gran parte di
questi nuclei sparì a vantaggio di quelli più forti e più favoriti
dall'ubicazione e dalla fortuna; e questi si accrebbero della
popolazione e del territorio di quelli.

Ma l'uno e l'altra non furono equiparati alla condizione dei popoli
e dei territorî a cui venivano aggiunti: una parte dei nuovi venuti
fu aggregata alla città, ma all'esterno di questa, e qui continuarono
a venerare le loro originarie divinità: ed i nuovi territorî furono
assoggettati alla giurisdizione della città, ma non raggiunsero con
essa quell'intimità di rapporti che aveva stretto la città al suo
territorio originario. Ed è da allora, presumibilmente, che la città
comincia ad avere un contenuto suo particolare e ad assumere aspetto e
natura giuridica speciale.

Il prolungato contatto di quelli che vivevano dentro la città con
quelli che abitavano nella sua immediata vicinanza, reso più intimo
dallo stato continuo di guerra esterna, produsse una coesione, il primo
resultato della quale fu l'accettazione da parte della città delle
divinità venerate nel suburbio e delle divinità di quella da parte
di questo: ciò che a noi è rivelato dalla proibizione di seppellire
o bruciare i cadaveri entro la città: proibizione inconcepibile senza
questa equiparazione, perchè la venerazione dei defunti costituiva un
vero e proprio culto, l'oggetto del quale, il cadavere, non poteva
sicuramente esser deposto in luogo sacro a divinità straniere e,
quindi, nemiche.

La derivazione etimologica di _forum_, infatti, da _foris_, _foras_,
_fores_, con l'o breve, indica la situazione esterna dal luogo chiuso,
dalla città, e concorda pienamente con il sistema, di origine orientale
e di importazione etrusca, di cui le XII tavole ci conservano la più
antica formulazione per l'Italia, che «in urbe neve urito mortuum neve
sepelito».

La città, intanto, sorge quando il gruppo che la compone ha raggiunto
un'energia sociale ed economica che vincoli in modo definitivo e
assoluto gli abitanti al territorio e crei tali rapporti fra questo ed
il capoluogo da permettergli di cingersi tutt'all'intorno di mura.

È questo un concetto ed un uso italiano antichissimo: con esso furon
fondate le città della confederazione etrusca e di quella latina e,
probabilmente, anche quelle, più antiche, dei Liguri; con esso fu
fondata Roma, e questa ad esso si attenne nella fondazione di tutte le
colonie.

Con solenne rito sacrale l'aratro segnava per primo il perimetro della
città ed il solco del vomero significava il giro della fossa, mentre la
zolla sollevata indicava il cerchio del muro: — _aratrum circumducere_,
si dice la fondazione della città — e la città (_urbs_) trae il suo
nome da _urbo_: «urbare est aratro definire»; così come _aratrum
inducere_ ne simbolizza la distruzione.

Aver dimora stabile e fissa entro il cerchio delle mura e goderne la
protezione e la difesa era un privilegio, una condizione eminente di
fronte a tutti gli altri, ai quali tale dimora e tale difesa non erano
concesse.

Di quì una prima e fondamentale distinzione fra i cittadini e tutti gli
altri che vivevano nel territorio aperto.

La città, inoltre, così aumentata di popolazione, ha bisogni speciali
per i quali si differenzia sempre di più, con naturale svolgimento, dal
terreno che la circonda e la completa; mentre per altra parte con lo
sviluppo della vita cittadina si intensificano i rapporti fra la città
stessa e la zona di territorio che le è in immediato contatto e si
accentua una differenza di natura strettamente giuridica fra questa ed
il rimanente territorio aperto.

La città, infatti, fu protetta con difese speciali e fisse, fra
le quali primeggiano le mura; e poichè la loro costruzione e
riparazione era molto gravosa — _moenia_ deriva da _munera_ —; a
comparteciparvi, insieme con gli urbani, fu chiamata anche una parte
della popolazione, la quale abitava in immediata vicinanza, e che di
tale compartecipazione fu opportunamente compensata. Questo compenso
accentuò la differenziazione che per spontaneo e naturale sviluppo
si era già formata fra il territorio più propriamente cittadino
e la rimanente campagna e le conferì e precisò carattere e natura
strettamente giuridica. Onde la necessità di delimitarla in modo
preciso e distribuirla nella maniera più conveniente per la difesa ed i
bisogni della città.

Questa determinazione fu fatta con misure varie a seconda delle
consuetudini dei varî popoli; onde fu più o meno estesa; ma sempre
questo territorio fu suddiviso con uno stesso sistema; e cioè in
quattro parti, corrispondenti alla divisione interna della città. La
misura latina, accolta ed applicata da Roma, fu quella dei mille passus
e le due vie che, intersecandosi perpendicolarmente, quadripartivano la
città ed il suburbio furono il _decumanus_ ed il _cardo maximus_.

Nella città, intanto, per il contatto di elementi numerosi e per
l'aumento delle ricchezze e degli agi, moltiplicandosi il bisogno di
nuovi oggetti di lavoro e di lusso, si va sviluppando, tra le classi
inferiori sprovviste di terre o impedite ad averne per concessione,
l'artigianato; e questo, naturalmente, nel suo continuo svolgimento,
accresce alla sua volta gli oggetti d'artificio per le nuove esigenze
dell'agricoltura, della pastorizia e della vita civile.

Di quì l'origine di un nuovo sistema di scambio.

Lo scambio dei generi di prima necessità, prodotti in gran prevalenza
nel suburbio per bisogni principalmente urbani, aveva luogo fuori delle
porte e senza gravame alcuno, perchè la città dominante, gravando
questi prodotti, avrebbe in realtà gravato su sè stessa; ed anzi
la città ebbe cura che questo scambio affluisse in modo continuo e
periodico, finchè divenne rapidamente ebdomadario.

Ma lo scambio dei prodotti manufatti, giovando prevalentemente alla
campagna, fu agevolato dalla città a cui interessava, ma fu da questa
regolato a proprio profitto. Essa assegnò a questo fine una piazza
apposita entro la città, curando che questa piazza fosse a fronte del
tempio della divinità tutelare che simboleggiava la città; determinò
un giorno fisso e volle che lo scambio fosse soggetto a norme e a
gravami speciali che dettero origine al _mercato_, divenuto così il
luogo d'offerta di manufatti e di opere dell'artigianato, fatta in una
pubblica piazza entro la città a persona indeterminata, ma in un giorno
fisso e da persona qualificata. E a questo mercato accorrevano tutti
coloro che vivevano nel territorio giurisdizionalmente soggetto alla
città, la quale lo fissò a periodi più larghi ed in occasione di feste
solenni che sospendevano dovunque il lavoro dei campi e degli artefici.

In tal modo si viene lentamente formando quel sistema municipale, le
cui origini si perdono nelle ombre più remote della storia.

Il centro murato, come il migliore e più sicuro, fu abitazione
privilegiata dei _cives optimo iure_, godenti di un diritto singolare,
in nome della collettività a cui appartenevano.

Il primo e principale diritto della collettività si manifestava nei
riguardi dei beni comuni, i quali, essendo indispensabili alla vita
urbana, divennero diritto speciale dei soli urbani, distribuito
proporzionalmente per porte e per quartieri; ed a loro soli fu
riserbata la decisione degli affari che concernevano la città sia in
pace che in guerra.

E come la religione era religione di Stato ed il culto una
magistratura; così i templi e gli edifici ed i _loca_ dei templi furono
affidati alla custodia dei soli urbani e soggetti alla loro vigilanza,
non solo entro la città ed il suburbio; ma entro tutto il territorio al
quale giurisdizionalmente la città era preposta.

Il suburbio fu dominato dalla città, e ne divenne il complemento, con
una trasformazione che ebbe per limiti estremi da un lato i bisogni
del centro murato e dall'altro la suscettibilità e la capacità di
trasformarsi proprie del terreno rurale.

Il diritto pubblico interno si formò con riguardo alla condizione
civica speciale; onde ai cittadini fu concesso di avere il
_domicilium_, che costituiva l'elemento necessario ed indispensabile
per il godimento dei diritti civili e politici, non solo entro le mura,
ma anche entro tutto il suburbio o in una parte di esso — per esempio
— 500 passi; e dentro il perimetro suburbano il cittadino godè delle
maggiori garanzie — _imperium domi_ — al pari che entro le mura.

E poichè questi diritti erano in diretta ed immediata relazione con la
costituzione della famiglia, così anche per questo riguardo il suburbio
fu assoggettato ed equiparato, in vista degli interessi cittadini,
alla città stessa e perciò, per es., le tombe familiari e gentilizie
poterono aver sede in esso e gli atti dei minori e dei tutori che
riguardavano case e beni entro la città ed il suburbio furono esenti da
ogni intervento dell'autorità pubblica.

Il suburbio fu escluso da ogni partecipazione attiva alla vita
pubblica ma ebbe anch'esso qualche vantaggio: in correspettivo della
cooperazione al mantenimento ed alla difesa delle mura, ebbe il diritto
di rifugiarvisi dentro nei momenti di pericolo; ed in contraccambio dei
vantaggi economici procurati alla città, ebbe una condizione giuridica
speciale per la quale i suoi abitanti, in genere piccoli proprietarî,
erano esenti da tutti gli oneri rusticani, che gravavano i lavoratori
della terra nella campagna.

Inoltre fra i suburbani e gli urbani, si incuneava una classe speciale
formata da coloro che abitavano i sobborghi in immediato contatto con
le mura ed in continuazione delle porte, i quali si collocavano in
condizione abbastanza prossima agli urbani, senza confondersi con essi.

Base del regime cittadino rimase sempre la prevalenza degli urbani:
civis, per eccellenza, fu solo il _civis urbanus_, il quale costituì
uno speciale sodalizio — _sodalicium urbanorum_ — compose i collegi
— _collegium urbanum_ — ed ebbe ed elesse i suoi magistrati —
_magistratus urbanus_ —. Ad essi soli furono riservate le cariche e gli
onori e fra essi, e fra essi soltanto, si trovavano coloro che godevano
di tutti i diritti di cittadinanza; la quale, data la posizione
speciale ed egemonica di Roma, comprendeva, oltre le maggiori facoltà
di ogni città, anche il godimento di un certo numero di diritti e di
facoltà nei rispetti delle altre città e di Roma.

Roma, prima parte involontaria di una confederazione etrusca e più
tardi della confederazione latina, forte di una genuina e vigorosa
costituzione di Stato, assodata dalla pressione compatta della
plebe sul comune delle genti originarie e patrizie, rocca salda di
confine nel territorio latino, collocata nel cuore della penisola, al
confluente etnico, delle stirpi italiche e della gente etrusca, su
di una vera linea strategica che separa il nord dal sud e pressata
in cerchio dalle attività di una vasta regione (Bonfante), ebbe
quest'origine e questa formazione e per lunghi secoli si governò e si
resse con questo regime.

Solo verso la metà del secolo secondo dopo Cristo, ampliata enormemente
nei suoi confini che i successivi allargamenti delle cinte di mura
spostavano di continuo in più larga cerchia, essa abbandonò l'antico e
glorioso sistema ed equiparò i _continentia aedificia_ alla città, fece
degli abitanti dei sobborghi dei veri e propri cittadini e iniziò forme
e sistemi di governo di carattere sempre più particolare.

Ma Roma rappresenta l'eccezione. La regola era costituita dalle altre
città italiane.

Anche quando, nell'epoca sillana, il territorio, politicamente così
vario d'Italia, acquista un'unità compatta con l'estensione della
cittadinanza romana, il _solum italicum_ è assimilato all'_ager
romanus_ e reso suscettibile di _dominium ex iure Quiritium_ e via via
per _leges datae_ il nuovo territorio dello Stato dominante venne a
costituirsi come un insieme coordinato di municipii, autonomi quanto
all'amministrazione ed alla giurisdizione inferiore, con uno schema
abbastanza uniforme in cui tornano le cariche e gli organi della
città di Roma (_duoviri_ invece di _consules, decuriones_ invece di
_senatores_ etc.); questi organi e questi magistrati sono eletti e
formati, secondo l'antico sistema, soltanto dagli _urbani_.

Quando fu istituita la _vigesima hereditatum_, che, come dice la
parola, colpiva le eredità e forse anche, stando a Dione Cassio, le
donazioni; questa non ebbe vigore entro il perimetro del suburbio e
tanto meno poi entro la città.

Ed anche nella decadenza questo sistema speciale di rapporti si
mantiene in gran parte fermo. Abolito l'antico privilegio dell'immunità
finanziaria di cui fino allora aveva goduto l'Italia, il territorio
non fu nè tutto nè contemporaneamente sottoposto a tributo. La
_plebs rustica extra muros posita_ fu sottoposta alla _capitatio_ ed
all'annona solo molto più tardi e soltanto nell'anno 400 i _praedia
urbana_ cominciarono ad esser assoggettati alla _tertia_.

Nell'epoca di Caracalla, probabilmente per la ripercussione della
_constitutio antoniniana_ del 212 e per effetto di altre costituzioni
imperiali, le magistrature si concentrano nelle curie, formate col
voto esclusivo dei cittadini, con esclusione dei _plebeii homines_; ma
questi continuano a godere dei beni pubblici e a mantenersi distinti
dai suburbani sui quali, per la lenta stratificazione sociale, si
consolidano le originarie prestazioni in oneri fissi ed immutabili.

È il fatale avviamento alla rovina.

Il decadere dei commerci, il languire delle industrie, il ristagno
degli affari, l'estendersi del latifondo, le preoccupazioni delle
invasioni, prima irrigidiscono, poi spezzano i vincoli amplissimi e
fecondi che tenevano unito l'Impero. Il centro di esso va lentamente
spostandosi da Roma: la cittadinanza, estesa da Caracalla, non è più
la cittadinanza di Roma, ma quella dell'Impero; la capitale non è più
soltanto Roma e di divisione in divisione, cercando appoggio solido
al suo gran corpo cadente, l'Impero, bipartito, quadripartito, diviso
in diocesi e suddiviso in provincie, si appoggia principalmente sulle
città, dove viene a convergere ogni elemento di vita.

Ma qui le vecchie e gloriose forme della civiltà e dell'opulenza
intristiscono: le curie, le corporazioni sole, per quanto fatte
ereditarie, non bastano più, come non bastano i nuovi funzionarî
dall'Impero creati per sostenerla, quali il _curator_ ed il _defensor_;
e tutti i cittadini indistintamente, ricchi e poveri, chiamati a
difenderla, sono chiamati a trattarne gli affari, ripristinando
l'antica _contio_ dell'epoca remota, composta di tutti gli urbani,
e questa va acquistando importanza sempre maggiore, perchè risponde
meglio alle esigenze di un organismo vitale che degrada sempre più in
basso; mentre a tenerne separati i suburbani, che tanti altri rapporti,
fra i quali principalissimi la difesa delle mura, le prestazioni
finanziarie, il mercato ed il culto, tenevano strettamente legati alla
città, valse il consolidamento delle condizioni dei lavoratori della
terra incominciato fino dal secolo quarto ed ormai troppo avanzato
perchè potesse aver mutamento dai fugaci tentativi giustinianei.

La concione, composta di soli urbani, raccolta davanti alla Chiesa,
la quale appariva ed era ormai l'unica istituzione da cui si poteva
aspettare qualche sollievo, si mostrò come principale depositaria delle
tradizioni cittadine e prestò agli urbani sicuro rifugio, allorchè il
dominio gotico gravò più forte sui Romani vinti e disarmati, con un
sistema d'organismo burocratico anche più odioso di quello bizantino.

La politica dei Goti tende a restringere il campo di azione della
_contio_, che si vorrebbe ridotta ad una riunione di natura religiosa,
utile soltanto alla pubblicazione delle leggi e dei precetti; ma ciò
valse a salvarla come organismo indipendente, da cui il popolo goto,
anche per ragioni religiose, restava escluso.

I Langobardi, che avevano conquistato l'Italia con la forza delle
armi e vi si insediarono come conquistatori, non si abbassarono ad
accogliere alcuna cooperazione dai vinti e quindi stesero sul paese
il loro potere assoluto; ossia imposero in modo violento all'Italia la
propria organizzazione.

Ma questa organizzazione era per più aspetti scarsa: scarsa di
contenuto e scarsa di mezzi d'azione. I varî nuclei popolari da cui
resultava la nazione germanica erano abituati a vivere in forme di
larga autonomia, ed è noto che essi non si adattavano a piegarsi
all'autorità preminente di un solo, se non sotto la pressione di gravi
avvenimenti esterni e temporanei, quali la guerra, le conquiste, le
migrazioni etc.

Abitualmente ogni gruppo provvedeva da sè ai pochi bisogni di un
popolo nomade. Pertanto per ogni deliberazione era congruo sistema
la decisione collettiva di coloro che del gruppo formavano la guida e
la difesa e cioè dei liberi atti alle armi; mentre, per i negozi che
interessavano più gruppi, tutti concorrevano alla formazione di una
volontà collettiva più ampia, sotto l'autorità del più prode in guerra
e miglior giudice in pace.

In Italia, appena compiuta la conquista di una larga zona di
territorio, la momentanea unione generale si scisse nell'indipendente
governo dei singoli duchi, bramosi di riconquistare la propria libertà
d'azione nei limiti del proprio distretto.

Un decennio di interregno fu prova bastante per dimostrare
l'impossibilità di resistere ai Bizantini, ancora signori di gran parte
d'Italia, da una parte e ai Franchi dall'altra, continuamente stimolati
dal pontefice; senza contare la necessità di tenere a freno una
popolazione numerosa e persuasa che la nuova invasione, al pari delle
altre, avrebbe dovuto esser solo passeggera.

Si tornò allora ed in modo stabile al sistema monarchico; ed il re ebbe
cura di consolidare la sua autorità in modo più energico.

Per questo egli frenò il potere dei duchi, sostituendo ad essi, quando
gli fu possibile, ufficiali di propria nomina esclusiva — gastaldi —;
e restrinse l'autorità delle varie assemblee regionali che con essi
collaboravano, riserbandosi la trattazione degli affari di interesse
generale e di maggiore importanza. Egli si valse abilmente della
impossibilità di convocare una generale assemblea di tutti i liberi per
modificare la costituzione e il funzionamento dell'assemblea che più e
normalmente gli stava vicina.

Il re intese così ad accentrare ogni potere nelle sue mani, senza
giungere a modificare il fondamento della vecchia organizzazione,
sicchè anche Liutprando, che dei re langobardi fu il più forte, si
trovò sempre a fronte l'aperta ribellione dei duchi.

I Langobardi non avevano civiltà, non conoscevano industrie, nè avevano
conservato con le regioni da cui provenivano relazioni capaci di scambi
fecondi; sicchè la loro venuta in Italia non creava per alcun verso
bisogni nuovi, i quali dessero origine ad uno scambio qualsiasi, sia
pure fittizio e momentaneo, capace di produrne altro più durevole.
Per quanto intenso fosse il movimento accentratore del potere regio,
questo non poteva iniziare un movimento che facesse convergere alla
capitale e da essa riespandere nel territorio dello Stato un'attività
capace di mutare l'assetto economico del paese — chè tale non poteva
certo mostrarsi l'affluire delle imposte alla curtis regia di Pavia ed
il modestissimo scambio cui dava luogo lo smercio di quei prodotti, la
gran maggioranza dei quali era certo in natura.

Nè le varie regioni eran più strette fra loro per esser soggette allo
stesso dominio. Ognuna formava un organismo a sè: ogni ducato aveva
i suoi liberi, che erano ad esso legati, distribuiti nelle minori
suddivisioni e che dovevano accorrere alla chiamata del rispettivo
capo; che non avevano attitudini a lavorar la terra in maniera da
trarne profitti tali da soddisfare i bisogni loro e permetterne un
commercio, perchè, anzi, il lavoro della terra non era considerato
degno di chi per natura ed elezione era portato all'uso delle armi
contro gli uomini e gli animali; nè avevan attitudine alcuna ai
commerci; quindi, una volta fissatisi in una regione, nessun mezzo di
muoversi e di prosperare: un'invincibile tendenza a fissarvisi, resa
più accentuata dai bisogni delle guerre continue, le quali, nemiche
sempre di scambi e di commerci, richiedevano inoltre sedi fisse di
riunione, da cui muovere verso il luogo indicato dal re.

La mancanza assoluta di un'energia creativa impedì dunque allo Stato
langobardo di riuscire a dominare in modo effettivo il nuovo territorio
e di imprimergli un aspetto ed uno sviluppo improntato al suo
organismo; mentre quel disgregamento proprio delle stirpi germaniche,
che con le continue lotte interne aveva facilitato la vittoria di
Cesare e dei Romani, rendendo più grave la loro dispersione in un ampio
territorio, fece sì che l'azione dei Langobardi si mostrò quasi del
tutto negativa.

Di tale situazione si valse abilmente e con fortuna l'altro grande
organismo in cui si raccoglieva allora gran parte delle energie
sociali: la Chiesa.

I Langobardi, infatti, nei primi anni in cui infierì la conquista e
turbinò il governo indipendente dei duchi, non si avvicinarono alla
chiesa cattolica: ne confiscarono, almeno in parte, i beni e li dettero
al fisco o al culto ariano, contrapponendo quasi in ogni città una
chiesa ariana a quella cattolica.

Ma il contatto continuo con i vinti, fra i quali si trovavano come
disseminati senza un continuo ed intimo rapporto spirituale reciproco,
e la fortunata propaganda dei sacerdoti cattolici produsse una forte
e rapida conversione al cattolicismo, la quale già molto sensibile al
tempo di Autari, che volle ostacolarla proibendo il battesimo, in meno
di mezzo secolo era già arrivata ai gradini del trono con Teodolinda e
Agilulfo.

Questa conversione fu dovuta allo spontaneo sentimento dei singoli
Langobardi, non fu un atto oculato e voluto di governo, nè la
conseguenza di un patto stipulato fra la suprema autorità della Chiesa
e la maggiore autorità dello Stato. Perciò i Langobardi entrarono nella
religione cattolica come neofiti penitenti accolti per misericordia nel
grembo della grazia e non come alleati — tanto meno come vincitori;
entrarono, cioè, in essa con dedizione quasi completa, accettandone
in tutto e per tutto gli insegnamenti, il dogma, i precetti, la
costituzione, senza chiedere e senza imporre modificazioni o compensi
speciali.

La loro conversione fu un trionfo completo per la Chiesa cattolica la
quale finì per assorbire il nuovo popolo senza nulla cambiare in sè
stessa e fu una rovina per lo Stato langobardo, il quale, anche quando
la maggior parte dei suoi cittadini fu convertita al cattolicismo,
ebbe sempre la Chiesa cattolica irriducibilmente e doppiamente nemica:
nemica perchè per essa lo Stato langobardo continuò ad essere il nemico
del dogma cattolico e dell'Impero che del dogma era il difensore per
antonomasia e contro di esso sollevò continuamente insidie e nemici,
finchè non ebbe ottenuta la fortunata discesa di Carlo Magno; nemica
perchè parallelamente riuscì a tener viva all'interno una continua
ostilità che non tardò a minare le basi dello Stato.

I Langobardi finirono per esser stretti dalla fede che accomuna le
anime e livella le persone; ma le persone a cui furono pareggiati
non erano che vinti e le anime a cui furono accomunati erano anime
abituate ad una vita, ad un pensiero, ad una civiltà consolidata con
secoli e secoli di storia e non mai spenta. Così il livellamento elevò
questi ultimi, mentre abbassava i primi; e l'accomunamento, che ne fu
conseguenza, mettendo a contatto una civiltà evoluta ed il vuoto della
barbarie, empì questa di quel tanto di cui era suscettibile e la rese
tollerante, se non fautrice, di un ulteriore suo sviluppo.

Quando cominciò l'alterna lotta fra il partito ariano e nazionalista e
quello cattolico e romanizzante per la conquista del potere, la nuova
religione metteva contro ai Langobardi fedeli alle origini ed al culto
avito, non più i soli italiani numerosi ma deboli e vinti; ma altri
Langobardi, non meno forti e non meno armati, i quali nel bisogno
d'armi ricorrevano ai fratelli di fede e scindevano il regno in lotte
fratricide, che rompevano sempre più la cerchia della dominazione
germanica e aprivano nuove crepe che facilitavano agli Italiani
maggiori avanzamenti.

Inoltre la Chiesa esplicò anche un'altra azione modificatrice, che
aveva ricevuto inizio già dal tempo in cui il culto cattolico era
diventato culto ufficiale dello Stato romano.

Da allora, oltre ai compiti di natura esclusivamente religiosa,
considerando la Chiesa come uno dei suoi organi, lo Stato affidò
ad essa altre funzioni che col culto erano solo apparentemente
o indirettamente collegate; e queste funzioni divennero più
importanti mano mano che l'Impero diveniva più debole e si trovava
nell'impossibilità di sopperire alle gravi necessità del momento.

Nell'epoca bizantina il vescovo aveva un'ingerenza riconosciuta nel
governo locale, partecipava alla nomina dei funzionarî ed all'esame
ed al controllo dell'amministrazione cittadina e sorvegliava anche i
giudici e la amministrazione della giustizia e qualche volta, se il
mutuo consenso delle parti lo voleva, aveva anche autorità di decidere
— episcopalis audientia —.

Con i Goti prima, con i Langobardi poi, la Chiesa perdette una parte
di queste funzioni e l'incarico ufficiale di compierle; ma altre,
per quella parte almeno che poteva essere consentita dal nuovo stato
di cose, essa continuò ad esercitare, perchè in realtà consistevano
sopratutto in manifestazioni generiche dello spirito di fratellanza
e di carità, quali l'aiuto dei poveri e degli oppressi, il riscatto
dei prigionieri, l'alimentazione e la protezione dei derelitti,
etc., ed anzi sviluppò a questo riguardo un movimento, per il quale
le istituzioni di beneficenza, già all'epoca romana appoggiate ai
municipî si trovarono più tardi addossate alla Chiesa per modo che si
fondarono e si dotarono chiese con l'incarico e l'obbligo di mantenere
o vestire continuamente un determinato numero di poveri oppure offrire
dei banchetti etc. etc.: movimento così intenso che ha inspirato e
costituito tutto il sistema delle opere pie fino al nostro tempo.

Ma per quanto numerose ed importanti sieno state le funzioni civili
esercitate dalla Chiesa, specialmente per l'impotenza dello Stato
germanico, questa non riuscì mai ad organizzare completamente la
società. Vi si opponeva la sua finalità che trascendeva i confini di
ogni Stato ed i limiti della vita terrena ed accomunava idealmente
popolazioni e paesi troppo disformi fra loro e mirava a fini troppo
diversi da quelli mondani. E vi si opponeva del pari e forse ancora più
vigorosamente la sua costituzione interna.

Era questa, com'è noto, il prodotto di una imitazione quasi servile
dell'organizzazione civile. A ciò la Chiesa si era in origine
indotta, per sua convenienza, perchè nessuna organizzazione migliore
di quella romana poteva esser presa a modello nè poteva essere
più efficace: tanto meno fu indotta a staccarsene quando, divenuta
religione di Stato, le divisioni e gli ordinamenti di quello furono
obbligatoriamente i suoi. Ma mentre questi ultimi erano come una
sopra-struttura imposta al paese; le istituzioni civili delle città
italiane erano invece la resultanza di antichissimi ed ottimi sistemi;
e quindi queste ultime continuarono a vivere per forza propria e non
per forza ed opera della Chiesa, anche dopo che fu sparito l'Impero ed
il suo pesante organismo burocratico.

La pieve è il pago italiano: esso si mantiene perchè il suo territorio
consta di terre private proporzionatamente completate da terre comuni;
i cui prodotti trovano nel convegno settimanale del capoluogo ed in
quello più raro della città lo smercio opportuno.

La processione pagana prima, le rogazioni cristiane poi, girando i
confini del pago e della pieve, cooperano a mantenerli fissi, ma non li
determinano.

Basta pensare, infatti, che il pago sopravvisse alle leggi Giulie, le
quali avrebbero voluto abolirlo: da allora all'epoca del trionfo del
cattolicismo troppo tempo intercorse, perchè si possa attribuire alla
Chiesa la virtù di averlo fatto resistere.

La pieve cittadina è costituita anch'essa da un antichissimo pago, il
_pagus suburbanus_, che chiude nel suo interno la città che ne è il
capoluogo. Eppure, malgrado lo spirito di fratellanza della Chiesa —
del resto molto minore di quanto generalmente si ritiene — i suburbani
non sono mai equiparati agli urbani e la differenza, mantenuta
rigidamente anche dalla Chiesa, non è certo di creazione ecclesiastica,
anzi deve essere soltanto accolta dalla Chiesa come forza irriducibile
delle istituzioni laiche e civili.

A soddisfare i bisogni della società italiana di quel tempo, costituita
dai nuclei di eredità romana, per numero e per civiltà prevalenti, e
dagli elementi langobardi preminenti per posizione sociale e per forza
di armi; mentre i due maggiori organismi, lo Stato e la Chiesa, erano
entrambi per ragioni diverse egualmente impossibilitati a soddisfarvi,
agì un altro e diverso organismo: la città.

Incapaci di concepire, non che di formare un ordinato sistema
di governo, spinti a conservare le divisioni territoriali dalla
convenienza che presentavano per la esazione dei tributi, i Langobardi
accettarono tutto l'organismo che serviva a questa esazione e che
resultava dall'insieme di numerosi e diversi elementi, i quali l'intimo
e antico contatto aveva fusi armonicamente ed abituati da secoli a
funzionare.

Il regno fu diviso in ducati, ognuno dei quali normalmente corrispose
al territorio di un antico municipio o di più municipi riuniti, e
la città che era capoluogo di quello, fu sede anche del duca o del
gastaldo, e con lui naturalmente, dei famigliari e dei nobili che
gli si raccoglievano intorno ed ai quali offriva sicurezza e difesa,
maestosi edifici e agi sconosciuti ma presto apprezzati.

Con le mura e con le torri la città si prestava a facile difesa, poichè
per la sua ampiezza poteva accogliere buon numero di armati ed era la
sede dell'autorità pubblica ed il naturale punto di riunione da ogni
parte della regione. Essa serviva inoltre a mantenere la pace e la
tranquillità interna delle classi; e a questo scopo, secondo il sistema
penale germanico, fu aggiunta un'altra penalità a quella normale per
ogni delitto, allorchè fosse commesso entro le mura.

Così il centro urbano acquistò nel diritto pubblico langobardo una
speciale consistenza giuridica di fronte a tutti gli altri centri,
anche se cinti di mura; in quanto che questa maggiore protezione,
essendo stata accordata alla città perchè capoluogo di una regione, fu
tolta in modo preciso e assoluto a tutti gli altri, i quali vennero
a trovarsi in una condizione riconosciuta e consacrata legalmente
inferiore.

A proteggere in tal modo la città il legislatore langobardo fu
mosso da ragioni di convenienza e di polizia: ma, intanto, sia pure
involontariamente, esso veniva a convalidare, in modo mirabile, il
concetto giuridico italiano della città: sicchè le antiche tradizioni
che rendevano le mura cittadine oggetto di un vero e proprio culto, si
mantenevano in vita con una continuità che dalle più remote leggende
d'Italia e di Roma fluisce ininterrotta per tutto il medioevo fino
all'età dei Comuni.

Si formò così il principio della pace speciale, che faceva della città
un suolo giuridicamente privilegiato e aumentava l'importanza sociale
di coloro che vi abitavano.

La città aveva conservato lo scheletro suo primitivo: anzitutto il
suburbio, immiserito ed in qualche parte, magari, deserto, ma sempre
ad essa legato ed avvinto dal bisogno della difesa e dalle necessità
del mercato, era tuttora designato col classico nome delle leggi di
Costantino e delle epigrafi più vetuste, e continuava a sussistere con
l'antichissimo e speciale regime. In secondo luogo le terre comuni: il
titolo giuridico ne era cambiato; ma ciò, dati i tempi, non modificava
la destinazione e l'indole della loro consistenza giuridica.

La città, infatti, anche nello Stato in cui era discesa al tempo dei
Goti, era pur sempre un organismo non solo capace di vivere — e lo
dimostrò sopravvivendo all'impeto della conquista — ma di gran lunga
superiore al più valido organismo di governo barbarico.

Come capoluogo del territorio sottoposto alla sua giurisdizione, essa
continuava ad attirare in sè quel po' di commercio che si poteva
tuttora sviluppare e forniva gli oggetti e gli artifici richiesti
dalla vita sociale continuando l'antica tecnica del mestiere; ed
accanto a questo mercato non frequente nè intenso, se ne manteneva in
vita un altro, periodico e settimanale, che non si estendeva al di là
del suburbio, ma che forniva alla città gli elementi necessari alla
sussistenza.

La città doveva inoltre fornire facile ricetto a quei Langobardi che,
nelle nuove condizioni sociali, avevano perduto le terre guadagnate con
la conquista, perchè il gruppo cittadino, composto di italiani, ad essi
non poteva rifiutar l'ammissione; mentre i beni comuni rimasti alla
città consentivano al nuovo venuto una condizione di esistenza di gran
lunga migliore di qualsiasi lavoratore della terra.

Anche a questo riguardo avvenne ai Langobardi quanto era avvenuto per
la loro conversione. La città, composta di elementi cattolici e vinti,
fu sottoposta a tributo insieme col suo suburbio, nei primi tempi
dell'invasione e la ripartizione fra i quartieri di questi tributi, di
cui città e suburbio erano solidalmente responsabili, spettò ai soli
urbani, i quali ne decidevano nella generale antichissima riunione, che
si teneva davanti alla Chiesa.

Quando la conversione religiosa ebbe cominciato ad avvicinare un
po' i vincitori ai vinti, i Langobardi convertiti frequentarono,
naturalmente, le riunioni in cui si trattavano gli affari di maggiore
importanza della Chiesa e siccome nello stesso modo e con le medesime
forme si trattavano anche quei pochissimi affari di natura civile,
che erano rilasciati alla cittadinanza dall'autorità pubblica; così
anch'essi si trattarono insieme con gli altri.

La cosa era resa tanto più agevole dal fatto che la cittadinanza, fino
dal tempo goto, formava un unico collegio — _collegium civitatis_
— che era composto dei soli urbani; era cioè una forma associativa
rudimentale, facilmente accessibile alle menti rozze dei Langobardi
e nello stesso tempo arieggiava l'originaria costituzione germanica
della _marca_, in quanto che solo gli urbani godevano di facoltà sui
beni pubblici e sulla cosa pubblica; così come ai soli commarcani era
dall'antico sistema germanico concesso ogni potere.

I Langobardi, entrando in quest'organizzazione, come erano entrati
nella Chiesa cattolica e cioè individualmente e alla spicciolata,
furono assorbiti da questa come dall'altra ed in breve stretti
dai vincoli della Chiesa, vennero immedesimati nella città. Tale
assorbimento, aumentando l'importanza della città, faceva sempre più
decadere le antiche ed originarie istituzioni langobarde; mentre,
d'altro canto, l'assemblea generale del regno era asservita al re
e quella locale ridotta solo, mutando le facoltà originarie, ad
amministrare la giustizia, andava perdendo lentamente anche la ragione
di esistere.

Quando con Carlo M. fu istituito lo scabinato, il maggior vantaggio
di questo colpo portato all'antico sistema langobardo, lo sentì la
città, che col privilegio, stabilito per legge, della nomina degli
scabini, ebbe, oltre l'assemblea per trattare gli affari politici,
anche un tribunale proprio per giudicare le controversie minori; ma
appunto perchè minori più frequenti e quindi più importanti, fra i suoi
componenti.

Entro la città vi era inoltre il rappresentante dello Stato e lo
Stato ha anch'esso cooperato a formare la costituzione della città
— piuttosto negativamente — è vero, ma la sua azione è innegabile.
La riduzione del concetto di cittadinanza al concetto di urbanitas
è la conseguenza dell'opera germanica nell'elaborazione di elementi
italiani; e il maggiore sviluppo dell'assemblatorio cittadino si
ottiene quando la massa dei Langobardi gravita in esso aumentandone il
peso e l'importanza.

Più difficile è determinare l'importanza reciproca e la posizione
scambievole della chiesa cittadina e della cittadinanza.

Mentre lo Stato langobardo si sovrappone dovunque alla città nello
stesso modo; la Chiesa si è insediata luogo per luogo, inspirandosi
allo stesso fine ma impiegando mezzi diversi; e le conseguenze di
questo modo di procedere, sensibile a parecchi secoli di distanza,
è stato accompagnato anche da varie cause speciali; fra le quali,
prima di ogni altra, la maggiore o minore rapidità dei Langobardi a
convertirsi e ad entrare nell'ingranaggio religioso e cittadino.

A Lucca, per esempio, sino dai primi documenti, vediamo assimilati ai
_cives_ anche taluni gruppi di _arimanni_ che non son certo italiani
e accanto ai _notarii ecclesiae_, diffusi dovunque, compaiono degli
_scabini ecclesiae_ di cui non si ha traccia altrove, così come altrove
non si ha traccia di un _curator_ investito di carattere ecclesiastico;
nè fuori che a Lucca si trovano dei _lociservatores_ di così intenso
sapore ecclesiastico.

Ma la costituzione lucchese si può considerare, per certi rispetti,
eccezionale. Del resto essa non contraddice affatto all'asserzione
che il primo posto, nella organizzazione civile, è tenuto dalla
cittadinanza.

Esternamente ed apparentemente la Chiesa sembra avviarsi ad una grande
preminenza: riconosciuta al vescovo la facoltà di cooperare col conte
all'amministrazione della città e ridotto poi quest'ultimo quasi
esclusivamente nella campagna; i re d'Italia prima, gli Ottoni in
seguito fecero del vescovo il caposaldo del loro governo.

Ma in realtà i vescovi agiscono non come capi di una diocesi; ma come
preposti alla pieve cittadina. E il loro potere è l'esponente del
potere della città. È ad essa, ai suoi componenti e cioè ai _cives_ che
spetta il primo posto.

Questi _cives_, isolati dai Goti e dai Langobardi, si stringono fra
loro in un nucleo tenace, che, assorbendo l'elemento germanico, gli
imprime il suo suggello e ne adopera l'energia a far salire il proprio
livello.

I cittadini hanno il proprio notaro, che è l'antico notaro della città.
Al tempo romano era l'attuario delle curie, perchè nelle curie si
raccoglieva il governo cittadino: ora che la città si riduce a nuove
condizioni, esso diviene il notaro dei _cives_; e accanto a questa
istituzione, che conserva le antiche tradizioni, continuano a vivere
anche altre forme antiche: il _curator_, con funzioni finanziarie, il
_perequator_, il _racionator_ etc.

E con i _cives_, naturalmente, cresce d'importanza la _civitas_.

Ma il suo sviluppo ha dei limiti: nelle condizioni generali
dell'agricoltura povera ed abbandonata e nell'impossibilità da parte
dello Stato germanico, di coordinare le varie energie locali. Questi
limiti fecero sì che l'energia cittadina — energia economica ed energia
giuridica — non si estendesse al di là del suo suburbio. Così che
il regno fu spezzato e rotta l'antica unità del territorio col suo
capoluogo, chè, mentre questo rapidamente progrediva, quello rimaneva
inattivo; mentre nella città cresceva in potenza l'organo che meglio
rispondeva alla sua organizzazione, e cioè il vescovo: nella campagna
il potere restava affidato agli organi dello Stato germanico che meglio
rispondevano ai bisogni di un'economia eminentemente terriera.

Quando il movimento ascensionale della città raggiunse un grado tale da
permetterle di avere un magistrato tutt'affatto proprio — il consolato
—; il contado all'intorno era ancora tutto soggetto alle grandi
signorie laiche, le quali separavano le varie città l'una dall'altra
senza alcuna coesione d'indole generale e superiore.

Così strette da un cerchio economicamente e politicamente diverso ed
ostile, le città svilupparono un diritto pubblico che s'imperniava
tutto sull'appartenenza non ad un regno ma ad una città e che entro
lo stesso regno contrapponeva città e città, fino ad originare la
rappresaglia; e, siccome il centro di questa organizzazione restava la
città murata, cittadinanza e _urbanitas_ furono sinonimi.

Era la cittadinanza medioevale ed il nuovo diritto pubblico italiano.

Ma questo sviluppo non sarebbe stato possibile, se l'energia economica
e sociale non fosse stata regolata e guidata con norme opportune
ed appropriate. Ed anche a questo provvide la città, la quale,
specialmente dopo l'istituzione dello scabinato, elaborò consuetudini e
norme giuridiche proprie, per cui dallo scheletro scarno dell'Editto si
giunse allo studio sistematico del diritto: alle Pandette.

Mentre il Comune drizza superbo il suo bel gonfalone, torna a farsi
sentire la voce solenne degli antichi giuristi e l'Italia rinasce a
nuova vita.

Così, sia pur in modo imperfetto e sommario, si possono tratteggiare le
vicende della costituzione giuridica delle nostre città tosco-lombarde.

Da questa ricerca scaturiscono, a mio modo di vedere, due conclusioni:
una d'indole generale, di indirizzo e di metodo; l'altra, che in parte
rientra in questa e che direi di proporzione.

Quando Roma ebbe con fortuna iniziato quel gran movimento ascensionale
che toccò culmini non più raggiunti, faro luminoso, centro di ogni
specie di attività, attrasse, costrinse a sè le energie di tutti i
territori soggetti al suo dominio, e la sua lingua, la lingua della
signora di tutto il mondo, fu la lingua dell'universo e scrittori
d'ogni provincia accolsero, coltivarono, perfezionarono quella che sola
aveva dignità di lingua, di fronte alle altre parlate, che non erano
che dialetti: così come il suo diritto era il diritto per eccellenza e
rétori e poeti, filosofi e grammatici, storici e giuristi furon tutti
dominati dalla sua grande potenza.

Più tardi, quando questa potenza cominciò a decadere, l'idea grande di
Roma non decadde. Non decadde allora e non sparì in seguito: nemmeno
quando il mondo attonito seppe violate e rotte dall'orda famelica e
disordinata dei barbari tante volte nei secoli percossi dall'aquila
superba, le mura fatali che Annibale, vincitore di numerose e cruente
battaglie, invasore felice di tre paesi, conquistatore fortunato di
quasi tutta l'Italia, non aveva osato avvicinare. Nemmeno allora sparì:
si trasformò. Divenne il più caro, il più santo dei ricordi e delle
tradizioni e fu il termine di paragone delle fervide menti avide, nel
doloroso presente, del ritorno di un passato luminoso di vittorie e di
prosperità, e del tempo felice in cui l'immensa pace romana copriva del
suo manto maestoso quasi tutto il genere umano. E a render più saldo
questo culto nel tempo in cui la religione era senza dubbio il conforto
maggiore; il dolce cantor di Virgilio, per divina volontà quasi profeta
di una venuta che doveva trasformare il mondo, legava con vincoli
spirituali sempre più intensi l'antico mondo al nuovo.

Le antiche tradizioni popolari di giustizia, di diritto, di tecnica
del mestiere, che erano e risalivano al tempo romano, furono credute
— e non tutte lo erano — romane ed ogni città volle vita ed origine
da Roma e da quelli che in essa raggiunsero fama e splendore; e queste
antiche leggende, queste tradizioni vetuste nel remoto medioevo furono
la vita spirituale delle nostre città, in cui notai e giudici avevan
continuamente sott'occhio formule e parole d'antichi tempi, e in cui
la Chiesa continuava a parlare al cuore con la voce di Roma, simbolo
superbo di gloria e di redenzione per il popolo italiano.

Nell'800 un re franco di grande ingegno e di grande potenza, ma
barbaro, non italiano, intese, cingendo in Roma la corona, di
continuare, non di far rinascere — chè rinasce solo ciò che è morto —
l'antico Impero.

Fu un'utopia, ma un'utopia di tal forza che ha vissuto fino al secolo
decimonono, incardinando per secoli il diritto pubblico dell'Europa
intiera: qual prova maggiore di intensità e di forza per una
tradizione?

Di poche diecine d'anni è posteriore il primo documento a noi noto in
cui appaiono i primi segni del differenziarsi di nuove lingue sul gran
fondo comune della lingua romana e da allora, più intensamente che
altrove, la tradizione di Roma si consolida in Italia; nell'Italia che
da Roma e da Roma sola voleva trovar l'origine per le sue molteplici
città.

Queste tradizioni si maturano, si ampliano nei secoli e sbocciano
gloriose nel fulgore delle repubbliche, che si specchiano in Roma,
e che assurgono a nuova civiltà, fino al trionfo dell'Umanesimo, che
ridestò intiera l'antica gloria.

Anche in seguito, pur spezzata, frazionata, divisa e sottoposta al
dominio straniero, l'Italia sentì la sua unità nella grande discendenza
da Roma: e tutti gli scrittori di storie locali, che dal cinquecento
all'ottocento hanno illustrato le vicende della propria patria, ne
iniziaron le origini con la discendenza da Roma e da Roma mossero
alberi genealogici e costruzioni sociali.

All'epoca del nostro riscatto, Roma, Roma la grande, fu contrapposta
al barbaro ed all'oppressore e sui campi cruenti delle battaglie,
nell'oscure torture delle prigioni e dei patiboli, gli esempi di amor
di patria dell'antica Roma sostenevano i forti spiriti dei martiri e
degli eroi, mentre nella bocca e nella mente del popolo l'incitamento
alla vittoria suprema suonava nell'alata parola del poeta che all'itala
madre cingeva il superbo elmo di Scipio.

Nè gli studiosi della nostra storia giuridica si sottrassero a questa
corrente; troppo compresi della gran lotta per l'indipendenza per non
ricollegare agli antichi i nuovi oppressori.

Il culto di Roma tocca l'apogeo con Federigo Carlo di Savigny.

Questo illustre e geniale tedesco, studioso eminente del diritto di
Roma, sentì, guidato sui primi passi dal genio di un grande, sebbene
quasi dimenticato, italiano — Antonio d'Asti — sentì che quel complesso
meraviglioso di norme, frutto di lunghi secoli e di studî mirabili,
non poteva morire, non poteva esser morto; sentì che quel paese, ove
tanto fuoco aveva per secoli scaldato le menti, regolato i rapporti,
guidate le azioni, doveva, pur nel più gelido stato, conservarne pure
le faville sotto le ceneri; ed ideò una costruzione storica, per cui
il diritto di Roma si manteneva in vita per tutti i secoli del medio
evo, e la costituzione romana, abbattuta ma non mai estinta, si reggeva
pur col passar dei secoli e delle stirpi, per risorgere a nuova vita,
mentre a nuova vita risorgeva lo studio del diritto all'epoca comunale.

Fu grande questa concezione e luminosa quant'altra mai; e il Savigny
conta fra gli spiriti vivificatori della nostra stirpe e del nostro
paese; come grandi resultati portò il metodo storico e giuridico da lui
inaugurato.

Ma Roma non è, non è mai stata l'Italia. Questa tradizione che fa capo
a Roma, e a Roma soltanto, deve ora essere ristretta ai suoi naturali
confini; e deve cessare il metodo che Roma e il diritto romano vuole
esclusivamente cercati nel corso della storia italiana.

Roma rappresenta un'eccezione e come tale, per la sua immensa
importanza, ha e deve avere gli studiosi della sua storia, della sua
costituzione e del suo diritto. La regola è data dalle altre città
ed è la costituzione di queste città, non affatto quella di Roma, che
porge gli elementi, che sopravvivono al tempo romano e che a contatto
con gli elementi germanici producono un nuovo periodo storico. Dunque
anche questa costituzione deve aver il suo storico ed il suo studioso
e questi deve essere lo storico non del diritto e della costituzione di
Roma, ma della costituzione e del diritto d'Italia.

Come Roma non è l'Italia, così la costituzione e il diritto di Roma
non sono tutto il diritto italiano. E se noi vogliamo conoscere la
nostra storia dobbiamo sceverar la storia d'Italia da quella di Roma,
tenendo di questa il debito conto, sì, ma come parte di un tutto che è
nato prima di lei, ha vissuto in modo diverso e separato da lei e che
quando quella è morta — perchè Roma, come città antica, è veramente
morta — non solo non si è spenta con lei, ma ha fornito gli elementi e
i fondamenti della nuova costituzione. Noi dovremo studiare il nostro
diritto, non soltanto contrapponendolo e distinguendolo da quello degli
altri popoli stranieri, ma anche da quello di Roma stessa.

E valga il vero.

L'Hegel, con una ricerca poderosa, ha troncato il sogno così caro al
Savigny della continuazione delle antiche curie romane nel consolato
medioevale; pochi anni fa il Solmi ha fatto altrettanto per le
corporazioni; dimostrando che le corporazioni medioevali non si
riattaccano affatto a quelle del tempo romano.

Ma, diciamolo forte, con questo non si apre un baratro fra l'evo antico
ed il medio. La continuazione esiste ed esiste ugualmente, ma deve
essere ricongiunta alle primi origini della costituzione dell'Italia:
dell'Italia, non di Roma.

Tali almeno le risultanze delle ricerche di questo studio. E se
anche queste resultanze dovessero essere riconosciute inesatte o
completamente errate; altre prove e più sicure si dovranno portare in
suffragio di quest'asserzione.

Quando, abbandonato l'antico preconcetto per il quale si riteneva
che le leggi langobarde dovessero considerarsi come depositarie del
più puro diritto germanico; se ne intraprese un esame più accurato:
apparvero in esse tracce non dubbie di un diritto che fu detto
romano e giustamente, perchè emanato dagli Imperatori di Roma. Ma
quest'espressione apparve ben presto troppo generica.

Il Nani rilevò che fra il diritto romano puro e l'Editto langobardo
c'era stata una elaborazione della legge romana che aveva servito di
tipo al legislatore langobardo. Ed il Tamassia, poco dopo, identificava
questa elaborazione intermedia nella _Lex Romana Visigothorum_,
più comunemente nota col nome di _Breviario Alariciano_, che è una
riduzione ed un compendio del Codice Teodosiano; pur mettendo in
rilievo che nell'Editto stesso si trovano tracce, oltre che di diritto
visigoto ed ecclesiastico, anche di diritto giustinianeo e di un
diritto che, sull'esempio del Brunner, chiamò volgare.

E contemporaneamente al Tamassia allo stesso scopo dedicava profonde
e fruttuose ricerche il Del Giudice; mentre il Calisse dimostrava che
il diritto classico italiano aveva mantenuto la sua fisonomia anche
dopo la legislazione giustinianea, così sulle leggi langobarde come nei
documenti di quel tempo.

Così a proposito della fiera ferita, degli sponsali sciolti per
ingiustificato ritardo di un biennio ad effettuare le nozze, della
perdita totale dell'usufrutto per parte della vedova passata a seconde
nozze, dell'affrancazione dei servi, delle scritture contrattuali,
delle forme degli atti e del numero dei testimoni, della mancipazione
nella donazione e nella vendita, dell'uso frequentissimo di dichiarare
cittadini romani i servi manomessi, della fiducia, del testamento,
della falcidia.

E il quadro generale fu confermato col resultato degli studii del
Tamassia sull'alienazione degli immobili, sul testamento del marito,
sulla falcidia etc. e di quelli, numerosi, del Besta; mentre nuovi
studii pubblicati e nuovi documenti messi in luce rivelano nuove tracce
dell'antico diritto italiano, dalla mancipatio al diritto del passo
necessario.

Orbene questo diritto, che qualche volta è stato detto teodosiano,
è più propriamente italiano ed esso deve essere messo in relazione
e completato con tutti gli altri elementi giuridici conservati dalle
consuetudini, dagli statuti, dai documenti, e da ogni altro materiale,
che ci ha serbato notizia della nostra vita giuridica.

Il Brunner ha chiamato _diritto volgare_ questo diritto, che considerò
come una modificazione, una storpiatura del diritto romano, per opera
di elementi locali. L'espressione non è esatta e il suo pensiero non
ha colto nel vero. Ciò che a lui parve un fenomeno particolare ed
eccezionale è invece un fenomeno generale e complesso per il quale le
norme giuridiche e le consuetudini delle varie regioni d'Italia sono
state inquadrate dal diritto romano, ma non soprafatte e annientate.
Dal diritto romano risulta infatti da un lato l'autonomia concessa
alle varie regioni italiane — e questo è già qualche cosa per la
storia della costituzione giuridica dell'Italia — e da un altro — e
questo è infinitamente di più perchè è proprio l'ossatura intima della
costituzione italiana — che le norme e le consuetudini locali ebbero
un'importanza preponderante e devono esser considerate come l'elemento
principale, il quale, nelle sue varietà regionali, è stato coordinato
dal diritto romano, ma non distrutto.

La distruzione comincia più tardi: quando con la scuola di Bologna
assurge al primo posto il diritto giustinianeo e questo diritto si
diffonde e si applica in tutta l'Italia.

Storia italiana, dunque, fatta con elementi italiani.

Accettando, poi, almeno nelle linee generali, le conclusioni delle
nostre ricerche si è tratti anche ad una altra considerazione, pur essa
di metodo.

Se la città italiana ha conservato una fisonomia propria e durante
l'epoca langobarda e quella franca è andata acquistando sempre
maggiore importanza e consolidandosi in un assetto giuridico sempre più
completo, tanto che l'evoluzione è terminata quando sono sbocciati i
Comuni, quando cioè, l'Italia superiore e media è apparsa costituita di
città libere; è chiaro che nè lo Stato, che ne ha permesso il primo e
l'ulteriore sviluppo, nè la Chiesa, che per un tempo abbastanza lungo,
per mezzo dei vescovi, ha tenuto il governo delle città, sono state
le forze veramente direttive della società italiana di quel tempo:
se avesse prevalso l'autorità regia, avremmo avuto una costituzione
simile a quella franca; se avesse avuto il predominio l'autorità
ecclesiastica, si sarebbe dovuto finire in qualche cosa di simile allo
Stato della Chiesa. Dunque l'organismo più potente, l'elemento centrale
della nostra storia e della nostra costituzione è la città.

Orbene se questo è, ne consegue che la città deve essere considerata
come punto di riferimento e di partenza per la risoluzione dei più
gravi problemi, che interessano la nostra storia giuridica.

Tutto il fenomeno storico della nostra costituzione si svolge intorno
ai cardini della città; dunque è la città che ne è il centro e da
questo centro si deve muovere.

Ma dire città val quanto dire elemento laico, elemento civile, elemento
italiano, chè la Chiesa è universale e lo Stato è rimasto per lunghi
secoli straniero.

Auguriamoci che la storia d'Italia la facciano gli Italiani.



INDICE


  I. La città romana gota e bizantina.

  §  1. _L'antica cerchia di Roma primitiva._
          Le origini di Roma                               Pag.  1-4
          Il vallo e la fossa                               »    4-6

  §  2. _La cerchia murata del IV.º secolo av. Cr._
          Patres, patres minores e plebei                   »    6-9
          Importanza delle mura                             »    9-10

  §  3. _I mille passus. Determinazione territoriale_       »   10-12

  §  4. _Determinazione dei mille passus rispetto alle
          magistrature._
          Il domicilium                                     »   12-14
          Condizione giuridica speciale dei beni dei minori
            situati entro i mille passus                    »   15
          Esegesi dell'orazione di Severo — sua
            interpolazione                                  »   16-17
          Origine della distinzione dei beni in urbani,
            suburbani e rustici                             »   18-19
          La fiducia                                        »   19-20

  §  5. _Mille passus, urbs e suburbium._
          La preminenza degli urbani                        »   20-23

  §  6. _Differenze fra Roma e le altre città. Pomoerium e
          continentia aedificia._
          Equiparazione dei continentia aedificia al suolo
            intramurano a Roma                              »   23-25
          Carattere eccezionale per Roma di questa
            equiparazione                                   »   25-26
          Origine e cause                                   »   27-28

  §  7. _Determinazione dei mille passus rispetto ai plebei._
          La plebs extra muros posita                       »   28-29
          Esegesi del tit. 55 del lib. XI. del Cod.
            Giustinianeo                                    »   29-34
          Condizione giuridica di questa plebs              »   34-39
          Sua importanza come classe sociale                »   40

  §  8. _Determinazione dei mille passus rispetto ai beni
          pubblici_.
          I beni pubblici nel diritto romano. Esame e critica
            della teoria del Rudorff                        »   40-48
          Triplice distinzione di essi fatta dalle
            fonti                                           »   49-51
          Diritti degli urbani a questo riguardo            »   52-53

  §  9. _Determinazione dei mille passus rispetto al culto._

          Il pagus suburbanus                               »   53-55

  § 10. _Città e campagna negli ultimi tempi dell'Impero
          romano d'occidente._
          Trasformazioni del governo della città durante
            la decadenza                                    »   55-57
          Riammissione dei plebei prima esclusi             »   58-61
          Cause e conseguenze                               »   62-64

  § 11. _La conquista gota._
          Il collegium cittadino                            »   64-68
          I beni pubblici                                   »   69

  § 12. _Città e campagna sotto i Bizantini._
          Sopravvivenza della condizione giuridica della
            plebs extra muros posita                        »   69-71

  § 13. _Le divisioni territoriali interne della città._
          I quartieri.                                      »   71-73
          Loro attribuzioni                                 »   74
          Quartieri, corpora e numeri                       »   75-77

  § 14. _Conclusione._                                      »   77


  II. La città langobarda-franca.

  §  1. _Territorium._
          Continuazione delle divisioni territoriali civili
            romane e loro coincidenza con quelle
            ecclesiastiche                                  »   79-80
          Eccezioni a questo sistema dovute non a
            perturbamenti del tempo langobardo ma a
            preesistenti pagi italiani                      »   81-83

  §  2. _Suburbium._
          La legge di Carlo Magno                           »   84
          Traccie e denominazione                           »   84-86
          L'espressione »intra civitatem» usata nei
            documenti medioevali per indicare il suburbio
            e la legge dell'imperatore Costantino           »   87-90
          Estensione del suburbio diversa da regione a
            regione ma sempre antichissima                  »   91-96
          Condizione giuridica speciale dei suoi lavoratori
            mantenutasi dal tempo romano                    »   97-104

  §  3. _Campanea._
          Esistenza di un territorio strettamente
            cittadino                                       »  104
          Sua differenziazione così dal suburbio come dal
            comitato                                        »  104-109
          Sua natura giuridica                              »  109

  §  4. _Bona publica e arimannie._
          Origine e natura delle terre arimanniche          »  109-110
          Esame e critica delle varie opinioni degli
            scrittori a questo riguardo e specialmente
            di quella del Checchini                         »  112-117
          Le famose arimannie mantovane                     »  118-120
          Il _publicum_                                     »  121-122

  §  5. _Il populus cittadino._
          Sua costituzione resultante dall'unione dell'urbs
            col suburbium e con la campanea                 »  122-123
          Origine e natura di questa unione                 »  123-126
          I famigerati »populi» di Paolo Diacono            »  127-132

  §  6. _I suoi elementi: pars ecclesiae, pars publica, cives._
          Notarius regis, notarius ecclesie e exceptor
            civitatis                                       »  132-134
          I cives di Verona                                 »  134-136
          Continuazione dell'antico sistema italiano per il
            quale alla riparazione delle mura e degli edifici
            pubblici concorrono lo Stato, la Chiesa cittadina
            e i cittadini                                   »  136-142
          Eccezione fatta a questo riguardo dalla c. d.
            Legge romana udinese                            »  137-138
          I cives di Cremona                                »  138-145

  §  7. _La Chiesa come istituzione cittadina. La pieve:
          origine, elementi, sviluppo e modificazioni.
          Origine della parrocchia a tipo moderno: le
          chiese cardinali._
          Numerosi elementi da cui risulta l'azione della
            Chiesa e necessità di sceverarli ed esaminarli
            partitamente                                    »  145-146
          Sistemi di propaganda                             »  147
          Differenze fra gli ordines officiorum delle
            varie chiese                                    »  148-150
          Origine, natura ed importanza di queste
            differenze                                      »  150-152
          La pieve                                          »  152-153
          Sua sovrapposizione all'antico pago italiano      »  153
          Elementi di questo rintracciabili attraverso
            la pieve cristiana.
          Communia, vicanalia e interconciliaricia          »  153-161
          Munitio e magistri pagorum                        »  161-162
          Feriae pagorum                                    »  162-163
          Sistema tenuto dalla Chiesa cattolica             »  163-166
          La pieve cittadina                                »  166-175
          Inizio, sul finire del secolo ottavo, della
            sua differenziazione dalla pieve rurale         »  171
          Allargamento del suo territorio. Decima
            novalium e fondazione di nuove cappelle
            estendentisi anche ultra suburbii fines         »  171-174
          Inizio di una speciale officiatura delle chiese
            dei santi più venerati                          »  175-177
          I decomani milanesi                               »  178-179
          La chiesa di S. Ambrogio di Milano e il diploma
            arcivescovile dell'anno 789                     »  179-180
          Altri privilegi concessi a questa chiesa
            dall'arciv. Tadone nell'866                     »  181-183
          Chiese decumane, cardinali e sedali               »  183-187
          Le caratteristiche di queste chiese. La
            parrocchia moderna                              »  188-189
          Ordo laico e ordo ecclesiastico. Derivazione di
            quest'ultimo dall'ordo civile del municipio
            italiano                                        »  189-190
          Ordinarii e ordinarii cardinales                  »  190-194
          Azione ed intervento dei laici nelle elezioni     »  194-198
          La consacrazione. — La consacrazione delle
            chiese cardinali                                »  199
          La mensurna divisio dei primi secoli              »  199-200
          Sua trasformazione da offerta volontaria in
            collecta obbligatoria                           »  200-202
          Origine della decima                              »  202
          Decima franca e decima italiana                   »  202-206
          Il rifacimento degli edifici del culto            »  206-207
          Le oblazioni: loro trasformazione da volontarie
            in obbligatorie                                 »  207-208
          Condizione speciale, a questo riguardo, delle
            chiese cardinali                                »  208-209
          I beni della Chiesa                               »  209-213
          Le chiese cardinali e l'origine del beneficio
            ecclesiastico                                   »  213-215

  §  8. _Il mercato cittadino._
          Estensione                                        »  216-220
          Sistema di scambio                                »  220-221
          Generi di scambio                                 »  221-227
          Ubicazione                                        »  227-229
          Azione ed importanza                              »  229-235

  §  9. _Il centro urbano e la sua natura giuridica._
          Urbs, castrum e vicus                             »  235-237
          Continuazione dell'antico sistema italiano per
            il quale le maggiori facoltà erano
            prerogativa esclusiva degli urbani              »  237-244
          Azione della città                                »  244-246
          Azione del diritto pubblico germanico             »  246-247
          Pace romana e pace germanica. Civis romano e
            urbanus medioevale                              »  247-249

  § 10. _L'assemblatorio cittadino._
          Il communi consensu richiesto dalla legge
            dell'anno 400 per l'alienazione dei beni
            delle città                                     »  249-250
          Il conventus ante ecclesiam e l'Editto di
            Rotari                                          »  250-252
          Continuazione dell'antica assemblea degli
             urbani                                         »  252-253
          Il praeceptum dei Piacentini                      »  253-255
          L'asamblatorium di Milano                         »  255
          Asamblatorium, consulatus e origine del
            Comune                                          »  255-258

  § 11. _L'assemblea regionale longobarda._
          Gli antichi anfiteatri romani e il termine
            parlascium con cui sono indicati nei
            documenti medioevali                            »  258-261
          Traccie della coesistenza di due diverse
            riunioni in epoca remota                        »  261-262
          L'assemblea regionale langobarda                  »  262-263
          Suo decadimento fino ad esser ridotta ad
            esercitare una funzione quasi esclusivamente
            giudiziaria                                     »  263-265
          Riforma di Carlo Magno. Lo scabinato              »  265
          Il placito                                        »  265-266

  § 12. _Azione dell'uno e dell'altra nella costituzione della città._
          Elezione degli scabini                            »  266-268
          Loro competenza. Il consolato del placito         »  268-270
          Assemblatorio e placito                           »  270
          La costituzione dell'Italia e quella degli
            altri paesi                                     »  271-274

  § 13. _Le divisioni territoriali interne della città._
          Continuazione degli antichi quartieri
            italiani                                        »  274-275
          Loro rapporti reciproci e con la città            »  275-276
          Costituzione interna                              »  277
          Importanza                                        »  277-278
          Compagine della città                             »  278-280

  _Conclusione._                                            »  281-310



NOTE:


[1] I dati non discussi sono tolti dalla geniale storia del diritto
romano del nostro BONFANTE (Milano, 1910) e dalle opere fondamentali
del MOMMSEN e del MARQUARDT (Paris, 1888-93).

[2] CUQ E. _Les institutions juridiques des Romains_. Paris. 1891, pag.
38.

[3] Recenti studi ormai accolti nella scienza (vedili citati in
PACCHIONI G. _Corso di diritto romano_, vol. I. Innsbruck 1905 pag. 6)
hanno dimostrato come sia erronea l'opinione comune, fin qui dominante,
che trovava il significato originario di _pater_ in vincoli di
parentela. Questo senso è anzi completamente da escludersi: i resultati
etimologici danno la sola ed unica idea di dipendenza.

[4] Cfr. la nota di N. TAMASSIA nella _Rivista Italiana per le Scienze
Giuridiche_ vol. XXII a. 1896 pag 870 e segg., le cui conclusioni sono
accettate anche dallo SCHUPFER (_ibid_. vol. XXXV a. 1903, pag. 13).

[5] PAIS E. _Storia di Roma_, vol. I, parte I. Torino 1898, pag. 218 e
segg. e 268 e segg.

[6] Cfr. _De Marchi A_. _Ricerche intorno alle insulae o case a pigione
di Roma antica_ in Mem. del R. Ist. Lomb. classe lett. sc. stor. e mor.
1891 ser. III vol. XVIII-IX pag. 244.

[7] È merito del NIEBUHR (_Vorträge über röm. Alterthümer_ 1858, pag.
168 e segg.) aver pensato per il primo che l'«ambitus» fosse prescritto
per non funestare, quando c'era un morto, la casa del vicino.

[8] PAIS _loc. cit._ pag. 217.

[9] Ritengo non accettabile la teoria che ha tentato di mettere il mito
dell'uccisione di Remo in relazione con l'obbligo della difesa della
città contro il nemico a cui il passaggio non deve esser possibile che
vinto e sotto le forche caudine, e ciò perchè le forche consistendo in
una lancia posta trasversalmente su altre due infisse in terra viene
a riprodurre simbolicamente la rappresentazione di una porta e si lega
dunque a questa.

Si può osservare in contrario anzitutto che il culto delle mura,
come ho detto, è posteriore a quello della fossa e del vallo; poi
che numerose leggende lumeggiano la difesa della città; e, infine,
l'esistenza di anteriori gruppi vicinali fuori del vallo stesso.

[10] Tramandataci da GELLIO XIII, 14.

[11] Ciò è tanto vero che nel caso in cui manchino magistrature
patrizie, l'«jus auspiciorum» ritorna ai «patres». Cfr. WILLEMS P. _Le
droit public romain_. Louvain 1883 pag. 240 e pag. 293.

Del resto insieme con i discendenti degli antichi «patres» entravano a
far parte dei patrizi anche talune delle principali famiglie nemiche
vinte, alle quali si concedevano subito la piena cittadinanza ed il
diritto agli onori. Il PAIS (_ibid_. I. 2. pag. 293) dimostra che tale
procedimento si seguì con i Nomentani, con gli Aricini, con i Lanuvini,
con i Pedani etc.

E questo spiega anche — a mio credere — perchè nella lunga lotta delle
origini invece che schiatte, genti o tribù emergano contrapposti i due
soli elementi dei patrizi e dei plebei.

[12] PAIS _loc. cit._ I. 1. pag. 331 e I. 2. pag. 341 nota.

[13] ID. _ibid_. I. 2. pag. 207-8.

[14] BONFANTE P. _Diritto romano_. Firenze, Cammelli 1900. special.
pag. 157 in cui sono raccolti i resultati di numerosi suoi lavori,
diretti a chiarire questo punto importantissimo del diritto di Roma.

[15] Il CUTRONA (Circolo Giuridico 1904, pag. 218-228), in una sua
indagine sulla proprietà agnatizia in Roma, sostiene che i diritti
dei «filii familias» siano dei diritti riflessi a nessuno dei quali
è data in tutela un'azione diretta: non che il figlio, nessuno, per
esempio, avrebbe azione per impedire al padre di spogliare i suoi
discendenti; indirettamente, però, l'assemblea, tutelando gli interessi
della collettività, provvede agli interessi di questi figli. Ma, a
parte l'esattezza di alcune comparazioni con altri popoli primitivi, il
CUTRONA si limita a mettere in luce il fatto, facilmente comprensibile,
che l'organo tutore della collettività protegge indirettamente anche
quei componenti che, pur non essendo con essa in immediato contatto,
fanno parte integrante e vitale del nucleo sociale.

[16] Il MOMMSEN, _Disegno del diritto pubblico romano_ trad. BONFANTE
Milano, 1895 pag. 33, trova ozioso avanzar delle congetture sul
rapporto tra le case di città in possesso privato e la partecipazione
dei loro possessori agli agri gentilizi. A prescindere dal riflesso
germanistico dell'idea della sors barbarica, che sembra inspirare
questa frase, mi pare indubbio che il problema debba esser impostato
diversamente. Nè la casa privata nè la partecipazione agli agri
gentilizi sono elementi fondamentali di paragone: quella non ha valore
se non in quanto custodisce e conserva i sacra; questa non è che una
delle conseguenze, e forse non la maggiore, dei benefici che risentono
coloro che formano l'assemblea deliberante dello Stato, per partecipare
alla quale è necessaria la proprietà di quella determinata casa.

[17] _Festo_. 247: Patres.... agrorum partes attribuerant tenuioribus
ac si liberis suis.

[18] Inquilinus — dice il DE MARCHI _loc. cit._ pag. 288 nota 28 — sta
a «incola» come «libertus» sta a «libertinus» e si usò prima forse
come contrapposto ad «exquilinus» ossia abitante delle «exquiliae»
cioè della parte unita a Roma solo posteriormente. E ci si avvicina a
Festo che definisce l'«inquilinus», come colui «qui eumdem colit focum
vel eiusdem loci est cultor». L'unica idea contenuta nell'etimologia
della parola è quella del domicilio. Infatti così l'«inquilinus» come
l'«exquilinus» sono del pari esclusi dalla partecipazione alla vita
pubblica.

[19] DALLARI G. _Le nuove dottrine contrattualiste intorno allo
Stato, al diritto ed alla società_. Modena 1901. — ID. _Il nuovo
contrattualismo nella filosofia sociale e giuridica_. Torino 1911.

[20] La derivazione di _moenia_ da _munera_ mostra quanto ne dovevano
esser gravosi la costruzione e il mantenimento.

[21] _Praetor_ indica veramente il capo dell'esercito, ma questo non è
costituito che dai cittadini.

[22] WILLEMS _loc. cit._ pag. 48.

[23] PACCHIONI _loc. cit._ pag. 105-107.

[24] ZDEKAUER L. _Mille passus e continentia aedificia_ in _Bullettino
dell'Istituto di Dir. Romano_, vol. II fasc. VI.

[25] _Dig_. L. 16. 154.

[26] _Ibid_. XXVII. l. 13. 2.

[27] BONFANTE P. _La progressiva diversificazione del diritto pubblico
e privato in Riv. Ital. di Sociol_. 1902.

[28] r. XCI.

[29] r. XVII.

[30] PACCHIONI _loc. cit_. pag. 189-90.

[31] Dalla legge di Costantino del 346 (_Cod. Theod_. X. 8. 4)
confrontata con l'altra di Arcadio e Onorio del 395 (_Ibid_. X. 9. 2)
e con quella di questi due imperatori del 400 (_Ibid_. XI. 20. 3) si
rileva che solo in quest'anno i «praedia urbana» cominciarono a pagare
la _tertia_ che consisteva nel pagare ogni tre anni il reddito di un
anno intiero.

[32] _Dig_. XXVII. 9. leg. 1. § 2.

[33] È tipica la disposizione del _Cod. Theod._ XII. 11. 1. riportata
anche nel _Cod. Just._ XI. 32. 2.

[34] _Cod. Iust_. V. 37. 22.

[35] _Dig_. L. 16. 198.

[36] Da Plinio (N. H. XIX. 19. 50) sappiamo che «in duodecim tabulis
legum nostraram nusquam nominatur _villa_: semper in significatione ea
_hortus_, in horti vero _heredium_». Da questo passo, oltre la conferma
della forza dell'immobile ereditario nella costituzione di Roma, si
vede come fossero privi di ogni importanza i beni lontani dalla città
(_villae_); mentre invece tutto si basava sulle terre entro la città
stessa o nella sua immediata vicinanza (_horti_): vicinanza determinata
dai «mille passus». Infatti _nei quis_, dicono le antiche norme (cfr.
Bullettino della Commissione Archeologica Comunale. XII. Roma. 1884.
pag. 59) INTRA TERMINOS PROPIUS URBEM _ustrinam fecisse velit neive
stercus cadaver inserisse velet_.

È da notare l'uso dell'avverbio _intra_.

[37] Tale significato è dimostrato dalla legge tarentina che chiama
«domicilium» l'edificio coperto di tegole.

[38] Infatti, secondo FESTO, _loc. cit._ i sobborghi sono «continentia
aedificia itineribus regionibusque distributa, nominibusque
dissimilibus dispartita».

[39] _Mille passus cit._ pag. 281-82.

[40] Hermotino 24.

[41] _Corp. Inscr. Latin._ VIII. 1641.

[42] GUERIN V. _Étude sur l'île de Samos_. Paris, 1856 pag. 213.

[43] _Dig_. L. 16. 239. § 8.

[44] _Magistratus qui_ INTRAMURANUS _non est nec_ URBANUS, _etiamsi
administrator eius Romae est, ad urbem dicitur_. (_In_ IV. _Verr_. 6.
riportata dal FORCELLINI). Questo passo è da riconnettesi all'altro,
pure di ASCONIO (_in C. Verrem_. II. 2. 817. ed. ORELLI. _Cicero_. V.
pag. 208) _«Statim Romae et ad urbem»_.

[45] _Corp. Iscr. Lat._ V. 5446, 5447.

[46] _Ibid_. pag. 565.

[47] _Si melioribus viris_ (dice SIMMACO. _Ep_. X. 37) OFFICIA
INTRAMURANA _mandetis_.

[48] _Corp. Iscr. Lat._ II. 2428. Bracaraugusta. — _Sodalicium
Urbanorum. D. S. F. C._ — _Ibid_. II. 3244. — D. M. S. HI (sic) JACET
LAETUS ANNORUM XXV PIUS IN SUIS _collegium urbanum_ EI POSUIT etc.

[49] ORELLI. 110. — M. HERENNIO M. F. PICENTI COS (an. di Roma 720)
_Municipes_ MUNICIPI AUGUSTI _Intramurani_ PATRONO. _Id._ 3706. —
CN. CAEZIO ATH[ICTO] AALECTO INTER C[ENTUM]VIROS (OB) PIETATEM EX
M[UNIFICENTIAM] EIUS [E]RGA DIVINAM (et) MUNICIPUM AUGUSTI VEIOS
[CE]NTUMVIRI ET SEVIRI ET AUGUSTALES ET _Municipes_ [_In_]_tra.
Murani_ EX AERE QUOD (IN) ORCHESTRA CONLATUM EST [LU]DIS QUOS FECERUNT
[V]ERGILIUS COGITATUS [I]ULIUS SENECIO II VIRI.

_Corp. 1. Lat._ X. 5060. — P. TETTIO PF. RUFO FONTIANO. — Q. Tr. PL.
PR. _Altinates urbani_. — _Patrono D. D._

_Ibid_. IX. 1475. (Ligures Baebiani). — L. IRVINIO A. ... _civis
urbanus_.

IBID. IX. 982. (Compsa). — APRISCIUS PORRENDA — CURAVERUNT CUIUS
— DEDICATIONE DECURI — ONIBUS SINGULIS V. — _populo intramurum
morantibus_ X SINGULOS.

[50] _Ibid. Addit_. XI. 6257 (Aquilonia). — M. LUCCEIUS C. F. IIII
VIR AED. POT. PISCINAM PURGANDAM ET LORICAM IMPONENDAM DE _urbanorum
opereis coeravit_.

Cfr. anche IX. 3188. Anche la legge della colonia giulia genitiva (rub.
98) mostra che gli edili presiedevano alle opere pubbliche, ma mentre
secondo essa a tali opere era obbligato chiunque «intra eius coloniae
fines domicilium praediumve habet», qui al contrario sono obbligati
soltanto gli _urbani_, cioè quelli che abitano entro le mura.

[51] _Corp. 1. Lat._ IX. 2855 (Histrium). — HUIC ... (M. BAEBIS ...
SVETONIO MARCELLO) ... DECURIONES FUNUS PUBLICUM STATUAM EQUESTREM
CLIPEUM ARGENTEUM LOCUM SEPULTURAE DECREVERUNT ET URBANI STATUAM
PEDESTREM.

[52] _Corp. I. Lat._ IX. 2835. — HERCULI EX VOTO ARAM L. SCANTIUS L
LIB. MODESTUS VI VIR MAG. LARIUM AUGUST. MAG. _Cerialium Urbanorum._
L. D. D. D. — Addirittura tipico è il caso dell'iscrizione di Aventicum
(cfr. _Inscr. Helvet._ 155).

[53] A Rimini, per esempio, al tempo della colonia romana esistevano
tutti e quattro i borghi corrispondenti alle quattro porte. Cfr.
TONINI L. _Rimini avanti il principio dell'era volgare._ Rimini, 1848,
pag. 75. E gli esempi si potrebbero addurre numerosi a dismisura.
Costrettovi dall'economia del lavoro non ho potuto dare che un cenno
fugacissimo di questo fatto, completamente ignorato dagli storici
di Roma e del suo diritto, quantunque di importanza fondamentale: mi
riservo di tornarci con maggiore ampiezza in una trattazione a parte
per la quale ho già raccolto molto materiale.

[54] Altre ragioni, oltre quelle dello Zdekauer, si possono addurre
contro l'opinione mommseniana.

Il pomerio è un luogo sacro — effato — non perchè sia dentro le mura,
ma perchè è dentro il cerchio dei mille passi i quali costituiscono un
limite sacrale determinato così esattamente che entro di esso ci sono i
cittadini: fuori gli altri.

Il MANENTI — _Jus ex scripto e jus ex non scripto_ — in _Studi Senesi_
1906 vol. I pag. 247-48 — studiando la genesi dell'«jus civile»,
ha affacciata l'ipotesi che il diritto della «civitas» sia stato
considerato come l'«jus proprium civitatis» in contrapposto non al
diritto di altri popoli, ma ai costumi gentilizi dei gruppi antecedenti
alla «civitas» romana e cioè in contrapposto al diritto primitivo
di quei complessi tribali e gentilizi di stirpe diversa dai quali
fu composta l'«urbs». Io accedo in linea generale alla sua opinione;
ma ritengo indispensabile limitarla nel tempo alla costruzione delle
mura e nello spazio ai «mille passus», che chiudevano i varii elementi
nell'ambito preciso di un formidabile crogiuolo.

[55] DETLEFSEN. _Das Pomerium Roms und die Grenzen Italiens_. Hermes.
1886 XXI.

[56] UELSEN H. _Das Pomerium Roms in der Kaiserzeit._ Hermes. XXII,
1887.

[57] NISSEN E. _Die Stadtgründung der Flavier_ — Rheinisches Museum.
XLIX. 1894.

[58] MERLIN A. _A propos de l'extension du pomerium par Vespasien._ in
Mélanges d'archéologie et d'histoire. XXI, 1901. 1-2. pag. 97-115.

[59] ZDEKAUER _loc. cit._ pag. 288.

[60] _Dig_. L. XVI. 87.

[61] WILLEMS _loc. cit._ pag. 360.

[62] _Ann_. lib. XII. cap. XXIII-XXIV.

[63] Era una tradizione cara ai romani e facilmente spiegabile con
l'autorità del condottiero che per le sue conquiste avesse meritato
l'onore del trionfo. Per questo è accolta da A. GELLIO (_loc_. e
_ed_. cit. XIII. 14.), da VOPISCO (_Vita Aureliani_, 21.) e anche da
DIONE CASSIO nella sua storia (LIII. 2); ma dal fatto che allargare
il pomerio cittadino era permesso soltanto a chi avesse allargato i
confini dell'impero, non ne consegue che a _tutti_ quelli che avevan
fatto delle conquiste spettasse _di diritto_ tale facoltà; e tanto
meno poi che i limiti del pomerio si allargassero, quasi direi,
automaticamente, coll'allargarsi dei confini.

[64] _Dig_. L. 16. 147.

[65] _Dig_. L. 16. 238.

[66] _Ibid_. L. 2. 7. 52.

[67] _Cod. Theod._ Nov. dell'a. 445 al PP. Albino.

[68] _Instit_. I. II. 4.

[69] cfr. KARLOWA. _Römische Rechtsgeschichte_. Leipzig 1885 pag. 708 e
segg.

[70] _Dig_. L. 4. 4 § 2.

[71] Il _Cod. Theod._ XI. 11. 1. dice «forte».

[72] Il _Cod. Theod._ ibid. dice «ultimo subiugetur extio».

[73] Le parole fra parentesi sono quelle della legge di Valentiniano e
Valente non accolte nel codice giustinianeo.

[74] _Cod. Iust._ X. 10. 1.

[75] _Cod. Iust._ I. 47. Cfr. LIEBENAM. _Städteverwaltung im römischen
Kaiserreich_. Leipzig 1900, pag. 93 e segg.

[76] VIII. 5, 15, 24, 36, 65, 35, 53, 60, 34, 65, e XII. 16. 1. Per i
_mancipes balneorum et salinarum_ cfr. _Cod. Theod._ XI. 20. 3.

[77] I _mancipes_ o _praepositi_ non possono essere presi _ab ordine_
(curia) _nec a magistratibus_ (_duumviri_), ma preferibilmente devono
essere scelti fra i veterani che ne siano degni e si mostrino idonei.
_Cod. Iust._ XII. 41. 7. in cui è riportata la disposizione di Onorio e
Arcadio dell'a. 400 (_Cod. Theod._ VIII. 5. 84).

[78] Fu istituito da Augusto, ma più tardi assunto a spese dello
Stato da Nerva e Traiano, cfr. BONFANTE P. _Storia cit._ pag. 449.
e HIRSCHFELD O. _Untersuchungen auf dem Gebiete dev röm. Verwaltungs
Geschichte_. — Berlin, 1876. pag. 98-108.

[79] MARQUARDT I. _loc. cit._ pag. 132 e segg. a cui son da aggiungere
le numerose notizie date da Gotofredo.

[80] Patrimoniorum autem munera duplicia sunt: nam quaedam ex his
muneribus possessionibus sive patrimoniis indicuntur, veluti agminales
equi, vel mulae, et angariae atque verhedi. Dice Arcadio Charisio.
_Dig._ IV. 4. 18 § 21.

[81] _Cod. Theod._ VIII. 5. 1. Con Giustiniano solo per i coloni rimane
in vigore la legge di Onorio e Teodosio per la quale «colonos munquam
tìscalium nomine debitorum ullius exactoris pulsit intentio». _Cod.
Iust._ XI. 47. 15.

[82] _Ibidem_ II. 30. 2.

[83] _Cod. Iust._ X. 24. 1.

[84] Cfr. GOTOFREDO nel commento alla leg. 4. tit. 5. libro VII.
_Angaria_ nel cod. teod. (cfr. VI. 39. 2 e 5; e VIII. 5. 23) indica
propriamente il servizio di trasporto fatto con carri tirati da buoi
(due paia, secondo le disposizioni di Costantino, andate, però, assai
presto in disuso): mentre la _rheda_ era tirata da 8 mule nell'estate
e da 10 nell'inverno e il _birotum_ da tre (_Cod. Theod._ VIII. 8. 5.
e _Cod. Iust._ VIII. 5. 3.). E tale si mantiene anche dopo: cfr. _Cod.
Iust._ I. 2. 11 nov. XVII. 9 e nov. CXXVIII. 22 e il passo di PROCOPIO
(_Historia arcana_ XXIII) riportato dal LEICHT nei suoi _Studi sulla
proprietà fondiaria nel medio evo_. II. _Oneri pubblici e diritti
signorili_. Verona Padova. Drucker. 1907. pag. 46 nota 2.

_Parangaria_ era l'angaria prestata su una via diversa da quella
pubblica ed in cui mancavano le «stationes» a distanze determinate e
regolari.

A questo «cursus clabularis» prestavano gli animali i provinciali
(_Cod. Iust._ VIII. 5. 2, 5, 22.) mentre al cursus davano solo le
_operae_.

[85] _Cod. Iust._ XI. 48. 4.

[86] _Cod. Theod._ 14. 1. XI.

[87] _Ibidem_ leg. 26.

[88] LEICHT P. S. _Studi cit._ pag. 10-11.

[89] Questa _conlatio equorum_ si faceva «pro rerum necessitate,
ut instrueretur usus armorum, castrensi usu efflagitante» (cfr.
_Paratitl._ di GOTOFREDO lib. XI. 16.) ed era ben differente dal
_cursus publicus_.

[90] _Cod. Theod._ XI. 17. 1.

[91] Così SCHULTEN A. _Die römischen Grundherrschaften eine
agrarhistorische untersuchung_. Weimar. 1896. pag. 2-12.

Però la rigidità delle sue asserzioni deve esser limitata dalle giuste
riserve che fanno l'HIS. _Die domänen der römischen Kaiserzeit._
Leipzig. 1896. pag. 115-117 e BEAUDOIN E. _Les grands domanes dans
l'empire romain d'après des travaux recents_. Nouv. Rev. Histor. de
droit franc. et étrang. 1907. e segg. pag. 549 e segg. e SAVAGNONE F.
G. _Le terre del Fisco nell'impero romano_. Palermo. 1902. cap VI. pag.
188 e segg. e cap. IV. pag. 758 e segg.

[92] Cfr. VASSALLI F. E. _Concetto e natura del Fisco_. Estr.
_Studi Senesi_ vol. XXV sopra tutto § 5, pag. 27-31 in cui studia la
formazione del fisco imperiale e la sua individualizzazione.

[93] VASSALLI _loc. cit._ ritiene che anche il concetto di fisco
indichi semplicemente una personalità di diritto privato ed ha ragione
in linea generale; ma una più esatta valutazione dell'elemento
giurisdizionale non soltanto esterno — l'unico che egli abbia
considerato — cfr. pag. 57 e 58, — ma anche interno, avrebbe ridotto
questo concetto ai suoi giusti limiti e ne avrebbe mostrato la rapida
compenetrazione di elementi pubblici e come non sempre esso si presenti
quale persona giuridica di diritto privato. Cfr. infatti LEICHT _loc.
cit._ pag. 29-32.

[94] _Dig._ L. 6. 5 § 11. Coloni Caesaris a municipalibus muneribus
liberantur ut idoneiores praediis fiscalibus habeantur.

[95] _Cod. Theod._ I, 32. 7.

[96] Con questi coloni sono completamente assimilabili i coloni
_homologi — Cod. Th._ XI. 24. 6. _more gentilitio adscripti vicis_ —
non quelli _adscripti dominis_ — con le donne dei quali Valentiniano
e Valente proibirono nel 370 ogni connubio (_ibidem_ III. 1. 24) e
che essendo barbari, _gentiles_, erano addetti alla difesa dei valli e
dei fossati, avevano in compenso una terra da coltivare a certi patti:
oppure con certe condizioni — more gentilitio — veniva loro affidata
dallo Stato, al quale appunto corrispondevano le imposte, una terra da
coltivare.

[97] XI, 7. 2.

[98] _Loc. cit._, pag. 10-11.

[99] Con questa legge concordano e si coordinano la leg. ult. de
executor, et exactor, la leg. 31 de annona et tributis e la leg. 186 de
decurionibus.

[100] Oltre il notissimo passo di FRONTINO _ed_. LACHMANN pag. 53, 7.
«Habent autem in saltibus privati non exiguum populum plebeium et vicos
circa villam»; cfr. SCHULTEN A. _loc. cit._ pag. 45-46.

[101] Quei _tributarî_ di cui parla la legge giustinianea sono
i discendenti di quelli che nella legge teodosiana son detti
possessori e nel rifacimento tribonianeo sono chiamati _rusticani_. E
contemporaneamente comincia un lento moto di progressivo elevamento
che si compie dal basso per il quale i coloni si trasformano in
enfiteuti. Cfr. SOLMI A. _Storia del diritto italiano_. Milano. 1909.
pag. 89. Io condivido l'opinione del FUSTEL DE COULANGES. _Histoire
des institutions politiques de l'ancienne France_. Paris. 1889. pag.
601 che on appellait _tributarii_ dans la langue du quatrième siècle,
les hommes qui coltivaient le sol sans en avoir la propriété et sous
condition d'en payer une redevance.

A torto F. THIBAULT. _L'impôt direct dans les royaumes des Ostrogoths,
des Wisigoths et des Burgundes_. Nouv. Rev. Hist. de droit franc.
et étr. XXVI. 1902. ritiene che la parola «tributarius» della leg.
12. _Cod. Just._ XI, 48 (servos, vel tributarios, vel inquilinos
apud dominos suos volumus remanere) indichi solamente i coloni: essa
indica tutti quei «residentes in terra aliena» che non erano servi o
inquilini: i coloni ne formavano la massima parte, non la totalità. E
a minor ragione egli ricorda a questo proposito i passi di Cassiodoro
nei quali «tributarius» indica colui che paga il «tributum» ossia
il possessor. Quello è un rapporto di diritto privato: questo di
diritto pubblico. Invece mostra giustamente la discendenza diretta
del «tributum» pagato dai coloni nel secolo ottavo, dal «tributum»
dei _possessores_ romani. THIBAULT. F. _L'impôt direct et la propriété
foncière dans le royaume des Lombards_. Nouv. Rev. Hist. XXVIII. 1904
pag. 181, 82.

[102] Lo mostra chiaramente il tit. del Digesto _De officio
Procuratoris Caesaris vel Rationalis_.

[103] MARQUARDT I. _loc. cit._ pag. 116 e VASSALLI _loc. cit._

[104] BÖCKING. _Notitia dignitatum utriusque imperii._ Bonnae. 1839.

[105] BONFANTE P. _Manuale cit._ pag. 511.

[106] Cfr. WINDSCHEID trad. ital. I. § 146 n. 15 e indicazioni ivi
citate.

[107] RUDORFF F. _Gromatische Institutionen._ Berlino. 1852. pag. 393 e
segg.

[108] BRUGI B. _Dei pascoli accessori a più fondi alienati_, in
Archivio Giur. F. Serafini. 1886. XXXVIII. 1-2. ID. _Dei pascoli comuni
nel diritto romano germanico e italiano_, in appendice al Comm. delle
Pandette del GLÜCK VIII. pag. 42.

[109] ROBERTI M. _Dei beni appartenenti alle città dell'Italia
Settentrionale dalle invasioni barbariche al sorgere dei comuni_, in
Archiv. Giur. 1903. LXX. 1.

[110] CALISSE C. _Gli usi civici nella Provincia di Roma._ Prato. 1906.

[111] FINOCCHIARO SARTORIO A. _I beni comuni di diritto pubblico nel
loro svolgimento storico_. Città di Castello. 1908.

[112] _Dig._ XLIII. 8. fr. 2. § 21.

[113] _Dig._ XLIII. II. fr. 1. § 2.

[114] FERRINI C. _Pandette cit_. n. 220 pag. 272-73.

[115] _Cod. Theod._ Nov. XXIII.

[116] Per la _pensio_ dovuta per l'occupazione di suolo pubblico cfr.
_Cod. Iust._ XI. p 9. 1. da mettere in relazione con il tit. 7. Ne quid
in loco publico vel itinere fiat. _Dig._ XLIII. e specialmente leg. 2.
§ 17. Sul «vectigal» cfr. LIEBENAM. _loc. cit._ pag. 312 e segg.

[117] Su questa triplice distinzione vedi le belle pagine del MOMMSEN e
del MARQUARDT nel manuale citato vol. 1 e 2.

[118] RANELLETTI O. _Concetto natura e limiti del demanio pubblico_ in
Riv. Ital. per le Sc. Giurid. vol. XXV. pag. 195 e segg.

[119] VASSALLI F. E. _loc. cit._, pag. 46-59 § 11-15.

[120] BONFANTE P. _La progressiva diversificazione del diritto pubblico
e privato_ in _Riv. ital. di sociologia_. 1902.

[121] Che il diritto romano non ammetta la consistenza giuridica di
un patrimonio immediatamente destinato a fini determinati e duraturi,
amministrato da persone fisiche, è dimostrato dal fatto che si
attribuisce la funzione ad una persona collettiva preesistente.

Tale è la base delle istituzioni alimentarie. Cfr. FERRINI, _loc.
cit._, n. 79, pag. 107 e SCHUPFER F. _Il diritto privato dei popoli
germanici con speciale riguardo all'Italia_, vol. I. Lapi. 1907. pag.
163-65.

[122] _Dig_. L. 16. 15. Ulpiano.

[123] _Dig_. I. 1. § 2. Ulpiano.

[124] SCHULTEN A. _Die Landgemeinde im römischen Reichs_, in Philologus
LIII. N. F. VII. Berlin 1895, pag. 629-686. Non mi pare si possa
accogliere, almeno nella forma con cui l'A. l'espone, la teoria della
distinzione dei castella in autonomi e incorporati; ma mi sembrano però
decisive le prove da esso addotte per dimostrare come la divisione in
_pagi, vici e castella_ sia anteriore alla dominazione romana e comune
a tutte le popolazioni italiche. A questo proposito sono fondamentali
le ricerche del VOIGT. _Drei epigraphische Constitutionen Constantin's
des Grossen und ein epigraphisches Rescript des Praef. Praet.
Ablarius_. Leipzig. 1860. pag. 53-81

[125] Oltre le belle pagine del BONFANTE basta a provare la persistenza
di questi elementi una semplice scorsa alle _Inscriptiones Aemiliae
Etruriae Umbriae Latinae_ del BORMANN. Berlin 1888, nel _Corp. Inscr.
Lat._ vol. XI. Di Mantova, «Tuscorum trans Padum sola reliqua» (PLINIO.
_Natur. Hist._ III, 130) Virgilio ci dice che «non genus omnibus
unum — Gens illi triplex populi sub gente quaterni». Rimini, Budrio,
Ravenna ed altre si vantavano umbre anche nell'età imperiale (STRABONE.
_Cosmographia_ V. 214, 216, 217. — PLINIO. _Nat. Hist._ III, 115).
Quanto ai latini Gaio dice (I, 79) che «proprios populos, propriasque
civitates habebant». Per gli Etruschi cfr. DUCATI P. _Osservazioni
archeologiche sulla permanenza degli Etruschi in Felsina_ in Atti
e Mem. della R. Deput. di Stor. Patr. per le Prov. di Romagna ser.
III, vol. XXVI, 1908, pag. 54-91. Per il loro diritto l'opera, un po'
manchevole, di C. CASATI _Elements du droit étrusque._ Paris 1895.

[126] Oltre il MOMMSEN ed il MARQUARDT cfr. MENNESSIER M. _De la ferme
des impôts et des sociétés vectigaliennes_. Nancy. 1888. e LEFEBRE F.
_De la société en general et specialment de la société vectigalienne en
droit romain_. Rennes. 1888.

[127] _Dig_. L. 1. fr. 2, § 4.

Notissimo, a questo riguardo, è il passo di Gaio III, 145.

A proposito dei «fundi vectigales» ricordati nella nota I a pag. 43
destinati ad istituzioni alimentarie bisogna fare un'osservazione.
Donatario, nel caso di Plinio, che donò i propri beni al municipio
di Como, per riprenderli gravati da un «vectigal» molto inferiore al
loro reddito, per poter trovar sempre uno «a quo ager exerceatur»,
è il municipio, con l'onere della prestazione alimentaria. Ma — ed
è cosa del massimo rilievo — il soggetto non è la città, ma il fisco
imperiale il quale dà a mutuo i denari ai «possessores», ha un credito
corrispondente ed impiega un suo funzionario per esigere gli interessi
e devolverli alla cassa alimentare che non è che un dipartimento
dell'amministrazione fiscale, cfr. FERRINI, _loc. cit_., n. 69-80 e
sopra tutto pag. 111-112 e SEGRÉ G. _Sulle istituzioni alimentarie
imperiali_ in _Bull. Istit. di Dir. Rom_. II, 1889, pag. 78-106. Da un
«nudum preceptum» (Dig. XXX, 114, 14 quia talem legem testamento non
possunt dicere) si va al legato ad una città (_Dig_. XXXII, 38, 5) ed
al fisco direttamente (Inscriz. di Preneste. _Corp. Inscr. Latin._,
XIV, 2234). Ora quando si pensa che alle «civitates» (municipia e
coloniae), è stata ristretta la capacità negli ultimi tempi della
repubblica e che l'autorizzazione imposta loro dalla legge giulia o
dalle due di tal nome, estesa poi a tutto l'impero con senatoconsulti
(Dig. III, 4, fr. 1, princ.) e costituzioni imperiali (_Dig_. XLVII,
22, fr. 1, 3.), non è affatto un conferimento di personalità giuridica,
ma ha un mero significato politico; si vede come (anche nel caso in
cui la volontà di un singolo ponga delle condizioni per perpetuare uno
scopo determinato e scelga come mezzo la città, il municipium), sul
substrato della volontà del singolo si innesta quella dello Stato, di
fronte al quale l'entità giuridica della città sembra attenuarsi fino a
metter quasi direttamente a contatto il singolo con il Fiscus.

Fu l'imperatore Leone che permise alle città di vendere i beni avuti
«hereditatis vel legati seu fideicommissi aut donationis titulo» e
solo allo scopo «ut summa pretii exinde collecta ad renovanda sive
restauranda publica moenia dispensata proficiat» (_Cod. Iust_. XI, 31,
leg. 3.).

[128] MARQUARDT I. _loc. cit._ pag. 193.

[129] A Capua, per es., tutto il territorio fu incamerato nel demanio
pubblico, (LIVIO 26, 16, 18) mentre abitualmente era il terzo (DIONISIO
2, 35, 50, 53) e qualche volta la metà (LIVIO 36, 39, 3) cfr. MARQUARDT
_loc. cit._, pag. 192 e segg.

[130] Per Italiam nullus ager est tributarius, sed aut colonicus
aut municipalis aut saltus privati, dice FRONTINO (_ed. cit_. pag.
35). Ma, anche ammettendo che ce ne fossero, la teoria del Rudorff
rimarrebbe inaccettabile perchè il fatto che il vero «vectigal» deve
esser raccolto dai pubblicani è l'indice della differenza sostanziale
che passava fra i beni dello Stato — populus romanus — e quelli delle
città: pubblici i primi, privati i secondi: «sola ea publica sunt quae
populi romani sunt», dice ULPIANO; «civitates privatorum loco habentur»
conferma GAIO, _Dig_. L, 16, 17. Cfr. VASSALLI, loc. cit. pag. 53.

Nell'epoca imperiale questo concetto si modifica profondamente.
Cfr. _Dig_. L, 16, 16; ma al secolo quarto si avevano ancora tracce
rilevanti della varietà di condizione giuridica in cui si trovavano i
beni una volta costituenti l'«ager publicus» e poi ceduti ai privati.
Cfr. il noto passo di ARCADIO CARISIO _Dig_. L. 4, 18, § 25.

[131] _Cod. Theod._ X, 3, 2. Saltus qui significa pascolo. Cfr.
_Cod. Iust._ II, 66, _Cod. Theod._ leg. 2 de pascuis, FRONTINO. _De
controversiis agrorum_ (ed. Lachmann) pag. 17, 18, 19, 54 FESTO (BRUNS.
_Fontes_, VI, Aufl. 1893, II, pag. 36), VARRONE, _De legibus_, V, 36.

La proibizione ai curiali si mantiene e si fa anche più rigida
nel diritto giustinianeo, nel quale, non solo «decurio etiam suae
civitatis vectigalia exercere prohibetur» (_Dig._ L, 2, 6, § 2), ma si
impediscono anche le locazioni per interposta persona (_Dig._ L, 8. 2,
§ 1).

[132] _Cod. Theod._ X, 3, 5. Aedificia, hortos, atque areas aedium
publicarum et ea reipublicae loca quae aut includuntur moenibus
aut pomeriis sunt connexa, vel ea quae de jure templorum, aut per
diversos petita aut aeternabli domui fuerint congregata vel civitatum
territoriis ambiuntur sub perpetua conductione, salvo dumtaxat canone,
quem sub examine habitae discussionis consistit adscriptum, penes
municipes collegiatos et corporatos urbium singularum conlocata
permaneant omni venientis extrinsecus atque occultae conductionis
ademptatione submota.

[133] _Dig._ I, 8, 6 § 1.

[134] _Cod. Theod._ XV, 1, 46.

[135] _Dig._ L. 16. 211.

[136] _Ibid._ L. 16. 60.

[137] _Dig._ I. 8. 8 § 2.

[138] Ne è un esempio evidente la disposizione di Leone ed Antemio
del 468, riportata nel codice teodosiano (XI. 24. 6) ed accolta da
Giustiniano (_Cod_. X. 55 l. un.), che proibisce agli «habitatores
metrocomiae» di vendere i loro beni ad estranei.

[139] L'avverbio _penes_ è usato dalla legge bene a proposito: penes te
est quod quodadmodo possidetur. (_Dig._ L. 16. 63. ULPIANO).

[140] _Dig_. L. 1. 1 § 1.

[141] _Dig_. L. 16. 228.

[142] _Dig_. L. 16. 239 § 6 POMPONIO. Del resto è da ricordare a questo
proposito come la vita dei romani si accentrasse nella città. Cfr.
SCHULTEN A. _Die Landgemeinde cit._ pag. 633 e segg.

[143] Cfr. § 4 e 5.

[144] Praedium... et ager et possessio huius appellationis species
sunt. _Dig_. L. 16. 115. GIAVOLENO.

[145] LABEONE ritiene «loci appellationem non solum ad rustica verum ad
urbana quoque praedia pertinere»; cfr. _Dig._ L. 16. 60 e specialmente
§ 1.

[146] Non c'è neanche bisogno di dire che con la distinzione dei beni
seguita dalle leggi costantiniane ed onoriane non ha nulla a che vedere
quella di ULPIANO, secondo la quale «urbanum praedium non locus facit
sed materia» (_Dig._ L. 16. 198). Tanto è vero che invece di _praedia_
si parla di _loca_.

[147] Per il loro numero cfr. LIEBENAM _loc. cit._ pag. 229 e segg.
Per le funzioni cfr. DECLAREUIL _loc. cit._ pag. 331 e segg. e SOLMI
_Storia cit._ pag. 24-25.

[148] Questo concetto è confermato dalla condizione dei beni comuni
delle colonie. Tutti i coloni erano in uguale posizione di fronte allo
Stato, uguali erano gli oneri, uguali i diritti; e la concessione,
per la quale e secondo la quale godevano delle terre, era un atto
che ne fissava _ex novo_ i limiti e le prerogative. Oltre alla terra
individuale, ce ne era un'altra che, appunto per essere comune a
soggetti uguali, era comune a tutti e della quale l'alta sovranità
spettava allo Stato per il riconoscimento di un modestissimo canone:
«vectigal, quamvis exiguus praestant». Appunto perchè rilasciata non
ad una preesistente città, ma a coloro, come singoli, che avrebbero
formato il nucleo cittadino, solo l'unanimità dei consensi dava luogo
ad una valida alienazione. Nelle colonie mancava quella _plebs_ che,
non avendo obblighi, non aveva (fatta eccezione di Roma) diritti e
non c'era il precedente stato di cose da considerare: se, quindi,
lo Stato, date le condizioni ed i fini speciali in cui la colonia
veniva dedotta, riteneva che alcuni beni fossero necessari all'uso di
tutti, ne proibiva l'alienazione. Nel caso della _Colonia Genetiva
Julia_, per esempio, erano di uso comune così le piazze e le strade
e gli _aedificia_ in genere, su cui tutti camminavano e di cui tutti
godevano, come le selve da cui tutti traevano le legna, come i terreni
adibiti alla pastorizia ed all'agricoltura per il sistema relativo
di sfruttamento del suolo (cfr. _Lex colon. genetivae Iuliae,_ r.
LXXXII). Bisogna inoltre considerare che su tutte indistintamente le
terre della colonia gravava l'obbligo della difesa del territorio, che
era il fine per cui la colonia stessa era stata dedotta. Ora le terre
dei singoli potevano essere vendute, perchè l'onere rimaneva sulla
terra: non così le terre pubbliche le quali dovevano rimaner sempre in
tale condizione che chiunque ne fruiva, anche temporaneamente, fosse
soggetto ai carichi militari: «Qui in ea colonia intrave eius coloniae
fines domicilium praediumque habebit neque eius coloniae colonus erit,
is eidem munitioni uti colonus parebo» (cfr. _ibid._ r. XCVIII).

[149] LÖNING E., _Geschichte d. deuts. Kirchenrechts_, II. pag. 4-5.

[150] ZDEKAUER L., _Mille passus cit._, pag. 281-82.

[151] Quando il concetto della cittadinanza romana comincia a perdere
di rigidità, la ripercussione naturalmente si fa sentire su quello
dell'incolato, il quale si avvantaggia di tanto di quanto l'altro si
attenua. Si tende ad un equiparamento, raggiunto il quale, la città
accetta le divinità del suburbio e questo quelle della città. Però
questo equiparamento avvenne molto lentamente: la proibizione di
seppellire e bruciare cadaveri entro le mura — che presuppone identiche
divinità nelle città e nel territorio adiacente — malgrado i reiterati
comandi degli imperatori (_Dig._ III. 44. 12. _Cod. Theod._ IX. 17.
6) non fu attuata che a stento per la tenace opposizione di numerosi
regolamenti municipali (_Dig._ XLVII. 13. 3 § 5. ULPIANO).

[152] CORP. INSCR. LATIN. X. 1, 814, 853, 924, 1042 etc.

[153] L'IMBART DE LA TOUR, _La paroisse rurale cit_. ha acutamente
osservato che la chiesa cattolica tentò sempre di soppiantare il
paganesimo insediandosi negli stessi luoghi ad esso destinati, per
fruire della forza dell'abitudine, per cui si tende a continuare ad
andare dove si è sempre andati.

[154] LUPUS M. _De parochiis ante annum Christi millesimum_. Bergomi.
1788. Diss. II. cap. IV. pag. 164 e segg.

[155] TROYA. _Cod. Dipl. Lang._, IV. 1. num. 151. pag. 381.

[156] Il DECLAREUIL (_loc. cit._ XXVI. 1902. pag. 234-67. 437-68.
554-607. XXVIII. 1904. pag. 306-368. 474-500), oltre a credere che
la decadenza sia cominciata assai tardi, pensa che il cristianesimo
non abbia apportato alcun turbamento alla costituzione dell'impero.
Per quel che riguarda la Chiesa si può accedere senza difficoltà
alla sua opinione, a sostegno della quale sta, anzi, un argomento
fondamentale, del quale il Declareuil non si è giovato. È difficile
ammettere che avanti il riconoscimento ufficiale, iniziato con l'editto
di Milano, il cristianesimo riuscisse, anche sotto il governo dei più
miti imperatori, a modificare un regime che dava ai sacerdoti pagani
un'elevata condizione sociale ed un saldo substrato economico (cfr. A.
CRIVELLUCCI, _Intorno all'editto di Milano_ negli Studi Storici IV,
pag. 267 e segg. e CARASSAI C. _La politica religiosa di Costantino
il Grande e la proprietà della Chiesa_ in Arch. Soc. Romana di St.
Patr. XXIV. 1901 e bibliografia ivi citata). Ma, per il resto, le sue
conclusioni non sono accettabili; e prima di tutto, anche non tenendo
conto del metodo con cui egli ha raccolto d'ogni dove materiali e
notizie senza considerare l'immensa varietà dell'impero, tolgono vigore
alla sua conclusione le lacune, dall'autore stesso confessate, nel
quadro delle istituzioni, alcune delle quali tutt'altro che lievi:
così per i _curatores_ dell'ultimo tempo repubblicano e dei primi
secoli dell'impero, e per i _munera_, dei quali abbiamo da Scevola e da
Arcadio Carisio una tripartizione (_personalia, patrimoniorum, mixta_)
puramente esemplificativa, mentre sarebbe stato proprio da un esame di
questi _munera_ che si sarebbe potuto dimostrare — se possibile — che
le condizioni dell'impero d'occidente non erano ancora in decadenza. E,
inoltre, la riforma di Diocleziano (a. 282) e quella ancor più grave
di Galerio (a. 311) investono troppo profondamente tutto l'organismo
statuale perchè si possa ammettere che indichino uno stato di cose
temporaneo e non maturato da tempi lontani.

[157] BAUDI DI VESME B. _L'origine romana del comitato longobardo e
franco_, in Atti del Congr. Intern. di Scienze Storiche. Roma, 1904.
vol. IX pag. 231 e segg.

Dell'esistenza di questo _Comes_, di cui si conoscono molti altri
esempi oltre i due soli citati dal Baudi di Vesme, non si può dubitare;
ma questi, tratto dall'amore della teoria gabottiana sull'origine
signorile del comune, è caduto in un equivoco. Questi _Comites_
esistono, è vero, ma sono ufficiali dello Stato, non, come egli
crede, ufficiali municipali. Anzitutto non si può credere che una
modificazione così profonda nelle istituzioni municipali non abbia
lasciato qualche segno nei documenti relativi alla diocesi italiciana
dai tempi di Diocleziano alla caduta dell'impero d'occidente; mentre
ciò è escluso dalle accurate indagini del COZZARELLI (cfr. _Studi
di Storia e Diritto_ vol. XXIV 1. 2. 3. 4). E, di più, nessuna
delle formule dei territori in cui le curie e le gesta sono rimaste
anche dopo la loro sparizione dall'Italia (cfr. ZEUMER K. _Formulae
merowingici et karolini aevi_, in Mon. Germ. Hist. Legum. V.), nè
alcun documento tra quelli, relativamente non scarsi, a noi pervenuti,
ricorda il _comes_ al posto del _defensor_ e degli altri ufficiali
municipali (cfr. i doc. editi dal MARTÈNE e DURAND, dall'IMBART DE LA
TOUR, dall'ESMEIN, dal _Tardif_, etc.). E nemmeno in via eccezionale
si può ammettere carattere municipale e cittadino in quel conte
di Marsiglia del 440, su cui il Baudi d. V. poggia tutta la sua
argomentazione. Varî lavori serî ed autorevoli, per quanto a lui
sconosciuti, quali quello del DUVAL-ARNOULD (_Études d'histoire du
droit romain au V siècle d'après les lettres et le poème de Sidoine
Apollinaire_. Paris. 1888). quello dell'ESMEIN, a proposito di alcune
lettere di Sidonio Apollinare (nelle sue _Mélanges d'histoire du droit
et de critique_, Paris 1886, pagina 379 e segg.), e quelli dell'ALLARD
(in Rev. des questions hist. 1908), dimostrano in modo irrefutabile che
esso non differiva dai conti così esaurientemente studiati da Gotofredo
(cfr. il _Glossarium_ al _Cod. Theod_. e cfr. anche ciò che sotto
questa voce dice il DE RUGGERO. _Dizionario epigrafico di antichità
romane_. II. 1. pag. 468-530). Nei primi secoli dell'impero, a capo
di ogni provincia stava un _rector_ munito d'_imperium_, nominato
dall'imperatore, incaricato della sorveglianza delle amministrazioni
municipali. Più tardi, per i bisogni della difesa e per la pronta
decisione delle numerose liti, tali divisioni apparvero troppo ampie;
onde, a volta a volta che se ne sentiva più impellente il bisogno,
furono inviati e stabiliti nelle città dei _comites_ con le loro
_comitivae_. Così li troviamo a Napoli, a Ravenna, a Roma, a Siracusa
(cfr. GAUDENZI A. _Un'antica compilazione di dir. rom. e visig. con
alcuni frammenti delle leggi di Eurico_. Bologna. 1886. pag. 109-111
e _Mayer E._ _Ital. Verfassungsgesch_. Leipzig. 1910. II. pag. 109).
Essi come provano le formule di Cassiodoro, mantengono inalterato
il carattere e le funzioni degli antichi _rectores_, dai quali
differiscono solo per la minore estensione del territorio affidato alla
loro sorveglianza.

E nemmeno sono ufficiali municipali, contrariamente a ciò che crede il
BAUDI D. V., i _comitiaci_ ricordati nel papiro reatino del 557 (MARINI
_Papiri diplom._ n. 79, pag. 121): le formule di Cassiodoro (_Variar._
II. 10-11 — V. 6. — VIII. 27), da lui non citate, la nota iscrizione
piemontese (ed. MARINI _loc. cit._ pag. 266 nota 28) ed un passo di
Scevola (_Dig._ XXVI. 8. leg. pen.) dimostrano all'evidenza che in
alcuni casi di tutela e curatela, concernenti famiglie distinte e
ragguardevoli, l'atto si rogava presso il _Procurator Caesaris_, che è
tutt'altro che una magistratura municipale (_Inter Curatorem minoris et
creditorem minoris acta sunt apud Procuratorem caesaris infrascripta_
etc. Cfr. anche MAFFEI S. _Historia diplomatica_ etc. Mantova. 1727.
pag. 57).

[158] I _minores possessores_ erano aggregati alle curie per gli oneri,
ma, e questo è il punto fondamentale, la riscossione dei tributi da
essi pagati non era affidata nè al curator, che sappiamo eletto _ad
colligendos civitatis publicos reditus_ (_Dig._ L. 4. 18 § 9) nè ai
curiali, ai quali spettava l'esazione della _capitatio plebeia_ (_Cod.
Just._ XI. 28. 2), ma bensì al _defensor_ (cfr. LÉCRIVAIN CH. _Le sénat
romain depuis Dioclètien_ in Bibl. de l'Ecole d'Athènes et de Rome,
vol. 411. Paris. 1888. pag. 48 e LEICHT P. S. _Studi cit._ II. pag.
27).

[159] A torto il BAUDI DI VESME dice che i _defensores_ furono
istituiti in un'epoca molto antica, a somiglianza dei tribuni della
plebe di Roma. La _defensio_, cui egli accenna, non ha affatto
carattere pubblico: è la difesa, la rappresentanza in giudizio della
città. Di essa parlano in modo da togliere ogni dubbio ULPIANO (_Dig._
L. 4. 16), ERMOGENIANO (_Dig._ L. 4. 1 § 2. _Defensio civitatis_ id
est ut _syndicus_ fiat): e da ARCADIO CARISIO (_Dig._ L. 4. 18. § 3
_Defensores_ quos Graeci _syndicos_ appellant) per la sua natura,
rilevata da tempo (cfr. BETHMANN-HOLWEG. _Der Civilprozess des
gemeinen Rechts_. II. pag. 415 e segg.) è distinta anche da quella
della rappresentanza (_syndicus_) dei collegi (FERRINI _loc. cit._ n.
73 pag. 99). Il _defensor_ è ricordato per la prima volta nel 365. La
comparazione con i tribuni della plebe è una inesatta idea di CUIACIO
(cfr. _Opera omnia_. Paris. 1874. I. col. 63 e III col. 55-56).

Come si vedrà non solo non condivido l'opinione di coloro che ritengono
che l'elezione del _defensor_ fosse fatta con il suffragio universale
(CHÉNON E. _Étude historique sur le Defensor Civitatis_ in Nouv. Rev.
Histor. XIII. pag. 332-33); ma non mi sembra nemmeno da accogliere
l'interpetrazione predominante (cfr. LIEBENAM. _loc. cit._ p. 449)
della nota legge di Valentiniano, Teodosio ed Arcadio dell'anno
387 (_Cod. Theod._ I. 29. 2) e dell'ancor più nota _Interpretatio_,
che spiega il _decretum_, con il quale le città devono eleggere il
_defensor_, come il _consensus civium_ e la _subscriptio universorum_.

[160] Riportati nel concilio di Reggio dell'855. MANSI, _loc. cit._
XIV. col. 216.

[161] Cfr. LIEBENAM. _loc. cit._ pag. 136 e segg.

[162] _Cod. Just._ XI. 69. 8 e VIII. 12. 7.

[163] Ne dette per il primo l'esempio Giuliano l'Apostata nel 362.
Cfr. _Cod. Theod._ X. 3. 1. confermato da AMMIANO MARCELLINO. (_Rerum
Gestarum libri qui supersunt._ Leipzig. 1874-75. libr. XXV. cap. IV)
che parla di _vectigalia civitatibus restituta cum fundis_. Ma le
distrazioni non cessarono: Teodosio nel 443 ne ordina nuovamente la
restituzione (_Cod. Theod. nov. Theod._ XXIII).

[164] _Cod. Just._ X. 48. 1.

[165] _Cod. Just._ VIII. 12. 12.

[166] Hoc facto impendiis ordinandis (dicono ARCADIO e ONORIO) ut
adscriptio currat pro viribus singulorum, deinde adscribantur pro
aestimatione operis futuri territoria civium.

[167] _Cod. Theod._ VII. 13. 6. a. 370. VALENTE.

[168] Cfr. LEICHT P. S. _Studi cit._ II. pag. 15-16, e la bella
osservazione del MOMMSEN (_Das römische Militarwesen seit Diokletian_
in Hermes. XXIV, pag. 239 e segg.) da lui riportata.

[169] _Cod. Theod._ X. 20. 2. a. 358. _gyneciarii_. — X. 19. 5. a. 369.
_metallarii_. — X. 22. 4. a. 888. _fabricenses_. — XII. 1. 146. a. 396.
_collegiati singularium urbium_. XIV. 7. 1. etc.

[170] L'uso delle armi era proibito a chi non apparteneva all'esercito.
CICERONE (_Verrin_. V. 3) ricorda l'editto di L. Domizio pretore di
Sicilia che proibiva _ne quis telum haberet_ e gli altri editti _ne
quis servus cum telo esset_. PLINIO (_Nat. Hist._ XXIV. 14) ricorda una
simile ordinanza emanata per Roma durante il terzo consolato di Pompeo.
Nell'anno 364 Valentiniano e Valente avevano emanato una disposizione
analoga passata poi nel Codice giustinianeo (XI. 46. 1.) che restaurò,
per questo, un uso accolto anche dai Goti e da Teodorico che _ut nullus
romanus usque ad cultellum uteretur vetuit_. Cfr. TAMASSIA N. _Alcune
osservazioni sul Comes Gothorum_, in _Arch. Stor. Lombardo_. 1884. pag.
415 nota 4.

[171] _Cod. Theod. Nov. Valent._ III. T. IX a. 440. _De reddito jure
armorum_.

[172] Tanto l'uno che l'altro sono un _edictum ad populum_. Su di
esso, oltre il magistrale e sempre giovane commento di GOTOFREDO, cfr.
GAUDENZI A. _L'opera di Cassiodorio cit._, pag. 301 e segg.

[173] _Cod. Theod. Nov. Valent._ V. 2 e 3. a. 440.

[174] A Roma appare già formato nel 640. Cfr. _Liber Pontificalis_ ed.
DUCHESNE. I. pag. 329.

[175] _Cod. Theod. Nov. Theod._ XXIII. _De locis R. P.... restituendis_.

[176] Gli imperatori cedettero _completamente_ alle città il diritto
di proprietà e di disposizione sui beni pubblici. La riprova è
data dal fatto che la nomina del _curator_, il quale dapprima è un
funzionario imperiale, la cui mansione specifica è il coordinamento
dell'autonomia locale con l'unità dell'impero (cfr. LÈCRIVAIN CH. _Le
mode de nomination des Curatores Reipublicae_ in _Mélanges d'Arch. et
d'Hist._ 1884. IV. 3-4. pag. 356 e segg. e la memoria del LIEBENAM in
_Phylologus_ vol. 4, pag. 290 e segg.), diviene elettiva (_Cod. Theod._
XII. 2. 171), non quando e perchè, come crede il LÈCRIVAIN, le città
perdono i loro beni, ma quando l'imperatore lascia alle città, purchè
si difendano, il libero uso delle proprietà.

[177] _Cod. Theod. Nov. Maior._ Tit. 3.

[178] _Cod. Theod. Nov. Theod._ II. 24 § 4. _Cod. Just._ XI. 60. 3.
Cfr. anche LEICHT, _Studi cit._ II. pag. 41.

[179] _Lex colon. Genetivae Juliae_ r. 98.

[180] _Cod. Just._ XII. 41. 5. a. 413.

[181] _Cod. Theod. Nov. Maior._ Tit. 3.

[182] _Cod. Just._ I. 1. 4.

[183] TAMASSIA N. _Alcune osservazioni intorno al Comes Gothorum cit_.,
pag. 248.

[184] GAUDENZI A. _L'opera di Cassiodorio a Ravenna_, in «Atti e Mem.
R. Dep. Stor. Patr. di Romagna». 1886. pag. 427.

[185] Editto di Teodorico § 69.

[186] CASSIODORO _Variarum_ VII, 11, 12.

[187] BRUNNER. _Zur Rechtsgeschichte d. röm. u. germ. Urkunden_, pagine
113 e segg., 124 e segg.

[188] TAMASSIA N. _Fonti gotiche della storia longobarda_, in «Atti
Regia Accad. di Torino», 1896-97, vol. XXXII, pag. 683-707. ID. _Una
professione di legge gotica in un documento mantovano del 1045_,
in «Arch. Giuridico», 1902. ID. _Le professioni di legge gotica in
Italia_, in «Atti e Mem. R. Accad. Sc. Lett. Arti in Padova», vol. XIX,
disp. I, pag. 14 dell'estr.

[189] GAUDENZI A. _Gli editti di Teodorico e di Alarico e il diritto
romano nel regno degli Ostrogoti_. Torino, 1884, pag. 41.

[190] LEICHT P. S. _Studi cit._ II, pag. 41.

[191] GAUDENZI A. _L'opera di Cassiodorio, cit_. pag. 448.

[192] Cfr. CASSIODORO. _Var_., I, 28, tutta basata sulla leg. 35
_Cod. Theod_., XV, 1, confermata da numerosissimi esempi. Teodorico
infatti ricostruì le mura di Spoleto, di Verona e di molte altre città,
acquedotti, opere pubbliche etc. (MAFFEI S. _Verona illustrata_. I. 9.
pag. 448). Nella sua cronaca, all'a. 500. _Patricio et Hispatio coss_.,
CASSIODORO dice che al tempo di Teodorico _plurimae renovantur urbes,
munitissima castella conduntur, consurgunt admiranda palatia_.

[193] SALVIOLI G. _Sullo stato e la popolazione d'Italia prima e dopo
le invasioni barbariche_. Palermo. 1900. pag. 32 e segg.

[194] SOLMI A. _Le associazioni in Italia avanti le origini del
comune_. Modena. 1898. pag. 125.

[195] Cap. 64... _quisquis ingenuus, nulli tamen quolibet modo obnoxius
civitati_...

[196] _Cod. Theod_. XV. 1, 23, GRAZIANO, VALENTINIANO e TEODOSIO, a.
384 e _Cod. Just._, VIII, 12, 7.

[197] _Edict. Theod._, cap. 69.

[198] _Lex Romana Wisigothorum_, XIV, 1, 1.

[199] _Cod. Theod._, XIV, 7, 1.

[200] La sorveglianza spettò ai _Vigili delle porte_, aggiunti dai
Goti all'amministrazione municipale, nominati dal re ed investiti in
parte di quel carattere militare (MOMMSEN. _Ostgoth. Studien_ in N.
Arch. XIV, 1888, pag. 494) di cui è compenetrata la giurisdizione del
_comes Gothorum,_ che, quantunque in alcuni punti se ne distaccasse,
(MOMMSEN, _loc. cit._, pag. 529) imitò gli _judices militares romani_
(DEL GIUDICE P. _Sulla questione della dualità del diritto in Italia
sotto la dominazione ostrogota_. Rendic. R. Accad. Lombarda, s. II,
vol. XXXIX, 1906, pag. 795), sui quali si adagiò facilmente (TAMASSIA
N. _Alcune osservazioni sul Comes Gothorum_, pag. 259).

[201] _Cod. Just._, I, 3, 16.

[202] Tale, almeno, sembra l'ipotesi più probabile, dato che,
secondo l'opinione dominante, non felicemente combattuta dal
ROBERTI, beni comuni si trovano nell'epoca romana e nella langobarda
e nelle successive, senza soluzione di continuità, e sono appunto
caratterizzati dal diritto d'uso da cui sono gravati a vantaggio di
determinati gruppi.

[203] _Cod. Just._, XI, 4, 1.

[204] Infatti ad essi sono equiparati nell'immunità dalla giurisdizione
ordinaria, essendo, come quelli, giudicati dal _rationalis_. Cfr. _Cod.
Just._, III, 26, 7. Di questo elemento mi sembra non abbia tenuto il
conto che merita il SAVAGNONE nel suo studio su _Le terre del fisco
nell'impero romano_. Palermo. 1902.

[205] Aemilia. Camilia. Claudia. Clustumina. Cornelia. Fabia. Galeria.
Horatia. Lemonia. Menenia. Papiria. Pollia. Papinia. Romilia. Sergia.
Voltina. Veturia.

[206] Vedi l'acuta nota di S. PEROZZI nel _Comm. alle Pandette_ del
GLÜCK, lib. XXI. 1. § 1106. pag. 4.

[207] _Loc. cit._, VI. pag. 197.

[208] _Caes._ 41.

[209] _Aug_. 40.

[210] Divisi in rispondenza delle strade che escono dalle porte,
distinti con appositi nomi e addossati alle mura: proprio come i borghi
medioevali che si formano entro le stesse linee.

[211] _Dig_. XLIII, 8, 2 § 22.

[212] _De leg. agr_. II. 35.

[213] _Epig_. VII. 61. 3.

[214] Cfr. HERMES. XIV. pag. 604.

[215] DE MARCHI, _loc. cit._, pag. 244.

[216] Cfr. _Revue Historique_. 1902, pag. 437.

[217] Cfr. specialmente _Cod. Theod_. XII. 1. 179. § 1.

[218] Le note carte cremonesi che ricordano le _regiones_, benchè
recentemente difese dal MAYER. _Die angeblichen Fälschungen
des Dragoni_. Leipzig. 1908, sono da ritenersi frutto di una
falsificazione.

[219] DECLAREUIL, _loc. cit._, pag. 444-45: e LIEBENAM, _loc. cit._
pag. 109 e segg.

[220] _Dig._, L, 8, 1 e 5; XLVIII. 12. 3 § 1.

[221] _Dig._, XXX. 1. 22; XLVIII. 12. 3. § 1.

[222] _Historia_ VII. 3 (della traduzione latina).

[223] Per le istituzioni alimentarie di Nerva, Traiano e degli
imperatori successivi, cfr. SEGRÈ, _loc. cit._, e sopratutto le belle
pagine del WILLEMS, _loc. cit._, pag. 491 e segg.

[224] Le multe inflitte agli ecclesiastici da Valentiniano (a. 392),
con una deroga al sistema comune, furono devolute ai poveri. E lo
stesso fece Atalarico (CASSIODORO. _Variar._ VIII, 24). È certo che la
erogazione venne affidata alla Chiesa.

[225] TAMASSIA N. _I sermoni di Pietro Crisologo_ in Studi Senesi.
1906. I. pag. 63.

[226] EP. IX, 100 a. 599, e TROYA. _Cod. dipl._, IV, 1, 208. Contiene
una netta distinzione degli _homines callipolitani castri_ in
_habitatores loci ipsius_ da una parte e _homines massae_ dall'altra,
con netta separazione giuridica. _Massa_ qui ha il senso che solo più
tardi troviamo per indicare, insieme con l'espressione _corpi santi_,
il territorio intorno alla città.

[227] MURATORI. _Antiq. Ital._ Diss. XXI (to. II. col. 222. D).

[228] ID. _ibid._ Diss. LXXIV.

[229] BERETTA E. _De tabula chorografica M. Ae_. sect. VI in _Rer.
Ital. Script._ X. pag. 31 e segg.

[230] Cfr. MAFFEI S. _Verona illustr._ libr. VII, pag. 134. DE VITA
G. _Antiquitates Beneventanae_, to. I. Diss. 1. cap. 3. CATALANUS M.
_De eclesia firmana eiusque episcopis et archiepisropis_. Fermo, 1783,
pag. 12 e segg. ROVELLI G. _Storia di Como._ Milano 1789, vol. II, pag.
22-28.

[231] PABST. _Geschichte der langobardischen Herzogtümer._ Forschungen
zur Deutschen Geschichte II. Göttingen, 1862, pag. 437 e segg.

[232] DAVIDSOHN R. _Storia di Firenze_. Vol. I. Firenze, 1907, pag. 94.

[233] LUSINI V. _I confini storici del Vescovado di Siena_ in
«Bullettino senese di Storia Patria». Vol. V, a. 1901, fase. 3 e segg.

[234] È nota la dotta discussione, a questo proposito, del CRIVELLUCCI
(_Le chiese cattoliche e i longobardi ariani in Italia_ in «Studi
Storici» IV. pag. 385-423 — V. pag. 153-177 e 531-554 — VI. pag.
93-115 e 589- 604) e del DUCHESNE (_Les évêchés d'Italie et l'invasion
lombarde_ in «Mélanges d'archéologie et d'histoire». XXIII. 1-3. 1903
p. 83-116).

Nell'Italia settentrionale si è perduto — e per opera dei Bizantini,
non dei Langobardi — il solo vescovado di Brescello: nell'Italia
centrale quello di Populonia. Degli altri alcuni furono disorganizzati
— due per più di un secolo — ma non distrutti. Cfr. ID. _Rectification_
etc. ibid. a. 1906. XXVI. pag. 565-567.

Il vescovado di Roselle fu trasportato a Grosseto solo nel 1138 da
Innocenzo II (KEHR P. FR. _Regesta Pontificum Romanorum. III. Etruria._
Berlin. 1908 n. 8 pag. 260), ma non furono certamente i Langobardi a
causarne la decadenza: in un documento della badia amiatina (inedito
nel R. Archivio di Stato di Siena) dell'867 sono ricordati il gastaldo
ed uno scabino della città di Roselle; ed il 14 settembre dell'892
da Roselle datò un suo diploma l'imperatore Guido (SCHIAPARELLI L. _I
diplomi di Guido e di Lamberto_. Roma. 1908 n. 18 pagine 44-45).

[235] Rubr. IX.

[236] _Dig._ L. 13. 4. Forma censuali cavetur ut agri sic in censum
referantur: nomen fundi, cuiusque, et in qua civitate _et in quo pago_
sit, et quos duos vicinos proximos habeat.

[237] MAFFEI S. _Verona illustrata cit._ pag. 381 e segg. Ed
altrettanto si faceva in tutta Italia. Cfr. _Inscr. Regni Neapol._ ed.
MOMMSEN numeri 216. 1354, in cui si ha la tavola alimentare dei liguri
bebiani e l'iscrizione di Volcei.

[238] VOIGT. _loc. cit._ pag. 140 e segg.

[239] Questo è il senso del Decreto di papa Gelasio (492-95) riportato
nel DECRETO di GRAZIANO c. 5, C. XVI, 423. — di un'epoca, cioè, in cui
nessuna perturbazione era stata portata da elementi estranei.

[240] TROYA. _Cod. dipl. lang._ IV. 1. n. 400. 406. 407.

[241] LEICHT. _Studi cit._ I. pag. 39 e 68-9.

[242] La decadenza del sistema dei mansi e la loro decomposizione,
manifesta nel secolo IX (cfr. SCHUPFER _Il diritto privato cit._
II. pagine 81-92) non mi pare abbia influito sul frazionamento delle
pievi. Lo attesta chiaramente il secondo concilio pavese dell'855 che
si esprime così (ed. PERTZ, nei «Mon. Germ. Hist. _Leges_ I. pag.
432 cap. 11): In sacris canonibus praefixum est, ut decimae juxta
episcopi dispositionem distribuantur. Quidam autem laici, qui vel in
propriis vel in beneficiis suas habent basilicas, contempta episcopi
dispositione, non ad ecclesias ubi baptismum et praedicationem et manus
impositionem et alia Christi sacramenta percipiunt, decimas suas dant,
set vel propriis basilicis, vel suis clericis pro suo libitu tribuunt.

[243] S. PIER DAMIANO in un bellissimo passo di una sua lettera del
1076 al marchese Goffredo (Ep. VII. 13) dice che la marchesa Willa
aveva nel comitato aretino _villam novem quidem mansionibus_ EX ANTIQUO
MORE _distinctam, quae postmodum_ JUXTA MODERNAM CONSUETUDINEM _in
plurimos est divisa_.

[244] MON. GERM. HIST. _Leges_ II. ed. BORETIUS. _Capit. Reg. Franc._
I. 1. n. 45. _Divisio regnorum_. 806. febr. 6. pag. 128. n. 4.

[245] Cfr. il lessico del Forcellini a q. v.

[246] Molendinum edificatum _sub urbem_ huius civitatis Parme, in AFFÒ
I. _Storia di Parma_, vol. I Parma 1792, n. 57 pag. 839 a 935.

_Sub urbe_ Regio in via publica ipsius loci. _Cod. dipl. lang._ (PORRO)
n. 672 a 963.

[247] _Cod. Dipl. Lang._ (PORRO) n. 39.

[248] UGHELLI^2. _Italia sacra_. Venezia, 1720, V. col. 705.

[249] _Memorie e Documenti per servire all'istoria del ducato di
Lucca._ Vol. V, parte II, n. 832, pag. 506.

[250] _Memorie e Documenti per servire alla storia del ducato di
Lucca._ IV (BARSOOCHINI) p. II. 2.

[251] LUZZATTO G. _I servi nelle grandi proprietà ecclesiastiche
italiane dei secoli IX e X_. Pisa, 1910, pag. 19-20.

[252] TIRABOSCHI G. _Memorie modenesi_ I. 66. a 904.

[253] IDEM. _ibid._ I. 90. a 943. pag. 111.

[254] Diploma di Corrado I. a. 1031 in MURATORI. _Antiq. Ital._ Diss.
II.

[255] Bolla dell'antipapa Clemente ai canonici di Reggio, a. 1092 in
MURATORI. _Antiq. Ital._ Diss. XXI.

[256] Si potrebbe supporre, in tal caso, che il _suburbium_ non fosse
riconnesso alla città fino dall'epoca romana, ma sibbene da qualcuna
delle frequenti concessioni che si trovano nei diplomi degli ultimi
Carolingi e dei loro successori.

Anche il diploma di Federigo I. del 1156 (ed. LUPI, _Cod. dipl. cit._
I. col. 578), probabilmente spurio, ma egualmente valido ad attestare
l'uso e la frequenza dell'espressione, usa l'indicazione _in circuitu_.
L'imperatore concede al vescovo, fra l'altro, _nominatim omnes
districtiones et publicas functiones Pergamensis civitatis et villarum
et castellorum que sunt_ IN CIRCUITU IPSIUS CIVITATIS _ad eumdem
comitatum pertinentes._

Della possibilità che _villae_ e _castra_ potessero trovarsi entro il
_suburbium_ dirò più avanti.

[257] _Cod. dipl. lang._ (TROYA) IV. 1. n. 498.

[258] _Ibid._ (ID.) n. 962. 564. 995. etc.

[259] SCHIAPARELLI L. _I diplomi di Berengario I_. Roma, 1903, n. 14
pag. 48-49 a. 896.

[260] Cfr. BRUNETTI F. _Codice Diplomatico Toscano_ I. 2. Firenze
1838, n. 70 a. 806. pag. 70. v. 7. 21. 24. 31 e 14. Per mettere in
maggior rilievo la differenza fra _infra_ e _intus_ non è fuor di luogo
osservare che si tratta di un placito.

[261] Diploma di Ottone III. ai canonici di Parma dell'anno 996. —
MON. GERM. HIST. _Diplomat._ II. 2. _Die Urkunden Otto des_ III, n.
210, pag. 622 — in cui sono ricordate le _mansiones_ INFRA _civitatem
Bononiam_ insieme con quelle in SUBURBANO TERRITORIO _Ferrarie_ e con
le SUBURBANAS TERRAS di Parma.

[262] UGHELLI^2. _loc. cit. VIII_. col. 51: _monasterium Salvatoris_
INFRA CIVITATEM BENEVENTANAM. — _ibid_. col. 92: _monasterium S.
Modesti_ INTUS HANC NOVAM CIVITATEM BENEVENTANAM e passim.

E non è soltanto nei documenti concernenti le città che _intra_ ha
questo significato.

Nel diploma dell'arcivescovo di Milano Todone del febbraio 866 a favore
del monastero di Sant'Ambrogio, fra le altre concessioni c'è quella di
INTRA _ecclesiam Sanctorum Vitalis et Agricolae, in honore sanctorum
Petri et Pauli ecclesiam infirmorum construere_.

Il PURICELLI (_Ambrosianae basilicae Monumenta_. Milano, 1645, numero
115, pag. 201) presso _intra_ apre una parentesi dicendo: «non _intra_
sed _iuxta_ legendum est.»

Che nel documento sia stato scritto _intra_ è certo, perchè se fosse
stato possibile il menomo dubbio di lettura, il Puricelli non avrebbe
esitato a indicarlo: d'altra parte è egualmente sicuro, per le notizie
che il Puricelli stesso dà, che la chiesa di S. Pietro e Paolo era
presso e non dentro la chiesa di S. Vitale e Agricola. A me sembra
si possa ragionevolmente supporre che ci si trovi dinanzi ad una
deviazione, non irrilevante, dell'antico significato romano di _infra_.

A Lodi un documento del 9 luglio 931 (VIGNATI C. _Laus Pompeia_ in
«Bibl. Hist. Ital. cura et studio societatis langobardicae» Milano,
1879, II. n. 10 pag. 16) contiene la permuta di una terra IN _civitate
Laude prope ecclesia S. Stephani_ con un'altra terra INTRA _civitatem
Laude prope porta mediolanense_. La differenza di indicazione di
un terreno che sappiamo di sicuro essere stato entro la città (cfr.
ID. _ibid._ pag. LVII) con quella del secondo induce a credere che
quest'ultimo fosse fuori delle mura.

Anche l'Editto langobardo (_Roth_. 340) usa l'avverbio _infra_. Se
qualcuno, inforcato il cavallo di un'altro, cavalcherà INFRA _viciniam
idest_ PROPE _ipsum vicum_, pagherà due soldi di pena; _si in antea_,
cioè fuori del territorio vicinale, _in actogild reddat_. Dunque
_infra_ indica lo spazio situato fra il vico, al centro, e i confini,
alla periferia.

[263] Cfr. pag. 16 e segg.

[264] La critica ormai ha pacificamente ammessa l'origine comune e lo
svolgimento molto somigliante del notariato dell'Italia langobarda
e dell'Italia romanico-bizantina (MAYER E. _Ital. Verfassungsg_. I.
pag. 114 e segg.) e con altrettanta concordia è ammessa, col BRUNNER,
la diretta derivazione del documento medioevale da quello romano; ed
è del pari innegabile che i singoli e specifici rilievi del MURATORI
(_Antiq. Ital._ diss. VIII. to. I. col. 426), del LUPI (_Codex
Diplomaticus Bergomensis._ Bergomi 1799 to. II. animadv. XLIV col.
494), dell'HANDLOIKE (_Die lombardischen Städte unter die Herrschaft
der Bischöfe, und die Entstehung der Communen_, Berlin. 1883 pag.
111), dello SCHUPFER (_Il diritto privato dei popoli germanici etc._
II. Città di Castello, 1909 pag. 51 e segg.) danno modo di affermare
con sicurezza che i notai medioevali, pur nel loro barbaro latino, si
attennero con cura scrupolosa all'uso di termini tecnici e precisi.
Ma è altrettanto indiscutibile la grande varietà degli atti di uno
stesso tipo, derivante, secondo me, da cause che risalgono a ben remota
antichità: varietà che si è cominciato appena ora a mettere in luce da
recenti e buoni studi diplomatici.

[265] Il NISSEN (_Templum und Institum e Pompeianische Studien zur
Städtekunde des Alterthums_. Leipzig. 1877) ha messo opportunamente in
luce l'importanza di Pompei come tipo delle città italiche che erano
_regolari_, contrariamente alle antiche città greche.

[266] D'ACHERY L. e MABILLON I. _Acta Sanctorum ordinis S. Benedicti_,
Venezia, Coletti-Bettinelli, 1733, vol. II. p 330.

[267] IAFFÈ. _Reg. Pontif._, a. 768-772, n. 2389.

[268] MANSI. _Conciliorum amplissima collectio_, vol. XIII. col. 1006,
cap. XLI. e _Hludowici II, Synodus Ticinensis_ a. 850. c. b. ed. PERTZ.
in «Mon. Germ. Hist.» III. pag. 397.

[269] ID. _Ibid._, col. 1008.

[270] ID. _Ibid._, vol. XIV, col. 931-2; e PERTZ, _loc. cit_.

[271] _Ordo romanus_, c. 6. Ad maiorem missam debent esse _sex
suburbani_, diaconi septem etc. in MARTÈNE. _De antiqua disciplina
Eccles. in Div. off._, pag. 504.

[272] UGHELLI. _loc cit._, vol. V, col. 728, a. 921. Nell'a. 921,
Raterio, vescovo di Verona, col suo testamento dispose fra l'altro
«ut advenientibus omnibus kalendis in curriculis totius anni pascant
pauperes duodecim pro anima domini Berengarii senioris mei Domini
amabilis imperatoris, et cum de hoc seculo evolaverit omni anno die
anniversaria pascant pro anima eius pauperes trecentos et _sacerdotes
sanctae ipsius ecclesiae cardinis omnes_..... (lacuna nel testo) _seu
et_ SUBURBANOS _omnes_ ita ut in tribus diebus ante eius annualem
et tribus _omnes_ generaliter _sacerdotes_ DE INTUS ET DE FORIS
omni die missas cantent et Domino preces offerant pro eius anima».
UGHELLI-COLETI. _loc. cit._, V, col. 728.

[273] Bolla di Alessandro II dell'a. 1061; al monastero di Senatore di
Pavia _in suburbio ticinensi_ ecclesiam S. Georgii et S. Pancratii, in
MURATORI. _Antiq. Ital._, Diss. LXX.

[274] Diploma di Ottone III ai canonici di Parma dell'a. 996 in nota 5
pag. 88.

[275] MAYER, _loc. cit._, pag. 434, nota 9.

[276] Cfr. Diploma di Enrico IV del 26 maggio 1111 confermante quelli
dei precedenti re ed imperatori. AFFÒ I. _Storia di Parma_, I, pag.
343.

[277] MAYER, _loc. cit._, pag. 434, nota 9.

[278] MANSI, _loc. cit._ vol. XIV, col. 791. Il vescovo concede un
massaro di nome Gisulfo insieme con tutte le cose che «per ipsum
reguntur _in suburbano vico episcoporum_». La concessione fu confermata
dal metropolita milanese Angelberto nel sinodo provinciale. _Ibid._
col. 792-93.

[279] _Synodus romana in causa Formosi pp_. c. 8. e _Massa_ ha anche un
altro e ben diverso significato: indica un complesso organico di beni
nell'amministrazione della Chiesa. Un bellissimo esempio ci è offerto
dal _Liber diurnus_, ed. SICKEL. Vienna, 1889, VI, 5 e XL, in cui si
parla del _presbyter_ preposto alla chiesa di una _massa_. GREGORIO
M. _Epist_. VI, 18-X, 28-X, 52 e dal diploma di Federigo I del 1177
al monastero di Pomposa. (MURATORI, _Ant. Ital_. Diss. XLVII). Sulle
massae d'Arno, di Bagno e Trabaria ha pubblicato uno studio P. FABRE
nell'«Arch. della Soc. Rom. di Stor. Patr.» vol. XVII a. 1894.

[280] D'ACHERY-MABILLON. loc. cit, vol. I. pag. 351 e DELISLE in
_Orderici Vitalis historia eccles_. 1885 pag. LXXIX-LXXXIV.

[281] Cfr. _Capitulare mantuanum primum mere ecclesiasticum_ a.
787. c. 11 (ed. BORETIUS in «Mon. Germ. Hist.» _Capit. Reg. Franc_.
I. 1. _n_. 92, pag. 195). La data, però, non è esatta: il PATETTA
(_Sull'introduzione in Italia della collezione di Ansegiso e sulla data
del cosidetto capitulare mantuanum duplex attribuito all'anno 787_
in «Atti della R. Accad. di Torino» 1890, vol. XXV, pag. 883-85) ha
dimostrato che invece è da ascriversi all'anno 813.

[282] LUPI. _De Parrochiis_ pag. 253. E il Concilio di Reggio o Pavia
dell'a. 850 stabilisce (cap. XIII) _sicut episcopus matrici preest, ita
singulis plebibus archipresbiteros praeesse volumus_. MANSI, loc. cit.
vol. XIV, col. 935.

[283] LUPI. _Cod. dipl. cit._ I, col. 323. Eccone i confini secondo
un documento del 928 (_ibid_. col. 900-901). A recta via (partendo
dalla cattedrale di S. Alessandro) usque ad locum qui vocatur Cultel
et Canale et per montes et per valles et per culta et per inculta usque
ad locum qui vocatur Brene. Ex altera parte civitatis a Laticis antrum
quod vulgo dicitur Lantrum, recta via usque ad Sorisole per omnem illum
locum qui vocatur Castellum per montes et per valles usque Lemine».

Su questo documento sono da vedersi le giuste osservazioni di A. MAZZI.
_Corografia bergomense_, Bergamo 1880, sotto la voce Bergamo.

In un documento del 1174 (Lupi. _Cod. dipl_., II, col. 1281), con cui
la chiesa di S. Michele fu eretta in parrocchia, si legge che quei
_vicini_, avendo asserito «ex sua parte quod praefata aecclesia S.
Michaelis habebat jus baptizandi tum ex parte comitum, tum etiam popter
usum longi temporis», i canonici risposero «hoc non licere eisdem
hominibus aut ecclesie cum _non esset plebs neque haberet titulum sed
essent_ SUBURBANI».

Degli aumenti successivi del territorio suburbano parlerò a proposito
dei diplomi imperiali dell'epoca franca e precomunale.

[284] LUITPR. _Historia Langubardorum_. Mon. Germ. Hist. Ss., II, 16.

[285] ROBERTI. _Dei beni appartenenti alle città cit._, pag. 30-31,
nota 4, dell'Estr.

[286] SCHUPFER _Fr. Aldi liti e romani cit_., pag. 70.

[287] UGHELLI-COLETI. _Italia Sacra_, V, 707-08. Partizione delle
decime fatta dal vescovo Rotaldo nell'813. Damus atque concedimus
sanctae matriculari ecclesiae tres portiones decimarum, quae a fideli
populo civitatis dantur; quartam pauperibus reservamus. Primo quidem
omnium decimas, quae a populo civitatis dantur, omnibus canonicis
communiter concedimus; deinde omnes decimationes que dantur ab
hominibus habitantibus in Villa, que stat iuxta Portam Sancti Firmi
largimur illi canonico qui subdiaconibus atque acolitis de secretario
praeesse debet studio. Cunctas denique decimas, quae dantur a villanis
indigenis, seu advenis habitantibus sive habitaturis in Villa S.
Zenonis confessoris usque ad portam civitatis opportune septem
subdiaconibus et totidem acolitis damus, exceptis tribus massariciis,
quae in nostra potestate reservamus.

[288] Queste città sono espressamente ricordate nell'atto di divisione
di Carlo M. _Cfr. Capit. Reg. Franc._ ed. BORETIUS in «Mon. Germ.
Hist.» n. 45, c. 4, pag. 128.

[289] Cfr. BRUGI B. _Le dottrine giuridiche degli agrimensori romani
comparate a quelle del Digesto_, Verona-Padova, 1897.

Per la Sardegna differenze notevolissime nella larghezza dell'_iter
culturas accedentium_, dovute al permanere di preesistenti usi locali,
sono state messe in rilievo dal BESTA, _Il diritto sardo nel medio
evo_, Bari 1898, n. 141, pag. 85.

[290] Cfr. il passo nel glossario del DU CANGE a q. v.

[291] LUCHAIRE A. _Les communes françaises à l'époque des Capétiens
directs_. Paris. 1890. pag. 69-72.

[292] HUVELIN P. _Essai historique sur le droit des marchés et des
foires_, Paris, 1897, pp. 188, e 200-01.

[293] Vedi il glossario del DU CANGE alla voce cit.

[294] LUCHAIRE A. _loc. cit._, pag. 69.

[295] Cfr. _Mon. Hist. Patr._, XIII, 1561.

[296] La prova e la confutazione di questa ipotesi non può esser data
che dal materiale metrologico: si conoscono, infatti, tre specie di
leghe; la _leuca mayor_ di 2962 m., la _leuca minor_ che misura solo
2222 m., ed infine la _leuca gallica_.

[297] In MON. GERM. HIST. _Capitul_ ed. BORETIUS. II. 125.

[298] LEICHT. _Studi cit_., I, pag. 51.

[299] S'intende che io parlo del massaro come lavoratore e coltivatore
della terra; non del servo, dello schiavo, incaricato dal padrone delle
funzioni e dei lavori propri del massaro. Quest'ultimo non acquista
mai la personalità giuridica, che è propria dell'altro, per quanto ne
possa compiere tutte le mansioni. Tale distinzione è indispensabile per
avere un'idea esatta di quelle classi rurali, a proposito delle quali
e più specialmente del massaro è sorta, or non è molto, una proficua
discussione fra l'HARTMANN (_Zur Wirtschaftsgeschichte Italiens_, pag.
57-62) e il SOLMI (Rec. all'HARTMANN in «Riv. It. di Sociologia IX.
1905. pag. 15 dell'Estr.), alla quale ha preso parte anche il VOLPE (in
«Studi Storici» dir. da A. Crivellucci. 1905, pag. 176-77).

[300] Cfr. PIVANO S. _I contratti agrari in Italia nell'alto m. evo._
Torino. 1904. pag. 314-15.

[301] Sulla tendenza comune nel basso impero, e continuata anche dopo,
di rendere assoluti ed ereditari i vincoli dei lavoratori della terra e
tutti i contratti relativi all'economia rurale cfr. LEICHT _Studi cit_,
I, pag. 46-47.

[302] Cfr. nota 2 pag. 86.

[303] SCHIAPARELLI L. _I diplomi di Ludovico III e di Rodolfo_. Roma,
1908, n. XV, pag. 67.

[304] Ed. in MON. HIST. PATR. vol. I. chartarum n. 87 col. 143-44.

[305] Questo è dimostrato dalla ripetizione, oltre che del _castrum
vetus_, dei nomi dei servi. Tale ripetizione è stata rilevata anche
dal CIPOLLA (_Di Audace Vescovo di Asti e di due documenti inediti che
lo riguardano_ in «Miscellanea di Storia Italiana» vol. XXVII a. 1889
pag. 183 nota 1) il quale, ritenendo che la condizione di _servientes_
possessori di beni immobili sia contradetta dalla parola _massaritia_,
che indica il manso e considerandola poco verosimile e conciliabile
con la condizione nella quale appaiono trovarsi i servi, pensa che il
diploma del 938 autorizzi senz'altro ad intendere che anche nel primo
diploma si sia trattato di veri e propri servi.

[306] TAMASSIA N. _Una professione di legge gotica cit_., pag. 6. Anche
il LEICHT (_Studi cit._ I. pag. 104) riporta un documento lombardo dal
quale si vede che vi erano beni comuni del _comitatus_.

[307] SCHUPFER FR. _Il diritto privato dei popoli germanici_, vol. I.
pagina 42 e segg.

[308] MAYER. _Ital. Verfass cit_., I, pag. 281. SOLMI. _Storia cit._
pag. 188.

[309] KANDLER. _Cod. diplom. istriano_ n 804, riportato dal ROBERTI,
dal FINOCCHIARO-SARTORIO e dallo SCHUPFER. Cfr. anche WAITZ. _Die
deutsche Verfassungsgeschichte_. II. 1883. pag. 490-92.

[310] Lo SCHUPFER. (_Dir. priv. cit_. I. pag. 64 e 66) veramente crede
che la natura del diritto dei cittadini sia puramente d'uso, di fronte
alla proprietà eminente del sovrano, il quale può disporre di questi
beni senza commettere un arbitrio; ma tale sua concezione è così
intimamente legata all'affermazione dell'esistenza di forme economiche
collettivistiche presso i Langobardi, dopo la loro discesa in Italia,
che non può non risentirsi dei gravi colpi portati a quest'ultima,
sopra tutti dal LEICHT e dal SOLMI.

[311] PAUL. DIAC. _Hist. Langub._ V. 36.

[312] FICKER _J. Forschungen zur Reichs und Rechtsgeschichte Italiens_.
IV. Innsbruch 1874, n. 27, pag. 35.

[313] Cfr. _Die Urkunden Otto d. III._ ed. cit. n. 53 pag. 456-7.

[314] MURATORI. _Ant. Ital._ Diss. VIII.

[315] _Cronaca piacentina_, ad an. ediz. BORRA. Parma 1862.

[316] A. 1037. ODORICI. _Storie bresciane_ vol. V. pag. 50. e
GRADONICUS I. H. _Pontificum brixianorum series commentario historico
illustrata_. Brescia, 1755, pag. 159.

[317] UGHELLI^2. _Ital. Sacra_ Vol. V, col. 712. a. 1178.

[318] Anche il documento veronese chiama _communis_ la CAMPANEA:
ma bisogna pensare che siamo in epoca in cui, il comune essendo già
formato, ogni terra non appartenente a singoli è _communis_.

[319] MURATORI. _Antiq. Ital._ Diss. XIII.

[320] ROTH H. _Geschichte des Benefizialwesens_. Erlangen. 1850, pagine
374-75.

[321] LEICHT P. S. _Ricerche sull'arimannia_ cit., pag. 9 e segg. in
_Studi e Frammenti_. Udine 1903.

[322] CHECCHINI A. _I fondi militari romano-bizantini considerati in
relazione con l'arimannia_ in «_Archivio Giuridico F. Serafini_» 1900.

[323] Infatti in tutto il primo capitolo non ricorda che i _bona
vacantia_ e quelli confiscati per legge ai proscritti ed ai condannati
per nozze incestuose e per crimine di lesa maestà; ed i _palatia_ nelle
città consuete (in civitatibus consuetis).

[324] Enrico IV parla di _arimanniam eiusdem civitatis_ (Padova)
_omnemque districtum ac quicquid ad imperialem potestatem pertinet_.
Berengario I chiama la terra arimannica _terram juris regni nostri_.
Cfr. CHECCHINI, _loc. cit.,_ pag. 462.

[325] LEICHT P. S. _Ricerche cit._ e _Studi cit.,_ vol. I, pag. 41-42.

[326] CHECCHINI A. _I fondi militari etc._ pag. 461-62.

[327] LEICHT P. S. _Studi cit._, II, pag. 92. Ma al Leicht non è
sfuggita l'impossibilità del rude Stato germanico a costituire rapporti
così complicati come quelli dell'arimannia. Egli ha pensato che essi
ne fossero già compenetrati nel loro diritto nazionale: ed a questo è
arrivato perchè crede che l'ordinamento militare bizantino abbia avuto
una notevole influenza su quello langobardo (pag. 88) e da ciò sieno
derivati dei punti di identità.

A me, come dico, pare si tratti di semplici analogie spiegabili con i
punti a comune di due civiltà una all'inizio e l'altra all'occaso.

[328] _Loc. cit._, pag. 443-44. La stessa tesi riguardo alle
concessioni di terre fatta da Genserico ai suoi vandali, è sostenuta
dal MARTROYE (_Genséric, la conquête vandale en Afrique et la
destruction de l'empire d'occident_. Paris 1907, pag. 297 e segg.) e
dal ROBERTI (_Arimannie vandaliche in Africa_ in «Studi in onore di F.
CICCAGLIONE. Catania, 1909, vol. I, pag. 103 e segg.).

[329] _Loc. cit_., pag. 466-67.

[330] MURATORI. _Antiq. It._ Diss. XIII. Cfr. anche PIVANO S. _Stato
e Chiesa in Italia da Berengario I ad Arduino_. Torino 1908, pag.
20. Il MURATORI dètte di questo diploma — è vero — un'interpetrazione
estensiva che in realtà esso non ha, essendo rilasciato al solo vescovo
di Arezzo e non a tutti i vescovi d'Italia, come egli pensò. Ma non mi
sembra onesto — però — tacere che i diplomi dello stesso imperatore
a Cremona (PIVANO, _loc. cit._, pag. 21) e a Verona (UGHELLI, _loc.
cit._, V, col. 724), con formulario identico a questo, dimostrano
una volta di più la sicurezza d'intuito di lui, che, partendo da un
punto, che, considerato isolatamente, è inesatto, emetteva tuttavia un
giudizio in complesso vero e sicuro.

[331] Cito l'ed. del PASQUI U. _Documenti per la storia di Arezzo_,
Firenze, 1899, n. 49, pag. 71-72.

[332] BÖHMER, _Acta Imperii Selecta_, vol. I. Insbruch. 1870, n. 63,
pag. 60.

[333] MURATORI. _Antiq. Ital._, Diss. XIII. col. 736.

[334] ID. _Ibid_.

[335] LUPI. _Cod. dipl. bergam_., II, pag. 1169-70, cit. dal CHECCHINI,
pag. 461.

[336] Cit. dal CHECCHINI, pag. 462.

[337] Leg. Lang. Guido 3. Nemo comes neque loco eius positus neque
sculdasius ah arimannis suis _aliquid per vim exigant praeter_ QUOD
COSTITUTUM LEGIBUS EST.

Doc.to dell'a. 937 riportato dal DUCANGE: de villa Raucho et de omnibus
arimannis in ea morantibus _omniaque districtionem omnemque publicam
functionem et querimoniam quam_ ANTEA _publicus nosterque missus
facere consueverat_... custodiant et observent. Cfr anche SAVIGNY C.
F. _Storia del dir. rom. nel m. e._ Trad. ital., I, Firenze 1844, pag.
135-148. Cfr. anche il diploma di Federigo I al comune di Ferrara dal
1164, in MURATORI _Antiq. Ital._, Diss. XLVIII.

[338] LEICHT. _Ricerche cit_., pag. 8-9

[339] Cfr. SCHUPFER. _Il dir. priv. cit._, I, pag. 67 e segg. e
II, pag. 91; PERTILE _loc. cit._, III, pag. 35 e segg. VACCARI P.
_Ricerche di storia giuridica_, Pavia 1907, pag. 3-43. _Il colonato
romano e l'invasione long._ Cfr. però per lo stato personale le giuste
osservazioni del LEICHT. _Studi cit._, II, pag. 108, oltre a ciò che ne
dice nel vol. I, pag. 51 e segg.

Vedi il bel documento del 746. TROYA. _Cod. Dipl. Lang._, n. 594, e le
osservazioni del TAMASSIA. _Fidem facere_ e _manum facere_ in «Arch.
giurid.», 1903, pag. 536 e segg.

Noti documenti (TROYA. _Cod. Dipl. Lang._, n. 480 e _Reg. farf._,
n. 16 e 35) mostrano concessioni regie di una terra con facoltà di
alienazione e di permuta, senza perdita da parte del sovrano dell'alto
diritto sulla terra stessa. Al re, infatti, è dovuto sempre il
pagamento del canone stabilito col primo cessionario e, qualche volta,
anche la facoltà di sostituire una terra diversa a quella già concessa.

È un'altra prova dei tratti comuni che hanno due civiltà in condizioni
opposte.

[340] Cfr. i documenti riportati dal PERTILE. _loc. cit._, III, pag. 38.

[341] _Ricerche cit._, pag. 15-17.

[342] MURATORI. _Antiq. Ital._, Diss. XLV.

[343] ID. _Ibid_.

[344] _Mem. e Doc. p. la storia di Lucca_, IV, ed. BERTINI. Lucca,
1818, pag. 309. Lo stesso nel documento lucchese dell'819, edito dal
MURATORI. _Antiq. Ital._, Diss. XIII.

[345] _Ibid._, ID., vol. IV, pag. 309.

[346] DELLA RENA C. _Storia degli antichi duchi e marchesi di Toscana._
Firenze, 1690-1764, vol. III, pag. 41. Per la data cfr. OVERMANN,
_Gräfin Mathilde von Tuscien_, Innsbruck, 1895, pag. 156.

[347] MURATORI. _Antiq. Ital._, Diss. XIII.

[348] ID. _Ibid._

[349] SOLMI A. _Le diete imperiali di Roncaglia e la navigazione del Po
presso Piacenza_. Estr. dall'Archiv. Stor. per le Prov. Parmensi. N. S.
vol X, 1910, cfr. pag. 20-21 e 31-32; in cui sintetizza il sistema cui
dette il nome nel lavoro sulle associazioni.

[350] DARMSTÄDTER, _loc. cit._, pag. 7. Alboino occupò i castelli
di Verona e di Pavia; Liutprando ed Astolfo i palazzi bizantini di
Ravenna.

[351] Ne offre esempio sicuro la Legge Salica (_Tit_. XLV _De
migrantibus_). Leggi e documenti provano che anche presso i Langobardi
ebbe vigore lo stesso sistema.

[352] SALVIOLI G. _Città e campagne_ cit., I.

[353] TROYA. _Cod. dipl. lang._, n. 812, a. 764, n. 671, a. 753, e
CHROUST, _Untersuchungen über die langob. Konigsurkunden._ Graz. 1888,
n. 15, pag. 204 e n. 20 pag. 181.

[354] _Capitulare ital. Capitula Pippini_ 4, 19, ed. PADELLETTI pag.
368 e 373, e _Capit. Papiense_, 787, oct. c. 9, ed. BORETIUS. n. 94,
pag. 199, e _Capit. Hlotarii_, a. 832, c. 7. _Capit. Hludov._, II. a.
850, c. 7 e 8. _Capit. C. Pap., Capit. Hludov._, a. 850 c. 6 e 3, per i
palazzi imperiali in città.

[355] _Epist. ad Pippinum filium,_ a. 807. _Capitulare italicum.
Capitula Karoli Magni_, 142, ed. PADELLETTI pag. 365-66. e ODORICI.
_Storie bresciane,_ vol. III, Cod. diplom.. 17 apr. 761. n. XXI, pag.
39. «intra muros civitatis brixiane prope portam mediolanensem _loco_
qui dicitur _Parevaret_».

[356] Cfr. _Cod. Just. XI._ 74. 4. ONORIO e TEODOSIO, a. 423. Che
queste angarie conservino anche nel secolo nono il significato, il
valore e la natura di imposizioni pubbliche è luminosamente dimostrato
dal diploma dell'882 al vescovo di Reggio.

[357] TROYA. _Cod. dipl. lang._, n. 566, ripubblicato dall'HARTMANN.
_Zur Wirtschaftsgeschichte Italiens in frühen Mittelalter. Analekten._
Gotha, 1904, pag. 125.

[358] UGHELLI. _Italia Sacra_, VIII, col. 32.

[359] ID. _ibid_., V, col. 711.

[360] MURATORI. _Antiq. Ital._, Diss. XXXI.

[361] FICKER. _Forschungen cit._, IV, n. 81, pag. 124.

[362] MURATORI. _Antiq. Ital._, Diss. XLV. Questi due documenti sono
relativamente tardi, ma la nota ostilità di alcuni dei re Franchi e dei
re d'Italia contro l'episcopato toscano (Cfr. LEICHT, _Studi cit._, II.
pag. 109) spiega perchè questi oneri perdurassero ivi più a lungo che
altrove.

[363] Cfr. PERTILE^2. _loc. cit._ VI. 1. pag. 29 nota 11.

[364] TAMASSIA N. _Le associazioni in Italia nel periodo precomunale_,
Estr. dall'Archivio Giuridico, 1898, fasc. 1, pag. 16.

[365] Id. _ibid_., pag. 15-16.

[366] SOLMI A. _Per la storia delle associazioni nell'alto m. evo_,
Estr. dall'Archivio Giuridico, 1899, fasc. 1, pag. 7-8.

[367] Id. _ibid_, pag. 7.

[368] _Cod._ _dipl._ _Lang._, (TROYA), n. 765, a. 761.

[369] UGHELLI^2. _loc_. _cit_., V, col. 708, a. 813. De vestimentis
que de _Pisile_ veniunt, vel _Ginicro_ decimam partem. Il pisele ed il
gineceo sono elementi ben noti del sistema curtense.

[370] Cfr. VOIGT K. _Die königlichen Eigenklöster in Langobardenreiche_
Gotha 1908.

[371] TIRABOSCHI. _loc_. _cit_., II, pag. 69-70, a. 895.

[372] a. 852, 19 ottobre,.... ut annis singulis ad predictam parte
nostre hecclesie reddere debeatis pro ipso monasterio vestitum unum
bonum caprenum sicuti ipso monasterio in parte palatii consuetus fuit
et ipse dominus imperator nobis concessit. LAMI. _Sanctae ecclesiae
Florentinae Monumenta_. Firenze, 1758 II, 968.

[373] a. 1048 circa. MURATORI. _Antiq_. _Ital_., Diss. LVI.

[374] LEICHT. _Studi cit_., I, pag, 22. Cfr. anche Solmi. _loc_.
_cit_., pagina 100.

[375] c. 340.

[376] Cod. Theod. IV, 8, 5 e _Cod_. _Just_. VII, 16, circumductio....
circumlustratis _provinciae populis_ e _Cod_. _Theod_. _Nov_.
_Valentin_. X. in fine.

[377] L'abate Teofrido nel suo discorso «De SS. Reliquiis» parla dei
_singuli_.... _civitatum populi_ a cui le reliquie furono concesse in
conforto (in solatium). Cfr. MURATORI. _Anecdota_, I, Milano 1697, pag.
8, nel commento al v. 45 del Natale XI.

[378] _Cod_. _Theod_., XII, 12, 16, a. 426. Teodosio e Valentiniano
parlano dei «civitatum postulata, decreta urbium, desideria populorum».

[379] _Cod_. _Theod_., IX, 33, I. Si quis.... suscipere _plebem_....
temptaverit. E l'_Interpr_.: Si quis _populum_ ad seditionem
concitaverit.

[380] Tale è il caso di Cremona, Sospiro, Bergamo etc. Cfr. più avanti
pag. 143.

[381] Cfr. specialmente _Capit_. _Ital_. _Lud_. P. 35. 36.

[382] A Piacenza, come si è veduto, la _pensio_ del sapone grava
su tutta la città. Lo stesso avviene per imposizioni varie in altre
città: così a Cremona sono tutti gli abitanti (... Rothecarius, Dodito,
Gudipertus _et ceteri habitatores_) che al placito di Lodovico II.,
tenuto a Pavia nell'851-52, accusano il vescovo di violenze e soprusi
contro le loro navi.

E non si può supporre che tutti i cremonesi esercitassero il commercio
fluviale: come non si può ammettere che tutti gli abitanti di Benevento
fossero costretti alle prestazioni che un bel documento, che avrò
modo di illustrare trattando delle divisioni cittadine interne, mostra
gravare sulla città considerata nel suo complesso.

E lo stesso concetto domina anche per i minori centri locali. Re
Astolfo nel luglio del 755 conferma alla Basilica di S. Lorenzo presso
Bergamo la _casam tributariam_ donatale già dal re Ariperto e aggiunge
la concessione di _omnes scuvies et utilitates quas homines exinde
in puplico habuerunt consuetudinem faciendum excepto quando utilitas
fuerit cesas faciendum ubi consuetudinem habuerunt. Nam ab aliis
scuvies et utilitatibus puplicis quieti permaneant_ (_Cod_. _dipl_.
_lang_., TROYA IV, 4, n. 693).

[383] Cfr. _Decretio Clotharii regis nel Pactus pro tenore pacis
domnorum Childeberti et Chlotarii regum_ (ed. BORETIUS in _Monum.
Germ. Hist. Capitularia regum francorum_, I, 1), cap. 9: «Decretum est
ut qui ad vigilias constitutas nocturnas fures non caperent eo quod
per diversa intercedente conludio scelera sua pretermissas custodias
exercerent, centenas fierent. In cuius centena aliquid deperierit,
capitale qui perdiderit recipiat, et latro, vel si in alterius centenam
appareat deduxisse et ad hoc admonitus si neglexerit, quinos solidos
condempnetur; capitalem tamen qui perdiderat, ad cetena illa accipiat
absque dubio, hoc est de secunda vel tertia».

[384] Cfr. nota 3 pag. 128.

[385] _Cod. Just_. XII. 41. 5. a. 413.

[386] Sino dal tempo romano il sistema fiscale legava tutti gli
abitanti alla terra e questa, distinta nelle singole divisioni
territoriali, alla città che si trovava a capo di ognuna di esse
(cfr. infatti il libro X del _Cod. Just._; la massima parte delle
disposizioni del quale ebbe sicuramente applicazione in Italia per
essere stata compresa nel _Cod. Theod_.); ma non separò la città dal
_suburbium_, nè confuse quest'ultimo con il territorio circostante.

Un passo che calza perfettamente a questo proposito ci è fornito da
GREGORIO DI TOURS, il noto vescovo e storico del secolo sesto. Egli
narra (_In gloria confessorum liber_. cap. 62. — ed. ARNDTS e KRUSCH
nei «Mon. Germ. Hist.» _Scriptores rer. meroving._ I. pagina 784)
che l'imperatore romano Leone, richiestone da un arcidiacono, che
gli aveva guarita la figlia; concesse alla città di Lione l'esenzione
dal _tributum_ dovutogli _in tertio circa muros miliario civitatis_.
Anche a dubitare (e non sarebbe punto fuor di luogo) che l'origine del
privilegio lionese sia proprio dovuta al fatto narrato da Gregorio
di Tours; non si può ragionevolmente dubitare che, almeno ai suoi
tempi, Lione godesse di tale esenzione e da epoca abbastanza remota;
perchè, continuando la sua narrazione, egli aggiunge: _unde usque hodie
circa muros urbis illius in tertio miliario tributa non reddentur in
publico_.

Ammesso pure, in ipotesi, che la concessione non risalisse al tempo
romano — e non c'è ragione di credere che ciò non sia potuto avvenire
— è indubitabile che una distinzione precisa, in materia di imposte,
della città e del suo suburbio dal territorio circostante, quale
Gregorio di Tours ci fa vedere, non sarebbe stata possibile se
non avesse avuto a base un precedente stato di fatto e di diritto
vigorosamente stabilito, nettamente applicato e comunemente usato.
Basti solo pensare che l'estensione della zona riconnessa alla città
è così vasta — tre miglia — da non poter presentare caratteri e
dati di fatto capaci di servire ad una delimitazione dal rimanente e
che Gregorio di Tours rileva la peculiare condizione di Lione e del
suburbio che sono esenti dal tributo; ma non accenna affatto come
strano il caso che l'immunità finanziaria, concessa al centro murato,
si estenda per un certo ambito determinato anche al di fuori. Per le
tre miglia v. pag. 96.

[387] La πςοτίμησις aveva preparato il terreno alla coattiva unione
di terre e di persone per il pagamento delle imposte. Cfr. TAMASSIA N.
_Il diritto di prelazione e l'espropriazione forzata negli statuti dei
comuni italiani_ in «Archivio giuridico» 1885 vol. XXXV.

[388] Accanto ai gruppi arimannici, i quali costituirono una lunga
catena serpeggiante lungo la spina centrale della conquista langobarda
(Cfr. anche LEICHT _Studi cit._, II, pag. 89); ebbe sicuramente vita
l'elemento militare indipendente, basato senza dubbio sulla terra,
ma non vincolato inesorabilmente ad una determinata terra, come gli
arimanni; e che li superò di importanza e di numero. All'individualismo
germanico ripugna tanto la costrizione, che io ritengo che l'arimanno,
inteso come colui cui è concessa la terra specificatamente detta
arimannia, sia ben differente dal vero e proprio esercitale.

[389] Brescia, per esempio, fu prediletta dai nobili Langobardi.

[390] Bergamo fu pure un centro favorito dai Langobardi. Cfr. SCHUPFER.
_Istituz. cit._, pag. 152.

[391] E così si spiega perchè nei documenti non si parli mai di
_tertiae_ e di terze parti fatta eccezione di quei _tertiatores_
della Liburia che è stato dimostrato essere un caso speciale e
singolarissimo.

[392] _Cod. dipl. lang._ (TROYA), n. 401.

[393] _Ibid_. (Id.), n. 479.

[394] _Ibid_. (ID.), n. 431. A questi _notai della città_ si possono
aggiungere pure _Arioald notarius de Mantua_ (_Cod. Dipl. Lang._ —
PORRO — n. 93. a. 818) e _Gisulfus notarius brixianus_ (_Ibid_. — ID. —
n. 270 a. 877).

Vedi anche il placito tenuto a Trento nell'845 (ed. MURATORI. _Antiq.
Ital._, Diss. XXI) dai messi dell'imperatore e del duca Liutfredo;
la «paginam judicati» è stesa da _Grimoaldus notarius civitatis
Tridentine_. Un documento dell'anno 769 (_Cod. Dipl. Lang._ — PORRO
— n. 39) ci fa conoscere anche _Thomas subdiaconus notarius sancte
ticinensis ecclesie._

[395] Non menziono il _receptor_ perchè l'unico esempio di esso (_Cod.
dipl. lang_., ed. TROYA, n. 453; ed. PORRO, col. 16, n. IV, a. 725) è
dovuto ad un errore di lettura e di interpetrazione. Lo SCHIAPARELLI
(in «Archiv. Stor. Ital.» sez. V, to. XLIII, pag. 166, nota 3 e tomo
XLVIII, pag. 196, nota 1) ha dimostrato che l'abbreviatura, che ricorre
anche in altre carte langobarde, è «reg p» e va sicuramente sciolta
«reg(ia) p(otestas)»; il passo relativo del documento citato deve,
quindi, esser restituito «notarius reg(iae) p(otestatis)».

[396] UGHELLI-COLETI. _loc. cit._, V, Col. 711.

[397] HEGEL C. _Storia della costituzione dei municipi italiani_, trad.
Corti. Milano 1861, pag. 881, nota 4.

Però non ne fa alcun uso per lo studio della costituzione cittadina.

[398] LEICHT P. S. _Nobili e popolani in una piccola città dell'alta
Italia_, Rec. al lavoro del PATETTA sullo stesso titolo. Estr.
dall'«Archivio Giuridico», 1904, pag. 6.

[399] MAYER E. _Ital. Verfassungsg. cit._, I, pag. 413.

[400] Il documento parla di _vicarius civitatis_ al tempo langobardo,
mentre le fonti non chiamano mai con simile termine chi è a capo di
una città. Non mi pare azzardato pensare che l'autore della _notitia_,
che scriveva in tempo franco, abbia usato il termine adoperato
dai Franchi, ignorando l'altro. Importante è che sia vero il fatto
della controversia e la sua risoluzione. E questo è sicuro. Anche il
CIPOLLA (_Fonti edite della storia della regione veneta dalla caduta
dell'impero romano fino alla fine del secolo X.º_ in «Monumenti Storici
pubblicati dalla R. Deput. Ven. di Stor. Patr.» vol. VIII. S. IV. vol.
II. Venezia 1888, n. 56 pag. 80) dà conto di questo documento senza
accenno alcuno alla possibilità di un dubbio sulla sua autenticità.

[401] _Cod. Theod_., V, 1, 32, ARCADIO ONORIO EUSEBIO, a. 395.

[402] _Cod. Just._, VIII, 11, 11.

Tracce di questa tripartizione si trovano anche nelle città tedesche di
origine romana.

Nel diploma con il quale nel 1120 Bertoldo duca di Zaringia _in loco
proprii fundi sui Friburc, secundum jura Coloniae liberam constituit
fieri civitatem_ è stabilita la seguente disposizione:

«Quicumque carens herede legitimo friburc moritur, omnia sua bona XXIV
consules diem et annum in sua tenebunt potestate: si autem nullus
heredum suorum venerit, una pars pro remedio animae suae, altera
domino, _tertia dabitur ad munitionem civitatis_. (Cfr. EICHHORN.
_Ueber den Ursprung der städtischen Verfassung in Deutschland_. in
«Zeitschrift für geschicht. Rechtswissenschaft» 1815, II, nota 175). E
Colonia — lo dichiarano apertamente i suoi statuti (Cfr. EICHHORN. loc.
cit., nota 204) — aveva l'_jus italicum_.

[403] Cfr. BORETIUS. _Capit. Reg. Franc._ I. 1. n. 105 pag. 216.

[404] VIII, 11, 10.

[405] UGHELLI-COLETI^2, _loc. cit._, VIII, col. 32.

[406] _Capitulare mantuanum secundum generale_ c. 7. ed. BORETIUS loc.
cit. n. 93 pag. 197.

[407] I Langobardi, dopo la vittoriosa discesa di Carlo Magno,
passarono sotto la corona dei re franchi; ma, come è noto, non
entrarono a far parte del regno e si mantennero separati ed, in
certo grado, autonomi. Dal momento che i capitolari franchi parlano a
questo proposito di _antiqua consuetudo,_ non si può dubitare che essi
attuassero in Italia quel sistema che avevano adoperato i Langobardi.

[408] _Capitula italica_ c. 3. ed. BORETIUS loc. cit. pag. 216.

[409] P. DIACONO. _Hist. Lang._, IV, 29.

[410] Da tutta la narrazione di P. Diacono e dal complesso delle
notizie che abbiamo della conquista langobarda, appare come
cosa eccezionale e dovuta a specialissime condizioni strategiche
l'occupazione del territorio di Cremona fatta dai conti di Bergamo e
di Brescia e si ha quindi una riprova del fatto che i Langobardi come
sistema, si servirono delle divisioni territoriali preesistenti.

[411] SOLMI. _Le diete di Roncaglia cit._

[412] Cfr. BÖHMER. _Regesta Carolinorum_. Frankfurt, 1831 pag. 630.

[413] _Memorie e Documenti per servire all'istoria del ducato di
Lucca._ V. p. II, Lucca 1827, n. 30.

Questo Gaudenzio, ricordato in molti documenti, è detto in uno del 746
(_ibid_., n. 33) _magister_: probabilmente della _schola_ vescovile
lucchese perchè è un chierico che lo chiama così; infatti l'atto dice:
«Ego Perteradus clericus ex dectato _Gaudentio presbitero magister meo
iscripsi_».

[414] Non mi pare che questo concetto sia stato applicato nè dal LIEBE
_G. Die Städte des Mittelalters und die Kirche_ in «Neue Jahrb. für d.
klass. Altertum» 1901, to. VII-VIII, 3.; nè da altri.

[415] Questa mi sembra sia stata la ragione del fatto rilevato già da
tempo (cfr. MURATORI L. A. _Liturgia romana vetus tria sacramentaria
complectens etc_. nella «Raccolta delle opere minori», Napoli, 1760,
to. 11, pag. 2-3) ma non spiegato.

[416] Cfr. _concil. veneticum_ (presso Tours) a. 461, c. 15, ed.
LABBÉ-MANSI. _cit._, vol. IV, col. 1057; _concil. agathense_, a. 506,
c. 30, ibid., IV, col. 1368; _concil. epaonense_, a. 571, c. 27, ibid.,
IV, col. 1570.

[417] Cfr. _concil. gerundense_, a. 517, c. 1. ed. cit., IV, col. 1568;
_concil. toletanum_., IV, a. 633, c. 3, ibid., V, col. 1700; _concil.
bracarense_, I, a. 563, c. 19-23, ibid., V, col. 838.

[418] Cfr. HARNACK. _Die quellen der sogenannten apostolischen
Kirchenordnung_, Leipzig, 1886, pag. 98 e segg.

[419] Cfr. su questo punto DUCHESNE L. _Les origines du culte
chrétien_, Paris, 1902; PHEBEI F. A. _De variis ecclesiae liturgiis et
de liturgia latina_; MABILLON J._ De liturgia gallicana etc._ Lutetiae
Parisiorum, 1685; MIGNE J. P. _Origines et raison de la liturgie
catholique_ etc., Paris, 1844; GERBERT P. M. _De veteri liturgia
alemannica_ in «Novelle letterarie di Firenze», 1763, col. 299, 317,
331, 365, 398, 437, 474 etc.

Per l'Italia ha un certo interesse lo studio di P. CAGIN. _L'euchologie
latine étudiée dans la tradition des formules et des formulaires_,
Liège, 1912, perchè pone acutamente in rilievo l'importanza
del palinsesto latino veronese degli statuti apostolici per le
interpolazioni in esso contenute.

[420] Vedi pag. 45 nota 1.

[421] Vedi pag. 89, specialmente nota 2. A questa forza e a questo
mantenersi di antichi elementi di diritto deve la sua origine il
diritto di cui il BRUNNER (_Urkunde_ cit., pag. 113 e segg. e 124
e segg.) avvertì per primo l'esistenza e che chiamò _diritto romano
volgare_ con un'espressione che discuteremo più avanti.

[422] Cfr. MAGANI F. _L'antica liturgia romana_, Milano, 1909.

[423] Cfr. _Delle antichità longobardico-milanesi illustrate con
dissertazioni dai monaci della congregazione cisterciese di Lombardia_,
Milano, 1793, vol. III, diss. XXV, pag. 1 e segg.

[424] La maggior quantità di notizie si può spigolare dal _Liber
pontificalis_ di Agnello su cui vedi LANZONI F. _Il Liber pontificalis
ravennate_ in «Rivista di Sc. Storiche» diretta da R. Maiocchi, VI,
aprile-giugno 1909 e le _Note marginali al «Liber pontificalis» di
Agnello R._ di A. TESTI-RASPONI nel Vol. XXVI, 1909, XXVII, 1910, e I
della 4. serie 1911 degli «Atti e Memorie della R. Dep. di St. Patr.
per la Romagna».

[425] Cfr. PASTÈ C. R. _Rito eusebiano_ in «Archivio Soc. Vercellese di
St. e d'Arte», Vol. II, 1910 e segg.

[426] Cfr. UCCELLI G. B. _Della badia fiorentina_, Firenze, 1858;
DAVIDSOHN _Storia cit._, I, pag. 56 e segg.; II, pag. 1104 e
_Forschungen_, I, pag. 19 e la bolla di papa Lucio al capitolo
fiorentino (ed. UGHELLI _loc. cit._, to. II, col. 495, a. 1144); e,
sopratutto, _Mores et consuetudines ecclesiae florentinae_, ed. D.
MORENI Firenze, 1794.

[427] Cfr. l'_Ordo officiorum ecclesiae senensis ab Oderico eiusdem
ecclesie canonico a. MCCXIII compositus_, ed. G. C. TROMBELLI, Bologna,
1766.

[428] Cfr. la bolla di Anastasio IV.º del 1153 (ed. UGHELLI _loc.
cit._, III, col. 395); e, sopratutto MATTHEI A. _Ecclesiae pisanae
historia_, Lucca, 1768.

[429] Ecco la parte principale della bolla con cui Gelasio II.º nel
1118 conferma gli antichi usi della chiesa di Lucca (ed. UGHELLI
_loc. cit._, I, col. 819). Petitiones vestras clementer admittimus
et vobis _antiquas ecclesiae matricis consuetudines_ confirmamus; ut
videlicet unctiones infirmorum et sepolturae civitatis propriae ad
matricem ecclesiam pertinentes et officium et participatio beneficii
funerum ad alias ecclesias pertinentium vobis nulla clericorum
calliditate, aut laicorum quorumlibet substrahatur: electiones priorum
et collationes clericorum in aliena ecclesia infra urbem vel extra in
suburbiis sine consensu episcopi et priorum, qui locopositi nominantur,
matricis ecclesiae non fiant. Et nulla episcopatus vestri praeter
eorum consensum alicui subiiciatur ecclesiae, neque publica et majora
negotia aliqua sibi ecclesiarum ipsis invitis arripiat, aut publicas
poenitentias tribuat: nec sententias et interdictum matricis ecclesie
tentet infringere: nulla etiam vestri episcopatus persona sine consensu
episcopi vel priorum qui locopositi nominantur, matricis ecclesiae
excomunicetur et quod ab episcopo ligatum fuerit a nemine irritum duci
tentetur. Sane civitatis vestrae clerici et qui in suburbiis sunt,
solitas obedientias videlicet in litaniis, in processionibus comunibus,
in festivitatibus et stationibus majoris ecclesiae eidem impendant
ecclesiae, ut vobiscum adsint. Porro in quintae feriae nocte ante
pascha nulla ecclesia secundum morem vestrae ecclesiae campanas sonet,
neque in sabbato sancto cereum benedicat, sed ad baptismum praedicti
clerici, prout consuetum est veniant. Nulla praeterea ecclesiarum
missas solemnes celebret in festivitate B. Martini, et S. Reguli et
in secunda feria paschae et in processionibus quadragesimae donec
stationis solvatur conventus. Nullus etiam clericorum officium vivorum
aut mortuorum ad matricem ecclesiam pertinens facere vel celebrare
praesumat.

[430] Cfr. i documenti editi dall'UGHELLI _loc. cit._, III, col. 282 e
segg.

[431] Cfr. ID. _ibid._, II, col. 194 e segg. ed anche CAMPI _loc.
cit._, passim.

[432] Cfr. _Statuta ecclesiae parmensis_ ed. _Barbieri L._ nei «Mon.
Hist. ad prov. parm. et plac. pertinentia», Parma, 1866.

[433] Cfr. MURATORI. _Liturgia cit._, pag. 61 e segg.

[434] Cfr. UGHELLI _loc. cit._, II, col. 3 e segg.

[435] Cfr. l'_Ordo totius officii ecclesie paduane per totum circulum
anni secundum diversorum temporum mutationes_ illustrato da F. S. DONDI
OROLOGIO (_Dissertazione sopra li riti della chiesa di Padova fino
al secolo XIV_, Padova, 1816) che lo ritiene scritto fra il 1261 e il
1263.

[436] Il TAMASSIA quando si è proposto di dimostrare l'attività del
popolo appartenente ad una circoscrizione ecclesiastica in alcuni fatti
che presuppongono in esso qualche cosa che lo avvicina ad una persona
giuridica, almeno per l'istante in cui l'atto si compie (_Chiesa e
popolo_. Note per la storia dell'Italia precomunale, in «Archivio
Giurid. F. Serafini» N. S., Vol. VII, fasc. 2, a. 1901, pag. 300-322)
ha, veramente, dimostrato di sentire che un'indagine sulla costituzione
delle nostre città deve tenere in massimo conto la chiesa locale e
non può assolutamente prescindere dalla storia delle diocesi e delle
parrocchie italiane, ma avendo di mira altro scopo, non è andato più in
là dell'enunciazione del concetto.

A noi non interessa conoscere come il cristianesimo si sia diffuso.
(Cfr. per questo HARNACK A. _Die Mission und Ausbreitung des
Kristentums in den ersten drei Jahrhunderten_, Leipzig, 1902; NEGRI
G. _Una figura storica nel cristianesimo nascente_ in «Meditazioni
vagabonde» Milano, 1897, pag. 227 e segg.; DUCHESNE _Histoire ancienne
de l'église_, Paris, 1906, Vol. I; FEDERICI V. _Della primitiva
propagazione del cristianesimo_ in «Rassegna Nazionale», 1906, fasc.
3; SEMERIA G. _Venticinque anni del cristianesimo nascente_, Roma,
1900; BELGRANO L. T. _I primordi del cristianesimo in Piemonte e in
particolare a Tortona_ in «Bibliot. d. Società Stor. Subalpina», Vol.
XXXII, p. I, Pinerolo, 1905; FERRETTO A. _I primordi e lo sviluppo del
cristianesimo in Liguria ed in particolare a Genova_ in «Atti della
Società ligure di stor. patria», Vol. XXXIX, Genova, 1907, pag. 171 e
segg.; PASCHINI P. _Le origini della chiesa di Aquileia_ in «Riv. per
le scienze storiche» 1904. fasc. 1-4; P. M. da CARBONARA e F. SAVIO
_S. Marziano e le origini della diocesi di Tortona_, Alessandria,
1903; ZATTONI G. _Il valore storico della passio di S. Apollinare_
in «Riv. Stor. Critica delle sc. teolog.», II, fasc. 9, sett., 1906;
BOGGIO E. _Le prime chiese cristiane nel Canavese_ in «Atti della
soc. d'archeolog. e belle arti per la prov. di Torino», Vol. V,
1887); ma, invece, come si è organizzato e la scelta delle fonti deve
esser fatta tenendo presente lo svolgimento di questa organizzazione.
Sebbene, infatti, fino dagli ultimi anni del primo secolo dopo Cristo
cominciassero ad apparire segni palesi di un profondo cambiamento nel
sentimento religioso del tempo e si andasse maturando una tendenza di
conciliazione fra il paganesimo ed il cristianesimo (cfr. BAUR _loc.
cit._) occorsero ancora due secoli, rotti non infrequentemente da
sanguinose persecuzioni (cfr. DUCHESNE L. _Storia della chiesa antica_,
Vol. I, cap. XIII, XIV pag. 119 e 149; XIX, pag. 197-212; XXVII pag.
292-310; Vol. II, cap. I, pag. 9-38), prima che quest'ultimo fosse
ufficialmente tollerato (cfr. CRIVELLUCCI A. _Storia delle relazioni
fra lo Stato e la Chiesa_, Vol. I, Bologna 1886, pag. 107). Nè con
questo riconoscimento, che pure segnò un gran passo innanzi, la via
fu spianata: dovette trascorrere più che una settantina d'anni, non
esente da qualche violento tentativo di ripristino (cfr. DUCHESNE _loc.
cit._, II, cap. IX, pag. 178 e segg. e NEGRI G. _Giuliano l'apostata_
in «_Nel passato e nel presente_», Milano, 1891), prima che Graziano
rifiutasse nel 375 il titolo di pontefice massimo, portato da tutti i
suoi predecessori; e solo cinque anni dopo, nel 380, il cristianesimo
fu dichiarato religione ufficiale dello Stato; (cfr. Stutz loc. cit.,
pag. 17; e CRIVELLUCCI _loc. cit._, I, pag. 316) e soltanto a poco a
poco, con stenti, con fatiche e con incertezze, i vescovi riuscirono
ad ottenere la giurisdizione arbitrale ed ecclesiastica, il diritto
di asilo e di intercessione e tutte le altre prerogative che ne fecero
veri e proprî organi dello Stato.

[437] _Cod. dipl. long._, TROYA. n. 771, a. 753, febbr. 10.

[438] Cfr. HEGEL C. _Storia della costituzione dei municipi italiani_,
trad. Conti, Milano-Torino, 1861, pag. 344; LEICHT P. S. _Studi cit._,
I, pag. 11 e segg.; MAYER E. _Ital. Verfassung. cit._, II, pag. 432 e
segg.

[439] Su alcune caratteristiche del diritto di regalia cfr. SOLMI A.
_Diete di Roncaglia cit._, pag. 36 e segg.

[440] È una sentenza dei consoli di Milano riportata in parte da F.
BERLAN. _Le due edizioni milanese e torinese delle consuetudini di
Milano dell'anno 1216_, Venezia, 1872, pag. 154.

.... prefatus Gigottus condempnavit predictos consules tam nobilium
quam rusticorum de suprascripto loco Vellate, suo nomine et nomine
omnium hominum ipsius loci, tam nobilium quam rusticorum, ne de cetero
impediant massarios ecclesie S. Marie Montis, habitantes in territorio
de Vellate, ubi dicitur in Vigni, pascuare in pascuis sive vicanalibus
loci de Vellate cum bubus et bestiis suis, sicut alii vicini loci de
Vellate faciunt.

[441] SCHUPFER F. _Diritto privato cit._, II, pag. 54 e LEICHT P. S.
_Studi cit.,_ I, pag. 37-88.

[442] Praeterea in locis, quae sunt de districtu, illud obtinet quod
_viganalia_ per consensum dominorum et vicinorum debent dividi vel
vendi; quod alias fieri non potest, nisi dominorum omnium et vicinorum
consensu _Communia_ taliter inter dominos et vicinos dividuntur ut
medietas terrarum omnium vel pretii illarum omnium viganalium vel
fructuum, si forte vendantur, ad dominum cuius est totum districtum,
iure nostrae civitatis, assignatur; alterius vero medietatis partem
accipit pro parte terrarum, quas in ipso loco habet. Si vero totum
districtum non habet, sed partem, secundum partem sui districti, iure
districti, de praedictis viganalibus partem conseguitur, et de alio
quod remanet, pro numero terrarum ut dictum est.

Cfr. BERLAN F. _Le due edizioni milanese e torinese delle consuetudini
di Milano cit._ rubr. XXIV, pag. 254.

L'edizione del Berlan è la migliore: cfr. LATTES A. _Il dir. consuetud.
cit._, pag. 33, nota 95.

[443] Per un'applicazione di questo concetto cfr. LEICHT P. S.
_Ricerche sulla responsabilità del Comune in caso di danno_, Udine,
1904.

[444] Anche il MAYER (_Ital. Verfassungsg. cit._, Vol. I, pag. 281 e
segg.) ritiene che fino dal tempo langobardo esistano e si differenzino
_comunalia_ e _vicanalia_ e che i primi sieno i beni su cui gli
abitanti della città vantavano diritti di uso di natura pubblica,
indipendenti da qualsiasi rapporto di diritto privato; mentre i
_vicanalia_ sarebbero delle terre gravate di oneri a favore di altre
terre in quanto ne costituivano delle pertinenze, rimaste indivise
fra i vari fondi per volontà dei proprietarî. I _comunalia_ furono
rivendicati in proprietà dai comunisti cittadini assai presto; i
_vicanalia_ giunsero ad essere dei _comunalia_ attraverso ad uno stadio
intermedio, nel quale i _vicini_ riuscirono abusivamente a carpire un
diritto di condominio ai _domini._

Prima di tutto non è esatto parlare di _comunalia_ solo a proposito
della città. Senza punto entrare a discutere l'opinione del Mayer sulla
natura giuridica dei beni comuni cittadini, si può osservare che le
consuetudini milanesi, che costituiscono il testo su cui s'impernia
la sua asserzione, parlano di _comunalia_ a proposito di _locus_.
E il _locus_, a detta del Mayer stesso, non è affatto la città. Ma
anche ammettendo che la parola ne abbia tradito il pensiero, la sua
opinione non è fondata perchè manca di un'indagine indispensabile per
poter giungere alla conclusione che egli sostiene. Bisognava, cioè,
dimostrare che i _domini_ di cui parlano le Consuetudini Milanesi sono
dei _domini_ di diritto privato, dei semplici proprietarî e non dei
titolari di facoltà giurisdizionali. E questo non lo ha fatto: nè lo
poteva fare. A togliere ogni dubbio a questo riguardo ed a dimostrare
il carattere giurisdizionale che contraddistingue questi _domini_,
non c'è niente di meglio che riportare alcuni passi della _rubrica de
oneribus et districtis et conditionibus_, che è proprio quella stessa
in cui è contenuta la disposizione concernente i _vicanalia_ e che dal
titolo stesso dimostra la natura pubblica del diritto signorile.

«Amplius si eiusdem loci plures sint domini licet inter ipsos
districtabilium praesumatur facta divisio, unus, etiam invitis
coeteris socijs quanquam minimam partem in eo loco districti habent
omnes districtabiles compellere potest, ut Castrum reficiant, et murum
et fossatum et portinarium ponant ad guajtam, et sgieraguajtam, et
fossatum circa Castrum et Villam, et portas, et clavaturas ferreas
et in Villa, et Castro, et in eo incastellent quia tale onus utpote
individuum ab hominibus districtalibus fieri debet et per quemlibet
dominorum posse postulari Sapientes nostra Civitatis crediderunt.

Porro, quod est notabilius, nostra Consuetudine obtentum invenitur,
ut si plures dominorum suos districtabiles tam in Castro quam in
Villa ab omni onere districti liberaverint, alter, qui eos non
liberavit, potest eos cogere tam suos quam ab aliis dominis liberatos
ad reficiendum castrum. Sed, et quod est mirabilius, si omnes domini
qui suos districtabiles divisim possidebant eos liberaverint ab omni
onere districti licet nullos dominorum illum quem liberavit possit
ad reficiendum castrum compellere, tamen poterit ab altero dominorum
liberatus coartari ad reficiendum quod per nostram consuetudine
obtinet. Ut si plures domini suos districtabiles ab omni onere
districti liberaverunt, alter qui eos non liberavit poterit cogere
eos tam suos quam ab alijs dominis liberatos ad pondera stateras et
mensuras recipiendas per eum seu ab eo quia hoc jus, et reficiendi
castrum in communi remansisse creditur, nisi vel regionibus Castrum
inter dominos, et refetio eiusdem in divisione venerit quod raro
accidit».

Esistevano, senza dubbio, dei _domini_ per diritto privato; ma
sicuramente non erano questi, che godevano di facoltà pubbliche di tale
natura.

Secondo il mio pensiero, al tempo langobardo le terre comuni si
distinguevano in terre comuni di diritto privato e terre comuni di
diritto pubblico e queste ultime potevano essere comuni rispetto al
_comitatus_ (cfr. doc. citato dal LEICHT _Studi cit._, I, pag. 51)
rispetto alla città, rispetto al _locus_, rispetto al _vicus_, rispetto
al _concilium_ e rispetto ad un determinato gruppo gentilizio. Queste
ultime soltanto propendo a ritenere col BESTA (_Nuovi appunti di storia
giuridica sui documenti lucchesi cit._) che sieno sorte all'epoca e per
opera dei Langobardi e costituiscano le famose _fiwaide_.

[445] DALLARI G. _Intorno all'evoluzione della proprietà_ in «Riv.
ital. di sociologia», a. XIII. fase. 1, pag. 17 e segg.

[446] a. 1178. Johannes causidicus, assessor domini Archiepiscopi,
precipit per eius parabolam ut de cetero ipse Johannes eiusque
successores utatur de vigano seu communi prenominati loci sive sit
tensatum sive non, sicut alius vicinus de ipso loco utitur ipso communi
et vigano.

Cfr. PURICELLI, _loc. cit._ pag. 1003.

[447] a. 1189, marzo 7. dederunt... omnia sedimina cum hedifitiis eorum
campos, vineas, silvas, buscos, zerbos, communiantias seu viganalia,
atque omnes res cultas et incultas...

Cfr. FRISI A. F. _Memorie storiche di Monza e sua corte._ Milano, 1794,
to. II, _Codice diplomatico_, n. 78, pag. 73-74.

[448] Cfr. LATTES A. _Il dir. consuetudinario delle città lombarde
cit._ pag. 32 e segg.

[449] Cfr. _Statuti di Milano_ (vol. II, carte 159^t-160). Aliquae
Communantiae, Vicanalia, vel Pascua, vel Bona aliqua immobilia vel Jura
aquarum Civitatis et Ducatus Mediolani, vel alicuius Universitatis,
quae etiam praesentibus Statutis ligetur, non possint ab aliqua
singulari persona vel Universitate vendi, alienari, nec obligari...
Et si fructus vel redditus dictarum Vicanalium, vel Communantiarum,
vel Pascuum vel Bonorum ipsius Universitatis, venderentur, vel
compartirentur, detur sua pars cuilibet habenti facere in eis. (DAL
BERLAN, _loc. cit._, pag. 153).

[450] a. 1094. 8 dec. sunt tam campis quam pratis, pascuis, vineis
et silvis seu stellariis cum areis earum cultis et incultis, divisis
et indivisis, usibus aquarum aquarumque ductibus seu cum _vicanalibus
atque conciliis_ atque ecclesiis et capellis et rebus una cum omnibus
condiciis et redditibus et honoribus ad iam dictas res.

VIGNATI C. _Cod. dipl. laudense cit._ I, n. 49, pag. 77.

[451] Cfr. ATHANASII. _Apologia contra arianos_, in _Opera omnia_,
Parisiis, 1698, I, 1, pag. 124: universae eius loci ecclesiae episcopo
subiaceant: ita tamen ut _singuli pagi_ suos presbyteros habeant.

[452] Cfr. _Cod. dipl. long_. PORRO, n. 171, a. 851, col. 292.

[453] Cfr. _ibid_. n. 519, a. 926, col. 886.

[454] Cfr. _ibid_. n. 497, a. 922, col. 856.

[455] Cfr. _ibid_. n. 617, a. 956, col. 1055.

[456] Cfr. _ibid_. n. 661, a. 962, col. 1141.

[457] _Roth._ 79.

[458] LEICHT. _Studi cit._, Vol. I. pag. ...

[459] Cfr. _loc._ ed _ed. cit._, pag. 16. Per pagos id est per
magistros pagorum operas a possessoribus ad eas (vias) tuendas exigere
soliti sunt.

[460] _Cod. Theod._, VII, 20, 2; e le citazioni riportate da Gotofredo
nel commento a queste leggi e nelle altre indicate nell'indice sotto q.
voce.

Si chiamavano anche _parochi._

Proxima Campano ponti quae villula tectum. Praebuit et _parochi_ quae
_debet ligna salemque_. Dice ORAZIO _Satyr._, V, 45, ed anche altrove
conferma che _parochi_ dicuntur qui _hospitibus et peregrinis publice
exhibent necessaria._

Qualche volta (cfr. _Cod. Theod._, II, 29, 1) son detti anche
_praepositi pagorum._

[461] _Capitulare mantuanum secundum generale_ c. 3., ed. BORETIUS cit.
n. 93, pag. 196.

[462] Cfr. _Capitul. Pippini Italiae regis_ a. 782-86 (ed. BORETIUS
cit., n. 91, pag. 191), c. 1.

[463] Cfr. MOMMSEN T. _Droit public romain_, to. VI, p. I, pag. 134,
trad. Girard, Paris, 1889; e VOIGT, _loc. cit._, pag. 156 e segg.

[464] Cfr. i passi riportati sotto queste voci dal FORCELLINI nel suo
_Lexicon_.

[465] Cfr. TIBULLO. _Elegie_, II, 1.

[466] SICULO FLACCO. _De condit. agror. cit. (ed cit._, pag. 164-65)
dice: Sed et pagi saepe significanter finiuntur. De quibus non puto
quaestionem futuram quorum territoriorum ipsi pagi sint, sed quatenus
territoria. Quod tamen intellegi potest vel ex hoc magistri pagorum
quod pagus lustrare soliti sunt; ut intueamur quatenus lustrent.

[467] Cfr. DUCHESNE L. _Les origines du culte chrétien, cit._ pag.
287-89, cap. 8, § 5, n. 9.

[468] Fu San Paolino da Nola che sagacemente pensò di utilizzare per il
culto cristiano le campane che prima avevano adoperato i pagani.

Cfr. a questo proposito le vecchie ma buone osservazioni di FERRARII B.
_De ritu sacrarum ecclesiae veteris concionum_, Ultrajecti, 1692, pag.
85.

[469] Cfr. MURATORI, _Anecdota cit._, I, pag. 18, comm. al v. 169 dei
Natale XI di S. Paolino di Nola.

[470] A Roma il giorno consacrato era il 25 aprile, data tradizionale
nella quale gli antichi Romani celebravano la festa dei _Robigalia_.
Il rito principale di essa era una processione che uscendo dalla città
per la via Flaminia si dirigeva verso il ponte Milvio, poi si portava
sino ad un santuario suburbano situato a qualche distanza, fino al
quinto miglio sulla via Claudia (cfr. Ovidio. Fasti, IV, 901). Il
_Flamen quirinalis_ immolava in questo tempio un cane e un montone. La
processione cristiana che le fu sostituita seguiva lo stesso percorso
fino al ponte Milvio; partiva dalla chiesa di S. Lorenzo in Lucina, la
più vicina alla porta Flaminia, faceva stazione a S. Valentino fuori
delle mura; poi al ponte Milvio. Di qui, invece di incamminarsi sulla
via claudia, volgeva a sinistra verso il Vaticano; si fermava ad una
croce di cui l'ubicazione non è specificata e poi nell'atrio di S.
Pietro ed infine entro questa chiesa, dove aveva luogo la stazione.

Se ne ha ricordo fino dal 598 (cfr. IAFFÈ 1153. _Ep._, app. 3).

Queste le testuali parole del DUCHESNE (_loc. cit._) il quale aggiunge
anche la spiegazione del perchè le feste cristiane si celebravano nelle
stesse epoche di quelle pagane.

Roma ci offre un esempio tipico per la limpidezza del fatto e
l'antichità dell'epoca; ma il fenomeno è generale ed avremo occasione
di parlarne più distesamente fra poco.

[471] Su ciò ho accennato qualche cosa nel § 5 della prima parte (pag.
20 e segg.); a proposito dei Flamini vedi il commento di Gotofredo alle
leggi 21, 46, 60, 75, 77, 148, 166 _De decur._ e il _paratitlon_ in
tit. _De paganis sacris et templ._; di cui (se non mi inganno) nè il
Mommsen nè il Marquardt hanno saputo trarre vantaggio.

[472] S. AMBROGIO. (_Opera omnia_ ed. G. DI FRISCE e N. LE NOURRI
1686-90, Ep. V, 30) chiama S. Damaso _romanae ecclesiae sacerdos_ e
nello stesso senso usano questa parola S. PAOLINO DA NOLA (_Natale_,
XIII, V. 568 in MURATORI _Anecdota cit._, I. pag. 102) e S. LEONE M.
(_Ep._, X, 6 e JAFFÈ _Reg. cit._, n. 407) imitando le leggi romane
(cfr. _Cod. Theod._, XII, 1, 148... ordinando _sacerdote provinciae_);
e l'uso continua fino al secolo decimoprimo.

[473] Cfr. il can. 6 del concilio ticinense dell'850 (ed. cit. XIV,
col. 931).

Oportet plebium archipresbyteri per singulos unumquemque patrem
familias conveniant, quatenus tam ipsi quam omnes in eorum domibus
commorantes, qui publice crimina perpetrarunt, publice poeniteant;
qui vero occulte deliquerunt, illis confiteantur quos episcopi et
plebium archipresbyteri idoneos ad secretiora vulnera mentium medicos
eligerint, qui si forsan in aliquo dubitaverint, episcoporum suorum non
dissimulent implorare sententiam. _Similiter autem et singulis urbium
vicis et suburbanis per municipalem archipresbyterum_ et reliquos ex
presbyteris strenuos ministros procuret episcopus.

[474] Risale ai primissimi tempi della chiesa: fu formulato rigidamente
in un canone di un concilio aquisgranense e di qui riportato da
Burcardo (III, 3). Cfr. MURATORI. _Antiq. Ital._, Diss. LXXIV, col.
408.

[475] Vedi i canoni dei concilî e le altre disposizioni riportate dal
LUPI. _De Parrochiis cit._, pag. 59-60; 97, 192, ecc.

[476] GREGORII TURONENSIS. _In gloria confessorum cit._, c. 56.
Securinum presbyterum diebus dominicis singulis in ecclesiis duabus
quae viginti millibus distarent inter se missas celebrasse.

[477] LUPI. _Cod. dipl. cit._, I, col. 362-63: E son da vedere anche
le buone osservazioni di A. ABATI OLIVIERI. _Memorie di Gnara, terra
del contado di Pesaro_, Bologna, 1777, pag. 43 e segg. e di G. COLUCCI.
_Treia, antica città picena oggi Monteschio_, Macerata, 1780, pag.
183-84.

[478] _Cod. dip. long._, TROYA n. 446.

Nel 724 specioso, vescovo di Firenze dona al capitolo della sua
chiesa la propria corte e le altre cose poste _in loco Greve ubi et
Cintoria nominatur infra plebe et episcopio beati Joannis Baptiste
vel Reparate_, unde ego episcopus esse ideor, seu _infra plebe et
territorio sancti Iuliani sito Septimo._

Il MURATORI (_Antiq. Ital._, diss. VI) pubblica un placito tenuto nel
comitato aretino _in loco Piscinate infra plebem sancti Stephani;_ nel
diploma dell'879 (cfr. PASQUI. _Docti cit._, n. 16). Carlo il Grosso
prende sotto la sua speciale protezione la chiesa aretina «cum omnibus
_ecclesiis baptismalibus ac titulis_».

Nei primi del secolo decimoprimo il vescovo di Torino Landolfo
(1030-1038) concede la pieve di S. Pietro di Gassino _cum titulis
quatuor_ (cfr. «Mon. Hist. Patr.», _Cartharum_, I, n. 519).

Da un documento dell'803 (ed. TIRABOSCHI G. _Memorie modenesi_, I,
cod. dipl., n. XVIII) appare che il _locus Colegaria_ era costituito
da sei decanie. L'imperatore Lotario nel suo diploma dell'833 alla
chiesa di Aquileia (MURATORI Diss. 70) parla di _ecclesias parochiales_
AC _titulos earum_. In altro documento dell'844 (ed. TIRABOSCHI _loc.
cit._, I, cod. dipl. n. XXIV) è ricordato il _salto bonetia in loco ubi
dicitur vico longo sito in plebe sancti Stephani_. Cfr. anche PÖHL A.
_Bischoffgut und Mensa episcopalis_, Bonn, 1911-12.

[479] Il LUPI (_Cod. dipl. berg. cit._, I, col. 262-63) ha dimostrato
che il nome di _ecclesia_ servì ad indicare le sole chiese cattedrali
e plebane rurali, mentre le altre chiese furono dette _basilicae_ ed
_oratorie_ e, più tardi, _capellae_.

Il concilio di Pavia dell'850 (ed. PERTZ in «Mon. Germ. Hist.» _Leges_,
III, pag. 397) stabilisce al can. 13 che _sicut episcopus matrici
preest, ita singuli plebibus archipresbyteros preesse volumus qui
imperiti vulgi sollicitudinem gerant et presbyterorum qui per minores
titulos habitant, vitam jugi circumspectione custodiant_.

E. HACHT (_Die Grundlegung der Kirchenverfassung Westeuropas_, Giessen,
1888, pag. 50-51) ritenne che l'istituzione delle pievi rurali sia
dovuta a questa disposizione; ma fin da un secolo circa prima di lui,
il nostro LUPI aveva dimostrato con un lavoro poderoso e geniale,
degno in tutto e per tutto della dissertazione — tanto lodata, e
giustamente, dal Savigny — premessa al codice diplomatico bergomense,
che esse risalgono indiscutibilmente ad una remota antichità. Cfr. _De
parrocchiis cit._, dissert. I. passim e specialmente cap. 5, 6, 7.

La ragione delle disposizioni emanate dai due concilî pavesi si deve
ricercare nel bisogno di rinsaldare le istituzioni ecclesiastiche,
che non potevano non risentire lo sgretolamento che preparava e
caratterizzava il feudo.

Vedine un rapido accenno a pag 83-84.

[480] Cfr. MAZZI A. _Note suburbane cit_. pag. 168.

[481] Cfr. nota 2 pag. 165.

[482] Cfr. il diploma del 1015 (ed. MURATORI. _Antiq. Ital._, Diss.
LXXIV) con il quale Enrico III concede a Marciano vescovo di Mantova
tutte le chiese battesimali della sua diocesi a cominciare dalla
_plebem mantuane civitatis_, che è ricordata anche nel diploma di
conferma del 1055 (Cfr. Id. _ibid_.).

[483] Cfr. LUPI _Cod. dipl. berg. cit._, II. col. 745-46, a. 1084 «...
basilica et _plebe sancti Alexandri et sancti Vincentii que est de
civitate Bergomi_».

Cfr. anche LUPI _De parrocchiis cit._, pag. 147 e segg. e MAZZI
A. _Studi bergomensi_, Bergamo, 1888, pag. 90-91 e MAZZI A. _Note
suburbane_, Bergamo, 1892, pag. 169-70.

[484] Cfr. la bolla di papa Niccolò II al capitolo dei canonici di
Sovana del 27 aprile 1061 (ed. MURATORI. _Antiq. Ital._, Diss. LXII)
nella quale si ricorda «Sigizo presbytero olim custos de _plebe in urbe
posita_», e il docto dell'850 edito dall'Ughelli, _loc. cit._, Vol. V,
col. 720-721.

[485] Cfr. il doc. dell'864 cit. a pag. 178 nota 2.

[486] Ecco un bellissimo passo di Amulone eletto vescovo di Lione
nell'anno 840 che specifica i varî attributi della pieve completando il
quadro offertoci dalla disposizione del concilio di Pavia riportata a
pag. 84 in nota.

Unaquaeque plebs in parroechiis et ecclesiis, quibus attributa est,
quieta consistat, ubi sacrum baptisma accipit, ubi sanguinem et
corpus Domini percipit, ubi missarum solemnia audire consuevit, ubi
a sacerdote suo poenitentiam de reatu, visitationem in infermitate,
sepulturam in morte consequitur, ubi etiam decimas et primitias suas
offerre praecipitur, ubi filios suos baptismati gratia initiari
gratulatur, ubi verbum Dei assidue audit, et agenda ac non agenda
cognoscit, illuc vota et oblationes suas alacriter perferat, ibi
orationes et supplicationes suas Domino effundat, ibi suffragia
sanctorum quaerat. ... Ibi itaque unaquaeque plebs pupillis et viduis
pauperibus et peregrinis de facultatibus quas Deus tribuit elemosinarum
largitionem exibeat, hospitalitatis officia impendat..... Haec est
enim legitima et ecclesiastica religionis forma, haec antiqua fidelium
consuetudo.

AMULONIS ARCHIEP. LUGDUNENSIS _Epistola I ad Theodboldum episcop.
lingonensem_. in «DE LA BIGNE _M. Maxima bibliotheca veterum patrum et
antiquorum scriptorum ecclesiasticorum_, Vol. XIV, Lugduni, 1677, pag.
331.

[487] Cfr. _Concil. agathense_, c. 21, ed. cit., Vol. IV, col. 1386.

[488] _Ibid_.

[489] Cfr. _Concil. antisiodor._ c. 3.

Non licere conventus in domibus propriis vel vigilias in festivitatibus
sanctorum facere

Su queste vigilie cfr. DUCHESNE, _Les origines cit_., pag. 230 e segg.

[490] In domibus ab episcopis sive presbyteris oblationes celebrare
nullatenus licet, dice papa Felice IV (a. 530, riportato nel DECRETO DI
GRAZIANO, _De consecratione_, D. I, c. 11) confermato da Gregorio Magno
che proibisce rigorosamente «missas publicas ab episcopo in coenobio
fieri.» (Cfr. _loc. cit. Epp_., II, 41).

[491] Satius est missam non cantare aut non audire quam in illis locis
ubi fieri non oportet, stabilisce il Decreto di papa Felice IV (a. 530)
riportato anch'esso nel DECRETO DI GRAZIANO (_De consecratione_, dist.
I, cap. 11).

[492] In dominicis diebus (stabilisce il c. 1, del Concil. Nanetense)
vel festis antequam missam celebrent, plebem interrogent, si alienus
parochianus in ecclesia sit, qui proprio contempto presbytero, ibi
missam velit audire.

Cfr. LUPI, _De parrochiis cit._, pag. 206.

[493] A Brescia erano vicinissimi alla città la corte di Cerropinto ed
i beni spettanti _ad curtem nostram publicam vel ad curtem ducalem_,
donati dal re Desiderio al monastero di S. Salvatore (cfr. _Cod. Dipl.
Long._ — TROYA — n. 727, a. 759 e n. 878, a. 767, su quest'ultimo vedi
anche quanto è stato detto a pag. 87,) e le altre terre tutte rimaste
alla pubblica autorità, come si rileva dal noto documento del 1037 nel
quale si dice _Monte Digno et Castenedolo sunt de foris muro ipsius
civitatis_, (cfr. GRADONICUS, _loc. cit._, pag. 159, e segg.).

A Cremona le selve che gli imperatori avevan concesse al vescovo e
sulle quali i cittadini vantavano ed esercitavano larghi diritti di
uso sono dette _in circuito civiatis_, (cfr. Diploma di Corrado I ai
cremonesi dell'a. _ed._ e _loc. cit._).

Lo stesso è a Lodi: nell'atto del 1142 con il quale il vescovo dà in
pegno tutte le rendite del patrimonio del vescovado si ricordano le
biade e i prati per due miglia intorno alla città. Cfr. _Cod. dipl.
laud. cit_., (ed. VIGNATI, n. 108, pag. 137-39).

A Pisa dal diploma di Enrico IV (ed. STUMPF _Die Kaiserurkunden
cit._, n. 4745) si sa di «terras que fuere _pascua_ vel paludes...
et _communia pascua_... in civitate vel _prope eam_ usque ad medium
miliarium».

Per Bergamo e per la generalità di questo fatto vedi MAZZI A. _Note
suburbane cit._, pag. 27 e segg.

[494] Tale è il caso della cappella di S. Grata a Bergamo secondo un
documento del 1176 con cui il vescovo Guala ne definisce i confini.

Cfr. MAZZI A. _Note suburbane cit_., pag. 142-43.

[495] Cfr. il doc. del 783 ed. dal MURATORI. _Antiq. Ital._, Diss.
LXXIV.

[496] LUPI. _Cod. dipl. cit._, II, col. 1087 e 1373.

[497] a. 899 gen. in «Monum. Hist. Patr.», Chart. I, n. 54, col. 89-91.
E la stessa formula è ripetuta nella donazione del vescovo Audace del
marzo del 905: cfr. _ibid_. I, n. 66, col. 111-13.

[498] ODORICI, _loc. cit._, VI, 30 e MAZZI. _Note suburbane cit._, pag.
170 e 184-85.

[499] LUPI. _Cod. dipl. bergom. cit._, I, col. 1185-86.

[500] Cfr. TROMBELLI G. C. _De cultu sanctorum dissertationes decem_,
Bologna, 1740, Vol. I, p. 2, Diss. VI, pag. 101 e segg.

[501] Cfr. DE ROSSI E. _Roma sotterranea cit._, I, pag. 129-30 e
_Bullett. Archeolog. crist. cit._, s. II, a. 5, pag. 150 e segg.

[502] _Dig_. XI, 7, 39.

[503] Cfr. il _Natale XI di S. Paolino da Nola_, v. 131, ed. cit.

[504] Cfr. PASCHINI. _Note cit._, pag. 15.

[505] Cfr. LUPI. _De Parrochiis cit._, pag. 185-86. L'idea prima
dell'altare è appunto quella di essere eretto sopra le ossa di un
santo.

[506] Vedi il commento del MURATORI, al _Natale XI e XIII di S. Paolino
da Nola_ nel Vol. I degli _Anecdota cit.;_ e _Delle Antichità longob.
milan. cit._, Diss. XIX, Vol. III, pag. 77 e 195.

[507] Cfr. S. AGOSTINO. _Ep_. 121. In oratorio praeter orandi et
psallendi cultum penitus agatur. Cfr. anche l'_ep_. 109.

[508] Cfr. DUCHESNE. _Origines cit_., pag. 283-84.

[509] Cfr. i passi respettivi (_In Hex._ III, 5 e _Confess_. IX, 6 e
X, 33) cit. nelle _Dissertaz. longob. milan_. _cit_., Diss. XXX, n. 17,
Vol. III, pag. 347-48.

[510] De vasis vero fusilibus vel etiam productilibus, quae simpliciter
signa vocantur, quia eorum sonoritate quibusdam pulsis excitata
significantur horae, quibus in domo Dei statuta celebrantur officia;
de his inquam, hic dicendum videtur, quod eorum usus non adeo apud
antiquos habitus proditur, quia nec tam multiplex apud eos conventuum
assiduitas, ut modo est, habebatur: apud alios enim devotio sola
cogebat ad statutas horas concurrere; alii _praenuntiationibus publicis
invitabantur et in una celebritate proxime futuram discebant._

WALAFRIDO STRABONE. _De officiis divinis sive de exordiis et
incrementis rerum ecclesiasticarum_ nello «Speculum antiquae
devotionis» del COHLÈE, Mons, 1549, c. 5.

[511] AMULONIS ARCHIEP. LUGDUN. _Epist_. I, _ad Theodboldum episc_. in
DE LA BIGNE, _loc. cit._, pag. 331-32.

Si votum et desiderium est populorum fidelium, diversorum martirum et
ceterorum sanctorum limina suppliciter frequentare, sunt dies certi
et legitimi, quibus id, iuxta antiquam ecclesiae observantiam, devote
exercere conveniat; tempore videlicet generalium rogationum, et pro
diversis tribulationibus et necessitatibus indictarum litaniarum,
seu quadragesimalium ieiuniorum, sive etiam in vigiliis et natalitiis
martirum. Quae omnia et ex universali ecclesiae lege descendunt, et
sacerdotum praedicatione ac denuntiatione commendantur, et omnium
fidelium obedientia et pietate attentius observanda sunt.

Fino dal secolo quarto, a detta di Teodoreto, i cristiani si recavano
agli oratorî dei martiri «non semel, bisve, aut quinquies quotannis sed
frequenter».

Cfr. LUPI _De parrochiis_ cit., pag. 226-27.

[512] Cfr. _Delle antichità long. milanesi cit_., to. I, diss. V.

[513] Cfr. MABILLON. _Praefationes in Acta Sanctorum ordinis S.
Benedicti, Praef. ad. sec. II_, § 42, obs. 7.

[514] Cfr. NITTI DI VITO F. _Di un'iscrizione reliquiaria anteriore al
1000_, Estr. dall'«Arch. Stor. Ital.» s. V, to. XII, a. 1893.

[515] _Sanctorum reliquiae in villaribus oratoriis non deponantur_
stabilisce il c. 25 del concilio epaonense del 617 _ed. cit._, IV, col.
1679.

[516] Il primo e più antico esempio ci è offerto dal _Liber
Pontificalis_ da cui si apprende che S. Simplicio, che pontificò nella
seconda metà del secolo quinto (460-483), stabilì presso la chiesa di
S. Pietro un turno settimanale affinchè vi fossero sempre dei preti per
accogliere i penitenti e somministrare il battesimo — «costituit ad S.
Petrum... ebdomadam, ut presbyteri manerent ibi propter poenitentes et
baptismum» — (ed. DUCHESNE, _cit._, pag. 126).

Tale esempio, però, non deve esser preso proprio come prototipo perchè
Roma ha una costituzione ecclesiastica tutt'affatto speciale.

[517] A. 864 dec. Manifesta causa est mihi Grecorii venerabilis
_presbiter de hordine sancte mediolanensis ecclesie_... ut rebus
omnibus.. quas habere... viso sum in vico et fundo Ueniaco... deveniat
integrum in iura et potestatem de _presbiteris decomanis, qui pro
tempore Officiales fuerint in ecclesia beati_ Cristi confessori
_Ambrosii_, ubi eius sanctum corpus requiescit, sita foris muro hac
civitate, et illis _decomanis oficialis_ videlicet _sancti Uictoris_,
ubi ad corpus dicitur; nec non et _uni ex oficialis sancti Naboris
et Felicis martirum, qui prior in tempore fuerit_, seo et _uni ex
oficialis sancte Ualerie, similiter qui prior fuerit_; ita volo ut
omnes isti prenom. oficiales abeant predictis rebus, ut quidquid Deus
omnipotens exinde dederit, equaliter omnes usifructuare et inter se
dividere debeant pro anime mee remedio; ea tamen racione ut unusquisque
eorum binas tantum missas per singulos menses canere debeat mihi....
et patri meo et matri mee et fratribus meis... et speciale oficium
uespertini seo matotini temporis cum nouem lectionibus faciant.

BUGATI G. _Memorie istorico-critiche intorno alle reliquie ed al culto
di S. Celso martire_ Milano, 1782, pag. 211-12. Serie delle carte n. 1.

Le sue disposizioni andarono in esecuzione tre anni dopo.

A. 867 nov. Breve divisionum qualiter diviserunt inter se, id sunt
_Presbiteris Oficialis Basilice Beati_ Christi Confessoris _Ambrosii_,
in qua eius s. corpus humadum quiescit, sita foris muro civitatis
Mediolani, et ille _Presbiter, qui modo prior est Oficiale Basilice
Sancte Valerie_, nec non et _illis presbiteris Oficialis Basilice
Sancti Uictoris_ qui dicitur ad Corpus, sed et ille _prebiter qui
modo prior est Oficiale Basilice Sancti Naboris et Felicis_...
ex ordinacione quondam Grecorii Presbitero de hordine S. mediol.
eccles.... sitis in uico et fundo Ueniaco.

ID. _loc. cit._, pag. 213-18, n. II.

Il documento è importante anche per un altro lato. La donazione
contempla una grande quantità di terre tutte situate nello stesso vico
e fondo ed offre materiale ottimo per le indagini sulla costituzione
agraria e rurale del tempo.

[518] Cfr. BARBIERI, _loc. cit._, pag. 16, 71, 53, 157 e 158.

[519] Edito nel Vol. IV, pag. 297-300 delle _Antichità longob.-milanesi
cit._

[520] ... ipsam _ecclesiam_ que usque nunc _cella_ vocabatur...

Cfr. _ibid._, pag. 298.

[521] A. 866. Diploma dell'arcivescovo di Milano Tadone all'abate
Pietro del monastero di S. Ambrogio. Ed. nel Vol. III delle _Antichità
longob.-milanesi cit._, pag. 327-29.

Insuper etiam petiit ut intra ecclesiam santorum Vitalis et Agricole
in honore sanctorum Petri et Pauli ecclesiam infirmorum ei costruere
concederemus atque semitam per quam monasterium minus munitum erat
claudere et in aliam partem transmutare permitteremus, _illosque
sacerdotes quos pro sua utilitate ad celebrandum missarum solemnia
in eadem ecclesia_ OLIM NOVITER COLLOCAVERAT _intra nostrorum_
CONCIVIUM SACERDOTUM _consortium annumerari concederemus_. Nos vero
per consensum omnium nostrorum sacerdotum petitioni eius adsensum
prebuimus et _ipsos presbiteros ab eo in ecclesia sancti ambrosii_
NOVITER ORDINATOS _in_ NOSTRORUM CONCIVIUM CONGREGATIONE PRESBYTERORUM
_suscipimus_.... Insuper etiam confirmamus atque concedimus prefato
abbati successoribusque eius sicut prisca consuetudo ex antiquo tenere
videtur ut in dominicis seu in solemnibus diebus indutus sandaliis
ceterisque ornamentis episcopalibus [et infula et anulo antiquo] more
ornatus in ecclesia beati Ambrosii divinum celebrare officium. Preterea
concedimus atque confirmamus prefato monasterio et fratribus omnes
oblationes que a Christifidelibus in eadem ecclesia sancti Ambrosii
quoquo modo a maioribus sive a minoribus delate fuerint omnesque res,
omnesque possessiones ibidem collatas cunctasque videlicet curtes
earumque appendicias, simulque decimas omnium laborum seu dominicatus
eorum, simulque omnes aldiones servos et ancillas seu colonos sed et
omnia que nunc habere videntur vel que deinceps Deo propitio adquirere
valuerit.

Le parole fra parentesi, mancanti nel testo, sono state messe
togliendole dal doc. del 1193 (ed. UGHELLI, _loc. cit._, IV, col.
171-72) che riporta tutta la frase intiera.

[522] Cfr. SCHIAPARELLI L. _I diplomi di Berengario I_. Roma, 1903, n.
XIII, pag. 47.

[523] AFFÒ I. _Storia di Parma cit._, Vol. I, pag. 362, doc. 73, a 978.

[524] La famosa chiesa di S. Giovanni, da privata che era in origine,
essendo stata fondata dalla regina Teodolinda nel 602 (P. DIACONO. _De
gest. Lang. cit._, IV, 21 e 25) si trasformò rapidamente, tantochè alla
metà del secolo nono appare fornita di tutti gli attributi di chiesa
matrice e retta da un _custos_ (a. 769 ... Garoin r. d. _custodes
basilice s. Johannis_ de fundo Moditia aut qui pro tempore _custus_ in
ipsa _basilica_ fuerit. Cfr. FRISI A. F. _Memorie storiche di Monza e
sua Corte_, Milano, 1794, Vol. I, c. 5, pag. 36 e segg. e Vol. II, n.
II, pag. 3-4) che esercita le funzioni di capo di una pieve e ne porta
anche il nome (a. 879 ott. Petrus _archipresbiter_ huius ecclesie.
Cfr. ID. _Ibid._, Vol. II, n. V, pag. 9. — a. 880 dec. 20. Vincentius
_archipresbiter et custus_ ecclesie et canonice. Cfr. _Ibid._, I, pag.
37 e III, pag. 263) insieme con i preti, i diaconi e i suddiaconi
che vivono raccolti in canonica sino dal tempo di Carlo il Grosso
e ne costituiscono l'_hordo_ (... _de hordine et congregatione s.
Johannis_ dicono numerosi docti del sec. IX e X. Cfr. ID. _Ibid._, I,
pag. 47), detto anche _ordo major_ (1061 mag. ... isto campo deveniat
in potestatem de omnibus presbiteris, diaconibus, suddiaconibus vel
clericis qui de _ordine majore_ predicte ecclesie sunt. Cfr. _Ibid._,
II, n. XXXVI, pag. 39-40) per distinguerlo da quello dei decumani, i
quali, qui come a Milano, formano un corpo ecclesiastico tutt'affatto
differente (a. 1035 .... fiat prandium... ad presb. diac. et subdiac.
vel clericis qui in eodem _ordine ecclesie S. Joh._ sunt ET ad
_presbiteros illos qui decimani sunt_. _Ibid._, Vol. II, n. XXX, pag.
33-34 — a. 1053. Vitalis presbiter de _ordine decomanorum_ s. modic.
eccl. _Ibid._, pag. 38).

Gli _ordinarii_, al tempo di Berengario I saliti al numero di 32, oltre
che dai decumani si distinguevano anche dai _custodes_, i quali, a
norma della disposizione di Teodolinda (P. DIAC. _loc. cit._ Ordinatio
vero talis fuit. De rebus s. Johannis nullo modo se debet aliquis
intromittere nisi tantum sacerdotes qui ibi deserviunt die ac nocte,
tanquam famuli et famule qui ibi subiecti sunt communiter debeant
vivere) erano i rappresentanti del diritto di proprietà dei beni, di
cui era titolare la chiesa di S. Giovanni (Diploma di Berengario I ai
canonici della chiesa di Monza, ed. SCHIAPPARELLI L. _I dipl. di Ber.
I_, Roma, 1903, n. 6, pag. 26). — Il re dona tre corti ai canonici
imponendo loro varî obblighi fra cui quello di dare annualmente _loco
oblationis, quinque anforas vini et urnam nec non et frumentum sextaria
duodecim_ CUSTODIBUS _eiusd. eccl._ — a. 1198. Ego Lombardus Gairoldus
_custos ecclesie s. Jhoa._ consigno d[=no] magistro Corrado et d[=no]
Michaeli de Besozo et d[=no] Faravo de Modoecia qui sunt _ordinarii
iste ecclesie_ ad partem et utilitatem iste ecclesie terram illam
quam habeo et teneo ab ipsa ecclesia. (Cfr. FRISI. _loc. cit._, Vol.
I, pag. 54) e riproducevano esattamente la posizione dei sacerdoti
santambrosiani del diploma tadoniano dell'866 di fronte ai monaci
istituiti nel 789, e della quale avremo da occuparci più avanti.

[525] _Cod. dipl. long._, PORRO, col. 539.

[526] CAMPI. _loc. cit._, I, pag. 467.

[527] _Cod. dipl. long._, PORRO, col. 979-80.

[528] Cfr. LUPI. _Cod. dipl. cit._, I, animadv. XXVII, col. 963-84,
a cui si può aggiungere il doc. lucchese dell'a. 904 (ed. MURATORI.
_Antiq. Ital._ t. VI, col. 407) in cui si ricorda «Vincentius
archipresbyter _cardinis_ et vicedominus» e altri sei _cardinales_.

[529] Anche a Vercelli erano dette _cardinales_.

Nel frammento del sinodo vercellese del 964 rimastoci fra le opere
di Attone (ed. LUPI. _loc. cit._), è detto: «insuper admonitione
suorum clericorum sancivit, ut antiquus exigit usus pessima ungariorum
incursione vastatus, _ecclesiae cardinales_ debitum praeberent
baptisterio hac in civitate celebrato decenter obsequium. Ita ut
in ipsis ex ecclesiis, quae sunt in villis, videlicet Patina.....
presbyteri veniant sic expediti suis vestimentis, qui hic Vercellis
pueros valeant baptismali tingere aqua.»

[530] A. 819. Breve ordinationis facio ego Petrus gratia dei episcopus,
qualiter una cum consensu sacerdotus et aremannus huius lucane
civitatis, ordinare videor te Andripertum presbiterum filio Pauli
in nostra _ecclesia sedalem_ sancti Donati, sita prope murum huius
lucane civitatis; in eo vero tenore ut in tua sit potestate ipsa dei
ecclesia, una cum casis et omnibus rebus ad eam pertinentibus abendum
resedendum, gubernandum usufructuandum et officium dei die nocteque
recto moderamine faciendo et nobis obediendum; sicut nostra sancta
lex continet: et unum prandeum nobis et sacerdotibus nostris singulis
annis die martis de alba semper preparare et dare debeas in festivitate
ipsius ecclesie, portionem exinde de oblatis, et candelis tollendum
ipse, sicut jam olim consuetas fuit; et semper nobis et sancte ecclesie
nostre obedire, et servitium adimplere debeas, sicut consuetudo fuit;
et qualiter ut supra te in eadem ecclesia firmavimus stavili ordine
permaneas firmiter.

Ed. MURATORI _Antiq. Ital._, Diss. XIII.

A. 838. Notitia brevis de inquisitione ecclesie beati Vincentii ubi
requiescit umatum corpus beati Fridiani iuxta lucanam urbem.

Osprando, arciprete della cattedrale, disse: scivi Jacobum episcopum
abentem ecclesia S. Fridiani infra istos triginta annos et ita eam
ordinabat sicut alias _ecclesias sedales_ et pertinens erat de isto
episcopio S. Martini.

Giovanni chierico e scabino disse: Sibi (= scivi) Iohannem episcopum
abentem ecclesiam S. Fridiani et dedit illam Jacobi germano suo in
beneficio. Et postea habuit eam Jacobus episcopus in potestate S.
Martini infra istos triginta annos, usque ad diem mortis sue.

Alamondo scavino disse: Scivi ecclesiam S. Fridiani abentem Jacobum
episcopum et imperantem. Sed Adegrimus vassus domni regis illam voluit
contendere ad parte Palatii, sed minime potuit, quoniam ipse episcopus
eam pertinentem episcopatui sui faciebat. Pietro disse: Scivi Johannem
ep. et Jacopum ep. abentem ecclesiam S. Fridiani et imperantes usque
ad diem mortis eorum et wiganationem exinde faciebant de res ipsius
ecclesie, et prandia recipiebat, _sicut in cetere ecclesie sedales_
istius episcopati.

E tutte le altre deposizioni concordarono con queste.

Cfr. MURATORI. _Antiq. Ital._ Diss. XXXI.

[531] Negli _Acta sanctorum_, Vol. III, Venezia, 1788 «Miracula
S. Zitae virg. lucensis» pag. 511, è detto: «Prior... iniunxit...
Mandriano quod ipse statim scalciatus et cum corrigia ad collum iret ad
_ecclesias civitatis lucensis sediales_ et majores.

[532] Il noto vescovo Raterio nel suo itinerario 7 (ed. BALLERINI,
_cit_. pag. 447) dice: «ad quod cum titularios omnes et illos de
plebibus paratos, dei gratia invenissem, vos cardinales rogo etc.».

Chi sieno questi _titularii_ che si distinguono dagli arcipreti rurali
e dal clero della cattedrale è dimostrato dal documento seguente.

A. 995. Dum Johannes patriarcha s. aquilegensis aecclesiae in sinodo
resideret in ecclesia beatae Mariae sitae in civitate Veronae...
surgens Obertus episcopus eiusdem sedis beatae Mariae, queri cepit...
de clericis habitantibus in _titulis_ ipsius idest S. Mariae antiquae
et S. Margaritae, quia ipsi secundum canonicam traditionem et antiquam
consuetudinem sibi obedire vetarent, ita ut nec _ad sinodum_, nec
_ad processionem_ ipsius venire vellent, nec illud observare, quod
ceteri _tituli de eadem civitate faciunt scilicet et missas publicas
precipuis festis interdictis ab episcopo facere non deberent_...
Tunc.... patriarca videns quod rectum et canonicum erat quod ipse
episcopus sciebat (dicebat?)... statuit ut deinceps clerici de
prefatis suis titulis parati essent obedire veronensi episcopo tam
sinodali advocatione quamque et in processionis honore seu etiam in
missarum, cum ab eodem episcopo interdictum solemnibus festis noverunt,
observatione.

DE RUBEIS. _Mon. eccl. aquil._ cit. 223.

[533] _Cod. Dipl. Long._, (PORRO), n. 797, col. 1398-99, 1 maggio 980.

Leo diaconus cardinalis sancte Marie Maioris de Cremona, rector
diaconie sancte Marie in Bethel regionis quinte suprascripta civitate
Cremona tibi Ambrosio presbitero per hanc cartulam ad tuas preces
facta comittimus providemus et perdonamus quatinus in oraculum sito
xenodochio sancte Marie in Bethel, ubi rector ordinatus esse videmur,
debeas omni _die et noctibus residere pro bona custodia offitio
et luminaribus in predicto oraculo, ibique, permictente episcopo,
valeas libere ac liceat diebus dominicis celebrare missam, sed ianuis
clausis, ne populus a missarum solemniis in domo Domini a predicatione
abstrahatur; aliis diebus_, permictente episcopo, tibi perdonamus ut
_ianuis apertis valeas... missam celebrare_. Set tibi predicto Ambrosio
presbitero stricte inbemus, uti canonica lex abet, ut _omni die festo
et in omni die dominico in domo Domini ad missam et predicacionem
episcopi cum populo accedas_ hora tercia; similiter stricte tibi
iubemus, ut nullo modo nec libere nec licite nec ianuis apertis vel
clausis in eodem oraculo missam celebrare presumas in Natale Domini,
nec in die Sancte Pasche, nec in Ascensione, nec in Pentecoste, vel in
die translacionis domine nostre sancte Marie matris Dei.

[534] Con i documenti riportati nelle note precedenti concorda
completamente, integrandoli, il c. 2 del capitulare di Teodulfo,
vescovo aurelianense, del 797 e del quale già si è avuto occasione
di rilevare qualche altro punto di identità con la costituzione
ecclesiastica italiana.

[535] S. Ambrogio fu seppellito accanto a S. Protaso e a S. Gervaso,
primi santi tutelari di Milano, e la sua festa, che avveniva insieme
con quella degli altri due, il 19 di giugno, era celebre anche per la
chiesa romana per essersi fatta in tal giorno una pace fra i romani ed
i langobardi ai tempi di Gregorio Magno e della quale questo pontefice
fece cenno anche nell'«Introibo» della sua messa che incomincia:
«Loquetur dominus pacem in plebem suam.»

Cfr. _Delle antichità long. mil. cit._ Diss. XXV, p. 3, vol. III, pag.
209. Vedi anche _ibid_. Diss. XXXVII, vol. IV, pag. 314.

[536] Lo tentarono S. Eusebio a Vercelli e S. Agostino in Affrica,
come ci è reso noto da S. Ambrogio; ma pochi anni dopo la loro morte il
sistema andò in disuso.

[537] A torto, quindi, si tenterebbe di riannodare a questa
coabitazione del clero antico, l'origine delle canoniche del secolo X.º
e XI.º. Cfr. MURATORI _Ant. Ital._ Diss. LXII.

[538] Et nos habemus in ecclesia senatum nostrum cetum presbyterorum,
dice S. Agostino (Opera omnia, Parigi, 1704, V, pag. 16).

[539] Cfr. GREGORI M. _Ep_. I, 6 e 60 e LUPI. _De parrochiis cit._ pag.
380 e segg.

[540] Nel 787 Dateo, arciprete della cattedrale di Milano, fonda un
brefotrofio presso di essa stabilendo che i _presbyteri ex ordine
cardinali_ vi abbiano una sala a disposizione (MURATORI A. _Antiq.
ital._ diss. XX). Nel doc. dell'864 riportato nella nota 2 a pag. 178 è
ricordato Gregorio prete _de hordine s. mediol. eccles._ Nel doc., pure
milanese, del 789, più volte ricordato, l'arciv. Pietro fa esplicita
menzione del consenso dato dai «sacerdotibus et levitis cunctisque
ordinis nostri gradus». (Cfr. _Delle antich. long. mil. cit._ IV, pag.
298). In un altro doc., anch'esso milanese, del 1034 (MURATORI _Antiq_.
diss. LXI) si ricordano i «presbyteri diaconi et suddiaconi _cardinales
de hordine s. mediol. eccl._». Nel 1151 gli «_ordinarii_ eccles. s.
Alexandri» di Bergamo (la cattedrale) stipulano un'interessantissima
convenzione con i loro cuochi. Cfr. LUPI _Cod. cit._ II, col 1105-1106.

Ed ho citato solo alcuni esempi dei più interessanti. Vedine altri in
LUPI. _De parr._ pag. 380 e segg. e in MURATORI _Antiq_. diss. LXI.

[541] ESMEIN A. _Cours élémentaire d'histoire du droit français_,
Paris, 1898, pag. 148 e SCHULTE _loc. cit_. pag. 650 e segg.

[542] _Presbyteri ruris in ecclesia civitatis episcopo presente vel
presbyteris urbis ipsius offerre non presumant_. Concil. neocesarense
a. 314 c. 13. Sulla sua applicazione in occidente vedi GALANTE. _Elem.
di dir. eccles. cit._ pag. 23 e LUPI. _De parroch. cit._ pag. 293 e
segg. diss. III, cap. 3.

[543] Il principio, sanzionato dal c. 13 del sinodo ottavo — oporteat
in magna ecclesia in minori gradus constitutos ad maiores honores
opportune contendere, sed non eos qui foris sunt, inter eos admitti —
fu confermato pienamente da Giustiniano (Nov. III. 2) e da varî concilî
posteriori. Cfr. LUPI _De parr. cit._ pag. 328.

[544] Prisca loci consuetudo — dice ARNOLFO _loc. cit._ I, 1. —
ut, decedente metropolitano, unus ex majoris ecclesiae precipuis
cardinalibus quos vocant ordinarios succedere debeat.

[545] Questo avveniva quasi esclusivamente quando si trattava di
custodes _martyrum_, i quali, fino dal tempo di Silvestro I (314-335)
erano messi fra il diacono e il suddiacono. Cfr. THOMASSIN L. _Nova et
vetus ecclesiae disciplina cit_. vol. I, parte I, libr. 2, cap. 92, §
2, pag. 299.

Il _custos_ della chiesa di S. Ambrogio, p. es., è non di rado (cfr.
PURICELLI loc. cit. n. 8, a. 740; e n. 11, a. 781, 2 maggio e _Delle
antichità long. mil. cit._ Diss. XXVII, vol. III, pag. 256) chiamato
_venerabilis_ e _reverendissimus_.

[546] Con questo termine intendo i preti già stabilmente fissati presso
le chiese che a Milano sono dette decumane, a Lucca sedali, a Bergamo
cardinali, etc.

[547] Al documento citato a pag. 187, nota 2 si può aggiungere quello
del 974 in cui si ricorda Giovanni prete decomano della santa chiesa
milanese ed officiale della chiesa di S. Maria detta di Podone (cfr.
_Delle antichità long. milan. cit._ vol. III, Diss. XXX, pag. 371) e
sopra tutto il passo del testamento di Attone vescovo di Vercelli (ed.
Del Signore cit. prefaz. pag. XVII) in cui, nel lasciar loro le due
valli di Leventina e Bellenica, distingue nettamente il clero raccolto
nella cattedrale dai decumani sparsi per la città: _presbyteris seu
diaconis cardinalibus sancte mediolanensi ecclesie et sacerdotibus
decomanis qui in eadem civitate pro tempore fuerint_.

[548] a. 1117. Dum in Dei nomine in civitate Mediolani in Arengo
publico in quo erat Domnus Jordanus archiepiscopus, ibique cum eo eius
_presbiteri et clerici maioris ordinis et minoris praedictae mediol.
eccl._.... veniens d. Ardericus ven. laudensis episcopus cum suis
_clericis majoris ordinis et minoris_....

GIULINI _loc. cit._ parte V, pag. 545.

[549] Cfr. nota 1 a pag. 190.

Per Lodi vedi il doc. del sec. X (ed. VIGNATI _loc. cit._ n. 13, pag.
19) _«Cardinales presbyteri, diaconi et subdiaconi»._

[550] Tutti i documenti parlano sempre di presbyteri. E, del resto,
si capisce facilmente che dovendo compiere delle funzioni, a cominciar
dalla messa, per le quali la Chiesa aveva stabilito indispensabile il
grado del presbiterato, dovevano essere preti.

In seguito, però, forse per quella corruzione degli ordini
ecclesiastici che a Milano appare fino dai primissimi decenni del
secolo nono (cfr. PURICELLI _De S. Arialdo cit._ IV, 1); sembra che
potessero essere decumani anche i diaconi. Almeno ARNOLFO (_loc. cit._
III, 8) racconta che Arialdo era _ex decomanis diaconus_. Il GIULINI
— con ragione, secondo me — suppone (_loc. cit._ parte IV, pag. 13, ad
an. 1056) che non solo fosse, per abuso, attribuito il nome di decumani
ai preti di molte chiese di Milano che non erano di quell'ordine; ma
che fino dai tempi di Arnolfo fosse divenuto un titolo generale a tutti
gli ecclesiastici di qualunque ordine, che non fossero _ordinarii_.

[551] a. 871. febbraio.

Ego Vuerulfo, qui et Podo vocatur.... offero.. in.. ecclesia S. marie,
sita intra han civitatem Mediolani, prope locus, ubi quinque vias
dicitur, quam ego in propria mea terra aedificavi, petiam unam de
terra cum casas.... et volo.... ut.... deveniat in manus et potestate
de PRIMICERIO PRESBITERORUM DECUMANORUM S. MEDIOLANENSIS ECCLESIE,
ad ordinandum presbiterum unum, _qui in jam dicta ecclesia s. marie
officiare debeat et custodire die noctuque_ pariter et fideliter et
faciat ipse presbiter de jam dicta terra et casas que cum jam dicta
ecclesia tenere videtur, usufructuario nomine, quaecumque voluerit....
autem volo ut _presbiter_ ille qui _in eadem ecclesia officiale_
fuerit, dare et offerre debeat candelas duas optimas, omnes missas
ipsius s. marie, ad archiepiscopatum s. mediol. eccl..... et pascere
debeat per omni anuale meo presbiteros duodecim et pauperes decem et
missa speciale canere debeat per omne mense, duas in anno. Et ipse
primicerius, qualis in tempore fuerit, propter honorem ordinationis
ipsius ecclesie,.... habeat massaricium unum juris mei, qui reiacet
in vico et fundo Raudo, ut nulla impositio propter ordinationem ipsius
ecclesie quesierit, nisi illum massaricium.

GIULINI. _Memorie cit_. vol. I, append. pag. 464-65.

Consimile è il testamento dell'arciv. Andrea dell'11 genn. 903, ed.
_ibid_., vol. II, append. pag. 475-79.

[552] 997. nov. 19. Ego _Andreas presbiter et Primicerius de hordine
Decomanorum Sancte Mediolanensis Ecclesie Officiale Basilice Sancte
Genitricis Virginis Marie, que dicitur iemalis_... volo et iubeo... ut
petia una de terra... deveniat in potestate de presbiteris illis, qui
tunc tempore et in perpetuum in basilica Sancti Laurentii, constructa
foris ab ac civitate, non longe ad portam quod clamatur Ticinense,
Officiales fuerint... mei et parentum meorum, seu Domni Landulfi
quotidie missas, vesperas, et matutinum et reliquum officium faciant.

SAXII. J. A. _Archiepiscoporum mediolanensium series
historico-chronologica_ etc. Milano, 1755, vol. II, pag. 378-79.

[553] Erano 30: 15 sacerdoti, 10 diaconi e 5 suddiaconi. Cfr. _Delle
antichità cit._ Diss. XXV, vol. III. pag. 225. Questi ultimi, però,
erano esclusi dalle assemblee in cui si discutevano le questioni di
maggior rilievo. In un diploma dell'arciv. Ariberto, del 1032 (ed.
PURICELLI _loc. cit._) presenti _senioribus superioris ecclesiae
suae cardinalibus, presbyteris et cardinalibus_ si sottoscrivono
l'arcidiacono, il vicedomino, dodici preti e due diaconi; ed in un
altro dello stesso arciv. (ed. MURATORI _Antiq. It._ Diss. LXI)
si vedono convocati _venerabilibus suae ecclesiae cardinalibus,
presbyteris videlicet et diaconibus._

I suddiaconi non sono ricordati mai.

[554] Cfr. _Delle antichità cit._ diss. XXX, vol. III. III, pag. 345 e
segg.

[555] Cfr. GIULINI _Memorie cit_. parte III, pag. 366.

[556] _Presbyteri decumanorum extra chorum cantant_, dice BEROLDO _loc.
cit_. ed. MURATORI Diss. LVII.

[557] Dopo un primo stadio di formazione, comunemente noto col nome
di _periodo apostolico_, la comunità cristiana, sotto l'influsso
dello spirito giuridico organizzatore dei Romani (FRIEDBERG-RUFFINI.
_Trattato cit_. pag. 26), cominciò ad acquistare, ancora prima di
divenire religione di Stato, un aspetto sempre più rispondente a
quello religioso e civile romano; e gli ecclesiastici furon ben
presto rivestiti di un carattere ufficiale in tutto simile a quello
dei funzionarî civili, nello stesso modo dei quali, con le stesse
parole e con le stesse forme erano nominati (ID. _ibid_. pag. 32 e
segg.) e tutti coloro che erano investiti del ministerio ecclesiastico
si vennero a contrapporre ai laici costituendo anch'essi un _ordo_
distinto dalla _plebs_ in modo del tutto identico a quello che avveniva
nella costituzione civile.

[558] Cfr. _Concil. carthag_. IV, a. 418-19, c. 22.

[559] In ordinandis sacerdotibus et clericis, diceva S. Agostino (cfr.
POSSIDIO _Vita Augustini_ cit. c. 21), consensum maiorem cristianorum
et consuetudinem ecclesiae sequendam esse.

[560] Cfr. i documenti riportati e indicati dall'IMBART DE LA TOUR _Les
élections episcopales dans l'Eglise de France du IX au XII siècle,_
Paris, 1891, pag. 12 e segg. e passim.

[561] _Cod. Theod._ XVI, 2, 33.

[562] Cfr. i passi riportati dall'IMBART DE LA TOUR. _Les élections
episcopales cit_. pag. 12 e segg.

[563] Il sinodo romano di Eugenio II dell'826 (c. 8) stabilisce:
«Episcopi in subiectis baptismalibus plebibus, ut certe propriis,
curam habere debent, ut cum in ipsis presbyteros necessitas occurrerit
ordinandi, ut reverentius observentur, convenit ibidem habitantium
habere consensum».

E il concilio ticinese dell'850, già tante volte citato, conferma
che «in ordinandis plebium rationibus, civium instituta serventur et
primum quidem ipsius loci presbyteri vel ceteri clerici idoneum sibi
rectorem eligant; deinde populi qui ad eamdem plebem adspicit, sequatur
assensus».

E dall'esempio offerto dalla pieve di Mosciano a quelli delle pievi
modenesi e parmensi, le prove dell'autonomia dei centri rurali è
dovunque dimostrata; ciò che produce come conseguenza che quella della
pieve urbana, che dai centri rurali è circondata, sia anche maggiore.

[564] Cfr. TAMASSIA N. _Longobardi, Franchi etc cit_., pag. 113-18 e
SOLMI A. _Stato e Chiesa secondo gli scritti politici da Carlo M. fino
al concordato di Worms_, Modena, 1901, pag. 3 e segg.

[565] TAMASSIA _loc. cit._, pag. 196 e segg. SOLMI _loc. cit._, pag.
55-57.

[566] In Gallia, come si rileva anche dalla formula del _Missale
francorum_ (ed. DUCHESNE _Origines cit._, pag. 359. «Secundum
voluntatem Domini, in locum s. memoriae illius nomine, virum
venerabilem illum testimonio presbyterorum et totius cleri et consilio
civium ac consistentium credimus eligendum») le elezioni vescovili
anticamente erano indipendenti; ma sotto i Merovingi, per le violenze
e le agitazioni del popolo, il potere regio ebbe occasione ed agio di
intervenirvi per modo che da un semplice mantenimento dell'ordine si
passò rapidamente ad una vera e propria ingerenza; cosicchè la Chiesa
fu costretta ad iniziare una lotta, che ridusse — è vero — l'autorità
regia alla sola conferma; ma le dètte, appunto perchè limitandola
l'ammetteva, pieno ed esplicito e riconosciuto diritto di intervenire
nell'elezione. L'HAUCK, (_Die Bischofswalhen unter der Merovingern_.
Erlangen, 1883), forse un po' impressionato dall'opinione del FUSTEL
DE COULANGES, (_La Monarchie francque_, Paris, 1888, pag. 523-566 e,
sopra tutto, 555-558) che ritenne che l'autorità regia ridusse a nulla
l'intervento del clero e del popolo; ha pensato che questa limitazione
sia stata una grande conquista da parte della Chiesa; ma, in realtà,
egli ha considerato il fatto rispetto ai suoi presupposti immediati;
ma non alla costituzione primitiva della Chiesa. Il can. 10 del quinto
Concilio di Orléans (ed. MAASSEN, _cit_., pag. 103) incomincia «Sed
_cum voluntate regis_... pontifex consacretur».

Questo già ai primissimi del secolo settimo. L'editto di Clotario è del
614. (Cfr. «Monum. Germ. Hist.» _Leges_, I, pag. 14).

Sorto in seguito l'astro dei Carolingi, la Chiesa fu trasformata in
istituzione territoriale e, pienamente sottratta alla dipendenza del
pontefice (cfr. FRIEDBERG-RUFFINI, _loc. cit._, pag. 16), divenne loro
docile e poderoso strumento di governo.

[567] Quest'affermazione si limita, s'intende bene, al periodo franco,
durante il quale l'azione del pontefice nelle elezioni vescovili ebbe
un'importanza così limitata che non occorre fermarcisi su.

[568] Nell'epoca romana questo fatto si rileva più facilmente perchè
l'elezione del vescovo è regolata minutamente dalle leggi e queste
graduano la facoltà degli elettori in proporzione diretta della loro
posizione nella vita civile.

Vedi a questo proposito a pag. 59 e segg. e _Cod. Theod._ Nov. XVII a.
445.

[569] Vedi i passi riportati a questo proposito dal FRIEDBERG-RUFFINI,
dal CALISSE, dall'IMBART D. LA TOUR e dal VACANDARD E. _Les élections
épiscopales sous les mérovingiens_ in «Rev. d. questions histor.».
XXXII, 126, avril, 1898. «Expectarentur — dice un tipico passo di
S. Leone M. (Ep. X, 6 — Iaffè Reg. 467) — vota civium, testimonia
popolorum; quaereretur honoratorum _arbitrium, electio_ clericorum».

[570] E ciò sopra tutto per la ragione che il clero, come istituzione,
è ritenuto di origine divina e gode, quindi, di un gran prestigio.

[571] A notariis ecclesiae — dice S. Agostino (Ep. 110) — ...
excipiuntur quae dicimus et dicitis... Hoc ad ultimum rogo ut gestis
istis dignemini subscribere qui potestis.

Su questo _decretum quod clerus et populus formare debet de electo
episcopo_ cfr. specialmente l'_Ordo romanus_ in _Bibl. patruum_ cit.,
X, col. 104.

[572] S. AGOSTINO li ricorda varie volte.

Dilectissimis fratribus, clero, _senioribus_ et universae plebi
aecclesiae Hipponensi.... salutem — Ep. 137.

Silvanus a Cirtha traditor est et fur rerum pauperum, quod omnes vos
episcopi, presbyteri, diacones et _seniores_ scitis — _Contra Crescon_.
III c. 29 _ed. cit._ vol. VII pag. 177.

E la stessa precisa frase si trova anche nelle _Gesta purgationis
Felicis et Caeciliani_ in calce alle opere di OPTATO, Parigi, 1567,
pagina 268 — Ep. di forte.

E nello stesso significato troviamo la parola anche nel medioevo.

Nel testamento del prete Teodaldo dell'a. 768 (ed. FRISI _loc.
cit._, II, n. 2, pag. 4) è detto: «obsecro principes terre istius vel
presolis adque _senioris_ ecclesie S. Johannis ut... omnia stavilem
permittatis permanere. E in una donazione al monastero di S. Ambrogio,
dell'a. 863 (ed. GIULINI _loc. cit._, vol. I, append. pag. 444-45) si
stabilisce che se i monaci non adempiono agli obblighi loro imposti
a proposito di un ospedale fondato dal donatore, l'ospedale stesso
passi agli _officiales_ della Chiesa di S. Giovanni di Monza «sine ulla
contrarietatem _senioribus_ ipsius ecclesiae».

Nè son casi isolati. Cfr. a. 787 (MURATORI _Antiq. ital._, III,
col. 587) pontifex (arciv. di Milano) de ipso ordine presbyterum
_seniorem_... ordinare dignetur. — a. 951-962 (VIGNATI, _Cod. dipl.
laud._ cit. I, n. 13, pag. 18-19). Radbertus presbiter de cardine
s. laud. eccl. scribere per iussu domni _senioris_ communuimus. — a.
933. (TIRABOSCHI. _Mem. Nonantola_ cit., n. 82), una per consilio et
consensum _seniorum_ sacerdotis et clerum b. s. Geminiani motinensis,
il vescovo Gottifredo fa una concessione enfiteutica.

Il TAMASSIA (_I sermoni di Pietro Crisologo_ cit.,) ha indicato alcuni
passi che gettano uno sprazzo di luce sui rapporti che con anacronismo
scusabile possono esser detti _prefeudali_, della società romana.

I documenti ora indicati, che contengono il nome di _senior_, di ben
nota diffusione nel campo feudale, possono, forse, esser presi in
considerazione anche da questo punto di vista.

[573] Agostino. _Conc. II in Psalm._ 36, to. 8, pag. 201. «Cum
incestos contra legem decretaque omnium sacerdotum communioni sanctae
adiungeret, cumque obsistente massima parte plebis, etiam _seniorum
nobilissimorum_ litteris conveniretur etc.».

LIBERATI. _Breviarium cit_., c. 14. ed. cit. to V, pag. 763. «Collecti
sunt _nobiles civitatis_ ut eum qui esset vita et sermone dignus
pontificatu eligerent».

[574] In ordinationibus eorum clamant et dicunt: dignus es et iustus e
S. AMBROGIO. _De dignitate sacerdot._ c. 5. E S. AGOSTINO (_Ep_. 110):
Dignus et iustus est dictum est vicies.

Altri esempi per il medioevo ci sono offerti da GREGORIO DI TOURS,
_loc. cit._ passim e specialmente l'ep. 25 del libro quarto, ad
Donnulum.

[575] Cfr., oltre i trattati generali già citati, il REVILLE _Les
origines de l'épiscopat_, Paris, 1894.

[576] Vedi il doc. dell'838 nella nota 2, a pag. 186.

[577] Vedi il doc. riportato nella nota 1, a pag. 186.

[578] Q. FLORENTIS TERTULLIANI _Apologeticus adversus gentes_, Venezia,
1525, c. 37, cap. XXXIX.

De disciplina christianorum. Si quod arcae genus non de ordinaria summa
quasi redemtae religionis congregatur: _modicam unusquique stipem
menstrua die, vel cum velit et si modo possit, apponit_. Nam _nemo
compellitur_, sed _sponte confert_.

ID. _Ep_. 34 in _Opera omnia_ Parigi, 1666, pag. 49.

Presbiteri honorem designasse nos illis jam sciatis ut et sportulis
iisdem cum presbyteris honorentur et _divisiones mensurnas_ aequatis
quantitatibus partiantur.

ID. _Ep_. 66, _ibid_., pag. 109.

Quae nunc ratio et forma in clero tenetur, ut qui in ecclesia domini
ordinatione clerica promoventur, in nullo ab administratione divina
avocentur nec molestiis et negotiis saecularibus alligentur, sed
in honore _sportulantium fratrum_ tamquam _decimas ex fructibus
accipientes_, ab altari et sacrificiis non recedant.

E quando qualche ecclesiastico mancava ai suoi doveri era punito in
modo molto semplice e chiaro: «Interim (cfr. _Ep_. 28, pag. 41) se
a _divisione mensurarum tantum contineant_, non quasi a ministerio
ecclesiastico privati esse videantur».

[579] _Cod. Just._ I, 3, 33, § 1. Leone e Antemio (467-471). Non
oportet episcopos aut clericos _cogere quosquam ad fructus offerendos_,
aut angarias dandas, aut alio modo vexare, aut excommunicare,
aut anathemate damnare, aut denegare communionem, aut idcirco non
baptizare, _quamvis usus ita obtinuerit_.

[580] LEONIS M. (440-460). _Sermo de collectarum die_ (ed.
BALLERINI-CACCIA).

Providenter, dilectissimi, a sanctis patribus pieque dispositum est,
ut in diversis temporibus quidam essent dies, qui devotionem fidelis
populi ad Collationem publicam provocarent. Et quia ad ecclesiam
maxime ab unoquoque opem quaerente decurritur, fieret ex possibilitate
multorum _voluntaria_ et sancta _Collectio_, quae per Praesidentium
curam necessariis serviret expensis: ad cuius operis desideratum
vobis, ut credimus, fructum dies vos vicinus invitat, accedentibus
admonitionibus nostris, ut ad ecclesias regionum vestrarum sabbato
proxime futuro misericordiae munera deferatis.

ID. _Sermo IV_.

Quia in die dominica prima est futura Collectio, omnes vos devotioni
_voluntarie_ praeparate, ut unusquisque secundum sufficientiam habeat
in sacratissima oblatione consortium.

Id. _Sermo V_.

Ad horum operum, Dilectissimi, piam curam dies nos apostolicae invitat,
in quo sanctarum Collectionum prima _Collectio_ est prudenter a
Patribus et utiliter ordinata; ut quia in hoc tempore gentilis quondam
populus superstitiosius daemonibus serviebat, contra prophanas hostias
impiorum, sacratissima a nobis nostrarum elemosinarium? celebraretur
oblatio: quod, quia incrementis ecclesiae fructuosissimum fuit, placuit
esse perpetuum. Unde hortamur sanctitatem vestram, ut per ecclesias
regionum vestrarum quarta feria de facultatibus vestris quantum
suadet possibilitas ac voluntas, expensas misericordiae conferatis, ut
possitis illam beatitudinem promereri, in qua sine fine gaudebit, qui
intelligit super egenum et pauperem.

[581] Il capitolare di Mantova del 787 prescrive che la decima sia
pagata alla presenza di almeno due testimoni ne ideo ibi juramentum
aliquod faciendi necessitas contingat. (Cfr. M. G. H. Capitularia, I §
8, pag. 197).

E questo sistema di giuramento concorda pienamente con l'uso
estesissimo del giuramento quale ci è unanimente dimostrato dalle
fonti romane (Cfr. _Dig. XII_, 2, 3-I, 3, § 4 e 2, 4 e 5) e con
quello attestatoci dai documenti posteriori. Il Tiraboschi, p. es., ha
pubblicato un doc. del secolo X (_Mem. Modenesi_ cit., I, cod. dipl.
n. 117, pag. 142) che suona così: «Incipit nomina virorum hac mulierum
qui pro dei timore et christi amore dederunt singuli denarios pro
redemptione animarum suarum in luminaria ad illuminandum ecclesiam dei
ut eorum animas illuminet deus in sanctum paradisum et _ipsi omni anno
Deo auxiliante hoc facere similiter promittunt_».

E si possono citare anche altri esempi posteriori nei quali si vede
sempre intervenire il giuramento. Cfr. anche lo statuto della Chiesa di
Parma citato a pag. 1, n. 1 e a pag. 103-104.

[582] Cfr. _Cod. dipl. long_. — Troya, — n. 216.

[583] Cfr. pag. 200 nota e nota 3 di questa pagina.

[584] Di _decimas_ parla il capitolare fissato dal re Liutprando
con i mercanti di Comacchio nel 730 (Cfr. HARTMANN. _Zur
Wirtschaftsgeschichte Italiens in frühen Mittelalter. Analekten._
Gotha. 1904, pag. 123-24); decime pagavano talvolta cittadini e vicini
per il godimento degli antichissimi diritti d'uso (Cfr. SOLMI A.
_Manuale cit._, pag. 188) e la decima parte dei frutti della terra da
loro lavorata corrispondevano numerosi lavoratori (Cfr. _Cod. dipl.
long._ — TROYA — n. 433, a. 721; n. 476, a. 729; n. 526, a. 740) così
in occidente come in oriente (cfr. ZACHARIAE V. LINGENTHAL. _Geschichte
des grieschisch-roemischen Rechts_, Berlin, 1892, II, pag. 255-56 e n.
843).

[585] S. AGOSTINO. _Comm. in Psalm_. 146 (_Opera omnia_ cit. VIII, pag.
698). Precidite ergo aliquid et deputate aliquid fixum, vel ex annuis
fructibus vel ex quotidianis quaestibus vestris... Exime aliquam partem
redituum tuorum. _Decimas_ vis? decimas exime quamquam parum sit.

ID. _Homil_. 48, X, pag. 48. Maiores nostri copiis omnibus abundabant
quia Deo _decimas dabant_ et Caesari censum reddebant.

[586] Capit, di Lestimes a. 743 (in «Mon. Germ. Hist.» Boretius.
I, n. 11, pag. 28). — Statuimus quoque cum consilio servorum Dei et
populi christiani propter imminentia bella et persecutiones ceterarum
gentium quae in circuitu nostro sunt, ut _sub precario et censu
aliquam partem ecclesialis pecuniae in adiutorium exercitus nostri
cum indulgentia Dei aliquanto tempore retineamus ea conditione, ut
annis singulis de unaquaque casata solidus, idest duodecim denarii, ad
ecclesiam vel monasterium reddatur; eo modo, ut si moriatur ille cui
pecunia commodata fuit, ecclesia cum propria pecunia revestita sit. Et
iterum si necessitas cogat ut princeps iubeat, precarium renovetur et
rescribatur novum_.

Col capitolare del 768 (ID. _ibid._ 1, _Capit. aquit._ c. 1, pag.
42) Pipino aggiunse l'obbligo della restaurazione della chiesa a cui
appartenevano le terre beneficiate.

E nel 779, col capit. aristallense (ID., _ibid_. I, c. 13, pag. 50),
Carlo Magno aggiunse l'obbligo del pagamento della decima e della
nona. De rebus vero ecclesiarum und nunc census exeunt decima et nona
cum ipso censu sit soluta et unde antea non exierunt similiter nona et
decima detur; atque de casatis quinquaginta solidum unum et de casatis
triginta solidum dimidium et de viginti trimisse unum.

La bibliografia sul beneficio ed i suoi rapporti col feudo è troppo
nota perchè occorra accennare anche solo i principali lavori.

[587] Cfr. _ibid_. I, pag. 46.

[588] Cfr. _Pippini capitulare italicum_ a. 801 (806)-810 (_ibid_. I,
1, n. 102, pag. 210, c. 6). E questa disposizione deriva in linea retta
da Carlo M. nella sua «Epistola in Italiam emissa», a. 790-800 (_ibid_.
n. 97, pag. 203), e con il c. 60 del suo capitolare italico.

[589] _Capit. Ital_. c. 31.

[590] _Capitulare cum episcopis langobardicis deliberatum_, a. 780-90.
(_Ibid_. n. 89, c. 9, n. 89). E questo costume e questa consuetudine
di cui parlano e come di cosa antica vescovi langobardi, non poteva
essersi formata che in Italia e prima dell'invasione franca. Non potè
essere lo stato langobardo ad istituire un contributo che ripugnava
all'indole del suo popolo, a vantaggio di un culto che non era il suo e
per il quale, nei primi tempi specialmente, non furono usate soverchie
tenerezze; mentre nessuno dei re divenuti cattolici l'ha — che si
sappia — istituito. E si sarebbe saputo; chè un capitolo dell'Editto,
una parola di Paolo Diacono, un passo delle lettere e degli scritti cui
dette luogo la lunga controversia terminata con la calata dei Franchi,
non avrebbe mancato di farcelo sapere.

Abbiamo dunque una riprova dell'ininterrotto perdurare della antica
_collecta_.

[591] _Loth_. 43. Che la decima di cui qui si parla sia quella italiana
è dimostrato da vari fatti. E cioè: 1.) che in esso si parla sempre
e soltanto di decima e mai si ricorda o menziona la nona; 2.) che
si istituisce una speciale procedura la quale consiste nella nomina
di una commissione di quattro o otto o più «homines optimi» per ogni
pieve i quali sieno testimoni inter sacerdotes et plebem. La pieve è
il complesso dei parrocchiani e tale commissione sarebbe un assurdo
per testimoniare il soddisfacimento di uno degli obblighi nascenti dal
rapporto giuridico intercorrente fra una chiesa, che poteva benissimo
non essere una pieve ed uno speciale individuo; 3.) infine, che si
commina ai renitenti la prigione e la confisca dei beni, senza mai far
parola di omissione di beneficio.

[592] Eccone un esempio tipico.

Et hoc ea consideratione introductum est, ut detracta portione
dominorum, coloni de sua parte dumtaxat decimam solvant, quia domini in
civitate vel in aliis locis plerumque habitant, et spiritualia ibi non
recipiunt ubi decimae solvuntur, et ideo de sua parte fructuum decimas
dare non tenentur. _Liber Consuetudinum Mediolani_ c. 25 Ed. BERLAN
cit. pag. 256.

[593] Cfr. _Capit. ital. Pipin._ 4, 17; _Lud_. P. 30; _Loth_. 20.

[594] Cfr. _l'epist._ di GELASIO _ad episc. Lucaniae_ c. 5 (ed. cit.
to. IV pag. 1189) «Baptizandis consignandisque fidelibus pretia nulla
praefigant, nec illationibus quibuslibet impositis exagitare cupiant
renascentes.... Et ideo nihil a predictis prorsus exigere moliantur...»
E il _conc. illiberit._ c. 48 (ed. cit. I. pag. 97) proibisce già —
emendari placuit — che «qui baptizantur nummos in concham non mittant».

Per le oblazioni in caso di matrimonio si può citare come tipo il c. 3
dei _Responsa Bulgarorum_ di Niccolò I. che è dell'866 (Cfr. l'edizione
corretta fattane dal DUCHESNE. _Origines cit._ pag. 433-34) ma che
riproduce in modo perfetto nella forma e nella sostanza il sistema di
celebrazione degli sponsali e del matrimonio romano.

«Et primum quidem in ecclesia domini cum oblationibus quas offerre
debent Deo per sacerdotis manum statuuntur».

Cfr. anche _Statut. eccl. parm. cit._ pag. 101 nella ricca nota
illustrativa fattane dal BARBIERI.

Per le oblazioni per i defunti, oltre questo stesso statuto sotto tale
titolo, pag. 48 e pag. 194, nota 2, sono da vedersi la dissertazione
18 del MURATORI _Anecdota_ cit. I. pag. 190-95 ed il Natale XII di S.
PAOLINO da Nola, nel punto ove narra il miracolo di S. Felice.

[595] Cfr. i passi e i documenti riportati ed illustrati da N.
COMNENO PAPADOPOLI nelle sue _Praenotationes mistagogicae_, Padova,
1697 r. 1, s. 5 e 6, pag. 28-37 e r. 3, s. 2, 3, 4, pag. 137-138.
Mi limito a queste pochissime citazioni perchè sarebbe del tutto
superfluo fare sfoggio della numerosissima bibliografia sull'argomento
che per l'esperienza che ne ho fatta è, almeno per il nostro tema,
perfettamente inutile.

[596] Cfr. pag. 181 nota 1.

[597] Cfr. pag. 186 nota 2.

[598] Oltre tutti i lavori che fanno più o meno capo al DE ROSSI e
al DUCHESNE, i quali hanno formulato a questo proposito due diverse
opinioni degne del pari di considerazione; è uscito recentemente
l'articolo di R. SALEILLES. _L'organisations juridique des premierès
communautés chrétiennes_ nelle «Mélanges P. F. Girard». Paris, 1912,
II, pag. 469-509, di una notevole chiarezza.

[599] Questa mi sembra la interpetrazione più logica del passo di
ULPIANO _Liber. singul. reg._ XXII. 6 (ed. BAVIERA _Fontes iuris romani
antejustinianei_, Firenze, 1908, pag. 235-36) che è, a parer mio,
l'unico veramente fondamentale sull'argomento.

Deos heredes instituere non possumus praeter eos quos senatusconsulto
constitutionibusque principum instituere concessum est, sicuti Jovem
Tarpeium, Apollinem Didymacum Mileti, Martem in Gallia, Minervam
iliensem, Herculem gaditanum, Dianam Ephesiam, Matrem Deorum Sipylenem,
Nemesim quae Smirmae colitur et Caelestem Salinensem Carthagini.

E questo paragrafo è intimamente connesso con quello precedente in
cui si afferma che la _testamentifactio_ passiva non è accordata,
fatta eccezione che nel caso di testamento di un liberto, nemmeno ai
municipî.

[600] Cfr. il cap. 36 del 2. libro della Vita di Costantino di Eusebio
e la Nov. 131. cap. 9 di Giustiniano.

[601] Cfr. _Capitul. mantuanum primum_ c. II. (ed. BORETIUS I,
1, n. 92, pag. 195) De decimis vero que a populo in plebibus vel
baptismalibus æcclesiis offeruntur nulla exinde pars maiori æcclesiæ
vel episcopo inferatur.

[602] Cfr. _Mem. Lucchesi_ cit. V, p. II, pag. 22, n. 34, a. 746 e
MURATORI. _Antiq. cit._ III, 811-819, a. 796

Cfr. i docc. riguardanti la gestione patrimoniale delle pievi indicati
dal PERTILE. loc. cit. I, pag. 342, a. 89; e MAZZI A. _Studi cit._ pag.
9 e 27-28; TIRABOSCHI, _Mem. mod. cit._ I, pag. 155, a. 996; pagina
158, a. 998; II, pag. 137, a. 1003: UGHELLI^2. loc. cit. V, col. 508,
a. 997 e IV, col. 1007, a. 1004 (cfr. PROVANA. _Studi critici cit._
pag. 347).

Alla prova di questa asserzione che involge intimamente la vita civile
e quella religiosa son dedicati i §§ 9 e 10.

Cfr. TAMASSIA N. _Postille storiche e giuridiche alle opere di
Zenone vescovo di Verona_ in «Studi storici e giuridici offerti a F.
Ciccaglione» Catania 1909, I, pag. 8-10.

Cfr. GALANTE A. _Il diritto di patronato nei documenti langobardi_
negli «Studi in onore di V. Scialoja» Milano, 1905, vol. I.

[603] Cfr. pag. 181 nota 1.

[604] Cfr. i documenti riportati ed illustrati nella Diss. quarta delle
_Antichità long. milan._ cit., la quale però è inspirata per non dire
addirittura dominata dall'idea di mostrare la ragionevolezza delle
pretese dei monaci contro i sacerdoti, riunitisi a vita canonica nel
secolo XI.

[605] Cfr. nota a pag. 183, nota 2.

[606] Vedi le belle e giustissime parole di N. TAMASSIA in _Fidem
facere e manum facere cit._, pag. 536-37 sul tipo dei documenti
lucchesi; alle quali è da aggiungere anche quanto egli dice a tale
proposito a pag. 367-71.

[607] Sulla personalità giuridica del beneficio e lo sviluppo della
sua formazione cfr. RUFFINI F. _La rappresentanza giuridica delle
parrocchie,_ Torino, 1896, § 8-10, pag. 48-74; uno studio che dev'esser
segnalato fra la moltitudine dei lavori che si sono occupati di questo
argomento e dei quali fornisce un'abbondante indicazione bibliografica
il GALANTE, _loc. cit._ pag. 273 nota e nelle note ai §§ segg.

[608] Cfr. _Capitulare italicum. Capitula Karoli M._ 136. _Capitul.
Hludovici Pii_ (a. 825?) c. 9. _Leges_ I. 244, ed. BORETIUS; e le altre
disposizioni riportate dal DU-CANGE nel suo _Glossarium_ e dal nostro
MURATORI nella XXX Dissertazione.

[609] La ragione della tenacia di tale consuetudine, che finiva con
l'annullare l'antico precetto ecclesiastico del riposo festivo, era di
natura prevalentemente, se non sostanzialmente, economica. Usufruendo
di un giorno festivo per lo smercio dei prodotti si guadagnava una di
quelle giornate di lavoro, che le numerose prestazioni, alle quali
sopratutto i lavoratori della terra erano obbligati, riducevano
fortemente.

[610] Vedine la dimostrazione particolareggiata per Bergamo in MAZZI A.
_Corografia bergomense nei secoli_ VIII, IX, X, Bergamo, 1888. pag. 225
e segg.

Vedi anche _Capitul. Aquisgranense_ a. 809, c. 9, in «Monum. Germ.
Hist.» _Leges_, ed. BORETIUS I, pag. 156.

[611] Di ciò si è tentato di dare la dimostrazione nel paragrafo
precedente. Mi limito qui ad aggiungere le parole della concessione
dell'imperatore Lodovico II alla pieve rurale di Juvenalta nel
cremonese.

«Pro plenissima quietitudine confirmamus eidem sancto loco aqueductus
tam ad divisa molendina quam ad navigia deducenda, sive in Olio atque
etiam _mercata ibidem devenientia tam in montanis quamque in planicie
ut abhinc in futurum_ SICUTI ANTIQUITUS CONSUETUM FUIT _deducat_.

[612] LANDULPHI SEN. _loc. cit._, III, 20.

Di questo storico è stato dato — e meritatamente — un severo giudizio
(vedi, per es. quel che ne dicono i Bollandisti to. VI, julii 28, S.
Nazario); ma ciò non può toccare in nulla la veridicità della sua
notizia riguardo all'ubicazione ed alla composizione del mercato,
perchè egli ne fa menzione incidentalmente e come di cosa normale
anche al suo tempo. E, per di più, la sua notizia è confermata anche da
ARNOLFO. Cfr. infatti, _loc. cit._, III, 10.

[613] _Capitul. Ital._ c. 11. _Cap. Forma communi_ c. 14-18 in «Monum
Germ. Hist.» _Leges_, I, ed. BORETIUS, pag. 37-38.

[614] _Ibid_. c. 14.

L'_Expositio_ a questo capitolo richiama i due capitoli di Rotari 18 e
358. In realtà il richiamo è molto impreciso. Nel primo caso il Rotari,
proteggendo con la pena fortissima di 900 solidi _quemcumque ad regem
venientem_, dimostra chiaramente che si tratta di persone care al re e
che si recano da lui per suo e non per proprio vantaggio e lo conferma
stabilendo che la pena sia divisa fra il re stesso e l'offeso. Si
tratta dunque di _gasindi_ e non di _iterantes_ di viaggiatori comuni,
come nel cap. 14 di Carlo M., nel quale è ripresa anche la disposizione
del cap. 368 di Rotari.

[615] Cfr. _Decretio Chlotarii regis_ (a. 511-558) § 9, 3 (Et si
persequens latronem suum comprehenderit integram sibi composicionem
accipiat; et si per _trustem_ invenitur, mediam composicionem _trustis_
adquirat...) e § 16 in «Monum. Germ. Hist.» _Capitul. Meroving._ pag.
5-7.

Sull'interpretazione di questi passi vedi TAMASSIA N. _La Delatura_
in «Archivio Giuridico F. Serafini» 1897, vol. LVIII, p. 346-367 e
specialmente pag. 362-64.

[616] Era tanto un privilegio, che degenerò ben presto in un abuso e
Pipino dovette provvedervi. Cfr. _Capit. Ital._, c. 1 e 15.

[617] Vedi GIERKE H. _Erbrecht und Vicinenrecht in Edikt Chilperichs_
in «Zeitschrift für Rechtsgeschichte» II, 1887, pag. 480 e segg.

[618] Cfr. la legge salica nel famoso tit. _De migrantibus_, al quale
va aggiunto quell'importantissimo (per quanto mutilo) frammento edito
per la prima volta dal MERKEL (_Lex salica Extrav_. XI, pag. 101) che
dice: «Non potest homo migrare nisi convicinia et erba et aquam et v |
am |... | concedente? |».

Geniale, ma da accogliersi con molte riserve, è il lavoro del FUSTEL DE
COULANGES _Étude sur le titre «De migrantibus»_ Paris 1886.

[619] Vedine indicati un bel numero dallo SCHUPFER _Dir. Priv. cit._,
II, pag 42 e segg.

[620] Nelle formule di Marcolfo I, 7 ed. ZEUMER cit. in «Monum. Germ.
Hist.» III, pag. 47.

[621] Cfr. TIRABOSCHI. _Mem. Nonantola cit_., II, n. 19, pag. 36. È una
concessione livellare fatta dall'abate nonantolano Rodolfo a un certo
Gualprando _in persona et vice totius_ COMMUNIS _de Battona_.

[622] Per il mercato nelle pievi rurali vedine gli esempi riportati
dal MAYER (_Ital. Verfassungsg. cit._ § 20, n. 49, vol. I, pag. 339)
e del quale è pure da vedere ciò che dice dei rapporti della pieve con
il castello rispetto al mercato (_Ibid_., IV, § 51, vol. II, pag. 437 e
segg.).

[623] _Capitulare missorum in Theodonis villa datum secundum generale_
c. 13 (ed. BORETIUS in «Monum Germ. Hist.» Capit. Reg. Franc. I, n.
44).

De teloneis placet ut antiqua et iusta telonea a negotiatoribus
exigantur tam de pontibus quam et de navigiis seu mercatis; nova vero
seu iniusta ubi vel funes tenduntur, vel cum navibus sub pontibus
transitur seu et his similia, in quibus nullum adiutorium iterantibus
praestatur, ut non exigantur; similiter etiam nec de his qui sine
negotiandi causa substantiam suam de una domo ad aliam ducunt aut ad
palatium aut in exercitum.

Cfr. anche _Ansegisi capitulare_ III, 12 (ed. Id., pag. 427);
sulla cui introduzione e l'applicazione in Italia vedi PATETTA F.
_Sull'introduzione in Italia della collezione di Ansegiso_. Torino,
1890. Estr. dagli Atti della R. Accademia delle Scienze.

Sulla mancanza nei Capitolari e nelle leggi di accenni ai commestibili
e alle cibarie cfr. anche LEICHT P. S. _Statuta vetera Civitatis
Austriae_. Cividale, 1902, pag. VII e bibliografia ivi citata. Egli
ha dimostrato che anche i documenti e gli statuti friulani confermano
l'opinione del Sohm, del Maurer e del Ritschel che, anche i pesi e le
misure, insieme e oltre alle cibarie (delle quali, come si è detto,
nessuna legge imperiale o Capitolare si occupa) erano rilasciate alle
consuetudini locali ed ha messo in evidenza anche un altro lato di
grande importanza per noi, dimostrando che il traffico delle cose
commestibili era permesso anche nei luoghi dove era esplicitamente
vietato il mercato: ciò che significa — dato che il diritto di mercato
si risolve in sostanza nel diritto di percepire una tassa da parte del
titolare — che il commercio dei commestibili non era gravato da alcuna
contribuzione.

[624] SCHUPFER F. _La pubblicità nei trapassi della proprietà secondo
il diritto romano del basso Impero_ etc. in «Rivista italiana per
le scienze giurid.» vol. XXIX, fasc. 1-2, a. 1905, pag. 43 e segg.
Vedi però anche le vecchie ma buone pagine di J. C. BULENGERUS _De
vectigalibus populi romani_ in «Thesaur. roman. antiquit.» vol. VIII,
Venezia, 1735, cap. 5, col. 843 e segg.

Esempi dell'epoca medioevale sono riportati dal MAYER _Ital.
Verfassungsg_. cit. I, pag. 331, n. 8.

[625] a. 812 (?) Carlo M. dona a Rataldo vescovo di Verona il _forum_
ed il _mercatum_ soliti a farsi nella festività di S. Zeno a Verona.
Cfr. CIPOLLA C. _Verzeichniss der Kaiserurkunden in den Archiven
Veronas_ I in «Muhlbacher's Mittheilungen» II, 88. Innsbruck 1881.

[626] Interessante è a questo proposito il can. 48 degli _Statuta
eccles. antiqua_ (ed. BRUNS H. T. _Canones apostolorum et conciliorum
saeculorum_ IV, V, VI, VII. Berlin 1839 I, pag. 146) compilati, molto
probabilmente, nella seconda metà del secolo quarto (cfr. MAASSEN E.
_Geschichte der Quellen und der Literatur des kanonischen Rechts in
Abendlande bis zum Ausgange des Mittelalters_. I, Gratz, 1870, p. 393),
il quale stabilisce che il chierico che «non pro emendo aliquid _in
mundinis vel in foro_ deambulat» debba esser degradato. Questo canone,
infatti, ebbe larga applicazione in Italia, tanto che se ne riscontra
l'influenza diretta in varie raccolte, a cominciare da un canone
del famoso Attone vescovo di Vercelli. Cfr. _Attonis vercellensis
opera-Canones_ n. 43 (ed. Del Signore, Vercelli, 1768, parte II, p.
278).

[627] I primi germi delle fiere medioevali si trovano nelle ultime
fiere dell'impero romano. Cfr. HUVELIN _loc. cit._, pag. 135.

[628] Cfr. HUVELIN _loc. cit._, passim, GOLDSCHMIDT E.
_Universalgeschichte des Handelsrechts_ Stuttgart, 1891, pag. 221 e
segg. e bibliografia ivi citata. Fondamentale, però, rimane sempre il
lavoro del BOURQUELOT _Étude sur les foires de Champagne._ Paris, 1865.

[629] Cfr. MURATORI _Antiq. Ital._ Diss. XXX. e gli esempi da lui
indicati. Anche il commercio dei barbari che si concentrava nei
mercati che si tenevano nei giorni di feste religiose e di assemblee
politico-giudiziarie, sia di diversi popoli — _concilia_ — che di varie
centenae di uno stesso popolo. Cfr. HUVELIN _loc. cit._ pag. 141.

Ciò rese più facile la continuazione delle antiche consuetudini
italiche sulle quali quelle germaniche poterono adagiarsi facilmente.

[630] Cfr. _Capitul. Ital._ di Carlo M. c. 52.

[631] Cfr. MORIONDO J. B. _Monumenta aquensia._ I, Torino, 1789, col.
106-7, n. 92, a. 1197.

Credo non inutile riportare integralmente la parte più interessante di
questo bel documento.

Omnis bestia quadrupes vendita in foro Aquensi et Arcivolio debet
curadiae in duobus denariis ab autore, totidem a venditore. De agnis
et haedis nihil sicut et de fructibus et de ovis et de his omnibus
quae brachio portantur. Idem de pullis et de piscibus recentibus.
De caballo tamen den. XII. De onere pullorum ovorum den. 1. De fasce
hominis circulorum mealia (uvae alia) datur. De fasce boum den. II.
Tellaria habentes pisces, negotiatores drappi et ferri et merces
vendentes in foro, ut sedeant, unusquisque den. II. curadiae debet. De
torta lini den. II dantur. De soma lebetum idem. De fasce scutellarum
et scutorum idem. Artifices sitularum et situlorum omni anno situlam
debent et situlum. Ferrarii cultellum et mensuram. Facientes conchas
et lanceas et juga idem. De fasce bailorum I den. De carro lignorum
II den. De barroccio I den. De carro et barroccio vini II den. De
fasce ollarum et testarum idem. De asino veniente onerato nihil; si
egreditur oneratus I den. De mezena I den. Sextarium vero capiendum est
ad pugnum venditoris. Ex his omnibus predicti memorati antiqui aeque
concordaverunt.

[632] L'esenzione accordata ad Asti ai commestibili può nel complesso
esser considerata come un fatto comune di un fenomeno generale.

Le città che più a lungo furono soggette ai pedaggi e alla curatura
verso l'impero offrono a questo proposito un buon mezzo di riprova. A
Siena, per esempio, che durò a lungo in tale soggezione, gli elenchi
che ancor si conservano nel R. Archivio di Stato, delle imposizioni
e dei tributi dai quali erano colpite le merci che si negoziavano
nel mercato cittadino, per gran parte del secolo decimoterzo sono
limitati ad un numero di voci relativamente assai scarso. E non si
può supporre che la causa si debba ricercare in un tardo svilupparsi
del commercio senese, perchè fino dai non ultimi decenni del secolo
decimosecondo si hanno tracce numerose ed importanti dell'attività
straordinaria dei senesi. Il LISINI (_Indice di due antichi libri di
imbreviature notarili_ in «Bullettino senese di Storia Patria» vol.
XIX 1912) illustrando degnamente quasi un migliaio di atti dei primi
anni del secolo XIII., completa quanto fino ad ora era stato appena
intraveduto (cfr. SCHULTE _Geschichte des mittelalterlichen Handels
und Verkehrs zwischens West-deutschland und Italien mit Ausschluss
von Venedig._ Leipzig, 1900, I. pag. 247) e accennato (cfr. PAOLI C.
_Siena alle fiere di Sciampagna_ Siena 1898 pag. 19 e segg. e SCHAUBE
_Handelsgeschichte der romanischen Völker des Mittelmeergebiets bis zum
Ende der Kreuzzüge._ München 1906, passim) e dimostra che il commercio
dei senesi era in questo tempo di primissimo ordine.

Sugli istituti di diritto commerciale, sopratutto in un'epoca più tarda
cfr. ARCANGELI A. _Gli istituti del diritto commerciale_ nello statuto
senese del 1309-10 in «Rivista di diritto commerciale» di Sraffa e
Vivante a IV., 1906, fasc. 3-4.

[633] Cfr. nota 1 a pag. 222.

[634] Cfr. HUVELIN _loc. cit._, pag. 176.

[635] Ne offre chiara prova la città di Vercelli. Nel 913 il re
Berengario concedeva ai canonici delle due cattedrali vercellesi di
S. Maria Maggiore e di S. Eusebio (ed. SCHIAPARELLI _cit_.) _mercatum
publicum qui singulis kalendis augusti_ in beati Eusebii festivitate
continuatim subsequentibus _Et mercatum ebdomadalen_ qui omni die
sabati perficitur. L'uno e l'altro passarono più tardi nelle mani del
Comune (Cfr. ADRIANI G. B. _Statuti e monumenti storici del Comune di
Vercelli_. Torino, 1877, pag. 189, § 260), il quale non vi portò alcun
mutamento e conservò anche l'antica distinzione del mercato settimanale
dal mercato dei commestibili di prima necessità, strettamente vicinale.
Infatti il § CCXCIII (_ibidem_ pag. 209) si esprime così: «Item non
prohibebo alicui de districtu civitatis tam laicis quam clericis et
poderio ea quae necessaria fuerint ad usum suum et familie sue et usum
vicinorum suorum sue ville quibus possint solummodo ad comedendum et
bibendum vendere et etiam transeuntibus possint vendere ad bibendum et
comedendum. Item non prohibebo mercatum nec ea que necessaria fuerint
tam clericis quam lajcis ad usum suum vel locis sive castris qui et que
tenentur sive custodiuntur a communi sive pro communi civitatis etc.

Al tempo dello statuto, per quanto relativamente assai antico come
lo dimostra la formula in prima persona, caratteristica del breve
potestarile, il mercato ebdomadale ha assorbito completamente quello
vicinale entro la città, mentre nel resto del territorio, ne rimane
ancora distinto.

Anche a Bergamo si verifica lo stesso fatto: l'antico _forum_ viene col
tempo a prendere il nome di _mercatum_. Cfr. MAZZI A. _Nota cit._ pag.
323.

[636] Cfr. HUVELIN _loc. cit._ pag. 151-53 e le citazioni ivi riportate.

[637] _Cod. Dipl. Long._ — TROYA — n. 308.

[638] Cfr. SOLMI. _Diete di Roncaglia cit_.

[639] Vedi nota 2 a pag. 217 e _Antichità longobardiche milanesi cit_.,
I, pag. 165-68.

[640] Nei centri rurali, invece, la riconnessione del mercato alla
parrocchia si manifesta anche nell'ubicazione. Normalmente in ognuno
di essi vi era una sola piazza più o meno grande sulla quale i
parrocchiani si radunavano fino da antichissimi tempi per i loro
bisogni spirituali e materiali; tanto che anche Rotari parla del
_conventus ante ecclesiam_ come di una riunione normale diffusa in
tutta l'Italia langobarda.

In alcuni luoghi questo spianato ha conservato a lungo dei nomi tipici
che ne illuminano la natura. Cfr., per esempio, per Barga di Garfagnana
il bel _Dizionario geografico fisico storico della Toscana_ di E.
REPETTI (Firenze 1833) sotto q. v. e le _Relazioni di alcuni viaggi
fatti nelle diverse parti della Toscana_ di G. TARGIONI TOZZETTI vol.
V, Firenze 1773, pag. 332.

A Toscanella nel 775 fu rogato un atto in _Foro ante ecclesiam S.
Andree_ (cfr. pergamena originale nel R. Archivio di Stato in Siena,
prov. S. Salvatore di Monteamiata); nel febbraio del 787 _in vico
Tofinana ante ecclesiam S. Paternano_ (_ibid_.); nel maggio del 794 nel
_vico Foro ante ecclesiam S. Andrea_ (_ibid_.); nell'aprile dell'819
nel _vico Margharita ante ecclesiam S. Petri_ (_ibid_.); nel novembre
dell'823 _in vico Marianu ante ecclesiam S. Johannis_ (_ibid_.).

[641] Cfr. pag. 90 nota 1.

[642] Traccie abbondanti di tale sistema si sono mantenute a lungo a
Parma. L'AFFÒ (_loc. cit._, vol. I) ha ricostruito molto bene la pianta
dell'antica città, al tempo romano chiamata col significativo nome di
Crisopoli; e da essa si rileva che il punto centrale era costituito dal
_forum_ e se ne trova la posizione esatta. Un documento del 3 gennaio
del 1092 (_ibid_., pag. 340) ricorda la chiesa di S. Pietro «que _prope
forum_ posita est». E anche oggi la chiesa dell'apostolo si trova sulla
piazza quadrata, che da secoli e secoli è rimasta inalterata nella sua
tipica forma.

[643] Cfr. FACCIO C. _La corte regia di Vercelli nel basso medioevo_ in
«Archivio della Società vercellese di storia e d'arte» a. I, 1909, n.
3-4, pag. 83-84.

[644] _Cod. Dipl. Long._ — TROYA — n. 295, a. 724. In civitate
cremonensi in curte regia et in laubia eiusdem curtis sita _platea
magna_ eiusdem civitatis.

[645] _Historiola_ di Rodolfo not. ed. Odorici loc. cit, p. XVII-XVIII
..._in platea Brixie_.

Questo documento, come quello citato nella nota precedente, sono di
un'autenticità tutt'altro che indiscutibile (cfr. WUNSTENFELD T. _Delle
falsificazioni di alcuni documenti concernenti la storia d'Italia
nel medioevo_ in «Archivio Storico Italiano» 1859, to. X, disp. 3,
pag. 81 e segg.); ma possono servire egualmente quando s'interpetrino
con discrezione e se ne voglia dedurre solo una prova generica
dell'esistenza di una piazza centrale in queste due città fino da epoca
remota.

[646] _Memorie e documenti lucchesi cit._, V, 2, n. 374, a. 811.
Austrifonso diacono dona ad una monaca la chiesa di S. Michele _in
Foro_, da lui costruita.

La cattedrale era ancora fuori delle mura. Cfr. DAVIDSON _loc. cit._,
I, pag. 238.

[647] CAMPI _Hist. cit._, I, pag. 324. Il vescovo Podone fonda
nell'antico foro una chiesa dedicata a S. Pietro, nella quale fu
seppellito nell'839. Il foro è ricordato pure in un altro documento
dell'anno 857 (ID. _Ibid_. pag. 212) col quale il canonico Leone fa
donazione di 28 tavole di terra situate presso di esso.

[648] _Cod. Dipl. Long._ — PORRO — n. 292, a. 679. Actum _foro_ civ.
Bergomi.

[649] Cfr. nota 2 della pag. preced.

[650] Cfr. BOSISIO G. _Intorno al luogo del supplizio di Severino
Boezio_, Pavia, 1855

[651] MURATORI. _Antiq. Ital. Excerpta e chartis pisani archivii
archiep._ a. 1112. In _foro_ pisane civitatis que curia marchionis
appellatur.

Per l'ubicazione dell'antica cattedrale cfr. DAVIDSOHN _loc. cit._, I,
pag. 197.

[652] MURATORI. _Antiq. Ital._, Diss. LXII. Società fra i Ferraresi e i
Modenesi a. 1198. È ricordato frequentemente il _forum._

Prima del mille la cattedrale era sicuramente fuori delle mura. Cfr.
TIRABOSCHI _Mem. moden. cit._, II, Cod. Dipl., n. 166, pag. 3.

[653] UGHELLI. _Italia sacra cit._, V, col. 713. Concio Verone in die
dominico in domo _fori_ fieri solet.

[654] Un documento del 1018 ricorda il _forum vetus_ (cfr. DAVIDSOHN,
_loc. cit._, pag. 204) il quale — e si conferma anche qui la
distinzione del _forum_ e del suo contenuto dal _mercatum_ — si
differenzia anche per l'ubicazione dal «_mercatum regis_ in civitate
Florentie» (cfr. LAMI. _Mon. cit._, pag. 885).

[655] Cfr. il diploma di Carlo il Calvo del 1 marzo 876 in PASQUI.
_Doc. cit._, n. 43, pag. 61-63.

[656] Anche a Rimini fino da antichissimi tempi si ha notizia di un
_forum publicum_. Cfr. TONINI L. _Rimini dal principio dell'era volgare
al MCC._ Rimini, 1856, pag. 338.

A Bari pure da epoca immemorabile accanto al pretorio ed alla sede
catapanile, ove poi sorse la chiesa di S. Nicola, c'era il _forum_.
Cfr. BESTA E. _Il diritto consuetudinario di Bari e la sua genesi
cit._, pag. 45.

[657] Nella città franco-germanica la costituzione e, conseguentemente,
il diritto si possono distinguere in due grandi periodi ben differenti
l'uno dall'altro. Nel primo la città è governata e retta da poteri
privati o pubblici che non sono di natura urbana, che non si
differenziano, cioè, da quelli che reggono il territorio circostante;
anzi, sono proprio quelli stessi che dominano al di fuori di essa.
E, come ciascun grande proprietario accentra in sè un certo numero di
facoltà e di poteri, che nel loro complesso costituiscono il diritto
della _curtis_, il diritto curtense; ne consegue che la città non si
differenzia giuridicamente dal territorio aperto e dai gruppi minori
che vi sono sparsi e lo compongono. Nella città possono trovarsi a
contatto varî di questi sistemi; ma essa, in quanto e perchè città, può
costituire e costituisce un'unità di fatto ma non un'unità giuridica.

In seguito, dove la situazione topografica si manifestò più favorevole
al commercio, in immediato contatto con la parte esterna delle mura
della città si vennero da ogni parte raccogliendo individui delle
più svariate provenienze e gradazioni sociali, dal libero ricco
ed indipendente al servo fuggito dal dominio signorile, attrattivi
dall'unico scopo del commerciare. L'identità del fine e la comunanza
del luogo portò rapidamente ad un'unione, se non ad una fusione, di
tutti questi elementi, pur così eterogenei, e fece sì che insieme con
il mercato e con le sue _mansiones_, sorgessero tutt'intorno le case
dei mercanti, dominate, non di rado, dalla chiesa comune; e che lungo
la parte del borgo che non si appoggiava alle mura, corressero fossi e
steccati, fatti scavare e costruire dai mercanti stessi stretti, per
bisogno di reciproca difesa, in quelle gilde che appaiono ai primi
albori dei comuni franco-germanici. E il numero dei borghi originati
da _mercatores_ fu tale che furono chiamati quasi indifferentemente
_mercatores_ e _burgenses_. E questi borghi, per la speciale origine e
conformazione costituirono come un terreno neutro, nel quale vigevano
usi, consuetudini e sistemi di scambio differenti da quelli che avevano
vigore all'intorno.

Però tale stato di cose non si prolungò molto a lungo. La vicinanza
immediata con la città, le relazioni inevitabilmente venutesi a
stringere fra quelli dentro e quelli fuori le mura, l'aumento sempre
più forte di ricchezza da parte dei mercanti ed il bisogno derivatone
di una difesa e di una protezione più valida che solo le mura potevano
offrire, fecero sì, che questi _mercatores_, tendessero ad entrare a
far parte della città. Dal canto suo la città, sempre meno soggetta
al potere centrale con lo svolgersi del sistema feudale, non aveva
potuto mantenere inalterata la sua rigida economia agraria primitiva
e non era in grado di opporre ostacoli troppo forti ai gruppi ormai
omogenei che le si erano stabiliti sotto le mura; e così questi
_mercatores_ riuscirono a divenire cittadini. Ma questo nuovo elemento
divenuto in breve predominante, impresse rapidamente alla città un
organizzazione rispondente ai proprî bisogni ed alle proprie attitudini
e con l'organizzazione anche il diritto, che creato sopratutto per
gli scambi, ebbe come caratteristica, una natura essenzialmente
internazionale; l'opposto, cioè, del diritto curtense che aveva fino ad
allora predominato.

E questa è la seconda fase delle città tedesche, quella che si apre al
tempo dei Comuni.

Come si vede la città franco-belgo-germanica non gode mai in maniera
apprezzabile di un diritto suo proprio ad essa esclusivo: nella
prima fase è retta da norme giuridiche che si applicano e vigono
indifferentemente così dentro come fuori di essa; nella seconda riceve
da elementi che non le sono originari un nuovo diritto che, se non
costituisce tutto il complesso delle norme giuridiche, ne forma però la
parte di gran lunga maggiore e più importante e questo diritto nuovo
destinato a regolare rapporti d'indole commerciale, è, per necessità
intrinseca della sua natura e del suo scopo, alieno da ogni tendenza
particolaristica.

[658] Quanto si è detto nella nota 4 a pag. 220 a proposito delle
misure è pienamente confermato dai documenti fiorentini, dai quali
ci è fatto conoscere che non di rado il tipo delle varie misure
era espresso in una pietra murata presso le porte della città. «Ut
sit mensurata _cum pede qui designatus est in petra iuxta portam S.
Pancratii posita_» dice un documento del 1088, edito, insieme con
molti altri posteriori che fanno menzione di questa misura da TUBALCO
PANICHIO. _Del piede Aliprando e del piede della porta_ nella «Raccolta
d'opuscoli scientifici e filologici» del CALOGERÀ, to. X, Venezia,
1734, pag. 170.

[659] SERAFINI F. _Sulla nullità degli atti giuridici compiuti senza
l'osservanza delle forme prescritte dalla legge._ Roma, 1874, pag. 6.

[660] Cfr. PAOLI C. _Mercato Scritta e Denaro di Dio_ in «Archivio
Storico Ital.» s. V, to. XV, disp. 2 del 1895, pag. 307-315.

[661] ZDEKAUER L. _Mercato Scritta e Denaro di Dio_ nota a proposito
della ricerca del Paoli con lo stesso titolo in «Rivista ital. per le
scienze giurid.» 1895, fasc. 1.

[662] Ecco un brano di innegabile evidenza tolto dalla prima novella
intitolata «Vannino da Perugia e la Montanina» di GENTILE SERMINI DA
SIENA (ed Livorno, 1874, pag. 10): «Disse la Nuta: Dammi tu la fede di
farlo (di ricevere Vannino) se Andreoccio (il marito) va fuora della
città? Sì, disse la Montanina, e _la fede impalmò alla Nuta_».

Non meno evidente è un esempio offertoci dai _Fioretti di S. Francesco_
(c. 21) «Frate lupo, dice s. Francesco, io voglio che tu mi _facci fede
di questa promessa_, acciocchè io meno possa fidare e _distendendo
santo Francesco la mano per riceverne fede, il lupo_ levò su _il piè
diritto dinanzi_ e dimesticamente lo _puose sopra la mano di santo
Francesco_, dandogli quello segnale di fede ch'egli potea.

Questa stretta di mano simbolica si chiamava la _palmata_. Non per
nulla anche oggi il linguaggio comune conserva la parola _impalmare_
per indicare una forma speciale del contratto di matrimonio.

[663] Cfr. GREGORIO DI TOURS. _Hist. Franc._ V, 3; III, 4, 8; _In
gloria confess_. c. 67 ISIDORO _Origin_. VIII, 2, 4 e 11, I, 67.

Questi passi sono stati indicati, illustrati e pubblicati da N.
TAMASSIA in _Fidem facere e manu fidem facere_ e _Manum facere citt._

[664] Si trova nelle tavolette cerate daciche (BRUNS _Fontes cit._
pag. 205-209); in un documento del _Codex antiquissimus pataviensis_ il
formulario del quale è del quinto secolo (_Monum. Boic._ XXVIII, 2, n.
2. p. 5); nella _Vita Macriani_ c. 12 (_Scriptores hist. augustae_ ed.
Teubner II, 111) e perfino nelle commedie di Plauto. (Cfr. COSTA E. _Il
diritto privato romano nelle commedie di Plauto_ pag. 277 e segg.)

È merito del TAMASSIA averlo dimostrato e di aver indicate queste fonti.

[665] Cfr. MITTEIS _Römischen Privatrecht cit_. I, pag 294 e segg.

[666] _Roth_. 244.

[667] Cfr. la notizia veronese di cui già ci siamo occupati a pagina
134-36.

[668] Cfr. _Cronica q. dicuntur Fredegarii_ IV, 71 nei «Mon. Germ.
Hist.» S. S. I, pag. 15.

[669] La misura della protezione speciale accordata dall'Editto
alla città si rileva dal confronto con le altre disposizioni che
stabiliscono la scala delle aggravanti dello _scandalum_ rispetto al
luogo in cui è commesso e cioè: il palazzo del re, «ubi rex presens
est» (_Roth_. c. 36), la chiesa (_Roth_. c. 35), la città dove si trova
il re (_Roth_. c. 37, 38) la città (_Roth_. 39, 40).

[670] Cfr. KUHN. _Entstehung der Städte cit_. pag. 440.

[671] _Dig_. XLIX, 16, 3 § 17 ... si vallum quis transcendat aut per
murum castra ingrediatur... E il cap. 244 di Rotari: Si quis per murum
de castro aut civitate sine noticia iudecis sui exierit foras aut
intraverit.

[672] La cosa è tanto più verosimile in quanto che nella maggior parte
dei casi la _civitas_ era il capoluogo delle singole circoscrizioni:
e queste, come si è veduto, in linea di massima furono lasciate
inalterate dai Langobardi. Anche Paolo Diacono mostra un'esattezza
degna di osservazione nel distinguere la _civitas_ dal _castrum_. Oltre
passi di minore importanza (cfr. per es. _Hist. Langub_., II, 13 .....
haut longe a _cenitense castro_ vel _tarvisiana_ distet _civitate_);
uno mi par degno di nota: (_ibid._, II, 9). Indeque Alboin Venetias
fines quae prima est Italiae provincia sine aliquo obstaculo, id
est _civitatis vel potius castri foroiuliani_ terminos introisset.
Al tempo romano _Forumjulium_ era un _castrum_ e P. Diacono non osa
chiamarla completamente una _civitas_ nemmeno dopo anni ed anni da
che i Langobardi l'avevano eletta sede di ducato e ricorda che era un
semplice _castrum_.

[673] L'importanza del centro urbano è comprovata dalla severità delle
leggi nel punire coloro che in qualche modo, anche solo attraversandole
di soppiatto, violassero la santità — è il termine usato dalle fonti —
delle mura. Chi _violaverit muros_, dice POMPONIO (_Dig_. I, 8, 11), è
punibile di morte. Questa legge si riannoda all'antichissimo mito del
salto del vallo da parte di Remo, di cui già si è parlato, consacra
l'obbligo dei cittadini di non passar che per le porte, e concerne solo
Roma. Ma a provar che questo culto delle mura non era esclusivo di Roma
e che in conseguenza non era esclusivo di Roma il contenuto giuridico
di cui esso era l'esponente e, cioè, la preminenza assoluta degli
intramurani, MARCIANO, SABINO e CASSIO dichiarano concordi (_Dig_. I,
8, 1 e 2) che le mura e le porte di tutte le città erano, al pari di
quelle di Roma, _sanctae et quemadmodum divini juris_.

[674] Cfr. pag. 48-52 e specialmente la legge riportata nella nota 2 a
pag. 48-49, e pag. 67-69.

[675] Cfr. _Cod. dipl. long._ — TROYA — n. 602.

[676] Cfr. pag. 135, dove si parla proprio di _cives_, e pag. 143.

[677] RATHERII EPISC. VERON. _Opera_. Veronae, 1765, col. 564-66. Il
passo è stato per la prima volta indicato agli studiosi da N. TAMASSIA
_Raterio e l'età sua_ in «Studii giuridici dedicati ed offerti a F.
Schupfer» II, Torino, 1908, pag. 85-94.

[678] GRADONICUS F. _Pontificum brixianorum series_. Brescia, 1755,
pag. 159 e segg.

[679] Vedi a pag. 119-120. Questi diplomi sono stati ritenuti sospetti
così dal Niese, come dal BESTA (_Nuove vedute sul diritto pubblico
italiano nel medio evo_ in «Riv. ital. p. le scienze giurid.» li 1-2,
pag. 38-39); ma se si ammette l'interpetrazione datane in questo volume
così nei rispetti dell'arimannia come della cittadinanza, ogni ragione
di sospetto viene completamente a mancare.

[680] LUPI. _Cod. dipl. berg. cit._ II. col. 729. Cfr. anche MAZZI A.
_Studi bergomensi cit_. pag. 9.

[681] La partecipazione dei _nobiles_ e dei _sapientes_, che pure ne
vivono fuori, alla vita della città è dovuta all'azione del sistema
feudale. Cfr. PERTILE _loc. cit._ I. pag. 342.

[682] FICKER _loc. cit._ IV, n. 85, p. 129.

[683] Id. _ibid_. n. 86, pag. 131.

[684] MAZZI A. _Studî cit._ pag. 107.

[685] ID. _ibid_. pag. 33.

[686] Cfr. PATETTA F. _Studi storici e note sopra alcune iscrizioni
medioevali_. Modena 1907, pag. 122-23. Riporto le sue precise parole
perchè non si potrebbe fare della _Relatio_ riassunto più esatto ed
imparziale.

[687] LUPI. _Cod. dipl. cit._, II, n. 1267 e MAZZI A. _Studi cit_.,
pagina 119-25.

[688] _Roth_. 21.

[689] _Cod. dipl. long_. — TROYA — n. 693, 971, 985. Cfr. anche
SCHUPFER _Istituzioni politiche cit._, pag. 384.

[690] BRUNETTI, _loc. cit._, n. 25.

[691] Cfr. PLINIO. _Natur. Hist_. XXVII, 1.

[692] Cfr. ZDEKAUER L. _Il Constituto del Comune di Siena dell'anno
1262_, Milano 1897, pag. 61-62 della prefazione.

[693] Cfr. nota 2 a pag. 237.

[694] Cfr. pag. 61 e segg.

[695] _Roth_. 343.

[696] _Roth_. 279, 280.

[697] _Roth_. 312.

[698] _Roth_. 35.

[699] Sul contenuto del _populus_ vedi § 5, pag. 122 e segg.

[700] _Cap. italicum_. Cap. Loth. 13.

[701] c. 5, ed. cit. pag. 100. Esso riprende alla lettera il concetto
della leg. un. tit. 56 libro XI del Cod. Just.

[702] Capit. ital. c. 37.

[703] GIULINI _Mem. cit._ VII. p, I, pag. 890-91. Testam. dell'arciv.
Ansperto a. 879.

[704] _Delle antichità long. milan._ cit. I. p. 242.

[705] È del 25 agosto 1097 ed è edito dal DEL GIUDICE _Studî cit._,
pag. 61.

Che nell'espressione — consulatu civium — non si trovi la menzione del
consolato, del gruppo dei consoli della città di Milano non si può
ammettere (dice il DEL GIUDICE, a cui sottoscrivo pienamente, fatta
eccezione del modo d'intendere la parola _cives_) per tre ragioni e
cioè: primo, che la voce _cives_ nell'uso delle fonti milanesi del
secolo undecimo, non designa già (come avvenne più tardi) tutto il
popolo, ma solo la borghesia in senso stretto, cioè un ceto particolare
opposto alla nobiltà rappresentata dalle due classi feudali dei
capitanei, e dei valvassori o militi. Per tal modo vi sarebbero stati,
a tenore di questo documento, i consoli dei borghesi (_cives_) e non
quelli dei capitanei e dei militi; il che è contradetto dalle più
antiche sentenze a noi pervenute dai tribunali consolari le quali
portano il nome dei consoli delle varie classi. In secondo luogo è
da osservare che dei molti nomi di persone segnate come testimoni o
presenti all'atto, non uno si legge che porti il titolo di _consul_
mentre non mancano gli appellativi di giudice, di messo imperiale,
di notaio. Eppure, se la carta fosse stata scritta nel consolato
cioè nel luogo di residenza dei consoli ed alla loro presenza, non
sarebbe mancata l'indicazione del loro nome. La terza difficoltà è
questa: che negli anni successivi al 1097 non vi è parola di consoli
in atti pubblici dove la loro presenza o partecipazione sarebbe stata
necessaria. Non rimane adunque che interpetrare la data della carta
cremonese come indicante la località dove si radunavano i _cives_; dove
si teneva il _consilium civitatis_.

[706] DEL GIUDICE. _Studi cit_. pag. 50.

[707] ID. _ibid_. pag. 52.

[708] Ed. dal MURATORI. _Antiq. ital._ diss. XV, col. 853-55.

[709] Nec marchionem aliquem in Tusciam mittemus sine laudamento
_hominum duodecim electorum in colloquio facto sonantibus campanis_,
dice il notissimo diploma di Enrico IV ai pisani dell'anno 1081.

[710] P. DIACONO, _loc. cit_. IV, 31 e II cap. ult.

[711] Cfr. _Memorie e doc. cit._ IV, 1, pag 199.

[712] Cfr. FRIEDLAENDER E. _Darstellungen aus der Sittengeschichte
Roms_. II, pag. 538 e segg.

[713] Cfr. TAMASSIA N. _Fidem facere_ cit. pag.

[714] Nelle nostre colline di Pisa, dice G. LAMI (_Lezioni di antichità
toscane_, etc. Firenze, 1766, vol. I, lezione 4ª, pag. 86-87) è un
tratto di paese, vicino al Bagno ad acqua, che si chiama _parlascio_.
È questo un monticello sulla cui cima si vedono le rovine di una
mediocre rocca o fortezza di figura quadra con torrioni e baluardi
tondi negli angoli. Sotto questa rocca verso levante è la chiesa dei
SS. Quirico e Giulitta ed a ponente di questa chiesa è un borgo, pure
detto _parlascio, e non vi è stata mai trovata traccia alcuna di antico
anfiteatro romano._

[715] L'antico _perilascium_, trasformato in postribolo — effectum
postribolum — fu donato nell'800 alla chiesa aretina per togliere lo
sconcio. Cfr. PASQUI U. _Documenti cit._ I. n. 16, pag. 29-30.

[716] Fino dal secolo decimo si ha ricordo di una porta a parlascio,
per la sua vicinanza al _parlascium_. Cfr. LAMI, _loc. cit._ I, pag 90.

[717] Cfr. LAMI, _loc. cit._ I, pag. 96; ALVISI E. _Il libro delle
origini di Fiesole e di Firenze_, Parma, 1895, pag. 38 e MANNI M. D.
_Notizie storiche intorno al parlagio ovvero anfiteatro di Firenze_,
Bologna, 1746. pag. 13-17 e 26.

a. 1171... infra civitatem Florentinam prope _Perilascio picculo._

a. 1133... in civitate Florentina in loco _Parlascio picculo_.

a. 1030... prope _Perilasium majorem._

[718] TIRABOSCHI. _Memorie di Nonantola_ cit. n. 197, a. 1089, «pecia
una de terra prope civitatem Cremone in loco _parlassi_».

[719] Cfr. MAZZI A, _Perelassi_, Bergamo, 1884.

[720] DAVIDSOHN, _loc. cit_. I, pag. 513.

[721] _Liutpr_. c. 99.

[722] _Aist_. c. 2, 8.

[723] Cfr. TAMASSIA N. _Le alienazioni degli immobili e gli eredi
secondo gli antichi diritti germanici e specialmente il langobardo_.
Milano, 1885, pag. 159.

[724] _Liutpr_. c. 62.

[725] _Cap. ital. K. M._ 49, 68, 114 etc.

[726] Vedine gli ess. riportati dal MURATORI _Antiq_. Diss. LXIII.

[727] Cfr. i documenti pubblicati dal PERTILE _loc. cit._ VI, 1, pag.
25 e segg. e specialmente pag. 33.

[728] _Mem. e doc. cit_. IV, n. 475, a. 825 Anspald cler. scavinus
ecclesiae, — n. 589, a. 838 Gonfrid. scab. eccl. — n. 648, a. 847
Iohannes clericus scab. eccl.

[729] _Cod. dipl. lang_. — PORRO. — col. 1561, a. 915 Petrus _scavino
huius comitato_ (lucense).

[730] Cfr. il § 6, pag. 132 e segg.

[731] Cfr. _Mem. e doc. cit_., V, n. 698. a. 853. A. Scabinus
florentine urbis.

[732] Cfr. PERTILE, _loc. cit._ VI, pag. 34.

[733] _Cap. it. K. M._ 35 e 93.

[734] Cfr. a questo proposito ZDEKAUER L. _Il Constituto dei Consoli
del placito del Comune di Siena_ in «Studi Senesi» vol. IX, 1892, pag.
57-58.

[735] Cfr. ID. _ibid._, pag. 60-61. Lo ZDEKAUER è stato il primo e
l'unico, ch'io sappia, a sentire come l'indagine sulla competenza
doveva segnare il primo passo per determinare l'origine del Consolato
del Placito e come esso si riannodi ad antichissimi sistemi germanici.

[736] _Liutp_. c. 22, 29, 91, 117.

[737] _Rach_. c. 8.

[738] Cfr. _Chart_. I, 45, a. 887; un documento è ritenuto privo di
valore legale non perchè sia falso ma perchè non è stato scritto o
firmato da un _notarius scriba publicus_.

[739] È la nota definizione datane da ROLANDINO nel proemio del suo
_Tractatus notularum_.

[740] _Loth_. 98. Per l'intervento dei notai nel placito come scabini è
tipico l'esempio del giudice astense Graseverto.

Cfr. FICKER, _loc. cit._, III, pag. 21 e 22 e CIPOLLA. _Di Audace
cit_., pag. 194-96. A Piacenza, a. 879 uno scabino è _archinotarius_.
Cfr. MAYER _Ital. Verf. cit._, § 5, nota 83.

[741] _Lex alam._ XXXVI, 1, 2; _Lex Baiuw._ II, 15, 1. E mi piace
riportare qui anche un caso pratico contemporaneo al periodo che si sta
studiando in Italia in questo volume.

LOERSCH H. SCHRÖDER R. _Urkunden zur Geschichte des deutschen
Privatrechtes_. Bonn. 1881, n. 53, pag. 35. _Traditio capturae
ad Suuarzetmuore._ Isti tradiderunt... Isti tradiderunt et nihil
acceperunt... Anno ab incarnatione Domini 827 et regni Hludounici
imperatoris 14 factus est _Conventus publicus_ in loco qui dicitur
Suuarzetmuor et Hrabanus abbas fuit in eo et Poppo Comes et majores
natu de comitatu eius, quorum nomina sunt: Liutpraht, Uuidarold,
Uuotan, Gundacar, Herimot, Friduhelm, Nidhart, Ortheri, Otto, Alspraht,
Einrat, Helmolt, Ratger, coram quibus Herimot et Berahart dixerunt se
in illa captura aliquam habere portiunculam, sed tamen eorum adquisitio
ita difinita est et pacata, ut dominus Hrabanus abbas illis duos boves
et duo pallia lanea et linea, duos gladios daret, et illi negaverunt
et abdicaverunt coram suprascriptis nobilibus viris, quod ulterius in
illa captura nullam communionem habeant. Coram his vero testibus datum
fuit quod dominus Hrabanus abbas promisit, et negatum et traditum ab
Herimote et Beraharte et Munihelme et Attamanne et Nidgere et Lungane.

Seguono i nomi di 23 testimoni dei quali i primi due monaci.

[742] Mentre si conserva il sistema dell'allegazione _apud publica
gestis municipalibus_ (cfr. doc. edito dal SAVIGNY _Stor. cit._, I,
pag. 348); il testamento di Beltramo dell'anno 615 e quello di Adoindo
del 642 è in forum delato, turbis circumstantibus a indice reseratum
recitatunque (ID. _ibid_., pag. 116); le donazioni sono fatte in _mallo
publico_ (cfr. DACHERY. _Spicilegium sine collectio veterum aliquot
scriptorum._ Parigi, 1723, pag. 878, luglio 874) e l'assemblea generale
acquista sempre maggiore importanza.

[743] _Lex Wisig._ VIII, 5, 6 — IX. 1, 8; 2, 5 — VI, 2, 3 — XII, 2,
14 — VIII, 4, 14 — VII, 4, 7 — III, 4, 17 — VI, 2, 4 — VII, 2, 6 —
VIII, 1, 3 — IX, 2, 2 — IX, 3, 3 — XII, 2, 4. Per i suoi rapporti con
l'origine del Comune cfr. DE HINOJOSA E. _Origen del Régimen Municipal
en Léon y Castilla_ in «_Estudios sobre la historia del derecho
espanol_» Madrid, 1903, pag. 5 e segg.

[744] Cfr. pag. 1 e segg. e pag. 72 e segg.

[745] La cosa è tanto nota che è inutile citare la numerosa
bibliografia a questo riguardo. Basti ricordare per tutti PERTILE _loc.
cit._ II, 1, pag. 15-16; LEICHT P. S. _Antiche divisioni delle terre a
Cividale_. Estr. dalle Mem. Stor. Cividalesi 1907; LUZZATTO G. _Vicinie
e Comuni_ in «Riv. ital. di Sociologia» 1909, fasc. 3-4, che ne riporta
numerose prove e TAMASSIA N. _Due documenti napoletani del 1139_, che
è importante perchè oltre a indicare e a servirsi di buon materiale,
prova il perdurare ininterrotto delle antiche divisioni territoriali
cittadine in regioni ed in quartieri dipendenti dalle singole porte
anche in provincie esenti dalla dominazione langobarda.

[746] Anche questo è notissimo. È da osservare che lo stesso avveniva
anche in territori non langobardi. Belisario fece ribattezzare a Roma
la porta di S. Sebastiano ponendola sotto la protezione dei due santi
orientali Giorgio e Conone (DIEHL O. _Études cit._ pag. 262) e che
qualche volta la porta riceveva il nome di un santo venerato in una
chiesa fuori delle mura. Ciò che è una prova novella dell'intimità del
vincolo che univa il suburbio alla città. — Tale è il caso della porta
di S. Stefano a Vercelli. Cfr. ADRIANI _loc. cit._, pag. 628, nota.

[747] UGHELLI _loc. cit._ VIII, col. 32.

[748] Ed. CARMAGNOLA _cit_., cap. 209.

[749] A quanto già si è detto si può aggiungere BERLAN. _Il libro delle
consuetudini mil. cit._ pag. 145 e segg. e specialmente 147.

[750] GIULINI _loc. cit._ ad an., vol. V, pag. 503 e vol. VI, pag. 463.

[751] Nei «Mon. Germ. Hist.» _Leges_, ed. PERTZ, III, pag. 397.

[752] BORETIUS I, 1, c. 8, pag. 197.

[753] Cfr. MURATORI, Diss. XXIII, col. 824 e RR. II. SS. I, 2, pag. 81,
libro VI, legge 88.

[754] Il quartiere non figura fra le corporazioni militari provviste di
personalità giuridica ricordate dal libro V del Codice Teodosiano.

[755] Eccone un esempio che rendo noto perchè inedito e che debbo
alla cortesia del prof. A. Anzillotti. Pistoia 1109 febbraio. Breve di
investitura di una terra con casa entro la città prope Sala Loteringa
fatta da Marchesello di Oggicione a Bonico Romanelli. Ita tamen quod
si ipse Marchesellus (il locante) et frater suus sit ita impeditus quod
non audeat habitare in porta Caldatica vel in porta S. Petri quod ipsi
possint venire ad habitandum in predicta domu donec fuerint ausi redire
ad habitandum in domu illorum tunc deinde debent ipsa scomborare.

Ed è nota la grave discordia sorta nel 1188 fra due porte della città
di Lucca. Cfr. gli _Annali_ di TOLOMEO ed. MURATORI in «RR. II. SS.»
XI, col. 1274.

[756] Cfr. MAZZI A. _Note suburbane cit._ pag. 27 e segg.

[757] Tipico è il _castrum vetus_ di Asti, passato alla Chiesa astese
fra il 936 e il 937. Cfr. CIPOLLA C. _Di audace cit_., pag. 209
Lo stesso avviene a Verona (UGHELLI V, col. 711. a 818), a Reggio
(TIRABOSCHI _Mem. di Nonantola cit._, II, pag. 58), a Modena (a.
1108... casa in civitate Mut. que jacet prope Castello — a. 1133...
iuxta murum castelli episcopi — ID. _loco cit._), a Genova ed in
numerose altre città. Cfr. MAZZI A. _Note cit._, pag. 39.

[758] Cfr. i due documenti indicati dal DAVIDSOHN. _Storia cit_. pagine
522-23.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Nella nota 458 a pag.
161 il numero della pagina citata, mancante nell'originale, è stato
indicato con ... .





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