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Title: Storia degli Italiani, vol. 3 (di 15)
Author: Cantù, Cesare
Language: Italian
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                                 STORIA
                             DEGLI ITALIANI


                                  PER
                              CESARE CANTÙ


                           EDIZIONE POPOLARE
         RIVEDUTA DALL'AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI

                               TOMO III.



                                 TORINO
                      UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
                                  1875



CAPITOLO XXXI.

Il secolo d'oro della letteratura latina.


Un'altra fortuna ebbe Augusto, che al suo corrispondesse il secolo
d'oro della letteratura latina, talchè il nome di lui, non solo si
associò all'immortalità di quegli scrittori, ma rimase come appellativo
de' protettori del bel sapere.

Ne' primordj, Roma s'occupò a difendersi e trionfare, non ad
ingentilire gl'intelletti. Sol quando penetrò nella Grecia italica,
poi nella Grecia propria, conobbe una coltura più raffinata, e la
introdusse coi prigionieri e coi vinti, i quali allogaronsi come
maestri o clienti nelle principali famiglie; e tal ne prese vaghezza
che dimenticò i modi nazionali per tenersi affatto sulle orme greche.
Quand'anche non fosse natura degl'Italiani, sappiamo per iscritto che
il popolo nostro dilettavasi grandemente di canzoni nelle varie fasi
della vita; specialmente alle vendemmie, e quando la riposta messe
lusingava terminate le fatiche, e alle solennità della rustica Pale i
prischi agricoli, forti e contenti di poco, coi figli, colla fedele
consorte e coi compagni di lavoro esilaravano l'anima e il corpo
nel suono e nel ballo[1]; e la gioja bacchica esultava in canti e
gesticolazioni, e forse anche dialoghi, di versi regolati dall'orecchio
e misurati dalla battuta del piede.

Questa fu per gran pezzo l'unica drammatica, ben lontana dalla
artistica che pur già grandeggiava in Sicilia, e che richiede
un'azione, un intreccio, e caratteri e affetti. Abbiamo notizia di
recite che si facevano in siffatti versi, chiamati _saturnini_ dal
favoloso Saturno, o _fescennini_ da Fescennia, città dove molto erano
usati alle _Sature_, mescolanza di musica, recita e danza. Inconditi e
mal composti, smentiscono però Orazio quando di letteratura romana non
trova lampo se non dopo l'occupazione della Grecia[2]; più lo smentisce
la storia. Tito Livio, in un passo d'oro[3], fa che i Romani desumano
anche i giuochi scenici dagli Etruschi, dicendo che nell'epidemia
del 390 di Roma, la collera celeste serbandosi inesorabile alle
supplicazioni consuete, si introdussero (cosa nuova al popolo
bellicoso, avvezzo soltanto agli spettacoli del circo) rappresentazioni
sceniche, fatte da commedianti etruschi che nella costoro lingua
chiamavansi _istrioni_, i quali ballavano artifiziosamente a suon
di flauto e gestendo senza parole: i garzoni romani gl'imitarono,
aggiungendo versi rozzi ma lepidi: in appresso s'introdussero buoni
istrioni che ne recitarono di studiati, e rappresentarono satire,
le cui parole convenivano al suono del flauto e al movimento. Livio
Andronico (segue egli), più d'un secolo dopo, osò far meglio, e
comporre drammi con unità d'azione; e avendo perduto la voce, ottenne
di collocare davanti all'attore un giovane che cantava i suoi versi,
mentr'esso faceva i gesti, viepiù espressivi perchè non era distratto
dalla cura della voce. Di qui l'uso agli istrioni di accompagnare col
gesto ciò che un altro canta, non parlando essi che nel dialogo.

Adunque Livio Andronico introdusse la favola teatrale, che soggetti
forestieri riproduceva in favella _barbara_, cioè nella nostra[4]. Al
solo ritmo, consueto nei carmi latini ed osci, sostituì il senario,
libero verso, che traeva dall'accompagnamento della tibia quel tenor
regolare e cadenzato che nella sua libertà gli mancava, e che formò
passaggio fra la ritmica indigena e la metrica esotica. A quel modo
continuarono e Nevio e Plauto, sempre scusandosi di tradurre i Greci
in _barbaro_, cioè nel parlare di que' Romani, che per chiamare poi
barbari gli altri popoli dovettero persuadersi d'essere divenuti Greci.

Ennio diede un passo innanzi, e abbandonando il pedestre senario,
introdusse l'eroico greco: laonde si dava vanto d'aver «superato
egli primo i monti delle muse, mentre fin a lui erasi detto soltanto
coi versi che cantavano i fauni e i _vati_», cioè gl'indigeni[5]:
introdusse il dattilo e il verso esametro, la cui musicalità era
accessibile del pari ai dotti e al vulgo.

Andronico, Ennio, Plauto, Azzio, Nevio trattarono soltanto soggetti
greci, benchè in Grecia non fossero ancora penetrati i Romani,
non avessero «cercato le bellezze di Tespi, Eschilo, Sofocle», nè
Mummio avesse recato gli spettacoli teatrali da Corinto[6]: laonde
possiamo credere che quest'arte derivasse piuttosto dalla Sicilia,
dove Aristotele e Solino la fanno nascere, e trasportare in Atene da
Epicarmo e Formione; ovvero dalla Magna Grecia, ove molti Pitagorici
aveano scritto commedie[7].

Di tre parti constava la commedia: diverbio, cantico, coro. Pel primo
intendeasi l'atteggiare di più persone: nel cantico parlava una sola,
o se ve n'era un'altra, udiva di nascosto e parlava da sè: nel coro
era indefinito il numero de' personaggi[8]. Molta varietà v'ebbe poi
di commedie: le gravi diceansi _palliatæ_ o _togatæ_, secondo che di
soggetto greco o romano; nelle _prætextatæ_ s'introducevano persone di
grand'affare, vestite della pretesta; inferiori erano le _tabernariæ_ e
i _mimi_.

Dal succitato passo di Livio i teatri romani compajono non semplice
passatempo, ma un'istituzione civile e sacerdotale, e la recita come
un'appendice di quelli che i romani tenevano per veri divertimenti,
i giuochi del circo. Inoltre gli scrittori di commedie non erano
romani, ma Ennio di Calabria, Pacuvio di Brindisi, Plauto di Sarsina
nell'Umbria, Terenzio di Cartagine; talmente convenzionale era il
linguaggio di quelle. Il romano popolesco rimase alle _atellanæ_, che
alcuno vorrebbe somigliare alle nostre commedie a soggetto: recitavansi
in osco[9] da giovani bennati, e allettavano grandemente il popolo per
lo scherzo vivace e per l'originalità.

Diciannove tragedie di Marco Pacuvio sono lodate da Quintiliano per
profondità di sentenze, nerbo di stile, varietà di caratteri; ma nel
pochissimo rimastoci non troviamo che liberissime imitazioni, in istile
bujo e disarmonico. Lucio Azzio, nato a Roma da un liberto, ne compose
e raffazzonò di molte, fra le quali il _Bruto_ e il _Decio_, soggetti
patrj; e recitavansi ancora ai tempi di Cicerone, e più volentieri si
leggevano. Delle diciannove tragedie di Andronico sol qualche frammento
sopravive: compose pure un inno da cantarsi da ventisette fanciulle,
e voltò dal greco l'_Odissea_. Gneo Nevio campano verseggiò anche la
prima guerra punica.

Marco Accio Plauto[10] (n. 227) scrisse molte commedie; ad altre
non facea che dar una mano, e correvano poi sotto il suo nome: ma
sempre tradotte o imitate dal greco, e di greche costumanze. Ce ne
sopravanzano venti, fra cui l'_Amfitrione_ mette in burletta gli Dei;
e fanno per le migliori l'_Aulularia_ incompleta, il _Trinummus_ e i
_Captivi_ di serio e morale intreccio. Guadagnato un bel gruzzolo col
poetare, lo avventurò in commercio, sì male speculando che fu ridotto a
girar macine da mugnajo.

Tutti i comici superò Publio Terenzio africano (n. 193). Rapito
fanciullo dai pirati, fu compro da Terenzio Lucano senatore romano,
che, educato, gli donò la libertà; ed egli, raccolto qualche denaro,
passò in Grecia, ove morì di trentacinque anni. In Grecia, dopo la
commedia democratica e politica di Aristofane, tutta allusioni ed
attualità e baldanza, era stata introdotta la civile, in cui grandeggiò
Menandro, che la elevò a qualche dignità con fatti serj e intento
filosofico, rendendola, qual poi rimase, il quadro dei vizj e delle
ridicolaggini, scevra di satira personale. Centotto commedie di
quest'ultimo poeta ateniese avea tradotte Terenzio, che le perdette in
un naufragio; nelle sei che ci rimangono, appajono purezza ed eleganza
di stile e precisione di sentenze[11], quale in Roma non aveva ancora
alcun modello. L'_Eunuco_ sembra originale, sebbene i caratteri di
Gnatone e Trasone sieno desunti dall'_Adulatore_ di Menandro; e tanto
piacque, che fu replicato fin due volte nel giorno stesso, e guadagnò
all'autore ottomila sesterzj.

Plauto coll'asprezza e la facezia palesasi famigliare col vulgo,
Terenzio ritrae della società signorile; quello esagera l'allegria,
questo la tempera, e i caratteri e le descrizioni esprime al vivo.
Orazio (che giudicando solo dall'espressione, vilipende tutti i comici
della prima maniera) chiama grossolano Plauto, e lo taccia d'avere
abborracciato per toccare più presto la mercede; alle commedie di
Terenzio fu asserito mettesser mano i coltissimi fra i Romani d'allora,
Scipione Emiliano e Lelio: l'un e l'altro però sono troppo lontani
dalla finezza dei comici greci, vuoi nel senso, vuoi nell'esposizione.

La bagascia, il lenone, il servo che tiene il sacco al padroncino
scapestrato, il ligio parasito, il padre avaro, il soldato
millantatore, ricorrono in ciascuna commedia di Plauto, fin coi nomi
stessi, come le maschere del vecchio nostro teatro; e si ricambiano
improperj a gola, o fanno prolissi soliloquj, o rivolgonsi agli
spettatori, o scapestransi ad oscenità da bordello. Egli stesso
professa in qualche commedia di non seguire l'attica eleganza, ma la
siciliana rusticità[12]; il verso talmente trascura, che si dubita se
verso sia[13]; grossolano e licenzioso il frizzo; il dialogo da plebe.
Meno che pei letterati ha importanza pei filologi, che vi riscontrano
idiotismi ancor viventi sulle bocche nostre, e ripudiati dagli autori
forbiti: altra prova che il parlare del vulgo si scostasse da quello
dei letterati, e forse viepiù nell'Umbria.

Meglio si splebejò Terenzio. Neppur egli poteva produrre altre donne
che cortigiane, ma le fa involate da bambine, e consueta soluzione
della commedia è il riconoscimento loro[14] per mezzi miracolosi:
anche all'uomo dabbene trova un luogo fra i suoi: più corretto
nella morale, men procace nel motteggio, eletto e spontaneo nel
dialogo, pittorescamente semplice nei racconti, attraente nelle
situazioni, resta inferiore in vivezza comica e gaja fantasia: quanto
all'invenzione, e' si scusa col dire che non è più possibile atteggiar
cosa nuova[15]. Nè l'uno nè l'altro conobbero l'_ammaestrare ridendo_,
proponendosi unicamente di recare sollazzo al pubblico[16].

Le commedie di Terenzio e Plauto erano palliate, cioè eseguivansi in
abito greco: nelle togate fu celebre Afranio, ma pochissimi versi ce
ne restano. Poco merito, in generale, si attribuiva alla drammatica,
tantochè Quintiliano confessa che, in questa parte, la letteratura
latina va zoppa. E per vero, come poteva fiorire tra un popolo che si
dilettava di belve combattenti e dei veri spasimi e del sangue d'uomini
accoltellantisi? Terenzio racconta che, alla prima rappresentazione
della sua _Ecira_, il popolo costrinse a interromperla perchè si erano
annunziati gladiatori e saltambanchi.

D'Asinio Pollione, il più celebre tragico, nulla sopravisse: di Ovidio
sappiamo che scrisse la _Medea_; ma i luoghi comuni onde farcì le sue
_Eroidi_, e la dilavata facilità del suo stile non ci lasciano troppo
rimpiangere questa perdita, nè quella de' molti altri tragici romani
ricordati[17].

Della burletta si prendea molto spasso, e fino a quell'antichità
risalgono le maschere: il Macco o Sannio, progenitore del nostro
Zanni o Arlecchino, era un buffone, raso il capo, vestito di cenci
a vario colore, e che _rideva in tutto il corpo_; a Pompej si trovò
il Pulcinella, maschera atellana. Sul finire della repubblica si
preferivano i mimi, mescolanza di ballo e di drammatica, non ridotta ad
un'azione perfetta, ma in scene staccate, un carattere plebeo esponendo
nelle differenti sue situazioni, con parlar vulgare e locuzioni
scorrette; di che il basso popolo, riconoscendo se stesso, prendeva
mirabile dilettazione. Il poeta dava solo la traccia, lasciando che
l'attore improvvisasse; attore sovente era l'autor medesimo, e i
più famosi furono Siro e Laberio. Di questo abbiamo un prologo, dove
lagnasi d'essere stato costretto da Cesare a montare sul palco: di
Siro alquante sentenze morali, che teneva in serbo per intrometterle
all'occasione, e che ci danno alta idea della farsa romana. Anche Gneo
Mattio, amico di Cesare e di Cicerone, scrisse _Mimiambi_ assai lodati,
oltre una _Iliade_.

La legge sopravvide sempre agli spettacoli teatrali, che perciò
non attinsero mai la democratica licenza degli Ateniesi. Già la
primitiva nobiltà, gelosa di questa plebe che della scena valevasi per
bersagliarla, le pose freno applicandovi la legge delle XII Tavole che
condannava a morte o alle verghe il diffamatore[18]. Ogni oppressore
della pubblica libertà rinvigoriva queste repressioni, come fece Silla;
e Cicerone scriveva ad Attico che, nessuno osando chiarire in iscritto
il proprio parere, nè apertamente riprovare i grandi, unica via restava
il far ripetere in teatro versi o passi che paressero alludere ai
pubblici affari[19].

In principio i teatri erano posticci, durando al più un mese,
quantunque l'armadura di legno si ornasse con grand'eleganza, fino a
dorarla e argentarla, e vi si collocassero statue ed altre spoglie de'
popoli soggiogati. Scauro ne fece uno capace di ottantamila spettatori,
adorno di tremila statue e trecentosessanta colonne di marmo, di vetro,
di legno dorato. Primo Pompeo, dopo vinto Mitradate, ne fabbricò
uno stabile, capace di quarantamila spettatori, con quindici ordini
che salivano dall'orchestra fino alla galleria superiore. Quel di
Marcello, fatto da Augusto, era un emiciclo del diametro inferiore
di circa cinquantacinque metri allo interno, e di cenventiquattro al
recinto esterno. Cajo Curione, volendo sorpassare i predecessori in
bizzarria se non in magnificenza, nei funerali di suo padre costruì due
teatri semicircolari, tali che potessero girare sopra un pernio con
tutti gli spettatori; sicchè, compite le rappresentazioni sceniche,
venivano riuniti, e gli spettatori si trovavano trasportati in un
anfiteatro[20].

Alla romana severità parea vile un uomo inteso, non a soddisfare
coll'abilità sua verun bisogno, ma solo a dar diletto; infame chi per
denaro fingeva affetti, dava se medesimo a spettacolo, ed esponevasi
agl'insulti degli spettatori. Laonde i mimi rimanevano privati delle
prerogative civili, i censori poteano degradarli di tribù, i magistrati
farli staffilare a capriccio; un marchio impresso sul loro corpo gli
escludeva da ogni magistratura, e fin dal servire nelle legioni. Anche
donne poteano comparir sulla scena romana, a differenza della greca,
purchè vestite decente: ma restavano diffamate, proibito ai senatori di
sposare le attrici, nè le figlie o le nipoti d'istrioni.

Somma doveva essere l'abilità degli attori se tanta ammirazione
destarono Batillo e Pilade, Esopo e Roscio. Eppure generalmente erano
schiavi o liberti greci, che a forza di studio avevano imparato la
giusta pronunzia del latino. Inoltre, vastissimi essendo i teatri,
doveano forzar la voce perchè fosse intesa da ottantamila spettatori;
le parti femminili erano spesso sostenute da uomini; il viso coprivasi
con maschere: lo che rende inesplicabile l'effetto che Cicerone e
Quintiliano dicono producessero.

Esopo e Roscio non mancavano mai al fôro qualvolta si agitasse causa
interessante, per osservare i movimenti dell'oratore, del reo, degli
astanti. Il primo fu amico di Cicerone, e benchè magnifico all'eccesso,
lasciò a suo figlio venti milioni di sesterzj, cioè quattro milioni di
lire. Da Roscio, che pel primo abbandonò la maschera, prese lezioni
Cicerone, che poi gli divenne amico, e sfidavansi a chi meglio
esprimerebbe un pensiero, questi colle parole, quegli col gesto:
all'anno riceveva cinquecento sesterzj grossi, o centomila lire:
ducentomila n'ebbe Dionisia attrice, per una stagione del 377. Neppure
questo scialacquo è dunque novità.

Dove finisce l'età eroica, spettanza della poesia e dell'arte libera,
ivi comincia la scienza storica; e quando il carattere preciso dei
fatti e la prosa della vita si rivelano in situazioni reali, e nel
modo di concepirli e rappresentarli. Quale scienza più degna d'un gran
popolo? pure i Romani nè anche in essa seppero essere originali, e
negligendo le patrie tradizioni, e sprezzando i monumenti, accolsero
e rimpastarono le origini favoleggiate dai Greci. Fabio Pittore, che
primo ne scrisse in latino, Cincio Alimento senatore e Cajo Acilio
tribuno che dettarono annali in greco, copiavano l'un dall'altro,
senza interrogare il popolo nè verificare coi documenti. Quando Catone
censorio trattò delle _Origini italiche_, i popoli della prisca
Italia sussistevano ancora, e in libri ed iscrizioni conservavano
i loro fasti; sapevansi leggere e interpretare i caratteri oschi ed
etruschi, che ora eludono la pazienza degli eruditi; non era per anco
stata dilapidata l'Italia dalla guerra de' Marsi, nè le sistematiche
proscrizioni di Silla aveano distrutte le memorie della prisca
nazionalità. Un desiderio del censore sarebbe stato legge a tutte le
città italiane, che gli avrebbero a gara recato i loro annali pel
lavoro che preparava. Eppure, malgrado l'affettata sua avversione
per le cose greche, egli si abbandonò alla corrente; e d'idee e di
etimologie forestiere è rimpinzato quel poco che ci tramandò. Peggio
ancora adoperarono Cornelio Polistore al tempo di Silla, Calpurnio
Pisone Frugi[21], e più tardi Giulio Igino, o creduli o ingannatori.

Il migliore storico di Roma le venne dalla Grecia, Polibio di
Megalopoli (n. 205), che deportato con quelli traditi da Callicrate
(vol. I, pag. 348), acquistò la grazia degli Scipioni, principalmente
dell'Emiliano, lo seguì in Africa, e narrò la storia contemporanea dal
220 al 167. Di scarso gusto e d'arte scadente, attiensi al positivo;
vide i luoghi, seppe il latino, lesse in Roma documenti ignorati da'
natii, e meglio di questi c'informa della loro costituzione, che egli
reputa non solo superiore alla spartana e alla cartaginese, ma tale
che, a petto di essa, la repubblica di Platone somiglia una statua
accanto d'uomo vivo. In serena tranquillità narra non declama; cura
la moltitudine, quanto Livio gli eroi; ma escludendo la Provvidenza
regolatrice, e tutto riducendo a invenzione degli uomini: eppure non
sa guardarsi dalla funesta simpatia per la prosperità, rimprovera e
ingiuria i nemici de' suoi Scipioni, dice che le leggi della guerra
permettono di fare tutto ciò ch'è utile al vincitore o nocevole al
nemico. Vero è che fa giungere qualche disapprovazione alle orecchie
degli oppressori della Grecia: vede la colpa de' Romani nella seconda
guerra punica; la terza considera come un delitto: professa che
fine della vittoria non dev'essere la distruzione del nemico, ma il
riparare dall'ingiuria (v. 11. 5); che il vincitore non dee confondere
l'innocente col reo, e piuttosto risparmiare i rei in grazia degli
innocenti; tralasciare i guasti inutili perchè provocheranno eccessi
contrarj: la pace è di tutti i beni il solo che nessuno si perita a
considerar per tale; tutti preghiamo gli Dei a concedercelo, nè v'ha
cosa che non sopportiamo per ottenerlo[22].

Le _Antichità romane_ di Dionigi d'Alicarnasso, stendentisi fin
all'anno dove Polibio comincia, toccano delle origini di Roma, ma
sempre per blandirla, e «sminuire lo scherno e l'aborrimento che i
Greci le professavano». Questo proposito già il rende sospetto, e
ancor più la pienezza simmetrica del suo racconto, ch'era impossibile
deducesse da cronache indigeste. Come estranio ch'egli era a Roma, ce
ne espone con particolarità il governo e il diritto, sebbene non sempre
ne intenda lo spirito: ma da una parte per amor di patria tutte le
origini trascina dalla Grecia, dall'altra vanta i Romani come popolo
equo e temperato, che i vinti trattò non con crudeltà o vendetta,
ma da amico e benefattore, moderò la vittoria con una magnanimità
senza esempio, e in cinquecento anni di lotte così violente, mai non
insanguinò il fôro; racconta senza biasimo la distruzione di Cartagine,
di Corinto, di Numanzia, e conchiude che, in tanto conquistar di paesi
e tanto opprimere di nazioni, mai non operò che di giustizia[23].

Moltissimi Greci scrissero de' fatti della Sicilia; alcuni anche
Siciliani, fra cui il più antico e lodato è Antioco figlio di Serofane
siracusano, autore di una storia di quell'isola, e d'una dell'Italia:
fioriva ai tempi di Serse. Temistogene, oltre la storia patria, divisò
la spedizione di Ciro il giovane in Persia, che alcuno pretende
sia quella che va sotto il nome di Senofonte. Anche i due Dionigi
tiranni storiarono; e Filisto, condottiero di eserciti nella guerra
cogli Ateniesi, poi relegato a Turio, richiamato per ordinar le cose
siracusane, infine ucciso a strazio da' suoi cittadini il 400, aveva
esposto la storia siciliana fin a tutto il regno del vecchio Dionigi;
conciso, dicono, quanto Tucidide e più chiaro. Un altro Filisto è
lodato d'avere pel primo applicato alla storia gli artifizj retorici.
Callia, scolaro di Demostene, nelle imprese di Agatocle parve più
elegante che veritiero.

Timeo da Taormina scrisse una storia universale e varie particolari,
e una critica sugli errori degli storici: se il lodano per buona
distribuzione cronologica, l'appuntano di soverchia mordacità, e di
raccogliere ogni cosa senza discernimento. Celebratissimo da Cicerone
è Dicearco messinese, morto al principio del regno di Gerone, e
vissuto il più in Grecia: in istile attico delineò vite d'illustri
uomini e dei sette Sapienti, le feste e i giuochi, e una descrizione
della Grecia fisica e morale: per incarico de' re macedoni fece e
descrisse la misura de' monti (ὀρῶν καταμέτρησις) del Peloponneso, con
buone idee sulla conformazione generale della terra. Aristocle, pur
da Messina, raccolse la serie degli antichi filosofi e la somma dei
loro insegnamenti. Polo d'Agrigento lasciava la genealogia de' Greci
e de' Barbari venuti alla guerra di Troja. Filino, suo compatrioto,
militò sotto Annibale, e ne descrisse le imprese adulando; sicchè più
rincresce l'averlo perduto, giacchè farebbe contrapposto ai Romani che
lo calunniarono[24]. Le guerre Servili furono narrate da Cecilio di
Calutta, che trattò pure sul modo di leggere gli storici. Andera da
Palermo narrò le cose memorabili di ciascuna città della Sicilia.

Di tutti questi ci rimane o soltanto il nome o poche righe; nè
direttamente possiam giudicare che Diodoro di Argiro, noto col titolo
di Diodoro Siculo. Venuto ultimo, egli potè giovarsi di tutti i greci e
siciliani; e dopo trent'anni di viaggi e di ricerche fermatosi a Roma,
allora centro d'ogni civiltà e convegno di tutte le nazioni, vi compilò
in greco una storia universale, intitolata _Biblioteca storica_,
dai tempi precedenti alla guerra di Troja fino a Giulio Cesare. De'
quaranta libri ci restano solo i primi cinque sui tempi favolosi, la
seconda decade, e alquanti frammenti. Chiaro, lontano dall'affettazione
come dalla bassezza, procede sconnesso, talvolta declamatorio, più
spesso freddo e uniforme compilatore piuttosto che autore; bee grosso,
accetta tutte le ubbie, e si corruccia con chi ne dubita; di tanti
materiali che doveano esistere, non trae bastante profitto, nè quindi
ci ajuta gran fatto a conoscere la prisca istoria italiana; sulla
romana poi erra spesso nei nomi, più spesso ne' tempi, e in generale è
scarso, quanto invece abbonda intorno ai Cartaginesi e ai Greci. Piace
trovarvi il sentimento dell'umanità, d'una giustizia divina, d'una
provvidenza.

Sulla primitiva Italia nessuna luce spandono gli scrittori latini,
sempre scuranti dell'erudizione. Tito Livio, volendo dilettare e
istruire il suo popolo, ne adotta le idee tradizionali senza curarsi
di appurarle, segue e spesso traduce Polibio, nè entra tampoco nei
tempj di Roma a leggere ed esaminare i trattati e monumenti antichi
conosciuti da quello e da Dionigi: pochi anche fra i più dotti videro
le opere di Aristotele: Cicerone, che tutto seppe, conosce soltanto per
un _dicesi_ i Latini che prima di lui scrissero di filosofia; e quando
vuol informare della costituzione romana, egli uom di Stato, traduce
Polibio: ignoravansi le lingue forestiere, nè gl'interpreti servivano
che ai negozj; e Cesare, che sì lungo tempo campeggiò nelle Gallie, non
ne apprese la favella; e a vicenda, volendo servirsi d'una cifra perchè
i suoi dispacci non fossero intesi dal nemico, adoprava l'alfabeto
greco.

Pure molte biblioteche eransi in Roma raccolte. Paolo Emilio, come
altri nobili, per diletto de' suoi figli trasportò in città quella
di Perseo re di Macedonia: Silla da Atene quella di Apellicone Tejo,
che fu messa in ordine da Tirannione, il quale pure ne raccolse una
di trentamila volumi: più insigne l'ebbe il suntuoso Lucullo, che
gli eruditi del suo tempo vi raccoglieva a dotte conferenze. Anche
Attico ne formò una doviziosa, e molti schiavi occupava a ricopiare
per farne traffico; onde Cicerone iteratamente il prega a non vendere
certe opere, giacchè spera poter comprarle lui[25] per aggiungerle alle
molte che già aveva unite con varie anticaglie. E probabilmente per
opera degli schiavi ogni lauto romano procacciavasi una biblioteca:
ma sebbene ai copisti sovrantendessero grammatici destinati a
collazionare, i testi riuscivano scorrettissimi[26]. Primo Cesare
pensò ad una biblioteca pubblica, e n'affidò la cura a Varrone; il
qual pensiero interrottogli dalla morte, fu messo ad effetto da Asinio
Pollione: poi Augusto ne applicò una al tempio d'Apollo Palatino[27],
ed una al portico d'Ottavio: e di rado ai pubblici bagni mancava un
gabinetto per la lettura.

A malgrado di ciò, i Romani furono negligentissimi in esaminare
l'antichità, e rintracciare i documenti che sono occhio della storia.
Li precedette una civiltà potente, qual fu la pelasga; gli educò
l'etrusca: e nè di questa nè di quella curarono, o fosse orgoglio
nazionale, o cieca preferenza al bello sopra il vero. Danno per
portentoso erudito Marco Terenzio Varrone (n. 116), che a settantotto
anni aveva scritto quattrocennovanta libri di varia materia. Nelle
_Antichità delle cose umane e divine_ cominciava dall'uomo, dal suo
organismo e dalla natura morale; veniva all'Italia, all'arrivo di Enea,
alla fondazione di Roma, dalla quale egli pel primo fissò la cronologia
(_æra Varronis_); e indagava tutto ciò che potesse illustrare la storia
e le condizioni politiche e morali. Le _Cose divine_ erano un profondo
trattato sulle religioni italiche e sulla romana in ispecie, i miti,
i sagrifizj, la liturgia, forse dirigendo tutto a reprimere l'ateismo
e la corruzione de' costumi; al che forse diresse anche l'altra opera
_Della vita del popolo romano_.

Cicerone lo loda di avere finalmente dato a conoscer Roma ai cittadini,
che prima vi stavano come stranieri[28]; e gli antichi s'accordano a
tributargli il titolo di _dottissimo_: ma se dai tre dei ventiquattro
libri suoi sulla lingua latina, dai tre intorno all'agricoltura, e da
pochi altri frammenti vogliam giudicarlo, ne appare scarso d'erudizione
e più di critica, e ansioso di rintracciar lontano quel che aveva in
casa[29]. Nell'esaminare le etimologie della lingua latina, ignora i
metodi che lo spirito segue nel creare, adoprare, trasformar le parole;
e suppone che i Latini inventassero il proprio parlare, mentre non
fecero che torlo da altri (vedi Appendice I); non istudia gli idiomi
allora viventi, e al più ricorre al dialetto greco eolico, congenere
del latino.

Nel trattato _De re rustica_, dopo le generalità, viene alle vigne,
agli ulivi, agli orti; il secondo libro tratta dell'allevamento del
bestiame, de' formaggi e della lana; il terzo degli animali, della
bassa corte, della caccia e della pesca. Al semplice esordio di
Catone (vol. I, pag. 373) si paragoni questo suo: — Se ozio avessi,
ti scriverei a mio agio ciò che ora ti schizzo come posso sulla
carta, pensando che conviene accelerarsi, perchè quel proverbio che
l'uomo è null'altro che una bolla, ancor più s'attaglia a vecchio.
I miei ottant'anni m'avvertono di fare il fardello pel gran viaggio.
Avendo tu, o Fondania moglie, acquistato un podere che desideri render
fruttifero con buona coltura, procurerò informarti di ciò che convien
fare non solo mentr'io vivo, ma anche dopo morto... Non invocherò a
soccorso le muse come Omero ed Ennio, ma le dodici divinità maggiori;
non i dodici Dei della città, sei maschi e sei femmine, le cui statue
sorgono nel fòro, ma i dodici che presiedono all'agricoltura. E prima
Giove e Terra, che in cielo e quaggiù racchiudono tutte le produzioni
dell'agricoltura, onde son detti i gran genitori; poi il Sole e
la Luna, di cui si osserva il corso per seminare e piantare; indi
Cerere e Libero, i cui frutti sono indispensabili alla vita; Rubigo
e Flora, pel cui patrocinio il frumento e gli alberi vanno immuni
dal bruciore, e fioriscono a debito tempo; poi Venere e Minerva, che
tutelano l'una gli ulivi, l'altra gli orti; Linfa e Benevento, perchè
senz'acqua immiserisce l'agricoltura, e senza buon successo la coltura
è illusione». Dopo questa litania introduce gl'interlocutori[30].

Varrone aveva anche raccolte settecento vite d'uomini illustri di
Grecia e di Roma in cento fascicoli da sette ciascuno, donde il titolo
di _Hebdomades_, e coi ritratti; e Plinio lo loda di aver trovato un
modo di moltiplicarne le copie, e così agevolarne la conservazione e la
diffusione. Molti, e fin l'illustre Ennio Quirino Visconti immaginarono
fossero disegnati sopra pergamena, adoprandosi una qualche maniera
d'incisione: ma il passo di Plinio[31] ci trae piuttosto a crederli di
cera, fatti collo stampo, e chiusi in scatolette, al modo de' sigilli.

Accennammo (vol. II, p. 161) come molti vergassero le proprie memorie,
solitamente in greco: e insigni sono quelle di Giulio Cesare. La
difficoltà di propagare i manoscritti obbligava gli antichi a scriver
serrato; oltre che sapeano aggruppare gli sparsi accidenti, quanto
oggi si suole sbricciolarli e decomporli. Cesare, meglio d'ogni altro
vedendo le forze e i vizj del tempo e del paese suo, narrò grandissime
geste in piccolissimo volume, la cui naturale semplicità e la limpida
ed evidente concisione già erano in delizia a' contemporanei[32], e fin
ad ora non trovarono emulo. Gli altri Latini ricalcano continuamente i
Greci; egli dice quel che ha pensato e sentito, nè ci si mostra altro
che Cesare, Cesare invitto generale e invitto scrittore: rapido nel
narrare come nel compir le imprese, trova l'eleganza, non la cerca;
non prepara gli effetti; va tutto spontaneo: e sebbene nol possiam
credere imparziale, e chi vi pon mente ravvisi un sottofine in quel che
narra, indovini quel che tace, e l'arte di lumeggiare una circostanza,
un'altra adombrarne, eccedette chi pretese scorgervi il proposito
deliberato di mentire e di presentar se stesso al popolo e ai posteri
in maschera, valendosi d'una fredda ironia, e con profondo sprezzo del
genere umano attribuendo tutto alla fortuna. Oltre molte arringhe, avea
composto tragedie, due libri delle analogie grammaticali, trattati
sugli auspizj e sull'aruspicina, sul moto degli astri, un poema
nominato _Iter_ ed altre poesie.

Da antico si registravano gli avvenimenti giornalieri negli Annali
Pontifizj; ma al tempo della sedizione dei Gracchi rimasero interrotti.
Cesare pel primo istituì un giornale degli atti del senato, ed uno di
quei del popolo, affine di conservarli e pubblicarli. Augusto ordinò si
continuasse il primo, ma guai a pubblicarlo, ed elesse egli medesimo
chi dovea compilarlo[33]. Su quello del popolo si notavano le accuse
recate ai tribunali, le sentenze loro, l'inaugurazione de' magistrati,
le costruzioni pubbliche, e in appresso la nascita e le vicende dei
principi. Somiglia dunque ai giornali moderni, lontanissimo però
dall'averne la diffusione, che ne costituisce l'importanza.

Ma già colle altre ambizioni era nata quella della parola, e al finire
della repubblica apparvero storie degne di questo nome; e il primo che
v'adoperi stile conveniente è Crispo Sallustio (vol. II, p. 155). Solo
i due episodj su Giugurta e Catilina ce ne arrivarono; ma egli avea
narrato in cinque libri anche l'intervallo fra quei due fatti; e ancor
si leggevano al tempo del Petrarca, il quale nelle _Lettere_ soggiunge
aver trovato in veracissimi autori che Sallustio, per esporre al vero
le cose d'Africa, guardò i libri punici, anzi si recò sui luoghi;
diligenza ben rara fra i Romani.

I nostri lettori sono già familiarizzati col più insigne storico
latino, Tito Livio, e conoscono come per patriotismo riducesse la
storia romana ad un'epopea, cui conviene più che ad altra quell'epiteto
affatto romano di magnifica. Con un'ammirazione candidissima[34],
con una persuasione che sente dell'ispirato, concepisce poeticamente,
narra ampio e maestoso, qual conviene al paese dove si congiungevano
l'eloquenza poetica con quella del fôro; rifugge ogni trivialità, ogni
arcaismo di pensieri o di linguaggio, talchè nell'uniforme splendore
del suo stile, come in certe moderne tragedie, non ci presenta se non
i contemporanei d'Augusto, esprimenti con accento gentile le passioni
d'età gagliarde. Come arte non sapremmo qual lavoro antico o moderno
pareggi quella sua eloquenza, neppur un istante dimentica della
propostasi gravità; quella chiarezza che nulla lascia d'indeciso nelle
idee, di faticoso all'attenzione; quell'eleganza semplice che cresce
grazia al pensiero, vivezza ai sentimenti; quell'armonia penetrante che
diffonde sulla storia tutto il vezzo della poesia; quella perfezione di
stile, ove nuove bellezze rivela ogni nuova lettura. Qual successione
di mirabili quadri, di grandiosi caratteri, di stupende arringhe! quale
industria nello scegliere le circostanze! Quindi di poche opere antiche
la perdita è a deplorare quanto de' libri suoi; e il mondo letterario
tripudiò ad ora ad ora della speranza sempre tradita di vederli
scoperti o nei serragli di Costantinopoli o nei conventi della Scozia.

Le _Storie Filippiche_ di Trogo Pompeo non ci sono conosciute che per
un compendio fattone da Giustino, di scarsissimo frutto, e senz'arte di
disporre e concatenare: ma alcuni frammenti pubblicati testè[35] ce ne
fanno viepiù rincrescere la perdita.

Altri ancora andarono smarriti, quali Sesto e Gneo Gellj, Clodio
Licinio, Giulio Graccano, Ottacilio Petito, primo liberto che osasse
applicarsi a un genere che tanta franchezza richiede; Lucio Lisenna
amico di Pomponio, e Ortensio, e Pollione, e le _Famiglie illustri_ di
Messala Corvino. Giuba, figlio di quello che fu vinto da Cesare, dettò
la geografia dell'Africa e dell'Arabia, e una storia romana, lodata da
Plutarco per esattezza.

Cornelio Nepote di Ostilia aveva composto una storia universale in tre
libri[36], ed altre che andarono perdute, non avanzandoci che qualche
brano, e le vite di Catone e d'Attico pregevolissime per urbanità di
stile. Le vite degli illustri capitani di Grecia, quali corrono sotto
il nome di lui, senza colore nel racconto, senza originalità e coerenza
ne' pensamenti, senza vigore nello stile, nè quelle particolarità
che fan conoscere al vero i personaggi, nè ampia notizia di fatti,
o appropriata scelta delle circostanze; accompagnate di costruzioni
strane, forme inusitate e fin solecismi, sembrano una compilazione
d'età bassa. Se è vero che siano tanto opportune alle scuole, almen si
corredino di note che non lascino imbevere i giovani di tanti errori di
fatto e di giudizio.

Esso Cornelio, confessando inferiori gli storici latini ai greci, crede
che il solo capace d'uguagliarli sarebbe stato Cicerone[37]. Giudizio
d'amico, ma che nella forma stessa onde è espresso manifesta che i
Romani nella storia poneano mente anzitutto all'esposizione; più bella
la più eloquente. Nè Tullio, gonfio di sè, inebbriato di patriotismo,
sprezzatore dell'antichità, potea riuscire storico quale oggi lo
intendiamo. Eppure tanta materia di storia egli ci esibì in opere
non a ciò dirette. Le _Lettere_ sue, scritte giorno per giorno sotto
l'impressione degli avvenimenti, e da uomo sensatissimo, tanto più
fedele osservatore perchè indeciso nella politica, sono il monumento
storico forse più importante che s'abbia: nei libri delle _Leggi_,
della _Repubblica_, dell'_Oratore_, nel _Bruto_, e ancor meglio nelle
_Orazioni_, apre inesausti tesori per la conoscenza del diritto. Già da
lui estraemmo la storia dell'eloquenza; e il potremmo della filosofia
greca, se il tema nostro non ci restringesse all'italiana.

Periti i monumenti di questa, si cercò ricomporla mediante il
linguaggio e la giurisprudenza (tom. I, p. 135); e per quanto incerte
sieno tali congetture, ce n'esce però una filosofia non di scuola come
fra' Greci, ma pratica e civile. Quanto avea d'originale ben tosto
andò mescolato alla greca, alla quale tutti accorrevano, e che essendo
fatta men per la vita che per la scuola e per esercizj di penetrazione,
variava secondo il differente punto d'aspetto, e menava facilmente al
rifugio de' tempi scredenti, l'eclettismo.

Qui dunque come nel resto i Romani si mostrarono utilitarj, stimando
la scienza in ragione del vantaggio che recava; e la filosofia
disprezzavano non solo come inutile e cianciera, ma come pericolosa,
imputando ad essa la decadenza della Grecia[38]. Perciò attesero
piuttosto alla morale, cui proposero uno scopo immediato: e Panezio,
che iniziò i Romani alle dottrine della stoa, non restringeasi ad
angustie di partiti, venerava Platone come il più saggio e santo de'
filosofi, ma insieme ammirava Aristotele; non approvava negli Stoici
la durezza affettata, e giungeva sino a raccomandare il libro d'un
Accademico, ove s'insegnava che la pietà ci è data dalla natura per
renderci clementi[39].

Questo avvicinare delle varie filosofie teneva all'indole conciliatrice
di Roma: nè scuola filosofica propria vi si costituì, solo studiandola
come necessaria coltura, e come opportuna a formar l'oratore, a
dar fermezza e consolazione nelle calamità. Perciò prediligevasi la
scuola stoica: l'epicureismo era piuttosto praticato che insegnato.
Le opere di Aristotele, quantunque da Silla fossero portate a Roma,
rimasero chiuse nella biblioteca di lui, finchè Tirannione grammatico
non vi diede pubblicità; corrette poi e supplite da Andronico di Rodi
contemporaneo a Cicerone, se ne fecero copie: ma anche persone erudite
ignoravano quel filosofo[40].

De' Latini che scrissero di filosofia, nessuno vi recò nè gran
dottrina nè bastante pulitezza; i libri di Varrone, anzichè istruire,
stimolavano ad istruirsi[41]; alfine Cicerone presentò agli ultimi
nipoti di Pompilio e di Cincinnato le raffinatezze della filosofia
greca. Sinchè egli potesse occuparsi della cosa pubblica, in questa si
concentrava; n'era escluso? ritiravasi nelle sue ville di Tusculo o del
Palatino, dove, senza perdere di vista Roma, s'occupava di filosofia
per esercizio dello scrivere, per isfoggiare la propria abilità, e per
fare che nella letteratura romana non rimanesse questa lacuna[42]: i
Greci mescevano versi, ed egli fa altrettanto, e non dissimula che
le sue sono traduzioni[43], mediante le quali in vero ci conservò
memoria di molte opere ora perdute. Ma novità sua vera è l'intento
civile, proponendosi d'indirizzare a una nuova operosità scientifica
e intellettuale i Romani, quando chiudevasi la politica; e preparare
ristori alle vicende della fortuna, cui poteano essere esposti.

Si riferiscono alla filosofia teoretica i trattati della _Natura
degli Dei_, della _Divinazione e del Fato_, delle _Leggi_, della
_Repubblica_: alla morale le _Quistioni Tusculane_, gli _Uffizj_, i
_Paradossi_, i libri dell'_Amicizia_, della _Vecchiaja_. Più sobrj che
le orazioni, li troviamo più lodati dai contemporanei; pure l'abitudine
del declamare impedisce Cicerone di sapere piegarsi alla esattezza
delle voci e delle frasi, le accatta sovente dal greco, e sagrifica
la precisione alla circonlocuzione, valendosi delle definizioni greche
benchè le parole non avessero equivalente significato, rispettando le
conclusioni de' Greci benchè dedotte da tutt'altre premesse; rompe
il filato ragionare, e mostrasi inetto a raggiungere il fondo della
scienza. Lasciati a parte i sommi modelli Aristotele e Platone,
prevaleva allora la setta eclettica de' Nuovi Accademici, che con
leggerezza mostrava come, deducendo ragioni pro o contro delle
altre Sette, si arrivasse a conseguenze opposte. Questo metodo calza
perfettamente a coloro che vogliono avere una tintura di molte cose,
piuttosto che approfondirsi in una. E appunto per secondare tal gusto,
Cicerone, che pur chiama Platone l'autor suo, il suo Dio[44], si ferma
alla probabilità, anzichè posare in convinzioni risolute; tante sono
le cose che asserisce, che tu dubiti se profondamente n'abbia meditato
veruna; e come varia di stile, di lingua, di calore secondo l'autore
che segue, così muta sentenza secondo la parte cui s'accosta.

Con Posidonio e Panezio crede al diritto e alla giustizia; quando
posa i grandi problemi religiosi, s'accosta alla verità assoluta,
ha la volontà di raggiungerla, ma si fa scrupolo de' dubbj che, per
amore di scuola, deve apporre ad ogni affermazione, arrestandosi
nel probabile, cogli Accademici, che objezioni facevano a tutto e
non riuscivano a veruna certezza, speculatori sempre, non pratici
mai, perturbatori d'ogni principio[45]. Effetto inevitabile in una
credenza mancante di base, e che dal panteismo o dalla fatalità non
deriva che illogicamente: laonde i dogmi più venerati Cicerone non può
recarli che come probabilità, dove il sentimento prevale quand'anche
l'argomentazione sia stringente[46].

Per lui la filosofia è una raccolta di ricerche particolari
sovra quistioni date[47]; e la divide in _luoghi_, cui tratta
indipendentemente gli uni dagli altri. Dall'esperienza sua del mondo
deduce riflessioni vere, argute, evidenti; ma occorrono ricerche
sulle basi della verità, analisi esatta del pensiero, dell'azione,
della natura umana? s'avviluppa ed abbuja. La sua filosofia è fatta
pel galantuomo, anzichè pel sapiente; i doveri risultanti dallo
stato sociale siano preferiti a quelli che derivano dalla indagine
scientifica; ed ogni ricerca mettasi da banda, non appena sorga
occasione di operare.

E vivissimo è il sentimento della sociabilità in Cicerone: crede
istinto dell'uomo l'associazione, indipendentemente da bisogni; che
di tale convivere sia legge la indulgenza e benevolenza universale:
nulla v'ha di meglio che l'amare i nostri simili, che l'esser buoni
e far bene[48]: il riscattare i prigionieri e nutrire i poveri trova
generosità ben maggiore che non le larghezze onde i grandi di Roma
blandivano il popolo[49]: estende anzi la patria a tutto il mondo,
volendo che l'umanità stia di sopra del patriotismo, e reclamando
diritti anche per gli stranieri: fin dei servi si cura, volendo se
n'abbia riguardo quanto almeno degli armenti[50]. Ma il patriotismo e
gl'istinti pagani ricompajono spesso; Fontejo è accusato di estorsioni
e crudeltà, e Cicerone chiede: — Chi è che lo accusa? son barbari,
persone in brache e sajo. Chi attestimonia per lui? cittadini romani.
Il più nobile de' Galli potrebbe essere paragonato coll'infimo de'
Romani?»

Però le applicazioni sono il più delle volte generose: e se mette
alquanto della natura sua allorchè predica doversi seguitare la virtù
in modo da non pregiudicar la salute, essere da sapiente il secondare
i tempi e adattarsi alla procella nel navigare, piace nella Roma di
Silla e di Marc'Antonio l'udirlo proclamare che scopo della guerra è la
pace, e non doversi quella intraprendere che per rimovere l'offesa[51].
Siffatte aspirazioni pacifiche in verità erano comuni al cadere della
repubblica, quando della guerra sentivansi tutti i guaj. Come letterato
poi preferisce la toga alle armi, e trova qualcosa di feroce nel
precipitarsi ciecamente alla strage e lottare corpo a corpo col nemico,
e vi prepone la gloria di grandi e numerosi servigi resi alla patria e
all'umanità.

Ma fra gli Stati esiste una moralità come fra' particolari, o norma
unica ne è l'interesse? Come platonico, egli unisce la morale e la
politica, e fa da Lelio proclamare che alle società nulla nuoce più
che l'ingiustizia, nè alle genti è possibile governarsi e vivere senza
rispettare il diritto: ma nell'applicazione ricasca all'angustia
del patriotismo, crede che Roma conquistò il mondo nel difendere
i suoi alleati, e sostiene legittima la conquista di essa, cogli
argomenti onde Aristotele sosteneva legittima la schiavitù: natura ha
stabilito che chi è superiore per ragione sia anche per autorità, e
la dominazione di Roma è giusta perchè fu un bene pei popoli, i quali
perivano in grazia dell'indipendenza[52]. Il patrioto dimentica che
la filosofia non dee fondarsi sopra le conseguenze delle azioni, ma
sopra le azioni stesse; che l'avvenire è di Dio, ma regola invariabile
dell'uomo dev'essere il dovere.

Tirone suo liberto raccolse le lettere di lui ad Attico, al fratello
Quinto e a varj personaggi, carteggio importantissimo a quella
posterità cui non lo destinava. Ivi non più retorica, ma parla col
cuore in mano, con lingua svincolata dal periodare oratorio; e sebbene
le molteplici allusioni, i proverbj, le prudenti reticenze, naturali
in così fatte scritture, le oscurino a volta a volta, siamo empiti di
meraviglia da quell'elegante naturalezza, dall'erudizione spontanea,
dal frizzo, dalla concisione, dal felice accoppiamento dell'ingegno col
gusto[53].

Non esitammo a tornare e ritornare sopra questo grand'uomo, il quale
ci presenta l'intero circolo della sapienza romana, e i cui libri,
eternati dalla chiarezza ed eleganza, esercitarono non solo sulla
successiva scuola romana, ma su quella ben anche de' secoli nuovi,
maggior efficacia che non i filosofi profondi.

— Possiedi la materia, le parole verranno dietro, _rem tene, verba
sequentur_», avea detto il prisco Catone, conforme al vecchio spirito
di Roma, e alla natura stessa della lingua latina, sì poco poetica
quanto mal appropriata alle indagini del pensiero sopra se stesso. Ma
i letterati la alterarono colla fraseologia, nè mai ci si persuaderà
che veruno parlasse come scrivono Sallustio, Livio o Cicerone. Misurava
essa piuttosto il valor delle sillabe dall'accento, e a ciò crediamo
si conformassero i metri originali: ma quando adottarono i greci,
non poteano togliere per fondamento la lunghezza o brevità naturale
delle sillabe, e doveano riportarsi all'uso de' Greci. Se non che
il metro greco perdette la serenità e l'anima, contrasse alcun che
di duro, principalmente in grazia della divisione fissa della cesura
nell'esametro e nei versi alcaici e saffici.

Quinto Ennio che adottò il verso esametro come eroico, è da Oidio
detto _massimo d'ingegno, d'arte rozzo_, e Quintiliano lo paragona a un
bosco antico, le cui elevate quercie ispirano venerazione più che non
dilettino all'occhio. Oltre voltar drammi e poemi dal greco, consueto
esercizio delle letterature nuove, dotò Roma della prima epopea,
intitolata _Annali romani_, la quale si continuò a leggere lungo tempo
in pubblico; e d'un'altra in onor di Scipione Africano (t. I, p. 360).

Unico genere cui la poesia latina trattasse con originalità fu la
satira[54], di cui fanno merito a Lucilio di Suessa, che ne scrisse
trenta libri di mordacissime, dando all'esametro l'andar libero e
la sprezzatura che lo avvicinano alla prosa. Di genere diverso erano
quelle di Ennio; sul cui modello Varrone scrisse le _Menippee_, dette
così da un tal Menippo di Gadara scrittore mordace, e dove la prosa
alternavasi col verso.

Questi appartengono all'età arcaica; ma anche i posteriori, poetando
d'imitazione più che di lena, dovettero fondare il linguaggio poetico
sopra forme metriche e grammaticali differenti dalle popolari; talchè
quello risultò di una mal fusa mescolanza, finchè si sbandirono le
parole composte e le costruzioni esotiche. Di tale appuramento la lode
appartiene a Cajo Valerio Catullo veronese (n. 86), il quale adempì
colla latina quel che il Petrarca colla lingua nostra, spogliandola
delle forme aspre, e vestendola di grazie ingenue, al tempo stesso che
da austeri argomenti la volgeva a lepidi e amorosi. Vi si sente però
ancora la scabrezza; non ancora il suo pentametro finisce in bisillabo,
come negli elegi posteriori, nè chiude il senso; frequenti gli iati,
non iscarse le parole composte: talchè, sebbene accuratissimo nei
brevi suoi componimenti, sebbene in alcuni, come l'episodio di Arianna
abbandonata nelle nozze di Teti e Peleo, mostri bellezze virgiliane di
concetto, di sentimento, d'espressione, in generale quell'aria al tempo
stesso di negletto e d'affettato lo disgiunge troppo da Virgilio, al
quale di sedici anni appena era maggiore.

Ma se il Petrarca nostro ornò l'amore di velo candidissimo, Catullo
il presentò colla procacia della Venere terrestre. Perocchè abbiam già
notato (Cap. XXVIII) come la poesia si facesse ministra di corruzione
e divulgatrice d'errori; nel che la assodò Tito Lucrezio Caro (n.
95). Al modo degli antichi nostri Pitagorici, e più specialmente di
Empedocle, trasse costui in versi la filosofia epicurea nel libro _De
natura rerum_, cioè delle cose che posson nascere o no, proponendosi
di sciogliere gli animi dalle pastoje della religione[55]. Chi
crede bellezza la difficoltà superata, gli farà merito d'averla
vestita di frasi o almeno di numeri poetici. Confessa egli medesimo
che, per la povertà della lingua e la novità della cosa, è assai
difficile illustrare con versi latini le oscure dottrine greche;
laonde vegliava le notti nel pensare con quali parole e con quali
versi potesse illuminar il lettore sopra le cose occulte[56]: ma
il genio di accoppiare la meditazione intima dei sentimenti e delle
idee coll'ispirazione delle grandezze naturali, gli manca. Perchè ha
viso di pensator forte, alcuni gli riscontrano tutti i meriti; può
ad altri piacere quel fare antico; ma realmente mostra più studio
che ingegno, accumula ancora le parole composte[57]: ben talvolta
esce in armonie che Virgilio non isdegnò; ma se eccettui la protasi
del poema, l'esordio del secondo libro, la descrizione della peste,
e il fine del terzo ove Natura rimprovera agli uomini il timor della
morte, il restante è agghiacciato argomentare e arido addottrinamento:
e se per estro ed elevazione toglie la mano a tutti i Latini, cede
ai migliori in quella rapida vigoria che nel tempo stesso sviluppa e
compendia, e nell'artifizioso concatenare bellezze a bellezze, produrre
variate impressioni ad un solo tratto senza stemperarle con lungherìe
disopportune.

Tutti dolcezza sono invece Albio Tibullo e Sesto Aurelio Properzio. Il
primo, di famiglia equestre, sdegnò i favori di Mecenate e d'Augusto; e
«possedendo ricchezze e l'arte di goderne»[58], tranquillavasi in una
villa fra Preneste e Tivoli, cantando gli amori suoi con Delia, con
Glicera, con Nemesi, e le lodi di Messala Corvino, alle cui spedizioni
era ito compagno. Il suo linguaggio si direbbe di quieta ma sentita
passione; talmente parla, racconta, si lagna, si contraddice, senza far
mente mai al lettore: il che somiglia a naturalezza, mentre il terso
stile e l'artifizioso magistero rivelano una cura attentissima, e già
gli antichi gli assicuravano l'immortalità.

L'elegia, cioè il verso esametro avvicendato col pentametro, era
stata dai Greci de' migliori tempi adoperata alla precettiva ed alla
politica, e da' posteriori all'erotica. Di quest'ultima si fecero
imitatori i Latini, meglio all'indole loro affacendosi la descrizione e
la riflessione, e le impressero quel tono querulo e patetico, che venne
poi carattere dell'elegia, e che in Tibullo principalmente tocca a
quella malinconia, che forse troppo vien cercata dai moderni. Ogni cosa
egli riferisce all'amore; se brama la pace, si è perchè lo strepito di
Marte non conturbi Delia; se deplora il rapitogli patrimonio, gli è
perchè Delia non può passeggiare sotto l'ombre avite; se della morte
si consola, gli è perchè Delia accenderà il suo rogo, e gli darà il
triplice addio.

Properzio di Mevania nell'Umbria[59], figlio d'un ricco il quale,
per aver favorito Lucio Antonio, perdè la maggior parte dei beni,
abbandonata la giurisprudenza, si fece poeta godendo l'amicizia de'
migliori, cantò Cinzia, e morì giovane. Prevale a Tibullo in vigor di
fantasia, d'espressione, di colorito, quanto a lui cede in grazia,
spontaneità e delicata sensitività, ed a Catullo in agevolezza,
profondità ed affetto. Dotto lo dicono perchè mai non dimentica l'arte,
limando, levigando, non dando passo che sull'orme dei Greci; e non de'
Greci del miglior tempo, ma dell'età Alessandrina, come Callimaco e
Fileta, i quali rinzeppano erudizione, mitologia, allusioni nocevoli
all'affetto. Vantandosi di aver egli primo fra gli elegiaci maritato le
feste romane alle danze greche, non pare che senta se non in relazione
di avvenimenti mitologici. Cintia piange? ha più lagrime che Niobe
conversa in sasso, che Briseide rapita, o Andromaca prigioniera:
dorme? somiglia alla figliuola di Minosse abbandonata sulla spiaggia,
o a quella di Cefeo liberata dal mostro, o (ch'è più strano) ad una
baccante del monte Edonio, quando briaca si corca sulle smaltate rive
dell'Apidano. I suoi capelli son del colore di quelli di Pallade: la
statura, quella d'Iscomaca e d'altre eroine. Vuole invaghirla per le
semplici bellezze, pei fiori spontanei, per le conchiglie del lido,
pel gorgheggio degli uccelli? a queste ingenue pitture mesce Castore,
Polluce, Ippodamia: le rammenta che Diana non si perdeva troppo
allo specchio; che Febea e sua sorella Ilaa faceano senza di tanti
ornamenti; che de' soli suoi vezzi era vestita la figlia del fiume
Eveno, quando Apollo ne disputò il cuore a Ida.

Nè solo gli amori rimpinza di ricordi, ma non sa ornare le leggende
d'Italia che con miti greci, non deplorar Roma che rammentando le
sventure d'Andromaca e l'afflitta casa di Lajo. Eppure, quando mette
da banda questi fronzoli, fa sentire voci nazionali, siccome in alcune
elegie veramente sublimi, e la propria emozione sa trasfondere nel
lettore e volentieri si rileggono i versi ove dipinge gli antichi
costumi degli Italiani a raffaccio dell'attuale corruzione: nel
calendario ha men arte e più nobiltà che Ovidio, e descrive la
campagna, non come questo dalla città, ma come uom che la vede.

Il quale Publio Ovidio Nasone (43 a. C.-17 d. C.), cavaliere da Sulmona
terra ne' Peligni denominata dal frigio Solimo[60], di rimpatto mostra
maggior brio, ed è il verseggiatore più limpido, più fluido. Però in
quella spontaneità da improvvisatore, ch'egli stesso confessa eppur
non ismette[61], cerchi invano o l'eleganza di Tibullo o la dignità di
Properzio; spesso si ripete, sminuzza in particolarità indiligenti[62];
talvolta lede persino la grammatica[63]; ma purchè riesca a farsi
leggere, che gl'importano difetti e censure?[64].

Sebbene l'illustre nascita gli spianasse il calle agli onori, antepose
la vita gaudente, e divenne carissimo alle corrotte compagnie ed alla
Corte d'Augusto. Se non che improvvisamente è relegato a Tomi, esigilo
mite nelle ridenti glebe della Bulgaria; esiglio non inflitto dal
senato ma dal padre della patria, dall'amico dei dotti, senza torgli nè
le sostanze nè i diritti, ma senza processo, senza addurre motivi[65].
Teneva egli mano alle scostumatezze di Giulia? vide, e non seppe tacere
le costei dimestichezze col padre? stomacò Augusto co' laidi versi?
Il bel mondo susurra della mancanza del suo poeta, ma non ardisce
scandagliarne la cagione, finchè dimentica i gemiti impotenti della
vittima e l'illegalità del punitore.

Nelle _Tristi_ e nelle elegie _dal Ponto_ verseggia un dolore senza
dignità nè rassegnazione, erige altari e brucia incensi al suo
persecutore; in femminei rimpianti e monotone rimembranze rincorre la
parte più superficiale della vita, e a forza di stemprar le lacrime,
s'interclude il vero. Ma per quanti versi e suppliche mandasse, non
potè impedire che le sue ossa giacessero sotto terra straniera. Le
_Elegie amatorie_ sono il giornale di sue galanti avventure: brioso e
festevole, a differenza del piagnucolare de' precedenti, sebbene non
ostenti sguajatamente i nomi proprj, come Catullo, Orazio o Marziale,
nè faccia pompa come essi d'infamie contro natura, è il più osceno
poeta latino; e tale lo rivela pure la sua _Arte d'amare_, di cui
troppo parlammo. Le _Eroidi_ sono epistole che suppone scritte da
antichi, ma senza investirsi dell'indole de' tempi, nè indovinare il
sentimento delle età remote; e dall'erudizione lasciando soffocare
l'affetto, che si riduce a lamenti lambiccati per separazioni.

Nelle _Metamorfosi_, in dodicimila esametri canta le forme mutate
degli Dei e degli uomini; scioglimento troppo uniforme alle
ducentoquarantasei favole, raccozzate con intrecci poco naturali, nè
quasi altro collegamento che della successione. Le forme sotto cui
vengono rappresentati gli Dei nella mitologia primitiva, appartengono
al simbolo, o derivano dall'idea della metempsicosi: ma in Ovidio
alcune son mere favole della mitologia, in altre i personaggi perdono
il carattere simbolico e il senso religioso, o lo alterano coll'unione
di elementi disparati; le tradizioni non vengono nobilitate; spesso
oscene, avventure si applicano a divinità morali; ogni cosa poi
è dedotta da poemi e drammi d'antichi e di contemporanei, eccetto
forse il bellissimo episodio di Piramo e Tisbe. Nei _Fasti_ espone
il calendario e l'origine delle feste romane, come già avevano fatto
altri in Alessandria, e a Roma Properzio ed Aulo Sabino: ma nulla
suggerendo di elevato o di recondito, lascia dominarvi la leggenda e
la menzogna consacrata dai sacerdoti; e poichè gli Dei e la religione
al suo tempo erano sferre da antiquarj, egli se ne valse celiando, come
della cavalleria fece l'Ariosto che tanto gli somiglia. Pure dovendo di
preferenza toccare a favole latine pastorizie, ce ne conservò alcune,
che altrimenti ignoreremmo. Come in tutti i componimenti del tempo, vi
predomina l'idea di Roma: questa è la sola unità de' Fasti; di questa
intesse i destini nella troppo facile orditura delle Metamorfosi[66],
che finiscono con Romolo e Numa, colla stella di Giulio Cesare, e colle
preci per la conservazione d'Augusto.

La favola nasce dall'osservare le relazioni tra un fatto della natura,
e particolarmente del regno animale, e un fatto analogo della vita
umana, di modo che, preso nel suo carattere generale, acquisti una
significazione per l'uomo, e segni una regola pratica. N'abbiamo
un esempio antico in Menenio Agrippa, ma neppur qui troviamo alcuna
originalità romana. Fedro (30 a. C.-14 d. C.), che s'intitola liberto
di Augusto e nato in Pieria di Macedonia, trovando occupato ogn'altro
campo della greca imitazione[67], tradusse le favole esopiane in
candidissimo stile, con felice epitetare e brevità arguta e proprietà
costante, non disgiunta da varietà[68], spargendole qui e qua
d'allusioni; ma non possiede quell'arguzia e quel frizzo che colpisce e
passa. Talvolta si eleva a maggior grandezza e a morale sublime, come
là dove canta: — O Febo, che abiti Delfo e il bel Parnaso, dinne, ti
preghiamo, qual cosa a noi sia più utile. Che? le sacrate chiome della
profetessa si fanno irte, scuotonsi i tripodi, mugge la religione dai
penetrali, tremano i lauri, e il giorno s'offusca: la Pitia, tocca dal
nume, scioglie le voci: _Udite, o genti, gli avvisi del dio di Delo.
Osservate la pietà; rendete voti ai celesti; la patria, i padri, le
caste mogli, i figliuoli difendete colle armi, respingete il nemico
col ferro; soccorrete agli amici, compassionate i miseri, favorite
ai buoni; resistete ai tristi, vendicate le colpe, frenate gli empj,
punite quei che stuprano i talami, schivate i malvagi, non credete
troppo a nessuno._ Ciò detto, cadde la vergine forsennata: forsennata
da vero, giacchè quelle parole furono gittate al vento».

Marco Manilio, sebbene si sentisse angustiato fra il rigore del
soggetto e le esigenze del verso, pure vedendo preoccupato ogn'altro
genere, tentò un trattato d'astronomia, ove l'aridità dell'insegnamento
di rado è illeggiadrita dallo stile[69]. Pochissimi pure leggeranno il
_Cinegetico_ di Grazio Falisco.

Di molti poeti latini andarono smarrite le opere; e le commedie di
Fendanio, le tragedie di Pollione e di Vario, e le epopee di Vario
stesso, di Rabirio, di Cornelio Severo, di Pedo Albinovano, il poema
di Cicerone sopra Mario, le didascaliche di Marco, i versi di Giulio
Calido, riputato il più elegante poeta dopo Catullo, non ci son noti
che di nome. Cornelio Gallo, confidente di Virgilio, combattè contro
Antonio ed ebbe il governo dell'Egitto, poi caduto in disfavore, si
uccise.

Da quelli che ci restano e che erano i migliori, siam chiariti come
in Roma dominasse una letteratura di tradizione e d'imitazione,
sicchè tutti si esercitavano in eguali generi, eguali soggetti,
quasi eguali sentimenti. In generale imitavano i poeti della scuola
Alessandrina, e più che dell'invenzione si occupavano della forma,
mostrando maggiore erudizione che originalità; letterati insomma, non
genj. Della loro vita conosciamo poco più di quel ch'essi medesimi ce
ne tramandarono per incidenza; e in un tempo in cui dotti e indotti
faceano versi, ma pochissimi leggevano, altro pubblico non aveano
che i pochi ricchi, altro applauso che di qualche consorteria, a
meritar il quale bisognava sagrificassero l'indipendenza. Ammusolata
l'eloquenza, la poesia per sopravivere si fa stromento alla corruzione,
onestata col nome di pacificamento; e colle blandizie e colle armonie
delicate abitua la pubblica opinione a lodare il fortunato, il quale
s'annojava di questi adulatori, ma per interesse li proteggeva e
concedeva loro i piccoli onori, avendo della letteratura fatto uno
spediente di governo. Da tutti trapela una società infracidita dai
vizj del conquistato universo, fiaccata dalla guerra civile, assopita
dall'elegante despotismo, indifferente ai pubblici interessi e ai gravi
doveri, anelante al riposo, ai godimenti del senso, allo stordimento
delle voluttà. Sulle iniquità passate hanno cura di stendere un velo
recamato, di scusare o anche giustificare l'ingiustizia, e travolgere
o pervertire i giudizj. Quale oserà lodare chi è disfavorito dal
principe? Al comparire d'una cometa il popolo si sgomenta? i poeti
canteranno che è la stella di Giulio Cesare. Augusto ha paura?
ripeteranno quanto sia necessaria la sua vita, che tardi ascenda ai
meritati onori dell'Olimpo, e (cosa strana, non singolare) vanteranno
la beatitudine d'un tempo, del quale gli storici s'accordano a piangere
la decadenza.

Del resto que' poeti non s'affannino troppo a perseverare in opinioni
meditate e di coscienza; vaghino di scuola in scuola, sfiorino tutto,
non approfondiscano nulla; principalmente persuadano che il godere la
vita, usar moderatamente de' piaceri, fare germogliar rose di mezzo
alle spine, è il fiore della sapienza: uffizio tanto più efficace,
quanto che adempiuto con giusto equilibrio delle locuzioni patrie colle
forestiere, e colla correzione delle forme e la finezza del gusto, che
sì breve doveano durare.

Tali vizj compajono anche nei due maggiori, Orazio e Virgilio. Il
liberto padre di Quinto Orazio Flacco da Venosa (66-8 a. C.), lo fece
accuratamente educare col _magro camperello_; si trasferì egli medesimo
a Roma, e cercò un impieguccio di usciere all'aste pubbliche, acciocchè
il figlio fosse istrutto non altrimenti che i cavalieri ed i patrizj,
e per vesti e servi non discomparisse dagli altri. Esso padre lo
vigilava, lo istruiva, e lo pose sotto Pupilio Orbilio, che spoverito
dalle proscrizioni, s'era messo soldato, poi grammatico, e che
severamente educando senza risparmiar lo staffile, meritò una statua.

Da questo conobbe Orazio i vecchi Latini, ma li sentì inferiori ai
Greci, e massime ad Omero, nel quale esso trovava poesia, morale,
politica, tutto, siccome avviene dei libri che spesso si rileggono.

Entrato nella milizia, di ventitre anni capitanò una legione[70]
nelle file pompejane, come la gioventù che imita, non sceglie: ma
nella giornata di Filippi gettò lo scudo e fuggì. Pacificate le cose,
toltogli dai soldati il modesto retaggio, nè rimastegli che le lettere,
si tenne alcun tempo colle vittime e cogli imbronciati, reso audace
dalla povertà[71]: e se fosse perdurato in questo eroismo negativo,
sarebbe riuscito inopportuno come Catone, mentre invece si immortalò
coll'accostarsi ai potenti e trascendere in adulazioni. Perocchè
Virgilio e Vario lo introdussero a Mecenate, che accolse freddamente
questo partigiano di Bruto; ma conosciutone l'ingegno, se lo guadagnò,
e presentollo ad Augusto. In quel vivere pubblico sul fôro, al portico,
nel campo, era facile che s'accomunassero i cittadini anche in gran
diversità di nascita e di posizione; ed Orazio, gioviale e tollerante,
divenne amico senza invidia e senza bassezza del buon Virgilio, come
del dovizioso Mecenate e d'Augusto stesso; gli uni invitava a cena,
dagli altri riceveva e anche domandava pranzi, campagne, ville, quando
tante ce n'era da distribuire, confiscate, occupate militarmente,
vacanti per padroni uccisi.

E un podere sulle colline di quel Tivoli che una volta s'intitolava
superbo e allora solitario (_vacuum Tibur_), bastante al lavoro di
cinque famiglie[72], ebbe Orazio in dono, e colà godeva i suoi giorni,
gustando il più che potesse della vita, non pretendendo sottoporre a sè
le circostanze, ma a quelle sottoponendosi; tanto scarco d'ambizione e
aborrente da legami, che nè tampoco volle essere segretario di Augusto:
ma alle lusinghe di questo non potè negar le lodi, anzi divenne il
poeta di Corte, che nella sua faretra aveva pronto uno strale per ogni
evento; per celebrar natalizj o vittorie de' nipoti del suo padrone,
da buon Romano esecrando tutto ciò ch'era forestiero, e pregando che il
sole non potesse veder cosa più grande di Roma[73].

Fedele alle regole d'un gusto squisitissimo, del resto egli vaga
per ogni tono della sua lira, per ogni varietà d'opinioni[74]: ora
vagheggia la tracia Cloe a dispetto della romana Lidia, e sberteggia
l'invecchiata Lice e la mal paventata strega Canidia; poi di repente
vanta a Licino l'aurea mediocrità, o tesse un inno ai numi: aborre
dal lusso persiano e dall'avorio e dalle travi dorate, e desidera che
Tivoli dia riposo alla sua vecchiaja, stancata nell'armi: una volta
dipinge le delizie campestri, in modo che tu nel credi sinceramente
innamorato e già già per divenire campagnuolo; ma due versi di chiusa
ti rivelano che tutto fu ironia. A Mecenate, suo sostegno e suo decoro,
egli ricanta che senza lui non può vivere, che vuole con lui morire; ma
il genio suo l'assicura d'avere alzato un monumento più perenne che di
bronzo.

Come dell'esser nato da padre liberto, così celia dello scudo che gettò
via a Filippi, e chiama se stesso un ciacco delle stalle d'Epicuro,
mentre raccomanda che la gioventù romana si educhi a soffrire l'augusta
povertà, e faccia impallidire la sposa del purpureo tiranno, allorchè,
come lione entro un branco di pecore, egli s'avventa fra' nemici. Per
blandire Augusto, si astiene dal lodar Cicerone: agli Offelj, dalla
rapace largizione del triumviro convertiti da possessori in fittajuoli,
predica di vivere con poco, d'opporre saldo petto all'avversa fortuna:
tratta da pazzo il gran giureconsulto Labeone, perchè non si mostra
ligio all'imperatore: di Cassio Parmense fa un sommo poeta sinchè
favorito, lo vilipende quando cade in disgrazia: colla stessa meditata
facilità geme se minacciano rinnovarsi le guerre civili, e solleva il
velo che copre gli arcani della politica. Ma quando encomia la virtù
originale di Regolo o la imitatrice di Catone, e coloro che furono
prodighi della grand'anima per la patria, e geme su' guaj che toccano
al popolo pe' delirj dei re, vien di credere che vagasse nella lirica
per disviarsi dal cantare epicamente le glorie, su cui il secolo d'oro
voleva disteso l'oblio.

E sempre più ci si palesa che la lirica romana non era impeto spontaneo
di devozione, d'affetto, di patriotismo, sibbene un godimento preparato
all'intelletto, un artifizio di gusto, sopra una mitologia forestiera.
Anche Orazio in tutto questo imitò, anzi le più volte tradusse i
Greci[75], sebbene sentisse che invano aspirerebbe ad emulare Pindaro.
In fatti questo si lancia con un entusiasmo spontaneo che appare fin
anche dal ritmo, animato, vario nella robusta misura; mentre Orazio
sentesi calmo e riflessivo colà appunto ove più vuole elevarsi,
ed invano nell'imitazione artifiziosa cerca mascherare il calcolo
che guida la sua composizione: in Pindaro è un onore pe' vincitori
l'esser lodati da esso e fatti partecipi della sua gloria; Orazio loda
d'uffizio, sebbene abbia l'arte di dissimularlo col cacciar avanti se
stesso[76]; e poichè scrive all'occasione di avvenimenti giornalieri,
generalmente s'attiene alla personalità degli affetti e delle
sensazioni, parla ogni tratto di sè e de' suoi, talchè c'introduce e
addomestica colla vita degli antichi; e viepiù nelle _Epistole_ e nelle
_Satire_, dove ripigliando la libera misura e il tono famigliare di
Lucilio, riuscì incomparabile maestro del fare difficilmente facili
versi.

La satira, poesia dei tempi critici, o coopera a distruggere e
riformare; o associandosi colla elegia, sorge alla sublimità della
poesia civile; oppure si contenta di ridere, come fece con Orazio.
Conservando la finezza di cortigiano e la docilità di liberto anche in
questo genere essenzialmente democratico, mostrasi dedito a frequentare
la società, il che ne scopre il ridicolo, anzichè al vivere solitario,
che ne scopre i vizj. E perchè i vizj di Roma erano dalla prosperità
pubblica ammantati, potevasi ancora sorridere di quello onde al tempo
di Giovenale un'anima onesta non poteva se non bestemmiare. Poi le
monarchie tendono sempre a diffondere uno spirito di moderazione; e
come Augusto col lodare gli antichi costumi adottava i nuovi, Orazio
il secondò scalfendo senza ferire, ponendo se stesso in prima fila tra
que' peccatori; sicchè punzecchia le colpe senza mostrarne aborrimento,
esorta alla virtù senza farsene apostolo, rimprovera la onnipotenza
attribuita al denaro[77], ma i denarosi corteggia e ne implora le cene
e i doni; e colloca la morale nel fuggire gli eccessi, i desiderj
misurare ai mezzi di soddisfarvi, viver pago di sè e accetto agli
altri; e pingue e lucido in ben curata pelle, ingagliardisce nelle
lussurie e non si dà un pensiero dell'avvenire. Nel che, lontano
dallo stoicismo desolante di Persio, dall'atrabile di Giovenale, e
dal cinismo in cui alcuni ripongono la forza della satira, mai non si
scosta da quella finezza di vedere e aggiustatezza d'esprimere, che non
si possono cogliere se non nelle grandi città e nella conversazione. E
poichè i mediocri, sì nei meriti sì nei peccati, sono sempre il numero
maggiore, perciò dura eterno il morso ch'egli diede ai costumi, e gli
originali suoi ci troviamo accanto tuttodì; sicchè, in fuori della
settima del libro primo, composta a ventitre anni, nessuna delle sue
satire invecchiò[78].

L'autorità dittatoria da alcuni attribuitale, rese insigne l'epistola
ai Pisoni, che meno propriamente s'intitola _Dell'arte poetica_;
componimento didascalico con episodj satirici, ove di famigliarità e
di sali sono conditi i precetti. Ivi, colla varietà che alle epistole
s'addice, Orazio discorre sopra la letteratura, nella quale, diremmo
oggi, egli apparteneva alla scuola romantica, alla giovane Roma, che
disapprovava i sali di Plauto e i versi zoppicanti di Ennio, e beffava
gli ammiratori di ciò che sentisse d'arcaico, e quei che rincresceansi
di disimparare maturi ciò che avean imparato a scuola, e asceticamente
deploravano la perdita del buon gusto[79]. Principalmente egli
insiste sulla drammatica: ma il vero talento non è mai esclusivo, e
mentre sembra che in questa ponga ceppi arbitrarj al genio, tende a
svincolarlo dalla paura dei pedanti, i quali pretendevano la lingua si
restringesse ad un tempo solo e a certi autori, anzichè riconoscerne
supremo arbitro l'uso[80]; chiamavano sacrilegio il negar venerazione
agli antichi, quanto il concederla a coloro il cui nome non fosse
ancora dalla morte consacrato[81]; al censore cianciero e petulante
attribuivano maggiore autorità che al giudizio de' pochi savj modesti.

Molto egli trae da Aristotele, ma molto dalla propria sperienza;
nè quell'epistola è inutile in tempo che, salite ai primi posti
l'erudizione e la storia, molti sostengono non darsi principj certi
di critica, canoni non potersi dedurre che dai capolavori, ed esser
tiranniche tutte le regole antiche, per verità nulla più severe di
quelle che s'impongono a nome della libertà.

In quel gran latrocinio contro i prischi Italiani, per cui i campi
furono ripartiti fra i soldati d'Ottaviano, Publio Virgilio Marone
(70-19 a. C.), nato nel villaggio d'Andes (_Piétola_) presso Mantova,
educato a Cremona e a Milano, venne a Roma a reclamare l'avito suo
poderetto; e coll'ingegno trovato grazia appo Augusto, l'ebbe come un
dio e ne accettò i favori. Candido, forbito, innamorato dell'arte e
della pace, era il poeta nato fatto per quei tempi, in cui dal mareggio
civile importava richiamare alle operose dolcezze della villa, e
mutare le spade in aratri, l'attualità in memorie. Quest'era l'uffizio
a cui Augusto convitava le Muse: e tutti i poeti dell'età sua si
mostrano credenti a tutta la litania degli Dei, fin nelle più beffate
loro trasformazioni; predicatori del buon costume e della sobrietà
degli antenati, plaudenti al ritorno della pace, del pudore antico,
della casta famiglia; encomiatori dell'agricoltura, e di quel vivere
campagnuolo che avea prodotto i vincitori di Cartagine[82].

Pertanto Mecenate con insistenza persuase Virgilio a nobilitare
l'agricoltura, e cantare i campi; e Virgilio scrisse le _Georgiche_,
capolavoro di gusto, di retto senso e di stile, il monumento più
forbito di qualsiasi letteratura, la disperazione di quelli che si
ostinano alla poesia didattica, e che delle apparenti difficoltà
ottengono agevole vittoria se si considerino isolati, ma messi a petto
a Virgilio restano d'infinito spazio inferiori. Nelle _Bucoliche_
copia Greci e Siciliani; colle frequenti allegorie ed allusioni alle
proprie venture dissipa l'illusione, e svisa i pastori facendoli colti
e raffinati tanto, da esprimere i sentimenti proprj dell'autore; mai
non dimentica Roma sua, fra i campi cresciuta; i pastori stupiranno
alle fortune di essa e alla magnificenza di Augusto; ciò che spiace a
questo, verrà disapprovato anche dal poeta; ed esaltando la beatitudine
campestre, ne farà raffaccio alle abitudini repubblicane de' clienti
affollantisi, dell'ambir le magistrature e i fragori forensi, al lusso
delle case e del vestire, alle guerre civili che fanno le case vuote di
famiglie[83].

Come gli altri Romani, Virgilio non si propone d'inventare, ma di far
una poesia finita; copia le bellezze di quei che lo precedettero[84],
aggiungendovi finezze tutte sue; collo studio migliora ciò che a quelli
il genio somministrò, eliminandone ogni scabrezza, ogni sconvenienza; e
col maggior garbo lusinga il lettore, il quale s'affeziona ad un poeta
tutto occupato nel recargli diletto. E qual altri conobbe sì addentro
ogni artifizio dello stile? Con varietà inesauribile di voci, di frasi,
di ritmo, carezza gli orecchi del lettore, non lasciandone un istante
rallentare la schizzinosa attenzione, senza per questo solleticarla
con lambiccamenti o con pruriginose vivezze. Quel che imparò nella
colta conversazione dell'aula d'Augusto, egli nella solitudine raffina
col delicato sentire; e dalla maestosa onda del suo esametro fino
alla scelta de' vocaboli ben equilibrati di vocali e consonanti, e di
dolci ed aspre, tutto è nel dimostrare che di pari sieno proceduti il
pensiero e l'espressione.

Ma opera maggiore gli chiedevano i suoi protettori, la quale non
lasciasse a Roma alcuna invidia delle greche ricchezze; un'epopea.
I popoli raffinandosi perdono quell'ingenua credenza nell'immediata
intervenzione degli Dei, sopra la quale si fondano le epopee
primitive, storia ed enciclopedia delle nazioni ancor prive di critica
e d'annali; la scienza ingrandendo spiega ciò che pareva mistero;
l'industria toglie la grazia infantile ai famigliari nonnulla della
società nascente: laonde all'epica grandiosa devono succedere i lavori
d'erudizione ragionatamente condotti, e gran pezza lontani dalla
generosa sprezzatura dei poemi popolari e nazionali. Il genio di
Virgilio e il suo tempo non portavano ad un'epopea naturale; ma a forza
di studio, cognizioni, arte, conducevano ad armonizzare quanto sin là
erasi fatto di meglio.

E fatto già s'era in Roma. Moderni critici vollero la fanciullezza di
questa dotare di poemi primitivi, dove le idee fossero personificate in
tipi, quali i sette re e gli altri eroi fino alla battaglia del lago
Regillo, accettati poi come storia. Un popolo tutto giurisprudenza,
il cui _carme_ sono le XII Tavole, le cui imprese caratteristiche
sono contese di diritto, non dovette cullarsi in fasce poetiche, nè
possedette quel sentimento elevato dell'esistenza, il cui più insigne
frutto sono i poemi eroici. A questi, come al resto, si applicarono
i Romani per imitazione, e nell'intento di conciliare l'esempio di
Omero colla favola ausonia, il meraviglioso dell'epopea colla storica
realtà. Nevio cantò la prima guerra punica, Ennio la seconda e la
etolica[85], in via episodica risalendo alle origini di Roma. Ma al
costoro tempo già si scriveva la storia, onde non potevano che esporre
in versi i fasti romani: Ennio poi, traduttore d'Eveemero e d'Epicarmo,
i quali scomponevano il cielo in simboli o apoteosi, come poteva
usare sinceramente la macchina? Nè l'innesto de' fatti storici coi
soprannaturali, fondamento dell'epopea greca, avea più luogo quando
s'attuarono grandi eventi, degnissimi di poema. Ben alcuni assunsero
a tema la guerra dei Cimri, o il consolato di Cicerone; le costui
lodi celebrò Cornelio Severo nella Guerra di Sicilia; Archia cantò
le spedizioni di Lucullo, Teofane quelle di Pompeo, Furio Bibaculo
le imprese di Catulo, altri quelle di Cesare, le vittorie d'Antonio o
quelle d'Ottaviano, come fece Cotta nella _Farsaglia_: ma la vicinanza
delle imprese riduceva il poeta a storiografo, a tradurre in versi i
commentarj di qualche famiglia; e la protezione imponeva di adulare un
uomo o una fazione, anzichè sublimare la nazione tutta, o interessare
l'umanità.

Altri, dietro a Lucio Andronico, assumevano soggetti mitologici,
rifritti e non creduti, come Varrone d'Atace che riprodusse le
Argonautiche, Cicerone gli Alcioni e Glauco, Calvo l'Io, Cinna
la Mirra, Catullo il Teti e Peleo, e tante Tebaidi, Ercoleidi,
Amazonidi[86], dove al racconto si associavano movimenti lirici e
tragici. Fra i quali va distinto Rabirio, che Ovidio chiama grande e
Vellejo Patercolo appaja a Virgilio, e del quale non conosciamo che
alcuni versi sulla guerra d'Alessandro, ritrovati ad Ercolano. Altri
ricorrevano le antiche memorie patrie, e i fievoli cominciamenti di
Roma, mettendoli a fronte della presente grandezza: di ciò un Sabino
fece soggetto a canti, tronchi dalla morte; su ciò fondansi i _Fasti_
d'Ovidio; Properzio si proponeva di celebrare le antiche feste e i
prischi nomi dei luoghi[87].

Virgilio, venuto al tempo che la vecchia Roma perisce, e la
trasformazione dell'impero eccita vaghi presentimenti d'un avvenire
incomprensibile, pensò combinare gli elementi che gli altri adoperavano
distinti. Le memorie repubblicane poteano recar ombra al pacificatore
fortunato, e a troppe passioni avrebbe dato di cozzo se, come Lucano,
avesse tolto a cantare armi tinte di sangue non ancora espiato. Si
gittò dunque sull'antichità, da Omero desumendo il soggetto, gli
eroi, l'orditura persino e il verso e il tono, come era consueto da'
suoi predecessori; ideò di unire i viaggi dell'_Odissea_ e le guerre
dell'_Iliade_, ma collocarsi nella favola omerica per mirare fatti
storici lontani e vicini, e cantando Trojani essere eminentemente
romano. Il trarre la favola iliaca a significazione italiana era
tutt'altro che cosa nuova[88], e ne restava blandita la vanità di
tutta la nazione, e specialmente di questa gente Giulia, giganteggiata
sulle rovine dell'aristocrazia. Più non basta però che la musa gli
canti le origini della romana gente, ma deve accertarle; onde esamina
la tradizione, vaglia, ordina, sicchè rimane buon testimonio delle
tradizioni antiche, e fa un esercizio d'arte, non una poesia di getto.

A quella lontananza, favorevole all'immaginazione, per via d'episodj
potrà facilmente annestare i nomi di coloro per cui crebbe e s'assodò
la romana cosa; potrà coll'episodio di Didone adombrare la guerra
punica, il cui esito accertò la grandezza di Roma; e colle antichissime
cagioni delle nimistà e colle imprecazioni di Elisa che invocava
irreconciliabili gli odj e le vendette contro la schiatta d'Enea,
giustificare la distruzione di Cartagine per titolo di sicurezza.
Infine metterà a confronto la Roma non nata ancora presso al regio
tugurio d'Evandro, con quella meravigliosamente marmorea di Augusto,
sulla quale egli concentrerà tutto lo splendore della storia italica e
del tempo de' semidei.

Orditura così compassata, quanto dovea restare di sotto della spontanea
ispirazione di Omero! In questo terra e cielo uniti cospirano a
comun fine, e le divinità perpetuamente intervengono alle azioni e ai
consigli de' mortali. Perduta quella iniziazione divina, in Virgilio
gli Dei s'affacciano solo tratto tratto per macchina d'arte; e lo
scetticismo filosofico gli accetta come spediente letterario. Virgilio
vede ed ammira la grande unità di Omero, ed esclama esser più facile
togliere la clava ad Ercole che un verso a quello: eppure compagina un
poema di frammenti, di erudizione avvivata con grand'ingegno, ma non
riuscendo a idealizzare le raccozzate rimembranze.

Se, invece d'imitare separatamente i didascalici di Alessandria, i
bucolici siciliani e l'epico Meonio, avesse fuso gli uni coll'altro,
e nell'esposizione della civiltà italica antica (dove rimase tanto
inferiore) non introdotte in forma precettiva, ma atteggiate le ingenue
dipinture del viver campestre dei prischi Italiani, avrebbe fatto opera
non soltanto romana ma italica, causato il troppo immediato confronto
coi poeti imitati, e la dissonanza che, come negli altri Latini, vi
si scorge fra quello che ha di proprio o quel che toglie a prestanza.
Nè tampoco si propose egli di ritrarre particolarmente veruna età,
non la sua, non quella che descrive[89], né di aprire un nuovo calle
ai successori; ma fu tutto amor dell'arte, tutto romana predilezione:
l'adulazione stessa non fece sguajata come quella onde Ariosto cantò
gl'indegni suoi mecenati, ma fina e convenevole alla forbita corte
d'Augusto.

Nella quale vivendo, Virgilio ingentilisce gli eroi: Enea depose la
pelasgica rozzezza: la donna non è più una Criseide che passi a chi
vince; non un'Andromaca che, da vedova di Ettore, si contenti di
divenire la sposa di Elleno; ma una regina che giurò fede al perduto
consorte, che soccombe solo alla potenza dell'amore, e all'amore
tradito non sa sopravivere[90]. Nell'inferno di Omero, Achille ribrama
avidamente la vita: nell'Eliso di Virgilio, Didone guata silenziosa il
suo traditore e passa.

In quest'ultimo tratto scorgiamo un merito che renderà Virgilio
eternamente prezioso a chi è capace di sentire. Fra tanti poeti
che menzionammo, i quali cantarono prolissamente i loro amori, pur
uno non troviamo che tratteggi al vero il procedere della passione,
accontentandosi essi di ritrarne qualche accidente o le crisi più
rilevate, e sfogarsi in sentenze, in lamenti ingegnosi, in ricche
descrizioni, in tutto ciò che è esterno. La meditata conoscenza della
vita interiore doveva ai moderni venire da una fonte nuova; e parve
preludervi Virgilio, che, impedito dai tempi d'essere ingenuo, si
conservò semplice, eloquente, patetico; trasfuse nella poesia il
proprio cuore, e ciò che dapprima era soltanto esteriore, ridusse
subjettivo coll'insistere sopra un sentimento, e scovar dai cuori i
secreti più ritrosi, e seguir passo passo il crescere e il declinare
d'una passione. Vedetelo in quell'amore di Didone, del quale son
gettati i primi semi colla pietà nata dalla fama, poi cresce colla
vista, col racconto, colla consuetudine, col raziocinio, finchè deluso,
non può cessare che colla vita.

A questo fino sentire va debitore Virgilio d'un genere di bellezze
nuove, qual è l'avvicendarsi delle pitture, per cui dalla desolazione
di Troja incendiata s'insinua ad una scena di famiglia; di mezzo
all'ira disperata, Enea è rattenuto dalla vista di Elena; alla
procella succedono la placidissima descrizione del porto, e le ospitali
accoglienze; l'episodio puramente guerresco dell'esplorazione notturna
nel campo, è risanguato dall'affettuoso episodio di Niso ed Eurialo;
perocchè il patetico è il vero dominio dell'arte, siccome la cosa
essenzialmente efficace nella vita umana.

Di là un'altra delle vaghezze più care in questo amabilissimo
poeta; quel condurre la realtà esteriore alla spiritualità, quel
tradurre l'idea in immagini che offre vive vive all'occhio, e in cui
forse consiste quel _bello stile_ che Dante riconosce aver tolto
da lui, e che Virgilio avea forse dedotto dall'assiduo suo studio
ne' tragici[91]. Quella fanciulla che getta al pastore un pomo e si
nasconde fra' salici, ma prima desidera d'esser veduta; quel bambino
che col primo riso conosce la madre; quell'Apollo che tira l'orecchio
al poeta per avvertirlo di non trascendere i pastorali argomenti;
quel garzoncello che a fatica attinge i fragili rami; quell'idea della
speranza, rappresentata in Dafni che innesta i peri, di cui coglieranno
le frutta i nipoti; que' pastorelli che incidono sulle piante i cari
nomi, le piante cresceranno e gli amori con esse[92]; sono idillj
compiuti, che il pittore può rendervi in altrettanti quadretti. Poi,
per belli che sieno i paesaggi, Virgilio sente quanto vi manchi finchè
non siano avvivati dalla presenza dell'uomo: adunque tra i noti fiumi
e i sacri fonti non mancherà un fortunato vecchio, godente l'opaca
frescura; o un afflitto che, sotto l'ombra di densi faggi, alle selve
e ai monti sparge inutili querele; e i molli prati e i limpidi fonti
e i boschi gli dilettano solo in riflettere qual sarebbe dolcezza il
vivervi eternamente colla sua Licori[93].

Eccetto le primissime composizioni, non volse egli la musa a
particolari sue affezioni ed avventure; ma sappiamo che placida
fluì la sua vita, più che non soglia in poeta. Caro ad Augusto e
copiosissimamente da lui rimunerato[94], non prendeasi briga delle
_romane cose_ e dei _perituri regni_, ma ritirato presso Táranto, fra i
pineti dell'ombroso Galéso[95] cantava Tirsi e Dafni, come l'usignuolo
che, senz'altro pensiero, la sera empie il bosco de' suoi gorgheggi.
Lo mordevano i Mevj e i Bavj, peste d'ogni tempo? ma di encomj lo
elevavano a gara i migliori dell'età sua, la curiosità ammiratrice
veniva a cercarlo nel suo ritiro, ed una volta, al suo entrare in
teatro, il popolo tutto s'alzò, come all'arrivo dell'imperatore[96].

Ammirando però quella forma così temperata, così pudica della sua
bellezza, non per questo diremo superasse i suoi modelli. Come noi
esaltiamo l'Ariosto per la forma, pur ridendoci delle sue favole,
così, mentre si smarriva la tradizione religiosa d'Omero, durava,
anzi cresceva di reputazione l'artistica, e Virgilio non se ne volle
staccare. Ma in Omero quell'inserire s'un fatto pubblico passioni
personali, quell'elevare l'individualità mediante la grandezza dello
scopo e la serietà del destino, quell'equilibrare la natura collo
spirito, ci portano ben più in là che non un'epopea dotta, la quale
in fatto non potè divenire il libro de' Latini, come divennero Omero
e Dante. Quella parola de' genj contemplativi e creatori, che è
possente a trarre in terra l'ideale, è negata a Virgilio, il quale
riesce soltanto a magnificare la restaurazione d'Augusto, avvenimento
passeggero.

Con Omero versiamo continuo nel mondo greco, dov'egli passeggia da
padrone; non così con Virgilio, costretto a lavorare d'erudizione.
Omero è più universale ne' suoi concetti, e se vuole il meraviglioso
infernale, fa da Ulisse evocar le ombre entro una fossa ch'egli
medesimo scavò e asperse di sangue; mentre Virgilio guida Enea per
regolare viaggio ai morti regni.

Il cuore dell'uomo deve rivelarsi ne' suoi Dei, forme generali,
personificazione degli interni suoi motori, nel qual caso sono gli Dei
del proprio sentimento, delle proprie passioni: in Omero son essi una
cosa sola cogli eroi; in Virgilio convivono ancora, intervengono ancora
in avvenimenti semplici, come per indicare la via di Cartagine. Pure,
non foss'altro, la diligenza del verso avvisa che si è già a quel punto
di civiltà ove più non vi si crede; e quegli Dei appajono macchine,
inserite nella ragione positiva, non altrimenti che i prodigi in Tito
Livio. Circe e Calipso sono abbandonate come Didone, ma in modo ben più
naturale e ingenuo.

Alla descrizione dei giuochi, tanto semplice nel Meonio, Virgilio
oppone un tale affastellamento di artifizii, che sarebbero troppi a
narrare la distruzione d'un impero. Chi non ha sentito la sublimità
delle battaglie d'Omero? ogni uomo che cade v'ha il suo compianto,
al tempo stesso che tutt'insieme è un fragore, una mescolanza di
cielo e terra, che rimbomba nei versi e nelle parole. Quale assurdità
invece i serpenti che strozzano Laocoonte in mezzo a un popolo! qual
meschino spediente quel cavallo di legno! cento prodi che si chiudono
in una macchina, esponendo lor vita ai nemici: Sinone che intesse la
più inverosimile menzogna: Trojani così ciechi, da non mandar fino
a Tenedo, che dico? da non salire sopra una torre per avverare se la
flotta nemica abbia preso il largo nell'Ellesponto: in brev'ora, sì
smisurata mole è trascinata dal lido fin alla ròcca di Troja, superando
due fiumi e gli aperti spaldi; poi non appena Sinone l'ha schiusa, è
incendiata e presa quella città vastissima, folta di popolo, con un
esercito intatto; avanti l'alba ogni resistenza cessò, i vincitori
ridussero le spoglie ne' magazzini e i prigionieri; i vinti raccolsero
altrove quel che poterono sottrarre.

In Omero ciascuno ha un carattere; benchè Agamennone sia re dei re,
ciascuno serba volontà e compie imprese personali; ogni minima cosa
è contraddistinta, il mare, la rôcca, lo scettro, le vesti, le porte
e i cardini loro, semplice la vita degli eroi, e perciò interessante
ogni loro atto, e per da poco che sembri alla raffinatezza odierna,
serve però a intrattenere sopra quel personaggio. Nei caratteri invece
sta il debole di Virgilio. Giunone al principio è triviale, nè tutta
la sua enfasi esprime quanto il sacerdote Crise che torna mortificato
verso il lido, e prega vendetta, e l'ottiene dal Dio. Evandro nel
congedare Pallante mostrasi femminetta al confronto di Priamo a' piedi
di Achille. Ettore che bacia Astianatte e invoca che chi lo vedrà
dica — Non fu sì valoroso il padre», ha ben altro decoro che Enea
nello staccarsi dal figlio. Enea poi combatte per tôrre ad un altro
il regno e la sposa, mentre Ettore per difendere la patria. Nè forse
un solo carattere riscontriamo in Virgilio ben ideato e a se medesimo
consentaneo: Acate non sai che è _fido_ se non dall'epiteto del poeta:
chi il _pio_ applicato ad Enea non intenda nel primo senso di religioso
ed obbediente agli Dei, dee scandolezzarsi al vederlo applicato ad uomo
il quale, ospitalmente accolto in terra straniera, seduce la donna che
sa di dover abbandonare; approdato altrove, rapisce quella d'un altro.
Ma per tutta ragione sta il comando degli Dei, che lo destinavano a
creare i padri Albani, e le alte mura di Roma, e la grandezza d'Italia,
gravida d'imperi e fremente di guerra.

Molti di questi difetti appartengono all'essenza del suo componimento;
alcuni sarebbero scomparsi se avesse potuto dare l'ultima mano
all'opera sua. La quale, com'è stile dei grandi, pareagli sì discosta
dalla perfezione, che, morendo ancor fresco, raccomandava ad Augusto di
bruciarla; voto che l'imperatore si guardò bene di adempire. Tal quale
la lasciò, male ordinata nell'insieme, e ad ora ad ora imperfetta nella
rappresentazione e nelle espressioni, è squisito lavoro, e come epopea
definitiva servì di norma e talvolta di ceppo agli epici posteriori,
che professavano seguirla da lungi e adorarne le vestigia[97].

In somma la letteratura romana può considerarsi come una fasi della
greca. Nei Greci si trovavano in armonia il sentimento dell'ordine
generale qual base della moralità, e il sentimento della libertà
personale, non ancora essendosi manifestata l'opposizione fra la legge
politica e la legge morale; sicchè ciascuno cercava la propria libertà
nel trionfo dell'interesse generale. In questo istante dell'umanità,
fu prodotta nel suo più splendido fiore la bellezza sotto la forma
dell'individualità plastica; gli Dei ottennero un aspetto armonizzante
colle idee che rappresentavano, sicchè la greca fu la religione
dell'arte; la poesia che ha per oggetto l'impero indefinito dello
spirito, raggiunse il perfetto equilibrio fra l'immaginativa e la
ragione; la civiltà profittò di tutti i passi precedenti, unificandoli
e perfezionandoli in quel patriotismo che della greca fu lo scopo più
elevato.

I Romani, stupiti a quella incomparabile bellezza, non credettero
potere far meglio che imitarla. Il linguaggio della magistratura,
dell'imperio, era il latino; ma il greco quel della coltura, della
eleganza; sarebbe parso sacrilegio il parlare altro che latino dal
tribunale o dalla ringhiera; Tiberio cancella una parola greca scappata
in un senatoconsulto; Claudio toglie la cittadinanza ad uno che non
sa il latino: ma nella conversazione si parla il greco; in greco si
scrivono le note e le memorie; il greco si usa in famiglia, si usa
coll'amante, dicendole ζωὴ, φυχὴ; greci sono i maestri, nè i filosofi
di quella lingua si varrebbero mai della latina, anzi non la imparano;
e Plutarco, che tanto n'avea bisogno per iscrivere le sue vite, ben
tardi cominciò a leggere qualche scritto romano, comprendendolo dal
senso piuttosto che letteralmente. Cicerone affetta di non capire la
bellezza delle statue greche, d'ignorare i nomi de' loro artisti; ma
appena sceso dai rostri, parla greco, va in Grecia a perfezionare la
sua educazione, traduce i greci filosofi.

Se fosse prevalsa l'Etruria, Italia avrebbe serbato una poesia
originale, con forma e lingua proprie: Roma invece dal bel principio
s'acconciò all'imitazione, e ricevendo gli Dei della Grecia, dovette
pur riceverne l'arte che sulla religione era fondata. Ma la religione
fra i Greci era culto e dogma, ai Romani era favola e convenzione;
e tale si mostra in tutta la loro poesia. Potrebbe mai credersi che
Virgilio, Orazio, Ovidio prestassero fede a quei numi, che adopravano
per macchina ed ornamento? nè mai dalla lira latina uscì un inno
ove apparisse, non dirò la divota ispirazione ebraica, ma neppure la
convinzione che alita in Omero, in Eschilo, in Pindaro. Il poeta non
sentiva i numi nel cuore, non era ascoltato dal popolo, preoccupato
da positivi interessi; riducevasi dunque a pura arte, nè in ciò poteva
far di meglio che seguitare i Greci, i quali ne avevano esibito i più
squisiti esemplari.

— Questi esemplari sfoglia giorno e notte», raccomandasi ai giovani di
buone speranze; non già meditare sopra se stessi, sulla natura, sul
mondo: divenire per gloria eterni si confida non tanto per coscienza
delle proprie forze, quanto per la gran pratica coi capolavori dei
maestri, per averne scelto il meglio a guisa d'ape[98], e tradotte le
muse di quelli a favellare con intelligenza la lingua del Lazio. Che se
poniam mente a questa moderata pretensione, men vanitoso ci sembra quel
loro continuo assicurarsi dell'immortalità, e d'associare il proprio
nome all'eternità della romana fortuna[99].

Nè trattavasi soltanto dell'imitazione, naturale a chi, venendo dopo,
eredita dai predecessori, senza perdere quel che v'ha di proprio nello
spirito, nella lingua, nella tradizione, nel pensar nazionale; ma si
faceano ligi alle forme artistiche, particolari di quella gente, per
conseguenza non riuscivano coll'artifizio a raggiungere l'altezza, cui
soltanto colla naturale vivacità dell'ingegno si perviene. Quel bisogno
artistico di esprimere e di comunicare i sentimenti più nobili e più
profondi, dal quale è creata e conservata una letteratura, fu poco
sentito da' Romani, sprovveduti dello slancio ideale, dell'intuizione
calma della natura, e dello spirito estetico tanto proprio de' Greci;
l'elemento religioso vi rimaneva interamente subordinato al politico;
di rado seppero il semplice ed il naturale elevare all'idealità;
e diedero facilmente nel falso, e in quel sublime di parole scarso
d'idee, che costituisce il declamatorio. La poesia romana non differì
dalla greca per lo spirito, pel sentimento, pel modo di osservar
l'universo, per l'espressione; ma l'arte vi si scorge troppo, tutto è
riflesso e calcolato, nulla della semplicità di Omero, e l'abilità del
linguaggio e l'arte retorica mal suppliscono alla forza spontanea e
alla fecondità d'invenzione.

Eccettuata la satira, non un genere letterario apersero, e nessuno
raggiunse i loro modelli. Ai quali taluno si attenne senza restrizione,
come Livio, Virgilio, Orazio, mentre più nazionali si conservarono
Ennio, Varrone, Lucrezio, poi Giovenale e Lucano, perciò più robusti
ma meno colti. Povero fu il teatro, il quale non può reggersi che su
tradizioni e sentimenti nazionali. La lirica massimamente ne risentì,
poichè a quest'armonica espressione degl'intimi sentimenti nulla più
nuoce che il trovare la reminiscenza ove si cercava l'ispirazione, ed
esser frenati nella commozione dal pensare che il poeta non s'ispira ma
ricorda.

Ma in tutti costoro quale squisita verità di sentimento! qual perfetta
aggiustatezza di pensiero! qual compiuta venustà di forme, e purezza
ed eleganza e nobile armonia di stile, e variazioni di ritmo! Un alito
di regola e di calma penetra ogni particolarità, un ordine semplice ed
austero dà a conoscere che l'autore è padrone di sè e del suo soggetto.
Tutti poi s'improntano d'un marchio, che li fa originali da ogni altro;
ed è l'idea di Roma, che in tutti predomina, e che supplisce al difetto
di quel tipo particolare che distingue ciascuno dei grandi autori di
Grecia. La quale differenza è portata naturalmente dal diverso vivere
d'un popolo eminentemente individuale e libero nell'esercitare come gli
piace le forze del suo spirito, e d'un altro fra cui ad ogni altra idea
predomina quella della patria grandezza.

A stampare questo carattere assai valse l'esser le romane lettere
fiorite per opera de' principali cittadini, i quali abbracciando intera
la vita nazionale, considerano ogni cosa nelle più ampie sue relazioni,
a differenza di que' meri scrittori che rimpicciniscono la letteratura
riducendola a semplice arte. E la letteratura latina, a tacere di noi
pei quali è un vanto patrio, merita maggiore studio che non la greca,
perchè, provenendo da un grandissimo centro di civiltà, meglio rivela
la condizione sociale del genere umano.

Ma quando una letteratura si regge sull'artifizio, prontamente decade.
Augusto ben poco merito ebbe all'apparire dei genj, di cui esso fu il
contemporaneo, non il creatore, e che, nati nella repubblica, aveano
lasciato il campo senza successori prima ch'egli morisse. Già egli
derideva lo stile pretensivo di qualcheduno e le parole antiquate
di Tiberio; e alla nipote Agrippina diceva: — Il più che cerco è
di parlare e scrivere naturalmente»; ma le idee che contenevano,
faceangli mal gradito lo studio degli antichi. Poi Mecenate suo
dilettavasi di uno stile floscio e ricercato. Come avviene allorchè
cessa la produzione, si sottigliava la critica: Asinio Pollione poeta e
storico appuntava Sallustio di vecchiume, Livio di padovanità, Cesare
di negligenza e mala fede; singolarmente professava nimicizia per
Cicerone; egli poi scriveva stecchito, oscuro, balzellante[100]; ma era
l'amico dell'imperatore, avea buona biblioteca, bella villa, esperto
cuoco; sicchè dovea trovar non solo l'indulgenza che agli altri negava,
ma anche lode, e ai suoi giudizj forza di oracolo.

Ritiratosi dalla vita pubblica, scriveva orazioni, somiglianti agli
articoli di fondo de' nostri giornali, cioè di lettura amena, e che
diffondessero certe idee di politica e di letteratura. Così svoltavansi
gli spiriti dall'eloquenza pubblica verso quella di scuola. Di quella
conservavano ancora qualche ombra Azzio Labieno libero parlatore
«unendo il colore della vecchia orazione col vigore della nuova»
(SENECA); e Cassio Severo amico suo e altrettanto franco dicitore, che
satireggiava anche le persone cospicue, onde Augusto fe bruciare gli
scritti di esso, ne' quali gli antichi ammiravano lo stile vigoroso,
oltre la mordacità; e fu lui veramente che schiuse la nuova via, alla
quale l'eloquenza si trovò ridotta dopo respinta dalla tribuna[101].
Perocchè, mutata la pubblica attività nella monarchica sonnolenza,
cessato il giudizio tremendo e inappellabile delle assemblee, si
sentenziava degli autori secondo l'aura delle consorterie e dei grandi
che davano da pranzo ai letterati.

Quando Augusto morì, più non sonava che la piangolosa voce d'Ovidio,
cui l'infingarda abbondanza, lo sminuzzamento, i contorcimenti della
lingua, i giocherelli di parole collocano lontano da Orazio, Virgilio e
Tibullo, quanto Euripide da Sofocle e il Tasso dall'Ariosto. Così breve
tempo era bastato perchè la letteratura romana passasse da Catullo non
ancor dirozzato ad Ovidio già corrotto.



CAPITOLO XXXII.

Tiberio.


Augusto non osò sistemare il governo monarchico mediante uno statuto,
il quale ponendo limiti a' suoi successori, avrebbe fatto conoscere
ai Romani ch'egli non ne aveva. In conseguenza non si ebbe nè
elezione legale, nè ordine prefinito di successione, nè contrappesi
politici: la repubblica assoluta mutavasi in assoluta monarchia,
costituita unicamente sulla forza, dalla forza unicamente frenata;
l'imperatore, rappresentante del popolo, poteva quel che volesse[102],
e dell'onnipotenza valeasi a pareggiare tutti i sudditi nel diritto, e
a togliere al popolo ed al senato e l'autorità e l'apparenza.

Tanti anni d'assoluto dominio, mascherato con forme repubblicane,
aveano indocilito i Romani al giogo, sicchè vedeasi senza repugnanza
che l'impero passerebbe da Augusto in un altro. Tiberio, rampollo
dell'illustre casa Claudia, illustre egli stesso per imprese
guerresche, rivestito di molti onori e della tribunizia podestà,
figliastro e genero d'Augusto, tenevasi sicuro d'esserne chiamato
successore, quando lo vide voltar le sue grazie sopra gli orfani
d'Agrippa. Tra per dispetto e per rimuovere ogni gelosia, s'allontanò
da Roma, come dicemmo, e visse otto anni a Rodi, deposte armi, cavalli,
toga: lontano dal mare, in una casa posta fra dirupi, dal tetto di
quella faceva che gl'indovini investigassero negli astri l'avvenire;
e se la risposta riuscivagli sospetta, nel ritorno il liberto
scaraventava per le balze l'astrologo mal avvisato.

Morti i figli d'Agrippa (forse non senza opera sua) (4 d. C.), torna
a Roma, è adottato da Augusto, il quale pretendono sel destinasse
successore acciocchè la propria moderazione traesse risalto dal
lento strazio di costui[103], ch'e' conosceva pauroso, diffidente,
irresoluto, simulato. Alla morte dunque del patrigno (14), Tiberio
si trova padrone del mondo a cinquantasei anni. Non volendo accettar
l'impero dagl'intrighi d'una donna e dall'imbecillità d'un vecchio,
modestamente convoca il senato, come tribuno ch'egli era; e la
offertagli dominazione ricusa, come peso a cui poteva a pena bastare
il divin genio d'Augusto; solo dalle lunghe istanze lascia indursi ad
accettare, e purchè i senatori gli promettano assistenza in ogni passo.
Di fatto li consultava continuo, ne incoraggiva l'opposizione, gli
esortava a ripristinare la repubblica; cedeva la destra ai consoli, e
sorgeva al loro comparire in senato o al teatro; assisteva ai processi,
massime ove sperasse salvare il reo; non soffrì il titolo di signore,
nè di padre della patria, nè tampoco quello di Dio, dicendo: — Io
sono signore de' miei schiavi, imperatore de' soldati, primo fra gli
altri cittadini romani; mio uffizio è curar l'ordine, la giustizia,
la pubblica pace». Alleggeriva da' tributi i sudditi, e avvisava i
governatori delle provincie che un buon pastore tosa non iscortica
le pecore. Riformò i costumi, diminuendo le innumerevoli taverne,
restituendo ai padri l'autorità di punire le figliuole discole,
benchè maritate; vietò il baciarsi per saluto in pubblico; ai senatori
interdisse di comparire fra i pantomimi, e ai cavalieri di corteggiare
pubblicamente le commedianti; e per raffaccio allo scialacquo de'
banchetti, faceasi servire i rilievi del giorno antecedente, dicendo
che la parte non ha men sapore che il tutto. Spargonsi satire contro di
lui? — In libero Stato, liberi devono essere i pensieri e la parola».
Vuolsi in senato portar querela contro suoi diffamatori? — Non ci basta
ozio per tali bagattelle. Se aprite la porta ai delatori, non avrete
ad occuparvi d'altro che delle costoro denunzie; e col pretesto di
difendere me, ognuno vi recherà le proprie ingiurie da vendicare».

Ma per quanto dissimulatore e simulatore, non seppe mai comparire
grazioso; le larghezze e l'affabilità di Augusto disapprovava; non
diede molti spettacoli al popolo, non donativi ai soldati; nè tampoco
soddisfece ai legati del predecessore; e avendo uno de' legatarj detto
per celia all'orecchio d'un morto, annunziasse ad Augusto che l'ultima
sua volontà rimaneva inadempita, Tiberio gli pagò il lascito, poi di
presente lo fece trucidare perchè riferisse ad Augusto notizie più
fresche e più vere. Non soffrì si concedesse il littore o l'altare od
altra prerogativa a sua madre, la quale da tanti intrighi e delitti
non colse che l'amarezza d'aver posto in trono un ingrato. A Giulia,
indegna sua moglie, da tre lustri relegata, sospese la modica pensione
assegnatale dal padre, sicchè morì di fame; di ferro Sempronio Gracco,
drudo antico di lei.

Erano quasi le primizie d'una crudeltà, che ben tosto mostrossi
calcolata, inesorabile; e prima contro i pretendenti. Agrippa, nipote
d'Augusto, fu ucciso. Le legioni di Germania e di Pannonia avevano
offerto l'impero a Germanico, ma questi ne chetò la violenta sedizione:
pure Tiberio, che avea dovuto adottarlo, adombrato della popolarità
e del valore di lui, lo richiamò di mezzo ai trionfi per mandarlo a
calmare l'insorto Oriente. Ivi gli pose a fianco Gneo Pisone, uomo
tracotante e violento, il quale col profonder oro e calunnie ne
attraversava tutte le azioni, infine lo fece morire di veleno o di
crepacuore a trentaquattr'anni (19). Tutti, fin i nemici, piansero
il generoso giovane, e in Roma il dolore si rivelò con clamorose
dimostrazioni. Il giorno che le ceneri sue si riponevano nel sepolcro
d'Augusto, la città pareva, ora per lo silenzio una spelonca, ora
pel pianto un inferno; correvano per le vie; Campo Marzio ardeva di
doppieri; quivi soldati in arme, magistrati senza insegne, popolo
diviso per le sue tribù gridavano, esser la repubblica approfondata,
arditi e scoperti, come dimenticassero ch'ei v'era padrone. Ma nulla
punse Tiberio quanto l'ardor del popolo verso Agrippina moglie di
Germanico: chi la diceva ornamento della patria, chi unica reliquia del
sangue d'Augusto, specchio unico d'antichità; e vôlto al cielo e agli
Dei, pregava salvassero que' figliuoli, li lasciassero sopravivere agli
iniqui[104].

Tiberio, assicurato, strappò al despotismo la maschera lasciata da
Augusto: tolse al popolo l'eleggere i magistrati e il sanzionar le
leggi, trasferendo questi atti nel senato, sovvertimento radicale
della costituzione romana[105], sebbene già prima i comizj fossero
resi illusorj dacchè a spade non a voci si decideva. Il senato così
divenne legislatore e giudice dei delitti di maestà: affine poi che
neppur esso s'arrischiasse a libere sentenze, i senatori doveano votare
ad alta voce, e presente l'imperatore o suoi fidati. Per tal passo
quell'assemblea, augusta un tempo, allora si trovò avvilita a segno che
Tiberio medesimo ne prendeva nausea: pure se ne giovava per gli atti
legislativi, davanti ad essa proponendo o ventilando leggi, che nessuno
osava contraddire.

L'imperatore non era il popolo? adunque la legge contro chi menomasse
la maestà del popolo fu applicata all'imperatore, e gli offri modo
legale a grandi atrocità e a minute vessazioni. Prima l'applicò a
cavalieri oscuri o ribaldi, pubblicani rapaci, governatori infedeli,
adultere famigerate: e il popolo applause al severo mantenitore della
legge. Ma appena trapelò l'inclinazione del principe, ecco una fungaja
d'accusatori. I giovani educati a scuola nelle figure retoriche e in
un mondo ideale, insoffrenti di passare alla realtà dell'avvocatura
e alla prosa della vita, eppure avidi d'adoprare l'abilità imparata
per acquistarsi onori, fama, piaceri, levar rumore di sè, emulare il
lusso dei grandi, correvano, all'usanza antica[106], ad accusare chi
primeggiasse per gloria, virtù, ricchezze; sfogo delle invidie plebee
contro l'aristocrazia di averi o di merito.

Le ire, sopravissute alla libertà, insegnavano mille tranelli; traevasi
appicco dai dissidj delle famiglie; tenuissime prove bastavano dove
così piaceva al padrone; e ogni fatto, per quanto semplice, traducevasi
in caso di Stato. Tu ti spogliasti o vestisti al cospetto d'una statua
d'Augusto; tu soddisfacesti a un bisogno del corpo od entrasti in
postribolo con un anello o con una moneta portante l'effigie imperiale;
tu in una tragedia sparlasti di Agamennone; tu hai venduto un giardino,
nel quale sorgeva il simulacro dell'imperatore; tu interrogavi i
Caldei se un giorno potrai divenir re, e tanto ricco da lastricare
d'argento la via Appia: dunque sei reo di maestà; reo Aulo Cremuzio
Cordo che, nella storia delle guerre civili di Roma, intitolò Bruto
l'ultimo de' Romani. Cremuzio nel difendersi diceva: — Sono talmente
incolpevole di fatti, che m'accusano di parole», ed evitò la condanna
col lasciarsi morir di fame: gli edili arsero i libri di lui, ma il
divieto li fece più preziosi e cercati; ove Tacito esclama: — Ben è
folle la tirannia nel credere che il suo potere d'un momento possa
estinguere nell'avvenire il grido, la memoria. Punito l'ingegno, ne
cresce l'autorità; nè i re che lo punirono, riuscirono ad altro che a
procacciar gloria alle vittime, infamia a sè»[107].

Chi nomina libertà, medita rimettere la repubblica; chi piange Augusto,
riprova Tiberio; che tace, macchina; chi mostrasi mesto, è scontento;
chi allegro, confida in prossimi mutamenti. Fra straniero o fratello,
fra amico o sconosciuto non mettevasi divario nelle delazioni; anche
i primi del senato le esercitavano o all'aperta o alla macchia; ben
presto si accusò senza nè timore nè speranza, unicamente perchè era
l'andazzo; furono processate persone, non si sapeva di che, condannate,
non si sapeva perchè.

Appena uno fosse querelato, vedeasi cansato da amici e da parenti,
timorosi d'andare involti nella sua ruina. Fuggire era impossibile in
così vasto impero: la campagna ridondava di schiavi vendicativi: ognuno
agognava di cogliere il proscritto per salvare se stesso. Tradotto a
senatori complici o tremebondi, ostili fra di loro, a fronte di quattro
o cinque accusatori addestrati nelle scuole a trovare e ribattere
argomenti, ove nessuno ardiva assumere la difesa, ove la tortura
degli schiavi suppliva al difetto di prove, il convenuto quale scampo
poteva sperare? pensava dunque a vendicarsi coll'imputar di complicità
gli stessi accusatori o i giudici: scherma, di cui Tiberio prendeva
mirabile sollazzo. Solo gli facea noja che alcuni si sottraessero al
supplizio e quindi alla confisca coll'uccidersi; onde l'arte scherana
consisteva nel sorprenderli improvvisi. Uno si trafigge colla spada,
e i giudici s'avacciano di darlo al manigoldo: uno dinanzi ad essi
sorbisce il veleno, e senz'altro vien tradotto alle forche: di Carnuzio
che riuscì ad uccidersi, Tiberio disse, — E' m'è scappato»; a un altro
che il supplicava d'accelerargli il supplizio, — Non mi sono ancora
abbastanza rappattumato con te».

Come doveano andar calpesti gli affetti che serenano la vita e
alleggeriscono la sventura, allorchè in ciascuno si temeva un
traditore! Deboli e paurosi perchè isolati, piegano alla prepotenza,
o cospirano con essa; il senato, nel quale stavano accolti coloro che
poteano far fronte a Tiberio, glieli consegnava un dopo l'altro, lieto
ciascuno di veder salvo se stesso; e Tiberio viepiù sprezzava una genìa
così abjetta, e prorompeva senza ritegno al sangue. Il merito divien
colpa a' suoi occhi: un architetto che raddrizza un portico minacciante
ruina, è bandito; uno che sa restaurare un vaso di vetro spezzato, è
subito messo a morte[108].

In Roma, per quanto temuto, Tiberio s'ode volta a volta rimproverare o
da un viglietto gettatogli, o dal teatro col susurro o col silenzio;
ora uno che va a morte, si sfoga in invettive contro di lui, or una
spia gli ripete con troppa fedeltà quel che di lui Roma racconta;
poi lo stomacano le stesse umiliazioni del senato e dei cortigiani, e
vuole in più disimpedita guisa associare i due elementi del paganesimo,
sevizie e voluttà. Amplissima vista di mare, il prospetto della ridente
Campania, e la soave temperie rendono deliziosissima l'isoletta di
Capri, ove in estate l'orezzo marino mantiene la frescura, in inverno
il promontorio di Sorrento ne ripara i venti impetuosi. Quella scelse
per prigione e paradiso (26) il minaccioso e tremante imperatore: gli
scogli vi rendono disagevole l'approdo; di là potrebbe sorvegliare
i signori che di loro ville popolano la costa Campana e Pozzuoli e
Posilipo. Ivi fabbrica dodici ville, ciascuna dedicata a un Dio, terme,
acquedotti, portici, d'ogni maniera delizie. Ancor privato indulgeva
alla crapula, sicchè i soldati, invece di _Tiberius Claudius Nero_, lo
chiamavano _Biberius Caldius Mero_: allora creò un sovrantendente dei
piaceri; premiò colla questura uno che vuotò d'un fiato un'anfora, e
con ducentomila sesterzj Anselio Sabino per un dialogo, ove i funghi,
i beccafichi, le ostriche e i tordi si disputavano il primato. Laide
pitture, scene di mostruoso libertinaggio doveano solleticare lo
smidollato vecchio: se i genitori ricusano offrir le fanciulle alle
imperiali lascivie, schiavi e satelliti le rapiscono: se, brutto,
ulceroso, le donne il prendono a schifo, Saturnino inventa diletti da
trascendere la più lubrica immaginazione. Oscene medaglie conservarono
fin oggi la figura di sue turpi dilettanze; mentre un grazioso
bassorilievo del Museo Borbonico ce lo rappresenta sopra un cavallo
menato da uno schiavo, con davanti una fanciulla che colla lancia fa
cadere degli aranci: idillio fra le tragedie.

E perchè non gli manchino i piaceri della città, vi saranno accuse,
torture, supplizj; vi saranno sofisti e grammatici, coi quali disputa
del come si chiamasse Achille mentre stava da donna alla corte di
Sciro, chi fosse la madre di Ecuba, che cosa di solito cantassero
le Sirene, e regola ogni atto suo secondo gl'indicano gli astri,
gli animali, interrogati da Trasillo rodiano. I senatori deputati
a recargli o richiami od omaggi, dopo lungo aspettare son rinviati:
fin le lettere non riceve che per mano del suo ministro Elio Sejano,
prefetto de' pretoriani.

Costui, di mezzana condizione, di turpi costumi, di spirito e corpo
vigoroso, erasi traforato nella grazia di Tiberio col rendergli
rilevanti servizj e sleali. Ordì con esso di perdere Agrippina vedova
di Germanico, la quale col costume severo e coll'amorosa venerazione
verso l'estinto sposo dava ombra all'imperatore. I costei amici sono
un dopo l'uno accusati e morti; ond'essa vien guardata con una specie
d'orrore. Ucciderla però non ardiva Tiberio: onde uscito di Roma, ronza
nella parte più deliziosa d'Italia; poi restituitosi a Capri, scrive
una lettera ambigua al senato, imputando colei d'orgoglio, i suoi figli
d'impudicizia. Il senato vede la mina contro la casa di Germanico,
ma è rattenuto dal favore del popolo per questa. Quand'ecco da Capri
giungono rimproveri perchè non s'abbia verun riguardo alla sicurezza
dell'imperatore e dell'impero; e tosto Nerone è esigliato, Druso messo
prigione (30), nè tardarono a morire. Agrippina confinata nell'isola
Pandataria, dissero si fece poco poi ammazzare; e Tiberio si lodò al
senato di clemenza per non averla fatta esporre alle gemonie.

Snidatone Tiberio, Sejano governò Roma a sua posta. Rese importante il
comando de' pretoriani, ai quali, col raccorli in un campo solo sotto
Roma, attribuì pericolosissima potenza. Disponendo a suo arbitrio delle
cariche, poteva acquistarsi amici: colla promessa di sposarle, traeva
principali donne ad ajutare il suo ingrandimento, e scoprire i segreti
de' mariti: Tiberio stesso lo chiamava il consorte di sue fatiche,
lasciava effigiarlo sulle bandiere, e bruciar vittime quotidiane sulle
are di esso.

Non contento del dominio, Sejano vuole anche le apparenze; e poichè
fra lui e l'impero si frapponea Druso figlio di Tiberio e di Vipsania,
seduce la costui moglie Livilla e glielo fa avvelenare, poi chiede a
Tiberio la mano di essa. Da quel punto diviene presuntivo erede; in
conseguenza Tiberio lo teme, in conseguenza lo odia. Ma come abbatterlo
se ha tutto l'impero in mano? Tiberio comincia ad elevargli a fronte
Cajo Cesare Caligola, prediletto dal popolo e dai soldati perchè figlio
di Germanico; poi manda secretamente al senato Macrone (31), colonnello
dei pretoriani, con lettera nella quale sul principio getta qualche
lamento contro di Sejano, poi parla d'altro; torna alle querele, indi
divaga; si rifà sopra Sejano con parole sempre più acerbe; ordina
sieno condannati a morte due senatori, intimi del ministro; e mentre
questi stordito non osa proferir parola a loro scampo, ode chiudersi
la lettera col comando ch'e' sia arrestato. Detto fatto, gli amici
lo abbandonano; pretori e tribuni gli recidono la fuga; il popolo,
partigiano d'Agrippina e vindice de' figli di Germanico, lo insulta
allorchè il console lo mena al carcere; e mentre, se fosse riuscito,
avrebbe avuto adorazioni, vede dappertutto abbattersi le sue statue, e
il senato decretarlo al supplizio[109].

Tiberio, che peritavasi sull'esito di questo gravissimo colpo
di Stato, non aveva ommesso veruna precauzione; teneva vascelli
sull'àncora per fuggire, spiava d'in vetta agli scogli i concertati
segnali; tanto temeva che il gelo dell'egoismo non si squagliasse un
istante. Ma al cessare della potenza era cessato il favore al dio, al
futuro imperatore; i pretoriani, invece di difenderlo, si buttano a
saccheggiar Roma; il popolo si svelenisce sul cadavere esecrato del
nemico del popolo; quanti amici aveva egli avuto, sono perseguitati,
vuotate dal boja le prigioni ov'erano accumulati i complici del
ministro, messi a orribile carnificina i suoi figli; e perchè la legge
vietava il supplizio delle vergini, una sua figliuolina fu data prima
al carnefice da violare.

I sudditi, propensi sempre ad attribuire ai ministri le colpe de'
regnanti, persuadevansi che Sejano fosse la sola causa dei delitti di
Tiberio, e che, morto lui, il principe si mitigherebbe; al contrario,
Tiberio diventa più sitibondo di sangue: ciascun senatore, per
salvar sè, corre ad accusargli un complice del caduto; sicchè egli
non discerne tra amici e nemici, tra fatti recenti e inveterati;
sprezza e teme il senato, e ogni giorno un nuovo membro ne recide;
teme i governatori, e a molti, dopo nominati, impedisce di recarsi
alle provincie, rimaste così senz'amministrazione; teme le memorie,
e molti fa uccidere perchè compassionevoli (_ob lacrymas_); teme gli
avvenire, e fanciulli di nove anni manda al supplizio. Le più assurde
cagioni portano condanna: ad uno appose l'amicizia di un suo antenato
con Pompeo; ad un altro, onori divini attribuiti dai Greci al bisavolo
di lui: un nano che il divertiva a tavola gli domanda, — Perchè vive
ancora Paconio reo d'alto tradimento?» e Paconio poco dipoi è morto. La
storia di quegli anni può dirsi il registro mortuario delle famiglie
illustri, e notavasi come cosa rara il personaggio che morisse a suo
letto: una volta Tiberio mandò scannare tutti gl'imprigionati per
l'affare di Sejano, senza divario d'età, sesso o condizione; i mutili
loro corpi giacquero più giorni per le vie sotto la custodia dei
carnefici che denunziavano chi si dolesse.

Or tremendamente sardonico, or tremendamente serio, voleva essere
adulato, eppure sprezzava gli adulatori; sicchè diventava pericolo
fin la vigliaccheria. Voconio propose che venti senatori per turno
gli facessero la guardia qualvolta entrasse in senato; e toccò le
beffe dell'imperatore, troppo alieno dal concedere armi ai senatori, i
quali anzi volea fossero frugati all'entrare. Al suo ventesimo anno i
consoli decretano solennità, ringraziamenti, voti: Tiberio dice che con
ciò vogliono far intendere che gli prorogano per un altro decennio la
sovranità, e li fa mettere a morte.

Un animo sospettoso e severo può d'assai peggiorare invecchiando
fra l'aspetto della universale vigliaccheria e delle reciproche
malevolenze, e fra le sordide adulazioni che mascherano il rancore e
la trama. Pure, tanta frenesia di crudeltà, sottentrata alla severa ma
giusta onestà de' primi anni di Tiberio, tiene perplesso lo storico,
il quale abbia deplorato, anche ai proprj giorni, quella menzogna che
svisa i fatti meglio conosciuti, e quella credulità che accetta i meno
fondati.

Almeno per consolazione dell'umanità sappiasi che costui aveva
la coscienza de' proprj misfatti e dell'orrore che ispirava, onde
scriveva al senato: — S'io so che cosa dirvi, gli Dei e le Dee mi
facciano perire ancor più crudelmente di quel che mi senta perire ogni
giorno». Ma non che ridursi al meglio, ripeteva: — M'aborrano, purchè
m'obbediscano», e precipitava in eccessi, che non solo scrivere, ma nè
possono tampoco immaginarsi.

Qualora però trovasse resistenza, piegava. Marco Terenzio, accusato
della benevolenza di Sejano, disse in senato: — Dell'amicizia con esso
ci assolverà la ragione che assolve Cesare d'averlo avuto genero e
confidente»; e Cesare lo mandò giustificato. Getulio generale, imputato
di aver voluto dare nuora sua figlia a Sejano, risponde a Tiberio: —
M'ingannai io, ma anche tu. Io ti sarò fedele, se non m'offendono;
se ricevessi lo scambio, mi crederei minacciato di morte, e saprei
ripararla. Accordiamoci: tu resta padrone di tutto; a me lascia la mia
provincia». Così poteva scrivere un generale a quello che faceva tremar
Roma e il mondo.

Imperocchè non era egli robusto per amministrazione salda e compatta,
ma per la disunione degli altri; potentissimo dove arrivavano i suoi
carnefici, poco valea di lontano; chiunque fosse insorto intrepidamente
fra lo sgomento universale, era certo d'abbatterlo. Lo sentiva Tiberio,
e di qui la diffidenza, motrice sua prima. Mentre gira per Italia,
ode che alcuni da lui accusati furono rimandati dal senato senza
tampoco interrogarli, crede compromessa l'autorità sua e la vita, vuol
ritornare a Capri, ma tra via muore (37). Roma sulle prime la dubitò
arte di spie; accertata, esultò, quasi il cadere di lui restituisse la
libertà. Eppure egli tiranneggiava anche postumo, e trovandosi in Roma
de' prigionieri, che, secondo un consulto del senato, non si potevano
strozzare che dieci giorni dopo la condanna, nè essendovi ancora il
successore che li potesse assolvere, i manigoldi li strangolarono per
seguire la legalità.

Tiberio finì di demolire le barriere al despotismo; indocilì senato e
popolo agli assurdi talenti del dominatore; spense i sentimenti che
formano la dignità dell'uomo e del cittadino; pervertì la coscienza
pubblica, che, dopo caduto ogni altro sostegno, mantiene e reintegra
gli Stati; coll'uccidere i migliori, col contaminare i rimasti, col
mostrare che il senato e il popolo potevano spingere la viltà e la
paura fino ad adorare chi dispensava l'oltraggio e la morte, attestò
che nessuna forza morale esisteva più, che tutto poteva la materiale.



CAPITOLO XXXIII.

Un imperatore pazzo, uno imbecille, uno artista.


La desolazione che il popolo e l'esercito aveano provata alla morte di
Germanico, s'era risolta in fervoroso amore pel fanciullo di lui Cajo
Cesare: i soldati ne folleggiavano, tenevanlo a giocare tra loro, e
dalle scarpe militari con cui lo calzavano (_caliga_) gl'imposero il
soprannome di Caligola. Tale affetto sarebbe bastato perchè Tiberio
volesse mal di morte al nipote; ma il garzoncello, non che lamentarsi
della condanna di sua madre e dell'esiglio de' fratelli, evitò le
insidie e attutì la gelosia dello zio con sì profonda dissimulazione,
che l'oratore Passieno ebbe a dire, non esservi mai stato migliore
schiavo nè peggior padrone di costui. Per via poi della moglie di
Macrone, abbandonatagli da questo per le lontane speranze, Caligola
rientrò nella grazia di Tiberio, che in testamento il domandò erede
dell'impero.

All'accortissimo costui sguardo non era sfuggito che Caligola avrebbe
tutti i vizj di Silla e nessuna delle sue virtù; e disse: — Quest'è un
serpente che nutro pel genere umano»; poi vedendolo un giorno rissare
con Tiberio, figlio di suo figlio Druso, non senza lacrime esclamò: —
Tu lo ucciderai, ma un altro ucciderà te»; indovinamenti tratti non da
contemplazione di stelle, ma da conoscenza degli uomini e dei tempi.

Il giovane imperatore accorso a Roma, è ricevuto dal popolo, che lo
acclama suo bambolo, alunno suo, suo pulcino, sua stella[110]; e dal
senato, che ripiglia la sua potenza col cassare il testamento del
defunto che aveagli associato il giovane Tiberio. Egli recita l'elogio
del predecessore con parole poche e assai lacrime; deroga le azioni
di lesa maestà, brucia i processi iniziati, permette i libri proibiti
da Tiberio; denunziatagli una congiura, non vi dà retta, dicendo —
Nulla feci da rendermi odioso»; mostra voler restituire al popolo
le elezioni, appena nel creda capace; vuol pubblicati i conti dello
Stato; cresce il numero de' cavalieri, scegliendoli accuratamente; va
a raccorre le ceneri della madre Agrippina e dei fratelli per riporle
nel mausoleo d'Augusto, talchè si concilia tutti i cuori: e in feste
universali, inni, tripudj, sacrifizj, vacanza da affari, si gode
una di quelle illusioni, a cui Roma e in antico e in moderno sempre
eccessivamente si abbandonò, per lagnarsi poi al domani che sia svanito
il castello da essa medesima fabbricato colla nebbia.

Il povero orfanello epilettico, balocco de' soldati, tremante ad
ogni occhiata dello zio, quando si sentì padrone del mondo, quando,
in una sua malattia, vide sacrificarsi censessantamila vittime agli
Dei perchè lo risanassero, divenne pazzo d'orgoglio, di sangue, di
brutalità; quasi accinto a mostrare a qual bassezza fossero gli uomini
nel momento più splendido dell'antichità. Ripristina i processi di
maestà, facendoli spicciativi, e dì per dì _ragguagliando i conti_,
cioè spuntando sulla lista quelli da uccidere. Al giovane Tiberio, che
erasi munito di controveleni, mandò l'invito di uccidersi; lo mandò
a Silano suo suocero; lo mandò a Macrone, antico suo confidente che
lo rimbrottava di far da buffone a tavola ed al teatro. Ad un esule
richiamato domanda: — Che pensavi tu in esiglio? — Facevo voti per la
morte di Tiberio e pel tuo regno» risponde il piacentiere; e Caligola
riflette: — Gli esigliati da me desiderano dunque la mia morte»; e per
siffatta logica, ordina siano tutti uccisi.

Due uomini aveano votato la propria vita per la guarigione di lui; ed
egli risanato dice che accetta, e l'uno fa dare a' gladiatori, l'altro
dirupare, incoronato come le vittime. Combattendo da gladiatore,
l'antagonista per adularlo gli cade a' piedi confessandosi vinto, ed
egli lo scanna. Un'altra volta sedendo a banchetto co' due consoli,
prorompe in risa smascellate, e chiesto del perchè, — Perchè penso che
ad un cenno posso farvi decollare entrambi». Immolandosi all'altare,
egli compare da sacerdote, e brandita l'ascia, invece della bestia
percuote il vittimario. In quell'ingordigia di sangue, fa gettare alle
fiere gladiatori vecchi e infermi; se no, qualcuno degli spettatori:
visita le carceri, e colpevoli o no, designa chi dar alle belve,
essendo la carne troppo cara; strappate prima le lingue acciò nol
molestino colle grida.

Durante i pasti, faceva mettere alcuno alla tortura; e se non v'erano
rei, il primo che capitasse; e voleva che gli uccisi s'accorgessero
di morire. Obbligava i padri ad assistere ai supplizj de' figliuoli;
ed allegando uno di trovarsi infermo, gli mandò la propria lettiga:
poi que' padri stessi la notte seguente mandava a scannare. Fece
imprigionare un tal Pastore, solo perchè bel giovine; ed essendo il
costui padre, cavalier romano, venuto a supplicarlo per esso, Caligola
ordinò fosse il garzone immediatamente ucciso, il padre venisse a
pranzo con lui, e se mostrasse dolore manderebbe uccidergli anche
l'altro figliuolo. Il senato più non sapea con quali viltà ammansarlo;
gli decretò nella curia un trono tant'alto che nessuno vi potesse
arrivare, e guardie all'intorno; guardie perfino alle sue statue;
ed essendo Scribonio Proculo indicato come avverso all'imperatore, i
senatori se gli avventarono, e cogli stiletti da scrivere l'uccisero.

Talvolta sospende le sevizie per farsi letterato, e all'ara d'Augusto
in Lione stabilisce concorsi di greco e latino, ne' quali il vinto
dovea pagare il premio e scrivere l'elogio del vincitore; e chi
presentasse un lavoro indegno, cancellarlo colla spugna o colla
lingua; se no, mazzerato nel Rodano. Avendogli Domizio Afro eretta una
statua coll'iscrizione _A Cajo Cesare console per la seconda volta
a ventisette anni_, Caligola pretese che con ciò gli rinfacciasse
l'età non legale; onde l'accusò in senato con elaborata arringa.
Domizio, fingendosi men tocco dal proprio pericolo che dall'eloquenza
dell'imperatore, prende a dar rilievo alle stupende cose dette
dall'imperatore, confessandosi inetto a rispondere a tanta eloquenza; e
fu modo sicuro di farsi assolvere.

Perocchè il primeggiare in tutto è il suo farnetico: Livio, Virgilio,
Omero gli destano gelosia, e li bistratta e proscrive: proscrive
alcuni, soltanto perchè di antica nobiltà: i Torquati più non portino
il monile, trofeo di lor famiglia; nè i discendenti di Pompeo il
soprannome di Magno: vede un de' Cincinnati colla zazzera ricciuta da
cui aveano tratto il nome? lo fa prima zucconare, poi morire. Egli
gladiatore, egli cantarino, egli cocchiere; al teatro accompagna le
arie degli attori, e ne appunta i gesti; una notte manda a chiamare
in diligenza tre senatori, e venuti tremando, sale in palco, fa due
capriole, e riscossone l'applauso, li rinvia. Anche conquistatore
vuol essere; e mentre fa una rassegna sulle tranquille rive del Reno,
decreta una correria per le terre germaniche; ma non sì tosto vi pone
piede, fugge con sì precipitosa paura, che impedendolo i carri, bisogna
toglierlo sulle braccia de' soldati, e d'uno in altro ridurlo in salvo.
Eppure volle menarne trionfo; e presi alquanti Germani suoi mercenarj,
e scelti nella Gallia fra' nobili e plebei gli uomini di statura più
trionfale[111], gli acconcia alla germanica, e spedisce a Roma ad
aspettare la solennità della sua ovazione.

Roma, che l'avrebbe ucciso se avesse voluto esser re, l'adorò quando
volle esser dio: il senato affrettossi d'erigergli tempj, fu ambito
il suo sacerdozio, moltiplicati i sacrifizj di pavoni, fagiani, galli
d'India. Elegge Castore e Polluce a portinaj; una teoria lo accompagna;
di notte (non più di tre ore dormiva) sorge ad amoreggiare la luna,
invitandola a' suoi amplessi; or mostrasi da Ercole, or da Mercurio,
da Venere perfino, più spesso da Giove sopra una macchina che tuona.
Natagli una bambina, la porta a tutti gli Dei, poscia l'affida a
Minerva: povera bambina, da cui gli Dei padrini non istorneranno le
conseguenze delle follie paterne!

Furibondo nell'affetto non men che nell'odio, amò il suo cavallo
Incitato, cui dispose scuderie di marmo, mangiatoje d'avorio, cavezze
a perle, copertine di porpora, e un intendente, paggi assai, fin un
segretario: talvolta i consolari erano invitati a pranzar col cavallo,
talaltra il cavallo era convitato dall'imperatore, che gli serviva
avena dorata e vin del migliore: la notte precedente al giorno che
Incitato doveva uscire, i pretoriani vigilavano che nessun rumore
ne turbasse i sonni: lo aggregò al collegio de' sacerdoti suoi; lo
designava console per l'anno vegnente. Amò il tragedo Apelle, e se
lo fece intimo consigliere: amò Citico guidator di cocchi al circo, e
in un'orgia gli regalò quattrocentomila lire: amò il mimo Mnestero, e
al teatro l'accarezzava, e di propria mano flagellava chi col minimo
zitto ne turbasse le recite. Non parendo stargli abbastanza attento
un cavalier romano, lo manda con lettere a Tolomeo re di Mauritania;
l'atterrito va, passa i mari, si presenta all'Africano, il quale aperta
la lettera, vi trova scritto: — A costui non fare nè ben nè male».

Amò una donna, e carezzandole il capo diceva: — Lo trovo tanto più
bello quando penso che ad un cenno posso fartelo balzare». Amò Cesonia
moglie sua nè giovane nè bella nè onorata, ma che l'aveva affascinato
con mostruosa lubricità; la mostrava agli amici nuda, ai soldati a
cavallo con elmo e clamide; e in un accesso d'amor sanguinario le
diceva: — Per entro le viscere tue, come in quelle d'una vittima, vo'
cercar la ragione del bene che ti porto». Amò tutte le sue sorelle
come mogli, e principalmente Drusilla: morta la quale, ordinò non si
giurasse che per lei; un senatore protestò averla veduta ascendere
all'Olimpo; e tutti i Romani in lutto non potevano ridere, non lavarsi,
non pranzar colla moglie e coi figli, o morte. Fra tanto squallore
Caligola giunge alla città, e — Perchè piangere una dea?» esclama, e
punisce del pari i costernati e gli esultanti. Così all'anniversario
della battaglia di Azio, discendendo egli per madre da Augusto, per
l'ava da Antonio, trovò felloni e quei che esultavano e quei che
gemevano.

Amò anche la plebe al modo suo, e le dava spettacoli e largizioni di
non più veduta suntuosità: lamentavasi che nessuna grande calamità
succedesse, per potersi mostrar generoso. Una volta fa raccorre
al teatro quel vulgo suo diletto, indi levar improvvisamente il
velario, lasciandolo esposto al sollione: un'altra gli getta denari
e viveri, e miste fra quelli delle lame affilate: un'altra ancora,
quando fu ben pieno il circo, li fa cacciare a furia, talchè molti
periscono schiacciati. Il vulgo indispettito non s'affolla più a' suoi
spettacoli, ed egli chiude i pubblici granaj per affamarlo. Un giorno
che gli applausi non sonavano quanto il suo desiderio, proruppe: — Deh
avesse il popolo romano una testa sola, per reciderla d'un colpo!»

E avrebbe potuto farlo, egli che ripeteva, — Ricordati che tutto io
posso e contro tutti; io solo padrone, io solo re»[112]. Talora gli
brillavano per la pazza fantasia concetti grandiosi: trasferire la
sede dell'impero ad Anzio o ad Alessandria, appena uccisi i senatori
e i cavalieri principali, che avea già notati sopra due liste, l'una
intestata _spada_, l'altra _pugnale_; tagliare l'istmo di Corinto;
fabbricare una città sul più elevato vertice delle Alpi: erge una
villa? sia dove il mare è più fondo e tempestoso, dove più scabra
la montagna; e quivi si preparino bagni di profumi, vivande le più
squisite, e si stemprino le perle: poi costeggia la deliziosa Campania
in barche di cedro, ove e sale e terme e vigne, e le poppe sfolgoranti
di gemme. Ogni cosa insomma esca dall'ordinario.

— Sarai re quando potrai galoppare sul golfo di Baja», gli aveano
detto per un impossibile; ed egli volle poterlo. Raccolgonsi vascelli
e navi da formare la lunghezza di quattro miglia, e sovr'essi spianasi
la strada, con terra e sabbia ed alberi e ruscelli ed osterie. Quel
forsennato la scorre tra una folla immensa, poi la notte fa splendida
luminaria, vantandosi d'aver passeggiato il mare più veramente che
Serse, e convertito la notte in giorno; e acciocchè allo spettacolo
non manchi il sangue, fa cogliere alla ventura alcuni degli accorsi,
e gettar alle onde. Intanto Roma affama, priva delle navi che sogliono
portarle l'annona.

In un pranzo sciupò due milioni; in un anno diede fondo a
cinquecentoventisei milioni raccolti da Tiberio. Per rifarsene pone
accatti su tutto, poi multe a chi li froda; e per moltiplicare le
trasgressioni, pubblica le leggi col maggior segreto, e in caratteri
sì minuti da non potersi leggere. Quando gli nasce una figlia, e'
limosina: a gennajo vuol le strenne, ed egli in persona le raccoglie,
misurando la devozione dalla generosità: trae fin lucro dal mantenere
un postribolo. A Lione fece portare quantità di mobili, e vendere
all'asta, presedendo egli stesso e lodandoli: — Questo era di Germanico
mio padre; questo m'è venuto da Agrippa; quel vaso egizio fu d'Antonio,
ed Augusto acquistollo ad Azio»; e ne concludeva enormi prezzi. Avendo
le tante confische svilito i beni fondi, egli si mette a incantarli in
persona, ed assegna i prezzi e il compratore: dal che taluni si trovano
ridotti a mendicare, altri escono per uccidersi. Si facea mettere ne'
testamenti de' ricchi, ai quali poi, se tardavano a morire, mandava
de' manicaretti di sua cucina. Giocando un giorno ai dadi con disdetta,
chiede il catasto della provincia gallica, designa a morte alcuni de'
più larghi possessori, e dice ai compagni: — Voi mi vincete a spizzico;
io ad un tiro guadagnai cencinquanta milioni».

Cassio Cherea, tribuno de' pretoriani (41), memore dell'antica dignità
romana, o nojato delle ribalde celie usategli da Caligola, congiurò con
altri pretoriani, i quali vedevano in pericolo continuo la vita loro
se non troncassero quella dell'imperatore; e lo scannarono. Cesonia,
moglie sua, stette colla bambina presso al cadavere del marito; e
quando avventaronsi anche a lei, offrì il petto ignudo, chiedendo
facessero presto.

I soldati partecipi delle sue rapine, massime i mercenarj germani; le
donnacce e i garzoni cui fruttava quella sconsigliata prodigalità;
i tanti che, nulla possedendo, nulla temevano; gli schiavi ch'egli
allettava a denunziare i padroni e arricchirsi delle spoglie loro,
compiangono Caligola, e per vendicarlo tagliano teste e le recano in
trionfo, dicendo falsa la nuova della sua morte. Accertatine però, e
che nulla più resta a sperarne, cambiano stile, e gridano la libertà:
libertà è la parola d'ordine data dal senato, che, maledetto il nome
di Caligola, dopo settant'anni di avvilimento pensa a ripristinare
la repubblica, armando gli schiavi, esercito grosso e formidabile. Ma
potevano persistere in generosa volontà quei padri, dalle proscrizioni
decimati, dalle confische impoveriti, diffamati dalle adulazioni?
E i pretoriani volevano non libertà, ma chi avesse bisogno del
braccio loro; un imperatore, poco importa chi e qual fosse. Intanto
saccheggiano il palazzo; e tra il fare, vedono di sotto la cortina d'un
nascondiglio sporgere due piedi, e scoprendo trovano un figurone grasso
e vecchio, che gettasi a' piedi loro, chiedendo misericordia.

Era Tiberio Claudio, fratello di Germanico, e zio e trastullo di
Caligola, uomo sui cinquant'anni, mezzo imbambito, alquanto letterato,
e nemico de' rumori. I pretoriani l'acclamano imperatore, e se lo
portano al loro campo; lo acclama il popolo, lo acclamano i soldati,
i gladiatori, i marinaj. Cherea ebbe un bel ricordare la maestà del
senato, l'imbecillità di Claudio, la dolcezza del vivere repubblicano:
nessuno voleva esser libero se non coloro che avrebbero tiranneggiato
a nome della libertà. Claudio bandì intera perdonanza; solo Cherea,
immolato all'ombra di Caligola, domandò d'esser decollato colla spada
onde avea trafitto il tiranno, e morì da antico repubblicano. Il popolo
l'ammirò, gli chiese perdono dell'ingratitudine, gli fece libagioni,
poi si volse a corteggiare e adorar Claudio.

Costui era il balocco di casa Giulia. A lui nulla degli onori e de'
sacerdozj che fioccavano ai figli imperiali appena adolescenti: per
maestro gli diedero un palafreniere: sua ava Livia non gli drizzò
mai la parola, ma gli scriveva viglietti asciutti o prediche severe:
sua madre diceva — Bestia come il mio Claudio»: Augusto lo chiamava
— Quel poveretto (_misellus_)», e tutto cuore com'era pei nipoti,
scriveva: — Bisogna prendervi sopra alcun partito; se è sano di
facoltà, trattarlo come suo fratello; se scemo, badare non si facciano
scene di lui e di noi: può presedere al banchetto dei pontefici,
mettendogli a fianco suo cugino Sillano che lo rattenga dal dire
scempiaggini: al circo non sieda sul pulvinare, perchè darebbe troppo
nell'occhio. L'inviterò a pranzo tutti i giorni; ma non si mostri così
distratto: scelga un amico, di cui imitare gli atti, il vestimento,
l'andare». Meno amorevoli gli altri, ne pigliavano spasso: giungeva
tardo a cena? doveva correre innanzi indietro pel triclinio prima di
trovarsi un posto; sopra mangiare addormentavasi? gli scoccavano ossi
di datteri e d'ulivo, gli mettevano le scarpe sulle mani, per vederne
l'attonitaggine e il dispetto quando si destasse.

Ignorante però non era, ed Augusto, udendolo declamare, ebbe a
meravigliarsi che, parlando sì male, scrivesse sì bene: ad esporre le
guerre civili fu consigliato da Tito Livio, ma dissuaso dalla madre e
dall'ava: amava i classici, studiava il greco, volle introdurre tre
lettere nuove (_V. Appendice I_), che durarono quanto lui: sapeva
delle antichità romane più che Livio stesso: dettò anche la storia
degli Etruschi, che, se ci fosse rimasta, avrebbe risparmiato tanto
fantasticare ai nostri contemporanei. Ma non che la sua dottrina gli
acquistasse dignità, mettevangli attorno soltanto donne, buffoni,
liberti, la spazzatura della casa; perchè (colpa enorme) non era ricco.
Augusto gli lasciò soltanto ottocentomila sesterzj: chiesti onori a
Tiberio, n'ebbe quaranta monete d'oro da comprar ninnoli alla festa
de' Saturnali: venuto al trono Caligola, Claudio per la paura comprò
la dignità di sacerdote del dio nipote per otto milioni di sesterzi,
e perchè non li pagava, vide messi all'asta i suoi beni. Eppure la
fortuna sel teneva in petto.

Balestrato al trono da questa, e da una Roma che voleva un capo ed
era pronta ad obbedirne ogni volontà, Claudio sulle prime si prestò
modestissimo coi senatori, non voleva essere adorato, abrogò la tortura
dei liberi ne' casi di Stato, vietò ai sacerdoti gallici i sacrifizj
umani, migliorò la condizione degli schiavi, dichiarando liberi
quelli che per malattia fossero dai padroni abbandonati nell'isola
d'Esculapio; e perchè i padroni presero lo spediente di ucciderli,
Claudio gl'imputò d'omicidio. Ma ben presto messosi in mano di chi
lo dispensasse dal volere e dal pensare, per fiacchezza commise
tanti delitti, quanti Tiberio per atrocità, e Caligola per frenesia.
Padroni del padrone del mondo erano Palla, Narcisso, Felice, Polibio,
Arpocrate, Posideo, ballerini, cinedi e simili lordure; e Messalina
Valeria moglie sua. A quelli ricorrevano privati, città, re, volendo
Claudio che i loro comandi avessero forza quanto i suoi; adoperavano
il sigillo e la firma di esso per disporre di potenza, oro, teste. Se
talora egli usava del proprio senno, essi disfacevano; alteravano e
sopprimevano i suoi decreti, o vi mutavano i nomi; prendeansi spasso
di fargli fare il preciso contrario di quelli. Un centurione viene
a dire a Cesare d'avere, secondo l'ordine suo, ucciso un senatore,
«Io non l'ordinai (esclama egli), ma il fatto è fatto», e si volge ad
altro. Un liberto entra a pregarlo di concedere la scelta della morte
ad Asiatico, ch'egli non condannò. Talora vedendo tardare qualche
convitato, manda a sollecitarlo; e gli si risponde che l'ha fatto
uccidere quella mattina. Andando ai soliti esercizj al Campo Marzio,
vede disporsi il rogo per bruciare uno ch'egli non ha sentenziato; ed
esercita la sua autorità col far rimovere la catasta perchè le vampe
non pregiudichino al fogliame.

Chi non voleva largheggiare con Palla, non lussuriare con Messalina,
era involto nell'accusa solita di lesa maestà; per la quale perirono
trentacinque senatori e meglio di trecento cavalieri. Lauto mestiere
tornarono lo spionaggio, l'accusa, la difesa. I giudizj erano uno
de' trattenimenti di Claudio; v'era continuo, e talora dava sentenze
sensate, talora insulse, sovente espresse con versi di Omero, sua
delizia; per lo più dava ragione ai presenti e all'ultimo che parlava.
In una causa di falso, avendo un assistente esclamato che il reo
meritava la morte, l'imperatore mandò pel manigoldo; in un'altra,
ricusando una donna di riconoscere un figlio, e le ragioni essendo
molto bilanciate, l'imperatore le intima di riceverlo o per figlio
o per marito. Più spesso addormentavasi in mezzo al frastuono della
discussione, e svegliandosi proferiva: — Do vinta la causa a chi ha più
ragione».

E qui pure erano le celie: or lo chiamavano indietro dopo levata
l'adunanza, ora la prolungavano tenendolo pel manto; un litigante lo
lascia domandare a lungo il testimonio prima di dirgli che è morto; gli
si denunzia come povero un cavaliere ricco sfondolato, come celibe uno
che aveva una nidiata di ragazzi, d'essersi ferito volontariamente uno
che non aveva tampoco una scalfittura. Un tale gli gridò, — Tutti ti
conoscono per un vecchio barbogio»; un altro gli avventò le tavolette e
lo stilo.

Per erudizione risuscita leggi antiche, i riti feciali, le ordinanze
sul celibato: vuol ripristinare la censura, disusata dopo Augusto,
quasi fosse possibile indagar la vita privata di seicento senatori,
almen diecimila cavalieri e sette milioni di cittadini: indi prodiga
decreti, fin sulle più minute pratiche; uno perchè s'impecino bene le
botti; uno perchè s'adoperi il succo del tasso contro il morso della
vipera. Legge in senato un editto per reprimere la sfrenatezza delle
dame nell'abbandonarsi agli schiavi; e levatosi un applauso concorde,
l'ingenuo Cesare dice: — Mi fu suggerito da Palla», quel suo liberto
e padrone. A Palla dunque il senato decreta l'ammirazione, le grazie e
trecentomila lire: ma costui ricusa la somma, accontentandosi della sua
povertà; e il senato promulga un editto per immortalare il disinteresse
d'un liberto che s'era fatti sessanta milioni. Anche Narcisso erasi
trarricchito; onde a Claudio, che lagnavasi di scarso denaro, fu detto:
— Ne troverai a ribocco sol che tu faccia a metà co' tuoi liberti».

Altra passione di Claudio fu il giuoco, e avea sin tavole per giocare
in viaggio senza che i pezzi si spostassero. Da buon romano, amava
anch'egli il sangue; voleva i supplizj al modo ch'egli avea letti
nelle storie; durava giornate intere ad osservare i gladiatori, e se
ne mancassero, costringeva a combattere chi primo capitava. Ma se
fra le cause o le commedie o le arringhe sente odore delle vivande
cucinate dai sacerdoti, nulla più lo rattiene, corre, divora; poi si
fa imbandire immensi piatti in immense sale, convitando fin seicento
persone; s'empie a gola, indi vomita, e si rimpinza, e rivomita; e
medita fare un decreto perchè la buona creanza non metta a pericolo la
salute[113].

Pure condusse fabbriche insigni; il porto in faccia ad Ostia con un
faro simile a quel d'Alessandria; opera delle più utili e meravigliose
degl'imperatori è il suo acquedotto, che costò undici milioni, e a
conservarlo furono deputate quattrocentosessanta persone. Piantò anche
colonie nella Cappadocia e nella Fenicia e sull'Eufrate, e ricevette
ambasciadori fino da Seilan: in Africa con una larga strada mise la
provincia in comunicazione colla Mauritania, e ne aprì una nuova in
Inghilterra. Dopo che trentamila operaj ebbero lavorato undici anni
a travasare il lago Fucino nel Liri, per inaugurare quest'operazione
dispose un combattimento navale di diciannovemila condannati. Questi,
passandogli davanti, esclamano secondo il costume: — I morituri ti
salutano»; e il cortese imperatore risponde: — State sani»; onde quelli
credendosi graziati, negano di più uccidersi; ma egli strepita, smania,
minaccia, finchè li persuade ad ammazzarsi tra di loro.

Messalina frattanto divulgasi su' postriboli, stancata, non sazia
mai[114]. Con pompa recavasi agli abbracciamenti di un tal Publio
Silio; e dandole pel sozzo genio l'infamia di sposare un doppio
marito, celebrò con costui solenni nozze, con dote, testimoni, auspizj,
vittime, e il talamo preparato al pubblico cospetto. Claudio soscrisse
il contratto nuziale, credendolo un talismano per istornare non so
che malurie de' Caldei: ma quando i liberti e le bagascie lo informano
del vero, si sgomenta, e va chiedendo se imperatore sia ancora desso
o Silio. Per sottrarsi al pericolo che gli descrivono imminente, si
lascia indurre a cedere per un giorno il comando a Narcisso: questi
lo porta a Roma, ove i soldati invocano vendetta, non perchè ad essi
caglia dell'onore di lui, ma per farne lor pro; onde si moltiplicano i
supplizj e Messalina stessa è uccisa. Quando l'imperatore l'udì morta,
non chiese il come; e dopo alcuni giorni, mettendosi a tavola, domandò
— Chè non viene Messalina?»

Allora volle sposare la nipote Agrippina, vedova di Domizio Enobarbo;
e benchè la legge considerasse tal nodo come incestuoso, il popolo e
il senato gliel'imposero. Costei, sorella e druda di Caligola, cara al
popolo perchè figlia di Germanico, scostumata e crudele come Messalina,
era salda di volontà, sicchè da imperatrice sedendo accanto al cesare,
dava udienza agli ambasciatori, rendeva giustizia, e fece moltiplicare
supplizj per incanti, per oracoli, per sortilegi, per gelosia.
Principalmente tendeva a far che Lucio Domizio Nerone, che essa avea
avuto da Enobarbo, si sostituisse a Britannico figlio di Claudio e
Messalina: in un istante di debolezza indusse Claudio a nominarlo
successore; poi temendo non questi mutasse proposito, gl'imbandì de'
funghi avvelenati (54); il medico fece il resto, e lo mandò fra gli
Dei, tra cui Roma lo adorò.

All'istante designato per propizio da' Caldei, Nerone, di appena
diciassette anni, presentossi alle coorti, che lo salutarono
imperatore, il senato lo confermò, le provincie lo accettarono. Popolo,
senato, tribuni sussistevano ancora colle antiche prerogative, e potea
darsi che qualche volta volessero esercitarle, e toglier via un potere
ch'era sempre nuovo perchè non ereditario. Pertanto gl'imperatori, al
primo venir al trono, stavano in apprensione, e dissimulavano finchè
non si fossero convinti o che tutto era inane apparato, o che fra tanto
egoismo non era cosa che non si potesse osare. Anche Nerone cominciò
umanamente; largheggiò col popolo e coi senatori bisognosi; tolse od
alleggerì imposizioni; l'antica giurisdizione lasciò al senato, il
quale statuì che le cause si patrocinassero gratuitamente; i questori
designati dispensò dal dare i giuochi gladiatorj. Propose perfino
d'abolir le dogane, e se non altro le riformò; dava pronto spaccio
alle suppliche; nelle cause sostituì alle arringhe l'interrogatorio;
misurò le sportule degli avvocati; impedì le falsificazioni di carte
e testamenti. Quando il senato gli decretò statue d'oro e d'argento,
disse — Aspettino ch'io le abbia meritate»; dovendo firmare una
sentenza capitale, esclamò — Deh! non sapessi scrivere!» e clemenza
spiravano i discorsi che gli preparava Lucio Anneo Seneca cordovano,
suo maestro di retorica.

Ma nè questi, nè Afranio Burro suo maestro d'armi, desiderosi di
conservarsi in potere, non ne frenavano le passioni. Cominciò dunque a
correre la notte per taverne e mali luoghi vestito da schiavo, rubando
alle botteghe, azzeccando i passeggeri; e poichè l'esempio suo trovava
seguaci, Roma la notte parea presa d'assalto. Aizzava gl'istrioni
e i combattenti ne' giuochi, e mentre essi litigavano e il popolo
affollavasi, egli dall'alto lanciava pietre. I banchetti suoi erano il
colmo della prodigalità: uno ospitandolo spese ottocentomila lire in
sole ghirlande; un altro assai più nei profumi: le matrone collocavansi
sul suo passaggio, e nelle tende rizzategli ad Ostia, a Baja, a Ponte
Milvio disputavansi l'onore d'esser da lui contaminate.

Agrippina amava tanto Nerone, che avendole gli astrologi predetto
ch'egli regnerebbe, ma a gran costo della madre, rispose: — M'uccida,
purchè regni». Costei da principio continuò a dominare dispotica,
scriveva a re e provincie, assisteva al senato di dietro una cortina,
e sfogava le sanguinarie vendette: ma poco tardò a perdere l'autorità
sul figlio; e vedendo congedato Palla, padrone di Claudio e di lei,
monta in collera, e minaccia favorire i diritti di Britannico. Nerone
dunque domanda alla strega Locusta non un veleno lento, arcano, come
quello ch'essa stillò per Claudio, ma fulminante[115]; e Britannico
cade morto stecchito (55) alla mensa imperiale. Mentre è sepolto fretta
fretta, e che una pioggerella, guastando la vernice datagli sul volto,
scopre al popolo le livide traccie dell'avvelenamento, i due maestri
s'arricchiscono delle ville di Britannico; Agrippina stessa è fra breve
esclusa dal palazzo, e carica delle accuse che mai non mancano a cui il
principe vuol male. La nefanda procurò ricuperare autorità, esibendosi
in un'orgia al figlio; ma Seneca prevenne l'incesto introducendo
Actea liberta di Nerone, impudica che respinse una peggiore, come col
morso della vipera si cerca elidere l'idrofobia. Il colpo fallito diè
l'ultimo crollo ad Agrippina. Nerone tre volte tentò avvelenarla, e
invano; la invitò a Baja sopra un vascello che dovea sfasciarsi, ed
ella campò a nuoto; ond'egli accusatala di tradimento, le mandò sicarj,
ai quali ella disse: — Feritemi qui, nel ventre che portò Nerone»
(59). Il parricida volle esaminarne il cadavere, lodò, censurò, poi
fece recar da bere, e disse che allora veramente sentivasi padrone
dell'impero.

All'annunzio di tale delitto prorompe non l'indignazione, ma la
servilità romana: Burro manda tribuni e centurioni a stringer la mano
al matricida, congratulandosi fosse campato da tanto pericolo; Seneca
ne scrive la giustificazione al senato, che decreta pubbliche grazie
ed annue commemorazioni, e maledice Agrippina nel solo momento che era
compassionevole; gli altari della Campania fumano di ringraziamenti
agli Dei. Nerone per timore della pubblica infamia erasi slontanato da
Roma, ma rassicurato tornò; a gara cavalieri, tribuni, senatori gli si
fecero incontro affollati come a trionfo; e traverso ai palchi eretti
sul suo passaggio, egli ascese a render grazie al Campidoglio. Ah! ben
era dritto se Nerone prendeva in disprezzo questa ciurma codarda, e si
disponeva a trattarla senza riserbi.

Non gli bastava esser padrone del mondo, ambiva anche la fama di
artista. Giovani esperti dovevano limare le odi e gl'improvvisi
di lui, che poi erano ripetuti per le vie; e il passeggero che
ricusasse attenzione o regalo ai cantambanchi rendevasi sospetto.
L'imperatore meditava scrivere una storia di Roma in versi, e gli
adulatori diceangli la facesse di quattrocento libri; al che Anneo
Cornuto stoico riflettè che nessuno li leggerebbe. — Il tuo Crisippo
(soggiunse un cortigiano) ne scrisse pure il doppio». — Sì (riprese
Cornuto); ma quelli sono utili all'umanità». La franca parola fu punita
coll'esiglio.

In un immenso chiuso nella valle del Vaticano, Nerone guidò un
cocchio fra gli applausi, e con largizioni ed onori invitò ad emularlo
cavalieri di gran nobiltà. Innanzi a Tiridate re d'Armenia comparve
vestito da Apollo, guidando un carro fra i viva del popolo; mentre
l'Arsacide indignavasi de' frivoli gusti e della stravagante vanità
del padrone del mondo. Il quale istituì un fonasco per vegliare sulla
celeste sua voce, avvertirlo quando non v'avesse abbastanza riguardo,
chiudergli la bocca qualora, nell'impeto d'una passione, non badasse
al suo avviso. In Napoli comparve sul teatro modulando gesto e voce
secondo l'arte; in Roma si fece iscrivere fra i sonatori; e quando
sortì il suo nome, cantò sulla cetra, sostenutagli dai prefetti del
pretorio. Altre volte recitava versi proprj, o in giuochi scenici
dati da particolari, purchè la maschera dell'eroe ch'ei rappresentava
ritraesse le sue sembianze, e quelle dell'eroina il viso della sua
amata. Creò un corpo di cinquemila cavalieri, che gli applaudissero
quando cantava al popolo, con maestri che regolassero i battimani e i
viva, or come pioggia battente, or come castagnette; e Burro con una
coorte pretoria doveva assistere e applaudire. Inorgoglito, trasferì
a Roma i giuochi di Grecia, invitando a' suoi quinquennali il fiore
dell'Impero.

Seicento cavalieri, quattrocento senatori, donne di gran casa, sono
addestrati per l'arena; altri cantano, suonano il flauto, fanno il
buffone. Il vinto mondo va a contemplare colà i discendenti de' suoi
vincitori, ridere ai lazzi d'un Fabio o ai sonori schiaffi che si danno
i Mamerci[116]. Il virtuoso Trasea Peto sostiene una parte ne' giuochi
giovanili: la nobilissima Elia Catulla viene di ottant'anni a ballare
sul teatro: un rinomatissimo cavalier romano cavalca un elefante:
l'istrione Paride guadagna le patenti di cittadino col farsi dal suo
Nerone dare per camerata tutti i patrizj[117], vendicando così il
dispregio dell'antica Roma pei pari suoi.

Morto Burro (62), o pel dolore d'essersi disonorato colla viltà, o
per veleno del principe, cui ne dispiaceva la tarda franchezza, gli
fu surrogato l'infame Sofenio Tigellino, resosi grato al padrone col
moltiplicare olocausti al terrore e all'avarizia di lui, e oscene
feste. In una sul lago d'Agrippa, allestì un naviglio sfolgorante d'oro
e d'avorio, rimorchiato da altri poco meno magnifici, ove remigavano
garzoni leggiadri, graduati secondo l'infamia; quanto il mondo poteva
offrire di pellegrino v'era raccolto, e lungo l'acque padiglioni, ove a
torme si prostituivano le dame, al cospetto di ignude meretrici.

Nerone s'attedia della moglie Ottavia, e Tigellino la accusa
d'adulterio; sebbene scolpata a mille prove, è relegata; ma perchè
il popolo ne mormora, Nerone la richiama, e le appone un reato di più
facile prova, l'alto tradimento; ed esigliata in Pandataria (62), la
fa scannare a vent'anni. Il senato rese grazie agli Dei, come quando
furono uccisi Palla, Doriforo, altri liberti; Poppea ne esultò, Poppea
tanto colta quanto bella e raffinata nelle arti del piacere; che
cinquecento asine manteneva per avere il latte da lavarsi; che cambiati
amanti e mariti secondo l'ambizione, tenne lungamente l'imperatore,
finchè questi diede un calcio a lei incinta e l'uccise. Pentito,
la fece imbalsamare, proclamar dea, bruciare in onor di essa quanti
profumi produce l'Arabia in un anno.

All'artista imperiale mal garbava questa Roma, irregolare, tortuosa,
con vecchi edifizj; e ambendo la gloria eroica di fabbricarne una nuova
ed imporle il nome suo, vi fece mettere il fuoco. Le guardie rimovevano
i soccorsi; fu vista gente aggiungervi esca, e schiavi scorrazzare
armati di faci: e Nerone sale sul teatro, e ispirato da quello
spettacolo canta sulla cetra l'esizio di Troja. I sacelli della prisca
religione, sottratti fin all'incendio de' Galli; capi d'arte, frutto
della conquista, perirono allora; molti uomini perdettero la vita; agli
altri Nerone aprì il Campo Marzio, i monumenti d'Agrippina, i suoi
giardini; fece costruire e arredare ricoveri, vendere grano a buon
patto; indi sulle macerie fabbricò il palazzo d'oro, che abbracciava
parte del monte Palatino, del Celio, dell'Esquilino, e la frapposta
valle estesa quanto l'antica città, e di lusso appena credibile. Nel
vestibolo sorgeva l'effigie di Nerone alta quaranta metri, e triplici
colonne formavano un portico d'un miglio. Ivi campi e vigne, pascoli
e foreste, e un pelaghetto cinto d'edifizj: oro, pietre, madreperla
a fusone. Nelle sale a mangiare, dalla soffitta di mobili tavolette
d'avorio piovevano fiori e profumi sui convitati; la principale era
rotonda, e dì e notte girava, imitando il moto del mondo. Le acque
del mare e dell'Albula ne alimentavano i bagni; e l'imperatore quando
v'entrò disse, — Eccomi finalmente alloggiato da uomo». Le abitazioni
all'intorno furono disposte a disegno, a filo le vie, meglio compartite
le acque, eretti portici: ma il pubblico sdegno non cessava di
ridomandargli le case avite, i beni perduti e le persone.

Per questi lavori adunò da tutto l'impero i prigionieri, nè per lungo
tempo altra pena che questa s'inflisse. Tutti dovettero contribuire
alle spese; il senato due milioni di lire, cavalieri e trafficanti
in proporzione. D'altro denaro lo fornivano le depredazioni e gli
assassinj. A qualunque magistrato eleggesse, dicea: — Sai quel che mi
manca; facciamo che nessuno possieda una cosa che possa dir sua». Alla
zia Domizia affrettò la morte per ereditarne i pingui poderi. Vatinio,
mostruoso ciabattino di Benevento, salito a gran ricchezza e alla
Corte per via d'accuse, rinfocava l'odio di Nerone contro i patrizj,
esclamando: — Io t'aborro perchè sei senatore». Ad alcuni fe grazia
perchè Seneca gli disse: — Per quanti ne uccidiate, non vi verrà fatto
di dar morte al vostro successore».

Calpurnio Pisone (65) congiurò per assassinarlo nel palazzo d'oro; ma
scoperto, causò un macello. La guardia germanica si sparse cercando
gl'imputati, o chi era odioso a Tigellino e a Poppea. Fu tra i primi
il poeta Lucano, che d'amico a Nerone gli s'era avversato dacchè lo
vide addormentarsi alla recita de' suoi versi, e che fattesi aprir le
vene, morì di ventisette anni recitando un brano della sua _Farsaglia_.
Fu tra i secondi Seneca, che pei maneggi de' nuovi favoriti spogliato
d'autorità, non avea avuto coraggio di sottrarsi alla Corte, quantunque
infamata da tante brutture; e con fermezza terminò una vita troppo
disforme dalle sue dottrine. La liberta Epicari, messa al tormento,
stette al niego, finchè trovò modo di strozzarsi. Sulpicio Aspro,
interrogato perchè avesse fallito alla fedeltà: — Perchè non conoscevo
altro riparo a' tuoi delitti». E Scevino Flavio tribuno: — Nessun
soldato ti fu più fedele sinchè il meritasti; presi ad odiarti dacchè
ti vidi assassino della madre e della moglie, cocchiere, istrione,
incendiario»; risposta che ferì Nerone più che tutta la congiura. Il
console Giulio Vestino, malvoluto da Nerone ma da nessuno imputato,
adempite le funzioni della sua carica, banchettava molti amici, quando
gli si annunzia che un tribuno lo cerca: esce, è chiuso in una camera,
svenato senza un lamento, e a' suoi convitati solo a tardissima notte
si concede partire. Parenti, figli, precettori, servi furono spesso
avvolti nella condanna. I tempj intanto sonavano di grazie, e i
prossimi degli uccisi affrettavansi ad ornar di fiori le case, e baciar
la mano a Nerone, il quale non men che di supplizj, fu prodigo di
ricompense.

Il senatore Trasea Peto, serbatosi come un vivente raffaccio di
tanta contaminazione, avea saputo tacere quando tutti collaudavano;
uscì dal senato quando vi si deliberava sul discolpare l'assassinio
d'Agrippina; non assistette ai funerali di Poppea; non applaudiva alle
scede imperiali; faceva insomma la resistenza che può ogni onest'uomo
in qualunque ribaldo governo. Venerato dal popolo e dalle provincie,
quando si vide accusato esortò la moglie Arria a serbarsi in vita per
la figlia loro; e fattesi aprir le vene, chiamò il questore che gli
aveva portato la condanna, acciocchè lo contemplasse morente, — Poichè
(diceva) siamo in un secolo ove importa ingagliardirsi con grandi
esempj».

Con Peto, erasi accusato Trasea Sorano; e Servilia figliuola di questo
ricorse agli indovini per sapere qual sarebbe la sorte di suo padre.
Gliene fu fatta colpa, e un accusatore al Tribunale le appose d'aver
venduto le sue gioje da nozze e fin la collana, per usare il denaro
a cerimonie misteriose. Ma ella, inavvezza ai tribunali e sbigottita
d'avere accresciuto il pericolo di suo padre, lungo tempo non potè
che piangere, poi abbracciando gli altari, — Nessun nume infernale ho
io invocato; non feci imprecazioni; unicamente chiesi che la volontà
di Cesare e la sentenza del senato mi conservassero il padre. I miei
giojelli, i miei addobbi, tutti i fregi dell'antica mia fortuna ho dato
a tal uopo; data avrei anche la vita e il sangue. Non ho nominato il
principe che fra gli Dei; e nè tampoco mio padre lo seppe». Padre e
figlia furon messi a morte.

All'orrore di questi delitti pareva aggiungere flagelli la natura.
Turbini desolarono la Campania, Lione un incendio; la peste mietè
trentamila vite in Roma. Varj portenti, e singolarmente una cometa,
atterrirono Nerone, il quale, udito che in simili casi volevasi
stornare la maluria con qualche straordinario macello, proponeasi di
scannare tutti i senatori, e conferir le provincie e gli eserciti a
cavalieri e liberti. Sospese il colpo per nuovi trionfi d'artista,
meditando i quali, partì per la Grecia a rivaleggiare co' migliori
citaredi (66). Non trae solo l'abituale corteggio di mille vetture,
e bufali ferrati d'argento, e mulattieri vestiti magnificamente,
e corrieri e cavalieri africani ricchissimamente in arnese; ma un
esercito intero, avente per arma la lira, la maschera comica, i
trampoli da saltimbanco. Un inno cantato da Nerone saluta la greca
riva; il padrone del mondo le concede tutto un anno di gioja e di feste
incessanti; i giuochi Olimpici, gl'Istmici, e quanti si celebravano a
lunghi intervalli, saranno accumulati in dodici mesi. Egli rappresentò
in teatri, gareggiò alla corsa, da' presidenti aspettando in ginocchio
le decisioni; per gelosia fe gittar nelle cloache le statue d'antichi
atleti. Guai a chi è condannato ad esser suo competitore! vinto in
prevenzione, è, ciò non ostante, esposto a tutti i maneggi d'un emulo
inquieto; calunniato in segreto, ingiuriato in pubblico. Uno osa cantar
meglio di Nerone, e il popolo artista di Grecia l'ascolta rapito,
quando gli altri attori lo ghermiscono, lo serrano contro una colonna e
lo sgozzano: ordine del principe.

Travisato da toro, per le strade violava il pudore e la natura;
pubblicamente sposò un Pitagora, colle cerimonie sacre e civili
praticate dai Romani; poi volle far nozze con un certo Sporo, e
vestitolo da imperatrice col velo nuziale, lo condusse in lettiga per
le assemblee. In compenso degli applausi e della vigliaccheria, regalò
alla Grecia la libertà, che, in tanta immoralità e sotto un tal uomo,
non so che cosa volesse dire nè potesse fruttare.

Non per ciò metteva sosta alle uccisioni. Avea menato con sè molte
ragguardevoli persone sospette, e per via le fece trucidare.
A Corbulone, il più prode suo generale, specchio di modestia,
disinteresse e fedeltà, mandò ordine di morire; e quegli esclamando —
Lo merito», si trafisse. Molti uccise o condannò perchè coi precetti
o coll'esempio disfavorivano la tirannia. Poi udito che la nauseata
Italia mormorava sordamente, volò a Roma, e perduti i tesori in mare,
disse: — Me ne rifaranno di corto i veleni». Entrò sul carro trionfale
d'Augusto con mille ottocento corone côlte sui teatri, e il senato gli
decretò tante feste che un anno non sarebbe bastato a celebrarle; onde
un senatore osò proporre si lasciasse qualche giorno anche al popolo
per le sue faccende.

La forza militare rendea possibili tali eccessi: ella sola potea porvi
un termine. Giulio Vindice, stirpe degli antichi re d'Aquitania, allora
vicepretore nella Gallia Celtica, alzò bandiera contro Nerone (67), e
centomila provinciali si unirono ad esso, onde avrebbe potuto ergersi
imperatore. Però Virginio Rufo, semplice cavaliere, ma grandemente
riverito e allora luogotenente dell'Alta Germania, non soffrì che
l'impero si conferisse altrimenti che per voto de' senatori e de'
cittadini, sconfisse Vindice (68) il quale si uccise, ma ricusò lo
scettro offertogli dall'esercito vincitore che dichiarava scaduto
Nerone.

Costui ode in Napoli siffatte mosse, nè però interrompe i giuochi
del ginnasio; solo al sentire che Vindice l'avea trattato di cattivo
citarista, s'indispettisce, comanda ai senatori di vendicarlo, viene
egli stesso a Roma, e tra via vedendo scolpito sopra un monumento
un soldato gallo abbattuto da un cavaliere romano, ne piglia fausto
augurio e coraggio. Pure non osando presentarsi al popolo o al senato,
raccoglie ed ascolta alcuni primati, poi passa il giorno a mostrar loro
certi nuovi organi idraulici, di cui voleva fare esperimento in teatro,
— Se Vindice (soggiungeva) me lo permetta».

Tra fiacco sgomento, spensierati tripudj e meditate vendette alternando
secondo le notizie, dovette pur muoversi contro i ribelli; ma ebbe
cura di portare strumenti musicali, e cortigiane che da amazoni lo
seguissero. Era grande stretta di vettovaglie, e se ne aspettavano
d'Egitto; quand'ecco approdar navi, ma invece di frumento son cariche
di sabbia pe' gladiatori. Il popolo ne infuria, abbatte le statue di
Nerone; i pretoriani stessi disertano; le sue guardie gli tolgono fin
le coperte del letto e una scatoletta di veleno, preparatogli da quella
Locusta che avea, per ordine di lui, stillato la morte di tanti. Egli
or chimerizza passare nella Gallia, e quivi a ginocchioni propiziarsi
i soldati; ora fuggire tra i Parti; ora dalla tribuna commovere il
popolo coll'eloquenza imparata da Seneca: agli emuli proponeva gli
concedessero la prefettura d'Egitto; se non altro, il lasciassero
andare, che guadagnerebbe sonando. Insultato nei teatri, maledetto da
tutti, egli che avea versato tanto sangue, non possedeva la virtù, sì
comune a' suoi tempi, di versare il proprio. Chiese chi l'uccidesse,
e niuno si prestò; corse per gettarsi nel Tevere, poi si diresse alla
villa del liberto Faone, sopra un ronzino, con quattro servi appena,
ogni tratto in pericolo o in paura. Giuntovi, si fece scavar la fossa,
e intanto andava esclamando: — Che grande artista perisce!» Vile fino
agli estremi, sol quando udì lo scalpitare de' cavalli che venivano per
trarlo alle forche decretategli dal senato, si trafisse, dopo funestato
il mondo per tredici anni e otto mesi.

Consoliamoci che qui finisce quel progresso di malvagità
degl'imperatori, sebbene ad ora ad ora ne riapparisse qualcuno,
inclinato ad emularli. Ma qui pure può dirsi finita la storia delle
insigni famiglie romane. L'aristocrazia patrizia era stata decimata
dalle proscrizioni; salì al suo posto una nobiltà di famiglie nuove
arrivate alle dignità: ma Tiberio cominciò, Caligola proseguì, Nerone
compì la loro ruina, spogliando e trucidando i ricchi, disonorando i
poveri. Quei che sopravissero, terminarono il proprio crollo colla
scostumatezza; e sebbene la vanità nobiliare non fosse dissipata,
pure difficilmente si potrebbe seguirne la storia traverso alla
confusione dei nomi, alle adozioni moltiplicate, al vezzo di cangiare i
soprannomi.



CAPITOLO XXXIV.

Prosperità materiale e depravazione morale. Lo stoicismo.


A questo abbandonarci sulle particolarità della vita d'individui, il
lettore si accorge che a mutate fonti attingiamo. In tempi liberi
la patria primeggia, e l'uomo in quella s'eclissa: nella monarchia
gli occhi del vulgo s'arrestano sopra un uomo, e la storia, che sì
spesso è vulgo, se n'appaga, e invece della nazione ci offre la vita
de' suoi capi, sovra i quali è ormai concentrata l'attività. Ciò si
scosta affatto dal nostro proposito: ma primamente in quegl'imperatori
s'incarna ciò che noi cerchiamo, vale a dire la vita e la società;
inoltre abbondiamo di materiali, offertici da due cronisti molto
differenti tra loro, Svetonio e Tacito.

Il primo, indefesso raccoglitore di anticaglie, possedeva l'anello
d'un imperatore, il sigillo dell'altro, una statuina appartenuta ad
Augusto; e con altrettanta cura spigolò aneddoti sui dodici Cesari;
e come quelle negli armadj, così questi distribuì per categorie di
vizj e virtù. Così disgiunti dai fatti che produssero e che vi danno
significazione e valore, non ci rivelano la condizione del principe nè
dello Stato: e l'autore, al modo degli aneddotisti, impicciolisce ogni
cosa, non ha indignazione pel vizio, non entusiasmo per la virtù; sotto
al ridicolo allivella tutte le riputazioni, dileguandone e il terrore
e l'ammirazione. Di Cesare non indovina i magnanimi intenti e trasvola
le grandi imprese, mentre riferisce le satire e le canzonaccie con cui
il vulgo si vendicava della gloria di esso. Non s'accorge tampoco che
da Cesare a Domiziano siasi cambiato il mondo: ma freddo, laconico,
ci ritrae il viso di ciascun imperatore, il portamento, il vestire, le
follie; a che ora pranzasse, e quanti e quali piatti; che mobili avesse
in casa, che motti gli uscissero, che oscenità lo dilettassero; ogni
cosa senza velo, nè spirito, nè riflessioni.

Tutta di riflessioni invece Tacito intesse la storia degl'imperatori,
non tanto narrando gli avvenimenti, quanto facendo considerazioni
sopra di essi, e più sopra la vita politica e le relazioni del
principato col popolo: nessuno per piccolo ne racconta senza risalire
alle lontane cause[118] e svolgerne le conseguenze, a rischio di
eccedere in arguzia e raffinatezza col veder remote e complicate
ragioni anche negli atti i più semplici. Argutissimo scrutatore dei
labirinti del cuore umano, vi penetra per via degl'indizj esterni;
primo egli che conducesse la storia a quadri interiori e di costumi,
cercando le pareti domestiche non meno che il fôro e il campo, e tutto
drammatizzando con inarrivabile abilità. Allevato dai declamatori e
dagli stoici, ne contrasse ammirazione per le aspre virtù antiche,
passione per la libertà, concepita nelle viete forme patrizie[119],
fastidio del depravamento d'un impero, dove si ricordava la libertà e
tolleravasi la servitù, dove le tradizioni gloriose non impedivano una
sordida degradazione; e antico originale di moderne finezze politiche,
guarda con occhio tanto fosco da parer rigoroso fin verso un secolo
così perverso. Onesto di cuore, veritiero anche nell'enfasi, giudica
con una morale indipendente, benchè in tempo che riputavasi più giusto
ciò ch'era più forte, _id æquius quod validius_; alla virtù anche
soccombente fa omaggio, flagella il vizio quantunque potente, sapendo
che la storia non è solo un gran dramma, ma una gran giustizia.

La morale dignità dello scrittore adunque e l'alta meta propostasi
campeggiano in quelle pagine, meditate lungamente, ritemprate dalla
sventura, colorite da sublime tristezza; ove piace e giova il vedere
un autore, immacolato fra tanta corruzione, attestare che v'è in noi
qualcosa che i tiranni non possono svellere, neppur colla vita; che
uno può esser grande anche sotto principi malvagi; e che tra l'abjetta
servitù e la pericolosa resistenza c'è una via scevra di rischi e
di bassezze[120]. Colla tetra maestà del suo racconto, colla critica
amara, coll'opposizione affatto insolita ai Latini, com'era insolito
quello stile muscoloso, dove spesso un giudizio è espresso con una
sola parola, ed ogni parola ha la ragione d'esser collocata a quel
modo, egli ci ritrae al vivo una corruttela, a dipinger la quale
siamo ajutati anche da storici minori, da satirici, da poeti, così da
trovarla grande quanto l'impero romano.

Da costoro possiam dedurre la storia d'una famiglia, la Giulia: e
quale catena di misfatti in essa! Abuso di adozioni e di divorzj vi
mescola sangue e nomi, donne di tre o quattro mariti, imperatori di
cinque o sei mogli. Augusto sposa Livia Drusilla, incinta d'un altro:
Livia Orestilla menata da Caligola, dopo pochi giorni è ripudiata,
dopo due anni esigliata: egli stesso toglie al marito Lollia Paolina
perchè l'ava di lei ebbe vanto di bellezza, e poco stante la rinvia,
proibendole d'accoppiarsi ad altri, finchè Claudio le spedisce ordine
d'uccidersi. Un Druso è avvelenato da Sejano, un altro riceve ordine di
morire, un terzo è ucciso in esiglio. Agrippa Postumo al cominciare del
regno di Tiberio, Tiberio il giovane a quel di Caligola, Britannico a
quel di Nerone, sono immolati per sicurezza del principe.

Domizio Enobarbo, padre di Nerone, si piglia spasso a lanciare di
furia il carro contro un fanciullo; ammazza uno schiavo che non beveva
abbastanza; in pieno fôro cava un occhio ad un cavaliere; pretore, ne'
giuochi ruba i premj. Giulia madre, dopo tre matrimonj, è sbandita dal
genitore Augusto per dissoluta, poi dal marito Tiberio lasciata morir
di fame; Giulia figlia, convinta di adulterio, perisce in un'isola dopo
vent'anni d'esiglio. Giunia Calvina è da Claudio sbandita, per incesto
col fratello Silano: ne sono infamate le sorelle di Caligola; ed una
di esse, bagascia del fratello, è assunta dea, mentre gli amanti di
tutte queste son mandati a morte, in vigore delle antiche leggi tutrici
della moralità. Drusillina di Caligola è con lui trucidata d'appena due
anni: Claudio getta ignuda sulla soglia della moglie una fanciulla che
crede adulterina. A questo si ascrive a lode il non aver menato donna
che fosse d'altri: ma al par di Caligola ebbe cinque mogli, fra cui una
Messalina e un'Agrippina, nomi che fin oggi personificano il peggior
fondo cui possa scendere quel sesso. Messalina fa esigliare ed uccidere
Giulia di Germanico ed un'altra nipote di Tiberio: una Lepida, parente
de' Cesari, gareggia con Agrippina in bellezza, opulenza, impudicizia,
violenze, e questa la fa ammazzare.

Entri nel palazzo de' Giulj? potranno mostrarti la cripta ove fu
trucidato Caligola; il carcere dove si lasciò consumar dalla fame il
giovane Druso, rodendo la borra delle coltrici, ed avventando contro
Tiberio imprecazioni, che questi faceva raccôrre per poi ripeterle in
senato: in questa sala Britannico bevve la sportagli tazza, e morì
sull'atto; in questo conclavio Agrippina tentò d'amore il proprio
figliuolo, che in quel giardino palpò curiosamente il cadavere di essa.

Una casa sola! ed erano divi e dive, esposti allo sguardo di tutti,
protetti dalla memoria di grandi progenitori. Nè di meglio troveremmo
fra altri lari; nella casa d'Agrippa, ove «sola Vipsania morì di
buona morte, gli altri o si seppe di ferro, o si tenne di veleno o di
fame»[121]; nei palagi patrizj, ove si aspettava dai Cesari l'invito
ora di prostituirsi ora d'uccidersi; nell'officina di Locusta, gran
tempo strumento importante nel regno[122], ove si veniva a provvedere
o filtri per innamorare, o abortivi, o tossico per accelerare la
vedovanza e l'eredità; in ciascun palazzo, dove sono altrettanti uomini
quanti schiavi[123], i quali o concertandosi scannano i padroni, o ne
denunziano agl'imperatori ogni atto, ogni pensiero.

Tacito ci mostra diciannovemila rei di morte, che combattono sul
lago Fúcino in quella pazzia di Claudio. Quando quest'imperatore
ripristinò il supplizio de' parricidi, in cinque anni v'ebbe più
condanne siffatte che non in molti secoli, e Seneca assicura essersi
veduti più sacchi che croci[124]: quarantacinque uomini e ottantacinque
donne furono condannati per avvelenamento. Così frequenti ricorrevano
i supplizj, che si levarono le statue dal luogo dell'esecuzione, per
non essere costretti a velarle ogni momento. Papirio, giovincello di
gente consolare, fu dalla madre col lusso e colla seduzione spinto
in tali disordini, che colla morte si sottrasse al rimorso. Lepida,
figlia degli Emilj, nipote di Silla e di Pompeo, accusata d'adulterio,
di supposta prole, di avvelenamento, di sortilegio, viene al teatro
col corteo di tutte le nobili matrone, e invocando gli avi commove
il popolo contro il marito accusatore: eppure per deposizione degli
schiavi è convinta rea, e bandita. Quasi in ogni famiglia (dice
Plutarco) v'ha molti esempj di figliuoli, di madri, di mogli uccise; i
fratricidj sono senza numero.

Quel pudore, che è custodito da una felice ignoranza, come potea
durare in Roma, dove giovinetti d'ambo i sessi stavano rinfusi nelle
prime scuole; nei bagni lavavansi impuberi e vecchi alla mescolata
con donzelle e matrone; priapi si ostentavano sulle vie o pendevano
dal collo delle bambine; le case erano adorne di sfacciate nudità?
Alle fanciulle davansi a leggere gli antichi comici, impudentemente
osceni; e gli epigrammi di Marziale erano conosciuti perfin dalle
caste Padovane. All'inverecondo tripudio nei Lupercali, alle veglie
di Venere[125], alle danze delle cortigiane correnti nude in onor di
Flora, assisteva la matrona colla figlia, non meno che ai teatri dove
gli spettatori poteano domandare che le attrici si snudassero, o si
rappresentavano i deliquj della prostituzione; che più? le bestiali
nozze di Pasifae furono prodotte nell'anfiteatro di Tito, presenti
ottantamila spettatori[126].

I ricchi per voluttà, i poveri per necessità, alle gioje tranquille con
che il matrimonio compensa i sacrifizj di due cuori onesti, preferivano
le tempeste della mercenaria promiscuità o d'un celibato licenzioso.
Contro di questo, nell'anno 9 di Cristo, Augusto promulgò la legge
_de maritandis ordinibus_, che, per singolare testimonianza della sua
necessità, porta il nome di due consoli smogliati, Papio e Poppeo.
Voleva essa che, se l'uomo a venticinque, la donna a vent'anni non
avessero prole, conseguissero la metà solo delle eredità e dei legati,
il resto all'erario; per consoli si preferisse chi ricco di figli; chi
in Roma ne contasse tre, quattro in Italia, nelle provincie cinque,
restasse immune da servizj personali; partorito tre volte, la donna
latina divenisse cittadina romana, la romana ingenua fosse sciolta
dalla tutela del marito; la liberta dopo quattro, sicchè potesse far
testamento, amministrare il suo, adire eredità[127].

Augusto, radunati i cavalieri come solevasi pel censo, lodò quei
pochissimi che avevano adempito ai voti della natura e del civile
governo, e meritato il nome d'uomini e di padri, e promise loro le
cariche principali; i celibi rimbrottò come rei d'assassinio, impedendo
la vita ai futuri; d'empietà, perchè lasciavano perire il nome degli
avi; di sacrilegio, perchè scemavano il genere umano; e li minacciò di
gravi ammende se entro un anno non obbedivano alla legge. Ma corruzioni
così profonde, così radicato egoismo si guariscono per leggi? I
cittadini, che eransi rassegnati alla perdita delle libertà politiche,
resistettero a questa riforma de' costumi, poi la elusero con isposare
impuberi, sperdere i concetti, esporre i nati; moltiplicandosi così
le vittime, ed empiendo di delatori i penetrali domestici, tanto che
Tiberio la dovette modificare. I divorzj poi erano talmente cresciuti,
da parere un legale adulterio[128]; e a pena davasi un matrimonio
incontaminato[129].

Dione racconta che ogni dama teneasi accanto schiavi ignudi; altre
uscivano accompagnate da giovani scostumati; e neppur la castigata
lingua del Lazio basta a velare le turpitudini, di cui le imputa
Giovenale. Tacito ci mostra le matrone scendenti nell'arena coi
gladiatori, o prostituentisi a gara colle sciupate, o dantisi agli
schiavi con tal furore, che si dovette opporvi rimedj che lo attestano,
nol corressero[130]. Nell'anno 19 di Cristo, il senato interdiceva
che le vedove, le figlie e nipoti d'un cavaliere romano si facessero
matricolare fra le meretrici: divieto inesplicabile, se Svetonio e
Tacito[131] non c'informassero che con ciò voleano sottrarsi alle
pene della dissolutezza. E poteva di meglio aspettarsi ove regnava la
meretrice Actea? ove la meretrice Poppea accusava Ottavia d'adulterio
per invaderne il talamo? ove le belle erano ornate per rallegrare
un'orgia dell'imperatore, e domani esser gettate come la corona dei
papaveri?

L'accordo della voluttà colla crudeltà notammo altra volta come
carattere della civiltà pagana. Dei gladiatori abbiam già detto
assai (t. ii, p. 87). Dall'India e dall'Africa si conduceano belve
a dare spettacolo di stragi al popolo, costretto dai tempi alla
pace. L'usanza crebbe sin al farnetico; e a grande spesa andavasi a
caccia di leoni, d'elefanti[132], di jene, di coccodrilli, pensando
artifizj da accalappiarli senza ferirli. Gran perfezione aveano
conseguita i mansuetarj, che per via d'amuleti, o più veramente colla
fame, assoggettavansi le fiere e le avvezzavano a combattimenti o
a giuochi bizzarri, come elefanti a lanciar armi, tracciar lettere
colla proboscide, fin ballare sulla corda; pesci venire alla chiamata;
leoni pigliar lepri in caccia e non mangiarle; aquile levarsi a volo
con un ragazzo fra gli artigli. Augusto, nel suo _Indice_, vantasi
d'aver fatto uccidere quasi tremilacinquecento fiere nel circo, nel
fôro e nell'anfiteatro: ducento leoni caddero ne' giuochi preseduti da
Germanico; novemila bestie per dono di Tito, mescendosi anche le donne
agli ammazzatori: ne' giuochi di Trajano, durati cenventitre giorni, si
diè morte a millecento bestie; a diecimila in quelli d'Adriano; e Probo
fece correre mille struzzi ed altri animali in proporzione, nel circo
piantato a modo di foresta.

Sarebbero follie come quelle d'altri secoli, se non ricordassimo che le
fiere combatteano con uomini; se non ci raccontassero gli storici che
dal buon Marco Aurelio fu presentato al popolo un leone, _educato_ a
mangiar uomini, e il facea con sì bel garbo, che il popolo ad una voce
implorò dall'imperatore gli desse la libertà. Ma fin sul teatro, se
rappresentasi l'_Incendio_ dell'antico Afranio, si appicca vero fuoco
alle case, e agl'istrioni lasciasi arbitrio di saccheggiarle[133]: con
un vero supplizio finisce il dramma di Prometeo, dove un Laureolo,
inchiodato alla croce, è divorato da una belva; in un altro, Orfeo
è straziato da orsi veri in luogo delle Baccanti; uno è bruciato per
figurar Ercole sul monte Oeta; un altro, mutilato ad imitazione di Ati;
lacerato da un orso un Dedalo, che ben vorrebbe aver le ali: l'eroismo
di Muzio Scevola è riprodotto da uno schiavo, condannato a lasciar
bruciarsi la mano. E queste scene racconta e ammira Marziale[134].

Nè già si tratta d'un popolo ignorante e grossiero; anzi la coltura
e l'urbanità v'erano al colmo. Le più forbite poesie, le storie
più insigni correvano per le mani, colla prurigine della novità; il
vulgo riceveva cibo non faticato, assisteva a gratuiti spettacoli
d'inenarrabile magnificenza, pei quali traevansi gladiatori dalla
Germania, reziarj dalla Gallia, leoni dall'Atlante, giraffe,
rinoceronti, boa dalla Nigrizia, ballerine da Cadice, pantomime dalla
Siria; e dopo essersi soleggiato sotto portici stupendi d'arte e di
ricchezza, esercitato nel Campo Marzio fra monumenti che sono tuttora
la meraviglia di chi guarda e la scuola di chi conosce, ottocento terme
l'aspettavano a tergersi mollemente, onde poi presentarsi al teatro a
riscuotere gli omaggi dei re stranieri. Nell'anfiteatro si può irrorare
gli spettatori con una pioggia profumata, si spolvera con ambra ed oro
l'arena del circo, ove il popolo parteggia per gli attori, versando in
tali gare il sangue, che un tempo scorreva per l'acquisto dei civili
diritti.

La folla dei liberti, cacciatisi fra il numero dei cittadini nella
guerra civile, v'avea portato le seduzioni delle ricchezze male
acquistate, l'insolenza del villan rifatto, gli abusi dell'improvvisa
e ineducata fortuna. Antichi signori, sopravissuti alla guerra e alle
proscrizioni, dopo segnalatisi per ambizioni, intrighi, giudizj e
giuramenti falsi, e per ispregio del popolo e della religione, della
presente nullità si consolavano in un epicureismo femmineo, di cui
era tipo Mecenate, scrittore e consigliere d'Augusto, avvolto in
abbigliamenti donneschi, scortato da eunuchi, cercante emozioni nel
vino e nei moltiplicati divorzj[135]. Anche i buoni, esclusi dallo
esercitar l'ambizione nelle magistrature, e timorosi di recare ombra
ai monarchi, limitavansi a sguazzare in lusso privato, e ubriacarsi
nei godimenti, come chi non vuol ricordarsi della spada per un filo
sospesagli di sopra il capo. Mentre centinaja di servi, macchine
intelligenti, faceano per loro ogni cosa, dalla cucina fino ai versi,
essi beavansi d'ozj voluttuosi al fôro, per le basiliche, nei bagni. Se
la lana apula e spagnuola è troppo pesante, gl'Indiani e i Seri mandano
vesti di seta trasparenti; recasi in pugno una palla di cristallo per
non sudare; le sale de' banchetti sono intepidite da bocche di vapore;
le finestre, riparate con pietre speculari.

Seneca, andato a visitare a Patria la villa Linterno ch'era stata
di Scipione Africano, non rifina sulla differenza tra la semplicità
di quella e il lusso odierno. — Quel terror di Cartagine, di cui è
merito se Roma una volta sola fu presa; in questo piccolo e oscuro
bagno lavava il corpo stancato dalle rusticali fatiche, stette sotto
questo tetto così misero, lo sostenne questo pavimento così vile: or
chi soffrirebbe di lavarvisi? Povero e abjetto uno si stima se le
pareti non rifulgano di grandi e preziosi tondi marmorei; se marmi
alessandrini non sieno variegati con incrostamenti numidici; se non
sieno coperte da musaici a guisa di pitture; se la pietra tasia,
un tempo raro spettacolo in qualche tempio, non circondi le nostre
piscine, ove tuffiamo i corpi esinaniti dal sudore; se l'acqua non
fluisce da pispilli d'argento. E ancora parlo de' plebei: che dire dei
bagni de' liberti? quanta spesa nelle statue, nelle colonne che nulla
sostengono! quanto fragoroso cascar di acque per iscaglioni! Tanto ci
piacemmo di delicature, che non vogliam calcare se non gemme. In questo
bagno di Scipione apronsi piuttosto feritoje che finestre nel muro
di pietra: ma ora chiamansi da nottole i bagni se non siano acconci
in modo che per ampie finestre ricevano il sole, se dal bagno non si
vedano le campagne e il mare. Una volta tutto era più semplice; ma
quanto rialzava l'introdursi in quei bagni grossolani, che sapeasi aver
preparati per te Catone o Fabio Massimo o alcun de' Cornelj! perocchè
nobilissimi edili si assumevano l'uffizio di entrar ne' luoghi dove
accorreva il popolo, ed esigerne la nettezza e una temperatura utile e
salubre, non questa d'oggi, simile ad incendio; per modo che ci sa di
rozzo Scipione che non ammetteva nel suo tepidario la luce per grandi
finestre, nè si facea cuocere nel bagno. V'ha di più: non si lavavano
tutti i giorni, ma solo le braccia e le gambe, insudiciate dal lavoro;
tutt'il corpo, ogni otto dì. Come avran puzzato! Sì; puzzato di fatica,
di milizia, d'uomo: ora, introdotti i bagni più netti, siam più sporchi
in grazia de' tanti unguenti, che fin due o tre volte al giorno si
rinnovano, talchè si sa non di se stessi, ma di pomata»[136].

Non sarem noi certamente che declameremo contro queste comodità belle
e buone; ma somigliano a novelle orientali i racconti delle ricchezze
e del lusso d'allora. Lollia comparve ad un banchetto con indosso
per otto milioni di perle, frutto de' rubamenti di suo avo, vittima
ch'era stato d'Agrippina. Uno, deplorando le gravi perdite sofferte
in tempo della guerra civile, lasciò morendo quattromila centosedici
schiavi, tremila seicento paja di bovi, ducencinquantamila capi d'altro
bestiame, e dodici milioni di lire, non calcolando i terreni[137].
Crispo da Vercelli possedeva quaranta milioni di lire nostre; sessanta
il filosofo Seneca; cinquanta l'augure Cneo Lentulo e Narcisso
liberto di Claudio; ancor più Icelo favorito di Galba: Palla, altro
liberto di Claudio, radunò tali ricchezze, che riducendole a terreni
avrebbero coperto la trecencinquantesima parte della Francia[138].
Secondo Plinio, i beni da Nerone confiscati a sei ricchi costituivano
metà dell'Africa proconsolare[139]. Più tardi abbiam da Vopisco
che Aureliano depose in una villa privata dell'imperatore Valeriano
cinquemila schiavi, duemila giovenche, mille cavalle, diecimila pecore,
quindicimila capre[140]: sicchè non è più declamazione esagerata quella
di Seneca ove dice che provincie e regni bastavano appena a pascolar
le mandre di taluni, i cui schiavi erano più numerosi che belliche
nazioni, la casa più vasta che città[141].

Nerone consumò ottocento milioni in donativi; Caligola
cinquecencinquanta; settanta milioni Domiziano nella sola doratura del
Campidoglio[142]. Poi venne il farnetico de' profumi: l'Arabia non
stillava incensi bastanti pei funerali degl'imperatori; Adriano, ad
onore della suocera e dell'antecessore suo, regalò incredibile copia
d'aromi a tutto il popolo, e fece scorrer balsami per le scene e pei
giardini; Elagabalo nuotava in piscine miste d'essenze, e profondeva a
caldaje il nardo[143]. E fuori e dentro, il corpo aspergeasi d'aromi:
perfino i guerrieri ai giorni solenni ungevano le bandiere e le aquile,
e profumavano se stessi di preziosità: reputavasi lode ad una donna
se, passando, colla fragranza adescasse fin quelli che ad altro stavano
intenti[144].

Il trattato delle pietre preziose, che Plinio desunse da uno di
Mecenate, mostra quanto più di noi avessero raffinato questo lusso.
Le dita, dal medio in fuori, s'empivano di anelli[145]; di gemme si
facevano le tazze; e singolare stima godeano i vasi murrini, venuti
dalla Caramania e dalla più interna Partia[146]. Anche le perle aveansi
in pregio, e le donne se ne ornavano, anzi caricavano testa, collo,
petto, braccia, fin le pianelle; Caligola n'andava ingombro, e ne
fregiava le prore delle navi, come Nerone i letti di sue lussurie;
eppure si pagavano il triplo dell'oro sulle rive del golfo Persico
e di Taprobana (Seilan)[147], ed una sola fu comprata sei milioni di
sesterzj.

A peso d'oro pagavasi la seta; onde allorchè Giulio Cesare fece
velare il suo teatro di quella stoffa, i soldati tumultuarono, quasi
n'esaurisse l'erario; e di barbarica morbidezza fu appuntato Claudio,
perchè sotto un padiglione serico coronò due re dell'Asia[148].
Tuttavia se ne allargò l'uso, ad onta delle prammatiche di Alessandro
Severo ed Aureliano. Dalla Persia la traevano, come anche tappeti di
Babilonia variopinti; un de' quali da un imperatore fu pagato quattro
milioni[149].

Le tele d'India erano pure cercatissime; l'avorio dell'Etiopia e
della Trogloditide, e massime dell'India ornava i tempj, le sedie
dei magistrati curuli, i mobili e le soffitte de' ricchi; e tanto
crebbe il consumo, che più non se ne trovando, doveansi segare ossa
d'elefanti. Nè meno ambiti erano l'ebano e il cedro d'Africa; vascelli
egizj sferravano apposta dalle cale di Berenice per andarsi caricare
di testuggini lunghesso l'Africa; e più in delizia erano quelle color
d'oro dell'Oceanitide, isola alle foci del Gange.

Tutte poi le provincie s'avaccino a mandare a Roma quel che di meglio
producano: papiro, vetri, lino l'Egitto; frutti e piume l'Africa;
tappeti la Mesopotamia; lane fine, cere e miele la Spagna; la Gallia
panni, bestiame, olio, lavori di ferro, di rame, di piombo, di
stagno; cuoj e pesce salato il Ponto, stagno la Britannia; i mari
settentrionali l'ambra, di cui portavansi addosso figurine da costar
più d'un uomo[150]; la Grecia finissimi tessuti, lavori artistici, e
quel pedante, arnese speciale nelle case d'allora, che ne' corteggi
compariva insieme colle meretrici e coi bagascioni, che sapea tutto,
che facea tutto, dai servigi di lenone all'educazione dei figli,
che soffriva con pari longanimità i favori e gli strapazzi, purchè
potesse godere l'onor de' banchetti e della conversazione signorile.
Romano di conto sarà quello che usi lane dell'Attica e di Mileto, le
meglio pregiate dopo le nostre di Taranto, porpore di Laconia, panni
d'Arsinoe, tappezzerie d'Alessandria, vetri di Diospoli, papiro del
Nilo, bronzi di Corinto, formaggi dell'Asia Minore, miele del monte
Imetto, cere e stoffe dell'Egeo, stoviglie di Copto e della Lidia.
Aggiungete altro oggetto d'esecrabile lusso, gli eunuchi, viziosi
stromenti del vizio; e dieci milioni fu pagato uno da Sejano[151].

Questo lusso gigantesco insieme e miserabile, espressione d'un
raffinamento materiale che non istà in proporzione col morale, il
despotismo lo fomenta, acciocchè la mollezza e i godimenti distraggano
dal sentire la tirannia, l'egoismo lo volge ai triviali diletti della
gola. Cinque pranzi il giorno si facevano, vuotando lo stomaco per
rimpinzarlo di nuovo. Gareggiavano d'avere i pesci più rari e più
grossi, ne tenevano vivaj, costituivano magistrati sopra l'impedire che
alcuni se ne allontanassero dai lidi; talvolta si mettevano in tavola
vivi, acciocchè le varie gradazioni che dava ai loro colori l'agonia,
ricreassero i convitati, che, un istante dopo esserseli sentiti
guizzar sotto la mano, li godevano conditi. Calliodoro vendè un servo
milletrecento denari onde comprarsi una triglia di quattro libbre[152]:
un altro spese tremila sesterzj per comperare tre barbi: essendone
regalato uno a Tiberio, questi il credette di troppo valore e mandollo
a rivendere, e Ottavio lo pagò cinquantamila sesterzj. Quest'Ottavio
era l'emulo d'Apicio, il quale fu maestro e tipo di ghiottornia in
Roma[153], e poichè ebbe consumato tesori alla tavola, si uccise per
non trovarsi ridotto a vivere con soli dieci milioni di sesterzj (2
milioni di lire)[154]. Il cuoco pertanto era il servo più considerato;
la squisitezza dei banchetti, primaria occupazione degli schiavi.
Poi repente il ricco vuol assaggiare la povertà, e in una cameruccia
soffitta mangia s'un tagliere per terra[155]; e si giudica meravigliosa
invenzione il fondere la tartaruga in modo che sembri legno, e così
aver mobili che valgano mille volte più di quel che mostrano.

Perocchè non è tanto alla gola o alla mollezza che vogliasi soddisfare,
quanto al farnetico dello straordinario (_monstrum_). Da qui le
bizzarrissime fantasie degli imperatori e dei privati; le effigie
colossali, repugnanti a quella _misura_ che avea costituito la
finezza dell'arte greca; e il gigantesco ponte di Caligola, e venti
cavalli aggiogati al carro di Nerone, e il suo smisurato palazzo
con statue smisurate; e più ammirato ciò che più esorbitava. Da qui
volere all'inverno rose, neve all'estate; e cercare il vizio per
lo scandalo che produce[156]. Agrippina pagò milleducento lire un
usignuolo. Caligola non di rado stemperava le perle ne' suoi bicchieri,
o faceva servire in piatti d'oro, che poi distribuiva ai convitati;
molti giorni seguitò a lanciar dall'alto somme d'oro al popolo; fece
compaginare galee di cedro con vele di seta e prore d'avorio ornate
di margarite; trasportare d'Egitto un obelisco sovra un vascello sì
grande, che quattro uomini appena ne abbracciavano l'albero. Nerone ha
tappeti babilonesi che valgono quattro milioni di sesterzj, oltre la
tazza murrina da trecento talenti; nei funerali d'una scimia spende
i tesori d'un ricco usurajo da lui esigliato; in que' di Poppea,
più cannella e cassia che in un anno non ne produca l'Arabia. Vasi
preziosissimi quanto fragili devono solleticare il gusto col pericolo
di vedere a un tratto perire un tesoro: una tavola di cedro costò a
Cetego trecentomila lire. Per la ragione stessa aveasi a noja la luce
diurna[157], e Pedo Albinovano ci racconta di avere abitato sopra
la casa di Spurio Papino, che era di cotesti lucifugi. — Verso la
terz'ora di notte, sento colpi di scudiscio. Che fa egli? domando.
— Si fa rendere i conti (era il tempo che castigavansi gli schiavi).
Sulla mezzanotte, odo un grido penetrante. Cos'è? — Egli si esercita
a cantare. Verso le due di mattina, — Che fragor di ruote è cotesto?
— Egli esce in calesso. Al levar del giorno si corre, si chiama;
cantiniere, cuciniere sono in moto. Che è, che non è? egli esce dal
bagno, e chiede vin melato»[158].

Petronio Arbitro, in un romanzo intitolato _Satyricon_, ci descrive
la vita di Trimalcione, doviziosissimo baggeo, e prosopopea de' tanti
ricchi che lussureggiavano allora a Roma. Parrà forse lungo, non
certamente disopportuno il qui riferirne una cena, spogliandola dalle
interminabili digressioni, e accorciandola d'assai, non senza premunire
contro le esagerazioni consuete dei satirici:

— Sapete presso chi oggi si fa baldoria? presso Trimalcione, uomo
suntuoso, che nella sala da pranzo ha un oriuolo ed un trombetta,
cioè due schiavi, istruiti ad avvertirlo di tutti i momenti ch'egli
consuma nella vita. Ci rivestimmo lesti lesti, e finchè venisse
l'ora, ci diemmo a ronzare e a trastullarci, entrando pe' circoli
de' giocolieri; quando ad un tratto vedemmo un vecchio calvo, vestito
di palandrane rossiccio e coi calzari, che stava facendo alla palla
con alcuni fanciulli a lunghi capelli[159]. Egli non ribattea la
palla che avesse toccato il terreno, ma un servo ne aveva in un sacco
quante ai giocatori bastassero. Altre singolarità notammo: eranvi due
eunuchi posti in diversi punti del circolo, de' quali uno teneva una
mastelletta d'argento, l'altro noverava le palle che cadeano. E intanto
che ammiravamo cotali splendidezze, Menelao venne a dirci: — Quest'è
colui, presso al quale mangerete. Non vedete che a tal modo principia
la cena?»

«Ancor discorreva Menelao, quando lo splendidissimo Trimalcione scoccò
le dita, e a questo segno l'eunuco misegli sotto la mastelletta, in
cui esso scaricò la vescica, poi chiese acqua alle mani, e le dita
umide terse sul capo di un ragazzo. Lunga cosa sarebbe descriver
tutto. Entrammo ne' bagni, e al momento che il sudore ci coperse,
passammo al fresco. Trimalcione, tutto strofinato di manteche, faceasi
fregare non con lenzuoli di lino, ma con mantelli di finissima lana.
Tre mediconzoli intanto trangugiavano falerno alla sua presenza,
gareggiando a chi più ne mesceva; e Trimalcione esortavali ne bevesser
pure a josa. Involto quindi in una tovaglia di scarlatto, fu messo
nella lettiga, cui precedevano quattro adorni lacchè ed una carretta
a mano, dove portavasi un mignone vecchio e cisposo, più brutto di
Trimalcione, di cui era la delizia. Il quale così trasportato, e
accompagnato da armoniosi flautini, si avvicinò alla testa di lui, e
come se gli parlasse all'orecchio, canticchiò per tutto il cammino.
Noi, stanchi ormai di maravigliarci, teniam dietro, e insieme con
Agamennone, sofista di casa, arriviamo alla porta, sullo stipite della
quale era inchiodato un cartello con questa iscrizione: _Qualunque
schiavo uscirà senz'ordine del padrone, buscherà cento sferzate_.

«Sull'ingresso, un portiere vestito di verdechiaro, con cintura
color ciliegia, sbucciava piselli in un vassojo d'argento. Pendeva
sopra la soglia una gabbia d'oro, dalla quale una gazza variopinta
salutava gli avventori. Di tante cose stordito, io fui per cadere e
fracassarmi le gambe, colpa di un cane che alla sinistra dell'ingresso
vicino alla camera del guardiano era dipinto sul muro, legato alla
catena, colle parole cubitali _Guardati dal cane_[160]. Ne risero i
miei colleghi, ma io, raccolto lo spirito, proseguii lungo il muro.
Il luogo ove si vendono gli schiavi era tutto dipinto a cartelloni,
insieme col ritratto di Trimalcione, chiomato, col caduceo in mano,
in atto d'entrare in Roma, e Minerva ne reggeva le redini. Più innanzi
era in figura d'imparare i conti, e più oltre in foggia di tesoriere;
e il bizzarro pittore ogni cosa avea diligentemente rappresentata
coll'iscrizione: sul finir poi del portico eravi Mercurio, che col
mento rialzato lo riponea sopra un alto tribunale. Ivi appresso teneasi
la Fortuna col corno dell'abbondanza, e le tre Parche filando pennecchi
d'oro. Nel portico una partita di valletti veniva esercitata da un
istruttore; e in un grande armadio erano riposti i Lari d'argento, una
statua marmorea di Venere, ed una scatola d'oro grandicella, in cui
diceano venir serbata la barba di esso...[161].

«Assorti in tante delizie, andavamo nel triclinio, quando un ragazzo,
a ciò destinato, gridò, — Col piè destro». Noi tremammo che alcun
di noi non passasse col sinistro: ma introdottici tutti per bene, un
ignudo schiavo prostrossi ai nostri piedi, supplicandoci lo liberassimo
dal castigo, meritato con un grave delitto, quale era d'essersi
lasciato rubare ne' bagni l'abito del tesoriere, che poteva valere
dieci sesterzj... Sedutici, de' famigli egiziani altri versavano acqua
diaccia alle mani, altri ci lavarono i piedi, togliendoci con esperta
diligenza ogni bruttura dall'unghie. Nè tale molesto servigio faceano
in silenzio, ma canticchiando: onde mi venne pensiero di provare se
la famiglia tutta cantasse; perciò chiesi a bere, ed ecco un ragazzo
prontissimo, che mi favorì parimenti di un'acida cantilena; e all'egual
modo usava ogni altro, cui qualche cosa fosse chiesta; onde l'avresti
creduto un triclinio da pantomimi.

«Venne un lautissimo antipasto, e ciascheduno già si era adagiato,
fuorchè Trimalcione, al quale conservavasi il primo luogo, per nuova
disposizione...[162]

Il suo vaso era di metallo di Corinto, e rappresentava un asinello con
una corba, nella quale da una parte stavano olive bianche, dall'altra
nere. L'asinello era coperto da due scodelle, sul cui orlo si leggeva
il nome di Trimalcione ed il peso dell'argento. V'aveva anche de'
ponticelli saldati, sostenenti de' ghiri conditi con miele e papavero,
e mortadelle caldissime sulla graticola, sotto la quale stavano prugne
siriache, con chicchi di melogranato.

«Stavamo tra queste morbidezze, quando Trimalcione, portato a suon
di musica, e collocato sopra piccoli guancialetti, mosse il riso di
qualche imprudente, per quella sua testa pelata che sporgeva da un
mantello di porpora; e intorno alla collottola teneva una crovatta
guarnita d'oro, le cui estremità pendevano di qua e di là; nel dito
mignolo della sinistra recava un grande anello dorato, e all'ultimo
articolo del vicin dito uno men grande tutto d'oro, come a me parve, ma
saldato con ferruzzi in forma di stelle. Per mostrarci altre ricchezze
si scoperse il braccio destro, ornato di smanigli d'oro legati in un
cerchietto d'avorio con laminette luccicanti. Come poi con uno spillo
d'argento ebbesi nettati i denti, — Amici (disse), non avevo ancor
voglia di venire al triclinio; ma perchè la mia assenza non vi facesse
troppo aspettare, ho sospeso ogni mio divertimento. Permettete però
ch'io finisca un mio giuoco».

«Avea dietro un ragazzo con uno sbaraglino di terebinto, e con dadi
di cristallo; e in luogo di pedine bianche e nere, usava monete d'oro
e d'argento. Mentr'egli giocando avea distrutta la schiera opposta, e
noi eramo ancora all'antipasto, una tavola fu portata con una cesta,
entro cui una gallina di legno colle ale distese in cerchio, come
quando covano. Tosto due schiavi, a strepito di musica, si posero a
frugar nella paglia, e toltene alcune ova di pavone, distribuironle
ai convitati. Trimalcione voltandosi disse: — Amici, ho ordinato si
mettessero sotto questa gallina delle ova di pavone; e temo, per bacco,
non abbiano già il feto: proviamo tuttavia se sono bevibili»[163]. Noi
prendemmo de' cucchiaj non men pesanti di mezza libbra, e rompemmo le
ova; ma erano di pasta, ed io fui quasi per gittar il mio, sembrandomi
contenesse il pulcino: poi, udendo da un vecchio commensale che alcuna
cosa di buono doveva esservi, continuai a rompere il guscio, e ritrovai
un grasso beccafico contornato dal torlo dell'ovo sparso di pepe.

«Trimalcione aveva già sospeso il giuoco, e d'ogni cosa richiesto,
ed a voce alta data a ciascuno facoltà di bere novamente il vino col
miele; quando ad un tratto l'orchestra diè un segno, e i cibi del
primo servizio furono cantando rapiti dagli stessi sonatori. In mezzo
a questo battibuglio cadde a caso una scodella d'argento, ed uno
schiavo la raccolse dal pavimento; ma Trimalcione avvedutosene lo fece
schiaffeggiare, e comandò la gettasse: il credenziere tra le altre
lordure la scopò via...

«Recaronsi allora bottiglie di vetro perfettamente turate, su cui era
scritto, _Falerno d'Opimio, d'anni cento_[164]. Intanto che leggevamo
le etichette, Trimalcione battendo le mani esclamò: — Ohimè! ohimè! il
vino dunque vive più vecchio dell'omiciattolo? e noi dunque facciamone
gozzoviglia. Il vino è vita. Ve lo do per vero d'Opimio: jeri nol feci
mescere sì buono, benchè i convitati fossero più cospicui». Mentre noi
si beveva ammirando le squisite magnificenze, un servo portò una figura
d'argento accomodata in modo, che da ogni parte se ne volgevano gli
articoli e le vertebre col rallentarle...

«Tenne dietro agli applausi una portata, non grande quanto credevasi,
ma la cui novità trasse gli occhi di tutti. Era in forma d'una credenza
rotonda, con in giro le dodici costellazioni, sulle quali il cuciniere
avea posto cibi convenienti alla figura: sull'ariete i ceci di marzo,
sul toro un pezzo di bufalo, testicoli e reni sopra i gemelli, una
corona sul cancro, sul leone un fico d'Africa, sulla vergine una vulva
di troja lattante, sulla libbra una bilancia che da una parte conteneva
una torta e dall'altra una focaccia, sullo scorpione un pesciatolo
di mare che porta quel nome, sul sagittario un gambaro marino, sul
capricorno una locusta marina, sull'acquario un'anitra, sui pesci due
triglie; in mezzo poi v'era un cespuglio d'erbe, con sopravi un favo.

«Il famiglio egiziano recava intorno il pane sopra un tamburino
d'argento, egli pure con pessima voce canticchiando una goffa canzone
sul laserpizio. Noi ci acconciavamo tristamente a quelle trivialità,
ma Trimalcione disse: — Ceniamo, che tale è l'ordine della cena». Così
detto, sopragiunsero alcuni, i quali ballando un quartetto a suon di
musica, scoprirono la parte superiore di quel credenzino, e allora
vedemmo per di sotto, cioè in un altro servizio, ventresche e grassi
circondanti una lepre coll'ale, che pareva il cavallo Pegaso; e ai
canti quattro satiretti, dai cui ventri versavasi un liquore impepato
sopra i pesci, i quali pareano nuotar nel mare. Applaudimmo, facendo
eco ai famigli, e lietamente assalimmo quelle squisitezze. Trimalcione
contento del buon ordine, — Trincia», esclamò; e tosto lo scalco si
fece innanzi, e a suon di musica sì destramente fe in pezzi le vivande,
che l'avresti creduto un cocchiere in lizza fra lo strepito dell'organo
idraulico...

«In questo mezzo comparvero valletti, che agli strati sovraposero
coperte, su cui erano dipinte reti, e cacciatori colle aste, e un
intero apparecchio di caccia. Non sapevamo che pensare di ciò, quando
fuor del triclinio alzatosi un gran romore, entrarono tutt'a un colpo
alcuni cani di Sparta, che intorno alla mensa si diedero a correre.
Un altro desco tenne lor dietro, sul quale era posto un cignale
imberrettato di prima grandezza, da' cui denti pendevano due cestelli
trecciati di palma, un de' quali colmo di datteri della Siria, e
l'altro di datteri della Tebaide. All'intorno v'avea porcellini fatti
di torta, come se fossero lattonzi, per significare che il cignale
era femmina; essi pure inghirlandati. A tagliare il cignale non venne
quello scalco che aveva appezzate le altre vivande, ma un gran barbone,
colle gambe ne' borzacchini, e con un abitino a più colori, il quale
impugnato il coltello da caccia, gli percosse gagliardamente un fianco,
e dalla piaga volaron fuori dei tordi. Pronti furono colle canne gli
uccellatori, che li presero mentre svolazzavano per la sala. Dipoi,
avendo Trimalcione fattone dar uno a ciascuno, soggiunse: — Vedete come
questo porco selvatico abbiasi mangiate tutte le ghiande?» E tosto
i donzelli corsero ai cestini che pendevano dai denti, e i datteri
divisero tra i commensali.

«Io, che stavami quasi solo in un canto, ruminavo per qual ragione il
cignale portasse berretto; e non trovandola, me ne apersi a quel mio
interprete. Ed egli: — Te lo spiegherebbe fino il tuo servo; non c'è
enigma; la è cosa lampante. Questo cignale essendo rimasto intatto alla
cena di jeri, e dai convitati rimandato, oggi torna al convito in guisa
di liberto»[165]. Condannai il mio stupore, e null'altro richiesi, per
non parere non avessi mai cenato con galantuomini.

«Tra questi discorsi, un bel ragazzo, cinto di viti e d'edera, che
or Bromio dicevasi, or Lieo, ora Evio, portò intorno un panierino
d'uve, cantando con voce acutissima poesie del suo signore; al cui
suono voltosi, Trimalcione gli disse, — Dionisio, tu sei liberto».
Allora il ragazzo tolse al cignale il berretto, e sel pose sul capo;
e Trimalcione di nuovo, — Ora non negherete ch'io possieda il padre
Bacco». Applaudimmo all'arguzia di Trimalcione, e diemmo assai baci al
ragazzo, che venne intorno...

«Chi poteva indovinare che, dopo tante lautezze, non fossimo che a
mezza strada? Di fatto, levate a suon di musica le mense, si condussero
nel triclinio tre majali bianchi, a nastri e campanelli, dei quali il
cerimoniere diceva uno avere due anni, l'altro tre, il terzo esser
già vecchio. Io pensai che coi porci venissero i giocolieri, onde,
com'è costume ne' circoli, far qualche maraviglia; ma Trimalcione
troncando ogni dubbio, — Qual di cotesti (disse), amereste voi che in
un istante si mettesse in tavola? Così i fittajuoli fanno dei polli,
d'un fagiano o di simili bagattelle: ma i miei cuochi usano cuocere un
vitello tutto intero». E chiamato il cuoco, senz'aspettare la nostra
scelta, comandò ammazzasse il più vecchio; poi ad alta voce, — Di qual
decuria se' tu?» ed essendogli risposto, della quarantesima, soggiunse:
— Comperato o nato in casa? — Nè l'un nè l'altro (rispose il cuoco),
ma vi fui lasciato per testamento da Pansa. — Bada bene (gli replicò)
d'affrettarti, altrimenti io ti caccerò nella decuria dei valletti». Il
cuoco, stimolato da questa minaccia, andossene col majale in cucina;
e Trimalcione rivoltosi a noi piacevolmente, — Se il vino non vi
aggrada, lo cambierò; ma sta a voi il mostrare che vi piaccia. Grazie
al cielo, io non lo compro, ma ogni cosa che spetta al gusto nasce in
un mio poderetto, ch'io per altro non conosco. Mi si dice che arrivi
da Terracina fin a Taranto. Ora io penso di unir la Sicilia a quelle
mie glebe, perchè, se voglio andare in Africa, non abbia a scorrere per
altri terreni che per i miei»...

«Ancor non avea svaporate queste fandonie, quando un altro tagliere,
carico di quel gran majale, coprì la tavola. Noi ci diemmo ad ammirare
tanta prestezza, ed a giurare che neanco un pollo potevasi cuocere
così detto fatto, e tanto più quanto maggiore ci parea quel porco di
quel che ci fosse prima sembrato il cignale. Trimalcione guardandolo
attento, — E che? (disse), questo porco non è stato sventrato. No,
perdio, qua, qua subito il cuoco». Questo comparve malinconioso,
e avendo detto che se n'era dimentico, — Che dimentico? (gridò
Trimalcione), pensi tu che trattisi di non avervi messo il pepe o il
cimino? Fuor camiciuola». Senz'altro indugio il cuoco viene spogliato,
e tutto mesto si stava in mezzo a due aguzzini; ma tutti ci ponemmo a
pregare e dire: — Gli è un accidente; lascialo, di grazia; e se altra
volta mancasse, niun di noi s'interporrà più per esso».

«Io non mi potei trattenere dal piegarmi all'orecchio d'Agamennone
e dirgli: — Questo servo deve per certo essere un gran birbo. Chi
mai si scorda di sventrare un majale? non gli perdonerei, perdio, se
si trattasse d'un pesce». Non fece però così Trimalcione, il quale,
serenata la fronte, disse: — Or bene, poichè tu sei di sì manchevole
memoria, sventracelo qui pubblicamente». Il cuoco, ripreso il
grembiule, impugnò il coltello, e con man timorosa tagliò qua e là il
ventre del porco; ed ecco dalle ferite, allargantisi per l'urto del
peso, scappar fuora salsiccie e sanguinacci. A questo spettacolo tutta
la macchinale famiglia de' servi fe plauso, e con istrepito felicitò
Gajo; e il cuoco non solo fu ammesso a bere tra noi, ma ricevette una
corona d'argento ed un bicchiere sopra un bacile di Corinto; e perchè
da vicino l'osservava Agamennone, Trimalcione disse: — Io sono il solo
che abbia del vero metallo di Corinto»...

«Entrò poi il suo agente, il quale, come venisse a recitare i fasti di
Roma, lesse quanto segue: — Ai 25 luglio, nati nel territorio di Cuma,
di ragione di Trimalcione, trenta fanciulli maschi e quaranta femmine;
portate dall'aja nel granajo millecinquecento moggia di frumento; buoi
domati cinquecento. Nello stesso giorno, Mitradate schiavo affisso
alla croce per aver bestemmiato il genio tutelare di Gajo nostro.
Nello stesso giorno, riposte in cassa centomila lire, che non si
poterono impiegare. Nello stesso giorno, accesosi il fuoco negli orti
Pompejani, cominciato la notte in una casa da villano. — Aspetta (disse
Trimalcione); da quando in qua ho io comperato gli orti Pompejani?
— L'anno scorso (rispose l'agente); perciò non erano ancor messi a
libro». Trimalcione fece l'adirato, e soggiunse: — Qualunque fondo mi
si compri, se dentro sei mesi io non ne sarò avvertito, proibisco che
mi si porti in conto».

«Entrarono finalmente i saltatori, ed un certo Barone, sciocchissima
figura, si presentò con una scala, sulla quale fece salire un ragazzo,
e comandogli saltasse e cantasse, tanto salendo, quanto standovi in
cima. Il fece in appresso attraversare de' cerchi di fuoco, e tener
co' denti una bottiglia. Il solo Trimalcione maravigliavasi, e diceva
che quello era un ingrato mestiere; nelle umane cose però due sole
esser quelle ch'egli con molto piacere osservava, i saltatori e le
beccacce...»

Qui vengono grossolane baje di Trimalcione, indi il romanziere
prosiegue: — Continuava egli così a tor la mano ai filosofi, quando
portaronsi in un vaso alcuni viglietti, ed il paggio gli estraeva, e ne
leggeva le sorti. Uno diceva, _Denaro buttato iniquamente_; e si portò
un prosciutto con branche di gamberi sopra, un orecchio, un marzapane
ed una focaccia bucata. Recossi di poi una scatoletta di cotognate, un
boccone di pane azimo, uccelli grifagni, insieme con un pomo, e porri,
e pesche, e uno staffile, ed un coltello. Uno ebbe passeri, uno un
ventaglio, uva passa, miele attico, una vesta da tavola ed una toga,
e tele dipinte: un altro ebbe un tubo ed un socco. Portossi pure una
lepre, un pesce sogliola, un pesce morena, un sorcio acquatico legato
con una rana, ed un mazzo di biete. Erano seicento i viglietti, de'
quali altri non mi ricordo; e ridemmo lungamente di questa lotteria...

«Dopo altre parole di Trimalcione, gli Omeristi alzarono un gran
gridore perchè, in mezzo ai famigli, fu portato sopra un amplissimo
vassojo un vitello intero cotto a lesso, e con un caschetto sul
capo. Ajace gli veniva dietro, il quale, come furibondo, imbrandito
un trinciante, il tagliò rivoltandone i pezzi colla punta, a guisa
di ciarlatano, or di sotto or di sopra, e distribuendolo a noi
che facevamo tanto d'occhi. Ma non potemmo quelle eleganze a lungo
osservare, perchè ad un tratto sentimmo scricchiolar la soffitta,
e tutto il triclinio tremare. Io saltai su spaventato, temendo che
qualche saltatore non scendesse dalla parte del tetto; e gli altri
convitati non meno attoniti alzarono i volti, curiosi qual novità
venir potesse dal cielo. Ed ecco che apertasi la soffitta, si vide
un gran cerchio che, quasi da larga cupola distaccandosi, venne
giù, e gli pendeano d'intorno corone d'oro, e alberelli d'alabastro
pieni d'unguenti odorosi. Mentre ci era ordinato prenderci di questi
presenti, io volsi l'occhio alla mensa, sulla quale vidi già riposto un
servizio di focacce, e in mezzo un Priapo fatto di pasta, che nel largo
suo grembo tenea, secondo il solito, uva e poma d'ogni qualità.

«Noi accostammo le avide mani a que' frutti, ed improvvisamente un
nuovo ordine di giuochi accrebbe la nostra allegria, perchè le focacce
ed i pomi, appena colla minima pressione toccati, diffusero intorno
tal odore di zafferano, da riuscirci sin molesto. Persuasi dunque
che una vivanda sì religiosamente profumata fosse cosa sacra, noi
ci rizzammo in piedi, e augurammo felicità ad Augusto padre della
patria. Alcuni però avendo dopo questa venerazione rapiti quei frutti,
noi pure ce n'empimmo i tovagliuoli. Tra questi fatti entrarono tre
donzelli, involti in candide tunicelle, due dei quali misero in tavola
gli Dei lari inghirlandati, ed uno recando attorno una tazza di vino,
gridava, — Ti sieno propizj gli Dei»; dicea parimenti, che l'un d'essi
chiamavasi Cerdone, Felicione l'altro, il terzo Lucrone[166]. E come
fu portato in giro il ritratto di Trimalcione, che tutti baciarono, noi
non potemmo, sebben con rossore, scansarcene...

«All'istante venne condotto un cane grassissimo, legato alla catena,
cui il portiere ordinò con un calcio di sdrajarsi, ed esso si distese
avanti la mensa. Allora Trimalcione gittandovi un pan bianco, —
Non avvi (disse) nessuno in casa mia, che m'ami più di costui». Il
ragazzo, sdegnato ch'ei lodasse Silace così sbracatamente, mise in
terra la cagnuccia, e l'aizzò contro di lui. Silace, secondo il costume
cagnesco, empì la sala d'orrendi latrati, e stracciò quasi la Margarita
del Creso. Nè a questa baruffa fermossi il rumore, perchè venne altresì
rovesciata una lampada, di cui si ruppero i cristalli, e si sparse
l'olio bollente addosso ad alcuno de' commensali. Trimalcione, per
non parere incollerito di questo accidente, baciò il ragazzo, e gli
comandò di salirgli sulla schiena. Egli vi andò subito, e messoglisi
a cavalluccio, gli batteva col palmo delle mani le spalle, e ridendo
chiedevagli, — Conta, conta, quanti fanno?...»

«Trimalcione, rimessosi un poco, ordinò si empiesse un gran fiasco,
e si distribuisse da bere a tutti gli schiavi che sedevano a' nostri
piedi, soggiungendo: — Se alcuno non vuol bere, versagli il vino
sul capo». E così or faceva il severo, ed ora il pazzo. A queste
famigliartà venner dietro intingoli, la cui memoria vi giuro che mi fa
stomaco. Poichè tutte quelle grasse galline erano contornate di tordi,
con ova d'anitra ripiene, le quali Trimalcione ci pregò con orgoglio di
mangiare, dicendo che erano galline disossate...

«Capitò intanto un nuovo ospite che avea mangiato altrove, al quale
Trimalcione chiese: — Che cosa aveste di squisito? — Lo dirò, se
il potrò (rispose colui); perchè io sono di sì labile memoria, che
talvolta dimentico lo stesso mio nome. Avemmo dunque per prima pietanza
un porco, coronato con salsiccie intorno, e colle interiora benissimo
condite: eranvi biete e pan bigio, che io preferisco al bianco, perchè
fortifica. La seconda pietanza fu una torta fredda, sparsa d'un
eccellente miele caldo di Spagna; ma io non assaggiai della torta,
e molto meno del miele. Quanto ai ceci ed ai lupini, ed agli altri
legumi, nulla più ne mangiai di quel che Calva mi suggerisse: due pomi
però mi riposi, che tengo chiusi in questo tovagliolino, perchè se io
non porto qualche regaluccio al mio servitore, e' mi sgriderebbe; del
che madonna saviamente suole ammonirmi. Oltre a ciò, avevamo dinanzi
un pezzo di orsa giovane, di cui Scintilla avendo imprudentemente
gustato, fu per vomitar le budella; io, al contrario, ne mangiai
quasi una libbra, perchè sapeva di cinghiale. Se l'orso, diceva io,
mangia l'omiciattolo, quanto più l'omiciattolo mangiar deve dell'orso?
Finalmente avemmo del cacio molle, del cotognato, delle chiocciole
sgusciate, della trippa di capretto, del fegato ne' bacini, delle ova
accomodate, e rape, e senape, e tazze che parean piante: benedetto
Palamede che le inventò! Furono portate intorno in una marmitta le
ostriche, che noi non troppo civilmente ci prendemmo a piene mani,
perchè avevamo rimandato il prosciutto».

«Non sarebbe mai giunto il termine di questi tedj, se non fosse
comparsa l'ultima portata, composta d'un pasticcio di tordi, di
zibibbo e di noci confette. Tenner dietro i pomi cotogni, contornati
di chiodetti di garofano che pareano tanti porcini: e tutto ciò era
pur passabile, se non si fosse data un'altra vivanda sì pessima, che
saremmo voluti morir di farne anzichè mangiarne. Quando fu in tavola,
noi pensammo fosse un'oca ripiena, contornata di pesci e d'ogni sorta
uccelli; di che Trimalcione avvedutosi, disse: — Tutto questo piatto
esce da un corpo solo». Io m'avvidi tosto di quel che era, e volgendomi
ad Agamennone, — Resto maravigliato come tutti cotesti ingredienti
sieno accomodati in guisa che pajon fatti di creta. E so d'aver veduto
a Roma, nel tempo dei Saturnali, di simili cene finte». Ancor non
finivano queste mie parole, che Trimalcione soggiunse: — Così possa io
crescer di ricchezza se non di corpo, come tutti questi intingoli il
mio cuoco ha fatti col majale. Non può darsi più prezioso uomo di lui.
Se volete, egli d'un coniglio vi farà un pesce, col lardo un piccione,
col prosciutto una tortora, delle budella di porco una gallina; perciò
il genio mio gli ha posto un bellissimo nome, e chiamasi Dedalo;
e siccome ha egli gran fama, uno gli portò a Roma de' coltelli di
Baviera». E comandò che gli si recassero, gli osservò con ammirazione,
e ci permise di provarne la punta sulle nostre labbra.

«Al tempo stesso entrarono due schiavi, in aria di bisticciarsi per
un di que' cingoli, a cui si attaccano i vasi che costoro si teneano
sulle spalle. Trimalcione avendo pronunziata la sua sentenza, nè
l'un nè l'altro volle chetarvisi, ma ciascheduno ruppe con bastoni
il fiasco dell'altro. Sopraffatti della insolenza di quegli ubriachi,
noi li tenevamo d'occhio, e vedemmo che da quei rotti vasi eran cadute
ostriche e pettini, le quali un donzello raccolse, e in una marmitta
recò intorno. Il cuciniere ingegnoso secondò queste splendidezze,
portando lumache sopra una graticola d'argento, cantando con voce
tremula e straziante. Io ho rossore a narrare ciò che seguì: imperocchè
i chiomati donzelli (cosa non più udita), portando unguenti in un
catino d'argento, unsero i piedi agli sdrajati commensali, dopo aver
loro allacciate e gambe e piedi e calcagni con varie ghirlande; poi
l'unguento medesimo fecer colare nei vasi di vino e nelle lucerne...

«Finalmente intirizziti pregammo il custode di metterci fuor della
porta, ma egli rispose: — T'inganni se pensi uscire per donde sei
entrato; nessun convitato giammai esce dalla porta medesima». In questa
si udì un gallo cantare; per la cui voce Trimalcione confuso, ordinò
si spandesse vino sotto la tavola, e se ne mettesse nelle lucerne; di
più trasportò l'anello nella man destra, e disse: — Non senza perchè
codesto trombetta ha dato un tal segno: bisogna o vi sia incendio in
alcun luogo, o taluno nel vicinato trovisi agonizzante. Lungi da noi sì
tristi augurj; epperò chi mi porterà questo mal nunzio, avrà una corona
in regalo...»

E sia fine a tante miserabili vanità.

V'avea dunque ricchezze, v'avea comodi, eleganze, lusso, fior d'arti
belle e d'industria, coltura, sterminato dominio, commercio dilatato
agli ultimi confini della terra, tutti gli elementi, di cui alcuni
compongono la prosperità sociale. Al secolo dei lumi, al secolo del
progresso applaudivasi anche allora, non meno iperbolicamente di quel
che facciano i giornalisti d'oggidì. — Il mondo si schiude, si fa
conoscere, si lascia coltivare ogni giorno meglio; le fiere scompajono,
il deserto si frequenta, si aprono le roccie, la barbarie cede più
sempre all'incivilimento, che popola ogni luogo, e sviluppa la vita,
e raffina i governi; la stirpe umana minaccia divenir soverchia pel
mondo. Roma che non ha fatto? insegnò all'uomo l'umanità, incivilì
le tribù più remote e selvagge, addolcì i costumi, riunì gl'imperj
dispersi, fece comune l'industria di tutti i popoli, l'ubertà di tutti
i climi, la varietà delle favelle: ciò che non è a Roma, non è in
verun luogo. Essa raccolse il mondo sotto l'equo suo impero, senza
accettazion di persone o divario di grande e piccolo, di nobile e
plebeo, di ricco e povero. La guerra oggimai non è che un nome, e pare
un sogno quando s'ode che qualche lontanissima tribù mora o getulica
osò provocare le armi romane; la spada ormai è incatenata dalle rose;
le città non gareggiano che di magnificenza, la terra medesima pare
s'infiori come un giardino, e che Roma abbia dato al mondo una vita
nuova»[167].

Eppure la pubblica prosperità deperiva. Il popolo re ci si presenta
come uno stormo di schiavi, che inorgoglia delle follie e della
bassezza di sua schiavitù; il governo, carpito da felici cospiratori,
non curasi d'illuminare e dirigere la pubblica opinione, bastando
adularla, vilipenderla o spegnerla; nè il nuovo sovrano ha mestieri
di conquistar le anime e le intelligenze, purchè trovi modo di
corromperle.

Con Tacito fremiamo vedendo allo scaltro Augusto seguire Tiberio, fango
impastato col sangue[168]; poi un garzone frenetico; poi un sanguinario
imbecille; poi il giovane allievo del filosofo più vantato, che raduna
in sè e peggiora le dissolutezze e le atrocità de' precedenti, fa pompa
delle infamie che Tiberio nascondeva, incendia, uccide maestro, moglie,
amante, madre; e ad ogni nuova barbarie, popolo, cavalieri, senatori
gli decretano nuovi ringraziamenti, ad ogni sua viltà s'affrettano di
scender più basso colle loro umiliazioni. Ma invano domandiamo a Tacito
la finissima industria onde Augusto inforcò gli arcioni di questa
fiera indomita; e come mai gli antichi repubblicani si rassegnassero
a un tiranno, a un pazzo, a un imbecille, a un mostro, e dopo loro
lasciassero disputare il comando da un infingardo, un dissoluto, un
ghiottone, un avaro. Tacito respirava l'atmosfera che pur sentiva
corrotta, e non poteva accorgersi come il miasma ne fosse l'egoismo.

L'unità della forza stringeva in un circolo di ferro le provincie
dell'Impero, ma internamente era lentato ogni nodo; ciascuno
rinserravasi in se stesso, diffidando del vicino che non sapeva come
opererebbe o penserebbe, atteso che gli uomini non si trovavano
d'accordo in nessun punto di politica, di morale o di religione;
estinto ogni sentimento elevato, rimaneano solo spossatezza, sfarzo,
cura di sè, negligenza d'altrui. Quel che oggi s'interpone fra
l'obbedienza e la schiavitù, cioè il punto d'onore, la devozione
leale a un principe, la franchezza militare, la libertà cittadina,
l'alterezza nobiliare, non esisteva fra gli antichi. Eran solo
cittadini, e l'impero tolse pregio a tal qualità; valor personale
non resta più; ingegno, coscienza, fede, gloria, nobiltà, ambizione
scompajono davanti all'unico scopo, la grazia del regnante. Il senato
non rappresentava più nulla, ma l'orgoglio antico faceagli ritirare
dispettosamente la mano dal popolo. I pretoriani, sentendosi la forza,
voleano usarne; e ajutavano a tiranneggiare, purchè ne traessero
aumento di soldo ed alleggiamento di servizj.

Il vulgo tremava, come tremavano i grandi, come tremavano i soldati,
come tremava l'imperatore, tutti di tutti; conseguenza dell'uni versale
egoismo. Alcuni si levavano dall'originaria bassezza accostandosi ai
grandi, a forza di adulazioni e di spionaggio; altri amavano adimarsi
fra i poveri per toccare la lor porzione di donativi, e per evitare
i pericoli cui si esponeva ogni testa che sporgesse. Alla ciurma
sempre più svigorita nel lusso e ne' vizj, delirante dietro a' giuochi
dell'anfiteatro, e che non palesava una volontà se non col parteggiare
per questo o per quel ballerino, per questa o quella fazione del circo,
ogni nuovo imperatore prodigava doni e giuochi, e la corrompeva non
solo coi fieri e sozzi divertimenti dell'arena e del teatro, ma colle
arti dei retori e dei poeti.

Fuori poi, i Greci e i Galli non provavano affetto pei Romani; i
Romani non compassione delle concussioni e de' micidj ond'era oppressa
la Germania; sicchè mancava quell'accordo di lamenti e di speranze,
che produce rivoluzioni efficaci. L'antica repubblica era perpetua
e impossente ribrama di quelli che ancora ambivano di governare: il
vulgo, più contento di trovarsi governato, non se la ricordava che
per detestarla, e godeva qualvolta, insieme coi gladiatori, gli si
offrisse lo spettacolo di nobili teste recise. Anche i soldati sotto
i Giulj conservarono l'antica disciplina, confondendo la fedeltà alla
bandiera con quella all'imperatore: solo dopo caduta quella famiglia,
si credettero arbitri di offrir l'impero a chi fossero disposti a
sostenere colle spade.

Del resto, a che moversi quando non sai se il tuo vicino ti sosterrà?
Empisca dunque Caligola le due liste _del pugnale e della spada_;
dal seno delle fecciose voluttà invii Tiberio la morte; inferocisca
a baldanza l'oppressore, poichè gli oppressi non sanno amarsi ed
intendersi, nè miglior gloria conoscono che quella di fare omaggio ai
padroni[169].

Questo male era tardo frutto della politica immoralità della
repubblica. La società romana, per quanto la politica ne avesse
ampliato l'estensione, era, siccome le altre pagane, dominata da
spirito di razza, geloso, esclusivo, fuor della famiglia e dell'altare
suo vedendo in ogni uomo uno straniero, in ogni straniero un nemico,
nel nemico una preda. Il giureconsulto Pomponio definiva: — I popoli,
con cui non abbiamo amicizia, ospitalità od alleanza, non sono nemici
nostri: pure, se cosa nostra casca in man loro, ne sono padroni;
i liberi divengono schiavi; e così è di essi riguardo a noi»[170].
In conseguenza la schiavitù era un fatto naturale e civile, equo,
indeclinabile; e la giurisprudenza definisce che il padrone «ha diritto
d'usare e d'abusare dello schiavo».

Fondata su tali canoni, la società non poteva riuscire che spietata; e
gli schiavi pur troppo dall'acerba condizione loro traevano sentimenti
fieri e dispettosi, che soltanto feroci pene potevano reprimere. Croci
e supplizj riempiono le commedie ed i racconti; permanente atrocità
privata, cui accordavasi poi la pubblica col suo sfarzo di pene legali.
Il mantenere e crescere quelle macchine umane era scopo importantissimo
della società, e mezzo a ciò la guerra. A questa pertanto doveano
intendere principalmente gli Stati, come a fonte di potenza, di gloria,
di ricchezza; l'economia politica consisteva nel distruggere o render
servi gli stranieri. Dall'amore di patria (nome pomposo ed abusato)
cercavasi la rigenerazione e la forza del cittadino e degli Stati;
ma questa legge isolata insegnava ad immolare alla grandezza d'un
popolo la felicità di tutti gli altri. Il fanciullo educato in quei
sentimenti sprezza e odia ciò che è fuori del suo paese; e qualsivoglia
iniquità resta giustificata dal venirne vantaggio alla repubblica.
La imperturbata assolutezza di logiche conseguenze dispensava Catone
dall'addurre altri motivi del suo perpetuo _Carthago delenda_; Paolo
Emilio, in Epiro, sulle rovine di settanta città vende all'asta
cencinquantamila vinti per distribuirne il prezzo ai soldati: Orazio
fa che Attilio Regolo, per ridestare il patriotismo romano, narri
d'aver veduto ricoltivarsi i campi attorno a Cartagine, devastati dalle
legioni: agitandosi in senato le querele di popoli alleati, Curione
le confessava giuste, ma soggiungeva, — Prevalga però l'utilità»[171]:
Mario diceva a Mitradate, — O renditi più forte, o piega ad ogni nostro
volere»: Antipatro terminava tutte le sue arringhe agli Ebrei col
dire, — I Romani voglion essere obbediti»: Fabrizio, udendo le dottrine
epicuree alla tavola di Pirro, supplica gli Dei che quelle piacciano
sempre ai nemici di Roma: Tacito racconta che alcuni Germani rifuggiti
in cima ad alberi, dai Romani erano feriti colle freccie per trastullo.
Di buja notte i Romani precipitano sui Germani, divise le legioni avide
di sangue in quattro corpi, acciocchè più estesa fosse la devastazione:
cinquanta miglia andarono a ferro e fuoco, senza compassione per età
o sesso. Da parte de' Romani non fu sparsa goccia di sangue, perchè il
soldato uccideva i nemici tra la veglia e il sonno disarmati ed erranti
a caso. Il buon Germanico esortava i soldati a seguitar la strage,
perocchè non abbisognavasi di prigionieri; soltanto collo sterminio di
tutto il popolo potersi metter fine alla guerra. Tacito stesso non sa
all'impero augurare maggior fortuna, che il perpetuarsi delle nimicizie
fra le nazioni avverse[172].

Così i Gentili stabilirono per fondamento della morale la società e
il patriotismo, le cui virtù che sono altro se non un egoismo alquanto
più dilatato? Come oggi alcuni nel nome d'umanità dimenticano l'uomo,
così allora non si parlava dell'uomo, ma della patria. La patria
è una divinità[173]; Dio non deve nulla all'uomo, e l'uomo deve ad
esso se medesimo e gli altri: dunque l'individuo si immoli a questa
deificazione, non solo nelle terribili emozioni della guerra scannando
le migliaja per una causa che non conosce, ma anche per superstizione
svenando senza entusiasmo un uomo che non ci offese, a divinità in
cui più non si crede. Le miserie dei popoli soggiogati, l'insulto
del trionfo, lo spettacolo solenne dei gladiatori, il continuo degli
schiavi, rendevano la gente men compassionevole che non fra noi
moderni, avvezzati dalla civiltà e dalla religione a gridar tiranno non
solo chi uccide, ma chi un sol giorno aggiunge d'inutili patimenti ad
un accusato.

Come delle altre virtù il patriotismo, così della giustizia teneva
luogo la legalità; ed il rispetto religioso, anzi superstizioso verso
le leggi, _cosa sorda ed inesorabile_[174], fu carattere de' Romani,
pel quale dalla protezione ottenuta sul monte Sacro giunsero a imporre
al mondo un Caligola e un Tiberio, che si circondavano de' migliori
giureconsulti, e dopo calpestata nel peggior modo la giustizia verso
gli stranieri, poterono creare una stupenda legislazione per se stessi.

Avvezzata Roma agli abusi della forza e della legalità, il vincitore
interno faceva di lei quel governo che essa di Cartagine e Corinto.
Ma i veri vinti erano patrizj e senatori; laonde, mentre questi
soffrivano, la plebe, garantita dalla propria oscurità, accarezzata più
dai principi più ribaldi, poteva persino amar que' tiranni; allorchè
Caligola fu ucciso, il vulgo a furia chiese a morte i micidiali; favorì
alcuni che si fingevano Nerone.

Nè affatto a torto, giacchè il governo imperiale era il più popolare
che mai Roma avesse provato. Le tirannidi dei ventimila patrizj
erano state ristrette in uno solo, che più distando dai privati,
riusciva men oppressivo. L'imperatore insulta ed uccide cavalieri e
senatori, ma condiscende a quella plebe cui insultavano gli Emilj e
gli Scipioni, la contenta di giuochi e di donativi, la tratta da pari
nella piazza ed al bagno; se più non le chiede il voto ne' comizj,
ne ascolta le grida nel circo ed al teatro, non ardisce metterne a
prova l'impazienza col farvisi troppo aspettare. Nerone, mentre gode
a tavola fra Paride e Poppea, udendone il fremito tumultuoso a piè
del palazzo, getta il tovagliuolo dalla finestra per indicare che si
move a soddisfarla. Tiberio pose sul banco pubblico una grossissima
somma onde prestare a chiunque bisognasse, senza interesse per tre
anni; e largheggiò smisuratamente nell'inondazione del Tevere e
nell'incendio sull'Aventino; e quando un tremuoto diroccò dodici
città fiorentissime dell'Asia, la Sicilia, la Calabria, sepellendo
abitanti, sobbissando montagne, altre sollevandone, per cinque anni
assolse dalle taglie le provincia danneggiate, e mandò grosse somme
per rifabbricar le case. Claudio provvide acque e porti. Quasi tutti
poi gl'imperatori si occuparono di rendere giustizia in persona, come
usano tuttora i Turchi; modo indegno d'ogni ben costituito ordinamento,
ma che eliminava l'inestricabile corruzione della Roma repubblicana,
ogniqualvolta non vi fossero interessati il principe o i suoi favoriti.
Ora, nell'attuamento di buone leggi giudiziali consiste una gran parte
e la più sentita della libertà cittadina.

E poi l'imperatore non è il tribuno della plebe? Da qualunque parte
le venga il suo protettore, poco ad essa ne cale; i ricchi pagheranno
le spese, ella avrà giuochi e distribuzioni; quanto alla politica
libertà, l'ha per un balocco, esibitole da quelli che non hanno oro
nè potenza, e desiderano acquistarle. Senz'arti, senza lavoro, vivendo
di ciarla, di largizioni, di spettacoli, il vulgo romano amava chi ne
lo provvedesse: invidioso dei ricchi com'è sempre il povero, godeva in
vedere conculcati dal suo tribuno i figli di coloro che l'aveano tenuto
schiavo, spogli delle dovizie succhiate ai clienti o alle provincie,
e tremava che, distrutto l'impero, non si rinnovassero le superbe
crudeltà dei patrizj.

Chi dunque, sano dell'intelletto, poteva più pensare a ricostituir la
repubblica? Restava di temperare l'autorità degl'imperatori: ma come
farlo dove nè i nobili nè i Comuni nè il clero erano costituiti in un
corpo che potesse contrappesarla? La legge Regia poneva l'imperatore al
di sopra di tutte le leggi; gli impieghi erano da lui conferiti; da'
suoi cenni pendeva l'esercito; l'autorità tribunizia gli dava il veto
contro qualsivoglia determinazione del popolo o del senato, e rendea
sacrosanta la persona di lui, e sacrilegio perfino la resistenza.

Le cospirazioni non si volgeano contro la tirannia, ma contro il
tiranno; e vendette personali, generose aspirazioni, ambiziose
ipocrisie, rapaci avidità si accordavano un tratto per appoggiarsi
sull'indignazione popolare; sfogata questa, si scomponevano, e
lasciavano il campo alle punizioni imperiali o alla onnipotenza
soldatesca. Il senato, se non fosse comparso un corpo corrottissimo e
modello di tutte le abjezioni, qualche freno avrebbe potuto mettere
allorchè veniva trucidato un tiranno; e lo tentò dopo Caligola:
ma se anche il popolo lo avesse sofferto, il potere che di fatto
preponderava, l'esercito, voleva il donativo; se punto si tardasse
a scegliere il successore, lo acclamava egli stesso; e guaj a chi
tentasse restringere all'imperatore l'arbitrio, pel quale egli
poteva largheggiare quant'essi pretendevano. Ma l'imperatore stesso,
disimpedito da freni legali, è esposto all'arbitrio de' soldati, che
o lo costringono a fare la loro volontà, o lo uccidono; sicchè sospeso
fra le gemonie e l'apoteosi, s'affretta a saziar le voglie spietate o
voluttuose.

Nulla essendovi dunque che frenasse o il re sul trono o la donna nel
gabinetto, entrò una depravazione, gigantesca quanto quel popolo; dove
il vizio e l'empietà eretti in sistema; ferocia ne' dominanti, ferocia
ne' servi; corruttela tranquilla, corruttela impetuosa; istinto feroce
nel soldato, istinto fiacco e tumultuoso nel vulgo, istinto servile ne'
dotti; stupidità in una plebe immensa, indifferente tra il vincitore e
il vinto. La generosità? la virtù? la bestemmia di Bruto era divenuta
comune da che si vedeva sovvertito il prisco ordine. La patria? come
affezionarsi a quella che s'estendeva dall'Elba al Niger? La filosofia?
ma questa non aveva accordo, non efficacia; esercitazione di scuola,
riponeva il punto più sublime nel sapersi dar la morte, nel disertare
cioè da fratelli, alle cui miserie non si era partecipato; così
s'introdusse il suicidio, come un mezzo di sottrarsi al suo dovere;
mezzo che i Gentili diceano onorevole, noi Cristiani empio e codardo.

Pure la filosofia stoica è l'unico lampo di vigore, l'unica nobile
opposizione in quel tempo. Mentre Plauzio Laterano è condotto a morte,
un liberto di Nerone gli dirige alcune suggestioni, cui egli risponde:
— S'io avessi l'anima tanto abjetta da fare delle rivelazioni, al
tuo padrone le farei, non a te». Fu ucciso dal tribuno Domizio Stazio
che era suo complice, nè per questo gli volse alcun rimprovero; e al
primo colpo essendone ferito soltanto, scosse la testa, poi la ripose
all'attitudine opportuna per essere decollato[175]. Epittèto, schiavo
frigio, che scrisse un _Manuale_ di questa filosofia, percosso dal
padrone Epafrodito, gli dice: — Badate che mi romperete le ossa»;
Epafrodito continua, gli fiacca una gamba, e lo schiavo ripiglia: — Non
ve l'avevo detto?»

Piace questo aspetto di forza e severità: e per vero, mentre la morale
di Epicuro produceva mollezza e snervamento, quella di Zenone è la
forza stessa, concentrata in se medesima, per respingere tutto ciò che
vorrebbe signoreggiarla. Se non v'ha bene fuorchè la virtù, non male
fuorchè il vizio, e tutto il resto è indifferente, l'uomo si trova
al disopra degli avvenimenti esterni, riponendo il valor proprio e
la propria felicità in se stesso, e nel buono o mal uso che fa della
propria libertà; sicchè scompaiono le differenze di nazionalità,
di posizione sociale, sottentrando un diritto universale, assoluto,
eterno, che abbraccia tutti gli uomini. Ma questa forza facilmente
degenera in un egoismo senza viscere, in un rigore desolante che
non è la virtù; e l'abstine et sustine degli Stoici, separato dalla
benevolenza, svia ogni attività benefica, riduce indifferente alle
miserie d'un vulgo che basisce di fame accanto ai palagi ove rigurgita
l'abbondanza, e si rinserra in un'inoperosa fatalità. Marc'Aurelio,
avvertito delle trame di un ambizioso, risponde: — Lasciamolo fare,
chè, se non è destinato, soccomberà; se è, nessuno uccise il proprio
successore». È clemenza codesta?

— Il savio attende il bene soltanto da sè: unico male è credere al
male: meglio morir d'inedia senza timori, che vivere angustiato
nell'opulenza: meglio che il tuo schiavo sia tristo, anzichè tu
infelice. Quando abbracci la donna, i figliuoli, pensa che sono
mortali; e così non ti dorrai perdendoli. La compassione è il vizio
dei deboli che si piegano all'apparenza degli altrui mali, e perciò
disdice ad uomo. Le sciagure sono destini, non accidenti. A Dio non
obbedisce il savio, ma consente. In alcun modo il sapiente è superiore
a Dio; poichè in questo il non temere è merito di natura, nel savio è
merito proprio»[176]. Sono massime di Seneca. E che cosa significano?
che i mondani eventi sono retti da una necessità fatale, e il volere
umano ha forza di resistere e soffrire, non d'operare; tranquillità
non può sperarsi che in un superbo e desolato isolamento; considerar
viltà qualunque transazione col nemico della libertà, quando anche
non si stipulasse che l'oblio e il poter ritirarsi; punire se stessi
dei tentativi falliti, sprezzare i tiranni, i quali non possono se non
dare una morte che non si teme; disporre della vita come d'un possesso
che vuol tenersi soltanto a certe condizioni; e fin all'ultimo respiro
meditare sopra se stessi. Insomma non è vero bene ciò che non dipende
dalla volontà dell'uomo; non dunque bene la patria, e poco monta in
qual luogo siamo nati, poco che essa goda o soffra; lo stoico non è
nato per la società, non è cittadino, non dee cercar di sminuire i
mali della patria, ma darvi per rimedio il sentimento della libertà
individuale.

Qui consiste la magnanimità mostrata da Cremuzio Cordo e da tant'altri,
pei quali il suicidio era un rifugio o una speranza. Arria, moglie
di Trasea Peto, udendo che questi è condannato, s'immerge un pugnale
nel seno, indi porgendolo al marito, gli dice: — Non fa male». Genero
ed erede della costei fermezza, Elvidio Prisco da Terracina studiò
filosofia non per ammantare col nome di questa l'inazione, ma per
invigorirsi. Il suo sogno era sempre l'antichità, quella repubblica
aristocratica di cui erano stati ultimi lumi Marco Bruto e Porcio
Catone; quel senato, ch'era parso a Cinea un'assemblea di re, e a
Caligola un branco di buffoni. Sbandito alla morte del suocero,
richiamato da Galba, non cessa d'opporsi in senato agli arbitrj
imperiali. Parlasi di rifabbricare il Campidoglio? — Quest'impresa
(dic'egli) spetta alla repubblica, non all'imperatore». Vuolsi por modo
alle spese del tesoro? — È cura de' senatori, non dell'imperatore».
E nei discorsi attaccava quei che sotto i regni antecedenti aveano
abusato, e sotto aspetto di virtù ridesta quel fiotto di accuse e
denunzie. Vespasiano gli ordinò non comparisse in senato, ed egli: —
Puoi togliermi il grado, ma finchè io sia senatore vi andrò. — Se vieni
(soggiunge l'imperatore), taci. — Purchè tu non m'interroghi», replica
esso; e Vespasiano: — Ma se tu sei presente, io non posso lasciare di
chiederti il tuo parere. — Nè io di risponderti come mi parrà dovere.
— Se tu me lo dici, ti farò morire. — T'ho forse io detto d'essere
immortale? entrambi faremo quel ch'è da noi; tu mi farai morire,
io morrò senza rincrescimento». Avendo solennizzato il natalizio di
Bruto e Cassio ed esortato ad imitarli, fu arrestato; poi rimesso in
libertà, nè mutando sensi e linguaggio, il senato ne decretò la morte,
e Vespasiano non giunse in tempo a sospenderla. Al veder Tacito, Plinio
Minore, Giovenale alzar a cielo quest'imprudente, vien da riflettere
tristamente ove la virtù è costretta ridursi quando le mancano
legittime vie d'opporsi all'abusato potere.

Scevino Flavio, imputato di congiura contro Nerone, mostrò al tribuno
che la fossa preparatagli non era abbastanza profonda; e come questi
gli disse di tender bene il collo, — Possa tu altrettanto bene
colpire». Caninio Giulio viene ad alterco con Caligola, il quale
licenziandolo gli dice: — Non dubitare, t'ho condannato a morte»; e
Giulio, — Grazie, maestà imperiale». Guardava egli come un favore
la morte in così pessimo imperio, o con ironia da Socrate voleva
contraffare la vigliaccheria dei cortigianeschi ringraziamenti? Passò
dieci giorni equanime, aspettando che Caligola tenesse la parola, e
giocava alle dame quando entrò il centurione ad annunziargli di morire.
— Attendi ch'io noveri le pedine», risponde tranquillo; e perchè gli
amici piangevano, — A che rattristarvi? Voi disputate se l'anima sia
immortale, ed io vado a chiarirmi del vero». E mentre avvicinavasi al
supplizio, chiedendogli un amico a che riflettesse: — Voglio osservare
se in questo breve istante l'anima s'accorge d'uscire».

Caligola, ingelosito dell'eloquenza di Seneca, volea farlo morire;
ma una concubina gli mostrò essere il filosofo di salute così strema,
che poco andrebbe a finire naturalmente. Eppure sopravisse a vederne
più d'un successore. Assunto alla questura, fu da Claudio esiliato
in Corsica, dicono per intrighi con Giulia figlia di Germanico e con
Agrippina. Di là, a Polibio liberto dell'imperatore, cui era morto
un fratello, drizzò una Consolatoria, congerie di luoghi comuni sulla
necessità del morire, su sventure tocche a grandi, a regni, a città;
esauriti i quali argomenti, soggiunge: — Finchè Claudio è signor del
mondo, tu non puoi nè al dolore abbandonarti nè al tripudio, tutto
essendo di lui; vivo lui, non puoi querelarti della fortuna; lui
incolume, nulla hai perduto, tutto hai in lui, di tutto egli tien
luogo; gli occhi tuoi non di lagrime ma di gioja devono empirsi...
ti si gonfiano di lagrime? volgili a Cesare, e la vista del dio te li
asciugherà; il suo splendore arresterà i tuoi sguardi, nè ti lascerà
vedere altro che lui... Dei e Dee concedano lungamente alla terra colui
che le diedero a prestanza;... sempre rifulga quest'astro sul mondo, la
cui tenebria fu dalla luce di esso ricreata».

Così vilmente adulatolo vivo, Seneca vilmente l'oltraggiò morto,
nell'_Apocolocunthosis_ descrivendone la divinizzazione. Con ciò
volea forse ingrazianirsi Nerone, del quale se troppa severità sarebbe
l'imputargli l'orrenda riuscita, e credere l'avviasse a sozze oscenità
e fino al matricidio, non gli perdoneremo di non averlo abbandonato
dopo che di tali delitti si contaminò, e d'aver prostituito l'ingegno
fin a discolparli. Mentre declamava contro le ricchezze, ammassò
sessanta milioni di lire, con usure che valsero ad eccitare una
sommossa nella Bretagna; rimproverava il lusso, ed aveva cinquecento
tripodi di cedro coi piedi d'avorio; vantava il vivere ignorato[177],
e anelava pompe e schiamazzo; scrivea voler piuttosto offendere colla
verità che andare a versi colle piacenterie, poi le trabocca a Nerone,
il quale «poteva vantare un pregio di nessun altro imperatore, cioè
l'innocenza, e facea dimenticar persino i tempi d'Augusto»[178]. Eppure
ogni tratto egli esibisce se stesso per modello, dà intendere che ogni
sera s'esaminasse dei fatti e detti suoi[179], ed esclama: — Turpe
il dire una cosa, un'altra sentirne; quanto più turpe sentirne una,
scriverne un'altra».

Ma egli distingueva due filosofie, una per la vita, una per la scuola:
ed in questa, attivo e pratico sempre, accumula sentenze, per certo
opportunissime a correggere e nobilitare il carattere, assodar l'impero
della ragione sopra le passioni, insegnare temperanza nelle prospere,
costanza nelle avverse vicende. Ottimo uffizio: ma dopochè se ne sono
uditi i precetti, si domanda qual autorità d'imporli, qual ragione
d'obbedirli? Seneca dice alla madre: — La perdita d'un figlio non è
un male; è follia pianger morto un mortale»; all'esule: — I veterani
non si scompongono sotto la mano del chirurgo; così tu, veterano
della sventura, non gridare, non lamentare femminilmente»; a tutti
predica, ciò ch'è male per l'uno esser bene per molti, e che ogni
cosa deve perire; intima ai savj di non cadere nella compassione, non
attristarsi, non impietosire, non perdonare[180]. Ma a che pro questa
più che umana fermezza? donde la forza di praticarla? donde, se non
dall'orgoglio e dall'egoismo?

E orgoglio ed egoismo trapelano da tutti i pori all'adulatore di
Nerone: diresti ch'egli si sente destinato a riformare il genere umano,
con tal tono da maestro sprezza, beffeggia, riprende, comanda, insegna
virtù impossibili, e come scopo della filosofia il separar l'anima da
tutto ciò che non è lei, fare del proprio perfezionamento l'oggetto
unico d'ogni sforzo, isolarla nella sua grandezza e in una virtù che
guarda con indifferenza la morte degli altri e la propria.

Fra gli elogi della povertà, viepiù assurdi in bocca d'un gaudente
cortigiano; fra antitesi in luogo di ragioni; fra quel cumulo di frasi
sonore si arriva a capire che regola della morale e della felicità è
la _legge naturale_; sapienza è il conformarvisi. Ma per conformarvisi
bisogna conoscere, e ciò per mezzo d'una ragione sana, dominatrice
delle passioni: in tale obbedienza ragionata trovasi la soddisfazione
della coscienza, il testimonio intimo, ch'è il fine supremo del saggio.

Ma che cos'è la legge? la natura? come questa può obbligare, staccata
dalla ragion divina, da una volontà superiore e libera, che fissa
il _fine_ obbligatorio? Seneca avea compreso che doveva esservi un
Dio buono; che bisogna amare e servire gli amici, la famiglia, la
patria; aveva, come Aristotele e Platone, conosciuto i rapporti del
bello col buono, della scienza colla virtù; ma di tutto ciò non erano
certi i filosofi; talvolta separavano una cosa dall'altra per poter
dimostrarla; finivano con Dio immobile, una morale senza Dio, una
virtù senza ricompensa, una scienza senza certezza. Il più glorioso
sforzo dell'intelletto umano abbandonato a se stesso fu appunto questo
aggavignarsi ai frantumi della verità, e ingegnarsi a dimostrare la
solidità dei loro fini, del loro probabilismo. In ciò adoprarono tanti
insigni libri, tanto talento, tanta volontà; perchè ignoravano quel
primo vero dell'Ente che crea; e che basta perchè tutte le scienze
s'incatenino; il fine sia preciso, il mezzo è preparato nella volontà
risoluta di eseguire sempre il meglio, e nella forza di giudicarne
rettamente. Volontà costante guidata da scienza certa sarebbero quella
forza e quella prudenza che Seneca predicava, ma dirette non a un bene
chimerico, ma ad un bene che sta in noi l'ottenere, secondato dalla
grazia.

Quando gli fu intimato di morire, chiese di mutare alcune disposizioni
nel testamento; ed essendogli negato, confortò gli amici rammemorando
i consueti loro ragionamenti, e lasciando ad essi, poichè altro non gli
si permetteva, l'esempio di sua vita e l'odio contro Nerone. Avendogli
detto Paolina sua moglie di voler finire con lui, egli non s'oppose, e
— T'avevo indicato i modi di vivere, non t'invidierò l'onor di morire.
La tua coscienza, se è eguale alla mia, sarà sempre più gloriosa».
Fecesi aprir le vene, e seguitò a dettare a' suoi scrivani; tardando
la morte, si fece tuffare in un bagno caldo, e ne asperse i servi che
gli stavano attorno, invocando Giove liberatore, come i Greci libavano
a Giove conservatore nell'uscire d'un banchetto. In un'altra camera
Paolina l'imitava, ma Nerone ordinò di stagnarle il sangue.

Visto qual fosse la sua vita, e che di là da questa non aspettava
premj o castighi[181], e che vantavasi rinvenuto dal _bel sogno_
dell'immortalità, noi chiediamo se la sua fosse virtù o scena.
Certamente in lui il dogma della fraternità degli uomini appare
più evidente; ne riconosce l'eguaglianza, proclama la filantropia
cosmopolitica al modo degli Enciclopedisti, che di fatti se ne fecero
un idolo: eppure celia Claudio per gli atti cosmopolitici; inveisce
contro la guerra, ma per esercizio retorico, e senza conoscerne i
vantaggi.

Il poeta Lucano suo nipote si contaminò d'adulazione a Nerone, finchè,
offeso dal vedersi da lui trascurato, congiurò con Pisone. Scoperto,
cercò salvarsi col denunziare gli amici e la madre; e Nerone ne
profittò per disonorarlo, ma gli permise la gloria di morire declamando
proprj versi. Mela, suo padre, nol lascia tampoco freddare che
s'impossessa de' beni di lui, anche per mostrare di disapprovarlo; ma
Nerone gli manda di svenarsi anch'esso, ed egli si svena senza fiato
di lamento. Tre suicidj in una famiglia sola, sostenuti eroicamente, e
preceduti ciascuno da una viltà.

Nè i suicidj erano soltanto una precauzione contro i tiranni, o
richiedevano grandi emergenti o imperiali nimicizie. Coccejo Nerva,
peritissimo giurista, in buona salute e miglior fortuna, risolve finire
i giorni suoi; e per quanto Tiberio s'industrii stornarlo, lasciasi
perire di fame. Marcellino, giovane, ricco, amato, cade di leggera
malattia, e stabilisce morire; raduna gli amici, e li consulta come
per un contratto o per un viaggio: alcuni il dissuadono; uno stoico
gli mostra esser bastante ragione d'uccidersi il trovarsi sazio del
vivere: onde Marcellino toglie congedo dagli amici, distribuisce
denaro ai servi; e perchè questi ricusano dargli morte, s'astiene
tre giorni dal cibo, dopo di che portato in un bagno, spira parlando
del piacere di sentirsi morire. Senz'altezza di pensamenti, nè certo
aspettando d'essere ammirato da un filosofo, un gladiatore condotto
al circo caccia la testa fra i raggi d'una ruota. Come i forti, così
i vigliacchi erano talvolta presi dalla manìa del suicidio; alcuni
per mera sazietà della vita, per non dovere tutti i giorni levarsi,
mangiare, bere, ricoricarsi, aver freddo, caldo, primavera poi estate,
poi autunno e inverno, nulla mai di nuovo. Laonde i predicatori del
suicidio dovettero dichiarare che non si deve, per questo piacere,
trascurar i proprj doveri[182].

Il fondo della dottrina stoica non trascendeva la materia. Dio, anima
del mondo, è congiunto colla materia, e un giorno l'assorbirà; ogni
parte di essa è dunque parte viva di quest'anima, e può adorarsi;
arbitrario è il culto come il dogma, sicchè la religione non è
potenza distinta, ma si perde nell'ordine politico; le credenze sono
accolte non secondo il loro valor dottrinale, ma secondo la loro
facilità di dileguarsi innanzi al potere; centro e scopo proprio,
l'uomo non ha doveri religiosi in faccia a questo Dio, che è eguale
a lui. Quel panteismo naturalista proclamava l'unità nell'ordine
morale e nel sociale; in conseguenza i diritti dell'individuo erano
posposti, restando l'uomo assorbito nell'umanità, e l'umanità nella
vita universale; sagrificate la libertà e la spontaneità e la vita
attiva alla fatalità, al riposo, ad una speculazione astratta, che
ingagliardiva l'orgoglio dell'intelletto senza scaldare il cuore nè
stimolare la volontà; alla ragione toglieva il soccorso del sentimento,
alla virtù l'appoggio preparatole dalla Provvidenza.

Lo stoicismo era uno sforzo istintivo, una concezione eroica
dell'orgoglio umano, ma sprovvisto di fondamento logico; declamazione
anzichè scienza, connessa alle verità supreme soltanto per
raziocinio, e perciò non giustificabile in faccia agli uomini,
e mancante d'autorità sopra di essi. La ricerca d'una perfezione
ideale, solitaria, indipendente dalla moralità generale, avversa
alle espansioni generose, petrifica l'essere umano divinizzato,
ripone il bene in un giudizio dell'intelletto, comechè repugnante
alla testimonianza dei sensi; e perciò dove lo stoico coll'egoismo
spiritualista, coll'egoismo sensuale giungeva l'epicureo, e l'uno
coll'impossibilità di raggiungere il proposto modello, l'altro
coll'indolenza, entrambi non ravvisando il bene che in relazione col
presente, coll'individuo, elidono l'attività umana, lentano i legami
domestici, annichilano la società[183]. Guarda, o stoico: l'epicureo
colla sua spensieratezza pareggia l'eroismo de' tuoi, e muore sulle
rose meretricie, siccome voi altri coi libri di Platone. Ad Agrippino
annunziano che il senato si raccolse per giudicarlo, ed egli: —
Faccia; noi intanto andiamo al bagno». Va, e nell'uscire, udendo che fu
condannato, chiede: — Alla morte? — All'esiglio. — Confiscati i beni?
— No. — Partiamo dunque senza rincrescimento; ad Aricia desineremo bene
tant'e quanto a Roma».

Più spesso l'epicureo ammaestrava a goder la vita, e gittarsi
alle spalle il timor degli Dei. Come Bentham disse che la morale è
l'interesse, ma l'interesse consiste nell'esser virtuoso, così Epicuro
avea posto la felicità ne' godimenti, ma i godimenti nella virtù:
però in entrambi i casi i seguaci furono più logici, e il nome del
maestro serviva agli epicurei soltanto a scusare l'assecondamento
delle proprie inclinazioni, diffondere l'empietà, agevolare ai
grandi i delitti dell'ateismo, senza togliere al vulgo quei della
superstizione. Perciocchè ad ogni modo queste filosofie erano
scienze aristocratiche, le quali si dirigevano a pochi, al modo dei
franchi pensatori del secolo passato, e come questi non nominavano la
moltitudine (οἱ πολλοὶ) se non per vilipenderla. Intanto nè bastavano
a spiegar la religione, nè a fare senza di essa; onde questa, che è la
filosofia de' più, rimaneva senza dogmi e ingombra di assurde pratiche:
giacchè l'incredulità non salva dalle superstizioni, e solo ne cambia
l'oggetto.

Quella religione, invece di comprendere le verità più generali ed
assolute, ritraeva potenza da ciò che avea di locale e relativo[184]:
però non avea un corpo di tradizioni e dottrine, attuate in cerimonie
rituali, non doveri precisi, insegnamenti morali; la tradizione
non vi faceva forza d'autorità, e ciascuno ne prendeva quel che gli
aggradisse. La Grecia avea velato le incoerenze mitologiche sotto
i recami della poesia: Roma le metteva in evidenza col prendere la
religione sul serio, come stromento di politica. Mediante il quale,
vero Dio era la patria, s'insinuavano virtù civiche piuttosto che
religiose, la pietà verso i celesti mutavasi in devozione verso la
patria; sicchè, allorquando questa divenne tutto il mondo, più non
s'ebbe cosa a cui credere, e al culto destituito d'oggetto non rimaneva
la forza di verità astratte, non l'autorità morale.

Nè paga d'avere «nel bottino di ciascuna conquista ritrovato un
dio»[185], Roma coll'apoteosi faceva Dei tutti quegli esecrabili suoi
padroni. Celebrati con magnifica pompa i funerali del morto imperatore,
ne veniva posta l'effigie in cera sopra un letto d'avorio, coperto
di superbo tappeto d'oro, quasi figurasse l'imperatore stesso ancora
malato. Senatori e matrone, venendo a visitarlo, restavano delle ore
seduti accanto al letto, e sette giorni durava tal mostra: l'ottavo
dì, i principali senatori e cavalieri processionalmente per la via
Sacra trasportavano il letto, coll'effigie qual era, nella pubblica
piazza, dove recavasi il nuovo imperatore, accompagnato dai più
illustri signori romani. Ivi sorgeva un palco di legno simulante la
pietra, ornato d'un peristilio splendente d'avorio e d'oro, sotto il
quale in pomposo letto veniva adagiata l'effigie, e intorno vi si
cantavano a doppio coro le lodi del defunto, mentre il successore
stava col suo corteggio assiso nella piazza, e le matrone sotto il
portico. Finita la musica, la processione si avviava al Campo di Marte,
portando anche le statue dei Romani più illustri nella storia, alcune
di bronzo rappresentanti le provincie soggette, e immagini d'uomini
celebri. Seguivano i cavalieri, soldati e cavalli da corsa; in fine i
doni dei popoli tributarj, e un altare d'avorio e d'oro, tempestato
di gemme. Durante questo corteo, l'imperatore, salito sulla tribuna
degli oratori, faceva l'elogio del morto. In mezzo al Campo Marzio
era elevato un rogo, che via via restringendosi formava una specie di
piramide; fuor rivestito di ricchi tappeti ricamati a oro, e adorno
di figure d'avorio; dentro legna secca; in cima il cocchio dorato, di
cui soleva servirsi il defunto; sul piano sottoposto, dai pontefici
stessi era collocato il letto di parata coll'effigie di cera, su cui
spargevansi profumi ed aromi. Il nuovo imperatore e i parenti del
defunto, baciata la mano a quell'immagine, recavansi a sedere nei
posti destinati: allora facevansi intorno al rogo corse di cavalli,
poi sfilavano soldati e carri, i cui condottieri erano vestiti di
porpora. Compite queste cerimonie, l'imperatore, seguìto dal console
e dal magistrato, appiccava il fuoco alla pira, e quando cominciavano
ad alzarsi le fiamme, dall'alto di quella davasi a volo un'aquila (o
un pavone, se era l'imperatrice), che dirizzandosi al cielo, doveva
figurare portasse all'Olimpo l'anima del morto. Ergevasi poscia un
tempio in onore di lui; gli si dava il titolo di Divo, e gli venivano
destinati sacerdoti e sacrifizj.

Tant'era la smania dell'apoteosi, che non voleasi aspettar la morte
degl'imperatori e il decreto del senato. Augusto durò fatica a
circoscrivere a sole le provincie il suo culto. Tiberio permise alle
città d'Asia d'erigergli un tempio; ed ecco undici città disputarsene
l'onore, allegando chi l'antichità, chi la gloria, chi la religione.
L'Italia non volea restare indietro, ma Tiberio se ne schermiva:
— L'ho consentito alle città d'Asia, sull'esempio d'Augusto; ma il
lasciarmi adorare dappertutto sarebbe orgoglio intollerabile. Io son
mortale, soggetto alle leggi dell'umanità: siatemi testimonj di tal
dichiarazione, e se ne ricordi la posterità». Ciò riferisce Tacito,
soggiungendo che alcuni la credeano modestia, altri cautela, altri
pusillanimità; avvegnachè Ercole e Bacco desiderarono d'esser Dei,
e le alte ambizioni s'addicono alle anime alte[186]. E ben cinquanta
deificazioni si fecero da Giulio Cesare a Domiziano, fra cui quindici
di donne; e quegli altari talvolta erano trabocchetti per moltiplicar
le colpe di lesa maestà come facea Tiberio, o beffe amare come quei
di Nerone per Claudio, od insulti al pudore come quei per Antinoo e
Drusilla e Poppea.

Accettare ogni dio equivale a non averne alcuno; sicchè la religione
riducevasi ad una legge, non ad una fede; le feste erano pompe, il
culto pubblico era politica, il culto privato un gusto individuale,
scegliendosi un dio prediletto, a cui dare le vittime più pingui, a
cui tener raccomandati gli affari, la famiglia, gli amori. Nelle menti
colte poteano più ottenere credenza quella turba di numi e le poetiche
loro storie? poteva un'anima generosa inchinarsi ad are, su cui
s'incensavano cinedi e meretrici? Pertanto il filosofo, il sacerdote,
il politico guardavano i varj culti come del pari falsi e del pari
opportuni; e la tiara del pontefice, la stola dell'augure, la toga del
magistrato ricoprivano l'ateo.

Augusto, volendo restaurare nell'impero anche le idee che ne devono
esser la base, pose gran cura alla religione; appurò la fonte delle
istituzioni col correggere i Libri Sibillini, ripristinò la dignità
di flamine diale, crebbe i privilegi dei collegi sacerdotali e il
numero delle Vestali, procurò rialzare il culto di Vesta e dei Lari,
protettori della famiglia e dello Stato; in casa propria istituì il
culto di Febo, e vi trasportò dal Palatino il santuario di Vesta;
ogni quartiere di Roma ebbe nuovi Lari, al posto delle vecchie statue
consunte, e ad onor loro feste in primavera e in estate; ai Lari
antichi si unì il Genio del principe, onorato di più solenni omaggi:
il qual culto de' Lari, riferentesi alla ripristinazione del sistema
municipale, fu propagato per tutta Italia e per le provincie. I giuochi
secolari dimenticati si rinnovarono diciassett'anni avanti Cristo, e
Orazio compose per quella pompa il _Carmen sæculare_. Esso Augusto
fece ricostruire i tempj cadenti, quasi volesse obbligarsi gli Dei
come gli uomini, dice Ovidio[187]; pel primo eresse un'ara alla Pace;
e qualvolta ritornava dai viaggi, un nuovo delubro poneva a qualche
divinità benefica.

Riforme tutt'affatto esterne, e viemeno efficaci perchè sprovviste
d'entusiasmo e di sincerità. Tito Livio, pieno d'oracoli e portenti,
rimpiange i guasti causati alla fede dalla filosofia, ma per quel suo
stile di adoprare le istituzioni antiche a raffaccio delle moderne;
Orazio canta gli Dei, pur professandosi majale epicureo; Virgilio
àltera a norma del poetico il senso religioso della mitologia, rimpasto
scientifico o estetico che la scredita quanto il dubbio o lo sprezzo;
Ovidio canta la storia degli Dei nelle _Metamorfosi_, il culto nei
_Fasti_, ma non mai nell'intento di propagarli o di farli credere;
e l'ironia e la frivolezza vi trapelano dalle proteste di riverenza,
nè mai mentì peggio di quando esclamava _Est Deus in nobis, agitante
calescimus illo._

Agli Dei non si credeva: udimmo professarlo Seneca; Petronio esclama,
— Nessun crede cielo il cielo, nè stima Giove un'acca»; Giovenale, —
Che vi abbiano gli Dei Mani e i regni postumi, nol credono neppure
i ragazzi»[188]; Tacito, l'austero Tacito, _spera_ che dopo morte
le anime possano aver vita e senso di ciò che si fa quaggiù[189], ma
nulla indica ch'egli lo credesse. Il culto uffiziale durava ancora,
e fu «un gran giorno pel senato romano» quello in cui tutte le città
greche mandarono deputati a Roma per discutere sopra il diritto d'asilo
de' tempj, non cercandosi abolirlo, ma volendosi soltanto sincerarne
i titoli, fondati sopra le tradizioni divine, i decreti dei re, gli
editti del popolo romano; e imporvi limiti, ma in un linguaggio affatto
rispettoso[190]. Se però la potestà imperiale potè ricomporre l'ordine
civile e politico, fallì nel religioso, anzi lo precipitò prostituendo
anche il culto ai capricci del principe; il quale concentrando in sè
il potere spirituale e il temporale, possedeva intero l'uomo, nè gli
lasciava quell'asilo che nel tempio trovano i credenti contro gli
eccessi del regnante.

Gli oracoli perdevano la favella, dacchè il trattarsi gli affari
non nel fôro ma ne' gabinetti faceva più difficile il prevedere le
decisioni, pericoloso il rivelarle, inutile l'insinuarle a nome del
dio, quando le imponeva il decreto del principe. I Romani consideravano
ogni paese come collocato sotto la protezione di numi speciali,
laonde ai vinti non li toglievano, salvo se si rendessero centri e
stromento d'opposizione, come il culto dei Druidi nelle Gallie; e per
esempio, nell'Egitto posero un pontefice massimo, a capo dei sacerdoti
tutti e del museo d'Alessandria. Del resto, come la città a tutti i
forestieri, così fu aperto il cielo a tutti gli Iddii; nel santuario
di Vesta e di Rea, ogni deificazione delle umane passioni otteneva
sacerdoti, sacrifizj, feste. Ma coll'accettare tutti gli Dei toglievasi
il carattere politico delle religioni, quel che legava il culto al
patriotismo.

Perocchè la religione era nazionale più che personale; chi sagrificava,
pregava, espiava era la città, la tribù, la famiglia, anzichè
l'individuo; e la personalità del credente si perdeva o nella bellezza
della mitologia o nel vago del panteismo. Ma l'uomo ha timori e
speranze, ha profondo bisogno di trovar sollievo, luce, espiazione; nè
il progresso materiale potrà mai soffocare gl'istinti primitivi di lui,
e quell'impulso talora confidente, più spesso pauroso delle anime verso
le cose superne, il sentimento, comunque offuscato, d'una primitiva
maledizione, la paura d'un Dio vendicatore. Dopo le guerre civili, da
tanti delitti e disastri sbigottito non illuminato, l'uomo colpevole
cercava un asilo presso gli altari; e poichè de' numi antichi parea
sazio il vulgo, doveasi introdurne di sempre nuovi, il cui simbolo
non fosse ancora svilito da interpretazione materiale, e con nuovi
riti rinvigorire alquanto la fede; donde un misero avvicendare delle
coscienze fra superstizione ed incredulità.

La coscienza sentiva la necessità d'accostarsi al Dio sdegnato, e
dirgli «Perdona»; provava bisogno di purificazioni, d'espiazioni:
talchè, per mondarsi, alcuni nelle cerimonie di Mitra si battezzano
di sangue, alcuni camminano sul Tevere gelato, o bagnati traversano a
ginocchio il Campo Marzio; se Anubi è irato, il popolo decreta si mandi
a prender acqua del Nilo da lustrarne il tempio, o si offrano vesti ai
sacerdoti d'Iside, o cento uova al pontefice di Bellona[191]. Insomma,
disgustata dalle religioni palesi, la folla rifuggiva alle arcane, e
i misteri non furono più partecipati riservatamente a pochi; e più che
la rivelazione di alcune verità morali o fisiche[192], se ne adottò la
parte corrotta e peccaminosa. Mentre dunque il culto legale sostituiva
al patriotismo l'adorazione di Cesare, l'Oriente insinuava le teurgie,
corrompendosi così e la scienza e la virtù. Ogni dama nel penetrale
teneva il sole etiopico, derivato dall'Egitto; dalla Fenicia erano
venute divinità metà donne e metà pesci, dalla Gallia pietre druidiche;
Germanico si fa iniziare ai grossolani misteri di Samotracia e al culto
de' panciuti Cabiri; egli, Agrippina, Vespasiano consultano le divinità
egizie.

L'uomo, che non può credere opera del caso la creazione e la
conservazion delle cose, sente per istinto che tra lui e questa causa
v'ha mezzi di comunicazione regolari e salutiferi. Se gli soffogate
tal sentimento col vizio o col raziocinio, cade in una specie di
disperazione che lo precipita nelle superstizioni. Siffatta divenne
allora la condizione dei più. Paventando che l'omaggio reso all'uno
recasse torto all'altro dio, si ricorreva ad osservanze superstiziose;
negata la vita seconda, si tremava degli avvenimenti di questa; negata
la Provvidenza, ammetteasi la fatalità, e volevasi indagarne gli
inevitabili decreti. Di qui l'osservanza degli augurj e del volo degli
uccelli e de' giorni propizj o infausti, anche per parte di quelli che
degli Dei parlavano celiando[193].

Da Plinio raccogliamo come i maghi credessero con l'erba marmorite
costringer gli Dei ad obbedirli; colla etiopide seccare i fiumi e
aprire qualunque cosa chiusa; colla achimenide infondere sgomento ai
nemici; coll'antirrina rendersi belli, e sicuri da ogni nocumento;
colla coriacesia agghiacciar l'acqua; coll'applicare tre volte
l'eliotropio guarir dalle terzane, e quattro dalle quartane; colla
verbena acquistarsi fede, conciliare benevolenza, garantirsi da morbi;
colla teangelide indovinare; colla cinocefalia neutralizzare i veleni
ed evocare i morti; coll'inghirlandarsi d'eliocriso ottener grazia
e gloria. Delle pietre, la grammatia rendeva eloquente; la gemma di
Venere assicurava dal fuoco; l'agata fugava le tempeste e fermava i
fiumi; la chelonia posta sulla lingua faceva indovinare; alcune, fatte
a foggia di testudine, poteano sedar le tempeste; l'eliotropia mista
coll'erba dell'egual nome e con certe preghiere, rendeva invisibili.
Fra gli animali, chi mangiasse il cuore della talpa potea vaticinar
l'avvenire; col sangue della jena bagnando le porte, tutelavansi gli
abitanti da ogni malattia o fascino; portandone indosso gl'intestini,
si era sicuri da incantagioni e di vincer le liti e innamorar le
donne: il sinistro piede del camaleonte, arrostito nel forno, rendeva
invisibile chi lo portasse: ungendosi col grasso che sta fra le due
sopracciglia d'un leone, si diveniva cari ai principi; mentre il sangue
della donnola, misto a cenere di jena, rendeva abominati. Perciò,
soggiunge egli stesso, dopo sorbito un uovo, si ha cura di rompere il
guscio; e in molti paesi d'Italia erasi proibito alle donne per istrada
di torcere il fuso o di portarlo scoperto, perchè nuoce alle speranze,
principalmente di grani[194].

Aggiungete il terrore di potestà arcane, meschina curiosità delle cose
occulte, e credenza divulgata nei fatucchieri e nelle streghe, brutte
vecchie, avide di venere, micidiali ai parti, le quali trasfiguravansi
in bestie, rapivano i bambini, li cambiavano in cuna, gli affaturavano,
al che suggerivansi per rimedio l'aglio e certi scongiuri: temeansi
pure i vampiri, morti che ricomparivano per suggere il sangue dei
vivi[195]. Estremamente si erano moltiplicati gli oracoli, i prestigi,
gl'incantesimi, gli amuleti; e astrologi di Caldea, auguri di Frigia,
indovini dell'India, promoveano i misteri delle scienze teurgiche.

Canidia strega, avvolti serpentelli alle scomposte chiome, nuda i
piedi, rimboccata la negra veste, unta del sangue di rospi, colla
potente Sagana, entrambe orribili per pallore e per irta capigliatura,
urlando occupano un giardino, colle unghie raspano la terra, e coi
denti straziano una nera agnella, il cui sangue scorreva nella fossa,
donde aveano ad uscir le ombre per portare responsi dagl'inferni.
Esse teneano una figura di cera, una di lana: questa più alta puniva
l'altra, che avea sembianza di supplicante e di schiava che va a
perire. L'una maga invoca Tisifone, Ecate l'altra; subito i cani
infernali e i serpenti le circondano; l'immagine di cera prende fuoco e
getta un vivo splendore; ma udito un fracasso, le due streghe fuggono
abbandonando i denti, i capelli, le erbe e i legami tricolori con cui
avviminavano i cuori[196].

A Tiberio gli astrologi erano necessarj quanto i commedianti e le
femmine; porta un lauro per assicurarsi dai fulmini; quando starnuta,
vuol gli si dica _Salute_; per impedire che si consultino le sorti
Prenestine, si fa portare quei pezzetti di legno, ma oh meraviglia!
al domani la cassetta si trova vuota, e le sorti eransi di per sè
restituite a Preneste. Nerone chiamò a Roma Tiridate ed altri maghi
per essere iniziato ne' loro arcani, e per essi dominare sugli Dei come
sugli uomini; e alla magìa rifuggì per chetare i rimorsi, dopo uccisa
Agrippina[197]. Vespasiano li sbandiva coi decreti, e gl'invitava coi
doni; Domiziano li consultava; confidava in essi Adriano, malgrado
l'affettata filosofia; nè questa preservò Marc'Aurelio dal credere
agl'indovinamenti dell'egiziano Anufi. Ogni città, ogni villaggio aveva
una statua, un tabernacolo, una grotta miracolosa; e i governatori
andavano a chiedervi i destini dell'impero. Ogni ricco novera tra' suoi
servi un astrologo; al chiromante e al negromante si fa gittar l'arte
ansiosamente allorchè fulmine cade, o morti appajono, o un'improvvisa
rivoluzione può spingere dalla miseria al trono, o dai triclinj alle
forche. Donzelle avide d'amore, giovani solleciti d'una eredità, spose
cupide della maternità, vecchi slombati, gelose amanti, magistrati
ambiziosi accorrono a queste empie follie, per le quali neppur si
rifugge dallo scannare fanciulli.



CAPITOLO XXXV.

La Redenzione.


Qualche moralista esclamava, è vero; ed a misura del suo coraggio
rivelava le piaghe di quel tempo, l'impassibilità dei ricchi, le
miserie del povero, la corruttela di tutti. Declamazioni! ma trattasi
di suggerire un rimedio? i filosofi somigliano a vecchi, predicanti
una morale cui non applicano; gli Stoici versano ogni colpa sopra
le dottrine epicuree; i migliori politici non sanno che ribramare
il tempo antico e la rugginosa aristocrazia; Orazio, da poeta vi
canta: — Andiamo ad abitare le isole Fortunate»; Giovenale dice come
uno scolaretto: — Ritiratevi sul monte Sacro»; Seneca soggiunge:
— Uccidetevi»; Tacito non vede raggio di luce nelle tenebre che sì
foscamente descrisse; fra tante superstizioni fedelmente riferite, e
da lui rispettate come un istituto politico e nazionale, nega fede a
cotesta divinità, che abbandona in tal fondo di corruzione l'opera sua
più bella; e rifiuta le speranze postume, dicendo che gli Dei «curano
la vendetta, non la salvezza, e si fan giuoco delle cose mortali»[198]:
un riparo nessuno sapeva trovare, nessuno ideava una rigenerazione
morale; e al più sarebbesi applaudito ad Euno, a Spartaco che
violentemente spezzassero i ferri.

Chi mai avrebbe pensato opporre la voce e la persuasione sua personale
alla sfrenata potenza di quell'idolo inesorabile che si chiamava lo
Stato? Nell'assoluta mancanza d'ogni accordo di principj, sarebbe
somigliato altro che follìa l'affrontar morte o persecuzione per
sostenere il proprio convincimento? Ognuno provveda a ciò che più
gli torna; il resto è nulla. Voi letterati, cercanti l'utile anche
nel bello, rendetevi alleati e complici della tirannide. Voi savj,
incontrando la disperazione invece della Provvidenza, riponete
il sommo della virtù nel sottrarvi colla morte agli affanni, che
l'individuale senno giudicò trascendere le forze vostre. O mondo,
ti sprofonda nell'avvilimento morale a proporzione che cresce la
materiale prosperità. Chi rigenererà l'umana specie? La forza? ma Roma
l'avvolgerebbe tantosto nelle comuni ruine: la legalità? ma quella di
Roma è così tenace e vigorosa, da non lasciarsene crescere a fianco
un'altra: la scienza? ma essa invanisce in frasi sonore. Il rialzamento
morale non potrà aspettarsi dagl'imperatori tiranni, non dal senato
avvilito, non dai patrizj decimati, non dalla religione screditata, non
dai ricchi corrotti, non dalla plebe ignara de' suoi diritti e de' suoi
doveri.

Nè tampoco dai filosofi, barcollanti nel dubbio orgoglioso, mentre
a riformare il mondo si richiede convinzione nella libertà umana,
e un governo provvidenziale che conduce il trionfo delle sociali
verità quando il loro tempo arrivò. Massime sparse e sconnesse, per
quanto vere, non bastano, ma bisogna un nuovo principio; al concetto
dell'ordine objettivo, ma fatale nella natura e nella società, opporre
quello della Provvidenza divina e della libertà personale; al precetto
negativo del non toglier l'altrui e non ledere il diritto, surrogarne
uno positivo; riporre l'onestà nella coscienza, estenderla su tutte le
facoltà del cuore, dell'intelligenza, della volontà.

Poniamo caso che alcuno si fosse elevato a proclamare massime in
perfetta contraddizione colle correnti. — Non v'ha che un Dio solo:
per libera volontà di lui furono creati la materia, perciò peritura,
e l'uomo, dotato di un'anima immortale. Questo Dio è comune a tutti i
popoli e ai singoli uomini, provvido conservatore del mondo, testimonio
e rimuneratore di tutte le azioni, dettatore d'una legge che è il
fondamento della morale e del diritto. Perchè tutti figli di quel
Dio, gli uomini sono eguali, senza distinzione di romano o barbaro, di
circonciso o incirconciso, di patrizio o plebeo, di schiavo o libero,
di maschio o femmina[199]: hanno dunque tutti ad amarsi e giovarsi a
vicenda; il comando e le dignità sono uffizio, non un godimento; e i
primi devono considerarsi ultimi.

«Tutti gli uomini sono originalmente contaminati d'un peccato, dal
quale provengono l'errore, l'ignoranza, la morte. Ma ad espiare quel
peccato, a dare all'uomo il potere di convertir l'errore, l'ignoranza,
l'infermità in mezzi di santificazione mediante la ripristinata
libertà, Iddio stesso s'incarnò, versò il sangue e la vita. Tutti
peccatori, tutti redenti del pari, gli uomini vengono da uno stesso
luogo, tornano al luogo stesso per sentieri diversi. La vera giustizia
nasce da tale eguaglianza; come ne nasce la libertà dall'essere ognuno
responsale de' proprj atti.

«Niuno è servo per natura; e quelli che la legale iniquità rese tali,
devonsi sollevare immediatamente col farli partecipi ai riti sacri
e all'istruzione religiosa, preparandoli così all'emancipamento. La
società non abbraccia intero l'uomo, il quale ha in sè qualche cosa di
più sublime, di superiore alle leggi civili; e indipendentemente da
queste aspira ad un fine più eccelso, ad una destinazione superiore
a quella degli Stati che nascono e muojono. L'uomo, alito di Dio,
non trae importanza soltanto dalla società, ma possiede una dignità
propria, che lo obbliga a perfezionare se stesso, dar vigore alla
propria coscienza, appoggiata sopra una legge suprema.

«La riforma non deve dunque cominciare dallo Stato, ma dall'individuo;
perchè questo, allorchè sia buono, è libero sotto qualsiasi reggimento;
sa fin dove obbedire; ha la coscienza della propria dignità e
responsabilità. Nè la morale si limita ai grandi misfatti che nuociono
alla società civile, e pei quali soli il gentilesimo stabilisce le pene
dell'inferno, insegnando che _Dii magna curant, parva negligunt_; ma
abbraccia tutte le opere, i pensieri, le parole, fin le ommissioni,
attesochè l'uomo sta perpetuamente al cospetto d'un Dio, che deve poi
giudicarlo e punirlo. Voi chiamate la vendetta voluttà degli Dei? ed io
vi annunzio che dovete concedere perdono universale, se volete ottenere
perdono da Dio.

«Ogni scostumatezza è colpa, giacchè l'uomo deve rispettare in sè
e negli altri la divinità; nè vi è stato di mezzo fra la verginità
e il matrimonio. In conseguenza i nodi domestici saranno purificati
e rassodati, si perpetuerà il conjugale, diretto a ben più sublime
fine che la soddisfazione istintiva. La donna non sarà più esposta a'
voluttuosi capricci dell'uomo, e l'illibatezza deve portarla a libertà:
ornamento suo più bello considererà quel pudore, che ora è vilipeso
nelle cortigiane, nelle schiave, fin nelle dee; per conservarlo, morrà
anche; e i meriti di essa consisteranno non in eroiche, ma in virtù
miti e conformi alla natura sua.

«L'amor proprio dominante ceda il luogo alla carità, virtù che dai
filosofi è considerata come una debolezza. E questa carità universale,
paziente, benigna, operosa, ordina d'amare il prossimo come noi stessi;
cerca i soffrenti al carcere, all'ospedale; raccoglie i projetti,
sepellisce i morti; dà il pane agli affamati, l'istruzione agli
ignoranti, il consiglio ai dubbiosi, il buon esempio a tutti. Da essa
affratellati, il povero non invidii al ricco; il ricco sappia che tutto
il superfluo deve darlo a chi non ha, ma che ogni stilla d'acqua che
darà ad un bisognoso, gli sarà computata per la vita futura. In vista
della quale è necessario operare continuamente, cercare la purezza in
terra, e tollerare i mali di questa vita, che non è se non un esiglio e
un preparamento.

«Quel che importa, non è la città, non la patria, ma l'uomo; e nazione
e tribù e famiglia esistono per l'uomo, non egli per esse. Il dovere
supremo non concerne quelle astrazioni che si chiamano patria, nazione,
bandiera, ma l'essere reale che chiamasi il prossimo. Allo Stato non
si può sagrificar più nemmanco un uomo, non la moralità personale
alla pubblica: verità e giustizia sono bisogni più urgenti che non
la civiltà materiale. La giustizia ha radici più salde e antiche, che
non i patti e le leggi umane. La verità non deve rimanere privilegio
di pochi, ma comunicarsi a tutti; a tutti insegnare a ingagliardirsi
contro le passioni, quetare i malvagi appetiti, posporre il ben proprio
al generale, l'utile all'onesto, la vita transitoria all'eterna. Voi
dal Campidoglio gridate, _La salute del popolo è norma suprema_; noi
all'opposto diciamo, _Perisca il mondo, ma si faccia la giustizia_».

Chi avesse annunziato tali verità, sarebbe parso poco meno che
mentecatto al romano orgoglio e all'universale corruttela. Eppure
in fatto erano state predicate in una delle più piccole e sprezzate
dipendenze dell'impero romano, la Palestina, diffamata per credulità;
e non già da un guerriero che attirasse il rispetto de' guerrieri
romani, non da un filosofo che ne eccitasse la curiosità, ma dal
figlio d'un artigiano, nato in una grotta in occasione che sua
madre era ita a Betlemme, montuosa cittadina della Giudea, per farsi
iscrivere nel ruolo della sua tribù, allorquando Augusto ordinò il
censo generale (Anno di Roma 754? 25 xbre) affine di conoscere quanta
gente gli dovesse obbedienza e tributi. Questo _uomo_, che si chiamava
Gesù, era figlio di Maria, fanciulla ebrea, stirpe di Davide ma in
povera fortuna, e sposata a Giuseppe fabbro di Nazaret. Egli crebbe
nell'oscurità e nell'obbedienza fin verso i trent'anni; allora cominciò
a predicare a pescatori e simil vulgo, e diceva: — Beati i poveri di
spirito; beati i miti; beati i misericordiosi; beati i mondi di cuore;
beati i pacifici, perchè saranno chiamati figliuoli di Dio; beati
quelli che soffrono persecuzioni per la giustizia, perchè il regno
de' cieli è per essi. Imparate da me che sono mite ed umile di cuore,
e troverete requie alle anime vostre. Chi si corruccia col proprio
fratello, è reo di giudizio. Misericordia io voglio, non sacrifizj.
Finora v'hanno detto, _Occhio per occhio, dente per dente_: io vi dico
che a chi vi percuote una guancia, anche l'altra presentiate. Finora
vi fu imposto d'amare il fratello, e odiare il nemico: io v'ingiungo
d'amare il nemico, beneficare chi vi nuoce, pregare per chi vi
persegue, imitando Dio che fa nascere il sole sui buoni e sui malvagi.
Io vi do un precetto nuovo, che vi amiate un l'altro come io ho amato
voi: vi conosceranno miei discepoli se vi amerete a vicenda. Chi ha
due tuniche, ne porga una a chi n'è sprovvisto. Fate l'elemosina, ma
in secreto, e che la vostra mano sinistra non sappia ciò che fa la
destra. Date a prestito senza speranza di ricambio, e largo sarà il
vostro frutto. Alla fine de' secoli poi verrà il Figliuol dell'uomo
a giudicare, e dirà: _Io ebbi fame, e mi saziaste; ebbi sete, e mi
deste a bere; pellegrino mi albergaste, nudo mi vestiste, mi visitaste
infermo e carcerato; venite, o benedetti del Padre mio, al gaudio che
vi è preparato_».

Chi così diceva, camminava come un peccatore fra i peccatori,
confabulava col bestemmiatore, sedeva a banchetto coi pubblicani;
rimandava assolta l'adultera, lasciavasi lavare i piedi dalla
meretrice; intingeva il dito nel piattello stesso col traditore, e gli
dava il bacio; prometteva il paradiso a un ladrone: oh! ben doveva egli
sentire i dolori dell'umanità, se così la compativa.

Gli Ebrei perdettero l'indipendenza allorchè il magno Pompeo li
sottopose alle aquile latine; e, pur conservando un re proprio,
stavano soggetti a un preside o procuratore romano, che allora era
Ponzio Pilato (28). Allo spettacolo delle assidue vicende d'allora,
alla caduta di tanti regni, allo sterminio di tante città, i Gentili
si approfondavano in quel sentimento d'un progressivo deteriorare del
mondo, che era stato ad essi lasciato dalla tradizione primitiva;
e perfino coloro che idolatravano Roma e «l'eternità dell'ingente
Campidoglio», a cui pareva aggiungere solidità ogni re che incatenato
ascendesse per la via Sacra, pure vedevano ogni generazione
peggiorare, e il mondo avviarsi a rovina inevitabile. Gli Ebrei
invece, fra gravissimi disastri esteriori ed interni, perdute le armi
e l'indipendenza, insieme col dogma della caduta teneano vivo quel
della rigenerazione; unici fra i popoli antichi che conoscessero quella
dottrina del progresso, ch'è carattere e vanto della moderna civiltà.

Nei loro libri profetici, da antico scritti nella più sublime poesia,
leggevano la promessa che verrebbe un salvatore, e appunto intorno a
questi tempi: ma accecati da angusto amor di patria, e nel dispetto
dell'oltraggiata nazionalità, nell'_aspettato_ non presagivano altro
che un eroe, secondo la carne non secondo la fede, il quale spezzasse
le catene del suo popolo come avea fatto Mosè liberandoli dall'Egitto,
o Ciro mentre stavano schiavi in Babilonia, e tornasse i gloriosi tempi
di Davide e di Salomone in quella Gerusalemme che restava sempre la più
insigne città dell'Oriente[200]; un messia insomma trionfante degli
stranieri, anzichè il Figlio dell'uomo, proclamatore dell'universale
fratellanza, e d'una legge d'amore indipendente da tempi, da luoghi, da
condizione.

Questo orgoglio carnale fece che non fosse conosciuto il Dio umanato,
anzi si disprezzasse un Cristo mansueto ed umile, il quale parlava di
rassegnazione, di benevolenza, d'un regno che non è di questo mondo;
consigliava a pagare ancora il tributo, e dare a Cesare quel ch'era di
Cesare: ma al tempo stesso egli imponeva si desse a Dio quel ch'era
di Dio, purgava la legge patria dalle frivole osservanze, e mentre
flagellava coloro che faceano traffico nel tempio, chiamava superbi
e ipocriti i sacerdoti e i dottori, i quali riponevano ogni moralità
nella foggia del vestire, nello astenersi da certi cibi, e gonfiavano i
cuori nella persuasione di loro virtù.

Costoro dunque cospirarono contro di lui, ed ai tribunali patrj
l'accusarono di bestemmiare contro la religione, di corrompere la
gioventù; ai tribunali romani, di turbare la dominazione straniera col
parlare d'un altro regno e di glorie diverse. I principi dei sacerdoti,
gli anziani del popolo e i giudici, cui i Romani ne lasciavano
l'autorità, dichiarano Cristo degno di morte, e chiedono a Pilato che
lo condanni. Questi esamina l'imputato, e gli domanda: — Sei tu il re
de' Giudei?» e Cristo risponde: — Il mio regno non è di questo mondo;
altrimenti i miei ministri non soffrirebbero ch'io fossi consegnato a'
Giudei. — Ma dunque sei re?» ripiglia Pilato; e Cristo: — Tu il dici;
e venni al mondo per rendere testimonianza della verità; e chi è dalla
verità, ascolta la mia voce».

In tempo che altro legame non credeasi poter frenare il mondo, fuor
quello della forza, qual mai timore poteva incutere al governatore
romano un regno non di questo mondo, un re che altro impero non
aveva fuorchè la verità, altri sudditi che quelli dalla verità
assoggettatigli? Pilato avea inteso che il precursore di Cristo
intimava: — Fate penitenza, preparate le vie del Signore», che Cristo
diceva ai poveri: — Voi siete beati», ai ricchi: — Siate misericordiosi
con tutti; chi vuoi essere mio discepolo, lasci ogni cosa, prenda la
croce e mi segua», e che il popolo lo amava perchè scioglieva gli occhi
ai ciechi, la lingua ai muti. Nulla affatto restava dunque minacciata
la potenza ch'egli rappresentava, nè l'immortalità di Cesare: che cosa
aveva mai a fare la religione colla politica? Costui non potea dunque
sembrargli meglio che un lunatico, un paradossale.

Ma quei primati divennero zelanti del poter temporale quando occorreva
di opporlo allo spirituale: astiosi allo straniero che comprimeva le
loro passioni, ora per passione s'accorsero che una novità religiosa
porterebbe novità politica, e minacciarono di denunziare Pilato a Roma
se non condannasse il riottoso. Il popolo, come chiamavansi pochi
scioperati schiamazzanti in piazza, chiede ch'egli condanni costui,
il quale mette a repentaglio il dominio di Tiberio; e Pilato, che
nell'egoismo personale e governativo non vuol porre a repentaglio la
pubblica quiete per nulla meglio che per un uomo, nè pericolare il
proprio impiego per salvare un innocente, condiscende che l'uccidano,
protestandosi però mondo del sangue di lui. E Cristo è crocifisso (35)
dal popolo tra cui era passato beneficando; — vittima della legalità
romana, acciocchè questa sia in perpetuo condannata.

Fra le imprecazioni egli morì, non imperterrito come Trasea o Seneca,
ma confessando il dolore, ma desiderando fossegli risparmiato quel
calice, ma gemendo di sentirsi abbandonato dal Padre, e perdonando
a quelli che l'uccidevano: e tutto fu consumato, come da secoli era
stato simboleggiato e predetto. Lo sgomento invade i discepoli suoi, i
quali mondanamente giudicano le cose dalla riuscita; talchè nascosti
non fidano che nell'essere o sprezzati o dimentichi, e piangono
sull'estinto maestro, finchè questi, come avea promesso, risorge,
e salito al Padre, manda lo Spirito divino che tramuta i timidi ed
ignoranti pescatori di Galilea in dottori intrepidi, i quali, vestiti
della forza di lassù ed obbedendo al maestro che avea detto — Andate
e insegnate a tutte le nazioni», spargonsi per le vie di Gerusalemme,
annunziando compita la legge, cessate le figure, cominciata la nuova
alleanza, venuto il lume dal lume, il Dio da Dio, e spiegano quella
dottrina che doveva essere salvezza del mondo. Così il più stupendo
miracolo del cristianesimo, qual è il potere di trasformazione,
comincia ad operarsi negli Apostoli per estendersi a tutta la società.

Pilato ragguagliò il senato romano del caso; e Tiberio, udendo che
Cristo avea fatto miracoli ed era risorto, disse — Ebbene, ponetelo
fra gli Dei». Sì poco importava l'aggiungerne un altro alla caterva
affluita di Grecia, di Siria, d'Egitto! Cristo però non era un dio,
ma il Dio; e la sua dottrina e l'esempio suo repugnavano talmente ai
dominanti, che il trionfo di quelli doveva portare la rovina di questi;
e raccogliendo i pensieri di tutte le generazioni, di tutti i secoli,
avvincere il mondo in un legame di fede, di speranza, d'amore, il cui
nodo è in cielo.

Finchè ogni gente adorava un dio diverso, ciascuna associazione
rimaneva isolata, nè sentiva verso le altre que' doveri, che da Dio
solo traggono la sanzione: partecipando anzi alle gelosie de' loro
Iddj, non vedeano negli stranieri che nemici da abbattere, schiavi
da incatenare. Pel cristianesimo invece tutti gli uomini s'accordano
nella medesima credenza, si uniscono in una sola Chiesa; solennità
inditte a tutti i paesi, segni che distinguono il credente ovunque
sia, preghiere comuni, e spesso a tempi ed ore eguali in tutto l'orbe.
La religione non restringesi più ad un luogo, è predicata a tutti,
e non annunzia conquiste, cioè predominio d'alcun popolo; non fonda
una tribù sacerdotale, non indispensabile solennità di riti; ma
semplici preghiere, ma cerimonie schiette ed affettuose rimembranze
congiungeranno i fedeli dovunque e quandunque sollevino a Dio la mente.

Il cristianesimo non ha dottrine arcane, non han velo i suoi tempj, non
v'è profani nella Chiesa. L'uniforme e solido insegnamento della scuola
armonizza colla predicazione e col culto, il mistero colla dottrina
esteriore, le cerimonie colla reale consumazione del sagrifizio.
Insegnato ai bambini colle prime parole, si radica nei cuori, insinua
una morale dolce quanto sublime, un'affettuosa eguaglianza che nel
mondo non lascia vedere se non figli d'un Dio. Da qui la purezza d'una
morale, non soggetta a varietà di tempi nè di persone, e sempre intesa
al perfezionamento di sè ed alla carità verso altrui. Nè la virtù è
più un affare di convenzione, ma la pratica della verità, conosciuta e
ponderata con giudizio retto; una buona qualità della mente, di cui non
si può abusare[201]: è peccato il preferire al bene sommo il proprio,
all'oggettivo il subjettivo.

Sotto le maestose pieghe della società romana quale la dipingemmo,
ne covava dunque un'altra affatto differente, che all'amor proprio
di quella opponeva il sagrifizio e la carità; al libertinaggio la
penitenza; all'opinione, al dubbio, al timore le tre virtù ignote,
fede, speranza, carità; alla superbia l'umiliazione; alla violenza
la convinzione; al diritto del forte l'eguaglianza dei deboli;
all'ambizione di ricchezze, di godimenti, di potere, persecuzione,
pazienza, austerità.

Le due società non tardarono a trovarsi a fronte. Perocchè gli
Apostoli, appena furono innovati dallo Spirito consolatore, uscirono
predicando, e sparso il buon seme nella Giudea, recarono la fausta
novella (_euangelio_) alle genti, cui il Cristo non si era mostrato.
Pietro, il maggiore fra essi, s'avvia ad Antiochia, poi a Roma (42?),
il pescatore di Genesaret alla metropoli del mondo, per istabilirla
centro di un'altra unità, per opporre alle infamie di Messalina ed alle
atrocità di Nerone il raffronto dell'alta ragione e della sublime virtù
che perdona, istruisce e consola, e che sacrificando se stessa per
l'umanità, rende inutili gli altri sagrifizj cruenti. La irrequietudine
degli Ebrei in Roma, e massime contro i convertiti, indusse Claudio
a cacciarli, e allora Pietro sarà tornato nell'Asia[202]. Esprimo in
via di probabilità, giacchè, nell'età dell'orgoglio, questi grandi
rinnovatori del mondo lasciarono ignorare il loro cammino.

Saulo o Paolo, di Tarso in Cilicia, municipio romano, da fiero
persecutore de' Cristiani ne divenne apostolo (35), e fu eletto a
diffondere il vangelo tra i Gentili; il che egli fece non soltanto
colla parola, ma con quattordici epistole, dove chiarisce molte
dottrine che erano custodite per tradizione, e inculca che veruna fede
non è ristretta a veruna nazionalità. Gallione proconsole dell'Acaja
risedeva in Corinto, quando Paolo v'andò a predicare, e molti gli
credevano e battezzavansi. Gli Ebrei lo presero in ira: l'ira consueta
degli oppressi contro chi cerca rigenerarli moralmente; e il condussero
al proconsole, imputandolo d'insegnare un diverso modo d'adorar Dio;
ma Gallione li rimbrottò, e — Se costui ha commesso qualche delitto,
indicatelo; ma se si tratta delle vostre solite quistioni di parole e
casi della legge vostra, sbrigatevela fra voi»[203].

Un'altra volta, mentre predicava nel tempio di Gerusalemme (38), gli
Ebrei lo assalsero e maltrattarono, finchè s'interpose la guarnigione
romana. Lisia, colonnello di questa, al cui arbitrio era commessa la
quiete della città, volea farlo bastonare, ma Paolo disse: — No, perchè
io son cittadino romano». Verificata tale asserzione, il colonnello
lo sottopose a un concilio di sacerdoti; ma tra questi alcuni erano
sadducei che negavano l'immortalità, altri farisei che ammettevano
la resurrezione de' morti; perocchè gli Ebrei pativano di quell'altra
scabbia degli oppressi, la sconcordia d'opinioni e i rancori reciproci:
onde cominciarono abbaruffarsi fra loro. Il colonnello, vedendo non si
trattava d'alcuna colpa, tolse seco Paolo perchè non soffrisse nuove
ingiurie, e lo mandò a Felice governatore della Giudea. Accorse il
gransacerdote ebreo con altri ad accusarlo; ma Felice, visto che erano
dispute religiose, tenne Paolo in larga custodia a Cesarea per due
anni, intanto ascoltandolo discutere sulla giustizia, sulla castità,
sul giudizio futuro: avviata poi la processura, Paolo appellò al
tribunale di Cesare, laonde fu da Festo, successore di Felice, mandato
a Roma. Tra molti prodigi egli vi approdò; e lasciato alla libera
custodia d'un soldato, con ogni fidanza e senza verun divieto[204] vi
stette due anni predicando.

Reduce in Asia, da Corinto diresse ai Romani una celebre epistola, in
cui rinfaccia a' Giudei convertiti la carnalità e il volere angustiarsi
nelle cerimonie, mentre quel che importa è la grazia del Signore,
necessaria per essere santificati in virtù della fede in Cristo, la
qual fede è il principio della giustificazione: ai Gentili rimprovera
la soverchia fidanza nella propria ragione, mentre le cognizioni di
cui superbivano, traevanli a peccato; la scienza di suprema importanza
esser quella di Dio; i savj, quando s'ingloriarono de' proprj
pensamenti, caddero nell'accecamento e nella superstizione, e Dio
li lasciò in balìa delle passioni loro: pertanto e Gentili e Giudei
convertiti si rispettino a vicenda, nè in altro si glorifichino che in
Cristo Gesù. Tornato poi a Roma e messo prigione, Paolo di là scrisse
una lettera agli Ebrei, mostrando l'insufficienza della legge mosaica
dopo venuto chi la perfezionava e compiva.

Di queste missioni poco si brigava l'orgoglio romano, finchè non venne
occasione di perseguitarne i proseliti. Da poi che Nerone ebbe messo
fuoco a Roma, nè sacrifizj agli Dei nè ordini ai magistrati nè profuso
denaro o promesse di più elegante ricostruzione chetarono il dispetto
della plebe. «Si ricorse anche ai Libri Sibillini; fu supplicato a
Vulcano, Cerere, Proserpina; e da matrone prima in Campidoglio, poi
alla più pressa marina, fatta Giunone favorevole; e di quell'acqua
fu asperso il tempio e l'immagine della dea, poi da maritate vi si
fecero i lettisternj e le vigilie. Ma nè opera umana, nè prece divina,
nè larghezza da principe gli scemava l'infame taccia dell'avere
arso Roma». L'imperatore, che poteva ridurre al silenzio i senatori
coll'ucciderli, era costretto rispettare il popolo; onde, con un
artifizio unico e sempre nuovo, pensò stornare da sè quella colpa col
versarla sopra cotesta nuova setta di filosofi, la quale, aborrendo
dalla sozza corruttela e dal vigliacco umiliarsi, e non riconoscendo
nei Romani una natura superiore alle altre genti, nè quindi il
diritto di opprimerle, faceva dispetto alla tiranna del mondo. Adunque
«processò e con isquisitissime pene castigò quegli odiati malfattori,
che il vulgo chiamava Cristiani da un Cristo, il quale, regnante
Tiberio, fu crocifisso da Ponzio Pilato procuratore. Per allora fu
repressa quella semenza; ma rinverziva non pure nella Giudea dove
nacque quel male, ma anche a Roma, dove tutte le cose atroci e brutte
concorrono e acquistano celebrità. Furono dunque prima catturati i
Cristiani che professavano apertamente, quindi gran turba, indicati non
come colpevoli dell'incendio, ma come nemici del genere umano».

Per l'odio dunque cominciavano i Romani a conoscere una religione,
che tutti voleva congiungere nell'amore. Con supplizj della peggior
guisa li perseguitarono, e imitando quel che il loro padrone
faceva ai patrizj, unirono all'atrocità l'insulto; quali avvolti in
pelli d'animali esibendo ai cani, quali esponendo nel circo, quali
bruciando vivi, e de' loro corpi servendosi la sera come di fanali
ne' voluttuosi giardini di Nerone, posti in quel colle Vaticano, su
cui la religione allora nascente doveva poi piantare il suo trionfale
padiglione. «Nerone vi celebrò la festa Circense, vestito da cocchiere
in sul carro, e spettatore fra la plebe; onde di que' tristi, sebbene
meritevoli di ogni più nuovo supplizio, veniva pietà, non morendo essi
per pubblico bene, ma per crudeltà di lui solo»[205]. Vuole la costante
tradizione che in quell'occasione Pietro e Paolo suggellassero la fede
loro col martirio (67 — 29 giugno), consacrando del loro sangue una
terra, che da tant'altro era contaminata.

Ma già eransi moltiplicati i Cristiani in Roma, in Italia. Da principio
adoperavano ogn'arte per nascondersi, convegni segreti, segni di
convenzione, lettere e tessere di riconoscimento, scatole in cui
portare il viatico agl'infermi, ai prigionieri, a chi non poteva uscir
di casa; intanto si estendevano fra i poveri, fra i giovani, fra le
donne. La donna convertita è seme che germoglia presso al focolare
domestico; e se non può al consorte, ispira ai servi ed ai figliolini
nuove massime, nuove ammirazioni, desiderj nuovi. La famiglia di
Priscilla fu la prima che, dalle idee orgogliose su cui riposava il
patriziato antico, passò ai sentimenti della fraternità umana che
costituiscono la cristiana uguaglianza. Tre Priscille, molte Lucine,
Ilaria, Flavia, Severina, Firmina, Giusta, Ciriaca, altre ricche vedove
trasformate in diaconesse, passavano i giorni pregando sulle tombe dei
martiri, che aveano ornate colla cura e col segreto onde altre loro
pari allestivano i gabinetti lascivi; madri e vergini sante espiavano
per quelle che si prostituivano in onor delle dee, pregando assidue, e
soccorrendo chiunque abbisognava o soffriva. Quando la dea Vesta più
non trovava chi volesse votarle la verginità, molte fanciulle a gara
s'offrivano alla custodia delle ossa dei martiri. Più tardi colle loro
ricchezze fondarono spedali, monumenti di carità opposti a quelli di
strage e di contaminazione. Di tal passo la donna recuperava la libertà
naturale, sottraevasi, foss'anche schiava, all'arbitrio d'un padrone, e
cancellava la legale sua inferiorità[206].

L'adorazione dell'uomo è l'adorazione del male; il culto dei Cesari
è l'infimo grado dell'idolatria; i costumi dell'età loro sono la
cloaca dell'impurità, dell'inumanità e della divisione, le tre grandi
conseguenze dell'idolatria. Da un lato dunque «opere della carne,
dimenticanza di Dio, incostanza di matrimonj, avvelenamenti, sangue ed
omicidj, furti ed inganni, orgie, sacrifizj tenebrosi, uomini uccisi
per gelosia, o contristati coll'adulterio, tutte le cose confuse, e
una gran guerra d'ignoranza che la follia degli uomini chiama pace»;
dall'altro lato «tutti i frutti dello Spirito, carità, gioja, pace,
pazienza, benignità, bontà, longanimità, dolcezza, fede, modestia,
temperanza, castità»[207]; ai quattro caratteri dell'antichità se ne
oppongono quattro nuovi, fede pura all'idolatria, carità allo spirito
di malevolenza, giustizia al disprezzo delle vite, castità alla
corruzione. Siffatta guerra cominciava col Vangelo.

Nella Roma incestuosa e micidiale, anime che il mondo non era degno
di possedere viveano nelle caverne, aspettando intrepide, ma non
accelerando l'ora di fecondare del loro sangue la pianta della
rigenerazione. Attorno alle città d'Ostia, di Velletri, di Tivoli,
di Preneste e Palestrina, e nelle valli che con cento flessuosità
sboccano nella pianura del Lazio; accanto alle tane, ove i padroni
chiudevano la sera centinaja di schiavi alla bestemmia ed agli
indistinti concubiti, trovi altre caverne, scavate nel tufo di cui si
fabbricavano le voluttuose ville: e dentro quelle nei gemiti e nella
preghiera si rigenerava l'umanità. Colà i Cristiani sepellivano i morti
entro nicchie che poi muravano, chiudendovi insieme gli strumenti
del supplizio, un'ampolla del sangue, le insegne della dignità o
dello stato; e questi asili della morte denominavano _cimiterj_, cioè
dormitorj, espressione d'una coscienza pura, consolata nella certezza
di svegliarsi ad altra vita; e colà venivano ad orare. Ivi nessun
altro ornamento che l'avello d'un martire, pochi fiori, alcuni vasi di
legno, qualche cero o lampada, al cui lume leggere il Vangelo, cioè i
libri nei quali i compagni di Cristo o i loro discepoli aveano esposto
semplicemente la vita e gl'insegnamenti di lui, i precetti e l'esempio;
ed invocavano la grazia di adempirli e d'imitarlo. E in quel leggere e
in quel pregare consisteva la loro cospirazione.

Uniti nella credenza stessa, nella stessa morale, nella stessa
speranza, davano bando alle inumane distinzioni del secolo: il ricco
sedeva presso al povero cui sostentava coll'aver suo: le vergini del
vulgo, coperte di bianco lino, con al collo gli amuleti dell'agnello
di Dio che toglie i peccati, alternavano litanie colle matrone e colle
vedove de' senatori e dei proconsoli, che avevano data ogni ricchezza
all'assemblea de' fedeli, e spargevano i ristori della carità: e mentre
l'egoismo rodeva a morte la società antica, qual sovrabbondanza di
vigore in quella nuova, dove l'amore nasceva dall'inesausta fonte della
fede, e dove convincendosi della debolezza dell'uomo, acquistavano
la forza che viene da Dio! Il vescovo, il prete, il diacono, cioè a
dire l'ispettore, il vecchio, il servo, presedevano all'adunanza, non
distinti se non per maggior virtù, carità e dottrina nel soffrire, nel
rimetter pace, nel compatire e consolare, nello spezzare il pane della
parola, e per lo stupendo privilegio d'immolare il Figlio al Padre,
vittima incessante per le colpe, e di legare o sciogliere i peccatori
tra l'effusione della Grazia.

Quivi entro, la vigilia delle solennità i sacerdoti davansi lo scambio
per cantar tutta notte inni al loro Signore; e quella melodìa serviva
di guida ai fedeli, che sbucati di piatto dalla città o dall'ergastolo
degli atroci padroni, venivano a trovarvi gli anziani mutili nel
martirio, i vescovi rapiti miracolosamente al rogo, i filosofi che,
mutati in apostoli, avevano finalmente rinvenuto il nodo delle agitate
quistioni, e che s'accingevano a recare il vero alle genti assise
nell'ombra della morte, e a confermarlo col proprio sangue.

Le feste dell'idolatria erano allusioni a fenomeni naturali, ovvero
patriotiche rimembranze, spesso contaminate da impurità e bagordi:
nelle cristiane, l'esultanza era espressione del rinascimento
spirituale. Là interrogavasi con ansietà il futuro; qui si confidava
nell'onniscienza divina; e lo spirito, sgombro dal timore di sinistri
presagi, trovava la spiegazione della vita in ciò che dee venire dopo
di essa. Chi potesse, recava qualche denaro ogni mese onde nodrire e
sotterrare i poveri, sostentare gli orfani, i naufraghi, gli esuli,
gl'imprigionati. Come fratelli, erano disposti a morire gli uni per gli
altri: tutto avevano in comune, eccetto le donne: nel loro mangiare
insieme, che chiamavasi far carità (agape), libavano il calice del
sacrosanto sangue; poi i cibi, ricevuti a gloria di Colui che li dà,
rallegravano la sacra accolta nella fratellanza dell'affetto e nella
gioja del perdono e del sagrifizio.

La società periva per l'egoismo e l'isolamento? eccola salvata
dallo spirito d'associazione e da quell'amore che mancò sempre al
gentilesimo, perchè Dio solo poteva insegnarlo. Il cristianesimo è
dottrina di redenzione, sicchè primo merito pone il praticare la carità
fino a dar la vita. Per accrescere il bene del prossimo, ognuno ha
l'obbligo d'esercitare l'industria, scoprire, progredire; è pertanto
anche dottrina d'attività e d'avanzamento, mentre gli antichi, fondati
sopra l'idea del decadimento, vedevano il male e la disuguaglianza
fra gli uomini come una necessità, soffrivano e lasciavano soffrire.
Colla parola «Siate perfetti come il Padre mio celeste», è imposta
alle età nuove la missione di procedere, di lottare; e se il verbo
di Dio non mente, andrà svolgendosi ed effettuandosi ognor meglio
la legge di giustizia e d'amore; e poichè in questa consiste il
perfezionamento anche dell'ordine temporale, indefettibile ne sarà il
progresso, divenuto legge naturale dell'umanità. Ne conseguiva anche la
libertà[208], la quale, sbandita d'ogni luogo pel deleterico influsso
dell'egoismo, ricovera nel santuario, protetta dalla fede di Colui pel
quale regnano i re.

Veramente Cristo, la cui riforma era morale e non politica, non
mutò l'ordinamento materiale del mondo visibile: ma la scienza delle
intime relazioni della terra col cielo, del tempo coll'eternità, del
contingente col necessario, riesce ad innovarlo, porgendo un canone di
eterna giustizia; e coll'impedire che mai più gli uomini si considerino
altri come fine, altri come mezzi, pianta la libertà vera, generata
dalla fede, dalla pratica della virtù e dalla cognizione della verità.

— Chi vorrà esser primo, si farà servo degli altri, come il Figliuol
dell'uomo che venne non per essere servito ma per servire, e dar la
vita ad altrui redenzione». Queste parole segnano il rigeneramento
della società, sostituendo alla tirannide, ove pochi godono e molti
patiscono, il governo per vantaggio di tutti; e rendendo un dovere non
un piacere il diriger gli uomini. Il superiore sa d'essere obbligato
a servire alla grande società umana, nè quindi inorgoglisce della
sua posizione; l'inferiore vede nel magistrato l'uomo costituito a
vantaggio di lui, e quindi lo ama e seconda: i potenti riconoscono i
diritti dei sudditi, questi la soggezione, dovuta per riguardo a Colui
che è unica fonte della podestà: e gli uni e gli altri s'accordano nel
volere soltanto ciò che è volontà del comun padrone.

Cristo designò l'uomo che, lui morto, dovea farsi _servo dei servi_;
e così fondò l'unità del governo visibile, che non avendo il suo
regno in questo mondo, avvicinasse più sempre gli uomini al regno di
Dio, il quale consisterà nell'unità di credenze e d'affetti. A tal
uopo è stabilito un potere sulle coscienze, al quale appartenga il
risolvere ogni dubbio e determinare le credenze. Nulla esso possiede
di violento; uniche armi sue la persuasione, e la Grazia invocata, e la
infallibilità promessa da Colui, che prega in cielo affinchè la fede di
Pietro non venga meno.

A prima vista parrebbe dispotico cotesto governo della Chiesa, che
impone quanto s'ha da credere, estende l'imperio sulla coscienza,
e proscrive il dissenso: ma l'infallibilità sua esso trae da un
principio superiore all'uomo, e tale da acquetar la ragione; tutto
fa pubblicamente per lettere, dibattimenti, concilj, tanto che non
si prende alcuna determinazione se non per deliberazioni comuni: le
assemblee diocesane, provinciali, nazionali, ecumeniche adombrano quel
governo rappresentativo, che divisavasi testè come il più alto punto
del politico progresso.

Esso governo spirituale, non che contrastare col governo terreno,
imporrà d'attribuire a Cesare ciò che gli appartiene; ma a fronte
di Cesare ergerà dottrine che, insinuandosi nella vita sociale, la
modifichino, ed esempj, la cui santa evidenza trascini ad imitarli.
Pertanto nella società mondana v'avrà nazioni distinte; nella religiosa
un'_adunanza universale_ (Chiesa cattolica): colà il lignaggio dà
potenza e decoro; qui tutto deriva dal merito personale, senza gradi nè
privilegi ereditarj, talchè il nato nell'infimo grado potrà ascendere
al primato e fin agli altari: colà la forza impone i regnanti, e
il talento di questi destina i magistrati; qui tutto va per libera
elezione, dall'acòlito sino al pontefice: colà eserciti che soggiogano
i corpi, qui apostoli che convincono l'intelletto e inducono la
volontà: colà imperatori che decretano, qui diaconi, preti, vescovi che
istruiscono e consigliano: colà giudizj che puniscono, qui un tribunale
ove il confessare i delitti li espia; e se v'ha chi persiste nella
nequizia e scandalizza i fratelli, la pena più severa sarà l'escluderlo
dalla Chiesa, sicchè non partecipi alla preghiera ed al convito de'
buoni: ivi insomma la materia, qui lo spirito; ivi la coazione, qui
la coscienza. La carità cristiana toglie dunque l'uomo dal giogo
dell'uomo; come contro la propria debolezza, così lo difende contro
l'oppressura altrui, intimando, — Guaj a chi sprezzerà uno di questi
piccoli».

Cristo, imponendo ai discepoli la propria indigenza volontaria,
una legge di patimento e d'abnegazione, ruppe il fascino delle
grandezze pagane; il livello della povertà, sotto cui abbassava tutti,
diveniva livello d'indipendenza; sicchè agli splendori dell'antichità
sottentrassero la fraternità e l'eguaglianza. Allora il diritto succede
al fatto; il pensiero e la coscienza umana, volontariamente sottomessi
a Dio, da Dio solo vogliono dipendere, vero e primo sovrano, dal quale
Cristo fu investito della suprema podestà. Da Dio dunque soltanto e dal
suo Verbo deriva agli uomini il diritto di comandare. I principi aveano
fin allora dominato solo sui corpi colla forza; allora governerebbero
anche gli spiriti col diritto che deducevano da una fonte superiore.
A vicenda i popoli dall'obbedienza forzata passavano alla consentita,
prestandola non ad un uomo fallibile e peccatore, ma a Dio, e spegnendo
così i due demoni della tirannia e della rivolta.

L'obbedienza nascendo dalla persuasione, non avvilisce col sommettere
l'uomo ai capricci dell'uomo[209]; riduce il principe a ministro di Dio
pel bene, e i governi a provvedere che sia rettamente distribuita la
giustizia, senza potestà nè azione sopra il pensiero e le coscienze.
Ma se Dio è la potenza, non sempre è di Dio l'uomo che la esercita, nè
l'uso che ne fa; e quegli e questo sono subordinati al diritto eterno.
Nessun uomo possedendo autorità per se stesso, qualvolta surroghi
all'eterno diritto la potenza propria, si fa usurpatore; demerita
l'obbedienza qualvolta l'arroganza propria sostituisca a quella legge
superna, di cui è interprete la Chiesa[210].

Perocchè al di sopra di questi criterj del vero, di quest'autorità del
giusto è collocata la Chiesa, società delle anime legate al cospetto
di Dio dalle medesime credenze, depositaria immutabile delle verità
eterne, e insieme oracolo vivente nelle dispute a cui soggiace ogni
verità quando è consegnata all'uomo; affinchè, assicurando la libertà
nel vero, repudii la libertà nell'errore, combattuto sotto qualsiasi
forma perchè gli manca il diritto. Rappresentando la natura umana
ancora scevra dal peccato, essa è incapace di errare come di morire; e
afferma o nega competentemente i primi veri, su cui si fondano non solo
la religione, ma la famiglia, la società civile e la politica; una nel
capo, molteplice nei membri.

Erano dunque finalmente riconciliati scienza e dovere, filosofia e
religione, morale e politica; derivate tutte dalla medesima sorgente;
era costituito il criterio del sapere, degli affetti, delle azioni.
Quanti secoli però, quanto sangue, prima che la verità divenisse
trionfante, s'inviscerasse nella società, e portasse le indefinite
sue conseguenze e le applicazioni morali e civili! Ma ancora ne' mali
inseparabili dalla condizione umana recherà balsami la carità, intenta
a diminuirli o a consolarli coll'elevare gli occhi del soffrente al
Cielo che è per lui.



CAPITOLO XXXVI.

Galba. — Otone. — Vitellio.


Fin qui erano succeduti imperatori della famiglia Giulia, o imparentati
o adottivi di essa; e il senato davasi l'aria di eleggerli: ma ora,
al vedere una persona nuova, creata dai soldati, il senato comprende
essersi rivelato che l'imperatore si può fare anche fuor di Roma[211].

Servio Sulpizio Galba da Terracina, nobile, ricco, preconizzato
all'impero da mille augurj, nella sua pretura avea ben meritato del
popolo col l'introdurre il nuovo spettacolo d'elefanti che ballavano
sulla corda. Buon capitano, sotto Nerone fece l'addormentato per non
attirarsi sospetti; e governando la Spagna Tarragonese, represse i
concussori, ed acquistò l'amore della provincia. Insorto contro Nerone
(68) per restituire (diceva) il massimo dei beni, la libertà rapita da
un mostro, come l'udì morto assunse il titolo d'imperatore, ed avviossi
a Roma, auspicando male il regno col punire le persone e le città che
aveano ricusato secondarlo nella sollevazione, e trucidare i complici
e fautori di Ninfidio Sabino, comandante ai pretoriani, il quale avea
voluto farsi gridare imperatore.

Un corpo di marinaj, che Nerone aveva ordinati in legione, gli va
incontro a Ponte Milvio chiedendo essere confermati; e perchè al suo
niego si ammutinano, Galba li fa assalire dalla cavalleria, settemila
uccidere tra in battaglia e per castigo, i restanti in prigione
finch'egli visse. Altri supplizj tennero dietro, ordinati freddamente:
pregato a risparmiare ad un cavaliere l'infamia, comanda che il palco
sia dipinto, e ornato di fiori.

Il popolo esultò quando vide messi a morte gli strumenti di Nerone,
fra cui Narcisso e l'avvelenatrice Locusta; e qualora Galba uscisse in
pubblico, gli chiedeva a gran voce il supplizio di Tigellino: ma costui
a grosse somme comprò lo scampo. Di ciò fu scontenta la plebe, come
della parsimonia che Galba credeva necessaria dopo i pazzi scialacqui
precedenti. A un senatore che il ricreò tutta una cena, regalò una
moneta, avvertendolo, — È di mia borsa, non dell'erario». Se vedesse
imbandigione più dispendiosa del solito, soffiava. Le prodigalità del
suo antecessore volle cincischiare, ordinando che, chiunque n'avea
ricevuto doni, ne restituisse nove decimi, creando per questo un
tribunale che turbò i possedimenti, e più scontentò che non arricchisse
l'erario. Negò ai pretoriani il donativo, rispondendo: — Ho scelto
i soldati, non li voglio comperare»; voce degna d'un prisco Romano,
s'egli l'avesse coi fatti sostenuta.

Ma avea messo il capo in grembo a favoriti indegni, i quali non era
malvagità che non si permettessero; nei giudizj e negli impieghi non
guardavano a merito, a diritto o a torto, ma a chi più desse: laonde
si rinnovavano le miserie e gli orrori del tempo di Nerone; e l'odio
de' costoro delitti accumulandosi sopra Galba col disprezzo per la sua
inerzia, faceva intollerabile il dominio. Vedendosi sprezzato ed esoso,
e udita la rivolta d'alcune legioni di Germania, Galba stabilì adottare
un successore. E fu Pisone Liciniano, giovane reputato per modestia e
severità: e l'esortò a portare la superba fortuna, come sin là aveva
l'umile sostenuta; essere accorciatojo al ben regnare l'osservar quali
cose si condannerebbero in principi; ricordasse di aver a governare
gente che nè la libertà sapeva tollerare, nè la servitù.

I soldati e i senatori annuirono alla scelta, ma Marco Salvio Otone,
inveterato negl'intrighi di Corte, essendo stato caldo sostenitore
di Galba, sperava da lui quel premio: deluso, e nulla avendo a
sperare nella quiete, tutto nel sovvertimento, macchinò; i debiti,
le insinuazioni dei liberti, i presagi d'indovini e di pianeti, la
scadente autorità di Galba, la non ancora assodata di Pisone, lo
fecero ardito a lasciarsi proclamare imperatore (69) da non più che
ventitre guardie pretoriane. Ben tosto altri ed altri si aggiunsero;
gl'indifferenti non si opponeano, i contrarj stavano a guardare. Pisone
uscì, mostrando di che turpe esempio sarebbe il tollerare che non
trenta disertori dessero il padrone al mondo; sicchè il popolo empì
il palazzo gridando morte a Otone, siccom'era solito nei teatri, e non
già per amore o per idea del meglio, ma per la consuetudine di adulare
i principi con vano favore, pronti a gridare il contrario un'ora
appresso.

E Otone esce con mani tese e picchiar petto e gittar baci e ogni
umiltà: se gli fa turba intorno di curiosi o di fautori; e prima
i pretoriani, poi la legione de' marinaj, memore dell'insulto,
gli prestano giuramento. Galba, svigorito dai settantatre anni e
dall'infingardaggine, compare armato in sedia; è forbottato senza
consiglio (69 — 15 genn.) fra una moltitudine non tumultuante, non
quieta; e da tutti abbandonato, agli assassini presenta tranquillamente
il petto, dicendo: — Ferite, se così comple alla repubblica». Regnò
otto mesi, piuttosto scevro di vizj che dotato di virtù; e fu detto di
lui, che parve degno dell'impero finchè nol conseguì.

Senato, popolo, cavalieri, come fossero tutt'altra gente, corsero a
chi prima al campo, bestemmiando Galba, ad Otone baciando la mano e
ammassando titoli e applausi, più vivi quanto meno sinceri. Otone gli
accoglieva cortese, e procurava rattenere i soldati dal sangue e dalla
ruba; ma aveva autorità di comandare il delitto, non d'impedirlo, e
dovette a lor capriccio deporre ed alzare magistrati. Vinnio, Laco,
Icelo, Pisone, indegni favoriti, furono trucidati, e con loro molti
innocenti e rei, come avviene nelle sommosse: la giornata micidiale si
conchiuse con feste e falò: al domani il pretore, convocati i padri,
fece decretare la podestà tribunizia ad Otone, che, attraverso le
insanguinate vie di Roma, salì al Campidoglio, ove ottenne il titolo di
cesare augusto, perdonò le ingiurie, o forse differì la vendetta, che
dalla brevità del regno gli fu impedita.

Gli eserciti che davano l'impero, potevano anche ricusarlo. Nella
Bassa Germania, Aulo Vitellio, tratti dalla sua i governatori della
Gallia Belgica e della Lionese, e i campi dell'Alta Germania, della
Rezia e della Britannia (69), si fece gridare imperatore, e prese
l'autorità, premiando e punendo; poi avviò verso Italia Fabio Valente
pel Cenisio, Alieno Cecina pel Sanbernardo cogli eserciti; e presto udì
che i paesi fra l'Alpi e il Po si sottometteano, non per benevolenza
od ira, ma perchè indifferenti a qual obbedire fra due pretendenti,
egualmente spregevoli. Otone, strappatosi dai voluttuosi ozj, mostrasi
assiduo agli affari, blandisce il popolo con elocuzioni, il senato
colle dignità, colle largizioni i pretoriani; perdona ad alcuni;
ordina a Tigellino di morire; tenta smovere Vitellio dall'impresa con
larghe promesse, fin d'associarselo all'impero: patti simili propone
Vitellio; poi l'uno all'altro avventano ingiurie enormi e meritate,
l'uno all'altro spediscono assassini. I pretoriani tumultuano; i
cittadini rimangono col batticuore d'una guerra civile; nessun partito
osava prendere il senato, perchè ogni parzialità, mostrata oggi a un
imperatore, poteva domani dar pretesto alle vendette dell'altro. Lo
sgomento era cresciuto da fantasmi apparsi, statue rivoltesi, mostri
nati; un bove parlò in Etruria; il Tevere traboccando portò via i
viveri. La gente, fiaccata dalla lunga pace, vuol mostrarsi bellicosa
col comprare belle armi, insigni cavalli, e banchettare, dissimulando
la paura quanto più n'avea.

Per togliersi a quell'intradue, Otone mosse incontro al pericolo
colla più parte de' magistrati e de' consolari, e colle coorti
pretoriane. La guerra fu atroce come sogliono le civili, sostenute
da stranieri ausiliarj: finalmente a Bedriaco[212] l'esercito d'Otone
andò squarciato (20 aprile). A questo in Brescello ne recò notizia un
soldato, il quale vedendosi non creduto, quasi fosse fuggito per viltà,
si trafisse colla propria spada. L'imperatore a quell'atto esclamò: —
Non sia mai che gente sì prode e affezionata resti, per mia cagione,
esposta a nuovi pericoli». E per quanto i soldati lo confortassero,
mostrando che non era a disperare, che tutti voleano dar la vita per
esso, e gliel provassero coll'uccidersi, altri gli dicessero essere
grandezza d'animo il soffrire le calamità, non il sottrarvisi, egli li
supplicava a lasciarlo sagrificare la sua per salvare la vita di tanti,
e, — Non trattasi di combattere Pirro o i Galli, ma concittadini, nè
la vittoria può venire senza molto sangue fraterno. Vitellio prese le
armi; io dovetti difendermi; ma la posterità sappia che una sola volta
esposi per me Romani contro Romani. Vitellio troverà vivi il fratello,
i figli, la donna sua. Se altri l'impero tenne più a lungo, nessuno
l'abbandonò più generosamente. Di veruno io mi lagno; chè il querelarsi
degli uomini o degli Dei al venir della morte, è un mostrarsi cupidi
della vita».

Chi così parlava era stato mezzano e parte alle turpitudini di Nerone,
che gli affidò Poppea sinchè non si fosse tolta d'attorno Ottavia;
s'era affogato nei debiti; spelavasi tutto il corpo e radeva la faccia
ogni dì, rammorbidiva la pelle con mollica bagnata, portavasi sempre
a lato uno specchio, e a quello componevasi in aria marziale prima di
camminare al nemico. Indotti i suoi a non ritardare la risoluzione sua,
s'accinge ad uccidersi la sera, poi dice: — Aggiungiamo anche questa
notte alla vita»; colloca sull'origliere due pugnali, s'addormenta, e
la mattina si trafigge (21 aprile).

Piangendo un imperatore che a trentasette anni moriva per salvarli,
i guerrieri suoi levarono un rumore, pericolosissimo perchè non era
chi li quietasse; esibirono l'impero senza trovare chi l'aggradisse; e
mentre il senato si chiariva per Vitellio, e decretava ringraziamenti
alle legioni di Germania, la militare licenza infieriva d'ambe le
parti col pretesto di punire gli avversi. Vitellio accorso, perdonò
ai primarj uffiziali dell'emulo, gli altri punì di morte; nel campo
di Bedriaco, tuttavia coperto degli insepolti, compiaceasi vederne le
ferite, e diceva: — Il cadavere d'un nemico sa buono, più buono se è un
cittadino»; e fatto recar vino, bevve e ne distribuì, rivelandosi qual
era goloso e crudele.

Su tutto il suo cammino fu una gara di portargli quel che di squisito
porgesse il contorno; i migliori cittadini erano raccolti a splendidi
banchetti; ed i soldati l'imitavano, sicchè il suo campo sarebbesi
detto un baccanale. Sebbene n'avesse congedato e sbrancato parte,
pure settantamila armati, oltre i saccomanni e i servi, attraversando
l'Italia al tempo della messe, la sperperarono, svergognando,
saccheggiando, vendendo come in guerra rotta. L'imperatore entrava in
Roma con corazza e spada, a foggia di conquistatore che si cacciasse
innanzi il senato e il popolo, se non l'avessero gli amici avvertito
di risparmiare questo nuovo insulto ed assumere abito di pace.
Nell'arringa al popolo e al senato sciorinò la solerzia e la temperanza
sua; e popolo e senato, che ne sapevano la gola e le disonestà,
applaudirono.

Con uno de' primi decreti proibì ai cavalieri romani di darsi
spettacolo sul teatro e nell'arena; con un altro sbandiva gli
astrologi; ed essendosi affisso un cartello che annunziava Vitellio
morrebbe il giorno che gli astrologi uscissero di Roma, egli fece
ammazzare quanti ne colse. Era frequente al teatro e al circo, assiduo
al senato, ove avendolo Elvidio Prisco contraddetto, egli soggiunse: —
Nessuna meraviglia che due senatori tengano contrario avviso». Trovato
un catalogo delle persone che avevano sollecitato premj da Otone come
uccisori di Galba, li fece morire, men per punizione del passato che
per riparo all'avvenire. Inetto però a gravi cure, le lasciava ai
favoriti Valente e Cécina che gli avevano dato l'impero, e ad Asiatico
di cui aveva usato in turpi servizj; e forse alle costoro suggestioni
vanno imputati i tanti omicidj di cui Vitellio si macchiò, fin della
propria madre.

Egli intanto badava agli aguzzamenti dell'appetito. Immaginò un
piatto, detto lo scudo di Minerva per la prodigiosa capacità, dove
si raccoglieva quanto potesse meglio solleticare palato o capriccio
d'uomo; cervella di fagiano, fegati di scaro, latte di lamprede, lingue
di rari uccelli a mille colori, pigliati dalla muda ad una cert'ora;
femmine sorprese sulla covata, maschi interrotti nel sonno, perchè
l'agitazione ne fa il fegato d'un mangiare delizioso; fregoli di pesce,
staccati dal fondo dei laghi al modo che si pescano le perle; altri
pesci spediti a Roma coll'acqua stessa in cui furono côlti; poi funghi,
di cui si spiava il nascere nelle umide notti; poma imbarcate cogli
alberi loro e col giardino ove crebbero, affinchè Cesare le cogliesse
di propria mano e godesse le primizie della fragranza e della lanugine.
Fin a cinque desinari sedeva in un giorno, e ciascuno d'ingente
dispendio; invitavasi da un amico a colazione, dall'altro a pranzo, dal
terzo a merenda, a cena dal quarto nel giorno stesso, e gareggiavano
a chi più lautamente gl'imbandisse; ma tutti vinse Lucio suo fratello,
che gli allestì duemila piatti di pesci, e settemila degli uccelli più
squisiti al mondo. Ovunque egli passasse, bisognava riporre i cibi,
altrimenti dava del dente in tutto, sparecchiava le are degli Dei, e
nove milioni di sesterzj in pochi mesi ingolò. Altro denaro straziò in
murare stalle, dar corse e spettacoli di gladiatori e di fiere, e nelle
splendide esequie di Nerone, liete alla ciurma, esecrate dai buoni.

Gli turbarono, non ruppero i sozzi riposi le notizie d'Oriente.
Vespasiano, che osteggiava i Giudei, udita la morte di Nerone, mandò
Tito suo figlio a congratularsi con Galba; ma avendo saputo per via
il tracollo di questo e l'accapigliarsi di Vitellio e Otone, Tito
diede volta per esortare il padre a mettersi anch'egli competitore. Le
legioni d'Oriente non aveano diritto d'imporre all'orbe il padrone,
quanto quelle della Germania e della Gallia? Vespasiano, tenuto
alquanto in bilancia dalla gravezza de' sessant'anni e del rischio,
alfine lasciò da esse proclamarsi imperatore. Le provincie d'Oriente
fino all'Asia e all'Acaja non esitarono a giurargli obbedienza; a
Berito stabilì un senato per dibattere gli affari, richiamò veterani,
cernì novizj, fabbricò armi, battè moneta, e postosi in Egitto, contro
di Vitellio spedì Crasso Muciano, comandante agli eserciti nella Siria.
Il quale, crescendo di forze alla giornata e imponendo tasse, venne in
Europa (69), ove le legioni, dall'Illiria alla Spagna e alla Bretagna,
acclamarono Vespasiano. L'esercito illirico, guidato da Antonio Primo,
calasi dalle Alpi; Aquileja, Altino, Este, Padova, Vicenza, Verona sono
sorprese, e così separate da Vitellio l'Alemagna e le Rezie; Cecina,
che comandava gli eserciti di esso, lo tradì; la flotta di Ravenna
gridò Vespasiano; finalmente sotto Cremona si fe giornata. Trentamila
Vitelliani caddero (29 8bre) uccisi da compatrioti ed amici; un figlio
ammazzò il proprio padre, e riconosciutolo nello spogliarlo, il pregò
di non maledirlo, e gli scavò la fossa. Preso il campo de' Vitelliani,
Cremona fu assalita, e per quanto Antonio Primo desiderasse campare una
città cinta di amenissime ville, piena di gente accorsa ad una solenne
fiera, e dove erano riposte tante ricchezze, non potè frenare l'agonia
delle prede e l'odio antico; e saccheggiata per quattro giorni, fu
distrutta. Primo vietò ai soldati di tener prigioniero verun Cremonese:
ed essi gli ammazzavano.

Vitellio, come altri potenti di altre età, credeva ovviare il pericolo
col non parlarne; guaj a chi in Corte toccasse delle atroci novelle!
mandava spie a scandagliare nel campo di Vespasiano, e tosto le faceva
uccidere perchè non palesassero. Fra ciò designava consoli per dieci
anni, dava la cittadinanza a stranieri con larghissime concessioni, e
nelle sale di Roma e nei parchi di Aricia, dimenticando il passato, il
presente, l'avvenire, bagordava, lussuriava. Giulio Agreste centurione,
cercato invano di scuoterlo, gli chiese licenza d'andar a verificare
coi proprj occhi le forze e la postura del nemico; e visto Cremona
ruinata, le legioni prigioniere e il campo vigoroso, tornò, ne diede
certezza a Vitellio, e trovandolo incredulo, per testimonio di sua
veracità si uccise. In sì lieve conto tenevasi la vita!

Alfine l'imperatore mandò ad abbarrare i valichi dell'Appennino;
poi incalzato, raggiunse l'esercito con un codazzo di senatori che
lo rendeano viepiù spregevole; ed ora a questi, ora a quelli si
volgeva per pareri; poi, ad ogni annunzio dell'avvicinar del nemico,
sgomentavasi e s'ubriacava. Udito che anche la flotta di Miseno avea
voltato bandiera, tornò a Roma intenerendo il popolo con preghiere, con
lagrime, con promesse, più esorbitanti quanto meno pensava mantenerle;
e così raccozzò una ciurma cui diede il nome di legione. Ma come Primo
fulminando varcò l'Appennino, costoro disertarono a frotte.

Sabino, governatore di Roma, benchè fratello di Vespasiano, si tenne
in fede: sol quando si bucinò che, per cessare il sangue, Vitellio
abdicava, egli assunse le armi; ma il popolo, invaso da subita
frenesia, lo chiuse in Campidoglio, e nell'assalto s'incendiarono le
case vicine e i portici, tra le cui fiamme penetrati, i Vitelliani
passarono per le spade chiunque resisteva; Sabino fu trucidato a rabbia
del popolo, il quale mal si potrebbe dire perchè con nuovo furore
proteggesse una causa non sua, e principi che domani avrebbe forse
trascinati nel Tevere.

Primo, come ode arso il Campidoglio e ucciso Sabino, difila sopra Roma:
Vitellio, sebbene rimbaldanzito da quel furore vulgare, mandò colle
Vestali un ambasciatore chiedendo un sol giorno per risolvere; ma non
l'ottenne, e i suoi furono rincacciati nella città. Presa anche questa,
si battagliò per le vie, e cinquantamila uomini perirono; mentre il
vulgo, cui la sua bassezza faceva sicuro, applaudiva o fischiava i
colpi, piacevasi scovare se alcuno si rimpiattasse nelle case, gridando
viva e muoja, come cosa pazza.

Vitellio, scoperto in un canile (20 xbre), fu menato per la città
con abiti laceri, corda al collo, braccia al dosso, fra gli urli
della plebaglia che due giorni prima l'adorava. Al moltiplicare degli
insulti, quest'unica voce oppose, — Eppure io fui vostro imperatore».

Di otto imperatori di Roma, era il sesto che periva di morte violenta.

Coll'uccisione di suo fratello Lucio Vitellio che comandava un esercito
a Terracina, fu terminata la guerra, ma senza che fosse pace. I soldati
vincitori inseguivano i nemici, scannandoli ovunque li scontrassero;
col pretesto di cercarli sforzavano le case; e la ciurma gli avviava
ed emulava. Primo valevasi del comando per rubare più degli altri:
Domiziano, figlio del nuovo imperatore, che nella sollevazione erasi
trafugato in abito di sacristano d'Iside, allora dichiarato cesare,
tuffavasi nelle laidezze. Scompigli sovra scompigli, fra' quali alla
povera Italia restava appena fiato per acclamare Vespasiano augusto.



CAPITOLO XXXVII.

I Flavj.


La casa Flavia, nè antica nè illustre, proveniva da Rieti. Tito
Flavio, avo che fu di Vespasiano, militò nelle guerre civili, e dopo la
rotta di Farsaglia tornò nel paese natìo come esattore delle gabelle.
Suo figlio Flavio Sabino l'eguale industria esercitò in molte città
dell'Asia con fama d'onesto; poi ritiratosi negli Elveti, arricchì
prestando, e da una Vespasia Polla generò Sabino e Vespasiano. Valenti
guerrieri entrambi, quest'ultimo divenne senatore e console col
blandire i potenti; la finta vittoria di Caligola sui Germani festeggiò
con giuochi straordinarj; propose che gli accusati di fellonia fossero
pubblicamente uccisi ed esclusi dalla sepoltura; in pien senato rese
grazie a Caligola d'averlo invitato a cena; proconsole in Africa, servì
tanto bene Nerone, da attirarsi il pubblico odio. Reduce, si trovò in
sì basse acque che diede in pegno al fratello le sue terre, e al vivere
cercò modi poco onesti: ma a grave pericolo il pose l'essersi lasciato
prendere dal sonno mentre Nerone recitava proprj versi; onde ritirato
in campagna attendeva male nuove, quando si udì prescelto a capitanar
la guerra della Giudea. L'oscurità de' suoi natali, togliendo ogni
ombra a Nerone, gli aveva meritato quel comando, nel quale mostrossi
eccellente; pazientissimo alle fatiche, divideva gli stenti coll'infimo
soldato: se non che disonoravasi coll'avarizia.

Fu il solo che, assunto all'impero, si mutasse in meglio. Appena
seppe morto Vitellio, racconsolò di vettovaglie l'Italia; conferì
governi e comandi ad amici suoi, sperimentati nel vivere privato e sui
campi; e non si trovò costretto a corrompere i soldati con improvvide
liberalità. Crasso Muciano, mistura d'ottime e di ribalde qualità,
molle e attivo, superbo e compiacente, avido dei godimenti e indomito
alle fatiche, con potere illimitato e bastante severità diede buon
incammino alle cose di Roma. Intanto Vespasiano in Alessandria faceva
miracoli; rese la vista a un cieco, bagnandogli di saliva gli occhi;
un rattratto, appena da lui tocco, ricuperò l'uso della mano: tutto ad
onore e gloria del dio Serapide. Entrando nel tempio, Vespasiano vide
dietro di sè un tal Basilide, che in quell'istante si trovava ottanta
miglia lontano e ammalato. Avvenimenti attestati da Svetonio, Dione e
Tacito, il quale dice che al tempo suo la menzogna non avrebbe potuto
aver corso.

Glorioso per vittorie e per miracoli (70), Vespasiano arrivò in Italia;
e se, appena eletto, tanta folla accorse a riverirlo da non bastarvi
l'ampia città d'Alessandria, pensate al giunger suo nella metropoli!
Ognuno se ne prometteva rintegrata la disciplina, rimesso in lena
l'impero, e tutto ciò che i popoli mal condotti aspettano ad ogni mutar
di principe.

In effetto imbrigliò la militare licenza; al senato assisteva,
incorando a dire schietto ciascuno il suo parere; migliorò
l'amministrazione della giustizia, e nominò una commissione speciale
per accelerare lo spaccio de' processi, interrotti nelle precedenti
turbolenze. Fatto censore, degradò i cavalieri che si fossero
disonorati, surrogandovi i migliori uomini d'Italia e dell'impero; le
famiglie senatorie, ridotte a ducento dalle stragi precedenti, crebbe
fino a mille; fece de' nuovi patrizj, ultima creazione di tal genere
che la storia ricordi. Nè però intendeva rialzare l'aristocrazia
oppressiva, dovendo ognuno restar sottoposto al diritto comune; ed
essendo nato diverbio fra un senatore e un cavaliere, l'imperatore
proferì: — Non è lecito ingiuriare un senatore, ma il diritto naturale
e le leggi autorizzano a rendergli ingiuria per ingiuria».

Benchè tornasse dallo splendido Oriente, serbò semplici modi; benchè
abituato sui campi, gemeva allorchè dovesse mandare qualcuno al
supplizio; accessibile a tutti, parlava spesso della sua bassa origine,
proverbiando coloro che volevano derivargliela da Ercole; sprezzava i
titoli, e a stento accettò quello di padre della patria: diè protezione
e ricca dote alla figlia di Vitellio, e sopportò che Muciano vantasse
d'avergli egli stesso regalato l'impero. Degli affronti subiti sotto
Nerone non tenne memoria; le pasquinate sparse contro la sua avarizia,
e le invettive dei filosofi recossi in pace; ma poichè gli Stoici, o
quei che di tal nome si camuffavano, persisteano a turbar le opinioni
col rimpiangere il passato e denigrare il sistema imperiale, li sbandì.
Demetrio, un d'essi, non volle obbedire, e non solo rimase in città, ma
gli comparve innanzi dicendogli strapazzi; e Vespasiano si contentò di
dire: — Tu fai di tutto perchè io ti tolga la vita, ma io non uccido
cane che abbaja». Di quelli che cospirarono contro di lui, Vespasiano
non mandò a morte nessuno; ai delatori non prestò ascolto; ammonendolo
alcuno di guardarsi da Mezio Pomposiano, perchè nato sotto una
costellazione che gli prediceva l'impero, lo elevò console, dicendo: —
Di quest'atto d'amicizia si ricorderà, venuto ch'ei sia al trono».

Per mettere in bilancia le entrate colle spese, rincarì alcune
gabelle; di nuove ne introdusse, fra cui una sugli escrementi;
e rimproverandogliela Tito, esso gli diede ad annusare il denaro
ritrattone, chiedendogli: — Puzza?» Dicendogli i messi d'una città
che il loro senato gli avea decretato una statua di gran costo, egli,
stesa la mano, rispose: — Eccone la base; basta mettiate qui il valore
della statua vostra». Non v'avea delitto di cui uno non potesse a
denaro riscattarsi: dicono ancora affidasse le pingui amministrazioni
a coloro che meglio sapessero smungere, paragonandoli a spugne, che
spremeva dopo inzuppate. Sollecitando un suo favorito la sovrantendenza
della casa imperiale per uno che diceva suo fratello, l'imperatore non
rispose nulla, ma, fatto venire il raccomandato, fece sborsare a se
stesso la somma che questi avea promessa al favorito, e gli conferì la
carica. Quando poi il favorito rinnovò l'istanza, Vespasiano gli disse:
— Cercati un altro fratello; il raccomandatomi si trovò essere fratel
mio e non tuo».

Modi stomachevoli in principe: ma se pensiamo a che fondo trovò le
finanze, mentre non meno di quattromila milioni di sesterzj l'anno
richiedeva l'amministrazione dello Stato, propendiamo a compatire un
vizio che risparmiò le solite dilapidazioni. Tanto più che ciò non lo
trasse a confiscare i beni neppur di quelli che l'aveano contrariato,
nè il distolse dall'ajutare senatori poveri, rifiorire città diroccate,
ristorar vie ed acquedotti, proteggere le arti e le scienze e i poeti,
pel primo stipendiare professori d'eloquenza greca e latina in Roma, e
raccogliere tremila lastre di rame su cui erano scritti i fasti antichi
della città. Allora fu elevato il tempio della Pace, adunandovi i
capolavori sparsi qua e là; allora ricostruito il Campidoglio ed altri
edifizj, periti nell'incendio di Nerone e nelle sommosse sotto Galba;
allora il grande anfiteatro che meritò il nome di Colosseo; allora
ristaurate le grandi vie di tutto l'impero, non più a spese delle
provincie ma dello Stato. Ed avendogli un meccanico offerto macchine
da trasportar grandi colonne con piccola spesa, egli lo ricompensò, ma
ricusò l'invenzione, dicendo: — Bisogna che il popolo viva».

Però l'indipendenza del mondo rimbalzava volta a volta contro
l'oppressione romana; e sospese col nuovo sistema imperiale le guerre
di conquista, molte divennero necessarie per difendere le provincie
o per tranquillarle. Già vedemmo quelle menate sotto Augusto nella
Germania, la quale non quietò mai. La Bretagna, stanca delle esazioni
e de' pubblicani, si rivoltò, ma l'entusiasmo non la sottrasse
dal vedere ribadite le sue catene. Nella Gallia fu perseguitato il
culto dei Druidi, perpetui incitatori del sentimento nazionale; e
in compenso Claudio pareggiò quelle provincie all'Italia, ricevendo
i Galli al senato e alle dignità, che che scandalo ne prendesse
l'aristocrazia. L'Armenia, dopo lunghe agitazioni, si sottopose, e
Tiridate ne ricevette la corona dalla mano di Nerone; il quale pure
mutò in provincia il Ponto. Aveva appena Vespasiano accettato il titolo
imperiale, che i bellicosissimi Daci presero le armi; non tenuti più
in soggezione dall'esercito aquartierato nella Mesia, assalirono
gl'invernali accampamenti delle truppe ausiliarie, e varcato il
Danubio, minacciavano il riparo delle legioni. Muciano mandò pronti
soccorsi, co' quali Fontejo Agrippa li ricacciò di là dal fiume, le cui
rive munì d'una schiera di fortezze.

Le guerre domestiche de' Romani davano sempre eccitamento a qualche
provincia di sollevarsi. I Batavi, tribù di Catti, che, sturbata
dalla Germania, erasi stanziata nell'isola formata dai due rami
del Reno, furono condotti da Claudio Civile a scannare gli eserciti
conquistatori, e proclamare l'indipendenza. Tutta la Gallia riprese
desiderio e speranza di libertà; e i Bardi, usciti dai nascondigli,
e la profetessa Veleda con canti e sacrifizj e tutto il corredo
dell'antica superstizione, produssero oracoli, promettenti l'impero del
mondo a gente d'oltr'alpe; e interpretando l'incendio del Campidoglio
come preludio della caduta di Roma, trucidano i capi romani, e
proclamano l'impero gallo.

Ma Roma, più che nella forza degli eserciti, s'affidava negl'interessi
dei vinti, che sapeva conciliare co' suoi; e i migliori delle colonie
dissuadevano i loro nazionali da una guerra che ripristinerebbe la
barbarie distruggendo l'introdotta civiltà, e ai privilegi romani
surrogherebbe di nuovo la guerra interminabile, i saccheggi, la
prepotenza armata. Tali erano le ragioni con cui Petilio Cereale,
comandante alle forze romane, arringava gli abitanti di Treveri: — Io
non so parlare, bensì combattere: ma poichè le parole de' sediziosi
fanno effetto su voi, udite anche le mie. I Romani nel paese vostro
entrarono non per cupidigia, ma chiamati dai vostri maggiori, stracchi
delle mutue distruzioni. Con qual fortuna guerreggiammo i Germani
e altri nemici vostri, lo sapete: nè venimmo sul Reno per difendere
l'Italia, ma perchè un altro Ariovisto non si facesse re della Gallia.
Forse Civile e i suoi Batavi vorran bene a voi più che i loro antenati
ai vostri? Cupidigia di preda, desiderio di mutare i loro pantani col
vostro ubertoso terreno li mosse sempre, pur ammantandosi col nome di
libertà; e voi foste battuti e dominati finchè non vi deste a noi. Noi
non vi abbiamo aggravati più di quel che fosse mestieri per conservare
la pace: del resto facciamo un corpo solo; spesso voi comandate le
nostre legioni, governate provincie; nulla a voi teniamo chiuso; de'
buoni principi godete voi anche lontani; i tristi sentite meno perchè
lontani. Ma come la pioggia e il vento, così bisogna acconciarsi a
soffrire qualcosa de' dominanti. Espulsi che fossero i Romani, tutto
il mondo verrebbe a baruffe; un impero cresciuto con ottocento anni
di fortuna e di abilità non potrebbe scomporsi senza universale
sovvertimento; e peggio starà chi possiede oro e beni, esche alla
guerra. Amate e riverite piuttosto la pace romana, e cotesta Roma, ch'è
nostra patria, vincitori o vinti che siamo: vogliate essere piuttosto
docili con sicurezza, che riottosi con rovina»[213].

In fatti Roma avea sì bene stabilito la sua dominazione civile, che
fuor di essa non vedeasi se non disordine, servitù, barbarie; le
legioni rivoltavansi contro i principi, contro Roma non mai. Quando
poi questa, ricompostasi, spedì bastanti forze contro gl'insorgenti,
molti si piegarono per ragione o per paura, altri vi furono costretti;
alcune legioni che avevano giurato l'impero gallo, tornarono al dovere,
e furono accolte impuni. Dopo lunga e valida resistenza, Civile dovette
cedere anch'esso, ed ottenne di vivere in pace (71); Classico, Tutore,
altri capi fuggirono o si uccisero; alcuni furono consegnati ai Romani,
e perirono nei processi.

Giulio Sabino di Langres, che erasi fatto proclamare imperatore,
fu sconfitto mentre estendeva la sollevazione, nè si sottrasse alla
morte che col dar fuoco alla casa dov'era ricoverato, facendo credere
d'esservi perito. E lo credette anche la moglie sua Eponina, che
teneramente lo amava, e che il pianse desolata finch'egli non potè
farle sapere d'essersi, colle ricchezze e con due liberti, ricoverato
in una caverna. Reprimendo la gioja di questo annunzio, ella seguitò
vita e lutto vedovile; ma fingendo affari, stava lungamente alla
campagna per vivervi con esso. In quella tana partorì ed allevò due
gemelli, e potè anche, non si sa perchè, mandare il marito sconosciuto
a Roma, donde tornò. Così passati nove anni, qualche curioso lo ormò,
e scoperto l'arcano, Sabino colla generosa fu in catene strascinato a
Roma. La magnanimità di lui, il lungo martirio, la stranezza del caso,
le lacrime di Eponina, la quale diceva, — Ho allevato questi bambini in
una tana come una lionessa, acciò fossimo in più a chieder mercede»,
intenerirono alle lacrime Vespasiano, ma nol tolsero dal mandarli al
supplizio; — ragion di Stato. Nella Gallia tornò l'amore dell'ordine,
cioè la pazienza della servitù; e i Druidi si trasformarono in maestri
di scienze romane.

Con altre guerre intanto erano ridotte a provincie la Comagene col nome
di Eufratesiana, la Grecia emancipata da Nerone, la Licia, la Tracia,
la Cilicia Trachea, con Rodi, Bisanzio e Samo: da Giulio Agricola fu
circuita e sottomessa la Bretagna colle Orcadi, come vedremo.

Più memorabile è la caduta degli Ebrei, popolo prescelto da Dio a
conservar pura la tradizione, finchè, venuta la pienezza de' tempi,
sorse di mezzo ad essi e fu da essi sconosciuto e ucciso quel Divino,
di cui tutta la loro storia non era che preparazione, simbolo,
profezia. Anche perduta la dominazione, unita alla provincia della
Siria, e governata da presidi romani, la nazione ebrea rifiutò
ostinatamente i costumi de' Gentili e la religione idolatra; e agli
imperatori che voleano violentarne le coscienze, opponeva le proteste,
e subiva le persecuzioni. Ma internamente le scissure fra la Giudea e
la Samaria, le sêtte de' Farisei e Saducei, le ambizioni de' principi
e de' sacerdoti, la comparsa di finti Messia, infine la smoderatezza
degli Zelanti rendevano infelicissimo il paese, e gli facevano sentire
la maledizione del sangue del giusto. Satolli d'oltraggi, trucidati a
migliaja, offesi negl'interessi e nelle credenze, insorgono regnante
Nerone, il quale deputa a sottometterli Vespasiano. Non v'è orrore che
non accompagnasse quella guerra, in cui si conta perissero un milione
e mezzo di Ebrei: finalmente Tito, figlio di lui, prese Gerusalemme
stessa e la incendiò (70 — 1 7bre), e da quel punto gli Ebrei più non
ebbero patria nè altare. Sparsi per tutto il mondo, con una portentosa
attività e con irremovibile perseveranza vivono confidati che quel
Dio, che altra volta li richiamò dalla schiavitù di Babilonia, faccia
splendere ancora il loro giorno. — Sarà il giorno, in cui il sangue,
imprecato dai loro padri, scenda sui figli per lavacro di perdono e
redenzione.

Tito negli anfiteatri di Berito e di Cesarèa rallegrò il popolo collo
spettacolo di centinaja di Giudei accoltellantisi o sbranati dalle
fiere: altri condotti a Roma abbellirono il più splendido trionfo,
ornato viepiù collo strozzare i principali di essi: altri furono
serbati a fabbricar l'arco che ancora chiamasi di Tito, il Colosseo e
il tempio della Pace, nel quale furono deposti il candelabro d'oro e
gli altri arredi del culto di Ieova.

Vespasiano associossi il figlio vincitore nella podestà tribunizia;
e la chiusura del tempio di Giano attestò finite o sospese le
guerre. Anche Roma respirava dalle atrocità e dalle pazzie, non così
però che le mancassero supplizj; e fu singolarmente deplorato quel
dell'intrepido Elvidio Prisco (pag. 163). Alieno Cécina ed Epiro
Marcello, spia di Nerone, congiurarono con molti pretoriani; ma
scoperti, Marcello prima della condanna si uccise: a condannar Cecina
non bastando l'essergli trovata l'arringa disposta per ammutinare i
soldati, Tito l'invitò a cena, e ve lo fece assassinare. Compendiose
procedure!

Vespasiano, sentendosi morire, esclamò: — Se non fallo, sto per
divenire iddio»; burlandosi del divinizzare che i Romani faceano i
loro principi. Sereno fin all'ultimo istante, — Un imperatore (disse)
dee morire in piedi», tentò alzarsi, e spirò (79) di settantun
anno, regnato dieci. Ai funerali de' grandi solevansi rappresentare
commedie, ove il morto era messo in burla. Il buffone che, in quello
di Vespasiano, contraffacea l'estinto, domandò agli economi quanto
costerebbero i funerali, e udita l'ingente somma destinatavi da Tito,
riprese: — Date a me quel denaro, e gettate pure il cadavere nel
fiume». Fortunata Roma però se d'avarizia solo essa poteva appuntare il
successore di Tiberio e di Nerone[214].

Tito Flavio, spertissimo in eloquenza e versi, e più nella guerra,
finchè visse il padre mostrò avidità e tracotanza; sorreggeva chi
gli offrisse denaro; se portava malanimo contro alcuno, ne facea da
prezzolati domandar la testa in teatro o nel campo; e gli amori suoi
con Berenice, sorella d'Agrippa II re degli Ebrei, erano riprovati
dai Romani, tementi un'imperatrice straniera, quanto dagli Ebrei,
scandolezzati che una loro principessa scendesse agli abbracci del
distruttore di sua nazione.

Ma fatto imperatore a trentanove anni, Tito mandò Berenice fuor
d'Italia, per quanto si sentisse di lei acceso; al fratello Flavio
Domiziano, discolo ed intrigante, non solo non fece verun male, ma
esibì dividere con esso l'autorità; confermò con editto generale le
prerogative concesse da' suoi predecessori a città o persone; lasciava
il popolo accostategli fin nel bagno, assegnare quando e come bramasse
i giuochi ch'egli dava; nè l'affabilità gli scemava decoro. A chi gli
rimostrava il troppo facile suo concedere, rispondeva: — Non conviene
che alcuno parta melanconico dalla vista del principe»; ed una sera,
non ricordandosi d'aver beneficato alcuno, esclamò: — Perdetti una
giornata».

Accettando il pontificato, dichiarò che più non si contaminerebbe di
sangue, abolì la legge di fellonia, nè si accusasse più alcuno per
aver detto male di lui o de' predecessori. — O sparla di me a torto,
e lo compiango; o a ragione, e sarebbe ingiustizia il punirlo della
verità. Quanto a' miei antecessori, se ora sono Dei, possono a voglia
punire gli oltraggi senza mio intervento». Avendo il senato condannati
nel capo due patrizj cospiratori, Tito mandò pregare quell'assemblea
di desistere dall'inutile castigo, dipendendo i regni da una potenza
superiore all'umana; al tempo stesso invia a rassicurare la madre
de' rei, li vuol seco a banchetto la sera, il domani agli spettacoli,
passando a loro le spade de' gladiatori, che, secondo il costume, gli
venivano offerte ad esaminare.

Non che agognare l'altrui, ricusò regali e legati: eppure in donativi,
spettacoli e fabbriche gareggiò con qualunque de' suoi predecessori;
e quando inaugurò il colossale anfiteatro, presentò, oltre i
gladiatori, una battaglia navale e fin cinquemila fiere. Più savia
generosità mostrò in pubbliche sciagure; avendo un incendio guastato il
Campidoglio, il Panteon, la biblioteca d'Augusto, il teatro di Pompeo,
a non dire i minori edifizj, dichiarò ch'egli toglieva sopra di sè
tutti i danni; e per mantenere la parola, senza accettar le somme che
città e principi forestieri gli esibivano, vendè perfino gli arredi
del suo palazzo. Il Vesuvio, che da immemorabile non eruttava, lui
regnante proruppe (79 — 8 7bre) in modo, che Ercolano e Pompej furono
sepolte, Pozzuoli e Cuma diroccate, sobbalzata tutta Campania. Tito
a proprie spese provvide ai mali riparabili; girò il paese, non per
ostentazione e curiosità, ma prodigando denaro. La peste gli diè nuovo
campo a mostrare la sua benevolenza; e quasi non dissi la carità. Chi
crederebbe che, sotto tal principe, trovasse molti seguaci un finto
Nerone venuto d'Armenia, il quale ronzò intorno all'Eufrate, poi si
rifuggì tra i Parti?

Mentre Roma si ricreava sotto il buon Tito, e lo intitolava _delizia
del genere umano_, morte glielo tolse (81) dopo due anni e tre mesi di
regno, dissero accelerata dal fratello Domiziano, che lo fece scrivere
fra gli Dei mentre il denigrava presso gli uomini. Questo Domiziano,
privo di studj, marcio di lussuria e di debiti, in guerra sollecito
soltanto d'evitar le fatiche ed i pericoli, estinto il padre, tentò
guadagnarsi i pretoriani per soppiantare Tito, e Tito gli perdonò.
Morto od ucciso questo, fu gridato imperatore, e prodigatigli d'un
tratto i titoli e le cariche che a' suoi antecessori conferivansi a
poco insieme.

Dapprima vietò perfino i sacrifizj cruenti; largheggiava cogli
uffiziali acciocchè la povertà non ne agevolasse la corruzione;
ricusava l'eredità di chi avesse figliuoli; e dopo spartite ai veterani
le terre confiscate, il di più non tenne per sé, come si soleva,
ma lo rese ai prischi possessori. Murò splendidamente, ricompose
la biblioteca incendiata, e dodicimila talenti spese nella doratura
del tempio di Giove in Campidoglio: eppure la magnificenza di quello
era un nulla a petto d'una sola galleria o d'una sala del palazzo.
Attendeva in persona a rendere giustizia; notava d'infamia i giudici
che accettassero denaro, o i governatori che espilassero; represse la
licenza pubblica e la sfacciataggine de' libelli; vietò ai cavalieri
di recitare sui teatri; cassò un senatore che danzava; escluse le
donne dal ricevere legati e dall'andare in lettiga; dichiarò indegno
d'esser giudice un cavaliere che ripigliò la moglie dopo ripudiatala
per impudica; molti adulteri punì di morte, e vietò severamente di far
eunuchi.

Ma a fatica dissimulava l'indole sanguinaria e codarda. Avido di
gloria militare quanto inetto ad acquistarsela, assunse quattro
volte in un anno il titolo d'imperatore, sempre per vittorie altrui:
piombato improvviso sui Catti, i più civili e guerreschi fra i Germani,
strascinò in trionfo alcuni prigionieri, nè più da quell'ora depose la
toga trionfale: intanto che Svevi e Sàrmati, rivoltati contro l'impero,
sterminavano eserciti interi nella Mesia, nella Dacia e nella Germania.

Memorabili sono di quel tempo le vittorie di Gneo Giulio Agricola
sulla Bretagna. Cesare pel primo era sbarcato nell'isola per reprimere
i sacerdoti Galli che continuamente fomentavano le sollevazioni nella
Gallia romana (t. II, p. 177): ma sebbene fosse dichiarata provincia,
non obbediva ai Romani, e poco vi vantaggiarono le armi, finchè non
le condusse Agricola (77). Tacito, genero di questo, volle proporlo
a specchio e raffaccio degli altri capitani; onde racconta che,
accortosi come il saccheggio e la prepotenza militare nocessero alla
dominazione, Agricola riformò la disciplina cominciando dalla propria
casa, nominò uffiziali i più degni, senza riguardo a raccomandazioni
e preghiere, ripartì più equamente le imposte: poi incoraggiando i
suoi coll'esempio, scoraggiando i nemici colla rapidità delle marcie,
riportò molte vittorie, molti col perdono indusse a sottomettersi,
e cercò tenerli quieti coll'incivilirli; mai non cercava sminuir la
gloria ai soldati per attribuirla a sè, e sempre mostravasi avaro del
sangue romano. Per tal modo assicurò il dominio di Roma sulla Bretagna
e la Caledonia; ma Domiziano, quasi eclissasse le sue imprese finte
colle vere, lo richiamò, e l'insigne capitano non ne sfuggì il rancore
altrimenti che col vivere nell'oscurità (85), e neppur questa forse il
sottrasse al veleno.

I Daci, guidati da Decebalo, grande in battaglie e in consiglio,
passato il Danubio, ruppero i Romani, uccisero il governatore della
Mesia, e menando orribile guasto, occuparono quante fortezze aveano
là intorno munite i Romani. Domiziano, posto in dirotta fuga, mandò
a Decebalo supplicando pace (90), con ricchi donativi, con artigiani
d'ogni sorta, e con una corona in segno di riconoscerlo re, e
rassegnandosi a pagargli annuo tributo. Prima guerra ove i Barbari
assalissero con vantaggio l'impero. Eppure Domiziano scrisse al senato
aver messo finalmente il morso agl'indomiti Daci; e tornando, dopo aver
peggio che in guerra devastato il paese quieto, menò un trionfo, dove i
poeti lo paragonarono ai Cesari e agli Scipioni[215].

La fierezza che gli mancava in campo, sapeva troppo esercitarla in
pace. Avendo il banditore, nell'acclamar console Flavio Sabino genero
di Tito, in isbaglio chiamatolo imperatore, Domiziano fece scannare
e il banditore e il nipote. Fatto prendere l'oroscopo dei grandi
dell'impero, ne tolse ragione di mandare a morte assai senatori e
cavalieri (95). Di molti Cristiani prese l'ultimo supplizio in Roma
e nelle provincie, come di nemici alla repubblica, tra i quali Flavio
Clemente cugino suo e collega nel consolato, e le due Domitille, nipote
e moglie di quello.

Com'è de' principi cattivi, Domiziano aveva in odio e in sospetto la
storia e gli storici: Erennio Senecione, incolpato di scrivere la vita
d'Elvidio Prisco, fu creduto degno di morte; Fannia vedova di Elvidio,
che confessò averlo spinto e ajutato a quel lavoro, ne perdette i beni
e la patria, ma portò seco la storia riprovata; ad Aruleno Rustico
fu colpa capitale l'aver lodato Trasea Peto; Armogene di Tarso venne
ucciso perchè parve nella storia alludere a Domiziano, e crocifissi
quelli che ne avevano ajutato lo spaccio. Nuovo genere di crudeltà
fu l'ardere pubblicamente i libri di fama più cospicua e di sensi più
generosi: da ultimo tutti i filosofi e gli scienziati sbandì: alcuni,
cessati gli studj, presero il mestier di spia, il più opportuno perchè
impinguava colle ricchezze, confiscate sotto frivolissimi pretesti.
Un cittadino illustre mostrasi popolare? e' medita la guerra civile;
sta ritirato? vuol far rimprovero ai tempi; conduce vita illibata?
è un nuovo Bruto; se inerte e stolido, cova disegni di sangue; se
operoso e vivo, intriga e sommove: il ricco possede troppo denaro
per uom privato; il povero, non avendo che perdere, potrebbe a tutto
avventarsi. Più le spie erano vili e schifose, più l'imperatore le
palpava e reggeva; convinte di calunnia, crescevano di merito; ad esse
le spoglie dello Stato, ad esse le dignità pontificali e il consolato;
quali nelle provincie spediti procuratori, quali in città tenuti per
confidenti e ministri; schiavi furono subornati contro i signori,
liberti contro i patroni; e chi non avesse nemici, trovavasi tradito da
gente, della cui benevolenza mai non avea dubitato.

Sotto il costoro regno, i Romani non osavano comunicare ad altri
i proprj pensamenti, nè fremere insieme; e vedeano con silenzio
pusillanime i tribunali fatti strumenti di perdizione, rapine
ed assassinj palliarsi col nome d'ammenda e di castigo: le isole
riboccavano di relegati, gli scogli d'uccisi. Alcuni incontrarono la
morte con intrepidezza: madri e mogli generose seguirono i loro cari
nell'esiglio.

A Domiziano recava diletto il veder le lagrime, noverare gli aneliti;
esultava quando a una sua parola il senato impallidisse. Privatamente
si compiaceva di lepidezze inumane. Una sera chiama a banchetto il fior
de' senatori e de' cavalieri, egli che diceva di guardare i più de'
cavalieri per suoi nemici, e che non si terrebbe sicuro finché pur un
senatore respirasse. Man mano che arrivano, son condotti in una sala
a bruno, ove fioche lampade mostrano cataletti, segnati ciascuno col
nome di un convitato; ed ecco dopo lunga ansietà entrano uomini ignudi,
tinti di nero, colla spada nell'una, la face nell'altra mano: ma dopo
girato attorno, aprono le porte, e congedano i due ordini principali
dell'impero, non so se più atterriti o scornati.

Valentissimo nel trar d'arco, faceva trasvolare il dardo fra le
aperte dita d'uno schiavo, posto per lontano bersaglio; e nella lunga
solitudine del suo gabinetto l'imperator del mondo esercitava tale
abilità dardeggiando mosche. Onde Vibio Crispo interrogato se nessuno
fosse coll'imperatore, — Neppure una mosca» rispose.

In turpi voluttà non la cedeva ad alcun predecessore. E i Romani?
adulavano e il chiamavano signore e dio e figlio di Minerva, titoli
ch'egli medesimo si attribuiva nelle lettere, e che gli erano prodigati
da Marziale, Quintiliano, Giovenale e dagli altri scrittori. Le vie che
conducevano al Campidoglio, apparivano ingombre di vittime, scannate
avanti alle sue statue[216], le quali per decreto non potevano farsi
che d'oro o d'argento. Giuochi preparò, che Roma non avea mai veduto
i più splendidi; fece scavare presso al Tevere un gran lago, ove
due flotte combattevano; agli accoltellamenti dei gladiatori mesceva
anche donne; offrì vere battaglie d'interi eserciti nell'anfiteatro,
egli che delle campali avea paura; ed essendo, durante lo spettacolo,
sopragiunto un rovescio di pioggia, non permise a veruno d'uscire; onde
molti ammalarono, alquanti morirono.

Per bastare alle prodigalità, non era via d'ottener denaro ch'e' non
si facesse lecita; alle eredità facilmente sottentrava o accusando il
morto d'avere sparlato di lui, o trovando chi asseriva quello averlo
chiamato erede. I magistrati rincarivano le imposizioni, tanto che
varie provincie sorsero in aperta rivolta. In Germania, Lucio Antonio
governatore prese il titolo d'augusto; ma bentosto rotto ed ucciso, de'
molti accusati come complici suoi due soli tribuni camparono la vita
col provare d'essersi prestati a vilissima lascivia, e quindi essere
incapaci d'ogni ardito tentativo.

Avendo scoperta e sventata una congiura, stava sempre in timore di
nuove, massime che diversi prodigi e indovinamenti gli prenunziavano
la sua fine. Si munì in ogni miglior modo, fino a rivestir le sue
stanze di una pietra che rifletteva le immagini, acciocchè nessuno
gli si accostasse inosservato; poi pensando disfarsi di chiunque gli
dava ombra, ne aveva preparata la lista. Un fanciullo, col quale
egli trescava, gliela tolse mentre dormiva, e la portò fuori; e
l'imperatrice Domizia Longina, sbigottita al leggervi il proprio nome
con quel de' primarj, convenne con questi di pigliare il passo innanzi.
Partenio primo cameriere introduce all'imperatore Stefano liberto di
Domizia (96), che recando il braccio al collo in atto di ferito, gli
porge una carta ov'è rivelata la congiura, e mentre la leggeva il
trafigge. Domiziano si difende, Stefano rimane trucidato da quei di
casa; ma gli altri congiurati sopragiungendo uccidono l'imperatore.

Compiva i quarantacinque anni, e n'avea regnato quindici; e il senato,
raccoltosi di presente, gli disse tanti improperj quante dianzi
adulazioni, ne rase il nome dalle epigrafi, abbattè le statue e gli
archi, annullò gli atti. Il popolo, sino al quale non scendeano le
persecuzioni, bensì le pompe e i giuochi, stette indifferente. I
soldati, di cui aveva cresciuta la paga, lo piansero più che Vespasiano
e Tito; e gli uffiziali durarono gran fatica a frenarli.

Egli è l'ultimo di quelli che chiamano i Dodici Cesari.



CAPITOLO XXXVIII.

Imperatori stoici.


È merito della verità il vantaggiare anche quelli che la rinnegano
e la perseguitano, e costringere a riconoscerla fino i nemici che la
impugnano. La morale, che i Cristiani predicavano obbedendo e morendo,
già appariva negli scrittori pagani, e rifondea vigore alla setta più
virtuosa, la stoica; la quale, alla morte di Domiziano, si sentì da
tanto d'opporsi alla onnipotenza delle armi; e acquistato preponderanza
in senato, s'ingegnò a mettere sul trono creature sue, e le riuscì di
procurare a Roma una serie di buoni capi.

Primo fu Marco Coccejo Nerva, oriundo da Creta, nativo di Narni,
onorato di una statua da Nerone per le sue poesie. La fazione stoica
sparse vaticinj e strologamenti sul futuro regnare di esso, tanto che,
comunque timido, l'incorarono ad accettare il trono: I pretoriani,
sfogata la devozione loro verso l'estinto imperatore, non tardarono a
riconoscere il nuovo; ma fra i mirallegro, Arrio Antonino si condolse
con lui, che, dopo sfuggito per virtù e prudenza a tanti principi
malvagi, si trovasse in tal luogo dove amici e nemici disgusterebbe, e
più gli amici, appena ricusasse una grazia.

Nerva, professandosi collocato in quell'altezza non per soddisfazione
propria, ma pel popolo, seppe conciliare le dolcezze della libertà
colla quiete della monarchia. Restituì patria e beni agli sbanditi
per fellonìa, minacciò i delatori, interdisse i processi di maestà,
e giurò non mandare a morte verun senatore: vastissimi terreni
distribuì alla poveraglia; faceva allevare a pubbliche spese i bambini
indigenti; riproibì l'evirazione; e si governò sempre come avesse da
oggi a domani a tornare privato. Per alleggerire le imposte limitò le
spese, escludendo varj sacrifizj e spettacoli, moderando il fasto del
palazzo, non tollerando gli si ergessero statue d'oro o d'argento; e
per ricompensare o soccorrere vendette parte del proprio vasellame e
alcuni poderi. Il senato, ripresa la libertà dei giudizj, procedette
contro gli spioni del regno precedente, e alcuni multò di morte,
altri d'esiglio; ma avendo iniziato procedure contro alcuni nuovi
cospiratori, Nerva troncò le indagini. Parve sconvenevole tale clemenza
a Giulio Frontone console, e — Se è grave sciagura un principe sotto
cui tutto è vietato, non è minore uno sotto cui tutto sia permesso».

In fatto, di quella bontà abusarono i pretoriani, e levato rumore,
assalirono il palazzo per obbligar Nerva a consegnare gli uccisori di
Domiziano; e per quanto egli s'opponesse, e nudo il petto li pregasse
a ferir lui piuttosto, dovette cedere, lasciar uccidere i congiurati, e
ringraziare i pretoriani d'averne purgato il mondo.

Da qui comprese la necessità di destinarsi a successore un uomo di
salda mano, e adottò lo spagnuolo Marco Ulpio Trajano, col quale
divise da quel punto l'autorità (98): ma regnato appena sedici mesi, fu
ascritto fra gli Dei.

Trajano, dopo fatto le prime armi contro i Parti, da Domiziano fu
destinato a governare la bassa Germania; robusto di corpo e formato
alle fatiche, era il più sufficiente capitano dell'età sua: in campo
non l'avresti distinto dall'infimo soldato al vestire, agli esercizj,
alla sobrietà; marciava a piedi, conosceva un per uno i suoi veterani
e le imprese loro, senza che l'affabilità disciogliesse la disciplina.
Di pochi studj[217], pure gli studiosi favoriva; nobile di portamento,
d'obbliganti maniere.

A quarantaquattro anni succedendo a Nerva, entrò pedestre in Roma fra
indicibile esultanza, e nel por piede in palazzo, sua moglie Pompea
Plotina voltasi al popolo disse: — Io spero uscirne qual v'entro».

Trajano dichiarò tenersi obbligato alle leggi come qualunque cittadino;
largheggiò nelle consuete distribuzioni sì ai soldati, sì al popolo,
comprendendovi gli assenti e, cosa nuova, i minori di dodici anni; ed
è scritto che le frequenti sue liberalità mantenessero due milioni di
persone. Tenne sempre i grani a modico prezzo, fece larghi assegnamenti
pe' figli dei poveri[218], diede spettacoli di gladiatori, ma sbandì
i commedianti che Nerva avea riammessi: spese largamente in aprire il
porto di Civitavecchia ed ampliare il circo, ove proibì si pronunziasse
il suo nome, per sottrarlo agli applausi prodigati a tanti malvagi
imperatori; e provvisti di pubblico stipendio gli avvocati, vietò che
ricevessero sportule dai litiganti, i quali pure doveano giurare di non
aver dato loro nè promesso nulla.

Voltosi a medicare le piaghe dell'anarchia e della tirannide, diminuì
le imposte, attenuò le prerogative imperiali qualvolta al ben pubblico
complisse; nè accuse di maestà, nè delatori soffrì, nè concussioni
de' governanti; riceveva le persone di qualunque fossero grado,
e candidamente ne ascoltava gli avvisi; cercava i più degni per
collocarli in posto; e credeva che le finterie non fossero necessarie,
come nella condotta privata, così neppure nella politica. Preferiva
l'impunità di cento rei alla condanna d'un innocente; e nel dare la
spada a Suburano prefetto del pretorio, gli disse: — S'io compio il mio
dovere, adoprala per me; contro me, se vi manco». Essendo da alcuno
insusurrato contro di Licinio Sura, a lui caro e riverito, andò a
cenare da esso non invitato, si fece medicare gli occhi e radere dal
medico e dal barbiere di esso, poi il domani a chi gli ripeteva le
accuse rispose: — S'egli intendesse uccidermi, l'avrebbe fatto jeri».

Di colpe e difetti ebbe la sua parte; amava il vino, tanto che
ordinò di non eseguire i comandi che desse dopo tavola; ai piaceri
s'abbandonò quanto il suo tempo consentiva; per vanità lasciava mettere
il proprio nome su tutti gli edifizj o eretti o ristaurati, sicchè
lo soprannomarono _erba parietaria_; soffrì il titolo di signore,
e sagrifizj alle sue statue, e che il popolo giurasse per la vita e
l'eternità di lui; e forse per gelosia di divinità ordinò persecuzioni
contro i Cristiani (106).

Da Plinio il giovane, che ne stese il panegirico, trapela la gioja
alquanto puerile che provavano i patrioti romani al veder di nuovo
convocate le adunanze del senato tre giorni di fila, e protratte
sino a notte[219]: ma quale concetto formarsi di queste assemblee, se
dallo stesso Plinio siamo informati che Trajano disdisse di formare
una piccola associazione onde riparare i pubblici bagni d'una città
dell'Asia, atteso che ogni unione per interessi privati è contraria
all'impero?

Conoscendone il valore, i Germani d'ogni parte mandarono a Trajano
deputazioni, e i Barbari di là dall'Istro non s'avventurarono alle
correrie, che rinnovavano ogniqualvolta il fiume gelasse: ma Trajano
aspirava a «passar l'Eufrate e il Danubio su ponti da lui fabbricati, e
ridurre la Dacia in provincia».

Indecoroso stimando il tributo con che Domiziano avea dai Daci comprato
la pace, ne devastò le campagne, e li vinse in una battaglia, dove
essendo venuti meno i cenci da bendare i tanti feriti, egli diede le
proprie vesti; e continuò la vittoria con tale ardore, che Decebalo,
instancabile loro re, mandò per pace (103), ed accettolla a gravi
condizioni. Trajano, poste fortezze e guardie ov'era duopo, menò il
primo trionfo sui Daci, e voltò sul Danubio un ponte di pietra di venti
piloni, grossi sessanta piedi, alti cencinquanta, discosti settanta;
opera meravigliosa, e pur compita in un'estate per disegno e direzione
di Apollodoro di Damasco. Decebalo, che soltanto alla necessità avea
ceduto, non tardò a risollevare il paese, intendendosela fino coi
Parti: ma Trajano, accorso al riparo, si ben campeggiò (106), che prese
Zarmizegetusa capitale dei Daci, e il paese ridusse a provincia, avente
per confini il Dniester, il Tibisco, il Danubio inferiore e l'Eusino.
Decebalo non volle sopravivere alla libertà. La colonna coclite, eretta
in mezzo al fôro Trajano, attestò queste vittorie; e nelle solennità
del trionfo cenventitre giorni continuarono gli spettacoli, dove più di
diecimila belve caddero uccise.

Soddisfatto uno de' suoi voti col varcare il Danubio, Trajano mosse per
l'altro verso l'Eufrate a reprimere i Parti, i più formidabili nemici
che a Roma restassero (114). Ridusse a provincia l'Armenia; ricevette
in soggezione i re d'Iberia, di Sarmazia, del Bosforo, della Colchide;
la Mesopotamia quasi col solo terrore soggiogò, sottomise porzione
dell'Arabia, e vide la sua amicizia chiesta contemporaneamente da'
Sauròmati del settentrione e dagli Indiani del mezzodì. Su ponte di
barche varcato il Tigri, senza ferir colpo s'impadronì dell'Adiabene;
e giovato dalle discordie dei Parti, si spinse fino a Babilonia (116),
espugnò Seleucia e Ctesifonte, i contorni sottomise, e dall'Assiria
come provincia ricevette tributo.

Reduce in Antiochia, mentre l'esercito, la corte, i curiosi v'erano
affollati, la terra tremò sì fattamente, che i fabbricati diroccarono,
Trajano stesso rimase ferito, e nel disastro d'una sola città tutto
l'impero ebbe a soffrire. Altre sciagure imperversarono, lui imperante;
fame, peste, tremuoti; il Tevere inondò Roma; e, ciò che destava
orrore, tre Vestali si contaminarono e furono sepolte vive. Se non
bastava questo sacrifizio alle antiche superstizioni, i Libri Sibillini
ordinarono, come altre volte, che nel fôro Boario si sepellissero vivi
due Greci e due Galli maschio e femmina.

Entrata la primavera (117), Trajano cominciò una corsa per ispiegare
la maestà e la potenza dell'impero sugli occhi delle nazioni. Viste
le pianure dell'Alta Asia dond'era scesa la prima civiltà del mondo,
s'imbarca sul Tigri, scende al golfo Persico, traversa il Grande
oceano, e vedendo un vascello salpare per le Indie, esclama: — Deh!
foss'io più giovane, che recherei la guerra colà». Piega quindi verso
l'Arabia Felice, prende il porto di Aden di qua dallo stretto di
Bab el-Manneb, riduce a provincia l'Arabia Petrea che assicurava le
comunicazioni di commercio fra l'Asia e l'Africa; annunzia al senato
sempre nuove terre sottoposte al suo dominio; infine torce verso
Babilonia, sulle cui ruine presta sacrifizj ad Alessandro.

L'impero toccava allora al suo apogeo; ma poco vi durò, e Trajano
stesso vide disfarsi le opere proprie. Il tremuoto che sobbalzò tanti
paesi, parve agli Ebrei preconizzasse la caduta dell'impero, sicchè
d'ogni parte levaronsi a furore, in Africa principalmente. Benchè
sconfitti e scannati a migliaja, l'esempio fu contagioso, e molti paesi
scossero le catene; tutte le nuove conquiste si rivoltarono; i Parti
a pien popolo cacciarono il re Partamaspate da lui imposto, gli Armeni
se ne scelsero uno a volontà, la Mesopotamia si sottomise ai Parti; e
tante spese e tanto sangue uscirono a vuoto.

L'imperatore, dopo regnato diciannove anni e mezzo, morì a Selinunte in
Cilicia (117 agosto); le sue ceneri in urna d'oro portate a Roma dalla
vedova Plotina e dalla nipote Avida, furono ricevute come in trionfo
e, malgrado dell'antico divieto, deposte in città sotto la colonna che
rammentava le sue conquiste. Splendide opere serbarono la memoria di
lui: magnifiche vie dall'Eusino fin alle Gallie, una traverso le paludi
Pontine, una da Benevento a Brindisi: a Roma aperse biblioteche e un
teatro, ingrandì il circo, restaurò insigni edifizj, condusse nuove
acque: soprattutto ebbe rinomanza il fôro, che abbassando cinquanta
metri una collina, formò quadrato, con un portico in giro e quattro
archi trionfali, e tanti palazzi e tempietti, ch'era una meraviglia
nella città delle meraviglie.

La «rara felicità del suo tempo, quando uom poteva pensare quel che
volesse e dire quel che pensasse», tornò qualche lustro alle lettere:
e fa dolore che la storia, informata a minuto delle pazzie e delle
atrocità d'un Caligola e d'un Nerone, non possa conoscere Trajano se
non da un compendio inesatto[220] e da un artifizioso panegirico. Ma
essa tien conto che, due secoli e mezzo dopo lui morto, il senato,
nell'acclamare un nuovo imperatore, gli augurò d'essere più felice
d'Augusto, più virtuoso di Trajano[221].

Fra le altre superstizioni, gli antichi usavano aprire a caso un libro,
e dalla prima frase che occorresse, indovinar l'avvenire, o prenderne
risposta ai dubbj del proprio intelletto[222]. A tal uopo Publio Elio
Adriano, spagnuolo nato in Roma, aprendo l'_Eneide_, s'abbattè in
questi versi del VI canto relativi a Numa:

    _Quis procul ille autem, ramis insignis olivæ,_
    _Sacra ferens? Nosco crines, incanaque menta_
    _Regis romani, primas qui legibus urbem_
    _Fundabit, Curibus parvis et paupere terra_
    _Missus in imperium magnum;_

e credette leggervi prenunziato ch'e' sarebbe imperatore e legistatore.
E l'uno e l'altro divenne. Militò sotto Trajano, che amandolo come
figliuolo, gl'impalmò Sabina nipote di sua sorella, e maneggiò per
averselo successore. Salutato imperatore dall'esercito in Antiochia,
scrive al senato chiedendo scusa se non aspettò l'elezione di esso,
e implorando la confermasse; decretatogli il trionfo, lo ricusa e
pone sul carro la statua di Trajano. A quelli che da privato l'aveano
offeso disse: — Eccovi salvi». Denunziatigli alcuni, sospetti di
rivoltar lo Stato, dichiara: — È ingiustizia il punire un delitto
solamente probabile». Avendo ai richiami d'una vecchia risposto: — Non
ho tempo», essa replicò: — Perchè dunque sei tu imperatore?» ed egli
la soddisfece. Negli spettacoli pretendendo il popolo non so quale
sconvenienza, egli mandò l'araldo che intimasse silenzio; ma questi
avendo detto invece: — L'imperatore vi prega a fare così e così», di
tale mitigazione non gli seppe mal grado, anzi lo ricompensò.

Con amici e liberti usava alla domestica, nè mai negava loro alcuna
domanda, spesso le preveniva; pure non lasciò che abusassero: nè solo
tra liberti scelse i secretarj e intendenti della casa, ma anche tra
i cavalieri; e guai a chi, spacciando protezione, accettasse regali.
Andava a trovare i consoli, assisteva alle assemblee, dispensava i
senatori dal visitarlo se non per interessi, ed alla curia recavasi
in sedia acciocchè non fossero tenuti ad accompagnarlo: escluse i
cavalieri dal giudicare nelle cause de' senatori, nè dalle sentenze
di questi accettava appello al trono. Visto un suo schiavo passeggiare
fra due senatori, mandò a dargli uno schiaffo, dicendo: — Come ti basta
l'animo d'appajarti a tali, di cui domani puoi divenire il fante?»

Più di Trajano largheggiò co' fanciulli poveri e col popolo; assegnò
pensioni e donativi a senatori, cavalieri e magistrati bisognosi;
anzi, nelle feste di Saturno quando gli amici offrivangli le solite
strenne, egli coglieva l'occasione per ricambiarle con più generose;
e nei viaggi, in cui occupò diciassette dei venti anni di suo regno,
lasciò dappertutto grandi segni di liberalità. All'esercito vivea da
soldato; marciava a piedi e col capo scoperto fra il gelo delle Alpi
o sul renaccio d'Africa; conoscendo tutti i guerrieri, promoveva i più
degni; molte riforme introdusse, e pel primo a ciascuna compagnia unì
zappatori e ingegneri e quanto occorre per fabbricare.

Gli Ebrei, novamente insorti sotto Barcoceba, punì insultandone anche
il culto; ma la vittoria tanto costò, che l'imperatore informandone
il senato, non osò cominciare colla solita formola, — Io e l'esercito
stiamo bene». Non che però estendere le conquiste, neppur quelle di
Trajano conservò tutte; dall'Armenia, dalla Mesopotamia, dall'Africa
revocò le truppe; alle terre tolte ai Daci non rinunziò, per riguardo
ai tanti Romani che vi s'erano accasati; pure, col pretesto che
potesse agevolare ai Barbari il passaggio, ruppe il ponte di Trajano
sul Danubio. Era tradizione che il dio Termine non avesse voluto
recedere dal Campidoglio, nè tampoco per far luogo a Giove; simbolo
dell'immobilità dell'impero; onde questo primo ritirarsi dei Romani
dalle loro conquiste s'ebbe per augurio sinistro.

Dicendo che l'imperatore deve, come il sole, mirare ogni paese,
Adriano visitò tutte le provincie obbedienti: dalle Gallie passò nella
Germania, quartiere delle migliori truppe: in Bretagna, per arrestare
le correrie de' Caledonj, fabbricò una muraglia, che per ottanta miglia
stendeasi dal golfo di Solway alla foce del Tyne nel Northumberland:
sceso nelle Spagne, in assemblea generale tentò rappattumare i
discordi; rinnovò parte della città d'Atene col nome di Adrianopoli: le
regalò denari, grani, l'intera isola di Cefalonia, e una costituzione
modellata sull'antica; vi s'iniziò ne' misteri Eleusini, e pieno del
Dio, si fece dio egli medesimo, lasciandosi adorare nel tempio di Giove
Olimpico, ch'e' fece terminare cinquecentosessant'anni dopo che era
stato cominciato da Pisistrato.

Sviate con una conferenza le nuove minacce di Cosroe re de' Parti,
potè visitare la Cilicia, la Licia, la Pamfilia, la Cappadocia, la
Bitinia, la Frigia, dappertutto lasciando templi, piazze, insigni
monumenti, e gran magnificenze ai re concorsi e agli ambasciadori.
Per le isole dell'Arcipelago tragittossi nell'Acaja, indi in Sicilia
montò in vetta all'Etna, per vedervi il sole oriente dipinger l'iride.
In Africa s'ebbe come un miracolo che al venir suo cadessero le
pioggie, da cinque anni indarno implorate. A Pelusio onorò la tomba di
Pompeo Magno; ad Alessandria, nel museo fondato da Tolomeo Filadelfo
e cresciuto da Claudio imperatore, interrogò i letterati raccolti, e
rispose col senno che trovar si dee in ogni parola d'imperatore.

Da' viaggi Adriano tornava tratto tratto a Roma, ove riordinò
l'amministrazione interna, sopprimendo le forme repubblicane ormai
destituite di significato, per surrogarvi un ordinamento monarchico più
conforme al vero; e le cariche e gli uffizj divise in funzioni dello
Stato, del palazzo, dell'esercito. Ai liberti rimase tolta l'ingerenza
col riservare gl'impieghi di corte ai cavalieri; a quattro cancellerie
s'affidò lo spaccio di tutti gli affari; ed a fianco all'imperatore
fu collocato una specie di consiglio di insigni giureconsulti, quali
Nerazio Prisco, Giuvenzio Gelso, Salvio Giuliano. Da quest'ultimo
fece raccorre nell'_Editto perpetuo_ (131) le migliori fra le norme
pubblicate dai precedenti magistrati pretoriani; col che tolse forse
a costoro il diritto di determinare i principj legali, secondo cui
avrebbero amministrato la giustizia nel loro reggimento, obbligandoli
ad attenersi a questo, che restò la fonte del gius romano fino al
Codice di Teodosio, e divenne fondamento delle Pandette.

Fra le leggi sue proprie, ordinò che a' figliuoli de proscritti si
lasciasse un dodicesimo dei beni paterni; chi trovasse un tesoro
sul suo, ne restasse padrone, chi sull'altrui, n'avesse metà; gli
scialacquatori frustati nell'anfiteatro, poi sbanditi; vietati i
sacrifizj umani: pure fino a Costantino si continuò in Africa ad
immolare fanciulli a Saturno, e uomini in Roma stessa. Proibì ai
padroni d'uccidere gli schiavi, nè di venderli per gladiatori o
prostituti: cassò la legge di mandare al supplizio tutti quelli d'un
padrone assassinato: abolì gli ergastoli, dove i Romani li faceano
lavorare, e dove rifuggivano alcuni per sottrarsi alla milizia o ai
castighi, ed altri liberi erano strascinati per lavorare a forza, e più
non se ne udiva.

A colonie e città poste o ristabilite prodigò il nome di Elia, e
dappertutto moltiplicò monumenti col suo nome: Atene e Grecia ne
furono piene; a Roma rifabbricò il Panteon, il tempio di Nettuno, la
gran piazza d'Augusto, i bagni d'Agrippa, oltre edifizj nuovi, tra cui
principali sono la mole Adriana e la villa di Tivoli. Quella era un
ponte sul Tevere col mausoleo che oggi è Castel Sant'Angelo, mirabile
ancora dopo aver somministrato statue, colonne e fregi agli edifizj
eretti in tempo della decadenza, e projettili nelle battaglie fra
Totila e Belisario. Il carro del soprornato, che da piedi appariva
piccola cosa, era di tal mole che, dice Sparziano, un uomo potea
passare per le orecchie dei cavalli. Nella villa di Tivoli fece
imitare quanto ne' suoi viaggi avea veduto; ivi le situazioni più
decantate di Grecia e d'Egitto, ivi figurato l'inferno, ivi ai varj
quartieri attribuito il nome delle trascorse provincie, e avvivatane la
rimembranza con piante esotiche e con vasi, statue, iscrizioni, d'ogni
sorta rarità.

Nè per questo egli rapiva; anzi molte imposte alleggerì; non accettava
legati da chi avesse figliuoli; condonò quanto in Roma e nell'Italia si
doveva all'erario, e nelle provincie i debiti da sedici anni, bruciando
le obbigazioni, il più bel fuoco di gioja che i popoli possano vedere.

Gli bastava aver letto un libro per saperlo a mente; dettava
contemporaneamente più lettere; dava udienza a diversi ministri;
conosceva il nome di quanti aveano militato sotto di lui. Di scienze,
di grammatica, d'eloquenza, di poesia sapeva quanto altri del suo
secolo; oltre la filosofia, l'astrologia, la magia, le matematiche,
possedeva la medicina, scolpiva, cantava, sonava, dipingeva, massime
figure oscene, e imitazioni, anzi contraffazioni della natura. Compose
un poema misto di verso e prosa, discorsi sulla grammatica, altri
sull'arte della guerra[223], e i proprj fasti, dati fuori sotto il nome
di suoi liberti.

Di bizzarro gusto in fatto di lettere, preferiva Catone a Cicerone,
Ennio a Virgilio, Cellio a Sallustio, Antimaco ad Omero[224], del
quale meditò perfino distruggere i poemi. Chi volesse andargli a versi
mandava fuori critiche esuberanti dei classici, come Largo Lucinio
il _Ciceromastix_, violenta diatriba contro il padre dell'eloquenza
latina. I Sofisti, genìa impudente, cupida, venale, nè in altro valente
che in litigare fra loro, gli si affollavano attorno; e Adriano, senza
abbracciare veruna setta, le tollerava tutte, e dilettavasi di udirne
le baruffe, come di eccitare i poeti a versi improvvisi. Ma guaj a chi
gli disputasse la palma che in tutto pretendeva! Avendo egli un giorno
criticato un'espressione al filosofo Favorino, questi si confessò
in errore; del che meravigliandosi gli amici suoi, — Vorreste ch'io
contendessi di sapere con chi comanda a trenta legioni?»[225].

Di tale prudenza mancò Apollodoro, architetto delle fabbriche di
Trajano, che udendosi fare non so quale appunto dall'imperatore, gli
disse, alludendo al genere di pitture in cui compiacevasi, — Andate a
dipingere cocomeri»; e avendo veduto una Venere e una Roma di man di
lui, sproporzionate al tempietto cui erano destinate, domandò, — Se
si rizzano in piedi, ove staranno?» Tale franchezza egli scontò colla
vita; specchio del quanto sia pericoloso celiar coi potenti.

Perocchè Adriano alle belle qualità univa tanti vizj, da farne un misto
singolarissimo. Non sapeva tener chiuse le orecchie ai delatori; e
farneticava di subillare i fatti altrui, brutto vezzo in tutti, pessimo
in principe. Guardò in sinistro quelli cui andava debitore del regno;
e perchè nei perpetui suoi viaggi nessuno tentasse novità, restrinse
il potere lasciato ai magistrati, avvicinando il governo a pretta
monarchia. Giulia Sabina trattò da schiava più che da moglie, e al fine
si crede la facesse avvelenare; vero è che questa sfacciata vantavasi
d'aver provvisto per non concepire di lui, credendo che un figlio di
esso non potrebbe che divenire onta e ruina del genere umano.

A prefetti del pretorio scelse Taziano suo tutore, e Simile.
Quest'ultimo, alieno da ambizione, dopo tre anni rinunziò, e ritiratosi
in campagna, sopravisse altri sette, e fece scriversi sulla tomba:
_Settantasette anni fui sulla terra, sette ne vissi_. Taziano, al
contrario, tirava il signor suo al rigore; e la pubblica voce gl'imputò
la morte di quattro consolari, già amici d'Adriano, condannati per
cospiratori dal senato, benchè in opinione di innocenti. Molti altri li
seguirono come complici, finchè Adriano proibì le sentenze per offesa
maestà e privò Taziano della sua grazia.

A non dir nulla della passione di lui per cani e cavalli, sino ad
eriger loro splendidi monumenti, di turpe scostumatezza lasciò prova
in troppi versi ad esaltazione de' suoi cinedi. Amò di stravagante
passione Antinoo nativo della Bitinia; eppure dalle arti magiche
avendo appreso che, per prolungare i proprj giorni, bisognava il
sangue volontario d'un uomo, nè trovando altri sì folle o sì generoso,
accettò quello d'Antinoo. Immolato, il pianse a guisa di donna
adorata, eresse sul Nilo una città al nome di lui, volle che i Greci
lo dichiarassero dio, e il mondo s'empì di statue e tempj e oracoli di
lui, gli astronomi ne trovarono la stella in cielo, e nel tempio eretto
sulle ceneri di esso moltiplicaronsi miracoli, instituironsi giuochi e
misteri, e facevasi gara per esser nominato suo sacerdote.

Che dovevano dirne i Cristiani? I quali Adriano non tollerò come
tutte le altre sêtte, ma per devozione a' suoi numi permise d'uccidere
cotesti che loro faceano guerra. Ma i Cristiani, sentendo la potenza
che danno il numero e il tempo, più non s'accontentavano di morire
benedicendo, e uscivano a giustificarsi della loro innocenza al
pubblico giudizio; e Giustino intonava: — La possa de' principi,
qualora preferiscano l'opinione alla verità, non è maggiore di quella
dei ladroni nel deserto»[226]. Mosso, dicono, dalle apologie del
filosofo Aristide e di Quadrato vescovo d'Atene, Adriano sospese la
persecuzione, anzi pensava aprire un tempio a Cristo[227], se gli
oracoli non avessero riflesso che quello renderebbe deserti gli altri.

Preso da idrope (137), scelse a successore Lucio Annio Aurelio Cesonio
Comodo Elio Vero — tanti nomi al crescere della vanità! La malignità,
che nelle sue finezze non sempre al torto s'appone, mormorò sui patti
conchiusi fra l'imperatore e l'adottivo. Costui, dignitoso della
persona e ricco di cognizioni, ma scorretto di costumi, viaggiando
tenevasi attorno al carro servi colle ale, cui dava il nome dei venti;
continua lettura faceva dell'_Arte d'amare_ d'Ovidio e degli epigrammi
di Marziale, che chiamava il suo Virgilio; e quando la moglie il
rimproverò perchè le preferisse bagasce, rispose: — Il nome di sposa
è titolo d'onore, non di piacere». Fortunatamente costui morì pochi
mesi dopo (138); ebbe esequie imperiali ed apoteosi; e Adriano adottò
Aurelio Fulvio Antonino, patto che egli pure adottasse Lucio Vero
figlio e Marc'Aurelio[228] nipote e figlio adottivo dell'estinto Lucio
Annio Aurelio Vero.

Poi, come Tiberio a Capri, così Adriano si ritirò a Tivoli, che avea
rifiorita d'ogni magnificenza, e vi si abbandonò a quante lascivie
la deperente salute gli consentiva. Da queste balzava alle crudeltà,
e spediva ordini sanguinarj; e molti furono uccisi come cospiratori,
altri nascosti da Antonino. Alla magìa ricorreva per mitigare la sua
infermità, da cui oppresso tentò più volte darsi morte; ma una cieca
gli si presentò dicendo: — Un sogno m'avvertì d'intimarvi conserviate
la vita; e poichè tardai ad obbedire, mi si oscurò la vista: ma un
altro sogno m'assicurò la ricupererei sì tosto che baciassi i piedi
imperiali». Così avvenne. Anche un altro cieco, appena tocco da lui,
riebbe l'uso degli occhi, e all'imperatore cessò una forte febbre. Di
tali baje trastullavasi Roma, e confortavasi il cesare.

Stanco in fine dei rimedj, e dicendo, — I molti medici m'ammazzarono»,
si diede a mangiar e bere a fidanza, e a Baja morì (138 luglio) dopo
vissuto sessantadue anni e mezzo, regnato quasi ventuno. Sul morire
sembra ricuperasse la calma, se è vero facesse questi versi, che sono
dei più delicati del suo tempo:

    _Animula, vagula, blandula,_
    _Hospes comesque corporis,_
    _Quæ nunc abibis in loca?_
    _Pallidula, rigida, nudula,_
    _Nec, ut soles, dabis jocos._

Il senato, offeso dalle sue ultime crudeltà, volle cassarne gli ordini
e negargli i funerali: poi alle minacce de' soldati e alle suppliche di
Antonino gli profuse onori; le ceneri riposte nella superba mole presso
al Tevere, lo spirito fra gli Dei.



CAPITOLO XXXIX.

Gli Antonini.


Trajano in perpetua guerra, Adriano in perpetuo movimento, Antonino
visse in tal quiete, che in ventitre anni non oltrepassò la villa di
Lanuvio. Per dolcezza naturale caro a parenti ed amici, avea prediletto
i campi, nè però lasciato le magistrature; poi riuscì dei migliori
principi che la storia rammenti. Guadagnò il favore del popolo, non lo
brigò; accoglieva qualunque più umile, e dava ascolto a richiami contro
uffiziali o magistrati; sprezzando i clamorosi applausi, delizia de'
suoi predecessori, nè adulare nè essere adulato soffriva; magnifico
senza lusso, economo senza grettezza, osservante dei costumi antichi
ma senza scrupoleggiare. Interveniva ai pubblici riti, come pontefice
supremo offriva i sacrifizj, ma vietò di recar molestia ai Cristiani,
lodandone la vita di spirito, i costumi, il coraggio, sebbene nol
facesse che col raffronto delle antiche virtù[229].

Negli amici confidavasi appieno, avendoli scelti a prova: de' nemici
tollerava la franchezza e fin l'ingiuria: risparmiò i supplizj,
contentandosi di ridurre i rei a non poter nuocere: promise non
manderebbe a morte nessun senatore, e l'attenne sì fedelmente, che
uno confesso di parricidio relegò soltanto in un'isola deserta. Di
due accusati di cospirazione, uno si uccise, l'altro fu proscritto dal
senato; ma volendo questo seguitar le indagini, l'imperatore lo sospese
dicendo: — Non ho gran voglia di render palese quanti mi odiano». E
ripeteva: — Meglio salvare un cittadino, che sterminare mille nemici».

Ammirando certe colonne di porfido in casa d'un Valerio Omulo, chiese
a questo donde le avesse avute. — In casa altrui non bisogna aver occhi
nè orecchi», rispose l'ospite; e l'imperatore trovò che diceva giusto.
Arrivando proconsole in Asia, fu messo d'alloggio presso Polemone, il
più famoso sofista di Smirne, il quale tornando ben tardi, si dolse
che altri gli avesse occupata la casa; e Antonino così di notte uscì e
cercò altro albergo. Fatto imperatore, Polemone venne a corteggiarlo a
Roma, e Antonino nol ricambiò altrimenti che colle maggiori onoranze,
alludendo solo all'occorso coll'ordinare che neppur di giorno si osasse
cacciarlo dall'appartamento. E richiamandosi a lui un commediante
perchè Polemone l'avesse di mezzodì espulso dal teatro, Antonino gli
rispose: — E me non cacciò di mezzanotte? eppure nol querelai».

Da Calcide di Siria chiamò lo stoico Apollonio per educare
Marc'Aurelio; e quegli venne con una turma di discepoli, che Luciano
paragona agli Argonauti mossi a conquistare il vello d'oro. Giunto a
Roma, e da Antonino invitato al palazzo, il superbo filosofo rispose:
— Tocca allo scolaro andar dal maestro». L'imperatore ordinò che
Marc'Aurelio andasse da lui; ma rilevò la stolta arroganza dello
stoico, dicendo: — È venuto da Calcide a Roma, ed or trova lungo
arrivare dal suo albergo al palazzo!»

Di queste ostentazioni filosofiche forbivasi Antonino, e quando i
cortigiani disapprovavano Marc'Aurelio del pianger la morte del suo
ajo, egli disse: — Lasciatelo fare, e soffrite che sia uomo, giacchè
nè la filosofia nè la dignità imperiale devono estinguere in noi i
sentimenti di natura». Uomo dunque si mostrò, affettuoso sempre con
Adriano e vivo e morto, il che gli acquistò il titolo più glorioso e
nuovo di Pio.

Rincresce che pochissimo di lui si conosca, talchè dobbiam racimolare
informazioni senz'ordine di tempo. Al senato e ai cavalieri rendeva
conto dell'amministrazione sua, lasciava che il popolo eleggesse i
magistrati, e al pari di un privato chiedeva le cariche per sè e pe'
suoi figliuoli. Cessò le pensioni da Adriano assegnate agli adulatori e
simili pesti; ma ripudiava le eredità da chi avesse prole, e restituiva
ai figli i beni confiscati al padre, salvo il rintegrare le provincie
espilate. Perdonò in intiero alle città d'Italia, e per metà alle altre
l'oro coronario che solevasi offrire ad ogni nuovo principe; alleggerì
le tasse, e vegliò perchè si esigessero con umanità. Succedevano
disgrazie? la prima cosa era rimettere l'imposta al paese danneggiato;
alimentava moltissimi fanciulli poveri; ricompensava chi applicavasi
all'educazione; i senatori bisognosi ajutò a sostenere il decoro
del loro grado; a Galeria Faustina sua moglie, rotta a lussuria, che
l'accusava d'avere disposto la più parte degli averi suoi a pro dei
bisognosi, rispose: — Ricchezza d'un regnante è la pubblica felicità».
Negli spettacoli, delizia del popolo, largheggiò, nè fu scarso in
opere pubbliche; fece aprire il porto di Gaeta e riparar quello di
Terracina, terminò la mole Adriana, eresse un mirabile palazzo a Loria
di Toscana, ov'era stato allevato. Non che l'amassero i suoi, anche gli
stranieri rimettevano le loro differenze all'equità di lui; una lettera
sua bastò per far recedere i Parti dall'Armenia; Lazi, Armeni, Quadi,
Ircani, Battriani, Indi, Iberi gli resero omaggio (140); i Briganti
che si sollevarono in Britannia, furono domi; i Mauri respinti di là
dell'Atlante.

Per ordine di Adriano adottati Marc'Aurelio e Lucio Vero, al primo
diede sposa sua figlia Annia Faustina, e assai ne pregiava le belle
doti, mentre indovinava il cattivo animo dell'altro; onde preso da
febbre a Loria, a Marc'Aurelio raccomandò l'impero, e il designò
successore col far trasportare nella camera di lui la statua d'oro
della Fortuna che sempre teneasi presso l'imperatore. E morì di
sessantatre anni, compianto di cuore, e riposto fra gli Dei come i più
ribaldi (161).

Di lui avea steso un elogio Marco Cornelio Frontone console, reputato
fra' più eloquenti Latini, sebbene i frammenti, scoperti non è guari
dal cardinale Maj, detraggano assai da quella fama. L'elogio migliore
ne fu steso dal suo successore, e noi lo riportiamo non tanto come
ritratto fedele, quanto a lode di chi lo scrisse: — Da mio padre
adottivo (dic'egli) imparai d'esser dolce, eppure inflessibile ne'
giudizj dati dopo maturo esame; non insuperbire di quei che chiamansi
onori; durare assiduo alla fatica; sempre disposto ad ascoltare chi
reca avvisi utili alla società; rendere al merito secondo gli è dovuto;
sapere ove convenga tirare, ove allentare; recedere dalle follie
della gioventù; mirare al ben generale. Non esigeva egli che i suoi
amici venissero ogni giorno a cenar seco, nè che l'accompagnassero in
tutti i viaggi: chi non avea potuto, era accolto coll'egual cuore.
Ne' consigli cercava diligentemente il partito migliore, deliberava
a lungo senza fermarsi alle prime opinioni. Non s'annojava degli
amici, nè mai trascendeva nelle antipatie o nelle affezioni. In tutti
i casi della vita e' bastava a se stesso: sempre sereno di spirito,
prevedeva da lontano quel che poteva succedere; e senza ostentazione
ordinava fin le più minute cose: sopiva le prime sommosse senza
rumore; reprimeva le acclamazioni ed ogni bassa piacenteria; vegliava
continuo alla conservazione dello Stato; misurava le spese delle
feste pubbliche, non badando che si mormorasse di questa rigorosa
economia. Adorò gli Dei senza superstizione; cattivossi il popolo,
non con moine e coll'affettazione di salutar tutti; sobrio in ogni
cosa e fermo, nulla di sconveniente o di singolare; le comodità che
offrivagli in copia la fortuna, modestamente usava, e senza bramare
le mancanti. Niuno mai gli appose d'affettare bello spirito, essere
sofista, motteggiatore, declamatore, perdigiorni; al contrario, lo
dicevano assennato, inaccessibile a blandizie, padrone di sè, fatto per
comandare agli altri. Onorava i veri filosofi, i falsi non insultava;
cortese, moderatamente piacevole nel conversare, non tediava mai. Della
persona sua curavasi a misura, e non come uomo passionato per la vita,
o smanioso di piacere: senza trascurarsi, limitava la sua attenzione
allo star sano, per passarsene della medicina o della chirurgia. Scarco
di gelosia, cedeva alla superiorità degli altri fosse in eloquenza e
in giurisprudenza, o in filosofia morale, od in altro; anzi ingegnavasi
perchè ciascuno fosse conosciuto in quel dove valeva. Nel tenore di sua
vita imitava i padri, ma senza ostentarlo; non compiacevasi di mutare
spesso di posto e d'oggetti; non istancavasi di rimanere in un medesimo
luogo e sopra un solo affare. Dopo le violenti micranie tornava
disposto all'ordinario lavoro. Ebbe pochissimi segreti, e solo pel
ben comune. Negli spettacoli, nelle pubbliche opere, nelle largizioni
e in simili incontri mostravasi prudente e misurato, badando a quel
che conveniva, non a celebrità. Non usava bagno in ore straordinarie;
non avea passione di murare; nessuna squisitezza alla tavola, nel
colore o nelle qualità de' vestiti, nella scelta di begli schiavi.
A Loria portava una tunica comprata nel vicino villaggio e di stoffe
di Lanuvio; non mai il mantello, se non per andare a Tusculo, e anche
allora ne chiedeva le scuse. In generale non modi aspri, indecenti, nè
di quella fretta che fa dire, _Bada che tu non sudi_: compiva una cosa
dietro l'altra ad agio, senza scompiglio, e con accordata successione.
Poteasi dire di lui, come di Socrate, che sapeva indifferentemente
godere, e far senza delle cose, di cui la più parte degli uomini non
sanno nè mancare senza rammarico, nè godere senza eccesso: serbarsi
forte e moderato in ambo i casi è da uom perfetto, e tale egli si
mostrò».

Così scriveva il successore e allievo di lui Marc'Aurelio, che a sedici
anni rinunziò alla sorella la paterna eredità, pago di quella dell'avo
materno; sotto i migliori maestri apprese lettere, diritto, e massime
filosofia. I precettori suoi, vivi onorava e consultava, morti ne
visitava e fioriva i sepolcri. Dianzi fu scoperta la sua corrispondenza
con Frontone, il quale osò dirgli la verità mentre fu privato[230]; poi
con esso mantenne carteggio, colla confidenza d'antico famigliare che
nulla domanda, e quale la meritava il saggio alunno[231].

Marc'Aurelio assunse anche il mantello usato dai filosofi e la loro
vita austera, sino a dormire sulla nuda terra. Questo rigore lo
indebolì di salute, ma regolandosi rinsanicò, e visse sessant'anni
laboriosissimi: nè gli onori il tolsero dalla semplicità e dal
coltivare gli amici e la scienza. Se per rispetto alle costumanze
interveniva agli spettacoli, leggeva e s'occupava d'affari, lasciando
che il popolo lo berteggiasse.

A Lucio Vero, fratello d'adozione, diede sposa sua figlia Lucilla, poi
lo nominò augusto e collega, con esempio nuovo nelle storie; e fatte
le solite largizioni, governarono insieme. Ma troppo differenti. Lucio
Vero, spoglio d'ingegno e di virtù, passava le giornate a tavola, le
sere a correr le vie in gara di libertinaggio colla ciurmaglia; il
palazzo convertiva in taverna; e dopo cenato col virtuoso fratello,
ritiravasi nelle sue stanze a bagordare con gentame e schiavi, cui
permetteva seco la libertà de' Saturnali. I capelli spolverava d'oro;
in un solo banchetto spese un milione ducentomila lire, e a ciascuno
dei dodici invitati distribuì una corona d'oro, i piatti d'oro e
d'argento, un bello schiavo, un mastro di casa, ed ogni volta che si
beveva, una tazza di murrina e coppe preziose tempestate di diamanti,
corone di fiori che la stagione non portava, preziosissime essenze
in oricanni d'oro; poi quando furono al partire, ciascuno trovossi un
cocchio con muli superbamente bardati. Celere, suo cavallo, non d'altro
era nudrito che d'uva e mandorle, coperto di porpora, alloggiato in
palazzo; ebbe statua d'oro e, morto, un magnifico mausoleo in Vaticano.

Dilagamenti, incendj, tremuoti che avevano afflitto l'impero e
dato esercizio alla liberalità di Antonino, si rinnovarono per le
provincie, aggiuntavi l'epidemia; poi uno strano caro in Roma: talchè
Marc'Aurelio ebbe a faticare in sollievo di tanti guaj. Anche i Catti
sbucarono nella Germania, i Britanni calcitravano, l'Armenia si agitò,
Vologeso III re de' Parti ruppe guerra con formidabili preparativi. A
combatterlo, Marc'Aurelio mandò Lucio Vero (162), sperando strapparlo
all'indecorosa mollezza; ma costui, appena mosso da Roma, fu dalle
dissolutezze gettato in violenta malattia a Capua. Guarito da questa
non da quelle, passa il mare; e l'Asia lo alletta a godimenti, ne'
quali logora il tempo. Frontone[232], scrivendogli, deplorava il
decadimento della militare disciplina: — Guerrieri abituati ogni giorno
nell'applaudire alle infami voluttà, anzichè nelle insegne e negli
esercizj, cavalli ispidi per mancanza di cura, cavalieri sbarbate fin
le coscie e le gambe, uomini piuttosto vestiti che armati, talmente
che Leliano Ponzio, educato nell'antica disciplina, colla punta delle
dita sfondava le costoro corazze, e osservava perfin de' cuscini posti
sui loro cavalli. Pochi soldati lanciavansi d'un salto sul cavallo;
altri sosteneansi a fatica sui garretti o sui ginocchi; pochi sapevano
palleggiare il giavellotto, e senza vigore lo gettavano come fosse
lana. Al campo, tutto pieno di giuochi: un sonno lungo quanto la notte,
e la veglia in mezzo al vino». Eppure l'esercito era ancora la parte
più sana dell'impero, e i luogotenenti di Lucio Vero lo condussero
più volte alla vittoria: finalmente Avidio Cassio, proceduto sino a
Ctesifonte, arse la reggia de' Parti (163), prese Edessa, Babilonia
e tutta la Media. Vero, indegnamente proclamato vincitore dei Parti,
distribuì i regni, e assegnò il governo delle provincie ai senatori che
l'accompagnavano.

Vedendo occupati i migliori eserciti in Oriente, i Germani insorsero
dalle Gallie all'Illiria. Marc'Aurelio, accorsovi col fratello, parte
respinse oltre il Danubio, parte sottomise; e diffidando a ragione,
si fermò a piantare nuovi fortilizj, corroborò Aquileja minacciata
dai Marcomanni, e provvide alla sicurezza dell'Illiria e dell'Italia.
Nè invano, chè ben presto l'incendio sopito divampò, e i due augusti
dovettero accorrere di nuovo. Ma Vero morì ad Altino di trentanove
anni (169); Aurelio lo fece ascrivere fra gl'Iddii, e procedette più
risoluto nella via del bene.

La guerra ai Germani seguitò con varia fortuna: i Marcomanni videro più
volte le spalle dei Romani (170), li inseguirono fin sotto Aquileja,
e in Italia recarono fuoco e guasto. Roma, più atterrita perchè la
peste menava strazio, arrolò schiavi, gladiatori, disertori, Germani
mercenarj; e l'imperatore vendette gli arredi del proprio palazzo,
ori, statue, quadri, le vesti di sua moglie, e una preziosissima copia
di perle, adunate da Adriano ne' suoi viaggi; e coll'ingente somma
ritrattane provvide alla fame d'allora, pagò le spese d'una guerra
quinquenne, e avanzò tanto da ricuperar parte delle cose vendute. I
Barbari combattè in ogni parte da eroe, ma eroe umano, risparmiando il
sangue ove potea, reprimendo la indisciplina militare, e coll'esempio
animando i nemici. Ma inseguendoli di là dal Danubio, rimpetto
all'antica Strigonia nell'alta Ungheria, si trovò preso in mezzo dai
Marcomanni; e sebbene i suoi con valore si riparassero da quella serra,
vedeansi all'estremo per mancanza di acqua. Quand'ecco in un subito il
cielo si rabbuja, e versa dirotta pioggia; il nembo stesso, avventando
gragnuola e fulmini contro i nemici, che in quella confusione gli
avevano assaliti, ajuta i Romani a disperderli.

È uno degli accidenti più clamorosi di quel tempo, gridato per miracolo
da Gentili e da Cristiani: quelli l'attribuiscono ad Arnufi, mago
egiziano, od a preghiere dell'imperatore[233]; i nostri ne fanno merito
ai battezzati della legione Melitina. L'imperatore, colla circospezione
richiesta dal tempo, scrisse al senato di dover queste vittorie ai
Cristiani; e contro chi li calunniasse decretò l'ultima severità.

La restituzione di centomila prigionieri attestò quanto i Romani
avessero sofferto. Quadi e Marcomanni, che rinnovarono i movimenti,
furono rinserrati per modo, che la fame li costrinse implorar
pace dall'imperatore (174); e venuti con doni, coi disertori e con
tredicimila prigionieri, la ottennero a patto di non più trafficare
sulle terre romane, e stanziare almeno sei miglia dal Danubio. Gli
altri Germani furono pure repressi, com'anche i Mori che aveano invaso
la Spagna.

Avidio Cassio, vincitore dei Parti, più col seminare discordie che
non colle armi domò i sollevati Egiziani; ed anche in Armenia e in
Arabia fece mostra di prudenza e valore. Costui, quanto sicuro nelle
armi, era rigoroso co' soldati; qualunque di essi rapisse nulla ai
paesani, era ivi stesso crocifisso; alcuni arsi vivi, altri incatenati
insieme e gettati al mare; ai disertori faceva mozzar piedi e mani,
dicendo la vista di que' moncherini produrre maggior effetto che non un
supplizio. Mentre accampava presso il Danubio, alcuni de' suoi ajuti
passarono il fiume, ed assaliti i Sàrmati improvvisti, ne uccisero
tremila e tornarono carichi di preda: ma quando i centurioni, che a
ciò gli avevano eccitati, aspettavano lode e ricompensa da Cassio, e'
li fece crocifiggere per esempio di disciplina. Al rigore eccessivo
destasi in rivolta l'esercito; ma Cassio, comparendo senz'armi fra i
tumultuanti, esclama: — Uccidetemi pure, e alla dimenticanza del dover
vostro aggiungete l'assassinio del generale». Quell'intrepidezza colpì;
l'ordine fu ricomposto, e i nemici disperando di vincere un tal capo,
chiesero una pace di cento anni.

Compiuta la guerra de' Marcomanni, Marc'Aurelio deputò Cassio
a governare la Siria, ove in sei mesi riparò allo scompiglio e
all'immoralità delle legioni; ogni otto giorni ne passava in rassegna
l'abito, le armi, l'equipaggio; frequentemente le addestrava, e
malgrado quel rigore, sapea farsi ben volere. Ma il nome che portava,
rammentavagli un altro che avea tentato impedire la monarchia in Roma;
ed egli pure chimerizzava una romana repubblica. Antonino il seppe e
tollerò; Marc'Aurelio rispose con filosofia fatalista: — A che stare in
pena? se la sorte destina l'impero a Cassio, niuno uccide il proprio
successore; se no, rimarrà preso al proprio laccio. Non conviene
diffidare d'uomo non accusato e di tanti meriti: se devo perdere la
vita pel bene dello Stato, poco mi cale se ne verrà scapito a' miei
figliuoli».

Durante la guerra in Germania, si sparse voce, o Cassio la divulgò, che
l'imperatore fosse morto; e Faustina imperatrice, temendo l'impero non
venisse occupato chi sa da chi, e in pericolo sè ed i figli, sollecitò
Cassio ad assumerlo e sposar lei. Cassio si fece proclamare (175), e
ben tosto il paese di là dal Tauro e l'Egitto gli obbedirono; principi
e popoli stranieri abbracciarono la sua causa. Marc'Aurelio, quando
più nol potè tener celato, ne informò egli medesimo il suo esercito,
movendo pacata querela dell'ingratitudine; indi prese il cammino
dell'Illiria per farsi incontro a Cassio, e cedergli l'impero, quando
tale paresse il volere degli Dei; — Giacchè (soggiungeva) se tante
fatiche io duro, non è interesse o ambizione, ma desiderio del bene del
mio popolo».

Cassio non era un usurpator volgare, e pensava o simulava d'intendere
soltanto al pubblico bene: — Infelice la repubblica in preda d'avoltoj,
che dopo il pasto han più fame di prima! Marc'Aurelio è buono, ma
per farsi lodare di clemenza lascia viver uomini che sa meritevoli di
morte. Dov'è l'antico Cassio? dove l'austero Catone? a che è ridotta
la disciplina de' nostri vecchi? or non si sa tampoco ribramarla.
L'imperatore fa il mestiere del filosofo, disserta sul giusto e
l'ingiusto, sulla natura dell'anime, sulla clemenza; e non piglia a
cuore gl'interessi dello Stato. Buoni esempj di severità bisogna dare,
molte teste abbattere se vogliasi ripristinar il governo nell'antico
splendore. Di che non sono meritevoli cotesti rettori di provincie, che
credonsi posti là unicamente per deliziarsi e arricchire? Il prefetto
al pretorio del nostro filosofo tre giorni prima d'entrar in carica
non avea pane; e poco poi possiede milioni: e come gli ebbe, se non
col sangue dello Stato e collo spoglio delle provincie? Le confische su
costoro rifioriranno il tesoro, se gli Dei favoriscono la buona causa:
io opererò da vero Cassio, e restituirò alla repubblica il prisco
splendore».

Ma ben tosto il pugnale del centurione Antonio lo tolse dalla vita e
da un regno di tre mesi e sei giorni. Marco Vero, ch'era stato spedito
contro di lui, trovate le lettere de' suoi partigiani, le bruciò
dicendo: — Questo atto piacerà a Marc'Aurelio: gli dispiacesse anche,
avrò, col perder la mia, salvato molte vite». Il capitano delle guardie
di Cassio e suo figlio Muziano, governator dell'Egitto, perirono, e
così qualc'altro senza saputa dell'imperatore, il quale agli sbanditi
rese la patria e i beni; e rimessa al senato l'indagine, soggiunse: —
I senatori e cavalieri, partecipi della congiura, sieno per autorità
vostra esenti da morte e da ogni castigo e nota; e dicasi per onor
vostro e mio, che quest'insurrezione costò la vita a quelli soli che
perirono nel primo tumulto. Così anche a loro potessi renderla! La
vendetta è indegna d'un regnante».

Tolse in protezione la moglie, il suocero, i figli del ribelle, e
li sollevò a dignità, quantunque non ignorasse i maneggi di quella
parentela per avversargli il popolo e i soldati. Agli amici che gli
dicevano, — Cassio non avrebbe usata tanta moderazione», replicò: —
Noi non serviamo gli Dei tanto male, da temere che volessero chiarirsi
per Cassio»; e soggiunse: — Le crudeltà hanno menato sventura a molti
miei antecessori, e un principe buono non è mai vinto od ucciso da un
usurpatore; Nerone, Caligola, Domiziano meritarono la fine loro; Otone
e Vitellio erano inetti; l'avarizia fu ruina di Galba».

Oh! lasciateci indugiare sopra questi atti di clemenza, come il
viaggiatore che nel deserto sotto le rare palme cerca ombra e ristoro.

La bontà però qualche volta il portava a perdonare anche al reo.
Erode Attico, famoso retore e ricco sfondolato, avea lite colla città
d'Atene, e vedendo l'imperatore inclinato a favor di questa, invece
di ragioni prese a oltraggiarlo come raggirato da una donna e da
una bambina, volendo dire Faustina e sua figlia, mediatrici per gli
Ateniesi. L'imperatore, che avealo ascoltato pacatamente, quando fu
partito disse ai deputati di Atene: — Ora potete esporre le ragioni
vostre, benchè Erode non abbia creduto bene allegar le sue». E le
ascoltò attento, e gli vennero le lagrime all'udire gli strapazzi
che soffrivano da Erode e da'suoi liberti: pure condannò solo questi
ultimi, poi li graziò; e appena Erode lagnossi seco che più non gli
scrivesse, gli chiese scusa con questo viglietto, singolare in un
re: — Desidero tu sii sano e convinto ch'io t'amo. Non aver a male se
trovasti in fallo alcuni tuoi dipendenti; io gli ho puniti, sebbene
nel modo più dolce che mi fu possibile. Non me n'accagionare; ma se
ho fatto o fo cosa che ti dispiaccia, imponmi un'ammenda, ch'io ti
soddisferò nel tempio di Minerva in Atene, al tempo dei misteri; avendo
io, nel fervor della guerra, fatto voto d'iniziarmi, e voglio che tu
presieda alla cerimonia»[234].

Per simile eccesso di bontà tollerò il libertinaggio sfacciato della
moglie Faustina, e promosse gli amanti di essa; e consigliato dagli
amici a ripudiarla, rispose: — Bisognerebbe le restituissi la dote,
cioè l'impero datomi da suo padre», o celia, o ragione indegna d'un
saggio. Dopo la rivolta di Cassio, v'è chi dice che, vergognosa di
vedersi accusata dai complici, ella si uccise (176). Aurelio ne' suoi
ricordi la rimpianse come fedele, amabile e di meravigliosa semplicità
di costumi; mutò in città, col nome di Faustinopoli, il villaggio a piè
del Tauro, dov'ella avea chiusi i giorni; pregò il senato a porla fra
gli Dei, e il senato ossequioso le eresse statue ed un altare, ove le
novelle spose facessero sacrifizio solenne all'adultera imperiale.

Marc'Aurelio, continuando il cammino per l'Oriente, perdonò a tutte
le città fautrici di Cassio, e all'Egitto infervorato di esso; solo
ad Antiochia interdisse i giuochi, sua vita, e tolse i privilegi: ma
essendovi poi andato in persona, anche di questo la sgravò. In Atene
si fece iniziare ne' misteri di Cerere, e vi stabilì professori d'ogni
scienza: arrivando poi in Italia, ordinò ai soldati di riprendere la
toga, non essendovi mai nè egli nè i suoi comparsi in abito guerresco
(177). Entrando trionfante in Roma, superò in largizioni tutti i
predecessori; giacchè, nel discorso che tenne al popolo, avendo
espresso che era stato in giro _otto anni_, la folla cominciò a gridare
— Otto, otto», chiedendo così otto denari d'oro per testa; ed esso
glieli fece dare.

In Roma si godeva tutta la libertà di cui fossero capaci gli antichi;
e sotto un imperatore onesto e generoso, le fronti si rialzavano con
dignità. Fra altre savie leggi, Marc'Aurelio vietò ai gladiatori
d'adoprare armi micidiali: fatto ben più onorevole, che l'agitar
nelle scuole quistioni di filosofia, a preghiera de' letterati. Egli
non usciva mai dal senato, che il console non avesse dato congedo
col _Nihil vos moramur, patres conscripti_; tornava dalla Campania
qualvolta v'avesse a riferire alcun che; crebbe i giorni fasti per
gli affari; primo istituì un pretore sovra le tutele; notò d'infamia i
delatori; rendeva assiduamente giustizia, e spesso rimetteva le cause
al senato, trovando più giusto il piegarsi egli stesso al parere di
tanti savj, che non trascinare questi al suo.

Il chiamarono a nuove armi i Marcomanni; ma in mezzo alle vittorie
morì a Sirmio in Pannonia (180) di cinquantanove anni, dopo regnato
diciannove; e di sincero compianto l'accompagnarono tutti, eccetto
forse il figlio Lucio Comodo, sospetto d'avergli accelerato la morte.
Tranquillamente la vide Marc'Aurelio avvicinarsi, e diceva agli amici:
— Da voi aspetto meglio che i sentimenti ordinarj e naturali; ma che
chiariate aver io collocato bene la stima, l'affezione, i benefizj.
Mio figlio a voi raccomando; vi sia a cuore la sua educazione. Egli
esce appena dall'infanzia; ne' primi bollori della gioventù ha bisogno
di governo e di piloto, che mai, scarso d'esperienza, non travii e
rompa agli scogli: non l'abbandonate, tenetegli luogo del padre con
buoni avvisi e salutari istruzioni, ritrovi me in ciascuno di voi.
Le più larghe ricchezze non bastano alle dissolutezze di un principe
voluttuoso; se egli è odiato da' sudditi, non è in securo, per quante
guardie lo difendano; non teme congiure e sommosse se pensò a farsi
amare più che temere. Chi di voglia obbedisce, va scevro da sospetti;
senz'essere schiavo, è buon suddito, e non ricusa obbedienza se
non a comando dato con soverchia durezza. Difficile è l'usar con
moderazione una podestà senza confini. Ripetete spesso a mio figlio
queste istruzioni e somiglianti; così formerete per voi e per l'impero
un principe degno, a me mostrerete la vostra costanza, e onorerete la
memoria mia, unico mezzo di renderla immortale».

Le sue ceneri furono deposte nella mole Adriana, egli ascritto fra
gli Dei, e reputavasi sacrilego chi non ne tenesse in casa l'effigie.
Oltre l'esempio d'una benignità e d'una dolcezza quasi uniche, ci
lasciò anche precetti per iscritto[235], la cui indulgenza discorda
dall'austero stoicismo, e segnano il punto più alto cui giungesse la
filosofia pagana, irradiata suo malgrado da quella suprema sapienza,
incontro a cui ostinavasi a chiuder gli occhi. — Un solo Dio (diceva
egli) dappertutto; una sola legge, che è la ragione comune a tutti
gli esseri intelligenti. Lo spirito di ciascuno è un dio ed emanazione
dell'ente supremo. Chi coltiva la propria ragione deve guardarsi come
sacerdote e ministro degli Dei, giacchè si consacra al culto di colui
che fu in esso collocato come in un tempio. Non fare ingiuria a questo
genio divino che abita in fondo al cuore, e conservalo propizio col
fargli modesto corteggio siccome a un dio. Trascura ogni altra cosa
per occuparti del culto della tua guida, e di ciò che in lei v'ha di
celeste; sii docile alle ispirazioni di questa emanazione del gran
Giove, cioè lo spirito e la ragione; il dio che abita in te, conduca
e governi un uomo veramente uomo. Una ragione eguale prescrive ciò che
dobbiam fare od evitare: governati da una legge comune, siamo cittadini
sotto l'egual reggimento».

Alla maniera di Socrate e del Maestro divino, e a differenza di
Cicerone, insiste più spesso sulla morale privata, sulla cognizione
di se stesso. — Di rado siamo infelici per non sapere che cosa passi
nel cuor degli altri; ma lo siam certo se ignoriamo quel che passa
nel nostro. A qual cosa applicarci con tutta la cura? ad aver l'anima
giusta, far buone azioni, cioè utili alla società, non poter dire che
il vero, esser sempre in grado di ricevere ciò che accade come cosa
necessaria. Come un cavallo dopo una corsa, un'ape dopo fatto il miele,
non dicono _Ho fatto del bene_, così un uomo non deve proclamare il
bene che opera, ma continuare come la vigna, che, dopo portato il
frutto, si prepara a portarne dell'altro a tempo.

«Quando sei offeso dalla colpa d'alcuno, esamina te stesso, e bada
se mai non facesti nulla di simile: questo riflesso dissiperà la tua
collera. Dio immortale non s'indispettisce di tollerare per tanti
secoli un'infinità di malvagi, anzi ne prende ogni cura: e tu che
domani morrai, e che ad essi somigli, ti stancheresti di sopportarli?
Spesso si è non meno ingiusti a fare nulla che a fare qualcosa.

«Ogni mattina si cominci col dire, — Oggi avrò a fare con faccendieri,
con ingrati, insolenti, scaltriti, invidi, insociali: perchè hanno
questi difetti? perchè non conoscono i beni e i mali veri. Ma io, che
appresi il vero bene consistere nell'onesto, e il vero male nel turpe;
che conosco la natura di chi mi offende, e ch'egli è parente mio, non
per sangue, ma per la partecipazione al medesimo spirito emanato da
Dio, non posso tenermi offeso da parte sua, giacchè egli non saprebbe
spogliare l'anima mia dell'onestà.

«O uomo, tu sei cittadino della gran città del mondo: che ti
cale di non esserlo stato che cinque anni? Nessuno può lamentarsi
d'ineguaglianza in ciò che avviene per legge mondiale: perchè dunque
cruciarti se ti sbandisce dalla città, non un tiranno o un giudice
iniquo, ma la natura stessa che vi t'avea collocato? È come se un
attore fosse congedato di teatro dall'impresario che l'allogò. — Non ho
finito la parte, recitai solo tre atti. — Dici bene: ma nella vita tre
atti formano una commedia intera, giacchè essa è terminata a proposito
ogniqualvolta il compositore istesso ordina d'interromperla. In tutto
ciò tu non fosti nè autore, nè causa di nulla: vattene dunque in pace,
giacchè chi ti congeda è tutto bontà.

«Io debbo a Vero mio avo ingenuità ne' costumi e placidezza; alla
memoria che ho del padre mio, il carattere modesto e virile; a mia
madre, pietà e liberalità, non solo astenersi dal male ma neppur
pensarlo, frugalità negli alimenti, schivar le pompe; al bisavo,
il non essere andato alle pubbliche scuole, ma avuto in casa egregi
precettori, e conosciuto che non si spende mai troppo in ciò; al mio
educatore, il non parteggiare per la fazione verde o per la turchina
nelle corse, o nei gladiatori pel grande o piccolo scudo, tollerar
la fatica, contentarmi di poco, servirmi da me, non dare ascolto a
delatori; a Diagnoto, non occuparmi di vanità, non credere a prestigi
ed incanti, a scongiuri, a cattivi demonj nè altre superstizioni,
lasciare che di me si parli con libertà, dormire sopra un lettuccio
ed una pelle, e gli altri riti della educazione greca; a Rustico,
l'essermi avveduto che bisognava correggere i miei costumi, evitar
l'ambizione de' sofisti, non iscrivere di scienze astratte, non
declamare arringhe per esercizio, non cercare ammirazione col far
pompa d'occupazioni profonde e di generosità; nelle lettere usare stile
semplice; al pentito perdonare senza indugio; leggere con attenzione,
nè contentarmi di comprendere superficialmente. Da Apollonio appresi
ad esser libero, fermo anzichè esitante, alla ragione solo mirando,
eguale in tutti i casi della vita, ricevere i doni dagli amici senza
freddezza nè abiezione. Da Sesto, benignità, esempio di buon padre,
gravità senza affettazione, continuo studio di venir grato agli amici,
tollerare gl'ignoranti e sconsiderati, rendere la propria compagnia
più gioconda che quella degli adulatori, conciliandosi però rispetto,
applaudire senza strepito, sapere senza ostentazione. Dal grammatico
Alessandro, a non rimproverare le scorrezioni di lingua, di sintassi,
di pronunzia, ma far sentire come abbia a dirsi, mostrando rispondere o
aggiunger prove o sviluppare la stessa idea, con espressione diversa,
o in altra guisa che non sembri correzione. Da Frontone, a riflettere
all'invidia, alla frode, alla simulazione dei tiranni, e che i patrizj
non hanno cuore. Da Alessandro platonico, a non dire leggermente _Non
ho tempo_, nè col pretesto delle occupazioni esimersi dagli uffizj
sociali. Da Massimo, a dominar se stessi, non lasciarsi sopraffare da
verun accidente, moderazione, soavità, dignità ne' costumi, occuparsi
senza rammarichio, non esser frettoloso, non pigro, non irresoluto,
non dispettoso e diffidente, non mostrare ad altri d'averlo a vile e di
credersene migliore, amar la celia innocente.

«Riconosco per benefizio degli Dei l'aver avuto buoni parenti,
buoni precettori, buoni famigliari, buoni amici, che sono le cose
più desiderabili; il non avere sconsideratamente offeso alcuno di
questi, benchè vi fossi per natura proclive; inoltre l'aver conservato
l'innocenza nel fiore della giovinezza; non fatto uso prematuro della
virilità; l'essere stato sotto un imperatore e padre che da me rimoveva
l'orgoglio, persuadendomi che il principe può abitare nella reggia, e
pure far senza guardie nè abiti pomposi, e fiaccole e statue e simil
lusso; il non aver fatto progressi nella retorica, nella poesia e
cosiffatti studj, che m'avrebbero divagato[236]; il non essermi mancato
denaro qualora un povero volessi soccorrere; non essermi trovato in
bisogno di soccorso altrui; il trovarmi in sogno suggeriti rimedj
opportuni a' miei mali; il non essere, nello studio della filosofia,
caduto in mano d'alcun sofista, nè perduto il tempo a svolgere i costui
commenti, sciogliere sillogismi, e disputare di meteorologia».

Insomma la filosofia di Marc'Aurelio è un continuo intendere al bene
de' suoi simili; ed anzichè l'orgoglio stoico, vi riconosci l'umiltà
cristiana. Staccarsi dalle cose mondane, assorbire ogni sua attività in
Dio egli vorrebbe quanto un monaco, ma sente i doveri del suo posto;
disapprova la guerra, ma la fa contro gli invasori; e resta in mezzo
agli uomini per beneficarli.



CAPITOLO XL.

Economia pubblica e privata sotto gli Antonini.


L'impero aveva allora per confini a settentrione e a ponente il mar
Nero, il Danubio, il Reno, l'Oceano dalle foci del Reno sino allo
stretto di Cadice; nell'Asia Minore giungeva fino alla Colchide e
all'Armenia; in Siria fino all'Eufrate e ai deserti d'Arabia; in Africa
all'Atlante, alle arene libiche, ai deserti che separano l'Egitto
dall'Etiopia; e, a tacere i momentanei acquisti di Adriano, stabilmente
unite furono all'impero le provincie della Britannia e della Dacia.
Copriva così la superficie di 1,365,560 leghe quadrate, cioè il
quintuplo della Francia odierna, con circa cenventi milioni d'abitanti:
ma oltre queste, che costituivano l'impero romano ed erano governate
da proconsoli, stava attorno una cintura di altre regioni, vassalle
in diverso grado, e di dubbiosa libertà[237], che talora pagavano un
tributo, sottostavano al censo, ricevevano decreti; quali i re della
Comagene, di Damasco e tant'altri sul lembo della Siria, la trafficante
Palmira nel deserto, i principi dell'Iberia, dell'Albania ed altri del
Caucaso, l'Armenia, la Partia a vicenda sottomessa e riottosa. È questo
il momento della massima grandezza dell'Impero e dell'Italia; onde noi
sosteremo ad esporne la condizione civile, morale, letteraria, prima di
contemplarne il declino.

La comunicazione fra sì remote provincie era agevolata dal mare
e da meravigliose strade. Il Mediterraneo, le cui rive direbbonsi
predestinate dalla Provvidenza ai più splendidi e durevoli incrementi
della civiltà, mette in relazione le tre parti del mondo antico,
le discendenze dei tre figli di Noè, i foschi Camiti dell'Africa,
i Giapetidi della Grecia e della Germania, i Semiti della Fenicia e
della Palestina: s'addentra con mille seni per ricevere dai fiumi le
produzioni di tre continenti, spingendosi pel Tanai e per la Meotide
fin nelle steppe dei Tartari, pel Nilo fino al centro dell'Africa, per
lo stretto fin nell'Oceano inospitale. Allora poteva dirsi lago latino,
poichè non avea spiaggia che non riconoscesse le aquile imperiali; le
flotte di Roma lo proteggevano e solcavano continuamente; e le navi di
traffico, approdando alle provincie più ricche e più belle, accostavano
alle barbariche le due civiltà romana e greca. Quest'ultima, figlia
dell'orientale, erasi vantaggiata di tutto il passato per abbellirlo
e armonizzarlo, avea sparso di colonie il mondo, dagl'intimi recessi
dell'Indo e del Don fino alle isole della futura Inghilterra, ed aveva
educato Roma. La quale alla sua volta, estendendosi da un lato oltre le
Alpi, dall'altro nell'Africa, diè di cozzo a popoli civili in decadenza
e ne accelerò la caduta, ma ereditandone l'esperienza e dandovi
governo; e a popoli barbari per incivilirli, per respingere sempre più
lontano la rozzezza e la ferocia.

Per terra questi paesi congiungeansi mediante strade di tale solidità,
che sopravissero a' secoli. La via Appia, finita sin dal 311 avanti
Cristo da Appio Claudio Cieco censore, in grandi macigni, moveva da
porta Capena, or sostenuta sovra un terreno limaccioso, ora tagliando
l'Appennino. Cesare la ristaurò cominciando a disseccare le paludi
Pontine; gl'imperatori seguenti la compirono e migliorarono. Col
nome di via Campana prolungata da Capua ad oriente d'Aversa, qui
bipartivasi: la mediterranea pel monte Cauro scendeva a Pozzuoli;
la marittima si drizzava a Cuma lungo i paduli di Linterno: da Cuma
poi, uscendo per l'arco Felice, un altro ramo toccava Pozzuoli, e
congiungevasi colla mediterranea per isboccare a Napoli, traverso alla
grotta di Posilipo. Dalla via Flaminia, aperta dal console Flaminio
Nepote nel 223, diramavasi presso Ponte Milvio la Cassia, dritta per
Viterbo all'Etruria.

D'ordine d'Augusto furono messe in buono stato le quarantotto d'Italia,
che sviluppavansi da Roma a Brindisi e a Milano, donde si diramavano
quelle che, pei varj passi alpini, raggiungevano Lione, Arles, Magonza,
la Rezia, l'Illiria. Trajano ne condusse una traverso le paludi Pontine
da _Forum Appii_ sino a Terracina, e compì la via Appia da Benevento
a Brindisi. La via Aurelia, che traversava l'Etruria e la Liguria, fu
continuata sino a Cade; e varcato lo Stretto, riusciva a Tanger. La
via Flaminia, da Roma per Rimini, Bologna, Modena, Piacenza, Milano,
Verona, Aquileja spingeasi al Sirmio, e lungheggiava il Danubio,
mettendo in comunicazione la Rezia e la Vindelicia, la Gallia e la
Pannonia; di là per la Mesia fin negli Sciti, per la Tracia, l'Asia
Minore, la Siria, la Palestina, l'Egitto, la costa d'Africa, veniva
a ricongiungersi a Cadice, Malaga, Cartagena, colla strada di Spagna.
Così sullo spazio di quattromila ottanta miglia romane era facilitato
il trasporto delle legioni, degli ordini e delle notizie. Gl'imperatori
vi stabilirono poste regolari, con ricambj ogni cinque o sei miglia,
provvisti di quaranta cavalli, ad uso però unicamente del Governo, o
di chi ne ottenesse speciale concessione: al qual modo poteano farsi
cento miglia al giorno; anzi Tiberio potè in ventiquattr'ore compierne
ducento da Lione alla Germania[238]. Anche i fiumi avvivavano le
comunicazioni, e due flotte armate scendendo il Reno e il Danubio,
portavano i prodotti dell'Oceano Germanico nell'Eusino.

Ciò dava alla dominazione romana una consistenza, qual mai non n'ebbe
alcuna dell'Asia; nè era inane vanto quel dominio universale che Roma
arrogavasi, e il chiamar orbe romano il mondo, consiglio supremo
di tutte le nazioni e dei re il senato[239]: pretensione già viva
sotto la repubblica, assodata nell'impero. E per quanto a ragione si
esclami contro gli estesi imperj, che sotto eguali leggi incatenano
genti disformi d'indole e di coltura, lasciano inesaudite le querele,
non compresi i bisogni, e fanno dalla remota capitale arrivare i
provvedimenti dopo cessata l'opportunità; pure vuolsi confessare che
nazioni isolatissime vennero così ricongiunte, mentre la occidentale
barbarie non sentiva l'influsso della coltura orientale; col togliere
di mezzo i confini, si facilitò il contatto; e quantunque l'unità non
fosse che materiale e derivata dalla conquista, la lingua uffiziale,
le magistrature, le legioni, gli spettacoli a cui accorrevano i
Rodopei dell'Emo, i cavalieri della Germania, i littorani del Nilo
e dell'estremo Oceano, gli Arabi e i Sabei, gli olezzanti Cilici, i
ricciuti Etiopi, i trecciati Sicambri[240], estesero la civiltà se
non la crebbero; e chiamando i popoli a contribuire chi la forza,
chi l'ingegno, chi la ricchezza, insegnarono loro a conoscersi, ad
affratellarsi, e dilatarono a tanta parte del mondo i privilegi che,
essendo dapprima riservati ad un pugno di banditi o a qualche migliajo
di cittadini, facevano la politica romana una grande ingiustizia a
vantaggio di pochi e ad aggravio del genere umano.

Centro di sì vasta unità, l'Italia era sempre sede dell'imperatore
e del senato, i cui membri era richiesto che avessero di qua
dall'Alpi almeno un terzo dei loro possedimenti. Quel nome non era
più circoscritto dalla Macra, dal Rubicone e dal mare, dacchè i
triumviri non aveano voluto lasciare la Gallia Cisalpina a governo
di un proconsole, che potesse così menare un esercito legalmente di
qua dell'Alpi. La fecero dunque giungere a levante fino all'Arsa, a
settentrione alle Alpi, ad occidente al Varo; ed Augusto la partì in
undici regioni: I. il Lazio e la Campania, dove Pozzuoli; II. il paese
de' Picentini e degl'Irpini; III. la Lucania, il Bruzio coi Salentini,
l'Apulia, la Calabria, dove Brindisi era prevalsa alle scadute
città di Taranto, Crotone, Locri; IV. il paese spopolato de' Marsi,
Frentani, Sabini, Sanniti; V. il Piceno; VI. l'Umbria; VII. l'Etruria;
VIII. la Gallia Cispadana con Ravenna, eretta, come poi Venezia, fra
canali del mare; IX. la Liguria; X. la Venezia coi Carni, gli Japigi
e l'Istria; XI. la Gallia Transpadana con Milano, cui mettevano capo
le strade dell'Italia continentale, e Padova, e Aquileja, sempre più
importanti per la vicinanza alla frontiera germanica. Roma formava
un governo distinto, sotto il prefetto della città. Le alpi Marittime
costituivano una provincia separata. La Sicilia, benchè già da Antonio
avesse ottenuto la cittadinanza, rimaneva provincia colla Corsica e
la Sardegna. Ma quella Sicilia che, due secoli fa, Cicerone dipingeva
fertilissima e laboriosa, era ita a tracollo per le guerre civili e
le servili; le cinque città di Siracusa riduceansi ad una sola, Enna
era spopolata, cadenti i tempj, incolte le piaggie. Chi da quella
tragittasse sul nostro continente, a Pozzuoli trovava uno de' porti
più operosi, emporio del commercio del Mediterraneo, e approdo di
tutte le flotte mercantili; e nei contorni molle eleganza di ville,
di bagni, dove i cittadini di Roma venivano a ricrearsi dalle cure o a
solleticare il rintuzzato senso de' piaceri.

Ma quelle pendici dell'Appennino che avevano nutrito i Sabini, i
Sanniti, gli Equi, i Latini, più non offrivano che cadaveri di città;
i cinquantatre popoli del Lazio scomparvero, o reliquie ne restavano
così scarse, che gli uni più non si discendevano dagli altri. Che
dirò di quella Magna Grecia, che emulava le glorie e la potenza della
Grecia vera? Già i curiosi andavano a rintracciarne le memorie; e
qualche vecchio additava loro, — Qui fu Canusio, colà Argirippa, le due
maggiori città; questi villaggi erano le tredici città della Japigia,
di cui rimangono sole Brindisi e Taranto; ma quest'ultima, benchè
Nerone v'abbia posto abitanti, è spopolata, come tutto quello sprone
d'Italia».

Ivi non arbitrio di governatori, non tributo; le autorità municipali
facevano eseguire le leggi supreme: ma, come avviene sotto gli
imperj, il reggimento cittadino andava foggiandosi ad aristocrazia,
scegliendosi i magistrati non più fra il popolo ma fra gli illustri,
e la giurisdizione limitandosi a piccole somme. Dopo Trajano, cominciò
l'Italia a ridursi poco meglio che le altre provincie; cui si potè dire
pareggiata allorchè Adriano la commise al governo di quattro consolari.

La cittadinanza privilegiata diventava un nome già sul fine della
repubblica, quando Cesare la comunicò a tutta Italia e ad intere
provincie. Anche i servi divenendo liberti, entravano nella società
politica del loro patrono: ma acquistando i privati diritti di
cittadino, rimanevano esclusi dagl'impieghi e dal servizio militare, nè
ammessi al senato fin alla terza o quarta generazione.

Augusto trovava quattro milioni e censessantatremila cittadini; ma
cessato col sistema delle conquiste il bisogno d'accrescerli onde
reclutare fra essi le legioni, e perchè non isvantaggiasse il fisco
per la troppa abbondanza degl'immuni, restrinse la facoltà di render
cittadini gli schiavi manomessi, accettandovi soltanto magistrati
e i grandi proprietarj delle provincie. Con ciò si traeva al corpo
dominante il fiore di tutto lo Stato, e si assodava la potenza
imperiale: ma alle legioni, in cui non entravano che cittadini, Augusto
fu costretto arrolar di nuovo liberti e schiavi onde proteggere le
colonie attigue all'Illiria e le frontiere del Reno. Mecenate gli
consigliava di attribuire la cittadinanza a tutti i sudditi, col che,
cancellati i reggimenti municipali, ridurrebbe l'impero all'unità
monarchica: ma l'andare i cittadini esenti da tassa prediale, da
dogane e pedaggi, fece gl'imperatori avari di questa concessione. Pure
i successori d'Augusto, che più non aveano occhio parziale per Roma,
lasciarono dilatare la cittadinanza; e i magistrati municipali, uscenti
di carica con annua vicenda, la acquistavano per diritto; oltre quelli
che ben meritassero in qualsivoglia modo.

Quando l'interesse patrio o la gloria cessarono di spingere i cittadini
alle armi, le legioni si dovettero empire di gente nè italica nè
cittadina, e affidarne il comando a stranieri; poi ricompensare
i servigi dei legionarj coll'introdurli nella città, elevarli ai
primi onori, e lasciare si traessero dietro parenti ed amici; talchè
esercito, senato, magistrati più non furono romani che di nome. Claudio
ammise in senato molti peregrini, cioè sudditi non cittadini: eppure
questi sotto di lui sommavano a 5,684,072 secondo Tacito, o, secondo
Eusebio, a 6,945,000. Tanta profusione, perchè i favoriti ne facevano
bottega: ma intanto le entrate pubbliche ne scapitavano, onde bisognava
ristorarle con confische e proscrizioni. Nelle provincie poi i
possedimenti s'andavano restringendo in mano de' cittadini, cui questo
titolo rendeva immuni dai tributi. Però sotto Galba l'esenzione de'
cittadini recenti fu limitata ad alcune imposte; poi dopo Vespasiano
pare che i provinciali ammessi alla città non restassero immuni da
nessun aggravio.

Il titolo di cittadino più non dovette essere ambito dopo che non
l'accompagnavano le prerogative d'occupar soli le cariche, di non
essere giudicati se non nell'assemblea del popolo, di non pagare
tributo, di decretar la guerra e la pace; nè conferiva quasi altro
che il benefizio di non esser catturato per debiti e di appellarsi
all'imperatore. Quel di partecipare ai donativi e alle largizioni
pubbliche, valeva in Roma: per gli altri, a che mai riducevasi in tanta
estensione e lontananza? Gravoso, al contrario, tornava ai cittadini
il dover militare, non contrarre nozze con forestieri, restar esclusi
dalle eredità intestate fuorchè in grado di prossima agnazione; oltre
alcuni accatti, che sopra soli cittadini pesavano.

L'atto di Caracalla d'estendere a tutti i sudditi la cittadinanza
non fu che un sottoporre i provinciali a tutti i pesi de' cittadini:
e allora s'intepidì l'amore per una patria accomunata a tutto il
mondo; cresciuto l'arbitrio degl'imperatori e la violenza de' soldati
col logorarsi l'autorità del popolo e la dignità del senato, si
moltiplicarono le guerre, interne eppure non civili, dove si trattava
di mettere in trono o d'abbattere un capitano forestiero, estranio ai
sentimenti ed al meglio della nazione e dell'impero. Le consuetudini
venivano alterate da eterogenei elementi, dal sedere a capo dello Stato
uno straniero, fors'anche un barbaro. E se pure sorvivevano in alcuni
le tradizioni liberali, attinte dall'educazione, dalla letteratura,
dalle memorie che li circondavano, servivano soltanto a far sentire
viepiù quel despotismo, che da un giorno all'altro poteva confiscare
i beni, e mandar l'ordine d'uccidersi. Oppressione più disgustosa
perchè sussistevano nomi e forme repubblicane, a titolo di libertà e
di pubblica sicurezza si davano le accuse di alto tradimento, e questo
punivasi in quanto l'imperatore rappresentava il popolo, come investito
della podestà tribunizia. Quanta avea dunque ad essere la costernazione
di quelli che sentivano tanto nobilmente, da non voler tuffare il
dispetto nelle voluttà! E a qual partito potevano appigliarsi? Fuggire?
ma dove, se tutte le terre civili erano sottoposte a Roma?

Che se alcuna volta mai, allora apparve evidente come il pubblico bene
rampolli piuttosto dalle istituzioni che da rettitudine de' principi.
Roma n'ebbe di ottimi, ma nè poteva tampoco goderli con fiducia,
pensando che o lo stesso potrebbe domani mutarsi in un mostro, o venire
soppiantato da pessimo successore, dipendendo ogni cosa dalle qualità
del monarca.

Si nomina una _lex regia_, in forza della quale venisse conferito il
supremo potere all'imperatore: ma non consta che mai sia esistita;
quel nome certamente non sarebbe potuto soffrirsi ne' primi tempi
dell'impero, e forse venne adottato sol quando, sotto Giustiniano,
furono compilate le Pandette. Che se una legge generale avesse creato
un potere supremo, non sarebbe più stato mestieri di conferma: mentre
invece sappiamo che gli _atti_ di ciascun imperatore non reggevano dopo
la morte di lui se non gli avesse approvati il senato, depositario in
diritto della sovranità, la quale nel fatto stava all'arbitrio d'un
solo. Pure sembra che a ciascun eletto venissero conferiti i poteri
sovrani, quasi per dargli un'origine legale[241]. Probabilmente in
questi senatoconsulti veniva egli dispensato da certe leggi, come la
Papia-Poppea: il che faceva dire troppo largamente che il principe
venisse prosciolto d'ogni legge[242].

La sovranità però consideravasi sempre emanare dal popolo, e fin tardi
si trovano menzionati i comizj, e leggi fatte in essi. Sussisteva
anche la tribù, e nelle iscrizioni troviamo sempre indicato a quale il
personaggio appartenesse: ma sì scarsa n'era la significazione, che
alcuni si mutavano dall'una all'altra per eredità, per adozione, per
una carica assunta, fin per mutato domicilio[243]. I municipj pregavano
gl'imperatori o i cesari di accettar le cariche comunali, ed essi vi
mandavano de' vicarj.

La giurisdizione criminale e l'amministrazione esterna d'alcune
provincie competevano al senato: esso nominava i consoli, i pretori,
i proconsoli; attendeva alla riforma delle leggi, talora sovra
proposizione de' medesimi imperatori. Tiberio parve aggiunger nerbo al
senato coll'attribuirgli i giudizj di offesa maestà e la nomina de'
magistrati, sottratta al popolo; ma in effetto egli non intese che
di riversare su quello i suoi atti odiosi. Quanto l'impero resse, il
senato conservò il diritto di censurare e deporre il capo dello Stato
se abusasse dell'autorità; ma, pusillanime e discorde, non l'esercitò
mai se non contro i caduti: condannò Nerone quando già era fuggiasco;
esecrò Caligola, Comodo, gli altri quando la morte aveva interrotte
le sue adulazioni. Quei senatori, col vendere le cariche, imparavano
a vendere anche se stessi all'imperatore; chiusa la via d'acquistar
fuori così sterminate ricchezze, e pure durando le spese e crescendo il
lusso, tiravano a meritare la liberalità del principe, o fuggirne l'ira
coll'andargli a versi: laonde Tiberio lagnavasi beffardamente che si
mostrassero troppo ligi ad ogni suo talento.

Eppure la memoria di quel che era stato bastava a renderlo sospetto
agl'imperatori, che, buoni e malvagi, s'industriarono a torgli fin
la possibilità di ridestare le ragioni antiche; contro patrizj e
senatori aguzzavansi i ferri e le spie; Caligola, battendo sulla
spada, esclamava, — Questa mi farà ragione del senato»; l'adulatore
diceva a Nerone, — T'ho in odio perchè sei senatore»; e l'assassino
a Comodo, — Il senato ti manda questo pugnale»; Domiziano protestava
non si terrebbe sicuro finchè pur un senatore sopravivesse; e volendo
avvilirli intantochè venisse l'ora d'ucciderli, manda una volta
convocarli in gran diligenza, poi, come sono seduti nella curia, li
consulta in qual salsa convenga condire un enorme rombo portatogli
dall'Adriatico. Fin Claudio tutti gli atti politici diresse a crescere
l'autorità imperiale a scapito delle magistrature curali: estenuò al
senato il diritto di chiarir guerra e pace, ascoltare ambasciatori,
e decidere dei re e dei popoli stranieri: ai consoli sottrasse il
giudizio di certi affari criminali, sicchè poco più facevano che
dare il nome all'anno: nei pretori, cresciuti a diciotto, trasferì in
gran parte la giurisdizione criminale; ma tolta loro la custodia del
tesoro, affidolla ai questori, ai quali di rimpatto tolse le prefetture
d'Italia che abolì, ed impose il grave obbligo di dare spettacoli
gladiatorj quando ottenevano il posto: lasciò che i cavalieri all'ombra
del trono usurpassero i giudizj, cioè quel diritto per cui s'erano
combattute le guerre civili sotto Mario e Silla.

I tribuni non furono meglio che ispettori al buon ordine; e acquistò
importanza il prefetto della città, che dal buon governo passò alla
giurisdizione criminale, poi proferì in appello sui giudizj ordinarj
anche in materia civile. Adriano commise l'amministrazione dell'Italia
a quattro consolari; cavalieri romani tenne per segretarj e referenti,
e pel proprio consiglio; un avvocato del fisco fece assistere a
tutte le cause concernenti l'erario imperiale; coll'Editto Perpetuo
semplificò la legislazione; e diede esempio a' successori suoi di
riguardar lo Stato come cosa loro propria, e di prendere fidanza
a qualunque innovamento. Il consiglio del principe, come anima del
Governo, emanava decreti sotto la presidenza dell'imperatore, e formava
una corte d'appello supremo. Al senato dunque che cosa restava? di
decretare quali nuovi numi dovesse Roma salmeggiare.

In un corpo non eletto dal popolo, non sostenuto da truppe, la
depressione nè trovava contrasto nè eccitava lamenti. Accomunati
i diritti alle provincie lontane, v'entravano persone stranie
affatto alle memorie della libertà e della repubblica, e devotamente
riconoscenti agl'imperatori. Già l'ordine di Claudio che priva della
dignità equestre chi ricusi la senatoria, mostra come fosse divenuto
un peso quel che prima costituiva la suprema ambizione; e sotto
Comodo si disse che un tale «fu relegato nel senato». Invece dunque
di presentarsi custodi della tradizione e tutori della libertà, i
padri coscritti coll'esempio e colle dottrine confermarono l'assoluta
padronanza del monarca sopra la vita e i beni. Dione si direbbe
scrivesse la sua storia a quest'unico intento; i giureconsulti diedero
legale fondamento all'esorbitanza imperiale; e la monarchia al tempo di
Severo potè gettare la maschera, di cui Augusto l'aveva coperta.

Gl'imperatori, per togliersi gl'impedimenti della nobiltà privilegiata,
promossero le ragioni della comune natura umana, favorirono i peculj
de' figliuoli di famiglia e le emancipazioni, ampliarono gli effetti
e restrinsero le solennità delle manumissioni, migliorarono la
condizione degli schiavi a fronte dei padroni. Anche in ciò il capo
dello Stato operava in senso popolare, col voler tutti eguagliati nel
diritto, umiliare i prepotenti, non concedere privilegi a particolari
persone, ma erigere alle dignità chiunque ne paresse degno, garantire
la moltitudine da oppressioni private, e tenerla soddisfatta circa
i bisogni della vita e gli usi della libertà naturale. Lo zelo
degl'imperatori per la giustizia civile riparava a non pochi altri
abusi, incuteva salutare apprensione ai magistrati, e avvicinava ognor
più il diritto all'equità naturale e al senso comune. In tal modo
progrediva l'umanità anche fra codardi patimenti, e col gran nome
dell'impero estendevasi l'idea dell'eguaglianza sotto un unico governo,
opposta a quanto praticò l'antichità, e che dovea costituire l'indole
delle società moderne.

Coll'impero cangiarono aspetto anche le finanze. Le spese furono
a dismisura aumentate dal mantenere un esercito stanziale ed una
corte[244], dal pagarsi gl'impiegati, e dalle crescenti distribuzioni
di grano; ignorando quegli augusti che il mettere i poveri in
grado di comprare il vitto coll'aumentare i lavori costa meno che
non l'abbassare i prezzi del grano. È peccato che siasi perduto il
_Rationarium totius imperii_, dove Augusto avea divisato l'entrata e
l'uscita[245]; e fra le divergentissime opinioni, la media darebbe
novecentosessanta milioni di lire d'entrata generale. Vespasiano,
principe economo, diceva l'amministrazione e la difesa dell'impero
costare quattromila milioni di sesterzj, cioè ottocento milioni di
lire l'anno[246]: or che doveva essere sotto imperatori pazzamente
scialacquatori?

Augusto effettuò l'idea di Giulio Cesare di far misurare tutto
l'impero; e Zenodoxo in trentun anno e mezzo compì la misura delle
parti orientali, Teodoto quella delle settentrionali in ventinove e
otto mesi, Policleto delle meridionali in venticinque e un mese. Balbo
coordinò in Roma i loro lavori, ed eretto il catasto, prescrisse i
regolamenti censuarj. Agrippa, preside a questa grand'operazione, ne
trasse un mappamondo, che fece dipingere sotto il portico d'Ottavia,
sicchè ciascuno potea vedervi l'estensione dell'impero: i governatori
delle provincie riceveano la descrizione del loro paese colle distanze,
lo stato delle strade grandi e delle vicinali, delle montagne, dei
fiumi.

Contemporaneamente si fece per tutto l'impero il registro delle persone
coi loro beni mobili e immobili, bestiame, schiavi, affittajuoli,
casiliani, e il numero, il sesso, l'età de' figliuoli: il qual
censo dovea rinnovarsi ogni decennio, e serviva di base al riparto
dell'imposta. Un censitore e un perequatore riceveano i reclami, e
rettificavano gli errori; la falsa dichiarazione era punita colla
morte e la confisca; ogni cambiamento di possesso doveva notificarsi;
e poc'a poco si perfezionò quest'azienda in modo, che il vastissimo
impero restava regolato con altrettanta diligenza quanto una piccola
casa[247].

Ma l'impero non possedeva gli spedienti, pei quali i moderni possono
levar tanto denaro senza gravissimo incomodo: dall'imposta personale,
la più rilevante, rimanevano esenti sei o sette milioni di famiglie
romane, che erano le più ricche; le altre rendite appartenevano a
quelle di difficile e costosa esazione, dove è facile la frode, e dove
il prodotto diminuisce se la tassa si aggravi.

L'Italia dapprima andava immune da imposta fondiaria stabile
(_numerarium_); l'Italia annonaria doveva una prestazione in derrate;
dell'_ager provincialis_ era carattere un tributo fondiario, variante
di misura e condizione: ma gl'imperatori adottarono una base uniforme;
poi l'Italia, come dicemmo, cessò d'essere privilegiata. Già anche
a questa Augusto aveva imposto gabelle e tasse sulle vendite, e una
generale sui beni e sulle persone de' cittadini romani, che da un
secolo e mezzo non pagavano aggravj; anzi talmente pesavano le imposte,
che gl'imperatori trovavansi costretti ogni tratto a condonare ingenti
debiti ai privati. Sulle somme, sopra le quali nasceva litigio,
prelevavasi il due e mezzo per cento; tasse imponeansi sui mercati,
gli artigiani, i facchini, le meretrici, sulle latrine pubbliche,
sull'orina, sul concio di cavallo; ogni sorta mercanzie entrando pagava
di dazio dal quarantesimo fin a un ottavo del valore; e grandioso
doveva esserne il ritratto quando dall'India si traeva annualmente per
ventiquattro milioni di lire in merci, esitate a Roma al centuplo del
valore primitivo[248].

La tassa sulle vendite non soleva eccedere l'un per cento, ma non
v'avea sì minuto oggetto che vi si sottraesse. Era destinata a
mantenere l'esercito; poi non bastando, s'introdusse la vicesima, cioè
un cinque per cento sopra tutti i legati e le eredità eccedenti una
certa somma, e che non cadessero nel più prossimo parente. Tra famiglie
ricchissime, dove la rilassatezza dei legami domestici faceva spesso ai
proprj figliuoli preferire i liberti o gli estranei che avevano saputo
blandire le passioni o accontentarle, quella tassa riusciva talmente
ingorda, che nel volgere di pochi anni versava l'intero retaggio
nell'erario. Molto pure ingrassavano il fisco le multe della legge
Papia-Poppea contro gli smogliati.

Secondo il genio degl'imperatori e col crescere dei bisogni aumentarono
tutte le imposizioni e fisse ed eventuali; sussistette sempre l'abuso
d'affittarle ad appaltatori, de' cui gravi e feroci abusi enormemente
soffrivano i sudditi. Era caduco al fisco, 1º tutto ciò che, in
forza di testamento, avrebbe dovuto toccare a persona premorta alla
pubblicazione di quello; 2º le donazioni e i legati a persone indegne,
o sotto illecite condizioni; 3º quel che venisse ricusato dall'erede
o legatario, come spesso avveravasi nei casi di ribellione, per non
mostrarsi amici del reo; 4º quanto fosse lasciato in testamento a
celibi che entro un anno non si fossero ammogliati, e metà de' lasciti
fatti a consorti senza figli; in fine quanto sarebbe toccato a chi
sopprimeva un testamento, o impediva alcuno dal testare liberamente.

Oltre le frequentissime colpe di Stato, portavano la confisca
innumerevoli delitti; e fra questi il parricidio, l'incendio, la
moneta falsa, il ratto, lo stupro, la pederastia, il sacrilegio,
la prevaricazione, il peculato, lo stellionato, il monopolio, e
l'incetta del grano destinato a Roma o all'esercito, il plagiato, ossia
l'attentare contro l'altrui libertà. Così punivasi il magistrato che
subornasse testimonj contro un innocente, il padrone che esponesse
gli schiavi nell'anfiteatro, i falsarj; e dopo Alessandro Severo
gli adulteri, chi evirasse o si lasciasse evirare, chi supponeva un
bambino, chi usava violenza armata mano, chi mutava domicilio per
sottrarsi al tributo, chi prendeva denaro a prestanza dalle pubbliche
casse, chi occultava i beni d'un proscritto, chi trasportava oro fuori
dell'impero o vendeva armi a stranieri, chi di mala fede acquistava
una cosa in litigio, chi vendeva porpora, o apriva il testamento d'un
vivo, o spogliava de' suoi ornamenti un edifizio urbano per abbellire
una villa. E tanti erano i beni ricadenti al tesoro per legge o per
confisca, che s'istituirono _procuratori de' beni caduchi_ per raccorli
ed amministrarli nelle provincie; carica non già di gente di vile
affare, ma affidata a persone di gran recapito, e sino a consolari.

Diritto particolare dell'imperatore era il batter moneta d'oro e
d'argento: di rame potè farne il senato fin a Gallieno: le colonie
e alcune città conservarono il privilegio di monete particolari. Le
terre dell'antico agro pubblico in Italia erano occupate da colonie
e specialmente da militari, sicchè non davano verun frutto diretto
allo Stato. Anche nelle provincie i dominj pubblici erano stati in
gran parte usurpati durante la guerra civile da privati; Augusto e i
successori fecero altrettanto, ingrandendo il possesso del principe,
che fruttava unicamente pe' favoriti. S'introdussero poi regalie a
vantaggio dell'imperatore, e fabbriche d'armi, di stoffe, di gomene,
tinture, dorature, nelle quali adopravansi soli schiavi imperiali.
Anche pingui legati soleano farsi agl'imperatori; e se per tal via
Augusto raccolse in vent'anni quattromila milioni di sesterzj, pensate
che dovessero fruttare sotto imperatori ribaldi, alcuni dei quali
cassavano i testamenti ove non si trovassero considerati! Pure talvolta
l'erario difettava; e Marco Aurelio si trovò in tali strette, che fece
vendere all'asta gli ornamenti della reggia, i vasi preziosi, le gemme,
fin le vesti di sua moglie; poi, finita la guerra, invitò i compratori
a restituirli al prezzo stesso, e a chi ricusasse non risparmiò
vessazioni. Operazione che noi avremmo semplificata mediante viglietti
del tesoro.

La servitù era abbellita da tutti i vantaggi compatibili colla
tranquillità. In ogni parte sorgevano fabbriche, le cui reliquie
formano la meraviglia di noi tardi nipoti; quali per opera de'
magistrati, quali dei Comuni, quali ancora dei privati: a quelle de'
Cesari i sudditi erano obbligati a contribuire braccia e carri. Tali
edifizj ci porgono una riprova del sistema politico antico, pel quale
si aveva ogni riguardo alle città, nessuno alla campagna. Dopo il
medioevo, non trovi spazio ove non sorga un villaggio con una chiesa,
un palazzo o un castello: allora invece tutto concentravasi nelle
città, alle città mettevano capo le grandi strade, senza quella rete
di minori che oggi congiungono le minime borgate: insomma allora i
cittadini, ora il popolo; allora pochi privilegiati, ora chiunque è
uomo.

Chi dunque, abbagliato da tali splendidezze, giudicasse ricchissimi
quei nostri antenati, dimenticherebbe che non le molte dovizie
accumulate in mano di pochi, ma la equabile diffusione di ciò che serve
alle necessità, ai comodi, forma la prosperità delle nazioni.

La violenza poteva esser la colpa d'un proconsole o d'un imperatore,
non era il carattere della dominazione romana, troppo aliena dal
volersi fondare soltanto sull'esercito, sulla polizia, e regolamentare
tutto. Pertanto nell'Italia e nelle provincie restava luogo a dignità
e ad autorità più che in Roma; e il municipio conservava una vita
che era scomparsa dalla metropoli; n'era rispettata l'indipendenza;
la legge municipale rimaneva illesa dai capricci dell'imperatore e
dalle sottigliezze de' giureconsulti; liberamente vi si faceano le
elezioni, teneano adunanze: gli Olconj e gli Arrj a Pompej, i Sergj
a Pola fabbricavano portici, archi, anfiteatri, come ne' bei tempi a
Roma i Pompei ed i Lentuli; ai Nonj, ai Celsinj, ai Balbi, ai Vitruvj
ergeansi monumenti in Pompej, in Ercolano, in Verona, quando a Roma le
onorificenze erano serbate a cesare.

Già accennammo in che modo i possessi mutassero di padroni, dal che
sotto l'impero trovaronsi innovate l'economia e le finanze. Gli antichi
aristocrati per tradizione seguitavano a coltivare i campi per mano
di schiavi, diretti da schiavi: i nuovi, non pensando che a godere in
lusso le sfondolate dovizie, davano i beni a fitto a lavoratori nati
liberi, che li coltivassero a proprie spese e pericolo. Ordinariamente
l'affitto facevasi per cinque anni, e pagavasi in denaro, e a
proporzione degli schiavi ond'era _vestito_ il podere.

Divenendo sempre più difficile l'affidare la direzione de' proprj
beni a fittajuoli liberi e garanti, dopo il II secolo s'introdusse
un metodo nuovo d'economia rurale, mutando lo schiavo in colono
servile, permettendogli di menar moglie, tenere figliuoli, disporre
del suo peculio, purchè retribuisse un canone annuo: da ciò sarebbe
potuta venire la redenzione dello schiavo; ma poichè sempre maggiore
facevasi la sproporzione fra poveri e ricchi, e l'aumentava la
fiscalità introdotta coi crescenti bisogni della repubblica, si
venne a temere che il proprietario vendesse gli schiavi e lasciasse
incoltivati i campi. Fu dunque provveduto che il colono restasse
colla sua discendenza affisso alla gleba, e con essa venduto: il che,
oltre ribadire la schiavitù, produsse una funesta disuguaglianza nella
distribuzione dei lavoratori, accumulati in alcune contrade, mentre
altre ne rimanevano deserte. Pertanto al fine di quest'età giacevano
selvatiche le campagne, esercitate un tempo dalla popolosa solerzia
degli Equi, de' Sabini, de' Volsci, degli Etruschi, de' Cisalpini;
altri immensi spazj erano occupati da giardini d'infruttifere
voluttà, ai quali aggregavansi via via i camperelli vicini, i cui
proprietarj correvano a Roma a sprecar quel poco ricavo, per poi
ridursi alla limosina. Svigorita dalla lunga coltivazione a braccia, nè
sufficientemente rianimata dalla concimazione, la terra poco rendeva;
un cattivo sistema di rotazione agraria, la coltura resa costosissima
dall'imperfezione de' metodi e degli stromenti, per cui richiedeasi il
quadruplo delle braccia odierne, le meschine strade vicinali, bastanti
appena ai somieri, il divieto di asportar grani e l'incoraggiamento a
importarne di stranieri, rendevano cattiva speculazione la coltura a
grano, talchè Catone la colloca appena al sesto luogo, e preferivansi
i pascoli, che non importano spese; sebbene vogliasi dimostrato che i
migliori non rendevano più di sessanta franchi per arpento[249].

Un paese la più parte montuoso come il nostro, non può prosperare
che mediante la piccola coltura a mano, la quale si vantaggia de' più
angusti spazj, e varia a seconda del terreno e dell'esposizione; come
non è possibile colle macchine o con una direzione in grande. Sparendo
dunque la proprietà minuta, diminuivano sempre più la ricchezza
d'Italia e la popolazione laboriosa ed onesta: donde quel detto di
Plinio, che i latifondi furono la rovina dell'Italia. Che se ci si
opponesse l'Inghilterra, ricchissima malgrado gli amplissimi poderi,
mentre è misera la Corsica ove sono sminuzzati, faremmo riflettere
come della popolazione inglese appena un quarto attenda ai campi, il
resto vive dietro al commercio e all'industria; e che l'estensione
delle praterie è proporzionata colle terre a biada, e i numerosi
armenti offrono abbondanza d'ingrassi. Vero è bene che sono gli uomini
che fecondano la terra; e dove nulla li impedisca di giungere alla
ricchezza per via della fatica, ne seguirà un generale prosperamento.
Allora, come oggi, v'avea piagnoloni che ripeteano essere isteriliti
i campi, peggiorata la temperie del cielo, spossata la natura dal
lungo produrre. Ai così fatti Lucio Giunio Moderato Columella da
Cadice rispose, che la colpa consisteva nel lasciare trascurato lo
studio dell'agricoltura: — V'ha scuole di filosofia, di retorica, di
geometria, di musica; v'ha persone occupate in null'altro che preparare
cibi pruriginosi, altre in acconciare i capelli, e nessuno che insegni
l'agricoltura. Eppure senz'arti di diletto abbastanza felici furono
un tempo e saranno dappoi le città; ma senza agricoltori gli uomini
non possono reggere nè alimentarsi. E qual via migliore di conservare
e di crescere il patrimonio? Che se oggi men frutta la terra, non è
spossatezza, come alcuni si danno ad intendere, nè invecchiamento, ma
inerzia nostra».

Stese dunque un trattato _De re rustica_, il cui primo libro discorre
dei vantaggi e dei piaceri dell'agricoltura; il secondo dei campi,
del seminare e mietere; il terzo e quarto delle vigne e degli orti;
il quinto del dividere e misurare il tempo; poi degli alberi, del
bestiame grosso e minuto e delle sue malattie, delle api e dei
polli distintamente, dei doveri d'un buon fittajuolo; e finisce con
istruzioni per chi attende all'economia rurale. Il decimo, in versi,
tratta degli orti. Scrive puro, semplice talvolta sino al triviale, tal
altra elegante sino all'affettazione; ma se diletta i letterati, poco o
nulla istruisce l'agricoltore. Ai prati, che Catone riputava la coltura
più lucrosa, Columella preferisce i vigneti, anche a confronto del
grano[250]. Palladio compendiò poi quell'opera, distribuendo le fatiche
agresti per ciascun mese.

Realmente però non si produce se non quando v'induca o la necessità o
l'interesse. Ora, il denaro era affluito in Italia, e in parte ancora
vi si conservava, per modo che grandissime somme si richiedevano
a far piccole imprese, mentre nelle provincie bastava a gran cose
poco denaro. Traevasi dunque ogni genere da fuori; l'entrata era
resa incerta dalle distribuzioni gratuite che si moltiplicavano,
la munificenza dell'imperatore o de' ricchi strozzando la
speculazione privata: poi monopolj, poi tesori gettati dalla vittoria
improvvisamente in circolazione, alteravano di punto in bianco
il valore delle derrate che il proprietario mandasse sul mercato.
Sfruttata l'Italia, si dovettero cercar di fuori anche il vino e la
lana, già vantata produzione degli armenti dell'Apulia, di Parma e
dell'Euganea[251]; e alle precipue famiglie erasi accomunato il lusso,
un tempo regio, di adoperarla tinta di porpora, quale veniva da Tiro,
dalla Getulia, dalla Laconia, al costo fin di mille dramme la libbra.

Nel tempo che, o per ingegni fiscali o per necessità, si trasformava
così l'agricoltura, anche l'industria subiva un radicale mutamento.
L'associazione, eretta in istituzione pubblica, s'incontra in ogni
dove al nascere e al decadere delle società; determinata in prima
dalla debolezza, stretta poi dalla tirannia; e per sostenere l'esterna
concorrenza, o per riparare all'interna dissoluzione; sempre a scapito
dell'individuale libertà. Le corporazioni d'operaj liberi, antichissime
in Roma, non avevano potuto prosperare, perchè ogni ricco teneva
in casa chi fabbricasse quanto occorreva a' bisogni od al lusso.
Tardi la gente nuova affluente a Roma s'accôrse che una stoffa od
un utensile comprati alla bottega costavano meno che non fabbricati
da' proprj schiavi, onde venne ad abbandonarsi l'industria servile
casalinga; il che moltiplicando i liberi lavoranti, avrebbe coadjuvato
al sistema d'uguaglianza, adottato dall'impero. Ma la libertà
che erasi tolta a' campagnuoli non volle lasciarsi a quella folla
d'artigiani; e sotto aspetto di darvi un ordine, furono incatenati
ciascuno al loro telonio, come i coloni alla gleba. Senz'idea della
libera concorrenza, e reputando necessario che la legge intervenga
dappertutto per assicurare quella pubblica prosperità, cui oggi noi
crediamo bastare l'accorgimento del privato interesse, si riformarono
le corporazioni, costituendo in ciascuna città quelle che reputavansi
necessarie acciocchè ben servito rimanesse il pubblico; alle principali
se n'aggiunsero d'accessorie, e vennero graduate categoricamente,
considerando come privilegio il passare dall'una all'altra.
L'imperatore o il Comune o i consociati costituiscono un fondo sociale;
e stante che può parteciparvi anche chi nulla vi reca, ed ogni uom
libero può entrare in una di queste comandite, ne consegue che anche il
minimo lavoro acquista prezzo. Ma che? l'associato non può nè vendere
nè lasciare il suo peculio se non ad uno del collegio stesso, talchè
l'industrioso appartiene al suo uffizio, non l'uffizio all'industrioso
come oggi. Inoltre diede appiglio ad uno degli sciagurati spedienti, a
cui ricorreva l'ingordigia del fisco; perocchè ciascuna di esse scuole
veniva gravata d'enormi imposizioni, dovendo, oltre le gabelle di
vendita e pedaggio, la _collazione auraria_, così detta perchè pagavasi
in oro, e vi erano obbligati in solido tutti i membri, tenendosi per
essa ipotecati tutti i beni stabili della comunità.

Mancavano dunque molte delle sorgenti di ricchezza, per le quali da noi
in continua operosità si rinnova sempre la classe media. La proprietà
fondiaria scapitava ogni giorno di valore, la fatica agricola perdeva
occasioni, capitali non aveansi che ad esorbitante interesse; talchè
l'agiatezza popolare diminuiva più sempre, e vi sottentrava la miseria.

Fra ciò cresceva il lusso, e moltiplicavansi i ministri dell'opulenza
e delle lascivie. Veri eserciti di schiavi popolavano le case de'
primarj, tanto che bisognava un nomenclatore per rammentarne il nome.
Dall'Italia, da tutto il mondo concorreva gente a Roma per vivere di
largizioni o d'infamia. Nutrire e contentare la folla doveva essere
il pensiero supremo degl'imperatori, che perciò traevano continuamente
grano dalla Sicilia, dall'Egitto, dall'Africa; e guaj al giorno in cui
di là non giungesse pascolo a tante bocche. Sacra dicevasi la flotta
che trasportava il grano all'Italia; esenti da ogni gabella le navi
che afferrassero a Roma cariche di frumento; i principi quanto erano
peggiori, tanto più largheggiavano, riponendo in ciò il buon governo e
la giustizia[252].

Testimonio eloquente della miseria d'allora ci resta un editto di
Diocleziano, che, in tempo di caro, prefigge il massimo prezzo della
sussistenza e dei lavori[253]. Le cose necessarie alla vita costano da
dieci a venti volte più che oggi; e sebbene la quantità del denaro e la
scarsezza dell'industria levassero ad esorbitante prezzo il lavoro, un
villano od un bracciante poteva appena colla sua giornata procurarsi
un cibo grossolano ed insalubre. Gran fatto per una gente, tre quarti
della quale era ridotta a nutrirsi di pane, formaggio e pesce, mentre
Vitellio per la sua tavola consumava l'anno censessantacinque milioni.
Trajano, nel decreto conservatoci in una famosa tavola, destina un
milione e cenquarantaquattromila sesterzj per comprar terre onde
nutrire ducenquarantacinque fanciulli e trentaquattro ragazze orfani
e legittimi, oltre uno ed una illegittimi; assegnando ai maschi sedici
sesterzj, e dodici alle femmine ogni mese, cioè dodici e nove centesimi
il giorno.

Unico mezzo di rifarsi sarebbe stato il commercio: e veramente i
provinciali, abbastanza discosti dagl'imperatori per non sentirne le
personali malvagità, e giovati dalla pace, volentieri dirizzavano al
traffico i loro figli da che era chiusa od angustiata la carriera
pubblica, ed affinchè a minor contatto venissero coi pericolosi
monarchi. Per la Mesopotamia, traverso al deserto, continuavasi la via,
battuta fin dai primordj della società, verso i paesi delle spezierie e
delle gemme: e una tariffa delle merci che allora traevansi dall'India,
ce ne prova la variata qualità[254], attestata pure da un _Periplo_
dell'Eritreo, che si attribuisce ad Arriano.

Quando Roma ebbe ridotto tutto il mondo sotto di sè, l'unità tolse via
molti ostacoli e le interruzioni cagionate dalle gelosie e dalle guerre
delle nazioni; quella direzione uniforme spinse e tutelò il commercio,
e ancor più il bisogno di provvigionare l'innumerevole popolazione
d'una metropoli ricca e voluttosa, che consumava senza produrre, che
cercava con avidità le delicatezze orientali e quanto stuzzica il
lusso ed il capriccio. L'incenso che fumava sui mille altari; gli
aromi con cui s'ardevano i cadaveri, perchè anche il morire fosse
costoso a chi era vissuto nelle suntuosità; i balsami onde le belle
conservavano e riparavano i loro vezzi; le gemme in cui profondevansi
interi patrimonj; la seta che reputavasi esuberante lusso per gli
uomini fin dopo Elagabalo, erano i principali oggetti che si traevano
dalle rive del Gange, mentre dal Fasi venivano i tessuti della Cina,
venduti da Persi e Parti; da Dioscuria le produzioni dell'Eusino e del
Caspio; dall'Etiopia profumi, avorio, cotone e fiere; porpora da Tiro.
Delle spezierie tratte di là, il cinnamomo vendevasi millecinquecento
denari la libbra; in proporzione la mirra, il nardo, il cardamomo, il
garofano, la cassia balsamode, il calanco, il mirobalano, il mazir,
il carcamo, il gizir, ed altre gomme o legni di cui si componevano gli
unguenti.

Gli Arabi non accettavano che monete; così i paesi del Gange e i
Seri non bisognosi di cosa che loro manchi: talchè Plinio asserisce
che almeno cento milioni di sesterzj (25 milioni di lire) migravano
annualmente dall'impero in quelle contrade[255]. Computo impossibile
a verificarsi, ma basti ad indicare l'enorme uscita del denaro
romano, per cui tornava a paesi lontani quello che erasi portato nei
nostri dalle vittorie e dai trionfi. Dovette l'uscita aumentare a
proporzione del lusso, che giunse al colmo quando le Corti imperiali si
moltiplicarono, e Diocleziano credette necessario mascherare col fasto
orientale la decadenza.

Non che i Romani negligessero affatto il commercio come si dice[256],
anzi ne' popoli soggetti lo favorivano di buone ordinanze e di libertà;
adottarono la legge marittima de' Rodj, fecero spedizioni lontane, e
ricevettero ambascerie da Seri, Sarmati, Sciti, Taprobani, vogliosi di
tenere aperte le vie per cui tant'oro colava ne' loro paesi. Augusto,
acquistato l'Egitto, ch'era lo scalo più frequentato alle produzioni
dell'India, tentò nuove vie per arrivare a questa, ed Elio Gallo fece
uscire una squadra di cenventi legni mercantili dal porto di Myoshormos
sulla costa egizia del golfo Arabico, tracciando una via che altri
seguirono[257]. A quel porto i Romani conducevano ogn'anno per cinque
milioni di mercanzie, e guadagnavano il centuplo: lo che rende ragione
della gelosia con cui interdissero agli stranieri l'entrata nel mar
Rosso.

I Romani sono i primi, di cui s'accertino comunicazioni colla Cina;
e Cosma Indicopleuste afferma che i navigatori del golfo Persico
passavano fin colà per difficile e lungo tragitto, e i Cinesi venivano
nei porti dell'India e di esso golfo. Romani erano pure quei che
faceano il traffico per tutto l'impero; e le città da loro stabilite
in Germania attestano ancora uno scopo commerciale, sulla destra del
Danubio o sulla sinistra del Reno, stando in faccia allo sbocco de'
grandi fiumi che dall'interno paese recavano le produzioni naturali,
come Treveri, Colonia, Bonna, Coblenza, Magonza, Strasburgo, Passavia,
Ratisbona. L'Istria ci mandava vino dolce e fragrante; vino e legname
la Rezia; schiavi l'Illiria; pelli, armenti, ferro il Norico. La
Spagna ci porgeva abbondanza d'argento e d'oro, miele, cera, allume,
zafferano, pece, canape e lino; e biade molte, e vini squisiti, e
cavalli. Dalle Gallie traevamo rame, ferro, bestiame, lana, panni,
tela, liquori, prosciutti. Le isole britanniche ci provvedeano di
stagno e piombo. Ricco e variato era il traffico colla Grecia e
coll'Asia Minore. E già il Settentrione ci spediva pelliccie, ambra,
legname; all'uopo nuovi scali aprendosi da quelle bande (pag. 133).

Pure in tanta agevolezza di operare un attivissimo commercio fra popoli
che avea riuniti, il nobile romano non cessò di credere abjezione
il portar le mani alle arti; ancora al tempo di Costantino teneansi
infami quei che si applicassero a vendere di ritaglio e a guadagnare
d'industria, e le figlie loro eguagliavansi alle saltatrici e alle
schiave; Onorio e Teodosio vietarono a nobili e ricchi il mercatare,
come cosa pregiudicevole allo Stato. Aggiungi che gli appaltatori delle
pubbliche entrate impacciavano la circolazione con continue gabelle e
pedaggi; altri compravano dagli imperatori il monopolio d'una o d'altra
merce; infine l'industria venne rovinata dalle fabbriche imperiali, che
vedremo introdotte.



CAPITOLO XLI.

Coltura de' Romani. Età d'argento della loro letteratura.


Da Vespasiano a Marc'Aurelio diedero una nuova fioritura gl'ingegni;
le lettere riprosperarono sotto i Flavj, le arti sotto Adriano, la
filosofia sotto gli Antonini.

Dopo Augusto, piuttosto che scaduta, sarebbe a dire annichilata la
letteratura, giacchè, se tu ne levi Fedro di sospetta autenticità (pag.
46), per mezzo secolo non appare scrittore romano. Eppure protezione
ed ajuti non mancavano. Fu oggetto di lusso l'adunare biblioteche;
ed oltre quelle d'Augusto aggiunte all'Apollo Palatino ed al portico
d'Ottavia, Tiberio ne pose una in Campidoglio che non dovette perire
nell'incendio di Nerone, come sembra perisse la Palatina, e come sotto
Comodo fu dal fulmine consumata un'altra in Campidoglio[258], forse
istituita da Silla. Nel tempio della Pace, insieme con monumenti d'arti
e di scienze, Vespasiano collocò una libreria, cui Domiziano arricchì
tenendo continuamente copisti ad Alessandria. L'Elpia di Trajano fu poi
trasferita nelle terme di Diocleziano. Altre si ricordano fino a quella
di sessantaduemila volumi, che l'imperatore Gordiano III ricevè per
testamento da Sereno Sammonico già suo maestro.

Alcuni imperatori promossero la coltura, sull'esempio di Cesare che
conferì la cittadinanza ai medici ed ai professori d'arti liberali.
Vespasiano pel primo assegnò sul tesoro ventimila lire l'anno a
retori greci e latini, mentre se ne davano quarantamila a un sonatore
e ottantamila a un attore tragico. Adriano protesse scienziati,
letterati, artisti, astrologi; i professori incapaci metteva in riposo
col soldo; e fondò l'Ateneo, che riuniva lettere e scienze. Antonino
e Marc'Aurelio propagarono l'insegnamento anche nelle provincie,
istituendovi scuole pubbliche di filosofia e d'eloquenza. La condizione
dei maestri variò secondo la bontà e generosità degli imperatori: ma
questi per lo più ne lasciarono la scelta e l'esame ai loro pari; ed
è probabile che allora dovessero dar lezioni con regola e con seguito
maggiore.

Se non che la pace non basta a rifiorir le lettere; anzi
nell'uniformità del governo imperiale parvero addormentarsi gl'ingegni,
come si spegneva lo spirito militare. Diffondeasi, è vero, l'amor
del sapere; e non che la Gallia, la Germania e la divisa Bretagna
conoscevano i capolavori, e contribuirono talvolta bei nomi alla
letteratura: ma l'originalità non si svolge per favore de' principi
o largizione de' privati. I filosofi si trascinavano sui passi
dei vecchi, rimpastandoli in quell'eclettismo che è rivelazione
d'impotenza; i letterati o imitavano servilmente, o, se volessero
uscire dalle orme altrui, deliravano, avendo perduta la nazionale
civiltà senz'essersi identificati colla nuova: i ricchi stendevano
appena la mano a qualche satira o libricciuolo galante: dei giovani
che a Roma affollavansi a studio, i più lo facevano per sollazzo
o libidine, tanto che per decreto più volte furono rimandati in
patria: col titolo di filosofi e matematici v'affluivano astrologi e
ciurmadori.

La filosofia non cessò i suoi esercizj, ma coi caratteri della
decadenza, quali sono le controversie di parole e l'esitanza. Le
dottrine italiche di Pitagora presero aspetto mistico ed ascetico,
secondando la sensualità vulgare con apparato di miracoli e d'arcani,
frequenza di sacrifizj, stupidità di magìa. Fioriva allora la scuola
eclettica d'Alessandria, intenta a conciliar le varie, pretendendo
supplire all'arte di Platone colla scienza d'Aristotele, all'inventiva
coll'argomentazione, al raziocinio coll'erudizione, all'esperienza
colla rivelazione. Quando poi sorsero i Cristiani a mostrare che
i dubbj delle filosofie non reggono alle affermazioni del Vangelo,
e l'una abbatte l'altra, e nessuna ve n'ha che sia efficace sulla
morale, le scuole etniche parvero accordarsi nel vagliare da tutti i
sistemi ciò che avessero di meglio, interpretando come fatti naturali i
mitologici, come simboli le assurdità immorali: sterile elaborazione,
nella quale, riconosciuta la impotenza della ragione, molte volte
ricorreasi ad una superiore facoltà intuitiva, supponendo dirette
comunicazioni cogli Dei, e dell'estasi facendosi via alla vera scienza.

Pochi filosofi teorici produsse l'Italia. Il pitagorico Sestio, al
tempo d'Augusto, ricusò la dignità di senatore, e fu capo di una setta,
che piena di romana vigoria è detta da Seneca, il quale ci conservò di
lui questa bella immagine: — Come un esercito minacciato d'ogni banda
s'ordina in battaglione quadrato, così al savio conviene circondarsi
i lati di virtù, quasi sentinelle, per essere pronte ovunque pericolo
accada, e far che tutte obbediscano senza tumulto agli ordini dei
capi».

Uno stoico meritevole di più rinomanza che non ne goda, ci pare Cajo
Musonio Rufo di Bolsena, cavalier romano, involto nella congiura di
Pisone, sbandito più volte, occupato a stornare ambiziosi dal cercar
l'impero, e ad acchetare le guerre civili; lodato da Filostrato e da
Giuliano imperatore come un modello di quelle virtù ch'essi pretendeano
indipendenti dal cristianesimo, ma anche dai padri della Chiesa
collocato a pari con Socrate. Non affettando una saviezza impossibile,
un orgoglio repellente, vuole che il filosofo sia ammogliato; mentre
Epitteto non osa interdire la dissolutezza, egli riprova ogni atto
carnale che non abbia la sanzione del matrimonio e il fine di aumentar
le famiglie; mentre Marc'Aurelio permette il suicidio, egli a Trasea
che gli dice, — Amo meglio la morte oggi che l'esiglio domani»
risponde: — Se tu guardi la morte come un mal maggiore, il tuo voto è
da insensato; se come minore, chi t'ha dato il diritto di scegliere?»
Con sapienza che risente del Vangelo dicea pure: — Evitate le parole
oscene, perchè conducono ad osceni atti. Abbiate un abito solo. Se
non volete far male, considerate ogni giorno siccome fosse l'ultimo
di vostra vita. Dopo una buona azione, la fatica ch'essa ci costò è
finita, e ci rimane il piacere d'averla fatta: dopo una cattiva, il
piacere è passato, e resta la vergogna»[259].

Già ci son conti i dogmi di Marc'Aurelio e di Seneca. Di questo
abbiamo tre libri _Dell'ira_, che possono raffrontarsi con quel
di Plutarco sul soggetto medesimo; una _Consolazione_ ad Elvia
madre sua mentr'egli esulava in Corsica, un'altra a Polibio, una a
Marcia per la morte d'un figlio, i più antichi modelli di lettere
consolatorie. Trattò del _perchè male avvenga ai buoni, essendovi la
Provvidenza_, e conchiuse al suicidio. Ad Anneo Severo, coll'opuscolo
_Della serenità dell'animo_, suggerì di rimediare alle irrequietudini
coll'applicarsi alle pubbliche cure; dalle quali poi, con una delle
frequenti sue contraddizioni, distorna Paolino nella _Brevità della
vita_. Arieggia ai paradossi stoici il trattato _Della costanza del
savio_, ove contende che questo non può rimaner tocco da ingiurie.
Parlando a suo fratello Gallione della _vita beata_, si scusa delle
ricchezze imputategli, e difende dagli Epicurei le opinioni stoiche
sulla beatitudine. I tre libri a Nerone _Della clemenza_, di stile più
nobilmente semplice, offrono esempj e precetti di quella che è dovere
in tutti, e ne' principi lodasi come virtù perchè rara. Meriterebbe
d'esser rifatto il suo discorso _Dei benefizj,_ tanto aggiungendo
ed applicando a ciò ch'egli dice intorno al modo di fare il bene,
di riceverlo, di ricambiarlo. Le cenventiquattro _Lettere_ sono
altrettante dissertazioni su punti morali.

Seneca è pure contato fra gli scienziati; e sebbene le sue _Quistioni
naturali_ sieno un'indigesta accozzaglia e una verbosa esposizione di
cognizioni empiriche sgranate, senza puntello di scienze esatte nè di
proprie esperienze sistematiche, sono però l'unico libro che ci attesti
avere i Romani posto mente alla fisica, e segna l'ultimo punto cui gli
antichi l'abbiano spinta: sicchè molti secoli egli restò in Europa quel
che Aristotele fra i Greci, il repertorio delle fisiche cognizioni.

I Romani, affatto positivi, voleano applicare immediatamente le
teoriche; dal che restò pregiudicata la ricerca indipendente, nè verun
grande pensiero scientifico fu da essi conquistato, nè per l'esperienza
nè per la riflessione. Intesi alla pratica, la natura considerarono
soltanto come oggetto dell'attività umana, onde non ne indagarono
l'essenza e le armonie, e di ben poco avanzarono la cognizione di essa.
Con un dominio sì esteso avrebbero potuto strarricchire la scienza
naturale: negli archivj palatini stavano preziose relazioni geografiche
de' generali: troviamo accennate altre collezioni, ma nè diligenti nè
dirette a scientifico intento.

La _Storia della natura_, sola arrivataci fra tante opere di Cajo
Plinio Secondo (23-70), è un repertorio delle scoperte, delle arti,
degli errori dello spirito umano, raccolte all'occasione di descrivere
i corpi. Esibito nel primo dei trentasette libri uno specchietto delle
materie e degli autori, nel secondo tratta del mondo, degli elementi
e delle meteore; seguono quattro di geografia, poi il settimo delle
varie razze umane e dei trovati principali; i quattro seguenti versano
sugli animali, classificati giusta la grossezza e l'uso, e ragionando
dei costumi loro, delle qualità buone o nocevoli, e delle men comuni
loro proprietà. Ben dieci libri sono consacrati a descrivere le piante,
la loro coltura e le applicazioni all'economia domestica e alle arti;
poi cinque ai rimedj tratti dagli animali; altrettanti ai metalli, col
modo di cavarli e di convertirli pei bisogni e pel lusso. A proposito
di questo parla della scoltura, della pittura, e dei primarj artisti,
come delle insigni statue di bronzo ragiona in occasione del rame,
e le materie coloranti il recano a dire de' quadri, della plastica
le stoviglie: distribuzione capricciosa e mal digesta, ove sempre il
pensiero è sottoposto alla materia.

Ma Plinio non è un naturalista che raccolga, osservi, sperimenti,
aggiunga al tesoro delle cognizioni precedenti; sibbene un erudito,
che alle occupazioni della guerra e della magistratura sottrae qualche
ora onde sfogliare libri: mentre pranza, ha schiavi che leggono; n'ha
mentre viaggia; altri estraggono tutto quel che egli appunta, e gli
tennero mano a compilare un lavoro, che risparmiava tante letture,
allora difficoltosissime. Così raccozzando senza genio nè critica,
non distingue la diversità delle misure di lunghezza, mescola fatti
contraddittorj, barcolla fra sistemi disparati, anzi opposti; non
intende i passi, riferiti all'abborracciata, nè si cura di confrontarli
colla realtà, onde descrivendo cose non vedute, riesce spesso
inintelligibile; non si briga di riuscire compiuto e di non ripetersi;
e attento a solleticare la curiosità più che a scoprire il vero, alla
retorica più che alla precisione, sceglie ciò che ha del singolare e
del bizzarro, beve assurdità già confutate dallo Stagirita. Nè sempre
alle migliori fonti ricorre; e sopra le origini italiche ormeggia
Giulio Igino, autore senza critica, mentre neglige i venti libri di
storia etrusca, che sappiamo aveva stesi l'imperatore Claudio.

Pure l'essersi perduta la più parte delle duemila opere da esso
spogliate il rende prezioso; e senza la sua farragine, quanta parte
dell'antichità ci rimarrebbe arcana! quanto minor tesoro possederemmo
della lingua latina![260]

Gagliardo e preciso nel dire, ma lontano dal semplice e corretto de'
contemporanei di Cesare, casca nell'affettato e nell'oscuro. Lo spirito
dell'antica repubblica animava lui pure, siccome Trasea, Elvidio,
Tacito e gli altri migliori, e di là attinge spesso calore e fin
eloquenza: ma il gusto peggiorato e la gonfiezza delle parole fuorviano
l'energica elevatezza del suo ingegno; giudica e spiega i fatti a
seconda delle personali prevenzioni e di una filosofia atrabiliare,
che assiduamente accusa l'uomo, la natura, gli Dei, colla retorica
aggravando la miseria umana, col raziocinio scoprendo i disordini di
questo mondo, senza elevarsi alle armonie di un altro, l'indagare
il quale egli non trova di verun interesse; nega affatto Iddio, e
lo fa tutt'uno colla materia; e s'avvoltola nello scetticismo fin
a considerare l'uomo come l'essere più infelice e più orgoglioso, e
insultare la divinità che «nè può concedere all'uomo l'immortalità, nè
togliere a se stessa la vita, la quale facoltà è il dono più bello che
essa abbia a noi lasciato»[261].

Mentre sbraveggia le religioni e la Provvidenza, indulge a
superstizioni (pag. 180), crede come fatti incontestati (_confessa,
constat_) a ermafroditi, a maschi cambiati in femmine, a fanciulli
nati coi denti o rientrati nell'alvo materno, alla longevità di chi
ha un dente di più, alla disgrazia di chi nasce pei piedi, a cavalle
fecondate dal vento, a donne che partorirono elefanti. Egli vi dirà
d'una pietra, la quale, posta sotto il capezzale, produce sogni
veritieri; che al morso di serpenti rimedia la saliva d'uom digiuno;
che sputando nella mano si guarisce l'uomo involontariamente feritosi:
un abito portato ai funerali mai non è intaccato dalle tarme; un
uomo morsicato da un serpente più non ha a temere di api o di vespe;
le morsicature d'un animale si esacerbano alla presenza di persona
morsicata da un animale della specie medesima. Nè è stupore che v'abbia
mostri così strani in Etiopia, avendoli formati Vulcano, abilissimo
modellatore, giovato da quel gran caldo[262].

L'attrazione verso il centro della terra era stata asserita da
Aristotele, accettavasi come una verità comune dai Romani, e Cicerone
la esprimeva con esattissima felicità[263]. Plinio invece vi dirà
che i gravi tendono al basso, i corpi leggeri all'alto; s'incontrano
e per la mutua resistenza si sostengono: così la terra è sorretta
dall'atmosfera, se no lascerebbe il suo posto e precipiterebbe al
basso. Non solo rifiuta il sistema mondiale pitagorico, ma trova pazzia
il supporre altre Terre ed altri Soli di là dal nostro, misurare la
distanza degli astri, seminare d'infiniti mondi lo spazio[264].

Chi volesse (nè ammannirebbe impresa difficile) riscontrare l'età che
descriviamo col secolo precedente al nostro, troverebbe somiglianza
fra Plinio e gli Enciclopedisti in quel copertojo scientifico dato
all'ignoranza e alla credulità, in quell'armeggio di sapere o mostrar
di sapere, in quel ripudiare la luce che viene dalla vera fonte e che
pure gli illumina, in quel professarsi materialista, e tuttavia per
buon cuore giungere a conclusioni benevole. Come gli Enciclopedisti,
Plinio declama contro chi inventò la moneta; benedetti i secoli,
ove altro commercio non si conosceva che di cambio; è un delitto la
navigazione, la quale, non paga che l'uomo morisse sulla terra, volle
mancasse perfino di sepoltura[265]. Eppure intravede la perfettibilità,
e «quante cose non erano considerate impossibili prima che si
facessero! confidiamo che i secoli avvenire si perfezionino sempre
meglio»[266]. Tuttochè materialista, al nome di Barbari sostituisce
quello d'uomini; rinfaccia a Cesare il sangue versato; loda Tiberio
d'aver tolte di mezzo certe disumane superstizioni in Africa e in
Germania; bofonchia contro quelli che il ferro ridussero in armi,
pure della guerra riconosce i vantaggi, professando che l'Italia fu
scelta dagli Dei per riunire gl'imperj dispersi, addolcire i costumi,
ravvicinare in comunanza di linguaggio gl'idiomi discordi e barbari di
tanti popoli, dare agli uomini la facoltà d'intendersi, incivilirli,
divenire insomma la patria unica di tutte le nazioni del mondo[267].
Di queste idee avanzate, di questa filosofia tollerante e cosmopolita,
egli non conosceva o rinnegava la sorgente.

Plinio era di Como; militò in Germania, fu procuratore di Nerone nella
Spagna, da Vespasiano ebbe il comando della flotta navale al Miseno:
ma mentre colà dimorava, il Vesuvio eruttò fiamme per la prima volta;
ed egli accorso sia per curiosità del fenomeno, sia per sovvenire ai
pericolanti, fu preso da una sua ricorrente debolezza di stomaco, e
caduto, restò soffogato. Lasciò centottanta volumi in minutissimo
carattere, fra cui tre libri di arte oratoria, trentuno di storia
contemporanea, trenta delle guerre de' Romani in Germania, altri del
lanciar dardi, e perfino di grammatica, scritti «quando la tirannia di
Nerone rendeva pericoloso ogni studio più elevato».

Giulio Solino, vissuto non si sa quando, ma forse due secoli più tardi,
beccò da Plinio senza criterio, ed espose in istile ricercato notizie
varie, massime di geografia, e il suo _Polistore_ ebbe gran corso
nel medio evo. Le conquiste e il commercio dilatarono la cognizione
del mondo: pure vedemmo come Greci fossero quelli, di cui Augusto si
valse per misurare e descrivere l'impero. E dalla Grecia vennero, nel
tempo che discorriamo, i due maggiori geografi Strabone e Tolomeo. Il
primo, dopo lunghi viaggi nell'Asia Minore, nella Siria, nella Fenicia,
nell'Egitto fin alle caterrate, poi in Grecia, Macedonia, Italia,
eccetto la Gallia Cisalpina e la Liguria, in diciassette libri diede la
storia della sua scienza da Omero ad Augusto; e trattando delle origini
e migrazioni dei popoli, della fondazione delle città e degli Stati,
dei personaggi più celebri, sa portarvi la critica. L'altro descrisse
l'universo in modo d'acquistare il nome di Tolomaico al sistema
che, in opposizione coi Pitagorici e coi moderni, pone la terra per
centro ai cieli; e creò la geografia scientifica, disponendo i paesi
matematicamente per longitudine e latitudine[268].

L'unico che in latino trattò di geografia, è Pomponio Mela spagnuolo
(_De situ orbis_), in prosa concisa ed elegante compendiando il sistema
d'Eratostene; all'aridità d'una nomenclatura provvede coll'intarsiare
graziose descrizioni e dipinture fisiche o storiche ricordanze: ma
non vide cogli occhi proprj, dà come sussistenti cose da gran lunga
perdute, mentre non nomina Canne, Munda, Farsaglia, Leutra, Mantinea,
famose per battaglie; nè Ecbatana, Persepoli, Gerusalemme, capitali
importanti; nè Stagira patria d'Aristotele.

Carte geografiche sappiamo si usavano anticamente[269]; in un tempio
della Terra n'era dipinta una dell'Italia[270]; una di tutto il mondo
in un portico di Roma[271]; d'altre ci parlano Frontino e Vegezio; ed
entrante il III secolo, Giuliano Taziano aveva stesa una descrizione di
tutto l'impero, che andò perduta. D'un'altra, ordinata dall'imperatore
Teodosio, abbiamo una copia o un'imitazione nella Tavola Peutingeriana,
carta stradale in sola lunghezza, e molto inesatta.

I Romani tennero sempre in lieve conto le matematiche, nella loro
albagia giudicando abjetta una scienza che prestava servizio alle
arti meccaniche, misurava il guadagno, teneva i registri. Allo studio
di essa Orazio imputa la depravazione del gusto; Seneca la ripudia
come avvilente; nè sino a Boezio non si tradussero Euclide, Tolomeo,
Archimede. Tanto scarsamente seppero di geometria, che i giureconsulti
romani supposero la superficie del triangolo equilatero eguale alla
metà del quadrato eretto sopra uno dei lati[272]; e fu tenuto un
portento Sulpicio Gallo che prediceva gli eclissi.

Di matematiche applicate scrisse Sesto Giulio Frontino, che sotto
Vespasiano capitanò in Bretagna prima d'Agricola, poi fu console,
augure, amico di Plinio, lodato da Marziale; e sul morire dispose non
gli si ergesse monumento, dicendo: — Abbastanza sarò ricordato se la
vita mia lo meriti»[273]. Soprantendente agli acquedotti, diede la
storia di queste memorabili costruzioni, veramente italiane. Lasciò
inoltre quattro libri di _Stratagemmi_, compilazione fra militare e
storica, povera di critica e d'eleganza, ma colla facilità sicura di
chi sa quel che n'è.

La medicina, fin ai tempi di Plinio, da verun Romano era stata
coltivata; i medici erano la più parte schiavi o stranieri, e Giulio
Cesare pel primo comunicò ad essi la cittadinanza. In bottega pubblica
(_jatreon_) faceano salassi, strappavano denti, ed altre operazioni,
fra i chiacchericci e le cronache. Altri s'applicavano a studiarla, e
sopra gl'infelici clienti sperimentavano singolari novità e bizzarre
teoriche, colla sicurezza che alletta le malate fantasie, e dà
reputazione e denaro. Una delle loro scuole era chiamata _medicina
contraria_, perchè nelle febbri lente ed ostinate il professore ad
un tratto abbandonava i rimedj fin allora esperiti onde applicare i
precisi opposti. Augusto malato a morte era curato con calefacienti,
e Antonio Musa suo liberto lo guarì sostituendovi di balzo i bagni
freddi. Era il caso di dire con Celso: _Quos ratio non restituit,
temeritas adjuvat._ Un'altra volta sanò l'imperatore colle lattuche;
onde questi gli concesse l'anello, e, per amore di lui, immunità a
tutti quei della sua professione.

Asclepiade di Prusa in Bitinia, venuto ad esercitar questa a Roma un
secolo prima dell'êra vulgare, le differenti malattie deduceva da
viziosa dilatazione o stringimento de' pori, e la pratica riduceva
a rimedj che producessero l'effetto contrario. _Pronta, sicura,
piacevole_ doveva essere ogni cura, limitandosi a dieta, ginnastica,
fregagioni, vino, sbandendo ogni farmaco violento e interno, e
frequentando i semplici. Colla quale blanda pratica riconciliò alla
medicina i Romani, che n'erano disgustati dalla sanguinaria del
chirurgo Arcagato, cui il soprannome di vulnerario fu mutato in quel di
carnefice, e forse per questo aveva attirato alla sua arte le esagerate
invettive dell'antico Catone[274].

Alcuno volle ascrivere all'età d'Augusto Aurelio Cornelio Celso[275],
del quale s'ignorano la patria e i casi, e della cui Enciclopedia
(_Artium_) non ci rimasero che otto libri intorno alla medicina,
i quali forse sono mere traduzioni dal greco. Ippocratico, cioè
osservatore, pur ricorrendo all'induzione, non crede importante nella
medicina se non ciò che tende a risanare. Raccomanda di non prendere
abitudini, nè ledere la temperanza; poi raccoglie quanto dissero i
precedenti, giudicandone con buon senso ed esponendolo con eleganza
spigliata. Non disapprova l'uso di qualche medico d'allora, di sparare
_gli uomini vivi_, ma non lo trova necessario, potendo le ferite de'
gladiatori, de' guerrieri e degli assassinati offrir campo a studiare
le parti interne per rimedio e pietà, non per barbarie.

Molti medici vanta la Sicilia, e a lor capo il famoso Empedocle,
introduttore della dottrina degli elementi. Acrone, di Agrigento
come lui, giovò assai agli Ateniesi nella peste che proruppe durante
la guerra Peloponnesiaca, e fondò la scuola empirica. Menecrate,
contemporaneo di Filippo il Macedone, intitolavasi Giove, menavasi
dietro come corteo i suoi guariti, principalmente gli epilettici;
ma colla sua vanità buscò beffe. Erodico da Leonzio inventò la
medicina ginnastica, curando con violenti esercizj, susseguiti dal
bagno; ma Ippocrate lo accusava di uccidere i malati col soverchio di
passeggiate, di lotte, di fomenti. Scribonio Largo Designaziano, siculo
o rodio del tempo di Claudio, cercò combinare le dottrine metodiche
coll'empirismo, ed è notevole per aver insegnato a non isradicare il
dente leso, ma levarne solo la parte guasta; e ancor più per avere
applicato l'elettricità al mal di capo, suggerendo di tenervi una
torpedine viva: rimedio adottato anche da Dioscoride.

Altri medici greci, illustri a Roma e fondatori di varj sistemi,
preteriremo, ma non Claudio Galeno da Pergamo, che con ingegno vasto
quanto Aristotele, altrettante erudizione e maggior libertà, abbracciò
tutte le scienze; e non pago dei sistemi dominanti e dell'autorità,
applicavasi alle indagini della natura e all'anatomia. A Roma acquistò
credito, malgrado gl'intrighi dei suoi colleghi, i quali all'ignoranza
univano l'invidia, fin al segno d'avvelenare alcuni suoi ajutanti.
Curò Marco Aurelio, e piace trovare dal medico filosofo descritte
alcune malattie del filosofo imperante. Sotto al coltello anatomico
riconosceva i misteri della vita e la scienza divina; eppure non seppe
salvarsi dall'andazzo del suo secolo: Esculapio in sogno gli suggerì un
salasso, e lo stornò dal seguire gl'imperatori nella spedizione; alle
incantagioni avea fede, e combatteva il cristianesimo come assurdo.

Dopo di lui, gravi guasti portò nella medicina la teosofia, pretendendo
spiegare le malattie coi démoni e colle potenze segrete, medicarle con
incanti, e col recare indosso pietre efesie iscritte colle misteriose
parole che si leggevano sull'effigie di Diana, o le gemme abraxe
con figure egizie, o simboli desunti dal culto di Zoroastro o dalla
Cabala giudaica. Sereno Sammonico, maestro del giovane Gordiano, ci
lasciò un poema sulla medicina, ove per la febbre emitrea suggerisce
l'abracadabra[276]. Sesto Placito Papiriense scrisse un indigesto
ricettario di medicamenti tratti dagli animali, anzi dalle parti
più schife: insegna a guarir la quartana portando addosso un cuor di
lepre; prevenire le coliche col mangiare lesso un cane appena nato; o
quando prendono, sedersi sopra una seggiola dicendo, _Per te diacholon,
diacholon, diacholon_. Marcello Empirico, medico di Teodosio, raccolse
le ricette _fisiche e filateriche_, perchè i suoi figli potessero farne
carità: ma l'ottima intenzione non pallia l'assurdità dell'opera. A
chi entrò nell'occhio un corpo straniero, bisogna toccarlo ripetendo
tre volte: _Tetune resonco bregan gresso,_ e ad ogni volta sputare;
oppure: _In mondercomarcos axatison_. Per l'orzajuolo sull'occhio
destro, tocchisi con tre dita della mano sinistra, sputando e dicendo
tre volte: _Nec mula parit, nec lapis lanam fert, nec huic morbo caput
crescat, aut si creverit tabescat_. Pel panereccio si tocchi tre volte
il muro dicendo: _Pu pu pu; numquam ego te videam per parietem repere_.
Per la colica si ripeta tre volte: _Stolpus a cœlo cecidit; hunc morbum
pastores invenerunt, sine manibus collegerunt, sine igne coxerunt,
sine dentibus comederunt._ Prescrive i giorni appunto in cui preparare
i farmachi, le preghiere da dirsi al Capodanno e al primo cantar
delle rondini, e come usare il _rhamnus spina Christi_, di miracolose
proprietà, perchè fu stromento alla passione del Redentore.

Il napoletano Pantoro, esaminati gli stromenti chirurgici trovati a
Pompej, asserì che già conosceansi allora di quelli che si credono
invenzione recente. All'Accademia di medicina a Parigi furono da
Scoutetten presentati i seguenti stromenti, disotterrati a Pompej ed
Ercolano: una sonda curva, una dritta, pei due sessi e per bambino; la
lima per togliere le asprezze ossee; lo specillo dell'ano e dell'utero
a tre branche; tre modelli di aghi da passar corde o setoni; la
lancetta ed il cucchiajo, di cui i medici si servivano costantemente
per esaminare la natura del sangue dopo il salasso; uncini ricurvi di
varia lunghezza, destinati a sollevar le vene nella recisione delle
varici; una cucchiaja (_curette_) terminata al lato opposto da un
rigonfiamento a oliva, all'uopo di cauterizzare; tre ventose di forma e
grandezza diversa; la sonda terminata da una lamina metallica piatta e
fessa, per sollevare la lingua nel taglio del frenulo; molti modelli di
spatule; scalpelli a doccia piccolissimi per segare le ossa; coltelli
dritti e convessi; il cauterio nummolare; il trequarti; la fiamma
dei veterinarj per salassare i cavalli; l'elevatore pel trapanamento;
una scatola da chirurgo per contenere trocisci e diversi medicamenti;
pinzette depilatorie, pinzette mordenti a dente di sorcio, una a becco
di grua, una che forma cucchiajo colla riunione delle branche; molti
modelli di martelli taglienti da un lato; tubi conduttori per dirigere
gli stromenti cauterizzanti.

Lautissima professione il medico. Manlio Cornuto promise ducentomila
sesterzj a chi lo guarisse dal lichene, malattia della faccia,
introdottasi sotto Tiberio: Carmi fecesi pagare altrettanto un viaggio
in provincia: in pochi anni Alcmeone ammassò dieci milioni di sesterzj.
Quinto Stertinio lodavasi agli imperatori di esiger da essi non più
di cinquecentomila sesterzj, mentre la sua clientela in Roma gliene
produceva seicentomila; l'ugual salario ricevette suo fratello da
Claudio, sicchè essi poterono abbellir molto Napoli, e in eredità
lasciarono trenta milioni di sesterzj: dieci milioni ne lasciò Crina
marsigliese, dopo spesone altrettanti a rialzar le mura della sua
patria[277].

Più volte avvertimmo che la coltura fra i Romani non ebbe nulla di
spontaneo, nè derivò da slancio o da amor del bello, ma da imitazione,
da ostentazione. Dei grammatici nominati da Svetonio, due terzi sono
stranieri: fra tanti architetti che si richiesero per mutar Roma da
laterizia in marmorea, due soli romani cita Vitruvio: i macchinisti
erano alessandrini: greci i mimi, i commedianti, i pedagoghi. Come
gli Scipj s'aveano empita la casa di Greci, così al tempo imperiale
ognuno volle, tra i servidori, avere anche il pedante greco, esposto
ai vilipendj, di cui anche in tempi a noi più vicini si trovavano
bersaglio l'abate o il maestro. Luciano, nella _Vita de' cortigiani_,
ci dipinge un di costoro, per quanto in caricatura:

— Per pochi oboli, nell'età in cui, se tu fossi nato schiavo, era tempo
di pensare alla libertà, ti sei, con tutta la tua virtù e sapienza, da
te stesso venduto, ponendo in non cale quei molti discorsi che il bel
Platone e Crisippo e Aristotele hanno composto in lode della libertà
e dispregio della servitù. Nè vergogni di startene fra i piaggiatori,
i barattieri, i buffoni, ed in tanta moltitudine di Romani trovarti
solo col mantello greco, e parlare malamente e con barbarismi la loro
favella, e cenare a tavole tumultuose e piene di gente diversa e la
maggior parte cattiva; ed in questi conviti lodare importunamente, e
bere fuor misura; e la mattina levandoti a suon di campanello, perduto
il sonno più dolce, correre insieme cogli altri di su di giù, portando
ancor sulle gambe le zacchere del giorno innanzi? Cotanta carestia
avevi tu dunque di lupini e di cipolle campestri? mancavanti fontane
d'acqua fresca e corrente, che caduto sei in tanta disperazione?

«Perchè tieni lunga barba e non so che di venerevole nell'aspetto,
e ti cingi in cappamagna alla greca, e sei conosciuto da tutti per
professore di lettere, oratore o filosofo, al signore par bello
di mescolare uno di tal genìa a quei che uscendo fannogli corte,
e sembrar così amante della disciplina e delle lettere greche, ed
apprezzatore dei dotti. Talchè tu, o valent'uomo, corri rischio di
avere appigionato, in luogo de' tuoi magnali discorsi, il mantello o
la barba. Se sopragiunge altri più nuovo, sei rimandato indietro, e
vi rimani relegato in un dispregiatissimo cantone, testimonio di ciò
che si porta e si toglie di tavola; e se pure i piatti giungono fino
a te, roderai le ossa come i cani, e dolcemente per fame ti succierai
una foglia secca di malva, avanzata ad un ripieno. Non ti mancheranno
altri obbrobrj: nè solamente non avrai le ova, non essendo necessario
che abbi sempre ad essere trattato come un forestiero, e sarebbe in
te impudenza il pretenderlo; ma non devi avere tampoco un pollo simile
agli altri; e mentre al ricco si serve grasso e polputo, a te si dà un
mezzo pulcino o un colombo vecchio da razza, per segno di spregio. Per
caso un convitato sopraviene improvvisamente? il famiglio, susurrandoti
all'orecchio _Tu sei di casa_, ti toglie quanto hai dinanzi por
servirne l'arrivato. Si trincia in tavola o un cervo o un porcellino da
latte? ti bisogna aver propizio lo scalco, o contentarti della parte
di Prometeo, le ossa cioè col midollo. Non ho detto che, bevendo gli
altri un vecchio e soavissimo vino, tu buschi soltanto del cercone; e
n'avessi almanco a sazietà, chè domandandone, molte volte fingerà il
ragazzo di non udire. Se alcun servo ciarliero riferirà che non hai
lodato il fanciullo della padrona mentre ballava o sonava la chitarra,
passerai rischio non piccolo: per la qual cosa t'è giocoforza gracidare
come un ranocchio assetato per essere distinto tra quei che applaudono,
e far da capocoro a' più fervorosi, e molte volte, standosi gli altri
in silenzio, ripetere qualche encomio meditato, che senta a dieci
miglia di adulazione. Ti convien poi tenerti col volto basso come nei
conviti persiani, sul timore che qualche eunuco non ti veda adocchiare
alcuna concubina.

«Questa è la vita ordinaria della città. Che ti avverrebbe viaggiando?
Sovente piovendo, e giungendo tu per ultimo al posto che t'ha destinato
la sorte, non essendoci più vetture, ti caricano su col cuoco e col
parrucchiere della padrona sopra un baroccio, senza pur metterti paglia
che basti.

«E se tu non lodi, passerai per malevolo ed insidiatore alle latomie
di Dionisio. Conviene che i padroni sieno sapienti ed oratori; cadano
pure in solecismi, i loro discorsi devono saper sempre d'Imetto e
dell'Attica, e far testo di lingua per l'avvenire. Ma passi ancora
per ciò che fanno gli uomini: le donne (perocchè anche le donne ora
affettano d'avere al loro soldo ed al seguito della loro lettiga
alcun famigliare dotto) alcuna fiata gli ascoltano mentre si adornano
e si arricciano i capelli; ed assai volte, mentre il filosofo fa le
dimostrazioni, ne viene la cameriera, e reca i viglietti del drudo.
Egli allora per prudenza sospende i discorsi, ed aspetta che essa
ritorni ad ascoltarlo, dopo risposto al bertone.

«Alla fine, ricorrendo i Saturnali e le Panatenee, ti si manda un
mantellaccio o una tonaca logora, e devi allora farne gran pompa.
Il primo che ha subodorato tal pensiero del padrone, corre ad
annunziartelo, e vuole non piccola mancia. La mattina tel vengono a
portare in tredici, de' quali ciascuno decanta le parole che ha detto
di te, e come, avutone l'incombenza, ha cercato scegliere il meglio, e
partonsi tutti regalati da te, e brontolando che non abbi dato di più.
Il salario ti si paga a sospiri, e a due e a quattro oboli; se domandi,
passi per nojoso ed impronto: laonde per averlo ti bisogna supplicare
e piaggiare e leccare il maestro di casa, con modi di cortigianeria
i più variati. Nè è da trascurarsi anche il consigliero e l'amico; ed
intanto di ciò che ricevi già ne vai debitore al sarto, al medico, al
calzolajo; sicchè non restandotene nulla, quei doni non sono per te
doni. Altre volte vieni accusato o di aver tentato il fanciullo, o,
malgrado la tua vecchiezza, violentata una cameriera della signora,
o altra corbelleria. E così di notte imbacuccato entro il mantello,
sei pel collo trascinato fuor di casa, miserabile ed abbandonato da
tutti, non restandoti per compagna della vecchiezza che la podagra,
avendo dimenticato dopo tanto tempo ciò che sapevi, grullo e col ventre
maggiore della borsa, tormentato di non potere nè riempirlo nè fargli
intender ragione».

Commessa a così fatti, qual doveva riuscire l'educazione? Questa
erasi conformata ai nuovi ordinamenti; e mentre i fanciulli in prima
si affidavano a qualche onesta matrona che ne coltivasse l'ingegno e
il cuore, allora si lasciavano fin ai sette anni a schiavi o greche
fantesche, poi si mettevano al greco, indi al latino sotto i grammatici
su descritti, i quali, oltre legger e scrivere, gl'istruivano a capire
i poeti, e gli esercitavano in composizioncelle. Che se è sempre
infelice cosa un maestro di mestiere, infelicissima erano coloro,
la cui cura principale consisteva in affinare gli allievi nella
mitologia, e nel sapere come avesser nome i cavalli d'Achille, quale
la madre d'Ecuba, di che colore i capelli di Venere. Intanto altri
maestri gli addestravano al ballo, alla musica, alla geometria, in
quanto ritenevansi necessarie alla retorica, che vedemmo essere stata
sempre arte principalissima fra i Romani, gran parte della vita loro,
loro gloria e guasto. Valendosi d'una lingua fatta per comandare,
non fermandosi alla soavità dell'atticismo greco, ma lanciandosi alle
procelle popolari, aveano anche in ciò espresso la maestà patria; e
l'eloquenza fu detta una delle maggiori virtù[278], e l'uomo eloquente
un dio rivestito di corpo mortale. Allora poteva la grammatica esser
considerata la più sincera delle scienze, la dolce compagna del
ritiro, la ricreazione dei vecchi[279], insegnando essa a render
corretto, chiaro, ornato il discorso. Allora da insigni oratori,
Cicerone, Antonio, Ortensio, erano coltivati i giovani men coi precetti
che coll'esempio, e col farsi vedere invocati dai cittadini, dalle
provincie, dai re, come tutela e scampo, levati a cielo dal popolo
sovrano. Allora l'eloquenza studiavasi non come scienza distinta; ma
con la guerra, il culto, la giurisprudenza facea parte dell'educazione
necessaria alla vita; dovendo ogni famiglia, per patrocinare i proprj
clienti, avere un valente oratore, di favellare occorrendo in tutte
le magistrature, occorrendo alla guerra. Ma dacchè l'eguaglianza aprì
a ciascuno gl'impieghi e i comandi, fu impossibile che lo stesso
uomo attendesse a tutto. Uno abbondava di coraggio? dibattuta la
prima causa in tribunale, cingeasi la spada. Un altro avea facile la
parola? travagliavasi alle battaglie forensi, appena congedato dalle
campali. V'era cui non bastasse l'animo d'affrontar le une nè le altre?
sospendeva un lauro alla porta, e dava consulti; diventando così tre
vie distinte l'esercito, la giurisperizia, l'eloquenza.

Ma un popolo senza emulazione, un senato senz'autorità, una gioventù
senza libertà nè speranze, che altro cercavano nell'eloquenza se non
un nuovo spettacolo? Equato il diritto, concentrata nell'imperatore
la cosa pubblica, non potendo i giudici scostarsi dai consulti _dei
prudenti_, più non restava nè a sottigliare sull'interpretazion
della legge, nè a patrocinare provincie o regni o la patria; sicchè
i rostri ammutolirono, la curia consumavasi in complimenti, il fôro
si esinaniva in anguste applicazioni degli editti. I rétori, gente
digiuna della filosofia, delle leggi, della società, si proponeano
d'annestare al pesante ed anfanato ingegno de' Romani l'infantile
e parolajo de' Greci, smaniosi di arringare, d'improvvisare, di
disputare, di avviluppare con argomenti capziosi; sofisticavano i
classici sulla erudizione o sulla verità; della filologia faceano un
giuoco di sottigliezze; della storia un'accozzaglia di particolarità,
entro cui soffocavano quel vero che avrebbe dato ombra ai tiranni;
della logica una schermaglia d'argomentazioni onde mutare il falso
in vero; della morale una ostentazione di virtù esagerate. Sbalzata
fuor della pubblicità che è suo elemento, trastullavano l'eloquenza in
esercitazioni vane e stravaganti, e a spese dell'erario avvezzavano
i figliuoli dei grandi all'enfasi senza scopo, alla declamazione a
vuoto, a concinnare ben sonanti blandizie ai Cesari qualvolta questi si
degnassero consultare il senato sopra ciò che avevano già deliberato.

Per tali scuole di declamazione s'inventò un interminabile codice di
convenevoli. Allorchè (così insegnavasi) l'oratore si presenta alla
tribuna, potrà fregarsi la fronte, guardarsi alle mani, schioccar le
dita, e coi sospiri mostrare l'ansietà del suo spirito. Tengasi ritto
della persona, col piede sinistro alquanto innanzi, le braccia alcun
che disgiunte dal torso; ed esordendo, sporga un poco la destra mano
dal seno, però senza arroganza. Infervorato nell'arringa, pronunzii
con artifiziosa negligenza i periodi più elaborati, mostri esitanza
laddove sentesi più sicuro della sua memoria. Non ricolga il fiato a
mezzo della proposizione, non muti gesto che ogni tre parole, non cacci
le dita nel naso, tossisca o sputi il men possibile, eviti di dondolare
per non parere in barca, non caschi in braccio ai clienti, se pure non
sia per reale sfinimento; nè si soffermi dopo pronunziato una frase
efficace, chè non sembri attendere i battimani. Verso il fine poi si
lasci cadere scompigliata la toga, gran segno di passione.

Plozio e Nigidio, Quintiliano e Plinio discordano fra loro se o no
convenga tergere il sudore e scarmigliarsi. Essi vi diranno come
convenga vestire per essere uomo eloquente: la tunica dia poc'oltre il
ginocchio davanti, e dietro fino al garetto; che più lunga sarebbe da
donna, più breve da soldato: l'avviluppar di lana e fasce il capo e le
gambe, è da infermo; da furioso l'avvolgere la toga al braccio manco;
da affettato il gettarne il lembo sulla spalla diritta; da zerbino il
declamare colle dita cariche di anelli. Della voce poi sanno denominare
appuntino ogni gradazione[280], e qual s'addica a ciascun sentimento.

Di quest'erba trastulla si pascolava la gioventù romana per emulare
Gracco e Cicerone! Talmente è antico stile nei cattivi governi,
non d'abolire il sapere, ma di soffocarlo tra futilità e regole
indeclinabili! Quintiliano stesso racconta di Porcio Latrone, insigne
professore, che chiamato ad arringare ad un'assemblea vera in piena
aria, restò sbigottito, e implorò che l'udienza si trasportasse in un
palazzo vicino, non potendo sopportare il cielo, egli abituato alla
soffitta. Ben dunque, allorchè un imperatore lagnavasi che tante sue
cure non ritardassero il deperimento dell'eloquenza, un sincero gli
rispose: — Chiudete le scuole, ed aprite il senato».

Nè le cose erano meglio delle forme. Tolti alla realtà e al
supremo giudizio del pubblico, ridotti a finger cause ed occasioni
d'arringhe, i retori proponevano temi bizzarri e stravaganti, privi
di convincimento e di moralità. Le _suasorie_ volgeansi sul lodare
la virtù, l'amicizia, le leggi, e sopra simili argomenti di facile
prova, o talora di sofistica finezza: le _controversie _discuteano di
varj punti, per lo più giudiziali; e suddividevansi in _trattate_,
ove il retore dava soggetto e traccia, e _colorate_, dove l'alunno
da sè trovava e l'orditura e la materia, poi compostele e dal maestro
corrette, se le metteva a mente e le recitava alle pazienti assemblee.

Distogliere Catone dall'uccidersi, esortare Silla a smettere la
dittatura[281], Annibale a non impigrirsi in Capua, Cesare a stender
la mano a Pompeo acciocchè Roma opponga ai Barbari i due più grandi
generali; se Cicerone deva chiedere scusa a Marc'Antonio; se dar
al fuoco i suoi scritti qualora questi gli lasci la vita a tal
condizione... erano i temi proposti; poi si fa tragitto a quistioni
più attuali, ed ove dalla giurisperizia sia puntellata l'eloquenza.
Una incestuosa precipitata dalla rupe Tarpea, raccomandandosi a Vesta,
campa la vita: le sarà ritolta? — Marito e moglie giurarono di non
sopravivere l'un all'altro; egli, sazio della donna, parte e le fa
credere d'esser morto; ond'ella balza dalla finestra; ma guarita e
scoperto l'inganno, il padre di lei dimanda il divorzio; essa non
vuole: uno patrocini il padre, l'altro la moglie. — Tizio raccoglie
fanciulli esposti, li mantiene, ad uno rompe il braccio, all'altro
una gamba, e gli invia a mendicare, e s'arricchisce: accusatelo e
difendetelo. — Uno che in battaglia perdè le braccia, sorprendendo la
moglie in adulterio, ordina al figlio d'uccidere il complice; quegli
non obbedisce e fugge; il padre avrà diritto di diseredarlo? — Uno
sale ad una rôcca per guadagnare il premio proposto a chi uccide
il tiranno; e nol trovando, ammazza il figlio di esso, e gli lascia
in petto la spada; il tiranno, tornato e visto il caso, cacciasi in
seno la spada stessa: l'uccisore del figliuolo domanda il premio come
tirannicida. — Essendo sfidati dai medici due gemelli, fu chi promise
guarir l'uno se potesse esaminare gli organi vitali dell'altro; il
padre consente; uno è sventrato, l'altro guarito; ma la madre accusa
il consorte d'infanticidio; gravarlo e difenderlo. — Un padre perdè
gli occhi nel piangere due figliuoli, e sogna che ricupererà la vista
se anche il terzo figlio morrà; palesò il sogno alla moglie, questa
al figliuolo, che appiccossi: il padre riebbe gli occhi, ripudiò la
moglie, la quale si appella d'ingiusto ripudio. — Uno invaghito della
propria figlia, la dà a custodire ad un amico, pregandolo non la
restituisca per quanto gliela chieda; dopo alcun tempo gliela chiede,
e, avutone rifiuto, s'appicca: vien denunziato l'amico come causa di
tal morte. — Uno accusato di parricidio, fu assolto; ma impazzito,
comincia ad esclamare: «O padre, t'ho ucciso», il magistrato lo manda
al supplizio come confesso: ma è accusato d'omicidio. — Un povero
ed un ricco erano amici; muore il ricco, chiamando erede universale
un altro, coll'ordine di dare al povero altrettanto quanto questo a
lui avea lasciato in testamento; s'apre il testamento del povero, e
si trova lo avea costituito erede di tutti i suoi beni; onde questo
domanda tutta l'eredità; l'erede scritto non vuol dare se non tanto
quant'è il possesso del povero. — È legge (inventata da questi pedanti)
che a chi batte il padre, si tronchino le mani: un tiranno ordina a
due figliuoli di maltrattare il padre; il primo, per non farlo, si
precipita dalla rôcca; l'altro, spinto dalla necessità, oltraggia il
genitore ed incorre nella pena decretata; però chiamato in giudizio
perchè gli siano mozze le mani, il padre stesso lo difende: arringate
per lui e contro di lui. — Un'altra legge del codice stesso lascia alla
fanciulla violentata la scelta fra voler morto il rapitore, o sposarlo
senza recargli dote; qualcuno ne rapì due, e l'una vuole ch'egli muoja,
l'altra che la sposi: quistionate per le due parti. — Un'altra legge
infligge al calunniatore la pena sofferta dal calunniato; un ricco e un
povero, nemici capitali, aveano tre figli; ed essendo il ricco eletto
generale, il povero l'accusò di tradimento, di che infuriato il popolo
ne lapidò i figliuoli; il ricco tornato, chiede si uccidano i figli del
povero; questo esibisce sè solo alla pena: per chi sentenziate?

In tali bizzarrie[282] pervertivasi il gusto e si forviava
l'immaginazione dei giovinetti romani, distaccandoli dalla vita comune
e dall'abituale forza delle umane passioni, per avvezzarli al cavillo e
all'esorbitanza. A dritto dunque esclamava Petronio che «nelle scuole
i garzoni si rendono affatto sciocchi, perocchè non vedono, non odono
nulla di ciò che comunemente suol accadere, ma solo corsali che stanno
incatenati sul lido, tiranni che comandano ai figli di troncare il capo
ai genitori, oracoli che in tempo di peste ordinano d'immolare tre o
più vergini»[283].

Così all'eloquenza politica era succeduta la scolastica; e se non
bastava il viluppo della quistione, si aggiungeano difficoltà d'arte,
prefiggendo, per esempio, il vocabolo con cui cominciare o finire
il periodo; poi tutto si dovea sorreggere per figure di parole e di
concetti, per luoghi comuni, ed altre abbaglianti nullità.

Formato per tal guisa un oratore, suprema aspirazione di lui era il
vedersi prescelto a stendere un panegirico all'imperatore; se pure
non si mettesse a quella _lucrosa e sanguinolenta eloquenza_, che,
conservando l'antico costume quando tutto era così mutato, ordiva
invettive sul tono con cui Tullio investiva Catilina e Marc'Antonio,
esagerava gli orrori dell'alto tradimento, tirava alla peggiore
interpretazione i fatti e i detti più semplici, e facea condannare
Cremuzio, Trasea, Elvidio, per ingrazianirsi Tiberio, Nerone,
Vespasiano.

Appena si potesse trar fiato, i buoni s'accordavano a far guerra
a questa eloquenza, ancella della calunnia: Plinio tonò contro
i delatori; Giovenale flagellava i retori; Tacito, fra le cause
dell'eloquenza corrotta, adombrava anche questa; e la combattè pure
Marco Fabio Quintiliano (42-120?), il primo che desse lezioni a
pubbliche spese. Spagnuolo allevato a Roma, l'imperatore Domiziano
gli confidò l'educazione de' suoi nipoti, destinati a succedergli;
e sotto gli auspizj di questo dio, come esso lo chiama, scrisse le
_Istituzioni_, dirette a formare un oratore. Piace, al petulante
greculo o al venale grammatico opporre l'immagine d'un maestro che
conosce quanto sacro uffizio sia, nel momento che la gioventù sceglie
fra il piacere e il dovere, l'avviarla co' migliori precetti, coi più
belli esempj, e questi poter tutti dedurre dalla storia nazionale; e
alle sante credenze, alle gloriose idee, alle coraggiose imprese, alla
lotta contro le basse passioni, allo sprezzo del dolore e del guadagno,
all'amor della gloria, al frugale disinteresse poter soggiungere i
nomi degli Scipioni, dei Fabj, degli Scevola, dei Catoni, _patres
nostri_. Vide Quintiliano a quale infelicità fossero ridotte le lettere
dagli esempj massimamente di Seneca, il quale, essendo in favore come
maestro del principe, avea messo in disistima lo stile sincero degli
antichi per accreditare quel suo, tutto fronzoli ed arguzie, senza
riposo, con cui a forza d'abilità corruppe l'eloquenza, a forza d'arte
guastò il gusto de' Romani. — Seneca (così egli) era allora il solo
autore che fosse in mano de' giovani, ed io non poteva soffrire ch'e'
fosse anteposto ai migliori, cui egli non cessava di biasimare, perchè
disperava di piacere a coloro a cui quelli piacessero. I giovani lo
amavano solamente pe' suoi difetti, e ognuno insegnavasi di ritrarne
quelli che gli era possibile; e vantandosi di parlare come Seneca,
veniva con ciò ad infamarlo. Per verità egli fu uomo di molte e
grandi virtù, d'ingegno facile e copioso, di continuo studio e di gran
cognizioni, benchè alcuna volta sia stato ingannato da quelli a cui
commetteva la ricerca; molti ottimi sentimenti vi si trovano, e assai
moralità: ma lo stile n'è comunemente guasto, e più pericoloso perchè i
difetti ne sono piacevoli. Se di alcune cose egli non si fosse curato,
se non fosse stato troppo cupido di gloria, se troppo non avesse amato
ogni cosa propria, nè co' raffinati concetti snervato i gravi e nobili
sentimenti, avrebbe l'universale consenso dei dotti, anzichè l'amor de'
ragazzi. Un ingegno tale, potente a qualunque cosa volesse, degno era
certo di voler sempre il meglio»[284].

Accorciammo questo giudizio, in cui Quintiliano non dà ferita senza
medicamento, al modo de' giudizj officiosi; e spinge la cautela fino
a non lasciarti ben comprendere s'e' lodi o biasimi. Fatto sta che
egli affaticossi di richiamare verso i classici, e far preferire
la nuda forza alla sdulcinata leggiadria, il naturale al parlar per
figure[285]. Pure, nel concetto di lui, eloquente significava poc'altro
che buon declamatore: diresti non s'accorga mai di ciò che è mancato
a Roma dopo i suoi grandi oratori, il fôro e la libertà; la sublime
destinazione dell'eloquenza o non ravvisa o paventa, e si trastulla
in guardarla siccome un'arte ingegnosa e difficile, che s'acquista
coll'unire alla naturale disposizione lo studio e la probità, e saper
lodare anche i tempi infelicissimi.

E d'adulazioni egli fu prodigo: poi, sebbene cercasse uno stile
ricco, delicato, vigoroso, ed evitare la negligenza e l'affettazione
che guastano il dritto ragionamento[286], all'opera sua occupò poco
meglio di due anni, e questi nella ricerca delle cose e nella lettura
d'infiniti autori, anzichè a forbire lo stile: intendeva poi rifarvisi
sopra dopo raffreddato il primo ardore della composizione[287], ma le
reiterate istanze del librajo lo distolsero dal prudente proposito.
Questa confessione, colla quale tanti altri dopo d'allora intesero
palliare la propria negligenza, temperi certi eccessivi ammiratori,
i quali non solo in Quintiliano vedono tutt'oro, ma pretendono
infallibili canoni di gusto quei ch'egli medesimo confessa non
abbastanza meditati.

Arringò anche, e le sue dicerie erano ricopiate per venderle
lontano[288]: ma come egli stesso si fosse lasciato guastare da
quei temi artifiziosi, dove il sentimento si esagerava, e badavasi
all'effetto e all'arte, non all'espressione più sincera dell'affetto,
appare fin nel passo più eloquente del suo libro, quello ove
deplora la morte della moglie diciannovenne e di due figliuoli già
grandicelli[289].

Eppure egli era dei migliori maestri; riprovava questo esercitarsi
sopra tesi simulate; con opportuna censura reprimeva il giovanile
rigoglio, e col leggere i migliori autori, cosa omai disusata, e col
moderare l'idolatria pei classici, avvertendo che «non s'ha a reputare
perfetto quanto uscì loro di bocca, giacchè sdrucciolano talora, o
soccombono al peso, o s'abbandonano al proprio talento, o si trovano
stanchi; sommi ma uomini». Sopratutto insiste sulla necessità d'essere
probo uomo chi voglia essere buon oratore: il che, se in un trattato
de' nostri giorni sarebbe nulla meglio che un'esercitazione di moralità
triviale, veniva a grande uopo allora, quando spie ed accusatori
valevansi dell'eloquenza per sollecitare o giustificare la crudeltà dei
regnanti; onde si vuole sapergli grado d'aver conosciuto il nesso fra
la controversia nella scuola e il litigio nel fôro, ed accennato almen
quel tanto che poteva, egli stipendiato da un brutale imperatore.

Ci venne purdianzi alla penna Marco Cornelio Frontone numida, giudicato
da alcuni neppur secondo a Cicerone[290], e superiore a tutti gli
antichi per gravità d'espressione, ma che per reggersi in credito
avea bisogno che un erudito non venisse a disotterrarne i frammenti.
Sostenne magistrature primarie, e se vogliam credere al ritratto
ch'egli fa di se stesso in una di quelle congiunture in cui pare che
l'affetto non sopporti la menzogna, meritò veramente colle sue virtù
di diventare maestro di Marc'Aurelio[291], e di conservarsegli amico
anche dopo imperatore. Dalle loro lettere, lasciando che altri vi
cerchi pedagogici avvertimenti, noi caveremo particolarità sull'Italia
nostra. — Visitammo (scrive in una) Anagni; poca cosa oggi, ma contiene
gran numero d'anticaglie, principalmente monumenti sacri e ricordi
religiosi. Non v'è angolo che non abbia un santuario, una cappella,
un tempio; v'ha libri lintei di materie sacre. Uscendo, leggemmo sui
due lati della porta, _Flamine, prendi il samento_. Chiesi a un natìo
che volesse dire questa parola; e mi rispose che in lingua ernica
dinota un pezzo di pelle della vittima, che il flamine si mette sul
berretto quando entra in città». E altrove: — Siamo a Napoli: cielo
delizioso, ma estremamente variabile; ad ogni istante più freddo, o
più caldo, o procelloso. La prima metà della notte è dolce, come una
notte a Laurento; al cantar del gallo senti la frescura di Lanuvio;
verso l'alba ti pare algido; più tardi il cielo si scalda come a
Tuscolo; a mezzodì fa la caldera di Pozzuoli; poi come il sole declina
nell'oceano, il cielo s'addolcisce e si respira come a Tivoli: questa
temperatura si sostiene la sera e le prime ore mentre la notte si
precipita dai cieli».

Frontone, vecchio e scarco dalle magistrature, soffrente di gotta,
apriva sua casa ai letterati, che egli adopravasi di revocare dalle
ampolle e dal neologismo verso la semplicità anteriore a Tullio. Opera
difficilissima giudicava il riuscir eloquente; biasimava coloro che
credono bellezza il rivoltare in diversi modi il concetto medesimo,
come Seneca, come Lucano che i sette primi versi trascina in dire
di voler cantare _le più che civili guerre_; domanda che l'autore
sia ardito senza eccesso, e scelga bene le parole. Ma in queste
raccomandava di cercar le meno aspettate e le meravigliose, cura che
di necessità deve condurre all'affettazione[292]. Troppo anch'egli
seconda il suo secolo allorquando suggerisce di dire e fare secondo al
popolo piace, metodo che torrebbe ogni orma certa al gusto[293]. Forse
per indulgenza a questo piacevasi tanto nel rintracciare immagini, e
le raccomandava a Marc'Aurelio, che gli scriveva come lieta notizia
d'esser riuscito a trovarne dieci[294]. Ma allorchè questi diceva,
— Quando parlai ingegnosamente, mi compiaccio di me stesso», e' gli
replicava: — Più parlerai da galantuomo, più parlerai da cesare».

Il letterato più degno d'attenzione in quel tempo è Cajo Plinio Cecilio
comasco (61-115), nipote di Plinio naturalista, del quale ereditò
le sostanze e la passione per gli studj. Giovinetto fu educato da
Virginio Rufo, insigne romano che preferì all'impero del mondo la
quiete decorosa. Cresciuto da lui con precetti ed esempj di virtù,
nella scuola di Quintiliano si fece all'eloquenza; e di quindici anni
patrocinò, poi sempre trattò cause gratuitamente, talvolta discorrendo
fin sette ore di seguito, senza che la folla si diradasse. Eucrate
filosofo platonico, elegante e sottile nella disputa, calmo di volto,
austero di costumi come di parola, ostile ai vizj non all'umanità,
incontrato da Plinio nella Siria, l'innamorò della filosofia, e
gl'insegnò che il più nobile scopo di questa è far regnare tra gli
uomini la pace e la giustizia.

Quando il gusto del bello, del giusto, del generoso, del patriotico
più sembrava dileguarsi, consola l'imbattersi in quest'uomo,
appassionatissimo per la gloria e devoto alla virtù. Immacolato
sotto pessimi imperatori, talvolta levossi ad accusare i ministri
e consigliatori di loro iniquità; maneggiò la giustizia col nobile
orgoglio del galantuomo, eppure ottenne cariche e rispetto; e non
si trovò impreparato quando sorsero tempi migliori. Al cessare del
regno delle spie e de' carnefici, fu invitato ad onorare e guidare la
rigenerantesi società; e gli troviamo le cariche di augure, questore
di Cesare, legato d'un proconsole, decemviro a giudicar le liti,
tribuno della plebe, pretore, flamine di Tito, seviro de' cavalieri,
curatore del Tevere e della via Emilia, prefetto all'erario di
Saturno e al militare, governatore della Bitinia e del Ponto. Eletto
console l'anno 100, recitò il _panegirico_ a Trajano imperatore,
ossia un ringraziamento. Questa lunga sua fatica aveva egli, come
solea sempre, letta a diversi amici, che lodavano più le parti ove
minore studio aveva adoperato: di ciò stupivasi egli, senza arrivar a
comprendere quanto bisogno avesse di naturalezza. E davvero quel suo
discorso, tronfio di parole e frasi studiate, forbite, compassate, è
un perpetuo scostarsi dalla maniera semplice di pensare e d'esprimere,
per sorreggersi in una forzata elevatezza, con pompa d'acuto ingegno,
con pretensione di novità, e antitesi e raffronti inaspettati. Agli
inesperti sembra conciso pel suo periodare frantumato, mentre in
realtà, al pari di Seneca, gira rapidamente intorno alle idee, ma a
lungo intorno alla stessa.

Il nostro secolo, che non sa più ammirare, si stomaca di lodi buttate
in faccia a un vivo e potente: ma anche senza di ciò Trajano era tal
imperatore da potersi lodare meglio che con vuote generalità; e un
console, un augure davanti al popolo poteva usare altro che adulazioni,
quali converrebbero a schiavo verso un tiranno. Trajano serbò amicizia
per Plinio, anche giunto al fastigio della fortuna; e le lettere che
gli diresse mentre governava la Bitinia sono un'importante rivelazione
de' migliori tempi del concentramento imperiale. E lettere moltissime
conserviamo di Plinio stesso[295]: a troppo gran pezza dalla cara
ingenuità delle ciceroniane, mostransi destinate al pubblico ed alla
posterità; ma anche in quel loro tono accademico e declamatorio ci
rivelano un eccellente naturale, e c'introducono nella vita, massime
letteraria, d'allora.

Plinio era legato con quanto allora vivea di meglio; e con lui
amiamo incontrare Italiani, ben differenti da quelli con cui ci
famigliarizzarono Tacito e i satirici; un Caninio comasco, che donò
una somma per imbandire un annuo convito al popolo; Calpurnio Fabato,
onorato di somme dignità, che la patria Como abbellì di un portico,
e diè denaro per ornarne le porte; Pompeo Saturnino, uom giusto,
bel parlatore, poeta da emulare Catullo, che a Como stessa lasciò un
quarto della propria eredità; Virginio Rufo, che quattro volte console,
generale dell'armi romane, vincitore di Giulio Vindice, ricusò l'impero
del mondo, preferendo la quiete della sua villa d'Alsio nel Milanese.
In Aristone suo tutore Plinio ammirava la frugalità, la prudenza, la
sincerità, lo zelo nel patrocinare altri. Sua moglie Calpurnia alle
doti del cuore univa quelle dello spirito, leggeva avidamente i libri
del marito, ne riponeva in mente i versi e vi adattava le armonie,
andava ascoltarlo quando parlasse in pubblico. Gloriavasi che la
posterità saprebbe che fu amico di Tacito: — Come l'avvenire dirà che
noi ci amammo, che ci siamo compresi! Aveano l'età stessa, egual grado,
egual rinomanza, dirassi, e a tante cause d'emulazione la loro amicizia
resistette. E come già ci collocano l'un presso all'altro! già siamo
inseparabili nella pubblica opinione: chi preferisce te a me, chi me a
te: ma venire dopo te è per me una preminenza»[296].

Da Spurina Plinio imparò non solo la giurisprudenza, ma l'ordine e
la compostezza; nella casa di questo buon vecchio ammirando quella
regolare occupazione, quella serenità d'uomo che si accosta al
sepolcro. A sette ore svegliavasi, e subito ripassava i casi di jeri:
alle otto era levato, e faceva una corsa a piedi: dopo l'asciolvere,
ritiravasi nel gabinetto a comporre in greco o in latino poesie piene
di gusto e brio. Fra giorno discorreva, leggeva, faceasi leggere,
raccontava i fatti di cui era stato testimonio. Alle due prende il
bagno, poi passeggia al sole: quindi giuoca alla palla, per un pezzo
combattendo così la vecchiaja: gettasi poi s'un lettuccio, ed accoglie
gli amici. Ha tavola ricca e frugale, con argenterie massiccie che
rammentano i vecchi tempi. Durante il pasto discorre e legge, spesso
si fa venire buffoni, commedianti, ballerine, sonatrici inghirlandate
d'amaranto. Così dopo le fatiche del fôro, del sonato, del campo,
il nobile vecchio a settantasette anni conservava ancora la vista,
l'udito, la vivacità, la facile parola.

Protetto dai grandi, Plinio proteggeva amici ed inferiori; molti
giovani, la cui principale passione era quella dell'istruirsi,
esercitava nell'eloquenza, e ajutava ne' primi passi verso gl'impieghi;
dotò la figlia di Quintiliano per gratitudine di scolaro, e quella
di Rustico Aruleno che «coll'anticipargli elogi aveagli insegnato a
meritarli in avvenire»; fornì lautamente Marziale, reduce nella Spagna;
alla nutrice diede un terreno che valeva centomila sesterzj, e gliel
faceva amministrare da Vero, suo amico, scrivendogli: — Ricordatevi
che non sono gli alberi e la terra che vi raccomando, ma il bene di
quella che da me li tiene». Corellio avea sollecitato i primi impieghi
per Plinio, e raccomandatolo a Nerva, e morendo diceva a sua figlia: —
Spero avervi fatto degli amici; contate sopra di essi, ma più di tutti
su Plinio»; e Plinio ne prese la difesa in una causa. Sottentrò a tutti
i debiti del filosofo Artemidoro, affinchè tranquillo partisse da Roma
quando Domiziano proscrisse i filosofi[297]. Molti servi affrancò, agli
altri permise di far testamento; per gli abitanti di Tiferno, ove sua
madre possedeva e che lo avevano adottato, eresse un tempio; largheggiò
cogli Etruschi. Governando la Bitinia, lasciò dappertutto tracce di sua
munificenza; mutò in città il villaggio di Calcedonia, riparò Crisopoli
(Scutari), a Libina rialzò la tomba d'Annibale: in Nicomedia guasta
da incendio fece ricostruire il palazzo civico e il tempio d'Iside,
ed aprire una piazza, un acquedotto, un canale, e pensava riunir quel
lago al mare: riparò i bagni di Nicea, e vi pose ginnasio e teatro;
un acquedotto a Sinope, uno a Bitinio, bagni a Tio: a Como mandò pel
tempio di Giove una preziosa statua antica; vi istituì scuole pei
garzoni, contribuendo il terzo della spesa; assegnò cinquecentomila
sesterzj per mantenere fanciulli ingenui, venuti al meno; fondò una
biblioteca presso le terme; ed altri benefizj, la cui lode sarebbe
anche maggiore, s'egli medesimo non si fosse troppo compiaciuto di
narrarceli. Ma sarem noi così rigorosi a tal vanità? — Se non meritiamo
che di noi si parli (diceva egli stesso), siamo rimproverati; se
meritammo, non ci si perdona di parlarne noi stessi»[298].

Ma non soltanto lodi sapeva tesser Plinio, e' s'infervorò contro
i delatori, appena il costoro regno crollò. Aquilio Regolo, già
sollecitatore di testamenti, che poi in una sola denunzia guadagnò
tre milioni di sesterzj e gli ornamenti consolari, e che avea causato
la morte di Elvidio, si vide da lui ridotto a perdere non solo la
reputazione, ma metà dell'oro, passione sua. Allora Plinio badò meno
all'eleganza che alla forza: ma nello stendere quell'accusa rileggeva
di continuo l'arringa di Demostene contro Midia[299]: eppure, potenza
del denaro, poco poi avendo Regolo perduto un figlio, ecco tutta
Roma accorrere a portargli condoglianze in Transtevere, nella casa
improntata d'infamia dall'avarizia e dalla ricchezza del sordido
vecchio. Avea dunque ragione Giunio Maurico allorchè, alla tavola di
Nerva rammentandosi un Catulo Messalino, spia e provocatore del regno
precedente, e domandando l'imperatore che ne sarebbe se fosse ancor
vivo, con franchezza soldatesca rispose: — Perdio, sarebbe qui a cena
con noi».

Gli antichi ebbero scarso il sentimento delle bellezze della natura;
il paesaggio tra essi non fu meglio che decorazione; i più gentili
quadri di Virgilio traggono vita dalle figure onde sono popolati. Ma
Plinio mostrasi compreso dalle vaghezze del suo lago e della villa
che v'aveva, e con esso ci dilettiamo ancora cercare quei platani
opachi, quell'insensibile pendìo che guidava alla sua campagna, quel
canale protetto d'ombre ospitali, dov'esso veniva a cercar riposo
dall'assordante operosità di Roma. Là pesca, là caccia ne' boschi
popolati di cervi e di damme; là comprendeva che non solo Diana, ma
anche Minerva ama le foreste. Arricchito, volle avere più ville su
quel lago, ed una intitolò Commedia perchè dimessamente situata,
quali gli attori comici sul socco, mentre l'altra elevavasi come
i tragici sul coturno, onde la nominò Tragedia: e quella è lambita
dalle acque, questa le domina. Ivi erano appartamenti per l'inverno e
per l'estate, pel giorno e per la notte; ivi bagni; ivi una fontana
intermittente[300], che cascava romoreggiando in una sala decorata
di statue, e perdeasi nel lago, sul quale vogando, suo padre gli
raccontava le storielle de' luoghi, e gli mostrava il terrazzo da
cui una donna, avendo il marito ammalato di incurabile ulcera, volle
mostrargli come si possa sottrarsi ai dolori, precipitandosi essa nelle
onde e seco traendolo. E questa miserevole disperazione al filosofo
parea degna di monumento quanto la costanza di Arria moglie di Trasea
Peto[301].

Viepiù comoda eragli la villa di Laurento a diciassette miglia da
Roma, fra pascoli di pecore, di bovi, di cavalli, in clima d'eterna
primavera e di calma ridente, ove il sole non si mostra in estate che
a mezzo il dì. Spazioso portico a vetriate, riparo contro la cattiva
stagione, introduce all'abitazione, e attorno praterie sempre verdi,
boschi fantastici, impenetrabili dai raggi solari. La sala da pranzo si
sporge sul mare, e lo prospetta da tre lati, mentre apre s'un verziere,
arricchito di mori, di fichi pompejani, di rose tarantine, di legumi
d'Aricia, d'erbe per la cucina: a mezzo della galleria trovasi la
camera da letto, vicino all'incessante mormorio d'una fontana: poco
lungi è lo studio, al gran sole, rivestito di marmo e colle lucide
pareti adorne d'uccelli, fiori, fronde, e coi libri che mai troppo
non si leggono e rileggono. La sala è ricreata da una nappa d'acqua,
e l'inverno da un tepidario nascosto ne' muri. Una scala conduce nel
bagno a sole aperto, un'altra all'ombreggiato. Nè vi mancano il giuoco
della palla, la cavallerizza, una galleria sotterranea dove ripararsi
dalla canicola, una esposta che conduce ad una fuga di camere sì ben
collocate da evitare il sole dall'una all'altra[302]. E le cerchiate
di platani connessi dall'edera e dal flessibile acanto, e i viali
orlati di bosso o di rosmarino, e i sedili di marmo caristio, e gli
zampilli d'acqua riuscenti in vasca di bronzo, e il labirinto verde, e
il tempietto di marmo, e le statue, i mobili, i libri, i cavalli, gli
argenti, gli schiavi, ci fanno meravigliare come tanto potesse avere
un privato, che non era de' più ricchi, e che pur possedeva una casina
a Tusculo, una a Tivoli e a Preneste in commemorazione di Tullio e
d'Orazio.

Compose anche versi; e tuttochè onest'uomo e di spirito grave e
dignitoso, scrisse endecasillabi lascivi, dei quali si scusa con troppi
esempj. Forse egli, come molti oratori, credeva necessario l'esercizio
poetico per formarsi alla prosa; ma Quintiliano diceva: — La poesia
è nata per l'ostentazione, l'eloquenza per l'utilità. Noi oratori
siam soldati sotto le armi, e non ballerini di corda; combattiamo per
interessi rilevanti, per vittorie serie. L'armi nostre devono brillare
e colpire al tempo stesso; avere il lustro terribile dell'acciajo,
non la brunitura dell'oro e dell'argento. Via quell'abbondanza lattea,
che annunzia uno stile infermiccio; parlate con sanità». E nitidezza
avea sempre Plinio, non sempre forza. Giornalista officioso della
letteratura di quel tempo, egli c'informa della futilità di quelle
consorterie, che invitate come si trattasse d'aprire un testamento,
si raccoglievano per applaudire non per consigliare, per divertir sè,
non per giovare al poeta. Claudio, Nerone, Domiziano vi assisteano
non solo, ma vi leggeano tra obbligati applausi. Un codice nuovo
erasi combinato per codeste letture, dove s'insegnava: — Il lettore
dapprincipio appaja modesto, gli uditori indulgenti. A che con
letterarie sofisterie farsi nemico quello, cui veniste a prestar le
orecchie benigne? Più o meno meritevole ch'e' sia, lodate sempre. Il
leggente presentisi con diffidenza rispettosa, qual l'uso impone; abbia
disposto un complimento, una scusa: — Sta mane fui pregato di arringare
in una causa: non vogliate imputarmi a dispregio questa mescolanza
degli affari colla poesia, giacchè io soglio preferire gli affari ai
piaceri, gli amici a me stesso»[303].

L'autore è di sgraziata voce? affida la recita ad uno schiavo[304].
Declama egli stesso? è tutt'occhi all'impressione che produce sugli
uditori, e tratto tratto fermasi, palesando timore d'averli nojati,
e aspettando che il preghino di proseguire. Ai passi belli, e ancor
più alla fine sorgono gli applausi, divisi anche questi artatamente in
categorie. Nell'una il triviale _Bene! benissimo! stupendo!_ nell'altra
si battono le mani; nella terza balzasi dal sedile, percotendo del
piede la terra; nella quarta si agita la toga; e così via crescendo.

Gli uditori appariglieranno il leggitore ai sommi; il poeta non
dimenticherà un complimento pel giornalista, e dirà _Unus Plinius est
mihi_; e Plinio giornalista domani pubblicherà: Mai non ho sentita
meglio l'eccellenza de' tuoi versi».

Una di queste letture è descritta da Plinio ad Adriano: — Io son
persuaso negli studj, come nella vita, nulla convenga all'umanità
meglio che il mescolare il giocoso col serio, per paura che l'uno
degeneri in malinconia e l'altro in impertinenza. Per questa ragione,
dopo travagliato intorno alle più importanti cose, io passo il mio
tempo in qualche bagattella. E per far queste comparire ho pigliato
tempo e luogo proprio, onde avvezzar le persone oziose a sentirle
a mensa: scelsi però il mese di luglio, in cui ho piena vacanza; e
disposi i miei amici sopra sedie a tavole distinte. Accadde che una
mattina vennero alcuni a pregarmi di difendere una causa, allorchè
io men vi pensava: pigliai l'occasione di fare agl'invitati un
piccolo complimento, e porger insieme le mie scuse, se, dopo averli
chiamati in piccol numero per assistere alla lettura d'un'opera, io
l'interrompeva come poco importante, per correre al fôro, dove altri
amici m'invitavano. Gli assicurai ch'io osservava il medesimo ordine
ne' miei componimenti, che davo sempre la preferenza agli affari
sopra i piaceri, al sodo sopra il dilettevole, a' miei amici sopra me
stesso. Del resto l'opera, di cui ho fatta loro parte, è tutta varia
non solamente nel soggetto, ma anche nella misura dei versi. E così,
diffidente come sono del mio ingegno, soglio premunirmi contro la
noja. Recitai due giorni per soddisfare al desiderio degli uditori;
nondimeno, benchè gli altri saltino o cancellino molti passi, io niente
salto e niente cancello, e ne avverto quelli che mi ascoltano. Leggo
tutto, per essere in grado di poter tutto emendare; il che non possono
far coloro che non leggono se non alcuni squarci più forbiti. Ed in
ciò danno forse a credere agli altri d'aver meno confidenza ch'io abbia
nell'amicizia de' miei uditori. Bisogna in realtà ben amare, perchè non
si abbia tema di nojar coloro che sono amati. Oltreciò, qual obbligo
abbiamo a' nostri amici, se non vengono ad ascoltarci che per loro
divertimento? Ed io stimo ben indifferente ed anche sconoscente colui
che ama più il trovar nell'opere de' suoi amici l'ultima perfezione,
che di dargliela egli stesso. La tua amicizia per me non mi lascia
punto dubitare che tu non ami di leggere ben presto quest'opera, mentre
ch'ella è nuova. Tu la leggerai, ma ritoccata; non avendola io letta ad
altro fine che di ritoccarla. Tu ne riconoscerai già una buona parte:
quanti luoghi o sieno stati perfezionati, o, come spesse volte succede,
a forza di ripassarli sien fatti peggiori, ti sembreranno sempre nuovi.
Quando la maggior parte d'un libro è stata variata, pare insieme mutato
tutto il rimanente, benchè non sia»[305].

L'avvocato Regolo lesse composizioni famigliari, un poema Calpurnio
Pisone, elegie Passieno Paolo, poesie leggeri Sentio Augurino, Virginio
Romano una commedia, Titinio Capitone le morti d'illustri personaggi,
altri altro. Plinio si consola o duole secondo che codeste recite
sono popolose o deserte: — Quest'anno abbiam avuto poeti in buon
dato. In tutto aprile quasi non è passato giorno, in cui taluno non
abbia recitato qualche componimento. Qual piacere prendo che oggidì le
scienze sieno coltivate, e che gl'ingegni della nostra età procurino
darsi a conoscere: quantunque a stento gli uditori si raccolgano; la
maggior parte stanno in panciolle nelle piazze, e s'informano di tempo
in tempo se chi deve recitare è entrato, o se ha finita la prefazione,
o letta la maggior parte del libro; allora finalmente giù giù
vengono allo scanno assegnato; nè però vi si trattengono tanto che la
lettura si finisca, ma molto prima svignano, chi con finta cagione ed
occultamente, e chi alla libera senz'ombra di riguardo. Non fece così
Claudio cesare, il quale, secondo vien detto, un giorno mentre andava
passeggiando pel palazzo, sentendo acclamazioni, ed avendo inteso
che Novaziano recitava non so qual volume, subito ed alla sprovveduta
entrò nel circolo degli ascoltanti. Oggi ciascuno, per poche faccende
che abbia alle mani, vuol esser molto pregato; e poi o non vi va, o
andandoci, si lamenta d'aver perduto il giorno, perchè egli non l'ha
perduto. Tanto più degni di lode sono coloro che non rimangono di
scrivere per la dappocaggine o superbia di questi tali»[306].

Da gente che componeva per recitare, recitare a gente adunatasi per
ascoltare, potevasi egli attender nulla di virile e d'efficace? Nessuno
leggeva allora libri fuorchè l'aristocrazia, onde all'autore non
restava la fiducia di crearsi il proprio pubblico. Nè la scelta società
poteva, come oggi, comprare tante copie d'un libro, che l'autore ne
ritraesse compenso proporzionato al merito o alla fama. Ciascun signore
teneva servi apposta per trascrivere e legare i libri; il grosso del
popolo non ne usava se non qualcuno preparatogli dagl'imperatori nelle
biblioteche o al bagno: laonde lo scrittore, mentre insuperbivasi di
esser letto ovunque arrivassero governatori o comandanti romani, si
trovava costretto a mendicare il pane e le sportule da un patrono,
dall'economo di un mecenate, o dal distributore de' pubblici
donativi[307]. E come conseguirli altrimenti che lodando? e come lodar
dei mostri padroni o de' vigliacchi obbedienti, senza abbassarsi ad
adulare? Quando poi lo scrivere franco menava al patibolo, quando il
segnalarsi eccitava la gelosia degli imperatori, si trovò più comoda,
più utile l'adulazione, e vi s'andò a precipizio. Il poeta Stazio
blandisce non solo Domiziano, ma qualunque ricco; Valerio Massimo e
Vellejo Patercolo storici esaltano le virtù di Tiberio; Quintiliano
retore, la santità di Domiziano, e, ciò che al suo gusto dovea costare
ancor più, il talento di esso nell'eloquenza, e lo chiama massimo tra
i poeti, ringraziandolo della divina protezione che concede agli studj,
e d'avere sbandito i filosofi, arroganti al segno di credersi più savj
dell'imperatore. Marziale bacia la polvere da Domiziano calpestata, e
gli par troppo poco il collocarlo a paro coi numi; Giovenale satirico
adula; adula Tacito severo storico, come adulavano i papagalli che
ad ogni atrio d'illustre casa salutavano il sagacissimo Claudio e il
cavalleresco Caligola. Plinio giuniore non sa che adulare Trajano;
Plinio maggiore adula Vespasiano; Seneca adula Claudio, e per invitare
Nerone alla clemenza, gli accorda la podestà di uccider tutti, tutto
distruggere, mettendo in certo modo a contrasto la forza di lui
colla debolezza dell'universo, onde ispirargli la compassione per via
dell'orgoglio.

D'altra parte a cotesti stranieri, accorrenti da ogni plaga del mondo
a Roma per godere le munificenze, a cotesti liberti traforatisi nel
senato a forza di strisciare innanzi ai loro padroni, quali rimembranze
restavano di più franchi tempi, quali tradizioni repubblicane da
svegliare? Vedevano l'oggi, e bastava per divinizzare i padroni del
mondo.

Allattata da queste mammelle, come doveva dimagrare la poesia! la
quale, come le altre cose romane, sviluppatasi non per ispirazione,
ma per l'imitazione de' Greci, somigliò ad un manto maestoso, che,
gettato dapprima sopra una bella statua greca, le dà aria grande;
casca floscio e sfiaccolato quando si ravvolge a spalle scarne. Sopita
sotto i primi cesari, sotto Nerone si ridesta col furore d'una moda;
dotti e indotti, giovani e vecchi, patrizj e parasiti, tutti fanno
versi; versi ai bagni, a tavola, in letto; i ricchi s'attorniano di
una turba a cui recitarli, e ne pagano gli applausi o col patrocinio o
coi pranzi o colle sportule; a Napoli, ad Alba, in Roma sono istituiti
concorsi annui o quinquennali, e basta che i versi vadano giusti della
misura per esser trovati, o almen decantati, migliori di quei d'Orazio
e di Virgilio. Tanto si era già lontani dal sentimento delle bellezze
ingenue, eminente in questi; e l'esagerazione delle idee traeva da
quella giusta misura, di cui essi erano immortali modelli.

Stazio napoletano, non passò anno dai tredici ai diciannove, che, nelle
gare letterarie della sua patria, non fosse coronato; poi riportò
palme nemee e pitie ed istmiche[308]; laonde i grandi lo chiamarono
dalla scuola a popolare i loro pranzi, ch'e' ricambiava con versi per
tutte le occasioni. Quando vide in Roma venire alle mani i fautori di
Vitellio con quei di Vespasiano, e andare in fiamme il Campidoglio,
esultò d'occasione sì opportuna a sfoggiare poesia, e da' suoi
contemporanei fu ammirato che la rapidità della composizione di quel
suo poema eguagliasse la rapidità delle fiamme.

Il genio paterno si trasfuse nel figlio Publio Papinio (61-96). V'è
nozze? v'è bruno? morì ad uno il delizioso o la moglie[309], all'altro
il cane o il papagallo?[310] Stazio ha in pronto l'ispirazione. Un
ricco va superbo di bellissima villa; un altro, d'un albero prediletto;
l'etrusco Claudio, di magnifici bagni: Stazio descrive appuntino quella
villa, que' frutti, que' bagni: e secolari genealogie di doviziosi,
che pur jeri ascero dall'ergastolo ai palazzi. Non v'è accidente così
frivolo, per cui non scendano Dei e Dee: Citerea verrà a dar benigno
il mare ai capelli d'un eunuco che tragittano in Asia; Fauni e Najadi
terranno in cura il platano di Atedio Miliore. Corrono i Saturnali?
Stazio ridurrà in versi il catalogo di tutti i _bellarii_ che
ricambiaronsi gli amici, e di quelli che a gara profusero a Domiziano,
loro padre e dio. L'ammansato leone di Domiziano fu ucciso da una
tigre, condotta pur ora d'Africa; Abascanzio propose che il senato ne
portasse solenni condoglianze all'imperatore; e il poeta nostro ne
canta i meriti, e col popolo e col senato compiange il mondo d'aver
perduto la fiera imperiale[311]. Ecco per quali modi Stazio meritava
corone di pino nei giuochi, oro da Cesare, applausi alla recita. Non
usciva egli mai che nol seguisse un codazzo d'amici; ed era una festa
quand'esso mandava invitando a udire i suoi versi[312].

Crispino, il più caloroso de' suoi ammiratori, allestisce ogni cosa,
invita, infervora, s'abbaruffa coi tepidi, dà il segno degli applausi,
li rattizza se languiscano; mentre il poeta tira qualche fiacco suono
dalle poche corde che la tirannide lasciò sulla cetra romana.

E qual premio trarrà Stazio dal sì lodato verso? l'imperiale
aggradimento e l'alto onore di baciare il ginocchio del Giove
terrestre: ma se vorrà saziar la fame, converrà venda una sua tragedia
al comico Paride, poichè ballerini e commedianti hanno ricchezza e
potere, essi creano i cavalieri ed i poeti, e danno quel che non san
dare i ricchi. Gli applausi inebbriano Stazio a segno, che non s'appaga
delle _Selve_ de' suoi componimenti, ma vuoi compaginare un poema, anzi
due. E vi riesce, se basta l'avere in dodici libri da ottocento versi
l'uno, quanti ne conta la sua _Tebaide_, fatto l'introduzione all'altro
poema dell'_Achilleide_, ove intendeva forse presentarci compito quel
Pelìde che in Omero gli pareva solo schizzato; come chi pretendesse
sminuzzare in una serie di bassorilievi il concetto del Mosè di
Michelangelo.

A Stazio lodano qualche invenzione di stile; uscì anche talvolta
dai luoghi comuni, e seppe trovare caratteri veri, e delinearli con
semplicità e vigore: ma al sorreggerli sino al fine gli nuoce la
facilità, per la quale in due giorni compose l'epitalamio di Stella
in ducensettantotto esametri. Così svaporava la potenza d'un ingegno,
bello senza dubbio e colto, ma sacrificato ai vizj del suo tempo,
e alla sciagurata abitudine del contentarsi il pubblico di cose
improvvisate, l'autore degli applausi del pubblico.

Epigramma, come indica la voce stessa, dapprima fu l'iscrizione che
poneasi a qualche statua o monumento; e tali noi ne trovammo sulle
tombe degli Scipioni, di Ennio, di Nevio (V. l'Appendice I). Ma già fra
i Greci era passato ad esprimere pensieri lievi, arguzie, riflessioni
commoventi o esilaranti. Di tal modo ne fecero molti i Latini d'ogni
tempo; ma il più fecondo e per ogni occasione fu Marco Valerio Marziale
(40-103). Da Bilbili di Spagna venuto a Roma, si volse per pane a
Domiziano, e metà de' suoi millecinquecento Epigrammi, distribuiti in
quindici libri, sono fetide adulazioni al tonante Romano, e variate
guise di chiedergli denaro, vesti, pranzi, un rigagnolo d'acqua per
la sua villa[313]; riducendosi alla condizione di abjetto parasita,
e rinnegando sempre quella dignità morale, che sola decora i begli
ingegni. Giove è posposto a Domiziano perpetuamente, quasi l'iddio
fosse scaduto tanto di reputazione, da sembrare poco l'essergli
paragonato. Parla del ricostruito Campidoglio? lo dice così suntuoso,
che Giove stesso, mettendo all'incanto l'Olimpo ed ogni avere degli
Dei, non potrebbe raccorre il decimo del costo. Altrove esorta
Domiziano a salire tardi alla netterea bevanda; che se Giove vuol
bearsi di sua compagnia, venga al convito di lui[314].

Eppure queste e peggiori piacenterie non pare rimediassero alla povertà
di Marziale, il quale, colla veste rifinita e carico di debiti, va
accattando qualche lira e vende i regali per satollarsi di pane,
e fa versi su tutte sorta di vivande, affine d'essere invitato ad
assaggiarne alcuna[315]. E in tali angustie sostenere il peso della
fama! e trovarsi inoltre tribuno onorario, cavaliere onorario, e padre
onorario, cioè senza nè militare, nè esser censito, nè avere tre
figliuoli! Perseveri dunque a cantare, ad esaltar ogni minimo bene
che Domiziano faccia o che non faccia: poi quando questi è ucciso,
lo bestemmii, e preconizzi Nerva d'essersi conservato buono sotto un
principe ribaldo[316], e faccia Giove meravigliarsi delle disastrose
delizie e del grave lusso del re superbo[317].

Le lascivie, di cui bruttò i suoi versi[318], vengono dal medesimo
bisogno di adulare; d'adulare non un uomo solo, ma i pravi costumi
di tutta la città; e quand'anche egli volge in altrui l'arzillo
epigrammatico, il fa con libertinaggio plateale, quasi da altro
allora non potesse eccitarsi il riso, se non da vizj che dovevano far
arrossire.

Eppure costui sembra fosse capace, come Stazio, di gustare la vita
domestica, e di comprendere che la felicità non consiste nell'oro
e nello splendore. — Sai tu quali cose rendono beato? Una sostanza
acquistata senza fatica e per eredità, un campo non ingrato, il
focolare sempre acceso, nessuna lite, pochi patroni, quieta mente,
naturali forze, corpo sano, cauta semplicità, conformi amici, facile
convito, mensa senz'arte, notte non ubriaca ma scarca di pensieri,
talamo non disaggradevole eppure pudico, sonno che renda brevi le
notti, amar ciò che sei, non agognare di meglio, nè temere nè bramare
l'ultimo giorno»[319].

Questo medesimo epigramma, che pure è de' suoi migliori, quale povertà
accusa di poesia in quella enumerazione fredda senza immagini! Egli
stesso diceva de' suoi versi: — C'è del buon, del mediocre, e assai
del male»[320]; e gli encomj prodigatigli dai commentatori indicano
quanto si passioni per l'autore chi invecchiò nel trovargli meriti che
non aveva[321]. Nè in Marziale si riscontra mai sentimento profondo;
e a quel continuo frizzo o triviale o scipito o lambiccato nessun
reggerebbe, se non fosse la lingua che per lo più va corretta ed
espressiva, quanto poteasi là dove ogni spontanea ispirazione era
sbandita dalla paura di spiacere ad ombrosi regnanti, o a schizzinosi
protettori.

Pure la natura de' suoi lavori, istantanei di concetto come
d'esposizione, lo salva da uno dei difetti più usuali a' suoi coetanei,
il farsi pallidi riflessi degli scrittori del secolo d'Augusto. Nella
baldanza della sua immaginativa, inventa modi nuovi ed efficaci, e
innesta felicemente ciò che gli stranieri introducevano nello idioma
della dischiusa città; ed estendendosi alla vita reale e a tutto il
mondo romano, ci porge preziose indicazioni sui tempi, sui caratteri,
sulle usanze.

Di Spagna venne pure a Roma Marco Anneo Lucano (38-65), ed ebbe tutte
le fortune desiderabili; nipote di quei Seneca che davano il tono
alla società letteraria, allievo di que' grammatici e retori che
pervertivano la felice disposizione degl'ingegni. Seneca lo esercitava
a comporre ed amplificare senza pensieri nè sentimenti, fomentandone la
lussureggiante facilità, invece di sfrondarla, ed esponendolo a quelle
pubbliche recite, ove, recando noja, si buscavano applausi. Nerone
suo condiscepolo lo fece questore prima del tempo, legato, augure; ma
Lucano, avvezzo da fanciullo ai trionfi, osò competere coll'imperatore
e vincerlo: Nerone gli proibì di più leggere in assemblea, e il poeta
indispettito tenne mano alla congiura di Pisone. Scoperto e preso,
denunziò gli amici e la madre; ma invano colla viltà tentato conservare
la vita, la lasciò eroicamente (pag. 112).

Il trovarsi perseguitato dispensavalo dalle uffiziali codardie e
dalle accademiche fanciullaggini: chiuso nel suo gabinetto, poteva
comporre originale: e di fatto egli ritrae del suo tempo più di quegli
altri imitatori, ma non ne palesa che la depravazione del gusto, lo
sfiancamento delle credenze.

Chi attribuisce l'inferiorità della _Farsaglia_ all'avere scelto un
soggetto troppo vicino, che impediva al poeta le finzioni, essenza
della poesia, trae storte deduzioni da arbitrarj principj. Buon
soggetto d'epopea sono le guerre tra nazioni forestiere, mentre le
lotte di dinastie e le guerre civili e le interne commozioni di Stati
convengono meglio alla rappresentazione drammatica. In Lucano non ci
è presentato che il medesimo popolo, diviso in due; due protagonisti
troppo vicini e somiglianti; sicchè i fatti non han più una distinzione
abbastanza evidente. Inoltre vuolsi che l'epopea presenti una lotta
più d'entusiasmo che di calcolo, e che trovi la ragione e la sequela
nella storia universale, come quella dei Greci contro gli Asiatici,
de' Cristiani contro i Turchi, dei Portoghesi contro gl'Indiani: e
qui pure difetta Lucano, poichè la guerra fra Pompeo e Cesare, da lui
cantata, è lotta di due sistemi meramente accidentali; e vinca l'uno o
l'altro, l'umanità non v'avrà che vantaggi speculativi. Il che viepiù
risulta dacchè Lucano non seppe nei due capi personificar la parte che
ciascuno sosteneva, e darvi quell'individualità viva, per cui tutte le
azioni esterne son ricondotte al carattere interno, alla coscienza,
alla risoluzione. Egli poi frantese il soggetto fin a credere che
una battaglia avrebbe potuto ristabilire l'antica repubblica, cioè
rassodare la tirannide dei patrizj sopra la plebe. Qual eroe di
poema cotesto Pompeo, mediocre sempre, più ancora nell'ultima guerra,
ove misurava se stesso dalle adulazioni che lo avevano abbagliato?
Cesare, forse il più grande dei Romani, insignemente poetico per
l'infaticabile ardimento e per la popolarità, è da Lucano svisato; e
per rappresentarlo come un furibondo ambizioso, il quale nel dubbio
s'appiglia sempre alla via più atroce[322], ricorre a particolari
insulse quanto bugiarde: in Farsaglia fa che esamini ogni spada, per
giudicare il coraggio di ciascun guerriero dal sangue ond'è lorda;
spii chi con serenità o con mestizia trafigge; contempli i cadaveri
accumulati sul campo, e neghi ad essi i funebri onori; e imbandisca sur
un'altura per meglio godere lo spettacolo dell'umano macello. Ma può
far con questo che Cesare non appaja il protagonista dell'azione? e di
Pompeo vede altro il lettore se non le blandizie onde lo careggia il
poeta, col tono stesso onde piaggiava Nerone?

Lavorando di partito non di giudizio, impicciolisce le grandi contese
coll'arrestarsi attorno ad accidenti momentanei; come nelle gazzette,
tu vi ritrovi esaltate le piccole cose, non capite o vilipese le
maggiori, trattenuta l'attenzione su particolarità inconcludenti, e
sviata da ciò che è capitale; nè vi riconosci il cuor dell'uomo colle
mille sue rinvolture, colle infinite gradazioni fra cui ondeggia
la natura umana, ma inflessibili virtù o mostruose tirannie. Quasi
non basti l'orrore d'una guerra _più che civile_, devono vedersi le
serpi andare in frotta pei libici deserti; le piante d'una selva non
cadranno sebben recise, tanto son fitte; nelle battaglie, stranamente
micidiali, a ruscelli scorrerà il sangue, i morti resteranno in piedi
tra le file serrate, piaghe apriransi come l'antro della Pitia, il
grido dei combattenti tonerà più che il Mongibello. Al modo dei retori,
moltiplica descrizioni e digressioni di tenuissimo appiglio: e per
verità in queste soltanto si mostra poeta; ma scarso di giudizio e
di gusto, al difetto di varietà vorrebbe supplire coll'erudizione,
all'entusiasmo e alla dignità colla ostentazione di massime stoiche,
al sentimento della natura morale colle particolarità della materiale.
Spesso ancora il pensiero è appena abbozzato o incomprensibile:
uniforme il color negro, talora esercitato sopra particolarità
schifose, sopra analisi di cadaveri in decomposizione, sopra una maga
che stacca un impiccato dalla forca, snodandone la soga coi denti, e
ne fruga gl'intestini, e resta sospesa pei denti a un nervo che non
si vuol rompere[323]. Il verso, talora magnifico, più spesso va duro
e contorto: soverchie le particolarità, dalle quali se egli mai si
solleva al grande, dimentica l'arte di arrestarsi e travalica. Chi
di noi non si sentì infervorato a quel suo ardore di libertà, alla
franchezza stizzosa delle parole? ma se ti addentri, non vi trovi nulla
meglio di quel che tutti i Romani colti d'allora provavano, aborrire le
guerre civili per ignavia o spossatezza; ribramare l'antica repubblica,
non per intelligenza delle istituzioni sue, ma perchè come esercizj di
scuola i pedanti proponevano gl'innocui elogi di Bruto e di Catone ai
futuri ministri di Nerone e Domiziano.

Era frutto naturale delle costoro discipline un poema dove o si
vituperassero gli Dei imputandoli delle sventure della patria, o
s'imprecasse alle discordie cittadine, osservate nel loro aspetto più
superficiale, l'uccidersi cioè tra padri e fratelli; salvo a lodare
le intempestive virtù di Catone che a quelle tanto contribuì, e
preporre il giudizio di lui alla decisione degli Dei[324]. E agli Dei,
cui Roma più non credeva, non era possibile attribuire un'azione in
quell'epopea, laonde il poeta vi surrogò un soprannaturale del genere
più infelice: ed ora la patria, in sembianza di vecchia, tenta rimover
Cesare dal Rubicone; ora i maghi resuscitano cadaveri per cavarne
oracoli; ora indovinamenti di Sibille, o presagi naturali; e mentre
s'impugna la provvidenza[325], adorare la fatalità, che esclude e la
rassegnazione e la speranza; incensar la Fortuna, diva arbitra degli
umani avvicendamenti, al fondo de' quali non v'è che la desolazione
e il nulla. È conseguente se preconizza la morte come un bene che
dovrebbe concedersi solo ai virtuosi[326], un bene perchè assopisce
la parte intelligente dell'uomo, e lo conduce non nel beato Eliso ma
nell'oblivioso Lete[327].

Ci dicono che bisogna scusarne i difetti perchè morte gli tolse di dar
l'ultima mano. Ma la lima avrebbe potuto mutare il generale concetto?
dargli i dolci lampi d'un'immaginazione vera, d'un affetto sincero? e
pari sventura non era accaduta a Virgilio? Però la lingua epica che
Virgilio aveagli trasmessa di prima mano, fu da Lucano pervertita,
come la prosastica da Seneca; ciò che il primo avea detto con limpida
purità, egli contorce ed esagera; affoga tutto in una pomposa miseria
di voci, d'antitesi e di ampolle, dove sempre la frase è a scapito del
pensiero, l'idea è sagrificata alla immagine, il buon senso all'armonia
del verso.

Eppure di fantasia e di facoltà poetica era meglio dotato che Virgilio:
ma questo ebbe l'accorgimento di gettarsi su tradizioni non discusse e
care ugualmente a tutta la nazione; Lucano si fermò ad un fatto, su cui
discordavano opinioni e interessi. Virgilio adulò, ma più Roma ancora
che i suoi padroni; Lucano, rassegnato ad obbedire a Nerone, esaltava
uno che non era l'uom del popolo, e che al più destava simpatie
patrizie. Virgilio fece egli stesso il suo poema; il poema di Lucano
fu fatto da quelle conventicole d'amici e compagnoni, che guastano
colle censure e colla lode. Virgilio covò nel segreto l'opera propria,
e tanto ne diffidava, che morendo ordinò di darla alle fiamme: Lucano,
ebbro degli applausi riscossi ad ogni recita, assicurava se stesso
che i versi suoi, come quelli d'Omero e di Nerone, sarebbero letti in
perpetuo[328], e morendo li declamava, quasi per confermare a se stesso
che, chi gli toglieva la vita, non gliene torrebbe la gloria. Virgilio
rimarrà il poeta delle anime sensitive: Lucano sarà il precursore
di quella poesia satanica, che vantasi invenzione del secol nostro,
nudrita di sgomenti e di disperazione, di tutto ciò che spaventa
o desola, e che compiacesi di scandagliar le piaghe dell'anima,
dell'intelligenza, della società per istillarvi il veleno della beffa e
della disperazione.

E noi tanto rigore gli usiamo perchè quei difetti sono pure dell'età
nostra, e perdettero e perderanno altri eletti ingegni.

Nè più che qualche lode di stile concederemo ad altri epici, i quali,
sprovvisti del genio che sa e inventare e ordinare, sceglievano i
soggetti non per impulso di sentimento, ma per reminiscenza e per
erudizione, e sostenevansi nella mediocrità coi soliti ripieghi
dell'entusiasmo a freddo, e colle descrizioni, abilità di chi non
ha genio. Tutto ciò che è mestieri ad un poema, tu trovi negli
_Argonauti_ (111) di Cajo Valerio Flacco padovano, nulla di ciò che
vuolsi ad un poema bello; non il carattere dei tempi, non l'interesse
drammatico, non la rivelazione del grande scopo di quell'impresa,
degna al certo d'occupare una società forbita e positiva. Non lascia
sfuggire occasione di digressioni; accumula particolarità di viaggi,
d'astronomia; con erudizione mitologica portentosa sa dire appuntino
qual dio o dea presieda alle sorti di ciascuna città od uomo, quanti
leoni figurino nella storia d'Ercole, in qual grado di parentela stia
ogni eroe coi numi, e la precisa cronaca degli adulterj di questi; e
l'espone senza nè l'ingenuità de' primi tempi che fa creder tutto, nè
la critica degli avanzati che investiga il senso recondito. Anche nello
stile barcolla fra le reminiscenze de' libri e l'abbandono famigliare,
che però non lo eleva alla naturalezza. Messosi sulle orme del greco
Apollonio da Rodi, corre meglio franco ed elegante quando se ne
stacca[329].

Più accortamente Cajo Silio Italico (25-95), di Roma o d'Italica
in Ispagna, scelse a soggetto la _Guerra punica_; ma sfornito
d'immaginazione, farcisce in versi ciò che da Polibio fu narrato sì
bene, e da Livio in una prosa senza paragone più ricca di poesia che
non l'epopea di Silio. Il quale, ligio alla scuola, v'aggiunse di suo
un soprannaturale affatto sconveniente, e finzioni inverosimili che
per nulla rompono il gelo perpetuo, mal compensato dall'accuratezza
di alcune descrizioni. Conosceva a fondo i migliori; di Cicerone e di
Virgilio era tanto appassionato, che comprò due ville appartenute ad
essi, ed ogni anno solennizzava il natalizio del cantore di Enea: ma il
suo era culto di divinità morte, e sacrificava la propria intelligenza
per pigiarla in emistichj tolti ai classici, faceva nascere i pensieri
a misura delle parole, e a forza d'erudizione e di memoria riempì
la languida vanità di quell'opera[330], la quale non ha tampoco i
difetti che abbagliano ne' suoi contemporanei, e che da alcuni sono
scambiati per bellezze. Plinio Cecilio, amico e lodator suo, confessa
che _scribebat carmina majore cura quam ingenio_, e che acquistò
grazia appo Nerone facendogli da spia, ma se ne redense con una vita
virtuosa, e tornò in buona fama. Console tre volte, proconsole in Asia
sotto Vespasiano, colle mani monde di latrocinj ritirossi in Campania,
comprando libri, statue, ritratti, curiosità di cui era avidissimo:
ma preso da malattia incurabile, si lasciò morire, come allora parea
virtù.

Terenziano Mauro fece un poema sulle lettere dell'alfabeto, le sillabe,
i piedi e i metri, con tutto l'ingegno e l'eloquenza di cui sì ritrosa
materia poteva essere suscettibile; e giovò a farci conoscere la
prosodia latina, giacchè al precetto accoppiando l'esempio, usa man
mano i versi di cui parla. Lucilio giuniore, amico di Seneca, cantò
l'_Eruzione dell'Etna_. Conosciamo sol di nome i lirici Cesio Basso,
Aulo Settimio Severo, Vestrizio Spurina; e forse sono di quell'età
i distici morali (_Disticha de moribus ad filium_) di Dionisio
Catone, che nel medioevo ebbero molto corso. Le egloghe danno a
Giulio Calpurnio Siculo il secondo posto fra i bucolici latini, ma
ad immensa distanza da Virgilio; non come questo introduce pastori
ideali, sibbene veri mietitori, boscajuoli, ortolani semplici e rozzi,
cui imita fin nei modi di dire. Ha interesse storico la settima, ove
un pastore, tornato da Roma, narra i combattimenti che vi ha veduti
nell'anfiteatro.

Ma in tanti poeti cerchereste invano uno di quei passi sublimi o
patetici, che accelerano il battito del cuore, o dilatano il volo
dell'immaginazione; qualche giusta e viva pittura di caratteri e di
situazioni reali della vita e del cuore. In abbondanza, in dovizia
di sentimenti vincono talvolta quelli del secol d'oro: ma esalano
in sentenze ed immagini, anzichè tener dietro al progresso d'una
passione; pongono l'arte nel voltare e rivoltare l'idea sotto tutti
gli aspetti ond'è capace, vincere le difficoltà descrivendo ciò che
non n'ha bisogno; e dove la parola propria o qualche calzante epiteto
basterebbero, sfoggiano scienza ed anatomia, che guastano l'effetto
dell'immaginazione, e tolgono il bello col mostrare d'andarne in
caccia.

Prediletto spettacolo erano ancora il circo e la ginnastica, portati
all'eccesso; Caligola, Caracalla, perfino Adriano scesero nell'arena;
Comodo assaliva colla spada gladiatori armati di legno; si vollero
atleti che si colpissero alla cieca; Domiziano fece lottare nani e
donne; sotto Gordiano III, duemila gladiatori ricevevano stipendio
dal pubblico; nel circo offrironsi battaglie d'interi eserciti, ed
una navale da Elagabalo in canali ripieni di vino. Di mezzo a questi
sanguinosi clamori poteva prosperare l'arte drammatica? Meglio fu
favorita la pantomima, ove gl'imperatori non aveano a temere i fulmini
della parola.

Alcune tragedie, gonfie di declamazioni e vuote di quel che appunto
costituisce il dramma, cioè l'azione, la vita animata, corrono sotto
il nome di Seneca: ma sono opera d'uno o più Stoici, d'immaginazione
senza giudizio, d'ingegno senza gusto, i quali fan parlare e morire la
vergine Polissena e il fanciullo Astianatte come un Catone in Utica;
eppure vi spruzzolano le empietà di moda, proclamando che tutto finisce
colla morte[331]. Passione falsa, contraddittoria, sempre esagerata e
nel bene e nel male; preferita la dipintura del furore, i caratteri
atroci, i colori strillanti alla tranquilla armonia de' quadri e al
graduale procedere delle passioni; fin dal cominciamento lo spettatore
deve restare attonito, atterrito, nè mai trovar riposo. Le donne
medesime hanno musculatura maschile, forsennati furori, amor materiale,
tanto che Fedra invidia Pasifae, esclamando, — Almeno ella era amata!»

Destinate alle solite declamazioni non al teatro, in quelle tragedie
non sono nè concatenate le scene, nè variati i caratteri, nè
giustificate le situazioni; bensì tragicamente coloriti i racconti, e
sparsi di modi e pensieri arditi e franche sentenze, che quantunque
ivi si trovino per lo più fuor di posto, parvero degne d'imitazione
a Corneille, a Racine, ad Alfieri, a Weisse. Forse da esse venne alle
moderne tragedie quell'aria di declamazione che tanto le slontana dai
greci modelli, e quelle risposte concise ed epigrammatiche, le quali
dappoi sembrarono bellezze[332].

Non l'espressione de' sentimenti dell'anima, come nella lirica; non
la magnifica esposizione, come nell'epopea; ma un'idea generale del
bene, applicata argutamente a particolarità moderne, costituisce la
satira. Era perciò eminentemente propria de' Romani, che dietro di sè
aveano un'età, popolarmente dipinta come sobria e pudica; sicchè viepiù
risaltava il disaccordo fra la morale astratta e il mondo reale.

Ma la pericolosa abilità della satira rado giova o non mai, produce
nemici, e trae spesso a saettare ciò che maggiormente rispettar
si dovrebbe, la virtù, le profonde convinzioni, la disinteressata
attività. Solo un cuore benevolo e la evidente intenzione del
miglioramento possono acquistarle lode: or questo trovasi nei satirici
latini? Essi meritano speciale attenzione, perchè un tal genere più
d'ogni altro risente l'influsso del tempo, da cui trae la materia,
i colori, la vita. All'età di Mario, quando gran parte ancora
conservavasi dell'antica rozzezza, quantunque la digrossassero le
mode greche, e al vizio, irruente coll'allettamento della novità, si
opponeva la sdegnosa repressione delle antiche virtù, comparve Lucilio,
che con modi plebei e festività plateale e sali caustici più che
lepidi, attaccò men tosto i difetti che le persone di qualunque grado
o stirpe. Al tempo d'Orazio, la civiltà greca era prevalsa col corredo
de' vizj eleganti, e colla conseguenza delle guerre civili, delle
proscrizioni, del mutamento di repubblica in impero. Dove era riuscita
inefficace la disciplina dei censori, poteva il satirico lusingarsi di
porre un freno alle voluttà, al lusso, all'ingordigia? Orazio, il cui
fino gusto comprendeva che la cosa da evitare di più è l'inutilità,
s'accontentò di porgere verità d'esperienza, precetti parziali di
qualità casalinghe, lezioni minute che s'imparano solo coi capelli
bianchi: ma ingegnoso a scorgere i difetti, arguto a dipingerli, non si
propone di farli aborrire; vuol trovare di che ridere, anzichè condurre
altrui all'austerità; imitando Augusto nel lodare le virtù vecchie
ed abbracciare i vizj nuovi, alla corruzione fa omaggio col mostrare
d'abbandonarvisi egli stesso a capofitto. In lui trapela il sereno
d'una società che si rallieta dopo lunghi patimenti, si riposa da fiere
convulsioni, e promettesi lunga durata; e Orazio, non mordendo, ma
solleticando, mira piuttosto a smascherare quelli che si danno aria
di virtuosi, e avvezzare ad un viver tranquillo e gajo, a sprezzar
le ricchezze, la potenza, tutti que' desiderj che turbano la calma;
accontentarsi del proprio stato, e cogliere fiori in sulla via.

I tempi erano peggiorati col sistema imperiale, e alla corruttela
traboccante non poteasi opporre che il ferreo argine dello stoicismo,
irreconciliabile col vizio, armato di inflessibili sentenze. Decimo
Giunio Giovenale (42-122?), ispirato dal dispetto, non ride, ma si
corruccia; non saltella da cosa a cosa, ma fila la sua tesi a modo
dei retori, severo per proposito fin nella celia. Se però t'addentri,
sotto la generosa indignazione scopri un declamatore, onesto se vuoi,
ma che calcola sempre, non sente mai; protesta vigorosamente contro
la corruzione, ma quando sotto Trajano la franchezza non recava
pericolo; e sentenzia di pazzo chi per compiere una grande azione
mette a repentaglio la sicurezza proveniente dall'oscurità o dalla
scempiaggine: e quel suo finire una violenta declamazione con una
comparazione arguta o con una lambiccata[333], ti lascia in dubbio s'e'
parli da senno o da beffa.

Nelle sedici sue _Satire_ intende abbracciare tutto quel che gli uomini
pensano, fanno, patiscono[334]. Nella prima rimpiange l'antica libertà
della parola; ond'egli, per cansar pericolo, l'accoccherà solo a morti.
La seconda rimorde i filosofi, severi all'esterno, corrotti dentro;
e i grandi, modelli di depravazione. Delle più vive è la terza, ove
ritrae gl'impacci di Roma e gli scomodi d'una metropoli. Una mette in
canzonella i senatori, gravemente convocati da Domiziano per decidere
sul migliore condimento d'un pesce: una le donne vane, imperiose,
dissimulate, libertine, avide, superstiziose: una chi ripone la nobiltà
nei natali, non nel merito. Or invitando un amico a cena, gli porge
la distinta dei cibi, per elogio della frugalità e rimprovero del
lusso; or festeggia un amico scampato dal naufragio, e perchè non si
creda interessata la gioja, assicura che quello ha figli, donde si fa
passaggio a ritrarre gli artifizj con cui si uccellava alle eredità de'
celibi[335].

Egli ci mostra Roma piena di Greci, che, capitati con un carico
di fichi e prugne, si posero ad ogni mestiero; grammatici, retori,
geometri, pittori, medici, auguri, saltambanchi, maghi, adulatori
che lodano i talenti d'uno scemo, pareggiano ad Ercole uno sciancato,
encomiano vilmente e son creduti, e si vendicano della vinta patria col
corrompere la vincitrice. Al cliente, coricato al desco col patrono,
tocca la continua umiliazione di vedere a questo il pan buffetto e il
vin pretto o l'acqua limpida; a sè una focaccia di farina muffa, acqua
fangosa, e il profumo dei frutti e delle delicature, e le celie del
signore, per corteggiare il quale egli innanzi l'alba lasciò moglie
e figli, e venne a batter la borra sul freddo lastrico del palazzo.
Il ricco ammira il poeta, gli presta la sala per leggere i versi, e i
liberti per applaudirlo, ma poi lo rimanda a dente secco: lo storico
riceve poco più d'uno scrivano: al grammatico è decimato il salario
dall'ajo o dall'economo. È di moda l'avvocato che si fece fare il busto
e la statua, che ha otto portinaj e non so quanti anelli, e la lettiga
dietro e un codazzo d'amici: mentre l'altro, il quale non è che onesto,
riceve in premio delle sue fatiche un prosciutto secco, cattivi pesci,
e vino colla punta; o se tocca una moneta, dee dividerla coi mediatori
che gli procurarono l'avventore.

Tutto ciò espone Giovenale in tono di predica e febbricitando
d'indignazione, con amara beffa e stizzoso flagello. Ingegno nello
scegliere le circostanze, robustezza nel colorire non gli mancano;
nelle composizioni d'età matura va più pacato, e lascia prevalere
il riso allo sdegno; adopera linguaggio dotto, copioso, non mai
vulgare. Chi però volesse da lui desumere la vita privata de' Romani,
per riscontro alla pubblica dipinta da Tacito, resterebbe illuso da
quest'onesto mentitore, che vede da falso punto, ed espone iperbolico
e declamatorio. I tempi chiedeano ben altro che il riso d'un poeta:
nè riformarli poteva uno, che, mentre si querela della negletta
religione, la toglie in beffe[336]; che a turpissimi vizj oppone
aforismi cattedratici d'una virtù assoluta, generica, vaga[337]; che
per consolazione ai patimenti non sa suggerire se non il forte animo e
il disprezzo della morte. Messe a nudo le miserie del povero, proprie
di tutte le età o speciali di quella, qual voto fa egli? che tutti i
poveri antichi si fossero da sè esigliati da Roma[338]. Non ne potevano
dunque restar giovati i coetanei suoi: quanto ai posteri, leggendo
si consolano d'esser fatti tanto migliori, ma tornano ad Orazio,
de' cui mezzi caratteri trovano spesso il riscontro ne' mezzi uomini
contemporanei.

Dopo che Orazio diede un esempio inarrivabile di scrivere la satira con
modi piani e popolari (_sermones per humum repentes_), ai successivi
fu rituale uno stile rotto e manierato: ma Giovenale nel verso, nelle
frasi, nelle parole stesse sorpassa tutti per originale rigidezza,
acquisita con assiduo studio; non voce, non passaggio inutile, non
verbo che non cresca vigore, non imitazione che sacrifichi il pensiero
alla frase; nulla di semplice, di affabile; non lingua appresa dal
popolo, ma decretata dai grammatici e dai retori.

Nato ad Aquino, educato nelle solite scuole di declamatori, fin a
quarant'anni attese ai tribunali: avendo poi recitato ad alcuni amici
una satira contro di Domiziano e di un poeta a lui ligio, gli applausi
che ne riscosse lo drizzarono a questo genere. Adriano, credendosi
preso di mira in alcuni frizzi di lui, lo mandò in Egitto già
ottagenario, dandogli per celia il comando d'una coorte. Ivi morì di
noja e di rammarico.

Aulo Persio Flacco (34-62), orfano di famiglia equestre volterrana, a
dodici anni venne a Roma sotto i soliti sciupateste; ma a ventott'anni
morì. Anneo Cornuto suo maestro ne pubblicò le satire, sopprimendo ciò
che credette cattivo o pericoloso; ed eccitarono viva ammirazione,
forse per quel sentimento che tante speranze fa sorridere dalla
tomba d'un giovane. Ma l'esperienza e le correzioni avrebbero potuto
togliervi l'affettata pienezza, o dargli l'immaginazione, senza cui
poesia non è?

Sarebber esse a dire un sermone solo, trinciato poi dal suo
raffazzonatore in sei prediche sopra soggetti morali, oltre una
prefazioncella. Nella prima, egli burla il ticchio di far versi
e il mal gusto in giudicare: nella seconda, dardeggia la frivola
incoerenza de' voti onde i mortali sollecitano gli Dei: nella terza,
i molli giovani aborrenti da ogni seria occupazione: la quarta morde
la presunzione onde tutti credonsi capaci di tutto e principalmente
di governar gli Stati: nella quinta esamina qual uomo sia veramente
libero, e conchiude il savio: l'ultima punge gli avari, che negandosi
il necessario, accumulano per eredi scialacquatori.

Come Orazio, Giovenale avea dedotto le sue satire dall'osservazione
propria, dalla conoscenza della vita: Persio invece soltanto dalle
scuole. Guasto nel midollo dallo stoicismo di queste, sprezza non
solo il superfluo, ma il necessario[339]; fa colpa del più innocente
atto, se la ragione non vi assenta[340]; all'uomo intima non esser lui
libero, perchè ha passioni; condanna i raffinamenti della civiltà, il
vestir bene e l'usare profumi.

Ah! ben altri vizj deturpavano il suo tempo; infamia di delatori,
avvilimento del senato, insolenza di liberti, stravizzo e bassezza
di tutti. Ma Persio non sapeva nulla di ciò, perchè nulla gliene
avevano detto nella scuola; solo udito in generale che il secolo era
corrotto, si prefigge di manifestare il suo ribrezzo con aerea e filata
discussione da gabinetto, sovra argomenti prestabiliti, non su quelli
che, cadendogli sott'occhio, lo stizzissero od ispirassero. Con quella
superba generosità vede e parla esagerato; insiste sulla medesima tesi,
comunque simuli arditi passaggi e dure inversioni; cerca minuzie e
sottilità e figure retoriche e tropi, anche quando sembra passionato.

Orazio, uom di mondo, urtante e riurtato dagli uomini, è sempre
l'autore del momento, nè diresti avesse già pensato jeri a quel che
getta sulla carta allorchè il vizioso o il malaccorto gli dà tra'
piedi; ti porta sul luogo; al vizio attribuisce persona e nome, sicchè
tu lo conosci, e le particolarità sfuggono meno alla mutata posterità.
Persio invece sta sulle generali, con pitture vaghe e costumi e scene e
personaggi indeterminati; argomenta scolasticamente ove gli altri due
discorrono saltuariamente; e le poche volte che cerca il drammatico
andamento di Flacco, diventa oscuro ancor più dell'usato; talchè
l'attribuire le botte e le risposte a quest'interlocutore piuttosto che
a quello, è laborioso indovinamento de' commentatori. Ai quali pure diè
fatica quel suo stile ambizioso, ove mancando sempre d'immagini, e non
sapendo vestire i concetti filosofici reconditi, la sterilità delle
idee dissimula sotto una lingua bizzarra, congegnata di parole piene
pinze. Il suo verso è sonoro, ma spesso ambiguo: e se Lucilio imitò i
Greci, e Orazio imitò Lucilio, Persio imita Orazio, catena nella quale
egli rimane troppo dissotto; perocchè in Orazio troviam sempre begli
argomenti, trattati con arte squisita, varietà somma, digressioni
felici, e l'arte di coprir l'arte. Quindi egli è sempre venusto,
Giovenale austero, Persio arcigno; egli pien di lepidezze, Giovenale
di sarcasmo, Persio d'ira; l'uno persuade, l'altro scarifica, il terzo
filosofeggia: sicchè amiamo il primo, temiamo il secondo, il terzo
compassioniamo.

Oltre queste satire, e quella che Sulpicia moglie di Galeno scrisse _de
corrupto reipublicæ statu_ quando Domiziano cacciò d'Italia i filosofi,
ne correano in Roma altre democratiche, libera espressione di sdegno le
più volte, d'applauso talora, progenitrici delle odierne pasquinate,
e i cui autori restavano incogniti, ma più nazionali che le poesie
letterarie[341].

Altri colori a dipinger la vita domestica de' Romani somministra
Petronio Arbitro marsigliese nel _Satyricon_ (66), misto di prosa e
di versi (pag. 137). Suppongono costui fosse ministro delle voluttà
di Nerone, e le descrivesse; ma pare che, più d'un secolo dopo,
qualche curioso ne trascrivesse i passi che più gli piacevano e che
soli a noi arrivarono, sconnessi, oscuri, aggrovigliati, donde non
trapela altra intenzione se non di abburattare libertinamente il
libertinaggio del suo tempo, corrompendo con aria di riprovar la
corruzione, ed ubriacandosi nell'orgia comune. Trimalcione, uom di
dovizie splendidissime, tronfio quanto baggeo, in cui altri crede
adombrato Claudio, altri il successore di esso, noi più volentieri
l'ideale dei tanti ricchi lussurianti nella Roma d'allora, v'è
circondato da parasiti, da filosofi, da poeti, dall'infame voluttà
dei grandi. Eumolpo, tolto a mostrare ai convitati qual deva essere
il poeta vero, insegna non bastare a ciò il tessere belle parole in
versi armoniosi, ma volersi generosi spiriti, evitare ogni bassezza
d'espressione, dar rilievo alle sentenze; e propone ad esempio un suo
componimento sopra le cause della guerra civile, forse per appuntare
Lucano che non le accenna, e con gravi parole tassa il deterioramento
dei costumi. — Già il Romano teneva soggiogato tutto il mondo, nè però
era satollo; ricercando scorrevansi i seni più reconditi; e se alcuna
terra vi fosse che mandasse oro, aveasi per nemica. Non piacevano
i gaudj noti al vulgo, o la voluttà comune colla plebe; traevansi
dall'Assiria l'ostro, dalla Numidia i marmi, le sete dai Seri, dagli
Arabi i profumi; nelle selve dei Mauri cercavansi le fiere; correvasi
fin nell'Ammone, estremo dell'Africa, per averne l'avorio; e le tigri
caricavano la nave per bevere umano sangue fra gli applausi del popolo
a modo dei Persiani. Deh vergogna! si recide agli adolescenti la
pubertà, acciocchè sia prolungata la fuga de' celeri anni; ma piaciono
le bagasce, e il rotto portamento del corpo snervato, e i cascanti
capelli, e i nuovi nomi delle vesti disdicevoli ad uomo. Una mensa
di cedro svelto dalle terre africane, e turme di schiave, e splendido
ostro si pone; e vuolsi ornare l'oro istesso. Ingegnosa è la gola; lo
scaro si reca vivo sulla mensa, immerso nel mar Siculo, e conchiglie
svelte dai lidi Lucrini: già l'onda del Fasi è deserta d'augelli, e
nel muto lido le sole arie mormorano fra i deserti rami. Nè minore è
la rabbia in campo, ed i compri Quiriti volgono a guadagno i suffragi;
venale è il popolo, venale la curia dei padri, pagasi il favore; anche
ai vecchi cadde la libera virtù, e il potere e la maestà giaciono
corrotti dalle ricchezze: talchè Roma ruinata è merce di se stessa, e
preda senza riscatto». Allora trae fuori un macchinamento della fortuna
e dell'inferno che predicono i mali avvenire, e della discordia che
abbaruffa Cesare e Pompeo.

Il _Satyricon_ è il primo romanzo latino che conosciamo: maggior fama
levò quello di Lucio Apulejo, la cui vita stessa è un romanzo. Nato
bene a Medaura colonia romana in Africa, al tempo degli Antonini,
studiò a Cartagine, in Grecia, a Roma[342]; viaggiò, aggregandosi a
varie fraternite religiose[343], e recitando dappertutto arringhe,
secondo l'andazzo d'allora. Alcune di queste (_Floride_) ci arrivarono,
copiose d'erudizione quanto tapine di critica e credule all'eccesso;
eppure gran nome gli acquistarono, e perfino statue.

A forza di spendere, non avanzò di che farsi consacrare al servizio
d'Osiride. Riguadagnò col piatir cause, e meglio collo sposare
Pedentilla, vedova di quarant'anni e di quattro milioni di sesterzj. I
parenti di questa gli posero accusa d'averla innamorata con sortilegi;
ma citato davanti al proconsole d'Africa, si scolpò con un'apologia,
che ci rimane bizzarro testimonio dei pregiudizj correnti. Magie e
siffatte superstizioni più tardi egli derise, ma senza deporle; e
sebbene nella _Metamorfosi_ o l'_Asino d'oro_ ne faccia la satira,
credeva che i demonj potessero immediatamente sull'uomo e sulla natura.

Il concetto dell'_Asino d'oro_ è derivato da Luciano, ch'esso pure lo
dedusse da Lucio di Patrasso: ma il nuovo episodio d'Amore e Psiche
è degno di stare fra quanto ci lasciò di più squisito l'antichità.
Appunto perchè oscuro, quel romanzo fu interpretato in mille guise: i
Pagani fecero d'Apulejo un semidio miracoloso da opporre a Cristo: nel
medioevo s'andò a cercarvi il segreto della pietra filosofale: indi i
metafisici vi trovarono indicato l'avvilimento dell'anima pel peccato,
finchè la Grazia non la sollevi: molti vi attribuiscono l'intenzione
di rialzare i misteri, caduti in discredito; eppure ne rivela le
abominazioni, quantunque per verità l'XI libro esponga nella loro
bellezza quelli d'Iside e Osiride, dandocene informazioni preziose.

Ricco di cognizioni storiche, non raggiunge a gran pezza Luciano per
fecondità di genio o acume nel cogliere il senso de' sistemi filosofici
e trovarne il lato ridicolo; tanto meno poi nell'accuratezza dello
stile: anzi in uno scrivere prolisso, oscuro, pretensivo, vacillante
tra parole arcaiche e nuove, lascia sentire quanto fosse imbarbarita la
romana lingua.

Le opere non solo più importanti ma anche migliori di quest'età sono
le storiche. Cornelio Tacito (54-134?), nato a Terni nell'Umbria di
famiglia plebea, entrò nella milizia, poi si fece avvocato, e scrisse
molte arringhe; sostenne la questura e la pretura sotto Domiziano, vide
la Germania e la Bretagna, fu anche console, e menò lunga vita, più
tranquilla che non parrebbe dalla severa scontentezza de' suoi scritti.

In mezzo a quei vivi contrapposti di buoni e cattivi signori,
all'agonia del bene e del male, egli contemplava in silenzio una
lotta senza vigore; e prima d'esporsi al pubblico sguardo, aspettò
la maturanza degli anni. Passava i quaranta allorchè per gratitudine
scrisse la vita d'Agricola suo suocero, sollevando la biografia alla
dignità di storia, coll'introdurvi gli eventi d'un popolo nuovo, cioè
il britannico, del quale sa cogliere le particolarità più significanti.

Vi mandò dietro la descrizione della Germania, quasi volesse mettere
in vista quelle genti rozze ma integre, che sovrastavano minacciose
alla depravata civiltà dell'impero. Poche pagine, eppure è uno
dei lavori più importanti dell'antichità, ed incomparabile modello
dell'arte di dir molto in breve. Le cose vide egli stesso o le udì da
suo padre; e vuole opporre alla viziosa decrepitezza del suo secolo
la vigorosa integrità di genti nuove. Ignaro della lingua teutonica,
dovette frantendere troppe cose; riscontrò gli Dei di Grecia e di
Roma ne' germanici; le imperfette cognizioni che ne acquistò, tradusse
cogl'inesatti equivalenti d'una civiltà affatto diversa. La studiata
brevità poi non basta a gran pezza a significare ciò che lo storico
concepisce, o converte la parola ad uso diverso dal comune. Ciò scema,
non toglie a Tacito il merito di offrir le prime pagine della storia
moderna.

Sperimentate le sue forze, diede mano alla storia di Roma in trenta
libri da Galba a Nerva, il regno del quale e di Trajano, come tema più
ricco e più sicuro, serbava per istudio di sua vecchiezza. Ma poi trovò
più conforme al suo genio di descrivere in forma di annali le atrocità
o le follie dei primi quattro successori d'Augusto (pag. 119). Gran
parte del lavoro andò perduta; nè delle _Storie_ ci restano che quattro
libri e il principio del quinto, in cui è abbracciato poco più che
l'anno 69: degli _Annali_ ne avanzano dodici con molte lacune; perito
quanto si riferiva al restante regno di Tiberio, a quel di Caligola e
gran parte di Nerone; poi ci vien meno affatto quando gli avrebbe dato
tanta importanza il mostrare il cambiamento di dinastia.

Nessuno seppe meglio rendere drammatico il racconto, ove
minutissimamente espone la vita politica, e le relazioni de' principi
col popolo romano. Storico filosofo, gran conoscitore del cuore,
e dipintore inarrivabile de' caratteri, la grave moralità lo rende
indignato col suo tempo, che egli anatomizza senza remissione come un
cadavere; e se tra l'indagine gli casca sotto al coltello una parte
ancor vitale, la manda al taglio medesimo; e il supplizio dei Cristiani
descrive come quello di tant'altre vittime, spettacolo al tiranno o al
popolo. Di religione non si briga, pur riferendo tante superstizioni;
ma ammette una potenza superna, moderatrice delle cose e delle azioni
umane, non senza dubbj però[344]: come tutti i pensatori, predilige
la forma repubblicana d'una volta, ma riconosce la necessità del
principato, poco sperando fin ne' governi temperati[345]: protestando
contro il suo secolo anche collo scrivere, sbandisce ogni modo
naturale e semplice di concepire e di esporre, e si forma uno stile
artifiziato, tutto suo, ora di vivace rapidità, ora di calma maestosa,
semplice nella grandezza, qualche volta sublime, originale sempre, da
non permettersi una parola di più, nè un fior d'espressione, nè lusso
d'immagini, nè cadenza e periodo, come chi non ambisce di piacere,
ma vuol che si pensi, che ogni frase istruisca, ogni parola porti un
senso, e a tal fine sia precisa per l'oggetto e vaga per l'estensione.
Senza modello, rimase senza imitatori. Gli toccò la fortuna di godere
della propria gloria, sebbene forse la dovesse piuttosto ai versi e
alle orazioni, che andarono perdute, al par di una sua raccolta di
facezie. Tra i posteri fu caro a chiunque legge meditando, a chiunque
in pubbliche calamità ha bisogno di fremere e rinvigorir la coscienza
contro i terrori e la seduzione.

Cajo Svetonio Tranquillo (70-121?), oltre le vite dei Dodici Cesari, di
cui già parlammo (pag. 118), scrisse quelle de' retori, de' grammatici
e forse de' poeti, e sui giuochi dei Greci, sulle parole ingiuriose e
sul vestire dei Romani, sempre con istile corretto, senza fronzoli nè
affettazione.

Vellejo Patercolo (m. 31?), campano, narrò la storia universale
dall'origine di Roma fino al suo tempo; ma ci rimane quel solo che
concerne la Grecia e Roma, dalla rotta di Perseo al decimosesto anno
del regno di Tiberio. Caldo di patriotismo, attento alle persone più
che alle cose, devoto a Tiberio come un soldato al suo generale, fino
ad alterare e sopprimere i fatti. Germanico per lui è un infingardo, un
eroe Sejano; nella cui disgrazia dicono che Vellejo andasse ravvolto,
non come complice, ma come amico[346].

In generale gli storici latini mostransi più parziali quanto più
dominati dallo spirito romano: ma procedendo l'impero, crescono in
umana giustizia. Tacito da un capitano barbaro fa dipinger al vivo
l'ambizione romana[347], sebbene poi egli stesso si diletti alla strage
de' Brutteri[348]: Vellejo è il primo a confessare che Roma distrusse
Cartagine per odio, e mostra compassione pei vinti Italiani[349].
Purgato nello scrivere, ma oratorio, è in tentenno, vuol conchiudere
ogni fatto con sentenze concettose, sfoggiare colori poetici, antitesi,
voltar e rivoltare il medesimo pensiero: poi, lodi o biasimi, è
declamatore, e dopo narrata la morte di Cicerone, esce contro Antonio
in un'invettiva, che a forza d'esser veemente riesce ridicola.

Dalla caduta di Sejano cominciò Valerio Massimo una raccolta di _Fatti
e detti memorabili_ in nove libri, senza giudizio raccolti, senza
critica disposti, senza gusto narrati. Predilige gli esempj che tengono
del prodigio, e le circostanze che più sentono di strano; ne scapitino
pure il vero e la semplicità storica. Perciò piacque ne' mezzi tempi,
e fu ricopiato assai volte e carico di glosse. La bassa lega del suo
stile, quella declamazione inalterabilmente fredda e severa, fecero
ad alcuno supporre che l'opera qual oggi l'abbiamo sia un compendio, o
piuttosto un estratto fattone da non so quale Giulio Paride. Il prologo
a Tiberio nausea per adulazione.

Giustino diresse a Marc'Aurelio[350] un compendio delle _Storie_ di
Trogo Pompeo, dette _Filippiche_ perchè dal settimo libro innanzi
trattavano dell'impero macedone. Daremo colpa agli abbreviatori d'aver
fatto perdere gli originali, o merito d'averne almen parte conservato?
Per verità mal possiamo chiamare compendio questo di Giustino, pieno
di digressioni, e sempre largo nel raccontare; se non che ommette ciò
che non gli sappia di curioso o d'istruttivo, confonde la cronologia,
non sa connettere le parti, e beve in grosso; colpa forse del suo
originale, di cui potrebbe esser merito il bello stile.

Di Lucio Anneo Floro, probabilmente spagnuolo, i quattro libri della
_Storia romana_ dalla fondazione della città fin quando Augusto chiuse
il tempio di Giano, son piuttosto un panegirico in istile poetico, ove
trascura la cronologia, esagera i colori, tutto rinforza coll'enfasi
e coll'interrogazione che comanda d'ammirare. Ingegnosi sono molti
de' suoi pensieri, ed espressi sovente con forza e precisione; ma
l'eccesso di sentenze e i tumori poetici rendono freddo e stucchevole
il racconto. I Galli, dopo distrutta Roma, sono assaliti alle spalle da
Camillo, e uccisi in tal numero che «coll'inondazione del loro sangue
vien cancellato ogni vestigio degl'incendj». Le navi di Antonio erano
sì vaste, che «non senza fatica e gemito il mar le portava». L'Oceano
pare si faccia tranquillo e propizio allorchè la flotta reca le prede
a Roma, «quasi confessandosi inferiore»: e invece sembra aver fatto
accordo con Lucullo per debellare Mitradate. Fabio Massimo, occupate
le alture, di là scaglia armi sui nemici; «e fu bello il vedere quasi
dal cielo e dalle nubi avventati fulmini sugli abitatori della terra».
Bruto spira sopra l'ucciso Arunte, «come volesse l'adultero perseguire
sin nell'inferno». Le guerre dei Galli servivano ai Romani di cote,
onde affilar il ferro del loro valore. Narra la spedizione di Decimo
Bruto lungo la costa Celtica? v'assicura che non arrestò il vittorioso
cammino finchè non vide il sole calar proprio nell'oceano, anzi udi il
friggere del suo disco al toccar delle acque.

Vuolsi però che alcune delle sue gonfiezze sieno interpolate.
Certamente ha l'arte, così importante ne' compendj, di cogliere i punti
principali, e lasciar da banda le particolarità inconcludenti, benchè
spesso non offra che i contorni: credulo poi e superstizioso, accetta
prodigi assurdi e piglia grossolani errori di fisica e di geografia. Da
Livio si scosta spesso; e introduce una idea che s'avvicina a ciò che
ora chiamiamo filosofia della storia, attribuendo all'impero romano tre
età, d'infanzia, adolescenza, giovinezza; questa suddividendo in due
secoli, a cui aggiunse come corona l'età d'Augusto.

A questi tempi vien collocato da alcuni Quinto Curzio Rufo, da altri
con Costantino; e poichè nessun antico ne fa menzione, v'ha chi lo
crede un frate moderno: tanto manca di carattere proprio. Chi l'accetti
come un romanzo, e non s'offenda della gonfiezza e dell'indefesso
sentenziare, lo troverà limpido narratore e descrittor fiorito. Anzichè
i migliori biografi d'Alessandro, ormò i più creduli e favolosi; della
cronologia o di conciliare i fatti contraddittorj che raccoglie, nè di
indagare se alcun vero poteva sotto le favole celarsi, non si briga.
Poco seppe di greco, pochissimo d'arte militare, nulla di geografia
e d'astronomia: il monte Tauro confonde col Caucaso, lo Jassarte col
Tanai, mentre distingue il mar Caspio dall'Ircano; fa eclissar la luna
quand'è nuova[351]. Nelle parlate vuol far pompa di belle parole e
sentenze, convengano o no; e gli Sciti sfoggiano teoremi del Portico
greco, e gli eroi spavalderie da scena. Detto a quali indegnità
Alessandro adoperasse l'eunuco Bagoa, soggiunge che le voluttà del
Macedone furon sempre lecite e naturali.

Altri storici sono ricordati: Lucio Fenestella; Servilio Noniano;
Fabio Rustico, spesso citato da Tacito: la greca Pamfila sotto Nerone
fece una storia universale in trentatre libri: Svetonio Paolino, un
de' migliori generali di Nerone, descrisse la sua spedizione di là
dall'Atlante nell'anno 41, adoprata spesso da Plinio maggiore; il quale
per le cose d'Oriente appoggiasi a Licinio Muciano, che raccolse ancora
i discorsi, gli atti e le lettere degli antichi Romani, e che portava
indosso una mosca viva, come preservativo della vista[352]. Sono
interlocutori nel dialogo _Della corrotta eloquenza_ Giulio Secondo che
narrò la vita di non so quale Giuliano Asiatico, e Vipsanio Messala
che descrisse la guerra tra Vespasiano e Vitellio ed altri fatti.
La vita di Nerone e le guerre civili che precedettero il regno di
Vespasiano espose Cluvio Rufo, che andò perduto, ma servì di fondamento
ai successivi. Vivendo in tempi che l'amministrazione era ridotta
nei misteri dei gabinetti, dovettero starsi alle pubbliche dicerie, e
tacere ciò che potesse sgradire ai tiranni.

Gli autori della _Storia Augusta_, vissuti sotto Diocleziano o poco
dopo, biografi meglio che storici, sul modello di Svetonio, c'informano
dei vizj e delle virtù degl'imperatori, dell'educazione, del vitto,
del vestire, anzichè sulle grandi rivoluzioni che allora si compivano:
poveri anche di stile e d'ordine, ti pare nei loro racconti si riveli
la confusione che cresceva sempre più nel romano impero. Forse il solo
Flavio Vopisco fu testimonio oculare; gli altri narrano per udita o
per lettura, variando stile e pensare secondo le fonti; imbeccati da
un autore, passano all'altro e ne ricavano i fatti medesimi, senza dar
segno d'accorgersi della ripetizione, che talvolta è fin tripla. Qual
fiducia avervi? Eppure da essi soltanto teniamo moltissimi fatti e
particolarità di costumi pei censettantott'anni abbracciati da quelle
trentaquattro biografie, le quali pare siano state trascelte da alcuno,
al tempo di Costantino, fra le molte che esistevano[353].

A Roma concorreano per trovar pane e onori, o per istudiare uomini
e cose, i sapienti e i letterati d'ogni paese; e i Greci benchè non
avessero cessato di disprezzare la lingua e la letteratura di Roma,
benchè pochissimi di loro degnassero adoprarne la lingua, quali
Fedro, Ammiano, Macrobio, pure trovavano degno tema la politica e gli
eroi di essa. Il più famoso retore greco Dione Crisostomo dissuase
Vespasiano dall'accettar l'impero, osò dire la verità a Domiziano; e
Trajano, quando entrava trionfante in Roma, vistolo tra la folla, il
fece montar seco sul carro. Vespasiano e Tito protessero specialmente
Giuseppe, ebreo di Gerusalemme, perciò intitolato Flavio, il quale nei
sette libri delle _Guerre giudaiche_ celebrò le loro vittorie sopra
la sua patria. Appiano alessandrino era stato colpito di meraviglia
nel veder venire ambasciadori per offrire nazioni nuove a Roma, e
questa ricusarle, desiderosa ornai di conservarsi, non di crescere;
onde scrisse una storia, dove non restringe lo sguardo a sola Roma.
Del suo lavoro ci rimangono le guerre puniche, quelle di Mitradate,
dell'Illiria, cinque libri della civile, e alcun che delle celtiche,
prezioso monumento. Conobbe gli artifizj della guerra, e narrò col
modo schietto che s'addice alla verità, sebbene siasi valso fin delle
parole, non che dei sentimenti degli autori a cui si appoggiava.
Erodiano ci lasciò otto libri della storia degli imperatori, dalla
morte di Marc'Aurelio a quella di Massimo e Balbino, assicurando di
riferire ciò solo di cui fu testimonio oculare. Negligendo geografia
e cronologia, con felice brevità e buon giudizio sceglie i fatti che
più servono a rivelare un'età infelice, ove la politica non poteva che
obbedire alle circostanze, e la pazienza dei Romani infondeva baldanza
ai soprusi dei loro padroni.

Di ben altra levatura è Cassio Coccejo Dione, bitinio di Nicea, da
Comodo e dai successivi imperadori cresciuto d'onorificenze. Per
ordine ricevuto in sogno, ridusse in otto decadi la storia di Roma,
cominciando da Enea, molto particolareggiato sino alla morte di
Elagabalo, poi affatto compendioso fino ad Alessandro. Esatto nelle
cose che egli stesso vide, nel resto compila, rinzeppa il racconto
di miracoli e sogni: vi sa dire che il sole apparve or più grande or
più piccolo avanti la giornata di Filippi; Vespasiano guarì un cieco
colla saliva; una fenice volò per l'Egitto nel 790 di Roma. Malmena
Cicerone, Bruto, Cassio, Seneca, altri grandi perchè repubblicani; e
quasi unico fra gli antichi, parteggia per Cesare ed Antonio, e adopra
a legittimare il dominio degl'imperatori. Espone accuratamente l'ordine
dei comizj, lo stabilimento dei magistrati, e le vicende del diritto
pubblico: onde è dolore che tanta parte ne sia perduta, come pure la
sua storia dei Persiani e de' Goti.

Plutarco da Cheronea in Beozia (n. 48), il più divulgato fra gli
scrittori antichi, nelle _Vite parallele degli uomini illustri_
pone a confronto un Greco con un Romano. Ignorava le lingue, e
perfino la latina, sebbene fosse vissuto in Roma; onde s'espose a
falli grossolani. I ducencinquanta autori che cita non assimilò,
ma continuamente citandoli trabalza di asserzioni in asserzioni
contraddittorie e non risolute; non ordinando per tempo gli
avvenimenti, lascia confusione, cresciuta dalle allusioni frequenti ed
oscure, e da viziose digressioni morali. Senza sentimento del passato,
dipinse tutti gli eroi col colore medesimo, di qual età, patria,
condizione si fossero, senza le gradazioni e misture che offrono la
vera fisionomia d'un uomo; non vedendo man mano che il suo personaggio,
non gl'importa di contraddirsi nella vita d'un altro; lo segue
dappertutto, al campo, sul trono, in casa, tra gli affari, accogliendo
aneddoti senza scelta nè temperanza: eppure è ben lontano dal
presentarceli interi; Cesare e Pompeo ci delinea tutt'altri che nella
storia; di Cicerone narra i sogni, le lepidezze, non i fatti pubblici,
nè tampoco ne lesse le orazioni.

Egli, che qualificano di _giudizioso_, crede all'oroscopo di Pirro, ai
sogni di Silla, ai corvi che cascano per il fragore degli applausi, a
teste di bovi sacrificati che sporgono la lingua e lambono il proprio
sangue. Tu aspetti che ti spieghi le cause d'un gran fatto; ed uscirà
a narrarti o di serpenti che si annidano nei talami, o d'uccelli che
volano in sinistro, o di portenti paurosi, e tutto con una schiettezza
o dabbenaggine, che mostra quanto l'uomo rimpicciolisca nelle ubbie al
mancare della religione.

Ne' paralleli, più ingegnosi che solidi, ben discosto dalla grandezza,
dall'industria, dalla profondità di Tacito, s'arresta a somiglianze
superficiali; propende pei Greci, onde mostrare che non sempre furono
sì abjetti come al suo tempo. Senza concetto determinato e fecondo, si
anima delle passioni de' contemporanei o degli autori da cui attinge,
presenta come eroismo l'oblìo dei sentimenti naturali, levando a cielo
Timoleone e Bruto che uccidono fratelli e figli, esaltando in Catone
quel che ogni onest'uomo deve riprovare. Eppure si concilia i lettori,
persuadendoli che dice loro quel che veramente pensa; non mira ad
ingannarli anche quando s'inganna egli stesso; non pretende dettar
dalla cattedra: la stessa semplicità de' suoi riflessi, non gravidi di
pensieri come quei di Tacito, ma consentanei al buon senso generale,
alletta i leggitori, contenti che anche alla mente loro già si fosse
presentato ciò che lo storico suggerisce.

Dovendo noi ricordarne ciò solo che concerne la storia italica,
nomineremo le sue _Quistioni romane_, ove cerca l'origine d'alcuni
usi di quel popolo: perchè nelle nozze dicesi alla sposa di toccar
l'acqua e il fuoco, e s'accendono cinque ceri nè più nè meno? perchè
i viaggiatori creduti morti, tornando a casa, non devono entrar per la
porta, ma calarvisi dal tetto? perchè si copre il capo nell'adorar gli
Dei? perchè l'anno comincia in gennajo, e le tre parti del mese non
si compongono dell'ugual numero di giorni? perchè non s'intraprende
viaggio il giorno delle calende, delle none e degli idi? perchè le
donne baciano i parenti in bocca? perchè proibite le donazioni fra
marito e moglie? Le risposte, se spesso scipite, talvolta illustrano
i costumi. Pose anche a parallelo avvenimenti greci con romani, per
provare che quelli mal si reputano favolosi se trovano riscontro nella
storia vera; assunto eccessivo e mal sostenuto. Trattando _Della
fortuna dei Romani e di quella d'Alessandro_, fa opera da sofista
onde dimostrare che i primi dovettero tutto alla fortuna, l'altro alla
propria virtù.

Mentre questi componevano, altri autori criticavano o raccoglievano,
non già per divulgare l'istruzione fra la classe che n'ha bisogno,
bensì per risparmiare fatica a quella gioventù ben nata, che per
condizione doveva saper molte cose, e non avea voglia di studiare.
Grammatici e filologi acquistarono in ciò importanza; e alla mediocrità
fu dato immortalar il nome di alcuni genj, che altrimenti sarebbero
periti. Trista considerazione!

Un Aulo Gellio, o Agellio (chè neppur il nome se n'accerta), vivente
sotto Marc'Aurelio, nelle _Notti attiche_ compilò ad uso de' suoi
figli quanto udì o lesse di meglio; e sebbene insacchi senza gusto nè
discernimento, ci ha conservato rilevantissime notizie e documenti
antichi, simile a' musei che si formano coi frammenti ricavati da
città che più non esistono. Specialmente importa il libro vigesimo,
ove digredisce sulle XII Tavole. Secondo gli autori da cui ritrae,
varia di stile; robusto talora, talora anche bello, ma già vi si sente
il trasformarsi, della latina favella, l'affettazione dell'arcaismo,
deplorabile segno di decadenza, come il rimbambire de' vecchi. Racconta
egli che, eletto dai pretori a decidere d'alcune minute differenze
fra privati, gli si presentò uno, asserendo aver prestato una somma
a un altro che negava. Non v'avea testimonj, non scritta; ma l'attore
godeva onesta fama, sinistra il convenuto. Gellio trovavasi impacciato
nel caso; i compagni suoi sostenevano non potersi condannar uno senza
prove; Favorino gli citò Catone che, in un'evenienza somigliante,
diceva doversi far ragione della virtù dei due contendenti: ma Gellio
non seppe prender partito in un caso, a parer suo, tanto intralciato.



CAPITOLO XLII.

Belle arti. Edilizia.


Dall'arte espressa colla parola è ovvio il passaggio all'arte espressa
coi colori e colle forme materiali. Nella quale non è costume vantare
i Romani, avendo essi trovato forse più dignitoso, certo più comodo
l'arricchirsi colle spoglie altrui. Anticamente è menzionato un Fabio
Pittore: ma pochissimi artisti romani accenna Plinio; Cicerone affetta
di dimenticare fin il nome di Policleto[354], e quasi si scusa d'avere,
tra le indagini d'avvocato, risaputo il nome di Prassitele[355], e
protesta di non intendersene punto, d'esser ignorante come gli altri
Romani sopra materie cui i Greci attaccano tanta importanza; nè la
boria nazionale rattiene Virgilio dal cedere agli stranieri la gloria
del ben dipingere, scolpire, arringare[356], purchè si serbi a Roma il
vanto di domare i popoli e di dar leggi.

Da principio ogni lavoro d'arte era etrusco, o fatto da Etruschi, pel
cui mezzo soltanto forse i Romani conobbero quelle particolarità che
noi chiamiamo greche, com'è il triglifo dorico sormontato da dentelli
jonici al sepolcro di Scipione Barbato, del 456 di Roma. L'acquedotto
della via Appia, costruito nel 310, non porge forme architettoniche,
andando sotterraneo; ma di quel tempo attorno al fôro si fecero portici
per gli argentieri e banchieri.

Una seconda età comincia quando, conosciuta la coltura greca, si
cercarono arti da Siracusa, da Capua, dal vinto Oriente. Il tempio
dell'Onore e della Virtù, dedicato nel 205, fu il primo che si ornasse
di fregi greci, tolti a Siracusa; e fu alzato da Cajo Muzio, secondo un
pensiero di Marcello, che li volle attigui in modo, che non si entrasse
al primo se non passando per l'altro: concetto simbolico. Allora al
rozzo tufo vulcanico, detto peperino (_lapis albanus_), si vennero
surrogando il travertino e il marmo: il fôro fu decorato suntuosamente:
nel 147 colle spoglie macedoniche, portate da Metello, si eressero
il magnifico tempio di Giove Statore periptero, opera di Ermodoro da
Salamina; e quel di Giunone, prostilo, cinto da gran cortile a colonne.

Durante la seconda guerra punica venne innalzato un tempio a Giunone
Ericina, uno alla Concordia; poi quello dell'Onore fuori porta Capena;
indi quelli di Giunone Sòspita, di Fauno, della Fortuna Primigenia;
poco stante due altri a Giove in Campidoglio, e quello alla dea Madre
ed alla Giovinezza; posteriormente il tempio a Venere Ericina, e uno
alla Pietà nel circo Massimo.

Il Tabulario, archivio e tesoro, eretto 78 anni avanti Cristo sul
clivo del Campidoglio, è a grandi portici, i cui archi esternamente si
aprono tra mezze colonne doriche; alle quali probabilmente sovrastava
un ordine di corintie. Il tempio della Fortuna Virile, ora Santa Maria
Egiziaca, prostilo pseudoperiptero jonico, mostra forme vigorose,
come il tempietto funerario di Publicio Bibulo sul clivo orientale del
Campidoglio. Superò ogni anteriore magnificenza il tempio della Fortuna
a Preneste eretto da Silla, e de' cui rottami si fabbricò Palestrina.
Vi si ascendeva per sette vasti ripiani, il primo e l'ultimo de' quali
erano ricreati da serbatoj di acqua: al quarto serviva di pavimento il
musaico che ora fa il vanto del palazzo Barberini a Roma, e che Plinio
dice il primo lavorato in Italia.

Silla stesso fece rinnovare il Giove Capitolino, Mario il tempio
dell'Onore, Pompeo quel di Venere Genitrice. Il Panteon, fatto
costruire da Vipsanio Agrippa 26 anni avanti Cristo, è una rotonda,
illuminata soltanto dall'apertura della cupola, la quale ha l'altezza
e il diametro di quarantatre metri, ed è ammirata singolarmente pel
pronao di sedici colonne corintie, di trentasette piedi in altezza
sopra cinque di diametro, ciascuna d'un pezzo solo di marmo; e tanti
secoli non le smossero[357].

Sotto Augusto, fu circondato di portici il suntuoso circo Flaminio,
e sorsero il portico d'Ottavia, la piramide di Cestio, il teatro di
Marcello, il tempio di Giove Tonante. Il mausoleo d'Augusto nel Campo
Marzio innalzavasi a varj piani, verdeggianti d'alberi; in sulla cima
la statua dell'imperatore; davanti alla porta terrena due obelischi
egizj, e all'intorno boschetti e viali, serpeggianti fra il Tevere,
la via Flaminia e porta Popolo. Dappoi la magnificenza degl'imperatori
e dei ricchi moltiplicò occasioni agli artisti, che crearono un nuovo
stile grandioso e caratteristico, improntato della romana magnificenza,
benchè essi fossero greci tutti o i più.

De' quali alcuni furono portati schiavi a Roma; qualche altro vi venne
libero, come Arcesilao, Zopiro, un Prassitele che scrisse su tutti i
lavori di belle arti allora conosciuti; una Lala di Cizico, ritrattista
nella galleria di Varrone; Valerio d'Ostia, che inventò di coprire gli
anfiteatri. Le monete romane, grossiere dapprima, dopo il 700 di Roma
emulano quelle di Pirro e d'Agatocle; ma gli incisori erano nostrali?
Che se Antioco Epifane chiamò in Atene l'architetto romano Cossazio pel
tempio di Giove Olimpico, ed Ariobarzane re di Cappadocia si valse dei
due fratelli romani Cajo e Marco Stallio per rifabbricare l'Odeone di
Atene, rovinato nell'assedio di Silla, chi ci assicura che in queste
commissioni non avessero parte l'adulazione o la raccomandazione de'
potenti? Degli altri architetti romani perirono fino i nomi; e così i
libri di Fusisio, di Varrone, di Settimio.

Anche nell'età più splendida si ricorreva ad artisti greci; greci
furono gli architetti, mediante i quali Augusto, secondato da Agrippa,
mutò il Campo Marzio in città marmorea; nella Grecia Pomponio Attico
fece lavorare gli ermi pel suo Tusculano[358], e comperò statue per
le ville di Cicerone; Verre fece fondere molti vasi di tutto oro a
Siracusa.

Il costui nome rammenta il modo più consueto onde i Romani acquistavano
capidarte, rapendoli ai vinti o ai sudditi. Lucio Scipione recò in vasi
mille quattrocenventiquattro libbre d'argento, e mille ventiquattro in
oro: ducentottanta statue di bronzo e ducentrenta di marmo abbellirono
il trionfo di Marco Fulvio sopra gli Etolj: Silla ridusse Atene a uno
scheletro, espilò i tre più ricchi tempj d'Apollo in Delfo, d'Esculapio
in Epidauro, di Giove in Elide, del quale portò a Roma fin le colonne
e la soglia di bronzo della porta: Fulvio Flacco scoperchiò il tempio
di Giove Lacinie presso Crotone per collocarne i tegoli di marmo
sul tempio della Fortuna Equestre: Varrone e Murena fecero a Sparta
tagliar le pareti per trasportare degli affreschi[359]: le sfingi e gli
obelischi d'Egitto, le statue di Grecia, i soli di Babilonia venivano
ad abbellire Roma: Agrippa pagò un milione ducentomila sesterzj
due tavole d'un artista greco per ornare i suoi bagni: Lucullo fece
trasferire da Apollonia in Campidoglio un Apollo alto trenta cubiti,
ch'era costato cencinquanta talenti: Lentulo vi collocò due busti:
Ortensio fabbricò un tempio sol per riporvi gli Argonauti di Fidia,
comprati cenquarantaquattromila sesterzj: Augusto comprò statue da
disporre sulle piazze e nelle vie, pose nel fôro due quadri della
guerra e del trionfo; nel tempio di Cesare un Castore e Polluce e
una Vittoria, opere di Apelle; nella curia due freschi di Nicia e di
Filocare[360]; raccolse anche musei di varie rarità, de' quali uno era
stato già unito da Scauro figliastro di Silla, sei da Cesare, uno da
Marcello di Ottavia.

Quando si pensi che questo arricchirsi della patria nostra faceasi a
desolazione dell'altrui, possiamo congratularcene noi Italiani? Viene
alle nazioni come agli individui l'ora del compenso, e noi ripagammo e
ripaghiamo le violenze esercitate dai nostri padri.

Tanti tempj sono ricordati nella sola città; ma niuno ne paragoni
la mole al San Pietro di Vaticano e ai nostri duomi[361]: e quanto
fossero piccoli lo attestano i ruderi della Sibilla Tiburina, del
Giove Clitunno nella campagna di Roma; quelli di Vesta e della Fortuna
Virile sono ben minori del Panteon, il quale ognun sa che fu sollevato
per cupola a San Pietro; in Campidoglio, sovra spazio minore di quel
che oggi occupi il Vaticano, ergevansi sessanta tempj; moltissimi
attorniavano il fôro; e se crediamo a Plinio, il Giove Feretrio non
era lungo più di quindici piedi. Nè di vasti recinti era mestieri là
dove il popolo non veniva ammesso a vedere le funzioni sacre, serbate a
sacerdoti o a matrone; bastando che alla soglia deponesse le ghirlande
o i donativi.

Sparsi per la città e sui fondi privati v'avea pure sacelli ad Ercole,
a Nenia, alla Pudicizia, agli Dei Lari, con un'ara e talvolta la statua
della divinità. I serapei forse servivano anche a cure salutari, come
quello di Pozzuoli, parallelogrammo di sessantacinque su cinquantadue
metri all'esterno, ove molte cellette sono simmetricamente disposte
attorno a un cortiletto porticato, in mezzo al quale sorgeva una
rotonda aperta sovra colonne; e sembra destinata alla purificazione per
acqua. La schiera di sedie forate nelle due camere agli angoli, forse
serviva ai bagni a vapore.

Entro quei tempj erano altari ed are[362] stabili e ornati, e foculi
mobili. Si ornavano di emblemi e delle frondi sacre al Dio, come il
pino per Pane, l'ulivo per Minerva, il pioppo e le mazze per Ercole,
mirto e colombe per Venere, aquile e quercia per Giove, pampani e tirsi
per Bacco. Variava pure il sagrifizio che agli Dei si faceva; buoi
a Giove, tori a Nettuno, vacche a Latona, cinghiali a Bacco, troje
a Cerere; e in generale vittime bianche agli Dei celesti, nere agli
infernali; e quelle col capo alzato e ferendole dall'alto in basso,
queste col capo chino e colpite da sotto in su, per modo che il sangue
sgorgasse non sull'altare ma in una fossa. Ne' tempj si sospendeano i
voti, come dai naufraghi vesti e tavolette a Nettuno, dai guerrieri
armi a Marte, dai gladiatori spade ad Ercole, dai poeti ciocche di
capelli ad Apollo.

Nel teatro di Emilio Scauro, preparato nel 694, tre ordini di colonne
sovrastavano uno l'altro; dietro di esse, pareti di marmo al primo
piano, di vetro al secondo, al terzo di tavolette dorate; tremila
statue di bronzo compivano l'addobbo, più ricco che di buon gusto, e
che dovea durare il solo tempo che Scauro rimaneva edile. Perocchè un
senatoconsulto del 597 vietava i teatri permanenti, e primo Pompeo nel
697 ne fece uno di pietra, capace di quarantamila spettatori. Cesare,
che abbellì il Campidoglio e fabbricò un fôro ricchissimo, costruì la
prima arena pei conflitti navali (naumachia); ed Augusto una maggiore,
avente seicento metri di lungo sopra quattrocento di largo; una terza
Trajano. Statilio Tauro eresse in Campo Marzio il primo anfiteatro
di pietra. Il circo, equivalente allo stadio e all'ippodromo greco,
era traversato per lo lungo da una spina, ornata di statue, colonne,
obelischi, attorno alla quale volgeansi le corse de' cavalli e de'
cocchi, finchè toccassero le mete, colonnette finite in cono. Il circo
Massimo, che risaliva all'età dei re, fu ampliato da Cesare, poi da
Trajano: di quel di Caracalla rimangono gigantesche rovine, ampio
trecensettanta metri sopra sessantuno.

Quantunque della vôlta si trovi vestigio in edifizj non solo della
Grecia e dell'Italia prisca, ma fin dell'Indie e dell'Egitto, pure
nemmeno i Greci ne' bei tempi seppero trarne gran profitto; di modo che
le fabbriche non erano più grandi di quanto il comportavano i tetti
piani di pietra; e le colonne, parte principale e caratteristica,
distando appena la lunghezza d'un'imposta di marmo o d'una trave, non
era possibile avventurarsi a vasti edifizj, nè variare le forme.

Roma sin dal nascere imparò dagli artisti nazionali la vôlta, che fa
già buon uffizio nelle nostre città pelasgiche, e che curvossi sopra ai
meravigliosi acquedotti e alle cloache, bastanti a mostrare tutt'altro
che bambina la città de' Tarquinj. E l'arco diventò distintivo
dell'architettura romana; progresso importante, giacchè con esso
possono concatenarsi piloni e pareti ben più distanti, coprire vaste
aree con tetti solidi quanto facili, ottenere variato movimento di
linee allo interno ed all'esterno. Archi posero dovunque fabbricarono
i Romani: or al fondo d'una piazza quadrata o attorno ad una circolare
aprirono emicicli, coperti da mezze cupole; ora di intere ne formarono
con archi concentrici; ora a varj piccoli archi ne circoscrissero
uno maggiore, o gl'incrociarono in direzioni differenti; voltarono
la cupola sopra spazj rotondi od ottagoni; fecero aperture sopra
aperture. E l'architettura romana appunto trae un carattere proprio,
forte e potente, dall'accoppiare la volta italica al colonnato greco.
Anche quando, alla greca, sostennero i portici con colonne, dall'una
all'altra gettarono l'arco, mascherandolo con un finto architrave.
Pertanto al colonnato non diedero perfezione intrinseca, nè seppero
unificarlo colla volta; mentre il rispetto agli esempj greci toglieva
di fare che tutte le linee si volgessero in alto, armonizzandosi
meglio, come poi si fece nell'architettura gotica.

Gli architetti, sebbene venuti di Grecia, secondarono l'indole romana,
così da uscirne un'arte originale, dove le parti dedotte dalla greca
da essenziali riducevansi ornamentali. Colonne e fregi acquistavano le
vittorie? commettevasi agli architetti d'accordare queste parti antiche
col concetto di nuovi edifizj. L'architrave mal s'affaceva coll'arco,
nè il tetto angoloso colla convessità della cupola: i triglifi e i
dentelli perdevano significato, dacchè entro non v'avea le travi, di
cui figurassero la sporgenza. Il frontone, che tra i Greci seguitava
continuo, presentando la retta e il pinacolo formato dalle pendenze del
tetto, qui cambia destinazione, e talvolta appare sotto al cornicione,
o sovrasta ad una porta, a una finestra, a una nicchia; invece di un
grandioso facendosene molti piccoli, talora spezzati, o rotondi, o
soverchiati da più grandi. La colonna, che ne' Greci era il canone non
solo per misurare l'edifizio, ma per caratterizzarlo, non restò più
che un ornamento, destinato ad interrompere la continuità del muro
che dovea sostenere il peso perpendicolare e insieme la pressione
obliqua della volta. Potè dunque alzarsi sopra un piedestallo, talora
altissimo, come negli archi di trionfo, sminuendo di figura come
d'importanza: nel Panteon la troviamo posta nell'interno d'un arco,
indipendente da esso, sicchè non sostiene che un cornicione il quale
non sostiene nulla. Talora si attaccò e si affondò nei pilastri,
adoprati non solo come teste al modo greco, ma tutt'al lungo della
parete: o, come vedesi a Pompej, le colonne erano mutate da un ordine
all'altro col rivestirle di stucco, senza curarsi dell'alteramento
delle proporzioni.

E poichè l'ordine dorico era troppo severo da piegarsi al capriccio
o al bisogno, di rado i Romani lo adoperarono, attribuendo questo
nome ad uno cui ne aveano tolto i tratti caratteristici: al capitello
jonico levarono la diversità tra la fronte e i lati della voluta: ai
due terzi inferiori del capitello corintio sovrapponendo il capitello
jonico, formarono il composito: l'ovolo fu tronco in alto, e i dentelli
schiacciati al basso: i capitelli vennero ornati con varietà; or
alle volute e ai caulicoli sostituendo aquile ed encarpi, come in uno
della villa Mattei; ora sulle pieghe delle foglie facendo posare dei
grifi, come in uno a San Giovanni Laterano; o riempiendolo di frutti,
come in uno a San Clemente; o di trofei e vittorie, come in uno a San
Lorenzo; o facendo da genietti alati sorreggere un festone sormontato
dall'aquila, come in uno del palazzo Massimi. Gli ordini stessi si
mescolarono, e nel teatro di Marcello il cornicione jonico imposta su
colonna dorica; nel Coliseo i tre ordini sormontano l'uno all'altro.

Venne ad estendersi l'ordine toscano, che, spoglio di scolture e
di fregi, con capitello e base semplicissimi, cede in ricchezza ed
eleganza ai greci quanto li vince in solidità. D'altra parte si formò
l'ordine composito o trionfale, ricchissimo, che alle leggere volute
alzantisi dal fogliame del corintio surroga le robuste dello jonico,
allunga la colonna fino a sei diametri, ed orna la cornice di dentelli;
le membrature della trabeazione richiede più varie ed ornate, con
mensole e modiglioni, sporgenti per sostenere il fastigio. Il tempio
di Milasso nella Caria, ad onore d'Augusto e della dea Roma, è per
avventura il primo esempio d'ordine composito e delle decorazioni
eccessive, di cui quell'età cominciò a compiacersi: del qual genere
serbiamo il tempietto di Vesta a Tivoli.

Vitruvio muove lamento che, mentre i Greci non si scostavano mai dal
possibile e dal concetto originario della capanna di legno, accademica
origine delle costruzioni, i Romani non volessero brigarsi di queste
minute convenienze, e nelle cornici inclinate de' loro frontoni
mettessero i dentelli sotto ai modiglioni, il piacevole preferendo
al sistematico. E da Vitruvio impararono i pedanti a chiamar difetto
ogni deviazione da regole prestabilite: ma l'arte romana vaneggiò
assai più che non la greca colle linee rette, le superficie piane
e le forme angolose; anche imitando v'improntò il genio proprio,
sia coll'ingrandire, sia coll'atteggiarle a potenza e solidità. Di
rimpatto vi mancano la perfezione delle linee, le delicate relazioni
delle parti, l'armoniosa simmetria del tutt'insieme: e fin nel
Panteon, ch'è de' più corretti, all'angolo del frontone si desidera la
dolcezza con cui i Greci sapevano unire le due linee superficiali del
triangolo[363].

Non si tardò a traviare; e già l'arco che Tiberio ergeva al suo
antecessore è sregolatamente largo, sostenuto da piloni di muro, con
due magre colonne, e dall'una all'altra un frontone mal impostato:
quel di Trajano ad Ancona pecca dell'eccesso contrario, pigiato fra i
pilieri, oltrechè gli altissimi basamenti si straccaricarono di inette
modanature; in quel di Tito le colonne alzansi fin a nove diametri
e mezzo. Ben presto vi si sbizzarrì di mescolanze, s'allungarono le
colonne fino al doppio, s'introdussero ornati stravaganti, si profusero
colori luccicanti, che non devono più parere un imbarbarimento dopo
che si trovarono ne' monumenti migliori di Grecia. Ludio le pareti
delle case caricava di paesaggi e vendemmie e scene campestri,
unendovi ghiribizzi architettonici; del che restano esempj nei bagni
di Tito, e in molte pareti di Pompej. Il gusto degli imperatori
dovette pregiudicare alle arti: Tiberio piacevasi di oscenità;
Caligola abbatteva le teste degli Dei per sostituire la propria, e
fece ritagliare da due quadri la faccia di Giove per inserirvi quella
d'Augusto; Nerone dorava le opere di Lisippo e i proprj palazzi. Pure
conservasi una testa di lui e di Poppea, carissime di pensamento e
di condotta: e il busto di Seneca del museo Borbonico, probabilmente
contemporaneo dell'originale e fatto a Roma, ove abitualmente quel
filosofo visse, è una delle più belle fusioni.

Augusto, nel tempio da Giulio Cesare eretto in Campidoglio, collocò
la Venere Anadiomena di Apelle, trasferita da Coo, e stimata cento
talenti, modello della bellezza perfetta. Il Palazzo d'oro di
Nerone (pag. 111) abbracciava parte del colle Palatino, del Celio
e dell'Esquilino: cominciava da un vestibolo, cinto da tre lati di
portici d'un miglio ciascuno, che chiudevano prati, vigne, foreste:
dappertutto oro, pietre, perle: alle sale da mangiare faceano soffitta
tavole d'avorio mobili e versatili, per poterne far piovere fiori ed
acque odorose; e la più grande e rotonda girava dì e notte come il
mondo: cinquecento statue di bronzo vi furono portate dal solo tempio
di Delfo[364], tra le quali forse apparivano le famose dell'Apollo
di Belvedere e del Gladiatore Borghese: il colosso dell'imperatore
era opera d'Atenodoro. Vespasiano trasse molte statue di Grecia, e i
magnifici ornamenti del tempio di Gerusalemme per arricchire quello
della Pace.

Affinchè il popolo non vi oziasse, nei teatri dapprima non si faceano
gradini da sedere: ma Pompeo li fece tollerare col mettervi in cima
un tempio di Venere, sicchè il popolo avea l'aria di sedere sulle
scalee di questo. Più nazionali erano gli anfiteatri; e il Coliseo o
Colosseo, fabbricato forse dagli Ebrei che Tito menò schiavi, forma
un'elissi, svolgentesi nell'interno per ducentrentanove metri, col
ricinto esterno appoggiato sopra ottanta archi, che in quattro ordini
architettonici sovrapposti elevansi fino a quarantanove metri; tutto
marmo e statue. Dentro girano quaranta file di sedili, pure marmorei,
da capirvi quasi novantamila spettatori: sessantaquattro vomitorj danno
sfogo alla moltitudine: corridoj e scale erano distribuiti di maniera
che ognuno potesse, giusta il proprio grado, arrivare agevolmente
ai posti assegnati. Un velario proteggeva all'uopo dal sole e dalla
pioggia: zampilli di fontane rinfrescavano, e spesso profumavano
l'aria: altr'acqua era guidata nell'arena in rigagnoli imitanti la
delizia dei giardini, o dilagavasi per opportunità di conflitti navali:
di sotto, per serbare le fiere, s'aprivano vasti sotterranei, che ai
dì nostri furono scoverti, ma tosto richiusi per le fetide esalazioni
dell'acqua stagnante. Roberto Guiscardo, mille anni più tardi, temendo
non divenisse cittadella contro di lui, demolì la metà del Coliseo; il
resto servì di petraja per successivi edifizj, e massime pei palazzi
Farnese, di Venezia e della Cancelleria: eppure quelle sublimi ruine
ancora rendono attoniti[365].

La colonna coclite di Trajano, la cui altezza di quarantaquattro metri
indica di quanti il monte Quirinale si fosse spianato per formare il
fôro circostante, è la prima di tal genere che si conosca, imitata
da tutte le seguenti, e basterebbe a rendere famoso quel periodo
dell'arte. Dorica, del diametro di metri 3. 63, è in trentaquattro
rôcchi di marmo lumachella, fissati con arpioni di bronzo: al terrazzo,
che sulla sommità circonda la statua dell'imperatore, si ascende per
centottantadue scalini a chiocciola ricavati nel vivo, e rischiarati
da quarantatre finestruole. La grossezza dei massi e la solidità de'
gradini mostrano come si ebbe riguardo alla durata; e il tempo ne fece
ragione. La fasciano ventitre spire d'un bassorilievo, su cui contarono
duemila cinquecento figure, alte due piedi, che, con pensiero unico,
raffigurano le due spedizioni di quell'imperatore contro i Daci, e
illustrano i costumi di Roma e de' suoi alleati e nemici: capolavoro
di composizione, ove sono espresse all'occhio le operazioni militari
più importanti, come marcie, accampamenti, battaglie, oppugnazioni; in
tanta moltiplicità e piccolezza facendo variatissime le fisionomie,
e ciascun popolo distinto per vestire ed armi particolari, oltre
all'espressione di trionfo o di sconfitta. Il piedestallo è adorno di
trofei, aquile ed altri fregi, tutto così naturale e fino, e con tale
armonia delle particolarità, che formò la meraviglia e lo studio di
Rafael Sanzio, di Giulio Romano, di Polidoro da Caravaggio[366].

La piazza era attorniata da fabbricati insigni, fra cui un arco di
trionfo, e la basilica Ulpia. A questa, dopo cinque gradini di giallo
antico, si entrava da mezzodì per tre porte, ciascuna con portico:
quattro file di colonne la divideano in cinque navi: il pavimento di
marmo giallo e violetto; le pareti incrostate pur di marmo bianco;
la soffitta di bronzo, e attorno statue. Architettolla Apollodoro
di Damasco, al quale pure attribuiscono l'arco di Ancona portante la
statua equestre dell'imperatore, e il ponte sul Danubio da noi altrove
lodato.

Adriano, passionato per le arti, in cui egli medesimo esercitavasi,
trasportava o faceva copiare quanto vedeva negl'incessanti suoi giri;
di molti edifizj abbellì Roma e la Grecia, e d'un anfiteatro Capua. La
Mole Adriana, ora Castel Sant'Angelo, unita al ponte Elio, era vestita
di rame, con quarantadue colonne, ciascuna delle quali sosteneva una
statua, e sulla sommità una quadriga coll'effigie dell'imperatore, di
tali dimensioni, che un uomo entrava nel cavo dell'occhio d'un cavallo.
Aggiungono fosse d'un pezzo solo; il che però è a mettere a fascio col
miracolo di Detriano architetto suo, che dicono trasportasse da luogo a
luogo il tempio della dea Bona e il colosso di Nerone, ritto in piedi e
sospeso, per forza di ventiquattro elefanti. Singolarmente si piacque
Adriano di abbellire la villa di Tivoli, che copriva un giro di dieci
miglia, con due teatri; il marmo v'era profuso, formandone persino
letto al lago, nel quale rappresentavansi navali conflitti: simbolo
materiale dell'eclettismo d'allora, v'erano copiate le situazioni
meglio gradevoli e i più grandiosi edifizj di Grecia, oltre un'immagine
degli Elisi; statue d'ogni paese, divinità babiloniche, sfingi
egiziane, numi greci, idoli etruschi, vasi corintj; chi sa se anche
bassorilievi indiani e porcellane della Cina?

Sull'esempio di questi imperatori, privati e città s'abbellirono
di edifizj: e i più degli insigni che onorano quasi ogni città
provinciale, vanno ascritti a quell'età; come gli anfiteatri di
Otricoli, Cagliari, Agrigento, Alba, Verona, Capua, Pola d'Istria; i
tempj di Assisi, di Todi, di Foligno, di Padova, di Rimini, e quello
scoperto poc'anzi a Brescia; l'acquedotto di Spoleto, il ponte di
Narni. Buoni monumenti di allora sono il Marc'Aurelio a cavallo,
posto sulla piazza del Campidoglio, e la colonna Antonina, quantunque
scapiti da quella di Trajano per la distribuzione dei gruppi e per
l'esecuzione delle figure, mal compensate da alcuni concetti felici,
com'è la Fama che, scrivendo le geste sopra uno scudo, separa le guerre
germaniche dalle marcomanne. Per imitazione si eseguirono statue di
stile greco antico, altre di granito rosso all'egiziana: ma che si
sapesse disegnare egregiamente bastano a provarlo le due statue di
Antinoo, oltre quella del Belvedere, cui forse a torto il costui nome
si attribuisce. Piene di vita e nobiltà sono le teste nelle monete de'
Giulj e de' Flavj, e ingegnosi e ben eseguiti i rovesci.

Dopo quel momentaneo lustro ricaddero le belle arti. Gli Antonini le
neglessero per la filosofia: però il Pio dispose a Lanuvio una villa,
della cui splendidezza ci dà saggio una chiave d'argento per l'acqua
dei bagni, pesante quaranta libbre. Alessandro Severo s'ingegnò di
rifiorire le arti, cinse di statue il fôro Trajano, eresse molte
fabbriche e le terme, dipingeva egli stesso, e inventò l'intarsiare
marmi di vario genere[367].

Degli archi trionfali, genere ignoto ai Greci, il primo fu eretto a
onore di Fabio, vincitore degli Allobrogi e degli Arverni, 139 anni
avanti Cristo: dappoi per vittorie, per benefizj, per adulazione si
moltiplicarono; quali ad una sola apertura, come quel di Tito a Roma,
e di Trajano ad Ancona; quali a due o a tre, come quelli di Costantino
e di Settimio Severo. Mirabile semplicità mostra quello di Susa per
Augusto; e forse n'è contemporaneo quel di Pola, probabilmente funebre.
Altri ne sono sparsi per Italia[368]. I bassorilievi del Settizonio di
Settimio Severo sono mal condotti, sebbene lodevolissima la sua statua
di bronzo, ora nel palazzo Barberini.

I ritratti romani, dapprima a foggia di erme colla sola testa, dappoi
talvolta sono busti armati con corazze a trofei, vittorie, leoni,
quali il Lucio Vero del Vaticano e uno della villa Albani; talaltra
togati, come il Claudio nel braccio nuovo del Vaticano, l'Augusto negli
Uffizj di Firenze, il Genio d'Augusto nella rotonda del Vaticano, e il
Caligola della villa Borghese, han la toga sul capo. Ve n'ha a cavallo;
ve n'ha in trono, come la statua di Cervetri e il Tiberio del museo
Chiaramonti; ve n'ha di foggiati da eroi e semidei, nudi e stanti,
come il bellissimo Pompeo del palazzo Spada, al cui piede vuolsi
fosse trafitto Cesare, il Marco Agrippa dei Grimani a Venezia. Al
dechino delle arti prevalsero i busti colle spalle e parte del torace,
alcuno anche colla mano e qualche panneggiamento, e finiti in linea
circolare. Peccano di gonfiezza, massime quelli delle imperatrici: han
barba e capelli inanellati col trapano, e alcuna volta con marmo di
vario colore, come anche le vesti, e con occhi riportati, ed accessorj
studiati con affettazione, mentre l'espressione del viso casca nel
triviale. Eppure i ritratti sono quel che di meglio ci tramandò la
scoltura romana, conservando l'individualità.

Le stesse medaglie, che al principio di quest'età erano migliori delle
greche, riduconsi rozze e grossolane: pure ne restano di bellissime,
massime di Gallieno e di Postumo, e un medaglione di Triboniano Gallo.
Avendo sott'occhio tanti eccellenti modelli, poteva quando a quando
taluno porre studio in quelli per modo d'emularli; fatto isolato, e che
nella storia dell'arte convien distinguere bene dal vero progresso.

Insomma se la Grecia nocque a Roma per la filosofia e pei costumi,
giovò per le arti. Mentre la scoltura romana è pesante, fredda, secca,
copiaronsi con felicità gli originali greci; e v'ha chi crede che i
capolavori tramandatici dall'antichità, salvo i modernamente scoperti,
sieno copie eseguite a Roma, e che colla perfezione dell'originale vi
si senta l'inferiorità del copista. Non conservavasi nè la grandezza a
Fidia, nè la grazia a Prassitele, quali apparvero nella Venere di Milo
o nei marmi del Partenone: nell'Apollo del Belvedere fu cancellata la
realtà, scomparvero i muscoli, mentre insigne è il concetto: la Venere
Capitolina da certe configurazioni si conosce modellata sopra una
romana, ma avendo presente l'opera d'un greco. Che se fra noi ammiransi
tanto le opere romane, chiunque viaggiò la Grecia e l'Asia Minore sa
come scapitino a paragone delle indigene.

All'intento governativo de' Romani meglio si confacevano le opere
di genio civile, e massime intorno alle acque. Già 115 anni avanti
Cristo, Emilio Scauro asciugava le paludi del Po con canali tra Parma
e Piacenza; vaste operazioni si intrapresero per sanare le Pontine, e
Augusto vi scavò un canale parallelo alla via Appia; a tacere i lavori
fuor d'Italia, sotto Tiberio si divisò di voltare nella Chiana l'Arno,
che prima affluiva nel Tevere e cagionava piene: ma fa meraviglia
come i Romani non provvedessero a incanalare questo fiume, che spesso
allagava la loro capitale, e fin dodici volte nell'anno 22. Nerone
cominciò un cavo arditissimo, che per censessanta miglia dal lago
d'Averno doveasi congiungere da un lato col lago Lucrino e il golfo di
Baja, dall'altro con Roma per le paludi Pontine[369]. Cesare tentò,
Claudio compì lo scolo del lago Fùcino nel Liri per l'emissario più
grandioso d'Europa, per 5600 metri fra montagne calcari, sostenuto con
muri ed archi, e dove lavorarono trentamila persone, nè sapevasi tenere
la drittura altrimenti che coll'aprire spiragli in cima.

Roma piantava sopra un labirinto di fogne, onde urbs pensilis la
chiamava Plinio; mentre file immense di archi reggeano le doccie che
da molte miglia lontano guidavano l'acqua, e che ancora colle loro
ruine interrompono pittorescamente la spopolata campagna romana. Il
primo acquedotto, fatto a studio di Appio Claudio il 311 avanti Cristo,
portava l'acqua da otto miglia lontano: per quarantatremila passi,
sorretto da settecentodue archi, la portava quel di Cajo Dentato,
di quarant'anni posteriore: poi Marcio Re condusse da Subiaco, per
sessantunmila passi, l'acqua Marcia, alla quale si congiunsero poi
la Tepula e la Giulia. Frontino, che al tempo di Trajano descrisse
gli acquedotti, conta che per 13,594 tubi distribuivano 1,320,600
metri cubici d'acqua ogni ventiquattr'ore. L'acqua Vergine, dovuta ad
Agrippa, venendo sopra settecento archi fuor di terra, con quattrocento
colonne marmoree e trecento statue, alimentava centrenta cisterne[370].
Era uno sfoggio eccedente di forza, quasi l'acqua non dovesse giungere
ai trionfanti che sopra archi trionfali; nè a torto Frontino anteponeva
queste opere alle piramidi egiziane. Di simili restano vestigia in
altre città dell'impero; e delle più insigni era l'acqua Claudia, che
per cinquanta miglia, dal Principato Ulteriore provvedeva molte città
e Napoli, e finiva alla Piscina Mirabile presso il capo Miseno, gran
serbatojo per le navi.

Più di ottocento bagni contava Roma sotto gli Antonini, di cui erano
principali quelli d'Emilio, Cesare, Mecenate, Livia, Sallustio,
Agrippina. Plinio rammenta Sergio Orata contemporaneo di Grasso, che
inventò d'introdur nelle camere acqua calda, per modo che evaporando
scaldasse. Di Ninfei, grandi cupole con zampilli, erano sparse le rive
dei laghi d'Albano, di Nemi, Lucrino, Fùcino.

Talmente estese erano le terme, che Ammiano Marcellino le paragona
a provincie (_in modum provinciarum extructa lavacra_); ed occupano
ancora grandissimo spazio quelle di Caracalla, alimentate dall'acqua
Marcia che passa sull'arco di Druso. Oltre i bagni, servivano ad
esercizj ginnastici, giuochi, accademie, altre riunioni: le ornavano
preziosi capidarte, e vi furono trovati l'Ercole di Glicone, la Flora,
il toro Farnese, il torso di Belvedere, il musaico del Laterano, e
quantità di vasi e d'altre preziosità. La colonna che sta in piazza
Santa Trinità a Firenze, è una delle otto che sorreggeano la sala di
mezzo. Più vaste erano le terme di Diocleziano, con portici e sale
capacissime, di cui una copre cinquantanove metri per ventiquattro, e
luoghi di divertimento ed un museo. Il Panteon formava solo un membro
delle terme d'Agrippa; e i rabeschi di Rafaello nelle loggie Vaticane
imitano quelli delle terme. Baja ed altre vicinanze di Napoli offrivano
terme naturali; e bellissimo avanzo n'è il Truglio, rotonda di venti
metri di diametro interno, a volta elittica.

Mediante gli archi furono agevolati anche i ponti, che talvolta
erano decorati di statue e d'archi trionfali: ed otto ne avea la
sola Roma[371]. Poco capaci erano i porti, destinati a navi ben più
piccole delle nostre; ma fari, canali, bacini, cantieri, cale, piscine
formavano un complesso di edifizj maestoso. Cesare propose, Claudio
eseguì un porto alla foce del Tevere, cui Trajano aggiunse un bacino
esagono di ducensessanta metri il lato, cinto di colonnette di marmo
numerate, per attaccarvi le navi. Attribuiscono ad Augusto il porto
di Miseno, e quello di Ravenna con magnifico faro. Quel che chiamano
ponte di Caligola, sono avanzi del molo a traforo che dovea proteggere
l'antico porto di Pozzuoli.

All'unità, cui Roma aspirava, d'importanza suprema riusciva il
costruire strade; e alcune avanzano tuttora ad attestare quanto
meritassero l'antica rinomanza (pag. 573). Partendo dal _miliario
aureo_, collocato in mezzo al fôro Romano, si spiegavano queste fin
alle colonne d'Ercole, all'Eufrate e al Nilo, vincendo difficoltà
d'ogni sorta, spropriando i possessori, colmando valli, accavalciando
fiumi, spianando alture, forando montagne, perchè questa gran catena
connettesse alla metropoli le provincie. Cinque metri eran larghe le
maggiori: per fondo gettavansi frantumi di pietre, legati con calce e
pozzolana; poi un miscuglio di calcina, creta e terra, e talvolta anche
di ghiaja e calcistruzzo; indi ciottoli o pietre poligone informi, e
nelle città cubi regolari: a Pompej ed Ercolano sono di lava, connessi
con calce e pozzolana, e le vie sono tirate a filo e con marciapiedi.

Magnifiche erano in Roma la Sacra e la Trionfale: la prima, cominciando
ad oriente del fôro Romano, dal Coliseo radeva il tempio d'Antonino
e Faustina, e per gli archi di Costantino, di Tito e di Settimio
Severo saliva al Campidoglio. Entravano dall'altra i vincitori lungo
i campi del Vaticano e del Gianicolo; poi dal ponte e dalla Trionfale
venivano alla via Retta, al Campo Marzio, al teatro di Pompeo, al circo
di Flaminio, ai teatri d'Ottavia e di Marcello, e al circo Massimo;
piegando quindi sulla via Appia, pel Coliseo uscivano sulla via Sacra,
donde al Campidoglio. Le statue rapite alle nazioni vinte, quelle dei
re trionfati, de' grandi uomini e degli Dei contornavano que' magnifici
cammini. Gl'imperatori crebbero le strade per portare gli ordini e gli
eserciti alle estremità dell'impero; e quarantotto ne contava la sola
Italia, nove la Sicilia, sei la Sardegna, una la Corsica.

L'ispezione delle strade spettava ai censori, che spesso vi diedero
il proprio nome; dappoi ai tribuni della plebe; più tardi a curatori
speciali: le spese erano decretate dal senato, o da individui che ne
traessero vantaggio, o volessero gratificarsi il popolo. Cajo Gracco
avea fatto collocare pietre miliari, indicanti la distanza da Roma
o dai punti principali; e lungh'esse situavansi pure i sepolcri, in
vista, anziché sotterranei come quei de' prischi Italioti. V'erano
anche _cauponæ_ e _tabernæ_, ma forse ad uso soltanto della poveraglia:
del resto quando Orazio peregrinò a Brindisi, nella città di Mamurra
gli prestarono Murena la casa, Capitone i cuochi; prima d'arrivare al
ponte di Campania, pernottò in una villa, dove i provveditori imperiali
lo fornirono di legna e sale, secondo il loro dovere; in un'altra
villa presso Trivico fu affumicato da fascine verdi, e deluso da una
fanciulla[372].

Alle città in generale davasi la forma dell'accampamento, cioè un
parallelogrammo, per lo più di un quadrato e mezzo, tagliato pel lungo
e pel traverso da una o due strade; e tali possono riscontrarsi i
primitivi piani di Como, Piacenza, Parma, Pavia, Aosta, Torino; Verona
forma un quadrato.

L'unione di case private, disgiunte dalle vicine, costituiva un'isola;
il complesso di alquante isole, un vico; e molti vichi, una regione.
Solo i gran ricchi potevano abitare un'isola intera, massime da che
il crescente lusso delle fabbriche incarì i terreni. Molti dunque
appigionavano le case; e Marziale abitava a un terzo piano[373]; Silla,
non ancora famoso, pagava lire seicento l'anno di pigione: ma Cicerone
parla fin di tremila sesterzj o seimila lire per un appartamento.

Nelle case de' Romani, modificate tra l'antica italiana e la greca,
erano due parti distinte; una per uso particolare del padrone, una
pel pubblico. Il vestibolo oblungo (_protyrum_) menava dalla strada
in un cortile interno (_cavedium_), scoperchiato nel mezzo. Le acque
piovane erano raccolte sul tetto sporgente, e per lo spazio scoperto
(_compluvium_) cadevano in un bacino rettangolare (_impluvium_), spesso
decorato d'una fontana. A destra e a manca del cavedio disponevansi
le camere: di fronte, una sala aperta verso la corte (_tablinum_)
conteneva gli archivj e i ritratti di famiglia, e il padrone vi
riceveva i clienti, che aspettavano il suo arrivo passeggiando nel
cortile o seduti in salotti (_alæ_): corridoj (_fauces_) mettevano
all'interno della casa. Parte principale erano gli atrj, ignoti ai
Greci; e distinguevansi in _toscani_ quando i tetti fossero sostenuti
solo da travi murate; _tetrastili_ quando avessero quattro colonne
poste sotto ai punti d'intersezione delle travi; _corintj_ quando
le colonne fossero di più; _displuviata_ quando il tetto pioveva
all'infuori; _testudinata_ se affatto coperti.

Il limitare della porta guardavasi con rispetto superstizioso; guaj
l'inciamparvi! vi si scriveano parole di felice augurio, o teneansi
pappagalli e gazze che le ripetessero. Sovra la porta collocavansi
ornati e segni del mestiero che vi si esercitava, od iscrizioni.
Gli usci talvolta faceansi di marmo o di bronzo, e con bottoni,
mascheroni ed altri capricci; in occasione di nozze o di solennità
ornavansi di ghirlande e festoni; gli amanti vi sospendeano fiori;
i cipressi indicavano la morte. Eccetto quelle dei tribuni, stavano
chiuse, nè vi s'entrava senza bussare: nelle case ricche tenevasi il
portiere, incatenato come i nostri cani. Oltre la principale, s'avea
qualche porta di dietro (_postìca_), che riusciva negli _angiporta_ o
vicoli. Di rado si trovano scale, e queste di pietra o di legno come
oggi, fissate nel muro e per lo più buje; onde la frequente frase
d'ascondersi _in scalis_, o _in scalarum tenebris_[374].

La casa in generale non avea finestre o pochissime, e queste piccole
ed alte; talora chiuse con pietre speculari, o con vetri molto grossi e
non trasparenti[375].

Le parti interne comunicavano tutte fra sè mediante il cortile, da cui
le camere riceveano luce per mezzo delle porte: le camere spesso non
erano divise che da traversi o da cortine. Nella biblioteca poneansi le
effigie degli autori, d'oro, argento, bronzo, cera[376].

Da principio il fuoco ardeva nell'atrio, ove e cocevasi e mangiavasi, e
attorno a quello si raccoglievano i numerosi schiavi; dappoi nell'atrio
si tenne un foculo o braciere, dove mettere incensi ai lari[377]:
talvolta riscaldavansi le camere con tubi chiusi nelle pareti o sotto
al pavimento. Per cercare il fresco e meriggiare si aveano appartamenti
sotterranei, che ne' palazzi erano estesi, con molti corridoj e pitture
a fresco e fregi a stucco, i quali da ciò appunto trassero il nome di
_grotteschi._

Ornavansi i palazzi con giardini. Di grandiosissimi n'ebbe Mecenate;
e forse a quei di Lucullo presso Napoli servivano la Piscina Mirabile
di Miseno, e la nuova grotta, riaperta or fa poch'anni nel promontorio
di Coroglio, lunga più di mille metri, alta e larga meglio che
quella di Posilipo. L'arte industriavasi a procurarvi ombre, variare
l'esposizione, intrecciare labirinti, distribuir acque, e nel ridurre
le piante e i cespugli, massime di càrpino e di bosso, in figure
d'animali o di lettere (_ars topiaria_); della quale invenzione
si attribuiva il merito a Cajo Matio cavalier romano, famigliare
d'Augusto. Altre volte i giardini erano pènsili, e Seneca inveiva
retoricamente contro questo dover gli alberi cacciare le radici ove a
stento avrebbero innalzate le chiome[378].

Ai giardini aggiungevansi un viale d'alberi ove passeggiare discorrendo
(_gestatio_), e l'ippodromo per le corse a cavallo. Nè ignoti erano
i tepidarj, dove correnti d'acqua calda mantenevano una temperatura
tale che, a malgrado del verno, vi facessero i gigli bianchi e rossi,
le viole tusculane, le vigne, i poponi e gli alberi da frutto.
Coltivavansi pure delle piante bulbose, il croco, il narciso, il
giacinto, le iridi. A taluno erano unite uccelliere, e Alessandro
Severo n'ebbe una che conteneva ventimila piccioni, oltre fagiani,
pernici, altra selvaggina. Entro piscine conservavansi pesci vivi, con
ingenti spese.

Non dimentichiamo che a nessun palazzo mancava l'ergastolo, destinato a
chiudere gladiatori, atleti, schiavi. I primi, come ben nudriti, così è
a credere fossero anche ben alloggiati; ma gli schiavi si cacciavano la
sera in tane sotterranee, senza distinzione di sessi. Altri ergastoli,
come indica il nome, servivano pei lavori forzati, e in città n'avea di
molti; e talora i passeggieri venivano côlti, e gittati a lavorare in
quelle tane, senza che più se ne sapesse.

Le minori vie metteano sopra le strade grandi, le sole mantenute a
pubbliche spese, e che legalmente doveano farsi larghe non più di otto
piedi romani, che sono due metri e mezzo, e costeggiate da marciapiedi
rialzati, da due in quattro piedi; ben necessarj ove l'angustia appena
permetteva il cambio de' carri, e dove piovendo correva il rigagno.
Sulla strada s'aprivano le botteghe, e spesso in una tutte quelle
d'un esercizio, come a Roma nel fôro i banchieri; nel Vico Tusco e nel
Velàbro i conciatori, profumieri, droghieri, mercanti di stoffe; nella
via Sacra i venditori di minuterie domestiche, di ossetti d'avorio,
di tavolette da scrivere, di stipi di legno prezioso, dadi e tavole
da giocare. Nel 175 avanti Cristo i censori Fulvio Flacco e Postumio
Albino fecero selciare di pietroni le vie interne di Roma, di ghiaja le
esterne, e con margini rialzati[379].

La primitiva Roma occupava sul colle Palanzio appena un miglio
quadrato, colle porte Rumena, Capena, Magonia. Numa Pompilio estese
quel recinto, inchiudendovi il colle Capitolino e la parte più prossima
del Quirinale, e aggiungendo la porta Carmentale, detta Scellerata
dacchè ne uscirono i trecentosei Fabj. Tullo Ostilio cinse anche
il Celio per istanziarvi i vinti Albani; poi Anco Marzio collocò i
Latini sull'Aventino, murandolo. Tarquinio Prisco asciugò il Velàbro,
palude nell'avvallamento tra il Palatino, l'Aventino e il Campidoglio;
e meditava una nuova cerchia di mura, che fu poi compita da Servio
Tullio, aggregando il resto del Quirinale, e i colli Viminale ed
Esquilino, sicchè vi furono compresi sette colli; mentre il Gianicolo
ergevasi di là dal Tevere a guisa di cittadella.

La mura, invasa anch'essa dalle abitazioni, serpeggiava sul ciglio dei
colli: cominciando sulla sinistra del Tevere al fôro Olitorio presso
il teatro di Marcello, e seguendo il lato settentrionale della rôcca
Capitolina, scendeva al sepolcro di Cajo Bibulo, quindi per la valle
che separa il Campidoglio dal Quirinale saliva in vetta di questo verso
le Quattro Fontane, donde secondava il colle lungo il circo di Flora,
piegando poi incontro alla moderna porta Salaria. Quindi cominciava
l'aggere su cui fondata era la mura, e continuava per l'altura
sovrastante ai colli Quirinale, Viminale ed Esquilino fin all'arco di
Gallieno, ove esso argine terminava. Allora, sceso l'Esquilino, la mura
rimontava sul Celio presso al Laterano; indi per la sommità meridionale
del colle, dove ora sta Santo Stefano Rotondo, scendeva a valle tra il
Celio e l'Aventino; coronati i quali, tornava a raggiungere il fiume
là dov'erano e sono tuttora le conserve del sale. Di là dal Tevere le
mura staccavansi dal fiume in due linee rette per congiungersi colla
cittadella gianicolese di Anco Marzio. Vi attribuiscono il giro di otto
miglia, o precisamente 12,500 metri[380].

Ventitre o ventiquattro porte le aprivano: la Flumentana presso il
fiume; la Trionfale, donde entravano i vincitori pigliando la via
Sacra verso il Campidoglio; la Carmentale; la Rumena alle falde
del Campidoglio; una di nome incerto, sull'altura occidentale del
Quirinale; un'altra sul colle medesimo presso il palazzo pontifizio;
la Salutare in vetta ad esso colle, ove ora le Quattro Fontane; una
presso gli orti Sallustiani; la Collina, da cui partivano le vie
Salaria e Nomentana, e fuor della quale stava il Campo Scellerato; la
Viminale nella villa Negroni; l'Esquilina presso l'arco di Gallieno,
donde moveano le vie Prenestina, Labicana, Tiburtina; la Mezia, poco
discosta; la Querquetulana sulla via Labicana presso i Santi Pietro
e Marcellino; la Celimontana presso San Giovanni in Laterano; la
Ferentina sul Celio presso Santo Stefano Rotondo, donde si usciva al
bosco della dea Ferentina, oggi Marino, convegno dell'assemblea dei
popoli del Lazio; la Capena, da cui partivano le grandi strade Appia e
Latina, aprivasi nella gola fra il Celio e l'Aventino, ed era il corso
vespertino degli eleganti; la Nevia, al crocicchio delle vie Aventina
e di Santa Balbina, menava ai boschi Nevj, ricovero de' malfattori;
la Radusculana sotto la chiesa di San Saba, alla falda meridionale
dell'Aventino; la Lavernale sull'Aventino; la Mavale accanto al
bastione di Paolo III; la Minucia sulla sommità dell'Aventino; la
Trigemina, ove è l'arco della Salaria, così detta perchè avea tre
fornici. Quelle del lato occidentale sono incerte.

Dentro e fuori restava uno spazio sacro, detto _pomerium_, che non
potevasi nè edificare nè coltivare. Silla e Cesare estesero il pomerio,
ma non dilatarono la mura.

Augusto partì l'antico recinto di Servio Tullio in quattordici regioni,
che erano: Iª al mezzodì la Capena, ove il tempio dell'Onore, quello di
Marte Estramurano, le terme di Severo e di Comodo; IIª la Celimontana
sul monte Celio, ove la casa de' Laterani, la Mica Aurea fondata da
Domiziano, le scuole de' gladiatori, e il piccolo campo Marzio; IIIª
la Moneta nella valle fra il Celio, il Palatino e l'Esquilino, dove
le terme di Trajano e di Tito, la Casa Aurea di Nerone, le grandi
vie Suburra e Carina, il Colosseo; IVª la Sacra fra l'Esquilino, il
Palatino e il Quirinale, dove i tempj della Pace, di Roma, d'Antonino
e Faustina, il colosso di Nerone, gli archi trionfali di Tito e di
Costantino, la via Scellerata, la Sandalaria abitata da' libraj, la
Sacra dove Orazio solea passeggiare meditando e invanendo[381]; Vª le
Esquilie chiudeano parte dell'Esquilino e il Viminale, coi monumenti
del _Castrum prætorianum_, la casa e i giardini di Mecenate, l'arco di
Gallieno, il _vivario_ delle belve per l'anfiteatro; VIª l'Alta Semita
sul Quirinale abbracciava le terme di Diocleziano e di Costantino,
i tempj di Quirino, del Sole, di Flora, della Salute, i giardini di
Lucullo, di Sallustio, d'altri; VIIª la Lata, fra il Quirinale e il
Campo Marzio, aveva il fôro Suario, il portico di Costantino ed altri
monumenti; l'VIIIª regione era il fôro Romano fra il Capitolino, il
Palatino e il Tevere, e suoi monumenti il Miliario Aureo, il Comizio,
la curia Ostilia, il tempio di Castore, la basilica Porzia, la colonna
Mevia, il tempio di Vesta, i nuovi rostri, il tempio di Saturno, il
Campidoglio, la cittadella, i fôri di Cesare, d'Augusto, di Trajano,
ecc.; IXª il circo Flaminio nella parte più settentrionale, col
mausoleo d'Augusto, il Panteon, il teatro di Balbo, l'anfiteatro di
Statilio Tauro, il teatro di Marcello, la curia di Pompeo, la Villa
pubblica, dove faceasi il censo e si riceveano gli ambasciatori
stranieri; Xª la Palatina col palazzo imperiale; XIª il circo Massimo
fra il Palatino e l'Aventino; XIIª la Piscina pubblica fra l'Aventino
e il Celio; XIIIª l'Aventino, ove faceasi la rivista degli armati
(_armilustrium_); infine il Transtevere, ove i giardini di Nerone, la
Mole Adriana, le terme d'Aureliano. Siffatta divisione durò fino ad
oggi.

Cresciuta Roma di magnificenza e d'estensione sotto gl'imperatori,
Aureliano la cinse di nuove mura laterizie, quali in molti luoghi si
vedono tuttora, all'uopo principalmente d'inchiudervi i nobilissimi
edifizj circostanti al campo di Marte. Staccandosi dalla sinistra
del fiume presso porta Flaminia, la nuova mura ambiva verso oriente
il Pincio, poi il Quirinale, il Viminale, l'Esquilino, il Celio,
l'Aventino, e allargandosi per abbracciare monte Testaccio, toccava il
fiume; di là dal quale tornava molto più in fuori dell'odierna porta
Portense, donde salendo il fianco meridionale del Gianicolo, fiedeva
alla porta San Pancrazio, per scendere alla Settimiana. Non fu quindi
più la città de' sette, ma dei dieci colli: il Vaticano fu ricinto
soltanto da papa Leone IV, formando la città Leonina.

Nella nuova cerchia Roma ebbe da quindici miglia di giro, con
trentasette porte, che mettevano ad altrettanti sobborghi, e da
cui partivano trentuna strade militari. In quel ricinto contavansi
ventotto biblioteche, otto ponti, otto campi, dieci terme, venti
acque, diciotto vie, due campidogli, due circhi, due anfiteatri, tre
teatri, tre ludi, cinque naumachie, quindici ninfei, due colossi,
due colonne cocliti, sei obelischi, ventidue grandi cavalli, sette
Dei d'oro e settantaquattro d'avorio, trentasette archi di marmo,
quattrocenventitre vichi, quattrocenventidue palazzi (_ædes_),
mille settecentonovanta case maggiori, quarantaseimila seicentodue
isole, col qual nome, se pure la cifra non fu letta in fallo, non
potrebbero intendersi che le case minori; ducentonovanta granaj,
ottocentocinquantasei bagni, mille trecencinquantadue pozzi,
ducencinquantaquattro forni, quarantasei lupanari, quattrocento
cloache, cenquarantaquattro latrine.

Dei diciassette fôri o piazze, quattordici servivano per mercati
diversi (_venalia_), gli altri per gli affari (_civilia et
judiciaria_). Il più antico era il Romano, ove si teneano le arringhe
sulla tribuna ornata dei rostri tolti alle navi cartaginesi. Il fôro di
Cesare, presso campo Vaccino, costò un milione di sesterzj. Augusto nel
suo fece il tempio di Marte Vendicatore, intorniato di doppia galleria,
colle statue de' re latini da un lato, de' re romani dall'altro.
Domiziano cominciò quello di Nerva, dove poi Alessandro Severo pose
colossi degli imperatori e colonne di bronzo.

Alla vita pubblica d'allora s'addicevano i portici, formati di colonne
che sostengono un soppalco, disposte a più schiere; talvolta erano
indipendenti da qualunque altro edifizio; da poi si chiusero con
ricinti, e presero nome di basiliche. La prima basilica pubblica si
edificò sotto la censura di Porcio Catone il 569 di Roma, onde fu detta
Porcia; e tanto piacque che in vent'anni se ne costruirono tre nuove,
vicino al fôro, poi altre altrove, e anche per tutta Italia. Servivano
ad usi pubblici, come di borsa e di tribunale, a tal uopo finendo in un
semicircolo o abside, dove collocavasi il pretore sulla sedia curule,
circondato dai numerosi giudici e dagli avvocati. Dieci n'aveva in
Roma, la Giulia, la Vestilia, la Nettunia, la Matidia, la Marciana,
la Vascolaria, la Floscellaria, quelle di Paolo e di Costantino, e di
tutte più famosa la Ulpia, opera di Trajano, che abbiamo pur dianzi
descritta.

Noi ci badammo su questi particolari perchè, oltre essere la metropoli
del mondo, Roma serviva di modello anche alle altre città dell'impero;
sebbene non sia dimostrato quel che taluni asseriscono, che in ciascuna
vi avesse e fôro e teatro e circo e ginnasio e bagno e campidoglio,
colle forme e coi nomi medesimi della capitale.

E più ne sapremmo se degli scrittori d'arte ci fosse restato altro
che il solo Marco Vitruvio Pollione. Di patria e di casa ignoto, e
probabilmente schiavo greco, se argomentiamo dal suo scrivere cattivo
e ingombro di grecismi, da Augusto fu adoperato alle macchine militari:
ma de' fatti suoi nulla si saprebbe se egli stesso non avesse scritto.
Più maestro che artista, più ingegnere che architetto egli si mostra,
nè di gran valentìa dà saggio la basilica in Fano, unica che si ricordi
da lui architettata.

Molti avendo scritto d'architettura ma confusamente, egli pensò
ridurre in corpo compiuto quella scienza, e ciascuna parte in singoli
libri. E secondo si esprime ne' preamboli, nel primo spiega i doveri
dell'architetto e le cognizioni a lui necessarie; nel secondo i
materiali; nel terzo la disposizione de' tempj coi varj ordini, e la
distribuzione delle parti; nel quarto tratta specialmente dell'ordine
jonico e del corintio; nel quinto reca la disposizione degli edifizj
pubblici; nel sesto delle case private; nel settimo degli intonachi
onde abbellire ed assodare gli edifizj; nell'ottavo del trovare e
condur l'acqua; nel nono di differenti processi pratici e di cose utili
alla vita, come il peso specifico, la costruzione delle meridiane,
i rapporti del diametro col circolo, del lato colla diagonale del
quadrato; il decimo discorre delle macchine sì per fabbrica, come per
elevar l'acqua e per la guerra.

Ma il _Trattato d'architettura_ qual oggi l'abbiamo, è probabilmente
una compilazione, poco diversa da quella di Plinio, fatta da qualcuno
mal pratico, e che non avea visto co' proprj occhi i monumenti di
Grecia. Nell'esecuzione spesso confonde i soggetti, ed è peccato che
le figure che accompagnavano il testo siano perdute[382]. Scarso di
critica e filosofia, di stile vulgare, arido e spesso oscuro anche per
minutezza di particolari, a tacere i guasti venutigli dagli amanuensi,
va consultato con grande cautela, e confrontato cogli edifizj ancora
riconoscibili: ma se sarebbe servilità il prostrarsi a' suoi precetti,
è certo che, oltre le squisite notizie, di ottimi egli ne desume
dall'osservazione. Sopratutto raccomanda all'architetto lealtà e
disinteresse; ed egli medesimo si fa amare per la candida intenzione
con cui scrive.

Turpilio, cavaliere della Venezia ai tempi di Plinio, è il solo nobile
romano che coltivasse la pittura, la quale da Plinio stesso è definita
arte morente[383], benché ad alcuni egli sia cortese d'encomj; come
ad Amulio per una Minerva, la quale guardava l'osservatore dovunque
si mettesse[384]; meschina lode! Quinto Pedio, d'illustre famiglia,
era muto, e perciò l'oratore Messala s'accordò con Augusto di fargli
imparar la pittura; e riusciva bene se morte non l'avesse rapito.

Primeggiava tra i colori il cinabro, che Plinio pretende fatto col
sangue di un drago schiacciato da un elefante morente, in modo che i
due sangui si mescolassero[385]; e probabilmente era succo d'una palma.

Il minio era stato scoperto quattro secoli avanti Cristo nelle cave
d'argento d'Efeso: e per carezza e nobiltà gareggiava con esso il
purpurissimo, composto col liquore estratto dai murici che pescavansi
in riva al Mediterraneo. Sul golfo di Napoli manipolavansi minerali
indigeni e importati per uso di colori, quali l'azzurro denominato
fritta di Pozzuolo, e la porpora.

Si dipingeva per lo più sul legno; talvolta sulle pareti. Per animali e
fiori e dove occorresse maggior illusione, usavasi l'encausto; cioè (se
pure fra tante discrepanze possiamo prometterci lume di vero) con ferro
caldo tracciavansi i contorni sopra tavolette di avorio, o stendeasi
la cera colorata sopra il legno o l'argilla, ovvero con un pennello
intinto in cera e pece si dipingevano tavole. La pittura a fresco non
pare fosse conosciuta, male colla calce fresca accoppiandosi le lacche,
il bianco di piombo, il minio, l'orpimento, colori consueti degli
antichi.

Composizioni storiche ricorrono frequenti negli archi e sulle medaglie,
ma rare ne' dipinti; e di tanti che n'ha il museo Borbonico, soli
Sofonisba e Massinissa, e la Carità Greca tengono alla storia. Le
scene di vita domestica e civile sono sempre accompagnate da esseri
simbolici, come Amore, la Vittoria, Minerva. Altre volte figuravansi
sacrifizj, o processioni sacre, o giuochi ginnastici, e spesso
oscenità.

Il marmo di Luni, che oggi diciamo di Carrara, è un calcare bianco,
leggermente cristallino, senza fossili, del periodo secondario del
calcare giurassico: se non per durezza, per candore supera i più belli
d'Egitto e di Grecia, non eccettuato il marmo pario, a detta di Plinio,
che lo asserisce scoperto poco prima, e fu adoperato a tutte le opere
grandiose, ove prima usavansi il gabinio, l'albano, il tiburtino.

Il porfido, così detto dal suo colore di fuoco (πυρ), è d'un rosso
bruno mischiato, constando di silice combinata coll'allumina e la
potassa, e molto ferro ossidato, e cristalli di quarzo. Non si sapea
donde gli antichi lo traessero; ma gl'inglesi Burton e Wilkinson nel
1823 ne scopersero le cave in Egitto, a circa venticinque miglia dal
mar Rosso all'altezza di Licopoli (_Syouth_), non lungi dal porto
di Myoshormos, in montagne chiamate _Porphirites_ da Tolomeo, ed
oggi _Gebel Dokhan_, cioè del fumo di tabacco. Il nome di porfido fu
poi esteso ad altre pietre di simile impasto e durezza, e di colore
diverso. Del rosso, tanto difficile a scalpellare, fecero poco o punto
uso gli Egiziani nè i Greci: i Romani ne presero passione al tempo di
Claudio, e sotto Costantino moltissimo se ne lavorava, probabilmente
per mano di condannati; e non che colonne, statue, urne, riuscirono a
trame anche oggetti fini e galanterie.

Plinio e Vitruvio deplorano il lusso de' marmi, ornandosi gli
appartamenti con porfido, serpentino, agate, diaspri d'ogni qualità, e
rilevandone lo splendore con macchie artifiziali, e coprendo le pareti
di encausto; di modo che non rimaneva campo alla pittura.

Nelle gemme i Romani imitarono i Greci, ne adottarono i soggetti, o
se li desunsero dai fasti patrj, vi diedero espressione allegorica.
Forse ad artisti greci vanno attribuite quelle del tempo imperiale, che
sono i più insigni vanti delle gliptoteche: tal è quella del gabinetto
di Vienna, rappresentante la famiglia di Augusto; tale quella del
gabinetto di Parigi, rappresentante Tiberio da dio colla parentela
sua; e la sardonica del re d'Olanda, che offre il trionfo di Claudio
in sembianza di Giove; e la tazza del museo Borbonico. Anelli, sigilli,
coppe attestano la finitezza della gliptica in quei tempi.

Le arti belle però anch'esse vengono a confermarci la diffusa
immoralità. Cessato ogni pudore nella società, ogni scrupolo cessava
nell'arte convertita in mestiero, nè ad altro ispirantesi che al gusto
dei committenti; i tempj erano adorni di lubrici atteggiamenti, i vasi
delle mense foggiavansi in figure disoneste, e ciascuna stanza maritale
doveva ornarsi d'un dipinto osceno. Ovidio ogni tratto rammenta le
tavolette impudiche; Orazio dicono ne tenesse tappezzata tutta la
camera; a Properzio stesso facea scandalo il trovarne dappertutto[386].

Di capi d'arte abbondava la Sicilia, e lungamente si disputò se
vi fossero venuti di Grecia, o colà stesso lavorati; e poichè le
architetture sono più antiche delle greche, e vanno ornate di preziosi
bassorilievi e di cariatidi, è ragionevole presumere che anche le altre
opere fossero eseguite da Siciliani, o almeno da Greci stabiliti in
quell'isola.

Di statuette d'argilla una dovizia dissotterrarono a Catania, a Gela,
a Camarina, a Tindaro, ad Acre, a Centuripa, relative le più al culto
di Cerere e della dea Madre. Il Giove palliato, rinvenuto a Sòlunto,
collo scettro nella sinistra, coi calzari ornati di foglie di quercia,
e con due chimere che ne sostentano il trono; la Venere, uscita dalle
campagne di Siracusa, premente col piede sinistro la conchiglia e
il delfino, appartengono all'arte più squisita; la Venere Callipiga
vince la Medicea. Aggiungi due Ercoli dalle ruine di Catania, il Giove
Olimpico di Girgenti, i busti di Saturno, di Trittolemo, di Minerva.

Quante statue metalliche possedesse la Sicilia, il provano le
espilazioni dei Cartaginesi, di Marcello, di Verre, e più tardi degli
imperatori romani e bisantini. Pausania ricorda un Ercole in lotta
coll'Amazone equestre, consacrato in Messina da Evagora di Zancle;
e come, essendo naufragati trentacinque giovinetti col maestro e col
sonatore di piva, che i Messenj spedivano a Reggio per una solennità,
in memoria furono poste altrettante statue di bronzo. Quattro arieti
dello stesso metallo diceansi congegnati da Archimede in guisa, che il
vento faceva uscirne una specie di belato, che indicava da qual plaga
esso vento spirasse: da Siracusa furono trasportati nella reggia di
Palermo, ma per quanto si studiasse, mai non si trovò una disposizione
che riproducesse quel fenomeno, sinchè ne' furori del 1848 furono
spezzati.

Vi abbondavano pure bassorilievi e sarcofagi, molti de' quali ornano
oggi le chiese, benchè portino scene bacchiche o mitologiche[387].
Pietre intagliate si trovano spesso, e specialmente a Centuripa; e
l'essere alcune solo preparate per l'intaglio o non finite, ne conferma
quella scuola di gliptica, asserita da Eliano di Cirene. Lo stile di
queste apparterrebbe all'età imperiale; segno della durata di tale
artifizio: alcune portano le sembianze di Cicerone, di Ovidio, di
Comodo in veste d'Ercole[388].

Ricchissima di marmi e di pietre fine è la Sicilia; di berilli i
contorni di Castel Gratterio, di alabastri le falde del monte di
Calatrasi e la terra di Gibellina, di coralline e cotognine ed altre
mischie l'Erta, di agate molti paesi, e principalmente le sponde
dell'Acate donde trassero il nome, e le vicinanze di Alicata. Un'agata
siciliana, delle cui macchie erasi tratto partito per disegnarvi
Apollo e le Muse, fu legata in oro da re Pirro e tenuta in gran
pregio. Diaspri variegati offrono i monti di Giuliana e le vicinanze
di Palermo; diaspro tenero Trapani; Troina massi di porfido, de' quali
vennero cavati i sepolcri dei re normanni e svevi.

Un'altra dovizia artistica insieme e letteraria ci offre l'impero
romano, vogliam dire le iscrizioni e le medaglie, fonte di preziose
cognizioni storiche e civili; tanto che i maggiori eruditi v'attesero,
nè avvi forse città, di cui i numismi e le epigrafi non abbiano avuto
un illustratore particolare.

Le iscrizioni d'Italia alcune sono nelle lingue prische, alcune in
greco, le più in latino. Delle italiche tocchiamo nel parlare de'
primordj della nostra civiltà (V. Appendice II); e ad esse si riduce
quanto ci arrivò di scritto intorno a quella. Le greche più antiche
stanno sopra vasi; e sopra uno grossolano, trovato a Centorbi in
Sicilia, si ha una scrittura a bustrofedon, cioè andando da sinistra
a destra poi da destra a sinistra come fa il bue arando, creduta
anteriore fin all'iscrizione Sigea[389]. De' tempi successivi ne
abbondano i paesi della Magna Grecia e della Sicilia. Qualcheduna è
bilingue, come nel monumento greco-latino di Eraclea ne' Lucani, ove
si fa memoria che, rivendicatosi un fondo appartenente al dio Bacco,
gli agrimensori posero i termini, e lo divisero in quattro porzioni,
rilasciate a vita a quattro privati, che rendessero un canone annuo,
aggiunto l'obbligo di piantar viti, ulivi, fabbricare capanne e
stalle. Le greche tengono del dialetto dorico ne' paesi colonizzati dai
Corintj, quali Siracusa, Camarina, Gela, Agrigento, Megara, Selinunte;
e dello jonico in quelli derivanti dalla Calcide, come Nasso, Zancle,
Gallipoli, Eubea, Mile, Leontini. Queste sono assai meno, pur bastanti
a provare che ciascun paese scriveva come parlava; tanto più che a
Taormina se ne leggono d'ambo i dialetti, perchè la città d'origine
calcidica ricevette poi colonie siracusane. Non così può dirsi delle
romane, che, in qualunque paese siano, non si discernono per lingua;
attesochè i cittadini, sparsi per ogni lido, teneansi a norme uffiziali
per ogni atto, e così per la lingua. Nell'espressione seguono le
vicende de' tempi, incondite le prime, poi sempre più eleganti, infine
irte di neologismi e barbarismi, e che tutte insieme presentano
una portentosa ricchezza, perocchè il campo dell'epigrafia latina
estendesi quanto l'antico impero, cioè dall'Africa sin alla Bretagna, e
dall'Oceano sino al lembo dell'India.

Infinite occasioni si presentavano da voler eternare con epigrafi;
consacrazioni e invocazioni di divinità, voti, processioni, dediche
o sacrifizj, are, sacerdoti, magistrati civili o militari, dignità
conferite, applausi, vittorie in guerra o ne' giuochi, trionfi,
benemerenze di parenti o di benefattori, ricordi mortuarj. Ai monumenti
si poneva un'iscrizione, che, oltre commemorativa, era encomiastica o
storica: le più vanno semplici, perfino nell'adulazione: talvolta le
funerarie sono anche affettuose. Vi si univano figure rappresentanti
l'arte del defunto, come il deschetto e le scarpe sulla lapide di un
calzolajo a Milano; e una fabbrica di pane nel monumento di Euriface
fornajo, scoperto a Roma il 1838 fra le porte Prenestina e Labicana.

Quanto lume dalle iscrizioni potesse trarsi per la storia lo videro
già il Petrarca e Cola Rienzi; poi rinato il genio dell'erudizione nel
secolo xv, se ne trascrissero d'ogni parte in collettanee particolari,
o si radunarono gli apografi stessi. Nacquero così i musei, poco
usati dagli antichi, pei quali l'arte rimaneva intimamente collegata
alla vita, per modo che i capolavori si trovano ne' palazzi, nelle
terme, nelle basiliche, nelle ville, principalmente nei tempj, dove
_mistagogi_, noi diremmo ciceroni, mostravano le rarità e narravano le
tradizioni relative a quelle. Nel portico di Ottavia eransi adunate
molte statue: ne' circhi si ornava la spina con statue, obelischi,
vasi tolti in diversi luoghi; e ad un museo poteva somigliarsi la villa
d'Adriano a Tivoli. Neppur allora mancavano ciarlatanerie ed imposture:
Plinio ricorda che a Roma furono portate da Joppe le ossa dell'orca
marina a cui rimase esposta Andromeda, e il sasso dov'erano infisse le
catene con cui essa fu legata; Procopio descrive la nave con cui Enea
approdò in Italia, quale conservavasi a Roma.

Per iscrizioni il museo più ricco è il Capitolino: ma non v'è quasi
città che non ne possieda alcuno; e ne fecero la descrizione Scipione
Maffei per Verona, il Rivautella per Torino, il Guasco pel Capitolino,
il Gori per la Toscana, il Malvasia per Bologna, Olivieri per Pesaro,
Morisani per Reggio, Bianchi per Cremona, Noris per Pisa, Labus per
Mantova e Brescia, Boldetti e Lupi per le epigrafi cristiane, e così
altri, e più insigne di tutti Ennio Quirino Visconti. A Palermo fin dal
1580 decretava il senato di affiggere al suo palazzo le epigrafi che
si trovassero, meglio disposte poi nell'interno cortile, e illustrate
dal Torremuzza; a Catania fece altrettanto il principe di Biscari:
altri a Messina, Siracusa, Agrigento. Il quale Torremuzza, dopo
altri, diede _Siciliæ et objacentium insularum veterum inscriptionum
nova collectio_, 1784. Infine vennero il Muratori col _Tesoro_ delle
iscrizioni, l'Orelli a Zurigo colla raccolta di oltre cinquemila bene
scelte e ben lette, e Carlo Zell con un manuale (Eidelberga 1850)
utilissimo perchè di piccola mole; ed ora a Berlino sono radunate e
classificate tutte le antiche, colle tante che vengono in luce ogni
giorno.

Nelle monete, non considerandole qui che dal solo aspetto artistico,
oltre la materia, sono a notarsi la grandezza o modulo, il tipo,
l'iscrizione. Qualche moneta triangolare, rettangola, romboidale
offrono i popoli dell'Italia centrale; alcuna ovale è forse dovuta a
negligenza del fonditore; le più sono rotonde; nella Magna Grecia non
ne mancano di concave, a guisa di coppe; quelle di Siracusa tirano
allo sferico. L'ordinaria materia sono l'oro, l'argento, il rame o
il bronzo. Le più antiche di Sicilia sono d'argento, seguono quelle
di rame, ultime le auree, appartenenti le più a Siracusa, altre a
Gela, Agrigento, Taormina; alcune d'oro a Palermo portano lo stemma
punico: Dionigi ne fece di stagno[390]. Alcune sono di bronzo e piombo
rivestite poi di foglia d'oro o d'argento (_bracteatæ_): alcune son
liscie tutte, salvo un piccolo tipo stampato nel centro: altre con orlo
di metallo più fino _contorniatæ_. I medaglioni forse non batteansi
che per onoranza o per fregiare qualche divinità o per ricompensa
in guerra, benché, passata l'occasione, entrassero anch'esse in
commercio. I tre sovrintendenti alla zecca in Roma erano intitolati
AAAFF, cioè _auro, argento, ære fundendo feriundo_, dai tre metalli
che s'adopravano, e dai due processi di fondere il metallo in una forma
vuota portante le due impronte, o di fondere soltanto la botella, per
improntarla stringendola fra due morsi d'una tenaglia, o battendola con
un punzone.

Prima ancora delle iscrizioni, sulle monete ponevasi un tipo od
emblema, che poi si conservò sempre sul rovescio, sanzionato dalla
pubblica autorità; fosse l'effigie del principe, o la figura simbolica
della città, o lo stemma di questa, molte volte parlante, cioè
figurante un oggetto, il cui nome somigliasse a quello della città. Le
tre gambe disposte a triangolo significano la Sicilia, il petroselino
per Selinunte, il granchio (ἄκραγας) per Agrigento, un gomito (ἅγχων)
per Ancona, un muso di leone per Leontini, la luna per Populonia
(_popluna_), un toro per Turio, per Camarina il _chamærops humilis_,
cioè la piccola palma. Nel tipo s'incontrano spesso Vittorie alate in
commemorazione d'una battaglia o d'un giuoco vinto; talora l'effigie
del fiume vicino, come l'Aretusa pe' Siracusani, l'Ippari per Camarina,
l'Amenano per Catania; ovvero del dio o dell'eroe titolare, come
Ercole per Crotone, o di qualche cittadino illustre, come Timoleone
pei Siracusani; sulle monete della Magna Grecia frequenta il bove colla
testa umana, quanto i rostri sulle prime romane.

Fra le allegorie in queste la più frequente è la Vittoria, poi la
Salute, o la Pietà, o Roma cogli attributi di Minerva. Nel chinare
della repubblica crescono i tipi storici, talchè colle monete possono
accompagnarsi gli eventi e poetici e positivi; e non esprimendo
capricci d'individui, ma idee nazionali, vi s'indaga la storia de'
costumi e delle opinioni, viepiù preziosi degli altri monumenti perchè
non soffersero mutilazioni nè restauri. Spesso vi sono aggiunti altri
tipi, variatissimi e a capriccio, principalmente nelle monete delle
famiglie: e da settantamila ne conoscono i numismatici. Le spintrie
ostentano le lascivie di Tiberio a Capri.

Sotto i consoli, ed anche imperante Augusto, i triumviri monetarj
poteano scolpire i proprj nomi sulle monete, che perciò diconsi di
famiglia; e ne' tipi di queste compajono spesso figure allusive al nome
loro, Pan pei Pansa, un vitello pei Vitellj, un martello per Malleolo,
le muse per Musa, un fiore per Aquilejo Floro, un Giove cornuto pei
Cornificj. Delle città alcune continuarono a porre il nome e il tipo
proprio sulle monete, anche dopo sottoposte a Roma. Sotto gl'imperatori
non s'improntò più che l'effigie di questi; ma sul rovescio vedesi sc,
il che fece credere che la monetazione fosse spettanza del senato.
Bensì gl'imperatori vi posero anche l'effigie delle sorelle, delle
mogli, delle figliuole loro, e di parenti naturali o adottivi.

Al basso della medaglia, cioè nell'esergo, viene indicato il luogo ove
furono battute; roma e romano si ha in moltissime anche forestiere,
che forse faceansi a Roma; poi nel Basso Impero COMO o COMOB, che
probabilmente significa CO_stantinopoli_ M_oneta_ OB_signata_.

La Sicilia è uno dei primi paesi di cui abbiansi monete, come se ne
hanno le più belle e la maggior varietà, ogni città adoprandovi tipi
distinti, secondo il genio municipale dei Greci. Le antichissime sono
di Messina, e alcune anteriori al 560 avanti Cristo, e forse fino del
620. Filippo Paruta segretario del senato di Palermo diede pel primo
in luce il medagliere siciliano nel 1612; ma la descrizione che dovea
seguirvi, andò perduta. Alle imperfezioni di quello supplirono Leonardo
Agostini, Marco Meyer, Sigeberto Hauercamp, il principe di Torremuzza,
infine Federico Munter[391]. Della sola Siracusa il Torremuzza pubblicò
trentasei monete d'oro, censessantatre d'argento, cenquarantanove di
bronzo; e un buon terzo se ne aggiunsero dipoi.

Le prische monete italiche sono i nummi librali o _æs grave_, rotonde,
a lente, con rilievo d'ambo i lati, e che indicavano e il peso e
il valore d'un asse. Sono speciali dell'Italia, ma vi mancano segni
per discernere a qual città appartengano, e i tipi rappresentano un
cavallo, un delfino, una lira, un elefante, una troja, una testa di
Giunone o di Cerere o dei Dioscuri, Romolo e Remo colla lupa, una
Vittoria sulla quadriga, o simili. Quando Roma battè o piuttosto fece
battere nella Campania denaro proprio, vi adoperò il tipo nazionale
del Giano bifronte e la prora di nave. Plinio vorrebbe che solo nel
485 si battessero monete d'argento: il che vuol forse significare che
quell'anno se ne ponessero le fabbriche. Fin a Pompeo Magno ben poco
oro fu coniato.

Gli avanzi di belle arti, guasti come sono dal tempo e dai casi,
e disgiunti da quelle minute particolarità il cui accordo cresce
significazione all'insieme, eran ben lontani dal porgere adequata
idea di ciò che allora fossero le arti, la ricchezza, l'edilizia, e
dal rivelare gli usi della vita pubblica e privata, imperfettamente
dinotati dagli scrittori, che, come in cosa nota, s'accontentano
di allusioni. Per compiere l'istruzione, città intere uscirono dal
sepolcro. Il Vesuvio, che in tempi anteriori ad ogni memoria avea
vomitato fiamme, tacque per secoli, finchè, imperante Tito, rinnovò
le sue eruzioni, colle quali più non cessò di minacciare i deliziosi
contorni di Napoli. In quella prima rovina, fra altre borgate e ville,
rimasero sepolte Ercolano e Pompej.

Ancor più che le lave e i lapilli, sedici secoli n'aveano cancellata
la memoria, quando Emanuele di Lorena principe di Elbeuf, nel 1713,
udito che un del paese avea tratto alcuni marmi da un pozzo, comprò
il diritto di farvi scavi. Il pozzo dava appunto sopra il teatro di
Ercolano, e ne cavò un Ercole, una Cleopatra, e sette altre statue,
che spedite subito in Francia, destarono la meraviglia. Continuando,
ebbe finissimi marmi d'Africa, poi scoperse un tempio rotondo con
ventiquattro colonne e altrettante statue in giro. Carlo III di Napoli
ricomprò da esso principe quello spazzo, e sterrando acquistò la
certezza d'avere scoperta una città. Ma su questa venti metri di lava
eransi induriti, e sopra edificate Portici e Resina, che sarebbonsi
dovute demolire co' regj loro palazzi. Forza fu dunque limitarsi a
parziali escavazioni, e da ciascuna di esse trarre quel che si poteva,
indi colmare di nuovo i vuoti per non iscalzare le città.

Anticaglie d'ogni genere uscirono così; affreschi, quadri, vasi,
bassorilievi, fregi, rabeschi, le statue equestri dei consoli Nonio e
Balbo, bronzi, tripodi, lampade, pàtere, candelabri, altari, istrumenti
di musica e di chirurgia, che formarono una ricchezza non rara ma unica
del museo Borbonico. Molti estesi edifizj si riconobbero, tempj, un
teatro, il fôro: tra il resto una bella casa di campagna, con giardino
che stendeasi fin al mare, abbellito d'una peschiera che terminava
in semicircolo alle due estremità; attorno ad essa scompartimenti
come d'ajuole; e tutto circondato da colonne di mattone intonacate di
gesso, su cui appoggiavano travi, infisse nel muro di cinta, formando
così attorno allo stagno una pergola, sotto cui erano divisioni or
triangolari ora a semicircolo, per lavare e per bagnarsi. Fra le
colonne sorgeano busti di marmo e statue muliebri di bronzo, alcune
grandi al vero, della fusione più perfetta: un canaletto d'acqua
lambiva il muro di cinta. Annessa era la camera dove si trovarono i
famosi rotoli di papiro, che svolti con ingegnosissima lentezza, ci
regalano tratto tratto qualche novità, ma nulla finora d'importante;
e ciò ch'è notevole, un solo è in latino, frammento d'un poema sulla
guerra di Azio. Le sei danzatrici, il Fauno dormente, il Mercurio, sei
busti creduti de' Tolomei, altri di Platone, Archita, Saffo, Democrito,
Scipione Africano, Silla, Lepido, Cajo e Lucio Cesare, Augusto, Livia,
Claudio Marcello, Agrippina minore, Caligola, Seneca, due incogniti,
due daini, varie figurine, l'Omero, l'Aristide ch'è delle migliori
statue antiche, due busti di Bacco indiano, il preteso Silla, il
Satiro colla capra, tutti di marmo, si trovarono in questo giardino,
che pure apparteneva ad un filosofo privato. La Pallade, scoperta ad
Ercolano stesso e dell'età di Fidia, va ben innanzi ai marmi eginetici;
antichissima è pure l'Artemisia, che l'esser fatta di marmo di Carrara
ci lascia supporre eseguita in Italia[392].

In quel medesimo torno di tempo, l'aratro d'un villano urtò contro una
statua di bronzo, e questa diede spia dell'altra città di Pompej[393].
Lapilli e ceneri la ricoprono, talchè poco a poco ella potrà ritornarsi
intiera alla luce: per non nuocere a tanti fini lavori e perchè nulla
vada perduto, lenti procedono gli scavi, ma è già scoperta la regione
principale, con due teatri, un tempio d'Iside, uno d'Esculapio,
uno greco, una porta della mura colla via delle tombe, il fôro, la
basilica; in breve spazio raffittiti edifizj, che oggi basterebbero ad
una grande città. All'altra estremità è l'anfiteatro; e mura pelasgiche
la circondano.

Le case si somigliano per distribuzione e ornamenti; a uno o due
piani; camerette di appena tre in quattro metri, alte da cinque a
sei, malagiate di comunicazioni e disimpegni, con poche finestre,
simili a feritoje, eccetto quelle che danno sul giardino, e che
forse erano serbate alle donne. I cortiletti sono cinti da portici,
anche nelle abitazioni di minore importanza, onde godervi il rezzo.
Negli appartamenti non usavasi legname alle costruzioni, eccettochè
per le imposte alle finestre e alle porte; pavimenti a musaico;
soffitta e pareti con medaglioni di stucco, e con pitture e musaici,
rappresentanti vivande, libri, utensili, mobili, storie, secondo il
genio e l'arte del padrone. Quella del poeta tragico, sullo spazio di
quindici metri in largo e del doppio in lungo, è divisa in diciannove
membri, compreso l'atrio: il musaico alla soglia rappresenta un
mastino alla catena coll'iscrizione _cave canem_. Dal corridojo passi
nell'atrio, cortile scoperto, adorno ai quattro lati di pitture, tratte
dall'Iliade o allusive ad arte drammatica: all'intorno camere pe'
forestieri, anch'esse a dipinti, spesso osceni: rimpetto all'ingresso
il tablino, o sala di ricevimento, porta la figura d'un poeta tragico
che declama a due astanti, mentre sul pavimento a musaico è figurata la
prova d'un'opera; esecuzione squisitissima. Vi succede il peristilio
o seconda corte aperta, in cui un giardinetto cinto da portico di
sette colonne doriche, esso pure dipinto. Al fondo sta il larario o
cappella domestica, con un graziosissimo Fauno di bronzo; a manca un
gabinetto di riposo, con Diana, Narciso al fonte e Amore che pesca;
un'altra cameretta è a paesi e marine, e sul muro principale sta
dipinta una schiera di libri, che il tragico forse non possedeva se non
col desiderio. In faccia trovate l'esedra, o sala di conversazione,
decorata di ballerine, di frutti e d'animali, con Leda, Arianna
abbandonata, il sacrifizio d'Ifigenia: da canto la cucinetta con tutti
gli attrezzi dipinti, oltre i reali, comunica col triclinio anch'esso
pitturato: di sopra era il gineceo.

Direste che quelle case jeri appena sieno state deserte. Nel tempio
d'Iside hai disposti gli utensili delle cerimonie; gli scheletri dei
sacerdoti, sorpresi tra quelle, ancor portavano gli abiti pontificali;
i carboni stanno sull'altare; e candelabri, lampade, patere per le
libazioni, lettisternj per la dea, purificatoj ornati a stucco, e un
capace vaso di bronzo colle ceneri dell'ultimo olocausto, miste al
grasso delle vittime. Ancora l'insegna invita al fondaco del mercante;
leggendo alla soglia la voce salve, credi udirla dal padrone, cui
il motto ben augurato non preservò; là pozzi in mezzo alla via, qua
cloache sboccanti al mare; sull'angolo d'un crocicchio una spezieria
coll'insegna del serpe che morde un pomo; altrove un altare coll'aquila
di Giove, esposti in vendita; l'uffizio d'un pubblico pesatore; gli
spacci di bevande calde, corrispondenti ai nostri caffè; altrove
una casa di bordello, indicata da priapi e dal motto HIC FELICITAS,
che rivela una filosofia gaudente[394]. I pani hanno il marchio del
fornajo; alcuni non cotti ancora, altri già rotti; nel pistrino hai
macine singolari; nella madia preparata la farina col lievito; nel
forno una torta entro la sua tegghia; altrove, fave, noci, olio, vino
in fiaschi col nome dei consoli e che non doveva esser bevuto; biche
di grano, il quale piantato spigò dopo mille settecento anni di sonno
vitale. Entri negli appartamenti delle signore? eccoti scarpe[395],
spilli, aghi, ditali, forbici, gomitoli, rocche, oricanni di balsami,
e gli arnesi onde anche oggi si accresce o ripara la bellezza, e monete
forate che recavansi al collo; in altre parti, dadi da giocare, palle e
balocchi da fanciulli. Ma in tante abitazioni, non carta, non libri.

S'una casa, poco lungi dalla porta, leggesi in rosso il nome di
Sallustio, lo storico che qui appunto aveva una villa: colà l'_album_
ove si affiggevano i decreti de' magistrati, gli annunzj di vendite,
aste e simili: dentro era un portento di quadri, marmi rosei, musaici,
anfore, vasi d'immenso prezzo. La via del sobborgo, spaziosa e
allineata, fiancheggiano case di campagna, tombe, sedili di pietra,
ove gli abitanti venivano sulla sera fra i sepolcri degli amici e dei
parenti per respirare il fresco e osservare i viandanti. Nel sobborgo
sorgea la villetta, di cui tanto Cicerone si compiaceva; e là presso
quella del liberto Diomede, benissimo conservata, colla porta aprentesi
sopra un verone e fiancheggiata da due colonne; cortile quadrato, cinto
da portici a colonne, sotto cui si aprivano gli appartamenti.

Non v'è abitare, ove non si trovino pitture. Queste sono opera di
quadratarj o imbianchini, ma probabilmente riproducono tavole famose; e
certamente l'Ercole fanciullo e il sacrifizio d'Ifigenia sono desunti
da quelli di Zeusi, come dalla scuola corintia proviene l'Achille
in Sciro. Le pitture di Pompej restano quasi gli unici monumenti
per giudicare dell'arte pittorica presso i Greci, ma ristrette in
cento anni quanto all'esecuzione, mentre pei soggetti recano fin
ai tempi alessandrini, e sempre con pose tranquille, figure non
aggruppate, fondo d'un sol colore, e poche linee prospettiche. Anche
qualche capolavoro doveva esser copiato a musaico; e quello che
serviva di pavimento a un triclinio, e che figura la battaglia fra
Alessandro Magno e Dario, è il pezzo più insigne che l'antichità ci
tramandasse[396].

Nè minor fasto spiegavasi nelle tombe[397]. In quella eretta da Tuche
vivente pei liberti e le liberte sue, sotto al ritratto di essa vedi
l'iscrizione e un bassorilievo, portante da una faccia la famiglia,
dall'altra l'effigie de' magistrati municipali; accanto sta scolpita
una barca, simbolo del passaggio; e daccosto è il triclinio pei pasti
funerei[398].

Se tale era una città di provincia, si argomenti qual dovette essere
la metropoli. Pure ammirando la magnificenza e il gusto, abbiam
molto a congratularci delle maggiori comodità odierne. Gabinetti di
meraviglioso lavoro mancavano di luce, ed era bujo quello a Roma da cui
uscì il gruppo del Laocoonte: gl'illuminavano lampade di elegantissime
forme, ma dove neppur si era introdotta la corrente doppia, talchè
affumicavano le volte. Se stupende strade erano destinate a trasportare
e trasmettere le contribuzioni agli eserciti, mancavasi però di quelle
tante, che oggi mettono in comunicazione ogni minimo villaggio. Le
vie di Roma furono sempre anguste e montuose[399]; quelle interne di
Pompej sono strette, allagate dalla pioggia, senza fogne. Indarno poi
vi cercheresti uno spedale, un albergo de' poveri; e la plebaglia
doveva essere confinata in catapecchie, che non resistettero al
tempo, e disgiunte dalle abitazioni civili. Le camere stesse de'
ricchi sono bugigattoli senza aria nè luce, nè bellezza di specchi e
di finestre: i ginecei delle donne somigliano a prigioni. Eleganti i
sedili e i letti ma duri; senza molle nè cinghie i carri, del resto
ben rari, come lo prova l'angustia delle strade: ivi non lampioni per
la notte, non pompe da aspirar l'acqua, non difese contro la pioggia
e i fulmini, non tovagliuoli nè forchette a tavola, neppur bottoni o
occhielli al vestito; non carte geografiche o bussola i viaggiatori,
non colori a olio i pittori. Che diremo dell'infima classe priva di
quelle innumerevoli comodità oggimai a nessuno negate, libri, quadri,
oriuoli, vesti di seta, camini, acquajuoli, zuccaro e caffè, stoviglie
ben verniciate, biancheria che dispensi dalla frequenza de' bagni, e
macchine che scusino le più dure fatiche, e libertà di spendere come si
voglia il denaro acquistato con libero lavoro?

Ammiriamo dunque, ma non invidiamo il passato, e figuriamoci che l'età
dell'oro, se pur è sperabile, sta davanti a noi, non dietro, per quanto
sia vero che per arrivare al desiderato avvenire conviene afforzarsi
nella scuola del passato.


  FINE DEL TOMO TERZO



INDICE


  CAPITOLO                                              _pag._
     XXXI.  Il secolo d'oro della letteratura latina         1
    XXXII.  Tiberio                                         79
   XXXIII.  Un imperatore pazzo, uno imbecille,
              uno artista                                   92
    XXXIV.  Prosperità materiale e depravazione
              morale. Lo stoicismo                         118
     XXXV.  La redenzione                                  183
    XXXVI.  Galba. — Otone. — Vitellio                     207
   XXXVII.  I Flavj                                        217
  XXXVIII.  Imperatori stoici                              235
    XXXIX.  Gli Antonini                                   252
       XL.  Economia pubblica e privata sotto gli
              Antonini                                     272
      XLI.  Coltura de' Romani. Età d'argento della
              loro letteratura                             304
     XLII.  Belle arti. Edilizia                           392



NOTE:


[1] Orazio, Ep. II.

[2]

    _Græcia capta, ferum victorem cepit, et artes_
    _Intulit agresti Latio_...
    _Serus enim græcis admovit acumina chartis._
                                           Ep. II. 1.

(*) Mommsen vorrebbe che i versi fescennini e le atellane fossero detti
non dalle distrutte città di Fescennio e Atella, ma dal porsi in queste
città la scena delle commedie, affine di satirizzare senza incorrere le
gravi pene comminate a chi ingiuriasse un cittadino romano.

[3] Lib. VII, cap. 2.

[4] Plauto nel prologo del _Trinummo_ dice: _Plautus vortit barbare_;
e _barbarica lex_ chiama la romana nei _Captivi_; e _Barbaria_ l'Italia
nel _Penulo_.

[5] _Vates_ da _fari_, come Fauni; ed è comune alle genti il chiamare
sè parlanti, e muti gli stranieri.

[6] ORAZIO, Ep. II. 1; TACITO, _Ann._, XIV. 21.

[7] Singolarmente un Rintone da Taranto, modello di Lucilio, e
inventore d'una non sappiamo quale specie di commedia (LYDUS, _De
magistratibus rom._, I. 41). Forse era quella che a Roma dicevasi
_Rintonica_.

[8] Ciò risulta da Diomede, III. 488, nella collezione di Putsch.

[9] Munck, _De atellanis fabulis_, pag. 52, crede Strabone s'ingannasse
sull'_osce loqui_, volendo questo dire non che si servissero della
lingua osca, ma che parlavano _oscamente_, cioè rusticamente.

[10] Martino Hertz, in una memoria stampata a Berlino il 1854, sostiene
che deva dirsi Tito Maccio Plauto, nè altrimenti pensano l'editore di
Plauto Ritschl e Lachmann; così trovando in un palinsesto. Non pare
abbiano ragione.

[11] Per esempio:

    _Obsequium amicos, veritas odium parit._
    _Amantium iræ amoris integratio est._
    _Homo sum; humani nihil a me alienum puto._

[12]

    _Atque ideo hoc argumentum græcissat, tamen_
    _Non atticissat, verum at sicilissat._
                              Prologo dei _Menæchmi_.

Anche Cicerone (_Divin. in Verrem_) rinfacciava a Cecilio, suo
competitore, d'avere imparato le greche lettere non in Atene ma al
Lilibeo, le latine non a Roma ma in Sicilia. Ciò proveniva dall'usarsi
nell'isola e il latino e il greco, il che guastava entrambe le lingue;
e forse più il commercio co' Cartaginesi.

Nel vol. III delle _Memorie sulla Sicilia_ è inserita una dissertazione
di Giuseppe Crispi «intorno al dialetto parlato e scritto in Sicilia
quando fu abitata dai Greci», corredata di esempj che scendono fino
alla dominazione normanna, cioè al sottentrare dell'italiano.

[13] Anche Terenzio alcuni pretendono sia scritto in prosa; tante sono
le licenze a cui bisogna ricorrere per ridurlo a versi giambi trimetri,
cioè di sei piedi, nei quali la sola regola che _quasi sempre_ egli
osserva è di finire con un giambo.

[14] Lo snodarsi ordinario degli intrecci col ricomparire d'un
personaggio creduto morto, o col far riconoscere un padre o un figlio,
trovava giustificazione fra gli antichi dall'abitudine di esporre i
bambini e ridurre schiavi i prigioni di guerra, dalle frequenti rapine
de' corsari, e dalle scarse comunicazioni fra' paesi. Quanto agli a
parte e alla doppia azione, restavano meno sconci per la vastità dei
teatri, e perchè la scena per lo più rappresentava una piazza, cui
molte strade metteano capo.

Di Terenzio cantava Cesare:

    _Tu quoque, tu in summis, o dimidiate Menander,_
    _Poneris, et merito, puri sermonis amator;_
    _Lenibus atque utinam scriptis adjuncta foret vis,_
    _Comica ut æquato virtus polleret honore_
    _Cum Græcis, neque in hac despectus parte jaceres!_
    _Unum hoc maceror, et doleo tibi deesse, Terenti._

Sebbene la frase _vis comica_ sia divenuta vulgata, inclino a credere
che il terzo e quarto verso vadano punteggiati come ho fatto, unendo il
_comica_ a _virtus_. Vedasi tom. I, pag. 364.

[15]

    _Quod si personis iisdem uti aliis non licet,_
    _Qui magis licet currentes servos scribere,_
    _Bonas matronas facere, meretrices malas,_
    _Parasitum edacem, gloriosum militem,_
    _Puerum supponi, falli per servum senem,_
    _Amare, odisse, suspicari? Denique_
    _Nullum est jam dictum quod non dictum sit prius._
                                 Prologo dell'_Eunuco_.

Ecco l'intreccio di tutte le commedie.

Sui comici latini porta questo giudizio Vulcazio Sedigito, vivente
sotto gl'imperatori:

    _Multos incertos certare hanc rem vidimus_
    _Palmam poetæ comico cui deferant._
    _Eum, meo judicio, errorem dissolvam tibi,_
    _Ut, contra si quis sentiat, nihil sentiat._
    _Cæcilio palmam Statio do comico:_
    _Plautus secundus facile exsuperat ceteros:_
    _Dein Nævius qui fervet, pretio in tertio est:_
    _Si erit quod quarto detur, dabitur Licinio:_
    _Attilium post Licinium facio insequi;_
    _In sexto sequitur hos loco Terentius:_
    _Turpilius septimum, Trabea octavum obtinet:_
    _Nono loco esse facile facio Luscium;_
    _Decimum addo causa antiquitatis Ennium._
                    Presso A. GELLIO, XV. 24.

Sembra non abbia voluto indicare che gli autori di commedie _palliatæ_,
e perciò lasciasse daccanto persino Afranio, illustre nelle _togatæ_.

[16]

    _Poeta, cum primum animum ad scribendum appulit,_
    _Id sibi negotii credidit solum dari_
    _Populo ut placerent quas fecisset fabulas._
                         TERENZIO, prologo dell'_Andria_.

    ... _Eum esse quæstum in animum induxi maxumum,_
    _Quam maxume servire vestris commodis._
                        Prologo dell'_Eautontimorumenos_.

[17] Perchè Roma non ebbe tragedie? Tale questione è magistralmente
trattata da Nisard, _Etudes sur les mœurs et les poètes de la
décadence_, a proposito di Seneca. — Lance (_Vindiciæ romanæ tragediæ_.
Lipsia 1822) raccolse ben quaranta tragici romani. — Vedi pure
_Tragicorum romanorum reliquiæ: recensuit Otto Ribbeck_. Lipsia 1852.

[18] _Si quis populo occentassit, carmenve condisti, quod infamiam
faxit flagitiumve alteri, fuste ferito._ Cicerone, _De republica_,
dice: — Le XII Tavole avendo statuita la morte per pochissimi fatti,
tra questi stimarono non doverne andar esente colui che avesse detto
villanie, e composto versi in altrui infamia e vitupero. E ottimamente,
perchè il viver nostro dev'essere sottoposto alle sentenze de'
magistrati ed alle dispute legittime, non al capriccio de' poeti; nè
dobbiamo udir villanie se non a patto che ci sia lecito il rispondere e
difenderci in giudizio». Elegantissimamente Orazio soggiunge nella già
più volte citata _Epistola_ II. 1:

    _Libertasque recurrentes accepta per annos_
    _Lusit amabiliter, donec jam sævus apertam_
    _In rabiem verti cœpit jocus, et per honestas_
    _Ire domos impune minax. Doluere cruento_
    _Dente lacessiti: fuit intactis quoque cura_
    _Conditione super communi: quin etiam lex_
    _Pœnaque lata, malo quæ nollet carmine quemquam_
    _Describi. Vertere modum, formuline fustis_
    _Ad bene dicendum, delectandumque redacti._

[19] Quando Cicerone fu richiamato in patria, Esopo tragico, recitando
il _Telamone_ di Azzio e cambiando poche parole, fece applauso a lui
con questi motti: _Quid enim? Qui rempublicam certo animo adjuverit,
statuerit, steterit cum Argivis... re dubia nec dubitarit vitam
offerre, nec capiti pepercerit... summum animum summo in bello...
summo ingenio præditum... O pater!... hæc omnia vidi inflammari...
O ingratifici Argivi, inanes Graji, immemores beneficii!... Exulare
sinitis, sinitis pelli, pulsum patinimi etc._

Nei giuochi Apollinari, avendo Difilo recitato questi versi,

    _Nostra miseria tu es magnus_...
    _Tandem virtutem istam veniet tempus cum graviter gemes_...
    _Si neque leges, neque mores cogunt_...,

il popolo volle vedervi un'allusione a Pompeo, e costrinse l'attore a
replicarli migliaja di volte; _millies coactus est dicere_. CICERONE,
_ad Attico_, II. 19.

Sotto Nerone, un attore dovendo pronunziare, _Addio, padre mio;
addio, madre mia_, accompagnò il primo coll'atto del bere, il secondo
coll'atto del nuotare, per alludere al genere di morte dei genitori
di Nerone. Poi in un'atellana proferendo, _L'Orco vi tira pei piedi_
(_Orcus vobis ducit pedes_), voltavasi verso i senatori.

[20] Erano Britanni quei che abbassavano, noi diremmo alzavano gli
scenarj:

    _Vel scena ut versis discedat frondibus, utque_
    _Purpurea intexti tollant aulæa Britanni._
                   VIRGILIO, _Georg._, III. 24.

[21] Della critica di Acilio un bel saggio ci conservò A Gellio,
intendendo mostrarcene la _simplicissima suavitas et rei et orationis_
(XI. 14): _Eundem Romulum dicunt ad cœnam vocatum, ibi non multum
bibisse, quia postridie negotium haberet. Ei dicunt: — Romule, si istud
omnes homines faciant, vinum vilius sit». Is respondit: — Immo vero
carum, si quantum quisque volet, bibat; nam ego bibi quantum volui_».
C'è bene da disgradare le _cronicacce di frati_, contro cui se la
piglia Carlo Botta.

[22] Εἰ γὰρ, ἧς πάντες εὐχόμεθα τοῖς Θεοῖς τυχεῖν, καὶ πᾶν ὑπομένομεν
ἱμείροντες αὺτῆς μετασκεῖν, καὶ μόνον τοῦτο τῶν νομιζομένων ἀγαθῶν
ἀναμφισβήτητόν ἐστι παρ’ ἀνθρώποις (λέγω δὴ τὴν εἰρήνην) κ. τ. λ.

[23] Ὅτι σφόδρα οἱ ̔Ρωμαῖοι φιλοτιμοῦνται δικαίους ἐνίστασθαι τοὺς
πολέμους. _Framm._ XXXII. 4. 5.

[24] Anche Eumachio di Napoli avea descritto le geste di Annibale.
Celidonio Errante ha un discorso sui difetti della primitiva storia
siciliana, derivati dall'esserci giunta solo per frammenti; e suggeriva
di supplirvi in qualche modo col radunare que' frammenti. Cominciò
egli stesso l'opera nella _Biblioteca greco-sicula_ (Palermo 1847), ove
discorre di varj storici, quali Antioco, Temistogene, Filisto, Dicearco
ed altri.

[25] _Libros tuos conserva, et noli desperare eos me meos facere posse;
quod si assequero, supero Crassum divitiis, atque omnium vicos et
prato contemno._ Ad Attico, I. 4. — _Bibliothecam tuam cave cuiquam
despondeas, quamvis acrem amatorem inveneris: nam omnes vindemiolas eo
reservo, ut illud subsidium senectuti parem._ Ivi, 10. E spesso ritocca
la corda.

[26] _De latinis (libris) quo me vertam nescio; ita mendose et
scribuntur et veneunt._ CICERONE, _ad Quintum_, III. 5.

[27] Fuvvi bibliotecario Giulio Igino, che scrisse delle api e degli
alveari. Giulio Attico e Grecino trattarono della coltura delle viti.

[28] _Acad. Quæst._, I. 3: — Noi peregrini e quasi stranieri nella
città nostra, i tuoi libri condussero, per così dire, a casa, talchè
potessimo conoscere chi e dove fossimo. Tu l'età della patria, tu la
descrizione dei tempj, tu la ragione delle cose sacre e dei sacerdoti,
tu la disciplina domestica e la guerresca, tu la sede dei paesi e
dei luoghi, tu ci mostrasti delle cose tutte umane e divine i nomi, i
generi, gli uffizj, le cause, ecc.

[29] Le etimologie di Varrone sono già derise da Quintiliano, _Inst.
orat._, I. 6: _Cui non post Varronem sit venia? qui_ agrum, _quod
in eo_ agatur _aliquid; et_ graculos _quia gregatim volent, dictos
Ciceroni persuadere voluit; cum alterum ex græco sit manifestum duci,
alterum ex vocibus avium? Sed huic tanti fuit vertere, ut merula, quæ
sola volat, quasi mera volans, nominaretur._

[30] Fra le sentenze di Varrone, alcune vengono opportune anche oggi,
specialmente a coloro che l'erudizione antepongono a tutto.

_Non tam laudabile est meminisse quam invenisse: hoc enim alienum est,
illud proprii muneris est._

_Elegantissimum est docendi genus exemplorum subditio._

_Amator veri non tam spectat qualiter dicitur, quam quid._

_Illum elige eruditorem, quem magis mireris in suis quam in alienis._

_Non refert quis, sed quid dicat._

_Sunt quædam quæ eradenda essent ab animo scientis, quæ inserendi veri
locum occupant._

_Multum interest utrum rem ipsam, an libros inspicias. Libri nonnisi
scientiarum paupercula monimenta sunt; principia inquirendorum
continent, ut ab his negotiandi principia sumat animus._

_Eo tantum studia intermittantur, ne obmittantur. Gaudent varietate
musæ, non otio._

_Nil magnificum docebit qui a se nil didicit. Falso magistri
nuncupantur auditorum narratores. Sic audiendi sunt ut qui rumores
recensent._

_Utile sed ingloriosum est ex illaborato in alienos succedere labores._

[31] _Nat. hist._, XXXV. 2. — Raoul-Rochette li credeva miniati.

[32] _Nudi sunt, recti et venusti, omni ornatu orationis, tamquam
veste, detracto; sed dum voluit alios habere, parata unde sumerent qui
vellent scribere historiam, ineptis gratum fortasse fecit qui volunt
illa calamistris inurere; sanos quidem homines a scribendo deterruit:
nihil enim est in historia pura et illustri brevitate dulcius._
CICERONE, De orat., 75. — _Summus auctorum divus Julius._ TACITO. —
_Tanta in eo vis est, id acumen, ea concitatio, ut illum eodem animo
dixisse quo bellavit appareat._ QUINTILIANO, Inst. orat., X. 1.

L'ottavo libro della _Guerra gallica_ si ascrive comunemente a un
Irzio, che stese pure i commentarj sulle guerre d'Alessandria, d'Africa
e di Spagna.

[33] SVETONIO, in _Cesare_, 20, in _Augusto_, 36. — Le Clerc, nella
sua opera de' _Giornali fra i Romani_ (Parigi 1838), non solo intende
provare ch'essi aveano effemeridi al modo nostro, ma che, per mezzo
di queste e degli Annali Pontifizj, può rendersi alla storia de' primi
tempi la certezza che la critica tende a rapirle. Vedansi pure

LIEBERKUEHN, _Commentatio de actis Romanorum diurnis_. Weimar 1840.

SCHMIDT, _Zeitschrift für Geschichtswissenschaft_. Berlino 1844.

HUEBNER, _De senatus populique romani actis_. Lipsia 1860.

Eccone qualche esempio:

  III. _Kal. Aprileis_.

  _Fasces penes Æmilivm· lapidibvs plvit invejenti· Postvmivs trib.
  pleb. viatorem misit ad eos quod is eo die senatum nolvisset
  cogere· intercessione P. Decimii trib. pleb. res est svblata· Q.
  Avfidivs mensarivs tabernæ argentariæ ad scvtvm cimbricvm cvm magna
  vi æris alieni cessit foro· retractus ex itinere cavsam dixit apvd
  P. Fontejvm Balbvm præt. et cvm liqvidum factum esset evm nvlla
  fecisse detrimenta jvssus est in solidum æs totum dissolvere._

  IV. _Kal. Aprileis_.

  _Fasces penes Licinivm· fvlgvravit tonvit et qvercvs tacta in svmma
  velia pavllvm a meridie· rixa ad Janvm infimvm in cavpona et cavpo
  ad vrsum galeatvm graviter savciatvs· C. Titinivs æd. pl. mvlctavit
  lanios qvod carnem vendidissent popvlo non inspectam· de pecunia
  mulctatitia cella extrvcta ad tellvris lavernæ._

[34] _Candidissimus omnium magnorum ingeniorum æstimatur Livius._
SENECA. I suoi libri erano cinquantadue, arrivando da Romolo fino alla
morte di Druso nel 744. Ne restano trentacinque non seguenti, cioè
i primi dieci dalla fondazione di Roma sino al 460; manca tutta la
seconda decade; poi si ha dal libro XXI al XL, cioè dal principio della
seconda guerra punica fino al 586: del restante i sommarj, che credonsi
di Floro.

Negli archivj segreti di Torino giacciono le carte scritte
dall'infelice Pietro Giannone, durante la sua prigionia. Fra queste
sono i _Discorsi storici e politici sopra gli Annali di Tito Livio_,
ch'e' fece a imitazione del Machiavelli, ma con intento diverso,
giacchè si proponeva, non solo di gratificarsi Carlo Emanuèle III,
al quale non v'ha lode ch'egli non prodighi, ma di mostrare il suo
rispetto per la santa sede, e «manifestare al mondo i miei religiosi,
sinceri e cattolici sentimenti, ne' quali vivo e persisto; e.... a
riguardo dell'eminenza e superiorità della Chiesa di Roma sopra tutte
le altre Chiese del mondo cattolico, non ho io tralasciato le prove
più forti ed efficaci... chè ben dovrebbe essere studio e somma cura
di tutti gl'italici ingegni bene stabilirla, non essendo nella nostra
Italia rimasto oggi pregio maggiore e cotanto illustre ed insigne
che questo... Onde, se mai pe' miei precedenti scritti avess'io in
ciò errato e dato occasione ad altri di errare, è ben dovere che si
ricredano ora nella sincera dottrina... e se mai avesser seguito la
vestigia di un Pietro negante, giusto è che seguitino ora le pedate
dello stesso Pietro penitente...».

È bene ricordarsi che scriveva «in solitudine, fra' deserti monti delle
Langhe, senza libri, senza amici e senz'ajuto, e fra lo squallore e
la tabe d'una misera ed angusta prigione» (Discorso XIII). Non è da
aspettarsene gran senno critico, nè estesa filologia; ma assume diversi
punti, e per es. nel discorso III ragiona _della franchezza con la
quale Livio scrisse delle cose appartenenti alla religione romana, e
non solo intorno al culto degli Dei ed a' loro vantati miracoli, ma in
tutt'i suoi rapporti serbasse un'incorrotta sincerità di fedele storico
e di profondo e grave filosofo_.

_Ab uno disce omnes._ Questa, come altre opere del Giannone, venne
in luce per cura dell'illustre professore Pasquale Mancini, coi tipi
dell'Unione tipografico-editrice torinese.

[35] _Pompej Trogi fragmenta, quarum alia in codicibus manuscriptis
bibliothecæ Ossolinianæ invenit, alia in operibus scriptorum maxima
parte polonorum jam vulgatis primum animadvertit_... _Augustus
Bielowski_. Leopoli 1853.

[36]

    ... _Ausus es unus Italorum_
    _Omne ævum tribus explicare chartis_
    _Doctis, Jupiter! et laboriosis._
                           CATULLO.

[37] _Non ignorare debes, unum hoc genus latinarum literarum adhuc
non modo non respondere Græcis, sed omnino rude atque inchoatum morte
Ciceronis relictum. Ille enim fuit unus qui potuerit et etiam debuerit
historiam digna voce pronuntiare, quippe qui oratoriam eloquentiam,
rudem a majoribus acceptam, perpoliverit, philosophiam ante eum
incorruptam latina sua conformaverit oratione. Ex quo dubito, interitu
illius, utrum respublica an historia magis doleat._ Framm. — Cicerone
stesso (_De leg._, lib. I) si fa dire da Attico: _Postulatur a te
jamdiu, vel flagitatur potius historia. Sic enim putant, te illam
tractante, effici posse ut in hoc etiam genere Græciæ nihil cedamus:
atque, ut audias quid ego ipse sentiam, non solum mihi videris eorum
studiis qui literis delectantur, sed etiam patriæ debere hoc munus, ut
ea, quæ per te salva est, per te eundem sit ornata. Abest enim historia
literis nostris... Potes autem tu profecto satisfacere in ea, quippe
quum sit opus, ut tibi quidem videri solet, unum hoc oratorium maxime._

[38] _Quibusdam, et iis quidem non admodum indoctis, totum hoc
displicet philosophari._ CICERONE, De finib., I. 1. — _Vereor ne
quibusdam bonis viris philosophiæ nomen sit invisum._ De off., II. 1.
— _Reliqui, etiamsi hæc non improbent, tamen earum rerum disputationem
principibus civitatis non ita decorum putant._ Acad. Quæst., II. 2.

[39] CICERONE, _De finib._, IV. 28 e 9; _Acad. Quæst._, II. 44.

[40] CICERONE, _Topica. Quæst._ I.

[41] _Multi jam esse latini libri dicuntur, scripti inconsiderate ab
optimis illis quidem viris, sed non satis eruditis. Fieri autem potest
ut recte quis sentiat, sed id quod sentit, polite eloqui non possit...
Philosophiam multis locis inchoasti (o Varro) ad impellendum satis, ad
edocendum parum._ Lo stesso, _Acad._, I.

Tra i filosofi latini non vogliamo preterire Corellia, lodata da
Cicerone come _mirifice studio philosophiæ flagrans_, e da lui amata
troppo, se crediamo a Dione, lib. XLVI.

[42] _Sic parati ut... nullum philosophiæ locum esse pateremur, qui non
latinis literis illustratus pateret._ De divin., II. 2. Nel proemio
delle _Tusculane_ professa dolergli che molte opere latine siano
scritte neglettamente da valenti uomini, e che molti i quali pensano
bene, non sappiano poi disporre elegantemente, il che è un abusare del
tempo e della parola. Negli _Uffizj_ raccomanda a suo figlio di leggere
le sue filosofiche discussioni. — Quanto al fondo pensa quel che ne
vuoi: ma tal lettura non potrà che darti uno stile più fluido e ricco.
Umiltà a parte, io la cedo a molti in fatto di scienza filosofica, ma
per quel che sia d'oratore, cioè la nettezza e l'eleganza dello stile,
io consumai la vita intorno a quest'abilità, onde non fo che usare un
mio diritto col reclamarne l'onore».

[43] Ἀπόγραφα _sunt, minore labore fiunt; verba tantum affero, quibus
abundo._ Ad Attico, XII. 52.

[44] Platone quanto allo Stato non andava pensando a riforme, non
ad esaminare se il diritto sovrano stia in alto o in basso, e come
applicarlo; ma crede necessario educar l'uomo, e dargli le virtù
cardinali, che sono prudenza, fortezza, temperanza, giustizia. Con
queste, più non importa stillarsi a far regolamenti; senza queste, i
regolamenti saranno violati o elusi. — Fan da ridere davvero i nostri
politici che tornano ogni tratto sulle loro ordinanze, persuasi di
trovare un fine agli abusi, senza accorgersi ch'è un tagliar le teste
dell'idra». _De repub._, lib. IV. Queste parole dell'insigne Greco dopa
duemila anni non perdettero l'opportunità.

[45] _Turbatricem omnium rerum Academiam... Si invaserit in hæc, nimias
edet ruinas, quam ego placare cupio, submovere non audeo._ De leg., I.
13.

[46] La conchiusione del trattato sulla natura degli Dei è: _Ita
discessimus ut Vellejo Cottæ disputatio verior, mihi Balbi ad veritatis
similitudinem videretur esse propensior._

[47] _Tuscul._, v. 7.

[48] _Natura propensi sumus ad diligendos homines, quod fundamentum
juris est._ De leg., I. 13. — _Studiis officiisque scientiæ præponenda,
sunt officia justitiæ, quæ pertinent ad hominum caritatem, qua nihil
homini debet esse antiquius._ De off., I. 43. _Quid est melius aut quid
præstantius bonitate et beneficentia?_ De nat. Deorum, I. 43.

[49] _De off._, II. 18. 16.

[50] _Quum se non unius circumdatum mœnibus loci, sed civem totius
mundi quasi unius urbis agnoverit._ De leg., I. 23. — _Qui autem civium
rationem dicunt habendam, externorum negant, ii dirimunt communem
humani generis societatem; qua sublata, beneficentia, liberalitas,
bonitas, justitia funditus tollantur._ De off., III. 6.

_Est autem non modo ejus qui servis, qui mutis pecudibus præsit, eorum
quibus præsit, commodis utilitatique servire._ Ad Quintum, I. 1. 8;
e più generosamente _De off._, I. 13: _Est infima conditio et fortuna
servorum: quibus non male præcipiunt qui ita jubent uti ut mercenariis;
operam exigendam, justa præbenda._

[51] _Bellum ita suscipiatur, ut nihil aliud nisi pax quæsita
videatur... Suscipienda sunt bella ob eam causam, ut sine injuria in
pace vivatur._ De off., e vedi I, 23.

[52] _De repub._, III. — _De off_., II.

Vedi FACCIOLATI, _Vita Ciceronis litteraria_. 1760.

HULSEMANN, _De indole philosophica Ciceronis, ex ingenio ipsius et
aliis rationibus æstimanda_. 1799.

GAUTIER DE SIBERT, _Examen de la philosophie de Cicéron_. Memorie
dell'Accademia d'Iscrizioni, tomi XLI. XLIII.

MEINERS, _Oratio de philosophia Ciceronis, ejusque in universam
philosophiam meritis_.

KUHNER, _M. T. Ciceronis in philosophiam ejusque partes merita_.

e tutti gli storici della filosofia.

La prima edizione compita delle opere di Cicerone, ove fossero compresi
anche i frammenti scoperti dal Maj nel 1814-1822, dal Niebuhr nel
1820, dal Peyron nel 1824, è quella di Le Clerc in latino e francese
1821-25, 30 vol. in-8º; e 1823-27, 35 vol. in-18º. Quella fatta dal
Pomba nel 1823-34 è in 16 vol. in-8º. Il meglio che l'erudizione abbia
accertato intorno al grande oratore, fu raccolto nell'_Onomasticum
Tullianum, continens M. T. Ciceronis vitam, historiam litterariam,
indicem geograficum historicum, indices legum et formularum, indicem
græco-latinum, fastos consulares. Curaverunt_ JO. GASP. ORELLIUS
_et_ JO. GEORG. RAITERUS, _professores turicenses_, 1837. È in corso
un'edizione compiuta delle opere di Cicerone a Lipsia per Teubner,
curata da Reinh. Klotz.

[53] Sono ottocensessantaquattro lettere; più di novanta scritte da
altri. Quelle ad Attico precedono il consolato di Cicerone; le altre
vanno dal 692 sino a quattro mesi prima della morte di lui. Alcune sono
vergate coll'intenzione che andassero attorno, e specialmente la lunga
al fratello Quinto, dove espone la propria amministrazione proconsolare
nell'Asia Minore. È noto che molte opere degli antichi perirono
allorchè, incarendosi pel chiuso Egitto la carta, si rase la primitiva
scrittura per sovrapporne una nuova. Si suol dare colpa ai frati di
quest'artifizio: eppure Cicerone convince che fino a' suoi tempi si
praticava: _Ut ad epistolas tuas redeam, cætera belle; nam quod in
palimpsesto, laudo equidem parcimoniam; sed miror quid in illa chartula
fuerit, quod delere malueris quam exscribere, nisi forte tuas formulas;
non enim puto te meas epistolas delere, ut deponas tuas. An hoc
significas nil fieri? frigere te? ne chartam quidem tibi suppeditare?_
Ad fam., VII. 18.

Ne trapela anche il nessun rispetto al secreto delle lettere, e
quanto poco si distinguessero i caratteri. Cicerone incarica Attico
di scrivere in vece sua: _Tu velim et Basilio, et quibus præterea
videbitur, conscribas nomine meo_. XI. 5. XII. 19. _Quod literas,
quibus putas opus esse curas dandas, facis commode_. XI. 7; e così 8,
12 e spesso. Talvolta accenna di scrivere di proprio pugno, quasi il
suo più grande amico non potesse riconoscerlo: _Hoc manu mea_. XIII.
28. Altrove dice allo stesso: — Ho creduto riconoscere la mano d'Alessi
nella tua lettera» (15. XV); e Alessi era il solito scrivano di Attico.
Bruto dal campo di Vercelli scrive a Cicerone: — Leggi le lettere
che spedisco al senato, e se ti pare, cambiavi pure». Ad fam., XI.
19. Un capitano che dà incombenza all'amico di alterare un dispaccio
offiziale! Cicerone stesso apre la lettera di Quinto fratello, credendo
trovarvi grandi arcani, e la fa avere ad Attico dicendogli: — Mandala
alla sua destinazione: è aperta, ma niente di male, giacchè credo che
Pomponia tua sorella abbia il suggello di esso».

Da ciò la grande importanza data al suggello, ancor più che alla firma.
In fatti la scrittura, oltre essere tanto somigliante perchè unciale,
poteva facilmente falsificarsi o sulle tavolette di cera o sulla
cartapecora. Pertanto succedeva spesso di fare interi testamenti falsi,
come appare nel codice Giustinianeo _De lege Cornelia de falsis_, lib.
XI. tit. 22.

[54] Detta così dal nome osco di un piatto d'ogni sorta frutte,
solito offrirsi a Cerere e Bacco. Da ciò _lex satura_ una legge che
abbracciava diversi titoli; era vietato far votare il popolo per
_saturam_, cioè su diverse proposizioni a un tratto. Diomede definisce:
_Satira est carmen apud Romanos, nunc quidem maledictum, et ad carpenda
hominum vitia archææ comœdiæ charactere compositum, quale scripserunt
Lucilius, Horatius et Persius; sed olim carmen, quod ex variis
poematibus constabat, satira dicebatur, quale scripserunt Pacuvius et
Ennius_.

[55]

                          ... _Arctis_
    _Religionum animos vinclis exsolvere pergo._
                                  Lib. IV.

[56]

    _Nec me animi fallit Grajorum obscura reperta_
    _Difficile illustrare latinis versibus esse,_
    _Multa novis verbis præsertim cum sit agendum_
    _Propter egestatem linguæ et rerum novitatem._
                        ... _noctes vigilare serenas_
    _Quærentem dictis quibus et quo carmine demum_
    _Clara tuæ possim præpondere lumina menti,_
    _Res quibus occultas penitus convisere possis._
                                  Lib. I.

[57] Ne' primi versi trovi, _Quæ mare navigerum, quæ terras
frugiferentes_; e poco dopo, _Frondiferas domos avium_. Cicerone
scriveva a Quinto (II. 11): _Lucretii poemata non sunt ita multis
luminibus ingenii, multæ tamen artis_.

[58] ORAZIO, _Ep._ I. 4.

[59] Si disputò assai della patria sua. Egli dice che l'Umbria

    _Me genuit, terris fertilis uberibus;_

e che se alcuno passa vicino a Mevania, osservi dove

      _Lacus æstivis intepet umber aquis,_
    _Scandentisque arcis consurgit vertice murus,_
      _Murus ab ingenio notior ille meo._

Nel lib. IV. 1, canta

    _Ut nostris tumefacta superbiat Umbria libris,_
      _Umbria romani patria Callimachi._

Leandro Alberti da questo verso indusse che Callimaco fosse romano, e
vi fu chi copiò tal errore, mentre Properzio vuol solo dirsi imitatore
di Callimaco, del che si vanta pure nel lib. III. 1. e 8:

    _Callimachi Manes, et coii sacra Philetæ_
      _In vestrum, quæso, me sinite ire nemus._
    _Primus ego ingredior puro de fonte sacerdos_
      _Itala per Grajos orgia forre choros._
    _Inter Callimachi sat erit placuisse libellos,_
      _Et cecinisse modis, dore poeta, tuis._

[60]

    _Hujus erat Solymus prhygia comes unus ab Ida_
      _A quo Sulmonis mœnia nomen habent._
                                 Fast., IV. 78.

    _Mantua Virgilio gaudet, Verona Catullo,_
      _Pelignæ gentis gloria dicar ego._
                                 Amor., III. 15.

    _Seu genus excutias, equites ab origine prima_
      _Usque per innumeros inveniemur avos._
                                 De Ponto, IV. 8.

È schiavo de' pregiudizi di nascita quanto un nobile di cent'anni fa:
si vanta d'esser cavaliero senza aver mai portato le armi:

    _Aspera militiæ juvenis certamina fugi,_
      _Nec nisi lusura movimus arma manu;_

e si lamenta che si osi preferirgli chi non divenne tale se non per
merito di valore:

    _Præfertur nobis sanguine factus eques_
      _Fortunæ munere factus eques_
      _Militiæ turbine factus eques._

[61]

    _Non eadem ratio est sentire et demere morbos._
    _Sæpe aliquod verbum cupiens mutare, relinquo,_
      _Judicium vires destituuntque meum._
    _Sæpe piget (quid enim dubitem tibi vera fateri?)_
      _Corrigere, et longi ferre laboris onus..._
    _Corrigere at refert tanto magis ardua, quanto_
      _Magnus Aristarcho major Homerus erat._

[62]

    _Os homini sublime dedit, cœlumque tueri_
    _Jussit, et erectos ad sidera tollere vultus._
                                  Metam., I. 85.

                              _... Polumque_
    _Effugito australem, junctamque aquilonibus arcton._

Somiglianti ripetizioni incontransi ad ogni piè sospinto. Giove va ad
alloggiare presso Bauci e Filemone; il vecchio prepara la mensa:

            _Furca levat ille bicorni_
    _Sordida terga suis, nigro pendentia tigno;_
    _Servatoque diu resecat de tergore partem_
    _Exiguam, sectamque domat ferventibus undis._
            _..... Mensæ sed erat pes tertius impar;_
    _Testa parem facit: quæ postquam subdita, clivum_
    _Sustulit etc._
                                  Ivi, VIII. 650.

Queste minuzie di scuola fiamminga disabbelliscono spesso i suoi quadri
migliori. Parlando del diluvio, canta:

    _Exspatiata ruunt per apertos flumina campos,_
        ... _Pressæque labant sub gurgite turres;_
    _Omnia pontus erat, deerant quoque litora ponto._

Fin qui è bello; ma poi cala a particolarità oziose, e quindi nocevoli:

    _Nat lupus inter oves, fulvos vehit unda leones;_

quasi nell'universale sobbisso importi quel che facciano agnelli o
leoni.

[63] Egli stesso si rimprovera di questo verso:

    _Tum didici getice sarmaticeque loqui._

Una volta nel verso non accomodandogli _mori_, disse:

    _Ad strepitum, mortemque timens, cupidusque moriri._

Altrove leggiamo:

    _Denique quisquis erat castris jugulatus achivis,_
      _Frigidius glacie pectus amantis erat._

A chi appartiene il _quisquis_?

Frequenti sono i giocherelli di parole:

    _In precio precium nunc est..._
    _Cedere jussit aquam, jussa recessit aqua..._
    _Speque timor dubia, spesque timore cadit..._
    _Quæ bos ex homine est, ex bove facta dea..._
    _Semibovemque virum, semivirumque bovem._

E, me lo perdonino gli ammiratori, è un giocherello tutta la sua
descrizione del caos.

[64]

    _Dummodo sic placeam, dum toto canar in orbe_
      _Quod volet impugnent unus et alter opus._
                                  Rem. am., 363.

[65]

    _Nec vitam, nec opes, nec jus mihi civis ademit,_
      _Quæ merui vitio perdere cuncta meo._
                                  Trist., V. 11.

Spira vera passione l'elegia dove descrive la sua partenza. In un'altra
canta:

    _Perdiderint cum me duo crimina, carmen et error,_
      _Alterius facti culpa silenda mihi..._
      _Vive tibi et longe nomina magna fuge._
    _Hæc ego si monitor monitus prius ipse fuissem,_
      _In qua debebam forsitan urbe forem..._
    _Inscia, quod crimen viderunt lumina plector,_
      _Peccatumque oculos est habuisse meum..._
    _Cuique ego narrabam, secreti quidquid habebam,_
      _Eccepto quod me perdidit unus erat..._
    _Cur aliquid vidi? cur noxia lumina feci?_
      _Cur imprudenti cognita culpa mihi?_
    _Inscius Acteon vidit sine veste Dianam,_
      _Præda fuit canibus non minus ille suis._

[66] La professa dal bel principio:

                            _Di, cœptis..._
    _Aspirate meis, primaque ab origine mundi_
    _Ad mea perpetuum deducite tempora carmen._

[67]

    _Quoniam occuparat alter ne primus forem,_
    _Ne solus esset studui, quod super fuit._
                        Epil. del lib. II.

[68] _Gressus delicatus et languidus_ (lib. V. f. 1): _filia formosa et
oculis venans viros_ (lib. IV. f. 5): _frivola insolentia_ (lib. III.
f. 6): _iratus impetus_ (lib. 3. f. 2): _cornea domus_ della tartaruga
(lib. II. f. 6): _ignavus sanguis_ dell'asino (lib. I. f. 29):
_generosus impetus_ del cinghiale (lib. I. f. 29).

Nella notissima favola della rana e il bue, in quanti varj modi dice
la cosa stessa! _Rugosam inflavit pellem_ — _Intendit cutem majori
nisu_ — _Dum vult validius inflare se se._ E nelle conchiusioni morali:
_Hoc illis dictum est_ — _Hoc pertinere ad illos vere dixerim_ —
_Hoc argumento se describi sentiat_ — _Hoc scriptum est tibi_ — _Hoc
illis narro_ — _Hoc in se dictum debent illi agnoscere..._ Possiamo
credere fossero di pretta lingua certi modi che sanno del latino
ecclesiastico, come: _quem tenebat ore demisit cibum_ (lib. I. f. 4):
_hi quum cepissent cervam vasti corporis_ (lib. I. f. 5): _rupto jacuit
corpore_ (lib. I. f. 24): _quæ debetur pars tuæ modestiæ, audacter
tolle_ (lib. II. f. 1): _ante hos sex menses_ (lib. I. f. 1): _invenit
ubi accenderet_ (lib. III. f. 19): e l'abuso di astratti come _sola
improbitas abstulit totam prædam_ (lib. I. f. 5): _tuta est hominum
tenuitas_ (lib. II f. 7): _spes fefellit impudentem audaciam_ (lib.
III. f. 5).

Alcuno crede suppositizio questo Fedro, di cui, eccetto Marziale,
nessun antico ricorda il nome; e che venne in luce soltanto nel
1562, in occasione del sacco dato a un convento di Germania: la
prima edizione è del 1596. Ma nella Dacia fu trovata un'iscrizione,
contenente un verso delle favole di Fedro. V. MANNERT, _Res Trajani ad
Danub._, pag. 78. Certo il testo fu alterato e interpolato. Orelli ne
diede la lezione migliore a Zurigo nel 1831; poi anche di quelle nuove
scoperte dal Janelli e dal Maj, da cui è desunta la favola che diamo
nel testo.

[69]

      _Duplici circumdatus æstu_
    _Carminis et rerum._

Egli ammette con precisione le popolazioni antipode:

          _Terrarum forma rotunda._
    _Hanc circum variæ gentes hominum atque ferarum_
    _Aeriæque colunt volucres. Pars ejus ad arctos_
    _Eminet: austrinis pars est habitabilis oris,_
    _Sub pedibusque jacet nostris, supraque videtur_
    _Ipsa sibi fallente solo declivia longa_
    _Et pariter surgente via, pariterque cadente._
    _Hinc ubi ab occasu nostros sol aspicit ortus;_
    _Illic orta dies sopitas excitat urbes;_
    _Et cum luce refert operum vadimonia terris._
    _Nos in nocte sumus, somnosque in membra locamus,_
    _Pontus utrosque suis distinguit et alligat undis..._
    _Altera pars orbis sub aquis jacet_ invia nobis,
    _Ignotæque hominum gentes, nec transita regna,_
    _Commune ex uno lumen ducentia sole,_
    _Diversasque umbras, lævaque cadentia signa,_
    _Et dextros ortus cælo spectantia verso._

[70]

    _Quod mihi pareret legio romana tribuno._
                          Sat., lib. I. 4.

[71]

              _Inopemque paterni_
    _Et laris et fundi..._
              _Paupertas impulit audax_
    _Ut versus facerem._
                   Ep., lib. II. 2.

[72] Ep. XIV. lib. I. v. 3.

[73]

    _Alme sol... possis nihil urbe Roma_
                            _Visere majus._

[74]

    _Nullius addicti jurare in verba magistri._
      _Quo me cumque rapit tempestas, deferor hospes._
      _Nunc agilis fio et mergor civilibus undis,_
      _Virtutis veræ custos rigidusque satelles;_
      _Nunc in Aristippi furtim præcepta relabor,_
      _Et mihi res, non me rebus submittere conor._

[75] Negli Epodi è minore l'imitazione dal greco, com'è minore l'arte e
la varietà dei metri.

[76] Vedete, per esempio, l'ode 14 del lib. III. Cesare torna vincitore
dalla Spagna. — Esultate, o suore, o madri, o spose: ormai io non
temerò tumulti, dacchè Augusto regge il mondo. Qua, ragazzo, porta
corone e un fiasco dei tempi della guerra marsica, se pur un sol fiasco
potè sfuggire a Spartaco. Affretta, Neera, ad annodarti i crini, e
se il portinajo ti ritarda, parti. Il crin bianco mi distoglie dalle
risse: non così in pace mel recherei se più giovane fossi». Altrettanto
nell'ode _Nunc est bibendum._

Leggansi PASSON, _Horat. Flaccus Leben und Zeitalter._ Lipsia, 1833.

BUTTMANN, _Ueber das Geschichtliche und die Anspielungen in Horat._
Berlino, 1828.

JACOBS, _Lectiones cenosinæ_ (Lipsia 1831) intorno alla valutazione
morale del carattere e degli atti e delle poesie d'Orazio.

E SCHMID, e BRAUNHARD, e tanti altri recentissimi che studiarono questo
poeta.

Wieland avea tessuto su Orazio un romanzo. Döring, nelle illustrazioni
all'edizione di Lipsia 1824, lo volse a satira dei contemporanei.
Weichert, _Prolusiones de Q. H. Flacci epistolis_, 1826, e _Lectiones
venusinæ_, 1832-33, sulla storia del poeta stesso e dei coetanei,
restituì veramente la storia della letteratura del tempo d'Augusto.
Hoffman Peerlkamp (Harlem 1834) pretese, colla lunghissima famigliartà,
avere acquistato un senso più intimo del poeta, in modo da scernere
ciò che vi fu interpolato; e sopra 3845 versi, ne trovò 644, dei quali
assolve Orazio per incolparne i grammatici. Orelli, nell'edizione che
ne fece a Zurigo 1837-38, dopo venticinque anni di lezioni, non attacca
la genuinità del poeta, nè s'accannisce co' predecessori: _Differt
autem nostra interpretatio a similibus, quæ nunc in scholis feruntur,
his potissimum nominibus; sæpius dijudicantur et variæ lectiones et
diversæ grammaticorum explicationes, sine ulla tamen in quemquam
insectatione aut contumelia: quin in hoc quoque genere, tacitis
plerumque adversariis, quæ veriora ubique viderentur, argumentis
additis exposui, ne traquillissima disputatio acris rixæ cum hoc vel
illo inimico contractæ, speciem unquam præseferret; quo quidem cum
aliis digladiandi et depugnandi studio in hujusmodi scriptis studiosæ
juventuti propositis nihil profecto perversius reperiri potest._ Un
giojello tipografico e filologico è l'edizione che Ambrogio Didot fece
nel 1855, colla vita scrittane da Noël des Vergers.

Non si potrebbe desiderare lavoro più completo e più nojoso di quello
che fece Walckenaer, _De la vie et des poésies d'Horace._ Parigi 1840.
Egli dice: _Dans les ouvrages de ce poète ressortent sous de vives
couleurs la grandeur et la gloire, les ridicules et les vices de ce
siècle mémorabile_.

[77]

    _Vilius argentum est auro, virtutibus aurum..._
    _O cives, cives, quærenda pecunia primum est,_
    _Virtus post nummos._
                                   _Omnis enim res,_
    _Virtus, fama, decus, divina humanaque pulchris_
    _Divitiis parent, quas qui costruxerit, ille_
    _Clarus erit, justus, fortis, sapiens etiam et rex,_
    _Et quidquid volet..._
    _Et genus, et virtus, nisi cum re, vilior alga est._

[78] Vedi nel Cap. XLI. — Assai prima delle recenti controversie
intorno al dare o no in mano ai giovani i classici, erasi disputato
sulle lubricità di Orazio e degli altri poeti; e singolarmente vollero
difenderli König, _De satira Romanorum_, e Barth nella prefazione a
Properzio. Jani, nell'edizione di Orazio scagiona i costumi di questo
dicendo: _Si cogitemus quam prorsus honestus et a vitii crimine liber
fuerit amor peregrinarum et libertinarum; quam parum, certe ante
legem Juliam latam, ipse puerorum amor sceleris habuerit; denique,
quam multæ et notiones et loquendi formæ eo tempore dignitatem et
honestatem habuerint, quas postea politior usus, ut fit, respuit, et
inter illiberales retulit: hæc si cogitemus, jam multum ex illo Horatii
vituperio perire sentiamus. Loca et carmina Horatii, quæ nos hodie
offendunt, eo tempore non ita offendebant; licet, quod nos hodie in
verbis castiores sumus ac delicatiores, non sequatur, ut ideo et mores
hodierni castiores sint. Accedit, quod dare possumus, Horatium, hominem
hilarem et suavem, præsertim in illa sæculi sui indole, ab amore non
immunem fuisse, ejus philosophiam morum hac parte laxiorem fuisse,
eum arsisse subinde libertina aliqua aut peregrina puella; neque tamen
ideo desinet esse is vir magnus, bonus et honestus. Nam numquam amavit
matronas aut ingenuas, numquam, quod præclare Lessingius docuit,
pueros amavit, et sic leges romanas illasque naturæ numquam violavit;
potius graviter subinde in adulteria, proprie dieta incestosque amores
invehitur. Carmina etiam illius amatoria haud dubie sæpe lusus poetici,
ad hilaritatem facti, sæpe e græco expressa sunt._

[79]

        _Clament periisse pudorem_
    _Cuncti pene patres..._
    _Vel quia turpe putant... quæ_
    _Imberbes didicere, senes perdenda fateri._

[80]

                                 ... _Usus,_
    _Quem penes arbitrium est et jus et norma loquendi._

[81]

    _Qui redit ad fastos, et virtutem æstimat annis,_
    _Miraturque nihil, nisi quod Libitina sacrarit._
    ... _Si tam Graiis novitas invisa fuisset_
    _Quam nobis, quid nunc esset vetus?_...
    _Jam saliare carmen qui laudat,_
    _Ingeniis non ille favet, plauditque sepultis,_
    _Nostra sed impugnat, nos nostraque lividus odit._

[82]

        _Tua, Cæsar, ætas_
    _Fruges et agris retulit uberes._
    _Non his juventus orta parentibus_
    _Infecit æquor sanguine punico:_
    _Sed rusticorum mascula militum_
    _Proles, sabellis docta ligonibus_
    _Versare glebas._
                        ORAZIO.

    _Hanc olim veteres vitam coluere Sabini,_
    _Hanc Remus et frater: sic fortis Etruria crevit._
                                   VIRG.

[83]

    _Si non ingentem foribus domus alta superbis_
    _Mane salutantum totis vomit ædibus undam:_
    _Nec varios inhiant pulcra testudine postes,_
    _Inlusasque auro vestes..._
    _Illum non populi fasces, non purpura regum_
    _Flexit..._
                                      _nec ferrea jura_
    _Insanumque forum, aut populi tabularla vidit..._
    _Hic stupet attonitus rostris; hunc plausus hiantem_
    _Per cuneos geminatus enim plebisque patrumque_
    _Corripuit. Gaudent perfusi sanguine fratrum,_
    _Exilioque domos et dulcia lumina mutant._

E vedi tutta la stupenda chiusura delle Georgiche.

[84] Egli stesso invoca le _musæ sicelides_, e attribuisce ai
Siracusani l'invenzione delle pastorali:

    _Prima syracusio dignata est ludere versu_
    _Nostra nec erubuit silvas habitare Camena,_

alludendo a Dafni, il quale, secondo Diodoro (lib. IV. c. 16), creò
questo genere di poesia quale a' giorni suoi durava ancora in Sicilia;
e a Teocrito, a Mosco, a Stesicoro. Cesare Scaligero (_Poetices liber_
V, _qui et criticus_), coll'erudizione d'un critico e l'ostinazione
d'un pedante, rivela i furti commessi da Virgilio sopra Omero, Pindaro,
Apollodoro ed altri, ma dimostrando uno per uno ch'esso li superò
tutti.

[85] Ennio rammenta altri cantori:

                           _Scripsere alii rem_
    _Versibu' quos olim Fauni vatesque canebant_.

[86]

              _Quis aut Eurysthea durum,_
    _Aut inlaudati nescit Busiridis aras?_
    _Cui non dictus Hylas puer, et Latonia Delos,_
    _Hippodameque, humeroque Pelops insignis eburno,_
    _Acer equis?_
                  VIRGILIO, Georg., III. 4.

Anche Properzio gl'incensava e derideva:

    _Dum tibi cadmeæ ducuntur, Pontice, Thebæ_
      _Armaque fraternæ tristia militiæ,_
    _Atque (ita sim felix) primo contendis Homero..._
    _Me laudent doctæ solum placuisse puellæ..._
    _Tu cave nostra tuo contemnas carmina fastu:_
      _Sæpe venit magno fœnere tardus amor._
                                  Eleg. I. 7.

Che gli argomenti mitologici fossero comuni nelle epopee, lo
raccogliamo da quel di Ovidio ove dice:

    _Quum Thebæ, quum Troja forent, quum Cæsaris acta,_
      _Ingenium movit sola Corinna meum;_

e più dalla famosa ode di Orazio _Scriberis Vario fortis_, ove,
invitato a cantar le glorie di Agrippa, risponde che meglio capace n'è
Vario, aquila della poesia meonia: — Io, debole poeta, non varrei a
trattare tali soggetti, nè l'implacabil ira del Pelìde, nè i lunghi
errori di Ulisse, o i delitti della casa di Pelope... Chi parlerà
degnamente di Marte colla lorica d'acciajo, di Merione annerito dalla
polvere di Troja, del figlio di Tideo che l'ajuto di Pallade eleva a
paro degli Dei?»

[87]

    _Sacra diesque canam et cognomina prisca locorum._
                                  Eleg., IV. 1.

Di tale poema sono forse brani molte parti del suo quarto libro, come
il concetto ne spira nell'elegia a Roma, dove canta: — Quanto vedi, o
straniero, della massima Roma, prima del Frigio Enea era colle erboso;
dove sorgono i palazzi sacri al navale Febo, riposarono i profughi
bovi d'Evandro; questi tempj d'oro crebbero per numi di creta; il padre
Tarpeo tonava dalla nuda rupe, e dai nostri armenti era frequentato il
Tevere; il corno pastorale convocava i prischi Quiriti, e cento di loro
in un prato assisi formavano il senato. Nè sul cavo teatro pendevano
veli sinuosi; nè di solenne croco olezzavano i paschi; nè s'ebbe cura
di cercare straniere deità quando la turba tremava intenta ai sacri
riti».

[88] Tutte le favole di Virgilio sulla venuta di Enea si trovano in
Dionigi d'Alicarnasso. Ora questi non diè fuori l'opera sua che otto o
sette anni av. C., e Virgilio era morto da dieci anni. Virgilio dunque
tolse le sue favole da altre fonti; ma fa meraviglia che Dionigi non
citi l'_Eneide_. Era il disprezzo dei Greci per tutto ciò che era
romano? era un'altra delle ignoranze de' lavori precedenti che spesso
si trovano negli antichi? Quegli stessi che parrebbero concepimenti
di Virgilio, sono reminiscenze. Nevio, nel poema sulla guerra punica,
avea già raccontato la venuta di Enea in Italia e seguitone il viaggio
coi casi medesimi narrati da Virgilio, come la procella concitata da
Giunone, e le querele di Venere a Giove, e le speranze onde la consola;
anzi probabilmente quel poeta condusse Enea a Cartagine, come certo
inventò il personaggio di Anna sorella di Didone. La pietà di Enea che
salva il padre e i penati si legge in Varrone, dove è soggiunto che
l'astro di Venere più non disparve dagli occhi dei Trojani, finchè non
afferrarono al lido indicato dall'oracolo di Dodona. Lunghi passi sono
tradotti da Apollonio Rodio: Stesicoro gli offrì quella soluzione del
dramma iliaco: se crediamo ad uno degli interlocutori dei _Saturnali_
di Macrobio, il secondo dell'Eneide è tolto di pianta da Pisandro epico
greco; e la _Crestomatia_ di Proclo c'insegna che l'invenzione del
cavallo di legno è dovuta ad Aratino e a Lesene.

[89] Perciò molte infedeltà di costume possono notarsi in Virgilio.
Enea e Didone vanno a caccia di cervi in Africa, dove pur sono monti
coperti d'abeti (lib. IV): al principio del V, Enea col vento aquilone
vien d'Africa in Italia: Plinio dice _iliacis temporibus nec thure
supplicabatur_ e in Virgilio troviamo gl'incensi, v. 745: vi troviamo
guerrieri a cavallo e trombe, inusati in Omero: così le triremi (_terno
consurgunt ordine remi_, v. 120), mentre Tucidide le fa introdotte
assai più tardi.

[90] Per sentire la differenza de' sentimenti verso le donne nei
moderni e negli antichi, basta osservare come Virgilio non faccia da
Enea tener conto alcuno degli spasimi di Didone, anzi da questi egli
passi a mostrare l'indifferenza dell'eroe con un fatto, ove sembra
ch'egli manchi a quella rettitudine di senso e di gusto che pur gli
abbondava. Nel IV libro Enea tenta fuggire di soppiatto, ma scopertolo,
Didone il prega per quanto han di sacro l'amor loro, il cielo, la
terra; infine sviene; le damigelle la trasportano sul letto, e il _pio_
Enea torna alla flotta:

    _At pius Eneas, quamquam lenire dolentem_
    _Solando cupit..._
    _Jussa tamen divûm exsequitur, classemque revisit._

Il _pius_ qui non direbbesi una celia atroce? Anna va a scongiurarlo:

                                _Miserrima fletus_
    _Fertque, refertque soror: sed nullis ille movetur_
    _Fletibus, aut voces ullas tractabilis audit._
    _Fata obstant_, placidasque _viri deus obruit aures._

Che più? mentre Didone si dispera e prepara ad uccidersi,

    _Æneas, celsa in puppi, jam certus eundi,_
    Carpebat somnos.

[91] _Est ingens ei cum tragœdiarum scriptoribus familiaritas._
MACROBIO, _Saturn._, v. 18. E lo chiama _vir tam anxie doctus_.

[92]

    _Malo me Galatea petit, lasciva puella,_
    _Et fugit ad salices, et se cupit ante videri._
    _ — Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem._
    _ — Cum canerem reges et prælia, Cynthius aurem_
    _Vellit, et admonuit: Pastorem, Tityre, pingues_
    _Pascere oportet oves, deductum dicere carmen._
    _ — Jam fragiles poteram a terra contingere ramos._
    _ — Insere, Daphni, piros: carpent tua poma nepotes._
        _ — Tenerisque meos incidere amores_
    _Arboribus; crescent illæ, crescetis amores._

[93]

    _Fortunate senex! hic, inter flumina nota_
    _Et fontes sacros, frigus captabis opacum._
    _ — Tantum inter densas, umbrosa cacumina, fagos_
    _Assidue veniebat: ibi hæc incondita solus_
    _Montibus et sylvis studio jactabat inani._
    _ — Hic gelidi fontes, hic mollia prata, Lycoris,_
    _Hic nemus, hic ipso tecum consumerer ævo._

[94] Gli autori antichi della vita di Virgilio fanno ascendere le sue
ricchezze a dieci milioni di sesterzj, cioè due milioni de' nostri.
Senza credere così appunto, sappiamo però che veramente il poeta
lasciossi trarricchire. Giovenale vi allude nella _Satira_ VII. 69;
Orazio ne dà lode ad Augusto, _Ep_., lib. II. 1:

    _At neque dedecorant tua de se judicia, atque_
    _Munera, quæ, multa dantis cum laude, tulerunt_
    _Dilecti tibi Virgilius, Variusque poetæ._

Un poeta di poco posteriore, i cui versi sono posti fra gli _Analecta_
di Virgilio, canta i meriti di Mecenate in un panegirico a Pisone, ove,
tra le altre cose, si legge:

    _Ipse per ausonias æneia carmina gentes_
    _Qui sonat, ingenti qui nomine pulsat Olympum,_
    _Mæoniumque senem romano provocat ore,_
    _Forsitan illius memoris latuisset in umbra_
    _Quod canit, et sterili tantum cantasset avena_
    _Ignotus populis, si Mæcenate careret._
    _Qui tamen haud uni patefecit limina vati,_
    _Nec sua Virgilio permisit numina soli._
    _Mæcenas tragico quatientem pulpita gestu_
    _Erexit Varium, Mæcenas alta_ Thoantis
    _Eruit, et populis ostendit nomina Grais._
    _Carmina romanis etiam resonantia chordis,_
    _Ausoniamque chelym gracilis patefecit Horati._
    _O decus, et toto merito venerabilis ævo_
    _Pierii tutela chori, quo præside tuti_
    _Non unquam vates inopi timuere senectæ._

Invece di _Thoantis_ leggerei _Thyestis_, titolo della tragedia di
Vario, che, secondo Quintiliano, _cuilibet Græcorum comparari potest_.
Inst. orat., X. 1.

[95]

    _Tu canis umbrosi subter pineta Galesi_
      _Thyrsin, et attritis Daphnin arundinibus._
                     PROPERZIO, II. 34.

Ciò prova che colà scrisse le Bucoliche. Quanto alle Georgiche, egli
stesso nel lib. iv. 125, canta:

    _Namque sub æbaliæ memini me turribus arcis_
    _Qua niger humectat flaventia culta Galesus etc._

[96]

    _Cedite, romani scriptores, cedite graii:_
      _Nescio quid majus nascitur Iliade._
                       PROPERZIO, II. ult.

    _Tityrus et segetes Æneiaque arma legentur,_
      _Roma Triumphati dum caput orbis erit._
                 OVIDIO, Am., I. 15.

Vedi DONATO, _Vita Virgilii_, § 5.

[97]

                _Nec tu divinam Æneida tenta,_
    _Sed longe sequere, et vestigia semper adora._
              STAZIO, Theb., XII. 816.

La versione di Annibal Caro è degna d'un poeta; e i tanti che dappoi
vollero emularlo, la dimostrarono a ragionamenti difettosa, alla prova
inarrivabile. Gli antichi attribuiscono a Virgilio un poemetto sulla
zanzara; ma il _Culex_ che va tra le opere sue, è di cattivo impasto
ne' versi, di niun gusto negli episodj, e affatto indegno di lui.

[98]

                  _Vos exemplaria græca_
    _Nocturna versate manu, versate diurna..._
        _Apis Mutinæ more modoque._
                                  ORAZIO.

[99] Non solo Virgilio ed Orazio, ma Ovidio, e persino Fedro, si
tengono sicuri di una fama non più peritura. Fedro, nel prologo del
lib. III, dice:

    _... Si leges, lætabor; sin autem minus,_
    _Habebunt certe, quo se oblectent posteri..._
    _Ergo hinc abesto, livor; ne frustra gemas,_
    _Quoniam solemnis mihi debetur gloria._

E nell'epilogo del lib. IV:

    _Particulo, chartis nomen victurum meis,_
    _Latinis dum manebit pretium literis._

Ed Ovidio nelle Metamorfosi, XV in fine:

    _Jamque opus exegi, quod nec Jovis ira, nec ignes,_
    _Nec poterit ferrum, nec edax abolere vetustas..._
    _Parte tamen meliore mei super alta perennis_
    _Astra ferar, nomenque erit indelebile nostrum,_
    _Quaque patet domitis romana potentia terris_
    _Ore legar populi; perque omnia sæcula fama,_
    _Si quid habent veri vatum præsagia, vivam._

[100] Di Mecenate ci conservò Isidoro alcuni versi diretti ad Orazio:

    _Lugent, o mea vita, te smaragdus,_
    _Beryllus quoque, Flacce; nec nitentes_
    _Nuper candida margarita, quæro,_
    _Nec quos thynica lima perpolivit_
    _Anellos; nec jaspios lapillos._

E questi altri Svetonio:

    _Ni te visceribus meis, Horati,_
    _Jam plus diligo, tu tuum sodalem_
    _Ninnio videas strigosiorem._

Macrobio dà un viglietto, ove Augusto derideva Mecenate
contraffacendone lo stile: _Idem Augustus, quia Mæcenatem suum noverat
esse stylo remisso, molli et dissoluto, talem se in epistolis, quas
ad eum scribebat, sæpius exhibebat, et contra castigationem loquendi,
quam alias ille scribendo servabat, in epistola ad Mæcenatem familiari,
plura in jocos effusa subtexuit: — Vale, mel gentium, melcule, ebur
ex Etruria, laser aretinum, adamas supernus, tiberinum margaritum,
Cilniorum smaragde, jaspi figulorum, berylle Porsenæ,_ ἴνα συντέμω
πάντα, μάλαγμα _mœcharum_». Saturn., II. 4.

Di Pollione ci tramandò Seneca un passo nelle _Suasor_., 7, ch'egli
dice il più eloquente delle sue storie, e noi lo riferiamo sì per
saggio filosofico, sì perchè ritrae Marco Tullio senza l'astio che
imputano a Pollione: _Hujus ergo viri, tot tantisque operibus mansuris
in omne ævum, prædicare de ingenio atque industria supervacuum est.
Natura autem pariter atque fortuna obsecuta est. Ei quidem facies
decora ad senectutem, prosperaque permansit valetudo; tum pax diutina,
cujus instructus erat artibus, contigit; namque a prisca severitate
judicis exacti maximorum noxiorum multitudo provenit, quos obstrictos
patrocinio, incolumes plerosque habebat. Jam felicissima consulatus
ei sors petendi et gerendi magna munera, deûm consilio, industriaque.
Utinam moderatius secundas res, et fortius adversas ferre potuisset!
namque utraque cum venerat ei, mutari eas non posse rebatur. Inde
sunt invidiæ tempestates coortæ graves in eum, certiorque inimicis
adgrediendi fiducia: majori enim simultates appetebat animo, quam
gerebat. Sed quando mortalium nulla virtus perfecta contigit, qua major
pars vitæ atque ingenti stetit, ea judicandum de homine est. Atque ego
ne miserandi quidem exitus eum fuisse judicarem, nisi ipse tam miseram
mortem putasset_.

[101] _Cassium Severum primum affirmant flexisse ab illa, vetere atque
directa dicendi via: non infirmitate ingenii nec inscitia literarum
transtulisse se ad illud dicendi genus contendo, sed judicio et
intellectu. Vidit namque cum conditione temporum, diversitate artium,
formam quoque ac speciem orationis esse mutandam._ De oratoribus, c.
19.

[102] Nelle Pandette (lib. I. tit. 4. fr. 1) leggesi: _Quod principi
placuit, legis habet vigorem; utpote cum Lege Regia, quæ de Imperio
ejus lata est, populus ei et in eum omne suum imperium et potestatem
conferat_. Parve tanto esagerato questo passo, che lo supposero falso:
ma qui _omnem potestatem_ non vuol dire che il popolo trasferisse
nell'imperatore _tutto il suo potere_, ma che l'imperatore tiene dal
popolo _tutto il potere che ha_.

[103] _Miserum populum romanum, qui sub tam lentis maxillis erit._

[104] TACITO, ANN., II.

[105] Svetonio nè tampoco l'accenna, Vellejo appena, chiamandolo
_comitiorum ordinatio_.

[106] _More majorum_. TACITO, _Ann_., III. 66; IV. 4.

[107] _Quo magis socordiam eorum irridere libet, qui præsenti potentia
credunt extingui posse etiam sequentis ævi memoriam. Nam contra,
punitis ingeniis, gliscit auctoritas; neque aliud externi reges aut
qui eadem sævitia usi sunt, nisi dedecus sibi, atque illis gloriam
peperere_. Ann. IV. 35.

[108] DIONE, LVII; PLINIO, XXXVI. 26.

[109]

    _Turba Remi sequitur fortunam ut semper, et odit_
    _Damnatos. Idem populus si Nurtia Tusco_
    _Favisset, si oppressa foret secura senectus_
    _Principis, hac ipsa Sejanum diceret hora_
    _Augustum._
                                GIOVENALE, X, 73.

[110] _Sidus et popum et puppum alumnum_. SVETONIO.

[111] _Ut ipse dicebat_ ἀξιοθριάμβευτον. SVETONIO.

[112] _Memento omnia mihi et in omnes licere_. SVETONIO.

[113] _Meditatus est edictum, quo veniam daret flatum crepitumque
ventris in cœna emittendi, cum periclitatum quemdam præ pudore ex
continentia reperisset_. Ivi. — Chi nel _Trimalcione_ di Petronio crede
adombrato Claudio, può addurre in prova questo decreto, corrispondente
alle parole che ivi dice quel goffo danaroso: _Si quis vestrum voluerit
sua re sua causa facere, non est quod illum pudeat; nemo vestrum solide
natus est. Ego nullum puto tam magnum tormentum esse quam continere:
hoc solum vetare ne Jovis potest._

[114]

    _Ostenditque tuum, generose Britannice, ventrem;
    Et defessa viris, nondum satiata recessit._
                                  GIOVENALE.

[115] Voglia qualche chimico esaminare se fossero possibili
questi veleni, inavvertiti eppur subitanei, quando s'ignoravano le
preparazioni moderne. Egli si ricordi che Svetonio dice che sul rogo di
Germanico si trovò il cuore di lui ben conservato, perchè si sa che il
cuore degli avvelenati è incombustibile.

[116]

    _Qui sedet_...
    _Planipedes audit Fabios, ridere potest qui_
    _Mamercorum alapas._
                GIOVENALE, VI. 189.

[117] TACITO, _Ann_., XIV. 14 e seg.; XV. 32; SVETONIO, in _Nerone_, 11
e 12; SENECA, _Ep_. 100.

[118] _Ut non modo causas eventusque rerum, qui plerumque fortuiti
sunt, sed ratio etiam, causæque noscantur_. Hist., I. 4.

[119] _Nam populi imperium juxta libertatem, paucorum dominatio regiæ
libidini propior est_. Ann., V. 42.

[120] _Liceatque, inter abruptam contumaciam et deforme obsequium,
pergere iter ambitione ac periculo vacuum_. Ann., IV. 20.

[121] TACITO, Ann., II.

[122] _Diu inter instrumenta regni habita_. TACITO.

[123] SENECA, ep. 47. — _Intelliges non pauciores servorum ira
cecidisse, quam regum_. Ep. 4.

[124] Il parricida, secondo le leggi dei re, gettavasi al mare chiuso
in un sacco di cuojo, con un gatto, una serpe, una scimia. Quando
Nerone ebbe uccisa sua madre, si vedeano sospesi dei sacchi alle
effigie di lui.

[125] PLINIO, XXXIII. 12; CICERONE, _De orat_., III. 12.

    _Me legit omnis ibi_ (a Vienna) _senior, juvenisque, puerque,_
      _Et coram tetrico casta puella viro._
                                  MARZIALE, VII. 88.

    _Tu quoque nequitias nostri lususque libelli,_
      _Uda puella leges, sis patavina licet._
                                  Lo stesso, XI. 16.

_Pervigilium_ o _Vigiliæ_ dicevano certe solennità notturne, che,
divenute occasione d'eccessi, la legge restrinse a poche, e ne escluse
gli uomini e le nobili. Di rado menzionate sotto la Repubblica,
frequentano sotto l'Impero; e probabilmente al tempo d'Augusto
fu introdotta la vigilia di Venere, nella quale, per tre notti
consecutive d'aprile, le fanciulle menavano cori, poi dopo un banchetto
s'intrecciavano danze fra la gioventù (OVIDIO, _Fast_., IV. 133). Più
tardi questa memoria del natale di Quirino celebravasi in un'isola del
Tevere deliziosissima, dove, osservati dal prefetto o da un console, i
cittadini facevano sotto le tende una lieta festa. A cantarsi in questa
era probabilmente destinato il _Pervigilium Veneris_, poemetto ove essa
dea è venerata siccome madre dell'universo, e protettrice dell'Impero.

[126]

    _Nec satis incestis temerari vocibus aures,_
      _Adsuescunt oculi multa pudenda pati._
    _Luminibus tuis_ (Auguste)...
      _Scenica vidisti lentus adulteria_.
               OVIDIO, _Trist._, II. 500.

    _Junctam Pasiphaen dictæo, credite, tauro_
      _Vidimus: accepit fabula prisca fidem._
                  MARZIALE, _Spect_., V.

[127] Vedi HUGO, _Storia del diritto romano_, §§ 295. 296. — EINECCIO,
_Antiq. Romanarum jurisprudentiam illustrantium syntagma_, lib. 1. tit.
25. — DIONE, LIV. 53. — TACITO, _Ann_., III. 25 e 28.

[128] Espressione di Marziale, lib. IV. ep. 7:

    _Julia lex populis ex quo, Faustine, renata est,_
      _Atque intrare domos jussa pudicitia est,_
    _Aut minus, aut certe non plus tricesima lux est,_
      _Et nubit decimo jam Thelesina viro._
    _Quæ nubit toties, non nubit: adultera lege est._
      _Offendor mœcha simpliciore minus._

Se qui v'è esagerazione, abbiamo in Giovenale, VI. 20:

                    _Sic fiunt octo mariti_
    _Quinque per autumnos._

E san Girolamo vide in Roma un marito che sepelliva la ventesimaprima
moglie, la quale avea sepolto ventidue mariti.

[129] _Vix præsenti custodia manere illæsa conjugia_. TACITO, _Ann_.,
III. 34.

[130] GIOVENALE, _Sat_., VI. 366; TACITO, _Ann_., XV. 32, 37, e XII.
33, 85.

[131] SVETONIO, in _Tiberio_, 35; TACITO, _Ann_., II. 85.

[132] Il generale Armandi, nella _Histoire militaire des éléphants_
(Parigi 1843) sostiene che, al tempo d'Ottaviano, in vicinanza di Roma
v'avea serragli di moltissimi elefanti per uso dell'anfiteatro e del
circo.

Plinio dice, parlando dei leoni (lib. VIII. c. 16): — Impresa
pericolosa era una volta il prendere i leoni, e per riuscirvi si
scavavano delle fosse. Imperando Claudio, il caso insegnò un mezzo
più semplice, e quasi indegno d'un animale così feroce: un pastore
della Getulia (nell'Africa settentrionale) attutava il furore
dell'animale gettandovi sopra un panno. Questo maraviglioso spettacolo
si trasportò tantosto nei pubblici giuochi, e appena credevasi a'
proprii occhi, mirando un animale tanto feroce cadere di subito in
un torpore assoluto, col più leggiero drappo che gli fosse gittato in
capo, e lasciarsi legare senza opporre difesa: perocchè la sua forza
consiste tutta negli occhi. Perciò fa meno maraviglia l'udire che
Lisimaco, rinchiuso con un leone per ordine d'Alessandro, abbia potuto
strozzarlo». Se si dubita di un fatto avvenuto sotto gli occhi del
popolo romano, del quale Plinio aveva spesso potuto essere testimonio,
si avrà interesse a conoscere che questo mezzo è ancora in uso
nell'India, e con esso arditi cerretani arrestano il furore dei leoni.

Il capitano Williams, autore d'un _Giornale delle caccie durante un
soggiorno nell'India_ (_Bibliothèque universelle_ di Ginevra, 1820,
aprile, p. 387), descrivendo la caccia d'una jena, narra che i due
Indiani adoperati a ciò portavano solo una stanga di ferro aguzzata,
della lunghezza di un piede, un mazzo di corde, e uno squarcio di
stoffa di cotone «destinato probabilmente (ei dice) a coprire la testa
dell'animale per impedirgli la vista».

Nemesiano (_Cynegeticon_, p. 303 e seg.) descrisse una specie di caccia
men pericolosa, ma non meno straordinaria, e che produce la stessa
maraviglia: Bisogna tra gli altri stromenti di caccia provvedersi
d'una tela, che possa avvolgere i grandi boschi, e rinserrare nei loro
chiusi gli animali, spaventati alla vista delle penne che vi saranno
attaccate; perchè queste penne, siccome baleni, fanno stordire gli
orsi, i cignali più grossi, i cervi veloci, le volpi, i lupi audaci, e
gl'impedisce di rompere quell'ostacolo sì lieve. Datevi dunque la cura
di tingere queste penne a diversi colori, di mischiarle alle bianche,
e dar molta estensione a tale varietà di colori, che inspirano tanto
spavento agli animali selvaggi....; preferite il color rosso».

Marziale, _De spect_., XI, parla d'un orso che nel circo romano fu
impigliato nel vischio, come noi facciamo cogli uccellini.

Mongez, nei _Mém. de l'Académie_, vol. X, 1833, annoverò e descrisse
tutte le belve condotte a combattere nel circo fra il 502 di Roma e la
morte dell'imperatore Onorio.

[133] SVETONIO, in _Nerone_, 11.

[134] _De spectaculis_, passim: e TERTULLIANO, c. 15.

[135] SENECA, ep. 114; _De provid_., III.

[136] SENECA, ep. 86.

[137] PLINIO, _Nat. hist_., IX. 58.

[138] PAUCTON, _Métrologie_, cap. XI.

[139] Lib. XVIII. cap. 6.

[140] In _Aureliano_, cap. X.

[141] _De beneficiis_, VII. 10.

[142] SVETONIO. — Dione dice tremilatrecento milioni.

[143] LAMPRIDIO, nella Vita di esso, XIX. 24.

[144] PLINIO, lib. XIII.

[145] _Digitus medius excipitur: cæteri omnes onerantur, atque etiam
privatim articulis._ PLINIO, XXXVIII. E MARZIALE, v. 11:

    _Sardonicas, smaragdos, adamantos, jaspidas uno_
      _Portat in articulo._

[146] Vedi la nota 13ª al Cap. XXVIII. — Di che materia erano questi
vasi, così pregiati agli antichi? Mercatore e Baronio dissero
di bengioino; Paulmier di Grentemesnil, d'argilla impastata con
mirra; Cardano, Scaligero, Mercuriale, di porcellana; Belon, di
conchiglia; Guibert, di onice; altri d'altro. Le Blond, nelle _Memorie
dell'Accademia d'Iscrizioni_, vol. XLIII, mostra che nessuno si appose,
ed esorta a far nuove richerche, che non vennero ommesse. Haüy volle
provare fossero di spato-fluore.

Vedansi: CORSI, _Dei vasi murrini_. 1830.

THIERSCH, _Ueber die Vasa Murrina_. 1835.

COSTA DE MACEDO, _Mem. sobre os vasos murrhinos_. Lisbona, 1842.

[147] _Margaritas, quæ contra triplum aurum obrizum, atque id quidem in
India effossum, veneunt_.

[148] DIONE CASSIO, XLIII. LIX.

[149] PLINIO, VIII. 48.

[150] _Taxatio in deliciis tanta, ut hominis quamvis parva effigies
vivorum hominum, vigentiumque pretia superet_. PLINIO, XLVII.

[151] Lo stesso, VII. 39.

[152] MARZIALE, X. 31.

[153] Tre Apicj son citati; uno durante la repubblica, questo
contemporaneo di Seneca, e un altro al tempo di Trajano. Il secondo è
il più celebre, molti intingoli conservarono il suo nome, e fu scritto
sotto il nome suo un trattato di cucina, _De re culinaria_.

[154] MARZIALE, XII. 3. — I pasti dati dagli imperatori al popolo col
nome di _congiarium_, valsero,

    sotto Augusto, da 30 a 47 nummi L. 9 »
       — Tiberio, 300 nummi » 67 50
       — Caligola, 6 dramme » 60 »
       — Nerone, 400 nummi » 78 »
       — Antonino, 8 aurei » 115 »
       — Comodo, 725 denari » 347 50
       — Severo, 10 aurei » 144 50

Il pasto dato da Severo costò 38,750,000 lire; vale a dire che i
convitati erano ducensettantamila. Vedi MOREAU DE JONNES, _Statistique
des peuples de l'antiquité_.

[155] SENECA, ep. 18. 100.

[156] Seneca, ep. 122.

[157] _Fastidio est lumen gratuitum_.

[158] SENECA, ep. 122.

[159] Era segno di molle e scostumata vita.

[160] _Cave canem_ è scritto su alcune soglie delle case di Pompej, ove
spesso un cane è effigiato.

[161] Solennità era ai Romani il primo radere della barba, e questa
dedicavasi ad Apollo e conservavasi sollecitamente.

[162] Il posto d'onore era quel di mezzo fra i tre che distendevansi
sul medesimo lettuccio. I letti erano disposti a ferro di cavallo
attorno alle sale, dette perciò _triclinia_. In ogni letto stavano tre,
ciascuno colle gambe dietro al dorso dell'altro, e appoggiato ad un
cuscino, disposti nel seguente modo:

    3 6 5 4 7
    1 8
    2 9

All'1 era il padrone di casa; al 2 la donna o un parente; al 3 un
ospite privilegiato; il 4 era posto d'onore o consolare, considerato
tale forse perchè più libero ad uscire, più accessibile a chi
venisse a parlare, e più comodo per istendere la mano destra senza
impacciar nessuno. Negli altri posti sedeano altri convitati, e sempre
consideravasi d'onore quel che non avea nessuno di sopra.

[163] Che l'ovo di pavone fosse carissimo cibo ai Romani, se ne lamenta
Macrobio, _Saturn_., III. 15: _Ecce res non miranda solum, sed pudenda,
ut ova pavonum quinis denariis veneant_.

[164] Console Lucio Opimio Nepote, il 633 di Roma, la stagione corse
tanto asciutta che i frutti furono squisitissimi e il vino prelibato.

[165] È noto che agli schiavi liberati imponevasi il berretto; onde
questo divenne simbolo della libertà.

[166] Tutti e tre nomi di lieto augurio, tratti dal guadagno e dalla
felicità; cosuccie, cui i grandi Romani prestavano grande attenzione.

[167] TERTULLIANO, _De anima_, 30; PLINIO, XXVII. 1. Vedansi pure
Strabone e principalmente il retore Aristide nell'_Orazione della città
di Roma_.

[168] Πηλὸν αῖματι πεφυρμένον.

[169] _Nobilis obsequii gloria relicta est_. TACITO, Ann., IV.

[170] Lib. 49, tit. xv. leg. 5. § 2. ff. _De captivis_.

[171] _Semper autem addebat; Vincat utilitas._ CICERONE, _De off._,
III. 22.

[172] _Ann_., II. 16; I. 51; II: 21. _Maneat, quæso, duretque
gentibus, si non amor nostri, at certe odium sui; quando, urgentibus
imperii fatis, nihil jam præstare fortuna majus potest, quam hostium
discordiam_.

[173] _Terrarum dea gentiumque Roma_. MARZIALE.

[174] _Leges, rem surdam, inexorabilem._ Livio, II. 3.

[175] ARRIANO, Ep. I. 4.

[176] _Miseratio est vitium pusillanimi, ad speciem alienorum malorum
succidentis; itaque pessimo cuique familiarissima est._ SENECA, De
clem., i. 5. — _Misericordia est ægritudo animi; ægritudo autem in
sapientem virum non cadit._ Ivi. — _Est aliquid, quo sapiens antecedat
Deum; ille naturæ beneficio non timet, suo sapiens._ Ep. 53.

[177] _Quæris quid me maxime ex his, quæ de te audio, delectet? Quod
nihil audio; quod plerique ex his quos interrogo, nesciunt quid agas_.
Ep. 32.

[178] _De clem._, II. 2; I. 1. Aveva egli conosciuto il malvezzo del
suo tempo e d'altri, scrivendo altrove: — Siamo venuti a tal demenza
che credasi maligno chi adula parcamente... Crispo Passieno diceva
spesso, che noi all'adulazione opponiamo, non chiudiamo la porta, e la
opponiamo al modo che si fa all'amica, la quale se la spinge è grata,
più grata se la trapassa». _Quæst. nat._, III.

[179] _De ira_, III. 36; Ep. 24. — Giusto Lipsio cernì dalle opere di
Seneca tutti i passi ove loda se stesso, e ne formò un modello d'ogni
eroismo. Diderot fece l'apologia del carattere morale di Seneca, per
bizzarria di paradosso. Opere, vol. VIII, _Essai sur le règne de Claude
et de Néron_.

[180] _Nihil cogor, nihil patior invitus, sed assentior; eo quidem
magis, quod scio omnia certa et in æternum dicta lege decurrere. Fata
nos ducunt, et quantum cuique restat, prima nascentium hora disposuit
Causa pendet ex causa; privata ac publica longus ordo rerum trahit.
Ideo fortiter omne ferendum est, quid gaudeas, quid fleas; et quamvis
magna videatur varietate singulorum vita distingui, summa in unum
venit: accepimus peritura perituri_. De provid.; Ad Marciam consolatio;
Ad Helviam consolatio; De constantia sapientis; De clementia, ecc.

[181] _Nec magis in ipsa_ (_morte_) _quidquam esse molestiæ, quam
posi ipsam_. Ep. 30. — _Mors est non esse... Hoc erit post me quod
ante fuit._ Ep. 54. E nella _Consolatoria_ a Polibio: _Cogita illa quæ
nobis inferos faciunt terribiles, fabulam esse; nullas imminere mortuis
tenebras, nec flumina flagrantia igne, nec oblivionis amnem, nec
tribunalia. Luserunt ista poetæ, et vanis nos agitavere terroribus_.

[182] SENECA, ep. 77. 47. 23. Cousin appone agli Stoici dell'Impero
d'aver guasto, esagerato, impicciolito lo stoicismo. Tennemann
appena concede ad essi un posto nella storia della filosofia. Hegel
(_Vorlesungen über die Gesch. des Philosop._, t. II. p. 387) dice che
i costoro lavori non meritano in una storia della filosofia maggior
menzione che i sermoni de' nostri preti.

[183] I giureconsulti posteriori a Tiberio cassavano i testamenti e
traevano al fisco la sostanza di chi si uccidesse quando accusato e
colpevole; ma non di chi il facesse per noja, per intolleranza delle
malattie, per vergogna de' suoi debiti. ULPIANO e PAOLO, _Dig_. XLIX,
tit. 14; LXXVIII, tit. 3.

[184] Celso stupiva vi potesse essere una legge e un dogma comune a
tutte le nazioni, e Cappadoci e Cretesi potessero adorare lo stesso Dio
de' Giudei. ORIGENE _contra Celsum_.

[185] PRUDENZIO, _ad Symmacum_, II. 458.

[186] _Ann._ IV. 37. 38.

[187]

      _Nec satis est homines, obligat ille Deos._
    _Templorum positor, templorum sancte repostor_
      _Sit superis, opto, mutua cura tui._
                                  Fast. II. 61.

[188] _Nemo cœlum cœlum putat, nemo Jovem pili facit_. PETRONIO,
Satyr., c. 44.

    _Esse aliquos manes et subterranea regna_
    _Nec pueri credunt, nisi qui nondum ære lavantur._
                      GIOVENALE, II. 149.

[189] In _Agricola_, 46.

[190] Lo stesso, _Ann._, III. 60.

[191] GIOVENALE, _Satyr_. 6; TERTULLIANO, _Apolog_. 9; SENECA, _De vita
beata_, 27.

[192] Che nei misteri Eleusini si insegnasse più fisica che teologia
ce lo dice CICERONE, _De nat. Deorum_, I. 43: _Rerum natura magis
cognoscitur quam Deorum_.

[193] Ovidio dice nei _Fasti_, VI. 766:

    _Sint tibi Flaminius, Trasimenaque litora testes_
      _Per volucres æquos multa monere Deos;_

e nella ep. I. del lib. II. _ex Ponto_, esorta la moglie a scegliere un
giorno fausto per presentare ad Augusto una petizione in suo favore.

[194] Vedi principalmente i libri XXIV, XXV, XXVI, XXX, XXXII, XXXVIII.

[195] _Striges, ut ait Verrius, Græci_ στρίγας _appellant, a quo
maleficis mulieribus nomen inditum est; quas volaticas etiam vocant_.
FESTO. — E. PLINIO: _Fabulosum arbitror de strigibus, ubera eas
infantium labris immulgere_; e altrove: _Post sepulturam visorum quoque
exempla sunt_. — APULEJO, Metam. 5: _Scelestarum strigarum nequitia_.
— PETRONIO, Fragm. 63: _Cum puerum mater misella piangeret, subito
strigæ cœperunt... jam strigæ puerum involaverunt, et supposuerunt
stramenticium_.

Lucano (lib. VI) descrive i patti col diavolo e le stregherie, come
potrebbe fare un cinquecentista:

    _Quis labor hic superis cantus herbasque sequendi_
    _Spernendique timor? Cujus commercia pacti_
    _Obstrictos habuere Deos?_
                        _An habent hæc carmina certum_
    _Imperiosa Deum, qui mundum cogere quidquid_
    _Cogitur ipse potest?_

E Sereno Samonico (cap. 59):

    _Præterea si forte premit strix atra puellos,_
    _Virosa immulgens exertis ubera labris,_
    _Allia præcepit Titini sententia necti._

I due versi conservatici da Festo come preservativi, sono
scorrettissimi; Dachery gli emenda così:

    Στρίγγ’ ἀποπέμπειν νυκτίνομαν, στρίγγα τ’ἀλαὸν,
    Ορνιν ἀνώνυμον, ὼκυπόρους ἐπὶ νῆας ἐλαύνειν.

— _La strige rimovi notte-mangiante; la sucida strige, uccello ferale,
fuga nelle veloci navi_.

I passi di antichi, attestanti le magiche arti, sono prodotti da
DELRIO, _Disquisitiones magicæ_, lib. II. qu. 9, e _passim_.

[196] ORAZIO, _Epodi_.

[197] SVETONIO, in _Tiberio_, 63. 14. 79; PLINIO, XVI. 30; XXVIII. 2.

[198] _Mihi hæc ac talia audienti, in incerto judicium est fatone res
mortalium et necessitate immutabili, an sorte volvantur._ Ann., VI.
22. — _Mihi, quanto plura recentium seu veterum revolvo, tanto magis
ludibria rerum mortalium cunctis in negotiis observantur_. Ivi, III.
18.

[199] _Ad Galatas_, III. 28; _ad Colossenses_, III. 11.

[200] _Longe clarissima urbium Orientis, non Judeæ modo._ PLINIO, Nat.
Hist., V. 14.

[201] È la definizione famosa di sant'Agostino: _Virtus est bona
qualitas mentis... qua nullus male utitur_. E altrove: _Ille pie
et juste vivit, qui rerum integer est æstimator, in neutram partem
declinando_. E de lib. arb.: _Voluntas aversa ab incommutabili bono et
conversa ad proprium, peccat_.

[202] La venuta di san Pietro in Italia è uno de' punti della storia
ecclesiastica più impugnati dagli eterodossi, perchè molti farebbero
dipendere da quella l'istituzione apostolica della santa sede in Roma,
ma vien dimostrata da argomenti irrepugnabili. Nell'anno 42, da noi
segnato, comincerebbero i venticinque anni che il _Cronico_ di Eusebio
assegna al pontificato di san Pietro.

[203] _Atti apostolici_, XVIII. 15.

[204] _Mansit biennio... et suscipiebat omnes, qui ingrediebantur ad
eum, prædicans regnum Dei, et docens quæ sunt de domino Jesu Christo,
cum omni fiducia, sine prohibitione._ Ivi, XXVIII, 30 e 31.

[205] Parla sempre Tacito, _Ann_., XV. 44.

[206] — Quel che alle donne, è comandato anche agli uomini. Le leggi
di Cristo non somigliano a quelle degli imperatori; non la stessa cosa
insegnano san Paolo e Papiniano. Le leggi permettono ogni impudicizia
agli uomini in donne libere; nei Cristiani, se il marito può ripudiar
la donna per adulterio, anche essa lui pel delitto stesso. In
condizioni eguali, eguale è l'obbligazione». S. GIROLAMO a _Fabiola_.

[207] _Sap_., XIV. 22 e seg. _Ad Galatas_, V. 19 e seg.

[208] _Si vos manseritis in sermone meo, vere discipuli mei eritis; et
cognoscetis veritatem, et veritas _liberabit_ vos_. S. GIOV., VIII, 31
e 32.

[209] — L'uomo ha diritto di comandare alle bestie, ma Dio solo di
comandare all'uomo». S. GREGORIO MAGNO, lib. XXI, _in Job._, c. 15.

[210] _Regimen tyrannicum non est justum, quia non ordinatur ad
bonum commune, sed ad bonum privatum regentis... Et ideo perturbatio
hujus regiminis non habet rationem seditionis, nisi forte quando sic
inordinate perturbatur tyranni regimen, quod multitudo subjecta majus
detrimentum patitur ex perturbatione consequenti, quam ex tyranni
regimine_. SAN TOMMASO, Summa theol. 2ª 2æ quaest. 42ª art. 2º ad 3um.

[211] _Evulgato imperii arcano, principem alibi quam Romæ fieri_.
TACITO, Hist., i. 4.

[212] A Canneto o più verisimilmente a Calvatone nel Cremonese, alla
biforcazione d'una strada romana, a due giornate da Verona. Quivi le
cronache paesane collocherebbero la città di Vegra (forma vulgare
del nome di Bedriaco, o Bebriaco), distrutta dagli Unni; e vi si
scoprono continuamente ruderi antichi, e nel 1855 un busto di bronzo
dell'imperatore Antonino, e due statuette di marmo pario.

[213] TACITO, _Hist_., lib. IV. 74. 75.

[214] Nel censimento sotto Vespasiano si asserisce che trovaronsi nella
Gallia Cispadana cinquantaquattro persone di cento anni, cinquantasette
di centodieci, due di centoventicinque, quattro di centrentacinque,
quattro di centrentasette, tre di cenquaranta: a Parma ve n'avea tre di
centoventi, due di centotrenta; a Faenza una donna di centrentadue; a
Rimini uno di cencinquanta, nominato Marco Aponio.

[215] Stazio e Marziale. Ecco alcune delle costoro adulazioni:

    _Invia sarmaticis domini lorica sagittis_
      _Et Martis getico tergore fida magis..._
    _Felix sorte tua, sacrum tui tangere pectus_
      _Fas erit, et nostri mente calere Dei!..._

    _Redde deum votis poscentibus: invidet hosti_
      _Roma suo, veniat laurea multa licet._
    _Terrarum dominum propius videt ille; tuoque_
      _Terretur vultu barbarus, et fruitur..._

    _Hiberna quamvis Arctos, et rudis Peuce_
    _Et nugularum pulsibus calens Ister,_
    _Fractusque cornu jam ter improbo Rhenus,_
    _Teneat domantem regna perfidæ gentis,_
    _Tu, summi mundi rector, et parens orbis_
    _Abesse nostris non tamen potes votis..._

    _Nunc ilares, si quando mihi, nunc ludite, Musæ:_
      _Victor ab Odrysio redditur orbe deus..._

Altrove Giano, vedendo passar Domiziano, lagnasi di non avere
abbastanza occhi e visi per mirarlo (MARZIALE, lib. VIII. 2). Tardi
pure ad alzarsi la stella del mattino, chè, se Cesare compare, il
popolo non s'accorgerà della mancanza (Ivi, 21). — Oh poeti!

[216] PLINIO, _Paneg_.

[217] A ciò va attribuito il suo valersi sempre di Sura nello scriver
lettere, anzichè ad inerzia, come fa Giuliano nei _Cesari_.

[218] Sono famose le tavole alimentari, trovate nel 1747 fra le mine
di Velleja alle falde dell'Appennino di Piacenza. Contenevano il
decreto con cui Trajano donava ai Vellejati e a' loro vicini 1,116,000
sesterzj, assicurati su fondi stabili del valore complessivo di
27,407,792, e fruttanti il cinque per cento. Così la rendita di 55,800
sesterzj era destinata ad alimentare 300 fanciulli, cioè 263 maschi, 35
femmine di legittima nascita, più uno spurio o una spuria; attribuendo
16 sesterzj il mese a ogni maschio, 12 a ogni femmina, e 12 agli
illegittimi. I fondi obbligati valeano almeno il decuplo dell'ipoteca.
Gli alimenti cominciavano a darsi dopo i tre anni, a quanto pare, e
fin ai diciotto pei maschi, ai quattordici per le fanciulle. Non si
educavano già in case comuni, ma rimanevano a custodia dei proprj
genitori. Del frumento allora si compravano cinque moggia e un quinto
con sedici sesterzj; onde il fanciullo riceveva per centosei libbre di
frumento al mese. Un dono simile apparve da altra tavola scoperta nel
1832 a Campolattaro, presso Benevento, in favore de' Liguri Bebiani.
Iscrizioni varie, e passi di scrittori e del Codice provarono che
siffatta liberalità venne usata da altri imperatori. Su di che vedasi
ERNESTO DESJARDINS, _De Tabulis alimentariis disputatio historica_.
Parigi 1854.

[219] _Jam hoc pulchrum et antiquum, senatum nocte dirimi, triduo
vocari, triduo contineri_.

[220] Quel di Dione, fatto da Sifilino. Neppure accenno gl'informi
frammenti di Aurelio Vittore e d'Eutropio. Il panegirico è di Plinio
Cecilio.

[221] EUTROPIO, VIII. 5. Più tardi corse un'opinione bizzarra; che papa
Gregorio Magno avesse a preghiere ottenuto la liberazione di Trajano
dall'inferno, ove stava da quattro secoli. Il primo a scriverla, ch'io
sappia, fu Giovanni di Salisbury (_Polycr._ V. 8): _Virtutes ejus
legitur commendasse ss. papa Gregorius, et fusis pro eo lacrymis,
inferorum compescuisse incendia... donec ei revelatione nuntiatum
sit, Trajanum a pœnis inferni liberatum, sub ea tamen conditione, ne
ulterius pro aliquo infideli Deum sollicitare præsumeret_. San Tommaso
si vale di questa tradizione, e Dante (_Purg._, X. 73) accenna

                        l'alta gloria
    Del roman prence, lo cui gran valore
    Mosse Gregorio alla sua gran vittoria.

[222] SPARZIANO, in _Adriano_, negli _Scriptor. Hist. Augustæ._ Ciò
praticavasi già con Omero, poi in questi tempi con Virgilio. Narra
Giulio Capitolino, che, interrogando Clodio Albino a questo modo
l'_Eneide_, gli occorse quel del libro VI:

    _Hic rem romanam, magno turbante tumultu,_
    _Sistet equus, sternet Pœnos, Gallumque rebellem._

Alessandro Severo al modo stesso trovò:

    _Te manet imperium cœli, terræque, marisque;_

e pensando applicarsi alle arti liberali, ebbe questa risposta:

    _Excudent alii spirantia mollius æra..._
    _Tu regere imperio populos, Romane, memento._

Vedi LAMPRIDIO in _Alex. Severo_. Non cadde questa superstizione
col paganesimo. Sant'Agostino (_Ep_. 55 _ad Januar_.) la nota e la
condanna; e così il concilio d'Agda col nome di _sorti dei Santi_:
e Gregorio di Tours (_Hist. Franc._, IV. 6) scrive: _Positis
clerici tribus libris super altare, idest Prophetiæ, Apostoli atque
Evangeliorum, oraverunt ad Dominum ut Christiano quid eveniret
ostenderet. Aperto igitur omnium Prophetarum libro, reperiunt:
— Auferam maceriam ejus_». E nel lib. V. 49: _Mœstus turbatusque
ingressus oratorium, davidici carminis sumo librum, in quo ita repertum
est: — Eduxit eos in spe, et non timuerunt_».

[223] Nel 1664 a Upsal si stampò un _Trattato dell'arte della guerra_,
presumendo fosse quel di Adriano, pubblicato dal console Maurizio, ma
è composizione d'assai posteriore. È pure suppositizio il dialogo suo
con Epitteto, pubblicato dal Froben nel 1551, ove propone varj quesiti
che il migliore filosofo del suo secolo scioglie, e in cui, tra massime
false, ridicole e triviali, ne occorrono di eccellenti. — Che cosa è
la pace? Una libertà tranquilla. — Che cosa la libertà? Innocenza e
virtù».

[224] SPARZIANO nella vita di lui.

[225] Pure costui non ischivò l'odio di Adriano, onde diceva: — Mi
maraviglio di tre cose: che, nato Gallo, io parli greco; che essendo
eunuco, io sia chiamato giudice d'adulterj; che odiato dall'imperatore,
io viva».

[226] Τοσοῦτον δὲ δύνανται οἴ ἄρχοντης πρὸς τῆς ἀληθείας δόξαν
τιμῶντες, ὄσον καὶ λησταὶ ἐν ἐρημεία. I. 12.

[227] LAMPRIDIO in _Alex. Severo_.

[228] Originariamente costui chiamavasi Catilio Severo. D'illustre
famiglia romana, fu educato sotto gli occhi di Lucio Annio Aurelio
Vero, suo avo materno, che lo adottò e nominò Marco Elio Aurelio Vero.

[229] Vedi EUSEBIO, IV. 13. 16. Capitolino diresse a Diocleziano una
vita di lui, ma confusa. I libri di Dione Cassio ad esso relativi si
desiderano.

[230] Fra le altre cose gli diceva: _Nonnunquam ego te coram
paucissimis ac familiarissimis meis gravioribus verbis absentem
insectatus sum... cum tristior quam par erat in cœtu hominum
progrederer, vel cum in theatro tu libros, vel in convivio lectitabas;
nec ego, dum tu theatris, nec dum conviviis, abstinebam. Tum igitur
ego te durum et intempestivum hominem, odiosum etiam nonnunquam, ira
percitus, appellabam._ Lib. VI. 12.

[231] Servano per saggio tre viglietti, che, come i passi superiori,
scegliamo da M. CORNELII FRONTONIS ET M. AURELII IMPERATORIS
EPISTOLÆ... FRAGMENTA FRONTONIS ET SCRIPTA GRAMMATICA; curante A.
MAJO. Roma 1823. — _Magistro meo. Ego dies istos tales transegi. Soror
dolore muliebrium partium ita correpta est repente, ut faciem horrendam
viderim; mater autem mea in ea trepidatione imprudens angulo parietis
costam inflixit; eo ictu graviter et se et nos adfecit. Ipse, cum
cubitum irem, scorpionem in lecto offendi; occupavi tamen eum occidere
priusquam supra accubarem. Tu si rectius vales, est solacium. Mater
jam levior est, deis volentibus. Vale, mi optime, dulcissime magister.
Domina mea te salutat._

Frontone risponde: _Domino meo. Modo mihi Victorinus indicat dominam
tuam magis valuisse quam heri. Gratia leviora omnia nuntiabat. Ego
te idcirco non vidi, quod ex gravedine sum imbecillus. Cras tamen
mane domum ad te veniam. Eadem, si tempestivum erit, etiam dominam
visitabo._

Marc'Aurelio replica: _Magistro meo. Caluit et hodie Faustina; et
quidem id ego magis hodie videor deprehendisse. Sed, Deis juvantibus,
æquiorem animum mihi facit ipsa, quod se tam obtemperanter nobis
accommodat. Tu, si potuisses, scilicet venisses. Quod jam potes et
quod venturum promittis, delector, mi magister. Vale, mi jucundissime
magister._

[232] Frontone fa un elogio affatto retorico di Lucio Vero, attribuendo
tutta a merito di lui la riforma delle indisciplinatissime truppe
di Siria: e lo paragona a Trajano, dandogliene sempre la preferenza.
_Principia historiæ_. Si hanno pure le lettere che Vero gli dirigeva,
raccomandandogli di esaltare le sue imprese e la gravezza del pericolo,
e la nullità degli altri capitani, ecc. E il buon maestro, abbagliato
dalle cortesie d'uno scolaro imperiale, non rifina di ammirarne le
azioni, ma soprattutto la portentosa eloquenza spiegata negli ordini
del giorno e nei bullettini inviati al senato.

[233] Dione dice, οὐκ ἀθεεὶ: e νίκῆ παράδοξος εὐτυχήθη, μᾶλλον δέ παρὰ
θεοῦ ἐδωρήθη. E Claudiano:

    _Laus ibi nulla ducum..._
    _Tum, contenta polo, mortalis nescia teli_
    _Pugna fuit._
                De VI consulatu Honorii, v. 340.

[234] FILOSTRATO, _Vite dei Sofisti_.

[235] Εἰς έαυτὸν, libri dodici.

[236] Ch'egli però si dilettasse in questi studj, continua prova ne
danno le sue lettere a Frontone, scoperto dal Maj. In una gli dice:
_Mitte mihi aliquid, quod tibi disertissimum videatur, quod legam, vel
tuum, vel Catonis, vel Ciceronis, aut Sallustii, aut Gracchi, aut poetæ
alicujus,_ χρήζω γὰρ ἀναπαύλης, _et maxime hoc genus; quae me lectio
extollat et diffundat_ ἐκ τῶν κατειληφυιῶν φροντιδίων. _Etiam si qua
Lucretii aut Ennii excerpta habes,_ εὔφωνα καὶ ... φρα, _et sicubi_
ὴθους, ἐμφὰσεις.

Il cardinale Barberini tradusse gli scritti di Marc'Aurelio,
dedicandone la traduzione all'anima propria «per renderla più rossa che
la sua porpora allo spettacolo delle virtù di questo Gentile».

[237] _Regiones ultra fines imperii dubiæ libertatis_. SENECA.

[238] Cicerone (_pro Roscio_, 7) parla di cinquantasei miglia fatte
in dieci ore di notte con legni di posta, cisiis. Cesare faceva cento
miglia in un giorno: SVETONIO, 57. Plinio (_Nat. hist._, VII. 20)
numera sette giornate di navigazione da Ostia alle Colonne d'Ercole;
dieci ad Alessandria.

[239] Vedi CICERONE, _Pro domo sua_, 28. Floro, nella prefazione, dice
che la storia di Roma non è quella d'un popolo, ma del genere umano.
Cicerone loda Pompeo che le sue imprese non hanno altri limiti che
quelli del sole. Livio (XXXVIII. 45, 54) fa dire agli ambasciadori
in senato, che ormai Roma non ha a combattere mortali, ma a tutelare
l'uman genere, e, come gli Dei, vigilare al suo riposo. Ovidio canta
ne' _Fasti_, II. 684:

    _Romanæ spatium est urbis et orbis idem._

L'autore dei versi inseriti nel _Satyricon_ di Petronio, cap. 119:

    _Orbem jam totum victor Romanus habebat_
    _Qua mare, qua tellus, qua sidus currit utrumque._

E Plinio, XXVII. 1: _Una cunctarum gentium in toto orbe patria_.

[240]

    _Quæ tam seposita est, quæ gens tam barbara, Cæsar,_
      _Ex qua spectator non sit in urbe tua?_
    _Venit ab orphæo cultor rhodopeius Hæmo,_
      _Venit et epoto Sarmata pastus equo;_
    _Et qui prima bibit deprensi flumina Nili,_
      _Et quem supremæ Tethyos unda ferit._
    _Festinavit Arabs, festinavere Sabæi,_
      _Et Cilices nimbis hic maduere suis._
    _Crinibus in nodum tortis venere Sicambri,_
      _Atque aliter tortis crinibus Æthiopes._
    _Vox diversa sonat: populorum est vox tamen una,_
      _Quum verus patria diceris esse pater._
                         MARZIALE, Spectac. III.

[241] Gajo lo dice espresso: _Constitutio principis est, quod imperator
decreto vel edicto vel epistola constituit; nec unquam dubitatum est,
quin id legis vicem obtineat, cum ipse imperator per legem imperium
accipiat_. Inst. i. 2, § 6.

Ecco il senatoconsulto fatto all'elezione di Vespasiano:

— Siagli in arbitrio conchiudere trattati con chi vorrà, come fu in
arbitrio d'Augusto, Tiberio e Claudio.

«Di radunare il senato, fare e far fare proposizioni, far rendere
senatoconsulti per voti individuali o per divisione.

«Ogniqualvolta sarà raccolto per volontà, permissione od ordine di lui
o in sua presenza, tutti gli atti del senato abbiano forza, e siano
osservati come fosse stato raccolto per legge.

«Ogniqualvolta i candidati di qualche magistratura, potere, comando,
carica siano raccomandati da lui al senato o al popolo romano, e
ch'egli avrà dato o promesso il suo appoggio, in tutti i comizj abbiasi
singolare riguardo a tal candidatura.

«Siagli permesso, quando lo creda utile alla repubblica, estendere i
limiti del pomerio (cioè del recinto della città), come fu permesso a
Claudio.

«Abbia diritto e pien potere di fare quanto crederà conveniente
all'interesse della repubblica, alla maestà delle cose divine ed
umane, al bene pubblico o particolare, come l'ebbero Augusto, Tiberio e
Claudio.

«Di tutte le leggi e i plebisciti, da cui fu scritto rimanessero
dispensati Augusto, Tiberio e Claudio, sia pur dispensato Vespasiano.
Tutto quello che Augusto, Tiberio e Claudio fecero per una legge
qualunque, possa farlo Vespasiano.

«Tutto ciò che, prima di questa legge, fu fatto, eseguito, decretato,
comandato dall'imperatore Vespasiano o da altra qualsiasi persona per
ordine e mandato di lui, sia reputato legale, e rimanga rato, come
fosse fatto per ordine del popolo.

«_Sanzione_. Se qualcuno, in virtù della presente legge, contravvenne
o contravvenga poi alle leggi, plebisciti o senatoconsulti, facendo
ciò ch'essi vietano, od ommettendo ciò che ordinano, non sia tenuto
in colpa, nè obbligato a veruna riparazione verso il popolo romano.
Verun'azione non sia intentata, verun giudizio reso a tal proposito, e
nessun magistrato soffra che un cittadino sia citato avanti a lui per
questa ragione».

[242] _Princeps legibus solutus est_. D. I. 3. fr. 31.

[243] Molti esempj ne adduce il Labus ne' _Marmi Bresciani_. — Nel
1851 a Salpensa e a Malaga in Ispagna furono, su due tavole di bronzo,
scoperte leggi municipali date da Domiziano imperatore, che Mommsen
illustrò negli _Atti della Società sassone delle scienze_. Lipsia 1855.
In esse viene comunicato alle suddette città il diritto del Lazio, con
formole che probabilmente sono identiche a quelle usate per tutte le
città donate di simile privilegio; sicchè da dette tavole è illustrato
lo _jus Latii_, quanto dalle tavole di Velleja e da quelle di Eraclea
la legge comunale. Ivi troviam dato il nome di _municipj_ a siffatte
città, che in conseguenza ebbero magistrati proprj, quasi indipendenti
dal preside della provincia; il popolo v'era distribuito per curie
all'uopo di rendere i suffragi; que' municipj godevano _manus,
potestas, mancipium_, proprj de' cittadini romani.

Nel 1872 furono trovate le tavole di _Julia Genetiva Urbanorum_, cioè
di Ossuna, nella Spagna ulteriore, date il 710 di Roma, edite poi da
Hübner e Mommsen.

[244] Dalla dittatura di Fabio fin a Cesare, la paga del soldato
fu di tre assi il giorno (circa 27 centesimi); Cesare la raddoppiò
portandola a diciotto denari il mese (lire 14.72); Augusto la conservò
tale; Domiziano la crebbe a venticinque denari il mese (lire 27.47).
La gratificazione ai pretoriani concessa da Augusto fu di ventimila
sesterzj (lire 4035.40) dopo sedici anni, e pei legionarj di dodicimila
(lire 2421.24) dopo venti anni: per tali paghe egli istituì un tesoro,
di cui fece il primo fondo con denari proprj.

[245] SVETONIO, in _Aug_., 102, 128.

[246] Così SVETONIO, in _Vesp_. 17. Alcuni leggono quarantamila milioni
di sesterzj, che sarebber ottomila milioni di lire: questo è troppo,
ma sarebbe troppo poco la cifra da noi data se s'intendesse di solo
contante, senza le contribuzioni in natura e i servigi personali.

Il trattato di Hegewisch _sulle finanze romane_ mantiene più che non
prometta. Sono diversissime le valutazioni degli autori intorno alle
rendite dell'impero: Giusto Lipsio le porterebbe a cinquecento milioni
di scudi d'oro; Gibbon a venti milioni di sterline, cioè cinquecento
milioni di franchi; gli autori inglesi della _Storia universale_ a
novecensessanta milioni.

Chi voglia istituire paragoni coi moderni, non dimentichi che ora la
maggior somma è assorbita dal debito pubblico, ignoto agli antichi.

[247] _Ut maxima civitas minimæ domus diligentia contineretur_. FLORO.

[248] PLINIO, _Nat. hist._, VI. 23; XII. 18.

[249] Lo pretende Dureau de la Malle, _Économie politique des Romains_.

[250]

  _Spese per coltivare sette campi a viti_.

  Per comprar uno schiavo che da
    solo basti                          sesterzj 8,000
  Compra dei sette campi                   »     7,000
  Pali e altre spese occorrenti            »    14,000
                                       ———————————————
                              In tutto sesterzj 29,000

  Interessi di questi al sei per cento nei
    due anni che la terra non produce,
    e che il denaro resta infruttuoso      »     3,480

                              Totale, sesterzj  32,480

  _Rendita di sette campi_.

  Ogni anno                           sesterzj   6,300
    oltre un diecimila marze che ciascun
    campo rendeva l'anno, e che vendevansi
    tremila sesterzj.

[251]

      _Tondet et innumeros gallica Parma greges._
    _Velleribus primis Apulia, Parma secundis_
      _Nobilis, Altinum tertia laudet ovis._
                                  MARZIALE.

[252] Aureliano scriveva al prefetto dell'annona di tener satolla la
plebe; _neque enim populo romano saturo quicquam potest esse lætius_.
VOPISCO, in _Vita_.

[253] È probabilmente del 303. Fu trovato da William Sherard a
Stratonicea di Caria nel 1709, poi pubblicato in miglior modo da
Bankes, Londra 1826, ove la tariffa occupa ben quindici facciate in-8ª.
Sono quattrocentrentatre articoli di merci o di manifatture tassati;
ma restano molte lacune. Moreau de Jonnès ne dedusse questa tabella,
ragguagliata alle monete e misure d'oggi:

  _Prezzi del lavoro_.

  Al bracciante per giornata 25 denari             ll.  5. 62
  Al muratore                                       »  11. 25
  Al manovale che rimesta la calcina                »  11. 25
  Al marmorino che fa i musaici                     »  13. 50
  Al sarto, per fattura d'un abito                  »  11. 25
  Per fattura di calcei, scarpe de' patrizj         »  33. 75
              di _caligæ_, scarpe di artigiani      »  27.  —
                    di soldati e senatori           »  22. 50
                    di donna                        »  13. 50
              di _campagi_, sandali militari        »  16. 87
  Al barbiere, per uomo                             »   —  45
  Al veterinario, per tosare gli animali e
    tagliar le unghie                               »   1. 35
  Al maestro architetto, e per ogni ragazzo
    al mese                                         »  22. 50
  All'avvocato, per un'istanza ai tribunali         »   —  25
  Per una causa                                     » 225.  —

  _Prezzo dei vini_.

  Il Piceno, Tiburtino, Sabino, Amineano,
    Sorrentino, Setino, Falerno, ogni litro        ll. 13. 50
  Vino vecchio di prima qualità                     »  10. 90
  Vino rustico                                      »   3. 60
  Birra (camum)                                     »   1. 80
  Vino fatturato d'Asia (caranium mœonium)          »  13. 50
  Vino d'orzo d'Attica                              »  10. 90

  _Carne alla libbra di Francia._

  Carne di manzo                                   ll.  2. 40
    —   d'agnello, capretto, porco                  »   3. 60
  Il lardo migliore                                 »   4. 80
  I migliori presciutti di Vestfalia, della
    Cerdagna, o del paese dei Marsi                 »   4. 80
  Grasso di porco fresco                            »   3. 60
  Fegato di porco ingrassato con fichi (_ficatum_)  »   4. 80
  Zampe di porco, ognuna                            »   —  90
  Salame di porco fresco (_isicium_) del peso
    di un'oncia                                     »   —  40
  Salame di bue fresco (_isicia_)                   »   3. 37
    —    di porco fumicato e condito (_lucanicæ_)   »   3. 60
    —    di bue fumicato                            »   3. 37

  _Selvaggina, prezzo medio per capo._

  Un pavone maschio ingrassato                     ll. 56. 25
     —      femmina ingrassata                      »  45.  —
     —      selvatico maschio                       »  28. 12
     —      femmina                                 »  22. 50
  Un'oca grassa                                     »  45.  —
     —   non ingrassata                             »  22. 50
  Un pollo                                          »  13. 50
  Una pernice                                       »   6. 75
  Un lepre                                          »  33. 75
  Un coniglio                                       »   9.  —

  _Pesce._

  Pesce di mare di prima qualità                   ll.  5. 40
    —   di fiume   id.                              »   2. 70
    —   salato                                      »   1. 35
  Ostriche al cento                                 »  22. 50

  _Civaje._

  Lattuche delle migliori, ogni cinque             ll.  —  90
  Cavoli de' migliori, l'uno                        »   —  90
  Cavolifiori de' migliori, ogni cinque             »   —  99
  Barbabietole delle migliori, ogni cinque          »   —  90
  Ramolacci i più grossi                            »   —  90

  _Altri comestibili._

  Miele ottimo, al litro                           ll. 18.  —
  Olio di prima qualità                             »  18.  —
  _Liquamen_, stimolante per l'appetito             »   2.  —

Iscrizione di tanta importanza per gli economisti come per gli
antiquarj, venne molto discussa, e se ne trassero conchiusioni ben
diverse da quelle di Moreau de Jonnès. Nell'originale i prezzi sono
determinati colla sigla *, che significa denaro, ma deve significare
il denario _æreus_ di rame, moneta nuova battuta da Diocleziano, che
valea la ventiquattresima parte del pezzo d'argento fino, vale a dire
centotredici milligrammi, che oggi sarebbero due centesimi e mezzo. È
da ricordare che Lattanzio (_De morte persecutorum_, c. 7) dichiara
che quella tariffa era eccessivamente bassa, e perciò cessossi dal
vendere, onde nacque carestia; e, dopo puniti molti di morte, fu duopo
lasciarla cadere nell'oblio. Le valutazioni dunque date da Moreau de
Jonnès ripugnano alla storia, non men che al fatto, il quale porta che
i prezzi delle giornate son presso a poco sempre eguali, pareggiandosi
a quel che è necessario per vivere.

È peccato che le cifre del valor del grano, dell'orzo, della segala
siano perdute; ma abbiamo il

  Miglio pisto    al moggio L. 2 50
  Intero               »    »  1 25
  Panico               »    »  1 25
  Spelta mondata       »    »  2 50
  Fave non rotte       »    »  1 50
  Lenti                »    »  2 50
  Piselli              »    »  1 50
  Ceci                 »    »  2 50
  Avena                »    »  0 75
  Lupino crudo         »    »  1 50
  Fagiuoli secchi      »    »  2 50

Così 13 litri di sale sono a L. 2.50; la libbra di carne suina 0.30;
di manzo, di cara e montone 0.20; di lardo 0.40; di prosciutto 0.50;
di agnello e capretto 0.30; di porcello 0.40; la sugna 0.05; il burro
0.40; mezzo litro d'olio 0.30; del sopraffino 1; le ulive 0.10; i vini
d'Italia da 20 a 30 denari, cioè dai 50 ai 75 centesimi; la birra da 5
a 10 centesimi.

Quanto alle giornate, quella del contadino sarebbe di L. 0.65; di
muratore, falegname, fornaciajo di calce, fabbro, panattiere 1.25;
marmorajo, terrazziere di musaico 1.50; asinajo, camellajo, bardotto
(_bardonarius_), pastore centesimi 50 col vitto; mulattiere, porta
acqua, curator di condotti con vitto e per l'intera giornata centesimi
65. Al pedagogo, al maestro di leggere e scrivere 1.25; 1.90 al
maestro di calcolo e stenografia; 5 al grammatico greco; 2.50 al
maestro architetto; al garzone del bagno centesimi 5; per le scarpe
da mulattiere e paesano senza chiodi ogni pajo 3, da soldati 2.50,
da patrizj 3.75, da donna 1.50; il legno di quercia per una misura di
quattordici sopra sessantotto cubiti 6.25; di frassino per quattordici
cubiti sopra quarantotto dita, 5.

I calcoli e i ragionamenti di Dureau de la Malle tendono a stabilire
che il ragguaglio fra i metalli preziosi e il prezzo medio del grano,
delle giornate, del soldo militare, era, sotto l'impero romano, a un
bel circa quello della Francia odierna.

[254] Digesto, tit. _De publicanis et vectigalibus_.

[255] _Minima computatione, millies centena millia sestertium annis
omnibus India et Seres, peninsulaque illa (Arabia) imperio nostro
adimunt; tanto nobis deliciæ et fœminæ constant._ Nat. hist., XII. 41.

[256] — Io mostrerò nella prima epoca, che i Romani, poveri soldati,
non ebbero nè genio nè cognizione di commercio; nella seconda, che i
Romani, grandi e potenti colla guerra, trascurarono per orgoglio il
commercio, e non pensarono che ad arricchirsi colle spoglie di tutte
le nazioni; nella terza, che i Romani, schiavi e voluttuosi, con un
commercio passivo e rovinoso, caddero nella povertà e nella barbarie.
MENGOTTI, _Del commercio de' Romani_; memoria premiata dall'Istituto di
Francia.

[257] Ma i poeti non sapevano immaginare a quella spedizione altro
scopo che di conquiste. Vedasi Orazio; e così Properzio, III. 4:

    _Arma Deus Cæsar dites meditatur ad Indos,_
      _Et freta gemmiferi findere classe maris._
    _Magna viæ merces; parat ultima terra triumphos;_
      _Tigris et Euphrates sub tua jura fluent._
    _Seres et ausoniis venient provincia virgis..._
    _Ite agite; expertæ bello date lintea proræ._

[258] OROSIO, VII. 16.

[259] Tacito lo rammenta più volte, e così Filostrato, IV. 12, V. 1;
Plinio Cecilio, _Epist_. III. 11; Origene, _contra Celsum,_ III. 66;
san Giustino, _Apolog_. II. 8. — Vedi BURIGNY, _Mémoires de l'Académie
des Inscriptions_, tom. XXXI.

[260] La prima edizione certa di Plinio fu fatta da Giovanni di Spira
in Venezia il 1469: fino al 1480 se n'erano fatte sei ristampe, ma
tutte scorrette in modo, che Erasmo diceva, chi pigliasse a restituire
Plinio, si torrebbe sulle braccia tanta briga, quanta chi prende
una nave o una moglie. Le edizioni di Plinio finiscono alla parola
_Hispania quacumque ambitur mari_. Nel 1831, in un manoscritto
di Bamberga, Luigi De Jan professore a Schweinfurt trovò la fine
dell'opera, che dà un quadro comparativo della storia naturale
nei paesi posti sotto zone diverse, loda l'Europa meridionale e
specialmente la Spagna, «ove la dolcezza di un clima temperato dovette,
giusta il dogma dei primi Pitagorici, ajutar di buon'ora la stirpe
umana a spogliare la rozzezza selvaggia». A Gotha nel 1855 si fece
un'edizione sopra un codice che dà il titolo vero dell'opera: CAJI
PLINII SECUNDI _naturæ historiarum_, lib. XI. XII. XIII. XIV. XV,
_fragmenta edidit e codice rescripto sæculi quarti D.r _Fridegarius
Mone__.

Pel paragone che facciamo qui sotto, potrebbero contrapporsi il gonfio
elogio che di Plinio fece Buffon nel secolo passato, e il severo
giudizio che nel nostro ne portò Isidoro Geoffroy Saint-Hilaire (_Essai
de Zoologie générale_, par. I. I. 5) dicendo: — Passare da Aristotele
a Plinio è un ricadere da tutta l'altezza che separa l'invenzione
e il genio dalla compilazione fiorita e dal discorso spiritoso...
Plinio è un mero compilatore, forse più elegante, ma altrettanto meno
scrupoloso... Aristotele quattro secoli prima avea ridotte al giusto
valore queste inezie vulgari».

[261] _Nat. hist._, III. 7; VIII. 55; II. 7.

[262] _Nat. hist_., VII. 2. 3. 6. 46; VIII. 66. 67; XXVIII. 2. 3. 4; V.
30.

[263] _Terra solida et globosa undique in sese nutibus suis conglobata.
— Omnes ejus partes medium capescentes nituntur æqualiter_. De nat.
Deorum, II. 39 e 45.

[264] II. 5 e 1.

[265] XXXIII. 1. 3. 4. 13. XIX. 1. 4.

[266] VII. 1. 7; II. 13. 1.

[267] XXX. 4; III. 6. 2.

[268] I classici riboccano d'inesattezze geografiche. Cicerone,
nel _Sogno di Scipione_, mostrossi ben addietro di quel che già si
conosceva. Orazio dà per estremi della terra la Bretagna e il Tanai.
Virgilio fa scorrere il Nilo per l'India (_Georg_., IV. 293; e vedi
pure Lucano, X. 292). La Bretagna fu appuntino descritta da Giulio
Cesare; eppure Tacito dice che Agricola scoperse ch'era isola, le
dà la forma d'uno scudo o di un'ascia, e soggiunge che all'oriente
ha la Germania, a mezzodì la Gallia, ad occidente la Spagna, a mezza
strada incontrando l'Irlanda. Per Plinio la Scandinavia è un'isola, e
comunque raccoglitore appassionato, sembra ch'e' non abbia conosciuto
Strabone, osservatore tanto più arguto di lui. Tolomeo è inesattissimo
nella geografia dell'Italia; colpa sua o degli scrivani: nel solo
breve tratto riferibile all'alta Italia, pone fra i Cenomani Bergamo,
Mantova, Trento, Verona, appartenenti agli Euganei, ai Levi, ai Reti,
ai Veneti; fa nascere il Po presso il lago di Como; la Dora presso
il lago Penino, poi piegare verso quel di Garda; dopo le foci del Po
colloca quelle dell'Atriano (il Tartaro?), dimenticando l'Adige; pone
come città mediterranee nei Carni Aquileja e Concordia, e nei Veneti
Altino e Adria che erano a mare; a occidente della Venezia colloca i
Becuni, nome ignoto, che forse accenna i Camuni o i Breuni, genti ad
ogni modo di poca importanza, ecc. Floro dà Capua per città marittima,
e fa due monti diversi il Massico ed il Falerno. Plinio critica
Dicearco d'aver detto che il più alto dei monti sia il Pelio di mille
ducencinquanta passi, mentre «non s'ignora che alcune cime delle Alpi
si elevano fin a cinquantamila passi».

[269]

    _... Disco, qua parte fluat vincendus Araxes,_
      _Quot sine aqua Parthus millia currat eques._
    _Cogor et e tabula pictos ediscere mundos;_
      _Qualis et hæc docti sit positura Dei;_
    _Quæ tellus sit lenta gelu, quæ putris ab æstu;_
      _Ventus in Italiam qui bene vela ferat._
                                  PROPERZIO, IV. 3.

[270] VARRONE, _De re rustica_, lib. I. c. 2.

[271] PLINIO, _Nat. hist_., III. 3. 14.

[272] Invece di fare questa superficie = _a_/4 √3 (se si chiami _a_
il lato), Columella la suppose = 13_a_/30; il che dà √3 = 26/15, ossia
√675 = 26. Vedi lib. V. c. 2.

[273] PLINIO, _Epist_. IX. 61.

[274] Che scriveva a suo figlio, _jurarunt inter se Barbaros necare
omnes medicina. Et hoc ipsum mercede faciunt, ut fides iis sit, et
facile disperdant. Nos quoque dictitant Barbaros, et spurcius nos quam
alios Opicos appellatione fœdant. Interdixi de medicis._ Ap. PLINIO,
XXIX. 1.

[275] BIANCONI, _Lettere Celsiane_, 1779. Brillanti e false.

[276]

    _Inscribas chartæ quod dicitur Abracadabra_
    _Sæpius; et subter repetas, sed detrahe summæ;_
    _Et magis atque magis desint elementa figuræ_
    _Singula quæ semper rapias et cætera figes,_
    _Donec in angustum redigatur litera conum._
    _His lino nexis collum redimire memento._

[277] PLINIO, _Nat. hist._, XXVI. 1; XXIX. 1. — A Vicenza una
iscrizione ricorda un oculista: Q. CLODIVS o. LIBERTVS NIGER MEDICVS
OCVLARIVS SIBI ET Q. CLODIO Q. L. SALVIO PATRONO.

[278] _Est eloquentia una quædam de summis virtutibus_. CICERONE, De
oratore.

[279] _Jucunda senibus, dulcis secretorum comes_. QUINTILIANO,
Instit. orat. lib. i. 4. Egli raccomanda assai la grammatica, la
quale insegna il modo di scrivere e parlare corretto, secondo la
_ragione_, l'_antichità_, l'_autorità_ e l'_uso_. Da lui attingiamo
queste particolarità sull'educazione, e dal dialogo _De corrupta
eloquentia_, attribuito da chi a Quintiliano, da chi a Tacito, da
nessuno con bastanti ragioni. L'unico riscontro forse che militi per
quest'ultimo, è un certo fare a lui proprio, per esempio quel vezzo di
sinonimia _nova et recentia jura, vetera et antiqua nomina, incensus ac
flagrans animus_, ecc. ricorre in esso dialogo, ove troviamo _memoria
ac recordatione, veteres ac senes, vetera ac antiqua, nova et recentia,
conjungere et copulare_; ma è piuttosto moda del tempo che dell'autore.

[280] Quintiliano (_Instit. orat_., XII) dice: _Si ipsa vox fuerit
surda, rudis, immanis, rigida, vana, præpinguis, aut tenuis, inanis,
acerba, pusilla, mollis, effeminata... Ornata est pronuntiatio, cui
suffragatur vox facilis, magna, beata, flexibilis, firma, dulcis,
durabilis, clara, pura, secans, aerea, et auribus sedens._

[281]

    _Et nos ergo manum ferulæ subduximus, et nos
    Consilium dedimus Sullæ, privatus ut altum
    Dormiret,_

dice Giovenale, _Sat_. I. 15; e non parrà vero che altrettanto abbiam
fatto noi nelle scuole del secolo XIX.

[282] Le abbiamo dedotte dalle _Deliberazioni_ e dalle _Controversie
_di Seneca, e parte da Luciano.

[283] _Satyricon_, cap. I.

[284] _Instit. orat_., X.

[285] _Si antiquum sermonem nostro comparamus, pæne jam quicquid
loquimur figura est_.

[286] _Plerumque nudæ illæ artes, nimia subtilitatis affectatione
frangunt atque concidunt quicquid est in oratione generosius, et omnem
succum ingenii bibunt, et ossa detegunt, quæ ut esse et astringi nervis
suis debent, sic corpore operienda sunt._

[287] _Quibus componendis paullo plus quam biennium, tot alioqui
negotiis districtus, impendi; quod tempus, non tam stylo, quam
inquisitioni instituti operis prope infiniti, et legendis auctoribus
qui sunt innumerabiles, datum est... Usus deinde Horatii consilio, qui
in Arte Poetica suadet ne præcipitetur editio, nonumque prematur in
annum, dabam iis otium, ut refrigerato inventionis amore, diligentius
repetitos tamquam lector perpenderem._

[288] Non pajono sue quelle che ora ne portano il nome.

[289] Abbastanza aveva di che gemere un cuor paterno, buono come
quello di Quintiliano; eppure egli non sa dimenticarsi gli artifizj di
scrittore, se non altro per rinnegarli (_non sum ambitiosus in malis,
nec augere lacrymarum causas valeo_); esce in vane querimonie colla
fortuna, e dopo aver detto così affettuosamente: — Questo fanciullo
era tutto carezze per me, mi preferiva alle nutrici sue, alla nonna che
assisteva alla sua educazione, a quanto piace a quell'età», vi respinge
la lacrima dagli occhi col soggiungere che questo era un lacciuolo
tesogli dal destino per viepiù martoriarlo, e colle esagerate proteste
di non voler più a lungo soffrire la vita. _Illud vero insidiantis, quo
me validius cruciaret, fortunæ fuit, ut ille mihi blandissimus, me suis
nutricibus, me aviæ educanti, me omnibus qui sollicitare illas ætates
solent, anteferret. Tuos-ne ego, o meæ spes inanes, labentes oculos,
tuum fugientem spiritum vidi? Tuum corpus frigidum exsangue complexus,
animam recipere, auramque, communem haurire amplius potui? dignus his
cruciatibus, quos fero, dignus his cogitationibus. Te-ne consulari
nuper adoptione ad omnium spes honorum patris admotum; te avunculo
prætori generum destinatum; te omnium spe atticæ eloquentiæ candidatum,
superstes parens tantum ad pœnas, amisi! Et, si non cupido lucis, certe
patientia vindicet te reliqua mea ætate; nam frustra mala omnia ad
fortunæ crimen relegamus: nemo nisi sua culpa diu dolet_... Introd. ad.
lib. VI.

[290] Eumenio lo dice _eloquentiæ romanæ non secundum, sed alterum
decus._ Vedi indietro, pag. 255.

[291] Essendogli morto un nipotino, scrive a Marc'Aurelio una lunga
lettera di sfogo, che è tra le scoperte dal Maj. _Me consolatur ætas
mea, prope jam edita et morti proxima. Quæ cum aderit, si noctis, si
lucis id tempus erit, cœlum quidem consalutabo discedens, et quæ mihi
conscius sum protestabor. Nihil in longo vitæ meæ spatio a me admissum,
quod dedecori aut probro aut flagitio foret; nullum in ætate agunda
avarum, nullum perfidum facinus meum exstitisse; contraque multa
liberaliter, multa amice, multa fideliter, multa constanter, sæpe
etiam cum periculo capitis consulta. Cum fratre optimo concordissime
vixi; quem patris vestri bonitate summos honores adeptum gaudeo, vestra
vero amicitia satis quietum et multum securum video. Honores quos ipse
adeptus sum, nunquam improbis rationibus concupivi. Animo potius quam
corpori juvando operam dedi. Studia dottrinæ rei familiari meæ prætuli.
Pauperem me, quam ope cujusquam adjutum, postremo egere me quam poscere
malui. Sumtu nunquam prodigo fui, quæstui interdum necessario. Verum
dixi sedulo, verum audivi libenter. Potius duxi negligi quam blandiri,
tacere quam fingere, infrequens amicus esse, quam frequens adsentator.
Pauca petii, non pauca merui. Quod cuique potui, pro copia commodavi.
Merentibus promptius, immerentibus audacius opem tuli. Neque me parum
gratus quispiam repertus segniorem effecit ad beneficia quæcumque
possem prompte impertienda. Neque ego unquam ingratis offensior fui._

[292] Esprime tal suo pensiero massimamente nel giudicar Cicerone. _Eum
ego arbitror usquequaque verbis pulcherrimis elocutum, et ante omnes
alios oratores ad ea quæ ostentare vellet, ornanda, magnificum fuisse.
Verum is mihi videtur a quærendis scrupulosius verbis abfuisse, vel
magnitudine animi, vel fuga laboris, vel fiducia, non quærenti etiam
sibi, quæ vix aliis quærentibus subvenirent, præsto adfutura. Itaque
videor, ut qui ejus scripta omnia studiosissime lectitaverim, cetera
eum genera verborum copiosissime uberrimeque tractasse, verba propria,
translata, simplicia, composita, et quæ in ejus scriptis amœna;
quam tamen in omnibus ejus orationibus paucissima admodum reperias
insperata atque inopinata verba, quæ nonnisi cum studio atque cura,
atque vigilia, atque veterum carminum memoria indagatum. Insperatum
autem atque inopinatum verbum appello, quod præter spem atque opinionem
audientium aut legentium promitur; ita ut si subtrahas, atque eum qui
legat quærere ipsum jubeas, aut nullum, aut non ita ad significandum
adcommodatum verbum aliud reperiat._

Opponiamo a questa dottrina Cicerone stesso, il quale diceva
nell'_Oratore_: _Rerum copia verborum copiam gignit_; e altrove:
_Res atque sententiæ vi sua verba parient, quæ semper satis ornata
mihi quidem videri solent, si ejusmodi sunt ut ea res ipsa peperisse
videatur._

[293] _Te, domine_ (scrive a Marc'Aurelio), _ita compares, ubi quid
in cætu hominum recitabis, ut scias auribus serviendum: plane non
ubique, nec omni modo... Ubique populus dominatur et præpollet. Igitur
ut populo gratum erit, ita facies atque dices. Hic summa illa virtus
oratoris atque ardua est, ut non magno detrimento rectæ eloquentiæ
auditores oblectet... Vobis præterea, quibus purpura et cocho uti
necessarium est, eodem cultu nonnunquam oratio quoque amicienda
est. Facies istud, et temperabis et moderaberis optimo modo ac
temperamento_.

[294] _Ego hodie a septima in lectulo nonnihil legi: nam εἰκώνας
decem ferme expedivi_. Eppure Frontone avea fama di secco e robusto,
onde Macrobio (_Saturn_., v. 1) scrive: _Quatuor sunt genera dicendi:
copiosum, in quo Cicero dominatur; breve, in quo Sallustius regnat_ (e
non Tacito?); _siccum, quod Frontoni adscribitur; pingue et floridum,
in quo Plinius Secundus quondam, et nunc nullo veterum minor Symmachus
luxuriatur_.

[295] La prima edizione, fatta in Bologna nel 1498, ne contiene poche;
le altre furono ritrovate in Francia dall'architetto frà Giocondo, e da
Aldo Manuzio pubblicate in Venezia il 1508.

[296] Lib. VII. 20.

[297] Quest'Artemidoro, giunto in Atene, cerca qualche casa; e gliene
indicano una grande e bella eppur deserta, perchè ogni mezzanotte
vi si sentiva fracasso di catene, poi compariva un vecchio, scarno,
arruffato, coi ferri ai piedi e alle mani. Artemidoro, spirito forte,
compra la casa a poco prezzo, vi si alloggia, mettesi a scrivere; ma
a mezzanotte ecco lo spettro, che gli fa segno col dito. Artemidoro
gli accenna che aspetti, ma l'altro raddoppia il fragore, sicchè il
filosofo si alza, prende la lucerna e segue il fantasma. Era l'ombra
d'uno quivi trucidato, che chiedeva le estreme esequie; fatte le quali,
Artemidoro godè tranquillamente la sua casa.

Voi credevate simile storiella inventata dai frati nell'ignorante
medioevo; e potete leggerla in Plinio, _Epist_. VII. 27.

[298] _Epist_. I. 8.

[299] _Epist._ VII. 30.

[300] Sul lago di Como è ancora una fonte intermittente, alla villa
che appunto da ciò dicesi Pliniana; ma non ha il minimo vestigio di
antichità: mentre la Commedia vorrebbe collocarsi a Lenno, la Tragedia
a Bellagio.

[301] Altri suicidj sono menzionati con lode da Plinio. Il suo tutore
Aristone, sentendosi preso da febbre, disse a Plinio: — Sentite il
mio medico, io non sono insensibile alle preghiere di mia moglie,
alle lacrime di mia figlia, all'inquietudine dei miei amici, ma non
voglio patimenti inutili»; e Plinio gli promise d'avvertirlo quando
fosse opportuno uccidersi, ma fortunatamente guarì. Rufo, fratello di
Spurina, uomo d'alta ragione, preso dalla gotta, disse a Plinio che
aveva stabilito di lasciarsi morire, nè preghiere di parenti o d'amici
valsero a stornarlo.

[302] Quando si tratta di delineare qualunque sia edifizio degli
antichi, s'incontrano mille difficoltà. Forse venti diversi piani
si fecero della villa di Plinio, diversissimi tra loro. L'architetto
francese L. P. Hudebourt scrisse, nel 1838, _Le Laurentin, maison de
campagne de Pline le Jeune, restituée d'après la description de Pline_;
e può dar idea delle ville romane, per riscontro al _Palais de Scaurus_
(pag. 259, vol. II).

[303] _Epist_. VI. 17.

[304] GIOVENALE, v. 82-93.

[305] _Epist_. VIII. 21.

[306] _Epist_. I. 13.

[307]

    _Omnis in hoc gracili xeniorum turba libello_
      _Constabit nummis quatuor emta tibi._
    _Quatuor est nimium; poterit constare duobus,_
      _Et faciet lucrum bibliopola Triphon._
    _Hæc licet hospitibus pro munere disticha mittas,_
      _Si tibi tam rarus quam mihi nummus erit._
                     MARZIALE, XIII. 3.

[308]

    _Ille tuis toties præstrinxit tempora sertis_
    _Cum stata laudato caneret quinquennia versu..._
    _Sit pronum vicisse domi. Quid achea mereri_
    _Præmia, nunc rami Plœbi, nunc germine Lernæ,_
    _Nunc Athamantæa protectum tempora pinu?_

Così suo figlio (_Sylv._, v. 3), che non dubita paragonarlo ad Omero e
a Virgilio. Adulava il padre come adulava i tiranni.

[309]

                        _... Me fulmine in ipso_
    _Audivere patres; ego juxta busta profusis_
    _Matribus, atque piis cecini solatia natis._
                                 Sylv. II. 1.

[310]

    _Psittace, dux volucrum, domini facunda voluptas,_
    _Humanæ solers imitator, Psittace, linguæ,_
    _Quis tua tam subito præclusit murmura fato?_
                                           Ivi, 4.

[311] _Sylv._ II. 5. Per quel leone Marziale fece dieci epigrammi.

[312] PLINIO, _Epist._ VI. 17.

[313] — Dianzi io pregava Giove a darmi poche migliaja di lire, ed egli
mi rispose: _Te le darà quegli che a me dà i tempj_. Tempj diede egli
a Giove, ma non a me le mille lire; eppure avea letto la mia petizione
così benigno, come quando concede il diadema ai supplichevoli Geti,
e va e torna per le vie del Campidoglio. O Pallade, segretaria del
tonante nostro, dimmi: se egli negando ha tal volto, qual l'avrà nel
concedere? — Così io; ma Pallade rispose: _Stolto! credi tu negato ciò
che non fu concesso ancora? Epigr._ VI. 10.

E nel IV. 92: — Se a cena m'invitassero contemporaneamente Cesare
e Giove, quand'anche le stelle fossero vicine, lontana la reggia,
risponderei ai Numi: _Cercate chi voglia essere convitato dal tonante;
me tiene in terra il Giove mio_.

[314] Lib. IV. 4; VIII. 39.

[315] Vedi il libro XIII, intitolato _Xenia_.

[316]

                        _Tu sub principe duro,_
    _Temporibusque malis, ausus es esse bonus._
                                Lib. XII. 6.

[317]

    _Miratur scythicas virentis auri_
    _Flammas Jupiter, et stupet superbi_
    _Regis delicias, gravesque luxus._
                                    Ivi, 15.

[318] Delle oscenità scusavasi cogli esempj: _Sic scribit Catullus, sic
Marsus, sic Pedo, sic Getulicus_. Pref. al lib. I.

[319] Lib. X. 47.

[320] _Sunt bona, sunt quædam mediocria, sunt mala plura_. Lib. i. 16.

[321] Per rimpatto, Andrea Navagero ogn'anno in determinato giorno
bruciava alcune copie di Marziale, olocausto al buon gusto.

[322]

    _Cæsar in arma furens, nullas nisi sanguine fuso_
    _Gaudet habere vias._
                                  Lib. II.

[323]

    _Immergitque manus oculis..._
                    _... Et siccæ pallida rodit_
    _Excrementa manus; laqueum nodosque recentes_
    _Ore suo rumpit; pendentia corpora carpsit._
                _... Percussaque viscera nimbis_
    _Vulsit..._
    _Stillantis tabi saniem..._
    _Sustulit, et nervo morsus retinente pependit._
                                  Lib. VI.

[324]

    _Causa Diis victrix placuit, sed victa Catoni._

[325]

                _Sunt nobis nulla profecto_
    _Numina, cum cæco rapiantur sæcula casu._
    _Mentimur regnare Jovem..._
                        _Mortalia nulli_
    _Sunt cura Deo._
                                  Lib. VII.

[326]

    _Mors utinam pavidos vitæ subducere nolles,_
    _Sed virtus te sola daret._
                                  Lib. IV.

[327] Parlando del guerriero resuscitato dalla maga Tessala:

    _Ah miser, extremum cui mortis munus iniquæ_
    _Eripitur, non posse mori!..._
    _Sit tanti vixisse iterum, nec verba, nec herbæ_
    _Audebunt longæ somnum tibi rumpere Lethes_
    _A me morte data._
                                  Lib. VI.

[328]

    _Nam si quid latiis fas est promittere musis_
    _Quantum smyrnæi durabunt vatis honores,_
    _Venturi me, teque legent_ (Nerone): _Pharsalia nostra_
    _Vivet, et a nullo tenebris damnabitur ævo._
                                  Lib. IX.

[329] I primi libri dell'_Argonautica_ furono trovati dal Poggio
fiorentino nel convento di San Gallo; gli altri dappoi. Giambattista
Pio ne fece un'edizione nel 1519, supplendo del suo quel che manca del
libro VIII, e il IX e X.

[330] Il Petrarca tentò poi il soggetto medesimo nella sua _Africa_,
o persuaso che il poema di Silio fosse perduto, o, come altri
malignarono, credendo possederne egli l'unica copia. L'accusa di
plagio, datagli da Lefèbvre de Villebrune nel 1781, fu confutata dal
Baldelli, _Illustrazioni_ ecc., pag. 199, e dal Ginguené, note al vol.
II dell'_Histoire littéraire_. Durante il concilio di Costanza, il
Poggio scoperse il poema intero.

[331] Dopo aver detto nel primo atto delle _Trojane_:

    _... Felix Priamus_
        _... nunc Elysii_
    _Nemoris tutis errat in umbris_
    _Interque pias felix animas_
    _Hectora quærit;_

nel secondo soggiunge:

    _Post mortem nihil est, ipsaque mors nihil..._
    _Quæris quo jaceas post obitum loco?_
    _Quo non nata jacent._

[332] In _Tieste_, Atreo imbandisce a questo i figli, e gli dice:

          _Expedi amplexus pater;_
    _Venere, natos ecquid agnoscis tuos?_

Tieste risponde:

    _Agnosco fratrem._

Medea tradita, esce al bel principio furibonda, e fra l'altre cose
esclama:

      _Parta jam, parta ultio est;_
    _Peperi;_

e quando la nudrice la compiange perchè più nulla le sia rimasto, non
congiunti, non ricchezze, essa risponde:

    _Medea superest._

Nell'_Ippolito_, Teseo chiede a Fedra qual delitto creda dover colla
morte espiare; essa risponde:

    _Quod vivo._

Il coro di Corintj nella _Medea_ parve profezia del grande ardimento di
Cristoforo Colombo, annunciato così da uno Spagnuolo quattordici secoli
prima che la Spagna lo ajutasse e punisse:

    _Venient annis sæcula seris,_
    _Quibus oceanus vincula rerum_
    _Laxet, et ingens pateat tellus,_
    _Tethysque novos detegat orbes,_
    _Nec sit terris ultima Thule._

[333] Nella _Satira_ I esclama: — Chi può tenersi dallo scrivere satire
all'aspetto d'una città iniqua? chi è tanto ferreo da frenarsi allorchè
incontra la nuova lettiga dell'avvocato Matone riempiuta dalla pingue
sua pancia? E che? tanti vizj non li flagellerò io co' miei versi? Chi
può dormire fra questi padri che corrompono le nuore avare, fra sposi
infami e adulteri giovinetti? Se natura me lo niega, la collera detta i
versi alla meglio come li facciamo Cluvieno ed io».

Ecco l'impeto patriotico sfumare in un frizzo personale. Nerone
matricida è un Oreste, ma peggior di quello perchè montò sul teatro.
Narrando di un Egiziano di Copto divorato da quelli di Tèntira per
diversità di numi, sta a dimostrarvi l'atrocità del misfatto, perchè
le serpi non mangiano serpi, e l'orso vive sicuro coll'orso; e finisce
col riflettere cosa n'avrebbe detto Pitagora, il quale neppur tutti i
legumi permetteva.

[334]

    _Quidquid agunt homines, votum, timor, ira, voluptas,_
    _Gaudia, discursus, nostri est farrago libelli._

[335] Certi precettori e certi verseggiatori d'oggi che cosa diranno
all'udire che Giovenale, sedici secoli fa, già trovava assurdo l'uso
della mitologia nei versi?

    _Nota magis nulli domus est sua, quam mihi lucus_
    _Martis, et æoliis vicinum rupibus antrum_
    _Vulcani; quid agant venti, quas agat umbras_
    _Æacus etc._
                                  Sat. I.

[336] Vedi la Sat. XIII.

[337]

                          _... Semita certa_
    _Tranquillæ per virtutem patet unica vitæ..._
    _Nesciat irasci, cupiat nihil, et potiores_
    _Herculis ærumnas credat, sævosque labores_
    _Et venere, et cœnis, et pluma Sardanapali._
                                  Sat. X.

[338]

                _... Agmine facto,_
    _Debuerant olim tenues migrasse Quirites._
                                  Sat. III.

[339]

    _Messe tenus propria vive; et granaria, fas est,_
    _Emole. Quid metuas? occa, et seges altera in herba est._
                                  Sat. VI.

[340]

    _Nil tibi concessit ratio; digitum exsere; peccas;_
    _Et quid tam parvum est?_
                                  Sat. V.

[341] Svetonio conservò un buon dato di queste satire. Allorchè Cesare
introduceva molti Galli in senato, cantavasi per le vie:

    _Gallos Cæsar in triumphum ducit, idem in curiam;_
    _Galli bracas deposuerunt, latum clavum sumpserunt._

E quando faceva lui ogni cosa, togliendo la mano al collega Bibulo:

    _Non Bibulo quidquam nuper, sed Cæsare factum est;_
      _Nam Bibulo fieri consule nil memini._

Sotto le sue statue si lesse:

    _Brutus quia reges ejecit, consul primus factus est;_
    _Hic quia consules ejecit, rex postremo factus est._

Allorchè Augusto, nel tempo della proscrizione, ambiva i vasi corintj,
alla sua statua fu scritto:

    Pater argentarius, ego corinthiarius.

E alludendo alla sua smania del giuocare:

    _Postquam bis classe victus naves perdidit,_
    _Aliquando ut vincat, ludit assidue aleam._

E quando Livia, dopo tre mesi di matrimonio, gli partorì Druso:
Τοῖς εὐτυχοὔσι καὶ τρίμενα παιδία, cioè: Ai fortunati nascono sin i
fanciulli di tre mesi.

Quando egli imbandì quel banchetto di lasciva empietà:

    _Cum primum istorum conduxit mensa choragum_
      _Sexque deos vidit Mallia, sexque deas:_
    _Impia dum Phœbi Cæsar mendacia ludit,_
      _Dum nova Divorum cœnat adulteria:_
    _Omnia se a terris tunc numina declinarunt,_
      _Fugit et auratos Jupiter ipse thoros._

Più violento fu questo contro Tiberio:

    _Asper et immitis, breviter vis omnia dicam?_
      _Dispeream, si te mater amare potest._

E contro lo stesso:

    _Non es eques. Quare? non sunt tibi millia centum;_
      _Omnia si quæras, et Rhodos exsilium est._
    _Aura mutasti Saturni sæcula, Cæsar:_
      _Incolumi nam te, ferrea semper erunt._
    _Fastidit vinum, quia jam sitit iste cruorem:_
      _Tam bibit hunc avide, quarti bibit ante merum._
    _Adspice felicem sibi, non tibi, Romule, Sullam;_
      _Et Marium, si vis, adspice, sed reducem;_
    _Nec non Antoni, civilia bella moventis,_
      _Nec semel infectas adspice cæde manus._
    _Et dic, Roma perit, regnabit sanguine multo_
      _Ad regnum quisguis venit ab exilio._

Il matrimonio di Nerone ferivano i seguenti:

    Νέρον, Ορέστης, Αλκμαίων, μητροκτονοι.
    Νεονύμφον Νέρων, ἰδίαν μητέρ ἀπέκτεινεν.
    _Quis negat Æneæ magna de stirpe Neronem?_
      _Sustulit hic matrem, sustulit ille patrem._
    _Dum tendit citharam noster, dum cornea Parthus,_
      _Non erit Pæan, ille_ ἐκατηβελέτης.

Sull'immensa fabbrica del Palazzo aureo:

    _Roma domus fiet; Vejos migrate Quirites,_
      _Si non et Vejos occupat ista domus._

Nerone diede Poppea a Otone da custodire col titolo di sposo e
null'altro; e avendone quegli voluto usurpare i diritti, lo sbandì.
Allora fu scritto:

    _Cur Otho mentito sit, quæritis, exsul honore?_
      _Uxoris mœchus cœperat esse suæ._

Non ho potuto consultare i _Versus ludicri in Romanorum Cæsares
priores olim compositi; collatos, recognitos, illustratos edidit_ G. H.
HEINRICHIUS. Ala 1810.

[342] Medaura era colonia romana; eppure Apulejo, figlio di uno de'
primi magistrati (duumviro), non intendeva parola di latino quando
venne a Roma: così il figliastro suo non parlava che il punico, e
intendeva un po' di greco in grazia della madre tessala; _Loquitur
nunquam nisi punice; et si quid adhuc a matre græcisat: latine enim
neque vult, neque potest._ _Apolog._ Ciò smentisce chi crede il latino
fosse comune in tutte le colonie. Aggiungiamo che ad Apulejo l'imparare
il latino in Roma senza maestro parve fatica portentosa: _Quiritium
indigenum sermonem ærumnabili labore, nullo magistro præeunte,
aggressus excolui._ _Metam._

[343] _Sacris pluribus initiatus, profecto nosti sanctam silentii
fidem._ _Metam._ E nell'_Apolog._: _Sacrorum pleraque initia in
Græcia participavi; eorum quædam, in signa et monumenta tradita mihi
a sacerdotibus, sedulo conservo... Ego multijuga sacra, et plurimos
ritus, et varias cæremonias, studio veri et officio erga deos didici._

[344] _Mihi in incerto judicium est, fato ne res mortalium et
necessitate immutabili, an sorte volvantur._ Annal., VI. 22.

[345] _Cunctas nationes et urbes populus, aut primores, aut singuli
regunt: delecta ex his et consociata reipublicæ forma laudare facilius
quam evenire; vel si evenit, haud diuturna esse potest_. Annal., IV.
53.

[346] JACOBS, _Des Vell. Paterculus röm. Geschichte übersetz von etc_.
Lipsia 1793.

MORGENSTERN, _De fide historica Vell. Paterculi, in primis de
adulatione ei objecta_. Ivi 1800.

[347] In _Agricola_, 30 e 31.

[348] _De moribus Germanorum_, 33.

[349] I. 12; II. 15.

[350] Credo interpolato quel capitoletto ne' manoscritti, e lo stile
l'annunzia posteriore.

[351] _Luna deficere cum aut terram subiret, aut sole premeretur_. IV.
10. Gli errori ne rilevò Le Clerc in calce alla sua _Ars critica_.

[352] PLINIO, _Nat. Hist_., XXVIII. 2.

[353] _Negli Scrittori della Storia Augusta son comprese le vite di_

  Adriano                           per   Elio Sparziano
  Antonino Pio                       »    Giulio Capitolino
  Elio Vero                          »    Sparziano
                                     »    Capitolino
  Marc'Aurelio                       »    Capitolino
  Avidio Cassio                      »    Vulcazio Gallicano
  Comodo                             »    Elio Lampridio
  Pertinace                          »    Capitolino
  Didio Giuliano, Settimio Severo,
    Pescennio Nigro                  »    Sparziano
  Clodio Albino                      »    Capitolino
  Caracalla e Geta                   »    Sparziano
  Macrino                            »    Capitolino
  Diadumeno, Elagabalo, Alessandro   »    Lampridio
  I due Massimini, i tre Gordiani,
    Massimo e Balbino                »    Capitolino
  I due Valeriani, i due Gallieni,
    i Trenta Tiranni, Claudio II     »    Trebellio Pollione
  Aureliano, Tacito, Floriano,
    Probo, Firmo, Saturnino,
    Proculo e Bonoso, Caro,
    Numeriano, Carino                »    Flavio Vopisco

[354] «Chiamansi le Coefore, e sono di... di chi dunque? Ah sì!
dicevano di Policleto». _In Verrem, de signis_.

[355] — Statue, che potrebbero allettare non solo un intelligente come
Verre, ma fin ignoranti, come chiamano noi: un Cupido di Prassitele;
giacchè nell'indagine ho imparato anche nomi d'artisti». _Ibi_.

[356]

    _Excudent alii spirantia mollius æra,_
    _Credo equidem vivos ducent de marmare vultus,_
    _Orabunt melius causas..._

Il cortigiano d'Augusto dovea passare sotto silenzio Cicerone.
Veramente Orazio, _Ep._ I 4, cantava:

                          _Pingimus, atque_
    _Psallimus, et luctamur Achivis doctius unctis;_

ma è notevole questo appaiare il dipingere col sonare e lottare.

[357] Il Panteon fu dedicato a Giove Ultore, e detto così perchè alle
due statue di Marte e Venere erano aggiunti gli attributi di tutte
le divinità. Guasto da incendj, fu restaurato da Adriano, poi da
Settimio Severo nel 202 di C.; e d'uno di questi restauri probabilmente
sono colpa le colonne che dividono lo spazio interno, troppo esili a
proporzione della grave cupola. Nel 600 venne dedicato a santa Maria
ed ai Martiri. La copertura di bronzo della cupola fu tolta nel medio
evo; quella del portico da Urbano VIII per far fondere la tribuna di
S. Pietro in Vaticano dal Bernino, del quale pure sono i due poveri
campanili, che si vedono sul frontone postico.

[358] CICERONE ad _Attico_, lib. I. ep. 4. 6. 8. 9.

[359] VITRUVIO, II. 8.

[360] PLINIO, _Nat. hist_., XXXV. 4. 10. 11. 12.

[361] San Pietro di Roma copre 20,000 metri quadrati; mentre il più
grande della Roma antica, cioè quel della Pace, ne copre 6240, 3182 il
Panteon, 874 il Giove Tonante, 195 quel della Fortuna Virile; e fuor
di Roma, 1426 il tempio maggiore di Pesto, 636 quel della Concordia ad
Agrigento, 434 quel di Giove a Pompej.

[362]

                       _En quatuor aras;_
    _Ecce duas tibi, Daphni, duas altaria Phœbo_.

Su questo passo di Virgilio pretesero che gli altari si consacrassero
agli dei, a' semidei ed eroi le are; ma non sembra provato, nè soddisfa
la distinzione che ne fece Raoul-Rochette nei _Monuments inédits
d'antiquité figurée_, tav. XXVI. 2.

[363] «Benchè inferiore in semplicità ed armonia all'architettura
greca (dice Hosking), la romana è evidentemente della stessa
famiglia, distinta per esecuzione più ardita, ed elaborata profusione
d'ornamenti. Il gusto delle due nazioni è espresso dal dorico pel
primo, dal corintio per l'altro: uno è modello di semplice grandezza,
perfetto nelle particolari convenienze, e inapplicabile ad oggetto
diverso; l'altro è men raffinato, ma molto adorno; sfoggia nell'esterno
la bellezza di cui manca nell'interno; imperfetto in ciascuna
combinazione, ma applicabile ad ogni proposito. In Grecia come a Roma
il maggiore sfoggio d'architettura e colonne faceasi ne' tempj; ma i
Romani non aveano abitudine di costruirli peripteri, siccome i Greci.
Da alcune ruine pare che in qualche età fabbricassero tempj dipteri;
ma i più usitati erano i pseudo-dipteri, cioè colle colonne affisse
al muro, gli apteri e prostili: di amfi-prostili non abbiamo esempj.
Gran proiezione i Romani davano ai loro portici pel maggior effetto. I
tempj circolari non erano comuni ai Romani. Insomma il tempio romano
era distinto dal greco per aspetto più grande, colonne più sottili,
generalmente corintie, e costruzione sopra un podio o basamento».

[364] PAUSANIA, X.

[365] Ecco il paragone d'alcuni di tali edifizj:

                               _lunghezza   larghezza  spettatori_

  Coliseo                 metri      207         171       87,000
  Anfiteatro di Caracalla   »        226         146       20,000
      »         Marcello    »        132         132       30,000
      »         Verona      »        154         122       23,000
  Circo Massimo             »        660         190      254,000

[366] Non è vero che le figure crescano regolarmente di grandezza
nell'elevarsi. Il 1588 alla statua dell'imperatore fu surrogata quella
di san Pietro; due anni dipoi, Sisto V sterrò il piedistallo; Napoleone
fece demolire le umili costruzioni che ne ingombravano il contorno, e
i papi successivi restituirono la grande piazza. Lo spagnuolo Ciacono
nel 1616 scriveva che ancora vedevansi i piedi della statua di Trajano,
e che dagli scavi fatti uscì la testa di bronzo, la quale conservavasi
dal cardinale Della Valle: or s'ignora che ne sia avvenuto.

[367] LAMPRIDIO, in _Alexandro_, 27. 28.

[368] ROSSINI. _Degli archi trionfali onorarj e funebri degli antichi
Romani, sparsi per tutta Italia_. Roma 1736.

Ecco un parallelo:

                                      _altezza  larghezza  grossezza_
  Arco in Roma di Tito         metri       24        16          5
       »    di Costantino       »          25        22          7
       »    di Settimio Severo  »          24        21          7
       di Benevento             »          25        17          5
       d'Augusto a Rimini       »          16        16          9
       di Ancona                »          15        14          3

A Roma v'erano pur quelli di Orazio Coclite, Camillo, Druso, Tiberio,
Gallieno.

[369] _Manentque vestigia irritæ spei_. TACITO.

[370] Dureau de la Malle (_De la distribution, de la valeur et de la
législation des eaux dans l'ancienne Rome_. Parigi 1843) calcola che
i condotti che menavano acqua a Roma, tirassero insieme 428,000 metri,
di cui 32,000 sopra arcate: e sottraendone la derivazione fraudolenta,
portavano 11,075 pollici d'acqua, di cui 4388 vendevansi ad usi
privati. Rondelet sopra Frontino, ragguagliò l'acqua venuta in Roma
per gli acquedotti a un fiume largo trenta piedi, profondo sei, e della
velocità di trenta pollici per secondo.

[371] Paragone dei ponti romani:

                               _lungo    largo    costruito da_
  Milvio                     metri 126     9      Silla
  Senatorio o Rotto            »    25    13      C. Scipione
  Salaro sul Teverone          »    77     9      Tarquinio
  Sisto o del Gianicolo        »    70     —
  Fabricio o de' Quattro capi  »    25     —
  Cestio o Ferrato             »    50     —       Valente
  Elio o Sant'Angelo           »   113    15      Adriano
  Mammea presso Roma           »    60     9      Antonino
  Di Rimini sulla Marecchia    »    46     —       Augusto
  Sulla Narina fra Roma e
    Loreto                     »   194    34      Augusto

[372]

    _Muræna proibente domum, Capitone culinam..._
    _Proxima Campano ponti quæ villula tectum_
    _Præbuit; et parochi, quæ debent, ligna salemque._
                                  Sat. I, V. 46.

[373]

    _Scalis habito tribus sed altis._
                         Epigr. V. 22.

[374] CICERONE, _pro Milone_, 15; _Philip._ II. 9. ORAZIO, _Ep_. II. 2.
15.

[375] Che si chiudessero con imposte doppie è chiaro da quel di Ovidio,
_Amor._, I. 3:

    _Pars adaperta fuit, pars altera clausa fenestræ._

Plinio parla d'una porta a vetri nella sua villa, la quale separava e
riuniva due camere.

[376] _Ex auro, argentove aut certe ex ære in bibliotheca dicantur
illi, quorum immortales animæ in iisdem locis loquuntur._ PLINIO.

[377] Quanto ai camini, senza ricorrere al Manuzio nei Commenti
alle epistole di Cicerone, al Filandro sopra Vitruvio, VII. 3,
al Burmanno sopra Petronio, _Satyr_. 135, che lo negano, ed al
Ferrario, _Electorum_ lib. I. 1. 9, che lo asserisce, può vedersi
una dissertazione di Scipione Maffei nella raccolta d'opuscoli del
Calogerà, tom. XLVII. p. 449, ove sostiene che gli antichi non avevano
camini al modo nostro. Pure in Aristofane (_Vespe_, 1. 2) è accennata
una canna di camino, in cui poteva star nascosto un uomo; Svetonio
(in _Vitellio_) dice che, in un pasto dato da questo imperatore, la
sala bruciò per fuoco appigliatosi al camino (_flagrante triclinio ex
conceptu camini_).

[378] _Non vivunt contra naturam qui pomaria in summis turribus ferunt?
Quorum silvæ in tectis domorum ac fastigis nutant, inde ortis radicibus
quo improbe cacumina egissent?_ Ep. 122.

[379] _Censores vias sternendas silice in urbe, glarea extra urbem
substruendas marginandasque, primi omnium locaverunt._ LIVIO, XLI. 27.

Sopra tavole di rame si trovarono leggi, che il Corradi e il Mazzocchi
credeano essere le Sempronie di Cajo Gracco, ma ora si asseriscono
agli ultimi tempi della Repubblica, e portano regolamenti intorno alle
strade:

— Chi ha o avrà, sia in Roma o a un miglio in giro dal suo abitato,
una casa, davanti a cui passi la strada pubblica, dovrà mantenere essa
strada a requisizione dell'edile, cui spetta quel quartiere. L'edile
veglierà perchè ciascun proprietario mantenga come deve la strada
dinanzi la sua casa, sicchè l'acqua non s'impozzi e non la renda
incomoda.

«Gli edili curuli e plebei dovranno, fra cinque giorni dopo eletti,
trarre a sorte le regioni della città, dove abbiano a sorvegliare la
riparazione e il selciato delle strade pubbliche a Roma e ad un miglio
in giro.

«Se la via passi fra un tempio od un luogo pubblico qualunque e una
casa privata, l'edile farà conservare a spese dello Stato metà di
questa parte della via pubblica.

«Se un proprietario non intertenga la strada avanti la sua casa dopo
l'intimazione dell'edile, questi l'affiderà ad un appaltatore: ma
dieci giorni prima l'annunzierà nel fôro, e ne farà intimar l'avviso
ad esso proprietario ed a' suoi procuratori; e l'aggiudicazione si farà
pubblicamente nel fôro, mediante il questore urbano.

«Esso proprietario o proprietarj saranno scritti come debitori
sui libri di finanza per una somma eguale all'aggiudicazione, e
all'intraprenditore verrà assegnato un credito esigibile di pien
diritto sui loro beni.

«Se, fra trenta giorni dall'assegnazione notificata al proprietario,
esso non pagò l'imprenditore o non diede cauzione, dovrà pagare metà di
più.

«Il proprietario che abbia davanti alla casa un marciapiede, lo
manterrà tutt'al lungo di essa in pietre connesse, intere, ben piane,
secondo ordinerà l'edile di quel quartiere».

Le tavole trovate ad Eraclea nel golfo di Taranto il 1732 contengono
molti ordini sul mantenere sgombre le vie e proibiscono i carri
dall'alba fin a decima, salvo poche eccezioni. Inoltre si obbligavano
gli abitanti a conservar nette le vie scopando e anaffiando. NAUDET,
_Sur la police chez les Romains, Mém. de l'Institut_, vol. IV.

[380] Dionigi d'Alicarnasso (lib. IV) dice difficile misurare il
perimetro di Roma sopra le mura, attesochè son poco facili a seguire
in grazia delle case che v'aderiscono da tutte parti. Secondo Paolo
(_Digest._, lib. II), _Roma_ esprimeva tutto l'indeterminato spazio
dov'erano case, _urbs_ il solo ricinto legale del pomerio, come oggi
Londra e la City.

Di Roma abbiamo due descrizioni fatte sotto Valentiniano e Valente,
riferite da Grevio, _Thesaurus antiquitatum roman._, tom. III; ed
una a mezzo il V secolo, in calce alla _Notitia dignitatum utriusque
imperii._

L'area della città occupava da cinque milioni di metri quadrati, dopo
l'ampliazione d'Aureliano; sicchè ogni casa teneva, per un di mezzo,
centoquattro metri quadrati. Ciò mostra quanto erano piccole: eppure
bisognerebbe mettere venticinque casigliani per ciascuna se si volesse
giungere a soli un milione ducentomila abitanti; che è assai meno
di quel che alcuni suppongono. Londra ha la superficie di ventimila
ottocento ettari, con ducensessantamila fabbricati.

Giusto Lipsio stimò da quattro in cinque milioni la popolazione di
Roma, e i successivi copiarono quest'indicazione. La Malle, dal calcolo
dello spazio in paragone colle città moderne, non gliene dà più di
cinquecentosessantamila. Si avverta però che la mura d'Aureliano non
dovea comprendere quello spazio indeterminato che pur chiamavasi città:
che con tanti schiavi poteasi molto più affollare la popolazione,
stivandoli anche sotto ai tempj e ai pubblici edifizj; e che Augusto
dovè proibire di alzar le case più di sette piani. Sappiamo che il
grano d'Africa e dell'Egitto, destinato a pascer Roma, era in un
anno sessanta milioni di moggia al tempo d'Augusto; cioè il bastevole
per circa un milione d'abitanti. Forse tanti erano, contando metà di
cittadini e metà fra schiavi e avveniticci. Scemò poi, e Sparziano
(in _Settimio Severo_, VIII. 23) riduce a settantacinquemila moggia
il consumo giornaliero di Roma, cioè il consumo annuo in ventisette
milioni ducensettantacinquemila; il che limita la popolazione a
cinquecentomila.

[381]

    _Forte ibam via Sacra, sicut meus est mos,_
    _Nescio quid meditans nugarum, totus in illis._

[382] La prima edizione fu fatta a Firenze il 1496, poi a Venezia
l'anno successivo. Dopo d'allora moltissime traduzioni e commenti; e
la più illustre è l'edizione in otto vol. in-4º a Udine 1825-30, con
trecenventi tavole, commenti e dissertazioni dello Stratico di Zara e
del Polini.

[383] _Nat. hist._, XXXV. 5.

[384] _Spectantem aspectans quocumque aspiceret_.

[385] _Nat. hist._, XXXIII. 38.

[386]

    _Scilicet in domibus vestris, ut prisca virorum_
      _Artifici fulgent corpora picta manu,_
    _Sic quæ concubitus varios Venerisque figuras_
      _Exprimat, est aliquo parva tabella loco._
                     OVIDIO, Trist., II.

    _Utque velis, Venerem jungunt per mille figuras,_
      _Inveniat plures nulla tabella modos._
                         Ars am., II.

    _Non istis olim variabant tecta figuris,_
      _Tum paries nullo crimine pictus erat..._
    _Illa puellarum ingenuos corrupit ocellos,_
      _Nequitiæque suæ noluit esse rudes etc._
                            PROPERZIO.

SVETONIO, in _Horatio_: _Ad res venereas intemperantior traditur: nam
speculato cubiculo scorta dicitur habuisse disposita, ut quocumque
respexisset, ibi ei imago coitus referretur etc._

CLEMENTE ALESSANDRINO, in _Protrep._: Παρ’αὐτὰς επὶ τὰς περιπλοκὰς
ἀφορῶσιν εἰς τὴν Αφροδίτην ἐκείνην, τὴν γυμνὴν, τὴν ἐπὶ συμπλοκῆ
δεδεμένην, καὶ τῇ Λέδᾳ περιπετώμενον τὸν ὄρνιν τὸν ἐρωτικὸν... Πανίσκοι
τινὲς, καὶ γυμναὶ κόραι, καὶ σάτυροι μεθύοντες.

Abbiamo a Napoli un gabinetto puramente di lavori d'arte osceni, e n'è
stampata la descrizione a Parigi, _Cabinet secret du musée royal de
Naples_, con sessanta tavole a colori che rappresentano le pitture, i
bronzi, le statue erotiche d'esso gabinetto.

[387] Nel duomo di Màzzara e in San Francesco di Messina due col ratto
di Proserpina; nella chiesa di Sclafani con Baccanti: e più bello il
fonte battesimale di Girgenti colla storia di Ippolito.

[388] FERRARA, _Storia di Sicilia_, tom. VIII. p. 112.

[389] CRISPI, _Opusc. di letteratura e archeologia_, 1836.

[390] ARISTOTELE, _Econom_., lib. ii. 1. 2. Nel Digesto, lib. LII. tit.
10, è ordinato: _Ne quis nummos stagneos, plumbeos emere, vendere dolo
malo velit_.

[391] _Auctarium Siciliæ numismaticæ_. Copenhagen 1816.

Le città o repubbliche sicule, di cui si hanno medaglie, sono:

_Abacænum_, presso Tripi; _Abolla_, presso Avola; _Acræ_, presso
Palazzolo; _Adranum_, oggi Adernò; _Agrigentum_; _Agyra_; _Alantium_,
sul monte San Fratello; _Amestratum_, oggi Mistretta; _Apollonia_, oggi
Pollina; _Assorum_, oggi Asaro; _Atna_, o Inessa presso Licodia.

_Calcata_, oggi Caronia; _Camarina; Catania; Centuripa,_ oggi Centorbi;
_Cephalædium_, oggi Cefalù.

_Drepanum_, oggi Trapani.

_Emporium_, oggi Castellamare; _Enna_, oggi Castrogiovanni; _Entella;
Erix_, oggi Monte San Giuliano.

_Gela_?

_Iccara_, presso Carini.

_Leontinum_, oggi Lentini; _Lilibæum_.

_Macella_, oggi Macellaro; _Megara_, oggi Augusta; _Menæ_, oggi
Mineo; _Messana_, già Zancle, oggi Messina; _Morguntium_, nel golfo di
Catania; _Motya_, nell'isola San Pantaleo.

_Naxus_, al capo Schifò; _Neetum_, oggi Noto; _Nissa_, poi Petilia.

_Panormus_, oggi Palermo.

_Segesta_ o _Egesta_, sul monte Barbaro; _Selinus_, oggi Selinunte;
_Siracusæ_.

_Talaria? Tauromenium_, oggi Taormina; _Thermæ; Tyndarium; Thracia_
o _Trinacio_, presso Potica. Possono aggiungersi le vicine isole di
_Melita_, Malta; _Gaulus_, Gozo; _Melingunis_, Lipari; _Lopadusa_,
Lampedusa; _Cosyra_, Pantellaria.

Non sono però qui tutte le città siciliane; Vincenzo Natale, ne'
_Discorsi sulla storia antica della Sicilia_ (Napoli 1843), ne dà
il catalogo ragionato, distinguendo le certamente sicane da quelle
che il sono probabilmente: le prime sarebbero Camico, Inico, Onface;
Crasto, Iccari, Eucarpia, Macara, Vessa; le altre, Indara, Ippana,
Macella, Schera, Jete, Triocala, Scirtea, Cabala, Giorgio, Ambiche.
Altre quaranta ne adduce, edificate dai Siculi, e poi divenute greche;
e di tutte cerca la geografia, i fondatori, le vicende. In testa
alle _Antichità di Sicilia_ del duca di Serradifalco sta un _Quadro
comparativo dei nomi antichi e moderni_ delle città siciliane. Alla
geografia di questo paese giovano immensamente le otto carte di
Alfonso Airoldi, che la rappresentano nei tempi favolosi fin alle
colonie greche e alla conquista de' Romani, sotto di questi, sotto
gl'imperatori, sotto i Saracini, sotto i Normanni, sotto gli Aragonesi;
e l'ultima le riepiloga tutte, coi nomi che in ciascun'epoca portarono
le città.

Le monete della restante Italia si classificano così: Italia superiore,
Etruria, Umbria, Piceno, Vestini, Lazio, Agro Reatino, Samnio,
Frentani, Campania, Apulia, Calabria, Lucania, Bruzj.

[392] Delle statue antiche convien ricordarsi che molte sono
restaurate. A dir solo delle più celebri, nel Laocoonte, capolavoro,
che l'espressione esagerata del dolore colloca ai limiti ove l'arte
comincia a decadere, è moderno il braccio destro del padre, e furono
fatti dal Cornacchini l'antibraccio destro del figlio maggiore e
tutto il braccio destro del minore: nel toro Farnese sono restauro
la parte superiore di Dirce, le teste e le gambe di Zeto e Anfione:
Michelangelo rifece le gambe dell'Ercole Farnese, che poi furono
trovate: dell'Apollo di Belvedere son moderne le mani: alla Tersicore
del Vaticano si sovrappose la testa di un'altra statua. Le statue
di Ercolano e Pompej hanno questo insigne vantaggio, di essere state
immuni da restauri.

[393] Nel 1755, e gli scavi regolari cominciarono nel 1799.
Domenico Fontana, che nel 1592 guidò le acque del Sarno alla Torre
dell'Annunziata, dovette coi cunicoli incontrarsi ne' monumenti di
Pompej che attraversava: or come non nacque curiosità di esplorarli?

[394] Forse non era che un simbolo e un motto di buon augurio, che si
ha pure nel musaico di Salisburgo, coll'aggiunta _Nihil intret mali_:
ma di un postribolo si ha a Pompej un'iscrizione, ch'è bello tacere.

[395] Le scarpe de' Romani somigliavano agli odierni coturni, giungendo
fin al polpaccio, sparati davanti, e chiusi da coreggie o lacciuoli.
Era vanto l'averli ben serrati; ma dallo sparo, nelle persone eleganti,
lasciavasi trasparire la calza, per lo più bianca o rossa, e sostenuta
da un legaccio. La suola talvolta era rialzata da severo, che anche
oggi trovasi opportuno a tenere asciutto il piede. La moda variò la
forma e il colore del tomajo; le suole furono sin d'oro, ovvero ornate
di gemme. Aureliano riservò alle donne le scarpe rosse, che del resto
erano un distintivo degli imperatori.

[396] È singolare un musaico, ultimamente scoperto in un triclinio
presso la porta Stabiana, di finitezza stupenda. Ha nel mezzo un
teschio, e attorno simboli delle vicende della vita; un archipenzolo,
un bastone, un'asta rovesciata da cui pendono cenci, una farfalla con
ali rosse screziate d'azzurro, librata s'una ruota a sei raggi. Come
vedemmo nel convito di Trimalcione, rammentavasi la fugacità della
vita, per eccitare a goderne.

[397] Ultimamente si scopersero tombe sannitiche, fra le romane;
anche con vasi e monete che attestano una civiltà sviluppata prima del
contatto coi Greci.

[398] Delle tante opere relative agli scavi di Pompej il frutto venne
raccolto in quella di Fausto e Felice Niccolini: _Le case e i monumenti
di Pompej disegnati e descritti_. Ora il Fiorelli ha dato maggior
regola alle scoperte e più scienza all'interpretazione.

Una particolarità bizzarrissima di Pompej sono le iscrizioni,
che graffivano sul muro ragazzi e soldati petulanti, o amanti, o
sollecitatori di voti. Un giovinetto scrisse:

    _Candida me docuit nigras odisse puellas;_

e una donna, o fingendosi donna, vi soggiunse:

    _Oderis, et iteras non invitus;_
    _Scripsit Venus Fysica Pompejana._

Un amante posposto scriveva: _Alter amat, alter amatur, ego fastidio_;
e un arguto vi soggiungeva: _Qui fastidit, amat_.

E molte ricorreano dichiarazioni amorose; per es.: _Auge amat
Arabienum; Methe Cominiæs atellana_ (commediante) _amat Chrestum corde.
Sit utreisque Venus Pompejana propitia et semper concordes vivant_.

Spesso sono scherzi, come questa lettera: _Pyrrus c. Hejo conlegæ
sal. Moleste fero quod audivi te mortuum: itaque vale_. Sul palazzo
di giustizia uno scriveva: _Quot pretium legi?_ «Quanto si vende la
giustizia?»

Talune sono manifesti di spettacolo:

    _Hic venatio pugnabit_
    V _kalandas septembris_
    _Et Felix ad ursos pugnabit._

Un venditore di zampetti assicura che, serviti che siano, i convitati
leccano la pentola ove furon cotti:

    _Ubi perna cocta est si convivæ apponitur_
    _Non gustat pernam, lingit ollam aut cacabum._

Ci sono affissi per trovare robe perdute, come questa:

    _Urna vinicia periit de taberna_
    _Si eam quis retulerit_
    _Dabuntur_
    _HS lxv: sei furem_
    _Quis abduxerit_
    _Dabit decumu_m (il doppio)
    _Januarius_
    _Qui hic habitat._

Ci sono annunzj d'affitti o di vendite:

    _In prædiis juliæ sp. felicis_
    _Locantur_
    _Balneum venerium et nongentum tabernæ_
    _Pergulæ_
    _Cænacula ex idibus aug. primis in idus_
    _Aug. sextas_
    _Annos continuos quinque_
    _s q d l e n c a_
    _Smettium verum ade._

Le quali ultime sigle devono forse leggersi: _Si quis dominun loci ejus
non cognoverit, ad..._ Ma sono strane quelle novecento botteghe in una
sola città. Pergole chiamavansi i terrazzi dove i venditori esponeano
le loro merci: i cenacoli equivalgono alle trattorie.

Un ghiotto esclama: _Quæ gula quæcumque in vino nascitur;_ un altro:
_Ad quem non cœno, barbarus ille mihi est._ Uno schiavo liberato:
_Labora, Aselle, quomodo ego laboravi, et proderit tibi;_ uno
impreca: _Asellia tabescas;_ un altro taccia di ladro: _Oppi embolari_
(facchino) _fur furuncule;_ e con espressione più mercatina: _Miccio
cocio tu tuo patri cacanti confregisti peram._

Anche Cicerone (in _Verrem_, III. 33) ci fa sapere che contro l'amasia
di Verre i Siciliani scriveano satire fin sopra le pareti del tribunale
e la testa del pretore: _De qua muliere versus plurimi supra tribunal
et supra prætoris caput scribebantur._

Quelle iscrizioni diedero modo di capirne altre, che prima non
intendevasi alludessero all'abitudine di graffire sui muri con un aguto
o con carbone o minio. Così a Forlimpopoli leggeasi: ITA CANDIDATVS
FIAT HONORATVS TVVS ET ITA GRATVM EDAT MVNVS TVVS MVNERARIVS ET TV
FELIX SCRIPTOR SI HOC NON SCRIPSERIS. _Il tuo candidato giunga agli
onori, e ti dia in compenso un combattimento, purchè tu non lo scriva
qui;_ cioè desiderava non scrivesse su quella fabbrica il suo voto.
E principalmente faceasi tal preghiera sui sepolcri che, come esposti
lungo la via, erano prescelti per porvi le iscrizioni.

          PARCE OPVS HOC SCRIPTOR TITVLI QUOD LVCTIBVS VRGENT
                  SIC TVA PRÆTORES SEPE MANVS REFERAT

è la fine d'un epitafio di Mola di Gaeta, riferito da Mommsen
(_Inscriptiones regni neapoletani_): come quest'altra: INSCRIPTOR
ROGO TE VT TRANSEAS HOC MONVMENTVM AST... AN QVOIVS CANDIDATI NOMEN
IN HOC MONVMENTO INSCRIPTVM FVERIT REPVLSAM FERAT NEQVE HONOREM VLLVM
GERAT. _Prego lo scribacchiante a lasciar intatto questo monumento:
il candidato, il cui nome vi sarà scritto, possa esser rejetto nelle
elezioni, e non giunga ad onore alcuno._

Alle volte l'iscrizione è tale, che chi la legge imprechi a se stesso;
come la 1810 dell'Orelli: M. CAMVRIVS HORANVS H. M. H. N. S. SED SI HOC
MONVMENTO VLLIVS CANDIDATI NOMEN INSCRIPSERO NE VALEAM. _Mal mi capiti
se a questo monumento iscriverò il nome di qualche candidato;_ mentre
la 4751 dello stesso dice: ITA VALEAS SCRIPTOR HOC MONVMENTVM PRÆTERI.
_Ben t'avvenga se non scarabocchi questo monumento._ E dianzi presso
Narni fu trovata questa: ITA CANDIDATVS QVOD PETIT FIAT TVVS ET ITA
PERENNES SCRIPTOR OPVS HOC PRÆTERI HOC SI IMPETRO AT FELIX VIVAS BENE
VALE. _Il tuo candidato divenga ciò che desidera, e tu abbi lunga vita;
ma non scrivere su questo monumento. Se mel concedi, t'auguro salute e
bene._ Vedi _Athenæum français_, agosto 1855.

Pompej era città osca, e però gli annunzj e le indicazioni faceansi
spesso in quella lingua. Ciò ch'è più notevole, essendo graffite
le epigrafi da persone incolte, vi abbondano scorrezioni: così nel
programma di un grammatico, _Saturninus cum discentes rogat;_ versi di
Virgilio, di Properzio, d'Ovidio (nessuno d'Orazio) son riferiti con
errori e varianti. E quegli sbagli molte volte servono di riprova a
quanto altrove assumemmo, cioè alla coesistenza d'un parlar vulgare,
e alla sua somiglianza col moderno italiano. _Cosmus nequitiæ est
magnissimæ_, esclama uno; un altro: _O felice me;_ un terzo: _Itidem
quod tu factitas cotidie..._

Dopo altri, più compiutamente ne trattarono GARRUCCI, _Inscriptions
gravées au trait sur les murs de Pompej_; FIORELLI, _Monumenta
epigraphica pompejana ad fidem archetyporum expressa_. Napoli 1854,
edizione di soli cento esemplari a spese di Alberto Detken. E meglio
_Inscriptiones parietariæ pompejanæ, herculanenses, stabianæ etc.
edidit_ C. ZANGEMEISTER, Berlino 1871, nel _Corpus inscriptionum
latinarum_.

[399] _Roma in montibus posita et convallibus, cœnaculis sublata et
suspensa, non optimis viis, angustissimis semitis._ CICERONE, _in
Rullum_, 33.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Il testo greco è stato
trascritto tal quale, senza alcuna correzione.





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