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Title: La civiltà del secolo del Rinascimento in Italia, Volume I
Author: Burckhardt, Jacob
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "La civiltà del secolo del Rinascimento in Italia, Volume I" ***

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RINASCIMENTO IN ITALIA, VOLUME I ***

                               LA CIVILTÀ
                               DEL SECOLO
                            DEL RINASCIMENTO
                               IN ITALIA


                                 SAGGIO
                                   DI
                           JACOPO BURCKHARDT

                TRADOTTO SULLA SECONDA EDIZIONE TEDESCA
                             DAL PROFESSORE
                               D. VALBUSA
         con aggiunte e correzioni inedite fornite dall'Autore

                                VOLUME I



                               IN FIRENZE
                         G. C. SANSONI, EDITORE
                                  1876



          In Firenze — Tip. e Lit. Carnesecchi, Piazza d'Arno.



PREFAZIONE


Se nella storia del movimento intellettuale dell'Europa moderna v'è
un'epoca, che a buon diritto reclami tutta l'attenzione dello storico e
del filosofo, ella è certamente quella, di cui, sotto forma italiana,
si presenta ora al pubblico una splendida e dotta illustrazione
nell'opera del signor Burckhardt. È cosa omai consentita da tutti
che il pensiero moderno, cui l'Europa va debitrice dell'attuale sua
grandezza e potenza, non è che la maturazione di un pensiero che
nacque presso di noi negli anni del Rinascimento, quando l'Italia,
prima di scadere dal rango delle nazioni, dischiuse ancora una volta
le fonti della civiltà e del sapere a tutto il mondo occidentale. Il
Rinascimento inaugurò quella battaglia fra due opposti principj, fra
la libertà e il despotismo, fra la ragione e il pregiudizio, che non
è peranco finita e che forse non finirà così presto. Le città libere
del medio-evo sono certamente degne di ammirazione e di lode; ma esse
non fecero che i primi tentativi per giungere a quel fine, cui il
Rinascimento ebbe la mira colla piena coscienza di ciò che chiedeva.
Esse domandavano delle libertà e mossero guerra ad alcuni privilegi:
gli uomini del Rinascimento vollero la libertà e si ribellarono contro
ogni privilegio. La lotta, limitata sino a quest'epoca a singole
corporazioni, divenne tutto ad un tratto generale, e dai diritti
tradizionali si volse ai diritti originarj e universali dell'umanità.
Non fu una semplice cultura quella che si ridestò, ma un mondo intero,
la società tutta, che, anelando a rigenerarsi, agli ordini esistenti
sostituì ordini nuovi, alla divisione per ischiatte contrappose
il libero ed audace arbitrio dell'individuo, alla consuetudine che
soggioga fe' subentrare la ragione che impera. Non a torto adunque fu
detto che la storia del Rinascimento è il proemio di ogni rivoluzione
moderna sì nel campo dell'azione, che in quello del pensiero, od
anche, se si vuole, il primo atto di quel gran dramma, che si svolse
successivamente nella Riforma tedesca, e nella Rivoluzione francese, e
che partorì da ultimo la civiltà attuale.


Questa uscì dal concorso maraviglioso delle stirpi latine da un
lato e delle germaniche dall'altro: le une vi contribuirono colla
restaurazione del paganesimo classico, le altre col ritorno al
Cristianesimo secondo i principj evangelici. Ridestando a nuova vita
le scadute divinità, i sapienti e i poeti dell'antica Grecia e di Roma,
i Latini rischiararono colla face dell'antico sapere le fitte tenebre,
nel bujo delle quali aveano prevalso la scolastica, i delirj fantastici
e la superstizione; abbellirono la vita col fascino irresistibile
delle forme, e al tempo stesso ruppero le barriere dell'antico mondo,
navigando arditi oltre le colonne d'Ercole, trovando una nuova via
alle Indie e scoprendo un mondo intero al di là dell'Atlantico. I
Germani, accettando dall'Italia i tesori dell'antica cultura, come già
una volta il Cristianesimo, non solo se ne impadronirono con quella
profondità e pienezza, che lasciavano fin d'allora presentire la loro
futura superiorità nel campo della speculazione, ma trovarono essi
stessi l'arte della stampa, che diede al pensiero ali per distendersi
e per durare eternamente, e rovesciarono o riformarono col loro spirito
filosofico due sistemi già vecchi, il tolomaico del mondo astronomico,
e il gregoriano del despotismo papale. Al tempo stesso la caduta allora
verificatasi del vecchio e crollante Impero d'oriente per opera dei
Turchi, che minacciavano l'Europa di una nuova invasione asiatica,
concorse mirabilmente a dare un indirizzo nuovo alla politica di tutti
gli Stati. Di fronte all'impotenza dei Papi, che invano credettero di
poter scongiurare il pericolo evocando le vecchie Crociate, più vivo
si fece sentire in tutti il bisogno di unirsi in più stretti rapporti
al di dentro e al di fuori, e al principio teocratico fu sostituita
la politica degli Stati autonomi, creando unità nazionali o monarchie
ereditarie e ponendo in luogo dei Concilj i congressi e l'equilibrio
politico invece dell'autorità internazionale degli Imperatori e dei
Papi.

Tra le stirpi latine spetta in modo particolare agli Italiani la gloria
di aver nella scienza e nell'arte dischiuso nuovi ed immensi orizzonti,
ridonando all'Europa, dopo la lunga barbarie del medio-evo, tutti i
tesori dell'antico sapere. Con questo fatto essi si riconobbero ancora
una volta come i legittimi eredi della gloria e del nome latino in un
momento, in cui il loro paese, francatosi dal giogo imperiale, non
era ancora caduto nei fatali amplessi di Francia e di Spagna ed era
il più florido di tutta Europa. Che se anche l'antica cultura non potè
mai dirsi del tutto morta presso di loro, e se ne potrebbero additare
le tracce attraverso i secoli sino al tempo in cui Carlomagno rinnovò
l'Impero d'occidente ed anche più addietro, non fu tuttavia se non nel
secolo XV che essa ruppe definitivamente le dighe, che ne arrestavano
il corso, e si diffuse coll'impeto di una forza irresistibile per
tutte le fibre del corpo sociale. Un fremito di vita nuova parve
allora discorrere da un capo all'altro della penisola, e gl'Italiani,
che stavano sul punto di perdere la propria patria, non sembrarono
quasi rammaricarsene, felici di averne trovata un'altra da tanto tempo
perduta. Il genio dell'antichità, troppo grande per perire del tutto
nel Cristianesimo, riapparve quasi fenice dalle ceneri del passato:
i poeti e i filosofi dell'antica Grecia e di Roma, scossa la polvere
dei conventi, uscirono di nuovo ad insegnare l'emancipazione dello
spirito umano, gli Dei del vecchio Olimpo risuscitarono il culto della
forma e della bellezza, e gli eroi dei primi tempi si ripresentarono
all'ammirazione del mondo come i tipi più perfetti e ideali
dell'umanità. Un paganesimo neo-latino rifece e colorì la letteratura,
le arti e perfino i costumi. Quella rinnegò la sua origine popolare
e si avvolse nella toga maestosa della lingua e dello stile latino:
sorsero accademie ad imitazione di quelle di Platone e di Cicerone; si
apersero biblioteche come al tempo de' Tolomei; perfin l'educazione
famigliare fu classica, e un alito dell'antica gentilezza corse in
tutte le vene del corpo sociale, mentre al tempo stesso la scaduta
moralità giunse a tal grado di corruzione da far ricordare i tempi
dell'antica Roma imperiale. Questa grande risurrezione di morti è un
fatto unico nella storia, nè si ripeterà forse mai più, attesa l'indole
molto più larga e cosmopolitica della civiltà moderna. Ma, per quanto
essa attesti splendidamente della grandezza immortale della civiltà
antica, non sarebbe pur sempre in ultimo che una frivola mascherata,
se in fondo ad essa non vi stesse un'altra missione provvidenziale.
Il latinismo, che una volta avea conquistato il mondo per l'opera
della Chiesa, dovea padroneggiarlo di nuovo come principio di cultura
sociale. Quando l'Europa, dopo il Concilio di Costanza, sollevò un
grido di protesta contro la Chiesa già corrotta e invecchiata, cominciò
la grande opera nazionale degl'Italiani, vale a dire il compito di
abbattere lo sterile sistema della cultura scolastica col sostituirvi
lo spirito vivificatore dell'antichità, e di porre al posto del vuoto
formalismo delle scuole monastiche l'eterna sostanza del sapere antico.
La libertà dello spirito e l'emancipazione della scienza dai ceppi
del dogmatismo furono le preziose conquiste che ne derivarono: così
l'uomo fu ridonato all'umanità e sorse una civiltà nuova, nel cui
ambito ci moviamo ancora oggidì e di cui non possiamo ancora misurare
lo svolgimento progressivo e la meta. A ragione adunque questo grande
momento chiamasi quello dell'umanismo, poichè con esso comincia
veramente l'umanità moderna.


L'opera del signor Burckhardt mira appunto a darci un quadro quanto
più si possa completo delle condizioni del nostro paese in un'epoca
così feconda di notevoli rivolgimenti. Essa non è tanto una storia
della cultura nel vero senso di questa parola, quanto un _Saggio_,
come all'Autore piacque modestamente d'intitolarla; ma, anche sotto
un titolo così modesto, non si saprebbe dire se più si debba lodare
in essa la copia stragrande della erudizione, o la maestria artistica
con cui le parti bellamente son disposte tra loro. Egli vi si accinse
colla piena coscienza della natura, dell'estensione e delle difficoltà
proprie del carico assunto, e candidamente lo confessa sin dalle prime
linee. «I contorni ideali del quadro di una data civiltà, egli scrive,
presentano già di per sè un'importanza diversa ad ogni osservatore; e
quando poi trattisi di una civiltà che, come madre immediata, continua
ad influire sulla nostra, quasi impossibile riesce di evitare che ad
ogni tratto non si ridesti il sentimento e il giudizio subbiettivo
tanto di chi scrive, che di chi legge». Ma appunto per questo egli
procede anche estremamente cauto nelle sue conclusioni, nelle quali
anche la critica più minuziosa cercherebbe invano quel fare sentenzioso
e assoluto, che è il solito indizio di una superficialità frivola ed
ignorante. I caratteri distintivi della nazione sono messi in piena
evidenza da un paragone continuo colle condizioni analoghe d'altri
tempi e d'altri paesi, ma senza allusioni e circostanze attuali, atte
più a rivelar le tendenze dell'autore che a mettere in rilievo la
verità, scopo supremo, anzi unico della scienza. Dappertutto la stessa
cura di evitare la vuota frase filosofica con quello stesso studio,
che altri pongono a farne sfoggio in sostituzione alla frase rettorica
oggimai fuor d'uso; dappertutto il fermo proposito di tenersi nel campo
della più scrupolosa obbiettività, senza torturare i fatti per cavarne
la confessione voluta; dappertutto chiamati a giudici supremi il retto
sentimento di umanità e la ragione, giudici certo assai competenti in
questioni di fatti umani; dappertutto una esposizione omogenea, eppur
varia, limpida, vivace, senza affettazioni o contorsioni o mordacità;
dappertutto infine quella serenità, quella calma, che carpiscono la
fiducia, perchè soliti indizi di scrittore coscienzioso e profondo.

Fu scritto che tra quest'opera ed una storia propriamente detta corra
quella medesima differenza, che si riscontra tra un quadro di figura
ed un paesaggio, dove ciò che si guadagna rispetto allo splendor della
scena, si perde poi rispetto agli eroi che vi agiscono e al movimento
drammatico. La sentenza può accogliersi come giusta, se con essa
s'intese soltanto di mettere in più viva luce la lodevole sobrietà
dell'Autore, che in tanta ricchezza di materiali non ha voluto giovarsi
se non di quelli, che più strettamente facevano al suo scopo, per
non recare soverchio ingombro turbare l'armonia dell'insieme. Egli è
un fatto che nel leggere il libro del signor Burckhardt ci par quasi
di essere trasportati nel bel mezzo di una selva incantata, dove a
nostro agio possiamo abbracciar con lo sguardo l'infinito serpeggiar
de' viali, le vedute, i prospetti, e dove qua e là fra i boschetti
vediamo, ad un suo cenno, spuntare ora la testa, ora il braccio
marmoreo di una statua, or, mezzo nascoste tra il verde, le magnifiche
forme di un gruppo, senza che per questo ne sia dato di maggiormente
avvicinarci, o che i nostri sforzi per afferrarne più intrinsecamente
le parti, restino compiutamente appagati. Ma l'apparente manchevolezza
nei particolari, voluta dall'indole stessa sintetica del lavoro, non
è difetto, e infondata affatto sarebbe l'accusa, se nella brevità
impostasi dall'Autore altri volesse scorgere una lacuna effettiva,
che, ove realmente esistesse, nessun titolo, per quanto modesto,
avrebbe potuto giustificare. Altra cosa è il lavorar sulle fonti che
si conoscono, lo studiarle e il confrontarle fra loro per accertar
fatti, precisar date e arricchire di nuovo materiale utile la grande
suppellettile storica; altro il mirare ad abbracciar in un tutto
e a mettere in più vera e piena luce i risultati acquistati alla
spicciolata e ridurli in armonia con disegno artistico, per renderli
più accetti all'universale e per distribuire i frutti del sapere
anche a coloro, cui manca l'agio o la volontà di attingere alle
fonti originali. Evidentemente il signor Burckhardt si attenne di
preferenza al secondo di questi due metodi, come quello che meglio
anche rispondeva al suo scopo, di darci un'idea chiara e compiuta
del tempo preso a trattare, anzichè di rettificare o correggere
questo o quel fatto particolare. L'opera sua non va dunque giudicata
come una semplice opera di erudizione, benchè questa non vi faccia
difetto in nessun punto dove è domandata, ma bensì come una di quelle
che, mantenendosi in una sfera più elevata, mirano innanzi tutto a
tener desto lo spirito della scienza e rammentano agli scopritori ed
investigatori solitari, che l'indagine per sè sola non basta. Come
tale essa porta realmente la vita, il movimento, il colore in un
cumulo di materiali che, senza una parola vivificante, avrebbero chi
sa per quanto ancora, continuato a rimaner lettera morta, e risponde
pienamente alle esigenze della critica più severa, perchè nel fatto dà
più di quanto in sul principio non sembri promettere, e perchè riempie
al tempo stesso, e nel miglior modo che mai si potesse desiderare, una
lacuna, che era pur sempre rimasta aperta rispetto ad uno dei periodi
più luminosi della nostra storia.


Assumendo l'incarico di rendere accessibile all'universale dei nostri
compatriotti un libro scritto con tanta serietà di propositi e con
sì piena coscienza della dignità e dell'alta missione della storia,
noi ci lusinghiamo di aver fatta opera, che non debba parere nè
superflua ai bisogni del nostro paese, nè discara a quanti amano
fra noi l'incremento de' buoni studi. Altri giudicherà come abbiamo
soddisfatto agli obblighi nostri di fronte al Pubblico ed all'Autore.
A noi non resta che d'invocare l'indulgenza di entrambi e di porgere
a quest'ultimo il tributo della nostra più viva riconoscenza per la
squisita cortesia, colla quale, autorizzando la nostra traduzione,
volle arricchirla di numerose aggiunte e correzioni inedite, che danno
un pregio tutto affatto speciale alla presente edizione e la pongono,
per questo riguardo, al di sopra delle stesse edizioni finora comparse
del testo tedesco.

  Mantova, 1º Dicembre 1875.

                                                       IL TRADUTTORE.



A

LUIGI PICCHIONI

VENERATO MAESTRO COLLEGA ED AMICO

L'AUTORE



PARTE PRIMA

LO STATO COME OPERA D'ARTE



CAPITOLO I.

Introduzione.

    Condizioni politiche d'Italia nel sec. XIII. — La Monarchia
    normanna sotto Federico II. — Ezzelino da Romano.


Questo scritto porta il titolo di semplice _Saggio_ nel senso più
rigoroso della parola, perchè nessuno sa meglio dell'autore, ch'egli
s'è posto ad una impresa di vasta mole con mezzi e forze di gran lunga
sproporzionate. Ma, quand'anche egli potesse sino ad un certo grado
dichiararsi soddisfatto del proprio lavoro, non oserebbe tuttavia
lusingarsi di aver con ciò meritato la lode degl'intelligenti e dei
maestri. Già forse di per sè i contorni ideali del quadro di una
data civiltà presentano una importanza diversa ad ogni osservatore; e
quando poi trattisi di una civiltà che, come madre immediata, continua
ad influire sulla nostra, quasi impossibile riesce di evitare che ad
ogni tratto non si ridesti il sentimento e il giudizio subbiettivo
tanto di chi scrive, che di chi legge. Nell'ampio mare, nel quale ci
avventuriamo, le vie e le direzioni possibili sono molte; e gli stessi
studi intrapresi per questo lavoro assai facilmente potrebbero in mano
ad altri non solo ricevere uno sviluppo ed una trattazione diversa,
ma porgere occasione altresì a conclusioni del tutto contrarie. E
per vero il soggetto ha in sè tanta importanza da far desiderare di
vederlo studiato sotto tutti gli aspetti e da punti di vista i più
disparati. In mezzo a ciò noi saremo contenti, se la nostra parola
non cadrà affatto inascoltata e se questo libro sarà giudicato nel
suo insieme come un tutto organico, che può stare da sè. La più grave
difficoltà in una storia della cultura sta appunto nel dover rompere
la continuità del processo storico, scomponendolo in parti che spesso
sembrano arbitrarie, per pur giungere a darne comecchessia un'immagine.
— Alla maggior lacuna del libro pensavamo altra volta di poter supplire
con un'altra opera, che avrebbe dovuto intitolarsi: l'Arte nel secolo
del Rinascimento; ma questo proposito non ha potuto effettuarsi che in
parte.[1]


La lotta fra i Papi e gli Hohenstauffen finì col lasciare l'Italia in
uno stato politico essenzialmente diverso da quello degli altri paesi
occidentali. Mentre in Francia, in Ispagna, in Inghilterra il sistema
feudale era ordinato per modo che, dopo percorso lo stadio della sua
vita, dovette cadere nelle braccia della monarchia unitaria; mentre
in Germania contribuì a mantenere, almeno esteriormente, l'unità
dell'Impero, in Italia invece s'era quasi interamente sottratto ad ogni
specie di dipendenza. Gl'imperatori del secolo XIV, anche nei casi più
favorevoli, non vi furono più accolti come supremi signori feudali, ma
solamente come capi e sostegni possibili di potenze già costituite;
e dal canto suo il Papato, ricco di aderenti e di appoggi, era forte
abbastanza da impedire ogni futura unificazione del paese, ma non già
da poter fondarne una esso stesso.[2] Fra l'uno e l'altro di questi
rivali eravi una moltitudine di aggregazioni politiche — repubbliche
e principati — talune già preesistenti, altre surte da poco, la cui
esistenza non era fondata che puramente sul fatto.[3] In esse lo
spirito della moderna politica europea scorgesi per la prima volta
abbandonarsi liberamente a' suoi propri istinti, trascorrendo assai
di frequente agli eccessi del più sfrenato egoismo, conculcando ogni
diritto e soffocando il germe di ogni più sana cultura; ma dove queste
tendenze furono arrestate od almeno comecchessia controbilanciate,
quivi si ha subito qualche cosa di nuovo e di vivo nella storia, si ha
lo Stato nato dal calcolo e dalla riflessione, lo _Stato come opera
d'arte_. Questa nuova vita si manifesta tanto nelle repubbliche che
nei principati in mille modi diversi, e ne determina non solo la forma
interna, ma altresì la politica estera. — Noi ne prenderemo in esame il
tipo più completo ed esplicito negli Stati retti a forma principesca.


Gli Stati retti a forma principesca trovarono un modello illustre
nel regno normanno dell'Italia meridionale e della Sicilia, dopo la
trasformazione che esso aveva subìto per opera dell'imperatore Federico
II.[4] Questi, cresciuto in mezzo ai pericoli e alle insidie e in
prossimità ai Saraceni, si era abituato assai per tempo a giudicar
delle cose e a trattarle da un punto di vista affatto obbiettivo,
anticipando così il tipo dell'uomo moderno sul trono. A queste sue
qualità bisogna aggiungere altresì la profonda conoscenza ch'egli
aveva delle condizioni interne degli Stati saraceni e della loro
amministrazione, nonchè la guerra a morte sostenuta coi Papi, che
obbligò entrambi i contendenti a mettere in campo tutte le forze ed i
mezzi, di cui poteano disporre. Le ordinanze di Federico (specialmente
dal 1231 in avanti) non mirano ad altro, fuorchè alla distruzione
completa del sistema feudale e alla trasformazione del popolo in una
moltitudine indifferente, inerme e solo in estremo grado tassabile.
Egli centralizzò l'intera amministrazione giudiziaria e politica in un
modo sino a quel tempo affatto sconosciuto in Occidente. Nessun ufficio
poteva più essere conferito in virtù dell'elezione popolare, sotto pena
di veder devastato il paese, dove ciò si osasse, e ridotti gli abitanti
in condizione servile. Le imposte, basandosi sopra uno sconfinato
catasto e sulle consuetudini maomettane, venivano percette con quei
modi vessatorii e crudeli, senza dei quali, del resto, in Oriente è
impossibile estorcere un quattrino ai contribuenti. Qui insomma non
si ha più un popolo, ma una moltitudine di sudditi sottoposti a sì
rigido sindacato, che non possono nemmeno, senza speciale permesso,
nè prender moglie, nè studiare all'estero: — l'università di Napoli
infatti fu la prima a metter leggi restrittive agli studi; — quando
lo stesso Oriente, in simili materie almeno, lasciava la più ampia
libertà. E dai despoti musulmani copiò altresì Federico il sistema
di esercitare il commercio per conto proprio in tutto il mare
Mediterraneo, riserbandosi, con molto scapito de' suoi sudditi, il
monopolio di parecchi oggetti. — I califfi fatimiti colle loro tendenze
eterodosse non ancor ben manifeste erano stati (almeno sul principio)
abbastanza tolleranti colla religione dei loro sudditi: Federico al
contrario corona il suo sistema di governo con una persecuzione contro
gli eretici, che sembrerà tanto più riprovevole, quando si ammetta,
come par quasi certo, che egli in costoro abbia inteso di perseguitare
i partigiani non tanto della libertà di coscienza, quanto del libero
vivere civile. Finalmente egli si tiene sempre dappresso, quali agenti
di polizia all'interno e come nucleo dell'armata contro i nemici
esterni, quei Saraceni trapiantati dalla Sicilia a Lucera e a Nocera,
che con uguale indifferenza sono sordi ai lamenti dei sudditi e alle
scomuniche papali. — I sudditi, disavvezzi alle armi, lasciarono più
tardi, con indolente apatìa, consumarsi la rovina di Manfredi e il
trionfo dell'Angioino; ma questi alla sua volta fece suo quel sistema
di governo, e se ne giovò a' suoi scopi ulteriori.


Accanto all'imperatore, che mirava a centralizzare ogni cosa, sorge
un usurpatore di un genere tutto affatto particolare, Ezzelino da
Romano, vicario e genero di lui. Egli non rappresenta propriamente
nessun sistema di governo o di amministrazione, poichè tutta la sua
attività fu sprecata in guerre continue per l'assoggettamento delle
Provincie orientali dell'Italia superiore; ma, come tipo politico pei
tempi posteriori, non è meno importante del suo imperiale protettore.
Sino a questo tempo ogni conquista ed usurpazione del Medio-Evo erasi
effettuata in vista di veri o pretesi diritti di eredità ed altro, o
a danno degl'infedeli e degli scomunicati. Ora per la prima volta si
tenta la fondazione di un trono sulla strage delle moltitudini e su
altre infinite crudeltà, che è come dire, impiegando ogni sorta di
mezzi, pur di riuscire allo scopo. Nessuno dei tiranni posteriori,
non lo stesso Cesare Borgia, ha uguagliato Ezzelino nella immanità dei
delitti; ma l'esempio era dato, e la caduta di Ezzelino non ricondusse
la giustizia fra i popoli, nè fu di alcun freno agli usurpatori venuti
dopo.

Indarno S. Tommaso d'Aquino, nato suddito di Federico, pose innanzi la
dottrina di una costituzione di governo, in cui il principe s'immagina
assistito da una Camera alta da lui nominata e da una Rappresentanza
eletta dal popolo. Simili teorie si perdevano senza eco nelle scuole,
e Federico ed Ezzelino rimasero per l'Italia le due più grandi figure
politiche del secolo XIII. La loro personalità, rappresentata sotto
un aspetto per metà, leggendario, costituisce la parte più importante
delle «Cento novelle antiche», la cui originaria redazione cade
certamente in questo secolo.[5] In esse si parla di Ezzelino con quella
specie di reverente paura, che sogliono inspirare le cose grandi,
e in breve un'intera letteratura si forma intorno alla sua persona,
dalla cronaca dei testimoni oculari alla tragedia, che ne fa quasi un
mito.[6]

Subito dopo la caduta di entrambi pullulano numerosi, principalmente
dalle lotte partigiane dei Guelfi e dei Ghibellini, i singoli tiranni,
in generale quali capi dei Ghibellini, ma in occasioni e condizioni
così diverse, che è impossibile non riconoscere in questo fatto una
legge di suprema ed universale necessità. Quanto ai mezzi, di cui si
servono, essi non hanno bisogno che di continuare sulla via adottata
già dai partiti: l'espulsione o la distruzione degli avversari e delle
loro case.



CAPITOLO II.

La Tirannide nel secolo XIV.

    Finanze e loro rapporti colla civiltà. — L'ideale di un
    principe assoluto. — Pericoli interni ed esterni. — Giudizio
    dei Fiorentini sui tiranni. — I Visconti sino al penultimo.


Le maggiori e minori tirannidi del secolo XIV sono una prova evidente
del come esempi consimili non andarono punto perduti. Le loro immanità
parlavano abbastanza altamente, e la storia le ha circostanziatamente
descritte; ma, come Stati destinati a sostenersi da sè e a non contare
che sopra le proprie forze, e organizzati in conformità a questo scopo,
presentano pur sempre una particolare importanza.

Il calcolo freddo ed esatto di tutti i mezzi, di cui in allora nessun
principe fuori d'Italia aveva nemmeno un'idea, congiunto con una
potenza quasi assoluta dentro i limiti dello Stato, fece sorgere qui
uomini e forme politiche affatto speciali.[7] Il segreto principale del
regnare stava, pei tiranni più accorti, nel lasciare possibilmente le
imposte quali ognuno di essi le aveva trovate o fissate al principio
della sua signorìa. Tali erano: un'imposta fondiaria basata sopra un
catasto; determinati dazi di consumo, e gabelle pure determinate sopra
l'importazione e l'esportazione: vi si aggiungevano poi le rendite
dei dominii privati della casa regnante. Esse non oltrepassavano
mai un certo limite, tranne il caso di un notevole aumento nella
pubblica prosperità e nel commercio. Di prestiti, quali si vedevano
effettuarsi nelle comunità repubblicane, qui non si parlava neppure;
e più volentieri si ricorreva a qualche ardito colpo di mano, quando
si poteva prevedere che non avrebbe prodotto veruna scossa, come, per
esempio, la destituzione e la spogliazione, all'uso affatto orientale,
dei supremi magistrati della finanza.[8]

Con queste rendite si cercava di provvedere a tutti i bisogni della
piccola corte, alla guardia personale del principe, ai mercenari
assoldati, alle pubbliche costruzioni, — nonchè ai buffoni ed
agli uomini d'ingegno, che formavano il seguito del regnante.
L'illegittimità, circondata da continui pericoli, isola il tiranno:
l'alleanza più onorevole ch'egli possa stringere, è quella degli uomini
superiori, senza riguardo alcuno alla loro origine. La liberalità dei
principi del nord nel secolo XIII s'era ristretta ai cavalieri, vale a
dire alla nobiltà che serviva e cantava. Non così il tiranno italiano:
sitibondo di gloria e vago di trionfi e di monumenti, egli pregia
l'ingegno come tale, e se ne giova. Col poeta e coll'erudito si sente
sopra un terreno nuovo, e quasi in possesso di una nuova legittimità.


Universalmente noto sotto questo rapporto è il tiranno di Verona, Can
Grande della Scala, il quale negl'illustri esuli accoglieva alla sua
corte i rappresentanti di tutta Italia. Gli scrittori se ne mostrarono
riconoscenti: Petrarca, le cui visite a questa corte trovarono un
biasimo così severo, ci dà il tipo ideale più completo di un principe
del secolo XIV.[9] Dal suo mecenate — il signore di Padova — egli
pretende molte e grandi cose, ma in modo tale da mostrare ch'egli ne
lo crede anche capace. «Tu non devi essere il padrone, ma il padre
de' tuoi sudditi e devi amarli come tuoi figli, anzi come membra del
tuo stesso corpo. Armi, guardie e soldati puoi tu adoperare contro
i nemici; — co' tuoi concittadini devi ottener tutto a forza di
benevolenza. Bene inteso, io dico i soli cittadini che amano l'ordine;
poichè chi ogni giorno va in cerca di mutamenti, è un ribelle, un
nemico dello Stato, e contro simile genìa una severa giustizia deve
aver sempre il suo corso».[10] Entrando poi ne' particolari, vi si
scorge la finzione affatto moderna dell'onnipotenza dello Stato: il
principe deve aver cura di tutto, restaurare e mantenere le chiese e
i pubblici edifizi, sorvegliare la polizia delle strade, prosciugar le
paludi, regolare la vendita del vino e dei grani, ripartire equamente
le imposte, soccorrere i poveri e gl'infermi e accordar la sua
protezione e la sua confidenza agli uomini illustri, perchè questi soli
gli assicurano un posto glorioso presso la posterità.[11]

Ma, per quanti possano essere stati i lati luminosi e i meriti
personali di taluni fra questi principi, tuttavia il secolo XIV
riconosceva o almeno presentiva la breve durata e l'effimera
sussistenza della maggior parte delle tirannidi. Siccome istituzioni
politiche di questo genere per lor natura son destinate a mantenersi
tanto più stabilmente, quanto maggiore è l'estensione del loro
territorio, così era anche naturale che i principati più potenti
fossero sempre proclivi ad ingoiare i più deboli. Quale ecatombe di
piccoli signori non fu sacrificata in questo tempo ai soli Visconti!
— A questi pericoli esterni poi corrispondeva quasi sempre un cupo
fermento all'interno, e questo stato di cose non poteva certamente non
esercitare una sinistra influenza sull'animo del principe. L'arbitrio
male inteso e lo sfrenato egoismo da un lato, i nemici e i cospiratori
dall'altro lo trasformavano quasi inevitabilmente in tiranno nel
peggior senso della parola. Avesse egli almeno potuto fidarsi de'
suoi più prossimi congiunti! Ma dove tutto era illegittimo, non poteva
neanche parlarsi di un diritto stabile di eredità, sia riguardo alla
successione al trono, come altresì riguardo alla ripartizione dei beni,
e appunto nei momenti di maggior pericolo un risoluto cugino od uno
zio si sostituivano, nell'interesse stesso dell'intera famiglia, al
posto del legittimo erede minorenne od inetto. Anche l'esclusione o il
riconoscimento dei figli illegittimi davano occasione a liti continue.
E così accadde, che un numero ragguardevole di queste famiglie si trovò
avere nel seno non pochi di tali congiunti malcontenti e sitibondi
di vendetta; il che non di rado condusse poscia al tradimento aperto
e alle stragi domestiche. Altri, vivendo all'estero in qualità di
fuggiaschi, si chiudono in paziente aspettativa, come ad esempio
quel Visconti che, stando a pescare sul lago di Garda,[12] al messo
del suo rivale, che lo avea richiesto quando pensasse di ritornare a
Milano, seccamente rispose: «non prima che le scelleratezze del tuo
padrone abbiano superato le mie». Talvolta sono altresì i congiunti del
principe che lo sacrificano alla pubblica moralità troppo altamente
offesa, per salvare così gl'interessi della dinastia.[13] Altrove la
signoria è ancora proprietà dell'intera famiglia per modo che il capo
di essa è obbligato di sentire il parere dei membri che la compongono,
ed anche in questo caso la divisione del possesso e della potenza è
causa frequente di acerbi rancori.


Tutti questi fatti eccitano assai per tempo il più profondo disprezzo
negli scrittori fiorentini d'allora. Già il fasto stesso ed il lusso,
col quale i principi cercavano forse non tanto di soddisfare alla
propria vanità, quanto d'impressionare la fantasia del popolo, è
fatto segno ai loro più amari sarcasmi. Guai se un signore sorto di
fresco capita loro tra mano, come fu il caso appunto dell'intruso
Doge Agnello da Pisa (1364), che usava uscire a cavallo con uno
scettro d'oro in mano e, tornato a casa, mostravasi dalla finestra
appoggiato a guanciali e a drappi pure tessuti in oro «a quel modo
che soglionsi mostrar le reliquie de' Santi», facendosi servire in
ginocchio, quasi fosse un Papa od un Imperatore.[14] Ma più spesso
ancora questi vecchi fiorentini assumono un tuono grave e serio. Dante
intende e caratterizza egregiamente il lato ignobile e volgare della
cupidigia e dell'ambizione dei nuovi principi. «Che cosa vogliono dire
le vostre trombe, e i corni e i flauti e le tibie, se non: venite,
venite, carnefici, venite, avoltoi?».[15] Il castello della tirannide
non s'immagina che in sito eminente ed isolato, riboccante d'insidie
e di carceri, vero ricettacolo di miseria e di ribalderìe.[16] Altri
predicono sventure a chiunque s'accosti o serva il tiranno,[17] che
da ultimo trovano degno esso stesso di compassione, costretto, com'è,
ad odiare tutti i buoni e gli onesti, a non fidarsi di chicchessìa e
a leggere ad ogni momento in viso a' suoi sudditi la speranza della
sua caduta. «A quello stesso modo, scrive M. Villani, che le tirannidi
nascono, crescono e si rassodano, così nasce e cresce con loro
l'elemento segreto, che deve trarlo a rovina».[18] E tuttavia si tace
di ciò che costituiva il più spiccato contrasto tra le città libere e
i principati: Firenze infatti tendeva allora a promovere il maggiore
sviluppo possibile della individualità, mentre i tiranni non vogliono
emergere che essi stessi, con gl'immediati loro aderenti. Il sindacato
sulle persone si esercitava in modo rigorosissimo, come ne fanno prova
gli uffici allora generalizzati dei passaporti.[19]

Lo spavento e la miseria di tali condizioni assumevano agli occhi
dei contemporanei un aspetto ancor più speciale per le superstizioni
astrologiche e per l'empietà di taluni fra quei tiranni. Quando
l'ultimo dei Carrara non fu più in grado di agguerrire le mura e le
porte di Padova spopolata dalla pestilenza e assediata dai Veneziani
(1405), gli uomini della sua guardia lo udirono spesso nel silenzio
della notte invocare il demonio, «perchè lo uccidesse!».


Il tipo più completo e più istruttivo di queste tirannidi del
secolo XIV si ha indubbiamente nei Visconti di Milano, dalla
morte dell'arcivescovo Giovanni (1354) in poi. In Bernabò pel
primo riscontrasi una quasi somiglianza di famiglia coi più feroci
imperatori romani:[20] l'affare di Stato più importante è la caccia
dei cinghiali del principe: chi a questo riguardo si permette il più
piccolo arbitrio, è messo a morte fra inauditi tormenti: il popolo
tremante deve nutrirgli i suoi cinquemila e più cani da caccia, sotto
la più stretta responsabilità per la loro salute. Le imposte vengono
percette nei modi più odiosi, che si possano immaginare: sette figlie
ricevono una dote di 100,000 fiorini d'oro ciascuna, e, in onta a ciò,
un enorme tesoro si trova accumulato nelle mani del principe. Alla
morte di sua moglie (1384) una notificazione «ai sudditi» intima che,
come altre volte essi parteciparono alle gioie del loro signore, così
ora devono dividere con lui il dolore, e quindi portare il lutto per
un intero anno. — Senza riscontro poi è il colpo di mano, con cui il
nipote di lui Giangaleazzo giunse ad averlo nelle sue mani (1385),
per mezzo di una di quelle trame ben riuscite, nel riferire le quali
trema il cuore anche agli storici più lontani.[21] In Giangaleazzo si
vede a gran tratti il tiranno, che aspira soltanto a cose colossali.
Egli spese non meno di 300,000 fiorini d'oro in gigantesche opere
d'arginatura, per poter divergere a suo talento il Mincio da Mantova e
il Brenta da Padova, e togliere così ogni mezzo di difesa a queste due
città,[22] e non par lungi dal vero ch'egli abbia pensato altresì ad un
prosciugamento delle lagune di Venezia. Fondò la Certosa di Pavia, «il
più maraviglioso di tutti i conventi»[23] e il Duomo di Milano, «che
in grandezza e magnificenza supera tutte le chiese della cristianità»;
e forse anche il palazzo di Pavia, cominciato da suo padre Galeazzo e
da lui condotto a compimento, era in allora la più splendida residenza
principesca, che vi fosse in Europa. In questo egli trasportò la sua
celebre biblioteca e la grande collezione di reliquie sacre, nelle
quali egli aveva una fede affatto particolare. Con tali idee sarebbe
stato strano che in politica non avesse steso la mano alle più alte
corone. Il re Venceslao lo fece duca (1395); ma egli non pensava a
meno che al regno di tutta Italia[24] o alla corona d'imperatore,
quando invece si ammalò e morì (1402). Si vuole che tutti i suoi Stati
presi insieme gli fruttassero in un anno la rendita ordinaria di un
milione e dugento mila fiorini d'oro, oltre ad altri 800,000 di sussidi
straordinari. Dopo la sua morte, il dominio, che egli con ogni sorta di
violenze avea messo insieme, andò in brani, e appena poterono essere
conservate le provincie più vecchie che lo componevano. Chi può dire
che cosa sarebbero divenuti i suoi figli Giovanni Maria (morto nel
1412) e Filippo Maria (morto nel 1447), se fossero vissuti altrove e
con altre tradizioni di famiglia? Ma, come eredi di questa casa, essi
ereditarono anche l'enorme cumulo di scelleratezze e vigliaccherie, che
vi si era venuto ingrossando di generazione in generazione.

Anche Giovanni Maria alla sua volta va celebre pe' suoi cani, ma
non son più cani da caccia, bensì mastini ch'egli aveva addestrati a
sbranar uomini vivi, e dei quali ci furono tramandati anche i nomi,
come degli orsi dell'imperatore Valentiniano I.[25] Allorquando nel
maggio dell'anno 1409, mentre durava ancora la guerra, il popolo
affamato gridava sul suo passaggio _pace! pace!_, egli scatenò su di
esso le sue soldatesche, che scannarono duecento persone; e dopo ciò
proibì, pena la forca, di pronunciar le parole _pace_ e _guerra_, e
prescrisse perfino agli ecclesiastici di dire nella Messa _dona nobis
tranquillitatem_, in luogo di _pacem_. Da ultimo alcuni congiurati
giovaronsi destramente del momento, in cui il gran condottiere
del pazzo duca, Facino Cane, giaceva gravemente infermo a Pavia, e
assassinarono Giovanni Maria presso la chiesa di S. Gottardo a Milano;
ma il morente Facino fece giurare lo stesso giorno a' suoi ufficiali
di sostenere l'erede Filippo Maria, ed egli stesso per di più propose
che la moglie sua, Beatrice di Tenda, si sposasse, dopo la sua morte, a
quest'ultimo,[26] ciò che si verificò anche ben presto.


Ed in tempi come questi Cola di Rienzo s'immaginava di poter fondare
sull'entusiasmo cadente della borghesia già corrotta di Roma un nuovo
Stato, che comprendesse tutta l'Italia! In verità che, accanto a tali
principi, egli ha l'aria piuttosto di un povero illuso o di un folle.



CAPITOLO III.

La Tirannide nel secolo XV.

    Interventi e viaggi degl'imperatori. — Loro pretensioni messe
    in disparte. — Mancanza di uno stabile diritto ereditario.
    Successioni illegittime. — I condottieri quali fondatori di
    stati. — Loro rapporti coi propri signori. — La famiglia
    Sforza. — Progetti del giovane Piccinino e sua caduta. —
    Posteriori tentativi dei condottieri.


Nel secolo XV la tirannide mostra già un carattere affatto diverso.
Molti dei piccoli ed anche alcuni dei grandi tiranni del secolo
precedente, come i Della Scala e i Carrara, erano già caduti in
basso; i più potenti, arricchiti delle spoglie altrui, si sono
riordinati all'interno in modo affatto speciale; Napoli riceve dalla
nuova dinastia aragonese un impulso più energico e vigoroso. Ma del
tutto caratteristico per questo secolo è lo sforzo dei condottieri
per crearsi uno stato indipendente, od anche una corona, ciò che
costituisce un passo ulteriore sulla via dei fatti compiuti, un premio
elevato all'ingegno e all'audacia. I piccoli tiranni, per assicurarsi
un rifugio, si mettono ora al servizio degli stati maggiori e si fanno
lor condottieri, il che procaccia loro danaro e impunità per parecchi
misfatti, e talvolta anche ingrandimento del loro territorio. Tutti
poi, presi insieme, grandi e piccoli hanno bisogno di sforzi maggiori,
debbono procedere più circospetti e guardinghi e astenersi da crudeltà
troppo immani. In generale non potevano osare che quel tanto di male,
che fosse stato necessario per riuscire nei loro scopi; — e questo
veniva lor perdonato, almeno da chi non ne restava offeso. Della
pietà religiosa, che tornò pure di tanto vantaggio agli altri principi
legittimi d'Occidente, qui non si ha traccia veruna; tutt'al più vi
si riscontra una specie di popolarità, che però non esce dalle mura
della città che serve di residenza: i principi italiani sentono che ciò
che deve loro maggiormente giovare, è il freddo calcolo e l'ingegno.
Un carattere come quello di Carlo il Temerario, che con impeto cieco
tende a scopi destituiti affatto d'ogni pratica utilità, era un
vero enigma per essi. «Gli Svizzeri non sono che poveri contadini e
quand'anche si uccidessero tutti, sarebbe questa pur sempre una magra
soddisfazione pei magnati di Borgogna, che per avventura perissero in
tale lotta! Quand'anche il duca giungesse a posseder la Svizzera senza
contrasto alcuno, le sue rendite annue non si aumenterebbero nemmeno
di 5000 ducati» ecc.[27] Ciò che in Carlo vi era di medievale, le sue
fantasie e idealità cavalleresche, non era cosa più comprensibile da
lungo tempo in Italia. Quando poi si seppe che co' suoi ufficiali e
comandanti usava unire ai rabbuffi gli schiaffi, e tuttavia li teneva
al suo servizio, che maltrattava le proprie truppe, per punirle di una
disfatta sofferta, e da ultimo, che in presenza di tutto l'esercito
sparlava de' suoi consiglieri intimi, — allora tutti i diplomatici
del mezzodì lo diedero per ispacciato.[28] Ma da un altro lato Luigi
XI, che nella politica superò gli stessi principi d'Italia, e che
non cessava di manifestare la sua ammirazione per Francesco Sforza,
rimase loro molto al di sotto, colpa la sua volgare natura, in fatto di
civiltà e gentilezza.


Una strana mescolanza di bene e di male è il carattere prevalente di
questi stati italiani del secolo XV. La personalità del principe è sì
colta, ed egli si presenta sotto un aspetto talmente importante per la
sua posizione e pel compito che si propone,[29] che un giudizio su lui
dal punto di vista morale riesce oltremodo difficile.

La base fondamentale della signoria è e rimane illegittima, e vi pesa
sopra come una maledizione, che non può cancellarsi. Le concessioni e
le investiture imperiali non valgono a mutare un tale stato di cose,
perchè il popolo non si cura di sapere, se i suoi padroni abbiano
comperato un brano di pergamena in paese straniero o da uno straniero
di passaggio per le loro terre.[30] Se gl'imperatori fossero stati
utili a qualche cosa, non avrebbero dovuto lasciar sorgere i tiranni:
quest'era il ragionamento delle moltitudini non istrutte. Sino dalla
spedizione a Roma di Carlo IV gl'imperatori non hanno che sanzionato in
Italia le tirannidi sorte senza di essi, ma non poterono guarentirle
con altro che con semplici _documenti_. La comparsa e la dimora
di Carlo in Italia non è che una delle più vergognose mascherate
politiche, che sieno state; ed ognuno può leggere in Matteo Villani[31]
in qual modo i Visconti lo menarono attorno pel loro territorio e da
ultimo lo scortarono a' confini, come egli corse da un luogo all'altro
a guisa di mercatante girovago per iscambiar con danaro al più presto
i suoi privilegi, con che meschino apparato fece il suo ingresso in
Roma, e come infine, senza nemmeno avere sfoderato la spada, se ne
tornò col sacco pieno al di là delle Alpi.[32] Almeno Sigismondo la
prima volta venne con la buona idea (1414) d'indurre papa Giovanni
XXIII a prender parte al Concilio, che egli aveva in animo di riunire;
e fu appunto in quella circostanza che, trovandosi insieme il Papa e
l'Imperatore sull'alto della torre di Cremona per godervi il prospetto
di gran parte della Lombardia, al loro ospite Gabrino Fondolo, tiranno
della città, passò pel capo il pensiero di farli precipitare al basso
ambedue. La seconda volta però anche Sigismondo comparve da vero
avventuriere, indugiandosi ben più di mezzo anno a Siena, dove era
ritenuto prigioniero qual debitore insolvente, e giungendo poscia a
stento in Roma, per farvisi incoronare. Che dovremo dir poi di Federigo
III? Le sue discese in Italia hanno l'aria di viaggi di vacanza o di
ricreazione fatti a spese di coloro, che desideravano veder confermati
con qualche brevetto imperiale i loro diritti, o di quelli che si
sentivano solleticati nella loro ambizione di poter dare pomposa
ospitalità ad un imperatore. Di quest'ultimi fu Alfonso di Napoli,
al quale l'onore della visita imperiale non costò meno di 150,000
fiorini d'oro.[33] In Ferrara, al suo secondo ritorno da Roma (1469),
Federico stette chiuso un dì intiero in una sala di udienza, occupato a
conferir titoli e dignità (non meno di ottanta); e vi nominò cavalieri,
dottori, notari, conti di diverso grado, vale a dir conti palatini,
conti col diritto di nominar dottori (anche cinque per volta), di
legittimar bastardi, di crear notari ecc.[34] Tutto ciò era gratuito,
in apparenza; sennonchè al di lui cancelliere dovevasi un segno di
riconoscenza per la redazione dei relativi documenti, riconoscenza che
ai ferraresi parve un po' cara.[35] Che cosa pensasse il duca Borso
nel vedere il suo imperiale protettore rilasciar tali diplomi e tutta
la sua piccola corte fare incetta di titoli, la storia non lo dice.
Ma gli umanisti, che allora avevano l'ultima parola in tutto, erano
divisi in due schiere, secondochè si trovavano, o no, cointeressati in
quel traffico. Perciò, mentre gli uni[36] festeggiavano l'imperatore
con quel giubilo convenzionale che era proprio dei poeti della
Roma imperiale, il Poggio per contrario non sa più che cosa voglia
propriamente significare l'incoronazione: avvegnachè gli antichi
non coronassero che gl'imperatori vittoriosi e di niun'altra corona,
fuorchè di alloro.[37]

Con Massimiliano I poi comincia, insieme all'intervento generale dei
popoli stranieri, una nuova politica imperiale verso l'Italia. Il
fatto con cui essa ebbe principio — l'investitura di Lodovico il Moro
coll'esclusione dell'infelice suo nipote dal trono — non era di tal
natura da poter promettere buona fortuna. Secondo la moderna teoria
degli interventi, quando due prepotenti vogliono fare in brani un
paese, anche un terzo può farsi innanzi e darvi mano; anche l'impero
adunque poteva ora pretendere la sua parte. Ma in tal caso non era più
da parlare di diritto, nè di giustizia. Quando Luigi XII era aspettato
a Genova (1502) e dal vestibolo della sala maggiore nel palazzo dei
Dogi fu tolta l'aquila imperiale per sostituirvi i gigli di Francia,
lo storico Senarega[38] chiese dappertutto che cosa propriamente
significasse quell'aquila rispettata in tante rivoluzioni, e quali
diritti l'Impero avesse su Genova? Nessuno gli seppe rispondere altro,
fuorchè l'antico ritornello, che Genova era una _camera imperii_. E
infatti nessuno in generale in Italia avrebbe saputo dare allora una
risposta decisiva su tali questioni. Soltanto quando Carlo V fu padrone
ad un tempo e dell'Impero e della Spagna, potè con le forze spagnuole
far valere le pretese imperiali; ma in fondo ciò che egli per tal
modo guadagnò, tornò a profitto, non già dell'Impero, ma bensì della
monarchia di Spagna.


Dalla illegittimità politica delle dinastie del secolo XV derivò alla
sua volta anche l'indifferenza rispetto alla nascita legittima che
agli stranieri, specialmente al Comines, parve tanto maravigliosa. La
si considerava quasi come una giunta sopra la derrata. Mentre nelle
famiglie principesche del nord, in quella di Borgogna, per esempio,
ai figli illegittimi non si assegnavano che determinati appannaggi,
come vescovati e simili, e mentre in Portogallo una linea spuria
non giungeva a sostenersi sul trono che mediante sforzi inauditi,
in Italia invece non v'era casa principesca, che non avesse avuto
e pazientemente tollerato nella stessa linea principale qualche
rampollo illegittimo. Gli Aragonesi di Napoli erano la linea bastarda
della casa, perchè l'Aragona propriamente detta toccò al fratello
di Alfonso I. Il grande Federigo di Urbino con ogni probabilità non
era un vero Montefeltro. Quando Pio II andò al congresso di Mantova
(1459), mossero ad incontrarlo in Ferrara otto discendenti illegittimi
della famiglia d'Este, fra i quali lo stesso regnante Borso e due
figli illegittimi del suo fratello e predecessore Leonello, ugualmente
illegittimo.[39] Inoltre quest'ultimo aveva avuto per legittima moglie
una principessa, che propriamente non era che una figlia naturale di
Alfonso I di Napoli, avuta da una africana.[40] Gl'illegittimi erano
anche di frequente ammessi alla successione, specialmente se i figli
legittimi erano minorenni quando qualche pericolo stringeva assai da
vicino; e così fu introdotta una specie di seniorato senza ulteriore
riguardo alla legittimità o illegittimità della nascita. L'opportunità
dell'individuo, il suo merito personale e la forza del suo talento
furono qui sempre più forti della legge e delle consuetudini invalse
in tutti gli altri paesi d'Occidente. Infatti erano i tempi, in cui
si vedevano i figli stessi dei Papi crearsi dei principati! Nel secolo
XVI, prevalendo l'influenza degli stranieri e della contro-riforma, che
allora incominciava, la cosa destò qualche maggiore scrupolo, e già il
Varchi trova che la successione dei figli legittimi «è comandata dalla
ragione e sin dai più remoti tempi voluta dal cielo».[41] Il cardinale
Ippolito d'Este fondava le sue pretese alla signoria di Firenze sul
fatto, che egli probabilmente derivava da un matrimonio legittimo, o
in ogni caso era figlio almeno di una madre uscita da nobile stirpe,
mentre il duca Alessandro avea avuto per madre una fantesca.[42] Ora
cominciano anche i matrimoni morganatici di affezione, che nel secolo
XV, per motivi di moralità e di politica, non avrebbero avuto alcun
senso.


Ma la più alta e più comunemente ammirata forma dell'illegittimità
nel secolo XV è quella del condottiere, il quale — qualunque sia
la sua origine — giunge a procacciarsi un principato. In sostanza
anche l'occupazione dell'Italia meridionale operata nel secolo XI
dai Normanni non era stata altra cosa; ma ora diversi tentativi di
questa specie cominciarono a tener la Penisola in perpetue agitazioni.
L'insediamento di un condottiero a signore di un paese poteva accadere
anche senza usurpazione, ogni qualvolta il principe che lo teneva al
suo soldo, mancando di denaro, pattuiva con lui una mercede in uomini
e terre,[43] le quali, senza di ciò, ed anche nel caso che licenziasse
la maggior parte della sua gente, gli erano necessarie per porvi al
sicuro i suoi quartieri d'inverno e le provvigioni più indispensabili.
Il primo esempio di un capo di bande provveduto in tal guisa è
Giovanni Hawkwood, che dal papa Gregorio XI ottenne Bagnacavallo e
Cotignola. Ma quando con Alberigo da Barbiano cominciarono ad apparire
sulla scena bande e condottieri italiani, parve anche più prossima
l'occasione di procurarsi qualche principato, o, se il condottiere
lo possedeva già, quella di allargarlo. Il primo grande trionfo di
questa avidità soldatesca fu festeggiato a Milano dopo la morte di
Giangaleazzo (1402): il governo de' suoi due figli (v. sopra pag. 19)
fu volto principalmente alla distruzione di questi tiranni giunti al
potere colla forza della propria spada, e dal maggiore di essi, Facino
Cane, i Visconti ereditarono non solo la vedova di lui (Beatrice di
Tenda), ma altresì un bel numero di città e 400,000 fiorini d'oro,
senza contare gli uomini d'arme del primo marito che Beatrice condusse
pure con sè.[44] Da questo tempo in poi prevalse in modo incredibile
quel rapporto affatto immorale tra i governi che stipendiavano e i
condottieri che si vendevano, che è tanto caratteristico del secolo
XV. Un vecchio aneddoto,[45] di quelli che sono veri e non veri
in ogni tempo e dovunque, lo dipinge presso a poco così: una volta
gli abitanti di una città (pare che s'intendesse Siena) avevano un
capitano, che li aveva liberati dall'oppressione straniera: ogni
giorno essi si consultavano sul modo migliore di ricompensarlo, e
trovavano che nessuna ricompensa, che fosse compatibile colle loro
forze, sarebbe stata adeguata, neanche se lo avessero creato signore
della loro città. Allora uno di essi si alzò e disse: uccidiamolo e poi
adoriamolo come nostro patrono. E così fu fatto, rinnovando il caso di
Romolo ucciso dal Senato romano. E veramente da nessuno i condottieri
avevano maggior bisogno di guardarsi, quanto dai principi o dai
governi, pei quali combattevano; poichè, se vincitori, erano riguardati
come pericolosi e fatti uccidere, come toccò a Roberto Malatesta
subito dopo la vittoria riportata per Sisto IV (1482); se vinti, si
vendicava in loro la sconfitta sofferta, come fecero i Veneziani col
Carmagnola (1432).[46] Dal punto di vista morale è un fatto degno
di molta considerazione, che i condottieri assai di frequente erano
obbligati di dare in ostaggio la propria moglie ed i figli, senza per
questo giungere a procacciarsi maggior fiducia da parte degli altri,
o sentir cresciuta la propria in questi. Avrebbero dovuto essere
eroi d'abnegazione, caratteri della tempra di Belisario, per tenersi
puri dall'odio, e solo una bontà interna a tutta prova avrebbe potuto
salvarli dal diventare malfattori perfetti. Qual maraviglia adunque
se noi li vediamo per la massima parte dispregiatori d'ogni cosa più
sacra, pieni di crudeltà e di perfidia contro chiunque, e anche al
limitare della morte indifferenti affatto alle scomuniche papali? Ma
al tempo stesso in alcuni la personalità e il talento si svilupparono
in sì alto grado da imporre a forza l'ammirazione e la riconoscenza dei
loro soldati, offrendo così nella storia il primo esempio di eserciti,
nei quali la forza impellente è senz'altro il credito personale del
duce. Una splendida prova se ne ha nella vita di Francesco Sforza,[47]
contro il quale nessun pregiudizio di classe fu mai tanto forte da
impedirgli di acquistarsi presso tutti la più grande popolarità e
di sapersene giovare a tempo opportuno: si sa infatti che più di una
volta i nemici, al solo vederlo, deposero spontaneamente le armi e lo
salutarono rispettosamente a capo scoperto, perchè ognuno riconosceva
in lui «il padre comune di tutti gli uomini d'arme». Questa famiglia
Sforza ha un altro lato interessante, ed è che di essa, più che di
qualunque altra, si possono seguire passo passo tutti i tentativi fatti
per giungere al principato.[48] Il fondamento di questa fortuna fu la
grande sua fecondità: Jacopo, il celebre padre di Francesco, non aveva
meno di venti tra fratelli e sorelle, tutti rozzamente allevati in
Cotignola, presso Faenza, al sentimento di una di quelle inestinguibili
vendette, che sono così frequenti in Romagna, contro la famiglia dei
Pasolini. Tutta la casa degli Sforza era trasformata in un arsenale e
in un corpo di guardia: la stessa madre e le figlie non respiravano che
sentimenti di vendetta e di sangue. Ancor tredicenne Jacopo si tolse di
là segretamente per recarsi innanzi tutto a Panicale presso Boldrino,
condottiere del Papa, quel medesimo, il quale anche morto continuava
a guidar le sue schiere, dandosi la parola d'ordine da una tenda tutta
circondata di bandiere, nella quale giaceva imbalsamato il suo corpo, —
sino a tanto che si trovò un successore che fosse degno di lui. Jacopo,
di mano in mano che co' suoi servigi cresceva in credito e potenza,
tirò con sè anche i suoi congiunti e per mezzo di essi si procacciò
quei vantaggi, che ad un principe procura sempre una numerosa dinastia.
Furono infatti questi congiunti che tennero insieme la sua armata
per tutto il tempo ch'egli languì prigioniero nel Castel dell'Uovo a
Napoli; e fu sua sorella che fece prigionieri colle stesse sue mani
i negoziatori di quella corte, e con questa rappresaglia lo salvò
dalla morte. Altri indizii della larghezza delle sue viste si ebbero
in questo, che Jacopo in affari pecuniari era scrupolosamente ligio
alla parola data, e con ciò si mantenne in credito, anche dopo qualche
rovescio, presso tutti i banchieri; che in qualsiasi occasione egli
prese sempre le parti del popolo contro la licenza della soldatesca;
che non trascorse mai a nessun atto di ferocia contro le città
conquistate e, più ancora, che non esitò a dare in moglie ad un altro
la celebre sua concubina Lucia (la madre di Francesco), per serbarsi
sempre libero di passare, data l'occasione, a nozze principesche. Ed in
quest'ultimo riguardo egli andò più oltre, non volendo che neanche i
suoi congiunti contraessero unioni non approvate da lui. Nel medesimo
tempo egli si tenne sempre lontano dall'empietà e dalla vita perduta
e rotta de' suoi compagni d'arme; e quando mandò pel mondo suo figlio
Francesco, lo congedò con tre avvertimenti essenzialmente pratici: «non
accostarti alla donna altrui; non battere alcuno de' tuoi e se l'hai
battuto, allontanalo più che puoi; non cavalcare nessun cavallo di
duro freno o che perda volentieri la ferratura». Ma prima d'ogni altra
cosa egli era, se non un grande capitano, almeno un grande soldato, e
poteva vantarsi di un corpo sano, robusto ed esperto in ogni genere di
esercizi; si conciliava la popolarità co' suoi modi franchi e schietti,
e possedeva una maravigliosa memoria, che gli faceva ricordare anche
dopo molti anni tutti i suoi soldati, lo stato del loro servizio,
i loro cavalli ecc. Colto non era che nella letteratura italiana;
ma nelle ore d'ozio amava erudirsi nella storia, e fece tradurre
dal latino e dal greco molti scrittori per suo uso particolare.
Francesco suo figlio, ancor più celebre di lui, volse sin da principio
chiaramente tutte le sue mire a crearsi una grande signoria, e con
splendidi fatti d'armi e con un tradimento assai destramente mascherato
giunse anche a farsi padrone della potente Milano (1447-1450).

Il suo esempio sedusse. Enea Silvio intorno a questo tempo
scriveva:[49] «nella nostra Italia, tanto vaga di mutamenti, dove nulla
ha stabilità e non sussiste omai più nessuno dei vecchi governi, non
è difficile che anche i servi possano divenir re». Uno specialmente
che si diceva egli stesso «il figlio della fortuna», preoccupava in
allora tutte le menti del paese: Giacomo Piccinino, figlio di Niccolò.
Era una questione d'interesse vivissimo e generale quella di sapere,
se anche egli riuscirebbe a fondare, o no, un principato. Gli Stati
maggiori erano evidentemente interessati ad impedirglielo, ed anche
Francesco Sforza trovava che sarebbe stato un vantaggio per tutti, se
la serie dei condottieri divenuti sovrani si fosse terminata con lui.
Ma le truppe e i capitani spediti contro il Piccinino, specialmente
nell'occasione che egli voleva impadronirsi di Siena, trovavano invece
che il loro tornaconto stava nel sostenerlo: «se la si fa finita con
lui (dicevan essi ad una voce), noi possiam tornarcene a lavorare le
nostre terre».[50] Perciò, nel tempo stesso che lo tenevano assediato
in Orbetello, lo fornivano essi medesimi di viveri, tanto che egli
potè da ultimo uscire da quel frangente a patti onorevolissimi. Ma
nemmen per questo riuscì a sottrarsi eternamente al proprio destino.
Tutta Italia presentiva già ciò che stava per accadere quand'egli, dopo
una visita fatta allo Sforza in Milano (1465), si condusse a Napoli
a visitare il re Ferrante. In onta a tutte le garanzie e ai rapporti
ch'egli aveva nelle regioni più elevate, quest'ultimo lo fece uccidere
nel Castel Nuovo.[51] Anche i condottieri, che possedevano stati
pervenuti loro per via di eredità, non furono mai pienamente sicuri:
quando Roberto Malatesta e Federigo di Urbino morirono nel medesimo
giorno, l'uno a Roma, l'altro a Bologna (1482), avvenne che ognuno di
essi, morendo, raccomandava all'altro il suo stato.[52] Il fatto è
che contro una classe di persone, che si permetteva tutti arbitrii,
tutto sembrava permesso. Francesco Sforza ancor molto giovane s'era
sposato ad una ricca ereditiera di Calabria, Polissena Ruffa, contessa
di Montalto e n'aveva avuto anche una figlia: — una zia le avvelenò
entrambe, per appropriarsi l'eredità.[53]


Dalla caduta del Piccinino in avanti, la formazione di nuovi stati
creati da condottieri parve uno scandalo da non doversi assolutamente
tollerar più, e i quattro stati maggiori, Napoli, Milano, la Chiesa e
Venezia sii unirono in un sistema d'equilibrio, che doveva impedirne la
rinnovazione. Nello stato della Chiesa, che formicolava di tirannelli,
stati in parte già condottieri o che lo erano ancora, sino dal tempo
di Sisto IV i soli nepoti del Papa s'attribuirono esclusivamente il
privilegio di tentar simili imprese. Ma non appena nella politica
si manifestava una oscillazione qualunque, ecco che i condottieri
ricomparivano. Sotto il debole governo di Innocenzo VIII poco mancò
che un capitano per nome Boccalino, stato già dapprima a servizio in
Borgogna, non si desse insieme alla città di Osimo, di cui s'era fatto
padrone, in mano a' Turchi;[54] e si dovette andar più che contenti,
quando egli, per la mediazione di Lorenzo il Magnifico, s'indusse
ad accomodarsi con una somma di danaro e ad andarsene. Nell'anno
1495, quando tutto andò a scompiglio per la venuta di Carlo VIII, un
Vidovero, condottiere da Brescia, volle fare esperimento delle sue
forze:[55] egli aveva preso già dapprima la città di Cesena, uccidendo
molti della nobiltà e della borghesia, ma il castello aveva resistito
ed egli aveva dovuto ritirarsi: ora, accompagnato da alcune genti
cedutegli da un altro ribaldo suo pari, Pandolfo Malatesta da Rimini,
figlio del nominato Roberto e condottiero al soldo dei Veneziani, tolse
all'arcivescovo di Ravenna la città di Castelnuovo. I veneziani, che
temevano di peggio ed oltre a ciò erano pressati dal Papa, ingiunsero
a Pandolfo «a fine di bene» di far prigioniero, datane l'occasione, il
suo buon amico, ed egli vi si prestò, benchè «a malincuore»; poco dopo
gli sopraggiunse il comando di farlo morir per le forche. Pandolfo non
potè usargli altro riguardo, fuorchè quello di farlo strozzare dapprima
nel carcere, e di mostrarlo morto al popolo. — L'ultimo notevole
esempio di tali usurpatori è il celebre castellano di Musso, il quale,
fra gli scompigli del milanese avvenuti in seguito alla battaglia di
Pavia (1525), improvvisò la sua sovranità sul lago di Como.



CAPITOLO IV.

Le Tirannidi minori.

    I Baglioni di Perugia. — Loro interne discordie e le nozze di
    sangue dell'anno 1500. — Fine di questa famiglia. — Le case dei
    Malatesta, dei Pico e dei Petrucci.


Delle tirannidi del secolo XV può dirsi in generale, che le maggiori
scelleratezze s'accumularono nelle più piccole di esse. Frequentissime
in famiglie, i cui membri volevano vivere tutti secondo il loro grado,
erano le questioni per causa di eredità: Bernardo Varano da Camerino
si sbarazzò coll'assassinio di due fratelli (1434), unicamente perchè
i suoi figli ne agognavano le ricchezze.[56] Se in qualche città un
tiranno si distingueva per un governo saggio, moderato, alieno dal
sangue e per la protezione accordata alla cultura, questi era di regola
un discendente di qualche grande famiglia, o almeno ne dipendeva per
ragioni politiche. Di questa specie fu, per esempio, Alessandro Sforza
principe di Pesaro,[57] fratello del grande Francesco e suocero di
Federigo da Urbino (morto nel 1473). Saggio amministratore e giusto ed
affabile regnante, costui, dopo una lunga carriera guerresca, ebbe un
regno tranquillo, durante il quale raccolse una splendida biblioteca e
passò il suo tempo in pie ed erudite conversazioni. Anche Giovanni II
dei Bentivogli di Bologna (1462-1506), la cui politica era modellata
su quella degli Estensi e degli Sforza, potrebbe essere registrato
nel numero di costoro. — Qual brutale ferocia invece non si riscontra
nelle famiglie dei Varani di Camerino, dei Malatesta di Rimini, dei
Manfredi di Faenza, e soprattutto dei Baglioni di Perugia! — Delle
vicende di questi ultimi sul finire del secolo XV noi abbiamo ampie
notizie da eccellenti fonti storiche — le cronache del Graziani e del
Matarazzo.[58]


I Baglioni erano una di quelle famiglie, la cui signoria non si era
mai trasformata in un vero principato, ma consisteva soltanto in una
supremazia esercitata dentro la cerchia della città e basata sulle
grandi ricchezze e sull'influenza effettiva nel conferimento delle
pubbliche dignità. Nell'interno della famiglia uno solo era riguardato
come il capo supremo di essa; ma un profondo e nascosto rancore regnava
tra i membri de' suoi rami diversi. Di fronte ad essi mantenevasi un
partito contrario, composto di nobili capitanati dagli Oddi. Intorno
al 1487 tutti erano in armi e le case dei grandi erano piene di
_bravi_: non passava giorno che non si commettesse qualche atto di
violenza: nell'occasione che dovea portarsi a seppellire uno studente
tedesco, stato quivi ucciso, due collegi si posero in armi l'un contro
l'altro, e talvolta i bravi di diverse case venivano a battaglia tra
loro sulla pubblica piazza. Indarno i commercianti e gli operai ne
movevano lamento: i governatori e i nipoti dei Papi tacevano o se ne
andavano al più presto possibile. Da ultimo gli Oddi furono costretti
ad abbandonare Perugia, e allora la città si convertì in una fortezza
assediata sotto la piena signoria dei Baglioni, ai quali anche il duomo
dovette servire di caserma. Le cospirazioni e le sorprese venivano
represse con terribili vendette: nell'anno 1491, dopo avere scannato
d'un tratto ben cento trenta congiurati introdottisi in città, e dopo
averne appeso i corpi alle mura del palazzo del comune, furono alzati
sulla pubblica piazza trentacinque altari e per tre giorni vi si fecero
celebrar messe e far processioni, per purgare e riconsacrare quel
luogo contaminato. Un nipote di Innocenzo VIII fu pugnalato di pieno
giorno sulla pubblica via; un altro di Alessandro VI, che vi era stato
spedito a metter la pace, dovette ritirarsi sotto il peso del pubblico
disprezzo. Per converso, ambedue i capi della casa dominante, Guido
e Rodolfo, ebbero frequenti colloqui colla santa e taumaturga monaca
domenicana suor Colomba da Rieti, la quale, sotto la minaccia di grandi
sventure avvenire, consigliava, ma infruttuosamente, la pace. — In
mezzo a tutto ciò il cronista non tralascia anche in questa occasione
di mettere in rilievo la devozione e la pietà dei migliori fra i
perugini. — Mentre Carlo VIII si avvicinava (1494), i Baglioni e gli
esigliati, accampatisi in Assisi e nei dintorni, condussero una guerra
di tal natura, che nella pianura interposta tutti gli edifici furono
atterrati, i campi rimasero incolti, i contadini si trasformarono in
audaci masnadieri, e non solo i cervi, ma i lupi altresì corsero a
loro agio quel terreno fatto deserto e vi trovarono gradito pascolo nei
cadaveri dei caduti, o, come allora dicevasi, nella «carne cristiana».
Quando Alessandro VI nel 1495 fuggì nell'Umbria dinanzi a Carlo
VIII, che ritornava da Napoli, trovandosi a Perugia, concepì l'idea
di sbarazzarsi per sempre dei Baglioni, e propose a Guido una festa
qualunque, un torneo o qualche cosa di simile, per averli tutti insieme
nelle sue mani; ma Guido fu pronto a rispondere che «il più bello di
tutti gli spettacoli sarebbe stato il vedere riuniti insieme tutti gli
uomini d'arme di Perugia»; e allora il Papa rinunziò al suo progetto.
Poco dopo gli espulsi tornarono a fare una nuova sorpresa, nella quale
i Baglioni non ottennero la vittoria se non in virtù del loro eroismo
personale. Fu in quella occasione che Simonetto Baglione, appena
diciottenne, tenne fronte con pochi sulla pubblica piazza a parecchie
centinaia di nemici e, caduto per più di venti ferite, si rialzò di
nuovo a combattere, sino a che accorse in suo aiuto Astorre Baglione,
il quale, alto sul suo cavallo e tutto armato di ferro dorato e con
un gran falcone sull'elmo, «si slanciò nella mischia pari al Dio Marte
nelle gesta e nell'aspetto».

Era quello il tempo, in cui Raffaello, fanciullo allor dodicenne,
studiava alla scuola di Pietro Perugino. Forse le impressioni di quei
giorni sono riprodotte e fatte eterne nelle sue prime figure in piccolo
di S. Giorgio e di S. Michele: forse sopravvive ancora, per non morire
mai più, una reminiscenza di esse nella figura dello stesso S. Michele
fatta in grande posteriormente; e se Astorre Baglione ha per avventura
avuto in qualche cosa la sua apoteosi, non potrebbesi cercarla altrove,
fuorchè nella figura del celeste guerriero nel gran quadro di Eliodoro.

Gli avversari parte erano periti, parte per paura si erano allontanati,
nè in seguito ebbero più la forza di tentar nuovi attacchi. Dopo
qualche tempo seguì una parziale riconciliazione e ad alcuni fu
concesso il ritorno. Ma Perugia non ridivenne per questo nè più
tranquilla nè più sicura: le discordie interne della famiglia dominante
proruppero allora in fatti ancor più spaventevoli. Contro Guido,
Rodolfo ed i loro figli Giampaolo, Simonetto, Astorre, Gismondo,
Gentile, Marcantonio ed altri sorsero uniti due pronipoti, Grifone e
Carlo Barciglia: quest'ultimo era al tempo stesso nipote del principe
Varano di Camerino e cognato di uno degli anteriori banditi, Geronimo
dalla Penna. Indarno Simonetto, che aveva sinistri presentimenti,
scongiurò suo zio a permettergli di uccidere questo Penna: Guido glielo
proibì. La cospirazione maturò improvvisamente nell'occasione delle
nozze di Astorre con Lavinia Colonna, a mezzo l'estate dell'anno 1500.
La festa cominciò e durò alcuni giorni tra sinistri indizi, il cui
aumentarsi ci vien descritto egregiamente dal Matarazzo. Il Varano,
che era presente, li ingannò tutti: a Grifone con arte diabolica fe'
balenare agli occhi la possibilità di regnar solo e lasciò credere
vera una supposta tresca di sua moglie con Giampaolo, e quando tutto fu
ordito, ad ognuno dei congiurati fu assegnata una vittima da scannare.
(I Baglioni aveano tutti abitazioni separate, la maggior parte nel
luogo, dove è l'attuale castello). Dei bravi, che erano presenti,
ognuno ebbe quindici uomini a' suoi ordini: gli altri furono posti in
vedetta. Nella notte del 15 luglio le porte furono forzate e compiuti
gli assassinii di Guido, di Astorre, di Simonetto e di Gismondo: gli
altri poterono fuggire.

Mentre il cadavere di Astorre giaceva, con quello di Simonetto, sulla
pubblica via, gli spettatori «e specialmente gli studenti stranieri»
furono uditi paragonarlo con quello di qualche antico romano: tanto
imponente e grandioso n'era l'aspetto. In Simonetto essi trovavano
l'espressione di un'audacia spinta all'estremo, come se la morte
stessa non avesse potuto domarlo. I vincitori si recarono attorno dagli
amici della famiglia, cercando di rendersi bene accetti, ma trovarono
tutti in lagrime ed occupati a preparar la partenza per fuggire alla
campagna. Frattanto quelli dei Baglioni che erano fuggiti, raccolsero
genti al di fuori, e poi, con Giampaolo alla testa, penetrarono il
giorno seguente nella città, dove altri aderenti, anch'essi minacciati
di morte dal Barciglia, s'affrettarono ad unirsi con loro: presso S.
Ercolano Grifone cadde nelle mani di Giampaolo, che lo abbandonò a'
suoi, perchè lo scannassero; ma il Barciglia ed il Penna riuscirono a
fuggire a Camerino presso il promotore principale di quella tragedia,
e così in un momento, quasi senza perdita alcuna, Giampaolo si trovò
padrone della città.

Atalanta, la bella e ancor giovane madre di Grifone, la quale il
giorno innanzi, insieme alla di lui moglie Zenobia e a due figli di
Giampaolo, si era ritirata in un podere e avea respinto da sè più
volte, non senza lanciargli la sua maledizione materna, il figlio
che s'affrettava a raggiungerla, accorse ora colla nuora e cercò del
figlio stesso già moribondo. Tutti fecero largo alle due donne: nessuno
voleva essere riconosciuto per l'uccisore di Grifone, per non tirarsi
addosso gli sdegni della madre. Ma s'ingannavano: ella stessa scongiurò
il figlio a perdonare a' suoi uccisori, ed egli morì ribenedetto
da lei e riconciliato con tutti. Con reverenza mista di pietà tutti
guardavano poscia alle due donne, quando con vesti ancora intrise di
sangue attraversarono la piazza. Quest'è quella Atalanta, per la quale
più tardi Raffaello dipinse la celebre sua _Deposizione_. Con quel
quadro ella depose il proprio dolore ai piedi della Regina di tutti gli
addolorati.

Il Duomo, che avea visto la maggior parte di queste tragedie nelle
sue vicinanze, fu lavato con vino e consacrato di nuovo. Ma rimase pur
sempre in piedi l'arco trionfale eretto per le nozze con suvvi dipinte
le gesta di Astorre e colle poesie laudative di colui, che ci narrò
tutti questi avvenimenti, il buon Matarazzo.

In seguito si formò una storia affatto leggendaria de' tempi anteriori
dei Baglioni, che non è se non un riflesso di queste atrocità. Secondo
questa leggenda, tutti i discendenti di questa casa sarebbero morti da
tempo immemorabile di morte violenta, una volta non meno di ventisette
d'un tratto; le loro case sarebbero state già anteriormente atterrate,
e coi materiali delle medesime sarebbero state selciate le vie ecc. Ma
il fatto è, che la distruzione vera e reale dei loro palazzi non ebbe
luogo che più tardi, sotto il governo di Paolo III.

In onta a tutto questo, e' pare che essi di quando in quando abbiano
avuto anche de' buoni intendimenti, come è certo che misero un po'
d'ordine nel loro partito e che protessero i pubblici ufficiali dagli
arbitrii della nobiltà. Sennonchè la maledizione pareva inseguirli,
e scoppiò di nuovo più tardi contro di essi, a guisa d'incendio solo
apparentemente domato. Giampaolo fu con lusinghe attirato a Roma nel
1520 sotto Leone X e quivi decapitato: uno de' suoi figli, Orazio, che
tenne Perugia solo per qualche tempo e in circostanze burrascosissime,
specialmente perchè parteggiava pel duca di Urbino ugualmente
minacciato dal Papa, inferocì ancora una volta in modo atrocissimo
contro la propria famiglia, assassinando uno zio e tre cugini, tanto
che il duca stesso gli fe' dire che era tempo di farla finita.[59]
Suo fratello, Malatesta Baglione, è il duce de' fiorentini, che nel
1530 si rese tristamente immortale col suo tradimento, e il figlio di
questo, Ridolfo, è quell'ultimo della famiglia, che coll'uccisione del
Legato papale e dei pubblici ufficiali conseguì nel 1534 una breve, ma
spaventevole signoria.


Coi tiranni di Rimini avremo occasione d'incontrarci ancora qua e
colà. — Audacia, empietà, talento guerresco e cultura assai raffinata
raramente si riunirono in un uomo solo, come in Sigismondo Malatesta
(morto nel 1467). Ma dove i misfatti sovrabbondano, come in questa
casa, quivi finiscono anche col preponderare sopra qualsiasi altra
qualità e col trascinare il tiranno nell'abisso. Il già menzionato
Pandolfo, nipote di Sigismondo, non giunse a sostenersi se non perchè i
Veneziani non volevano, ad onta di qualsiasi delitto, veder la caduta
di nessuno dei loro condottieri; e quando i suoi sudditi, per motivi
ragionevolissimi, lo bombardarono nella sua cittadella di Rimini
(1497), e poi lo lasciarono fuggire,[60] un commissario veneziano lo
ripose nella signoria, benchè macchiato di fratricidio e di ogni sorta
di scelleratezze. In capo a tre decenni però i Malatesta trovaronsi
ridotti alla condizione di poveri banditi. L'epoca del 1527 fu, come
quella di Cesare Borgia, veramente fatale a queste piccole tirannidi,
delle quali ben poche sopravvissero, ed anche queste con assai scarsa
fortuna. — Alla Mirandola, dove regnavano i piccoli principi della
famiglia Pico, dimorava nell'anno 1533 un povero letterato, Lilio
Gregorio Giraldi, che si era quivi rifugiato dal sacco di Roma al
tetto ospitale del canuto Giovan Francesco Pico (nipote del celebre
Giovanni). I dialoghi che egli ebbe col principe intorno al monumento
sepolcrale, che questi voleva preparare a sè stesso, diedero origine ad
uno scritto,[61] che nella dedica porta la data dell'aprile di quello
stesso anno. Ma quanto è triste il poscritto! «Nell'ottobre dello
stesso anno lo sventurato principe, assalito di notte tempo, perdette
il trono e la vita per opera di un figlio di suo fratello, ed io
stesso, gittato nella più profonda miseria, potei a stento salvare la
vita fuggendo».

Una pseudo-tirannide affatto priva di carattere proprio, come fu
quella, che Pandolfo Petrucci esercitò dal 1490 in poi nella città
di Siena, lacerata allora dalle frazioni, è appena degna di essere
ricordata. Incapace e crudele, egli regnò coll'aiuto di un professore
di diritto e di un astrologo, e sparse qua e là qualche terrore con
atti di violenza e di sangue. Suo passatempo prediletto in estate era
di rotolar massi di pietra dal monte Amiata, senza pensare dove e su
chi cadessero. A lui riuscì quello, a cui non avean potuto giungere
nemmeno i più astuti, di sottrarsi cioè alle insidie di Cesare Borgia:
tuttavia morì più tardi abbandonato e dispregiato da tutti. I suoi
figli però si sostennero ancor lungamente in una specie di mezza
signoria.



CAPITOLO V.

Le maggiori case principesche.

    Gli Aragonesi di Napoli. — L'ultimo Visconti di Milano. —
    Francesco Sforza e la sua fortuna. — Galeazzo Maria e Lodovico
    il Moro. — I Gonzaga di Mantova. — Federigo da Montefeltro,
    duca di Urbino. — Ultimo splendore della corte urbinate. — Gli
    Estensi a Ferrara; tragedie domestiche e fiscalità. — Traffico
    dei pubblici uffici, polizia e lavori pubblici. — Merito
    personale. — Fedeltà della capitale. — Il direttore di polizia
    Zampante. — Partecipazione dei sudditi al lutto di corte. —
    Pompa della corte. — Protezione accordata alle lettere.


Fra le dinastie più importanti quella degli Aragonesi vuol essere
considerata a parte. L'ordinamento feudale, che qui sin dal tempo dei
Normanni si mantenne come una _signoria_ inerente al possesso fondiario
dei Baroni, vi dà già un'impronta speciale allo Stato, mentre nel resto
d'Italia, eccettuata la parte meridionale del dominio della Chiesa e
poche altre regioni, non sussiste omai più che il semplice _possesso_
come tale, e lo Stato non permette più che diventi ereditario nessun
ufficio. Inoltre Alfonso il Magnanimo (morto nel 1488), che sin
dal 1435 divenne signore di Napoli, è di un'indole affatto diversa
da quella de' suoi veri o pretesi discendenti. Splendido in tutto,
dignitosamente affabile e quindi caro al popolo, non biasimato nemmeno,
anzi ammirato, per la tarda sua passione per Lucrezia d'Alagna, egli
non aveva che un solo difetto, quello di una grande prodigalità,[62]
ma con tutta la sequela delle inevitabili conseguenze, che sogliono
derivarne. Infedeli amministratori delle finanze furono dapprima
onnipotenti, e da ultimo vennero dal re, caduto in fallimento,
spogliati dei loro averi; una crociata fu indetta, ma al solo scopo di
poter taglieggiare anche il clero sotto questo pretesto: in occasione
di un grande terremoto avvenuto nell'Abruzzo, i superstiti dovettero
continuare a pagar l'imposta anche pei morti. In mezzo a tutto ciò
Alfonso accolse ospiti eccelsi alla sua corte con una magnificenza sino
allora inaudita, lieto di sprecare per chiunque, anche pe' suoi stessi
nemici (v. sopra p. 25). Nel rimunerar poi i lavori letterari non
conobbe misura; al Poggio regalò una volta d'un solo tratto cinquecento
monete d'oro per la traduzione latina della Ciropedia di Senofonte.

Ferrante, che venne dopo di lui,[63] passava per suo figlio illegittimo
avuto da una dama spagnuola, ma forse discendeva da qualche Moro
bastardo di Valenza. Fosse il sangue o le congiure ordite contro la
sua vita dai Baroni, che lo rendevano cupo e feroce, fatto è che tra
i principi di quel tempo egli figura come il più terribile di tutti.
Instancabilmente operoso, riconosciuto da tutti come una delle più
forti menti politiche e alieno al tempo stesso da ogni sregolatezza,
egli volge tutte le sue forze, tra le quali anche quella di un
implacabile odio e di una profonda dissimulazione, all'annientamento
completo de' suoi nemici. Offeso in quanto può avere di più geloso un
principe, mentre i capi dei Baroni erano da un lato congiunti a lui
per parentela e dall'altro alleati di tutti i suoi nemici esterni,
egli s'abituò alle imprese le più arrischiate, come a faccende, per
così dir, quotidiane. Per procacciarsi i mezzi di sostener questa
lotta al di dentro e le guerre al di fuori, egli procedette a un di
presso con quei modi violenti, che erano stati tenuti già da Federico
II. Infatti avocò a sè il traffico dei grani e degli olii, e al tempo
stesso concentrò il commercio in generale nelle mani di un ricco
negoziante, Francesco Coppola, il quale divideva con lui gli utili e
teneva nella sua dipendenza tutti i noleggiatori: prestiti forzosi,
esecuzioni e confische, aperte simonìe e gravose contribuzioni imposte
alle corporazioni ecclesiastiche procacciavano il resto. I passatempi
di Ferrante, oltre la caccia ch'egli esercitava senza rispettar legge
alcuna, furono di due specie: di aver, cioè, presso di sè i suoi nemici
o vivi in ben custodite prigioni o morti e imbalsamati nello stesso
costume, che soleano portare da vivi.[64] Egli sogghignava ferocemente,
quando parlava a' suoi più fidati dei prigionieri: e quanto alla
sua collezione di mummie, non ne fece mai mistero alcuno. Le sue
vittime erano quasi tutti uomini, dei quali egli s'era impadronito
per tradimento, ordinariamente invitandoli al suo reale banchetto. Del
tutto infernale poi fu il contegno usato col primo ministro Antonello
Petrucci, che avea logorato la vita e la salute al suo servizio, e del
cui spavento sempre crescente Ferrante si valse per estorcerne doni,
finchè da ultimo un'apparente complicità nell'ultima cospirazione
dei Baroni gli fornì il pretesto di imprigionarlo e di farlo morire,
insieme al Coppola. Il modo con cui tutto ciò è raccontato dal
Caracciolo e dal Porzio fa ancor oggi rabbrividire. — Dei figli del
re il maggiore, Alfonso duca di Calabria, ebbe negli ultimi tempi una
specie di correggenza: dissipatore brutale e feroce, superava il padre
in franchezza, e non si peritava minimamente di far palese anche il
suo disprezzo per la religione e i suoi riti. Indarno si cercherebbero
in questi principi almeno quei tratti di coraggio e di generosità
che s'incontrano in altri tiranni d'allora; e se pur s'interessano
talqualmente dell'arte e della cultura del loro tempo, non è che per
solo lusso od apparenza. In generale gli spagnuoli venuti in Italia
sono tutti più o meno profondamente corrotti: ma gli ultimi rampolli di
questa dinastia di Mori bastardi (1494 e 1503) mostrano una perversità,
che oggimai può dirsi un vizio organico di famiglia. Ferrante muore
tra sospetti e rancori: Alfonso accusa di tradimento il proprio
fratello Federigo, l'unico della casa che non fosse uno scellerato, e
lo offende nel modo il più indegno: da ultimo, egli stesso, che pure
fino a questo momento era stato riguardato come uno de' più valenti
capitani d'Italia, fugge senza consiglio in Sicilia e abbandona in
preda ai francesi e al tradimento di tutti il proprio figlio, il minore
Ferrante. Una dinastia, che avesse regnato come questa, avrebbe dovuto
almeno far pagar cara la sua rovina, se i suoi figli e nipoti dovevano
sperare, quando che fosse, una restaurazione. Ma _jamais homme cruel ne
fut hardi_, come disse in questa occasione assai giustamente, benchè da
un solo punto di vista, Comines.

Schiettamente italiano nel senso del secolo XV appare il principato nei
duchi di Milano, la signoria dei quali da Gian Galeazzo in poi è stata
una monarchia assoluta nel suo più completo sviluppo. Innanzi tutto
l'ultimo dei Visconti, Filippo Maria (1412-1447), è uno dei personaggi
più notevoli del tempo, e fortunatamente ne possediamo una eccellente
biografia.[65] In lui si vede con rigore pressochè matematico ciò
che la paura può fare di un uomo dotato di attitudini non comuni e
collocato in una posizione elevata. Tutta la sua politica non ha che
uno scopo, la sicurezza della sua propria persona, con questo solo
di buono, che il suo crudele egoismo non degenerò mai in furibonda
sete di sangue. Nel castello di Milano, che allora era circondato da
magnifici giardini, viali e steccati, egli se ne sta solitario, senza
uscire nemmeno una volta in molti anni a visitar la città. Le sue
escursioni si restringono a quelle città di provincia, dove egli ha
grandiosi castelli: la flottiglia che, tirata da rapidi destrieri, lo
porta qua e là pei canali da lui stesso costruiti, è disposta in modo
da prestarsi agli usi della più perfetta etichetta. Chi oltrepassava
la soglia del castello, doveva sottoporsi ad una visita rigorosissima:
là dentro poi nessuno doveva affacciarsi a qualsiasi finestra, per
timore che si facessero cenni con quei di fuori. Un sistema minuzioso
di esami era prescritto per coloro, che erano destinati a formar parte
del seguito personale del principe: indi venivano loro affidati i più
alti uffici diplomatici e privati, perchè non si faceva differenza tra
questi e quelli. — E, in mezzo a tutto ciò, quest'uomo condusse lunghe
e difficili guerre ed ebbe sempre tra mano affari politici della più
alta importanza, il che lo obbligava a spedire continuamente qua e là
uomini muniti di pieni poteri. Ma la sua sicurezza stava in ciò, che
nessuno nella sua corte si fidava degli altri, che i condottieri erano
sorvegliati da spie, e i plenipotenziari e gli ufficiali superiori
erano tenuti divisi tra loro da un sistema di discordie artificialmente
mantenute, specialmente coll'accoppiar sempre un uomo onesto con
un ribaldo. Anche nell'interno della sua coscienza Filippo Maria si
garantisce una perfetta tranquillità, adottando al tempo stesso una
doppia linea di condotta; credendo cioè all'influsso dei pianeti e ad
una cieca fatalità e inginocchiandosi tuttavia a tutti i santi del
cielo,[66] studiando gli antichi scrittori, ma dilettandosi altresì
dei romanzi francesi della cavalleria. Per ultimo egli, che non voleva
mai sentir menzionare la morte e che faceva perfino trasportar fuori
del castello, se moribondi, i suoi favoriti, perchè quell'asilo della
felicità non fosse contaminato dalla presenza di un cadavere,[67] egli
stesso affrettò volontariamente la propria fine, col farsi chiudere una
ferita e col ricusare una cavata di sangue, ed è morto con dignitosa
fermezza.


Il di lui genero e successore, il fortunato Francesco Sforza
(1450-1466), era forse, fra gl'italiani d'allora, l'uomo più di
qualunque altro fatto secondo l'indole del suo tempo. In nessun
altro, quanto in lui, si parve la vittoria del genio e della forza
individuale, e chi non voleva credere alla superiorità de' suoi
talenti, doveva almeno riconoscere in lui il prediletto della fortuna.
I milanesi andavano orgogliosi di avere ora un signore di tanta fama;
ed infatti nella circostanza del suo ingresso nella città la folla
del popolo acclamante gli si fece talmente d'attorno, che lo portò
a cavallo sin dentro al Duomo, senza che egli potesse smontare.[68]
Udiamo ora che cosa scrive di lui il papa Pio II colla sua solita
perspicacia: «nell'anno 1459, allorquando il duca intervenne al
congresso dei principi in Mantova, toccava oggimai il suo sessantesimo
anno (più precisamente il cinquantottesimo), ma stava a cavallo come
un giovane, alto e imponentissimo della persona, con lineamenti serii,
calmo ed affabile ne' discorsi, con contegno di vero principe, ed un
complesso di doti corporali e mentali senza pari nel nostro secolo:
— tale era l'uomo, che dalla più umile condizione seppe sollevarsi al
possesso di un trono. La moglie di lui era bella e virtuosa, i figli
graziosi come angioletti: raramente fu infermo; e in generale vide
il compimento di tutti suoi desiderii. Ciò non ostante dovette egli
subire altresì qualche contrarietà: la moglie gli uccise per gelosia
la ganza; i suoi antichi compagni d'arme ed amici, Troilo e Brunoro, lo
abbandonarono, disertando presso il re Alfonso: un altro, Ciarpollone,
dovette egli far morire sulle forche per tradimento; da parte del
fratello Alessandro gli toccò di vedersi sobbillati contro i francesi:
uno de' suoi figli cospirò contro di lui e dovette essere imprigionato;
la Marca di Ancona, da lui conquistata in una guerra, gli andò perduta
in un'altra guerra. Nessuno gode mai una felicità tanto incontrastata,
che non abbia comecchessia a lottare coll'avversità. Felice colui che
la incontra di rado!». Con questa definizione negativa della felicità
il dotto Papa si congeda dal suo lettore. Se egli avesse potuto gettare
uno sguardo nel futuro o soltanto voluto soffermarsi a considerare in
generale le conseguenze di una forma di governo affatto assoluta, non
gli sarebbe certamente sfuggita la causa vera di quella debolezza, che
stava tutta nella mancanza di buone ed elevate tradizioni famigliari.
Quei fanciulli, belli come angeli, ed oltre a ciò allevati con tante
cure e istrutti in tante discipline, soggiacquero fatti adulti, a tutte
le seduzioni del più sconfinato egoismo. Galeazzo Maria (1466-1476),
vago soltanto delle esterne apparenze, andava superbo della sua bella
mano, degli stipendi elevati che pagava, del credito finanziario
che godeva, del suo tesoro di due milioni di fiorini d'oro, degli
uomini illustri che lo circondavano, dell'armata e delle cacce che
manteneva. Egli dava inoltre facili udienze, perchè aveva la parola
facile, massimamente quando si trattava di ridurre al silenzio qualche
ambasciatore veneziano.[69] Ma in mezzo a ciò sovrabbondavano i
capricci, come quello, ad esempio, di far dipingere a figure una stanza
in una sola notte; e quel che è peggio, spaventevoli atrocità contro
coloro che più gli stavano da vicino, o insensate sregolatezze. Ma
tale contegno parve tirannico ad alcuni esaltati: essi lo uccisero e
diedero con ciò lo Stato nelle mani de' suoi fratelli, uno dei quali,
Lodovico il Moro, pretermettendo in seguito l'incarcerato nipote,
avocò a sè l'intera signorìa. A questa usurpazione si connettono
l'intervento dei Francesi e le sventure di tutta Italia. Ma il Moro
è la più perfetta figura principesca di questo tempo, e, come figlio
dell'epoca sua, bisogna accettarlo quale è. In onta alla più profonda
immoralità dei mezzi, egli mostra un'ingenuità affatto caratteristica
nell'uso che ne fa: probabilmente si sarebbe maravigliato, se qualcuno
avesse voluto fargli comprendere, che vi è una responsabilità morale
anche per questi, anzi con ogni verosimiglianza si sarebbe vantato,
come di una virtù, dell'essersi con ogni possibilità astenuto da
qualsiasi sentenza di morte. La venerazione quasi favolosa che gli
Italiani mostravano per la sua abilità politica, egli l'accettava come
un omaggio dovutogli:[70] e ancora nel 1496 si vantava che il papa
Alessandro era il suo cappellano, l'imperatore Massimiliano il suo
condottiere, Venezia il suo ciambellano, e il re di Francia il suo
corriere, che doveva andare e venire, secondochè a lui talentava.[71]
Perfino nel supremo pericolo egli fu visto calcolare con maravigliosa
freddezza (1499) tutti i possibili espedienti e far assegnamento (il
che gli torna ad onore) sulla bontà della natura umana: egli respinse
le offerte di suo fratello, il cardinale Ascanio, che proponeva
di tenersi fermo nel castello di Milano, perchè prima aveano avuto
acerbe contese fra loro: «Monsignore, non abbiatelo a male, di voi
non mi fido, quand'anche siate mio fratello»; e prepose al comando
del castello stesso (che dovea essere «il pegno del suo ritorno») un
uomo, che aveva sempre beneficato,[72] — e che però lo tradì alla sua
volta. — All'interno il Moro pose ogni cura per amministrare bene e
vantaggiosamente lo Stato, per modo che anche nell'ultimo tempo egli
contava, tanto a Milano, che a Como, sull'amore che gli si portava;
ma è vero altresì, che verso la fine del suo dominio (dal 1496 in
poi) egli aveva aggravato soverchiamente la mano sui contribuenti,
usando talvolta mezzi crudeli, come fece, per esempio, a Cremona,
dove per viste puramente precauzionali fece impiccare un ragguardevole
cittadino, che osò alzar la voce contro le nuove gravezze; ed è vero
eziandio che, da quel tempo in poi, egli nelle udienze usò tener
lontani da sè i supplicanti mediante una sbarra,[73] in guisa che
bisognava elevare il tono della voce per farsi intendere da lui. —
Alla sua corte, la più splendida d'Europa, dopochè non esisteva più
quella di Borgogna, l'immoralità trionfava nel modo il più scandaloso:
il padre prostituiva la figlia, il marito la moglie, il fratello
la sorella.[74] Ma il principe si mantenne almeno sempre attivo, e,
come figlio delle proprie azioni, si trovò sempre nella schiera di
coloro, che appunto dovevano la propria posizione alle loro qualità
personali, i dotti, i poeti, e gli artisti in genere. L'accademia da
lui fondata[75] dovea servire innanzi tutto all'uso suo particolare,
anzichè al comodo di una scolaresca da istruire; nè in generale cullava
tanto la fama degli uomini illustri che si tirava vicini, quando ne
cercava la compagnia e i servigi. Si sa che Bramante in sul principio
non ebbe che uno scarsissimo emolumento;[76] Leonardo però sino al
1496 fu stipendiato assai lautamente; — del resto qual cosa avrebbe
potuto trattenerlo a questa corte, se egli non vi fosse rimasto
spontaneamente? Il mondo gli stava aperto dinanzi, quanto forse a
nessun altro mortale di quel tempo, e se v'ha cosa che dimostri esservi
stata pur qualche qualità superiore in Lodovico, essa è certamente
questa prolungata dimora presso di lui di quel misterioso maestro. Ed
anche più tardi, se Leonardo prestò i suoi servigi ad un Cesare Borgia
e ad un Francesco I, non è improbabile che egli lo abbia fatto sol per
aver trovato in ambedue qualche cosa di straordinario e di superiore al
loro tempo.

Dei figli del Moro, che dopo la sua caduta furono malamente allevati
da gente straniera, il maggiore, Massimiliano, non ha più alcuna
rassomiglianza col padre; ma il minore, Francesco, non era almeno
inaccessibile a qualche tratto di nobile entusiasmo. Milano, che
in questi tempi mutò tanti padroni e con tanto suo danno, cercò
almeno di guarentirsi dalle reazioni, e indusse i Francesi, che nel
1512 si ritiravano dinanzi alle armi della Lega Santa e a quelle
di Massimiliano, a rilasciarle una dichiarazione, nella quale era
detto che i Milanesi non ebbero veruna parte nella loro espulsione e
potevano quindi, senza farsi rei di fellonìa, darsi in mano ad un nuovo
conquistatore.[77] Anche sotto il rapporto politico è da notare che
l'infelice città in simili momenti di transizione era solita, al pari
di Napoli al momento della fuga degli Aragonesi, di sottostare ad un
formale saccheggio esercitatovi da bande di malfattori (talvolta anche
assai ragguardevoli).

Due signorìe in modo speciale bene ordinate e rappresentate da
principi abilissimi sono, nella seconda metà del secolo XV, quella
dei Gonzaga in Mantova e quella dei Montefeltro in Urbino. I Gonzaga,
quanto ai rapporti di famiglia, erano abbastanza concordi fra loro,
ed era vôlto oggimai un bel tratto di tempo che presso di loro non
si erano verificati assassinii segreti, ed essi potevano, quando
qualcuno moriva, mostrarne pubblicamente il cadavere. Il marchese
Francesco Gonzaga[78] e sua moglie Isabella d'Este, per quanto anche
vi sia stato qualche dissapore tra loro, appaiono nella storia una
coppia rispettabile e concorde, che educò figli illustri e fortunati
in un tempo, in cui il loro piccolo, ma importantissimo Stato si
trovò esposto a gravissimi pericoli. Che Francesco, come principe e
condottiere, avesse dovuto seguire una politica leale ed onesta, non
era cosa, alla quale in allora potessero pretendere nè l'imperatore,
nè i re di Francia, nè Venezia; ma egli diè prova, almeno dopo la
battaglia al Taro (1495) e per quanto riguardava l'onore delle armi,
di sentimenti patriottici, e comunicò questi stessi sentimenti alla
propria consorte. Ed infatti da quel tempo in poi ella non vede
in qualsiasi manifestazione di leale eroismo, quale per esempio la
difesa di Faenza contro Cesare Borgia, che un nobile sforzo diretto a
salvare l'onore italiano. Per giudicare di lei noi non abbiamo bisogno
di ricorrere a quanto ne dissero gli artisti e gli scrittori, che
largamente ricambiarono la bella principessa della protezione loro
accordata; le sue stesse lettere ci mostrano abbastanza in lei la
donna intrepidamente ferma, cautamente circospetta ed amabile al tempo
stesso. Il Bembo, il Bandello, l'Ariosto e Bernardo Tasso mandavano
i loro lavori a questa corte, benchè piccola e impotente e spesso
anche scarsa a danari; ma, dopo lo scioglimento della vecchia corte
di Urbino (1508), non vi fu più in nessun luogo un centro di maggiore
cultura, ed anche la corte di Ferrara vi era in complesso superata,
specialmente per la maggior libertà che vi si godeva. Isabella s'intese
molto addentro nell'arte, e il catalogo della sua piccola, ma scelta
pinacoteca non può esser letto senza ammirazione da alcun vero amico
dell'arte.


Urbino possedeva nel grande Federigo (1444-1482), fosse egli un vero
Montefeltro o no, uno dei più illustri rappresentanti del potere
principesco. Come condottiere, egli aveva quella politica moralità,
che era propria di questo genere di persone, e di cui essi non erano
colpevoli che per metà: come principe del suo piccolo territorio, egli
seguì la politica di consumare in esso il danaro guadagnato al di fuori
e di opprimerlo il meno possibile di gravezze. Di lui e de' suoi due
successori Guidobaldo e Francesco Maria fu scritto: «eressero edifici,
promossero l'agricoltura, vissero sempre in patria e tennero al loro
soldo buona quantità di armati: il popolo li ebbe cari».[79] Ma non
solamente lo Stato, bensì anche la corte era un organismo in ogni senso
egregiamente architettato e condotto. Federigo intratteneva cinquecento
persone: le cariche di corte vi erano complete quanto in qualsiasi
delle corti dei maggiori monarchi; ma nulla vi si sprecava, tutto
aveva uno scopo, e un severissimo sindacato vegliava su tutto. Qui
non giuochi, non corruzioni, non dissipazioni, perchè la corte doveva
essere al tempo stesso una scuola di educazione militare pei figli
di altre grandi case, ai quali il duca si teneva altamente onorato
di far impartire una soda istruzione. Il palazzo ch'egli si edificò,
non era de' più splendidi, ma spirava un'aria di pieno classicismo
per la felice sua disposizione: in esso egli raccolse il suo maggior
tesoro, la celebre biblioteca. Siccome egli si sentiva perfettamente
sicuro in un paese, dove ognuno godeva de' suoi beneficii e nessuno
elemosinava, così egli usciva sempre disarmato e quasi senza seguito;
e in ciò nessun principe avrebbe potuto certamente imitarlo, sia quando
egli s'aggirava pe' suoi giardini aperti a chiunque, sia quando sedeva
ad un banchetto molto frugale in una sala del tutto aperta, facendosi
leggere qualche passo di Livio o libri ascetici in tempo di quaresima.
Dopo il pranzo egli si recava ad udire una lezione di antichità, e di
là passava al chiostro delle Clarisse, per intrattenersi al parlatorio
coll'abbadessa di cose spirituali. La sera assisteva volentieri agli
esercizii ginnastici della gioventù della sua corte nel prato di S.
Francesco, dove si ha una così splendida prospettiva, e s'interessava
grandemente perchè nelle sorprese e nelle corse essi apprendessero a
muoversi con arte perfetta. La sua costante preoccupazione era quella
di mostrarsi facile ed accessibile a tutti: visitava gli artefici, che
lavoravano per lui, nelle officine, dava udienze e sbrigava le istanze
dei singoli possibilmente il giorno stesso che gli venivano presentate.
Nessuna maraviglia quindi che la gente, quando egli passava per le vie,
s'inginocchiasse dinanzi a lui e gli gridasse dietro: «Dio ti mantenga,
signore!» Gli eruditi poi lo chiamavano senz'altro «luce d'Italia».[80]
Suo figlio Guidobaldo, dotato di grandi qualità, ma vittima di perpetue
infermità e disgrazie, potè finalmente nel 1508 affidare il suo Stato
a mani sicure, vale a dire al nipote Francesco Maria, nipote al tempo
stesso di papa Giulio II, e questi riuscì almeno a salvare il paese da
una stabile dominazione straniera. Singolare è la sicurezza, con cui
questi principi si rassegnano e fuggono, Guidobaldo dinanzi a Cesare
Borgia, Francesco Maria dinanzi alle truppe di Leone X: essi sanno che
il loro ritorno riescirà tanto più facile e desiderato, quanto meno i
sudditi avranno sofferto da una inutile resistenza. Anche Lodovico il
Moro faceva un calcolo somigliante, ma egli dimenticava i molti altri
motivi d'odio che stavano contro di lui. — La corte di Guidobaldo, come
scuola della più elevata cultura, è stata resa immortale da Baldassare
Castiglione, il quale fece rappresentare la sua egloga, il _Tirsi_,
dinanzi a quella società quasi per renderle omaggio (1506), e più
tardi (1518) collocò i dialoghi del suo _Cortegiano_ nel circolo della
coltissima duchessa (Elisabetta Gonzaga).


La signoria degli Estensi a Ferrara, Modena e Reggio tiene in
modo affatto speciale una via di mezzo tra l'assolutismo e la
popolarità.[81] Nell'interno del palazzo accadono fatti spaventevoli:
una principessa è decapitata insieme ad un figliastro per supposto
adulterio (1425): principi legittimi ed illegittimi fuggono dalla corte
e sono minacciati anche all'estero da assassini inviati ad inseguirli,
come accadde nel 1471: oltre a ciò, continue cospirazioni dal di fuori:
il bastardo di un bastardo vuol rapire a forza la signoria al legittimo
erede (Ercole I): più tardi (1493) si vuole che quest'ultimo abbia
avvelenato la moglie per aver saputo che ella voleva avvelenar lui, e
ciò per incarico avuto dal di lei fratello Ferrante di Napoli. L'atto
finale di questa tragedia lo si ha nella congiura di due bastardi
contro i loro fratelli, il reggente duca Alfonso e il cardinale
Ippolito (1506); congiura che, scoperta a tempo, fu punita col carcere
a vita. — Anche la fiscalità si esercita in modo amplissimo in questo
Stato, e deve esercitarvisi, sia perchè esso è il più minacciato di
tutti gli altri grandi e mediocri d'Italia, sia perchè ha bisogno in
sommo grado di agguerrirsi e fortificarsi. Vero è, che colle crescenti
gravezze avrebbe dovuto crescere in egual misura il materiale benessere
del paese, ed infatti il marchese Niccolò (molato nel 1441) espresse
più volte il desiderio che i suoi sudditi potessero dirsi più ricchi
di quelli di qualunque altro Stato. Ora, se la popolazione rapidamente
aumentata può far testimonianza di un benessere veramente raggiunto,
egli è anche un fatto importante e degno di considerazione, che ancor
nel 1497 in Ferrara (comecchè straordinariamente ampliata) non si
trovavano più case da affittare.[82] Ferrara è la prima città moderna
di Europa: qui, prima che altrove, sorsero per volere dei principi
ampie e regolari contrade: qui, col concentramento degli ufficii
e coll'attirarvi l'industria, si formò una vera capitale: ricchi
esuli da tutta l'Italia, e più specialmente da Firenze, trovarono
qui allettative bastanti per fermarvi la loro dimora e costruirvi
palazzi. Tuttavia le imposizioni indirette almeno debbono avervi
raggiunto un grado di sviluppo assai elevato e appena sopportabile.
Bensì il principe ebbe anche qui la stessa cura che ebbero altri
altrove, per esempio Galeazzo Maria Sforza a Milano, di far cioè
venire grano dall'estero in casi di grandi carestie[83] e di ripartirlo
gratuitamente, a quanto sembra; ma in tempi ordinari egli si compensava
con estesi monopolii, se non di grani, certo di molti articoli di
sussistenza, quali le carni salate, i pesci, le frutta e le civaie,
le quali ultime venivano con molta cura coltivate intorno e sulle
mura di Ferrara. Tuttavia l'entrata più considerevole era pur sempre
quella che proveniva dalla vendita dei pubblici ufficii, che si faceva
annualmente, usanza che del resto era diffusa in tutta Italia, ma della
quale non abbiamo precise informazioni se non in ciò che riguarda
la città di Ferrara. In occasione del nuovo anno 1502, per esempio,
si narra espressamente, che moltissimi comperarono i loro ufficii
_a prezzi salati_, e si citano singolarmente nomi di amministratori
di diversa specie, di esattori di gabelle, di massari, di notai, di
podestà, di giudici e perfino di capitani, vale a dire degli ufficiali
superiori del duca sparsi nella provincia. Fra questi «mangia-popoli»,
come allor si chiamavano, e che realmente erano odiati dal popolo
«più che il demonio», trovasi nominato anche un Tito Strozza, che
vorremmo credere non sia stato il celebre poeta latino. — Intorno alla
medesima epoca usava ogni duca di fare un giro in persona per Ferrara,
che dicevasi _andar per ventura_, e di farsi regalare almeno dai più
abbienti. I doni non consistevano in danaro, ma ordinariamente in
prodotti naturali.

Ora l'orgoglio del duca[84] era questo che in tutta Italia si sapesse,
che in Ferrara i soldati ricevevano esattamente il loro soldo e i
professori dell'Università il loro stipendio nel giorno della scadenza,
che le truppe non potevano in nessun caso mai aggravar la mano
arbitrariamente sulle popolazioni della città e della campagna, che
Ferrara era imprendibile e che nel castello vi era un ingente tesoro in
danaro sonante. Di una separazione delle casse non si parlava nemmeno:
il ministro di finanza era al tempo stesso ministro della casa ducale.
Le costruzioni di Borso (1430 fino al 1471), di Ercole I (sino al
1505), e di Alfonso I (sino al 1534) furono assai numerose, ma per lo
più di poco rilievo:[85] e in ciò si riconosce una casa principesca,
che, in onta al suo amore per le pompe — (Borso non si mostrava mai in
pubblico se non in abbigliamenti tessuti in oro e carico di gioielli),
— non vuol però mai lasciarsi andare a veruna spesa inconsiderata.
Si direbbe anzi che Alfonso presentisse già anticipatamente la triste
sorte, a cui sarebbero soggiaciute le sue graziose, ma piccole ville,
tanto quella di Belvedere co' suoi ombrosi giardini, quanto quella di
Montana co' suoi begli affreschi e le sue fontane zampillanti.

Egli è innegabile che la stessa loro posizione perpetuamente minacciata
suscitò in questi principi una grande abilità personale: in una
esistenza cotanto artificiale non poteva moversi con buon successo
che un uomo di genio, che dovea provare col fatto di esser degno della
signoria che teneva. I caratteri di ciascuno hanno in generale dei lati
deboli assai pronunciati, ma pure in tutti vi era qualche cosa di ciò
che allora costituiva il tipo ideale di un principe, quale se l'erano
formato gl'Italiani. Qual regnante d'Europa, per esempio, può citarsi,
che in quel tempo abbia fatto di più di Alfonso I per darsi una vera
e soda cultura? Il suo viaggio in Francia, in Inghilterra e nei Paesi
Bassi fu un vero viaggio di erudito, e gli procacciò effettivamente
una conoscenza molto profonda del commercio e dell'industria di quei
paesi.[86] Ella è cosa veramente stolta il rimproverargli, come altri
fa, i lavori da tornitore, ai quali si dedicava nelle sue ore d'ozio,
quando si sa che a questi andava congiunta un'abilità veramente
magistrale nella fonderia dei cannoni e una liberalità superiore ad
ogni pregiudizio nel saper attirare intorno a sè i maestri in ogni
genere d'industria. — I principi d'Italia non si limitano, come i loro
contemporanei del nord, a trattare esclusivamente con una nobiltà, la
quale si crede l'unica classe degna di considerazione a questo mondo
e trascina anche il principe in questo errore: in Italia il regnante
può e deve conoscere ognuno, ed anche la nobiltà, sebbene ristretta in
una data cerchia pel privilegio della nascita, nei rapporti sociali ha
bisogno di un valore affatto personale e non di casta, come più innanzi
avremo occasione di dimostrare.


I sentimenti dei Ferraresi verso questa casa regnante sono il più
strano miscuglio di una tacita venerazione, di una devozione ben
calcolata e riflessa, di una fedeltà e sudditanza intese affatto nel
senso moderno: si sente che all'ammirazione personale si sostituisce
già un nuovo sentimento, quello del dovere. La città di Ferrara eresse
nel 1451 al principe Niccolò (morto nel 1441) una statua equestre in
bronzo sulla pubblica piazza: Borso non esitò punto (1454) a collocare
vicino ad essa la propria, pure in bronzo, ma seduta, ed oltre a
ciò la città gli decretò, ancor nei primordi del suo reggimento, una
«colonna trionfale di marmo». Un ferrarese, che all'estero (in Venezia)
avea sparlato pubblicamente di Borso, al suo ritorno, denunciato, fu
punito dal tribunale col bando e colla confisca dei beni, e poco mancò
che un cittadino zelante sino al fanatismo non lo uccidesse dinanzi
ai giudici: egli dovette però colla corda al collo venire dinanzi al
duca e implorarne il perdono. In generale questo principato è molto
ben provveduto di spie, e il duca stesso esamina dì per dì la lista
dei forestieri, che gli albergatori sono rigorosamente tenuti di
presentare. Di Borso si pretende che egli la esigesse innanzi tutto
per viste di ospitale liberalità,[87] non volendo lasciar partire
da Ferrara nessun ragguardevole forestiero, senza avergli reso
onoranza: ma è certo che Ercole I invece riguardava la cosa come una
semplice misura di sicurezza.[88] Anche in Bologna, sotto Giovanni
II Bentivoglio, ogni forestiero che passasse di là, doveva, entrando
in città, farsi rilasciare una cedola per poter poi uscirne.[89] —
Grandissima popolarità si procaccia il principe quando improvvisamente
priva d'ogni potere i pubblici funzionarii che ne abusano, quando,
come fece Borso, arresta di propria mano anche i suoi più intimi
consiglieri, quando destituisce vituperosamente, come fece Ercole I,
un esattore, che per lunghi anni avea succhiato il sangue del popolo:
egli è appunto allora che, in segno d'allegrezza, s'accendono fuochi
e si suonano le campane. Ma con uno di costoro Ercole lasciò andar
le cose troppo oltre, vogliamo dire col direttore di polizia o, come
allora lo si chiamava, col _capitaneo di giustizia_, Gregorio Zampante
di Lucca (perchè per ufficii di questo genere non sembrava adatto
nessuno, che fosse nativo del luogo). Dinanzi a costui tremavano
perfino i figli e i fratelli del duca: le ammende ch'egli infliggeva,
ammontavano sempre a centinaia e a migliaia di ducati, e la tortura
cominciava prima ancora del processo. Al tempo stesso però egli era
tutt'altro che inaccessibile alla corruzione, e con menzogna sapeva
procurare ai più grandi malfattori l'impunità e la grazia del duca.
Non è a dire quanto caro i sudditi avrebbero pagato l'allontanamento di
questo «nemico di Dio e degli uomini!». Ma Ercole invece l'aveva fatto
suo compare e cavaliere, e il Zampante poneva in serbo ogni anno non
meno di 2000 ducati, benchè in mezzo a questo egli continuasse a non
cibarsi d'altro che di piccioni allevati in casa, nè si arrischiasse
di uscire, se non accompagnato da un drappello di arcieri e di sgherri.
Sarebbe invero stato tempo di sbarazzarsene; e poichè non lo faceva il
duca, se ne incaricarono due studenti ed un ebreo battezzato, ch'egli
aveva mortalmente offeso, e questi lo scannarono nella stessa sua
abitazione (1496), mentre faceva la siesta, indi su cavalli tenuti
pronti percorsero tutta la città, gridando: «fuori fuori, abbiamo
ucciso il Zampante!» La truppa spedita ad inseguirli non giunse che
troppo tardi, quando essi erano già pervenuti in luogo sicuro oltre al
confine. Naturalmente piovvero d'ogni parte gli scherzi e le satire,
le une sotto forma di sonetti, le altre sotto quella di canzoni.
Ma, prescindendo da questi casi speciali, egli è affatto conforme
all'indole di questo principato, che il sovrano detti altresì a tutta
la sua corte e alla popolazione le attestazioni di stima, ch'egli vuole
accordate a coloro che lo servono utilmente. Allorchè nel 1469 morì
il consigliere intimo di Borso, Lodovico Casella, nessun ufficio e
nessuna bottega nella città, come anche nessuna scuola nell'Università,
rimase aperta nel giorno che lo si portò a seppellire, e ognuno dovette
accompagnarne la salma a S. Domenico, perchè si sapeva che vi sarebbe
andato anche il duca. Ed infatti egli — primo di casa d'Este, che
abbia seguito il cadavere di un suo suddito — se ne veniva piangendo
e vestito a bruno subito dopo la bara, e dietro di lui seguivano
immediatamente, accompagnati ciascuno con uno dei grandi della corte,
due congiunti del trapassato: e, finita la ceremonia religiosa,
alcuni nobili portarono il corpo del borghese fuori della chiesa nella
crociera del sagrato, dove fu sepolto. In generale la partecipazione
ufficiale alle gioie e ai dolori dei principi è usanza, che ha avuto il
suo principio appunto in questi Stati italiani.[90] Il fondo di questa
usanza può avere il suo lato bello in uno squisito senso di umanità,
ma la manifestazione di esso, specialmente nei poeti, è di regola
molto ambigua. Una delle poesie giovanili di Ariosto,[91] scritta per
la morte di Leonora d'Aragona, moglie di Ercole I, contiene, oltre
gli inevitabili fiori mortuari che si spargono a piene mani in tutti
i tempi, anche alcuni tratti che arieggiano lo stile moderno: «questa
morte ha percosso Ferrara di tal colpo, che essa ne serberà la memoria
per lunghi anni: la benefattrice è divenuta avvocata nel Cielo, perchè
la terra non era più degna di possederla: l'angelo della morte non
le si avvicinò colla falce insanguinata, come agli altri mortali,
ma con aria onesta e in aspetto così benigno, che ella stessa non
temette». Ma noi c'incontriamo altresì in altra e ben diversa comunanza
di sentimenti, noi troviam novellieri, ai quali nulla doveva star
tanto a cuore, quanto il favore delle case ove frequentavano (perchè
di questo favore vivevano), che ci narrano le avventure galanti di
principi ancora viventi[92] in guisa tale, che nei secoli posteriori
avrebbe sembrato toccare il colmo dell'indiscrezione, e allora pareva
un tratto ingenuo di schietta cortigianeria. Anche i poeti lirici
cantavano le facili passioni dei loro eccelsi protettori talvolta anche
legittimamente ammogliati: Angelo Poliziano, fra gli altri, quelle
di Lorenzo il Magnifico, e con tuono ancor più accentato Gioviano
Pontano quelle di Alfonso di Calabria. Le poesie in tale riguardo
scritte da quest'ultimo[93] rivelano, senza volerlo, l'animo abbietto
dell'Aragonese, il quale anche nel campo amoroso vuol essere sempre il
più fortunato, e guai a chi lo fosse più di lui! — S'intende poi da
sè che i più grandi pittori, tra i quali lo stesso Leonardo, trovano
naturalissimo di dover dipingere le belle dei loro padroni.


Ma i principi estensi non aspettarono la loro apoteosi dagli altri, e
se la regalarono invece da sè medesimi. Borso si fece ritrarre nel suo
palazzo di Schifanoia in una serie di quadri, che lo rappresentavano
in diversi momenti del suo governo, ed Ercole festeggiò (la prima
volta nel 1472) il giorno anniversario del suo avvenimento al trono
con una processione, che non pare fosse in nulla inferiore a quella del
_Corpusdomini_: tutte le botteghe erano chiuse come in giorno festivo:
tutti i membri della casa, anche gli illegittimi, marciavano nel centro
in ricchissimi abbigliamenti ricamati in oro. — Che ogni potere e
dignità partisse dal principe e dovesse riguardarsi come una prova di
particolare distinzione da parte sua, era cosa ormai universalmente
ammessa a questa corte sino da quando vi era stato creato l'ordine
dello _Sprone d'oro_, che non aveva nulla che fare colla Cavalleria
del Medio-Evo.[94] Ercole I, oltre allo sprone, dava anche una spada,
un mantello ricamato in oro ed una dotazione, per la quale senza
dubbio si esigeva una servitù regolare. La protezione accordata alle
lettere e alle arti, per la quale questa corte acquistò rinomanza
mondiale, si estendeva in parte all'Università, che era una delle più
complete d'Italia, ma presupponeva in parte anche un servizio a corte
e nello Stato, nè costò mai grandi sacrificii. Il Bojardo, quale ricco
gentiluomo di provincia e pubblico funzionario, entrava senza dubbio
in quest'ultima categoria: quando l'Ariosto cominciò ad essere qualche
cosa, non vi erano omai più, almeno nel loro vero significato, nè la
corte di Milano, nè quella di Firenze, e ben presto neanche quella di
Urbino, per tacere di quella di Napoli, ed egli dovette accontentarsi
di una posizione che lo metteva a fascio coi musicanti e coi buffoni
del cardinale Ippolito, sino a che Alfonso lo assunse al proprio
servizio. Diversamente andarono più tardi le cose con Torquato Tasso,
del cui possesso la corte si mostrò veramente gelosa.



CAPITOLO VI.

Gli avversari della tirannide.

    Gli ultimi Guelfi e Ghibellini. — I cospiratori. — Gli
    assassini nelle Chiese. — Influenza del tirannicidio antico. —
    I Catilinari. — Opinioni dei Fiorentini sul tirannicidio. — Il
    popolo ne' suoi rapporti coi cospiratori.


Di fronte a questa concentrata potenza principesca ogni opposizione
dentro i limiti dello Stato era impossibile. Gli elementi necessari
alla esistenza di una repubblica erano sciupati per sempre, tutto
tendeva al potere assoluto e all'uso della violenza. La nobiltà, priva
di diritti politici, anche dove aveva possessi feudali, poteva bensì
continuare a ripartir sè e i suoi bravi in guelfi e ghibellini e ad
assumere o far assumere i relativi emblemi, facendo portare in questo o
in quel modo la piuma al berretto e i guancialini ai calzoni;[95] — ma
tutti gli uomini più illuminati, quale ad esempio il Machiavelli,[96]
erano pienamente convinti che tanto a Milano, come a Napoli vi era
omai «troppa corruzione», per potervi rifare una repubblica. Abbastanza
strani sono i giudizi che s'incontrano su questi due pretesi partiti,
nei quali da lungo tempo omai non sopravvivevano che vecchie inimicizie
di famiglia tenute vive all'ombra della tirannide. Un principe
italiano, al quale Agrippa di Nettesheim[97] consigliava di disfarsene,
rispondeva ingenuamente: «le loro questioni mi rendono ogni anno sino a
12000 ducati in altrettante multe!» — E quando, per esempio, nell'anno
1500, durante il breve ritorno di Lodovico il Moro ne' suoi Stati,
i guelfi di Tortona chiamarono nella loro città una parte del vicino
esercito francese, affinchè gli aiutasse a schiacciare completamente
i ghibellini, i francesi non mancarono innanzi tutto di dare il sacco
alle case di questi ultimi, ma non risparmiarono poscia nemmeno quelle
dei guelfi, per modo che la città tutta ne rimase completamente
devastata.[98] — Anche in Romagna, dove le passioni e le vendette
duravano eterne, ambedue quei nomi aveano da lungo perduto ogni
significato politico. E non meno fatale al popolo fu il pregiudizio,
pel quale i guelfi qua e colà si tenevano come obbligati a nutrir
simpatie per la Francia e i ghibellini a parteggiar per la Spagna,
benchè quelli stessi, che cercarono trar partito da quell'errore, non
ne abbiano raccolto in ultimo vantaggio veruno. La Francia infatti,
dopo tanti interventi, finì pur sempre col dover sgombrare d'Italia, ed
ognuno può toccare con mano che cosa sia diventata la Spagna, dopo aver
soffocato l'Italia.


Ma torniamo ai principi del Rinascimento. Un'anima pia e timorata
avrebbe fors'anche allora concluso che, ogni potenza essendo da Dio,
anche questi principi, purchè sostenuti con sincerità e buon volere,
col tempo avrebbero dovuto divenire migliori e dimenticar la violenta
loro origine. Ma da fantasie riscaldate, da uomini appassionati
ed ardenti come richieder tanto? Essi, al pari dei cattivi medici,
stimavano guarita la malattia quando fossero giunti ad eliminarne i
sintomi, e credevano che, uccisi i tiranni, la libertà sarebbe risorta
da sè medesima. E se anche talvolta non spingevano tanto innanzi i
loro pensieri, miravano ad ogni modo o a dare libero sfogo all'odio
generale, o ad esercitare vendette private cagionate da rancori ed
offese puramente personali.

Come la tirannide era incondizionata e sciolta da ogni freno legale,
incondizionati erano pure i mezzi usati dai suoi avversari. Sin dal
suo tempo il Boccaccio lo dice espressamente:[99] «debbo io chiamar
re o principe un usurpatore e serbargli fede come a mio signore? No!
perchè egli è nemico della cosa pubblica. Contro di lui sono bene usate
le armi, le congiure, le spie, le insidie, le astuzie: sono anzi opera
santa e necessaria. Non vi è sacrificio più accetto che il sangue di
un tiranno!» Noi non possiamo addurre qui nessun fatto particolare:
il Machiavelli, in un notissimo capitolo de' suoi _Discorsi_,[100]
ha già trattato delle congiure antiche e moderne, cominciando
dall'epoca remota dei tiranni della Grecia, e le ha giudicate colla
sua solita imparzialità secondo i diversi loro fini e il loro esito. Ci
accontenteremo dunque di due sole osservazioni, l'una sugli assassinii
eseguiti nelle chiese durante il servizio religioso, e l'altra
sull'influenza esercitata dagli esempi antichi.


Egli era quasi impossibile il cogliere alla sprovvista il tiranno,
sempre guardato a vista, altrove, fuorchè nelle chiese, e in queste
soltanto poi potevasi sperare di sorprendere un'intera famiglia
principesca riunita. Così quei di Fabriano[101] spensero nel 1435 la
famiglia dei Chiavelli loro tiranni durante un servizio religioso e
precisamente, secondo gli accordi presi, alle parole del Credo: _et
incarnatus est_. A Milano il duca Giovanni Maria Visconti (1412) fu
ucciso mentre entrava nella chiesa di S. Gottardo, e nel 1476 il duca
Galeazzo Maria Sforza fu pugnalato nella chiesa di S. Stefano; Lodovico
il Moro poi sfuggì una volta al pugnale dei partigiani della duchessa
Bona rimasta vedova (1484) soltanto pel fatto, che entrò nella chiesa
di S. Ambrogio per una porta diversa da quella, dove era aspettato.
Nè pare che si credesse di commettere con simili assassinj veruna
speciale empietà, poichè si sa che gli uccisori di Galeazzo non aveano
mancato, prima del fatto, d'inginocchiarsi a pregare il santo titolare
della chiesa e di ascoltarvi la prima messa. Tuttavia nella congiura
de' Pazzi contro Lorenzo e Giuliano de' Medici (1478) una delle cause,
per cui l'impresa non riuscì che in parte, fu appunto questa, che il
bandito Montesecco, impegnatosi dapprima in un convito di eseguire
l'assassinio, vi si era poi rifiutato nel Duomo di Firenze, e in
luogo di lui vi si indussero poi alcuni ecclesiastici, «che erano più
famigliari con quel sacro luogo e non ebbero quindi alcuna paura».[102]


Quanto all'antichità, la cui influenza sulle questioni morali e
più particolarmente sulle politiche avremo occasione di rilevare
frequentemente anche in seguito, i primi a dare l'esempio furono i
tiranni stessi, che non di rado, tanto nel concetto che s'erano formati
dello Stato, quanto nel loro modo di procedere, mostravano di non voler
espressamente seguire altro modello, fuorchè l'antico impero romano. Ed
altrettanto fecero alla loro volta i loro avversari studiandosi, sin
da quando con fredda riflessione preparavansi all'impresa, d'imitare
gli antichi nemici della tirannide. Non sarebbe facile il dimostrare
che essi nell'idea principale, vale a dire nel risolversi al fatto,
abbiano ricevuto il maggiore impulso da questi esempi, ma non è
neanche vero per questo che le allusioni continue all'antichità fossero
semplici frasi o mera faccenda di stile. Una prova notevolissima ne
abbiamo negli uccisori di Galeazzo Sforza, il Lampugnani, l'Olgiati e
il Visconti.[103] Tutti e tre avevano motivi affatto personali d'odio
contro di lui, e tuttavia la risoluzione di ucciderlo parve essere
derivata da una causa d'ordine più elevato. Un umanista e maestro di
eloquenza, Cola de' Montani, aveva infuso in un drappello di giovani
appartenenti alla nobiltà milanese un vago desiderio di gloria e
d'imprese magnanime in pro della patria, e s'era finalmente aperto
col Lampugnani e l'Olgiati intorno all'idea di restituire la libertà a
Milano. Non andò molto ch'egli cadde in sospetto, ed essendo espulso,
dovette abbandonare quei giovani in preda al loro ardente entusiasmo.
Circa dieci giorni prima del fatto convennero essi nel monastero di S.
Ambrogio e giurarono solennemente di compierlo: «poi, dice l'Olgiati,
ridottomi in un angolo remoto dinanzi all'immagine di S. Ambrogio,
levai gli occhi ad esso ed invocai il suo aiuto per noi e per tutto il
suo popolo». Il celeste patrono della città doveva dunque proteggere
l'impresa, appunto come più tardi S. Stefano, nella cui chiesa essa
ebbe il suo compimento. Dopo ciò, molti altri furono iniziati nella
congiura e tennero notturni convegni nella casa del Lampugnani, dove
si esercitavano nel ferire, adoperando le guaine dei pugnali. Il fatto
riuscì, ma il Lampugnani fu immediatamente ucciso dai seguaci del
duca e gli altri due furono presi. Il Visconti mostrò pentimento, ma
l'Olgiati, in onta a tutte le torture, sostenne che quell'uccisione
era stata gradita a Dio e diceva a sè stesso, anche quando il carnefice
gli ruppe il petto: «coraggio, Girolamo! si penserà lungamente a te: la
morte è amara, ma la gloria sarà eterna!»

E tuttavia, per quanto elevati possano apparire gli intendimenti e i
propositi di costoro, dal modo stesso con cui la congiura fu condotta
trapela evidente un tentativo d'imitazione del più scellerato di
tutti i cospiratori, di colui che non pensò mai neanche alla libertà,
vogliamo dire di Catilina. I _Diarii sanesi_ dicono espressamente,
che i congiurati avevano studiato Sallustio, e ciò appare anche
indirettamente dalla confessione stessa dell'Olgiati.[104] Quel
terribile nome noi lo incontreremo anche altrove, ed è pur troppo vero,
che per congiure volgari, e se si prescinda dallo scopo, non v'era un
tipo più seducente di questo.


Presso i fiorentini, tutte le volte che essi effettivamente si
sbarazzarono o almeno tentarono sbarazzarsi de' Medici, il tirannicidio
era accolto come un'idea accetta universalmente. Dopo la fuga dei
Medici nell'anno 1494 fu tratto fuori dal loro palazzo il gruppo
in bronzo rappresentante Giuditta e il morto Oloferne, opera del
Donatello,[105] e fu posto dinanzi al palazzo della Signoria, dove
ora sta il Davide di Michelangelo, con questa iscrizione: _exemplum
salutis pubblicae cives_ posuere 1495. Ma più specialmente ora si usò
di tirare in campo l'esempio di Bruto il minore, che Dante al suo
tempo avea continuato a relegare con Cassio e Giuda Iscarioto[106]
nel più profondo abisso dell'inferno, qual traditore dell'impero.
Pietro Paolo Boscoli, la cui congiura contro Giuliano, Giovanni e
Giulio de' Medici ebbe un esito così infelice (1513), era stato egli
pure ardente entusiasta di Bruto e si sarebbe proposto di imitarlo,
se avesse trovato un Cassio; e come tale si era poi unito a lui
Agostino Capponi. I suoi ultimi discorsi tenuti nel carcere,[107]
documento importantissimo per rilevare le credenze religiose d'allora,
fanno fede dello sforzo ch'egli dovette esercitare sopra sè stesso,
per liberarsi da quelle fantasie e reminiscenze romane e morire
cristianamente. Un amico e il confessore dovettero assicurarlo che S.
Tommaso d'Aquino condanna le cospirazioni in generale, ma il confessore
più tardi confessò a quello stesso amico, che S. Tommaso fa invece
una distinzione e permette la congiura contro un tiranno, il quale si
sia imposto al popolo suo malgrado. Allorquando Lorenzino de' Medici
uccise nel 1537 il duca Alessandro e fuggì, comparve una apologia del
fatto,[108] probabilmente autentica, o per lo meno scritta per suo
incarico, nella quale egli si vanta dell'uccisione del tiranno come
di opera sommamente meritoria, paragonandosi, nel caso che Alessandro
fosse stato un Medici legittimo e quindi, benchè da lontano, suo
congiunto, con Timoleone, il fratricida per patriottismo. Altri
usarono anche in questo caso il paragone con Bruto, e sembrerebbe che
Michelangelo stesso non sia stato del tutto alieno da questa idea,
almeno se si vuol giudicare dal suo busto di Bruto esistente negli
Uffizi. Egli lo lasciò incompiuto, come quasi tutte le sue opere, ma
non certamente perchè l'uccisione di Cesare gli pesasse troppo sul
cuore, come dice il distico scrittovi sotto.

Un radicalismo che muova dal popolo, quale si è venuto formando nei
tempi moderni di fronte alla monarchia, indarno si cercherebbe negli
Stati principeschi dell'epoca del Rinascimento. Bensì ognuno protestava
isolatamente nel suo interno contro il principato, ma cercava al tempo
medesimo di farsi una posizione tollerabile o comoda sotto lo stesso,
anzichè di assalirlo con forze riunite. Ci volevano eccessi quali
si videro a Camerino, a Fabriano ed a Rimini (pag. 44), perchè una
popolazione si decidesse a distruggere o a cacciare una casa regnante.
Inoltre si sapeva anche troppo bene, che non si avrebbe fatto altro,
fuorchè mutar padrone. La stella delle repubbliche era decisamente nel
suo tramonto.



CAPITOLO VII.

Le Repubbliche.

    Venezia nel secolo XV. — Gli abitanti. — Lo Stato e i suoi
    pericoli cagionati dalla povertà dell'aristocrazia. — Cause
    della sua stabilità. — Il Consiglio dei Dieci e i processi
    politici. — Rapporti verso i Condottieri. — Ottimismo della
    politica estera. — Venezia quale patria della Statistica. —
    Lento sviluppo della cultura. — Ascetismo ufficiale prolungato.


Altra volta le città italiane aveano spiegato in sommo grado quella
energia, che vale a tramutare una città in uno Stato. Non sarebbe
occorso che un passo ulteriore, vale a dire che queste città si
fossero strette tra loro in una grande confederazione, concetto, che
in Italia si vede ripullular di frequente, per quanto anche, rispetto
ai particolari, appaia rivestito ora di una forma, ora di un'altra.
Nelle lotte dei secoli XII e XIII formaronsi infatti grandi e potenti
federazioni di città, e il Sismondi crede (II, 174), che il tempo
degli ultimi armamenti della lega lombarda contro il Barbarossa (dal
1168 in poi) sarebbe stato il vero momento, in cui si sarebbe resa
possibile una federazione italiana universale. Ma le più potenti fra le
città aveano già palesato troppa fierezza e originalità di carattere,
perchè la cosa potesse effettuarsi: facendosi reciproca concorrenza
nel commercio, esse si permettevano mezzi violenti ed estremi l'una
contro dell'altra, e tenevano le vicine città minori in una ingiusta
dipendenza; il che vuol dire, che da ultimo esse credevano di poter
fare ciascuna da sè, senza aver bisogno delle altre, preparando per tal
modo il terreno a qualunque altra violenza od usurpazione. Questa non
tardò a sopraggiungere, allorquando le lotte intestine dei nobili fra
di loro, e della borghesia colla nobiltà, fecero nascere il desiderio
di un governo forte e sicuro, e le truppe assoldate già si mostravano
pronte a sostener per danaro qualsiasi causa, dopochè i precedenti
governi di parte s'erano da lungo tempo abituati a veder ineseguito il
bando generale di guerra da loro intimato.[109] La tirannide inghiottì
la libertà della maggior parte delle città; qua e colà si cercò di
sbarazzarsene, ma solo a mezzo, e per breve tempo; essa tornò sempre,
perchè le condizioni interne le erano favorevoli, e le forze che
contro-operavano, si trovavano già esauste.

Fra le città che seppero conservare la loro indipendenza, due sono
della massima importanza per la storia dell'umanità: Firenze, la città
dei continui rimutamenti, che ci trasmise le manifestazioni di tutti
i disegni e le aspirazioni della cittadinanza e degl'individui, che
per tre secoli presero parte a quei mutamenti: Venezia, la città della
calma apparente e del silenzio politico. Esse formano fra di loro la
più forte antitesi, che si possa immaginare, ed ambedue alla loro volta
sono tali, da non poter essere paragonate con verun'altro Stato del
mondo.


Venezia si riconobbe essa stessa come una creazione affatto eccezionale
e misteriosa, nella quale da tempo remotissimo si sentiva l'azione
di qualche altra cosa, che non era l'ingegno umano. Intorno alla
solenne fondazione della città correva una leggenda evidentemente
mitica: nel dì 25 di marzo dell'anno 413 a mezzogiorno i profughi di
Padova gettarono la prima pietra a Rialto, per farne un asilo sacro
e inaccessibile in mezzo all'Italia corsa e lacerata dai Barbari.
Scrittori venuti più tardi attribuirono ai primi fondatori il
presentimento di tutta la grandezza futura della città: Marco Antonio
Sabellico, che cantò l'avvenimento in splendidi e facili esametri,
mette in bocca al sacerdote che fa la consacrazione, questa preghiera
a Dio: «se un giorno tenteremo qualche cosa di grande, accordaci il
tuo favore! Ora noi ci inginocchiamo dinanzi ad un povero altare, ma
se i nostri voti non andranno inesauditi, qui sorgeranno a te, o Dio,
centinaia di templi ricchi di marmo e d'oro».[110] — La città delle
isole, sul finire del secolo XV, riguardavasi ormai come il gioiello
più prezioso del mondo d'allora. Lo stesso Sabellico la descrive come
tale[111] colle sue cupole antichissime, colle sue torri acuminate,
co' suoi palagi intonacati di marmo, e colla sua pomposa grettezza
altresì, per la quale sotto tetti dorati si dava a pigione ogni più
piccolo angolo della casa. Egli ci trasporta sull'affollatissima piazza
di S. Giacometto a Rialto, dove un mondo di affari si tratta non tra
grida e schiamazzi, ma appena tra un sommesso e svariato bisbiglio,
dove siedono, lunghesso i portici che la fiancheggiano e sotto quelli
delle vie adiacenti,[112] banchieri ed orefici a centinaja, dove le
botteghe e i magazzini sono in numero strabocchevole: oltrepassando
poi il ponte, egli ci conduce al gran fondaco dei tedeschi, sotto
il cui porticato stanno le loro merci e le abitazioni, e dinanzi al
quale i vascelli si addossano gli uni agli altri nel canale: indi
più innanzi ci mostra un'intera flotta carica di vini e di olio,
e parallelle ad essa sulla riva, dove formicolano i portatori, le
officine dei mercanti; e per ultimo da Rialto sino alla piazza di S.
Marco i gabinetti de' profumieri e le trattorie. Per tal maniera egli
guida il lettore di quartiere in quartiere sin fuori ai due lazzaretti,
stabilimenti non solo utili, ma necessari, e in nessun altro luogo
portati ad un sì alto grado di sviluppo, come qui. Una cura attenta
e sollecita pel benessere personale dei sudditi era il distintivo
del governo di Venezia non solo in pace, ma anche in guerra, dove
l'assistenza che si prestava ai feriti, anche nemici, era oggetto di
ammirazione per tutti.[113] In generale non v'era stabilimento di
pubblica beneficenza, che non esistesse a Venezia e sotto la forma
la più perfetta: anche il fondo delle pensioni vi era ordinato con
regolarità sistematica, perfino in ciò che riguardava i superstiti.
La ricchezza, la sicurezza politica, la pratica del mondo avevano per
tempo vôlto il pensiero de' veneziani a queste cose. Quei cittadini
svelti, biondi, dal passo leggero e circospetto e dal discorso
sensato,[114] non differivano quasi fra loro sia nelle fogge del
vestire, sia nel contegno che tenevano in pubblico: di ornamenti (fra
i quali primeggiavano le perle) non si curavano, se non per fregiarne
il collo delle loro donne o fanciulle. In allora la prosperità generale
era veramente grande, in onta ad alcune gravi perdite cagionate dai
Turchi; ma l'energia di tutti e il pregiudizio generale d'Europa
bastarono anche più tardi a far sopravvivere Venezia anche ai colpi più
aspri della fortuna, quali la scoperta del Capo, la rovina del dominio
dei Mammelucchi in Egitto e la guerra mossale dalla Lega di Cambray.


Il Sabellico, che era oriundo dei dintorni di Tivoli e abituato alla
franca loquacità dei filologi d'allora, nota in un altro luogo[115] con
qualche maraviglia, che i giovani nobili, i quali andavano ad udire
le sue lezioni del mattino, non volevano a nessun patto entrare con
lui in discorsi politici: «Se io chieggo loro che cosa si pensi, si
dica e s'aspetti da questo o quel moto in Italia, tutti mi rispondono
ad una voce di non saper nulla». Ciò non ostante, e in onta alla più
severa inquisizione di Stato, più d'una cosa potè risapersi per opera
di alcuni nobili corrotti, ma bisognò pagarla a ben caro prezzo.
Nell'ultimo quarto del secolo XV s'incontrano dei traditori perfino
tra i funzionari, che coprono le più alte dignità dello Stato;[116] i
papi, i potentati italiani e perfino alcuni condottieri in condizioni
affatto mediocri e stipendiati dalla Repubblica, vi mantenevano al
loro soldo speciali spioni; anzi le cose erano andate tanto oltre, che
il Consiglio dei Dieci trovò opportuno di non comunicare al Consiglio
dei Pregadi alcune importanti notizie politiche, e si accreditò
universalmente l'opinione, che Lodovico il Moro in questo stesso
Consiglio disponesse a suo talento di un certo numero di voti. Noi non
siamo in grado di dir quanto abbiano contribuito a frenare quegli abusi
le notturne esecuzioni di taluni colpevoli e l'alto premio concesso a
chi li denunciasse (fino a sessanta ducati di pensione vitalizia); ma
certo è che una delle cause principali, la povertà di molti nobili,
non poteva esser tolta d'un tratto. Nell'anno 1492 due patrizi misero
innanzi una proposta, che lo Stato dovesse sborsare annualmente 70,000
ducati a sollievo di quei nobili poveri, che non avessero alcun
pubblico ufficio; la cosa era sul punto di essere portata dinanzi
al gran Consiglio, dove non sarebbe stato difficile farle ottenere
una maggioranza, — quando il Consiglio dei Dieci fu ancora in tempo
di intervenire, e mandò ambedue i proponenti a confine per tutta la
loro vita a Nicosia e a Cipro.[117] Intorno a questo stesso tempo un
Soranzo fu fuori di Stato appeso alle forche come ladro sacrilego, ed
un Contarini posto in catene per furto violento: un altro della stessa
famiglia si presentò nel 1499 dinanzi alla Signoria, lamentando di
essere da molti anni senza impiego alcuno, di aver soli sedici ducati
di rendita e nove figli da mantenere, di trovarsi per di più impegnato
in debiti per sessanta ducati, di non essere in grado di esercitare
verun mestiere e di essere stato ultimamente gettato sulla pubblica
via. In presenza di tali fatti si comprende come alcuni nobili ricchi
imprendono a edificar case, per collocarvi ad abitare gratuitamente i
poveri; ed infatti tale opera figura in parecchi testamenti annoverata
tra le opere di carità.[118]


Ma se i nemici di Venezia su mali di questa specie fondavano per
avventura serie speranze, s'ingannavano grandemente. A prima vista si
potrebbe credere che lo slancio stesso del commercio, che anche al più
povero garantiva un ricco e sicuro guadagno sul proprio lavoro, nonchè
le colonie sparse nella parte orientale del Mediterraneo, dovessero
aver distrutto tutti gli elementi pericolosi nel campo politico. Ma
Genova non ha forse avuto, ad onta di simili vantaggi, una storia
politica delle più tempestose? Il fondamento della stabilità di Venezia
sta piuttosto in un concorso di circostanze, che non si verificarono
mai in nessun altro Stato. Inespugnabile come città, essa non si era
da tempo remotissimo occupata de' suoi rapporti con gli Stati esteri
se non dietro a' calcoli della più fredda riflessione, ignorando
quasi i parteggiamenti del resto d'Italia, e non concludendo le sue
alleanze se non per iscopi al tutto passeggeri ed al maggior prezzo
possibile. Il fondo adunque del carattere veneziano era quello di un
superbo e dispettoso isolamento, e conseguentemente di una più compatta
solidarietà all'interno, e a ciò fu spinto anche dal rancore di tutti
gli altri Stati d'Italia. Di più, nella città stessa tutti gli abitanti
eran tenuti uniti da fortissimi interessi comuni di fronte alle colonie
ed ai possessi di terra-ferma, mentre la popolazione di quest'ultima
(vale a dire delle città soggette sino a Bergamo) non poteva esercitare
atti commerciali altrove, fuorchè a Venezia. Un vantaggio fondato su
mezzi cotanto artificiali non poteva essere mantenuto che mediante una
grande tranquillità e concordia interna; — questo lo sentiva certamente
la grande maggioranza, e quindi il terreno quivi era assai disadatto
per qualsiasi cospirazione. Che se pure vi erano taluni malcontenti,
costoro furono tenuti talmente divisi tra loro per la separazione
esistente tra la borghesia e la nobiltà, che ogni ravvicinamento
diventava quasi impossibile. Ed anche nel seno della nobiltà a quelli,
che per avventura fossero pericolosi, vale a dire ai ricchi, mancava
affatto l'occasione principale di qualsiasi congiura, l'ozio, e ciò
per la moltiplicità stessa dei loro affari commerciali, pei viaggi e
per la parte continua che doveano prendere alle guerre coi Turchi, i
quali incessantemente tornavano a farsi vedere. Vero è che i comandanti
in queste li risparmiavano a tutto potere, e talvolta in modo
ingiustificabile, il che fece predire ad un Catone veneziano la caduta
della Repubblica, se avesse durato a spese della giustizia quella
stolta paura dei nobili «di farsi del male l'un l'altro».[119] Tuttavia
questo libero moto all'aria aperta diede alla nobiltà veneziana,
presa nel suo complesso, un sano indirizzo. E se talvolta l'invidia
e l'ambizione pretesero ad ogni costo una qualche soddisfazione, non
mancavano mai le vittime ufficiali condannate dall'autorità e con mezzi
legali. La lunga tortura morale, alla quale fu sottoposto sotto gli
occhi di tutta Venezia il doge Francesco Foscari (morto nel 1457), è
forse il più terribile esempio di una tale vendetta, possibile soltanto
dove prevalgono le aristocrazie. Il Consiglio dei Dieci, che aveva una
mano in tutto e possedeva un illimitato diritto di vita e di morte,
nonchè una sorveglianza sulle cose pubbliche e sul comando dell'armata,
che comprendeva nel suo seno gl'Inquisitori e che rovesciò il Foscari
come tanti altri potenti, veniva ogni anno rieletto dall'intera casta
dominante, dal gran Consiglio, ed era per ciò stesso l'organo più
immediato della stessa. Non pare che grandi intrighi avessero luogo in
queste elezioni, perchè la breve durata e la posteriore responsabilità
dell'ufficio non lo rendevano molto desiderato. Ma dinanzi a questa
e ad altre autorità indigene, per quanto il loro modo di agire fosse
tenebroso e violento, il vero veneziano non cercava già di nascondersi,
ma bensì di mettersi in vista, non solamente perchè la Repubblica
aveva le braccia lunghe e poteva, invece che su lui, vendicarsi sulla
sua famiglia, ma perchè, nella maggior parte dei casi almeno, si
procedeva secondo la norma di certi principii, piuttosto che per sete
di sangue.[120] In generale nessuno Stato ha avuto più di questo una
grandissima autorità morale sui propri sudditi, anche lontani. E se,
per esempio, fra i Pregadi stessi poteva dirsi esservi dei traditori,
non è meno vero da un altro lato che ogni veneziano, che si trovasse
all'estero, si credeva obbligato a farsi referendario o spia del
proprio governo. Dei cardinali veneziani domiciliati a Roma s'intendeva
da sè, che riferivano tutto ciò che si trattava nei concistori segreti
del Papa. Il cardinale Domenico Grimani fece rapire non lungi da Roma
(1500) i dispacci, che Ascanio Sforza inviava a suo fratello Lodovico
il Moro, e li spedì tosto a Venezia: suo padre, che allora si trovava
sotto il peso di una grave accusa, fece valere pubblicamente questo
servizio del figlio dinanzi al gran Consiglio, che era come dire,
dinanzi a tutto il mondo.[121]


Come Venezia si conducesse co' suoi condottieri, è stato già accennato
di sopra (pag. 30). Che se essa avesse cercato una più solida garanzia
della loro fedeltà, avrebbe potuto per avventura trovarla nel gran
numero che ne contava, pel quale, come si rendeva più difficile il
tradimento, ne diventava anche più facile la scoperta. Dando uno
sguardo ai quadri dell'armata veneziana, sorge spontanea la domanda:
come fosse possibile una azione comune con truppe messe insieme da
elementi così disparati? In quello della guerra del 1495 figurano
non meno di 15 mila cavalli, ma in tante piccole squadre:[122] il
Gonzaga di Mantova n'aveva egli solo milleducento, e Gioseffo Borgia
settecentoquaranta: a questi tenevano dietro sei condottieri con un
contingente di sei a settecento, dieci con quattrocento, dodici con
una forza di due a quattrocento, quattordici con cento in duecento,
nove con ottanta, sei con cinquanta in sessanta ecc. Sono in parte
vecchi corpi di truppe veneziane, in parte veterani condotti da nobili
veneziani di città o di campagna, ma il maggior numero dei duci si
compone di principi italiani o capitani di città o dei loro congiunti.
A questi sono da aggiungere 24,000 uomini di fanteria, sull'arrolamento
e la condotta dei quali non abbiamo veruno schiarimento, oltre ad altri
3300 uomini, che probabilmente vi rappresentano le armi speciali.
In tempo di pace le città di terra-ferma o erano prive affatto
di guarnigione o ne aveano ben poca: Venezia non si basava tanto
sull'affezione, quanto sulla prudenza de' suoi sudditi; nella guerra
contro la Lega di Cambray (1509) è noto universalmente, che essa li
sciolse da ogni obbligo di fedeltà e lasciò giungere le cose al punto,
che essi avessero agio di paragonare le piacevolezze di una occupazione
straniera col mite suo modo di governare; e siccome essi non ebbero
bisogno di staccarsi da S. Marco ricorrendo al tradimento, e quindi
non aveano in seguito da temere verun gastigo, così si verificò ciò
ch'essa prevedeva, che cioè tutti tornarono con molta premura sotto il
di lei dominio. Questa guerra era, lo diciam di passaggio, l'effetto
di un secolare grido d'allarme surto contro la smania d'ingrandimento
di Venezia. Talvolta quest'ultima commise l'errore delle persone
troppo prudenti, quella cioè di non voler supporre nessun colpo di
testa ne' suoi avversari, perchè, secondo la sua maniera di vedere,
sarebbe stato troppo folle e sconsiderato.[123] In questo ottimismo,
che forse è proprio in modo speciale delle aristocrazie, si aveva
una volta ignorato completamente gli armamenti di Maometto II per la
presa di Costantinopoli, e perfino i preparativi per la spedizione
di Carlo VIII, finchè si avverò ciò che meno si aspettava.[124] Ed
altrettanto accadde ora colla Lega di Cambray, la quale effettivamente
era contraria al vero interesse de' principali suoi fondatori, Luigi
XII e Giulio II. Ma nel Papa c'era il vecchio odio di tutta Italia
contro la Repubblica conquistatrice, in guisa che egli chiuse gli occhi
sulla venuta degli stranieri; e per quanto riguardava la politica del
cardinale d'Amboise e del suo re nei rapporti con tutta Italia, Venezia
avrebbe dovuto già da lungo tempo accorgersi delle sinistre loro
intenzioni e mettersi in guardia. I più fra gli altri presero parte
alla Lega per quell'invidia, che è bensì un salutare ritegno posto
alla potenza ed alla ricchezza, ma non cessa per questo di essere in
sè una ben deplorabile debolezza. Venezia uscì con onore, ma non senza
durevoli danni, da quella lotta.


Una potenza, le cui basi erano così complicate, la cui attività e i cui
interessi abbracciavano un campo sì vasto, non si potrebbe immaginare
senza una grandiosa sorveglianza su tutto l'insieme, senza un continuo
bilancio delle forze e dei pesi, degli incrementi e delle perdite.
Venezia potrebbe benissimo aspirare al vanto di essere la patria della
moderna Statistica: tutt'al più Firenze potrebbe dirsi sua emula, ma in
seconda linea, e più sotto ancora i principati italiani maggiormente
sviluppati. Lo Stato feudale del medioevo non ha che prospetti
generali dei diritti e dei possessi detti _urbariali_ del principe:
esso riguarda la produzione come qualche cosa di stazionario, ciò che
essa effettivamente è anche, sino a che si tratti unicamente della
proprietà fondiaria. Di fronte a ciò le Repubbliche, probabilmente da
tempo antichissimo, hanno riconosciuto la loro produzione, fondata
specialmente sull'industria e sul commercio, come qualche cosa di
estremamente mobile ed hanno agito conformemente a questo concetto, ma
si arrestarono — perfino nei tempi più floridi della lega anseatica
— ad un bilancio esclusivamente commerciale. Così le flotte, gli
eserciti, e tutta la potenza ed influenza politica dello Stato non
trovavano posto che tra il dare e l'avere di un libro mastro di
commercio. Soltanto negli Stati italiani trovansi per la prima volta
congiunti quelli che potrebbero dirsi effetti di una piena coscienza
politica con le esperienze desunte dallo studio dell'amministrazione
musulmana e da una pratica lunga ed attiva dell'industria agricola e
commerciale, per creare una vera statistica.[125] La monarchia assoluta
di Federico II nell'Italia meridionale (v. pag. 7) era surta unicamente
sulla concentrazione del potere allo scopo di sostenere una lotta, in
cui si trattava di essere o non essere. In Venezia per contrario gli
scopi supremi sono il godimento dei comodi della vita e dei vantaggi
della potenza, l'aumento di ciò che si è ereditato dagli antenati,
la riunione delle più lucrose industrie e l'aprimento di sempre nuovi
sfoghi al commercio.

Gli scrittori si esprimono con molta schiettezza su tutte queste
cose.[126] Da essi noi apprendiamo che la popolazione della città
nell'anno 1422 ammontava a 190,000 anime. Forse questo modo di
calcolare non più per focolari, nè per uomini atti a portar le armi o
per tali che potessero reggersi sulle proprie gambe, e simili, ma per
anime, è molto antico in Italia, e può meglio d'ogni altro offrire
una base giusta e sicura di calcolo. Allorchè i fiorentini intorno
al medesimo tempo insistevano per una lega con Venezia a danno di
Filippo Maria Visconti, la Repubblica pel momento li rimandò, nella
persuasione evidente, e del resto confermata anche da un esatto
bilancio del commercio, che ogni guerra tra Milano e Venezia, vale a
dire tra compratori e venditori, fosse una vera follìa. E già perfino
quando il duca aumentava la sua armata, Venezia se ne accorava, perchè,
dovendo egli con ciò aumentare le imposte, il ducato se ne risentiva e
il consumo diminuiva. «Piuttosto si lascino soccombere i fiorentini,
perchè in tal caso, avvezzi come sono alla vita delle città libere,
essi emigreranno a Venezia e porteranno con sè le tessiture della lana
e della seta, come fecero gli oppressi lucchesi». Ma ancor più notevole
è il discorso del doge Mocenigo[127] tenuto dal suo letto di morte
ad alcuni senatori (1423) come quello che contiene gli elementi più
importanti di una statistica dell'intera forza e dell'avere di Venezia.
Io ignoro, se e dove esista una compiuta illustrazione di questo
difficile documento; ma come una specialità mi sia lecito di riportarne
qui alcuni dati. Dopo fatto il pagamento di quattro milioni di ducati
per un prestito di guerra, il debito dello Stato (_il monte_) ammontava
ancora a sei milioni di ducati. Il giro complessivo del commercio
(come sembra) ascendeva a dieci milioni, i quali ne fruttavano quattro
(così il testo). Su tremila navigli, trecento navi e quarantacinque
galere stavano 17 mila e rispettivamente 8 ed 11 mila marinai (più di
duecento per galera). A questi erano da aggiungere 16 mila costruttori
nell'arsenale. Le case di Venezia avevano un valore di stima di sette
milioni e fruttavano in affitti un mezzo milione.[128] Vi erano mille
nobili, che avevano una rendita da settanta a quattromila ducati annui.
— In un altro luogo la rendita ordinaria dello Stato in quello stesso
anno è calcolata un milione e centomila ducati: intorno alla metà del
secolo, per le perdite sofferte dal commercio in causa della guerra,
essa era discesa ad ottocentomila ducati.[129]


Se, per questo spirito di calcolo e per la sua pratica applicazione,
Venezia rappresentava completamente e prima d'ogni altro Stato un lato
importantissimo del moderno organismo politico, trovavasi per converso
in certo modo alquanto al di sotto rispetto a quella cultura, che
allora in Italia stava in cima d'ogni altra cosa. Quello che manca qui
è l'attività letteraria in generale e specialmente quell'entusiasmo
per la classica antichità, che prevaleva dovunque.[130] Bensì il
Sabellico afferma che le attitudini alla filosofia ed all'eloquenza
non erano punto minori di quelle che si scorgevano pel commercio e
per la politica, ed è anche vero che nel 1459 Giorgio da Trebisonda
fece omaggio al doge di una traduzione latina del libro di Platone
sulle Leggi, e ne fu ricompensato con una cattedra di filologia e
cencinquanta ducati annui, e più tardi dedicò alla Signoria il suo
libro sulla Rettorica.[131] Ma se si dà un'occhiata alla storia della
letteratura veneziana, che il Sansovino aggiunse al noto suo libro
su Venezia,[132] non s'incontrano per tutto il secolo XIV che sole
opere di teologia, di giurisprudenza e di medicina, ed anche nel XV
l'umanismo non vi è, in paragone all'importanza della città, se non
assai scarsamente rappresentato sino ad Ermolao Barbaro e ad Aldo
Manuzio. Anche la biblioteca che il cardinal Bessarione lasciò alla
Repubblica, a stento andò salva dalla dispersione. Per le quistioni
di erudizione si aveva e doveva bastare l'università di Padova, dove
realmente i medici e i giuristi, quali estensori di pareri politici,
aveano stipendi lautissimi. Nè maggiore operosità vi si scorge a
questo tempo per ciò che riguarda le produzioni poetiche, che pur
tanto abbondarono nei primordi del secolo XVI; e perfino lo spirito
artistico dell'epoca del Rinascimento vi appare in sulle prime come
importazione estera, e non comincia a dar frutti degni della sua
grande potenza se non sul finire del secolo XV. Ma vi hanno indizi di
tardità intellettuale ancor più caratteristici e strani. Quel medesimo
Stato, che teneva in tanta soggezione il suo clero, che si riserbava il
conferimento di tutte le dignità più importanti, e che quasi sempre si
metteva in opposizione colla Curia romana, fu schiavo di un ascetismo
ufficiale di genere tutto affatto particolare.[133] Corpi di santi
ed altre reliquie importate dalla Grecia dopo la conquista turca
pagavansi a prezzi elevatissimi e accoglievansi dal doge in solenne
processione.[134] Pel sacro Pallio inconsutile nel 1455 s'era deciso
di spendere sino a diecimila ducati, ma non si potè averlo. Questo
fanatismo non era l'opera di un popolare entusiasmo, ma proveniva da
una fredda deliberazione della più alta autorità dello Stato, che pure
senza scandolo avrebbe potuto astenersene, come in eguali circostanze
a Firenze la Signoria se ne sarebbe certamente astenuta. Non diremo
nulla, dopo ciò, della devozione delle moltitudini e della cieca loro
fede nelle indulgenze di un Alessandro VI. Ma lo Stato, che pure aveva
assorbito la Chiesa più di qualunque altro, aveva qui realmente in
sè una specie di elemento ecclesiastico, e il suo simbolo vivente,
il doge, in dodici solenni processioni (che si dicevano _andate_)
procedeva con carattere e pompa semi-sacerdotali.[135] Erano feste
fatte puramente in onore di avvenimenti politici, che coincidevano
colle grandi feste ecclesiastiche: la più splendida di esse, il celebre
sposalizio del mare, cadeva sempre nel giorno dell'Ascensione.



CAPITOLO VIII.

Ancora delle Repubbliche.

    Firenze dal secolo XIV in avanti. — Obbiettività della
    coscienza politica. — Dante come politico. — Firenze qual
    patria della statistica; i Villani. — La statistica dei
    maggiori interessi. — Valori delle monete del secolo XV. — Le
    forme costituzionali e gli storici. — Vizio fondamentale dello
    Stato toscano. — Gli uomini politici. — Machiavelli e il suo
    progetto di costituzione. — Genova, Siena e Lucca.


La più elevata coscienza politica e la maggior varietà nello sviluppo
delle forme di Stato trovavansi riunite nella storia di Firenze, la
quale in questo rispetto merita la lode di primo fra gli Stati del
mondo moderno. Qui è un popolo intero che s'occupa di ciò, che nei
principati è nell'arbitrio di una sola famiglia. La mente maravigliosa
del fiorentino, ragionatrice acuta e al tempo stesso creatrice in fatto
d'arte, muta e rimuta incessantemente le sue condizioni politiche
e sociali, e incessantemente pure le giudica e le descrive. Per tal
modo Firenze divenne la patria delle dottrine e delle teoriche, degli
esperimenti e dei subiti trapassi, ma anche insieme con Venezia la
patria della statistica, e, sola e prima di ogni altro Stato al mondo,
la patria della storia intesa nel senso moderno. Nè senza una potente
influenza vi rimasero la vicinanza dell'antica Roma e la conoscenza
de' suoi storici: infatti Giovanni Villani confessa apertamente, che il
primo impulso al suo grande lavoro gli venne dalla sua andata in quella
città in occasione del Giubileo del 1300, e che vi pose mano subito
dopo il suo ritorno in patria.[136] Ma quanti fra i 200,000 pellegrini
di quell'anno avranno avuto uguali attitudini e inclinazioni, e
tuttavia non scrissero la storia della loro città! E per vero non
tutti potevano fiduciosamente soggiungere come lui: «la nostra città
di Firenze è nel suo montare e a seguire grandi cose, siccome Roma nel
suo calare, e però mi parve convenevole di recare in un volume tutti
i fatti e cominciamenti della città e seguire per innanzi stesamente
infino che fia piacere di Dio». E con ciò Firenze ottenne da' suoi
storici non solo una testimonianza autentica del modo con cui si svolse
la sua vitalità, ma altresì una fama maggiore che qualunque altro Stato
d'Italia.[137]


Ma non è del nostro assunto il far qui la storia di questo memorabile
Stato, bensì soltanto di additare sommariamente la parte che questa
storia ebbe nel risvegliare nei fiorentini tanto amore alla libertà e
un senso pratico così profondo.

Intorno all'anno 1300 Dino Compagni descrisse le lotte cittadine del
suo tempo. La condizione politica della città, i moventi più riposti
dei partiti, il carattere dei capi, tutta insomma la tela delle cause
e degli effetti prossimi e remoti vi è rappresentata in modo, che si
tocca con mano la superiorità de' suoi giudizi e delle sue narrazioni.
E la vittima più illustre di queste crisi, Dante Alighieri, qual
tipo d'uomo politico, maturato fra le contradizioni della patria
e le torture dell'esiglio! Egli ha scolpito il suo disprezzo pei
continui mutamenti e sperimenti di governo in terzine di bronzo,[138]
che rimarranno proverbiali dovunque sarà per ripetersi qualche cosa
di somigliante: egli ha indirizzato alla sua patria parole tanto
orgogliose e appassionate ad un tempo, che il cuore dei fiorentini
non potè certo non esserne scosso potentemente. Ma i suoi pensieri si
allargano a tutta Italia, anzi a tutto il mondo, e quantunque il suo
entusiasmo per l'Impero, come egli lo intendeva, non sia stato che
un errore, si dovrà tuttavia confessare pur sempre, che le fantasie
giovanili della speculazione politica, che allora era in sul nascere,
hanno in lui una sublime grandezza poetica. Egli va superbo di
essere stato il primo a mettersi per questa via,[139] guidato a mano
senza dubbio da Aristotele, ma pure alla sua maniera padrone di sè e
indipendente. Il suo imperatore ideale è un giudice supremo, giusto,
benevolo e dipendente solo da Dio, l'erede della signoria mondiale
di Roma, voluta dal diritto, dalla natura, dal senno eterno di Dio.
La conquista del mondo infatti fu legittima, perchè fu il giudizio
di Dio tra Roma e gli altri popoli, e Dio stesso ha riconosciuto il
suo impero prendendo spoglie umane sotto di esso, sottomettendosi
nella sua nascita al censo di Augusto e nella sua morte al giudizio di
Ponzio Pilato; e così via. Che se anche noi non possiamo sempre seguire
questo suo modo di argomentare, non manca però mai di commoverci la sua
passione. Nelle sue lettere[140] egli è uno dei più antichi nella serie
dei pubblicisti, forse il primo fra i laici, che abbia divulgato per
proprio conto scritti politici sotto la forma epistolare. A ciò egli
pose mano assai presto: subito dopo la morte di Beatrice egli pubblicò
un opuscolo sullo stato di Firenze, mandandolo «ai grandi della terra»,
ed anche le posteriori sue lettere patenti del tempo del suo esilio
sono tutte dirette a imperatori, principi e cardinali. In queste
lettere e nel libro _Del volgare eloquio_ torna, sotto forme diverse,
il sentimento espiato con tanti dolori, che l'esule anche fuori della
propria città può trovare una nuova patria intellettuale nella lingua
e nella cultura, che da nessuno gli ponno essere tolte; sul qual punto
avremo occasione di tornar nuovamente.


Ai Villani, così a Giovanni che a Matteo, andiamo debitori non tanto
di profonde considerazioni politiche, quanto di giudizi schietti e
convalidati dall'esperienza, degli elementi primi della statistica
fiorentina e di notizie importanti sopra altri Stati d'allora[141].
Il commercio e l'industria aveano anche qui dato occasione a studi
di economia politica. Sulle condizioni pecuniarie in grande nessuno
aveva altrove idee più precise, a cominciare dalla curia papale di
Avignone, l'enorme ammontare della cui cassa (25 milioni di fiorini
d'oro alla morte di Giovanni XXII) non parrebbe credibile, se non fosse
dato da fonti così autorevoli[142]. Qui soltanto, a Firenze, udiamo di
prestiti colossali, per esempio di quello del re d'Inghilterra con le
case fiorentine Bardi e Peruzzi, le quali ci perdettero un valore di
1,365,000 fiorini d'oro, (1338), danaro proprio e di soci, e tuttavia
si riebbero[143]. — Ma la cosa più importante sono le notizie di
quello stesso tempo che si riferiscono allo Stato[144], vale a dire:
le rendite (oltre a 300,000 fiorini d'oro) e le spese; la popolazione
della città (calcolata qui ancora molto imperfettamente, giusta il
consumo del pane, in bocche, fatte ascendere a 90,000), e quella dello
Stato; l'eccedenza dei nati maschi (da 300 a 500) su 5800 in 6000
battezzati annuali del Battistero[145]; la frequenza delle scuole, in
sei delle quali da 8000 a 10,000 fanciulli imparavano a leggere, e da
1000 a 1200 a far conti; oltre a 600 scolari circa, che in quattro
scuole venivano istruiti nella grammatica (latina) e nella logica.
Segue la statistica dei conventi e delle chiese, degli spedali (con
più di 1000 letti complessivamente); il lanificio, con notizie di
sommo valore, la zecca, l'approvigionamento della città, i pubblici
ufficiali[146] e così via. Altre cose si apprendono incidentalmente,
per esempio come nell'erezione delle nuove rendite dello Stato (_il
monte_), i Francescani abbiano predicato dal pulpito in favore,
gli Agostiniani e i Domenicani contro di esse[147]; e per ultimo le
conseguenze economiche della peste nera (1348) nè furono, nè poterono
essere osservate ed esposte in nessuna parte d'Europa, come avvenne
in questa città[148]. Un fiorentino soltanto poteva lasciare scritto
come tutti si aspettassero che, per la scarsezza degli abitanti, tutti
i prezzi delle cose ribassassero, e come invece e viveri e mercedi
abbiano incarito del doppio; come il popolo in sulle prime non volesse
più lavorare, ma darsi buon tempo; come nella città non potessero più
aversi nè servi, nè fantesche se non a prezzi elevatissimi; come i
contadini non volessero più coltivare che i terreni migliori, lasciando
incolti gli altri e come gli enormi legati lasciati a favore dei poveri
apparissero dopo la peste inutili affatto, perchè i poveri o erano
morti o poveri più non erano. Per ultimo si ha perfino il saggio di una
ampia statistica dei mendicanti della città nell'occasione di un grande
legato di sei danari a ciascuno di essi lasciato da un filantropo senza
prole.[149]

Quest'arte di valutare statisticamente le cose fu in appresso condotta
dai Fiorentini al massimo grado di perfezione, e piace ancor più
il vedere come i loro computi lascino per lo più trasparire il loro
legame e rapporto colla parte più sostanziale della storia, vale a
dire colla cultura generale e coll'arte. Una indicazione dell'anno
1422[150] tocca col medesimo tratto di penna le settantadue botteghe
di cambio intorno al Mercato nuovo, l'ammontare del giro di danaro (2
milioni di fiorini d'oro), l'industria allora nuova dell'oro filato, le
stoffe di seta, Filippo Brunellesco che disseppellisce l'architettura
antica, e Leonardo Aretino, segretario della Repubblica, che risuscita
l'antica letteratura ed eloquenza: finalmente la generale prosperità
della città allora tranquilla e la buona fortuna d'Italia, che s'era
francata dai mercenari stranieri. La statistica di Venezia da noi più
sopra riportata (pag. 96), che si riferisce quasi al medesimo anno,
parla, invero, di possessi, guadagni e provincie molto maggiori:
Venezia da lungo tempo padroneggia il mare colle sue navi, quando
Firenze spedisce la sua prima galera ad Alessandria (1422). Ma chi
non trova le notizie fiorentine redatte con maggiore ampiezza di
vedute? Questi e somiglianti documenti trovansi per Firenze ordinati
di decennio in decennio in veri prospetti, mentre altrove nel miglior
dei casi si ha qualche isolata indicazione. Da essi impariamo a
conoscere approssimativamente gli averi e gli affari dei primi Medici,
e vediamo, p. es., come essi dal 1434 al 1471 sborsarono in elemosine,
costruzioni pubbliche ed imposte non meno di 663,755 fiorini d'oro, dei
quali il solo Cosimo oltre 400,000[151], e come Lorenzo il Magnifico
si rallegrasse che quel danaro fosse stato così bene impiegato. Dopo
il 1478 si ha poi di nuovo un prospetto assai importante, e perfetto
nel suo genere, del commercio e delle industrie della città[152], e in
esso parecchi dati che per metà od interamente versano sulla storia
dell'arte, come, per esempio, sulle stoffe d'oro e d'argento e sui
damaschi, sull'intaglio e l'intarsio, sulla scultura dei rabeschi in
marmo e pietra calcare, sui ritratti in cera, sull'oreficeria e sulla
gioielleria. E il genio innato de' Fiorentini per il computo di tutta
la vita esterna si mostra perfino nei loro libri di amministrazione
famigliare, commerciale ed agricola, che di gran lunga primeggiano su
quelli di tutti gli altri europei del secolo XV. Al qual proposito non
possiamo astenerci dal dire che felicissima fu l'idea di pubblicarne
dei brani scelti[153], non ostante che molti studi saranno ancor
necessari per desumerne risultati precisi e generali. In ogni caso,
anche in questo si dà a conoscere la città, nella quale i padri
morenti pregano per testamento la Signorìa d'imporre ai loro figli
una multa di 1000 fiorini d'oro, se non eserciteranno veruna industria
regolare.[154]

Per la prima metà del secolo XVI poi nessuna città forse al mondo
possiede un documento simile alla splendida descrizione di Firenze
lasciata dal Varchi.[155] Come in molti altri rapporti, anche nella
statistica descrittiva qui ci viene presentato un'ultima volta un raro
modello, prima che la libertà e la grandezza di questa città discendano
nel sepolcro.[156]

Ma accanto a questo computo dell'esistenza esterna procedeva di
pari passo quella continua pittura della vita politica, di cui più
sopra s'è fatto cenno. Firenze non solo perdura in mezzo a forme
e mutazioni di governo più frequenti che in qualsiasi altro Stato
libero d'Italia e dell'intero occidente, ma ne rende conto altresì
in modo incomparabilmente più esatto. Essa è lo specchio più fedele
dei mutevoli rapporti dei singoli individui o di intere classi verso
un tutto estremamente variabile. I quadri delle grandi demagogie
cittadine in Francia e nelle Fiandre, quali ci vengono delineati da
Froissart, i racconti delle cronache tedesche del secolo XIV hanno
invero un'importanza universalmente riconosciuta, ma quanto alla
pienezza degli argomenti e allo svolgimento razionale del corso
degli avvenimenti restano infinitamente al di sotto alle descrizioni
dei Fiorentini. Aristocrazia, tirannide, lotta delle classi medie
col proletariato, democrazia piena, mezza ed apparente, primato di
una famiglia, teocrazia (con Savonarola), e così via, sino a quelle
forme miste che prepararono l'usurpazione medicea, tutto è scritto in
modo che i più riposti moventi degli attori vengono messi in piena
luce.[157] Per ultimo il Machiavelli nelle _Istorie fiorentine_
(sino al 1492) considera la sua città come un essere vivente, e come
individuali e volute dalle stesse leggi di natura le vicende che
accompagnarono il suo svolgimento; primo fra i moderni, che abbia
saputo sollevarsi a tanto. Non è del nostro assunto il ricercare se
ed in quali punti egli abbia fatto con ciò violenza alla storia, come
gl'intervenne nella vita di Castruccio Castracane, tipo di tiranno
da lui arbitrariamente ideato; ma se anche nelle _Storie fiorentine_
vi fosse ad ogni linea qualche cosa da eccepire, non ne resterebbe
per questo scemato il valore sommo, inestimabile, che hanno nel
loro complesso. E i suoi contemporanei e continuatori, Jacopo Pitti,
Guicciardini, Segni, Varchi, Vettori, quale corona di nomi gloriosi!
E che storia è quella che è scritta da tali maestri! Niente meno che
il gran dramma degli ultimi decenni della repubblica fiorentina! In
questa immensa eredità di memorie sulla caduta della città più agitata
e più originale del mondo d'allora sia pure che altri non vegga se non
una congerie d'interessanti curiosità, altri si compiaccia con gioja
maligna di scorgere il naufragio di ogni idea nobile e grande, ed altri
ancora non vi ripeschi che i materiali come di una gigantesca procedura
giudiziaria; ad ogni modo essa non cesserà di rimanere l'oggetto delle
più serie considerazioni sino alla consumazione dei secoli. Il tarlo
che ad ogni istante rodeva ogni cosa, era la signorìa di Firenze su
nemici soggiogati una volta potenti, come i Pisani, che di necessità
manteneva uno stato di violenza perenne. L'unico rimedio, violento esso
pure, che solo il Savonarola, ma non senza il soccorso di circostanze
al tutto favorevoli, avrebbe potuto far accettare, sarebbe stato
lo scioglimento, fatto a tempo, della Toscana in una federazione di
città libere, pensiero che, come ritardato sogno febbrile, condusse
poi al patibolo (1548) un patriotta lucchese.[158] Da questo malanno
e dalla malaugurata simpatia guelfa de' Fiorentini per un principe
forestiero, come altresì dalla conseguente abitudine agli interventi
stranieri, provennero tutti gli altri infortuni. Ma chi, in onta a
ciò, non vorrà ammirare questo popolo, che sotto la guida del santo
suo monaco, sostenuto in un continuo entusiasmo, dà il primo esempio
in Italia della pietà verso i vinti nemici, mentre tutte le memorie
del tempo passato non gli predicano che la vendetta e la distruzione?
Bensì l'ardore che qui fonde insieme i sentimenti di patriottismo e
di entusiasmo religioso e morale, guardato dopo alcuni secoli, sembra
essersi spento assai prestamente; ma non è men vero per questo, che i
suoi migliori effetti si videro nuovamente rifulgere nel memorabile
assedio degli anni 1529-30. Furono «pazzi» senza dubbio, come il
Guicciardini allora scriveva, coloro che attirarono sopra Firenze
quella tempesta, ma egli stesso confessa che fecero cosa non creduta
possibile; e se stima che i savi avrebbero evitata quella sciagura, ciò
non significa altro se non che Firenze avrebbe dovuto ingloriosamente
e senza una parola di protesta darsi in mano a' suoi nemici. Vero è
che in tal caso essa avrebbe conservato i suoi magnifici sobborghi e
i giardini e la vita e il benessere d'innumerevoli cittadini; ma le
mancherebbe altresì una delle più grandi e più gloriose pagine della
sua storia.


I Fiorentini sono in parecchi pregi il modello e la primissima
espressione degl'Italiani e dei moderni europei, ma sono tali
altresì, ed in più guise, quanto ai difetti. Quando Dante a' suoi
tempi paragonava Firenze, che non cessa di correggere la propria
costituzione, con quell'inferma che sempre muta lato per sottrarsi a'
suoi dolori, egli esprimeva con questo paragone uno dei caratteri più
stabili di questa città. Il grande errore moderno che una costituzione
possa farsi e rifarsi mediante il calcolo delle forze e dei partiti
esistenti,[159] a Firenze si vede risorgere sempre in tempi di
qualche commozione, e il Machiavelli stesso non ne andò immune. Egli
è allora che si vedono farsi innanzi certi artefici di Stati, che con
un artificioso spostamento e frastagliamento del potere, con sistemi
elettorali lambiccatissimi, con magistrature di sola apparenza e
simili, vogliono fondare uno stato di cose durevole, e accontentare o
almeno illudere tutte le parti. Essi copiano in ciò con molta ingenuità
i tempi antichi e finiscono perfino col prendere a prestito da
quelli i nomi stessi delle fazioni, come per esempio, degli ottimati,
dell'aristocrazia ecc.[160] D'allora in poi il mondo s'è abituato a
queste denominazioni e ha dato ad esse un senso convenzionale europeo,
mentre dapprima tutti i nomi dei partiti erano particolari e diversi
secondo i diversi paesi, e o designavano direttamente la cosa, o
nascevano dal capriccio del caso. Ma quanto il solo nome non dà o
toglie di colorito alle cose!


Ma fra tutti coloro che s'immaginavano di poter costruire uno
Stato,[161] il Machiavelli è senza paragone il più grande. Egli usa
delle forze esistenti come di forze vive ed attive, le alternative che
ci pone dinanzi sono giuste e grandiose, e non cerca mai d'illudere nè
sè stesso, nè gli altri. In lui non vi è nemmen l'ombra della vanità
e della millanteria, anzi egli non scrive nemmeno pel pubblico, ma
soltanto per qualche autorità, o per principi ed amici. Il suo pericolo
non istà mai in una falsa genialità o in una falsa deduzione di idee,
ma bensì in una gagliarda fantasia, ch'egli domina a stento. La sua
obbiettività politica, non v'ha dubbio, è talvolta di una sincerità
spaventosa, ma essa è sorta in tempi di estreme miserie e pericoli, nei
quali senza di ciò gli uomini non potevano così di leggieri credere
più nè al diritto, nè alla giustizia. Nè una virtuosa indignazione
contro di essa può aspettarsi da noi, che siamo stati nel nostro secolo
spettatori di quanto hanno fatto le Potenze in un senso e nell'altro.
Il Machiavelli almeno era capace di dimenticare sè stesso per la cosa
pubblica. In generale egli è un patriota nel più stretto senso della
parola, quantunque i suoi scritti (poche parole eccettuate) sieno
privi affatto di vero entusiasmo, e quantunque i fiorentini stessi
lo abbiano da ultimo considerato come un ribaldo.[162] Ma per quanto
egli ne' suoi costumi e nei discorsi, come allora la maggior parte,
fosse corrivo e licenzioso, certo è che la salute della patria era
sempre in cima de' suoi pensieri. Il suo più completo programma per
l'ordinamento di un nuovo Stato a Firenze trovasi nel suo _Memoriale_
da lui indirizzato a Leone X[163] e scritto dopo la morte di Lorenzo
de' Medici il giovane, duca di Urbino (morto nel 1519), al quale egli
aveva dedicato il suo libro del _Principe_. Le cose sono agli estremi
e la corruzione prevale universalmente, quindi anche i rimedi proposti
non hanno sempre un carattere di troppa moralità; ma in ogni caso
riesce interessantissimo il vedere come egli speri di sostituire ai
Medici, qual loro erede, la repubblica, e precisamente una repubblica
sorta tutta dalla borghesia. Non è possibile immaginare un edificio,
come questo, più ricco di concessioni al Papa, a' suoi aderenti, e ai
diversi interessi de' Fiorentini: si crederebbe quasi di guardar dentro
al meccanismo di un orologio. Molti altri principii, osservazioni,
confronti, viste politiche e simili per Firenze trovavansi nei
_Discorsi_, nei quali tralucono qua e là lampi di maravigliosa
bellezza. In un punto, ad esempio, egli ci dà la legge, secondo la
quale progrediscono e si sviluppano, ma non senza urti violenti, le
repubbliche, e vuole che lo Stato sia mobile e capace di cangiamenti,
perchè con questo mezzo soltanto si evitano i precipitati giudizi di
sangue e le condanne di esiglio. Per un identico motivo, vale a dire,
per evitare le violenze private e gl'interventi stranieri («peste della
libertà»), desidera di veder stabilita contro i cittadini più odiati
una procedura giudiziaria (_accusa_), in luogo della quale Firenze da
tempo remotissimo non aveva avuto che il tribunale della maldicenza.
Da vero maestro egli caratterizza le risoluzioni forzate e tardive,
che nei tempi agitati delle repubbliche ricorrono così frequentemente.
In mezzo a tutto ciò la fantasia e la miseria de' tempi lo seducono
di quando in quando a intonare apertamente le lodi del popolo, che ha
maggior tatto di qualunque principe nella scelta degli uomini e che
è più docile ai consigli, che lo salvano dalle vie dell'errore.[164]
Quanto alla signoria su tutta la Toscana, egli non dubita nemmeno
che essa spetti alla sua città, e riguarda quindi (in uno speciale
discorso) il riassoggettamento di Pisa come una questione di vita
o di morte: egli deplora che, dopo la ribellione del 1502, si abbia
lasciato sussistere Arezzo, e in generale si mostra persuaso, che le
repubbliche italiane dovrebbero potersi muovere liberamente al di fuori
e ingrandirsi, per non essere esse stesse assalite e per goder la pace
all'interno; ma Firenze ha fatto le cose sempre a rovescio, e così da
tempo antichissimo si è inimicata mortalmente con Pisa, Siena e Lucca,
mentre Pistoia «trattata fraternamente» si è sottomessa di proprio
impulso.[165]


Sarebbe ingiusto il voler anche solo porre a riscontro le poche altre
repubbliche, che ancora esistevano nel secolo XV, con quest'unica di
Firenze, che senza paragone fu la sede più importante del moderno
spirito italiano, anzi europeo. Siena soffriva di vizi organici
profondi, e la sua relativa prosperità nell'industria e nelle arti
non deve a questo riguardo trarci in errore. Enea Silvio dalla sua
città natale guarda con occhio appassionato[166] alle «fortunate»
città tedesche dell'Impero, dove l'esistenza non è amareggiata da
nessuna confisca degli averi e delle eredità, dove non esistono nè
fazioni, nè arbitrii.[167] — Genova non entra quasi nella cerchia
delle nostre considerazioni, poichè prima dei tempi di Andrea Doria non
ebbe pressochè parte veruna al Rinascimento, anzi gli abitanti della
Riviera passavano in tutta Italia per nemici di qualsiasi cultura.[168]
Le lotte dei partiti hanno in questa repubblica un carattere così
selvaggio e sono accompagnate da scosse così violente, che quasi non
si sa capire come, dopo tante rivoluzioni e occupazioni straniere, i
genovesi abbiano pure trovato modo di acquetarsi in uno stato di cose
almen tollerabile. Ma forse ciò dipendette dall'essere tutti quelli,
che avevano parte alla cosa pubblica, quasi senza eccezione addetti al
tempo stesso al commercio.[169] E Genova ci mostra in modo maraviglioso
sino a qual grado d'incertezza il commercio esercitato in grande e
la ricchezza possano perdurare e con quale stato interno di cose sia
conciliabile il possesso di lontane colonie.

Lucca non ha molta importanza nel secolo XV. Dei primi decenni di
esso, nei quali la città viveva sotto la pseudo-tirannide della
famiglia Guinigi, ci è stato conservato un giudizio dello storico
lucchese Giovanni di Ser Cambio, che può riguardarsi in generale come
un documento parlante della condizione di tali famiglie regnanti nelle
repubbliche.[170] L'autore tratta del numero e della ripartizione
delle truppe mercenarie nella città e nel territorio, non che del
conferimento di tutti gli uffici a scelti aderenti della famiglia
che padroneggia; designa tutte le armi che si trovano in possesso de'
privati, e parla del disarmo delle persone sospette; in seguito passa
a dire della sorveglianza esercitata sopra i banditi, i quali sono
obbligati a rimanere nel luogo loro assegnato sotto pena di una totale
confisca dei loro beni, degli atti segreti di violenza commessi per
togliere di mezzo ribelli creduti pericolosi, dei modi con cui alcuni
commercianti emigrati furono costretti a tornare. Segue una descrizione
delle pratiche fatte per impedire possibilmente la riunione della
maggiore assemblea dei cittadini (_Consiglio generale_), sostituendovi
soltanto una Commissione composta di partigiani della casa regnante in
numero di dodici o diciotto, e toccasi della restrizione di tutte le
spese a favore dei mercenari, indispensabili per non vivere in continue
paure e pericoli, e che bisognava tenere allegri (_i soldati si faccino
amici, confidenti e savî_). Per ultimo si parla delle miserie del
tempo, dello scadimento dell'arte della seta, nonchè di tutte le altre
industrie, e della coltivazione dei vini, e si propone come rimedio un
dazio elevato sui vini forastieri e l'obbligo assoluto, da imporsi al
contado, di comperare ogni cosa in città, i soli mezzi di sussistenza
eccettuati. — Questo notevolissimo documento avrebbe bisogno anche per
noi di un commento circostanziato: qui lo citiamo soltanto come una
delle molte prove di fatto, che in Italia la riflessione politica si
svolge assai prima che in tutti i paesi del settentrione.



CAPITOLO IX.

Politica estera degli Stati italiani.

    Invidia contro Venezia. — L'estero: simpatie per la Francia.
    — Tentativo per un equilibrio. — Intervento e conquista.
    — Alleanze coi Turchi. — Reazione spagnuola. — Trattazione
    obbiettiva della politica. — Arte diplomatica.


A quel modo che la maggior parte degli Stati italiani erano all'interno
opere d'arte, vale a dire creazioni coscienti, emanate dalla
riflessione e fondate su basi rigorosamente calcolate e visibili,
artificiali dovevano essere anche i rapporti che correvano tra di loro
e con gli Stati esteri. L'essere quasi tutti fondati sopra usurpazioni
di data recente è cosa per essi sommamente pericolosa tanto nelle
relazioni esterne, quanto nel normale andamento interno. Nessuno
riconosce il suo vicino senza qualche riserva: lo stesso colpo di mano
che ha servito a fondare e rafforzare l'una signoria, può aver servito
anche per l'altra. Ma non sempre dipende dall'usurpatore che egli
possa sedere tranquillo sul trono, o no: il bisogno d'ingrandirsi e in
generale di muoversi suol essere proprio d'ogni signoria illegittima.
Per tal modo l'Italia diventa la patria di una «politica estera», che
poi a poco a poco anche in altri paesi prevale al diritto riconosciuto,
e la trattazione degli affari internazionali, completamente oggettiva
e libera da pregiudizi e da ogni ritegno morale, vi raggiunge talvolta
una perfezione, che le dà apparenza di decoro e di grandezza, mentre
l'insieme ha l'impronta di un abisso senza fondo.

Questi intrighi, queste leghe, questi armamenti, queste corruzioni
e questi tradimenti costituiscono in complesso la storia esterna
dell'Italia d'allora. Da lungo tempo Venezia era specialmente l'oggetto
delle accuse di tutti, come se essa volesse conquistar l'intera
Penisola o a poco a poco indebolirla per modo, che uno Stato dopo
l'altro cadesse spossato nelle sue braccia.[171] Ma, guardando la
cosa un po' più addentro, si vede, che quel grido di dolore non si
solleva dal popolo, ma dalle regioni più prossime ai principi ed ai
governi, i quali quasi tutti sono gravemente odiati dai sudditi, mentre
Venezia col suo reggimento abbastanza mite si concilia le simpatie
universali.[172] Anche Firenze colle città soggette, che impazienti
rodevano il freno, di fronte a Venezia trovavasi in una posizione assai
falsa, quand'anche non si voglia tener conto della gelosia commerciale
che le inimicava entrambe, nonchè degli avanzamenti, che Venezia veniva
facendo in Romagna. Alla fine la lega di Cambray (v. pag. 94) portò
effettivamente le cose ad un punto, che Venezia ne uscì con gloria, ma
non senza danno, mentre tutta Italia avrebbe dovuto invece concorrere a
sostenerla.


Ma sentimenti non certo più miti nutrivano anche tutti gli altri
fra loro, ond'è che noi li veggiamo pronti, come la mala coscienza
suggerisce a ciascuno, ad ogni eccesso l'un contro l'altro. Lodovico
il Moro, gli Aragonesi di Napoli, Sisto IV (per tacere dei minori)
tengono l'Italia in uno stato di perenne agitazione, che le riesce
pericolosissimo. E si fosse almeno limitato alla sola Italia questo
perfido giuoco! Ma la natura delle cose portò con sè, che si cominciò
a guardarsi attorno per qualche ajuto ed intervento, volgendo gli occhi
specialmente ai Francesi ed ai Turchi.

Le simpatie per la Francia si manifestano primieramente da parte delle
popolazioni. Con una ingenuità che fa rabbrividire, Firenze confessa
le sue vecchie predilezioni guelfe per la dinastia francese.[173] E
quando Carlo VIII effettivamente passò le Alpi, tutta Italia gli corse
incontro con tal giubilo, che restarono maravigliati egli stesso e le
sue genti.[174] Nella fantasia degli italiani (si rammenti per tutti il
Savonarola) era pur sempre viva l'immagine ideale di un grande e giusto
redentore del loro paese venuto dal di fuori, con questo soltanto
che non doveva essere più l'imperatore invocato da Dante, ma uno dei
Capetingi di Francia. Vero è che l'illusione doveva tosto svanire colla
di lui ritirata; ma pure quanto ci volle prima che si riconoscesse
generalmente che tanto Carlo VIII, quanto Luigi XII e Francesco I
non intesero la vera loro missione in Italia, e si lasciarono invece
guidare da moventi al tutto meschini e contrari ai loro stessi
interessi! — I principi dal canto loro cercarono di servirsi anch'essi
della Francia, ma in modo affatto diverso. Allorchè furono finite le
guerre anglo-francesi e Luigi XI stendeva d'ogni parte le sue reti,
mentre Carlo di Borgogna si cullava in progetti da romanzo, i gabinetti
italiani si fecero ad essi premurosamente incontro e l'intervento
francese doveva necessariamente prima o dopo avverarsi, anche senza le
pretensioni straniere su Napoli e su Milano, con altrettanta certezza,
quanto era quella che, per esempio, a Genova ed in Piemonte esso aveva
omai avuto luogo da tempo non breve. I veneziani l'aspettavano ancora
fin dall'anno 1462.[175] Quali angosce mortali abbia provato il duca
Galeazzo Maria di Milano durante la guerra di Borgogna, nella quale
egli, alleato apparentemente tanto di Luigi XI che di Carlo, doveva
ad ogni momento aspettarsi una sorpresa da parte di entrambi, lo si
tocca con mano dalle sue stesse corrispondenze.[176] Il sistema di un
equilibrio dei quattro Stati principali d'Italia, quale lo intendeva
Lorenzo il Magnifico, non fu in ultimo che il postulato di una mente
chiara, lucida, perseverante nel suo ottimismo, pel quale, sollevandosi
al di sopra della scellerata politica degli esperimenti, nonchè dei
pregiudizi guelfi de' fiorentini, egli si ostinava sempre a sperare
il meglio. E quando Luigi XI gli offerse un aiuto d'uomini nella
guerra contro Ferrante di Napoli e Sisto IV, si sa ch'egli disse: «io
non posso ancora anteporre il mio particolare vantaggio al pericolo
di tutta Italia; volesse Iddio, che ai re di Francia non venisse mai
in mente di sperimentare le loro forze in questo paese! Quando ciò
accada, l'Italia sarà perduta».[177] Ma per altri principi invece il
re di Francia è alternativamente un mezzo o una causa di terrore, ed
essi minacciano di chiamarlo ogni volta che in qualsiasi imbarazzo non
sanno trovare da sè un espediente. I Papi poi credevano addirittura
di poter fare a fidanza con questa stessa Francia più di qualsiasi
altro, ed Innocenzo VIII s'immaginava già di poter nel suo dispetto
ritirarsi al di là delle Alpi, per tornar poscia in Italia in qualità
di conquistatore alla testa di un'armata francese.[178]

Tutti gli uomini serii adunque previdero la conquista straniera ancor
lungo tempo prima della discesa di Carlo VIII.[179] E quando questi,
ritirandosi, ripassò le Alpi, apparve chiaro agli occhi di tutti, che
da quel momento in avanti l'êra degl'interventi era omai cominciata.
D'allora in poi una sventura tien dietro all'altra e troppo tardi si
comprende, che la Francia e la Spagna, i due principali invasori, sono
divenute frattanto due grandi potenze moderne, che non possono omai più
star contente a semplici omaggi di forma, ma hanno bisogno di lottar
sino all'ultimo per assicurarsi un'influenza e un possesso in Italia.
Esse hanno cominciato a somigliare agli Stati italiani centralizzati,
anzi ad imitarli, ma in proporzioni ben più colossali. I progetti
di rapine o di scambi di paesi si moltiplicano per un certo tempo
all'infinito. Ma, come è noto, la prevalenza finale toccò alla Spagna,
la quale, come spada e scudo della Controriforma, tenne anche il Papato
in una lunga soggezione. Le tristi meditazioni dei filosofi d'allora in
poi non ebbero altro tema, che la mala fine di tutti coloro, che aveano
chiamati i barbari.


Ma nel secolo XV si entrò anche in lega aperta coi Turchi, nè ciò
parve destare alcun ribrezzo, stimandosi questo un espediente politico,
come qualunque altro. L'idea di una solidarietà degli stati cristiani
d'occidente avea già sofferto qualche scossa ancora durante il periodo
delle crociate, e Federico II parve poi averla abbandonata del tutto.
Ma il nuovo avanzarsi dei Turchi da un lato, e la profonda miseria
e lo scadimento dell'Impero greco dall'altro, avevano in seguito
risvegliato quei vecchi sentimenti (se non anche l'antico entusiasmo
religioso) in tutta l'Europa occidentale. L'Italia sola costituì anche
in questo riguardo una singolare eccezione. Infatti, per quanto grande
vi fosse lo spavento dei Turchi e per quanto serio il pericolo, non
vi fu tuttavia quasi nessuno Stato di qualche importanza, che, almeno
una qualche volta, non abbia slealmente cospirato con Maometto II e
co' suoi successori a danno di altri Stati italiani. E dove ciò non
seguì effettivamente, lo si sospettò almeno sempre reciprocamente, nè
in ciò v'era maggiore malignità di quando, per esempio, i Veneziani
incolparono l'erede del trono di Napoli, Alfonso, di aver mandato
appositi incaricati ad avvelenare le cisterne di Venezia[180]. Da un
ribaldo, quale era Sigismondo Malatesta, non poteva aspettarsi nè si
aspettava di meglio, se non che una volta o l'altra chiamasse in Italia
i Turchi[181]. Ma anche gli Aragonesi di Napoli, ai quali Maometto —
e, si pretende, ad istigazione di altri governi italiani[182] — tolse
un giorno Otranto, aizzarono in seguito il sultano Bajazet II contro
Venezia[183]. Della stessa colpa fu accusato anche Lodovico il Moro:
«il sangue dei caduti e il grido de' vecchi prigionieri venuti in
mano ai Turchi invocano da Dio su lui la vendetta», scrive l'annalista
del suo Stato. In Venezia, dove si sapeva tutto, si sapeva anche che
Giovanni Sforza, principe di Pesaro e cugino del Moro, aveva albergato
in sua casa gli ambasciatori turchi, che passavano per di là diretti a
Milano[184]. Dei Papi del secolo XV i due più rispettabili, Nicolò V
e Pio II, sono morti in profondo rammarico pei progressi dei Turchi,
anzi l'ultimo in mezzo agli apprestamenti di una crociata, che egli
stesso voleva guidare: i loro successori invece truffano il così detto
_obolo turco_ raccolto in tutta la cristianità e profanano l'indulgenza
accordata, facendone una sordida speculazione pecunaria per sè.[185]
Innocenzo VIII si presta a far da carceriere al fuggiasco principe
Zizim verso un tributo annuo pagatogli dal di lui fratello Bajazet II,
e Alessandro VI aiuta a Costantinopoli le pratiche fatte da Lodovico
il Moro per provocare un attacco dei Turchi contro Venezia (1498),
su di che questa lo minaccia della convocazione di un Concilio.[186]
Da ciò può ben vedersi che la famosa alleanza di Francesco I con
Solimano II non aveva in sè nulla di nuovo, nè di inaudito. Del resto
non mancavano neanche talune popolazioni, alle quali la signoria dei
Turchi non pareva omai più una cosa così spaventevole. E quand'anche
esse non l'avessero fatta servire che come una minaccia contro governi
eccessivamente tirannici all'interno, sarebbe pur sempre questo un
indizio, che si era già cominciato a famigliarizzarsi con questa idea.
Già ancora nel 1480 Battista Mantovano lascia chiaramente intendere,
che la maggior parte degli abitanti della costa adriatica prevedevano
qualche cosa di simile, ed Ancona anzi se ne mostrava desiderosa.[187]
Allorquando la Romagna sotto Leone X sentì più che mai il peso
dell'oppressione, un inviato di Ravenna non esitò a dire apertamente
al legato pontificio, il cardinale Giulio de' Medici: «Monsignore,
la serenissima Repubblica di Venezia non ci vuole, per non entrare in
contese colla Chiesa; ma se il Turco verrà a Ragusa, noi ci daremo a
lui»[188].

Di fronte all'assoggettamento omai cominciato d'Italia per opera degli
Spagnuoli è un conforto ben meschino, ma non del tutto irragionevole,
il pensare, che almeno per questo assoggettamento l'Italia andò salva
dalla barbarie, alla quale l'avrebbe ricondotta la signoria turca.[189]
Da sè sola, divisa com'era, difficilmente avrebbe potuto sottrarsi a un
tale destino.


Se, dopo tutto questo, qualche cosa di buono può dirsi della politica
italiana d'allora, ciò non può riferirsi che al modo positivo,
spregiudicato e pratico di trattar le questioni, che non erano
intorbidate nè da paura, nè da passione, nè da male intenzioni. Qui
non esiste più il sistema feudale nel senso inteso dai settentrionali,
co' suoi diritti dedotti paradossalmente; ma la potenza di fatto che
ognuno possiede, la possiede, di regola, per intero. Qui al seguito
del principe non si ha quella nobiltà riottosa, che altrove tien desto
nell'animo del monarca un astratto punto d'onore e tutte le strane
conseguenze che ne derivano, ma principi e consiglieri convengono
in questo, che non si deve agire che conformemente allo stato delle
cose e secondo gli scopi, che si vogliono conseguire. Contro gli
uomini, dei quali si accettano i servigi, contro gli alleati, da
qualsiasi parte essi vengano, non esiste nessun pregiudizio di casta,
che possa per avventura tenerne lontano qualcuno, e una prova anche
soverchia se ne ha nella posizione fatta ai Condottieri, dei quali
riesce perfettamente indifferente l'origine. Per ultimo i governi, in
mano di despoti illuminati, conoscono il proprio paese e quello dei
lor vicini incomparabilmente più addentro, che i loro contemporanei
d'oltr'alpe non conoscessero i loro, e calcolano la capacità di giovare
o di nuocere di amici e nemici sin nei menomi particolari, tanto nel
rispetto morale che economico: in una parola, appajono, ad onta dei più
grossolani errori, nati fatti per la politica.


Con uomini di questa tempra si poteva trattare, si poteva tentare la
persuasione e sperare anche di convincerli, quando si mettessero loro
dinanzi buone ragioni di fatto. Quando Alfonso il Magnanimo di Napoli
cadde prigioniero (1434) nelle mani di Filippo Maria Visconti, egli
seppe persuadere quest'ultimo che il dominio della casa d'Angiò sopra
Napoli, sostituito al suo, avrebbe reso i Francesi padroni di tutta
Italia, e il duca mutò proposito, rilasciò Alfonso senza riscatto,
e si strinse in alleanza con esso.[190] Difficilmente un principe
settentrionale avrebbe operato così, e certamente poi nessuno, che
in fatto di moralità avesse avuto gli strani principj del Visconti.
Una ferma fiducia nella potenza delle ragioni di fatto appare anche
nella celebre visita, che Lorenzo il Magnifico fece, tra lo spavento
generale dei Fiorentini, allo sleale Ferrante di Napoli, il quale
certamente risentì la tentazione non troppo benevola di ritenerlo
prigioniero.[191]

Ma l'imprigionare un gran principe e il lasciarlo poi vivo e
libero, dopo strappatagli qualche concessione e inflittegli profonde
umiliazioni, come fece Carlo il Temerario con Luigi XI a Péronne
(1468), agli Italiani d'allora sarebbe sembrata una vera follia;[192]
per ciò Lorenzo o non si aspettava più, o si aspettava colmo di gloria.
— Del medesimo tempo è altresì un'arte di persuasione politica tutta
propria degli ambasciatori veneziani, della quale oltre le Alpi non
s'ebbe un'idea se non per mezzo degl'Italiani, e che non deve essere
giudicata dai discorsi recitati nei ricevimenti ufficiali, perchè
questi ultimi sono un prodotto rettorico delle scuole umanistiche,
e nulla più. E non mancano nemmeno tratti violenti e ingenuità
singolari,[193] a dispetto del ceremoniale, che rigorosamente è
osservato. Ma anche in questo niuno appare tanto originale, quanto
il Machiavelli nelle sue «Legazioni». Fornito di scarse istruzioni,
malamente equipaggiato, trattato sempre come un incaricato di
secondo ordine, egli tuttavia non perde mai il suo spirito elevato
di osservazione e di profonda indagine. — Da indi in poi l'Italia è e
rimane di preferenza il paese delle «Istruzioni» e delle «Relazioni»
politiche. Anche altri Stati certamente negoziano con somma abilità,
ma l'Italia soltanto ce ne ha conservato in sì gran numero le prove
documentate, che risalgono ad un tempo così lontano. Già il lungo
dispaccio intorno agli ultimi momenti della vita del torbido Ferrante
di Napoli (17 gennaio 1494), scritto di mano del Pontano e indirizzato
al gabinetto di Alessandro VI, porge la più alta idea di questo genere
di scritti politici, eppure non è stato citato che incidentalmente e
come uno dei moltissimi da lui lasciati.[194] Ma quanti di non minore
importanza e vivacità, inviati ad altri gabinetti sul finire del secolo
XV e sul cominciare del XVI, non giaceranno inediti, per tacere anche
dei posteriori! — Però dello studio dell'uomo nel rapporto sociale e
privato, che va di pari passo con lo studio delle condizioni generali
di questi italiani, ci occuperemo più innanzi in apposita trattazione.



CAPITOLO X.

La guerra come opera d'arte.

    Le armi da fuoco. — Conoscitori e dilettanti. — Orrori
    guerreschi.


Giunti a questo punto, diremo ora in poche parole come a questo tempo
anche la guerra abbia assunto il carattere e l'aspetto di una vera
opera d'arte. Durante il medio-evo l'educazione guerresca in tutto
l'occidente era perfetta dentro la cerchia del sistema prevalente di
difesa e d'attacco; inoltre vi furono anche in ogni tempo ingegnosi
inventori nell'arte delle fortificazioni e degli assedi; ma tanto la
strategia, quanto la tattica trovarono non pochi ostacoli al pieno
loro svolgimento nella natura stessa e nella durata del servizio
militare, nonchè nelle ambizioni della nobiltà, la quale di fronte
al nemico era capace di ostinarsi a questionare sulla preminenza del
posto e di mandar a male in tal modo colla sua indisciplina le più
importanti fazioni, come accadde in quelle di Crécy e di Maupertuis.
Presso gl'Italiani invece prevalse assai per tempo il sistema delle
truppe mercenarie affatto diversamente organizzate, ed anche la
sollecita introduzione delle armi da fuoco contribuì dal canto suo non
poco a demoralizzare in certo modo la guerra, non solamente perchè
i castelli meglio agguerriti tremavano all'urto delle bombarde, ma
perchè l'abilità dell'ingegnere, del fonditore e dell'artigliere,
sorti dalla borghesia, acquistava ogni dì più la prevalenza. Si vedeva
infatti, e non senza rincrescimento, che il valore personale — che era
tutto nelle piccole compagnie mercenarie egregiamente organizzate —
veniva a scemare non poco di pregio dinanzi a quei potenti mezzi di
distruzione che agivano sì da lontano, e non mancarono Condottieri,
che, non potendo altro, si rifiutarono almeno di ammettere il fucile da
poco inventato in Germania,[195] come fece Paolo Vitelli, il quale per
di più faceva cavar gli occhi e tagliare le mani agli schioppettieri
che gli capitavano tra mano[196], mentre poi accettava e adoperava
i cannoni come armi legittime. Ma nella generalità si lasciarono
prevalere le nuove invenzioni e si cercò di trarne il maggior profitto
possibile, per modo che gl'Italiani tanto pei mezzi d'attacco,
quanto per la costruzione delle fortezze divennero i maestri di tutta
Europa. Principi quali un Federigo da Urbino e un Alfonso di Napoli,
si procurarono tali cognizioni in questa materia da far parere quasi
un principiante in loro confronto lo stesso imperatore Massimiliano
I. In Italia, prima che altrove, si hanno una scienza ed un'arte
della guerra trattate in modo affatto sistematico e razionale, e qui
pure s'incontrano i primi esempi di guerre condotte con un intento
puramente artistico, quale poteva conciliarsi benissimo coi frequenti
mutamenti di parte o col modo di agire affatto spassionato e neutrale
dei Condottieri. Durante la guerra milanese-veneziana del 1451 e
52, combattuta tra Francesco Sforza e Jacopo Piccinino, seguiva il
quartier generale di quest'ultimo il letterato Porcellio, incaricato
dal re Alfonso di Napoli di stendere su di essa una Relazione.[197]
Questa è scritta in un latino non troppo puro, ma facile, colle
ampollosità umanistiche allora in uso, e nel complesso tende ad imitare
i commentari di Giulio Cesare, con fioriture di concioni, prodigi e
simili: e siccome da cento anni si disputava, se Scipione l'Africano il
vecchio fosse stato più grande di Annibale o Annibale di Scipione,[198]
così il Piccinino dovette rassegnarsi a fare in tutta l'opera le parti
di Scipione, come lo Sforza faceva quelle di Annibale. Ma anche sulle
truppe milanesi dovendo pur riferire qualche cosa di positivo, il
sofista non esitò di presentarsi allo Sforza, il quale lo fe' condurre
per tutte le file: egli lodò altamente ogni cosa e promise di eternare
ne' suoi scritti quanto aveva veduto.[199] Del resto, la letteratura
italiana d'allora è ricca di descrizioni guerresche e di aneddoti tanto
per uso del dotto teorico, quanto delle persone colte in generale, e
ciò forma un forte distacco dalle relazioni contemporanee redatte al
nord, dove per esempio, quella di Diebold Schilling sulla guerra di
Borgogna conserva ancora la nuda ed arida esattezza di una informe
cronaca. Fu allora che il gran dilettante di cose guerresche,[200]
il Machiavelli, scrisse la sua «Arte della guerra». Ma lo sviluppo
subbiettivo del guerriero preso individualmente trovò la sua più
compiuta espressione in quelle lotte solenni di due o più parti, che
già molto tempo prima della sfida di Barletta (1503) erano in uso.[201]
In queste il vincitore era sicuro di un genere di apoteosi, che gli
mancava al nord: quella che gli veniva dalla bocca dei poeti e degli
umanisti. Nell'esito di queste lotte non si vede più il giudizio di
Dio, ma una vittoria del valor personale, e — per gli spettatori — la
decisione di una gara assai tesa, insieme ad una soddisfazione data
alle velleità ambiziose di un esercito o della intera nazione.

S'intende da sè che tutti questi modi di trattar le cose di guerra
da un punto di vista razionale e subbiettivo non mancavano, in date
circostanze, di far luogo anche ad orribili crudeltà, senza che ci
entrasse nemmeno l'odio politico, ma solo in vista di permettere
un saccheggio, che per avventura fosse stato promesso. Dopo la
spogliazione di Piacenza, che non durò meno di quaranta giorni e che lo
Sforza avea dovuto concedere ai suoi soldati (1447), la città per buon
tratto rimase vuota del tutto, e per ripopolarla nuovamente si dovette
usar la violenza.[202] Ma tali fatti sono ancor poco in paragone dei
mali, che l'Italia ebbe a soffrire più tardi dalle truppe straniere,
e specialmente poi da quegli Spagnuoli, nei quali forse una vena di
sangue arabo e fors'anche l'abitudine alle atrocità della Inquisizione
svegliarono il lato più perverso della natura umana. Chi impara a
conoscerli nelle nefandità commesse a Prato, a Roma ed altrove, non
sa poi qual concetto formarsi di Ferdinando il Cattolico e di Carlo
V, che, pur conoscendo l'indole di tali mostri, non si peritarono
tuttavia di lasciarli inferocire a loro talento. Il cumulo degli atti
consumatisi nei loro gabinetti, e che mano mano vengono prodotti alla
luce del giorno, potrà restare come una fonte storica della più alta
importanza; — ma nessuno negli scritti di tali principi cercherà più un
pensiero politico vivificatore.



CAPITOLO XI.

Il Papato e i suoi pericoli.

    Posizione di fronte all'estero e all'Italia. — Torbidi a Roma
    da Nicolò V in poi. — Sisto IV signore di Roma. — Progetti del
    cardinale Pietro Riario. — Il nepotismo politico in Romagna. —
    Cardinali di case principesche. — Innocenzo VIII e suo figlio.
    — Alessandro VI come spagnuolo. — Relazioni coll'estero e
    simonia. — Cesare Borgia e suoi rapporti col padre. — Suoi
    ultimi progetti. — Minacciata secolarizzazione dello Stato
    pontificio. — I mezzi violenti. — Gli assassinii. — Gli ultimi
    anni. — Giulio II restauratore del Papato. — Elezione di Leone
    X. — Suoi progetti pericolosi in politica. — Pericoli esterni
    crescenti. — Adriano VI. — Clemente VII e il sacco di Roma. —
    Conseguenze di esso e reazione. — Riconciliazione di Carlo V
    col Papa. — Il Papato della Contro-riforma.


Del Papato e dello Stato pontificio, come creazioni affatto
eccezionali, noi non ci siamo occupati fin qui se non incidentalmente
affatto e solo per istabilire il carattere degli Stati italiani in
generale.[203] Allo Stato pontificio mancava quasi affatto ciò che
invece caratterizza in modo speciale gli altri Stati, vale a dire il
ben calcolato aumento e la concentrazione dei mezzi della potenza,
appunto perchè il potere spirituale aiutava dal canto suo a coprire e
a sostituire il difettoso svolgimento del temporale. Eppure per quali
solenni prove non è esso passato nel secolo XIV e nei primi anni del
XV! Quando il Papato fu trasportato nella cattività di Avignone, tutto
andò in sulle prime a soqquadro, ma la corte avignonese aveva danari,
truppe ed un grand'uomo di Stato, che al tempo stesso era un gran
capitano, lo spagnuolo Albornoz, che sottomise e tornò all'obbedienza
i ribelli. E di gran lunga ancora più grave fu il pericolo di un
definitivo sfacelo, allorchè sopraggiunse lo scisma, e coll'andar
del tempo nè il papa romano, nè quello di Avignone aveano forze e
ricchezze bastanti per sottomettere nuovamente lo Stato perduto; ma,
dopo restaurata l'unità della Chiesa, la cosa riuscì nuovamente sotto
Martino V, e riuscì una seconda volta ancora, dopochè sotto Eugenio
IV il pericolo s'era ancor rinnovato. Senonchè lo Stato della Chiesa
era, e rimase per allora, una completa anomalia fra tutti gli altri
Stati d'Italia: in Roma e nel suo territorio resistettero al potere dei
Pontefici le grandi famiglie dei Colonna, dei Savelli, degli Orsini,
degli Anguillara ed altre: nell'Umbria, nelle Marche, nelle Romagne,
se non v'era più quasi nessuna di quelle repubbliche, alle quali il
Papato s'era mostrato sì poco riconoscente pel loro attaccamento, vi
era invece una moltitudine di grandi e piccole case principesche,
l'ubbidienza e la fedeltà delle quali non volevano dire gran cosa.
Come dinastie a sè e sussistenti per forza propria, hanno tuttavia
anche esse la loro speciale importanza, e da questo punto di vista noi
trovammo più sopra (v. pag. 37, 59) conveniente di toccare almeno di
quelle che primeggiavano sulle altre. Ciò non ostante, non vogliamo
dispensarci qui da alcune brevi considerazioni sullo Stato della Chiesa
preso nel suo insieme. Esso sin dalla metà del secolo XV trovasi
esposto a nuove crisi e a nuovi pericoli, perchè lo spirito della
politica italiana cerca da diverse parti d'invadere anche la Curia e
di tirarla nelle sue vie. Ma i pericoli che vengono dal di fuori o dal
popolo, sono sempre i minori; i maggiori hanno la loro origine nelle
tendenze stesse dei Papi.

Innanzi tutto lasciamo da parte i paesi esteri di là dalle Alpi. Se in
Italia il Papato trovavasi sotto la minaccia di pericoli gravissimi,
non era certamente quello il momento, in cui avessero potuto o
voluto prestargli un aiuto nè la Francia sotto la tirannia di Luigi
XI, nè l'Inghilterra ai primordi della guerra delle due Rose, nè la
Spagna in preda ai più grandi rivolgimenti, nè la Germania stessa
tradita nel concilio di Basilea. Anche in Italia v'era bensì un certo
numero di uomini colti ed idioti, che riguardavano come un vanto
nazionale la presenza del Papa nel paese, ma i più per soli interessi
privati, e moltissimi per una gran fede nel valore delle benedizioni
papali,[204] tra i quali quello stesso Vitellozzo Vitelli, che invocava
l'assoluzione di Alessandro VI nel momento stesso, in cui il figlio del
Papa lo faceva strozzare.[205] Ciò non ostante, tutte queste simpatie
non sarebbero bastate a salvare il Papato di fronte ad avversari
veramente risoluti, e che avessero saputo trar profitto dall'odio e dal
rancore che esistevano contro di lui.

Ora egli fu appunto in un momento di così generale abbandono, che anche
all'interno si manifestarono i più serii pericoli. Già pel fatto stesso
del trovarsi la Chiesa imbevuta delle stesse massime che informavano
la politica degli altri principati italiani, essa doveva sentirne le
scosse più fiere: il suo proprio carattere v'arrecò poi urti affatto
particolari.


Per quanto riguarda, prima d'ogni altra cosa, la città di Roma, era
già da tempo invalsa la consuetudine di non dare importanza alcuna
alle sue agitazioni interne, poichè tanti Papi cacciati da tumulti
popolari erano sempre tornati, e i Romani stessi dovevano nel proprio
interesse desiderare la presenza della Curia a Roma. Ma non è men vero
per questo, che Roma di tempo in tempo non solo si mostrò proclive ad
idee più o men radicali,[206] ma nelle cospirazioni che minacciavano la
sicurezza dei Pontefici, ubbidì a mani invisibili, che la guidavano dal
di fuori. Così accadde, per esempio, nella congiura di Stefano Porcari
contro quel Papa, che per l'appunto aveva procurato a Roma i maggiori
vantaggi, Nicolò V (1453). Il Porcari mirava ad un rovesciamento della
signoria dei Papi in generale, e in ciò avea grandi complici, i quali
bensì non vengono nominati,[207] ma devono cercarsi fra i governi
italiani d'allora. Sotto lo stesso pontificato Lorenzo Valla chiudeva
la sua famosa invettiva contro la donazione di Costantino, augurando
l'immediata secolarizzazione dello Stato pontificio.[208]

Anche la congrega di cospiratori, colla quale ebbe a lottare Pio II
(1495), non nascondeva che il suo scopo era in generale la caduta
del dominio dei preti, e il capo di essa, Tiburzio, ne riversava la
colpa sui profeti, che gli avevano promesso l'adempimento di quel
suo desiderio in quello stesso anno.[209] Parecchi grandi romani, il
principe di Taranto e il condottiero Jacopo Piccinino n'erano complici
e promotori. E se si ripensa al ricco bottino, che ad ogni momento
poteva riguardarsi come pronto nei palazzi dei maggiori prelati (i
congiurati aveano messo gli occhi specialmente sui tesori del cardinale
di Aquileja), sorprenderà piuttosto che in una città quasi sempre così
priva di sorveglianza tali tentativi non fossero invece più frequenti e
più fortunati. Non per nulla Pio II risiedeva più volentieri dovunque,
anzichè a Roma, ed anche Paolo II ebbe a provare nel 1468 un forte
spavento per una congiura, supposta o reale, di questa specie[210]. I
Pontefici dovevano o quando che sia soggiacere a tali assalti, o domare
colla forza le fazioni dei grandi, sotto la protezione dei quali simili
rapaci tentativi venivano ogni dì più aumentando.


E questo fu appunto il compito che si propose il terribile Sisto IV.
Egli fu il primo ad aver Roma e il suo territorio quasi compiutamente
nelle sue mani, massimamente dopo la persecuzione inflitta ai
Colonnesi, e per questo potè anche, sì negli affari della Chiesa, come
in quelli della politica italiana, procedere con tanta franchezza di
fronte alle lagnanze e perfino alle minaccie di convocare un Concilio,
che venivano dall'occidente. I mezzi necessarii li forniva una simonia,
che tutto ad un tratto cominciò ad eccedere ogni misura, e alla quale
soggiacevano tanto le nomine dei cardinali, quanto quelle dei dignitari
inferiori, nonchè le grazie o concessioni di qualsiasi specie[211].
Sisto stesso non avea potuto ottenere la dignità papale senza ricorrere
ad un tal mezzo.

Era naturale che una corruzione così universalmente estesa dovesse
quando che sia tirare addosso alla sedia papale disastrosissime
conseguenze; ma queste in allora sembravano ancora molto lontane.
Diversamente invece andò la cosa rispetto al nepotismo, che minacciò
perfino un momento di rovesciare dai cardini il Pontificato. Fra tutti
i nipoti, il cardinale Pietro Riario fu quegli, che in sulle prime
godeva il maggiore e quasi l'esclusivo favore di Sisto, nel tempo
stesso che del suo nome riempiva tutta l'Italia, sia pel suo lusso
smodato, sia per le voci che correvano sulla sua empietà e sulle sue
mire politiche.[212] Egli s'accordò col duca Galeazzo Maria di Milano
(1473), allo scopo che questi dovesse diventar re della Lombardia ed
aiutar poi lui con danaro e con uomini a salire sul trono papale al
suo ritorno in Roma: Sisto, a quanto sembra, glielo avrebbe ceduto
spontaneamente.[213] Questo progetto, che sarebbe riuscito ad una
secolarizzazione dello Stato pontificio mediante l'ereditarietà del
trono, fallì poi per la morte subitanea di Pietro. Il secondo nipote,
Girolamo Riario, non abbracciò lo stato ecclesiastico e non toccò
quindi il Pontificato; ma dopo di lui i nipoti dei Papi tennero in
continui scompigli l'Italia con gli sforzi che fecero per procacciarsi
un gran principato. Per lo innanzi alcuni Papi aveano tentato di
far valere la loro supremazia feudale su Napoli a favore dei loro
congiunti;[214] ma, dopochè ciò non era riuscito neanche a Calisto III,
non era il caso di più pensarvi, e Girolamo Riario, deluso anche nel
tentativo di assoggettar Firenze (e chi sa in quanti altri progetti),
dovette accontentarsi di fondare una Signoria nello Stato stesso
della Chiesa. Fino ad un certo punto la cosa poteva giustificarsi
col dire che la Romagna, co' suoi principi e tiranni sparsi per le
città, minacciava già di svincolarsi compiutamente dalla supremazia
papale, che essa in breve avrebbe potuto divenir preda degli Sforza o
dei Veneziani, se Roma non si appigliava a questo spediente. Ma chi,
in tempi simili e in tali condizioni, si sarebbe fatto mallevadore
di un'obbedienza durevole da parte di tali nipoti divenuti sovrani
o dei loro discendenti verso Papi, coi quali non avessero più alcun
vincolo di parentela? Perfino i Papi ancora viventi non erano sicuri
dei propri figli o nipoti, perchè troppo prossima era la tentazione di
cacciare il nipote di un predecessore per sostituirvi il proprio. Il
contraccolpo di questo stato di cose sul Papato stesso costituiva un
pericolo gravissimo: esso si trovava, cioè, costretto ad usar tutti i
mezzi coercitivi, anche gli spirituali, per uno scopo dei più equivoci,
al quale dovevano subordinarsi tutti gli altri della sedia papale; e se
l'intento era raggiunto con tali mezzi e fra l'odio di tutti, si creava
una dinastia, che avrebbe avuto il più grande interesse alla caduta del
Papato.

Quando Sisto morì, Girolamo non potè sostenersi nel principato usurpato
(Imola e Forlì) se non a gran fatica e soltanto colla protezione e
l'aiuto della famiglia Sforza, dalla quale usciva sua moglie. Ora nel
Conclave successivo (1484), — nel quale fu eletto Innocenzo VIII, — si
vide un fatto, che somigliava quasi ad una nuova garanzia esterna del
Papato, vale a dire due cardinali di case regnanti, che per denaro e
dignità si lasciarono vergognosamente corrompere: Giovanni d'Aragona,
figlio del re Ferrante, ed Ascanio Sforza, fratello del Moro.[215] Così
almeno le due case di Napoli e di Milano s'interessavano, per amor del
bottino, al mantenimento della signoria papale. Anche nel Conclave
seguente, nel quale tutti i cardinali simoneggiarono, ad eccezione
di soli cinque, Ascanio si lasciò nuovamente corrompere con forti
donativi, non senza riserbarsi però la speranza di divenir Papa egli
stesso un'altra volta.[216]

Lorenzo il Magnifico dal canto suo desiderava altresì che la casa
Medici non andasse colle mani vuote. Egli diè in moglie sua figlia
Maddalena al figlio del nuovo Papa, Franceschetto Cybo, e s'attendeva
non solo ogni specie di favori per suo figlio Giovanni (il futuro Leone
X), ma anche un sollecito innalzamento del genero.[217] Però, quanto a
quest'ultima speranza, egli pretendeva l'impossibile. Sotto Innocenzo
VIII non era il caso di veder sorgere quell'audace nepotismo, che
fondava Stati, appunto. per questo che Franceschetto era uomo di scarso
ingegno e, al pari del Papa suo padre, non era sollecito d'altro che di
godere la potenza nel modo il più grossolano, specialmente accumulando
enormi somme di danaro[218]. Tuttavia la maniera, colla quale il padre
e il figlio condussero quell'affare, alla lunga non avrebbe mancato
di riuscire ad una pericolosissima catastrofe, lo scioglimento dello
Stato.

Se Sisto s'era arricchito colla vendita di ogni sorta di grazie e
di dignità, Innocenzo e suo figlio eressero addirittura una banca di
grazie temporali, nella quale, dietro il pagamento di tasse alquanto
elevate, poteva ottenersi l'impunità per qualsiasi assassinio e
delitto: di ogni ammenda cento cinquanta ducati ricadevano alla Camera
papale, il di più a Franceschetto. E così Roma, come era naturale,
negli ultimi anni specialmente di questo pontificato, formicolava
d'ogni parte di assassini protetti e non protetti: le fazioni, la cui
repressione era stata la prima opera di Sisto, rialzarono il capo in
modo spaventoso: ma il Papa, chiuso e ben custodito nel Vaticano,
non si preoccupava d'altro, che di porre qua e là qualche agguato,
per farvi cader dentro malfattori, che avessero mezzi di ben pagare.
Per Franceschetto la questione principale era di sapere come avesse
potuto piantar tutti con quanti più tesori poteva, nel caso che il Papa
venisse a morire. Egli si tradì una volta nell'occasione che di questa
morte, omai aspettata, corse una falsa notizia (1490); addirittura
egli voleva portare con sè tutto il danaro esistente nelle casse, e
quando quelli stessi che lo circondavano, glielo impedirono, volle
almeno che lo seguisse il principe turco Zizim, che egli riguardava
come un capitale vivente da potersi cedere per avventura a patti
vantaggiosissimi a Ferrante di Napoli.[219] Egli è sempre malagevole
il voler calcolare tutte le eventualità politiche di un'epoca omai
remota: ma qui sorge da sè la domanda: come Roma sarebbe stata in
grado di sostenersi con due o tre pontificati di questo genere? Di
fronte poi all'Europa niuna maggiore imprudenza che lasciar andare
le cose tant'oltre, che non soltanto i viaggiatori e i pellegrini,
ma un'ambasceria intera spedita da Massimiliano, re dei Romani, fu in
prossimità di Roma assalita e spogliata così completamente, che taluni
degl'inviati tornarono addietro senza nemmeno aver toccato le porte
della città!


Alessandro VI, uomo dotato di attitudini non comuni, salì al potere
coll'idea di goderlo nel pieno significato della parola (1492-1503):
e siccome con questa idea non poteva certamente conciliarsi uno stato
di cose, quale lo abbiamo descritto, il primo suo atto fu l'immediato
ristabilimento della pubblica sicurezza e il puntuale pagamento di
tutti gli stipendi.

Rigorosamente parlando, noi potremmo qui pretermettere questo
Pontificato, appunto perchè non parliamo che delle diverse forme che
assunse la civiltà italiana, e i Borgia non erano italiani più di
quello che lo fosse la casa allora regnante di Napoli. Alessandro,
parlando in pubblico con Cesare, si serviva sempre della lingua
spagnuola: Lucrezia al suo ingresso in Ferrara (dove portò le mode
spagnuole) fu festeggiata da buffoni pure spagnuoli: di spagnuoli
si compose il servidorame più fidato della famiglia, nonchè le bande
famigerate di Cesare nella guerra del 1500, e pare che lo stesso suo
carnefice, don Micheletto, e il suo avvelenatore Sebastiano Pinzon
sieno stati anch'essi spagnuoli. Finalmente anche Cesare, fra le altre
sue gesta, si mostrò vero spagnuolo, quando atterrò, secondo tutte
le regole dell'arte, sei tori selvaggi in campo chiuso. La corruzione
soltanto, di cui questa famiglia sembra la personificazione vivente,
non potrebbe dirsi portata a Roma da essa, quando già, come vedemmo, vi
preesisteva e in sì larga misura.

Di questi Borgia e delle loro gesta molto e in più modi fu scritto. Il
loro scopo immediato era l'assoggettamento completo dello Stato della
Chiesa, e lo ottennero in fatto, schiacciando tutti i piccoli signori
— più o meno impotenti vassalli della Chiesa — o annientandoli,[220]
e togliendo di mezzo in Roma le due grandi fazioni che la
padroneggiavano, gli Orsini che la pretendevano a Guelfi, i Colonnesi
che avrebbero voluto passare per Ghibellini. Ma i mezzi, di cui si fece
uso, furono così spaventevoli, che il Papato necessariamente avrebbe
dovuto andare in rovina, se un avvenimento incidentale (l'avvelenamento
contemporaneo del padre e figlio) non avesse improvvisamente mutato
la faccia delle cose. — Vero è che all'indegnazione che sorgeva dalle
coscienze di tutto l'Occidente, Alessandro non avea bisogno di badare
gran fatto: intorno a sè egli sapeva farsi temere e rispettare: i
principi stranieri si lasciavano comperare e Luigi XII specialmente
gli prestò ogni ajuto possibile; e quanto alle popolazioni, esse non
avevano nemmeno un sentore di quanto accadeva nell'Italia di mezzo.
L'unico momento veramente pericoloso, nell'approssimarsi di Carlo VIII,
passò contro ogni aspettazione felicemente, e d'altronde anche allora
non trattavasi del Papato come tale,[221] ma di una deposizione di
Alessandro per far luogo ad un Papa migliore. Il massimo e durevole e
sempre crescente pericolo pel Pontificato stava in Alessandro stesso e
più ancora in suo figlio Cesare Borgia.

Nel padre l'ambizione, l'avidità e la depravazione erano congiunte
con un'indole energica, e con tendenze assai splendide. Tutti i
godimenti che può dar la potenza, egli volle goderli sino dal primo
giorno e in ampia misura. Nella scelta dei mezzi che doveano condurlo
al suo scopo, egli non si mostrò mai titubante: sin dalle prime tutti
seppero che egli non intendeva di rifarsi soltanto dei sacrificii
fatti per ottenere il Papato[222], ma voleva senz'altro che la
simonia dell'acquisto fosse ampiamente sorpassata dalla simonia delle
vendite. S'aggiungeva poi che Alessandro, in virtù degli ufficii di
vice-cancelliere ed altri da lui anteriormente coperti, conosceva
meglio d'ogni curiale tutti i mezzi possibili di far danaro. Nè egli
nominò mai nessun cardinale senza un deposito anticipato di somme
considerevoli. — Del resto sin dal 1494 un carmelitano, Adamo da
Genova, che a Roma aveva osato predicare contro la simonia, fu trovato
morto nel suo letto con ben venti ferite.


Ma quando il Papa col tempo cadde sotto il dominio del proprio figlio,
i mezzi violenti presero quel carattere veramente infernale, che
necessariamente reagisce perfin sugli scopi. Ciò che si fece nelle
lotte coi grandi di Roma e coi tiranni delle Romagne supera, in linea
di crudeltà e di perfidia, quanto di peggio commisero gli Aragonesi di
Napoli, con questo di più che le arti, con cui si tradiva, erano assai
più raffinate. Affatto spaventevole è il modo, con cui Cesare giunse
ad isolare il padre, togliendo di mezzo il fratello, il cognato ed
altri congiunti e cortigiani, non appena il favore che essi godevano
presso il Papa e la loro posizione suscitarono in lui qualche ombra
di gelosia, Alessandro fu spinto al punto di dare il suo consenso
all'uccisione del figlio suo prediletto, il duca di Gandia,[223] perchè
tremava per sè stesso dinanzi a Cesare.

Ora quali erano i segreti disegni di quest'ultimo? Ancora negli ultimi
mesi della sua signoria, quando egli appunto aveva finito di sterminare
i condottieri a Sinigaglia ed era di fatto divenuto padrone dello
Stato della Chiesa (1503), ripetevasi abbastanza modestamente da chi
lo avvicinava, che egli non voleva sottomettere se non le fazioni e i
tiranni, e ciò solo a vantaggio della Chiesa, ritenendo per sè tutt'al
più la Romagna, e che quindi non gli sarebbe mancata la riconoscenza
anche di tutti i Papi futuri, ai quali rendeva il più grande servigio,
abbattendo gli Orsini e i Colonna.[224] Ma chi potrebbe ammettere che
questo realmente fosse l'ultimo suo pensiero? Un po' più apertamente
una volta si espresse Papa Alessandro in una conversazione avuta
coll'ambasciatore veneziano, mentre raccomandava suo figlio alla
protezione della Repubblica: «io voglio fare in modo, diss'egli, che
un giorno il Papato tocchi o a lui o alla vostra Repubblica».[225]
Veramente Cesare aggiunse, che non doveva divenir Papa, se non colui
che avesse avuto l'assenso di Venezia, e che a tal uopo i cardinali
veneziani non aveano bisogno che di star bene uniti e compatti. Nessuno
è in grado di dire, se egli con tali parole intendesse alludere a sè
medesimo; ma, in ogni caso, le espressioni del padre bastano bene a
provare quali fossero le sue idee circa l'occupazione del trono papale.
Qualche ulteriore indizio ci viene per via indiretta da Lucrezia
Borgia, potendosi presumere che certi passi delle poesie d'Ercole
Strozza non sieno che l'eco di espressioni, alle quali ella, come
duchessa di Ferrara, può benissimo essersi lasciata andare. Anche qui
innanzi tutto si parla dell'intendimento di Cesare di farsi Papa,[226]
ma in mezzo a ciò traluce altresì qualche cosa che alluderebbe ad una
sperata signoria su tutta l'Italia,[227] e sulla fine si accenna al
fatto che Cesare, qual principe secolare, macchinava cose grandissime e
per questo anche avea deposto una volta il cappello cardinalizio.[228]
Infatti non è a dubitare che Cesare, fosse eletto Papa o no dopo la
morte di Alessandro, pensava a conservare per sè ad ogni costo lo
Stato della Chiesa, e che egli, dopo tutte le scelleratezze commesse,
più facilmente poteva sperare di sostenersi come principe, che come
Papa. Nessuno più di lui sarebbe stato in grado di secolarizzare
lo Stato,[229] e nessuno più di lui avrebbe dovuto farlo, se voleva
continuare a tenerlo. Se noi non c'inganniamo affatto, questo sarebbe
il motivo principale della segreta simpatia, che il Machiavelli
manifesta per questo grande ribaldo: o Cesare, o nessuno sarebbe stato
capace di «estrarre il ferro dalla ferita», vale a dire, di annientare
il Papato, causa di tutti gl'interventi e fonte di tutte le divisioni
d'Italia. — Gl'intriganti che credevano d'indovinare le mire di Cesare,
quando gli facevano balenare agli occhi la possibilità di regnare
sulla Toscana, furono respinti sdegnosamente, a quanto sembra, da lui
medesimo.[230]

Ma forse tutte le logiche deduzioni che si tirano da tali promesse,
riescono vane, — non tanto per una speciale genialità satanica, di cui
altri lo volle fornito, ma che in lui non v'era, come non v'era, per
esempio, nel duca di Friedland; bensì, perchè i mezzi, di cui egli si
servì, erano di quelli che in generale non si conciliano con nessuna
maniera pienamente logica di agire in grande. E nessuno può dire
se, quando l'eccesso dei mali avesse raggiunto l'ultimo limite, una
prospettiva di salute non si sarebbe nuovamente dischiusa pel Papato
anche senza quell'eventualità, che affatto casualmente pose fine alla
sua signoria.

Quand'anche si voglia ammettere che la distruzione di tutti i piccoli
signori sparsi qua e là nello Stato della Chiesa avesse procacciato
a Cesare le simpatie universali, e quand'anche si volesse altresì
far servire di prova ai suoi grandiosi disegni la scelta schiera di
ufficiali e soldati (i migliori d'Italia, con Leonardo da Vinci alla
testa del Genio), ch'egli nel 1503 riuscì a chiamare sotto le sue
bandiere, — ci son tuttavia troppi altri fatti di brutale ferocia, che
contrastano apertamente con tali supposizioni e che rendono incerto
il nostro giudizio su lui, come fu quello dei contemporanei. Tali
sono, per esempio, le devastazioni, alle quali egli lasciò in preda lo
Stato da lui appena conquistato[231] e che pur pensava di conservare
e di governare: tali sono altresì le condizioni, a cui furono ridotte
Roma e la Curia negli ultimi anni di quel pontificato. Sia che padre e
figlio avessero preparato una vera lista di proscrizione,[232] sia che
le uccisioni sieno state comandate separatamente, certo è che i Borgia
agirono di conserva per togliere di mezzo segretamente tutti coloro,
che comecchessia fossero loro d'inciampo o dei quali essi agognassero
farsi eredi. In questi casi essi non si preoccupavano più che tanto
dei capitali e dei beni mobili delle loro vittime, quanto, e assai
più, delle loro rendite personali provenienti dagli ufficii coperti,
che il Papa era sollecito di tener lungamente vacanti per goderne i
proventi, e ch'egli poi rivendeva a nuovi aspiranti a prezzi assai
elevati. L'ambasciatore veneziano Paolo Capello nell'anno 1500 riferiva
al Senato:[233] «ogni notte si hanno a Roma quattro o cinque uccisioni
di vescovi, prelati ed altri dignitari, tanto che tutta la città trema
di essere a poco a poco uccisa dal duca (Cesare)». Questi s'aggirava
notturno per le vie accompagnato da' suoi,[234] e non tanto, a quel che
pare, per nascondere, come Tiberio, il viso divenuto deforme, quanto e
assai più per soddisfare la sua pazza sete di sangue anche su persone
del tutto a lui sconosciute. Ancor nell'anno 1499 la disperazione per
tali fatti era divenuta sì grande ed universale, che il popolo, rotto
ogni ritegno, assalì e scannò parecchi della guardia del Papa.[235] Ma
chi andava salvo dal ferro dei Borgia, non riusciva poi a sottrarsi
al loro veleno. In quei casi, nei quali sembrava necessaria una
certa discrezione, usarono essi di quella polvere candida come neve
e piacevole al gusto,[236] che non uccideva istantaneamente, ma a
poco a poco, e poteva inavvertitamente mescolarsi con ogni cibo e
con ogni bevanda. Il principe Zizim n'avea già fatto il saggio prima
di essere consegnato da Alessandro a Carlo VIII (1495), e sulla fine
della loro carriera si avvelenarono con essa il padre e il figlio,
avendo per isbaglio bevuto del vino destinato ad un ricco cardinale. Il
compendiatore ufficiale della storia dei Papi, Onofrio Panvinio,[237]
cita i nomi di tre cardinali, che Alessandro fece avvelenare (Orsini,
Ferrerio e Michiel), e tocca altresì di un quarto, che Cesare s'era
incaricato di spacciare per proprio conto (Giovanni Borgia); ma in
generale può dirsi che quasi nessun prelato alquanto ricco non morì
a Roma in quel tempo, senza che sulla sua morte non si elevassero
sospetti di questo genere. L'implacabile veleno raggiunse perfino
qualche pacifico scienziato, che avea creduto evitarlo ritirandosi in
qualche oscura città di provincia.

Intanto intorno al Papa le cose cominciarono a non andar più così
allegramente come prima: fulmini e tempeste, che fecero crollare
pareti e stanze, lo avevano già visitato anteriormente e colmatolo
di spavento: ed ora che questi fenomeni si rinnovavano (1500), tutti
credettero che Satana stesso ci avesse parte, e la dicevano «_cosa
diabolica_».[238] La voce di questi fatti sembra abbia cominciato a
diffondersi fra i popoli nell'occasione del Giubileo dell'anno 1500
che fu frequentatissimo;[239] e il traffico scandaloso che allora
si fece delle indulgenze, fece il resto e richiamò l'attenzione di
tutti sulle ignominie di Roma.[240] Oltre ai pellegrini che tornavano
alle loro case, si vedevano passar le Alpi strani penitenti in lunghi
abiti bianchi e tra essi alcuni incappucciati fuggiaschi dello Stato
pontificio, i quali assai probabilmente non avranno taciuto. Ma chi
potrebbe dire sino a qual punto avrebbe dovuto giungere lo scandalo e
l'indignazione di mezza Europa, prima che per Alessandro ne sorgesse
un immediato pericolo? «Egli avrebbe, dice Panvinio altrove,[241]
avvelenato anche gli altri cardinali e prelati, ch'erano in voce di
ricchi, per divenir loro erede, se, in mezzo ai grandi progetti che
macchinava pel figlio, la morte non lo avesse sorpreso». E che cosa
avrebbe fatto Cesare, se nel momento in cui morì suo padre, non si
fosse egli pure trovato infermo sul letto di morte? Qual Conclave non
sarebbe stato quello, dal quale egli, forte di tutti i mezzi, di cui
poteva disporre, fosse uscito Papa per l'elezione di un collegio di
cardinali convenientemente ridotto a furia di veleno, in un momento
in cui non c'era neanche da temere la vicinanza delle armi francesi?
La fantasia si perde in un abisso, qualora soltanto si provi a tener
dietro ad una somigliante ipotesi.


Invece si ebbe il Conclave, dal quale uscì Pio III, e quasi subito
dopo, quello, in cui riuscì eletto Giulio II, due elezioni, che
evidentemente accennano ad un principio di reazione, che manifestavasi
d'ogni parte.

Per quanto anche una critica severa trovasse a ridire sui costumi
privati di Giulio II, certo è nondimeno che nei punti più sostanziali
egli fu l'uomo che salvò il Papato. Osservando attentamente l'andamento
delle cose sotto i pontificati seguiti a quello di suo zio Sisto IV,
egli aveva potuto accorgersi di quali basi e di quali appoggi avea
bisogno la potenza papale per sostenersi, e, divenuto Papa, ordinò
tosto il suo governo in piena conformità a tali viste, portando
all'attuazione de' suoi progetti tutta quell'energia di carattere,
che non si arresta dinanzi a verun ostacolo. Portato al potere
in virtù di abili maneggi, ma senza simonia alcuna, e accolto con
favore dall'opinione universale, egli fe' cessare, per prima cosa, lo
scandaloso traffico delle dignità ecclesiastiche. Anche alla sua corte
non mancarono i favoriti, e talvolta erano i meno degni, ma egli ebbe
l'inestimabile fortuna di andare immune dalla pericolosa piaga del
nepotismo. Suo fratello Giovanni della Rovere avea sposata l'erede di
Urbino sorella di Guidobaldo, l'ultimo dei Montefeltro, e da questa
unione era nato nel 1491 un figlio, Francesco Maria della Rovere, che
al tempo stesso diventava possessore legittimo del ducato di Urbino e
nipote del Papa. Ciò dispensava Giulio da qualunque obbligo di creare
uno Stato alla sua famiglia, e per questo noi lo veggiamo, in tutti gli
acquisti, che o coll'arti della diplomazia o con quelle della guerra
venne facendo, non d'altro sollecito che dell'ingrandimento dello
Stato della Chiesa, che nel fatto alla sua morte lasciò completamente
ricostituito e per di più ingrandito di Parma e di Piacenza, mentre al
suo avvenimento l'avea trovato in piena dissoluzione. Nè dipendette
nemmeno da lui che la Chiesa non abbia potuto avocare a se anche
Ferrara. Si sa altresì che i 700,000 ducati, ch'egli sempre teneva in
serbo in Castel S. Angelo, non dovevano essere in qualsiasi momento,
per ordine suo, rimessi ad altri, fuorchè al suo successore. Al pari
degli altri Papi, ereditò anch'egli dai cardinali, anzi da tutti i
prelati che morivano a Roma, e talvolta anche con mezzi dispotici,[242]
ma non per questo avvelenò, nè uccise nessuno. L'essere andato
in persona al campo non gli giovò certamente, ma fu una necessità
ineluttabile, che tanto più facilmente doveva essergli perdonata in
Italia, in quanto che quello era il tempo, in cui bisognava battere o
essere battuti e in cui il credito personale valeva più di qualsiasi
diritto legittimamente acquistato. Che se poi, ad onta del suo celebre
grido «fuori i barbari!», egli contribuì più di qualunque altro
a far sì che gli Spagnuoli mettessero salde radici in Italia, sta
di fatto altresì che ciò al Papato poteva sembrare una eventualità
indifferente affatto, anzi perfino, sotto un certo aspetto, favorevole
e vantaggiosa. E da chi altri, meglio che dalla Spagna, poteva la
Chiesa attendersi una sincera e durevole devozione,[243] nel momento
stesso in cui tutti i principi italiani non nutrivano che sentimenti
ostili verso di lei? — Ma, comunque sia, l'uomo potente ed originale,
che non poteva soffocare in sè veruno sdegno e neanche nascondere
nessun vero affetto, preso in tutto il suo insieme era l'uomo del
tempo, il _Pontefice terribile_ invocato da tutti. Egli ebbe quindi
pienamente ragione di appellarsi con coscienza relativamente tranquilla
al giudizio di un Concilio e di rispondere in tal modo vittoriosamente
al grido de' suoi avversarii, che da tutte le parti d'Europa ne
domandavano la convocazione. Un regnante di questa tempra aveva bisogno
anche d'incarnare in qualche grandioso monumento la vastità de' suoi
concepimenti: egli pensò alla ricostruzione e all'ampliamento della
chiesa di S. Pietro, e le aggiunte che vi fece il Bramante sono forse
l'espressione più sublime di una potenza, che è conscia di quanto
può e deve a sè stessa. Ma anche nelle altre arti restano le tracce
dell'alta protezione loro accordata da Giulio, nè è senza importanza
il fatto che perfino la poesia latina di quei giorni, parlando di
lui, appare infiammata di un estro, che non seppero mai ispirarle i di
lui predecessori. L'ingresso a Bologna, che si trova descritto sulla
fine dell'_Iter Julii secundi_ del cardinale Adriano da Corneto, ha
una grandiosità tutta affatto speciale, e Giovanni Antonio Flaminio
in una delle sue più belle Elegie ha cantato nel Papa il redentore
d'Italia[244].

Giulio aveva in una fulminea costituzione del Concilio lateranense[245]
proibito la simonia nell'elezione del Papa. Dopo la sua morte (1513)
i cardinali, mossi da un sordido istinto di avarizia, volevano
eludere quel divieto col proporre un patto generale, secondo il quale
le prebende e gli ufficii di colui che sarebbe eletto, dovessero
ripartirsi in proporzioni uguali fra loro, e si sa che il loro
intendimento sarebbe stato di eleggere per l'appunto quegli che
godeva le prebende più pingui, l'inetto Raffaello Riario.[246] Ma una
riscossa, che partiva principalmente dai membri più giovani del sacro
Collegio, mandò all'aria quel misero strattagemma e fu scelto Giovanni
de' Medici, il celebre Leone X.


Noi avremo frequenti occasioni d'incontrarci in questo Papa, ogni volta
che ci accadrà di discorrere dei momenti più splendidi dell'epoca del
Rinascimento: qui adunque e pel nostro scopo ci basterà di accennare,
come sotto di lui il Papato abbia corso nuovamente gravissimi pericoli
tanto al di dentro, quanto al di fuori. Fra questi non contiamo la
congiura dei cardinali Petrucci, Sauli, Riario e Corneto, perchè questa
tutt'al più, riuscendo, avrebbe cagionato un mutamento di persone e
non altro: e d'altronde a Leone fu facile sventarla colla creazione,
inaudita per vero, di trent'un nuovi cardinali in una sola volta,
la quale del resto non fece che produrre un'eccellente impressione,
perchè, in parte almeno, premiava il vero merito.[247]

Sommamente pericolose invece furono certe vie, alle quali si lasciò
tirare Leone nei due primi anni del suo pontificato. Egli aveva infatti
intavolato pratiche molto serie per procurare il regno di Napoli a
suo fratello Giuliano e per creare a suo nipote Lorenzo un gran regno
nell'Italia settentrionale, che abbracciasse Milano, la Toscana,
Urbino, e Ferrara.[248] È evidente a chiunque che lo Stato della
Chiesa, rinserrato per tal modo da tutte parti, avrebbe dovuto finire
col diventare un appannaggio mediceo, senza che nemmeno s'avesse avuto
bisogno di secolarizzarlo.

Il progetto trovò uno scoglio insuperabile nelle condizioni politiche
generali d'allora. Giuliano morì a tempo; tuttavia, per provvedere a
Lorenzo, Leone intraprese l'espulsione del duca Francesco Maria della
Rovere da Urbino, e con ciò si tirò addosso l'odio universale, impoverì
il tesoro, e finì poi, quando anche Lorenzo nel 1519 morì[249], col
dover dare alla Chiesa ciò che con tanta fatica aveva per altri
acquistato: così egli non ne raccolse nemmen quella gloria, che
certamente non gli sarebbe mancata, se quella cessione fosse stata
anteriore e spontanea. Anche ciò che tentò più tardi contro Alfonso
di Ferrara, e che potè realmente condurre ad effetto contro un pajo
di tiranni e Condottieri, non fu tal cosa, da cui potesse venirne
incremento alla sua reputazione. E tutto questo accadeva nel momento
stesso, in cui i monarchi d'Occidente d'anno in anno si andavano ognor
più abituando ad un colossale giuoco di politica, ch'era fatto alle
spese di questo o di quel territorio d'Italia[250]. Chi avrebbe voluto
farsi garante che essi, dopochè la loro potenza all'interno negli
ultimi decenni era immensamente cresciuta, non fossero per allargare
quando che sia le loro viste anche allo Stato della Chiesa? Leone visse
abbastanza per essere testimone di un fatto, che era come il preludio
di ciò che si verificò poi nel 1527: un pugno di fanti spagnuoli
apparve nel 1520, — di proprio impulso, a quanto sembra, — ai confini
dello Stato pontificio, unicamente allo scopo di taglieggiare il
Papa[251], ma si lasciò respingere dalle truppe di quest'ultimo. Anche
la pubblica opinione, di fronte alla corruzione della Curia e della
corte romana, s'era negli ultimi anni svegliata più imperiosa che mai,
ed uomini che vedevano nel futuro, come, per esempio, il giovane Pico
della Mirandola[252], invocavano con forza pronte riforme. Infrattanto
era comparso sulla scena Lutero.


Le riforme vennero sotto il pontificato di Adriano VI, (1521-1523),
ma scarse e insufficienti e ritardate di troppo, di fronte alla
foga invadente del grande movimento tedesco. Adriano non potè far
altro, fuorchè manifestare l'orrore, di cui era compreso per tutte
le piaghe che avean deturpato la Chiesa sino a quel tempo, vale a
dire la simonia, il nepotismo, la prodigalità, il malandrinaggio e la
più profonda immoralità. Nè per allora il pericolo, che minacciava
da parte del luteranismo, sembrava neanche il maggiore: un arguto
osservatore veneziano, Girolamo Negro, presente vicinissima una
spaventevole catastrofe per Roma stessa, e ne esprime il proprio dolore
apertamente[253].


Sotto Clemente VII l'orizzonte di Roma si copre di gravidi vapori
somiglianti a quel plumbeo velo di nebbia sciroccale, che talvolta
vi rende così pericolosi gli ultimi mesi d'estate. Il Papa è inviso
ai vicini e ai lontani: gli uomini più gravi crollano tristamente
il capo[254], e infrattanto sulle pubbliche vie e sulle piazze
s'affacciano eremiti a presagire la rovina d'Italia, anzi del
mondo intero, e a stigmatizzare col nome di Anticristo il Papa
medesimo[255]:la fazione colonnese solleva arditamente il capo in
atto di sfida: l'indomabile cardinale Pompeo Colonna, la cui presenza
soltanto è una minaccia permanente pel Papato[256], tenta una sorpresa
su Roma (1526) nella speranza di poter, coll'aiuto di Carlo V, cingere
senz'altro la tiara, non appena Clemente fosse caduto vivo o morto
nelle sue mani. Per Roma non fu di nessun vantaggio, che quest'ultimo
abbia potuto trovare un rifugio in Castel S. Angelo; ma la sorte, alla
quale egli stesso era serbato, poteva ben dirsi peggiore della morte,
alla quale ora sfuggì.

Con una serie di quelle menzogne, che sono sempre permesse ai forti, ma
che recano la rovina ai deboli, Clemente provocò la venuta delle truppe
austro-spagnuole comandate dal Borbone e da Frundsberg (1527). Egli è
fuor d'ogni dubbio che il gabinetto di Carlo V meditava di prendere del
Papa una fiera vendetta[257], e che l'imperatore non poteva prevedere
anticipatamente quanto oltre nel loro zelo sarebbero andate le orde che
aveva assoldate, ma non pagava. L'arrolamento pressochè gratuito non
avrebbe potuto effettuarsi in Germania, se non si avesse saputo che si
doveva marciare contro Roma. Forse si ritroveranno quando che sia le
istruzioni date in questa occasione al Borbone, e può darsi anche che
esse suonino più miti di quanto ora si possa supporre; ma la storia non
si lascerà travolgere per questo a men severi giudizii. Fu una fortuna
pel cattolico re e imperatore che nè il Papa, nè alcuno dei cardinali
sia stato ucciso dalle sue genti. Se ciò fosse accaduto, nessun sofisma
al mondo avrebbe potuto salvarlo da una gravissima responsabilità.
Ma l'uccisione di innumerevoli persone delle infime classi e la
spogliazione delle altre ottenuta colla tortura o coll'infame mercato,
che se ne fece, mostrano ad esuberanza fino a qual punto fu permesso di
spingere le atrocità nel sacco di Roma.

Carlo V voleva, a quanto pare, far condurre il Papa, che si era
nuovamente rifugiato in Castel S. Angelo, a Napoli, dopo avergli
estorto enormi somme, e se Clemente invece riuscì a fuggire ad Orvieto,
non pare che ciò sia seguito per nessuna connivenza da parte degli
Spagnuoli[258]. Se poi Carlo abbia, almeno per un momento, pensato
alla secolarizzazione dello Stato della Chiesa (alla quale l'opinione
pubblica[259] omai era preparata), e se nel fatto egli se ne sia poi
lasciato distogliere dalle rimostranze di Enrico VIII, è un enigma, che
non potrà mai essere messo in chiaro.

Ma se anche tali intendimenti erano in lui, non furono certo di
lunga durata; e intanto dalla desolazione stessa della città sorge
uno spirito di riforma, che promette una completa restaurazione
della Chiesa e del principato. Il primo a presentirla fu il cardinal
Sadoleto[260]: «Se col nostro dolore, egli scrive, noi diamo una dovuta
soddisfazione allo sdegno e alla giustizia di Dio, se queste terribili
punizioni ci aprono la via a migliorare le nostre leggi e i costumi,
noi forse potremo dire che la nostra sventura non fu la maggiore, che
ci potesse cogliere.... Di ciò che è di Dio, abbia cura Dio stesso; ma
noi abbiamo dinanzi a noi una via di miglioramento, dalla quale nessuna
violenza potrà farci deviare: volgiamo adunque i nostri pensieri
e le nostre azioni all'unico fine di cercare il vero splendore del
sacerdozio e la vera grandezza e potenza in Dio solo».

E nel fatto questo terribile anno 1527 fruttò almeno questo, che la
voce degli uomini più gravi e assennati non cadde inascoltata affatto,
come tante altre volte. Roma avea troppo sofferto per poter pensare
a tornar, nemmeno sotto il pontificato di un Paolo III, l'allegra e
corrotta Roma di Leon X.

Tosto dopo manifestossi pel Papato, fatto segno di tante umiliazioni,
una simpatia d'indole in parte politica e in parte religiosa. I
monarchi non potevano permettere che un loro uguale si arrogasse
l'ufficio di carceriere privilegiato del Papa, e nell'intento di
ridonare a quest'ultimo la sua libertà conclusero per l'appunto il
trattato di Amiens (18 agosto 1527). Con ciò essi ottennero almeno
di far ricadere sull'imperatore tutta l'odiosità dei fatti testè
commessi dalle truppe imperiali. Ma contemporaneamente all'imperatore
creavansi serii imbarazzi anche in Ispagna, dove i prelati ed i
grandi lo tempestavano di rimostranze, quante volte era lor dato
di avvicinarlo. E quando si parlò di una dimostrazione generale del
clero e della cittadinanza, che minacciavano di presentarsi a lui in
forma solenne e in abito di gramaglia, egli se ne spaventò, temendo
si rinnovassero le scene della insurrezione delle comunità poco prima
domata, e volle che a qualunque costo fosse impedita.[261] Egli non
poteva adunque, nemmen volendo, prolungare più oltre la persecuzione
contro il Papato, anzi, prescindendo anche dalla politica estera,
trovavasi imperiosamente costretto a riconciliarsi con esso al più
presto possibile, molto più che non volle mai tener conto nè in questa,
nè in altre occasioni, dello stato dell'opinione pubblica in Germania,
che per vero gli avrebbe additato un'altra via da tenere. Finalmente
non è neanche impossibile, come opinava un veneziano,[262] che la
ricordanza del sacco di Roma gli pesasse sull'anima come un rimorso, e
che appunto per questo egli abbia sollecitato quell'ammenda, che doveva
essere suggellata con lo stabile assoggettamento dei Fiorentini sotto
la tirannide de' Medici. Quasi a conferma di ciò, una figlia naturale
dell'imperatore fu data in moglie al nuovo duca Alessandro.

In seguito Carlo, coll'idea del Concilio, tenne sempre il Papato
nella sua soggezione, e potè ad un tempo medesimo proteggerlo ed
opprimerlo. Ma il maggior pericolo, la secolarizzazione, e propriamente
quella che dovea partire dal di dentro, vale a dire dai Papi e dai
loro nipoti, era eliminato per più secoli per opera della Riforma.
Nella stessa maniera che essa sola rese possibile la spedizione
contro Roma (1527), fu anche causa che il Papato sentisse il bisogno
di essere l'espressione vivente di una potenza mondiale nel campo
delle coscienze, obbligandolo a porsi alla testa di tutti i nemici
di qualsiasi innovazione e a rialzarsi dalla sua gran caduta ad una
vita di moto e d'azione. Ed invero, la gerarchia, che negli ultimi
anni di Clemente VII e sotto i pontificati di Paolo III e di Paolo
IV e dei loro successori a poco a poco e in mezzo alla defezione
di mezza Europa si venne formando, fu una gerarchia affatto nuova e
rigenerata, la quale innanzi tutto si affrettò a togliere i maggiori
e più pericolosi scandali interni, e massimamente il nepotismo avido
di ingrandimenti,[263] e poscia, sostenuta da tutti i principi della
cattolicità e portata da un impulso religioso del tutto nuovo, fece
ogni sforzo per riacquistare quanto aveva perduto. Essa andò debitrice
di tutta questa energia a quei medesimi che l'avevano abbandonata: in
un certo senso si può dunque affermare con tutta verità, che il Papato
sotto il punto di vista morale dovette la sua salvezza a' suoi stessi
nemici. E con la spirituale si venne poi rassodando, benchè sotto
l'assidua sorveglianza spagnuola, anche la potenza temporale, tanto
da accampare in ultimo il privilegio della inviolabilità, e così le fu
possibile, allo spegnersi de' suoi vassalli (le linee legittime degli
Estensi e dei Della Rovere), costituirsi erede incontrastata dei due
ducati di Ferrara e di Urbino. Per converso senza la Riforma — se si
potesse astrarre da essa — tutto lo Stato della Chiesa sarebbe passato
da lungo tempo in mani secolaresche.



CAPITOLO XII.

L'Italia dei patriotti.


Prima di chiudere, ci sia permesso un brevissimo sguardo al
contraccolpo di questo stato di cose sullo spirito della nazione in
generale.

Nessuno durerà fatica a persuadersi che la incertezza delle condizioni
politiche, nelle quali si trovò l'Italia nel secolo XIV e nel XV,
dovesse naturalmente destare sentimenti di patriottico sdegno e di
aperta opposizione in tutti gli uomini privilegiati di attitudini
superiori. Dante e il Petrarca ancora al loro tempo parlano di
un'Italia unita,[264] alla quale devono tendere gli sforzi di tutti.
Si oppone, è vero, da taluni che questo non fu che un entusiasmo di
pochi spiriti colti, di cui la nazione intera non mostrò nemmeno
di accorgersi; ma a costoro si potrebbe domandare se a quel tempo
la nazione tedesca si sarebbe condotta diversamente, quantunque,
di nome almeno, non le mancasse l'unità ed avesse un capo visibile
e universalmente riconosciuto nell'imperatore? Le prime voci
patriottiche della letteratura tedesca (se si eccettuino pochi versi
dei menestrelli) non si odono che in bocca agli umanisti del tempo
di Massimiliano I,[265] e non sembrano che un'eco delle declamazioni
degl'Italiani. Eppure la Germania aveva avuto una nazionalità, quale
l'Italia non possedeva più sino dal tempo dei Romani. La Francia va
debitrice della coscienza della sua unità nazionale principalmente
alle lotte ch'ebbe a sostenere contro gl'Inglesi, e la Spagna per lungo
tratto di tempo fu così sorda a questo sentimento, che non fu in grado
nemmeno di aggregarsi il Portogallo, che pur le è tanto affine. Per
l'Italia l'esistenza dello Stato della Chiesa e le condizioni, nelle
quali soltanto esso poteva esistere, crearono un ostacolo permanente
alla sua unificazione, ostacolo, la cui eliminazione non parve
pressochè mai sperabile. Che se anche, in onta a ciò, qua e colà nelle
corrispondenze politiche del secolo XV si parla con qualche enfasi
della patria comune, ciò non accade, pur troppo, che per provocare
il dispetto di qualche altro Stato pure italiano.[266] I richiami
veramente serii e profondamente tristi al sentimento nazionale non
si odono di nuovo che nel secolo XVI, quando era già troppo tardi, e
Francesi e Spagnuoli avevano inondato il paese.

Quanto al patriottismo locale o di campanile, non potrebbe dirsi
altro, se non che esso teneva il luogo di questo sentimento, ma non lo
sostituiva.



PARTE SECONDA

LO SVOLGIMENTO DELL'INDIVIDUALITÀ



CAPITOLO I.

Lo Stato e l'individuo.

    L'uomo del Medio-Evo. — Il risvegliarsi della personalità. — I
    tiranni e i loro sudditi — L'individualismo nelle Repubbliche.
    — L'esiglio e il cosmopolitismo.


Nell'indole delle repubbliche e dei principati, di cui fin qui s'è
tenuto discorso, sta, se non l'unica, certo la più potente causa, per
cui gl'Italiani, prima d'ogni altro popolo, si trasformarono in uomini
moderni e meritarono di esser detti i figli primogeniti della presente
Europa.

Nel Medio-Evo i due lati della coscienza — quello che riflette in sè
il mondo esterno e quello che rende l'immagine della vita interna
dell'uomo — se ne stavano come avvolti in un velo comune, sotto al
quale o languivano in lento torpore o si movevano in un mondo di puri
sogni. Il velo era tessuto di fede, d'ignoranza infantile, di vane
illusioni: veduti attraverso di esso, il mondo e la storia apparivano
rivestiti di colori fantastici, ma l'uomo non aveva valore se non
come membro di una famiglia, di un popolo, di un partito, di una
corporazione, di cui quasi interamente viveva la vita. L'Italia è
la prima a squarciar questo velo e a considerare lo Stato e tutte le
cose terrene da un punto di vista _oggettivo_; ma al tempo stesso si
risveglia potente nell'italiano il sentimento di sè e del suo valor
personale o _soggettivo_: l'uomo si trasforma nell'_individuo_,[267]
e come tale si afferma. Così una volta il greco si era emancipato di
fronte ai Barbari, e così anche in altri tempi l'arabo si isolò dalle
altre stirpi dell'Asia. Non sarà malagevole il dimostrare come tutto
ciò non fosse che l'effetto delle condizioni politiche, in cui si
trovava il paese.


Già anche in epoche di molto anteriori è facile notare quà e colà
in Italia uno sviluppo della personalità indipendente, quando al
tempo stesso nei paesi al di là delle Alpi non se ne ha ancora
indizio veruno. Il celebre gruppo di ribaldi del secolo X che ci
è dipinto da Luitprando, nonchè più tardi alcuni contemporanei di
Gregorio VII e alcuni avversarii dei primi imperatori di Svevia,
presentano tipi di questo genere. Ma col finire del secolo XIII
l'Italia comincia addirittura a formicolare d'uomini indipendenti,
d'individui che fanno parte per sè stessi; l'anatema, che prima
avea pesato sull'individualità, è tolto per sempre, e a migliaja
sorgono le personalità dotate d'un carattere affatto proprio. Il
gran poema di Dante sarebbe stato impossibile in qualunque altro
paese appunto per questo, che tutto il resto d'Europa sentiva ancora
il peso di quell'anatema: per l'Italia adunque il divino poeta,
portando al suo pieno sviluppo il sentimento dell'individualità, è
diventato l'interprete più fedele e nazionale del proprio tempo.
Ma la caratteristica speciale delle singole attività nel campo
della letteratura e dell'arte sarà più innanzi oggetto di apposita
trattazione: qui ci basti di rilevar il fatto in sè stesso e come
fenomeno psicologico in generale. Esso si mostra ora apertamente in
tutta la sua pienezza: l'Italia del secolo XIV conobbe poco la falsa
modestia e l'ipocrisia in generale, perchè nessun uomo fu schivo
di emergere,[268] di essere e di apparire, quale era, diverso dagli
altri.[269]


I primi a mettere in piena mostra una siffatta individualità, come
vedemmo, sono i tiranni e i Condottieri,[270] e poi a poco a poco gli
uomini d'ingegno da loro protetti, ma anche in ogni occasione fatti
strumento di governo, i cancellieri, i segretari, i poeti e gli uomini
di corte. Tutti costoro imparano necessariamente a tener conto di
tutte le risorse, stabili o momentanee, che ciascuno sa trovare in
sè stesso; ed anche nel godimento della vita esteriore ricorrono a
mezzi men grossolani e di un'indole più spirituale, per circondare del
maggior prestigio possibile un periodo forse assai breve di potenza e
d'influenza.

Ma anche i sudditi non andarono del tutto esenti dal risentire un
impulso simile. Senza tener conto di quelli che consumarono la loro
vita in congiure segrete e in tentativi di resistenza, menzioneremo
coloro, che si rassegnarono a rimaner chiusi nella vita privata, forse
come la maggior parte degli abitanti delle città nell'Impero bizantino
o negli Stati maomettani. Certamente deve essere stato più volte
assai difficile, per esempio, ai sudditi dei Visconti il mantenere la
dignità della propria casa e della loro stessa persona, e innumerevoli
sono coloro che hanno dovuto scontare con la schiavitù la fierezza di
quello, che strettamente suol dirsi carattere morale di un uomo. Ma
quanto al carattere individuale, ossia all'originalità e specialità
delle tendenze di ognuno, la cosa andava diversamente, perchè in
mezzo all'universale impotenza politica si spiegavano tanto più forti
e molteplici le diverse direzioni della vita privata. Ricchezza e
cultura, in quanto possano mostrarsi in piena luce e gareggiare fra
loro, congiunte con una libertà municipale ancora abbastanza larga, e
con una Chiesa, la quale non era, come a Costantinopoli e nel mondo
islamitico, una cosa identica con lo Stato, — tutti questi elementi
presi insieme favorivano senza dubbio la formazione di una opinione
individuale, cui l'assenza stessa delle lotte di partito forniva
agio ed opportunità a svilupparsi. Non è dunque improbabile che
l'uomo privato, indifferente alla politica e dedito tutto alle sue
occupazioni in parte professionali e in parte affatto accessorie,
si sia per la prima volta venuto formando sotto queste tirannidi del
secolo XIV. Ma sarebbe follia il pretendere di trovarne testimonianze
esplicite e documentate; i novellieri, dai quali potrebbe attendersi in
proposito almeno qualche cenno, ci parlano bensì di uomini originali e
bizzarri, ma sempre da un solo punto di vista e unicamente in relazione
al racconto, che si accingono a dare: ed, oltre a ciò, il teatro
dell'azione presso di loro è quasi sempre nelle Repubbliche.


Anche in queste ultime lo sviluppo del carattere individuale era
promosso al pari che nei Principati, ma in guisa affatto diversa.
Quanto più frequentemente i partiti si scambiavano fra loro la
signoria, tanto più forte gli uomini che li componevano, sentivano
la tentazione di sfruttare il potere e talvolta di abusarne. Egli
è appunto per tal modo che nella storia fiorentina[271] gli uomini
politici e i caporioni del popolo acquistano una personalità così
spiccata, che altrove non si riscontra se non in via al tutto
eccezionale in un uomo solo, in Jacopo d'Arteveldt.

Ma gli uomini dei partiti soccombenti venivano spesso a trovarsi in
una condizione simile a quella dei sudditi dei tiranni, con questo
di più che la libertà o la signoria già gustate, e forse anche la
speranza di riacquistar l'una e l'altra, davano al loro individualismo
uno slancio più ardito. Appunto fra questi uomini condannati ad un
ozio involontario trovasi, per esempio, un Agnolo Pandolfini (morto
nel 1446), il cui trattato «Del governo della famiglia»[272]è il
primo programma di una vita privata portato al massimo suo sviluppo
coll'aiuto della educazione. Il raffronto ch'egli fa tra i doveri di un
privato e le incertezze e le molestie della vita pubblica,[273] merita
di essere riguardato, nel suo genere, come un vero monumento del suo
tempo.


Ma ciò che sopra ogni altra cosa ha la forza o di logorare un uomo
o di portarlo al massimo grado del suo sviluppo, è l'esiglio. «In
tutte le nostre città più popolate, scrive Gioviano Pontano,[274] noi
vediamo una moltitudine di persone, le quali spontaneamente hanno
abbandonato la loro patria; ma le virtù si ponno portare con sè
dovunque». Ed era vero: quegli uomini non erano semplici fuggiaschi
banditi dalla loro patria, ma l'avevano abbandonata di proprio impulso,
perchè le condizioni politiche ed economiche di essa erano divenute
omai insopportabili. I Fiorentini emigrati a Ferrara e i Lucchesi
rifugiatisi a Venezia costituivano delle vere colonie.

Il cosmopolitismo, che si manifesta negli esuli più colti, è
l'individualismo portato al suo più alto grado. Dante, come abbiamo
già accennato (pag. 103), trova una nuova patria nella lingua e nella
cultura di tutta Italia, ed anzi va ancora più in là ed esclama:
«la mia patria è il mondo intero!»[275] — E quando gli fu offerto di
tornare a Firenze, ma a condizioni ignominiose, egli rispondeva: «non
posso io contemplare la luce del sole e delle stelle dovunque? Non
posso io meditare dovunque le più alte verità, senza perciò presentarmi
oscuramente, anzi vituperosamente dinanzi al mio popolo ed alla mia
città? Un pane non sarà per mancarmi in nessun luogo, nè mai».[276] Con
fiero orgoglio alzano più tardi la voce anche gli artisti, affermando
la propria libertà indipendentemente dal luogo ove si trovano. «Colui
che è ricco di cognizioni, dice il Ghiberti,[277] non è, anche fuori di
patria, straniero in nessuna parte del mondo: anche privo de' suoi beni
e abbandonato dagli amici, egli è pur sempre cittadino in qualunque
città, e può senza timore sprezzare la instabilità della fortuna». E in
modo non molto diverso anche un umanista fuggiasco scriveva: «dovunque
un dotto fissa la sua dimora, quivi ei trova tosto una patria».[278]



CAPITOLO II.

Perfezionamento dell'individualità.

    Gli uomini multilateri. — Gli uomini universali. Leon Battista
    Alberti.


Uno sguardo molto acuto e profondamente versato nella storia della
civiltà non durerebbe fatica a seguir passo passo nel secolo XV lo
svolgersi successivo di individualità per ogni verso perfette. Vero
è che nessuno potrebbe dir con certezza, se tali individualità sieno
giunte a quell'armonico accordo del lato interno col lato esterno della
loro vita in conseguenza di un solo atto fermo e deliberato della
loro volontà, o non anche per un fortunato concorso di favorevoli
circostanze: ma, ad ogni modo, è fuor d'ogni dubbio che molte vi
giunsero, almeno per quanto ciò è conciliabile coll'imperfezione della
natura umana. E se, per dare un esempio, è assolutamente impossibile
il fare una distinzione esatta di ciò che Lorenzo il Magnifico dovette
alla fortuna, da ciò che gli proveniva dalle proprie doti e dal proprio
carattere, nell'Ariosto invece (e specialmente nelle Satire) si ha il
caso contrario, il caso cioè di una potente individualità, nella quale
cospirano mirabilmente la dignità dell'uomo e l'orgoglio del poeta,
l'ironia e la passione, il sarcasmo e la benevolenza.


Ora, quando questo prepotente impulso veniva a cadere in una natura
straordinariamente gagliarda e versatile, tale da appropriarsi ad un
tempo tutti gli elementi della cultura di quell'età, s'aveva allora
l'_uomo universale_, che appartiene esclusivamente all'Italia. Uomini
di sapere enciclopedico ve ne furono per tutto il Medio-Evo in più
paesi, perchè il sapere era più ristretto e i rami dello scibile
più affini tra loro: e per la stessa ragione sino al secolo XII
s'incontrano artisti universali, perchè i problemi dell'architettura
erano relativamente semplici ed uniformi, e nella scultura e nella
pittura il concetto o la sostanza della cosa da rappresentarsi
prevaleva sulla forma. Nell'Italia del Rinascimento invece noi ci
scontriamo in singoli artisti, i quali in tutti i rami danno creazioni
affatto nuove e perfette nel loro genere, e al tempo stesso emergono
singolarmente anche come uomini. Altri sono universali e abbracciano,
oltrechè la cerchia dell'arte, anche il campo incommensurabile della
scienza con sintesi maravigliosa.

Dante, il quale ancor vivo dagli uni era qualificato come poeta,
dagli altri come filosofo, e da altri ancora come teologo,[279]
versa in tutti i suoi scritti tal piena di prepotente individualità,
che il lettore se ne sente al tutto soggiogato, anche prescindendo
dall'importanza degli argomenti ch'egli prende a svolgere. Qual forza
di volontà non presuppone l'esecuzione così perfettamente equabile
della Divina Commedia! Ma se si guarda al suo contenuto, non vi è forse
in tutto il mondo fisico e morale un solo punto di qualche importanza,
che egli non abbia studiato ed investigato e intorno al quale la sua
opinione — spesse volte condensata in poche parole — non sia la più
autorevole di quel tempo. Anche nell'arte le sue teorie hanno la forza
di principj, e ciò è ben più dei pochi versi, ch'egli ci lasciò sugli
artisti d'allora; ma non andò molto, che egli divenne anche la fonte
delle più alte ispirazioni.[280]

Il secolo XV è innanzi tutto e per eccellenza il secolo degli uomini
dotati di una grande versatilità. Non v'è biografia di quel tempo, che,
parlando di qualche uomo illustre, non metta in risalto, oltre alle
qualità sue principali, altre qualità secondarie stimate necessario
complemento di quelle. Il mercatante e l'uomo di Stato fiorentino sono
spesso dotti filologi: i più celebri umanisti sono chiamati ad istruire
i figli loro nella Politica e nell'Etica di Aristotile:[281] anche le
figlie ricevono una cultura superiore, e in generale egli è in questi
circoli che bisogna cercare gli inizi di una educazione privata, che
esce dal comune. Dal canto suo l'umanista viene eccitato ad allargare
quanto più può la sfera delle sue cognizioni, in quanto il suo sapere
filologico non era semplicemente, come oggidì, la conoscenza oggettiva
della classica antichità, ma un'arte che trovava applicazione continua
nella vita. Egli studia Plinio, a modo di esempio, e raccoglie un
museo di storia naturale;[282] sulla geografia degli antichi diventa
un cosmografo nel senso moderno; s'innamora degli storici antichi,
e scrive secondo quei modelli la storia de' suoi tempi; traduce le
commedie di Plauto, e ne dirige al tempo stesso la rappresentazione;
imita quanto meglio può tutti i generi della letteratura antica sino
al dialogo di Luciano, e in mezzo a tutto ciò serve lo Stato qual
cancelliere o diplomatico, e non sempre con suo proprio vantaggio.


Ma sopra questi uomini dotati di attitudini così molteplici emergono
alcuni veramente universali. Prima di farci a studiare partitamente le
condizioni della vita sociale e della cultura d'allora, ci sia concesso
di porre qui, sul limitare del secolo XV, l'immagine di uno di quegli
uomini strapotenti: Leon Battista Alberti. La sua biografia — che non
abbiamo se non a frammenti — parla assai poco di lui come artista e
niente affatto come architetto.[283] Or si vedrà ciò che egli è stato,
anche fatta astrazione da queste sue glorie speciali.

In tutte le discipline che rendono bella e lodata la vita di un uomo,
Leon Battista era il primo sino dalla sua fanciullezza. Della sua
perizia in tutti gli esercizi ginnastici raccontansi cose incredibili,
come egli, per esempio, saltando a piè pari scavalcasse le persone
ritte in piedi, come una volta nel Duomo gettasse una moneta tanto
alta, che la si sentì risonare toccando la vôlta sospesa sul suo capo,
come non ci fosse cavallo indomito che sotto di lui non tremasse e
ubbidisse, e simili; — ed infatti egli voleva apparire irreprensibile
e perfetto in tre cose: nel camminare, nel cavalcare e nel parlare.
Egli apprese la musica senza maestro, eppure le sue composizioni
furono ammirate dai più competenti nell'arte. Stretto dal bisogno,
studiò per lunghi anni ambo le leggi, sino a caderne ammalato per
spossatezza: e quando a ventiquattro anni s'accorse di un indebolimento
della sua memoria nel ritenere le parole, ma si sentì ancor vigoroso
l'intelletto per penetrare nella sostanza delle cose, s'applicò alla
fisica ed alla matematica, e al tempo stesso volle rendersi esperto
in tutte le professioni possibili, interrogando artisti, eruditi,
operai d'ogni specie sui segreti e sulla pratica di ogni mestiere. A
tutto ciò aggiungeva egli una particolare perizia nel disegno e nel
modellare specialmente ritratti somigliantissimi, di pura memoria.
Particolar maraviglia destò il misterioso suo congegno a guisa di
camera ottica,[284] nel quale faceva apparire ora le stelle e la luna
a illuminare scoscese montagne, ora vasti paesaggi con ridenti colli
e seni di mare in lontananze sconfinate, con flotte che s'avanzano, o
rischiarate dallo splendore del sole e avvolte d'ombre e di vapori a
guisa di nuvole.

In mezzo a tutto ciò era egli di una modestia singolare, e con gioja
accoglieva anche quanto gli altri facevano, appunto perchè in ogni
produzione dell'ingegno umano, che si uniformasse alle leggi del bello,
egli riconosceva come una emanazione della divinità stessa.[285] La
sua attività letteraria comincia co' suoi scritti d'arte, che segnano
un'importante evoluzione della stessa col risorgere della forma,
specialmente nell'architettura, e si estende quindi a composizioni in
prosa latina, a novelle e simili, delle quali talune furono credute
opere di scrittori antichi, a brindisi, elegie ed egloghe, e per ultimo
ad un trattato in quattro libri in lingua italiana «Sul governo della
famiglia»,[286] e ad un elogio funebre del suo cane. I suoi motti,
tanto serii che faceti, parvero abbastanza importanti da dover esser
raccolti, e se ne ha un saggio in molte serie compilate in colonne,
che possono vedersi nella biografia surriferita. Al pari di tutte le
nature veramente grandi e generose, egli non faceva mistero a nessuno
del suo sapere, come era largo con tutti de' suoi beni di fortuna e
comunicava a chiunque, purchè se ne presentasse l'occasione, le sue
più grandi invenzioni. — Che se si domandasse qual fu la fonte, da cui
scaturì tanta pienezza di vita, di forza e di attività, la risposta
sarebbe una sola: un senso profondo della natura, una facoltà pressochè
unica di compenetrarsi e quasi di identificarsi con tutto ciò che
egli vedeva e sentiva. All'aspetto di una grandiosa foresta o di campi
ondeggianti di spighe egli si sentiva commosso sino al pianto: dinanzi
ad un vecchio dai bianchi capelli, dal passo grave e dall'aspetto
dignitoso egli s'arrestava estatico, e non potea saziarsi di ammirare
quel «prodigio della natura»: anche gli animali più perfetti erano per
lui oggetto di studio e di ammirazione costante, e per ultimo più di
una volta l'incanto di un bel paesaggio bastò, se infermo, a ridonargli
la sanità.[287] Nessuna maraviglia adunque, se tutti coloro che lo
videro stretto in un rapporto così misteriosamente intimo colla natura,
gli attribuirono anche il dono della profezia. Si pretende infatti
ch'egli abbia predetto molti anni innanzi e con esattezza maravigliosa
una crisi sanguinosa avvenuta in casa d'Este, nonchè la sorte che era
riserbata a Firenze ed ai Papi, e gli si attribuiva altresì una facoltà
al tutto speciale di leggere sul viso degli uomini i loro più segreti
pensieri. S'intende da sè che una forza di volontà straordinariamente
intensa era la facoltà, che prevaleva in una personalità così perfetta
e ne manteneva le forze in costante equilibrio. Infatti, come tutti
i grandi uomini del Rinascimento, anch'egli poteva dire: «gli uomini,
purchè vogliano, riescono a tutto».

E con tutto ciò l'Alberti, messo a riscontro con Leonardo da Vinci,
non potrebbe dirsi che uno scolaro paragonato col suo maestro. Così
avessimo l'opera del Vasari anche rispetto a lui completata da una
biografia, come l'abbiamo per l'Alberti! Ma l'immensità dell'ingegno di
Leonardo non si potrà mai che presentir da lontano.



CAPITOLO III.

La gloria nel senso moderno.

    Idee di Dante intorno alla gloria. — Celebrità degli Umanisti;
    il Petrarca. — Culto delle abitazioni. — Culto delle tombe. —
    Culto degli uomini celebri dell'antichità. — Letteratura della
    gloria locale; Padova. — Letteratura della gloria universale.
    — La gloria dipendente dagli scrittori. — L'amor della gloria
    come passione.


Allo sviluppo sin qui descritto dell'individuo corrisponde anche una
nuova specie di valore estrinseco, la gloria nel senso moderno[288].

Fuori d'Italia le singole classi vivevano appartate fra loro e chiuse
ciascuna nei loro diritti e privilegi portati dalle consuetudini
del medio-evo. La gloria poetica dei trovatori e dei menestrelli,
per esempio, non esisteva che per la classe dei cavalieri. In Italia
per contrario si ha già l'uguaglianza delle classi come conseguenza
della tirannide o della democrazia, e vi si scorge una società nuova
in formazione, che deve il suo primo impulso all'influenza delle
letterature italiana e latina, come in seguito più ampiamente sarà
dimostrato; nè certo ci voleva un terreno diverso per far vivere e
fruttificare questo nuovo elemento. S'aggiunga a ciò che la lettura
degli autori latini, che appunto allora si cominciarono a studiare con
tanto ardore, era un eccitamento continuo agli Italiani non solo per
l'insaziabile sete di gloria, onde quegli antichi appajono dominati,
ma per l'oggetto stesso che è il tema costante dei loro scritti,
il dominio universale di Roma su tutto il mondo. Egli è naturale
adunque, che da quel tempo in poi in Italia ogni uomo di forte volontà
ed operoso si trovi interamente sotto l'impulso di un nuovo movente
morale, che è ancora ignoto a tutti gli altri popoli d'occidente.


Anche in ciò, come in ogni altra questione importante, il primo a
manifestare il proprio sentimento fu Dante. L'alloro poetico è stata la
prima e la più alta sua aspirazione[289]; ma, anche come pubblicista
e letterato, egli non manca di notare che le sue produzioni sono del
tutto nuove, e che nella via ch'egli s'è tracciata, non solo è il
primo, ma vuole anche essere riconosciuto come tale[290]. Tuttavia
egli accenna altresì nei suoi scritti in prosa agli incomodi e alle
molestie, che sono inseparabili dall'acquisto di una gran fama: egli
sa come taluni, imparando a conoscere personalmente un uomo celebre,
ne restano mal soddisfatti, e dimostra come di ciò sia da accagionare
in parte l'infantile semplicità dei più, in parte l'invidia, e in parte
anche le imperfezioni stesse dell'uomo ammirato[291]. E più apertamente
ancora il suo poema ci attesta quanto egli fosse persuaso della nullità
della gloria, benchè al tempo stesso sia facile a vedere che il suo
cuore non se n'era ancora completamente staccato. Nel Paradiso la
sfera di Mercurio è la dimora assegnata a quei beati[292], che sulla
terra furono vaghi di gloria, e con ciò hanno offuscato in sè alquanto
«i raggi del vero amore». Egli è altresì altamente caratteristico,
che i miseri dannati nell'Inferno chieggono instantemente a Dante
che voglia rinfrescare e tener viva sulla terra la loro memoria e la
loro fama[293]; mentre gli spiriti del Purgatorio non domandano che
preghiere espiatorie[294]; anzi in un passo celebre[295] l'amor della
gloria — _lo gran disio dell'eccellenza_ — è biasimato, appunto perchè
la gloria che nasce dalle opere dell'ingegno, non è assoluta, ma
sottoposta alle condizioni diverse dei tempi, e secondo le circostanze
può venire oscurata da quella di chi sopraggiunge più tardi.


Dopo quel primo esempio, la schiera numerosa dei poeti filologi, che
pullulano d'ogni parte, s'impadronisce della gloria in doppio senso:
per sè, in quanto essi divengono le più rinomate celebrità d'Italia;
per gli altri, in quanto, come poeti e storici, si fanno dispensatori
della fama altrui. Emblema esterno e materiale di questa specie di
gloria è l'incoronazione de' poeti, della quale sarà parlato altrove.

Un contemporaneo di Dante, Albertino Musatto o Mussato, incoronato a
Padova quale poeta dal Vescovo e dal Rettore dell'Università, godeva
già d'onori tali, che confinavano, si può dire, con l'apoteosi: ogni
anno il giorno di Natale venivano dottori e scolari di ambedue i
collegi dell'università in pompa solenne con trombe e, pare anche,
con fiaccole accese dinanzi alla sua abitazione, per fargli augurii
e regali[296]. Questa onorificenza durò sino a che egli cadde in
disgrazia del Carrara allora regnante (1318).

Anche il Petrarca assaporò a pieni tratti questa nuova glorificazione
destinata dapprima soltanto agli eroi ed ai santi, benchè negli
ultimi anni confessi egli stesso, che gli riesce inutile e perfino
molesta. La sua «Lettera alla Posterità» è un conto, che un uomo
celebre, divenuto vecchio, si crede in dovere di rendere intorno
a sè stesso, per appagare la pubblica curiosità[297], e da essa
rilevasi, ch'egli ambiva assai la gloria postuma e volentieri avrebbe
rinunciato a quella, che godeva fra i contemporanei.[298] Nei suoi
«Dialoghi della felicità ed infelicità» egli fa prevalere con molti
argomenti l'opinione di quello fra' suoi interlocutori, che sostiene
la nullità della fama.[299] Ma dopo tutto ciò è anche vero, che egli
si rallegra pur sempre che il suo nome sia noto, pe' suoi scritti, al
grande autocrate di Bisanzio[300] non meno che all'imperatore Carlo
IV di Germania. E per verità la sua fama, essendo egli ancor vivo,
si estendeva già molto oltre i confini d'Italia. E quanto non dovette
egli sentirsi commosso, quando in occasione di una sua gita ad Arezzo,
sua patria, gli amici lo condussero nella casa dove era nato, e gli
annunciarono che la città avea decretato non doversi in essa permettere
un mutamento qualsiasi![301] Per lo innanzi si conservavano e si
veneravano le sole abitazioni di qualche gran santo, come per esempio,
la cella di S. Tommaso d'Aquino nel convento dei domenicani di Napoli,
e la porziuncula di S. Francesco in prossimità di Assisi: o tutt'al
più anche qualche singolo giurisperito godeva di quella celebrità
mezzo mitica, che era come la scala ad un simile onore; così il
popolo ancora sul finire del secolo XIV usava di designare un vecchio
edifizio esistente in Bagnolo, non lungi da Firenze, come lo «studio»
dell'Accorso (nato intorno al 1150), sebbene non abbia poi fatto
nulla per impedirne la distruzione.[302] Chi ne cercasse la ragione,
probabilmente la troverebbe nelle enormi ricchezze e nella grande
influenza politica procacciatasi da costoro coi lor pareri e consulti,
ricchezze e influenza, che non potevano mancare di colpire per un
tratto di tempo abbastanza lungo la fantasia popolare.


Al culto delle abitazioni si collega anche quello delle tombe
d'illustri personaggi;[303] anzi, quanto al Petrarca, è oggetto
di venerazione anche il luogo dov'egli morì, ed Arquà, appunto
per la memoria che ivi si conserva di lui, diviene un soggiorno di
predilezione pei Padovani, che vi innalzano eleganti edifizi[304] in
un tempo, in cui nei paesi settentrionali non si parla d'altro che di
pellegrinaggi devoti a qualche immagine o reliquia miracolosa. Le città
si tengono onorate di possedere le ossa di qualche grand'uomo o loro
propizio od anche straniero, e fa veramente meraviglia il vedere come —
lungo tempo prima che sorgesse Santa Croce — i Fiorentini, ancora nel
secolo XIV, si studiassero di convertire il loro Duomo in un Panteon.
L'Accorso, Dante, Petrarca, Boccaccio e il giurista Zanobi della Strada
dovevano, per volere della repubblica, avervi ciascuno uno splendido
monumento.[305]

Verso la fine del secolo XV Lorenzo il Magnifico si adoperò
personalmente presso gli Spoletini, affinchè volessero cedere pel
Panteon suddetto il corpo di fra Filippo Lippi pittore, ma essi se
ne scusarono allegando la propria povertà in fatto di monumenti e
di uomini celebri, e i Fiorentini dovettero accontentarsi di porgli
soltanto un cenotafio. Altrettanto accadde rispetto a Dante, il quale,
in onta a tutte le pratiche, alle quali il Boccaccio con enfatica
eloquenza eccitava la propria città,[306] continuò a rimanere nella
sua tomba presso S. Francesco in Ravenna, «circondato da antichissimi
sepolcri d'imperatori e di santi, in compagnia ben più onorevole di
quella che tu, patria mia, potessi mai offrirgli». E la venerazione
per lui in quel tempo era andata tanto oltre, che un bizzarro spirito
potè una volta impunemente levare le fiaccole che ardevano dinanzi
all'altare del Crocifisso, e portarle alla tomba del poeta, con queste
parole: «accettale; tu ne sei più degno di Lui».[307]


Ma questo è il tempo in cui le città italiane onorano anche la memoria
dei loro concittadini o fondatori della più remota antichità. Napoli
non avea forse mai dimenticato la tomba ch'essa possiede di Virgilio,
perchè intorno al nome di lui s'era diffusa omai l'aureola del mito e
della leggenda. Padova era persuasa ancora nel secolo XVI di possedere
non solo le vere ossa del troiano suo fondatore Antenore, ma altresì
quelle di T. Livio.[308] «Sulmona, dice il Boccaccio[309] si lagna che
Ovidio abbia tomba inonorata e lontana nel luogo del suo esiglio; Parma
invece si rallegra, che Cassio riposi fra le sue mura». I Mantovani
coniarono nel secolo XIV una medaglia portante il busto di Virgilio, ed
eressero una statua, che doveva rappresentarne l'effigie; per malinteso
spirito di casta[310] il tutore del principe allora regnante, Carlo
Malatesta, la fece atterrare nel 1392; ma poichè la fama del poeta era
più forte di lui, fu costretto altresì a rialzarla ben tosto. Forse a
quel tempo additavasi ancora la grotta a due miglia dalla città, dove
pretendevasi che Virgilio usasse di recarsi a meditare,[311] presso a
poco come a Napoli si mostrava la così detta _scuola_ di Virgilio. Como
si appropriò ambedue i Plinii[312] e li onorò verso la fine del secolo
XV con due statue sedenti sotto due splendidi baldacchini sul lato
anteriore della sua cattedrale.


Anche la storia propriamente detta e la topografia (nata appena) si
propongono di non lasciar senza menzione veruna gloria indigena, mentre
le cronache dei paesi settentrionali sol raramente qua e colà accennano
all'esistenza di qualche grand'uomo in mezzo ai Papi ed imperatori,
di cui sono piene, o fra le descrizioni di terremoti e la comparsa di
qualche cometa, che non mancano mai di notare. Altrove sarà dimostrato
in qual modo dalla moderna idea della gloria abbia avuto origine l'uso
delle biografie, delle quali talune riuscirono veramente eccellenti;
qui ci basterà di mettere in evidenza il patriottismo locale del
topografo, che enumera i fasti gloriosi della propria città.

Nel medio-evo le città erano andate orgogliose dei loro santi e dei
corpi e delle reliquie, che se ne conservavano nelle chiese.[313] Anche
il panegirista di Padova, Michele Savonarola, ne dà una lunga lista
in capo al suo libro (intorno al 1450);[314] ma poi egli passa agli
«uomini celebri, che non furono santi, e tuttavia per l'eccellenza
dell'ingegno e l'energia del carattere (_virtus_) meritarono di
essere annoverati (_adnecti_) in quella serie», precisamente come
nell'antichità l'uomo celebre si tocca dappresso coll'eroe.[315]
Questa seconda enumerazione è eminentemente caratteristica per quel
tempo. Primi vengono Antenore, fratello di Priamo, che con una schiera
di fuggiaschi troiani fondò Padova; il re Dardano, che vinse Attila
sui colli Euganei, lo inseguì ulteriormente e a Rimini lo uccise con
uno scacchiere; l'imperatore Enrico IV, che edificò il duomo; e un
re Marco, il cui capo si conserva a Monselice; — poi seguono pochi
cardinali e prelati, quali fondatori di prebende, collegi e chiese;
il celebre teologo fra Alberto, agostiniano; una schiera di filosofi
con Paolo Veneto e il celebre Pietro d'Abano alla testa; il giurista
Paolo Padovano; poi Livio, e i poeti Petrarca, Mussato e Lovato. Se si
nota qualche difetto in fatto di celebrità guerresche, l'autore se ne
consola coll'abbondanza che si riscontra nel campo scientifico e colla
maggior durata della fama basata sulle opere dell'ingegno; mentre la
gloria guerresca cessa assai spesso col cessar di chi l'ha conquistata,
o, se dura più oltre, non lo deve che alla penna dei dotti. In ogni
caso però è sempre onorifico per la città, che almeno celebri guerrieri
d'altri paesi abbiano desiderato essi stessi di essere sepolti in
Padova, quali, ad esempio, Pietro de' Rossi di Parma, Filippo Arcelli
di Piacenza e specialmente poi Gattamelata di Narni (morto nel 1442),
la cui statua equestre in bronzo, erettagli accanto alla chiesa del
Santo, lo rappresenta nell'attitudine di «Cesare trionfante». Dopo
ciò, l'autore passa in rassegna una moltitudine di giuristi, medici
e nobili, che non solo, come tanti altri, «furono onorati del nome di
cavalieri, ma seppero altresì meritarlo»; e per ultimo egli dà i nomi
anche di celebri meccanici, pittori, e compositori di musica, e chiude
la serie col citare un maestro di scherma, Michele Rosso, di cui in più
luoghi vedevasi il ritratto, come dell'uomo il più rinomato nell'arte
sua.


Accanto a queste locali gallerie della fama, a comporre le quali
concorrono insieme il mito, la leggenda, la rinomanza letteraria
e l'ammirazione popolare, i poeti-filologi lavorano a costruire un
Panteon universale della fama mondiale, e allestiscono collezioni
biografiche di uomini e di donne celebri, attenendosi per lo più al
sistema seguito da Cornelio Nepote, dal pseudo Svetonio, da Valerio
Massimo, da Plutarco (_mulierum virtutes_), da Geronimo (_de viris
illustribus_), e da altri. Ovvero inventano trionfi immaginari ed
assemblee olimpiche pure immaginarie, come fecero specialmente il
Petrarca nel suo _Trionfo della fama_ e il Boccaccio nella sua _Amorosa
visione_, con centinaia di nomi, dei quali per lo meno tre quarti
appartengono all'antichità e gli altri al medioevo[316]. A poco a
poco questa parte nuova e moderna vi prende un posto sempre maggiore:
gli storici s'indugiano volentieri nelle loro opere a tratteggiare il
carattere de' personaggi e ne escono collezioni biografiche di celebri
contemporanei, come quelle di Filippo Villani, Vespasiano Fiorentino,
Bartolommeo Facio[317], e, per ultimo, quelle altresì di Paolo Giovio.

Il nord intanto, e sino a che l'Italia non cominciò ad esercitare una
certa influenza sui suoi scrittori (per esempio sul Tritemio), non
ebbe che storie di santi e isolate vite di principi e di ecclesiastici,
che evidentemente si basano ancora sulla leggenda, anzichè sulla fama,
vale a dire sulla celebrità guadagnata col merito personale. La gloria
poetica è ancor chiusa esclusivamente in alcune classi determinate, ed
anche il nome degli artisti non ci viene all'orecchio, se non in quanto
essi emergono fra gli operai o i membri di qualche corporazione.


Ma il poeta-filologo in Italia, come notammo, ha l'intimo e
pieno convincimento di essere egli solo l'arbitro della fama e
dell'immortalità, che dispensa o ricusa a suo talento[318]. Ancora
al suo tempo il Boccaccio si lagna di una bella da lui corteggiata,
la quale non per altro gli si mostrò ritrosa che per continuare ad
essere cantata da lui e quindi acquistar rinomanza, e la minaccia
di voler in seguito tener una via del tutto opposta, quella del
biasimo[319]. Sannazzaro in due magnifici sonetti minaccia una
vituperosa oscurità ad Alfonso di Napoli, che vilmente fuggiva dinanzi
a Carlo VIII[320]. Angelo Poliziano dà serii avvertimenti (1491) al re
Giovanni di Portogallo riguardo alle recenti scoperte fatte sulle coste
d'Africa[321], consigliandolo a pensare alla fama ed all'immortalità
e a mandargli a tal uopo a Firenze tutti i materiali relativi, onde
possano esservi ripuliti (_operiosus excolenda_); chè, in caso diverso,
gli accadrebbe come a tutti coloro le cui gesta, prive dello splendore
che ricevono dalla penna dei dotti, «giacciono dimenticate nell'immensa
congerie dei fasti della umana fragilità». E nel fatto il re (o il suo
cancelliere proclive alle idee umanistiche) acconsentì alla domanda e
promise che gli annali delle cose africane, già redatti in portoghese,
sarebbero stati inviati tradotti in italiano a Firenze, per essere
poi quivi rifatti in latino: ma non si sa se la promessa sia stata
poscia mandata ad effetto. Simili pretensioni non sono in sostanza così
prive di fondamento, come potrebbe sembrare a prima vista: la forma,
nella quale si espongono le cose (anche le più importanti) al giudizio
dei contemporanei e dei posteri, è tutt'altro che indifferente. Gli
umanisti italiani, appunto per l'eccellenza della forma e l'eleganza
del linguaggio, hanno esercitato un fascino abbastanza grande sul mondo
dei lettori occidentali, e per la stessa ragione anche i poeti italiani
sino al secolo passato hanno avuto una diffusione maggiore, che quelli
di qualunque altra nazione. Il nome di battesimo del fiorentino Americo
Vespucci divenne il nome della quarta parte del mondo solo in virtù
della relazione ch'egli scrisse sul suo viaggio, e se Paolo Giovio,
con tutta la sua superficialità ed elegante negligenza, si aspettava
l'immortalità[322] da' suoi scritti, non s'ingannava poi del tutto.


Ma se, accanto a tutti questi sforzi fatti in palese per assicurarsi
una fama, noi ci facciamo a studiarne più dappresso i moventi, non
senza spavento ci accorgeremo, che questi non hanno altra radice,
fuorchè una smisurata colossale ambizione, un desiderio smodato di
gloria, indipendente affatto dallo scopo e dai mezzi. Un esempio se
ne ha nella prefazione del Macchiavelli alle sue _Storie fiorentine_,
dov'egli riprende i suoi predecessori (Leonardo Aretino e il Poggio)
di essersi serbati troppo timidamente silenziosi intorno ai varii
partiti, che tennero agitata la città. «Essi s'ingannarono, scrive
egli, e mostrarono di conoscere poco l'ambizione degli uomini e il
desiderio, che egli hanno di perpetuare il nome dei loro antichi o
di loro. Nè si ricordarono che molti, non avendo avuta occasione di
acquistarsi fama con qualche opra lodevole, con cose vituperose si sono
ingegnati acquistarla. Nè considerarono come le azioni che hanno in sè
grandezza, come hanno quelle dei governi e degli Stati, comunque le
si trattino, qualunque fine abbiano, pare portino sempre agli uomini
più onore, che biasimo»[323]. Anche in altri storici gravi e assennati
vedesi dei fatti più strani e terribili assegnato il movente ad uno
sfrenato desiderio di grandezza e di gloria senz'altro. Qui dunque
non si ha soltanto una deplorevole esagerazione della comune vanità,
ma qualche cosa di veramente spaventoso e diabolico, che non lascia
più campo alla riflessione e fa dar di piglio ai mezzi più violenti,
senza preoccuparsi della riuscita, buona o cattiva che sia. Questo
è il modo, per dar qualche esempio, con cui Macchiavelli concepisce
e ci presenta il carattere di Stefano Porcari (v. pag. 143)[324], ed
altrettanto presso a poco ci dicono i documenti intorno agli uccisori
di Galeazzo Maria Sforza (pag. 77), e per ultimo anche l'assassinio del
duca Alessandro de' Medici (1537) viene dal Varchi stesso (nel libro V)
attribuito alla sete di gloria, ond'era tormentato Lorenzino (pag. 80).
Intorno al quale ancor più esplicitamente si esprime Paolo Giovio[325],
narrando che Lorenzino, messo alla gogna in Roma da un opuscolo
del Molza per la mutilazione di alcune statue antiche, meditava un
qualche gran fatto, la cui «novità» facesse dimenticare quell'onta,
e si risolvette infine di uccidere il suo congiunto e sovrano. — Sono
tratti eminentemente caratteristici di quest'epoca di forze e passioni
vivamente eccitate, ma anche oggimai giunta al grado dell'ultima
disperazione, nè più nè meno come fu quella di Filippo di Macedonia al
tempo del famoso incendio del tempio di Efeso.



CAPITOLO IV.

Il motto e l'arguzia nel senso moderno.

    Loro attinenze coll'individualismo. — La beffa presso i
    Fiorentini, la novella. — I motteggiatori e i buffoni. — I
    passatempi di Leone X. — La parodia nella poesia. — Teoria
    dell'arguzia. — La maldicenza e Adriano VI sua vittima. —
    Pietro Aretino quale pubblicista. — Suoi rapporti coi principi
    e cogli uomini celebri. — Sua religione.


Freno non solamente a questo furore moderno di gloria, ma in generale
all'individualismo soverchiamente sviluppato, fu lo scherno e
il dileggio manifestantisi, quanto più si poteva, sotto la forma
vittoriosa dell'arguzia del motto. Del medio-evo sappiamo che tanto fra
gli eserciti che si osteggiavano, come fra i principi e i grandi che
erano in lotta fra loro, il dileggio reciproco, che pure era vivissimo,
rivestiva sempre una forma simbolica, e simbolica era pure l'onta
suprema che s'infliggeva ai vinti. Ma, accanto a ciò, nelle questioni
teologiche il motto cominciava qua e là, sotto l'influenza dell'antica
rettorica e dell'epistolografia, a diventare un'arma, e la poesia
provenzale sviluppò poscia una specie particolare di canti satirici
e beffardi, dei quali, secondo le occasioni, vi ha un riverbero
anche nei menestrelli settentrionali, come appare dalle loro poesie
politiche[326].

Ma perchè il motto diventasse un elemento speciale della vita, gli
occorreva una vittima da colpire, e questa non poteva essere che
l'individuo nel suo pieno sviluppo e colla coscienza del suo valor
personale. Allora esso non si limita più alle semplici parole e agli
scritti, ma si traduce in atti, rappresenta farse e giuoca tiri, che
sotto il nome di _burle_ e di _beffe_ offrono il tema a parecchie
raccolte di novelle.


Nelle «Cento novelle antiche», che debbono essere state scritte ancora
sulla fine del secolo XIII, non si incontra nè il motto, che nasce dal
contrasto, nè la burla[327]; il loro scopo non è altro che di riferir
savii detti e storie e favole piene di morale in un dettato semplice
e schietto. Ma appunto questa assenza del motteggio è quella, che più
d'ogni altra cosa attesta l'antichità di quella raccolta. Imperocchè
subito dopo, col secolo XIV, troviamo Dante, che nell'espressione
dello scherno si lascia addietro per gran tratto tutti i poeti del
mondo, e che, ad esempio, meriterebbe d'esser detto il più gran
maestro del genere comico solo pel quadro veramente sublime, in cui
l'astuzia dei demoni resta vinta da quella de' barattieri[328]. Col
Petrarca[329] cominciano le raccolte di motti arguti alla maniera di
Plutarco (_apoftegmi_ ecc.). Le beffe poi, che durante quel secolo si
vennero sempre più moltiplicando in Firenze, trovansi in ispecialità
registrate nelle celebri _Novelle_ di Franco Sacchetti. Per lo più non
sono vere storie, ma risposte spiritose, che vengono date secondo le
circostanze, e confessioni di una ingenuità che fa spavento, fatte da
uomini semplici, da buffoni di corte, da furbi, da donne scostumate:
il lato comico sta nel contrasto assai risentito tra quella ingenuità,
vera e finta, con le condizioni reali e colla moralità allora in
uso: e questo contrasto non potrebbe invero dirsi maggiore. Tutti i
mezzi che l'arte può suggerire son buoni, non esclusa l'imitazione di
speciali dialetti dell'Alta Italia. Spesso in luogo della facezia si
ha la nuda e sfacciata insolenza, l'intrigo grossolano, la bestemmia,
l'oscenità: taluni scherzi di Condottieri sono assolutamente quanto
di più brutale e maligno fu mai registrato[330]. Qualche burla è
veramente comica, ma in qualche altra non ci si vede che l'intenzione
di sfoggiare in arguzie, per mettere in evidenza la propria superiorità
sugli altri e nulla più. Quante volte la beffa sia stata reciprocamente
scagliata, e quante altre le vittime abbiano cercato di guadagnarsi
gli ascoltatori con una rivincita a tempo opportuno, noi non sappiamo:
ma gli scherzi erano spesso maligni e crudeli, e la vita a Firenze
deve essere stata assai fastidiosa a quel tempo[331]. Omai il burlone
di professione è diventato un personaggio inevitabile, e ce ne devono
essere stati di classici e di gran lunga superiori ai semplici buffoni
di corte; ma fuori di Firenze mancavano loro i rivali, il pubblico
sempre nuovo e la pronta intelligenza degli ascoltatori. Per ciò alcuni
fiorentini pensarono di prodursi, in qualità di ospiti, alle diverse
corti dei tiranni di Lombardia e di Romagna[332] e vi trovarono il
loro conto, mentre in patria, dove l'arguzia era in bocca di tutti,
non facevano che magri guadagni. Il miglior tipo fra tutti costoro
è l'_uomo piacevole_, il più abbietto è il buffone e il volgare
scroccone, che assiste a tutti i matrimoni e a tutti i banchetti col
solito ritornello: «se non sono stato invitato, non è colpa mia».
Qua e colà essi ajutano a dissanguare e a spolpare qualche giovane
dissipatore[333], ma nel complesso vengono trattati col dispregio in
cui si hanno i parassiti, mentre altri motteggiatori più altamente
locati si credono uguali ai principi e riguardano le proprie arguzie
come qualche cosa di veramente superiore e sovrano. Dolcibene, che
l'imperatore Carlo IV aveva qualificato come «il re dei buffoni in
Italia», gli disse in Ferrara: «Voi vincerete il mondo, perocchè
voi state bene e col Papa e con meco; voi con la spada, il Papa coi
suggelli e io con le parole»[334]. Questo è più che uno scherzo: è un
preludio di Pietro Aretino.

I due più celebri motteggiatori della metà del secolo XV erano
un Piovano delle vicinanze di Firenze, Arlotto, per le arguzie
più raffinate (_facezie_), e il Gonnella, buffone della corte di
Ferrara, per le buffonerie. Sarebbe pericoloso il voler istituire un
confronto tra le loro storie e quelle del parroco di Kalemberg e di
Till Eulenspiegel: queste ultime ebbero origine affatto diversa ed
hanno un carattere più generale e riescono intelligibili ad una sfera
più larga di persone, mentre Arlotto e il Gonnella sono personaggi
storici affatto locali. Ma, se il paragone una volta si accetti e si
voglia estenderlo alle «facezie» in generale di tutti i popoli non
italiani, nel complesso si troverà, che tanto presso i francesi coi
loro _fabliaux_,[335] quanto presso i tedeschi, la burla, prima d'ogni
altra cosa, ha in mira un vantaggio reale, mentre l'arguzia di Arlotto
e gli scherzi del Gonnella non hanno altro scopo che la vittoria e il
trionfo sugli avversari. (Oltre a ciò Till Eulenspiegel ha un carattere
affatto proprio e speciale, vale a dire la personificazione, per lo
più scipita, della celia contro classi o corporazioni particolari).
Il buffone di casa d'Este più d'una volta con amari motteggi o con
ingegnose vendette prese delle rivincite splendidissime.[336]


Le specie dell'uomo piacevole e del buffone sopravvissero lungamente
alla libertà di Firenze. Sotto il duca Cosimo fiorì il Barlacchia, e
al principio del secolo XVII ebbero fama Francesco Ruspoli e Curzio
Marignolli. È nota la predilezione affatto fiorentina di Leon X pei
motteggiatori e i burloni. Cresciuto tra le raffinatezze di una società
colta ed elegante e cultore appassionato di ogni liberale disciplina,
questo Papa si compiace tuttavia di circondar la sua mensa di buffoni
e scrocconi, tra cui due monaci e uno storpio,[337] ai quali egli nei
giorni festivi fa sentire con superbo dispregio la sua padronanza,
imbandendo loro scimmie e corvi a mangiare sotto l'apparenza di
arrosti delicatissimi. In generale Leone non intende la burla se non
a modo suo, e in quanto gli torni; ed è anche una specialità tutta
sua quella di divertirsi a fare la parodia delle due arti, che amava
sopra tutte le altre — la poesia e la musica, — provocandone egli
stesso col suo segretario, il cardinal Bibbiena, le più goffe e strane
caricature.[338] Infatti nè l'uno, nè l'altro non credettero di venir
meno al proprio decoro nel prendersi giuoco di un vecchio segretario
sino a fargli credere di essere un gran compositore di musica. Leone
poi prodigò all'improvvisatore Baraballo, di Gaeta, tante e così
smaccate adulazioni, che questi finalmente aspirò sul serio alla corona
di poeta in Campidoglio. Nel giorno anniversario dei santi Cosma e
Damiano, protettori di casa Medici, egli dovette, vestito di porpora e
incoronato di alloro, rallegrar da prima la mensa del Papa con qualche
improvvisazione, e poi, fra le risa universali, montare in groppa
ad un elefante riccamente bardato in oro, che Emmanuele il Grande di
Portogallo aveva mandato in dono: il Papa intanto stava sull'alto di
una loggia osservando attentamente col cannocchiale[339] ogni cosa. Ma
la bestia adombrò per lo strepito delle trombe e dei timpani, e per le
acclamazioni del popolo, nè fu possibile condurla al di là del ponte S.
Angelo.


La parodia del grandioso e del sublime, che qui ci si fa incontro sotto
la forma di una mascherata solenne, aveva in allora preso oggimai
un posto assai importante nella poesia.[340] Bensì ella dovette
cercarsi vittime ben diverse da quelle, che avea potuto colpire, ad
esempio, Aristofane, quando mise sulla scena i grandi tragici greci.
Ma quella stessa perfezione di cultura, che presso i Greci in un'epoca
determinata produsse la parodia, la fece fiorire anche qui. Già ancora
sul finire del secolo XVI trovansi nel sonetto messe in caricatura
le querele petrarchesche, esagerandone l'imitazione; anzi vi si mette
in derisione la stessa solennità della forma rinchiusa in quattordici
versi col farla servire a scipitaggini senza senso. Inoltre la Divina
Commedia era un potente incentivo alla parodia, e infatti Lorenzo il
Magnifico, imitando lo stile dell'Inferno, seppe cavarne un genere
splendidamente comico (il _Simposio_ e i _Beoni_). Luigi Pulci nel
suo «Morgante» imita evidentemente gl'improvvisatori, ed oltre a
ciò tanto il suo, come il poema del Bojardo, per questo stesso che
sfiorano appena l'argomento, sono in più luoghi una parodia almeno per
metà volontaria della poesia cavalleresca del medio-evo. Poi viene il
grande parodiatore Teofilo Folengo (che fiorì nel 1520), il quale vi
si getta con un ardimento tutto suo. Sotto il nome di Limerno Pitocco
egli scrive l'_Orlandino_, dove la Cavalleria non figura che come una
ridicola cornice barocca intorno ad un mondo di figure e d'immagini,
che si risentono della vita moderna: sotto il nome di Merlin Coccai,
egli descrive le gesta e le spedizioni del suo bizzarro cavaliere
errante, con contorni non meno risentitamente maligni, in esametri
mezzo-latini, e nella forma comicamente travestita dell'epopea classica
del suo tempo (_Opus Macaronicorum_). D'allora in poi la parodia
continuò a figurare nel Parnaso italiano, e talvolta sotto forme
veramente splendide e piene di vita.


Nell'epoca in cui il Rinascimento si trova a mezzo della sua carriera,
anche il motto viene studiato dal punto di vista teorico, e si
stabilisce più precisamente l'uso che si può farne nelle società più
elevate. Il primo ad occuparsene fu Gioviano Pontano,[341] il quale nel
suo scritto _De Sermone_, specialmente nel libro quarto, coll'analisi
di molti singoli motti o _facetiae_ cerca di riuscire ad un principio
generale. Come l'arguzia sia da usare tra uomini di fina creanza lo
insegna Baldassare Castiglione nel suo _Cortegiano_.[342] Naturalmente
si suppone che non si tratti principalmente d'altro che di destare
l'ilarità di terze persone col racconto di comici e graziosi motti
o storielle: il frizzo diretto è da schivare, perchè offende gli
infelici, fa troppo onore ai ribaldi, ed eccita alla vendetta i potenti
od i loro favoriti, ed anche nel raccontare l'uomo di condizione
deve serbare una giusta misura e non lasciarsi andare a troppo
goffe contraffazioni. Poi segue, quasi schema pei futuri narratori e
motteggiatori, una ricca collezione di scherzi e giuochi di parole,
disposti metodicamente in varie classi, taluni dei quali veramente
felici. Assai più severi e circospetti suonano, forse due decennj più
tardi, i precetti di Giovanni Della Casa nel suo celebre Galateo;[343]
dove, fra le altre cose, tenuto conto delle conseguenze che possono
derivarne, si vuole bandita dai motti e dalle burle qualunque idea di
superiorità o di trionfo sugli avversari. Si vede chiaro ch'egli è il
precursore di una reazione, che doveva necessariamente sopravvenire.

Infatti l'Italia era divenuta tale scuola di maldicenza, che il mondo
d'allora in poi non ne vide altro esempio, non eccettuata neanche la
Francia del tempo di Voltaire. Non già che la tendenza a mordere e a
satireggiare sia mancata a quest'ultimo od a' suoi contemporanei; ma
dove sarebbersi potute trovare nel secolo scorso le vittime adatte,
quella schiera innumerevole d'uomini singolari, quelle celebrità d'ogni
specie, politici, ecclesiastici, scopritori, inventori, letterati,
poeti ed artisti, che senz'altro lasciavano apparire a chiunque la
propria originalità? Nei secoli XV o XVI questo esercito di grandi
esisteva; ma l'altezza a cui era arrivata la cultura, aveva educato
altresì, accanto ad essi, una spaventosa genìa di uomini di spirito
sfaccendati, di criticastri e maldicenti nati, di calunniatori,
l'invidia dei quali domandava la sua ecatombe. E a ciò s'aggiungano le
rivalità dei grandi fra loro, come le lotte tra il Filelfo, il Poggio
ed il Valla, mentre invece gli artisti di quello stesso tempo vivono
insieme in emulazione quasi del tutto pacifica, del che per vero deve
tenere il debito conto la storia dell'arte.


Il maggior mercato della gloria, Firenze, precorre, come dicemmo,
in questo riguardo e per un certo tempo tutte le altre città.
«Occhi acuti e male lingue» è la caratteristica, che si usa dare
de' Fiorentini[344]. Un lieve sarcasmo su tutto e su tutti sembra
essere stata l'intonazione prevalente di ciascun giorno. Machiavelli,
nell'importantissimo prologo della sua _Mandragora_, ascrive, a ragione
o a torto, la visibile depravazione morale alla maldicenza universale,
ma avverte al tempo stesso i suoi avversari che anche a lui stava bene
la lingua in bocca. Poi viene la corte papale, da lungo tempo rifugio
di tutte le lingue più mordaci e spiritose dell'epoca. Le _facetiae_
del Poggio, dalla data, appajono tolte dal _bugiale_ degli scrivani
apostolici, e se si considera qual numero di aspiranti, di nemici e
rivali dei favoriti, di oziosi intenti a trastullare gli scostumati
prelati dovea quivi trovarsi, non sorprenderà certamente che Roma sia
divenuta la vera patria tanto della plebea pasquinata, quanto della
satira un po' più decente. Se poi vi si aggiunga il rancore generale
contro il dominio dei preti e la miseria universalmente nota del popolo
minuto, si comprenderà quanto facile fosse il trovar quivi materia
per mettere in canzone i potenti e attribuir loro ogni nefandità[345].
Chi poteva, si schermiva, meglio che in qualsiasi modo, col disprezzo,
tanto se le accuse si basavano sul vero, quanto se erano false, o col
far pompa di un lusso, che pel suo stesso splendore abbagliava[346].
Ma le anime più sensibili e delicate erano condannate quasi alla
disperazione, se la maldicenza riusciva ad avvolgerle nelle sue
reti[347]. A poco a poco le dicerie si facevano strada nella bocca
di tutti, ed appunto la più schietta virtù era quella che si tirava
addosso le insinuazioni le più maligne. Del grande oratore frate Egidio
da Viterbo, che Leone pe' suoi meriti innalzò al cardinalato e che
nell'eccidio del 1527 sposò risolutamente la causa del popolo[348],
il Giovio dà ad intendere che si conservasse a bello studio il pallore
ascetico del viso coll'aspirare il fumo della paglia bagnata, e simili.
In generale il Giovio in queste occasioni scrive da vero curiale[349],
vale a dire, narra dapprima le sue storielle, soggiunge tosto che
non vi crede, ma con qualche leggera scoloritura lascia da ultimo
trasparire, che pure qualche cosa di vero debbono contenere. — Ma
la vera vittima dello scherno dei romani fu il buon papa Adriano VI,
del quale parve anzi che non si sia voluto considerare altro che il
lato ridicolo. Egli si guastò sin da principio con quella mala lingua
che fu Francesco Berni, quando minacciò di far gettare nel Tevere —
non già la statua di Pasquino, come si disse[350], — ma quelli che
la facevano parlare. La vendetta fu il famoso capitolo «contro Papa
Adriano», dettato non tanto dall'odio, quanto da un profondo disprezzo
pei barbari olandesi: le minaccie più fiere toccavano ai cardinali, che
l'avevano eletto. Il Berni ed altri dipingono altresì[351] il seguito
del Papa con quel colorito di piccante menzogna, con cui il moderno
appendicista di qualche grande giornale sa far apparir bianco il nero
e dar importanza alle più frivole inezie. La biografia che Paolo Giovio
ne stese per incarico del cardinale di Tortosa, e che realmente doveva
essere un elogio, è invece un cumulo di sarcasmi e di contumelie. In
essa infatti si legge, in modo abbastanza comico, specialmente per
l'Italia d'allora, come Adriano una volta avesse insistito vivamente
presso il capitolo della cattedrale di Saragozza per avere una
mandibola di S. Lamberto; come un'altra volta i devoti spagnuoli lo
sopraccaricassero di ornamenti «per farne un Papa talquamente pulito
ed elegante»; come egli abbia impreso la tempestosa e insensata sua
spedizione da Ostia a Roma; come si sia consultato per far atterrare od
ardere la statua di Pasquino; come solesse interrompere improvvisamente
qualunque affare più importante quando gli si annunziava l'ora del
pranzo; e, per ultimo, come, dopo un regno infelice, sia morto per
aver ecceduto nell'uso della birra, e come la casa del suo medico da
buontemponi notturni sia stata subito ornata di ghirlande, tra le quali
leggevasi l'iscrizione _Liberatori patriae_ S. P. Q. R. Vero è anche
che il Giovio, nell'avocazione generale delle rendite ecclesiastiche,
perdette la sua e in compenso non ricevette che una semplice prebenda,
perchè «non era poeta», vale a dire pagano. Ma era scritto che Adriano
dovesse essere l'ultima grande vittima di questa specie. Dopo il
sacco di Roma (1527), colla maggior corruzione della vita venne anche
visibilmente mancando la maldicenza.


Ma quando essa era ancora in voga, era sorto, specialmente a Roma, il
più grande maldicente del tempo moderno, Pietro Aretino. Uno sguardo
a quest'uomo ci risparmierà di occuparci di altri minori della stessa
risma.

Quella parte della sua vita che più particolarmente è conosciuta,
sono i tre ultimi decenni (1527-1556) che egli passò a Venezia,
unico asilo divenuto possibile per lui. Di là egli tenne tutte le
celebrità d'Italia in una specie di stato d'assedio; e quivi anche
affluivano i doni dei principi stranieri, che si servivano della sua
penna o la temevano. Carlo V e Francesco I gli pagavano ambedue una
pensione, perchè ognuno di essi sperava che l'Aretino avrebbe offeso
le suscettibilità dell'altro: egli adulò entrambi, ma naturalmente si
tenne più stretto a Carlo, perchè questi restò padrone d'Italia. Dopo
la spedizione di Tunisi (1535) l'adulazione si mutò addirittura in una
ridicola apoteosi, che si spiega colla speranza nudrita costantemente
dall'Aretino di diventar cardinale coll'ajuto di Carlo. Non pare
improbabile che egli godesse di una protezione speciale in qualità
di agente segreto di Spagna, appunto perchè e le sue ciarle e il suo
silenzio potevano esercitare una certa influenza sui principi minori
d'Italia e sulla pubblica opinione. Quanto al Papato, egli si dava
l'aria di disprezzarlo profondamente, sotto il pretesto di conoscerlo
da vicino; ma il vero motivo era questo, che la Curia romana non poteva
e non voleva accordargli più alcun favore[352]. Di Venezia, che gli
dava ospitalità, non parlò mai, da uomo prudente. Tutti gli altri suoi
rapporti coi grandi non possono qualificarsi che come un accattonaggio
volgare e impertinente.

Nell'Aretino si ha il primo grande esempio dell'abuso della pubblicità
per iscopi vili e spregevoli. Gli scritti polemici, che cento anni
prima s'erano scambiati tra loro il Poggio ed i suoi avversari, non
sono certo più castigati nè quanto all'intenzione, nè quanto alla
forma: ma non essendo destinati a diffondersi per la stampa, non
mirano neanche ad avere una pubblicità troppo estesa e restano sempre
chiusi in una sfera ristretta: l'Aretino invece si giova appositamente
della stampa per fare il maggior chiasso possibile e per dare alle
sue impertinenti contumelie la più ampia pubblicità: sotto un certo
punto di vista lo si potrebbe quindi anche annoverare tra i precursori
del giornalismo moderno. Infatti era suo uso di far stampare insieme
periodicamente le sue lettere ed altri articoli, dopochè già prima
erano corsi manoscritti in moltissimi circoli[353].

Paragonato colle penne mordaci del secolo XVIII, l'Aretino ha il
vantaggio di non fare ostentazione di principj nè di razionalismo, nè
di filantropia, nè di qualunque altra virtù, e nemmeno di qualsiasi
scienza: tutto il suo corredo sta nel motto conosciutissimo: _Veritas
odium parit_. Per questa ragione egli non si trovò mai in posizioni
false, come, per esempio, toccò più volte a Voltaire, il quale e
dovette sconfessare il suo poema sulla _Pulcella_, e dovette tener
nascosti per tutta la sua vita parecchi altri scritti: l'Aretino
dava ad ogni cosa il suo nome, ed anche negli ultimi anni egli menava
un gran vanto de' suoi _Ragionamenti_, che ebbero una sì scandalosa
celebrità. Il suo talento letterario, la sua prosa netta e piccante,
la sua fina osservazione degli uomini e delle cose lo renderebbero
degno in ogni caso di qualche attenzione, quand'anche gli sia mancata
del tutto l'attitudine a concepire un'opera d'arte propriamente detta,
nè sia giunto a dare neanche mai un intreccio veramente drammatico di
qualsiasi commedia. Inoltre egli possedette, accanto ad una malvagità
la più grossolana e raffinata ad un tempo, una splendida disposizione
al grottesco, che in più d'un caso lo farebbe degno di stare a fianco
allo stesso Rabelais[354].

In simili circostanze e con tali mezzi e intendimenti egli si lancia
talvolta sulla sua preda, talvolta le gira d'attorno. L'invito ch'egli
fa a Clemente VII, perchè, invece di querelarsi, perdoni[355], mentre
il grido doloroso di Roma straziata è tanto forte da dover essere
udito anche in Castel S. Angelo, dove il Papa è rinchiuso, non è che un
amaro dileggio, il sorriso infernale di satana o la smorfia brutale di
una scimmia. Talvolta, quando perde affatto la speranza di un qualche
dono, il suo furore prorompe in un urlo selvaggio, come, per esempio,
nel Capitolo al principe di Salerno, che per un certo tempo l'aveva
stipendiato, e poscia voleva disfarsene. Per contrario sembra che il
terribile Pier Luigi Farnese, duca di Parma, non si sia mai curato
di lui. Siccome a questo principe tornava affatto indifferente che si
dicesse bene o male de' fatti suoi, non era così facile il morderlo in
guisa ch'egli se ne risentisse: l'Aretino vi si provò, qualificando
il suo contegno come quello di uno sgherro, di un mugnajo e di un
fornajo[356]. Comicamente buffo è l'Aretino ogni qualvolta assume
il tuono del querulo accattonaggio, come, per esempio, nel capitolo
a Francesco I; mentre invece parranno sempre ributtanti, ad onta di
tutta la loro vena comica, le sue lettere, e le sue poesie, dove le
minacce si alternano sempre colle più vili adulazioni. Una lettera
come quella da lui diretta nel novembre del 1545 a Michelangelo[357]
non ha forse l'eguale al mondo. In mezzo alle proteste della più
grande ammirazione (pel _Giudizio universale_), egli esce contro di
lui in invettive e minacce per la sua irreligione e scostumatezza, e
lo accusa perfino di ladroneccio (a danno degli eredi di Giulio II),
aggiungendo da ultimo in un poscritto: «vi ho voluto solamente mostrare
che se voi siete di-vino (_divino_), anch'io non sono d'acqua». Infatti
anche l'Aretino teneva molto — non si sa se per boriosa vanità o pel
gusto di parodiare ogni cosa celebre — ad esser detto il _divino_,
e realmente la personale sua celebrità crebbe a tal punto, che in
Arezzo si additava la casa dov'egli era nato, come una rarità degna
d'essere veduta[358]. D'altra parte è vero altresì, che vi furono
circostanze, nelle quali egli per mesi interi non osava varcare la
soglia di casa sua in Venezia, per non cadere nelle mani di qualche
fiorentino da lui offeso e specialmente in quelle del più giovane degli
Strozzi; nè gli mancarono colpi di pugnale e di bastone, che a guisa
di avvertimenti[359] doveano farlo stare in sull'avviso, sebbene non
abbiano avuto quelle terribili conseguenze, che il Berni gli aveva
predette in un famoso sonetto, essendo egli morto invece di apoplessia.

Nell'adulare egli non si contiene sempre ad un modo, ed anche ciò
va notato. Con gli stranieri procede gonfio ed ampolloso[360], con
gli italiani e specialmente col duca Cosimo di Firenze muta affatto
registro. In quest'ultimo egli loda specialmente la bellezza della
persona, che in fatto il principe, ancor giovane, possedeva, al pari
d'Augusto, in grado eminente; loda il suo contegno, affatto morale, non
senza però dare un tocco incidentalmente alle speculazioni pecuniarie
della madre di Cosimo, Maria Salviati, e chiude al solito con un
piagnucoloso fervorino, nel quale chiede soccorsi, attesa la carezza
dei viveri, e simili. Ma se Cosimo gli accordò una pensione[361],
ed anche abbastanza lauta in relazione alla consueta sua parsimonia
(negli ultimi anni ammontava a centosessanta ducati annui), ciò non
accadde certamente che per uno speciale riguardo alla sua qualità di
agente segreto di Spagna. Infatti per questa sua qualità l'Aretino
avrebbe potuto, all'occorrenza, ridersi altamente del duca e al tempo
stesso minacciare l'inviato fiorentino di provocare dal duca stesso
l'immediato suo richiamo. E se anche il Medici da ultimo s'accorse di
essere stato già indovinato da Carlo V, egli non poteva ad ogni modo
essere contento che alla corte imperiale circolassero eventualmente gli
scherni e i dileggi dell'Aretino contro di lui. Di buon genere altresì
è l'adulazione da lui usata col tanto celebre marchese di Marignano,
che «qual castellano di Musso» avea cercato di crearsi una signoria.
Per ringraziarlo di cento scudi inviatigli, l'Aretino scrive: «tutte
le qualità che un principe deve avere, si trovano in voi, e questo
lo potrebbe facilmente vedere ognuno, se l'uso della violenza, che
è necessaria in tutte le cose sul loro principiare, non vi facesse
apparire ancora un po' aspro»[362].

Spesse volte fu messo in rilievo come una singolarità il fatto, che
l'Aretino non disse male degli uomini soltanto, ma di Dio stesso. Qual
genere di fede religiosa possa egli avere avuto, torna perfettamente
inutile il ricercarlo di fronte alle sue azioni, che parlano già da
sè, nè potrebbe dedursi nemmeno da' suoi scritti ascetici, ch'egli
compose con viste tutt'altro che religiose[363]. Ma del resto non
si saprebbe davvero trovare una ragione, per cui egli avesse dovuto
prendersela colla Divinità. Egli non fu mai un pensatore nel senso più
rigoroso della parola, nè insegnò o professò veruna speciale dottrina
filosofica: egli non poteva neanche nutrir la speranza di estorcere
da Dio, o con le adulazioni o con le minacce, un soccorso qualsiasi in
danaro; egli per ultimo non poteva nemmeno riguardarsi come offeso da
un eventuale rifiuto. Come mai un uomo simile avrebbe sprecato le sue
forze inutilmente e senza un immediato e pratico tornaconto?

Il migliore indizio dello spirito odierno degli Italiani è appunto
questo, che un carattere come quello dell'Aretino ed un modo di agire
pari al suo sarebbero oggidì in mille guise impossibili. Ma dal punto
di vista storico quest'uomo conserverà sempre un'alta importanza.



PARTE TERZA

IL RISORGIMENTO DELL'ANTICHITÀ



CAPITOLO I.

Osservazioni preliminari.

    Estensione dell'idea compresa nella parola Rinascimento. —
    L'Antichità nel Medio-Evo. — Suo precoce risveglio in Italia. —
    Poesia latina del secolo XII. — Spirito del secolo XIV.


Giunti a questo punto del nostro quadro storico della civiltà, ci tocca
ora di mostrare qual parte vi ebbe l'Antichità, dal cui «Rinascimento»
l'epoca intera, con denominazione invero parziale e ristretta,
s'intitola. Le condizioni sociali fin qui descritte avrebbero, non
v'ha dubbio, bastato da sè, anche senza l'Antichità, a scuotere la
nazione e a portarla ad un certo grado di maturità, come è certo
altresì, che la maggior parte delle novità veramente sostanziali che
allora prevalsero nella vita pubblica, si sarebbero svolte anche senza
questo, pur gravissimo, avvenimento; ma tuttavia non può negarsi,
che e le une e le altre dall'influenza del mondo antico ricevettero
un colorito speciale, che si manifestò nella forma, se non nella
sostanza, delle cose, e la padroneggiò interamente. Il Rinascimento
non sarebbe stato quella suprema necessità mondiale che fu, se così
facilmente si potesse prescindere da esso. Ma ciò che noi dobbiamo
stabilire fin d'ora, come un punto essenziale, si è questo, che non
la risorta Antichità da sè sola, ma essa e il nuovo spirito italiano,
compenetrati insieme, ebbero la forza di trascinare con sè tutto il
mondo occidentale. Bensì questo spirito non sembra aver conservato
sempre, di fronte ad essa, lo stesso grado di autonomia; ma se, per
esempio, nella letteratura neo-latina esso par minimo, grandissimo
invece lo si riscontra nelle arti figurative e in parecchie altre
sfere d'attività, e così questo nesso fra due civiltà di uno stesso
popolo tanto remote fra loro, appunto perchè indipendente, appare
anche naturale e fecondo. Le altre nazioni eran libere di respingere
il grande impulso che veniva loro dall'Italia, o di appropriarselo
in parte, od anche del tutto; ma dove quest'ultima condizione ebbe a
verificarsi, dovrebbe cessare ogni lamento per la prematura decadenza
delle forme della civiltà medievale. Se queste forme avessero avuto in
sè la forza di reagire e di mantenersi, sussisterebbero ancora. E se
quegli spiriti queruli, che le rimpiangono, potessero farle rivivere
un'ora sola, se ne spaventerebbero essi medesimi e anelerebbero tosto
all'aere più puro e spirabile della vita moderna. Che poi in tali
processi di trasformazione qualche singolo e delicato fiore resti
soffocato, senza poter vivere nemmeno nella tradizione o nella poesia,
è cosa che s'intende da sè; ma si dovrebbe per questo desiderare che
la trasformazione in sè stessa non fosse accaduta? Ed essa consiste
precisamente in questo, che, accanto alla Chiesa, la quale fino a
questo tempo (ma per poco ancora) tenne unito tutto l'occidente, sorge
un nuovo elemento morale, che, diffondendosi dall'Italia, invade il
resto d'Europa e diventa come l'ambiente ordinario di tutti gli uomini
forniti di un certo grado di cultura. Il fatto per sè è impopolare,
perchè conduce necessariamente ad una separazione completa tra le
classi colte e non colte di tutta Europa; ma come rammaricarsene,
quando noi stessi siamo costretti a confessare, che questa separazione,
universalmente riconosciuta, sussiste ancora oggidì e non può esser
tolta? D'altra parte, in Italia essa è assai meno pronunciata che
altrove: tanto è vero, che il poeta più ligio ai precetti dell'arte, il
Tasso, è uno dei più popolari e corre per le mani di tutti.


L'Antichità greco-latina, che sino dal secolo XIV sì vivamente si
compenetrò nella vita italiana come fonte della cultura, come scopo
supremo dell'esistenza, e in parte anche come reazione pensata e
voluta contro le tendenze precedenti, avea già da lungo esercitato
qua e colà la sua influenza su tutto il medio-evo, anche fuori
d'Italia. La cultura infatti, che al suo tempo promosse e favorì
Carlomagno, era essenzialmente un Rinascimento di fronte alla barbarie
dei secoli VII e VIII, e non poteva neanche essere altra cosa. Più
tardi nell'architettura romana dei paesi settentrionali noi veggiamo
adottarsi, oltre la tendenza generale, forme affatto speciali di
carattere prettamente antico, e nei conventi farsi tesoro di molti
materiali tolti di pianta da scrittori latini, e imitarsene anche lo
stile, dietro l'esempio dato pel primo da Eginardo.


In Italia invece essa torna in vita in modo affatto diverso. Cessata la
barbarie, s'annunzia tosto presso il popolo italiano, per metà ancora
antico, la cognizione de' suoi tempi anteriori; esso li magnifica e
desidera riprodurli. Fuori d'Italia trattasi di trar partito in via
di erudizione e di riflessione da singoli elementi dell'Antichità: in
Italia invece si ha un vero entusiasmo per tutto ciò che è antico,
e non da parte dei dotti soltanto, ma del popolo intero, perchè vi
si scorge la rimembranza dell'antica grandezza, e perchè si ha un
allettamento a darvi opera nella facile intelligenza del latino e nella
copia di memorie e monumenti, che ancora esistono. Da questo impulso e
dal contraccolpo, che partiva dallo spirito popolare già essenzialmente
mutato, dalle istituzioni politiche germanico-longobarde, dalla
Cavalleria diffusa già in tutta Europa, nonchè dagli altri elementi
di civiltà portativi dai popoli settentrionali, dalla religione e
dalla Chiesa, sorge e si sviluppa una creazione affatto nuova, lo
spirito moderno italiano, destinato a dare l'impulso a tutto il mondo
occidentale.


In qual modo nelle arti figurative risorga l'elemento antico, non
appena cessa la barbarie, mostrasi chiaramente dalle costruzioni
toscane del secolo XII e dalle sculture del XIII. Ma anche nella
poesia non mancano i confronti, quando si ammetta che il maggior poeta
latino del secolo XII, anzi colui, che diede in allora l'intonazione
a tutto un genere di poesia latina, fu un italiano. Egli è appunto
quel qualunque scrittore, al quale appartengono i brani migliori dei
così detti _Carmina Burana_. Un grande attaccamento al mondo e a'
suoi piaceri, come genii tutelari dei quali sono invocate le divinità
pagane, prorompe con vena facile e abbondante da queste strofe rimate.
Chi le legge d'un tratto, difficilmente potrà crederle opera d'altri,
fuorchè d'un italiano e probabilmente d'un lombardo; ma vi sono anche
ragioni speciali per accettare una tale ipotesi[364]. Che se anche
sino ad un certo punto queste poesie latine dei _Clerici vagantes_ del
secolo XII, con tutto il corredo delle frivolezze di cui riboccano,
potrebbero dirsi piuttosto un patrimonio generale di tutta Europa, non
si potrà però mai credere che tanto la canzone _De Phyllide et Flora_,
quanto l'altra che comincia _Aestuans interius_, sieno opera di un
settentrionale, o del molle e delicato sibarita che cantò: _Dum Dianae
vitrea sero lampas oritur_. Qui c'è una riproduzione dell'antico modo
di sentire e di poetare, che salta agli occhi tanto più facilmente
accanto alla forma rimata, propria del medioevo. In più di un lavoro
di questo e dei secoli vicini s'incontrano esametri e pentametri di
una imitazione molto accurata e allusioni mitologiche e reminiscenze
antiche d'ogni specie, e tuttavia l'impressione che se ne risente, è
ben lungi dall'essere altrettanto viva e profonda. Le cronache in versi
e le altre opere di Guglielmo Pugliese mostrano anch'esse uno studio
diligente di Virgilio, di Ovidio, di Lucano, di Stazio e di Claudiano,
ma la forma antica non vi figura che come tolta a prestito, allo stesso
modo che semplicemente copiati appajono i materiali antichi nei grandi
raccoglitori del genere di Vincenzo di Beauvais o nei mitologi ed
allegoristi della tempra di Alano dalle Isole. Ma il Rinascimento non
è già una saltuaria imitazione o una compilazione fatta a frammenti,
bensì una rinascita vera, e come tale non lo si trova realmente che
nelle poesie sopra citate dell'ignoto _scolaro vagante_ del secolo XII.


Tuttavia il vero ed universale entusiasmo degli Italiani per
l'Antichità non comincia a manifestarsi che col secolo XIV. A ciò si
richiedeva uno sviluppo della vita cittadina, quale in Italia soltanto
e soltanto a questo tempo fu possibile, vale a dire, convivenza ed
effettiva uguaglianza della nobiltà e della borghesia, e formazione di
una grande società (v. pag. 193), che sentisse il bisogno di istruirsi
e n'avesse il tempo e i mezzi. Ma la cultura, se voleva svincolarsi
dal mondo fantastico del medio-evo, non poteva passare improvvisamente
per mezzo del solo empirismo alla cognizione del mondo fisico e
morale; essa avea bisogno di una guida, e come tale si offerse la
classica Antichità colla sua ricchezza di verità obbiettive, evidenti
in tutti i regni dello spirito. Da essa si tolsero con riconoscenza
e ammirazione le forme e la materia, e se ne costituì per un certo
tratto di tempo l'essenziale di ogni cultura[366]. Anche le condizioni
generali d'Italia favorirono un tale indirizzo: l'impero dopo la
caduta degli Hohenstaufen o aveva rinunciato all'Italia, o non aveva
avuto la forza di mantenervisi: il Papato aveva emigrato ad Avignone:
la maggior parte delle potenze esistenti si reggevano sulla violenza
e sulla illegittimità; ma lo spirito della nazione, ridestatosi alla
coscienza di sè, era vôlto alla ricerca di un ideale nuovo e durevole,
e così il sogno di un dominio d'Italia e di Roma sul mondo potè imporsi
alle menti di tutti e tentare perfino una effettuazione pratica con
Cola di Rienzo. Vero è che il modo con cui egli, specialmente nel
suo primo tribunato, intese la sua missione, non doveva riuscire ad
altro, fuorchè che ad una strana commedia; ma tuttavia pel sentimento
nazionale la ricordanza dell'antica Roma era pur sempre un punto
d'appoggio di gran valore. Tornati in possesso dell'antica loro
cultura, gl'Italiani s'accorsero ben presto di essere la nazione più
avanzata del mondo.

Il delineare questo moto degli spiriti non in tutta la sua pienezza, ma
soltanto nei tratti suoi più salienti e visibili, e principalmente ne'
suoi primordj, è ora l'assunto di questa parte del nostro lavoro[367].



CAPITOLO II.

Roma, la città delle rovine.

    Dante, Petrarca, Fazio degli Uberti. — Le rovine esistenti
    al tempo del Poggio. — Flavio Biondo, Nicolò V e Pio II. —
    L'Antichità fuori di Roma. — Città e famiglie di derivazione
    romana. — Sentimenti e pretese dei romani. — Il corpo di
    Giulia. — Scavi e restauri. — Roma sotto Leone X. — Le rovine
    come fonti di sentimentalismo.


Innanzi tutto Roma, la città delle rovine[368], gode anche
presentemente una specie di venerazione che è ben diversa da quella
del tempo in cui furono scritti i _Mirabilia Romae_ e la storia
di Guglielmo di Malmesbury. Se ora mancano i pellegrini che vadano
a cercarvi tesori e miracoli[369], vi sono sempre gli storici e i
patriotti, che vanno ad attingervi le più alte ispirazioni. In questo
senso vogliono essere intese anche le parole di Dante[370]: «le
pietre che nelle mura sue stanno, sono degne di reverenzia, e 'l suolo
dov'ella siede, è degno, oltre quello che per gli uomini è predicato
e provato». La colossale frequenza a' giubilei non lascia quasi veruna
devota ricordanza nella letteratura che ne discorre; e Giovanni Villani
non esita a dire, che il maggior frutto ch'egli ritrasse dal giubileo
dell'anno 1300, fu la sua risoluzione di scrivere la storia di Firenze,
surta in lui dalla contemplazione delle rovine di Roma (v. pag. 102).
Anche il Petrarca non sa ben dire se egli ammiri più gli avanzi di Roma
pagana o quelli di Roma cristiana: e ci narra che di frequente salì con
Giovanni Colonna sulle vôlte colossali delle terme di Diocleziano[371],
e quivi nell'aria libera e dinanzi all'ampia prospettiva che si apriva
d'intorno, immersi entrambi in profondi pensieri e l'occhio fisso sulle
rovine, ragionavano insieme non già d'affari, o di cose domestiche o
d'interessi politici, ma di storia, evocando l'uno l'antichità pagana,
l'altro la cristiana, o s'intrattenevano di filosofia o dei primi
inventori delle arti. Quante volte da quel tempo in poi sino a Gibbon
e a Niebuhr quel mondo di macerie offerse argomento alle più gravi
meditazioni!

La stessa oscillazione di sentimenti incontrasi nel «Dittamondo»
di Fazio degli Uberti, che è la descrizione, fatta a guisa di
visione (intorno al 1360), di un finto viaggio, nel quale il poeta è
accompagnato dall'antico geografo Solino, come Dante da Virgilio. A
quel modo che essi visitano Bari per onorarvi S. Nicolò e il monte
Gargano in omaggio all'arcangelo Michele, vengono anche a Roma per
risuscitarvi la tradizione leggendaria di Araceli e di S. Maria in
Trastevere; ma la magnificenza profana di Roma antica esercita su essi
un fascino prevalente: una venerabile matrona in lacero abbigliamento
— è Roma stessa — narra loro la gloriosa sua storia e descrive
minutamente gli antichi trionfi[372]: poi li conduce attorno per la
città, addita ad essi i sette colli ed un gran numero di rovine, dalle
quali (egli le fa dire) comprender potrai, quanto fui bella!


Ma pur troppo questa Roma dei Papi avignonesi e scismatici non era
più, rispetto alle memorie dell'antichità, ciò che era stata alcune
generazioni prima. Una orribile devastazione, che ai più importanti
edifici ancora esistenti deve aver tolto affatto il loro carattere
speciale, fu quella che ebbe luogo nell'occasione dell'atterramento di
centoquaranta solide abitazioni di grandi romani ordinato dal senatore
Brancaleone intorno al 1258, essendo certo che la nobiltà cercava di
trincerarsi nelle rovine maggiori e meglio conservate[373]. Ciò non
ostante, restò pur sempre infinitamente più che non rimanga oggidì,
e in particolare molti avanzi devono a quel tempo aver avuto ancora
il loro rivestimento marmoreo, le loro colonne all'ingresso degli
edifici ed altri ornamenti, mentre ora di questi non sopravanza che
il nudo scheletro in pietre cotte. Ora appunto a un tale stato di
cose fanno capo i primi tentativi di una seria topografia dell'antica
città. Nella «Descrizione di Roma» del Poggio[374] per la prima volta
noi veggiamo congiunto intimamente lo studio delle rovine con quello
degli antichi scrittori e delle iscrizioni (ch'egli andò a cercare in
mezzo all'erba[375] cresciutavi sopra), dato il bando ai voli della
fantasia e diligentemente sceverate queste memorie da quelle della
Roma cristiana. Così fosse il di lui lavoro più esteso e corredato
di disegni! Egli infatti trovò molte più cose conservate che non
ottant'anni più tardi Raffaello: egli ha veduto la tomba di Cecilia
Metella, nonchè il frontale a colonne di uno dei templi situati sul
pendìo del Campidoglio, dapprima nella loro integrità e poi mezzo
distrutti, perchè sfortunatamente il marmo era sembrato ancor buono ad
essere fuso in calce: anche un imponente colonnato attiguo alla Minerva
soggiacque a poco per volta alla stessa sorte. Un cronista dell'anno
1443 afferma che queste fusioni continuavano e soggiunge indignato, che
erano: «una vera ignominia, poichè le nuove costruzioni sono meschine
e il bello di Roma sta tutto nelle rovine»[376]. I romani d'allora,
nei loro mantelli da campagnuoli e nei loro stivali, sono dipinti dai
forestieri come veri mandriani, ed infatti il bestiame pascolava sin
dentro a' Banchi: riunioni sociali non si tenevano, se non in occasione
delle visite alle chiese per lucrarvi speciali indulgenze: in tali
circostanze soltanto erano visibili anche le belle donne.


Negli ultimi anni di Eugenio IV (morto nel 1447) Biondo da Forlì
scrisse la sua _Roma instaurata_, servendosi omai di Frontino e degli
antichi Libri regionali, come altresì (a quanto sembra) di Anastasio.
Il suo scopo non è più la descrizione di ciò che sussiste ancora, ma
piuttosto la ricordanza delle cose perite. Coerentemente alla dedica
al Papa, il libro si consola dell'universale desolazione enumerando le
molte reliquie sacre, che Roma ancor possedeva.

Con Niccolò V (1447-1455) sale sul trono dei Papi quel nuovo
spirito monumentale, che è una delle caratteristiche dell'epoca del
Rinascimento. Vero è che la smania ora sorta in tutti di abbellir
la città di Roma, creò da un lato un nuovo pericolo per le rovine,
ma dall'altro accrebbe anche il rispetto per esse, come titolo di
gloria della città stessa. Pio II ha un vero entusiasmo per ogni cosa
antica, e se nelle sue opere ci parla poco delle antichità di Roma in
particolare, s'interessa invece moltissimo per quelle di tutto il resto
d'Italia, e, primo fra tutti, ci dà una descrizione esatta ed estesa
degli avanzi trovati nei dintorni della grande metropoli[377]. Vero
è che, nella sua doppia qualità di ecclesiastico e di cosmografo, lo
veggiamo compreso di uguale ammirazione tanto dinanzi alle antichità
di Roma pagana, quanto dinanzi a quelle di Roma cristiana, o anche
di fronte a qualsiasi grandioso fenomeno naturale; ma chi crederà
alla sincerità delle sue parole, quando egli, per esempio, afferma
che Nola ha maggior gloria dalla memoria di S. Paolino, che non dal
combattimento eroico di Marcello? Non già che si pretenda dubitare
della sua fede nel valore delle reliquie cristiane; ma ognuno sa che
le sue tendenze e i suoi studi lo portavano di necessità a prediligere
l'investigazione della natura e dell'antichità e a interrogare la vita
delle nazioni nei monumenti, che ne rimangono. Ancor negli ultimi suoi
anni, e già divenuto Papa, benchè travagliato dalla podagra, egli si
fa lietamente portare in lettiga via per monti e valli a Tusculo,
ad Alba, a Tivoli, ad Ostia, a Falerio, ad Ocricolo, e descrive
minutamente tutto ciò che ha veduto, segue le antiche strade e gli
acquedotti romani, e cerca di determinare il territorio abitato dalle
antiche popolazioni finitime a Roma. In una escursione a Tivoli, fatta
col grande Federigo da Urbino, il tempo fugge ad entrambi in dialoghi
animatissimi sull'antichità e sull'arte della guerra degli antichi e
più particolarmente sull'impresa dei Greci contro Troja; perfino nel
suo viaggio al congresso di Mantova (1459) egli cerca, benchè indarno,
il labirinto di Chiusi, menzionato da Plinio, e visita sul Mincio la
così detta villa di Virgilio. Che un Papa simile esigesse anche dagli
Abbreviatori della Curia un latino classico nella redazione degli atti,
non farà meraviglia, quando, oltre a tutto questo, si sappia che una
volta nella guerra contro il re di Napoli amnistiò gli Arpinati perchè
compatriotti di M. T. Cicerone e di C. Mario, il nome dei quali ricorre
quivi frequentissimo anche nei registri battesimali. A lui solo, come
a vero conoscitore e sincero fautore, poteva il Biondo dedicare la sua
Roma triumphans, che è il primo grande tentativo di una esposizione
generale delle antichità romane.


Ma anche nel resto d'Italia a questo tempo lo studio delle antichità
romane s'era fatto più vivo che mai. Già il Boccaccio[378], parlando
delle rovine di Baja, le chiama «antiche macerie, ma pur sempre nuove
per gli uomini moderni»: d'allora in poi esse furono riguardate come
una delle più interessanti rarità dei dintorni di Napoli. Poco dopo
sorsero collezioni di antichità di ogni specie. Ciriaco d'Ancona
percorse non solo l'Italia, ma anche molti altri paesi dell'antico
Orbis terrarum, e ne riportò in grande copia iscrizioni e disegni:
interrogato perchè tanto s'adoperasse, rispondeva: per risuscitare
i morti[379]. Le storie delle singole città da tempo antichissimo
avevano accennato a rapporti veri o supposti con Roma, credendole o
direttamente fondate o almeno colonizzate da essa[380]; e da lungo
tempo altresì compiacenti compilatori di genealogie avean derivato
alcune famiglie dalle più celebri dell'antica Roma. Queste adulazioni
tornavano così gradite, che non vi si rinunciò nemmeno nella luce
della critica esordiente del secolo XV. Senza reticenza alcuna Pio II
a Viterbo disse agli oratori romani, che lo pregavano di un sollecito
ritorno[381]: «Roma è già mia patria al pari di Siena, perchè la
famiglia dei Piccolomini è da tempo immemorabile trasmigrata da Roma
a Siena, come lo prova l'uso dei nomi Enea e Silvio perpetuatosi in
essa». Probabilmente non gli sarebbe rincresciuto affatto di esser
creduto un discendente dei Giulii. Anche Paolo II — un Barbo da Venezia
— trovò lusingata la sua vanità nel veder derivata la sua famiglia, ad
onta di un'opinione contraria che la vorrebbe tedesca, dalla stirpe
degli Enobarbi romani, che con una colonia sarebbero venuti a Parma
e di là poi, in forza di lotte di partito, sarebbersi trasferiti a
Venezia[382]. Dopo ciò, non farà meraviglia che i Massimi pretendessero
discendere da Fabio Massimo, i Cornaro dai Cornelj, e parrà invece
strano che nel seguente secolo XVI il novelliere Bandello abbia cercato
di far derivare la propria famiglia da alcuni illustri Ostrogoti (I.
Nov. 23).


Torniamo a Roma. Gli abitanti, «che allora si gloriavano del titolo
di romani», accolsero con compiacenza i sentimenti di omaggio,
che tributava loro il resto d'Italia. Sotto Paolo II, Sisto IV ed
Alessandro VI vedremo effettuarsi splendide feste carnevalesche,
nelle quali si va a gara per rappresentare le immagini predilette
del tempo, i trionfi degli antichi imperatori romani. L'antichità
pervade tutti i sentimenti e somministra le forme, sotto le quali
si manifestano. In mezzo a tali tendenze generali accadde, che il
18 aprile dell'anno 1485 si sparse la voce essersi trovato il corpo,
maravigliosamente bello e ben conservato, di una giovane romana del
tempo antico[383]. Alcuni muratori lombardi, i quali stavano lavorando
per dissotterrare un antico monumento in un podere del convento di S.
Maria nuova, presso la via Appia, fuori della cerchia del sepolcro
di Cecilia Metella, trovarono un sarcofago di marmo, che si diceva
portar l'iscrizione: Giulia, figlia di Claudio. Questo è il fatto; ma
non si tardò a lavorarvi sopra di fantasia, e si disse che i muratori
erano immediatamente scomparsi coi tesori e colle pietre preziose
poste nel sarcofago ad ornamento del cadavere; che questo era tutto
rivestito di una essenza atta a conservarlo, ed avea tale freschezza
e flessibilità, da sembrar quello di una giovane quindicenne appena
morta; e più tardi si aggiunse, che conservava ancora i colori vitali e
gli occhi e la bocca semiaperti. Fu portata al palazzo dei Conservatori
in Campidoglio, dove accorse, per vederla, una folla infinita, e molti
altresì per ritrarla, «imperocchè essa era bella oltre quanto si possa
dire e scrivere, e se lo si dicesse o scrivesse, quelli che non la
videro, no 'l crederebbero». Ma tosto dopo, per ordine di Innocenzo
VIII, si dovette di notte tempo seppellirla in luogo segreto fuori
di porta Pinciana, e nel vestibolo del cortile de' Conservatori non
rimase che il vuoto sarcofago. Probabilmente sul viso del cadavere era
stata tirata una maschera colorata in cera o qualche cosa di simile,
che stesse in armonia con gli aurei capelli. Ciò che v'ha di singolare
in tutto questo non è il fatto in sè stesso, ma il pregiudizio
universalmente radicato che le forme corporee degli antichi, che qui
finalmente si credeva di vedere nella loro realtà, fossero più belle di
quelle dei moderni.


Frattanto la cognizione di fatto dell'antica Roma cresceva mediante
gli scavi: già sotto Alessandro VI si impararono a conoscere le così
dette _grottesche_, vale a dire le decorazioni delle pareti e delle
vôlte degli antichi, e si trovò a Porto d'Anzio l'Apollo del Belvedere:
sotto Giulio II seguirono le gloriose scoperte del Laocoonte, della
Venere vaticana, del Torso, della Cleopatra ed altre parecchie[384];
anche i palazzi dei grandi e dei cardinali cominciarono a riempirsi
di statue e di frammenti antichi. Per Leone X Raffaello intraprese
quella restaurazione ideale di tutta l'antica città, di cui parla
la celebre sua lettera (o del Castiglione)[385]. In essa, dopo avere
amaramente lamentato le devastazioni, che, specialmente sotto Giulio
II, ancora duravano, egli supplica il Papa che voglia farsi protettore
dei pochi avanzi rimasti a testificare la grandezza e la potenza
di quei genii divini dell'antichità, alla cui memoria si accendono
ancora coloro, che sono capaci di sentimenti elevati e sublimi. Poi,
con senso quasi di divinazione, traccia le linee fondamentali di una
storia comparata delle arti, e per ultimo accenna all'opportunità
di quei «restauri», che poi furono nella mente di tutti, e a questo
scopo esprime il desiderio che di ogni avanzo si cerchi di dare il
piano, il contorno e lo spaccato. Come, da questo tempo in avanti,
l'archeologia, tutta intesa ad illustrare la città eterna e la sua
topografia, sia cresciuta in scienza speciale, e come l'Accademia
vitruviana si sia sentita almeno da tanto di metter fuori un programma
colossale[386], non può essere dimostrato nel presente lavoro, nel
quale dobbiamo arrestarci a Leone X, sotto il cui governo il gusto
per l'antichità si connette con tutte le altre tendenze di quel tempo
e cospira a dare un'impronta affatto caratteristica alla vita romana
d'allora. Il Vaticano echeggiava di canti e di suoni: questi suoni si
diffusero, quasi comando a godere la vita, oltre la cerchia di Roma,
non ostante che Leone non sia riuscito con ciò nè a mettere in fuga le
cure e i dolori, nè a prolungar l'esistenza[387], che gli fu tronca
da una morte immatura. La splendida immagine della Roma di Leone,
quale ci viene descritta da Paolo Giovio, resterà indimenticabile, per
quanto anche se ne conoscano i vizi e le piaghe, quali, ad esempio, il
servilismo di chi agognava a salire, la miseria segreta dei prelati
che, in onta ai loro debiti, dovevano vivere sfarzosamente[388],
la protezione male accordata a letterati mediocri, trascurando i
sommi, e finalmente l'amministrazione affatto rovinosa delle finanze
pubbliche[389]. Lo stesso Ariosto, che conosceva sì bene queste magagne
e ne parlava con amarezza, non può a meno tuttavia nella Satira sesta
di confessare quanto gradito gli sarebbe stato il soggiorno di Roma,
dove non gli sarebbe mancata la compagnia di coltissimi letterati,
che l'avrebbero accompagnato a vedere le rovine del tempo antico,
e dove avrebbe trovato consigli autorevoli pel suo poema e mezzi di
erudirsi, compulsando i preziosi tesori raccolti nella Biblioteca del
Vaticano. Questi, egli soggiunge, sarebbero i veri allettamenti che mi
attirerebbero a Roma, se dovessi risolvermi di andarvi quale inviato
della corte di Ferrara, non già la protezione medicea, alla quale da
gran tempo ho rinunciato.


Ma, oltre all'interesse archeologico e a sentimenti di solenne
patriottismo, le rovine ebbero anche la forza di sviluppare, in Roma e
fuori, manifestazioni di entusiasmo affatto elegiaco e sentimentale.
I primi sintomi trovansi, ancora al loro tempo, nel Petrarca e nel
Boccaccio (v. pag. 240 e 245); il Poggio (l. c.) visita di frequente
il tempio di Venere e di Roma, persuaso che sia quello di Castore e
Polluce, dove una volta soleva radunarsi il Senato, e quivi si esalta
alla memoria dei grandi oratori Crasso, Ortensio e Cicerone. In modo
affatto sentimentale si esprime più tardi Pio II, specialmente nella
descrizione di Tivoli[390], e poco dopo si ha la prima prospettiva
di rovine accompagnata da una descrizione del Polifilo[391], dove
figurano avanzi di grandiose vôlte e colonnati, circondati all'intorno
da vecchi platani, allori e cipressi, tra' quali crescono sterpi ed
erba selvatica. Nei racconti delle tradizioni religiose s'introduce
l'uso, non si sa come, di trasportare la nascita di Cristo in mezzo
alle rovine di uno splendido e grandioso palazzo[392]. Per ultimo
scorgesi la manifestazione pratica di questo medesimo sentimento
nella consuetudine invalsa di far entrare le rovine artificiali, come
requisito indispensabile, in qualsiasi grandioso giardino.



CAPITOLO III.

Autori antichi risuscitati.

    Autori già noti fin dal secolo XIV. — Scoperte del secolo
    XV. — Biblioteche, copisti e scrivani. — La stampa. — Cenno
    sullo studio del greco. — Studi orientali. — Pico di fronte
    all'antichità.


Ma infinitamente più importanti che gli avanzi dell'architettura
e dell'arte in generale, erano i monumenti della parola rimasti
dell'antichità greca e romana. Ciò è tanto vero, che in allora furono
addirittura riguardati come la fonte d'ogni sapere nel senso il più
assoluto. Le condizioni librarie di quel tempo di grandi scoperte sono
state più volte e variamente esposte: noi non possiamo aggiungere qui
che alcuni particolari men conosciuti[393].

Per quanto grande sembri essere stata da lungo tempo, e più
specialmente poi nel secolo XIV, l'influenza degli antichi scrittori
in Italia, si potrebbe tuttavia dire che una tale influenza dipendeva
piuttosto da una più larga diffusione delle opere già conosciute,
che non da nuove scoperte, che in quel secolo fossero state fatte. I
più comuni fra i poeti, gli storici, gli oratori e gli epistolografi
latini, insieme ad un certo numero di traduzioni latine di singole
opere di Aristotele, di Plutarco e di pochi altri greci, costituivano
in sostanza l'intero patrimonio, di cui andava ricca e deliziavasi
la generazione del Boccaccio e del Petrarca. È noto a tutti che
quest'ultimo possedeva e custodiva religiosamente un Omero greco, senza
poterlo leggere. La prima traduzione latina dell'Iliade e dell'Odissea
è dovuta al Boccaccio, che la mise insieme alla meglio coll'aiuto di un
greco oriundo di Calabria. — Soltanto col secolo XV comincia la grande
serie delle nuove scoperte, la fondazione sistematica delle biblioteche
creata colla moltiplicazione delle copie e il lavoro zelante delle
traduzioni dal greco.[394]


Senza l'entusiasmo di alcuni raccoglitori d'allora, che talvolta si
videro per esso ridotti alle più dure strettezze, noi non ci troveremmo
in possesso se non di una minima parte degli scrittori greci, che
giunsero sino al nostro tempo. Papa Nicolò V s'aggravò, fin da quando
era monaco, di molti debiti per comperare o far copiar codici, e
fin d'allora egli si confessava vinto dalle due grandi passioni, che
prevalsero nell'epoca del Rinascimento, i libri e le fabbriche.[395]
Divenuto Papa, mantenne la parola, stipendiando copisti per scrivere
e mandando esploratori a cercare opere antiche per ogni dove. Perotto
per la traduzione latina di Polibio ebbe cinquecento ducati, il Guarino
per quella di Strabone mille fiorini d'oro e doveva averne altri
cinquecento, se il Papa non fosse morto precocemente. Morendo, egli
lasciò ricca di cinquemila, o, secondo un altro modo di calcolare, di
novemila volumi[396] quella biblioteca, che propriamente era destinata
in origine all'uso dei soli curiali, ma che divenne l'elemento
principale della celebre Biblioteca del Vaticano: essa doveva essere
collocata nello stesso palazzo papale come il suo più bell'ornamento, a
quel modo che aveva ordinato Tolommeo Filadelfo in Alessandria. Quando
il Papa, in occasione della peste, si ritirò con tutta la sua corte a
Fabriano, vi condusse anche i suoi traduttori e compilatori, per essere
sicuro che non gli morissero.

Il fiorentino Nicolò Niccoli,[397] uno degli eruditi che si
raccoglievano intorno a Cosimo il vecchio, diè fondo a tutto il suo
avere a furia di acquistar libri; ma quando egli non ebbe più nulla,
i Medici gli tennero aperte le loro casse per qualunque somma egli
richiedesse per tali scopi. A lui si deve il completamento di Ammiano
Marcellino e del libro _de Oratore_ di Cicerone, nonchè molte altre
scoperte, ed egli indusse Cosimo a comperare altresì il bellissimo
Plinio, che aveva già appartenuto ad un convento di Lubecca. Con una
liberalità veramente generosa egli dava a prestito i suoi libri, o
forniva ogni possibile comodo in casa sua ai lettori, intrattenendosi
con loro su quanto leggevano. La sua raccolta, che contava ottocento
volumi stimati seimila fiorini d'oro, dopo la sua morte, e per
l'interposizione di Cosimo, passò al convento di S. Marco, sotto
condizione però che fosse accessibile al pubblico.

Dei due grandi scopritori di libri, il Guarino ed il Poggio,
l'ultimo,[398] in parte anche quale incaricato del Niccoli, fece, come
è noto, importanti scoperte nelle abbazie della Germania meridionale,
ch'ebbe occasione di visitare quando si recò al Concilio di Costanza.
Egli trovò quivi sei orazioni di Cicerone e il primo Quintiliano
completo, quello di S. Gallo, ora esistente a Zurigo, che dicesi egli
abbia copiato per intero e assai nitidamente in soli trentadue giorni.
Trovò inoltre importanti frammenti, che ajutarono a completare Silio
Italico, Manilio, Lucrezio, Valerio Flacco, Ascanio Pediano, Columella,
Celso, Aullo Gellio, Stazio e molti altri; e per ultimo, insieme a
Leonardo Aretino, fece conoscere le ultime dodici commedie di Plauto,
nonchè le Verrine di Cicerone.

Il celebre cardinale Bessarione, venuto dalla Grecia, raccolse, con
sentimento di lodevole patriottismo[399] e non senza enormi sacrifici,
seicento codici, contenenti opere pagane e cristiane, e stava appunto
cercando un luogo sicuro dove poterli depositare, affinchè l'infelice
sua patria, se mai un giorno avesse riacquistato la sua libertà,
sapesse dove ritrovare ancora la sua perduta letteratura. La Signoria
di Venezia (v. pag. 98) si dichiarò pronta a costruire un locale
apposito, ed anche oggidì la Biblioteca di S. Marco conserva una parte
di quei tesori.[400]

La formazione della celebre biblioteca medicea ha una storia affatto
speciale, della quale noi non possiamo occuparci qui: il raccoglitore
principale per Lorenzo il Magnifico, fu Giovanni Lascaris. Tutti sanno
che questa raccolta, dopo il saccheggio del 1494, fu a poco per volta
rifatta dalla liberalità del cardinale Giovanni de' Medici (Leone X).

La biblioteca di Urbino (ora in Vaticano) fu[401] in modo precipuo
fondata dal grande Federigo di Montefeltro (v. pag. 60), che aveva
già cominciato a raccogliere fin da fanciullo, e più tardi teneva
costantemente a' suoi stipendj da trenta a quaranta scrivani, e che
nel corso della sua vita si calcola non vi abbia speso meno di trenta
mila ducati. Essa fu poi continuata sistematicamente e completata
specialmente coll'ajuto di Vespasiano, e ciò che questi ne riferisce
è degno di particolare attenzione, perchè ci dà l'idea più completa
di una biblioteca d'allora. Ad Urbino, per esempio, si possedevano
gl'inventari della biblioteca Vaticana, di quella di S. Marco di
Firenze, della Viscontea di Pavia e perfino di quella di Oxford, e
si trovava, con senso di vero orgoglio, che la biblioteca urbinate,
per ricchezza di testi completi di ogni singolo autore, le superava
tutte di gran lunga. Nell'insieme vi prevalevano forse ancora i libri
del medio-evo e specialmente le opere di teologia, quali, ad esempio,
quelle di S. Tommaso d'Aquino, di Alberto Magno, di S. Bonaventura
ecc.; ma la biblioteca comprendeva molti rami dello scibile, e, per
citarne uno, vi si trovavano tutte le opere che mai fu possibile di
raccogliere in fatto di medicina. Fra i _moderni_ primeggiavano i
grandi scrittori del secolo XIV, Dante e Boccaccio, ad esempio, con
tutte le loro opere; poi seguivano venticinque scelti umanisti, sempre
con tutte le loro opere latine ed italiane, come altresì colle loro
traduzioni. Fra i codici greci prevalevano grandemente i Padri della
Chiesa, ma non mancavano neanche i classici antichi, a proposito dei
quali nel catalogo incontransi i nomi di Sofocle, Pindaro e Menandro
con tutte le loro opere; — evidentemente però il codice di quest'ultimo
deve essere assai presto scomparso da Urbino,[402] essendo fuor d'ogni
dubbio che, in caso contrario, i filologi non avrebbero tardato a
pubblicarlo.

Ma noi abbiamo anche altre informazioni sul modo, con cui si
moltiplicarono in allora i manoscritti e si vennero formando le
biblioteche. L'acquisto diretto di un manoscritto un po' antico,
che contenesse un testo raro, o il solo completo, od anche unico,
esistente, restava naturalmente un privilegio di pochi, e non entrava
nei calcoli ordinari. Fra i copisti, quelli che intendevano il greco,
tenevano il posto d'onore e si contraddistinguevano coll'appellativo
speciale di «scrittori»: il loro numero fu e rimase sempre scarso, ed
erano retribuiti assai largamente.[403] Gli altri, detti semplicemente
copisti, erano in parte scrivani, che vivevano unicamente del loro
lavoro, in parte poveri eruditi, che avevano bisogno di qualche
guadagno straordinario. Per una singolarità, i copisti di Roma al
tempo di Nicolò V erano per la massima parte tedeschi e francesi,[404]
individui probabilmente venuti a chiedere qualche grazia alla Curia
e che, obbligati a trattenersi, cercavano di guadagnarsi in tal modo
il proprio sostentamento. Ora allorquando Cosimo de' Medici volle in
tutta fretta fondare una biblioteca per la sua prediletta abbazia al
di sotto di Fiesole, chiamò a sè Vespasiano, e questi lo consigliò di
abbandonare l'idea di comperar libri posti in commercio, perchè non
avrebbe trovato ciò che desiderava, ma bensì di servirsi dell'opera
dei copisti; dietro di che Cosimo s'accordò con lui di un pagamento
a giornate, e Vespasiano stipendiò quarantacinque scrivani, che in
ventidue mesi gli fornirono duecento volumi completi.[405] La lista
delle opere da scegliere fu spedita a Cosimo da Nicolò V, che la stese
di propria mano.[406] (Naturalmente prevalevano su tutto il resto i
libri ecclesiastici e il corredo necessario pel servizio del coro).

La forma della scrittura era quella nitida ed elegante introdottasi
in Italia sin dal secolo precedente e che piace tanto ancora oggidì,
vista nei libri di quel tempo. Papa Nicolò V, il Poggio, Giannozzo
Mannetti, Niccolò Niccoli ed altri celebri eruditi erano essi medesimi
eccellenti calligrafi, e non tolleravano se non le scritture veramente
belle. Gli altri ornamenti, anche se non vi andava unita nessuna
miniatura, portavano l'impronta del massimo buon gusto, come lo provano
specialmente i codici della Laurenziana coi loro leggerissimi fregi
lineari sul principio e alla fine. Il materiale su cui si scriveva,
se per grandi signori, era sempre la pergamena, e le legature nella
Vaticana e ad Urbino uniformemente in velluto cremisino con fermagli
d'argento. Con tanta cura di mettere in evidenza la venerazione che si
aveva pel contenuto dei libri mediante l'eleganza dei fregi esterni,
non riescirà difficile a comprendere come ai libri stampati, che
improvvisamente cominciavano ad apparir d'ogni parte, non si facesse in
sulle prime troppo buon viso. Al qual proposito basta accennare quello
che i biografi narrano di Federigo da Urbino, che cioè «si sarebbe
vergognato» di possedere nella sua biblioteca un libro stampato![407]


Ma gli stanchi copiatori, — non quelli che esercitavano il mestiere, ma
i molti che dovevano copiare un libro per averlo, — giubilarono della
invenzione tedesca.[408] Essa fu messa tosto a profitto in Italia per
la moltiplicazione e diffusione dei classici latini e poscia anche
dei greci, ma non con quella rapidità che avrebbe potuto aspettarsi
dall'universale entusiasmo, che esisteva per questi scrittori. Qualche
tempo dopo cominciò a designarsi più nettamente la posizione reciproca
degli autori e degli stampatori,[409] e sotto Alessandro VI sorse la
censura preventiva, perchè non era più tanto facilmente possibile di
distruggere un libro, come Cosimo aveva poco prima potuto pattuire col
Filelfo.[410]

Come da questo tempo in avanti, in connessione con lo studio
progrediente delle lingue e dell'antichità, siasi venuta a poco a
poco formando una critica dei testi, non è del nostro assunto il
dimostrarlo, come non è nostro compito neanche di dare una storia
dell'erudizione in generale in un libro, che non mira tanto a mettere
in luce ciò che effettivamente si sapeva allora in Italia, quanto
a mostrare ciò che dell'antichità si riprodusse nella vita e nella
letteratura del secolo, di cui si parla. Tuttavia ci sia permessa
ancora una osservazione sugli studi considerati in sè stessi.


L'erudizione greca si concentra essenzialmente in Firenze e nel secolo
XV, nonchè nei primordj del XVI. Ciò che il Petrarca e il Boccaccio
aveano fatto al loro tempo[411] per promoverla non accenna che ad un
entusiasmo da dilettanti; d'altra parte, colla colonia dei dotti venuti
da Costantinopoli morì intorno al 1520 anche lo studio del greco,[412]
e fu una vera fortuna che alcuni settentrionali (Erasmo, gli Stefani
e Buddeo) se ne sieno frattanto impadroniti. Quella colonia avea
cominciato con Emanuele Crisolora e il suo congiunto Giovanni, nonchè
con Giorgio da Trebisonda: poi vennero, intorno all'epoca della presa
di Costantinopoli e più tardi, Giovanni Argiropulo, Teodoro Gaza,
Demetrio Calcondila (che allevò anche i propri figli Teofilo e Basilio
a valenti grecisti), Andronico Callisto, Marco Musuros e la famiglia
dei Lascaris, con molti altri. Tuttavia, dopochè l'assoggettamento
della Grecia per opera dei Turchi fu completo, non vi fu più nessun
dotto superstite, ad eccezione dei figli dei fuggiaschi e forse qualche
condiotto o cipriotto. Ora il fatto che colla morte di Leone X coincide
presso a poco anche il primo scadimento degli studi greci, si spiega
bensì col mutamento sopravvenuto nelle tendenze generali[413] e colla
sazietà relativa, che avea cominciato a manifestarsi rispetto al
contenuto sostanziale della letteratura classica, ma certamente non vi
rimase estranea neanche la scomparsa di oramai tutti i dotti venuti
dalla Grecia, già morti. Così resta che anche fra gl'Italiani gli
anni, in cui lo studio del greco massimamente fiorì, furono quelli più
prossimi al 1500, che potrebbe dirsi in questo riguardo l'anno normale;
e fu appunto allora che appresero anche a parlarlo correttamente
uomini, che un mezzo secolo più tardi non l'avevano ancora dimenticato,
quali ad esempio i papi Paolo III e Paolo IV.[414] Ma un tale fervore
non si spiega se non col presupporre rapporti con uomini veramente
venuti dalla Grecia e greci di nascita.

Oltre Firenze, Roma e Padova ebbero quasi sempre, e Bologna, Ferrara,
Venezia, Perugia, Pavia ed altre città di quando in quando, maestri
stipendiati di greco.[415] Moltissimo poi deve questo studio al
coraggio di Aldo Manuzio, il celebre editore veneziano, che per il
primo stampò in greco i più importanti e voluminosi autori. Egli
arrischiò in quell'impresa tutto il suo avere, e fu in generale tale
tipografo, cui ben pochi anche più tardi possono essere paragonati.


Ma questa è l'epoca in cui, accanto ai classici, anche gli studi
orientali ebbero uno sviluppo abbastanza notevole, e noi dobbiamo qui
farne menzione almeno con una parola. Lo studio dell'ebraico e di tutto
il sapere israelitico si connette ad una polemica dogmatica, che ebbe a
sostenere Giannozzo Mannetti,[416] grande erudito e politico fiorentino
(morto nel 1459). Egli cominciò dall'educare suo figlio Agnolo allo
studio non del latino e del greco soltanto, ma anche dell'ebraico. Più
tardi ebbe l'incarico da papa Nicolò V di tradurre nuovamente tutta
la Bibbia, perchè l'indirizzo filologico del tempo consigliava ad
abbandonar la volgata.[417] Ma anche parecchi umanisti accolsero, molto
tempo prima di Reuclino, nei loro studi anche l'ebraico, e Pico della
Mirandola possedeva tutto il sapere talmudico e filosofico di un dotto
rabbino. I primi a pensare allo studio dell'arabo furono i medici, che
non si accontentavano più delle traduzioni latine alquanto invecchiate
dei grandi maestri arabi: l'occasione forse fu data dai consoli
veneziani stabiliti in oriente, che tenevano presso di sè medici
italiani. Geronimo Ramusio, medico veneziano, fece alcune traduzioni
dall'arabo e morì a Damasco. Andrea Mongajo da Belluno,[418] innamorato
di Avicenna, dimorò lungamente a Damasco per apprendervi l'arabo e
fece poi alcune correzioni al suo autore prediletto. Il governo di
Venezia istituì poscia appositamente per lui una cattedra d'arabo
all'università di Padova.


Ma noi dobbiamo ancora una parola a Pico, prima di passare a dir degli
effetti dell'umanismo in generale. Egli è l'unico che a voce alta e
con vero coraggio difese i diritti della scienza e della verità in
tutti i tempi, di fronte all'esclusiva preponderanza dell'antichità
greco-romana.[419] Egli ricolloca nel posto loro dovuto non solo
Averroè e gl'investigatori ebraici, ma anche gli Scolastici del
medio-evo, dai quali si fa dire: «noi vivremo eternamente, non nelle
scuole dei compilatori di sillabe, ma nella cerchia elevata dei dotti,
che non discutono più sulla madre di Andromaca o sui figli di Niobe,
ma sulle ragioni arcane e profonde di ogni cosa umana e divina: chi
si avvicinerà un poco, vedrà che anche i Barbari avevano lo spirito
(_Mercurium_) non sulla lingua, ma nel petto». Con uno stile vigoroso
e non del tutto disadorno e con una esposizione nitida e serrata egli
combatte il pedantesco purismo e l'esagerata venerazione per una forma
non naturale, ma imitata, specialmente se è congiunta con un ingiusto
esclusivismo e col sacrificio della verità sostanziale delle cose. In
lui può vedersi quale elevato indirizzo avrebbe preso la filosofia
in Italia, se la Contro-riforma non vi avesse soffocato ogni libero
slancio del pensiero.



CAPITOLO IV.

L'umanesimo nel secolo XIV.

    Necessità del suo trionfo. — Parte presavi da Dante, Petrarca,
    e Boccaccio. — Il Boccaccio primo campione dell'antichità. —
    L'incoronazione dei poeti.


Ora chi furono coloro, che si fecero mediatori tra la venerata
antichità ed il presente, e che volevano trasfondere in questo la vita
e la cultura di quella?

Ella è una schiera di cento figure diverse, la quale assume oggi un
aspetto, domani un altro, ma che in mezzo a ciò ha la coscienza di
essere un elemento nuovo nella vita civile, e come tale è considerata
anche dai contemporanei. Come loro precursori possono, prima di ogni
altro, riguardarsi quei _Clerici vagantes_ del secolo XII, della
poesia dei quali s'è già parlato altrove (v. pag. 234): identica
l'instabilità dell'esistenza, identico il modo di guardare, talvolta
anche troppo liberamente, la vita, identica la tendenza a dare, almeno
in sul principio, un'intonazione antica alla poesia. Ma ora, di fronte
all'intera cultura del medio-evo pur sempre chiesastica, e coltivata di
preferenza dal clero, sorge una nuova cultura, la quale precipuamente
s'attiene a ciò che sta al di là del medio-evo, in un'epoca
anteriore. I rappresentanti più attivi di essa acquistano una grande
importanza[420], perchè sanno ciò che seppero gli antichi, perchè
cercano di scrivere come scrissero gli antichi, perchè cominciano
a pensare e a sentire come pensarono e sentirono gli antichi. La
tradizione, alla quale essi si volgono, in mille punti si viene
trasformando in una vera riproduzione.

Taluni fra i moderni lamentarono più volte che i primordî di una
cultura senza paragone più autonoma, e schiettamente italiana, quali
si manifestarono intorno al 1300 in Firenze, sieno stati più tardi
completamente soffocati dalla scuola degli umanisti[421]. Nel secolo
XIV, a detta di costoro, tutti sapevano leggere in Firenze; perfin gli
asinai cantavano per le vie i versi di Dante; i migliori manoscritti
erano quelli posseduti e copiati da artefici fiorentini; e in allora
fu anche possibile la formazione di una enciclopedia popolare, quale
il «Tesoro» di Brunetto Latini. Tutto ciò non era dovuto certamente
ad altro, fuorchè alla forte tempra di carattere che era in tutti, e
questa alla sua volta s'era venuta formando e dalla lunga esperienza
nelle cose di Stato, e dal movimento commerciale vivissimo, e dai
viaggi assai frequenti, e in generale dall'abborrimento in cui vi si
aveva la vita oziosa e indolente. Per queste doti il popolo fiorentino
era salito in tal rinomanza presso tutte le nazioni, che papa
Bonifacio VIII non esitò a chiamarlo il quinto elemento del mondo. Ora
l'umanismo, colla diffusione sempre maggiore che ebbe sino dal 1400
in Italia, arrestò d'un tratto tutto quel moto naturale e spontaneo,
abituò a chiedere alla sola antichità la soluzione di qualunque
problema, ridusse la letteratura ad un semplice sfoggio di citazioni,
e contribuì perfino alla rovina definitiva della libertà, mentre
tutta questa erudizione non si basava che in una servile soggezione
all'autorità altrui e sacrificava ogni privilegio o prerogativa
speciale all'universalità del diritto romano, cercando e ottenendo in
tal modo il favore di tutti i tiranni.

Tutte queste accuse ci occuperanno altrove, quando sarà il caso di
discuterne il vero valore e di bilanciare il pro' ed il contro della
questione. Qui per ora ci preme soltanto di stabilire come cosa di
fatto, che fu anzi la stessa cultura del vigoroso secolo XIV quella
che preparò necessariamente la vittoria completa dell'umanismo, e che
appunto i più grandi nel campo della letteratura italiana propriamente
detta sono stati i primi ad aprire tutte le porte all'invasione
dell'antichità nel secolo XV.


Prima d'ogni altro Dante. Se una serie di genii pari al suo avesse,
dopo di lui, potuto condurre sempre più innanzi la letteratura
italiana, essa, in onta a tutti gli elementi antichi che vi si
introdussero, non avrebbe mai mancato di serbare un'impronta affatto
nazionale e sua propria. Ma nè l'Italia, nè l'intero Occidente hanno
più prodotto un secondo Dante, e così egli rimase pur sempre il primo,
che condusse l'antichità al limitare della nuova cultura moderna.
Però è vero che nella Divina Commedia egli non tratta in modo uguale
il mondo antico e il mondo cristiano; ma pure li fa sempre correre
parallelli fra loro, e come il medio-evo antecedente avea messo insieme
i tipi e i contro-tipi tolti dalle storie e dalle figure dell'antico
e del nuovo Testamento, così egli appaja di regola un esempio
cristiano con uno pagano del medesimo fatto[422]. Ora non si deve
dimenticare che il mondo fantastico cristiano e la sua storia erano
noti universalmente, mentre invece l'antichità pagana era relativamente
assai poco conosciuta, possedeva quindi una maggiore attrattiva e
doveva destare una più grande curiosità nell'universale, quando non ci
fosse stato nessun Dante, che avesse potuto mantenere le cose in giusto
equilibrio.

Il Petrarca nell'opinione dei più non vive oggidì che come un grande
poeta: presso i suoi contemporanei invece la sua fama si basava assai
più sulla sua erudizione, in quanto egli era quasi una personificazione
dell'antichità, imitava tutti i generi della poesia latina e
scriveva lettere, le quali, come trattati speciali su singoli punti
dell'antichità, ebbero in quel tempo senza manuali un valore, che
ognuno può facilmente comprendere.

Nè la cosa andava gran fatto diversamente quanto al Boccaccio. Egli era
celebre in tutta Europa da ben duecento anni, prima che al di la delle
Alpi si sapesse qualche cosa del suo Decamerone, soltanto per le sue
opere mitografiche, geografiche e biografiche scritte in lingua latina.
Una di esse, _De Genealogia Deorum_, contiene nei libri decimoquarto
e decimoquinto una notevole appendice, nella quale egli discute la
posizione del giovane umanismo di fronte al suo secolo. Il fatto che
egli limita sempre il suo discorso alla sola «poesia», non deve per
avventura trarre altri in errore; guardando un po' più addentro alla
sostanza di quel lavoro, si scorge tosto, che il suo pensiero abbraccia
l'intero campo d'attività del poeta-filologo.[423] E sono i nemici di
questa che egli combatte più vivamente: i frivoli ignoranti che non
vivono che per la gozzoviglia e la crapula: gli schifiltosi teologi,
che riguardano come semplici follie le allusioni al monte Elicona,
alla fonte Castalia e al sacro bosco di Febo; gli avidi giuristi,
che considerano come inutile la poesia, perchè, non dà alcun guadagno
materiale: finalmente i monaci mendicanti (indicati con una perifrasi
abbastanza chiara), che si lagnano dell'indirizzo pagano e immorale
della società.[424] Dopo ciò segue la difesa esplicita, anzi l'elogio
della poesia, e in modo speciale del senso recondito ed allegorico, che
le si deve dare dovunque, e di quella oscurità, che le è necessaria
per tener lontane da essa tutte le menti ottuse degli ignoranti. Da
ultimo giustifica lo slancio che presero gli studi dell'antichità al
tempo suo, con evidente allusione alla dotta sua opera.[425] In altri
tempi, egli dice, questi studi potevano essere pericolosi, perchè le
condizioni sociali erano diverse dalle presenti, e la Chiesa primitiva
avea bisogno di difendersi contro i pagani: oggidì — per la grazia di
Gesù Cristo — la vera religione si è raffermata nelle sue basi, ogni
traccia di paganesimo è scomparsa, e la Chiesa vittoriosa è padrona del
campo: oggidì si può accostarsi all'antichità pressochè (_fere_) senza
pericolo alcuno. È lo stesso argomento, che più tardi addussero in
propria difesa gli uomini del Rinascimento.

S'era dunque manifestato un fatto nuovo nel mondo ed era sorta una
nuova classe d'uomini a rappresentarlo. Egli è inutile il questionare
se questo fatto avrebbe dovuto arrestarsi a mezzo il corso della sua
carriera ascendente, per cedere la prevalenza all'elemento prettamente
nazionale: l'opinione di tutti in questo riguardo era una sola, che
cioè l'antichità costituiva una delle più splendide glorie della
nazione italiana.


Essenzialmente propria a questa prima generazione di poeti-filologi è
una ceremonia simbolica, che non cessò neanche nei secoli XV e XVI,
sebbene vi abbia perduto tutto il lato sentimentale, vogliamo dire
l'uso di incoronare i poeti con una corona d'alloro. Le origini di
questa ceremonia si perdono nelle tenebre del medioevo, nè si sa che
per essa abbia mai esistito un rito speciale: era una dimostrazione
pubblica, una testimonianza onorifica resa al merito letterario,[426]
e, appunto per questo, anche qualche cosa di essenzialmente variabile.
Dante, per esempio, sembra che la riguardasse come una specie di
consacrazione religiosa: egli voleva porsi in capo da sè la corona nel
battistero di S. Giovanni, dove egli stesso e centinaja di migliaia di
fiorentini erano stati battezzati.[427] Egli avrebbe potuto, dice il
suo biografo, in virtù della sua rinomanza ottenere l'alloro dovunque,
ma non lo voleva che in patria, e perciò morì senza riceverlo. Da
questo stesso biografo noi apprendiamo inoltre, che sino a questo
tempo un tal uso non vi fu mai in Firenze, e passava comunemente
come cosa ricevuta in eredità dai Greci e dai Romani. Le più vicine
reminiscenze infatti si rannodavano al fatto delle gare capitoline,
fondate sul modello di quelle di Grecia, tra suonatori di cetra, poeti
ed altri artisti, che, da Domiziano in poi, si celebravano ogni cinque
anni, e che sembrano essere sopravissute qualche tempo anche dopo la
caduta dell'impero d'occidente. Ora, posto il caso che uno non osasse
incoronarsi da sè, come avrebbe voluto far Dante, era naturale che si
domandasse quale avrebbe dovuto essere l'autorità, cui un tale ufficio
spettasse? Albertino Mussato (v. pag. 196) fu incoronato a Padova
dal vescovo e dal rettore dell'università; per l'incoronazione del
Petrarca erano in contesa fra loro (1341) l'università di Parigi, che
appunto allora aveva a rettore un fiorentino, e l'autorità municipale
di Roma; e dal canto suo anche l'esaminatore, che egli stesso si
era scelto, il re Roberto d'Angiò, volentieri avrebbe compito la
ceremonia di propria mano a Napoli, se il poeta, come è noto, non
avesse preferito l'incoronazione in Campidoglio di mano del senatore
di Roma. Dopo un tale esempio, il Campidoglio rimase per qualche
tempo la meta di tutte le ambizioni, e tra gli altri vi aspirò, per
esempio, un Jacopo Pizinga, illustre magistrato siciliano.[428] Ma
tosto dopo comparve in Italia Carlo IV, che si compiaceva moltissimo di
appagare la vanità degli uomini ambiziosi e di imporre alle moltitudini
spensierate con l'apparato di ceremonie grandiose e solenni. Partendo
dalla supposizione, che l'incoronazione dei poeti fosse stata una
volta un privilegio esclusivo degl'imperatori romani e che quindi
allora spettasse a lui, egli incoronò a Pisa il dotto Zanobi della
Strada,[429] a gran dispetto del Boccaccio, che a nessun patto volea
riconoscere come legittima questa _laurea pisana_ (l. c.). E per
verità si poteva anche chiedere, come quello straniero mezzo slavo e
mezzo tedesco fosse in diritto di sedere a giudice del vero merito dei
poeti italiani. Ma, ciò non ostante, l'esempio incoraggiò, ed altri
imperatori in viaggio coronarono or qua, or là qualche poeta, dietro
di che alla lor volta nel secolo XV anche i Papi ed altri principi
non vollero restarsi addietro, sino a che da ultimo non si badò più
nè al luogo, nè ad altre circostanze. A Roma, al tempo di Sisto IV,
l'accademia di Pomponio Leto distribuiva di propria autorità corone
d'alloro.[430] I Fiorentini ebbero il tatto di coronare i loro umanisti
solo dopo morti; e così furono coronati Carlo Aretino e Leonardo
Aretino, al primo dei quali Matteo Palmieri, e al secondo Giannozzo
Mannetti recitarono l'elogio funebre in presenza di tutto il popolo e
dei signori del Concilio. In tali circostanze era d'uso che l'oratore
parlasse stando ad uno dei lati della bara, sulla quale giaceva il
cadavere tutto vestito in seta.[431] Oltre a ciò, Carlo Aretino fu
onorato di un monumento (in Santa Croce), che è uno dei più belli
dell'epoca del Rinascimento.



CAPITOLO V.

Le Università e le Scuole.

    L'umanista professore nel secolo XV. — Scuole secondarie.
    — L'istruzione superiore privata; Vittorino. — Guarino in
    Ferrara. — Educazione dei principi.


L'influenza dell'antichità sulla cultura, della quale oggimai dobbiamo
discorrere, presupponeva innanzi tutto che l'umanismo s'impadronisse
delle Università. E ciò veramente accadde, ma non in quelle proporzioni
e con quegli effetti, che altri a prima vista potrebbe credere. Le
Università d'Italia[432] per la maggior parte hanno un vero splendore
soltanto nel corso dei secoli XIII e XIV, allorquando la crescente
ricchezza domandava anche una cura maggiore della vita intellettuale
della nazione. In origine esse non avevano per lo più che tre cattedre:
una di gius canonico, una di gius civile e una di medicina: col tempo
se ne aggiunsero altre tre, quella di rettorica, quella di filosofia
e una terza di astronomia, che di regola, ma non sempre, era una
cosa identica coll'astrologia. Gli stipendi dei professori variavano
estremamente: talvolta consistevano perfino in un capitale dato per
una volta tanto. Coll'allargarsi della cultura cominciarono le gare e
le gelosie, per modo che l'una Università cercava di rubare all'altra
i più celebri maestri, e per effetto di tali circostanze vuolsi che
Bologna talvolta abbia speso per l'Università non meno della metà
delle rendite dello Stato (20,000 ducati). Gli uffici si conferivano
ordinariamente solo per un tempo determinato,[433] e perfino per
singoli semestri, in guisa che i docenti menavano vita nomade, al
pari dei comici; taluni però s'accordavano per tutta la durata della
loro vita. Talvolta dovean promettere di non insegnare in nessun'altra
Università ciò che aveano insegnato in una. Oltre a ciò v'erano anche
dei docenti liberi, senza stipendio. Delle cattedre or ora menzionate
naturalmente quella di rettorica era la più ambita dagli umanisti; ma
non dipendeva che dalla quantità delle cognizioni che uno possedeva
intorno all'antichità, ch'egli potesse aspirare anche a quelle di
giurisprudenza, di medicina, di filosofia o di astronomia. I rapporti
intrinseci delle scienze erano ancora molto mobili, al pari delle
condizioni estrinseche e materiali degli insegnanti. Oltre a ciò
non deve tacersi, che alcuni giuristi e medici godevano i maggiori
stipendi, i primi specialmente come grandi consultori dello Stato che
li pagava, per la trattazione delle sue cause e de' suoi processi.
In Padova nel secolo XV un professore di diritto fu pagato mille
ducati annui[434] e ad un celebre medico se ne volevano dare duemila
e il diritto di libera pratica, dopochè egli sino a quel momento a
Pisa era stato stipendiato con settecento fiorini d'oro.[435] Quando
il giureconsulto Bartolommeo Socini, professore a Pisa, accettò dal
governo di Venezia una cattedra a Padova e voleva partire per quella
città, la Signoria di Firenze lo fece arrestare e non volle lasciarlo
libero che dietro una cauzione di 18,000 fiorini d'oro.[436] Egli è
appunto in virtù dell'alto conto in cui si tenevano queste professioni
speciali, che si arriva a comprendere come illustri filologi abbiano
aspirato a cattedre di diritto e di medicina, mentre d'altra parte è
anche vero che chi voleva in qualsiasi materia tener pubbliche lezioni,
non poteva dispensarsi dal mescolarvi per entro una forte dose di
tintura umanistica. Dell'attività degli umanisti in altri rami avremo
occasione di parlare fra non molto.

Tuttavia le cattedre dei filologi, come tali, benchè in singoli casi
provvedute di abbastanza lauti stipendi ed emolumenti accessori,[437]
appartengono nel complesso alla classe di quelle che erano mobili
e transitorie, in guisa che lo stesso uomo poteva prestar l'opera
sua ed essere remunerato al tempo stesso in più d'una Università.
Evidentemente si amavano i mutamenti, sperandosi sempre di udir qualche
cosa di nuovo da ogni nuovo arrivato, come d'altronde è facile a
comprendere con una scienza ancora in istadio di formazione e quindi
anche legata in gran parte al merito personale di chi la insegnava.
Non è neppur sempre detto che colui che leggeva sugli autori antichi
e li interpetrava, appartenesse effettivamente all'Università, potendo
benissimo aver bastato un semplice invito privato, quando i mutamenti
erano sì facili, e sì grande il numero dei locali disponibili (nei
conventi ecc.). In quegli stessi primi decenni del secolo XV,[438]
nei quali l'Università di Firenze toccò il colmo del suo splendore,
e in cui i cortigiani di Eugenio IV e forse anche di Martino V si
affollavano nelle aule per assistere alle gare di Carlo Aretino e del
Filelfo, esisteva non solamente una seconda Università quasi completa
presso gli Agostiniani di Santo Spirito, ma anche una considerevole
riunione presso i Camaldolesi degli Angeli, e singoli gruppi di
ragguardevoli privati, che si tassavano spontaneamente per farsi
leggere questo o quel corso di filologia o di filosofia. Lo studio
della filologia e dell'antiquaria in Roma non aveva quasi rapporto
alcuno coll'Università (la Sapienza), e si basava quasi esclusivamente
parte sopra una speciale protezione personale dei singoli Papi e
prelati, parte sugli uffici accordati nella Cancelleria papale.
Appena sotto Leone X fu posto mano ad una grandiosa riorganizzazione
della Sapienza, con ottant'otto insegnanti, tra i quali le più grandi
celebrità d'Italia anche per le scienze archeologiche; ma quel nuovo
splendore fu di assai breve durata. — Delle cattedre di greco in Italia
abbiamo già brevemente toccato (v. pag. 262).

Insomma, per farsi un'idea generale dei modi con cui allora veniva
impartita la scienza, si dovrà, quanto più è possibile, distogliere
l'occhio da tutte le nostre attuali istituzioni accademiche. Le
conversazioni e le dispute personali, l'uso costante del latino, e
presso molti anche del greco, finalmente lo scambio frequente degli
insegnanti e la rarità dei libri davano agli studi d'allora un aspetto,
che noi non possiamo figurarci, se non astraendo in tutto dal presente.

Scuole di latino vi erano in ogni città alquanto considerevole, e non
già soltanto come preparazione agli studi superiori, ma propriamente
perchè la cognizione della lingua latina si reputava quivi necessaria
al pari del leggere, dello scrivere e del far conti; dopo ciò seguiva
immediatamente la logica. È cosa notevole che queste scuole non
dipendevano dalla Chiesa, ma dall'autorità municipale; parecchie erano
sorte anche per la sola iniziativa privata.

Tutto questo organismo scolastico sotto la direzione di valenti
umanisti non solo si sollevò ad un alto grado di perfezione, ma divenne
effettivamente una fonte di educazione superiore.


Ma all'educazione dei figli di due case principesche dell'Italia
settentrionale andarono connesse altre istituzioni, che veramente
potevano dirsi uniche nel loro genere.

Alla corte di Giovan Francesco Gonzaga in Mantova (1407-1444) venne
chiamato l'illustre Vittorino da Feltre,[439] uno di quegli uomini
che consacrarono l'intera loro esistenza ad uno scopo, pel quale
si sentivano di dentro una vocazione affatto speciale. Egli educò
innanzi tutto i figli e le figlie del duca, ed una di queste fu da
lui condotta tant'oltre, da farne una donna veramente dotta; ma quando
la sua fama si sparse per tutta Italia e a lui affluivano da tutte le
parti i figli delle più potenti e ricche famiglie, il Gonzaga non solo
permise che Vittorino consacrasse le sue cure anche a questi, ma pare
anzi che si tenesse altamente onorato, che Mantova fosse riguardata
come la casa di educazione di tutto il mondo elegante. Qui, per la
prima volta, all'istruzione scientifica si videro associati anche i
più lodati fra gli esercizi ginnastici, come elemento indispensabile
per una educazione completa. Ma a questi figli dell'aristocrazia non
tardarono ad aggiungersi altri, nell'educazione dei quali Vittorino
pare che riconoscesse lo scopo più alto della sua missione, ed erano
i poveri dotati di singolari attitudini, che egli nutriva ed allevava
in sua casa _per l'amore di Dio_, abituando così i privilegiati della
fortuna a rispettare in questi il privilegio dell'ingegno. Il Gonzaga
gli pagava annualmente trecento fiorini d'oro, ma coperse sempre del
suo l'eccedente della spesa, che spesse volte importava altrettanto.
Egli sapeva che Vittorino non faceva per sè il più piccolo risparmio,
e senza dubbio capiva che l'educazione accordata ai giovani privi
di mezzi era la tacita condizione, alla quale quell'uomo veramente
maraviglioso si acconciava a servirlo. Il sistema della casa era
strettamente religioso, quanto in qualsiasi convento.

Un indirizzo più accentuatamente scientifico è quello che seguì Guarino
da Verona,[440] il quale nel 1429 fu chiamato a Ferrara da Niccolò
d'Este per l'educazione del proprio figlio Lionello, e poscia, dal
1436 in avanti, quando ormai il suo allievo era fatto uomo, vi rimase
in qualità di professore di eloquenza e di ambedue le lingue classiche
presso quell'Università. Anch'egli, fin da quando istruiva Lionello,
aveva accolto in sua casa un drappello scelto di giovani poveri
di diversi paesi, che manteneva in parte ed anche del tutto a sue
spese: le ore della sera sino a notte avanzata erano quelle, che egli
consacrava a questi ultimi, ripetendo le lezioni già date. Anche qui
la religione e la morale erano rigorosamente osservate; nè certamente
dipendette dal Guarino, o da Vittorino che la maggior parte degli
umanisti del loro secolo non meritassero poi molta lode sotto questo
doppio punto di vista. Egli è quasi incomprensibile, come il Guarino,
con una attività quale era la sua, abbia tuttavia trovato il tempo
necessario per condurre a termine tante traduzioni dal greco e tanti
lavori originali, come fece.

Oltre a quelle due corti, anche nella maggior parte delle altre
d'Italia l'educazione delle famiglie principesche venne, almeno in
parte e per alcuni anni, in mano agli umanisti, i quali con ciò fecero
un passo più addentro nella vita delle corti. Lo scriver trattati
sull'educazione degli uomini destinati a regnare era stato fin qui il
compito esclusivo dei teologi: ora fu tutto affare degli umanisti, ed
Enea Silvio, per esempio, stese per due giovani principi della casa
d'Absburgo speciali trattati sulla loro educazione ulteriore,[441] nei
quali naturalmente egli raccomanda il culto dell'umanismo nel senso,
nel quale lo intendevano gl'Italiani. Pare ch'egli prevedesse già lo
scarso frutto de' suoi precetti, poichè lo vediamo adoperarsi in ogni
maniera perchè quegli scritti avessero grande diffusione anche altrove.
Ma dei rapporti degli umanisti coi principi parleremo ora un po' più
largamente.



CAPITOLO VI.

I fautori dell'umanismo.

    Cittadini fiorentini; il Niccoli. — Il Manetti, e i primi
    Medici. — Principi: i Papi da Nicolò V in avanti. — Alfonso
    di Napoli. — Federigo d'Urbino. — Gli Sforza e gli Estensi. —
    Sigismondo Malatesta.


Innanzi tutto degni di menzione sono, specialmente a Firenze, quei
cittadini, che dello studio dell'antichità fecero lo scopo principale
della loro vita, e in parte divennero essi stessi grandi eruditi, in
parte grandi dilettanti, che aiutarono gli eruditi (cfr. a pag. 254
e segg). Pel periodo di transizione, che comincia al principio del
secolo XV, essi hanno un'importanza grandissima, perchè pei primi
tradussero praticamente nella vita l'umanismo, come un elemento affatto
indispensabile. I principi e i Papi non se ne interessarono seriamente
se non molto più tardi. Di Nicolò Niccoli e di Giannozzo Manetti s'è
già parlato più volte e da molti. Nicolò ci vien dipinto da Vespasiano
(pag. 625) come un uomo, il quale, anche in tutto ciò che al di fuori
lo circondava, non tollerava nulla, che non avesse una certa impronta
di antichità. Di bell'aspetto, avvolto in un lungo paludamento,
affabile nei discorsi, circondato dai capolavori dell'arte antica,
lasciava di sè in tutti un'impressione singolare e maravigliosa;
amantissimo della pulitezza in ogni cosa, egli la portava allo scrupolo
nel servizio della tavola, sulla quale non figuravano che vasi e calici
antichi e lini candidissimi.[442] Il modo con cui seppe guadagnarsi
l'animo di un giovane fiorentino rotto ad ogni vizio, è troppo
singolare per non dover esser qui raccontato[443] colle parole stesse
del suo biografo:

«Messer Piero de' Pazzi, figliuolo di messer Andrea, sendo giovane di
bellissimo aspetto e dato molto ai piaceri del mondo, alle lettere non
pensava, perchè il padre era mercadante, e, come fanno quelli che non
n'hanno notizia, non le stimava, nè pensava che il figliuolo vi desse
opera... Sendo in Firenze Nicolao Niccoli, ch'era un altro Socrate
e un altro Catone di continenza e di virtù, passando uno dì messer
Piero, senza che mai gli avesse favellato, nel passare dal palazzo
del Podestà[444] lo chiamò, vedendo uno giovane di sì bello aspetto.
Sendo Nicolao uomo di grandissima riputazione, subito venne a lui.
Venuto, come Nicolao lo vide, lo domandò di chi egli fosse figliuolo.
Risposegli, di messer Andrea de' Pazzi, Domandollo, quale era il
suo esercizio. Rispuose, come fanno i giovani: attendo a darmi buon
tempo. Nicolao gli disse: sendo tu figliuolo di chi tu sei e di buono
aspetto, egli è una vergogna che tu non ti dia a imparare le lettere
latine, che ti sarebbero uno grande ornamento; e se tu non le impari,
tu non sarai stimato nulla: passato il fiore della tua gioventù, ti
troverai senza virtù ignuna. Messer Piero, udito questo da Nicolao,
subito gustò e conobbe ch'egli diceva il vero, e sì gli disse che
volentieri vi darebbe opera, quando egli avesse uno precettore, che si
lascierebbe consigliare a lui. Nicolao gli disse che del precettore e
de' libri lasciasse pensare a lui, che lo provvederebbe d'ogni cosa.
A messer Piero parve che gli fosse venuta una grande ventura. Dettegli
Nicolao uno dottissimo uomo, che si chiamava il Pontano, peritissimo in
greco ed in latino, e ricolselo messer Piero in casa, dove lo teneva
onoratissimamente servito con uno famiglio e con salario di cento
fiorini l'anno. Lasciò andare messer Piero infinite lascivie e voluttà,
alle quali egli era volto, e dettesi in tutto alle lettere, che il dì e
la notte non attendeva ad altro, in modo che non passò molto tempo che
sendo messer Piero di prestantissimo ingegno, ed avendo uno dottissimo
precettore, cominciò a avere buonissima notizia delle lettere
latine, delle quali egli acquistò grandissimo onore e n'ebbe grande
riputazione,..... Imparò l'Eneide di Virgilio a mente, e molte orazioni
di Livio in soluta orazione, per spasso, andando a uno suo luogo che
aveva, e che si chiamava il Trebbio».


In senso diverso e più elevato rappresenta l'antichità Giannozzo
Manetti.[445] Mostrando ancor da fanciullo una maturità precoce, egli
avea fatto il suo alunnato nel commercio e teneva i registri di un
banchiere; ma dopo qualche tempo questo genere di vita gl'increbbe,
come vano ed effimero, ed aspirò alla scienza, per la quale soltanto
l'uomo può assicurarsi l'immortalità. E allora, primo fra tutti i
nobili fiorentini, si seppellì fra i libri e divenne, come già s'è
notato, uno dei più grandi eruditi dell'epoca sua. Ma quando lo Stato
lo adoperò al suo servizio, mandandolo a Pescia e a Pistoia in qualità
di pubblico esattore e poi di Podestà, egli tenne questi uffici in
modo da far palese a tutti l'alto concetto che egli aveva della propria
missione, ispiratogli senza dubbio dalla vastità de' suoi studi e da un
sentimento di pietà religiosa, che in lui era schietto e profondo. Egli
curò la riscossione delle imposte le più odiose decretate dallo Stato,
rinunciando ad ogni retribuzione per sè; quale preposto alla provincia,
la provvide di vettovaglie, respinse qualsiasi dono, compose le liti e
fece quanto era in poter suo per domare colla dolcezza la ferocia delle
passioni. I Pistoiesi non furono mai in grado di dire a quale dei due
partiti, in che era allora divisa la loro città, egli di preferenza
inclinasse: e, quasi a prova ch'egli aveva ugualmente a cuore la sorte
e il diritto di tutti, scrisse nelle ore d'ozio la storia di Pistoia,
che poi legata in porpora fu custodita, come preziosa reliquia, nel
palazzo del Comune. Alla sua partenza la città gli regalò una bandiera
con suvvi il proprio stemma ed uno splendido elmo d'argento.

Per quanto riguarda gli altri dotti cittadini di Firenze di questo
tempo, noi dobbiamo riportarci a ciò che ne dice Vespasiano (che
li conosceva tutti), perchè l'ambiente nel quale egli scrive e le
circostanze per le quali egli si trova a contatto con quei personaggi,
sono spesso assai più importanti che le cose stesse, ch'egli ci narra.
Parlandone di seconda mano e colla compendiosa brevità, alla quale
qui siamo condannati, noi non faremmo che sciupare questo, che è il
pregio principale del suo libro. Non è un grande scrittore, ma conosce
addentro tutto il moto del tempo e ne sente a fondo l'importanza
morale.

Se poi si vuol conoscere le cause per cui i Medici del secolo XV,
Cosimo il vecchio principalmente (morto nel 1464) e Lorenzo il
Magnifico (morto nel 1492), esercitarono su Firenze in particolare
e sui loro contemporanei in generale un prestigio così potente ed
irresistibile, si troverà che esse non derivavano soltanto dalla loro
superiorità politica, ma altresì, e molto più forse, dall'essersi essi
posti alla testa di tutta la cultura, che allora sorgeva. Chi al posto
di Cosimo, come mercadante e capo-parte in Firenze, ha eziandio con
sè tutta la schiera degli uomini che pensano, studiano e scrivono; chi
per casato è riguardato come il primo tra i Fiorentini, e per cultura
il più grande fra gli Italiani, non può dirsi un privato: nel fatto
egli è un vero principe. Cosimo ha poi la gloria speciale di aver
riconosciuto nella filosofia platonica[446] il più bel frutto della
filosofia antica, di aver infuso questa sua persuasione in quanti
lo circondavano e così di aver promosso, dentro la cerchia stessa
dell'umanismo, un secondo e più sublime risorgimento dell'antichità.
Il fatto ci è narrato[447] assai esattamente: tutto ebbe origine
dalla chiamata del dotto Giovanni Argiropulo e dallo zelo personale
di Cosimo negli ultimi suoi anni, in guisa che, per ciò che riguardava
il platonismo, il grande Marsilio Ficino aveva ragione di dichiararsi
il figlio spirituale di Cosimo. Sotto Piero de' Medici il Ficino
si riguardava già come il capo di una scuola; alla quale passò,
abbandonando i Peripatetici, anche il figlio di Piero e nipote di
Cosimo, Lorenzo il Magnifico: tra i più illustri fra' suoi condiscepoli
vengono menzionati Bartolommeo Valori, Donato Acciajuoli e Pier Filippo
Pandolfini. L'ispirato maestro lasciò scritto in più luoghi delle sue
opere, che Lorenzo s'era addentrato in tutte le dottrine più recondite
del platonismo e s'era dichiarato convinto non potersi quasi, senza
esso, essere nè buon cittadino, nè buon cristiano. Il celebre gruppo
di dotti, che si raccoglieva intorno a Lorenzo, viveva tutto in questa
atmosfera elevata di una filosofia idealistica ed emergeva di gran
lunga sopra tutte le altre riunioni di questa specie. Questo solo era
l'ambiente, nel quale potea trovarsi a suo agio un uomo come Pico
della Mirandola. Ma ciò che ne accresce di gran lunga la lode si è
che, accanto ad un culto così vivo per l'antichità, qui ebbe un sacro
asilo anche la poesia italiana, e di ciò il merito principale era tutto
di Lorenzo. Come uomo di Stato lo giudichi ognuno a sua posta (v. p.
111, 124): uno straniero non si arrogherà mai, se non vi è chiamato,
di giudicare qual parte spetti agli uomini, quale alla fortuna nei
destini, che ebbe a subire Firenze; ma sarà sempre somma ingiustizia il
voler accusare Lorenzo di non aver nel campo della cultura accordata
la sua protezione che ad uomini mediocri, di aver fatto fuggire dalla
propria patria Leonardo da Vinci e il matematico fra Luca Pacciolo,
di non avere in nessun modo incoraggiato il Toscanelli, il Vespucci ed
altri. Uomo universale invero egli non fu; ma fra tutti i grandi, che
giammai cercarono di promuovere e favorire l'ingegno, fu certo uno dei
più magnanimi e liberali e forse l'unico, che lo fece non per iscopi
di vanità od ambizione, ma per obbedire ad un bisogno innato dell'animo
suo.

Vero è che anche nel nostro secolo si suol proclamare altamente
il pregio della cultura in generale e quello dell'antica in modo
particolare. Ma una devozione al tutto entusiastica, una persuasione
che questo bisogno sia il primo di tutti, non si troverà presso nessun
popolo portato a quel grado, a cui la portarono quei Fiorentini del
secolo XV e in parte anche del XVI. Le prove, benchè indirette,
abbondano e sono tali da non lasciar dubbio alcuno in proposito:
non si avrebbe si di frequente ammesso le figlie di famiglia a
partecipare agli studi, se questi non fossero stati assolutamente
considerati come il più prezioso ornamento della vita: non si sarebbe
convertito l'esiglio in un soggiorno di pace e tranquillità, come
fece Palla Strozzi; nè uomini, che del resto si permettevano ogni
eccesso, avrebbero conservato tanta calma e forza di volontà da
illustrare criticamente la storia naturale di Plinio, come fece Filippo
Strozzi.[448] Alieni dalla lode e dal biasimo, noi rendiamo loro tanto
più volentieri questa giustizia, in quanto l'assunto nostro non è che
di investigare e far conoscere lo spirito di un'epoca per ciò che esso
è veramente e quale si mostrò nelle sue più splendide manifestazioni.
Oltre Firenze, furonvi anche parecchie altre città in Italia, dove e
singoli privati e intere associazioni misero in opera tutti i mezzi
possibili per promuovere l'umanismo e per soccorrere i dotti che lo
rappresentavano. Dalle corrispondenze epistolari di quel tempo si
raccoglie una serie abbondantissima di notizie sulle persone che vi
presero parte.[449] Le tendenze ufficiali dei meglio istrutti davano
quasi sempre l'indirizzo, in un senso o nell'altro, all'entusiasmo di
tutti.


Ma è tempo omai di considerar l'umanismo alle corti principesche.
Degli intimi rapporti fra il tiranno e il filologo, condannati dal
paro a non contare che sopra sè stessi e sul proprio ingegno, s'è
già toccato altrove (v. p. 12,188); ma quest'ultimo, per sua stessa
confessione, preferiva le corti alle città libere anche per un'altra
ragione, vale a dire per le maggiori ricompense, che vi trovava. Al
tempo, in cui sembrava che Alfonso il Magnanimo d'Aragona potesse farsi
padrone di tutta Italia, Enea Silvio scriveva[450] ad un Sanese suo
compatriota: «se sotto la sua signoria l'Italia potesse ricuperare la
pace, io ne sarei più lieto che non se ciò accadesse per opera di un
qualsiasi governo repubblicano, poichè un animo regale è sempre più
proclive a premiare il vero merito».[451] Anche in questo riguardo
i moderni s'affrettarono un po' troppo a mettere in rilievo il lato
debole di tali rapporti, cioè la smania di circondarsi di adulatori
prezzolati, appunto come in altri tempi, invece, dalle lodi esagerate
degli umanisti si era tratto argomento per portare di questi stessi
principi un troppo favorevole giudizio. Fatta la somma del pro' e
del contro, resta pur sempre una testimonianza decisiva in favor loro
nel fatto, che essi credettero di dover collocarsi alla testa della
cultura del proprio tempo e del proprio paese, per quanto pure essa
fosse imperfetta e ristretta. In alcuni Papi poi par quasi favolosa la
tranquillità, con la quale videro svolgersi sotto i loro occhi quel
lento lavoro di trasformazione che si veniva compiendo.[452] Nicolò
V non ci scorgeva nessun pericolo per la Chiesa, perchè migliaia di
dotti le stavano a fianco, pronti a difenderla e ad aiutarla. Pio II
non si mostra invero troppo largo verso la scienza, e i poeti che
rallegrano la sua corte, sono in numero abbastanza ristretto; ma,
in compenso, egli stesso personalmente sta a capo della repubblica
letteraria e si compiace di questa gloria al tutto profana. Soltanto
sotto Paolo II cominciarono i sospetti e le diffidenze contro la
cultura umanistica dei secretari apostolici, e i suoi tre successori,
Sisto, Innocenzo ed Alessandro accettarono bensì qualche dedica e si
lasciarono esaltare dai poeti senza misura (si parla persino di una
_Borgiade_, scritta probabilmente in esametri),[453] ma ebbero in
generale ben altre preoccupazioni e cercarono appoggi più solidi, che
non fossero le servili adulazioni dei poeti-filologi. Anche Giulio
II trovò i poeti che cantarono le sue gesta, e veramente queste erano
tali da fornirne sufficiente argomento (v. p. 161 e seg.); ma non pare
ch'egli vi abbia mai posto troppo seria attenzione. A lui successe
Leone X: «dopo Romolo, Numa», dissero i poeti d'allora, che, dopo un
Pontificato tutto dedito alle armi, videro sorgerne uno tutto sacro
alle Muse. Il gusto per la bella prosa latina e pei versi ben risonanti
era una delle caratteristiche di Leone, e sta di fatto che la sua
protezione a questo riguardo portò le cose ad un punto, che i poeti
latini che lo circondavano, non rifinirono di esaltare con elegie,
odi, epigrammi e sermoni innumerevoli[454] la felicità di un'epoca, il
cui carattere principale era quello di una spensierata allegria, sì
ben dipinta dal Giovio nella vita di questo Papa. Forse nella storia
occidentale non v'è un principe che sia stato tanto glorificato, con
sì poche pagine nella sua vita veramente degne di lode. I poeti erano
ammessi alla sua presenza principalmente sull'ora del mezzogiorno,
quando avean cessato di circondarlo i citaristi;[455] ma uno dei
migliori di quella schiera[456] ci lascia intendere, che essi gli erano
sempre al fianco tanto nei giardini, quanto nello stanze più segrete
del suo palazzo, e chi avea la disgrazia di non poter giungere sino
a lui, tentava di farsi vivo nella sua memoria mediante una supplica
in forma di elegia, nella quale di solito si faceva intervenire tutto
l'Olimpo.[457] Imperocchè Leone, generoso sino alla prodigalità e
desideroso di veder sempre visi allegri, donava con tale larghezza, che
nei gretti tempi che susseguirono parve incredibile e favolosa.[458]
Della riorganizzazione da lui introdotta nel collegio della Sapienza,
s'è già parlato (v. pag. 280). Per non valutare al di sotto del vero
l'influenza esercitata da Leone sull'umanismo, bisogna tener l'occhio
libero dalle molte ciurmerie, che vi andavano frammiste, nè si deve
lasciarsi trarre in errore dall'ironia spesso troppo pronunciata (v.
pag. 214), colla quale egli discorre di queste cose: il giudizio
deve fondarsi sulle grandi eventualità morali, che possono essere
la conseguenza di un «primo impulso dato» e che veramente sfuggono
nell'insieme di una rappresentazione generale, ma si palesano poi in
singoli casi presi isolatamente. Tutta l'influenza, che, forse dal
1520 in poi, gli umanisti italiani esercitarono sul resto d'Europa, ha
pur sempre in un modo o nell'altro la sua origine nella iniziativa,
che partì da Leone. Egli è quel Papa che, concedendo il privilegio
allo stampatore delle opere di Tacito recentemente scoperte,[459]
potè dire che «i grandi autori sono una guida della vita, un conforto
nelle sventure», e che il favorire i dotti e il fare incetta di
buoni libri gli è parsa sempre opera lodevolissima, per cui anche
allora ringraziava il cielo di poter contribuire al bene dell'umanità
incoraggiando la pubblicazione di quel libro.

Il sacco di Roma dell'anno 1527, come disperse gli artisti, fece
fuggire altresì in tutte le parti d'Italia i letterati e portò così la
fama del grande mecenate fino alle più remote estremità della Penisola.


Fra i principi laici del secolo XV quello che mostrò maggiore
entusiasmo per l'antichità, fu Alfonso il Magnanimo d'Aragona, re
di Napoli (v. pag. 47). Sembra che questo entusiasmo in lui fosse
veramente sincero, e che il mondo antico esistente nei monumenti e
negli scritti abbia prodotto in lui, sino dal suo arrivo in Italia, una
gagliarda impressione, che influì poi su tutto il resto della sua vita.
Con singolare leggerezza egli cedette l'inquieto suo regno d'Aragona
al fratello, per dedicarsi interamente a quello, che recentemente
aveva acquistato. Tenne a' suoi stipendi ora successivamente, ora
contemporaneamente,[460] Giorgio da Trebisonda, Crisolora il giovane,
Lorenzo Valla, Bartolommeo Facio e Antonio Panormita, facendoli suoi
storiografi: quest'ultimo doveva ogni giorno spiegar qualche passo
di Livio dinanzi al re e alla sua corte, anche duranti le spedizioni
guerresche. Tutti costoro gli costavano annualmente oltre a ventimila
fiorini d'oro; al Facio assegnò, per la sua _Historia Alphonsi_,
una pensione annua di più che cinquecento ducati, ed oltre a ciò gli
regalò mille cinquecento fiorini d'oro al termine dell'opera con queste
parole: «non intendo con ciò di pagarvi, perchè il vostro lavoro non
può esser pagato, nemmeno s'io vi regalasse una delle mie migliori
città; ma col tempo saprò trovar modo di rendervi soddisfatto». Quando
egli assunse Giannozzo Manotti a suo segretario, facendogli lautissime
condizioni, gli disse: «occorrendo, dividerò con voi il mio ultimo
pane». Egli aveva conosciuto Giannozzo, quando questi andò alla sua
corte per incarico della Signoria di Firenze a congratularsi del
matrimonio del principe Ferrante, e l'impressione che n'avea ricevuto
era stata sì grande, che, udendolo parlare, era rimasto inchiodato sul
trono «come una statua di bronzo», senza nemmeno muovere una mano «a
cacciarsi gl'insetti». Il suo ritiro prediletto sembra essere stata la
biblioteca del castello di Napoli, dove egli sedeva lunghe ore nel vano
di una finestra, prospettando il mare e ascoltando i dotti discutere,
per esempio, sulla Trinità. Infatti egli era profondamente religioso
e, insieme a Livio e a Seneca, non mancava di farsi leggere anche
la Bibbia, che sapeva quasi tutta a memoria. Chi potrebbe dire qual
sorta di venerazione egli tributasse alle supposte ossa di Livio in
Padova (v. p. 199)? Quand'egli, dopo molte preghiere, potè ottenere dai
Veneziani un avambraccio del medesimo e lo accolse con pompa solenne a
Napoli, chi sa qual contrasto di sentimenti pagani e cristiani era nel
suo petto! In una spedizione guerresca negli Abruzzi gli fu mostrata
da lontano Sulmona, patria d'Ovidio, ed egli mandò un saluto a quella
terra e ne ringraziò il genio tutelare: senza alcun dubbio egli si
compiaceva dì veder confermata col fatto la profezia del grande poeta
sulla sua fama avvenire.[461] Una volta gli piacque di mostrarsi egli
stesso in pubblico vestito all'antica, e fu appunto nel suo celebre
ingresso in Napoli dopo la conquista (1443): non lungi dal mercato
fu aperta nelle mura una breccia della larghezza di quaranta braccia;
per questa egli passò condotto in un cocchio dorato, alla guisa di un
trionfatore romano.[462] Anche la ricordanza di questo fatto è stata
eternata con uno splendido arco trionfale di marmo nel Castello nuovo.
— I suoi successori sul trono di Napoli hanno ereditato ben poco, nulla
affatto, di questo suo entusiasmo per l'antichità, come di tutte le
altre sue buone qualità in generale.


Senza paragone più dotto di Alfonso era Federigo di Urbino,[463] che
si tenne d'attorno minor numero di cortigiani, non dissipò mai nulla,
e, come in tutte le cose, così anche nel far rivivere l'antichità
procedette con un disegno prestabilito. Egli divide con Nicolò V il
vanto di aver fatto eseguire la maggior parte delle traduzioni dal
greco e un numero rilevante delle più importanti interpretazioni,
illustrazioni e simili. Egli spese molto, ma con saggezza, nelle
persone che adoperava. Poeti di corte non ce ne furono mai ad
Urbino; il principe stesso era il personaggio il più dotto. Veramente
l'antichità non fu che una parte della sua cultura: volendo riuscire
perfetto come uomo, come capitano e come principe, egli si studiò
di possedere molta parte del sapere d'allora in generale, e, che è
più, per iscopi pratici, mirando più alla sostanza che alla forma.
Come teologo, per esempio, egli paragonava Tommaso d'Aquino con lo
Scoto e conosceva anche gli antichi Padri della Chiesa d'oriente e
d'occidente, i primi nelle traduzioni latine. Nella filosofia sembra
che abbia lasciato interamente Platone alle predilezioni di Cosimo suo
contemporaneo; ma di Aristotile conosceva non soltanto l'Etica e la
Politica, ma anche la Fisica e molti altri scritti. Nelle altre sue
letture pare che predilegesse in modo speciale gli antichi storici, che
possedeva tutti: e questi, non i poeti, «tornava egli sempre a leggere
e a farsi leggere».


Anche gli Sforza sono tutti più o meno uomini dotti[464] e proteggono
gli studi, come abbiamo già avuto occasione di accennare (v. pag. 37,
53). Il duca Francesco, a quanto sembra, nell'educazione de' suoi figli
riguardava la cultura umanistica come un ornamento indispensabile,
e ciò anche per motivi politici, considerando come un vantaggio
inestimabile, che il principe potesse trattare cogli uomini più colti
da pari a pari. Lodovico il Moro, eccellente latinista egli stesso,
mostrò più tardi un vivo interessamento per ogni genere di cultura,
senza limitarsi alla sola antichità (v. pag. 56).

Anche i principi minori cercarono procacciarsi un simil genere
di gloria, e si fa loro un gran torto se si crede che non abbiano
mantenuto i loro letterati di corte per altro fine, che per esserne
celebrati e adulati. Di un principe quale fu Borso di Ferrara (v.
pag. 46), non si può certo supporre, in onta anche alla sua vanità,
che aspettasse l'immortalità dai poeti, per quanto anche questi
abbiano voluto adularlo con una «Borseide», e simili; egli era troppo
persuaso della sua potenza, per scendere a tanto; ma la compagnia dei
dotti, il culto dell'antichità e una elegante epistolografia latina
erano cose, di cui un principe d'allora non poteva far senza. Quante
volte non ha deplorato il duca Alfonso, che pure aveva tanta cultura,
(v. pag. 63), che la sua gracilità in gioventù lo abbia costretto a
cercare distrazioni e salute unicamente nel lavoro manuale![465] Ma
chi potrebbe dire quanto quei lamenti fossero sinceri, o se egli non
li facesse, che al solo scopo di tenersi lontani tutti i letterati?
In un'anima come la sua la simulazione era abituale, nè giunsero mai a
leggervi nettamente per entro nemmeno i suoi contemporanei.

Perfino i più piccoli fra i tiranni della Romagna sentono il bisogno
di avere uno o più umanisti alla loro corte: e in tal caso il maestro
di casa o il segretario diventano per un tempo più o meno lungo
il personaggio più importante fra tutti quelli che circondano il
principe.[466] Comunemente si passa oltre con troppo disprezzo e con
troppa precipitazione su queste particolarità, che sembrano e non sono
inezie, e si dimentica che nell'ordine morale i fatti più salienti sono
appunto quelli, che non obbediscono a nessuna regola, o consuetudine.


Qualche cosa di singolarmente strano deve essere stata la corte di
Rimini sotto l'audace masnadiere e condottiero Sigismondo Malatesta.
Egli aveva intorno a sè un certo numero di filologi, taluni dei quali
erano riccamente provvisti anche col possesso di qualche podere,
altri avevano almeno tanto da poter vivere ricevendo lo stipendio
di ufficiali e servendo anche in tale qualità.[467] Essi tenevano
frequenti ed acri dispute nel castello di Sigismondo (_arx sismundea_),
presente lo stesso «re», come essi lo chiamavano; naturalmente le loro
poesie latine riboccano delle sue lodi e cantano i suoi amori con la
bella Isotta, in onore della quale fu fatta la celebre ricostruzione
della chiesa di S. Francesco in Rimini, per convertirla in monumento
sepolcrale: _Divae Isottae sacrum_. E quando i filosofi muojono, son
collocati nei sarcofaghi, di cui sono piene le nicchie delle pareti
esterne della stessa chiesa: un'iscrizione indica il tempo della
morte di ciascuno e segna l'anno del regno di Sigismondo, figlio di
Pandolfo.[468] Dire oggidì che un mostro simile amava la scultura e la
compagnia dei dotti, parrebbe quasi un voler far credere l'incredibile;
pure l'uomo stesso che lo scomunicò, lo combattè e lo fe' bruciare in
effigie, Papa Pio II, scrisse di lui: «Sigismondo conosceva le storie
ed era molto innanzi nella filosofia, e sembrava nato a tutto ciò che
intraprendeva».[469]



CAPITOLO VII.

Riproduzione dell'antichità. Epistolografia.

    La Cancelleria papale. — Apprezzamento dello stile epistolare.


Ma due erano gli scopi principali, per cui tanto le Repubbliche, quanto
i Principi e i Papi non credevano poter far senza degli umanisti:
la redazione delle corrispondenze epistolari, e la preparazione dei
discorsi da tenere in pubblico o nelle solenni circostanze.

Il segretario non solo deve, quanto allo stile, essere un buon
latinista, ma anzi si crede che solo un umanista possegga le attitudini
e la cultura necessarie per essere un buon segretario. Ammessa una tale
supposizione, s'intende subito come sia avvenuto che i più illustri
scienziati del secolo XV abbiano per la massima parte consacrato in
tal modo una parte considerevole della loro vita al servizio dello
Stato. Nella scelta non si aveva riguardo alcuno nè alla patria, nè
all'origine del candidato; dei quattro grandi segretari, che servirono
la Repubblica di Firenze dal 1429 al 1465,[470] tre erano originari
della soggetta città di Arezzo, vale a dire Leonardo (Bruni), Carlo
(Marzuppini) e Benedetto Accolti: il Poggio scendeva da Terranuova,
ugualmente nel territorio fiorentino. Ma già da lungo era una
consuetudine invalsa quella di conferire ad estranei i maggiori uffici
della città. Leonardo, il Poggio e Giannozzo Manetti furono anche ad
intervalli cancellieri segreti dei Papi, e Carlo Aretino doveva egli
pur divenirlo. Biondo di Forlì e, in onta a tutte le ripugnanze, da
ultimo anche Lorenzo Valla tennero lo stesso ufficio. Da Nicolò V e
Pio II in avanti[471] il palazzo papale attira le menti più poderose
nella sua cancelleria, e ciò accade perfino sotto gli ultimi Papi del
secolo XV, tutt'altro che devoti al culto della letteratura. Nella
Storia dei Papi del Platina la vita di Paolo II non è che un atto di
vendetta dell'umanista contro l'unico Papa, che non seppe trattare
come meritavano i suoi cancellieri, quella splendida riunione di
«poeti ed oratori, che impartiva alla Curia altrettanto lustro, quanto
ne riceveva». Bisogna vederli, questi orgogliosi signori, alle prese
fra loro, quando sorge una questione di preminenza, o quando, per
esempio, gli avvocati concistoriali vogliono stare in pari rango con
loro, o, peggio ancora, si arrogano di sorpassarli![472] Tutto ad un
tratto le citazioni piovono d'ogni parte, e l'uno evoca la memoria di
Giovanni evangelista, che ebbe il privilegio di vedere anticipatamente
gli arcani del cielo, l'altro cita lo scrivano di Porsenna, che da
Muzio Scevola fu scambiato pel re stesso, un terzo nomina Mecenate,
depositario dei segreti d'Augusto, un quarto dimostra come in Germania
gli arcivescovi stessi si gloriano del titolo di cancellieri, e
simili.[473] «Gli scrittori apostolici hanno nelle loro mani i più
importanti affari del mondo; imperocchè chi, all'infuori di essi,
determina i punti della fede cattolica, combatte l'eresia, ristabilisce
la pace, compone le differenze tra i grandi monarchi? Chi, se non essi,
redige e custodisce i prospetti statistici dell'intera Cristianità?
Sono essi che destano la maraviglia nei re, nei principi e nei popoli
con tutto ciò che viene emanato dai Papi; essi stendono gli ordini e
le istruzioni pei legati; nè hanno altra dipendenza fuorchè dal Papa,
ai servigi del quale sono sempre pronti ed attivi in qualsiasi ora del
giorno e della notte». Con tutto ciò, i primi a toccare il colmo della
gloria e della potenza, furono i due celebri segretari e stilisti di
Leone X: Pietro Bembo e Jacopo Sadoleto.


Non tutte le cancellerie hanno una dicitura elegante; anzi la maggior
parte di esse usano uno stile assai grossolano in un latino, che non
ha alcuna purezza. Nei documenti milanesi riportati dal Corio, accanto
a forme di questo genere, emergono tanto più pel loro gusto veramente
attico un paio di lettere, che debbono essere state scritte da membri
della stessa famiglia regnante e in momenti di supremo pericolo.[474]
Ciò mostra che l'eleganza della dizione si reputava necessaria in
ogni momento della vita, ed era diventata in quei personaggi omai una
abitudine.

È facile immaginare con quanta sollecitudine venissero studiate a
que' tempi le raccolte epistolari di Cicerone, di Plinio e d'altri.
Ancora nel secolo XV comparve una serie di manuali e formularj di
epistolari latini (come ramo accessorio dei grandi lavori grammaticali
e lessicografici), la cui moltitudine desta anche oggidì la maraviglia
nelle biblioteche. Ma quanto più gli inetti non esitavano a servirsi di
tali aiuti, tanto più gli uomini veramente capaci sentirono il bisogno
di tenersene lontani e di fare da sè, e le lettere del Poliziano, e un
po' più tardi quelle di Pietro Bembo, furono riguardate come capilavori
inarrivabili non solo di stile latino, ma di epistolografia in genere.

Accanto a ciò si produce anche nel secolo XVI uno stile epistolare
classico italiano, nel quale di nuovo il Bembo porta il vanto su tutti.
È un modo di scrivere affatto moderno e che si scosta in tutto dalla
forma latina, ma tuttavia intrinsicamente e quanto alla sostanza si
mostra affatto impregnato delle idee dell'antichità. Queste lettere
sono scritte bensì in parte in via confidenziale, ma per lo più con la
vista di una possibile pubblicazione, e sempre poi colla supposizione
che potessero essere mostrate in causa della loro eleganza. Dal 1530 in
poi cominciano anche le collezioni stampate, parte di lettere diverse
messe là alla rinfusa, parte di corrispondenze speciali di singoli
autori, e lo stesso Bembo acquistò fama di eccellente epistolografo non
solo nella lingua latina, ma anche nell'italiana.[475]



CAPITOLO VIII.

L'eloquenza latina.

    Indifferenza rispetto alla condizione dell'oratore. — Discorsi
    solenni di materia politica o in occasioni di ricevimento. —
    Orazioni funebri. — Discorsi accademici e allocuzioni militari.
    — Prediche latine. — Rinnovamento dell'antica rettorica. —
    Forma e contenuto; citazioni. — Concioni finte. — Scadimento
    dell'eloquenza.


Più splendida ancora, che quella dell'epistolografo, è la posizione
dell'oratore[476] in un'epoca e presso un popolo, in cui l'ascoltare
è un piacere assai ricercato e in cui inoltre le memorie del senato
romano e de' suoi oratori signoreggiano tutte le menti. L'eloquenza
appare ora completamente emancipata dalla Chiesa, dove nel medio-evo
aveva trovato il suo rifugio: essa è oggimai un elemento necessario,
ed un ornamento di ogni uomo posto in condizione alquanto elevata.
Moltissimi momenti solenni della vita, che ora sono riempiti dalla
musica, in allora erano consacrati a lunghe concioni latine o italiane.
Noi lasciamo al lettore intera libertà di giudizio sulla maggiore
opportunità dell'uno o dell'altro di tali trattenimenti.

La condizione dell'oratore era perfettamente indifferente; ciò
che innanzi tutto si ricercava in lui era un ingegno e una cultura
umanistica superiori ad ogni critica. Alla corte di Borso in Ferrara
il medico del duca, Girolamo da Castello, dovette far gli onori del
ricevimento con un discorso tanto all'imperatore Federico III, che al
papa Pio II.[477] Egli era d'uso altresì che laici, anche ammogliati,
potessero salire il pergamo nelle chiese e parlare di là in ogni
occasione solenne o funebre, e perfino nelle feste di alcuni santi. Ai
Padri non italiani del Concilio di Basilea parve cosa un po' strana
quando l'arcivescovo di Milano nel giorno di S. Ambrogio chiamò a
tesserne le lodi Enea Silvio, che non aveva ancora ricevuto verun
ordine sacro; ma in fine vi si adattarono e stettero ad udirlo con la
più viva attenzione.[478]


Diamo ora uno sguardo generale alle occasioni più importanti e più
frequenti delle pubbliche concioni. Non per nulla, innanzi tutto, si
dicono oratori gli inviati da Stato a Stato: accanto alle negoziazioni
segrete vi era sempre anche un inevitabile apparato esterno, un
discorso pubblico, recitato con pompa più che si poteva solenne.[479]
Ordinariamente uno del personale della ambasceria, spesso assai
numerosa, prendeva la parola per tutti; ma una volta accadde a Pio II,
dal quale, come profondo conoscitore, ognuno ambiva di essere sentito,
che dovette ascoltare, l'un dopo l'altro, tutti gl'inviati.[480] Poi
parlavano volentieri anche i principi, per lo più dotti e ugualmente
padroni delle eleganze latine e italiane. I figli della famiglia
Sforza furono assai per tempo abituati a tali esercizi: Galeazzo Maria,
ancor giovanissimo, recitò nel 1455 una lunga arringa dinanzi al Gran
Consiglio di Venezia,[481] e sua sorella Ippolita salutò nel 1459 al
Congresso di Mantova il papa Pio II con un forbito discorso.[482] Lo
stesso Pio II s'è preparata da sè l'alta posizione cui giunse col
fascino irresistibile della sua eloquenza, nè senza essa forse vi
sarebbe mai giunto, in onta a tutta la sua abilità diplomatica e alla
sua vasta dottrina. «Nulla infatti (dice un contemporaneo) rapiva,
quanto l'impeto della sua parola».[483] Questa fu certo la causa
principale, per cui moltissimi lo reputarono degno del Papato, ancora
prima che fosse eletto.

Oltre a ciò, l'uso era che in ogni solenne ricevimento si recitasse
dinanzi ai principi una orazione, che di frequente durava una qualche
ora. Naturalmente ciò non accadeva se non quando il principe era noto
per particolare amore all'eloquenza, vero o finto che fosse,[484] e
quando si aveva alle mani un abile oratore, ad esempio, un letterato di
corte, un professore di università, un funzionario pubblico, un medico
od un ecclesiastico.

Del resto si afferrava avidamente anche qualsiasi altra occasione
politica, e, secondo la fama dell'oratore, era più o meno grande il
concorso dei cultori dell'arte. Nelle nomine annuali dei pubblici
ufficiali e nell'ingresso de' nuovi vescovi un qualsiasi umanista
non dovea mancare di arringarli con un discorso o talvolta anche con
odi saffiche e con esametri;[485] e alla sua volta nessun funzionario
pubblico poteva assumere il suo ufficio senza tenere un indispensabile
discorso di circostanza, per esempio, sulla giustizia, e simili: e
fortunato colui, che meglio riusciva. In Firenze si costrinsero perfino
i Condottieri, chiunque fossero, a seguir l'uso comune, facendoli
arringare, nel momento di conferir loro il supremo comando, dal più
dotto dei segretari dello Stato in presenza di tutto il popolo.[486]
Sembra che nella Loggia dei Lanzi, l'aula solenne dove il governo
soleva presentarsi al pubblico, esistesse una tribuna apposita per gli
oratori (_rostro, ringhiera_).


I giorni anniversari della morte di qualche principe venivano in modo
speciale solennizzati con discorsi commemorativi. Anche l'orazione
funebre propriamente detta era quasi sempre di spettanza particolare
dell'umanista, il quale la recitava in chiesa, ma senza indossare altre
vesti che le proprie, e non soltanto sulla bara dei principi, ma anche
di pubblici funzionari o di qualsiasi personaggio ragguardevole.[487]
Altrettanto accadeva dei discorsi in occasione di sponsali e di nozze,
salvo che questi non si tenevano (a quanto sembra) nella chiesa, ma
bensì nel palazzo del Comune; quello del Filelfo per gli sponsali di
Anna Sforza con Alfonso d'Este fu tenuto nel castello di Milano. (Ma
potrebbe anche essere stato pronunciato nella cappella del Palazzo).
Anche illustri famiglie private si compiacevano di tali discorsi, come
di un lusso, che ne appagava la vanità. In tali occasioni a Ferrara si
usava, senz'altro, di pregare il Guarino[488] a voler mandare qualcuno
de' suoi scolari. La Chiesa, come tale, non interveniva nè nelle nozze,
nè nei funerali se non colle proprie ceremonie.

Dei discorsi accademici, quelli fatti in occasione dell'insediamento
di nuovi professori, o tenuti dai professori stessi nell'apertura dei
corsi delle loro lezioni,[489] abbondavano per lo più di molte frondi
rettoriche. L'ordinaria lezione dalla cattedra s'accostava anch'essa
assai di frequente ad una orazione propriamente detta.[490]

Quanto alle arringhe degli avvocati, esse assumevano questa o quella
forma secondo la qualità dell'uditorio, dinanzi al quale dovevano
essere pronunciate; ma anch'esse talvolta s'infioravano di ornamenti
raccolti nel campo della filosofia e dell'antiquaria.

Un genere affatto speciale di eloquenza era quello delle allocuzioni
militari, che si tenevano sempre in lingua italiana prima o dopo la
battaglia. In queste avea fama di eccellente Federigo da Urbino,[491]
la cui parola infondeva un vero entusiasmo nelle schiere pronte per
la battaglia. Taluna di queste allocuzioni riportate dagli scrittori
di cose militari del secolo XV, per esempio dal Porcellio (v. pag.
135), può sembrar finta in parte, ma in parte si basa effettivamente su
parole, che furono pronunciate. Qualche cosa di diverso erano invece le
allocuzioni alla milizia fiorentina, organizzata sino dall'anno 1506
principalmente per impulso del Machiavelli,[492] in occasione delle
riviste e, più tardi, nella ricorrenza di una speciale festività annua.
Esse non miravano che a tener vivo il patriottismo in generale, ed
erano pronunciate nella chiesa di ogni quartiere, dinanzi alle milizie
stesse quivi raccolte, da un cittadino armato di corazza e con una
spada in mano.


Finalmente la predica propriamente detta talvolta non si differenzia
nel secolo XV quasi in nulla dall'orazione, in quanto che molti
ecclesiastici s'erano messi anch'essi allo studio dell'antichità
e volevano esservi tenuti per qualche cosa. Vediamo infatti che un
oratore affatto popolare, quale fu Bernardino da Siena, venerato come
santo, si credette in dovere di non dispregiare i precetti rettorici
del celebre Guarino, quantunque non si fosse proposto di predicare che
in lingua italiana. Le esigenze, specialmente verso i predicatori della
quaresima, non erano senza dubbio in allora minori, che in qualsiasi
altro tempo; e qua e colà s'incontrava anche un uditorio, che era in
grado di star ad udire questioni di filosofia trattate dal pergamo, e
che anzi, a titolo di cultura, le pretendeva.[493] Ma qui noi parliamo
specialmente dei più illustri predicatori latini di circostanza. Più
di una volta, come s'è detto, l'occasione veniva loro rubata dai dotti
laici, ai quali di regola lasciavansi tutte le orazioni panegiriche e
funebri, i discorsi gratulatori o per nozze o per ingresso di vescovi o
per celebrazione di prime Messe, come anche le orazioni solenni nelle
feste commemorative di qualche ordine religioso.[494] Ma alla corte
papale, qualunque fosse la circostanza, i predicatori ordinariamente
nel secolo XV non erano che monaci. Sotto il pontificato di Sisto IV
Jacopo da Volterra nomina e critica severamente, dal punto di vista
dell'arte, questi oratori.[495] Fedra Inghirami, celebre per tal genere
di orazioni al tempo di Giulio II, aveva almeno ricevuto gli ordini
sacri e godeva un canonicato in S. Giovanni Laterano; ed anche altrove
contavasi già tra i prelati buon numero di latinisti eleganti. In
generale col secolo XVI cominciano a scemare, tanto in questo come in
altri riguardi, i privilegi dapprima eccessivi degli umanisti profani;
ma di ciò avremo occasione di parlare più innanzi.


Ora quale era propriamente l'indole e la sostanza di questi discorsi
presi nel loro insieme? Una naturale facilità a ben parlare non pare
che sia mai mancata agli italiani neanche nel medio-evo, e da tempo
antichissimo fra le sette arti liberali ce n'era anche una, che si
diceva la rettorica; ma, se si restringe il discorso al risveglio
dell'arte antica, questo merito, a quanto ne riferisce Filippo
Villani, deve ascriversi tutto ad un Bruno Casini fiorentino,[496]
che morì ancor giovane della pestilenza del 1348. Con intendimenti
affatto pratici, vale a dire, per addestrare i fiorentini a parlare
facilmente e con garbo nei Consigli e nelle pubbliche assemblee, egli
dava precetti, sulla scorta degli antichi, intorno all'invenzione, alla
declamazione, al gesto e al modo di contenersi in generale. Ma anche
senza di questa, non mancano altre testimonianze, le quali parlano
di una educazione rettorica vôlta tutta alla pratica; nulla infatti
nella vita d'allora sembrava tanto in pregio, quanto il poter con
elegante improvvisazione latina suggerire in qualsiasi circostanza una
deliberazione od un provvedimento pubblico. Lo studio sempre crescente
delle orazioni di Cicerone e de' suoi scritti teorici, di Quintiliano
e dei panegiristi imperiali, la comparsa di appositi manuali,[497]
gli aiuti che si traevano dal progredire continuo della filologia
in generale, e la grande abbondanza di materiali antichi, con cui si
poteva e doveva infiorare i propri pensieri, furono circostanze che
contribuirono non poco a dare un carattere affatto nuovo all'eloquenza.


Questo carattere, tuttavia, è assai differente secondo gl'individui.
Alcuni discorsi hanno l'impronta della vera eloquenza, specialmente
quelli, che non divagano dall'argomento, e tali sono, generalmente
parlando, tutti i discorsi di Pio II, che sono pervenuti sino a noi.
Dopo ciò, i prodigiosi effetti che ottenne Giannozzo Manetti,[498]
lasciano presupporre anche in lui uno di quegli oratori, dei quali v'è
scarsezza in ogni tempo. Le arringhe da lui tenute dinanzi a Nicolò V
e ai Dogi e al Consiglio di Venezia erano altrettanti avvenimenti, la
cui memoria sopravvisse per lungo tempo. Per converso, molti oratori
profittavano dell'occasione per stemperare il discorso in adulazioni
verso illustri uditori e per affastellarvi alla rinfusa un ammasso
enorme di erudizione. Come fosse possibile affaticar in tal modo
l'attenzione altrui per due o tre ore di seguito, è cosa che non si
spiega se non dal grande interessamento, che allora si nutriva per
l'antichità, e dalla imperfezione e relativa rarità dei libri, prima
della diffusione della stampa. Tali discorsi avevano però sempre
quella specie di merito, che noi abbiamo cercato di rivendicare ad
alcune lettere del Petrarca (v. pag. 270). Ma taluni andavano troppo
oltre. La maggior parte delle orazioni del Filelfo sono un labirinto
inestricabile di citazioni classiche e bibliche, innestate in una
tessera generale di luoghi comuni: in mezzo a ciò la personalità dei
grandi, che egli vuol celebrare, è giudicata sopra uno schema qualunque
(per esempio, le virtù di un cardinale), e si dura una fatica enorme
a cavarne i pochi dati preziosi per la storia, che vi stanno per
entro. Il discorso di un professore e letterato di Piacenza, fatto
pel ricevimento del duca Galeazzo Maria nell'anno 1467, comincia col
parlare di C. Giulio Cesare, passa quindi a fare uno strano miscuglio
di citazioni antiche e di allusioni ad un opera allegorica sua propria,
e conclude con ammaestramenti buoni, ma in quel caso indiscreti, al
principe stesso.[499] Per buona ventura di quest'ultimo, la sera era
già di troppo inoltrata per poterlo recitare, e l'oratore dovette
accontentarsi di presentarlo manoscritto. Anche il Filelfo comincia
un'orazione nuziale colle parole: _Quel peripatetico Aristotile_ ecc.
Altri esclamano sino dal bel principio: _Pubblio Cornelio Scipione_
ecc., proprio come se essi e i loro uditori fossero impazienti di
avere una citazione. Col finire del secolo XV il gusto si purifica
tutto ad un tratto, specialmente per opera de' Fiorentini: d'allora in
poi si procede con molto maggiore parsimonia nelle citazioni, anche
perchè in quel frattempo s'era di molto accresciuto il numero delle
opere da consultare, nelle quali del resto chiunque avrebbe potuto
trovar pronti tutti quegli artifici, coi quali sino a questo tempo era
stato possibile di destare l'ammirazione dei principi e lo stupore dei
popoli.

Siccome i discorsi per la maggior parte venivano preparati al tavolo,
così i manoscritti servirono immediatamente ad una ulteriore diffusione
e pubblicazione dei medesimi. Per converso, ai grandi improvvisatori
bisognava tener dietro facendo uso della stenografia.[500] — Inoltre
non tutte le orazioni che possediamo, erano destinate alla recitazione;
per esempio, il panegirico di Beroaldo il vecchio per Lodovico il Moro
è un lavoro, che non fu se non inviato per iscritto.[501] E a quel
modo che si scrivevano lettere con indirizzi immaginari per tutte le
parti del mondo, come semplici esercitazioni e formulari, od anche
come scritti d'occasione, così vi erano anche discorsi per circostanze
affatto inventate,[502] quasi altrettanti modelli per allocuzioni a
grandi dignitari, principi, vescovi e simili.


Anche per l'eloquenza la morte di Leone X (1521) e il sacco di
Roma (1527) segnano il termine della decadenza. Sfuggito a stento
all'eccidio della città eterna, il Giovio accenna,[503] da un punto
di vista troppo ristretto, ma tuttavia con molta verità, alle cause di
quello scadimento con queste parole:

«Le rappresentazioni delle commedie di Plauto e di Terenzio, una volta
scuola utilissima di eleganze latine per gli illustri romani, sono
sbalzate di seggio dalle commedie italiane. Il forbito oratore non
trova più nè ricompense, nè onori, come prima. Per ciò gli avvocati
concistoriali, ad esempio, non lavorano che i proemi dei loro discorsi,
e nel resto declamano scompostamente ed a sbalzi, secondo l'impressione
del momento. Anche i discorsi di circostanza e le prediche sono in gran
decadenza. Se si ha da fare un'orazione funebre per un cardinale o per
qualsiasi altro grande personaggio, gli esecutori testamentarii non si
rivolgono al migliore oratore della città, che dovrebbero retribuire
con un centinaio di monete d'oro, ma prendono a pigione per poco o
per nulla il primo vanitoso pedante che capita loro tra le mani, il
quale non aspira ad altro, fuorchè a correre per le bocche di tutti,
sia pure per essere soltanto biasimato. Il morto, si dice, non ne sa
nulla, quand'anche salisse in cattedra una scimmia vestita a lutto e
vi intonasse un rauco piagnisteo, che finisse in un ululato sempre più
forte. Anche le prediche solenni, che si tengono in occasione delle
grandi ceremonie e feste papali, non danno più alcun vero lucro; monaci
di tutti gli ordini ne hanno avocato a sè il monopolio e predicano
nella maniera la più grossolana. Ancora pochi anni or sono una predica
di questo genere, recitata alla presenza del Papa, poteva servire di
scala ad un vescovato».



CAPITOLO IX.

I trattatisti latini.


All'epistolografia e all'eloquenza degli umanisti aggiungeremo qui
anche le altre loro produzioni, che al tempo stesso sono più o meno
riproduzioni dell'antichità.

A queste appartiene innanzi tutto il trattato sotto forma propria o di
dialogo,[504] la quale ultima è stata direttamente imitata da Cicerone.
Per essere abbastanza giusti con questo genere di componimento e per
non respingerlo anticipatamente come una vera sorgente di noja, si
devono considerare due cose. Il secolo, che usciva dal medio-evo,
avea bisogno in molte questioni d'indole morale e filosofica di
un organo intermediario tra esso e l'antichità, e quest'ufficio se
l'appropriarono ora gli scrittori di trattati e di dialoghi. Molte
cose, che in questi ci sembra luoghi comuni, erano per essi e pei loro
contemporanei un modo nuovo di guardare certi argomenti, sui quali
nessuno, dall'antichità in poi, s'era mai pronunciato, e a cui essi
non erano pervenuti senza uno sforzo lungo e faticoso. Oltre a ciò,
anche la lingua (tanto la latina, che l'italiana) maneggiata con più
libertà e larghezza che non nei racconti storici o nelle orazioni o
nelle lettere, acquistò nei trattati una maggiore padronanza di sè
e attrasse in modo speciale; tanto è vero che anche oggidì taluno
di essi, specialmente gli italiani, passano come modelli di prosa
eccellente. Parecchi di questi lavori furono già da noi menzionati,
o saranno, per l'indole delle cose che contengono; qui non dobbiamo
accennare che al genere in sè medesimo. Dalle lettere e dai trattati
del Petrarca in avanti, sin verso la fine del secolo XV, prevale
nella maggior parte di essi la tendenza ad appropriarsi i materiali
antichi, come nell'eloquenza; ma poi tutto il genere si delinea più
nettamente, specialmente nei trattati scritti in lingua italiana, e con
gli _Asolani_ del Bembo e colla _Vita sobria_ di Luigi Cornaro giunge
ad una perfezione veramente classica. A ciò senza dubbio contribuì
l'essersi frattanto tutti quei materiali antichi come depositati in
grandi raccolte speciali, oggimai stampate, e l'essersi quindi potuti
anche i trattatisti liberare una volta per sempre da quel faticoso
ingombro.



CAPITOLO X.

La Storiografia.

    Necessità relativa del latino. — Studi sul medio-evo; il
    Biondo. — Primordi della critica. — Rapporti colla storiografia
    italiana.


Anche la Storiografia alla sua volta era inevitabile che cadesse
nelle mani degli umanisti. Questo fatto non può non essere deplorato
altamente, non appena si istituisca un paragone, sia pur rapido e
superficiale, tra le storie di questo tempo e le cronache anteriori
e specialmente quelle dei Villani così splendide, così ricche di vita
e di colorito. Chi potrebbe negare infatti che, accanto a queste, non
sembri affatto sbiadito, convenzionale e artificioso tutto ciò che fu
scritto dagli umanisti e in modo particolare dai loro immediati e più
celebri successori nella storiografia di Firenze, il Poggio e Leonardo
Aretino? E qual senso di doloroso rincrescimento non si prova, pensando
che sotto alle frasi liviane e cesariane di un Facio, di un Sabellico,
di un Foglietta, d'un Senarega, d'un Platina (_storia di Mantova_),
di un Bembo (_annali di Venezia_) e perfino di un Giovio (_storie_)
se ne va perduto ogni colorito locale e individuale e si distrugge
affatto quell'interesse, che nasce soltanto da una esposizione nitida
e chiara degli avvenimenti! La sfiducia poi cresce, quando si scorge
che si cercò di imitar Livio appunto in ciò, in cui era men degno di
imitazione, vale a dire,[505] nell'aver voluto «rivestire di forme
splendide e seducenti una nuda ed arida tradizione»; e per ultimo si
resta compiutamente disillusi, quando s'incontra la strana confessione,
che la storia debba per proprio istituto allettare, eccitare e scuotere
il lettore mediante tutti i lenocinj dello stile, — nè più, nè meno,
come se essa dovesse fungere gli uffici della poesia. In presenza
di tali fatti non si ha forse il diritto di domandare se anche il
disprezzo di ogni cosa moderna, che questi stessi umanisti talvolta
apertamente professano,[506] non abbia per avventura esercitato una
dannosa influenza sul loro modo di trattare la storia? Certo è che
il lettore involontariamente presta maggiore attenzione e fiducia ai
modesti annalisti latini e italiani, che si tennero fedeli all'antica
maniera, quali sono, ad esempio, quelli di Bologna e di Ferrara, e più
ancora ai migliori fra i cronisti propriamente detti che scrissero in
italiano, quali un Marin Sanudo, un Corio, un Infessura, che prelusero
a quella schiera gloriosa di grandi storici italiani, dai quali ebbe
tanto lustro il paese nei primi anni del secolo XV.

E veramente la storia contemporanea acquistava senza contrasto un più
libero movimento nella lingua del paese, di quello che se costretta
nelle spire dell'artificioso periodare latino. Se poi anche al racconto
delle cose antiche, e alle questioni erudite convenisse meglio la
lingua italiana, è una questione, che per quel tempo ammette più d'una
risposta. Il latino in allora era la lingua usata dai dotti non solo
in senso internazionale, vale a dire tra francesi, inglesi, italiani,
ecc., ma anche più strettamente in senso interprovinciale, cioè tra
lombardi, veneziani, napoletani ed altri, i quali, benché nel loro modo
di scrivere italiano toscaneggiassero e non conservassero quasi più
traccia alcuna del loro dialetto, non giunsero però mai a guadagnarsi
il suffragio, in questo riguardo assai geloso, dei fiorentini. Ora, di
questo si poteva facilmente far senza quando si trattava di scrivere
una storia contemporanea locale, che trovava lettori bastanti nel luogo
stesso dov'era scritta, ma non altrettanto facilmente in una storia dei
tempi passati, per la quale si domandava un circolo molto più esteso di
lettori. In questo caso bisognava assolutamente sacrificare l'interesse
locale del popolo a quello più generale dei dotti. E infatti qual
celebrità avrebbe acquistato il Biondo da Forlì, se avesse scritto
le dotte sue opere in una lingua mezzo toscana e mezzo romagnola?
Certamente queste sarebbero cadute in dimenticanza dinanzi al disprezzo
de' fiorentini, mentre, scritte in latino, esercitarono una grandissima
influenza su tutti i dotti dell'occidente. E ciò è così vero, che tra i
fiorentini stessi nel secolo XV parecchi scrissero in latino, non tanto
perchè imbevuti di umanismo, quanto perchè aspiravano ad una più facile
diffusione delle loro opere.

Finalmente s'incontrano anche lavori latini di storia contemporanea,
che non la cedono in nulla alle più eccellenti storie italiane. Non
appena si abbandonò la esposizione oratoria degli avvenimenti fatta
al modo di Livio, vero letto di Procuste per tanti scrittori, questi
appaiono come trasformati. Quel Platina stesso, quel Giovio, che nelle
loro grandi opere storiche si dura tanta fatica a seguire, mostransi
ad un tratto eccellenti nel trattar la forma biografica. Di Tristano
Caracciolo, delle Biografie del Facio, della Topografia veneziana del
Sabellico abbiamo già avuto occasione di parlare altrove; su altri
torneremo più tardi.


Le narrazioni latine riguardanti i tempi passati riferivansi innanzi
tutto e naturalmente all'antichità classica; ora, ciò che indarno
si crederebbe trovare presso questi stessi umanisti, e che pur si
trova, sono singoli lavori di una certa importanza intorno alla storia
generale del medio-evo. La prima opera di qualche rilievo in questo
riguardo è la cronaca di Matteo Palmieri, che comincia dove finisce
quella di Prospero d'Aquitania. Chi poi a caso aprisse le Decadi di
Biondo da Forlì, stupirebbe di trovarvi una storia universale _ab
inclinatione Romanorum imperii_, come in Gibbon, piena di studi fatti
sulle fonti degli autori di ogni secolo, e che nelle prime trecento
pagine in folio abbraccia la prima metà del medio-evo sino alla morte
di Federigo II. E tutto questo facevasi in Italia, mentre oltre l'Alpi
si era ancora alle note Cronache papali e imperiali e al _Fasciculus
temporum_. Qui non è del nostro assunto di mostrare criticamente di
quali scritti il Biondo si sia giovato e dove li abbia trovati tutti
riuniti; ma nella storia della moderna storiografia converrà pure che
gli sia resa quando che sia piena giustizia. Già anche per questo libro
soltanto si potrebbe dire a ragione, che lo studio dell'antichità fu
quello, che rese possibile anche lo studio dei medio-evo, abituando
per la prima volta le menti alla considerazione obbiettiva della
storia. Certamente s'aggiungeva anche il fatto che il medio-evo era
veramente passato per l'Italia d'allora, e che tanto più facile era
il riconoscerlo, in quanto si era omai fuori di esso. Veramente non
si potrebbe dire con altrettanta verità, che esso sia stato giudicato
con giustizia e molto meno con pietosa venerazione; poichè nelle arti
si insinua un ostinato pregiudizio contro ciò che viene da esso e gli
umanisti non riconoscono il principio di un'êra nuova, se non dal tempo
in cui essi poterono esclusivamente prevalere.

«Io comincio, dice il Boccaccio,[507] a sperare ed a credere, che
Dio abbia avuto pietà del nome italiano, dopochè veggo che la sua
inesaurabile bontà mette nel petto degli Italiani anime, che somigliano
a quelle degli antichi in quanto cercano la gloria per altre vie,
che non sieno le rapine e le violenze, vale a dire sul sentiero della
poesia, che rende immortali». Ma questo modo di vedere ristretto ed
ingiusto non impediva agli uomini più altamente dotati di approfondire
l'investigazione critica in un tempo, in cui nel resto d'Europa non
se ne parlava nemmeno; e si formò pel medio-evo una critica storica
appunto per questo, che la trattazione razionale di qualsiasi argomento
doveva tornar buona agli umanisti anche per questa materia storica. Nel
secolo XV essa penetra ormai in tutte le storie delle singole città per
guisa tale, che le posteriori leggende favolose della storia primitiva
di Firenze, Venezia, Milano ecc. svaniscono, mentre le Cronache del
nord ancora per lungo tempo sono costrette a trascinarsi innanzi colle
loro narrazioni fantastiche inventate sino dal secolo XIII e prive per
la maggior parte di qualsiasi valore.

Dell'intima attinenza della storia locale col sentimento di gloria, che
era sì profondo nel secolo XV, abbiamo già toccato più sopra, parlando
di Firenze (pag. 102 e segg.). Venezia non volle restare addietro, e,
come già subito dopo un grande trionfo di un oratore fiorentino[508]
un ambasciatore veneziano in tutta fretta eccitò il suo governo a
spedire anch'esso un proprio oratore, così ora i veneziani sentirono
il bisogno di una storia, che potesse reggere al paragone di quelle di
Leonardo Aretino e del Poggio. E fu appunto da tal bisogno che nacquero
nel secolo XV le _Decadi_ del Sabellico, e nel XVI la _Historia rerum
venetarum_ di Pietro Bembo, opere che furono scritte ambedue per
espresso incarico della Repubblica, l'ultima quale continuazione della
prima.


Del resto s'intende da sè che i grandi storici fiorentini del principio
del secolo XVI (v. pag. 111) sono uomini affatto diversi dai latinisti
Giovio e Bembo. Essi scrivono in italiano, non solamente perchè
non possono più gareggiare colla raffinata eleganza dei ciceroniani
d'allora, ma anche perchè vogliono, come Machiavelli, presentare sotto
una forma viva ciò che essi hanno appreso da una osservazione immediata
e personale,[509] e perchè hanno a cuore, come il Guicciardini, il
Varchi e la maggior parte degli altri, che il loro modo di guardar le
cose s'allarghi quanto più sia possibile. Perfino quando essi scrivono
per un numero ristretto d'amici, come fece Francesco Vettori, sentono
un bisogno irresistibile di dichiarare la parte che presero negli
avvenimenti, e di giustificare così il loro interessamento per gli
uomini e le cose, che vengono ricordando.

Tuttavia in mezzo a tutto questo, e in onta al carattere proprio e
speciale della loro lingua e del loro stile, essi appaiono talmente
compenetrati dello spirito dell'antichità, che senza di essa non si
potrebbero neanche immaginare come vissuti. Non sono umanisti, ma
passarono attraverso l'umanismo, e dell'antichità serbano un'impronta
molto più spiccata, che non la maggior parte dei latinisti seguaci di
Livio: son cittadini, che scrivono pei loro concittadini, a quel modo
che facevano gli antichi.



CAPITOLO XI.

Il latinismo prevalente in ogni ramo della cultura.

    Il latinismo nei nomi. — Il latinismo nelle cose. —
    Predominio assoluto del latino. — Cicerone e i ciceroniani. —
    Conversazione latina.


A noi non è permesso qui di seguir l'umanismo nelle altre scienze
speciali; ognuna di esse ha la sua storia particolare, nella quale gli
archeologi italiani di questo tempo, specialmente per la sostanzialità
delle cose antiche da essi scoperte,[510] segnano un momento affatto
nuovo e molto importante, da cui datano, più o meno spiccatamente, gli
ulteriori progressi di ciascuna scienza nel tempo moderno. Anche per
ciò che riguarda la filosofia, noi dobbiamo rinviare alla sua storia
speciale. L'influenza degli antichi filosofi sulla cultura italiana
appare talvolta immensa, talvolta assai limitata. Il primo caso ha
luogo specialmente quando si consideri come le idee di Aristotele,
principalmente quelle contenute nell'Etica,[511] assai per tempo
diffusa, e nella Politica, erano divenute un patrimonio comune di
tutti i dotti d'Italia, e come tutta la speculazione filosofica fosse
padroneggiata da lui.[512] Il secondo per contrario si verifica ogni
volta che si voglia tener conto della scarsa influenza dogmatica
degli antichi filosofi, e perfino degli stessi entusiasti platonici
fiorentini, sullo spirito della nazione in generale. Ciò che si scambia
comunemente per una tale influenza, non è, nel più dei casi, se non un
effetto della cultura in generale, una conseguenza delle forme sociali
di svolgimento dello spirito italiano. Parlando della religione,
avremo occasione di soggiungere qualche altra osservazione su questo
argomento. Ma nella massima parte dei casi non trattasi neppure della
cultura in generale, bensì soltanto delle manifestazioni di singole
persone o di dotte società, ed anche qui ad ogni momento si dovrebbe
fare una distinzione tra una vera assimilazione delle antiche dottrine
ed una semplice adozione portata dalla moda. Infatti per molti il culto
e l'imitazione dell'antichità non era che una moda, perfino per taluni,
che in essa avevano cognizioni molto serie e profonde.

Del resto non sarebbe logico il dire che tutto ciò, che ha un tal quale
aspetto di affettazione nel nostro secolo, lo avesse realmente anche
a quel tempo. L'uso di nomi greci e romani, per esempio, è pur sempre
più bello e pregevole, che non quello dei nomi (specialmente femminili)
attinti ai romanzi. Dal momento che l'entusiasmo per gli eroi
dell'antichità era maggiore che non pei santi del cristianesimo, non
può parere strano, che le famiglie illustri preferissero di chiamare i
loro figli Agamennone, Achille e Tideo,[513] e che il pittore imponesse
il nome di Apelle a suo figlio e quello di Minerva a sua figlia.[514]
Nè si troverà neanche fuor di ragione che, invece di un nome di casato,
dal quale in generale non si voleva chiamarsi, si adottasse un nome
antico ben risonante ed armonioso. Quanto poi ai nomi desunti dalla
patria di taluno, e che disegnavano tutti gli abitanti di un dato
luogo, senza essere ancora diventati nomi di famiglia, vi si rinunciava
assai volentieri, specialmente ogni volta che il luogo si denominasse
da un qualche santo; così Filippo da S. Gemignano si chiamava sempre
Callimaco. Chi poi, respinto ed offeso dalla propria famiglia, seppe
conquistarsi da sè una posizione al di fuori mediante la sua dottrina,
avea ben diritto, fosse anche stato un Sanseverino, di ribattezzarsi
orgogliosamente in Giunio Pomponio Leto. Anche la pura e semplice
traduzione di un nome di lingua greca o latina (uso che fu poi adottato
quasi esclusivamente in Germania) può ben essere perdonata ad una
generazione, che parlava e scriveva in latino, e che tanto in prosa,
quanto in verso usava nomi non solo declinabili, ma di facile e dolce
pronunciazione. Biasimevole invece e ridicolo fu l'uso, introdotto più
tardi, di mutare un nome di persona o di casato solo per metà sino a
dargli una cadenza classica od anche un nuovo senso, come quando di
Giovanni si fece Gioviano o Giano; di Pietro, Pierio o Petreio; di
Antonio, Aonio; di Sannazzaro, Sincero; di Luca Grasso, Lucio Crasso, e
così via. L'Ariosto, che di queste debolezze ride così amaramente,[515]
ebbe ancor tanto di vita da vedere imposti i nomi de' suoi eroi e delle
sue eroine ad alcuni fanciulli.[516]


Anche l'uso di antiquare molti fatti della vita sociale, nomi di
uffici, di istituzioni, di ceremonie e simili non deve giudicarsi con
troppa severità. Sino a che si stava contenti ad un latino semplice e
facile, come forse era il caso di tutti i latinisti, che vissero tra
il tempo del Petrarca e quello di Enea Silvio, la cosa non fu tanto
frequente, ma divenne poi inevitabile quando si cominciò a volere un
latino assolutamente puro, ciceroniano. Allora le cose moderne non
poterono più nella loro totalità essere espresse nello stile antico, se
non ribattezzandole artificialmente. E allora i pedanti si compiacquero
di chiamare i consiglieri municipali col nome _patres conscripti_,
le monache con quello di _virgines vestales_, ogni santo con quello
di _divus_ o _deus_, mentre scrittori di gusto più raffinato, come
Paolo Giovio, probabilmente non ricorrevano a simili travestimenti se
non quando era impossibile il fare diversamente. Ma appunto perchè
il Giovio lo fa naturalmente e senza mettervi nessuna speciale
importanza, in lui offende meno che in altri il sentir chiamare
_senatores_ i cardinali, _princeps senatus_ il loro decano, _Dirae_ la
scomunica,[517] _Lupercalia_ il carnevale, e così via. Egli è appunto
da questo autore principalmente che può rilevarsi con quanta cautela si
debba procedere nel voler da queste semplici forme stilistiche dedurre
troppo precipitose conclusioni sull'indirizzo generale del pensiero
d'allora.


Non è del nostro assunto qui il tener dietro alla storia dello stile
latino considerato in sè stesso e nelle varie fasi del suo sviluppo.
Basterà dunque che sia notato come gli umanisti, per due secoli di
seguito, abbiano continuato a condursi in modo, come se la lingua
latina in generale fosse e dovesse perpetuamente restare l'unica degna
di essere scritta. Il Poggio deplora[518] che Dante abbia steso il suo
grande poema in lingua italiana, e d'altra parte è noto universalmente
che egli avea cominciato a stenderlo in latino, avendo dapprima scritto
in esametri i primi canti dell'Inferno. Tutto l'avvenire della poesia
italiana dipendette dal fatto, che egli abbandonò poscia questo suo
primo pensiero; ma anche il Petrarca s'aspettava assai maggior gloria
dalle sue poesie latine, che da' suoi sonetti e dalle sue canzoni, e
pare che la tentazione di poetare in latino fosse venuta in sulle prime
altresì all'Ariosto. Insomma una tirannide maggiore di questa non s'è
vista mai nel campo della letteratura;[519] ma, ciò non ostante, la
poesia seppe in gran parte sottrarvisi, ed oggidì noi possiam dire,
anche senza peccare di soverchio ottimismo, essere stato un bene, che
la poesia italiana abbia avuto a sua disposizione due lingue, poichè in
entrambe essa ha dato frutti diversi ed eccellenti, e precisamente tali
dal mostrar chiaramente, perchè in un luogo si sia preferita la forma
latina, in un altro la italiana. Forse può dirsi altrettanto anche
della prosa: la posizione e la fama mondiale della cultura italiana era
vincolata a questa condizione, che alcuni argomenti dovessero essere
trattati nella lingua allora universale — _urbi et orbi_, —[520] mentre
la prosa italiana ebbe i suoi migliori cultori appunto in coloro, i
quali ebbero a lottare con sè medesimi per non scrivere in latino.

Lo scrittore, che sino dal secolo XIV passava senza contrasto come
il modello più perfetto della prosa latina, era Cicerone. Ciò non
era soltanto l'effetto di un'intima persuasione che egli fosse unico
nell'arte di scegliere le parole, di disporre i periodi e di ordinare
le varie parti di una composizione, ma discendeva anche naturalmente
dal fatto che in lui l'amabilità dell'epistolografo, la magniloquenza
dell'oratore e la nitida perspicuità del filosofo mirabilmente si
confacevano coll'indole dello spirito italiano. Già ancora al suo tempo
il Petrarca aveva riconosciuto appieno il lato debole di Cicerone come
uomo e come politico,[521] ma egli nutriva per esso troppa venerazione,
per mostrarsi lieto di una tale scoperta; e dal suo tempo in poi,
l'epistolografia in prima e in seguito tutti gli altri generi di
composizione, eccettuato soltanto il narrativo, non avean preso altro
modello, fuorchè Cicerone. Tuttavia il vero ciceronianismo, che non
si permetteva nè una frase, nè una parola che non fosse nei libri del
grande maestro, non comincia che verso la fine del secolo XV, dopochè
gli scritti grammaticali di Lorenzo Valla aveano fatto il giro di tutta
Italia, e dopochè si erano già vedute e raffrontate le testimonianze
degli storici della letteratura latina.[522] Allora soltanto si
cominciò ad esaminare colla più scrupolosa esattezza le diverse
gradazioni dello stile nella prosa degli antichi, e si finì pur sempre
colla beata persuasione che Cicerone solo fosse il modello perfetto, o,
se si voleva abbracciare in uno tutti i generi, «che l'epoca soltanto
di Cicerone meritasse il nome di immortale e quasi celeste».[523] Fu
allora che si videro un Pietro Bembo, un Pierio Valeriano e molti altri
non preoccuparsi d'altro, fuorchè di imitare un sì grande esemplare:
fu allora che s'inginocchiarono dinanzi a Cicerone anche taluni dei
più restii, che si erano formati uno stile arcaico studiando gli autori
più antichi;[524] fu allora che Longolio, dietro i consigli del Bembo,
per cinque interi anni non lesse altro scrittore che Cicerone, e poscia
fe' voto di non usare nessuna parola che non fosse stata usata da quel
sommo; e questo entusiasmo fu appunto quello che poi diede origine alle
grandi dispute letterarie, che arsero tra Erasmo e Scaligero il vecchio
e i loro seguaci.

Imperocchè anche gli ammiratori di Cicerone non erano poi tutti così
esclusivi da riguardarlo come l'unica fonte della lingua. Ancora nel
secolo XV il Poliziano ed Ermolao Barbaro osarono di animo deliberato
tentare una forma tutta loro propria e particolare,[525] naturalmente
basandosi sopra una cognizione del latino «affatto eccezionale», e a
questa stessa meta aspirò pure colui, che ci narrò i loro tentativi.
Paolo Giovio. Egli ha pel primo e con uno sforzo indicibile espresso
in lingua latina una quantità di pensieri moderni, specialmente
in argomenti d'indole estetica, e, se non sempre vinse tutte le
difficoltà, gli si deve però assai di frequente la lode di una certa
vigoria ed eleganza. I ritratti latini, che egli ci dà dei grandi
pittori e scrittori di quel tempo,[526] contengono spesso tratti di una
finitezza perfetta accanto ad altri informi e pessimamente riusciti.
Anche Leone X, che riponeva tutta la sua gloria in questo, _ut lingua
latina nostro pontificatu dicatur facta auctior_,[527] inchinò ad
una forma di latinità abbastanza larga e niente affatto esclusiva,
come era da aspettarsi dall'indirizzo piuttosto sensuale di tutta
la sua vita; a lui bastava che tutto ciò, che dovea udire o leggere,
avesse un colorito di schietta, vivace ed elegante latinità. Infine
Cicerone non poteva servire di modello per la conversazione latina, e
sotto questo riguardo bisognava pur scegliere, accanto a lui, altri
idoli da adorare. Questa lacuna fu colmata dalle rappresentazioni
abbastanza frequenti in Roma e fuori di Roma delle commedie di
Plauto e di Terenzio, le quali agli attori offrivano un esercizio
utilissimo nel latino, come lingua di società. Ancora sotto Paolo
II il dotto cardinale di Teano (probabilmente Nicolò Fortiguerra da
Pistoia) è lodato[528] per essersi accinto alla lettura dei lavori
di Plauto allora molto imperfetti e mancanti perfino dell'elenco dei
personaggi, e per aver chiamato l'attenzione dei dotti sui tesori
di lingua che vi stanno racchiusi; e può ben darsi che da lui sia
partito il primo impulso alla rappresentazione di quelle commedie.
Più tardi la cosa stessa trovò un caldissimo fautore in Pomponio
Leto, che non disdegnò di far le parti di direttore della scena,
quando negli atrii dei palazzi dei grandi prelati le stesse commedie
venivano rappresentate.[529] L'essersi poi intorno al 1520 smesse tali
rappresentazioni parve al Giovio, come vedemmo (p. 320), una della
cause dello scadimento dell'eloquenza.

Concludendo diremo, che il ciceronianismo nella letteratura corse le
stesse vicende che il vitruvianismo nel campo dell'arte. E in ambedue
ì casi si manifesta quella legge generale dell'epoca del Rinascimento:
che il moto nella cultura di regola precede il moto analogo nell'arte.
La distanza del tempo tra l'un fatto e l'altro potrebbe per avventura
calcolarsi di due decennii, non più, se si computa dal cardinale
Adriano da Corneto (1505?) sino ai primi vitruviani assoluti.



CAPITOLO XII.

La nuova poesia latina.

    L'epopea tratta dalla storia antica; _l'Africa_. — Poesia
    mitica. — Epopea cristiana: il Sannazzaro. — Introduzione di
    elementi mitologici. — Poesia storica contemporanea. — Poesia
    didattica; il Palingenio. — La lirica e i suoi limiti. —
    Odi per santi. — Elegie e simili. — L'epigramma. — La poesia
    maccaronica.


Finalmente il maggior vanto degli umanisti è la nuova poesia latina.
Noi dobbiamo toccare anche di questa, almeno per quanto essa può
esserci di aiuto a dare una caratteristica completa dell'umanismo.

Quanto favorevole le fosse l'opinione pubblica e quanto vicina fosse la
sua definitiva vittoria, è stato già mostrato più sopra (v. pag. 237).
Ora si può anche in anticipazione andar persuasi, che la nazione più
colta e più civile del mondo d'allora non può certamente, per semplice
capriccio e quasi senza coscienza di ciò che faceva, aver rinunciato
ad una lingua quale era l'italiana. Se dunque vi rinunciò, deve esservi
stata spinta da una causa ben più forte e potente.

Questa fu l'ammirazione per l'antichità. Come ogni schietta e sincera
ammirazione, essa produsse necessariamente l'imitazione. Questa non
manca, è vero, anche in altri tempi e presso altri popoli; ma in Italia
soltanto verificaronsi le due condizioni indispensabili per l'esistenza
e per l'ulteriore sviluppo della nuova poesia latina; vale a dire, una
favorevole disposizione di tutta la parte più colta della nazione, ed
un parziale risveglio dell'antico genio italico nei poeti stessi, quasi
eco prolungato di un'antica armonia. Ciò che di meglio nasce in tal
modo, non è più imitazione, ma creazione vera e originale. Chi nelle
arti non sa tollerare qualsiasi imitazione di forme, chi o non apprezza
l'antichità in sè stessa o la ritiene assolutamente inarrivabile e
inimitabile, chi finalmente non si sente disposto di usare nessuna
indulgenza con poeti, che più d'una volta si trovarono costretti o a
cercare da sè, o a indovinare una moltitudine di quantità sillabiche,
non si metta allo studio di questo genere di letteratura. Anche le
produzioni le più perfette non sono fatte per affrontare gli attacchi
di una critica assoluta, ma solo per procurare un'ora di sollievo al
poeta e a molte migliaia de' suoi contemporanei.[530]

Pochissima fortuna ebbe l'epopea desunta da tradizioni o leggende
antiche. Le condizioni essenziali per una vera poesia epica non si
riscontrano nemmeno, per consenso di tutti, negli antichi epici romani,
anzi neppure nei greci, se si prescinda da Omero: come avrebbero
esse potuto trovarsi nei latinisti del Rinascimento? Ciò non ostante,
_l'Africa_ del Petrarca sembra aver trovato lettori e ammiratori in tal
numero, da lasciarsi addietro in questo riguardo qualsiasi epopea del
tempo moderno. Per verità lo scopo e il movente del poema non potevano
non destare il più vivo interesse. Il secolo XIV riconobbe assai
giustamente nella seconda guerra Punica il momento più splendido della
grandezza e potenza romana, e questo appunto fu ciò che si propose
di cantare il Petrarca. Se Silio Italico fosse stato scoperto a quel
tempo, forse egli avrebbe scelto un altro soggetto; ma non conoscendosi
ancora quell'antico, l'apoteosi di Scipione Africano il vecchio pareva
sì bel tema agli uomini del secolo XIV, che già un altro poeta, Zanobi
della Strada, s'era proposto di trattarlo e vi avea già posto mano,
quando, udendo che se ne occupava il Petrarca, per sentimento di
rispetto a questo grande se ne ritrasse.[531] Se il poema dell'Africa
avesse avuto bisogno di una giustificazione, questa le si aveva nel
fatto, che in quel tempo ed anche più tardi l'entusiasmo per Scipione
era tale, che lo si collocava al di sopra di Alessandro, di Pompeo e
di Cesare.[532] Quante fra le moderne epopee possono gloriarsi di un
soggetto pel loro tempo così popolare, così nella sostanza storicamente
vero e tuttavia rivestito di tanto prestigio mitico? Non v'ha dubbio,
del resto, che oggidì il poema per sè stesso riesce illeggibile. Perciò
che riguarda altri soggetti storici, noi dobbiamo rinviare i lettori
alle storie letterarie propriamente dette.


Più largo campo si offriva a chi, poetando, prendeva a trattare qualche
mito o leggenda antica, per riempire qualche lacuna lasciatavi da
altri. A ciò si accinse assai presto la poesia italiana e propriamente
per la prima volta colla _Teseide_ del Boccaccio, che è riguardata come
il suo migliore lavoro poetico. Sotto Martino V Maffeo Vegio aggiunse
un tredicesimo libro all'Eneide di Virgilio, e poscia si ha un buon
numero di tentativi minori, ad imitazione specialmente di Claudiano,
quali una _Meleagriade_, una _Esperiade_ ecc. Ma in ispecial modo
notevoli sono i miti nuovamente inventati, coi quali si popolarono le
più belle regioni d'Italia di una moltitudine di divinità, di ninfe, di
genii ed altresì di pastori, appunto perchè a quest'epoca era invalso
di accompagnar sempre l'elemento epico col bucolico. Più tardi ci si
offrirà occasione di notar nuovamente come, dal Petrarca in poi, nelle
egloghe, tanto di forma narrativa, che dialogica, la vita pastorale
sia rappresentata quasi sempre[533] in modo affatto convenzionale,
e come espressione di sentimenti e fantasie di qualsiasi specie; qui
non se ne tocca che in relazione ai nuovi miti, cui diede origine. E
questi, meglio d'ogni altra cosa, ci rivelano il doppio significato che
ebbero nell'epoca del Rinascimento le antiche divinità, le quali da un
lato rappresentano le idee generali e rendono quindi inutili le figure
allegoriche, dall'altro costituiscono un elemento affatto libero ed
indipendente di poesia, un tipo di bellezza neutrale, che può essere
innestato in ogni creazione poetica e passare per mille e sempre nuove
combinazioni. Il primo a darne arditamente l'esempio fu il Boccaccio
col suo mondo immaginario di Dei e di pastori dei dintorni di Firenze
nel _Ninfale d'Ameto_ e nel _Ninfale fiesolano_, ch'egli cantò in
poesia italiana. Ma il capolavoro in questo genere sembra essere stato
il _Sarca_ di Pietro Bembo,[534] nel quale si narrano gli amori del
dio di quel fiume colla ninfa Garda, lo splendido convito nuziale, che
ebbe luogo in una grotta del Monte Baldo, i vaticinii di Manto, figlia
di Tiresia, sulla nascita di un figlio, il Mincio, sulla fondazione
di Mantova e sulla fama avvenire di Virgilio, figlio del Mincio e
della ninfa di Andes, Maia. A questi concetti, barocchi invero, ma
propri dell'epoca, il Bembo diede una splendida cornice di versi,
che si chiudono con un apostrofe a Virgilio, che ogni miglior poeta
accetterebbe per sua. — Comunemente tutto ciò si riguarda come nulla
più che vuota declamazione e ci si passa sopra con parole di scherno:
noi non intendiamo d'intavolare polemiche a questo riguardo; diremo
soltanto: è questione di gusto, e come tale è lecito ad ognuno avere su
di essa un'opinione sua propria.


Accanto ai menzionati, non mancano neanche vasti poemi epici in
esametri di argomento biblico e religioso. Non è da credere che con
questi gli autori avessero sempre in mira di promovere l'incremento
della Chiesa o di procacciarsi il favore dei Papi; ma sembra invece
che tutti, grandi e piccoli, buoni e cattivi (tra questi ultimi va
certamente annoverato Battista Mantovano, autore di un poema intitolato
Parthenice), sieno stati animati da un sentimento, lodevole invero,
di servire colle dotte loro poesie latine alla religione, ciò che
era veramente in piena armonia col modo quasi pagano, che allora
prevaleva, di considerare il cattolicismo. Giraldo ne nomina un numero
ragguardevole, ma tra essi emergono di gran lunga il Vida colla sua
_Cristiade_ e il Sannazzaro co' suoi tre libri _De partu Virginis_. Il
Sannazzaro sorprende coll'onda equabile e maestosa del verso, nel quale
egli intreccia un mondo di cose cristiane e pagane, col vigore plastico
delle descrizioni, colla squisitezza perfetta del lavoro; nè certamente
egli avea motivo di temere il paragone, quando nel canto dei pastori
al presepio innestò alcuni versi della quarta egloga di Virgilio.
Innalzandosi nelle regioni dell'ideale e nel mondo degli spiriti, egli
ha qualche tratto che arieggia i sublimi ardimenti danteschi, quale
è, per esempio, il canto e la profezia del re Davidde nel Limbo de'
patriarchi, o la pittura dell'Eterno, che siede sul trono avvolto nel
suo gran manto tempestato delle figure elementari di tutti gli esseri,
in atto di parlare agli spiriti celesti. Altre volte egli non si perita
di innestare al suo soggetto l'antica mitologia, senza per questo cader
nel barocco, perchè le divinità pagane non sono per lui che come la
cornice del quadro, nè egli assegna mai ad esse veruna parte principale
nel suo poema. Chi desidera formarsi un concetto intero e adeguato
di quanto abbia potuto l'arte a quel tempo, non deve trascurar di
leggere un lavoro come questo. Il merito poi del Sannazzaro parrà tanto
maggiore anche per questo, che d'ordinario la mescolanza di elementi
pagani e cristiani stuona assai più facilmente nella poesia, che nelle
arti figurative: queste ultime infatti ponno del continuo compensar
l'occhio colla vista di qualche determinata e materiale bellezza, e in
generale non sono così schiave del contenuto sostanziale dei soggetti
che trattano, come la poesia, mentre l'immaginazione in esse s'arresta
piuttosto alla forma, nella poesia invece penetra direttamente nella
sostanza. Il buon Battista Mantovano nel suo «Calendario festivo»[535]
avea tentato un altro espediente; che era appunto quello di porre
gli Dei e i Semidei del paganesimo in pieno contrasto colla storia
sacra, come facevano i Padri della Chiesa, anzichè introdurli a far
parte della medesima. Così mentre l'angelo Gabriele scende a Nazaret
apportatore della grande novella alla Vergine, Mercurio si stacca
dal Carmelo e lo insegue sino a spiarne il saluto sul limitare della
cella benedetta; vola quindi ad informare gli Dei raccolti in solenne
radunanza e li induce col suo racconto ai propositi più feroci. Ma
anche con questo metodo egli si trova altre volte costretto[536]
a far sì che Tetide, Cerere, Eolo ed altre divinità spontaneamente
s'arrendano a riconoscere la superiorità della Vergine.

La fama del Sannazzaro, la moltitudine de' suoi imitatori, l'omaggio
tributatogli dei più grandi dell'epoca sono circostanze, che mostrano
ad evidenza quanto egli fosse caro e necessario al suo secolo. Anche
in servigio della Chiesa egli sciolse vittoriosamente, proprio sul
cominciare della Riforma, il problema: se fosse possibile poetare
cristianamente e conservarsi ligi nel tempo stesso alle tradizioni
classiche; e tanto Leone, quanto Clemente gliene attestarono altamente
la loro riconoscenza.


Per ultimo fu cantata in esametri o in distici anche la storia
contemporanea, ora sotto forma narrativa, ora a guisa di panegirico,
e d'ordinario sempre in lode di qualche principe o di qualche famiglia
principesca. Così ebbero origine una _Sforziade_, una _Borseide_, una
_Borgiade_, una _Triulziade_ e simili, ma veramente nessuna raggiunse
il suo scopo, poichè se alcuni dei lodati rimasero celebri ed immortali
nella storia, non dovettero certo la loro celebrità a questa specie
di poemi, contro i quali ci fu sempre un'invincibile ed universale
avversione, anche se scritti da buoni poeti. Un effetto molto diverso
produssero invece alcuni poemetti minori, stesi senza pretensione
alcuna a guisa di episodi della vita di qualche uomo celebre, come
per esempio la descrizione delle «Cacce di Leone X» presso Palo[537] e
«il Viaggio di Giulio» di Adriano da Corneto (v. pag. 162). Splendide
descrizioni di cacce di questa specie ci lasciò pure, tra molti altri,
Ercole Strozza, ed è veramente deplorevole che i lettori moderni
ricusino di gettarvi gli occhi, disgustati da quel fondo di adulazione
che ci sta sotto e che traspare ad ogni tratto. Eppure la maestria del
lavoro e la importanza storica, talvolta non piccola, di queste poesie
assicurano ad esse una vita più lunga di quella, cui possono aspirare
parecchie poesie del nostro tempo ora abbastanza in voga.

In generale queste composizioni sono di tanto migliori, quanto meno
contengono di elementi patetici ed ideali. Vi sono taluni poemetti
epici di celebri maestri, che, sotto un cumulo enorme di allusioni
mitologiche, producono un effetto altamente ridicolo e comico,
certamente contro la intenzione dei loro autori. Tale, per esempio, è
«l'Epicedio» di Ercole Strozza[538] per la morte di Cesare Borgia (v.
pag. 154). In esso si ode il lamento di Roma, che aveva posto tutte
le sue speranze nei papi spagnuoli Calisto III ed Alessandro VI e poi
aveva riguardato Cesare come il promesso suo liberatore, e si leggono
le gesta di quest'ultimo sino alla catastrofe dell'anno 1503. Poscia
il poeta chiede alla sua Musa, quale in quel momento fosse stato
l'alto consiglio dei Dei[539], ed Erato narra che nell'Olimpo Pallade
si era dichiarata per gli spagnuoli, Venere per gli italiani; ambedue
abbracciarono le ginocchia di Giove, ed egli, baciatele in viso, le
pacificò e protestò che non potea nulla contro il destino ordito dalle
Parche, ma che, ciò non ostante, le promesse degli Dei s'adempirebbero
per opera del fanciullo nato dall'unione delle due case Borgia ed
Este[540]; e, dopo aver narrato la storia antichissima e favolosa
di ambedue le famiglie, confessa di non poter dare a Cesare il dono
dell'immortalità, come non potè darlo una volta, in onta ad autorevoli
preghiere, nè a Memnone, nè ad Achille; conclude però col dire, quasi
a conforto del poeta, che Cesare prima di morire avrebbe fatto grande
strage, guerreggiando, de' suoi nemici. Allora Marte scende a Napoli
e prepara la guerra, ma Pallade s'affretta a Nepi e appare quivi
all'infermo Cesare sotto la forma di Alessandro VI, e, dopo averlo
ammonito a rassegnarsi e a star contento alla gloria che già circonda
il suo nome, la Dea travestita da Papa scompare «a guisa di uccello».

Ciò non ostante, si rinuncia senza necessità ad un piacere talvolta
assai grande se si respinge a priori tutto ciò che, più meno a
proposito, contiene qualche sprazzo di mitologia, poichè anche la
poesia non poche volte ha saputo nobilitare questo elemento, al
pari della pittura e della scultura. E pei dilettanti del genere non
mancano neanche i primi saggi della parodia (v. pag. 216) tentati nella
«Maccaroneide», alla quale poi nell'arte fa degno riscontro la «Festa
degli Dei» di Giovanni Bellini.

Talune poesie narrative in esametri sono anche semplici esercitazioni
o rifacimenti di relazioni in prosa, che il lettore probabilmente
preferirà ogni qualvolta le trovi. E da ultimo si finì, come è noto,
col mettere in versi ogni cosa, e ciò anche da parte degli umanisti
tedeschi dell'epoca della Riforma.[541] Ma si andrebbe molto errati,
se tutto questo si attribuisce soltanto ad abbondanza di ozi agiati ed
a soverchia smania di poetare. Negli Italiani almeno c'è sempre troppa
cura di ripulire e perfezionare la forma, della quale essi avevano un
senso squisito e profondo, come lo prova la moltitudine enorme che si
ha contemporaneamente di relazioni, di storie e di opuscoli in terzine.
Appunto come Nicolò da Uzzano, per produrre maggiore effetto, fuse in
questo metro non facile del verso italiano il suo manifesto per una
nuova costituzione politica, e il Machiavelli il suo prospetto della
storia contemporanea, e un terzo la vita del Savonarola, e un quarto
l'assedio di Piombino per opera di Alfonso il Magnanimo,[542] non deve
far meraviglia che altri potessero aver bisogno dell'esametro, per
incatenar meglio l'attenzione di un pubblico al tutto diverso.

Ciò che sotto questa forma si era disposti a tollerare o ad esigere,
scorgesi con piena evidenza dalla poesia didattica. Questa nel secolo
XVI ebbe uno sviluppo straordinario e maraviglioso, e cantò in esametri
l'alchimia, il giuoco degli scacchi, l'arte della seta, l'astronomia,
la lue venerea e mille altre cose, alle quali sono da aggiungere anche
parecchi estesi poemi italiani. Oggidì è moda di condannar tali poemi
senza neanche darsi la briga di leggerli, e per verità noi stessi
non sapremmo dire sino a qual punto essi meritino effettivamente di
esser letti.[543] Ad ogni modo però egli è certo, che epoche senza
paragone superiori alla nostra per retto senso del bello, quali
appunto furono la greca (dei tempi più tardi) e la romana, nonchè
questa del Rinascimento, non credettero di poter far senza neanche di
questa forma speciale di poesia. Ma si potrebbe anche rispondere, che
non la mancanza dì gusto estetico, bensì una maggiore serietà nella
trattazione delle materie scientifiche è quella che ne tien lontana
oggidì la forma poetica; su di che non volendo ridire, noi crediamo
miglior partito lasciare ad ognuno la propria opinione.

Una di queste opere didattiche si vede ancora oggidì qua e colà
ristampata, ed è lo _Zodiaco della vita_ di Marcello Palingenio,
segreto seguace delle dottrine protestanti in Ferrara. Alle più
sublimi questioni intorno a Dio, alla virtù, all'immortalità, l'autore
congiunge la trattazione di molti punti della vita pratica, ed è da
questo lato un'autorità non dispregevole per la storia della morale.
Nel complesso però il suo poema si distacca da tutti gli altri
congeneri dell'epoca del Rinascimento, come anche, in ordine al suo
scopo seriamente istruttivo, l'allegoria ne esclude quasi affatto la
mitologia.


Ma il genere, nel quale i poeti filologi s'accostarono, più che in
qualsiasi altro, all'antichità, è la lirica, e in modo speciale poi
l'elegia, e, dopo questa, altresì l'epigramma.

Nel genere leggero Catullo esercitò un vero fascino sugli Italiani.
Più di un elegante madrigale latino, e non poche brevi invettive o
maliziosi biglietti potrebbero dirsi vere trascrizioni da lui senza
quasi mutamenti di sorta, e la morte di qualche cagnolino o pappagallo
è pianta colle stesse parole e con lo stesso ordine di pensieri, con
cui egli pianse il passero di Lesbia. Ma vi sono anche altre brevi
poesie, che, pur mantenendosi originali nel concetto, potrebbero trarre
in inganno il più esperto conoscitore, quanto alla forma, e delle quali
non si saprebbe precisar l'epoca, se il contenuto non le dimostrasse
indubbiamente lavori dei secoli XV e XVI.

Per contrario nelle odi di metro saffico od alcaico ecc. non se ne
troverebbe forse una sola, che in un modo o nell'altro non rivelasse
come che sia la sua origine moderna. Ciò accade per lo più in causa
di una certa loquacità rettorica, che negli esemplari antichi non
s'incontra se non per la prima volta in Stazio e per una mancanza
assoluta di nerbo lirico, quale sarebbe domandato da questa specie
di poesia. In una ode qualunque potranno, è vero, incontrarsi singoli
tratti, talvolta anche due o tre strofe di seguito, di tal fattura da
crederle frammenti di qualche antico, ma l'illusione non va più in la,
e il colorito muta subito dopo. E se non muta, come per esempio nella
bella ode a Venere di Andrea Navagero, vi si riconosce tosto una copia
di qualche capolavoro antico.[544] Alcuni scrittori di odi prendono
a soggetto il culto che si presta ai santi e modellano con molto
gusto le loro invocazioni su quelle di Orazio e di Catullo di genere
somigliante. Tale è il Navagero nell'ode all'arcangelo Gabriele, e tale
in modo particolare il Sannazzaro, che nell'adottare i riti del culto
pagano va più innanzi di ogni altro. Egli celebra sopra ogni altro
il suo santo onomastico,[545] al quale aveva dedicato un tempietto
nella sua splendida villa di Posilipo, «colà dove i fiotti del mare
si confondono colle acque che sgorgano dalla rupe, e si frangono alle
mura del piccolo santuario». Per lui non v'è gioja maggiore della
festa annua di S. Nazzaro, e le frondi e i fiori, di cui in questo
giorno, più che di consueto, s'adorna il piccolo tempio, figurano
nella sua fantasia gli antichi sacrifici. Anche fuggiasco in compagnia
dell'espulso Federigo d'Aragona, sulle rive dell'Atlantico e alle foci
della Loira, egli non dimentica nel suo giorno onomastico di appendere
al suo santo, con l'angoscia nel cuore, ghirlande sempre verdi di bosso
e di quercia, e rammentando con desiderio gli anni trascorsi, nei quali
tutta la gioventù di Posilipo accorreva sulle sue navicelle a rallegrar
quella festa, fa voti pel suo ritorno.[546]

Antiche al punto da produrre una perfetta illusione sono poi più
specialmente alcune poesie di metro elegiaco, od anche in semplici
esametri, ma che appartengono pel loro contenuto a questo genere,
passando dall'elegia in giù per tutte le possibili gradazioni sino
all'epigramma. Siccome gli umanisti si erano molto famigliarizzati
colla lettura dei poeti elegiaci romani, così si sentirono anche
incoraggiati ad imitarli preferibilmente ad ogni altro. L'elegia del
Navagero «alla Notte» ribocca d'ogni parte di reminiscenze di quegli
antichi esemplari, ma al tempo stesso ha nell'insieme un colorito che
seduce ed affascina. In generale egli si mostra innanzi tutto molto
accurato nella scelta di concetti veramente poetici,[547] e poi li
traduce, non servilmente, ma con una certa disinvoltura e maestria,
nello stile dell'Antologia, di Ovidio, di Catullo od anche delle
Egloghe di Virgilio: della mitologia fa un uso moderato, spesse volte
soltanto per ritrarre l'immagine della vita campestre in qualche
preghiera a Cerere o ad altre divinità rustiche. Un saluto alla patria,
ritornando dalla sua missione in Ispagna, non fu che cominciato;
ma ne sarebbe uscita una splendida composizione, se il resto avesse
corrisposto a questo principio:

    Salve, cura Deûm, mundi felicior ora,
    Formosae Veneris dulces salvete recessus;
    Ut vos post tantos animi mentisque labores
    Aspicio lustroque libens, et munere vestro
    Sollicitas toto depello e pectore curas!

La forma elegiaca o quella dell'esametro diventano le forme di ogni
elevato sentimentalismo, e vi si adattano bellamente tanto il più
nobile entusiasmo patriottico (v. pag. 162 elegia a Giulio II), quanto
la pomposa apoteosi dei regnanti,[548] e quanto anche la tenera e
delicata melanconia di Tibullo. Mario Molsa, che nelle sue adulazioni
a Clemente VII ed ai Farnesi gareggia con Stazio e Marziale, in
una elegia «ai Compagni», scritta dal letto de' suoi dolori, ha dei
pensieri sulla morte che si crederebbero propri di un antico qualunque,
e tuttavia non sono tolti a prestito da nessuno esemplare classico.
Del resto, chi meglio d'ogni altro intese il vero spirito dell'elegia
romana e seppe imitarla più perfettamente fu il Sannazzaro, il quale
anche è il più copioso e svariato scrittore di questo genere di poesie.
— Di altre elegie avremo occasione di parlare altrove, secondochè ci
cadrà in acconcio pel contenuto sostanziale delle medesime.


Per ultimo l'epigramma latino in quei tempi ha un'importanza
grandissima, avvegnachè un pajo di linee ben fatte, scolpite sopra un
monumento o portate di bocca in bocca a provocare un sorriso, potevano
benissimo creare la riputazione di un letterato. Questa tendenza
è vecchia in Italia. Quando si sparse la voce che Guido da Polenta
voleva innalzare sulla tomba di Dante un monumento, affluirono da
tutte le parti le iscrizioni,[549] inviate «da tali che o volevano
mettersi in vista, od onorare la memoria del morto poeta o procacciarsi
il favore del da Polenta». Sul mausoleo dell'arcivescovo Giovanni
Visconti (morto nel 1354), che esiste ancora nel Duomo di Milano,
sotto trentasei esametri leggesi: «il signor Gabrio de Zamorer di
Parma, dottore in ambo le leggi, ha composto questi versi». A poco
a poco, prendendo a modelli Marziale e Catullo, si venne formando
anche una letteratura speciale dell'epigramma; e questo raggiunse il
colmo della sua gloria, quando lo si potè credere antico o copiato
da qualche antica lapide,[550] quando parve di tanto buon gusto, che
tutta Italia lo sapesse a memoria, come accadde di alcuni del Bembo.
Così quando il governo di Venezia, per l'elogio fattegli in tre distici
dal Sannazzaro, premiò quest'ultimo con un regalo di seicento ducati,
a nessuno parve questa una generosità troppo spinta, perchè tutti
stimarono l'epigramma per quello che realmente era nell'opinione dei
dotti di quel tempo, vale a dire, la formola più breve per esprimere
la gloria. Nè in allora vi fu nessuno tanto potente, che sgradisse
di vedersi onorato con tal genere di componimenti, ed anche i grandi
cercavano con molta sollecitudine, per ogni iscrizione che ponevano,
un qualche dotto consiglio, perchè gli epitaffi ridicoli correvano
anche il pericolo di essere registrati in raccolte speciali destinate
a provocare l'ilarità del pubblico. L'epigrafia[551] e l'epigrammatica
si tenevano strettamente por mano; la prima si basava sopra uno studio
accuratissimo delle antiche iscrizioni lapidarie.

La città degli epigrammi e delle iscrizioni in modo affatto speciale
fu e rimase Roma. Non esistendo nello Stato pontificio l'ereditarietà
del trono, ognuno doveva pensare da sè al modo di perpetuare la propria
memoria: al tempo stesso poi il motto beffardo espresso in poesia
diventava un'arma potente contro i rivali. Ancora Pio II enumera con
compiacenza i distici, che il suo maggior poeta, il Campano, compose
per qualche fortunata circostanza del suo governo. Sotto i Papi
seguenti fiorì poi l'epigramma satirico, e di fronte ad Alessandro VI
ed a' suoi degenerò nella maldicenza la più scandalosa. Il Sannazzaro
componeva i suoi in una posizione relativamente sicura, ma altri
affatto in prossimità della corte ebbero ardimenti estremamente
pericolosi (v. pag. 153). Per otto distici minacciosi, che erano stati
affissi alla porta della biblioteca,[552] Alessandro fece una volta
rinforzare la guardia di ben ottocento uomini; ognuno può immaginare
come avrebbe trattato il poeta, se gli fosse riuscito di averlo. Sotto
Leone X gli epigrammi latini erano il pane quotidiano: sia che si
volesse adulare al Papa o sparlarne, sia che si mirasse a vendicarsi
di nemici noti ed ignoti o a colpir qualche vittima, e in generale
ogni qualvolta sopra un argomento di fatto o immaginario si voleva
scagliare un motto, o malignare, od esprimere un sentimento di pietà
o d'ammirazione, la forma prescelta era sempre quella dell'epigramma.
Così nell'occasione, in cui fu esposto il celebre gruppo della
Vergine con S. Anna e il bambino, che Andrea Sansovino scolpì per la
chiesa di s. Agostino, non meno di centoventi furono gli epigrammi
latini, che piovvero per la circostanza, non tanto per sentimento di
pietà religiosa, quanto por piacenteria verso il mecenate, che aveva
commesso all'artista quell'opera.[553] Egli era quel Giovanni Goritz
di Lussemburgo, referendario papale alle suppliche, il quale ogni anno
per la festa di S. Anna non solo faceva celebrare un servizio divino,
ma dava anche un grande banchetto a tutti i letterati di Roma ne'
suoi giardini situati sul pendio del colle Capitolino. In allora parve
anche che valesse la pena di passare in rassegna tutta la schiera de'
poeti, che cercavano fortuna alla corte di Leone, come fece con un
grande poema _de poetis urbanis_[554] Francesco Arsillo, uomo che non
avea bisogno di nessuna protezione da parte del Papa o di chicchessia,
e che all'occorrenza sapeva parlar francamente anche contro i propri
colleghi. — Dopo Paolo III l'epigramma decade e non sopravvive che in
qualche saggio isolato, mentre invece l'epigrafia continua a fiorire
sino al secolo XVII, in cui anch'essa muore por soverchia gonfiezza.

Anche in Venezia questa ha una storia sua propria, alla quale possiam
tenere dietro mercè gli ajuti di Francesco Sansovino nel suo libro
«sulla Topografia veneziana». Un argomento perenne lo si aveva
nell'uso invalso di apporre un'epigrafe (_Brieve_) ad ogni ritratto di
doge collocato nella gran sala del palazzo ducale, epigrafe che non
oltrepassa mai quattro esametri, nei quali bisognava compendiare le
gesta più importanti di ciascuno.[555] Oltre a ciò, le tombe dei dogi
del secolo XIV portano laconiche iscrizioni in prosa, che accennano a
qualche fatto più clamoroso, e accanto ad esse pochi sonori esametri
o alcuni versi leonini. Nel secolo XV si comincia a curare di più lo
stile, e nel secolo XVI questo tocca alla sua ultima perfezione, dopo
la quale comincia la vana antitesi, la prosopopea, l'enfasi, il fare
sentenzioso, in una parola il falso ed il gonfio. Non è raro neanche
il caso, in cui si rasenti la satira e si cerchi di adombrare sotto
la lode diretta di un morto il biasimo indiretto di un vivo. Molto
più tardi torna a ricomparire nella primitiva sua semplicità qualche
epitaffio, ma in via puramente eccezionale.

Anche le opere architettoniche e monumentali eran sempre disposte in
modo da poter far luogo ad iscrizioni, talvolta ripetute in più guise,
e ciò è tanto più notevole in quanto si sa che gli edifici del nord a
stento lasciano un posto conveniente per collocarvi qualche epigrafe,
e nei monumenti sepolcrali, per esempio, quest'ultima è relegata nei
punti più esposti ad essere guasti, nelle orlature.


Ora, col sin qui detto noi non crediamo niente affatto di avere
persuaso il lettore del valore intrinseco di questo genere di poesia
risorto presso gl'Italiani del Quattrocento. Ma non si tratta neanche
di ciò, bastando al nostro scopo di aver designato la necessità
della stessa e la posizione che le compete nella storia della cultura
italiana. Del resto già sin d'allora se n'ebbe una caricatura nella
così detta poesia maccaronica,[556] il cui capolavoro è l'_Opus
macaronicorum_ cantato da Merlin Coccai (Teofilo Folengo di Mantova).
Del contenuto sostanziale di questo poema avremo occasione di parlare
ancora qua e colà; quanto alla forma — esametri ed altri versi misti di
latino e di vocaboli italiani con desinenze latine, — il lato comico di
essa sta essenzialmente in questo, che simili mescolanze vi figurano
per entro come tanti _lapsus linguae_ e come espettorazioni di un
improvvisatore latino, che si lascia trasportare dalla foga dell'estro.
Delle imitazioni fatte in Germania, mescolando insieme il latino e il
tedesco, nessuna ha neanche l'ombra della spontaneità, che è nel lavoro
del poeta italiano.



CAPITOLO XIII.

Caduta degli umanisti nel secolo XVI.

    Accuse contro gli umanisti e loro giusto valore. — Loro
    sventure. — Il contrapposto degli umanisti. — Pomponio Leto. —
    Le accademie.


Dopochè molte gloriose generazioni di poeti-filologi sino dal principio
del secolo XIV ebbero diffuso in Italia e nell'Europa occidentale il
culto dell'antichità, dando un indirizzo del tutto nuovo alla cultura,
all'educazione e talvolta anche alla politica, e riproducendo, secondo
le loro forze, l'antica letteratura, noi vediamo tutta questa classe
d'uomini cadere in profondo discredito, ed essere disprezzata in un
tempo, in cui non si credeva ancora di poter far senza delle loro
dottrine e del loro sapere, vale a dire, nel secolo XVI. In questo
secolo infatti si continuava a parlare, a scrivere e a poetare alla
loro maniera, ma nessuno personalmente voleva esser creduto della loro
schiera. L'opinione pubblica li accusava di due colpe principalmente:
di una sconfinata superbia e di turpi dissolutezze; alle quali
l'incipiente Contro-riforma ne aggiunse ben presto una terza, quella di
un'empia incredulità.

Ora, innanzi tutto si domanda: vere o non vere, perchè tali accuse
non si fecero sentir prima? E se anche si fecero talqualmente sentire,
perchè in generale rimasero prive di effetto? Evidentemente perchè la
dipendenza dai letterati, rispetto alla cognizione dell'antichità,
era ancor troppo grande, e perchè essi soli n'erano i possessori,
i rappresentanti e i propagatori. Ma quando colla stampa i classici
ebbero una maggiore diffusione,[557] e cominciarono a moltiplicarsi
ricchi e copiosi manuali e repertorii ad uso di tutti, il popolo a
poco a poco si venne notevolmente scostando dagli umanisti; e quando
s'avvide che, anche soltanto in parte, poteva far senza di essi, volse
loro decisamente le spalle. E quell'improvviso rivolgimento colpì senza
distinzione alcuna i buoni e i cattivi.

Causa prima di tali accuse furono gli umanisti stessi. Fra quanti
fondarono una società qualunque, nessuno si mostrò più alieno di
essi da quel senso di concordia, che occorre a tenerla unita, e
nessuno vi si ribellò mai più apertamente. Quando poi cominciarono
a volersi sopraffare l'un l'altro, ogni mezzo parve loro lecito, pur
di riuscire allo scopo. Con una rapidità portentosa passano essi dal
campo della discussione scientifica a quello dell'invettiva e della
maldicenza: non si accontentano di combattere il loro avversario, ma
vogliono schiacciarlo completamente. Un po' di colpa di tali eccessi
può ascriversi, se si vuole, a quelli stessi che li circondano e
alla posizione, nella quale si trovano: vedemmo infatti con quanta
violenza l'epoca, di cui essi sono i principali rappresentanti,
oscillasse incerta tra due correnti contrarie, l'amor della gloria e
la tendenza al dileggio. Oltre a ciò, anche la posizione loro nella
vita di ogni dì era per lo più tale, da metterli in grave pensiero per
la loro stessa sussistenza. E con tali disposizioni d'animo dovevano
scrivere, perorare e parlare l'uno dell'altro. Le sole opere del Poggio
contengono tal cumulo di bassezze, da provocare senz'altro una decisa
avversione per tutti; — e queste opere del Poggio sono appunto quelle
che ebbero un maggior numero di edizioni, tanto al di qua che al di
là delle Alpi. Nè si deve nemmeno con troppa facilità rallegrarsi, se
per avventura qua e là s'incontra qualche onesta figura, che sembri
esente da qualsiasi macchia; poichè, guardando un po' più addentro,
si corre pericolo di trovarsi di fronte ad altre testimonianze, che,
vere o false, sono più che sufficienti a intorbidare lo splendore di
quell'immagine. Il resto lo fecero le sconce poesie latine del Pontano
e più ancora il suo famoso dialogo _Antonius_, nel quale egli scherza
oscenamente sulla sua stessa famiglia. Il secolo XVI conosceva tutte
queste brutture ed era stanco, senz'altro, di tollerare una classe
d'uomini simili. Per maggior loro sventura poi anche il più grande
poeta dell'epoca non degnò ricordarli, se non per gettar su loro a
piene mani il disprezzo.[558]

Ma le accuse, che si lanciarono contro essi, non erano in generale che
troppo vere. E se anche qua e colà se ne incontra taluno, che mostra
in modo positivo e innegabile di non essere sordo ai dettami della
moralità e della religione, questa eccezione non inferma punto la
regola, sussistendo di fatto che molti, e fra essi i più celebri, erano
realmente colpevoli.

Tre cose spiegano e forse mitigano in parte la loro colpa: l'eccesso
delle lodi lor tributate, quando sedevano al colmo del carro della
fortuna; l'incertezza e la precarietà della loro vita materiale, per
cui dallo splendore piombavano ad un tratto nella miseria, secondo i
capricci dei loro mecenati o la malignità dei loro avversari; infine la
pervertitrice influenza dell'antichità. Questa corruppe la loro morale,
senza comunicare ad essi la propria, e dal punto di vista religioso
influì sinistramente, inoculando nelle loro menti idee di scetticismo
e di sensualismo, poichè non poteva inocularvi la credenza positiva
nell'antica mitologia. Ora il danno derivò appunto da questo, che essi
intesero l'antichità in modo affatto dogmatico; vale a dire, videro in
essa il prototipo di qualsiasi modo di pensare e di agire. Ma che vi
sia stato un secolo, che in modo affatto esclusivo abbia divinizzato
il mondo antico e quanto proveniva da esso, non è un fatto da doversi
ascrivere in colpa a nessuno in particolare. Esso fu una necessità
storica d'ordine superiore, e tutta la cultura dei tempi posteriori
e futuri è la conseguenza immediata di esso e della maniera affatto
esclusiva, con cui si verificò.

La carriera degli umanisti d'ordinario era tale, che solo le tempre
più forti potevano correrla senza risentirne alcun danno. Il primo
pericolo veniva talvolta dai genitori, che di un figlio di precoce
sviluppo volevano fare un fanciullo miracoloso,[559] colla mira di
farlo entrar poscia in quella classe d'uomini, che allora erano
tutto. Ma i fanciulli miracolosi non vanno generalmente oltre ad
un dato punto, o, se vogliono progredire, no 'l possono che a furia
di sforzi faticosissimi. Inoltre la gloria e la stima, di cui erano
circondati gli umanisti, potevano diventare pei giovani stessi una
tentazione molto pericolosa: essi correvano il rischio di immaginarsi,
«per la superbia che è connaturale all'uomo, di non aver bisogno di
badar più alle cose ordinarie e comuni della vita».[560] E allora
si precipitavano ciecamente colà, dove la gloria sembrava chiamarli
attraverso la vicenda dei più violenti contrasti: ora docenti pubblici
o privati, ora segretari o consiglieri di principi; ora fatti segno
all'entusiastica ammirazione di tutti, ora derisi e vituperati; qua
negli agi e nell'abbondanza, là nelle privazioni e nella miseria,
e sempre e dovunque esposti a pericoli, a inimicizie mortali,
implacabili. Un sapere serio e profondo con tutta facilità poteva
essere soppiantato da una tintura di dottrina frivola e superficiale.
Il peggio poi si era che all'umanista era quasi affatto impossibile
l'avere una patria qualunque stabile e certa, mentre la sua stessa
condizione lo obbligava continuamente a mutar dimora o gl'impediva di
trovarsi bene un po' a lungo in qualsiasi luogo. Infatti o egli stesso
s'annojava degli altri, perchè circondato di inimicizie, o gli altri
si annojavano di lui, perchè desiderosi di novità (v. p. 281). Che
se anche un tale stato di cose ci fa, quasi senza volerlo, andar la
mente ai sofisti greci del tempo imperiale, quali furono descritti da
Filostrato, non v'ha dubbio però che il paragone non regge, poichè la
condizione di questi ultimi era senza contrasto migliore, provveduti
com'erano di maggiori agi e ricchezze o più disposti a farne senza, e
in generale men tormentati dalle esigenze di un pubblico, che vedeva in
loro dei dilettanti dell'arte oratoria, non dei dotti di professione.
L'umanista del Rinascimento invece deve essere un erudito di prima
forza e, per di più, un uomo capace di sostenere le cariche e gli
uffici più disparati. S'aggiunga a questo la vita sregolata ch'egli
conduce e l'indifferenza per qualsiasi sentimento di moralità, a cui si
viene abituando, dopochè si vede dall'opinione pubblica già condannato
_a priori_: arroge da ultimo l'orgoglio, senza cui caratteri simili
non possono esistere e che in essi è mantenuto dal bisogno, non fosse
altro, di conservarsi al di sopra del livello comune, e dal sentimento
della gloria, che si alterna continuamente con quello dell'odio e del
disprezzo. Essi sono la personificazione vivente di un soggettivismo,
che per eccesso di forze trabocca.

Le accuse e le allusioni satiriche cominciano, come è stato già notato,
assai per tempo, appunto perchè per ogni individualità un po' spiccata,
per ogni specie di celebrità s'avea sempre pronto, qual correttivo, un
motto arguto, un sarcasmo. Oltre a ciò gli umanisti stessi fornivano
un abbondantissimo tema, al quale non s'avea che la pena di attingere.
Ancora nel secolo XV Battista Mantovano, facendo la rassegna dei sette
peccati capitali,[561] schiera gli umanisti con molti altri sotto
al primo, la superbia. Egli li descrive quali, nella loro boriosa
vanità di pretesi alunni di Apollo, incedono con aria dispettosa e con
affettata gravità, simili a stuolo di gru che scendono al pascolo,
e tanto pieni di sè medesimi, che s'arrestano perfino talvolta a
contemplare estatici la propria ombra. Ma quello che fece loro un
processo in tutte le forme, fu il secolo XVI. Oltre all'Ariosto,
ne fa testimonianza principalmente il loro storico, Giraldo, il
cui lavoro, già composto sotto Leone X, probabilmente fu ritoccato
intorno al 1540.[562] In esso sono riportati in copia strabocchevole
antichi e moderni esempi della depravazione morale e della misera
vita dei letterati, e in mezzo a ciò suonano accuse gravi e generali
contro essi. Si parla principalmente della loro irascibilità, vanità,
caparbietà e presunzione; s'incolpano di sregolatezze, di dissipazione,
di eresia e di empietà; e si fa loro rimprovero di parlar senza
convinzioni, di consigliare senza coscienza, stigmatizzandoli come
meschini compilatori di sillabe, come vilmente ingrati verso i loro
maestri, come abbiettamente servili verso i principi, che solitamente
mordono dapprima in mille guise i letterati e poi li lasciano
morire di fame. Finalmente il libro si chiude con una allusione alla
fortunata età, in cui sulla terra non v'era ancora scienza veruna. Di
tutte queste accuse una divenne ben presto la più pericolosa, quella
di eresia, e Giraldo stesso fu costretto più tardi, in occasione
della ristampa di un suo scritto giovanile affatto innocuo,[563] di
rifugiarsi sotto il manto protettore del duca Ercole II di Ferrara,
perchè omai cominciavano a prevalere quegli uomini, ai quali pareva
troppo male impiegato il tempo, che altri dedicava alla studio della
classica antichità. Ed egli, per giustificarsi, dovette fare ogni
sforzo per dimostrare che, in tempi simili, questo studio era anzi
l'unico veramente innocente, perchè vôlto ad argomenti d'indole affatto
neutrale.


Ma, se è dovere dello storico il cercare, accanto alle accuse, anche
quelle testimonianze, nelle quali invece prevale un sentimento di
benevolenza verso l'umanità, nessuna fonte certo potrà sembrare
paragonabile con lo scritto spesse volte citato di Pierio Valeriane
«Della infelicità dei letterati».[564] Esso fu composto sotto la triste
impressione del sacco di Roma, che, colle sventure che cagionò anche
ai letterati, all'autore sembra come l'ultima vendetta dell'avverso
destino, che da lungo tempo li perseguitava. Pierio obbedisce quì ad
un sentimento affatto naturale e giusto ad un tempo; egli non tira
in campo nessuna potenza spirituale, che abbia preso a perseguitare
in modo speciale questi uomini _per causa_ del loro genio, ma narra
senz'altro ciò che è accaduto e che bene spesso fu opera soltanto del
caso. Egli non ha in mira di scrivere una tragedia o di far discendere
i fatti da un conflitto di cause superiori, e appunto per questo si
restringe ad esporre le vicende ordinarie della vita quotidiana.
Così dal suo libro noi impariamo a conoscere taluni, che in tempi
molto agitati perdono dapprima le loro rendite, e poscia anche i
loro uffici; altri che, aspirando nello stesso tempo a più impieghi,
non ne ottengono alcuno; qua un avaro sordido ed egoista, che si
porta cucito addosso il suo tesoro, e che poi, derubato, muore di
rammarico; altrove un venale prebendato, che si consuma lentamente nel
desiderio della perduta libertà. In un punto egli rimpiange la morte
di qualcuno rapito dalla febbre o dalla pestilenza, e deplora ad un
tempo la perdita de' suoi scritti, che andarono arsi col suo letto e
colle sue vesti: in un altro ci parla della vita infelice di chi si
trascina innanzi sotto il peso dell'invidia e delle minaccie de' propri
colleghi: qua è uno sventurato, che soccombe al pugnale assassino
di un servo rapace; là è un fuggiasco in cerca di migliore fortuna,
che, sorpreso dai masnadieri, è gettato a languire nel fondo di un
carcere, perchè non può pagare il proprio riscatto. Taluno è portato
precocemente alla tomba da un segreto dolore per un torto ricevuto o
per una umiliazione subita: ad un veneziano si spezza il cuore per la
morte di un figliuoletto; fanciullo miracoloso, al quale tengon dietro
ben presto la madre e uno zio, quasi che egli dovesse trascinar con sè
tutta la sua famiglia. E non mancano neanche, e in numero rilevante, i
suicidi, per lo più fiorentini,[565] nonchè quelli che furono vittime
della vendetta di qualche tiranno. Dove, in tanta miseria, trovare
uno che sia felice? E come potrà esserlo? Forse col chiudere il cuore
ad ogni senso di pietà portanti mali? Uno degl'interlocutori del
dialogo s'incarica di rispondere a queste domande: egli è l'illustre
Gaspero Contarini, e il nome basta per farci sperare che le risposte
contengano quanto di più sensato e profondo si pensava in proposito a
quell'età. L'uomo felice egli lo trova in frate Urbano Valeriano da
Belluno, che per lunghi anni insegnò il greco a Venezia, poi visitò
la Grecia e l'Oriente, ed anche vecchio peregrinò ora in questo, ora
in quel paese, senza mai essere salito in groppa a un cavallo, senza
aver posseduto in sua vita un quattrino, rifiutando sempre qualsiasi
avanzamento ed onore, e morendo nella grave età di ottantaquattro
anni senza aver mai avuto un'ora di malattia, se si eccettui soltanto
quell'unica cagionatagli da una caduta. E che cosa lo differenziava
tanto dagli umanisti? Essi godettero una libertà d'azione mille volte
maggiore, essi ebbero una volontà loro propria, che avrebbero anche
dovuto usufruttare assai più utilmente, che non abbiano fatto: il
povero monaco invece, allevato nel chiostro sin dalla sua fanciullezza,
visse sempre a beneplacito altrui e s'abituò a non volere se non ciò,
che gli altri volevano; ma questa abitudine fu appunto quella che in
mezzo ai più grandi fastidi della vita gli mantenne quella equabilità
e quella serenità di spirito, colla quale influiva assai più sui suoi
discepoli, che non colle sue lezioni. Questi infatti si venivano ogni
dì più persuadendo, che non dipende se non da noi il far sì, che anche
nell'avversa fortuna possiam trovare qualche conforto, «In mezzo alle
privazioni e ai disagi egli era felice e voleva esserlo, perchè non
avea contratto male abitudini, perchè non era capriccioso, nè volubile,
nè incontentabile, ma sempre si mostrava soddisfatto di poco, od
anche di nulla». — A questa abnegazione, se crediamo al Contarini, non
erano estranei i più serii e profondi sentimenti di pietà religiosa;
ma, anche guardando in lui semplicemente il filosofo, egli non
ci parrà meno degno di ammirazione. — Un carattere molto affine a
questo, sebbene in condizioni affatto diverse, ci presenta quel Fabio
Calvi,[566] che fece un commento ad Ippocrate.

In età già molto inoltrata egli viveva a Roma, cibandosi di sole erbe
«come una volta i Pitagorici», ed abitando sotto una tettoia, che ben
poco si differenziava dalla botte di Diogene. Della pensione che gli
pagava papa Leone, egli non pretendeva che lo stretto necessario per sè
e dava il resto agli altri. Non potè, come frà Urbano, rallegrarsi di
una salute costantemente florida e vigorosa, e non avrà potuto neanche,
come questi, sorridere sul suo letto di morte, poichè nel sacco di Roma
gli toccò, vecchio quasi nonagenario, di seguire a forza gli Spagnuoli,
che intendevano di farsene pagar caro il riscatto, e poco dopo morì
di fame abbandonato da tutti in un ospedale. Ma il suo nome andò salvo
dall'obblio, perchè Raffaello aveva amato e onorato quel vecchio come
un padre e un maestro, e s'era giovato de' suoi consigli in ogni
tempo. Forse questi consigli riferivansi in modo speciale a quella
restaurazione archeologica dell'antica Roma, di cui già tenemmo parola
altrove (v. pag. 249); ma fors'anche a cose d'ordine molto più elevato.
Chi potrebbe dire qual parte abbia avuto Fabio al concetto della Scuola
d'Atene e di altre importantissime composizioni di Raffaello?


Assai di buon grado porremmo fine a questa parte del nostro lavoro con
qualche interessante biografia, per esempio con quella di Pomponio
Leto, se possedessimo intorno a lui qualche cosa di più che una
semplice lettera di un suo discepolo, il Sabellico,[567] nella quale
Pomponio a bello studio è dipinto con colori di antichità un po' troppo
risentiti: tuttavia suppliremo a questa lacuna col riferirne almeno
qualche tratto dei più salienti. Egli discendeva illegittimamente
dalla famiglia napoletana dei Sanseverino, principi di Salerno (v.
pag. 335), ma non volle mai riconoscerli, e all'invito fattogli di
andare a vivere con essi, rispose col celebre biglietto: _Pomponius
Laetus cognatis et propinquis suis salutem. Quod petitis non potest.
Valete._ Meschinissimo nell'aspetto, con occhietti piccoli e vivaci,
vestito sempre in fogge strane e bizzarre, insegnando negli ultimi anni
del secolo XV all'Università di Roma, egli abitava alternativamente
la sua modesta casetta sul colle Esquilino o la sua villetta sul
Quirinale: quivi in mezzo alle sue anitre predilette e ad un gran
numero d'altri volatili, dei quali pure grandemente si dilettava,
attendeva alla coltivazione di un suo poderetto, seguendo rigorosamente
i precetti che trovava in Catone, in Varrone ed in Columella, e nei
giorni festivi cercava un po' di spasso nella caccia o nella pesca,
od anche nello starsene lunghe ore sdraiato all'ombra presso una
fonte e sulle rive del Tevere. Ricchezze ed agi non curò punto, nè
poco. Alieno da ogni invidia e maldicenza, non le tollerava nemmeno
in chi gli stava dappresso: ma per converso parlava con molta libertà
contro la gerarchia allor prevalente, e in generale passava anche come
libero pensatore in fatto di religione, eccettuati però gli ultimi
suoi anni. Involto nella persecuzione che Paolo II iniziò contro gli
umanisti, egli era stato dal governo di Venezia consegnato al Papa;
ma non per questo si lasciò mai piegare ad ignobili confessioni: dopo
d'allora Papi e prelati lo ebbero caro e lo sussidiarono; e quando,
nei torbidi scoppiati sotto Sisto IV, gli fu saccheggiata la casa,
i danni gli furono rifusi in sì larga misura, che eccedettero le
perdite da lui fatte. Come insegnante, era coscienzioso sino allo
scrupolo: ancor prima dello spuntare del giorno lo vedevano scendere
dall'Esquilino colla sua lanterna in mano e recarsi all'Università,
dove la sua scuola riboccava sempre di ascoltatori; e siccome parlando
in privato balbettava alquanto, così dalla cattedra declamava con lenta
circospezione, ma non senza proprietà ed eleganza. Anche i pochi suoi
scritti sono dettati con molta cura. Gli antichi testi non ebbero mai
un interprete più accurato e più sobrio di lui: anche dinanzi agli
altri venerabili avanzi dell'antichità egli si sentiva compreso di
religioso rispetto sino al punto di rimanere estatico e come fuori di
sè o di prorompere improvvisamente in un pianto dirotto. Siccome egli
era sempre pronto a lasciar da parte i propri studi, quando si trattava
di essere utile agli altri, così era anche molto amato ed aveva sempre
un gran numero di amici, e quando morì, lo stesso Alessandro VI volle
che i suoi cortigiani ne seguissero la bara, che fu portata dai più
illustri tra' suoi uditori: alle sue esequie in Aracoeli assistettero
quaranta vescovi e tutti gli ambasciatori esteri.


Pomponio aveva introdotto a Roma e diretto la rappresentazione di
alcune commedie antiche, specialmente di quelle di Plauto (v. pag.
342). Oltre a ciò, egli era solito di festeggiare ogni anno il giorno
della fondazione della città con una solenne adunanza, nella quale
i suoi amici e discepoli recitavano discorsi e poesie. Da queste
circostanze principalmente ebbe origine e si mantenne anche più tardi
quella, che poi fu detta l'accademia romana. Essa non era realmente
se non una libera associazione, non legata a nessun fermo statuto:
oltre alle due occasioni menzionate, si riuniva[568] ogni qualvolta
un protettore ve la invitava o quando accadeva di dover celebrare le
lodi di qualche suo membro venuto a morire (per es. il Platina). L'uso
era questo, che al mattino un prelato a ciò destinato celebrava, prima
d'ogni altra cosa, la Messa: poscia Pomponio ascendeva la tribuna a
recitarvi il suo discorso, e dopo di lui un altro a declamarvi qualche
distico. Il solito banchetto d'obbligo, accompagnato da dispute e
declamazioni, chiudeva poi qualunque festività lieta o triste, ed
anche in questo gli accademici, il Platina specialmente, s'erano
creati una grande riputazione di buongustai.[569] Altre volte singoli
ospiti rappresentavano farse sul gusto delle Atellane. Come libera
associazione e senza un programma ben definito, questa accademia si
mantenne nella sua forma primitiva sino al sacco di Roma e potè contare
fra' suoi soci un Angelo Coloccio, un Giovanni Göritz (v. pag. 360),
e molti altri. Quanto ella abbia contribuito a far progredire la vita
intellettuale della nazione, non è cosa che si possa così facilmente
stabilire, come d'ordinario non si può di nessuna associazione di
questa specie; tuttavia sta di fatto, che anche il Sadoleto ne fa
menzione, come di una delle più care e preziose ricordanze di sua
gioventù.[570] — Un numero considerevole di altre accademie sorse e
morì in diverse città, secondochè ciò era reso possibile dalla fama e
dall'importanza degli umanisti, che vi risiedevano, e dal favore che
i ricchi e i grandi vi impartivano. Una di queste fu l'accademia di
Napoli, che si venne formando intorno a Gioviano Fontano, e della quale
poi una parte emigrò a Lecce,[571] un'altra fu quella di Pordenone, che
costituiva la corte del gran condottiere Alviano, e così via. Di quella
di Lodovico il Moro e della sua speciale importanza nella corte del
principe s'è già parlato altrove (v. pag. 56).

Intorno alla metà del secolo XVI queste associazioni sembrano aver
subito una completa e radicale trasformazione. Gli umanisti sbalzati,
anche per altre ragioni, di seggio e divenuti sospetti alla incipiente
Contro-riforma, perdono la direzione delle accademie, e la poesia
italiana anche in queste comincia ad occupare il posto della latina.
Ben presto ogni città di una tal quale importanza ha la sua accademia,
coi nomi più strani e bizzarri,[572] e con fondi propri messi insieme
mediante contributi dei soci e legati. Oltre alla recitazione di
poesie, si adotta in esse, alla maniera delle precedenti associazioni
latine, l'uso del periodico banchetto e della rappresentazione di
drammi, parte col concorso degli stessi accademici, parte sotto la
loro sorveglianza coll'opera di giovani dilettanti e ben presto anche
di attori pagati. Le sorti del teatro italiano, e più tardi anche
dell'Opera, rimasero per lungo tempo nelle mani di queste associazioni.


  FINE DEL VOLUME PRIMO.



INDICE E SOMMARIO

DELLE MATERIE CONTENUTE NEL VOLUME PRIMO


  PREFAZIONE DEL TRADUTTORE                                  _Pag._ v
  DEDICA DELL'AUTORE                                           »    1

  PARTE PRIMA.
  Lo Stato come opera d'arte.

  I. — INTRODUZIONE.
    Condizioni politiche d'Italia nel secolo XIII. — La
      Monarchia normanna sotto Federigo II. — Ezzelino
      da Romano                                                »    5
  II. — LA TIRANNIDE NEL SECOLO XIV.
    Finanze e loro rapporti colla civiltà. — L'ideale di
      un principe assoluto. — Pericoli interni ed
      esterni. — Giudizio dei Fiorentini sui tiranni. — I
      Visconti sino al penultimo                               »   11
  III. — LA TIRANNIDE NEL SECOLO XV.
    Interventi e viaggi degl'Imperatori. — Loro
      pretensioni messe in disparte. — Mancanza di uno
      stabile diritto ereditario. Successioni
      illegittime. — I Condottieri quali fondatori di
      Stati. — Loro rapporti coi propri Signori. — La
      famiglia Sforza. — Progetti del giovane Piccinino
      e sua caduta. — Posteriori tentativi dei
      Condottieri                                              »   21
  IV. — LE TIRANNIDI MINORI.
    I Baglioni di Perugia. — Loro interne discordie e
      le nozze di sangue dell'anno 1500. — Fine
      di questa famiglia. — Le case dei Malatesta, dei
      Pico e dei Petrucci                                      »   37
  V. — LE MAGGIORI CASE PRINCIPESCHE.
    Gli Aragonesi di Napoli. — L'ultimo Visconti di
      Milano. — Francesco Sforza e la sua
      fortuna. — Galeazzo Maria e Lodovico il Moro. — I
      Gonzaga di Mantova. — Federigo da Montefeltro,
      duca di Urbino. — Ultimo splendore della Corte
      urbinate. — Gli Estensi di Ferrara; tragedie
      domestiche e fiscalità. — Traffico dei pubblici
      ufficj, polizia e lavori pubblici. — Merito
      personale. — Fedeltà della capitale. — Il direttore
      di polizia Zampante. — Partecipazione dei sudditi
      al lutto di corte. — Pompa della corte. — Protezione
      accordata alle lettere                                   »   47
  VI. — GLI AVVERSARI DELLA TIRANNIDE.
    Gli ultimi Guelfi e Ghibellini. — I cospiratori. — Gli
      assassinj nelle Chiese. — Influenza del tirannicidio
      antico. — I Catilinarj. — Opinione dei Fiorentini
      sul tirannicidio. — Il popolo ne' suoi rapporti
      coi cospiratori                                          »   73
  VII. — LE REPUBBLICHE.
    Venezia nel secolo XV. — Gli abitanti. — Lo Stato e
      i suoi pericoli cagionati dalla povertà
      dell'aristocrazia. — Cause della sua stabilità. — Il
      Consiglio dei Dieci e i processi politici. — Rapporti
      verso i Condottieri. — Ottimismo della politica
      estera. — Venezia quale patria della
      Statistica. — Lento sviluppo della
      cultura. — Ascetismo ufficiale prolungato                »   83
  VIII. — ANCORA DELLE REPUBBLICHE.
    Firenze dal secolo XIV in avanti. — Obbiettività
      della coscienza politica. — Dante come
      politico. — Firenze qual patria della Statistica;
      i Villani. — La Statistica dei maggiori
      interessi. — Valori delle monete del secolo
      XV. — Le forme costituzionali e gli
      storici. — Vizio fondamentale dello Stato
      toscano. — Gli uomini politici. — Machiavelli e
      il suo progetto di costituzione. — Genova,
      Siena e Lucca                                            »  101
  IX. — POLITICA ESTERA DEGLI STATI ITALIANI.
    Invidia contro Venezia. — L'estero: simpatie per
      la Francia. — Tentativo per un
      equilibrio. — Intervento e conquista. — Alleanza
      coi Turchi. — Reazione spagnuola. — Trattazione
      obbiettiva della politica. — Arte diplomatica            »  121
  X. — LA GUERRA COME OPERA D'ARTE.
    Le armi da fuoco. — Conoscitori e
      dilettanti. — Orrori guerreschi                          »  133
  XI. — IL PAPATO E I SUOI PERICOLI.
    Posizione di fronte all'estero e
      all'Italia. — Torbidi a Roma da Nicolò V in
      poi. — Sisto IV signore di Roma. — Progetti
      del cardinale Pietro Riario. — Il nepotismo
      politico in Romagna. — Cardinali di case
      principesche. — Innocenzo VIII e suo
      figlio. — Alessandro VI come spagnuolo. — Relazioni
      coll'estero e simonia. — Cesare Borgia e suoi
      rapporti col padre. — Suoi ultimi
      progetti. — Minacciata secolarizzazione dello
      Stato pontificio. — I mezzi violenti. — Gli
      assassinj. — Gli ultimi anni. — Giulio II
      restauratore del Papato. — Elezione di Leone
      X. — Suoi progetti pericolosi in politica. — Pericoli
      esterni crescenti. — Adriano VI. — Clemente VII
      e il sacco di Roma. — Conseguenze di esso e
      reazione. — Riconciliazione di Carlo V col
      Papa. — Il Papato della Contro-riforma                   »  139
  XII. — L'ITALIA DE' PATRIOTTI                                »  173

  PARTE SECONDA.
  Lo svolgimento dell'individualità.

  I. — LO STATO E L'INDIVIDUO.
    L'uomo nel Medio-Evo. — Il risvegliarsi della
      personalità. — I tiranni e i loro
      sudditi. — L'individualismo nelle
      Repubbliche. — L'esiglio e il cosmopolitismo             »  177
  II. — PERFEZIONAMENTO DELL'INDIVIDUALITÀ.
    Gli uomini multilateri. — Gli uomini universali.
      Leon Battista Alberti                                    »  186
  III. — LA GLORIA NEL SENSO MODERNO.
    Idee di Dante intorno alla gloria. — Celebrità
      degli Umanisti; il Petrarca. — Culto delle
      abitazioni. — Culto delle tombe. — Culto degli
      uomini celebri dell'antichità. — Letteratura della
      gloria universale. — La gloria dipendente dagli
      scrittori. — L'amor della gloria come passione           »  193
  IV. — IL MOTTO E L'ARGUZIA NEL SENSO MODERNO.
    Loro attinenze coll'individualismo. — La beffa
      presso i Fiorentini, la novella. — I motteggiatori
      e i buffoni. — I passatempi di Leone X. — La
      parodia nella poesia. — Teoria dell'arguzia. — La
      maldicenza e Adriano VI sua vittima. — Pietro
      Aretino quale pubblicista. — Suoi rapporti coi
      principi e cogli uomini celebri. — Sua religione         »  209

  PARTE TERZA.
  Il Risorgimento dell'antichità.

  I. — OSSERVAZIONI PRELIMINARI.
    Estensione dell'idea compresa nella parola
      Rinascimento. — L'Antichità nel Medio-Evo. — Suo
      precoce risveglio in Italia. — Poesia
      latina del secolo XII. — Spirito del secolo XIV          »  231
  II. — ROMA, LA CITTÀ DELLE ROVINE.
    Dante, Petrarca, Fazio degli Uberti. — Le rovine
      esistenti al tempo del Poggio. — Flavio Biondo,
      Nicolò V e Pio II. — L'Antichità fuori di
      Roma. — Città e famiglie di derivazione
      romana. — Sentimenti e pretese dei romani. — Il
      corpo di Giulia. Scavi e restauri. — Roma sotto
      Leone X. — Le rovine come fonti di
      sentimentalismo                                          »  239
  III. — AUTORI ANTICHI RESUSCITATI.
    Autori già noti fin dal secolo XIV. — Scoperte del
      secolo XV. — Biblioteche, copisti e scrivani. — La
      stampa. — Cenno sullo studio del greco. — Studi
      orientali. — Pico di fronte all'antichità                »  253
  IV. — L'UMANISMO NEL SECOLO XIV.
    Necessità del suo trionfo. — Parte presavi da
      Dante, Petrarca e Boccaccio. — Il Boccaccio primo
      campione dell'antichità. — L'incoronazione
      dei poeti                                                »  267
  V. — LE UNIVERSITÀ E LE SCUOLE.
    L'umanista professore nel secolo XV. — Scuole
      secondarie. — L'istruzione superiore privata;
      Vittorino. — Guarino in Ferrara. — Educazione
      dei principi                                             »  277
  VI. — I FAUTORI DELL'UMANISMO.
    Cittadini fiorentini; il Niccoli. — Il Manetti,
      e i primi Medici. — Principi: i Papi da Niccolò
      V in avanti. — Alfonso di Napoli. — Federigo
      d'Urbino. — Gli Sforza e gli Estensi. — Sigismondo
      Malatesta                                                »  285
  VII. — RIPRODUZIONE DELL'ANTICHITÀ. EPISTOLOGRAFIA.
    La Cancelleria papale. — Apprezzamento dello stile
      epistolare                                               »  303
  VIII. — L'ELOQUENZA LATINA.
    Indifferenza rispetto alla condizione
      dell'oratore. — Discorsi solenni di materia
      politica o in occasioni di ricevimento. — Orazioni
      funebri. — Discorsi accademici e allocuzioni
      militari. — Prediche latine. — Rinnovamento
      dell'antica rettorica. — Forma e contenuto;
      citazioni. — Concioni finte. — Scadimento
      dell'eloquenza                                           »  309
  IX. — I TRATTATISTI LATINI                                   »  323
  X. — LA STORIOGRAFIA.
    Necessità relativa del latino. — Studi sul Medio-Evo;
      il Biondo. — Primordi della critica. — Rapporti
      colla storiografia italiana                              »  325
  XI. — IL LATINISMO PREVALENTE IN OGNI RAMO DELLA CULTURA.
    Il latinismo nei nomi. — Il latinismo nelle
      cose. — Predominio assoluto del latino. — Cicerone
      e i ciceroniani. — Conversazione  latina                 »  333
  XII. — LA NUOVA POESIA LATINA.
    L'epopea tratta dalla storia antica;
      l'Africa. — Poesia mitica. — Epopea cristiana; il
      Sannazzaro. — Introduzione di elementi
      mitologici. — Poesia storica contemporanea. — Poesia
      didattica; il Palingenio. — La lirica e i suoi
      limiti. — Odi per santi. — Elegie e
      simili. — L'epigramma. — La poesia maccaronica           »  313
  XIII. — CADUTA DEGLI UMANISTI NEL SECOLO XVI.
    Accuse contro gli umanisti e loro giusto
      valore. — Loro sventure. — Il contrapposto degli
      umanisti. — Pomponio Leto. — Le accademie                »  363



NOTE:


[1] _Storia dell'Architettura_ di Francesco Kugler. (La prima metà del
volume IV, contenente l'_Architettura e la Decorazione del Rinascimento
italiano_, è dell'Autore).

[2] Machiavelli, _Discorsi_, L. I, c. 12.

[3] I regnanti e la loro corte chiamansi insieme _lo Stato_, e questa
parola sembra essere stata usata in seguito a significare l'esistenza
di un intero territorio.

[4] Höfler, _Kaiser Friedrich II_, pag. 39 e segg.

[5] _Cento Novelle antiche_, Nov. 1, 6, 20, 21, 22, 23, 29, 30, 45, 56,
83, 88, 98.

[6] Scardeonius, _De urbis Patav. antiq._ nel _Thesaurus_ del Grevio,
VI, III, pag. 259.

[7] Sismondi, _Hist. des Républ. italiennes_, IV, pag. 420; VIII, pag.
1 e segg.

[8] Franco Sacchetti, _Novelle_, (61, 62).

[9] Petrarca, _De Republ. optime administranda, ad Franc. Carraram_
(Opp. pag. 372 e segg.).

[10] Solo cento anni più tardi anche la principessa è detta _madre_ de'
sudditi. Cfr. l'orazione funebre di Girolamo Crivelli per Bianca Maria
Visconti, presso Muratori, XXV, col. 429. Un traslato ironico di ciò
si ha nell'appellativo di _mater Ecclesiae_ dato alla sorella di papa
Sisto IV da Jacopo da Volterra (Muratori, XXIII, col. 109).

[11] Esprimendo incidentalmente il desiderio che fosse impedita in
Padova la circolazione degli animali suini, perchè disgustosa alla
vista e pericolosa ai cavalli, che ne adombravano.

[12] Petrarca, _Rerum memorandar._, l. III, pag. 460. — Si allude a
Matteo I Visconti e a Guido della Torre allora regnante a Milano.

[13] Matteo Villani, V, 81, dove parla della segreta uccisione di
Matteo II Visconti operata da' suoi fratelli.

[14] Filippo Villani, _Istorie_, XI, 101. Anche Petrarca trova i
tiranni lindi e puliti «come altari in giorno di festa». — Il trionfo
all'uso antico di Castracane in Lucca trovasi minutamente descritto
nella sua vita scritta da Tegrimo, presso Muratori, XI, col. 1340.

[15] _De Vulgari Eloquio_, I, c. 12... _qui non heroico more, sed
plebeo sequuntur superbiam_ ecc.

[16] Ciò non si trova invero che in alcuni scritti del secolo XV, ma
certamente dietro fantasie anteriori: L. B. Alberti, _De re aedific._,
V, 3. — Franc. di Giorgio, _Trattato_, presso Della Valle, _Lettere
senesi_, III, 121.

[17] Franco Sacchetti, _Nov._, 61.

[18] Matteo Villani, VI, 1.

[19] L'ufficio de' passaporti in Padova intorno alla metà del secolo
XIV, come anche _quelli delle bullette_, trovansi descritti da
Franco Sacchetti, _Nov._ 117. Negli ultimi dieci anni di Federico II,
quando prevaleva il più rigido controllo personale, l'istituzione de'
passaporti doveva esistere nel suo pieno sviluppo.

[20] Corio, _Storia di Milano_, fol. 247 e segg.

[21] Anche, per esempio, a Paolo Giovio: v. _Viri illustres, Jo.
Galeatius_.

[22] Corio, fol. 272, 285.

[23] Cagnola, nell'_Archiv. Stor._, III, p. 23.

[24] Così Corio, fol. 286, e Poggio, _Hist. Florent._, IV, presso
Muratori, XX, col. 290. — Di aspirazioni all'impero parlano il Cagnola,
l. c., e un sonetto presso il Trucchi, _Poesie italiane inedite_, II,
p. 118:

    Stan le città lombarde con le chiave
    In man per darle a voi... ecc.
    Roma vi chiama: Cesar mio novello,
    Io sono ignuda et l'anima pur vive;
    Or mi coprite col vostro mantello ecc.

[25] Corio, fol. 302 e segg. Cfr. Ammian. Marcellin. XXIX, 3.

[26] Così Paolo Giovio: _Viri illustr., Jo. Galeatius, Philippus_.

[27] De Gingins: _Dépêches des ambassadeurs milanais_, II, pag. 200 (N.
213). Cfr. II, 3 (N. 114) e II, 212 (N. 218).

[28] Paul. Jovius, _Elogia_.

[29] Questa riunione di forze e d'ingegno è quella che da Machiavelli
vien detta virtù, e ch'egli trova compatibile anche con la
scelleratezza, come per esempio nei Discorsi, I, 10, dove parla di
Settimo Severo.

[30] Intorno a ciò veggasi Francesco Vettori, _Arch. Stor. VI, pag_.
293 e segg. _L'investitura fatta da un uomo che dimora in Germania
e che d'imperatore romano non ha che il nome, non ha la forza di
trasformare un ribaldo in vero signore di una città_.

[31] M. Villani, IV, 38, 39, 56, 77, 78, 92; V, 1, 2, 21, 36, 54.

[32] Fu un italiano, Fazio degli Uberti (_Dittamondo_ L. VI, cap.
5, intorno all'anno 1360) che avrebbe preteso da Carlo IV un'altra
crociata in Terra Santa. Il passo è uno dei più belli del poema ed
anche sotto altri punti di vista notevole. Il poeta viene allontanato
dal Santo Sepolcro da un burbanzoso turcomanno:

    Coi passi lunghi e con la testa bassa
      Oltrepassai e dissi: ecco vergogna
      Del crïstian che 'l saracin qui lassa!
    Poscia al pastor (il papa) mi volsi per rampogna:
      E tu ti stai, che sei Vicar di Cristo,
      Co' frati tuoi a ingrassar la carogna?
    Similimente dissi a quel sofisto (Carlo IV),
      Che sta in Buemme a piantar vigne e fichi,
      E che non cura di sì caro acquisto:
    Che fai? perchè non segui i primi antichi
      Cesari de' Romani, e che non siegui,
      Dico, gli Otti, i Corradi e i Federichi?
    E che pur tieni questo imperio in triegui?
      E se non hai lo cuor d'esser Augusto,
      Che no 'l rifiuti? o che non ti dilegui? ecc.

[33] Più distesamente in Vespasiano fiorentino, pag. 54. Cfr. 150.

[34] _Diario ferrarese_, presso Muratori, XXIV, col. 213 e segg.

[35] _Haveria voluto scortigare la brigata_.

[36] _Annales Estenses_, presso Murat. XX, col. 41.

[37] Poggii, _Hist. florent. pop._ l. VII, presso Muratori, XX, col.
381.

[38] Senarega, _De reb. Genuens._, presso Murat. XXIV, col. 575.

[39] Sono numerati nel _Diario ferrarese_, presso Murat. XXVI, col 203.
Cfr. _Pii II Comment. II_, pag. 102.

[40] Marin Sanudo, _Vite de' Duchi di Venezia_, presso Murat. XXII,
col. 1113.

[41] Varchi, _Stor. fiorent._ I, p. 8.

[42] Soriano, _Relaz. di Roma_ 1533, presso Tommaso Gar. _Relazione_,
pag. 281.

[43] Per ciò che segue conf. Canestrini nella _Introduzione_ al tom. XV
dell'_Arch. Stor._

[44] Cagnola, Arch. Stor. III. pag. 28: _et (Filippo Maria) da lei
(Beatr.) ebbe molto texoro e dinari, e tutte le giente d'arme del dicto
Facino, che obedivano a lei._

[45] Infessura, presso Eccard, _Scriptor._ II, col. 1911. L'alternativa
che Machiavelli pone al condottiero vittorioso, veggasi nei _Discorsi_.
I, 30.

[46] Se essi abbiano avvelenato anche l'Alviano nel 1516 e se sieno
giusti i motivi addotti per ciò, veggasi uno scritto di G. Prato
inserito nell'_Arch. Stor. III_, pag. 348. — Dal Colleoni la Repubblica
si fece nominare sua erede, e dopo la sua morte avvenuta nel 1475
ordinò una formale confisca di tutti i suoi beni. Cfr. Malipiero,
_Annali veneti_ nell'_Arch. Stor. VII_, I, p. 224. Essa si mostrava
assai soddisfatta, quando i condottieri depositavano il loro danaro in
Venezia. _Ibid_. pag. 351.

[47] Cagnola, nell'_Arch. Stor._ III, pag. 121 e segg.

[48] Almeno presso Paolo Giovio nella sua _Vita magni Sfortiae (Viri
illustres)_, una delle più interessanti fra le sue biografie.

[49] Aen. Sylvius: _De dictis et factis Alphonsi_, op. fol. 475.

[50] Pii II _Comment._ I. p. 46. Cfr. 69.

[51] Sismondi X, pag. 258. Corio, fol. 412, dove lo Sforza è detto
complice, perchè dalla guerresca popolarità del Piccinino temeva
pericoli pe' suoi propri figli. — _Storia Bresciana_ presso Muratori
XXI, col 902 — Come si tentò nel 1466 il gran condottiere veneziano
Colleoni, ci è raccontato da Malipiero, _Annali veneti_, nell'_Arch.
Stor._ VII, I, pag. 210.

[52] Allegretti, _Diarii Sanesi_, presso Murat. XXIII, pag. 811.

[53] _Orationes Philelphi_, fol. 9, nell'orazione funebre per Francesco.

[54] Marin Sanudo, _Vite de' duchi di Venezia_, presso Murat. XXII,
col. 1241.

[55] Malipiero, _Annali veneti_, nell'_Arch. Stor._ VII, I, pag. 407.

[56] _Chron. Eugubinum_, presso Muratori XXI, col. 972.

[57] Vespasiano fiorent. pag. 148.

[58] _Arch. Stor_. XXI, parte I e II.

[59] Varchi, _Storia fiorent_. I. pag. 242 e segg.

[60] Malipiero, _Annali veneti, Arch. Stor. VII_, I. pag. 498.

[61] Lil. Greg. Gyraldus, _De vario sepeliendi ritu_. — Ancor nel 1470
era avvenuta in questa casa una catastrofe in piccolo. Cfr. _Diario
ferrarese_, presso Murat. XXIV. col. 225.

[62] Jovian. Pontan. _De liberalitate_ e _de obedientia_, l. 4. Cfr.
Sismondi X. pag. 78 e segg.

[63] Tristano Caracciolo: _De varietate fortunae_, presso Murat. XXII.
— Jovian. Pontan. _De prudentia_, l. IV, _de magnanimitate_, l. I, _de
liberalitate, de immanitate_. — Camillo Porzio, _Congiura de' Baroni_,
passim. — Comines, _Charles VIII_, chap. 17, colla caratteristica
generale degli Aragonesi.

[64] Paul. Jov. _Histor_. I. p. 14, nel discorso di un inviato
milanese. _Diario ferrarese_, presso Murat. XXIV, col. 294.

[65] Petri Candidi Decembrii _Vita Phil. Mariae Vicecomitis_, presso
Murat. XX.

[66] Furono ordinate da lui le 14 statue marmoree di Santi nel castello
di Milano? — _Historia der Frundsberge_, fol. 27.

[67] Ciò che lo angustiava era che _aliquando «non esse» necesse esset._

[68] Corio, fol. 400; — Cagnola nell'_Arch. stor._ III. p. 125.

[69] Malipiero, _Annali veneti, Arch. Stor._ VII, I, p. 216, 221.

[70] _Chron. venetum_, presso Murat., XXIV, col. 65.

[71] Malipiero, _Ann. veneti_, (_Arch. Stor._, VII, I, p. 492). Cfr.
481, 561.

[72] Il suo ultimo colloquio con lo stesso, genuino e notevole, presso
Senarega, Murat. XXIV, col. 567.

[73] _Diario ferrarese_, presso Murat., XXIV, col. 336, 367, 369. Il
popolo credeva, che temesse pe' suoi tesori.

[74] Corio, _fol._ 448. Gli effetti di questo stato di cose possono
vedersi nelle _Novelle_ e _Introduzioni_ del Bandello, che si
riferiscono a Milano.

[75] Amoretti, _Memorie storiche sulla vita ecc. di Lionardo da Vinci_,
pag. 35 e segg., 83 e segg.

[76] Vedi i di lui sonetti presso Trucchi, _Poesie inedite_.

[77] Prato, nell'_Arch. Stor._, III, p. 298. Cfr. 302.

[78] Nato nel 1466, fidanzato ad Isabella sedicenne nel 1480, successe
nella signoria nel 1484, si sposò nel 1490, morì nel 1519. Isabella
morì nel 1539. I loro figli erano Federigo (1519-1540), innalzato a
duca nel 1530, e il celebre Ferrante Gonzaga. Ciò che segue è tolto
dalla corrispondenza di Isabella, con appendici, _Arch. Stor. Append._,
tom. II, comunicate dal D'Arco.

[79] Franc. Vettori, nell'_Arch. Stor., Append._, t. VI, p. 321. —
Intorno a Federigo in particolare veggasi Vespasiano fiorent. p. 132 e
segg.

[80] Castiglione, _Cortegiano_, L. I.

[81] Ciò che segue, specialmente dagli _Annales Estenses_ presso
Muratori, XX, e dal _Diario ferrarese_, presso Muratori XXIV.

[82] _Diario ferrarese_ l. c, col. 347.

[83] Paul. Jovius: _Vita Alphonsi ducis_ nei _Viri illustres_.

[84] Paul. Iovius, l. c.

[85] Borso edificò tuttavia, tra le altre costruzioni, la Certosa
di Ferrara, la quale può sempre dirsi una delle più belle Certose
dell'Italia d'allora.

[86] In questa occasione è da menzionare anche il viaggio di Leon
X, quand'era cardinale. Cfr. Paul. Iovii _Vita Leonis X_, libr. I.
L'intendimento era meno serio e il viaggio era diretto a procurargli
una distrazione e una conoscenza generale del mondo, proprio nel senso
moderno. Ma nessuno d'oltr'alpe viaggiava allora con tali scopi.

[87] Iovin. Pontan. _De liberalitate_.

[88] Giraldi, _Hecatommithi_, VI, nov. I.

[89] Vasari, XII, 166. _Vita di Michelangelo_.

[90] Un primo esempio se ne ha in Bernabò Visconti, pag. 18.

[91] V. _Capitolo 19_, e nelle _Opere minori_, ed. Le Monnier, volume
I pag. 425, col titolo _Elegia_ 17. Senza dubbio al poeta diciannovenne
la causa di questa morte (v. pag. 62) era ignota.

[92] Negli _Hecatommithi_ del Giraldi trattasi di Ercole I, Alfonso I,
Ercole II nel l. I. _Nov_. 8 e nel VI, _Nov._ 1. 2. 3. 4 e 10, il tutto
essendo ancor vivi i due ultimi. — Anche nel Bandello si hanno molte
narrazioni riguardanti principi suoi contemporanei.

[93] Fra le altre nelle _Deliciae poetar. italor._

[94] Già menzionato ancora nel 1367, parlando di Niccolò il Vecchio,
nel _Polistore_, presso Murat. XXIV. col. 848.

[95] Burigozzo, nell'_Arch. Stor._ III. p. 432.

[96] Discorsi, I, 17.

[97] _De incert. et vanitate scientiar._ cap. 53.

[98] Prato, nell'_Arch. Stor._ III. p. 211.

[99] _De casibus virorum illustrium_. L. II. cap. 15.

[100] _Discorsi_, III, 6. — Cfr. _Storie fiorent._ L. VIII. — La
descrizione delle congiure è un'occupazione prediletta degl'Italiani
sin da tempo antichissimo. Già Luitprando ce ne dà alcune, che per lo
meno sono più circostanziate di quelle di qualunque altro contemporaneo
del secolo X; nel secolo XI la liberazione di Messina dai Saraceni,
operata per mezzo del Normanno Ruggero quivi chiamato (presso Baluz.
_Miscell_. I, p. 184), offre l'occasione ad un racconto abbastanza
caratteristico di questo genere (1060); per tacere anche del colorito
drammatico, che si diede ai racconti del Vespro siciliano. La medesima
tendenza si scorge notoriamente negli storici greci.

[101] Corio, fol. 333. Ciò che segue, ibid. fol. 305, 422 e segg. 440.

[102] Così la citazione del Gallo, presso Sismondi XI, 93. — Il motivo
sopra addotto per l'uccisione nelle chiese viene menzionato ancora
all'epoca dei Merovingi, v. Gregor. Turon. IX, 3.

[103] Corio, fol. 422. — Allegretto, _Diari sanesi_, presso Muratori
XXIII, col. 777. — Vedi sopra pag. 54.

[104] Si vegga nella relazione autentica dell'Olgiati, presso Corio,
un periodo come il seguente: «_quisque nostrum magis socios potissime
et infinitos alios sollicitare, infestare, alter alteri benevolos se
facere coepit. Aliquid aliquibus parum donare; simul magis noctu edere,
vigilare, nostra omnia bona polliceri, etc._».

[105] Vasari, III, 251. Nota alla _vita del Donatello_.

[106] _Inferno_, XXXIV, 64.

[107] Scritti dal testimonio auricolare Luca della Robbia, _Arch.
Stor._ I, p. 273. Cfr. Paul. Iov., _Vita Leonis X_, L. III, nei _Viri
illustres_.

[108] Presso Roscoe, _Vita di Lorenzo de' Medici_, vol. IV, _Appendice_
12. — Cfr. anche la Relazione, _Lettere di Principi_ (edizione Venez.
1577) III. fol. 162 e segg.

[109] Intorno all'ultimo punto veggasi Jac. Nardi, _Vita di Ant.
Giacomini_, pag. 18.

[110] _Genetliacon_, ne' suoi _Carmina_. — Cfr. Sansovino, _Venezia_,
fol. 203. — La più antica cronaca veneziana, presso Pertz, _Monum_.
IX, p. 5, 6, pone l'occupazione delle isole al tempo dei Longobardi, e
quella di Rialto espressamente più tardi.

[111] _De situ venetae urbis_.

[112] Tutta questa parte della città fu modificata poi per le nuove
costruzioni dei primi anni del secolo XVI.

[113] Benedetto: _Charolus VIII_. presso Eccard. _Scriptores_, II, col.
1597, 1601, 1621. — Nel _Chron. venetum_, presso Murat. XXIV, col. 26,
sono enumerate le virtù politiche dei veneziani: _bontà, innocenza,
zelo di carità, pietà, misericordia_.

[114] Molti nobili usavano di portare i capelli corti, v. _Erasmi
Colloq._ ed. Tigur, 1553, pag. 215, _miles et carthusianus_.

[115] _Epistolae_, lib. V, fol. 28.

[116] Malipieri, _Annali veneti_, nell'_Arch. stor._ VII, I, p. 377,
431, 481, 493, 530, II, p. 661, 668, 679. — _Chron. venetum_, presso
Murat. XXIV, col. 57. — _Diario ferrarese_, ibid. col. 240.

[117] Malipiero, nell'_Arch. Stor_. VII, II, p. 691. — Cfr. 694, 713 e
I, 535.

[118] Marin Sanudo, _Vite de' Duchi_, Murat. XXII, col. 1194.

[119] _Chron. venetum_, Murat. XXIV, col. 105.

[120] _Chron. venetum_, Murat. XXIV, col. 123 e segg., e Malipiero
l. c. VII, I, p. 175 e segg. narrano il caso significantissimo
dell'ammiraglio Antonio Grimani.

[121] _Chron. venetum_, l. c. col. 166.

[122] Malipiero, l. c. VII, I, p. 349; altri prospetti di questo genere
in Marin Sanudo, _Vite de' Duchi_, Murat. XXII, col. 990 (dell'anno
1426), col. 1088 (dell'anno 1440), presso Corio, fol. 435-438 (del
1483), presso Guazzo, _Historie_, fol. 151 e segg.

[123] Guicciardini (_Ricordi_, n. 150) forse nota pel primo che il
desiderio della vendetta può in politica soffocare il sentimento del
proprio interesse.

[124] Malipiero, l. c. VII, I, p. 328.

[125] Ancora assai limitatamente abbozzato e tuttavia importantissimo è
un prospetto statistico di Milano, che trovasi nel _Manipulus florum_
(presso Murat. XI, 711 e segg.) dell'anno 1288. Esso enumera le porte
delle case, la popolazione, gli uomini atti alle armi, le logge dei
nobili, le fontane, i forni, le taverne, le botteghe de' macellai,
i pescatori, il consumo del grano, i cani, gli uccelli da caccia,
i prezzi delle legne, del fieno, del vino e del sale, — ed inoltre
i notai, i medici, i maestri di scuola, i copisti, gli armaiuoli, i
maniscalchi, gli spedali di corte, i conventi, le fondazioni pie e le
corporazioni ecclesiastiche. — Un altro, forse più antico, può vedersi
nel _Liber de magnatibus Mediolani_, presso Heinr. de Hervordia, ed.
Potthast. p. 165. — Cfr. anche la statistica di Asti dell'anno 1280,
presso Ogerius Alpherius (Alfieri), _De gestis Astensium, Hist. patr.
Monumenta, Scriptorum_ t. III, col. 684 e segg.

[126] Specialmente Marin Sanudo nelle _Vite de Duchi di Venezia_,
Murat. XXII, passim.

[127] Presso Sanudo, l. c. col 958. Ciò che si riferisce al commercio
è riportato da Scherer, _Allgem. Geschs. des Welthandels_, I, 326, in
nota.

[128] Sotto questa indicazione comprendonsi tutte le case e non quelle
soltanto, che appartengono al governo. Anche queste ultime però
rendevano talvolta moltissimo. Cfr. Vasari XIII, 83, _Vita di Jac.
Sansovino_.

[129] Ciò presso il Sanudo, col. 963. Un computo di Stato del 1490 si
ha alla col. 1245.

[130] Anzi l'avversione parrebbe essersi tramutata nel veneziano Paolo
II in vero odio, talmente che egli chiamava eretici tutti gli umanisti.
Platina, _Vita Pauli_, p. 323.

[131] Sanudo, l. c. col. 1167.

[132] Sansovino, _Venezia_, l. XIII.

[133] Cfr. Heinr. de Hervordia ad a 1293 (pag, 213, ediz. Potthast).

[134] Sanudo l. c. col. 1158, 1171, 1177. Allorquando venne dalla
Bosnia il corpo di S. Luca, vi fu questione coi benedettini di Santa
Giustina di Padova, che credevano di possederlo, e l'autorità papale
dovette decidere. Cfr. Guicciardini (_Ricordi_, n. 401).

[135] Sansovino, _Venezia_, lib. XII.

[136] Villani, VIII, 36. — L'anno 1300 è anche la data fissa per la
Divina Commedia.

[137] Ciò fu già constatato da Vespasiano fiorent. intorno al 1470, v.
pag. 554.

[138] _Purgatorio_, VI, sulla fine.

[139] _De Monarchia_, L. I.

[140] _Dantis Alligherii epistolae, cum notis C. Witte._ Come egli
volesse assolutamente in Italia l'imperatore ed il papa, veggasi la
lettera a pag. 35, durante il conclave di Carpentras del 1314.

[141] Al che la statistica di un anonimo dell'anno 1339, presso il
Baluz. _Miscell._ IV, p. 117 e segg. offre un complemento desiderato.
Anche qui la stessa attività generale: _non est dives aut pauper in ea_
(civitate), _qui de arte certa se nutrire non valeat et suos_.

[142] Giov. Villani, XI, 20. — Cfr. Matteo Villani, IX, 93.

[143] Queste e simili notizie presso Giov. Villani, XI, 87, XII, 54.

[144] Giov. Villani, XI, 91 e segg. — Discostandosi da esso il
Machiavelli, _Stor. fiorent._, lib. II.

[145] Il parroco riponeva una fava nera per ogni bambino, una bianca
per ogni bambina: in ciò consisteva tutto l'artificio statistico.

[146] In Firenze, città fabbricata solidamente, esistevano già regolari
guardiani per gl'incendi. Ibid. XII, 35.

[147] Matteo Villani, III, 103.

[148] Matteo Villani, I, 2-7. Cfr. 58. — Per lo stesso tempo della
peste sta in prima linea la celebre descrizione del Boccaccio sul
principio del _Decamerone_.

[149] Giov. Villani, X, 164.

[150] _Ex annalibus Ceretani_, presso Fabroni, _Magni Cosmi Vita_, ad
not. 34.

[151] _Ricordi di Lorenzo_, presso Fabroni, _Laur. Med. magnifici
Vita_, adnot. 2 e 25. — P. Jovius, _Elog. Cosmus_.

[152] _Di Benedetto Dei_, presso Fabroni, _ibid. adnot._ 200.
L'indicazione del tempo è tolta dal Varchi, III, p. 107. — Il progetto
finanziario di un certo Lodovico Ghetti, con dati importanti, può
vedersi in Roscoe, _Vita di Lor. de' Medici_, vol. II, append. 1.

[153] Per es. nell'_Arch. Stor._, IV.

[154] Libri, _Hist. de sciences mathématiques_, II, 162 e segg.

[155] Varchi, _Storie fiorentine_, III, p. 56 e segg. sulla fine del
lib. IX. Alcuni numeri evidentemente erronei possono benissimo essere
derivati da sviste di copisti o tipografiche.

[156] Sui rapporti dei valori e della ricchezza in Italia in generale
io non posso, in mancanza di altri sussidi, dar qui che alcuni dati
sconnessi, quali li ho trovati a caso. Le evidenti esagerazioni si
lasciano da parte. Le monete d'oro, di cui parlano maggiormente i
documenti, sono: il ducato, lo zecchino, il fiorino d'oro, e lo scudo
d'oro. Il loro valore approssimativamente è lo stesso, da undici a
dodici franchi della nostra moneta.

In Venezia, per esempio, il doge Andrea Vendramin (1476) con 170,000
ducati passava per molto ricco (Malipiero, l. c., VII, II, p. 666).

Intorno al 1460 il patriarca d'Aquileia, Lodovico Patavino, con 200,000
ducati è riguardato come il più ricco fra gl'italiani (Gasp. veronens.
_Vita Pauli JI_, presso Murat., III, II, col. 1027). Altrove si hanno
dati favolosi.

Antonio Grimani (v. pag. 91-92) pagò 30,000 ducati l'esaltazione di
suo figlio Domenico al cardinalato. In solo danaro contante gli si
attribuiscono 100,000 ducati (_Chron. venetum,_ Muratori, XXIV, col.
125).

Intorno al grano in commercio e sul mercato di Venezia veggasi
specialmente Malipiero, l. c., VII, II, pag. 709 e segg., (Notizia del
1498).

Nel 1522 non più Venezia, ma Genova e Roma sono le città che passano
per le più ricche d'Italia. (Cosa appena credibile, perchè attestata
da un Franc. Vettori: veggasi la di lui _Storia_, nell'_Arch. Stor._,
append. T. VI, p. 343). Bandello, parte II, nov. 34 e 42, fa menzione
del più ricco mercante genovese del suo tempo, Ansaldo Grimaldi.

Tra il 1400 e il 1580 Francesco Sansovino calcola che il valore del
danaro sia disceso alla metà (Venezia, fol. 151 bis).

In Lombardia si crede che il rapporto dei prezzi dei grani alla
metà del secolo XV con quelli del nostro secolo fossero come di 3
ad 8 (_Sacco di Piacenza_, nell'_Arch. Stor._, append., tom. V; nota
dell'editore Scarabelli).

In Ferrara, al tempo del duca Borso, vi erano ricchi che possedevano da
50 a 60,000 ducati. (_Diario ferrarese_, Murat., XXIV, col. 207, 214,
218. Si ha poi un dato favoloso alla col. 187).

Per Firenze si hanno dati affatto eccezionali, che non conducono se non
a conclusioni approssimative. Di questo genere sono quei prestiti, che
figurano fatti da una sola o da poche case, ma che in fatto procedevano
da grandi compagnie, e tali sono altresì quelle enormi contribuzioni
imposte ai partiti che soggiacevano, come, per esempio, quelle che
dall'anno 1430 al 1453 furono pagate da settantasette famiglie per
l'ammontare di 4,875,000 fiorini d'oro (Varchi, III. p. 115 e segg.).

L'intero avere di Giovanni de' Medici ammontava, alla di lui morte
(1428), a 179,221 fiorini d'oro, ma de' suoi due figli Cosimo e Lorenzo
l'ultimo ne lasciò egli solo, alla propria morte (1440), ben 235,137
(Fabroni, _Laur. Medic._, adnot. 2).

Dell'alta cifra, a cui salirono in generale i guadagni, fa
testimonianza, per esempio, il fatto che ancor nel secolo XIV le
quarantaquattro botteghe di orefici che erano sul Ponte Vecchio,
rendevano allo Stato 800 fiorini d'oro (Vasari, II, 114. _Vita di
Taddeo Gaddi_). — Il Diario di Buonaccorso Pitti (presso Delecluze,
_Florence et ses vicissitudes_, vol. II) è pieno di dati, i quali però
non provano se non in generale gli alti prezzi di tutte le cose e il
meschino valore del danaro.

Per Roma naturalmente le rendite della Curia, che affluivano da
tutta Europa, non sono un dato attendibile, e non si può fidarsi
affatto nemmen di quelli che parlano dei tesori papali e degli averi
dei cardinali. Il noto banchiere Agostino Chigi lasciò nel 1520
una sostanza complessiva del valore di 800,000 ducati (_Lettere
pittoriche_, I, append. 48).

[157] Per ciò che riguarda Cosimo (1433-1465) e suo nipote Lorenzo il
Magnifico (morto nel 1492), l'autore si astiene da ogni giudizio sulla
loro politica interna. Veggasi un'accusa molto autorevole (di Gino
Capponi) nell'_Arch. Stor_., I, p. 315 e segg. — Le lodi tributate
a Lorenzo da Roscoe sembrano essere state quelle che principalmente
provocarono una reazione (Sismondi, _Histoire des républiques
italiennes_, fra molti altri).

[158] Francesco Burlamacchi, il padre del capo dei protestanti
lucchesi, Michele Burlamacchi. Cfr. _Arch. Stor_., Append. tom. II, p.
176. — Come Milano colla sua durezza verso le città sorelle dal secolo
XI al XIII facilitò la formazione di un grande Stato dispotico, è noto
universalmente. Anche allo spegnersi della dinastia de' Visconti nel
1447, Milano nocque alla libertà dell'Italia superiore col rifiutare
ricisamente una federazione di città con parità di diritti. Cfr. Corio,
fol. 358 e segg.

[159] Nella terza domenica dell'Avvento del 1494 il Savonarola predicò
sul modo di attuare una costituzione come segue: _le sedici compagnie
della città dovrebbero preparare un progetto, i gonfalonieri scegliere
i quattro migliori, e da questi la Signoria l'ottimo!_ — Ma le cose poi
andarono diversamente, e precisamente per l'influenza stessa del Frate.

[160] Quest'ultima denominazione per la prima volta nel 1527, dopo la
cacciata de' Medici. Veggasi il Varchi, I, 121 ecc.

[161] Machiavelli, _Storie fiorent_., lib. III. «_Un savio dator delle
leggi_» poteva salvar Firenze.

[162] Varchi, _Storie fiorent_., I, p. 210.

[163] _Discorso sopra il riformar lo Stato di Firenze_, nelle _Opere
minori_, p. 207.

[164] La stessa opinione, senza dubbio tolta di qui, incontrasi in
Montesquieu.

[165] Per un tempo un po' posteriore (1522?) si confronti il
giudizio spaventevolmente sincero di Guicciardini sulla condizione
e sull'inevitabile organizzazione del partito mediceo, _Lettere di
Principi_, III, fol. 124 (ediz. Venez. 1577).

[166] _Aen. Sylvii Apologia ad Martinum Mayer_, p. 701. — In modo
simile Machiavelli, Discorsi, I, 55 e l. c.

[167] Quanto una mezza cultura e una forza d'istruzione affatto moderna
ponno influire sulla politica, appare dai parteggiamenti del 1535.
V. Della Valle, _Lettere Sanesi_, III, p. 317. — Un certo numero di
merciai, esaltati dalla lettura di Livio e dai Discorsi di Machiavelli,
pretendono sul serio i tribuni del popolo ed altre magistrature romane
contro il mal governo dei nobili e della burocrazia.

[168] Pierio Valeriano, _De infelicit. literator_., parlando di
Bartolommeo Della Rovere.

[169] Senarega, _De reb. genuens_., presso Murat. XXIV, col. 548.
Sulla poca sicurezza v. specialmente alle col. 519, 525, 528, ecc. V.
il discorso molto esplicito dell'inviato all'occasione della cessione
dello Stato a Francesco Sforza, presso Cagnola, _Archivio Stor._ III,
p. 165 e segg. La figura dell'arcivescovo, doge, corsaro e (più tardi)
cardinale Paolo Fregoso si distacca notevolmente dal quadro generale
delle condizioni italiane.

[170] Baluz. _Miscell_., ediz. Mansi, t. IV, p. 81 e segg.

[171] Così, benchè tardi oggimai, il Varchi, _Stor. fiorent._ I, 57.

[172] Galeazzo Maria Sforza nel 1467 dice veramente all'inviato di
Venezia il contrario, ma questa non è che una vanitosa millanteria.
Cfr. Malipiero, _Annali veneti, Arch. stor_. VII, 1, p. 216 e segg.
In ogni occasione città e villaggi si danno spontaneamente a Venezia,
benchè sieno tali, che per lo più escono dalle mani di qualche tiranno,
mentre Firenze è costretta a tener soggette colla forza le vicine
repubbliche avvezze alla libertà, come osserva Guicciardini (_Ricordi_,
n. 29).

[173] In modo affatto speciale in una _Istruzione_ dell'anno 1452 agli
inviati spediti a Carlo VII, presso Fabroni, _Cosmus adnot_. 107.

[174] Comines, _Charles VIII, chap. 10:_ si riguardavano i francesi
come _Santi_. — Cfr. chap. 17. — _Chron. venetum_, presso Murat. XXIV,
col. 5, 10, 14, 15. — Matarazzo, _Cron. di Perugia, Arch. stor_. XVI,
II, p. 23; per non dire di altre numerose testimonianze.

[175] Pii II _Commentarii_, X, p. 492.

[176] Gingins, _Dépêches des ambassadeurs milanais_ etc. I, p. 26, 153,
279, 283, 285, 327, 331, 345, 359, II, p. 29, 37, 101, 217, 306. Carlo
si espresse una volta di dare Milano al giovane duca di Orléans.

[177] Niccolò Valori, _Vita di Lorenzo_.

[178] Fabroni, _Laurentius magnificus, adnot_. 205 e segg. Perfino
in uno de' suoi Brevi era detto letteralmente: _flectere si nequeam
Superos, Acheronta movebo_, ma è sperabile che non intendesse alludere
ai Turchi (Villari, _Storia di Savonarola_, II, p. 48 dei Documenti).

[179] Per es. Giov. Pontano nel suo _Caronte_. Sulla fine egli aspetta
uno Stato unitario.

[180] Comines, _Charles, VIII, chap. 7_. — Come Alfonso cercasse in
guerra di prendere il suo avversario mediante un abboccamento, ci è
narrato da Nantiporto, presso Murat. III, II, col. 1073. — Egli è il
vero predecessore di Cesare Borgia.

[181] Pii II _Commentarii_, X, p. 492. — V. una fiorita lettera
di Malatesta, nella quale egli raccomanda a Maometto II un pittore
ritrattista, Matteo Passo di Verona, e gli annuncia l'invio di un
libro sull'arte della guerra, probabilmente dell'anno 1463, presso
Baluz. _Miscell_. III, 113. — Ciò che Galeazzo Maria di Milano disse
nel 1467 ad un incaricato di Venezia, non fu che per millanteria.
Cfr. Malipiero, _Ann. veneti. Arch. stor._ VII, I, 222. — Intorno a
Boccalino vedi sopra a pag. 35.

[182] Porzio, _Congiura de' Baroni_, l. I, p. 4. Che Lorenzo vi abbia
avuto una mano è appena credibile.

[183] _Chron. venetum_, presso Murat. XXIV, col. 14 e 76.

[184] Malipiero, l. c. p. 565, 568.

[185] Trithem, _Annales Hirsaug. ad an_. 1490, tom. II, p. 535 e segg.

[186] Malipiero, l. c. p. 161. Cfr. p. 152. — Sulla consegna di Zizim
a Carlo VIII veggasi a p. 145, dove appare chiaramente che esisteva una
corrispondenza delle più vergognose tra Alessandro e Bajazet, anche se
dovessero essere soppressi i documenti riportati da Burcardo.

[187] Bapt. Mantuanus, _De calamitatibus temporum_, sulla fine del
secondo libro, nel canto della Nereide Dori alla flotta turca.

[188] Tommaso Gar, _Relazioni della Corte di Roma_, I, p. 55.

[189] Ranke, _Geschichten der romanischen und germanirchen Völker_. —
L'opinione del Michelet (_Réforme_, p. 467), che i Turchi avrebbero
finito per fondersi con gli occidentali, non mi persuade affatto. —
Forse per la prima volta la missione riserbata alla Spagna trovasi
indicata nel discorso solenne, che Fedra Inghirami nel 1510 tenne alla
presenza di Giulio II, per festeggiare la presa di Bugia operata dalla
flotta di Ferdinando il cattolico. Cfr. _Anecdota litteraria_, II, p.
149.

[190] Fra gli altri il Corio, fol. 333. Cfr. il contegno tenuto con lo
Sforza, fol. 329.

[191] Nic. Valori. _Vita di Lorenzo_. — Paul. Jovius, _Vita Leonis X_,
L. I: quest'ultimo certamente dietro fonti autorevoli, benchè non senza
rettorica.

[192] Se il Comines in questa e in mille altre occasioni osserva e
giudica non meno oggettivamente di qualsiasi italiano, bisogna anche
tener conto dei rapporti ch'egli ebbe con gli Italiani, specialmente
con Angelo Catto.

[193] Cfr. per es. Malipiero, l. c. p. 216, 221, 236, 237, 478 ec.

[194] Presso Villari, _la Storia di G. Savonarola_, vol. II, p. XLIII
dei _Documenti_, tra i quali trovansi anche altre importanti lettere
politiche. — Altri documenti della fine del secolo XV specialmente
presso il Baluzio, _Miscellanea_, ed. Mansi, vol. I.

[195] Pii II _Commentarii_, L. IV, p. 190 ad a. 1459.

[196] Paul. Jovius, _Elogia_. Ciò fa ricordare Federigo di Urbino,
_che si sarebbe vergognato_ di tollerare nella sua biblioteca un libro
stampato. Cfr. Vespas. fiorent.

[197] Porcellii _Commentaria Jac. Piccinini_ presso Murat. XX. Una
continuazione per la guerra del 1453 ibid. XXV.

[198] Per isbaglio il Porcellio dice Scipione Emiliano, mentre intende
il vecchio Africano.

[199] Simonetta, _Hist. Franc. Sfortiae_, presso Murat. XXI, c. 630.

[200] Egli viene trattato anche come tale. Cfr. Bandello, _parte I_,
nov. 40.

[201] Cfr. per es. _De obsidione Tiphernatium_ nel 2.º volume dei
_Rer. ital. scriptores ex codd. florent._, col. 690. Avvenimento molto
caratteristico dell'anno 1474. — Il duello del maresciallo Boucicault
con Galeazzo Gonzaga 1406, presso Cagnola, Arch. Stor. III, p. 25.
— Come Sisto IV onorasse i duelli delle sue guardie, è raccontato
dall'Infessura. I suoi successori emanarono Bolle contro il duello in
generale. _Sept. Decretal._ V, tit. 17.

[202] I particolari nell'_Arch. Stor. Append. T. V._, ed in una lettera
presso Baluz. Miscell. III, p. 158, nella quale le truppe dello Sforza
sono rappresentate come una delle più terribili orde di mercenari, che
sieno mai state.

[203] Una volta per sempre rimandiamo qui alla _Storia dei Papi_ di
Ranke (v. I), e a quella di Sugenheim _Sull'origine e lo sviluppo dello
Stato della Chiesa_.

[204] Sull'impressione delle benedizioni di Eugenio IV in Firenze
veggasi Vespas. fiorent. 18. — Sulla maestà delle funzioni
ecclesiastiche di Niccolò V, v. Infessura (Eccard. II, col. 1883 e
segg.) e J. Manetti _Vita Nicolai V_ (Murat. III, II, col. 923). —
Sugli omaggi resi a Pio II, v. _Diario ferrarese_ (Murat XXI. col.
205), e Pii _Comment_. passim, specialmente IV, 201, 204, XI, 562.
Anche assassini di professione non osano attentare alla vita del Papa.
— Le grandi funzioni in chiesa furono trattate come cosa di molta
importanza dal vanitoso Paolo II (Platina, l. c. 321) e da Sisto IV,
che, ad onta della podagra, celebrò seduto la Messa pasquale (Jac.
Volaterranus, _Diarium_, Murat. XXIII, col. 131). In modo abbastanza
notevole il popolo fa distinzione tra la forza magica della benedizione
e l'indegnità di chi benedice: quando il Papa nel 1481 non volle dar
la benedizione nel dì dell'Ascensione, non gli mancarono maledizioni e
imprecazioni (Ibid. col. 133).

[205] Machiavelli, _Scritti minori_, pag. 142, nel noto Discorso
sulla catastrofe di Sinigaglia. — Vero è però che gli spagnuoli e i
francesi si mostravano assai più zelanti dei soldati italiani. — Cfr.
presso Paul. Jov., _Vita Leonis X_ (L. II) la scena che precedette la
battaglia di Ravenna, nella quale l'armata spagnuola, allo scopo di
ottenere l'assoluzione, fece ressa intorno al Legato del Papa, che ne
pianse di gioia. Veggasi inoltre (presso lo stesso) ciò che fecero i
Francesi a Milano.

[206] Invece quegli eretici della Campagna, propriamente di Poli, i
quali credevano che un Papa dovesse innanzi tutto avere a distintivo
la povertà di Cristo, potrebbero tutt'al più sospettarsi infetti
di dottrine simili a quelle dei Valdesi. Il modo, con cui vennero
imprigionati sotto Paolo II, è narrato dall'Infessura (Eccard. II, col.
1893) e dal Platina, pag. 317 ec.

[207] L. B. Alberti: _De Porcaria conjuratione_, presso Murat. XXV,
col. 309 e segg. — Il Porcari voleva: _omnem pontificiam turbam
funditus extinguere_. L'autore conclude: _video sane, quo stent loco
res Italiae; intelligo, qui sint, quibus hic perturbata esse omnia
conducat_.... Egli li chiama _extrinsecos impulsores_, e crede che il
Porcari avrebbe trovato più tardi degli imitatori. Infatti anche le
idee del Porcari avevano una certa somiglianza con quelle di Cola di
Rienzo.

[208] _Ut Papa tantutm vicarius Christi sit et non etiam Caesaris....
Tunc Papa et dicetur et erit pater sanctus, pater omnium, pater
ecclesiae_ etc.

[209] Pii II, _Commentarii_, IV, pag. 208 e segg.

[210] Platina, _Vitae Paparum_, p. 318.

[211] Battista Mantovano, _De calamitatibus temporum_, L. III. L'arabo
vende l'incenso, il fenicio la porpora, l'indiano l'avorio: _venalia
nobis templa, sacerdotes, altaria, sacra, coronae, ignes, thura,
preces, coelum est venale, Deusque_.

[212] Si veggano, per es., gli _Annales Placentini_, presso Murat. XX,
col. 943.

[213] Corio, _Storia di Milano_, fol. 416-420. Pietro aveva già
aiutato a far cadere la elezione su Sisto V. Infessura, presso
Eccard, _Scriptores_, II, col. 1895. È notevole che nel 1469 era stato
profetizzato, che dentro tre anni da Savona (patria di Sisto, eletto
nel 1471) sarebbe venuta la salute. V. la lettera colla sua data
presso Baluz. _Miscell_. III, p. 181. — Secondo il Machiavelli. _Stor.
fiorent_. L. VII i Veneziani avrebbero avvelenato il cardinale. Certo è
che i motivi non sarebbero loro mancati.

[214] Ancora Onorio II voleva, dopo la morte di Guglielmo I (1127),
incorporare l'Apulia _come feudo devoluto a S. Pietro_.

[215] Fabroni, _Laurentius magnif. adnot._ 130. Un referendario
scriveva di ambedue:_ hanno in ogni elezione a mettere a sacco questa
corte, e sono i maggiori ribaldi del mondo_.

[216] Corio, fol. 450.

[217] Un monitorio molto caratteristico veggasi in Fabroni, _Laurentius
magnif. adnot._ 217, e in estratto presso Ranke, _Die römischen
Päpste_, I, p. 45.

[218] E fors'anche feudi napoletani, per cui Innocenzo chiamò
nuovamente gli Angioini contro il re Ferrante, che a questo riguardo
faceva il sordo. Il contegno del Papa in questo negozio, e la sua
partecipazione alla seconda congiura dei Baroni rivelano inettitudine
e disonestà ad un tempo. Del suo modo brutale di trattar colle potenze
estere veggasi a pag. 125.

[219] Cfr. specialmente l'Infessura, presso Eccard, _Scriptores_, II,
passim.

[220] Ad eccezione dei Bentivoglio di Bologna e della casa Estense di
Ferrara. Quest'ultima fu costretta ad imparentarsi: Lucrezia Borgia fu
data in moglie al principe Alfonso.

[221] Secondo il Corio (fol. 479), Carlo pensava ad un Concilio, alla
deposizione del Papa e perfino alla sua deportazione in Francia, e
precisamente all'epoca del suo ritorno da Napoli. Secondo Benedetto
(_Charolus VIII_, presso Eccard _script_. II, col. 1584), Carlo,
offeso che il Papa e i cardinali non avessero voluto riconoscerlo nel
nuovo suo regno, avrebbe concepito ancora a Napoli l'idea _de Italiae
imperio deque pontificis statu mutando_, ma subito dopo l'avrebbe
abbandonata, accontentandosi di umiliare personalmente Alessandro. Il
Papa però si sottrasse a tempo. — I particolari da questo tempo in
avanti presso Pilorgerie, _Campagne et bulletins de la grande armée
d'Italie 1494-1495_ (Paris, 1866 8.º), dove si discorre della gravità
del pericolo, in cui si trovò più volte Alessandro (p. III, 117 ecc.).
Perfino nel suo ritorno (p. 281 e segg.) Carlo non pensava a fargli
alcun male.

[222] Corio, fol. 550. — Malipiero, _Ann. veneti, Arch. stor._ VII,
I, p. 318. — Da quale spirito di rapacità fosse dominata la famiglia
intera scorgesi, fra molti altri, dal Malipiero, l. c. p. 585. Un
nipote viene accolto splendidamente a Venezia in qualità di legato
pontificio e vi fa gran bottino di danaro vendendo dispense: le persone
addette al suo servizio rubano, partendo, tutto ciò su cui possono
mettere le mani, anche un arazzo tessuto in oro dell'altare maggiore di
una chiesa di Murano.

[223] Ciò presso il Panvinio (_Contin. Platinae_, p. 359): _insidiis
Caesaris fratris interfectus.... connivente.... ad scelus patre_.
Testimonianza certo autentica, contro la quale hanno poco peso le
asserzioni del Malipiero e del Matarazzo, che ne danno la colpa
a Giovanni Sforza. — Anche la commozione profonda di Alessandro
accennerebbe ad una complicità. Quando il cadavere fu estratto dal
Tevere, il Sannazzaro scrisse:

    Piscatorem hominum ne te non, Sexte, putemus,
      Piscaris natum retibus, ecce, tuum.

[224] Machiavelli, _Opere_, ediz. Milan. vol. V, p. 387, 393, 395,
nella _Legazione al duca Valentino_.

[225] Tommaso Gar, _Relazioni della Corte di Roma_, I, p. 12 nella
_Relaz_. di P. Capello. Letteralmente è detto: _il Papa rispetta
Venezia quanto nessun altro potentato del mondo, e però desidera che
ella_ (la signoria di Venezia) _protegga il figliuolo e dice voler fare
tale ordine, che il Papato o sia suo, ovvero della Signoria nostra_. La
parola suo non può riferirsi che a Cesare. Del resto delle incertezze
cagionate dall'uso del pronome possessivo si ha un saggio nella
questione oggidì ancor viva rispetto alle parole usate dal Vasari nella
_Vita di Raffaello_: «_a Bindo Altoviti fece il ritratto suo_» ecc.

[226] _Strottii poetae_, p. 19, nel poema sulla _Caccia_ di Ercole
Strozza, _cui triplicem fata invidere coronam._ Poi anche nell'_Elegia_
per la morte di Cesare, p. 31 e segg.: _speraretque olim solii decora
alta paterni_.

[227] Ibid. Giove una volta avrebbe promesso: _affore Alexandri
sobolem, quae poneret olim Italiae leges, atque aurea saecla referret_,
ecc.

[228] Ibid: _sacrumque decus majora parantem deposuisse_.

[229] Come è noto, egli era congiunto in matrimonio con una principessa
francese della casa di Albret, e n'ebbe una figlia: ma in qualche
modo avrebbe pur cercato di fondare una dinastia. Non si sa s'egli
abbia fatto passi per riprendere il cappello cardinalizio, quantunque
(secondo il Machiavelli, l. c. 285) dovesse calcolare sopra una
prossima morte del padre.

[230] Machiavelli, l. c. p. 334. Dei disegni su Siena, ed eventualmente
su tutta la Toscana, esistevano, ma non erano ancora maturi: inoltre
non si poteva prescindere dall'assenso della Francia.

[231] Machiavelli, l. c. p. 326, 351, 314. — Matarazzo, _Cronaca di
Perugia, Arch. stor. XVII_. II, p. 137 e 221: _egli voleva che i suoi
soldati si acquartierassero a loro piacere, per guisa che in tempo di
pace guadagnavano più ancora, che in tempo di guerra_.

[232] Così Pierio Valeriano, _De infelicitate literator_., parlando di
Giovanni Regio.

[233] Tommaso Gar, l. c. p. 11.

[234] Paulus Jovius, _Elogia, Caesar Borgia_. — Nei _Commentarii
urbani_ di Raffaello da Volterra il libro XXII contiene una
caratteristica di Alessandro scritta al tempo di Giulio II, e tuttavia
molto circospetta. Fra le altre cose vi si dice: _Roma.... nobilis jam
carnificina facta erat_.

[235] _Diario ferrarese_, presso Murat. XXIV, col. 362.

[236] Paul. Jovius, _Historiar_. II, fol. 47.

[237] Panvinius, _Epitome pontificum_, p. 359. Il tentativo
d'avvelenamento contro il posteriore Giulio II veggasi a p. 313. —
Secondo Sismondi (XIII, 246) morì nella stessa maniera anche Lopez,
cardinale di Capua, stato già lunghi anni il confidente di tutti i
segreti: secondo Sanuto (presso Ranke, _Röm. Päpste_, I, p. 52, nota)
anche il cardinale di Verona.

[238] Prato, _Arch. stor. III_. p. 254 — Cfr. Attilio Alessio, presso
il Baluz. _Miscell_. IV, p. 518 e segg.

[239] Ed anche assai sfruttato dal Papa. — Cfr. _Chron. venetum_,
presso Murat. XXIV, col. 133.

[240] Anshelm, _Berner Chronik_, III, pag. 146-156. — Trithem. _Annales
Hirsaug_. II, 579, 584, 586.

[241] Panvin., _Cont. Platina_e, p. 341.

[242] Da ciò la pompa dei monumenti sepolcrali posti ai prelati ancor
vivi, per togliere ai Papi almeno una parte del bottino.

[243] In onta all'asserzione del Giovio (_Vita Alphonsi ducis_), resta
sempre incerto, se Giulio realmente abbia sperato di potere indurre
Ferdinando il Cattolico a riporre sul trono di Napoli la dinastia
aragonese, che n'era stata cacciata.

[244] Ambedue le poesie, per es., presso il Roscoe, _Leone X_ ed.
Bossi, IV, 257 e 297. — Ma è anche vero che, quando Giulio nel luglio
del 1511 fu preso da un deliquio di molte ore e fu creduto morto, le
menti più esaltate tra le più illustri famiglie — Pompeo Colonna ed
Antonio Savelli — s'affrettarono tosto a chiamare al Campidoglio il
popolo e ad esortarlo a torsi dal collo il giogo della tirannia papale,
_a vendicarsi in libertà.... a pubblica ribellione_, come narra il
Guicciardini nel L. X.

[245] _Septimo decretal_. l. I, t. 3, cap. 1-3.

[246] Franc. Vettori, nell'_Arch. stor_. VI, 297.

[247] Oltre a ciò si vuole (secondo Paul. Lang. _Chronicon Citicense_)
che abbia fruttato non meno di 500,000 fiorini d'oro: l'ordine de'
Francescani soltanto, il cui generale diventò cardinale esso pure, ne
pagò 30,000.

[248] Franc. Vettori, l. c. p. 301.-_-Arch. stor. Appen. I_, p. 293 e
segg. — Roscoe, _Leone X_, ed. Bossi, VI, p. 232 e segg. — Tommaso Gar,
l. c. p. 42.

[249] Ariosto, _Satire_, VI, vs. 106:

    Tutti morrete ed è fatal che muoja
    Leone appresso. . . . . . . . . . .

[250] Una combinazione di questa specie può vedersi in un _Dispaccio_
del card. Bibiena datato da Parigi, 1518, nelle _Lettere de' principi_
I, 56.

[251] Franc. Vettori, l. c. p. 333.

[252] Presso Roscoe, _Leone X_, ed. Bessi, VIII. p. 105 e segg. trovasi
una declamazione spedita nel 1517 da Pico al Pirkheimer. Egli teme che
ancor sotto Leone il male prevalga sul bene, _et in te bellum a nostrae
religionis hostibus ante audias geri, quam parari_.

[253] _Lettere de' principi_, I, Roma, 17 marzo 1523: _questo Stato
sta per molte cagioni sulla punta di un ago, e Dio voglia che noi non
dobbiamo fuggir presto ad Avignone e agli ultimi confini dell'oceano.
Io veggo prossima dinanzi a me la caduta di questa spirituale
monarchia.... Se Dio non ci ajuta, noi siamo spacciati_. — Se Adriano
sia stato avvelenato o no, non si può ricavar con certezza da Blas
Ortiz, _Itinerar. Hadriani_ (Baluz, _Miscell. ed. Mansi_, I, p. 386
e segg.); tutto il male sta in questo che l'opinione pubblica lo
supponeva.

[254] Negro, l. c. in data 24 settembre e 9 novembre 1526, 11 aprile
1527.

[255] Varchi, _Stor. fiorent._ I, 43, 46 e segg.

[256] Paul. Jovius: _Vita Pomp. Columnae_.

[257] Ranke: _Deutsche Geschichte_, II, 375 e segg.

[258] Varchi, _Storie fiorent_. II, 43 e segg.

[259] Ibid., e Ranke, _Deutsche Geschichte_ II, p. 394, nota. Si
credeva che Carlo volesse trasportare la sua residenza a Roma.

[260] V. la sua lettera al Papa, in data di Carpentras, 1.º settembre
1527, negli _Anecd. litterar._ IV, pag. 335.

[261] _Lettere de' principi_, I, 72. Il Castiglione al Papa, Burgos 10
dicembre 1527.

[262] Tommaso Gar, _Relaz. della Corte di Roma_, I, 1527.

[263] I Farnesi poterono tentare ancora qualche cosa di simile, ma i
Caraffa non vi riuscirono.

[264] Petrarca, _Epist. fam._ I, 3, p. 574, dove egli ringrazia Iddio
di esser italiano. Inoltre l'_Apologia contra cujusdam anonymi Galli
calumnias_, dell'anno 1367, pag. 1068 e segg.

[265] Io intendo specialmente gli scritti di Wimpheling, Bebel ed
altri nel I vol. degli _Scriptores_ dello Scardio; ai quali sono
da aggiungere per un tempo un po' anteriore un Felice Fabri (_Hist.
Svevorum_), e per un tempo un po' posteriore un Francesco (_Germaniae
exegesis_, 1518).

[266] Un esempio per molti: la risposta del Doge di Venezia ad un
inviato fiorentino spedito per trattare degli affari di Pisa nel 1496,
presso il Malipiero, _Ann. veneti, Arch. stor_. VII, I, p. 427.

[267] Si notino le espressioni _uomo singolare, uomo unico_ per
esprimere i due maggiori gradi dello sviluppo individuale.

[268] In Firenze intorno al 1390 non vi era più nessuna moda prevalente
nei vestiti per uomo, perchè ognuno amava di vestirsi a modo proprio.
Cfr. la canzone di Franco Sacchetti: _contro alle nuove foggie_, nelle
_Rime pubbl. dal Poggiali_, p. 52.

[269] Sulla fine del secolo XVI Montaigne, fra molte altre
osservazioni, fa il seguente confronto: «_ils (les Italiens) ont plus
communement des belles femmes, et moins des laides que nous; mais
des rares et excellentes beautéz j'estime que nous allons à pair. Et
(je) en juge autant des esprits: de ceux de la commune façon ils en
ont beaucoup plus et evidemment: la brutalité y est sans comparaison
plus rare: d'âmes singulières et du plus hault estage, nous ne leur
en debvons rien_». (_Essais_, L. III, chap. 5, vol. III, p. 367
dell'edizione di Parigi del 1816).

[270] Ma essi non mancano di mettere in mostra anche quella delle
loro donne, come può notarsi rispetto agli Sforza e ad altre famiglie
regnanti dell'Italia settentrionale. Si confrontino nelle _Clarae
mulieres_ di Jacopo Bergomense le biografie di Giovanna Malatesta,
Paola Gonzaga, Orsina Torella, Bona Lombarda, Riccarda d'Este, e
delle più importanti donne della famiglia Sforza. Fra esse c'è più
d'una _virago_, cui non manca nemmeno l'ultimo perfezionamento della
individualità, una elevata cultura umanistica.

[271] Franco Sacchetti nel suo _Capitolo_ (_Rime pubb. dal Poggiali)_
pag. 56, enumera intorno al 1390 più di cento nomi di uomini
ragguardevoli dei partiti dominanti, che erano morti a sua memoria. Per
quante mediocrità possano esservi state fra essi, tuttavia l'insieme
è una testimonianza assai autorevole per comprovare il risveglio
dell'individualità. — Quanto alle «Vite» di Filippo Villani veggasi più
innanzi.

[272] _Trattato del governo della famiglia._ È stata messa innanzi
una nuova ipotesi, secondo la quale questo scritto sarebbe opera
dell'architetto Leon Battista Alberti. Cfr. Vasari, IV, 54, nota 5, ed.
Lemonnier. — Sul Pandolfini cfr. Vespas. fiorent. p. 379.

[273] _Trattato_, p. 65 e seg.

[274] Jov. Pontanus, _De fortitudine_, L. II. Sessant'anni più tardi
Cardano (_De vita propria_, cap. 32) poteva chiedere amaramente: _quid
est patria, nisi consensus tyrannorum minutorum ad opprimendos imbelles
timidos, et qui plerumque sunt innoxii?_

[275] _De vulgari eloquio_, L. I, cap. 6. — Sulla lingua italiana
ideale, _cap. 17_. — Sulla unità spirituale dei dotti, cap. 18. — Ma
anche il grido dell'esule nel celebre passo del _Purg. VIII_, 1 e segg.
e _Parad. XXV_, 1.

[276] _Dantis Alligherii Epistolae_, ed. Carolus Witte, p. 65.

[277] Ghiberti, _Secondo commentario_, Cap. XV. (Vasari, ed. Lemonnier,
I, p. XXIX).

[278] _Codri Urcei vita_, in principio delle sue opere. — Veramente
ciò confina col detto: _ubi bene, ibi patria_. — Le compiacenze
morali, indipendenti da ogni località e privilegio comune a tutti
gli Italiani più colti, alleviavano loro i dolori dell'esiglio. Del
resto il cosmopolitismo è un segno dell'epoca, nella quale si scoprono
nuovi mondi e si anela ad uscire dal vecchio. Accadde altrettanto in
Grecia dopo la guerra peloponnesiaca. Platone, a detta di Niebuhr, non
era un buon cittadino, e Senofonte ancor meno: Diogene si compiaceva
addirittura del suo cosmopolitismo e si diceva egli stesso ἄπολις, come
si legge in Laerzio.

[279] Boccaccio, _Vita di Dante_, p. 16.

[280] Gli angeli, che egli nel giorno anniversario della morte di
Beatrice disegnò sopra una tavoletta (_Vita nuova_, p. 61), potrebbero
essere stati qualche cosa di più che un semplice lavoro da dilettante.
Leonardo Aretino dice, che egli disegnava _egregiamente_ e che amava
grandemente la musica.

[281] Per queste notizie e le seguenti veggasi specialmente Vespasiano
fiorentino, fonte importantissima per la storia della cultura
fiorentina nel secolo XV. Cfr. p. 359, 379, 401 ecc. — Poi la bella e
istruttiva _Vita Jannottii Manetti_ (nato nel 1396) presso Murat. XX.

[282] Ciò che segue è tolto in via di esempio dalla caratteristica
di Pandolfo Collenuccio del Perticari, presso Roscoe, _Leone X_, ed.
Bossi, III, p. 197 e segg. e nelle _Opere_ del conte Perticari, Milano,
1823, v. II.

[283] Presso Muratori XXV, col. 295 e segg., e come complemento a ciò
Vasari, IV, 52 e seg. — Universale dilettante almeno, e al tempo stesso
maestro in molte specialità fu, per esempio, Mariano Socini, se si
presta fede alla caratteristica che ne dà Enea Silvio (_Opera_, p. 622,
Epist. 112).

[284] Cfr. Ibn Firnas. presso Hammer, _Literaturgesch. der Araber_, I,
_Introduz_. p. 51.

[285] _Quicquid ingenio esset hominum cum quadam effectuum elegantia,
id prope divinum ducebat._

[286] Quest'opera perduta è quella che dai moderni è ritenuta
sostanzialmente identica col Trattato del Pandolfini (v. sopra, p. 181
nota).

[287] Nella sua opera _De re aedificatoria_, L. VIII, cap. 1, si trova
una definizione di ciò che potrebbe dirsi una bella via: _si modo
mare, modo montes, modo lacum fluentem fontesve, modo aridam rupem aut
planitiem, modo nemus vallemque exhibebit_.

[288] Un autore per molti, Flavio Biondo, _Roma triumphans_, L. V, p.
117 e seg., dove sono raccolte le definizioni della gloria date dagli
antichi e dove si concede anche al cristiano di aspirarvi. — Lo scritto
di Cicerone _De gloria_, che il Petrarca possedeva, è andato perduto,
come è noto universalmente.

[289] Paradiso, XXV, sul principio: _Se mai continga_, ecc. Cfr.
Boccaccio, _Vita di Dante_, p. 49. _Vaghissimo fu d'onore e di pompa, e
per avventura più che alla sua inclita virtù non si sarebbe richiesto_.

[290] _De vulgari eloquio_, L. I, c. I. In modo specialissimo _De
Monarchia_, L. I, c. I, dove egli vuole dar l'idea della monarchia, non
solamente per essere utile al mondo, ma anche _ut palmam tanti bravii
primus in meam gloriam adipiscar._

[291] _Convito_, ed. Venezia 1529, fol. 5 e 6.

[292] _Paradiso_, VI, 112 e seg.

[293] Per esempio: _Inferno_, VI, 89, XIII, 53, XVI, 85, XXXI, 127.

[294] _Purgatorio_, V, 70, 37, 133, VI, 26, VIII, 71, XI, 31, XIII, 14.

[295] _Purgatorio_, XI, 79-117. Oltre la gloria, quivi si trovano
confusamente grido, fama, rumore, nominanza, onore, tutti sinonimi
della stessa cosa. — Boccaccio poetava, com'egli confessa nella
_Lettera di Giov. Pizinga_ (_Opere volgar_i), vol. XVI, _perpetuandi
nominis desiderio_.

[296] Scardeonius, _de urb. Patav. antiq_. (Graev, Thesaur. VI, III,
col. 260). È incerto se si debba leggere _cereis, muneribus_, o per
avventura _certis muneribus_. — L'individualità alquanto spiccata del
Mussato può riscontrarsi dalla solennità, con cui è scritta la sua
_Storia di Enrico VII_.

[297] _Epistola de origine et vita_ ecc. al principio delle sue opere:
_Franc. Petrarca posteritati salutem_. Certi critici moderni, che
si scagliano contro la vanità del Petrarca, al suo posto avrebbero
difficilmente saputo serbare tanta bontà e sincerità d'animo, come lui.

[298] Opera, p. 117: _De celebritate nominis importuna_.

[299] _De remediis utriusque fortunae_, passim.

[300] _Epist. seniles_, III, 5. Un'idea della celebrità del Petrarca ce
la dà, per esempio, Biondo Flavio (_Italia illustrata_, p. 416) cento
anni più tardi, quando ci assicura che anche un dotto non ne saprebbe
di più intorno al re Roberto il buono, se il Petrarca non l'avesse così
spesso e con tanto affetto ricordato.

[301] _Epist. seniles_, XIII, 3, p. 918.

[302] Filippo Villani, Vite, p. 19.

[303] L'una cosa e l'altra trovansi indicate nell'iscrizione sepolcrale
del Boccaccio: _Nacqui in Firenze al Pozzo Toscanelli: Di fuor sepolto
a Certaldo giaccio_ ecc. — Cfr. _Opere Volgari_ di Boccaccio, vol. XVI,
p. 44.

[304] Mich. Savonarola, _De laudibus Patavii_, presso Murat. XXIV, col
1157.

[305] La deliberazione del Consiglio di Stato del 1396 coi motivi
presso Gay, _Carteggio_, I, pag. 123.

[306] Boccaccio, _Vita di Dante_, p. 39.

[307] Franco Sacchetti, Nov. 121.

[308] La prima nel noto sarcofago presso S. Lorenzo, la seconda nel
Palazzo della Ragione, sopra una porta. I particolari del ritrovamento
nel 1411 v. Misson, _Voyage en Italie_, vol. I.

[309] _Vita di Dante_, l. c. Come mai dopo la battaglia di Filippi sarà
stato trasportato a Parma il corpo di Cassio?

[310] _Nobilitatis fastu_, ed anzi _sub obtentu religionis_, dice
Pio II (_Comment. X_, p. 473). Questa nuova specie di gloria doveva
dispiacere a taluni, che erano avvezzi ad altra e di tutt'altra specie.

[311] Cfr. Keyssler, _Neueste Reisen_, p. 1016.

[312] Plinio il Vecchio, come è noto, è oriundo di Verona.

[313] Questo si riscontra anche nello scritto notevolissimo: _De
laudibus Papiae_ (Murat. X) del secolo XIV: molto orgoglio municipale,
ma nessuna gloria speciale ancora.

[314] _De laudibus Patavii_, presso Murat. XXIV, col 1151 e segg.

[315] _Nam et veteres nostri tales aut divos aut aeterna memoria dignos
non immerito praedicabant. Quum virtus summa sanctitatis sit consocia
et pari emantur praetio_.

[316] Nei _Casus virorum illustrium_ del Boccaccio solo il nono ed
ultimo libro abbracciano un tempo, che non è antico. Ugualmente ancor
più tardi nei _Commentari urbani_ di Raffaele da Volterra il solo
vigesimo primo, che è il nono dell'antropologia: il vigesimo secondo
e il vigesimo terzo parlano specialmente di Papi e imperatori. —
Nell'opera _De claris mulieribus_ dell'agostiniano Jacopo Bergomense
(intorno al 1500) prevale l'antichità e ancor più la leggenda, ma
poi seguono alcune preziose biografie di donne italiane. Presso lo
Scardeonio, (_De urb. patav. antiq._ Graev. _Thesaur_. VI, III, col.
405 e segg.) vengono nominate soltanto donne celebri padovane: prima
una leggenda del tempo delle invasioni barbariche: poi alcune scene
tragiche delle lotte dei partiti nei secoli XIII e XIV; poi alcune
ardite eroine, fondatrici di conventi, politicanti, medichesse, una
madre di molti ed illustri figli, una letterata, una contadinella, che
muore per salvare la sua innocenza, e per ultimo la bella e colta donna
del secolo XIV, per la quale ognuno scrive poesie, nonchè la poetessa e
la novellatrice. Un secolo più tardi, a tutte queste celebrità padovane
si avrebbe potuto aggiungere la professoressa. — Le celebri donne di
casa d'Este, nell'Ariosto, _Orl. fur._ XIII.

[317] _Viri illustres_ di B. Facio, pubbl. dal Mehus, una delle opere
più importanti in questo genere, del secolo XV, che io disgraziatamente
non potei consultare.

[318] Un poeta latino del secolo XII, che col suo canto cerca
l'elemosina di un vestito, si esprime in questo senso. V. _Carmina
Burana_, p. 76.

[319] Boccaccio, _Opere volgari_, vol. XVI, nel sonetto 13.º: Pallido,
vinto ecc.

[320] Fra gli altri presso Roscoe, _Leone X_, ed. Bossi, IV, p. 203.

[321] _Angeli Politiani Epp._ L. X.

[322] Paul. Jovius, _De romanis piscibus, Praefatio_ (1525), dove dice
che la prima Decade delle sue storie sarebbe tra breve pubblicata _non
sine aliqua spe immortalitatis_.

[323] Cfr. a questo riguardo i Discorsi, I, 27. La tristizia può avere
la sua grandezza ed essere in alcuna parte generosa: la grandezza può
tener lontana da un fatto l'infamia: l'uomo può onorevolmente essere un
tristo, in contrapposto ad uno perfettamente buono.

[324] _Storie fiorent._ l. VI.

[325] Paul. Jov. _Elogia_, parlando di Mario Molza.

[326] Il medio-evo è ricco di poesie così dette satiriche, ma la satira
non è ancora individuale, bensì quasi affatto generale ed astratta,
rivolta contro classi intere, corporazioni, popolazioni ecc., e quindi
anche facilmente assume un colore e un andamento didascalico. Il tipo
generale di questa tendenza si ha principalmente nella favola del
_Reineke Fuchs_, sotto tutte le forme con cui fu redatta presso i
diversi popoli d'occidente. Per la letteratura francese di questa parte
speciale veggasi l'eccellente nuova opera di Lenient: _La satire en
France au moyen-âge_.

[327] In via eccezionale vi si trova anche un'arguzia insolente, _Nov._
37.

[328] _Inferno_, XXI e XXII. L'unico che potrebbe paragonarsi con
Dante, è Aristofane.

[329] Un modesto principio nelle _Opere_, p. 421 e segg., e nel _Rerum
memorand. libri IV_. Altro saggio si ha nelle _Epp. Seniles_, X, 2, p.
868. Il giuoco di parole si risente spesso del luogo dove si ricoverò
nel medio-evo, il convento.

[330] _Nov._ 40, 41: il condottiere è Ridolfo da Camerino.

[331] La nota farsa di Brunellesco e del grasso legnajuolo, per quanto
sia spiritosa, merita però sempre di esser detta crudele.

[332] Ibid, _Nov_. 49. E tuttavia, secondo la _Nov_. 67, si credeva
che un romagnuolo qualunque superasse in malizia il più malizioso
fiorentino.

[333] Agn. Pandolfini, _Il governo della famiglia_, p. 48.

[334] Franco Sacchetti, _Nov_. 156: _Nov_. 24. Le _facetiae_ del
Poggio, quanto alla sostanza, sono molto affini alle novelle del
Sacchetti: burle, insolenze, equivoci di uomini semplici congiunte
coll'oscenità più raffinata, poi parecchi giuochi di parole, che
rivelano il filologo. — Su L. B. Alberti cfr. a pag. 188 e segg.

[335] Conseguentemente anche nelle novelle degli italiani, il cui
contenuto è tolto di là.

[336] Secondo il Bandello, IV, _Nov_. 2, il Gonnella sapeva contraffare
la fisonomia e i tratti di chicchessia, e imitare tutti i dialetti
d'Italia.

[337] Paul. Jovius, _Vita Leonis X_.

[338] _Erat enim Bibiena mirus artifex hominibus aetate vel professione
gravibus ad insaniam impellendis_. Ciò fa venire in mente lo scherzo
che usò Cristina di Svezia co' suoi filologi.

[339] Il cannocchiale io non l'ho tolto soltanto dal ritratto di
Raffaello, dove esso può essere interpretato piuttosto come una lente
per osservare le miniature del libro delle preghiere, ma da una notizia
del Pellicano, secondo la quale Leone osservava una processione di
monaci mediante uno _specillum_ (cfr. il Zuricher Taschenbuch del 1858,
p. 177), e dal _cristallo concavo_ menzionato dal Giovio, di cui Leone
si serviva nelle cacce. — Secondo Attilio Alessio (Baluz. Miscell.
IV, 518): _oculari ex gemina_ (_gemma_?) _utebatur, quam manu gestans,
signando aliquid videndum esset, oculis admovebat_.

[340] Essa non manca neanche nelle arti figurative, e basta ricordare
a questo proposito la nota parodia, colla quale si mettono tre scimmie
a rappresentare il celebre gruppo del Laocoonte. Soltanto simili
fatti si limitarono d'ordinario a semplici disegni a mano, dei quali
taluni andarono anche distrutti. La caricatura è poi qualche cosa
di essenzialmente diverso: Leonardo ne' suoi grotteschi (Biblioteca
Ambrosiana) rappresenta il brutto, in quanto abbia in sè del comico, ed
innalza con ciò questo carattere comico a suo talento.

[341] Jovian. Pontan. _De Sermone_. Egli constata una speciale
attitudine al motteggio, oltre che nei Fiorentini, anche nei Sanesi e
nei Perugini, e per cortesia vi aggiunge poi anche la corte spagnuola.

[342] _Il Cortigiano_, L. II, fol. 74 e segg. — La derivazione del
motto dal contrasto, benchè non ancora abbastanza chiaramente, nel fol.
76.

[343] _Galateo_ del Casa, ed. Venez. 1789, p. 26 e segg. 48.

[344] _Lettere pittoriche_, I, 71, in una lettera di Vincenzo Borghini
del 1577. — Machiavelli, _Storie fior_. l. VII dice dei giovani signori
di Firenze dopo la metà del secolo XV: _gli studi loro erano apparire
col vestire splendidi, e col parlare sagaci ed astuti, e quello che più
destramente mordeva gli altri, era più savio e da più stimato_.

[345] Cfr. l'orazione funebre di Fedra Inghirami per Lodovico
Podacataro (1505) negli _Anecd. litt_. I, 319. — Il raccoglitore di
scandali Massaino è menzionato da Paul. Jov. _Dialogus de viris litt.
illustr_. (Tiraboschi, T. VII, parte IV, p. 1631).

[346] Così la pensava in complesso Leone X e non a torto: per quanto
i motteggiatori, dopo la sua morte, si sieno occupati di lui, non
hanno potuto tuttavia traviare l'opinione pubblica già formatasi a suo
riguardo.

[347] In questo caso si trovò il card. Ardicino della Porta, che nel
1491 voleva deporre la sua dignità e rifugiarsi in qualche lontano
convento. Cfr. Infessura, presso Eccard, II, col. 2000.

[348] V. la sua orazione funebre negli _Anecd. litter_. IV, p. 315.
Nella Marca di Ancona egli mise insieme una squadra di contadini, che
fu impedita di agire soltanto dal tradimento del duca di Urbino. — I
suoi bei madrigali amorosi, presso Trucchi, _Poesie ined_. III, p. 123.

[349] Com'egli adoprasse la lingua alla tavola di Clemente VII v. nel
Giraldi, _Hecatommithi_, VII, Nov. 5.

[350] Tutti i pretesi consigli tenutisi per rovesciare la statua di
Pasquino, presso P. Jov. _Vita Hadriani_, furono attribuiti ad Adriano
e sono da riportare a Sisto IV. — Cfr. nelle _Lettere de' principi_ I,
la lettera del Negro in data 7 aprile 1523. Pasquino aveva nel giorno
di S. Marco una festa speciale, che il Papa proibì.

[351] Per es. il Firenzuola, _Opere_, v. I, p. 126, nel _Discorso degli
animali_.

[352] Al duca di Ferrara, 1 gennaio 1536: «Voi viaggerete ora da Roma
a Napoli, _ricreando la vista avvilita nel mirar le miserie pontificali
con la contemplatione delle eccellenze imperiali_»

[353] Come egli con ciò si fosse reso terribile specialmente agli
artisti, non è qui il luogo di dimostrarlo. — Il mezzo di cui in
Germania si servì la Riforma per dar pubblicità a singole questioni
speciali, è l'opuscolo: l'Aretino invece è giornalista in questo senso,
che cioè prova un bisogno continuo di pubblicare.

[354] Per esempio, nel _Capitolo_ all'Albicante, cattivo poeta di quel
tempo: ma sventuratamente non è possibile citare i passi relativi.

[355] _Lettere_, ediz. Venez. 1539, fol. 12, del 31 maggio 1527.

[356] Nel primo _Capitolo_ a Cosimo.

[357] Gay, _Carteggio_, II, p. 332.

[358] V. L'imprudente lettera del 1536 nelle _Lettere pittor_. I,
_Append_. 34. — Cfr. sopra pag. 198 intorno al culto reso alla casa
dove nacque il Petrarca nella stessa Arezzo.

[359]

    L'Aretin, per Dio grazia, è vivo e sano,
      Ma il mostaccio ha fregiato nobilmente,
      E più colpi ha, che dita in una mano.
                 (Mauro, _Capitolo in lode delle bugie_).

[360] Si vegga, per esempio, la lettera al cardinale di Lorena,
_Lettere_, ediz. Venez. 1539, in data 21 novembre 1534, come anche le
lettere a Carlo V.

[361] Perciò che segue veggasi Gay, _Carteggio_, II, p. 335, 337, 345.

[362] _Lettere_, ed. Venez. 1539, fol. 15, in data 16 giugno 1529.

[363] Forse era la speranza di ottenere il cappello cardinalizio e
forse il timore dei processi dell'Inquisizione, che cominciavano e
che egli ancora nel 1535 aveva osato biasimare (v. l. c. fol. 37),
ma che dopo la riorganizzazione del Tribunale avvenuta nel 1542
improvvisamente tornarono in vita e ridussero ognuno al silenzio.

[364] _Carmina Burana_ nella «Biblioteca della Società letteraria di
Stuttgard», vol. XVI. — La dimora in Pavia (pag. 68, 69), le località
italiane in generale, la scena colla pastorella sotto l'ulivo (pag.
145), la vista di un pino come albero di grande ombra in un prato
(pag. 156), l'uso ripetuto della parola _bravium_ (p. 137, 144), e
più ancora la forma _Madii_ per _Maji_ (p. 141) sembrano appoggiare la
nostra ipotesi.[365] — Il chiamarsi l'autore Gualtiero non giustifica
le induzioni sulla sua origine. Comunemente si suole identificarlo
con Gualtiero de Mapes, canonico di Salisbury e cappellano dei re
d'Inghilterra verso la fine del secolo XII. Ultimamente si è creduto
di riconoscerlo in un certo Gualtiero da Lilla o da Chatillon. Veggasi
Giesebrecht, presso Wattenbach: Deutschlands Geschichtsquellem im
Mittelalter, pag. 431 e segg.

[365] Veramente, studiando da capo a fondo questa Raccolta
singolarissima di Canti goliardici, non si saprebbe al tutto consentire
nell'opinione quì manifestata dall'illustre Autore. Il trovare in molti
di essi inserite espressioni francesi, tedesche ed inglesi li farebbe
credere piuttosto patrimonio di tutta Europa, come d'altra parte
sarebbe anche espressamente indicato da ciò che vi si legge a pag. 252,
che cioè _l'ordine dei vaganti_ accoglie in sè _uomini d'ogni nazione,
teutoni e boemi, slavi e romani_. NOTA DEL TRADUTTORE.

[366] Come l'antichità possa servir di guida e ammaestramento in tutte
le condizioni più elevate della vita, ce lo mostra a grandi tratti Enea
Silvio (_Opp_. p. 603 nella _Epist_. 105 all'arciduca Sigismondo).

[367] Pei particolari rimandiamo a Roscoe: _Lorenzo il Magnifico_ e
_Leon X_, nonchè a Voigt: _Enea Silvio_, e a Papencordt: _Storia della
città di Roma nel Medio-Evo_. — Chi vuol farsi un'idea dell'estensione,
che si dava agli studi degli uomini colti sul principio del secolo XVI,
consulti, prima d'ogni altro libro, i _Commentarii urbani_ di Raffaele
da Volterra. Quivi si vedrà come l'Antichità costituiva la parte più
sostanziale di ogni ramo dello scibile, dalla geografia e dalla storia
locale sino alle biografie di tutti i potenti ed illustri personaggi,
alla filosofia popolare, alla morale, alle singole scienze speciali e
perfino all'analisi dell'intero sistema aristotelico, con cui l'opera
si chiude. E per conoscere tutta l'importanza di quest'opera come fonte
per la storia della cultura, bisognerebbe confrontarla con tutte le
anteriori enciclopedie. Una trattazione circostanziata e completa di
questo tema trovasi nell'eccellente opera di Voigt: _Die Wiederbelebung
des classischen Alterthums_.

[368] L'argomento toccato qui solo di passaggio è stato in seguito
svolto in grandi proporzioni nell'opera di Gregorovius «_Storia della
città di Roma nel Medio-Evo_», alla quale rimandiamo una volta per
sempre.

[369] Presso Gugl. Malmesb. _Gesta regum Anglor._ L. II, § 169,
170, 203, 206 (ed. Londini, 1840, vol. I, pag. 277 e segg. pag. 354
e segg.) sono ricordati molti sogni di cercatori di tesori, indi è
fatta menzione di Venere apparsa sotto forma di amoroso fantasma, e
finalmente si parla del ritrovamento del corpo di Pallante, figlio di
Evandro, intorno alla metà del secolo XI. — Cfr. Iac. ab Aquis, _Imago
Mundi_ (_Hist. patr. Monum. Script._ T. III, col. 1603), sull'origine
della casa Colonna con riferimento all'invenzione di tesori nascosti.
— Oltre alle storie dei tesori disseppelliti, il Malmesbury riporta
tuttavia anche l'elegia di Idelberto di Mans, vescovo di Tours, che
è uno degli esempi più singolari di entusiasmo umanistico nella prima
metà del secolo XII.

[370] Dante, _Convito_, Tratt. IV, cap. 5.

[371] _Epp. familiares_, VI, 2, (p. 657); altrove parla di Roma prima
di averla veduta, (ibid. II, 9, p. 600); cfr. II, 14.

[372] _Dittamondo_, II, cap. 3. Il corteo fa risovvenire in parte le
ingenue figure dei tre Re Magi e il loro seguito. — La descrizione
della città, II, cap. 31, non è senza pregi dal lato archeologico.
— Secondo il Polistore (Murat. XXIV, col. 845) nel 1366 Nicolò ed
Ugo d'Este fecero un viaggio a Roma, _per vedere quelle magnificenze
antiche, che al presente si possono vedere in Roma_.

[373] Citiamo di passaggio un fatto, che mostra come anche fuori
d'Italia nel medio-evo si riguardasse Roma come una cava di marmi e
di pietre: il celebre abate Suggero, che (intorno al 1140) cercava
imponenti colonne per la sua fabbrica di S. Dionigi, pensò in
sulle prime niente meno che ai monoliti di granito delle terme di
Diocleziano, ma poi mutò consiglio: V. Sugerii libellus alter, presso
Duchesne, _Scriptores_, IV, p. 352. — Senza dubbio Carlomagno non aveva
avuto pretese così esorbitanti.

[374] _Poggii Opera_ fol. 50 e segg. _Ruinarum urbis Romae descriptio_.
Intorno al 1430, vale a dire poco prima della morte di Martino V. — Le
terme di Caracalla e di Diocleziano avevano ancora il loro rivestimento
e le loro colonne.

[375] Il Poggio, come uno dei primi raccoglitori di iscrizioni, appare
da una lettera riportata nella _Vita Pogii_, presso Muratori, XX, col.
177, e come raccoglitore di busti col. 183.

[376] Fabroni, _Cosmus, Adnot._ 86. Da una lettera di Alberto degli
Alberti a Giovanni Medici. — Sulle condizioni di Roma sotto Martino
V veggasi il Platina, p. 277, e durante l'assenza di Eugenio IV si
consulti Vespasiano Fiorent. p. 21.

[377] Ciò che segue, è tolto da Jo. Ant. Campanus, _Vita Pii II_,
presso Murat. III, II, col. 980 e segg. — _Pii II Commentarii_ p. 48,
72 e segg. 206, 248 e segg. 501 e altrove.

[378] Boccaccio, _Fiammetta_, cap. 5.

[379] Leandro Alberti, _Descriz. di tutta l'Italia_, fol. 285. —
Secondo Leonardo Aretino (Baluz. Miscell. III, p. III) Ciriaco percorse
l'Etolia, l'Acarnaia, la Beozia, il Peloponneso e vide Sparta, Argo ed
Atene.

[380] Due esempi per molti: la favolosa storia primitiva di Milano nel
_Manipulus_, (Murat. XI, col 552) e quella di Firenze, sul principio
della Cronaca di Ricordano Malaspini e presso Giov. Villani, secondo il
quale Firenze aveva ragione di osteggiar Fiesole anti-romana e ribelle,
mentre essa nutriva sentimenti così schiettamente romani (I, 9, 38, 41,
II, 2). — Dante, _Inf_. XV, 76.

[381] _Commentarii_, p. 206, nel libro IV.

[382] Mich. Cannesius, _Vita Pauli II_, presso Murat. III, II, col.
993. L'autore, per la pretesa parentela col Papa, non vuol essere
scortese nemmeno con Nerone: egli dice soltanto: _de quo rerum
scriptores multa ac diversa commemorant_. — Più singolare ancora parrà
che la famiglia Plato di Milano si lusingasse di discendere dal grande
Platone, e che Filelfo osasse dire ciò in un discorso per nozze e
ripeterlo poscia in un elogio del giurista Teodoro Plato, come altresì
che un Giovannantonio Plato al ritratto in rilievo del filosofo da
lui scolpito (nel cortile del palazzo Magenta in Milano) non esitasse
a porre un'iscrizione, nella quale si leggeva: _Platonem suum, a quo
originem et ingenium refert_.

[383] Su ciò veggasi il Nantiporto, presso Murat. III, II, col. 1094;
e l'Infessura, presso Eccard _Scriptores_, II, col. 1951. — Matarazzo,
nell'_Arch. stor._ XVI, II, p. 180.

[384] Già sotto Giulio II si continuò a scavare nella persuasione di
trovare altre statue. Vasari XI, p. 302, _Vita di Giov. da Udine_.

[385] Quatremère, _Storia della vita etc. di Raffaello_, ed. Longhena,
p. 531.

[386] _Lettere pittoriche_, II, I. Il Tolomei al Landi, 14 nov. 1542.

[387] Egli voleva _curis animique doloribus quacumque ratione
aditum intercludere_; le allegre riunioni e la musica lo attraevano
moltissimo, e in tal modo sperava di prolungar la vita. _Leonis X vita
anonyma_, presso Roscoe, ed. Bossi, XII, p. 169.

[388] Delle satire dell'Ariosto riferisconsi a questo argomento la I
(_Perch'ho molto_ ecc.) e la IV (_Poichè, Annibale_ ecc.).

[389] Ranke, _Die röm. Päpste_, I, 408 e segg. — _Lettere de'
principi_, I. Lettera del Negri, 1 settembre 1522.... _tutti questi
cortigiani esausti da Papa Leone e falliti_.

[390] _Pii II Commentarii_, p. 251, nel libro V. — Cfr. anche l'elegia
di Sannazzaro _in ruinas Cumarum_, nel libro II.

[391] Polifilo, _Hypnerotomachia_, senza numerazione di pagine. In
estratto presso Temanza, p. 12.

[392] Mentre tutti i Padri della Chiesa e tutti i pellegrini non
parlano che di una grotta. Anche i poeti fanno senza del palazzo. Cfr.
Sannazzaro, _De partu Virginis_, L. II.

[393] Principalmente da Vespasiano Fiorentino, nel vol. X dello
_Spicileg. romanum_ del Mai. L'autore era un librajo fiorentino e
spacciatore di copie, intorno alla metà del secolo XV e dopo.

[394] Come è noto, si spacciarono anche delle falsificazioni, per
trarre in errore o mettere in derisione i dilettanti di antichità.
Veggansi nelle opere bibliografiche, per molti altri, gli articoli
concernenti Annio da Viterbo.

[395] Vespas. Fior. p. 31: _Tommaso da Serezana usava dire, che dua
cose farebbe, s'egli potesse mai spendere, ch'era in libri e murare. E
l'una e l'altra fece nel suo pontificato._ — Intorno a' suoi traduttori
veggasi Aen. Sylv. _De Europa_, cap. 58, p. 459, e Papencordt, _Gesch.
der Stadt Rom_, p. 502.

[396] Vespas. Fior. p. 48 e 658, 665. Cfr. J. Mannetti, _Vita Nicolai
V_, presso Murat. III, II, col. 925 e segg. — Se e come Calisto III
abbia in parte catalogato la raccolta, veggasi in Vespas. Fior. p. 284
e segg., coll'avvertenza del Mai.

[397] Vespas. Fior. p. 617 e segg.

[398] Vespas. Fior. p. 547 e segg.

[399] Vespas. Fior. p. 193. Cfr. Marin Sanudo, presso Murat. XXII, col.
1185 e segg.

[400] Come l'affare sia stato trattato, veggasi presso Malipiero, _Ann.
veneti, Arch. Stor._ VII, II, p. 663, 655.

[401] Vespas. Fior. p. 124 e segg.

[402] Forse nella presa di Urbino effettuata dalle truppe di Cesare
Borgia? — Si mette in dubbio l'esistenza del manoscritto, ma non posso
indurmi a credere che Vespasiano abbia scambiato il semplice estratto
delle _sentenze_ di Menandro (forse un duecento versi) con _tutte le
opere_ del medesimo, specialmente in una serie di codici tanto completi
(fossero pure il Sofocle e il Pindaro quali giunsero sino a noi). E non
è neanche impossibile, che quel Menandro una volta o l'altra non torni
a rivivere.

[403] Se Piero de' Medici, alla morte del re bibliofilo Mattia Corvino
d'Ungheria, prevede che gli amanuensi dovranno ribassare il prezzo
delle loro mercedi, poichè altrimenti non troveranno più da occuparsi
presso nessuno (e voleva dire, fuorchè presso di noi), ciò non può
intendersi che rispetto ai greci, poichè i calligrafi abbondavano ancor
molto in Italia. — Fabroni, _Laurent. Magn. Adnot._ 156. Cfr. _Adn._
154.

[404] Gaye, _Carteggio_, I, p. 164. Una lettera del 1455 sotto
Calisto III. Anche la celebre Bibbia miniata di Urbino è scritta da un
francese, al servizio di Vespasiano. Vegg. D'Agincourt, _la Peinture_
tab. 78.

[405] Vespas. Fiorent. p. 335.

[406] Anche per le biblioteche di Urbino e di Pesaro (quella di Aless.
Sforza, v. pag. 38) il Papa usò una simile cortesia.

[407] Vespas. Fiorent. pag. 129.

[408] _Artes-Quis labor est fessis demptus ab articulis,_ in una
poesia di Roberto Orso, intorno al 1470, _Rerum ital. scriptor. ex
codd. florent._ T. II, col. 693. Egli si rallegra un po' prima della
sollecita diffusione, che era a sperarsi, degli autori classici. Cfr.
Libri, _Hist. de sciences mathématiques_, II, 278 e segg. — Sugli
stampatori di Roma v. Gaspar. Veron._ Vita Pauli II_, presso Murat.
III, II, col. 1046. Il primo privilegio in Venezia v. Marin Sanudo,
presso Murat. XXII, col. 1189.

[409] Qualche cosa di simile c'era stato già al tempo dei copisti. V.
Vespas. Fiorent. p. 656 e segg. a proposito della _Cronaca del mondo_
di Zembino da Pistoja.

[410] Fabroni, _Laurent. Magn. Adnot._ 212. — Ciò accadde rispetto al
libello _De exilio_.

[411] Cfr. Sismondi, VI, p. 149 e segg.

[412] La morte successiva di questi greci è constatata da Pierio
Valeriano, _De infelicitate literator_. parlando dei Lascaris. E Paolo
Giovio sulla fine de' suoi _Elegia literaria_ dice dei tedeschi....
_quum literae non latinae modo cum pudore nostro, sed graecae et
hebraicae in eorum terras fatali commigratione transierint._ (Intorno
al 1540).

[413] Ranke _die Päpste_, I, 486. — Si confronti la fine di questa
parte del nostro lavoro.

[414] Tommaso Gar, _Relazioni della corte di Roma_, I, p. 338, 379.

[415] Giorgio da Trebisonda assunto a Venezia nel 1459 con
centocinquanta ducati a professore di rettorica, v. Malipiero, _Arch.
stor._ VII, II, p. 653. — Sulla cattedra di greco in Perugia v. _Arch.
stor._ XVI, II, p. 19 dell'Introduzione. — Per Rimini resta il dubbio
se vi si insegnasse il greco; cfr. _Anecd. litter._ II, p. 300.

[416] Vespas. Fior. p. 48, 476, 578, 614. — Anche fra Ambrogio
Camaldolese conosceva l'ebraico. _Ibid_. p. 320.

[417] Sisto IV, che alzò l'edifizio per la Vaticana e che l'accrebbe
con molti acquisti, sciupò anche alcuni stipendi a pagare copisti dal
latino, dal greco e dall'ebraico (_librarios_), v. Platina, _Vita Sixti
IV_, p. 332.

[418] Pierius Valerian. _De infelicit. literat._ parlando del Mongajo.
— Intorno al Ramusio cfr. Sansovino, _Venezia_, fol. 250.

[419] Specialmente nell'importante lettera dell'anno 1485 ad Ermolao
Barbaro, presso _Ang. Polit. epist. L. IX._ — Cfr. _Jo. Pici Oratio de
hominis dignitate_.

[420] Come essi medesimi si giudicassero, appare da un passo del Poggio
(_De Avaritia_, fol. 2), ove è detto, che solo coloro possono dire
di essere vissuti, che scrissero dotti ed eloquenti libri latini o ne
tradussero qualcuno dal greco in latino.

[421] Libri, _Histoire des sciences mathém._ II, 159 e segg., 258 e
seguenti.

[422] _Purgatorio_ XVIII, dove se ne trovano esempi non dubbi: Maria
s'affretta al monte, Cesare alla Spagna; Maria è povera e Fabrizio
disinteressato: — In questa occasione è da far notare l'introduzione
cronologica delle Sibille nell'antica storia profana, quale fu tentata
nel 1360 dall'Uberti nel suo «Dittamondo».

[423] _Poeta_ anche presso Dante (_Vita nuova_, p. 47) significa
soltanto colui che scrive versi latini, mentre per chi scrive in
italiano si usano le espressioni _rimatore, dicitore per rima_.
Coll'andar del tempo però queste espressioni e queste idee finiscono
col fondersi reciprocamente.

[424] Anche il Petrarca al colmo della sua gloria ha dei momenti
melanconici e si lagna che la sua cattiva stella lo abbia condannato a
vivere i suoi ultimi anni in mezzo a furfanti (_extremi fures_). Nella
finta lettera a Livio, _Opera_, p. 704 e segg.

[425] Più strettamente si tiene il Boccaccio alla poesia propriamente
detta nella sua lettera posteriore al Pizinga, nelle _Opere volgari_,
vol. XVI. Ma anche qui egli non conosce altra poesia che quella
dell'antichità, e ignora affatto i trovatori.

[426] Boccaccio, _Vita di Dante_, p. 50: _la quale_ (laurea) _non
scienza accresce, ma è dell'acquistata certissimo testimonio e
ornamento._

[427] _Paradiso_, XXV, 1 e segg. — Boccaccio, _Vita di Dante_, p.
50: _sopra le fonti di S. Giovanni si era disposto di coronare_. Cfr.
_Paradiso_, I, 25.

[428] La lettera di Boccaccio allo stesso, nelle _Opere volgari_, vol.
XVI: _si praestet Deus, concedente senatu Romuleo..._

[429] Matteo Villani V, 26. Vi fu una solenne cavalcata per la città,
nella quale i seguaci dell'imperatore, i suoi baroni, accompagnarono il
poeta. — Anche Fazio degli Uberti fu incoronato, ma non si sa dove, nè
da chi.

[430] Jac. Volaterranus, presso Murat. XXIII, col. 185.

[431] Vespas. Fior. p. 575, 589. — _Vita Jan. Manetti_, presso Murat.
XX, col. 543. — La celebrità di Leonardo Aretino, anche vivo, era
tale che veniva gente d'ogni paese solo per vederlo, e uno spagnuolo
si gettò in ginocchio dinanzi a lui. Vespas. p. 568. — Pel monumento
di Guarino il magistrato di Ferrara decretò nel 1461 la somma, allora
considerevole, di cento ducati.

[432] Cfr. Libri, _Hist. des sciences mathémat._ II, p. 92 e segg.
— Bologna, come è noto, era più antica; Pisa per contrario fu una
fondazione di Lorenzo il Magnifico _ad solatium veteris amissae
libertatis_, come dice Giovio, _Vita Leonis X_, L. I. — L'università di
Firenze (cfr. Gaye, _Carteggio_, I, p. 251 sino a 580 passim; Matteo
Villani I, 8; VII, 90) già esistente nel 1321, con obbligatorietà
di studi pei nativi della città, fu ripristinata dopo la pestilenza
del 1348 e dotata di duemila e cinquecento fiorini d'oro annui, ma
sonnecchiò di nuovo, e nel 1357 fu riformata una seconda volta. La
cattedra per la spiegazione della Divina Commedia, fondata dietro
domanda di molti cittadini nel 1373, fu in seguito unita per lo più a
quella di filologia e di rettorica, anche quando la tenne il Filelfo.

[433] A questo si deve far attenzione nelle enumerazioni, come
per es. nel prospetto di professori di Pavia intorno all'anno 1400
(Corio, _Storia di Milano_, fol. 290), dove, fra altri, figurano venti
giuristi.

[434] Marin Sanudo, presso Murat. XXII, col. 290.

[435] Fabroni, _Laurent. Magn. Adnot._ 52, dell'anno 1491.

[436] Allegretto, _Diari Sanesi_, presso Murat. XXIII, col. 824.

[437] Filelfo chiamato all'Università di Pisa, recentemente fondata,
pretese per lo meno 500 fiorini d'oro. Cfr. Fabroni, _Laurent. Magn.
Adnot._ 41.

[438] Cfr. Vespas. Fior. p. 271, 572, 580, 625. — _Vita Jan. Manetti_,
presso Murat. XX, col. 531 e segg.

[439] Vespas. Fior. p. 640. — Non mi fu mai dato di vedere le biografie
di Guarino e di Vittorino del Rosmini.

[440] Vespas. Fiorent. p. 646.

[441] All'arciduca Sigismondo, Epist. 105, p. 600 e al re Ladislao
Postumo, p. 605: quest'ultima lettera è in forma di trattato: _De
liberorum educatione_.

[442] Ecco le parole di Vespasiano: _a vederlo in tavola così antico
com'era, era una gentilezza_.

[443] Ibid. p. 485.

[444] Secondo Vespas. p. 271 qui v'era un convegno di dotti, dove anche
si disputava.

[445] Veggasi la di lui vita in Murat. XX, col. 522 e segg.

[446] Ciò che di essa si sapeva prima, non può riguardarsi che come una
cognizione puramente frammentaria. Una strana disputa ebbe luogo nel
1438 a Ferrara tra Ugo da Siena e i Greci venuti al Concilio intorno
all'antagonismo che esiste fra Aristotele e Platone. Cfr. Enea Silvio,
_De Europa_, cap. 52. (_Opera_, p. 450).

[447] Presso Nicolò Valori, nella _Vita di Lorenzo il Magnifico_. Cfr.
Vespas. Fiorent. p. 426. — I primi protettori dell'Argiropulo furono
gli Acciajuoli. Ibid. 292: Il cardinal Bessarione e i suoi paragoni
tra Platone e Aristotele. Ibid. 223: Il Cusano come platonico. Ibid.
308: Narciso da Catalogna e le sue dispute coll'Argiropulo. Ibid. 571:
Singoli dialoghi di Platone già tradotti da Leonardo Aretino. Ibid.
298: Primi sintomi d'influenza del neoplatonismo.

[448] Varchi, _Storie fiorent._ L. IV, p. 321, dove si ha un eccellente
pittura del modo di vivere di Filippo.

[449] Le Biografie sopra menzionate del Rosmini (intorno a Vittorino
e al Guarino), come anche la _Vita del Poggio_ dello Shepherd, debbono
contenere molte notizie su questo riguardo.

[450] _Epist._ 39, _Opera,_ p. 526, a Mariano Socino.

[451] Non bisogna lasciarsi trarre in errore dal fatto che, accanto
a queste lodi, sono frequenti i lamenti sulla grettezza dei Mecenati
principeschi e sull'indifferenza di alcuni principi per gli uomini
celebri. — Un esempio se ne ha in Battista Mantovano (_Eclog_. V)
ancora nel secolo XV. Era impossibile piacere a tutti.

[452] Per ciò che riguarda la protezione accordata dai Papi alle
scienze sin verso la fine del secolo XV, dobbiamo, per amore di
brevità, rimandare alla conclusione della _Storia della città di Roma
nel medio-evo_ di Papencordt.

[453] Lil. Greg. Gyraldus, _De poetis nostri temporis_, parlando di
Sferulo da Camerino. Il buon uomo non terminò il poema a tempo, e
si trovò il lavoro sul tavolo ancora quarant'anni dopo. Sui magri
emolumenti accordati da Sisto IV cfr. Pierio Valer. _De infelicit.
literator._, parlando di Teodoro Gaza. — Sull'esclusione degli umanisti
dal cardinalato sotto i predecessori di Leone, reggasi l'orazione
funebre di Lorenzo Grana sul card. Egidio. _Anecd. litterar._ IV, p.
307.

[454] Il meglio nelle _Deliciae poetarum italorum_ e nelle appendici
alle diverse edizioni di Roscoe, _Leone X_.

[455] _Pauli Jovii Elogia_, parlando di Guido Postumo.

[456] Pierio Valeriane nella sua _Simîa_.

[457] V. L'elegia di Giovanni Aurelio Muzio, nelle _Deliciae poetarum
ital_.

[458] La nota storia della borsa di velluto rosso con pacchetti d'oro
di diversa grandezza, nella quale Leone metteva la mano alla cieca,
veggasi presso Giraldi, _Hecatommithi_, VI, nov. 8. E per converso
gl'improvvisatori latini di Leone venivano battuti a colpi di staffile,
qualora avessero fatto versi non eleganti e di non giusta misura. Lil.
Greg. Gyraldus, _De poetis nostri temporis_.

[459] Roscoe, _Leone X_, ed. Bossi, IV, 181.

[460] Vespas. Fior. pag. 69 e segg. Le traduzioni dal greco, che
Alfonso fece fare, p. 93. — _Vita Jan. Manetti_, presso Murat. XX, col.
541 e segg. 550 e segg. 595. — Il Panormita: _Dicta et facta Alphonsi_,
insieme alle Glosse di Enea Silvio.

[461] Ovid. _Amores_, III, 15, vs. II. — Jovian. Pontan. _De principe_.

[462] _Giorn. Napolet._ presso Murat. XXI, col. 1127.

[463] Vespas. Fior. 3, 119 e seg. — _Volle avere piena notizia di ogni
cosa, così sacra come gentile._ — Cfr. sopra pag. 59 e segg.

[464] L'ultimo dei Visconti divideva la sua ammirazione tra Livio, i
Romanzi della Cavalleria francese, Dante e il Petrarca. Gli umanisti,
che gli si presentavano colla promessa di «dargli fama», di regola
erano congedati da lui nel giro di pochi giorni. Cfr. il Decembrio,
presso Murat. XX, col. 1014.

[465] Paul. Jov. _Vita Alphonsi ducis_.

[466] Sul Collenuccio alla corte di Giovanni Sforza di Pesaro (figlio
di Alessandro, v. pag. 37), che poi lo ricompensò colla morte, veggasi
a pag. 188 nota 1, 3. Presso l'ultimo degli Ordelaffi di Forlì il posto
era preso da Codro Urceo. — Fra i tiranni colti va annoverato anche
Galeotto Manfredi di Faenza, ucciso nel 1488 dalla propria moglie, ed
ugualmente anche alcuni dei Bentivoglio di Bologna.

[467] _Anecd. literar._ II, p. 305 e segg. 405. Basinio di Parma si
burla di Porcellio e di Tommaso Seneca; essi, come affamati parassiti,
dovettero nella loro vecchiaia servire ancora in qualità di soldati,
mentr'egli possedeva campi e ville. (Intorno al 1460: documento
importante, dal quale emerge, che vi erano ancora degli umanisti, come
i due ultimi nominati, i quali cercavano difendersi contro l'invasione
sempre crescente della filologia greca).

[468] Maggiori particolari su queste tombe in Keyssler, _Neueste
Reisen_, p. 924.

[469] _Pii II Comment._ L. II, p. 92. La parola _historiae_ qui
comprende l'intera antichità.

[470] Fabroni, _Cosmus_, adnot. 117. — Vespas. Fior. passim. — Un
passo importante su ciò che i Fiorentini esigevano dai loro segretari,
veggasi presso Enea Silvio, _De Europa_, cap. 54 (_Opera_ pag. 454).

[471] Cfr. pag. 293 e Papencordt, _Geschichte der Stadt Rom_, p. 512,
sul nuovo collegio degli abbreviatori fondato da Pio.

[472] _Anecdota literar._, I, p. 119 e segg. Arringa di Iacopo da
Volterra in nome dei segretari, senza dubbio del tempo di Sisto IV. —
Le pretese umanistiche degli avvocati concistoriali si basavano sulla
loro eloquenza, come quelle dei segretari sulle loro lettere.

[473] Enea Silvio conobbe a fondo la vera Cancelleria imperiale sotto
Federico III. Cfr. _Epp._ 23 e 105,_ Opera_, p. 516 e 607.

[474] Corio, _Storia di Milano_, fol. 449, la lettera d'Isabella di
Aragona a suo padre Alfonso di Napoli; fol. 451, 464 due lettere del
Moro a Carlo VIII. — Con che è da confrontare la relazione, contenuta
nelle _Lettere pittoriche_, III, 86 (Sebastiano del Piombo all'Aretino)
del come Clemente VII, durante il sacco dì Roma, abbia chiamato a sè
nel Castello i suoi dotti e ad ognuno abbia dato l'incarico separato di
preparare una lettera per Carlo V.

[475] Sulla raccolta delle lettere dell'Aretino vegg. sopra pag. 223
e nota. — Collezioni di lettere latine erano state stampate ancora nel
secolo XV.

[476] Si confrontino le Orazioni nelle opere di Filelfo, Sabellico,
Beroaldo ed altri e gli scritti e le biografie di Giannozzo Manetti,
Enea Silvio ecc.

[477] _Diario ferrarese,_ presso Murat. XXIV, col. 198, 205.

[478] _Pii II Comment._ L. I, p. 10.

[479] Proporzionata alla gloria di chi riusciva era la vergogna di
colui che dinanzi a sì numerose e illustri assemblee si confondeva e
perdeva la parola. Esempi di questo genere di spavento trovansi citati
in Pietro Crinito, _De honesta disciplina_, V, cap. 3. Cfr. Vespas.
Fior. p. 319, 430.

[480] _Pii II Comment._, L. IV, p. 205. C'erano inoltre dei Romani, che
lo aspettavano a Viterbo. _Singuli per se verba facere, ne alius alio
melior videretur, cum essent eloquentia ferme pares_. — Il fatto che
il vescovo d'Arezzo non abbia potuto prendere la parola per tutte le
ambascerie mandate dagli Stati italiani al nuovo papa Alessandro VI,
è annoverato dal Guicciardini (nel principio del I libro) fra le cause
più serie, che contribuirono alle sventure d'Italia dell'anno 1494.

[481] Riportata da Marin Sanudo, presso Murat. XXIII, col. 1160.

[482] _Pii II Comment._, L. II, p. 107. Cfr. p. 87. — Anche un'altra
principessa, Madonna Battista da Montefeltro, maritata in Malatesta,
arringò in latino Sigismondo e Martino. Cfr. _Archivio Storico_ IV, I,
p. 452, nota.

[483] _De expeditione in Turcas_, presso Murat. XXIII, col 68.
_Nihil enim Pii concionantis maiestate sublimius_. — Oltre la ingenua
compiacenza con cui Pio stesso descrive i propri trionfi, veggasi il
Campano, _Vita Pii II_, presso Murat. III, II, passim.

[484] Carlo V una volta, non potendo tener dietro in Genova alla
fiorita dicitura latina di un oratore, uscì confidenzialmente col
Giovio in questa esclamazione: «Ahimè, quanto aveva ragione una volta
il mio maestro Adriano, quando mi prediceva, che sarei stato punito
della mia poca diligenza nello studio del latino!» — Paul. Jov. _Vita
Hadriani VI_.

[485] Lil. Greg. Gyraldus, _De poetis nostri temporis_, parlando del
Collenuccio. — Filelfo, laico e ammogliato, tenne nel duomo di Como un
discorso per l'ingresso del vescovo Scarampi nell'anno 1460.

[486] Fabroni,_ Cosmus, Adnot._ 52.

[487] Il che però scandolezzò alquanto Jacopo da Volterra (Murat.
XXIII, col. 171) udendo il discorso commemorativo in lode del Platina.

[488] _Anecd. literar._, I, p. 299, nell'orazione funebre di Fedra per
Lodovico Podocataro, che il Guarino sceglieva di preferenza per tali
uffici.

[489] Di simili Prolusioni molte sono conservate nelle opere del
Sabellico, di Beroaldo il vecchio, di Codro Urceo ecc.

[490] La fama dell'eccellente modo di porgere del Pomponazzo è
attestata da Paolo Giovio, _Elogia_.

[491] Vespas. Fior. p. 103. Cfr. il racconto (p. 598) del come
Giannozzo Manetti venne a lui nell'accampamento.

[492] _Arch. stor._ XV, p. 113, 121, l'introduzione di Canestrini; p.
342 e segg. due allocuzioni militari stampate; la prima, di Alamanni, è
veramente bella e degna della circostanza (1528).

[493] Su ciò Faustino Terdoceo, nella sua satira _De triumpho
stultitiae_, lib. II.

[494] Due casi sorprendenti di questo genere in Sabellico (_Opera_,
fol. 61-82), _De origine et auctu religionis_, discorso tenuto a Verona
dinanzi al capitolo degli Scalzi: _De sacerdotii laudibus_, altro
discorso tenuto a Venezia. — Cfr. pag. 312 nota 2.

[495] _Jac. Volaterrani Diar. roman._ presso Murat. XXIII. passim. —
Alla col. 173 viene menzionata una notevolissima predica tenuta alla
corte, in assenza di Sisto IV: il padre Paolo Toscanella tuonò contro
il Papa, la di lui famiglia e i cardinali; Sisto quando lo seppe, ne
rise.

[496] Filippo Villani, _Vite_, p. 33.

[497] _Georg. Trapezunt. Rhetorica_, il primo trattato completo. — Aen.
Sylvius: _Artis rhetoricae praecepta_, nelle _Opere_, p. 992; non si
occupa a bello studio che della testura dei periodi e del nesso delle
parole; del resto è assai caratteristico per la perfetta cognizione
delle pratiche in uso. Egli cita parecchi altri trattatisti.

[498] La di lui _Vita_, presso Murat. XX, è piena dei trionfi della sua
eloquenza. — Cfr. Vespas. Fior. 592 e segg.

[499] _Annales Placentini_, presso Murat. XX, col. 918.

[500] Così si faceva col Savonarola, cfr. Perrens, _Vie de Savonarole_,
I, p. 163. Ma gli stenografi non sempre erano in grado di tenergli
dietro, come accadde anche con altri focosi improvvisatori.

[501] E non è neanche uno dei migliori. Il punto più notevole è il
fervorino della conclusione: _Esto tibi ipsi archetypon et exemplar,
teipsum imitare_ ecc.

[502] Lettere e discorsi di questa specie scrisse Alberto da Ripalta:
veggansi gli _Annales Placentini_ scritti da lui, presso Murat. XX,
col. 914 e segg., dove quel pedante descrive la propria carriera
letteraria in modo molto istruttivo.

[503] _Pauli Jovii Dialogus de viris litteris illustribus_, presso
Tiraboschi, tom. VII, parte IV. — Ma un decennio più tardi, sulla fine
de' suoi _Elogia literaria_, egli scrive: _Tenemus adhuc_ (dopochè
il primato della filologia era passato alla Germania) _sincerae et
constantis eloquentiae munitam arcem etc._

[504] Un genere speciale costituiscono naturalmente i Dialoghi
mezzo-satirici, che il Collenuccio e specialmente il Pontano imitarono
da Luciano. Il loro esempio produsse più tardi quelli di Erasmo e di
Hutten. — Pei trattati propriamente detti pare che in sul principio
abbiano servito di modello alcuni brani delle opere morali di Plutarco.

[505] Benedictus: _Charoli VIII histor_., presso Eccard, _Scriptor II_,
col. 1577.

[506] Pietro Crinito deplora questo disprezzo nel suo libro _De honesta
disciplina_, L. XVIII, cap. 9. Gli umanisti in ciò somigliano agli
autori della più tarda antichità, i quali ugualmente si discostavano
dal loro tempo. — Cfr. Burckhardt, _die Zeït Constantino des Grossen_,
pag. 285 e segg.

[507] Nella lettera al Pizinga (_opere volgari_, vol. XVI). — Ancora
presso Raffaello da Volterra, L. XXI, il risveglio intellettuale
comincia col secolo XIV. Egli è quel medesimo scrittore, i cui primi
libri contengono tanti prospetti, eccellenti per quel tempo, della
storia speciale di tutti i paesi.

[508] Come quelli, per esempio, che ottenne Giannozzo Manetti in
presenza di Nicolò V, di tutta la Curia e di un gran numero di
stranieri venuti da lontani paesi. Cfr. Vespas. Fior. p. 592, e la
_Vita Jann. Manetti_, più volte citata.

[509] Ciò potrebbe affermarsi anche rispetto al passato, parlando del
Machiavelli.

[510] Infatti fin d'allora si era trovato che in Omero, anche solo,
si ha la somma di tutte le arti e le scienze antiche, e che esso
è una vera enciclopedia. Cfr. _Codri Urcei opera. Sermo XIII_, la
conclusione. — Vero è però che una simile opinione s'incontra anche in
alcuni scrittori antichi.

[511] Un cardinale sotto Paolo II fece perfino insegnare l'Etica di
Aristotele a' suoi cuochi. Cfr. Gasp. Veron. _Vita Pauli II_, presso
Murat. III, II, col. 1034.

[512] Per lo studio di Aristotele in generale è particolarmente
istruttivo un discorso di Ermolao Barbaro.

[513] Bursell. _Annales Bonon._, presso Murat. XXIII, col. 898.

[514] Vasari, XI, p. 189, 257, _Vite di Sodoma e di Garofalo_. —
S'intende da sè che alcune donne scostumate di Roma s'impadronirono
dei più armonici fra i nomi antichi, come Giulia, Lucrezia, Cassandra,
Porzia, Virginia, Pentesilea ecc., coi quali noi le vediamo nominate
dall'Aretino. — Gli ebrei adottarono forse fin d'allora i nomi dei
grandi nemici di Roma di razza semitica, Amilcare, Annibale, Asdrubale
ecc., che ancor oggi s'incontrano così frequenti presso di loro a Roma.

[515]

    Quasi che 'l nome i buon giudici inganni,
    E che quel meglio t'abbia a far poeta,
    Che non farà lo studio di molt'anni!

così scrive beffardamente l'Ariosto, il quale del resto ebbe la fortuna
di ricevere un nome armonioso (_Sat. VII_, vs. 64).

[516] O di quelli del Bojardo, che in parte sono anche i suoi.

[517] Così i soldati dell'esercito francese del 1512 vengono _omnibus
Diris ad inferos evocati_. Del buon canonico Tizio, che prendeva la
cosa sul serio e scagliava contro le truppe straniere un'imprecazione
tolta a prestito da Macrobio, torneremo a far menzione più sotto.

[518] _De infelicitate principum_ nelle _Opere_ di Poggio, fol. 152:
_Cujus_ (Dantis) _extat poema praeclarum, neque, si literis constaret,
ulla ex parte poetis superioribus_ (agli antichi) _postponendum_.
Secondo il Boccaccio (_Vita di Dante_, p. 74), ancora a quel tempo
molti e saggi uomini agitarono la questione, perchè Dante non abbia
poetato in latino?

[519] Chi vuol conoscere tutto il fanatismo che c'era in questo
riguardo, vegga Lil. Greg. Gyraldus, _De poetis nostri temporis_ qua e
là.

[520] Veramente ci sono anche esercitazioni stilistiche confessate come
tali, come per esempio nelle _Orationes_ ecc. di Beroaldo il vecchio
due novelle del Boccaccio tradotte in latino, ed una canzone del
Petrarca.

[521] Cfr. le lettere del Petrarca dal mondo di quassù ad alcune
illustri ombre. _Opera_, p. 704 e segg. Oltre a ciò, a pag. 372 nello
scritto _De republ. optime administranda_ egli dice: «_sic esse doleo,
sed sic est_».

[522] Un'immagine buffa del purismo fanatico in Roma la dà Giov.
Pontano nel suo _Antonius_.

[523] _Hadriani_ (Cornetani) _card. S. Chrysogoni de sermone latino
liber_. Principalmente la introduzione. — Egli trova in Cicerone e ne'
suoi contemporanei la latinità, quale essa veramente è in sè stessa.

[524] Paul. Jov. _Elogia_ parlando di Battista Pio.

[525] Paul. Jov. _Elogia_, parlando del Navagero. Il loro ideale
sarebbe stato: _aliquid in stylo proprium, quod peculiarem ex certa
nota mentis effigiem referret, ex naturae genio effinxisse._ — Il
Poliziano s'inquietava già, quando avea fretta, di scrivere le sue
lettere in latino. Cfr. Raph. Volat. _Comment. urban_. L. XXI.

[526] Paul. Jov. _Dialogus de viris literis illustribus_, presso
Tiraboschi, ed. Ven. 1796, tom. VII, parte IV. Come è noto, il Giovio
voleva per un certo tratto di tempo intraprendere lo stesso grande
lavoro, che compì poi il Vasari. — In quel dialogo egli presente anche
e deplora che l'uso dello scriver latino fosse assai prossimo a cessare
del tutto.

[527] Nel Breve del 1517 a Franc. de' Rosi, concepito dal Sadoleto,
presso Roscoe, _Leone X_, ed. Bossi VI, p. 172.

[528] Gasp. Veronens., Vita _Pauli II_, presso Murat. III, II. col.
1031. Oltre a ciò furono rappresentate forse le tragedie di Seneca e
alcune traduzioni latine di produzioni drammatiche greche.

[529] In Ferrara si rappresentava Plauto per lo più rifatto in veste
italiana dal Collenuccio, da Guarino il giovane e da altri, per le cose
che esso contiene. Ma Isabella Gonzaga si permetteva di trovarle molto
noiose. — Intorno a Pomponio Leto cfr. il Sabellico, _Opera, Epist._ L.
XI. fol. 56 e segg.

[530] Per ciò che segue veggansi le _Deliciae poetar. italor._; — Paul.
Jov. _Elogia_; — Lil. Greg. Gyraldus, _De poetis nostri temporis_; le
_Appendici_ al Roscoe, _Leone X_, ed. Bossi.

[531] Filippo Villani, _Vite_, pag. 5.

[532] _Franc. Aleardi oratio in laudem Franc. Sfortiae_, presso Murat.
XXV, col. 384. — Nel parallello tra Scipione e Cesare il Guarino stava
per quest'ultimo, il Poggio pel primo (_Opera_, epp. fol. 125, 134
e segg.). — Scipione e Annibale nelle miniature dell'Attavante, v,
Vasari, IV. 41. _Vita del Fiesole_. — I nomi di entrambi adoperati a
designare il Piccinino e lo Sforza, v. pag. 135.

[533] Le splendide eccezioni, in cui la vita campestre è trattata nella
sua realtà effettiva, saranno anch'esse menzionate al luogo opportuno.

[534] Ristampato dal Mai, _Spicilegium romanum_, vol. VIII. (Circa 500
esametri). Pierio Valeriano continuò a cantare ulteriormente su questo
mito: veggasi il suo _Carpio_ nelle _Deliciae poetar. italor_. — Gli
affreschi del Brusasorci nel palazzo Murari a Verona rappresentano la
favola intera del Sarca.

[535] _De sacris diebus._

[536] Per esempio, nell'Egloga ottava.

[537] Roscoe, _Leone X_, ed. Bossi VIII, 184: come anche una poesia di
stile somigliante XII. 130. — E molta affinità si riscontra anche nella
poesia di Angilberto della corte di Carlomagno. Cfr. Pertz, _Monum.
II_.

[538] _Strozii poetae_, p. 31 e segg. _Caesaris Borgiae ducis
Epicedium_.

[539]

    Pontificem addiderat, flammis lustralibus omneis
    Corporis ablutum labes, Diis Juppiter ipsis etc.

[540] È il posteriore Ercole II di Ferrara, nato il 4 aprile 1508,
probabilmente poco prima o poco dopo la composizione di questa poesia.
_Nascere magne puer matri exspectate patrique_, è detto verso la fine.

[541] Cfr. le collezioni degli _Scriptores_ dello Scardio, del Freher
ecc.

[542] Uzzano, v. _Arch. stor._ I, 296. — Machiavelli, _I Decennali_.
— La storia di Savonarola sotto il titolo _Cedrus Libani_ di fra
Benedetto. — _Assedio di Piombino_, presso Murat. XXV. — Come riscontro
a ciò, il _Teuerdank_ ed altre opere rimate del nord a quel tempo.

[543] Della _Coltivazione_ di L. Alamanni cantata in versi sciolti
potrebbe affermarsi, che tutti i passi veramente poetici che
s'incontrano in essa e che possono gustarsi anche oggidì, sono tolti
direttamente o indirettamente dagli antichi.

[544] In questo caso dall'introduzione di Lucrezio e da Orazio, Od. IV,
I.

[545] L'uso di invocare un santo protettore anche in un'impresa
essenzialmente profana l'abbiamo già veduto (pag. 78) in una occasione
molto più seria.

[546]

    Si satis ventos tolerasse et imbres
    Ac minas fatorum hominumque fraudes,
    Da, Pater, tecto salientem avito
      Cernere fumum!

[547] _Andr. Naugerii orationes duae carminaque aliquot_, Venet.
1530, in 4.º — I pochi _Carmina_ trovansi anche per la maggior parte o
completamente nelle _Deliciae poetar. italor._

[548] Per dare un'idea di ciò che Leone X si lasciava dire, basta citar
la preghiera di Guido Postumo Silvestri a Cristo, a Maria ed ai Santi,
affinchè volessero conservare ancor lungamente al bene dell'umanità
questo nume, poichè il cielo ne ha già abbastanza. Ristampata da
Roscoe, _Leone X_, ed. Bossi, v. 237.

[549] Boccaccio, _Vita di Dante_, p. 36.

[550] Il Sannazzaro si burla di uno, che lo importunava con tali
falsificazioni: _sint vera haec aliis, mï nova semper erunt_.

[551] _Lettere de' principi_, I, 88, 91.

[552] Malipiero, _Annali veneti, Arch. stor. VII_, I, p. 508. Sulla
fine, riferendosi al toro, come stemma dei Borgia, è detto:

    Merge, Tyber, vitulos animosas ultor in undas;
    Bos cadat inferno victima magna Jovi!

[553] Intorno a questo affare veggasi Roscoe, _Leone X_, ediz. Bossi,
VII, 211, VIII, 214 e segg. La collezione stampata, ora assai rara, di
questi _Goryciana_ dell'anno 1524 contiene soltanto le poesie latine.
Vasari vide presso gli Agostiniani anche un libro speciale, dove si
trovavano eziandio dei sonetti ecc. L'affiggere poesie era divenuta
un'usanza così generale, che si dovette isolare il gruppo mediante un
cancello, e perfino impedirne la vista. La trasformazione di Göritz
in _Corycius senex_ è tolta da un passo di Virgilio, _Georg._ IV, 127.
La trista fine di quest'uomo, dopo il sacco di Roma, veggasi in Pierio
Valeriano, _De infelicitate literat._

[554] Ristampato nelle appendici al Roscoe, _Leone X_, e nelle
_Deliciae_. Cfr. Paul. Jov. _Elogia_, parlando di Arsillo. Inoltre, pel
gran numero degli scrittori di epigrammi veggasi Lil. Greg. Gyraldus,
l. c. Una delle penne più mordaci fu Marcantonio Casanova. — Fra i
meno conosciuti merita di esser notato Giov. Tommaso Mosconi (v. le
_Deliciae_).

[555] Marin Sanudo, nelle _Vite dei Duchi di Venezia_ (Murat. XXII), le
riporta regolarmente.

[556] Scardeonius, _De urb. Patav. antiq._ (Graev. _Thesaur_, VI, III,
col. 270) nomina, come vero inventore del genere, un certo Odaxio da
Padova, intorno alla metà del secolo XV. Ma versi misti di latino e
della lingua di qualche paese se ne hanno molti anche prima e dovunque.

[557] Non si dimentichi, che essi furono pubblicati assai per tempo
corredati degli antichi scolii e di commenti nuovi.

[558] Ariosto, _Satira VII_ dell'anno 1581,

[559] Di tali fanciulli se ne incontrano parecchi, ma io non posso
fornire una prova di fatto di ciò che qui ho detto. Il fanciullo
miracoloso Giulio Campagnola non è di quelli che furono portati in alto
per viste ambiziose. Cfr. Scardeonius _de Urb. Patav. antiq._ presso
Graev. _Thesaur_, VI, III, col. 276. — Il fanciullo miracoloso Cecchino
Bracci, morto a quindici anni nel 1544, v. Trucchi, _Poesie ital.
ined._ III, p. 229. — Come il padre del Cardano gli volesse _memoriam
artificialem instillare_, e come lo istruisse, ancor fanciullo,
nell'astrologia arabica, v. Cardanus, _De vita propria_, cap. 34.

[560] Espressione di Filippo Villani, _Vite_, p. 5, in circostanza
analoga.

[561] Bapt. Mantuani, _De calamitatibus temporum_, L. I.

[562] Lil. Greg. Gyraldus, _Progymnasma adversus literas et literatos_.

[563] Lil. Greg. Gyraldus: _Hercules_. La dedica è una testimonianza
parlante del primo insorgere minaccioso dell'Inquisizione.

[564] _De infelicitate literatorum._

[565] In questo riguardo veggasi Dante, _Inferno XIII_.

[566] _Coelii Calcagnini Opera_, ed. Basil, 154, pag. 101, nel libro
VII delle _Epistole_. Cfr. Pier. Valer. _De infelic. literat._

[567] _M. A. Sabellici Opera. Epist._ L. XI, fol. 56, ed anche la
relativa biografia negli _Elogia_ di P. Giovio.

[568] Jac. Volaterranus, _Diar. Roman._, presso Murat. XXII, col. 161-
171-135. — _Anecd. litter._ II, p. 168 e segg.

[569] Paul. Jov. _De romanis piscibus_, cap. 17 e 34.

[570] _Sadoleti Epist._ 106, dell'anno 1529.

[571] _Ant. Galatei Epist._ 10 e 12, presso il Mai, _Spicilegium
roman._ vol. VIII.

[572] Questo ancor prima della metà del secolo. Cfr. Lil. Greg.
Gyraldus, _De poetis nostri temporis_, II.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



*** End of this LibraryBlog Digital Book "La civiltà del secolo del Rinascimento in Italia, Volume I" ***

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