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Title: Peregrinazioni d'uno zingaro per laghi ed Alpi - Il Lago Maggiore, l'Ossola, la Frua e il Gries
Author: Carrera, Valentino
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Peregrinazioni d'uno zingaro per laghi ed Alpi - Il Lago Maggiore, l'Ossola, la Frua e il Gries" ***


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                      PEREGRINAZIONI D'UNO ZINGARO
                           PER LAGHI ED ALPI


                                   DI

                           VALENTINO CARRERA

                      IL LAGO MAGGIORE, L'OSSOLA,
                          LA FRUA ED IL GRIES

                                          Io non viaggio mica
                                            Per il minimo scopo:
                                            Non vo' pensare al dopo,
                                            Non vo' durar fatica.
                                          Quel che vuol nascer nasca,
                                            Andrò dove mi porta
                                            Il vapore o la tasca,
                                            Sempre per la più corta.
                                                          GIUSTI.

                Seconda edizione corretta ed accresciuta



                                 TORINO
                         A SPESE DELL'EDITORE.



                          Proprietà letteraria

                         Tip. Letteraria, 1861.



  Miei cari genitori


A voi che stimo ed amo sopra tutti, offro questo libro. Voi accettatelo
con quel sorriso con cui accoglievate le prime parole che m'insegnaste
a balbettare.

Intanto vivete molti anni per la mia felicità.



SOMMARIO


  PARTE PRIMA
  Il Lago Maggiore.

   1. Che intitolo prefazione onde il lettore lo salti
      a piè pari                                          _Pag_.    9
   2. Chi fece l'Italia?                                    »      16
   3. Le illusioni ed i doganieri — Una cipolla
      fra le rose                                           »      23
   4. Viaggio al naso di _S. Carlone_ — Angera —
      Dalle corti d'Amore al Mormonismo                     »      31
   5. Il Monterone — Studii fisiologici sopra i cinque
      sensi — Il lago a volo d'uccello — La prima
      idea                                                  »      36
   6. I piroscafi — Una donna che mangia — Gli
      stranieri ed i laghisti — Primato mascolino
      — Il concertista di Cannobio — I contrabbandieri
      — Rivista di sponde                                   »      45
   7. Lesa e Manzoni — Ciarle letterarie — La calma         »      55
   8. Origine storica di Belgirate, senza documenti
      — Le isole Borromee                                   »      62
   9. D. Bussolini da Mergozzo, capitolo in cui si
      dimostra chiaramente che i più beati sono i
      poveri di spirito                                     »      67
  10. L'acqua, canto in prosa — Se l'acqua del
      Verbano fosse vino — L'arca di Noè e la
      nautica — Le _guide_ — La capitale del lago
      Pallanza — Laveno — Ghifa — Portovaltravaglia
      — Luino                                               »      77
  11. Cannero ed Ettore Fieramosca                          »      86
  12. Scoperta del Ticino in Italia — Locarno e
      Magadino — Diversità di sistema metrico — Il
      Re Gambrino in Italia                                 »      89
  13. La malinconia a Cannobio — Non tutti i
      cattivi principii hanno cattiva fine — Al lettore
      indiscreto                                            »      93
  14. La tempesta sul lago — Quando non si
      fanno ceremonie                                       »     101
  15. Trafiume o Treffiume — Dammi amore e ti
      do un mondo                                           »     106
  16. Storia d'una pentola                                  »     110
  17. S'io avessi, Dio me ne guardi, un milione
      — La villa Poniatowski — Prina                        »     134
  18. Intra non si trova che a Intra — Perchè
      delle ommissioni — Virgilio a Feriolo — Salute
      a chi resta                                           »     136

  PARTE SECONDA
  Per le valli d'Ossola.

   1. La sentinella dell'Ossola — Un bagno da
      trent'anni — I romantici a Vogogna — Domodossola
      — Il mercato                                          »     139
   3. L'Italia non è che un albergo — 17385
      iscrizioni e mezza — Lezioni archeologiche
      — Varietà di gusti — Apologia del farniente
      — Terzo primato dell'Italia — Quattro duelli
      — Che hanno la coda                                   »     145
   4. Una giovenca ed il più bel cuore del mondo
      — Avete buone gambe? — Re in Valvigezzo
      — Anche sull'Alpi si trovano traditori —
      _Requiescant in pace_                                 »     162
   5. Trionfo delle castagne sopra la fama di una
      illustrazione Dantesca                                »     169
   6. Il Sempione — Invenzione di un ponte per
      passarvi sotto                                        »     175
   7. Si parla di paesi non visti                           »     178
   8. L'Anzasca — Un nuovo messia                           »     180
   9. Quanti disprezzano l'oro                              »     182
  10. Stonazioni della fama — Le ossolane non sono
      più quelle d'una volta — Caio Mario ed i Cimbri
      — Innocenzo IX di Cravegna — Banchetti funebri
      — La valle Diveria                                    »     186
  11. Premia — Storia nuova di cose vecchie —
      La Cravairola                                         »     194
  12. L'orrida forra di Unterwald                           »     207

  PARTE TERZA
  La Frua ed il Gries.

   1. I casali della valle di Pommat o Formazza             »     210
   2. La Frua o cascata della Toce — Quanto
      costi un sorriso di donna                             »     216
   3. Altipiani superiori                                   »     227
   4. Ascensione del Gries — Diacciaie — Le
      Alpi parlano                                          »     230
   5. Confini della valle — Le case, il desco,
      l'abito, il commercio, l'agricoltura                  »     241
   6. Costumanze curiose — La scolaresca                    »     249
   7. Lezione di meteorologia — Il frugnare e le
      volute — O mi date ragione, o non mi fate
      stare _sulle spese_                                   »     253
   8. Dove il paese senza un eroe? — Vita e
      miracoli del capitano Guenza                          »     262
   9. Ascensione del Retihorn — Il segreto della
      costanza in amore — Temporale sulle Alpi —
      Conversazione colle nuvole — Quanto si apprende
      viaggiando — Un'aurora sulle Alpi — Quando
      ci rivedremo?                                         »     269



PARTE PRIMA

Il Lago Maggiore


I.

_Che intitolo prefazione, onde il lettore lo salti a piè pari._

    =Tutto il mondo è paese.=
               _Prov. ital._

_Uno zingaro?_ Ma ce n'ha ancora degli zingari, fuorchè nella Russia e
nel _Trovatore_? — Perchè, non ce ne dovrebbe più essere? Lo zingaro
non è forse un pensiero errante di paese in paese, facendo suo con
ardita frode quanto non gli verrebbe concesso dall'umana avarizia?
Ammesso — il che veramente non so — il paragone, lo zingaro può avere
subìto trasformazioni, non mai essersi perduto. Permettete, signor
mio, che io cerchi di vincere, s'è possibile, la vostra ritrosìa
nell'accettarmi a compagno, evocando i benigni influssi dell'eloquenza
tradizionale de' miei avi novellatori e poeti: tolleratemi dieci
minuti... Non sono discreto? Ne spendete tanti a sopportare il trionfo
della ciarla su pelle gazzette e nei parlamenti!

La storia dell'umanità nella nostra tribù dividiamo in tre ere: la
scoperta della foglia di fico, quella dell'America e questa della
fotografia. Dopo la fatale scoperta dei primi nostri nonni, ecco
l'uomo-zingaro che migrando dall'Asia percorre poco alla volta le
plaghe mondiali, lasciando qua e là un lambello del suo saio. Quell'età
non avendo lasciato giornali, nè ritratti d'illustri contemporanei, per
mancanza di sicuri documenti veniamo alla seconda. Scoperta l'America,
gli zingari si precipitano su di essa: a sentirli sono venuti a
seminare la libertà e le patate; tutto d'allora in poi deve spirare
amore, felicità. Mentre gli umanitarii cianciano di quest'inezia di
riformare quel mondo, pillottando colle solite spezie della cristiana
uguaglianza e dei civili diritti la tiritera; mentre gl'indigeni
buoni e semplici come un popolo che non sa un'acca di mutuo soccorso
e di monte di pietà, aprono un tanto di bocca dalla meraviglia, i
missionarii iniziano la riforma facendo scomparire nell'abisso delle
loro tasche i tesori di quelle fortunate contrade: siccome però il
mestiere di moralista è meno facile di quanto si crede, il tiro si
scopre, proteste, recriminazioni, rivolta; il torto è necessariamente
degli Americani poichè l'astuzia, la forza è agli zingari. I quali,
smessi i lenocini della ciaccola, pagano a misura di carbone la
cordiale ospitalità americana.

Un bel dì però, per solenne grazia del proverbio, il gruppo venne al
pettine, e gli zingari, scardassati addovere, sono costretti ad alzare
i tacchi da quella terra _non ancora matura_.....

— Ma — lasciando la storia in disparte — questi non mi paiono gli
zingari della tradizione....

— Eh! pensate se li conosco! Lo zingaro è volgarmente un vagabondo che
va dicendo la buona ventura nelle capanne del contadino, pei trivii,
nelle osterie e nelle canove in tempo di mercati, di fiere e di feste;
sa rattoppare qualche volta i caldani e le pentole; compone farmachi
e filtri preziosissimi; vende ai più generosi il prezioso segreto —
oh! datene un po' anc'a me per amore di Dio! — di farsi amare; commuta
minuterie dorate senza valore con antichi smanigli d'oro, non perdendo
il destro d'accalappiarvi con quella sua cera da nesci e di farvi
sparire di mano l'anello che ricusaste di vendergli.

Ma ora tutta questa scienza a che può ancora servire? Vendono tuttora
augurii di nozze e predizioni di fortuna? O, visto che nella capanna
affumicata del contadino, comincia a penetrare la luce che guizza
dai centri di civiltà e di corruzione, lo zingaro, nascosti nella
foresta il tamburo, le nacchere, le carte divinatrici e la non più
magica bacchetta, non è entrato di contrabbando nella città, e con
mille vicende di fogge e di fortuna, non s'è fatto ora sollecitatore
d'impieghi o tagliaborse, letterato di plagi e d'occasione, giornalista
o mezzano? E la scienza per cui gli riusciva di imbarcare il lunario
nei boschi deserti, fra i monti incresciosi, sarà poi sì feconda in
espedienti da far fronte alla desta oculatezza dei cittadini, da sapere
con rapida mano ordire trame impercettibili che pure ad un baleno si
stringano sì fortemente con mille nodi attorno al meglio esperto da
torgli ogni scampo — e se fallisce, quando tutto sta per naufragare
sotto i colpi d'un galantuomo che non vuole perire invendicato, da
risospingerlo al largo dalle secche, risoffiargli in poppa vento e
fortuna in barba agli onesti?

No, questa non è la nostra tribù — a cui non vorrete con dura
parzialità negare l'istinto del progresso alla perfettibilità umana,
che asserite innato in ogni creatura.

No, questa non è la nostra tribù. Il lezzo della società non fu mai la
parte del mondo che ne sia piaciuto di notomizzare, anzitutto per un
certo istinto d'avversione alle dissecazioni, d'orrore per la tabe;
e poi perchè sappiamo per durata esperienza che gli è impossibile il
compiacersi, come oggi si fa con tanto studio, nel diguazzare in quanto
ha di più sucido il maremagno del vizio, sia brutalmente spudorato o
sia inorpellato da larva di passione, senza inzaccherarsi un tantino
i sandali, quand'anche vi aggiriate nelle eleganti sale ove non si
balbetta motto a vanvera — ove, non come nel trivio, manca la scusa
della malsuadente fame e dell'ineducazione: perciò se mai solleticava
le papille della vostra curiosità brama di una storia terribile d'uno
zingaro dalla bruna tinta e dallo sguardo felino, che d'avventura in
avventura, sulle _rotaje_ dell'adulterio e dell'omicidio, vi facesse
correre per le vene il diaccio dello spavento od il fuoco della
voluttà, serbandovi a morale della favola la bella soddisfazione
di vederlo alfine fra le braccia dell'amata, riverginata — scusate
la parola impossibile — dall'amore _puro_, mentre l'esoso marito
sta in fondo del quadro lungo, disteso, inchiodato da due righe di
pugnale..... per verità vi siete ingannato!

La non sarà così perchè ne pare che tanta filza di delitti non possa
essere figlia della serenamente gioconda fantasia italiana, e perchè
lo zingaro che vi fa invito a peregrinare con lui non appartiene alla
tribù antica, tradizionale, se non per la comunanza..... del peccato
originale.

L'antica s'è _riabilitata_, direbbe un drammaturgo, e la nuova non
è meno curiosa. Anche essa corre, senza meta, balenando qua e là
senz'altra guida che la bellezza della natura; — anch'essa ama le
sagre, le fiere, i mercati per cogliere sul fatto la scena animata dei
mille popolani dalle diverse foggie, dai diversi tipi; — anch'essa
se può giuocare un bel tiro, lo fa con tutta coscienza, e ruba a
man salva ad un crocchio di ciarloni il racconto che dice più d'un
in-foglio su quella gente, un idilio d'amore ad una bella ragazza, il
secreto d'una lagrima come d'un sorriso. Alcuna volta, quando il demone
ruggente dell'arte non l'agita, e così gli è obbligato a starsene a
bocca asciutta innanzi alla festosa mostra di cento zane di saporite
frutta.... allora stende la mano ad una vezzosa fanciulla per averne un
grappolo d'uva ancora imperlato dalla rugiada, una pesca erubescente...
e non dubitate della sua riconoscenza, veh!

Allo zingaro non mancano modi di trarsi di impiccio: quante volte
pagò lo scotto della cena frugale, narrando alla bella ostessa una
fantastica leggenda, con sì strana eloquenza rappresentandole i casi
amorosi di fate, ondine e silfidi, di genii e di spiriti, che davvero
parve alla curiosa di vedere laggiù nell'ombre l'amante tradito fra
paurosi fantasmi, e di sentire sotto la scranna il rantolo del lupo
che venne ad ingollarsi la perfida!... Chi osa rimprocciare la bella
albergatrice se per schermirsi dagli amanti morti e dai lupi vivi si
allaccia strettamente allo zingaro?

Dirvi come la tribù nuova fiammante veneri come pura sorgente
d'inspirazione la bellezza variata della natura, culto da cui sorge
necessariamente il disprezzo per ogni affettazione; riassumere, anche
per sommi capi, l'indole bizzarra del suo umore; dirvene, fuggendo,
vita e miracoli, sarebbe ad un tempo noiosa cosa per voi e pericolosa
per noi.

Ma se poi non isdegnate la compagnia di questi zingari di buona
pasta che intessendo alle descrizioni leggende e fantasie vi guida
— senza bagnarvi — negli antri muschiosi ove fra i canneti lacustri
amoreggia l'avvenente Verbania; nei casolari montani fra le usanze
patriarcali; sulle diacciaie alpine a conversare colle nubi; sui
nembosi picchi supremi a cantare un inno al sole, alla libertà, ed
a farvi considerare di lassù che bruco microscopico è il cosiddetto
re del mondo — accettate la mano e proverete che lo zingaro fra le
divagazioni della mente e le aspirazioni del cuore non dimentica il
positivo della vita, quella catena che ne rammenta ad ogni slancio che
dessa è troppo corta e che il senso governa più della ragione il mondo,
guidandovi in alberghi d'ogni fatta, quando il paese sia poco ospitale
— e per giunta, se non pagherà lo scotto, condirà colle sue novelle la
refezione.

E poi chi sta a cà niente sa.

Via, smetti l'abito incomodo che t'insacca; indossa la veste casalinga
del viatore; allaccia calzari che sfidino le mordenti scheggie e le
acute punte delle roccie; armati di lungo bastone ferrato ed uncinato
che ti servirà d'appoggio e di spinta, di leva e di scala per l'erte e
per le diacciaie — e quand'anche la tua borsa non sia sonante di molte
monete d'oro, vieni, lo zingaro insegnerà a te ancora a raccontare la
_storia del lupo_ alle belle ostesse.

Se mai l'aspetto di diverse genti, la disuguale misura del bene e del
bello col brutto, la lotta continua del debole col forte, l'armonia
sublime della natura non caccieranno la noia che ti prostra intelletto
e corpo nell'afa neghittosa del fannullare, lo zingaro con fratellevole
cura ti guiderà a quelle regioni — ove si slancia sì sovente e con
tanto desiderio il pensiero — che miseria di mente e di cuore fanno
chiamare dell'impossibile...

Non rigenereremo l'umanità, ma non ci annoieremo, forse.

Intanto l'aurora festosa già piove le sue tinte onnicolori, la frescura
del mattino ne invita; partiamo... all'Alpi!

Un istante: anzitutto lo zingaro, secondo l'antica usanza de' suoi,
tolta nelle mani la vostra destra, dovrebbe spiattellarvi l'avvenire
come il passato, farvi i più lusinghieri augurii che egli si sappia....
ma che volete? Egli, visti fallire i più cordiali vaticinii, da buona
pezza tiene seco loro broncio, ed amico qual è degli antichi adagi, a
chi lo richiede di predizioni, risponde:

Chi il tutto può sprezzare, possiede il mondo.

Così sia.


II.

_Chi fece l'Italia?_

    Uomo lento non ha mai tempo.
                 _Prov. ital._

.... e la vaporiera fugge rapidamente pei piani del Novarese, mentre
l'occhio posandosi appena sulle borgate, sulle castella che si
succedono una all'altra come le apparizioni d'un sogno febbrile,
assiste ad una serie di scene più o meno curiose, varie sempre.

Così sparve Novara, Bellinzago ed Oleggio che dalla sua altura
contempla il bel pian lombardo, e la vaporiera arrestata un minuto,
rifugge verso il Lago Maggiore.

Presso lo scalo d'Oleggio vidi la storia della civiltà compendiata
nell'area in cui i vetturali attendono l'arrivo delle merci destinate
a quella cittadina. V'era il carro co' buoi, pesante, senza sponde,
colle quattro ruote eguali e massiccie, il timone convergente all'insù
e le cornute bestie che guardavano con occhio stupito la locomotiva
sbuffante, e parevano appuntarsi sui pie' dinnanzi per timore
di appressarlesi. V'era il carrettone dalle due altissime ruote,
disadorno, coi cavalli attelati uno a coda dell'altro; la carrettella
corrente; il cocchio de' nostri padri incomodo, sicuro, e l'elegante
carrozza a doppie molle, verniciata lucente come uno specchio, leggiera
e per ogni modo d'ornati e di agi vaghissima.

Fra l'una e l'altra di queste vetture stavano secoli e stanno: dal
carro de' buoi alla carrozza, il divario tra l'età dell'oro e l'età
del ferro; ma fra essi e la vaporiera un mondo, una distanza quale
fra l'antico copista e Bodoni, fra le torri a segnale ed i telegrafi
elettrici, fra il volgare ed il genio....

Occupiamo i pochi minuti di fermata osservando quegli antichi veicoli.
Se la vaporiera ha immensi meriti, non siamo tanto ingiusti da negare
ad essi i pregi per cui furono tenuti in conto dai nostri babbi.
Oh! quando mi ricordo il bel tempo in cui piccino sedeva a capo del
carro, poggiando i piedi sul timone e con impazienza infantile andava
punzecchiando gli inirritabili buoi ad accelerare il passo verso
i campi, ove poi di corone di millefiori loro cingeva le corna ed
accarezzava con mano fidente il muso velluto e divideva con essi la
merenda con mille feste dei compagni, io non ho più il coraggio di
ridere dei viaggi eterni per cui i nostri vecchi si facevano saltellare
le budella in corpo con una velocità in ragione di due ore per miglio.
Due ore! La vaporiera quando le talenti, unisce Torino a Milano nello
stesso spazio di tempo..... ma ch'è questo vociare?

Una decina di ragazze, cogli spilloni d'argento che irradiano il capo,
sta sopra uno di quei carri, ridendo e scherzando fra di loro: alcuna
accenna al viaggiatore che dai carrozzoni della via ferrata ammicca
con sguardo procace: questa riconosce fra i discesi allo scalo il suo
bulo e lo vorrebbe, senza ch'altri se n'avvedesse, fare avvertito della
sua presenza, mentre con una certa solfa tra il mesto d'una monotona
cantilena e la languidezza d'una canzone che non è in voga, una voce
sfibrata canterellava:

    Novara, Novara
    L'è bella città;
    Si mangia, si beve.
    Allegri si sta!

Se tutta l'allegria dei Novaresi consiste nel mangiare e nel bere, come
dice senz'altro la strofa, l'ha da essere una gaiezza molto dubbia,
pensai; ma già ai poeti debbonsi accordare molte licenze, ed io non
trovando miglior modo di sciogliere la questione, dimenticai il vate
del campanile di S. Gaudenzio per riguardare quel veramente allegro
gruppo di belle e non belle e tutte allegre contadine, le quali — ora
che ci penso — mi ricordano a meraviglia un viaggetto fatto con una
bella ritrosa sopra una stradaccia di campagna, tutta sassi e gore,
per cui ad ogni improvvisa scossa io mi inchinava verso la giovinetta,
e non è a dire s'io secondassi o non l'impulso, _e viceversa_, come
dicono appunto delle vetture; finchè il carro essendo ad un tratto
entrato nei profondi solchi di un campo, la vicenda dell'inchinarsi si
fece sì violenta e rapida, che io coll'unico scopo di preservare quella
cara personcina da ogni urto, non trovai che il mezzo di avvinghiarla
strettamente nelle mie braccia....

Un fischio — diretto forse alle mie reminiscenze — eccheggia fra le
mura dello scalo, — un secondo acutissimo _che passa gli orecchi_,
come dice un vicino, e tutto il convoglio si move, cammina, corre,
rivola.... così il tempo da quei dì! Così pure io lascio nello scalo
di Oleggio le riflessioni storiche sugli altri veicoli: il lettore non
l'avrà a male; del resto sa dove andarle a prendere.

Campi, risaie, prati, boschi, giardini, case, uomini ed animali, tutto
resta indietro: la vaporiera è la nemica per eccellenza del verbo
_stare_; essa corre da un popolo all'altro; cancella un pregiudicio
a cui centomila volumi non bastarono; annulla i dialetti mettendoli
a contatto, e insegna colla necessità la lingua nazionale, spegne
l'ardente face delle antipatie, facendo conoscere con quanto equilibrio
le eccedenze della forza di una regione compensino il manco di saggezza
in un'altra, la virtù militare l'indifferenza artistica, la gentilezza
dei costumi la sapienza civile, eccita e diffonde industrie — fa
l'Italia.

Ben a ragione certi governi avversarono quest'invenzione che rivaleggia
per la forza morale colla stampa!

Dell'inferno è dessa senza dubbio, dice con terrore il buon contadino
nella notte quando dalla mal connessa impannata della finestra della
capanna vede laggiù nella tenebria correre un fantasma dagli occhi
sanguinosi, la bocca ardente e la fronte fumosa, mentre l'aria echeggia
d'acuti sibili e la terra seminata di carboni ardenti trema sotto i
piedi.... Ma direbbe egli che l'inferno inspirò ad un mortale questa
terribile scoperta, s'egli sapesse che, mercè sua, si vince il tempo
e la distanza, e suona con cristiano affetto la voce: Dammi la destra,
anch'io sono tuo fratello?

La vaporiera è dunque la più bella figlia della civiltà, poichè dessa
non serve soltanto a beneficio del commercio, sibbene ai più vitali
interessi dell'esistenza morale. Qual è l'uomo che dalle marine guardi
una nave ad elice sortire, malgrado i venti contrarii e l'agitazione
delle onde, la prora dal porto, ammainate le vele, senz'apparente
impulso, salpando per le più rimote spiaggie dell'Oceano, ove recherà
il nome della sua nazione, — senza sentirsi sollevare dall'entusiasmo,
senza sclamare: questa è la più mirabile opera dell'uomo!?

Vedete se col vapore si corre presto: in due minuti da Oleggio volai ai
porti liguri e ne ritorno!

Il convoglio attraversava le alture di Borgoticino, quando poco
lungi da quel villaggio mi apparve — eureka! — la prima conca del
desideratissimo Verbano — fra il Vergante e la rupe della festosa
Angera — il quale disserrandosi poi dai colli, cola pel Ticino, al Po,
nell'Adriatico.

Una vaporosa nube si dislagava al cielo, ed i raggi vivissimi del
sole di giugno penetrando qua e là fra gli squarci illuminavano con
tale potenza di tocco la rôcca d'Arona, e laggiù in fondo la punta di
Belgirate ove il lago si svolge a sinistra, che davvero il contrasto di
quelle accese tinte colle ombre delle convalli armonizzava assai bene
colla natura variatissima del quadro.

Un ultimo fischio e il correre si rallenta gradatamente, il convoglio
penetra nei campi, ritorna a riva, entra sotto una tettoia, ove cento
voci — Arona, Arona! — ti fanno accorto che sei finalmente giunto alla
sospirata sponda di quel Lago Maggiore che nella fantasia t'apparve
certamente come una regione incantata a cui sorrida eternamente cielo e
primavera, abitata dalle più avvenenti ondine, dai più amorosi silfi.

Io vi confesso candidamente di non avere mai fatto questi sogni, e per
la zinganesca mia esperienza che mi ha dimostrato i giudizi assoluti
essere sempre in alcuna parte erronei, e il male dai mille aspetti
mescersi con disuguale misura al bene, e perchè rifuggo dalle imaginose
aspettazioni, le quali per lo più al contatto della realtà risolvonsi
in dure delusioni. Mi pare quindi profittevole....

— Cosa fa il signore? Scenda, il convoglio non procede mica oltre....

— Benissimo; grazie. Parmi profittevole, diceva, di usare nel giudizio
delle regioni che si percorrono, anche coll'intendimento di studiarle
oltre l'epidermide, quella mite benevolenza che ogni onesto desidera
praticata verso il campanile della sua parrocchia. Quanto al bello, al
buono, quantunque spesso il miracolo non faccia il santo, il fidarvisi
è la meglio; quanto al brutto ed all'incivile giova il credere che
la virtù sta di casa dove meno si crede, e che tanti paesi, tante
usanze... E poi gli uomini la pensano così diversamente! Aprite un
libro di proverbii — li dicono la più bella eredità che le generazioni
si tramandino, la sapienza delle nazioni — sentite che armonìa di
opinioni:

    Chi sta bene non si move,
          e
    Non diventan porri che i trapiantati.

    Pietra mossa non fa musco,
          e
    Chi vuol far roba, esca di casa.

    Chi disse donna, disse danno,
          e
    Senza donna a lato l'uom non è beato;

e cent'altri grossolani e dilicati, che vanno d'accordo che gli è un
gusto ad appaiarli!

— Signore — disse in quella una _guardiastazione_, la stessa che
m'interruppe già una volta — questa è l'uscita; e m'indicò la porta.
Se questo dabbenuomo non mi cacciasse con tutta quella buona grazia di
cui è suscettibile un guardiano di via ferrata, io vorrei, o compagno,
dimostrarvi come la bellezza oggettiva abbia meno cultori di quanto
è voce.... ma non c'è verso, egli m'insegue sino all'uscita....
Quest'insistenza mi desta un dubbio: ch'egli abbia inteso un motto
delle nostre chiacchere più o meno estetiche, e voglia risparmiarne
lo spettacolo poco architettonico della stazione? Chi lo sa? Dopo
la _democratizzazione_ del sapere, chi può giurare che sotto il saio
dell'artiere non s'asconda la giornea del professore?


III.

_Arona — Le illusioni ed i doganieri. — Una cipolla fra le rose._

    Chi tosto giudica, tosto si pente.
                       _Prov. ital._

Orta! — Angera! — Gozzano! — Varallo! — Domodossola! — Albergo della
Posta! — Reale! — d'Italia! — A me il sacco! — Zolfanelli! — Sigari! —
Ecco le strida che invariabilmente accolgono il viaggiatore all'uscire
dallo scalo della ferrovia d'Arona: vociare che mette in non lieve
imbarazzo il viaggiatore che non ha meta prefissa al suo vagare.

Per mia fortuna, fra tanti vetturali, facchini, camerieri e ciceroni
_pro domo sua_, una voce che partiva dal mezzo di una folta ispidissima
barba, tuonò al mio orecchio, mentre mi sforzava di attraversare quella
ressa di rompiscatole, il nome dell'ottava meraviglia del mondo e
l'unica di Arona, _il S. Carlone_, e mi fece così risovvenire di un
monumento intorno al quale aveva sentito nella prima adolescenza tante
mirabilia. Si vada adunque al S. Carlone! Senza dare risposta ad alcuna
delle insistenti domande — unico modo di liberarsene, a meno però
vogliate farvi in dieci per non far torto a nessuno — mi avvio verso la
cittadina, dando occhiate a destra ed a sinistra, come quegli che senza
soffermarsi troppo vuole spendere poco e vedere molto.

Appena uscito dalla casona dello scalo, un bel giovinotto, dall'assisa
di doganiere — ad Arona vi sono più doganieri che mercanti — con un
garbo da farmi strabiliare, (poichè a me un doganiere era sempre parso
il rappresentante della prepotenza legale, dei pregiudicii economici,
la barriera che impedisce il bacio cosmopolitico dei popoli) mi fece
ricredere pienamente, avvisandomi che se io desiderava imbarcarmi
sopra un piroscafo, il _S. Gottardo_ stava per salpare, aggiunto poi
per soprassello che io avrei potuto girare e rigirare in lungo ed in
largo il lago senza la noia del passaporto. Malgrado il desiderio di
accettare l'invito della tintinnante campanella del _S. Gottardo_, io
non volli partire senza visitare l'interno della città pittoresca — al
di fuori — ed il famoso monumento al suo cittadino, benchè sapessi che
vi sarei ritornato più d'una volta nelle corse ch'io aveva in animo di
fare lungo le spiaggie verbanesi.

Il _S. Gottardo_ diede l'ultimo tocco di squilla, si staccò con tutta
facilità dallo scalo, e descritta una vaga curva, partì avvolgendosi,
come d'un velo per difendersi dal sole cocentissimo, nei vapori della
caldaia fumante.

Serbatomi per la vetta del colle di S. Carlo il giocondo spettacolo del
lago, come un ghiottone serba ultimo il manicaretto più sapido, entrai
in città.

                                   *
                                  * *

Eccomi in Arona! Salve, città dei Borromei!

Seduta a riva del lago, pare tuttavia che tu ne sdegni la paternità,
poichè ti volgi innamorata con occhi desiosi verso i clivi fiorenti di
Oleggio Castello, lasciando al ceruleo nappo l'ammirazione della poco
graziosa tua parte diretana. Almeno ne' calori della state le pendici
superiori inviassero alle tue viuzzole il conforto delle aure profumate
dei loro laureti!

Attraversando la città, contai trentacinque osterie, trenta preti
e ventisette accattoni. Era il meriggio caldissimo, ed io passava
correndo per involarmi all'afa soffocante che, uscita dai canali
sotterranei delle vie inferiori, mi inseguiva minacciosa, quando una
frotta di creature che facevano ressa attorno ad una casa di modesta
apparenza m'impedì di proseguire oltre.

Erano ventisette accattoni.

Voi che avete da accarezzare — in tasca — un _sovrano_, se vi avviene
d'incontrarvi in quella turba, è d'uopo lo consigliate d'addivenire
ad una transazione costituzionale dividendo il potere, salvo a voi suo
ministro di farvi forse rompere le invetriate dai malcontenti — o senza
transigere coll'_esigenze della situazione_, corriate attraverso ai
chiedenti senza ascoltare quelle voci supplichevoli che sono pure una
rampogna....

Io mi arrestai. Qui più d'un ciarlone vi direbbe ch'egli, arrossendo
quasi dell'eccellente salute, intenerito alle lagrime, divise la
borsa coi mendici.... Io che non voglio farvi il torto di credere
che mi stimereste un cicino di più, quando vi dicessi che ho dato a
quegli infelici un obolo — che il più delle volte è un soldo asciutto
come il sistema decimale — non vi dirò nemmeno d'aver fatto alcune
considerazioni economiche sulle trentacinque osterie ed i trenta preti,
e tiro innanzi, cioè mi fermo, poichè la porticina di quella casa
s'aperse e v'apparve....

Chi non l'avrebbe desiderata amante? Che bell'occasione di miniarvi
un ritrattino sì sorridente da mandarvi in visibilio! Ma quest'oggi,
dopo quella certa meditazione sulla fallacia dell'apparenza, temo che
i colori della mia tavolozza diano troppo nel duro, nell'angolare;
per non ripetere adunque su tutte le varianti le forme serene di tanta
bellezza, lascio alla vostra fantasia di pennelleggiare co' rapidi suoi
tocchi una di quelle soavi figure che le donne invidiano e gli uomini
rispettano.

Intanto i re della miseria, coi loro nodosi scettri nella destra,
avvolti nei pidocchiosi palli onnicolori, mi avevano circondato,
levandosi dalle nuche capellute un frusto di berretto spelato, e
succhiavano con avido sguardo la borsa che teneva la fanciulla nelle
mani.

Io pure salutai riverente quell'apparizione che avrebbe potuto
inspirare a Vela una vivissima idea della carità cristiana, ed ella....
ma che? Al vedermi estatico contemplarla, sorrise di guisa che tutto
ne fui scosso. Era derisione? Chi lo sa? Malgrado mio, nella limpida
innocenza di quel volto primaverile, quel sorriso — non ridete —
m'apparve come una cipolla nel bel mezzo d'un mazzolino di rose, quale
io vidi farne dono per celia ad un appassionato cultore di antitesi.

Ella porse agli accattoni le sue monete; una moneta ad ognuno che
venisse ad invocarla un mattino di venerdì a quella porta: indi
rinchiuse la porta senza strepito, senz'impazienza, quasi a tacita
promessa di non negarne giammai l'accesso al mendico. Io, mentre si
recitava attorno un _pater_ ed un'_ave_ per conto della fanciulla — a
cui auguro ottengano un buon marito — dimenticato quel certo sorriso
e la cipolla relativa, intonava fra dolcissimo pianto un inno alla
pietà che ove fosse stato inteso da lei, forse io avrei fatto più lunga
dimora in Arona....

Ma ecco attraverso l'iride d'una lagrima la rosea fisionomia imberbe
del doganiere. Gli racconto la commovente istoria; un'irresistibile
curiosità mi sprona a ricercare chi sia quell'angelo che profonde
le ricchezze di questo mondo per la beatitudine dell'altro, vero
prestito ad usura — se ancor vi fosse usura. — Mi appaga ed aggiunge
che i mendici convengono nella città dai dintorni una volta almeno per
settimana.

— Dunque, diss'io, ella dà loro tanto da alleviare i dolori di chi non
ha sulla terra che la speranza del cielo e la compassione dei generosi
— per una settimana? Oh tremila volte benedetta! Oh santa! Oh terra
fortunata!

— Signor sì, se per essere da tanto basta regalare un quattrino, antica
moneta milanese!

E imperturbabile, colla logica orribile dell'aritmetica, mi dimostrò
che Iddio avrebbe dovuto fare per quegli sgraziati il giorno di cento
ore senz'accrescere i bisogni del ventricolo, onde procurarsi lo
stretto necessario per campare in ragione d'un quattrino ogni due ore;
o, supposto che nelle ventiquattro ragranellassero altrettanto, ch'essi
potessero stare, come i ragni, sei giorni senz'alimento.

— (Mefistofele gabelliere!) Dunque muoiono di fame sei dì per settimana?

— Morrebbero se altri non li soccorresse senza l'ironica ostentazione
di chi dà quello spettacolo poco costoso. Tutto è apparenza! La saluto.

— Tutto è apparenza, anch'esso lo sa! Ora comprendo quel certo
sorriso, la cipolla fra le rose! E come sì giovane e sì presto senza le
confidenti illusioni della verde età?

Ma se n'era andato pe' fatti suoi — o per quelli degli altri,
più facilmente — il che ne torna perfettamente uguale; sicchè
la mia domanda dovette cercare una risposta nelle considerazioni
dell'influenza che il mestiere aveva potuto esercitare sopra di
lui. Ed io non ebbi a meditare gran fatto per accorgermi come in
esso s'avvezzino a guardare ogni cosa attraverso la lente prosaica,
spassionata che conta i fili della stoffa e stabilisce un prezzo alle
creazioni delle arti — tanto che sarei quasi tentato di supporre che
il famoso dilemma di Amleto _essere o non essere_ sia stato suggerito a
Shakespeare da qualche doganiere pensatore.

Povere le illusioni coi doganieri! La donna, quest'angelo che ecc.,
ecc., non è per essi che un portamantello addobbato più o meno di raso;
un ritratto, pegno di un soave affetto ricambiato ed infelice, su cui
scoppiarono pianti sconsolati e baci frenetici, perde tutto il valore
sotto gli occhiali del perito; una treccia di capegli, oh sacrilegio!
può essere considerata concime; che più? il libro a cui pose mano cielo
e terra, vale per essi secondo il peso, la legatura, i fermagli.....
Se nelle lotte letterarie i _realisti_ potevano contare sull'aiuto
dei doganieri, le nebulose fantasticherie alzavano i tacchi come
altrettanti contrabbandieri.

Scrivete la storia della dogana; narrerete quella dell'incivilimento.
Narrate quante castronerie stampate ed illustrate giungono d'oltre
Alpi, quante di queste, con veste nè forestiera nè italiana, cambiato
il titolo con quello di originale italiano, si spargono a sollucherare
la frega del forestierume, e non del buono certamente, ed a fare più
sonnolenta ancora l'indifferenza italiana per il pane casalingo —
narrerete le nostre, e anche un tantino le altrui miserie letterarie.
Enumerate i gingilli, le festuche, i ciondoli, le minuterie e quella
multispecie farragine di coserelle utili e disutili, strane e curiose
che la moda ne manda da lontano, e che accettiamo senza desiderio di
procurarcele da noi stessi — e narrerete che gli Italiani non solo non
le sanno fornire, ma neppure battezzare colla loro lingua. Contate le
armi che valicano le Alpi o varcano i nostri mari ad offesa o per aiuto
— i quadri e le statue ed i manoscritti e gli oggetti che per arte o
memoria i nostri antichi meno vanitosi di noi e più generosi raccolsero
con religioso studio e con principesca magnificenza, e che ogni
anno, senza ritorno o cambio, lasciano la terra che li aveva creati e
venerati; — avrete irrepugnabili argomenti della floridezza e della
decadenza delle genti. Possa l'indipendenza e la libertà far salire
nel futuro a bosco i tanti bruchi che formano la speranza della nazione
artistica!

A proposito delle nazioni, la questione sanguinosa della loro
indipendenza è sciolta dai doganieri — quando si ritrarranno ai
confini naturali. Tuttavia, penso, se in quest'età meravigliosa in
cui ogni dì annienta un secolo di tradizioni senza che si possano
prevedere i prodigi della domane, la famiglia umana si confondesse in
un fratellevole amplesso — concedetemi un istante l'ipotesi stranissima
— dove, domando io, dove n'andrebbero le miriadi dei doganieri che
incorniciano i mille regni?

Proporrò il quesito alle disquisizioni degli economisti, degli
umanitari, e di quanti s'avvisano di riformare la commedia comico-seria
del mondo — a meno che in questo frattempo si scopra mezzo di rilegarli
(parlo dei doganieri, è chiaro) nel mondo dei miti in compagnia di
tante altre anticaglie.

È tempo di fare ritorno alla nostra cittadina, da cui mi fece digredire
il mal vezzo di camminare balenando corpo e mente, peccato di cui farò
penitenza d'or innanzi col correre per qualche giorno la carreggiata
della strada _maestra_, senza neppure guardare colla coda dell'occhio
quanto m'invitasse a varcare la siepe ed a visitare ciò che non è nel
programma tracciato sul nostro portafoglio. Ritornando adunque alla
cittadina, dirò che nelle successive visite appresi che non solamente
poche città hanno relativamente tante caritatevoli instituzioni
quant'Arona, ma che io avrei preso un solenne granciporro se l'avessi
giudicata dalla scena di cui io stesso era stato testimone.... tanto è
vero che tutto è apparenza!


IV.

_Viaggio al naso del S. Carlone. — Angera. Dalle corti d'amore al
mormonismo._

La più bella passeggiata nei dintorni d'Arona è la salita del poggio
su cui s'erge il monumento a S. Carlo, che per la mole il popolo suole
chiamare il _S. Carlone_. Esso appare da quasi tutto il bacino da
Taino a Belgirate, ed è bello vedere dal lago quel titano disegnare
sull'azzurro del cielo la sua figura tranquilla.

Ammezzo la salita incontrai un cortesissimo Bavarese che si recava
pure lassù, per giudicare co' proprii occhi se la colossale statua
della _Bavaria_ nel Valhalla presso Monaco la cedeva in fatto d'arte
alla rivale italiana: ammirai la suscettibilità del Tedesco, il quale,
poichè d'improvviso ne apparve sulla vetta il _S. Carlone_, dopo
attento esame, colpito dalle mirabili proporzioni di tanta effigie, e
dalla dignitosa e ad una soave espressione dell'immortale che benedice
alla sua patria, confessava candidamente che se il monumento italiano
era condotto meno splendidamente del bavarese, di contro per valore
artistico e per situazione gli era di gran lunga superiore. Gloria
adunque al Crespi che lo disegnò!

Anch'io volli sedermi nell'interno di quel naso famoso; e quel dovermi
arrampicare per un camino oscuro e pieno di schifosi ragnateli e di
pipistrelli svolazzanti, spingendomi in su colle mani e coi piedi
per certi piuoli di ferro — pericolosa ginnastica che meriterebbe
all'ascensore almeno un'indulgenza — mi suscitò il dubbio che il Santo
abbia suggerito all'artefice questa paurosa scala, onde ognuno pensando
alla probabilità di rompersi se non altro il collo, sia richiamato ai
giovevoli pensieri della morte dal tripudio fascinatore della natura
che festeggia attorno lo sguardo. Chi lo sa!

È vero che il dabbenuomo che dal vicino collegio vi reca una lunga
scala per salire sul piedistallo e di là ad un buco — non posso
assolutamente dirla una porta, nè una finestra — ripete a tutti che per
privilegio concesso dal Santo nessuno mai si ruppe il surriferito osso
del collo. Chi sarà il primo? Non io senz'alcun dubbio, avendo dopo la
fortunata mia discesa giurato di non cimentare mai più la buona fede
del dabbenuomo sulla validità del suo privilegio. Del resto — senza
danno del privilegiato — direi che di lassù la vista non corre più
lungi gran cosa che dalla vetta del poggio.

Sotto e sopra il quadro che ti si para distoglie assai presto
dall'osservare il monumento, se non dal pensare a chi raffigura,
quantunque meritamente S. Carlo sia il personaggio storico-religioso
più popolare nella Valle del Po, per non dire in tutta l'Italia.

La collina del Vergante che alla mia sinistra abbraccia il lago
declinando a Belgirate, tutta verzura e fiori, è sì vaga nelle sue
curve; alla destra i facili poggi di Dormeletto e di Borgoticino corsi
dalle vaporiere fumanti mi traggono col pensiero ai giardini liguri; il
cielo e le onde quete sorridono con tanta armonia, che — se uno zingaro
potesse gonfiare vesciche — direi che la natura canta sì bene le glorie
dell'immortale che la melodia v'assorbe interamente a scapito del
soggetto!

Volete voi una scena pittoresca, una scena degna delle sponde del
Reno? Guardate là — in prospetto d'Arona. Il castello d'Angera tutto
fiero de' suoi sette od otto secoli, irto di merli che sfidano i denti
adamantini del tempo, la fronte rugata dal fulmine, sta accoccolato
senza barcollare, pensoso come un veterano, sopra una rupe sfiancata
sotto cui si acquatta il villaggio, quale un pulcino sotto l'ali della
chioccia. Lo direste un quadro _dal vero_ — vi sfido io a contraddirmi!
— del medio evo, in cui appare con vivissimo contrasto la schizzinosa
protezione del feudatario e la mormorante docilità dei vassalli. Il
palazzo conta cinquecento anni.... Quant'acqua corse giù pel Ticino!

— La torre però non novera che tre secoli circa, m'hanno detto.

— E' bastano per formare un abisso fra noi e quei dì. Quante antitesi!
Asili infantili e giochi di borsa; manicomii e crinolini; vetture,
congegni, libri e legislazione a vapore; corrispondenza elettrica
d'idee e di passioni, e.... tutto quel resto che voi sapete e che
taccio per non romperla in viso alla modestia: mentre allora! Il po'
di buono che quella tempra d'omacci aveva noi l'abbiamo cresciuto,
raffinato, sublimato coi lambicchi del progresso....

— Meno le lettere, le arti, e l'amore della famiglia....

— Eh! Eh! La non mi conta nulla per le lettere questo turbinio di
_riviste_, di giornali e di romanzi? E per le arti l'è forse cosa
da smorfie la fotografia? Quanto al culto della donna, la verginità
sospettosa delle idee dei nostri babbi semplicioni ha fatto luogo
con altre credenze all'analisi razionale, la quale — a dirvela in un
orecchio — tende in ciò dritto al mormonismo...

— Messere, m'accorgo che non siete ammogliato...

— Quest'aria frizzante mi persuade di parlare liberamente — ad essa
la colpa. Il tempo delle corti d'amore, dei tornei, dei trovatori
non è più; e lo sanno le donne. L'uomo ha capito che cantare e farsi
sbudellare per l'incerta virtù d'una bella — sovente brutta — sarebbe
un vero sciupìo di tempo.... E chi giura adesso sulla virtù di una
donna, se non quegli che giura ancora sull'amor patrio dei tanti
sollecitatori d'impieghi? — Io però sacramenterei tuttavia per l'onestà
d'una donna con quella buona fede che invoco invano in me per i
mercanti di parole d'ogni colore: che ciò stia fra parentesi.

Quanto ai trovatori con qualche piccola variante, se non la chitarra,
hanno cambiato metro; ma neppure quegli antichi cavalieri della
bellezza giungerebbero al delirio platonico di accontentarsi, dopo
la lizza, di portare i colori della signora. — Se io vi dicessi che
uno dei meglio famosi poeti del giorno, che cantò tutti i santi del
cielo e della terra, fu trovato poco tempo fa ginnocchioni innanzi
all'arrendevole fantesca della sua bella rigorosa? — Oh?! — Sentite gli
echi: Oh! oh! oh! —

Per fortuna questi due ciarloni, nostri compagni di viaggio nella testa
di S. Carlo, di piuolo in piuolo scomparvero giù del camino.

Nel mirare dietro le torri del vecchio castello i monti di Varese,
e più in là sfumanti nell'azzurro dell'aria quelli del lago di Como;
attorno in semicerchio le vaghe colline di Lesa e di Arona dalle curve
chiomate fra cui spicca nel verdoscuro della vegetazione qua e là una
casa, un campanile, una chiesuola; dappertutto scoprendo varietà, sotto
e sopra, nelle sponde e nei diversi toni dell'orizzonte e delle acque,
compresi il perchè anche agli abitatori delle rive marine il lago
inspira amore di sè.

L'oceano se placido t'infonde quella malinconiosa riflessione che
compenetra l'uomo all'aspetto d'ogni cosa infinitamente grande —
riflessione da cui sorgono meditazioni profonde di cui a tutti non è
dato l'assaporare l'intima voluttà — se burrascoso t'atterisce; il
mare imponente nel golfo di Napoli come sulle sparute scogliere di
Gibilterra o contro le dighe d'Olanda parla sempre — come Giove fra gli
Olimpici — troppo grandiosi verbi perchè tutti li comprendano.... ma
il lago riverbera sempre colla varietà de' suoi aspetti la vivacità, la
piacevolezza; se una tempesta si scatena la notte sulle sue onde, essa
ti fa prevedere come l'indomani le piante ritemprate dall'acquazzone
saranno sfavillanti ai primi raggi del sole colle foglie ancora
gemmate, e le frutta ed i fiori — se la grandine li risparmiò —
più coloriti. Dopo la burrasca marina — tremo al solo rammentarne
le orrende scene — scendi alla ghiaiosa spiaggia, e trovi fra gli
scogli tuttora echeggianti dei sinistri ululi dell'aquilone il fusto
d'una pianta divelta, sfrondata da un colpo di mare, una tavola — che
servì forse ad una lavandaia — che t'evoca dagli abissi il naufrago
disperato che un maroso divelse da essa, mentre la folaga pare s'aggiri
turbinando per scoprire sui fiotti il cadavere che il mare ributta.
Sulle sponde dell'oceano mediti, su quelle del lago sorridi: là
l'eternità, qui la vita.


V.

_Il Monterone. — Studi fisiologici sopra i cinque sensi. — Il lago a
volo d'uccello. — La prima idea._

Mentre c'incamminiamo verso la vetta del Monterone per facili ed
ombrosi sentieri, compagno mio, facciamo quattro chiacchere.

Tu hai da sapere — prima ancora di descriverti le veramente inudite
meraviglie di Intra e Pallanza — che ieri nelle ore pomeridiane mi sono
rannicchiato fra alcuni scogli dell'isoletta di S. Giovanni, e godendo
ad una la frescura vespertina dell'inverno ed il rezzo di alcune piante
protendentesi ad ombrello sopra il mio capo, me ne stava pensando come
fra tutti i libri il meno intelligibile sia l'uomo, questa edizione
_princeps_, direbbe un bibliofilo, che fa sì splendida mostra nella
biblioteca della natura. Dopo di avere scartabellato nella mia mente
tante pagine non sempre terse, confortevoli, del misterioso volume,
finii per domandare a me stesso quale dei sensi maggiore relazione
avesse coll'anima.

La fantasia volò coll'ali della memoria ai momenti fuggitivi, in cui
una voce armoniosa colla parola che nega e promette m'avea scosso tutte
le fibre del cuore; alle notti tumultuose in cui le briose note de'
balli vertiginosi m'avevano tratto nella ridda quasi allucinato; alle
sere in cui il _Barbiere_, il _Tell_, la _Lucia_ ed il _Rigoletto_
versavano un fiume di melodìa nel mio animo, ed il rincrescimento che
il tempo m'involasse sì presto quei divini concenti in mezzo a cui
dimenticava le miserie e le prose della vita per slanciarmi ebbro di
poesia nei mondo delle illusioni.... Oh! l'udito è pure il prezioso
senso! Mercè sua comprendo l'espressione più viva del mondo: tutto
parla; beato chi sente!

Sennonchè tosto mi ricorse al pensiero come la voce dell'amata s'era
fatta dopo poco tempo aspra, sarcastica; poichè ella troppo presto
dimenticando quanto m'era costata la felicità effimera di pochi dì,
mi piantava colla solita sua buona grazia un pugnale nel bel mezzo
del cuore. È vero che non corse gran tempo che la civetta pietosa —
s'era forse già annoiata del mio successore — volle svellerlo; ma il
modo fu così gentile, delicato, che la tarda carità invece di guarire
la ferita non fece che inasprirla. Strida da una e dall'altra parte,
smanie e stridori di denti...... ancora mi suonano nell'aria orrende
parole....... Lo credereste? A questo punto mi giunsero da ogni parte
cigolì di ruote, e una miriade di stonazioni venne a grandinarmi
intorno dal non lontano teatro di Intra dove si torturava non so quale
delle opere più faticose di Verdi, con tanto strazio che dalla pietà
e dal terrore mi si rattrappivano i nervi.... Benedetto l'udito, senso
preziosissimo; ma tu non sei certo l'eccellente.

Non aveva finito ancora questa frase che le rose, i gelsomini, le
acacie, i limoni, i millefiori del giardino botanico di Rovelli
m'inviarono una nebbia di sì acute fragranze ch'io allargando le nari
per meglio aspirarne gli effluvii, imparadisato chiusi gli occhi e
credetti d'essere volato all'olimpo di Maometto, in mezzo alle urì,
sulla sponda d'un lago d'acqua di rosa.... O incostanza della fortuna!
Un alito di vento involò ratto l'olezzo; sparì l'acqua di rosa, ed il
lago senza moto, senz'aura, apparve come una conca immensa stagnante
da cui emanava un fetore orribile di pesci imputriditi. Dubitai che la
bella Verbania l'avesse abbandonato colle sue ninfe, m'alzai e pervenni
presso la foce del fiume che bagna la Sassonia.... La Sassonia, qui?
Gnorsì: gl'Intresi costruirono presso l'antica città un sobborgo a
vie spaziose, allineate che corrono fra case più allietate dal sole
e dallo spiro lacustre che non le catapecchie della vecchia parte:
nel centro una piazza e nel mezzo di essa il teatro, il più bello di
tutto il lago. Ora questo sito una volta non tanto lontana era una vera
ciottolaia, un campo di sassi... capite? Gl'Intresi, pratici quanto
gli altri popoli appiedi delle Alpi della lingua nazionale, d'una
ciottolaia fecero una Sassonia, con grave sfregio della patria degli
oficleidi e dei tromboni!

Ma che volete? Io non poteva a nessun conto adagiarmi all'ombra di
quelle mura senza che ne dovessi tosto sloggiare per sfuggire alle
ammorbanti evaporazioni delle molli erbette,... A che serve il naso,
sclamai scappando indispettito, se per l'olezzo d'un fiore ne tocca
assorbire cento esalazioni ingrate o perniciose? Sì, senza dubbio,
l'odorato è l'infimo dei sensi — me ne rincresce assai pei mercanti
d'essenze!

Ignoro se il correre per quelle spiagge sassose — stavo per dire
sassoni — od il desiderio di trovare una soluzione lungi dalle praterie
della parte suburbana d'Intra, mi condussero in un albergo vicino allo
scalo dei piroscafi in Intra. — Compagno mio, tu sospetterai forse
ch'io sia di quelli che giudicano di una terra dal modo con cui vi
soddisfecero l'appetito: ti giuro in nome delle costolette che mangiai
in quell'osteria, che per quanto male io possa dire del paese, io sarò
sempre in credito.

Accetto senz'esitazione l'invito dell'appetito, m'assido ad un desco,
e mentre il cameriere lo apparecchia, fiuto a larghe nari il prosaico
odor d'arrosto che dalla cucina di sotto saliva in quella sala. Dalla
finestra io poteva vedere lo scalo affollato dai soliti fannulloni,
il lago, e di là le capricciose curve dei monti di Laveno. Sennonchè
fra lo zingaro ed il resto v'era una povera melensa creatura, magra,
ossuta, spelata, che attelata ad una sbilenca carrettella stava
menando i denti in un sacco di fieno più paglia che fieno. È innegabile
che l'appetito riceve un notevole stimolo dalla vista di chi trinca
allegramente — in grazia dell'asino il vostro compagno in attesa di
meglio cominciò a mordere in una pagnotta del suo colore.

Mezz'ora dopo quell'io che mi rammentava poc'anzi con sdegno di
quel gastronomo, il quale sclamò al finire della mensa lussuriosa:
felice chi ha fame! quell'io stesso usciva dall'albergo satollo ed
indignatissimo sulla volgare ed animalesca indole del gusto; e sì che
se non aveva assaporato i manicaretti più delicati, l'appetito m'aveva
fatto golosi anche i cibi più anacoretici: l'asino malsazio coglieva
colle labbra penzoloni gli ultimi frusti del pasto insufficiente....
Quel certo gastronomo l'avrebbe — a pancia tesa — invidiato con
ragione, poichè il senso del gusto poco su poco giù desta gli stessi
stimoli e dà la stessa soddisfazione all'uomo ed agli altri animali —
non razionalisti. Nella stessa sera di quel giorno incontrai due tomi;
mi vollero secoloro a cena, cena largamente inaffiata dai vini meglio
spiritosi del Piemonte.

Alla domane mi svegliai tardi, e col capo indolenzito; la prima parola
pronunciata da me fu per chiedere dell'acqua.

                             . . . . . . .

«Non so veramente quanto le dissi — forse quanto le diceva da un anno
— ma troppo mi rammento com'ella all'inesperto amante, accomiatandolo,
dicesse all'orecchio una parola per cui il povero giovinetto
nell'uscire da quelle stanze, tentennante come un ebbro, fu lì lì per
ruzzolare lungo le scale.

«Domani! Rinuncio a descrivervi le vertiginose aberrazioni della mente
in quelle eterne ventiquattr'ore; vi basti il sapere che quello era
il primo amore e che d'amore non aveva pur anco conosciuto altro che i
tormenti..... Quelle furono ad una le più dolci e le più affannose ore
della mia vita: temeva di vedere giunto l'istante e lo sospirava...
povere illusioni d'un cuore ardente! . . . . . . . . . Alla fantasia
che guidava pei campi eterei i sogni immacolati dell'amore virginale,
in quell'ora fatale si spennarono le ali possenti, e cadde giù
turbinando nelle melmose plaghe della materia....»

    Salve, o del cielo primigenia figlia,
    O dell'Eterno coeterno raggio,
    Se tal nomarti senza biasmo io posso,
    O sacra luce!

_Hosanna in excelsis!_ Eccoci sul Monterone!

S'io fossi il re del mondo, avrei tanta fede da trasportare
questo quadro incantevole nei giardini della mia reggia. Il bacino
splendidissimo del Verbano, e le in esso ripetute sponde; i monti
torreggianti dell'Ossola e dell'Intrasca co' loro cappucci di neve; là
in prospetto la punta di Pallanza tutta fiori e verzura, e dietro le
scheggiate vette della Cannobina; qui sotto colli fioriti tempestati
di villeggiature, e le isole incantate; a sinistra le coste ondeggianti
d'Ispra su cui spicca l'eremo di Santa Catterina nell'oscura tinta del
macigno; dietro il lago d'Orta in cui il Monterone bagna le nordiche
pendici; ed attorno le minori conche di Mergozzo, di Varese, di
Bardello, di Monate, di Comabbio; un cielo sereno, freschissime aure
— tutto in tanto mirabile contrasto armonizza a formare una scena, la
quale — se vi molce l'animo la onniloquente bellezza della natura —
adorerete genuflessi.

Se tu credi d'esser poeta e qui non inneggi, non tentare più oltre le
muse — la tua cetra non ha corde.

Che tu sia adunque benedetta, o fonte vitale di tante aspirazioni,
o vista! Per te la creazione è quasi opera nostra: per te nessuno è
compiutamente infelice. Tu ne ravvivi nell'aspetto sereno de' nostri
cari l'amore della famiglia e della patria: per te innanzi ai monumenti
il cuore palpita di entusiasmo e di emulazione. Divina figlia del sole,
come il sole dài gioia agli umani — orrendamente infelice quegli a cui
tu non distrai il pensiero dall'idea fissa, eterna, del suo dolore!...
No, no, Milton come Tamiri ed Omero, Tiresia e Fineo, furono cantori
immortali — ma chi vorrebbe la loro gloria a patto di dover dire
coll'angoscia del britanno:

    ... il giorno a me non riede: io non veggo
    Nè i dolci raggi del mattin che spunta,
    Nè quei del sol che cade; io più non veggo
    Di primavera i fior, nè rosa estiva,
    Non più scherzosi armenti, non più mandre,
    E non più volto d'uom, divina imago,
    Ma folta nube invece e buio eterno
    Mi cinge intorno, e dai piacer che dolce
    Fanno la vita, mi divide; invano
    Del bel saper, delle grand'opre sue
    Apre natura il libro; è per me tutto
    Oscuro, vôto, cancellato, e chiusa
    M'è a sapïenza una gran via per sempre!

Nessun senso, come la vista, ti mette in comunicazione con Dio.

Dopo d'averti dato il mondo visibile nell'immensa serie delle sue
cose, l'occhio armato di lente scopre all'anima esterrefatta i misteri
della creazione microscopica, dai quali nei muschi, nelle mucilagini,
nelle ninfe, negli insetti effimeri nati ora per morire adesso, nei
milliformi atomi ti si rivela una storia impensata, un nuovo mondo
infinito, nè più nè meno di quello che scopri nelle miriadi dei globi
celesti... cose ed anime che fanno presentire con delirosa vertigine
l'incommensurabilità dell'invisibile, del non sensibile!

Dunque, mentre ti dà il sensibile, lo sguardo ti fa intuire l'ignoto.

Perciò nessun senso più divino della vista.

Chi visitò i luoghi più famosi per la magnificenza, o la serena
bellezza, od il terrore da cui natura li ha improntati, avrà
trovato senza dubbio una folla di visitatori che profonde in punti
d'esclamazione quanto sente, o crede, o finge di sentire. Di questi,
quelli che sentono con palpito le parole del creato, raro è non
tacciano; i secondi si svaporano in iperboliche frasi di romanzo.
I terzi sono però i più curiosi: senza la buona fede dei secondi,
non volendo ammettere in se stessi la negazione delle facoltà più
sensitive, s'abbandonano a rompicollo alle declamazioni d'un lirismo
che in nessun modo può sollevarsi da fior di terra.

A cavaliere di un bel poggio fra le deliziose colline — bellissime
fra quante vedere si possano — che adagiate lungo il Po, formano una
catena lussureggiante di verzura in prospetto di Torino, sta un antico
convento di cappuccini. Di lassù ampia, variata, stupenda la vista:
il Po, Torino incastonata fra i suoi viali, un campo che è un immenso
giardino, e in fondo, in giro, le Alpi, dalle marittime alle pennine
in tutta la loro maestà. Un cotale con cui era salito lassù, dopo una
fiumana di asmatiche declamazioni lardellate di citazioni storiche a
fascio, da Annibale a Napoleone per Carlomagno, tacque ad un tratto
— la vena era esaurita. Terminava l'inneggiare asserendo che chi non
avesse ammirato addovere quel quadro e la stessa cornice, meritava di
subire almeno almeno la sorte di Fetonte.

Dopo qualche istante, a mezze labbra e facendo lo gnorri, gli susurrai:

— Che Creso sarebbe il possessore di questo campo fertilissimo cinto
dall'Alpi ed irrigato da dieci fiumi!

— Veh! la prima idea che mi venne in capo quando m'affacciai a questo
spettacolo...

— E poi dicono, pensai tra me, che la prima idea non è la più giusta!

Non so se questa sarà pure la prima idea che frullerà in capo a voi
infaticabili amatori della natura, sul culmine del Monterone, ove la
prospettiva compensa generosamente la fatica — prospettiva che non la
cede per nulla in estensione ed in varietà a quelle più rinomate dei
monti della Svizzera: — io però a conforto della maggior parte di voi,
vi ho serbato fino a quest'istante una sorpresa la quale non influirà
poco sui giudizi che darete della grandiosa scena... Vi dirò adunque
che certo Cobianchi Intrese ha eretto nel mezzo di amenissima alpe un
eccellente albergo... non vi dico altro...

Buon viaggio; buon appetito non v'auguro... ve n'accorgete quando
sarete giunti lassù. Ammirato il quadro, refocillato lo stomaco
addovere, discenderete giurando che chi visita il Verbano e non il
Monterone gli è come s'andasse a Roma senza vedere il papa — e che
il Cobianchi, considerato il benefico influsso della sua ospitalità,
merita almeno di essere insignito cavaliere... della tavola rotonda.


VI.

_I piroscafi. — Una donna che mangia. — Gli stranieri. — I laghisti. —
Primato mascolino. — Il concertista di Cannobio. — I contrabbandieri. —
Rivista di sponde._

    =Tanti paesi, tante usanze.=
                   _Prov. ital._

Sul Lago Maggiore come sul Lemano e sul Reno nella stagione propizia al
girovagare chi viaggia sui piroscafi ha il destro di conoscere a certi
tratti singolari la nazione della maggior parte dei compagni.

Il S. Gottardo da pochi minuti aveva lasciato l'approdo d'Arona, quando
io mi feci sulla tolda fra un ducento viaggiatori d'ogni età, pelo e
colore, che parte in piedi, parte seduti, stavano guardando la città
dei Borromei che spariva dalla vista. Un terzo della tolda era occupato
da una catasta di cassette, bauli, valigie di cuoio e di stoffa
ricamata, di gabbie di uccelli, di scattole e di fagotti d'ogni colore.

Una mezza dozzina d'Inglesi s'era installata sulla coperta, attorno ad
un tavolo, al miglior posto; coprirono il tavolo e gli scanni vicini di
libri-guida, di album, di cannocchiali, di buste da sigari e di abiti
in gomma — e si cinsero cogli ombrelli, le sacca ed i bastoni da alpi,
d'una insuperabile bastita.

Una signorina — ancora ne fremo! — doppiamente graziosa perchè bella
e bionda, mi stava seduta dinnanzi; la personcina, in cui l'armonia
delle forme pareggiava la gioventù freschissima, semplicemente vestita,
suffusa dal tocco potente del nostro sole, s'inquadrava sì bene
nell'orizzonte sereno che io finii nella mia ammirazione per crederla
una fattura di Frate Angelico, il soave dipintore delle vergini e
dei cherubini. E da quegli occhiacci quanta poesia, quanto candore —
un poema sull'innocenza! Nel crescendo della mia meraviglia, dopo di
aver passato in rassegna l'Eva di Milton, Ofelia e Zuleika e quante
deità femminili aveva plasmato la fantasia de' meglio famosi poeti
britannici, non m'avvidi punto che Intra — a cui mirava qual meta
— mi passò dinnanzi come l'ombra di veloce rondinella, o per dirla
più giusta, appunto come se il battello non l'avesse avvicinata. Non
adirarti, Intra mia più buona che bella, in questo istante leggo in
quegli occhi troppo vaghi pensieri perchè io possa pensare a te....!

Il piroscafo s'era allontanato dallo scalo clamoroso della città
industre; il cameriere apparecchiò un desco e la _divina_ vi sedette.
Ritornò poco dopo portando un gigantesco piatto di costolette
mezz'arroste e di patate fritte, un piatto per tre — anche letterati; —
la _bella_ mangiò tutto. Il cameriere ritornò più volte con thè, latte,
butirro, pane arrostito, salame — tanto da sfamare tre librai; — quella
donna divorò, tracannò tutto, fino all'ultimo bricciolo, all'ultimo
centellino....

Perchè non aveva pensato di mettersi al travaglioso — non posso dire
dilettoso — _asciolvere_ (e pranzerà tuttavia?!) prima di giungere ad
Intra?

Se tutte le donne inglesi mangiano di quella fatta, comprendo con
quanta ragione Byron diceva che una donna bella _non deve mangiare_.

I Tedeschi — se non sono studenti — circospetti, immoti, con una
serietà bovina guardano fantasiando le spiagge. Benchè non trovino
nella cucina lombarda dei piroscafi la zuppa alla birra di Manhein e le
salsicce di Gottinga, pranzano a bordo, ma per tratto caratteristico
scendono a maggiore agio nella sala, accontentandosi quanto al
paesaggio di goderne quel po' che difila dietro le ovali finestruole.

I Russi, quei Russi che, se non m'inganno, cent'anni fa Alfieri
diceva barbari vestiti all'europea, oltre alle qualità negative degli
Alemanni hanno nel loro contegno un certo che d'austero che s'attaglia
mirabilmente alla robusta loro struttura. Ma come ogni singolarità
nazionale va elidendosi al frequente contatto delle nazioni, alla
crescente preponderanza delle mode di Francia e d'Inghilterra,
anche quelle barbone che parvero ad Alfieri una fra le cose meno
spiacevoli di quelle regioni della pelle d'oca vanno sparendo. E
se la buon'anima sua rivedesse quelle capitali, non riconoscerebbe
_l'antico accampamento di allineate trabacche_, tanto quella nazione
seppe progredire nella conquista della civiltà, malgrado i secolari
pregiudizi, la massima corruzione delle classi elevate e la retriva
ignoranza del popolo.

Ma che è mai questo chiasso?

Quel tale, malgrado le rimostranze del pilota, vorrebbe stare in
piedi sulla barriera a poppa; il suo compagno canterella una canzone
di Béranger pipando, sdraiato sui sedili, senza curarsi un'ette di
chi gli sta d'intorno; la signora, sfidando gli sguardi indiscreti,
s'è arrampicata lesta come un gatto per la scaletta di ferro sul
ponticello fra i tamburi delle ruote, non pensando alla difficoltà
di scendere senza compromettere.... il crinolino! Chi non sa ora —
anche senz'intendere l'epigrammatica canzone, ed il nasale cinguettìo
dei compagni — che quella famiglia è francese? Amabili e spensierati
figli della Francia, chi non vi perdona volentieri l'avventata vostra
leggierezza, in grazia del coraggio con cui la vostra nazione guida le
sorelle nella via del progresso civile? Volere o non volere, essa dà al
mondo grandi lezioni — senza pedanteria, senz'annoiare i discepoli.

Le strade ferrate, i telegrafi elettrici e forse più rapidi mezzi di
comunicazione cancelleranno un giorno le poche qualità salienti che
ancora distinguono le varie nazionalità; sarà un bene od un male?

                                   *
                                  * *

A prua stava un centinaio di popolani seduti sopra zane e cestoni di
frutta, d'ova e di polli; uomini abbronzati, secchi, temprati al gelo
ed al sollione, alle fatiche ed alle privazioni; donne membrute, faccie
poco leggiadre, di bel petto, risolute, e tanto nullatementi quanto
procaci per verun verso; qualche ragazza avvenente, tra 'l montano
e 'l marino, di nera capigliatura, di cera maliziosa; ragazzi vispi,
di contorni gentili che presto la rude educazione e l'aria mordente
rompe a forti linee. In un crocchio regnava una donna — dove non regna
la donna l'uomo imbestia — la quale rintuzzava con tanto brio le più
o meno (e meno anzi che più), spiritose frecciate che i compagni le
saettavano a bruciapelo _sulla preminenza dell'uomo_ sopra il bel
sesso, che da quel punto in poi io non lo chiamerò più il sesso debole.
Un tale — ignoro se sinceramente o per mascherare la tendenza del cuore
— non le scoccava dardi, ma pistolettate, avresti detto, del genere
più mascolino, come: _La donna è una scopa_, _un serpe avvelenato_,
_l'origine eterna d'ogni male_, ecc.; — senonchè quella furbacciona gli
rispose interrompendolo con un'occhiata sì dolce, sì promettente, che
la pistola fece cecca, l'uomo s'ingarbugliò, i compagni risero, ed io
compresi una volta ancora essere molto più facile dire cose d'inferno
della donna che sottrarsi all'impero, alla seduzione delle sue grazie.

Arrivati a Meina, la brunotta disse: addio, compari, non vado più a
Intra; ho cambiato pensiero, discendo qui. Discese nella barchetta
di traghetto; — già vi stava rincantucciato a poppa il sere — a cui
i compagni, ridendo a smascellarsi, gridavano: Eh! Pero, anche tu hai
cambiato strada.... Non hai più paura del serpe? — La bella, puntati
i suoi piedini sullo scanno di contro, guardò ghignando i coristi, e
voleva dire: Avete un bel gridare cose da chiodi di noi; con un capello
vi tiriamo sempre a' nostri piedi.

Siccome non conosco il resto della storia, resto a bordo, augurando
mille gioie a quelli che hanno cambiato pensiero — benchè _il primo sia
sempre il migliore_!

Appoggiati alle cabine del ponte, silenziosi, indifferenti al chiasso
che si faceva sul piroscafo ed allo scorrere delle vedute lungo il
lago, alcuni frati mendicanti....

— Zingaro mio, accoccane loro una delle tue, delle più saporite... Non
risparmiare questi fannulloni che in nome di Dio s'ingrassano a spese
del povero....

— Zitto là: anzitutto i frati in quistione non erano punto grassi; poi
— se pure non l'ho detto ancora o non m'hai compreso — io non pretendo
incastonare a mezzo di una passeggiata per godere e darsi bel tempo,
quelle rancide quistioni di frati, carabinieri, trovatelli e compagnia,
che oltre all'aria pedantesca di volere ad ogni passo riformare la
società, spirano una tale afa di noia da farti dormire lì su due piedi.

Zin, zin, ziroziro! Zitti tutti quanti! Largo ai concertisti di
Cannobio!

Fra le due ruote del battello, presso gli spiragli della macchina
motrice, un vecchiotto segava un violino: attorno a lui col becco
rivolto in su, una nidiata di ragazzini da sette ai dieci anni
_accompagnavano_ il padre con violini e viole, — serii, malinconici,
per non poter saltellare liberamente cogli altri putti; — ma nessuno
avrebbe potuto guardar quella povera bimba accollata ad un grosso
violoncello, stare tutt'occhi ed orecchi per dare il colpo di arco
a seconda dei movimenti dei piedi paterni — e pestava sì forte
il dabbenuomo che evocò dal loro antro vulcanico gli affumicati
attizzatori dei fornelli del piroscafo — colpo d'arco che era dato
tuttavia or troppo presto or troppo tardi — e le manine di lei
impotenti a comprimere sulla tavoletta le corde, per cui ad ogni
vibrazione il cattivo strumento si doleva con un zirlo acuto d'essere
caduto in mani sì innocenti; nessuno dico avrebbe potuto guardare
quella graziosa figurina ed i fratellini ed il babbo fornire quella
musica faticosa, senza porgere loro una moneta ed un mesto sorriso...
Zin, zin, ziroziro!

E quando il ziro ziro finì, la ragazzina diede un lungo sguardo sugli
astanti quasi per leggere sui visi altrui l'approvazione, mentre il
povero padre si dimenava in mezzo alle sue creature per armonizzare —
Dio sa come — i loro strumenti. Ma tutti i cuori erano perfettamente
d'accordo per compiangervi, perchè tutti gettarono nel cappellaccio
del _maestro_ un soldo: anzi credo che Verdi stesso di cui avevano
scorticato il brindisi della Traviata, presente avrebbe dimenticato le
giuste suscettibilità dell'autore. Raccolti i soldi, risonarono — una
sinfonia, del papà, il caos. Zin, zin, ziro zin!

Il concertista di Cannobio è un artista?

L'artista è creatore — e qual creazione più originale della sua
sinfonia? Chi potrebbe meglio rappresentare il disordine? L'effetto
poi corrisponde al merito — lagrime, risa e soldi. Mi direte che il
vecchietto non ha genio — ma se il genio, come disse quel valentuomo di
Bouffon, è una lunga pazienza, chi può contrastarglielo?

                                   *
                                  * *

Il laghista ha un carattere suo proprio, come quello che dipende in
gran parte dalla posizione della sua terra. Vicino alla Lombardia,
egli ha l'abbondante loquela, lo scherzo facile, l'arrendevolezza
dei Lombardi; appiedi delle Alpi ama il lavoro, ed è schiettamente
ruvido ed armigero come i Pedemontani; sull'acqua, ed è industre,
bramoso d'arricchire come i Liguri. Quanto ai difetti, egli ama
appassionatamente il suo bel paese — compresi i campanili — e lasciata
in disparte la smania di considerare la città vicina, il villaggio
della stessa costa inferiore al natale, esso ha ragione. La via
ferrata, i piroscafi, la nuova strada al Ticinese faranno con eloquenza
assai maggiore della mia comprendere che le sponde del Verbano su per
giù non sono che una grande famiglia sotto un medesimo tetto.

Chi non ha inteso parlare dei contrabbandieri del Lago Maggiore? Una
volta — le date sono inutili — c'erano, e tomi indiavolati da tenere
in sussulto le tre finanze; quistioni economiche che si risolvevano
sovente con schioppettate, legnate a josa ed altre galanterie da ambe
le parti. Molti contrabbandieri — non quelli che arrischiavano al gioco
la pelle — arricchirono; la leggenda susurra che molti finanzieri si
rimpolparono: ora chi ne seppe ammassare li gode; i tipi drammatici
scomparvero ed il Verbanese non è ora più tenero del contrabbando di
quanto lo sia ogni abitante di confine.

Del resto — quà in un orecchio che nessuno ci senta — messa lontano la
quistione del peccato — chi non si sente solleticare dalla tentazione
del frutto proibito? Chi non è sotto qualche aspetto contrabbandiere?
L'amante vorrebbe farla alla barba del Bartolo o del marito; il poeta
introdurre di soppiatto un'idea birbona che _minerà l'edificio della
tirannia_, e molti scrittori e librai arricchire l'opera e lo scrigno,
malgrado la _proprietà letteraria_ — avvenire..... Oh! s'io potessi,
senza che voi ve n'avvedeste, contrabbandare qualche imaginosa fantasia
da cacciare lo sbadiglio dalle vostre labbra!

                                   *
                                  * *

Non v'è mai capitato no di condurre un bimbo a compra di balocchi pelle
strenne di capodanno?

In mezzo a tanti cavalli, soldati e generali e cannoni di legno, eroi
dal capo di cartapesta, asini col pelo, e pupazze cogli occhi vivi
di cristallo, pallottole, racchette, cerchi, palloni volanti, archi
e freccie come al tempo in cui Amore saettava, tamburi per rompere la
testa ai vicini, trombe da chiamare in casa l'emicrania, fischietti e
scuriade ed altri amenissimi trovati per assordare il mondo e rompere
le scatole a chi li ha in casa, in mezzo a questo caos babelico il
piccino non sa che scegliere; l'uccello dalle penne dorate par vivo;
ma il cane abbaia...... la carrozzina corre in giro da sè stessa.....
Così avviene a me in cerca d'un romitaggio ove riposarmi qualche
giorno. Sesto-Calende, malgrado il nome romano, le memorie d'Annibale,
l'antica abbadìa, i barconi che scendono il Ticino che vi sgorga dal
lago, non mi rattiene. Di contro, a Castelletto su Ticino, ho perduto
mezza giornata fantasticando, attorno al castellaccio, sui casi della
Bice del Grossi. Angera, la città del sole — da non confondersi con
quella di Campanella — mi rammenta un proverbio laghista, alla cui sola
memoria mi sento bagnare la camicia. Ispra, quasi sul piano, in fondo
ad un seno deserto, colla prospettiva di ampio tratto di lago e del
Vergante..., ma il mausoleo alla contessa Castelbarco inspira troppo
mesti pensieri.... Lesa tranquilla in placido golfo.... Belgirate
ariosissimo.... Veh! Dimenticavo di notare come sia impossibile
vedere la sponda destra del lago senza guardare ed ammirare l'ampia e
solidissima strada al Sempione che si stende, a seconda dei seni e dei
promontori, come un orlo bianchissimo tra la verzura della pendice e
l'azzurro dell'onda. Non ultimo vanto di Napoleone è quest'opera degna
dei grandi secoli di Roma. Al pari di Roma egli lasciò dovunque traccie
di quel genio che volava sì alto sull'ali dell'aquile vittoriose da
obbliare come gli uomini di quaggiù fra le altre miserie hanno un
cuore. Tuttavia non v'ha, credo, Italiano che, malgrado il ricordo
dell'ingratitudine sua verso la madre, la quale pure sola lo amò senza
tradirlo mai e gli perdonò senz'amarezza di rimproveri, non abbia
dimenticato Campoformio al racconto della passione di Sant'Elena.


VII.

_Lesa e Manzoni. — Ciarle letterarie. — La calma._

    Oh! quante volte ai posteri
    Narrar se stesso imprese,
    E sull'eterne pagine
    Cadde la stanca man!

— Anche voi discendete qui? Mi chiese un biondo Alemanno che m'aveva
udito susurrare a mezze labbra la bella lamentazione del Manzoni alla
morte di quel fatalissimo.

— E perchè no? Risposi a quella simpatica fisonomia. Voi scendete
per...?

— Vedere quel poeta i cui allori furono invidiati dal nostro grande
Goethe.

— Manzoni? qui? Allora ad un tratto mi parve che l'aure ripetessero
in flebile armonia gl'inni, i cori e le scene dell'Adelchi e del
Carmagnola, gli episodii dei Promessi Sposi.... A terra!

Mentre da Belgirate ricorrevamo verso la vicina Lesa, l'Alemanno si
meravigliò meco che gl'Italiani ignorassero dove dimorava l'immortale
cantore. Il poverino ignorava che Manzoni aveva da non pochi anni
pubblicate le opere sue migliori senza che gl'Italiani le avvertissero,
quando Goethe, scopertone per caso il genio, gli schiudeva colle
sue lettere l'immortalità. Ignorava che pochissimi illustri Italiani
debbono la loro fama all'entusiasmo od alla riconoscenza de' paesani,
e moltissimi la devono agli stranieri. Beccaria crebbe tosto in
rinomanza per Voltaire, Morellet, Catterina II. Il Tedesco credeva che
in Italia si leggessero avidamente gli scritti della nazione come in
Germania. Non sapeva che qui, all'infuori de' compilatori e degli altri
racapezzatori di libri, tristo chi aspetta un pane dall'arte!

Quantunque io avessi detto più che non era forse necessario
sull'ingrato tema, il dabben giovane insisteva con mille interrogazioni
sulle abitudini del cantore; sicchè per troncarla, gli sfoderai ad
un tratto che anche in Germania Mozart, il divino Mozart era morto
miserabile. Quelli, a dir vero, erano altri tempi, meno gonfi di
civiltà....... Intanto eravamo pervenuti alla prima palazzina di
Lesa: ivi soggiorna sovente, nell'estiva stagione, il cantore di
don Abbondio. La cera di quell'abitazione è pacata come la figura di
fra Cristoforo. Venne ad aprire un vecchio senza livrea. — Il conte
è in casa? — Egli ne introdusse senza fare motto. Annunciatici come
desiderosi di sue novelle, e, se era possibile senza suo disturbo, di
avvicinarlo, il servo che ne aveva uditi coll'indifferenza di chi sente
spesso la medesima canzone, entrò lemme lemme nelle stanze interne.
L'emozione era tanta che m'impedì di pensare ad ogni altra cosa,
anche a dare uno sguardo alle semplici supellettili che arredavano
l'abitazione. Ma ecco sentiamo nel salotto vicino una pedata: è il
servo che ritorna forse a dirne....... Ne apparve fra la mite luce
della stanza la veneranda dolcissima fisionomia del poeta. Ci movemmo
balbettando verso di lui. Palpitavamo di religiosa riverenza. Il nostro
cuore batteva con sussulto: anche noi vedremo, parleremo con lui!

Non so il come, ma cinque minuti dopo ogni nostra esitazione era
dissipata: nella fuggevolissima ora scorsa al suo fianco, ne parlò
del lago, delle sue passeggiate, delle cose presenti, senza entrare
in quelle disquisizioni critiche, dove sogliono annegarsi i letterati.
Con un semplice motto chiuse la bocca agli elogi dell'Alemanno, senza
quell'affettata modestia, sotto l'usbergo della quale certi professori
di lettere sogliono cicalare due ore difilate delle loro scoperte
Americhe nell'arte.

Alessandro Manzoni ne accordò — quanto non speravamo — una stretta a
quella destra che vergò le pagine ove armonizzano concetto e forma,
ragione e fantasia, la vera essenza del genio! Dio solo sa poi quanto
ne rincrebbe di non poterlo degnamente contraccambiare!

Noto qui come, imperversante l'austriaco in Lombardia, fra gli
assenti la _Gazzetta ufficiale di Milano_ richiamasse _certo Manzoni
Alessandro_. Napoleone, conquistata l'Italia, mirava anzitutto ad
amicarsi gli uomini di merito che il fulgore della sua stella non aveva
abbagliato. Ma gli Austriaci sprezzavano apertamente ogni cosa italiana
— eccetto l'oro.

Manzoni donò all'Italia un libro, il quale, come tutti i veri
capolavori, è ad una miracolo di mente profonda, di cuore appassionato,
e un'azione buona. Da lungo tempo sdolcinate affettazioni d'idilii in
cui attori e natura portavano la parrucca, epilettiche convulsioni di
novellaccie di cui non era italiana nè l'origine, nè l'inspirazione, nè
la veste, aspirazioni evirate alla luna, all'indefinito, avevano fatto
dimenticare come lungi dai salotti profumati, e dalle barocche capanne
dei Titiri incipriati, vivea attorno alle città, nei campi, attiva,
oscura, un'immensa famiglia intenta al lavoro. Il poeta comprese
il valore del popolo, d'una gente che dà il pane ed il soldato, le
antitesi crudeli della forza, della necessità col diritto. Colla
dignità vereconda d'un'arte cristiana, senza le basse adulazioni di chi
fa un Marcello d'ogni villano, bussa alle porte del povero, ne illumina
le poche gioie, ne conforta gli stoici dolori, ne mostra le virtù tutte
sue ed i vizi non del tutto suoi. Colora colle tinte della verità il
quadro, dipinge con sicura potenza di tocco scene gigantesche, e ti
presenta i _Promessi Sposi_, in cui l'arte che tutto fa non si scopre —
un libro fra i pochi che gl'Italiani possono leggere due, tre e quattro
volte senz'annoiarsi.

Poichè il merito dello scrittore italiano venne cresimato oltralpi, i
_Promessi Sposi_ (che altrove avrebbero fruttato strepitose ovazioni
e più strepitose somme) divennero malgrado la sonnolenza apatica
degl'Italiani il libro più popolare della loro letteratura narrativa.

Da Manzoni, Grossi, Azeglio, Cantù, Carcano. Grossi ed Azeglio però
per vivacità di colore e scioltezza di disegno precedono tutti gli
altri. Carcano è il poeta delle più soavi effusioni di cuore, il poeta
della vita intima. Dopo questi buoni un temporale di mediocrità — non
auree — che a passo di lumaca sulla falsariga maestra regalò all'Italia
una moltitudine di buoni curati, di perseguitate, di Don Rodrighi e
d'Innominati in diciottesimo, la quale ebbe per effetto di disviare
sempre più dalla letteratura nazionale gl'Italiani.

                                   *
                                  * *

Manzoni, Rosmini, D'Azeglio sono tre nomi che spargono una bella luce
sul Lago Maggiore. Niuno dei tre nacque sulle sue sponde; ma chi
passando innanzi a Lesa, a Stresa, a Cannero non ricorderà la loro
dimora, le opere per cui il loro nome corre illustre?

Mi ricordo che la prima volta in cui m'apparì Arona, tosto mi corsero
alla mente le lettere di quell'anima sì altamente innamorata della
natura ch'era il Foscolo, nelle quali, scrivendo all'amico Bottelli,
si lagna spesso che i tempi incerti e l'indole irrequieta gli tolgano
di riposare ancor lui in mezzo a tanto sorriso di cielo e di terra e
d'onde.

                                   *
                                  * *

    =Chi dona al volgo, inimicizia compra.=
                              _Prov. ital._

Le chiacchere col buon Tedesco mi fecero nascere molte riflessioni
sopra alcune qualità negative — almeno in questi tempi — degli
italiani.

Credo — vorrei ingannarmi — che la gente italiana considerata nelle
masse, fatta astrazione delle individualità, sia appetto delle nazioni
più colte dell'Europa, Francia, Inghilterra e Germania, quella che si
dimostra più apatica per tutto quanto sorge dalle arti.

Non illudiamoci col passato. Tanto le individualità sotto ogni aspetto
non patiscono confronto, quanto le moltitudini sono incuranti, senza
alcun entusiasmo o slancio per tutto che non solletica la fregola
animale dei sensi.

Spogliamoci una volta di quel falso amore di patria che pretende un
primato in ogni cosa.

Un dì — giova sperarlo ed augurarlo come grande ventura per la nazione
— conquistata da senno l'indipendenza e la libertà, sotto le rugiade
feconde della pace, rigermoglierà fra gl'Italiani raccolti finalmente
ad un solo focolare la religione delle arti; allora forse le sapranno
onorare con quella riconoscenza a cui hanno diritto. Esse sole
mitigarono colle divine illusioni della speranza l'acerbità di grandi
dolori; per esse eterne le glorie, sacre le sventure della nazione.

Mercede al genio fu quasi sempre sola la coscienza. Onoriamo la memoria
dei nostri grandi: sbattuti dai tempi fortunosi e dall'ingratitudine
non s'avvilirono. Siamone alteri — Se uno dimenticò che il dolore e
la miseria avvivano lo splendore del vero merito, cento elessero il
soffrire.

Siamone superbi — nessuna nazione può forse menarne sì giusto vanto.

Ma non dimentichiamo mai come finora fummo ingrati verso di loro.

                                   *
                                  * *

    =Arco sempre teso si rompe.=
                  _Prov. Ital._

M'inganno, o tu non hai sentito il cuore battere così tranquillamente
come oggi. Ho spinto la mia barchetta nel bel mezzo lago fra il golfo
di Feriolo e quello di Laveno: i remi giacciono stillanti in fondo ad
essa — quasi immobile fra la calma delle onde. Il corpo abbandonato
a poppa sul tappeto, sorreggendo il capo con ambe le mani, puntati
i gomiti sull'orlo della navicella, guardo l'acqua che s'increspa
leggermente attorno alla carena, l'ampia pianura che riflette gli
albori del tramonto — e sto pensando — a niente — o meglio al tutto.

Una brezza sottile sfiora con ali delicate l'onda e mormora un mondo
di cose. L'ascolto confusa colla voce delle campane stormenti a riva —
poi il tintinnare cessa: il cielo è sereno, l'aria tranquilla, tutto è
pace, armoniosa tranquillità — e allora sento più distinto il sommesso
ciarlìo della brezza.

— Tranquillità! Voi vi anelate nell'intimo dell'anima, mentre il
vostro orgoglio fa della vita una continua battaglia! Un dì trovate la
quiete che bramaste — il dì che per voi si schiude una tomba. — Nel
giovin cuore avvampa la fiamma d'amore con slanci al settimo cielo
— o trova ripulsa, ed erompe un grido disperato — o corresponsione,
e dopo qualche tempo l'amore non è più che un'affinità simpatica
di traspirazione. Dall'amore aspira alla gloria. Avversa fortuna,
impotenza d'ali, impazienza la negano — o l'ottiene — morto. Deluso,
la patria gli stende le braccia come la donna che sola si ama senza
sazietà e senza rimorsi.... Ne ha — forse — ricchezze ed onori che
galvanizzano il cuore sfibrato.... Ma dove la quiete che pure la natura
v'insegnò ad amare? — Non nei trasporti dell'amore — non nella lotta
contro l'invidia dei consorti Farisei — non nelle allucinazioni delle
notti studiose — non nel tripudio dei baccanali. Bada, veh! a quanto ti
dicono le onde sfiorate: fuggi la tempesta; — gli ombrosi declivi dei
colli: quiete; — il cielo sereno: purità di desiderii....

Ma che sarebbe degli uomini se tutti li compenetrasse questo soave
linguaggio della natura?

La tempesta è adunque necessaria nell'armonia del tutto?


VIII.

_Origine storica di Belgirate, senza documenti. Le isole Borromee._

A Belgirate, cinque minuti oltre Lesa, passeggiai due ore ammirando
quelle graziose palazzine a vari colori che difilano lungo il lago,
sulla punta che si protende dalle colline nell'onde. In capo della fila
sta la villa Conelli; in fondo in serrafila la Fontana Pino, e fra una
casa ed un'altra stanno giardini, dove gli alberi hanno più frutti che
foglie, e le aiuole più fiori che erbe.

Sentite quanto trovai in antiche pergamene sull'origine di Belgirate.

Pare che il grazioso villaggio se n'andasse una calda notte d'estate
in cerca d'un sito per adagiarvisi. Capitano in testa e retroguardia
in coda difilava lungo la strada del Sempione. Quando si trovò
sull'estremo lembo del Vergante, sentì ad un tratto il venticello
del Mergozzolo ed i zeffiri dell'_Inverna_ sibilare armoniosamente
nei boschi superiori emulando l'usignuolo; l'onde tremole baciare la
sponda, diffuse sui sassolini mormoranti; tale una voluttà profumata
da mille fiori penetrare dalle finestre nell'animo, che gli archi,
le torri, i comignoli al soffio di quella frescura fremevano, i rosai
stendevano le loro braccia in atto di desio ai cantori dei boschi, e le
case stanche dal viaggio sentivano proprio crescersi le radici sotto ai
piedi..... Allora un prolungato ah! di soddisfazione fece echeggiare
la sponda d'Ispra, la fila si fermò, le ondine ed i silfi del lago
danzarono sulla spiaggia; essa si trovò così bella, così lieta, così
arieggiata dall'aure tutte del lago, che spossata dal piacere si adagiò
sul girare della punta, e così fu Belgirate. Ogni giorno dell'estate
e dell'autunno, al tramonto, allora che il sole indora le cime dei
monti di Varese, la fila delle graziose palazzine è passata in rivista
da uno stato maggiore di signorine villeggianti, di cui più d'una può
sconfiggere un esercito senza colpo ferire.

La leggenda dice, che un buon albergo il quale in quella tal notte
ramingava colle case vagabonde, essendosi fermato per istrada ad
aggiustare un conto un po' elastico con un Inglese, giunto tardi e
trovato ogni posto occupato, fu costretto ad andarsene altrove con
non poco dispetto degli ammiratori dei fiori, degli usignuoli, del
venticello, delle palazzine e delle signore.

                                   *
                                  * *

    Bellissima fra le isole! Ti porto
      impressa nel cuore....
          _U. D. Horn._

Da Stresa, elegante villaggio appiedi al Monterone, grandiosa vista
di tutto il golfo di Feriolo, la baia di Napoli del lago, e del lago
sino a Luino; in prospetto le Isole Borromee, la Bella e la Madre dalle
terrazze fiorite; Pallanza, Suna, e dieci villaggi a mezzo i monti
dell'Intrasca.

Stresa manca d'un viale per la ragione forse che ognuno ne ha nei
propri giardini, i quali sono straordinariamente folti di verzura e di
fiori come a Belgirate, Baveno e Pallanza.

L'Isola Bella è una ricca collezione di piante disposte sopra varie
gradinate adorne di marmi; il palazzo contiene oggetti d'arte preziosi;
il tutto forma la più graziosa villeggiatura in cui i patrizii Lombardi
abbiano profuso tesori.

Se non garba a molti il manierismo dell'architettura e quel vedere
ad ogni tratto la natura sopraffatta dalla mano dell'uomo, per tutti
l'Isola Bella vista dalla parte prospiciente Pallanza, dove un folto
bosco di piante variatissime rompe la monotonia delle linee, ed una
serie di grotte ove mormora e gorgoglia l'onda del lago rileva affatto
la massa, è spettacolo ammirevole.

Io vorrei condurvi, o bella lettrice, a questa peregrina villeggiatura,
approdare con voi alla scalona, visitare le ampie sale del palazzo,
raccontarvi la storiella del pittore Tempesta che le adornò di tanti
quadri dipinti nella sua dimora nell'isola, ammirare con voi pitture
e scolture, e rigirati i viali ombrosi del giardino, cogliere un bel
fiore; e — con vostra buona venia — adornarvene la capigliatura.

Ma il profumo quasi eccessivo, la vista amenissima, il sorridere
del cielo e dell'onda, la magnificenza della magione e la musica
degli uccelli, potrebbero di leggieri all'ombra di un ananasso o
d'un palmizio farmi credere d'essere un Nabab delle Indie, e voi, o
lettrice, un amabile Urì..... e allora..... chi può prevedere tutti
gli effetti di un sito incantato sulla mente e sui sensi del vostro
compagno?..... Via, non temete, i miei polsi non battono frequenti,
i miei sguardi sono tranquilli, il sangue mi serpeggia pacifico nelle
vene, e voi non vi accorgerete punto che io sogni di essere un Bassà.

L'isola Madre colla modesta sua casa, co' suoi giardini a terrazzi
senza ornamenti, più vasta della Bella, quasi in mezzo al golfo, piace
ad alcuni forse più della Bella, ove la natura sta più come ornamento
che non base. Gian-Giacomo Rousseau poteva farne il soggiorno della
sua Eloisa. Nell'una e nell'altra roseti e palmizi, magnolie e liane,
camelie e pini e mille pianticelle di diverse patrie, che questo sole
con mite temperie cresce ed affratella.

                                   *
                                  * *

Il pittore che vuol dipingere un paesaggio a vividi colori ritragga
l'isolotto dei Pescatori. Chi vuol conoscere come l'uomo possa amare
uno scoglio a costo di starvi accatastato l'uno sopra dell'altro,
entri in quella stretta viuzza dell'isolotto dei Pescatori. Barche
rattoppate, reti al sole, sulla ghiaia, lungo i muri; pannolini e vesti
a scacchi sciorinate alle finestre; portici oscuri, viottoli angusti,
barconi di legno; una marmaglia di ragazzi che chiassano, scorre,
sguizza, s'arrampica sulla spiaggia, sulle scale, sulle gondole;
donne dalle fisonomie robuste ed abbronzate, intente alle chiacchere
ed alle bisogna della vita; una chiesuola, un campanile che si drizza
nell'orizzonte disopra a quelle case che gli fan ressa d'attorno per
ispecchiarsi ancor lui nell'onde; un po' di spiaggia verso il nord,
pochi alberi, poca verzura.

Il lago qualche volta, la primavera o l'autunno, sdegna la solita
sponda, gonfia, copre la spiaggia, lambe i piedi delle case, batte alle
porte, entra nei pianterreni. Ecco l'isolotto scomparso, e tutte quelle
casupole diguazzando nell'onda tranquilla hanno un aspetto nuovo,
originale, come un quartiere di Cannareggio in Venezia.

Il contrasto tra lo scoglio dei Pescatori e la grandiosità dell'isola
Bella è sorprendente. L'aspetto dell'isolotto colle umili casette,
colle sue barche fracide a riva, co' cenci all'aria, in quel cielo
serenamente allegro, collo specchio dell'acqua che l'ingrandisce,
con quella scena di verzura su cui si stacca vivamente non è quello
della miseria certamente. Se l'isola Bella col suo grande palazzo ti
fa conoscere l'opulenza del ricco, l'isolotto è un quadro animato
dell'attività instancabile del povero che lotta spensierato colla
fortuna — la quale, a quanto pare, non incappò mai nelle reti di un
pescatore.


IX.

_Don Bussolini da Mergozzo; capitolo in cui si dimostra chiaramente
come i più beati sieno i poveri di spirito._

    =O mente vaga, alfin sempre digiuna!=
    =A che tanti pensier? Un'ora sgombra=
    =Quel che 'n molti anni appena si raguna.=
                                _Petrarca._

Quest'oggi fui al lago di Mergozzo, limpido nappo che si stende per
un miglio alle falde del monte Rosso, sulla strada che da Pallanza
corre all'Ossola. Mergozzo poi è una terricciuola sulla sponda del
lago, che da lei prende nome, la quale non ha nulla che possa attrarre
il viaggiatore curioso di monumenti o di spettacoli grandiosi della
natura: dopo le scene del Verbano si rimpicciniscono ben altre bellezze
che non quelle della piccola conca.

Mentre io passeggiava, rincrescevole che il povero zingaro nulla
trovasse da far suo, passando presso la canonica del paese, casa di
mesta apparenza anzi che no, vidi accosciato in atto di dolorosa
meditazione un uomo dai quarant'anni sulla gradinata della porta.
Egli teneva la lunga e scarna cera tra le mani affilate e smorte, e lo
sguardo fiso nella terra, e quando gli passai accanto mormorò in tuon
di lamento:

— Eh! tanto gli è morto!

Ritornai sui miei passi per meglio osservare l'incognito; il quale
vestiva come un prete dei monti, di panni grossi e non troppo lindi;
il cappello dalle tese rilevate e dagli orli spelati giaceva accanto
a lui, come ad uomo che per soverchio calore del capo non lo possa
tollerare sulla fronte. Quando io gli fui dinnanzi, ei levò gli occhi
come smarrito, tolse di terra il cappello, si drizzò e voltosi a me
salutando, mentre due grosse lagrime calavano sulle gote ispide, disse:

— Sento che il poverino non è nemmeno morto qui, in paese! Lontano
dalla sua parrocchia!

Egli mi teneva forse per qualche terrazzano: nondimeno quand'egli seppe
che io non era del paese e che anzi ignorava appuntino di chi parlasse,
aggiunse:

— Non è del paese..... tanto peggio o tanto meglio per lui. Ma, la
senta, io ho un grande bisogno di sfogare con alcuno il mio dolore, e
se il mio presentimento non m'inganna, non la vorrà deridere la fiducia
d'un pover uomo.... Esciamo dai borgo.... la veda; io arrossisco, col
mio abito, di piangere così in mezzo alla strada... E sono anch'io
un uomo, alla carlona, ma un uomo, e il pensiero che quel caro Don
Bussolini sia _morto così male_ mi strozza la parola in bocca.... Ed io
non sapeva niente, io che sarei calato dalle mie montagne a salvarlo,
io che conosceva quell'anima così bisognosa d'un cuore in cui versare
la piena di tanti dolori! Ma io non ho saputo niente!

Queste parole sgorgavano con tale accento di dolore, che io — ignaro
dell'esser suo e dei fieri casi di Don Bussolini, me ne stava ad una
commosso e confuso per non sapere, come avrei desiderato, porgere
conforto a tanta ambascia.

— Io vo' raccontargli come uno splendido ingegno ed un bel cuore
possano perdere miserabilmente un uomo, quando agli studi non abbia
conforto e direzione, e gli slanci del cuore ardente, appassionato, non
vengano temprati dai consigli dell'amicizia.

Don Bussolini era il più bell'ingegno che io m'abbia conosciuto in vita
mia; aggiunga a ciò una perduranza nello studio piuttosto unica che
rara, una memoria straordinaria e la più semplice indole del mondo.

Noi stringemmo dolcissimi nodi di fratellevole affetto nel seminario;
egli sempre il primo a sciogliere un problema, a trovare il motto,
a comprendere coll'acutissima intuizione i passi più difficili, più
oscuri dei Greci e dei Latini; e se noi studiavamo per guadagnarci
un tozzo di pane o per aprire una carriera all'ambizione, se noi
studiavamo quel tanto appunto che era strettamente necessario per
essere promossi la fin d'anno, Bussolini studiava invece per dissetare
l'ardendissima brama d'istruirsi, di sapere quanto più poteva. Tutta
la polverosa biblioteca del seminario di Novara era volume a volume
passata fra le mani del giovine curioso, e ancora quando alcuno di noi
magnificava quella raccolta di opere, egli sorrideva....

Alfine egli fu crismato sacerdote; pensate che festa! Non v'era tra
quegli studiosi un solo che al Bussolini non profetizzasse la più
luminosa carriera, poichè quanti dignitari della Chiesa erano venuti
nel collegio, tutti aveva fatti stupire con quella strapotente facoltà
intellettiva. La parrocchia di Mergozzo era vacante, Bussolini vi fu
nominato, e con grande sua gioia, poichè la tranquillità di quella
sede, la picciolezza della popolazione e la facilità del ministerio
fra gente onesta ed arrendevole, gli promettevano largo campo a' suoi
studii. Egli fu accolto da quella popolazione come un fratello ed in
breve amato come un padre. Chi non lo avrebbe amato? A trent'anni,
nell'età delle passioni, egli non aveva che una cura, un amore, una
passione, lo studio. D'altronde la semplicità elegante de' suoi modi,
la generosità del suo cuore sapevano cattivarsi la comune stima. Un
bel dì, invitato già da lunga pezza a visitarlo nel suo novello eremo,
giungo a Mergozzo; m'accoglie colle maggiori dimostrazioni d'affetto.

— Senti, Giuseppe: non ti pare che io sia più giocondo dell'usato?
In verità i suoi occhi sfavillavano di tanta luce, che io stetti un
istante sopra il pensiero che egli avesse ricevuta la mitra vescovile.

— Ho trovato finalmente, Giuseppe, quella luce, che io andava da tanto
tempo cercando... A furia di brancolare fra le tenebre, giunsi alle
sfere irraggiate del sole della verità, della poesia.... ed io da tanti
anni sentiva mormorare attorno questo nome.... Dante.... questo nome,
che è la lingua, la coscienza, il ciclo intellettuale dell'Italia;
sentiva, dico, questo nome, che mi suonava all'orecchio come un
verbo misterioso senza presentire quanto tesoro io vi avrei scoperto
di civile sapienza, d'arte squisitissima? di sublime poesia! Vedi,
Giuseppe, io non mi accorsi della vita del mio pensiero, se non quando
Dante m'iniziò nei mondi dell'infinito.... Ma la mia ragione fu quasi
per vacillare, allora che da ignaro che io era della vera bellezza,
mi vidi ad un tratto trasportato sì presso al Verbo, che i miei occhi
abbarbagliati da tanto fiume di raggi male reggevano allo spettacolo
nuovissimo che mi si schiudeva innanzi. Dante m'insegna a parlare la
favella della mia nazione; Dante mi scopre i nemici di Dio e della
patria; Dante mi narra con parole di fuoco le ire umane e le giustizie
divine, e mi fa piangere con ineffabile dolcezza sui casi di Francesca,
della Pia e della Piccarda; Dante è ad una Omero e Colombo, Raffaello e
Rossini!

E mi condusse, fra altri parlari consimili, alla sua abitazione. Io
pure aveva letto il poema del cantore immortale, ma l'ignoranza della
storia dei tempi di mezzo annebbiandomi buona parte di quella stupenda
narrazione, faceva sì che io non ne potessi assaporare i pregi più
reconditi. Il poeta mi divinizzava: il filosofo m'atterriva.

Quando noi fummo nel suo studialo, egli diè mano ad un grosso zibaldone
di carte, su parte delle quali era scritto _storia_, ed erano commenti
storici ai poema; su altre _teologia_, e chiarivano le astruserie
di questa scienza in que' tempi; su altre _arte_, che parlavano
dell'antiche e delle nascenti; _lingua_, e mostravano le origini latine
e provenzali ed il successivo fondersi di buona parte dei vernacoli di
tutta Italia, mirabili studi filologici che diceva base ad ogni sapere
di filosofia; e su altri manoscritti altre denominazioni che non mi
ricorda.

Quindi mostrommi sopra uno scaffale una ventina di edizioni della
Divina Commedia commentata dai più rinomati bibliofili, e sopra lo
scaffale un'erma del poeta, cinte le tempia da corona di lauro, e sotto
l'erma, in lettere d'oro: _Onorate l'altissimo poeta!_

Così scorse quel giorno. La domane, accomiatandomi, con indefinibile
slancio d'affetto, proruppe fra le mie braccia: Beppe, io sono felice!

Comprendete voi, o signore, quanto quella parola dovesse poi
suonarmi amara? Felice! Se per essere felice non v'ha che un mezzo
solo, dimenticare la terra, pascersi di larve, Bussolini lo era!
In quell'istante, o per vago presentimento di sventura, o perchè
conoscendo io l'ardenza del carattere dell'amico mio, temessi si
lasciasse trasportare dall'entusiasmo oltre i limiti dello studio
ragionato, risposi:

— Bussolini, guardati dalle passioni: se tu eccedi nella misura, il
disinganno ti sarà atroce, forse mortale!

— Disingannarmi? E come se la mia passione è tutta pel vero, pel bello,
per Dio! Ma a che più rimembro questa storia, o signore, a voi cui
forse nulla cale dell'amico mio, di me e di queste melanconie? Non
v'è uggiosa questa rimembranza? No? Ebbene, quando farete ritorno a'
vostri, raccontate ai giovani studiosi di gloria il doloroso racconto.

Parecchi anni lavorò Don Bussolini attorno ad un nuovo commento della
Divina Commedia, di cui conosceva omai a menadito ogni fase, ogni
allusione, e quando io ritornai a Mergozzo credetti debito d'amico
l'eccitarlo a scendere nella lizza della repubblica letteraria,
pubblicando l'opera sua. Io fidava che l'ansietà febbrile del successo,
gli sdegni per la critica superficiale, la dolcezza della lode, gli
eccitamenti a migliori forme, avrebbero di leggieri tratto a più
vasta sfera l'ingegno inteso in troppo ristretta cerchia d'azione. La
battaglia sarebbe stata la vita per Don Bussolini. S'egli si fosse
animosamente gettato da giovinotto fra la turba che di letterarie
ciancie assorda il mondo, in quel caos di sistemi e di idee e di
parole senza idee, in quel tramestìo di genii e di volgo, le potenze
sue intellettive sarebbero sfuggite a quel soverchio concentramento,
che invece d'affinare il pensiero colla meditazione, lo svia spesso
nell'esagerazione. Avrebbe incontrato l'indifferente sogghigno
dell'ignoranza plebea che crolla le spalle alla favella che solleva
il pensiero dalla materia a più confortevoli aure; avrebbe forse
incontrato l'invidia; sarebbe caduto, e allora, morto il poeta,
rinasceva all'altare il sacerdote. O avrebbe vinto o sarebbe stato una
gloria di più all'Italia. Invece!!

A' miei eccitamenti rispose che da qualche tempo sentiva crescere
nell'anima il bisogno d'espandersi.

Scrisse a diversi librai: risposero i tempi volgere sì nefasti alle
lettere, il mondo curarsi sì poco dei libri, che se Dante istesso
fosse rinato con un nuovo poema, assai difficilmente avrebbe trovato un
editore... Per quanto dura, era verità. Il giornale ammazzò il libro.
A chi legge libri poi gli oltremontani ammaniscono un quotidiano pasto
di oscenità al massimo buon prezzo. Seppi che Don Bussolini, ignaro
di ogni cosa di questo mondo e anzitutto delle miserie di chi vuole
lottare contro all'indifferenza e l'avarizia speculativa di certi
editori, restò talmente sopraffatto da questa inaspettata rivelazione
di cose che non aveva trovato nei libri, che stette molti giorni come
uomo trasognato.

So questi suoi affanni, e vengo a consolarlo. La veda, per ingegno
io in paragone del mio amico era la formica presso l'elefante; ma io
dalla prima gioventù aveva imparato assai sul gran libro della società
umana io sono sempre stato uomo, e lui invece quando di poeta... Ma,
Gesummaria, di questo anche troppo le dirò!

Trovai Don Bussolini chiuso in casa, mentre per l'innanzi egli soleva
studiare passeggiando, perocchè lo spettacolo della natura, egli
diceva, invece di distralo, armonizzava felicemente in lui collo
studio. Allo stropiccìo dei miei piedi si volse, s'alzò in furia dal
tavolo a cui stava tutto intento sopra un librone, e gettatemi le
braccia al collo, avvinghiandosi affettuosamente alla mia persona,
sclamò:

— Benedetto il mio Beppe! Tanto ti aspettava!

— Delusioni, non è vero, o Bussolini?

— No, non delusioni, ma una scoperta, che per me si è una vera America
della mente. Siedi e ascoltami attentamente. Io non so se gli editori
abbiano o no ragione: so però che io non ho acquistato un nome, per
cui mi si debba aprire un varco nella ressa che assiepa il tempio
della gloria! Ma ora il mio buon genio mi additò un mezzo portentoso,
irrepugnabile, per cui il mio nome volerà ben oltre i confini della
povera Mergozzo!

E mi spiegò come il poema dantesco contenesse in se stesso quasi
un altro poema, quando si trovasse il modo di scoprire il senso
recondito in ogni terzina capovolta, rifusa, senza però nulla
togliere, od aggiungere delle parole, conservando così e numero e
dizione: aggiungeva poi che ogni terzina era strettamente legata alla
susseguente pel senso, cosa che ad evidenza dimostrava, che l'Alighieri
aveva impresso ne' suoi canti questa doppia espressione, manifesta
fattura del vate divino, e non frutto di un casuale gioco di parole.
La Divina Commedia, contemplata da questa faccia, non era, al dire del
Bussolini, creazione meno gigantesca per concezione e profondità di
pensieri.....

Poco tempo dopo ricevo novelle dell'amico mio; sì grande per lui la
necessità di trovare un essere che comprendesse il suo trovato, i suoi
studi, che egli partiva per Milano. Ivi bussò alla porta di quanti
avevano fama in capitolo.... mi scriveva:

— Beppe, è venuta l'ora da te profetizzata! A Milano non trovai che
un'anima sola, la quale si sia commossa al mio racconto. Quest'anima
benedicila con me; mi ha ascoltato senza ridere della mia favella
selvaggia; — sì, ho capito di non conoscere il gergo dei sapienti! —
Quest'anima mi ha dette poche e confortevoli parole. È Manzoni.

Torino, Parigi, o signore, risero come Milano di Don Bussolini. I
sapienti non hanno che il loro orgoglio invece d'un cuore; adunque?

A Londra, Rossetti, blandendo l'infelice strapazzato, lo fece di
leggieri travedere Dante sotto la sua gotica lente.... Ahi! come il
rividi! Dove l'occhio sfavillante e scrutatore? Dove la serena fronte?
Dove l'amabile sorriso? La mente tentennava. Disperato delle voluttà
dei mondi intellettuali, da cui lo aveva precipitato con sì amaro
disinganno l'altrui glaciale indifferenza, l'infelice con reazione che
gli costò senza dubbio orrende torture, si gettò nelle braccia della
voluttà della materia.....

Alcune volte, imbandito il desco per sè e due _incogniti_, rinchiuso
nel salotto, favellava con Dante e Beatrice, amaramente dolendosi di
essere stato ingannato dagli uomini.....

Che più?

Rilegato per un anno nel convento d'Arona, quella mente, che forse
avrebbe splendidamente sfolgorato in altra condizione, derisa, in odio
a se stessa, vacilla, non è più!.....

Don Bussolini moriva poco dopo in Isvizzera, miserabile, senza conforto
nè di patria nè di amici.

Signore, l'ingegno è adunque alcuna volta una maledizione?!

                             . . . . . . .


X.

_L'_acqua_, canto in prosa. — Se l'acqua del Verbano fosse vino. —
L'arca di Noè e la nautica. — Le guide. — La capitale del lago. —
Pallanza. — Laveno. — Ghifa. — Portovaltravaglia. — Luino._

    =Le onde non hanno forse un'anima?=
                              _Byron_.

— Dove indirizziamo la prua?

— Dove ti pare; al largo. Quest'oggi desidero l'acqua, lo specchio
del cielo. V'ha sulla terra cosa alcuna più bella dell'acqua? I fiori?
Ecco, il vento solleva in minutissima polvere il maroso e distende al
raggio del sole un vaghissimo iride contesto di rose, di garofani e di
viole. Al fondo del mare i recessi delle ninfe stanno ornati di perle
e conchiglie a tutt'i colori, dal languido della rosa al vivido del
garofano, dall'azzurro dell'ortensia (ne ho visto delle azzurre), al
candido del gelsomino.

V'ha forse cosa più necessaria dell'acqua? Sei ammalato? Acqua. Vuoi
forza, elasticità muscolare? Acqua. E tu, come il globo, che sei? Per
quattro quinti acqua. Chi fece la terra? L'acqua. Chi la nutre, la
feconda, la sana? Che cosa è il vino? Acqua.

Altri cantò a lungo le piante, gli angioli, i fiori e l'asino: perchè
non canterò io l'acqua, questa madre della natura? La voluttà del
correre su dorata quadriga e sollevare colle ruote corruscanti la
polvere del corso più lieto di dame, può forse paragonarsi a quella del
sorvolare con agile schifo sull'ali del vento le onde cristalline di
un lago, d'un bel lago? Voga, voga, gondoliere: vedi come la brezza,
scherzando, arriccia la mia capigliatura, come un'innamorata al suo
caro? Che mi guardi dal cadere?... Lasciami specchiare in questo
cristallo sì terso: forse scoprirò nel fondo qualche bella ondina
amoreggiare fra i canneti con un silfo. Può mai la bella affidare le
membra purissime a più soffice letto? Oh! come tranquilla la sorregge!
Come l'onda increspata lambe amorosa e ricerca i tesori del seno ed
avviticchia pudica il corpo candido colle treccie copiose!

Oh l'acqua! E i fisici poterono affermare, sacrileghi, che dessa non
è un elemento, come credettero i nostri padri? Dove vi fermerete,
o insolenti, colle vostre scoperte? L'acqua è il primo elemento:
trovatemi un poema che di lei non parli.

Omero canta l'onda ch'egli sentì morire in un flebile lagno sui
ciottoli delle sponde greche. Virgilio le bricconate d'Enea in faccia
all'oceano, senza il quale come sarebbe egli fuggito alla passionata
Didone? Come sarebbe venuto a fondare quella Roma che... ecc., ecc.?
Senza l'acqua avrebbe potuto Dante fare il più tremendo augurio a Pisa?
Ma lasciamo da parte Dante: questo poeta s'intende che è stato letto,
chiosato, commentato da quanti sanno leggere... Dante. Per la stessa
ragione omettiamo il Tasso, l'Ariosto e gli altri poeti italiani.
Shakespeare, obbedendo a questo irresistibile impulso dei poeti,
trasportò la Boemia sulle sponde dell'oceano, forse per consolarla
colle libere aure marine del paterno reggimento degli Absburgo.
Byron ad ogni pagina canta la tempesta del mare e della mente: senza
il mare egli non avrebbe attraversato a nuoto l'Ellesponto, e non
avrebbe scritto le più belle pagine del _Childe-Harold_, e non avrebbe
anzitutto avuta la soddisfazione di far annegare il suo maestro di
scuola nel _D. Giovanni_.

L'acqua fa le vendette dei discepoli e dei popoli. Barbarossa annegava
nel Cidno. La Beresina puniva il novello Cesare. Senza l'acqua, Mosè
non avrebbe scampato dalle ugne di Faraone gli Ebrei, questa razza così
degna d'ammirazione sotto l'aspetto politico, religioso, universitario
ed artistico. Se questo è il più tremendo prodigio delle antiche
scritture, delle nuove, dice un Intrese, il più notevole è senza dubbio
quello delle nozze di Cana......

Senza l'acqua, senza il mare, Venezia non sarebbe giunta la prima
al Cattaio, e Costantinopoli non si troverebbe in bocca al mare dei
Russi. Senza il mare Colombo non avrebbe scoperta l'America — che non
si chiamerebbe America; — senza il mare, che sarebbe la flotta inglese
e la fama di Nelson? Che sarebbe stato di Gama, di Cadamosto, di Marco
Polo, di Diaz, di Magellano, di Cabotto? — Certamente lord Franklin non
sarebbe perito di fame e di freddo nei deserti polari.

Il mare è la sorgente delle immagini più sublimi dei poeti e Gian
Paolo Richter, quel gran pensatore, come avrebbe potuto asserire, che
l'idea della vita avvenire è per l'uomo quale un punto nell'immensità
dell'oceano allo stanco navigatore, se....

L'acqua (e con questa faccio punto) fornì al divino Petrarca
l'immaginoso paragone:

    «O felice colui, che trova il guado
    «Da questo alpestro e rapido torrente
    «Ch'ha nome vita, ch'a molti è sì a grado!

Ma tutto ciò è un nulla.

Laghisti del Verbano, che sarebbe del vostro bel paese, se i campi
cilestrini del vostro lago non fossero cristalline onde acquose, ma
spumanti fiotti..... di Barbèra?

Oh! da quanto tempo, o Verbano, tu saresti una conca asciutta come il
palato dei tuoi intrepidi bevitori!

                                   *
                                  * *

È fama, che gli antichi imitassero il cigno nella costruzione delle
navi. Da due ore m'arrovello per iscoprire il prototipo delle barche
verbanesi, e mio malgrado non trovo che il rospo. O gondole veneziane
dalla chiglia tagliente, dal felze bruno, dalla prua addentellata,
rimontate il Po ed il Ticino!

Sento ora esservi tradizione che l'arca di Noè siasi fermata sopra un
alto monte del lago, sopra Intra — l'arca venne copiata; il lenzuolo
che coperse le vergogne dell'inventore della vigna venne issato a
cima di un coso che non è più bastone e non è ancora albero; un palo
lungo lungo a timone; ecco la nautica tradizionale del Verbano. La
ripida discesa del Ticino spiega la mancanza di chiglia nei barconi che
commerciano con Milano e Pavia; ma le veliere e le barchette che fanno
il _cabotaggio_, malgrado i bei modelli introdotti dai villeggianti,
sono sempre conformi all'arca di Noè.

                                   *
                                  * *

Compagno, la sbagliate grossa, se credete che io vi vada tessendo una
guida. A che una guida, quando il vostro sguardo è tratto soavemente
senza ombra di sforzo al bello? Quando la natura si apre liberamente
a voi dinanzi? Quale necessità di registrarne le varietà, quando
l'armonia v'allaga di arcane dolcezze il cuore? A che una guida?

Nessuno si fida delle indicazioni date per gli alberghi o altro simile,
perchè ciò che oggi è buono può essere pessimo domani. Quindi non tutti
ignorano che gli scrittori di questa sorta di libri, _qualche volta_,
per poche lire lodano, col dovuto rispetto alle discipline letterarie,
il più furfante bettoliere, e d'una trabacca pidocchiosa fanno un
castello.

Dopo queste premesse il lettore può pensare se la mia indole girovaga
e selvaggia poteva acconciarsi, armonizzare con quelle ispide cifre
statistiche! Di più, io sapeva troppo bene che per quanto mi fossi
arrovellato per soddisfare i lettori, io non avrei secondato i loro
capricci variabili secondo le ore della giornata. I lettori laghisti
variano di brama secondo il paese, la villeggiatura ed il giardino.....
ed ogni tulipano vorrebbe un inno!

Ma se tu hai desiderio di conoscere più ordinatamente il paese, leggi
la Guida di L. Boniforti. È l'unica che lessi senz'annoiarmi, anzi con
piacere.

                                   *
                                  * *

    =Non fu mai gloria senz'invidia!=
                       _Prov. Ital._

— Pallanza! Pallanza! Chi ha bagagli per Pallanza!

Io che da varii giorni vagava pel lago e non era ancora sceso alla sua
capitale politica, vistomi sorridere amabilmente da tante pianticelle
fiorite che mi stendevano amorose le braccia, tosto mi lasciai
vincere, e dissi fra me: _vada per Pallanza_, e scesi dal piroscafo _S.
Gottardo_.

— Oh! scusate.... già mi dimenticavo di salutare, prima d'andarmene, il
capitano, persona squisitamente cortese.

Disceso a terra m'avviai a sinistra, ammirando case, palazzine e
giardini, e così senz'avvedermene fui a Suna, la quale facendo lo
gnorri va avvicinandosi a Pallanza, di modo che fra pochi anni Pallanza
divorerà Suna o Suna mangierà Pallanza.... seppure — sempre nel futuro
— mentre le due sorelle si confondono in un amplesso, non arriva dalle
spalle Intra e ne fa un boccone. S'io fossi Intra o Suna — perdonatemi
la superba supposizione — io risparmierei Pallanza. L'essere proprio
adagiata sull'estremo lembo della collina che dal Monte Rosso declina
nel lago abbracciando a sinistra il golfo, proprio in faccia alle
isole (quella di S. Giovanni non può risolversi a lasciare la sponda
pallanzese), attorniata da vaghissimi giardini; l'essere risparmiata
nell'inverno dalle staffilate che la tramontana sferra senza pietà
sopra Arona, Intra, Luino e Cannobio; di più la torre antica de'
Barbavara, e anzitutto la sua posizione centrale, dovrebbero farle
perdonare di essere il capoluogo della provincia.

Così pensava io dondolandomi attorno ai giardini graziosi e coltissimi,
che cerchiano la cittadina verso il promontorio di San Remigio, quando
eccomi dinnanzi uno di quei tali, che i Toscani dicono sì incisivamente
uomini-colla. Era di Feriolo, ed aveva stretto conoscenza con lui
visitando le cave del granito. Vedermi, riconoscermi ed impadronirsi
della mia persona fu un istante.

— Che ne dice di Pallanza?

— Molto bene, benchè finora i giardini e le palazzine alla nostrana ed
alla svizzera m'abbiano distolto dall'entrare in paese.

— Eh! cosa vuol vedere in paese?

— Le case, le botteghe e chi vende e chi compra, le donne, e se ve ne
sono i monumenti.

— L'ha visto quel povero vescovo di pietra nell'acqua, sul porto? Ecco
i monumenti.

— Ho capito: Pallanza non è la sua passione. Eppure ho sentito che vi
si trova spirito socievole più che altrove, e da quel po' di storia
che ho scartabellato parmi che i Pallanzesi, quantunque ora siano
annegati nel nugolo dei forensi e degli amministratori politici,
abbiano indole fieramente tenace d'amor patrio. Signor mio, dopo d'aver
visto i giardini qui attorno, io non mi curo gran fatto di vedere le
manifatture, se vi sono, le carceri che vi sono, ed i monumenti che
non vi sono. Mi pare però cittadina appropriata a contenere la sede
politica del governo del lago; tanto più che, seppure gli operai non
_lunediggiano_, parmi che il commercio non ingombri soverchiamente le
vie.

— Mi scusi, signore, ma la è in grande errore.

— Ciò è possibile. Nulla di più facile anche colla migliore volontà
del mondo, che il dare giudizi poco retti, quando si viaggia. E dove
vorrebbe stabilire questa capitale del lago?

— Senta. Arona ha già troppi intoppi. Ferrovie, telegrafi, poste,
dogana, piroscafi e dieci altre confraternite governative. Di Belgirate
non parliamo. Con tutti quei fiori, con tutte quelle fate ammaliatrici
del bel mondo, Temi non avrebbe la testa a segno; Pallanza è troppo
ilare; Intra è troppo chiassona; Cannobio troppo triste; Luino e
Laveno....

— Ma dunque?

— Quale è il paese più serio del lago?

— Ho capito, dissi fra me ridendo, e poi a lui: la è dunque di Feriolo?

— O cosa c'è da ridere? Feriolo non è mica da meno.....

Per fortuna mia una gentile persona di Pallanza m'incontrava in quel
punto, del resto chi sa dove si finiva.

Del resto se gl'Italiani credono una sola città potere essere la
metropoli della nazione, Roma, perchè, disse — a morale della favola
— il Feriolese, i laghisti non possono optare per quella città che
crederanno meglio atta a farne la sede del governo?!

                                   *
                                  * *

Il piroscafo scorre, guizza sulle onde, e la scena varia ad ogni
istante. Intra, la città del cotone e dell'allegria, salve! Verrò a
te quando mi talenterà passare la serata fra la cricca solazzevole
dei tuoi begli umori ed una dozzina di fiaschi. Verrò a te, e s'io
corro adesso oltre le tue mura, pensa che la più lunga strada è la più
prossima a casa. Tu mi dirai forse: chi ama non aspetta — ed io a te:
chi aspettare puole, ha ciò che vuole. Intanto che tu mediti queste
scappatoie, si maturano le mie nespole.

Laveno, un nido tranquillo a fior d'acqua, in fondo ad un golfo
verdeggiante, appiedi delle montagne più singolari della costa sinistra
del lago — lo zingaro non può dimenticare la bella abitatrice dalle
stupende chiome.... senza che io te ne profferisca il nome, m'intendi;
parlo di quella gentile il cui sorriso basta a diradare le nubi dalla
tua fronte,..... non vo' dir altro — già alla sua presenza il mio
labbro non balbettò che le solite nullaggini, ed ella deve avermi in
conto d'un ciuco senza basto.

Portovaltravaglia..... non ho scarpe tali da potermi arrampicare e
dinoccolare per le ciottolaie dei tuoi monti senza pericolo che dopo
un'ora di prova facciano le boccacce.

Ghifa — voghiamo oltre; i signori della villa Morigia non pensano a
farmene dono.

Oggebbio — troppo arrampicare troppo scendere.

Luino, graziosissima Luino dai declivi ombrosi! Da Maccagno che se ne
sta rincantucciato in seno solitario e queto — Maccagno deve essere
stata costrutta da qualche filosofo stoico — alla torre fantastica
dell'Agnelli sulla punta di Germignaga, le curve dei tuoi colli sono
fra le più vaghe e le più arborate; sicchè dopo la pittoresca Angera,
Laveno, e Luino, chi dice tutta la sponda sinistra uggiosa e deserta,
mente per la gola con certe _guide_ scritte da chi passò — forse — una
volta sul lago...... colla nebbia.


XI.

_Cannero ed Ettore Fieramosca._

Il seno di Cannero v'invita colla pacatezza dell'onde e colla
benigna temperanza dell'aure e col riso della sua primavera precoce;
l'albergo dei _Tre Re_ spalanca le porte per accogliervi, se non colla
splendidezza dei monarchi orientali, colla spontanea cordialità d'un
ospite un po' alla carlona, ma che vi regala — a buon mercato — a
mense frugali di quel certo rubino che mette in vena, e che vi farà
travedere nell'orizzonte la stella dell'insegna. Ma facciamo punto, chè
altrimenti qualche maligno potrebbe sospettare che messer l'oste abbia
comprato con uno scotto la lode dello zingaro il quale finora non è
in debito con quel galantuomo, e lascia gli annunzi alla quarta pagina
delle gazzette. Anche i terrazzi co' limoneti m'invitano a passeggiare
fra le loro ombre profumate, ma la villa del

    «. . . Cavalier che Italia tutta onora»

mi rapisce al caro villaggio.

La villa di Massimo d'Azeglio non ha nulla di monumentale, nulla di
peregrino all'infuori della posizione: costrutta sopra uno scoglio
che si protende nelle linfe lacustri, n'è bagnata da tre parti; dalla
quarta guarda le ripide chine del monte boscato che sta a ridosso
della riva cannerese. Da questa ha dinanzi il basso del lago fin
oltre Laveno; da quella vede in primo aspetto i colli di Luino e di
Germignaga, e, dietro, suffusi dal cilestrino dell'aria, i monti del
Luganese; verso Cannero ne ha in vista le case, i vigneti, e nell'acqua
i romantici castelli percossi dall'onda — più in là, oltre lago, la
fronzute spalle delle erte dell'Alto-Maccagno, su cui fra cielo e terra
biancheggiano boscherecci villaggi.

All'intorno sulla spiaggia non case, nè orti; alberi, castagneti — il
sito non poteva scegliersi più rimoto. La palazzina disegnava la stessa
mano che coloriva a sì vivi tocchi l'Ettore Fieramosca, e se dessa
non va distinta come opera d'arte, nulla manca in essa per rendere
meglio agiata e confortevole la dimora. Il capace terrazzo a picco sul
lago, innanzi alla Casina, orlato di fiorite pianticelle, con quelle
vedute, è la cosa meglio acconcia per l'abile paesista e descrittore
che, nella meditazione della natura, studia per l'arte i mutabili toni
dell'orizzonte e delle spiagge, i contrasti e le armonie. La temperie
del clima, la bellezza e la tranquillità del sito, i piaceri del lago
e la solitudine che richiama al pensiero le tante memorie di chi è ad
una poeta, pittore, uomo di stato e soldato, lo chiamano sovente a far
dimora nel suo eremo.

Il rimproccio che tutti fanno a Massimo d'Azeglio ed al suo maestro
Manzoni è di essersi arrestato troppo presto in quell'arringo ove
colsero sì gloriosi allori — ed hanno ragione. (_Qui, a vero dire, non
si sa bene se lo zingaro abbia inteso dire che i due scrittori avessero
ragione, od i primi; io, nella mia qualità d'editore, senza cantartene
i perchè, do ragione agli ammiratori_).

La brina dell'età non ha smorzato il brio vivacissimo di chi seppe
fondere le pagine dell'_Ettore_ ed il racconto del sacco di Roma nel
_Nicolò de' Lapi_; chi non ha letto con vero solluchero i troppo pochi
frammenti delle _Memorie degli anni giovanili_, scorsi girovagando in
Italia fra lo studio degli uomini e delle cose?

Giusti, il suo caro amico, lo sollecitava con amorevole insistenza
alla pubblicazione di tre altri lavori a cui aveva posto mano, _Corso
Donati_, _L'Assedio di Siena_ e La _Lega Lombarda_. Che il desiderio
del grande Toscano non debba essere più soddisfatto?


XII.

_Scoperta del Ticino in Italia — Locarno e Magadino — Diversità di
sistema metrico — Il Re Gambrino in Italia._

I Ticinesi, malgrado gli Svizzeri oltremontani, sono Italiani. Della
Svizzera non hanno che le leggi. Cielo, clima, favella, istoria più
ancora che la stessa giacitura del paese li fanno Italiani. Essi sono
liberi, ma il giorno in cui tutta l'Italia sarà libera, essi non si
chiameranno più Svizzeri. Allora si accorgeranno che i loro altissimi
monti li invitano a scendere nella valle del Po, non a valicarli per
discendere fra mezzo ad altre razze, ad altre idee.

I Ticinesi non mangiano che pane italiano e respirano aure italiane.
Dippiù, chi direbbe Vela uno Svizzero piuttosto che un compaesano di
Canova? I Ticinesi non dicono d'essere Italiani più che Svizzeri,
non lo dicono mai: ma ad ogni ora lo provano. Il Ticino non diede
i congiurati del Grütli, nè gli eroi di Grandson e di Morat, alla
Svizzera, ma diede all'Italia soldati ed artisti famosi. I Ticinesi
sono Svizzeri nelle sale del loro governo; ritornati al sole, sono
Italiani. Se i Ticinesi non fossero liberi, sarebbero ora con noi.
Essi sentono tutto il pregio inestimabile della loro libertà, ed ogni
volta che l'Italiano combattè per la sua propria si vide al fianco un
Ticinese.

Finchè l'Italia non è libera, il Ticino è svizzero per accogliere nelle
sue braccia i nostri profughi.

Il golfo elvetico ha sembianze severe. I monti altissimi sfiancati, a
gran tratto nudi, scheggiati, proiettano ombre rotte sul paesaggio. Ma
Locarno è in uno dei più deliziosi siti del lago, come ne è una delle
più belle cittadine.

La passeggiata al Santuario della Madonna, lassù è piena di belle
viste. Peccato che da Locarno si vede poco lago.

Magadino, il villaggio del lago forse più conosciuto in Europa dopo
Arona, è forse il meno degno di esserlo per tutto che non è commercio.
Dieci case, in cui nove depositi di merci, otto venditori di tabacco,
sette caffè, sei spedizionieri, cinque alberghi, quattro pubblici
funzionarii, tre uffici, due bigliardi, e dappertutto un odor di
formaggio che assassina.

A Magadino capitò un giorno, in una sdruscita barcaccia, di cui pagò
il nolo cantando una deliziosa barcaruola, la Poesia. Un soldato, che
stava all'approdo, veggendo quella figura divinamente strapazzata,
tenendola per qualche affare di contrabbando, la condusse nanti il
giudice del distretto. Siccome la poverina parlava un linguaggio
inintelligibile per le orecchie _burocratiche_, questi mandò per un
mercante che conosceva varie lingue. Il nuovo arrivato le chiese qual
mestiere esercitasse.

— Tesso con fiori la trama della vita umana.

— Che diavolo di stoffa è questa! sclamò il mercante passando colla
mente in rassegna le tele dell'Olanda, i pizzi del Belgio, e le mussole
della Svizzera. Diede di mano ad un _metro_, che stava presso al banco
del giudice, e mostrandolo alla poverina, le chiese se avesse inteso
favellare di quella misura.

Smarrita da tanta sconoscenza, ella, che pure aveva cantato tante
glorie e consolato tanti dolori, fuggì ratta, e da quel dì più non si
vide attorno.....

Malgrado il continuo va e vieni di piroscafi, di barche, di vetture, di
carri, di bestemmie e di pugni fra vetturali e facchini, noi passammo
una deliziosa serata all'albergo del Belvedere, ammirando dal balcone
esteriore della casa il bel golfo ticinese riflettere gli ultimi
chiarori del sole che tramontava incendiando le nubi che coronavano
le vette della Valticino, mentre il _maître d'hôtel_ ne raccontava le
avventure dei suoi viaggi.

                                   *
                                  * *

Sulla bella via che tende da Locarno a Bellinzona v'ha una graziosa
casetta, che si pavoneggia in mezzo ad un giardino senza fiori. La
domenica v'è un chiasso da non dirsi di strilli musicali, di danzatori
che s'avvolgono in un turbine polveroso, di battimani degli assistenti,
in mezzo ad un va e vieni di ciotole di birra; che quella è una
birreria, la più bella, la più frequentata di Locarno. Una brigatella
di suonatori, ignoro se di mestiere — non posso dire dell'arte — o
dilettanti, — nel caso sono pur discreti a dilettarsi con sì poco!
— soffiava a tutto polmone negli strumenti più o meno assordanti,
inaffiando di quando in quando la gola riarsa con un sorso di spumante
birra. I danzatori — i maschi stavano alle femmine in ragione del cento
per uno — mescevano di quando in quando birra alle danzatrici, mentre
i curiosi in giro e gli altri avventori ai tavoli in giardino, sullo
steccato dinnanzi alla casina, gridavano battendo colle ciotole vuote:
birra, birra! Io chiusi gli occhi — e, meno l'assenza dell'armonia nei
chiasso strumentale — mi pensai di essere in Germania con un _schop_ in
mano e l'inevitabile pipa in bocca.

E mi parve di sentire attorno la lingua di Klopstok raccontare la
curiosa leggenda di Gambrino, il quale, come Noè il vino, scopriva la
birra, e meritavasi così di essere raffigurato tra Schiller e Goethe
su tutte le ciotole delle birrerie tenere della gloria alemanna. Vispe
e procaci ragazze correvano attorno servendo lo amarognolo liquore, e
ritraendone il prezzo e per giunta lo scoccare d'una interrogazione
galante o d'un bacio sulle umide mani; una sottile nebbia piena
di visioni cominciava ad avvolgere coi veli incerti la sala.....
Quell'avventore pensieroso era senza dubbio Fausto. — Quell'altro dalle
unghie lunghe e la barba da caprone, se non spirasse la fatua gloria
di un damerino provinciale, sarebbe senza fallo Mefistofele — quel tale
che parla sì forte di patria e di forche pei tiranni è forse l'ombra di
qualche Niebelungo in sessantaquattresimo — là una zingara che studia
su fatidiche carte la vostra sorte — qui una canzone di Körner, più in
là dal crocchio di studenti una lezione eretica di Strauss.....

Io era ingolfato in piena Germania, e stava per essere anch'io della
partita, quando un vicino importuno sclamò:

— Io vi ripeto, che per un bicchiere di vino delle Fracce do tutta
la birra e la birreria, colla musica per soprappiù. Che volete? sono
Italiano!


XIII.

_La malinconia a Cannobio — Non tutti i cattivi principii hanno cattiva
fine — All'indiscreto lettore._

L'aria è soffocante: non un alito di venticello sfiora il lago;
ma Cannobio che all'aspetto esteriore presi per la patria della
melanconia, è dimora d'una costante brezza, che tutto mi fa fremere
deliziosamente. È il più fresco villaggio di tutto il lago, come ne è
forse il più freddo nell'inverno.

Cannobio ha un aspetto originale. Adagiato in riva al lago fra una
gola di erti monti boscati, presenta una serie di case variatissima.
A destra verso la Cannobina, torrentaccio insolente, dieci o dodici
antichissime case di pietra, la maggior parte delle quali in semirovina
con finestre sfondate, usci disarpionati, tetti cadenti, mentre la
spiaggia è popolata di lavandaie e di pescatori. Queste rozze topaie
sono divise dal resto da una bella chiesuola, in cui — senza parlare
di Bramante che la disegnava, nè del ricco pavimento a scacchiere di
marmo — s'ammira una bella tela del Rafaello delle montagne, Ferrari
Gaudenzio, rappresentante la discesa dalla Croce. Questo tempio
sormontato da una cupola attorniata da colonnette a portico in giro è
rivolto verso l'interno del paese.

Dal tempio, che così visto dal lago non è meno bizzarro del resto,
corre una fila di case, l'una dall'altra diversa, innanzi a cui
s'innalzano antichi platani, che ombreggiano un tratto di terreno
irregolare senza spiaggia, ma orlato al lago d'un muricciuolo su cui
siedono e si appoggiano al rezzo delle piante foltissime ragazzi e
fanciulle ed i faniente del paese. Di queste case una presso la chiesa
ha la figura di una casa lombarda del XVI secolo: varie iscrizioni in
marmo dormono sul muro grigiastro fatto più scuro dal contrasto dei
muri vicini a colori vivi, qua e là un po' scoloriti dalla pioggia,
come quelli delle villeggiature della Liguria. Quell'altra ha le
inferriate gibbose alle finestre ed i balconi e le persiane e le tende
delle case spagnuole. Poi nella ressa che fanno, stringendosi una
addosso all'altra, per stare a vista del lago, un altro gruppo di case
a portici, a piani sporgenti, slavate, scornicciate dal vento e dal
tempo. Ecco Cannobio dal lago. Entrate, se è possibile, girando lungo
la Cannobina dalla parte opposta, non lo riconoscerete. Un'ampia, lunga
e pulita via adorna di belle abitazioni, una piazza con un bel tempio
vi fanno affatto ricredere che il borgo sia un ammasso di trabacche
annerite e spiombate come da buon tratto della sponda.

Si direbbe che l'egoistico amore d'una tranquillità assoluta abbia
vestito così tristamente la fisionomia esteriore della borgata per
tener lungi ogni contatto straniero. Il laghista è generoso, ma poco
socievole.

                                   *
                                  * *

Passai varii giorni al rezzo dei platani di Cannobio. Tramontato il
sole, in gondola. La sera vogava attorno alla rupe profonda di Pino,
grazioso paesello sopra un erto promontorio vestito di castagni e che
si pavoneggia mirandosi addoppiato dall'onda.

Ritorniamo ad Intra; cerchiamo un barcaiuolo. Una ventina stanno alla
spiaggia, parte racconciando attrezzi di pesca, parte dormendo distesi
lungo il muricciuolo all'ombra dei castagni. Questo giovane tarchiato
dallo sguardo insolente e col frusto di sigaro fra i denti, mi garba
assai. Questo vecchio con quella nidiata di ragazzacci attorno è un
vero tipo di quegli apostoli che il vigoroso pennello di Tintoretto
scolpiva sulla tela a Venezia.

Mentre io me ne stava guardando l'animato quadro, che mi si spiegava
dinnanzi, apparì non so di dove una bella creatura, diciottenne, bionda
come un'Inglese e tutta spilloni d'argento alla nuca, come la Lucia
dei _Promessi Sposi_. Ella venne presso uno schifo legato a terra e vi
depose un paniere. Quella testa era stupenda; non era un profilo greco
e qualunque pittore l'avrebbe plasmato qual era. Sulla sua fronte non
si leggeva un pensiero che non fosse di gioia; il sole le aveva indarno
abbronzato il viso, mentre il collo appariva, sotto il fazzoletto
rosso, di rara bianchezza..... Non parliamo di grazia del suo collo
piegato a leggera curva più grassoccio che magro. Il petto ricolmo
palpitava sotto una vestina, che aperta mostrava una bianca camicia
raccolta a sottili pieghe. Due scarpe quadrate malfoggiate tradivano un
piede snello, irrequieto.

Saltò nella barca con agilità e mi sorrise. Che faccia la barcaruola?
Perchè no? Ne ho viste tante ad Intra! E colla maggior grazia del
mondo:

— Vorreste, bella ragazza, noleggiarmi la vostra barca?

— _Smorbion_! Mi rispose seccamente, mentre quel certo vecchio del
Tintoretto senza nemmeno toccarsi il cappellaccio di paglia con un
piglio tra l'arrogante e l'offeso mi si era piantato dinnanzi, tra me e
la forosetta.

— Cosa vuole da quella ragazza?

— Ve lo dirò, quando mi avrete spiegata quella parola _smorbion_.....

— Quella parola vuol dir insolente, petulante, cattivo soggetto.

Davvero che quel vecchio animandosi, imporporandosi, mi diventava
sempre più interessante; il petto velloso scoperto, gli occhi
ancora raggianti di forza, i lineamenti improntati dalle tramontane,
m'impedivano affatto di irritarmi.

È inutile dire, che dopo poche parole il vecchio era tranquillo sulle
proposizioni da me fatte a quella tosa, e che il cerchio ragunatosi
d'allocchi desiderosi di essere spettatori d'una scena di pugilato,
rimase con tanto di bocca quando mi vide saltare col vecchio nella
barca, ove già stava la bella Peppina.

La Peppina se ne andava a Maccagno: perchè non v'andrò io pure? Una
mezz'ora con lei merita una visita a Maccagno. Nella gondola entrambi
seduti a poppa, ella non era più così sospettosamente selvaggia. Non vi
parlerò nè delle sue belle treccie, nè delle sue scarpe troppo grandi,
non del corallo delle labbra, nè degli occhi azzurri come il lago, nè
delle sue calzette bianche di bucato. Ma perchè non dirò che un eroe
avrebbe desiderato di riposare il capo su quel petto palpitante di vita
e d'amore? Nel paniere erano frutta: ne mangiammo assieme; scendemmo a
Maccagno, salimmo una lunga erta boscata ed ombrosa in cima alla quale
un piccolo villaggio.

Passai qualche giorno a Maccagno fra la pipa, i disegni, i racconti,
che la cara forosetta mi narrava sulle sponde dell'ameno Delio,
percorrendo i boschi, e..... Che cosa è questo ammiccare degli occhi,
garbato lettore?

— Finisci adunque la frase.

— Nossignore. Merita forse che io le faccia vedere i bei granchi a
secco che la piglia, quando vuol dar retta alle mormorazioni della più
volgare malizia? Se non capisce lo scopo dei miei racconti, peggio.....

— Ho capito. Vorresti darmi ad intendere, che la laghista, popolana,
è tanto amabile e generosa, stretta conoscenza, quanto è ritrosa e
selvaggia, a primo incontro.

— In verità, che se non fosse mio lettore le direi, in confidenza,
che l'è un pesca granciporri... La laghista sotto ogni aspetto è più
cara del laghista. Il sorriso del cielo e del paese le persuadono
l'amore. Ma teme l'amore e lo sfugge volentieri... Innamorata è la
donna — a quanto mi si disse — più generosa del mondo. Quante volte le
grazie femminili temperano la volgarità maschile, qui come dapertutto!
Le aggiungerò, signor lettore, che se i laghisti non fossero gelosi
come tutti gli altri italiani, io vorrei intonare un inno, a grande
orchestra, alle gentili abitatrici delle sponde verbanesi.... Torniamo
dunque in buona pace alla Peppina. Se m'avesse risposto a Cannobio:

— Signore, questa barca non m'appartiene; io non avrei passato una
settimana lassù. Dopo questa, la bella Peppina partiva per Milano
lasciandomi a ricordo una folla di pazze leggende, con cui aveva
popolato i castelli di Cannero e i boschi di Maccagno.

Che andava a fare a Milano? A cangiare di scarpe, mi rispose
sorridendo. Ad ogni modo la fortuna ti sia propizia!

                                   *
                                  * *

— Compagno mio, voi mi tenete il broncio, e mi pare di non avervene
data cagione. Vi compatisco: il pensiero corre qualche volta laggiù
fra le mura della vostra città... Voi non mi rispondete? Mi guardate
sospettoso... Sotto il saio sgualcito, fantastico dello zingaro, Dio
sa chi potrebbe nascondersi, n'è vero? L'abito abbottonato, una mano
sulla tasca, un'educata smorfia di noia sulle labbra... La cera ed
il silenzio parlano qualche volta con rara eloquenza. Chi sa quanti
sotto queste spoglie non avrebbero sospettato un giornalista ricco
di speranze e d'appetito in cerca d'_associati_; un aspirante al
Parlamento in giro pel circondario promettendo il ritorno dell'età
dell'oro; un commesso di libraio che pretende colla minaccia, o la
borsa o la vita, _una firma_ per un'opera mai più vista, a cui posero
mano cielo e terra!

— Zingaro, mi pare che voi m'abbiate promesso di guidarmi dal Verbano
alla Svizzera per l'Ossola e la cosa va alle calende greche. Sono
oramai stanco di asolare. Alla fin fine che m'avete voi fatto vedere?
Invero io m'aspettava.....

— Una lanterna magica o un cicerone di piazza?

Se desiderate _vedute_ compratevi delle fotografie. Vorreste forse
sapere il nome di tutto ciò che sfila dinanzi agli occhi? Vorrei
potervi dire il nome dei signori di questa e di quella villeggiatura;
ma per mia disgrazia non oso ficcare il naso oltre il cancello del
giardino per aspirare ad aperte narici l'olezzo dei miei carissimi
fiori..... Se in quell'istante capita il portinaio, arrossisco come
un ladro, tanto più che è difficile che m'inviti ad entrare. Cogli
zingari, si è già troppo cortesi quando si lasciano traguardare da
un'inferriata. Pensate, se mi capita un grazioso signore, se io con
questa maledetta indole oserei dirgli:

— Servitor suo, io sono uno zingaro, ma di quelli che rubano solamente
cogli occhi e col naso... mi permetta... scombicchero un libro... farò
cenno e lode di lei... Scusi... per mia regola... a che ora pranza? Non
voglio disturbarla... — Metterei la mia rispettabile schiena a rischio
di farsi gramolare.

Con questo sistema, scrivendo difilato di tutto e di tutti, io,
sapendolo fare, avrei scritto un librone in-folio, ed il lettore non
l'avrebbe comperato per non saperlo ficcare in tasca. È vero, salto
di palo in frasca; ma v'assicuro che ciò è unicamente per darvi agio a
respirare. Insomma ditemi il vostro piato.

— Voglio dirvi che voi non mi avete ancor dipinto qualche singolarità
in mezzo ad una natura pur singolare per varia bellezza.

— Giuggiole! E dove la prendo io?

— Lo scultore del fango forma una Venere, e voi mi fate viaggiare in
lungo e in largo il lago........

— Annoiandovi?

— L'avete detto. Voi non mi parlate che degli alberi, delle montagne e
delle onde. Pare che il lago non sia abitato.

— Ma e Manzoni e Massimo d'Azeglio?

— Eh! Si conosceva come gente di casa, quando voi senza fallo eravate
ancora cullato dalla balia colla cantilena del ninna nanna.

— Che volete? Conversare dei morti non mi talenta, e dei vivi,
quand'anche potessi loro conferire l'immortalità, non ne ho punto
voglia. Se alcuno non trova il suo tornaconto, se la pigli col lettore
indiscreto. I nomi maiuscoli di quelli che fanno parlare di sè in
Italia, è inutile che io li ricanti. Parlare di sconosciuti è cosa
poco allettevole per voi e pericolosa per me, chè nella lode non avrei
sempre la sanzione dei conterranei del genio incompreso.

Tutto il lago possiede uomini d'ingegno vivace, senza farne però gran
caso: tutti i libri di laghisti pubblicatisi vi ebbero pressochè nessun
esito. Non avete mai veduto in un frutteto un albero chiomato di fronde
rigogliose di fiori e di frutta lasciarsi involare dal vento i più
odorosi e le più saporite? Il laghista non legge.

La popolazione industre, laboriosa ama il litro più del libro...
Chi oserebbe rimprocciarnela? Lo stesso lord Byron direbbe che hanno
ragione.


XIV.

_La tempesta sul lago. — Quando non si fanno cerimonie._

    =È cosa curiosa l'amore della vita!=
                         _Un beccaio._

Un'immensa nube nericcia s'addensava sui monti che rinserrano il
lago al nord; il lampo di quando in quando guizzando in quell'oscuro
vôlto rischiarava un istante i profili rotti delle montagne. L'aria
soffocante, un'afa di prigione senza uno spiraglio, nessun tuono
ancora.

Verso le supreme cime dell'Ossola le nevi rischiarate dal tramonto,
contrastavano coll'orizzonte come luccicanti armature mal celate sotto
la bruna cappa d'un antico cavaliere.

Il Mergozzolo, che d'ordinario soffia un alito di frescura sul
golfo delle isole, pareva addormentato sui morbidi cuscini della sua
verzura. Ma in fondo del lago, dalla pianura lombarda, sorgeva una
straordinaria cortina di nubi rossiccie, sanguinose, che toccavano
il cielo. Ad un istante, mentre i laghisti mirano le barchette, che
s'involano con rapido alternar di remi dal mezzo della tremula pianura,
un rombo lontano, crescente, incessante annunziò la tempesta colle sue
artiglierie.

Il vento inferiore o _inverna_, si scatenò subitamente sul lago, che
si coprì tosto di spuma leggera, di piccole onde e in meno che il dico
di grandi cavalloni, i quali emulando i marini venivano ad abbattersi
sulla ciottolaia della spiaggia con un lungo stridìo.

Sulla strada che orla il lago il turbine avvolgeva la polvere in
altissimi spirali, in cui tratto tratto sparivano le vetture, le
persone, gli animali fuggenti qua e là. A riva, le lavandaie malgrado
il loro affaccendarsi a raccogliere i panni sciorinati, a gettar
sassi su quelli che erano stesi a terra, videro una miriade di lini
variopinti preda del vento svolazzare sulla strada, sulle case,
sul lago. L'aria era tutta polvere, fiori divelti, foglie, profumi,
cappelli di paglia, non senza qualche ombrello vagante a grado del
turbine, divelto Dio sa da quali manine!

Alla calma era successa di repente la più disordinata agitazione; era
un correre generale, aria, gambe, remi. Lo sbattere delle persiane
e delle invetriate che andavano in frantumi precorse d'un istante un
lampo vivissimo ed un rumoroso tuono, che fu per la tempesta come nella
battaglia il primo fuoco dei bersaglieri avamposti.

L'uragano è precipitato; la schiuma dei fiotti vola a larghe falde
nell'aria per ricadere sopra la nostra gondola in finissima pioggia.
Col vento in poppa, con mezza vela in asta l'_invernone_ ne cacciò
in poco d'ora dalle coste amenissime d'Intra fin presso Cannero. Allo
svolto del monte, che si protende sul lago tra Cannero e Cannobio sotto
al sasso Carmeno, il lago cambiò fisionomia. Un violento aquilone si
abbatteva dalle gole del S. Gottardo sul lago. Una terribile lotta
s'impegnò tra la tramontana e l'invernone. Le onde risospinte, mozzate,
sbattute non avevano più direzione. Il lago era tutto bollente d'ira e
di schiuma, mentre il cielo era tutto fuoco, ed i monti echeggiavano
sordamente alle incessanti scariche dell'elettricità. Di quel lago
sì variamente bello di monti e colline verdissime, d'onde azzurre del
sereno del cielo nulla più appariva.

Il vento sibilava sinistramente nelle pinete; le strade deserte dalla
popolazione chiassona; le onde emulanti il furore del mare, mentre la
grandine ed una pioggia a rovesci formavano una fitta cortina, fra cui
apparivano in lontananza i paeselli a riva, a mezza costa, le isole
in mezzo ad una tinta grigiastra. Dappertutto la forza, la maestà del
temporale: la grazia era scomparsa.

Il gondoliere abbassò ad un tratto la vela e fu in tempo. Le onde
mentre alzavano alta la prua si gettavano da poppa sulla gondola. In
quel tramestio il vento ne cacciò — i volti impallidirono — fra le
torri dei castelli di Cannero, mura liscie, nere, senza porte, a picco
nel lago da cui sorgono.

Il loro aspetto tra il castello feudale, la prigione ed il covo di
pirati è sinistro. Quando questi solitarii avanzi del delitto guardano
dalle oscure occhiaie la ripa vicina, le piante rabbrividiscono. Più
d'una divenne paralitica.

Il vento entrando nella fessura dei muri, dalle finestruole, dalle
fuciliere strideva orribilmente. Al barcaiuolo omai sfinito parve
di sentire in quelle abbandonate stanze risa di scherno, che gli
diacciarono le ossa.

Mi assicurò che erano le ombre dei cinque fratelli pirati già re di
quello scoglio. Per nostra fortuna l'aquilone in quel momento abbatteva
il suo rivale: dietro al castello verso Cannero potemmo gettarci sopra
una piccola spiaggia in faccia all'isolata torre della Malpaga. La
barca tratta da quella furia di vento girò sopra se stessa rapidamente,
passò innanzi alla torre, quando un'onda la sollevò in alto per
stritolarla un momento dopo sulla scogliera. La notte era discesa cupa,
oscurissima: in quella tenebrìa non si sarebbe potuto scorgere anima
viva!

Il barcaiuolo, tremante, accennava al chiarore dei lampi una frotta di
spazzacamini già naufragati poco lungi presso Cannobio, che diguazzando
cercavano colla rabbia della disperazione di salvarsi sopra i frantumi
della barca. Quei volti gonfi, dai capelli verdastri, erano orribili.
La caliginosa tinta lottava invano colla pallidezza cadaverica: gli
occhi roteavano con sguardi di desiderio, di terrore nell'agonia. Un
piccolo ragazzo fra i naufraghi era giunto ad impadronirsi d'un remo.
Suo padre gli chiedeva aiuto, una mano per salvarsi. Il ragazzo attese
che il padre fosse vicino, e con un colpo della rastia gli fracassò le
cervella. L'annegato calò a fondo e ritornò a galla presso il figlio:
afferratolo pei piedi lo sbalzò dal remo. Ogni frusto della barca
era l'oggetto d'una lotta. Avviluppato nella vela, legato, soffocava
il vecchio arruolatore di quei neri operai, invano chiedendo aiuto:
una dozzina di ragazzi stringeva colle braccia convulse il corpo
galleggiante di chi li nutriva.........

Intanto presso Pino appiedi a quel crocifisso, che stende invano le
braccia ai naviganti, succedeva una scena poco dissimile. Uno schifo,
su cui due fidanzati, urtava in quella roccia e tutto spariva....
In quella notte l'annegata veggendo il suo caro dormire fra l'alghe
in fondo al lago, leggiera si spiccò alla superficie e dopo mille
tentativi inutili, colle mani sanguinose potè appigliarsi ad uno
sterpo, che sorgeva in una fessura della roccia.

Lo sterpo è sufficientemente robusto: ancora un istante e la bella è
salva, quando ad un tratto il suo corpo è strettamente avviticchiato.
Prega la misera, prega, supplica, assicura, giura che lo farà salvo fra
un istante: ma tutto è vano.

Ella sente smarrirsi le forze, sdrucciolare sull'ammuffata roccia,
lo sterpo sbarbicarsi per il soverchio peso..... la brutta morte
s'appressa nuovamente inevitabile.

Allora un pensiero d'inferno balena alla sua mente..... quella mano,
che ha fra le dita l'anello nuziale, abbranca ratta un'affilata
pietra... Il fidanzato non è più, ma il suo corpo non si è staccato
dal funereo amplesso: le braccia, il petto non sono più animati, il
volto pallente, la lotta è cessata, ma il nemico resta e implacabile,
spaventoso. Ogni sforzo della bella è inutile, lo sterpo si sradica
sempre più, ed ella si sente tirare al fondo dell'abisso fra le sue
bestemmie all'amante, fra le convulsioni degli sforzi per guadagnare la
vita.

Mi svegliai madido di freddo sudore ad una bella aurora, che su tutto
il lago spargeva fiori e perle, dopo queste orrende visioni dell'amore
della vita, che mi richiamavano ancora confuse le parole a doppio senso
del barcaiuolo a me che lo interrogava nella tempesta, se m'avrebbe
condotto a riva a nuoto:

— Eh! in queste occasioni non si fanno cerimonie!


XV.

_Treffiume o Trafiume — Dammi amore e ti do un mondo._

Un bel mattino, di Cannobio m'avviai verso Trafiume di buon passo.
L'aria frizzante della valle Cannobina, in cui io m'innoltrava,
raffrescandomi tutta la persona, faceva sì ch'io corressi per quella
stradicciuola come se avessi le ali ai piedi. Io non correva punto a
deliberata meta; correva perchè.... correva!

Chi potrebbe tentare l'enumerazione di tutti i moti dei quali non
è ben nota la causa efficiente? Un giorno berresti un fiasco di
lacrimacristi, al domani ti spinge una vera necessità di seppellirti
lungo e disteso nelle lamentazioni di Young. Quel dì io avrei piuttosto
bevuto alla vostra salute un sorso di lacrimacristi e lasciato ad
altri il piagnone inglese. Come pensare a tante melanconie quando il
cielo è sorridente, fresca l'aura, più verdi le piante, più garrule le
rondini, e lo stesso torrente ha voce più armonica? La valle Cannobina
triste per avarizia di natura era meno uggiosa. Con queste divagazioni
mentre sto per passare sopra un antico ponte, eccomi là in fondo tra i
castagneti Trafiume.

Perchè _Trafiume_ s'egli non è a mezzo le acque? Dove sono gli archivii
del comune? Le antiche pergamene? Il biricchino a cui io moveva queste
domande per appagare il mio onestissimo desiderio di condire al lettore
la passeggiata con un cicino di storia secondo i buoni costumi della
buona letteratura... Dove mi trovo? Ecco cosa mi tocca con questo
benedetto divagare e saltare di palo in frasca! Ah! Eccomi sulle
rotaie. Il monello andava a scuola a Cannobio, ove studiava nientemeno
che la storia, l'aritmetica, la geografia e la lingua italiana, ed
a prova palpabile degli studii portava accollato al dosso un certo
zibaldone di libri, o cartellone che vogliate, di tale mole, che
il _puer sudavit et alsit_ non fu mai appiccicato sì a dovere. Quel
professore in erba mi disse adunque che il villaggio in discorso era
Treffiume.

— Caspita! Tre fiumi? Dove sono questi fiumi? Il monello mi guardò
estatico, poi di trotto che il fastello dei libri gli saltellava sul
dosso, partì in mezzo ad un nugolo di polvere, piantandomi sul ponte a
fare conversazione con una antica statua di pietra.

Disperato di non trovare la sospirata etimologia, mi avanzo oltre il
paesello nella vallea pensando se non mi sarebbe dato di essere il
Colombo dei tre fiumi di Treffiume.

Oh! eccomi chiusa la via: il torrente s'allaga nell'uscire da un oscuro
e cavernoso canale fra due roccie ertissime congiunte lassù da un
ponte, che da un tempietto valica l'orrida forra.

Una provvidenza di barchetta mi attendeva, ed io meno confidente
di Colombo, quando salpava coi legni Ispani per la patria delle
contraddizioni e dei _rewolvers_, m'avventurai in quel quasi
sotterraneo canale a mille doppi più periglioso della Manica.

A dritta cento sassi screpolati, scagliosi, tentennanti sul tuo capo:
a sinistra una roccia spossata di stare lassù abbracciata al monte
e che aspetta forse una sola parola dell'eco per abbandonarsi nelle
braccia della legge di gravità, e sotto al fragilissimo schifo un
gorgo profondo.... Scilla e Cariddi! Eppure la voluttà vertiginosa
del pericolo m'invita oltre la soglia della forra, ed io, compreso
da religiosa temenza, susurro al gondoliere: voga! voga! Ed egli
voga, ed i vivi raggi del sole non osano entrare con noi in quella
misteriosa stanza, in cui certo fra l'ombre ed il mormorio delle acque
amoreggiano.....

Ma che? Il navicellaio è scomparso, e dall'onde una dolcissima figura
nuotando silenziosa, conduce con una mano lo schifo, ed io ammiro
quelle forme divine su cui le chiome diffuse e l'onde fanno dubbioso
velo..... or eccola a prua, assisa, che con mano sicura, spingendo
ora a destra ora a sinistra, m'addentra nell'umido laberinto. Io
la guardo..... con occhi sì desiosi di una sua novella che valga a
snebbiarmi il cervello, che essa mi sorride e mi dice che s'io bramo
conoscere la sua storia, devo seguirla nelle sue stanze........ Il
rauco fragore della cateratta, a' piedi della quale siamo giunti, si
mesce al dolce suono delle parole dell'ondina....... Ella m'indica
il profondo dell'abisso invitandomi a seguirlo. Io, palpitando con
mille moti di terrore, di ansietà e d'ammirazione, l'ascolto e la fiso
estatico........ La corrente lene lene ne conduce con essa, mentre la
ninfa dello speco, appoggiato il gomito sulle ginocchia, ne fa sostegno
al capo, e.....

— Ricusi? Vieni laggiù con me ed io quante gioie ha amore tutte ti
darò. Ancora ricusi? Sei tu ambizioso? Io ti farò re di queste onde,
e non avrò altra cura che di foggiarti corone d'alghe intrecciate ai
fiori delle spiaggie. Sei tu avido di novelle e di leggende? Tu poserai
il capo sulle mie ginocchia, e ti racconterò un mondo di cose che
ignori e ch'io ti farò amare. Sei vago di nuove acque? Ti condurrò nel
lago, e di là pel Ticino e pel Po nell'Adriatico, nelle lagune popolate
di tante memorie di gloria e d'amore! Vieni... vieni... io t'amo! Io
ti farò colle mie mani un trono di conchiglie a mille colori più vaghi
dell'iride, e quando ti sarà caro rompere il corso tranquillo dei dì,
noi, lasciata la nostra reggia e spintici a galla, proveremo la nuova
ineffabile voluttà d'abbandonarci ai fiotti, scendendo veloci nei
gorghi e rimontando sui cavalloni in un letto di molle schiuma, mentre
i canneti e i boschi lungo le rive ne susurreranno i segreti delle
loro ombre. Oh! vieni, affidati a chi ti legherà sì strettamente a sè
coll'amore, che tu non avrai più cuore di respingerla! Tu tremi?.... Io
non sono bella per te!

E la bellissima in atto di cordoglio copriva il volto colle palme e
la persona colle treccie copiose. Vergognoso ed in una arse le vene
di inusato foco, io mi gettai a' suoi piedi onde non mi sfuggisse...
era troppo tardi!... Collo sguardo e co' dolci nomi e colla persona
spirante bellezza singolare continuava a farmi invito... e lungo
la strada a Cannobio io rivedeva di quando in quando quella strana
apparizione fra le onde riottose del fiume; e mentre il piroscafo
m'involava a quelle acque, io la vidi ancora nei fiotti schiumanti
seguire il solco scintillante della nave, con mille invocazioni.....

Se voi andrete a Treffiume a visitare l'orrido di S. Anna, e vi
toccherà in sorte di vedere fra quelle misteriose ombre l'ondina
assetata d'amore, Verbania, la regina del lago, ditele che senz'amarla
non è dato allo zingaro di dimenticare il primo essere che volesse
farlo felice di tanti doni in cambio di solo amore!

                             . . . . . . .


XVI.

_Storia d'una pentola._

    =Il mondo è di chi se lo piglia.=
                       _Prov. Ital._

La tenebrìa notturna avvolgeva siffattamente Cannobio in una sera
dell'inverno del 1627, che, eccettuati i gatti e i debitori morosi,
nessuno vedeva oltre la punta del proprio naso. Una tramontana che
s'era impregnata d'un nembo di atomi nevosi sulle diacciaie delle Alpi,
arrotava con tanta furia il suo staffile sibilante nei chiassuoli,
sulle poche insegne delle botteghe, e sulle impannate sconnesse delle
finestre, che chiunque avesse fatto capolino dalla porta socchiusa,
al sentire l'acuta trafittura sulla cera e sulla persona, avrebbe
senz'altro rinchiuso in fretta, e sclamato sotto la cappa del focolare:

— Brrr! la non è sera d'andare attorno.

Eppure in quella tenebrìa, con quella tramontana, con quel gelo, due
creature, che non erano gatti, e si tenevano amendue in credito l'una
verso l'altra, stavano intese a stretto ed animatissimo colloquio sotto
il portico di una casa verso il lago.

Chi erano quei due? Due ladri? Due pazzi?

Erano due amanti: basta la parola.

Volete provare l'amore, l'amicizia, le passioni umane? Mettetele alla
prova delle privazioni corporali. Quanti che ti si dicono amici per la
pelle, quando minaccia aquilone o la temperatura è discesa alquanti
gradi, ti passeranno dallato fuggendo senza fare cenno per tema di
essere colti dalla bufera, o di levare la mano di tasca per stringere
la tua, o per scoprire il capo! Vuoi conoscere, bella lettrice, se il
tuo vagheggino t'ama? Fallo aspettare le ore e le ore sotto un portico,
un albero, o meglio in piazza, al vento ed al sollione. Dopo due, tre
ore, secondo il tuo buon cuore, arriva od apri la finestra... Eccolo
là! Non si lagna? Chiede anzi perdono a te stessa? Via concedigli un
sorriso: l'uomo è in gran parte tuo. — Che più? Chi accetterebbe la
gloria a patto d'un serio mal di denti?

Ma Giovanni Branca avrebbe resistito ai freddi della Groenlandia anche
per udire solo la voce della vezzosa Bettina. La quale alla sua volta
e per essere caldissima di gioventù e discretamente innamorata, non
rifuggiva qualche volta dall'uscire sotto il portico a fare quattro
ciancie col Giovanni.

La sarebbe poi la magna indiscrezione la nostra, se cogliessimo al volo
le parole sommesse degli amanti, facendo capolino dai massicci pilastri
degli archi di quella casa? Con questa frescura la curiosità non si
soddisfa a troppo buon mercato; ma chi sa? Due parole possono rivelare
qualche gran mistero: una tresca od un idilio; seduzione, gelosia,
rapimento e chi sa quant'altre saporitissime cose. Zitti adunque: è
l'amante femminino che parla.

— Giovanni! disse con timido accento la fanciulla tuttora incerta; tu
non m'ingannerai?

— Come lo posso io? perchè ingannarti? Vieni, e tu vedrai se i miei
sogni, come tu li chiami, non hanno ombra di verità.

— Ma se lo zio s'accorgesse della mia assenza? Sai quanto è burbero con
me!?

— Ho avvertito l'Angiolina. La fantesca dirà che tu sei andata a casa
di tua cugina..... Ma, te ne prego, non perdiamo un istante... Tu esiti
ancora?

— Elisabetta! se alcuno ti vedesse, povero il tuo onore!

Giovanni, malgrado la notte oscurissima, vide il volto della bella
impallidire, e sentì la mano palpitante di lei sciogliersi dalle sue.

— Bettina, io credeva che tu m'amassi! La voce di Giovanni era sì
scorata, rivelava sì intenso dolore, che la fanciulla sentì venir meno
il proposito di non accondiscendere al desiderio del giovane, e dato
uno sguardo alla via buia sclamò:

— Ebbene, sia; ma io non t'accordo che dieci minuti. Rientrò guardinga
nell'abitazione, e dopo pochi istanti in cui al povero Giovanni pareva
gli si dovesse dal gran battere scoppiare il cuore, ne uscì avvolta
in un mantello, mentre la vecchia fantesca rischiarava il passo con
una lucerna, facendole schermo dal ventare colla mano. Il giovane
all'apparire subitaneo di una lunga striscia di luce, che dalla porta
socchiusa dritta saettò nella strada, e sentendo la Bettina, che
gridava più forte che non era necessario:

— No, Marta, non ho bisogno di lume; siamo a due passi; sta in casa...
avrebbe voluto gettarsi in un androne per non essere scoperto, se
pure ei fosse stato in tempo: la vecchia lo avrebbe quindi scoperto
senza fallo, se, appena essa fu sotto il portico, amore — gran
contrabbandiere è amore! — non avesse con un buffo spento la lucerna...
La sferza della tramontana, che con mille diverse orribili voci fischia
attraverso alle piante brulle ed ai comignoli, assai più delle parole
della padroncina, persuase eloquentemente la vecchia, che il meglio
era ritornare ad accocolarsi al focolare. La fante sospirando: granchè
questa gioventù! rientrò, richiuse, mentre la giovinetta si slanciava
nelle dense ombre della via, ove, a pochi passi, il tutto suo Giovanni
la raggiungeva.

Entrambi, senza dir motto, sulla punta dei piedi, brancolando fra le
mura ineguali e sporgenti, evitando le fossatelle e più gelosamente
i passanti, dal portico sulla sponda del lago, giunsero all'ultima
casa di Cannobio verso la valle. Giovanni, schiusa la porta, con
mano trepidante introdusse l'amica nella stanza a pian terreno, poi
serrate prudentemente le imposte delle finestre, per una scaletta
angusta la trasse in un'ampia cameraccia al primo piano di quell'antica
abitazione, dove in pochi minuti le vampe di un bel fuoco illuminarono
le pareti stinte, quasi nude, ed intiepidirono l'ambiente.

Ma l'una per la corsa affannosa e per quella certa trepidazione che
non iscompagna mai la fanciulla che si trova per la prima volta sola in
balìa dell'amante, l'altro pei mille sentimenti, che gli tumultuavano
nell'animo, non che le punture del freddo, sentivano il sangue più
bollente rifluire dal cuore al capo con insolita ardenza.

Il giovane, messo innanzi alla Bettina un piatto di ciambelle, a cui
ella fece il più bel viso del mondo, tolse da un cofano antico una
grossa pentola, la quale invece di coperchio aveva sovrapposta una sì
curiosa scattola pure di rame con certi congegni non mai visti, che
la ragazza guardava l'ordigno con occhio stupito, e cessava un momento
di masticare. Dai congegni della piccola caldaja una funicella correva
all'asse di un arcolaio.

Bettina, quando Giovanni pose dinnanzi a lei l'arcolaio, scoppiò in
una solenne risata..... Il giovane, gettato con ira il cappello in un
canto, proruppe:

— Da te io non m'aspettava questa maniera di conforto..... Ma tu hai
ragione, tu ignori che questa ruota rappresenta a' miei occhi un mondo
d'innovazioni.

Le fiamme avvampano crepitando sotto la caldaia, e già il vapore si
sprigiona con veemenza, quando ad un tratto il giovane ottura il foro,
da cui si sviluppa fumante... La giovinetta meravigliata si ritrae un
passo dal focolare e vede la ruota dell'arcolaio girare rapidissima
sopra il suo asse

— Dunque non saremo più costretti a filare, n'è vero, Giannino?

— Qua, francamente: che pensi della mia scoperta? Tu sola la conosci.

La Bettina per dire la verità pensò in quel momento, che se
l'invenzione di Giovanni _la liberava dalla noia del filare_, suo zio,
il più intollerante ed intollerabile zio del mondo, non le avrebbe
permesso tuttavia di starsene ad udire le novelle colle mani in mano —
ed avrebbe voluto dirgli:

— Caro Giovanni, a dirtela tonda, se tu non trovi che questi ordigni,
il nostro matrimonio non si farà mai più.... Ed io dovrò essere la
moglie d'un mercante d'arcolai? — E l'avrebbe forse detto, se la fronte
di Giovanni non fosse stata sì pallida, se gli occhi non avessero
interrogato con tanto desiderio... uno sguardo al soffrente fece
svanire il pensiero che le balenava in mente. E poi il giovane, se non
era un Apollo, poteva tuttavia dirsi una bella e maschia figura d'uomo,
e s'egli invece di ritrarsi soletto a pensare le ore e le ore, si fosse
mostrato meno restìo ad intervenire ai chiassosi convegni dei coetanei,
per l'ingegno non comune e la piacente arrendevolezza dell'indole,
egli sarebbe stato in breve tempo l'amico di tutti. Ma il Branca era sì
timido! Bettina, se non di ferventissimo amore, lo amava come le donne
amano quelle nature tenere, affettuose e pazienti, che s'accontentano
di poco o nulla e non sanno mai chiedere.

— Cosa penso io, o Giovanni? Penso che ti amo!

Il Branca fu ad un pelo di cogliere un bacio su quelle labbra tanto
eloquenti; ma egli s'era promesso di spiegare alla Bettina quante
speranze avess'egli fondate sopra la sua invenzione. Ella si sedette
presso al focolare, e Giovanni così prese a dire:

— Che sia sempre benedetto il momento, in cui io ti conobbi... Sì,
perchè questa mia invenzione, da cui attendo onore e compenso, non
sarebbe, se il pensiero costante di trovar modo di possederti non
avesse tutte occupate le facoltà della mia mente. Io non ti spiegherò
come il vapore che emana dall'acqua bollente, compresso, abbia una
forza movente, nè con quali congegni io sia riuscito a servirmene.

Fatta questa premessa, di cui la Bettina gli seppe grado perchè le
risparmiava una noiosa litania di nomi e di cose, delle quali non
avrebbe capito un acca, il Branca cercò di farle comprendere come la
sua invenzione applicata ad un mulino, risparmiasse tempo e fatica.

— Questo tuttavia parmi non sia ancora tutto il frutto che io posso
sperare dal trovato..... Mille progetti, mille idee tuttora incerte
vagano nella mia mente. Mi recherò intanto a Milano: io presenterò
al vicerè la mia macchinetta: i dottori verranno consultati, e se
Dio vuole, otterrò un privilegio. Allora la mia sorte non sarà più
dubbia; avrò un nome, ricchezze, e tuo zio si lascierà facilmente
persuadere, che io ti piaccio più che Menico, il mercante di vino, a
cui non sarà dato di possedere te così bella di gioventù e di grazie,
come non giungerebbe mai a comprendere egli sì trivialmente positivo,
la tua anima sì delicatamente sensitiva. Allora, proseguì il giovane
avvicinandosi alla fanciulla, a cui buona parte delle parole del
giovine suonavano come una musica dilettosa, di cui sentiva con piacere
l'armonia senza comprendere il concetto — e prendendone nelle sue ambe
le mani, allora io non chiederò più nulla a Dio per la mia felicità,
poichè Bettina, quella Bettina che io amo...

— Più della tua pentola, n'è vero? interruppe la ragazza.

— E di me stesso, sarà mia, tutta mia.

— Sì, Giovanni, per sempre! Ma lascia che io ritorni....... Senti
l'orologio della torre? È un'ora che io son qui.....

— Un istante! Ma no — tu hai ragione, ed io non mancherò alla mia
promessa. Verrà presto il giorno in cui potremo amarci e dirlo e
provarlo, senza tema di offendere Dio e l'onore. Mio malgrado.....
Addio.

Giovanni prese la lucerna, accompagnò l'amica per le scale alla porta
di strada, depose il lume sull'ultimo gradino, e fatto più ardito dalle
soavi parole di lei, con ineffabile affetto le disse sommessamente:

— Bettina, ti ricorda che un giorno io ti chiesi un bacio, e tu
mi rispondesti che io non l'aveva pure meritato.......... corsero
quasi due anni, ed io, se è possibile, imparai ad amarti con maggior
desiderio e rispetto..... E sì che fra le purissime gioie d'un affetto
corrisposto, io soffro sovente crudeli torture.....

— A cagione mia?

— No... Sono io stesso che mi tormento. Quando io confuso nella folla
dei balli, ti vedo, circondata da danzatori, sceglierne uno che potrà
stringerti al suo petto, respirare il tuo alito, sentire la fragranza
de' tuoi capelli, io sento una mano premermi il petto da soffocarmi,
una voce che mi dice: quegli è felice! Lo invidio! E questa voce —
sentimi e perdonami, o Bettina — quando questa voce mi dice, che il
danzatore, giovinastro scapestrato, osa nella vertigine della danza
confondere le sue labbra fra le ciocche...

— Giovanni!

— Sì, Bettina, io allora mi sento soffocare dalla gelosia, sento
bisogno d'aria libera... e corro all'impazzata pei campi.

— Povero Giovanni! Ma tu sai pure che io non posso danzare sempre con
te... Del resto hai tu forse motivo di essere geloso? A me piacciono,
lo confesso, lo scherzo, la danza, la musica, le feste, come a tutte le
ragazze; ma anche allora io non ti dimentico, e quando sei là timido,
quasi rincrescevole di trovarti fra la brigata festosa, il mio pensiero
corre a te che solo stimo come il migliore, e che amo come quel solo
che mi farà felice. Sei contento adesso?

E la bella fanciulla gettò le braccia al collo del timido giovane che,
tremante, ebbro d'amore, le colse sulle timide labbra un bacio, il
primo, il più voluttuoso.

Perchè come in tutte le cose vi sono nella medesima specie gradazioni
infinite, vi hanno baci che non sono se non l'effetto di due labbra
scoppiettanti sopra una gota, e baci che vi ricercano tutte le
fibre dell'anima e del corpo: così avvenne al Branca, il quale
sentendosi cingere il corpo dalle braccia della carissima amica,
avrebbe desiderato morire allora allora e forse, se avesse conosciuto
l'avvenire, non avrebbe avuto tutti i torti.

Giovanni stava per dire addio all'amica, quando — gli si drizzarono i
capelli in fronte, e Bettina, atterrita, si sciolse da lui — una voce
schernevole dalla strada, attraverso alla porta, disse queste parole:

— È questa la fine o il principio della fine? Giovanni Branca, hai
dimenticato l'_audaces fortuna juvat_? Per voi, gentile fanciulla, io
tradurrò il latino così: Una ragazza quando va in casa dell'amante, si
marita senza prete.....

Il giovane, passato il primo sgomento, volle slanciarsi, aperto
l'uscio, sullo sconosciuto e farsi ragione dell'insulto, ma
l'Elisabetta, smarrita, si frappose piangendo.

Il lume, urtato, s'era spento cadendo dalla scala.

— Non t'affannare, Giovanni, per le mie parole indiscrete. La tua
fortuna è nelle tue mani colla tua felicità....... Osa! osa! chè il
mondo è degli insolenti.

La voce s'allontanò, Giovanni aperta rapidamente la porta, si
gettò nella strada brandendo un ferro... Nessuno! Corse velocemente
malgrado la notte verso il lago, verso la valle... Nessuno! Ritornato
all'abitazione, il povero giovane trovò Bettina distesa sul pavimento
priva di sensi. Esterrefatto rinchiude la porta, riaccende il lume e
prodiga all'amica ogni cura.

— Mio Dio! punitemi in altro modo, ma risparmiate la mia Elisabetta!
La quale col pallore sulle gote, gli occhi socchiusi, le treccie
cadenti sul petto, mostrava all'amante una nuova bellezza, forse più
affascinante di quella che ne irradiava il volto nelle ore delle gioie:
e quando al fine, riavendosi, balbettò:

— Sei tu, mio Giovanni? e si strinse più fortemente a lui, come fa
il timido bimbo alla mamma, le parole dell'incognito balenarono
sinistramente nella sua mente, ed un istante fu per cedere alla
tentazione; un istante solo, che soccorrendogli il pensiero delle
promesse fatte alla fanciulla ed a se stesso, disse:

— No... no... sarei un infame... sarò sventurato, ma senza rimorsi!
Bettina, rincorati; l'ora è tarda, partiamo.

— Ma quella voce!

— Non pensarvi. A me solo spetta far rispettare il tuo onore.

Dieci minuti dopo Elisabetta picchiava sommessamente alla porta della
cugina la quale la riconduceva all'abitazione.

Quella notte nè Giovanni nè la sua amante potevano dormire; l'uno
rammaricandosi d'aver compromesso l'onore della sua amata, mentre con
tanta vittoria aveva saputo rispettarlo, e l'altra pensando:

— Come mai il Domenico, il vecchio mercante di vino, — perchè quella
voce era senza dubbio la sua — potè sapere che io stava in casa di
Giovanni?

E l'uno e l'altra finirono per conchiudere che nessun pro s'era
ritratto dal colloquio, perchè il Giovanni capì che la sua scoperta non
aveva punto meravigliato la fanciulla ignara ed incurante di quanto
non era ciarle d'amore, vesti e balli; ed ella si pentì di avere
accordato all'amante un favore sì pericoloso... per vedere a girare
un arcolaio! Ma come suole accadere, l'amore fecondo in consolazioni
come in tormenti sovvenne a temperare la conclusione dei due amanti,
soggiungendo all'uno:

— Non sa apprezzare la mia scoperta, ma ella mi ama... posso
ragionevolmente bramare maggiore felicità? Mi ama e me lo disse!

E all'altra:

— Egli non inventò che una pentola per far girare gli arcolai ed i
molini... pazienza... Ma chi mi ama più di lui? Domenico dirà nulla e
Giovanni mi sposerà. Domenico è danaroso; ma il suo sguardo non desta
un palpito, la sua voce non scende all'anima... Peccato, che Giovanni
sia così timido!

E pensando curiosissime cose della dilicata timidezza dell'amante, finì
per addormentarsi, e buona notte.


Siamo oramai alla fine del febbraio ed un vivo raggio del sole penetra
nelle stanze quasi a dire: orsù, levati dal focolare, esci all'aperto,
che io richiamando a vita la natura, scioglierò le tue membra
intirizzite. E voi lasciate la casa, che vi ha riparato per cinque
mesi dalle trafitture della tramontana, scendete a riva, contemplate
il lago snebbiato, limpido, le costiere spazzate dalla neve che non
imbianca più se non le più alte falde dei monti, sulle plaghe più
meridiane spuntare i primi fili d'erba, nelle vie squagliarsi la neve
accumulata dal primo dì in cui coprì la terra, fondersi i diacciuoli
delle grondaie, i passeri inneggiare festosi all'opera redentrice del
sole. Senz'accorgervene, lasciaste a casa il pesante mantello, e levate
di tasca le mani e battete palma a palma; sentite la molle aura del
sirocco involgere tepidamente le membra, e ve ne state passeggiando a
riva come in attesa di una grata novella. Ecco intanto che nelle case
le finestre chiuse da tanto tempo e con tanta cura s'aprono, onde il
sole e l'aria entrino liberamente, e una bella fanciulla si mostra sul
balcone vivamente irradiata dal tocco della nuova luce per salutare
l'annuncio della primavera. Le care sue pianticelle, i garofani, i
geranii non staranno più nella uggiosa ombra delle stanze; essa pure
la domenica potrà d'ora innanzi dopo la messa passeggiare colle amiche
sulla spiaggia o verso la Cannobina, e quando Giovanni passa nella via
— e Dio sa se passi soventi — uscire sul balcone e dargli uno sguardo,
un saluto, lasciargli cadere un fiore... Venga dunque la primavera, la
più bella stagione dell'anno, la stagione in cui i cuori si aprono alla
festa della natura, come i calici dei fiori alla rugiada!

Giovanni era proprio sulla spiaggia, collo sguardo alla casa di
Elisabetta. Dopo quella certa sera egli aveva deciso di non lasciare
intentato alcun mezzo — onesto — per ottenere la mano della giovinetta,
ed aveva studiato parola per parola quanto avrebbe detto a Milano
dinanzi ai fisici, al vicerè stesso — una curiosa apologia della
propria scoperta, in cui pareva che la modestia dell'autore si
sforzasse ad ogni conto di sminuire il valore del trovato. Elisabetta
conoscendo quanta fosse la timidità del buon giovane e volendo tuttavia
consolarlo, lo salutò con un cenno, e spiccando un bel garofano
variegato, lo lasciò cadere sul lastrico della via. Giovanni accosta
la destra alle labbra per ringraziarla, e s'appressa, lentamente
— il correre avrebbe dato sospetti ai passeggieri — alla casa per
raccogliere il fiore — già raccolto dal mercante di vino che da un
chiassuolo era sbucato sulla piazza del lago in quell'istante.

Il povero Giovanni trattenne a mala pena un grido — quel fiore era
per me; — Menico che di leggieri aveva compreso, vista la Bettina sul
balcone, la causa dell'improvviso pallore del giovane rimasto lì come
di stucco, si mosse verso di lui e gli disse ridendo, ma senz'ombra di
derisione:

— Oh Giovanni!.... Ma guardate di grazia se mai più bel garofano cadde
in istrada... fra due contendenti... (e guardando all'insù Bettina che
rideva) il terzo gode!

Giovanni balbettò:

— Menico... il fiore è bello,... ma...

— Ma? Chi disprezza vuol comprare... volete comprarlo?

Giovanni diede uno sguardo a Bettina che voleva dire: Ah! io non lo
venderei certamente! e rispose:

— Come fiore trovato nella strada, esso non val nulla; ma se la signora
Bettina lo ho gettato a voi, un mondo non basterebbe a pagarvelo....

— Qui sta il nodo.... Signora Bettina, il garofano cadde in istrada non
dalla pianticella sicuramente.... Il gambo venne tagliato dalle vostre
forbici, è chiaro... È chiarissimo, che non essendo avvizzito, voi non
ne avete voluto mondare la pianticella... dunque l'avete gettato per
essere raccolto... (davvero che la è da ridere) da me o dal Giovanni?

La Bettina guardò in istrada Domenico e Giovanni che attendevano lo
scioglimento della questione; e... che batticuore!... stette un istante
sopra pensieri, quindi rispose:

— A voi... Domenico — e rientrò in casa, chiudendo le invetriate.

Domenico diede nel più fragoroso scoppio di risa; Giovanni impallidì,
e sentendosi venir meno la vita, s'appoggiò ad un pilastro della casa
della traditrice.

                                   *
                                  * *

Giovanni passava ogni ora meridiana sulla spiaggia passeggiando innanzi
all'abitazione, ma la gioviale figura della Bettina non compariva
più dietro le invetriate del balcone. Sulla sera andava al tempio: la
Bettina, sempre colla vecchia fantesca, correva senza degnare d'uno
sguardo chi la seguiva. E Giovanni vedeva spesso il mercante di vino
entrare ed uscire dalla casa dell'amata con quel suo eterno sorriso
sulle labbra!

Un bel dì, sulla via di Trefiume, eccoti dinanzi la Bettina: non so se
Giovanni si fosse destreggiato per sapere che quel dì l'andava dalla
sua nutrice.

La prima cosa che avrebbe voluto fare il buon giovane sarebbe stato
gettarsele ai piedi invocando perdono — di che cosa veramente non
sapeva — perchè non so se il naturale ingegno o le meditazioni avessero
insegnato ad avere sempre torto colle donne. La seconda sarebbe stato
il domandarle se le cure della salute non le permettevano più di stare
sul balcone, di passeggiare colla cugina, di guardare dalle invetriate
il lago, la sponda e chi passava dieci volte al giorno dinnanzi alla
sua casa... La terza — dico terza, perchè le nostre azioni, come
insegnavami un sapientissimo professore d'abbicì, non hanno giammai
meno di tre motivi — la terza sarebbe stata... ma se io non me la
ricordo, a Giovanni non sarebbe mancato modo di trovarne cento...
cosa che tuttavia non gli impedì di balbettare maledettamente innanzi
all'amata pel motivo — vi faccio grazia degli altri due — che quando
l'avvenente fanciulla gli fu vicina, il pensiero che quella cara
creatura dovesse appartenere al prosaicissimo mercante di vino gli
serrava siffattamente la gola da non lasciargli proferire verbo. Gran
demonio è l'amore!

La Bettina non fu meno amabile del solito, sicchè Giovanni rinvenuto
dalla commozione fu tanto coraggioso di chiederle il perchè avesse
dato a Domenico il garofano che aveva spiccato per lui... La giovinetta
arrossì; quindi con quel tatto sì fino proprio delle donne, invece di
rispondere, domandò a Giovanni:

— E voi l'avete avuto a male?

— Io ho creduto che voi mi tradiste! Domenico sogghignò così
satanicamente (e questa era una grossa bugìa!) Da quel giorno, Bettina
perdonatemi, io cominciai a dubitare del vostro affetto... Quanto ho
sofferto!

— Io sono sempre la stessa! Gli disse la giovinetta stendendogli la
destra.

— Ma perchè destare delle speranze in Domenico, al quale mi diceste di
aver negata la vostra mano?

— Che ve ne importa, quando siete sicuro della mia fede? Via,
lasciatemi, Giovanni... potrebbe passare alcuno, e allora...

— Che male potete temere? Vi amo, e vi sposerò appena ritornato da
Milano.

— A proposito, quando aspettate a partire?

— Domani.

— Dunque addio; a rivederci — presto...

— Bettina, la vostra mano...

Bettina si guardò tutt'attorno, e veggendo la strada deserta diede
la mano al povero innamorato, che coprendola di baci, tutto commosso,
sclamò:

— Oh, no, Bettina, tu non dimenticherai il tuo Giovanni, n'è vero?

— Perchè dovrò dimenticarti?... E colto un fiore sulle zolle che
orlavano quella stradicciuola, glielo porse, e fuggì ratto verso
Cannobio.

Giovanni stette buona pezza a riguardare come estatico la fanciulla che
s'allontanava, ed ogni qualvolta essa si rivolgeva indietro sorridendo,
parevagli di sentire agli orecchi quella voce:

— Va, Giovanni, va a Milano ed osa!

                                   *
                                  * *

..... E il Grande di Spagna s'alzò dal seggiolone, discese in mezzo a
quell'eletta adunanza d'ingegni, e porgendo la mano al Branca, così gli
favellava:

— Questo giorno è senza dubbio fra i più felici della mia vita.
Riconoscere il genio nell'infinita turba delle mediocrità e del volgo
è per certo nobilissima cosa; ma il porgergli una mano soccorrevole,
il poterlo premiare è ventura a pochi concessa. Giovanni Branca il
vostro trovato è stato giudicato da questa sapientissima università,
portentoso: ve ne sia lode quanto per noi si possa maggiore. Perciò
in nome del nostro sovrano signore vi conferiamo il privilegio
addimandato. Se nei dominii di S. M. Cattolica non tramonta il sole, il
vostro nome non tramonterà nei secoli dell'umanità.

Tanta gioia era troppa: Giovanni quasi fuori di sè venne portato al suo
albergo: per le vie una gran moltitudine con mille voci gli acclamava.
Una aggraziata giovinetta fattasi ad un verone gli rammentò Elisabetta;
essa gli gettò un bel mazzo di garofani odoratissimi. Ma Giovanni
Branca non ravvisò più l'umile osteria che l'aveva albergato fino a
quel dì, nel palazzo in cui era stato trasportato — un palazzo tutto
oro, tappeti storiati, marmi e dipinti vaghissimi. Egli salì ad una
loggia, da cui si mirava gran parte della città e del piano lombardo, e
di lassù gli parve di scorgere un moto continuo ed instancabile nelle
officine, in cui le arti fabbrili si giovavano del suo trovato....
E questa mostruosa rivoluzione nelle arti l'aveva fatta lui con
tanta gloria; di questo insigne beneficio all'umana famiglia era
lui l'autore con tanto plauso di coscienza..... Ma a quante cose non
potrà applicarsi la scoperta? A che non la faranno utile, necessaria
il bisogno e lo studio? Nessuno potè sapere quali strane visioni
apparissero nella loggia al Branca, il quale, tratto quasi fuori di
sè da tanto successo, si gettava prostrato a Dio, chiedendo mercè...
Ma una voce interrompeva la preghiera, una voce più cara che non gli
applausi della moltitudine, la voce di Bettina che veniva a gettarsi
nelle braccia dell'amante: il quale sentendo fra le acclamazioni del
popolo, fra i trionfi della gloria più ineffabili le gioie dell'amore,
cominciò a dubitare fortemente che il proprio intelletto non
vacillasse, e serrando al petto la fanciulla, gridò:

— Mio Dio! non ammazzatemi, tanta felicità è troppa... Mi basta il suo
amore!

Chi sa quando Giovanni si svegliò nella sua cameretta in Cannobio,
quanti auspicii trasse dal sogno? Chi lo sa? Io no, e voi?

                                   *
                                  * *

Evviva! La danza ferve: è la mezzanotte... Il ballo è diventato un
turbine, in cui si avvolgono venti coppie di danzatori; la musica
accelera le sue note, gli evviva scoppiano più clamorosi... è una
vertiginosa ebbrezza!

Diresti che ad ogni amante riescì accoccare un bacio sulle spalle
dell'amica sorridente; che ogni bella ha rapito un cuore, che ognuno
ha dimenticato i dolori della vita!... I vecchi ritornano col pensiero
agli anni della gioventù avventurata; i mercanti cessano di pensare
al dare e all'avere, e se mai balena un pensiero che non sia follìa,
tosto una spumante tazza di liquore lo seppellisce nel fondo al cuore.
Venti coppie attendono in giro che i danzatori s'arrestino un istante
per succedere loro, e la musica non cessa nè il tripudio sosta per
riposare; ognuno si sente animato da una forza arcana.

Bettina non fu mai sì raggiante di gioventù e di bellezza, gli occhi
di lei non scintillarono mai così vivamente; ella è tutto sorriso e
grazia ed i giovani le si affollano attorno bramosi di ballare con lei
sì svelta, sì leggiera. Molti — allucinati forse dalla festa tumultuosa
— non ravvisano più in lei la modesta Bettina, e nessuno è senza
ammirazione per quelle spalle, che rammentano i busti di Fidia, tanto
tempo nascoste sotto la succinta veste della vergine gelosa. In tanta
ebbrezza chi oserebbe chiederle un pensiero pel lontano!... Oibò! ella
non ha un istante per pensare... tutte le voci, tutti gli sguardi le
dicono con tanta melodìa:

— Bella! Bella! E la musica non è pure un inno alla bellezza di lei?
No, in fede mia ella non può pensare se non che la è la regina della
festa.

Non v'ha donna, sposa o fanciulla, che in ballo non preferisca, spesso
senza saperne la vera cagione, un danzatore agli altri; un danzatore
a cui sarà lecito quanto ad altri verrebbe tacciato di petulanza.
Se un compaesano, assente, supponiamo, due mesi, fosse giunto quella
sera, avrebbe fatto le boccacce ravvisando nel favorito di Bettina —
chi l'avrebbe creduto? — Domenico, il mercante di vino, che malgrado
i suoi nove o dieci lustri pareva avesse quella sera riacquistato la
baldanzosa gaiezza della gioventù: la bellezza fascinatrice di Bettina
lo aveva galvanizzato.

E Bettina era ora la sua sposa!

Mentre fervevano con maggior calore le danze, entrò nell'amplissimo
sterrato un giovane pallidissimo, Giovanni Branca.

La navicella che lo trasportava da Sesto Calende stava per approdare a
Cannobio, quando il giovane, levando dalle mani la faccia lacrimosa,
intese quel mormorìo di lontani suoni che si diffonde armoniosamente
nella solenne quiete della notte. La casa dell'amica era immersa come
le altre nell'oscurità — ella dormirà certamente, meglio per lei!
Ma dal lato opposto del borgo verso il Sasso Carmeno, le finestre
e le porte d'una casa erano vivamente illuminate, e le invetriate
lasciavano scorgere che vi era festa. I suoni, le grida, accostandosi
alla spiaggia, giunsero al suo orecchio più distinte... il contrasto
di quella gioia col dolore che lo straziava, piombò sul suo cuore come
l'adunco artiglio del _lammergeier_ sulle tenere carni dell'agnello.
Si rizzò sulla prua, ascoltò più attentamente un brindisi che
echeggiava più sonoro, e fatto ormai certo della sua sventura, gridò ai
barcaiuoli:

— Per chi quella festa?

— Domenico sposa la Bettina... Voi giungete a tempo ancora per danzare!

Giovanni barcollò, corse in un canto della nave, gettò nel lago un
pesante involto..... Le lacustri ondine intrecciarono una ridda attorno
alla macchina del Branca, mentre la Verbania, la regina del lago,
disponeva sull'arcolaio le più flessibili alghe, invitando l'infelice
amante a scendere nei regni di lei ove avrebbe trovate amorose ninfe
per costanza senza pari...

Bettina intravide nella folla l'antico amante, capì l'espressione
disperata di quella cera sconvolta, imparò da un'occhiata che pure non
era odio la storia della pentola e dell'impressione che doveva fare sul
cuore di lui sì appassionato la novella delle sue nozze con Domenico —
e nascose sul petto dello sposo la faccia.

Il mercante di vino affidò ad un amico la fidanzata, e andò incontro a
Giovanni.

I crocchi zittirono, la musica cessò: pareva che ognuno presentisse
qualche cosa di terribile, una lotta.

Menico, sorridente — egli sorrideva sempre — condusse il giovane in una
camera vicina, lo fece sedere e gli disse:

— Giovanni, io vi ho sempre stimato come il più dabbene, come il più
onorato giovane di Cannobio. Mi piace l'Elisabetta: l'ho chiesta in
isposa; mi venne accordata. So che essa era maltrattata da quel cane di
suo zio; mi accettò più per isfuggire alla tirannia che per amor mio.
_Si dice_ che voi l'avete amata, e che forse vi contraccambiava. Io non
voglio dir altro, e voi mi capite. Se voi potete dire una parola, io mi
ritiro, senza scandalo. Parlate.

Giovanni fissò in volto il mercante, stette pochi istanti
soprapensieri, come esterrefatto, indi balbettò:

— Voi potete sposarla...

Menico lo abbracciò dicendogli: Voi siete l'uomo più onesto che io
abbia mai conosciuto.

E lo trasse nella sala della danza... Giovanni bevve, danzò con
Bettina, fece dieci brindisi alla felicità degli sposi; dopo un'ora
era il danzatore instancabile, il ciarlone più ameno, più spiritoso,
e nessuno riconosceva in lui il modestissimo giovane, il taciturno
vagatore dei monti solitarii. Alle due dopo la mezzanotte gl'invitati
erano congedati.

Giovanni quando tutta la folla s'accalcava attorno agli sposi, fattosi
largo, improvvisò una canzone, in cui l'armonia dei versi non la cedeva
che alla delicatezza della concezione...

Davvero che fra tanti giovani egli si mostrava ad un tratto il più
spiritoso, il più gentile.... anzi più di una danzatrice lo trovò il
più bello.....

Mentre Domenico accomiatava gli amici, i parenti, o per meglio dire
tutta Cannobio, la cugina della sposa disse a Giovanni sottovoce:

— Venite con me sul balcone verso il lago.

Egli la seguì macchinalmente, senz'addarsene, e vi trovò — sola —
Bettina.

— No, non partite, Giovanni, una sola parola. Voi potevate disonorarmi
con un detto, strappare questa corona di gigli... Voi siete grande,
ed io comprendo troppo tardi di non avervi conosciuto. Non maleditemi
perchè ho concessa la mia mano ad un altro... Ma il cuore, o Giovanni,
il cuore è sempre tuo...

— Signora, rispose fieramente il giovane sciogliendo le mani da quelle
della sciagurata, nessuno v'ha costretta a queste nozze. Quando a
Milano mi si trattò da pazzo, io piansi di dolore..... eppure allora
io era ancora felice; aveva fede nel vostro amore. Ma ora, Bettina è
morta; è morta, vi ripeto; non v'ha più che la moglie di Domenico.....

E scomparve.

Il giovane trovò nella strada la compagnia dei chiassoni del borgo,
che egli aveva fatto meravigliare colla nuova scioltezza dei modi e
col brioso folleggiare dello spirito: tutti gli si fecero d'attorno,
e cantando e schiamazzando, lo trassero pel resto della notte ora in
una, ora in un'altra casa, ove nuove libazioni finirono per assopire
— buon per lui — ogni ricordo delle sue sventure. Di quando in quando
però una nube offuscava la serenità gioviale della sua fronte, ed egli
rimaneva un istante pensoso, un istante solo, chè passate le mani sulla
fronte, quasi per cacciare una brutta tentazione, ritornava a cioncare,
a cantare più strepitosamente. Quando la brigata, scemata a poco a poco
dal numero di quelli che restavano a serenare sui canti dove erano
sdrucciolati a terra, si trovò dispersa, Giovanni se n'andò a letto,
ove i narcotici fumi del vino tracannato non gli risparmiarono di
raffigurarsi la Bettina nelle braccia del mercante di vino. Parendogli
di soffocare fra quelle anguste pareti, decise d'uscire di casa.

Quando fu sulla scala, ei stette atterrito..... chi non avrebbe detto
a prima giunta che nella stanza terrena Bettina, vestita di bianco, lo
attendeva, al fondo della scala, là ove gli aveva concesso il primo, il
solo bacio?

Giovanni, sentendo mancarsi la persona, si sedette sopra i gradini
della scala; non era Bettina, ma un raggio di luna — che richiamandogli
tuttavia i primi sguardi e le prime parole d'amore della fanciulla e il
convegno in quella stessa casa e il bacio, e i desiderii di gloria e di
ricchezza, e la speranza dalle mille lusinghe, faceva più profondo col
contrasto del passato l'abisso che lo separava da quei dì avventurosi,
perchè la gonfia stupidità del governo spagnuolo non aveva saputo
scorgere sulla fronte del giovane modesto la luce del genio, e una
donna si era fatto giuoco di lui... Ma egli era senza rimorsi, e questo
pensiero sciolse alfine il pianto dai suoi occhi — ne aveva tanto
bisogno!

L'alba sorgeva; una luce mal certa cominciava a penetrare dalla
finestra, dalle fessure della porta, quando una voce — la voce di
quella notte — gridò dalla toppa:

— Piangi, piangi la tua sventura! Non t'aveva io detto che il mondo è
degl'insolenti? Osasti a Milano? No. Osasti colla Lisa?

— No, gridò Giovanni sorgendo, ma non ho rimorsi.


XVII.

_S'io avessi, Dio me ne guardi, un milione! — Prina e la villa
Poniatowski._

Se io avessi un milione da profondere in una villeggiatura, sclamai
io lungo e disteso sul promontorio di San Remigio, abbracciando collo
sguardo l'ampia e multiforme scena, che di là scorgesi correre attorno,
qui io l'eleverei, certo che se per l'arte potrebbe avere molte rivali,
poche senza dubbio ne avrebbe per situazione.

Tuttavia, siccome mi pare che per ora almeno non sorgerà nulla per mio
conto su quel declivo, dopo d'aver passeggiato un'ora nella compagnia
variata dei miei pensieri, me ne andai a visitare la villa del principe
Poniatowski, a cinque minuti da Intra, sopra un gibboso declivo dei
monti, in una posizione che dopo l'accennata è senza dubbio fra le più
belle del lago.

La casa povera per architettura come in generale le ville verbanesi,
per quanto ricca di suppellettili e d'agi, è un nulla in confronto
della bellezza di un bosco di alte piante, al rezzo delle quali
s'asconde, è un nulla appetto della vista che vi si gode da tutti i
lati; meno il golfo delle Isole, s'ha davanti la più estesa parte del
lago. Dalla palazzina scendendo a riva verso la parte superiore del
lago si scoprono gli avanzi della villeggiatura Prina, sui quali è
basata in parte la villeggiatura Poniatowski; portici, terrazzi, scale
in istile del secolo passato. In un istante mi concorsero alla mente
le scene sanguinose del 1814 a Milano; Prina, Foscolo, il parroco di
S. Fedele, la plebaglia della piazza e gli assassini che dalle sale
dorate, dietro una persiana, miravano compiersi la loro opera. Mi
pareva di vedere Prina seduto in riva al lago guardare con terrore la
sponda lombarda, tentennando il capo quasi per dire: s'io non avessi
mai abbandonato questi pacifici recessi in seno alla natura ed agli
studii!....

Prina era uomo onesto e di mediocre ingegno; l'assassinio solo scrisse
con lettere di sangue il nome di lui nella storia.

La villeggiatura Poniatowski è una bella scena di Walter Scott.


XVIII.

_Intra non si trova che a Intra. — Perchè delle ommissioni. — Virgilio
a Feriolo. — Salute a chi resta._

Eccomi finalmente a Intra.

Gl'Intresi attendono quasi tutti al lavorìo del cotone.

Gli operai d'Intra non esistono che ad Intra. Nelle grandi città spesso
la sordida speculazione ammassa in oscure umide stanze centinaia di
operai, che con rachitica pazienza tessono la ricchezza del padrone,
muti, tristi, come in ragni da cantina. La sera appena il tardo
orologio segna la breve libertà, uno ad uno, silenziosi lungo i muri
sfilano alle loro topaie. Ad Intra in generale il fabbricante o per
studii o per buon senno, per cuore quasi sempre, considera l'operaio
qualche cosa più d'un istrumento da lavoro; lo considera come uomo e
come cittadino. Industria attiva, intelligenza, non speculazione. Da
ciò grandi opificii, ariosi, puliti, a cent'occhi; dappertutto acqua
viva ed aria viva; la natura del lago e del laghista fa il resto.
Entrate in una di queste fabbriche, ove migliaia di fusi dipannano,
attorcono il cotone. Il carbone avvampa sotto le caldaie; il vapore
sprigionandosi mette in moto mille ruote addentellate, attorno alle
quali cento operai lavorano dodici ore della giornata. Il silenzio del
capace opifizio non è rotto che dal cigolìo delle macchine e dalla voce
del capo operaio.

Tutto è ordine, moto, lavoro, instancabile lavoro. Ma in quelle lunghe
stanze se tu t'appressi agli uomini sentirai un sottile cinguettìo
rompere la noia delle ore, e dalle donne una cantilena a mezze labbra,
cinguettìo e cantilene, che appena tradotte alla libera aria la sera
scoppiano in allegri canti clamorosi. Nell'estiva stagione lungo le
case della _Sassonia_, sulla via a Pallanza, a Trobaso, quanti gruppi
di belle ragazze inneggianti! Alla domenica quante partite al Pizzo
Marone, ai paeselli del lago!

Non è raro trovare a varii deschi di albergo gli operai in baldoria, e
nella stessa camera il padrone fare una partita a tarocchi cogli amici.

Ma se gli operai d'Intra non si trovano che ad Intra, gli è che
fabbricanti come ad Intra non si trovano che raramente altrove.

Che cosa posso aggiungere sopra Intra? Del nuovo o del vecchio
campanile? Gl'Intresi non se ne curano. O del faro senza lucerna? Un
marinaio, per le nebbie, isserebbe lassù una campana.

                                   *
                                  * *

Il caldo m'è insopportabile. La bella Baveno, al rezzo della quale
io vagai richiamando l'ombra di Cavour invano — Cavour villeggiò
alcuni anni in questo paesello, — non seppe trattenermi. E neppure la
_bucolica_ di G. Prati in onore dell'oste. — Barcaiuolo, a Feriolo!

Ricorrendo sull'ali della memoria la bella valle del Verbano, e
sfogliazzando il libricciuolo su cui vo notando le sensazioni della
vista, del naso, del cuore e della fantasia, ad un tratto mi si fè
palese che io aveva saltato a piè pari nientemeno che il Santuario
di S. Caterina del Sasso, la salita al Pizzo Marone e qualche altra
rarità, su cui avrei potuto ammanire al lettore un succoso manicaretto,
Dio sa con quanta sua e mia soddisfazione. Per fortuna nostra che
in quel punto mi soccorse il pensare, che se mai qualche lettore
innamoratosi de' miei ritratti volesse un giorno fare conoscenza cogli
originali, s'io di tutto gli avessi favellato, nulla più gli sarebbe
tornato nuovo..... Se non tenete per buona questa ragione, con poco
dispendio e poca fatica potete accertarvi della verità.

Addio, o Verbanesi!

Credo che ci lasciamo amici per la pelle: io vi amerò sempre come un
popolo forte, allegro, alla buona e senza maschera, come spero che voi
ricordandovi — tutto può darsi — di me, non sdegnerete centellinarne
una ciotola di quel rubino alla vostra ed alla mia salute...

Mentre io scoccava sulle dita un sonoro bacio, e raccomandatolo ai
zeffiri, lo inviava alle belle Verbanesi, un tintinnìo di sonagli,
uno schioppiettìo di frusta e lo scalpitare di cinque cavalli, che
mi rammentò il _quadrupedante putrem_ di Virgilio, m'avvisarono che
s'avanzava entro un nugolo di polvere la corriera postale tra Arona e
Domodossola.

E salute a chi resta.



PARTE SECONDA

=Per le valli d'Ossola.=


I.

_La sentinella dell'Ossola — Un bagno da trent'anni — I romantici a
Vogogna — Domodossola — Il mercato._

Fra i monti da cui l'Italia è vallata verso settentrione, non v'ha
certamente paese più pittoresco e che porga sì largo tema d'ammirazione
e di studi quanto il grandioso bacino a cui convengono tra i
contrafforti declinanti dalle Alpi Leponzie sette valli variatissime.
Pel poeta, pel pittore e per quelli che corrono le cento miglia per
vedere un paese straniero, una natura assai volte meno curiosa, quanti
spettacoli!

L'antica mitezza dei costumi pastorali, la vivezza dell'aere che frizza
sui nervi, la serena pace che qui si respira, invitano a ritemprare il
corpo e l'anima.

L'abitare fra le Alpi rivergina le menti. Come l'antico gladiatore
di quando in quando soffregava con oleosi sughi le membra, l'uomo
— possibilmente — dovrebbe alcuna volta rinfrancarsi all'eloquente
parola della natura, poichè il pensiero umano sulle Alpi, come sul
mare, ingagliardisce, inspirandosi a quanto di grande emana dalla
loro contemplazione. Lassù fra cielo e terra, il cielo ne attira; le
basse passioni si spengono poco a poco e le generose si accrescono di
coraggio e di forza.

La sapiente antichità bene avvisò che il cielo si scala solo coi monti.

Io quando incontro su queste nostre Alpi tanti stranieri e nessun
Italiano, quasi sto per dire:

— Che peccato che sì belle valli sieno in Italia!!

                                   *
                                  * *

Prendendo le mosse da Feriolo, la natura poco prima sì rigogliosa e
lussureggiante di fiori, di profumi e di verzura ad un tratto raggrinza
la fronte e si mostra severa, trista.

Il monte Orfano nudo, solitario, minaccioso sul varco, è la tomba
senza dubbio d'uno fra gli arditi che ruppero guerra agli Olimpici.
Sentinella avanzata dell'Ossola, come il Pirchiriano è alla valle di
Susa, la sua fronte crucciata vide le orde Cimbriche scendere dal Gries
e dal Sempione ed atterrite coll'aspetto barbaro le legioni romane,
correre vittoriose ai campi novaresi a disputarvi l'Italia, questo
eterno sogno dello straniero. Anche sul Pirchiriano stanno scritti i
fati dei Longobardi. Mezz'ora prima dappertutto ghirlande di rose e
tralci d'ubertose viti festeggiano l'umana famiglia: qui dall'una e
dall'altra parte massi granitici ti pendono sul capo!

I giardini incantati del Vergante e delle Isole Borromee furono una
visione ariostesca?

                                   *
                                  * *

Ornavasso e Vogogna coi loro neri castelli sono i villaggi principali
su cui si passa.

Poco prima di Vogogna, a Migiandone, l'antico ponte della strada del
Sempione in una calda giornata d'estate fu preso da vaghezza di bagnare
le sue membra polverose sulle fresche bionde acque della Toce; ma,
ahi! sventura! colpito da inazione nervosa, sentendosi affogare, invano
invocò aita, nessuno il soccorse. Da trent'anni l'infelice attende una
mano provvidentemente pietosa che lo sollevi dalla Toce: pensate, che
angoscia sarà pel poveretto vedersi passare ogni istante due brutte
barcaccie sul muso, alla musica del sacramentare dei vetturali e dei
viaggiatori!

Vogogna, mi disse un cotale, fu fabbricata da un pittore paesagista
della scuola romantica. I poggi rilevati su cui dondolano le vecchie
mura di merlate torri, sopra il fondo verdastro della cortina alpestre,
non potevano essere meglio disposti.

Mentre si cambiavano i cavalli, io dava un'occhiata al paesaggio e
un'altra ad una graziosa figurina, che da una finestra dell'albergo
della Posta minacciava di saettare i passanti collo sguardo acuto,
affilato di due begli occhi neri. _Veh vobis!_

Il raggio di fuoco che dall'anima saetta col tuo sguardo accende in
ogni cuore desiderii d'amore — a chi non arride il pensiero di cogliere
un bacio su labbra non ancor schiuse all'amorose parole?

Ma bada, veh! Bada che da un dì fatale nessuno più legga la bella
epigrafe che ora rifulge sul tuo frontispizio:

Onorate la vergine!

Tutte queste belle idee, or che ci penso, mi vennero in capo quando la
vettura allontanandosi rapidamente, la visione s'era dileguata... S'io
restava a Vogogna, sarei stato così moralista?

Mi ricordo che nelle storie corrono famosi, Giuseppe d'Israele e S.
Antonio, per avere resistito al fascino della bellezza muliebre.

Ma se Giuseppe non portava un mantello slacciato? Quanto a S. Antonio,
se la bellezza della tentatrice corrispondeva al ritratto lasciatoci
dal De-Colonia, è presto spiegata l'astinenza dell'anacoreta.

La virtù è nella lotta.

Dopo Vogogna la valle si stende ampia, piana, verdeggiante sotto un
vôlto ceruleo.

Il sole tramontava. Passando sopra un ponte di legno che cavalca la
Toce, mi s'indicò il monte Rosa che faceva capolino sopra le altissime
vette dell'Anzasca. Il suo capo ancora suffuso dai raggi solari, si
confondeva quasi nelle aeree tinte del cielo, come quelle teste alate
d'angeli degli antichi cartoni, i contorni delle quali sfumarono.

Nell'Ossola, il popolo al passare delle corriere postali, si ferma e si
leva rispettosamente il cappello.

In breve le ferrate zampe dei cavalli risonarono strepitando sul
lastrico d'una bella, pulita ed ampia via, che dritta corre come fra
due linee di case modeste, allegre, colle persiane dal classico colore
verde.

Domodossola è una curiosa cittadina. Da vedute fotografiche —
invenzione che fra gli altri meriti risparmia la fatica del viaggiare
— molti conoscono, senz'essersi mossi di casa, la piazza del mercato
circondata da case di varia fisionomia, tutte a portici irregolari, con
pilastri in pietra, colle gallerie dai piani superiori a traforo, coi
balconi sporgenti e le grondaie protettrici e i camini a banderuola e
le botteghe tutte diverse d'insegna, di porta, d'addobbo, di profumo.

Da questa piazza s'apre verso settentrione una via non meno bella
di quella che vi scorge arrivando dal Lago Maggiore. Mi si disse che
entrambe si devono alla strada del Sempione.

Appena disceso dalla vettura, entrai nell'albergo. Un garzone, tutto
miele e sentimentalismo, avendo senza dubbio scorto sulla mia cera
intenzioni ostili al pollame, m'indicò una porticina che dal cortile
scorgeva nel salotto. Una tavola stava imbandita verso il fondo,
attorno alla quale erano seduti quattro signori, a quella distanza
legale uno dall'altro, che è solita fra persone che il solo caso
riunisce. Se io fossi un Centofanti potrei dirvi a quante lingue
appartenesse il gergo che vi si biasciava. Uno d'essi a capo del
tavolo, alto secco e nodato a foggia d'una canna, con un naso adunco
come il becco d'un avoltoio, sulla cui gibbosa groppa s'inforcava un
occhialetto verdognolo, senza barba, colle labbra sottili, strizzate,
dalle vesti che pizzicavano l'originalità, colla fronte e le guancie
raggrinzate dall'eccesso del piacere o del dolore, era inglese.

La fisionomia giovialmente serena tra il meditabondo ed il michelaccio,
la capigliatura biondocinerina, la ciera rotonda, un certo fare alla
carlona e una bottiglia di birra spumante, tradivano nell'altro un
figlio dell'Alemagna.

L'accento dimostrava chiaramente francese il terzo.

Ma chi avrebbe saputo dire all'ombra di quale campanile fosse nato il
quarto? Egli in dieci minuti vestiva la sua ciera della melanconia
degl'Italiani, dell'aggrottato _spleen_ degli Inglesi, della seria
bonomia tedesca, dell'alterigia spagnuola, della follia francese. Lo
sguardo era dolce, insinuante, ammaliatore; ora fosco, imponente,
terribile; la bocca rosea come quella di una bella figlia della
Georgia, spesso dal sorriso contraevasi al sogghigno.

Se uno di quegli scultori che sanno dalla pietra ritrarre una forma
evocatrice d'infiniti pensieri, avesse visto, guardato, studiato,
analizzato tutti quei moti irrequieti, che male rappresentano passioni
indecise e lo sconforto del dubbio, ne avrebbe tratto il tipo di
questo secolo. Non un pelo di barba sulle labbra, sulle gote, ma le
sopracciglia e la capigliatura stranamente folte; quest'ultima ad
arricciate ciocche cadevagli nerissima sulle spalle. Era vestito come
un signore di buon gusto. Il suo parlare era poliglotta, una vera _olla
podrida_ di motti italiani, greci, spagnuoli, tedeschi, francesi,
russi, britanni e fors'anche chinesi. Chi avrebbe potuto snebbiare
questo mistero vivente?

Quand'io entrai, il loro colloquio era animatissimo tanto che l'Inglese
gesticolava come un telegrafo non elettrico.

Anzi mi parve che tutti e quattro parlassero ad una volta secondo
la buona usanza parlamentare di quelli che vogliono far prevalere la
propria opinione senza ascoltare quella degli altri.

Salutai: il Francese solo accennò.

Mi sedetti senz'altro, tracannai un bicchiere di vino ad onore e gloria
della cortesia francese, e mentre il garzone recavami la vittima, che
io doveva immolare al mio appetito, ascoltai.


III.

_L'Italia non è che un albergo — 17835 iscrizioni e mezza — Lezioni
archeologiche — Varietà di gusti — Apologia del farniente — Terzo
primato dell'Italia — Quattro duelli — Che hanno la coda._

_Francese_. Il bello è sempre lontano da casa: del resto anche la
Francia non teme confronti. Io viaggio, cioè ho fatto un viaggio in
Italia, perchè questo è l'uso d'ogni persona colta: ve lo dico senza
velo. Credete voi che tutti vengano qui a sospirare le ore e le ore
sotto un arco frantumato, un palazzo polveroso, un'iscrizione che non
riescono a compitare, per amore delle antiche memorie? Tutta ipocrisia,
miei signori. L'Italia è un grande albergo, a cui conviene il bel
mondo europeo, e nulla più. Partii da Marsiglia per Napoli. Ho visto il
cratere del Vesuvio, ho mangiato i maccheroni, ho danzato la tarantella
e mi son fatto scorrazzare in corricolo. I lazzaroni mettono schifo ed
il resto annoia... È un popolo lontano mille miglia da Parigi! A Roma
ho veduto S. Pietro, il Colosseo, il Campidoglio ed il Papa. Grandi
cose in mezzo a meschinissime. A Firenze, ho cercato nelle sale del
bel mondo la tanto decantata favella toscana, ed ho udito biascicare
la nostra gran lingua, la lingua del mondo intelligente. A Milano, a
Genova, tolti i monumenti, trovai città da provincia; a Torino cera
di capitale senza l'imponenza babelica d'una metropoli monumentale.
La seria e disciplinata apparenza dei cittadini e della città spiega
la loro storia e la loro gloria nella diplomazia e nelle armi. Tutto
è ordine. Del resto per chi non è assai ricco ed ama la tranquillità,
Torino sarebbe forse la città più _confortevole_ di tutta l'Italia:
pare un convento di agenti del governo. Tutte queste città, compresa
la scenica Venezia e le cento altre minori, è forse meglio vederle nei
diorami del _Palais Royal_.

In poche parole, appena lasciato il suolo francese, m'annoiai
mortalmente!

_Alemanno_. Signore, voi avete un adagio, che se non mi sbaglio suona
che ognuno ha i suoi gusti. Giacchè parliamo senza circonlocuzioni,
vi dirò schiettamente che ho dimorato molti mesi in questo paese, e lo
lascio con grande rincrescimento, quantunque la birra sia pessima.

L'Italia per noi Tedeschi è una immensa università, le cui mura son
tutte tappezzate di lapidi e di monumenti, per chi sa leggerli.

_Franc._ (a mezza bocca) Grazie mille.

_Alem._ (facendo lo gnorri). Nessuna nazione porta sulla sua fronte
così palesi le impronte della sua grandezza....

_Franc._ (da semplicione). Per chi sa leggerci.

_Alem._ (orecchio da mercante). Non tutti sono, grazie a Dio,
letterati. Voi vedete là in quel canto quell'inviluppo mostruoso di
carte? Sono 17835-1/2 iscrizioni trovate da me in Italia e commentate
(mormorio di meraviglia).

_Incognito._ E, se non sono indiscreto, a che queste tante iscrizioni?

_Franc._ Io vi ammiro! Vi ammiro profondamente! — disse con ironico
enfasi il Francese, ficcando il naso nel bicchiere e gli occhi in
quelli dell'impassibile incognito per ispiare un zinzino di malignità
nella sua domanda.

_Alem._ (fermo come torre che non crolla). Queste 17835 iscrizioni e
mezza serviranno per note ad una mia opera futura, a cui preparo le
basi.

_Franc._ E, se anch'io non sono troppo curioso, quale sarà il titolo di
questo lavoro senza dubbio gigantesco? Anch'io sono baccelliere e non
si sa mai... potrei anch'io associarmi alla sua pubblicazione (se pure
vivrò tanto da vederne il fine!).

_Alem._ Scrivo la storia del pensiero umano comparato nelle razze
latine e nordiche.

_Incogn._ L'idea di quest'opera deve avervi atterrito sulle prime. Essa
non può essere concepita che da un figlio della Germania. Voi avete
mente disquisitrice e rara, strana pazienza...

_Alem._ E lunghi inverni e buona birra.

_Franc._ (per tagliar corto). In Italia cattiva birra e buon vino.

_Inglese._ Sì, buon vino, eccellente. Vino che rallegrerebbe un Inglese
corroso dall'umore nero. Lasciando a parte le altre qualità che fanno
bella l'Italia, io credo che essa merita una visita per questa volta.

_Franc._ Se io vi ritorno, scriverò la storia comparata dei vini.

_Alem._ Anche quest'opera gioverebbe assai all'umanità, se si
considerassero le parole ed i fatti, che sono la conseguenza diretta
del vino tracannato da Noè a noi, o per meglio dire, a voi.

_Inglese_ (al garzone). Portatemi del vino piemontese... (mescendo agli
altri) Signori... questo vino è buono; e sarebbe incomparabilmente
migliore ove non si fabbricasse tuttora come ai tempi di Noè. Ah!
l'Italia! Marsala, Lacrima, Chieti, Vin Santo, Canonao, Malvasìa,
Caluso, Barolo, e voi classici vini dell'Astigiano! Il vino è la
più bella gloria dell'Italia. Le altre non conosco. Dappertutto vidi
macchine inglesi.

_Franc._ E stoffe francesi...

_Alem._ Gl'Italiani dormono sugli antichi allori.

_Inglese._ Se pure quegli antichi eroi non furono tanti miti.

_Franc._ Gl'Italiani sono il popolo di cui si piantarono e si piantano
maggiori carote. I poeti, più bugiardi dei cavadenti, ne hanno
assuefatti di là dell'Alpi a pensare all'Italia come ad un paradiso
terrestre. Essi magnificarono il clima, i monumenti e le donne. Sì —
voglio concederlo — qualche cosa di bello e di grande v'ha qui... come
poco più poco meno dappertutto.... Il clima, se ne eccettuate due o tre
spiaggie marine della parte meridionale, è incostante e freddo nella
stagione invernale come da noi. A Torino si soffre il freddo assai
più che a San Pietroburgo. De' monumenti ho già detto quanto penso:
non sono in grado di apprezzare se non quelli che hanno un'insegna...
Restano le donne... Qui piego il capo, e confesso di aver scoperto
nel loro sguardo una dolcezza che manca al clima, e la grandezza,
che non trovai nel resto. Facciamo, o signori, un brindisi a questi
avanzi dell'antica imperatrice del mondo, su cui pure (al Tedesco) il
signore non avrà mancato di studiare, nelle ore di ozio, senza cercare
iscrizioni...

_Alem._ _Miscere utile dulci!..._

_Franc._ (al cameriere). Porta del Bordeaux. Spero che dopo il vino
piemontese apprezzeranno anche il mio Bordeaux.

Mentre il Francese mesce ai commensali, chiede all'incognito:

— Non sarebbe ella mai Italiano?

_Incogn._ No, non sono Europeo.....

_Alem._ Nelle linee caratteristiche del suo volto leggo.....

_Franc._ (scherzando) Un'iscrizione?

_Alem._ Una leggenda della Grecia..... del Levante.....

_Incogn._ Non sono nato sulla terra, o signori.

_Tutti._ Oh! oh! questa è graziosa! marchiana!

_Franc._ (a fior di labbra) Oh! mi casca adesso dalla luna.

_Incogn._ Sono nato sopra una nave americana.

_Ingl._ Siamo della stessa razza.

_Alem._ La vostra nazione verrà un giorno a mettere in sesto l'Europa.

_Americ._ Quanto a me dell'Europa non amo che l'Italia. Come nazione,
noi non abbiamo avuto pietà delle sue lagrime, perchè non volle mai
intensamente con tutte le forze l'indipendenza per conseguire la
libertà! Quanto poi a ciò che l'Italia dà al mondo intero.....

_Ingl._ Eh! poverina; se mi eccettuate i cappelli di paglia.....

_Franc._ Non ha di suo che il far niente.

_Amer._ Ecco la sorgente del suo merito a' miei occhi.

_Tutti._ Oh! oh!

_Amer._ Signori, voi tutti veniste in Italia per divertirvi. (al
garzone) Mesci Malaga.

_Franc._ Io vi venni, perchè la moda vuole così, ve l'ho già detto, e
mi annoiai mortalmente.

_Amer._ Perchè non vi siete divertito?

_Franc._ Perchè? Strade ferrate poche: alberghi molti e cattivi. Mi
dicono i ladri in quantità. Da pertutto si vede che Voltaire e Vatel
non nacquero in Italia. Ecco l'Italia.

_Alem._ Io mi divertii molto studiando. Se ci avesse della buona birra
di Baviera, io l'amerei anzitutto, benchè gl'Italiani non amino i
Tedeschi col pretesto degli Austriaci.

_Amer._ Eh! mi sembra che abbiano imparato a far poca distinzione fra
gli uni e gli altri.

_Ingl._ Io, a dirla francamente, viaggio per fare economia. In
Italia un uomo solo con una ventina di lire al giorno, se la sciala
allegramente. Amo gl'Italiani perchè amo Byron. Ammiro la loro potenza
artistica antica, e se con poche sterline posso portare via qualche
tela affumicata dai loro palagi deserti, e non sto a lesinare. Quanto
alle loro arti odierne, poco su poco giù, se ne potessero fare mostra
in un centro, credo uguali alle straniere. Non crediate che io ami
le arti come quelle che disterrano al ciel la mente, a dirla cogli
Italiani, amo le arti che mi danno piacere. Il piacere, ecco quanto
cerco, ecco la mia divisa.

_Franc._ Chi non ama il piacere — anche sotto la forma di un'iscrizione?

(Smorfia eloquente del Tedesco — a cui l'Americano mesce un bicchierone
di Malaga, il quale trovato nel ventricolo il Bordeaux ed il Barolo,
accende con essi e la birra un incendio, per cui il fumo comincia a
sortire dal naso del pacato Alemanno).

_Amer._ (_all'Inglese_) Bravo. Il piacere; ecco la molla d'ogni azione.
Chi cerca il dolore? La vita non è che un circolo più o meno vasto, in
cui l'uomo corre dietro al piacere, e fugge al dolore, che del resto ha
le gambe molto lunghe e le braccia di ferro. Ora, viaggiando, qual è il
paese in cui il circolo pare meno angusto? Se non l'.....Italia?

_Ingl., Alem., Franc._ ad un fiato: L'Inghilterra! La Germania! La Francia!

_Amer._ Nossignori..... L'Italia.

_Tutti._ Oh!

_Amer._ (mesce) A voi partito dalle sponde fumose del Tamigi non
sarebbe stato dato il trovare un paese, che avesse cielo sorridente
e dolci aure, ottimi vini, vita a buon mercato, e di che scialarla
allegramente come in Italia, in tutto il mondo. Qui Shakespeare sognò
i suoi drammi: senza vedere l'Italia egli comprese quanto colore
dà questo sole alle minime cose. Ad ogni passo incontrate l'ombra
di Byron. Come Inglese voi dovete essere appassionato delle scene
naturali. Dove trovate maggior varietà? Qui presso eterne nevi e sulle
rive mediterranee eterna primavera. Fate ora paragone coll'Inghilterra.
Quanto v'appare triste e caliginoso quel suo aere pregno di _Goddam_ e
di catrame!

_Ingl._ (con una mezza tinta drammatica) Signore!

_Amer._ E voi, amante pure del piacere, rimproverate agli Italiani il
lor far niente? Voi non lo comprendete il loro far niente.

Un giorno il sole amoreggiò colla fantasia: da essa nacquero
gl'Italiani. La splendida natura del loro bel paese desta in loro
non meraviglia, come in voi, ma una dolce melanconia che li invita a
meditare, a fantasiare. Chi di essi riesce a plasmare la propria idea
crea un capolavoro concepito fra l'aspetto di spettacoli grandiosi,
fra le memorie d'una gloria immensa, ed in una meditazione continua,
intensa.

Questo far niente è adunque un gran lavoro. È il far niente che
produsse i loro artisti, Raffaello e Rossini.

Se tutti gl'Italiani dessero o potessero dare atto ai pensieri che
concepisce il loro far niente, a quest'ora il mondo sarebbe una seconda
volta di loro. Tutte le nazioni nutrono più o meno un certo rancore
contro l'Italia. Perchè non contro la Curlandia, la Danimarca, la
Turchia?

Tutti cercano di soffocare i suoi gemiti gridando che essa a nulla è
atta. Le altre nazioni quando si trovarono nella sventura annoiarono il
mondo stridendo: quando l'Italia piange, un'arcana melodìa ne soggioga.

O in una o in un'altra cosa l'Italia comanda sempre al mondo. Una volta
coll'armi, ma i popoli battuti borbottavano male parole; ora colla
musica, ed i soggiogati accettano l'impero battendo palma a palma. A
mezzo l'_Otello_, il _Guglielmo Tell_, la _Norma_, la _Lucia_ od il
_Rigoletto_ rimproverate agl'Italiani di non farvi le stringhe a buon
mercato come in Francia. Io quando sento le note della

    «Casta Diva, che inargenti»

chiudo gli occhi, ed assorto in una voluttà che non istanca comprendo
tutti i misteri del cuore che nella solenne quiete della notte confida
alle ombre i suoi palpiti. E mi terrei beato se io potessi rientrare
nel nulla _accompagnato_ dalla sinfonia della _Semiramide_. Tutte
queste armonie emanano in parte dall'influsso delle donne italiane,
le sole che mi toccano più che i sensi, la mente. Voi mi direte che
l'Alemagna e la Francia hanno grandi maestri non inferiori in merito
agli Italiani... Senza discutere rispondo che la melodìa di questi mi
tocca di repente il cuore: le armonie di quelli mi meravigliano, ma
m'impongono uno studio.

Intanto l'Italia riscuote da tutte le nazioni un tributo alle sue arti:
noi lo paghiamo senza battere palpebra. Ora chiedete ai vostri telai,
alle vostre macchine, il piacere!

Tutti i vostri più grandi artisti non divennero tali se non dopo una
certa dimora in Italia, ove direi che l'armonie di cui è pregna l'aria,
destarono in essi le potenze _dinamiche_. Rubens? Vandych? Poussin?
Thorwaldsen? Meyerbeer? Reynolds?

La gretta gelosia delle nazioni verso l'Italia è giusta; se esse
le avessero permesso di divenire politicamente una nazione, tutto
il mondo sbadiglierebbe da lungo tempo alle malplagiate note dei
nostri maestri, e allora addio, o piacere unico, divino! Perciò il
risorgimento politico italiano, sotto quest'aspetto, non trova in me
un fautore. Che volete? L'Italia oppressa piangeva così soavemente!
Libera? la vedrete perdere lo scettro delle arti. Le nove vergini non
amano il tamburo militare. Le vostre nazioni quando il gladio romano le
affettò, che divennero? Scomparvero. L'Italia scompare nella politica
e tosto rinasce nelle arti. Cos'è la Spagna divisa, sbattuta da mal
certe passioni? Paragonatele l'Italia. E voi, Alemanno, troverete più
facilmente qui la birra di Baviera, che 17835 iscrizioni in Germania.

_Franc._ 17835 e 1/2. Ah! ah!

_Alem._ Sì, 17835 e 1/2. Volete vederle?

_Franc._, _Ingl._, _Amer._ Misericordia!

Tutti s'alzarono per isfuggire alla terribile minaccia del buon
Tedesco; questi offeso dalla dimostrazione eloquente credette lesa la
patria nelle sue più profonde affezioni archeologiche, e per difendere
la Germania non trovò mezzo più spiccio di quello di arrovellarsi
contro l'Italia, dimenticando — o ingratitudine! — l'origine delle
iscrizioni in appendice alla sua opera — postuma.

Io in quella gazzarra pensate se me ne stetti a bocca chiusa!
Desiderare che l'Italia sia schiava per sentirne il pianto... Oh!
dunque la è una istriona? Un usignuolo da tenersi in gabbia? Voi siete
altrettanti egoisti, e per me vorrei che non una nota di Rossini avesse
varcate le Alpi.

In pochi minuti i forestieri, obbliati i meriti musicali e viniferi ed
il dolce far niente si unirono a' miei danni. Animato da un insolito
calore, io sentiva ingagliardirsi in me tutte le potenze dell'amore,
che fa della patria agl'Italiani una madre afflitta da consolare.
Perciò rigettate le lodi ed il lascivo panegirico dell'Americano,
intuonai, virgolato da più libazioni, un'eloquente difesa della povera
nazione che getta finalmente la cetra, con cui ha saputo molcere i dì
del dolore per impugnare il ferro della battaglia.

Le vicine pareti della sala erano scomparse, ed io vedeva attorno
attorno sulle pendici dell'anfiteatro ossolano un'immensa moltitudine,
che cogli occhi m'incoraggiava col gesto. Erano ombre di remoti e di
vicini secoli. Io riconoscendo in molti d'essi carissime conoscenze
di biblioteca, eruttava faville. Le cruciate figure di Dante,
di Michelangelo e di Giusti, parevano protestare contro il detto
dell'Americano esser necessaria la schiavità all'Italia per serbare il
primato nelle arti.

Gli stranieri irritati a quella vista, crollando le spalle e facendo le
boccacce, senza una riverenza al mondo per quei nostri illustrissimi,
sacramentarono d'impiparsi di quelle anticaglie da ferravecchio, di
miti, d'ombre chinesi.

Se non m'isbaglio, mi diedero per corollario dell'asino — ma per non
essere la prima volta in vita mia — non ne sentii troppa ira. Virgilio
m'era pur costato delle sonore sferzate; Dante mi fa presentire la
bolgia degli scioperati fannulloni; eppure al sacrilego dileggio
perdonai i cavalli al pedagogo, e, gettato lo scudo, colla baionetta in
canna assalii di botto tutte le nazioni in una volta.

La faccenda diventava seria. Le ombre stesse malcontente parevano
volermi suggerire, ma anch'esse tutte ad una volta. In due minuti il
vino e l'amor di patria annebbiarono le idee; il colloquio diventò
un turbine, una tempesta. L'ira alle fiamme accecanti del liquore
s'accese. Gli era come cento suonatori disaccordi, un pandemonio di
esclamazioni, di nomi proprii, un'enciclopedia a fascio, un vocabolario
scucito, i cui fogli svolazzano confusi dall'uragano.

Povera Italia! Dopo mezz'ora i quattro campioni giacevano in una gora
sanguigna, attorno al tavolo, non morti e non del tutto vivi.

                                   *
                                  * *

Il garzone sentimentale mi condusse nella mia camera da letto: il
quale sormontato da un alto baldacchino a cortine — il letto, non il
cameriere — stava in mezzo alla stanza col capo al muro. Ampie cortine
d'un rosso dubbioso lo coprivano intieramente. Mi posi tosto a letto e
spensi il lume. Un raggio di luna, sottile, lungo, mi tremolava presso
alla finestra: la discussione, il vino e le cortine mi soffocavano: le
apersi.

In fondo alla camera stavano — non v'era dubbio — varie figure, dritte,
minacciose, una presso all'altra stretta per le mani, come i congiurati
del Grütli. Se non che quelli erano tre, questi quattro.

Lo spavento fece abbrividire il midollo delle mie ossa.

Erano proprio i commensali, forse ubbriachi, che venivano a farmi
qualche brutto tiro. Volli scivolare dal letto, cercare nel sacco
da viaggio una pistola; ma le gambe aggranchite mi negarono il loro
ufficio. Volli chiudere gli occhi: non potei. S'avanzarono fin presso
ai piedi del letto.

Il primo a parlare fu il Tedesco.

— Signore, egli borbottò, voi avete riso delle mie 17835 iscrizioni e
mezza, e voi me ne renderete conto e tosto. Così vi sarà al mondo un
nemico di Germania di meno.

— Caro fratello in Schiller, gli risposi ritirando gli artigli, voi
parlate come suole il mondo, una verità ed una menzogna. Anzitutto
gli Italiani non odiano gli Alemanni; odiano gli stranieri che vengono
giù dalle Alpi a rapina di ogni cosa — eccettuate le iscrizioni. Anzi
rimarginate le piaghe fatte dagli Austriaci, la tanto percossa Italia
vi stenderà una mano, amichevole. Se corsero rivi di sangue fra voi e
noi, la colpa a voi: v'abbiamo detto:

    Ripassate le Alpi e tornerem fratelli...

voleste restare! — Quanto alle iscrizioni, è vero, risi. Battiamoci
dunque da buoni amici. Ma prima che cessi per me questa dolce abitudine
di pensare ed agire, come dice il vostro Goethe, chiaritemi perchè
l'ultima vostra iscrizione sia soltanto mezza.

— Per la semplice ragione che io non la ritrovai intera.

Io assentii con un profondo inchino alla magniloquenza di quella
risposta, e quando alzai il capo, l'Inglese corrucciato, cogli occhiali
sul fronte, masticò fra i denti:

— Signore! voi avete sorriso all'Americano quando irrise la nostra
povertà musicale. V'attendo.

L'Americano coi capelli pioventi lungo il muso, come un salice
piangente ombreggia il tronco de' suoi pieghevoli rami, s'avanzò,
squassò la criniera, armò le labbra del più infernale sogghigno, e
proruppe nell'attitudine del Mefistofele d'Ary Scheffer:

— Uomo nato sulla terra, io compiango te come questi altri. Ognuno di
voi crede che i cavoli maturino meglio all'ombra del patrio campanile.
Vi disprezzo perchè egoisti; vi compiango perchè amate un pugno di
terra invece d'amare il tutto. Perciò, a conto mio, ti dico: dormi!
dormi! poichè non sei atto a spogliare quella veste nessea che tu
chiami amor di patria, e che ti darà dolori, non mai gioie. Che Italia
mi vai cantando? Vieni con me: t'insegnerà a dimenticarla il piacere.

Un brivido glaciale mi corse per le vene tutte: i denti battevano come
le nacchere d'una ballerina nelle ridde della tarantella, e la fronte
mi gocciava ad un tempo di freddo sudore; tuonai:

— Larva d'uomo, apprestati a lavare col tuo sangue l'insulto!

Egli crollò le spalle impassibile e s'assise sopra il cassettone
aspettando la sua volta.

Il Francese con un fare tra lo sbadato e l'altero mi disse:

— Voi sapete abbastanza che uno di noi due deve morire... e sarete
voi...

— Perchè non voi!

— Forse ambidue, susurrò l'Americano.

— Meglio ancora: ci batteremo al di là...

Allora gli stranieri, prima discordi, vedendomi facile vittima, si
strinsero a' miei danni. Anche quell'Americano che aveva cantato
l'Italia, o miserabile! derideva la mia nudità!

. . . . . . . Un velo sanguinoso passò dinanzi i miei occhi, saltai
giù dal letto ed abbrancai furente la spada che m'offeriva il Tedesco.
Pochi colpi ma di misura. Dopo cinque minuti egli cadeva nel proprio
sangue. L'Americano, impassibile, mentre il Tedesco agonizzante gli
raccomandava le sue 17835 iscrizioni e mezza, di un calcio lo rotolò
sotto il letto.

Pareva che il mio braccio fosse guidato da una magica forza misteriosa:
il Francese nella sua furia lasciò un istante il cuore allo scoperto;
fu l'istante della sua morte. Ed eccolo in compagnia del Tedesco sotto
al letto.

L'Americano, ad un tratto, mentre io, ebbro e sitibondo di sangue
(e a dirla schietta, anche d'una chicchera di thè, a cacciar giù
quell'imbroglio dallo stomaco), gli porgeva un ferro, trae di tasca
una fiola, d'un sorso ne beve il contenuto, e borbottando un addio
alla vita ed al piacere, s'abbandona mollemente a terra; quindi, oh
meraviglia! per risparmiare a se stesso quel certo calcio surriferito,
agonizzante, striscia, s'avvoltola, sdrucciola come un serpe ferito,
sul pavimento, fin presso ai compagni sotto al letto.

L'Inglese, masticando il soliloquio d'Amleto, si disponeva, con eroico
disprezzo della morte, ad infilzarmi nello spiedo. Solamente per
amore di verità assicurò che una partita a pugni gli sarebbe stata
più cara; ma, considerato il pregiudizio degli Italiani, che lasciano
questo duellare ai facchini, si dispose a rendermi quel buon ufficio
che desiderava. Oh come lunga, accanita, disperata fu la sua difesa!
Assolutamente non voleva cedere alla sorte dei compagni. Eppure.....
già mi capite. Il suo cadavere, cadendo a terra, urtò il cadavere del
Francese; una viva scintilla di fuoco illuminò la scena.

Sfinito, mi coricai. Un lago di sangue innondava la stanza: le
iscrizioni del Tedesco galleggiavano, come già i monumenti che le
portavano in fronte soprastarono al deserto di ruine, che fecero le
orde dei suoi connazionali. Il raggio di luna pareva si tuffasse con
voluttà in quella gora, come una silfide nelle cilestri onde marine;
dalla finestra socchiusa un venticello veniva a tergere colla sua
fresca mano i sudori della battaglia, ed io me ne stava là sul letto
come sopra un trono, o meglio sopra un carro di trionfo, allorchè la
porta s'aperse, entrò una frotta d'uomini armati di _rewolvers_.

Erano Americani; ed il loro capo, sbottonatosi, cavò dal giustacuore
una carta, la lesse: o Dio! era la mia sentenza!

Quella buona gente era partita di laggiù per accomodare per sempre
la lite e disfare col ferro il nodo gordiano, cominciando la missione
civilizzatrice col mandarmi le gambe in aria. Ed io, sentendomi ad un
tratto più amante che mai della vita, e la morte già tirarmi pei piedi
nelle sue gelide braccia, dato un rapido intensissimo addio a tante
belle e care creature e cose, colla parola strozzata, balbettando,
colle mani in aria ora in atto pietoso, ora irato, invano protestava
aver io difeso l'onore della mia patria, invano invocava il nome del
Licurgo americano, invano faceva appello agli scritti umanitarii
della signora Beecher Stowe; già comprendeva che gl'italiani non
debbono attendere soccorso che dalle proprie braccia, e un anello
diacciato sulla fronte, la bocca d'una pistola, già stava per sbalzarmi
addirittura al di là dello Stige, quando il garzone mi svegliò, come
eravamo convenuti e mi presentò il conto dello scotto.

                                   *
                                  * *

Se la sentenza dell'Americano mi faceva capire chiaramente come tutti
i popoli non sono generosi se non finchè nella partita s'avvantaggia
il loro interesse, — salvo a piantarvi dopo il primo acchito — quella
dell'oste a prima vista m'apparve come l'arcobaleno dopo un diluvio; a
seconda mi fece osservare che io era tenuto quale inglese — s'intende
naturalmente di quelli del tempo in cui gli animali parlavano, ed i
ricchi non venivano in Italia a rattoppare la fortuna compromessa dagli
_Sport_...

Dopo le prove della notte, uno scambio di nazionalità mi era troppo
sensibile; quella birba, che aveva difeso l'Italia, m'aveva a prezzo
della sua eloquenza, accollato il proprio scotto. Discesi e raccontai
la cosa a ser l'oste: mi rispose che, quanto al prezzo, egli era
convinto che gli stranieri potevano senza ragione di broncio pagare un
po' più la sua ospitalità, quando godevano _gratis_ tanti spettacoli;
e quanto all'incognito, avergli detto che io era suo intrinseco amico,
ed essere convenuto fra di noi che io avrei soddisfatto ogni cosa.....
Così per giunta era tenuto pel suo amico, o Dio sa che cosa! Tuttavia
dopo poche mie osservazioni, d'un tratto di penna tagliò la coda
al totale, coda che io in onore della nazionalità italiana donai al
garzone.

Non vidi più alcuni de' miei commensali. Il Tedesco era partito a
mezzanotte colla corriera del Sempione in compagnia del Francese e
delle sue 17835 iscrizioni — e mezza — l'uno pel Grimsel, l'altro
per Ginevra. L'incognito era certamente passato ad intuonare un inno
all'ospitalità svizzera (a 8, 10 e 12 lire al giorno, compreso il
letto).


IV.

_Una giovenca ed il più bel cuore del mondo — Avete buone gambe? —
Re in Valvigezzo — Anche sull'Alpi si trovano traditori — _Requiescant
in pace.__

Che bel mercato è il mercato del sabbato a Domodossola! Le svariate
e strane foggie degli alpigiani di tutti i monti circondanti formano
uno spettacolo veramente curioso. Le vie e la piazza del centro
erano tutte assiepate di carri a cui stavano attelati buoi di piccola
statura; di panche su cui cesti di pomi, pesche, uve e pere di non
grande dimensione ma colorite e gustose; di ortaglia, di forme rotonde
di cacio; stiacciate, bislunghe, ovali, di butirro fresco; di scansìe
su cui bottoni, spilloni, pettini, collane e le altre minuterie di
cui è sì golosa la nostra contadina nè più nè meno che la canadese;
di tavolati a cui appesi il velo, il fazzoletto trinato, la veste di
seta, di cotone e di lana, tutte a vivi colori e il rosso campeggia;
ed intorno a tutte queste botteghe ad aria aperta uno sciame di
montanine fresche rubizze, di ragazzacci, di contadini, di vecchierelle
secche, olivastre e tuttora vegete; un vociare poi di venditori, che
fanno a chi strilla più forte, ed un gridìo continuo di ooh! ooh! dei
conducenti le carrettelle cariche di foresti e di merci che vengono o
vanno alle valli ossolane o all'Intrasca.

Sulla piazzetta che sta dinnanzi all'albergo, al primo mettere piè
fuori, mi ferì la vista una bionda ragazza sui sedici anni, accoccolata
presso il muro, coi dolcissimi occhi pregni di lacrime. Il volto aveva
leggermente coperto d'una finissima lanugine tal e quale la peluria di
una bella pesca di Lesa. E come una pesca _incarnata_ le gote erano
erubescenti. Fattomi a domandarle della causa del suo dolore, dopo
qualche peritanza mi rispose mostrandomi un canestro pieno di frutta
fresca sconciamente battuta e pesta. Una giovenca infuriata datasi a
scorazzare pel mercato, aveva urtato nel suo canestro quando appunto
stava per venderlo, e ne aveva fatto quel scempio, e due grosse lagrime
venivano terse col rozzo grembiale di tela azzurra. Forse la fanciulla
aveva corso pericolo ella stessa; ma l'essere scampata non la consolava
della perdita, a guisa di quella bimba che, sorpresa sopra le rotaie
di una strada ferrata dall'imminente convoglio, mentre le attraversava
portando un pentolino di latte, caduta a terra dallo spavento, si
rialzava incolume ma piangente perchè aveva rotto il pentolino e
versato il latte. Le profersi di comprare quella frutta. Ella mi
guardò estatica, dubbiosa quasi non avesse compreso. Una vecchierella
che dall'abito pareva sua convalligiana la persuase ad accettare
quelle poche monete di rame di cui le era sì poco generoso. Ella non
rispose che con una lunga occhiata, in cui io lessi cinque o sei ore
di cammino, ed una buona tirata d'orecchi dal padre a lei risparmiata:
poteva dimostrarsi più grata?

Girellando per le vie, giunsi in faccia al duomo, che, fra parentesi,
non ha ancora faccia. Entratovi, ammirai begli affreschi e quadri, che
mi si dissero opera di valenti pittori ossolani.

Poco lungi dalla cattedrale vidi pure un'antica magione in viottolo
dimenticato, a porte e finestre ornate di pietra tagliata. Sopra
ogni architrave un'iscrizione latina. Tutte le finestre chiuse: le
invetriate polverose, le soglie e le porte intatte. Pare dorma da lungo
tempo. Quella casa così abbandonata mi parve uno dei tanti palazzi di
Venezia che, disabitati, lungo i canali dei quartieri meno popolosi,
vanno morendo d'inedia e di noia.

Nessuno indovinerebbe ciò che io trovai di ritorno all'albergo: sovra
un piatto tersissimo di maiolica rossa, coperti da foglie di vite due
grappoli d'uva perlati di rugiada... Quella fanciulla invero aveva un
bel cuore.

Giammai sì poca moneta fruttò allo zingaro tanto piacere. Il donare
è veramente la più squisita di tutte le soddisfazioni... Non è vero,
lettrici mie?

                                   *
                                  * *

Lettore, hai tu buone gambe? Orsù, in moto; apparecchiati a salire e
a scendere, ad arrampicarti e dirupinarti giù dei monti. Se poi non
hai buone gambe, fermati a Domodossola, che io ti racconterò storie e
ciarle millanta di apostoli e di soldati, di alpigiani e di monti, di
foreste e di cascate.

Il sole spunta sulle creste dei monti che si adagiano tra la valle
Vigezzo e l'Intrasca: e la più ridente delle valli ossolane svelata
agli occhi del cielo e degli uomini intuona il suo inno alla natura.

Appaiatomi con uno di quegli onesti contadini dal saio meno ruvido,
dalle grosse scarpe e dagli enormi solini della camicia, che,
assiepando la testa — onde non perderla facendo cammino — gli segavano
le orecchie, da Santa Maria Maggiore in due ore di cicalate giunsi al
Santuario.

— Ha da sapere il mio signore che nell'anno Domini 1494 un certo
Zuccone scagliava una pietra nell'immagine della Vergine e la colpiva
nella fronte. Pensi quale fu il suo terrore quando vide quell'immagine
grondare sangue, e le campane, agitate da mano ignota, suonare a
festa! Sicuro, mio signore, che ciò dopo tanti anni potrebbe essere
messo in dubbio: ma grazie al cielo i miscredenti qui non possono
sogghignare, perchè teniamo negli archivi un atto giudiziale, firmato,
bollato ed autenticato dal podestà della valle e da tutti i notai della
giurisdizione; e lei, che dalla ciera parmi debba sapere di lettera,
capirà che tutti questi scriba non sarebbero andati così d'accordo se
il miracolo non fosse stato evidente.

— Tutti quei messeri erano convenuti in Re nell'istante di quel
miracolo?

— No, vi convennero chè il miracolo durò diciotto giorni continui, e se
la vuol convincersi, venga con me che le farò leggere lo strumento.

— Grazie, amico mio; io sono di quelli che amano meglio di credere che
di accertarmi scrupolosamente del fatto.

— Ah! sclamò con voce dolente il buon vecchierello stringendomi la
destra fra le incallite mani, perchè non la pensano tutti come lei?

                                   *
                                  * *

All'indomani, procedendo poco oltre Olgia, godetti lo spettacolo delle
sottoposte Cento valli, per cui in poche ore, a quanto mi si disse, si
scende, passando ad Intragna, all'amena Locarno. La quasi deserta valle
Cannobina, a cui si potrebbe discendere varcando da Malesco (prima
di giungere a Re) il brutto passo di Finero non mi tentò affatto. A
Craveggia, nota pel bello stabilimento di eccellenti acque minerali,
ebbe i natali Pietro Ferino che, acquistata sui campi napoleonici fama
di esperto condottiero, veniva tenuto caro da Napoleone e dallo stesso
Luigi XVIII, che lo creava pari di Francia.

A S. Maria Maggiore, sul finire dello scorso secolo, accadeva una
terribile scena. Una buona parte dei novatori che avevano occupato
il forte di Domodossola, sentita la rotta dei compagni a Gravellona,
si ritirava nella valle Vigezzo, donde nel giorno seguente, scendendo
le Cento valli o la Cannobina, si sarebbe rifuggita nella repubblica
cisalpina. A S. Maria i novatori stanchi dalla lunga marcia, abbattuti
dalla fatica e dallo sconforto, sono ricevuti da certo Rassiga,
il quale blatterando di politica in piazza era in voce di fautore
dei Francesi. Egli corre incontro al drappello, e dopo di essersi
rallegrato che il sole di S. Maria potesse vedere i redentori della
patria, rincrescevole della troppo esigua capienza della sua casa, li
guida in un albergo, li conforta di ciancie e di cibi, ed acconciatili
alla meglio nelle stalle capaci, li lascia in preda ai sonno. Il
loro capitano aveva colorito al Rassiga ed ai curiosi la precipitosa
ritirata come una mossa strategica, tacendo dei disastri toccati. A
mezzo la notte, buia come la gola del lupo, Rassiga è svegliato: che
è che non è, un amico che giungeva allora allora dal piano, saputo
dell'arrivo in S. Maria dei novatori e dell'accoglimento avuto, lo
fa consapevole della loro rotta, e peggio, i soldati regi già stare
alle porte del borgo, il pericolo imminente: fuggisse od in alcun modo
provvedesse alla propria sicurezza. Rassiga era uno di quei tali che
ignorano nulla essere più difficile che conservare un'opinione nel
pericolo della vita. Che Dio non metta mai a questa prova la falange
dei tanti!

Nella lotta, seppure vi fu lotta, prevalse l'egoismo: alle strette di
dover perdere avere e vita, scelse il tradimento. Corse incontro ai
regii; sè disse corpo ed anima pel trionfo dell'ordine: sapere che
una mano di turbolenti si era rifuggita fra quei monti pacifici per
commettere Dio sa quali abbominii su popolazioni devote al re: suo
dovere di svelare il covo che ricettava le fiere, onde immolarle alla
giustizia.

La paura dalle pallide sembianze condusse con mano tremante il
tradimento attraverso le ombre della notte alla porta segnata; con
passi di volpe varcano furtivi la soglia ospitale.

Fra la sicuranza del ricetto fratellevole e la stanchezza per la
faticosa marcia, i fuggiaschi s'erano abbandonati al sonno, e già la
fantasia pingeva loro d'attorno le scene famigliari delle madri, delle
spose e delle amiche lontane, quando — un lampo — un tuono orrendo
scoppiò, e s'udì per l'aere commosso un urlo... dal sonno fidente erano
trabalzati nel nulla — tutti!

— _Requiescant in pace_, balbettò esterrefatto Rassiga.

— Viva il re! gridarono i soldati.


V.

_Trionfo delle castagne sulla fama di un'illustrazione dantesca._

M'aggirava nelle boscate colline di Trontano all'ombra dei castagneti.
Stanco d'asolare entrai in una modesta capanna sull'orlo del villaggio,
e vi trovai cortese ospitalità. Rifocillatomi in compagnia di quei
buoni contadini, mi assisi al rezzo delle piante. L'esterno di quella
casa campestre senza aver nulla di mirabile, mi colpiva; forse erano
due finestre nel muro di pietra, basse, a sesto acuto, profonde, che mi
guardavano fisso come se aspettassero una interrogazione per rivelarmi
un segreto.

L'antichità di quel muro contrastava singolarmente colla verzura
d'una giovine vite, che abbracciandolo co' tralci, correva attorno
in ghirlande: pareva la giovinezza che conforta col suo sorriso la
vecchiaia. Un zampillo d'acqua scorrente poco lungi tra le foglie ed i
sassolini, empieva l'aria d'un misterioso cicaleccio. Le mie palpebre
s'andavano abbassando; il mio capo s'appoggiò al tronco d'un castagno,
sbadigliai e m'assopii.

Dopo poco d'ora, mentre io me ne stava tranquillamente dormendo, la
porta della capanna si aprì, e ne uscì un frate che a passi furtivi
venne presso di me.

La sua alta statura, maestosa ed imponente, pareva averlo destinato
al comando, mentre dallo sguardo ammaliatore refluiva una dolcezza
persuasiva. Il suo capo era interamente nudo: anche le sopraciglia
erano prive di peli. A chi lo guardasse attento, la sua pelle appariva
arsiccia, screpolata; sì che moveva ad un tempo pietà e terrore.
Anzi, se ben mi ricorda, parmi emanasse dalla sua persona un odore di
bruciaticcio insolito. Si avanzò, ed a me meravigliato non stendesse
la mano, disse pacatamente dopo di essersi guardato attorno con occhio
sospettoso:

— Perchè guardavate voi con tanto amore quell'avanzo d'una antica casa?

— Non lo so io stesso: forse qui abitò qualche immortale che anche dopo
secoli riempie di sè i luoghi ove s'aggirò vivente.

— Voi sapete adunque di lui, dello sventurato fra Dolcino?

    «Or di' a frà Dolcin dunque che s'armi,
      «Tu che forse vedrai il sole in breve,
      «Se egli non vuol qui tosto seguitarmi,
    «Sì di vivanda, che stretta di neve
      «Non rechi la vittoria al Noarese
      «Ch'altrimenti acquistar non saria lieve.»

Io cominciava a credere di sognare sentendo queste due terzine di
Dante, da un frate, all'ombra di un castagno a Trontano.

— Dunque qui nacque?...

— Fra Dolcino. A voi che veniste a visitare questa mia contrada pel
dolce amore della natura...

— E dell'aria fresca, pensai tra me.

— ... Voglio dire di sua vita, per appagare la vostra brama.

Io veramente non pensava più che tanto a frà Dolcino; ma poichè una
sì bella occasione di favellare dei famosi immortalati da Dante non
si presenta ad ogni passo con un frate, tutt'orecchi ascoltai lo
sconosciuto.

— Verso il finire del secolo XIII, egli nacque in questa casa, figlio
d'un prete. Suo padre decise di vestirlo della tonaca di frate.
Ignorante d'ogni cosa di questo mondo, passava i suoi giorni fra le
feste dell'età e della natura. Quando udì la volontà del padre gli
parve tutto predicesse quanto sognava, virtù ed amore. Gli spiriti
famigliari rallegravano la casa: i passeri sul tetto pareva gli
dicessero colle loro note: va, tutto è amore! Condotto nel Trentino,
indossò la tonaca degli Umiliati; ma in breve sendogli venuta a noia
la solitaria quiete del claustro, in cui interrogava sè stesso, se chi
serve Dio non deve tutto intraprendere per la salute degli uomini,
pregava i priori con istanza di concedergli almeno la licenza della
predicazione. L'indole irrequieta ed animosa lo tradiva ad imprese
più clamorose. Fu cacciato da quel convento; in quella suo padre
moriva. Soffrì come chi crede e spera, e non invano, chè la fortuna,
rasserenato l'orizzonte, dopo tante traversìe gli serbava le ineffabili
consolazioni dell'amore. Allogatosi quale procuratore di un convento
di monache in Trento, conobbe allora una nobile e bella giovinetta
che orfana come Dolcino s'era ritirata fra quelle mura, e l'anima sua
caldissima se n'accese d'inestinguibile affetto corrisposto con quel
tenero amore che riverbera sulla mente dell'uomo le aspirazioni d'una
innocenza immacolata.

Oh! come rapidi quei giorni!

Intanto Segarello da Parma empieva l'Italia superiore delle sue ardite
dottrine. Puri in mezzo a corrotti, generosi fino al sagrificio,
fidenti nell'avvenire, entrambi s'interrogarono se essi pure non
sarebbero discesi in Lombardia a propugnare la verità contro i
profanatori del tempio. Abbandonato il Trentino coll'amica inspiratrice
calò nella grande valle del Po, e predicando con tutto il calore
e la forza della convinzione amore a Dio ed agli uomini, digiuni e
mortificazioni, in breve tempo venne seguito da migliaia di proseliti,
e sì alta ne echeggiava la fama, che lo stesso Dante colpitone scriveva
di lui nelle immortali sue pagine. La favella piena di grazia e di
carità, la soave bellezza di Margherita s'insinuava ad ammollire i
cuori più duri, mentre fra Dolcino con ardire di apostolo assaliva i
pregiudici più antichi senza temere d'incontrare la sorte di Segarello,
arso vivo.

Ahi! che i trionfi davanti gli uomini sono brevi! Cominciarono le prove
di Dio. Il vescovo di Vercelli leva con indulgenze una crociata contro
il ribelle a Roma. Fra Dolcino, rifugiatosi nei monti del Biellese
con poca parte di tanti seguaci, ad una duce e soldato, sostiene un
lungo assedio. Fratello, che Dio non faccia mai soffrire a te quanto
soffrirono Dolcino e Margherita! Le legna e le vettovaglie vennero
a termine: la fame ed il freddo! — la fame che desta la ribellione,
che stanca ogni più saldo proposito; il freddo che intirizzisce il
braccio ed affievolisce il valore! I difensori sfiniti cadevano attorno
alle bastite... alcuni disertavano... e la breccia dal nemico veniva
compiuta quasi senza difesa..... Che più?

Il 23 marzo del 1307, dopo la più disperata difesa, stremati d'ogni
forza, caddero nelle mani dei crociati, i quali, dopo ogni vituperio,
a misura di tanaglie roventi e di carboni accesi fecero espiare ai due
novatori il delitto d'aver sollevato migliaia di credenti contro i vizi
del clero. Frà Dolcino sopra una catasta di legna nelle radure ghiaiose
fra la Sesia ed il Cervio venne bruciato vivo. Per libidine di ferocia,
Margherita dovette assistere all'estremo supplizio di chi dopo Dio
l'aveva amata sopra ogni terrena cosa! Alla plebe Biellese era serbato
lo spettacolo dell'animosa donna arsa sopra di un rogo. Di frà Dolcino
non restarono neppure le ceneri: non resta che la memoria... non è
vero?

— Sì, frate, a chi conosce quei tempi. Frà Dolcino, lasciata da parte
ogni questione religiosa, è una bella figura del medio evo: guerriero
ed apostolo in diverse condizioni di tempo, avrebbe operato grandi
cose.

— Ma ora qual è la memoria di lui?

— A chi non ha sviscerato le idee di quel secolo, essa non è che la
memoria d'uno che animava i fedeli ad armarsi contro l'Anticristo.
Questi tempi aritmetici non possono di leggieri comprendere lo slancio
dei nostri nonni per un'idea filosofica. Ora gli eretici seggono nelle
Università e nei Parlamenti nel più buon accordo coi devoti; e se corre
qualche saetta, svanisce in un fuoco fatuo di diario. Colle indulgenze
non armereste quattro scaccini di sagrestia. Non v'ha che la patria che
possa suscitare legioni con un grido.

— E Trontano... soggiunse dopo breve pausa il frate con voce scorata...
e Trontano non s'onora di quel suo antico figlio?

— A dire la verità io ho sentito sempre a celebrare Trontano per...

— La patria di frà Dolcino?...

— No, per le più eccellenti castagne del mondo. Dalla qual cosa voi
ed io potremmo dedurre copia di pensieri sulla vanità della gloria e
sulla inutilità di farsi arrostire pel trionfo d'un'idea... Ma che? voi
impallidite?

— Per le castagne! per le castagne!

E il povero frate accasciato sotto il peso della mia rivelazione
stralunò gli occhi, barcollò e sarebbe caduto ruzzoloni se io non mi
fossi affrettato a raccoglierlo nelle mie braccia.

Se non che in quel punto mi svegliai colle braccia conserte al
castagno, contro il quale io aveva pure picchiato del naso nella furia
di soccorrere il povero frà Dolcino.

I passeri sul tetto, sui rami, cinguettavano la loro antica canzone:
_tutto è amore_, la sorgente sussurrava un idilio a note sommesse, ed
il muro secolare continuava a guardarmi colle sue oscure occhiaie. Il
castagno sotto il quale m'era apparso frà Dolcino, stendeva, agitandole
con frenetica gioia, le sue braccia all'aria, ed i ricci dei suoi
frutti mi parevano straordinariamente ingrossati a dispetto della
gloria antica del conterraneo. Celebrava quel birbo il trionfo delle
castagne sulla fama di una figura dantesca! La vite sola s'attaccava
più salda, più stretta alle vecchie mura, festeggiandole colla frescura
della sua ombra e colle ghirlande de' suoi tralci pampinosi; ed io,
alzatomi e stirando le membra indolenzite, m'incamminai non so più
dove, zufolando coi passeri:

— Tutto è amore!


VI.

_Il Sempione — Invenzione di un ponte per passarvi dissotto._

La valle più nota ai viaggiatori ed agli studiosi fra quante convengono
nel bacino ossolano, è la valle percorsa da quella meravigliosa strada
che sale al Sempione congiungendo Milano a Ginevra.

Valle Divedro diramasi da Crevola al valico del Sempione: il confine
però tra gli Svizzeri e gl'Italiani sta a S. Marco, poco prima
di giungere a Gondo. Nell'anno 1801 quella vastissima mente di
Napoleone Bonaparte, ormai al colmo del potere, ideava una strada
monumentale che valicando i gioghi alpini scorgesse dalla Svizzera
all'Italia superiore: nel 1805 la grand'opera era già finita, a gloria
principalmente degl'ingegneri italiani, i quali, quanto più ardua era
la loro impresa in una valle selvaggia, ovunque dirupata ed asprissima,
tanto più degna del nome romano seppero renderla, sì che gli stessi
stranieri, troppo spesso ingiusti, dovettero rendere giustizia alla
perizia loro.

Il tratto da Iselle a Crevola, anzi quasi tutta la valle, presenta una
delle più orrende scene di distruzione: dappertutto frane di monti e
sassi minacciosi pendono sul capo al viaggiatore; qua e là le volute
della neve precipitano nella stagione invernale nell'oscuro fondo della
valle, avvallando spesso quanto incontrano nell'irrompente rovinìo.
Chiunque vide questo cammino tracciato con tanto ardire e tanta
sapienza, consiglia al governo italiano a non risparmiare cure e danari
per conservare una strada che, larga otto metri, con sei gallerie,
attraversa tre provincie del regno, formando l'ammirazione pur anco dei
volgari.

Ecco la tradizione storica che lo zingaro raccolse nel pulito e
discreto albergo d'Iselle dalla bocca di un colto Ossolano.

Sul Sempione nel 1799 vi furono varie fazioni guerresche tra Francesi
ed Austriaci. Nel 1800 il generale Béthencourt con mille soldati
francesi e svizzeri, mentre Bonaparte, attraversava arditamente il
gran S. Bernardo venne inviato ad occupare i posti di Iselle e di
Domodossola. Ma in una procellosa notte un ponte di quell'antica
stradicciuola era sprofondato in un abisso: nessun modo di passar
oltre. Un coscritto, senza dubbio nativo delle Alpi, offre al
generale il mezzo di scavalcare la forra, e senz'altro, leggiero
come uno scoiattolo, striscia sulle rocciose pareti di quel burrone,
aggrappandosi ad ogni masso, ad ogni cespuglio, e giunto in fondo,
guada il torrente e s'arrampica sull'ertissima parete opposta, mentre i
più tremano che un piede in fallo, un sasso malfermo o la vertigine lo
precipitino frantumato nella sottoposta fiumana.

In questo la recluta è giunta, dopo infiniti sforzi, ad afferrare il
ciglione dell'opposta parete — egli è giunto alla meta e tutti battono
palma a palma. Il giovanetto s'era tratto con sè il cappio d'una grossa
corda che egli aveva assicurato ad un pino dell'altra sponda, e tesala,
l'annodò strettamente ad un macigno, sicchè venne così improvvisato
un ponte sul quale, anzi sotto il quale sospesi alle proprie braccia,
primo s'intende il Béthencourt, passarono i soldati armi e bagaglio ad
armacollo. Di cinque cani che seguivano quella mano d'armati, due soli
poterono giungere ai loro padroni: gli altri tre vennero trascinati
dalla furia del torrente che non riuscirono a guadare.

È opinione dei più che il Sempione abbia avuto questo nome da Servilio
Cepione nella guerra contro i Cimbri, della quale l'Ossola fu teatro
per molte pugna, quantunque Cepione abbia combattuto non qui, ma nella
Gallia. Dell'antico passaggio restano molte vestigia, particolarmente
dal lato svizzero.

Presso Gondo, nella galleria più lunga della strada, havvi scolpita nel
marmo quest'iscrizione, che meritava d'essere raccolta fra le 17385 e
1/2 dell'archeologo tedesco, a cui l'attica semplicità che la informa
avrebbe risparmiato le fatiche del commento:

                            ÆRE ITALO 1805.

Delle cose naturali di questa valle sono fra le più notevoli le cascate
di Frassinone presso la galleria di Gondo, e di Zwischbergen poco
lungi. Se lord Byron avesse veduto — il che ignoro — la fantastica
scena che in questi dintorni la natura dispiega, ho per fermo che
il poeta ne avrebbe fatto teatro alle evocazioni del suo Manfredi.
L'oscura profondità dell'abisso, il terribile disordine dei massi, le
nembose vette alpine che si disterrano al cielo, le cupe tinte della
luce empiono l'anima di una misteriosa temenza: l'abisso vi spaventa,
salire su quelle piramidi è impossibile... Non vi movete: non un ah!
di meraviglia o di terrore, non un respiro, che potreste svegliare quei
massi penzoloni.... Vedete cosa vi sta scritto?

              «È proibito di parlare sotto pena di morte!»


VII.

_Si parla di paesi non visti._

La valle Isorno stendesi dalla valle d'Ossola alle falde del pizzo del
lago gelato tra la valle Antigorio e la valle Vigezzo, confinando nel
fondo col Ticinese, a cui guida un sentiero passando sulle creste del
pizzo suddetto. Questa valle lieta di pascoli è popolata nella bella
stagione di armenti e di greggie. È quasi sconosciuta ai viaggiatori.

La val Bugnanco, a destra della Toce, sbocca presso Domo e si stende
fino alla cima di monte Crescia, da cui precipita la Bogna, torrente
minaccioso che portò molte volte gravi danni alla capitale dell'Ossola.
Seguendo il letto della Bogna verso la sorgente, un sentiero scorge
alla confine valle di Strumback nel Vallese: non è frequentato che rare
volte da quei valligiani. Cisore, i due Bugnanco e Monte Ossolano sono
i villaggi più notevoli.

La valle di Antrona da Villa, poco prima di giungere a Domodossola,
corre sino al pizzo di Botarello, detto dagli Svizzeri, se non
m'inganno, il Fletschorn; valicato il quale, un sentiero guida nel
Vallese, nella valle già nominata di Strumback. La valle Antrona è
ricca di miniere d'oro, di ferro e di amianto. L'Ovesca, tributario
della Toce, vi sbocca presso Villa. La strada di questo villaggio,
passando a Seppiana, Monteschieno e Viganella, guida ad Antrona in
un altipiano che credesi fosse ne' remoti tempi il bacino del lago.
Antrona-piana venne nel secolo XVII distrutta da un'immensa frana
staccatasi dai monti imminenti. — Lo zingaro sentì da un confratello
di ritorno da una peregrinazione nelle tre valli d'Isorno, Bugnanco
ed Antrona quanto sta qui sopra, e per quanto lo solleticasse il
desiderio di scoprire terreni vergini ed incontaminati dalle guide,
non avendo inteso neppure a parlare di una fata con cui amoreggiando
potesse compensarsi della prosaica uniformità delle cose, trascrisse
sul taccuino la poco immaginosa descrizione, rinunciò alle trote del
laghetto d'Antrona, e s'avviò difilato alla volta della vall'Anzasca.


VIII.

_L'Anzasca — Un nuovo Messia._

Più splendida giornata di questa non può darsi; tutto parla ai sensi,
al cuore, la serena allegria della giovinezza. Dimentica il viatore
ogni suo guaio per cantarellare coi passeri, che anche un pessimista
non avrebbe potuto immaginare cosa più bella di questo mattino
raffrescato da un venticello che vi fa più giovine di dieci anni, e
suscita, con una voglia matta di correre, un appetito che non sarà
l'ultimo premio ai tentatori delle Alpi.

Un'antica sbilenca e sonante carrettella tirata da un cavallo più
spigliato che snello di forme ne porta rapidamente all'Anzasca per la
bella strada che quei valligiani intesero di condurre sino alle falde
del Rosa da Piedimulera.

Il cocchiere, che non aveva ancora aperto bocca da Domo, accennò in
alto un villaggio, Cimamulera, e raccontò come un dodici o quindici
anni fa un prete, che vi era curato, seppe con tali squisitissime
arti abbindolare la gente semplice e credenzona, che in poco tempo
venne idolatrato come novello Messia, e quando poi fu per altri
misfatti carcerato in Novara, i montanari, in processione, a piedi
nudi, scendevano al piano per andare a liberarlo dai Farisei o morirvi
assieme! — Ma un drappello di carabinieri venne inopinatamente ad
opporsi alla crociata per liberare _dal sepolcro_ il sedicente Cristo.
Fu ad un tempo risìbile e compassionevole il vedere quegli apostoli di
una fede che offeriva martiri, dispersi caritatevolmente dai soldati,
mentre la Vergine — madre di più figli — S. Giuseppe e S. Pietro
erano condotti a Domodossola innanzi al capo della provincia, il
quale credette fare cosa assennata, dopo d'avere loro dato una buona
scardassata, senza lavarsene le mani come Pilato, rimandarli al loro
nido.

Da questo racconto si può dedurre a quali eccessi potesse spingere il
fanatismo religioso nei tempi remoti!

Da Cimamulera scorgesi la patria di Dolcino; forse arrisero alla mente
del nuovo settario, se non il fine, i trionfi di quell'antico. In
nessun modo però puossi far paragone fra i due.

A Ponte Grande salutai riverente un cucuzzolo del monte Rosa, l'Alpe
più stupenda dell'Europa per la vastità degli aspetti, e che non la
cede al Bianco in altezza se non di pochi metri.

Oh! come è bella la cascata di Valbianca! Poche gareggiano con essa
nella catena alpina.

Da Bannio, uno de' più ameni paeselli della valle, costeggiando
l'Anzino, l'auriga mi disse che si può, salito il Campello, scendere di
là in Vallesesia.

In tre ore, da Vanzone attraversai, pedestre, l'oscura gola del
Morghen, e giunsi a val Macugnaga. La quale è a vall'Anzasca quello
che è la Formazza all'Antigorio, un altipiano senza alberi fruttiferi,
abitato da un'antica colonia germanica, che parla tuttavia un corrotto
tedesco. Da questi pascoli, in una giornata di penoso cammino, si varca
il monte Moro, dalle cui vette godesi il mirabile aspetto di tutto il
Rosa.

Da Pecceto alle pendici del Rosa, attraversando il monte Turlo, si
scende in Alagna, donde, mi piace qui notare, partiva per ben quattro
volte D. Giovanni Gnifetti per giungere l'ultima solamente sopra uno
dei cinque pizzi più elevati di quel gigante. Non disanimato dalle
bufere e dai pericoli d'un viaggio, ove ad ogni passo si apre una tomba
all'ardito, pervenne, addì 9 agosto 1842, sul pizzo che giustizia vuole
si chiami d'ora innanzi Gnifetti, come s'appellano Zumstein e Vincent i
picchi su cui salirono gl'intrepidi di tal nome.


IX.

_Quanti disprezzino l'oro._

    _Auri sacra fames!_

Ecco le miniere dell'oro. Indossata la sopraveste dei minieratori,
salutai con animo trepidante la luce del sole, e discesi nella più
profonda e più vasta e più antica delle miniere della valle, anzi
dell'Italia. Duemila anni fa migliaia di schiavi dei Romani vi
cercavano le vene del prezioso metallo, e non ancora esaurito è il
tesoro. Il Rosa, siccome serba agli audaci che gli salgono sopra il più
stupendo spettacolo del mondo, serba nel seno tant'oro da fare di voi,
o mortali, altrettanti re Mida.

— Dove scendiamo? Nel cuore della terra? Da un'ora ormai il piede
incerto discende per iscale senza numero, di antro in pozzo, di
pozzo in caverne immense, dove la tremolante luce delle lampade non
rischiarando le stillanti e nere pareti, ne lascia supporre d'essere
penetrati nelle bolgie dantesche. — E sotto a' piedi un'altra oscura
bocca ne ingoia, e discendiamo... Ahi! Dov'è l'aura vitale della valle?
La luce onnicolore, il canto della natura?

— Discendi ancora, disse l'ospite, e vedrai quanto è grande la brama
dell'oro. Ma il petto è ansante, le nari s'allargano invano per bere
un sorso d'aria pura, e le ginocchia minacciano di lasciarmi ruzzolare
nell'abisso..... Ah! ecco l'ultima caverna.

Dove sono gli immortali cattivi di Minosse? Ma laggiù la turba che si
smaniava non v'era precipitata per l'ira del Ghibellino — laggiù non
le pietose visioni delle Francesche, delle Pie, delle Piccarde — ma sì
l'urlo dell'Ugolino: ho fame, fame — d'oro! Le cere pallide, gli occhi
intenti che sovente si chiudevano per attendere quasi un prodigio dalla
sorte, il prodigio d'un _filone_, le labbra, balbettanti misteriose
parole, tremavano convulsivamente; i ferri, gli scalpelli sonavano
dolorosamente con affrettata vicenda sul sasso, e le girelle cigolando
con lungo e monotono gemito sotto il peso della terra da razzolare
lassù si lagnavano della faticosa bisogna. Presto, trovate l'oro, e
risalirete all'aria libera, dove v'attende il piacere. Presto — la mano
ingranchita nega l'ufficio suo — non importa, avrai tempo a riposarti
stazzonando la coppa dell'ebbrezza. Presto — l'occhio stanco di fissare
s'inietta di sangue — che vale? ti guarirà la vista di quella donna che
prediligerai. Non morderti le labbra per dispettosa impazienza — quelle
della bella si macchierebbero di sangue.

Tutti hanno ragione. La sete degli agi, dell'ozio, del piacere cresce
smisurata col ribrezzo per la povertà operosa ed onorata.

Date loro dell'oro, o roccie avare! Perchè non posseggo io la verga
di Mosè? Vi sdoccerei da questa rupe insensibile un torrente di
scintillanti verghe.

Resisterete voi al fascino di quanto vi si offre per la vostra
ricchezza? Ecco a voi la coscienza dei sacerdoti e dei giudici; a voi
pel pane e l'ozio del circo, le ovazioni della plebe; a voi l'arbitrio
della fama; a voi chi per trenta nummi tradirà la patria; a voi, per i
monili e le perle, la già pudica vergine non riluttante a vostra balìa
— la madre, a cui procuraste mense lussuriose, tace ghignando — il
marito già vendette la moglie; a voi geloso veleni e coltella; a voi
ambizioso chi vi venderà l'ingegno e la fama — al massimo buon prezzo;
— a voi vivo ancora monumenti; a voi artisti, che scambiato il vezzo
dell'ozioso nell'amore splendido delle nove sorelle, inneggieranno e di
mille fantasie abbelliranno la casa; a voi coll'oro la farsa orpellata
delle frini o la tragedia a scelta, e, orribile a dirsi, il poeta che
canta ed impreca a suono della moneta, della poca moneta, per cui tra
secoli, oscurato Mecenate, rivivrete ancora nel sospiro del vate e
della ballerina senza procolo!...

Resistete? La vertigine vi attira, la virtù e l'onore impallidiscono
al bagliore del vizio seduttore che vi tende le molli braccia..... Un
grido forsennato s'eleva dalla folla ubbriaca: la vita è pel piacere —
Dio è una noiosa chimera; tutti sacrificano al vitello d'oro, senza che
un Mosè spezzi dallo sdegno le tavole sacre sulle loro teste.

Ahi! dolorosa visione! Quanti vid'io nella turba affannata stendere
la mano per sacrificare al Dio, che io aveva tenuti con religiosa
riverenza come illibati! Attorno al tripudio, apparivano nelle fumose
scene della bolgia monumenta e forche, feste e berline.....

O infamia, sclamai cadendo sulle ginocchia, tutto adunque s'immolerà
sul tuo altare?

Quando, dalla parte opposta, come in ampia radura sconfinata, vidi
raggiante la Carità in atto verecondo sovvenire con mano fratellevole
al misero, e così trattenuto il braccio vendicatore dell'ira
divina..... Attorno alla benedetta, in cerchio, chi cantò la verità e
pugnò per la libertà per solo amore delle gemine sorelle.....

Erano pochi.


X.

_Stonazioni della fama. — Le Ossolane non sono più quelle d'una volta.
— Cajo Mario ed i Cimbri. — Innocenzo IX di Cravegna. — Banchetti
funebri. — La valle Diveria._

Di ritorno a Domodossola, senz'altra dimora, corriamo alla valle
Antigorio, da cui, per l'altipiano di Formazza e la salita del Gries,
discenderemo nella Svizzera.

Crevola trovasi appunto là dove sboccano le valli Divedro ed Antigorio.
La maraviglia, l'illustrazione di Crevola — all'ombra di qual campanile
non havvi _un'illustrazione_? — è il ponte della strada al Sempione,
che varca per la prima volta l'arrabbiata Diveria; i periti vi dicono
che esso è largo otto metri — come la strada — lungo cento e alto
trenta. A mezzo un'enorme torre di granito si erge dal letto della
fiumana a sostenerlo; scendete la scala che sta presso le casipole
vicine e guardate insù — neh, che il ponte ha del pittoresco? Ma gli è
pur vero che questo ponte è più celebrato di quanto l'architettura o le
difficoltà superate meritino. L'Amoretti lo dice imponente; l'Ebel un
capolavoro d'architettura; Boniforti lo chiama famoso se non altro per
constatare l'opinione universale. Io mi stringo umilmente nelle spalle
e senza detrarre al merito del ponte, faccio a me stesso la semplice
domanda: se questo è un famoso capolavoro, quali parole potranno
adoperarsi per favellare del ponte sulla Dora del Mosca, di quello sul
Niagara in America e del viadotto da Marghera a Venezia?

Questa smania di celebrare, come sublimi, cose per nulla singolari,
non è generalmente invalsa negli scrittori italiani, i quali debbono
piuttosto accagionarsi (forse pel continuo spettacolo di cose grandi in
arte ed in natura) di una certa indifferenza nel notare al viaggiatore
ciò che per universale consentimento è veramente degno d'ammirazione.

Non parlo delle guide renane e svizzere: ogni rigagnolo d'acqua che
fila da una rupe di dieci metri è una meraviglia. Intanto gl'Italiani,
sì poco curanti della patria loro, sanno generalmente raccontare d'aver
visto questo e quello al di là dei monti, e ignorano quanto sta a dieci
passi dalla loro casa.... Credo di non ingannarmi asseverando che gli
Italiani sentono la bellezza della loro patria senza curarsene punto,
come un nato ricco non dà pregio a quegli agi, ad ottenere i quali i
poveri si travagliano spesso invano tutta la loro vita. Ma senz'altre
digressioni entriamo nella valle Antigorio ritornando a Crevola.

La lapide latina, che leggesi sopra un muro della Chiesa di S. Vitale,
accenna ad una feroce pugna combattutasi presso Crevola nell'anno
1487 tra gl'Italiani e gli Svizzeri: Bernardino Corio parla di questa
battaglia nelle sue storie, ed in questa narrazione è notevole che
gl'Italiani non avessero che _due_ morti, mentre gli Svizzeri ne
contassero _duemila_, o secondo gli storici Alemanni soli _ottocento_,
numero tuttavia troppo disparato per non eccitare al lettore alcun
dubbio sulla veracità della storia. Ad ogni modo gli Svizzeri uccisi
furono tanti che i loro cadaveri caduti nella Diveria avevano formato
una chiusa di tale altezza da servire di ponte agli Italiani.

Narrasi pure che le donne ossolane, inferocite dalla barbarie del
nemico, che prima di questa pugna aveva manomesso ogni cosa in quei
dintorni, quanti Svizzeri fuggenti s'erano ricoverati nei boschi o
nelle capanne scannassero, e strappato il cuore sanguinoso dai loro
petti ne ammanissero pasto ai cani.

Ancora adesso le belle Ossolane vi rapiscono il cuore, ma non è provato
che lo diano ai cani.

Fra i morti vi furono Renato Trivulzio, capitano degli Italiani, ed
Albino Desilinon, capitano degli Svizzeri.

Sulle rupi di Crevola sorgeva nel medio evo un castello, che fu dei
Silva, famiglia che diede prodi capitani. Di questo castello non
rimangono se non macerie coperte di muschio e di obblìo.

                                   *
                                  * *

Poco sopra Crevola, a destra, sopra un poggio lieto di vigne e di
campi, scorgesi Montecrestese, al di là della Toce; il sole vi matura
un vino schietto e rubino. Qui presso la Toce precipita fragorosa in
un profondo gorgo, su cui, non sono molti anni, era gittato un ponte
altissimo e senza parapetto, sul quale non si varcava quell'abisso
senza pericolo.

Proseguendo la strada, poco oltre a sinistra troviamo Vira attorniato
da vigneti, e poi a destra Ponte Manlio, così detto dal Console Manlio,
che vi si era accampato colle proprie legioni nella spedizione contro
i Cimbri, ed aveva quivi gettato un ponte sulla Toce. Si sa — da chi
non l'ignora — che i consoli Manlio e Cepione vennero sconfitti da
quei feroci abitatori delle foreste nordiche, già vincitori di Cassio
Longino; sconfitte che dovevano far risplendere di più la sanguinosa
vittoria di Caio Mario, colla quale questo capitano di gran mente e
di forme atletiche atterrava, al dire di Tito Livio, duecento mila
barbari, e menava in trionfo novanta mila prigioni. La fortuna, dando
lo scacco al suo collega Catulo vinto dai Cimbri sulle rive di questa
stessa Toce, gli apparecchiava nuovi allori.

Nei piani del Ticino, tra Novara e Vercelli, nei campi Raudj, si
combattè l'estrema pugna tra Roma ed i Cimbri; Caio Mario, morti cento
e quarantamila nemici, s'incamminava a Roma, traendo seco settantamila
prigioni, a Roma che per la quinta volta lo eleggeva console.

Meravigliosa cosa! Non v'ha paese anche nascosto fra inospitali monti
in cui i Romani non abbiano impresso il marchio dell'arrogante loro
grandezza.

Ma lasciamo le glorie dei Romani ai pochi che le studiano, e _marciamo_
su Crodo, capoluogo di mandamento di tutta la vallea, lasciato
Campomanlio a destra e passando sotto una galleria tagliata a ferro
e fuoco nella viva roccia. Presso Crodo credesi s'allagasse la Toce
formando un bacino considerevole d'acqua; e monsignor Bescapè, vescovo
di Novara, il quale nelle sue visite pastorali studiava e notava la
natura e gli uomini, parla di un tempietto a S. Martino che allora
chiamavasi Capolago, tempietto che tuttora esiste, a quanto mi si
disse.

Crodo è forse nella più infelice posizione della valle: ad ogni
infuriare del torrente Alfenza, ogni abitante paventa non si
rinnovellino per lui l'estreme scene del diluvio universale, senza la
speranza di una novella arca di Noè; chè l'Alfenza, diroccando piante,
ciottoli e massi immani, forma a sè dinnanzi barriere che un istante
dopo distrugge, sfogando con tremende urla il rabbioso impeto sulle
mura di Crodo. Perchè dunque i nostri nonni presero stanza in un sito
tanto minacciato? Ciò diranno pure i Domodossolani: ma quei babbi —
senza _ministeri d'agricoltura_ — rispettavano con religiosa temenza
le foreste, sapendo — senza _studi forestali_ — come le piante mentre
abbelliscono le falde montane e purificano l'aere, colle radici sì
tenacemente s'abbarbicano alle zolle, alle roccie, che nessuna forza di
torrente o di voluta che rovini sopra di loro, varrà a sterparle ed a
strascinare con sè il terreno su cui sorgono. Se la improvvida cupidità
dell'oro non viene frenata, fra poco tempo una pianta sulle Alpi sarà
una curiosità, come una cascata.

Pochi minuti sopra Crodo sta lo stabilimento idropatico con sorgente
d'acqua minerale ed albergo: ve lo indico con piacere nel caso vi possa
giovare; ed in ogni caso se non vi sarà utile la linfa colla doccia
ed il bagno, vi gioverà senza dubbio l'albergo confortevole e più di
tutto l'aria vivissima. La bella strada calessabile, la vicinanza a
Domo, la freschezza del sito, invitano nella stagione estiva copia di
visitatori.

Quantunque l'appetito m'eccitasse a giungere presto a Baceno, non volli
tralasciare di fare una visita a Cravegna, terricciuola microscopica
sulle ultime falde del Corno Cistella, per soddisfare la mia curiosità
di conoscere almeno di vista il villaggio che gli Ossolani citano
volentieri come patria del compaesano che ebbe più splendida sorte fra
quanti emigrano dai loro monti.

Giovanni della Noce nasceva di padre cravegnese in Bologna sul
principio del secolo XVI. I risparmi del padre, facchino, o la
protezione di qualche mecenate strapparono il giovanotto all'oscura
sorte della famiglia. Addottorato, egli seppe in breve schiudersi
attraverso alla folla dei preti che assediano il Quirinale una
via col proprio ingegno. Acciuffata così la fortuna colla stima
dei pontefici, di grado in grado, canonico, vicario, referendario,
vescovo, ambasciatore a quella Venezia che allora era ancora in grado
di liberare l'Europa dai Turchi, fu poscia patriarca a Gerusalemme ed
infine cardinale. Quando nel 1591 egli venne eletto pontefice assunse
il triregno col nome d'Innocenzo IX. Scrisse varie opere che io non
lessi e che voi non leggerete. Beneficò i compaesani. Uno dei tratti
singolari della sua vita fu che egli cambiò il nome paterno con quello
di Facchinetti per rammentarsi certamente nell'insperata prosperità la
propria origine; come già gl'imperatori romani traevano dietro di loro
nei trionfi campali uno schiavo, che di quando in quando rompeva le
acclamazioni universali colla fatal voce: rammentati di essere mortale!

Due discendenti d'Innocenzo furono cardinali nel secolo XVII.

                                   *
                                  * *

Da Cravegna, seppure il curioso lasciata la strada vi si è portato,
in mezz'ora di cammino si è a Baceno, la borgata più popolosa di tutta
la valle, situata alle falde di Pizzo di Robbio contrafforte del monte
della Gran Loccia, non lungi dalla foce della Diveria nella Toce.

Compagno mio, non t'incresca di digredere dal cammino per visitare la
solitaria vallata di Croveo, che qui appunto schiude le sue porte e
della quale nessuno fece mai parola.

Essa sta rinchiusa fra le Alpi culminanti che muniscono l'Italia
verso il Vallese, la cortina dei contrafforti che digradano a destra
dell'Antigorio dal Reti, e quella della sinistra della valle Divedro.
Le tante pieghe delle Alpi Massime che si svolgono in questa conca
formano una serie di valloncelli, che nella state verdeggiano per
riaddormentarsi poi sotto la neve per sette mesi. Fra queste vallate
la più nota è quella di Agaro, piccolo villaggio abitato tutto l'anno,
alle sponde del torrente che sbocca poi sopra Croveo; torrente che
nel secolo XVI distruggeva interamente il villaggio. Il cardinale
Morozzo, considerate le pessime stradicciuole per buona pezza dell'anno
coperte di ghiaccio, voleva accordare alla chiesa di Agaro il dritto
di seppellire i morti in cimitero proprio senza recarli a Baceno; ma
quei montanari ricusarono _per non perdere i diritti antichi_. Notevole
è l'usanza degli Agaresi di convitarsi a funebre banchetto il giorno
della tumulazione di un loro consanguineo, uso che dura tuttavia;
ignoro poi se non avvenga qualche volta che il più addolorato, mercè a
Bacco, non diventi il più brillo.

Giacchè toccai qui di questi usi, aggiungerò che in tutta la valle
Antigorio e la Formazza ognuno morendo lascia una o più libbre di sale
per ogni focolare del suo villaggio.

                                   *
                                  * *

Baceno è un grazioso, pulito, pittoresco villaggio. Nei tempi andati
era il capoluogo di tutta la valle Antigorio, come ne è tuttora il
borgo più popoloso. Esso siede sopra uno scaglione di monte sulle alte
sponde della Diveria, poco lungi da Verampio, sito ove questa mesce le
sue limpide onde colla Toce biancheggiante. In Baceno ebbero potenza i
feudatari della valle Antigorio.

I più conosciuti per le loro tiranniche giunterie furono i Valvassori
De Rodes, i quali tanto malmenarono questi onesti valligiani da
eccitarli a sorgere per scuoterne l'iniquissimo giogo. I Valvassori
tenevano castello e corte in Premia, ed avevano una certa giurisdizione
feudale anche sulla valle Formazza e sulla maggior parte della
vall'Antigorio, secondo il diploma di Ottone IV imperatore dato a Pavia
il 25 aprile 1210.

Le terre di Baceno producono ancora vino, frumento, frutta ed erbaggi
di ottima qualità. La strada costrutta recentemente dal ponte di
Crevola e che fra breve — coll'aiuto di Dio e dello Stato — sarà
condotta fino al confine svizzero, venne fornita a spese dei comuni
della valle con considerevoli sacrifizi, avendo essi dovuto quasi
dappertutto tracciarla nella viva roccia granitica, non senza costrurre
una serie di ponti sopra i torrenti che ad ogni svolgere di pendice
s'adimano nella Toce. Quello che cavalca la Diveria a Baceno, la quale
mugge in un gorgo profondo, è dei più notevoli.


XI.

_Premia — Storia nuova di cose vecchie — La Cravairola._

Premia, mezz'ora sopra Baceno, è un villaggio con discreto albergo. La
parrocchiale di Premia venne costrutta dai Valvassori e conserva ancora
qualche antica pittura. Amoretti nella sua escursione su queste alture
accenna ai granati che si rinvengono in questi dintorni aggiungendo
esservene di quelli del diametro di un pollice. Premia è sopra il
livello del mare 800 metri.

Entrai nell'albergo con eccellente appetito — che il cielo conservi
sempre a me ed a voi, amabilissimi compagni. Nella sala due deschi
erano occupati: presso una finestra stavano assisi ad una tavola
imbandita di pochi piatti e di molte bottiglie tre uomini, di varia
età e d'aspetto signorile, che facevano echeggiare il vôlto del
frequente tintinnio dei bicchieri e dei motti che si cacciavano addosso
a bruciapelo, il tutto frammezzato da qualche sonora apostrofe al
cameriere ed al cuoco. Avevano intenzione di recarsi alla cascata della
Frua in val Formazza.... ma dopo tre giorni d'esitazione, s'accorsero
che le gambe non corrispondevano all'intenzione e ritornarono al piano.
Ma di loro fra poco.

Il vostro zingaro sedette dirimpetto all'altro tavolo, attorno al quale
stavano assise due persone venerande, una per l'età, l'altra per pudica
ed ingenua bellezza.

Un vecchio prete egli era dei monti ossolani, che dalla Formazza faceva
ritorno al presbiterio, conducendo con sè quella cara giovinetta, di
sedici o diciott'anni, sua nipote. La ragazza, vestita alla montanina,
aveva ad una un fare spigliato ed una confidenza rispettosa col vecchio
prete, sì che ognuno, senza maliziare, la avrebbe detta sua parente.

Il vecchio, malgrado i settantacinque che gli pesavano sulle spalle,
era tuttora, come tutti i montanari, vegeto, rubizzo. Due occhi
vivissimi ne illuminavano la serena fisionomia, su cui pure gli anni
e molte fatiche e molti pensieri avevano tracciato profondi solchi.
Egli, naturalmente, mangiava adagio; e la nipote, che aveva quelle
due saldissime fila di denti, dei quali avrei dovuto favellarvi,
per non correre la posta, occupava gli intermezzi, trangugiando,
per passatempo, del pane. Il vecchio, fra un boccone e l'altro,
chiacchierava tranquillamente della stupenda cascata della Frua e di
certi loro parenti di lassù.

Se non che — un guaio c'è dappertutto — la giovinetta si trovava
proprio in faccia a quei signorini, che andavano a gara a darle certe
occhiate, sul significato delle quali non v'era il menomo dubbio; per
cui la poveretta arrossendo, una volta che fu anche l'ultima, stava col
capo chino sul petto, sì che lo zio le serviva di schermo.

Oh! ecco una scoperta! Guardando attentamente i tre commensali,
ravvisai in essi tre zingari da me visti in una città dell'alta Italia,
ove erano noti _lippis et tonsoribus_.

Tre zingari; ma intendiamoci, non confratelli che s'accontentassero
di guardare e di pensare come il vostro compagno di viaggio, che
anzi la cronaca scandalosissima della repubblica artistica voleva che
allungassero un tantino le mani sull'altrui, quando per far suo, quando
per il bel vezzo di manomettere.

Una volta fecero un tiro solenne alla Fama... la poverina, stanca
dal continuo strombettare, godeva il fresco della sera sulla porta
del tempio... i birboni, mascherati da grand'uomini, tentano di
penetrare nel sacrario senza le debite carte di sicurezza... Ma sì!
da quell'altura ritornarono ruzzolando fino al melmoso piano della
mediocrità!

Uno di questi, a vent'anni, scombiccherò un dramma. S'era tolto
a maestro — s'intende alla prima — Shakespeare, e malgrado una
quantità di falserighe, dopo aver violato la storia ed il senso
comune, berteggiava la decenza sotto pretesto di romanticismo. Gli
applausi di _centocinquanta amici_ — l'infelice non aveva nemmeno
un nemico! — gl'inocularono il tenia della vanità. Da quella notte
memoranda, il cappello rovesciato sulla nuca o sul naso, la chioma
svolazzante attorno al viso senza parola, gli occhi spiritati,
l'incesso barcollante, — finse d'essere invaso dal demone ruggente
dell'ispirazione. Dopo quella notte Alfieri era _anche lui_ uno
scrittore tragico.

Il poverino diluì il poco midollo che gli restava in produzioni
d'occasione, in cui riduceva in versi gli articoli dei diarii.

Consumato quel foco che non riscaldava nessuno, un bel dì, fruga e
rifruga, fa la terribile scoperta, che la fantasia non ha mai voluto
covargli un pulcino nella zucca. Sacco vuoto, senza fede, roso
dall'invidia e disperato di sè, un bel dì, o piuttosto, un brutto dì,
volle finirla..... e si precipitò dalla soffitta della sua lirica
senz'ali nel pozzo d'un giornale politico-letterario — sono tutti
letterari i giornali! — e si fece critico.... Non c'è da meravigliarsi
se di laggiù — guercio com'è — chiama sole una meteora passeggera.
Gli scrittori che credono di potere prevenire le staffilate di quella
severa ed acuta critica che ha illustrato i mondi delle arti, corrono
ad ammansarlo.... È vecchia ed in gran parte giusta l'accusa, che
gl'Italiani non s'occupano di studi critici. Ma, per Iddio, se vediamo
uomini di solenne ingegno dopo d'avere declamato contro la vanità
dei diarii, che benedicono e maledicono senza dare ragione, si fanno
codazzo di scolaretti scribacchianti, e nonchè tollerare questi stupidi
portachitarre, li incensano, li blandiscono! _O vanitas!_

Del resto, menandogli buono il vezzo di scorrere a rompicollo i campi
delle arti, su cui non ha mai saputo seminare, è un buon diavolaccio,
niente scrupoloso, e se lo invitate a pranzo, vi divertirà assai.

L'altro, dalla barba prolissa....

Diamine, dirà il lettore, che capigliature, che barbaccie! Ve n'ha da
imborrarne un pagliericcio! Eppure, lettore, mio, conviene sappiate
che la capigliatura lunga e maledettamente ingarbugliata, la barba da
Mosè sono per un artista che conosce il rispettabile pubblico una vera
necessità. Che diavolo di talento volete voi sia racchiuso in una zucca
pelata?

La barba ed i capelli incolti danno chiaramente a conoscere:

1. Che l'artista è tanto sublimato alla sfera della poesia, che
ei riguarda le cesoie ed il pettine del parrucchiere come cose
perfettamente inutili....

2. Che è un originale, un capo scarico, un essere anfibologico che sa
d'ora in ora farsi angelo o demonio, secondo il garbo che dà ai diversi
peli coll'aiuto delle sole mani....

Un maestro di musica, con cui ho stretta conoscenza, un giorno,
dopo d'avermi dato un saggio d'un suo melodramma, mi confidava, che
preparavasi a comparire degnamente innanzi al pubblico lasciandosi
crescere i pochi capelli.

3. La copia dei capelli è viva immagine della forza: la lunghezza
esprime il disprezzo degli usi del bel mondo, e l'arruffatura la
continua lotta delle idee: tre cose che hanno gli incontestabili
effetti d'ingannare il pubblico e di economizzare alla barba dei
parrucchieri.....

— Signor scrittore, vorreste dirne quale affinità hanno i parrucchieri
colle arti?

— Più di quanto pensate. Vi faccio grazia di quanto potrei dirvi
sull'influenza dei sarti e dei cappellai, ma vi domando:

Amabili lettrici, come vi figurate — nel caso ci pensiate — il vostro
umilissimo compagno di viaggio? Io giurerei sui peli della barba
avvenire, che se io mi presentassi a voi colla faccia e la nuca
pelata, con una di quelle ciere che non differiscono in nulla da quelle
d'ogni galantuomo, senza eccentricità d'abiti e di modi, a chi dicesse
presentandomivi:

Ecco il tal dei tali, autore del tal libro e di molte opere future e
postume — voi, con quel candore con cui solete ammazzare un uomo che vi
è indifferente, rispondereste sbadigliando:

— Ah! Sì..... è _proprio lui_ l'autore di quel libro?

Lettrici mie, se mai sarò tanto fortunato di potermivi inchinare, io
verrò a voi dopo d'aver fatto uso di tutti gli specifici infallibili
(compreso quello d'una parrucca), onde ravvisiate sotto la posticcia
figura iperbolica quell'io, che, ecc., ecc.

O voi tutti genii perduti nella nebbia dell'indifferenza, consultate
la quarta pagina dei giornali, se la natura non vi classificò fra gli
animali pelosi! Colla _composition créatrice des cheveux et moustaches
du professeur Derk de Sandwich _(anche laggiù vi sono professori)_,
qui garantit la beauté, la multiplication et la création _(sic)_ de la
barbe et des cheveux..._ (tra parentesi, costa L. 10 al vasetto)... in
poco volgere di tempo vi sarà dato entrare nel tempio della gloria per
non uscirne per tutti i secoli dei secoli, in grazia del capilligeno. O
progresso... della chimica!

Quel tale dalla barbaccia, per tornar a bomba, o alla barba se volete,
si sognò d'essere Michelangelo, nientemeno. Dopo d'avere sonnecchiato
per dieci anni nelle sale delle accademie, credette di svegliarsi
_caricaturista_. Ignorava che non basta saper disegnare per mettere in
ridicolo, che anzi il concetto è tutto.

..... L'arte affacciatasi un istante al cervellino, vi trovò la
parodìa: pensate se la pudica avrebbe voluto dividere la stanza
con quella mezzana. Che volete? Nessuno capì le sue caricature,
come nessuno aveva capito le sue dipinture storiche; sicchè adesso,
lasciati i lapis, fa progressi rapidissimi nel facile mestiere di genio
incompreso. Tanto peggio per l'Italia!

Il terzo dall'occhialino, che inforca senza posa la groppa del naso
bernoccoluto, mangia, beve, veste panni, fuma come un turco, e affetta
articoli di politica nei diarii, frammezzando le serie disquisizioni
sul riordinamento della carta mondiale con romanzi originali
italiani tradotti dal francese... Intanto aspetta che un ministro
scoprendo questo diamante nell'immondezzaio degli scribacchianti, lo
incastoni in qualche ufficio. Da dodici anni egli è in attesa della
propria scoperta: intanto qualche ciocca s'imbrina. Egli, ormai
stanco d'aspettare, è deciso di gettarsi a capofitto nelle file
dell'opposizione..... Guai alla vittima!

Il bello poi sta nel sentire come questa confraternita s'incensa nei
giornali... l'egregio mio amico... il celebre autore... _Sic itur ad
astra!_

Ma zitto, sentiamoli.

— Sì, vi ripeto, che anch'io voglio ritirarmi alla campagna...

— Per farti anacoreta? Hai ragione. Deciditi una volta a far penitenza
de' tuoi peccati... il pelo si fa grigio, e Cristo ti guardi dal farla
tardi!

— E solo?

— Oibò; aspetto solamente l'incontro d'una bella ragazza...

— A che?

— Per farne il bastone della mia vecchiaia.

— È forse necessaria una ragazza? Prenditi una vecchia.

— Puah! Io intendo sempre d'imitare chi fa professione di dare buon
esempio.

— Non ti sarà tanto facile trovare un modellino sì aggraziato... (cara,
cara!)

— Lo credo io. Tanto più che non porto in capo... mi capite... il
salvacondotto.

— Beati quelli! Paradiso di qua e di là; mentre noi aspettiamo
l'inferno nel purgatorio... Se rinasco, m'immaschero anch'io.

— E vedere come si conservano freschi, aitanti oltre il mezzo secolo...
mentre io a quaranta...

— Essi non consultano mai la quarta pagina dei giornali!

— A proposito. Ieri all'ufficio postale ho letto l'_Armonia_: vi
faccio sacramento che non vi ha diario che lo sopravanzi per spiritose
concezioni, per purità di lingua e per strettissima logica...

In breve tutti gli strali si spuntavano sulla tranquillità apatica del
prete, il quale tuttavia lasciava spuntare a fior di labbra un certo
risolino indefinibile, forse allora che una favilla spiccava da tanto
fumo. Bevi e ribevi, trinca e cionca, i tre finirono per ingolfarsi nel
razionalismo, e manomettendo quel po' che ne avevano letto stampato
su per le gazzette, diedero un furioso assalto a tutte le religioni
_positive_.

Io che me ne stava fra tanta battaglia spettatore indifferente, pensai
quanti pensieri dovevano frullare in capo al prete della montagna,
certamente ignaro di ogni contesa filosofica, e che aveva forse creduto
che non vi fossero al mondo religioni diverse dalla cristiana, turca ed
ebrea. Ma egli sorbiva tranquillamente una fumante tazza di caffè.

Intanto nella via stessa dell'albergo una donna vecchia, scarna,
giallognola e quasi cieca, appoggiandosi ad un bastoncino, si recava
innanzi ad un'immagine della madonna di Revalvegezzo da qualche
Raffaello del paese tratteggiata sul muro, e ginocchioni vi orava tutta
raccolta.

Nella sala dell'albergo la discussione non cessava: discussione
veramente non era poichè l'affare principale consisteva nel
rincarire la dose a chi aveva parlato prima. Mentre s'arrovellavano
sull'adorazione delle immagini, ad un tratto, vista la vecchierella che
pregava, eccotela in ballo.

— La vedete quella donna? Credete voi che nell'atto suo entri un cicino
l'adorazione dell'Ente?

— Impostura!

— Ostentazione, dico io.

— Nè l'uno, nè l'altro; ma idolatria, sempre idolatria, paganesimo,
superstizione.

— Farebbe molto meglio a filare alla conocchia!

— Sarei curioso di sapere cosa n'avrà dopo di avere sonnecchiato un
paio d'ore davanti quella crosta.

E alzandosi anche lui, s'avanzò verso la tavola del prete, e fatto un
leggero cenno col capo, col sorriso sulle labbra, chiese al vecchio:

— Scusi, sor abbate, se le interrompo il _chilo_.....

— Parli, signore, sono qua a sentirlo.

— Dica un po' lei, che è della professione e che può parlarne in
cattedra, se quella donna non farebbe molto meglio..... ma lei ha
sentito certamente i nostri discorsi..... l'amico mio giornalista grida
come un ossesso!... favorisca adunque dirne chi di noi gli pare abbia
ragione.

Il prete gli ficcò, _intus et in cute_, uno sguardo acutissimo, che
tradotto in volgare voleva forse dire:

— Voi vorreste divertirvi alle mie spalle, neh? Guardate che io vi
faccio pagare lo scotto!

— Signori, tutto quanto hanno detto, mi torna meno nuovo di quel che
si credono. Dimorai lunghi anni in Allemagna ed a Parigi..... Io, me lo
permettano, risponderò loro con una domanda.

— Oh! pensi.

— Quella donna è miserabile, si vede; è quasi cieca... è forse priva di
famiglia, o, Dio non voglia, maltrattata da' suoi come un fastidioso
mobile. Dunque senza gioventù, senza salute, senza vista, senza il
cinismo d'un cuore isterilito nei disordini, senza conforti materiali
e domestici, e quel che è più orribile, senza speranza! Agirà per
ostentazione? Per carpire alle paesane sue il titolo di devota od un
tozzo di pane? Poca ambizione e dura condizione. Ad ogni modo soffre e
senza speranza di meglio, non è vero? Andate ora, sulla supposizione
più onesta, a scalzare la predilezione idolatra che può per avere
un'immagine anzichè per un'altra! Che vogliono darle, o signori, per
consolazione, in cambio d'una fede, che vendica colla vita avvenire i
dolori della presente?

                             . . . . . . .

E corse dietro alla vecchia per recarle il frutto d'una parola, atto
che la fanciulla abbelliva colle grazie della giovinezza e della
carità... Non dico che fosse tutta carità spontanea, pura... ma a buon
conto, senza sofisticare, la carità venne posta in atto.

                                   *
                                  * *

Da Premia, a destra, oltre la Toce, si sale per un cattivo sentiero
alla Cravairola, regione al di là della catena dal Pizzo del Forno alla
Corona del Groppo, la quale trovasi oltre al confine naturale e versasi
nella valle Ticinese.

Le dissensioni sorte anticamente fra gli Ossolani ed i Valmaggesi
finirono per accendere quelle scaramuccie, le quali per essere
guerreggiate fra contadini non sono meno micidiali; di qui rapinarsi il
bestiame, spesso diruparlo, incendiare le capanne; finchè, stanchi di
queste reciproche rappresaglie a cui avrebbe tenuto dietro la comune
miseria, ricorsero ai proprii governi verso la metà del secolo XVII.
Senatori della Camera di Milano ed inviati della Repubblica Elvetica
convennero sul Lago Maggiore e là stabilirono i confini. È inutile
il dire che avevano tutti ragione. Dopo la sentenza, infierirono più
atroci le rappresaglie. Finalmente in una sanguinosa rissa essendo
stato ammazzato l'istigatore principale, un bandito della Valmaggia, di
cui si portò in giro la testa sopra una picca, placata col sangue l'ira
comune, la luttuosa lite ebbe fine.

Da Premia per Piedilago, detto dai valligiani Piedilatte, i due
Cadarese e S. Rocco, si perviene in due ore sotto quel Salecchio già
accennato da noi. Questo villaggio, il più alto della valle Antigorio,
è situato sopra un breve gradino del monte della Punta di Campo. Da
lassù godesi bella vista sopra una parte della sottostante valle,
mentre tutt'attorno al villaggio rallegrano estesi pascoli smaltati
di odorosissimi fiorellini. Chi da Salecchio volesse recarsi in valle
Formazza, di cui di lassù scorgesi la bocca, senza discendere la via al
basso malagevole assai, vi può pervenire con un sentiero che guida al
santuario di Puneigen, in due ore.

Questo sentiero corre sull'orlo del pendìo montano qua e là
rapidissimo, e dopo la neve diventa pericoloso, non però come
l'asprissimo che vi conduce da S. Rocco stagliato nell'immenso muro
granitico, che s'aderge al N. O. Sicchè Salecchio è quasi segregato —
nell'inverno — dal resto del mondo. Pochi inverni or sono il sindaco
ed il vice-sindaco di Salecchio vollero discendere per quest'ultimo
calle a S. Rocco; gli sciagurati sdrucciolarono sul vivo diaccio che lo
copriva, e rimbalzarono — orribile a dirsi! — di roccia in roccia sino
a valle.....

Il santuario di Puneigen od Autilone non ha nulla di rimarchevole per
architettura, ma il sito è assai pittoresco. Sorge sopra una balza del
Martello tutta lieta di piante e di erbe, attorniata da rupi scoscese
che si specchiano in un laghetto. Dall'estremo labbro verso levante,
la vista sulle nudi rupi del Rizoberg, sull'abisso che si sprofonda
nella sottostante Antigorio, e verso mezzodì sui pascoli che allegrano
le falde dei due Salecchio, compensa la poca fatica di farvi una
digressione dalle porte della Formazza.

Da S. Rocco che ha una bella chiesuola ed una fisonomia ancora aperta,
sorridente, italiana, in poco d'ora giunsi per Balmalarice, Passo, ad
Arivasco.

Bella cascata è quella del Vuova, qui presso.

Io solo so quante volte incespicai sulla malagevole stradicciola per
guardare le gigantesche rupi di granito venato a strati orizzontali che
assiepano la valle. Gli obelischi egiziani appetto a quelli che se ne
potrebbero trarre parrebbero birilli.

Perchè non ho io la potenza della fede che rimove i monti ed il genio
di Michelangelo? Vorrei innalzare sulla vetta suprema delle Alpi tale
un monumento alla verità, che toccasse le stelle. Il granito non è ciò
che manca per ora.

Il gruppo di casupole, che è Arivasco, non ha nulla che possa
trattenerci, se non fosse questa nidiata di vispi fanciullini, la
folleggiante gaiezza dei quali contrasta non poco colla severità del
paese. La valle sì spaziosa va chiudendosi: ecco Unterwald. Siamo
finalmente in Formazza?

Fra mezz'ora, rispose una donna.

Perchè, dissi poi tra me, le mezz'ore di piacere non sono tutte lunghe
quanto codesta per salire alla Formazza?


XII.

_L'orrida forra di Unterwald._

Appena oltrepassato il malinconioso casolare di Unterwald (Foppiano),
ci addentriamo in una stretta gola, oscura, sinistra. La scena che ti
colpisce dal ponte d'Untergeschen è stranamente terribile. A destra,
crollante sopra una rupe, una torre inghirlandata d'ellera e di
muschio, sta per sfasciarsi. Forse è l'ultimo monumento della guerra
contro i Cimbri — forse l'innalzarono i Cimbri nella loro discesa.

Guardati dal favellare contro i Romani ed i Cimbri — essa potrebbe
vendicare su te gli uni e gli altri.

Lo Sternehorn, gigantesco monolite insofferente di neve; che inabissa
quaggiù i fianchi repenti, soffoca la forra. Le pinete dalle funebri
ombre incutono sacro terrore. Immani macigni rimbalzati qua e là
sotto e sopra, s'arrestarono colpiti da spavento. Fra le poche zolle,
nei loro crepacci, sugli scaglioni inferiori, lacrimano minutissimi
zampilli. In mezzo si rivolta, s'arrabbia di masso in gorgo con orrendo
muggito la Toce tutta spumeggiante d'ira. È l'acqua che si ribella
contro la terra. Intanto il sentiero, incerto, s'innoltra serpeggiando
fra i sassi e sale faticosamente verso il lembo dell'orizzonte che
s'affaccia lassù.

Dove sbocca questa fossa?

Le membra si diacciano sotto la vampa settentrionale che dal cigliare
del pozzo si sferra quaggiù in un turbine di nevischio e di spruzzi
del fiume; il petto ansante chiede riposo e mite temperie — ma su!
su! qui non consentono sosta nè le spinose selci della strada, nè
le ombre assideranti. Su! anche i pini, i larici si slanciano con
forza da quest'umida caligine all'insù per giungere ad ottenere un
raggio di sole. I loro rami tremolando ne invocano la caldura onde
gli uccelli migranti vi si posino in ciarle d'amore. Ma invano! Non
un raggio scende di là ed i _merli d'acqua_ stessi (Wasseramsel) non
osano soffermarsi alle loro radici. I corvi soli, gl'incresciosi corvi
spiccano il volo dalle bozze soprastanti e scendono nel burrone sopra
gli alberi infelici a funestarli col loro rauco gracidare.

Se qui la natura sembra spirare soffocata dalle moli gigantesche e
sfinire di languore, oh! come trista dev'essere la valle di Formazza!

Un grazioso fanciullino incontrato ad una risvolta ne assicura che fra
pochi istanti toccheremo l'altipiano desiderato.

Rincorato, dando uno sguardo ancora allo spettacolo sottostante,
invidiai — e non per la prima volta — il pennello del Gonin per
ritrarre questa terribile scena, in cui per rafforzare il colore locale
non sarebbe punto necessario d'innestare episodii drammatici — sì alto
qui parla la natura!

Ma ecco la bocca dell'androne, ecco la luce, il sole e col sole il
sorriso della vita!

Guardo in giù, attraverso ai pini, e auguro ai Formazzesi non venga
giammai loro il ticchio di sterpare la boscaglia protettrice del mal
passo — o nessuno s'addentrerà nella spaccatura senza che, eterna spada
Damoclea, non minacci o voluta di neve o frana o macigno!

Guai a voi!



PARTE TERZA

=La Frua ed il Gries.=


I.

_Valle di Pommat o di Formazza — Stafelwald, Andermatten, Touffwald,
Wald, Zumsteg, Brenno, Gurfelen, Fruttwald._

    =Quanto non s'eleva nella solitudine=
      =delle Alpi l'immaginazione!=
                      _Zimmermann._

Eccoci al piano. Quattro o cinque scheggioni diroccati fin qui, Dio sa
quando, dai vertici del Martello, e la valle Formazza si stende in là
fra sublimi montagne.

Due piccoli villaggi ne si presentano innanzi, amendue poco lieti:
il primo, poco rallegrato dal sole, Stafelwald, allo sbocco di una
ripidissima valletta che dichina dal Vandflühorn (2862 metri), solcata
dal torrente Riebbo, per la quale un brutto sentiero guida nell'estate
pel Criner o Forca del bosco, alla Maggia nel Ticinese: l'altro,
Andermatten (1241 m.), colla parrocchia, sotto una scoscesa roccia che
gli si aderge altissima alle spalle, pare temi di un finimondo.

Non ha tutti i torti.

Nulla di notabile nella parrocchia, fuorchè lo svelto campanile che
sorge isolato. Nello sterrato allato alla chiesa il cimitero, come nei
paesi protestanti della Svizzera. Ma prima di giungere al cimitero,
fermiamoci, che n'abbiamo di mestieri, all'albergo del Cavallo bianco,
pulito e discreto.

La Catterina, l'ostessa, dà cento punti al marito a darvi lezioni di
corografia. V'ha anche una bella giovinetta, semplice ed innocente
quanto vezzosa. Sento da esse che convengono alla parrocchia quanti
abitano nelle superiori frazioni di Touffwald, Wald, Zumsteg, Brenno,
Gurfelen, Fruttwald, e nell'estate dai casali di Kerback e Morasck
distanti tre o quattr'ore di cammino.

Occupai la domane nel visitare i paeselli.

Poco oltre Andermatten la valle si rivolge alquanto a sinistra ed
assume quell'aspetto che faceva esclamare al celebre Saussure esser
questa la valle d'aspetto più pastorale ed allettevole. Da Stafelwald
a Touffwald corrono a destra rupi tragrandi di vivo macigno, coronate
d'una sempre verde boscaglia di pini e larici, mentre alzando lo
sguardo scorgonsi le vette supreme dell'Hirelihorn (2434 m.), del
Gazoli, del Bedriol (2921 m.), le quali, correndo fino al Kastel (3276
m.), dall'aprirsi al chiudersi della valle, a destra rimontando la
Toce, segnano col taglio delle loro creste frastagliate il confine fra
il regno italiano ed il cantone Ticino.

Dalle balze dell'Hireli si lascia cadere quasi spossato di languore
e di fatica lo Steibo, torrente che forma lunghesso quelle repenti
chine una cascata di ben duecento metri, la quale appare da lungi quale
tela d'argento sfavillante ai raggi del sole. Sempre a destra, prima
di giungere a Touffwald, scendono dall'Alpe Gazoli il Fuldstuder e
l'Ecco, amendue formanti variate cascatelle, le quali sono assai belle
a riguardarsi, principalmente dopo qualche temporale nei valloncelli
superiori.

Touffwald, detto pure S. Michele, ha case pulite ed è bene esposto al
mezzodì. La strada sotto le boscose falde del Montegiove o Retiberg
(3007 m.), come qui lo dicono, procedendo lungo la Toce scorge a
Wald, nel centro della valle. Siccome però le molteplici sorgenti
che zampillano dal Witenbil, collinetta in mezzo alle praterie,
nell'inverno formano scaglioni di diaccio durissimo, i quali coprono
per lungo tratto la strada, gli alpigiani l'abbandonano passando da
Touffwald alla sinistra della Toce.

                                   *
                                  * *

In Wald in una casetta al ponte ha stanza il ricevitore della
dogana italiana, gentilissimo giovine che ne fu largo d'ogni cortese
indicazione.

Ho fatto una visita alla tenebrosa nicchia in fondo alla quale il
Lebenduner, prorompendo da un covacciòlo si precipita in sottilissima
polvere; ma il denso velo degli spruzzi e l'altisonante ruggito
m'impedirono d'interrogare i genii dello speco.

Il sentiero che serpeggia su per la foresta, dal ponticello che valica
il torrente, guida ai pascoli di Vannin, e di là, su per le murene
ed i diacci del Minoio-Krüpfi al varco del monte — da cui sceso nella
valletta suprema dell'Arbola, pel passo del Figascian, in una giornata
di cammino, ad Aernen del Vallese.

Zumsteg è la capitale della valle: è il più grosso villaggio, non il
più bello. Le pendici a destra ed a sinistra sono tutte affoltate di
pinete.

A pochi minuti da Zumsteg, alla destra della Toce, un bel gruppo di
case sulle ultime falde del Nacker, Brenn — (1322 m.); poco più in
su, pittorescamente allogato sotto una rovina di giganti roccie che
i secoli hanno vestito di muschio e di zolle, sta Gurfelen. Le ruine
a cui s'addossa, lo riparano dalle bufere del settentrione — tutto il
male non viene per nuocere.

Al di là di Gurfelen, mentre la valle si ristringe, la strada sale,
a sinistra del fiume, sopra una rupe che stagliata trabocca giù nei
profondo in cui gorgoglia la Toce: di là, alla risvolta del cammino,
ove s'innalza un'antica croce di legno, appare pressochè tutta la valle
coi casali di Touffwald, Wald, Zumsteg, Brenn e Gurfelen.

Da quest'ultimo in un quarto d'ora si giunge a Fruttwald, diviso dalla
Toce, nel verde piano in cui riposa la valle fra le rupi del Nuefelgiuh
e le balze del Tamier. Il Nuefelgiuh è un'orrida catasta di macigni
aspri, scagliosi, nudi, penzoloni sul villaggio.

Uno di essi, or faranno trent'anni, traboccava con intenso fragore
sul villaggio — la terra traballò, i pendoli s'arrestarono, mura si
screpolarono — ma il masso per miracolo sprofondava a dieci passi dagli
abituri.

Quelle creste ricise, addentellate non paiono accessibili che agli
uccelli di rapina. Chi oserebbe del resto arrampicarsi lassù? Sentite
una fiera istoria.

Luigi Dellavedova aveva un figlio non ancora ventenne, di ottima indole
e di belle forme. Luigi è l'espertissimo fra i cacciatori di camosci.
Egli non aveva mai permesso al figlio di accompagnarlo a caccia,
promettendogli però che non appena avesse compito vent'anni, avrebbe
diviso con lui le fortune di quel passatempo che in fatti è una serie
continua d'indicibili disagi, e di pericoli d'ogni maniera. Il giovane
attendeva con vivo desiderio, con impazienza quel giorno avventuroso.
Spesse volte il padre lo sorprendeva fiso estatico verso i culmini
alpestri. Intanto s'addestrava ad imberciare con sicurezza per colpire
il suo cappello a trecento passi.

Una mattina, mentre il padre era assente, il giovanotto, malgrado
le rimostranze della madre, mette ad armacollo la carabina paterna,
parte per una scorsa sul Reti. Alla sera, prima dell'arrivo del padre,
sarebbe di ritorno.

Quella sera giunse il padre; ma s'attese invano il figlio. Anche la
notte invano.

La domane, la dopodimane, la povera madre correva di quando in quando
alla porta della capanna con ansia infinita..... ma forse egli insegue
con altri cacciatori un branco di camosci. Il padre interrogò i
cacciatori della Formazza; seppe che nessuno s'era mosso di casa! Il
padre smanioso, col figlio maggiore, sale sulle alture e le percorre
senza posa per varii giorni; frotte di cacciatori e di pastori
s'addentrano nelle solitudini di quella cerchia montana, tutto attorno
alla valle — invano!

L'ansietà cangiasi in angoscia. — Ogni valligiano palpita sulla sorte
del giovane; le madri piangono colla madre.

Ecco l'ottobre — nevica. La neve seppellisce ogni cosa, ogni speranza.
La madre sola spera ancora — in Dio! Più d'una volta, la notte, balza
dal letto e corre affannata alla porta ove le pare abbia picchiato
una mano sospirata. Allo squagliare delle nevi in giugno, sotto
le precipitose rupi del Nuefelgiuh un pastore scopre un cadavere
orrendamente sfracellato..... Il padre solo potè riconoscere la sua
creatura. La carabina, spezzata, trovossi lungi un cento passi dal
cacciatore che per la prima ed ultima volta l'aveva impugnata.

                                   *
                                  * *

Quantunque Fruttwald sia il più alto dei villaggi abitati tutto l'anno
nella Formazza, la vista resta ivi circoscritta verso la valle da
un gibboso declive che l'attraversa fra il Tamier ed il Nuefelgiuh,
e verso settentrione da un contrafforte di quest'ultimo monte che
rinchiude quasi il superiore valloncello di Unterderfrutt ove casca la
Toce.

La strada, lasciato Fruttwald alla sinistra, con breve giro appiedi del
Tamier s'affretta alla Frua, spettacolo che si presenta ad un tratto,
quasi per meglio colpire.

S'io disegnassi come Schrimer non avrei a descrivertela a parole.


II.

_La Frua o cascata della Toce — Quanto costi un sorriso di donna._

Il Valloncello di Unterderfrutt è circondato dalle falde del Picco
di Gigeln, a destra — dalla rupe della Frua a settentrione, — e dalle
ultime digradanti balze del Nuefelgiuh a sinistra ed al fondo. Al di là
della Toce poche stalle in mezzo ad una breve prateria attorniata dai
macigni dinoccolati dalle rupi imminenti, danno ricovero nell'estiva
stagione agli armenti che si vengono a pascolare.

Lo sguardo non può soffermarsi più d'un istante sulla cornice che
inquadra il meraviglioso spettacolo della Toce, la quale ad un tratto,
lasciato il queto alveo superiore, trabocca dal ciglione della rupe
stagliata in tre orizzontali gradini, uno sull'altro cadente, ed
irritandosi ad ogni labbro, rimbalza spumeggiante nell'aria, ricade
in sottilissima polvere d'argento per spandersi nuovamente in mille
spruzzi, cascatelle e zampilli, formando così una piramide gigantesca,
la quale, allorchè il sole vi diffonde i suoi raggi luminosi, tutta
sfavilla di mille diamanti.

Bello è contemplarla all'aurora colorirsi a porporine tinte, smagliante
come l'acciaio brillare al mite chiarore della luna, e nelle incerte
ombre della notte innalzarsi come un immenso fantasma in mezzo a quelle
moli rigorose. La severità del sito, i cento sibili confusi in un sol
urlo dell'aria percossa, le scagliose rocce del Gigeln, le superiori
macchie di larici, fra cui fischia il vento, destano nello spettatore
il senso, non so se più di meraviglia o di terrore, che nega la favella
innanzi agli spettacoli più sublimi.

Nel fitto dell'inverno, benchè il volume delle acque montane scemi
d'assai, la cascata presenta una vista non meno sorprendente: le
notturne bufere ed il gelo asprissimo sogliono in poco d'ora indurare
i fili, gli spruzzi, i zampilli, i veli cadenti; ed allora si vedono
pendere e sorgere su quei lucidi macigni una serie infinita di
stalattiti cristalline, che riflettono la luce con mille colori, mentre
l'acqua scompare sotto questa scintillante armatura.

Dal ciglio al piano la cascata misura duecento metri; è quindi delle
più considerevoli per l'altezza, mentre per la mole dell'acqua essa
non la cede forse ad alcuna delle più vantate di tutta l'Europa. La
cateratta del Reno presso Sciaffusa non va annoverata propriamente
fra le cascate. Lo Stauback presso Lauterbrunn supera in altezza la
cascata della Toce di un quarto circa; ma siccome quel torrente è molto
povero di linfe, ne avviene che buona parte va dispersa nell'aria in
sottilissima nebbia; mentre la Toce, anche nell'inverno, per le molte
sorgenti perenni, ha tuttavia una notevole quantità di acqua. Poco
più, poco meno può dirsi lo stesso della Tamina, di quella di Martigny
e della stessa del Reichenback, e d'altre che ometto per brevità o
inferiori per l'altezza o pel volume dell'onde. Celeberrime in Italia
sono le cascatelle di Tivoli: le quali a petto della Frua sarebbero
meschina cosa, ove non concorressero a renderle più famose le memorie
delle vicinanze, in cui ad ogni passo ti si rammenta la Sibilla
Tiburtina, e Mario, Scipione, Virgilio, Sallustio, Flacco, Catullo,
Orazio e Mecenate, i quali venivano dalla tumultuosa Roma a cercare
silenzi e riposi al rezzo dei laureti sulle sponde dell'Aniene.

Il Casalis, nelle poche linee consecrate alla valle di Formazza, dice
la cascata della Toce essere la più bella dell'Europa; il Boniforti
l'accenna come la bellissima delle Alpi italiane e non inferiore a
nessuna della Svizzera; l'Amoretti, che unico percorreva queste valli
fra gli scrittori italiani, quantunque non si lasciasse trasportare
d'entusiasmo che per ciò che era mineralogia, tuttavia la dice
mirabile. L'Ebel stesso la magnifica, benchè per errore la diminuisca
d'un terzo d'altezza. Ecco le sue parole: «Siccome, eccettuata la
cateratta del Reno, non vi ha nella vicina Svizzera una cascata con
massa sì considerevole d'acque, quella della Frua, è, senza dubbio,
delle più notevoli che vi abbia.»

Salite in venti minuti le risvolte della strada tagliata nella rupe,
dopo d'avere contemplato da vicino la caduta, eccoci sul ciglione da
cui precipita il fiume; di quassù, come da lato, come dalle capanne
d'Unterderfrutt, la scena si para sempre grandiosa. Da questo estremo
limite al sud della valletta di Uberaufderfrutt o di Sant'Antonio, si
spiega dinanzi una parte della valle, senza la vista però dei casolari
nascosti nelle anfrattuosità delle falde montane; alla sinistra della
Toce sorge una cappelletta con portico, dedicata a sant'Antonio, a lato
del Gigeln, altissimo picco direi d'un sol pezzo di viva roccia, che si
disterra da questi altipiani.

                                   *
                                  * *

Catterina era la più bella ragazza della valle Formazza: gli occhi
gareggiavano colle labbra nel sorriso, ed il suo cuore non era meno
generoso dell'aspetto. Non era una sola fanciulla in tutta la vallata
che nel segreto del cuore non le invidiasse la bionda e foltissima
capigliatura, e l'arcana potenza di ammaliare quanti l'avvicinavano.

Nell'estate, in mezzo al suo armento, quando cantava, gli animali
alzavano il capo attenti, e cessavano di pascolare...

Nelle lunghe giornate d'inverno, accanto a sua madre, filava il lino, e
tutti credevano che passando fra le sue dita bianche e sottili il filo,
s'indorasse.

Nell'ampia e pulita stufa della sua casa convenivano nelle serate
invernali i più formosi garzoni dei casolari, tutti innamorati di lei,
che sorrideva a tutti senza conoscere l'amore.

Quando in coro colle amiche intuonava una bella canzone, Pippo
differiva alla domane la confessione di quanto sentiva per lei. Ma
avrebbe potuto spiegarlo?

Tuttavia un bel mattino, non si sa se a caso, Pippo incontrò Catterina
nella foresta dell'Hireli che riconduceva una capra smarrita. Di
tutte le cose toccantissime ch'egli s'era da tanto tempo studiato di
favellarle, non potè dir motto. Ma quando alla sera la Catterina con
voce più soave del consueto cantò:

  «Nel profondo del mio cuore v'ha una cellula ch'io sentii vuota
    fino a quest'oggi.

  Io viveva senza assaporare la vita; io vedeva senza guardare; io
    ignorava tutto.

  Ora la cellula è piena di un mondo — una tua parola ha fatto il
    miracolo.

  Attorno ad essa mille immagini — e son tutte la tua. Perchè sfugge
    tuttavia dall'anima un sospiro?»

allora Pippo uscì dalla capanna troppo angusta. La brezza notturna
gli ricompose gli spiriti, e il povero innamorato potè sclamare: dov'è
l'uomo più felice di me?

S'egli era intieramente felice, perchè la sera susseguente andò coi
compagni in casa della fanciulla e ne tornò senza aver profferito
parola in tutta la sera? Era desso geloso?

Il vecchio Giovanni, il padre di Catterina, possedeva una foresta di
pini secolari, ubertosi pascoli nella valle e meglio di cento capi di
bestiame. Mentre stava un giorno soletto guardando il suo armento che
pascolava sull'alpe di Balmarossa, vide venir a sè Pippo.

— Benvenuto Pippo! cercate di me?

— _Deo gratias_, potè rispondere il giovane, affannato dalla salita
sotto la sferza del sole di agosto, e più ancora dalla tema di non
ottener quanto bramava.

— Sedete e parlate.

— Se voi siete contento, io mi torrei in isposa la vostra figliuola.

— Voi siete onesto... ma troppo povero. Sapete che la Catterina è fra
le più ricche della valle?

— Io non desidero che la fanciulla.... E volle soggiungere le mille
cose che aveva pensato per istrada — ma la dura parola del vecchio gli
annodò in gola ogni risposta.

Giovanni, vedendo il meschino grondante di sudore impallidire, lo
trasse con sè alla capanna dell'alpe, gli presentò una coppa di latte
munto allora, e con voce meno acerba:

— N'avete parlato alla Catterina?

— Disse di amare me solo.

— Poichè la è così, io non voglio fare due infelici. Voi siete giovane,
e la fortuna ama i giovani. Quando avrete da pascolare dieci bovine,
Catterina sarà vostra.

Pippo, rasserenata la fronte, abbracciò il vecchio, e scese correndo
quelle alture senz'accorgersi della malagevolezza del sentiero e della
china precipitosa. Prese commiato dalla vecchia madre piangente invano,
e dall'amata che sorrise alle promesse del giovine animoso — e partì
per Roma, per Roma tanto lontana.

Dopo un anno, Catterina seppe che l'amante spossato per incessanti
fatiche era caduto ammalato. Da quel dì una mano ignota portava
sull'altare della Vergine un mazzo di fiori perlati di rugiada, quali
mai non si videro trapuntare le praterie della valle. Ve n'era di
quelli a mille colori, come la spuma della Frua.

Pippo, colto dalla febbre, consumò ogni sparagno: quando riebbe in
parte l'antico vigore, i medici lo consigliarono di fare ritorno
all'aria natia. Nullameno cercò lavoro coll'insistenza di un proposito
che non vacilla: debole ancora, il frutto del lavoro bastava appena
alle necessità della vita. Intanto la madre lo richiamava — si sentiva
a morire e voleva rivedere ancora una volta il figliuol suo. Partì
povero e sconfortato da quel paese ove era giunto con tante speranze.
Di ritorno trovò nella sua capanna un cadavere. Dopo la sepoltura della
madre, quella porta non s'apriva ed i vicini dicevano di sentire la
notte dolorosi lamenti.

Egli sarebbe morto di dolore, se un mattino una voce dilicata e
tremante non avesse cantato sotto le finestre di quell'abituro
la nota canzone dell'amore... Pippo venne fuora: quasi non era
riconoscibile..... era anche povero — tuttavia Catterina gli sorrise.

Pippo comprò una carabina ed in poco tempo divenne il più destro
cacciatore di quelle alpi. Di quando in quando inviava alla fanciulla
del selvaggiume. Scoprì un giorno appiedi delle orrende diacciaie di
Cavergno una camozza col suo nato: decise di ammazzare la madre per
avere vivente la piccola — fermò di averla ad ogni costo.

Chi sa contare quante volte il cacciatore corse pericolo di morte? I
camosci, in grazia del sottovento, sentirono l'appressarsi dell'uomo,
valicarono le creste difficili del Kastel con piede snello e sicuro.
E Pippo su per le roccie, dietro ai veloci animali. I quali s'erano
indirizzati verso le giogaie del Thallihorn, sfiorando appena la
cornice a picco, al di là del lago di Kastel, sull'abisso che si
sprofonda giù giù fino al vallone di Kerback. Pippo, sicuro che per
stanchezza la capretta non potrà correre lontano, s'avventura su quel
passo, largo due palmi, fra il cielo e l'inferno — sente smottarsi
sotto ai piedi il sentiero — non s'arresta; si mette carponi e così
valica l'abisso, in fondo al quale, laggiù, acute roccie stendono in su
le loro scarne ed affilate mani bramose di sangue.

Il capretto alfine è quasi sfinito dal correre, e giace oltre il
burrone della Toce a pie' della madre che lecca pietosa ed accarezza
il nato, e guarda attorno con sospetto. Se Pippo giunge a varcare
inosservato il burrone, le selvaggie creature sono sue. Bisogna
dinoccolarsi al fondo e risalire la parete opposta. Ma se scivola
sopra malsicuro sasso il piede? Sei morto. Se staccasi sopra il capo
un macigno da lungo tempo desideroso di riposare in fondo all'oscura
fossa? Sei seppellito. È facilissimo nella discesa repente avvallare
a fascio; e non sarà impossibile arrampicarsi pell'ertissimo muro di
fronte? E se mentre tu corri manifesto pericolo di orrenda morte, un
sasso maledetto cade sonando sulle pietraie ed avverte la camozza?
Mille terribili pensieri attraversarono come sinistro lampo la mente
del cacciatore... ma Catterina, quando le avesse condotto la svelta
capretta, come gli sorriderebbe!

Scivolò al fondo, s'inerpicò — dopo dieci prove — sino all'orlo opposto
del burrato, e di là, fra le scabre roccie imberciando con mano ed
occhio sicuri la preda, scoccò il colpo. La palla sibilò acutamente —
tutti gli echi si destarono — quando il fumo si diradò, vide la camozza
fare ancora due passi, inginocchiarsi e cadere spirante presso il
lattante... Povera ed innocente bestiuola! Ma che non vale un sorriso
di Catterina?

Il lattante smarrito trillava di dolore senza fuggire, sicchè Pippo
potè di leggieri impadronirsene. Catterina lo accettò con festa, gli
cinse il collo d'una rossa collana a cui penzolava uno squillante
campanello, e lo diede ad allattare ad una capra. Ella stessa lo
conduceva ai pascoli della Frua, tutta lieta di vederlo sì gaiamente
saltellare.

Da qualche tempo Pippo non s'avventurava più alla perigliosa caccia dei
camosci: ritornava dai monti carico di pietruzze, delle quali alcune
bianche come il latte, altre porporine come le labbra di Catterina,
altre screziate d'oro. La cera raggiava di speranza e d'amore. Gli
era apparso il genio delle Alpi e gli aveva indicato una caverna in
cui stava nascosto un ricco tesoro di preziosi metalli e di rarissime
perle. Il pavimento era tutt'oro — le pareti a colonne di malachite,
smeraldo e lapislazzuli — il vôlto stellato di rubini e di granati.

Da quel dì la ruggine cominciò a serpeggiare in arabeschi sulla canna
della carabina dimenticata in un canto della casa, ed i ragni a tessere
le loro tele polverose sull'acciarino.

In quella un congiunto gli scrisse da Roma non indugiasse a partire a
quella volta, gli affari procedere con meravigliosa fortuna; avrebbero
diviso come le fatiche i frutti. Pippo sorrise alle esortazioni degli
amici e partì in sua vece un altro.

Egli vendette la fidata carabina e s'avviò all'Anzasca. Poco tempo
appresso ritornava con alcuni di quei valligiani che saggiano e
conoscono la virtù d'ogni pietra.

La domane — appena s'inalbava l'orizzonte — con cinque altri giovani
robusti, muniti di vanghe e di acute marre, tutta la frotta, Pippo in
testa, s'incamminò spedita verso il Griesberg; a Bettelmatt penetrò
nel deserto androne del Gemmsland, e, accesi branchi di pino, entrò nel
tenebroso speco. Appena la luce delle torcie resinose arrossò la bocca
dell'antro, un urlo spaventevole gelò il sangue e la parola ai compagni
— ed un lupo si slanciò rabbioso fuori di quelle tane — ma Pippo non
aveva più la carabina, ed il lupo fuggì ratto. Triste presagio! Pippo
ed i suoi amici scavavano con ardore e trasportavano al sole un mucchio
di pietre, ed i minieratori le esaminavano attentamente una dopo
l'altra. A mezzo il giorno questi ultimi dissero ad alta voce: non v'ha
qui indizio d'oro nè di granati. Pippo impallidì! I compagni pietosi
lavorarono fino a sera, secondando la febbrile ansietà dell'amico.
Venne la sera senza che nulla si fosse scoperto; le pietre scavate con
tanta fatica e tanta speranza non avevano valore di sorta. Pippo stava
tuttavia lavorando quando i tizzoni si spensero. Nessuno osava far
motto. Oscurata la spelonca, Pippo si coricò estenuato sulla soglia di
quell'antro malaugurato, gemendo; bagnava la polvere col sudore che gli
gocciava dalla fronte; ma non una lagrima sola. Chiamatolo invano, i
compagni coi minieratori discesero prima della notte nella valle.

Chi non avrebbe detto Pippo morto? — Dormiva?

Questo è certo che quand'egli fu solo gli apparve Catterina assisa
a banchetto di nozze, su cui stava fumante la sua bella camozza.
Sollevò il capo dal duro origliere, e smarrito discese fra le tenebre
d'altipiano in altipiano. Di quando in quando una voce soffocata,
disperata — o Catterina! Catterina! — ululava per quelle callaie
dirupinate.

Intanto un uragano precipitava dalle diacciale del Griesberg, ove le
streghe menavano ridda al bagliore dei lampi ed assordava coll'orrendo
frastuono il misero che s'aggirava in quei valloni. I lupi, turbati
nei covili, scorrevano pei greppi cogli occhi di carbone, urlando
attorno a Pippo, mentre le aquile ed i corvi turbinandogli sul capo,
lo stordivano colle strida minacciose. Ma Pippo scendea sempre.
Sdrucciolava sull'erba, sui macigni; cadeva nelle rabbiose fumane; ma
discendeva sempre.

Certamente l'anima della madre lo guidava.

Quando l'aurora si raffresca nei vapori della Toce, egli grondante
acqua da tutta la persona, coi capelli pioventi lungo le guancie
livide, gli occhi stralunati, le mani peste e lacere, i piedi
sanguinosi, giunse all'altipiano di Uberaufderfrutt da cui s'inabissa
il fiume.

Il cielo si rasserenava, ed i monti si spogliavano delle loro clamidi
fumanti.

Pippo, giunto sul ciglione della cascata, stava per discendere, quando
— oh! come lampeggiarono di gioia i suoi occhi! — vide nel sottoposto
piano la Catterina, che guidava al pascolo la diletta camozza. Pippo
fuori di sè gridò: Catterina! — Stese le braccia e si slanciò verso
l'amata. Ahi!... la rupe si sprofonda — Pippo, stretto nelle gelide
braccia della cascata, sobbissa — rimbalza sui tre scaglioni — colora
un istante del suo sangue la roccia omicida — e sdrucciola ai piedi di
Catterina.

La piccola camozza leccò il sangue che sgorgava a rivi dal corpo
frantumato di chi le aveva ammazzato la madre, quindi fuggì alle libere
aure del Gigeln.

Ecco perchè ogni mattino, allo spuntare dell'aurora, la cascata si
arrossa, e si sente dalle roccie superiori il trillo d'un camoscio.

E Catterina?

Credete voi che ella d'allora in poi sorridesse tuttavia?

Così ha fine la leggenda della Frua.


III.

_Altipiani di Kerback, Valtoccia, Morasck e Bettelmatt._

Dall'altipiano di Uberaufderfrutt, ove all'ombra del portico della
cappelletta sull'orlo della cascata udiva la pietosa leggenda della
Frua, in meno di mezz'ora giunsi al vallone di Kerbach attorniato
da alte vette, delle quali la parte meridiana che si protende fino
al vicino anfiteatro di Morasch, è tutta lieta di zolle e di fiori.
L'aere risonava di monotone cantilene d'amore; erano falciatori
che sulle sdrucciolevoli chine del Thalli fornivano il loro lavoro
colla sicurezza de' contadini pianigiani. Le eccellenti disposizioni
ad imitare gli eroi d'Omero, che ad ogni fermata facevano un pasto
proporzionato alla grandezza delle loro imprese, mi fecero accettare
di buon animo la refezione, che m'offriva l'ospitalità d'un vecchio
ed onesto alpigiano. Quindi, poichè il sole già intiepidiva le
freschissime aure, per un sentiero che già fu strada mulattiera
selciata, ci arrampicammo per una buon'ora per la faticosa erta,
e fummo alle bocche della Valtoccia, vasto altipiano tutto ricinto
di picchi petrosi, mentre il suolo appiedi delle immense ciottolaie
verdeggia qua e là di sapidissimi pascoli. Ma come melanconica è questa
suprema convalle! I canti pastorali, il tintinnio delle collane degli
armenti, il loro muggire, tutto pare un doloroso lamento. L'orida retta
del Kastelhorn e le mute falde del picco del Nufenen-Stok spandono sul
resto del quadro la tristezza del loro aspetto. Il laghetto di Castello
rabbrividisce all'aspetto del Kastel che vi si specchia; il ruscello,
che ne sgorga guizza tacito fra i massi, quasi pauroso non dinoccoli
di lassù un macigno a riempire la limpida conca della sua sorgente. Il
ruscello forma più in là il bacino del Pesce, ove le trote non osano
amoreggiare che nel profondo.

La Toce ne nasce con poca festa. Le sponde dei due nappi e del torrente
sono sabbiose, nude: l'ombra del Kastel fece inaridire l'erba. Anche le
mandrie rifuggono in là.

In mezzo all'altipiano serpeggia il sentiero che pel passo confine
(Auf der Mark) conduce alle radici della Val Bedretto, alla vetta del
S. Gottardo, agevolmente in una giornata di cammino dai casolari di
Formazza.

Un mandriano, tutt'occhi e boccacce dalla meraviglia di vedere lassù
un cotale che nè comprava, nè vendeva bovine e formaggi, mi disse che
i Bedrettesi quando vogliono recarsi nel Vallese, invece di scendere
dalla Valtoccia a Kerbach, e di laggiù per Morask e Bettelmatt varcare
il Griesberg, usano per un sentiero difficile passare al di là del
Nufenen-Stok e scendere così nell'Egina evitando il lungo giro.

Intanto il cielo s'era coperto di nuvoloni fitti, lampeggianti,
e mentre m'aggirava per quelle solitudini malinconiose, mi colse
senz'alcuna difesa un acquazzone, che mi cacciò giù fino al casale di
Kerback più in fretta che io non avrei voluto, molle, inzuppato fino
alle ossa, fra le saette ed i tuoni, come già Mosè dal Sinai, colla
differenza che io invece di trovare gli alpigiani in ridda attorno al
vitello d'oro, li vidi raccolti attorno ad un bel fuoco tutti intenti
chi a mondare castagne, chi a sbattere la crema, e tutti ad ascoltare
le frottole d'un cacciatore, che all'appressarsi del nembo avea
frettolosamente deserto l'agguato per ripararsi sotto quel tetto.

Riazzurratosi l'orizzonte, lasciai Kerback e salii in mezz'ora a
Morask, l'alpe più popoloso di tutta la val Formazza.

Morask è meno ricco di pascoli di Kerback, ma è più lieto per più vasta
zona di cielo. La giogaia asprissima che rinserra l'anfiteatro verso
il meriggio, colle cuspidi eccelse del Zumstok e dell'Himmelberg, può
dirsi una parete di un solo macigno. Qua e là il diacciaio del Gries
che si stende dietro a quelle vette, lascia cadere un lembo del suo
lenzuolo sfavillante nella valle.

Prima della notte m'inerpicai ancora sulle erbose pendici del Thalli,
e vidi smaglianti all'ultimo raggio del sole le nevi eterne che
smaltano le nere orribili creste del Kastel, a levante, che voi dite
inaccessibili e che vi fanno rabbrividire al pensiero di trovarvi
sull'orlo del precipizio che si profonda giù fino alla radice del
monte, mentre in quest'istante forse un ardimentoso cacciatore di
camosci sta sul cigliare dell'abisso, fra la vita e la morte, spinto
lassù dalla sua passione.

Ma la notte già scolora ogni cosa: scendiamo.


IV.

_Ascensione del Gries — Diacciai — Le Alpi parlano._

    =Entrai per lo cammino alto e silvestro.=
                              _Dante_.

Partii da Morask pel Griesberg. Il sentiero addentratosi in una gola
ove per poco le falde dei monti non si combaciano, orma sopra la neve
ad una florida prateria, e di là, costeggiando per la ripida salita
il torrente che gorgoglia nelle crepature della rupe erbosa, guida
al valloncello di Bettelmatt, famoso pei cacii che fornisce l'Alpe
Anderlin. Prima di giungervi, voi valicate un breve contrafforte che
chiude anche da questa parte l'altipiano, mentre il torrente sbattuto
di sasso in sasso in bianca spuma s'interra nella forra che a furia
di pazienza e di secoli ha scavato attraverso al muro: badate veh! di
non sdrucciolarvi dal sentiero; chi vi trarrebbe di là ai casali della
valle? Il torrente solo.

Eccoci alle cascine. Esse stanno addossate ai frantumi che ingombrano
il passo nell'angusta bocca della scabrosa valletta del Gemmsland, in
cui l'ombra eterna e i massi paurosi e il deserto d'ogni vita incutono
orrore. La chiude in fondo il Siedel (3218 m.), dalla vetta del quale
fra spaventose diacciaie or piane, or gonfie come onda marina, or rotte
a bizzarre colonne d'ogni architettura, vedesi sorgere solitario il
picco del Blinnenhorn (3552 m.) l'altissimo dei monti che s'estollono
attorno alla nostra valle.

Mi riposai presso il letto del Griesbach, dall'onde biancheggianti,
dai ciotoli tersissimi, screziati a mille colori, e trovai fra le
ghiaie l'_asbesto_ bianco che i montanari dicono sughero alpestre.
Al di là del torrente, nella prateria un numeroso armento di bovine
agitava pascolando i sonagli delle collane. Alcuno di quegli animali
s'avvicinava a noi pauroso, e dopo averci a lungo guardato con occhio
stupito per le foggie disusate, ricorreva in mezzo agli altri di
gran galoppo. È incredibile il piacere che produce il tintinnìo dei
campanelli, il muggire, lo scorazzare festoso delle giovenche e dei
vitelli che con piede sicuro dichinano rapidissimamente per le pendici;
in questi animali pascolati liberamente all'aria, giorno e notte, senza
impacci di catene e di guinzagli, scorgi una sveltezza di moti che non
trovi in quelli del piano, lenti e taciturni.

Ma già il sole dardeggia; su ancora, un'ora, la più faticosa, e ti
riposerai sulle sponde dei due laghetti da giardino, da cui zampilla il
Griesbach.

Pervenni sulla cima dell'erta trafelato ed ansante per la soverchia
fretta con cui la brama di toccare la desiderata fronte dell'Alpe
m'aveva spinto per l'erta. Con animo palpitante, varcata l'ampia
murena, che con mirabile vicenda le diacciale ingoiano e rigettano,
mi trovai sul lembo dell'eterno diacciaio che dorme su quelle vette
supreme, dal Gries allo Stafelclogberg, abbracciando così dalla destra
pressochè tutta la valle di Formazza.

Eccomi sopra di esso. — Sento sotto di me — novissimo senso — un cupo
rumoreggiare, — fiumi forse che cascano echeggiando dalle caverne nelle
viscere del monte — forse, come la tradizione paesana, sono le anime
dei defunti che cantano preci di remissione. Lunghi, diritti, immensi
crepacci stagliano tutta la gigantesca massa — dove appena visibili,
dove a bocca aperta come mostri.

In questi crepacci, da cui il piede rifugge istintivamente, dormono
laggiù negli antri sonori, da dodici anni, due giovani francesi. Io
guardo in giù, nell'azzurra abisso senza fondo, e pavento di sentire
che gli infelici vi sdrucciolarono, o vi furono spinti dalla bufera
— non morti e che laggiù, feriti, col martoro di un'agonia che li
sorprende esuberanti di vita, senza speranza di sfuggire alla loro
sorte inevitabile, dolorosa, senza conforto alcuno d'affetti umani o
divini, imprecano al fato, o rassegnati aspettano di agghiadare fra le
braccia della morte, richiamando alla memoria le immagini dei cari...

Forse i Francesi s'erano avvicinati al Faul, nero fantasima che sorge
nel mezzo della diacciaia, ove dessa pare ondeggi come i fiotti marini.
Forse venendo in Italia, non s'erano attenuti alla loro sinistra, verso
la murena, ove i fessi sono meno frequenti e meno spaziosi — forse
da animosi perlustratori s'erano addentrati, verso il Ritzenhörner,
in quella vasta e terribile solitudine, su cui torreggia il Blinnen
— forse avviluppati dalla bufera avevano dimenticato un momento di
tastare coll'inseparabile _alpenstok_ se mai sotto il mobile strato
della neve non si sprofondava un crepaccio.....

L'Alpe tenta come il mare l'audace — ma spesso l'uno e l'altro, dopo
avergli rivelato i misteri più stupendi, ingoia gelosamente il sedotto.
L'uno e l'altro ti sfidano col loro fascino: se tu vinci una volta
impune, pensa che essi possono vendicarsi atrocemente.

Ambidue toccano il cielo. Ambidue cantano sì altamente la grandezza
della natura che la tua piccolezza ne rimane subitamente atterrita.

Dopo questo senso istintivo, tu osservi e le une e l'altro con
desiderio. In breve mille attrazioni sorgono ad innamorarti di loro: da
quell'istante non sono più due mostri, li ami e ti amano. Se loro sei
fedele amico, ti riveleranno la meravigliosa armonia che li unisce al
resto del mondo, la bellezza del loro essere e la grande generosità con
cui spargono dovunque la vita.

I diacciai dall'orrenda solitudine ti diranno che sotto la larva della
morte alimentano la vita, i fiumi che fecondano le riarse pianure. La
bufera stessa che schianta l'annoso pino come il tenero lichene, ti
dirà colle mille voci come da queste supreme convalli ventando, fuga
l'aria corrotta e sparge la salute. Così la tempesta marina. Mille
naufraghi disperati ti fanno imprecare ad essa. Ma la morte è la vita:
sono indivisibili, necessarie sorelle.

Nè meno mirabili ti saranno per amore le foreste e gli intangibili
pizzi nembosi.

Affidati ad un legno sull'incerta superficie del mare, sali sui vertici
alpini, e sentirai come necessità l'amore, come bella la libertà —
sentirai come se ti battesse in petto cuore di poeta.

Come l'anima, l'alpe ed il mare ti saneranno il corpo. Se la tua mente
paralitica non si scote, se il tuo corpo non riacquista elasticità e
vigore — tu sei già due volte morto.

Dal cucuzzolo del Gries, a cui salii di qui in mezz'ora, scorgesi
assai meglio il sottostante diacciaio, e meglio soprattutto lo stupendo
panorama delle Alpi Vallesane e Bernesi, che compensa largamente della
fatica della giornata. Il Grimsel, la Jungfrau, il Fisteraarhorn,
lo Stokhorn ed altre celebrissime Alpi s'estollono al dissopra della
verde cortina che separa dall'Oberland il Vallese; mentre a destra il
Rothental, il Nufenenstock, il Kuliboden, ed a sinistra il Faul ed il
Gemmsland pare sorgano a conversare con quelle fiere torri elvetiche.

Disceso il cono del Gries, ecco a mezzo il diacciaio, venire verso
di me a lunghi passi una strana apparizione. La doveva essere un
cacciatore fanatico che s'avventurava soletto fra le solitudini alpine,
col capo difeso da uno sdruscito cappellaccio a tre acque, le ossute
gambe infilate e diguazzanti in un paio di brache spelate, le uose
fino al ginocchio, due scarpaccie a mo' di barca da fare il giro del
mondo, mare e terra, un grosso zaino alle spalle, la lunga carabina ad
armacollo e il bastone ferrato nelle mani.

L'abito di prete cozzava a vista sì duramente colle venatorie munizioni
sotto cui sudava il poveretto, che al vederlo colla lunga e sparuta
persona arrampicarsi brancicando per l'erta, gli era la più risibile
cosa del mondo.

Eppure il reverendo Blummenkranz era stimabile persona. I compaesani
non lo dicevano _liberale_, nel senso popolare, — benchè fosse largo di
cuore e di mano — perchè non frequentava le bettole; ma assicuravano,
che, venuta la stagione delle foglie, il suo cervello ne andasse tanto
in visibilio da farneticare. Dopo la prima neve rientrava in se stesso.
Le stramberie della sua religione per la natura gli erano perdonate in
grazia del fervore con cui pregava Iddio a non dimenticare le messi
dei campi, i fiorellini delle praterie e le pinete. Don Blummenkranz
nato in Germania era stato altra volta un abate del bel mondo. A Berna
e a Ginevra non sono affatto spariti i ricordi delle sue dissertazioni
sulla necessità dell'amore.

La sua figura — innegabilmente ridicola — pareva una vivente
confutazione delle sue parole. Disingannato dagli uomini, senz'odiarli,
intese tutte le forze dell'anima nell'amore della natura dalla quale
otteneva rivelazioni sconosciute e voluttà arcane.

— Tutto parla, diceva Blummenkranz, ed io finirò per comprendere la
meravigliosa espressione delle cose.

Forse aveva amato una donna — ma qual donna avrebbe avuto compassione
di un essere così strano?

Malgrado i profondi studi naturali, egli dovette provare che la
cosmologia non era che un intoppo per la carriera ecclesiastica. Da
chierico fatto cappellano, e punto a capo.

_Contentus parvo_, egli non si crucciava di nulla. La natura
lo compensava largamente dell'irrisione degli uomini. Secondo
Blummenkranz, un uccello parlava più chiaramente d'un avvocato; gli
amori delle piante non erano una finzione imaginosa, ma una storia.
Credeva — senza oltraggio alla religione — agli spiriti che popolano
l'aria, l'acqua e le case, ed era in stretta famigliarità coi genii
delle Alpi. Conosceva le cause per cui i pizzi erano stati battezzati
con una parola anzichè con un'altra, quindi infinite leggende. Siccome
non aveva mai posto piede oltre la Svizzera, si meravigliava alla
descrizione delle vaste pianure, ed inorridiva al pensare, che vi
potesse essere una radura così sconfinata da non scorgere un monte e
che un uomo potesse vivere senza amare le Alpi.

Di lassù, appaiatosi meco, in tre ore discendemmo nella valle Egina
nel cantone Vallese, alle sponde del Rodano spumante, donde io contava
di recarmi al vicino Obergestelen sulla via al Grimsel. Il varco del
Gries, dal centro dell'alta Italia, è la via più breve al Bernese.

Lasciato D. Blummenkranz, m'avvio alla volta della mia meta. Se
non che io faceva i conti senza il temporale, che in pochi minuti,
abbuiato l'orizzonte angusto, si rovesciava nella valle. Alle prime
goccie ritornai frettolosamente sui passi miei, e ormai stanco dal
lungo cammino, bussai ad una capanna presso una chiesuola, invocando
ospitalità per amore di Dio e delle poche mie monete.

La porta della capanna venne aperta, ed una pertica, voglio dire il
reverendo Blummenkranz inchinandosi, m'offrì cordialmente il tetto
ed il desco. Lo credereste? Fu quella una delle più belle sere delle
mie peregrinazioni. La cena parchissima, forse insufficiente, ma
l'anfitrione era sì curioso nel novellare! Compresi che il romito
era miglior cultore dei piaceri dell'immaginazione che non della
caccia. Perchè adunque la carabina? Perchè, mentre tutti tenevano
per ragionevolissima cosa l'arrischiare la vita nella caccia, nessuno
certamente avrebbe compresa e rispettata la passione entusiastica del
povero cappellano.

Accomiatandomi, il reverendo Blummenkranz mi pose nelle mani un foglio,
dicendo: Serbatelo per memoria mia. — Risalendo, due giorni dopo la
mia gita a Meyringen, allo Stauback, l'Eginenthal, lessi in fronte alla
carta donatami:

                          LE MONTAGNE PARLANO.

Giunto oltre la diacciaia del Gries, sedutomi sul cigliare della balza
imminente a Bettelmatt, mi riposai, leggendo quanto segue:

                         «LE MONTAGNE PARLANO.

«— Su, Blummenkranz, quest'oggi salirai sulle Alpi, le vere Alpi, le
Alpi che mi dividono dall'Italia — il paese di cui non ho pronunciato
una volta il nome senza sussulto. Quest'oggi sono felice — me ne
rallegro cordialmente.

Di lassù spingerò lo sguardo nelle sue valli, ove sole e terra vanno
d'accordo nel fecondare e nel crescere — ove, senza dubbio, i fiori
sono più coloriti e le frutta più gustose.

Chi sa se non sentirò quell'aria piena di vita e d'armonie che suona sì
melodiosa scossa dalle vibranti cetre dei suoi poeti?

Forse i miei occhi vedranno poco — ma la mia anima? Dirò: conosco
anch'io _la terra ove fioriscono gli aranci_!

Pervenuto al vertice, m'inginocchiai riverente per salutare quel paese
che amo senza conoscere, e con tutte le facoltà dell'animo mio, dissi:

«T'amo, perchè io so da lunga pezza che noi abbiamo saldato ogni
partita per l'antica ruggine coi Romani; perchè comprendo che se tu
non vieni a noi col perdono sulle labbra, gli è che le ferite non sono
ancora rimarginate — t'amo e mi auguro di vedere la mia patria stretta
con fratellevoli nodi a te, che tutti i nostri bardi cantarono con
esultanza, e che la sola tirannìa ed i suoi odii feroci ne hanno fatto
sprezzare e combattere come maledetta.»

Profondo silenzio regnava attorno. Sospeso fra terra e cielo, quella
m'incantava, questo mi rapiva....... Le fronti delle Alpi corruscavano;
i loro manti erano agitati; il cervello del Griesberg su cui posava
era palpitante: dal rododendro esalavano inebbrianti profumi; in ampi
circoli le aquile si libravano nell'aria; i tordi montani cominciavano
a cinguettare misteriose note di amore, mentre il vento susurrava i
pastorali accenti del _ranz des-vaches_... Era allucinato?

Le nebbie, in cui i monti si avvolgevano, sfumarono; la luce innondò
da capo a piedi quei giganti che s'avanzavano, oh meraviglia! da ogni
parte attorno al Griesberg, come a parlamento — forse per ingannare la
noia secolare.

— Dunque noi che ardimmo scalare il cielo saremo turbati nella pace del
nostro sepolcro da questi embrioni superbi?

— O Grimsel, le parole che tu soffi, eruttando fumo e faville per
lo sdegno della tua maestà conculcata, trovano nella mia anima una
clamorosa eco. Sì, non vogliamo essere manomessi dall'uomo, o per la
morte come i Diablerets mi sfascierò sopra di esso!

— Meglio così, caro Firsteraarhorn, disse arrossando la Jungfrau
pudica, che io non vedrei più questi nani insolenti arrampicarsi sul
mio petto per baciare quella fronte che la sola bufera aveva per tanti
secoli tôcca. O meglio un fulmine mi scaraventasse giù nelle valli,
che gl'inverecondi baci di questi uccelli spennati!... Ahi! dove il mio
verginal candore?

Un'orrenda voce di scherno tuonò:

— Gran cosa in verità! Quanto volonteroso io non mi torrei i baci, di
cui fai sì grande scalpore, quando tu volessi scambiarli coll'atroce
ferita, che mi aprono nel bel mezzo del corpo... A me che pure tanto li
amai da nascondere la face che alta portava sul capo; ma guai a loro se
io riapro il varco al torrente di fuoco, che m'arde e rugge in petto!

— Infelice _Cenisio_, che sarebbe degli sciagurati senza di noi? Chi
loro feconderebbe la terra coi fiumi e temprerebbe l'aria coi venti?

La _Rocciamelone_ chiese la parola per la _Rosa_ immacolata.

— Immacolata! mormorò ironicamente la _Jungfrau_..... e Saussure, e
Vincent, e Zumstein, e il prete Gnifetti li conta per nulla?

— Facciamo osservare alla maligna _Jungfrau_ che non tutte le cinque
foglie vennero tocche.

— Cessate, rituonò il _Bianco_, la ridicola questione. I Romani ci
rispettarono con religiosa temenza, e questi vanerelli d'un secolo
impertinente osano contaminarci le candide stole! Ma a che ragunammo
questo onorando consesso? Per lagnarci delle clamidi insudiciate? Vi
cruccia lieve offesa quando vedete in noi bollire una fiera passione?
Se non vi talenta sentirvi prudere le membra da quest'insetti,
inghiottiteli nelle pieghe de' vostri manti. Mi lagno forse io? La
sventura del Cenisio è sventura che a noi tutti sovrasta. L'umana
famiglia minaccia di ridersi di noi, di attraversarci in ogni
guisa sotto mille pretesti. Confortiamo il Cenisio, e troviamo modo
d'impedire tanta ingiuria.

Il _Bianco_ stese una mano al _Cenisio_ — a cui mancavano per conforto
anche le salmodie della Novalesa; — commosso dalla regale degnazione,
svenne in braccio all'Iserano. Lo _Stock_ corse lesto in suo soccorso.
Alle lamentevoli grida del vegliardo, alle parole del _Bianco_ erano
accorse attorno attorno quant'Alpi regnano dal Simmering al Tenda.

Aperto il parlamento dal monte _Bianco_, considerato il caso esposto
— per un fatto personale — dallo stesso Cenisio, parlarono uno dopo
l'altro e sovente anche due o tre alla volta — tacevano da tanto tempo!

Il _Cenisio_ propose di sloggiare dall'Italia, terra ingrata per
eccellenza alle Alpi; il _Cervino_, ponderato l'irresistibile amore al
paese, propose di congiungersi tutte in sì orrenda maniera che nessun
passo si aprisse. Un viva — a gran maggioranza — accolse il singolare
progetto. Senonchè al punto di passare allo scrutinio, il _Viso_ chiese
la parola con voce, che fu sentita quasi nota fuori di chiave.

Il _Viso_ — siede a sinistra — educato a metà in Francia, tutto
pieno d'idee cosmopolitiche e fors'anco perchè nessuno gli aveva
sfiorato la pelle, cominciò a sfoderarne delle nuovissime sulla
bella tendenza degli uomini ad unificarsi — parlò dell'abolizione dei
neri, dei doganieri, dell'emancipazione della donna e di altre cose,
che colorando le Alpi come i più cocciuti nemici della fratellanza
universale loro minacciano più che mai la sorte d'essere traforate
e affettate — e finì con tanta eloquenza per proporre ognuno si
togliesse in pace il suo destino in grazia del progresso dei tempi,
con tanta eloquenza che i venerandi oratori, ritornati al loro posto,
ricominciarono a russare saporitamente.

                             . . . . . . .


V.

_Confini della valle — Le case, il desco, l'abito, il commercio,
l'agricoltura._

Ho fatto una visita a Zumsteg, al _palazzo municipale_, antica casipola
murata or fanno circa tre secoli lungo la Toce. Il fiume batte con
impeto sulle fondamenta e le mura tremano screpolandosi. Al pian
terreno s'apre verso la strada un'ampia finestra sbarrata da solida
inferriata — è la finestra del carcere. Da essa lo sguardo corre ogni
angolo della prigione, sicchè era ad una carcere e berlina. Al piano
superiore la stanza del consiglio; in un armadio le vecchie pergamene
del comune, delle quali sono oltremodo gelosi.

Notai nel mio taccuino quanto appresi dalla cortesia dell'onesto ospite
circa le costumanze de' suoi conterranei. Tu, compagno mio, forse
non avrai queste novelle in pregio come io le scrissi con amore; ma
pazienta lo stile dimesso e riposa, se vorrai aver lena da potere con
sicurezza toccare l'ardua sommità del Reti, che di lassù ne sfida.

I confini della giurisdizione di questo municipio comprendono la
terricciuola di Unterstald sino al ponte di Untergeschen: da esso
corrono, al mezzodì, al Minoio-Krüpfti passando sulla vetta del
Martel, e da quello all'Ofenhorn, da cui col limite dell'Italia per
le diacciaie fino al corno del Gries. Alla sinistra della valle poi
dal Gries pel Nufenenstok ed il Markhorn (2963 metri) al culmine del
Rizoberg segue l'orlo estremo del Canton Ticino; dal Rizoberg ritorna
al ponte di Untergeschen.

Il municipio senza reddito di sorta preleva le spese opportune da
imposte; ciascun casale ha boschi e pascoli che si dividono equamente a
beneficio d'ogni famiglia.

                                   *
                                  * *

Entriamo nelle abitazioni. Le case sono quasi tutte di legno colla
forma dei _châlets_ svizzeri, ed a tre piani: quello terreno è murato
e serve di cantina. I piani superiori sono costrutti con travicelle per
lo più di larice foderate internamente con tavolati bene mastiettati e
disposti con qualche simmetria. Il pavimento ed il soffitto, piuttosto
basso, sono pure di legno senza alcuna vernice.

Tutte le case hanno una camera più vasta delle altre, riscaldata —
forse soverchiamente — da una stufa di pietra, nella quale accendono
grande quantità di legna, e ciò da una parete interna di pietra che
contiene pure il camino della cucina. Tutte le stanze sono tappezzate
d'immagini sacre o di statuette in cera trasportate da Roma e dal
santuario di Einsiedelen in Isvizzera, dove si recano qualche volta in
pellegrinaggio. Una cosa curiosa si è che hanno sì indicibile amore
degli orologi a pendolo da averne anche tre nella stessa _stufa_:
notate che quasi tutti hanno poi ancora nelle tasche un orologio
d'argento.

Un Formazzese, nel tepore della sua stufa con un po' di patate e di
carne salata se ne ride della neve e del lungo inverno, e dice di stare
meglio di un re — costituzionale.

Ignoro perchè gli usci abbiano l'architrave tanto basso, che ad
ogni uomo di mediocre statura conviene inchinarsi per entrare nelle
case e per passare dall'una all'altra camera; forse questa stranezza
ha lo scopo di mantenere costante l'uso del saluto di chi entra. I
Romani scolpivano sulla loro soglia il motto che diceva benvenuto al
visitatore, squisita cortesia, che i tempi s'involarono con tant'altre;
i Formazzesi paiono invece più gelosi del rispetto dovuto al padrone
della casa che non di quello all'ospite.

Le finestre meritano una breve descrizione. Esse sono composte di tre
telai rettangolari separati l'uno dall'altro da un travicello verticale
a sostegno della parete superiore; ogni telaio è diviso in due sorta
di vetri da una linea di legno orizzontale; i superiori sono fissi
con piombo filato e per lo più esagoni, gli inferiori, più grandi,
rettangolari ed incorniciati, scorrono o da una parte o dall'altra
nella mastiettatura del telaio; ne viene perciò può sporgere al di
fuori altro che il capo; per lo più i vetri inferiori sono diacciati,
o, volgarmente, fatti a mandorle per nascondere ai vicini le proprie
faccende senza diminuire la luce.

Le stalle, le cantine sono senza finestre; nel trebbiale superiore si
coreggia la segale.

Se da una parte queste abitazioni sono asciutte, sane e comode,
la quantità di legnami onde sono costrutte presenta mille pericoli
d'incendio, tanto più da temersi per i venti e per la mancanza assoluta
d'ogni istrumento atto a spegnerli. Morasck, pochi anni sono, ardeva
interamente.

Il Formazzese, come gli Alpigiani in genere, si nutre di patate,
di carne salata, e beve vino ed acquavite. Sono golosi di caffè.
Anticamente non si faceva il pane che al fine di novembre per tutto
l'anno; ora suole farsi almeno due o tre volte all'anno.

Ho visto più d'una volta la famiglia d'un agiato Formazzese assidersi
senza distinzione fra il capo ed il servo ad una pulita tavola
di acero, in mezzo della quale stava un gran piatto, in cui tutti
pescavano colla forchetta o col cucchiaio; antichi costumi che i
Formazzesi conservarono gelosamente sino al giorno d'oggi.

                                   *
                                  * *

Ora i calzoni lunghi, la casacca di frustagno o di panno e il cappello
di feltro hanno dato il cambio alle lunghe calze bianche trapunte,
alle brache, al panciotto rosso, all'abito a grandi tasche, nonchè
al cappello a larghe tese. Nell'inverno le gambe per diguazzare
nella neve coprono con uose di lana sino al dissopra del ginocchio;
alcune cordicelle legano alla scarpa la falda che copre il collo del
piede. Alcuni fra quelli che furono in Roma recano ai patrii monti
l'uso incomodo di quel cappello cilindrico — che rappresenta sì bene
le tendenze artistiche del secolo — con non poca antitesi col resto
dell'abito.

Le donne, che vent'anni sono coprivano il capo d'un pittoresco
cappellino adorno di nastri, lo coprono ora con un fazzoletto rosso
annodato alla nuca. Il seno è coperto da un panciottino a varii colori,
dal quale spunta attorno al collo un pizzo. Le vesti raccorciano la
taglia e giungono a mezza gamba: nell'inverno sono di panno sottilmente
piegato; le braccia ed il dorso coprono con una giubboncella a lunghe
maniche. Nessuno va scalzo; gli stessi zoccoli in legno sono poco
in uso. Nei giorni festivi principalmente il loro uniforme vestire è
notevole per pulizia.

                                   *
                                  * *

La fonte del benessere dei Formazzesi consiste negli ampii pascoli,
dei quali si vantaggiano gli altipiani e le convalli superiori, per
cui ben mille bovine vi traggono dalle proprie stalle e dall'Antigorio.
Una parte di queste scende poi a svernare al piano. Falciano una volta
all'anno il fieno nelle praterie meglio soleggiate, ed alquanta segale
che non cresce sempre a maturità. In tutta la valle ho veduto un solo
albero fruttifero nell'orto di una casa in Fracco, un povero ciliegio
bramoso di sole e di nutrimento che intisichiva.

Sul finire dell'estate, i Formazzesi più danarosi attraversano il Gries
per recarsi alle fiere di Meyringen nell'Oberland, ove fanno incetta
di giovenche e di vitelli che con loro infinito disagio conducono
poi di qua dai faticosi gioghi del Grimsel e del Gries ai mercati di
Domodossola, soddisfatti di un guadagno poco proporzionato a sette
giorni di viaggio disastroso.

                                   *
                                  * *

I Formazzesi sono di statura piuttosto alta, nerboruti, agili e svelti.

Le donne sono più notevoli per robustezza che per avvenenza di forme,
e meglio ritraggono la seria impronta dell'antica patria, che non la
gentile finezza del profilo italiano.

Quanto all'indole dei Formazzesi, sì largamente dotati dalla natura di
saldissime membra, mi parve ottima. Del resto nella valle nè polizia,
nè milizie comunali. Pochi doganieri perlustrano i confini nei quattro
mesi della bella stagione.

Le furie sanguinose della vendetta e della gelosia non agitano i loro
cuori, in cui le passioni per l'indole pacata e riflessiva, pei nodi
fratellevoli del sangue, per influsso della fede, e fors'anche per
effetto benigno dell'aria che tutto volatizza, hanno meno impero che
non avrebbero altrove.

Ho già notato altrove che la maggior parte — e doveva dire la migliore
— della gioventù maschile emigra a Roma. Avvenutomi un giorno in un
crocchio di garzoni di recente ritornati da quella città, avendoli
richiesti dell'arte che praticavano, uno d'essi risposemi: — vi eravamo
ministri.

Non crediate che i dabben uomini governassero colà il periglioso timone
della pubblica cosa, come si crederebbe a prima vista da noi. Presso
il popolo a Roma ministro è semplicemente il garzone di bottega. O
ambiziosi!

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                                  * *

Tutta la valle era anticamente una foresta, come lo indica lo stesso
nome dei villaggi. I primi immigrati sterparono le foreste del piano,
conservando a sicurezza della valle le folte boscaglie che vestono
i monti, senza la quali in pochi anni l'intiera vallea sarebbe
un deserto, un caos di frane, di ciottoli — forse il letto d'un
ghiacciaio.

Da Unterstalden alla Frua (1885 m.), oltre la quale non trovai che tre
o quattro pini nei valloni di Kerback e di Morasch, s'elevano veri Dei
Penati della valle, migliaia e migliaia di pini, di larici e d'aceri in
foltissime foreste.

In esse il balsamico profumo della pianta stessa, il muschio che copre
da secoli la rupe, la misteriosa oscurità e quell'indefinibile musica,
che fa il più lieve susurrare di vento fra i rami e le foglie, ti fa
sostare le ore seduto appiè di quegli alberi secolari, assorto, rapito.
La più bella di queste foreste è quella che copre il Reti fra Touffwald
e Wald. La salita è rapidissima. Sopra la pineta poca verzura, e poi
le nude roccie, fra cui ultimo l'odoroso rododendro, il quale fiorisce
spesso sul freddo terriccio delle diacciaie. Di quando in quando —
troppo sovente forse — si recidono i pini più annosi, anche sulle
difficili cornici; ed io me ne andai più d'una volta presso Andermatten
a vedere le travi scuoiate tratte dai legnaiuoli sulle fittizie rotaie
scivolare rapidissime dalle balze del Krayhorn al fondo della valle.
Ammassati questi fusti in cataste lungo la strada, le traggono poi
nell'inverno sulle slitte sino alla rupe di Puneigen, sulle casse e
li precipitano da quel ciglione. La Toce conduce poi queste travi al
Verbano. I legnaiuoli che esercitano questa pericolosa tratta sogliono
essere per lo più della valle Cannobina o del Lago Maggiore.

                                   *
                                  * *

Entrai in un antico abituro a Gurfelen.

Da lungo tempo vi abitava la miseria e la malattia. L'infelice sdraiato
nel suo lettuccio di paglia, mi guardò con occhio stupito, e con fioca
voce disse:

— Non guarirò più, sa? Ho tentato ogni rimedio.

— Che vi disse il medico?

Mi guardò altra volta meravigliato.

— Medico? Noi non abbiamo medici. La visita d'un medico da Domodossola
rovinerebbe la mia famiglia. Ci curiamo con decozioni di erbe
aromatiche, con acquavite, burro e grasso di marmotta. Ma io ho tentato
tutto invano..... forse mi manca qualche pianticella... l'ho già
sognata tre volte..... ma non ne so il nome. Gli è come il mio male, mi
sento morire e non ne so il nome.

Perchè non conosco io la pianticella che tu sogni!


VI.

_Costumanze curiose — La scolaresca._

Stamane per tempissimo che appena la cuspide dello Sternehorn
s'indorava ai primi raggi del sole, ed ancora soffiava nella valle
la notturna brezza, uscito dalla capanna per godere il sempre nuovo
spettacolo dell'aurora e bagnarmi in quella frescura, ecco a capo
del ponte di Wald un drappello di questi buoni montanari che recano
a battesimo un neonato. Il padrino coperta la testa d'un cappello
di feltro tutto ornato di lunghi nastri svolazzanti e la persona
d'un lungo mantello — qualunque sia la stagione — porta al tempio il
pargoletto per esservi battezzato, tenendolo nascosto sotto le falde
del pallio: sicchè il Formazzese al primo uscire alla libera luce dei
campi non ha le molli donnesche carezze, ma comincia sotto quei ruvidi
panni ad educarsi ad una vita tutta laboriosa e parca.

E di tanto mi fu cortese la sorte che mentre io me ne sto quassù
badaluccando s'ammogliasse il gallo della checca del villaggio di
Zumsteg.

Tutti gli amici ed i vicini sono concordi a festeggiarne le nozze con
incondite canzoni, con moltissimi spari d'arcobugio e di pistola,
onde tutti gli spechi montani e valloncelli attorno ne echeggiano
lungamente. Al partire della sposa dal natio casale nessuno compare
a far evviva: un canto, un colpo di carabina sarebbe un insulto. Così
gli sposi s'avviano coi pochi più stretti di sangue al tempio. Appena
usciti, ecco loro incontro una frotta di giovani stranamente mascherati
che li saluta con fragoroso tuonare delle armi. Uno di questi, coperte
d'una sottile maglia le vive carni, malgrado la brezza quasi invernale
del mattino, precede gli altri e dalle penne ond'ha ornato il capo
appare quale Caraibo. Egli tiene spiegata nella destra una piccola
bandiera bianca orlata di fettuccie rosse, quasi simbolo di pace e
d'amore. A parte le antitesi dell'abito colla temperatura, il nostro
giovinotto fa bella mostra di tarchiate membra e di sporgente petto,
quale scolpiva Spartaco il Vela. Quest'altro che inchina sul bastone
la gibbosa persona, ti rappresenta al vivo un vecchierello di cent'anni
fa, coll'abito rosso, le scarpe fibbiate, il cappello a tre punte e lo
sparato della camicia trinato, tutto splendente di cento bottoni che
non hanno pari se non lo scudo d'Achille.

Questi dalla persona sottile, dritta ed alta come un pino, si è
travestito da donna con non poca ingiuria al bel sesso.

Alto là! Ecco una cricca di furfantelli ha sbarrato la strada: gli
sposi non oltrepasseranno la barriera se non distribuiscono ad ognuno
un fazzoletto. Durante il cammino gli amici continuano allegramente ad
assordare collo sparo delle armi i poveri sposi gongolanti per tanta
festa. Al giungere al casolare dello sposo la strada è nuovamente
barricata con una tavola imbandita di ciotole e di boccali: nuovi
evviva: nuove libazioni, nuovo fragore.

Pagato anche qui il dazio e sgombrato il passo, essi si recano
all'abituro dello sposo, ove nella _stufa_ li attende un desco tutto
carico di caci, di carni salate. La sposa s'assiede a capo del tavolo,
mentre lo sposo fa da coppiere: mesce ad ogni istante ai convitati,
pago dei loro evviva; in quel giorno la sua casa è di tutti, chiunque
ha dritto di cioncare a sua posta quando ha fatti voti per la felicità
della sposa.

Accade qualche volta, mi si disse da un burlone, che sopravvenuta la
notte, lo sposo è ancora a digiuno, poichè nessuno ha pensato a lui ed
egli solo ebbe a pensare a tutti.

                                   *
                                  * *

Chi non si ricorda sorridendo dei primi tempi della scuola infantile?
Allora forse il giorno era sovente affannoso pei rimbrotti ed i
castighi nell'_ingiusto_ maestro, per le paterne tirate d'orecchi,
per la perdita di qualche biglia al classico arringo dei birilli! Ma
è destino dell'uomo rimpiangere il passato, sprezzare il presente
e sperare nell'avvenire. Queste ed altre più cose per consolarmi
della perduta fanciullezza io pensava quando entrai fra la scolaresca
formazzese, una quarantina di biricchini che mi parvero italianamente
svegliati, i quali convengono in Zumsteg da tutti i casolari della
valle per imparare la lingua tedesca ed italiana, il conteggio
elementare e lo scrivere. Entrato, zittirono: interrogati a prova,
risposero a cappello — ed io a rallegrarmi coll'ottimo D. Pietro
Anderlin per la veramente alemanna perduranza con cui pazienta a prò
del suo paese. In Zumsteg ed Andermatten vi sono ancora scuole per le
bimbe, e tutte fioriscono — anche perchè nella valle il saper leggere e
scrivere è cosa da lungo tempo tenuta indispensabile.


VII.

_Una lezione di meteorologia — Il frugnare e le volute — O mi date
ragione, o non mi fate stare _sulle spese_._

Nella valle Formazza l'anno non si divide come altrove in quattro
distinte stagioni: un vecchio adagio dice esservi nove mesi d'inverno
e tre di freddo. L'inverno comincia generalmente coi primi giorni di
novembre, benchè nella seconda metà di ottobre si faccia già sentire il
gelo. Nel maggio si liquefanno le nevi, ed il giugno desta dappertutto
la verzura. Ma luglio, agosto e settembre sono i tre mesi di questa
state, nella quale non è raro alzarsi al mattino e vedere i declivi
superiori ammantati d'un bianchissimo strato di neve, che poi i raggi
solari fanno sparire in brev'ora.

La valle essendo circondata attorno da estesi ghiacciai, la temperatura
estiva è freschissima: in tutta la state il termometro Réaumur non
segna all'ombra oltre i 16 gradi sopra lo zero: scendendo qualche
volta sotto i 10 gradi, il che darebbe una media di 12 a 13 gradi di
calore; d'onde chi vi villeggiasse può a suo bell'agio correre a caccia
per le balze montane, al sole, senza che gli avvenga di ritornare
all'albergo soffocato e tutto molle di sudore. Il sole intiepidisce le
aure che scendono dal Gries e dalla Valtoccia e non sferza, illumina
e non accieca. Perciò i valligiani vestono tutto l'anno pannilana, e i
cappelli di paglia e gli ombrelli sono qui inutili.

Quanto poi alla stagione invernale essa vi è veramente poco piacevole,
e per la sua durata di otto mesi e per la quantità della neve che
talvolta copre la terra di uno strato di ben tre metri di altezza.

                                   *
                                  * *

Le volute, come le chiamano gli abitanti dell'Apennino toscano sulla
strada dell'Abetone, e noi diciamo valanghe, sono, come non tutti
sanno, frane di neve, che traboccando dai supremi pendii alpestri,
ingrossatesi nel subitaneo cammino, rovinano al basso senza che capanne
od alberi valgano a trattenerne l'impeto funesto. Il rombo della voluta
è simile a quello del tuono, e la furia con cui avvalla è tanta che
l'aria percossa da così ingenti masse sprigionandosi d'attorno abbatte
uomini e bestiame non punto tocchi dalla neve.

Vid'io staccarsi dalle somme rupi, in prospetto alla capanna ov'io
dimorava, un'immensa massa di neve e precipitare sul pascolo detto del
Bedriöli. Una capanna ed una stalla non poterono resistere allo scoppio
dell'aria, e senza essere tocche dalla frana vennero schiantate di
pianta e trasportate alla distanza di cento passi.

A dare poi un'idea dell'irrepugnabile furia di queste masse nevose, non
increscerà al lettore che io qui trascriva quanto trovo in un antico
libro di memorie d'una famiglia di Fruttwald. Tralascio alcune risibili
raccomandazioni di quell'autore _di non stare sicurtà_ e soprattutto la
peregrina ortografia del testo.

«L'anno di grazia 1701 cominciò a venire giù neve alli 6 marzo
seguitando senza interruzione sino alli 16: per la qual cosa dalla
Cima Rossa e dal Krayhorn rovinò sopra Andermatten una frana di neve
tanto smisurata, che abbattè una casa e tre stalle, ruppe la porta e
le invetriate della chiesa parrocchiale empiendo tutte le stanze di
neve. Della cappella della confraternita sfondò le invetriate, fracassò
l'angelo del trono di S. Pietro ed altri arredi. Pertanto Formazza
è paese della neve, ed ognuno deve procurare di avere fieno sino al
giugno, in cui, se prospera la stagione, comincia a crescere l'erba.
_Soprattutto ognuno si guardi dalla miseria_: chi scrive per esperienza
vi dice che le cose andranno ognora di male in peggio o come le
stagioni.»

Anche lo spiritosissimo Rabelais si lagnava, tre secoli or sono, che
non vi fosse più nè state, nè verno.

                                   *
                                  * *

La neve da lunga pezza copre vero lenzuolo funereo la natura: solo
qualche fronte insofferente di velo s'aderge nuda. Nel silenzio rotto
dal brontolio della Toce che serpeggia nella vallata, mi giunse
all'orecchio un rombo lontano verso il Thalli, dove una cortina
grigiastra pesa sulle alture.

Che è? Presto in casa: fuggi, è la bufera che avvolgendo furiosa
ne' suoi turbini quanto trova di leggiero sulla terra, la neve e le
foglie, oscura l'aria ed acceca di modo che sarebbe impossibile di
toccare la soglia prediletta dell'amica. Sbarra la porta — senz'indugio
— e la finestra. Senti come picchia, come sbatte le imposte? Vieni
a questa finestruola e sogguarda dal fesso... tu rabbrividisci? Le
foreste sbattute s'inchinano timorose — l'aria percossa stride, urla
orrendamente — le campane suonano a stormo da sè stesse — l'agnello
smarrito trabocca nel precipizio — la capanna barcolla — il rododendro
è schiantato e il frugnare passa avvolgendosi in un turbine di neve e
di foglie.

Qui colma il sentiero; là attraversa il piano scavando nella neve
un fosso profondo, dritto, come farebbe un aratro gigantesco;
quell'abituro, quella chiesa scompaiono sotto la mole nevosa che loro
addossa il furibondo ventare, mentre queste siepi, poc'anzi sepolte,
restano ad un soffio nudate, ripetendosi questa vicenda ad un batter
d'occhio.

Intanto dall'impercettibile fessura tra i vetri s'introduce in casa una
nebbia di sottilissime falde nevose.

Alle volte queste tempeste montane durano anche vari giorni. Passata la
furia si trovano le bianche praterie solcate come da ondosi cavalloni,
e qualche volta rami di piante portati da remote regioni, come pochi
anni or sono sopra l'altipiano del Gries trovaronsi foglie di noci,
castagni e di tigli.

La bufera delle alpi è sorella del Simoun del Sahara.

Mentre al di fuori mugge la bufera, per passare mattana in barba alla
noia che appunto in questi tempacci vi s'incolla addosso, noi agiati
nel tepore di questa capanna, in mezzo ad un crocchio di vezzose
forosette — non farti troppo vicino, compagno mio, il soverchio rompe
il coperchio — ascoltiamo dai novellieri le antiche tradizioni del
paese. Fra queste è notevole, come avente origine alla primitiva
immigrazione, quella che accenna all'esistenza di una famiglia che
viveva a mo' delle fiere nell'ancora deserto Morasck negli spechi e
nelle crepature dei macigni dell'Himmelberg. Ma cercheresti invano una
leggenda, una tradizione che possa snebbiare il tempo e la contrada
da cui presero le mosse, incalzati forse dalla fame o da qualche
persecuzione alle felici terre di queste convalli italiane.

Osservando attentamente dal modo di appellare nomi oltrealpini le
acque diverse che irrigano la valle, — costumanza che senza fallo
accenna alla cura amorosa, con cui i loro predecessori cercarono di
rammentare l'abbandonata patria — onde chiamano tuttora la Toce Reuss
ed il torrente del Gries Rhone — mi pare che si possa dedurre che i
Formazzesi o emigrassero dalle non rimote valli della Reuss e Rodano, o
tanto vi sostassero da rammentarsene con tenerezza. Wendel vuole queste
genti Sassoni.

Varii antichi storici chiamano Germani questi abitatori delle Alpi
Pennine o Leponzie: di ciò ne accerta e la diversa struttura fisica e
più di tutto la favella, la quale può dirsi un tedesco poco corrotto,
se riflettasi che essi sono sempre stati in maggior contatto cogli
Italiani che non cogli Svizzeri. L'italiano introdotto nelle scuole,
la quantità dei giovani che vanno e vengono da Roma, e che lo parlano
discretamente rendono ora lassù più comune la lingua nazionale.

Essendo affatto incerta l'epoca in cui la colonia tedesca immigrò,
occupiamo questa giornata piovigginosa scartabellando quel po' di
storia trascritta qua e là a spiluzzico dalle pergamene e dalle
cronache municipali. In essa non trovasi pagina, o motto, che dimostri
la valle di Pommat indipendente per governo dalle vicissitudini
dell'Ossola; ma dagli Sforza agli imperatori d'Austria conservò
tuttavia sempre amplissimi dritti di giudicare nelle cause riflettenti
il proprio comune, eccettuati i delitti e le controversie più gravi;
per cui la valle Formazza formò senza dubbio per molti secoli una vera
repubblica con vassallaggio verso i signori della Lombardia.

È notevole che questi alpigiani ogniqualvolta discesero dalle loro rupi
per recarsi alla Corte in Milano per protestare contro i feudatari
dell'Antigorio, tennero sempre il linguaggio di chi ha l'intima
convinzione che nessuna forza al mondo possa sopraffare la voce della
verità.

Recatisi una volta in Milano per ottenere giustizia contro i
Valvassori De Rodes, da un giorno all'altro, siccome è tuttora uso,
veniva procrastinata l'udienza. Annoiati d'aspettare e di spendere,
cominciando a conoscere quanto sa di sale l'attendere nelle anticamere,
scrissero al governatore in quella città si compiacesse ottemperare a
quanto domandavano senza farli stare maggior tempo _sulle spese._

Della loro franchezza, della loro fede nella giustizia, ecco un altro
documento, che ne piace qui trascrivere.

Il lettore, se non lo salta a piè pari, converrà con noi —
paragonandolo a certe strisciature del giorno — che i Formazzesi,
se erano poco versati negli affari di Stato, non temevano protestare
altamente, a nome della loro povera e microscopica patria, in faccia
a chi poteva sterminarli, come Giove olimpico, con un corruscare di
sguardo.

  «(Anno 1700).

  «_Illustrissimo magistrato_,

«Non mancava altro per dare il finale esterminio ai poveri habitanti
della valle di Formazza che il notificato l'anno del Signore scorso
sporto alle SS. VV. Ill.me di che godessero certi molini senza
il pagamento di certe annate ad essi imposte. Pare bene stiano ai
medemi il dovere contro il tenor preciso de' suoi privileggi, che qui
l'esibiscono, restare ad un nuovo et impensato aggravio costretti,
e quel che è più, che vengano chiamati molini certi edifitii che non
valgono in tutta la corporatura quaranta lire, et che non macinaranno
uno staro di grano, ò due, ò puoco più in un anno, quandochè i
montanari puonno haverlo, come patente dalla Relatione stessa del
dottore Scacciga che fu colà delegato dalle SS. VV. Ill.me con spesa
di più di cento lire ai patroni di quei molini. Motivi al certo che
obbligherebbero quelli habitanti ad abbandonare il paese, quando et
l'innalterabile giustitia et l'innata equità di questo Ill.mo Tribunale
non li lasciasse ancora sperare che, _ben conosciutisi_ i privileggi
fatti a quel popolo tedesco dedititio, sempre vissuti sotto la corona
di S. M. _più per via d'aderenza che soggettione et haventi leggi
proprie et consiglio di giudicio proprio_, et che finalmente viene
esentato da ogni genere di cotesti aggravii, et havutosi riflesso
alla tenuvità d'edifitii, al lavorerio che fanno, non siino le SS.
VV. Ill.me per molestarli, _lasciandoli vivere colla sua pace_, per
la quale ricorre Gio. Tioli in nome di tutti gli altri, e _proprio
servitore_ (!) a' piedi dell'Ill.mo magistrato, etc., etc.»

Segue poi un altro documento in cui questi montanari espongono alla
detta Camera di Milano come sia:

«Dovere di osservare i loro privileggi, ai quali _derogare non puonno
nè grida degli Is. Governatori, nè qualunque altra superiorità_.»

Davvero che gli Spagnuoli in ispecie dovevano alla lettura di queste
domande inarcare un tanto di ciglia.

Venendo ora a quei privileggi diremo qualche cosa della loro origine.

Giovanni Galeazzo Maria Visconti in Vigevano addì 20 aprile 1486
concedeva ai valligiani il dritto di giudicare tutte le cause
civili e commerciali nel loro tribunale, obbligati solamente a
deferire al capitano commissario ducale in Domodossola quelle di
gravi crimini o miste, e riconosce _ordines et statuta vallis ipsius
hactenus observata_. Non trovando simili autorizzazioni governative,
anteriormente si può credere con ragione che le leggi che reggevano la
valle fossero state stabilite dai loro stessi maggiori poco tempo dopo
la loro immigrazione.

Ludovico Maria Sforza in Milano addì 7 maggio 1502 confermava i
privileggi dei Formazzesi, aggiungendone qualche altro riflettente i
feudatari De-Rodes. Nel 1531 questi tirannelli, abusando della loro
forza, vollero aggiungere al loro feudo la valle: i nostri montanari
presentarono tosto al Duca Francesco II una supplica per conservare la
propria indipendenza, e riescirono anche questa volta nel loro intento.

Filippo III di Spagna nell'anno 1611 da Madrid riconfermava queste
antiche prerogative.

È senza dubbio cosa curiosa l'osservare che i Formazzesi obliando che
i loro signori con poche centinaia d'arcieri potevano sottomettere ad
ogni loro capriccio la valle, in ogni protesta, anzi in ogni supplica
rammentino con sicurezza di essersi _dati_ ai signori Lombardi e di
non essere stati conquistati. Da ciò si può congetturare una primitiva
sottomissione agli Svizzeri, o meglio una quasi assoluta indipendenza.
La stessa posizione della valle conferma quest'ultima induzione, poichè
per molti mesi dell'anno il Griesberg e la Valtoccia sono insuperabili
per le altissime nevi; e verso l'Antigorio, dopo tanti secoli oggidì
tuttora il passaggio è poco migliore di quello alla Svizzera.

Il trattato di Vorms cedendo l'Ossola ai principi di Savoia, la maggior
parte di quelle concessioni cessava: lo statuto del Re Carlo Alberto
dichiarando tutti i sudditi eguali d'innanzi alla legge, abrogava
finalmente ogni vestigio delle franchigie antiche.

Nel manoscritto delle leggi che già governavano la valle, non trovai
di notevole che una punizione severa a chiunque tentasse alienare
gl'immobili a favore di persone non nate nella valle. Del resto esse,
poco più poco meno, non differiscono da quelle che erano in vigore in
quel tempo.


VIII.

_Dove il paese senza un eroe? — Vita e miracoli del capitano Guenza._

Io non v'ho ancora tessuta la vita ed i miracoli di qualche Formazzese:
nè voi avete dato segno d'accorgervene, quasi certi che sotto quelle
ruvide sargie non possano ripararsi che omaccioni di forza erculea e di
cervello tondo come l'O di Giotto. Niente affatto, signori miei. Non
avete mai sentito la fama buccinare il nome del formidabile capitano
Guenza? No? Tanto peggio per voi, obbligati a trangugiarne ora la
biografia, e tanto meglio per me che potrò acquistarmi fama, dopo
d'essere stato l'Amerigo Vespucci della valle Formazza e della cascata
della Frua, di essere il Colombo del capitano Guenza, il quale era,
come tanti altri eroi sconosciuti, nato fatto per conquistare mezzo
mondo, se auspice alla sua culla era la _buona occasione_ arbitra
suprema dei fati umani.

O se questa dea volesse favorire quanti la invocano, che nebbia d'eroi!
Andate in un caffè di provincia all'ora della chiacchera politica —
sentite quei Machiavelli in erba, e ditemi se con una _buona occasione_
non farebbero impallidire tutti gli astri diplomatici.

Antonio Guenza era il più scapato ragazzo della valle, da Crevola al
Gries; indole e persona senza paura, indomita, a tutta prova. Io,
colla vostra buona venia, avrei una smania da non dirsi d'imitare
i grandi maestri di biografie, i quali convengono tutti che i loro
uomini illustri, piccini (anche a loro tocca nascere, poppare e fare
tutte quelle altre cose che voi sapete), dimostravano una gran voglia
di studio, una precocità d'idee straordinarie nella loro testolina da
far prevedere qualcosa di grosso, sicchè tutto il resto della vita non
è che una rettorica amplificazione della prefazione. Antonio Guenza
invece era sempre al banco dell'asino della scuola: — se c'era la
scuola — e il primo a scaraventare pugni a iosa a chi non la pensava
come lui, malgrado la sferza dell'amoroso babbo a cui non veniva fatto
di tenere il figlio fra le domestiche pareti, nemmeno sprangando la
porta col catenaccio.

Antonio era come l'aria natia; passava da tutti i buchi, correva sulle
più perigliose cornici montane, e nell'inverno scivolava a precipizio
per le chine più repenti coll'impassibilità con cui altri scenderebbe
una comoda scala. Nutriva poi un disprezzo senza confini per le siepi,
principalmente dei frutteti. Alla sera l'appetito più che la stanchezza
lo menava a casa, ove lo attendeva la solita tirata d'orecchi e un po'
di cena, dopo la rammanzina del povero babbo ed il serio proponimento
che al domani senza fallo — avrebbe ricominciato da capo.

Pensate se con quell'indole poteva starsene a lungo fra i quattro monti
dell'Antigorio! Questa storia succedeva or sono più di due secoli — vi
fo grazia della data — quando la Lombardia era tutta vesciche gonfie di
Spagna.

Un bel dì — forse grandinava!... granchè quest'usanza di parole! — un
bel dì adunque quel Toniaccio scompare. Il babbo amoroso alla terribile
notizia si sentì proprio sollevare dal capo un gran peso; forse se
n'era ito a Roma a fare il fornaio, il famigliare di qualche prelato...
chi sa? forse il frate?

Zitto: ecco una missiva dell'Antonio al caro babbo.

— «Voi mi cercate... (che granchio a secco!)... invano. Sono già
abbastanza _grande_ per sapere che senza denari non si fa un icchese.
Se non diventerò papa Facchinetti, non importa; ma ritornerò a
casa ricco ancor io e potente. Non bevete tanta acquavite se volete
conservarvi alla mia fortuna.» —

Passa un mese, un anno, due, cinque, dieci, quindici e nessuno sente
favellare di Tonio.

Una triste giornata d'autunno, presso uno dei più remoti villaggi
dell'Antigorio, cinque o sei birri giungevano alla casa del vecchio
Guenza, debitore di non so quali gabelle alla Corte di Domodossola.
Essi stavano per compire la loro bisogna, ch'era di portare via il
meglio dell'abituro e di confiscare in nome dello Stato il peggio,
quando di buon trotto un cavaliere sui quarant'anni, dal viso di
bronzo, armato di spada e di pistole, giunse alla porta della casipola
mentre il vecchio litigava coi gabellieri.

Il nuovo arrivato chiese al vecchio di permettergli di mettere a
sosta la cavalcatura trafelata, e di potersi riposare all'ombra dei
castagni che stavano là intorno, e senz'altro, come a promessa di più
larga rimunerazione, fatto portare un capace fiasco di vino da una
osteriaccia vicina, offerse agli altri di dividere con lui il rezzo dei
castagni e la bevanda. Al generoso signore nessuno disse di no.

Tracannato il fiasco, lo sconosciuto disse essergli saltato il ticchio
di mangiare due castagne arroste, se era possibile; al che gli astanti
risposero che se ciò talentava alla sua signoria illustrissima essi ne
avrebbero sbatacchiate, e in poco d'ora fatte cuocere; e già uno d'essi
s'era levato per andare in cerca d'una pertica, quando lo sconosciuto
s'alzò d'un tratto, e disse:

— Fermate! Ora ci penso, la pertica è inutile: bastano le mie pistole.
Vedete lassù sulla punta di quel ramo cinque o sei grossi ricci?...

Imberciò un istante il ramo a cui pendevano i frutti, scaricò la
pistola, e in mezzo a cento foglie spezzate le castagne caddero a
terra.

Mentre gli astanti guardavano stralunati l'autore d'un colpo sì
meraviglioso, egli ricarica la pistola sparata, quindi indietreggiando
sino al castagno, con voce terribile, appuntandole tutte e due contro i
berrovieri di Domo, gridò:

— Partite: questa è la casa del padre del capitano Guenza che vi fa
sacramento di bruciare le cervella al primo che si volta indietro.

Questa fu la prefazione che Antonio Guenza, di ritorno dall'armata di
Spagna pieno l'animo d'intollerante audacia e le tasche di doppioni
d'oro, pose alle sue opere future.

Ad Arivasco, se non erro, havvi ancora una sua casa colle mura
perforate da fuciliere.

Salì poi in valle Formazza, ove regnò assoluto signore.

La tradizione popolare, che conserva memoria vivissima di quell'uomo
strano, lo raffigura piuttosto come superbiaccio che voleva imporre
ossequio e timore che non uomo d'animo perverso. Nessuna contrattazione
facevasi senza che il capitano avesse dato il suo beneplacito. Con
lui non si scherzava punto: armato di stocco e di pistole, quando gli
talentava uscire per le viuzzole dei casolari, i ragazzi correvano a
nascondersi sotto il grembiale della mamma, e gli uomini s'affrettavano
a cedergli il passo e ad inchinarlo.

Tuttavia non mancò l'animo ad un certo Anderlin di tenergli bordone
nella contesa di alcuni confini avvenuta fra lui e il capitano, il
quale non amava punto si discutesse sulle proprie pretese. L'Anderlin,
dopo d'avere recisamente negato al capitano la trasposizione del Dio
Termine a proprio danno, sapendo per fama che manesco e prepotente uomo
gli fosse, si teneva in guardia d'insidie, quantunque non apertamente
minacciato. Una volta, stanco ed assetato, egli entra in una bettola a
Foppiano... all'unico desco sedeva il Guenza! Tornare addietro sarebbe
stato vigliaccheria, restare peggio: egli osò! Il Guenza, appena vide
l'Anderlin avanzarsi verso di lui, levò di sotto certa pistola, e la
pose sul tavolo, come una minaccia. L'Anderlin, salutato l'ospite e il
capitano alla maniera paesana, sedè in faccia al Guenza pacatamente, e
gli disse:

— Sor capitano, quell'arnese lì mi pare inutile sul tavolo, tanto più
— aggiunse in tuono di celia — che non supplisce nè ad un fiasco, nè ad
un bicchiere.

— E se potesse servire a castigo di un impertinente?

— Allora, capitano, converrete che vi starà bene anche il castigo del
prepotente, non è vero?

L'alpigiano trasse di sotto una pistola a due bocche, luccicante, e
coi congegni della piastra sì forbiti da non lasciare dubbio sugli
effetti dell'acciarino, e la pose allato alla ciotola che aveva recato
ser l'oste, come una posata. Sulla cera del capitano lampeggiò un
istante ira mal repressa: ficcò negli occhi all'alpigiano uno sguardo
acutissimo, che questi sostenne senza batter palpebra.

Dopo cinque minuti in cui corse alla mente del capitano un mondo
di pensieri, fra cui il più insistente era quello di sparare con
destrezza l'arma sua a bruciapelo sull'Anderlin mentre quest'ultimo
badava, facendo tuttavia il Gianni, a non lasciarsi sorprendere
dall'avversario; dopo cinque minuti che parvero un secolo, il capitano
prende la pistola — Anderlin fa lo stesso — la disarma, la ripone nella
cinghia della durlindana, ed offre a trincare alla propria salute.

L'Anderlin respirò liberamente ed accettò.

Dopo qualche tempo l'Anderlin inerme incontrò nella salita delle casse
il capitano che scendeva. Il passo stretto, il precipizio lì sotto: se
l'Anderlin non cede la destra e non arresta i suoi muli, il capitano è
obbligato a ritornare indietro o ad aggavignarsi alla parete montana,
cosa poco dicevole all'orgoglio di un capitano di S. M. cattolica. Il
capitano anche senza fare uso delle armi poteva spingere a rifascio
le some nel burrone e ridurre l'Anderlin a mal partito. L'Anderlin
fermò le cavalcature, e salutò il Guenza senza timidezza, e questi,
passandogli allato, gli disse:

— Buon dì, Anderlin: sapete cosa penso io adesso di voi?

Rabbrividì l'onesto mulattiere a queste parole che potevano celare un
disegno mortale contro di lui senza difesa; tuttavia rispose:

— Che, se non bene?

— Penso che voi siete la più stimabile persona della valle. Buon
viaggio.

Dunque il Guenza, a cui sarebbe stato facile trarre a mal fine
l'avversario, non era d'animo feroce; bensì in mezzo a quelle timide
genti adoperava il prestigio della fama delle prime prove, e il timore
che incuteva l'erculea persona a tenere soggetta al proprio arbitrio
quella popolazione.

Dopo la sua morte nacque dal pensiero poco valoroso della libertà
acquistata dal caso, l'adagio: è passato il tempo del capitano Guenza.

Ultimi discendenti dal capitano vivono tuttora, io spero, due ottimi
vecchi, celibi pacifici, che mi ricordo d'aver talvolta veduto intenti
a faticosi lavori, uno e l'altro poco distanti d'età dal sedicesimo
lustro. Per ampiezza di pascoli e per le case capaci, essi sono i
meglio agiati abitanti del casolare di Wald.


IX.

_Ascensione del Retihorn — Il segreto della costanza in amore — Quando
ci rivedremo?_

    =Lo monte che salendo altrui dismala.=
                               _Dante_.

Questi montanari vogliono che dopo il Gries, dal cui vertice apparisce
la meravigliosa scena delle più celebrate vette Elvetiche, nessuna
delle piramidi che accerchiano la loro pittoresca valle presenti dal
culmine aspetto più grandioso del Retihorn, o Monte Giove come lo
dicono gl'Italiani. Il quale, come parmi d'avervi già detto, s'aderge
alla destra della Toce, al dissopra del casolare di Wald.

Partito con alcuni compagni poco dopo il meriggio, m'avviai su per
l'erta, sul sentiero che vi conduce all'altipiano di Vannino. Questa
ascensione può fornirsi senza straordinaria fatica in una giornata:
preferii tuttavia di spendervi mezzo il dì precedente, onde poter a mio
bell'agio godere del giocondo spettacolo dell'aurora da quel supremo
cigliare.

In due ore giungemmo alla parte superiore dell'altipiano di Vannino, il
quale si adagia verso l'occidente ed il mezzodì fra le petrose muraglie
dello Stafelclogberg e le rapide chine del Reti. Il sentiero da Wald ai
pascoli si rigira, salendo, nella folta oscura boscaglia che copre le
falde inferiori di quest'ultimo monte, ed è fra i meno scoscesi della
vallata. Rifocillatici poco lungi dal laghetto da cui ha sorgente il
Lebenduner, ripigliammo l'erta che di qui in su è faticosa assai. I
compagni, arditi cacciatori di camosci, verso il calare della notte,
trovata una tana cavernosa fra i nudi macigni, decisero d'allogarvisi
alla meglio onde passarvi la notte.

La luce mancava di grado in grado: io mi assisi e mi guardai attorno.

La cortina dello Stafelclogberg, verso la valle, è formata di
roccie repentissime quasi inaccessibili, le quali colle loro
creste addentellate e fantastiche formano un cinto grandioso a
quell'altipiano, il cui rivo smeraldo contrasta singolarmente con
quelle triste mura.

Sulle cornici, fra le fessure nè i funerei pini, nè l'olezzante
rododendro che spesso rallegra l'orlo delle diacciaie: lo Stafel non
ha una zolla. Il vento che sprigionandosi dal Gries si precipita nella
convalle superiore fra Vannino e Morasck, viene a rompersi contro
queste pareti.

Una densa nube vaporosa s'era innalzata dal profondo della valle di
Formazza, avea coperte tutte le anfrattuosità, i valloni superiori; era
il levare della notte. Le creste superbe dello Stafel si disegnavano
tuttavia nell'orizzonte su cui svaniva via via il morente chiarore
degli ultimi crepuscoli riflessi dalle nevi eterne, e quelle due
statue giganti, uomo e donna, che da tanti secoli stanno ritte su
quei vertiginosi cocuzzoli, parevami si movessero. Un irresistibile
desiderio mi punse di sapere se quelle strane figure non fossero
animate; l'immobilità non è sempre la morte. Chi mi provò mai
con irrefragabili prove che animali, piante e pietre non avessero
coll'anima una propria passione? Perchè le loro variate nature non
possono costituire anche nelle qualità dell'anima, una concatenazione
non meno armonizzante della materia e più meravigliosa?...

Ditemelo voi, fantasmi del giorno e della notte! Non è forse vero
che voi siete due prototipi dell'amore coniugale? Voi felici! Se vi
sorprende il capogiro, se deve cessare questa comunanza di posizione
e di pericoli, se vi sfascerete, cadrete entrambi di lassù nelle
ciotolaie di Vannino... O costanza veramente... di pietra!

E come vi venne fatto di serbare per sempre il fuoco dell'amore? Deh!
vi prenda pietà dei mortali a cui spesso amore suona smanie e dolori,
lagrime e tradimenti. Eccomi ai vostri piedi: a me per la prima volta
genuflesso dinnanzi alla creatura di Dio, tu, donna beata, palesa
il divino segreto, ond'io possa tutta la mia vita rendere coll'amore
invidiata anche agli angeli. Tu mi guardi incerta: non temere ch'io lo
divulghi... io sono uomo e l'egoismo ti deve essere arra sufficiente
della mia discrezione. Via, dimmelo... io ti prometto di rinunziare
a tutte le brame del mio avvenire... anche a quella di far correre i
miei lettori per mari e monti sull'ali della fantasia. Come potrò io
eternamente amare eternamente amato? Dimmelo, ed in quell'inno di gioia
che sarà la mia vita io ti renderò grazie riconoscenti. Bella regina
d'amore, chi t'avvinse sì strettamente all'amante?

Le mie ginocchia su quelle scarne rupi s'erano indolenzite a modo che
io stava per rinunciare alla scoperta, quando la gentile impietosita
susurrò questa fatale parola: — il dolore!

                             . . . . . . .

La leggenda del paese susurra invece che quelle anime petrarchesche
conservarono intatto l'amore perchè non fecero sciupìo del tesoro
d'affetti nell'ebbrezza dei sensi.

                             . . . . . . .

Intanto essi nella sdegnosa loro solitudine, paiono ridersi del furore
degli uragani, delle volute che precipitano dai loro piedi, e dei
fulmini che solcano i loro granitici troni. La beatitudine della loro
unione non vale il pericolo?

Stanco della faticosa salita, dopo d'aver visto le tenebre sorgere
dagli abissi e coprire tutte le valli, sentendo che i miei compagni
russavano saporitamente, salutai i due fantasmi dello Stafel,
m'acconciai anch'io alla meglio e il sonno, come avviene a tutti,
mi sorprese senza che me ne avvedessi sul nudo macigno fatto meno
ingrato dalla spossatezza. Sennonchè a mezza la notte un vivo bagliore
attraversando le palpebre mi scote, uno scoppio tremendo che pare
faccia traballare i monti e sfasciare i picchi mi sveglia affatto.

Cupa, densissima oscurità rotta di minuto in minuto da sfolgorantissimi
lampi: funebre silenzio interrotto solo dal fragore del tuono.
Il temporale si abbassava e noi eravamo a mezzo le nubi. I lampi
spesseggiavano vivissimi; il tonare assordante minacciava il finimondo,
ed io m'aspettava ogni istante un fulmine spezzasse la roccia che
ne pendeva sul capo. M'era seduto sopra una pietra tutto intento al
guizzare delle saette, come quel pittore che nella tempesta s'era fatto
legare all'albero d'una nave per meglio avvisarne le fasi. L'uragano
nel massimo furore era disceso sotto ai miei piedi, mentre sopra il
capo scintillavano le stelle: scena unica!

Dopo la tempesta sul mare, la tempesta sulle alpi non ha spettacolo che
la pareggi. La grandezza del luogo, il rapido alternare dei lampi che
s'incrociano; gli echi che con mille diverse voci dalle caverne sonore
addoppiano lo strepito; la furia del vento che urta, ammonta, sperde
le nubi infiammate; il contrasto della scena infernale colla serena
luce del cielo stellato; la solennità della solitudine; gli abissi a
tratto a tratto rischiarati dal profondo all'imo; il pericolo d'essere
incenerito; tutto t'empie l'anima di novissimo terrore, poichè il tutto
ferma una satanica apologia della forza strapotente! Le sinistre voci
del tuono e dell'aquilone non mi dimostrano forse che nella natura
stessa la forza trionfa sopra il debole senza difesa? Chi difende il
pino dall'ira del fulmine che lo schianta in mille schegge? Mentre
imperversa la procella, chi difende dal lupo insidiatore le atterrite
pecore? E se l'avoltoio, l'aquila od il _lammergeier_ mostruoso si
precipitano sul piccolo agnello, potrà egli senza difesa respingere
l'assalto? Tutte le più utili e graziose creature sono deboli,
indifese, quasi affidate al soccorso dell'uomo. Lo schifoso ragno vive
molti giorni senza cibo: un rovescio di pioggia abbatte la farfalla
dall'ali curiose: la spina resiste al rovaio, alla grandine, al
sollione; il vento sfoglia, sfronda, sterpa ogni gentil fiore. Invece
con quale studio geloso la natura armò i prepotenti d'artigli di ferro,
di denti adamantini, di acutissima vista, di agilissimo passo, di
potentissime ali! Se fosse dato un giorno ai percossi vestire una volta
sola la corazza degli assalitori, non farebbero essi scempio dei loro
nemici in nome della giustizia?

Non sarei tuttavia sicuro che la pecora imbaldanzita dalle novelle
difese, non passasse armi e bagaglio nelle fila dei lupi.... è sì
innebbriante la voluttà del potere!

L'uragano spariva, e le nubi, come immense fantasime correnti per
l'aere caliginoso sui bianchi destrieri sferzati dal vento, spaziavano
per ogni parte del cielo senz'interrompere l'alto silenzio che col
sibilo dell'aria rotta dalla veloce corsa.

Passavano presso di me, guardavano meravigliate il loro osservatore
e s'involavano. Una di esse, isolata dalle legioni, quasi perduta in
mezzo a quella confusione, errava a minor passo attorno alla vetta. Oh
quanto bella malgrado il pallore della morte! Quanto amore da quegli
sguardi, da quella cera mestamente soave! E quelle folte, lunghissime
chiome conteste di fiori che scherzavano sulle spalle? A breve tratto
dalla vetta, il corsiero dagli occhi corruscanti rallentò il passo, sì
che io, fatto ardito dalla brama di sentire quella errante, alte levate
le braccia, pregai dalla bella una parola...

Oh! se mi fosse dato inforcare con te il velocissimo corsiero e
scorrere pei campi del cielo immensi come il desiderio sopra tutte le
plaghe terrene, dal deserto del polo ai giardini dell'oriente! Ma la
voragine che s'inabissa ai miei piedi m'avverte della vertigine che con
sguardo affascinante m'avrebbe attirato nelle sue braccia... Almeno,
diss'io, mi racconta quanto vedesti nella tua lunga pellegrinazione.
Dimmi, l'uomo, quest'essere che doma il fulmine e non sè stesso, è
ovunque il medesimo? Dove ha egli conquistato quella libertà che è
sì cara? Non hai tu visto in qualche ignorata tribù delle Indie o
delle Americhe avverati i sogni d'un anima generosa? Dove s'imparò ad
ubbidire e comandare col Vangelo? Una sola parola dimmi, di grazia;
qual è il motto che riassume quanto imparasti in tanto giro di zone
sull'uomo? —

La fantasima che aveva ascoltato benigna le curiose interrogazioni
dello zingaro, crollò il capo in atto di diniego, e spronato il cavallo
ratta s'innalzò da quel vertice... Se non che voltasi addietro e
vistomi tuttora colle mani supplichevoli, tracciò nell'oscurità incerta
della notte una parola colle dita scintillanti... Atterrito guardai
quelle parole di fuoco che fiammeggiarono un istante nella tenebrìa, e
lessi:

                            CONTRADDIZIONI.

                             . . . . . . .

Il cielo s'era rasserenato, e le stelle luccicavano più di prima.

Una buon ora prima dell'alba la frescura destava i compagni e tutti
ci mettevamo in cammino, onde poter giungere prima del giorno sul
culmine del picco alpino: sul quale arrivammo quando le ombre della
notte, lottando invano colla luce, fuggivano nelle valli più anguste,
nelle selve più folte, nei torrenti più profondi, mentre poco a poco il
bacino dell'Ossola spogliavasi dei vaporosi veli dell'umida notte, ed
i primi crepuscoli disegnavano con mano malsicura i profili dei monti
sull'orizzonte biancheggiante.

La notte a veloci passi fuggiva, avvolgendosi ne' suoi veli trapunti,
ai poli opposti; dopo l'alba, l'aurora, il sole, e tutto è colori e
vita.

Da quel culmine, da cui un contrafforte si stende verso occidente
collo Stafel alla Punta d'Arbola, si ha d'attorno una mirabile vista.
A sinistra, laggiù, la valle di Formazza, le cortine dell'Hireli; e
più in là verso il nord, qualche picco delle alpi Ticinesi; al nord,
verso il Gries, tutte le piramidi più eccelse, dal Gigeln al gigante
di queste valli, il Blinnenhorn, colle grandi ghiacciaie che qua e là
interrotte da valloncelli o da rupi, formano corona alla Formazza; e
verso il meriggio i monti dell'Ossola sino al Lago Maggiore. L'anima
esaltata credeva sentire con divine armonìe cantare: esulta, tutto ciò
che vedi è tuo! . . . . . . . . . . . . .

Anche gli altipiani deserti, le nevose o sterili roccie, che di quassù
appaiono alla nostra destra, di qua e di là del confine, malgrado tutta
la loro incresciosa aridezza e la mancanza di ogni vegetazione, sono
imponenti. Nulla sull'alpi senza parola, nè le murene, nè le fonti, nè
le ciottolaie, nè le nevate. Ciò che altrove sarebbe insignificante,
qui ti colpisce pei vivi contrasti.

                                   *
                                  * *

La nostra peregrinazione è finita.

Se voi ne accompagnaste pei laghi, per le valli, e vi siete arrampicati
su per le vette alpestri con quel piacere con cui io ho cercato di
svagarvi la mente intrecciando alle descrizioni le leggende ch'io
raccolsi con amore, e le fantasie spesso incomposte che destò nella mia
mente la variatissima natura, non volgerà, io credo, molto tempo che io
ritornerò con maggiore sicurezza d'animo ad offrirvi la mia compagnia
per zonzare in altre contrade della nostra bella Italia.

Tuttavia seguendo le pedate di certi stranieri e nostri scrittori, io
potrei benissimo, ad ingrossare il volume già soverchio, intitolare
un nuovo capitolo col nome, ad esempio, del Cantone Ticino, e poi,
senza movermi d'un passo, infilarti una insipida tiritera sulla
libertà, sulla democrazia, sulle legnate che tempestano qualche volta
nelle elezioni politiche, sulla legge agraria — e altre somiglianti
reminiscenze di diari mal digeriti — la quale non mancherebbe di
convincerti... che io non so cosa dire.

Perchè non potrei io ancora condurre il lettore gentile nel bel paese
della fantasia? Chi può negare che non siano quelle le più felici
contrade?

L'amore, la brama di gloria, il pensiero dalle mille forme,
tutte le illusioni che trovarono sulla terra l'agghiadata parola
dell'indifferenza, lo sprezzo, il disinganno, volano sulle ali
dell'aspirazione a popolare coi sogni d'una vita migliore quei mondi
fantastici...

Quante volte seduto fra l'ombre d'una pianta viaggiai nel mio passato!

I fiorellini delle zolle muschiose mi narrarono spesso l'istoria
dell'infanzia paurosa, malaticcia, in cui fra i timori del _pensum_
e dell'aggrottato cipiglio del _magister_ e le paure febbrili delle
fantasime notturne, io levando ai tuoi mondi con invocazione le manine,
chiedeva per volare a te delle ali!

Le giovani frondi dell'albero mi ricordarono i primi battiti del cuore
spensierato, e le gioviali risa della bella adolescenza, in cui la
larga vena d'affetti esuberante dal cuore si spandeva in mille ciarle e
perchè agli uomini e a Dio... Quando non trovava che cere indifferenti
e scherno ai miei sogni, io chiedeva delle ali per volare a te!

Quel pino desideroso di luce che si slancia nell'aere mi racconta la
stagione della prima giovinezza, stagione di focose aspirazioni, tutta
fede ed amore per la patria e per la donna.

Passa qualche anno; uno, due, tre; pochissimi e brevissimi, e la patria
ti si mostra quale palestra in cui un'infinita turba s'arrabatta
lottando d'astuzia e di frode per strapparsi di mano un cencio di
porpora!

La donna... no, no, io non dirò ombra di male di quest'essere
misterioso che s'aggira fra di noi, benchè una miriade d'idee
crucciose, sarcastiche al nome di donna abbiano intrecciato nelle
cellule della memoria una ridda sfrenata da cacciarmi addosso
l'emicrania. Che vale il lagno, l'imprecazione contro una divinità che
con un girare d'occhio, un sorriso, una lacrima, ti fa baciare commosso
la tua catena?

Via, lettore, non temere che io con desiderio indiscreto cerchi da te
d'essere alla mia volta guidato nel viaggio attraverso al passato, al
presente ed alla speranza della tua vita; io non ne voglio conoscere le
pagine, nè ti voglio sciorinare della mia se non le tersissime.

Ad ogni modo ti auguro salute — anco un tantino per mio amor proprio —
affinchè io ti possa rivedere presto col bastone in mano, il cappello
a larghe tese sul capo e il sacco sulle spalle battere alla porta dello
zingaro e:

Oeh! l'alba è sorta: affrettati ad allacciare i borzacchini ferrati, o
maestro, che io t'aspetto impaziente.

Ed io fattomi alla finestra della casupola, e ravvisato con gioia il
compagno di piaceri e di pericoli, in tutta fretta discenderò — o dalla
scala o dalla finestra non torna — ad offrirti una mano amica.

Adagio, un istante; sai che sono donne, aspettiamole un tantino...
come viaggeremo senza di loro? tu non ignori che esse, quando loro
talenti, sono tali da divertirci, anche colla pioggia sulle spalle,
raccontando le mille e mille storielle, che l'una ha imparato e l'altra
inventa.....

Eccole tutt'e due — non sono belline?

Compagno mio, ecco la Leggenda e la Fantasia...

Partiamo.


  FINE.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Peregrinazioni d'uno zingaro per laghi ed Alpi - Il Lago Maggiore, l'Ossola, la Frua e il Gries" ***

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