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Title: Storia degli Italiani, vol. 4 (di 15) Author: Cantù, Cesare Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Storia degli Italiani, vol. 4 (di 15)" *** This book is indexed by ISYS Web Indexing system to allow the reader find any word or number within the document. 15) *** STORIA DEGLI ITALIANI PER CESARE CANTÙ EDIZIONE POPOLARE RIVEDUTA DALL'AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI TOMO IV. TORINO UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE 1875 CAPITOLO XLIII. Da Comodo a Severo. Despotismo militare. Di età la più felice del genere umano furono da alcuno qualificati gli ottantaquattro anni dalla morte di Domiziano a quella di Marc'Aurelio; e il nome degli Antonini restò così caro ai Romani, che i successori l'aggiunsero al proprio, sebbene non curassero meritarselo; anzi da quel punto si manifesta più apertamente, e senz'ammanti di giurisdizione civile, il despotismo militare; pessima fra le tirannidi, perchè soffoga le passioni che sono vita della società. Lo aveva preparato Augusto coll'incarnare nello Stato la forza militare per mezzo delle guardie pretoriane. In onta dell'antica costituzione, erano aquartierate in Italia; poi Tiberio, col pretesto d'esimere le altre città dagl'incomodi alloggi e di mantener meglio la disciplina, stanziò le loro dieci coorti sui colli Quirinale e Viminale, in un campo fortificato donde padroneggiavano e minacciavano Roma; Vitellio le crebbe a sedicimila. Erano più che bastanti a tener in freno qualche milioni d'inermi; ma guaste negli ozj d'un'opulenta città, vedendo dappresso i vizj del regnante e la fiacchezza del governo, si persuadevano che nulla resisterebbe alla loro forza, e come arbitri assoluti, davano e toglievano l'impero, non per altro, sovente, che per la speranza del donativo. Gl'imperatori per connivenza ne dissimulavano l'indisciplina, ne compravano il favore e il voto, che esse pretendevano poter dare quali fiore e rappresentanti del popolo; i loro capitani nei casi di Stato sedevano giudici[1], col qual mezzo superarono di potenza i consoli stessi, e contribuirono a sfasciare il senato. Quando poi Comodo nel prefetto del pretorio unì al militare comando un'autorità civile, come ministro di Stato e presidente al consiglio del principe, quella dignità divenne la prima dell'impero, e se ne gloriarono Ulpiano, Papirio, Paolo, Modestino ed altri giureconsulti di primo grido. Se la suprema podestà apparteneva alla forza, perchè anche le legioni di provincia non sarebbonsi arrogato di salutare imperatore colui che fossero disposte a sostenere colla spada? Massime dopo il tempo che descrivemmo, essendo gli eletti per lo più stranieri, spesso contendenti un coll'altro, scelti fra soldati, e costretti a vivere nei campi, l'impero vestì sembianze affatto militari, e l'imperatore non fu il primo magistrato di Roma, ma il generale degli eserciti, e sua principale e quasi unica cura il contentar questi o frenarli. Ma attesochè l'estensione dell'impero obbligava a mantenerne molti, l'uno per gelosia chiarivasi nemico all'imperatore che fosse eletto dall'altro esercito. Dopo che, coll'estinguersi la famiglia dei Cesari e le succedutevi de' Flavj e degli Antonini, neppure un'ombra di legittimità sosteneva que' principi di ventura, i soldati sentirono di poterli fare e disfare, alzar sullo scudo o trafiggere colle spade. L'esercito poi e nel fondo e nelle forme era ben altra cosa da quello che vinse il mondo. Augusto lo ridusse stabile, distribuito nelle provincie di frontiera, di cui egli riservossi il governo, sicchè lo stato civile rimaneva distinto dal militare: supremo difetto della costituzione imperiale. La nobile gioventù di Roma e d'Italia non aprivasi più la via alle magistrature col militare a cavallo, ma coll'amministrar la giustizia e le rendite pubbliche: se si applicasse alle armi, non per merito o per anzianità, ma per denaro o nobiltà otteneva il comando d'un'ala di cavalleria o d'una coorte di pedoni. Già Tiberio si lagnava non vi fossero volontarj, e mal si soffrisse la disciplina. Trajano e Adriano sistemarono la milizia quale si conservò sino alla fine dell'impero; e sui loro regolamenti è fondato il compendio di Vegezio _De re militari_. Augusto aveva assegnato a ciascun pretoriano due dramme al giorno, cioè ottantadue centesimi; Domiziano portò la paga a novecensessanta dramme l'anno; sotto Comodo ne ricevevano mille ducencinquanta, se ben leggiamo un passo confuso di Dione al libro LXXII, discusso da Valois e Reimar. Le altre truppe, fra il 536 e il 703 di Roma, ebbero venticinque centesimi il giorno, sotto Giulio Cesare cinquantuno, sotto Augusto quarantanove, quarantotto sotto Tiberio, quarantacinque sotto Nerone, quarantaquattro sotto Galba, quarantatre sotto Otone, quarantaquattro sotto Vitellio, Vespasiano e Tito, cinquantasette sotto Domiziano. Delle venticinque legioni che erano sotto Augusto, sedici furono poi licenziate o incorporate nelle altre: ma Nerone, Galba, Vespasiano, Domiziano, Trajano, Marc'Aurelio ed Alessandro Severo ne formarono tredici nuove. Ciascuna componevasi di cinquemila uomini; e al tempo di quest'ultimo imperatore, tre accampavano in Bretagna, una nell'Alta e due nella Bassa Germania, una in Italia, una nella Spagna, una nella Numidia, una fra gli Arabi, due nell'irrequieta Palestina, altrettante nella Mesopotamia, e così nella Cappadocia, due nella Bassa ed una nell'Alta Mesia, una nel Norico, una nella Rezia: dell'altra non sappiamo il posto. Il numero ne variò poi, e fin trentasette furono imperante Diocleziano. Ad alcuni paesi imponevasi d'offrire truppe ausiliari, che si esercitavano colla disciplina romana, ma nelle armi cui ciascuno avevano avvezzato la patria e l'educazione; il che metteva ogni legione in grado d'affrontarsi con qualsifosse altra gente, comunque armata. Inoltre si menava appresso un treno di dieci grandi macchine militari e cinquantacinque minori da avventare projetti; oltre l'occorrente per piantare un campo. Corruttela agli uni e scoraggiamento agli altri recò la distinzione delle truppe in _palatine_ e _di frontiera_; quelle destinate agli ozj cittadini, queste agli stenti del campo con soldo maggiore; sicchè mal sentivansi animate a respingere il nemico quando pensassero che i loro commilitoni marcivano in pingui riposi. Le prime guerre Roma sostenne coll'armi proprie e dei popoli vinti, obbligati a tributare un certo numero di cavalli e fanti, di navi e marinaj. Obbedivano questi a capi di loro nazione; e sebbene talvolta eguagliassero, talaltra eccedessero anche in quantità l'esercito romano, li teneva in rispetto l'essere scelti ciascuno da gente diversa, scevri dalle legioni, dipendenti dal generale supremo. Cesare pel primo assoldò Barbari; Augusto imitò ed estese l'esempio, e per sicurezza propria ne introdusse fra le guardie pretoriane. Progredendo, l'Italia si trovò esausta di forze, i socj ridotti a provinciali e privati dell'uso delle armi; onde fu necessario ricorrere ai Barbari. I Germani, gente robusta ed agguerrita, volentieri ponevano a servizio altrui il proprio valore, contenti di tenue soldo e scarsa prebenda; sicchè furono preferiti dagl'imperatori, cui sembrava anche vantaggioso il decimare così quei formidabili. Però la tirannide uccide se stessa. Coll'escludere dalle armi i provinciali e i cittadini, separavasi la forza dall'interesse d'adoprarla; ottenevasi per avventura la quiete, ma si spegneva il valore; nel mentre si rendevano più formidabili i nemici coll'aggiungere la disciplina al naturale coraggio. Costoro ben presto entrarono anche tra le privilegiate file legionarie; poi, non più bande, ma popolazioni intere vennero assoldate: infidi ajuti, che nel frangente ricusavano travagliarsi contro i proprj fratelli; avidi, preferivano il sacco alla battaglia; capricciosi, costringevano il generale a far giornata quando e dove meno convenisse; infine torcevano le armi contro i proprj maestri. Insomma le minaccie dei Barbari aveano reso necessario l'esercito, e perciò l'onnipotenza imperiale; vero governo militare, parallela al quale svolgeasi un'altra civiltà pacifica; quello opprimendo, questa costituendo leggi sapienti. Una serie d'insigni guerrieri portati all'impero ritardò per avventura l'invasione da ogni parte minacciata, ma recavano sul trono le dispotiche e feroci abitudini dell'accampamento e della guerra. Dalle spade alzati, da queste abbattuti, qualvogliasi riforma restava impedita dall'effimera loro durata, e dall'obbligo di vegliar sempre in armi contro gli stranieri, e più contro gli usurpatori, che con altrettanto diritto si sollevavano, e che si sostenevano col tenersi amici i soldati per gratitudine del passato e per apprensione dell'avvenire. Comodo, successore di Marc'Aurelio, ricco solo di forza, lussuria e codardia, fu il primo imperatore nato da padre regnante; ma si credè generato da uno dei gladiatori che Faustina dalla sanguinosa palestra chiamava a contaminare il talamo di Marc'Aurelio. Gli esempj e le lezioni di questo non ne corressero l'indole; e a dodici anni trovando soverchiamente scaldata l'acqua del bagno, ordinò di gettar nel fornello il bagnajuolo. Arrivato al trono di venti (180 — 17 marzo), benchè non avesse nè emuli da tor di mezzo, nè ambizioni o memorie da sradicare, sbrigliasi a tutte le crudeltà che potevano suggerirgli il carattere atroce e fomenti malvagi: si compiace di veder uomini alla tortura; vantandosi esperto chirurgo, fa sue prove sopra infelici, che costringe ricorrere a' suoi consulti; girando notturno per le vie, a chi taglia per celia un piede, a chi cava un occhio; gitta alle belve uno perchè avea detto lui e Caligola esser nati lo stesso giorno; un altro fende in due di netto, per mostra di sua gagliardia; vestito da Ercole compare in pubblico, onde intitolarsi vincitore de' mostri. Per ostentare al _genere umano_ le sue virtù, scende ignudo nell'arena, che i predecessori suoi avevano interdetta ai senatori, e non essendo mai rimasto ferito in settecentotrentacinque combattimenti, assume il titolo di _vincitore di mille gladiatori_. Di forza prodigiosa, trapassò fuor fuori un elefante colla lancia; uccise in un giorno cento leoni nel circo, ciascuno d'un solo trar d'arco; colle frecce levava di netto il collo a struzzi correnti, e trafisse una pantera senza toccar l'uomo con cui essa era alle prese. Perchè non mancassero belve all'imperial trastullo, vietò agli Africani d'uccider leoni, nè respingerli qualora affamati si accostassero ai villaggi. Di tutto ciò si fa gloria, e vuole se ne tenga memoria ne' giornali. Degli applausi del vulgo s'inebbria, e per serbarselo amico, istituisce una compagnia di mercadanti e una flotta che rechi grano dall'Africa, se càpiti male quella d'Egitto; ma immaginatosi un giorno che il popolo lo schernisca, comanda un generale macello e l'incendio della città, e a gran pena il prefetto de' pretoriani nel dissuade. Non meno segnalato per lussurie, tenne a sua posta trecento concubine e altrettanti cinedi; violò le proprie sorelle; sul resto si tiri un velo[2]. A tante pazzie occorrevagli denaro; onde rincarì le imposizioni, trafficò delle cariche, per denaro assolse rei, e permise assassinj e vendette. Lungo sarebbe ridire le vittime innocenti del forsennato, che ben presto, dato lo sfratto ai tutori impostigli da Marc'Aurelio, lasciò ogni arbitrio ai compagni di sue dissolutezze, salvo a disfarsene non appena il contrariassero. Perenne, entratogli in grazia col fomentarne le passioni, assisteva con esso ai giuochi Capitolini, quando un filosofo cinico compare nel teatro e grida a Comodo: — Mentre ti tuffi nelle voluttà, alla tua vita insidiano Perenne e suoi figliuoli». Detto fatto, Perenne fe gettar nel fuoco colui: ma all'imperatore restò il sospetto ch'egli aspirasse veramente a regnare perchè n'era capace; indi le legioni britanne deputarono mille cinquecento uomini che venissero a Roma chiedendo la morte del ministro; il quale, reo o no, fu ucciso colla moglie, la sorella e tre figliuoli: condiscendenza che rivelò la debolezza del governo all'esercito lontano. Gli sottentrava Cleandro, che dalla Frigia nativa portato schiavo a Roma, appartenne prima a Marc'Aurelio, poi a Comodo, il quale gli diede una sua concubina a sposa e la libertà; poi non avendo a temerne nè l'abilità nè la virtù, gli concesse sconfinato potere. E colui ne abusava per vender cariche, provincie, entrate, giustizia, vite d'innocenti. Fatto incetta de' grani, affamò la città per arricchirsi e per acquistar favore colle distribuzioni. Creò patrizj molti schiavi appena tolti alla catena, e gli assise in senato; e fin venticinque consoli elesse in un anno: chi osò portarne richiamo all'imperatore, pagò l'ardimento col sangue. Ma mentre celebravansi i giuochi circesi ecco entrare una turba di fanciulli capitanati da una viragine, e mandar feroci grida contro Cleandro: il popolo vi fa eco, ed accorre al palazzo suburbano ove questi era coll'imperatore, e ne chiede la morte; a tegoli e ciottoli volta in fuga i pretoriani: e Comodo che, immerso in sozze lascivie, ignorava il caso, sgomentato fa gettare ai tumultuanti la testa del favorito, che con la moglie, i figliuoli, gli amici è trascinato per le vie. Altro consigliatore de' suoi delitti era il liberto Antero di Nicomedia; e quando i pretoriani lo uccisero, l'imperatore se ne vendicò col mandare a male quanti di essi potè. Gli stessi prefetti del pretorio erano mutati si può dire ogni giorno; alcuni non durarono che sei ore; i più colla carica perdettero la vita. Scaricandosi d'ogni cura su cosiffatti, l'imperatore ricusava persino appor la firma a' dispacci; e appena sotto alle lettere degli amici scriveva il _vale_. Eppure questo basso infame nelle medaglie attribuiva a sè il titolo di felice, e al secolo suo quel di comodiano, di colonia comodiana a Roma; il senato piacentiero chiamò il luogo di sue assemblee _casa di Comodo_; i nomi dei mesi furono mutati in aggettivi a lode di lui; ed egli scriveva al senato: — L'imperatore Cesare Lucio Comodo Elio Aurelio Antonino Augusto felice, leone, pio, sarmatico, britannico, germanico, pacificatore, invincibile, ercole, romano, padre della patria, pontefice massimo, console per la VII volta, imperatore per l'VIII, tribuno per la XVII, agli illustri senatori comodiani salute». Mossa da privata ambizione, Lucilla sorella sua (183) presunse di voltare lo Stato congiurando coi principali senatori; ma il sicario, preso mentre vibrando il colpo diceva, «Questo dono t'inviano i senatori», fu coi complici messo a morte; la principessa esigliata a Capri ed ivi uccisa: dove pure fu relegata e morta l'imperatrice Crispina, propostasi d'imitare le scostumatezze del marito. Le parole del sicario, il quale seppe dire e non fare, invelenirono Comodo contro il senato; e se dapprima, feroce per inclinazione non per calcolo, sapeva anche perdonare, e sull'esempio paterno avea gittato al fuoco le rivelazioni offertegli da Manilio, segretario dell'usurpatore Avidio Cassio, allora fece rivivere i delatori e i processi di maestà e, solito corredo, i supplizj degl'innocenti e di quelli la cui virtù facesse raffaccio all'imperiale corruttela. Ricorderemo fra questi i due fratelli Quintilj Massimo e Condiano della Troade, unanimi a segno che operavano come un uomo solo; insieme governavano le provincie e comandavano gli eserciti, insieme sostennero il consolato ed altri onori, insieme da Comodo furono uccisi. Avesse almeno costui saputo usare la brutale valentìa a tutela de' confini. Ma al primo arrivar al trono cedette quante fortezze serbava sul territorio dei Quadi, patto che questi si tenessero inermi e cinque miglia discosto dal Danubio, nè s'adunassero che una volta il mese in presenza d'un centurione. Anche da altri Germani comprò la pace, e lasciò che i Saracini (qui per la prima volta nominati) riportassero vantaggi sopra l'impero. Poi un semplice soldato, di nome Materno, che a capo di disertori avea messe a soqquadro Spagna e Gallia, vedendosi circuito d'ogni dove, sparpagliò i suoi, e con alquanti di essi si spinse fino in Italia col proposito di scannare Comodo e farsi imperatore (188). Già alcuni suoi eransi mescolati alle guardie di questo, allorchè altri li tradirono, e il supplizio di Materno sedò il tumulto. Però il valore de' generali potè reprimere i Frisoni, e respingere i Caledonj che avevano superato la muraglia di Trajano; e Comodo menava trionfi, e intitolavasi imperatore senza veder mai gli accampamenti. Solo una volta mostrò voler passare in Africa; ma come ebbe raccolto denari assai, li sciupò in gozzoviglie. Naturali infortunj aggravarono i mali del suo regno: tremuoti; peste, che fin due in tre migliaja d'uomini al giorno mieteva in Roma; andò in fiamme il tempio della Pace, dove erano riposte le spoglie della Giudea, le opere dei letterati, preziose spezie d'Arabia e di Egitto; perfino al palazzo s'apprese l'incendio e al tempio di Vesta, da cui fuggendo, le sacre vergini esposero per la prima volta agli occhi profani il Palladio, talismano dell'impero. Il privato pericolo potè più che la pubblica indignazione; poichè Marcia concubina di Comodo, Leto capitano delle guardie, ed Ecleto suo ciambellano, sapendosi designati a morte, avvelenarono Comodo, di appena trentun anno, dopo regnato dodici (192 — 31 xbre). Il senato, che ver lui era disceso all'infimo dell'abjezione, come il vide morto ripigliò coraggio, fece abbatter le statue, raderne il nome dalle lapidi, negar sepoltura al vile gladiatore, al parricida, al tiranno più sanguinario di Nerone; ma fra poco Settimio Severo lo farà riporre fra gli Dei, istituirgli sagrifizj e solennità anniversarie pel suo natale. I congiurati corsero alla casa di Publio Elvio Pertinace, vecchio senatore e consolare, allora prefetto della città, il quale, udito chiamarsi di mezzanotte, suppose venissero per ordine di Comodo a ucciderlo; onde, fattili entrare, disse: — Da buon tempo vi aspettavo, giacchè io e Pompejano siamo i soli amici di Marc'Aurelio lasciati sopravivere». Pompejano era virtuoso marito della trista Lucilla sorella di Comodo, e ricusando assistere all'anfiteatro, nè vedere il figliuolo di Marc'Aurelio prostituire la persona sua e la dignità, stava per lo più in campagna, pretessendo malattie che cessarono solo nel breve regno del successore. Pertinace era nato presso Alba del Monferrato, da uno schiavo carbonajo, che gl'impose quel nome per la pertinacia sua nel voler abbandonare il mestiero paterno, e mettersi a Roma maestro di greco e latino. In questa professione poco vantaggiando, diede il nome alla milizia, divenne centurione, poi prefetto di una coorte nella Siria e nella Britannia. Marc'Aurelio per un'accusa il degradò, poi scopertala falsa, creollo senatore, e il mandò colla prima legione a guerreggiare i Germani. Ritolta a questi la Rezia, fu fatto console: poi, regnando Comodo, si vide a vicenda alzato e depresso, in fine assunto governatore di Roma. Dabbene, assiduo agli affari, grave senza dispetti, dolce senza fiacchezza, prudente senz'astuzie, frugale senz'avarizia, grande senza orgoglio, amatore dell'antica semplicità romana, parve a Leto e ai congiurati opportunissimo a riparare ai guasti dell'ucciso. Lo portarono dunque al campo de' pretoriani (193), i quali, sebbene affezionati a Comodo dalle largizioni, accettarono il nuovo imperatore, perchè prometteva tremila dramme per testa, e il condussero con rami d'alloro al senato, perchè se n'approvasse l'elezione. Qui cogli applausi interrompendo i rifiuti di Pertinace, gli fu conferito il titolo d'augusto, di padre della patria (3 genn), di principe del senato, e recitato dai consoli il panegirico. Egli non permise si chiamasse augusta la moglie sua che nol meritava, nè cesare il figlio sinchè non ne venisse degno. A questi cedette ogni suo possesso perchè non avessero ragione di chieder nulla allo Stato; poi, perchè l'accidioso fasto della corte nol guastasse, mandò il figliuolo ad educare presso l'avo materno. Le virtù private conservò sul trono. Schietto nel vivere, usava come prima co' migliori senatori e gl'invitava a cene familiari, derise da quelli che preferivano le sanguinarie prodigalità di Comodo. Per risanguare l'erario fece voltare in moneta le abbattute statue del predecessore, vendere all'asta l'armi, i cavalli, le vesti di seta, i mobili (193), fra cui un carro che indicava l'ora e il cammino percorso[3]; le concubine e gli schiavi, eccettuando solo i nati liberi e rapiti a forza; costrinse i favoriti del tiranno a rendere parte del male acquistato, con cui pagò, oltre i pretoriani, i creditori dello Stato, le pensioni maturate e i danneggiati; abolì i pedaggi nocevoli al commercio, e decretò per dieci anni immune chi rimettesse a coltura le sodaglie d'Italia; professò non accetterebbe legati a danno di legittimi eredi; ai banditi per fellonia restituì patria e beni, castigò i delatori, e impedì si apponesse il nome suo sugli edifizj, dicendo: — Sono pubblici, non dell'imperatore». I buoni godeano di veder rivivere Trajano e Marco Aurelio: ma troppi erano quelli cui giovavano il disordine e il silenzio delle leggi; e i pretoriani, temendo riformata la disciplina, ribramavano Comodo. Ottantasette giorni appena dopo la sua elevazione, alcune centinaja di essi precipitaronsi traverso a Roma nel palazzo (30 marzo), aperto dalle guardie e dagli infidi liberti. L'imperatore, vilmente abbandonato dai cortigiani, colla maestà della presenza e l'autorità della parola arrestò i furibondi, che già si ritiravano, quando un Gallo, o non avesse inteso il discorso, o fosse di passione più violenta, gli cacciò la spada nel corpo, dicendo: — Eccoti un dono de' tuoi soldati»; negli altri rinasce la sete di sangue; e l'imperatore, avvoltosi il capo nella toga, pregando il cielo a vendicarlo, spira sotto mille colpi, e per la sgomentata città è portato dai pretoriani. Così la forza militare sormontava il contrasto oppostole dall'impotente senato e dagli Stoici, e stabiliva il despotismo de' pretoriani in Roma, degli eserciti fuori. Lo rivelò una scena di beffa tremenda. Perocchè il popolo infuriato corse al campo de' pretoriani, assediandolo minaccioso: ma non avendo capi, non comparendo i consoli, non adunandosi il senato, la folla si disperse. I pretoriani non aveano ucciso Pertinace per alcun fine o per innalzare qualc'altro, ma non trovando raccolto il senato per eleggere un successore, pubblicarono che l'impero era in vendita, si darebbe al miglior offerente. Sulpiciano, suocero dell'imperatore, ch'era stato spedito da questo nel campo a chetare il tumulto, non aborrì di concorrere a un seggio stillante di tal sangue; altri competerono; finchè ne venne voce a Didio Giuliano, vecchio e ricco milanese, che or favorito or disgraziato dagli imperatori, avea traversato senza rumore le principali dignità, e adesso nel lusso e ne' bagordi consumava una delle più sfondolate fortune. Stava allora spensieratamente banchettando cogli amici, i quali lo animarono a concorrere, ed egli va al campo, comincia a dirvi, promette ripristinar le cose come sotto Comodo, e dalle cinquemila dramme offerte per soldato, sale a seimila ducencinquanta (4300 lire), pagabili all'atto. O Giugurta, Roma ha trovato il compratore! Didio, a piene voci acclamato, è fra' pretoriani condotto per le deserte vie di Roma, indi nel senato, che uditolo enumerare i proprj meriti e vantare la libertà della sua elezione, ossequiosamente si congratulò della pubblica felicità. Collo stesso corredo guerresco portato in palazzo, vide il trono di Pertinace e la frugal cena che s'era disposto: eppure imbandì con più splendore che mai, e consumò la notte in banchettare, trarre ai dadi, e ammirar Pilade ballerino. Ma il popolo non un applauso avea levato; anzi, qualvolta egli comparisse, gli avventavano ingiurie e sassi, indignati da quel turpissimo mercato; e provocavano a sempre nuove risse i pretoriani. Poi fra breve la folla si ammutina, ed avventatasi nel circo dove egli assisteva ai giuochi, gli rinnova le imprecazioni; ricorrendo anch'essa fatalmente alla forza armata come i tiranni, fa appello agli eserciti lontani perchè vengano a vendicare la prostituita maestà dell'impero. Quel grido d'angoscia trovò eco in tutto l'impero, e gli eserciti di Britannia, di Siria, dell'Illiria, comandati da Clodio Albino, Pescennio Nigro e Settimio Severo, disdissero l'indegno contratto, fosse orgoglio, o invidia dei soldati, od ambizione dei capi. Clodio Albino, nato nobilmente in Adrumeto d'Africa, avea scritto d'agricoltura, poi, abbandonato lo stilo per la spada, allora comandava l'esercito di Britannia. Mai non aveva perdonato; crocifisse centurioni per colpe da nulla; uggioso in casa e con tutti; in un pasto logorò cinquecento fichi, cento pesche, dieci poponi, cento beccafichi e quattrocento ostriche. Ricusata obbedienza a Didio, si sosteneva nella Britannia senza assumere il titolo d'augusto, anzi esortando a ripristinare la repubblica, e asserendo non si acconcerebbero le cose finchè il potere civile non prevalesse al militare, e al senato non fosser rese le antiche prerogative. Pescennio Nigro d'Aquino, di poca ricchezza e meno studio, ma ardito soldato e buon capitano, era salito ai primi gradi della milizia; mantenitore della disciplina, non tollerava che gli uffiziali maltrattassero i soldati, fece lapidare due tribuni per avere sottratto alcun che della paga, e appena a suppliche dell'esercito perdonò la testa a dieci che avevano rubato del pollame; non permetteva il vino in campo; viaggiava a piedi e scoperto la testa; voleva i suoi servi portassero fardelli onde non parere oziosi nelle marcie. Nel governo importante quanto lucroso della Siria, procacciossi amore colla fermezza non discompagnata da affabile compiacenza: onde appena s'udì assassinato Pertinace, tutti l'esortarono ad assumere l'impero, le legioni orientali si chiarirono per lui, per lui il paese dall'Etiopia all'Adriatico, e di là dal Tigri e dall'Eufrate gli vennero regie gratulazioni. Nella solennità dell'acclamazione proferendosi il consueto panegirico, Pescennio interruppe l'oratore che il paragonava a Mario, ad Annibale, a non so quali altri capitani, dicendo: — Narraci piuttosto quel che han fatto costoro d'imitabile. Lodare i vivi, e massime l'imperatore che può ricompensare e punire, è da adulatore. Vivo, desidero di piacere al popolo: morto, mi loderete». Virtù moderate, pregevoli nel secondo posto, non sufficienti al primo. Invece di difilarsi sopra l'Italia ov'era invocato, Pescennio si rallentò nella voluttuosa Antiochia, persuaso che la sua elezione non sarebbe nè contrastata, nè macchiata di sangue cittadino. Un emulo superiore sorgeva in Settimio Severo, di Lepti nell'Africa Tripolitana e di famiglia senatoria; sperto nell'eloquenza, nella filosofia, nelle arti liberali e nella giurisprudenza, sostenne magistrature e comandi; faticante di corpo e di mente, alieno dal fasto e dalla gola, violento e tenace nell'amore come nell'odio, provvido dell'avvenire e dei mezzi onde profittarne, disposto a sacrificare fama e onestà all'ambizione, incline all'ingordigia e più alla crudeltà. L'astrologia, passione de' suoi nazionali, lo aveva lusingato dell'impero; sposò una Giulia Domna sira, perchè gli astri aveano promesso a costei, diverrebbe moglie d'un sovrano; e sotto Comodo ebbe accusa d'avere interrogato indovini sul divenir imperatore. In Pannonia, udita la morte di Pertinace, raduna i soldati, svela il turpe mercato de' pretoriani, e gli incita a vendetta con un'orazione eloquente e colla più eloquente promessa di un donativo doppio di quel di Didio: poi colla prontezza richiesta dal caso scrive ad Albino promettendo adottarlo e chiamandolo cesare; non tentò Nigro, perchè sapeva nol potrebbe sedurre; e mosse senza riposo verso l'Italia, che con isgomento vide le legioni di Pannonia sbucare per Aquileja. Didio sgomentavasi; i pretoriani, buoni solo al tumulto, tremavano delle invitte legioni di Pannonia e d'un tal generale; e se dai teatri e dai bagni correvano alle armi, a pena sapeano maneggiarle; gli elefanti sbattevano dal collo gl'inesperti condottieri; la flotta di Miseno mal volteggiava; e il popolo rideva, il senato gongolava. Didio in tentenno, ora faceva pronunziare Severo nemico della patria, ora pensava associarselo all'impero, oggi gli spediva messi, domani assassini: ordinò che le Vestali e i collegi sacerdotali uscissero incontro alle legioni, ma ricusarono: armò i gladiatori di Capua, e con magiche cerimonie e col sangue di molti fanciulli[4] fece prova di sviare il nembo. Ma i soldati che custodivano l'Appennino disertarono a Severo; disertarono i pretoriani, appena esso gli assicurò da ogni castigo, purchè consegnassero gli assassini di Pertinace. Avvertito che questi erano presi, il senato decretò morte a Didio, il trono a Severo, a Pertinace onori divini. Illustri senatori furono deputati a Severo, sicarj a Didio, che piagnucolò (2 giugno) perchè gli lasciassero la vita: — Che male fec'io? ho mai tolto di vita alcuno?» Ma dovette ripagare col sangue i sessantaquattro giorni di regno che coll'oro avea comprati. Severo, che in quaranta giorni avea coll'esercito traversate le ottocento miglia che corrono da Vienna a Roma, conseguì l'impero senz'altro sangue. Uccisi gli assassini di Pertinace, rese a questo segnalate esequie, e diede lusinghe al popolo e al senato. Prima d'entrare in Roma raccolse i pretoriani in gran parata, e ricinto de' suoi guerrieri, salito in tribunale, li rimbrottò di perfidia e codardia, e privandoli del cavallo e delle insegne, li congedò come felloni, e li sbandì a cento miglia. In loro luogo ne elesse quattro tanti, cernendoli dai più prodi suoi, di qual fossero paese: onde a tutti i soldati fu aperta la speranza d'entrare fra' pretoriani. Questi cinquantamila uomini, fior degli eserciti, dovevano dalle legioni essere considerati come loro rappresentanti, e togliere le speranze d'una ribellione. Il prefetto del pretorio crebbe d'autorità, non solo restando capo dell'esercito, ma e delle finanze e delle leggi. Per gratitudine o per politica condiscendenza Severo concesse ai soldati l'anello d'oro, aumentò le paghe, e con ciò il lusso, la mollezza, l'indisciplina, mentre l'itala gioventù, sturbata da quel suo privilegio, si diede al ladro o al gladiatore. Ciò più tardi: per allora, con truppe valorose e devote egli mosse ad assicurarsi l'impero non da' Barbari, ma dai due emuli, pari d'armi, di forza, d'artifizio. Prevalendo di rapidità e d'accorgimenti, appo Isso e Nicea sconfisse Nigro, e quando il seppe ucciso dai soldati presso Cizico, aspre vendette esercitò sugli amici del vecchio e generoso amico suo; spense la famiglia di esso e i senatori che l'aveano servito da tribuni o generali, gli altri sbandì, e i beni al fisco; molti di grado inferiore mise a morte; condannò coi padri i figli degli uffiziali che avea tenuti ostaggi; alle città fautrici dell'emulo tolse i privilegi; quelli che, buono o mal grado, l'aveano servito di denaro, ne dovettero il quadruplo a lui; lamenti scoppiassero pur d'ogni parte, egli non vi ascoltava. Nel caldo della vittoria passa l'Eufrate, vince gli abitanti dell'Osroene e dell'Adiabene che, fra l'ultime discordie, avevano trucidato i Romani e scosso il giogo; penetra nell'Arabia che avea parteggiato con Nigro, fa guerra anche ai Parti, conquista una porzione della Mesopotamia che riduce a provincia, assedia ed espugna Bisanzio, principale baluardo contro i Barbari. Sapendo che Albino era caro al senato quant'egli odioso, Severo non osava romperla seco apertamente, e gli scriveva lettere lusinghiere, ma al tempo stesso mandava per assassinarlo. Scoperta la slealtà, Albino la proclamò, assunse il titolo d'imperatore, e tragittato nella Gallia, vi fece nodo di autorevoli persone. Severo allora sacrifica una fanciulla per cercare nelle viscere di essa l'esito della guerra[5]: presso Lione s'affrontano cencinquantamila Romani: dopo lunga e incerta battaglia fra eserciti di pari valore, Albino, piagato a morte, spira ai piedi di Severo (197), che con barbara gioja il fa calpestare dal suo cavallo e lasciare ai cani sulla soglia della sua tenda. La sicurezza non sopì in lui il desiderio di vendetta. La moglie ed i figliuoli d'Albino, già perdonati, fe trucidare e gettar nel Rodano, come tutti i parenti e gli amici, coi beni de' quali arricchì i guerrieri suoi e se stesso. Mandando al senato la testa d'Albino, si lamentò con lettera beffarda del bene che i senatori gli aveano voluto, vantò il governo di Comodo, e — In questo teschio (soggiungeva) voi che l'amaste leggete gli effetti del mio risentimento». Giunto poi, sciorinò in senato vilipendj contro Albino, lesse lettere a quello dirette, encomiò le precauzioni di Silla, Mario ed Augusto, mentre Pompeo e Cesare erano periti per inopportuna clemenza. Conseguente alle parole, in pochi giorni quarantadue senatori, consolari o pretori immolò con altri assai alla vendetta, alla gelosia ed all'avarizia sua; fece deificare Comodo, uccidere Narcisso che l'aveva attossicato. La disciplina era il suo scopo; la voleva come un generale d'esercito, dispoticamente; giusto coi piccoli per deprimere i grandi, valendosi de' giureconsulti per organizzare l'obbedienza, e associando la giurisperizia coll'assolutismo; i soldati viepiù voleva sottomessi, quantunque obbligato a condiscendere in parte ad essi perchè stromenti di sua elevazione e conservazione. Il popolo, contento di vederlo uccider ladri, masnadieri, prepotenti, prese a benvolergli; lo chiamava il Mario o il Silla punico, mentre gli Africani lo amavano qual vindice dell'antica Cartagine, il cui nome ricompariva sulle medaglie che la nuova batteva in riconoscenza de' vantaggi da lui decretatile. Mosso per nuove battaglie, da Brindisi fu nella Siria ed a Nisiba di Mesopotamia per respingere i Parti (198): varcato l'Eufrate, prese Seleucia e Babilonia abbandonate, e la capitale Ctesifonte, dopo lungo contrasto e gravi malattie, causate da deficenza di cibo. A Roma è comandato esultare di questi trionfi, fra i quali esso dichiara augusti Caracalla e Geta suoi figliuoli. Riposato alquanto in Siria, visita l'Arabia e la Palestina, ove proscrive la religione ebrea o cristiana: vede i monumenti dell'Egitto, e raccolti dai tempj i libri di arcane dottrine, li chiude nella tomba d'Alessandro Magno, perchè nè quelli nè questa più fossero veduti. Fra ciò non dimentica di spigolare, come dice Tertulliano, i fautori di Nigro e d'Albino e chi gli desse ombra: poi abbandonasi tutto a Flavio Plauziano (201), prefetto del pretorio, cui ne' domestici ragionari e in senato lodava più che Tiberio non facesse di Sejano. Senatori e soldati offrivano a costui statue, voti, sacrifizj, come all'imperatore, e giuravano per la fortuna di Plauziano; solo per lui arrivavasi all'imperatore e ai posti; ed egli abusava dell'autorità, fino a mandare a morte illustri personaggi senza tampoco informarne Severo: il quale, credendolo un sant'uomo, il cresceva d'onori, e ne faceva sposare la figlia Plautilla al suo Caracalla (202). Costei portò una dote che sarebbe bastata, dice Dione, a cinquanta regine; e cento persone di nobili case, alcuni anche padri di famiglia, furono fatti eunuchi per servirla. Ma non sempre spirò quell'aura. Ingelosito di Plauziano, Severo comandò s'abbattessero le statue erettegli: vero è che alcuni governatori, interpretandolo per segno di disfavore, essendosi affrettati di fare altrettanto nelle provincie, furono tolti di posto o sbanditi, e Severo dichiarò che guaj a chi facesse affronto a Plauziano. Caracalla, nojato del fasto di Plautilla, prese tal odio a lei ed al suocero, che ne giurò la ruina; e nel regio appartamento avventatosegli (204), lo fece quivi stesso trucidare, dopo, fui per dire, un regno di dieci anni. La figlia e i confederati di esso furono relegati o morti, dicendosi che macchinava assassinar l'imperatore. Eppure Severo rifiorì il paese; corresse gli abusi insinuati dopo Marc'Aurelio; il tesoro trovato esausto, lasciò riboccante, e grano bastevole per sette anni[6], olio per cinque, avendo disposto onde alquanto distribuirne in perpetuo a ciascun cittadino. Alzò nuovi monumenti, e riparò i vecchi a Roma e nelle maggiori città, sicchè molte presero il nome di sue colonie; largheggiò col popolo e negli spettacoli; mantenne la pace interna. Contro i Caledonj sollevati e vincitori accorse nella Britannia (208), traendo seco i due suoi figli per istrapparli dalle lascivie: e benchè gottoso e vecchio, inseguiva a foco e ferro i nemici ne' più fitti loro recessi, li costrinse alla pace, e per separare le conquiste nuove dal paese indipendente, tirò una mura sull'istmo tra il golfo di Forth (_Bodotria æstuarium_) e la foce della Clyde (_Glota_). Poco durarono in quiete i Caledonj, e saputo che Severo stava malato, irruppero, ond'egli mandò Caracalla che li guerreggiasse a sterminio. Costui, che già aveva tentato assassinare il padre in battaglia, ora a capo d'un esercito colorì gli empj disegni, inducendo soldati e tribuni a disdire obbedienza al vecchio infermo. Severo rimbrottò l'esercito, fece decollare i più rei, ma al figlio perdonò; e l'unico suo atto di clemenza nocque al mondo più che tutte le sue crudeltà. Desolato dall'infame condotta di Caracalla, a York (_Eboracum_) sentendosi morire, Severo fece leggere ai due figliuoli il discorso che Sallustio mette in bocca a Micipsa per esortare i suoi eredi alla concordia: raccomandò quella ch'è principale arte de' tiranni, conciliarsi i soldati colle liberalità, poco curandosi del resto: fece trasferire la Fortuna Aurea dalla sua nella camera di Caracalla, poi in quella di Geta, ed esclamò, — Fui tutto, e a nulla giova»[7]; chiesta l'urna preparata per le sue ceneri, soggiunse, — Tu racchiuderai quello a cui la terra fu piccola». Non reggendo agli spasimi, domandò veleno, e negatogli, mangiò tanto da soffocare (211). Accostavasi ai sessantasei anni, e ne regnò diciassette e otto mesi. All'effigie cerea di lui, in Roma collocata sopra letto d'avorio e coltrici d'oro, per sette giorni fecero corteggio senatori in bruno e dame in bianco; i medici proseguivano regolari visite, annunziando i progressi del male, finchè il settimo pubblicarono la morte. Allora il feretro fu per la via Sacra portato a spalla di cavalieri nel fôro, accompagnato dai senatori e dalla gioventù che inneggiava l'estinto. Sul Campo Marzio erasi elevata splendida piramide di legno, contenente quattro camere sovrapposte e decrescenti: nella seconda fu collocato il simulacro, sparso d'aromi e di fiori; e poichè i cavalieri ebbero attorno gareggiato in corse di cavalli, vi fu messo fuoco, e di mezzo alle vampe un'aquila, sciogliendo il volo, simboleggiò l'anima di Severo salente agli Dei. Avea pubblicato leggi di grande, quantunque severa giustizia, cui dettava e faceva eseguire egli stesso come despoto; poichè avvezzo ai campi e sapendosi esoso al senato, sprezzò e conculcò questo simulacro di autorità intermedia fra l'imperatore e i sudditi. Così svellendo gli ultimi resti della repubblica, insinuò colla dottrina e colla pratica il sistema despotico, e agevolò gli abusi de' suoi successori e il tracollo dell'impero. CAPITOLO XLIV. I Trenta Tiranni. Diocleziano. Imperatori colleghi. Costituzione mutata. Caracalla e Geta, uno di ventitre, l'altro di ventun anno, all'indolenza di chi nasce nella porpora aggiungevano mostruosi vizj ed un reciproco esecrarsi. Il padre adoprò consigli e rimproveri per mitigare quell'accannimento; s'ingegnò di uguagliarli in tutto, fin, cosa inusata, nel titolo d'augusto: ma Caracalla tenevasi oltraggiato di ciò, e del veder Geta conciliarsi il popolo e l'esercito. Appena Settimio Severo chiuse gli occhi, i due augusti abbandonarono le conquiste per giungere a chi primo in Roma; e proclamati entrambi dagli eserciti, ebbero eguale dominio indipendente. Già in via non aveano mangiato mai insieme, mai dormito sotto il medesimo tetto; in città si divisero il palazzo, ch'era più grande di tutta Roma[8], fortificando la porzione dell'uno contro quella dell'altro, e postando sentinelle; nè mai s'incontravano che coll'ingiuria sul labbro, col pugno sull'elsa. Per ovviare l'imminente guerra fraterna, fu proposto di spartire l'impero; ma Caracalla tolse le difficoltà col trucidar Geta (212 — 27 febb) in grembo a Giulia loro madre. Fra rimorso e soddisfazione, quel mostro fugge al campo de' pretoriani, prostrasi agli Dei, e dicendosi scampato dalle insidie fraterne, protesta voler vivere e morire coi fedeli soldati. Questi prediligevano Geta, ma un donativo di mille settecento lire ciascuno sopì le mormorazioni. Caracalla non avea udito da suo padre, — Tienti amici i soldati, e basta?» Del senato non restavagli a temere; per dare un osso al popolo, lasciò deificar Geta, dicendo, — Sia divo, purchè non sia vivo»; e consacrò a Serapide la spada con cui l'avea trafitto. Ma le furie ultrici straziarono il fratricida, che tra le occupazioni, le adulazioni, le lascivie, vedevasi incontro i fantasmi del padre e del fratello. Per cancellare ogni memoria dell'estinto, ne abbattè le statue, e fuse le monete; a Giulia che lo piangeva, minacciò morte; la diede a Fadilla, ultima figlia di Marc'Aurelio; ventimila persone fe trucidare, come amici di esso. Ad Emilio Papiniano giureconsulto, già odioso a lui perchè Severo gli avea raccomandato l'amministrazione del regno e la concordia di sua famiglia, comandò di scrivere un'apologia del suo fratricidio, come Seneca avea fatto con Nerone; ma questi rispose: — È più facile commetterlo che giustificarlo», e con intrepida morte suggellò la fama acquistata colle opere e colle cariche. Fattosi al sangue, Caracalla ne agogna sempre di nuovo, e basta per colpa l'esser ricco o virtuoso. Girò le varie provincie (213-16), massime le orientali, sfogando l'ingordigia di supplizj contro tutto il genere umano. Dovunque fosse, i senatori doveano preparargli e banchetti e sollazzi d'immenso costo, ch'egli poi abbandonava alle sue guardie; ergergli palazzi e teatri, che o nè guardava tampoco o comandava di demolire. Per acquistare popolarità, vestiva secondo il paese; in Macedonia, attestando ammirazione per Alessandro, ordinò un corpo del suo esercito a modo della falange, attribuendo agli uffiziali il nome di quelli dell'eroe; in Asia idolatrò Achille; dappertutto buffone e carnefice; nella Gallia fece uccidere sino i medici che l'aveano guarito; per una satira ordinò di sterminare gli Alessandrini, e dal tempio di Serapide dirigeva la strage di migliaja d'infelici, lutti, come egli scrisse al senato, colpevoli. Del resto nessuna cura nè degli affari nè della giustizia; a giullari, cocchieri, commedianti, gladiatori profondeva oro; a liberti, istrioni, eunuchi dava i primi posti: che importavano i lamenti del mondo intero? «Tienti amici i soldati, e basta». A costoro Caracalla largheggiò ancor più che suo padre, del quale poi non avea la fermezza per frenarli; settanta milioni di dramme all'anno distribuiva ad essi, oltre la paga aumentata; li lasciava poltrire ne' quartieri, e ne provocava la famigliarità, imitandone il vestire, i modi, i vizj. Dopo sprecato l'immenso tesoro di Severo, dovette fin battere moneta falsa, e a Giulia, che nel rimproverava, rispose impugnando la spada: — Finchè avrò questa, mai non me ne mancherà». Menò qualche guerra, ed essendosi i popoli della Germania sollevati di conserva, volendo o parte de' suoi tesori o guerra eterna, egli scelse il primo patto: non ricevette però gli ambasciatori, ma i soli interpreti, che subito fece ammazzare perchè non testimoniassero della sua vergogna. Assassinò il re dei Quadi; e chiamati i giovani della Rezia alle armi, li fece scannare. Avendo invitato Tiridate re dell'Armenia e dell'Osroene ad Antiochia, lo gittò in carcere, e l'Osroene ridusse a provincia; ma l'Armenia non potè. Senz'altra dichiarazione entrato sulle terre dei Parti, ne sterminò gli abitanti, fin collo sbandare bestie feroci: e sebbene non avesse visto nemico, si vantò vincitore dell'Oriente, e il senato gli aggiunse i titoli di Germanico, Getico e Partico, ed il trionfo. Elvio Pertinace, figlio dell'imperatore ucciso, disse che il soprannome di _Getico_ gli conveniva, per allusione a Geta ucciso; e pagò il motto colla vita. La prefettura del pretorio, che allora comprendeva tutte le funzioni del dominio, era stata divisa; pel militare ad Avvento, pel civile a Marco Opilio Macrino avvocato di Cesarea in Mauritania. Un africano indovino predisse a quest'ultimo l'impero: del che fu mandato avviso a Caracalla mentre in Edessa guidava un cocchio, ed egli consegnò il dispaccio a Macrino stesso. Questi vide inevitabile il morire o dar morte; onde comprò il centurione Marziale, che trafisse Caracalla intanto che pellegrinava al tempio della Luna a Carre [Sidenote: 217 — 8 aprile]. Giulia Domna sua madre, che Severo avea sposata perchè le stelle prediceanle regio marito, oltre bella, era di vivace immaginativa, di fermo animo, di squisito giudizio, insegnata nelle arti e nelle lettere, e protettrice degli uomini d'ingegno, le cui lodi però non sopirono certi scandali. Sull'austero e geloso marito mai non avea preso ascendente, ma sotto il figlio amministrò con prudenza e moderazione; poi, per non sopravivere alla dignità, lasciossi morir di fame. Questo mostro si rese memorabile coll'avere dichiarato cittadini romani tutti i sudditi, non per generosità, ma per sottoporre anche i provinciali alla ventesima delle eredità, che pagavasi dai soli cittadini[9]. Tre giorni vacò l'impero del mondo: al quarto, i pretoriani non trovando a chi darlo, acclamarono Macrino, che se ne mostrava alieno ed accorato dell'uccisione di Caracalla, e che subito sparse doni, promesse, amnistia. Il senato, fin allora esitante, prodigò imprecazioni al morto, a Macrino più onori che a verun altro mai, cesare il figlio suo, augusta la moglie; e il supplicò di punire i ministri di Caracalla e sterminare i delatori. Macrino gli permise d'esigliare e senatori e alcuni cittadini, crocifiggere gli schiavi o liberti accusatori de' padroni; poi all'esercito consentì la deificazione di Caracalla, che il sempre docile senato approvò. Tentando riparare i disordini, annullò gli editti repugnanti alle leggi di Roma; punì col fuoco gli adulteri, chiunque fossero; gli schiavi fuggiaschi obbligava a combattere coi gladiatori; talvolta i rei lasciava morir di fame; condannava nel capo i delatori che non provassero l'accusa; se la provassero, lasciava loro l'ordinaria ricompensa d'un quarto dei beni dell'accusato, ma li dichiarava infami; i cospiranti contro la sua persona ora punì, ora perdonò. Questo rigore, e il surrogare talvolta nelle cariche a persone illustri gente sprovvista di nobiltà e di merito, eccitò scontenti; trovossi indecoroso il vedere in trono uno che nè tampoco era senatore, nè con veruna qualità ricattava la bassezza dei natali. Giustizia o paura, l'imperatore rimandò i prigionieri rapiti da Caracalla: ma Artabano IV re dei Parti, che faceva armi per vendicare il costui affronto, pretese riedificassero le terre da Caracalla diroccate, restituissero la Mesopotamia, e un'ammenda per le sepolture dei re Parti oltraggiate; e non ottenendolo, assalì i Romani presso Nisiba, li ruppe, nè concedette pace che al prezzo di cinquanta milioni di dramme. Gli Armeni furono mitigati col rimettere Tiridate in trono. Causa principale delle rotte era l'indisciplina degli eserciti; onde Macrino, ingegnandosi di ristabilirla, dai molti quartieri delle città li trasferì alla campagna, vietando anzi d'accostarsi a quelle, e puniva irremissibilmente ogni lieve fallo: volle anche attenuare la paga ai soldati, che allora levarono il grido, rinfacciandogli l'oziare suo suntuoso in Antiochia, e l'ipocrisia onde avea finto piangere l'assassinio di Caracalla, opera sua. Soffiava nel fuoco Giulia Mesa, sorella di Giulia Domna, scaltra come donna, e come uomo coraggiosa, alla quale Macrino avea lasciato le molte ricchezze, relegandola però ad Emesa in Fenicia, coi nipoti Vario Avito Bassiano di tredici e Alessandro Severo di nove anni, nati quello da Giulia Soemi, questo da Giulia Mammea sue figliuole. Il primo, detto Elagabalo dal nome del dio Sole di cui essa l'avea fatto sacerdote, dai soldati del non lontano campo di Macrino si fece ben volere per dolcezza e affabilità, tanto più dopo che Mesa sparse fosse generato da Caracalla, e puntellò tal opinione con larghi donativi; indotti dai quali, il proclamarono imperatore col nome di Marc'Aurelio Antonino Elagabalo (218). Ulpio Giuliano prefetto del pretorio, spedito contro di esso, fu trucidato: Macrino, in tentenno fra il rigore e l'indulgenza, alfine lo dichiarò nemico della patria, proclamò augusto il proprio figlio Marco Opilio Diadumeno, e promise a' soldati cinquemila dramme, al popolo cencinquanta per testa. Non ostante ciò, i soldati si chiarirono pel giovinetto; trucidavano gli uffiziali per succeder loro nei beni e nel grado com'era promesso; poi in battaglia sui confini della Siria e della Fenicia, Macrino con intempestiva fuga decise della giornata. Côlto presso Archelaide in Cappadocia, mentre era condotto all'emulo, avendo inteso che il bilustre figliuolo Diadumeno era stato pubblicamente decollato, si precipitò dal carro, e le guardie ne finirono i dolori e la vita. I pochi che resistettero, perirono: in venti giorni cominciata e finita la rivoluzione. Elagabalo molti mesi consumò in frivolo viaggio e pomposo dalla Siria in Italia, ove intanto spedì le solite promesse, e il proprio ritratto in abiti sacerdotali di seta e d'oro, ondeggianti all'orientale, sul capo la tiara, monili e collane e gemme per tutto, le ciglia tinte in nero, le gote in rosso; talchè Roma dovette accorgersi che, dopo la militare brutalità, le sovrastava il molle despotismo orientale. E veramente il sacerdote del Sole sorpassò in empietà, prodigalità, impudicizia e barbarie i mostri che l'avevano preceduto. Fra le sei mogli che in quattro anni condusse e che ripudiò od uccise, contò anche una Vestale, colpa inaudita. Non d'altro che di stoffe d'oro coprivansi i suoi appartamenti: nudo guidava il cocchio tempestato di gemme, cui aggiogava donne seminude, e per giungere a quello non dovea calcare che polvere d'oro: d'oro i vasi a qualunque uso, e la notte distribuiva ai convitati quelli usati il giorno: le vesti, de' drappi più fini, nè mai portò due volte la stessa, mai due volte un anello. Le peschiere empì d'acqua di rose, di vino il canale de' conflitti navali: un indistinto di fiori ricreava le camere, le gallerie, i letti suoi: imbandiva pranzi di sole lingue di pavoni e rossignuoli, d'ova di rombi, cervella di papagalli e fagiani, talloni di camelli, mamme di cigni: non assaggiava pesci se non quando si trovasse lontanissimo dal mare, ed allora ne distribuiva al vulgo quantità de' più fini e più costosi al trasporto: nutriva i cani con fegato di paperi, i cavalli con uva, le fiere con fagiani e pernici. Chi inventasse qualche pruriginoso manicaretto, n'avea premio; ma se non incontrasse il gusto dell'imperatore, era condannato a non mangiar altro che di quello, finchè non ne scoprisse uno più avventurato. Servivansi inoltre a quelle mense piselli misti con grani d'oro, lenti con pietre di fulmine, fave con ambra, riso con perle; mescevasi mastice al vin di rosa, spolveravansi d'ambra i tartufi e i pesci. D'argento erano le tavole, e i vasi in forme impudiche; di nardo alimentavansi le lampade; rose e giacinti piovevano sui convitati, alcuna volta in tal quantità da soffocarli, per divertimento dell'imperatore. A infamie le più sozze, di cui il suo palazzo fu un ridotto, invitava gli amici, che chiamava commilitoni per l'indegno consorzio; e le salaci prodezze guadagnavano agli amasj suoi le prime cariche dell'impero. Repente cacciò tutte le meretrici, e vi surrogò garzoni, e si fece sposare da un uffiziale e da uno schiavo, consumando le bestiali nozze al cospetto del mondo. Amò tanto il servo Ganni, che pensò sposargli sua madre e farlo cesare; ma avendolo questi esortato a maggior decenza, lo trucidò: altri assai mandò a morte nella Siria e altrove, come disapprovassero la sua condotta. Quando apparve la prima volta nella curia, volle sua madre fosse annoverata fra i padri coscritti, con voce al par di loro; anzi istituì, sotto la presidenza di lei, un senato di donne, che risolvessero sugli abiti dei Romani, i gradi, le visite, e siffatte importanze. Pazzo pel dio al quale doveva il nome e il trono, e che era adorato sotto forma d'un cono di pietra nera, gli alzò tempio magnifico sul Palatino, con riti forestieri; Giove e gli altri Dei gli fossero servi; anzi a nessun altro che a quello si prestasse adorazione. Profanati adunque e spogli i tempj, al suo furono recati il fuoco eterno di Vesta, la statua della Gran Madre, gli scudi Ancili, il Palladio; e da Cartagine trasferita la dea Astarte con tutti gli ornamenti, la sposò al dio suo con nozze sfarzose. Pel culto di quello, non che astenersi egli medesimo dalla carne di porco e farsi circoncidere, sagrificava fanciulli, rapiti ad illustri famiglie. Menando in processione la rozza pietra s'un carro a sei bianchi cavalli, fece spolverar d'oro la via; egli, tenendo le briglie, camminava a ritroso per non torcere gli occhi dalla prediletta divinità. Nei sacrifizj suoi vini squisiti, rarissime vittime, preziosi aromi si consumavano, e tra le lascive danze che sirie fanciulle menavano al suono di barbarici stromenti, i più gravi personaggi di toga e di spada adempivano ridicole ed abjette funzioni. Mesa faceva inutile prova di frenare quel forsennato: e prevedendo che i Romani, ossia i soldati, nol soffrirebbero a lungo, lo indusse (221) a adottare il cugino Alessandro Severo, acciò, diceva, gli affari nol distraessero dalle divine sue cure. Elagabalo, come vide costui non pigliar parte alle sue dissolutezze, e rendersi caro al popolo e al senato, tentò ucciderlo: ma i pretoriani si sollevarono, e uccidevano l'imperatore se a lacrime non avesse impetrato gli lasciassero la vita e lo sposo; onde sfogarono la loro indignazione sugli altri compagni di sue dissolutezze. Quando l'anno vegnente attentò ancora alla vita d'Alessandro, i pretoriani di nuovo tumultuarono, e avendo Elagabalo dovuto portarlo nel loro campo, a quello profusero applausi, a lui insulti. Irritato, comanda la morte di alcuni, ma i loro compagni li strappano al carnefice; si fa baruffa; Elagabalo si nasconde nelle fogne, ed ivi scoperto è ucciso (222). Avea diciott'anni! Alessandro Severo di quattordici fu gridato imperatore, augusto, padre della patria, grande, prima di pur conoscerlo[10]. Egli, dolce e modesto, lasciossi regolare dalla madre Mammea[11], la quale gli pose attorno un consiglio di sedici senatori, e a loro capo il celebre Domizio Ulpiano, affinchè risarcissero lo scompiglio del governo e delle finanze, rimovessero i tanti indegni impiegati, e formassero il giovane imperatore. Rispettoso ad essa e ad Ulpiano, aborrente dagli adulatori, Alessandro amò la virtù, l'istruzione, il lavoro. Sorto coll'alba, dopo le devozioni nella domestica cappella, adorna delle immagini d'eroi benefici, dava opera agli affari nel consiglio di Stato e alle cause private, donde ricreavasi coll'amena lettura e collo studiare poesia, filosofia, storia, massime in Virgilio, Orazio, Platone e Tullio, senza trascurare gli esercizj del corpo. Rimessosi poi agli affari, dava spaccio a lettere e memoriali, fin alla cena, frugalmente imbandita per pochi amici, dotti e virtuosi, la cui conversazione o la lettura gli tenesser luogo de' ballerini e de' gladiatori, condimento ai banchetti romani. Vestiva positivo, parlava cortese, a tutti dava udienza in certe ore, e un banditore ripeteva quella formola de' misteri eleusini: — Qua non entri chi non ha animo castigato ed innocente». Avea scritto sulle porte del palazzo: — Fate altrui quel che a voi vorreste fatto». Di Cristiani avea piena la Corte, e v'è chi dice adorasse in secreto Cristo ed Abramo, e pensasse ergere tempj al vero Dio, se gli oracoli non avessero riflettuto che ridurrebbe con ciò deserti que' degli altri. Come vedeva usato dai Cristiani nella scelta de' sacerdoti, pubblicava il nome de' governatori che eleggeva alle provincie, invitando chi avesse alcun che da opporre. Moderato il lusso, diminuì il prezzo delle derrate e l'interesse del denaro, non lasciando al popolo mancare nè largizioni nè divertimenti. I governatori, persuasi che l'amore de' governati fosse il solo modo di piacergli, tornavano in lena le provincie; e così ricreavasi l'impero da quarant'anni di diversa tirannia. Restavano, pessima piaga, i soldati, indocili d'ogni freno. Alessandro gli amicò coi donativi e con alleviarli da qualche peso, come dal portar nelle marcie la provvigione per diciassette giorni; ne diresse il lusso sui cavalli e sulle armi; alle loro fatiche sottoponevasi egli stesso, li visitava malati, non lasciava alcun servizio senza memoria o compenso, e diceva premergli più il conservar loro che se stesso, in quelli consistendo la pubblica salvezza. Ma val rimedio a male incancrenito? Ai pretoriani venne a noja la virtù del loro creato, e tacciavano Ulpiano loro prefetto di consigliarlo alla severità; onde infuriati corsero Roma per tre giorni come città nemica, ficcando anche il fuoco, sinchè ebbero Ulpiano, che trucidarono sugli occhi stessi dell'imperatore (230), indarno buono. Egual fine minacciavano a qualunque ministro fedele; nè Dione storico campò, che con celarsi nelle sue ville di Campania. Le legioni imitarono il tristo esempio, e da ogni banda rivolte e uccisioni d'uffiziali attestavano che nulla più giovava la bontà in tanta sfrenatezza. Al tempo suo (223-26) una grande rivoluzione ristorò l'impero di Persia, e Ardescir-Babegan o Artaserse, figlio di Sassan, re dei re, all'unità dell'amministrazione e del culto del fuoco secondo la dottrina di Zoroastro ridusse quanto paese giace tra l'Eufrate, il Tigri, l'Arasse, l'Oxo, l'Indo, il Caspio e il golfo Persico. Erano nuovi tremendi nemici all'impero romano; giacchè Ardescir disegnò ricuperare quanto avea posseduto Ciro; e senza riguardo ad Alessandro Severo, passò l'Eufrate (232), sottomise molte provincie contigue, ed all'imperatore che s'avvicinava coll'esercito mandò quattrocento uomini, i più atanti di loro persone, i quali dicessero: — Il re dei re manda ordine ai Romani e al loro capo; sgombrino la Siria e l'Asia Minore, e restituiscano ai Persiani i paesi di qua dell'Egeo e del Ponto, posseduti dai loro avi». Alessandro s'irritò a quella tracotanza, e tolti ai messi gli ornamenti, li relegò nella Frigia; la Mesopotamia senza battaglia ricuperò; e sconfisse Ardescir (233), che contava cenventimila cavalli, diecimila soldati pesanti, mille ottocento carri da guerra, e settecento elefanti. Alessandro divise il suo esercito in tre corpi, che per diversi lati invadessero la Partia; e la concordia del ben disposto attacco avrebbe potuto fiaccare i Persi, se l'esercito romano non avesse ricusato le fatiche e trucidato gli uffiziali. Reduce a Roma (234), e vantate le sue imprese in senato, Alessandro trionfò condotto da quattro elefanti, ed ebbe il soprannome di Partico e di Persico: ma poco stante Ardescir ripigliò quanto i Romani aveano acquistato, e in quindici anni di regno consolidò la sua potenza minacciosa alla romana. Alessandro disponevasi a rinnovare le ostilità, da cui lo distrassero i Germani. Accorso al Reno, ne li respinse (235); ma l'arrestò lo scompiglio de' suoi eserciti, intolleranti delle fatiche, della disciplina e del rigore ond'egli puniva qualunque oltraggio recassero nelle marcie, lungo le quali faceva ripetere dagli araldi quel suo — Fate come volete che a voi si faccia». Quando Alessandro, reduce d'Oriente, festeggiò nella Tracia con giuochi militari il natogli Geta, si presentò un garzone balioso, in barbara lingua implorando l'onore di concorrere alla lotta. La sua corporatura dava grand'indizio di vigoria; laonde, affinchè non avesse, egli barbaro, a trionfare d'un soldato romano, furongli opposti i più forzosi schiavi del campo: ma un dopo l'altro, sedici ne abbattè. Compensato con regalucci ed arrolato nelle truppe, al domani le divertì con saltabellare a modo del suo paese: e vedendo che Severo gli avea posto mente, tenne dietro al cavallo di lui in una lunga corsa, senz'ombra di stanchezza; al fine della quale avendogli l'imperatore esibito di lottare, accettò e vinse sette robusti soldati. Alessandro il regalò d'una collana d'oro, e lo scrisse fra le guardie del suo corpo con paga doppia, l'ordinaria non bastando al suo mantenimento. Costui chiamavasi Massimino, di padre goto, di madre alana: alto otto piedi, trascinava un carro cui non bastava un par di bovi, sradicava alberi, fiaccava la tibia di un cavallo con un calcio, spiaccicava ciottoli fra le mani, mangiava quaranta libbre di carne, bevea ventiquattro pinte di vino al giorno, quando non eccedesse. Nel trattare cogli uomini vide la necessità di frenare la natìa fierezza; e sotto i succedentisi imperadori si conservò in grado: Alessandro il costituì tribuno della quarta legione; indi, per la disciplina che serbava, lo promosse al primo comando, lo ascrisse al senato, e pensava dare sua sorella a Giulio Vero figlio di lui, bello, robusto e coraggioso quanto superbo. Tanti benefizj, non che ammansassero Massimino, l'invogliarono a tutto osare quando tutto potea la forza; spargeva cronache e risa su questo imperator siro, tutto senato, tutto mamma; e formatasi una fazione, lo assalì presso Magonza (235), e lo trucidò con Mammea, di soli ventisei anni. I soldati uccisero gli assassini, eccetto il capo: popolo e senatori piansero Alessandro quanto meritava, e con annua festa ne commemoravano il natale. Massimino, gridato imperatore, si associò il figlio, cui i soldati baciarono le mani, le ginocchia, i piedi; il senato confermò quel che non poteva disfare; e tosto cominciarono le vendette e le crudeltà. Come chi da infima perviene ad alta fortuna, Massimino temeva il dispregio e i confronti; quindi la nascita illustre o il merito erano colpa agli occhi suoi, colpa l'averlo vilipeso, colpa l'averlo sovvenuto nella sua povertà. Un sospetto bastava perchè governatori, generali, consolari fossero incatenati sui carri e portati all'imperatore, che, non sazio della confisca e della morte, li faceva o esporre alle fiere entro pelli fresche di bestie, o battere sinchè avessero fil di vita. Nè i Cristiani cansarono la sua ferocia (236). A pari con questa andava in lui l'ingordigia; e incamerò le rendite indipendenti che ciascuna città amministrava per le pubbliche distribuzioni e per sollazzi, spogliò i tempj, e le statue di numi e d'eroi volse in moneta. Dappertutto fu indignazione, in qualche luogo tumulto. Nell'Africa, alcuni giovani ricchissimi, spogliati d'ogni ben loro dal procuratore ingordo, armano schiavi e contadini, trucidano il magistrato, e gridano imperatore Marc'Antonio Gordiano (237) proconsole di quella provincia. Questo ricco e benefico senatore, discendente dai Gracchi e da Trajano, occupava in Roma il palazzo di Pompeo, adorno di trofei e pitture: aveva sulla via di Preneste una villa di magnifica estensione, con tre sale lunghe cento piedi, e un portico sorretto da ducento colonne de' quattro più stimati marmi: nei giuochi dati al popolo, non esibiva mai meno di cencinquanta coppie di gladiatori, talora cinquecento: un giorno fece uccidervi cento cavalli siciliani ed altrettanti cappadoci, e mille orsi, a non dire le fiere minori: e siffatti giuochi, essendo edile, rinnovò ogni mese; fatto console, gli estese alle principali città d'Italia. Qui tutta la sua ambizione; placido del resto da non eccitare la gelosia de' tiranni, attendeva alle lettere e cantò in trenta libri le virtù degli Antonini. Toccava gli ottant'anni quando gli sopragiunse codesta sventura dell'impero; e poichè preci e lacrime adoprò invano a stornarla, vedendo non camperebbe altrimenti o dai soldati o da Massimino, accettò e pose sede in Cartagine. Imperatore con esso fu dichiarato suo figlio Gordiano, il quale avea raccolto ventidue concubine e sessantaduemila volumi: da ciascuna delle prime ebbe tre o quattro figliuoli; degli altri si valse per fare egli stesso libri, di cui qualcuno ci rimane. Dando contezza al senato della loro elezione, i nuovi imperatori protestavano deporrebbero la porpora se così a quello piacesse; dei decreti ordinavano la pubblicazione soltanto qualora il senato vi acconsentisse; richiamavano gli esuli, promettevano generosamente ai soldati e al popolo, invitavano gli amici a sottrarsi dal tiranno. La risolutezza del console vinse l'esitanza del senato, che dichiarò nemici i Massimini e chi con loro, e ricompense a chi gli uccidesse; e per tutta Italia si diffuse la rivolta, contaminata di troppo sangue. Il senato avvilito a quel modo sotto il villano goto, ripigliava allora spiriti e dignità, disponeva la difesa e la guerra, per deputati invitava i governatori in ajuto della patria. Dappertutto erano i ben accolti; ma Capeliano, governatore della Mauritania e privato nemico de' Gordiani, fatto massa, aggrediva i nuovi imperatori (238) in Cartagine. Il figlio periva combattendo; il padre all'annunzio si strangolava, regnato appena sei settimane: Cartagine fu presa, e torrenti di sangue saziarono la vendetta di Massimino. Il quale, all'udire le prime nuove, infuriando a modo di bestia, voltolavasi per terra, dava del capo nelle muraglie, trafisse quanti gli erano intorno, finchè a viva forza gli si strappò la spada, poi mosse verso Italia. Proclamava intera perdonanza: ma chi si sarebbe fidato? Il senato, spinto dalla disperazione ad un coraggio che la ragione rinnegava, proclamò imperatori due vecchi senatori, Massimo Pupieno e Claudio Balbino, uno che dirigesse la guerra, l'altro che regolasse la città. Il primo, figlio di un carpentiere, rozzo ma valoroso ed assennato, era salito di grado in grado fino ai sommi e alla prefettura di Roma. Le sue vittorie contro Sarmati e Germani, e il tenore austero di sua vita, non disgiunta da umanità, il faceano riverito dal popolo; come amato n'era Balbino, oratore e poeta di nome, integro governatore di molte provincie, ricco sfondolato e liberale, amico de' piaceri senza eccesso. Appena costoro in Campidoglio compivano i primi sagrifizj, il popolo tumultua, vuol fare esso pure una elezione, e che ai due s'aggiunga un nipote di Gordiano, fanciullo di dodici anni, anch'esso Gordiano di nome. Quelli accettarono il cesare, e rabbonacciato il tumulto, pensarono a consolidarsi. Massimino, a capo dell'esercito col quale avea più volte vinto i Germani e meditato stendere l'impero fino al mar settentrionale, movea sbuffando sopra l'Italia, che mai non avea vista dopo imperatore; e sceso dall'AIpi Giulie, trovava il paese deserto, consumate le provvigioni, rotti i ponti, volendo così il senato logorarne le forze sotto i castelli nel miglior modo muniti. Prima Aquileja gli abbarrò la marcia con risoluto coraggio, fidata nel dio Beleno, che credeva combattesse sulle sue mura. Se però Massimino si fosse lasciata alle spalle quella città, difilandosi sopra Roma, che cosa avrebbe potuto opporgli Pupieno, proceduto sin a Ravenna per tenergli testa? E che valevano i politici accorgimenti di Balbino contro gl'interni tumulti? Ma le truppe di Massimino, trovando il paese desolato e un'inattesa resistenza, s'ammutinarono; e un corpo di pretoriani, tremando per le mogli ed i figli loro rimasti nel campo d'Alba, trucidarono il tiranno col figlio e co' suoi più fidati. Aquileja spalanca le porte, assediati e assediatori abbracciansi nella esultanza della ricuperata libertà, e in Ravenna, in Roma, per tutto la gioja, i mirallegro, i ringraziamenti agli Dei sono in proporzione del terrore eccitato dagli uccisi e dalla fiducia nei nuovi. Questi abolirono o temperarono le tasse imposte da Massimino, rimisero la disciplina, pubblicarono leggi opportune col consiglio del senato, e cercarono rimarginare le ferite sanguinose. Pupieno chiedeva a Balbino: — Qual premio aspettarci per aver liberato Roma da un mostro? — L'amore del senato, del popolo e di tutti», rispose Balbino; ma l'altro più veggente: — Sarà piuttosto l'odio dei soldati e la loro vendetta». E indovinò. Ancor durante la guerra, popolo e pretoriani si erano in Roma levati a stormo, inondate le vie di sangue, gittato il fuoco ne' magazzini e nelle botteghe. Il tumulto fu sopito, non estinto, talchè i senatori andavano muniti di pugnali, i pretoriani adocchiavano l'occasione di vendicarsi; tutti al pari beffandosi dei deboli argini che gl'imperatori mettevano al torrente delle fazioni. Crebbe il fermento allorchè i pretoriani si trovarono riuniti in Roma; e fremendo che agl'imperatori da essi eletti fossero surrogate queste creature del senato, e che si pretendesse rimettere le leggi e la disciplina, trucidano gl'imperatori, e recano al campo il giovine Gordiano III, proclamandolo unico padrone (238). Quel fanciullo pareva nato fatto per riconciliare i rissosi: egli bello, egli soave, egli rampollo di due imperatori, morti prima di divenire malvagi; egli detto figliuolo dal senato, come dai soldati; egli dalla plebe amato più che qualunque suo predecessore. Misiteo, suo maestro di retorica poi suocero e prefetto al pretorio, dato lo sfratto a' ribaldi confidenti del giovine imperatore, meritò la fiducia coll'onestà e colla valentìa. Ma poco appresso morì; e il comando de' pretoriani fu commesso a Marco Giulio Filippo, che, non contento di quel posto, brigò fra i soldati tanto, che obbligò Gordiano ad assumerlo compagno nel dominio (244), poi lo depose, infine lo trucidò a Zait mentre guerreggiava il re sassanide Sciapur o Sapore, figlio di Ardescir. Filippo era nato a Bosra nell'Idumea, da un capo di carovane arabe, e v'è chi lo dice cristiano, sebbene le opere nol mostrino. Acconciatosi con Sàpore, tornò in Antiochia (243), dove volendo assistere alla solennità della Pasqua, il vescovo Babila lo dichiarò indegno, finchè non subisse la penitenza. Giunto a Roma, si conciliò il popolo colla dolcezza, e celebrò il millenario della città (247) con giuochi ove combatterono trentadue elefanti, dieci orsi, sessanta leoni, un caval marino, un rinoceronte, dieci leoni bianchi, dieci asini, quaranta cavalli selvaggi, dieci giraffe, oltre belve minori e duemila gladiatori. Sanguinosi dovean essere i giubilei della eroica città. Ma d'ogni parte rampollavano nuovi imperatori, il più fortunato de' quali fu Gneo Messio Decio di Sirmio, governatore della Mesia; marciando contro del quale Filippo fu trucidato a Verona (249) per mano dello stesso Decio, dopo cinque anni d'impero. Aveva egli lasciato progredire la religione cristiana, contro della quale invece Decio bandì severissimi editti (250): e chi ne faceva professione, era sturbato dalle case e dai beni, e tratto al supplizio. Rinnovaronsi allora gli orrori delle proscrizioni; fratelli tradirono i fratelli, figliuoli i padri; chi potea sottrarsi a quel furore, si riduceva nelle selve e negli eremi. V'era mosso Decio dall'amore dell'antica disciplina, che, attribuendo le sciagure dell'impero alla corruttela, tentò ripristinare. Avea pensato ristabilire la censura; quasi la rugginosa instituzione fosse applicabile quando su tutto il mondo incivilito sarebbesi dovuto estendere l'ispezione, e chiamare a giudizio inerme l'armata depravazione. Pure volendo che il senato eleggesse un censore, l'unanime voce acclamò Valeriano; e l'imperatore, conferendogli il grado, disse: — Te fortunato per l'universale approvazione! ricevi la censura del genere umano, e giudica i nostri costumi. Eleggerai i meritevoli di seder nel senato, renderai lo splendore all'ordine equestre, crescerai le pubbliche entrate pur alleggerendo le gravezze, dividerai in classi l'infinita moltitudine de' cittadini, terrai ragione di quanto concerna le forze, le ricchezze, la virtù, la potenza di Roma. Al tuo tribunale sono soggetti la corte, l'esercito, i ministri della giustizia, le dignità dell'impero, eccetto solo i consoli ordinarj, il prefetto della città, il re dei sacrifizj, e la maggior Vestale sinchè casta». Prima che al fatto apparisse ineseguibile quel disegno, lo interruppero i Goti, che invasero la Bassa Mesia (254), poi la Tracia e la Macedonia. Ora vincendo a forza, ora giovato dai tradimenti, l'imperatore li ridusse a tale estremità, che offrirono di rendere i prigionieri ed il bottino, pur che fossero lasciati ritirarsi. Decio, risoluto a sterminarli, s'attraversò al loro passo. Mal per lui; giacchè, assalito in disperata battaglia, vide cadere trafitto il proprio figliuolo. Decio gridò ai soldati: — Non abbiam perduto che un uomo; sì lieve mancanza non ci scoraggi»; ed avventatosi ove più fervea la mischia, vi trovò la morte. Dell'esercito sbaragliato le reliquie si raggomitolarono al corpo di Vibio Treboniano Gallo, da lui spedito per tagliare la ritirata ai Goti. Questi, che forse avea colpa della sconfitta, finse volerla vendicare, e così amicossi l'esercito che l'acclamò imperatore: ed egli si associò Ostiliano figlio di Decio, e, morto fra breve costui, il proprio figlio Volusiano. Ma non appena il senato lo confermò, conchiuse vergognosa pace coi Goti, promettendo fin un tributo; serbatosi a manifestare il suo coraggio col perseguitare i Cristiani. Nel suo regno d'un anno e mezzo, peste e siccità desolarono; Goti, Borani, Carpi, Burgundioni irruppero nella Mesia e nella Pannonia; gli Sciti devastarono l'Asia, i Persiani occuparono fino Antiochia. Il mauro Emilio Emiliano, comandante della Mesia, borioso d'aver vinto i Barbari, e sprezzando Gallo che marciva a Roma nei piaceri, si fa salutare imperatore (253 — maggio), e prima che questi ben si sdormenti, entra in Italia, e scontratolo a Terni, il vede ucciso col figlio Volusiano da' suoi stessi soldati. Ma l'esercito uccide lui pure presso Spoleto, dopo quattro mesi di regno, e s'accorda col senato e coll'esercito della Gallia e Germania che aveano acclamato Licinio Valeriano. Illustre nascita, modestia, prudenza faceano caro costui, che forbendosi dai vizj d'allora, applicava alle belle lettere i suoi riposi; devoto dei costumi antichi, aborriva la tirannide, talchè parea degno dell'impero. Ma come l'ottenne, si sentì inabile a tanto peso; nè altro ajuto seppe scegliere che il proprio figlio Egnazio Gallieno, effeminato e vizioso. Pure dava miti ed opportuni provvedimenti, quando il chiamarono all'armi i popoli, che dal Settentrione e dall'Oriente irrompevano. Valeriano, vittorioso dei Goti, combattendo Sàpore (259) nella Mesopotamia restò vinto e prigioniero per tradimento di Fulvio Macriano suo favorito. Il re dei re, invanito dell'opìmo trionfo, il menò catenato per le città principali, sul dosso di lui metteva il piede per montare a cavallo: morto dopo parecchi anni di prigionia, lo fece scorticare, e dedicarne la pelle in un tempio, a perpetuo obbrobrio. Altri storici attestano che rispettò il prigioniero, a cui lo strazio peggiore fu il vedere suo figlio esultare d'una sventura che anticipavagli il regno. I Cristiani vi ravvisarono la punizione dell'aver perseguitato i Fedeli, come fece ad istigazione di Marciano, famigerato mago egizio, il quale gli persuase non potrebbe l'impero mai prosperare finchè non annichilasse un culto abbominato dai patrj numi. All'annunzio della sconfitta, tutti i nemici dell'impero quasi d'accordo l'assalgono e invadono anche l'Italia. Dal pericolo ridesti, i senatori posero in essere la guarnigione pretoriana, arrolandovi i più robusti plebei, sicchè i Barbari diedero volta. Gallieno rimasto solo all'impero, s'adombrò di quest'accesso marziale; onde interdisse ai senatori qualunque grado militare, e fin l'accostarsi ai campi delle legioni: esclusione che i ricchi ammolliti accettarono come un favore. Gallieno procurò imbonire i Barbari anche con parentele, sposando la figlia di Pipa re dei Marcomanni, nozze sempre tenute per sacrileghe dalla romana vanità. Nell'Illiria sconfisse e uccise Ingenuo acclamato imperatore, e in vendetta mandò per le spade gli abitanti della Mesia, colpevoli o no. — Non basta (scriveva a Veriano Celere) che tu faccia morire semplicemente quelli che portarono le armi contro di me, e che avrebbero potuto perire nella zuffa; voglio che in ogni città tu stermini tutti gli uomini, giovani o vecchi: non risparmiare pur uno che m'abbia voluto male o sparlato di me, figlio, padre e fratello di principi. Uccidi, strazia senza pietà, fa come farei io stesso che di propria mano ti scrivo»[12]. Al furibondo decreto davasi esecuzione (261), talchè i minacciati, per disperazione, gridarono imperatore Nonio Regillo. Daco d'origine, e discendente da Decebalo che guerreggiò con Trajano, era prode a segno, che Claudio, futuro imperatore, gli scrisse: — Un tempo ti sarebbe stato decretato il trionfo: ora ti consiglio a vincere con maggior precauzione, e non dimenticare che v'è cui le tue vittorie darebbero sospetto». Questo valore lo portò al trono, ma non gliel conservò, e ben tosto fu ucciso (262) dai proprj soldati. Un altro imperatore sorto nelle Gallie, Cassiano Postumio, di bassa nazione ma sommo capitano, assediò in Colonia Salonino figlio di Gallieno, e l'uccise (259), ed ebbe omaggio dalla Gallia, dalla Spagna e dalla Bretagna, per otto anni conservandovi la tranquillità, e facendosi amare. Tanti tumulti interni lasciavano agevolezza al persiano Sàpore di devastare a baldanza l'Oriente. Anicio Balisto, capitano del pretorio sotto Valeriano, raccolte le reliquie dell'esercito di questo, osa tenergli fronte, e supplendo al numero colla rapidità e l'arte, libera Pompejopoli in Cilicia, fa macello de' Persi in Licaonia, molti rendendone prigioni, e tra questi le donne di Sàpore; poi ritirandosi prima che questi il raggiunga, sbarca come un lampo a Sebaste e a Corissa di Cilicia, sorprendendo e trucidando gl'invasori. Lo aveva soccorso Odenato di Palmira, sceico d'alcune tribù di Saracini, educato dalla puerizia a caccie e battaglie; e che respinto Sàpore e toltigli i tesori, entrò nella Mesopotamia, e inoltrossi nel cuore dell'impero per liberare Valeriano. Vinto Sàpore in campale giornata (261) sulle sponde dell'Eufrate, lo chiude colla sua famiglia in Ctesifonte, e gli sforzi suoi erano forse coronati, se le rinascenti sedizioni dell'impero non avessero resa impossibile qualunque impresa grande. In ricompensa de' segnalati servigi, nominato da Gallieno capo di tutte le forze romane in Oriente, Odenato assunse il titolo di re di Palmira, città del deserto (263), che per la cintura delle solitudini isolata dal mondo, erasi serbata indipendente fra Roma e i Parti, straordinariamente arricchita dall'essere la posata delle carovane che andavano e venivano fra l'impero romano e le Indie. Mentre quivi Odenato e Balisto faceano mirabili prove, Gallieno logoravasi fra meretrici: la crudeltà esercitava, non contro i senatori, ma contro i soldati, facendone morire fin tre e quattromila al giorno. Una volta menò ridicolo trionfo con finti prigionieri vestiti da Goti, Sàrmati, Franchi e Persiani; onde alcuni inopportunamente lepidi si diedero a squadrare costoro, e chiesti che cosa esaminassero tanto minutamente, risposero: — Cerchiamo il padre dell'imperatore». Gallieno li fece buttare nel fuoco, ottimo modo di aver ragione. Poi prendea diletto a disputare col filosofo Plotino, e ideava di commettergli una città ove ridurre in atto la repubblica di Platone; faceva anche bei versi ed orazioni; sapeva con pari maestria ornare un giardino o cuocere un pranzo; iniziavasi ai misteri di Grecia, sollecitava un posto nell'areopago d'Atene; e nelle solennità d'immeritati trionfi o nel lusso di sua corte profondeva tesori, che la pubblica miseria e le grandi calamità reclamavano. Singolarmente memorabile fu il trionfo da lui menato a Roma il decimo anno di suo impero, e descrittoci da Trebellio. L'imperatore, corteggiato dal senato, dai cavalieri, dalle milizie biancovestite, preceduto dal popolo, da donne, da servi con torcie e candele, andò processionalmente in Campidoglio. Cento bovi colle corna dorate e con gualdrappe di seta, preziosa rarità, e ducento pecore bianche precedeano, ond'essere sagrificate. Vi fecero pur mostra dieci elefanti, milleducento gladiatori, carrette con ogni maniera di buffoni e commedianti, forze ciclopiche, feste e giuochi per tutto, infine alquante centinaja di persone vestite da Sciti, da Franchi, da Sarmati, da Persi. Fra ciò, nessuna cura de' pubblici interessi; se gli si dice morto suo padre, — Sapevo ch'egli era mortale»; se gli annunziano perduto l'Egitto, — Faremo senza delle sue tele»; se occupata la Gallia, — Perirà Roma senza le stoffe di Arras?» se predata l'Asia dagli Sciti, — Non potremo noi lavarci senza le spume di nitro?» Quest'indolenza suscitava d'ogni parte usurpatori, che nella storia sono conosciuti col nome di Trenta Tiranni, sebbene quel numero non si ragguagli col vero: ma come senza noja e confusione seguire tutti costoro nel breve tragitto dal trono alla tomba? Fulvio Macriano, meritati i primi gradi della milizia, coll'appoggio di Balisto si fece gridar imperatore. Appena l'udì, Valerio Valente, proconsole nell'Acaja, prese il titolo stesso: lo imitò Calpurnio Pisone (261), speditogli contro. Era quest'ultimo d'illustre casa e di grandi virtù, talchè, all'udirlo ucciso, Valente sclamò: — Qual conto dovrò rendere ai giudici infernali della morte d'uno che non ha l'eguale nell'impero!» Il senato ne decretò l'apoteosi, dichiarando non essersi mai dato uomo migliore nè più fermo. Macriano sul confine della Tracia fu sconfitto e morto. Balisto, chiamatosi imperatore in Emesa, è da un sicario di Gallieno tolto di vita (264). In Egitto un Emiliano fu pure sconfitto e spedito a Roma, e quivi strangolato in prigione, secondo il rito degli avi. Nell'Asia Minore gl'Isauri acclamarono Claudio Annio Trebelliano, e morto questo in campo, ricusarono sottomettersi, e devastarono l'Asia Minore e la Siria fin al tempo di Costantino. Cornelio Gallo, gridato augusto in Africa, in capo a sette giorni è crocifisso. Postumio nelle Gallie associossi Pianvonio Vittorino, resistendo a' replicati attacchi di Gallieno, e vincendo un Lucio Eliano, erettosi imperatore a Magonza; ma non volendo assentire ai soldati il saccheggio di questa città, fu trucidato col figlio. Servio Lolliano che gli successe, cadde ucciso per istigazione di Vittorino (266), che restò unico padrone delle Gallie, finchè un marito oltraggiato non lo scannò. Erasi egli destinato successore il figlio: però i Galli, sdegnando obbedire ad un fanciullo, elessero Marc'Aurelio Mario, armajuolo di forza e valore straordinario; ma, tre giorni dopo, un suo garzone gli confisse la spada nel cuore, dicendo: — Fu fabbricata nella tua fucina». I soldati gli surrogarono Pesuvio Tetrico, senatore e consolare, che restò in possesso della Gallia, Spagna e Britannia. Questi efimeri erano elevati ed abbattuti da Vittoria madre di Vittorino, che a Gallieno opponeva virile coraggio e immense ricchezze. Anche Odenato, che, pel merito d'aver conservate le provincie orientali, era stato da Gallieno assunto socio all'impero, e che continuava prosperamente contro i Persi, mentre accorreva per riparare alle invasioni dei Goti fu assassinato ad Emesa da un suo nipote (267); e in nome dei tre figli che lasciava, governò la sua seconda moglie Zenobia, forse complice dell'assassinio, col titolo di regina d'Oriente e colle insegne imperiali. Acilio Aureolo, generale di Gallieno nell'Illiria, era stato obbligato dall'esercito ad accettare la porpora, e passate le Alpi, battuto l'esercito imperiale sull'Adda fra Bergamo e Milano, ove gettò un ponte che ancora conserva il suo nome (Pons Aureoli, Pontiròlo) (268), occupò Milano. Quivi assediava Gallieno, quando una congiura tolse questo di vita, nel decimoquinto anno di regno, trentesimoquinto d'età. Sulle prime i soldati voleano vendicarlo, poi vinti a denaro il dichiararono tiranno; il senato lo pubblicò nemico della patria, fece trabalzare i suoi amici e parenti dalla rupe Tarpea, poco dopo lo deificò. Il suo fu de' più infelici tempi che la storia ricordi; tutto guerra dal Nilo alle Spagne, dall'Eufrate alla Bretagna; orde di Barbari irrompevano, gli schiavi agricoli insorgevano, i tiranni faceano a chi peggio: e poichè ogni nuovo che saltasse su, doveva profondere coi soldati, bisognava smungesse il popolo; come in ogni Stato nuovo, commetteva vessazioni e crudeltà; poi rapidamente cadendo, avvolgeva nelle ruine l'esercito e le provincie. Talvolta ancora questi istantanei signori davano mano ai Barbari per sostenersi contro i rivali; sempre la loro disunione ne fomentava le correrie. La fame e la peste durata dal 250 al 65 faceano del resto; poi tremuoti, eclissi di sole, cupi muggiti della terra accrescevano lo sgomento dei popoli. A un impero costituito sulle armi, dalle armi potea derivare qualche ristoro: e ne arrestò di fatto il tracollo una serie di prodi imperatori, venuti dall'Illiria dopo di tristi venuti d'Africa e di Siria. L'esercito acclama Marc'Aurelio Claudio (268), come il più degno di sostenere il nome e la dignità imperiale; e i senatori lo confermano, adunandosi nel tempio d'Apollo: — Augusto Claudio, gli Dei ti conservino per noi (ripetuto sessanta volte). Te o un par tuo noi abbiamo sempre desiderato (quaranta volte). Tu padre, tu fratello, tu amico, tu senatore eccellente, tu vero imperatore (quaranta volte). Tetrico è un nulla avanti a te (sette volte). Liberaci da Aureolo, da Zenobia, da Vittoria (cinque volte)». Quest'illirico, acquistato il trono senza delitti, continuò l'assedio di Milano finchè vi prese Aureolo, e ne concesse la morte alla domanda del suo esercito; sconfisse i Germani inoltratisi fino al lago di Garda: ma Tetrico si sostenne nella Gallia anche dopo morta Vittoria. Claudio in Roma attese a ricomporre come meglio poteva i disordini causati dai precedenti tumulti; agli amici e alla famiglia di Gallieno, dal senato condannati a morte, impetrò il perdono; e fu soprannomato il secondo Trajano. Mosso contro i Goti (269) che, saccheggiate le provincie, ritiravansi per l'Alta Mesia, scrisse al senato: — Mi trovo al cospetto di trecenventimila nemici. Se n'esco vincitore, confido sulla vostra riconoscenza: se l'esito non risponde alle speranze, vi ricordi che dal regno di Gallieno l'impero restò snervato, colpa sua e de' tiranni che desolarono le nostre provincie. Nè lancie abbiamo, nè spade, nè scudi; le Gallie e la Spagna, anima dell'impero, sono in mano di Tetrico; gli arcieri, occupati contro Zenobia. Per poco che otteniamo, sarà già assai». Pure, dopo alquanti giorni, potè scrivere di nuovo: — Abbiam disfatto i Goti e distrutto la loro flotta di duemila vele; i campi sono coperti di scudi e di cadaveri; e tanti prigioni, che due o tre donne toccarono per ciascun soldato». Di vittorie così segnalate faceva mestieri per puntellare il vacillante impero. Ma Claudio durò appena due anni: il senato gli decretò divini onori (270), e sospese nelle sale delle adunanze uno scudo d'oro coll'effigie di esso; il popolo gli alzò una statua d'oro alta sei piedi, una d'argento pesante mille cinquecento libbre; e unanimi chiamarono a succedergli il fratello Marc'Aurelio Quintillo: il quale, dopo diciassette giorni, fu trucidato dall'esercito, o si uccise all'udire che l'esercito aveva proclamato Lucio Domizio Aureliano. Quest'umile pannone era segnalato per forza e valore, sicchè i soldati il conosceano col soprannome di _Mano al ferro_; cantavano ad onor suo canzoni, il cui ritornello era _Mille, mille, mille uccise_, e diceano che in varie battaglie ammazzasse di suo pugno novecentocinquanta nemici. I Goti gli chiesero pace: ma Alemanni, Giutongi e Marcomanni malgrado suo penetrarono in Italia, e presso Piacenza voltolo in fuga, si difilarono sopra Roma. Lo spavento allora andò al colmo, si consultarono i Libri Sibillini, e l'imperatore stesso si lagnò col senato perchè ne' riti religiosi procedesse a rilento. — E che? (diceva) siete forse radunati in una chiesa cristiana, non più nel tempio di tutti gli Dei? Esaminate; e qualunque spesa, qualunque animale od uomo vi ordinino i sacri libri, io ve ne fornirò». Processioni di sacerdoti biancovestiti tra cori di vergini e garzoni, che lustravano la campagna e la consacravano con mistici sacrifizj, ravvivarono il coraggio de' Romani, sicchè Aureliano, raccozzate le reliquie, presso Fano ruppe i Germani, poi in altre battaglie li sterminò. Anche i Vandali che avevano varcato il Danubio, furono da lui sconfitti, e costretti a dare ostaggi i figli dei due loro re. Cercando però vantaggio reale, più che lusinghiera apparenza, abbandonò la conquista di Trajano di là dal Danubio. Ripristinata la disciplina[13], ogni leggier mancamento de' soldati puniva severissimamente; avendo un d'essi violato la donna dell'ospite suo, lo fece legare a due alberi piegati, e sparare. I soldati pertanto, in canzoni diverse dalle prime, cantavano: — Costui versò più sangue che altri non bevesse vino». Se non che faceva sembrare meno pesante quella disciplina col sottoporvisi egli stesso. Anche in Roma dovette ricorrere ai partiti più rigorosi, e varj senatori mandò a morte per accuse lievi nè provate. Riparò la mura attorno alla città, per modo che ventun miglio circuiva: il che, se blandiva l'orgoglio romano coll'estensione, l'umiliava, avvertendo come la capitale dell'impero dovesse provvedere con munizioni alla propria sicurezza. Disposte le cose per la pace e la guerra, drizzò contro la regina Zenobia, che scaltra e coraggiosa restò padrona della Siria e della Mesopotamia, ebbe anche l'Egitto, prese gran parte d'Asia. Aureliano la vinse presso Antiochia ed Emesa (272), l'ebbe prigioniera, distrusse Palmira di modo, che fin le immense sue ruine si ignorarono, finchè nel secolo passato ridestarono la meraviglia degli artisti e de' curiosi. Domo anche l'Egitto, la cui conservazione tanto importava per vettovagliare l'Italia, determinato il grano, il papiro, il lino, il vetro che annualmente dovea tributare, Aureliano si volse all'Europa per ritogliere Spagna, Gallia e Britannia dalle mani di Tetrico. Questi, che per cinque anni avea piuttosto obbedito che comandato a turbolenti soldati, venne a darglisi spontaneo (271), onde dopo tredici anni quelle provincie si ricongiunsero all'impero. Aureliano menò trionfo pomposo se altro mai. Precedeano venti elefanti, quattro tigri, oltre ducento fiere delle più rare e curiose dell'Oriente e del Mezzodì; poi mille seicento gladiatori destinati all'anfiteatro. Seguivano i tesori dell'Asia e della regina di Palmira in bell'ordine e disordine; e sopra carri innumerevoli, elmi, scudi, corazze, insegne militari. Gli ambasciadori di remotissime regioni, etiopi, arabi, persi, battriani, indi, cinesi, venuti al rumore delle sue vittorie sopra Palmira, attraevano gli occhi sì per la stranezza loro, sì per la dovizia e la singolarità dell'addobbo. I prodotti di tutte le parti, e le corone d'oro regalategli dalle città riconoscenti, attestavano l'obbedienza e la devozione del mondo a questa Roma sull'orlo del sepolcro. Seguivano lunghe file di Goti, Vandali, Sarmati, Alemanni, Franchi, Galli, Siri, Egizj incatenati; dieci guerriere gotiche, prese coll'armi alla mano, e intitolate nazione delle Amazoni; l'imperatore Tetrico, colle brache galliche, la tunica gialla e il manto di porpora, accompagnato dal figlio e dai gallici cortigiani; Zenobia regina, tutta gioje e con catene d'oro alle mani e al collo, sorretta da schiave persiane, con dietro il magnifico carro, in cui avea sperato salire trionfalmente al Campidoglio, e i due sontuosi di Odenato e del re persiano. Nel quarto stava Aureliano, tratto da quattro cervi o forse renni, tolti a un re goto. Senatori e illustri cittadini chiudeano fra un suono di viva: poi giuochi scenici e circesi, battaglie di gladiatori, di fiere, di navi fecero memorabile quella solennità. Sebbene l'esercito avesse a gran voci domandato in Siria la morte di Zenobia, Aureliano le donò assai terre nei contorni di Tivoli, ove potesse vivere conforme al grado: collocò nobilmente le figlie di essa, e all'unico maschio sopravissuto conferì un piccolo principato in Armenia. A Tetrico consentì il titolo di collega e il governo della Lucania, e gli diceva celiando che il governare una provincia d'Italia dava più onore che il regnar nelle Gallie. A porre in qualche miglior assetto la pubblica cosa, bandì leggi contro l'adulterio e il concubinato, eccetto se fosse con ischiave: i liberti e servi suoi puniva severamente, e se delinquessero li consegnava al magistrato ordinario. Cercò reprimere il lusso, principalmente la profusione dell'oro in ricami; e fin alla moglie e alla figliuola sua non soffriva gli abiti di seta, perchè questa vendevasi a peso d'oro[14]: alzò in Roma il tempio del Sole, riboccante di metalli preziosi e di perle, con vasi d'oro pel peso di quindicimila libbre: il Campidoglio e altri tempj ornò con doni speditigli da principi stranieri, e assegnò stipendj pei sacerdoti e pel culto, ravvivato in ogni modo. Oltre l'olio e il pane, distribuiva al popolo carne di majale; voleva aggiungere il vino, ma il prefetto del pretorio notò che presto il popolo avrebbe preteso anche polli. Rimise ogni debito de' privati verso l'erario, facendo bruciare le polizze, e ogni colpa di Stato. Ma una sollevazione, eccitata da non sappiamo quale riforma della moneta, e che fu a fatica soffocata in torrenti di sangue, ridestò l'indole severa di Aureliano, il quale empì le carceri e i patiboli, massimamente di senatori. Unico diritto conoscendo la spada, trattava l'impero non altrimenti che paese di conquista. Perciò il senato recosselo in odio, quanto l'amava l'esercito; eppure da questo trovò la morte. Mentre s'accingeva a vendicare in Persia Valeriano, Mnesteo suo liberto e segretario, minacciato da esso per alcune estorsioni, prevenne il castigo col mostrare ai principali dell'esercito una finta lista di nomi proscritti, e persuaderli a fuggire la morte col darla all'imperatore. In fatto tra Eraclea e Bisanzio fu trucidato dalle sue guardie (275); scoperta poi falsa la scritta, i congiurati gettarono Mnesteo alle fiere, ed eressero un tempio al _restauratore dell'impero_. E veramente in que' cinque anni Aureliano avea rimarginato le piaghe aperte dall'infingardo Gallieno, schermito l'Italia da' Barbari, tornato l'unità all'impero, ricevuto omaggio da Ormisda successore di Sapore; e se l'eccessivo rigore nol lascia noverare fra i principi buoni, sta fra gli utili, in tempo che la spada sola poteva rinfrancare un impero sulle spade fondato. I primarj uffiziali, trovandosi rei del sangue d'Aureliano, non osarono scegliere il successore, e scrissero al senato perchè esso medesimo eleggesse uno, pari al presente bisogno, e mondo di quell'assassinio. Marco Claudio Tacito, principe del senato, dissuase dall'accettare un incarico che susciterebbe turbolenze se la scelta spiacesse all'esercito: onde la rimisero a questo, e questo di nuovo ai senatori, e così fin a tre volte; sicchè otto mesi vacò l'impero. La quiete interna non ne pativa, ma prendevamo baldanza i nemici dall'Eufrate al Danubio; onde alfine esso Tacito, discendente dallo storico, dolce di natura, ammiratore dell'antica semplicità, vecchio di settant'anni, si lasciò indurre ad accettar la primazia dello Stato e del mondo, decretatagli per autorità del senato, e meritata pel grado suo e per le azioni. Il suo patrimonio, del valore di un milione seicentomila sesterzi, vendette e cesse al pubblico[15]; francò quanti schiavi aveva in Roma; e dalla sua temperanza e dal risparmio trasse di che fare liberalità. Chiuse i postriboli affatto, i pubblici bagni prima di sera; ordinò tempj e sacrifizj per gl'imperatori buoni; escluse gli schiavi dal testimoniare contro i padroni; vietò le dorature e l'amalgamare i metalli[16]. Ai senatori rese le attribuzioni antiche; del che esultanti menarono processioni, e scrissero a tutte le città e popoli amici che a loro si dirigessero gli appelli dai proconsoli, non più all'imperatore nè al prefetto del pretorio: essi destinavano i proconsoli, e conferivano le magistrature con tale indipendenza, che negarono il consolato a un fratello di Tacito, da lui raccomandato; e davano forza agli editti imperiali coi loro decreti. Ultimo lampo dell'autorità senatoria. Tacito si amicò anche l'esercito con largizioni e col condurlo contro i nemici: ma da una parte la rigidezza del clima, dall'altra le turbolenze dei soldati, imbaldanziti dalla dolcezza di lui, il trassero in Cappadocia (276) alla tomba, dopo appena sei mesi. Antonio Floriano suo fratello si fece vestire della porpora, ed ebbe obbedienza dalle provincie d'Europa e d'Africa: ma tre legioni d'Asia si chiarirono per Valerio Probo sirmiese; quindi guerra civile, sinchè, due mesi dopo, il primo restò trucidato. Probo, colle doti di gran principe, rincacciò fin oltre il Reno i Barbari invasori della Gallia; costrinse Goti e Persi a chieder pace; soggiogò gl'Isauri, spargendoli fra le provincie più lontane; ruppe i Blemmi, stanziati fra l'Etiopia e l'Egitto; contro i Germani tese una linea, non più d'alberi e palizzate come Trajano, ma di muro vivo, che dalle vicinanze di Neustadt e di Ratisbona sul Danubio stendeasi traverso a monti, valli, fiumi e paludi sino a Wimpfen sul Neckar, e dopo ducento miglia riusciva al Reno. Costrinse anche i Germani a dare sedicimila dei loro giovani più robusti, che scompartì fra le truppe nazionali, cui ogni giorno più difficile riusciva il reclutare fra le ammollite popolazioni d'Italia e delle provincie interne. Nel trionfo suo del 281, Roma vide il circo mutato in selva, trasportandovi alberi colle loro radici, e quivi mille struzzi, altrettanti cervi, cignali, capriuoli, ibis abbandonati alla caccia del popolo: il domani poi cento leoni, cento leonesse, ducento leopardi, trecento orsi, coi ruggiti, cogli urli, colla morte divertirono la plebe, non meno che le trecento coppie di gladiatori. Quando le guerre esterne e i rinascenti competitori gliel consentissero, Probo, non volendo i soldati mangiassero il pane a tradimento, gli adoprava in utili lavori, piantar di vigne le pendici della Gallia, della Pannonia e della Mesia, ricostruire più di dieci città diroccate, aprir canali: ma avendo detto che sperava fra poco metter pace dappertutto e far senza de' soldati, questi lo trucidarono (282), catastrofe ormai consueta degl'imperatori, fossero ribaldi come Gallieno, o prudenti, giusti e rispettati come Probo[17]. E gridarono Marc'Aurelio Caro, prefetto del pretorio, che nominò Cesari i figli suoi Carino e Numeriano, sconfisse i Sarmati nella Tracia, assicurando così l'Illiria e l'Italia, indi mosse ai Persi una guerra, divenuta omai di necessaria difesa. Varane II, succeduto su quel trono, avea già invaso la Mesopotamia; ma come udì che i Romani avanzavano, indietreggiò, e mandò a Caro ambasciadori. Questi il trovarono in abito guerresco con un rozzo manto di porpora, che assiso sull'erba cenava con un pezzo di lardo e pochi piselli; e quando ebbero esposto la legazione, egli, cavatosi un copolino con cui copriva la sua calvizie, rispose: — Se il vostro principe non si piega ai Romani, io ridurrò la Persia così nuda di alberi, come vedete di capelli la mia testa». Perchè non paresse vuota millanteria, v'entrò vincendo; ma sul meglio morì a Ctesifonte (283), regnato sedici mesi. Il suo secretario Calpurnio scriveva al senato: — Il veramente caro nostro imperator Caro giaceva malato nella sua tenda quando scoppiò un nembo, e tutto fu tenebre: lampi e tuoni ci tolsero di conoscere quel che accadeva; ma al cessar di quelli odesi gridare _L'imperatore è morto_. Gli uffiziali di camera, desolati di tal perdita, miser fuoco alla tenda, onde corse voce che l'imperatore fosse colpito dal fulmine; a quanto possiam giudicare, non morì che della sua malattia». Che che ne fosse, l'ebbe per sinistro augurio l'esercito, e costrinse Numeriano, figlio dell'estinto, a retrocedere dal Tigri, termine fatato alle conquiste romane. Era questo ricco di bellissime qualità, poeta e oratore: ma nella ritirata anch'esso fu ucciso (284). Carino, dalla Gallia dove avea condotto la guerra non senza abilità, venne a Roma, ed occupò l'impero: in pochi mesi condusse e ripudiò nove donne, troppe più ne contaminò; in musiche, balli, oscenità logorava il tempo; amici e consiglieri di suo padre, e chiunque poteva esser rinfaccio a' suoi vizj o gli era stato pari in privata fortuna, mandò a morte; superbo coi senatori, vantava voler distribuirne i poderi alla plebe, che trastullava colle feste, e tra la quale schiumò i favoriti, ministri e complici a un tempo, sopra i quali scaricavasi d'ogni cura, fin dell'apporre le firme. Oziava e godeva sopra l'abisso; poichè l'esercito che con suo padre aveva combattuto in Persia, come nel ritorno fu giunto a Calcedonia d'Asia, acclamò imperatore Aurelio Diocleziano, comandante alle guardie del corpo, dalmato di bassa gente, prode in armi, lontano da ogni fasto e mollezza, destro agli affari, amico del bel sapere, benchè null'altro intendesse che guerra. Correndo qualche dubbio ch'egli avesse avuto parte all'assassinio di Numeriano, giurossene puro, indi fatto venire Ario Apro, suocero dell'estinto, disse: — Costui fu l'assassino dell'imperatore», e gl'immerse la spada in petto. Con ciò intendeva di dare una prova all'esercito, che se n'accontentò, e adempiere la predizione fattagli da una druidessa, ch'egli diverrebbe imperatore quando uccidesse un cinghiale, che in latino dicesi _apro_. Perciò nelle caccie egli inseguiva sempre questi animali; e allora colpito l'emulo, sclamò: — L'ho pur ucciso l'apro fatale». L'esercito si dispose a sostenerne l'innocenza e l'augurio colla guerra civile; per assicurare l'esito della quale, Diocleziano fomentò il malcontento fra le truppe di Carino; ed essendo questo ucciso (285) per vendetta d'un tribuno, Diocleziano si trovò padrone dell'impero, ed ebbe la generosità o la politica di perdonare. Nei novantadue anni da Comodo a Diocleziano, di venticinque volte che vacò l'impero, ventidue fu per violenta fine di chi l'occupava; dei trentaquattro imperadori, trenta furono uccisi da chi aspirava succedere; elettori, carnefici, padroni di tutto i soldati: bisognava dunque un riparo, e Diocleziano vi pensò col mutare la forma dell'impero, e ridurlo, da comando soldatesco, a principato despotico. Incominciò dall'associarsi Massimiano (286 — 1 aprile), contadino sirmiese, una delle migliori spade d'allora, crudele però tanto, che Diocleziano potè comparire generoso moderandone gli atti severi, forse da lui medesimo suggeriti. Assunsero Massimiano il titolo di Erculeo, Diocleziano di Giovio: quegli rispettava per genio superiore Diocleziano; questi trovava necessario il valore del collega fra tanti nemici sbuffanti. Anzi, per essere più pronti ad ogni occorrente, Diocleziano suddivise ancora l'autorità (292), scegliendo a Cesari due generali sperimentati; Galerio, detto Armentario forse dal prisco suo mestiere, e Costanzo Cloro, soldato venuto su col proprio valore, e che allora si volle far discendere da Claudio II. A Costanzo diede Massimiano una figlia, Diocleziano una a Galerio; e così questi quattro Illirici spartirono tra loro, se non l'amministrazione, la difesa dell'impero. Gallia, Spagna, Bretagna furono affidate a Costanzo, che sedeva a Treveri od a York: a Galerio le provincie illiriche sul Danubio, la Mesia superiore, la Macedonia, l'Epiro, l'Acaja, facendone centro Sirmio: l'Italia, colle due Rezie, i due Norici, la Pannonia e parte dell'Africa a Massimiano: a Diocleziano la Tracia, l'Egitto e l'Asia. Nè per questo si scomponeva la monarchia, poichè riguardavano spontaneamente come primo e come un _gran dio_ quel che gli aveva assunti; in concordia rara fra potenti, unica fra quattro guerrieri diversi di patria, d'età, d'inclinazione, si assistevano di consiglio e di braccio: le provincie erano più da vicino guardate; le legioni imparavano a rispettare la vita dei capi, quando l'assassinio d'un solo nulla avrebbe fruttato: e mentre capitani che proclamavansi augusti, Barbari che d'ogni parte irrompevano, faceano difficilissimo il governare, i quattro sovrani mantennero l'autorità sul Danubio come in Africa, nelle Spagne come in Persia. Ma se più pronti erano all'interna sicurezza e alla difesa esteriore, s'indeboliva il sentimento dell'unità, e preparavansi gli animi alla divisione dell'impero, che presto si effettuò. Diocleziano dall'Egitto ai dominj persiani estese una linea di campi, forti di buone armi; dalla foce del Reno a quella del Danubio, antichi accampamenti e nuove fortezze sì ben custodì, che i Barbari non s'arrischiarono quasi mai a superarle. I prigionieri venivano scompartiti tra i provinciali, e massime dove le guerre avevano decimato la popolazione, adoperandoli alla pastorizia ed all'agricoltura, talvolta alle armi. Meglio di Roma parve conveniente Milano per tener d'occhio i Barbari della Germania; popolosa, ben fabbricata, con circo, teatro, zecca, palazzo, terme, portici adorni di statue; onde fu munita di doppia mura, e Massimiano vi pose sua residenza. Per sè Diocleziano abbellì Nicomedia sul confine dell'Europa coll'Asia, e se ne compiaceva, quanto lo disgustavano di Roma la plebe insolente e il senato che ancora voleva arrogarsi qualche diritto, in mezzo all'onnipotenza del brando. Fuori dell'antica metropoli non v'erano memorie: onde nell'accampamento o ne' consigli delle provincie gli augusti potevano spiegare assoluta podestà; risolvevano co' proprj ministri, senza nè render conto nè domandar parere al gran consiglio della nazione. Per istrappare a questo le ultime apparenze di considerazione, Diocleziano lasciò che il collega sbrigliasse il natural rigore col punire immaginarie cospirazioni. I pretoriani che, sentendosi fiaccare da questa robusta amministrazione, inclinavano a dar mano al senato, furono scemati di numero e di privilegi, surrogandovi nella custodia di Roma due legioni dell'Illiria col nome di Gioviani ed Erculei: i nomi di console, di censore, di tribuno più non parvero necessarj per esercitare con titoli repubblicani una potenza, da cui la repubblica era stata distrutta: e l'imperatore, non più generale degli eserciti patrj, ma capo del mondo romano, fu intitolato _dominus_ anche negli atti pubblici, con titoli e attributi divini. E questa imperiale autorità, scaduta nell'opinione, rapina di viziosi, trastullo dell'esercito, Diocleziano pensò ristaurarla dalla radice. Italiano egli non era, sicchè gli rincrescesse di togliere alla patria la primazia con tanto sangue acquistata: nei campi erasi avvezzo alla disciplina indisputata e alle pompe allettatrici, sicchè tutto foggiò a sistema orientale. Alla semplicità d'abbigliamenti, di corte, d'udienze, che aveano serbata gl'imperatori quando si consideravano come primi cittadini e nulla più, Diocleziano surrogò il fasto asiatico; si cinse il diadema ch'era costato la vita a Cesare; di seta, oro, gemme coprivasi dal capo alle piante la sacra persona; scuole di uffiziali domestici custodivano gli accessi del palazzo; e chi traverso a questi e ad infinite cerimonie s'accostasse alla maestà dell'imperatore, doveva prostrarsi in adorazione. Tutto insomma dovea dirigersi a circondare d'un gran fasto la dignità suprema, a scapito dei poteri subalterni: l'imperatore dovea dirigere ogni cosa cogli ordini, eppure non iscemare la dignità coi particolari dell'esecuzione e colle comunicazioni troppo immediate: i magistrati doveano essere null'altro che esecutori: e poichè non si poteva accordare quell'immensa estensione con un governo temperato, bisognava studiare di renderlo forte insieme e dolce. Due imperatori e due Cesari moltiplicavano queste appariscenze, e ministri del lusso, uffiziali, servi; e gareggiando di splendidezza, da una parte crebbero gl'intrighi, dall'altra le spese e in conseguenza i tributi. L'autorità eccessiva de' prefetti al pretorio fu ridotta a giusti limiti, introducendo i maestri della milizia, ispettori generali della cavalleria e della fanteria. Alla Corte potea portarsi reclamo contro la decisione di qualsifosse magistrato. Le provincie furono suddivise, e perciò sminuita la potenza di quei che le reggevano: a cagion d'esempio, la Gallia, che ne formava un solo, fu tagliata in quattordici governi. Conseguentemente cessava l'autorità del senato sopra le provincie; le cariche civili restavano separate dai comandi militari; represse le vessazioni causate dalla prevaricazione o dalla negligenza de' magistrati; tolte le ingiustizie che nascevano dai privilegi conceduti ad alcuni. Insomma il despotismo militare dava luogo al despotismo governativo, appoggiato sopra innumerevole quantità d'impiegati amministrativi. Diocleziano, autore del nuovo sistema, conservossi moderato, continuò le distribuzioni al popolo, fabbricò splendidamente a Cartagine e Milano, oltre Nicomedia, e meravigliose terme a Roma, bastanti a tremila persone, alle quali unì la biblioteca di Trajano. E quando nel ventesimo anno di suo regno menò un trionfo, il popolo, vedendo portate le immagini di fiumi e città persiane non prima soggiogate, e de' figli e della moglie del persiano re, potè illudersi ancora sull'eternità del Giove Capitolino. Ma i Romani guardavano di mal occhio chi gli avea tolti dall'esser capi del mondo; onde lanciavano motti, intollerabili all'autocrato, che mostrò il suo dispetto abbandonando per sempre i sette colli. Girando per le provincie illiriche, contrasse una malattia che il portò a fil di morte. Riavutosi, nè sentendosi la pristina vigoria per reggere l'impero, risolse abdicare. In una pianura presso Nicomedia, salito sopra eccelso trono (305), dichiarò la sua intenzione al popolo ed ai soldati, nominando Cesari Massimino Daza e Severo. Il giorno stesso Massimiano, per adempiere il giuramento datone già prima al collega, abdicava in Milano. Diocleziano ritiratosi in uno splendido palazzo a Salona, sopravisse nove anni in privata condizione, rispettato e consultato dai principi cui aveva ceduto l'impero. Spesso esclamava: — Ora vivo, ora vedo la bellezza del sole»; e quando Massimiano, ch'erasi ritirato nella Lucania, il sollecitava a ripigliarsi il governo, rispose: — Non me ne consiglieresti, se tu vedessi i bei cavoli che ho piantato in Salona di mia mano». Meditando sui pericoli di chi regna, — Quanto spesso (diceva) due o tre ministri s'accordano per ingannare il principe, al quale, separato dal resto degli uomini, rara o non mai giunge la verità! Non vedendo e udendo che per gli occhi e gli orecchi altrui, egli conferisce i posti a viziosi o inetti, trascura i meritevoli, e benchè savio, è traviato dalla corruzione de' suoi cortigiani». Al lentarsi di quella mano robusta, le discordie ripullularono ad agitare per diciott'anni l'impero, disputato fra varj. Massimino Daza cesare, nipote di Galerio, rozzo di parole e d'atti, governò l'Egitto e la Siria; Severo, l'Italia e l'Africa; e Galerio, valoroso ma scaltrito e arrogante, dominando su queste sue creature e sul malaticcio Costanzo, confidava restare unico signor dell'impero, e trasmetterlo alla sua famiglia. Costanzo amministrò la Gallia, la Spagna e la Bretagna con generosa e modesta dolcezza, dicendo voler piuttosto ricchi i sudditi che lo Stato. Narrano che, avendo Diocleziano mandato a querelarlo perchè non avesse denaro in cassa, Costanzo pregò i deputati tornassero fra pochi giorni per la risposta. In questo mezzo informò i primarj delle sue provincie, accadergli bisogno di denaro; ed essi a gara gliene recarono. Mostrando allora quei tesori ai legati, li pregò a riferire a Diocleziano com'egli fosse il meglio provvisto de' quattro dominatori, se non che lasciava quelle dovizie in deposito presso il popolo, considerando l'amor di questo come il più pingue e sicuro erario del principe. Partiti i messi, rinviò il denaro a di cui era (303). Quando infieriva la persecuzione mossa da Diocleziano contro i Cristiani, egli diè loro ricetto, che perciò il lodarono a cielo, come fuor misura aveano denigrato Diocleziano. Da Elena, donna oscura, egli avea generato Costantino; e per riguardo, o per timore della nuova regal moglie, l'avea mandato alla corte di Diocleziano. Questi lo fece educare, allettato dalle rare qualità del giovinetto, che bello di sua persona, generoso, affabile, temperava il giovanile ardore con virile prudenza, e facevasi amare al popolo ed ai soldati. Galerio ingelosito indusse Diocleziano a scegliere altri cesari, con vivo dispiacere del campo; poi fatto augusto, tenne sempre d'occhio Costantino, e l'avrebbe morto se non avesse temuto l'esercito a lui favorevole, o non gli fossero usciti a vuoto i tradimenti. Quando il padre lo ridomandò, esso gli frappose indugi, finchè il giovane fuggì, e raggiunto il padre, mosse con lui felicemente contro i Pitti e i Caledonj delle isole Britanniche. CAPITOLO XLV. Nemici dell'impero. I Germani. Costantino. Questi nomi di Barbari ci avvertono ch'è tempo di far conoscere coloro, contro cui l'impero oggimai non tentava conquiste, ma cercava difese. Nell'immenso spazio occupato da questo impero (t. III, p. 272) poche città e poche provincie conservavano un'indipendenza di puro nome, come sarebbe nelle Alpi il re Cozio, possessore di dodici città, di cui era capo Susa (_Segusia_): il resto obbediva agli ordini ed ai magistrati che venivano da Roma o da Milano. Ma chi scorresse quel confine, sentiva d'ogni parte fremere popoli, che minacciavano rialzarsi contro questa universale tiranna, non appena la compressione si rallentasse. Dell'Africa settentrionale occupavano i Romani si può dir tutto il territorio abitabile, spintisi anche più volte fra le gole del monte Atlante. I Bereberi, i Getùli, i Mori o si scagliavano nel deserto rubando, o coltivavano le oasi, non domabili perchè non istanziati: e da essi il Romano traeva gli agrumi, la porpora delle loro rupi, le fiere per gli anfiteatri, l'avorio e gli schiavi negri. Ma di mano in mano che l'oppressione e l'esorbitanza de' tributi sminuivano la popolazione nei paesi sudditi a Roma, Mori e Getuli riconducevano gli armenti sulle campagne abbandonate, saccheggiando e fuggendo, e vendicando come un'ingiuria i supplizj che di loro pigliasse un'autorità che non riconoscevano. Cresciuti d'ardimento collo scemare della potenza romana, respinsero la civiltà sempre più verso le coste; e all'aprire del IV secolo, alcuni principi mori già avevano piantato dominj alle falde dell'Atlante e fra il deserto e la risorta Cartagine. Aspiravano però all'indipendenza non alla conquista; sicchè Roma non n'aveva a temere che di vedersi sottratto qualche terreno. Nubia e Abissinia non erano soggette ai Romani. Altri Barbari circondavano l'Egitto, quali i Mori Nasamoni sulla riva occidentale del Nilo, e sulla orientale gli Arabi. Sopra la grande penisola dell'Asia meridionale, che gli Europei intitolano Arabia, i Romani vantarono qualche trionfo: all'effetto s'avvidero come natura non abbia fatto quei popoli per rimanere soggetti, nè acconci ad una stabile civiltà. Valeansi dunque di loro per trafficare coll'India; talvolta ne prendevano agli stipendj la cavalleria, senza pari al mondo per l'instancabile ardore e la docilità dei cavalli: ma nulla più che scorrerie pareano a temersi da un popolo, che trecencinquant'anni più tardi, svegliato alla voce di Maometto, doveva in men di uno conquistare più paesi che non Roma in otto secoli. I Parti aveano soggiogato l'Armenia, che allora stendeasi ad oriente dell'Eufrate, da Satala fino alla spina di monti che costeggia il mar Caspio; e col porre un ramo degli Arsacidi sul trono d'Artaxata, erano venuti a contatto coll'impero. Ma quando li rimise al giogo la risorta schiatta persiana, anche l'Armenia ricuperò l'indipendenza, e si strinse ai Romani coi legami della religione. I Sassanidi, che aveano rinnovato l'impero della Persia, lo crebbero a segno, da sembrare il solo emulo formidabile del Campidoglio. Ma più che i quaranta milioni obbedienti al re dei re doveva riuscire funesta a Roma la libertà de' popoli del Settentrione, che incolti e vigorosi, aspettavano il cenno di Dio per avventarsele e vendicare l'universo. Dai primordj della civile società, la stirpe che denominano indo-germanica si stese in diverse direzioni sopra la terra (t. I, p. 36); e gli uni, vôlti alla Persia, all'India, al Tibet, crearono o conservarono una civiltà meravigliosa; altri, costeggiando il mar Nero e il Caspio, si spiegarono dalla Siberia all'Eusino, e da tre bande inondarono l'Europa. Gli uni, per le montagne di Tracia, la Macedonia e l'Illiria vennero assidersi fra gli ulivi e i laureti della Grecia; e a quei miti soli e alla limpida aria indocilendo la natìa rozzezza, e temperando la fervida fantasia coll'armonico sentimento, crearono la più eletta immagine del bello, mercè della quale primeggiò la stirpe greca. Ma questa, all'ora ove siamo col nostro racconto, ha compiuto la sua missione, non più s'inorgoglia che di rimembranze, nè s'occupa che di diverbj, come i popoli decaduti: mentre sul teatro politico appajono la stirpe gotica e la teutone, che la lunga separazione rese affatto disformi dalla prima, benchè il linguaggio, anche dopo tante modificazioni, ne attesti la comune origine. L'arrivo de' Germani in Europa rimonta forse a quattordici secoli avanti Cristo; ed otto o nove ne tennero a dilatarsi dal Dniester al Pruth, e sul paese fra l'Ural e i Crapak. Tendendo continuo verso occidente, spingendo i Cimri, e spinti essi medesimi degli Slavi, trovaronsi arrestati dall'impero romano al tempo di Augusto, sicchè voltarono la fronte contro gli Slavi, e rincacciatili, poterono assodarsi nel vasto paese, che poi collettivamente si chiamò Germania o Alemagna. Solo da quel punto la storia si prende cura di essi, e ci addita la stirpe gotica nelle montagnose foreste della Scandinavia; la teutonica sulle rive dell'Elba e del Reno, attenta ad esercitare la naturale vigoria, e mantenere gelosamente l'indipendenza, fidando nell'indomito suo coraggio. I primi di questi popoli che i Romani abbiano conosciuti, sono i posti avanzati che Cesare trovava sulle frontiere della Gallia; erranti, scomunati, senza proprietà fissa, nè agricoltura, nè vanto che del distruggere. Tacito conobbe quelli sulle rive del Reno, e seppe che, dietro alle popolazioni nomadi corseggianti al confine, n'esisteano di fisse, aventi lavoro, proprietà, poteri ereditarj, culto pubblico: ma le sue cognizioni non arrivavano che dove gli eserciti romani, onde fermavansi all'Elba, nè di là seppe altro che nomi. Quando, imperante Augusto, i Romani ebbero particolarmente a fare coi popoli sul Danubio, li designarono col nome di Germani, che probabilmente i Galli avevano applicato a qualche orda venuta di qua dal Reno, e che poi fu accomunato a tutta la gente che, nel primo secolo, abitava dal Reno ai Carpazj e alla Vistola, e dal Baltico e dal mar Germanico fino al monte Cezio (_Kalengebirge_) e al Danubio; oltre quelli diffusi lungo questo fiume sin all'Eusino, e piantati nella Scandinavia. Probabilmente queste popolazioni diverse attribuivansi la generale denominazione di Daci (_Deutsch_) o Teutoni, ma nomi speciali deducevano da particolari circostanze; come gli Svevi da _schweifen_ errare, o da _swee, see_ il mare; i Sassoni, da _sitzen_ stare seduti, o da _saks_ spada corta; i Longobardi dalle labarde o dalle barbe prolisse; i Franchi da _franke_ lancia; i Marcomanni dallo star vicini alla frontiera (_marca_); i Vandali da _wand_ acqua, perchè forse da principio abitassero al mare o su qualche grosso fiume. Queste medesime denominazioni son però male determinate, e nuova confusione proviene dall'uso degli antichi d'attribuire ai popoli deboli e vinti il nome del potente e vincitore. Per quanto ci è dato scorgere tra quel bujo, questi popoli si unirono in federazioni, simili a quelle degli Etruschi antichi e degli Svizzeri moderni, accordate in prima per resistere, in appresso per nuocere alla potenza romana. Sembra ancora che, verso il secondo secolo, alle varie genti prevalessero alcune, in modo da comparire otto nazioni, che paragoneremmo ad otto corpi di esercito; cioè Vandali, Burgundi, Longobardi, Goti, Svevi, Alemanni, Sassoni e Franchi. Anche popolazioni sarmate, cioè di quella che or chiamiamo Russia, scesero in Europa; e principalmente formidabili furono i Rossolani e gli Jazigi, scorridori inarrivabili, contro cui i Romani alzarono un vallo fra il Theiss e il Danubio, senza per questo ottenere sicurezza. Secondo l'Edda, libro sacro e poetico in cui è deposta la mitologia scandinava, Heimdall figliuolo di Odino (Wodan), scorrendo il mondo, generò tre figli: primo il Servo, nero, colle mani callose e gobbo; secondo il Libero, con capelli biondi, viso rosato, occhi sfavillanti; terzo il Nobile, col guardo penetrante di un dragone, gote vermiglie, capelli argentei. E quei che nacquero da ciascuno furono servi, liberi o nobili come essi. I figli del nobile aguzzarono le freccie, domarono cavalli, brandirono lancie: ultimo fu il re che conobbe i numi, comprese il canto degli uccelli, seppe calmare i flutti, estinguere gl'incendj, sopire i dolori[18]. Qui avete delineata la costituzione primitiva della nazione scandinava, la quale si riprodusse nelle principali razze germaniche. Un Dio padre; tre Caste d'uomini, diversi per natura; vero e assoluto libero non era che il capo; in dipendenza da lui gli altri si trovavano o liberi o no, e i figliuoli seguivano la condizione del padre. Correva però divario tra le famiglie semplicemente libere ed i tenitori delle grandi possessioni, ai quali soli spettava il voto nelle adunanze, fors'anche il sacerdozio, e tra essi eleggevansi i re[19]. I liberi erano capaci di tutti i diritti. La nobiltà, fosse patriziato religioso, o privilegio delle famiglie e dei conti, sembra fosse ridotta ad una distinzione affatto personale, che non dava prevalenza nel governo o nell'amministrazione della giustizia; se non che ad essa erano privilegiate alcune dignità, come in Roma ai cittadini d'ottimo diritto. Non potevano i nobili sposarsi con liberi, nè questi con schiavi. Il restante popolo serviva in guerra col titolo di liti (_leute_, gente), o con quello di coloni lavorava i campi. I coloni avevano casa e famiglia propria, coltivando il terreno cui erano affissi in perpetuo, senz'altro che pagar al signore un canone in derrate, in bestiame o in panni. A costoro, e a servi, affrancati, donne, vecchi, infermicci lasciavansi i campi e le arti, mentre ai liberi restavano la guerra per occupazione, la caccia per divertimento, il saccheggio per industria. È antico il vezzo de' malcontenti di cercare fra i Barbari quella moralità, che dicono scomparsa d'infra la gente civile. Così lo storico Tacito esagerò la bontà morale de' Germani per farne raffaccio ai Romani; anche i santi Padri gli elevarono sopra di questi, perchè non ne aveano la raffinata corruttela: ma vuolsi distinguere l'ignoranza de' vizj dalla pratica ragionata delle virtù. Appena cessassero dalla caccia o dalla guerra, piombavano, come tutti i Barbari, dall'eccesso della fatica nell'inerzia assoluta; restavano poveri, perchè nulla si esaurisce più presto che il saccheggio; e ignudi e sudici passavano l'intero giorno al focolare sguazzando la preda, e poltrendo, bagnandosi, straviziando, alle violenti emozioni del giuoco abbandonandosi con tale frenesia, da mettere s'un trar di dadi l'avere, la moglie, i figli, se stessi. Tra i conviti, loro delizia, ponevano in discussione gli affari di maggior momento, serbandosi a deciderne il domani a mente riposata. Qualunque capitasse, otteneva franca ospitalità, e dava occasione di banchettare gli amici, e d'eccedere in voracità e bagordi. Mentre i meno ricchi mesceano bevande forti in tazze formate del cranio di nemici, i doviziosi traevano il vino dalle terre dell'impero, e scaldati da questo, rompevano a risse ed a violenze mortali, dimenticando le accordate paci, e ridestando antiche vendette. Non bollente di voluttuosi istinti come nell'Asia, più che la bellezza l'uomo pregiava nelle donne la prudenza, il valore, la castità. Sposate in età abbastanza matura, non venivano al marito con vezzi e cervello e passioni fanciullesche come in Asia, ma tali da ragionar l'obbedienza: onde inspiravano più saldo affetto, e ottenevano grand'ascendente sugli uomini. In casa attendevano all'ago, al pennecchio, ai campi; in guerra seguivano gli uomini incorandoli, talora combattendo, sempre pigliando in cura i feriti. Una fanciulla macchiava la verginale onestà? fosse pur bella e ricca, più non trovava nozze; l'adultera era severamente punita; la poligamia permessa soltanto ai re ed ai grandi come distintivo d'onore. Non che le mogli recassero dote al marito, questo le comprava dal futuro suocero con doni, che consistevano per lo più in un par di bovi, un cavallo bardato, e scudo e lancia; cui la sposa ricambiava con una compita armadura, simbolo della comunione di beni e di fatiche. Quando un garzone se ne fosse reso degno con qualche bella lode, riceveva asta e scudo dal padre o da alcun ragguardevole Germano nell'adunanza degli uomini; e d'allora più non li deponeva, assistendo armato alle assemblee, a banchetti, a giudizj, a giuochi, a sacrifizj; sulle armi giurava come sacre; coll'armi e col cavallo era sepolto. A tutti i liberi possidenti era un dovere, anzi un diritto il militare; e in occasione di guerra nazionale tutti convocavansi col bando militare o _eribanno_ per proteggere la patria. Altre volte un capo qualunque radunava in banda armata i suoi clienti, o chiunque preferisse i rischi al riposo ed al lavoro, e s'avventurava in nuovi paesi. Supremi loro distintivi erano l'amore dell'indipendenza, e il diletto d'esercitare liberamente le forze: quindi il mettersi a pericolo con baldanza spensierata, non curarsi della sorte dei vicini, combatter domani quelli con cui jeri trovavansi in lega; manìa di libertà, che associandosi colla dipendenza militare, diede origine alla feudalità. Tra gente siffatta dovevano frequentare occasioni di guerra; e quand'anche gli storici nol dicessero, la mobilità di quelle tribù è attestata dalla grande migrazione. Questa a torto vien dipinta quasi un'improvvisa vertigine generale, un subito levarsi de' Germani ed irrompere sull'impero, o perchè giurati in lega d'armi a guerra finita, o perchè rincalzati da un'onda di Jung-nu che fossero espulsi dalla Cina, e che a torto si confondono cogli Unni. Il movimento era continuato da secoli, e queste popolazioni derivate dall'Oriente (matrice dei popoli, più vera che non il Settentrione), or più or meno, ma incessantemente si erano dilatate pel nord dell'Europa, spingendosi e respingendosi a vicenda, contrastate da indigeni, da Boj, da Lettoni, da Celti. Forse per incalzo dei Germani, i Galli erano piombati sui paesi meridionali e nella nostra penisola, fin a distruggere Roma col loro Brenno (t. I, p. 493), e prendere stanza nell'Italia superiore. I Teutoni al tempo di Mario valicarono le Alpi: Cesare impedì che con Ariovisto occupassero l'Elvezia. Incontratisi con quest'altra onda romana, che in senso contrario invadeva il paese, ne restarono lungo tempo frenati, non però quieti. Il Danubio, divenuto frontiera settentrionale dell'impero, come il Reno fu munito con una schiera di fortificazioni e con uno spalto di terra da Ratisbona fin al confluente del Lahn, le quali impedissero le correrie dei Germani non soggiogati, mentre quelli di qua dal fiume accettavano i modi, l'industria e l'oppressione dei vincitori. Questi sulle prime eransi proposto di sottomettere i Germani come avean fatto dei Galli, svellendone i costumi, il governo, la lingua: ma lo sterminio di Varo (t. ii, p. 375) mostrò impossibile l'impresa, e che invece d'assalirli a visiera alzata, conveniva alimentare fra essi le discordie, or questi or quelli favorendo. Con ciò i Romani riuscirono a farsene alleati alcuni, come i Cherusci e i Batavi; alcuni tributarj, come i Frisoni e i Caninefati; o snervare i loro capi coi godimenti della civiltà. Non però rimanevansi tranquilli alle loro sedi; ed ora i Cherusci insorgevano pel valore di Erminio; ora Maroboduo snidava i Boj dall'antica sede, e vi piantava nuove genti; ora Claudio Civile rialzava la fortuna dei Batavi. E furono vinti spesso; ma se l'orgoglio romano si vantava d'avere volta per volta distrutti questi popoli, essi lo smentivano col sorgere più rigogliosi di prima a lanciare nuovi colpi contro il non più immobile sasso del Campidoglio. Trajano, spintosi ben addentro nel nord-est, potè ridurre a provincia la Dacia, ponendovi numerosa colonia di soldati, che misti coi natii, formarono la gente dei Valacchi, superbi anche adesso della romana origine. Sotto Marc'Aurelio i Marcomanni riuscirono fino ad Aquileja, e d'allora crebbe il numero degli Alemanni che Roma adoprò in guerra, nelle magistrature e nelle colonie. Duravano dunque da molti secoli e i moti interni e le migrazioni. Fame, peste, diluvj, allettamento di patria migliore, baruffe intestine, oracoli, emulazioni di re, avidità di bottino, di conquiste, di sangue, traevano alcun popolo a respingere un altro: talvolta un capo colla numerosa banda de' suoi fedeli, o con una tribù, cominciava correrie; e dal fare preso ardimento al fare, spingeva le imprese più che prima non avesse immaginato. Il paese che abbandonavano non lasciava ad essi nè rimembranze nè desiderj, giacchè portavano seco gli Dei, le famiglie, le ossa dei progenitori, tutte le cose che fanno cara la patria. Allora poi che videro i Romani indeboliti lentarsi nella resistenza, cedere alcune provincie, in altre non opporre che una muraglia, più innanzi s'ardirono; ed allettati dal predare paesi colti e ricchi, e dall'umiliare la nazione che li chiamava barbari, irruppero tutti insieme; come al fiaccarsi della diga precipita il nostro Po sulle circostanti campagne, senza che per questo si dica esserne allora cominciati il corso e la foga. Che però l'impulso venisse di lontano, parrebbe provato dal vedere che i primi invasori non sono già i popoli confinanti, bensì i più remoti: gli Unni dal Volga; poi gli Alani dal Tanai e dal Boristene; poi i Vandali dalla Pannonia; seguono i Goti dalla Germania settentrionale, indi dalla centrale Eruli e Turingi, in appresso i Franchi dalla meridionale, e i Borgognoni dalla grande Polonia. I più segnalati fra questi popoli sono i Goti, che provenivano essi pure dall'Asia, e precisamente dai contorni del lago Aral, dove ebbero il nome di Messàgeti o Geti[20]: poi sembra pigliassero stanza nella penisola scandinava e attorno al Baltico, divisi in Ostrogoti od orientali, e Visigoti od occidentali, secondo la loro posizione colà; nomi che conservarono poi nelle successive migrazioni. Aggiunge la nazionale leggenda, che in tre vascelli uscirono dalla Scandinavia, uno dei quali essendo rimasto indietro, a quei che lo salivano restò il nome di Gepidi, cioè infingardi. Sarebbero dunque tre famiglie della nazione stessa: ma qual conto fare di tradizioni, alterate sulle bocche, e spesso mutate di gente in gente? Fatto è che i Goti ci appajono una nazione battagliera e numerosa, che meglio d'ogni altra germanica ebbe il concetto della monarchia ereditaria, dipendendo, non obbedendo, gli Ostrogoti alla stirpe degli Amali, i Visigoti a quella dei Balti, che si vantavano progenie degli Ansi loro semidei, e tra essi la nazione sceglieva il re. Dapprima seguirono il corso della Vistola, poi la catena de' Carpazj: al tempo degli Antonini abitavano quella che oggi è la Prussia, donde mossi, abbracciarono o sospinsero Eruli, Burgundi ed altri, bevettero alle foci del Boristene e del Tanai, e trovaronsi dinanzi la Dacia, ove un popolo laborioso coltivava campi gratissimi, s'arricchiva colle industrie, e nella diuturna pace aveva trascurato le difese contro nemici che reputava abbastanza discosti. Con poca difficoltà i Goti la invasero, e Decio imperatore, venuto in persona a combatterli, vi perdè la battaglia e la vita. Il successore di nulla si mostrò più premuroso che di lasciar liberamente tornarsene i Barbari, carichi di preda e di baldanza; che più? s'obbligò a loro di annuo tributo. Non era il modo d'invogliar altri all'attacco? Sempre nuovi sciami irrompevano in fatto sulle provincie limitrofe come a preda sicura, respinti talvolta, reduci sempre, tanto più mentre gli eserciti si trovavano impegnati fra emuli imperatori. Piantatisi nell'Ucrania, i Goti vennero ben presto signori della costa settentrionale dell'Eusino, donde corseggiarono le ricche e molli provincie dell'Asia Minore. Usciti poi dall'Ellesponto, serpeggiarono tra le isole Egee, e sorti nel Pireo, s'impadronirono della città di Minerva, sparsero il guasto per tutta la Grecia, e si difilavano sull'Italia, quando Gallieno, scosso dalle torpide voluttà e comprata una banda di Eruli, al cui capo concesse gli ornamenti consolari, tenne testa agli invasori. La dissensione e l'indisciplina dell'esercito romano diedero agio ai Goti di ritirarsi, e sui rimasti vascelli devastare il lido ove Troja fu, poi riposarsi nella Tracia. Aureliano, dopo giornata campale, gl'indusse ad una pace, ove obbligavansi a fornire di duemila cavalieri gli eserciti romani, lasciando ostaggi i figliuoli de' caporioni, cui Aureliano fece educare convenientemente al sesso e al grado, poi le fanciulle impalmò a' primarj suoi uffiziali affine di saldar l'unione tra le due genti. Egli poi ritirava le guarnigioni dalla Dacia, i cui coloni rinvigorirono la parte meridionale del Danubio, mentre sull'abbandonato paese dilagavano Vandali e Goti, che dai coloni rimasi impararono qualche arte di pace, mantennero relazioni di commercio coll'altra riva del fiume, e furono barriera a nuovi invasori. Come dall'oriente i Goti, così dal nord-est della Germania uscì una seconda invasione, quella dei Franchi, che sotto Gallieno tragittarono il Reno, invasero le Gallie e la Spagna. Gli usurpatori che non iscrupoleggiavano sui mezzi per sostenersi nell'impero, ricorsero più volte al costoro braccio; ma infine Aureliano li ricacciò di là dal Reno. Poco tardarono a ripassarlo; e avvegnachè Probo ne trionfasse, non per questo mitigò la loro fierezza. Gran prova rinnovarono di loro ardimento allorchè dal mar Nero, ove esso imperatore gli aveva relegati, osarono sopra fragili legni tragittarsi nel Bosforo Tracio e nell'Egeo, e sbarcati predarono molti luoghi della Grecia e dell'Asia Minore, sorpresero Siracusa, approdarono in Africa, indi usciti dallo stretto di Cadice per l'Oceano tornarono in Germania[21]. Corsa appena credibile a chi non abbia osservato anche ai dì nostri quanto ardimento possa infondere la navigazione da corsaro. Rapidissimi si vedevano i Franchi piombare sulle coste dell'Armorica e della Belgica, saccheggiare e sottrarsi; poi quando Carausio si fu valso di loro per usurpare la Bretagna, divenuti più audaci, occuparono tutta l'isola de' Batavi. Colà furono vinti da Costanzo Cloro, e trapiantati lungi dal Reno; ma poco indugiarono a sorgere terribili contro di Costantino e di Crispo. Altra o lega o gente principale fra' nemici di Roma, sono gli Alemanni. Con questo nome comparvero primamente sul Meno ai giorni di Caracalla, il quale non solo scelse fra loro le sue guardie, ma ne imitò il vestire e la bionda capellatura. Benchè non osassero travalicare le barriere dei Romani, molestavano senza tregua il confine e le opulente contrade della Gallia; poi alcuni, varcato il Danubio, per le alpi Retiche scesero in queste nostre parti, ed accamparono fin sotto a Ravenna, donde con lautissimo bottino ritirarono il passo davanti all'esercito romano. Un'altra volta ben trecentomila di essi giunsero a Milano. Mentre poi Aureliano componeva coi Goti le cose sul confine illirico, gli Alemanni si scagliarono da capo nell'armi, e con quarantamila cavalieri e il doppio di fanti invasero la Rezia, menarono guasto dal Danubio al Po; ma intanto che si ritiravano, l'imperatore intercettò loro i passi con tanta maestria, che chiesero patti. Appena però dalle incalzanti necessità fu egli chiamato altrove, gli Alemanni ruppero quella siepe d'armi, e si difilarono sopra l'Italia, sperperando fin a Milano, e spargendosi a branchi per le valli dell'Adda e del Ticino: presso Piacenza sconfissero i Romani, ma a Fano rimasero vinti: poi disfatti interamente a Pavia, sbrattarono l'Italia. La subitanea invasione fece avvisato Aureliano della necessità di circondare di mura Roma, ridotta a difendersi sul Tevere, non più sul Volga o sull'Eufrate. E gli Alemanni acquistarono tanta preponderanza, che il nome loro venne esteso a tutti que' Germani che non s'appigliarono alla lega dei Franchi; laonde essendo spesso scambiati Alemanni e Germani, mal si possono sceverare le imprese di questi e di quelli. Fu per tenere questi Barbari in soggezione che Diocleziano collocò un imperatore ed una corte sul loro stesso confine, nell'alta Italia. Costanzo irruppe sul terreno dei Franchi, e rattenne gli Alemanni dal riversarsi sulle Gallie; ma a molte orde di Sarmati, di Carpi, di Bastarni fu concesso stanza nelle provincie consumate d'abitanti. Da ciò rimaneva blandita la vanità romana; e una politica di corta veduta s'appagava di questi effimeri trionfi, senza avvedersi che l'impero si educava in seno la serpe che lo morderebbe. I Franchi diedero assai a tribolare a Costantino, il quale contro di loro esercitò le legioni che dovevano renderlo signore del mondo; e, in memoria de' ben riusciti successi, istituì giuochi detti Franchici. Crispo suo figlio si rese formidabile a questi ed agli Alemanni; campeggiò egli medesimo i Goti, che rifattisi nella lunga pace, si unirono ai Sarmati della palude Meotide, e devastarono l'Illirico, finchè furono costretti a vergognosa ritirata. Anche nei loro paesi gli inseguì Costantino, passando il Danubio sul ristorato ponte di Trajano; e ridusse i Goti a cercar pace, e a tributargli quarantamila soldati. Di molti allori già era dunque glorioso Costantino, quando, morto e deificato Costanzo, egli fu salutato imperatore (306); e secondo il costume, spedì all'altro augusto e ai Cesari la propria effigie in addobbo imperiale. Galerio ne montò in superbissima collera; pure, onde evitare la guerra civile, gli mandò la porpora e il solo titolo di cesare, quello d'augusto serbando a Severo. Ma la inumanità di Galerio, la lunga assenza, e un censimento delle ricchezze fatto con tal rigore da ricorrere fin alla tortura per iscoprire gli averi nascosti, aveano mossa a rumore l'Italia, ove Massenzio, figlio di Massimiano e genero di Galerio, si fece gridare augusto, comprando i pretoriani col denaro, i Romani colla speranza di redimerli da Galerio, i Gentili con quella di restaurarne il culto. Massimiano, uscito dal ritiro, ripigliò gli affari (307), e qual collega di suo figlio ricevette omaggio dal popolo e dal senato; vinse e uccise Severo, chiese amico Costantino dandogli sposa sua figlia Fausta e il titolo d'augusto; poi vedendo di esser considerato men di quello che desiderasse, si recò a Galerio, chi dice per incitarlo contro il proprio figliuolo, e chi per trovar luogo e tempo a tradirlo. Galerio intanto era penetrato in Italia; ma come vide l'immensità di Roma, o piuttosto la risolutezza di questa a servirsi delle ricchezze per respingere colui che voleva rapirgliele, non ardì assediarla e si ritirò, devastando la nostra patria, che peggio i barbari non avrebbero potuto. Al posto di Severo collocò Licinio Liciniano dace, amico suo e al par di lui valoroso ed ignorante, lascivo in vecchia età ed avaro. Massimino Daza, che governava l'Egitto e la Siria, pretese anch'egli al titolo d'augusto: per modo che sei imperatori presedevano al mondo romano, dal combattersi non rattenuti se non dal reciproco timore. Massimiano, rejetto da Galerio, rannodò con Costantino: ma mentre questo campeggiava i Franchi, ne divulgò la morte (309), e schiuso il tesoro d'Arles, colla prodigalità e col rammemorare l'antico splendore mosse i Galli a voler tornare in dominio, e stese la mano a Massenzio (310). Costantino sopragiunto, assediatolo in Marsiglia, l'ebbe in balia, e non gli lasciò che la scelta della morte. Galerio divise la vita tra opere di pubblica utilità, piaceri e sevizie. Geloso del sapere e della franchezza, sbandì giureconsulti, avvocati, letterati; affidava i giudizj a guerrieri, digiuni delle leggi: ma ulceri vergognose e schifosi insetti il consumarono, senza che trovasse ristoro o nei medici che spesso mandava a morte, o nei voti moltiplicati ad Apollo e ad Esculapio. Credendosi castigato dal cielo per la persecuzione contro i Cristiani, la sospese con un editto in nome suo, di Licinio e di Costantino, e poco stante morì (311). Massimino volò dall'Oriente per occuparne le provincie, volò Licinio a contrastarlo; poi scesero ad accordi, statuendo per confine l'Ellesponto e il Bosforo di Tracia. Accordo di nemici, poichè le due rive stettero irte d'armi, e Licinio cercò l'alleanza di Costantino, Massimino quella di Massenzio, e guatavansi con terribile aspettazione dei popoli. Massenzio tiranneggiava l'Italia smungendola con pazze prodigalità; dai senatori esigeva spontanei donativi in moltiplicate occasioni; pel minimo sospetto sfogava il rancore contro di questi, mentre colla seduzione o la violenza ne disonorava le mogli e le figliuole. Costrinse il governatore della città a cedergli Sofronia sua sposa: ma questa, cristiana e virtuosa, chiese tempo per addobbarsi; e orato, si uccise. Lasciava che i soldati lo imitassero, saccheggiando, uccidendo, lascivendo; talora ad alcuno concedeva la villa, ad altri la donna d'un senatore; mentr'egli nel voluttuoso palazzo, gittando magìa e indagando l'avvenire nelle viscere di femmine e di fanciulli, vantavasi d'esser unico imperatore, gli altri sostener solo le sue veci. Il contrasto dava spicco alla felicità delle provincie soggette a Costantino, assicurate dai Barbari, e meno esauste dagli ingordi tributi. Udendo questi che Massenzio radunava gagliardo esercito per torgli l'impero col pretesto di vendicare il padre, lo prevenne e mosse verso Italia, sollecitato dal popolo e dal senato a redimere l'antica regina del mondo. Massenzio, fidando tutto ne' guerrieri, se gli era amicati; tornò i pretoriani al pristino numero; pose in armi ottantamila Italiani, aggiungendovi metà tanti Mori d'Africa, oltre i Siciliani, talchè comandava censettantamila pedoni e diciottomila cavalli[22]. Costantino non armava in tutto che novantamila de' primi ed ottomila degli altri; onde, distribuitine ove occorreva, provveduto alla difesa del regno suo, non potè moverne che quarantamila, prodi però, esercitati contro i robusti Germani, e condotti da capitano esperto ed amato. Il quale, mentre la sua flotta assaliva la Corsica, la Sardegna e i porti d'Italia, valicò le alpi Cozie, e, prima che Massenzio il sapesse partito dal Reno, pel Moncenisio calò a Susa. Presala di viva forza (312), nelle pianure della Dora scontra un corpo italiano, coperti uomini e cavalli di ferro, e li rompe; entra in Torino, poi in Milano; ha Verona a discrezione, dopo sconfitto Pompejano che con grand'arte la difendeva. Massenzio intanto si stordiva o lusingava, finchè i suoi uffiziali furono spinti a mostrargli imminente la ruina. Posto in piedi un terzo esercito, egli se ne mise a capo, vergognandosi dei rimbrotti della moltitudine, e confortato dai Libri Sibillini che avevano ambiguamente risposto: — In questo giorno perirà il nemico di Roma». Incontratisi a nove miglia da Roma (_ad Saxa Rubra_), Massenzio vide l'esercito suo tagliato a pezzi, e fuggendo precipitò dal ponte Milvio nel Tevere: e Costantino, cinquantotto giorni dopo mosso da Verona, ebbe compita la guerra. Padrone di Roma, estirpò ogni seme e razza del tiranno, ma per quanto la moltitudine gridasse, non consentì l'uccisione de' primarj amici di quello; e sospesa la crudeltà quando più non era necessaria, dimenticò il passato, diede il congedo ai pretoriani e ne disfece il campo, impedì i delatori, sollevò gli oppressi da Massenzio, e in due mesi, dicono i panegiristi, rimarginò le piaghe recate da sei anni di tirannia. Al senato restituì lo splendore, e ne fu ripagato con ogni modo d'onoranze; il primo posto fra gl'imperatori, arco di trionfo che tuttora sussiste, dedicati a lui molti edifizj cominciati da Massenzio, a non dire le feste che attirarono infinito concorso. Diede sua sorella all'imperatore Licinio: mosso sopra i Franchi, devastò le loro terre, e molti prigionieri gettò alle belve. Quando Massimino Daza morì a Tarso, rimasero padroni Licinio delle provincie orientali, delle occidentali Costantino. Poteasi prevedere una scissura, che non tardò; e Costantino disfece l'emulo nella Pannonia e nelle pianure di Tracia (314), indi gli concesse pace. Ma avendo Costantino, nello sconfiggere i Sarmati e i Goti, inseguiti questi ultimi fin sulle terre di Licinio, si rinnovarono lamenti, che finirono in guerra aperta. Licinio fu novamente battuto presso Adrianopoli, e la sua flotta nello stretto di Gallipoli, onde chiese patti e gli ottenne. Avendo però Costantino saputo ch'esso allestiva nuove armi (323 — 3 luglio), e chiedeva perfino in ajuto i Barbari, lo prevenne e ruppe a segno, che non isperò salvezza altrimenti che col gettarsegli ai piedi, rinunciando alla porpora. Costantino l'accolse benigno, e lo inviò a Tessalonica con ogni cortesia; poco poi mandò a strangolarlo. Così l'impero restava unito nella robusta mano di Costantino, che, padrone del mondo, potè trarre ad effetto i lunghi divisamenti, e dargli politica nuova; nuova capitale, nuova religione. LIBRO QUINTO CAPITOLO XLVI. Il Cristianesimo perseguitato, combattente, vincitore. Allorchè Costantino movea verso l'Italia contro Massenzio, tutto l'esercito vide, sopra del sole, uno splendore in forma di croce, dove leggeasi, _Per questo segno vincerai_. Dappoi in sogno esso imperatore fu avvertito che adottasse la croce per insegna; ond'egli fece farne una col monogramma di Cristo ☧ e la attaccò al làbaro, cioè allo stendardo imperiale, invece degli Dei che soleano portarsi innanzi alle legioni. Dall'obbrobrio del Gólgota passa dunque la croce a guidare gli eserciti; presto sfolgorerà in fronte ai re, aprendo una nuova civiltà; ma traverso ai contrasti e ai patimenti, che sono indispensabili pel trionfo del vero. Gli apostoli e i primi loro discepoli, colla voce, coll'esempio, col martirio, colla Grazia propagarono la redentrice morte in parti remotissime; giovati umanamente dalla grande concentrazione del mondo civile nell'Impero, per cui erano tolte le barriere delle nazionali nimicizie, e rese universali le lingue greca e romana. Come le antiche città voleano derivare le proprie origini da semidei, così le Chiese aspirarono al vanto d'esser fondate da apostoli o dai primi loro discepoli. Che san Paolo, allegando d'essere cittadino romano, declinasse i giudizj provinciali, e si facesse condurre a Roma, consta dagli Atti Apostolici. Un'antica fama vi porta anche san Pietro (t. III, p. 194), il quale, secondo le tradizioni napoletane, venendo da Antiochia approdò a Brindisi, quindi a Otranto; in Taranto lasciò vescovo Amasiano; visitò Trani, Oria, Andria; per l'Adriatico navigò a Siponto, indi pel Tirreno giunse a Napoli, e convertitala, vi pose vescovo Aspreno; s'addentrò pure a Capua, facendone vescovo Prisco, e Marco ad Atina, Epafrodito a Terracina, Fotino a Benevento, Simisio a Sessa, così a Bari e altrove. Reggio vanta per primo pastore Stefano, ricevuto dall'apostolo Paolo; e Pozzuoli Patroba, discepolo di questo. Farebbero discepolo di Pietro san Paolino, che battezzò i Lucchesi. A Milano vorrebbe dirsi piantata la croce dall'apostolo Barnaba: nella Venezia da san Marco evangelista, il quale avendo convertito ad Aquileja Ermàgora, in Roma lo presentò a Pietro, che destinollo vescovo di questa città[23], di Trieste, di Concordia; come san Massimo d'Emona, san Prosdocimo di Padova, Vicenza, Altino, Feltre, Este. Pie tradizioni, che la critica non può tutte accettare, ma neppure senza leggerezza repudiar tutte. Certo in Roma, trentatre anni dopo Cristo morto, Nerone trovava Cristiani in quantità (_multitudo ingens_); e non si poteano più reprimere che coll'inventare contro di loro insane calunnie, quali l'incendio di Roma (t. III, p. 197). I grandi e i dotti continuavano come Pilato a dire — Cos'è la verità?» ma numerose classi, che la necessità del lavoro salvava dalla corruzione, credendo quello che avevano creduto i loro padri, frequentavano i tempj, e sentivano il bisogno della divinità che soccorre, che consola, che rimunera. Fra gli schiavi, se molti riduceansi turpe strumento ai vizj del padrone, altri, più remoti dal lezzo signorile, mantenevano la moralità naturale. A costoro dunque come riusciva consolante l'udire parlarsi d'un Dio, eguale per essi e pei loro tiranni; e che colla pazienza poteano le dure fatiche, gl'iniqui strapazzi tramutare in tesoro per un'altra vita, ove ad un giudizio incorruttibile sarebbero chiamati non meno gli oppressori che gli oppressi! Il più de' Cristiani cernivasi dunque tra costoro: ma ben presto Plinio ne scontrava d'ogni età ed ordine; Tertulliano asseriva al proconsole: — Se persisti a sterminare i Cristiani, puoi decimare la città, e fra' colpevoli troverai molti del tuo grado, senatori, matrone, amici»; l'editto dell'imperatore Valeriano suppone battezzati e senatori e cavalieri romani e dame di grado. Neppure ai popoli più abbandonati la Provvidenza non avea lasciato mancare lumi per iscorgere la verità, e per almeno rispettare quel che non aveano forza di seguire. L'orgoglio degradasse pure lo spirito, la concupiscenza invilisse la carne, gli uomini si stordissero fra cure e voluttà; non poteano spegnere la coscienza prepotente che porta a cercare chi è Dio? chi l'uomo? quali relazioni fra questo e quello? come il peccatore può rigenerarsi? che cosa s'incontrerà dopo morte? A siffatte domande niuna risposta soddisfacente adduceano l'orgoglio degli Stoici, la depravazione degli Epicurei, la grossolanità de' Cinici, lo scetticismo degli Accademici; e soltanto dubbj o sottilità esibivano a chi invocava il riposo della certezza. Nè meglio appagava una religione, dove professavasi o un Dio imperfetto, o la creatura perfetta; il che equivale a negare e la creatura e Dio; e che, spoglia di dogmi, riusciva mancante d'efficacia morale. Fra quei sacerdoti, se eccettuate alcuni fanatici egizj e siri, chi mai avrebbe patito disagi non che tormenti pel suo Dio? chi voluto girare predicandone il culto, più di quel che giovasse ad acquistare credito e ricchezze? tenevano la loro dignità non altrimenti che un impiego dello Stato; pronti, se il senato lo decretasse, a sostituire Giove a Tina, Mitra ad Apollo, ed erigere altari al tiranno ed alla meretrice. Or ecco il cristianesimo, «dalle tenebre chiamando nell'ammirabile sua luce», e rivelando Colui che è la chiave di tutti i secreti, la parola di tutti gli enigmi, il compimento di tutta la legge, proclamava di nuovo la fede perchè fondato sulla rivelazione, la speranza perchè appoggiato a promesse divine, la carità perchè mostra tutti fratelli e solidarj in quell'ordine universale, ove ogni cosa si armonizza al fine supremo che a ciascuno impose Iddio, e a quel supremo bene che è la manifestazione esterna delle perfezioni divine[24]. Gente non natavi per accidente, ma entrata nel cristianesimo per intima persuasione e dopo lunga lotta e duri sacrifizj e persuasa non darsi salute fuori di esso, restava impegnata a conservarlo e diffonderlo coll'esaltamento d'una profonda fiducia; scendere al vulgo, alle donne, ai fanciulli, per illuminarne l'intelletto, dirigerne la condotta, comunicare a tutti la cognizione più essenziale, quella de' proprj doveri; sicchè i principj importanti all'ordine sociale diventano universale eredità per via di catechismi, omelie, professioni di fede, cantici, preghiere: forme diverse d'una fede sola, d'una sola speranza, adattate alla comune capacità. Il padre convertito trae la famiglia ad una credenza, fuor della quale sa che non si arriva a salvamento; il soldato predica alla sua coorte, uno schiavo all'ergastolo e talora al padrone. A quest'apostolato potea lungamente resistere la gentilesca indifferenza? Roma avea provato ogni bene terreno, la potenza e la gloria, poi la ricchezza e le voluttà; e non se ne trovava appagata. De' suoi pensatori, alcuni deploravano ancora Farsaglia, ed oscillavano tra un'avventata resistenza e il disperare della pubblica cosa; altri in represso fermento aspettavano misteriosi avvenimenti predetti dagli oracoli, e creduti come si suole in tempi e da uomini infelici tra quell'avvicendare d'anarchia e despotismo, tra la brutalità degli imperanti, la feroce licenza de' guerrieri, le rapine de' magistrati. All'annunzio d'una religione, divina nella sua origine, semplice e vera nell'insegnamento, pura e generosa nell'applicazione; a quella dottrina semplice, chiara, umana e insieme sublime, l'intelletto s'apriva, se ancora la volontà esitava; quand'anche la Grazia non trionfasse delle abitudini e dell'interesse, il cristianesimo palesava virtù, a cui non poteasi ricusare ammirazione; colla fratellanza procurava i gaudj d'una vita interiore; coi purificati sentimenti sapeva occupare le anime robuste, esercitare le immaginazioni attive, soddisfare ai bisogni intellettuali e morali, repressi, non isradicati dal sofisma, dalla tirannide, dalle sventure. Prova di questo bisogno di virtù si è, che coloro i quali tentarono ringiovanirle, dovettero alle credenze antiche mescere alcun che di puro ed elevato, che non traevano dalla loro essenza, che mai non aveano avuto nella pratica; il grossolano politeismo avvicinare al dogma d'un Dio solo, restringendo il culto quasi unicamente a Giove, e facendo di Apollo un mediatore fra Dio e gli uomini per mezzo degli oracoli, un salvatore dell'umanità, il quale si fosse incarnato, vissuto servo in terra, sottoposto a patimenti per espiazione. Ma per quanto s'industriasse a rifarsi dei dogmi cristiani, forse che l'idolatria soccombente offriva la consolante dottrina della remissione de' peccati? Rimorso dalla coscienza, uno potea attutirla altrimenti che con olocausti, con farsi piovere sul capo il sangue di vittime scannate, o con altre espiazioni, di cui sentiva la superstiziosa vanità? Or che _buona novella_ l'udire che un Dio aveva radunata in sè solo quell'ira ineffabile, e che ciascuno può appropriarsi i meriti infiniti del sacrifizio della croce mediante la fede nel divino Redentore? I fedeli di quelle legalità, dove allo scellerato non serbavasi che il castigo, ben faceano colpa ai Cristiani dell'accogliere i peccatori; ma i Cristiani rispondevano col restituirli innovati dalla penitenza. Di buon'ora i Cristiani si costituirono in società con capi e regolamenti, entrate e spese (t. III, p. 202); legami volontarj e morali, eppur tenaci, che davano prevalenza sopra le fiacche e disperse aggregazioni religiose degli antichi, nelle quali ciò che in Etruria si credeva, beffavasi in Sicilia, ed i sacerdoti de' varj delubri e de' molteplici numi, non che fra loro indipendenti, erano gelosi e nemici. Ne' Cristiani invece, uno lo spirito, una la morale, uno il culto: devoti fin alla morte alla causa stessa; «nell'unità della fede e nella cognizione del Figliuol di Dio»[25], credevano infallibile il concilio de' loro sacerdoti, perchè lo Spirito Santo avea promesso d'esser con loro; dipendevano da capi che avevano conversato coll'Uomo Dio, o con chi gli era vissuto a' fianchi. Vedendo quell'intima comunanza, quel legame fraterno, saldato dall'unità delle credenze e delle speranze, i Gentili esclamavano, — Vedi com'e' si amano!» Ed a ragione, dice Tertulliano, ne fan le meraviglie, essi che non sanno se non odiarsi. I miracoli sono generalmente attestati, prodotti in apologie nelle quali troppo importava non mentire; dai nemici stessi non negati, bensì attribuiti a magia; tanto che anche il critico di buona fede s'arresta prima di volgerli in riso. Si negano? più grande diventa il miracolo di convertire il mondo, d'ispirare agli ignoranti la cognizione di sì elevate dottrine, ai dotti la sommessione a tanti misteri, agli scredenti la fede di cose incredibili; e tutto ciò a fronte di ostacoli potentissimi. E ostacolo dei più robusti era l'abitudine. Colle prime idee, colle prime parole, il Gentile avea bevuto il politeismo; gli Dei erano associati alle impressioni di sua gioventù; ne' bisogni s'era rivolto ad essi, ricorso ai loro oracoli nel dubbio, sciolto ad essi il voto dopo campato da malattia, da naufragj, dalle manie di Caligola o dalle vendette di Sejano. Le immagini della mitologia ridono di tale squisitezza, che, anche perduta ogni fede e trascorsi tanti secoli, lusingano tuttora le nostre immaginazioni. Che doveva essere allora, quando tutte le arti v'attingeano? quando n'erano pieni i libri, con cui si coltivava l'ingegno, s'incantavano gli ozj, si distraevano le malinconie? Il Cristiano, che negli Dei protettori della musica, della poesia, dell'eloquenza non riconosceva altro che demonj, era ridotto a privarsene: perchè ad ogni piè sospinto trovava pericoli e contaminazione, non dovea festeggiar i giorni di reciproci augurj o di solenni commemorazioni; non sospendere lampade e rami di lauro alle porte, nè coronarsi di fiori quando tutto il popolo s'inghirlandava; anzi protestare ad ogni atto che inferisse idolatria. A nozze si cantano Talassio ed Imene? alle esequie si fanno espiazioni? nei banchetti si liba agli Dei ospitali? nelle case si riveriscono i Lari? il Cristiano deve fuggire, mostrarne orrore. Da ciò continui disgusti; e il convertito obbligato a lasciar le più care distrazioni, ridursi alle abnegazioni, all'isolamento. A impieghi e dignità era unica via il piacere al principe: e il principe bruciava i Cristiani, e ne faceva fanali a' suoi orti. Per rinfrancare il debole sentimento morale, eransi muniti di religiose cerimonie tutti gli atti della pubblica vita. Quelli dunque che già occupavano magistrature, come poteano prestare il giuramento? come sacrificare? come intervenire nel senato che radunavasi in un tempio, e le cui tornate cominciavano da libagioni alle divinità? come presedere ai giuochi gentileschi? E ai giuochi ripetemmo quanto traessero ingordi i Romani. Or bene, il cristianesimo esecrava spettacoli ove per diletto si versava sangue, e i nuovi convertiti venivano conosciuti all'allontanarsi dal circo; ma ciò quanto costava! Alipio (ce lo racconta sant'Agostino) convertito rinunziò agli spettacoli sanguinarj: pure un giorno i suoi amici lo trassero al circo romano. Egli vi si tenne ad occhi chiusi e immobile durante la lotta; quando improvviso il silenzio ansioso degli spettatori è rotto da applausi feroci, perchè un gladiatore aveva atterrato l'altro. Vinto dalla curiosità, Alipio schiude gli occhi, e la vista di quel sangue gli ridesta la crudele voluttà; mal suo grado s'affissa su quel corpo boccheggiante, e l'anima di lui s'inebbria del furore del combattimento e degli omicidj dell'arena. «Più non era l'uomo strascinatovi a forza, ma uno anch'esso della folla, commosso del pari, del pari gridante, ebbro di gioja come essa, e impaziente di ritornar a godere i furori del circo». Tanto l'abitudine prevaleva sopra le migliori risoluzioni. L'idolatria sfoggiava la solennità d'un pubblico culto, con feste patrie e regie; il cristianesimo non esibiva che povera e semplice austerità; quella, connessa a' primordj della storia nazionale, deificava i fondatori e i legislatori del popolo; questo li sbalzava dall'are per sostituirvi il figlio di un fabbro, uno morto sul patibolo. Il vulgo stesso nel culto della patria vedeva quello della sua gloria; talchè s'innestavano pietà e patriotismo. E chi erano costoro che venivano a dar il crollo a credenze, antiche quanto il mondo, diffuse quanto il genere umano? Non sapienti Greci, non Pitagorici o Gimnosofisti, ma della genìa degli Ebrei, rinomata per corriva e nata al servaggio, derisa per la singolarità de' costumi e per le astinenze. Il loro fondatore non avea, come gli altri autori di religioni, usato lo scettro o la spada, nè tampoco la cetra o la penna: i suoi discepoli, levati dal remo o dal banco, erano una marmaglia pezzente, che si raccoglieva attorno poveri schiavi, giovani inesperti o vecchi mentecatti, per contar baje d'un Dio che si umana, d'uno che crocifisso risorge; vietava di discutere le ragioni dell'adorare e del credere; giudicava un male la sapienza del mondo, un bene la follia; riponeva la sapienza (come Giuliano li rimproverava) nel ripetere stupidamente, — Io credo». Pertanto la religione di Cristo era dai Latini chiamata _insania, amentia, dementia, stultitia, furiosa opinio, furoris incipientia_; l'orgoglioso repugnava dall'accomunarsi con artigiani e schiavi; i dotti trovavano ridicoli que' misteri, la cui sublimità non s'attinge che mediante la Grazia; la povertà e i supplizj de' discepoli davano argomento della debolezza del fondatore in una società che tutto riponeva nell'esito, tutto conchiudeva con questo mondo. Esagerando poi e falsando, dicevano che i Nazareni adorassero il sole, un agnello, una forca, una testa di giumento: e il vulgo, sempre numerosissimo, rideva, e li giudicava stolti ancor più che malvagi[26]. Ma anche malvagi li credeva. Costretti com'erano a tenere le assemblee in secreto, i Cristiani davano appiglio alle accuse, solite apporsi a tutto ciò che è arcano; e nel più sinistro senso venivano intesi i riti loro. Le sobrie agapi sono inverecondo stravizzo: nei silenzj delle catacombe violentano il pudore e la natura: un fanciullo coperto di farina è presentato al neofito, il quale lo trafigge senza sapere che si faccia, se ne raccoglie il sangue in calici che passano da un labbro all'altro, e se ne mangiano le carni. Ritraggonsi dalle magistrature per non dovere far omaggio agli Dei? li sentenziano d'infingardi: sono stregonerie i miracoli; malefizio la loro costanza nei supplizj: anzi sono atei perchè non hanno sagrifizj, non tempj[27]. Eppure cotesti ribaldi qual morale insegnano? la più pura ed austera: povertà ad un mondo idolatrante le ricchezze; umiltà al secolo della superbia; castità in mezzo alle ostentate lascivie; abnegazione tra il filosofico egoismo. Invece di quell'assenza d'ogni dogma, così comoda all'accidia umana, che permetteva tutte le contraddizioni all'intelligenza, tutti i vaneggiamenti all'anima, tutte le superstizioni ai cuori, tutti gli eccessi alle passioni, intimavasi un dogma preciso, assoluto, universale, che richiedeva l'intensità dell'intelletto, la sommessione del raziocinio, l'obbedienza del cuore; al panteismo filosofico o al popolare l'idea della spiritualità di Dio e dell'individualità dell'uomo; agli Epicurei la fede nella Provvidenza e nelle retribuzioni postume; agl'increduli e agli indifferenti la necessità del culto; agli egoisti la solidarietà del genere umano; ai gaudenti le austerità e l'umiliazione; allo schiavo di ritenere le sue catene, sebbene al padrone intimi ch'egli è eguale al servo; al povero di non esigere i soccorsi, sebbene al ricco imponga di dare volontariamente. La gente, che da tanti mali erasi rifuggita nelle voluttà, senza tampoco sospettare che queste offendessero divinità tuffate nello stesso brago, vedevasi allora non solo interdetti gli atti, ma riprovato il desiderio; riprovata la fornicazione anche colle libere, anche colle schiave; riprovata la vendetta, che prima era dovere e religione; riprovato il fasto, e detti beati coloro che soffrono, beati gli umili di spirito; esclusi dalla gloria i molli, gli adulteri, i pederasti. Questa guerra alle passioni, questo freno agli istinti naturali, quanti non dovea stornare dal cristianesimo? Mercanti e artieri assai vivevano del somministrar vittime, dell'allestire giuochi e simulacri: sacerdoti, auguri, re sacrificuli, incantatori, astrologi recavansi in odio chi guastava lor arte, e facevano prova di sostenerla col ravvivare il fervore pel culto antico, l'attenzione degli oracoli, la scaltrezza dei prodigi. Così invalse una quantità di maghi e prestigiatori, tra cui famosi Simone samaritano in patria e Apollonio di Tiane a Roma. Quegli offerse a san Pietro del denaro se gli partecipasse la facoltà di conferire lo Spirito Santo; donde fu nominata la simonia, cioè il vendere le cose sacre; prima eresia che comparve, ultima che sparirà. Vogliono capitasse egli a Roma regnante Claudio, e co' suoi prestigi talmente s'illustrasse, da meritare una statua nell'isola del Tevere[28]; ma avendo voluto librarsi a volo, si ruppe la persona. Anche Apollonio venne a Roma imperando Nerone, il quale, sebben nemico ai filosofi, gli permise di rimanere, e d'alloggiar ne' tempj, secondo soleva; poi a Vespasiano diede consigli sul ben governare l'impero. Accusato da un Greco a Domiziano, tornò a Roma a giustificarsi, ma il giorno medesimo fu visto a Pozzuoli e ad Efeso; e trovandosi in quest'ultima città al momento che Domiziano cadeva trafitto a Roma, sospese di parlare, e stato alquanto assorto, agli uditori meravigliati, disse: — Il tiranno è morto». Nerva succeduto imperatore, e che già eragli amico, l'invitò; ma egli scusossene, e mandogli de' pareri; indi sparve, nè più fu veduto vivo o morto. Persone devote al nome di costui e a quel di Pitagora, a cui egli s'appoggiava, professavano che un'infinità di genj occupassero il vuoto fra l'uomo e Dio, partecipi in vario grado alla natura di esso; e poter l'uomo contrarre patti con quelli per via di cerimonie, digiuni, purificazioni. Il popolo li temeva e pagava, i grandi vi credevano; non Caracalla soltanto, ma fin Marc'Aurelio ne aveva sempre agli orecchi; e la malignità li confondeva coi Cristiani, e i miracoli de' santi coi costoro prestigi. La più grave imputazione però ai Cristiani, vorrei dire la più romana, era d'odiare il genere umano, il che significava odiare l'impero[29]. Le istituzioni di Roma traevano lor forza dallo spirito di famiglia, sopra il quale era sorta la gran città, e dalla conseguente venerazione per gli antenati. Or ecco il cristianesimo, che, per guadagnare gli spiriti volgendosi principalmente alla gioventù, la sottraeva ad una generazione frivola, logora, ignara del vero bene, nimicava il padre ai figli, il fratello al fratello; donde eseredati figliuoli, repudiate mogli, puniti schiavi, scassinata l'autorità domestica. Non che opporre agli antichi nuove glorie, nuove virtù, proferivansi dannati eternamente gli uomini più cari e venerati, i conquistatori ed i sapienti, i Cesari e i Ciceroni; chiamati demonj gli Dei, pel cui auspicio era ingrandito il Campidoglio. Mentre Roma intitolava eroi quelli che aveano sterminato maggiori popoli, grandezza il rapire a molti l'indipendenza, principal fonte di potere e di gloria la guerra, unico scopo di questa la conquista; ecco predicarsi la pace, la fratellanza, la giustizia, condannarsi cioè tutta la politica antica e nuova di Roma; dall'angustie d'una patria terrena sollevati gli animi ad una invisibile, della quale erano cittadini gli uomini tutti, anche il vinto, anche il barbaro, anche lo schiavo. La religione de' Latini era essenzialmente nazionale, e incarnata colla repubblica; Roma, città santa, inorgoglivasi di derivare dagli Dei; a sette cose sacre annetteasi la conservazione dell'impero (t. I, p. 153-4); nei maggiori frangenti consultavansi i Libri Sibillini; senza auspicj non si tenevano assemblee, senza feciali non s'indiceva la guerra o saldava la pace, senza sacrifizj non s'inaugurava imperatore o console; a comuni solennità si congregavano le federazioni; e le teorie, portando l'annuo omaggio della lontana colonia alla madrepatria, teneano stretto il nodo fra questa e quella. Intaccare pertanto la religione era intaccare lo Stato, era un dichiararsi nemici del genere umano. Augusto, fondando l'impero, trovò la necessità di rinnobilire le svilite idee religiose, e «ristorare i tempj e le crollanti immagini degli Dei» (ORAZIO); e in testimonio dell'alleanza fra lo statuto e la religione, unì il sommo pontificato alla potenza imperiale, e collocò nel senato l'altare della Vittoria. Allora fu imposto silenzio alle voci che nella Roma repubblicana sbraveggiavano gli Dei e la vita futura; si moltiplicarono sacrifizj, iscrizioni votive, delubri. Mecenate, consigliando Augusto sul modo di governare, gli aveva detto: — Onora sempre e dappertutto la divinità secondo le leggi e gli usi aviti, e costringi gli altri a farlo. Quelli che introducono alcun che di stranio nel culto, detesta e punisci, non solo per riguardo agli Dei, ma perchè questi novatori trascinano molti cittadini ad alterare i costumi, donde vengono congiure, intelligenze, associazioni pericolose»[30]. Le assemblee erano vietate, anche quando tendessero a pubblica utilità; e tanto più sedi scopo religioso. I giureconsulti «custodi delle divine ed umane cose» pronunziavano doversi conservare ad ogni costo il culto avito, e Ulpiano radunò tutte le leggi in proposito[31]. Ben è vero che ai numi patrj e ai greci si erano aggiunti ora l'Iside egizia, ora il Mitra persiano, poco importando al politeismo che gli Dei fossero venti o cento, anzi alla costituzione essendo consono l'adottare gli Dei stranieri, ed alla politica l'assimilarsi i vinti coll'accettarne le credenze. Ma tutt'altrimenti andava il caso con una religione che ogn'altra escludeva, che diceasi universale, e destinata a fabbricare il suo tempio colle macerie delle nemiche. La tirannia fin allora aveva colpito gli uomini nel corpo, ne' beni, nella vita, non s'era rivolta all'anima, al pensiero, mai non avendoli incontrati sulla sua via. Era la prima volta che desse di cozzo in una fede seria, profonda, pronta ad obbedire finchè le si chiedessero gli averi e il sangue, ma risoluta a resistere quando n'andassero di mezzo la credenza o il dovere: in quella gara di farsi vili al pie' di vili regnanti, insegnano che l'uomo è soltanto di Dio[32]; quanto ai dogmi ed all'esercizio di loro religione, non conoscono superiorità terrena; adoprano sincerità e pazienza, non forza o scaltrezze, non calare a transazioni, non guadagnar tempo; persuasi che tutte le cose visibili sono un nulla a petto delle arcane, che l'unico bene consiste nell'accettar la croce, l'unico male nel peccato, e che la follia del Calvario trionferebbe dell'ostinazione d'Israele e della superbia di Roma: gl'imperatori o i proconsoli vogliono forzarli? se deboli, fuggono; se no, soffrono, non piegano: contro la barbarie raddoppiasi la loro costanza, la quale diventa ad altri eccitamento, sicchè «il sangue è semenza di Cristiani». Pure cotesti settarj dal loro Cristo aveano imparato a rispettare la potestà; sotto imperatori che disonoravano la natura, i loro dottori gli esortavano alla docilità, non essendo ancora in tal numero che bastassero a rappresentare un voto nazionale e mutare un reggimento. San Vittore interrogato da un prefetto, risponde: — Nulla ho fatto contro l'onore o gl'interessi dell'imperatore o della repubblica; non ricusai di assumere la difesa ove il dovere me l'imponeva; ogni giorno offro il sacrifizio per la salute di cesare e dell'impero; ogni giorno in favore della repubblica immolo vittima spirituale al mio Dio». Perocchè il cristianesimo, improntato della universalità, attributo incomunicabile delle soluzioni divine, collocò la religione ben disopra alla parte contingente e variabile della società, fermandola nell'essenziale e permanente, sicchè l'uomo, in qualunque clima e qualunque governo, possa operare il perfezionamento proprio e meritarsi il cielo; sotto principi crudeli e scostumati non si ribella alla società, da' cui peccati rifugge; non pretende sovvertirla, ma cerca emendarla; combatte i vizj del secolo, ma senza staccarsi da esso. Pertanto i Cristiani, ignorati o tollerati, erano cresciuti. I padroni degli schiavi s'accorgeano d'un mutamento, non cominciato dalle sublimi, ma dalle infime parti della società: alcuni sofisti tolsero a sillogizzare sopra quelle credenze: i sacerdoti vedeano diradarsi i tempj, sminuire le offerte. Allora, aperti gli occhi, si conobbe che costoro, nati appena jeri, già empivano i fòri, i tribunali, le legioni; senz'armi, senza difesa, negavano obbedienza ad ordini così semplici, quali pareano il bruciare un grano d'incenso sull'ara di un dio o d'un imperatore; e piuttosto accontentavansi di morire. Alla romana legalità, che faceva delitto il contrariare un decreto qualunque, come doveva movere sdegno questa inobbedienza! Gli statisti, che sentivano non poter più Roma prosperare dacchè era spoglia di morale ed abbandonata ai baccanali della forza, sapevano però che nel cadavere d'un grande Stato le istituzioni antiche conservano una vita galvanica, perchè e l'aristocrazia si ricorda qual fu, e l'esercito è abituato ad una certa disciplina, e il popolo ad un'amministrazione qual ella sia, e nel principe si concentrano la forza e l'opinione. Di qui la tenacità alle forme vetuste, che è propria de' dominj deboli; di qui l'odio dei politici contro il cristianesimo. Sopragiungevano intanto sempre nuove traversie; peste, tremuoti, fame, correrie di Barbari: e i Cristiani predicavano, — Sono avvisi del cielo; Roma e il mondo, sommersi in un mare di vizj, meritano questi e peggiori castighi». Fremeano i Gentili a tal voce, quasi desiderassero o si compiacessero de' mali di cui adducevano la ragione: i politici si confermavano nel crederli avversi allo Stato: i religiosi pensavano che le costoro bestemmie irritassero gli Dei, i quali, destri un tempo agl'incrementi di Roma, lasciavanla allora sfasciarsi. Adunque ne si plachi la collera col sagrificare i loro nemici; il Cristiano, pel solo suo nome, sia considerato «nemico de' numi, degl'imperatori, delle leggi, de' costumi, di tutta la natura»[33]. Derivavano dunque dalla legalità romana le persecuzioni, che quella civiltà ci presentano in un aspetto differente assai dal classico; quistione politica più che religiosa, dove, poco curando la dottrina, punivasi la disobbedienza; e dove gl'imperatori buoni, cioè ispirati dall'antico genio romano, imperversarono più che non i malvagi, quali Comodo od Elagabalo. La Chiesa noverò le sue vittorie dal numero delle sue tribolazioni. Sotto Nerone vedemmo la prima volta perseguitati i Cristiani, e non pare fosse soltanto per dare una soddisfazione al popolo, nè che si limitasse a Roma[34]. Domiziano, quando voleva rifabbricare il Giove Capitolino, tassò gli Ebrei un tanto per testa; e i Cristiani, compresi sotto quel nome, non volendo a verun patto contribuire per idolatrie, ne nacque nuova persecuzione, in cui caddero Flavio Clemente, cugino dell'imperatore e collega di lui nel consolato, colla moglie e la nipote Domitilla. Il cristianesimo era già dunque arrivato ai limitari della reggia. Plinio Cecilio (t. III, p. 339), stando proconsole della Bitinia e del Ponto, sentì contrasto fra il dovere d'eseguir la legge che condannava i Cristiani, e la coscienza propria che glieli mostrava incolpevoli; laonde interpellò l'imperatore Trajano come comportarsi, e se fossero a punire indistintamente giovani e vecchi, se perdonare a chi si pentiva. — Gl'interrogai (soggiunge) se fossero cristiani; e quei che confessarono, escussi due o tre fiate con minaccia del supplizio se perseveravano, gli ho condannati, giacchè meritano castigo la disobbedienza e l'ostinazione. Alcuni denunziati negarono; altri dissero aver cessato d'essere cristiani, ed affermavano che tutto il loro errore o delitto consisteva nell'adunarsi un giorno prefisso avanti l'alba e avvicendare inni a Cristo come fosse dio; si obbligavano con giuramento di non commetter furto, adulterio od altro misfatto, nè negare il deposito; poi raccoglievansi a mensa comune, innocente. Credetti bene chiarir la verità col mettere alla tortura due giovani schiave che diceansi addette ai ministerj di quel culto: non vi ho scoperto che una superstizione trasmodata, laonde ho sospeso tutto, aspettando tuoi ordini. Gran numero di persone d'ogni sesso e grado sono e saranno comprese in tale accusa, poichè questo contagio non ha soltanto infette le città, ma si è dilatato pei villaggi e le campagne». L'imperatore, rispondendo, collauda l'operato del suo ministro, ma essere impossibile stabilir regola certa e generale in cause di questa natura. — Non bisogna fare indagini; ma se accusati e convinti, punirli; se l'imputato nega d'esser cristiano, gli si perdoni». Strana rivelazione del contrasto fra la legalità e la giustizia! Il proconsole, uomo onesto, non trova rei questi settarj se non del nome, pure non domanda che siano salvati, sibbene con qual misura deva castigarli; e li mette al tormento per iscoprirne delitti, di cui non sono accusati. L'imperatore, un de' migliori, anch'egli tentenna fra il proprio sentimento e la ferrea rigidezza delle leggi! E come! la legge è tanto vaga che i prudenti stessi non sanno come interpretarla, e può essere sospesa non solo dall'imperatore, ma fin dal proconsole: eppure a' dubbj di questo l'imperatore non risponde se non che ha fatto bene. Se sono colpevoli, perchè declinare l'indagine? perchè assolverli sulla semplice negativa? Se innocenti, perchè punirli di confessare ciò che non è colpa? Che legislazione è cotesta dove si castiga non un fatto, ma un sentimento? Qual sanguinoso testimonio del niun conto che gli antichi faceano della vita dei loro simili![35] Che se tanto lasciavasi all'arbitrio de' tribunali, e sotto un Plinio ed un Trajano, che doveva essere delle assemblee tumultuarie, quando la plebe, nei giorni devoti agli Dei o fra la sanguinaria ebbrezza dell'anfiteatro, chiamava a gran voci, — I Cristiani alle fiamme, alle fiere?» Editti d'Adriano e d'Antonino vietarono di far fondamento sulla semplice diceria per condannarli: ma che, se i rei medesimi confessavano, anzi gloriavansi? Come doveva inviperire l'orgoglio degli imperatori o de' loro ministri allorchè vedeano un fanciullo, una donna, un oscuro cittadino confessare apertamente il delitto apposto; e a lusinghe, a promesse, a minaccie resistendo, ricusare non un delitto, ma l'atto il più semplice del culto nazionale, un granello d'incenso al dio Giove o al dio Antinoo! Li straziavano allora colla tortura, non per istrapparne la confessione del delitto, ma acciocchè il negassero; oppure mettevano a lubriche prove la continenza dei giovani e la castità delle vergini; e infelloniti dalla resistenza, gli abbandonavano a' manigoldi e al vulgo, in cui la ferocia, innestata dall'abitudine de' supplizj e de' giuochi circesi, veniva esasperata dal fanatismo. Talvolta governatori umani respingevano le accuse, o con sotterfugi salvavano gl'imputati; talvolta li cacciavano solamente a confine: ma altri li chiudevano negli ergastoli e nelle miniere, oppure esercitavano su loro l'esacerbazione che permetteva la legge, iniquissima perchè indeterminata. Alla prova soccombevano? riportavano applausi dai Pagani, orrore e compassione dai Cristiani. Chi subisse generoso i tormenti, restava in venerazione: i fedeli baciavano le catene portate e le cicatrici rimaste; pei morti istituivano annue commemorazioni; e il sangue e le ossa, raccolte studiosamente, venivano poste sotto gli altari che servivano di mensa al viatico di quelli che si professavano pronti ad imitarli, e che in impeto generoso ambivano il martirio fin a denunziarsi da se stessi, a sturbare a bella posta i riti idolatrici, a ricusare la clemenza, e negli anfiteatri provocar l'ira delle fiere e de' manigoldi[36]. A malgrado degli scrupoli di Trajano, consta che sotto di esso molti subirono il martirio. Clemente papa fu sbandito dalla sua sede. Ignazio, vescovo d'Antiochia, fu da quell'imperatore mandato a Roma, perchè vi fosse ucciso: sul viaggio dell'intrepido confessore di Cristo accorreano vescovi, diaconi, fedeli; in Roma tanti mostravano interesse per lui, ch'egli temeva riuscissero a camparlo dal martirio; ma come vi si seppe destinato, coi fedeli pregò il Figliuol di Dio per le Chiese, per la carità fra' Cristiani, per la cessazione delle persecuzioni: esposto nell'anfiteatro alle fiere nelle feste Sigillarie, mentre i Gentili applaudivano ai leoni che lo sbranavano, i fedeli pregavano per esso, e ne davano avviso ai fratelli d'ogni paese, affinchè quel giorno tenessero in perpetuo solenne. Adriano, spinto al sangue da zelo per le superstizioni e la magìa, e da odio per gli Ebrei, ordinò processure, nelle quali caddero i papi Alessandro, Sisto e Telesforo. Fabbricata la villa di Tivoli, cominciò magnifici sacrifizj per dedicarla: ma che? le vittime, gli auspizj, gli augurj uscivano a vuoto o in sinistro. Interrogati con più vigorose evocazioni, gli Dei risposero: — Come renderemmo oracoli, se ogni giorno Sinforosa co' suoi sette figli ci oltraggia, invocando il suo Dio?» L'imperatore ebbe a sè costei, che richiesta dell'esser suo, rispose: — Mio marito Getulio, con Amanzio fratel suo, tribuni militari, patirono per Gesù Cristo, ed anzichè immolare agli Dei, lasciaronsi recidere il capo, acquistando infamia in terra e gloria fra gli angeli». E intimandole l'imperatore, — Tu sagrificherai agli Dei, o sarai a loro sagrificata», non esitò nella scelta, anelando di ricongiungersi collo sposo. L'imperatore dunque la fece condurre nel tempio d'Ercole, quivi schiaffeggiare, sospendere pei capelli, e durando pur ferma, gettare nelle cascatelle, memori delle voluttuose canzoni d'Orazio. I figliuoli ne imitarono la costanza. Era Aglae una romana tanto ricca, che tre volte diede i pubblici spettacoli; amministravano le sue entrate settantatre agenti, ai quali soprantendeva Bonifazio, uomo ospitale e largo coi poveri, ma licenzioso, e che con essa viveva in peccato. Avuto da Aglae commissione di andare in Oriente, e recare reliquie di martiri, per cui intercessione ottenere perdonanza, egli partì con dodici cavalli, tre lettighe e molti profumi; e per via cominciò a pensare seriamente ad un'opera assunta con leggerezza, e ad orare e far astinenza. Giunto a Tarso, vide il martirio d'alcuni Cristiani, e preso dalla costoro fermezza, li pregò che per lui pregassero; sicchè il governatore fece esporre lui pure ad ogni peggior tormento, che egli comportò pazientissimo in ammenda del passato. Aglae, avvertita del martirio dell'amante, ne ricomprò il cadavere a molto prezzo, e ritornata allo spirito, diede ogni aver suo ai poveri, e con poche donzelle si ritirò dal mondo. Cecilia romana, obbligata contro voglia al matrimonio, converte il marito, il cognato e altri, ed è condannata a perdere gli occhi da un governatore cui troppo erano piaciuti. Maria, schiava d'un Tertullo senatore romano, sola della casa adorava Cristo, ed era tollerata per la fedeltà e l'esatto servire. Sopragiunta la persecuzione di Diocleziano, il padrone, per non essere costretto a denunziarla e così perderla, la fa battere a verghe onde muti fede, e sepellire in carcere, ma senza smoverla. Il giudice, informatone, la volle a sè, la fece martorare tanto che il popolo incompassionito volle si cessassero i tormenti. Il giudice la diede allora in custodia ad un soldato, ed essa temendo per la sua onestà, fuggì tra i monti, ove finì poi santamente[37]. Molte altre donne col santo eroismo assicuravano la libertà della femmina, e ricompravano dall'obbrobriosa servitù il loro sesso, elevandolo alla dignità della donna cristiana. Così la bellezza domava la forza, la morte intimoriva i viventi, e la fede trionfava dell'orgoglio. Que' Romani che non voleano stordirsi sull'avvilimento della patria, si compiacevano nel rimembrare gli Scevola, i Bruti, i Catoni, prodighi delle grand'anime per una libertà, che sembrava più bella dacchè perduta; e nel segreto vantavano i pochi che ancora gl'imitassero o li contraffacessero resistendo ai cesari e affrontando la morte. Or eccoti una setta che proclama la libertà; non la libertà che rinnega l'ordine e che si acquista per sommosse, ma che rifiuta qualsivoglia restrizione alla coscienza, e per la quale cotesti Galilei sanno, non darsi la morte, ma intrepidi aspettarla[38]. Ma gli eroi, sublimando la passione umana, operavano cose straordinarie per l'acquisto di gloria: i santi, rinunziato ad ogni passione, senza calcolare le proprie forze, inermi ma intrepidi affrontavano le potestà umane e le infernali, nulla curando della lode, e la volontà propria rimettendo affatto a Dio. Vero è che i Romani erano avvezzi a quotidiani supplizj, a conflitti di gladiatori, a battaglie nella città o sui campi, a stoici suicidj: ma coloro o lasciavano la vita costretti, o la gittavano come un carico importabile, al più la deponevano con indifferenza, come cosa che saziò. Ne' Cristiani, all'incontro, fanciulli «che non distinguono la destra dalla sinistra», vecchi, donne, morivano non coll'orgogliosa dignità delle scuole, ma con semplicità; non per erudizione di dottrine morte, ma per le parole della vita; non per se stessi, ma pel genere umano: fra supplizj squisiti non metteano lamento, gioivano, perdonavano. «Il vulgo (dice Lattanzio) vedendo le persone lacerate con varj tormenti, e mentre i carnefici si stancano, esse durare nella pazienza, fa giudizio che non sia vanità questa perseveranza dei morenti, e che senza Dio non potrebbero sopportarsi tanti spasimi. Masnadieri, persone robustissime non reggono a pari torture, gemono, urlano, soccombono al dolore, perchè vi manca l'ispirata pazienza. I nostri, non che uomini, ma fanciulli e donnicciuole, tacendo vincono i loro tormentatori, nè il fuoco stesso può strappar ad essi un gemito; il sesso debole, la fragile età soffrono d'essere sbranati a membro a membro, e non per necessità, giacchè potrebbero evitarlo, ma per volontà, giacchè confidano in Dio»[39]. L'antica società facea dunque il suo dovere, e il suo la nuova; i Cristiani subiscono la pena di morte, ma la dichiarano iniqua; si crederebbero contaminati pur dalla vista d'un supplizio, e interdicono il sacerdozio a chi uccise od esercitò diritto di sangue[40]; sublimando per tal guisa il carattere dell'uomo, non più soltanto quand'è ravvolto nella toga senatoria o nel mantello filosofico, o decorato dell'anello equestre, ma anche povero, ignorante, nudo, perfin colpevole; è uomo, e basta. Questa tacita ma costante resistenza rivelò la vigoria del cristianesimo. Ai propagatori del vero più che le persecuzioni e la morte pesano la calunnia o la noncuranza; e queste porsero nuovo esercizio alla pazienza de' primi Cristiani. Giovenale descrisse uno dei loro supplizj coll'indifferenza d'un franco pensatore al cospetto di fanatici[41]; Tacito confuse questa _setta odiosa_ colle tante che infestavano Roma, cloaca di tutte le immondezze[42]; Plinio giuniore non può crederli rei, eppure li punisce; Plinio maggiore, Plutarco, Quintiliano nè tampoco li nominano; nè la lunga storia di Dione Cassio, nè quasi la più ampia _Storia Augusta_; il satirico Luciano ne fa assurde celie; i dotti gli accusano di predicare a donne, fanciulli, schiavi, evitando di scontrarsi con pensatori. Ma intanto la parola, soffocata o derisa, echeggiava da mille parti; e già penetrava nelle scuole, sostenuta con eloquenti scritture e incalzanti argomentazioni; nè più fu lecito alle persone colte ignorarla quando veniva a provocar l'esame e chiedere giustizia. Alcuni autori vi attingevano verità dapprima ignote, sicchè qualcosa di più puro ed elevato inserivano in libri di fondo pagano. Singolarmente in Seneca, fra tante debolezze e vanità, s'incontrano rudimenti di precetti e persino frasi, che accertano avesse cognizione de' libri cristiani, anzi alcuno disse amicizia con san Paolo[43]. Il suo non è più il Dio cieco ed impotente degli Stoici, ma uno incorporeo, indipendente, che è sua propria necessità, e che prima di far il mondo lo pensò[44]; abita in cuor dell'uomo virtuoso[45], vuol essere amato[46] perchè ci ama; noi siamo socj e membri suoi[47]: la maestà degli Dei è nulla senza la loro bontà: la Provvidenza governa il mondo, non da madre cieca, ma da padre prudente, laonde obbedire a Dio è libertà[48]: supremo bene è il possedere un'anima retta e una lucida intelligenza. Romano, egli seppe compassionar l'uomo esposto alle belve e agli stocchi dell'anfiteatro. — Voi dite, egli commise un delitto e merita morte. Sia; ma voi, qual delitto avete voi commesso per meritare d'essere spettatori del suo supplizio?»[49] Proclamò che «il divino spirito appartiene allo schiavo come al patrizio; schiavo, liberto, cavaliere, son parole inventate dalla vanità o dal dispregio; la virtù non esclude veruno; ognuno è nobile perchè discende da Dio. Non li chiamare schiavi, ma uomini, ma commensali, ma men nobili amici, ma consorti di schiavitù, giacchè la fortuna ha su noi i medesimi diritti come su loro. Quel che tu dici schiavo, viene dal ceppo stesso che tu. Consultalo, ammettilo a' tuoi colloquj, a' tuoi pasti; non voler essergli formidabile, e ti basti quel che basta a Dio, rispetto e amore»[50]. Per verità le azioni sue furono poco cristiane, ma certo egli migliorò sul fine di sua vita: le lettere a Lucilio tengono più del serio; nella sesta accenna ad un cambiamento avvenuto in lui, ad una trasfigurazione; gli manda libri dove ha segnato i passi più degni d'approvazione e ammirazione. Pure nelle lettere stesse colloca il saggio più in alto che Dio, esalta il suicidio, dubita dell'immortalità, e affatto da gentile fu la sua morte; onde possiam conchiudere con Erasmo: — Se si legga come pagano, scrisse cristianamente; se come cristiano, scrisse gentilesco». Ma la sapienza, che in lui e in altri moralisti s'incontra a frammenti e tra contraddizioni, veniva insegnata nella sua pienezza dai santi Padri, e col carattere dell'universalità. Quella manifestazione di Dio rendeva inescusabile il paganesimo[51]; quella fede indomita a terrori e lusinghe, quelle virtù più che umane infondeano nel mondo uno spirito nuovo; sicchè la Chiesa, poc'anzi appena sperante, si estende trionfatrice, e s'accinge a riformare la società con nuovo sistema di credenze e di morale. Chè, sebbene il cristianesimo non tendesse a cambiar le relazioni e la condizione esterna dell'uomo, dichiarasse anzi non voler portare la mano all'edifizio della società, e rispettasse le grandi ingiustizie d'allora, la tirannide, la schiavitù, la guerra, pure sin da' primordj si mostrò fruttuosissimo al civile progresso. Non cambiando la società, bensì il modo d'apprezzarla; non togliendo i patimenti, ma trasformandoli in meriti; non mirando a riformare il popolo per mezzo dei governi, ma questi per mezzo di quello, migliorava la morale e gl'intelletti, incivilimento importantissimo giacchè intimamente connesso col civile. Ove dominavano l'anarchia, l'empietà, la dissolutezza, l'egoismo, eccolo sostituire un gerarchico ordinamento, la fede, la santità, l'amor generoso ed universale. Il potere, anche mentre restringe e comprime la spirituale società, ne prova il virtuoso ascendente: i giureconsulti, meditando sulla lettera tenace delle leggi, sentonsi da un'aura diversa lor malgrado ispirati: nella costituzione, ove tutto possono l'esercito e l'imperatore, appare un esempio delle due supreme garanzie della libertà, l'elezione e il dibattimento: si sciolgono gli uomini dalle leggi umane arbitrarie, per sottometterli alla legge razionale e divina[52]. Tali benefizj non furono allora intesi dai forti nè dai savj; e quelli, indispettiti e meravigliati del trovar gente che, contro il volere imperiale, sostenesse l'indipendenza delle proprie convinzioni, tolsero a perseguitarla, dapprima per antipatia, senz'ira, senza timore, fin senza fanatismo, per secondare il gusto che il popolo prendeva ai supplizj; poi per un deliberato proposito di sterminarla. Sotto gli Antonini, che erano la stessa bontà, come dice il dabben Muratori; che erano i migliori de' principi e i migliori degli uomini, come dice il retorico Gibbon, non mancarono martiri. Pare che del loro tempo venisse a Roma Luciano, nativo di Samosata in Asia, il quale per l'universale ironia ben fu paragonato a Voltaire. Ricco di cognizioni, potente di stile, arguto di riso, fece una trista pittura de' costumi romani, poi volse in beffa tutto quanto si credeva e venerava, il potere come il sapere, le religioni come la filosofia; gli Dei perseguita con frizzi che doveano sconficcarli non meno dei ragionamenti, e attesta che nè gl'intelletti serj nè gli arguti più non vi prestavano fede o rispetto; e se ancora se ne frequentavano gli altari, più non era se non per convenienza sociale. Marc'Aurelio fra tante virtù non ebbe quella di resistere ai filosofi che l'accannivano contro i Cristiani; e come rei di attentare alla religione dello Stato, e nutrire spiriti avversi alla pubblica cosa, li perseguitò o lasciolli perseguitare, finchè, dicono, il riferito miracolo della legione fulminante sospese le stragi. Risparmiata sotto Comodo e i successivi, si dilatò la credenza nostra. Se n'adombrò Settimio Severo sul finire del regno, e confondendoli cogl'irrequieti Ebrei, promulgò un editto contro i nuovi proseliti, ma che facilmente si estendeva anche agli altri, e massime a quelli che andavano a convertire: onde la persecuzione cominciata in Egitto, si propagò pel resto dell'impero. È ingagliardita assai un'opinione quando la parte che può opprimerla a forza, sentesi tratta a combatterla con argomenti. Trasferita che fu la quistione nel campo della parola, i Cristiani poterono accettare quella battaglia, per la quale, più che per pacifiche comunicazioni, si propaga la verità. Adunque, mentre i martiri col sangue, altri coll'ingegno difesero la verità in una serie di apologie, dirette le più agl'imperatori onde distorli dalla persecuzione coll'esporre la morale e i dogmi cristiani. Le più rinomate sono quelle che san Giustino samaritano indirizzò ad Antonino e Lucio Vero, al senato e al popolo romano, poi a Marc'Aurelio, lagnandosi che, dove si tolleravano tante assurde religioni, soli i Cristiani venissero perseguitati, essi tanto meglio costumati che i Gentili, e che con orribili torture si estorcessero confessioni di colpe bugiarde. Tertulliano cartaginese, il più eloquente padre in lingua latina, commentando l'accennata lettera di Trajano a Plinio[53], mostrava quale ingiustizia fosse il punirli pel solo nome, togliere ad essi la difesa e gli avvocati che a nessun reo si negano, nè appurare i delitti confessati, la qualità, il tempo, il modo, i complici. All'illegalità delle processure aggiunge la sconvenienza di castigare tante persone, e — Che farete delle migliaja d'uomini, di donne, d'ogni età e condizione, che presentano le braccia alle vostre catene? di quanti roghi, di quante spade non avrete bisogno? Ci si accusa di mangiar fanciulli. Come! bensì in Africa durò l'uso d'immolarne a Saturno, fin quando Tiberio non fece crocifiggere i sagrificatori agli alberi che ombreggiavano il tempio. Ma se l'uso pubblicamente è cessato, praticasi ancora in segreto: uomini si scannano a Mercurio dai Galli; sangue umano versasi in Roma stessa per onore di Giove; mentre noi Cristiani ci asteniamo perfino dal gustare qualunque sangue[54]. Ci calunniano di lesa maestà: ma sebbene i Cristiani non manifestino la devozione con giuramenti e bagordi, pregano il Dio vero acciocchè all'imperatore conceda lunga vita, regno riposato, sicurezza nei palazzi, valor nelle truppe, fedeltà nel senato, probità nel popolo, pace in tutto il mondo. Coloro che più profondono di tali testimonianze agl'imperatori, gli sono i meno fedeli e meglio disposti alla ribellione: al contrario i Cristiani perseguitati obbediscono; e quand'anche il popolo previene gli ordini supremi per ucciderli, e viola perfino i cadaveri, essi non pensano alla vendetta... Dilaga il Tevere? non dilaga il Nilo? difettasi d'acqua? trema la terra? gittasi una carestia, una peste? tosto si esclama, _I Cristiani ai leoni._ Simili sventure non venivano esse anche prima di Cristo? e sono effetti dello sdegno di Dio contro gli uomini colpevoli e ingrati. Intanto, quando il seccore fa temere di sterilità, voi sacrificate a Giove, frequentando i bagni, le osterie, i postriboli; noi cerchiamo placare il Cielo colla continenza, colla frugalità, con digiuni, col coprirci di sacco e di cenere; e ottenuta misericordia, ne diamo onore a Dio. Ma queste sciagure non ci scompongono, nè in questo mondo altro desiderio abbiamo che di partirne il più presto possibile». Così la Chiesa dogmatizzava e disputava, soffriva e protestava; venerava i martiri, ma facea sentir le ragioni ai popoli ed agli imperatori. Alla morte di Settimio Severo tanto s'erano assodati i Cristiani, che, mentre prima adunavansi in case private e di nascosto, poterono eriger chiese, comprare terreni in Roma, pubblicamente far le elezioni. Alessandro Severo gli ammise nella reggia come sacerdoti e come filosofi, e a vescovi e dottori concesse le sue grazie: ma quando Massimino succedutogli punì gli amici del predecessore, molti Cristiani andarono avvolti nel castigo, poi altri in occasione di un tremuoto. L'imperatore Filippo li favorì tanto, che si credette ne avesse abbracciata la fede: ma sotto Decio, un fanatico poeta uscì in pubblico, deplorando l'abbandonata religione; il vulgo chiese fosse riparata col sangue degli empj; e i magistrati cercarono l'aura popolare col concederlo. Anche la peste, che in quel tempo devastava l'impero, aizzò la furia del popolo e la superstizione dei ministri ad isfogarsi sopra queste innocenti vittime, che rendevano il ricambio col profondere assistenza, preghiere, carità. Allora i principali vescovi furono morti od esigliati; per sedici mesi impedito al clero di Roma d'eleggere un successore all'ucciso papa Fabiano; i preti di questo messi in carcere; sistemata la persecuzione per via di decreti. Valeriano al fine del regno, per istigazione del prefetto Macriano, egizio e dotto di magia, perseguitò nuovamente i Cristiani, tra i quali caddero illustri vittime, e Stefano e Sisto II papi. Gallieno sospese le persecuzioni; e quantunque alcune vittime cadessero sotto Aureliano, la Chiesa potè assumere quell'aspetto di legalità che il tempo conferisce. È nella natura dell'uomo di lasciar illanguidire una credenza allorchè non contrastata, ravvivarla quando combattuta. I Pagani guardavano con indifferenza o spregio la loro religione; ma quando i Cristiani si presentarono a mostrarne la falsità e l'indecenza, per reazione vi si affezionarono; le dottrine o le pratiche che bastava conoscere per disapprovarle, dichiararono non essere che vulgari aggiunte, oppure simboli di arcana sapienza e di morale sublime. Si rinfrescò pertanto la venerazione alle antiche favole; e il dispetto di vederle malmenate dai nuovi settarj, insegnava mille arti di sostenerle. Allora dunque rinnovati più pomposi che mai i sagrifizj, introdotti di nuovi, proposte iniziazioni ed espiamenti, con cui supplire a ciò che la Chiesa prometteva col battesimo e colla confessione; poi si moltiplicarono miracoli, e profeti, e oracoli, e guarigioni ai sacrarj di Esculapio e d'Igia; e tanto se n'esaltò il fanatismo del popolo, che città e comuni a gara supplicavano gl'imperatori di adempire le antiche leggi, cioè sterminare i Cristiani. Galerio e Diocleziano, abboccatisi dopo la guerra persiana affine di prendere un partito sopra un punto ormai divenuto capitale, da un'accolta di pochi primarj vennero persuasi di toglier via una setta, che formando uno Stato nello Stato, ne impacciava il movimento, e poteva minacciarne l'esistenza. Ed era vero che il cristianesimo cresciuto scomponeva l'unità così necessaria delle leggi e delle credenze; e chi volesse rintegrarla, trovavasi obbligato a questa scelta, o di rendere dominante la nuova religione, o di distruggerla. Di far il primo non ebbe senno o volontà Diocleziano; tentò il secondo, e professando voler abolire il nome cristiano, pubblicò la proscrizione generale: — In tutte le provincie si demoliscano le chiese; pena il capo a chi tenga conventicole segrete; si consegnino i libri santi per essere bruciati in forma solenne; i beni ecclesiastici venduti all'asta, o tratti al fisco, o donati a comunità e a cortigiani: quelli che ricusino omaggio agli Dei di Roma, se ingenui rimangano esclusi da onori e impieghi; se schiavi, dalla speranza di libertà; tutti sottratti alla protezione della legge: i giudici accolgano qualunque accusa contro i Cristiani, e nessun richiamo o discolpa». Se non fosse attestato concordemente da tanti storici, appena si potrebbe credere pubblicato da nazione civile un decreto di sì tirannesca perversità, che avvolgeva tanta parte del mondo nella persecuzione, sbrigliando le private violenze e le frodi coll'interdire agii offesi di portarne querela, e l'uffizio del giudice riduceva non a librare l'accusa colle prove, ma a scoprire, perseguitare, cruciare chi fosse cristiano o un cristiano volesse salvare. E la persecuzione di Diocleziano rimase famosissima[55], e la Chiesa d'Italia vi diede larga messe: in Roma Genesio commediante, Pancrazio di quattordici anni, Agnese di dodici, Sebastiano milanese, Marcello sacerdote, Pietro esorcista; a Benevento Gennaro vescovo, ingloriato dai Napoletani; a Bologna Agricola gentiluomo con Vitale suo schiavo; in Milano Nazaro, Celso, Naborre, Felice, Gervaso, Protaso; in Aquileja Canzio, Canziano e Canzianilla, di casa Anicia; — glorie nuove nel paese ove la gloria fin allora s'era dedotta dall'uccidere, non dal patire. Il diacono Cesario, venuto d'Africa a Terracina, vi fu testimonio dell'empio rito, per cui a certe solennità sagrificavasi un giovane ad Apollo gettandosi in mare; e levò la voce contro questo suicidio, onde meritò il martirio. Vuolsi che la legione Tebea negasse idoleggiare, e agli ordini imperiali rispondesse: — Noi siamo soldati dell'imperatore; da lui riceviamo la paga, ma da Dio la vita. Dobbiamo versar questa contro il nemico? sì il faremo: abbiam l'armi alla mano, ma non opponiamo resistenza, e preferiamo morire incolpevoli che uccidere gl'innocenti». Distinzione ignota ai soldati antichi, e per la quale furono trucidati a San Maurizio del Vallese[56]. Gli editti di Diocleziano furono dai successori suoi modificati secondo l'indole loro o le circostanze; chè ormai la quistione non era più religiosa ma politica, e gl'imperatori ai Cristiani recavano pace o guerra, per calpestare o alzar una fazione, già preponderante nella fortuna dell'impero. Galerio, forse dalla malattia richiamato a sentimenti migliori, in nome proprio e di Costantino e Licinio, pubblicò un editto ove, asserendo «d'avere adoperato a ristabilire l'antica disciplina romana, e fare che si ravvedessero i Cristiani, i quali, presuntuosamente disprezzando la pratica dell'antichità, abbandonarono la religione dei padri; e avendone molti fatti patire e perire, vedendoli però ostinarsi a non rendere il culto debito agli Dei», permette che professino liberamente le private opinioni, e uniscansi nelle loro conventicole, purchè serbino rispetto alle leggi e al governo stabilito. L'opinione dianzi perseguitata, era ancor vilipesa, ma tollerata; onde i confessori vennero schiusi dagli ergastoli e dalle miniere, gli apostati tornavano a penitenza, i raminghi rivedevano le dolci case, e nella pubblica professione della fede e del culto loro ricantavano il Dio forte, il quale può dai sassi suscitare figliuoli d'Abramo. Costantino doveva meritare il cognome di grande da chiunque sa far merito a un principe di accettare le novità, mal fin allora combattute: che se gli emuli suoi chiedevano il favor popolare col secondare i Gentili, egli pensò appoggiarsi sui Cristiani, men numerosi ma pieni di gioventù e della forza di chi viene a riformare, talchè poteasi prevedere come nel loro movimento trascinerebbero l'inerzia pagana, e resterebbero in piedi quando il gentilesimo andava a fasci. Allora la santa letizia della libertà si diffuse in tutto l'impero; dalle squallide catacombe sbucavano i sacerdoti a celebrare alla faccia del mondo i riti della nuova alleanza; i vescovi solennizzavano memorie di martiri, o dedicavano chiese; i letterati pubblicavano virtù fin allora dissimulate; i fedeli, riconoscendosi fra loro, s'abbracciavano, saldando la fratellanza colla cena della perpetua commemorazione. Se non che al paganesimo rimanevano sostegno i sacerdoti, l'aristocrazia, i corpi municipali che spesso aveano provocato gl'imperatori alla persecuzione, i tanti magistrati e capitani. A Roma, per memoria degli antichi auspizj e per lunga sequela di sacerdozj, erano affezionate le persone di grado, e per consenso i liberti e gli schiavi; essa veniva considerata come splendido centro della religione; i riti, i giuochi, più che trastullo, v'erano l'occupazione e il nutrimento del vulgo; d'ogni parte vi conveniva il fiore della gioventù, che in quella sentina di tutte le superstizioni, come san Girolamo la chiamava, bevea l'odio del nome cristiano ne' tempj, nei teatri, nelle scuole. Era dunque assai che l'imperatore alla nuova religione concedesse libertà pari all'antica, senza avventurarsi di colpo ad un cambiamento che avrebbe sovvertito lo Stato[57]: onde prepararvi gli animi, negligentò alcuni riti nazionali; non celebrò i giuochi secolari nel 314; i Capitolini, cui avrebbe egli dovuto presentarsi cinto dai pontefici e dal senato, a capo dell'esercito, non impedì, ma volse in derisione[58]. Eppure doveano inorridire i Romani rugginosi nel vedere il successore d'Augusto mettere a pari col pagano il culto pur dianzi proscritto; esimere i sacerdoti di questo dalle funzioni municipali, come quei del gentilesimo; proibire che la domenica si lavorasse, o che i giudici e i corpi dello Stato s'occupassero di verun affare, salvo che dell'emancipazione de' figli o degli schiavi. Ma Costantino non vi facea mente: e allorchè si trovò senza colleghi nè emuli, proscrisse i giuochi gladiatorj, le feste scandalose; chiuse tempj, tolse alle Vestali e ai sacerdoti profani i privilegi, concedendoli invece al clero e ai vescovi, alle cui sentenze diede forza quanto alle sue medesime, sminuendo in tal modo l'autorità de' magistrati secolari; largheggiò di beni e di denaro colle chiese[59]; sedeva ne' concilj, disputava di teologia, metteva sugli edifizj pubblici la croce, alzava il làbaro alla testa degli eserciti, e nel campo una cappella uffiziata da Cristiani. Ma non che indicesse guerra al paganesimo, conservava, come i suoi predecessori, il titolo di sommo pontefice, e in tale qualità fece decreti religiosi con titoli idolatrici; con immagini di numi si lasciò scolpire sulle medaglie; poi quando morì, sagrifizj gli furono fatti all'antica, ascrivendolo fra gli Dei. Tanto i Gentili erano lontani dal credere ch'egli avesse soppiantato il culto nazionale, e dal prevedere che non tarda il trionfo della verità, posta che sia a pari armi coll'errore. CAPITOLO XLVII. Traslazione della sede imperiale a Costantinopoli. Costituzione del Basso Impero. Chi conosce quanta potenza sia inerente alla vista dei luoghi, intenderà gli ostacoli che in Roma dovea trovar Costantino alla sua deliberazione d'impiantare la nuova politica sopra una religione nuova. Unico centro non aveva il politeismo, che, neppure col concedere a tutti gli Dei l'ospitalità, caratteristica degl'istituti romani, giunse mai all'unità: pure Roma, cominciando dal suo fondatore, racchiudeva una serie di tradizioni gentilesche, colle quali andavano connesse le sue vittorie, l'orgoglio de' suoi bei giorni; e sarebbesi detto che Giove dalla rupe Capitolina minacciasse chiunque ne violava gli altari, benchè fosse disposto a dividerne gli onori con qualsifosse dio nuovo o rinnovato, da qualsifosse parte del mondo giungesse a Roma col suo bagaglio di superstizioni. Fra le quali come poteva il buon seme attecchire? Ogni atto pubblico poi, giusta l'origine sacerdotale del governo patrizio, era consacrato da cerimonie; e Costantino si stomacò de' riti profani: popolo e patrizj si scandolezzarono o indispettirono di vederlo vilipendere ciò che, non più per convinzione, ma per legalità era sacro; ed egli, non che sbigottire, deliberò staccarsi da cotesta genìa dirazzata e pretensiva. Il senato professava ancora che il governo del mondo fosse privilegio d'una stirpe; laonde l'abbattere le case senatorie, che parve il solo proposito comune a tutti gli imperatori, venne ancor meno da frenesia di sangue che da gelosia di dominio e da bisogno di rifornire l'erario colle pinguissime loro fortune. Di tal passo rimase annichilata l'antica razza conquistatrice, a segno che, sotto Gallieno, credeasi che delle famiglie patrizie unica la Calfurnia sussistesse. Coll'accomunato diritto di cittadinanza erasi surrogata una gente nuova; gl'imperatori da eunuchi e da liberti sceglievano i confidenti ed i ministri, i quali costituivano nuove famiglie, ricche e potenti: equavasi il diritto a vantaggio della plebe e fin degli schiavi. Ma anche scomparsi i discendenti degli Scipioni e degli Emilj, la ricordanza d'altri tempi sopraviveva: il Romano, dovunque si volgesse, incontrava d'altra natura memorie sull'Aventino, al Foro, in Campidoglio, il sangue di Virginia, l'ombra de' Gracchi, il cipiglio di Catone, il pugnale di Bruto; nel suo orgoglio arricciavasi dinanzi a imperadori, stranieri alle gloriose sue rimembranze, impostigli dall'esercito, e che stavano fuor di Roma gran tempo e fin tutta la vita. Sintanto che gli augusti risedevano nella metropoli, il popolo credeva serbare ancora un residuo d'autorità quando sotto alle finestre del palazzo o nel teatro, coll'applauso o col sibilo, approvava o disdiceva un fatto, una legge; quando li vedeva accattare il suo favore con largizioni, con giuochi. Ma le condiscendenze che gl'imperatori doveano alla maestà del senato e alla famigliarità del popolo, repugnavano ai nuovi ordinamenti, e a chi erasi abituato alla docile obbedienza delle legioni e dei provinciali. Se ne emancipò Diocleziano piantando altrove la residenza, e convertì la tenda militare in una corte di despoto orientale, sopra l'elmo collocando il diadema: fra i sudditi e l'imperante fu scavato l'abisso da che a questo più non accadea bisogno di cattivarsi la plebe, nè venerare il senato, nè rispettare le patrie costumanze, ma gli bastava abbagliare col fasto, imporre colla forza. Alle provincie, avvezze a servire, non costava nulla il piegarsi alla nuova politica, tanto più che ridondava tutta in loro vantaggio: laonde Costantino stabilì rompere interamente col passato, mutando la sede dell'impero in luogo che non avesse memorie da rinfacciare, riti da adempiere, tombe da riverire. E scelse Bisanzio, che, sul limite dell'Europa e dell'Asia, univa alla salubrità e all'incomparabile bellezza l'opportunità di tener occhio sì agli irrompenti Settentrionali, sì ai minacciosi Persiani. Rifabbricò dunque essa città, intitolandola Costantinopoli (329), vi improvvisò edifizj e vi trasferì la Corte[60]: la nuova capitale, per riverenza all'antica, fu intitolata colonia e prima e prediletta figlia di Roma; e a' suoi cittadini partecipato il diritto italico. Ma il tempo ha un'irresistibile efficacia a fare divenir vere le cose e repudiar le finzioni: e la nostra Roma, sebbene conservasse il primato nominale, non fu più la metropoli del mondo; dietro all'imperatore migrarono magistrati, cortigiani e la folla di coloro che voleano vivere di largizioni, o vendere l'adulazione, o sfoggiar l'opulenza, od esercitare le arti del lusso; tornarono verso Levante tanti capi d'arte, che alla Grecia e all'Asia erano stati usurpati in dieci secoli di vittorie. Fu questa la terza trasformazione del potere di Roma; e qui noi ci baderemo a dar conto dell'amministrazione civile e militare, cominciata da Diocleziano, migliorata da Costantino, compita da' suoi successori, e che durò per tutto quel che dicono Basso Impero. Per tre secoli l'imperatore non era stato che comandante all'esercito, nè l'autorità amministrativa esercitava altrimenti che arrogandosi le varie magistrature con militare usurpazione. Augusto, fondato il despotismo unicamente sulle armi e sulle finanze, avviava alla monarchia collo spossare la democrazia: dal che derivò un potere assoluto e precario, conturbato da frequenti rivoluzioni, causate non più dalla plebe ma dalla soldatesca. Alla sfrenatezza militare bisognava un rimedio, e lo applicò Diocleziano coll'introdurre un'amministrazione che tutto facesse dipendere da una volontà, da un impulso, da un sentimento; i poteri, dianzi confusi e indeterminati, divenissero distinti e precisi; la suddivisione di provincie, d'eserciti, di funzioni tenesse gli uni subordinati agli altri, e tutti all'imperatore, causando il pericolo di soverchio ingrandimento e di subitanee usurpazioni. Scorgendo quale appoggio sia al trono l'aristocrazia, Costantino all'antica ne surrogò una che non avesse diritti e memorie da tutelare, ma dall'imperatore traesse e su lui riflettesse il proprio splendore. Fu essa disposta in quattro ordini, i _chiarissimi_, i _rispettabili_, gl'_illustri_, i _perfettissimi_, oltre i _nobilissimi_ membri della famiglia imperiale. Titolo di Chiarissimi competeva ai senatori; a quelli tra essi che sortivansi a governare una provincia, e a chi per grado od uffizio si elevasse sopra gli altri, toccava del Rispettabile: Illustri erano i consoli e patrizj, i prefetti al pretorio di Roma e di Costantinopoli, i generali, i sette uffiziali del palazzo: dietro a questi venivano i Perfettissimi. Mentre prima il Romano volgeva la parola direttamente anche al capo dello Stato, allora più non parlò che alla _sua maestà_; i magistrati primarj chiamava _serenità, eccellenza, eminenza, gravità, sublime ed ammirabile grandezza, illustre e magnifica altezza_; e l'usurpare un titolo indebito, anche per ignoranza, dichiaravasi sacrilegio[61]. Le porzioni di sovranità, che tradizionalmente conservavano il popolo e le magistrature curuli, cessarono, rimanendo unico padrone e signor delle cose l'imperatore, unica fonte all'autorità de' magistrati[62]. Il senato, «consiglio sempiterno della repubblica dei popoli, delle nazioni e dei re» (CICERONE), era soccombuto ai colpi replicati degl'imperatori e alle proprie bassezze; e l'assemblea, che a Cinea era sembrata un'accolta di re, allora spendeva lunghe adunanze in recitare codardi vituperj agl'imperatori caduti, o codarde apoteosi ai nuovi innalzati, e registrava ne' suoi atti quante volte fossero stati ripetuti i viva e i riviva[63]. Se i primi imperatori offrivano al senato in _lettere_ o _libelli_ od _orazioni_ il loro desiderio, che dal consenso di esso acquistava forza di legge; i susseguenti fecero di per sè _editti, rescritti, costituzioni_, le quali a metà del III secolo aveano già vigor di legge; e i padri coscritti trovaronsi ristretti a formolare in senatoconsulti le proposizioni fatte dall'imperatore in materie legali, a riconoscere il nuovo augusto, e morto decretargli altari o patibolo. Conservassero pure il laticlavo, i calzari neri colla mezza luna d'argento, il posto distinto agli spettacoli, la direzione d'alcune minuzie; ma ogni ingerenza nel reggimento dell'impero, nella cura dell'erario, nel governo delle provincie fu tolta loro da Diocleziano. Infine non furono più che un consiglio municipale, di giurisdizione circoscritta quasi alle mura della città, sicchè appena si trovava chi desiderasse appartenervi. Per ciò, e per secondare lo spirito monarchico, quella dignità venne, almeno in parte, ridotta ereditaria[64]. I consoli non più dal popolo e dal senato, ma erano eletti dal principe per propria autorità[65]. Inaugurati erano là dove sedeva l'imperatore: il primo gennajo, vestiti di porpora ricamata a seta ed oro, con ricche gemme e col corteo dei primarj uffiziali di toga e di spada, preceduti dai littori, andavano con gran maniere di letizia al fôro, ove seduti sul tribunale d'avorio, esercitavano atto di giurisdizione col manomettere uno schiavo; davano le feste che soleansi in Roma; i nomi e le effigie loro su tavolette d'avorio si spargeano in dono al popolo, alle città, alle provincie, ai magistrati. A ciò, e a dar nome all'anno riducevasi l'uffizio dei consoli, vigliaccamente esultanti d'ottenere un onore senza peso[66]. Il titolo di patrizio fu concesso a vita da Costantino ad alcuni personaggi, appena inferiori ai consoli, e detti padri adottivi dell'imperatore e della repubblica. I prefetti al pretorio da Severo a Diocleziano erano primi ministri dell'impero nell'amministrazione civile e militare: ma fiaccati, poi tolti via i pretoriani, si trasformarono in magistrati civili. Erano quattro, uno per l'Oriente, uno per l'Illirico, uno per le Gallie, uno per l'Italia, al qual ultimo spettavano pure la Rezia fin al Danubio, le isole del Mediterraneo, la provincia africana. Ammiano Marcellino, storico di quel tempo, non esita a chiamarli imperatori di minor grado, giacchè competeva ad essi l'amministrare le finanze e la giustizia, il regolar la moneta, le strade, i granaj, il traffico e quanto ha tratto alla pubblica prosperità; spiegare, estendere, talvolta anche modificare gli editti generali; vigilare sui governanti delle provincie, decidere supremamente delle cause di maggior rilievo. Da essi rimanevano dissoggette Roma e Costantinopoli, dipendendo da un prefetto ciascuna. Quel di Roma, istituzione d'Augusto, era assistito da quindici uffiziali nel soprantendere alla sicurezza, abbondanza e polizia della città, uno dei quali specialmente aveva in cura le statue. Il prefetto trasse ben presto a sè le cause già attribuite ai pretori; poi occupò nel senato il posto de' consoli, come presidente ordinario; a lui si recavano gli appelli da cento miglia in giro; da esso dipendeva l'autorità municipale. Pel governo civile l'impero fu distribuito in tredici diocesi, le quali poi suddivideansi in centosedici provincie; tre governate da proconsoli, trentasette da consolari, cinque da correttori, settantuna da presidi. Quanto è specialmente dell'Italia, i successori d'Augusto s'erano avvisati che il miglior mezzo a consolidare la loro tirannide fosse il mozzar man mano i diritti alla penisola, nido dell'antica libertà municipale privilegiata. Comodo estese a tutto il mondo ciò che era stato speciale di Roma, poi dell'Italia: pure la penisola era rimasta esente dal tributo. Ma quando Diocleziano la concesse al collega Massimiano, non essendo più alimentata dalle contribuzioni altrui, dovette sottoporsi ai pesi medesimi delle provincie, e più mai non ne fu alleviata. Col fondere Osci, Sabelli, Latini nella nazionalità romana si era dato forza e vitalità allo Stato: ma sette secoli vi vollero perchè l'Italia divenisse nazione, e solo col sistema di Costantino quel nome espresse un'unità politica, anzi più propriamente significò le contrade superiori, l'antica Gallia Cisalpina, i paesi una volta abitati da Veneti, Liguri, Insubri. Dal prefetto di Roma dipendeano dieci provincie, chiamate suburbicarie: Campania, Etruria ed Umbria, Piceno suburbicario, Sicilia, Apulia, Calabria, Lucania e Bruzio, Sannio, Sardegna e Corsica, Valeria. Dal suo vicario, la Liguria, l'Emilia, il Piceno annonario e la Venezia, dette provincie d'Italia, cui furono poi unite l'Istria, le alpi Cozie, le due Rezie. In appresso la prefettura d'Italia venne divisa in due diocesi, d'Italia e d'Africa. Nella diocesi d'Italia, l'Emilia fra il Po e l'Appennino, la Liguria, la Venezia, il Piceno, la Flaminia tra Modena e Rimini col litorale dell'antica Umbria, la Campania, l'Etruria, la Sicilia erano governate da un consolare; da correttori l'Etruria, l'Apulia, la Calabria, la Lucania, il Bruzio; da presidi il Sannio, la Valeria, le alpi Marittime, Pennine e Graje, le due Rezie, la Sardegna, la Corsica. Proconsoli, correttori, presidi, erano varj d'attribuzioni; tutti però amministravano e la giustizia e le finanze in dipendenza dai prefetti, e per quanto al principe piacesse; infliggevano pene fin capitali; il mitigarle era serbato ai prefetti, come pure il condannare all'esiglio. Ponevasi attenzione che nessuno fosse natìo del paese che governava, nè vi contraesse parentele, o comprasse schiavi e terre, volendo con ciò ovviare gli abusi e le corruzioni; pure Costantino medesimo, poi i successivi imperatori non rifinano di querelarsi che tutto si venda da essi o da' loro ministri[67]. Ciascuna provincia formava un corpo politico, rappresentato dall'assemblea generale, che una volta l'anno o per occasioni straordinarie, concedente il prefetto del pretorio, radunavasi nel capoluogo, intervenendovi gli onorati, i curiali e possessori liberi. Questa dieta provinciale potea far decreti, spedire messi al principe, anche malgrado del vicario, del preside o del prefetto al pretorio[68]. Si trasformano dunque i magistrati all'antica in impiegati alla moderna, gli uffiziali della patria in servitori del principe. Sotto i re, essi magistrati rimanevano sottoposti al capo dello Stato: nella repubblica, ciascuno aveva un'autorità sovrana entro la sfera d'attività a lui competente, e poteva fare opposizione al collega o ai funzionarj inferiori, sempre esposto ad una responsalità reale e terribile: or eccoli connessi in un'assoluta gerarchia. Nella repubblica, ed anche sotto i primi imperatori, le insegne della dignità accompagnavano il magistrato soltanto in uffizio; fuor di quello, console, pretore, imperatore non avevano altro corteggio o servitù che i liberti, i clienti, gli schiavi proprj: ma cogli innovamenti di Diocleziano, il palazzo, la tavola, lo sfarzo, il numeroso codazzo posero immensurabile distanza fra il monarca ed i sudditi. Già prima il titolo di _onorato_ distingueva chi avesse sostenuta alcuna dignità nell'impero, o cui il principe avesse concesso trionfi od onorificenze: al perdersi delle altre distinzioni, tutti ambirono questa, e l'imperatore la largì a chiunque prestasse alcun servizio alla sua persona; merito più rilevante che il giovare allo Stato. Pertanto gli uffizj dapprima affidati a schiavi, il tagliare avanti, il servire alla coppa, fin le _prestazioni sordide_, erano ambite da gran signori, non tanto per gli stipendj, quanto per le esenzioni ond'erano privilegiate; perocchè gli Onorati restavano ascritti al senato senza subirne i pesi, e dopo servito dieci o quindici anni, andavano sciolti da ogni vincolo che per nascita li legasse alla curia o ad alcuna corporazione. Per _codicilli onorarj_ poi si concedevano talvolta i titoli a persone che mai non avevano servito, nè tampoco veduto il principe, tanto per godere l'esenzione, od almeno usar le insegne della nominale dignità. A fianco dell'imperatore stavano sette uffiziali, consiglieri privati, e custodi della persona, della casa, del tesoro. Un eunuco, gran ciambellano (_præfectus sacri cubiculi_), mai non distaccavasi dal principe, fosse agli affari o alle ricreazioni, prestandogli i più umili servigi, e avendo così mille occasioni d'insinuarsegli nelle grazie e di regolarne i favori. Da quello dipendevano i Conti della mensa e della guardaroba. Il maestro degli uffizj, ministro di Stato, dirigeva gli affari pubblici, e nessun richiamo di suddito giungeva al principe se non attraverso a quattro uffizj, uno dei quali riceveva i memoriali, l'altro le lettere, il terzo le domande, il quarto la corrispondenza varia. Davano spaccio agli esibiti cenquarantotto segretarj, per lo più legali, e preseduti da quattro maestri. Al maestro degli uffizj sottostavano alcune centinaja di messaggeri, che, col favore delle buone strade e delle poste, dalla capitale fin alle provincie estreme recavano gli editti, le vittorie degl'imperatori, il nome de' consoli; e che acquistarono importanza col riferire quanto raccogliessero sulle condizioni del paese e sui portamenti de' magistrati e de' cittadini. Crebbero costoro fin a diecimila, a proporzione della debolezza della corte o del timore di ribellioni; e divennero gravosi al popolo pel modo con cui esigevano il servizio delle poste, e perchè favorivano o perseguitavano (stile dei delatori) chi sapeva o no tenerseli amici. Divenuta imperiale la podestà, tolta l'aristocrazia delle famiglie, accomunata la cittadinanza, cambiasi pure la procedura giudiziale: non occorrono più magistrati patrizj che dicano il diritto; senatori, cavalieri, plebe non lottano più per essere ammessi nella lista de' giudici; non più le decurie sono annualmente elette nel fôro ed esposte al pubblico: nè il cliente sceglie il magistrato, nè i cittadini il giudice sopra la lista annuale. La giustizia emana dal trono: il rettore di ciascuna provincia o il vicario suo; il prefetto del pretorio in appello come rappresentante dell'imperatore; l'imperatore stesso per supremo ricorso, costituiscono l'alto organamento giudiziario: l'inferiore i magistrati locali di ciascuna città con giurisdizione limitata: alcuni agenti speciali per le cause fiscali: una distinta giurisdizione militare, e la ecclesiastica de' vescovi. Più non sono separati lo _jus_ dal _judicium_; più non si sceglie il giudice, e si redige la formola a ciascuna causa. L'attore cita il reo davanti l'autorità competente, mediante un atto; il magistrato gliene fa l'intimazione per mezzo d'un usciere, giudica la causa e nel fatto e nel diritto. Questa procedura, in origine introdotta come straordinaria, allora divenne generale. Finchè i giudizj emanavano direttamente dal popolo, ovvero dal pretore eletto da esso, non rimaneva luogo ad appello, sovrana essendo quell'autorità. Commessi a magistrati eletti senza concorso di questa e subordinati, era naturale che ne venisse quella graduazione, per cui i giudizj dell'uno erano riveduti dal superiore, e infin dall'augusto. La cooperazione dei giudici ne spiega in qual modo nell'immensa Roma due pretori potessero risolvere i dissidj di cittadini e forestieri: ma aboliti quelli, come bastare? Già, durante la repubblica, i pretori teneansi allato dei giureconsulti per consiglio; poi gl'imperatori ne assunsero un collegio (_consistorium_), che decidesse i punti di diritto portatigli in ultima appellazione. Essendo la salute dell'impero suprema legge, bastava che uno di questi delatori imputasse di tradimento qualche cittadino, perchè tosto venisse tradotto in catene a Milano, a Roma, a Costantinopoli, e quivi giudicato con metodi estralegali, e massime colla tortura. Questa erasi fin allora in Roma serbata agli schiavi: ma i magistrati, che nelle provincie la trovavano già consueta, ne continuarono l'uso, e guari non andò che l'applicarono anche a cittadini romani. Furono dunque chieste eccezioni, e concedute a favore degli Illustri e degli Onorati, del clero, de' soldati e casa loro, de' professori d'arti liberali, dei magistrati municipali e loro discendenza fin al terzo grado, e degli impuberi: le quali esenzioni venivano a confermare quell'iniquità ad aggravio degli altri. Siccome poi i giureconsulti definirono, nei casi di Stato, potersi trascendere il diritto, perciò in quelli la tortura applicavasi indistintamente a rei, a complici, a testimonj. Lo studio delle leggi restava incoraggiato come scala alle magistrature civili. Tutte le città ragguardevoli n'aveano scuole, dove rimasti cinque anni, i giovani cercavano ricchezza ed onori col dibattere sopra le innumerevoli cause private, o coll'iniziarsi agli impieghi, abbondantissimi, e nei quali il merito o l'abilità o la pieghevolezza potevano condurre sino a divenire Illustri. Questo sciame che strepitava pei tribunali, o strisciava alla corte, o traforavasi nelle case private ad azzeccare litigi e trafficar di cavilli, divenne nuova peste dell'impero, e degradò la nobile giurisprudenza fino all'abjettezza de' mozzorecchi. Degli antichi questori un solo rimase, non più incaricato dell'erario, ma di comporre orazioni ed epistole a nome dell'imperatore, e leggerle in senato. E poichè quelle presero la forza, poi anche la forma di editti, il questore equivalse al moderno grancancelliere, rappresentante del potere legislativo, fonte della civile giurisprudenza. Talora sedeva a suprema giudicatura nel gabinetto imperiale coi prefetti del pretorio e col maestro degli uffizj, o scioglieva i dubbj dei giudici inferiori; oltrechè, per servizio dell'imperatore e per modello uffiziale di stile, coltivava quel gergo pomposo e barbarico che acquistava nome d'eloquenza. Come giudice delegato proferiva egli talvolta di casi riservati all'imperatore; talaltra consultavansi i due senati, come alle corti di giustizia. Da un ministro del fisco (_comes rerum privatarum_) amministravasi il tesoro particolare dell'imperatore, costituito dai patrimonj dei re e delle repubbliche sottoposte, da quei delle varie famiglie venute al trono, e dalle confische. Le entrate pubbliche furono maneggiate da un Conte delle sacre largizioni, che centinaia di persone occupava in undici uffizj per fare e riscontrare i conti. Le zecche, le miniere, gli erarj deposti nelle diverse città dipendevano dal tesoriere, che corrispondeva co' ventinove ricevitori provinciali, regolava il commercio esterno, dirigeva le manifatture del lino e della lana, esercitate da schiavi per uso della corte e dell'esercito. La distinzione fra l'erario militare e il fisco disparve in diritto dacchè l'imperatore potea disporre liberamente di tutte le casse: pure si lasciarono separati l'_erario sacro_, che riceveva le imposte pubbliche, il _privato_ che riceveva le rendite particolari del principe, e quello _di prefettura_ per le entrate che si destinavano specialmente all'esercito. Le pubbliche consistevano ne' possessi imperiali, nelle contribuzioni dirette, nelle indirette, e in frutti eventuali, oltre i dominj del fisco: ma qui ci si affaccia la peggior piaga de' popoli nel Basso Impero. Ciascun patrimonio veniva esattamente descritto, con la misura dei terreni, il numero degli schiavi e del bestiame, adequandone il valore per ogni jugero sopra giuramento del proprietario: al quale l'usar frode sarebbesi imputato come sacrilegio ed offesa maestà[69]. Censo vizioso che ad ogni mutar di possesso sarebbe convenuto rifare; laonde ne faceano lor pro i ricchi, vendendo gli sterili per comprar terreni feraci: dal che richiami incessanti, e visite, e riforme. Ad ogni jugero della stessa categoria era imposto un eguale tributo in denari e in derrate. Ma al tempo di Costantino il tributo fondiario si esigeva per _capi_, intitolandosi così un complesso di terreni, varj d'estensione, ma stimati di rendita eguale, e perciò d'egual valore. Questo valore era di mille _aurei_, lo perchè un capo dicevasi anche _millena_; e da tale unità tassabile venne il nome di capitazione[70]. La capitazione personale colpiva i nulla aventi. Al censo venivano proporzionate altre gravezze o straordinarie, o canoniche, o sordide, o d'altra categoria. Era dunque lo stesso _tributum ex censu_ dei tempi repubblicani: ma un decreto (_indictio_) del principe determinava ogn'anno la quantità e qualità delle imposizioni; e se al bisogno non bastasse, imponevasi una _superindizione_: alle straordinarie occorrenze potevano supplire fin i prefetti del pretorio, sovrintendenti alle finanze. Il tributo ripartivasi sul luogo, vigilando il preside della provincia, e intervenendovi i Difensori della città. Pagavasi in tre rate, nelle mani de' ricevitori del preside; il quale ogni quattro mesi trasmetteva al tesoriere della provincia la lista delle somme percette, e questo al conte delle largizioni. La più parte si pagava in denaro, anzi in oro; il resto coi generi che il terreno dava, i quali, a spese de' provinciali, erano spediti nei pubblici magazzini, donde si distribuivano alla Corte, all'esercito, alla plebe di Roma e di Costantinopoli. Che se riescono sempre malvedute le incumbenze de' finanzieri, viepiù allora quando con sì largo arbitrio si esercitavano, e smungevasi il popolo con sovrimposte e anticipazioni accumulate, non impedite da verun corpo dello Stato. L'esazione sotto Galerio offriva a Lattanzio l'immagine della guerra e della cattività: «Misurar terre, numerare viti e alberi, registrare gli animali d'ogni razza, il nome di tutte le persone, non distinguendo contadini da borghesi: ognuno accorreva con figli e schiavi, e lo scudiscio faceva l'uffizio suo: per forza di torture costringevansi i figliuoli ad attestare contro il padre, gli schiavi contro i padroni, le donne contro i mariti: se mancassero prove, mettevansi alla corda i padri, i padroni, i mariti, per farli deporre contro se stessi; e quando il dolore avesse loro strappato di bocca alcuna confessione, questa si tenea per vera, nè età o malattia valeva di scusa: faceansi recare infermi e malati, e si fissavano gli anni di ciascuno, aggiungendone ai fanciulli, detraendone ai vecchi; poichè pagavasi un tanto per testa, e a denaro si comprava la libertà del respirare... Fra ciò gli animali perivano? perivano gli uomini? tassavasi ciò che più non esisteva, in modo che nè vivere nè morire si potea gratuitamente: pur beati i mendichi, che restavano esenti da tali violenze. Galerio, mostrandone pietà, li fece imbarcare, con ordine che, quando fossero in alto, venissero gettati al mare: egregio spediente per nettare dalla mendicità l'impero! e acciocchè, sotto pretesto di povertà, nessuno si esimesse dal censo, far perire un'infinità di poveretti!» Nè meno della capitazione gravava la _collazione lustrale_, che ogni quinto anno esigevasi dai trafficanti. — Il tempo in cui essa matura (dicea Libanio davanti ad un imperatore), cresce il numero degli schiavi; e dai padri vendonsi i figli, non per riporne il prezzo, ma per darlo agli esattori». E Zosimo: — Quando torna il tempo della collazione lustrale, allora pianti e guaj per tutta la città; vedesi con battiture ed altri strazj tormentar chi per povertà non può sborsare la tassa; madri vendono i figliuoli, padri menano le figlie al postribolo per procacciarsi di che soddisfare l'esattore»[71]. Costantino proibì quelle torture, surrogandovi una cortese prigionia: gli eredi dovevano spegnere il debito del defunto al fisco, o abbandonare l'eredità. I contribuenti erano inoltre tenuti a molte prestazioni personali, come cuocere il pane, la calcina, trasportare i generi ai magazzini o all'esercito, servire di cavalli le poste. I senatori e gli ottimati delle provincie pagavano un tributo speciale (_follis_) sulle loro sostanze, e una tassa qualora venissero promossi ad una carica[72]. I donativi spontanei che davano le città a trionfanti o a benemeriti, per lo più in corone d'oro, ben presto furono tenuti come un dovere verso il principe quando salisse al trono, menasse moglie, avesse figliuoli, guidasse trionfi. I senatori a quest'_oro coronario_ surrogavano un'offerta di mille seicento libbre d'oro[73]. Sull'entrata, l'uscita, il transito, il consumo pesavano gabelle: fors'anche pagavano le merci nel passare da una all'altra diocesi, poichè dell'entrate di ciascuna assumevano l'appalto distinte società di pubblicani. Era speciale dell'Italia il dazio di consumo della vigesimaquinta e della centesima, che oggi diremmo del quattro e dell'uno per cento. Poi si pagava su quanto si portasse in viaggio, poi per mantenere le vie; sicchè dappertutto erano guardie e stradieri, le cui concussioni mal potevano esser frenate dal minaccioso rigore delle leggi. Le arti tiranniche degli esattori ci sono legalmente attestate dall'imperatore Valentiniano. — Appena l'esattore giunge nella sbigottita provincia, circondato da fabbri di calunnie, inorgoglisce dei sontuosi ossequj, chiede l'appoggio delle autorità provinciali, talora aggiunge a sè anche le scuole, acciocchè, moltiplicato il numero degli uomini e degli uffizj, il terrore estorca quanto piaccia all'avidità. Comincia egli dall'addurre e svolgere terribili comandi sopra molteplici decreti; presenta caligini di minute supputazioni, confuse con inesplicabile oscurità, che, fra gli uomini ignari delle tranellerie, più fanno effetto quanto meno possono intendersi. Domanda le quietanze distrutte dal tempo, non conservate dalla semplicità e fiducia dello sdebitato: e se perirono, coglie occasione di predare; se vi sono, bisogna pagare acciocchè valgano: talchè presso quel malvagio arbitro la carta perita nuoce, la conservata non giova. Da ciò innumerevoli guaj, dura prigionia, crudele tortura e tutti i martorj preparati dall'esattore ostinato nelle crudeltà. Il palatino, complice de' furti, esorta; incalzano i turbolenti uscieri; sovrasta la spietata esecuzione militare: nè questa ribalderia, usata su cittadini come su nemici, termina per giustizia di prove o per compassione»[74]. Le passate turbolenze e i tanti usurpatori aveano chiarito come fosse pericoloso l'unire ne' governatori delle provincie la giustizia e l'amministrazione col comando militare; laonde Costantino li separò. La suprema ispezione sugli eserciti fu commessa ad un maestro generale per la fanteria, uno per la cavalleria: poi n'ebbe uno a ciascuna delle frontiere più minacciate, sul Reno, sull'alto e basso Danubio, sull'Eufrate: in fine diventarono otto. Sotto di essi erano disposti trentacinque duci, distinti tutti col cingolo d'oro; a dieci era concesso il titolo di _comiti_, ossia compagni più onorevoli; ed oltre il soldo, ricevevano onde mantenere cennovanta servi e cencinquantotto cavalli. Essi non doveano brigarsi dell'amministrazione civile, nè i magistrati del loro comando: il che assicurò la quiete interna, togliendo il despotismo militare, unico ed infelicissimo avanzo della democrazia. La milizia fu ridotta ad una specie di tributo, giacchè i senatori, gli Onorati, i sacerdoti del gentilesimo, e i principali decurioni furono obbligati somministrare un prefisso numero di soldati, o in cambio trenta o trentasei soldi d'oro per uomo. Tale somma attesta quanto fossero scarsi i volontarj; e malgrado le grosse paghe e i ripetuti donativi, la milizia era aborrita tanto, che molti per sottrarsene si mozzavano le dita; e quantunque fosse appiccinita la misura pei coscritti, e s'ammettessero anche schiavi, pure, se vollero empiere le file, gl'imperatori dovettero concedere terre immuni e inalienabili ai veterani, col patto feudale che i loro figliuoli, giunti a età virile, dessero il nome all'esercito, se no perdessero l'onore, il fondo ed anche la vita[75]. Le ripetute severissime minaccie non rattenevano dal disertare ai Barbari, o favorirne le correrie; nè dal soperchiare i sudditi, mandando i cavalli a pascolo sull'altrui fondo, o mescolandosi d'affari civili; nè induceano i veterani ad occuparsi nel mercimonio o coltivare le terre concesse. Si dovette anche ricorrere ad ausiliarj stranieri, arrolando Goti e Alemanni, e sollevandoli ai gradi della milizia, donde ai civili, e perfino al consolato: lo che sempre più sviliva le magistrature curuli. La legione fu ridotta da seimila a mille o millecinquecento guerrieri, separandone, come pare, la cavalleria; il che, se scemò la robustezza, crebbe la mobilità, assomigliandola ai reggimenti nostri. Centrentadue legioni allora componeano l'esercito romano; e sembra fra tutto si armassero seicentoquarantacinquemila uomini, sullo spazio stesso dove in piena quiete ora ne stanno in armi più di due milioni. Li dicono necessarj alla pace! La guardia del principe era fatta da tremilacinquecento domestici[76], distribuiti in sette scuole, e comandati da due conti. Splendidamente divisati con armi d'oro e d'argento, fra essi cernivansi due compagnie di cavalli e fanti, detti dei _protettori_. Facevano la scolta negli appartamenti interni; andavano nelle provincie quando abbisognasse dar pronta e vigorosa esecuzione agli ordini imperiali; e l'esser messo fra questi era la più elevata speranza del guerriero. I sudditi liberi dell'impero si dividevano in tre classi: abitanti delle due metropoli, abitanti delle città provinciali, e campagnuoli. I primi, sebbene assoggettati alle medesime imposizioni, erano però vantaggiati da privilegi, e dalle distribuzioni del grano, spedito per obbligo dalle provincie, a cura d'un preside particolare (_præfectus annonæ_). Gli abitanti delle città provinciali cessarono d'esser divisi in cittadini, socj e sudditi quando Caracalla, accomunata la cittadinanza, tutti eguagliò nella soggezione all'imperatore. Allora vi troviamo senatori, curiali o decurioni, e plebe. I senatori erano ombre dell'ombra di senato che sopraviveva a Costantinopoli e a Roma; quell'onorificenza di puro nome ricevendo dagl'imperatori per avere sostenuto cariche insigni, e che infine diventò comune ai maggiori possidenti. Poteano esser giudicati soltanto da un tribunale particolare, non richiesti alla tortura, nè obbligati alle cariche municipali: vantaggi che pagavano con una speciale imposizione, e con contributi straordinarj in caso di bisogno[77]. I possessori, fossero originarj (_municipes_) od avveniticci (_incolæ_), formavano i decurioni o curiali; e poichè doveano spendere e denaro e tempo nelle pubbliche cure, le leggi municipali determinavano qual facoltà dovessero possedere. Nel II secolo, da un curiale di Como esigevansi centomila sesterzj, cioè da diciannove a ventimila lire; nel 342, Costanzo II obbligava alla curia d'Antiochia chi possedesse venticinque jugeri di terreno; nel 435, Valentiniano III quei che avessero trecento soldi d'oro, che potevano contarsi per quattromila cinquecento lire: tant'erasi avvilita quella dignità, in prima ambita e con suntuose largizioni procacciata. Le iscrizioni accennano anche un ordine equestre, forse de' membri di certi collegi. Nella plebe si riducevano i minori possidenti, artieri, mercadanti, esclusi dall'amministrazione urbana (_jus honorum_); era distribuita in varie maestranze; del resto faziosa, tremante o minaccevole, attenta ad ogni occasione di saccheggi e di violenze. Alla campagna stavano o proprietarj liberi, o coloni, o schiavi. Di questi ultimi non faremo parola più che di animali domestici. I coloni, di mezzo fra liberi e schiavi, erano avvinti al terreno che coltivavano, in modo che con esso erano venduti e divisi, benchè una legge pietosa vietasse di separare i membri della stessa famiglia[78]. Erano dunque un avviamento ad abolire la schiavitù; e mentre verun cenno ne fanno i giurisprudenti classici, frequente si trovano menzionati dopo Costantino. Donde provennero? chi li crede imitati da ciò che si vedeva nelle nazioni germaniche; chi derivati dalle colonie barbare trapiantate nell'impero: più probabilmente germogliarono dall'antica forma dei possessi, quando Vespasiano e Tito chiamando al fisco i beni comunali, su cui aveano diritto gli abitanti di ciascun cantone, e Costantino applicandoli al culto cristiano, ridussero gran parte de' possessori a miseria, ed a vendere il proprio patrimonio, o lavorarlo a titolo di coloni[79]. Obbligati a vivere e morire sul suolo ove nasceano, trovavansi del resto liberi di loro persona; e perciò il diritto li annovera tra gl'ingenui, e ne fa legittime le nozze; ma insieme li chiama servi della gleba; nè contro del padrone poteano stare in giudizio, salvo si discutesse della propria condizione. Ad esso retribuivano in denaro o in natura un canone impreteribile, al fisco l'imposizione; col rimanente viveano, e risparmiando poteano comprar beni, dei quali però l'alto dominio restava al padrone. Condizione peggiore dello schiavo in quanto non potevano essere affrancati, non disgiunti dal suolo, nè tampoco emanciparsi coll'entrare ecclesiastici o militari[80]. Colle traversie pubbliche ne crebbe il numero e peggiorò la condizione, scomparendo la classe tanto utile de' liberi coltivatori e de' minuti possidenti. Chi non potesse soffrire la perdita della libertà, rifuggiva nelle città a nuove miserie: altri, oppressi da crudeli padroni o dall'ingordo fisco, rompevano ad aperte ribellioni. Questa causa s'univa alle anzidette per aumentare i terreni abbandonati. Gl'imperatori fecero esente da tributi chi gli occupasse; li distribuivano anche fra i possessori di buone campagne, minacciando privarli di queste se quelli trascurassero: provvedimenti vessatorj, che a niun bene riuscivano perchè non toccavano la radice del male. All'uopo stesso fu introdotta l'enfiteusi, contratto pel quale, mediante un canone statuito, assegnavasi un fondo a coltivare per un certo tempo od in perpetuo. Prima fu praticato solo con terreni del fisco o del municipio; dappoi anche coi privati, allorchè questi possedettero intere provincie. Prima di Giulio Cesare, ciascun municipio costituiva una repubblica indipendente, associata alla romana, cui contribuiva un contingente determinato, e ne ricevea protezione; partecipava ad alcuni impieghi, e ne comunicava la capacità ai Romani entro le sue mura; del resto avea leggi proprie, magistrati elettivi, libera amministrazione degli interni affari. Intera dunque la libertà civile e la comunale; soltanto la libertà politica era legata dal patto federale. Ma talora il municipio o per forza o di voglia adottava le leggi civili romane, e in tal caso entrava fra i popoli detti _fundi_. Sotto l'impero, la condizione di fundi diviene generale, adottandosi dappertutto il diritto civile romano come condizione della cittadinanza, formandosi così l'unità giuridica, mentre gl'Italici non aveano chiesto che l'accomunamento del diritto politico. Allora tutte le colonie latine divennero municipj; ed essendo caduto in dissuetudine il diritto di suffragio, municipio significò una città abitata da cittadini romani, qual che ne fosse l'origine. Tutto ciò effettuossi colla _lex julia_[81] o poco dopo: e in conseguenza Roma non fu più soltanto una repubblica sostenuta da repubbliche, ma la metropoli d'un grand'impero, di cui l'Italia era la provincia principale. Ma a farla vera monarchia si opponeva il carattere del diritto pubblico e privato di Roma, municipale per essenza, come di quasi tutte le antiche città italiche: onde fu mestieri riformare il modo della libertà municipale in Italia, per armonizzarla colla politica imperiale e coll'accentrata uniformità. Come in Roma i soli cittadini di ottimo diritto erano partecipi della sovranità, cioè potevano render suffragio in una tribù e sostenere le magistrature, così nelle città i decurioni. Non che in pratica, neppure nelle filosofiche speculazioni si conosceva il sistema della rappresentanza, che fa partecipare al governo effettivo i sudditi, per quanto discosti. La riforma di Cesare rese possibile ad Augusto di risparmiare ai cittadini lontani il disagio di recarsi fin a Roma a rendere i voti, imponendo di raccoglierli ne' particolari comizj, indi spedirli alla metropoli. Questo diritto egli limitò ai municipj, sotto il qual nome vennero intesi non più tutti i cittadini, ma puramente i decurioni. Il senato di questi (_ordo, curia_) insieme coi magistrati amministrava la città; ma non che la curia fosse contrappeso ai magistrati, unicamente da essa sceglievansi. Questi potevano presentare i proprj successori; ma poichè ciò li rendeva garanti dell'amministrazione del surrogato, guardavanlo come un peso, e le più volte ne abbandonavano la scelta al governatore della provincia[82]. Prima magistratura della città erano i due o i quattro giuridici (_duumviri, quatuorviri jure dicundo_), equivalenti ai consoli di Roma innanzi che avessero divisa l'autorità coi pretori. Annui, soprintendevano all'amministrazione, presedevano il senato municipale, ed esercitavano la giurisdizione entro certi limiti, di là dai quali le cause portavansi al magistrato. Col crescere dell'imperatoria, scemò l'autorità dei corpi municipali; fu tenuto per concessione graziosa quel che era diritto anteriore alla conquista; e i duumviri scaddero fra gl'impiegati inferiori, senza più nè imperio nè potestà nè tribunale. In fine cessarono, e alla curia e all'amministrazione degli affari municipali presedeva il primo decurione (_principalis_) per tutta la vita o almeno per quindici anni, senza giurisdizione perchè non era un magistrato, ma solo il decano del collegio[83]. Così il despotismo imperiale insinuava le forme monarchiche perfino nella costituzione delle curie. I Comuni dunque conservavano la sovranità municipale, ma non aveano alcuno schermo costituzionale contro il potere assoluto. Al vedere l'ordinamento delle curie, ov'è scritto nell'_album_ chiunque abbia capacità e certi possessi, senza privilegi di nascita o limite di numero; ove gli imperatori raccomandano di non sollevare al duumvirato se non grado a grado[84], siccome al sacerdozio; ove la curia stessa prende parte immediata agli affari della città, elegge i magistrati suoi, convoca all'uopo tutti gli abitanti, fa decreti che spedisce direttamente, senza che il prefetto possa altro che accompagnarli d'informazioni, voi credereste aver sottocchi altrettante repubbliche, democratiche affatto, la cui opposizione impedisca o turbi le violenze de' lontani dominatori. Apparenza e null'altro. Ogn'atto delle curie poteva essere cassato dal principe; il rettore della provincia annullava a volontà l'elezione dei magistrati; quando poi la centralità imperiale spense ogni pubblica vita, l'ordine de' decurioni cadde nell'ultimo avvilimento. Perocchè nella difficoltà di esigere le esorbitanti imposte, gl'imperatori obbligarono i decurioni a riscuoterle, e star garanti di quelle della comunità coi beni e colla persona propria, come pure a rispondere della propria amministrazione, e di quella degli uffiziali dipendenti da essi. Da un debitore del fisco erano abbandonati i campi? la curia era tenuta a pagarne i carichi, trovasse o no a chi venderli. Erano dunque i decurioni ridotti ad agenti gratuiti e vittime del despotismo, e coll'aumentare de' bisogni dell'impero, la carica ne divenne insopportabile; mentre l'assodarsi della monarchia scemava e l'autorità e la riverenza de' municipj. Costantino e i successori suoi, esentando molti dalle cariche municipali, le facevano pesare viepiù sui restanti, e togliendo a molte città i lauti patrimonj per applicarli alle chiese cristiane, resero impossibile il sostenere le spese. Aggiungete che i curiali senza figli poteano disporre solo un quarto de' loro beni, cadendo il resto alla curia; dal municipio non potevano allontanarsi senza permissione del governatore della provincia; sopra di essi pesava la speciale oblazione dell'oro: di modo che trovavansi esposti alle sempre crescenti avidità dell'erario, alle prepotenze dei Barbari che soprarrivavano, all'esecrazione dei cittadini, che li riguardavano come implacabili riscossori. Bisognò dunque ristorarli di nuovi privilegi: cadendo in miseria, fossero nutriti a spese del municipio; se sani e salvi uscissero dal giro di tutte le cariche municipali, se n'intendessero dispensati per l'avvenire; fossero anche decorati col titolo di conte. Poi s'apposero rimedj agli artifizj onde si declinava questa penosa onorificenza; Trajano proibì di spender denaro per esimersene; ogni figlio di decurione dovesse restar curiale; entrarvi chi acquistasse fino a venticinque jugeri; nessuno potesse vendere il terreno che gli conferiva quell'oneroso diritto; nessuno ottenere uffizio di corte se prima non avesse adempito a que' carichi. Per sottrarsi, il decurione arrolavasi all'esercito? la legge lo strappava agli stendardi; davasi schiavo? la legge il ritornava libero per empiere la curia; gli spurj, gli Ebrei, i nati da padre servo e donna libera, il guerriero vile, il prete scostumato erano condannati a farsi decurioni[85]. Questi erano i padri della patria; questi i puntelli delle municipali franchigie. L'eccesso dei mali portato dal pervertimento delle curie fece, dopo il 365, introdurre sindaci (_defensores_), eletti dall'intera città per tutelare i contribuenti contro le pretensioni della curia, e questa contro gli uffiziali dell'impero[86]. Nelle cause criminali istruivano essi il processo, nelle civili giudicavano fino all'ammontare di trecento soldi, e da loro davasi appello ai governatori. Ne crebbe l'importanza quando, più esigendosi dai Comuni, più bisognava a questi concedere; e quando, oppressi i decurioni, non si poteva usufruttare che la plebe. Stranio da prima alla curia, il Difensore finì per diventarne capo: sinchè, cadendo a fasci l'amministrazione, il clero s'insinuò nelle curie, e il vescovo assunse l'uffizio del Difensore. Nella giurisdizione volontaria alcuni atti solenni dell'antico diritto, come le _vindiciæ_ con tutte le loro applicazioni del manomettere, adottare, emancipare, rimanevano ai magistrati del principe, nè comunicavansi ai municipali. Altri di forma nuova furono introdotti dagli imperatori, quando si cominciò a distendere protocolli d'ogni cosa; e secondo lo statuto di Onorio, gli alti doveansi erigere davanti ad un magistrato o al difensore, a tre _principali_ e ad uno scrivano (_exceptor_); e consistevano in un dialogo fra il primario attore e il magistrato. I testamenti sarebbero dovuti aprirsi solennemente alla presenza del governatore della provincia; ma per agevolezza alcuna volta si leggevano nella curia. Le città nostre conservavano l'antico diritto italico, che la giustizia fosse resa dai cittadini stessi, almeno in materia civile e per la prima istanza. Il magistrato istruiva il processo, determinava il principio di diritto applicabile al caso, e rendeva una decisione condizionata: allora un giurato (_judex_), scelto ciascuna volta e di privata condizione, ponderava il fatto, e lo metteva in relazione col principio dottrinale esibitogli dal magistrato; dal quale accordo usciva il giudizio deliberativo. Quest'ordine di _giudizj privati_ cadde sotto gl'imperatori, come dicemmo, e i magistrati pronunziavano d'alcuni affari senza assistenza di giudici (_extraordinariæ cognitiones_). La quale procedura straordinaria fu poi da Diocleziano abolita in alcune provincie, in altre dileguò, rimanendo la giurisdizione ai governatori, salvo l'appello. Il nobile romano continuava a credere abjezione il lordar la mano nelle arti; ancora al tempo di Costantino erano infami coloro che si applicassero a vendere a ritaglio e guadagnare d'industria; Onorio e Teodosio vietarono a' nobili e ricchi il mercatare, come cosa pregiudicevole allo Stato. Ma rivoluzione importantissima, comecchè neppure accennata dalla storia, fu il mutarsi l'industria dagli schiavi ai liberi. Mentre prima ciascun dovizioso teneva in casa chi facesse ogni servizio sì pel suo occorrente, sì per venderne, allora troviamo artigiani indipendenti che lavorano per se stessi e per chi paga; in ciascuna città raccolti in maestranze, le quali molto estese e con ampj privilegi, dapprima servirono di valido sostegno ai municipj, poi dalla fiscalità furono ridotte a nuovo stromento di tirannia e d'oppressura. I nove collegi d'arti che sussistevano a Roma fin dai tempi di Numa, dovettero esser formati piuttosto per apparato che pei bisogni: ma sotto l'impero crebbero tanto, che Costantino ne distingue trentacinque; cioè, fonditori di metalli, fabbri, lavoratori di ferro, di bronzo, di piombo, d'argento; orefici, giojellieri, doratori, fabbricatori di vetri, di specchi; conciatori, tintori di porpora, tessitori di damaschi, d'altre stoffe operate; folloni, muratori, tagliapietre, lavoratori di marmo, di musaico, d'avorio; terrazzieri, plasticatori, falegnami, marangoni, quei che ornavano le soffitte, carpentieri, vasaj, livellatori dell'acqua, pittori, architetti, intagliatori, scultori, medici, veterinarj[87]. Gli aggregati doveano assicurarsi protezione coll'eleggersi un patrono: acquistavano il privilegio d'esercitare quell'arte, ad esclusione d'ogni altro; aveano sindaco, statuti, possedimenti; erano immuni da prestazioni di corpo, e fin dal militare nelle legioni, ma dovevano allo Stato certi servigi. Così ai fabbri in Roma incombeva di spegnere gl'incendj; lungo i fiumi alcuni _navicularj_ erano tenuti a trasportar le derrate degli eserciti; i _bastagarj_ a carreggiare le annone del fisco, e via discorrete. Pertanto consideravansi come legati al territorio della città, coi figli e cogli averi; lo scostarsene pareggiavasi a diserzione, e venivano rinviati; nè agli obblighi poteano sottrarsi neppure per rescritto imperiale, eccetto se entrassero soldati o cherici[88]. Di questa servitù si valsero gl'imperatori a sevizie fiscali, e tennero le maestranze in solido responsabili delle tasse; quando non trovassero denaro altrove, gettavansi sopra di esse con tale oppressura, che molti se ne sottraevano fino col rendersi servi della gleba. Grave crollo all'industria diedero gl'imperatori col fabbricare per economia checchè occorresse al servizio proprio, alle distribuzioni pei cortigiani e ministri, agli eserciti, infine anche per farne traffico: intempestiva reminiscenza dell'antica costituzione domestica, quando ogni padrefamiglia teneva in casa servi per tutte le manifatture occorrenti. Alessandro Severo faceva tessere e tignere porpora, e la più fina e lucente mandava sul mercato[89]: Costantino vendeva vesti, lino, pelliccie per conto del fisco: Costanzo II avea telaj di lana, seta, lino. Errore grossolano d'economia, del quale fu conseguenza l'avere Valentiniano proibito a qualunque privato di fabbricar seterie, o tessere ori od altre stoffe; Graziano e Teodosio multano di morte e confisca chi tignesse o vendesse porpora, o comprasse seta dai Barbari, serbandosene il monopolio l'imperatore, dal quale pure i soldati doveano comprar le vesti[90]. Davano opera a tali manifatture innumerevoli schiavi, obbligativi in perpetuo coi figli loro acciocchè non portassero fuori l'arte. Gli armajuoli erano liberi di condizione; ma ascritti una volta al collegio, doveano per un certo numero d'anni rimanervi coi figli, marchiati al braccio ond'essere riconosciuti. Internamente le armi si vendeano alla libera, ma era vietato asportarle. Fabbricavansi (per dir solo dell'Italia) freccie a Concordia, scudi a Verona e Cremona, corazze a Mantova, archi a Pavia, spade a Lucca: ad Aquileja, Milano, Ravenna, Roma, Canusio, Venosa lavoravansi stoffe di lana e seta per uso particolare degl'imperatori, divise militari, vele e sartiame per le navi: Taranto e Siracusa aveano tintorie; zecca Aquileja e Roma. Al fisco furono tratte anche le miniere, le saline, le cave di gesso, di coti, di marmi, e perfino delle pietre; ed affittavansi a privati. Vi lavoravano o condannati, o schiavi coi loro figliuoli: schiavi erano i monetieri. Tante opere affidate a schiavi, che non costavano se non il mantenimento, diminuivano i modi di guadagnare alla libera popolazione, offrendo le manifatture ad un prezzo cui non poteano i privati. Il commercio non fioriva meglio che nell'età precedente; e se le leggi il tolsero in cura, fu con meschini ed avari accorgimenti. Allorchè i Barbari si avvicinarono, e preser gusto alle delicature della civiltà, i Romani avrebbero potuto, collo stabilire mercati sulle frontiere, ricuperare in parte l'oro che quelli rapivano o ricevevano in tributi e soldi. Ma temendo di allettarli colla mostra delle ricchezze, fu limitato quel traffico, e interdetto, pena la confisca e l'esiglio, il vendere ai Barbari nè ai loro ambasciadori non solo le armi, ma sino il ferro greggio o lavorato, nè le coti, o l'insegnare a costruir navi nè somministrarne il legname, anzi fin il dare vino, olio, caviale, sale: poi il timore fece escludere gelosamente i mercadanti persiani e barbari, salvo alcune città determinate[91]. Se pensate che a Roma era chiusa la principale sorgente di sue ricchezze, la conquista, comprenderete come ella doveva impoverire. I metalli fini eransi cumulati in poche mani, e resi sterili nel lusso de' giojelli, delle dorature, de' vasi; le miniere di Spagna e di Grecia erano esauste, ossia entrate nel terreno duro, che esige tempo e forza soverchia; dall'Egitto e dalla Libia conveniva trarre tutto il grano, il quale si paga a contanti: onde la mancanza di numerario fu uno degli sconci più sentiti in quell'estremo, non bastando a pagare gli eserciti, a incoraggiare l'agricoltura, a dar capitali all'industria e agevolezza al cambio. Già Antonino Pio avea dovuto sovvenire alle pubbliche necessità fin col vendere gli ornamenti imperiali; Marc'Aurelio mandò due volte all'incanto i vasi d'oro e le preziosità della reggia; Didio Giuliano adulterò la moneta, indotto forse dall'ingente somma a cui erasi obbligato per comprare il breve impero. Le monete d'oro si conservavano a settecentottantotto di fino, ma deteriorarono quelle d'argento; Caracalla vi mescolò metà rame; di due terzi le alterò Alessandro Severo: Massimo fece coniare i metalli preziosi dei tempj e dei luoghi pubblici, e fino i simulacri degli Dei e degli eroi: sotto Filippo non correvano quasi altre specie d'argento che le battute dagli Antonini: da Gallieno a Diocleziano se ne spendeano soltanto di rame stagnato; e tanto insolentivano i monetieri falsi, da proromper fino contro Aureliano in una sommossa, che settemila soldati costò il soffocarla. Dopo lui ricomparve l'argento, forse perchè egli ne traesse dalla depredata Palmira; ma a poco andare fu esaurito. Mentre Costantino nel 325 tagliava ottantaquattro solidi ogni libbra d'oro, quarantadue anni più tardi Valentiniano I ne tagliava settantadue, cioè l'aumentava d'un settimo: e mentre la proporzione dell'oro coll'argento al tempo di Vespasiano era di uno a dieci, Costantino la stabilì come di dodici a quattordici. Teodosio determina che ai soldati sui confini dell'Illirico si dia denaro invece delle razioni, e che ottanta libbre di carne porcina salata valutinsi un soldo d'oro, come ottanta libbre di olio, e dodici moggia di sale. Il soldo d'oro può ragguagliarsi a lire 14.81, talchè una libbra metrica di carne valeva 57 centesimi, e lire 1.13 la mina del sale; tanto era incarito il denaro dal tempo di Diocleziano. Doveva incarirne anche l'interesse. Già sotto la repubblica abbiam veduto a che grosse usure si collocassero i capitali: senza tener conto degli abusi, la legge al tempo d'Augusto determinava il quattro per cento, il sei sotto Tiberio, il dodici regnante Alessandro Severo: questi lo ridusse ancora di tratto al quattro; infausto accorgimento, che fece chiuder l'oro, e moltiplicare le segrete usure, tantochè a Costantino parve assai il poterle ridurre al dodici[92]. Nell'ignoranza de' principj che regolano la ricchezza, fu persino vietato di portar fuori l'oro, e, ciò che a pena si può credere, venne ordinato di usare ogni astuzia per carpirlo ai forestieri[93]. Allo scemare del denaro, si assegnavano in natura gli stipendj a' magistrati e guerrieri, valendosi dei tributi pagati in natura dalle provincie. E poichè il soldo tanto cresciuto alle legioni non poteasi senza pericolo diminuire, s'introdussero ausiliarj barbari, i quali s'accontentavano di pane, lardo, vino, olio e poca moneta. Così l'enorme avidità delle finanze, se non bastava diroccasse l'industria e l'agricoltura, apriva anche il paese ai Barbari, che ben presto dovevano dominarlo. CAPITOLO XLVIII. Figli di Costantino. Sistemazione ecclesiastica. L'Arianismo. Tanti interessi favorì e guastò Costantino col mutare politica, religione, metropoli, che non è meraviglia se di niun altro personaggio forse tanto bene fu detto e tanto male. Converrebbe trasferirsi al suo tempo per ponderare con esattezza il merito e la colpa dell'assodare sulle ruine del governo popolare la sovranità centrale, mutando lo spirito della sua nazione non solo, ma delle successive, che da quel punto appajono distinte dalle antiche. Robusto animo si richiede per certo a cangiare, non che gli statuti, la religione d'un paese, senza sbigottire a pregiudizj d'educazione, a sofismi, a mormorazioni; robusto per resistere alle insinuazioni d'un partito trionfante, anelo di vendicarsi della lunga oppressione. A chi il chiedeva di condannare Gentili od eretici, Costantino rispondeva: — La religione vuole che per lei si soffra la morte, non che la si dia». Nelle carestie mandava generosamente ai vescovi grani, vino, olio, vesti, denaro da compartire ai bisognosi, massime ad orfani e vedove, senza divario di credenze. Represse le spie, _pubblica peste_, punendole se calunniatrici; professava di voler calcare le orme di Marc'Aurelio e dello zio Claudio; attesa la fragilità degli uomini, doversi nel governo propendere alla condiscendente equità più che alla stretta giustizia. Riferitogli che alcuni popolani aveano lanciato sassi contro le sue statue, si palpò, e disse: — Non mi risento di nessun'ammaccatura». In uno di que' panegirici che la viltà de' letterati tesseva, e l'impudenza de' Cesari tollerava, un sacerdote predicevagli che, dominato glorioso sugli uomini, salirebbe a regnare a lato del Figliuol di Dio; ma l'imperatore lo interruppe, e, — Non de' tuoi elogi ho mestieri, bensì delle tue preghiere». Quando di paganesimo era satura la società, non poteva egli a un tratto promulgare editti che abolissero il passato, e sopra la formalista legalità facessero trionfare il giusto e il buono: pure adoperò per elevare l'uomo materiale a uom morale, e al diritto di natura sottoporre gli arbitrj del diritto civile. Conforme alle dottrine religiose, abrogò le punizioni contro il celibato, esentò i cherici da ogni pubblico servizio od impiego oneroso, restrinse la facoltà di far divorzio; mandò a tutte le città d'Italia poi d'Africa, che si sussidiassero i genitori poveri, acciocchè non avessero a mandar a male i neonati. Punì il ratto fin a volere arso vivo il reo, o sbranato nell'anfiteatro; ed anche la rapita se confessasse aver consentito; i genitori di lei doveano pubblicamente accusarla; gli schiavi che v'avessero tenuto mano, erano bruciati, o liquefatto loro del piombo nella gola; nè lunghezza di tempo prescriveva l'azione contro questo misfatto, i cui effetti cadevano anche sulla prole: legge dove la moralità faceva trascendere la giustizia, e che perciò dovette modificarsi. A insinuazione de' vescovi, meglio tutelò gl'interessi dei pupilli, ne garantì i possessi immobili, e volle s'intendessero aver ipoteca legale sui beni dei loro tutori. Generalizzò il diritto delle madri sulla successione ai proprj figliuoli; rinfrancò la buona fede, mediante il giuramento che i testimonj doveano proferire prima di deporre; estese l'uso de' codicilli; e volle più non fossero essenziali le formole nelle stipulazioni, nè le parole rituali nei legati. Da qualunque decisione diede appello a magistrati superiori; ma per ovviare allo spirito contenzioso, morbo d'allora, inflisse pene a chi interponesse appelli temerarj[94]. Sottopose anche il soldato all'ordinaria autorità nelle cause civili: nelle criminali, per tutti i sudditi fino ai Chiarissimi, furono competenti i medesimi tribunali. Stabilì che le condanne si registrassero, per responsabilità morale dei giudici: minacciò i magistrati prevaricatori o negligenti: dalle confische esentò ciò che fosse stato donato alle mogli ed ai figli, e nel registro de' confiscati si notasse sempre che aveano prole: addolcì la detenzione ai prevenuti, e volle che gl'incarcerati per debiti al fisco avessero stanza capace ed ariosa: mitigò le pene afflittive, abolendo quella tanto prodigata del marchio in fronte e la croce. Vietò agli uffiziali pubblici di togliere, per debiti fiscali, i bovi, gli schiavi o gli attrezzi rurali, nè per le poste usare gli animali destinati ai campi: durante la seminagione e la messe dispensò i contadini da ogni servizio di corpo, e fin dal santificare le feste. Incoraggiò le arti e il sapere, mantenne pubbliche biblioteche, e la tradizione fa da lui fabbricare innumerevoli chiese, e tutte dotare pinguamente, con vasi preziosi e aromi e marmi fini. A tali liberalità gli porgevano modo sì i beni che i predecessori suoi aveano confiscato ai martiri, sì quelli ch'e' toglieva ai tempj profani o alla celebrazione de' giuochi circensi e teatrali. Proibì anche i gladiatori, ma non fece osservare il divieto: come anco ripermise l'aruspicina, che prima avea vietata. Ma prode a capo degli eserciti, nella reggia annighittiva a posta de' ministri, che sperdevano il genio di lui tra frivole particolarità. Guasto dalla prospera fortuna, portava inseparabile il diadema, effeminato nell'addobbo e nel lusso aulico; al quale ed alla fabbrica della nuova città non bastando i tesori accumulati, gravò di nuovi accatti i sudditi. Da crudeltà ed avarizia nol ritennero la riflessione e il cristianesimo. Da Minervina, moglie oscura di sua giovinezza, avea generato Giulio Crispo; giovane di ridente aspettazione, che a diciassette anni (317) proclamato cesare e governatore delle Gallie, con vittorie su Germani e Franchi e nella guerra civile acquistò il cuore della moltitudine. Ma repente Costantino lo faceva giudicare e uccidere a Pola (326): dappoi, scopertolo innocente, lo pianse, e punì atrocemente coloro che l'aveano indotto a un misfatto, le cui ragioni sono avvolte nel mistero, come avviene di questi assassinj di palazzo. Allora dichiarò Cesari Costantino, Costanzo, Costante, partoritigli da Fausta figlia di Massimiano; associò loro, non si saprebbe perchè, gli zii Dalmazio e Annibaliano; e li collocò in diverse parti dell'impero, con qualche porzione di autorità, ma sempre in sua dipendenza. Negli ultimi quattordici anni meritò il titolo di fondatore della pubblica quiete: temuto dai Goti, dai Vandali, dai Persi, riceveva ambascerie fin dalle rive dell'oceano Orientale, e dalle sorgenti del Nilo. Dieci mesi dopo celebrato il trentesimo anno d'impero, ammalò a Nicomedia, e sentendosi mancare, chiese l'imposizione delle mani ed il battesimo (337 — 27 maggio) fin là differito, e morì protestando esser unica vera vita quella in cui entrava. Onorato di solennissime esequie, fu collocato dall'adulazione de' Pagani fra gli Dei, dalla gratitudine del clero fra gli apostoli e i santi, dalla giustizia della posterità fra i grandi monarchi, come quello che intese il suo tempo, e non che ostinarsi al passato, secondò e favorì i maturi progressi, e si pose a capo della maggior rivoluzione che la storia descriva. Appena lui morto, il popolo e i soldati, non si sa per qual motivo, trucidarono Dalmazio, Annibaliano e i nipoti di lui, sicchè regnarono soli i figli. Costanzo II ebbe l'Asia, l'Egitto, la Tracia; Costante l'Italia, l'Illirico e l'Africa: Costantino II, non contento delle Gallie, della Spagna e della Bretagna, pretese anche la Mauritania (340), e per averla invase l'Italia; ma ad Aquileja restò ucciso. Ne occupò i dominj Costante, ma debole e scostumato, perdeva gli amici, esacerbava i nemici: del che imbaldanzito Flavio Magnenzio, capitano barbaro, l'uccise e si fece gridare imperatore (350), ed ebbe l'Occidente coll'Italia. Contemporaneamente Vetranione, antico generale delle legioni dell'Illirico, intesa la morte di Costante, lasciossi da queste acclamare augusto; e in Roma Popilio Nepoziano, nipote di Costantino, con un branco di schiavi e gladiatori, carpiva la porpora. Costanzo dalla guerra di Persia si volse contro gli usurpatori; ricevette al perdono Vetranione che sempre avea fatto mostra d'essere daccordo con lui; a Magnenzio, che già aveva ucciso Nepoziano, diede una delle più sanguinose battaglie che da gran tempo vedesse l'Europa[95]. Costanzo pianse allo sterminio di tanti prodi che avrebber potuto far barriera ai Barbari: Magnenzio, fuggito in Aquileja, sostenne alquanto tempo la guerra nell'alta Italia poi nelle Gallie, finchè a Lione s'uccise (353). Allora Costanzo si trovò unico possessore di tutto l'impero; egli _eterno_, egli _signore dell'universo_: ma era un fiacco, inetto a far il bene o impedire il male, aggirato da eunuchi, i quali, arbitri del nuovo impero come dell'antico erano i pretoriani, ergevano ai primi gradi creature loro, accumulavano ricchezze, impedivano che i lamenti giungessero al monarca, illuso da mendace quadro di prosperità e d'applausi. Di tali disordini si fanno forti alcuni per dire, — Ecco a che fu ridotto l'impero dal cristianesimo». Perchè l'illazione reggesse, bisognerebbe dimenticare qual era l'impero pagano; chè è solo dei fatui, allorchè una medicina non risana un infermo disperato, dire che lo ammazzò. Il cristianesimo operava una rivoluzione, non di accademiche speculazioni, ma pratica, volendo mutare la condizione morale, dirigere la volontà e la vita. Non tendeva dunque ad operare sull'opinione per via della pietà, ma viceversa, a penetrare nelle credenze, e da queste nelle leggi quale indistruttibile componente. In mutazioni siffatte, il movimento, non che si arresti alla superficie, investe tutte le azioni e le idee, la società domestica non men che la pubblica, s'intreccia spesso ne' legami della famiglia e dello Stato, sempre alla loro sanzione; talchè l'opinione recente trovasi a petto un ordine legale da abbattere, affezioni da contrastare, abitudini inveterate da rompere, giudizj abbarbicati da revocare in discussione. Men difficile riuscirebbe la vittoria se i novatori portassero seco un ordinamento bello e compito, una legislazione foggiata sui dogmi che insegnano. Ma il cristianesimo, società spirituale, volta a convincere gl'intelletti e far retti i cuori, più che a sovvertire le relazioni e l'esterior condizione dell'uomo, quando uscì dall'angusto circolo delle chiese non aveva in pronto veruna teorica sociale da offerire agli imperatori convertiti, sicchè trovossi esposto agli inevitabili ondeggiamenti del tirocinio. I successori pertanto di Costantino trovavano nei precetti del Vangelo e nei consigli della Chiesa di che migliorare le leggi dal lato morale: ma mentre la legislazione civile assumeva spirito cristiano, gentilesca rimase l'amministrazione; il sovrano era ancora identico collo Stato, coll'autorità senza confini rendendo smisurata l'efficacia de' vizj suoi; alla Corte duravano perversi costumi, e raggiri d'eunuchi e cortigiani; le credenze evangeliche rimanevano falsate dal despotismo di teologi coronati. Se v'aggiungete l'irriflessivo ostinarsi di molti nella dottrina dei loro padri; la necessità di rispettare certe forme di reggimento, unico puntello della costituzione di cui erano scalzati i fondamenti; le gravi sventure che percossero l'impero; le dissensioni interne della Chiesa, vi sarà spiegato perchè sì lento arrivasse il finale trionfo di questa, e nella sua visibile attuazione si mescolassero estranei elementi. Frattanto alla società civile essa ne contrapponeva un'altra, costituita regolarmente ma sovra tutt'altre basi. E poichè gli affari esterni della Chiesa tale importanza acquistano, che senza di essi rimarrebbe inintelligibile la storia, vogliamo esaminarne l'ordinamento allora introdotto; e tanto più che durò dopo scomparso il civile, per dar carattere alla storia moderna d'Italia, e conservasi fino a noi colla stabilità che la Chiesa imprime a tutto. A una dottrina veramente cattolica, la cui identità resterebbe distrutta per ogni minima deviazione dalla fede comune, era indispensabile un sacerdozio ordinato in modo, da perpetuare la rigorosa conformità di credenze nell'infinito numero di Stati fra cui è divisa la comunità spirituale, indipendenti, distinti di luoghi, di stirpe, di favella; in modo che s'attuasse una civiltà, universale di fatto come di nome. A ciò servì l'unità del sacerdozio, pel quale l'esistenza del potere ecclesiastico rimane assicurata accanto al temporale, senza che l'uno minacci l'altro. Col sacerdozio s'introduce fin dal principio una distinzione, ignota a Greci e Romani, fra preti e laici. I sacerdoti, destinandosi a speciale servizio divino, ricevevano la missione e la dignità dai vescovi coll'imposizione delle mani. Ogni comunità aveva un solo vescovo, che la propria elezione comunicava ai confratelli con lettere pastorali, ove faceva professione di sua fede: gli uni agli altri poi partecipavansi la lista degli scomunicati, acciocchè nessuno di questi fosse accettato in altre chiese; e davano lettere di raccomandazione (_literæ formatæ_) pei fedeli della propria diocesi che viaggiassero. Così l'universalità moltiplicava le relazioni, potentissimo mezzo d'incivilimento. Il territorio su cui un vescovo aveva giurisdizione, chiamavasi diocesi, con nome dedotto dalla nuova distribuzione imperiale. Più tardi a molti vescovi fu preposto un metropolita, col titolo d'arcivescovo o di patriarca, che li consacrava, convocava a sinodi, rivedeva le loro sentenze. Ne' primi secoli non appajono altri patriarchi che a Roma, Alessandria, Antiochia. La chiesa di Roma, oltre esser eretta nella maggior città d'allora, vantavasi fondata avanti ogn'altra di Occidente, e dal maggiore degli apostoli, e bagnata del sangue di esso e di san Paolo; onde consideravasi capo della gerarchia il vescovo di essa, malgrado che gli altri patriarchi ora ad ora competessero: ma almen nella pratica, la primazia teneasi piuttosto d'ordine e dignità, che di potere o giurisdizione. Quando la Chiesa universale fu legalmente riconosciuta, e potè congregare i suoi rappresentanti, e pubblicare decreti per tutto l'impero, l'autorità della romana sede fondossi sopra atti legittimi, emanati dalla potenza ecclesiastica d'accordo colla civile[96], e s'andò via via fortificando anche esteriormente. La comunanza dei beni, possibile in società ristretta, perdette opportunità appena la Chiesa fu dilatata; e i proseliti poterono conservare i loro beni ed aumentarli ciascuno col traffico, l'industria, le eredità, solo obbligati a soccorrere i fratelli poveri, e ad un'offerta nelle ebdomadali o mensili adunanze, pel culto o per opere di pietà. Il denaro raccolto custodivasi dal vescovo, e tre porzioni generalmente se ne facevano: la prima a sostentamento del vescovo e del clero; la seconda al culto e ai banchetti di carità; l'ultima ai poveri, pellegrini, schiavi, carcerati, a salvar la vita e l'anima degli esposti, a quelli che soffrissero per la giustizia. N'erano dispensieri i diaconi; nè lontananza di provincie, nè diversità di nazione limitava la carità, anzi neppure la differenza di religione. Essendo dalle leggi imperiali interdetto ai collegi e corpi il possedere fondi senza dispensa del senato o del l'imperatore, le chiese non n'ebbero se non sullo scorcio del secolo III. Dall'editto di Costantino ne ricevettero ampia facoltà, e allora cessarono di trarre unico sostentamento dalle limosine dei fedeli. Gli ecclesiastici dapprima vestivano non altrimenti de' laici, per la necessità di nascondersi; ed abito consueto a' Cristiani era il mantello filosofico sopra la tunica, quale con poca varietà conservasi tuttora dagli ecclesiastici. La maestosa toga già cadeva in disuso sotto Augusto[97], riserbandosi solo a certe comparse, per quanto egli e più tardi Adriano tentassero richiamarne l'usanza: smessa poi affatto nel dechino dell'impero, dell'antico vestimento serbarono traccia soltanto gli ecclesiastici, i quali in tal modo vennero a trovarsi addobbati diversamente dalla comune de' cittadini. Ciascuna _plebe_ poi eleggeva i proprj sacerdoti: fra questi cernivasi il vescovo, cercando appartenesse alla diocesi medesima, onde conoscesse il suo gregge, ma del resto prendendolo dovunque si trovassero scienza, virtù, opportunità alle circostanze; e popolarmente era pure eletto il romano pontefice. Per decidere sui dubbj, o per refocillarsi di fede e di carità, si radunavano in sinodi particolari, ovvero in generali. Era dunque la Chiesa costituita in monarchia elettiva e rappresentativa, colla libertà e l'eguaglianza accoppiando l'assoluta obbedienza dovuta al capo, benchè tolto dal popolo: nè altro culto al mondo seppe coordinare una gerarchia in modo, da potersi svolgere ed ampliare indefinitamente, eppur rimanere sotto ad una magistratura suprema ed infallibile in diritto e in fatto. Re e sudditi, individui ed assemblee non sono sommessi che alla legge di Dio, promulgata e interpretata dalla Chiesa, a cui egli disse, — Chi ascolta voi, ascolta me; pascete le mie pecore; ciò che voi sciorrete sarà sciolto, ciò che legherete sarà legato»; onde l'autorità e l'obbedienza rimangono del pari nobilitate; ai popoli s'impone un'autorità scevra d'ogni violenza, e tale che lo spirito vi s'inchina senza che il cuore s'avvilisca; giacchè, parlando dall'alto, obbliga eppure non costringe. La potenza morale de' pontefici, divenuta poi efficacissima nel medioevo, riducesi, come quella de' prischi tribuni, a una negazione protettrice, impedendo si conculcassero la giustizia e la moralità. Come un pretore romano, il pontefice pacifico e inerme decide, secondo equità, le dissensioni, che l'interesse o l'ambizione suscitino fra i credenti; come un censore, ammonisce gl'ingiusti ed i violenti; come un tribuno, protesta a favore degli oppressi. I suoi ministri, recisamente distinti da quelli dell'ordine temporale, sono obbligati all'universale insegnamento, epilogato in simboli noti a tutti, ed esposti al cherico, al laico, all'incredulo: il che impedisce del pari e l'esclusività delle Caste orientali, e il vacillamento dei moderni Riformati. Il sacerdote accostandosi al sovrano siccome deputato della monarchia della Chiesa, rammenta l'eguaglianza di tutti e la preferenza dovuta ai poveri; accostandosi al popolo, predica la ragionata soggezione. I primi pontefici, dopo sudato tutta la vita a serbare pura la fede e incoraggiarne i confessori, l'avevano suggellata col proprio sangue. A Pietro succedettero (67) Lino volterrano; Anacleto romano; Clemente romano, già compagno di san Paolo, e di cui ci rimangono due lettere ai Corintj (100); Evaristo siro; Alessandro romano; Sisto della gente Elvidia, che introdusse il digiuno della quaresima; Telesforo di Turio, cui si attribuisce il _Gloria in excelsis_ (139). Di Igino ateniese, Pio d'Aquileja, Aniceto d'Ancisa, Sotero di Fondi, non è ben certo, non che il tempo, l'ordine di successione (177). Eleuterio di Nicopoli narrano mandasse missionarj nella Bretagna. Lo zelo di Vittore africano (193) fu temperato dai prelati occidentali, affinchè non segregasse dalla Chiesa i vescovi d'Asia per la quistione sul tempo in cui celebrare la pasqua. Calisto della gente Domizia (249), succeduto a Zefirino romano, dicono scavasse il famoso cimitero lungo la via Appia, che vi fossero tumulati censettantaquattromila martiri e quarantatre papi. Seguono Urbano e Ponziano romani (253), Antero di Policastro, Fabiano, Cornelio, Lucio, Stefano romani: quest'ultimo ebbe dispareri con san Cipriano. Poi Sisto II ateniese (257); Dionisio di Turio, de' cui scritti ci rimane qualche frammento; Felice romano; Eutichiano da Lucca; Cajo Dalmata; Marcellino romano; Marcello romano (304), di cui la severità e le contraddizioni sono attestate dall'epitafio che san Damaso ne scrisse. Pochi mesi durato papa Eusebio calabrese, gli successe Melchiade o Milziade africano (311], indi Silvestro di Roma [Sidenote: 314), sotto il quale avvenne il fortunato cambiamento degl'imperatori. Tardi si narrò che Costantino, mondato dalla lebbra e battezzato da questo pontefice, cedesse a lui ed ai successori la sovranità di Roma, dell'Italia e delle province d'Occidente. L'atto, forse foggiato nell'VIII secolo e inserito nelle Decretali del falso Isidoro, parve assegnare remotissima antichità e legittimo principio alla dominazione temporale dei papi. Pure sin dal secolo XII ne fu impugnata l'autenticità, poi Lorenzo Valla l'abbattè con ragioni, cui i leali difensori della santa sede furono i primi ad assentire. Costantino dotò bensì lautamente le chiese di Roma; ed un catalogo, comunque imperfetto[98], enumera le rendite che da case, botteghe, fondi, giardini traevano quelle di San Pietro, San Paolo, San Giovanni Laterano, sommanti a ventiduemila aurei, oltre quantità d'olio, lino, carta, aromi, frutti. Pure i pontefici anche dopo il trionfo perseverarono in umile tenore di vita, non aspirando a regnare su questo mondo, ma a darsi specchi di costante virtù. Tosto però che le cose del cielo toccano queste umane, partecipano della pervertita loro natura. Nella Chiesa, da perseguitata divenuta dominante, a folla entrarono Pagani, non sempre per intima convinzione, nè dopo lottato col raziocinio, colle passioni, coll'abitudine, cogl'interessi; ma sovente per conservare le cariche o il favore, o per cupidigia de' privilegi e delle ricchezze sacerdotali: di che i costumi de' Cristiani peggiorarono, e i vizj dell'antica s'insinuarono nella nuova religione. Trista pittura de' costumi dei prelati fa Ammiano Marcellino, ma siccome uomo che del cristianesimo non conosce se non l'austera semplicità, senza avvertire come già acquistasse ingerenza civile, e in conseguenza dovesse mostrare pompe esteriorj, suntuose solennità, ricevere tributi, avere possessi, co' privilegi e coi pericoli che gli accompagnavano. In Oriente si era meno ammazzato e più discusso; laonde, se rapido germogliò il cristianesimo, insieme nacquero dubbj e novità, e quella serie di dissensi che rampollano da ogni verità tosto che sia seminata in mezzo agli uomini, dove può restare contaminata da amici, da nemici, dai mezzi stessi di cui l'uomo è costretto valersi per propagarla, cioè la parola e la scrittura. Quindi nuova nè sempre incruenta persecuzione cominciò alla sposa di Cristo, la quale, sicura omai della costanza dei martiri, doveva temere la seduzione dell'errore, e travagliarsi a conservare nell'apostolica integrità questo vasto simbolo della rivelazione, di cui ogni parte, ogni parola corrisponde al tutto. Al nostro libro non appartiene di toccarne se non quanto concerne l'Italia, e quanto operò sui pubblici avvenimenti; perocchè le eresie, che dapprima erano dispute di scuola, giunsero ben presto a sconvolgere la politica: e la più clamorosa fu l'Arianismo. Cristo nulla scrisse. Che gli Apostoli, prima di spargersi a predicare alle nazioni, abbiano fra sè combinato il simbolo della fede comune, quale ci fu tramandato col titolo d'_Apostolico_, è pia credenza[99]. Un'esposizione generale e compita del dogma non si aveva; e la dichiarazione di fede consisteva nell'escludere dalla comunione d'una chiesa chi credesse altrimenti, cioè chi alla verità generale surrogasse una restrizione di particolar suo giudizio. Di siffatta guisa erano stati combattuti i primi errori intorno alla natura divina, dove alcuni aveano sostenuto l'unità astratta della sostanza di quella, fino a negare ch'essa si svolgesse in tre persone; alcuni eransi abbandonati alla vaghezza d'idee platoniche, analoghe alle cristiane sul Verbo; altri aveano posto troppa differenza tra il Padre e il Figliuolo, o formandone un dio distinto, o riducendolo a un uomo, nel quale per alcun tempo si fosse incarnata una virtù celeste, una sostanza divina. Da che il mondo omai apparteneva a Cristo, viepiù importava di conoscere chi e quale egli fosse. Ario, prete d'Alessandria d'Egitto (312), pretese spiegarlo; ma mentre gli ortodossi tengono Cristo come la conoscibilità divina, il pensiero eterno di Dio, coesistente coll'eterna sua attività, della medesima sua sostanza (ὁμούσιος), Ario vi riconosceva la forza, la verità, l'avvenire, ma non voleva identificarlo con Dio, e ne formava un essere distinto, di sostanza analoga (ὁμοιούσιος) a quella di Dio, una creatura tipica, che Dio generò per servire di modello agli uomini. Erudito in quanto erasi detto prima di lui, con sottilissima dialettica, stile splendido e fin lezioso, arguta industria d'insinuarsi negli spiriti, perseveranza di aspettare, accorgimento di cedere a tempo, e rimanere nella Chiesa nel mentre la sovvertiva, faceva libri e poemi popolari, entrava nelle case confabulando, e — Avete voi (domandava alle donne), avete avuto figli prima di partorire? così neppur Dio potette averne uno prima che il generasse». Da questa triviale comparazione molti restavano convinti che il Padre dovess'essere anteriore al Figliuolo. Già allora non pochi teneano che, nella forma della dottrina, nulla vi fosse di assoluto, e tutto dipendesse dal riflesso d'una certa modificazione del sentimento, e che le differenze della Chiesa non fossero se non varianti maniere di vedere dell'intelligenza cristiana: sicchè gl'istinti razionali dirigeansi a favore di Ario, il quale al mistero opponeva il senso comune: i tanti che, sull'esempio di Costantino e della Corte, si erano convertiti prima di vincere sè ed il mondo, abbandonavansi alla rilassatezza nel credere, alla svogliatezza nel cercare il vero: lo scarso studio agevolava l'errore, e a gente inavvezza alle sublimi audacie dell'ideale, riusciva più facile rappresentarsi Gesù nella sua vita e morte qual profeta, che qual dio; tanto più che, con tale spediente, le dottrine comunicate dall'alto per suo mezzo conservavano il valore dogmatico, mentre all'unità di Dio non restava più questa nube della triplicità di persone. Ma se l'autore del cristianesimo non è dio, eguale e consustanziale coll'autore delle cose, quei che l'adorano sono idolatri, o riconoscendo due Dei, ricascano nel politeismo; Cristo non è più il tipo a cui l'uomo dee conformarsi per meritare, lo che costituisce la base del cristianesimo pratico; e perduta la fede del mediatore divino, trova novamente fra sè e Dio quell'abisso che ne lo separava nei secoli pagani. La dottrina di Ario feriva dunque l'essenza del cristianesimo. Inoltre, per conservare la società e per migliorare i costumi e la condizione civile, allora più che mai faceva duopo di opere; e per operare bisogna credere; e per credere bisogna ammettere un'autorità infallibile. L'egoismo avea sfasciato la società romana; il sacrifizio dovea ricostruirla, e per sagrificarsi bisogna non dubitare dello scopo dei proprj sforzi. Ben è dritto dunque se tanta importanza attribuì la Chiesa ad un'eresia che intaccava le basi della fede, l'appoggio della speranza, il nerbo della carità. L'introdursi d'una nuova religione avea spezzato l'unità politica romana, sicchè gl'imperatori a ferro e fuoco vollero distruggerla; ma cresciuta tanto da divenire prepollente, Costantino la favorì per ricomporre l'unità in senso cristiano. Erasi appena avviata, quand'ecco il cristianesimo scindersi in parti; ecco sconnettersi quella fede, che della propria unità avea sempre fatto arma trionfante contro la Babele delle opinioni gentilesche. Costantino, che dapprima l'avea sprezzata come un problema irresolubile a raziocinj umani, si accorse quanto seria si rendesse la querela sì pel pericolo della fede, sì pel calore sedizioso con cui era agitata: persuaso però che la Chiesa nelle credenze non dev'essere regolata che da se stessa, indicò un'adunanza, non più particolare, ma universale. Ora che voleasi accogliere tutto il mondo romano nella comunione cristiana, non bastavano parziali decisioni; ma la Chiesa, rappresentante dell'umanità divinamente ristabilita nell'unità, dovea mostrarsi una in un concilio ecumenico, e in questo chiarirsi del comune consenso, e stabilire qual credenza tenere sopra il punto essenziale del cristianesimo, la natura del Verbo. Pertanto a Nicea di Bitinia (325) convennero i vescovi di tutto l'impero, in numero di trecendiciotto. Molti di loro portavano sul corpo le gloriose stigmate del martirio, sostenuto per la fede che allora venivano a difendere colla parola; altri rendeva illustri uno speciale dono di santità, di miracoli, di dottrina; e fra loro primeggiavano da una parte Ario, attentissimo ad ogni opportunità di far trionfare la sua causa; dall'altra Atanasio, diacono poi vescovo d'Alessandria, per lunghi anni il campione più fervoroso della parte ortodossa. Silvestro papa vi mandò legati; varj laici vennero ad appoggiare colla dottrina l'una o l'altra causa; e lo stesso imperatore vi comparve colla maestà richiesta da tale assemblea. Qui cominciossi a contendere di testi, di ragioni e di cavilli; per sottrarsi ai quali fu adottata una parola platonica, dichiarando che il Figliuolo è _consustanziale_ (ὁμούσιος) col Padre; fu compilato un simbolo, e condannati Ario ed i suoi[100]. Le decisioni del concilio furono notificate a tutto l'impero; e Costantino moltiplicò lettere in tal senso, ed esigliò Ario. Ma questo, inesauribile di spedienti, ora esclamava contro l'introdurre nel dogma una parola sconosciuta alle sacre scritture, o contro la presunzione di definire assolutamente sovra punti imperscrutabili; ora propugnava le opinioni sue davanti a nuovi concilj; ora con capziose professioni di fede sorprendeva l'imperatore, infelice teologo: il quale al fine ordinò al vescovo di Costantinopoli di ricevere Ario alla comunione. Questi però, mentre recasi alla chiesa, è preso da colica e muore (336). Non che spegnersi con lui, l'incendio divampò: diciotto simboli in pochi anni pubblicarono gli Ariani, i sinodi particolari decidevano un contrario all'altro, s'avvicendavano le persecuzioni; e gl'imperatori succeduti a Costantino, e adombrati del potere conceduto da questo alla Chiesa, propendevano per la fazione che gl'invocava. Costanzo II perseguitò accannitamente sant'Atanasio, che instancabile parlava, agiva, scriveva, passava da Oriente in Occidente, dai deserti di Libia alla sede di Roma per far trionfare la verità. Papa Liberio romano, succeduto a Marco e Giulio romani anch'essi, sosteneva Atanasio e le decisioni del concilio Niceno (352); ma per ciò Costanzo, o piuttosto i suoi eunuchi il tolsero a perseguitare, e coltolo nottetempo, il trasferirono a Milano (356), indi il confinarono a Berea nella Tracia; ma nulla il divolse dal proponimento. E violenza era in ogni dove; per bandi imperiali, chiunque sostenesse la parola _consustanziale_ era marchiato in fronte, espulso di città, confiscati gli averi; i Cattolici comunicassero cogli Ariani, o guaj; date a questi le chiese e le pubbliche dotazioni; in Roma si veniva alle mani per la consustanzialità, come un tempo pei diritti del popolo; e i soldati, «cattivi apostoli della verità, la quale non conosce altr'arme che la persuasione» (ATANASIO), pretendevano imporre la fede. Ma intanto riconosceasi qualcosa di nuovo nel mondo romano; il vessillo della Chiesa sventolava di fronte a quel della terra: la Chiesa proclamava un'autorità superiore alle umane, e da cui queste ritraggono; Cesare rispondeva colla spada; ma gli ecclesiastici ne aspettavano imperterriti il colpo, sostenuti dal popolo e dal rappresentante di questo, il pontefice. Frattanto i fedeli, privi di pastori, esitanti nelle coscienze, sottoposti a vescovi non eletti da loro e non conosciuti, alzavano concordi lamenti. Allorchè Costanzo venne a Roma, una nobiltà di matrone in addobbi sfarzosi gli si presentò, invocando — Restituisci alla sede papale Liberio, giacchè nessuno entra nelle chiese dacchè vi sta Felice a lui surrogato». L'imperatore accondiscese, purchè Liberio convenisse nel parere de' vescovi; ma quando tal concessione fu proclamata nel circo, il popolo, che in Italia non aveva disimparato le democratiche manifestazioni, raccolse a scherni, dicendo: — La Chiesa è forse un anfiteatro, dove fare due fazioni? Un solo Dio, un solo Cristo, un vescovo solo». Pure i soliti artifizj de' prelati greci, affinati alla Corte e nelle scuole, prevalsero nel concilio di Rimini (358); quattrocento vescovi furono tratti a firmare una formola di fede, la quale condannava chi dicesse, il Figliuolo di Dio essere creatura eguale alle altre; formola che, sotto sembianza di verità, implicava che Cristo fosse creatura. All'insistente persecuzione non seppe resistere Liberio; e in un istante di debolezza, affine di esser restituito alla sua sede, sottoscrisse un simbolo in senso ariano, o più veramente la condanna d'Atanasio[101]. San Girolamo potè allora dire che il mondo stupì di trovarsi tutto ariano: vent'anni di durata toglievano a quest'opinione la taccia di nuova; il papa vi aveva aderito, non cercavasi per quali arti, nè se subito si ritrattò: laonde si poteva credere imminente la caduta della fede Nicena, un concilio ecumenico si sarebbe ingannato, avrebbe mentito la parola di Cristo. Ma Atanasio, non che disperare, sbucato dal settenne nascondiglio, si scagliò non contro i prevaricatori, bensì contro la forza che li traviava; tosto i Padri illusi protestano contro l'errore; e nel concilio d'Alessandria vien rintegrata la dottrina cattolica. Invece di risecare tante vane quistioni, le fomentava Costanzo, non assodando per fede, ma turbando per curiosità la Chiesa, e intanto lasciando mal capitare l'impero. CAPITOLO XLIX. Giuliano. Riscossa del Paganesimo. Dallo sterminio della famiglia imperiale (pag. 164) erano campati Costantino Gallo e Claudio Giuliano nipoti di Costantino, che furono educati principescamente. Gallo tentò signoria (354), onde fu condannato e ucciso. Giuliano dissimulando sguisciò dal pericolo; e messo ad onorevole esiglio in Atene, assunse il vestire e i modi de' filosofi, alle cui arti intendeva da lunga pezza. Eusebia, moglie di Costanzo II, nelle mille occasioni che ad ogni donna si presentano e che la scaltra fa nascere, insinuava nelle grazie del marito il giovane Giuliano; e poichè i nemici d'ogni parte irrompevano, Costanzo, sentendosi incapace di tener testa, concesse a Giuliano il titolo di cesare (355), la mano di Elena sua sorella, ed i paesi di là dall'Alpi. I soldati, la cui approvazione allora bastava, la diedero in Milano, battendo dello scudo contro i ginocchi, pieni di fiducia nella virtù del giovane venticinquenne. L'ombroso imperatore gl'impose per iscritto il modo di contenersi, e fin le spese della tavola; non gli permise di fare il donativo ai soldati, nè lo fece egli stesso; e lo circondò di servi e cortigiani che, in aspetto d'ossequio, limitavangli la libertà degli atti, delle parole, fui per dire del pensiero. Lasciato lui a guardia dell'Occidente, Costanzo si voltò all'Asia; ma prima volle veder Roma, dove ricevette gli onori trionfali e gli omaggi servili dell'antica metropoli del mondo, alla quale tributò ammirazione, e ne crebbe gli ornamenti coll'erigere nel Circo l'obelisco egizio, che ora grandeggia sulla piazza del Laterano. Guerreggiò i Barbari prosperamente, e con minor fortuna i Persiani. Basso di statura, grosso di collo, spalle larghe, tra cui affondava la testa, agitata da frequenti moti involontarj; arruffata la capigliatura, occhi vivi ma stravolti; prolissa, ispida, impidocchiata la barba; irsuto il petto, sucide le mani, lunghe le ugne; in compenso, faticante di corpo e ardito d'animo, memoria pronta e tenace, ingegno arguto, piacentesi in sottili quistioni; parlare facile e naturale, men volentieri in latino che in greco; buono e dolce nel fare, intrepido ne' pericoli: tale era Giuliano. Cresciuto prima in un carcere cortese, poi fra gli ozj ringhiosi delle scuole e sui libri, quando rase la barba e depose il mantello per assumere il paludamento di cesare, parve strano e ridevole a' cortigiani di Costanzo. Ma dalla sventura e dai libri aveva imparato temperanza, continenza, amor della fatica, disprezzo del fasto. Vestiva poco meglio che soldato, dormiva sopra un tappeto steso sul terreno, e nel fitto della notte sorgeva per attendere agli affari o agli studj; poi l'eloquenza appresa dai retori adoprava nel calmare o dirigere le passioni della turba guerresca; le nozioni di giustizia attinte dai sofisti applicava a districare i litigi avviluppati, quantunque poco versato nella giurisprudenza; univa l'arte di scegliersi buoni consiglieri, e la docilità di confidarvisi. Tre volte passò il Reno per portar guerra rotta ai borghi che i Germani vi fabbricavano ad imitazione de' nostri; e obbligatili alla pace, menò di qua ventimila prigionieri redenti. I Franchi, di più formidabile valore, riuscì a snidare dalla Gallia (357), di cui ricostruì le città, e fortezze e navi dispose coi materiali somministrati per patto dai Germani e coll'opera delle legioni e degli ausiliarj. Alla Corte imperiale i buffoni, fastidiume d'ogni età, proverbiavano questo soldato filosofo, le sue sinistraggini e lo strano vestire, paragonandolo a uno scimiotto, a una talpa, a un caprone, e facendone la parodia. Ma allorchè le vittorie impedirono di prenderlo più a gabbo, la beffa si risolse in gelosia; e cortigiani ed eunuchi esageravano le sue imprese per metterne ombra a Costanzo come d'un emulo. E vi riuscirono. Parendo composte le cose della Gallia mentre cresceva il pericolo in Oriente, Costanzo ne colse pretesto (361) onde togliere a Giuliano le legioni gratificategli dai trionfi, per portarle nella Persia. Moltissimi volontarj d'ogni favella aveanvi dato il nome col patto di non passare mai le Alpi; nè la tutela della gloria romana era motivo efficace su' Barbari. Amorosi di Giuliano quanto aborrenti dalla disastrosa marcia e dal campeggiare in terre sconfacenti e con nemici nuovi, si gettarono all'unica via che restava per non abbandonare la patria e lui, la ribellione, e gridarono augusto Giuliano. Questo seppe procurare all'infedeltà la scusa della violenza; e ne' suoi scritti giura per Giove, pel Sole, per Marte, per Minerva, per tutti gli Dei, che della cospirazione non ebbe sentore. Altri assicurano che sinceramente vi resistette finchè, avendo preso sonno, gli comparve il genio dell'Impero, istantemente rimproverandolo di mancante coraggio: Giuliano destatosi pregò di cuore Giove, il quale con manifesto augurio gli ordinò di rassegnarsi al voler del cielo e dell'esercito. Fatto è che egli regalò di cinque monete d'oro e una libbra d'argento ciascun de' soldati che gli aveano usato quella violenza: poi avventatosi ad atti che gli toglievano di più riconciliarsi con Costanzo, si accinse alla guerra, confidando negli Dei immortali. Colle celeri marcie che spaventano gli avversarj e trascinano gli esitanti, a giornate crescendo di gente, riceve l'omaggio dell'Illiria, dell'Italia, della Grecia; e traversato il monte Emo, s'accosta ad Adrianopoli. Apollo avevalo assicurato della morte di Costanzo, il quale infatti consunto da lenta febbre risparmiò una guerra civile. Costantino, ingegno mediocre, meritò insigne posto nella storia secondando il progresso delle idee e coordinandole ai fatti. Or ecco un uomo di splendide qualità riuscire meschino coll'affaticarsi a rimorchiare il mondo verso un passato irremeabile; col ripetere in mille toni: — Schiviamo le novità». Associata nella giovine testa l'idea di Costanzo suo oppressore con quella dei Cristiani, Giuliano li confuse in un odio comune; stomacato dagli inesplicabili litigi sull'arianismo, nojato degli obbligati esercizj di pietà, ribramò il culto antico, sotto del quale l'impero aveva raggiunto il colmo, e le lettere prodotto lavori immortali. Gli accarezzavano questa inclinazione i sofisti, che ristrettisi a ripetere la parola vecchia, nulla capivano dello spirito recente, e che il lusingavano colla speranza di future grandezze. Ha un bel ridire che egli disprezza la gloria, ma da ogni atto Giuliano lascia trasparire filosofica ostentazione; qualunque azione sua egli narri, ne dà per ragione che così doveva un filosofo; qualunque sua virtù era un calcolo, un esercizio scolastico, una parata. Aggiungerei anche un'impostura. Noi rispettiamo le convinzioni religiose; ma potremmo compatire Giuliano che, mentre lusinga gl'idolatri colla speranza d'una ristorazione, continua a fingersi cristiano per conciliarsi ora l'imperatore, ora i soldati, comunica con questi nella solennità del Natale, adempie le solenni cerimonie? Que' numi suoi compajono troppo a proposito nei casi decisivi di sua vita; per essi giura non aver nodrito ambizione; ad essi imputa la sua ribellione; con aruspici e indovini passa ore ed ore almanaccando sull'esito de' suoi tentativi. In queste vanità stava occupato allorchè gli giunse la morte di Costanzo (11 xbre); onde padrone incontrastato dell'impero, pensò effettuare le promesse tante volte date ai fautori dell'idolatria. Ripetemmo come Costantino si fosse creduto obbligato a riguardi co' partigiani di essa, ed a palliare col nome di tolleranza la protezione conceduta al cristianesimo. I figli suoi, col vantaggio di chi viene secondo, e nell'età che tiene minor conto degli ostacoli, ardirono di più, ma non tutto. La legge del 341 ordina che «cessi la superstizione, si abolisca l'infamia de' sacrifizj»[102]; ma non vi annette pena, e Magnenzio la abrogò, sperando acquistarsi fautori. Costanzo II, trovatosi unico padrone, decretò fosse interamente abolita l'idolatria, pena la vita[103]; pure nulla intraprese contro il culto antico. Può darsi che i Cristiani de' decreti contrarj all'aruspicina ed ai riti segreti e divinatorj profittassero onde molestare i sacerdoti pagani; ma l'esecuzione misuravasi all'arbitrio de' magistrati. Laonde troviamo sussistere e tempj e sacrifizj in Occidente, e in ispecial modo a Roma; alla Sibilla di Tivoli chiedevansi ancora oracoli; se i venti contrariassero la flotta portatrice del grano, la plebe strascinava i magistrati ad Ostia affinchè sagrificassero sugli altari di Castore; i sacerdoti Salj menavano cogli scudi caduti dal cielo le frenetiche carole, per quanto derisi dai Cristiani; libazioni d'umano sangue continuavansi a Giove Laziale sul monte Albano; sussistevano le varie gerarchie sacerdotali; sotto la sanzione delle leggi riposava ancora il voto di castità delle Vestali; si eressero anzi nuovi tempj alle divinità già ferite a morte[104]; e, al dire di Lattanzio, nuovi numi ogni giorno nasceano[105]. Ma agli altri prevalsero Cibele e Mitra. Dicemmo come, fervendo la seconda guerra punica, fosse dalla Frigia introdotto a Roma il simulacro della Madre Idea; i cui sacerdoti, chiamati Galli, fanaticamente danzando e cantando sul cimbalo, erravano di terra in terra, traendosi dietro la turba, meravigliata dello strano vestire, della scurrile devozione, dei prestigi, in cui erano destrissimi. Scostumati, ignoranti, golosi, scrocconi, non sarebbonsi attirato che lo spregio, se non avessero acquistato forza dal trovarsi disposti in compatta ordinanza sotto un arcigallo. Il culto che da antichissimo a Mitra prestavano i Persiani, andò alterato da eterogenee mescolanze: i nuovi Mitriaci esigevano rigide macerazioni, e da chi aspirava a' gradi più sublimi, la verginità e il celibato. Insinuatosi, non si sa quando, nel Campidoglio, crebbe sotto gl'imperatori, ed eccedeva fino a sagrifizj umani. Per diversi gradi compivasi l'iniziazione a quei misteri. Il supremo capo a Roma chiamavasi _pater patrum_; avea sotto di sè il _pater sacrorum_ e gli ordini inferiori, intitolati il corvo, il grifo, il soldato, il leone, il perseo, l'eliodramo. Erano cerniti i più fra l'aristocrazia, sebbene nelle molte iscrizioni che ricordano criòboli e tauròboli, cioè sacrifizj d'arieti e di tori, si trovi ben di rado ornato di que' titoli il capo dello Stato, cioè della religione nazionale. I neofiti ricevevano una specie di battesimo, s'imprimevano dei segni in fronte, beveano farina stemprata nell'acqua, con certe formole rituali. Nei sotterranei del Campidoglio aprivasi il principale tempio di Mitra; all'equinozio di primavera se ne celebravano i misteri; ma con maggior festa il _natale del Sole invitto_ ai 25 dicembre: lo perchè i padri della Chiesa occidentale scelsero questo giorno a solennizzare la natività di Cristo, vero sole, la quale in Oriente festeggiavasi il 6 gennajo, giorno colà sacro ad Osiride[106]. Tali particolarità raccogliamo dai Cristiani che impugnarono quel culto; e le somiglianze sue con quello di Cristo indussero alcuno de' filosofi antichi e de' razionalisti moderni a sostenere che questo derivasse da quello i misteri e i riti. Oltre queste novità, duravano ancora molte forme del gentilesimo nazionale, care a un popolo così tenace delle costumanze avite. Alla elezione dell'imperatore Probo, il senato volgeva ancor la preghiera alle grandi divinità: — O sommo Giove, o Giunone regina del cielo, o Minerva protettrice delle virtù, o Concordia, o Vittoria romana, accordate ai senatori, al popolo romano, ai soldati, agli alleati nostri, agli stranieri la grazia di veder Probo regnare come ha combattuto». Un calendario del 354 dopo Cristo o circa, descrive le feste profane che si devono celebrare giorno per giorno[107]. Da recenti scavi dell'anfiteatro di Capua uscì un'iscrizione del 387, ove Romano Giuniore sacerdote enumera le solennità pagane da lui celebrate quell'anno: e sono _vota_ al 3 gennajo per la salute del principe; _genialia_ in febbrajo, tre lustrazioni per le sementi; _rosaria_ in maggio; feste vendemmiali all'uscire di ottobre; e così via. Un viaggiatore del 374 trova «in Roma sette vergini nobili e chiarissime, che per la salvezza della città compiono le cerimonie degli Dei secondo l'uso degli avi»; e soggiugne che «i Romani onorano gl'iddii, e spezialmente Giove, il Sole, Cibele»[108]. Di quel torno stesso abbiamo l'arida nomenclatura delle vie e degli edifizj di Roma, fatta da un Publio Vittore e un Rufo Festo, dove riscontriamo cencinquantadue tempj e cennovantuna cappelle. — Alle calende di gennajo tutti levansi buon'ora e si corrono incontro ciascuno con regalucci chiamati strenne: agli amici si fa un dono prima di augurare il buon giorno, si premono le labbra, stringonsi la mano, non per ricambiare espressioni d'amicizia, ma per farsi pagare le cortesie dell'amicizia. Così al tempo stesso abbracciano e tastano un amico...; poi tornando a casa, portano rami, come se avessero presi gli augurj, e riedono carichi dei doni raccolti, senza accorgersi che sono altrettanti peccati». Così predicava Massimo vescovo di Torino, il quale non pensò gittar invano il suo zelo in confutare quelli che credevano in Venere, in Marte, negli altri Dei, lamentandosi che i magistrati non facessero adempiere, nè i Cristiani osservassero gli editti imperiali attorno al culto; esortava ripetutamente ad abbattere gl'idoli ne' contorni di Torino, vietare i sagrifizj intemperanti o crudeli, non credere a maghi o a coloro che vantano di potere coi carmi trarre dal cielo la luna[109]. Gaudenzio vescovo di Brescia, seguitando l'esempio di Filastro suo predecessore, combattè vigoroso l'idolatria nella sua diocesi; e — Voi, neofiti, chiamati al banchetto di questa pasqua mistica e salutare, badate bene di conservar le anime monde dagli alimenti contaminati dalla superstizione pagana. Non basta che il vero Cristiano respinga da sè il pascolo avvelenato dai demonj; bisogna ancora che sfugga tutte le abominazioni dei Gentili, tutte le frodi degl'idolatri, come si fugge il veleno vomitato dal serpente infernale. L'idolatria si compone d'incanti, di presagi, d'augurj, di sorti, di tutte le vane osservanze; e inoltre di quelle feste chiamate _parentali_, per cui mezzo l'idolatria sa rianimar l'errore. Di fatto gli uomini, cedendo alla gola, cominciarono a mangiar i cibi che avevano imbanditi pei morti, poi non temettero di celebrare a onor loro sacrileghi sacrifizj, per quanto sia difficile a credere che adempiano un dovere verso i loro morti quelli che, con mano tremolante per l'ubriachezza, ergono il desco sui sepolcri, e dicono a chiara voce, _Lo spirito ha sete_. Ve ne supplico, astenetevi da questi atti, chè Dio sdegnato non abbandoni al furor dell'inferno i suoi sprezzatori e nemici, reluttanti al suo giogo». Abondio, vescovo di Como, col risuscitare un fanciullo morto toglieva dal gentilesimo il principale signore di quella città. Benchè sia attribuita a san Romolo la conversione di tutta l'Etruria al tempo di Costantino, numerose iscrizioni attestano che il culto idolatrico sopraviveva in Firenze, a Pisa, a Volterra, a Rimini. Giove e la Fortuna Pubblica erano adorati a Spoleto, Vesta ad Alba, Castore e Polluce nell'isola Sacra presso Ostia, Nettuno in questa città; Anzio, Preneste, Velletri, Terracina, Narni consultavano e riverivano gli Dei antichi; in Ardea continuavasi il culto della madre degli Dei; Napoli era la metropoli del paganesimo dell'Italia meridionale. Con tanta ostinazione si conservavano le viete osservanze! E più ancora nella campagna, donde venne il nome di paganesimo (_pagus_); sicchè i missionarj osavano appena staccarsi dalle città. Per isvecchiare l'antico si era tentato innestarvi i culti orientali, con una tolleranza che degenerò in grossolano sincretismo. L'arguto Luciano mise in burletta l'affaccendamento di Mercurio per trovar posto nell'Olimpo agli Dei che v'arrivano in folla dalla Persia, dalla Scizia, dalla Tracia, dalla Gallia; e il dispetto con che i vecchi guatavano cotesta gentaglia nuova, il dio Ati, il dio Sebazio, i Coribanti; Bacco che seco introduce i satiri capripedi, e fin il cagnuolo d'Erigone: Mitra, che giungendo di Media col turbante in testa, adocchia stupido i colleghi, e non capisce quel che dicano, neppur quando trincano alla salute di lui. Inoltre i filosofi avversavano la nuova dottrina, la cui umiltà mortificava la loro superbia: i sacerdoti che aveano divulgato tanti miracoli e tante baje, or trovavano ridicole le leggende de' Cristiani: i retori erano menati dall'abitudine scolastica e dalla classica educazione a sostenere e imbellire cerimonie senza fede, numi senza vita, e render popolare la causa soccombente, ch'essi patrocinavano tanto più, quanto meno poteano comprendere le sublimità della trionfante. Si tentò dunque opporvi una religione filosofica, impastata di neoplatonismo; e a quell'estremo sforzo per rigenerare la società e il politeismo diede opera principale Plotino di Licopoli. Coll'esercito dell'imperatore Gordiano era venuto in Asia e a Roma, dove si pose a lottar di virtù e di scienza col cristianesimo, e chiese a Gordiano una piccola città della Campania, ove stabilire un governo repubblicano secondo le massime della sua scuola. Non l'ottenne, ma molti seguaci si attirò predicando il distacco delle cose terrene: i ricchi lo costituivano tutore de' loro figliuoli, i litiganti lo sceglievano arbitro, lasciavansi le delizie della città per ritirarsi seco nella solitudine. Altri correano a cercar lumi a Edesio, scolaro di Giamblico: ma anche costoro erano costretti assumere aspetto religioso; ed o impostori contraffacevano le austerità de' cristiani per combatterli; o avidi del vero, eppure sfasciati nel dubbio, riuscivano a pratiche teurgiche e a teorie panteistiche, le meno convenevoli ad una fede pubblica, che vuole un oggetto degno d'amore, di riverenza, di speranza. Tutti questi aveano occhieggiato con compiacenza Giuliano, che mostravasi disposto a rimettere in onore il culto avito. Compita la poca filosofica sua rivolta, egli getta la maschera; man mano che acquista un paese, vi lascia riaprire i tempj, rinnovare i sagrifizj; egli stesso come sacerdote massimo moltiplica questi a segno, da far temere non venissero meno i bovi nell'impero. Conoscendo troppo che una religione da alcun tempo riposata, anzi seduta sul trono, più non poteva essere combattuta coi supplizj e a spada sguainata, introdusse una persecuzione d'altro genere dalle precedenti; e potè vantare non senza verità d'essersi coi Cristiani mostrato più umano che non il predecessore, il quale tanti n'avea espulsi e morti a titolo d'eresia, mentr'egli restituì agli esuli la patria, i beni agli spogliati, le sedi ai vescovi di qual si fossero setta. Ma operava non per generosità, bensì per iscaltrimento, prevedendo che con ciò susciterebbe tale vespajo, da sovvolgere la Chiesa, e da aprire largo campo alle beffe sue e de' suoi. Altro pensato attacco fu l'interdire ai Cristiani la elevata educazione; e stando a lui la nomina de' maestri di grammatica e di retorica e fors'anche de' medici, arti liberali stipendiate dall'erario, sbandì dall'insegnamento tutti i Cristiani, per dirigere all'intento suo le prime tanto efficaci impressioni della gioventù, e così o guastarla o escluderla dalle scuole, e preparare alla Chiesa gli erramenti ed il fanatismo dell'ignoranza. Al modo stesso precluse loro tutti gl'impieghi d'onore e di confidenza, munendo ogni aula, ogni bandiera colle immagini idolatriche, cui il fedele non poteva rendere omaggio: la quale esclusione in mano de' subalterni diventava una fiera tirannia, portando sino a negare la giustizia. Poi egli medesimo scese alla lizza, e nei _Cesari_ e nei _Sette libri contro i Cristiani_ risvegliò quante folli ed esagerate accuse mai si fossero avventate contro di questi, condendole colla beffa, arma terribile perchè vulgare, e perchè dispensa dal ragionamento. Mentre con ciò tendeva ad offuscar la luce, erasi proposto di trovare virtù e verità là dove erano vizio e pazzia, svecchiare le credenze pagane col ritrarle verso i loro cominciamenti, imbellire come simboli ed allegorie ciò che d'empio e di turpe v'aveano introdotto le popolari tradizioni, trarre dagli adulterj di Giove una lezione di morale, e dall'eviramento di Ati un simbolo dell'anima separata dal vizio e dall'errore; Omero doveva essere per lui quel che l'Evangelo pei Cristiani; morale caritatevole, dogmi puri, idee nuove indagando sotto idee antiche e favole sensuali; e foggiando a proprio talento una scientifica superstizione, la quale pretendeva innestare, non già ne' cuori, ma nelle teste degli uomini. Era egli possibile riformare una religione che mai non possedette principj teologici assoluti, nè precetti morali, nè sacerdotale ordinamento? Vero è forse che ne' misteri tradizionalmente s'insegnasse alcun che di meno materiale che non le oscenità e le ridicolaggini delle cerimonie e delle credenze propalate: ma qualvolta il senato romano volle rinvigorire la fede, nol seppe altrimenti che coll'introdurre numi forestieri, a cui la novità procacciasse devozione. Se un robusto pensatore, conoscente della società fra cui vivea, avesse mai potuto proporsi di rimpedulare il passato, con che spedienti vi si potea accingere? col saldare le istituzioni romane, sostegno della religione in cui erano nate e cresciute; religione del resto tutta politica, nè punto metafisica. Che se Costantino, per sottrarsi all'ascendente di questa, avea mutato la sede dell'impero a Costantinopoli, chi volesse risuscitarla dovea ritornare verso quel focolajo dell'idolatria. Giuliano, all'incontro, filosofo da scuola, nè tampoco s'accôrse che in Roma sopravivevano un senato ed un'aristocrazia, avvinghiati al culto degli avi; e tutte le sue sollecitudini concentrò sull'ellenismo, vale a dire sopra credenze impotenti da gran pezzo a sostenere il dechino de' costumi e ad invigorire la nazionalità; e pensò affidar l'avvenire del mondo a sofisti, indovini, ciancieri furbi e sprezzati. Con un eclettismo senza buona fede, injettando alla credenza greca sentimenti che mai non v'erano stati o che da secoli erano periti, egli accettava l'unità di Dio: al tempo stesso, avendogli il Sole in visione a Vienna pronosticate le future grandezze, venerò specialmente il _padre Mitra_, e si dichiarò assessore di quell'altro[110]; nelle medaglie si lasciò figurare or da Serapide, ora da Apollo, e dipingere fra Marte e Mercurio; giurava per Serapide[111]; faceva il panegirico della Madre Idea, sgridando cotesti _ridicoli_ che, acuti, ma non sani dell'intelletto, negano fede a ciò che dalle città viene creduto, e preferiscono la croce ai sacri trofei degli Ancili, indubbiamente caduti dal cielo; con una turba di sofisti e teurgici celebrava sacrifizj, rinnovava le spaventose scene dell'iniziazione e l'orrida maestà de' riti in antri cupi, fra tuoni e lampi. Dopo imperatore e pontefice massimo, non poteva accomunarsi ai sudditi nelle pratiche devote; onde ebbe una cappella domestica sacra al Sole: di statue e altari empì gli appartamenti e i giardini: appena l'astro del giorno apparisse sull'orizzonte, il salutava con un sacrifizio; di nuove vittime l'onorava al tramonto; nè la notte lasciava prive d'offerte la luna e le stelle: ciascun giorno visitava il tempio del Dio, di cui correva speciale commemorazione; poi non isdegnando gli uffizj più bassi, vestito di porpora, in mezzo ad impudichi sacerdoti e a donne carolanti, soffiava nel fuoco, sgozzava di propria mano le vittime, e nelle palpitanti viscere indagava il futuro; si sottopose anche ad un taurobolo, facendosi piovere sul capo il sangue d'un toro scannato. — Con ciò vuol cancellare il carattere impressogli dal battesimo», dicevano i Cristiani, ai quali se volessimo credere, scannò vergini e fanciulli per esplorarne le viscere, e i cadaveri ne furono trovati lui morto: ma il titolo di _apostato_ attribuitogli, bastava a denigrarlo agli occhi di quelli ch'esso perseguitava; onde conviene andar cauti nel credere ai delitti, di cui essi funestano i tre anni del suo regno. A vicarj del suo pontificato elesse sacerdoti e filosofi, amici e confidenti di sua gioventù, zelatori della credenza avita; e principalmente il rétore Libanio d'Antiochia, il quale ci assicura che, dopo che fu ammesso all'illustrazione, Dei e Dee scendevano assiduamente a conversare coll'imperatore; talvolta gli rompevano il sonno, lambendogli leggermente i capelli; sempre il tenevano consigliato ne' dubbj, avvertito se alcun pericolo gl'imminesse; e talmente v'era abituato, che discerneva alla voce e all'incesso Minerva da Giove, Ercole da Apollo[112]. Tanti favori si meritava egli con opere, cui non mi ricorda che Omero abbia mai riconosciute per meritorie, come l'astenersi in certi giorni da alcuni cibi ch'egli immaginava meno graditi a questo o a quello iddio. Ad imitazione del cristianesimo, tentò riordinare l'ellenismo con riti nuovi e con una gerarchia, raccogliendone in sè i supremi uffizj, e formandone una superstizione ragionata. Voleva introdurre nei tempj la predica e il catechismo, preghiere ad ore determinate, canti a due cori, penitenze per li peccati, apparecchi per l'iniziazione, ritiri per i contemplativi e per le vergini: singolarmente gli piacevano le _lettere formate_ dei vescovi, mediante le quali i fedeli viaggiando erano dappertutto accolti con effusione di carità. Sull'esempio delle pastorali de' Cristiani, ne mandava fuori anch'esso, raccomandando ai sacerdoti di esser buoni, e d'imitare quei cani di Galilei, i quali alle loro credenze acquistavano fede con tante opere di carità: proponeasi d'assistere gl'indigenti, stabilire ospedali pei poveri, senza distinzione di patria nè di credenza: il che se avesse effettuato, avrebbe porto un'altra prova dell'efficacia della verità anche sopra coloro che repugnano dalla luce di essa. Mentre involontaria testimonianza rendea della virtù cristiana volendola conculcata e imitata, chiudeva gli occhi ai progressi che il cristianesimo avea fatto fare all'equità legale; e di tante sue costituzioni inserite nel codice Teodosiano, neppur una asseconda l'affrancamento del diritto naturale, sì bene avviato da' suoi predecessori. Che poi egli non operasse convinto, ma per odio al cristianesimo, il mostrò con favorire gli Ebrei, che cercò anche ristabilire a Gerusalemme, affine di smentire la profezia di Cristo: ma si disse che fiamme sbucate di terra distruggessero le fabbriche cominciate. Trattavasi di teurgie e sagrifizj? Giuliano deviava dalla parsimonia introdotta in ogni altro atto; e rari uccelli e fin cento bovi al giorno propiziavano le sorde divinità; e largizioni veramente regie dotavano i santuarj, sopravissuti all'indifferenza dei Gentili ed allo zelo dei Cristiani. Che gioja per lui quando i soldati esercitavano l'appetito sopra le vittime scannate agli idoli, e s'ubriacavano col sacro vino![113] Poi nei giorni solenni, mentre passavangli davanti in rassegna, largheggiava con chiunque gettasse sull'ara alcuni grani d'incenso. Molti Cristiani rimasero ingannati dalla semplicità di quest'atto; poi come lo conobbero colpevole, corsero a furia al palazzo, repudiando l'oro ricevuto, e gridandosi cristiani: del che cruccioso, l'imperatore ordinò fossero decollati; e già avviavansi contenti al supplizio disputando a chi primo, quand'esso li graziò, ripetendo: — Non voglio dare a costoro la gloria del martirio». Quest'entusiasmo artifiziale non gli toglieva di accorgersi come ai riti ellenici o etruschi più non appartenesse la direzione delle coscienze; ogni tratto si querela della trascuranza ne' doveri religiosi, della spilorceria nell'onorare gli Dei; ma sordo all'eloquenza de' fatti, per decreti imperiali e per filosofiche elucubrazioni ostinavasi ad imporre una religione, la cosa più libera del mondo. E per imporla non rifuggiva dell'accoppiare alla dotta persecuzione la legale. Ordinò che i Cristiani restaurassero i delubri degli Dei, dal loro zelo demoliti, e vi si restituissero i beni confiscati; e attesochè per lo più su quelli eransi costruite chiese, conveniva abbatterle; e non permettendo la religione ai Cristiani di fabbricare tempj profani, venivano trattati a maniera dei debitori insolvibili, carcerati al modo romano, e malmenati da uffiziali che colla arbitraria severità sapevano di gratificarsi l'augusto. Ai pontefici profani trasferì l'amministrazione dei beni assegnati da Costantino e da' suoi figli pel culto; confuse i sacerdoti cristiani coll'infimo vulgo; attese ad escludere i fedeli da ogni onore e vantaggio temporale; e non dissimulava l'intenzione di adoperar cogli ostinati una salutare violenza[114]. Insomma la tolleranza di Giuliano era quella di tutti i tiranni, clementi finchè nessuno si oppone. Ma una Chiesa avvezza a quarant'anni di dominio spiegava più sicura la costanza di cui avea fatto mostra fin quando era scarsa ed oppressa: che se alle prime persecuzioni avevano i Cristiani chinato la fronte, obbedendo alle potestà superiori anche ribalde, or che si sentivano divenuti un popolo, non si credevano obbligati a sopportare l'ingiustizia peggiore, quella che violenta le coscienze. Adunque in varie parti abbatterono i rialzatisi altari, i riaperti delubri; alto levavano i lamenti contro l'usurpare beni alle chiese per darli agli idoli. Giuliano, indispettito della resistenza, puniva i contumaci: e i Cristiani veneravano le vittime sue come martiri; e la presunzione d'innocenza faceva accompagnare di non dissimulato compatimento il supplizio anche di quelli che per avventura l'aveano meritato coll'esorbitare nell'opposizione, solito e naturale effetto delle inique procedure. Anzi, temendo che Giuliano non si avventurasse a peggio, i Cristiani accingevansi ad una resistenza che poteva travolgere l'impero nella guerra civile, se i casi non l'avessero prevenuta. Giuliano conservò in trono molte belle qualità. Semplice nel vestire e nei piaceri, attento ai gravi obblighi di re, dava udienza ogni giorno agli ambasciatori ed ai privati, prendendo istantanea deliberazione sopra le suppliche; scriveva lettere pubbliche e trattati filosofici; le caste notti usurpava al riposo per darle agli affari; nè ai giuochi del Circo, passione de' suoi predecessori, recava la sua noja se non quando il rito l'obbligasse. Ripigliando uffizj dimenticati dagli augusti, sovente arringava, massime nel senato, per isfoggiare eloquenza: più spesso sedeva ne' giudizj come a dovere o come a divertimento, spassandosi a sventare i cavilli degli avvocati; ma talora appassionandosi in modo disdicevole a giudice, empiva l'aula di schiamazzo, e una volta, stomacato dalla zotichezza di certi villani venuti a supplicarlo, li prese a pugni e calci. Con quelli che tramavano contro di lui usò clemenza; ricusò il titolo di signore; mostrò riverenza ai consoli; pensava anche rinunziare al diadema, se non l'avesse distolto una rivelazione degli Dei. Nel libro dei _Cesari_ protestò contro le interminabili conquiste di Roma, preferendo Antonino a Cesare ed Augusto, cioè la pace alla guerra. Eppure della gloria d'Antonino non s'appagava, e ambiva pur quella di Trajano. Chetati in Occidente i Franchi, gli Alemanni, i Goti, restava in Oriente l'impero dei Persi, contro di cui, in trecent'anni di guerra, i Romani non aveano ancor potuto stabilmente acquistare pur una provincia della Mesopotamia, o dell'Assiria. Per vendicare i danni recati da re Sapore, Giuliano raccolse formidabile esercito ad Antiochia, ove consumò l'inverno a ristabilire l'idolatria e saldar la disciplina. A primavera (268) si mosse, a vicenda consolato ed afflitto dagli oracoli bene o male risposti, e dal trovar in fiore o sfruttato il culto de' suoi numi. Dirizzatosi sopra Ctesifonte, assalse l'esercito nemico, e l'inseguì fin sotto alla città: ma improvvidamente abbandonato il Tigri, base delle sue operazioni, e sul quale le navi lo provvedeano di vettovaglie, inoltratosi nell'interno della Persia, non trova che solitudine; le ubertose campagne, i pingui villaggi sono ridotti a fumanti deserti dall'amor della patria o dagli ordini d'un déspoto; ogni giorno s'assottigliano le provvigioni; false guide rendono più disagiate le marcie al pesante treno; uomini e Dei non suggeriscono più ripieghi all'eroe, il quale, se dianzi fantasticava la conquista dell'Ircania e dell'India, allora, desolato al vedersi causa di tanto pubblico disastro, dovette dar volta verso il Tigri. Le bande, che aveano bersagliato incessantemente la marcia, si raccozzarono in immenso esercito per abbarrargli la ritirata. Grossi di numero, leggeri di movimenti, a dovizia provvigionati, chiudevano in mezzo i Romani, costretti a combattere marciando, impediti dalle gravi armature, sì scarsi di cibo, che logoravano quanto potevano sottrarre ai somieri. Giuliano non concedeva a se stesso nulla più che all'infimo soldato: ma la superstizione che l'avea spinto ad afferrare il diadema, minacciava strapparglielo. Quel genio dell'Impero, che nella Gallia avea chiesto d'essere ammesso nella sua tenda, or rivide in atto di velare di gramaglie il capo e il cornucopia, e ritirarsene esterrefatto: Giuliano balza all'aria aperta, quand'eccogli avanti un'ignota meteora in sembianza del dio Marte, corrucciato con esso perchè in un trasporto di collera avea giurato non volergli più fare sacrifizj[115]. Gli aruspici etruschi consultati lo sconsigliano dalla pugna; ma come evitarla? Al nuovo giorno intimata la mischia (27 giugno), mentre, imbaldanzito del primo successo, insegue i Persiani, questi al modo loro saettano a man salva un nembo di dardi e giavellotti, uno de' quali imbrocca Giuliano nel petto. Portato nella tenda, e riconosciuta mortale la ferita, cogli amici egli ragionò della morte alla maniera di Socrate, e come gli sapesse dolce in quel punto l'incolpabilità di sua vita; compiacersi di morire da re, anzichè per segrete cospirazioni, o per violenza di tiranno, o per languore di malattia; augurare ai Romani potessero esser felici sotto un sovrano virtuoso. Dissertò sulla natura dell'anima e sulla sua, che presto sarebbe ricongiunta alle stelle da cui emanava; e spirò di trentun anno e otto mesi. Così narrano i suoi ammiratori; e Ammiano Marcellino, ch'era presente, gli pone in bocca una dissertazione nè da moribondo nè da lui. I Cristiani invece fanno che, sentendosi ferito, urlasse — Vincesti, o Galileo», e spirasse fra spasimi e rimorsi. E una cosa e l'altra sarà stata creduta, perchè i partiti credono non esaminano, e la storia rimane esitante fra eccessi opposti, colla sola certezza che entrambi esagerarono. CAPITOLO L. Da Gioviano a Teodosio. I santi Padri. Trionfo del cattolicismo. Non rimanendo alcun rampollo di Costantino, e importando aver un capo da opporre all'incalzante nemico, fu acclamato Claudio Gioviano, primicerio de' domestici, trentaduenne, bello, piacevole, prode, non ambizioso, diviso tra il cristianesimo e le voluttà. Ridotto ad accettare capitolazioni indecorose ma inevitabili, dopo disastrosa ritirata si raccolse a salvamento in Nisibe. Lo aveva preceduto nell'impero la fama della morte di Giuliano, accolta con impeti d'esultanza e di dolore; perocchè il labaro, drappellato in capo all'esercito annunziava ripristinato il culto del vero Dio. L'idolatria, risorta per obbedienza o per adulazione, ricadde per sempre; spontaneamente richiusi i tempj, cessate le vittime; i filosofi si rasero, deposero il pallio, e tacquero; i Cristiani non vendicarono l'arroganza e l'oppressione passata se non con un'allegrezza trascendente forse i limiti della carità: ma quanto son pochi quelli che s'accontentino di vincere senza voler trionfare! Gioviano restituì le immunità alle chiese, al clero (364), alle vedove, alle vergini sacre, proibendo di violentarle o sedurle al matrimonio; richiamò i vescovi; interdisse magìe e superstizioni, ma non l'esercizio del politeismo; circondato dai vescovi delle varie sêtte, premurosi di trarlo dalla loro, egli si chiarì pei Cattolici. Ma appena riconosciuto da tutto l'impero, una notte morì [Sidenote: 15 febbr.], chi dice d'intemperanza, chi d'asfissia, chi di tradimento. Dopo dieci giorni, i capi dell'esercito buttarono la porpora sulle robuste spalle di Flavio Valentiniano, soldato pannone, in cui gran destrezza, valore, bella presenza, eloquenza naturale sebbene incolta. Siccome Gioviano, così egli fu eletto da soli i capi, non da tutto l'esercito, che, composto il più di Barbari mercenarj o di ragunaticci, poco badava a cui toccasse l'impero; e di tal passo s'introdussero le elezioni per intrigo. Il 25 febbrajo era bisestile, giorno di sinistro augurio, onde Valentiniano si tenne nascosto, poi il domani fu acclamato a grida incessanti. Sentendo per altro la necessità che almen due capi vi fossero in tanta estensione, l'esercito il richiese di darsi un collega, e Valentiniano rispose: — Testè dipendeva da voi l'eleggere un imperatore; eletto, ora spetta a me il provvedere al pubblico interesse: non bisogna precipitare, state cheti e fidate in me». Poco appresso condiscese a quel voto intitolando augusto suo fratello Valente (8 marzo) di trentasei anni, che debole e timido, unico merito aveva l'amare il fratello; e gli lasciò le prefetture d'Oriente, tenendo per sè quelle dell'Illirico, dell'Italia, della Gallia, cioè quanto si stende tra i confini della Grecia, il muro Caledonio e il monte Atlante; l'antica amministrazione non innovando in altro che nello stabilire guardia doppia e doppia corte, una in Milano, una in Costantinopoli. Sol dunque di Valentiniano spetta a noi il dire. Egli invitò ognuno ad esporre le querele, e ne fioccarono contro i ministri che avevano abusato della credulità e della superstizione di Giuliano, e che furono puniti di multe e tormenti. Soldato grossolano, dilettavasi a vedere torture ed esecuzioni; più gli veniva in grazia chi più spietato; e a Massimino conferì la prefettura della Gallia per avere menato strage tra le famiglie di Roma. Innocenza e Mica Aurea chiamava due orse che teneva sempre accanto alla sua camera, pascendole e trastullandole egli stesso; porgeva loro a sbranare i malfattori; e quando gli parve che Innocenza avesse abbastanza ben servito, le rese la libertà delle selve. — Uccidetelo» era l'ordinaria sua sentenza sopra le accuse; e non già per propria sicurezza, ma perchè gli aveano detto che vuolsi esercitar la giustizia. Un prefetto desidera cangiar luogo, e l'imperatore: — Va, conte, e spicca il capo a costui che vuole spiccarsi dalla sua provincia». Un ragazzo sguinzaglia troppo presto un cane? un artefice fa una corazza bella, ma alquanto mancante del peso convenuto? sono decretati a morte. Trovate esauste le finanze, benchè da quarant'anni in poi il tributo si fosse addoppiato, Valentiniano non si fece coscienza d'intaccare le proprietà dei più ricchi e magnifici. Irritato dai disordini derivanti dallo esorbitare delle imposizioni, comanda gli si porti il capo di tre decurioni per ciascuna città di quella provincia. — Piaccia alla clemenza vostra decretare come comportarci ove tre decurioni non vi sieno», gli chiese il prefetto Florenzio; e l'ordine insano fu revocato. Però nel vivere privato si condusse con castigata semplicità, nè fu cieco pei parenti. Difese avvisatamente l'impero, e lasciò che i giurisprudenti gli suggerissero ottime leggi. Zelante quando il mostrarsi cristiano recava pericolo, si mantenne poi tollerante[116]; allontanò una legione da una sinagoga, di cui disturbava il culto; i Pagani esercitassero i loro riti, esclusa però la magìa e le superstizioni che dal senato erano state interdette; ai pontefici provinciali concedette le immunità proprie dei decurioni e gli onori di conti[117]; lasciò rinnovare i misteri Eleusini, e si videro arder vittime sugli altari, menarsi per le vie le orgie di Bacco, e uomini e donne, vestiti di pelli caprine, stracciar cani e fare l'altre follie di quel culto. Perchè il clero non si corrompesse nelle prosperità, a Dàmaso vescovo di Roma dirizzò Valentiniano un editto, che ecclesiastici e monaci non frequentassero le case di vergini e di vedove; ai direttori inibì di ricevere dalle figlie spirituali donativo, legato o eredità; e pare che dappoi a tutte le persone dell'ordine ecclesiastico fosse vietato l'accettar testamenti o legati, atteso l'abusare che alcuni faceano della fiducia, massime delle donne, onde fraudare i parenti della legittima eredità[118]; e il lusso e l'ambizione facevano che il seggio pontificale fosse ambito per ben altro che per zelo delle anime, e acquistato sin colla forza. Valentiniano esercitò sua bravura contro le nazioni straniere, che quasi di conserto invadevano l'impero. I Germani, offesi della scarsezza dei donativi fatti agli ambasciatori spediti colle congratulazioni, si avventarono sulle Gallie, ruppero i Romani in battaglia ordinata, uccidendone il generale Severiano; ma poi vennero interamente disfatti da Gioviano presso Metz. I Sassoni penetrarono nell'impero; ma tolti in mezzo, furono rinviati, e malgrado la salvezza promessa, assaliti e fatti a pezzi. Valentiniano stesso entrò sul territorio degli Alemanni, e nel paese che ora è regno di Würtemberg li ruppe sanguinosamente, e passò gran tempo sul Reno (366-70) per inanimare i soldati alla fabbrica de' forti con cui muniva quella linea. Da lui istigati, ottantamila Borgognoni si affacciarono a quel fiume per danneggiare gli Alemanni; ma non vedendosi assecondati dall'imperatore, diedero volta, trucidando quanti aveano prigionieri. Avendo Valentiniano fabbricato forti di là del Danubio sulle terre dei Quadi confederati, Gabinio re di questi venne in persona a querelarsene (373); ma essendo stato vilmente trucidato, i suoi mandarono a sperpero l'Illiria, e ruppero due legioni romane. Contro di loro mosso in persona, Valentiniano ne dilapidò le terre, sicchè essi spedirongli ambasciatori a Guns in Ungheria implorando pietà. Mentre a questi Valentiniano parlava coll'escandescenza cui soleva talora abbandonarsi, cadde morto (375 — 17 9bre), avendo vissuto cinquantacinque anni, regnato dodici. Graziano suo figlio sarebbe potuto succedergli; ma alcuni, ambiziosi di governare sotto il nome d'un re bambino, acclamarono Valentiniano II, partorito da Giustina, seconda moglie del defunto, perchè nato nella porpora: e ne seguiva guerra civile se il prudente Graziano non si fosse quetato all'elezione, consigliando la vedova imperatrice a stabilirsi col figlio in Milano, mentr'egli assumeva il difficile governo delle Gallie. Ma ecco giungergli avviso che i Goti aveano invaso l'impero orientale, onde s'allestì a difesa dello zio Valente; prima però che giungesse, questo in fiera giornata ad Adrianopoli era stato vinto ed ucciso (378 — 9 agosto). Con ciò Graziano trovavasi a diciannove anni padrone del mondo: se non che davanti si vedea un milione di Goti, insuperbiti d'aver ucciso quarantamila guerrieri, e acquistatone l'armi e i cavalli in una battaglia tanto segnalata; alle spalle gli si agitavano i Germani; all'un estremo del mondo fremevano i Persi, gli Scoti all'altro, istrutti alla prova che potevasi vincer Roma, incatenare od uccidere i suoi imperatori. Graziano, sentendosi insufficiente a tanti urti, il pubblico bene preferì alla personale ambizione, e fermò scegliersi a collega non un fanciullo nato per caso nella reggia, ma un uomo pari alla gravezza dei tempi; e pose gli occhi sopra un esule, un oltraggiato, che non ambiva nè sognava tampoco il trono. Teodosio conte spagnuolo avea condotto gl'imperiali a vincere Firmo, principotto mauro di gran seguito, il quale avea sommosso l'Africa, disgustata dalle vessazioni di Romano, governatore avido, crudele, e insieme superbo a segno, che non volea mettersi in marcia se non con quattromila camelli. Firmo, ridotto alle strette, dopo ostinata difesa si strangolò; ma Teodosio rimostrò che le sollevazioni non si poteano prevenire efficacemente se non reprimendo gli eccessi de' governatori, e massime di Romano. Tale franchezza gli costò la vita. Suo figlio, di nome anch'egli Teodosio, liberalmente educato, aveva nella Bretagna represso le irruzioni de' Pitti e Scoti, e vinto l'usurpatore Valentino, consegnandolo ai magistrati, ma esigendo non l'obbligassero a nominare i complici, per non essere costretto a punirli. Piombò poi sulle terre degli Alemanni, e assai ne prese, che furono messi in colonia sul Po. Venuto famoso per questi ed altri fatti, fu spedito duca della Mesia, la quale salvò dai Sarmati. Quando suo padre fu decollato, egli, sentendosi invidiato dai cortigiani, si ritirò in Ispagna, dispensando il tempo fra le cure di cittadino e la tranquilla amministrazione d'un vasto patrimonio, lieto di tre figliuoli, Arcadio, Onorio e Pulcheria. Cincinnato della Roma decrepita, fu invitato da Graziano, prima a combattere in difesa dell'impero, poi a parte del trono, quando compiva i trentatre anni (370 — 19 genn.). L'imperatore non temeva che alla vendetta domestica posponesse il pubblico vantaggio, e gli sposò Galla sua sorella: il popolo ne ammirava la maschia bellezza, la maestà temperata dalla grazia, e — Viene dalla patria stessa di Trajano e d'Adriano; gli imiterà». A Teodosio furono assegnate le provincie già imperiate da Valente, oltre la Dacia e la Macedonia; Graziano serbò le Gallie, la Spagna, la Bretagna; mentre di nome obbedivano al fanciullo Valentiniano II l'Illiria occidentale, l'Italia e l'Africa. Graziano sospese le persecuzioni; protesse le lettere e le coltivò, trovando agio di trattare la cetra colla mano avvezza alla spada, e di cantare le imprese degli eroi; al poeta Ausonio suo maestro concesse il consolato, e una toga quale gl'imperatori indossavano nel trionfo; conservò perenne amicizia con sant'Ambrogio vescovo di Milano[119]. Ma morti coloro che lo avevano messo sul cammino diritto, lasciossi forviare da indegni cortigiani, sicchè consumava il tempo tra le caccie e in disputare coi vescovi, de' quali talvolta assecondava l'intolleranza. Nella Bretagna i soldati scontenti si levarono a sedizione; e Magno Massimo, compatrioto e commilitone di Teodosio, non avendo ottenuto grado pari alla sua ambizione, si fece gridare imperatore, e passò nelle Gallie con trentamila soldati e centomila paesani; coraggioso e degno d'impero se l'avesse cercato per vie migliori. Fissatosi a Treveri, si procacciava ogni giorno nuovi partigiani, anche dei più vicini di Graziano. Questi da Parigi fuggì verso l'Italia; ma presso Lione tratto insidie, cadde ucciso a ventiquattr'anni [Sidenote: 383 — 23 agosto]. Massimo spedì a Teodosio giustificandosi del fatto; e — Riconoscimi per collega, o mi sosterrò colle forze de' più floridi paesi dell'impero». Necessità e desiderio di risparmiare una guerra indussero Teodosio al patto; e i tre imperatori furono acclamati per tutto l'orbe romano. Pochi anni dopo (387), Massimo, non sapendo limitare la sua ambizione, sotto finta di ausiliarj esibì un grosso di truppe, le quali in sicurtà di pace passando le Alpi, assicurarongli l'entrata nell'Italia. Valentiniano II, o dirò meglio Giustina che ne reggeva la fanciullezza, fuggirono allora da Milano, ove Massimo entrava trionfante: ma Teodosio sopragiunsegli con esercito agguerrito e somma rapidità; talchè chiuso in Aquileja, fu da' suoi spogliato e condotto all'imperatore (388 — agosto), che ne volle il capo a vendetta di Graziano. Sbrigata così la guerra civile, e sveltene le radici colla moderazione e col perdono, Teodosio salì al Campidoglio in trionfo. E ben n'avea diritto: i Goti aveva ripartiti in colonie per paesi deserti, dove si convertivano al cristianesimo e alla civiltà; i Persiani invocavano la sua amicizia; i sudditi gli mostravano riconoscenza. Nella privata condotta abbastanza temperante, ai parenti affezionato e rispettoso, allevò come proprj i nipoti; affabile al conversare, variava tono a seconda delle persone, gli amici sceglieva tra' migliori, e impieghi e premj dava a' più degni, non adombrandosi del merito, nè dimenticando i benefizj. Fra le cure del vasto impero trovava pure alcun respiro onde applicarsi alla lettura, e massime alla storia, giudicando i fatti antichi, fremendo alle crudeltà di Cinna, di Mario, di Silla, il passato facendo scuola dell'avvenire. Senza ostacolo e quasi senza lamenti avrebbe potuto occupare intera l'autorità; pure ricollocò sul trono Valentiniano II, aggiungendogli anche le provincie tolte a Massimo di là dell'Alpi. In tempi ove l'impero sfasciavasi, nè un palmo di terra egli perdette, costretto però aggravare le imposizioni, e amministrar con un rigore molto simile a tirannia, unico puntello del cadente dominio. La rivoltosa Antiochia avea minacciata d'estremo rigore; ma lo placarono gli anacoreti e san Giovanni Grisostomo. Tessalonica però, che uccise i primarj uffiziali di lui, fu condannata a sanguinoso sterminio. Ambrogio, vescovo di Milano, ove l'imperatore si trovava, ne smarrì d'orrore; gli scrisse ad esecrazione del fatto, esortando ne facesse penitenza a calde lagrime, e avvertendolo non ardisse accostarsi all'altare del Dio della misericordia colle mani stillanti del sangue innocente. Teodosio a quei rimproveri risensò; e poichè non poteva più riparare all'eccidio, si recò per penitenza nella basilica milanese. Ed ecco Ambrogio farsegli innanzi sul vestibolo, dichiarando che, pubblico essendo stato il delitto, pubblicamente doveva soddisfare alla divina giustizia; nè lo volle ricevere alla comunione finchè non si sottomise alla canonica penitenza. Spoglio delle insegne della suprema podestà, comparve supplichevole in mezzo della chiesa, confessandosi in colpa: col che dopo otto mesi ottenne indulgenza e d'essere ricomunicato; e frutto ne fu un editto che ingiungeva di soprassedere sempre trenta giorni alle comandate esecuzioni. Di maggior memoria è degna quest'altra legge, viepiù opportuna dopo profonde commozioni: — Se alcuno, dimentico della prudenza, si fa lecito di straziare con trista e sconsiderata maldicenza il nostro nome, e per orgoglio si rende detrattore sedizioso del tempo presente, vietiamo gli s'infligga alcun castigo o maltrattamento. Se l'offesa proviene da leggerezza, vuolsi disprezzarla; se da follia, compatirla; se da perversità, perdonarla»[120]. Nè erano i detti smentiti dalle opere, giacchè essendosi scoperta una congiura contro di lui a Costantinopoli, e i rei condannati nel capo, Teodosio perdonò a tutti, e non volle si cercassero i complici, soggiungendo, — Così potessi rendere la vita ai morti»[121]. E un'altra volta un magistrato insistendo che degli uffiziali della giustizia doveva essere principal cura l'assicurare la vita del principe, — Sì (soggiunse egli), ma vorrei prendeste anche maggior cura della mia reputazione». Poichè le rivoluzioni durature non si compiono d'improvviso, i primi imperatori cristiani aveano lasciato il culto antico sussistere allato al nuovo; ancora i riti pagani si riguardavano, o almeno chiamavansi nazionali; i pontefici sagrificavano in nome del genere umano; in mezzo alla curia Giulia, dove accoglievasi il senato, sorgeva sull'ara la statua della Vittoria, tolta ai Tarantini, e da Augusto ornata colle spoglie dell'Egitto; e prima delle adunanze, i senatori vi ardevano incenso, giurando fedeltà all'imperatore. E in Italia non pochi nelle scuole difendevano le antiche credenze, e nella società se ne chiarivano campioni. Nominerò fra questi Vettio Agorio Pretestato, «capo della pietà pagana», nella cui biblioteca Macrobio fa radunare gl'interlocutori de' suoi Saturnali, e prestargli un rispetto vicino a venerazione. Mettevasi egli attorno gl'illustri avanzi del paganesimo; fu deputato a Valentiniano I perchè sospendesse le persecuzioni contro gli auguri; ed altamente onorato finchè visse, ebbe dopo morte due statue dagl'imperatori, una dalle Vestali[122]. A lui diresse amichevoli lettere Aurelio Anicio Simmaco romano, che dal retore Libanio avea succhiato la venerazione del paganesimo e la speranza di rintegrarlo. Nato dal prefetto di Roma, salì pontefice, questore, pretore, governò la Campania e i Bruzj, stette proconsole in Africa, indi prefetto di Roma, da ultimo console (391); parteggiò per Magno Massimo, vinto il quale, rifuggì in una chiesa di quei Cristiani che aveva osteggiati, e papa Liberio gl'impetrò perdono; aggregato ai pontefici, vi portò uno zelo vigoroso, lamentando che troppi di essi col negligere i sacri doveri cercassero la grazia degli imperanti. Mirabile accecamento! in mezzo a tanta mutazione, egli favella delle patrie religioni come niuno le avesse revocate in dubbio, e a Pretestato scrive: — Oh se m'accora che, dopo moltiplicati sacrifizj, il funesto presagio manifestatosi a Spoleto non siasi ancora pubblicamente espiato! Giove si mostrò favorevole appena alla quarta mactazione, e neppure all'undecima ci fu possibile soddisfare alla fortuna pubblica. Deh in qual paese siamo! Ora si tratta di raccorre ad assemblea i colleghi nostri, e ti terrò informato se giunsero a scoprire qualche rimedio divino»[123]. Con singolare contrizione supplica egli i patrj numi che perdonino le neglette cerimonie[124]; esorta le Vestali a mantenere severa la disciplina; chiede la punizione d'alcuna che avea leso il voto[125]; e s'adopera per sostenere la politica importanza del paganesimo. A questa unicamente dirigeano la mira i difensori del politeismo in Occidente; a differenza dell'impero Orientale, che aveva in Atene una scuola regolarmente piantata all'uopo di mantenere, per una _catena d'oro_ d'iniziati, la fiducia nelle defunte immortalità e nelle dottrine teurgiche associate al neoplatonismo. Solo i maestri delle varie scuole di Roma, Milano, Bordeaux, Treveri, Tolosa, Narbona diffondeano le favole degli autori pagani nel farne ammirar le bellezze; e quando uno di essi, Eugenio, dall'accidente fu portato al trono, diede mano all'idolatria, rialzò l'altare della Vittoria, collocò la statua di Giove al varco delle alpi Giulie[126], e drappellava l'effigie di Ercole innanzi a' suoi eserciti. La costoro esistenza è prova che il cristianesimo trionfante si guardò dalle persecuzioni, cui era soggiaciuto nascente. Il numero però de' Cristiani era grandemente cresciuto, e illustri famiglie[127] vi aggiungevano credito e potenza. La stessa scenica persecuzione di Giuliano, comprimendo un istante la libera manifestazione del culto, rintegrò l'elasticità; e il facile trionfo sopra la impotente ricomparsa degli idoli di Grecia crebbe l'autorità dei vescovi, che, quasi altrettanti capitani non solo per dilatare il cristianesimo, ma per combattere il politeismo, a gran voce domandavano che la società rompesse finalmente i legami che l'avvincevano all'idolatria. Internamente però la Chiesa non avea mai cessato d'essere conturbata dalla quistione sulla natura del divin Figliuolo; e vescovi gli uni avversi agli altri, non paghi di lanciarsi riprovazioni ecclesiastiche, studiavano nuocersi a vicenda ora nell'opinione de' fedeli, ora nel favore dei potenti. Questi collocavano nelle sedi non il più meritevole, ma quello che tenesse la loro credenza; e spesso il popolo od eleggevasi un altro vescovo, o lasciando vuote le chiese, s'adunava alla campagna; agli uffiziali che volessero mescolarsene facea resistenza, e ne nascevano violenze, bandi, uccisioni. Di nuove glorie intanto ammantavansi i padiglioni del militante cristianesimo; e i santi Padri costituivano una letteratura, non educata alle imitazioni, non a ritrarre una società che avea cessato d'esistere, od una ideale che non era esistita mai, bensì il presente, l'attualità, le idee sociali più avanzate, cioè le religiose. Nei primi tempi del cristianesimo predomina il miracolo; e sebbene campeggi la potenza dell'uomo nel soffrire, nel resistere, nel vincere, quegli avvenimenti sono men tosto da descrivere che da venerare. Semplici ed incolti erano la maggior parte de' primi discepoli, più pratici che speculativi, più d'azione che di discorso; la dottrina, perpetuata dalla tradizione orale e viva, concentravasi in poche parole gravi e schiette; nascevano dispute? le terminava la voce d'un discepolo che potea dire, — Ho veduto io stesso il verbo umanato» oppure — L'ha veduto chi a me lo narrò»; e della verità era splendida prova la rinnovazione dell'uomo interno, che si operava per via di virtù dapprima ignote, pace, fraternità, eguaglianza, universale beneficenza, costanza ai martirj, magnanimo perdono. Ma ben tosto i dotti, loro malgrado, sono costretti ad accorgersi della presenza de' novatori, e se non altro, a vituperarli: allora i Padri cominciano a difendere i dogmi dai Gentili e dai filosofi, per mostrare come le dottrine antiche siano inferiori e meno conformi alla ragione. Non paghi di tenersi sulle difese, provano la verità della dottrina cristiana con eccellenti ragioni, coi miracoli, colle profezie; e già mettono fuori idee profonde e nuove sulla natura di Dio e su quella dell'uomo; anzi colla logica e colla storia assaltano il paganesimo e la filosofia, e a quegl'imperatori onnipossenti favellano con nobile ed insolita libertà. Qui ci si apre un nuovo prospetto dell'attività latina. Ne' primi secoli le Chiese occidentali somigliarono a colonie delle orientali; ordinamento, riti, libri, lingua liturgica erano greci: perocchè la greca era la lingua internazionale dell'impero, siccome nel XV secolo l'italiana ed oggi la francese; laonde con essa parlavano gli apostoli e gli eresiarchi, la Bibbia leggeasi nella versione dei Settanta fatta ad Alessandria, in greco si stesero le omelie di san Clemente, il _Pastore_ di Ermia, le apologie di san Giustino, la confutazione delle eresie di Ippolito, il quale, al par di Origéne, predicò a Roma in greco. Non dicasi per questo che la religione cristiana appartenesse alla letteratura de' Greci; chè se di questi tiene la forma, ebraico essenzialmente erane il fondo, colla semplicità, coll'ispirazione, colla rigidezza d'espressione e di sentimento. Dopo gli apologisti di cui già parlammo (pag. 115), il primo scritto teologico in latino fu l'_Ottavio_ di Minucio Felice. Ottavio convertito e Cecilio ancora pagano, condottisi ad Ostia, dove villeggiava Minucio celebre avvocato, passeggiavano sul lido; e perchè, al vedere un idolo di Serapide, Cecilio si pose la mano alla bocca baciandola, come praticavasi in segno d'adorazione, Ottavio il disapprovò come d'ubbia indegna d'un par suo. Fermatisi poi ad osservare fanciulli che faceano il rimbalzello mentre altri ne prendevano diletto, Cecilio rimaneva pensieroso sopra le parole udite, sicchè fu proposto di mettere fra loro la cosa in discussione. Tale è il soggetto d'un dialogo di Minucio, che volta a volta rende sapore de' platonici; Cecilio sostiene gli Dei, antica e generale credenza, contro questa pazzia di gente nuova, deturpata di sozze infamie e perseguitata; ma gli altri due sillogizzano così bene, che egli si dà vinto e convertito. L'africano Arnobio, a lungo sostenuto il paganesimo, si rese vinto alla Chiesa, la quale gl'impose d'adoperare contro dell'idolatria la sua artifiziosa parola. Come dunque dapprima aveva commentato gli autori profani, così nei sette libri _contro i Gentili_ offrì una compiuta oppugnazione delle antiche credenze, rivolgendosi agli addottrinati ch'erano capaci di bilanciarle colle nuove; confuta coloro che dicevano, — Dopo il cristianesimo è perito il mondo: il genere umano diventa preda di ogni male»; e nel suo zelo di proselito, domanda la distruzione non solo dei teatri, ma anche delle opere de' poeti. Educò egli un altro potente campione del cristianesimo in Lattanzio suo compaesano. Più d'immaginazione oratoria che di storica verità egli fa prova nel trattatello _Della morte de' persecutori_; nelle _Istituzioni divine_, pubblicate sul fine del regno di Costantino, debolmente ribattè gli errori senza saperli schivare. Men notevole per elevata eloquenza che per accurata espressione, è il più elegante fra gli autori ecclesiastici latini, nè però merita il titolo di Cicerone cristiano. Ben lontano dall'indignazione di Giulio Firmico, il quale suggeriva di punire l'idolatria a rigor di legge, proclama essere la religione la cosa più spontanea: — Via da noi il pensiero di vendicarci de' nostri persecutori; a Dio se ne lasci la cura; il sangue de' Cristiani ricadrà sul capo di chi lo versò». San Cipriano, vescovo di Cartagine (248), colle moltissime opere di soave e lucida abbondanza, contribuì forse meglio che altri a separare i due ordini di fede e d'esame, di rivelazione e di concepimento, la cui mescolanza produce o la schiavitù o il traviamento dell'intelligenza, mentre la distinzione schiude allo spirito umano le barriere dell'infinito, traendolo dal simbolo nella realtà. San Girolamo (331-420), nato nobilmente a Stridone nella Dalmazia, educato a Roma sotto Donato commentatore di Terenzio, e sotto il retore Vittorino, contrasse la coltura e la corruzione di quella grande città, finchè nauseato concentrò sopra il cristianesimo l'ardore potente che prima dissipava nelle passioni. Gustò le maschie voluttà della solitudine, abbellita, come egli dice, «dai fiori di Cristo, lontano dall'affumicata prigione della città»: ma non restandone soddisfatta la operosità sua, si condusse ad Antiochia, dove contro voglia fu ordinato prete; indi a Costantinopoli, benchè quinquagenario, si pose discepolo a Gregorio Nazianzeno nell'esegesi sacra, e mutò in latino varie opere; poi a Roma papa Damaso l'adoprò a diversi negozj e lavori letterarj. Quivi legò amicizia con pie matrone, degne di storia. Melania, uscita d'una di quelle case senatorie, alle quali, cessata ogni potenza politica, erano rimaste opulentissime rendite, perduti il marito e due figli, lasciò il terzo fanciullo per passare in Egitto a conoscere gli anacoreti; sovvenne largamente ai fedeli perseguitati dagli Ariani, accogliendoli nella fuga, e vestendosi da schiava per nutrirli e consolarli nelle prigioni. Marcella, pur vedova, erasi raccolta in villa a monastico rigore con Principia sua figliuola. Di pari virtù rifulgevano Asella ed Albina, suora e madre di Marcella. Per maggiore pietà e più generosi soccorsi a poveri ed infermi si segnalò Paola d'antichissima famiglia[128], colle sue figliuole Eustochio e Blesilla. Queste dame sottometteansi al dominio dell'anima robusta di Girolamo, e così Leta, Fabiola, altre coscienze profondamente convinte, che colle virtù più austere protestavano contro le fiacchezze, e soccorrevano generosamente alle miserie d'un secolo infelicissimo. Saldo al vero, Girolamo insegnava che la saldezza della Chiesa dipende dall'unità del pontefice, e se a questo non si dia un potere superiore agli altri, v'avrà tanti scismi quanti vescovi. Umile in faccia a Dio, altero in faccia agli uomini, flagella stizzosamente quanti vizj incontra; nè risparmia gl'indegni ministri della religione, smascherando certuni che, fattisi diaconi e sacerdoti per trattare più liberamente colle donne, si piacevano in vesti eleganti, capelli ricci e profumati, anelli alle dita, camminar in punta di piedi, traforarsi nelle case, e sollecitare donativi e legati[129]. Punti da ciò, tolsero a perseguitare il santo, denigrandone le amicizie spirituali; tanto che egli, sebbene davanti ai magistrati si chiarisse innocente, abbandonò Roma e tornò in Palestina, percorrendone passo passo i luoghi per meglio comprendere le sacre scritture. Paola suddetta, fissatasi con Girolamo a Betlemme, dove accorrevano Cristiani d'ogni paese senza distinzione di grado o di ricchezza e riguardando primo chi facevasi ultimo, presedette a un monastero di donne; Girolamo ad uno d'uomini. Caloroso martire di se stesso, egli scriveva sin mille righe il giorno: pure trovava tempo di spiegare la Bibbia a' suoi anacoreti, dirozzare colle prime lettere i fanciulli, e tornare di furto agli autori profani, delizia della sua gioventù. Anche Melania, piantatasi a Gerusalemme, vi accolse per trent'anni tutti coloro che affluivano a venerare i santi luoghi. Con lei erasi stretto di spirituale amicizia Rufino prete d'Aquileja, ammiratore d'Origene, teologo austero, ma traviato dal proprio orgoglio; talchè Gerusalemme, popolata di questi fervidi proseliti e ingegnosi, divenne il centro delle dottrine rigorose e razionali di Origene. Girolamo, che dapprima lo avea levato a cielo, dappoi ne vide il pericolo, e cominciò contro Rufino una polemica, disabbellita da ingiurie che ripescava in Persio e Giovenale. Le più importanti sue elucubrazioni sono di critica sacra. I Greci aveano avuto fin dall'origine i libri sacri, stesi in parte dagli apostoli in quella lingua, come la più diffusa: i Latini anch'essi di buon'ora ne fecero una traduzione, per quanto faticoso riuscisse il voltarli nella lingua del vulgo, da cui fu detta _la Vulgata_. Incaricato da Damaso di togliere ad esame la versione italica dei Vangeli, fedele ma da interpolamenti e variazioni alterata, Girolamo il fece, e insieme corresse il Salterio, Giobbe ed altri libri che non ci rimangono. Pensò poi a una nuova versione dell'antico Testamento, non più sul testo dei Settanta, ma sull'originale; e per quindici anni vi si ostinò, fedele al testo a segno da introdurre nella lingua molti modi ebraici, valendosi pure delle versioni siriaca ed araba, e delle greche: fatica stupenda per un uomo solo, ove dovette crear quasi una lingua nuova, che si appropriò immagini e frasi orientali, piegossi ad esprimere idee e cose opposte al suo carattere, eppure non perdette maestà e gravità. Per tale opera le lingue d'Oriente vennero ad influire, più tardi, sopra quelle dell'Europa; e la traduzione di Girolamo, adottata dalla Chiesa invece dell'antica italica fatta sopra i Settanta, diventò fondamento a quella che il concilio Tridentino dichiarò autentica. Accortosi per propria sperienza che alcune letture aduggiano i fiori celesti sotto un rigoglio d'importuni pensieri, e smorzano il gusto degli studj meglio confacenti a Cristiano, Girolamo nella tarda età garriva coloro che, dopo abbandonata la sapienza del secolo, si nauseavano della semplicità delle sacre scritture, e tornavano ai poeti[130]. Eppure egli stesso gli amò sempre, tanto che gliel'apponevano i suoi avversarj: nuovo indizio della battaglia, che le due civiltà si portavano nella letteratura come in ogni altra cosa. Del che un nuovo esempio abbiamo in Ponzio Meropio Paolino da Bordeaux (353-431), che, dopo dignità primarie nella Spagna e nelle Gallie, governò la Campania; e nominatissimo per parentadi non meno che per dottrina, consentì alla chiamata di Dio, rinunziò al mondo, e a Roma ricevette il battesimo. Di tale acquisto i Cristiani fecero pubbliche gratulazioni, mentre i Pagani se ne rodevano; parenti e amici incontrandolo voltavano largo da lui come da disertore; clienti, liberti, schiavi consideravano rotto ogni vincolo con esso. Il poeta Ausonio non lasciò via intentata per istornarlo dalla sua risoluzione, tra le frivolezze letterarie d'allora non intendendo come la forza della convinzione e l'autorità della coscienza potessero reggere contro consigli e lamenti così poetici. Paolino, a Firenze animatosi nei colloquj di sant'Ambrogio, si ritirò nella solitudine presso Nola, ove colla moglie, ridotta a sorella, visse sedici anni, istituendo una specie di Tebaide fra le delizie della Campania: fabbricò una chiesa a san Felice con dipinte istorie dell'antico Testamento, per guardar le quali i terrazzani dimenticavano fin il desinare. Minacciano i Barbari? ei non li teme, assorto in una pace che il mondo non può rapire. Ogn'anno, il giorno natalizio del suo santo prediletto, compone un canto; e benchè gl'idolatri della forma sentenziino ch'egli scrisse meglio da pagano che convertito, Ambrogio trovava composti e soavi quei carmi, e Agostino ne lodava la _gemebonda pietà_. Fatto vescovo, mantiene corrispondenza con Ambrogio, Girolamo, Agostino, coll'Italia, coll'Asia, coll'Africa, ricambiando idee, consigli, schiarimenti. Trapassando altri Padri della Chiesa occidentale, nominerò Zenone vescovo di Verona, che sbarbicò dalla sua chiesa i resti dell'idolatria e dell'arianismo, e ci lasciò settantasette discorsi, eleganti d'espressione, se non nuovi d'idee. Eusebio sardo pel primo introdusse la vita regolare fra il clero di Vercelli ond'era vescovo; nel concilio di Milano resistette all'imperatore, il quale cacciò fin la mano alla spada contro di esso; mandato esule qua e là, stava nella Tebaide allorchè lo richiamò l'editto di Giuliano; caldeggiò sempre sant'Atanasio; fu spedito a rimettere in pace la chiesa d'Antiochia; al che non essendo riuscito, tornò alla sua sede, ove chiuse santamente i giorni. Ebbe amico Lucifero vescovo di Cagliari, uno dei più fervorosi oppugnatori de' varj scismi, e che dall'esiglio mandò all'imperatore uno scritto dettato con quella violenza che gli faceva ordinare a' suoi di non aver comunicazione di sorta cogli eretici. Conformi opinioni sosteneva l'amico suo diacono Ilario, pretendendo sino che gli Ariani, per rientrare in grembo alla Chiesa, dovessero ribattezzarsi; il che lo faceva da san Girolamo soprannomare il Deucalione del mondo. Mai non s'era pensato dai Pagani ad accogliere in una chiesa il popolo per esporgli che cosa credere, come adorare, come operare: la cognizione delle cose sacre, siccome tutto il resto, essendo privilegio di pochi, non mai accomunata alle plebi. D'altra parte, che sarebbesi potuto predicare nel tempio quando i dottori stessi non aveano dogmi comuni, e stavano perplessi sulla morale? L'eloquenza antica esercitavasi negl'interessi particolari d'un cittadino o d'una città; al più qualche filosofo disputava coi discepoli, ma intorno a dottrine speciali, sprovvedute di carattere pubblico e universale. Da che Cristo ebbe detto, — Andate e predicate a tutti», doveva alla congregazione dei fedeli essere esposta la verità universalmente accettata, e spiegarvisi i punti che rilievano alla salute di tutti. Dalla più tenera età il sacerdote assumeva il fanciullo, e col catechismo gl'insinuava le verità sublimi, mercè delle quali potrebbe anche la femminetta rispondere a ciò che ignoravano Aristotele e Platone. L'istruzione continuava quanto la vita, o confermando i credenti, o convertendo i traviati, o persuadendo gl'increduli. La predicazione sulle prime era avvalorata dal santo olezzo della virtù, dall'evidenza del miracolo; e parlando lo Spirito Santo per bocca degli apostoli, non era mestieri di persuasive d'umana sapienza[131]. Ma come la religione fu estesa e mescolata alla società, si munì anch'essa delle armi con cui l'errore la combatteva, e l'eloquenza fu trasportata dalla ringhiera al pulpito, dalla politica alla morale, dagl'interessi del mondo a quelli del cielo. La Chiesa, fatta trionfante, volle ornarsi dell'eloquenza, come si ornava di pompe e d'apparati, e supplì coll'arte del pulpito all'intepidita fede primitiva. Suo primo campo furono le lotte cogli Ariani; poi giganteggiò per opera di oratori, i quali, nel combattere l'orgoglio del sapere e l'indocilità del cuore, reggono a petto di quanto l'antichità vanta di più insigne, non che sorpassare di buon tratto i loro contemporanei. Con gagliardia affrontò Ariani e idolatri (340-97) in Occidente sant'Ambrogio, romano nato a Treveri. Come governatore della Liguria e dell'Emilia sedeva egli in Milano, dove la presenza dell'imperatrice Giustina facea prevalere gli Ariani a segno, che vi fu posto a vescovo il cappadoce Ausenzio di quella setta. Quando l'imperatrice ottenne dal figlio una legge, che a quelli concedeva piena libertà di assemblee, e guaj se i Cristiani li molestassero, il segretario Benevolo negò formolarla, e rinunziò piuttosto al grado; ma Ausenzio se ne incaricò. Allorchè questo vescovo morì, poteasi prevedere tumultuosa l'elezione del successore, che faceasi a voci di popolo; e il governatore Ambrogio si presentò ai comizj per tenerli in dovere. Ma appena entrato, le due divise d'accordo gridano: — Sii vescovo tu stesso», poichè il vescovo si eleggeva di qualunque condizione, nè tampoco esigendosi fosse cristiano; onde Ambrogio, tentato invano sottrarsi a quel peso colla fuga e col seder giudice in un caso di sangue, riconoscendo il volere di Dio a portentosi indizj, si lasciò battezzare, poi ordinar prete e vescovo; e ceduto ai poveri il suo denaro, alla Chiesa i terreni, al fratello Satiro l'amministrazione della propria casa, tutto si affisse al santo ministero. Dalla Bibbia e dai Padri, letture a lui nuove, tal frutto colse, che divenne il primo dei santi Padri in Occidente; e se cede in genio a Gregorio Magno, a Basilio, a Giovan Grisostomo, li supera in pratica attività, sublimandosi negli atti più che negli scritti. La vita sua, delineataci eloquentemente da Paolino suo segretario, era assorta nelle cure più diverse; giudicare cento affari a lui portati dai fedeli, curare spedali, attendere ai poveri, accogliere tutti con affabilità, e fra ciò meditare e comporre: forniva di vescovi chiese che mai non ne aveano avuti; visitava ed incorava gli altri, e talvolta li raccoglieva a concilj; interponevasi a favore de' rei di Stato; vendeva gli ori del tempio per riscattare prigionieri dai Goti. Missioni importanti erano a lui affidate come a pratico: da Valentiniano morendo gli furono raccomandati i suoi figliuoli: dissuase Magno Massimo dall'entrare in Italia: ucciso Graziano, andò ad impetrarne il cadavere, e con franchezza intimava a Teodosio la verità, e gl'insegnava le distinzioni fra il sacerdozio e l'impero, talchè quegli diceva, — Solo Ambrogio conosco, il quale di vescovo porti degnamente il nome». Intanto egli rappresentava con dignità ed amore il tribunato che in nome di Cristo aveano assunto i vescovi dopo caduto quello in nome della legge, colla parola e colle opere offrendosi sostegno al popolo, invocando la giustizia o l'indulgenza de' principi, interponendo a favore de' tapini e de' soffrenti le dottrine della povertà, dell'eguaglianza, del riscatto umano, operato col sangue d'una vittima celeste. Quanta pratica avesse coi classici lo palesano le opere sue; sebbene scriva balzellante e scorretto, senza padronanza di frasi, e con vane sottigliezze e giocherelli, qualora non sia animato dal sentimento del dovere o del pericolo[132]. Nella più estesa e curiosa fra le sue opere, sui _Doveri degli ecclesiastici_, passa in rassegna quelli di tutti gli uomini, e scioglie quistioni di pratica filosofia. Nell'_Esamerone_, commentando le sei giornate del mondo creato, molto si giova di Origene. I suoi elogi della virginità producevano tale effetto, che padri e mariti lamentavansi perchè troppe donne dedicassero a Dio la loro continenza. L'imperatore Graziano avea decretato che ciascuno potesse onorar la divinità nelle adunanze al modo che più credesse opportuno; ma Ambrogio seppe persuaderlo a ferire di colpo estremo l'osservanza antica. In conseguenza ordinò di toglier via dal senato di Roma la statua della Vittoria; poi chiamò al fisco tutti i beni con cui mantenevansi i tempj, i pontefici, i sacrifizj; annullò i privilegi politici e civili delle Vestali, e vietò ai sacerdoti d'accettare legati se non di beni mobili[133]. Spaventati i nobili romani, i capi del senato, e quelli che si ostinavano a chiamarsi «la parte migliore dell'uman genere»[134], spedirono a Graziano perchè sospendesse questi decreti; e per fare maggior colpo, gli recarono la veste di sommo pontefice, religiosamente custodita, e che a lui dovea rammentare la lunga serie de' predecessori che se ne fregiarono come simbolo del potere supremo in terra e d'onori divini dopo morte. Graziano non si arrese a quelle dimostrazioni, e proferì, — Tale ornamento disdicesi a cristiano»; onde la religione antica rimase senza sommo pontefice, e il sacerdozio spogliato dei beni che lo facevano ambire anche dopo ch'era privato degli onori e de' privilegi. Nè diverso esito sortì l'ambasceria mandata a Valentiniano II acciocchè ripristinasse l'altare della Vittoria; e le suppliche di Simmaco e di Libanio a tale intento sono l'ultimo grido del paganesimo, che sentesi trafitto nel cuore. Lo sdegno di questi esalò non soltanto in segreti mormorii, ma in voci aperte; nè forse restarono estranj alla sommossa, nella quale Graziano perdette la vita. Ma soccombettero definitivamente allorchè ebbe la porpora Teodosio, che il titolo di Grande dovette principalmente all'avere terminata con coraggio e convincimento la prolungata contesa fra le due religioni. Narrasi che, venuto a Roma, e ricevuto da un bell'incontro di dame e senatori, Teodosio proponesse a discutere qual fosse la religione da seguitarsi, e che l'idolatria vi soccombette. Il fatto non ha sembianza di vero: certo per legge generale egli vietò che «alcuno si contaminasse co' sagrifizj, immolasse vittime, difendesse simulacri fatti a man d'uomo»; i magistrati non entrassero ne' tempj; confisca per qualunque atto d'idolatria, e morte a chi immolasse; il giorno del Signore fu dichiarato sacro, proibendo in esso i giuochi e gli spettacoli, e riformando il calendario giuridico a norma delle prescrizioni cristiane[135]. Eppure le leggi di Teodosio convincono che non erano cessati i riti antichi; imperocchè egli decretò che, chi dal cristianesimo ritornasse all'idolatria, rimanesse incapace di disporre de' suoi beni per testamento; dappoi estese questo statuto ai catecumeni, e dichiarò infami gli apòstati[136]. I concilj ripeterono queste leggi, e gli scrittori ecclesiastici inveivano contro le cerimonie gentilesche, conservate massimamente nelle feste, nei saturnali e nei giuochi. Tempj e delubri furono però chiusi allora dai magistrati, e spesso demoliti dalla pietà: i senatori, come cantava Prudenzio, bellissimi splendori del mondo, deposero le insegne del vecchio sacerdozio per rivestire la candida toga del catecumeno[137]. Restava a domare l'eresia; e Teodosio, caduto in grave malattia, decretò essere volontà sua che tutti aderissero alla religione insegnata da san Pietro ai Romani, quale allora si professava dal pontefice Damaso e da Pietro vescovo d'Alessandria; ai seguaci di essa dava autorità d'assumere il titolo di Cristiani Cattolici; i dissidenti infamava col nome d'eretici, minacciandoli anche di castighi[138]. Rimossi i vescovi e cherici ostinati, senza tumulto nè sangue si stabilì la fede ortodossa; e il terzo[139] concilio ecumenico, adunato in Costantinopoli, confermò nell'interezza sua il simbolo Niceno, dichiarandolo più distesamente in alcuna parte, onde combattere posteriori eresie. Ciò in Oriente; ma fra noi l'arianismo erasi ricoverato sotto il manto di Giustina madre di Valentiniano II, la quale, arrogando all'imperiale autorità anche l'ispezione sopra il culto, pretendeva che sant'Ambrogio cedesse agli Ariani una delle chiese di Milano. L'indegna proposizione con fermezza egli respinse; e Giustina, chiamando ribellione l'opporsi ai voleri imperiali, si ostinò d'ottenere a forza l'intento. Cominciò a gravare i mercanti d'una tassa di ducento libbre d'oro, e imprigionare molti che non vollero o non potevano pagarla. Mandò ad Ambrogio l'ordine di uscire dalla città, ma egli protestò non poter abbandonare il gregge da Dio affidatogli: minacciollo di morte, ed egli mostrò nulla desidererebbe meglio del martirio. Deliberata poi di pubblicamente solennizzare a modo suo la pasqua, citò Ambrogio al suo consiglio; ma per ispontaneo affetto essendogli corso dietro a turba il suo gregge fino al palazzo, i ministri imperiali dovettero supplicare il prelato a disperdere e calmare l'estuante moltitudine, promettendo non sarebbe violata la religione. Bugiarde promesse! Nella solenne mestizia della settimana santa, uffiziali di palazzo si recano dapprima alla basilica Porziana, poi alla nuova[140], per disporre ogni cosa a ricevervi l'imperatore e sua madre. Il popolo torna allora sui tumulti, sicchè gran pena durarono le guardie a difendere le chiese; e un sacerdote ariano versava in grave pericolo, se non fosse ricorso per difesa ad Ambrogio stesso. Questi negava d'esser obbligato a cedere il tempio, attesochè le cose divine non vanno soggette all'imperatore, il quale si trova nella Chiesa, non sopra la Chiesa; e dalla cattedra di verità mostrava come sia lecito resistere all'ingiustizia, non però con armi, non colla forza; pregava Dio a non permettere si versasse sangue per la sua Chiesa; e congregati nelle due basiliche i fedeli, gl'intratteneva, or cantando, ora predicando, e ripeteva — La tirannide del sacerdote è la sua debolezza». Fu allora che Ambrogio, per animare e distrarre il popolo, introdusse il cantare a vicenda in due cori, cioè le antifone, ancora inusate nel nostro Occidente. Prima d'allora certamente cantavasi dai fedeli, ma forse con una semplicità tutta di pratica; e probabilmente nelle chiese derivate dagli Ebrei seguivasi il modo che questi aveano tenuto nel recitare i salmi, mentre in Grecia vi si applicavano le melopee della lira. Da questa melopea greca prese le mosse Ambrogio, sia togliendone i nômi o le arie popolari, sia riducendo in _octacordi_, o serie di otto suoni (le ottave), i tetracordi o serie di quattro suoni di cui componeansi i modi greci[141]. Scrisse pure inni di nobile commovente semplicità, alcuni dei quali si cantano tuttora[142]. Con santa compiacenza egli rimembrava la melodia d'uomini e donne, di vergini e fanciulli, sonante come il fragore delle onde, e dalla quale anche sant'Agostino restava commosso fino alle lagrime[143]. La fermezza d'Ambrogio vinse l'ostinazione dell'imperatrice, che dischiuse le carceri, tolse le guardie; e Valentiniano, sentendo la potenza di quell'inerme, diceva a' suoi uffiziali: — Se Ambrogio l'ordinasse, voi mi consegnereste a lui colle mani legate». Ma poco di poi gli fu elevato incontro un dottore degli Ariani, e pubblicato un editto che permetteva a questi di tenere loro assemblee, minacciando di morte i Cattolici se le turbassero. Ambrogio tornò alle armi sue, la predica, le antifone; e dì e notte la chiesa fu occupata dai fedeli. Tale consenso distolse i principi dall'usare violenza; e il concilio d'Aquileja, tenuto poco dopo il Costantinopolitano, e dove Ambrogio sostenne la parte principale, chiarì la fede de' vescovi d'Occidente, che poterono asserire non esistere più Ariani fino all'Oceano. Ambrogio durò ventidue anni al laborioso ministero, finchè di cinquantasette a Dio piacque chiamarlo al premio. Si pretende che, per ricompensare lo zelo adoperato contro gli Ariani da lui e da san Valeriano, il pontefice erigesse le sedi di Milano e d'Aquileja in metropoli, dignità fin allora ignota in Occidente. La prima estese la giurisdizione sui vescovadi da Po fin dentro la Rezia; l'altra su quei della Dalmazia, della Pannonia, del Norico, e poc'a poco della Venezia: e l'un metropolita consacrava l'altro, risparmiando il difficile viaggio a Roma. Contemporaneamente san Filastro combatteva gli Ariani, stese un _Catalogo delle eresie_, e fatto vescovo di Brescia «città rozza, ma avida di dottrina»[144], resistette a Valentiniano e Giustina insieme con Benivolo, magistrato, il quale, piuttosto che cedere alle blandizie dell'imperatore, si ritirò a vivere oscuro in riva al Benàco. A questo Benivolo sono diretti alcuni sermoni di san Gaudenzio, che peregrinato a Gerusalemme, in Antiochia conobbe san Giovanni Grisostomo, poi succedette a Filastro nel vescovado di Brescia, ove colle reliquie portate d'Oriente consacrò una chiesa col titolo di Concilio de' Santi. Vigilio dal vicino Trento scorreva la valle dell'Adige e il Veronese, predicando, battezzando, ergendo chiese, abbattendo idoli: perocchè nelle vallate alpine conservavasi il culto di Saturno, e nella trentina di Non (Anaunia) circuivansi processionalmente i campi, litando a quel dio; al che non avendo voluto uniformarsi Sisinio, Martirio, Alessandro, furono martirizzati: anche i valligiani di Rondera, ligi all'adorazione di quell'idolo, lapidarono Vigilio[145]. Sì grandiosi uffizj incombevano ai Padri in quella Chiesa, che di perseguitata diveniva dominatrice; ma sebbene greci e latini difendano le stesse verità, e in tutti si senta la convinzione che lotta, l'entusiasmo che eleva, la carità che santifica, traggono carattere particolare dalla natura del paese, secondo che vivono in Oriente o in Occidente. In Roma non erano mai prosperate la metafisica e la filosofia sublime, per difetto in parte della lingua; mentre il sano intelletto e lo spirito pratico vi campeggiarono nello svolgere ed ordinare la legislazione. Pertanto gli apologisti latini non offrono grande apparenza d'ingegno, conservano alcun che dell'alterezza romana, rigidi, ostinati di non calare ad accordi coll'avversario, nè tampoco valersi d'altre armi che le proprie; onde sdegnano gli ornamenti dell'eloquenza, gli artifizj della logica, le reminiscenze della letteratura ostile. La Grecia, ancora fiorente di lettere quando il cristianesimo apparve, gli oppose più clamorosa lotta, armata di cavilli, di seduzioni, di disprezzo; ma quando convertita gli esibì difensori, questi conservarono le costumanze e i difetti delle scuole dond'erano usciti, e comparivano in campo come Davide, accinti della spada rapita al gigante. Il nemico stesso che combattevano era differente. Roma, per cui sono identici la religione e lo Stato, non sa apporre al cristianesimo condanna peggiore che dichiararlo nemico del genere umano, cioè dell'Impero; il genio suo legale decreta, uccide, non discute; e gli apologisti, opponendo rigore a rigore, s'accontentano spiegare il dogma ed appellarsi alla lettera scritta. I Greci, perdute le avite istituzioni, naturali alla disputa e alle sottigliezze, retori e sofisti ingordi di quistioni nuove, guardano i Cristiani come novatori pazzi o pericolosi, che ripudiando la tradizione, precipitano la coscienza umana nell'incertezza. Mentre dunque i magistrati a Roma uccidevano, i dotti di Grecia esaminavano, discutevano, sicchè gli apologisti erano obbligati scendere a minuzie, accettare l'objezione arguta, snodare il sottile paradosso, il sillogismo capzioso; e sentendo tutta la potenza della libera parola, invocavano solo che la forza non intervenisse nella discussione della verità. Gli uni e gli altri aprono la nuova società, posati tuttavia sul terreno dell'antica; convincono l'uomo che, senza quel lume del lume, egli ignora le verità più necessarie alla sua condotta, più care al suo cuore, più dolci alle sue speranze; e invocano la libertà delle coscienze, non più per il solo senato, nè per una città od una gente, ma per l'universo. Vinti che ebbero i nemici esterni, dovettero lottare contro le discordie intestine, cioè coloro che, al modo del serpente antico, adopravano la parola di Dio per diffondere l'errore, o per restringere a concetti particolari le verità generalissime che la Chiesa annunziava. Nelle scuole vengono a fronte l'antico Oriente, l'antico Occidente e il cristianesimo, il quale, estendendosi su tutti gli uomini e tutti gl'interessi, era naturale che trovasse molte ed interessate contraddizioni. I Neoplatonici vogliono elevarsi a Dio non mediante la fede, ma mediante la dottrina. Sêtte giudaizzanti, sêtte giudaiche, sêtte orientali assenzienti od avverse agli Ebrei, sêtte cristiane propense o nemiche all'ascetismo, docili o reluttanti all'asiatica teosofia, cominciano la più splendida gara d'ingegno che il mondo avesse mai veduta, fra la teologia antica e la nuova, fra la mitologia poetica e la religione morale, fra la vetustà che tramonta e il nuovo tempo che s'apre. Onde alla dottrina evangelica incontrò come a tutte le novità; prima tacciata di sogno e di follia, dappoi se ne confessa la sublimità, ma appuntandola di plagio, quasi ogni sua verità fosse dedotta dall'Egitto, dall'India, dall'Accademia; infine se ne adottano i concetti, mentre tuttavia si persiste ad oppugnarla. Ma su quella bilancia ha perduto ogni peso la spada; e l'autorità dei cesari, nell'apogeo della sua forza, non entra per nulla a determinare la credenza; tanto efficace sonò la parola che distingueva i diritti della spada da quelli del pensiero. Fra le eresie fu clamorosissima quella di Nestorio, il quale negava l'incarnazione di Dio, distinguendo in Cristo la persona divina dall'umana, e ripudiando perciò la divina maternità di Maria: condannata nel concilio di Efeso (431), quarto ecumenico, venne per ricolpo a dare estensione al culto della Vergine, il quale contribuì non poco a svellere i resti del paganesimo, convertendo alla Madre dell'amore e alla donna dei dolori i tempj pagani. Non più sulla natura di Dio ma su quella dell'uomo sofisticarono i Pelagiani, cercando perchè tanti mali si patiscano sotto un Dio buono, come la prescienza divina si combini coll'umana libertà, e la Grazia coll'attività morale dell'uomo. I Manichei lo spiegavano in modo vulgare, supponendo un Dio buono e un malvagio; e da quella provincia romana dell'Africa, dove si svolsero le più vigorose intelligenze cristiane, dove si elaborarono i principj fondamentali della cristiana filosofia, sorse il più vigoroso combattitore, sant'Agostino, del quale parleremo fra poco. Eutichiani, Monofisiti, Monoteliti, colle varie gradazioni di loro eresie concernenti la natura o la volontà di Dio e del suo Verbo, agitarono piuttosto l'Oriente. Perocchè la divisione ch'erasi fatta nell'Impero, estendevasi pure alle chiese, e cominciata dalla fabbricazione di Costantinopoli, dura fino ad oggi, avendo ciascuna, anche prima di scindere la essenziale unità, conservato un'impronta e una pendenza particolare; speculativo il genio bisantino, pratico il genio romano. Allorchè la Chiesa greca si radunò nel concilio di Nicea, fu per chiarire la relazione delle tre persone divine, e settanta opinioni agitavano il clero abissino sopra l'unione delle due nature in Cristo: la latina non ebbe trattati dogmatici prima di Agostino, nè prima di Gregorio Magno alcun metafisico sedette sul trono papale. In Oriente si disputa sulla essenza della natura divina, mentre quasi ignote vi sono le quistioni sulla libertà umana e sulla Grazia: al contrario, da noi si ragiona sopra gli atti umani. I rigori della vita monastica erano cominciati in Oriente; e i deserti della Siria e della Tebaide si popolarono d'anacoreti, che nella solitudine attendevano ad operare la salute delle proprie anime, staccati dalle cose terrene, come Antonio[146], Pacomio, Ilarione. Non tardarono i monaci a propagarsi nel nostro paese, forse allorchè sant'Atanasio scorreva l'Italia per combattere l'arianismo: ma ben presto si raccolsero in compagnie, sotto regole dettate da sant'Agostino, poi da san Benedetto; e furono piuttosto missionarj di Barbari, dissodatori di terreni, assistenti di infermi; nè le Alpi e gli Appennini videro strazj e macerazioni quali i torrenti petrosi dell'Egitto e le bollenti arene della Libia; e invece di quegli stiliti che colà passavano l'intera vita su di una colonna, da noi si vide l'attività efficace di sant'Ambrogio, di Leon Magno. La Chiesa greca restò corrotta dalla propria immobilità, non progredendo in mezzo a tanto sapere, non raffinando l'arte in mezzo a tanto cerimoniale, anzi vedendo sorgere gli Iconoclasti, poi retrocedendo collo scisma. Nella latina invece il buon senso filosofico e pratico si piegò al progresso, si modificò a seconda dei tempi e nello svolgersi dell'attività; man mano che la società secolare diveniva impotente, l'ecclesiastica vi si surrogava; i riti pagani come i tempj conservava, trasformandoli e traendoli a superiore intelligenza; le terre cambiavano i nomi per assumer quello d'un santo. La differenza fra le due Chiese fu rivelata maggiormente dall'ordinamento esterno. L'impero Occidentale sfasciavasi quando appunto ingrandivano i pontefici; e in questi si concentrava l'autorità, che lasciavansi cadere di mano i magistrati civili. Avrebbero essi dovuto allegare l'incompetenza, per non esporsi al rimprovero d'usurpazione, dato molti secoli dopo da una filosofia non solo estranea a quei pericoli, ma incapace o risoluta a non intenderli? doveano lasciare che la società andasse a fascio, anzichè togliere a dirigerla, come ognuno deve fare ne' frangenti? Il patriarca di Costantinopoli scapitava per la presenza dell'imperatore; nè era meglio che una delle ruote d'un sistema civile, regolare, protetto dalla gerarchia e dall'esercito. In Italia invece vedremo ben presto gl'imperatori fuggire da Roma, sicchè il papa, dolente sì, ma non vergognoso delle pubbliche sventure, mantenevasi colla fronte alta, come scevro dalle colpe imperiali; quando ogn'altra autorità perdea vigore, egli solo rimaneva cogli attributi di un'altra sovranità, reale e permanente; e le istituzioni politiche dell'impero, l'energia delle genti occidentali, il pericolo valeano ad assodarlo, mentre a lui si volgeano i Barbari, ch'egli doveva convertire, illuminare, incivilire, governare. Il bisogno di difesa e d'azione facea stringere fra sè i monaci, milizia poderosissima de' pontefici. Il celibato staccò l'ordine sacerdotale dal laico, e dagli interessi e affetti terreni; sicchè il prete si considerò superiore al laico, e perciò esigeva rispetto e sommessione, come marchio di santità adducendo le astinenze e la dottrina. Perfino la lingua comune e la pace universale, che parvero sin oggi utopie benevole, vennero dalla società cristiana attuate per quanto è possibile col parlar latino e coi concilj. Così, mediante il cristianesimo, dentro periva il despotismo, cioè il potere separato dal dovere, l'autorità che crede aver sopra gli uomini ogni diritto, fin quello negatogli dalla legge naturale e divina; fuori periva la nazionalità esclusiva, tutto dirigendo all'affratellamento. Nè però la Chiesa aboliva l'individualità degli uomini o de' popoli, anzi la nobilitava; solo alla nazionale esclusività contrapponeva il concetto d'universalità, dovendosi rispetto anche ai minimi, non perchè greci o romani od ebrei, ma perchè uomini e cristiani, perchè non fattura capricciosa di varj numi, ma libera creazione del Padre nostro[147]. Le verità, tramandate parte in iscritto, parte a voce, riceveano non solo spiegazione ma autenticità dalla Chiesa, che n'è la depositaria e la garante, e ogniqualvolta ne vede intaccata una, la chiarisce e svolge viemeglio; e poichè non c'è verità astratta che non operi sulla morale, stabilendo quelle purifica questa. Tale fu il còmpito de' santi Padri. Malgrado che le condizioni della società d'allora e i sopravenuti infortunj tardassero i frutti, pure non v'è per avventura miglioramento alcuno de' tempi più civili, che almeno in germe non si trovi in essi. Succeduti agli apostoli ed ai martiri per propugnare col sapere e colla parola le credenze nuove, sorte col popolo e fra il popolo rampollate, essi rompono il perpetuo circolo dell'imitazione fra cui era incantata la profana letteratura, e formano il secolo d'oro della cristiana: e noi potemmo studiarvi molte particolarità della storia de' popoli, e il lento ma incessante maturarsi della più vasta rivoluzione, e gli ostacoli attraversatile dalla scienza appoggiata sulle antiche osservanze, sinchè fu chiamata a sostenere con reintegrato vigore le nuove. Le dispute che essi agitarono, oggi sono dimenticate: ma essi combatterono perchè noi, vulgo senza diritti nè forza nè divinità, potessimo cessare d'essere schiavi negli ergastoli, o pasto ai leoni per divertimento del popolo re, e le nostre anime trastullo ai sofismi dei filosofi, alla prepotenza dei dominatori, alla lascivia de' ricchi; combatterono, perchè noi plebe potessimo sentire l'eguaglianza nostra e proclamarla in diritto, sinchè il tempo non la consacri nel fatto. CAPITOLO LI. La coltura pagana digrada, si amplia la cristiana. Quella dei santi Padri era letteratura vitale, nuova, dell'avvenire; ma la scolastica, di forme ricalcate sui modelli classici, neppur un grande scrittore produsse dopo Costantino. Dall'Africa fu chiamato a Roma e a Milano sant'Agostino per insegnare eloquenza; dalle Gallie un retore per tessere il panegirico a Teodosio; le vennero d'Egitto Macrobio e il migliore poeta Claudiano, da Siria il retore migliore Icherio, d'Antiochia il migliore storico Ammiano Marcellino; e ricordiamoci che in gran carezza di viveri, essendo rinviati i forestieri da Roma, i pochi letterati dovettero andarsene, conservando invece tremila ballerine, altrettante cantatrici, e loro maestri e cori e turba seguace. Scuole però non mancavano, e san Girolamo vi si esercitava fanciullo a declamare, e con finti litigi addestravasi ai veri; nei tribunali, udiva eloquenti oratori disputare fino a svillaneggiarsi e mordersi[148]. Valentiniano e Graziano istituirono scuole di retorica e grammatica greca e latina nella metropoli di ciascuna provincia; e coloro che venivano a studio in Roma, dovevano portare dalla patria attestazioni dell'esser loro, poi arrivando notificare dove abitassero, a che studj intendessero, non bazzicare male compagnie e spettacoli, se no cacciati a verghe[149]. I maestri di grammatica non insegnavano meramente gli elementi della lingua, sibbene tutte le scienze filologiche[150]: che in conto maggiore fossero quei di retorica, appare dal doppio delle razioni a loro assegnate[151]: passavano di città in città al fiuto de' migliori stipendj, trafficando di versi, complimenti, panegirici, dispute, senza curarsi dell'impero che cadeva o del cristianesimo che sorgeva. Così le scuole diventavano semenzaj di cattivo gusto, come ogniqualvolta s'insegna a supplire ai pensieri con un'enfasi sempre più esagerata, e con cumuli di figure alla perfezione dello stile e alla purezza della lingua. Deteriorando la coltura e crescendo la mescolanza, sopra l'arte imitatrice studiata dagli scrittori rivalse l'elemento popolare, spontaneo e incolto; sicchè nemmeno i Romani giunsero a conservare l'aristocratica purità della dicitura. A ciò s'affaticarono retori e grammatici; Mauro Servio commentator di Virgilio; Elio Donato precettore di san Girolamo e autore dei rudimenti della grammatica, che divennero modello alle posteriori; Nonio Marcello che trattò _della proprietà delle parole latine_; Pomponio Festo che scrisse della significazione delle parole; Sosipatro Carisio che diede cinque libri di osservazioni grammaticali; Diomede, Fabio, Planciade, Fulgenzio, che hanno il merito d'averci conservato qualche frammento o qualche tradizione antica; ultimo Arusiano che dispose alfabeticamente frasi e locuzioni spigolate nei classici. Questi grammatici erano i soli che trascrivessero i libri per uso della scuola: e regolandosi secondo il gusto particolare, lasciavano perire i migliori per conservare i più opportuni; preferivano le cose tenui e le brevi alle storie di Tacito e di Livio; col divulgare estratti buttavano in dimenticanza le opere, il cui guasto venne dunque ben prima che dal medioevo e dai frati. Altri compilatori ci tramandarono notizie sulla storia e sulle scienze, come Aurelio Macrobio, vissuto al tempo di Teodosio II, che nei _Saturnali_ introduce persone di conto a discorrere di variatissimi argomenti, riportando le notizie e le dottrine degli autori colle parole lor proprie. Di qui una sgarbata mescolanza di stile, confessando egli stesso maneggiare a stento il latino, giacchè era nato in Oriente: ma ci conservò per tal modo brani importanti[152]. Marciano Cappella africano nei nove libri del _Satyricon_ fa fascio d'ogni erba in verso e in prosa: e quella specie di compendio di tutte le scienze servì di testo alle scuole del medioevo. Di Censorino, più che gli _Indigitamenta_ sulle divinità che hanno potenza sopra la vita dell'uomo, è utile il trattato cronologico, astronomico, aritmetico, fisico De die natali, per la cognizione che se ne trae de' computi del tempo fra' diversi popoli. Le scienze non furono nè estese, nè applicate. La medicina seguitava in un empirismo misto d'incantagioni e di formole. Oribaso da Pergamo, medico di Giuliano e suggeritore delle costui superstizioni, transuntò opere d'antichi; ma il poco che ne rimane non ci aggiunge veruna cognizione: se non che discorre saviamente sugli esercizj di corpo frequentati dagli antichi, e sull'educazione fisica da darsi ai fanciulli, raccomandando quel che mai non sarà predicato abbastanza, d'invigorire il corpo prima di coltivare lo spirito, e lasciar questo in riposo fino ai sette anni, e allora affidare i ragazzi a maestri, ma fin ai quattordici astenerli da grammatici e geometri; dappoi non lasciarli mai oziosi, acciocchè precoce non si svegli in essi l'istinto della carne. Teodoro Prisciano scrisse in latino e in greco un _Emporiston_ delle malattie facili a curarsi, il _Logicus_ sugl'indizj delle croniche e delle acute, il _Ginecion_ su quelle delle donne, e un libro d'esperienze fisiche. Di veterinaria (_mulomedicina_) trattò un Publio Vegezio, de' mali de' bovi un Gargilio Marziale, scorrendo su tutta l'economia rustica. Va col titolo di _Medicina pliniana_ un libro mal attribuito a Plinio Valeriano. Dopo Costantino v'ebbe archiatri di palazzo, spesso decorati del titolo di conti del primo ordine, e nel v secolo posti a paro coi duchi o vicarj. Fu pensiero nuovo quel di Valentiniano II d'assegnare un medico a ciascuno dei quattordici rioni di Roma. Vindanio Anatolino diede alcune regole d'agricoltura, buone quantunque miste a gentilesche superstizioni. L'ultimo scrittore latino d'agraria, Palladio Tauro Emiliano, in quattordici libri offre, appropriandoli a ciascun mese, estratti d'antichi, massime di Columella, più di questo esatto nel parlare d'alberi fruttiferi e degli orti: l'ultimo libro è in versi elegiaci. In Italia, dove la retorica guasta sì spesso e la storia e la precettiva, giovi ricordare ch'egli dal bel principio avvertiva: — Innanzi tratto vuolsi por mente a qual sia la persona cui devi insegnare, nè chi istruisce l'agricoltore deve emulare le arti e l'eloquenza dei retori, come si fa da certuni che, volendo parlare eloquentemente ai contadini, ottengono che la loro dottrina non possa capirsi nemmeno da' più esperti». I Romani sapevano la guerra per arte più che per scienza; nè lo stesso Giulio Cesare riesce di grande utilità agli studiosi della strategia. Il primo che ne trattasse dogmaticamente fu Vegezio Renato, che nell'_Epitome institutionum rei militaris_, dedicato a Valentiniano II, spogliò varj autori di arte bellica terrestre e marittima, e gli ordini d'Augusto, Trajano e Adriano «affinchè, coll'esempio e l'imitazione delle antiche virtù, gl'istitutori de' giovani soldati potessero ripristinar l'onore della milizia romana guasta e giacente». Adriano, trovando mal accomodarsi l'antica legione coi nuovi modi della guerra, era ricorso al triviale ripiego di sceglierne i più prodi e obbedienti, e formarne una coorte di mille, quasi il frantumarlo rendesse buono ciò che non è. Probabilmente collocavasi essa a capo della legione, e dietro a lei le nove altre coorti, disposte sopra tre linee: lo che rendeva agevole il formare il battaglione quadrato, di grand'uso nelle guerre di quel tempo contro la cavalleria, nerbo de' Parti e degli Arabi. Ma al tempo di Vegezio la coorte era già ben diversa da quella d'Adriano, componendosi di due linee; la prima d'una fila di soldati pesanti, e d'una d'arcieri ferrati, con lancie e chiaverine; seguivano due file di veliti; indi una schiera di macchine da saettamenti, tra cui balestrieri e frombolieri e reclute male ad ordine d'arme, e gli _additi_ destinati a protegger le macchine alle spalle; ultimi stavano i triarj per la riscossa. Vegezio si lamenta che della legione non sussista più che il nome: a fatica si reclutava, doveasi concederle voluttuosi quartieri, alleggerirne le armi, infine empirla di stranieri; eppure, dice Vegezio, lasciavansi uccidere non come uomini, ma come bruti, anzichè portar armi di buona difesa. Espone egli coll'ordine schietto e appropriato di Senofonte; mette per fondamento valere più l'arte che la natura, e coll'esercizio e le istituzioni essere i Romani riusciti ad una superiorità, non data loro dalla natura. — Non superavano essi in numero i Galli, in agilità gli Spagnuoli, in forza i Germani, in iscaltrimenti gli Africani, gli Asiatici in ricchezza, i Greci in dottrina; ma meglio di tutti sapeano scegliere buoni soldati, istruirli nella guerra per principj, rinvigorirli con esercizj giornalieri, prevedere quanto può occorrere nelle varie maniere di mischie, di marcie, d'accampamenti; punire i vili, ricompensare i prodi. Queste parti della scienza militare crescono il coraggio; nessuno ha paura nel praticare ciò che ha bene imparato; ond'è che un gomitolo ben destro e disciplinato prevale ad uno più numeroso, ma di minor disciplina ed esercizio, che perciò trovasi esposto a sconfitte micidiali». Scende poi alle particolarità de' varj esercizj nella centuria, nella coorte, nella camerata, nell'individuo. Nel libro secondo elevasi ad ordinamenti superiori, e alle guise con cui avvincevasi alla bandiera il soldato, non più volontario; facendogli, per Dio, per Cristo, per lo Spirito Santo e per la maestà dell'imperatore, giurar d'obbedire, di non disertare, d'immolar la vita per l'impero. Nel terzo tratta del formare gli eserciti, del conservarli sani e ben animati e disciplinati, delle qualità del capitano, dei segnali, delle disposizioni a norma del terreno, del passo dei fiumi, dei fenomeni naturali. Nel quarto ragiona delle fortificazioni; nel quinto della marina: cose del tutto mutate oggidì. Nè gran cosa si può imparare da' suoi ordini di battaglia; ma i consigli e le massime generali contengono principj sicuri, che ancora non perdettero l'utilità. — Più avrete esercitato e disciplinato il guerriero ne' quartieri, men pericoli correrete in campo. Non ordinate mai le truppe in battaglia campale, che non ne abbiate sperimentato il valore con avvisaglie, e non siano sicure di vincere. I grandi generali non danno mai battaglia se non tratti da occasione favorevole o dalla necessità. Procurate ridurre il nemico colla fame, col terrore, colle sorprese, più che colle battaglie, giacchè in queste la decisione sta alla fortuna. Maggiore scienza si vuole a ridurre il nemico per fame che per ferro. Staccate dal nemico più uomini che potete, e ricevete bene tutti quelli che a voi verranno: chè guadagnerete più col trar uomini a voi che coll'ucciderli. Dopo una battaglia fortificate i posti, anzi che sparpagliare l'esercito: chi lascia i suoi sbandarsi inseguendo i fuggiaschi, cerca perdere la vittoria. Il disegno migliore è quel che rimane celato al nemico. Cogliere le occasioni è arte di guerra più utile che il valore. L'armata acquista forze nell'esercizio, le perde nell'inazione. Chi rettamente giudica delle forze proprie e delle avversarie, di rado soccombe. Il valore prevale al numero; una posizione vantaggiosa prevale talvolta al valore. Manovre sempre nuove rendono formidabile un generale; condotta troppo uniforme lo fa vilipendere. Secondo sarete forte in fanteria o in cavalleria, procuratevi un campo favorevole a questa o a quell'arma; e l'urto maggiore parta da quel dei due, su cui fate maggior caso. Deliberate con molti ciò che in generale converrebbe fare; decidete con pochissimi o anche da solo su ciò che dovete fare in ciascun caso particolare». Sesto Giulio Africano, nei _Cesti_, deplorata la invalsa trascuranza delle armi offensive, continua: — Se si pensasse a proteggere i guerrieri con corazze ed elmi alla greca, se si attribuissero ad essi lunghe lancie, se si esercitassero a scagliare più a sesto il giavellotto, e a combattere caduno per se stesso, e quando occorra avventarsi sopra il nemico, correndo di tutta forza sin al tiro dei dardi, certo i Barbari non resisterebbero». Le quali modificazioni furono appunto adottate sotto Alessandro Severo, che con soldati così allestiti formò una gran falange di sei legioni, più numerosa che mai non fosse stata la greca. Ma già alla forza surrogavasi l'astuzia, ed esso Giulio si diffonde intorno ai modi di far perire il nemico senza combattere, cioè avvelenar le acque, i cibi, l'aria stessa, spaventare i cavalli, circuire il nemico con quelle frodi che la prisca virtù romana aveva aborrite. Poi suggerisce spedienti per sostenere intrepidi sia l'attacco de' nemici, sia il ferro de' chirurgi; all'uopo è ben fortunato chi trovi nello stomaco d'un gallo una pietruzza, e la porti seco alla mischia; come pure converrà tenersi propizio il dio Pan, ispiratore del terror panico, e potentissimo a dare e togliere il coraggio. In tempi di tanta importanza pel morire di una e il sottentrare d'un'altra civiltà, nessuno tolse a delineare al vero i popoli invasori, o il carattere dei personaggi senz'adulazione o livore. Nè a contemplare d'occhio fermo i casi, e con ordine e verità narrare tanti disastri era opportuna quella mollezza degli intelletti, quello spossamento degli animi. Qual fiducia avere nel domani quando si vedeva perire ramo a ramo la pianta sociale, nè prevedevasi qual sorgerebbe dal suo ceppo? I Barbari, in perpetuo ed irragionato movimento, presentavano soltanto l'agitazione del caos o l'impulso dell'accidente cieco, ineluttabile: maledirne le vittorie era pericoloso quando già sovrastavano, viltà il celebrarle; meglio tornava il tacere o stordirsi. Aurelio Vittore scarnamente compendiò le vicende romane da Augusto fin alle vittorie di Giuliano nelle Gallie, il quale gli decretò una statua di bronzo, onore svilito, e il governo della seconda Pannonia, indi Teodosio la prefettura di Roma. Flavio Eutropio, che fece la campagna di Persia con Giuliano, per ordine di Valente scrisse un _Breviario_ della romana storia in dieci libri, dall'origine fino a Gioviano, con facile, semplice e pulita dettatura, e con amor del vero, quantunque non gli basti sempre l'arte di sceverarlo dal falso. Sesto Rufo, per ordine di Valentiniano, dettò un _Compendio delle vittorie e delle provincie del popolo romano_, specie di statistica, cui fa corona un opuscolo sui monumenti e gli edifizj di Roma. Storie scritte per ordine! Ammiano Marcellino, nato di buona casa in Antiochia, militò nella Mesopotamia e nella Gallia; poi di cinquant'anni ritiratosi dalle armi in Roma, scrisse in latino una storia dal punto ove Tacito finisce, sino alla morte di Valente: ma dei trentun libri ci rimangono solo gli ultimi diciotto, che abbracciano dal 352 al 78, viepiù importanti perchè ogn'altro storico è venuto meno. A modo dei cronisti, digredisce grossolanamente sopra le comete ed altri accidenti naturali, mentre tace occorrenze di capitale rilievo. Da soldato narratore scarseggia d'arte e finezza, ma non di buon senso e amore della verità; non si propone scolasticamente un modello qualsivoglia, non fa della storia un retorico esercizio, e conosce che la semplicità ne è merito supremo; sa mostrare come i fatti si concatenino, e delineare i caratteri; e preziose informazioni ci trasmise su paesi e costumi che avea veduti, e massime sulla Germania. Al cristianesimo non fa buon viso, pure non l'aspreggia; e disapprova egualmente le mistiche follie di Giuliano, l'intolleranza di Costanzo, e lo sviare d'alcuni vescovi dalla primitiva disciplina. È l'ultimo suddito di Roma che in latino scrivesse una storia profana, onde si prova un vero rincrescimento nell'abbandonarlo[153]. I narratori ecclesiastici sono greci i più; e fra' latini, per dizione pura e calma sobrietà fu chiamato Sallustio cristiano Sulpizio Severo d'Aquitania, che con pia credulità scrisse la vita di san Martino, e le vicende della religione dall'origine del mondo fino al 410 dopo Cristo. Dal vuoto Plinio sin a Costantino appena si trova chi aspiri al titolo di oratore; e le _Declamazioni di dieci retori minori_, raccolte da Calpurnio Flacco al tempo degli Antonini, girellano sopra soggetti immaginarj con poca arte, meno eleganza e niuna spontaneità. All'introdursi del fasto orientale frequentarono i panegirici, e dodici ce ne rimangono, infelici imitazioni del non felice Plinio: sono gratulazioni e piacenterie recitate agli augusti in nome della provincia dai più eloquenti, cioè da quelli che sapevano dir a disteso e ornatamente ciò che in breve e con semplicità si potrebbe. Anicio Simmaco romano, da Prudenzio anteposto fin a Cicerone, ci pare infelicissimo; pregia gli antichi, ma smanioso del bagliore poetico, ingordo dell'applauso anzi che castigato veneratore della bellezza, trastullasi in licenziosi traslati, e di giocherelli ingegnosi copre fracide adulazioni[154]. Suo figlio ne raccolse le lettere in dieci libri, senz'ordine cronologico, ma non inutili alla storia; e chi le paragoni con quelle di Cicerone, poi con quelle di Plinio, avrà tracciata la crescente digradazione dalla franca semplicità repubblicana alle formole pomposamente servili. Per eloquenza Mario Vittorino africano ottenne una statua nel fôro Trajano, e dall'Apostato fu eccettuato dal divieto d'insegnar belle lettere, quantunque cristiano: ma nè ciò, nè gli encomj dei santi Agostino e Girolamo tolgono alle opere sue di parer buje ed incolte, oltrechè povere di dottrina teologica. I poeti ridussero a mestiere l'adulare, e uniti in maestranze come le altre arti, dai loro priori erano condotti al palazzo dei grandi per celebrare onomastici, matrimonj, virtù finte quanto le augurate prosperità. Si lascino nell'oblio co' loro odierni imitatori que' verseggianti ispirati da fame e da vigliaccheria; quelle poesie descrittive, dove l'eleganza stentata rivela la meschinità dell'ingegno. Solito delle età di decadenza, al bello si credette supplire col difficile; e Publilio Ottaziano, esigliato da Costantino, ottenne grazia coll'offrirgli una serie di componimenti, alcuni dei quali figurano un altare, altri un flauto, quale un organo[155]; in uno il primo verso è tutto in bisillabi, il secondo in trisillabi, il terzo in quadrisillabi; in un altro si succedono le parole di una, due, tre, quattro, cinque sillabe; in altri la prima parte dell'esametro è riprodotta nella seconda del pentametro[156]; in uno i versi possono leggersi da destra a mancina senza che si alteri il metro; in uno di venti versi, tutte le prime lettere insieme formano _Fortissimus imperator_, le quattordicesime _Clementissimus rector_, le finali _Costantinus invictus_[157]. Altri tessellavano poemi nuovi con emistichj vecchi, come Falconia Proba che applicò a Gesù Cristo le frasi di Virgilio; del casto Virgilio, cui Ausonio trasse a laide significazioni. Rufo Avieno, due volte proconsole al tempo di Teodosio, ridusse in versi latini i _Fenomeni_ e i _Prognostici_ d'Arato, e la _Descrizione della terra_ di Dionigi Alessandrino, e fin le storie di Livio pensava verseggiare in giambi. Claudio Claudiano d'Alessandria, già maturo, adottò la lingua latina, e le restituì un vigore disimparato; scrisse sopra differenti soggetti, alcuni di rimembranza, come il _Ratto di Proserpina_ e la _Gigantomachia_; i più d'occasione, or lodando il barbaro suo mecenate Stilicone, or con estro più caldo vituperando Rufino ed Eutropio avversarj di quello; sempre esagerato, sempre ingrandendo le cose piccole, abbellendo le grette. Triviale d'immaginativa, trova però felici modi[158]; è mirabile artefice d'armonia: ma non trascende mai quel piccolo valico, per cui gli ottimi arrivano a sollevare l'intelligenza e toccare il cuore. Entrato franco nel soggetto, languisce come chiunque non sorregge l'ingegno collo studio: nè rifugge da immagini esuberanti o schife, come cavalli che pregustano la preda che avran domani, o vene che vomitano l'oro, o mari che sputano gemme sulla spiaggia. Soprastava Alarico, soprastava Attila; ed i poeti chimerizzavano la Roma di Fabrizio e di Catone, nella città dei papi ricantavano Giove e la guerra, e a Stilicone parlavano un linguaggio qual sarebbe stato conveniente a Mario. Claudiano ha in pronto numi ed augurj per ogni occorrenza, per levare in cielo il cattolico imperatore Teodosio, per festeggiare il natalizio d'Onorio e vaticinare la fecondità de' suoi illibati imenei. Il genio poetico s'incateni a idee che hanno perduto la forza, la vita, l'avvenire, e avrà condannato se stesso a rimbambolire. Nè allora si trattava de' trastulli poetici di certi poetonzoli odierni; perocchè, quando stavansi a fronte due civiltà nemiche, il cantar Giove significava chiarirsi contro Cristo; e Claudiano forse col beffare i Cristiani[159] e rendersi cantore uffiziale del paganesimo, meritò che il senato facesse dai _dottissimi_ imperatori decretargli il titolo di chiarissimo, il grado di notaro e una statua nel fôro Trajano[160]. Ma la ruina del generale Stilicone ravvolse anche il poeta. A Magno Ausonio di Bordeaux l'esser maestro di Graziano fece ottenere il titolo di conte, e le dignità di prefetto al pretorio d'Italia e d'Africa, e di console. Graziano, che non avea potuto trovarsi presente all'inaugurazione di lui, volle assistere allorchè deponeva i fasci; nella qual occasione il poeta recitò il ringraziamento che ci resta. L'imperiale alunno gli rispose: — Pago un debito, e pagandolo resto ancora debitore»; motto che val meglio di tutta l'elucubrata arringa del poeta. Morto Graziano, Ausonio collocossi in patria, ove compose la più parte delle opere che ce ne restano; delle quali tal conto facevasi, che Teodosio gliele chiese per lettera. Però, se nella verseggiatura conserva quel fiore che ultimo i Latini perdettero, dà troppi segni di decadenza; alla parola propria surroga artifiziate circonlocuzioni; e le lettere son le nere figlie di Cadmo, bianca figliuola del Nilo la carta, gnidj nodi la cannuccia da scrivere. Nel _Grifo_ enumera tutte le cose che vanno tre a tre, le Grazie, le Parche, le fauci del Cerbero, il tridente di Nettuno, le teste della Gorgone, Iddio uno e trino; mescolanza di sacro e profano, in cui cade sovente. Piacesi anche degli sforzi, come terminare un verso col monosillabo da cui comincia il seguente: insomma un frivoleggiare perpetuo in mezzo a pericoli incalzanti. E s'egli è vero che fosse cristiano, voleva per arte rimanere gentilesco. Anche altri poeti cristiani s'accontentarono d'imitare i classici in descrizioni, narrative, didascaliche, panegirici, antichi di forma come d'immagini e di stile, se non che surrogavano la sacra scrittura, vite di santi, virtù cristiane; innesto disopportuno sul giovane tronco. San Severino lasciò un poema bucolico sopra una delle molte epizoozie che, uscente il iv secolo, s'aggiunsero alle altre sventure. Bucolo pastore al mandriano Egone guaisce d'aver perduto il suo armento; e Titiro, chiesto come il suo conservasse, risponde, col fargli in fronte il segno della croce; dal che toglie occasione per ridurli a seco adorare il Cristo: veste antica con toppe nuove. Altri, affidandosi ai sentimenti personali, aprivano campo intentato; e col cristianesimo, religione intima, coi sublimi modelli de' profeti, coll'espressione della gioja e della tristezza universale per via di cantici ripetuti a coro, la poesia latina si svincolò dalle elleniche imitazioni, e si fece originale, spontanea, inspirata. Alcuni inni, che tuttora si cantano dalla Chiesa, reggono a petto delle migliori odi de' classici, se non per elegante purezza di lingua, certo per profondità di sentimento e poetica potenza[161]. Destinata non a dilettar pochi, ma ad operare su tutti, non ad essere letta a tavolino, ma cantata nelle piene chiese, la lirica dovette scegliersi altre forme, più libera nella frase e nel metro, preferendo strofe di quattro versi, e giambici di quattro piedi, confacevoli alle schiette cantilene del coro; dalle severità della prosodia e del ritmo emancipandosi più sempre, finchè l'accento prevalesse del tutto alla quantità, e ne venisse la versificazione moderna. Anche nella descrittiva, qualora non vada sopraccarica d'inutili ed estranie particolarità, come in alcuni panegirici di santi, ricorre la solenne gravità e la forza dignitosa de' classici, mentre occupa di profondo sentimento il lettore, lontano al pari dalle sdulcinature e dalla gonfiezza. Negli inni di Aurelio Prudenzio tarragonese, oltre la cristiana unzione, si riscontrano passi e graziosi e commoventi, e pratica delle bellezze classiche, benchè incappi in solecismi, e leda le regole del metro. San Prospero d'Aquitania, notaro di Leon Magno, lasciò alcuni poemi, centosei epigrammi, o dirò meglio pensieri morali, derivati da sant'Agostino; un carme degl'_Ingrati_, designando con questo nome i Semipelagiani, che pretendevano potesse l'uomo colle sole sue forze operare la propria santificazione. Sidonio Apollinare, nobile lionese, coi panegirici agl'imperatori Avito, Magioriano, Avieno acquistò onori; poi ritiratosi placidamente nell'Alvernia, vivea con tre figli e coll'ottima moglie, visitato da quanto possedeva di meglio la fiorente Gallia, e scrivendo versi su tutti i piccoli accidenti: non manca d'estro e immaginativa, ma l'andazzo delle scuole il trasse a sottigliezze e metafore esagerate, che parevano un oro ai depravati Romani e agl'ignoranti invasori. Comodiano di Gaza fece un poema contro i Pagani, ove le iniziali di ciascun articolo formano il titolo dell'opera; ma è degno d'osservazione che gli esametri non han più riguardo alla quantità delle sillabe, ma al numero soltanto: avviamento dalla versificazione metrica alla ritmica moderna, e indizio che la pronunzia già fosse alterata, sebbene vivesse ancora il latino. E nuovo segno ne è l'introdursi della rima, la quale, se talvolta già era sfuggita anche ai classici, allora adopravasi per sistema sì nei versi che nella prosa[162]. Pure, se la prosa, accostandosi al parlar comune, ritraeva dell'alterazione prodotta dalla mescolanza di tante barbare voci e frasi, il poeta, non ispirato e spontaneo ma studioso e ricordevole, trovava ne' suoi modelli la purezza primitiva e meditata: laonde fin quelli che scrivono disacconcio e barbaro, come Sidonio e Capella, nei versi non sembrano più dessi. E sebbene ad altri insegnamenti che gli ordinarj fossero formati coloro che s'applicavano alla scienza di Dio ed alle quistioni morali e teologiche, salta agli occhi un malaugurato contrasto tra il fondo e le forme, le idee e lo stile: quelle, gravi e interessanti, come espressione degli uomini e del tempo cui appartengono; questo, affettato, quasi l'autore, nell'applicar la fantasia a cercare ingegnose combinazioni di parole e di frasi, tema sempre non trovarne di abbastanza nuove, bizzarre, forzate. È costretto usar la parola propria e immediata? vuol però rialzarla e darle apparenza di nuova con un giro della frase che stuzzichi l'attenzione, ecciti la meraviglia. La Bibbia portò un ringiovanimento nella letteratura latina, insegnando una inusata semplicità d'esposizione, una poesia più schietta, e a trattare i punti più elevati senza metafisiche astrazioni, ad esprimersi per immagini vive: e di là cominciarono le invenzioni simboliche, onde si arricchì il medioevo. Troppe cagioni, e non letterarie, intristirono i frutti; ma non è men vero che, mentre, per la trasfusione della lingua cristiana, sovvertivasi il latino classico, ne nasceva un nuovo che poi divenne comune a' filosofi, e durò fin nel Cinquecento allorchè risorse il ciceroniano. Di bonissima ora la Bibbia fu tradotta in latino, e forse qualche parte in latino scritta: dal che raccogliete quanta ragione abbiano i pedanti di considerare come barbara una dettatura contemporanea di Tacito[163]. Il Vangelo e gli Atti apostolici, narrandoci puramente quel che rileva alla dottrina, lasciavano la curiosità su quel profluvio di notizie, che soglionsi desiderare intorno a tutte le persone insigni, venerate o dilette. Per soddisfarvi cominciarono alcuni a raccontare la vita di Cristo, della sua madre[164], degli apostoli, parte raccogliendo quel che da altri udivano, alterato come accade dalla tradizione, parte aggiungendovi di loro fantasia. Ne vennero così i vangeli apocrifi, i quali, sebbene non sieno esibiti alla fede del credente, nè resistano all'esame del critico, sono però modelli d'ingenuità, che contrastano singolarmente coll'antica letteratura, massime della decadenza. Alla pietà poco avveduta fece poi intoppo la malizia, quando, dilatandosi le eresie, ogni setta volle avere un vangelo suo proprio, con avvenimenti o sentenze che servissero a' suoi errori: talchè la Chiesa dovette intervenire per sceverare i veri dagli apocrifi. Campo nuovo alla letteratura cristiana aprivano pure le vite di tanti martiri e de' mirabili solitarj. Anche in antico si erano stese biografie, ma sempre di personaggi da storia; mentre qui l'umile virtù trovava il suo panegirico e la sua rivelazione, e l'umana natura riproducevasi nel racconto di minuti accidenti, esposti per edificazione altrui. Nessuno voglia cercarvi scene dilettevoli al bel mondo, nè filosofici accorgimenti, bensì l'ingenua narrazione domestica, in cui, se la storia positiva è talvolta alterata, la storia morale rivelasi con tocchi pieni d'attrattiva e di verità. Il mondo romano, fidato nella propria eternità mentre strisciava sull'orlo dell'abisso, proseguiva i suoi vanti e le sue cure; i poeti ricantavano i loro Dei, senza volersi accorgere che erano trafitti nel cuore; i filosofi disputavano sul crepuscolo, quando già era spiegata la pompa del giorno: frattanto il popolo, a cui quelli non ponevano mente, tesseva la storia secondo il suo stile, ripetendo ora le predicazioni dell'apostolo, ora i tormenti del martire, ora la castità della fanciulla, or le astinenze dell'eremita, con quegli abbellimenti di circostanze che sono carattere dei racconti popolari. Da ciò le tante leggende che esercitarono la pietà de' secoli credenti e la critica dei pensanti, ma dove nessuno potrà non riconoscere un'ammirabile semplicità, una credenza talvolta ingannata, non però ingannatrice; troppo male imitate da quelli che dappoi ne composero per esercizio di scuola. I primi scrittori cristiani, occupandosi della virtù più che della dottrina, pensarono solo esporre i dogmi della fede, i precetti della morale, i riti del culto: onde la più parte delle opere loro sono catechismi, dettati col calore della convinzione. Il cristianesimo aveva posto come base d'ogni dottrina quel che di più generale v'ha nelle credenze e nella ragione umana: agl'intelletti non restava dunque che adoperarsi a piantare ogni scienza sopra tale inconcusso fondamento, dal che sarebbe venuto e il totale rigeneramento del sapere, e l'immenso progresso che è frutto dell'accordo. Sciaguratamente sottentrò ben presto alla fede universale l'individuale opinione; e fra problemi inestricabili, logorossi tempo e fatica per fabbricar sistemi, incerti di diritto, effimeri di fatto; il carattere dell'universalità si smarrì nelle suggestioni parziali; e le speculazioni furono mentosto un ingrandimento dell'ordine della fede ben accertata, che un ritorno a parziali teoriche, a scuole esclusive, ad ipotesi gratuite. Già prima d'Augusto le produzioni dello spirito e delle arti non si proponevano che di stimolare i personali appetiti: al leggere i profani, diresti componessero in paesi remoti da ogni tumulto, nella Roma trionfale e confidente ne' suoi numi; tanto puerilmente cantano sull'orlo della tomba, e incensano per reminiscenza le quatriduane immortalità. Arte siffatta dritto è bene se vien presa a vile dai Padri della Chiesa; essi che, tonando dal pergamo, argomentando nell'assemblea, od orando nella solitudine, sempre sono gli uomini del momento e della realtà, risentono e rivelano i martorj d'una società che perisce; essi eroi della carità e dell'opposizione, quando nel resto non appajono che smaccate piacenterie, o flacida rassegnazione, o pazienza addolorata. Non per questo vilipendevano i classici; e Girolamo credeasi castigato dal cielo perchè troppo ciceroniano; e sant'Agostino raccomandava che ai fanciulli si desse di buon'ora Virgilio, acciocchè non più lo dimenticassero[165]. Per assodare il vero, i Padri dovettero ribattere il falso, e mostrare l'accordo della fede colla ragione, non solo adducendo le prove storiche della rivelazione, ma costituendo un sistema di speculazioni razionali, fondate sopra di quella. Adunque, considerando filosofia e religione derivate dalla fonte stessa, drizzaronsi a conciliarle con un eclettismo, che differisce da quello dei Neoplatonici in quanto, invece di strascinare le concezioni delle varie scuole ad accordarsi con altre dell'ordine medesimo, le normeggia ad uno superiore, qual è la fede. I Padri latini, quand'ebbero a combattere eresie, adottarono anch'essi il sillogizzare d'Aristotele e di Zenone; ma in generale trovarono più confacente il platonismo, che alcuno disse un'anticipazione od un preparamento del cristianesimo, salvo a scostarsene ove men retto argomentasse; tenendo costantemente la filosofia come ancella della teologia, la rivelazione come base d'ogni cognizione pratica e speculativa. Ammessa la rivelazione, restavano chiariti tutti i dubbj logici. Essa contiene la morale, cioè quanto concerne le azioni umane: essa è comunicata per mezzo della parola, dunque spiega le origini del linguaggio: essa è fatta da un essere ad esseri, dunque accerta l'esistenza molteplice: essa viene da sorgente infallibile, dunque porge il criterio della certezza. Così argomentava la Chiesa, benchè alcuni de' Padri, ligi ad abitudini di scuola, andassero a cercare dalla scienza ciò che soltanto la fede può somministrare. Dio pertanto e la sua relazione col mondo e coll'uomo sono il primario oggetto del loro spiritualismo più o meno razionale. Dio per atto di libera volontà cavò dal nulla il mondo. Alcuni poi sostenevano operata la creazione nel tempo; altri da tutta l'eternità, come l'altre qualità di Dio così quella di creatore dovendo essere eterna. Alla fatalità degli astrologi e degli stoici opponevano una provvidenza generale e particolare, forse esercitata col ministero degli angeli. Questa scienza, opposta all'egoismo filosofico, non aspira alla gloria mondana di fondare scuole, anzi professa che la dottrina non è sua; non dipartendosi mai dal senso comune del genere umano unito a Dio, cioè dall'autorità della Chiesa. La morale da que' principj dedotta non formolavano in una scienza; ma datole per fondamento la volontà di Dio, espressa dalla ragione e dalla rivelazione, e l'obbligo dell'uomo di obbedire a chi ordina o in virtù di potenza assoluta, o per dirizzare alla felicità temporale ed eterna, dettavano precetti severi e purissimi: raccomandavano specialmente la carità, ossia l'amore disinteressato del prossimo, la sincerità, la pazienza, la temperanza: alcuni si spinsero fino a rigoroso ascetismo, che purgasse dal peccato e sciogliesse dalla materia per via di contemplazione e di penitenza. Il complesso della dottrina, e insieme il punto più elevato della storia e della filosofia cristiana si riscontrano in Aurelio Agostino da Tagaste nella Numidia (354-430). Cresciuto fra le lusinghe d'una giovinezza voluttuosa ma colta, sul terribile problema del come coesistano un Dio buono ed il peccato, accettò la vulgare soluzione de' Manichei, che supponeano un principio buono ed uno malvagio; poi non se n'accontentando, ne cercò altre, perfino coll'astrologia e colla chiaroveggenza; al fine per disperato abbandonossi allo scetticismo. Fatto professore di retorica a Milano, invaghito de' classici, sì che piangeva ai lamenti di Didone e dall'_Ortensio_ era trascinato alla ricerca più sublime, per dotta curiosità andò ascoltar le prediche di sant'Ambrogio; ma queste gli crebbero il bisogno d'acchetarsi nella verità, e si rivolse a Platone, dal quale iniziato al sentimento dell'essere spirituale[166] e al concetto della realtà vera, tranquillò l'anima nell'autorità e nella rivelazione, e ricevuto il battesimo da sant'Ambrogio, alleò la fede di cristiano colla ragione di filosofo, tolse a confutare gli errori cui prima aveva aderito, dibattè i problemi più spinosi della filosofia, e primo in Occidente ridusse a forma sistematica la dottrina evangelica, mostrando indispensabile alla scienza e alla ragione umana l'appoggiarsi nella divina. Sublime ingegno benchè sfavorito dai tempi, fu il più filosofico tra i santi Padri; tutto seppe, a tutto piegò il docile intelletto; egli metafisico, egli storico, egli erudito delle arti e de' costumi[167], sottile dialettico, oratore grave e maestoso; scrisse di musica, come dei più ardui punti teologici; descrisse la decadenza dell'imperio come i fenomeni del pensiero; avvivò la disputa scolastica coll'eloquenza; eloquenza talora barbara e affettata, spesso nuova e semplice, sempre viva e concisa, e sostenuta dall'affetto. Ne' _Soliloquj_ ragiona seco stesso «per saper Dio e l'anima», all'arguta dialettica accoppiando fantastica sensività. Nelle _Confessioni_, libro per le anime che ritornano al cammin dritto, non per quelle che mai non se ne scostarono, esponendo i proprj fatti non per celia come Orazio e l'Ariosto, nè coll'aria provocatrice di Rousseau e dell'Alfieri, ma gemebondo e a ginocchio, egli ci mostra un'anima tutta ambizione ed amore, che nel giovanile traviamento s'inebbria non si soddisfa, della celebrità s'annoja, corre ingorda dietro alla felicità e al vero, e nella turbolenta solitudine del cuore contrasta con se stessa, e supera le barriere che oppongono una falsa sapienza, una lunga abitudine, i fomiti della gioventù e della concupiscenza. La profonda naturalezza di quello scritto è cosa insolita all'antichità; come la riflessione severa e la mestizia senza disperazione, che il cristianesimo metteva nell'uomo. Quanto alla politica, al detto di san Paolo «Non v'è potestà che non sia stabilita da Dio», Agostino aggiunge, «O la ordini egli, o la permetta». Che appartenga al sovrano il diritto di vita e di morte, era allora sì indubitato, che il cristianesimo non bastò a negarlo; e sant'Agostino disse, il soldato che non uccide quando il principe legittimo glielo impone, esser reo come quello che uccide senz'ordine[168]; non bene ancora afferrando l'idea di un nuovo diritto pubblico, che discernerebbe affatto la forza dal diritto di giudicare. Assolve la tremenda necessità della guerra qualvolta sia fatta per respingere l'ingiuria, vendicar il torto recato ai sudditi, opporsi ad ambiziosi invasori; ma iniqua la rendono l'ingiustizia del motivo, la violenza dei mezzi, l'abuso della vittoria, l'accannimento contro il nemico, il turbar la pace, l'ambir conquiste, il permettere violenze che si potrebbero impedire[169]. Agostino stesso dal tribuno Marcellino implora grazia per alcuni settarj, proponendo invece della morte una prigionia «dove siano ricondotti dalla malefica operosità all'utile lavoro, dalla follia del delitto alla ragione e al pentimento»: nel che voi scorgete adombrato quel sistema penitenziario, da cui tanto spera la nostra età. Altrove proclamava essere i governi istituiti dal popolo e pel popolo; «i re nè i signori non ebbero nome dal regnare o dal signoreggiare, bensì dal reggere; regno deriva da re, e questo da regolare. Il fasto principesco vuol riguardarsi non come attributo di chi governa, ma come orgoglio di chi domina. Iddio, avendo fatto l'uomo ragionevole ad immagine sua, volle dominasse sulle creature irragionevoli, non sull'uomo; e però i primi giusti furono collocati pastori di greggie, anzichè re d'uomini; volendo Dio con ciò darci a conoscere qual cosa fosse confacevole e all'ordine delle creature e alle conseguenze de' peccati»[170]. Assunto vescovo d'Ippona (395), coll'eloquenza evidente e colla straordinaria emozione allettava le fantasie degli Africani, che, per udirne i prolungati ragionamenti, abbandonavano i riti superstiziosi. Poi da' trattati più eccelsi della metafisica scendeva a catechizzare i fanciulli, addolciva la condizione degli schiavi, per redimere i quali vendea sino i vasi dei tempj; ed esortava tutti all'armonia e alla carità. Già considerammo i santi Padri nell'azione: come filosofi e letterati voglionsi misurare ad altra stregua che la ordinaria. È vero che ai latini manca la bella armonia del genio greco e la graziosa e castigata elocuzione; di rimpatto sono più originali, più attuali; piaciono meno, penetrano meglio. In Agostino e Ambrogio si fa sentire la scuola con tante antitesi, coll'enfasi, col sottilizzare; Cipriano ha l'ampollosilà meridionale; Lattanzio un'acquosa facilità; Tertulliano uno stile ferreo: ma di rimpatto la veemenza di Cipriano è sempre magnanima; Tertulliano spiega una robustezza senz'esempj; Ambrogio, naturalmente ameno, sempre nobile e pieno d'unzione; Agostino sublime e popolare, accoppia i pregi degli altri, e sa adoprarli a vicenda in una carriera di diversi combattimenti. In tutti poi, se la lingua digrada, si rialza lo stile; al difetto di purezza suppliscono il vigore del sentimento, la ricchezza delle immagini, l'elevatezza del vedere, e massime la novità del fondo, pregio notevolissimo in una letteratura che sempre erasi applicata a tradurre o imitare. Girolamo, fra bellezze stupende, tanto nerbo, tanta immaginativa, tanta erudizione, ha le bizzarrie d'un genio sbrigliato; l'espressione sempre energica, sovente naturale, guasta con citazioni disadatte, con triviali riflessi, col non sapersi arrestare a tempo: ma come riuscire corretto se talvolta in un giorno scrivea mille righe, e in una notte compose il trattato contro Vigilanzio? E la fretta è il carattere di scritture dettate per occasione: dettate fra l'universale scadimento, fra invasioni, fra dispute iraconde, fra grossolana effeminatezza e imbelle scoraggiamento, come pretendervi la sobria e severa purezza che innamora ne' classici? Ne' loro contemporanei trovammo grammatici gelati, retorici ciancieri, cronisti digiuni, poeti da nozze e da idillj, tutto ciò che può combinarsi colla depressione morale: i cristiani, filosofi e politici, destinati a meditare e fare, persuadere e governare, sovrastano per convinzione ardente ed operosa, conseguente calore e verità di linguaggio, pel continuo occuparsi degli interessi più attuali e grandiosi dell'uomo e dell'umanità, per l'elevatezza che ritraggono dall'osservare gli eventi non secondo l'impressione istantanea, ma in relazione colle verità eterne e con una vita di cui questa non è che l'ombra e la preparazione. Da tale punto d'aspetto doveano essi ravvisare ben altrimenti le grandezze e il decadimento di Roma. Quando questa, come or ora vedremo, fu presa dai Goti, il mondo cristiano esclamò esser vendicato il tanto sangue de' martiri; e da molti discorsi, anche di sant'Agostino, trapela una specie di contentezza per questa grande giustizia. Gli amici dell'antico culto interpretavano invece quel disastro come punizione degli Dei abbandonati, e imputavano ai Cristiani la ruina dell'impero. A costoro Agostino oppose la _Città di Dio,_ curioso lavoro di genio e d'erudizione, tanto complesso di mezzi eppur unico di fine, e il primo monumento di filosofia della storia. Gran potenza doveva conservare il politeismo se Agostino credette d'insister tanto nel provare la superiorità di Dio sugli Dei. Assume egli di mostrare come nel paganesimo giacessero sconvolte le idee di virtù e di gloria, lo riconduce ai veri elementi suoi, il panteismo materialista e l'adorazione della carne, e cerca in esso le reali cagioni della rovina della società, ponendo a parallelo le due civiltà che si combattevano. Gli abitatori della città di Dio e della città del mondo vivono mescolati quaggiù, ma quale trionferà? che fia di Roma? Invece di rispondervi direttamente, egli s'approfonda ne' misteri dell'eternità, scruta i tremendi abissi della giustizia divina e le esultanze della rimunerazione. Quante bellezze nella natura! quante meraviglie nell'industria! quante gioje nell'intelligenza! Agostino divaga nel descriverle, e — Se tanto Iddio largisce a chi ha predestinato alla morte, che farà per coloro che predestina alla vita?» così dell'una città preconizza la caduta con una convinzione fin allora ignota alla storia, mentre canta il trionfo dell'altra, che da Abele in poi, fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio, peregrinando procede. «Quella venne fabbricata dall'amore di sè, portato fin al disprezzo di Dio; questa dall'amor di Dio, portato fin al disprezzo di sè; l'una si glorifica in se medesima, l'altra nel Signore; l'una cerca la gloria degli uomini, l'altra non vuol gloria fuorchè il testimonio della coscienza; l'una cammina tronfia e pettoruta, l'altra dice a Dio, _Tu sei mia gloria_; nell'una i principi sono strascinati dalla passione di signoreggiare sopra i sudditi, nell'altra principi e sudditi si rendono reciproca assistenza, quelli ben governando, questi obbedendo». Come dunque nella sua gioventù, cerca ancora le ragioni della lotta fra il bene e il male, ma pone fuor di questa un Dio immutabile, sorgente unica degli esseri tutti. Il male esiste, ma viene da una creatura, qual è il demonio: gli uomini si disputano la gloria, la ricchezza, i beni che Dio abbandona ad essi. L'incarnazione futura del Riparatore è la ragione suprema di essere del genere umano, la lanterna nel mar della storia. Viene Cristo, ma allora l'impero si scoscende, e sono le sue ruine che ispirano il libro d'Agostino, la più grande rivelazione del maggior conflitto che la storia ricordi tra i due mondi; l'uno perduto sempre dal peccato, l'altro sempre salvato da Cristo. Cominciata l'opera nel 411, la pubblicò in ventidue libri successivamente fino al 427; e chi non s'adombri alle incessanti antitesi[171] e allo stile brillantato, chi non s'offenda alle particolarità in cui si sminuzza nel determinare la fine delle due città, volendo applicarvi parola per parola l'Apocalisse senza che gli bastino l'immaginazione per valersi del linguaggio misterioso, e l'alta intelligenza per discernere qual idea convenga o no tradurre in immagini, ammirerà tanto ardimento di pensiero e tanta umiltà di fede, con cui affronta problemi fondamentali, il governo temporale della Provvidenza, l'accordo della prescienza col libero arbitrio, gli arcani della morte e della resurrezione. Prima d'ogni altro, Agostino seppe comprendere con uno sguardo l'intera umanità da Adamo fin alla consumazione dei secoli a guisa di un uomo solo, solidariamente congiunto nel male e nei patimenti, che dalla fanciullezza alla vecchiaja, passando per tutte le età, compie la sua carriera nel tempo[172]; e sotto la contingente varietà degli avvenimenti ond'è tessuta la storia dell'umana famiglia, scopre un disegno immutabile e necessario di essa Provvidenza, il quale gradatamente si compie, malgrado gli ostacoli dell'ignoranza e delle passioni. La storia fin allora era stata alea, cioè considerava che la società avesse in se medesima il proprio fine; nè i più grandi filosofi avrebbero potuto scorgerne il fine comune, quando le nazioni camminavano ciascuna per la sua via, distinte una dall'altra, e il libero arbitrio dell'uomo, la forza, le vittorie, le sconfitte decidevano della loro fortuna. Solo il cristianesimo poteva annunziare che gli uomini sono tutti fratelli, che Cristo è centro dell'umanità, e che l'estendersi del suo regno è il fine, cui le umane cose vengono dirette anche da ciò che sembra ad esse opporre contrasto. Le persecuzioni aveano di ciò offerto una dolorosa ma incontrastabile prova, e i Padri della Chiesa acclamarono che l'attuazione del vangelo è lo scopo a cui la Provvidenza governa le cose di quaggiù. Sotto questa prospettiva osserva Agostino gli avvenimenti. Erasi proposto di rispondere al paganesimo politico dell'Occidente, ma poi allargò il proprio soggetto, e invece d'una semplice confutazione, diede al mondo un'esposizione si può dire compiuta delle dottrine cristiane. A trattare quel primo assunto egli indusse Paolo Orosio spagnuolo, il quale fecesi a mostrare come, fin da' primordj, gravissime sciagure flagellarono senza tregua l'uman genere; la storia è una ripetizione continua del fallo d'Adamo, una serie di rivolte contro Dio e di conseguenti punizioni, talchè nulla di straordinario erano quelle d'allora, per quanto desolatrici: donde inferisce che la vita è un cammino d'espiazione, per cui l'uomo, traverso un'acerba preparazione, si conduce alla vera felicità, la quale anche in terra può prelibarsi da chi impari dalla religione ad accettare i travagli come si deve. Allorchè, occupata l'Africa dai Vandali, non i Gentili soltanto rinfacciavano al cristianesimo i disastri dell'impero, ma i Cristiani medesimi lagnavansi di non mietere che sventure dalle virtù e dai patimenti, Salviano, «eloquente prete di Marsiglia», scrisse _Del governo di Dio_, dove, mostrato quanto a torto si giudichi spesso del bene e del male, investiga nella storia la manifestazione della divina giustizia, e non potersi a ragione mover lamento, dacchè così universale vedeasi la corruttela dentro e fuori della Chiesa: anzi con ricche descrizioni e con patetici tocchi istituendo confronto, ne' Barbari devastatori dell'impero indica virtù non mai conosciute o dimenticate in questo, a segno che non sia da meravigliare se essi prevalgano. Palesava in somma di comprendere ciò che nessuno de' suoi contemporanei, cioè che la caduta dell'impero darebbe origine a nuova civiltà, costituita sopra il cristianesimo. CAPITOLO LII. Trasformazione delle arti belle. Dopo l'archeologica restaurazione di Adriano, le arti andarono a precipizio. Già un gusto immiserito palesa la porta de' Borsari a Verona, colle colonne a strie torse, e sovrapposti alle nicchie frontoni a vicenda angolari e tondi. Nelle terme di Diocleziano, il quale volle sorpassare quante se n'erano fatte sin allora, caricaronsi le volte di ornamenti, i quali cadendo uccisero molte persone. Nel suo meraviglioso palazzo a Spalatro, l'arcata nasce dalle colonne senza cornicione; queste posano su modiglioni invece di piedistalli, e una schiera sopra l'altra senza che una linea continuata accenni una soffitta interna; le cornici, invece di tirare orizzontalmente dall'una all'altra colonna, circolano col fregio attorno di un'immensa arcata; aggiungete ornamenti, senza sobrietà nè significazione nè effetto, onde la superfluità genera confusione. Le proporzioni più non si osservarono; pesanti e secche modanature, goffi e meschini profili, archi senza archivolto, colonne spirali o elittiche, e perfino nel medesimo peristilio se ne posero di differente altezza. Eppure l'arte spiegava maggior libertà ed ampiezza nel gettare francamente le volte da una colonna all'altra senza bisogno di piedritto, ampliando così gl'intercolunnj, e dando snellezza e luce ai portici. Sì rapidamente degradò la scultura, che i giganteschi modiglioni del magnifico tempio della Pace non vantaggiano sui lavori dei secoli barbari. La noja del bello si rivela nella cupidigia del singolare; le statue degli Dei staccansi dalle sembianze umane per ridiventare simboliche all'orientale; il Mitra, o dio Sole, effigiasi con viso di leone e piccole ali e un serpente attorcigliato alla persona e molti simboli: anche i busti diminuiscono di rilievo, di correzione, di disegno; tutta la rappresentazione perde di carattere per modo, ch'è necessario ajutarne l'intelligenza per mezzo di scritture. Costantino, che tanto fece fabbricare nelle due città capitali, per ornare le sue terme a Roma portò di Grecia i colossi di Montecavallo, che l'epigrafe certo posteriore attribuisce a Fidia e Prassitele; ma in molto maggior numero opere trasferì da Roma a Costantinopoli, e per erigere edifizj nuovi fu ridotto a spogliare gli anteriori, acconciandone i frammenti in maniera sgraziata, quasi non si trovassero tampoco scarpellini per copiare l'antico. Ma qui pure avvicinavasi alla materia la scintilla dello spirito, perocchè le rivoluzioni che si fanno nell'idea, portano conseguenze in tutti i fatti; e come la morale privata e pubblica e la letteratura, così anche le arti belle doveano dal cristianesimo ricevere un mutamento radicale, e non essere distrutte ma compite. Quelle sensuali che effigiavano l'idolo o il monarca, poi identificavano l'idolo col Dio, non poteano ispirare che abominio ai primi Cristiani; ma ben tosto dall'essere mero trastullo de' fortunati, blandizie de' sensi, corredo della ricchezza, essi doveano chiamarle ad ornare le solennità d'amore e di dolore, associarsi alla nuova civiltà per esprimere l'aspirazione ad un perfezionamento, di cui continuo è il desiderio in questa vita, ma il compimento non si dà che nell'altra. Fin dal loro nascere i Cristiani usavano alcuni simboli, esprimenti le loro credenze: sulle tombe intagliavano palme, cuori, triangoli, viti, pesci, croci, specialmente il monogramma ☧, cioè Cristo, col nome dell'estinto. Null'altro che questi simboli tollerava l'austero Tertulliano, il quale, confondendo l'arte cogli abusi, riprovava qualsifosse effigie, sin quella del Buon Pastore: ma gli altri dottori mostraronsi più condiscendenti alla inclinazione della natura umana di rappresentare ai sensi gli oggetti consacrati nella sua memoria e nella sua venerazione. Roma posa sovra un terreno vulcanico, e le lave indurite, il peperino, la pozzolana da una parte, dall'altra il più moderno travertino, sedimento del Teverone, prestarono materiali a fabbricarla. Dallo scavo di queste materie, massime presso porta Esquilina, risultarono grotte vastissime, serpeggianti sotto alla gran metropoli, e talvolta a varj piani sovrapposti. Pare che di buon'ora s'introducesse l'uso di sepellire in alcune di esse _catacombe_ la gente vulgare, entro cellette o loculi, ricavati nelle pareti l'uno sopra l'altro a maniera di colombajo. I Cristiani, forse condannati a lavorare in que' sotterranei, o che vi cercarono oblio e nascondigli, ne fecero il luogo di loro convegno e i dormitorj (_cœmeteria_), come con fausta parola chiamavano i sepolcreti dei fratelli addormentatisi in Dio. Quest'opinione vulgata appoggiasi sopra esempj consimili di Napoli, di Siracusa, di Parigi: ma renderebbe perplessi intorno alle reliquie che se ne estraggono, e supporrebbe un accomunamento de' riti cristiani co' gentileschi, troppo repugnante dal primitivo zelo; laonde qualche moderno dimostrò vittoriosamente che le catacombe cristiane furono fatte a bella posta, e i Gentili, come non posero mano a scavarle, non poterono per legge servirsene. Lunghi androni sotterranei, con nicchie a più ordini ricavate ne' fianchi, tratto tratto riescono a camere decorate di stucchi, e a cappelle destinate a celebrarvi i sacri misteri. Dopo che più non furono necessarie a celarvisi, restarono venerate come teatri di quelle scene devote, ove i fedeli, commemorando i martirizzati, preparavansi ad imitarli; e i più morendo chiedevano di dormire a lato a quei santi, per partecipare alle loro intercessioni. Furono pertanto frequentate dalla divozione fin al secolo xii, quando Pietro Mallio ne diede l'enumerazione; dappoi si visitava soltanto quella cui s'entra per la chiesa di San Sebastiano. Pontificando Sisto V, si tornò l'attenzione a questi antichi sepolcreti, ed egli ne fece estrarre delle reliquie; pietà che si estese, e che fu poi regolata da Clemente VIII e da altri, acciocchè non si confondessero le ossa de' santi e i distintivi del martirio con avanzi profani. Qualche erudito ne formò oggetto di studio; ed Onofrio Panvinio enumerò quarantatre catacombe a Roma, e discorse i riti e le adunanze che vi si tenevano; Antonio Bosio continuò più di trent'anni ad esplorarle, e senza misurare spese e fatiche ne levò i piani, disegnò le pitture, le sculture, i sarcofagi, gli altari, gli oratorj, e ne tessè l'opera della _Roma sotterranea_, che, pubblicata postuma, fu riveduta ed ampliata da Paolo Aringhi nella _Roma sotterranea novissima_, di maniera che se ne diffuse la cognizione, e si eccitarono nuove ricerche. Marc'Antonio Boldetti, nelle _Osservazioni_ sopra i cimiteri de' santi martiri e degli antichi Cristiani di Roma, sebbene insista specialmente sull'autenticità delle reliquie e sui decreti della Chiesa in tal proposito, esibì insieme i disegni di molti oggetti scoverti nelle catacombe, e continuò lunghe indagini, di conserva col Marangoni; ma quando stavano per pubblicare gli studj di tanti anni, il fuoco li distrusse, e solo pochissimo il Marangoni ne stampò. Per commissione di Clemente XII, il Bollari si applicò a questa ricerca con ricchissima erudizione, ma poca diligenza e pochissimo sentimento dell'arte cristiana. Miglior esame vi portò il gesuita Marchi, in un'opera che le ultime vicende hanno sospesa, e che divenne il fondamento ad altre di forestieri[173]. Da quelle grotte, che sono pel curioso una delle meraviglie di Roma e pel devoto un santuario di pietà e di speranze, si trassero in diversi tempi avanzi d'arte, che venivano collocati nelle chiese, massime di San Martino ai Monti, Sant'Agnese, San Giovan Laterano, Ara Coeli, Santa Maria Maggiore e Santa Maria Transtevere, e che poi si pensò raccogliere in un Museo Cristiano nel Vaticano. Delle figure le più sono ad incavo, empito di minio, colore de' trionfanti, che qui dinotava un nuovo genere di vittorie: appena arrivano a cento in tutta Roma le opere di bassorilievo, a cencinquanta nella restante Italia, e quaranta in Francia: non mancano musaici. E rappresentano il Buon Pastore; san Pietro col gallo; l'orante, cioè un uomo o una donna, stanti, cogli occhi al cielo e le mani protese; il fossore in atto di sterrare, col riscontro spesso di una figura portante la lucerna. Fra i simboli che si conservavano come passaggio dall'iniziazione dei culti antichi alla realtà ed alla storia, sono le sigle Α Ω, ☧, IH, indicanti Cristo; la colomba posata sul ramo di palma con una stella nel becco, o che bee dal calice; cervi che corrono al fonte; pesci in asciutto; un gallo che annunzia il mattino dell'eterna giornata; due mani erette al cielo, o due mani e due piedi disposti a croce; il delfino, simbolo del tragitto delle anime verso una riva ospitale; l'àncora della speranza, o un semplice ramo d'ulivo; talvolta il cuore, che i Gentili appendevano al collo de' loro fanciulli. La croce era segno usitatissimo; e dapprincipio si faceva greca, cioè a braccia eguali; nel secolo iii si allungò, quando vi si appose il Crocifisso, ignoto a' primi tempi; com'era inusato il calice, da cui più tardi si fece sporgere l'ostia, o fu posto in mano all'evangelista di Patmo col serpente. Il serpente, nota di salute ai Greci che l'attribuivano al dio della medicina, ed agli Ebrei che ricordavano quello eretto nel deserto, passò a significare lo spirito del male, e si figurò vinto a piè della Croce, poi più tardi conculcato dalla Immaculata concetta. Talora il maligno esprimevasi col corvo; ma solo nel medioevo fu introdotta la sconcia forma di mezz'uomo e mezza bestia. La forza irrazionale trovasi talora rappresentata col leone, che dappoi fu posto fuor delle chiese con un agnello o un fanciullo in gola; altre volte, indicando la forza morale, sostiene la sedia vescovile, o il cero pasquale, o colonne. Alle allegorie si aggiungono rappresentazioni storiche, desunte dal nuovo Testamento, come le parabole del Vangelo, o dell'Apocalisse il libro dei sette suggelli, il candelabro di sette rami, i quattro angeli dei quattro venti, i ventiquattro vecchioni, la bilancia, la donna inseguita dal dragone: non ne mancano di cavate dai Gentili o dalla tradizionale sapienza, quali sarebbero l'Orfeo, le Sibille, le Muse: e scene di vendemmia, che raffiguravano pel pio artista una vita matura, e da cui stavasi per ispremere il succhio spirituale. La morte, effigiata dai Greci in genj di graziosa mestizia colla face rovesciata, non aveva emblemi tra' primi Cristiani, e furono i Gnostici che introdussero la forma dello scheletro[174]. I nomi di _santo, caro, innocente, dolcissimo_, attestano l'affetto verso il defunto: l'_in pace_, frequente imitazione degli Ebrei, la fiducia religiosa che fa men tristi gli avelli; mentre negli epitafj romani l'idea d'una vita futura era mentosto credenza che augurio. I caratteri romani vi sono deformati, ineguali, fitti, raccorci, misti a lettere greche[175]. Antichissimo era l'uso dei doppieri accesi ai feretri; e sebbene Tertulliano riprovi lo spargervi fiori, troviamo usitato questo bel simbolo della bellezza e fragilità della vita. V'avea sepolture private, bisomi, trisomi, cioè per due, tre o più cadaveri; e alcune separate pei fanciulli vissuti men di quaranta giorni. Spesso il cadavere acconciavasi con aromi, donde quella fragranza che spesso si legge usciva dalle tombe dischiuse. I sarcofagi s'introdussero quando alla nuova religione diedero il nome senatori e ricchi. Il primo, di cui l'età sia accertata dall'iscrizione, è di appena due anni anteriore alla morte di Costantino[176]; ma forse il più antico è quello della villa Panfili, figurante portici alla corintia, sotto cui quindici personaggi che circondano Cristo, in toga sopra sedia curule, bello del volto, e colle chiome spartite sul capo, al modo che suole ancora figurarsi. Sui sarcofagi per lo più si scolpiscono scene evangeliche, come l'adorazione de' magi o la benedizione dei fanciulli: talvolta anche della mitologia, o pagane reminiscenze, talchè non meno di Giona e Noè vi appajono Deucalione e Giasone, e le agapi non differentemente dai banchetti profani. Imperocchè l'arte plastica greca rivaleva sulle concezioni giudaiche; e massime dopo che la Chiesa non fu più costretta a nascondersi, si palesò il contrasto fra i comandi a metà pagani de' signori, tendenti a ridur materiale il culto, e il genio riordinatore e progressivo della Chiesa, che sostituiva la storia all'allegoria: la qual lotta impedì qui pure la trasformazione totale, cui il cristianesimo aspirava. Intanto era nuovo questo prendere a soggetto, non più la forza e la leggiadria nella più vistosa appariscenza, bensì la bellezza che deriva dall'interno, i patimenti, l'ascetismo: e l'uomo dei dolori, la vergine madre, vecchi plebei, donne piangenti, esprimevano una religione insolita, per cui la vita era una espiazione, e che rendeva sacre le lagrime, e nell'amore e nella speranza trovava una significazione morale alla gioja e ai tormenti: anzi, per protestare contro gli abusi del bello, alcuni effigiavano la divinità in forma umile e servile. Quando la Chiesa divenne trionfante, più non ebbe a temere di quel che a principio potea parerle un inciampo; e non che repudiare le arti, se le appropriò, purificandole come tutto il resto; e conoscendole capaci di produrre effetti morali e intellettuali qualora sentano la propria elevatezza, se le rese ferme ed eloquenti ausiliarie nella promulgazione della divina parola. Nella vicenda di persecuzione e di tolleranza, corsa per quattro secoli, i Cristiani fabbricarono qualche cappella in Roma stessa: Adriano, dopo udita l'apologia di Quadrato, permise si radunassero in celle che s'intitolarono Adrianee: e già avanti Costantino, più di quaranta chiese aveva la sola metropoli. Ma sol dopo ottenuta la pace e il trionfo si potè alzare tempj artisticamente, ed abbellirli di effigie ed ornamenti. Papa Silvestro, avuto in dono da Costantino il palazzo di Laterano, vi fece disporre un battistero ottagono, consacrato al santo, dal quale prese nome la chiesa vicina di San Giovanni Laterano, dove ancora il pontefice prende possesso della città e del mondo (_urbis et orbis princeps_). Distrutto il circo di Nerone, Costantino v'alzò una chiesa al principe degli apostoli, fabbricò quella di San Paolo fuor delle mura, e San Lorenzo, e Sant'Agnese. Quest'ultima, in una valle sparsa di catacombe tra la via Salaria e la Nomentana, fu conversa poi in cappella funeraria, ove Costanza figlia dell'imperatore venne deposta entro stupendo sarcofago di porfido, ornato di bacchiche allegorie. Simboli eguali appajono nel musaico del vicino battistero rotondo. La chiesa dedicata in Roma a santa Prisca là dove sorgeva il palazzo di questa, battezzata da san Pietro e considerata come la prima martire, arieggia alle catacombe, con un sepolcro, un altare, una cappella. Quella di San Clemente, che è anteriore a Teodosio Magno, conserva inalterata la forma rituale, cinta d'un atrio a colonne e col pronao; dentro in tre navate, di cui la mediana ha undici metri di sfogo, quattro la destra, sei la sinistra, con anomalia non rara; ampia scala conduce alla tribuna, sotto cui si apre la confessione colle reliquie. Anche San Silvestro, Sant'Ermete, San Martino ai Monti in Roma furono elevati sopra oratorj sotterranei. Galla Placidia, figlia di Teodosio, volle che la chiesa de' Santi Nazario e Celso in Ravenna imitasse gl'ipogei; e vi collocò le tombe per sè, pel fratello Onorio, pel marito Costanzo e pel figlio Valentiniano III[177]. A Leon Magno s'attribuisce San Pietro in Vincoli a Roma, e ignoriamo donde togliesse quelle colonne d'un dorico assai più alto del pestano. Costantino imperatore e i primi successori suoi non abbatterono nè mutarono i tempj pagani; ma ciò si fece via via che il cristianesimo prevaleva. Uno dei primi che fossero ridotti a chiesa fu Sant'Urbano fuor porta Capena, sopra la fontana di Egeria, di cotto, con portico di quattro belle colonne. Però tempj così piccoli come i pagani mal potevano servire al popolo intero, che congregavasi a partecipare della preghiera e del sagrifizio, e ad ascoltare i dogmi della fede e i precetti della morale. Più opportune a tal uopo venivano le basiliche (t. III, p. 425), recinti coperti, nei quali raccoglievansi i mercadanti agli affari, gli oratori a discutere, i magistrati a sentenziare. Dieci ne aveva la sola Roma, che altrove nominammo; e mentre i tempj per lo più abbellivansi esternamente di colonnati, della basilica non si vedeano che mura. La sala interna formava un quadrilungo, tripartito da due serie di colonne, le quali riuscivano ad un semicerchio, alzato d'alquanti gradini, e coperto d'un emiciclo. In questo abside o tribunale sedeva il pretore, con attorno i giudici e rimpetto gli avvocati: in gabinetti attigui si tenevano gli scrivani minori, uffiziali intenti a risolvere o conciliare i piati insorti fra negozianti: alcune basiliche erano provvedute di loggie in alto per comodo degli spettatori. Siffatte erano opportunissime alle riunioni dei Cristiani, non solo per la capacità, ma anche per la distribuzione, collocandosi in mezzo del tribunale l'altare, sulla cattedra del magistrato il vescovo, attorno ad esso il clero, nel resto i fedeli, e sulle loggie le vedove e le vergini devote. Dicono che la prima basilica volta ad uso cristiano fosse in Roma la Porcia, e servisse di modello alle chiese che conservarono quel nome. Mentre papa Liberio con un senatore romano ideava la chiesa di Santa Maria Maggiore, cadde neve, benchè fosse agosto entrante; e su quella un angelo delineò la pianta della fabbrica. Questa leggenda attesta che s'attribuiva alle costruzioni sacre un senso superiore al capriccio dell'artista; e sembra che ogni parte fosse rituale, come già nel tempio ebraico. Allorchè fossero arbitri della scelta, i Cristiani costruivano le chiese sulle alture, lunghe due volte la larghezza, e colla cella rivolta ad oriente. Prima incontravasi l'atrio o paradiso, portico a colonne largo quanto la chiesa, e talora formante un cortile quadrilatero[178]. Ivi si deponevano gli estinti, col capo verso levante, ad aspettare la resurrezione. Del sepellire in città, vietato rigorosamente dalle XII Tavole[179], più non s'aveva scrupolo, come mostrano le tombe di Costantino e d'Onorio: un campo fuor della chiesa serviva ai più: alcuno impetrava di collocare i suoi cari presso i martiri, come sant'Ambrogio depose il fratello Satiro vicino a San Vittore. Solo i vescovi poteano essere sepolti nelle navate della chiesa; la famiglia imperiale sotto la sacra soglia. In tre zone era partita la chiesa: alla prima (_narthex, ferula, pronaos_) vicina alla porta aveano accesso i penitenti non iscomunicati, e i catecumeni, che udivano il vangelo senza poter assistere al sacrifizio. La seconda (_navis_), ad uso degl'iniziati, n'era separata trasversalmente per un muro a tre porte; quella a destra per gli uomini, la sinistra per le donne, la mediana per le processioni. Nella nave di mezzo, riservata alle cerimonie religiose, avevano posto i leviti e i tre cori cantanti attorno ai tre pulpiti o amboni. Questi si faceano ottagoni o quadrati[180] con musaici e scolture; e uno serviva per l'orchestra, uno per l'epistola, dall'altro i diaconi leggeano il vangelo e le lettere dei vescovi. Davanti agli amboni stava la colonna del cero pasquale. La sedia del vescovo dietro all'altare occupava il centro dell'abside, che poi si chiamò presbitero, e che avea la volta dorata, e a lato i pastofori. All'estremità delle navi minori il _senatorium_ ed il _matroneum_ servivano pei patrizj e le dame. Al sacrario (_cella, hieration_), separato dal restante tempio con un arcone trionfale, si saliva per tre gradini; un velo colorato lo toglieva agli sguardi; nè ad altri che al sacerdote era dato penetrarvi. Stava sotto di esso la confessione, cripta delle ossa de' martiri, sopra cui ergevasi l'altare, unico all'unico Dio. Sopra di quello pendea la pisside, spesso in figura di colomba, entro cui conservavasi l'eucaristia; e attorno lampade di varie forme, appese al baldacchino in triangolo (_ciborium_) che era sorretto da quattro colonne. A questa generale distribuzione molte varietà s'introducevano. Per edificare più prontamente, e trovandosi già le arti in decadenza, alle chiese s'adattavano colonne tolte ad edifizj diversi, e perciò di grandezza disuguali. Invece d'accorciare le troppo lunghe o rialzare con uno zoccolo le brevi, si sbandì l'architrave, e dall'una all'altra gettaronsi archi, sorgenti immediatamente da esse; metodo già conosciuto, allora fatto generale. Nella basilica di San Paolo fuor della mura[181] ventiquattro colonne di pavonazzetto furono portate dalla Mole Adriana, i cui elegantissimi capitelli discordavano dalle sedici aggiuntevi forse quando Teodosio ed Arcadio l'ampliarono; divideano esse la basilica in cinque navate, che con una trasversale formavano croce, e davano un vedere ben più grandioso e magnifico che i peristilj esterni degli antichi: tutti gli archi impostavano sulle colonne. In Santa Costanza le colonne sono binate, non nel senso della circonferenza, ma secondo il raggio della rotonda; quali pure in una chiesa presso Nocera de' Pagani, e in non poche posteriori. Il tempio pagano ricevea luce dalle porte o da un foro nella volta o da lampade; ne' cristiani finestre rotonde ed arcuate trasmettevano una luce, temperata da vetri a colore che rappresentavano al popolo le storie bibliche o dei santi. Moltiplicaronsi poi le chiese a Roma, e in esse potrebbe seguirsi passo a passo l'architettura nel dechino e nel risorgimento, nessuna età così infelice trovandosi che qualcuna non ne ergesse per munificenza o devozione de' pontefici. Anche nelle altre città se ne aprivano, man mano che il cristianesimo vi era piantato, prediligendo le forme rituali nelle piante, nell'elevazione e negli ornamenti. Quando poi il culto non si limitò ad un martire solo, crebbero gli altari, il che coll'interrompere le linee alterò la semplicità del disegno; molto più quando s'introdusse la profana pompa de' mausolei. Edifizj considerevoli son pure i battisteri. Nelle rovine della casa di Prisca a Roma, ove credono abitasse san Pietro, mostrano un capitello incavato, nel quale è fama ch'egli battezzasse, con acqua dapprima sacra a Fauno: aggiungono ch'egli amministrasse quel sacramento in una catacomba della via Salaria, e in quella dove poi fu sepolto presso un luogo ch'ebbe nome di Fonte san Pietro. Dappoi si eressero a quest'uopo edifizj presso le acque, accanto alle chiese, alle quali talora erano congiunti per via di portici, come ad Aquileja. Presso al palazzo Laterano, Costantino o san Silvestro fece il suntuoso battistero che ancora sussiste, con più ordini di magnifiche colonne di porfido o marmo, e membrature di edifizj antichi, senza unità di stile e di proporzioni: nel mezzo vaneggia il bacino, a cui si scende per alquanti scaglioni, ottagono come tutto l'edifizio, al quale precede un portico pei neofiti aspettanti; e serbasi ancora pei solenni battesimi amministrati dal papa. A tal uso furono pure ridotte in Roma le terme pubbliche di Novato, fratello delle sante Prassede e Pudenziana; il bagno del loro padre senatore Pudente; e quello di santa Cecilia, chiuso ora nella bella chiesa che da questa trae il titolo. Ottagona se ne volea per lo più la pianta; ma talora quadra, rotonda o a croce, con gallerie in alto, e una cappella coll'immagine del Battista, o di san Pietro che battezza Cornelio, o altra da ciò. Alle vasche giungeva l'acqua per doccie sotterranee, talchè il vulgo credeva si empissero miracolosamente. In quel di Sant'Andrea, rifabbricato da Leone III, la fonte era circondata da colonne di porfido; e di mezzo ne sorgeva un'altra, portante un agnello d'argento che versava l'acqua. Talora era un vaso isolato, sorretto da colonne o da animali simbolici. Un solo battistero faceasi per diocesi, e a pasqua e pentecoste soltanto si compiva la cerimonia; lo perchè i battisteri doveano essere molto capaci. Sulla forma de' primi se ne costruirono poi molti nel medioevo[182]. La decorazione e la sfragistica si esercitavano nei dittici, ove scriveansi i nomi dei santi e dei benefattori, da commemorare alla messa, ne' troni dei vescovi, negli altari e altarini, ne' candelabri, ne' reliquarj, nelle coperte dei libri rituali. Coloro che non giudicheranno queste opere col sentimento, ma le scruteranno colla critica artistica, non dimentichino che era un'età di universale decadenza; e già imperante Costantino tal penuria si pativa d'artisti, che si dovettero dilapidar le fabbriche anteriori onde fornire le nuove. L'arco alzato a' suoi trionfi è tutt'insieme più maestoso che quel di Settimio Severo; ma gli ornamenti furono levati dall'arco e dal fôro di Trajano, e mal raccozzati con lavori di nuovo, scarsi di quell'arte di profilare che produce la grazia. Di questa mancano affatto le immagini del Salvatore e dei dodici Apostoli ch'egli fece porre in argento a San Giovanni Laterano, ed altre statue dell'età sua in Campidoglio, come pure le medaglie e monete: e per dedicargli una statua, si pose il capo di lui sovra un antico Apollo. Di quel tempo si fusero le porte di bronzo di San Paolo, perite nell'ultimo incendio, con incise figure e rabeschi contornati d'argento, ove la ricchezza mal potè velare lo scadimento dell'arte. E tanto fra il popolo scemava il culto del bello, che fu necessario vietare si demolissero mausolei, archi e colonne per capriccio o per bisogno di murare, e istituire un magistrato per difendere colla forza i pubblici monumenti[183]. Come dapprima la Grecia aveva allattata l'arte romana, così questa si trapiantò in Grecia con Costantino, e le costruzioni da lui fino all'imperatore Giustiniano derivano affatto dalle latine, e primieramente l'ippodromo e la gran cisterna di Costantinopoli; le medaglie bisantine portano latine leggende, e perfin la lupa romana. Solo al tempo di Giustiniano e colla fabbrica di Santa Sofia appare quel che volle dirsi stile bisantino, non bene definito nè cronologicamente nè artisticamente, ma che infine potrebbe ancora dedursi da edifizj romani, e specialmente dalle terme, preferendo alla sala rettangola delle basiliche la pianta rotonda e le cupole semicircolari, e tutto ornando di musaici e di pietre multicolori, e d'una ricchezza di ori, figure, rabeschi, opposta alla semplice nudità che dai Latini fu sempre preferita. CAPITOLO LIII. Miglioramenti e complesso della legislazione. Man mano che le altre discipline e l'Impero decadevano, migliorava la legislazione; segno evidente che la cagione non era a cercarsene nell'incremento della civiltà romana, bensì nello spirito nuovo, infuso dal cristianesimo. Solo un secolo più tardi dell'età che narriamo quella legislazione fu raccolta e vagliata per cura dell'imperatore Giustiniano: ma a noi pare questo il luogo di toglierla ad esame, sì perchè le sue disposizioni capitali si riferiscono a quest'età, sì per coglierne occasione a spingere un estremo sguardo nella vita intima del gran popolo, e comprendere meglio in qual senso deva intendersi la sua caduta. L'antico Oriente non ebbe idea del diritto individuale, tutto rimanendo assorto dal capocasa, patriarca, autor della vita come del diritto; la personalità confondeasi nella famiglia, la famiglia nello Stato, lo Stato nel monarca; sicchè all'uomo non rimaneva altra difesa che ne' costumi patriarcali e nella religione, la quale, mentre sanziona l'obbedienza, mitiga insieme l'impero. Assoluta v'è pertanto la podestà paterna; il matrimonio è una vendita combinata fra' genitori; la moglie è serva; il padre può vendere i figliuoli, adottarne altri; sconosciuto il testamento, energica manifestazione della libertà individuale. È dunque il dominio dell'autorità, cioè della fatalità. In Grecia la filosofia, cioè la libertà e la ragione, spezzano quell'unità indefinita e universale, si svincola il progresso, la religione si scevera dal governo; ma la vita pubblica rimane tuttora confusa colla privata, pubblici i giudizj, il pubblico diritto identico coll'individuale; il matrimonio non ha luogo che fra concittadini; la potestà patria è proprietà sulla prole, e il genitore scontento ne fa protesta al magistrato, e rinvia di casa il figlio, che più non può vantare alcuna ragione. E però la Grecia elevossi a tante libertà, ma puramente comunali, fossero aristocratiche o democratiche; donde moltissime varietà. Ma in verun luogo la libertà individuale acquistò pienezza all'ombra del potere principesco, siccome accadde ne' nostri Comuni: bensì arrivarono a compimento la potenza e la franchigia delle città. Se non che i cittadini di Grecia erano nobili d'origine, a differenza degl'italiani ch'erano mercanti e borghesi; l'uomo rimaneva subordinato alla qualità di cittadino; lo spirito comunale teneva escluso lo straniero dal matrimonio legittimo: bensì questo fu purificato col ridurlo a monogamia, siccome la pubblica animadversione fu sostituita alla guerra privata. Roma apparve al termine de' tempi antichi, per modo che potette riassumere quanto di meglio erasi prodotto sotto il dominio dell'autorità, ed insieme profittare di quanto introducevano dapprima la filosofia, poi il cristianesimo, cioè la libertà, la ragione, l'umanità rinata nell'amore di Dio. Missione provvidenziale di essa parve il costituire e perfezionare socialmente l'elemento del diritto, il lato politico e giuridico della vita umana. Lo spirito d'ordine e l'inflessibilità de' primitivi patrizj introdusse lo _stretto diritto_, complesso di massime e d'azioni legali, arbitrarie, che, volendo regolare con atteggiamenti materiali lo spirito dell'uomo, ancora incapace di dirigersi per ragione, lo faceano chinare all'autorità, ad arcani religiosi, a formole impreteribili, cambiate le quali son cambiati gli effetti[184]; a solenni interrogazioni e risposte solenni, che non lasciano dubbio sulla volontà; la quale trovasi obbligata non dalla coscienza e dalla nozione del giusto e dell'ingiusto, ma dalla espressione letterale. Questo ferreo diritto nazionale, scritto nelle XII Tavole, diveniva insufficiente dacchè Roma accolse in grembo tanti forestieri, nelle cui controversie non potendo aver luogo le azioni legali, vi si sostituì l'imperio del magistrato. Inoltre molti de' suoi mandò a governare altre genti; l'agro sacro più non rimase privilegio dei patrizj; nuove vie s'apersero ad acquistare ricchezza, gloria, magistrature. Roma dunque avrebbe o dovuto rannicchiarsi negli angustissimi suoi principj, o sovvertirsi violentemente, se il flessibile e progressivo talento della democrazia non avesse reso diritto umano quel ch'era diritto quiritario, insinuato nel legale il sistema dell'onesto (_bonum et æquum_), l'_arbitrio_ delle ordinanze annuali, e un _gius de' forestieri_, che la legge scritta temperasse coll'equità. E per _equità_ intendevano la ragione naturale, cioè quel fondo di idee morali che tutti gli uomini civili possedono, che sopravive ad ogni corruzione e che fonda la convivenza sulla libertà, sull'eguaglianza, sui sentimenti naturali, sulle ispirazioni del buon senso. Il diritto _equo_ era espresso negli editti, ove i pretori e gli edili pubblicavano le regole secondo cui giudicherebbero durante l'annuale loro magistratura (t. i, p. 411). In essi, conformandosi ai fatti, s'insegnavano azioni od eccezioni, per le quali piegare l'inflessibilità delle formole patrizie; per esempio, supporre erede chi nol sia, usucatto ciò che non è ancora, e vivo il morto o viceversa; proteggeasi la proprietà naturale in modo che si equiparasse alla quiritaria; accanto all'usucapione, riservata ai possessi italici, elevavasi la prescrizione, estesa anche ai provinciali. Al testatore è arbitrio di diseredare i proprj figliuoli; ma il pretore cassa quel testamento, supponendo nol potesse fare se non mentecatto (querela inofficiosi). Chi cadde prigioniero del nemico perde ogni diritto, fin quello di testare; ma il pretore ne autorizza il testamento, supponendolo morto all'istante che cominciò la cattività di lui. Pel gius civile romano, negli atti giuridici, malgrado l'errore, il dolo, la violenza, se il consenso fu dato, se l'atto ebbe il compimento delle solennità e delle parole, rimane prodotto l'effetto, creato o modificato il diritto: non così nel gius delle genti, e il pretore condanna l'iniquità, e con ingegnosi procedimenti corregge la materialità inflessibile della ragion civile. Questa non conosce altre forme d'obbligazione che i contratti o i delitti qualificati: ma l'equità pretoria inventa i quasi-contratti e quasi-delitti, coi quali fa passare nel fòro esteriore alcuni doveri, dapprima riservati alla coscienza. S'appajano dunque progresso e tradizione; creasi del nuovo, ma senza distruggere l'antico: mentre oggi troppo incliniamo ad abolire una istituzione perchè vecchia, i Romani la conservavano appunto perchè vecchia, modificandola; preferivano la scuola storica alla filosofica, le riforme inglesi alle rivoluzioni francesi. Perciò dappertutto s'incontra un diritto doppio e parallelo; parentela civile (_agnatio_) e parentela naturale (_cognatio_); matrimonio civile (_justæ nuptiæ, connubium_) e unione naturale (_concubinatus_); proprietà romana (_quiritaria_) e proprietà naturale (_bonitaria_); contratti di diritto formale (_stricti juris_) e contratti di buona fede. In questo modo si passava dall'iniziazione secreta de' patrizj alla pubblicità popolare, dall'autorità alla ragione, dalla generalità astratta alla personalità libera; conciliavasi la venerazione pel passato colla necessità di progressivi miglioramenti. Dalla lotta fra i due diritti è costituita la storia interna di Roma, la sua guerra nella pace: e siccome nell'esterna il valore, così nell'interna ebbe importanza principale la giurisprudenza, scienza capitale fra i Romani. Abbiansi i Greci le splendide qualità dell'immaginazione, i fiori, i canti, le arti: Roma possederà il positivo dell'età matura, la grande ambizione, ed un'unica letteratura originale, quella della giurisprudenza, che potrà effettuare l'unità del mondo antico. Già nella società primitiva, uno de' precipui uffizj del patrono romano consisteva nel tutelare il cliente; onde le famiglie grandi voleano tutte che un loro membro valesse nella giurisperizia; e poichè senza di lui non poteva il plebeo stare in giudizio, egli talvolta colle sportule che esigeva, gravava i clienti quasi d'un tributo. E il guadagno e l'influenza induceano i patroni a tenere arcane le azioni simboliche e legittime sì della giurisdizione volontaria, sì della contenziosa: avendole fatte pubbliche Gneo Flavio nel 449 di Roma (_jus Flavianum_), i patrizj ne inventarono di nuove; ma un secolo dopo, Sestio Elio palesò anche queste (_jus Ælianum_); finchè accomunate a' plebei le magistrature, Tiberio Coruncano, primo plebeo che salisse pontefice massimo, professò pubblicamente la giurisprudenza. Allora nuova importanza ottennero i giurisperiti, fossero assessori dei magistrati, o dirigessero i privati ne' loro affari, o gli assistessero nelle controversie, rispondendo, scrivendo, cautelando[185], cioè dando consulti, redigendo formole di contratti e d'azioni, prevenendo contro le nullità. A Servio Sulpizio si fa merito d'avervi introdotto il metodo scientifico: ma Cicerone attribuisce questa lode a Quinto Scevola suo contemporaneo, che all'abilità letteraria e all'eleganza dell'esporre associò l'arte di distribuire, distinguere, definire, interpretare[186]. Vi ottennero popolarità Aulo Ofilio, Alfeno Varo, Sulpizio Rufo, Aquilio Gallo, che passava parte dell'anno in villa per iscriver opere; Aulo Cascellio, arguto ne' motti, indipendente nelle opinioni, che mai non volle comporre una formola secondo le leggi pubblicate dai triumviri, dicendo, — La vittoria non conferisce legittimo titolo al comandare»; e a chi lo consigliava a moderarsi nello sparlar di Cesare, rispose: — Due cose mi rendono franco; l'esser vecchio, e il non avere figliuoli». Anche Marco Tullio con occhio filosofico osservava la legislazione, volgendo in beffa le formole dello stretto diritto, religione del passato ormai insufficiente, e sostenendo risoluto la legge naturale e l'equità. Dichiarata allora la lotta del diritto naturale col civile, questo si trovò ridotto alla difensiva; tanto più dopo che vennero gl'imperatori, i quali lo astiavano come avanzo aristocratico, e Caligola voleva abolirlo d'un colpo, Claudio ne eliminava ciò che serbasse di troppo nazionale e rigido. I giureconsulti medesimi si persuasero che non era possibile circoscriversi nelle formole aristocratiche; e impedita o screditata la tribuna, e spenta l'eloquenza, si volsero alla pacata discussione e alla scrupolosa indagine dei fatti; e con tempo, dottrina e impassibilità maggiore che non potessero giudici e pretori, e con metafisica più esatta, pigliarono assunto di armonizzare le teoriche o discordi o repugnanti delle varie fonti, e giungere ai semplici risultamenti della pratica. Dall'età aristocratica del diritto si passò così alla filosofica; definita la giurisprudenza «cognizione delle cose umane e divine, scienza del giusto e dell'ingiusto, arte del buono e dell'equo», i giureconsulti videro la necessità di posare il diritto più sodamente che non nella contingenza dei casi e della volontà umana, e lo derivarono da un'eterna giustizia, ingenita nell'uomo, donde emanano tre regole cardinali: Vivere onesto, non offendere altrui, attribuire a ciascuno il suo. È fenomeno tutto particolare ai Romani questa letteratura legale, che per purità del dire, concisione, chiarezza[187], lucido svolgimento delle intricatissime quistioni, e principalmente per l'analisi severa, rimarrà perpetua meraviglia de' savj e vergogna di que' moderni, nei quali non sai se più incoerenti le ragioni o più barbara la dicitura. Presentata la tesi in termini precisi, quei giureconsulti la svolgono al modo che sogliono i matematici, adoprando a vicenda l'analisi per penetrare nella natura delle cose, la grammatica per ispiegare le voci, la dialettica per acuire la rigorosa interpretazione, la sintesi per valutare l'autorità, non solo d'altri giurisprudenti e degl'imperatori, ma di filosofi, medici, fisici: invece di definizioni, pongono termini di senso certo e tecnico, tali da escludere il dubbio; invece di divisioni puramente da scuola, e di lungagne retoriche, si difilano alla effettiva applicazione; e vi arrivano con tale rapidità, che, per quanto complicatissime sieno le tesi, nessun loro consulto riempie una facciata. Questo li preservò dal guasto che nella letteratura e nella lingua recavano Seneca e i suoi; e come Galileo scriveva con limpida sobrietà fra le petulanti ampolle del Seicento, così la concisa purezza di quei giureconsulti, la semplice dignità, provenienti dal buon senso e dalla gravità, fanno mirabile contrasto coi ventosi traviamenti de' puri letterati, i quali separavano il linguaggio pratico dallo scritto. Chi si ricorda l'infelicità degli etimologi latini, non avrà meraviglia se in questo fatto anche i giureconsulti nè colsero nè diedero rasente[188]. Di rado criticano la legge, ancor più di rado ne investigano la ragione politica ed economica o, come oggi diremmo, lo spirito; eminentemente pratici, facevano fondamento sopra certi assiomi, dai quali deducevano le conseguenze e le applicavano a casi particolari, senza risalire ai generali principj e al diritto naturale; dialettici robusti, anzichè teorici, s'acchetavano talvolta a ragioni che fanno sorridere[189]: pure vanno qualificati filosofi d'una scienza tutta pratica, e a ragione intitolavansi «sacerdoti che cercano la vera non la simulata filosofia»[190]. S'appoggiarono essi sopra la scuola stoica, austera e castigata ancora, ma già diselvatichita, più tollerante e meno superstiziosa, quale ne' più recenti suoi adepti proclamava il governo della Provvidenza divina, la consanguineità degli uomini tutti, la potenza dell'equità naturale. Distinsero il diritto in naturale, delle genti, e civile, secondo che traeva i suoi principj dalla natura animale dell'uomo, o dalla razionale di tutti i popoli, o dall'ordine politico di ciascuno: in pratica però intrecciarono il primo col secondo, solo separando il diritto civile e il diritto delle genti, quello applicato ai cittadini soltanto, questo a tutti. Il primo formava parte di quel che anche oggi chiamiamo diritto civile, e regolava i possessi e le prerogative di chi godeva i privilegi di cittadino romano; mentre il gius naturale riconosceva ad ogni individuo la facoltà di soddisfare i bisogni e gl'istinti comuni; il gius delle genti poneva l'uomo in relazione cogli altri uomini non appartenenti al medesimo gremio sociale. Quest'ultimo era dunque ben altro da quel che noi chiamiamo ora diritto delle genti; sopra il quale anzi, fra tanti lavori giuridici, nessuno ne fecero i Romani, per la ragione che realmente non esisteva, nel senso che noi l'intendiamo. Due popoli, finchè in guerra, si conoscevano unicamente per la forza: solo alle nimicizie dava qualche norma il diritto feciale, stabilendo le cause di romperle e i modi di dichiararle; venuti ad accordi, si regolavano secondo la lettera di questi. Dagli alleati generalmente si esigeva che avessero gli stessi amici e nemici del popolo romano, e che riverissero la maestà di questo[191]: ma la prima condizione li privava del diritto di guerra e pace, e dava ai Romani quella di passarvi coll'esercito, di farvelo mantenere, di chiederne soldati; l'altra attribuiva a Roma la superiorità del patrono sul cliente: perciò i legati investigavano e decidevano nel paese amico, metteansi arbitri nelle querele; il senato, guardiano del diritto, pacificatore universale, dava o toglieva l'immunità, l'indipendenza; e chi resistesse a' suoi ordini, consideravano come irriverente, come un superbo da debellare. Ma alla natura umana come tale non aveasi riverenza; il forestiero non poteva tampoco possedere, ottener giustizia, entrare in relazioni di proprietà con un cittadino romano; fosse privato o nazione, solo per mezzo d'un patrono o d'un ospite poteva aver sicurezza garantita, e stare in giudizio; finchè non venne stabilito anche un pretore _peregrino_, che proferiva sopra le liti tra forestieri e cittadini. E nel discutere e risolvere i litigi dei tanti stranieri accorrenti a Roma, si compararono le differenti legislazioni; e que' principj che trovavansi comuni a tutte, compresero essere insiti alla natura umana e ne dedussero un diritto, proprio di tutte le nazioni civili. Gli editti pretorj essendosi estesi con successive aggiunte, sentivasi il bisogno di raccorli, ordinarli, armonizzarli. Ofilio, contemporaneo di Cicerone, pel primo gli avea radunati: più famosa opera prestò Salvio Giuliano (t. iii, p. 246), che scelse i migliori e più opportuni, per ordine di Adriano imperatore; il quale nel 131 fece dal senato approvare quella compilazione (_Editto Perpetuo_), forse allorchè istituì i quattro giuridici per l'Italia. Se con ciò abbia tolto ai pretori la facoltà legislativa di modificare l'editto, non è certo[192]. In questo lavoro, che servì di testo ai legisti, Giuliano non introdusse nuovi principj, pure cambiò il diritto coll'eliminarne ciò che più non confacevasi al tempo. Molti lo tolsero a commentare, incominciando Giuliano stesso; indi Pomponio ed Ulpiano in ottantatre libri, Paolo in ottanta, Furio Antico in cinque, e Saturnino e Gajo; oltre i moderni che tentarono rintegrarlo. L'effetto di questa buona istituzione che fissava norme comuni al governo dell'impero, incagliossi in due altre: la prima fu l'autorità concessa alle risposte dei prudenti; l'altra le costituzioni imperiali. Anticamente qualunque pratico di leggi rispondeva ai consulenti, senza bisogno di licenza; ma Augusto, accorgendosi quanto la loro autorità varrebbe a introdurre principj nuovi, conforme alla nuova amministrazione, prescelse taluni, le cui risposte si considerassero come date dall'imperatore stesso. Fu dunque un privilegio la dignità de' giureconsulti, i quali esponevano gli avvisi loro; se unanimi, acquistavano forza di legge; in caso di disparere, il magistrato decideva: modo opportunissimo a togliere di mezzo le discussioni di diritto, che poco s'acconciano colle monarchie. Per un rescritto d'Adriano tale privilegio restava comune ai giureconsulti classici, senza bisogno di particolare domanda[193]. Il cambiamento di costituzione avea introdotto una nuova fonte di diritto. Dapprima non v'avea che leggi e editti; pochi senatoconsulti ci restano dei tempi repubblicani[194], perchè il senato, assorto dalla politica, del diritto civile abbandonava la cura ai tribuni; ma venuti gl'imperatori, su questo concentrò l'attenzione, esclusa dalla politica. Intanto la rivoluzione morale e la economica s'andavano compiendo; la nuova religione aveva insegnato un'eguaglianza ed una libertà che rinnegavano gli inveterati privilegi; l'astuta cupidigia, sottentrata all'energia ed alla politica ambizione, esigeva leggi meglio combinate per mettere barriera all'egoismo crescente. Più non bastando pertanto la tradizione avita, gl'imperatori si trovavano costretti intervenire ogni tratto, moltiplicando le costituzioni; e fu istituito che gli _atti_ loro avessero forza di legge. Di questi alcuni introducevano veramente un nuovo diritto (_mandata, edicta_); altri non facevano che chiarire o applicare il già esistente (_rescripta, epistolæ, decreta, interlocutiones_): compilati dai migliori giureconsulti, erano avuti in molta stima, massime quanto all'applicazione del diritto[195]. Aggiungansi le _sanzioni_ o _formole prammatiche_, rescritti imperiali pel governo delle provincie, diretti ad università o ai governatori come ordinanze speciali sull'esecuzione di leggi. Sul fine dunque dell'impero, fonti del diritto si riguardavano, per la teorica, le XII Tavole, i primitivi plebisciti, i consulti del senato, gli editti dei magistrati, le consuetudini non iscritte: ma nell'uso non cadevano se non gli scritti dei giureconsulti classici e le costituzioni imperiali. De' giureconsulti i più si attennero all'ordine pratico, quello cioè dell'Editto Perpetuo[196]; sebbene alcuni seguissero classificazioni filosofiche, come fecero Gajo ed Ulpiano, che distinsero i diritti spettanti alle persone, alle cose, alle azioni. Quel che oggi a noi pare di tanto rilievo, la determinazione storica delle leggi, è da essi negletta, se non venga assolutamente necessaria per comprendere il diritto: più volentieri fermansi a svolgere l'origine delle opinioni de' giureconsulti, e i principj da essi introdotti[197]. Per quanto concordi nel fondo, i giureconsulti formarono delle scuole, che poi vennero a conflitto, come succede ogniqualvolta il ragionamento si applichi a discussione. Già ai tempi d'Augusto contrastavansi Antistio Labeone e Atejo Capitone; il primo fedele agli antichi privilegi, l'altro ligio all'imperatore; questo sottomettendo l'intima essenza del diritto all'indipendente esame della ragione, desideroso dei progressivi perfezionamenti; quello attaccato al positivo, alla lettera, alle dottrine tradizionali; rappresentanti insomma della più generale divisione fra le dottrine, quella del progresso e quella della conservazione[198]. I giureconsulti poi si spartirono: gli uni denominati Sabiniani in grazia di Sabino scolaro di Capitone, gli altri Proculejani da Proculo scolaro di Labeone, che propendeva a una trattazione più filosofica e storica del diritto, e a dar regole generali all'ermeneutica giuridica. Poi nuove scuole sorsero, distinte fra sè o pel metodo, o pel punto di partenza, o pel fondo della loro discussione; quali preferendo lo stretto diritto, quali il diritto equo, quali i principii teorici, quali l'espression della legge, finchè si avvicinarono nella convinzione che il gius positivo non può perfezionarsi meglio che coll'unire i metodi diversi. I libri dei giureconsulti esercitarono maravigliosa efficacia sull'avvenire, perciocchè in parte chiarirono il diritto, e furono posti a contributo da Giustiniano[199], altri pervennero fino a noi, istruzione e guida, e talvolta impaccio ai giurisperiti ed ai legislatori, e per lungo tempo legge comune negli Stati moderni. Lungo sarebbe il dire di tutti quelli che acquistarono nome in sì importante scienza, la cui storia fu descritta da Sesto Pomponio romano, insigne giureconsulto, in un frammento, prezioso malgrado alquanti errori di fatto[200]. Lo pareggia Salvio Giuliano testè citato, probabilmente milanese, che viveva ancora sotto Antonino Pio; sostenne cariche eminenti; oltre compilare l'Editto Perpetuo, scrisse novanta libri di _Digesti_, di cui nelle Pandette si conservarono frammenti. Nei settant'anni fra Antonino e Alessandro Severo furono compilate le _Istituzioni_ di Gajo in quattro libri, di Fiorentino in dodici, di Callistrato in tre, di Paolo e d'Ulpiano in due, di Marciano in sedici. Tutte si smarrirono, eccetto quelle di Gajo Tazio romano, rimaste ignote fino al 1816, cominciate sotto Antonino, finite sotto Marc'Aurelio, e formano il fondo di quelle di Giustiniano[201]. Erano destinate ad insegnare il diritto, e sono l'opera che, a malgrado delle troppe lacune, più particolarmente c'informa del diritto classico, ed anche de' costumi, delle istituzioni, della società pubblica e della privata; onde la loro scoperta fu per la scienza storica del diritto romano un acquisto, qual non toccò a verun'altra parte analoga delle cognizioni umane, improvvisamente aprendo una delle migliori fonti, inesplorata fin allora. Seguirono altri giureconsulti, finchè arrivano i più celebri, e principe fra essi Emilio Papipiano fenicio, prefetto al pretorio e presidente al consiglio privato di Settimio Severo, mandato a morte da Caracalla perchè non volle giustificarne il fratricidio. Giulio Paolo padovano e Domizio Ulpiano fenicio, assessori suoi nel consiglio di Stato, composero moltissime opere, tanto accreditate che gli estratti d'Ulpiano formano un terzo delle Pandette, un sesto quelli di Paolo; anzi può dirsi che fondo di quelle sieno i loro commenti sull'Editto Perpetuo. Di settantotto opere di Paolo trovasi cenno nel Digesto; oltre i cinque libri di _Receptæ Sententiæ_, che contengono tutti i principi giuridici non contestati, disposti coll'ordine dell'Editto Perpetuo. A volta a volta pecca d'oscurità; mentre preciso e chiaro procede Ulpiano, quantunque molti solecismi semitici rivelino la sua origine. Le opere de' giurisperiti, dotate d'autorità giuridica, formavano un'intera biblioteca; sicchè era da pochi l'averne copia, e da pochissimi lo studiarne gl'intendimenti: poi qualora uno dissonasse dall'altro, a quale appigliarsi? Convenne dunque gl'imperatori designassero quali preferire; e prima Costantino autorò gli scritti di Paolo, e specialmente le _Receptæ Sententiæ_, abolendo le note di Ulpiano e Paolo sopra Papiniano[202]; poi Valentiniano III determinò quali costituzioni imperiali e quai rescritti potessero allegarsi, quali tenersi per leggi comuni, eccettuando i rescritti per negozj particolari, od estorti dai litiganti in opposizione alle leggi. Quanto al modo di valersi de' giureconsulti, attribuì vigore legislativo a Papiniano, Paolo, Gajo, Ulpiano, Modestino; ove discordassero, valeva l'opinione dei più; ove pari, quella di Papiniano; e s'egli non parlava, decidesse la prudenza del giudice. Singolare e veramente unico tribunale, in cui l'imperatore, per isgravarsi del rendere egli stesso il diritto, lo restringeva a citazioni. Al consiglio de' classici giureconsulti, fioriti da Augusto fino a Caracalla, vanno attribuite le più savie, precise e circostanziate disposizioni intorno ai diritti reali ed alla famiglia, ed altri veri miglioramenti indotti nella legislazione; merito in parte alla natura della nuova costituzione, nella quale l'imperatore non era inceppato dai privilegi d'alcun corpo, e i cittadini, distolti dalla vita politica, ne cercavano un compenso dall'ottenere la massima indipendenza civile; in parte maggiore alle nuove dottrine che i Galilei opponevano alle superbe ed inumane delle scuole antiche. L'efficacia dello stoicismo, modificato dal cristianesimo, si sente in essi quando Fiorentino insegna che la schiavitù è un'istituzione del diritto delle genti contro natura, e che natura stabilì una specie di parentela fra gli uomini; e Ulpiano, che tutti gli uomini quanto al diritto naturale sono eguali e nascono liberi[203]. Ma que' giurisprudenti teneano ai pregiudizj dei tempi pagani, allorchè non eransi ancora introdotte tante alterazioni rispetto alle persone, ai legati, alle obbligazioni, alle forme, alla procedura. I giudici dunque si trovavano strascinati due secoli addietro, e incatenato il diritto alla latina pertinacia e a idee formaliste, di cui i precedenti imperatori si erano affaticati a spastojarlo. Anche ridotta la giurisprudenza a quella meccanica applicazione, e malgrado le scuole all'uopo istituite, ogni giorno cresceva la difficoltà d'intendere gli scrittori; sempre nuove complicazioni recavano gl'incessanti rescritti degli imperatori, massime di Costantino, venuto a compiere ed attestare la nuova rivoluzione. Come doveva riuscir lungo lo studiare, imbarazzante l'applicare tante leggi, spesso abrogate e derogate! come avvilupparsi la giustizia in un labirinto, ove non era avviata da canoni prefissi! Unico rimedio sentivasi il raccogliere i decreti e le sentenze ancora vigenti, disporle sistematicamente, formare insomma un codice. Già temendo che Costantino, per favorire alla religione adottata, non disperdesse le leggi de' suoi antecessori, due giureconsulti aveano unito quelle pubblicatesi da Adriano a Diocleziano, formandone i codici, che dagli autori trassero nome di Gregoriano ed Ermogeniano: impresa d'autorità privata, opportuna ma non legale. Teodosio il Giovane eternò la propria memoria con un divisamente degno de' Cesari più illustri, quale fu la prima raccolta autentica delle costituzioni romane. Con solenne editto elesse otto personaggi di grande scienza e dignità, i quali la compilassero sulle norme ivi prefisse; radunate le leggi, si disputerebbe della loro convenienza, per formarne un codice espresso con semplicità; si tralasciassero le costituzioni degli antecessori di Costantino, registrate nei codici di Gregorio ed Ermogene, attesochè quell'imperatore, coll'abolire le formole e solennità antiche, aveva mutato faccia alla giurisprudenza, e quindi messe fuori d'uso gran parte delle istituzioni precedenti. L'opera fra tre anni fu ridotta a compimento in sedici libri, di cui i primi cinque concernono il diritto civile, gli altri il pubblico e le cose della religione; e nel 438 fu promulgata in ambi gl'imperi, acciocchè avesse preminenza sopra ogni altra legge[204]. Compilato a precipizio in tempi di scadente letteratura e fra gli sgomenti de' Barbari, il codice Teodosiano riuscì deteriore; limitandosi alle leggi posteriori a Costantino, cioè fatte sol dove tacessero le antecedenti, ne tralascia d'importanti, mentre ne inserisce alcune d'interesse affatto parziale; vane repliche, errori di data e di soscrizione, mutilazioni di leggi, irragionevole partimento disabbelliscono quel lavoro; per renderli concisi, oscuraronsi alcuni testi; talvolta le rubriche sono più particolari che il testo, talaltra affatto dissone da questo; benchè l'imperatore esigesse perfetta ortodossia, vi s'insinuarono leggi favorevoli all'aruspicina; del _divino_ Giuliano è riferita la costituzione dove ai violatori de' sepolcri minaccia l'ira degli Dei Mani; il privilegio antico, che reclama la libertà del divorzio e del concubinato, attaccasi alle leggi Papia ed altre, posteriori al trionfo dell'equità. Insomma, piuttosto che un concetto creatore, vi si scorge una fatica da compilatori: eppure, a tacer la scienza legale, non v'è libro che meglio conduca alla cognizione di quel secolo, e principalmente della lotta estrema del privilegio patrizio e nazionale coll'equità universale. Perocchè, da sì varie fonti emanata, la giurisprudenza romana non poteva armonizzarsi in un bell'insieme; gli elementi eterogenei, venuti a transazione faticosa dopo lotte ostinate, ancor si discernono; fino i più arditi giureconsulti si acconciano alla patria ed al tempo: sol quando, caduto l'impero romano, restò dominante il cristianesimo, che dava vinta la causa all'equità, un più compito lavoro potè eseguirsi dall'imperatore Giustiniano. Quest'impresa appartiene all'impero d'Oriente, e all'età in cui l'Italia era occupata dai Barbari; sicchè noi ci limiteremo a dire come il dotto Triboniano e i collaboratori a ciò eletti cominciarono dal raccogliere tutte le leggi, ordini, rescritti degl'imperatori, cristiani fossero o gentili; e disponendoli secondo l'Editto Perpetuo, formarono il _Codice_ giustinianeo, decretato il 528. Non potendo un codice abbracciare tutti i casi e sminuzzarsi sopra ciascun accidente, occorreva di ricorrere alle opere de' giureconsulti per le spiegazioni e l'applicazione particolare. Ma poichè quella moltiplicità di responsi chiedeva lunghissimi studj, e spesso le sentenze erano irreconciliabili, si pensò estrarre da essi i più importanti teoremi di ragion civile. Duemila volumi si spogliarono a tal uopo, riducendoli in uno, ove in sette parti di cinquanta libri, sotto quattrocenventidue titoli, si trovarono classificate novemila cenventitre leggi, portanti ciascuna il nome di chi l'aveva emanata: nè i compilatori ci lasciarono ignorare quanta fatica sostenessero per aver ridotti a cencinquantamila i tre milioni di versi o, vogliam dire, sentenze de' loro autori. L'opera, pubblicata nel dicembre 533, fu intitolata _Pandette_[205], perchè abbracciava intera la giurisprudenza romana, o _Digesto_, perchè esse leggi v'erano classate con metodo: e quantunque le decisioni di casi particolari trascendano d'assai la vera legislazione, pure questo è l'unico codice compiuto che i Romani abbiano posseduto dopo le XII Tavole. Perdettero allora la giuridica autorità le decisioni de' prudenti, che non fossero ammesse nelle Pandette; la qual cosa fece trascurar le fonti, e smarrirsi così le XII Tavole, l'Editto pretorio, il papipiano, l'ulpiano e quegli altri che tanto or verrebbero destri per chiarire assai punti oscuri nella scienza del diritto. Neppur tutte le ammesse valsero per legge; ma le decisioni ed interpretazioni si considerarono come tali e nulla più. Ai copisti fu vietato lo scriverle con abbreviazioni, ed agli interpreti il commentarle altrimenti che parola per parola. In acconcio della gioventù, Giustiniano commise a Triboniano, Doroteo e Teofilo, consultando i compendj degli antichi giuristi, e principalmente quello di Gajo, componessero un corso d'_Istituzioni_ in quattro libri: il primo che tratta delle persone, il secondo delle cose, il terzo delle azioni, il quarto delle ingiurie private, coronandoli cogli elementi criminali. Come il Digesto, e quasi al tempo stesso, ottennero forza di legge; e benchè al bello stile de' giureconsulti classici e al romano spirito di questi si mescolassero parole barbare e idee servili, di immenso prezzo riesce quell'opera vuoi per la storia, vuoi per la intelligenza del diritto. Ma poichè tra il fare comparvero soluzioni e pareri contraddittorj, fu duopo ricorrere all'oracolo sovrano, che pronunziò cinquanta decisioni. Giustiniano le volle innestate ai luoghi convenienti nel Codice, onde nel novembre 534 ne fece una seconda edizione (_Prælectio repetita_), che sola a noi pervenne, in dodici libri di settecentosettantasei titoli, contenente costituzioni di cinquantaquattro imperatori da Adriano in giù. Poi forse ducento nuove costituzioni portò Giustiniano, che furon dette _Novelle_, e che i glossatori raccolsero in gran parte, e con poche altre di successivi imperatori distribuirono in nove collezioni. Molta confusione giuridica e morale derivò dallo sbranare lo studio della giurisprudenza in modo, che da un lato si accumulassero le opinioni dei legisti, originate talvolta da particolari circostanze de' consulenti; dall'altro le decisioni imperiali, autorevoli per l'origine; inoltre quelle prime compendiare, mutilare, disgiungere dalle antecedenti, lasciandole così oscure ed ambigue, eppure da concepimenti privati elevarle a dignità legislativa; nelle altre insinuar quelle dettate da spirito diverso, e fin ostile. Non che s'ardisse ad una legislazione nuova e originale, Giustiniano veruna fondamentale istituzione non introdusse, nè tampoco seppe ridurre d'accordo le contraddittorie che regolano le sociali e le domestiche relazioni dei Romani. Suggerite da accidentali bisogni, e spesso varie d'intento secondo il magistrato popolare o patrizio, conservatore o progressivo che le avea pronunziate, cozzano fra sè: quelle da lui promulgate contraffanno sovente alle consuetudini[206] e al diritto antico, ch'egli non osa annichilare secondo avrebbe chiesto la mutata condizione del mondo: nè seppe sinteticamente raccogliere i frutti della sperienza pubblica e privata, in un accordo robusto che veramente meritasse nome di legge, come avviene ne' codici moderni. Se non che a sgravio de' compilatori vuolsi riflettere ch'essi non si dirigevano a scientifico intento, ma puramente alla pratica: e in ciò ben riuscirono; e quantunque obbligati ad indagar le fonti in una letteratura straniera all'Oriente dov'essi viveano, nella scelta procedettero così accorti, da rimanere anch'oggi la più fedele espressione dello spirito del diritto romano. Sotto tale aspetto, e perchè formato sopra lavori del tempo che descriviamo, noi discorriamo qui del _Corpo del diritto civile_, e non sarà discaro che con esso c'indugiamo attorno a quella legislazione che tanta efficacia esercitò sulle successive, e al progredir suo man mano che abbracciava maggior numero d'uomini, finchè a tutti si estese col cristianesimo. Tre cose son nostre, la libertà, la città, la famiglia, dice Paolo: e la testa (_caput_) d'un cittadino era appunto costituita da queste tre qualità, protette dal gius civile. La libertà s'acquista per nascita o per manumessione, si perde per condanna giudiziaria o per prigionia: giacchè talmente riconosciuto era il diritto della forza, che il Romano caduto prigioniero di stranieri, foss'anche un console come Regolo, perdea la qualità di cittadino e d'uomo; era riscattato da un Romano? restava servo di questo, finchè non se ne fosse ricompro. La cittadinanza acquistavasi per nascita, per naturalizzazione, per affrancazione: perdeasi per la relegazione o la deportazione, o pel naturalizzarsi in uno Stato forestiero, cioè che non avesse il diritto di cittadinanza, quantunque appartenesse all'impero. A noi, avvezzi a vedere tutte le parti d'uno Stato sottostare alle medesime leggi, è difficile comprendere la diversità de' legami che univano a Roma i vinti e gli aggregati: ma il nuovo codice portando in fronte _Nel nome del signor nostro Gesù Cristo_, il diritto veniva essenzialmente mutato da una religione che, al contrario delle dottrine uscite dai santuarj d'Etruria e di Grecia, proclamava esser gli uomini eguali; non la forza, ma ragione e carità aver a dirigere il mondo; e sommo rispetto doversi a ciascuno, non perchè cittadino, ma perchè uomo. Ne conseguì che il diritto delle genti prevalesse affatto sopra quello de' Quiriti. Tale lotta noi seguimmo già ne' politici ordinamenti, nelle leggi sui debitori, nelle successive acquisizioni del tribunato. Anche delle relazioni fra patroni e clienti, liberi e schiavi, ingenui e liberti, cittadini e provinciali, a lungo abbiamo e ripetutamente divisato. Qui cercheremo il progredire dell'equità in quella ch'è fondamento della civile convivenza, la famiglia romana. Questa anche nell'ordine privato non era naturale, ma creazione del diritto civile, abbracciando tutte le persone discendenti per maschi da un autore comune, ovvero entrati in essa per adozione o per manucapione. La donna è moglie pel marito, è madre pei figliuoli, ma non rimane compresa nella famiglia pel solo fatto del matrimonio; vi dà dei figliuoli, ma non è di loro famiglia. I figliuoli stessi possono esserne stranieri, mentre ne fanno parte straniere persone; attesochè fondamento non ne è il matrimonio, come da noi, bensì la potestà. Il padre è re in casa; nella propria persona assorbisce quella della moglie, dei figli, dei discendenti; giudica fin della loro vita. Ordinamento tirannico al modo orientale, vigorosissimo a conservar le case e la disciplina, restringendo i diritti domestici e di successione ad una parentela meramente civile (_agnatio_). La favola primitiva di Roma atteggiava fanciulle sabine di buona casa, rapite dai grossolani masnadieri di Romolo, i quali redimono il rapimento col rispetto, e ad istanza di esse si rappacificano coi Sabini; nel trattato si obbligano a non costringerle mai a girar la macine o preparare il pranzo, ma solo a filar lana. Per legge le donne non potevano esser tradotte al giudice degli omicidj, reputandole incapaci di tal delitto[207]; duranti le feste a loro onore, gli uomini doveano cedere ad esse il passo. Malgrado questo rispetto, che le differenzia dalle orientali, pesava sopra di esse la rigidezza della potestà domestica. I patrizj conoscono soltanto le _giuste nozze_, contratto d'impreteribile solennità, pel quale la matrona diviene parte della famiglia (_materfamilias_), e mediante la formalità della confarreazione, o una compra (_coemptio_), o l'usucapione, è ridotta in assoluta dipendenza dalla maestà del marito (_in manum convenit_), a segno che nulla possiede in proprio, può da quello esser venduta, giudicata, fin messa a morte per deliberazione presa coi parenti[208]. Al contrario nel _matrimonio_ plebeo la moglie (_uxor_), non che diventi schiava allo sposo, serba il godimento de' proprj beni, e può fino convenir il marito in giudizio. La seconda forma prese col tempo vigore ed estensione, mentre invecchiò l'altra. Pertanto, invece d'entrare nella famiglia del marito, le matrone rimanevano spesso in quella del padre, indipendenti da quello: vivo lui, doveano aver un assegno per le spese di casa; morto, ne ereditavano i beni, in solo usufrutto è vero, ma pure amministrandoli a voglia, senza dipendere dal marito. Ne derivava alla donna un'aria d'eguaglianza e talora di superiorità; il marito, per ottenerne prestiti, dovea farle delle concessioni[209], oppure essa armavasi dei titoli di creditrice. I comici, non meno del censore Catone, schernivano cotesta indipendenza, causata dalla dote: eppure essa avviava la donna all'emancipazione. Al tempo di Teodosio e Valentiniano trovansi le donazioni _avanti nozze_, ma come istituzione già consueta. Furono introdotte quale un compenso della dote, e stipulavansi prima, atteso che le donazioni tra marito e moglie erano nulle. Tale donativo rimaneva immune dall'azione de' creditori, e se il marito fosse insolvibile, la donna aveva un'azione personale ed anche reale per farselo attribuire. La sorte di lei e de' figli era dunque assicurata dalla dote e dal dono antenuziale. Cessando il matrimonio, il marito ripigliava su questi la pienezza de' diritti, come anche per colpe della moglie determinate dalla legge. In caso di sopravivenza, ella avea diritto ad una porzione. Così via via s'accostava la donna a quella libertà che poi ottenne piena col cristianesimo, e che la sottrasse all'assoluta potestà maritale, facendola _consorte_, non serva, dandole l'uguaglianza legittima, conservandole la padronanza ne' suoi beni, ed obbligando il marito ad una donazione per nozze, equivalente alla dote ricevuta[210]. Da principio non dovea confondersi un ordine coll'altro: dappoi, per la legge Canuleja del 445 avanti Cristo, i plebej possono unirsi in matrimonio con patrizj: poi, per la Papia Poppea del 9 dopo Cristo, l'ingenuo può mescolarsi al liberto: infine, al tempo di Giustiniano, il sangue senatorio potè innestarsi con quello della liberta e della prostituta senza avvilirsi. Anticamente la madre rimaneva esclusa dall'eredità legittima del marito, e solo se cadesse in miseria, ne riceveva una parte[211]; se il marito le lasciasse ogni aver suo, non ne toccava che un decimo; e nessun dono poteva accettarne. Ma le leggi Giulia e Papia Poppea le attribuirono un decimo dell'eredità del marito se avesse un figlio, un terzo se tre, volendo in ogni modo favorire la moltiplicazione della prole: a questo intento, la madre potea col marito ereditare da uno straniero. Nemmeno dai figli redava in origine la madre, nè essi da lei: ma al tempo di Claudio, essendo morti tre figlioletti, unica delizia della genitrice, l'imperatore ne fu commosso, e lei dichiarò erede universale. L'eccezione divenne regola, e l'affezione un titolo; e sotto Adriano e Marc'Aurelio, i senatoconsulti Tertulliano ed Orfiziano assegnarono alla madre una porzione legittima ed eguale alla paterna nell'eredità de' figli, come a questi nella materna eredità. Anche dalla perpetua tutela s'emancipò allora la madre, perocchè un senatoconsulto, imperante Claudio, proferì che l'ingenua la quale avesse tre figli, o la liberta la quale n'avesse quattro, per questo solo fatto rimarrebbero dispensate dalla tutela dell'agnato: la tutela stessa del padre fu poi ristretta alla minore età. Sopraviveva, gli è vero, la tutela _atiliana_, per cui una donna non poteva stare in giudizio o far contratti senza un curatore[212]; ma col dare a lei i diritti di tutrice venivasi a eluder quella, e mostrarne l'assurdità. In fatto dapprima si permise alla donna di sceglier essa medesima il tutore: ma divenuta questa tutela o inutile o viziosa, fosse di scelta loro od imposta dalla legge (_ottativa_ o _dativa_), Costantino la abolì riconoscendo alle donne diritti eguali all'uomo, e Giustiniano cassò dal suo codice tutto quanto rammentasse le antiche restrizioni, e decretò alla madre o all'avola la tutela legale di pien diritto[213]. Merito ancora del cristianesimo, che nella vita attiva diede alle donne una posizione quale non aveano mai avuta sotto il patriziato romano, e che esse eransi meritata col loro zelo alle conversioni, coll'eroismo al martirio e alla carità[214]. Le seconde nozze erano state incoraggiate dai primi imperatori; nè il cristianesimo le riprovò, quantunque paressero indizio di debolezza. Gl'imperatori cristiani provvidero che l'interesse de' figliuoli non restasse deteriorato quando il padre o la madre passavano ad altro letto[215]. La donna, ond'essere romanamente considerata moglie, bisognava fosse di classe conveniente, ed entrasse in casa colle richieste formalità, coi riti sacri e cogli Dei penati; diversamente era _concubina_, non partecipe all'acqua, al fuoco, al culto interiore: matrimonio inferiore, sprovvisto di solennità, solubile, eppur regolato dal diritto naturale, e che serviva a coprire unioni libere ma non viziose di chi non voleva gli eccessivi legami del matrimonio legale, o sposava liberte; i figli consideravansi naturali, e non aveano i diritti de' legittimi verso il padre, bensì verso la madre. Gl'imperatori cristiani non osarono batter di fronte questa consuetudine[216]; solo provvidero meglio alla legittimazione. Leone il Filosofo abolì poi il concubinato in Oriente: in Europa si protrasse fin dopo il Mille. Esercitando il diritto suo sopra il matrimonio quale sacramento, la Chiesa vi pose ordinamenti, e tolse di guardarlo come semplice contratto d'interesse e di piacere. Meglio fu tutelata la libertà della donna nella scelta dello sposo[217], tanto più da che contro la violenza offriva rifugio la verginità onorata e sacra. Le nozze romane non s'intendevano _giuste_ se non vi consentissero e i contraenti e quelli in cui potestà erano: che se padre e madre negassero il consenso senza motivi, il governatore della provincia poteva concederlo, e prefiggere la dote. Perchè i riguardi non impacciassero la volontà, nessun magistrato doveva contrar parentela nella provincia che reggeva; e se vi facesse sponsali, era in arbitrio della donna lo scioglierli, uscito ch'egli fosse d'autorità. Nè il tutore potea farsi sposa o nuora la pupilla. Incestuosi guardavansi i maritaggi tra genitori e figli anche adottivi, tra fratelli e sorelle. Restavano sciolti quando il marito cadesse schiavo o prigioniero, o per cinque anni non se ne avesse contezza. La Chiesa, volendo purificare tutte le relazioni civili e sottoporle a norme spirituali, crebbe gl'impedimenti, e chiamò _impedienti_ gli uni, _pubblici_ o _dirimenti_ gli altri[218]. Dovendo i Cristiani vivere in legame di carità e in unione di credenza e di pratiche, bisognò proteggere i costumi con maggiori divieti, e insieme propagare a lontane famiglie que' vincoli di benevolenza che già esistono tra parenti: furono quindi proibiti i matrimonj tra figli di fratelli, sotto l'esorbitante pena del fuoco e la confisca de' beni; ed anche lo sposar nipoti nè cognate[219]. Facevano impedimento l'adulterio e il ratto; e come nel diritto romano era d'ostacolo l'adozione, così nel diritto canonico la parentela spirituale. I santi Padri ebbero sempre come pericolosi i matrimonj con infedeli: sotto il qual nome le leggi civili intesero poi soltanto gli Ebrei, giacchè i Pagani sempre più scomparivano; più tardi furono vietate le nozze anche con eretici. Per simboli antichi il matrimonio dovea simulare una violenza, e la sposa essere fra i pianti divelta dalle braccia materne per passare in quelle del marito. Cinque tede di pino ed una di biancospino; i capelli della ragazza divisi sulla fronte col ferro d'una lancia; le monete ch'essa dava allo sposo; l'invocato nome di Talasso; l'ungere il chiavistello della porta maritale, e varcarne la soglia a braccia d'amici per non incespicare; la focaccia di farina, sale e acqua, ed altri riti antichi, avevano perduto significazione, fin per gli eruditi. Però gli sponsali non andavano senza solennità; e il fidanzato dava alla sposa un anello, ponendoglielo sul quarto dito, che (tradizione egizia, non ancora spenta fra il vulgo) credeasi comunicare per un nervo sottilissimo col cuore. Il cristianesimo semplificò questi riti: ma fin dai primi tempi si esigeva che gli sposi dichiarassero al vescovo l'intenzione di contrar nozze, cerimonia surrogata alle sponsalizie del diritto civile[220]; e gl'imperatori resero obbligatorio tale atto. Generalmente si dava la benedizione; ma solo nell'VIII o IX secolo fu dall'autorità reputata necessaria a render valido il matrimonio; nel diritto canonico non si tenne mai per indispensabile[221]. Sotto la legge Papia il matrimonio si provava per semplice presunzione, e, come ogni altro diritto, per l'uso e il possesso; nè occorreano magistrati per sancirlo, quasi il legislatore avesse sdegnato d'intervenire ad autenticare un obbligo, che ciascuna delle parti potea rescindere a talento. Nasceano dissapori in famiglia? se non fossero tolti da preghiere sporte alla dea Viriplaca, o dal pranzo che imbandivasi il 19 febbrajo (charistia), si consentiva il divorzio, non altro esigendosi se non che uno dei conjugi mandasse all'altro il libello, in presenza di sette cittadini. Elevato il matrimonio a dignità di sacramento, dalle leggi fu derogata la facilità procellosa de' divorzj, e specificatene le cause. La donna poteva separarsi dal marito se omicida, avvelenatore, sacrilego, impotente, o per lunga assenza e professione monastica; in ogni altro caso ella era rimandata spoglia d'ogni ricchezza ed ornamento: ma poteva far esigliare, e trarre a sè gli averi di quella che il marito introducesse nel suo talamo. La Chiesa non permise mai il divorzio nel senso civile; che se gli sposi separavansi, non poteano contrarre altri nodi[222]. Del passo medesimo si addolcì la paterna assolutezza, non derivante dal sangue, ma dalle formole delle giuste nozze, e dalla finzione civile dell'adozione e dell'arrogazione. Era essa illimitata, sin a poter esporre o diseredare i figliuoli, i quali, sebbene fossero indipendenti pel diritto civile, e votassero nella tribù e nella classe del padre, pel diritto privato restavano non soltanto soggetti, ma in proprietà del genitore, per qualunque età o grado o magistratura avessero, salvo se fossero emancipati con finta vendita. Questa faceasi dal genitore a persona terza, la quale gli dava a peso il denaro convenuto, ripetendo l'atto tre volte, giacchè per altrettante la legge permetteva al padre di vendere il figlio; dopo di che il compratore lo menava ad un crocevia, e gli dicea: — Va dove t'aggrada». Chi non avesse figli poteva adottarne o arrogarne, col che su loro acquistava diritti e doveri di padre, e tramandava ad essi il nome e i beni; mezzo di perpetuar le famiglie, che nell'aristocrazia sono il tutto. Dalla centralità del potere imperiale discordava quella giurisdizione privata de' padri; e il contrasto che la nuova generazione convertita aveva esercitato verso la vecchia pertinace, invogliava a porre limiti alla potestà patria, da carnale mutata in spirituale. Costantino lo fece; tanto che il padre rimase capo rispettato della sua discendenza, arbitro di diseredare, d'infliggere correzioni moderate, di dettare al magistrato la sentenza severa che fosse reclamata dalla disciplina domestica: ma ai genitori micidiali de' proprj figli fu applicata la pena dell'omicidio[223]. Ai pupilli non ancora puberi, vale a dire ai maschi prima dei quattordici anni, e alle fanciulle prima dei dodici, che perdessero il padre, si destinava un tutore fra' più prossimi parenti paterni; e sin a Claudio non era questo obbligato a veruna cauzione. Fatti puberi, gli orfani non potevano disporre de' proprj beni avanti la maggiore età, vale a dire a venticinque anni, se non consenziente un curatore, destinato dal prefetto della provincia. Ogni guadagno del figliofamiglia apparteneva al padre. Se vivesse a parte e con mestiere differente, il padre gli abbandonava il peculio, in modo che potesse disporne, non però alienarlo a titolo gratuito, nè legarlo in testamento. Dopo Augusto, per equità si permise ai figliuoli di disporre di ciò che avessero guadagnato militando (_peculium castrense_): sotto Costantino vi si assimilarono i beni acquistati in uffizj civili ed ecclesiastici (_peculium quasi-castrense_) o per dote: infine il padre non restò erede del figlio ab-intestato, se non in una parte legittima; de' beni della moglie non gli rimase che l'usufrutto, spettandone la proprietà ai figliuoli. Gran progresso alla indipendenza di questi e al loro valor civile in una società che fin allora gli avea tenuti soggetti. Generalizzando poi quel concetto, e depurandolo dalle viete mescolanze, Giustiniano attribuì al figlio la proprietà di quanto entrava nel suo peculio _avventizio_[224]: del che s'applaudisce egli a nome dell'umanità, e avrebbe potuto dire, a gloria del cristianesimo. Sfasciasi dunque la famiglia legale per dar luogo al diritto umano; la gentilità cade in dimenticanza, e così il _nesso_ e l'_addizione_ dell'uomo libero; la mano e il _mancipio_ non sopravanzano che come finzioni, onde eludere certi rigori dell'antico diritto. Il figliofamigiia ottiene una capacità, uno stato, poi una proprietà; il gius pretorio favorisce i cognati, i parenti di sangue, e attribuisce loro sempre maggiori diritti; finchè dalle costituzioni imperiali restano cancellati gli effetti della prisca famiglia romana, che da prima politica, poi religiosa, poi di diritto civile privato, infine si riduce a naturale. La paterna onnipotenza e la nessuna cura dell'uomo se non in quanto era cittadino, palesavasi principalmente nell'infanticidio, costumato da tutti gli antichi. Romolo ordinò di conservare in vita la fanciulla primogenita: le leggi imponevano d'uccidere il neonato deforme o infermiccio: che il padre impoverito potesse vendere i figliuoli, risulta da Paolo, e fin sotto Costantino e Teodosio Magno se ne trovano prove autentiche, e san Girolamo ci porge i gemiti di una madre, i cui tre figli erano stati venduti dal marito per pagare il fisco[225]. L'abortire era una scienza, e Giustiniano dichiarava che il feto, non ancor venuto in luce, non è uomo: onde, se al padre gravasse l'educare altra prole, se la madre non volesse abbreviarsi la gioventù, se gl'indovini o la congiunzione delle stelle profetassero sinistramente, disperdevasi il concetto; o, dopo nato, il padre non lo levava di terra; col che intendevasi ch'egli non lo riconosceva, ed era gettato alla via a morire, se pure nol raccogliessero certi speculatori che, storpiatili, se ne servivano per eccitare la pietà de' passeggieri, o li riducevano eunuchi o nani. Primi i Cristiani levarono la voce a favore di quei tapini; poi li raccolsero per salvarne la vita e l'anima; Costantino decretò sussidj a chi fosse impotente a nutrire i figliuoli: ma l'uso di gettarli era talmente radicato, che non veniva punito; solo la legge voleva ne diventasse proprietario chi li raccoglieva, passando in esso la patria potestà e il diritto di trattarli come figli o come servi. Valente e Graziano costituirono pene a chi esponesse i bambini: finalmente Giustiniano, sostenuto dalle censure ecclesiastiche, abolì questa nefandità. Nel codice Giustinianeo è proclamata l'eguaglianza di tutti i cittadini avanti alla legge; abolite le orgogliose distinzioni de' tempi repubblicani, a ottenere cariche e comandi non valeva più l'esser nobile o plebeo, romano o barbaro, ma il merito o vero o supposto. Logicamente ne conseguiva il cassare l'altra più iniqua distinzione fra ingenui e schiavi; ma talmente era connaturata colla società, che lunghi secoli stentarono la civiltà e il cristianesimo prima di toglierla. L'antico diritto distingueva lo stato dell'uomo in naturale e civile. Per natura ha la libertà, cioè può fare ciò che la forza e il diritto non vieta, nè tal libertà può alienare: ma civilmente ammettevasi la schiavitù; e lo schiavo era diminuito del _capo_, cioè senza le tre cose che lo costituiscono, libertà, cittadinanza, famiglia; era cosa, non uomo. Come fosse trattato, non serve ripeterlo (Cap. XIX); ma gl'imperatori, contornati di schiavi e liberti, presero compassione per quella classe, con cui incrudelivano o straviziavano, e spesso divennero redentori degli schiavi quei ch'erano flagello dei liberi. Claudio pronunziò liberi i servi che nell'infermità fossero abbandonati dai padroni sull'isola d'Esculapio, e omicida chi li trucidasse per non mantenerli: la legge Petronia sotto Nerone impedì d'obbligarli a combattere colle fiere[226]: Adriano volle alle pene capitali non fossero condannati dai padroni, ma dal giudice, e potessero portar querela ai magistrati per mali trattamenti[227]: Antonino Pio costituì, che chi uccidesse il proprio schiavo fosse punito come l'uccisore dell'altrui, e i magistrati soccorressero a quelli che dai padroni fossero straziati, ovvero spinti all'impudicizia: Diocleziano permise allo schiavo di stare in giudizio o per costringere il padrone a concedergli la libertà dopo pagato il riscatto, o per vendicare la morte di quello[228]. Restavano però sempre come una _seconda specie d'uomini_[229], e una legge di Costantino, vietandole, enumera le atrocità usitate contro gli schiavi; toglierli di vita col laccio, la croce, le armi, o trabalzarli, o injettar loro veleno nelle vene, o strapparne a brani le carni, o arderli a lento fuoco, o perfino lasciarli imputridire vivi. Esso imperatore abolì la croce, consueto loro supplizio, e il marchio in fronte: se mandò assolto il padrone che uccidesse il servo nel correggerlo, lo dichiarò omicida se per deliberata volontà il mettesse a morte: nel dividere i coloni coi poderi, volle non si separassero i figliuoli dai genitori, dalle sorelle i fratelli, dai mariti le mogli[230]. Egli stesso agevolò le manumessioni fatte in chiesa e da chierici; e tante furono, che l'Impero si trovò affollato di poveri, cui la Chiesa dovette soccorrere con ospedali e sussidj. Se ne induceva la necessità di procedere lentamente: e l'avere un giorno l'effimero imperatore Giovanni abolita la schiavitù, fu un atto di que' rivoluzionarj che non riflettono al domani. Costantino lasciò sussistere gl'impedimenti frapposti da Augusto alla manumessione per testamento; pure diveniva consueta, e Giustiniano vi diede altrettanta libertà come alle manumessioni tra vivi. Egli stanziò che, chiunque cessava d'essere schiavo, acquistasse immediatamente la cittadinanza, abolendo la restrizione, di cui la legge Giunia Norbana circondava quelli fatti liberi _per lettera, fra amici_, o con formalità meno solenni; introdusse di liberarli _nelle sacrosante chiese_, giusto trovando che i ceppi dello schiavo si spezzassero a piè di quella croce, donde l'uomo era stato redento dalla servitù. A paro colle persone, venne svincolandosi la proprietà, le cui vicende sono il più significante testimonio della condizione di un popolo. Come fra i più antichi, così probabilmente fra i Greci essa era di natura religiosa: a Roma la troviamo municipale, sebbene in origine l'esser cittadino portasse forse la comunanza di riti. Da principio l'intera tribù acquistava proprietà sopra i campi da essa coltivati, dividendo come le fatiche così i frutti, e ripartendoli per famiglie o consorzj, obbligati a conservare e trasmettere la proprietà comune. A ciascun brano di privata si aggiungeva un pezzo di proprietà pubblica pei pascoli: dal che seguiva che, com'era comune la pubblica, così la privata dovesse unirsi in consorzj, e perciò rimaner solidale nei pesi pubblici. I Comuni però non erano unioni popolari, quali oggi le intendiamo, determinate dall'unità territoriale; sibbene aggregamento di alquanti consorzj. Talvolta parte di un consorzio si poneva sotto al patronato d'un senatore o d'una persona di Corte, e con ciò restava esente dai carichi, ad aggravio dell'altra parte. Ciò contribuì a sminuire i possessori liberi, moltiplicando i coloni e i servi. Gl'imperatori poco a poco aveano tratto sotto l'immediata loro protezione anche le città, solo garantendone alcune franchigie. I consorzj godeano pure di privilegi imperiali, contribuendo ai pubblici aggravj; e fu come consorzio che la nuova Chiesa crebbe e divenne governo. Fra le cose, alcune erano state appetite sovra le altre dalla semplicità guerresca dei prischi Romani, come la terra che costituiva la proprietà per eccellenza, poi le case, gli schiavi, le bestie da lavoro. Queste (dette RES MANCIPI perchè non s'acquistavano se non colla mancipazione o con altro atto legale) conferivano la condizione civile, e perciò erano regolate colla religione e coll'autorità pubblica, non poteano acquistarsi che dal cittadino, nè alienarsi senza formole pubbliche. Le altre cose di lusso e godimento, per quanto Roma arricchisse, furono sempre tenute da meno (chiamate res nec mancipi perchè vi bastava la tradizione, senza le solennità sacramentali della mancipazione), e regolavansi col diritto naturale. Da principio esiste un dominio solo; si possiede pel diritto de' Quiriti (_dominio quiritario_), o non si possiede. Solo il cittadino può avere tale dominio; solo farne oggetto le cose e il suolo _commerciabile_; escluse dunque le persone e le terre straniere: la provincia è proprietà del popolo, poi dell'imperatore; in essa e sopra ogni suolo che non fruisca del diritto italico, si hanno de' possessi, ma non la proprietà: sebbene poco a poco anche quelli acquistino i mezzi di tutela e i vantaggi della proprietà legale romana. Questa non può essere attribuita con modi diversi dalle romane prescrizioni: compite le quali, diviene assoluta, che che inganno o forza vi siano intervenuti. Dalle scuole stoiche i giureconsulti aveano dedotta la distinzione dei beni in cose materiali e no: contavansi fra le materiali quelle che possono toccarsi; le altre indicavano piuttosto diritti sulle cose stesse, fra cui i più importanti erano le servitù rustiche ed urbane, e le personali, cioè usufrutto, uso, abitazione. Alcune cose erano _sacre_, come i tempj; altre _religiose_, come i luoghi destinati a sepolture; altre sante, come le porte d'una città. Alcune erano di tutti (_res universitatis_), come teatri, stadj; alcune di nessuno, come i lidi del mare, i fiumi; o del primo occupante, come gli uccelli liberi, alla cui caccia unico limite era il rispetto dovuto ai fondi e alle siepi altrui. Acquistavasi la proprietà delle cose particolari colla prescrizione, col dono, colla compra, o colle successioni: le servitù, gli schiavi e le terre poste in Italia trasmettevansi col solenne rito della mancipazione. Ma accanto al dominio quiritario s'introduce un diritto meno perfetto, un possesso secondo il diritto delle genti, non giuridico ma di fatto, e che si definisce _in bonis habere_, avere tra i proprj beni; donde fu poi denominato dominio _bonitario_: gli editti pretorj lo proteggeranno, la giurisprudenza ne snoderà le regole, vi si annetteranno gli effetti utili del dominio[231]. I Cristiani non riconoscevano per padrona di tutto la patria; i possessi non deducevano dalla ragion di Stato, ma da Dio; laonde il civile diritto cedette a quel delle genti, e invalse la proprietà naturale; e quando si compilò il Codice, furono equiparate le cose màncipi e le non màncipi[232], il diritto quiritario e il bonitario, «ludibrio d'antica sottigliezza». Adunque da principio trovammo una sola proprietà _ex jure Quiritium_; alla fine, ancora una proprietà sola, ma aperta a tutti, in qualunque territorio, e in arbitrio del possessore il disporne. Speciali regolamenti ebbe l'enfiteusi ecclesiastica, o precaria, per la quale un podere veniva dalle Chiese conceduto con lieve canone per un tempo determinato, allo spirar del quale tornava ad esse con aggiunta d'altri terreni e coi miglioramenti. In prima il solo cittadino romano poteva testare[233], e in due maniere: o ne' _comizj calati_ il patrizio dichiarava alle tribù la sua ultima volontà; o sul campo di guerra il soldato avanti ai commilitoni (_in procinctu_). Da poi, cogli stessi riti onde trasferivasi il dominio, si facea la solenne dichiarazione dell'ultima volontà, presenti cinque testimonj e un pesatore, simulando vendere famiglia e beni ad un altro, il quale non era dunque erede ma compratore (_familiæ emptor_). L'editto pretorio modificò queste norme, accordando valore (_possessio bonorum_) a qualunque testamento portasse il suggello di sette cittadini. Sotto gl'imperatori la dichiarazione d'ultima volontà potè farsi davanti un magistrato, e alla curia municipale, iscrivendola ne' protocolli; donde il testamento _autentico_. Infine Valentiniano III introdusse il testamento _olografo_. L'istituzione dell'erede, ch'era il punto essenziale, dovea farsi in termini imperativi; ma Costantino alla necessità delle formole surrogò la semplice espressione di volontà. Chi avesse figliuoli naturali o adottivi, non emancipati nè espressamente diseredati, doveva istituirli eredi. Al debitore insolubile imprimevasi nota d'infamia; laonde chi morisse in tal condizione, istituiva erede forzato uno schiavo, acciocchè la procedura fosse patita da questo, senz'aggravio della sua memoria. Perocchè gli schiavi e i figlifamiglia sottentravano _necessariamente_ al defunto nei diritti non meno che nei pesi: poi il pretore permise di _astenersi_ dalla successione del padre: finalmente con Giustiniano s'introdusse il benefizio dell'inventario. In legati non poteasi disporre di là da tre quarti dell'eredità[234]. I beni dell'intestato passavano agli eredi _suoi e necessarj_, cioè ai figli legittimi o adottivi, o ai discendenti in linea mascolina: gli emancipati non v'aveano diritto per legge, ma furonvi ammessi per editto pretorio (_bonorum possessio ab intestato_). Dappoi non s'ebbe più riguardo all'agnazione, aristocraticamente diretta a conservar i beni nelle famiglie; e le costituzioni imperiali chiamarono alla successione legittima anche i discendenti per donna; le madri ereditarono dai figli, a preferenza degli agnati; non contandosi più il legame della potestà, ma quello del sangue. Così la natura fu ripristinata ne' suoi diritti, e il principio aristocratico soccombette all'equalità naturale. L'ordine di successione stabilito da Giustiniano secondo la parentela naturale, è affatto filosofico, e sopravisse alla barbarie e alla feudalità, per impiantarsi ne' codici odierni. In una successione non può raccogliersi se non quel che esisteva nel patrimonio del defunto; in conseguenza non si può stipulare una promessa pel momento della morte. Questa sottigliezza de' giureconsulti romani fu tolta via da Giustiniano. Ove mancasse un successore, l'eredità ricadeva al fisco. Da poi alcune corporazioni ottennero privilegio speciale sui beni de' loro aggregati, morti senza eredi; onde quei de' soldati devolveansi alla sua legione, quei del decurione municipale alla curia, quei del monaco al convento. Di quattro specie obbligazioni riconosce il diritto romano; per _contratti_ e _quasi-contratti_, per _delitti_ e _quasi-delitti_. Le convenzioni fra i Romani non produceano obbligazione se non in casi determinati; cioè quando vi si fosse adoperata una delle formole riconosciute dal civile diritto, come il nesso, la stipulazione; o quando l'uso vi avesse applicato un nome e un'azione speciale, come il mutuo, il comodato, il deposito, il pegno, la fidejussione, la vendita, la locazione, il mandato, la società. Que' primi quattro chiamavansi contratti _reali_, perchè, oltre il consenso, suppongono la tradizione fatta da chi deve a chi riceve; mentre gli altri si formano col semplice consenso. Pel diritto pretorio, a tali contratti se n'aggiunsero più altri _innominati_; finchè Aristone, imperante Trajano, introdusse l'azione _ex præscriptis verbis_, cioè che chi diede o fece una cosa in vista d'una prestazione equivalente, possa esigerla. Quindi i contratti innominati furono ridotti a quattro tipi, _Do ut des, do ut facias, facio ut des, facio ut facias_; ma non si statuì mai che in essi il consenso delle parti bastasse per produrre obbligazione: così, per esempio, il baratto, che alcun tempo fu assimilato alla vendita, si ebbe sempre come un contratto innominato, una variante del tipo _do ut des_. In generale le formole in cui s'adoprava il verbo _spondère_, tenevansi come di diritto civile, e non creavano obbligazioni che fra cittadini romani; fin a quando l'imperatore Leone dichiarò che le stipulazioni reggevano, qualunque ne fossero i termini. Bastava dunque si facesse un dialogo fra i due contraenti: — Prometti di dare o di fare la tal cosa? — Prometto». Gli atti e le formole inchiudevano la necessità che gli stipulanti fossero presenti: ma uno potea farsi rappresentare dai proprj schiavi. Ogni padrefamiglia teneva un libro di dare e avere (_codex accepti et expensi_), e il registrarvi un obbligo lo rendeva autentico; sebbene non conosciamo di quali cautele abbisognasse quest'atto. Un fatto lecito da cui risultassero obbligazioni, chiamavasi quasi-contratto, come la volontaria gestione d'affari altrui. Dei delitti parleremo or ora. Quasi-delilto dicevasi un fatto che recò o poteva recar danno, senza precisa intenzione, ma per colpa; come chi sospendesse o gettasse alcun che, o scavasse una fossa con pericolo de' passeggieri. L'ipoteca potea mettersi su tutti i beni; nè conosceasi la _legale_, cioè non precisata da convenzione. Le ipoteche non erano pubbliche, nè il credito veniva assicurato se non dalle pene minacciate ai venditori che dissimulassero di quali carichi fosse gravato il fondo che vendeano. Le azioni, cioè il diritto di reclamare in giudizio il dovuto, distinguevansi, quanto all'oggetto, in _personali_, _reali_ e _miste_, secondo che erano da persona a persona per costringerla ad adempiere un obbligo, o chiedevasi compenso o restituzione d'una cosa, o faceasi l'una cosa e l'altra, come nel domandare una divisione d'eredità. Quanto all'origine, erano o _civili_, autorizzate da legge, o _pretorie_, fondate sull'editto del pretore. Quanto al soggetto, erano di _stretto diritto_, di _buona fede_, ed _arbitrarie_; distinzioni fondate sul particolar modo d'amministrare la giustizia, essendo le prime due deferite al magistrato, le terze all'arbitrio. La giurisdizione rimaneva congiunta all'amministrazione in quel che dicevasi _imperio_: se non che alcuni magistrati inferiori non aveano tutto l'imperio, ma soltanto l'autorità giuridica. Dell'imperio ordinario non facea parte la giurisdizione criminale, che era sempre una delegazione speciale, denominata _merum imperium_, e portava diritto di spada; a diversità del _mixtum imperium_, che consisteva nel poter mettere alcuno in possesso di beni. Anche dopo dismesse e diradate le azioni simboliche, la legge e la consuetudine avevano determinato le formole della processura. Negli atti giuridici da principio sopra l'intenzione predomina la forma, che è quasi la veste, l'esternazione del pensiero; e non usandosi o poco la scrittura, bisogna far impressione sui sensi, e che l'atto della volontà istantaneo e fuggevole sia ridotto sensibile e irrevocabile. Oltre le cause generali che materializzano le istituzioni al tempo delle civiltà nascenti, e che in paesi diversissimi offrono press'a poco gli stessi fenomeni, le forme della stipulazione giovano in quanto fissano seriamente l'attenzione delle parti sopra ciò che stanno per fare; in un'espressione netta, breve, rigorosa, precisano l'obbligazione che contraesi, e fanno apparire più vigorosamente l'assenso delle parti mediante l'interrogazione e la risposta. Oggi stesso che si bada più ch'altro alla pura volontà, all'intenzione, per certi atti più importanti si conservano pratiche analoghe all'antica stipulazione, come è la formola del matrimonio, come il giuramento. In principio questi atti s'appoggiano all'analogia, operazione tanto comune nella fanciullezza dell'individuo come delle nazioni. Da poi si arriva al simbolo, che spesso non è se non l'avanzo d'un rito perduto. Via via le istituzioni dalla materia passano nel campo dell'intelligenza; la civiltà si appiglia immediatamente allo spirito, alla volontà, all'intenzione; dall'esteriorità chiedendo soltanto ciò che è indispensabile per rivelare e garantire il consenso. Così andò in Roma. Quando ancora non si coniava denaro, ogni vendita faceasi a peso; donde ci son rimaste le espressioni moderne di _spesa, stipendio_, _spendere_. Anche dopo conosciute le monete, si comparve al giudizio colla bilancia e col metallo (æs et libra); e questi divennero simbolo in molti contratti, dove si trattava di tutt'altro che vendita. Ne' processi di rivendicazione si finge battaglia, come quando la guerra era il modo d'acquisto per eccellenza: poi la bacchetta rimase simbolo della lancia: e tale procedura s'accomunò a casi, dove nè tampoco trattavasi di decidere una contestazione. Sopra una zolla, sopra un tegolo recati al pretore si adempivano le formalità ch'era prescritto al magistrato di fare sugli oggetti stessi. Abolite le trenta curie, trenta littori ne rimasero simbolo, poi bastò la scure del littore. A passo passo tutte le azioni legali che drammatizzavano il diritto patrizio (t. I, p. 182), si mutarono in formole che erano date dal pretore stesso, in modo che le parti non deteriorassero la propria condizione per ignoranza di esse: ma benchè la _lex Julia privatorum_ di Augusto avesse concesso ai litiganti di spiegare semplicemente davanti al magistrato l'oggetto in contestazione, pure non era unico intento de' giureconsulti e de' giudici la scoperta del vero e del diritto, e la decisione restava vincolata all'esattezza di esse formole d'azione, che doveano adoprarsi dai contendenti, prima che la causa fosse librata dal giudice; talchè uno trovavasi condannato, non perchè avesse torto, ma solo per ignoranza o fallo in quelle applicare. Un tale (racconta Gajo) portò querela per alcuni ceppi di viti tagliate (_vitibus succisis_); ma le XII Tavole aveano parlato soltanto di alberi, sicchè la petizione fu respinta. Caduta la religione che sanciva le formole, Costanzo le abolì come divenute un lacciuolo di sillabe alla buona fede[235], lasciando che l'attore scegliesse qual più gli piaceva. Questo, nell'introdurre l'istanza, giurava non esser mosso da prurito di calunniare o vessare, ma da convinzione; e se perdesse, doveva per ammenda il decimo dell'oggetto contestato. Nelle cause reali ciascuna parte poteva obbligare l'avversario a deporre una somma, che andava perduta qualora soccombesse. A nessuno era negato farsi rappresentare da un procuratore, e sopra di questo cadeva la sentenza: ma ben doveano trascinarsi per le lunghe i processi, se Giustiniano, «per impedire che divengano immortali», dichiarò l'intenzione che una causa non oltrepassasse la durata d'una vita d'uomo[236]. Mentre fra noi qualsivoglia reità, dall'adulterio in fuori, provoca azione pubblica nell'interesse della società, fra i Romani il furto, la rapina, il danneggiamento, le ingiurie ed altri delitti erano _privati_, procedendosi contr'essi soltanto sopra istanza dell'offeso. I _pubblici_ si distinguevano da capo in _ordinarj_, contemplati da alcuna legge particolare con pena prestabilita, e _straordinarj_, che erano puniti a stima del magistrato, quali la tentata infrazione del carcere, lo stellionato, il formare delle società non autorate dall'imperatore. Morte infliggevasi anche per colpe vaghe o leggeri, come abbattere un albero, tagliar una vigna, se supponeasi fatto nell'intento di sminuire il censo al fisco[237]. Gravissima pena l'esiglio, che traeva seco la morte civile, e che solevasi infliggere per adulterio, atto falso, estorsioni e simiglianti; o a persone qualificate, pei delitti per cui le inferiori si condannavano alle miniere. Perocchè le pene colpivano in grado diverso secondo il delinquente; e chi uccidesse la propria moglie côlta in adulterio, se libero era relegato in un'isola; se egli fosse di condizione inferiore, subiva i lavori pubblici; anche per dato incendio la persona oscura andava alle catene ed alle fiere, non la illustre; nel furto l'uom vulgare era staffilato e precipitato dalla rupe Tarpea, il ricco si redimeva col dare il quadruplo del rubato. Non poteva il codice negligere i precetti della nuova religione intorno alla castigatezza del costume, ignota all'antichità[238]. Mentre alle adultere fu ridotta la pena a due anni di solitudine penitente, i peccati contro natura castigaronsi, senza divario di persone, con una squisitezza di supplizj che a fatica può perdonarsi alla purità del motivo. Nuova cosa erano pure le comminatorie contro l'eresia: ma il volere alla religione della carità e della mansuetudine applicare i regolamenti dalla patrizia severità emanati in sostegno dell'inesorabile religione dello Stato, portò a giustificare le persecuzioni, e offrì l'autorità dell'esempio agl'imperatori germanici, quando, più tardi, statuirono fin la morte contro i miscredenti. Nei casi di maestà rinasce l'esorbitanza del prisco diritto. La società antica, propensa a tutto idoleggiare, avea divinizzato l'imperatore, in modo che qualunque attentato contro di esso consideravasi fatto contro la repubblica in lui personificata, e contro la divinità. Enormissimo fra i delitti era pertanto quello di Stato: ma tale qualifica colpiva anche azioni indifferenti, nè soltanto sotto principi tirannici, ma fin sotto quelli che aveano del cristianesimo adottate le esteriorità, non il liberale sentimento. La legge Giulia fa reo di fellonia chi fonde le statue degl'imperatori od «opera alcun che di somigliante»[239]: tanta latitudine nella più formidabile delle accuse! Vi volle un senatoconsulto per dichiarare che non offendeva la maestà chi disfacesse simulacri di imperatori riprovati; e rescritti di Severo ed Antonino per mandare immune chi ne vendesse di non consacrati, o per caso li colpisse d'una pietra. Una legge imperiale puniva chi mettesse in forse il giudizio del principe o dubitasse del merito de' suoi impiegati[240]: un'altra pronunziò che l'attentare contro i ministri e gli uffiziali del principe fosse misfatto, come il nuocere al principe stesso, del cui corpo son quasi membri[241]; una di Valentiniano, Teodosio e Arcadio costituisce rei di maestà i monetieri falsi[242]: sotto Costanzo reputavasi fellonia l'interrogare indovini sopra lo strillo d'un topo o d'una donnola, e il medicare una doglia con parole da vecchierella[243]. Soffogata la rivolta di Avidio Cassio, s'introdusse di processare anche morti, per incamerarne i beni se convinti[244]. E la confisca era grande stimolo ad abbondare in siffatte accuse; e v'avea gente apposta (_petitorii_) che le promovevano, per domandarne in compenso i beni, con un'insistenza mal frenata da ventisei leggi del codice Teodosiano[245]. Quanto di severo aveano statuito sopra tal fatto i predecessori, fu accolto da Giustiniano, tenendo fin memoria del giureconsulto Paolino che accusò di perduellione un giudice per aver deciso in senso contrario ad una legge dell'imperatore: e di Faustiniano, che, avendo giurato per la vita del principe non perdonare al suo schiavo, si credette obbligato a perpetuar la collera per non incorrere in crimenlese[246]. Dimenticò invece che l'imperatore Alessandro Severo avea respinte le accuse indirette di maestà, e Tacito escluse gli schiavi dallo attestare in queste contro i loro padroni[247]. Dove ci si manifesta uno dei difetti principali del codice Giustinianeo, l'avere tramandato ai posteri uno spirito dissonante dall'amore e dalla benevolenza predicate dal Vangelo. L'imperatore dispotico e il ligio suo ministro evitarono d'inserire le leggi _sediziose_ della repubblica, e checchè sentisse di libertà o di privilegi, cancellati o cancellabili dalla tirannide. Di tre soli giureconsulti dell'età repubblicana fecero menzione, e scarsa di quelli fioriti sotto i primi Cesari, larga messe invece cogliendo nel tempo che una turba di forestieri portava a Roma l'omaggio di sue adulazioni: osarono perfino il nome degli antichi giureconsulti lasciar in capo a leggi loro, benchè mutilate o travolte[248], mentre non omettevasi alcuno de' passi che consolidi od esageri i monarchici arbitrj; il che, oltre nuocere allora, innestò un morboso elemento alle costituzioni della nuova Europa, presumendo giustificare la tirannia al cospetto di quelli, per cui son tutt'uno giustizia e legalità. Imperocchè, se lo studio rinnovato del diritto giustinianeo offrì dopo il XIV secolo felicissimi concetti d'ordine e d'amministrazione, pregiudicò alla posterità l'idolatrare tutto ciò che Giustiniano avea raccolto della sapienza come dell'imbecillità e ferocia de' suoi predecessori; i principi se ne armarono per menomare le franchigie introdotte dallo spirito de' Germani, dalle immunità ecclesiastiche, dalla feudalità e dai Comuni; si tornò a predicare la pagana onnipotenza del monarca; e i progressi dell'umana ragione furono inceppati dalla pretensione di governare il mondo colle istituzioni di tanti secoli prima, e d'una società e d'una religione essenzialmente differenti. Non ostante gli errori particolari, non ostante che il Codice di Giustiniano e il Digesto non siano giunti a noi quali erano stati compilati, rimangono il più insigne monumento della sapienza antica, viepiù meraviglioso per tempi considerati d'universale decadenza. E decadenza era veramente, ma solo delle idee antiche, le quali cedevano luogo alle nuove. Il politeismo era perito; perite le favole filosofiche d'Alessandria e le legali d'Atene; perito l'alito esclusivo del patriziato, livellato pur esso nella soggezione alle leggi; perita la fierezza d'un tempo che affiggeva la giustizia a formole morte. Che altro restava se non il cristianesimo? E quanto esso giovasse a migliorare la legislazione ci apparve in tutta questa rassegna, e nelle leggi de' successori di Costantino, che attestano quanto fossero inumane le precedenti. I tre figli di quello nel 338 ricusavano i libelli infamatorj, le lettere cieche, le accuse secrete, impedendo di procedere sopra tali denunzie[249]. Valentiniano condannò l'esposizione degl'infanti; stipendiò un medico dei poveri per ciascun quartiere di Roma; vietò agli avvocati di ricevere sportule, bastando la gloria di difendere l'innocenza; a tutti impedì lo ingiuriarsi nei dibattimenti; i commedianti, battezzati in pericolo di morte, non si potesse più obbligarli a salire sul palco, nè le figlie delle attrici a seguire la professione materna; istituì scuole, stabilì i difensori delle città, avvocati degli interessi di queste, i quali poteano recar rimostranze ai magistrati civili ed anche al trono. Graziano ai delatori bugiardi infliggeva la pena che sarebbe tocca al calunniato; revocò tutti i privilegi concessi a privati in pregiudizio del corpo cui appartengono; dispensò dall'obbedire ad ordini che i tribunali o i magistrati dicessero aver ricevuto a viva voce dall'imperatore. Teodosio Magno proibì di sollecitare i beni dei condannati per ribellione, giacchè talora, a forza d'importunità, si otteneva ciò che principe giusto non era in diritto di concedere: la quale ordinanza rattenne dallo spionaggio quei tanti che si faceano delatori per ciuffare i beni dell'accusato. Mentre dapprima gli averi degli esigliati si applicavano al tesoro, egli ordinò fossero divisi tra questo e il reo od i suoi eredi, e che ai figli si lasciassero interi quelli d'un padre condannato a morte. Agli Ebrei fu proibito comprare schiavi cristiani, e ai Cristiani permesso senza misura di affrancare i loro. Dolcezza e umanità prescrisse Teodosio a quei che sogliono averne sì poca, i carcerieri; i giudici visitassero frequente le prigioni, raccogliessero le lagnanze dei detenuti, ed esattamente registrassero le loro imputazioni. Vietò anche il vendere, comprare ed ammaestrare alcuna sonatrice, o invitarla a banchetti e spettacoli, e il tenere musici di professione; contro la quale specie di servi, continui erano in declamare i santi Padri, come semenzajo di scostumatezza. Una legge d'Onorio vietava il traffico a persone di qualità, non perchè disonorevole, ma perchè aveano agevolezza di far torti agli inferiori: un'altra permetteva a chi trovasse leoni sulle proprie terre, d'ucciderli, non però di prenderli vivi per farne mercato; preferendo ai piaceri imperiali il vantaggio de' popoli. Più ricordevole è quella che impone, i prigionieri ogni domenica sieno tratti fuori dai giudici, per sapere se ebbero ogni necessità, e mandati al bagno; se poveri, siano alimentati dal pubblico: e di questa legge raccomandava l'adempimento a' vescovi, dai quali probabilmente gli fu suggerita. Un'altra ordina ai medesimi di prender cura non sieno maltrattati gli schiavi cristiani tornanti alle case. I due Valentiniani aveano introdotto di liberare al giorno di Pasqua i carcerati per delitti non gravi[250]. Dipoi Valentiniano III proferiva che alla maestà regia convenisse dichiarare «anche il principe esser tenuto alle leggi, e che l'autorità di lui dipende dall'autorità del diritto, più che l'imperare essendo cosa magnifica il sommettere il principato alle leggi». In conseguenza proibiva a tutti quel tanto che voleva non fosse lecito neppure a lui stesso; e notificava che, salva la riverenza dovuta alla maestà sua, non avrebbe sdegnato litigare coi privati al medesimo fòro, ed esser giudicato colle leggi medesime[251]. Alla rugginosa originalità romana, e ai sistemi non più confacenti colle abitudini contemporanee, Giustiniano più non doveva i riguardi cui Costantino si trovò astretto; alla lettera che ammazza sostituiva lo spirito che vivifica; dai giureconsulti classici estrasse quanto gli parve di diritto cosmopolitico, e ripudiò quel che fosse meramente romano, non esitando ad alterarne i testi per emancipare le leggi da una tutela retrospettiva. Cominciando dal nome di Cristo e dall'augusta Trinità, professava che l'autorità deriva da Dio; riconosceva la Chiesa coll'accettare la fede da questa consacrata; da tal fede dedusse quanto ha d'originale la sua compilazione, l'eguaglianza degli uomini, la giusta democrazia, la rintegrazione della persona morale, sicchè non si guardasse la Casta o la tribù o la famiglia, ma l'individuo. Forte abbastanza per trarre le conseguenze dalle premesse cristiane, si fece uom dell'avvenire, intento sempre a trovare qualche miglioramento conforme alla natura e al progresso[252] e incessantemente accostò il diritto al tipo semplice e puro del cristianesimo: teologo ancor più che giureconsulto. Insomma la giurisprudenza, unica scienza vera e particolare del popolo romano, estese a tutta l'umanità il diritto equo e buono, e aprì la società moderna col rendere individuale e potente il diritto, formolandolo in un capolavoro della logica. Vero è che l'ingegno non produce moralità, e il difetto di quell'opera consistette appunto nella prevalenza della logica; ma parte sempre maggiore di spiritualità vi s'introdusse dacchè coi giuristi cooperarono i teologi a redimere il mondo dalla legale oppressione per vie differenti. Però il diritto avea già fatto sforzi per separarsi dall'elemento teocratico e aristocratico, ed assumere esistenza indipendente; lo perchè al cristianesimo costò maggior fatica il dominarlo. Ma da quell'ora trovansi a contatto, e spesso a conflitto la ragion civile colla canonica; e l'effettuare il principio eminentemente cristiano che tutta l'umanità abbia diritto alla giustizia, alla simpatia, alla libertà, sarà l'opera di tutto l'avvenire: opera lenta, tergiversata, incompresa, fin maledetta, ma che si compie fra gli errori degli uomini e sotto l'occhio della Provvidenza. CAPITOLO LIV. Impero diviso. Onorio. Invasione di Alarico. Ripigliamo il corso de' fatti, accostandoci alla fine dell'Impero. Morta che fu Giustina sua madre, Valentiniano II abbracciò la fede cattolica, e sempre più amore e stima acquistossi colla morigeratezza, l'applicazione agli affari, le domestiche virtù, la cura della giustizia. Accusato d'amar troppo i giuochi del circo e i combattimenti delle fiere, se gli interdisse; imputato d'intemperanza, spesseggiò i digiuni; saputo che in Roma una commediante allettava troppi giovani, la chiamò alla corte, e rimandolla senza vederla tampoco, per dare esempio. Grand'amore portava alle sorelle; eppure litigando esse di certi possessi con un orfano, egli rimise al giudice ordinario la querela, e le persuase a recedere dalla pretensione. Arbogasto, Franco valoroso, de' benefizj di lui abusò per sovvertire l'impero d'Occidente; a proprie creature distribuì i posti importanti nelle milizie e nel governo della Gallia, sicchè Valentiniano si trovò in Vienna come prigioniero di questi occulti nemici. Citato Arbogasto, lo ricevette sul trono intimandogli di deporre le cariche; ma il Franco rispose: — L'autorità mia non dipende dal sorriso o dal cipiglio d'un monarca»; e gettò il foglio dove l'ordine era scritto. Valentiniano fu a gran pena trattenuto da un atto di violenza; ma pochi giorni dopo il trovarono strozzato nella sua tenda (390), e tutti indovinarono da chi. Arbogasto, non osando cingere a se medesimo il diadema, lo conferì al retore Eugenio, suo segretario privato e maestro degli uffizj, reputato per sapere e prudenza. Commosso dall'indegna uccisione del collega e cognato, Teodosio pascolò di parole Eugenio, intanto che dai valorosi generali Stilicone e Timosio facea porre in essere e in disciplina le legioni e i Barbari federati; coi quali mosse contro il nostro Occidente. Arbogasto si restrinse a difendere i confini dell'Italia; ma Teodosio, occupata la Pannonia sino ai piedi delle alpi Giulie, scese ad affrontarlo nelle pianure di Aquileja (391), e lo vinse. Arbogasto si diede la morte; Eugenio l'ebbe dall'impazienza dei soldati a' piedi di Teodosio. Sant'Ambrogio, che avea resistito inerme all'usurpatore, rifiutandone i doni e ritirandosi da Milano per non avere con esso corrispondenza, allora recò a Teodosio l'omaggio delle provincie occidentali, e ne impetrò amnistia. Teodosio raccoglieva così novamente il mondo romano nelle proprie mani; e le sue virtù e la florida età serenavano di speranze. Poco dopo la vittoria, egli divise l'impero d'Oriente e quello d'Occidente fra i due suoi figliuoli Arcadio ed Onorio, e questo secondo chiamò a ricevere le insegne in Milano. Quivi splendidi giuochi furono disposti, ai quali avendo Teodosio assistito, la sua salute già logora n'ebbe tale scossa, che la notte morì (395 — 17 genn.). Ultimo imperatore che reggesse con fermo polso le romane cose, e guidasse gli eserciti in campo; lasciava negli amici e nei nemici alta stima di sue virtù, e una grave apprensione per la preveduta fragilità d'un regno spartito tra fanciulli. Arcadio da Costantinopoli governava l'impero d'Oriente; Onorio da Milano reggeva Italia, Africa, Gallia, Spagna, Bretagna, Norico, Pannonia, Dalmazia, l'Illirico dimezzato. Ma Arcadio contava appena diciott'anni, undici Onorio, nè l'un nè l'altro le qualità che si richiedono anche in tempi quieti, non che le occorrenti in tanta procella. Vero è che il padre li aveva provveduti d'abilissimi tutori, mettendo Rufino guascone a fianco di Arcadio, Stilicone vandalo di Onorio: ma le gelosie di cotesti e de' loro successori approfondirono le divisioni, non solo di Stato, ma d'interessi fra i due imperi. Stilicone, granmaestro della cavalleria e della fanteria, aveva accompagnato in tutte le guerre Teodosio, il quale lo spedì ambasciadore in Persia, poi gli sposò sua nipote Serena, dalla quale ebbe Eucherio, Maria e Termanzia. In ventitre anni che comandò gli eserciti, non vendette gradi, non fraudò delle paghe i soldati, nè elevò il proprio figlio o gl'immeritevoli: ma avido di piaceri e ricchezze, l'ambizione sua non era soddisfatta al vedersi dagli adulatori corteggiato più di Onorio stesso, e cantato perpetuamente dal miglior poeta d'allora, Claudiano. Traverso alle costui piacenterie ed alle calunnie della storia, queste e quelle stipendiate, è difficile avverare altro, se non il valore di lui, e l'uso fattone a pro d'un impero, che costituito militarmente, sol dalla forza doveva trarre l'ultimo suo ristoro. Al morire di Teodosio, Stilicone aveva preteso alla tutela d'amendue gl'imperatori; e se ne mostrò degno col coraggio contro i Barbari. Dovendo, come il denaro e le gioje, così le legioni dividersi fra i due imperatori, propose guidarle egli stesso in Oriente, sì per tenere in disciplina i soldati, sì per opporsi all'insurrezione dei Goti: ma Rufino ingelosito gli fece da Arcadio intimare non procedesse, se non voleva essere in conto di ribelle. Stilicone non esitò a dar volta, ma affidò le legioni e la sua vendetta al goto Gaina, che trucidò Rufino (395 — 9bre). Eutropio, succeduto a costui, prima copertamente insidiò a Stilicone per togliergli ora il favore del suo principe, ora la confidenza del popolo, ora anche la vita; poi dal docile senato di Costantinopoli il fece decretare pubblico nemico (396), confiscatine i possessi in Oriente; e quando il vide movere contro Costantinopoli, sollecitò Gildone nobile mauritano a voltarsi da Onorio ad Arcadio. Questo Gildone aveva in patrimonio mille ottocento miglia di terreno sulle coste d'Africa, che anticamente formavano cinque provincie romane; e fatto anche comandante dell'armi imperiali d'Africa, vi regnò da tiranno, con un'armata di settantamila uomini, Roma riconoscendo soltanto col tributarle il grano, del quale mantenevasi l'Italia. Le lamentanze degli oppressi giunsero però all'imperatore; e Stilicone, fattolo chiarire nemico della patria, spedì Mascezelo a domarlo (398). Cinquemila uomini bastarono contro quell'immenso apparato; Gildone preso si uccise; i capi della sommossa furon dati da giudicare al senato, impaziente di punire coloro che aveano minacciato il popolo in ciò che più gli stava a cuore, il vitto. Dieci anni appresso non erano ancora esaurite le procedure contro i complici dell'Africano. Leggete le odi di Orazio, ove dagli Dei è promesso a Roma che starà immobile, e detterà patti ai trionfati Medi; poi vedete il poemetto di Claudiano _Della guerra gildonica_; qual melanconico contrasto! Quivi Roma, misera in aspetto, recasi ai piedi di Giove «non coll'usato volto, nè qual dettava leggi ai Britanni, o sottometteva a' suoi fasci i tremendi Indiani; ma fievole di voce, tarda il passo, depressa gli occhi, colle guancie scarne, le braccia smagrite, a gran pena sul debole omero sostenendo lo squallido scudo, rivelando la canizie di sotto all'elmo lentato, e trascinando l'asta irrugginita. Giunta finalmente al cielo, prostrossi alle ginocchia del tonante, e ordì meste querele: — Se le mie mura, o Giove, meritarono di nascere con durevoli augurj, se inalterati stanno i carmi della Sibilla, nè disprezzi ancora la rôcca Tarpea, io vengo a supplicarti, non perchè il console trionfante calchi l'Arasse, o le nostre scuri oppugnino la faretrata Susa, nè perchè piantinsi l'aquile nostre sulle arene del mar Rosso: questo un tempo mi concedevi; ora io Roma ti chiedo il vitto, il vitto soltanto, ottimo padre; rimovi l'estrema fame; già satollammo ogn'ira; già soffrimmo tanto, da movere a compassione e Geti e Svevi; la Partia stessa inorridisce ai casi miei». L'orgoglio di Stilicone passò ogni segno quando ebbe sposata sua figlia Maria all'imperatore. Ma questi compiva appena i quattordici anni; e dopo dieci altri la sposa morì, illibata da un marito senza forza e senza passioni, il quale in ventott'anni di regno non uscì mai di fanciullo, lasciando imperare Stilicone, che forse ne fomentava l'inerzia e accarezzava l'imbecillità. Eppure, se in alcun tempo mai, allora veramente era bisogno di principe attuoso e guerresco; perocchè, non appena Teodosio chiuse gli occhi, i Goti pensarono uscire dalla forzata tranquillità, e mettere a nuovi guasti l'impero. Alarico, della principesca famiglia dei Baiti, la più illustre fra' Goti dopo quella degli Amali, era stato formidabile avversario di Teodosio, poi riconciliato seco ed eletto maestro delle milizie. Morto questo, e tenendosi scarsamente rimunerato, stava di mal cuore nelle terre assegnategli; forse inizzato da Rufino, devastò la Tracia, la Macedonia, la Tessaglia; per le mal difese Termopile entrò nella Grecia, fin allora intatta da scorrerie; e distrutti tempj e città, sospesi i riti di Cerere Eleusina, dal mar Nero al golfo Adriatico gli abitanti furono uccisi o spinti in ischiavitù. Accorto più che non s'aspetterebbe da Barbaro, Alarico facea spargere un oracolo, che lo diceva fatato a distrugger Roma e l'Impero. Ne lo lusingava la scissura fra le due Corti, posto in mezzo alle quali, poteva profittare degli errori d'entrambe. Ed error sommo commise Arcadio cedendogli la provincia da lui devastata e, ch'è peggio, i quattro grandi arsenali dell'Illiria. Ne conobbe l'importanza Alarico, e per quattro anni li fece lavorare non ad altro che a stromenti da guerra; sicchè, a spese e fatica delle provincie, i Barbari poterono al naturale coraggio unire questo sussidio, sovente mancato. Ne cresceva Alarico di credito e d'aderenti, i quali lo proclamarono re dei Visigoti (382), e chiesero li traesse di servitù e li menasse al trionfo. Piantavasi in tal modo una terza potenza fra le due che divideano l'orbe romano; e il nuovo re ora all'Oriente ora all'Occidente vendeva i suoi servigi, calcolando con barbara sagacia contro di quale più gli convenisse voltar le armi. Le provincie orientali sono state corse dalle orde in ogni senso: Costantinopoli è situata in troppo mirabile robustezza; l'Asia non è accessibile a chi non abbia flotte: ma l'Italia, oh! essa può dirsi intatta ancora, essa opulenta, essa indifesa. Ed a quella bellezza, che formò sempre il vanto e il pericolo del nostro paese, drizzò Alarico la voglia e i passi; e valicate le alpi Giulie, consumò buon tempo attorno alle oppostegli difese e massime ad Aquileja, mentre tale sgomento diffondevasi per la penisola, che i ricchi già imbarcavano ogni avere per la Sicilia e per l'Africa. I residui Pagani all'aspetto di queste sventure esclamavano, — Ecco segni della collera dei numi abbandonati»; i Cristiani ripetevano, — Ecco la punizione dei delitti con cui Roma salì tant'alto, e di quelli pei quali ora declina»; e gli uni e gli altri cresceano il danno reale con terrori superstiziosi. Ad Onorio, sonnecchiante nel palazzo di Milano, le adulazioni non lasciavano pur sospettare che altri potesse avventurarsi contro il successore di tanti cesari; e baloccandosi nel dar beccare di propria mano a una nidiata di polli, non aveva forse tampoco udito il nome d'Alarico. Il nembo gli ruppe il sonno, non gl'infuse il coraggio; e tentennando fra le paure, pensò ricovrarsi in alcuna remota parte della Gallia. Ma Stilicone, prevedendo qual terrore getterebbe la fuga del monarca, vi si oppose; pigliò l'assunto d'accozzare un esercito; e non v'avendo truppe in Italia, che pur era capo d'un impero steso sulla Gallia, la Spagna, l'Inghilterra, il Belgio, la costa d'Africa e mezza Germania, mandò alle più lontane legioni che accorressero, lasciando la mura Caledonia e le rive del Reno sguernite, od affidate a soli Germani. Egli medesimo, non essendo di quelli per cui il patriotismo è passione accecante ed esclusiva, non badava se il soccorso venisse da Barbari o no; e imbarcatosi sul lago di Como nel cuore della vernata, giunse nella Rezia, sedò i tumulti, e arrolò quanti nemici di Roma vollero divenirne i difensori. Onorio, assediato in Asti, già era a un punto di cedere, quando, gli eserciti d'ogni parte sopravenendo, Stilicone strinse in mezzo i Goti; côlto il tempo che celebravano la pasqua, gli assalì a Pollenza nella Liguria (403), li ruppe, e delle spoglie loro arricchì i suoi soldati. Alarico, dopo che invano adoprò il senno e il braccio a reggere il campo, e vide prigioni sua moglie, le nuore, i figliuoli, si ritirò con la cavalleria, e pensava rifarsi con un colpo ardito varcando l'Appennino per isgominare la Toscana ed assalir Roma. Ma i capi dei Goti, infedeli a un re vinto, o ineducati alla prova dell'avversità, minacciarono abbandonarlo; tanto ch'egli dovette porgere ascolto alle proposizioni fattegli d'abbandonare l'Italia, purchè gli fossero restituiti i parenti presi e una pensione. Nella ritirata avea disegno di sorprendere Verona; ma Stilicone, istruttone, lo colse e sconfisse di modo, che gli fu grazia sottrarsi colla fuga. Eppure quell'instancabile, rannodate le reliquie fra i monti, mostrò ancora la fronte al nemico, che stimò fortuna il lasciarlo uscir dall'Italia, troppo convinta di non aver più barriere contro l'ingordigia de' Barbari. Onorio solennizzò in Roma il trionfo (404), cui non avea contribuito. Questa, che in cent'anni vedeva appena per la terza volta un imperatore, andò lieta dei doni che fece alle chiese, della riverenza insolita che mostrò al senato, e soprattutto dei giuochi ch'esso le preparò nel circo: ma i sanguinosi spettacoli dei gladiatori erano riprovati a gran voce dai sacerdoti cristiani; il poeta Prudenzio in bei versi ne sconsigliava l'imperatore pupillo; il pio Telemaco uscì a bella posta dal suo romitaggio, e discese nell'arena egli stesso per impedirli: il popolo infuriato lo trucidò, ma col sangue del martire fu scritto il trionfo dell'umanità. L'adulazione ergeva ad Onorio un arco, ove leggevasi aver lui per sempre distrutta la nazione dei Goti: ma la prudenza dava la mentita col riparare e munire i castelli vicini a Roma e le mura di questa. Eppure nè quivi nè in Milano sentendosi sicuro, l'imperatore andò a rimpiattare la porpora in Ravenna, difesa dalla flotta, dalle paludi e dalle fortezze. E ben era tempo di munirsi, perocchè tutto il Settentrione agitavasi e traboccava le sue piene verso l'Italia. Allettato dai trionfi e dalle prede altrui, Radagaiso (Radegast), a capo d'un'accozzaglia, alcuno dice di ducentomila Vandali, Svevi, Borgognoni, mosse dal Baltico, e cresciuto per via da venturieri d'ogni nazione, si presentò sul Danubio. Come difendere le lontane provincie quando il pericolo stringeva l'Italia? Stilicone dunque richiamò di là le guarnigioni, e con nuove leve, e col promettere libertà e denaro agli schiavi che s'arrolassero, appena mise in piedi trenta o quarantamila guerrieri, cui aggiunse molti Barbari ausiliarj: tanto era stata micidiale l'ultima guerra, tanto aborrito il militare. Con uno dei tre corpi in cui erasi divisa quella moltitudine, Radagaiso passò senza ostacolo la Pannonia, le Alpi, il Po; evitando Stilicone accampato sul Ticino, dagli Appennini scese improvviso a saccheggiare l'aperto paese, distruggendo gli avanzi delle già floride città d'Etruria (405), assediò Firenze, e bucinavasi che il feroce avesse giurato ridurre a un mucchio di rottami la regina del mondo, e col sangue de' più illustri senatori propiziare i numi suoi. I fedeli dell'antica religione nazionale, sperando quest'idolatro ripristinerebbe gli Dei, e sulla ruina della patria trionferebbe la loro fazione, invece di eccitare il popolo ad armarsi di coraggio, e se non altro di disperazione, esclamavano: — Ecco, tutto perisce al tempo de' Cristiani; come resistere ad un guerriero che ogni giorno fa sagrifizj, mentre a noi sono vietati?» I Cristiani incoravano l'assediata Firenze con miracoli e rivelazioni; ed uno asserì che sant'Ambrogio eragli apparso in sogno, assicurandolo che per domani la patria sarebbe redenta[253]. In fatti dinanzi a quella città l'esercito di Stilicone raggiunse il barbaro; e coll'abilità medesima onde aveva due volte vinto Alarico senz'avventurarsi all'incertezza d'una battaglia la cui perdita sarebbe stata irreparabile, circonvallò il nemico di robuste trincee, talchè di assediatore assediato sulle aride balze di Fiesole, restò consunto dalla fame. Radagaiso, costretto ad arrendersi, ebbe tronca la testa; e i suoi furono venduti schiavi in tanto numero, che se ne aveva una partita per una moneta d'oro; il clima poi e il vitto cangiato li sterminò. Ad altre grosse frotte aquartieratesi fra le Alpi Stilicone agevolò la ritirata; andassero pure a manomettere le provincie, tanto solo che rimanesse salva l'Italia. Alla quale ormai riducevasi l'immenso impero d'Occidente; perocchè la Gallia era occupata da Franchi, Burgundi, Alemanni; la Bretagna, sgombra di legioni; effimeri imperatori s'ergeano a disputare il lacero manto d'Augusto, fra cui basti nominare Costantino, che chiaritosi imperator delle Gallie (407), ottenne da Onorio il titolo di collega. Poi sovrastava Alarico, dalla sventura non abbattuto ma istruito; e non che i Barbari perdessero confidenza nel valore e nella prudenza di esso, a lui facevano capo quante bande scorrazzavano dal Reno all'Eusino. Stilicone cercò dunque gratificarselo per averlo fautore nel non mai deposto disegno di sottomettere l'Oriente: e Alarico, affacciatosi alle frontiere d'Italia, esibì difenderla, purchè gli fossero accordate alcune domande, e a' suoi una delle provincie occidentali restate deserte. Nella crescente fiacchezza d'Onorio e del suo governo, Stilicone s'era industriato di tornare qualche polso al senato, e far che si recasse in mano gli affari pubblici; ma non avea trovato che retori, istruiti nelle forme dell'antica repubblica e nulla più, e vogliosi di pompeggiare in parole sonanti, come al tempo che i loro padri intimavano a Pirro, — Esci dall'Italia, e poi tratteremo». Allora dunque che Stilicone propose le domande del re goto, i senatori gridarono essere indegno della romana maestà il comprare incerta e vergognosa pace da un Barbaro: ma il generale, non badando a ciò che ricordavano i libri, ma a ciò che esigeva la vigliaccheria della corte di Ravenna, attutì l'intempestivo patriotismo imponendo consentissero ad Alarico quattromila libbre d'oro, perchè assicurasse i confini d'Italia. Lampadio senatore esclamò, — Questa non è una pace, ma patto di servitù»; e dalle conseguenze di tale franchezza nol campò che l'asilo d'una chiesa[254]: ma incorati da tale protesta, i senatori si ostinano sul niego, mettendo un'opposizione affatto insolita al generale onnipotente. Ad essi davano sostegno le legioni, indispettite dal vedersi posposte a Barbari. Onorio medesimo era stato insusurrato contro del suo tutore, come volesse tenerlo perpetuo pupillo, se non anche mutarne la corona sul capo del proprio figlio Eucherio; onde, diretto da Olimpio, pretese esercitare in fatto il dominio che teneva di puro nome, e fare mal arrivato il ministro. Si presenta dunque al campo di Pavia, composto di truppe romane ostili al Barbaro, e ad un segnale fa trucidare tutti gli amici di questo, altri illustri con essi, e saccheggiare le case. I condottieri, la cui fortuna intrecciavasi a quella di lui, ad una voce chiesero a Stilicone li menasse a sterminare questi imbelli Romani. Se gli ascoltava, l'esito avrebbe potuto giustificarlo; ma egli o fiaccamente tentennò, o generosamente preferì la propria alla pubblica ruina, sicchè i federati l'abbandonarono dispettosi; un di loro assaltò la sua tenda, e trucidò gli Unni che vi stavano di guardia; Stilicone, rifuggito agli altari in Ravenna, ne fu tratto con perfidia; e decretato a morte, la subì con dignità e coraggio (408). Al traditore, al parricida fu allora gridato d'ogni parte da coloro stessi che dianzi incensavano il ministro guerriero; e chi s'affrettava a rivelarne gli amici, chi a nascondersi. Olimpio, orditor primo della trama contro il suo benefattore, esagerava ad Onorio il pericolo sfuggito, e l'inaspriva contro la memoria del salvatore dell'impero; Eucherio, figlio di questo, svelto alla chiesa, fu trucidato; Termanzia, succeduta alla sorella Maria[255] nel freddo talamo di Onorio, fu repudiata intatta; e la fermezza con cui gli amici di Stilicone sostennero torture e morte, lasciò che i servigi di lui rimanessero certi, incerta la colpa. Fu imputato d'intelligenza coi Barbari, egli il solo che li seppe vincere sempre in ventitre anni che diresse gli eserciti; d'avviare al trono Eucherio, egli che il lasciò fino ai vent'anni umile tribuno dei notari; di meditare il rialzamento del paganesimo, egli che educò il figlio nella religione cristiana, e che era esoso ai Gentili per avere arso i Libri Sibillini[256] e perchè sua moglie avea tolto un monile a Vesta, quelli oracolo, questa salvaguardia di Roma. Al rompere della diga, il torrente traripò; ed Onorio stesso pareva compiacersi d'abbattere se alcun ostacolo restava, congedando i più prodi perchè idolatri od ariani, e sostituendo uffiziali vilipesi dai nemici, esosi all'esercito. I Barbari, che servivano come ausiliarj, dal vendicare Stilicone non si rattenevano se non per riguardo alle famiglie e alle ricchezze che aveano depositate nelle città forti d'Italia: or bene, Onorio ordinò che que' preziosi ostaggi fossero tutti il medesimo giorno scannati, e rapitine i beni. Tolto ogni freno all'ira e alla disperazione, trentamila federati disertarono ad Alarico, che esultò di veder la Corte operare così a suo disegno; e la caduta di Stilicone riverito e paventato, le paghe interrotte, l'istigazione degli offesi lo resero ardito d'intimare all'impero soddisfazione o guerra. Lasciossi poi mitigare: ma i Romani, interpretando la moderazione per paura, nè accettarono i patti, nè s'allestirono d'armi (409); sicchè Alarico, rotta l'amistà e la fede, si mosse, e dall'alto delle alpi Giulie mostrò a' suoi le delizie del clima italiano, le superbe città, i soavi frutteti, le spoglie di trecento trionfi accumulate in Roma, e la facilità di rapirgliele. Aquileja, Altino, Concordia, Cremona soccombono a quel forte; nuovi federati s'aggiungono ogni dì alla sua bandiera, che sventola in faccia a Ravenna; spaventata la quale, egli costeggia l'Adriatico, poi, per la via Flaminia, di città in città senza contrasto pianta le tende sotto l'antica signora del mondo. Un eremita tenta sedarne la furia, ed Alarico risponde: — Non posso fermarmi; Iddio mi spinge avanti». Più non era il tempo che, contro di Annibale e di Pirro, il popolo romano si alzava quasi una persona sola, e dall'infimo plebeo fin al consolare e al dittatore tutti correvano a vittoria o morte. L'Impero avea perduto le migliori sue provincie; le altre rimanevano sì deserte, che doveasi ripopolarle con sciami di Barbari. L'Italia specialmente, per le ragioni altrove discorse e massime per le colonie militari, andavasi disabitando fin dal tempo dei primi imperatori. Esauste da piaceri eccessivi od infami le sorgenti della vita, i ricchi per voluttà, i poveri per necessità, aborrivano dal matrimonio; sicchè Costantino grandi privilegi attribuiva a chi pur un figliuolo avesse. Non volendo svilirsi nel commercio e nell'industria, i ricchi investivano i loro capitali in terreni, che vennero a ridursi tutti nelle mani di giganteschi possessori, massime dopo che Trajano pose per condizione dell'aspirare a dignità l'avere almeno i tre quarti del patrimonio in Italia. Sparì dunque la classe vitale de' minuti proprietarj, e alla popolazione agricola sottentrarono gli schiavi: ma fin questa infelice genìa minoravasi, e perchè gl'imperatori non conducevano tutti i prigionieri in Italia dacchè essa non era più riguardata come capo dell'impero, e perchè, meglio delle robuste braccia da aratro e da marra, si cercavano molti servi, che a centinaja seguissero per via i padroni e le dame[257]. I piani d'Italia, dalla maschia loro feracità erano convertiti in molli giardini e inutili parchi; il grano aspettavasi dall'Africa e dall'Egitto, sicchè qualvolta o le flotte nemiche o i tiranni o le procelle intercettassero il tragitto, Italia affamava. Diviso poi l'Impero, essa non solo cessò di ricevere i tributi del mondo, ma ebbe accomunate le tasse degli altri paesi, e divenne simile a colui che, avvezzo a scialare in casa di grandi, si trovi repente senz'appoggio, povero, inerte, male abituato. Più volte qui gittò la peste, fierissima sotto a Tito, fin ad uccidere in Roma diecimila persone in un giorno; poi riportata d'Oriente dall'esercito di Lucio Vero[258]; di nuovo sotto Comodo, e spesso nel secolo seguente. Tre guerre civili s'erano combattute alla gagliarda nell'Italia settentrionale al tempo dei Trenta Tiranni, tre sotto Massenzio, tre sotto i figli di Costantino, due alla morte di Graziano e di Valentiniano II: e i Barbari, facendosi beffa della barriera dell'Alpi, venivano a rapire schiavi ed armenti, lasciando un incolto deserto. Procuravano gl'imperatori risanguarlo o colle colonie militari, o trasferendovi gente; Aureliano distribuì prigionieri, che nel paese fra l'Etruria e le alpi Marittime piantassero vigne da far gratitudine alla romana plebe[259]; il vecchio Valentiniano spedì sul Po gli Alemanni presi al Reno[260]; Graziano, Taifali ed Ostrogoti su quel di Modena, Reggio e Parma: ma fin questo inadeguato ristoro mancò quando altrove che all'Italia gl'imperatori mandarono i prigionieri di Germania e di Persia, e quando, cessate le esenzioni, nulla allettava i veterani forestieri a piantarsi in colonia di qua dalle Alpi. Pertanto sant'Ambrogio scrive a Faustino: — Partendo da Bologna, tu lasci alle spalle Claterna, essa Bologna, Modena, Reggio; hai a destra Brescello, di fronte Piacenza, di cui non altro che il nome rimembra l'antica celebrità; a sinistra mettono compassione gl'incolti Appennini; e considerando le borgate un tempo animatissime di popolo, ti si stringe il cuore nell'osservare i cadaveri di tante città mezzo diroccate, e la morte di tante contrade per sempre distrutte»[261]. La Gallia Cisalpina, più discosta dalla corruttela, avea serbato lena più a lungo; ma quando si piantarono altre corti in Ravenna e Milano, le auliche splendidezze introdussero immoralità, le largizioni ozio, le cariche brogli; e la gente, affollandosi a quelle per vivere di donativi, svogliavasi dal lavoro dei campi, dalla tediosa onestà delle famiglie, dalla schietta rozzezza de' villaggi. Quanto al mezzodì dell'Italia, basti dire che nel 395 una legge d'Onorio sgravò del tributo cinquecentoventottomila e quarantadue jugeri di terreno inseminato nel paese a cui l'ubertà guadagnò il nome di _Terra di lavoro_[262]. Per quei deserti erravano a baldanza orde devastatrici. Già soleano molestar le vie ne' tempi antichi; ripullularono durante le guerre civili, peggio dappoi: un Balla, entrante il III secolo, con seicento masnadieri infestava l'Italia inferiore, e due anni penò Settimio Severo a sterminarlo[263]. Tanto poi crebbe il male, che Valentiniano I venne nella determinazione di disarmare l'Italia come le provincie, sicchè nessuno portasse armi senza sua espressa licenza; nessuno, eccetto le persone di qualità, comparisse a cavallo nel Piceno, nella Flaminia, nell'Apulia, nella Calabria, ne' Bruzj, nella Lucania, nel Sannio, indi neppure nelle circostanze di Roma[264]: provvedimento estremo, che attesta la gravezza del male, e che toglieva alla quieta popolazione il modo di schermirsi da coloro che sfidavano la legge. E perchè di pastori principalmente formavansi queste bande, Onorio decretò che, chi consegnasse figli da allevare a pastori, s'avrebbe come confesso d'intelligenza co' masnadieri[265]. Alla strada e al bosco molti erano spinti dall'ingorda tirannide degli esattori fiscali, che, sotto pretesto di vecchi debiti, taglieggiavano il paese, e molestavano con estorsioni, prigionie, supplizj. Potevano i cittadini amare una patria, che più non recava nè grandezza nè dignità nè sicurezza nè giustizia? Ristretta la pubblica vita nel gabinetto dell'imperatore, ai sapienti, agli statisti più non rimane che coltivare il diritto civile, ed esercitare la retorica e la giurisperizia nei minuti interessi privati. Proscrizioni dittatorie, guerra civile e supplizj imperiali tolsero di mezzo la nobiltà antica: la nuova, che non ha tradizioni a custodire, privilegi a tutelare, affollasi attorno al principe onde esercitare una parte delle costui tirannidi, e godere in fretta d'una preda che fra breve sarà rapita. Dispensati dal servizio militare per gelosia, esclusi dai dibattimenti pubblici per costituzione, considerando come turpe l'industria, popolo e ricchi poltriscono nell'inerzia, ovvero esalano la turbolenta energia ne' parteggiamenti del circo o nelle esorbitanze del lusso. Ciascuno si fa parte da se medesimo, e con mercenaria avidità specula sulle pubbliche sciagure per ottenere gradi, piaceri, potenza, e, stromento dell'una e degli altri, il denaro, procacciato con spergiuri, corruzione, falsi testimonj, ladronecci. V'ha chi serba sentimento del nobile e del giusto? geme sulle sventure, e vedendole irreparabili, abbandona la società ai ribaldi e agli ambiziosi, e armato di disprezzo, o si ricinge di virtù austere ma senza viscere, o si stordisce fra godimenti sensuali, e con riti superstiziosi interroga un destino che teme e che non può declinare. La classe media, più morale perchè operosa, era perduta, l'Impero riducendosi a ricchi sfondolati e a pezzenti, e tra loro l'abisso. Decurioni e senatori, a forza di eredità e di usurpamenti, succedendo ad infinite famiglie cadute serve o mendiche, aveano occupato provincie intere, e facendosi centro ciascuno d'un piccolo mondo, trascuravano tutto il resto. Se ad un de' siffatti il Goto occupasse i campi della Tracia, gliene sopravanzano immensi nella Spagna; se il Borgognone gli ardesse il ricolto nella Gallia, continuavano a fruttargli gli oliveti della Siria. Di qui l'imprevidenza meravigliosa di gente esultante sopra il sepolcro; di qui i prepotenti abusi, giacchè, qual magistrato poteva intimare obbedienza al possessore d'intere provincie? In queste la nobiltà imperiale, cui spettavano le elevate magistrature, somigliava a quella di Roma, e diffondeva lontano la corruttela della metropoli; la nobiltà paesana, investita degli onori municipali, foggiavasi su quegli esempj. Fatti tutti cittadini romani, crebbe il numero degli ozianti, cui il tesoro dovea nutrire, del quale così aumentavano i bisogni quanto sminuivano le entrate; e ben tosto le campagne e le città lasciaronsi vuote per andar a godere e brogliare in Roma. Quivi bisognava alimentarli; e perciò, invece del grano, distribuivansi pane e carne e vesti già fatte e denaro, tutto a spese del restante impero. Nelle grandi città s'annida una mescolata d'artigiani e di liberti, viventi sullo scarso traffico lasciato a loro dal monopolio imperiale, e col porgere alimenti al lusso e alle voluttà de' signori; del resto arrogante e vilipesa, conculcata e sommovitrice, minacciosa e tremante. Nè s'agita essa, come al tempo de' Coriolani, pei diritti proprj o per gl'interessi della patria; ma per domandare pane e giuochi, per sostenere prezzolata le cabale d'eunuchi e favoriti, che in pochi anni trarricchiscono vendendo le grazie del monarca. Ignorante e conculcata, paurosa di perdere quel che non possiede, avida d'un avvenire che nè conosce nè spera, esulta non della propria libertà, ma dello strazio de' suoi antichi oppressori; gode allorchè può crescere le sofferenze, e chiedere sieno dati i Cristiani ai leoni, o gettati nel Tevere i tiranni che jeri adorava. L'unica volta che i Romani mostrarono qualche vigore, fu nel respingere la legge Papia Poppea, che reprimeva il libertinaggio. Così non più affetto pei deboli, non più subordinazione verso i potenti, non zelo per l'ordine sociale, non dignità di carattere, non venerazione per la divinità; una dotta corruttela, sfruttata d'immaginativa e fiacca di ragione, che più non sa se non commentare le opere antiche, rimenar dispute incancrenite, simile ai vecchi che ridicono il passato quando perdettero il senso del presente. Rimescolavano questa decrepita società le dottrine teurgiche, tardo alimento a credenze illanguidite, sicchè il meraviglioso e l'incredibile divenivano ordine e realtà. E una tal Roma si vorrebbe che noi compiangessimo? Ne' tempi nostri, se ci stomaca la corruttela de' ricchi e de' saccenti, ci volgiamo alle classi operose. Queste in Roma trovavansi sistemate a modo di maestranze fin dall'antica costituzione; ma non che servire alla tutela reciproca, offrirono destro all'avidità del fisco, che esigeva da tutti insieme quel che dai singoli non avrebbe ottenuto. E talmente erano gravate, che non comprenderemmo come durassero, se non sapessimo che gl'imperatori poteano costringer uno ad entrarvi; che entrati, non se n'usciva più, e se uno se n'allontanasse, v'era ricondotto come disertore. I campagnuoli, tanta oggi e sì vital parte, erano o coloni liberi o schiavi, distinti piuttosto di nome che di fatto, e poco superiori alle bestie che ne ajutavano le fatiche. Non che ispirare a costoro sentimenti di patria, o educarne il coraggio, erano tenuti inermi e ignoranti, che mai non potessero rivoltare contro dei tiranni le braccia od il pensiero: i lontani padroni gli affidavano a qualche schiavo o liberto favorito, che esercitava la superbia dispotica e crudele del servo che comanda. Al colono non restava modo legale di recare i lamenti al padrone o contro di esso; aggravato di canone sempre crescente, s'indebitava; quando l'oppressione giungesse al colmo, fuggiva, abbandonando casa, campi, famiglia per mettersi a servizio d'un altro, col quale ricominciare l'inevitabile vicenda, se pure il primitivo signore nol ridomandasse colle sommarie processure statuite dalla legge. Se v'è cosa che compensi la libertà, a migliore partito si trovavano i coltivatori schiavi, cui almeno il padrone pasceva per conservare queste macchine animate. Però le fatiche e la durezza de' sovrantendenti li consumavano, e più non essendone empito il vuoto dalle cessate vittorie, bisognava comprarli dai Barbari vincitori, o fra quelli che per castigo erano privati della libertà. Insofferenti dell'oppressione in cui non erano nati, costoro erano tenuti quieti soltanto dalla sferza e dalle catene; al primo bel destro fuggivano a vivere vagabondi; o intendendosi fra loro, trucidavano i padroni, e gittatisi alla foresta, viveano in armi. Non potendo dai Romani aspettare che castigo, blandivano i Barbari, ne imparavano la favella, ne divenivano anche guide, esultando agli strazj del popolo, da' cui ceppi si erano riscossi[266]; ovvero dai loro covili piombando sui coloni rimasti, ne esacerbavano le miserie. Il proprietario assalito o minacciato, se fosse qualche opulento senatore, poteva invocare la pubblica forza: il minuto possidente trovavasi esposto irreparabilmente all'attacco, vietandogli le leggi l'uso delle armi. Che gli rimaneva dunque? vendere il camperello al dovizioso vicino, o lasciarlo sodo, se pure il fisco non glielo staggisse in pagamento de' gravosi contributi; e sottrattosi all'infelicità del possedere, rifuggire a Roma. Chi s'accostava a questa città, vedeva per tutto magnificenza, codardia e morte; campagne trascurate e parchi voluttuosi; solitudine e stormi di schiavi; poi ville splendidissime, e vie eterne fiancheggiate di monumenti, le quali fin dal Clyde e dall'Eufrate mettevano capo al Foro, pieno di storia più che non interi regni. Alle trentasette porte schiuse nella cerchia di Roma, che girava quindici miglia (t. III, p. 424), rispondevano altrettanti suburbj, simili a città, e che prolungavansi fino al mare, ai Sabini e per entro al Lazio antico e all'Etruria. Là entro stivavasi una popolazione affluente da tutto il mondo, ridotta a un terzo dalle recenti sciagure, e dopo che con Roma, oltre Costantinopoli, gareggiavano Cartagine, Treveri, la florida Milano e la paludosa Ravenna. Là trovavi distinti Cappadoci, Sciti, Ebrei; là quella mescolata d'ogni razza e credenza, senza condizione nè patria nè nome, che è la zavorra di tutte le metropoli. La plebe più non guadagna a vendere il voto o a testimoniare il falso; non v'è più un Clodio, un Catilina che l'assoldi per tumultuare; non più re stranieri che ne comprino il favore, nè la chiamino erede di intere provincie; la pompa de' trionfanti non rinnova ogni anno le largizioni, nè agl'imperatori più cale d'averla amica e plaudente. Il mutarsi a Costantinopoli o a Milano di tante famiglie senatorie e della Corte, lasciò senza pane migliaja di persone avvezze a vivere su quelle: giace dunque la moltitudine scoraggiata, come il pitocco che sciupò nell'inerzia la gioventù; Teodosio e Graziano sono costretti a reprimere l'oziosa mendicità che ingombra le vie; e dell'antica boria non si conservano che i vizj, cresciuti coll'affluirvi d'ogni genìa. Sotto Teodosio si erano piantati lupanari presso certi molini, e gli uomini che v'entrassero cadevano in trabocchetti, ed erano forzati a girar le màcine, senza che più nulla se n'intendesse di fuori[267]. Nel mezzo di Roma! e il delitto sarebbe rimasto occulto, se un soldato non riusciva per gran ventura a camparne. Pure il popolo, antico padrone del mondo, non avea perduto il diritto d'essere pasciuto gratuitamente; e ogni giorno a tenuissimo prezzo distribuivasi pane a ciascun cittadino, in ducencinquantaquattro forni e ducensessantotto magazzini assegnati ne' varj quartieri: vi si univa per cinque mesi il lardo, somministrato dai majali della Lucania, e che al tempo di Valentiniano III saliva a tre milioni secentoventottomila libbre; tre milioni di libbre d'olio, tributo africano, distribuivansi per accendere i lumi e per ungersi nei bagni; e le vendemmie della Campania procacciavano vino a basso mercato. Ogni sollevazione dell'Africa o della Sicilia, da cui bisognava trarre il grano, recava dunque spavento; e dopo che l'Egitto ebbe ad approvvigionare Costantinopoli, si dovettero empire i granaj di Roma con frumenti del Rodano, dell'Arari e dell'Iberia[268]. Somme ingenti uscivano pure d'Italia per provvedere tante lautezze di vestire e di mangiare, e marmi e travi per le fabbriche, e belve per gli spettacoli; poi anche per assoldare i Barbari, o pagar ad essi un indecoroso tributo. La minutaglia, nudrita non per onore, ma perchè non tumultui, senza letto nè tetto, nè scarpe in piedi o cenci in dosso, s'affolla nei teatri e pei circhi, tronfia di nomi pomposi, lavasi in terme degne di re, e beve, e giuoca; ode una sconfitta? ulula gemiti disperati, che domani più non ricorda; ode una vittoria? esclama, — Viva l'imperatore; avremo pane e giuochi». Perocchè al pane e ai giuochi riduceansi tutte le sue aspirazioni, e al delirio giungeva l'amore degli spettacoli. «Odono (dice Ammiano Marcellino) che da alcun luogo giungano cocchieri o cavalli? s'affollano attorno al narratore, come gli avi loro affisavano attoniti i figliuoli di Leda, nunzj della vittoria. La plebe logora la vita al giuoco, nel vino, pei chiassi e negli spettacoli; centro di loro speranza, loro tempio, loro abitazione, lor parlamento è il circo Massimo. Pei fôri, sui trivj, nelle piazze s'accalca; e chi più gode autorità, va per le strade gridando che crolla il pubblico stato se, nel prossimo conflitto, il tale auriga suo protetto non ottiene la palma. Il giorno poi de' ludi equestri, prima che il sole mostri dal cielo la splendida faccia, v'accorrono, superando in velocità i cocchi disposti per entrare in lizza; e molti fin la notte vegliano, temendo non soccomba la fazione lor favorita»[269]. Sant'Agostino ed Orosio raccontano che i Romani, fuggiti da Alarico a Cartagine, vi duravano nei teatri quant'era lunga la giornata; nulla credevasi perduto se il circo si ricuperasse; la spada gotica non avea nociuto a Roma se i cittadini potevano rigodere i giuochi circensi[270]: donde la felice frase di Salviano, — Il popolo muore e ride»[271]. Tremila ballerini e altrettanti musici sollazzavano Roma; essi soli vennero eccettuati quando, in una gran penuria, si sbandirono tutti i forestieri, sino i professori d'ogni arte liberale[272]. Gli eccessi del lusso accostavansi a quelli della miseria e della corruzione. I patrizj non sapevano che vantare una serie di avi, alle cui austere virtù potevano contrapporre soltanto un fasto, cresciuto a misura che diminuiva la civile importanza. Il nome di senato non indicava tampoco il primo corpo della metropoli d'un impero; ma opulentissimi senatori occupavano palagi da poter dirsi quartieri, anzi città, comprendendo piazze, tempj, ippodromi, boschi[273]. E provincie poteansi dire le loro possessioni, da cui alcuno traeva quattromila libbre d'oro l'anno, e un terzo di questo valore in generi; la rendita cioè di quattro milioni e mezzo. Chi non avesse che mille o mille cinquecento libbre d'oro sarebbesi appena reputato degno di sedere in quell'ordine, nè sufficiente a sostenerne i pesi e lo sfarzo. Macrino, quando fu eletto imperatore, potea colle proprie rendite bastare alle spese dello Stato: san Girolamo ad Eliodoro nobile cittadino d'Aquileja, poi divenuto vescovo di Altino, rinfaccia i vasti portici, gl'ingenti spazj occupati da case, le villeggiature deliziose[274]: Paola, la devota amica di esso santo, contava tra' suoi poderi la città di Nicopoli. Di tali ricchezze facevano sciupìo in una vanità senza gusto: empiere la casa d'argenterie; moltiplicare le proprie effigie di bronzo o di marmo rivestito di foglia d'oro; sopraccaricare d'ornamenti i cocchi, di seta e porpora l'abito, che ad arte sciorinato, scopriva tuniche suntuose, ricamate a figure d'animali o a piante; e farsi precorrere da cuochi affumicati, seguire da una cinquantina di schiavi e di buffoni, poi parasiti ed eunuchi d'ogni età, pallidi e lividi. Il figliuolo d'Alipio, nelle solennità obbligate dell'anno di sua pretura, logorò un milione e duecentomila nummi d'oro, o vogliam dire zecchini, in sei o sette giorni: il figlio di Simmaco, senatore di mediocre fortuna, ne spese due milioni: quattro milioni il figlio di Massimo. Quegli Anicj e Petronj ed Olibrj, il cui patriotismo consisteva tutto nell'ostentare alberi genealogici, non che rifuggire dall'armi, nè tampoco comportavano fossero arrolati i loro servi; e quando l'imperatore Onorio volle con questi empire l'esercito, assordarono la curia di lamenti, ed esibirono piuttosto una somma d'oro[275]: tanto alla comune sicurezza preferivano l'avere magnifica famiglia. Sotterfuggere ogni pubblica cura o domestica fatica, l'intera giornata oziare a garruli crocchi e a bagni, uscire talvolta con apparato immenso a vedere i servi cacciar le fiere, o pel lago Lucrino navigare alle magnifiche lor ville con una salmeria di fanti, eunuchi, staffieri, tal era la loro vita. Vai per loro? alla soglia incontri le are della dea Tutela, il cui nome dia buon auspizio all'entrare[276]. Il damigello non t'annunzia al padrone, se prima non si lavò da capo a piedi. Tarda uno schiavo a recare il tepido lavacro? trecento sferzate. La mano o il ginocchio soltanto concedono ai baci de' clienti, i quali vengono ancora ad offerire omaggio, o ricevere promesse e sportule: nè si lusinghi entrar loro in grazia chi non è destro nell'adulare, nel suono, nel canto, nell'avventurar patrimonj sopra un dado, nello spacciare auspizj e indovinamenti[277], senza i quali non s'intraprende opera alcuna. Dimenticati i libri, se non qualche scurrile; le biblioteche chiuse come sepolcri; in quella vece cercano organi idraulici, lire grandi quanto un carro, flauti ed altri enormi stromenti, de' quali e di voci canore solo risuonano i palazzi. Che se alcun sintomo di vita appariva ancora fra quella turba viziosa, pusillanime, arrogante, era nella nimicizia fra Cristiani e Gentili, che, invece d'accordarsi a salute della patria, quelli attribuivano tutti i mali all'indulgenza dei Cesari verso le reliquie dell'idolatria, questi faceano voti per la fortuna dei Barbari, da cui speravano rialzati gli abbattuti delubri. E i Barbari venivano addosso a questa città, che non avea più veduto eserciti stranieri da quando, seicentoventiquattr'anni prima, Annibale sciorinò in faccia a porta Collina il cavallo di Cartagine. Colla baldanza consueta ne' decaduti, ripetevasi sorridendo, — Impossibile che un Barbaro assedii questa città gigante, al modo che Porsena l'assediò nascente!» ma ecco Alarico la circonda (409), e ne interdice ogni comunicazione colla campagna e col Tevere: Allora i Romani si gettarono alla disperazione, solita conseguenza; e poichè il vulgo nelle grandi sventure vuol sempre alcuno su cui versare la colpa, cominciò la solita canzone de' tradimenti: — Fu Stilicone che chiamò Alarico; Serena, vedova di lui, tiene intelligenza con questo per vendicarlo»; e tanto schiamazzò, che spinse il senato ad uno di quegli atti di condiscendenza che attestano una debolezza colpevole; cioè condannarla a morte. Fieri e d'accordo al delitto, divisi e pusillanimi alla difesa. La fame ingagliardiva alla giornata, nè la pietà dei monaci e di Leta, vedova dell'imperatore Graziano, bastavano a gran pezza al bisogno; onde la gente dai cibi schifi passò ai nefandi, e moriva per le vie, dove il lezzo dei cadaveri generava malattie. Ai mali opponevansi le superstizioni, ed auguri etruschi vennero asserendo di avere, con riti loro, salvato Narni, traendo il fulmine sopra i nemici, ed esibirono fare altrettanto a Roma: Pompejano, prefetto della città, interrogò i libri pontificali sopra ciò che convenisse fare; ma alle Sibille, che alla culla di Roma ne aveano vaticinato l'eternità, non restava più voce se non per annunziarne la morte quand'era già all'agonia. Gli aruspici allora protestarono, — Il Cielo non può placarsi altrimenti che con pubblici sacrificj, e col salire il senato in Campidoglio»; ma verun senatore osò assistere alla cerimonia, e i Toscani furono congedati. Falliti anche i soccorsi che si speravano mandati da Ravenna, più non restava che implorare la clemenza del re goto. Il senatore Basilio e Giovanni tribuno dei notari furono spediti ad invocarla; ed avendo essi detto ad Alarico, — Non vedi quanta gente sia ancora in Roma?» egli rispose: — Meglio si sega il fieno dov'è più folto», e ordinò gli consegnassero quant'oro e argento rimaneva in città, pubblico o di privati, ogni suppellettile di prezzo, e tutti gli schiavi barbari. — Ma che dunque ci lasci?» chiesero i deputati; ed Alarico: — La vita». Pure assentì una tregua, nella quale piegatosi a qualche umanità, limitò la contribuzione a cinquemila libbre d'oro, trentamila d'argento, trentamila di pepe, quattromila vesti di seta, tremila pezze di scarlatto fine, e si rendessero in libertà tutti gli schiavi barbari. Benchè fossero messi a contribuzione tutti i cittadini, non riuscivasi a pareggiare quella somma, onde si mise mano agli ornamenti dei tempj, e si fusero molte statue, fra cui quella del Valore, guajendone gli idolatri come segno che fosse perita la romana virtù. Così soddisfatto, Alarico lentò l'assedio; e disserrate le porte, tre giorni si fece mercato di viveri ne' sobborghi, empiendo i granaj pubblici e privati pel caso di nuovi disastri. Alarico tenne in rigorosa disciplina il suo esercito, sicchè non insultasse ai vinti; poi diede volta verso Toscana, dove pensava svernare. Accorsero alla sua bandiera quarantamila Barbari schiavi, anelanti alla vendetta contro gli aspri signori, intanto che il suo cognato Ataulfo gli menava un rinforzo di Goti e di Unni, sicchè a capo di centomila uomini sgomentava l'Italia. Ma perchè ripeteva di voler pace, furono spediti tre senatori espressi da Roma alla corte di Ravenna a sollecitare il cambio degli ostaggi e un trattato, per cui fondamento Alarico poneva d'essere eletto generale degli eserciti d'Occidente con annua provvigione di denaro e di grano, e il possesso della Dalmazia, del Norico, della Venezia, che lo facevano arbitro del Danubio e dell'Italia. Olimpio, ministro d'Onorio, negò darvi orecchio; anzi dietro ai messi spedì a Roma un corpo di seimila Dalmati: dal cui minaccioso aspetto irritati, i Barbari li tolsero in mezzo e trucidarono. Poco dopo, Olimpio perde la grazia dell'imperatore, e dovette andarsene esule; ricuperò poi l'autorità, la riperdette, e mozzegli le orecchie, finì la vita sotto le verghe. Onorio, non potendo far senza d'un padrone, assunse a quel grado Giovio, prefetto del pretorio: agli eretici e a' Pagani furono riaperti i comandi e le magistrature: Gennerido, barbaro di nazione, idolatro di fede, rimesso generale della Dalmazia, della Pannonia, del Norico e della Rezia, disciplinò le truppe, le incoraggiò, ricompensando talvolta del suo per supplire alla grettezza della Corte; e trasse a sè diecimila ausiliarj Unni, abbondevolmente provvisti di viveri e d'armenti, talchè assicurò la frontiera illirica. La Corte, non che secondare questi sforzi, armeggiava solo in intrighi disonorevoli e rischiosi. Istigate dal prefetto Giovio, le guardie a tumulto chiesero la testa di due generali e dei due primi eunuchi; quelli furono decollati, questi ricoverarono a Milano. Il brigante eunuco Eusebio e il crudele Allobico rimescolarono la reggia, finchè avversatisi per reciproca gelosia, il primo fu a bastonate ucciso sotto gli occhi dell'imperatore; l'altro s'accordò con Costantino imperator delle Gallie onde abbattere Onorio, e sotto veste di guerreggiare i Goti, il fece calare sino al Po. Ma la trama fu scoperta, e Onorio, non osando (così sentivasi da poco) punire giuridicamente Allobico, dispose una cavalcata, e in mezzo a quella pompa lo fece assassinare; indi scavalcato egli stesso, a ginocchi ringraziò Dio d'averlo libero da un traditore. Alarico avea, per mezzo di papa Innocenzo I, spedite nuove proposte di pace, e Giovio cominciava a praticarla, quando Onorio, incaparbito dalle istigazioni de' cortigiani, gli mandò disponesse del tesoro, ma non prostituisse ad un Barbaro le onoranze militari di Roma. La lettera, mostrata ad Alarico, lo irritò, ed inveendo contro l'imbecille imperatore, ruppe ogni accordo: d'altra parte la Corte obbligò i primarj uffiziali a giurare sul sacro capo del loro monarca, che in nessun tempo, a nessun patto farebbero accordi col nemico dell'Impero, anzi menerebbero implacabile guerra. Tanta baldanza infondevano le paludi di Ravenna; tanta ne sogliono ostentare coloro che o son lontani dal danno, o vogliono mascherar la paura. Ma il dissimulare il pericolo non lo rimuove, e già tutto l'Impero andava a balìa de' Barbari, e Roma vide di nuovo calare alla sua volta l'irresistibile Alarico. Costui, moderato ancora nell'ira e nella prosperità, non si stancò di spedire vescovi all'imperatore acciocchè campasse la città e l'Italia dall'ultimo sterminio: ma vistesi ripudiare tutte le condizioni, occupò il porto d'Ostia, e intimò a Roma di arrendersi a discrezione, o distruggerebbe d'un colpo i magazzini da cui ne dipendeva la sussistenza. Alle grida del popolo cedette il senato, e per ordine d'Alarico accettò imperatore Flavio Attalo, prefetto della città. Costui dichiara generale degli eserciti d'Occidente il suo creatore, assume Ataulfo per conte de' domestici, cioè della guardia del corpo; distribuite le cariche civili e militari tra suoi fidati, convoca il senato, e dichiara voler rintegrare la maestà romana, e stendere l'impero sull'Egitto e sull'Oriente usurpatigli. Stolidi millanti in chi era ludibrio de' Barbari: tuttavia furono mandate truppe a racconciare il freno all'Africa; Milano e il resto d'Italia acclamarono a pien popolo il nuovo augusto, che cercossi favore col sostenere i Pagani, e ripermetterne le assemblee; e fra le armi gotiche accampato presso Ravenna, ricusò la proposta d'Onorio di dividere le provincie occidentali, dicendo: — Se egli depone all'istante la porpora, gli concederò pacifico esiglio in qualche isola remota». Anche Giovio ministro e Valente generale di Onorio si unirono ad Attalo (410); di che tale sgomento concepì il figlio di Teodosio, che in ogni amico, in ogni servo paventava un traditore, e teneva legni sull'ancora per tragittarsi nelle terre del nipote. Ma quattromila veterani speditigli dall'Oriente tolsero a difendere Ravenna; le scarse truppe da Attalo spedite in Africa furono messe a pezzi dal conte Eracliano, che coll'impedire l'asportazione del grano affamò Roma, sicchè ne sollevò la plebe: poi Alarico prese in sospetto il proprio creato perchè talora mostrava condiscendere al senato più che ai Goti; e toltegli le insegne imperiali, le spedì qual pegno di pace ad Onorio. Ma dalla pace sconsigliavano l'imperatore i baldanzosi ministri e qualche fortunata sortita; laonde Alarico comparve sotto le mura di Roma (24 agosto), anelando alle spoglie ed alla vendetta; e dopo lungo assedio, per tradimento di schiavi v'entrò, passando sotto gli archi che, sette anni prima, erano stati eretti a celebrare il totale sterminio di sua nazione; e la città degli augusti, dopo avere per mille censessantatre anni predato il mondo, rimase preda al furore lungamente represso. Alarico ordinò si risparmiasse il sangue, e non si violassero le chiese degli apostoli Pietro e Paolo, sicchè la religione diventava unica salvaguardia a coloro che l'aveano perseguitata. Un Goto, entrato nell'abitazione d'una vergine matura, le chiese l'oro; ed essa il condusse ad un armadio, gli mostrò una ricchezza di vasi preziosi, e — Io non riterrò ciò che non posso difendere; ma vi voglio avvisato, che queste suppellettili sono sacre a san Pietro, e se le toccate, il sacrilegio resterà sulla vostra coscienza». Il Barbaro non ardì porvi la mano, e ne comunicò avviso ad Alarico, il quale ingiunse si tornassero intatte alla chiesa del maggiore apostolo. Spettacolo singolare, una processione di fieri Goti, mossa in ordine dal Quirinale, tra una schiera d'armati, alternando grida guerresche con devote salmodie, portò quei vasi al Vaticano; Cristo trionfava dove fallivano le armi terrene; e tante vite salvate negli asili della religione attestarono la civile potenza di questa, e il sorgere di tempj nuovi dallo sfasciume degli antichi. Fuori di là, il furore barbarico esercitò le licenze solite in città presa d'assalto; e dei tanti rimastivi fin allora schiavi, il lungo rancore si satollò nel sangue. Il sacco si stese dagli insigni capi d'arte fino agli addobbi privati; ori, gemme, tavole d'avorio, tripodi d'argento andarono confusi coi tappeti e colle vesti seriche sul lungo traino di carri che seguiva l'esercito goto; egregie statue furono gittate; stupendi vasi barbaramente divisi dall'ascia ignorante; con acerbe torture scoperti i tesori; alcuni palagi caddero preda delle fiamme; molti uomini uccisi, assai più ridotti servi, se non li riscattasse o la pietà congiunta o la religiosa carità; alquante vergini e matrone scamparono vergogna con volontaria morte[278]; una bella dama assalita da un giovane Goto, resistette finch'egli, tocco da quella virtù, la condusse incolume al marito[279]. Il sesto giorno i Goti lasciarono la città, e rigurgitanti di prede scesero per la via Appia all'Italia meridionale, spogliando e vincendo un paese che offriva quanto può allettare un conquistatore, nulla di quanto può frenarlo. Il campo de' Goti era pieno di cittadini e matrone d'illustri case, che ora schiavi e ludibrio della fortuna, mesceano il vino dei non più loro campi ai rozzi Settentrionali, i quali, assisi fra i platani e gli eterni laureti delle ville di Cicerone e di Lucullo, godevano le delizie del cielo italiano, e da quelle balzavano ad altre battaglie, a stragi nuove. Molti Italiani rifuggivano in terre più remote, alcuni nelle isole o in Africa, alcuni in Egitto, a Costantinopoli, a Betlemme, soccorrendo ai miserabili chi avea potuto sottrarre gli averi alla devastazione. Le ricchezze delle chiese si conversero in nutrire poveri e riscattar prigioni; Proba, altra amica di Girolamo, perdute nel sacco della città le sfondolate sue dovizie, approdò in Africa, e il frutto degli ampj possedimenti che vi tenea distribuì ai fuggiaschi. Alarico, giunto allo Stretto, gettò gli occhi sulla Sicilia, che meditava occupare per farsene scala all'Africa: ma una procella che disperse il primo imbarco, svogliò i Goti da un elemento per essi inusato; poi ne li distolse affatto la morte di Alarico (412). Per dare sepoltura all'eroe fu deviato il Busentino che lambisce le mura di Cosenza; scavata nel letto una fossa, e depostovelo con opulente spoglie, si diede novamente il corso alla fiumana, uccisi gli schiavi che eransi in quell'opera travagliati, perchè nessuno sapesse il luogo dove riposava il terrore di Roma, nè il suo riposo fosse turbato da postume vendette[280]. Allora i Goti raccolsero i voti sopra Ataulfo, cognato dell'estinto. Secondando Alarico, avea costui meditato di rinnovare faccia al mondo, e colle macerie del romano ergere un impero gotico: ma dall'esperienza chiarito che la forza demolisce non edifica, che a comporre uno Stato voglionsi leggi e ordinamenti di cui non erano capaci i nazionali suoi, si propose di meritar gratitudine col rifondere lena all'Impero cadente[281]. Sospesi dunque i colpi, offrì pace ed amicizia alla Corte imperiale: e questa, nulla ostando il dissennato giuramento, ebbe di grazia l'accettarla, e diede impresa ai nuovi federati d'osteggiare i tiranni sorti di là dell'Alpi. Ataulfo menò i suoi fuor dell'Italia, che per quattro anni avevano corsa e devastata; ma come alleati non meno che come nemici mandavano a sperpero le contrade, ora col pretesto di ribellioni, ora per l'indisciplina di gente che, stanziando nell'Impero, n'aveva contratto i vizj, non la pulizia. Sul cuore di Ataulfo aveva acquistato dominio Galla Placidia, figliuola di Teodosio, che cresciuta nella porpora, s'invogliò d'intromettersi alle politiche vicende, mentre le abbandonavano gl'infingarditi fratelli. Stava in Roma quando Alarico vi pose assedio la prima volta; e leggera o crudele, assentì alla morte di sua cugina Serena. Presa dai Goti, fu trattata con umanità e riguardi, forse per la protezione di Ataulfo che tolse ad amarla. Quand'egli ne chiese la mano, i ministri d'Oriente disconsigliavano superbamente l'ineguale parentela; ma la gradì Placidia, e le nozze furono stipulate prima che i Goti valicassero le Alpi, indi solennemente celebrate a Narbona. Messa da imperatrice, Placidia sedette su splendido soglio, e più basso a lato di lei Ataulfo vestito alla romana, che alla sposa per dono nuziale offrì le spoglie dell'Impero. Cinquanta garzoni, fior di bellezza, in abiti di seta, portavano ciascuno due vassoj, colmi l'uno di monete d'oro, l'altro di gemme: dirigeva il coro degli epitalamj Attalo, che, perduto il trono, non isdegnava seguire da cortigiano i gotici re. Perdonate le colpe de' passati scompigli, si ristaurò alquanto la capitale, portandovi abbondanza dall'Africa; e la gente tornava con tal ressa, che in un sol giorno n'arrivarono quattordici migliaja[282]. Ma come lusingarsi di durevole ristoro in tanta enormità di mali ed imminenza di pericoli? I rimedj stessi attestavano l'acerbità delle piaghe d'Italia, giacchè la Campania, la Toscana, il Piceno, il Sannio, la Puglia, la Calabria, l'Abruzzo, la Lucania, provincie le più manomesse, dovettero tenersi assolte dal tributo, eccetto un quinto per mantenere le pubbliche poste; le terre vacanti concedevansi a vicini o a stranieri, scarche di tasse. Nuovi guaj le vennero quando il conte Eracliano, rompendo la fede serbata nelle più urgenti necessità, ribellò l'Africa, e impedì i viveri alla nostra penisola: anzi con copiosissimo armamento[283] sorto nel Tevere, si diresse sopra Roma; ma scontrato dagli imperiali n'andò rotto, e fuggendo in Africa, fu côlto e decapitato. Della quale vittoria doveasi il merito all'illirio Costanzo, succeduto ad Allobico nel governare Onorio; bello e robusto come piace alla moltitudine, cortese ne' modi, sentito ne' motteggi; di valore poi e di capacità tale, che, mentre diresse le cose, non solo l'Italia rimase franca da invasioni, ma alcune provincie vennero ricuperate. Nelle Gallie vinse l'imperatore Costantino, che, sebbene avesse creduto render sacra la propria vita coll'ordinarsi prete, fu mandato in Italia ed ucciso. Anche Attalo, abbandonato da Ataulfo, fu condotto ad Onorio, il quale l'espose agli scherni della sua capitale, poi gli fece amputar due dita, ed esigliare a Lipari. Così Onorio, imbelle di corpo e di senno, in cinque anni trionfava di sette competitori. Ma quando doveva mostrarsi meglio riconoscente ad Ataulfo, l'inasprì col pretendere gli restituisse Placidia. Ataulfo da quel punto cessò di far causa coll'Impero; e Costanzo, che aspirava alla mano di Placidia e al trono, assicuratesi le spalle mediante la pace coi Barbari ch'eransi tragittati sulla sinistra del Reno, incalzò robustamente i Goti. Ataulfo allora gittossi di là de' Pirenei; ma presto fu assassinato da Sigerico in Barcellona (415); il quale, succedutogli nel comando, ne scannò i sei figliuoli, e fra una ciurma di schiave vulgari costrinse l'imperiale Placidia a camminare per dodici miglia dinanzi al cavallo di colui che l'avea vedovata. Ma dopo sette giorni di dominio, anch'egli fu ucciso, e surrogatogli Vallia, il quale, avversissimo ai Romani, corse la Spagna fin al mare, e con Costanzo si accordò di restituire Placidia, combattere in nome d'Onorio i Barbari di Spagna, e dare ostaggio, ricevendo in cambio seicentomila moggia di grano e un paese ove collocar sua gente. Delle vittorie di lui menò trionfo Onorio in Campidoglio; indi a Vallia assegnò l'Aquitania e per sede Tolosa; ai Burgundi consentì la Germania Prima, donde poco a poco si stesero sul bel paese cui lasciarono il nome di Borgogna. I Franchi, combattuto i nemici di Roma, gl'imitarono saccheggiando, e via via si dilagarono su tutta la Germania Seconda. L'isola Britannica, rimasta sguarnita allorchè l'usurpatore Costantino condusse le sue truppe sul continente, pregò ed ottenne da Onorio di potersi difendere colle proprie forze: altrettanto fecero gli Armorici nel litorale della Gallia fra la Senna e la Loira: e così pezzo a pezzo scomponeasi il colosso romano. In Italia Costanzo sollecitava il compimento de' suoi voti non d'amore, ma d'ambizione, chiedendo la mano di Placidia, la quale finalmente, per espresso comando d'Onorio, lo sposò, ed ottenne per sè e pel marito il titolo d'augusti (421). Quando però le immagini loro furono recate alla corte di Costantinopoli, Teodosio il Giovane sdegnò accettarle, e immineva aperta guerra, se non che fra l'allestirla Costanzo morì (2 7bre). Al cadere di costui, che per undici anni aveva sorretto l'esilità d'Onorio, rannodaronsi gl'intrighi di corte; e Placidia, cara al fratello a segno da dare appiglio alla malignità, gli fu dagli invidiosi messa in odio, e dopo tumulti e baruffe la costrinse a cercare co' suoi figli ricovero alla corte Orientale (423 — 15 agosto). Poco sopravisse Onorio, che, in regno abbastanza lungo, mai non aveva operato se non per impulso di chi lo avvicinava. A sbottoneggiare la sua voluttuosa negligenza, il popolo inventò che, avendo udito Roma essere stata presa dai nemici, se ne desolò, fin quando non seppe che trattavasi dell'antica metropoli del mondo, non d'una gallina sua favorita, che con quel nome egli chiamava[284]. Imperando Onorio, si può dire dato l'ultimo crollo al paganesimo. Arcadio comandò d'abbattere i tempj in città ed in campagna, e coi materiali riparare i ponti, le vie maestre, gli acquedotti e le mura di Costantinopoli, tolto qualunque privilegio ai ministri degli idoli, vietato ogni culto _superstizioso_ sotto gravi pene[285]. Onorio parimenti comminava la morte a chi sagrificasse a' falsi Dei, aboliva le rendite dei tempj, e destinava questi a pubblico uso, punendo gli uffiziali che tollerassero i sagrifizj, e commettendo ai vescovi d'impedirli[286]. Molti tempj andarono pertanto in ruina, alcuni furono vôlti al culto migliore, e i loro beni passarono ad arricchire la Chiesa. CAPITOLO LV. Valentiniano III. — Gli Unni. A separare più sempre i due Imperi, Onorio aveva decretato che in Occidente non valessero le leggi emanate da Costantinopoli. Quivi le cose volgeano non meno improspere che in Italia, anzi la monarchia, non frenata da veruna memoria d'antichi privilegi, operava a maggior baldanza; nè la splendidissima pompa bastava a coprire l'inettitudine del fanciullo Arcadio, che, al pari d'Onorio, metteva la testa in grembo a favoriti, i quali a vicenda acquistavano ed abusavano il potere. Quando egli morì dopo tredici anni di regno (408), Onorio fece qualche movimento verso la tutela del nipote Teodosio II, ma presto lasciolla cascare in mano di favoriti, poi della sorella Pulcheria, che votatasi alla verginità e a pie pratiche, si mostrava però degna di governare mezzo l'Impero, più che non lo zio ed il fratello. Questo fu da lei provveduto di buoni maestri, ma cresceva inetto; eppure intanto la Persia rinnovava gli attacchi contro l'Impero, e strappavagli l'Armenia. Morto Onorio (423), Teodosio si aggiunse anche il titolo d'imperatore d'Occidente, e mandò a debellare Giovanni segretario dell'estinto, che n'aveva usurpato il diadema, e che, resistito invano in Ravenna, ebbe tronca la destra; poi condotto a strapazzo sopra un asino, fu decapitato nel circo d'Aquileja. Teodosio trovossi allora padrone di tutto l'Impero; ma, fosse moderazione o negligenza, cesse l'Occidente al nipote Placido Valentiniano (425), figlio di Costanzo e di Placidia. Aveva questi appena sei anni, gli diedero sposa Licinia Eudossia figlia di Teodosio, e fu commesso alla tutela della madre, che per venti anni lo governò, con molle educazione sviandolo da occupazioni virili; mentr'essa nè sapeva reggere il freno, nè commetterlo a buone mani. Ultimo puntello degl'imperi sfasciantisi sono i guerrieri, e Placidia trovò due eccellenti generali in Ezio e Bonifazio. Il primo, nato nella Mesia inferiore da un'Italiana sposata a uno Scita, messosi giovanissimo alle armi, aveva praticato coi Barbari qual soldato e quale ostaggio. Bonifazio erasi non meno segnalato nei governi che ne' campi; riuscito a liberare l'Africa, ne fu posto governatore, e per giustizia e probità si rese caro e rispettato. L'accordo di questi due campioni avrebbe potuto rinvigorire alquanto l'Impero, ma gli diè il tracollo la loro nimistà. Nel passato tumulto Bonifazio avea serbato fede a Valentiniano, mentre Ezio ajutò all'usurpatore con sessantamila Unni. Fallita l'impresa, Ezio è accarezzato per paura, e ringrandisce nel favore dell'imperatrice; e macchinando di elevare se stesso sulle ruine di Bonifazio, susurra a Placidia, — Bisogna richiamarlo dall'Africa»; intanto segretamente avvisa Bonifazio, — Bada che l'obbedire ti costerebbe la testa». Bonifazio gli dà ascolto, e, invece di deporre il comando, avventasi alle armi; e da Placidia dichiarato ribelle, manda a Genserico re de' Vandali, eccitandolo ad acquistare stabili possedimenti in Africa. Genserico, uomo di meschina statura, azzoppato nel cader da cavallo, ma riflessivo, sprezzatore del lusso, lento al parlare, facile all'ira, cupido del possedere e di mischiar litigi[287], aveva condotto i suoi ad occupare la Spagna; donde allora, sopra vascelli offerti da Bonifazio che l'invitava e dagli Spagnuoli che bramavano liberarsene, tragittò in Africa cinquantamila uomini (429), ai quali s'aggiunsero malcontenti e Mori vagabondi. Sant'Agostino, vescovo d'Ippona, pose in opera l'autorità di prelato e d'amico per distogliere Bonifazio dall'insensata vendetta; ma quando altri amici scopersero le fraudolente lettere di Ezio, Bonifazio pentito venne ad affidare la sua testa a Placidia, e Cartagine e le guernigioni romane rientrarono nel dovere. Ma il colpo era dato, e per quante somme il ravveduto offrisse a Genserico acciò sgombrasse l'Africa, questi rimase non più come ausiliario, ma come padrone e devastatore; e sgominato Bonifazio, che combatteva col valore d'un pentito, scorse liberamente la campagna; sperperò le sette provincie, che chiamavansi granajo di Roma e del genere umano, mandando a strazio senza distinzione d'età o di grado, svellendo le vigne e gli ulivi, e se il terrore non esagerò, scannando i prigionieri davanti alle città assediate, acciocchè il lezzo ne ammorbasse l'aria. Sconfitti interamente i Romani, Bonifazio per disperato fuggì dalla contrada sopra la quale avea tratto tante sventure, e giunto a Ravenna, ebbe da Placidia oneste accoglienze e il grado di patrizio e di generale degli eserciti romani. Questi onori parvero un oltraggio ad Ezio, a cui l'essere scoperto perfido non avea scemato la confidenza; onde accorse con uno stuolo di Barbari; e a tal segno era scaduta ogni autorità imperiale, che assalì armata mano Bonifazio. Questi prevalse, ma d'una ferita spirò poco dappoi (432), perdonando ad Ezio, e consigliando alla ricca sua moglie di sposarlo. Ezio, rassicurato di perdono, torna; e l'imperatrice, baciando la mano che non poteva recidere, il solleva a patrizio. Fatti inesplicabili nella scarsità ed inesattezza de' cronisti d'allora. Nè con Ezio si deve parlare del patriotismo antico: libertà considerava l'affrancare i suoi padroni dagli stranieri, e se medesimo da chiunque l'impacciasse; combatteva per quell'onor militare, che oggi pure manda migliaja di soldati a profondere la vita e farsi eroi per una causa che non esaminarono, che forse ignorano. Genserico, domata la risorta Cartagine (439), i migliori terreni da Tripoli a Tangar distribuì fra' suoi, riducendo a servi i prischi possessori. Nessun'altra invasione riusciva di tanto pregiudizio all'Italia, avvegnachè i senatori vi perdevano i lauti patrimonj ivi collocati, il fisco l'immensa eredità di Gildone, la plebe le distribuzioni del grano e dell'olio che di là si traevano. Stava dunque sul cuore agl'imperatori di ricuperarla, ma Genserico, scaltro quanto prode, intoppò ogni lor passo; e posta in essere un'armata navale da ricordare i migliori tempi di Cartagine, invase anche la Sicilia, occupò Palermo, sbarcò più volte sulle coste della Lucania. Quand'ecco nuovo flagello scaricarsi sull'Impero: gli Unni. È impossibile confonderli, come gli storici d'un secolo fa[288], coi Mongoli e Tartari; e meglio si assegnano alla stirpe finnica, cioè a quella da cui derivano gli odierni Ungheresi. I nostri, sgomentati dall'apparire di genti estranie alla razza indo-germanica, non trovando immagini adeguate al loro terrore, ricorsero alle favole, e dissero che re Filimero avendo trovato fra' suoi Goti alcune maliarde, le cacciò in paese deserto, lontan lontano dal campo suo: quivi le imbatterono spiriti maligni, e mescolatisi con esse, generarono gli Unni, orridi e piccoli, nè somiglianti ad uomini se non perchè favellano[289]. Ammiano Marcellino li descrive di ferocia senza pari; nati appena, solcavasi loro il viso con un ferro rovente, acciocchè non mettessero barba; piccoli e tarchiati della persona, con vigorose membra, grosse teste, spalle tozze, tanto da scambiarli per bestie ritte sulle zampe, o per le grossolane cariatidi che sorreggono i palchi; portano alta la fronte, cavalcano a meraviglia, e maneggiano maestrevolmente arco e freccie. La caccia era loro abitudine; ed inseguendo una cerva bianca, alcuni traversarono la palude Meotide, onde vennero a conoscere il paese degli Sciti; e giudicando che per guisa soprannaturale fosse loro indicata quella via, indussero i compatrioti a invadere le contrade scoperte. Così fecero; e parte vinsero i popoli che scontravano, parte li fugarono col terrore degli orridi aspetti e d'una ferocia mai più sperimentata. Condotti dal re Balamiro (376), sottomisero gli Acatsiri e gli Alani, coi quali saltarono sulle contrade degli Ostrogoti, e li dispersero e sottomisero. I Visigoti chiesero ricovero sulle terre dell'Impero, abbandonando agli Unni il paese a settentrione del Danubio, ove da un secolo e mezzo stanziavano, e che allora divenne centro d'un nuovo Stato che dovea durare settantasette anni. Balamiro, inanimato dal buon successo, devastò le provincie romane, e molte città distrusse, finchè non venne acquietato col promettergli l'annuo tributo di diciannove libbre d'oro (20,000 lire) (400). Uldino, che gli succedette nel comando, fu assassinato; i Romani dovettero con più larghi donativi sviare le minaccie di Caratone; e d'allora gli Unni si mescolarono volta a volta nelle vicende dell'Impero. Varcato il Danubio, misero a sacco la Tracia e minacciarono Costantinopoli; se non che la peste li sterminò (425). Roila riceveva da Teodosio il Giovane l'annuo tributo di trecencinquanta libbre d'oro (370,000 lire) per tenersi tranquillo; forse con Ezio menò perfide pratiche; ma appena ebbe conchiuso nuovi accordi con Valentiniano III, morì (433), lasciando il principato al nipote Attila. Deforme figura, carnagione olivigna, testa grossa, capelli brizzolati, piccoli occhi affossati, naso simo, pochi peli al mento, corporatura tozza e nerboruta, fiero il portamento e la guardatura, come d'uomo che si sente vigoria superiore a quanti lo circondano, tale ci è descritto Attila. Sua vita era la guerra, pure sapea frenarsi: severo nel pretendere giustizia, considerava per tale la propria volontà; pure ai supplichevoli mostravasi esorabile, propizio a chi in fede ricevesse. Nè soltanto nella forza fidando, fece spargere di quelle ubbie che allettano la plebe. Una vitella tra il pascolare si ferisce un piede; e il pastore meravigliato cerca fra l'erbe, e vede sporgere la punta di una spada, che egli trae fuori e reca ad Attila; il quale mostra accettarla come un dono del dio della guerra, e un segno della dominazione universale. — La stella cade (diceva), la terra trema, io sono il martello del mondo, e più non cresce erba dove il mio cavallo ha posto piede». Avendolo un eremita chiamato _flagello di Dio_, adottò questo titolo come un augurio, e convinse le genti che lo meritava. Da principio sgomenta Teodosio il Giovane, che, al prezzo di settecento libbre d'oro all'anno, compra una pace vergognosa, oltre concedergli libero mercato in riva al Danubio, e restituirgli quanti sudditi suoi erano rifuggiti nelle provincie imperiali: avuti i quali, e tra essi alcuni giovani di regia stirpe, Attila li fa crocifiggere (441). Allora osteggia i Barbari di varia nazione, stanziati od erranti nel centro dell'Europa: Gepidi, Ostrogoti, Svevi, Alani, Quadi, Marcomanni si piegano o sono ridotti all'obbedienza di lui, che stende dai Franchi agli Scandinavi il dominio, il terrore per tutto il mondo: una folla di re lo corteggia, settecentomila guerrieri aspettano dal suo cenno qual paese abbiagli designato la vendetta di Dio. Ed egli, dal barbaro volgendosi al mondo incivilito, assale la Persia, ma respinto, ascolta al vandalo Genserico, e si avventa sull'impero romano; e distesi i suoi Barbari in una terribile linea di cinquecento miglia dall'Eusino all'Adriatico, manda dire a Valentiniano e Teodosio — Preparatemi un palazzo». Tre segnalate vittorie lo recano fino ai sobborghi di Costantinopoli. Devastate settanta città, ridotto in servitù chi campava dal ferro, pretese che Teodosio cessasse d'intitolarsi signore della contrada che si estende dal Danubio fino a Naisso e alla Nava in Tracia; poi qualora volesse premiare qualche suo benemerito, lo spediva alla corte di Costantinopoli ad insultar l'imperatore nel suo palazzo, col pretesto di chiedere l'adempimento de' patti, ma in realtà per farsi impinguare di doni dallo sbigottito augusto. Satollo di vittorie e di sangue, Attila ricoveravasi a riposo, non in alcuna città, ma nel proprio accampamento fra il Danubio, il Teiss ed i Carpazj, in quei campi d'Austerlitz, che divennero modernamente famosi per segnalata vittoria. Colà i vincitori del mondo e le loro donne compiacevansi attestare i loro trionfi coll'oro e le gemme onde fregiavano la persona fin alle scarpe, le spade, le bardature, e col vasellame d'oro e d'argento cesellato onde caricavano le mense. Attila solo, che sembra gigante perchè montato su tante ruine, e innanzi al quale tremava ognuno dal Baltico all'Atlante e al Tigri, ostentava non portare altro ornamento che d'armi; a tavola usava coppe e taglieri di legno, nè mangiava che carne e pane. Ivi accolse le umili e pompose ambasciate degli imperatori romani, ai quali a prezzo concedette di sopravivere ancora alquanto. Poco dipoi Teodosio II, cascando di cavallo, morì di cinquant'anni (450 — 28 luglio), dopo quarantatre d'un regno disonestato dall'avvilimento dell'impero, illustrato dal Codice ch'egli fece pubblicare: Pulcheria ottenne anche in titolo il comando sull'Oriente, che di fatto già esercitava; e per la prima volta una donna stette in proprio nome a capo dell'impero romano. Non un marito essa volendo ma un collega, fermò sua scelta sopra Marciano senatore sessagenario, il quale alla scuola dell'armi e della sventura aveva appreso virtù ignote ai cesari ch'erano stati cullati nella porpora. Quanto importasse il conservar la pace egli lo sentiva, ma non a prezzo di viltà; onde ad Attila, che mandava arrogantemente a chiedere il tributo, rispose: — Oro ho per gli amici, pei nemici ferro». Ultima voce romana. Attila si risolve alla guerra, e move dal fondo dei pascoli pannonj esitando, — Mi drizzerò all'oriente o all'occidente? cancellerò dal mondo Costantinopoli o Roma?» Una serie d'accidenti il determinò verso questa. Ezio, dopo ch'ebbe costretto Placidia a rimetterlo in grande stato, e sacrificare i nemici alla sua vendetta, baldanzeggiava di potere e di fasto, mentre l'imperatore vero marciva in un vile riposo, assicuratogli dalla valentìa di questo capitano. Il quale veramente ritardò d'alquanti anni l'ultimo crollo dell'Impero; frenò i Vandali con trattati, mantenne l'autorità imperiale nella Gallia e nella Spagna, e strinse federazione coi Franchi e cogli Svevi. Non aveva mai interrotto le relazioni cogli Unni d'Attila, nel cui campo pose ad educare il proprio figlio Carpiglione: la sua intromessa manteneva pace fra l'imperatore e quel formidabile, al costo però di frequenti umiliazioni: anzi ebbe Unni ed Alani agli stipendj allorchè volle combattere i Burgundi e Visigoti, già accasati nelle Gallie. Ma come Genserico mandò invitare gli Unni, Attila si difilò sopra le Gallie, dove lo chiamava anche l'alleanza dei Franchi, che colà avevano preso stanza dal Reno fin alla Somma. Se occorrevagli un'ombra di diritto, gliel'offerse Onoria, sorella di Valentiniano III, che relegata per aver amato il ciambellano Eugenio, spedì un eunuco ad Attila, esibendogli l'anello e le ragioni ch'essa poteva offrirgli come moglie. L'Unno mandò a chiedere formalmente la mano d'Onoria, come già sua fidanzata, e con lei mezzo l'impero. — Le donne romane non hanno diritto alla successione», gli fu risposto: e la principessa venne maritata di nome ad un uomo oscuro, indi chiusa in perpetuo carcere. Attila allora aduna un nuvolo di popoli germani e di vassalli od alleati, stermina molte città della Gallia (450), ed assedia Orleans. Ezio, non illudendosi nè alle insidiose profferte d'Attila, nè agli intrighi d'una parzialità che alla corte italiana favoriva la pace, per timida apprensione della guerra, fatto eroe per volontà, come sempre era stato per coraggio, avea raccolto le maggiori truppe che potesse, e massime gli ajuti dei Visigoti e de' costoro alleati, congiuntisi per respingere questi nuovi invasori d'un terreno, dov'essi cominciavano a gustare la dolcezza di stabili domicilj. Un generale romano, purchè riuscisse ad unire un esercito, poteva fare gran fondamento sulla superiorità che la tattica gli dava sopra di gente ragunaticcia, ricca soltanto di personale valore. Lo sentì Attila, il quale, ingombrato più che soccorso dalla moltitudine raccozzata, conobbe la titubanza, e levatosi d'attorno ad Orleans, e ripassata la Senna (451), attese il nemico nelle pianure Catalauniche sulla Marna, opportune ai volteggiamenti della cavalleria. Ivi dunque s'accampava tutto il mondo asiatico, romano e germanico; quelli cui sfuggiva, e quelli che afferravano il dominio della nuova Europa. Con Roma schieravansi Visigoti, Leti, Armorici, Galli, Breuni, Sassoni, Borgognoni, Sarmati, Alani, Franchi, Ripuarj; con Attila altri Franchi ed altri Borgognoni, Boj, Eruli, Turingi, Gepidi, Ostrogoti: fratelli separati da lunga stagione, qui si rincontravano per trucidarsi. Nella battaglia, con poc'arte e assai furore travagliata, cencinquantamila cadaveri copersero le rive della Marna, ma ai Romani restò il vanto: e fu l'ultima gran vittoria che si riportasse in nome degli antichi signori del mondo. Attila si ritirò dietro la trincea de' suoi carri, e la notte cantava battendo le armi, a guisa di leone che rugge nella caverna dove l'hanno ridotto i cacciatori. Preparatosi alla difesa, accatastò le selle e le gualdrappe dei suoi cavalli, disposto a bruciarvisi vivo perchè nessuno potesse vantare d'aver preso od ucciso il sire di tante vittorie. Ivi aspetta un attacco; ma al silenzio della campagna s'accorge che il nemico s'era ritirato per arte di Ezio, ed anch'egli rivarca il Reno, e costeggiando il Danubio torna in Pannonia. A primavera s'accinge a nuova invasione (452), e chiesta ancora la mano di Onoria col patrimonio di essa, e ancora disdetto, mettesi in marcia, valica le Alpi, e invade la pianura che l'Isonzo, il Tagliamento, la Livenza, la Piave, il Musone, la Brenta, l'Adige, il Sile avevano formata presso ai lenti loro sbocchi in mare. Era stata popolata dai Veneti Paflagoni[290], i quali colla caccia e la pesca viveano in quelle lagune, che offrivano breve tragitto fra Aquileja e Ravenna: vestiti alla greca con tuniche a maniche, larghi calzoni, il pileo in capo, e molto curandosi dei cavalli[291]. Il paese che con nome generico chiamavasi le Venezie, fioriva per le città di Concordia, Opitergio, Patavio, Altino, ridente di ville quanto il lido di Baja[292], e principalmente Aquileja. A questa pose assedio Attila colle macchine fabbricategli da disertori, e col dispendio di vite incalcolate. Gl'Italiani nel difenderla mostrarono che l'antico valore non mancava in essi del tutto, qualora o non li disgustasse la dotta oppressione, o non gl'impedisse la gelosia degli imperatori. Dopo tre mesi di vani attacchi, Attila per disperato levava già il campo, quando nel girare vede una cicogna che s'appresta a fuggire coi pulcini suoi da una torre dove aveva posto nido. — La città sta per cadere, se l'abbandonano fin animali così fidi», egli dice; e con tale augurio ravvivato lo stanco coraggio de' suoi, li mena con superstiziosa foga all'assalto. S'apre la breccia, ed Aquileja ruina per più non risorgere. Altino, Concordia, Patavio vanno a strazio uguale; e gli abitanti sbigottiti, dal continente cercano rifugio tra le isolette della laguna, primo nocciolo della città e della repubblica che dovea conservare il libero imperio più a lungo che Roma[293]. Internatosi allora fra terra, Attila mandò a pari guasto Vicenza, Verona, Bergamo: Pavia e Milano si ricomprarono dal fuoco col cedere tutte le ricchezze e colla pronta sommessione. Attila, entrando nella reggia a Milano, e visto una pittura dove gl'imperatori erano rappresentati sul trono in atto di calpestar re barbari, sorrise, e vi fece istoriare i cesari, versanti sacca d'oro a' piedi di lui vincitore. Tutta Italia, alle incalzanti notizie di replicati disastri, giaceva scarsa di consiglio, sprovvista di esercito, decimata d'abitanti. Ezio solo tenevasi in piedi: ma gli alleati che lo aveano soccorso di là dall'Alpi quando a quella dell'Impero andava congiunta la propria loro salvezza, allora vedevano con indifferenza dirigersi quella furia sopra l'Italia, come l'agricoltore quando il nembo, minaccioso a' suoi campi, si sfoga sopra gli altrui. Anche l'impero Orientale non seppe che promettere soccorsi; talchè a quel generale non restava che bezzicare di fianco l'esercito d'Attila. Valentiniano stesso non ben s'affidava nel suo generale, e tenendosi poco sicuro nel nascondiglio di Ravenna, era fuggito a Roma; poi vedendo anche questa abbandonata di soccorso e imperfetta di mura, meditava uscire d'Italia. Nell'universale scoraggiamento, Leone papa ed Avieno romano consolare presero il partito di condursi supplichevoli al Flagello di Dio, e in nome della religione e delle antiche memorie implorare la salvezza di Roma. Lo scontrarono vicino a Peschiera, e accolti con rispetto, il pregarono a dar sosta, promettendogli immense somme qual dote d'Onoria. Le leggende, che non poco s'esercitarono intorno a questo gran frangente, ricordano diverse battaglie avvenute sotto le mura di Roma, sì fiere che tutti i soldati perirono, eccetto i comandanti; ed anche esalate le anime, i cadaveri continuavano a pugnare tre giorni e tre notti come vivi[294]. Altri dissero che i santi Pietro e Paolo comparissero dal cielo, proteggendo la città dove riposano le loro ceneri, e minacciando Attila, il quale atterrito indietreggiò; miracolo perpetuato in colori da Rafaello, in marmo dall'Algardi. Anche senza miracolo, può credersi che il rispetto all'antica metropoli del mondo gentile e alla nuova del cristianesimo rattenesse i Barbari: recente era l'esempio d'Alarico, di cui restarono spezzati i trionfi e la vita appena ebbe violato la gran città; i seguaci d'Attila, impetuosi negli attacchi, non reggevano alle lunghe prove degli assedj: erano decimati dalle malattie, con cui tante volte Italia punì i suoi invasori; infine, quale allettamento potevano avere i palagi per Attila, avvezzo a considerar libertà l'aria aperta, e prigione le case? Agognava prede? gli venivano offerte senza fatica. Ripiegò dunque verso la sua città di legno; e tra via, alle tante mogli che l'aveano fatto padre d'innumerevole prole, aggiunse la giovinetta Ildegonda: ma nella gioja o nell'abuso delle nozze fu sorpreso dalla morte (453). Il cadavere di lui venne esposto in mezzo alla campagna fra due lunghe file di tende di seta; i suoi Unni si mozzarono i capelli, sfregiaronsi il volto, e gli offersero esequie di sangue umano. Chiuso in tre casse, una d'oro, una d'argento, una di ferro, nottetempo lo sepellirono colle spoglie più scelte de' nemici e coi cadaveri degli schiavi che aveano scavata la fossa, intorno alla quale i nobili Unni menarono dissoluti e intemperanti banchetti funerali. I molti figli di lui se ne disputarono gli ampj possessi; ma questi già erano perduti al lentar della mano che unica valeva a tenerli congiunti. La costui corsa non recò all'Italia soltanto i passeggieri disastri d'un'irruzione. Il paese veneto era la linea di congiunzione fra l'impero Orientale e l'Occidentale: i Barbari vi si erano affollati rompendola a volta a volta, ma senza stabilità, finchè la dominazione astuta quanto violenta d'Attila non ebbe dissipato ogni prestigio della superiorità romana. Distrutta Aquileja, la piazza d'arme più rilevante e la piazza di commercio più considerevole nell'alta Italia, questa si trovò aperta a chiunque venisse; e da quel punto la Venezia rimase staccata dall'Impero. CAPITOLO LVI. Sulla caduta dell'Impero romano. L'Impero potè dunque inneggiare e Giove e Cristo perchè trovavasi un'altra volta salvato: ma il cancro ne rodeva gli organi vitali; e dismessa l'obbedienza, indisciplinati gli eserciti, esausto l'erario, un sentimento universale di stanchezza e di paura stringeva gli animi, e facea guardare con isgomento il compirsi del XII secolo di Roma, che, secondo i computi de' sacerdoti etruschi, reputavasi fatale alla durata di essa. Educati da fanciulli ad ammirare Roma gigante, in una letteratura tutta piena della grandezza di lei, e sopra storie che, isolando la gloria dal diritto, la idolatrano, ne esagerano le virtù, ne giustificano le colpe, infondono idee false ed inumane della libertà, della gloria, del diritto di conquista; condotti poi a meditare quella legislazione, non solo ammirata ma seguita ancora in gran parte dopo tanti progressi della ragione e della pratica; circondati da mirabili avanzi di quella civiltà, e considerando come vanto patrio la magnificenza e i trionfi di coloro che godiamo chiamare nostri avi; qual meraviglia se con fatica deponiamo giudizj ricevuti senza discussione, e convertiti in sentimenti? se ci riesce ingrato chi ci strappa quelle illusioni, ed alle magnifiche frasi surroga i nudi fatti, allo splendore la giustizia, alla gloria l'umanità? Sulla caduta maestà latina faccia elegie chi, avvinto alle reminiscenze di scuola, giudica col patriotismo di Tullio e di Catone. Un insigne scrittore inglese, stomacato di vedere il convento d'Ara-cœli sorgere a fianco al Campidoglio, e cantici di frati sonare là dove un tempo decretavasi lo sterminio d'intere nazioni, fra sardonico ed epigrammatico dipinse come declinasse Roma dal punto che fu inaugurata la nuova fede. Ma chi si affezioni agli oppressi, ai vinti, al popolo, sarà a stupire se giudichi diverso da chi ammira la violenza, il trionfo, gli eroi? sarà a stupire se, chi della Via sacra e del Campidoglio si occupa meno che della Suburra e delle catacombe, non preconizza tanto la Roma d'Augusto quanto medita sul suo deperimento? V'ha spettacolo più istruttivo che quello d'una società che si sfascia mentre un'altra si forma? e quando mai la storia offrì maggiore opportunità di considerarlo? Un occhio umano e filosofico dovrà riconoscere che quella catastrofe, di lunga mano preparata, ritardata forse da accidenti che parvero accelerarla, tolse via una barriera ai progressi dell'umanità. D'altra parte l'agonia di dieci secoli dell'impero d'Oriente basterebbe a convincerci del come si sarebbe miseramente trascinata la sopravivenza dell'Occidentale. Per imputare della caduta di questo le sole invasioni dei Barbari, bisognerebbe dimenticare come esse cominciassero fin dal tempo di Mario e di Cesare, e che cinque secoli urtarono l'Impero senza scassinarlo, fintantochè le corrosioni interne non ebber reso irreparabile un crollo, di cui la grande migrazione fu occasione e nulla più. Le società moderne, anche traverso a quell'inumano avanzo che dicesi ragione di Stato, si fondano sull'amore; e più s'inciviliscono, più procurano la pace, estendono l'eguaglianza a maggior numero d'uomini, e infine a tutti. Le antiche in quella vece, non riconoscendo la fratellanza originaria nè la solidarietà del genere umano, si nutrivano d'odio, di guerra, dell'escludere ogn'altra gente dal piccolo numero de' privilegiati; libere nell'interno, tiranne e nemiche di chiunque non appartenesse alla loro aggregazione; il patriotismo era meno amor de' suoi che odio de' non suoi; il che fu espresso nel proverbio romano «L'uomo è un lupo per l'uomo»[295]. Di qui la necessità di tenersi sempre in armi per difendersi o per offendere; di qui la cura dei legislatori civili e religiosi nel conservare costumi e istituzioni che la loro tenevano distinta da ogni altra gente. Però conquiste, alleanze, federazioni dilatavano questa società, col che scemavansi i nemici, e comunicavasi a maggior numero quella giustizia naturale, che è diritto, ma che guardavasi come privilegio. L'incivilimento e l'umanità ne vantaggiavano, ma ne rimanevano sconficcate le società parziali; il patriotismo, svigorito coll'allargarlo, riducevasi incapace di resistere ad altro popolo che ne conservasse la primitiva inesorabilità. Greci, Pelasgi, Etruschi, gli altri popoli circumabitanti al Mediterraneo viveano in questo secondo stadio, allorchè Roma li colse e domò; Roma patriotica e guerriera per eccellenza. All'impeto suo, all'inflessibilità di que' patrizj, qual ostacolo poteva opporre l'Europa? Le nazioni di questa si trovavano press'a poco al medesimo livello di civiltà; date all'agricoltura, divise in popoletti secondo i territorj, tra loro frequenti in guerre, delle quali la minutezza impediva sino i vantaggi, soliti derivare da queste feconde malattie dell'umanità; non aveano una metropoli che primeggiasse; gelose dell'indipendenza, non s'univano se non a tempo per momentanei interessi o per calcoli d'equilibrio politico. Ma anche dove scarseggiavano i raffinamenti sociali, possedevasi la libertà; e mentre nei grandi imperi asiatici l'individuo andava perduto o sagrificato nelle convenienze dello Stato o nella volontà d'un arbitro, qui la suddivisione produceva quelle lotte, in cui l'uomo svolge ed esercita le proprie forze. Ne profitta Roma, miscuglio anch'essa di genti diverse; e fra le popolazioni italiote costretta a sostenersi colle armi, introduce quel sistema che da tutte doveva distinguerla, l'assimilare gradatamente al suo Comune i vinti, mediante la potenza del diritto. Quest'assimilazione fu iniziata dai re: la cacciata de' Tarquinj la sospese, ed assodò l'oligarchia, nella quale la plebe soffriva orribile pressura; ma non che fiaccarsi alla tirannide, si agitava, e chiedeva pane e diritti. Come acquietarla? occupandola in incessanti guerre, donde i patrizj traevano infallibile vantaggio, perocchè vincendo arricchivansi, vinti trovavano d'aver decimato e punito i loro tiranneggiati. Delle perdite Roma si rifaceva coll'assorbire il fiore de' paesi soggiogati: mirabile costituzione, mercè della quale divenne padrona non istantanea del mondo. Sottoposta la penisola, Roma si trovò a petto Cartagine; poi la Grecia e l'Asia, civiltà antiche; poi la Gallia, la Spagna, la Germania, civiltà esordienti: nella resistenza divenuta gigante, nella vittoria irresistibile, sulla meschina bilancia dell'altrui politica getta la sua spada; dà mano al debole, per opprimere con questo il forte, indi l'uno e l'altro soggiogare. Guai ai vinti! I trattati portavano in capo la parola di pace, come testè vedevamo quelle di libertà e fratellanza; ma realmente erano patti d'un superiore ad inferiori, sottomettendo non solo i vinti ma gli alleati a più o men diretta dipendenza. Il feroce diritto patrizio considera nemici i popoli indifferenti, e di buona presa la roba e gli uomini di chi non sia alleato; con lunga arte cancella i caratteri nazionali; ovunque tocchi, abbatte le vetuste grandezze e l'industria di lunghi secoli; l'opulenta Corinto, Cartagine regina dei mari, Rodi sposa del sole, cadono immolate alla gelosa conquistatrice; pérdono fiore le mercantili città dell'Egeo, muojono le splendide della Grecia; il commercio, anima del popolo attorno ai mari interni, è strozzato fra gli abbracci della padrona. Ad alcuni paesi vinti d'Italia e di Grecia lasciava essa qualche ombra di libertà; ma delle popolazioni di Spagna, delle Gallie, della restante Europa fa quello sterminio che crede necessario alla sua sicurezza; e sui cadaveri pianta colonie talmente efficaci, che giunsero fino a mutarne il linguaggio. Delle provincie conquistate dividevasi il bottino fra i soldati, il terreno fra i cittadini, che così diventavano barriera contro i nemici, ed estendendo fra i vinti il timore di Roma e il rispetto per le istituzioni sue, preparavano nuovi trionfi. Salvo i pochi che in alcuni paesi ottenevano in tutto o in parte il civile o il politico privilegio di Romani o di Latini, gli altri restavano esposti alle calunnie de' giudizj, alle estorsioni de' legulej, alla tirannide de' nobili, alla rapina de' proconsoli, sicchè il metter pace era un ridurre a deserto[296]. Tutto ciò importava quella necessità che più ripugna alle libere istituzioni, un grosso esercito. Le lontane conquiste obbligarono a prolungare i comandi, sicchè i generali si abituarono a potere ogni lor voglia fra le provincie schiave; gli eserciti, devoti ai capitani che gli aveano guidati alla vittoria, li seguivano anche contro la patria; e con essi Mario e Silla si fecero sanguinarj tiranni, con essi Cesare abbattè l'aristocrazia, Augusto la repubblica. Non abbandoniamoci a quella sentimentalità, che nelle guerre vede soltanto capitali sperperati e sangue effuso. Non che speciale a Roma fosse la crudeltà, vedemmo anzi lodarla di moderazione: che se tal lode veniva dal concetto che gli antichi si formavano della conquista, è certo che essa sottometteva e inciviliva; fra società fondate sull'odio, sospendea la permanente ostilità che ne parea condizione necessaria; toglieva la libertà, ma dava un governo e i vantaggi della civiltà e dell'ordine; imponeva il patriotismo e la dignità romana; un secolo dopo la conquista, la fiera Spagna era trasformata, con grandi strade, acquedotti, terme, teatri, circhi, tempj, crescente popolazione, e viva industria, e coltura tale che mandava a Roma i maestri d'Augusto, d'Ovidio, di Nerone, i poeti Lucano e Marziale, i due Seneca, gli storici Mela e Floro, l'agronomo Columella; nella Gallia si spianano strade, si aboliscono con lunghi sforzi i sagrifizj umani, grandeggiano scuole d'eloquenza; l'Africa sale ad una floridezza, qual mai non ebbe o prima o poi; in Egitto è portato il lino, nella Gallia l'ulivo, la vigna sul Danubio e sul Reno, ove sorsero città, che fin ad oggi sono le meglio fiorenti[297]. E fu Roma la prima che le conquistate nazioni pensasse a governare. Il diritto pubblico stabilito dalla vittoria la rendea padrona, ma la civiltà diffusa mediante le colonie facea che assimilasse il mondo, divenisse centro d'incivilimento, e perpetuasse i risultamenti dell'invasione armata; sicchè non la violenza solo, ma l'autorità e la coltura congiungeva a Roma il mondo, la cui immensa varietà era diretta da spirito d'ordine, di regola, di stabilità. Anzi, al vederla fatta meta di tutti i desiderj, Roma somiglia un centro che attira, anzichè un vortice che ingoja; e che non essa ingoji il mondo, ma il mondo costringa lei a riceverlo nel suo grembo. Questi miglioramenti eransi cominciati sotto la Repubblica; ma li perturbava la violenza, divenuta universale quando tanti anelavano a far propria la cosa pubblica colle ricchezze, coll'eloquenza, colle vittorie, cogli assassinj, cogli abusi di quella libertà, che è la parola più frantesa, giacchè valse perfino a scagionare i patiboli di Robespierre e i pugnali di nostri contemporanei. Il mondo n'era scagliato in preda alla forza brutale, quando gl'imperatori poterono sospenderne la caduta; e come la legge internazionale della repubblica era stata la guerra, così dell'Impero divenne la pace. La costituzione andò alterata, non tanto perchè il dittatore de' nobili o il tribuno della plebe avesse assunto il titolo imperiale, quanto pel cessare delle conquiste, ch'erano state l'alimento di Roma. La politica dell'accomunare di dentro l'eguaglianza cittadina, fuori i diritti dell'umanità, prese allora tutta l'ampiezza, avviando ad una grande unità, nella quale per conseguenza cessava la distinzione di nazioni, tutti potendo dar voti, tutti aspirare alle cariche, purchè aggregati all'estesissima cittadinanza. La innovazione dell'Impero bisogna conchiudere fosse necessaria, poichè durò sì a lungo, nè mai fu seriamente tentato di ripristinare l'antica Repubblica. Ma da una parte venne operata colla forza, in aspetto di usurpazione militare, che imponeva un governo soldatesco senza freni civili; dall'altra le irruzioni, allora cresciute, de' Barbari costrinsero a continuar le guerre, non più di conquista ma di difesa. Sono i due modi per cui si consolida il despotismo. Sebbene il sistema fosse fondato sulla violenza, già ne veniva indizio di quella spontanea associazione de' popoli, costituita sulla pace e sulla libertà, alla quale tende il mondo; intanto le idee si ampliavano, estendeansi la coltura e i miglioramenti materiali, ed il concetto d'una grande unità. Di ciò s'avvidero già gli antichi, laonde, col nome di orbe, di universo, di genere umano intesero il popolo e l'impero romano; e al decadere di questo, Claudiano glorificava Roma perchè sola ricevette nel suo grembo anche i vinti, e tutti abbracciò col nome di cittadino, e, merito di lei, anche lo straniero godeva le pacifiche consuetudini come nella propria patria, atteso che tutti sono una sola gente[298]. Ma perchè siavi unità, son necessarj l'accordo degli interessi, la simpatia de' popoli. Qui invece Roma trovavasi fra due civiltà, la greca e la barbara, essenzialmente diverse, e che divenivano germe d'una divisione, la quale si pronunziò col distacco dei due Imperi. L'unità, cioè l'eguaglianza, non era possibile in società costituite sulla separazione, sulla disparità; nè dagli antichi era concepita se non come monarchia universale, cioè il sacrifizio di tutti i vinti al vantaggio del vincitore. In fatti, dopo che la Repubblica avea cancellate le nazionalità, annichilò anche gl'individui, valutando il cittadino solamente in quanto giovava allo Stato, e scompagnando per tal modo l'interesse personale dal comune. Togli quei pochi che speravano dignità o impieghi, tutti gli altri non conosceano lo Stato se non per le oppressioni o le imposte. In Roma repubblicana la patria era una religione: scopo supremo delle azioni pubbliche e private l'ingrandirla; per essa sprezzati l'oro, la vita, la pietà, la virtù; non accettata la pace che dopo la vittoria; e creati quegli eroi che formano l'ammirazione di chiunque osservi la grandezza indipendentemente dall'umanità. Quel vitale sistema di Roma d'aggregarsi i vinti fu guasto dagli imperatori esagerandolo; e per togliere ogni ostacolo ai proprj arbitrj e impinguare il tesoro, estesero a sempre maggior numero di sudditi la cittadinanza, rintuzzando così il sentimento esclusivo dell'amor di patria. A misura che questa dilatavasi, quello s'indeboliva, e la pena dell'esiglio, terribile al Romano quando lo spingeva soltanto a Fidene o ad Ardea, parve sì mite ai tempi di Cesare, che convenne aggiungervi la confisca dei beni. In un piccolo Stato libero, ove il diritto di suffragio dipende dalla proprietà, si comprende come tutti i privilegi e i poteri si devono concentrare nella città. Ragionevolmente dunque Roma tenne un governo di municipio, ove patrizj, popolo e cavalieri, senato, consoli e tribuni si bilanciavano per modo che una mano vigorosa poteva dirigerli in un bello ordinamento civile. Siffatto ella il mantenne anche ampliandosi, onde perdeva le proporzioni allorchè la città era estesa quanto il mondo. Altre Rome ottennero la forma della madre, ma della prisca non rimaneva che il fantasma; nè coll'aprirla a tutta Italia, poi all'Impero tutto, si produsse un vero ordine di cittadini, una nobiltà imperiale, che desse assicurazioni di libertà al popolo, di durata al governo, d'efficacia all'amministrazione. Se Cesare, passaggio fra l'antichità conquistatrice e le moderne età civilizzatrici e vero fondatore dell'autocrazia, avesse potuto effettuare i grandiosi suoi divisamenti, ridurre ad unità l'Impero mediante la rappresentanza, accomunare alle provincie la cittadinanza, abolire il patriziato originario coll'accogliere nel senato il meglio d'ogni gente, poteva uscirne un governo bilanciato, che le forze diverse convergesse ad uno scopo, e quella mescolanza di Latini, Italici, nuovi Latini, municipj, coloni, provinciali, fondesse in un grand'insieme per la franchigia della nazione e l'incivilimento del mondo. Ma al piccolo ingegno e al piccolo cuore d'Augusto mancò la capacità o la generosità d'istituire un freno a se stesso e alla rea volontà de' successivi imperanti. Questi, all'ombra de' regolamenti con cui la Repubblica patrizia proteggeva i magistrati, poterono legalmente ciò che vollero, identificando in sè il popolo, armandosi dell'autorità tribunizia; e per logica legalità, al cieco amore di patria rimase sostituita la cieca obbedienza al despoto di essa. Tutto dipendeva dai capricci d'un solo, e questo dai capricci dell'esercito; laonde la monarchia arrotando la conquista, regolò l'ammirazione del mondo, ma riuscì tempestosa poco meno della repubblica. Sotto le forme d'una grande unità, internamente nulla era fuso; razze, lingue, credenze, istituzioni, intenti, tutto rimaneva differente; un popolo ignorava l'altro; le comunicazioni non aperte che fra le capitali, cioè fra le varie stanze di cittadini di Roma; del resto avversione reciproca fra soggiogati e vincitori; le compresse nazionalità rialzavansi a tratti; le provincie, non che crescessero forza a Roma, la indebolivano reputandola nemica, e consideravano come propria libertà il perdersi della loro tiranna; sicchè quell'antagonismo, nulla avendo di legale, sconvolgeva lo Stato. I comizj del popolo erano più possibili quando gente da tutto l'orbe potea prendervi parte? Perchè il senato avrebbe potuto frapporre qualche barriera, tutti gl'imperatori, buoni o malvagi, fiacchi o risoluti, accordaronsi nel decimarlo e avvilirlo. E ne restò sbrigliata la tirannide; tanto più che l'esecutivo non era, come nei moderni, separato dal potere legislativo; i principi faceano da giudici, pronunziavano in casi particolari, ed applicavano le pene da loro stessi decretate. I buoni imperatori si temperavano nell'esercitare quest'illimitato e legale rigore: i malvagi ne facevano stromento a passioni, e coll'infame genìa delle spie spargevano tra il popolo la pessima delle corruzioni, quella che ti fa sospettare un nemico in ogni fratello. Ma a quei mostri che si succedettero sul trono d'Augusto, udimmo mai rinfacciare che trascendessero la legge? Nulla avea questa che restringesse i loro arbitrj; della religione erano essi i pontefici sommi; la moralità era una controversia di scuola, sottomessa alla ferrea parola della legge, per la quale chiamavasi diritto ciò ch'era comandato (jus jussum). Se l'eventualità della nascita, o il capriccio dell'esercito, o la venalità d'un'assemblea assidono un mostro sul trono del mondo, costui diffonderà tanto più la propria corruzione, quanto più in alto è collocato. Se poi la scarsa fazione de' buoni vi innalzi principi d'invidiabile virtù, questi allevieranno i mali di chi sta a loro più vicino, ma dovranno assecondare anch'essi le materiali inclinazioni che ormai allo spirito tolgono ogni possanza; giacchè le abitudini d'un potere sfrenato si connaturarono a segno da non lasciar discernere la giustizia, nè sentire l'umanità; e tutte le classi, disarmoniche e scoraggiate, sospingonsi a vicenda nell'irreparabile abisso. Questo principe è proclamato superiore alla legge, eppure, come un balocco da fanciulli, è sollevato e abbattuto da frequenti rivoluzioni: non di quelle rivoluzioni, ove fra il sangue proceda la società, come la nave nelle tempeste; ma congiure di Corte o di caserma, che non fruttano nè franchigie nè esperienza, che uccidendo il tiranno assodano la tirannia. Da qui, come da tutte le rivoluzioni, la prevalenza della forza armata. Costretti a tenersi in guardia men tosto contro nemici esterni che contro i sudditi, gl'imperatori crebbero la potenza de' pretoriani, e questi usurparono la facoltà di eleggerli e mescersi del governo civile, finchè Comodo strappò le ultime apparenze di franchigia rimaste al popolo e al senato, col porre accanto al trono il prefetto del pretorio. Insuperbiti dal sentirsi necessarj, i pretoriani occupavano i beni altrui senza tampoco mascherare colle formole l'usurpazione; svilirono il senato coll'aggregarvi ogni feccia, purchè pagasse; vendettero i decreti; crearono venticinque consoli in un anno; che più? posero all'asta l'Impero. Quel che i pretoriani in città, pretesero farlo gli eserciti fuori, conferendo il diadema a quel qualunque, cui fossero disposti a sostenere. Dopo Massimino cominciano le gare fra il senato e l'esercito per l'elezione; e poichè il secondo preponderava, sceglieva gl'imperatori da nazioni differenti; Roma, invece di dar il padrone agli stranieri, lo ricevette da essi; e quale patriotismo poteva attendersi fra capi forestieri e sudditi avviliti? Poi ciascun esercito pretendendo l'eguale diritto, ne vennero doppie e triplici elezioni, sostenute da guerre civili, tra cui si logoravano le armi che sarebbero state necessarie contro i Barbari, e lasciavansi sguarnite le frontiere quando più era mestieri guardarle. Nei censessant'anni descritti dalla _Storia Augusta_, settanta persone portarono il titolo imperiale; e, dove conferivasi a quel modo, manca ogni criterio per distinguere il legittimo dall'usurpatore, se non sia l'esito. Effimeri monarchi potevano attenersi ad una politica uniforme? Ogni nuovo venuto vi mescolava alcun che di personale, compiacevasi operare a rovescio del predecessore; nessuno proponevasi un gran disegno, nè aveva il tempo d'effettuarlo. La divisione dell'Impero fatta da Diocleziano agevolava il pronto riparare agli invasori, e terminò le sommosse dei soldati: ma ne venne sterminato aumento alle spese delle Corti, non più semplici come al tempo d'Augusto, ma emule della vanità persiana; alle forze mancò l'accordo, e massime l'Italia nostra ne patì, cessando d'essere il capo e il cuore di quel corpo gigantesco. Costantino conobbe la necessità d'una monarchia regolare, comunque irrefrenata, e di separar il potere che dirige da quello che eseguisce; ma non ebbe arte o volontà di fondere i diversi elementi. Poneva un termine all'anarchia militare, facendo prevalere l'ordine civile; fiaccò la guardia pretoriana; ai capi de' soldati non assegnò che gl'infimi gradi della nuova gerarchia; quattro prefetti del pretorio e quattro eserciti si tennero l'un l'altro in rispetto; i soldati si cernirono solo fra proletarj, e perchè non disertassero, marchiavansi a fuoco sul braccio o sulla gamba. Restavano da ciò prevenute le turbolenze e le insurrezioni, ma fiaccata la robustezza militare allora appunto quando il bisogno ne cresceva; e disperse le legioni che difendevano i passi, lasciavansi a sbaraglio le provincie. I successori suoi abbandonaronsi alla corruttela d'una Corte asiatica, e i palazzi dov'essi ricoveravano la minacciata maestà, divennero officine d'intrighi, d'iniqui giudizj, di basse turpitudini, surrogate ai macelli dei primi Cesari. Fra cortigiani ed eunuchi, gl'imperatori non contraevano che avidità di godimenti, non gustavano che la beatitudine del far nulla; negligendo di vedere le cose coi proprj occhi, sulla guerra e l'amministrazione, sui lamenti e i bisogni dei popoli acquetavansi alle relazioni d'un confidente scaltro, brigante o venale. Che la traslazione della sede fosse opportuna alla durata dell'Impero, l'attestano i dieci secoli che Costantinopoli sopravisse: ma fra le due metropoli entrò gelosia; Roma indispettivasi di vedere diviso il diadema, e le ricchezze e gli ornamenti suoi passar ad abbellire la figlia rivale; Costantinopoli recavasi a sdegno che Roma pretendesse ancora il primato: sul Tevere ricoveravansi le reliquie del paganesimo in grembo all'aristocrazia; sul Bosforo versavasi sangue per le dispute cristiane: dei reciproci pericoli parevano esultare, anzi talvolta l'una dirigeva sopra l'altra i nemici o per rancore o per salvare se stessa. Vedemmo i Romani, sempre mal pratici in fatto di finanze, dapprima cercare la prosperità col tener basse le fortune, poi non conoscer la ricchezza che nel cumulo di metalli preziosi; e dopochè col cessar le conquiste cessò l'affluenza di questi, nessun modo si conobbe d'agevolare i cambj, e provaronsi tutte le angustie della mancanza di numerario. Neppure troviamo che in quegli estremi si ricorresse ai prestiti forzati e ai viglietti di banco, come erasi usato ai tempi d'Annibale; e l'arte riducevasi a smungere i sudditi col divisare un raffinato concatenamento di vessazioni. Man mano che l'Impero declina, cessano gli eventuali ristori che la sua potenza recava; e sempre più bisognoso d'uomini e di denaro, maggiormente domanda ai sudditi quanto meno si occupa del loro benessere; anzi, per soddisfare alle sue necessità, incatena le persone ed i possessi. Qui v'avea servi affissi ai padroni, là coloni affissi alla gleba, artigiani affissi alla manifattura, decurioni affissi al municipio colla persona, le sostanze, i figliuoli, l'eredità, l'amore[299]. L'artigiano non paga le tasse? le dovrà la maestranza cui egli spetta. Ai sudditi le imposte riescono esorbitanti? ebbene, soddisfino per essi i decurioni. Abbandonano i terreni? ebbene, siano obbligati gli altri possessori a comperarli. I decurioni, aborriti perchè tiranni, aborrenti perchè tiranneggiati, sottraggonsi a quella carica? ebbene, vi si obblighino a forza; la assumano i bastardi, gli Ebrei, i sacerdoti indegni, i soldati fuggiaschi, i debitori insolvibili. Pertanto i municipj non erano che un sistema di più vasta e più immediata oppressura; le corporazioni d'arti equivalevano ad una galera; il titolo di cittadino romano, dianzi stimato e compro a gran valuta, era fuggito come un supplizio, era ripudiato quasi infame[300]. Ne' mali più gravi i rimedj stessi aggravano; perfin la giustizia diviene un'occasione di danni. L'accomunamento della cittadinanza, reclamato dall'equità e dalla politica, non fece che spopolare l'Italia, traendone a Roma tutti i ricchi e gli scioperati: questo gentame seguì a Costantinopoli il pane e i piaceri, lasciando l'Italia vuota, deserti i suoi campi, le città senza patrimonio, senza capi. Allora la patria nostra perdette le esenzioni, fin là godute come terra sovrana; restò gravata dalle tasse comuni, appunto quando cessavano d'affluirle quelle di tutto il mondo; la migrazione dei ricchi e le rapaci correrie dei Barbari desolavano d'abitanti le sue città, di frutti le campagne, che, da giardini dei grandi com'erano prima, si conversero in letto di fiumi, in asilo di belve e di ladroni. Come prendersi cura alla difesa d'uno Stato, a cui non erano attaccati altrimenti che pel sanguinoso legame del tributo? Quei Greci, quei Galli che avevano profuso milioni di vite per la propria indipendenza contro Roma, veruna resistenza opposero agl'invasori. Il modo d'esazione dei Barbari, semplice per quanto arbitrario, men rincresceva che non il lento sanguisugio di un governo, che non pareva essersi raffinato se non a danno de' sudditi: le migliaja di schiavi sospiravano l'ora di mirare umiliati i burbanzosi padroni, e lanciar loro in viso i ceppi che aveano sin allora portati: i coloni, sottoposti all'enorme capitazione e ad opprimenti servigi di corpo, offrivansi a chiunque promettesse un sollievo, od almeno una mutazione di mali: il cittadino si divincolava in quella inestricabile rete di tirannia che avviluppava tutti, dall'imperatore sino all'infimo schiavo. Tra siffatti come suscitare il patriotismo? e tolto questo, qual movente rimaneva nelle antiche società? la legislazione? la filosofia? la religione? La prima fu il vero vanto degli ultimi secoli dell'Impero, consolidando ed appurando la famiglia e la proprietà, sicchè il furore de' tiranni violava quegli ordinamenti, ma non li cambiava: e questo rispetto alle leggi valse a prolungare l'esistenza di Roma, il cui decadimento venne lentissimo perchè il sistema era buono, nè facilmente si cancellava la grandezza del nome suo. Ma se, vedendo imperatori dispotici, moltitudine adulante, menzogna perpetua nelle apparenze e nel linguaggio, le anime nobili s'indignavano, non sorgeano però ad alto scopo, limitandosi a ribramare il passato; sicchè non mirando a un avvenire, ne seguiva sterilità d'intelligenza e di cuore. Una religione fondata sopra la credenza d'un Dio solo, se anche travii, può revocarsi a' suoi principj, avendo un punto saldo da cui prender le mosse. La latina, senza base una e solida, senz'intima moralità, contraddicente alla ragione e ai bisogni spirituali di quel tempo, non poteva restaurarsi, sconnessa che fosse. Inutili dunque gli sforzi di Augusto per rintegrarla come elemento d'ordine. Tentarono gli Antonini rinsanichirla innestandovi la filosofia stoica, e ne sorsero benefici regnanti e vigorosi magistrati: ma quella scuola, oltre gl'intimi difetti, non potea mai divenir popolare, come dev'essere una religione. Tanto peggio riuscirono i tentativi di ringiovanirla colle dottrine neoplatoniche, coi riti teurgici, colle iniziazioni mitriache. Rimedj organici portava il cristianesimo, destinato a compier l'opera di Roma, cioè unificare il mondo nel diritto, ricevere tutti nella gran città, reggere coll'impero i popoli senza abolirne l'indipendenza e l'autonomia, e non solo i popoli tra l'Eufrate e il Danubio, ma fin di là da mari, di cui neppure l'esistenza conoscevano gl'imperatori: dentro, virtù cittadine e private rifiorivano; un clero che la legge romana esimeva dai tributi oppressivi e dalle odiose cariche curiali, mentre la legge cristiana gli toglieva d'imbrutalire nell'ozio e ne' bagordi. Ma i monaci nel deserto e i sacerdoti nelle città, non che tutelare l'antico, invocavano il giovane mondo. Perocchè il dire che una società si discioglie, significa che un'altra cova nel suo seno, il cui fermentare scompone gli elementi dell'anteriore acciocchè entrino in nuove combinazioni. Insinuarsi nell'Impero la nuova dottrina non poteva se non iscomponendo l'ordine, di cui l'apparenza durava. Se n'accorsero fin dall'origine i giureconsulti e gli imperatori, laonde bandirono guerra a questi sudditi riottosi; e i Cristiani, ridotti a considerare per nemico un governo che in guise spietate voleva inceppare la più libera delle cose, la coscienza, se ne sceveravano stringendosi fra sè; disobbedivano ed erano puniti per colpe che non si giudicavano disonoranti, sicchè la disciplina andava a fasci, mentre fiaccavasi il sentimento morale; ne' magistrati onesti lottavano la coscienza e la legalità; entro le stesse mura, nella casa stessa, uno trovavasi nemico dell'altro, e lentavasi ogni legame di società e di famiglia. Il cristianesimo, sapendo che la resistenza è colpa quando cessa d'essere un dovere, per non provocare i tiranni, aveva dapprima offerto il collo tacendo e perdonando: invigorito poi ne' tormenti e nelle maschie voluttà dell'astinenza e della solitudine, alza la voce di mezzo al fragore dell'armi; da credenza personale e interiore s'è mutato in istituzione, con governo e rendite, rappresentanza ed assemblee, talchè può svincolarsi dagl'impacci della società civile. L'unità, scopo della politica romana, perì allorchè questa a doppio interesse si dirizzò, alla patria cioè ed al cristianesimo; e la società che finiva non avendo più l'autorità, la nuova non avendo ancora la potenza, venne ad accelerarsi lo sfacelo. Ogni nuova rivoluzione religiosa noceva allo Stato; poichè o Costantino alzasse il làbaro, o Giuliano riaprisse i delúbri, o Gioviano tornasse alla croce, sottraevansi all'Impero le braccia o il senno di alcuni, che faceansi coscienza di coadjuvare a chi adorava altrimenti, o non v'erano sofferti dall'intolleranza: le istituzioni introdotte e quelle abolite dal cristianesimo traevano il crollo di altre, su cui la vecchia società era sistemata: ai municipj non restò più che miseria quando Costantino applicò i loro possessi alle chiese: dalla milizia e dalle magistrature molti forti e pensatori si stornavano per darsi all'eremo o al sacerdozio, e tornavano di aggravio ai laici le esenzioni concedute al clero. Nella teologia antica il perire degli Dei faceva perire la nazione: sicchè Roma dovea cadere perchè caduti i suoi numi, finir l'Impero perchè era finita quella teologia. La nuova avrebbe potuto rivolgersi tutta a riformare i costumi mediante i precetti morali e le leggi civili: ma ne fu sviata per l'inciampo delle eresie. Perocchè, se la morale era la conseguenza, la premessa era il dogma: e quella senza di questo sarebbe soccombuta nell'urto della barbarie, non potendo dalla sola filosofia cominciarsi una civiltà duratura. Bisognò dunque chiarire, precisare, mettere in sodo il dogma: ma che la morale e l'attuamento di essa nelle leggi non fossero neglette, il palesano la motivazione delle migliori costituzioni imperiali, tutti gli scritti dei santi Padri, e quella folla di sacerdoti e di monaci che coll'esempio e colla parola proclamavano la virtù, pur lamentando che tanto restasse annebbiata dalle antiche abitudini. Efficacia pubblica scemò alla religione l'essere la società civile rimasta ancora pagana di fondo, d'istituti, di leggi, di costumi, qual era sorta e cresciuta. Essa possedeva tutte le istituzioni opportune al progresso delle idee e all'ammiglioramento degl'intelletti; mentre la religione nuova ne mancava: e tutto dovea dedurre dalla propria volontà, dalle credenze, dall'impero di queste sugli animi, dal bisogno che aveano di propagarsi e d'occupare il mondo. L'esito del conflitto non restò a lungo dubbioso, e la società antica fu trafitta nel cuore: ma siccome certi paladini del medioevo si favoleggiò che persistessero a combattere tre giorni dopo morti, così quella si reggea per la propria mole, e pagana nelle midolle anche dopo fatta cristiana nell'esteriore, prolungò una vita affatto artifiziale; posto il dogma della Trinità e della Redenzione in fronte alle leggi, pure l'impero progrediva in un ordine diverso, se non anche opposto al Vangelo. Nè il cristianesimo proponevasi d'abbatterlo, suo scopo essendo il migliorare gli uomini acciocchè s'immegliasse la società, non già il correggere quelli per mezzo di questa, come fin allora avevano i savj praticato. Non fa dunque cessar di colpo le intime ostilità, la schiavitù, la passiva obbedienza; con quali forze l'avrebbe potuto? non determina le relazioni di coscienza fra re e popoli, perchè nazioni cristiane non v'aveva ancora, ma soltanto individui; al governo siedono imperatori, che sono capi degli eserciti e dello Stato, pontefici e Dei, con un senato disposto a tutto confermare, un esercito a tutto eseguire: ma la Chiesa intuona che gl'imperatori dipendono anch'essi da un Dio, il quale a suo grado li solleva ed abbatte; che la rigidezza parziale ed esclusiva della legge romana deve piegarsi alla comprensibilità cristiana, cioè alla moralità e alla giustizia, uniformi per tutti; i cesari non sono sbalzati dal trono, ma dall'altare e dalla sedia pontifizia; e accanto alla società peritura ne viene alzata per modello una nuova, diversa all'intutto, fondata sull'eguaglianza degli uomini, con una gerarchia elettiva, dove non nobiltà, non privilegi ereditarj, dove gli onori, la considerazione, il potere si piantano sull'unica base legittima, il merito. Frattanto i ministri della parola consigliavano a garantirsi dalla corruzione col ridursi nella solitudine, nella preghiera, nel celibato: del che i Pagani li rimproverano, quasi tendessero a rompere ogni legame, fin quelli della famiglia, e il cristianesimo fosse incompatibile con qualunque civile assestamento. Sant'Agostino, che vedeva qual partito potrebbero i nemici della religione trarre da principj, dei quali soltanto l'esagerazione era pericolosa, assumeva a dimostrare che il Vangelo non proibisce nè di portar le armi, nè di sostenere le cariche pubbliche, ma aspira a formare magistrati integri e soldati docili alla disciplina; e — Quelli che pretendono la dottrina di Cristo contraria alla repubblica, ci diano un esercito composto di soldati quali essa dottrina li vuole; ci diano magistrati provinciali, mariti, spose, genitori, figli, padroni, schiavi, re, giudici, debitori, esattori, quali la legge di Cristo comanda che sieno; e allora vedremo chi oserà dire che essa è nemica della repubblica; nè si esiterà a riconoscere quanto la salvezza dello Stato sarebbe meglio assicurata qualora si ascoltasse alle nostre esortazioni». Tal era il vero spirito del cristianesimo; ma non tutti i dottori cristiani lo comprendevano sì chiaro come Agostino, e la divergenza d'opinioni dava appiglio ai rimbrotti dei Pagani. Ad ogni modo, società cristiana non poteva dirsi fintanto che i depositarj della nuova dottrina non fossero riusciti ad impadronirsi dell'uomo dalle fasce, eliminare le idee dell'ordine antico, divenute seconda natura, ed istillar quelle del nuovo, insieme coi precetti ricevuti sulle ginocchia della madre. Benchè dunque sembrassero riconciliate la società civile e la religiosa, sussisteva la contraddizione d'origine e d'essenza, e comprendeasi che non bastava mutare le costituzioni romane, ma bisognava per tutt'altra via dirigere il Governo, se si volesse lo scampo non dell'Impero ma della società. La nuova fede non era discesa dal cielo pel Romano soltanto, come il Palladio e gli Ancili; ma nella giustizia e carità sua abbracciando il genere umano, sostituiva l'amore universale all'angusto patriotismo antico: d'altra parte, non vedeansi già i Barbari combattere nelle file di Roma, e governare, e talora anche sedere sul trono? Lontani adunque dal compiangere la rovina d'una società esclusiva, l'invasione dei Goti consideravano come un estendersi dei diritti umani, un necessario risanguamento[301]; e le macerazioni di Roma come un giusto giudizio delle sanguinose sue iniquità. Pertanto non rinvigorirono il patriotico egoismo e l'odio contro tutte le nazioni: parevano fino esultare ai disastri della città terrena, i quali tornavano a glorificazione della città celeste. Di ciò movevano loro acerba accusa i Gentili, e ne restavano più sempre lentati i vincoli sociali, e indotto quello spirito di diffidenza e persecuzione, che è effetto e diviene causa della sconnessione sociale. Qualora poi il pericolo stringesse, ambe le parti esagerando, gli uni ponevano ogni fiducia ne' martiri e nei miracoli, gli altri nelle viete osservanze; invece di cercar le cause presenti dei mali ed i rimedj, i Gentili ripeteano, — Ecco come si vendicano quei numi abbandonati, sotto i quali era giganteggiata la romana fortuna»; di rimpatto i Cristiani sulla nuova Babele intonavano le minaccie de' profeti contro l'antica, e ne' disastri scorgevano l'avviso o la punizione di Dio, il trionfo della verità, la legge della Provvidenza. Nel più sublime de' loro carmi essi leggevano le maledizioni contro di Roma: «Uno dei sette angeli venne, e disse al veggente di Patmo: — Ti mostrerò la condanna della gran meretrice, che siede sopra le grandi acque. E lo trasportò nel deserto, e vide una donna seduta sopra una bestia color porpora, piena di nomi di bestemmia, con sette teste e dieci corna; ed era vestita di porpora e di grana, fregiata d'oro, di gemme e di perle, e teneva in mano un vaso d'oro, e sulla fronte portava scritto _Mistero_. E l'angelo gli disse: — Perchè stupisci? io ti dirò il mistero della donna e della bestia che la porta, e che ha sette teste e dieci corna. Le sette teste sono i sette colli sopra cui ella è posta: le acque che tu vedi, sono i popoli, le genti, le favelle: la donna è la gran città, che regna sopra i re della terra. Tutte le nazioni furono sedotte da' suoi prestigi; i mercadanti della terra si arricchirono degli eccessi del suo lusso; essa si elevò nell'orgoglio suo e tuffossi nelle delizie, dicendo in suo cuore, _io son regina, e mai non cadrò in lutto_; e divenne una Babilonia madre delle fornicazioni e d'ogni abominio, e inebbriò i re della terra col vino della sua prostituzione, e nella stessa coppa fece bevere tutti i popoli del mondo. Dai quali comperò preziosità, ed essi esclamarono: _Qual città fu mai pari a questa?_ Ma guaj a lei, che s'ubriacò del sangue de' santi, del sangue dei martiri di Gesù. I mercadanti della terra gemeranno e piangeranno sopra di essa, perchè non fia più chi compri le loro merci, le merci d'argento e d'oro, di pietre, di perle, di bisso, di porpora, di seta, di grana, d'ogni sorta legni odorosi, e mobili d'avorio, e gemme preziose, e rame e ferro e marmo, e cinnamomo ed incenso, vino, olio, fior di farina, biada, bestie da carico, agnelli, cavalli, carri, schiavi ed anime d'uomini. In un giorno le verrà lutto e morte, fame e incendio, perchè forte è il Signore che la giudicherà»[302]. Che vediamo dunque a Roma negli ultimi suoi tempi? sul trono un fasto imbelle e snervante; usurpatori che si disputano le provincie senza saperle difendere; confische e procedure moltiplicate dai sospetti; le pubbliche cose in mano di schiavi, di stranieri, d'eunuchi; cortigiani che rinterzano intrighi; vescovi in lite e scisma tra sè; provincie quali perdute, quali in tentenno; gli eserciti composti di barbari soldati, comandati da barbari generali; decurioni per forza; magistrati che procurano, come nei naufragi, raccogliere qualche brano di potere e di ricchezza; molti ribellatisi alle leggi, che fanno guerra alle vie e ai campi; una plebe ignorante, scostumata, inerme, che, oppressa da sciagure, pretende dall'avvenire ciò che questo non le potrebbe dare, e con odio sovente ingiusto trabalza quelli che con inconsiderato entusiasmo elevò; finchè, caduta nella prostrazione d'animo che consegue alla servitù ed alla diuturnità dei mali, guarda impassibile lo sfasciarsi d'un ordine di cose che nè teme nè ama, e, per sottrarsi ai mali incalzanti, desidera fin i disastri gravi ma passeggeri della guerra. Pertanto l'impronta degli ultimi anni dell'Impero è la vigliaccheria; è una personalità inerte, a cui le irruenti sventure non istrappano che querele, e del passato non ritiene se non un residuo di idee pagane, che rende necessaria la distruzione di quel cadavere, la cui putrefazione avrebbe appestato la terra. A distruggerlo ecco i Barbari. La Germania era divisa fra cento popolazioni, da nessun legame od interesse congiunte nell'impresa; e non appena le aquile latine aveano fitto in una l'artiglio, una nuova sottentrava con integre forze e diverso metodo di guerra; sicchè per quattro secoli, da Basilea sino alle foci del Reno e del Danubio, durarono aperte ostilità o pace armata, nè le guerre profittavano ad altro che a respingere l'assalto. Ma ormai che valeano le barriere poste dalla natura e dall'uomo, quando d'ogni dove i nemici irrompevano, o per naturale desiderio d'avventure e pericoli, o per avidità di preda, o per vendetta, o per impulso d'altri Barbari, o per sollecitazione d'alcun ambizioso? Que' Germani venivano tutt'animo e spiriti guerreschi, colle virtù domestiche, e coi vizj della forza. Capi, eletti per merito e nel fiore dell'età, servivano di raffaccio agli accidianti augusti; le assemblee generali sotto cielo aperto, agl'intrighi de' gabinetti romani; gli eserciti ignudi e baldanzosi, alle truppe comprate e insofferenti della disciplina; i Germani robustamente sistemati nelle loro tribù, ai Romani svigoriti dallo spegnersi del patriotismo; il governo semplice e spicciativo di quelli, ad uno di fiscali e legulej, al quale, come al vampiro, non rimaneva fiato se non per suggere il sangue. La brutalità barbarica era meno obbrobriosa che non l'affinata dissolutezza de' Romani che aveano abusato di tutte le dottrine, di tutti i godimenti: que' caratteri vigorosi sapeano obbedire, sapeano sacrificarsi, possedevano istintivamente quel sentimento d'onore che l'antichità classica non conobbe, e di cui il cristianesimo dovea poi valersi per formare la coscienza pubblica, e costituire l'obbedienza ragionevole. I Germani agognavano acquistare una patria: i Romani non curavano difendere la propria. Fra i primi le donne stimolavano al valore ed alle imprese: le nostre svogliavano dalle pubbliche cure, talvolta ancora tradivano, come dicesi che la moglie di Stilicone invitasse Alarico, Onoria conducesse Attila, Genserico Eudossia. Quelli erano animati da religione sanguinaria, che assegnava il paradiso in premio delle stragi: questi divisi tra una voluttuosa che sfasciavasi, e una nuova che, avendo il suo regno in altro mondo che questo, insegnava ad offrire la guancia sinistra a chi la destra avea percosso. Il popolo di Marte come poteva ritardar la sua caduta altrimenti, che col rinfrescare l'elemento suo primo, la forza? Tanto si vide allorchè sedette a capo dell'Impero una serie di prodi, cresciuti fra l'armi e sollevati dal valore: ma i più, giunti alla porpora, deponevano l'usbergo, o ignari d'ogni altro studio fuor della guerra, mandavano a precipizio l'amministrazione. Nell'esercito, cernito per forza, la disciplina, nerbo di Roma, pervertivasi; si voleva ragionare l'obbedienza: era bisogno di trasportare le legioni su remoto confine? ricusavano, pronte a salutare augusto il primo che promettesse riposo e donativi; lagnavansi del peso delle armadure, e prima la corazza, poi il caschetto vollero deporre; preferivano il comodo dei cavalli alla fermezza della fanteria; cessarono di fortificare ogni volta gli accampamenti, sicchè, esposti senza difesa, più non poterono confidare che ne' turpi passi della fuga. Che se ancora il desiderio di passare dalla classe degli oppressi in quella degli oppressori faceva ad alcuni desiderare la condizione di soldato, in cui potessero saccomannare le provincie, esigere lauti donativi dagli imperatori, deporli e crearli a talento, cambiossi il caso dopo Diocleziano e Costantino, quando una regolata gerarchia ridusse l'esercito alla vera sua natura di macchina. Allora il fasto della Corte attribuiva i titoli della milizia a chi avesse, non meritato in opera d'arme, ma prestato servigi al principe; sicchè trovossi più comodo intrigare in palazzo che combattere sul campo: ogni gloria era riservata all'imperatore; dall'arbitrio di questo gli onori e le dignità. Nulla dunque allettava alla pericolosa e non necessaria carriera dell'armi; e tanto meno dacchè, forse per impedire le frequenti sedizioni, Gallieno escluse i senatori dal capitanare eserciti. Allora i patrizj infingardirono, e fuggendo dall'Italia, s'andavano a rimpiattare nella Macedonia, nella Dalmazia, nella Tracia, per sottrarsi alle dignità e alla milizia che recava gravissimo peso e scarsi onori. Il popolo minuto rifuggiva dal servizio a segno, che per sottrarsene molti si amputavano il pollice[303]. Quando Italia fu invasa, non si trovò chi ostasse: Stilicone offrì due monete d'oro a qualunque schiavo si arrolasse, mentre un tempo costoro venivano accettati appena in pericoli stringentissimi: città folte di popolo e munite resistettero solo qualche istante a bande di scorridori, ignari dell'arte degli assedj, e incapaci di perseverare ad un'impresa. Inetti a resistere coll'armi, i figli di quel Camillo che volea la patria salvata col ferro non coll'oro, chetano i nemici a denaro, prima palliato col nome di soldo, poi preteso apertamente siccome tributo. L'Impero ne resta smunto, e costretto a gravare più sempre i sudditi, mentre i nemici se ne rifacevano, per tornare più vigorosi a nuove pretensioni, perduto il rispetto che ispira una nazione domabile sol dopo lunga resistenza. Che se quel soldo fosse tardato o disdetto, i Barbari venivano a ripeterlo colle armi, più baldanzosi quanto più i provinciali divezzavansi da queste. Fu dunque forza rimettersi affatto a braccia straniere: riempiute le schiere di così fatti, anche il comando se ne affidò a Barbari, che per tal via ascesero alle supreme magistrature. Grandi capitani ne trasse Roma, non mossi però da carità di patria, o da quel sentimento che è padre del vero coraggio, bensì da cupidigia di tesori e di gradi, o da ambiziose gelosie: Rufino sommoveva i Vandali e i Goti per contrariare Stilicone; questo lasciavasi fuggir di mano i Goti perchè non si cessasse d'aver bisogno di lui; Ezio non esterminava Attila per impedire gl'incrementi di Torrismondo. Gli imperatori non poteano riporre piena fiducia in eroi prezzolati: i cortigiani invidiavano ed aborrivano cotesta genìa, potente solo per le spade: la vanità latina si teneva oltraggiata dalla superiorità di quelli che continuava a chiamar barbari: e Stilicone, Ezio, Romano, Nigidio cadevano sotto al pugnale di maligni eunuchi o d'emuli imbelli. Eppure a svecchiare l'Impero, o almeno a difenderlo da nuove invasioni, unico partito sarebbe stato il fondere i Romani coi Goti, gente da gran pezzo abituata agli ordini de' Romani, tra cui o presso cui viveva, non isnervata dai vizj della civiltà, e capace di riceverne i vantaggi, come ne fanno prova i regni dove si piantò. Ma da una parte vi si oppose l'antipatia nazionale, inasprita dai disaccordi religiosi; dall'altra la sleale politica credeva sottigliezza d'accorgimento il seminare zizzania fra i popoli assalitori; e col violare i patti e con turpi tradimenti gl'irritava, e toglieva la possibilità d'onorevoli accordi. Disgustati, essi rivoltavansi contro quelli che dianzi aveano difesi; tornando d'aver servito nelle legioni, rivelavano le ricchezze e le delizie de' paesi romani, e la facilità di conquistarli; e ricomparivano più baldanzosi e più forti. Al crescere del pericolo scemavano i mezzi di ripararvi; ogni provincia che i Barbari invadono, cessano le contribuzioni di generi e d'uomini all'Impero; si ritirano dalle frontiere le guarnigioni e i magistrati, abbandonando le antiche conquiste agli assalitori ed a se stesse. Allora si scioglie il solo legame che unisce a Roma i varj municipj; e tutti si smembrano senza un pensiero al bene del corpo, al quale erano appiccicati, non congiunti. Solo in governi federativi, o dove le libertà provinciali sono profondamente radicate ne' costumi, le nazioni possono sussistere anche con un governo debole, e fin senza governo: qui invece erasi voluto ridurre ogni cosa al centro, e sfasciavasi l'intero corpo quand'era minacciato il capo. Qualche imperatore s'avvisò di riscuotere il patriotismo coll'avventurare, fra quello scompiglio, alcun elemento di libertà; il diritto di tener armi, levato dall'ombroso Augusto, fu restituito ai sudditi[304]; Graziano esortò le provincie a formare assemblee, ove discutere sopra oggetti di pubblico interesse, non impedite o ritardate da verun magistrato[305]; Onorio suggerì perfino una specie di governo federativo che raccogliesse quei divisi, ma niuna provincia o città ne approfittò[306]: tanto al sentimento affatto locale di quelle società riusciva incomprensibile e repugnante il sentimento dell'unione. Pertanto ciascuno, uomini e corpi, restringendosi in se stessi, non rimase chi difendesse l'Impero: i Barbari lo sovvertirono a loro voglia, finchè risolsero d'abolirlo. CAPITOLO LVII. Ultimi imperatori. Gl'imperatori stessi, inetti a sostenerlo, davano il crollo all'Impero. Valentiniano III, trionfante senz'aver combattuto (450), si scapestrò dopo la morte di Placidia; e preso in odio e in sospetto Ezio, salvatore dell'Impero, ad istigazione de' suoi eunuchi gl'immerse in cuore quella spada che mai non avea saputa impugnare contro de' Barbari. Con pari viltà furono assassinati gli amici del patrizio: al quale, come all'uomo che soccombe, furono attribuiti ambiziosi disegni, accordi coi nemici, macchinate rivolte. Vili che applaudissero all'imperiale assassino non mancarono; ma un Romano osò dirgli: — Tu facesti come chi colla sinistra si amputasse la destra». A scorno della virtuosa moglie Eudossia, Valentiniano lasciviva fin sopra le dame principali. La moglie di Petronio Massimo, ricco senatore di casa Anicia, gli resistette; ma un giorno al giuoco l'imperatore vinse a costui l'anello, e di questo si valse per mandar a chiamare la casta donna in nome del marito e se ne sbramò. Massimo propose tergere l'oltraggio nel sangue, e due fedeli di Ezio, improvvidamente accolti fra le guardie imperiali, gli prestarono il braccio per scannare Valentiniano (455 — 16 marzo). Massimo non durò fatica a erigersi imperatore; ma quest'atto fu il termine delle prosperità e delle virtù, di cui egli era stato fin allora un modello (455). Quanto non dovette egli sospirare la privata onorevole tranquillità allorchè si trovò a capo d'un Impero che uom del mondo più non era capace di rinfiorire! Coll'amico Fulgenzio, al cadere di giornate tempestose e di notti insonni, esclamava: — Fortunato Damocle, il cui regno cominciò e finì nel pranzo istesso!» Volle puntellarsi sul trono coll'impalmare a suo figlio Palladia, primogenita dell'ucciso imperatore; ed egli stesso, mortagli la virtuosa donna, menò a forza la vedova di Valentiniano. Costei, per vendicar sè ed il marito, si dirizzò al terribile Genserico, che con robusto armamento di Vandali e Alani dall'Africa sbarcò alla foce del Tevere. Massimo rimase ad aspettarlo con una freddezza che non era coraggio; ma dal popolo fu tolto a sassi, e gettato nel Tevere (12 giugno). Tre giorni dopo, Genserico era alle porte di Roma, la quale, sapendo assassinare, non difendersi, limitavasi a piangere ed orare. La religione di nuovo la coprì col suo manto; e Leone papa, che l'avea schermita da Attila, uscì col clero in processione, e coll'autorità d'uomo venerato e colla santità del ministero indusse Genserico a risparmiare le stragi e il fuoco; del resto tutto fu abbandonato ad un saccheggio di quattordici giorni. Al tempio di Giove in Campidoglio fu tolto fin il tetto di bronzo dorato, salvandone però le statue dei numi e degli eroi. In quello della Pace aveva Tito deposti gli arredi del culto giudaico, la tavola e il settemplice candelabro d'oro; e questi pure furono rapiti. Nè le chiese cristiane restarono immuni; e le ricchezze sfuggite ad Alarico vennero accumulate sulle navi africane, che parevano vendicare Cartagine. Eudossia medesima, avanzatasi incontro all'invocato liberatore, si vide strappar di dosso le gioje, e con due figliuole fu imbarcata fra migliaja di schiavi, scelti per bellezza o vigorìa. Prospero vento portò a Cartagine le prede e le persone, alle quali alcun ristoro diede il vescovo Deograzia, ricoverandole nelle chiese, soccorrendole cogli ori di queste, e coi conforti che la carità sola conosce. Il poeta Paolino, allora vescovo di Nola, convertì in questo pio uso tutte le ricchezze ecclesiastiche; e nulla più restandogli, per riscattare il figliuolo d'una vedova, diede schiavo se stesso[307]. Anche da altre parti i Barbari irrompevano, e le provincie scotevano il giogo di Roma. Franchi ed Alemanni procedettero fino alla Senna; alle coste portavano assalto i Sassoni; i Goti aspiravano a durevoli conquiste. A frenare costoro, Massimo aveva destinato Flavio Avito, nobile d'Alvergna, che in sua giovinezza attese alle lettere e al diritto, combattè a fianco di Ezio, meritò d'essere prefetto al pretorio della Gallia; poi dal ritiro villereccio presso Clermont chiamato generale della fanteria e cavalleria, non si ricusò al bisogno della patria, tenne in rispetto i Barbari, ed egli medesimo andò a trattare con Teodorico II re dei Visigoti. Costui, udita la morte di Massimo, esibì assistere Avito per succedergli (10 luglio); e Roma e l'Italia nol poterono ricusare, solo pregandolo a por sua sede nell'antica capitale del mondo. La virtù di Avito non resistette alle blandizie d'un grado, cui, perduta la potenza, restavano le seducenti vanità; e molti mariti inimicò. Lo scontento non tardò a prorompere; e il senato, che nella debolezza degli augusti aveva ricuperato alcuna autorità, pose in campo il suo diritto d'eleggere l'imperatore. A nulla però sarebbe riuscito se non v'avesse dato appoggio il conte Ricimero, uno de' principali comandanti dei Barbari ausiliarj in Italia. Distrutte sessanta galee vandale nelle acque della Corsica, era costui stato salutato liberatore d'Italia: del quale trionfo imbaldanzito, intimò ad Avito di deporre la porpora (456 — 16 8bre). Questo cercò sicurezza col farsi ungere vescovo di Piacenza; ma quivi pure perseguito dalla vendetta del senato, mentre fuggiva verso la natale Alvergna, morì o fu ucciso. Vacato alquanto l'Impero, fu conferito a Giulio Valerio Magioriano (457 — 1 agosto), degno di migliori tempi. In voce di coraggioso, liberale e accorto, sotto Ezio militò con tanta gloria, da eccitarne la gelosia; degradato per ciò, fu riassunto alla morte di quello, e Ricimero, divenuto patrizio d'Italia, lo costituì generale della cavalleria e della fanteria; e poi ch'ebbe in quel grado respinto gli Alemanni che erano proceduti fino a Bellinzona di qua dall'alpi Lepontine, lo collocò sopra un trono, di cui disponeva a suo talento. Dell'elezione Magioriano fece saputo il senato e l'esercito[308]: — A sostenere il colmo del principato, non per volontà mia m'accostai, ma per ossequio della pubblica devozione, onde non vivere a me solo, o ricusando non parere ingrato alla repubblica per cui nacqui. Or favorite al principe da voi creato, e partecipate con noi alla cura degli affari, acciocchè l'impero, datomi per vostra istanza, cresca per le concordi attenzioni. La giustizia varrà al tempo nostro, e la virtù potrà prosperare sotto la tutela dell'innocenza. Nessuno temerà gli spionaggi, che già da privati noi detestammo, e che ora specialmente condanniamo: delle calunnie abbia paura soltanto chi le porti. Col padre e patrizio nostro Ricimero, vigilantissimo delle cose militari, avremo cura di serbare il mondo romano, che in comune assicurammo da esterni nemici e da domestica discordia. Spero che della elezione nostra voi serberete tal memoria, quale io, consorte una volta dei vostri pericoli, mi riprometto senza manco dall'amor vostro; e se il Cielo m'assista, mi sforzerò, con autorità di principe e riverenza di collega, che non abbia a spiacervi il giudizio che di me recaste». Il linguaggio costituzionale de' primi anni dell'Impero, disusato da tanto tempo, suona ancora in questo editto, e per l'ultima volta. Nelle poche sue leggi Magioriano mostrava i sentimenti generosi e generosamente espressi d'un padre di popolo infelice, che ai mali di questo soccorre ove può, se non altro li compatisce. Le fortune dei provinciali, «attrite dalla varia e molteplice esazione di tributi, e dagli straordinarj pesi fiscali», sollevò alquanto depennando i vecchi crediti del fisco; e toltala alle commissioni straordinarie[309], tornò ai provinciali la giurisdizione sulle tasse. I senati minori, cioè i corpi municipali, «viscere delle città e nervi delle repubbliche», erano tanto sviliti dall'ingiustizia de' magistrati e dalla insaziabilità degli esattori[310], che i cittadini se ne sottraevano coll'esigliarsi lontano od ascondersi. Magioriano gli esorta a tornare, alleviandone i pesi; e scioltili dall'esser garanti del tributo nel loro distretto, esige da essi soltanto un esatto conto del ricevuto e dei debitori morosi. Ai difensori della città restituisce la tutelare potenza, confortando ad eleggere a quel grado persone incorrotte, capaci e coraggiose di sostenere il povero e combattere il prepotente, ed informare l'imperatore de' soprusi, col suo nome ammantati. Provvide anche agli antichi edifizj, o per negligenza crollanti, o che abbatteansi onde avere materiali a nuove fabbriche. All'adultero, confisca de' beni ed esiglio; se tornasse in Italia, poteva essere ucciso impunemente. Nessuna si consacrasse a Dio prima dei quarant'anni: le vedove minori di quest'età si rimaritassero, o perdessero metà dei beni. Annullati i matrimonj disuguali. Di quel che vi si scorge d'eccessiva minutezza, di sproporzionato rigore e di rimembranze pagane, lo scusi la buona intenzione. Sconfitto Genserico che era sbarcato in Italia, Magioriano meditava ricuperare l'Africa; ma non potendo restituire il coraggio e la disciplina nelle legioni, assoldò Barbari, e a capo loro (458) passate le Alpi di fitto inverno, vinse Teodorico II visigoto, e lo accettò in alleanza; intanto che negli arsenali di Miseno e di Ravenna faceva allestire navigli, sicchè prontamente ebbe raccolte a Cartagena trecento grosse galee e adeguato numero di sottili. Ma Genserico ridusse a deserto la Mauritania, e sorpresa la flotta mal guardata nel porto, vi fisse il fuoco. Magioriano si trovò allora ridotto ad accettare una tregua, durante la quale accelerò nuovi preparativi: ma gli scontenti prodotti dalle sue riforme toccarono il colmo per la presente disgrazia, e il sollevato campo l'uccise a Voghera (461 — 2 agosto). Ricimero allora ingiunse al senato d'eleggere Vibio o Libio Severo, oscuro lucano: poi, appena gli riuscì incomodo, il tolse di mezzo (465 — 15 agosto), e per venti mesi governò, non assumendo verun titolo, ma facendo tesoro, armi, alleanze in proprio nome. Protestavano contro la sua dittatura Marcellino ed Egidio. Il primo, letterato e fedele all'antica religione, era stato caro ad Ezio, perseguito da Valentiniano, da Magioriano messo a governare la Sicilia e l'esercito ivi disposto contro i Vandali; dappoi, occupata la provincia della Dalmazia, si intitolò patrizio dell'Occidente, e andando in corso per l'Adriatico, infestava le coste d'Italia e d'Africa. Egidio, maestro della milizia nella Gallia, si chiarì nemico agli uccisori di Magioriano, e con forte esercito si rese formidabile: presso Orleans sconfisse gl'imperiali e minacciò l'Italia: nè forse Ricimero seppe disfarsene altrimenti che col veleno. Anche Beorgor re degli Alani era sceso in Italia (464), ma sotto Bergamo toccò una sconfitta sì piena, che dopo d'allora più non trovasi mentovata quella gente. Genserico, non fiaccato dalla grave età, usciva ogni primavera con grossa flotta dal porto di Cartagine, e se il piloto gli chiedesse ove drizzar la prora, rispondeva: — Ove soffiano i venti, che ci porteranno al lido cui la divina giustizia voglia punire». Quanto bagna il Mediterraneo fu infestato da' costui ladroni, i quali, non avidi di gloria ma di bottino, sfuggivano d'affrontare eserciti in campagna, o assaltar fortezze; e sui loro cavalli battuto il litorale e rapitone il bello e il buono, si rimbarcavano. Ricimero, sprovveduto di forze navali, dovette lasciare che gl'italiani ricorressero alla mediazione dell'imperatore di Costantinopoli. Questi spedì ambasciatori a Marcellino, che, pago di vedersi con tal atto riconosciuto sovrano della Dalmazia, promise restar quieto. Genserico, al contrario, alzava le pretensioni, e pretendeva che suo cognato Olibrio fosse elevato augusto; ma in vece sua, dopo diuturna vacanza, fu gridato Procopio Antemio [Sidenote: 467 — 12 aprile], galata di nazione, uno de' più illustri privati dell'impero Orientale, e genero dell'imperatore Marciano. Mosso da Costantinopoli con molti conti e con piccolo esercito, entrò in Roma trionfalmente, e senato, popolo, federati approvarono la scelta. Ricimero, che nella vacanza avea continuato da padrone, volle gli sposasse una sua figlia, e splendidissime celebraronsi le nozze. Antemio, lasciando Costantinopoli, avea ceduto la sua casa per farne un bagno pubblico, una chiesa, un ospizio pei vecchi: pure in Roma tollerò sì gli avanzi del paganesimo, sì gli eretici, e nel fôro Trajano rinnovò l'antica cerimonia del manomettere i servi colla guanciata, «pronto (diceva il suo panegirista) a sciogliere gli antichi schiavi e farne di nuovi»[311]. Leone imperatore d'Oriente adoprò allora le sue forze e centrentamila libbre d'oro per isbrattare dai Vandali il Mediterraneo; il patrizio Marcellino, colle sue navi avvezze a corseggiare, li snidò di Sardegna; Basilisco, fratello dell'imperatrice d'Oriente, comandava la flotta di mille centredici navi, e più di centomila fra soldati e ciurma: ma Genserico trovò ancor modo di gettar le fiamme nella flotta, sicchè i due Imperj videro andar col fumo un armamento che gli avea spossati. Basilisco, con appena mezze le navi, fuggì a Costantinopoli; Marcellino si ritrasse in Sicilia, dove cadde assassinato; e Genserico tornò despoto del mare, aggiunta anche la Sicilia al suo dominio, mentre l'Impero perdeva tutte le provincie d'oltr'Alpe. Ricimero, non trovando Antemio abbastanza ligio, si ritirò da Roma a Milano, e intendendosela coi Barbari, minacciava guerra civile, se Epifanio vescovo di Pavia non fosse riuscito a conciliare l'imperatore di nome con quello di fatto. Ma il barbaro patrizio covava l'astio; e raccolto un grosso di Borgognoni e di Svevi, negò di più obbedire all'impero greco e all'eletto di quello, e proclamò Anicio Olibrio. Questo senatore, della più illustre famiglia romana, avendo sposata Placidia, ultima figlia di Valentiniano III, vantava ragioni al trono; e come cognato di Genserico, aveva l'appoggio di questo: lasciati gli ozj di Costantinopoli, dove era fuggito da Roma dopo il saccheggio di Genserico, sbarcò in Italia, e fu portato da Ricimero verso l'antica metropoli. Il senato e parte del popolo stavano per Antemio, e sostenuti da un esercito goto o gallo, tre mesi resistettero; ma una forte fazione repugnava a quell'imperatore, greco d'origine e poco zelante della fede; talchè Ricimero prevalse [Sidenote: 472 — 11 luglio], fece trucidar l'imperatore suo suocero, e col saccheggio satollò le milizie. Dopo poche settimane Ricimero stesso moriva, cessando di sovvertire l'Impero, e lasciando l'esercito al nipote Gundibaldo principe de' Borgognoni. Olibrio anch'esso non sopravisse che sette mesi; e l'imperiale corona fu usurpata da un Flavio Glicerio (473), non sappiamo quale; poi da Leone imperatore di Costantinopoli data a Giulio Nepote, successo allo zio Marcellino nella sovranità della Dalmazia (474). Condottosi in Italia, e quivi agevolmente mutato in vescovo il competitore Glicerio, riconfortò di qualche speranza l'Impero cadente. Ma da lontano Eurico re dei Visigoti lo costrinse a cedergli l'Alvergna; da vicino i Barbari federati, insorti sotto Oreste, marciarono da Roma a Ravenna (475 — 28 agosto). Fuggì al loro avvicinarsi Giulio, e abdicandosi d'un trono che fa meraviglia come ancora trovasse aspiranti, visse nel suo principato della Dalmazia, ove quattro anni appresso fu assassinato da due cortigiani di Glicerio. Oreste, figlio di Tatullo, avea servito da segretario ad Attila e da suo ambasciadore a Costantinopoli. Morto il terribile padrone, ricusò obbedire ai figli di esso nè ai Visigoti; e raccozzato uno sciame dei Barbari che seguivano il Flagello di Dio, massime Eruli, Scirri, Alani, Turcilingi e Rugi, li menò al soldo di Roma col nome consueto di federati. Gl'imperatori per paura e necessità lo contentarono di regali e di gradi, fin a intitolarlo patrizio e generale. Infido ajuto, poichè, acquistata autorità su quella sua banda, come uomo sicuro ch'egli era e loro compatrioto e vivente al modo stesso, gl'indusse a scuotere l'obbedienza, e gridar imperatore suo figlio Romolo Augusto (476 — 28 8bre), vezzeggiato in Momillo Augustolo. Quelle ciurme raccogliticcie, recandosi a vile un imperatore ch'era loro creato, pretendevano facesse ogni loro talento, aumentasse paghe e doni; anzi, invidiando i Barbari che aveano già acquistato ferme stanze nella Gallia, nella Spagna, in Africa, domandarono anch'essi un terzo delle terre italiane. Oreste negò contentarli della domanda; ma essi trovarono chi gliela esaudì. Collega di Oreste nell'ambasceria d'Attila a Costantinopoli era stato un Edecone, il cui figlio Odoacre, senz'altro retaggio che il proprio valore, l'adoprò alla rapina e a servire chi lo pagasse, pensando farsi buona parte fra le tempeste d'allora. Errò qualche tempo nel Norico; poi calato nel bel paese, e udito i federati mormorare pel rifiuto d'Oreste, — Io v'accorderò quanto bramate, purchè a me vogliate sottomettervi». Accorsero a gara sotto le bandiere di esso (476), che senza contrasto giunse fino all'Adda; preso Oreste in Pavia, lo mandò a morte; avuta compassione o disprezzo dell'imbelle Augustolo, sol notevole per giovanile bellezza, gli assegnò seimila monete d'oro l'anno; e Luculliano, villa sul delizioso promontorio di Miseno, fabbricata da Mario, abbellita da Lucullo con tutte le arti di Grecia, poi gradita campagna degl'imperatori, indi nelle invasioni mutata in fortezza, diveniva asilo dell'ultimo successore d'Ottaviano. A che serviva omai questa dispendiosa dignità d'imperatore? Adunque, sotto dettatura del Barbaro, il senato scrisse all'imperatore Zenone a Costantinopoli: — Non intendiamo continuare più oltre la successione imperiale in Italia; basta la maestà d'un solo monarca a difendere l'Oriente e l'Occidente; sia dunque Costantinopoli sede dell'impero universale; a tutelare la repubblica romana rimarrà Odoacre, cui ti preghiamo concedere il titolo di patrizio e l'amministrazione della diocesi italica». Zenone esitò; e nel giovane figlio di Oreste, in cui per bizzarro caso si univano i nomi del primo re e del primo imperatore romano, terminò l'impero d'Occidente, 476 anni dopo Cristo, 1229 dopo la fondazione della città, 507 dopo che la battaglia d'Azio vi stabilì il dominio d'un solo. Roma aveano governata in prima sette re, poi quattrocentottantatre coppie di consoli, infine settantatre imperatori. E qui si chiude la storia di Roma: storia la più importante del mondo, non solo per noi, che viviamo sul suolo stesso, e che possiamo ed affacciarla a chi ci chiama nazione molle, e tenercene obbligati ad essere grandi noi pure, sebbene in modo diverso; ma anche per le lezioni, di cui l'incremento, la grandezza, il dechino di essa sono fecondi a chi guarda l'uomo, e la potenza di lui ammira meno nelle violenze della forza, che nelle lente conquiste del diritto. Poi quella storia si mescola a tutte le posteriori, giacchè gli Stati successivi d'Europa sono romano-germanici, e molti fatti trovano in quella o la spiegazione o l'esempio. E noi, credenti e speranti che l'uman genere progredisca imparando e migliorando, noi severi scrutatori delle virtù romane, noi proclameremo come una delle più belle glorie italiane l'immensa efficacia che Roma esercitò agli avanzamenti di quello. Dalla rupe Tarpea i Romani guardavansi come una gente privilegiata che non si conosce alcun obbligo morale colle altre, tutte barbare, predestinate al ferro de' guerrieri e all'ingordigia de' proconsoli, i quali, tra un parco di schiavi, in una miniera di denari qual è il mondo straniero, procedono come il dio Marte lor progenitore, intimando — Guai ai vinti». Un popolo che non intendeva la proprietà, non la libertà; che disciplinato soltanto per la guerra anche nella pace, lottava onde ripartirsi la preda; che il patriotismo riponeva non tanto nell'amar la propria, quanto nell'odiare le altre nazioni; che facevasi gloria dello sterminio; che unico mezzo di sussistenza considerava la dilapidazione, la rapina, la schiavitù, parve ad alcuni null'altro che abbominevole, mentre altri ne deducevano falsi concetti di gloria, e il vanto delle guerre ambiziose e dei colpi robusti, e la giustificazione dell'esito. Ma colla smania o piuttosto la necessità delle conquiste, i Romani arrestavano l'indefinito suddividersi dei popoli, introducevano qualche ordine nel caos delle genti antiche; per modo che quelle che prima non si conoscevano che per cozzarsi e distruggersi, si trovassero strette nell'unità della forza prepotente, poi della legge e dell'amministrazione. In tutta la società antica non si erano vedute fin allora che comunità di pochi, o accidentale aggregazione di molte comunità, dominate da una sola, e pronte a sconnettersi: Roma sola faticò all'opera eminentemente italiana di unire; ed organizzatrice anche al tempo di sua decadenza, colla spada ravvicina elementi disparati; per conservarli introduce unità di governo, principj di equità, nozioni di diritto; vuole assimilarsi il mondo, impresa mai più tentata, e formare una patria, una città; allo sfrazionamento de' Comuni sostituisce l'idea di nazione; agl'individui surroga un popolo, un popolo re; spezza mille barriere, frapposte alle genti; innesta civiltà dissomigliantissime, sicchè l'una all'altra profitti. In quell'espansione il Britanno del pari e l'Etiope si trovarono concittadini; si estesero la lingua, l'arte, la legislazione romana; anzi ne' paesi sottoposti quasi d'altra civiltà non ci fu tramandata memoria che della romana; e i Balbi di Napoli, i Virj e i Plinj di Como, i Nepoti e i Catulli di Verona, i Severi di Trieste, i Fabj di Brescia, i Sergj di Pola sono romani; come sono inglesi tutti i nomi segnalati nell'Unione americana. Ma fondere non poteva Roma, essa medesima mancando di quell'unità, superiore alle contingenze umane, nella quale soltanto possono i popoli affratellarsi, e costituire una dinastia di nazione, non più regnante per la forza ma per l'intelligenza. La necessità di questo grande eguagliamento non era predetta dalle Sibille, non l'avvisavano filosofi nè statisti, irritavansi anzi coi Cristiani che la predicavano; sicchè Roma moriva persuasa della propria immortale sovranità; moriva per la forza, essa che di forza era vissuta. Moriva, ma dopo che, venendo ultima degli antichi popoli, seppe profittare dell'esperienza di tutti, sistemarla col senso legale, sublimarla col cristianesimo; moriva, ma un immenso retaggio lasciando all'avvenire. La sua supremazia assicurò il primato dell'Europa sul resto del mondo, giacchè, in qualunque parte essa arrivò, stabilì città donde s'irradiava l'incivilimento, e che dapprima fissarono al terreno l'onda dei Barbari, più tardi coi vescovi e coi Comuni poterono frangere la tirannide feudale. I reggimenti municipali dall'impero istituiti o regolati, restarono, almeno ne' paesi non occupati dai Longobardi; e sebbene si restringessero a semplice amministrazione, misti ad elementi settentrionali, e vivificati dalle ecclesiastiche immunità produssero i Comuni del medioevo e la più gloriosa età dell'Italia. Già era non solo nata, ma svolta la più parte delle idee destinate a vivere nella società nuova; il primato pontifizio, la solitaria operosità de' monaci, il rinnovamento dell'arte, la lingua vulgare, perfino la scolastica, perfino la filosofia della storia con sant'Agostino. La letteratura latina, per quanto di fioritura breve, più di qualsiasi ebbe durata ed estensione, perocchè si collocò accanto ad ogni altra nazionale, educando i nuovi popoli europei, che tutti ne desunsero qual più qual meno il carattere: l'Omero dei mezzi tempi facevasi guidare da Virgilio traverso al miracoloso viaggio, col quale esordiva al volo delle letterature moderne. Quell'idioma, universale alla Chiesa universale, depositaria privilegiata della civiltà e del sapere, viepiù veniva opportuno nell'ignoranza, e nelle scarse comunicazioni d'allora; e modificando i prischi dialetti, generò le nuove favelle, che sono un latino corrotto, rigenerato da spirito analitico e flessibile; più logiche se meno maestose, più limpide se meno poetiche. Le leggi di Roma, perchè dirette al mondo intero, aveano meno dell'arbitrario e del particolare; e in canoni generali dominano i costumi e le credenze tutte; tutti i fatti sociali, tutte le differenze riconducono ad unità di principj. In conseguenza si adattano anche all'avvenire, e mantenute in prima e modificate nella Chiesa, poi introdotte nelle scuole e nella società secolare a dar norma agli atti, alle transazioni, ai contratti, offrirono grandiosi modelli d'ordine e di equità; la legislazione moderna s'affisse al diritto romano come al suo principio, spesso come a suo testo; man mano che si scioglie dai vincoli feudali, la proprietà torna a regolarsi alla romana; il nostro ordinamento amministrativo è istituzione romana acconciata a governi temperati: sebbene sia vero che talvolta quegl'istituti divennero ceppi a coloro che non sanno ammirare senza voler imitare. Il concetto di un potere centrale, che tutto muova e governi, fu trasmesso da Roma, parte coll'amministrazione sopravissuta, parte nelle ricordanze: i popoli barbari l'ammiravano, pur senza forza o sapienza bastante a raggiungerlo; e di esso fu merito se un impero cristiano rivisse sotto Carlo Magno, se alle sfrantumate giurisdizioni feudali riuscirono legisti popolani ad opporre la liberale perchè tutrice preponderanza d'un'autorità suprema. Così Roma, perduto lo scettro della forza, afferrerà quello del pensiero; dopochè per cinque secoli fu centro dell'unità materiale e della forza politica, lo diverrà della forza spirituale e dell'unità intelligente; papi e imperatori aspireranno alla primazia per memoria di Roma, mentre il servo invocherà nell'emancipazione d'essere dichiarato cittadino romano; sicchè quella città per nuova via tornerà a mettersi a capo dell'incivilimento, in una grande unificazione, che non abolisca le nazionalità particolari, le provincie, i Comuni, ma dia vita alla nazione cristiana, la quale sarà la più civile; e fondata sul dogma dell'eguaglianza delle anime, cioè sull'unità d'origine, di redenzione, di fine, più non retrocederà, e nella quale la potenza che regola i corpi non potrà nulla sugli spiriti. Stupendi frutti della romana sapienza, dacchè fu fecondata dal cristianesimo, che, cancellando le idee ingiuriose a Dio, cancella pur quelle ingiuriose all'uomo. FINE DEL TOMO QUARTO E DEL LIBRO QUINTO AGGIUNTE Vol. I, p. 169, alla nota 12 aggiungi: Sul _Nexum et la contrainte par corps en droit romain_ offrì un'importante dissertazione all'Istituto di Francia nel 1874 il sig. S. Vainberg. Vedasi pure UNTERHOLZER, _Lehre des römischen Rechts von den Schuld Verhältnissen_, Lipsia 1840; SELL, _De jure romano nexo et mancipio_, Brunswich 1840, come Vainberg, sostiene che _nexum_ e _mancipium_ fossero una cosa stessa, attuata sempre per _æs et libram_. GIRAUD, _Des nexi_, distingue il _nexum_ dal _mancipium_; HUSCHKE, _Ueber das Recht des Nexum, und das altrömische Schuldrecht_, Lipsia 1846; BACHOFEN, _Das Nexum_, Basilea 1846. Vol. I, p. 261, alla nota 23 aggiungi: Il più recente lavoro che conosciamo sopra Selinunte è di Otto Benndorf (Berlino 1873), _Die Metopen von Selinunt, mit Untersuchungen über die Geschichte, die Topographie und die Tempel von Selinunt_, con 13 tavole. INDICE CAPITOLO XLIII. Da Comodo a Severo. Despotismo militare _pag._ 1 XLIV. I Trenta Tiranni. Diocleziano. Imperatori colleghi. Costituzione mutata » 22 XLV. Nemici dell'Impero. I Germani. Costantino » 65 LIBRO QUINTO XLVI. Il Cristianesimo perseguitato, combattente, vincitore » 87 XLVII. Traslazione della sede imperiale a Costantinopoli. Costituzione del Basso Impero » 125 XLVIII. Figli di Costantino. Sistemazione ecclesiastica. L'Arianismo » 160 XLIX. Giuliano. Riscossa del Paganesimo » 180 L. Da Gioviano a Teodosio. I santi Padri. Trionfo del Cattolicismo » 199 LI. La coltura pagana digrada, si amplia la cristiana » 236 LII. Trasformazione delle arti belle » 269 LIII. Miglioramenti e complesso della legislazione » 286 LIV. Impero diviso. Onorio. Invasione di Alarico » 342 LV. Valentiniano III. Gli Unni » 379 LVI. Sulla caduta dell'Impero romano » 392 LVII. Ultimi imperatori » 422 Aggiunte al volume I » 437 NOTE: [1] LAMPRIDIO, _Vita di Alessandro_. [2] _Sororibus suis constupratis, ipsas concubinas suas sub oculis suis stuprari jubebat, nec irruentium in se juvenum carebat infamia, omni parte corporis atque ore in sexum utrumque pollutus_. Historia Aug., 47. [3] Lampridio, _Vita di Pertinace_. [4] DIONE, in _Didio Giuliano_. [5] SUIDA, pag. 257. [6] In ragione di settantacinquemila moggia l'anno. [7] _Omnia fui, et nihil expedit_. Historia Aug., 71. [8] ERODIANO. Bisognerà comprendervi i giardini. [9] _Fecisti patriam diversis gentibus unam,_ _Urbem fecisti quæ prius orbis erat._ RUTILIO, Itinerario. V'è chi ascrive questa legge a Marc'Aurelio (MANNERT, _Commentatio de Marco Aurelio Antonino, constitutionis de civitate universo orbi data auctore_. Alla 1772); e forse v'avea posto restrizioni, che Caracalla levò. [10] Lampridio trasse dagli archivj della città questo processo verbale della elezione di lui: — Il giorno avanti le none di marzo, essendosi in folla raccolto il senato nella curia, cioè nel tempio sacro alla Concordia, e avendo pregato Aurelio Alessandro Cesare Augusto a intervenirvi, ed avendo egli ricusato perchè sapeva trattarsi di onori suoi, poscia essendo venuto, si acclamò: «O augusto innocente, gli Dei ti conservino. Alessandro imperatore, gli Dei ti conservino. Gli Dei ti hanno dato a noi, gli Dei ti conservino. Gli Dei ti tolsero dalle impure mani, gli Dei ti perpetuino. Tu pure soffristi l'impuro tiranno, tu pure ti dolesti di vedere quell'impuro ed osceno; gli Dei lo svelsero, gli Dei ti conservino. Infame imperatore, giustamente dannato! Felici noi dell'imperio tuo, felice la repubblica! L'infame fu trascinato coll'uncino ad esempio spaventevole; il lussurioso imperatore fu a ragione punito. Dei immortali, ad Alessandro vita; di qui appajano i giudizj degli Dei». E avendo Alessandro ringraziato, si acclamò: «Antonino Alessandro, gli Dei ti conservino. Ti preghiamo ad assumere il nome d'Antonino. Vendica tu l'ingiuria di Marco; vendica tu l'ingiuria di Vero; vendica tu l'ingiuria di Bassiano. Peggior di Comodo fu il solo Elagabalo, nè imperatore, nè Antonino, nè cittadino, nè senatore, nè nobile, nè romano. I tempj degli Antonini un Antonino dedichi; il casto riceva il sacro nome, il nome di Antonino, il nome degli Antonini». E dopo le acclamazioni, Aurelio Alessandro Cesare Augusto proferì: «Vi ringrazio, o padri coscritti, non ora primamente, ma e pel titolo di Cesare, e per la vita salvata, e per l'aggiunto nome d'Augusto, pel pontificato massimo, per la podestà tribunizia, pel comando proconsolare, cose tutte che, con nuovo esempio, in un sol giorno mi conferiste». E come ebbe parlato, si acclamò: «Queste accettasti; accetta ora il nome di Antonino». Ed egli: «Non vogliate, vi prego, o padri coscritti, costringermi ad accettare un nome cui mi sarebbe difficile soddisfare, già gravi essendo questi insigni nomi. Chi intitolerebbe Cicerone un muto? chi un ignorante Varrone? Marcello un empio?» Di nuovo fu acclamato come sopra, e l'imperatore disse: «Qual sia stato il nome degli Antonini, ricordi la clemenza vostra. Se pietà, chi più santo del Pio? se dottrina, chi più prudente di Marco? se forza, chi più robusto di Bassiano?» Di nuovo si acclamò come sopra, e l'imperatore soggiunse: «Certo vi ricorda come testè quel più laido di tutti i bipedi non solo ma e de' quadrupedi, portasse il nome di Antonino, e in turpitudine e lussuria superasse i Neroni, i Vitellj, i Comodi, e quali erano i gemiti di tutti: e pei circoli del popolo e dei nobili una sola voce fosse, che sconvenientemente e' si chiamava Antonino, e che da tale obbrobrio era violato tanto nome». Mentre parlava si acclamò: «Gli Dei allontanino i mali; te imperante, di ciò non temiamo; ne siamo sicuri te duce. Vincesti i vizj, vincesti i disonori, ornasti il nome d'Antonino. Certi siamo, ben presumiamo; noi te fin dalla puerizia approvammo ed oggi approviamo». Allora l'imperatore: «Nè io esito ad assumer questo nome a tutti venerabile, perchè tema che ne' vizj risolvasi la mia vita, o abbia a vergognarmene; ma mi spiace prima il prendere il nome d'altra famiglia, poi credo di gravare me stesso». E di nuovo gli fu acclamato, ed egli proseguì: «Perocchè, se accetto il nome di Antonino, posso anche quello assumere di Trajano, di Tito, di Vespasiano». E gli fu gridato: «Come Augusto, così anche Antonino». Allora l'imperatore: «Vedo che cosa vi spinga a tale aggiunta. Augusto è il primo fondatore dell'impero, e nel nome di lui tutti succediamo quasi per adozione e per dritto ereditario: anche gli Antonini furono detti Augusti. Ma il nome fu ereditario in Comodo, affettato in Bassiano, ridicolo in Aurelio». E gli fu acclamato: «Alessandro Augusto, gli Dei ti conservino. Alla verecondia tua, alla prudenza, all'innocenza, alla tua castità. Di qui comprendiamo qual diverrai; tu farai che il senato ben elegga i principi. Sii vincitore! sii sano! regna per molti anni». Alessandro soggiunse: «Vedo, o padri coscritti, d'aver ottenuto quel che desideravo, e ve ne ringrazio, e procurerò che questo nome che porto nell'impero sia tale che da altri si desideri, ed offrasi ai buoni uffizj della vostra pietà». E avendolo più volte ripetuto, e' disse: «Più facile mi sarebbe stato accettare il nome degli Antonini; poichè condiscenderei in parte alla parentela od alla comunanza del titolo imperiale. Ma il cognome di Magno perchè si adopra? che cosa ho fatto di grande? e sol dopo belle imprese l'ebbe Alessandro, dopo grandi trionfi Pompeo. Cheti dunque, e voi stessi, magnifici, contate me per uno di voi, anzi che darmi il nome di Magno». Dopo di che fu acclamato: «Aurelio Alessandro Augusto, gli Dei ti conservino». Tali erano le discussioni del glorioso senato; in tali atti si sfogava la manìa delle mozioni, triviale occupazione degli inetti. [11] Il vescovo Eusebio la chiama religiosissima e di gran pietà (VI. 21), lo che da alcuni la fece credere cristiana. La vita d'Alessandro, nella _Storia Augusta_, è piuttosto un romanzo sul fare della _Ciropedia_. Erodiano sembra più attendibile, e s'accorda coi frammenti di Dione. [12] Vedi Manso, _I Trenta Tiranni_ (ted.), dietro alla sua _Vita di Costantino_. [13] Delle minutezze cui scendeva Aureliano in fatto di disciplina militare sia argomento questa lettera a un suo luogotenente: — Se vuoi essere tribuno, anzi se t'è caro di vivere, tieni in freno le mani dei soldati. Niun d'essi rapisca i polli altrui, niuno tocchi le altrui pecore. Sia proibito il rubar uve, il far danno ai seminati, l'esigere dalla gente olio, sale, legna, dovendo ognuno contentarsi della provvisione del principe. Hanno i soldati a rallegrarsi del bottino fatto sopra i nemici, non delle lagrime de' sudditi romani. Ognuno abbia l'armi sue ben terse, le spade ben aguzze ed affilate, e le scarpe ben cucite. Alle vesti logore succedano le nuove. Mettano la paga nella tasca, e non nella taverna. Ognuno porti la sua collana, il suo anello, il suo bracciale, e nol venda o biscazzi. Si governi e strigli il cavallo e il giumento per le bagaglie, e così ancora il mulo comune della compagnia, e non si venda la biada lor destinata. L'uno all'altro presti ajuto, come se fosse un servo. Hanno il medico senza spesa; non gettino denaro in consultare indovini. Vivano costantemente negli alloggi; e se attaccheranno lite, non manchi loro una mancia di buone bastonate». [14] _Absit ut auro fila pensentur; libra enim auri tunc libra serici fuit_. VOPISCO, in _Aureliano_. [15] Se pure va inteso così il _publicavit_ di Vopisco. [16] Da Claudio II a Diocleziano non si batterono più monete d'argento, ma di rame argentato. Quelle d'oro continuarono ad essere di titolo fino, perchè il tributo era pagato in oro. [17] Vopisco soggiunge che i discendenti di Probo andarono ad abitare nelle vicinanze dei laghi di Garda e di Como. [18] _Edda Sæmundar. Rigsmal._ [19] _Reges ex nobilitate, duces ex virtute sumunt_. TACITO, cap. VII. [20] Il Muratori talvolta scrive: — Gli Sciti, o vogliam dire i Goti», al 267, 271 ecc.; e tal altra: — Gli Sciti, cioè i Tartari», al 261. [21] ZOSIMO, i. 67; _Panegyr. veteres_, V. [22] Romagnosi (_Dell'indole e dei fattori dell'incivilimento_, part. II. c. 252) accolse l'opinione d'alcuni, che, per avversione a Costantino, presentano quella di Massenzio come un'«opposizione armata in senso nazionale». Io non trovai il minimo appoggio a tale asserzione. [23] È bizzarro come la boria municipale sapesse innestare le origini favolose delle città colle sacre. Il Malvezzi cronista bresciano (_Rer. It. Script._, tom. XIV. 780) racconta che Ercole fondò a Brescia la rocca Cidnea (_Brixia Cydneæ supposita speculæ_, cantò Catullo); poi la cinsero di torri e di spalti i Tirreni, dai quali in dritta linea derivavano i santi Faustino e Giovita. Nella cattedrale di Gorizia conservossi il bastone pastorale che Ermagora avrebbe ricevuto da san Pietro; come in San Carpoforo a Como quel che usava san Felice primo vescovo. Più famoso è il codice dei vangeli, che stava nel monastero di San Giovanni del Timavo, distrutto dagli Ungari nel 615, donde passò al monastero Belinese, e di là al capitolo d'Aquileja, sotto il patriarcato dei Torriani, di cui porta lo stemma. Carlo IV nel 1353 passando per Aquileja, ottenne dal patriarca gli ultimi due quaderni di quella reliquia, che comprendono dal versetto 20 del cap. XII sino al fine; e li regalò alla metropolitana di Praga, ordinando di legarli in oro e perle, assegnandovi duemila ducati; e volle che l'arcivescovo e il clero andassero incontro alla reliquia, ed ogni pasqua fosse portata in solenne processione. Gli altri cinque quaderni, rimasti ad Aquileja, furono poi recati a Venezia per ordine del doge Tommaso Mocenigo nel 1420: ma l'umidità danneggiò talmente il manoscritto, che più non è leggibile, e si disputò perfino se fosse latino, e se su papiro o pergamena. I dubbj furono risoluti da Lorenzo della Torre, nel ii vol., pag. 548 e seg. dell'_Evangeliarium quadruplex_ del Bianchini (Roma 1749). Che questo brano appartenesse al manoscritto d'Aquileja raccogliesi anche da ciò, che in esso, dove finisce il vangelo di san Matteo, si legge, _Explicit evangelium secundum Matthæum, incipit secundum Marcum_; e nulla segue. Nel 1778 Giuseppe Dobrowsky, sotto il titolo di _Fragmentum pragense evangelii sancti Marci, vulgo autographi_, fece a Praga stampare i sedici fogli donati da Carlo IV, e apparve che non era neppure l'antica versione italica, ma quella emendata da san Girolamo. [24] _Epistola_ I di san PIETRO, II. 9. [25] San Paolo, _ad Eph._, IV. 13. [26] _Audio eos turpissimæ pecudis caput asini consecratum, inepta nescio qua persuasione, venerari_, fa dire Minucio a Cecilio. — _Ab indoctis hominibus scriptæ sunt res vestræ._ ARNOBIO, I. 39. — Il padre Mamachi, nelle _Origini ed antichità cristiane_ (1750), comincia dal riferire a lungo tutti i titoli d'onore che davansi a questi, poi quelli d'ignominia: ed erano, 1. atei, 2. magi e malefici, 3. prestigiatori, 4. greci e impostori, 5. sofisti, 6. seduttori, 7. seguaci di nuova, prava, smodata o malefica superstizione, 8. di religione barbara e pellegrina e barbari, 9. malvagi demonj, 10. disperati e parobolani, 11. sarmentizj e serniassj, 12. biatanati, cioè violentemente uccisi, 13. ottusi, stolidi, rozzi, idioti, ignoranti, goffi, inetti, agresti, miseri, fatui, ostinati, di deplorata e illecita fazione, 14. plantina prosapia e panattieri, 15. nazione nemica della luce e amante i nascondigli, muta in pubblico, 16. persone vili, 17. asinaj e adoratori di asini, 18. stranieri, faziosi, rei d'offesa divinità, sacrileghi, profani, varj, 19. nemici dell'uman genere e de' principi, omicidi, incestuosi, pessimi, scelleratissimi d'ogni ribalderia, 20. uomini da nulla negli affari, 21. Cristempori o negozianti di Cristo, 22. sibillisti, 23. Giudei. Seguono le accuse che ad essi venivano apposte, dividendole in ventiquattro capi. [27] Αἶρε τοὺς ἀθεοὺς era il grido contro loro sotto Adriano. E nel dialogo di Minucio, l'interlocutore gentile esclama: _Cur nullas aras habent? templa nulla? nulla nota simulacra?... Unde autem, vel quis ille, aut ubi, deus unicus, solitarius, destitutus?_ [28] Pare uno sbaglio di san Giustino, che credette a lui dedicata l'iscrizione, SEMONI SANCO DEO FIDIO SACRUM, la quale alludeva a una delle antiche divinità italiche. [29] GRUNER. _De odio humani generis Christianis a Romanis objecto_. Coburgo 1755. _Genus humanum_ in questo senso è solenne in Tacito; Pisone dice: _Galbam consensus generis humani, me Galba cæsarem dixit_. Hist., lib. I. Da ciò Tito fu detto _delizia del genere umano_. [30] DIONE, lib. LII. 36. Le parole sono precise: ἠνάγκαζε..... τοὺς δὲ δὴ ξενίζοντας.... μίσει, καὶ κόλαζε. Se le ricordi chi vanta la tolleranza religiosa degli antichi, dimenticandosi le stragi di Cambise, i tempj incendiati da Serse, i processi contro Protagora, Diagora, Socrate, Anassagora, Stilpone; per non dir nulla degli Egizj. Platone stesso e Cicerone nelle immaginarie loro repubbliche negano tollerare culti stranieri. [31] _Domitius Ulpianus rescripta principum nefaria collegit, ut doceret quibus pœnis affici oportet eos qui se cultores Dei confitentur_. LATTANZIO, Inst., v. 2. [32] _Solus Dei homo_. Tertulliano, _Scorp._ 14. [33] TERTULLIANO, _Apol._ I. 21. Abbiamo una sentenza di questo tenore: «Essendo che Sperato, Cittino... confessano di essere cristiani, e ricusano di rendere omaggio e rispetto allo imperatore, ordiniamo sieno decapitati». BARONIO, _ad ann._ 202, § 4. [34] In Ispagna fu trovato un marmo, ove Nerone è lodato d'aver purgata quella provincia «dai ladroni, e da quelli che inculcavano una nuova superstizione al genere umano». Ap. MURATORI, _Thes. Ant._, i. 99. Si dubitò della sua autenticità, ma la sostenne il protestante Gian Ernesto Walchio, _Marmor Hispaniæ antiquum vexationis Christianorum neronianæ insigne documentum illustratum, etc. v. c. F. Goris consecratum._ Jena 1750. [35] Anche qui la leggenda intervenne, e narrò che Plinio fosse in Creta convertito da Tito discepolo di San Paolo, e subisse il martirio. Rincresceva ai Cristiani di credere perduto l'uomo che avea reso testimonianza delle loro virtù. [36] _Certatim gloriosa in certamina ruebatur, multoque avidius tunc martyria gloriosis motibus quærebantur, quam nunc episcopatus pravis ambitionibus appetuntur_, SULPICIO SEVERO, lib. II. A coloro che riducono a minimo numero le vittime, volle rispondere il Visconti (_Mem. romane d'antichità_. Roma 1825) colle tante iscrizioni di martiri. Di molti non s'indicava il nome, ma il numero; come, MARCELLA ET CHRISTI MARTYRES CCCCL. HIC REQVIESCIT MEDICVS CVM PLVRIBVS. CL MARTYRES CHRISTI. Fors'anche son numeri di martiri quelli che, senz'altra indicazione, troviamo su alcune sepolture, colla corona e la palma; del qual uso è testimonio anche il seguente epigramma di Prudenzio, Carm. XI: _Sunt et multa tamen, tacitas claudentia tumbas_ _Marmora, quæ solum significant numerum._ _Quanta virum jaceant, congestis corpora acervis,_ _Scire licet, quorum nomina nulla legas._ _Sexaginta illic, defossa mole sub una,_ _Reliquias memini me didicisse hominum_. Una, per esempio, dice: N. XXX. SVRRA ET SENEC. COSS; cioè ci dà trenta uccisi sotto il pio Trajano; e contraddice a chi asserì (come il BURNET, _Lettere dall'Italia_, pag. 224) che i Cristiani non avessero catacombe prima del IV secolo, giacchè questa, del 107, fu scavata da una catacomba. [37] BALUZIO, _Miscell._, tom. II. p. 115. [38] _Ipsam libertatem, pro qua mori novimus_. TERTULLIANO, _ad Nat._ I. 1. [39] Instit., lib. V. c. 13: _Nam, cum videat vulgus dilacerari homines variis tormentorum generibus, et inter fatigatos carnifices invictam tenere patientiam, existimat id quod est, nec consensum tam multorum, nec perseverantiam morientium vanam esse, nec ipsam patientiam sine Deo cruciatus tantos posse superare. Latrones et robusti corporis viri ejusmodi lacerationes perferre nequeunt, exclamant et gemitus edunt, vincuntur enim dolore, quia deest illis inspirata patientia. Nostri autem, ut de viris taceam, pueri et mulierculæ tortores suos taciti vincunt, et expromere illis gemitum nec ignis potest. Ecce sexus infirmus et fragilis ætas dilacerari se toto corpore utique perpetitur, non necessitate, quia licet vitare si vellent, sed voluntate, quia confidunt in Deo._ [40] Sant'Ambrogio, per mostrarsi indegno dell'episcopato, assistè ad un giudizio capitale. [41] _Pone Tigillinum; tæda lucebis in illa,_ _Qua stantes ardent, qui fixo gutture fumant,_ _Et latum media sulcum deducit arena_. Sat. I. 155. Allude ai fanali degli orti di Nerone. [42] _Annal._, XV. 44. [43] È tradizione antica; e i santi Girolamo ed Agostino non metteano dubbio sull'autenticità di quattordici lettere fra Seneca e san Paolo, che ora la critica rifiuta. Altri andarono a cercarne prove nelle opere stesse di Seneca, riscontrandovi passi analoghi a quei dell'apostolo delle genti. Questi nella IIª ai Corintj, 11, chiama _angelo di Satana_ un falso profeta; e Seneca: _Nec ego, Epicuri angelus, scio_... (Ep. 20). Così _progenitura di Dio_ per uom dabbene: così somigliata la vita allo stato di guerra (Epp. 51. 96). Altre maniere Seneca usa nel senso del Nuovo Testamento; come caro (_Animo cum hac carne grave certamen est, ne abstrahatur_. De cons. ad Marciam, 240). E molto maggiore vi è la quantità di idee cristiane. Che se alcuno dica che un uomo, meditando sulla natura umana e sui rapporti fra l'uomo e Dio, può arrivarvi di per sè, noi chiederemo perchè nulla se ne trovi o nei _Dialoghi_ di Platone, o nella _Morale_ d'Aristotele, o nei _Memorabili_ di Senofonte, o nelle opere di Cicerone, anzi neppure in Marc'Aurelio e in Epitteto, della scuola stessa di Seneca? Se riflettiamo che Seneca si astenne dalla dieta pitagorica soltanto per non parere un ebreo nè dispiacere a Tiberio, se osserviamo le sue colpevoli condiscendenze verso Nerone, siam poco inclinati a farne un santo. Ma storicamente nulla si oppone all'amicizia tra questo e l'Apostolo delle genti; il quale arrivato, come credesi, a Roma nel 61, cortese prigionia ottenne da Burro prefetto del pretorio, amico di Seneca: fors'anche Seneca n'avea già contezza da suo fratello Anneo Novato Gallione, governatore dell'Acaja, al cui tribunale Paolo era stato tradotto mentre dimorava in Corinto. Che se la maggior parte delle opere sue si mostrano scritte prima della venuta di Paolo, quella sulla _Vita beata_ e sui _Benefizj_, ove più abbondano le espressioni cristiane, e massimamente molte _Lettere_, sono posteriori. Del resto le somiglianze potrebbero indicare soltanto che Seneca conobbe i libri de' Cristiani. Vedi in proposito FR. CH. GELPKE, _Tractatiuncula de familiaritate, quæ Paulo apostolo cum Seneca philosopho intercessisse traditur verisimillima_. Lipsia 1813; il _Seneca_ del sig. Durosoir nella collezione di Panckouke; Amédée Fleury, Saint _Paul et Sénéque_. Parigi 1853. E tratto tratto il tema si ripiglia, e il dotto vulgo lo crede nuovo. [44] _De benef._, VI. 7. 23; _Quæst. nat._, I. 1, III. 45. [45] _Ep._ 41. 73. [46] _Deus ametur_. Ep. 42. 47. 96; _De benef._, VII. 2. [47] _Hujus socii sumus et membra_. Ep. 93. [48] _Parere Deo libertas est_. De vita beata, 15; _Colite in pia et recta voluntate_. De benef., I. 6; Ep. 116. [49] _Ep._ 7. [50] _De benef._, III; _Ep._ 44. [51] SAN PAOLO, _ad Rom._, I. 18. 20. [52] Teodosio e Valentiniano scrivono: _Digna vox est majestate regnantis legibus alligatum se principem profiteri; adeo de auctoritate juris nostra pendet auctoritas. Et revera majus imperio est submittere legibus principatum_. Cod., I. 14. [53] Il Giannone, nell'opera manoscritta che citammo a pag. 24 del vol. III, esclama: — Or chi crederebbe che, contro un rescritto cotanto savio, prudente e degno della romana moderazione e sapienza, Tertulliano avesse potuto declamar tanto, deridendolo e reputandolo contraddittorio, e con iscipiti contrapposti ed antitesi malmenarlo e schernirlo? ecc.»; e segue dimostrando la _legalità_ del proconsole e dell'imperatore. [54] Per regola data dal concilio degli Apostoli, e a lungo osservata, i Cristiani s'astenevano dal sangue e dagli animali soffogati. Avanzo di rito ebraico. [55] Dal giorno dell'acclamazione di Diocleziano, 29 agosto 281, parte l'_êra dei martiri_, usata a lungo dalla Chiesa, e tuttora dai Copti e dagli Abissini. [56] Agatangelo romano descrisse e probabilmente vide le persecuzioni di quel tempo in Armenia, dove le vergini Ripsima e Galana romana furono esposte alla brutalità di re Tiridate: e molte con loro patirono, ma il martirio di esse valse la conversione dell'Armenia. La storia di Agatangelo, dall'armeno volta in italiano, forma uno degli anelli della Collana Storica, che i padri Mechitaristi aveano cominciata nella loro isola a Venezia. [57] Costantino scrisse ad Ario: — Sono persuaso, che se io fossi tanto felice da recar gli uomini ad adorare tutti lo stesso Dio, questo cambiamento di religione ne produrrebbe un altro nel governo»; e soggiunge che cerca compiere questo disegno «senza far troppo rumore». EUSEBIO, _Vita Const._, II. 65. Avea dunque chiaro concetto di quel che operava. [58] Gran colpa gliene fa Zosimo, II. 7 e 30. [59] Anastasio Bibliotecario cavò dagli archivj del Vaticano il catalogo degli arredi donati da Costantino alla basilica di San Giovanni Laterano, di portentosa ricchezza: 1. Un baldacchino (_fastigium_) d'argento, sul cui dinanzi una statua del Salvatore in sedia, alta 5 piedi, e pesante 120 libbre; inoltre i dodici Apostoli con corone d'argento purissimo in testa, alti ciascuno 5 piedi e pesanti 90 libbre. Sul dietro un'altra statua del Salvatore in trono, e che guarda l'abside, alta 5 piedi e pesante 140 libbre. Vicino di lei, quattro angeli d'argento, di 5 piedi, e del peso di 50 libbre. E tutto il baldacchino pesa libbre 2025. 2. Una lumiera d'oro puro, ornata di 15 delfini, e pesante 25 libbre, colla catena che la sospende al baldacchino. 3. Quattro candelabri a forma di corone, d'oro puro, ornati di venti delfini, e pesanti 15 libbre ciascuno. 4. La volta della basilica, dorata in tutta la lunghezza, che è di 500 piedi. 5. Sette altari d'argento, ciascuno di 200 libbre. 6. Sette patene d'oro, da 30 libbre. 7. Sedici d'argento, da 30 libbre. 8. Sette coppe d'oro puro, da 10 libbre. 9. Una di metallo, sparsa d'oro e adorna di coralli, smeraldi, giacinti, pesante 20 libbre, 3 oncie. 10. Venti coppe d'argento da 15 libbre. 11. Due vasi sacri d'oro puro, da 50 libbre, capaci di 3 medimni ciascuno. 12. Altri venti d'argento, da 10 libbre e da un medimno. 13. Quaranta calici d'oro puro, da 1 libbra. 14. Cinquanta d'argento da 2 libbre. 15. Un candelabro d'oro puro, collocato avanti all'altare, ornato di venticinque delfini, e pesante 30 libbre. 16. Un candelabro d'argento con venti delfini, da 50 libbre. 17. Quarantacinque candelabri d'argento, disposti nella nave, ciascuno da 30 libbre. 18. Dal lato destro della basilica, quaranta candelabri, da 20 libbre d'argento; 19. Dal sinistro, altri venticinque; 20. E altri cinquanta nella nave, simili. 21. Tre urne d'argento, da 30 libbre, e capaci di 10 medimni ciascuna. 22. Due incensieri d'oro puro, da 50 libbre. 23. Nel Battistero una vasca di porfido, dentro e fuori rivestita di lamina d'argento per 3008 libbre. 24. Nel cui mezzo, una colonna di porfido, che sostiene una lampada d'oro puro, da 50 libbre. 25. Sull'orlo della vasca un agnello che versa acqua, di 30 libbre d'oro. 26. A destra di quello una statua del Salvatore, d'argento puro, alta 5 piedi, e pesante 70 libbre. 27. A sinistra un san Giovanni Battista d'argento, alto 5 piedi, del peso di 100 libbre. 28. Sette cervi d'argento che versano acqua, da 80 libbre ciascuno. 29. Un incensiere di 10 libbre d'oro puro, ornato di quarantadue pietre fine. Erano dunque 685 libbre d'oro, e 12,943 d'argento, non contando la duratura della volta: lo che varrebbe 1,700,000 franchi, senza la fattura. Costantino vi aggiunse fondi per una rendita di circa 230,000 lire, e l'annuo tributo di 150 libbre d'aromi. Tanta liberalità fece dubitare sulla genuinità del testo, la quale però fu da autorevoli critici sostenuta. [60] _Constantinopolis dedicatur pene omnium urbium nuditate_, dice san Girolamo. Codino, greco d'età posteriore, riferisce un aneddoto favoloso, ma degno di ricordo; cioè che Costantino chiamò i principali nobili di Roma, e li spedì alla guerra contro i Persiani; intanto fece fabbricare a Costantinopoli palazzi affatto simili a quei ch'essi possedevano in Roma, e vi pose gli stessi mobili, indi le mogli e i figli loro. Tornati dopo sedici mesi quei signori, esso gli accolse con un solenne banchetto, dopo il quale fece condurre ciascuno alla nuova abitazione, dove si meravigliarono di trovarsi nella casa e fra le persone conosciute e care. [61] _Si quis indebitum sibi locum usurpaverit, nulla ignoratione defendat, sitque plane sacrilegii reus qui divina præcepta neglexerit._ Legge di Graziano nel Codice Teodosiano, lib. VI. tit. 5. l. 2. [62] Ci sono guida esso _Codice Teodosiano_ coi ricchissimi commenti del Gotofredo e del Ritter. La _Notizia delle dignità dell'Oriente e dell'Occidente_, specie d'almanacco imperiale, composto un secolo più tardi, commentato dal Panciroli nel _Thesaurus antiquitatum romanarum_ del GREVIO, vol. VII. LYDUS, _De officiis romani imperii._ SALVIANUS, _De gubernatione Dei_. _Tabula Heracleensis_, ediz. MAZOCCHI. Napoli 1754. Oltre i predetti abbreviatori di storie, abbiamo PAOLO OROSIO, _Historiarum libri_ VII, e ZONARA, _Annales_. Da qui innanzi la storia assume colore diverso, secondo che gli scrittori sono idolatri o cristiani. Zosimo, alla maniera di Polibio, dipinge la decadenza dell'Impero, avversissimo sempre ai Cristiani: i cinque libri che ce ne restano, arrivano al 410. Dei trentun libri di Ammiano Marcellino, tredici sono perduti, negli altri egli si stende dal 354 al 378: prolisso, ma istruttivo e di sufficiente imparzialità. _Panegyricæ orationes veterum oratorum; notis ac numismatibus illustravit et italicam interpretationem adjecit_ LAURENTIUS PATAROL. Venezia 1708. Sono i panegirici recitati agli imperatori da Diocleziano a Teodosio, donde con molta cautela può attingersi qualche notizia, o dirò meglio qualche sentimento. Eusebio, nei dieci libri della _Storia ecclesiastica_, e nei cinque della _Vita di Costantino_, e i continuatori suoi Socrate, Teodoreto, Sozomene, Evagrio, illustrano grandemente la storia politica; parziali sempre agli imperatori cristiani. Dicasi lo stesso di molte vite di santi. Fra' moderni, tutti gli storici filosofisti avversano Costantino; sono per lui i fautori del cristianesimo. [63] Lampridio ci conservò due pagine d'imprecazioni del senato contro Comodo (in _Comodo_, 18, 19) ed altre non meno abjette contro Elagabalo (in _Alex. Severo_, 6. 7. 9). Vopisco ci tramandò il processo verbale dell'acclamazione di Claudio II, da noi riferito a pag. 49. [64] _Si quis senatorium nostra largitate fastigium, vel _generis felicitate_ consecutus..._ Cod. Teod., lib. V. [65] Graziano imperatore ad Ausonio poeta scriveva: _Cum de consulibus in annum creandis solus mecum volutarem... te consulem et designavi, et declaravi, et priorem nuncupavi_. Ed Ausonio ringraziandonelo, si congratula di non aver dovuto scendere alle antiche bassezze del cercarlo al popolo: _Consul ego, imperator auguste, munere tuo, non passus septa neque campum, non suffragia, non puncta, non loculos: qui non prensaverim manus, nec consalutantium confusus occursu, aut sua amicis nomina non reddiderim; aut aliena imposuerim; qui tribus non circuivi, centurias non adulavi; jure vocatis classibus non intremui; nihil cum sequestre deposui, cum diribitore nihil pepigi. Romanus populus, Martius campus, equester ordo, rostra, ovilia, senatus, curia, unus mihi omnia Gratianus_. [66] _In consulatu honos sine labore suscipitur_. MAMERTINO, Paneg. vet., XI. 2. [67] Da un curioso passo di Lampridio (in _Alex. Severo_, 42) impariamo le paghe che ricevevano i governatori delle provincie: venti libbre d'argento, cento monete d'oro (lire 3913), sei anfore di vino, due muli, due cavalli, due vesti da comparsa (_forenses_), una da casa (_domestica_), un tinozzo da bagno, un cuoco, un mulattiere, e se non avesser moglie, una concubina, reputata necessaria come le altre cose. _Quod sine his esse non possent_. Uscendo di carica, restituivano i muli, i cavalli, il mulattiere e il cuoco: il restante tenevano, se il principe fosse soddisfatto di loro; se no, restituivano quadruplicato. Valeriano fissa l'assegnamento di Aureliano, tribuno delle legioni, così scrivendo a Sejonio Albino prefetto alla città: _Sinceritas tua supradicto viro efficiet, quamdiu Romæ fuerit, panes militares mundos sexdecim, panes militares castrenses quadraginta, olei sextarium unum, et item olei secundi sextarium unum, porcellum dimidium, gallinaceos duos, porcinæ pondo triginta, bubulæ pondo quadraginta, liquaminis sextarium, salis sextarium unum, herbarum, olerum, quantum satis est._ E a Probo: _In salario diurno bubulæ pondo, porcinæ pondo sex, caprinæ pondo decem, gallinaceum per biduum, vini veteris diurnos sextarios decem, cum lardo bubalino, salis, olerum, lignorum, quantum satis est_. (Historia Augusta) Sotto Costantino continuavasi a dare la provvigione in natura; e poichè egli limitò a tre lustri la durata del servizio militare, per dare il ben servito ai congedati introdusse una tassa straordinaria ogni quintodecimo anno, dal che venne il ciclo delle _Indizioni_; così alcuni. Savigny (_Ueber die römische Steuerverfassung_) pensa l'Indizione fosse il rinnovamento del catasto, che par si raddrizzasse ogni quindici anni. Certo però l'Indizione trovasi già sotto Diocleziano. [68] AMMIANO MARCELLINO, _Hist._, XXVIII. 6. — _Cod. Teod._, lib. IV. IX. XII. ecc. [69] _Si quis sacrilega vitem falce succiderit, aut feracium ramorum fœtus hebetaverit, quo declinet fidem censuum, et mentiatur callide paupertatis ingenium, mox detectus, capitale subibit exitium, et bona ejus in fisci jura migrabunt._ Cod. Teod., lib. XVIII. tit. 11. l. I. _Finis_ nella bassa latinità voleva dire pagamento, come τέλος in greco, e _Ziel_ in tedesco. Da ciò il nome di _finanza_, venuto a significar l'arte di procurarsi denaro con modi raffinati e dotti. La voce _taglia_ viene dalla tacca, che l'esattore dell'imposta e il riscontratore facevano sopra un pezzo di legno per indicare le somme pagate, e che divideasi, restando espressa la somma sulle due metà. [70] Da una novella di Magioriano raccogliesi che ciascun capo pagava all'anno due soldi d'imposta, e mezzo soldo per le spese di percezione; vale a dire che queste si valutavano un quarto dell'entrata totale. [71] LIBANIO, _Or. contro Flor._; ZOSIMO, II. 24. [72] _Cod. Teod._, lib. XII. XIII. ecc.; NAZARIO, _Paneg. vet._, X. 35; ZOSIMO, II. 38. [73] _Oblatio auri_. SIMMACO, Ep. 10. 26. — _Universi, guos senatorii nominis dignitas non tuetur, ad auri coronarii præstationem vocentur._ Cod. Teod., lib. XII, tit. 13. [74] _Nov. Valent._ VII. [75] Vedi GOTOFREDO al lib. VII. _De re militari_ del codice Teodosiano; e questo codice nei titoli _De tyronibus, De desertoribus, De decurionibus, De veteranis, De filiis veteranorum_. [76] Giustiniano li portò poi a cinquemila cinquecento; e il _comes domesticorum_ divenne carica importantissima. [77] Alcuni moderni, come RAYNOUARD, _Hist. du droit municipal en France_. Parigi 1836, tom. I. c. 17, e FAURIEL, _Hist. de la Gaule méridionale_. Ivi, tom. I. c. 10, pensano costituissero in ogni città un senato superiore alla curia. A me non occorse mai menzione di senati provinciali. [78] Codice Giustinianeo, _Communia utr. jud._ [79] _Nonnulli, quum domicilia atque agellos suos aut pervasionibus perdunt, aut fugati ab exactoribus deserunt, quia tenere non possunt, fundos majorum expetunt, atque coloni divitum fiunt_. SALVIANO, De gubern. Dei. [80] _Quæ enim differentia inter senos et adscriptitios intelligatur, cum uterque in domini sui positus sit potestate, et possit servum cum peculio manumittere, et adscriptitium cum terra dominio suo expellere?_ Cod. Giustin., lib. XI. tit. 47. l. 21. Forse si eccedette nell'intendere che questo passo di Giustiniano escluda l'emancipazione. E sebbene manumissioni di coloni non si trovino mai, si rifletta che il colono poteva o comprare o ricevere in dono il terreno al quale era affisso, poi con trent'anni d'assenza restava prosciolto; fors'anche non era reputata necessaria la manumissione. Giustiniano permise poi di ordinarli preti, purchè seguitassero negli obblighi del colonato _Nov._ CXXV, 4. [81] È del 708 o 709 di Roma, e fu conservata in parte dalla Tavola d'Eraclea, e più da una iscrizione trovata a Padova. Vedi SAVIGNY, _Gesch. des römischen Rechts in Mittelalter,_ cap. II. § 8. [82] «Il soggetto delle curie, malgrado gli abbondanti materiali che esistono, rimane sempre il più oscuro nell'istoria legale dell'impero». GIBBON, cap. XXII. [83] AMMIANO MARCELLINO, XXV. 4; SIMMACO, _Ep._ 10; Cod. Teod., _De op. publ._ — Se i codici Teodosiano e Giustinianeo parlano sì poco de' magistrati municipali, mentre ogni tratto ne fan menzione i giureconsulti classici, la ragione si è che questi vivevano in Italia, quelli furono compilati in Oriente. [84] _Nemo, originis suæ oblitus et patriæ, cui domicilii jure devinctus est, ad gubernacula provinciæ nitatur ascendere priusquam, decursis gradatim curiæ muneribus, subvehatur; nec vero a duumviratu vel a sacerdotio incipiat, sed, servato ordine, omnium officiorum sollicitudinem sustineat_. Legge di Valentiniano nel codice Teodosiano, lib. XII. tit. 4. l. 77. [85] _Curiales nervos esse reipublicæ ac viscera civitatum, nullus ignorat: quorum cœtum recte appellavit antiquitas minorem senatum: huc redegit iniquitas judicum, et exactorum plectenda venalitas, ut nonnulli patrias deserentes, natalium splendore neglecto, occultas latebras elegerint, et habitationem juris alieni._ Nov. Magior, IV. 4. _Curiales... cœperunt se eximere curiæ, et occasiones invenire per quas liberi ab his efficerentur. Ita civitates diminutæ... Decuriones facultatibus... et corporibus fraudare curiam voluerunt, rem omnium impiam adinvenerunt, a legitimis nuptiis abstinentes, ut eligerent magis sine filiis quam sub lege deficere... Transtulerunt curialium facultates ad alias personas, nihil exinde habente curia... sub falsis causis facientes donationes... Vidimus quosdam sic adversos esse contra proprias patrias..._ Nov. Giustin. XXXVIII. [86] _Hi potissimum constituantur defensores, quos decretis elegerint civitates. Defensores nihil sibi insolenter, nihil indebitum vindicantes, nominis sui tantum fungantur officio, nullas infligant mulctas, nullas exerceant quæstiones; plebem tantum vel decuriones ab omni improborum insolentia et temeritate tueantur, ut id tantum quod esse dicuntur, esse non desinant_. Cod. Teod., lib. XI. tit. 3. [87] _Cod. Teod._, lib. XIII, tit. 4. [88] PLINIO, _Ep._ X. 42; _Cod. Teod._, lib. XIV. tit. 1. l. 24; lib. XIII. tit. 5, l. 25; lib. X. tit. 4. l. 11. ecc. [89] LAMPRIDIO, in _Alex. Severo_, cap. 39. [90] _Cod. Teod._, lib. X. tit. 20. [91] _Cod. Teod._, lib. X. tit. 40; _Cod. Giustin._, lib. IV. tit. 41. l. 1; _Dig._, lib. XXIX. tit. 4. l. 11. [92] Ai tempi di san Girolamo andava ancor peggio. — Si suole in campagna esigere gl'interessi del frumento, del vino, dell'olio ed altre derrate; e per esempio si dà all'inverno dieci moggia per riceverne quindici al ricolto, cioè la metà più». Le parole che si riferiscono all'interesse sono: _Fœnus semiunciarium_ 1½ per cento. » _unciarium_ 1 » _Usura triens_ 3 » » _quadrans_ 4 » » _quincunx_ 5 » » _semis_ 6 » » _bes_ 8 » » _deunx_ 11 » » _centesima_ 12 » » _centesimaquaterna_ 48 » _Anatocismus_, interesse dell'interesse. [93] _Solum Barbaris aurum minime præbeatur, sed etiam, si apud eos inventum fuerit, subtili auferatur ingenio_. Cod. Giustin., lib. IV. _De comm. et merc._, 2. [94] _Codice Teod._, De fide test., lib. III e _passim_. [95] Zonara farebbe perduti trentamila uomini da Costanzo, ventiquattromila da Magnenzio: nel che dev'essere corso sbaglio. [96] Graziano e Valentiniano I ingiunsero che ogni vescovo potesse al romano appellarsi dalle sentenze del metropolita, il quale fosse tenuto esporre i motivi del suo giudicato: Valentiniano III, malgrado l'opposizione di sant'Ilario vescovo d'Arles, volle i vescovi soggetti alle decisioni del papa della città eterna: il concilio generale di Calcedonia nel 451 chiese da papa Leone Magno la conferma dei suoi decreti: i vescovi d'Oriente scrissero al papa Simmaco, riconoscendo che le pecore di Cristo furono confidate al successore di Pietro _in tutto il mondo abitato_: quelli dell'Epiro domandavano da Ormisda la conferma del vescovo da loro eletto; il quale papa stese un formolario, che i vescovi doveano trasmettere firmato ai metropoliti, questi ai patriarchi, i patriarchi al pontefice, come simbolo dell'unità, che le chiese d'Oriente accettarono, affrettandosi di meritare la comunione della sede apostolica, _in cui risiede la verace e intera solidità della religione cristiana_. [97] SVETONIO, in _Augusto_, 40. [98] Ap. BARONIO, _ad annum_ 324, num. 58. 65. 70. 71. E vedi indietro, a pag. 123. [99] A ciascun vescovo era lecito farvi cambiamenti; e Rufino ci reca il simbolo qual recitavasi dalla Chiesa romana, più incontaminato, e quale dall'aquilejese, a cui esso prete apparteneva. Eccoli a confronto: Romano _Credo in Deum patrem omnipotentem._ Aquilejese _Credo in Deo patre omnipotente invisibili et impassibili._ Rom. _Et in Christum Jesum unicum filium ejus, dominum nostrum._ Aquil. _Et in Christo Jesu, unico filio ejus, domino nostro._ Rom. e Aquil. _Qui natus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine._ Rom. _Crucifixus sub Pontio Pilato et sepultus, tertia die resurrexit a mortuis._ Aquil. _Crucifixus sub Pontio Pilato et sepultus, descendit ad inferna, tertia die resurrexit a mortuis._ Rom. e Aquil. _Ascendit in cælos, sedet ad dexteram Patris; inde venturus est judicare vivos et mortuos._ Rom. _Et in Spiritum Sanctum. Sanctam Ecclesiam. Remissionem peccatorum. Carnis resurrectionem._ Aquil. _Et in Spiritu Sancto. Sancta Ecclesia. Remissione peccatorum. Hujus carnis resurrectione._ Dalle catechesi di Massimo vescovo di Torino (_Homil. in traditione Symboli_), di san Pier Crisologo vescovo di Ravenna (_in Symb. apost._), e da altri raccogliamo i simboli delle diverse Chiese, dove trovansi introdotte le parole _conceptus, passus, mortuus, catholicam, sanctorum communionem, vitam æternam,_ dappoi adottate nel Simbolo comune, qual già si trova ne' sermoni 240, 241, 242, posti in appendice ai sermoni genuini di sant'Agostino nell'edizione de' Padri Maurini. Alcune di quelle aggiunte pajono arbitrarie e sin futili; ma tendevano a confutare alcuni errori divulgati. Così nel surriferito simbolo aquilejese il _descendit ad inferna_ si oppone agli Apollinaristi ed Ariani, che negavano l'anima a Cristo, quasi ne facesse vece la divinità: l'_invisibili et impassibili_ è contro i Novaziani e Sabelliani, che diceano esser nato e aver patito il Padre Eterno; l'_hujus carnis_ contrasta a chi teneva che dovessimo risorgere con un corpo aereo e celeste. [100] Nel concilio Niceno fu pure decisa la quistione delle pasque, importante sotto l'apparente frivolezza, giacchè suggellava il distacco del cristianesimo dagli Ebrei, e la supremazia della Chiesa di Roma; secondo la cui pratica, fu convenuto di festeggiare la resurrezione di Cristo la domenica in cui cade o che segue immediatamente il plenilunio più vicino all'equinozio di primavera. Questa deferenza alla Chiesa romana è un fatto rilevantissimo nella storia ecclesiastica. [101] È il _fallo di Liberio_, ridetto a sazietà dagli avversarj dell'infallibilità del papa. Ma quand'anche si accetti per vero, il che da alcuni s'impugna, nulla conchiude contro di quella, non avendo egli sentenziato dalla cattedra, non con libera volontà, e, appena rimesso nel suo seggio, si disdisse. [102] _Cod. Teod._, lib. XVI. tit. 10. l. 2. [103] Ivi, IV del 353; e V del 356. [104] I fatti vennero raccolti da TZCHIRNER, _Der Fall des Heidenthum_, Lipsia 1829, e da BEUGNOT, _Histoire de la destruction du paganisme en Occident_, Parigi 1835; ma le conseguenze che questo ne trae, non possono ragionevolmente accettarsi. Vedi pure J. E. AUER, _Kaiser Julian der Abtrünnige_ ecc. Vienna 1855. [105] _Nascuntur ergo et quotidie quidem dii novi: nec enim vincuntur ab hominibus fœcunditate_. Div. instit., I. 16. [106] JABLONSKI, _De origine festi natalis Christi_; SANT'EPIFANIO, _Adversus hæreses_, I. 29. Al 22 febbrajo celebravansi le _caristie_ pei morti; e i nostri vi sostituirono la cattedra di San Pietro, _festum epularum sancti Petri_. [107] GREVIO, _Thesaurus antiq. rom._, VIII. 95. [108] HUDSON, _Geogr. minor._, III. 15. [109] _Contra Paganos_. D. MAXIMI _taurinensis episcopi opera_. Roma 1674. [110] Τὸν πατέρα Μίθραν. _Opere_, pag. 336 e 130. [111] BANDURI, _Numismata imp. rom._, II. 427-440. — Ὄμνυμι δὲ τὸν Σαράπιν. _Ep._ VI. [112] LIBANIO, _Legat. ad Julianum_, pag. 157; e _Oratio parænetica_, cap. 85. [113] Se ne congratula Giuliano nell'_Ep._ 38; e se ne duole Ammiano Marcellino, lib. XXII. 12. [114] _Ep._ 42, Ἀκοντας ἱᾶσθαι, medicare contro voglia. [115] AMMIANO MARCELLINO, lib. XXV. 2. Così Ottaviano Augusto negò le feste pubbliche a Nettuno dopo che la flotta pericolò due volte. [116] _Hoc moderamine principatus inclaruit, quod, inter religionum diversitates, medius stetit, vel quemquam inquietavit, neque ut hoc coleretur imperavit aut illud, nec interdictis minacibus subjectorum cervicem ad id quod ipse coluit inclinabat, sed intemeratas reliquit has partes ut reperit._ Quest'asserzione di Ammiano Marcellino (XXX. 9) è confermata dal codice Teodosiano, ove Valentiniano dice: _Testes sunt leges a me in exordio imperii mei datæ, quibus unicuique, quod animo imbibisset, colendi libera facultas tributa est._ Lib. IX, tit. 16. I. 9. [117] _Cod. Teod._, lib. XII, tit. 50. I. 75. [118] _Pudet dicere: sacerdotes idolorum, mimi, et aurigæ, et scorta hæreditates capiunt; solis clericis ac monacis hac lege prohibetur; et non prohibetur a persecutoribus, sed a principibus christianis. Nec de lege queror, sed doleo cur meruerimus hanc legem._ SAN GIROLAMO. [119] Sono esagerate, ma meritano esser riferite, le lodi dategli da Ausonio in tal proposito, _Epigr._ I: _Arma inter, Chunnosque truces, furtoque nocentes_ _Sauromatas, quantum cessat de tempore belli,_ _Indulget claris tantum inter castra Camœnis._ _Vix posuit volucres stridentia tela sagittas,_ _Musarum ad calamos fertur manus: otia nescit,_ _Et commutata meditatur arundine carmen._ _Sed carmen non molle modis; bella horrida Martis_ _Odrysii, tressæque viraginis arma retractat._ _Exulta, Æacides; celebraris vate superbo_ _Rursus, romanumque tibi contingit Homerum._ [120] _Cod. Teod._, lib. IX. tit. 7. I. 1. [121] TEMISTIO, _Oratio_ XIX. [122] Sotto una statua erettagli nel 387 è _chiamato pontifex Vestæ, pontifex Solis, quindecemvir, augur, tauroboliatus, neocorus, hierophanta et pater sacrorum_. GRUTERO, pag. 1102. Nº 2. In un'ara scoperta allo scorcio del secolo passato gli si aggiungono i titoli di _curialis Herculis, sacratus Libero et Eleusinis, pater patrum_; DONATO, _Suppl. al Muratori_, tom. I. p. 72. Nº 2. _Pater sacrorum_ e _pater patrum_ si riferiscono al culto di Mitra, come abbiam veduto. Macrobio fa da lui difendere nobilmente gli schiavi contro un tal Evangelo, dicendo ch'essi sono formati degli stessi elementi che noi, ricevono lo spirito dallo stesso principio, vivono, muojono all'egual modo; i costumi distinguere gli uomini, non l'abito o la condizione; infine espone nobilmente la maniera di farsi amato agli schiavi. _Saturn._, I. [123] Lib. I. ep. 43. [124] _Dii patrii, facite gratiam neglectorum sacrorum_. Lib. II. ep. 7. [125] Ep. 9. [126] AGOSTINO, _De civ. Dei_, v. 26. [127] _Sexcentas numerare domos de sanguine prisco_ _Nobilium licet, ad Christi piacula versas._ PRUDENZIO, v. 567. [128] Sebben Girolamo mostri disprezzo per distinzioni di nascita, rammenta che per padre ella discendeva da Agamennone, per madre dai Gracchi, e sposò uno disceso da Enea e da Giulio. [129] _Ep._ XXIII _ad Eustoch._ [130] _Ep._ IV _ad Fabiol._ del 401. [131] SAN PAOLO, I _ad Corinth._, II. 4. [132] Il migliore per avventura de' suoi discorsi è quello in morte del fratello Satiro, tutto spirante affetti di famiglia. — A nulla mi valse l'aver raccolto il moribondo tuo respiro, appoggiata la bocca mia sulle estinte tue labbra. Io sperava far passare la tua morte nel mio seno, e comunicare a te la vita mia. Pegni crudeli e soavi, sventurati abbracci, fra i quali io sentii il suo corpo farsi gelato e rigido, e l'ultimo fiato esalare. Lo stringea fra le braccia, ma avevo già perduto colui che ancora io serravo. Quel soffio di morte divenne per me soffio di vita. Voglia il Cielo almeno ch'esso purifichi il cuor mio, e ponga nella mia anima l'innocenza e la dolcezza tua». Dall'affetto domestico sa elevarsi ai pubblici danni, come nel bell'esordio: — Fratelli carissimi, abbiam condotto innanzi all'ara del sacrifizio la vittima che fu richiesta, vittima pura, accetta a Dio, Satiro, mia scorta e mio fratello. Io non aveva dimenticato ch'ei fosse mortale, nè mi lasciai illudere da vana speranza; ma la grazia oltrepassò la speranza, e non che lamentarmi a Dio, devo ringraziarlo, come quegli che sempre desiderai, in caso che alla Chiesa o a me sovrastassero calamità, si sfogasse la tempesta sopra di me e sopra la mia famiglia. Grazie al Signore, che nell'universale sovvertimento prodotto dai Barbari che d'ogni parte recano guerra, abbia soddisfatto all'afflizione comune co' miei particolari dispiaceri, e sia stato percosso io solo quando temea per tutti. Sì, o fratello, avventuroso in quanto rende florida la vita, nol fosti meno per opportunità della morte. Non a noi fosti rapito, ma ai disastri; non hai perduto la vita, ma fosti campato dalla minaccia delle calamità sospese sul nostro capo. Affezionato com'eri a tutti i tuoi, oh quanto avresti gemuto nel sapere che l'Italia è incalzata da un nemico già alle porte! quale afflizione per te in pensare che ogni nostra speranza di salute sta nel baluardo delle Alpi, e che alcuni tronchi d'albero sono l'unica barriera che difende il pudore! quanto l'anima tua si sarebbe contristata nel vedere che sì piccola distanza ci separa dal nemico, nemico feroce e brutale, che nè la vita risparmia nè il pudore». Nulla di così bello egli dice o nella consolazione per la morte di Valentiniano o nel panegirico di Teodosio. [133] SIMMACO, lib. X. ep. 54. Il testo proprio della legge ci manca; ma in una d'Onorio del 415 (_Cod. Teod._, lib. XVI. tit. 10. l. 20) è detto: — Conforme ai decreti del divo Graziano, ordiniamo di applicare al nostro dominio tutte le proprietà (_omnia loca_) che l'errore degli antichi destinò alle sacre cose». [134] SIMMACO, lib. I. ep. 46. [135] _Cod. Teod._, lib. XVI, tit. 7. l. 11. 12. 16. [136] Ivi, I. 1. 4. 5. [137] _Exultare patres videas, pulcherrima mundi_ _Lumina, concilium que senum gestire Catonum_ _Candidiore toga niveum pietatis amictum_ _Sumere, et exuvias deponere pontificales._ Contro Simmaco. [138] _Cod. Teod._, lib. XVI. tit. 1. I. 2. [139] Se nella serie dei concilj ecumenici si annoveri pure quel di Gerusalemme, tenuto dagli Apostoli, nell'anno 50 d. C., e descritto da san Luca nel cap. XV degli _Atti_ — Il simbolo, quale allora fu redatto, si legge quotidianamente nella messa. [140] Oggi San Vittor Grande l'una, e Sant'Ambrogio l'altra. [141] Così racconta Isidoro di Siviglia, _De officiis ecclesiasticis_, lib. I. c. 7. [142] _Deus creator omnium — Jam surgit hora tertia — Nunc sancte nobis Spiritus_; e alcuno dice il _Te Deum_, ma altri lo pretende composto nel IV secolo da un frate Sisebut, vissuto probabilmente a Montecassino. [143] _Exameron_, III. 5; AUGUSTINI _Confess._ IX. 7. [144] _Rudis sed avida doctrinæ_, dicevala san Gaudenzio; e l'inno antico di san Filastro, _Et rudem sed tunc cupidam moneri_ _Insciam quamquam, tamen ad docendum_ _Firmiter promptam._ [145] Labus, _Museo Bresciano_, intorno all'antico marmo di C. Giulio Ingenuo, pag. 56. Da un curioso passo di Rodolfo notajo parrebbe che fin nel VII secolo durasse in Valcamonica il culto di Saturno: _Erant adhuc in illa valle plurimi Pagani, qui arboribus et fontibus victimas offerebant. In tempore usque regis Ariberti imago Saturni magna frequentia venerabatur in curte Hedulio_ (a Edolo): _et quum præcepti regis obedientia non fieret ut illa imago destrueretur, Ingelardus dux Brissiæ misit armatorum manus, qui illam disperderunt in fragmentis_. [146] Una tradizione molto divulgata fa nato sant'Antonio a Ventimiglia, o almeno da madre di questa città. [147] Dell'unità del genere umano non ebbe conoscenza l'antichità, alla quale sembrava un fatto fatale la divisione in nazioni. Giuliano imperatore giudica che quest'unità, proclamata dagli Ebrei e dai Cristiani, ripugni alla diversità di leggi e di costumi, la quale deriva dalla volontà degli Dei, rappresentanti de' genj contrarj onde sono ispirati i popoli, da Marte i guerreschi, da Minerva quei che uniscono la prudenza al coraggio, da Mercurio quelli che hanno prudenza più che valore. SAN CIRILLO, _contra Julianum_, lib. IV. [148] Commento al cap. II dell'_epistola ai Galati_. [149] _Quicumque ad Urbem discendi cupiditate veniunt, primitus ad magistrum census provincialium judicum, a quibus copia est danda veniundi, ejusmodi litteras proferant, ut oppida hominum et natales et merita expressa teneantur; deinde ut primo statim profiteantur introitu, quibus potissimum studiis operam navare proponant; tertio, ut hospitia eorum sollicite censualium norit officium, quo ei rei impertiant curam, quam se adseruerint expetisse. Idem immineant censuales, ut singuli eorum tales se in conventibus præbeant, quales esse debent, qui turpem inhonestamque famam et consociationes (quas proximas putamus esse criminibus) æstiment fugiendas, neve spectacula frequentius adeant, aut adpetant vulgo intempestiva convivia. Quin etiam tribuimus potestatem, ut, si quis de his non ita in Urbe se gesserit quemadmodum liberalium dignitas poscat, publice verberibus adfectus, statimque navigio superpositus, abjiciatur Urbe, domumque redeat. His sane qui sedulam operam professionibus navant, usque ad vigesimum ætatis suæ annum Romæ licet commorari. Post id vero tempus, qui neglexit sponte remeare, sollicitudine præfecturæ etiam impurius ad patriam revertatur. Verum ne hæc perfunctorie fortasse curentur, præcelsa sinceritas tua officium censuale commoneat, ut per singulos menses, qui, vel unde veniant, quive sint, pro ratione temporis ad Africam vel ad cæteras provincias remittendi brevibus comprehendat, his dumtaxat exceptis, qui corporatorum sunt oneribus adjuncti. Similes autem breves etiam ad scrinia mansuetudinis nostræ annis singulis dirigantur; quo, meritis singolorum, institutionibusque compertis, utrum quæque nobis sint necessaria judicemus. Dat._ III _Id. Mart. Triv. Valentiniano et Valente III A. Cos._ [150] Ne siamo accertati dal carme d'Ausonio in onore d'un grammatico di Bordeaux: _Quod jus pontificum, quæ fœdera, stemma quod olim_ _Ante Numam fuerat sacrificis Curibus,_ _Quod Castor cunctis de regibus ambiguis, quod_ _Conjugis e libris ediderat Rhodope;_ _Quod jus pontificum, veterum quæ scita Quiritum,_ _Quæ consulta patrum, quid Draco, quidve Solon_ _Sanxerit, et Locris dederat quæ jura Zaleucus,_ _Sub Jove quæ Minos, quid Themis ante Jovem,_ _Nota tibi._ De Profess., cap. 22. [151] Ai primi, ventiquattro razioni giornaliere, agli altri metà soltanto. L'uso di fissare gli stipendj per razione era generale, e il fisco le ricomprava secondo un prezzo determinato. L'assegno suddetto è per le scuole municipali: nelle imperiali di Treveri i retori hanno trenta profende, venti un grammatico latino, dodici un greco. [152] Basti, a mostrarne la importanza, il titolo de' capitoli: I. _præfatio_; II. _cur genio, et quomodo sacrificetur_; III. _genius quid sit, et unde dicatur_; IV. _variæ opiniones veterum philosophorum de generatione_; V. d_e semine hominis, et quibus e partibus exeat_; VI. _quid primum in infante formetur, et quomodo alatur in utero etc._; VII. _de temporibus quibus partus solent esse ad nascendum maturi, deque numero septenario_; VIII. _rationes Chaldæorum de tempore partus; idem de zodiaco et de conspectibus_; IX. _opinio Pythagoræ de conformatione partus_; X. _de musica, ejusque regulis_; XI. _ratio Pythagoræ de conformatione partus confirmata_; XII. _de laudibus musicæ, ejusque virtute; item de spatio cœli, terræque ambitu, siderumque distantia_; XIII. _distinctiones ætatum hominis secundum opiniones multorum, deque annis climatericis_; XIV. _de diversorum hominum clarorum tempore mortis_; XV. _de tempore et de ævo_; XVI. _seculum quid sit ex diversorum definitione_; XVII. _Romanorum sæculum quale sit_; XVIII. _de ludorum sæcularium institutione eorumque celebratione usque ad imp. Septimium et M. Aurelium Antoninum_; XIX. _de anno magno secundum diversorum opiniones, item de diversis aliis annis, de olympiadibus, de lustris et agonibus capitolinis;_ XX. _de annis vertentibus diversarum nationum_; XXI. _de anno vertente Romanorum, deque illius varia correctione, de mensibus et diebus intercalariis, de diebus singulorum mensium, de annis julianis_; XXII. _de historico temporis intervallo, deque adelo et mystica, de annis Augustorum et ægyptiacis_; XXIII. _de mensibus naturalibus et civilibus, et nominum rationibus_; XXIV. _de diebus, et varia dierum apud diversas nationes observatione; idem de solariis et horariis_; XXV. _de dierum romanorum diversis partibus, deque eorum propriis nominibus_. [153] Così conchiude: _Hæc ut miles quondam et græcus, a principatu Cæsaris Nervæ exorsus, adusque Valentis interitum, pro virium explicavi mensura, numquam, ut arbitror, sciens silentio ausus corrumpere vel mendacio. Scribant reliqua potiores ætate, doctrinisque florentes. Quos id, si libuerit, aggressuros, procudere linguas ad majores moneo stylos._ Aveva in idea l'impero di Teodosio Magno. [154] Per Valentiniano, quando s'associò Valente all'impero, intona: _Si qua in te cognatas cælitum potestates hujusmodi esset æquatio, paribus cum sole luminibus globus sororis arderet; nec radiis fratris obnoxia, precarium raperet luna fulgorem: iisdem curriculis utrumque sidus emergeret, pari exortu diem germana renovaret, per easdem cæli lineas laberetur, nec menstruo pigra discursu aut in senescendo varias mulctaret effigies, aut in renascendo parvas pateretur ætates. Ecce formam beneficii tui astra nesciunt æmulari: illis nihil est in mundana luce consimile, vobis totum est in orbe commune._ Pel ponte costruito sul Reno dall'imperatore stesso: _Eat nunc carminis auctor inlustris, et pro clade popularium Xantum fingat iratum, armatas cadaveribus undas scriptor decorus educat; nescivit flumina posse frenari. Tantumne valuit rivus iliacus, ut in auxilium Vulcani flamma peteretur? Profundus didicit, quid parvus evaserit? Defensio ipsa cælestium tuo operi non meretur æquari. Fluvium incendisse vindicia est, calcasse victoria._ [155] Per l'eleganza della forma scegliamo questo: ARA PYTHIA. VIDES UT ARA STEM DICATA PYTHIO FABRE POLITA VATIS ARTE MUSICA SIC PULCHRA SACRATISSIMA GENS PHOEBO DECENS HIS APTA TEMPLIS QUI LITANT VATUM CHORI TOT COMPTA SERTIS ET CAMOENÆ FLORIBUS HELICONII LOCANDA LUCIS CARMINUM NON CAUTE DURA ME POLIVIT ARTIFEX EXCISA NON SUM RUPE MONTIS ALBIDI LUNA E NITENTE NEC PARI DE VERTICE NON CÆSA DURO NEC COACTA SPICULO ARCTARE PRIMOS EMINENTES ANGULOS ET MOX SECUNDOS PROPAGARE LATIUS EOSQUE CAUTE SINGULOS SUBDUCERE GRADU MINUTO PER RECURVAS LINEAS NORMATA UBIQUE SIC DEINDE REGULA UT ORA QUADRE SIT RIGENTE LIMITE VEL INDE AD IMUM FUSA RURSUM LINEA TENDATUR ARTE LATIOR PER ORDINEM ME METRA PANGUNT DE CAMOENARUM MODIS MUTATO NUMQUAM NUMERO DUMTAXAT PEDUM QUÆ DOCTA SERVAT DUM PRÆCEPTIS REGULA ELEMENTA CRESCUNT ET DECRESCUNT CARMINUM HAS PHOEBE SUPPLEX DANS METRORUM IMAGINES TEMPLIS CHORISQUE LÆTUS INTERSIT SACRIS. [156] N'abbiamo già esempj ne' classici, come in Marziale: _Rumpitur invidia quidam, dulcissime Juli,_ _Quod me Roma legit; rumpitur invidia._ [157] _Blanditia; fera mors Veneris persentit amando_ _Permisit solitæ nec styga tristitiæ;_ che può leggersi a rovescio: _Tristitiæ styga nec solitæ permisit amando_ _Persentit Veneris mors fera blanditias._ E così il seguente: _Perpetuis bene sic partiri munera seclis_ _Sidera dant patria et patris imperium._ [158] ... _Nec te jucunda fronte fefellit_ _Luxuries, prædulce malum, quæ dedita semper_ _Corporis arbitriis, hebetat caligine sensus..._ _Fingendaque sensibus addis_ _Verba, quibus magni geminatur gratia doni..._ _Quoties incanduit ore_ _Confessus secreta rubor, nomenque beatum_ _Injussæ scripsere manus!_ _Et reliquum nitido detersit pollice somnum:_ _Utque erat interjecta comas, turbata capillos,_ _Mollibus assurgit stratis._ Questo mi sembra più felice del pariniano. La similitudine del cavallo, cara a tutti i poeti da Giobbe in qua, eccola in lui pure (_De nuptiis Mariæ_): _Nobilis haud aliter sonipes, quem primus amoris_ _Sollicitavit odor, tumidus, quatiensgue decoras_ _Curvata cervice jubas, pharsalia rura_ _Pervolat, et notos hinnitu flagitat amnes,_ _Naribus accensis: mulcet fæcunda magistros_ _Spes gregis, et pulchro gaudent armenta merito._ Nello stesso epitalamio descrive l'abitazione di Venere: _Hic habitat nullo constricta Licentia nodo,_ _Et flecti faciles Iræ, vinoque madentes_ _Excubiæ, Lacrymæque rudes, et gratus amantum_ _Pallor, et in primis titubans Audacia furtis,_ _Jucundique Metus, et non secura Voluptas,_ _Et lasciva volant levibus Perjuria pennis._ _Hos inter petulans alta cervice Juventus_ _Excludit senium luco._ Non saprei un passo d'Ovidio da contrapporre a questo, che ricorda Tibullo. [159] Ha un epigramma, ove, per tutti i santi cristiani, prega celiando un tal Jacopo a non censurarlo. Comincia: _Per cineres Pauli, per cani limina Petri,_ _Ne laceres versus, dux Iacobe, meos._ [160] Nel secolo XV fu dissotterrato il piedistallo con una iscrizione di non sicura autenticità, che dice: C. CLAVDIANO V. C. TRIBVNO ET NOTARIO, INTER CETERAS _vigentes_ ARTES QVE GLORIOSISSIMO POETARVM, LICET AD MEMORIAM SEMPITERNAM CARMINA AB EODEM SCRIPTA SVFFICIANT, ADTAMEN TESTIMONII GRATIA OB IVDICII SVI FIDEM DD. NN. ARCADIVS ET HONORIVS FELICISSIMI AC DOCTISSIMI IMPERATORES, SENATV PETENTE, STATVAM IN FORO DIVI TRAIANI ERIGI COLLOCARIQVE IVSSERINT. Ενι Βιργιλιοῖο νοὸν καὶ μοῦσαν Ομῆρον Κλαυδιανὸν ‘Ρώμη καὶ Βασιλεὶς ἔθεσαν. Scaligero (_Poetices_ lib. V. _qui et Hypercriticus_) chiama Claudiano _maximus poeta, solo argumento ignobiliore oppressus, addit de ingenio quantum deest materiæ Felix in eo calor, cultus non invisus, temperatum judicium, dictio candida, numeri non affectati, acute dicta multa sine ambitione_. [161] Tali sarebbero l'inno di sant'Ambrogio, _Deus creator omnium_; e quel di Prudenzio per gl'Innocenti, _Salvete, flores martirum_. Gli altri più antichi che la Chiesa ancor canti, sono il _Gloria in excelsis_ di sant'Ilario, lo _Jam mæsta quiesce querela_ di Prudenzio, e due di Sedulio. [162] Un poema di sant'Agostino o d'un contemporaneo contro i Donatisti d'Africa è in trocaici rimati: _Abundantia peccatorum solet fratres conturbare;_ _Propter hoc dominus noster voluit nos præmonere,_ _Comparans regnum cælorum reticulo misso in mare,_ _Congreganti multos pisces omne genus hinc et inde,_ _Quos cum traxissent ad litus, tunc cœperunt separare,_ _Bonos in vasa miserunt, reliquos in mare._ Sant'Agostino (_De tempore_): _Et magis ex ipsa (vita) corrumpitur quam sanetur: magis occiditur quam vivificetur_ (Serm. 138 _De verbis Dom._). _Ecce venitur et ad passionem, ecce venitur et ad sanguinis effusionem, venitur et ad corporis incensionem._ (_De civ. Dei_, XVI. 6) _Tamquam lex æterna in illa eorum curia superna_ (XVII. 12). _Infidelitas gentium cum Dei populum exultabat atque insultabat esse captivum, quid aliud quam Christi commutationem sed scientibus nesciens exprobabat?... Illius enim spei confirmatio verbi hujus_ (_fiat_) _iteratio_ (IX. 1). _Partim erudito otio, partim necessario negotio... Uno_ (_vitæ genere_) _in contemplatione vel inquisitione veritatis otioso, altero in gerendis rebus humanis negotioso... Crucifixerunt salvatorem suum, et fecerunt damnatorem suum..._ [163] Vedi la nota 1 del Cap. XLVI. [164] Tre lettere conosciamo, attribuite a Maria Vergine. La prima, con quella di sant'Ignazio che le diede origine, è d'antica data, non di riconosciuta autenticità. Un vescovo messinese in occasione di peste ne trasse fuori un'altra, che pretese diretta da Maria a Messina e che ancora vi ottiene gran venerazione: benchè antichissima, la critica non può accettarla, e la Congregazione dell'Indice appuntò i libri ove troppo assolutamente n'era dichiarata l'autenticità. Eccola: _Maria Virgo, Joachim filia, humillima Dei ancilla, Christi Jesu crucifixi mater, ex tribu Juda, stirpe David, Messanensibus omnibus salutem, et Dei Patris omnipotentis benedictionem. Vos omnes fide magna legatos ac nuncios per publicum documentum ad nos misisse constat. Filium nostrum, Dei genitum, Deum et hominem esse fatemini, et in cœlum post suam resurrectionem ascendisse, Pauli apostoli prædicatione mediante viam veritatis agnoscentes. Ob quod vos et civitatem vestram benedicimus, cujus perpetuam protectricem nos esse volumus. Anno filii nostri_ XLII, III _nonas julii, luna_ XVII, _feria quinta, ex Hierosolymis._ Frà Girolamo Savonarola riguardava per autentica la lettera di Maria ai Fiorentini, d'immemorabile antichità: ma e la Chiesa e la critica vi mettono gran dubbj, tanto più che consta solo nel 65 dopo Cristo essere Firenze stata informata della verità da Paolino e Frontino discepoli di san Pietro. Essa dice: _Florentia, Deo et Domino nostro Jesu Christo filio meo, et mihi dilecta. Tene fidem, insta orationibus, roborare patientia. His enim sempiternam consequeris salutem apud Deum._ [165] _Virgilium pueri legant, ut poeta magnus omniumque præclarissimus atque optimus, teneris imbibitus annis, non facile oblivione possit aboleri._ De civ. Dei, I. 3. [166] «Platone (dic'egli) mi ha fatto conoscere il vero Dio; Gesù Cristo me ne ha mostrato la via». [167] Nella _Città di Dio_ ha un intero capitolo sulla Sibilla Eritrea, _quæ inter alias Sibyllas cognoscitur de Christi evidentia multa cecinisse_. E racconta che in Italia seppe che alcune ostiere vantavansi di dare ai viaggiatori certi formaggi, che li cambiavano in bestie da soma, le quali esse adopravano pe' loro servigi, poi vi restituivano la forma primitiva; e benchè trasformati, conservavano la ragione. Ma, soggiunge, tali cose sono false o talmente rare, che poca fede vi si può prestare: pure s'ha da credere fermamente che Dio è onnipotente, e può far quel che vuole a castigo o a ricompensa; che i demonj sono angeli divenuti cattivi per le colpe, e che non possono se non quel che viene permesso da Colui, i cui giudizj sono talvolta secreti, non mai ingiusti. Lib. XVIII. c. 18. E merita esser letto tutto per vedere la possanza delle credenze comuni sopra un'elevata intelligenza, e per ispiegare le opinioni delle fatucchiere, di cui parleremo al CAP. CXLIV. [168] _De civ. Dei_, I. 29. Vedi DE MAISTRE, _Du pape_, IV. 4. [169] Confutazione di Fausto Manicheo. [170] _De civ. Dei_, XII. 2; XV. 1. [171] È curioso vedere come giustifichi, anzi lodi le antitesi, dicendo che nelle opere di Dio le apparenti contraddizioni producono bellezza, come nello stile le antitesi, «bellissimi ornamenti dell'eloquenza; e come questi contrapposti rendono più bello il parlare, così per una eloquenza di contrapposizione non di parole ma di cose, si compone la bellezza del secolo». [172] _De quæst. octogintatribus_, q. 58, e _De civ. Dei_, X. 14. Ecco prevenuti Pascal e Bossuet. [173] PANVINIO, _De ritu sepeliendi mortuos apud veteres Christianos, et de eorumdem cœmeteriis,_ 1574. MARANGONI, _Appendix de cœmeterio sanctorum Thrasonis et Saturnini_, e _Acta sancti Victorini_, 1740. BOLDETTI, _Sopra i cimiteri dei santi Martiri_. BOTTARI, _Roma sotterranea._ 1737-54. Le tavole sono le stesse del Bosio. MARCHI, _Monumenti delle arti cristiane primitive della metropoli del cristianesimo_. Roma 1844. Maitland (_La Chiesa nelle catacombe_. Londra 1847) volle fare l'opposto del Marchi, cercandovi argomenti contro il cattolicismo. A Parigi si era pubblicato _Rome souterraine_, ma il signor Perret non vi conservò il carattere, aggraziando le pitture. Pio IX incaricò il comm. De Rossi di nuove esplorazioni nelle catacombe: ed egli dispose ben 12 mila iscrizioni cristiane, delle quali molto importa accertare il tempo e il luogo. La più antica conosciuta è del 102. Il De Rossi trovò il vero cimiterio di san Calisto e le tombe dei primi pontefici, e i libri suoi sono il più sicuro testo intorno a quelle antichità cristiane. [174] Che però lo scheletro non fosse mai effigiato dai classici, come asseriscono i trattatisti d'arte, è smentito da pitture e bassorilievi: nel museo Borbonico si ha una donna che sparge di fiori lo scheletro del suo bambino; uno scheletro dalla cui bocca esce una farfalla, simbolo dell'anima; un altro che balla al flauto sonato da Sileno, primo cenno delle danze dei morti. [175] Semplicissimi sono gli epitafj: LAZARVS AMICVS NOSTER DORMIT — MARTYRI IN PACE — NEOPHITVS IIT AD DEVM — RESPECTVS QVI VIXIT ANNOS V ET MENSES VIII, DORMIT IN PACE — ALEXANDER MORTVVS NON EST SED VIVIT SVPER ASTRA. È particolare questo di Vicenza: MARTINA CARA CONJVX QUÆ VENIT DE GALLIA PER MANSIONES L VT COMMEMORARET MEMORIAM DVLCISSIMI MARITI SVI BENE QVIESCAS DVLCISSIME MI MARITE. (GIOVANNI DA SCHIO, _Le antiche iscrizioni di Vicenza_, 1850). [176] IVN. BASS. V. C. QVI VIXIT ANNIS XLII. II IN IPSA PRÆFECTVRA VRBI NEOFITVS IIT AD DEVM VIII KAL. SEPT. EVSEBIO ET YPATIO COSS. E vedi BOTTARI, tav. 33. [177] _A. F. Quast_, _Die altchristlichen Bauwerke von Ravenna, von_ V _bis zum_ IX. _Jahrhundert historisch geordnet, und durch Abbildungen erklärtert_. Berlino 1842. Gli edifizj di cui tratta, sono _i_. _Ecclesia ursiana_, cioè la cattedrale, edificata poco dopo il 400, ora tutta rimodernata; Ecclesia petriana, distrutta per tremuoto nell'VIII secolo; San Lorenzo in Cesarea, edificata da Luscrizio cameriere d'Onorio, distrutta per tremuoto nel 1553; battistero della cattedrale, eretto da Neo vescovo (425-30), fabbrica delle più rimarchevoli di Ravenna; battistero della Petriana, distrutto; basilica di san Giovanni Evangelista, costrutta da Galla Placidia; basilica di Santa Croce, dalla medesima, rovinata; cappella de' Santi Nazario e Celso, dalla medesima; San Giovanni Battista e Santa Agata, rimodernate; Sant'Agnese, distrutta; San Pietro, ora San Francesco, cappella nel palazzo arcivescovile. II. Epoca di Teodorico: Santa Maria in Cosmedin, già battistero ariano; San Teodoro; San Martino _in cœlo aureo_, ossia Sant'Apollinare nuovo; palazzo di Teodorico, mausoleo del medesimo; portico della piazza maggiore. III. Costruzioni posteriori sino alla morte di Agnello arcivescovo (566); Santa Maria Maggiore, rimodernata nel XVI secolo; San Michele in Affricisco, consacrata nel 545, or quasi distrutta; San Vitale; Sant'Apollinare in Classe, consacrata nel 549; Sant'Andrea e Santo Stefano. IV. Ultimo periodo, sino al 900; San Severo in Classe, distrutta al principio del nostro secolo; monastero di Sant'Apollinare, e abbellimenti delle parti interne della basilica fatti nel 642-77; devastazioni posteriori di Classe, e risarcimenti sotto Leone III; poi, per le incursioni de' Saracini, si portò in città il corpo di sant'Apollinare. [178] Ancora si vede in Roma a San Lorenzo, a San Giorgio in Velàbro, a Santa Maria Transtevere, e alquanto modificato a San Giovanni Laterano, Santa Maria Maggiore, ecc. I cortili si hanno a San Clemente, ai Quattro Santi Coronati, a San Lorenzo in Roma; a Sant'Apollinare e San Giovanni della Sagra in Classe a Ravenna; alla cattedrale di Parenzo in Istria, a Sant'Ambrogio di Milano... Quest'ultima basilica, San Zeno di Verona e Santa Maria di Torcello sono quelle dell'Italia superiore che per avventura conservano maggiori elementi della basilica antica. [179] _Hominem mortuum in urbe ne sepellito, neve urito_. La ragione politica di ciò era che la tomba dava la proprietà d'un luogo, e la città non doveva essere di verun privato. [180] A quello di Sant'Ambrogio in Milano servirono due arche funerarie, una sovrapposta all'altra. [181] Bruciata il 21 luglio 1832, ed ora ricostrutta. Vedi CIAMPINI, _Synopsis de sacris ædificiis a Constantino constructis_. Roma 1691. Calcolano essersi fabbricate in Roma: nel secolo II chiese 2 — III » 9 — IV » 17 — V » 8 — VI » 12 — VII » 5 — VIII » 11 — IX » 7 — X » 1 — XI » 7 — XII » 8 — XIII » 16 — XIV » 8 — XV » 30 — XVI » 93 — XVII » 62 — XVIII » 7 [182] Il San Giovanni di Firenze, mal creduto tempio di Marte, mentre la dissonanza delle parti lo attesta eretto ne' bassi tempi; il circolare di Pisa; il San Giovanni di Parma, a sedici faccie dentro e otto fuori, cominciato il 1196 da Benedetto Antelmani, e finito verso il 1260; il dodecagono di Canosa; il San Giovanni in Fonte a Verona, ottagono, come quelli di Cremona, Volterra, Pistoja, ecc. [183] _Centurio nitentium rerum_. — AMMIANO MARCELLINO, XVI. 6; Cod. Teod., lib. IX. tit. 17; lib. XVI. tit. 49; Cod. Giust., tit. _De sepulc. viol._ [184] _Qui cadit a formula, cadit a toto_. Un esempio vivo possiamo averlo negli Inglesi, schiavi del convenuto, del gusto nazionale, de' casi precedenti, della giustizia, della virtù, della religione uffiziale; eppure questa non è imitazione del diritto romano, il quale anzi è aborrito dai loro pratici. [185] _Respondebant, scribebant, cavebant,_ dice Cicerone. [186] _Sic enim, existimo, juris civilis magnum usum et apud Scævolam, et apud multos fuisse; artem in hoc uno. Quod nunquam effecisset ipsius juris scientia, nisi eam præterea didicisset artem, quæ doceret rem universam tribuere in partes, latentem reperire definiendo, obscuram explanare interpretando, ambigua primum videre, deinde distinguere... Sed adjunxit etiam et literarum scientiam, et loquendi elegantiam._ Brutus, 41; Pro Muræna, 10. 14. [187] _Nihil tam proprium legis quam claritas_. [188] _Familia_ da _fons memoriæ; metus_ da _mentis trepidatio; furtus_ da _furvus; stellionatus_ da _stellio_, tarantola; _testamentum_ da _testatio mentis_. [189] Una legge romana dice, non poter il cieco piatire, perchè non vede gli ornamenti della magistratura; Dig. lib. I, _De postul._ Paolo (_Sent._ IV. 9) scrive che il feto di sette mesi nasce perfetto, perchè sembra provarlo la ragione dei numeri di Pitagora. [190] Dig. lib. I. tit. 2. l. 1. [191] _Eosdem, quos populus romanus, hostes et amicos habeant — Majestatem populi romani comites conservanto._ CICERONE, pro Balbo, 16. [192] Eineccio (_Edicti Perpetui ordini et integritati suæ restituti, partes duo_), Bach (_Historia juris romani_. Lipsia 1806) e tutti sostennero il sì, fino ad Hugo che sostenne il no con ragioni di polso. L'Editto Perpetuo andò perduto, e i tentativi di rintegrarlo, fatti da G. Bauchin nel 1597, sono inseriti in POTHIER, _Pandectæ Justinianeæ_, lib. I. Meglio WIELING, _Fragmenta Edicti Perpetui_. Franeker 1733. E vedansi: GIFANIUS, _Œconomia juris_. NOODT, _Commentarius ad Digesta_. DE WEYTE, _De origine fatisque jurisprudentiæ romanæ, præsertim edictorum prætoris; ac de forma edicti perpetui._ Cella 1821. FRANK, _Commentarius de edicto prætoris_. Kiliæ 1830. HAIMBERGER, _Il diritto romano privato e puro_ (lat. e ted.). Lemberg 1830. MACKELDEY, _Manuale del diritto romano_ (ted.). Berlino 1814. WESTEMBERG, _Manuale di diritto romano_ (ted.). Ivi 1822. La scuola storica del diritto, già ingrandita in Germania, venne diffusa allorchè fu coltivata dai Francesi; e i recenti lavori di Beugnot, Pardessus, Giraud, Laboulaye, Thibaut, Troplong, Laferrière, Du Caurroy.... ne resero comuni le conclusioni. È principalmente notevole l'_Explication historique des Instituts de l'empereur Justinien_, del sig. Ortolan. Parigi 1854. [193] Tale parmi il senso più naturale del famoso passo di Pomponio, Dig. lib. I. tit. 2. l. 1: _Sussurius Sabinus in equestri ordine fuit, et publice primus respondit; posteaque hoc cœpit beneficium dari a Tiberio Cæsare: hoc tamen illi concessum erat. Et, ut obiter dicamus, ante tempora Augusti publice respondendi jus non a principibus dabatur, sed qui fiduciam studiorum suorum habebant, consulentibus respondebant. Neque responsa utique signata dabant, sed plerumque judicibus ipsis scribebant, aut testabantur qui illas consulebant. Primus divus Augustus, ut major juris auctoritas haberetur, constituit ut ex auctoritate ejus responderent: et ex illo tempore peti hoc pro beneficio cœpit. Et ideo optimus princeps Hadrianus, quum ab eo viri prætorii petirent ut sibi liceret respondere, rescripsit eis, hoc non peti, sed præstari; et ideo delectari se, si qui fiduciam sui haberet, populo ad respondendum se præpararet._ Come esorbitante, credevasi falsa una tanta autorità, quando la chiarì questo passo di Gajo, recentemente scoperto (_Comm._ I. 7): _Responsa prudentum sunt sententiæ et opiniones eorum, quibus permissum est jura condere: quorum omnium si in unum sententiæ concurrant, id quod ita sentiunt, legis vicem obtinet: si vero dissentiunt, judici licet quam velit sententiam sequi: idque rescripto divi Hadriani significatur._ [194] Alcuno opinò divenissero sorgenti del diritto soltanto dopo Tiberio, e da prima fossero solo proposizioni, vigenti un anno e non più. Il contrario ora è dimostrato da Hugo, _Lehrbuch der Geschichte des römischen Rechts bis auf Justinian_. [195] Più di mille cinquecento ce ne rimangono da Augusto a Costantino. A domande rispondono colle _epistolæ, literæ_: sulla petizione fanno una _subscriptio, adnotatio_, che chiamasi _sanctio prammatica_ se diretta ad una città o ad un corpo; _constitutiones personales_ si dicono propriamente le concessioni di privilegi: _decreta_ o _interlocutiones_ sono decisioni di cause portate in appello all'imperatore o al suo consiglio: _mandata_ sono gli ordini dati dall'imperatore ai governatori delle provincie: _edicta_ gli ordini diretti al popolo. [196] Tali le _Receptæ Sententiæ_ di Paolo. [197] Talvolta in ciò degenerano in minuzie, come si vede nei frammenti trovati nella biblioteca Vaticana il 1823. [198] _Antistius Labeo, ingenii qualitate et fiducia doctrinæ, qui et in cæteris sapientiæ partibus operam dederat, plurima innovare studuit: Atejus Capito, in his quæ ei tradita erant, perseverabat._ POMPONIO, Dig. lib. I. tit. 2. l. 2. Avendo Tiberio in un editto usato una parola non latina, qualche senatore, desideroso di far pompa di libertà ove non portava pericolo, sorse a rinfacciargliela. Capitone sostenne che, quantunque mai non si trovasse usata, si dovesse però mettere fra le latine sull'autorità di Tiberio. Un Marcello replicò che Tiberio potea dare la cittadinanza agli uomini, non alle parole. Magnanima opposizione! [199] In capo alle Pandette si suole stampare il catalogo degli autori di cui si valse Giustiniano, cavato dal famoso manoscritto del Digesto conservato a Firenze. Da Alessandro Severo a Giustiniano tre soli giureconsulti vi sono citati, Arcadio Carisio, Giulio Aquila ed Ermogene, forse autore del codice che porta il suo nome. [200] È inserito nel Digesto, lib. I. tit. 2. [201] Fra' molti manoscritti ond'è ricca la biblioteca del Capitolo di Verona, e di cui diede il catalogo Scipione Maffei nella _Verona illustrata_, trovavansi alcuni fogli di pergamena, che quel dotto antiquario giudicò formar parte d'un codice o di qualche opera d'antico giureconsulto, e ne esibì il fac-simile. D'allora più non se ne parlò, fin quando Haubold nel 1816 stampò a Lipsia una _Notitia fragmenti veronensis _de interdictis_._ Niebuhr, venuto a Verona, trasse copia del frammento _de præscriptionibus_, e d'un altro sui diritti del fisco; esaminò varj manoscritti, e singolarmente le epistole di san Girolamo, riconosciute per palinsesto da Maffei e da Mosotti, ma non mai dicifrato: e al modo che sotto la storia poetica di Roma leggeva la vera, scoprì sotto la scrittura quanto bastasse per convincersi che era l'opera di un giureconsulto; e applicando l'infusione di galla a un foglio, lo lesse. Ne informò Savigny, ed insieme proclamarono sui giornali la scoperta, mostrando che il frammento _de præscriptionibus_ apparteneva agli _Istituti_ di Gajo. L'Accademia di Berlino spedì a Verona nel 1817 i signori Göschen e Bekker, i quali, superando le gravi difficoltà che a chi vuol il bene oppongono coloro che fare nol vogliono o non sanno, giunsero a trascrivere nove decimi del libro; il resto era illeggibile. Il manoscritto componevasi di centoventisette fogli; la scrittura più recente in majuscole esibiva ventisei epistole di san Girolamo; la primitiva, elegantissima, gli _Istituti_; e fra questa e quella una terza stendevasi per un quarto del manoscritto, contenente epistole e meditazioni d'esso santo. Onde la membrana fu raschiata tre volte; eppure offre il testo più compiuto, sebbene difficile ed ostinato lavoro esigesse il leggerlo. Niebuhr e Knopp credono la scrittura anteriore al regno di Giustiniano. La prima edizione ne fu fatta a Berlino il 1820. Bluhm tornò a collazionarla col testo di Verona, e ne fece un'edizione _princeps_ nel 1824. [202] _Costituzioni_ del 321 e 327, scoperte dal Maj nel 1821. [203] Instit. lib. I; Dig. _De just. et jure_, l. 1; _De reg. juris_, l. 33. [204] Il codice Teodosiano andò perduto, colpa dei compendj fattine, tra cui il principale è il _Breviario_ d'Alarico, che ebbe vigore presso i Visigoti. Nel 1528 Giovanni Siccardo ne pubblicò un'edizione in Magonza; ma non è se non esso Breviario, purgato dalle leggi derivate da usanze gotiche. Du Tillet aggiunse gli ultimi otto libri, non compendiati in quel Breviario. Cujaccio credette dare interi il VII e VIII col supplemento di Stefano Carpino. A Cujaccio stesso furono da Pietro Piteo comunicate le costituzioni del senatoconsulto Claudiano, appartenenti al IV libro. Giacomo Gotofredo commentò questo codice con trenta anni di lavoro, pubblicato nel 1736 in Lipsia da Antonio Marsigli e Daniele Ritter (_Codex Theodosianus, cum perpetuis commentariis_ J. GOTHOFREDI; 6 vol. in-fol.). Il cardinale Maj in un palimsesto vaticano scoperse altri frammenti, che stampò a Roma nel 1823 coi tipi di Propaganda. L'anno seguente Amedeo Peyron nella biblioteca dell'Università di Torino trovò ben cinquanta leggi non prima conosciute, tra cui quelle ove Teodosio prescrive le norme colle quali produrre la sua legislazione (_Fragmenta codicis Theodosiani_, nel tomo XXVII degli _Atti dell'Accademia di Torino_). Con queste e le scoperte da Clossio fu fatta un'edizione nuova d'esso codice a Lipsia il 1825, per cura di C. F. Wenck. Ma nuove leggi scoprì a Torino e nell'Ambrosiana Carlo di Vesme, che ne fa la più compiuta edizione. [205] Πᾶν δέχεσθαι, tutto contenere. La sigla _ff_, colla quale suole indicarsi il Digesto, probabilmente viene da un _d_ corsivo, abbreviazione di Digesto, traversato da una linea, che dagli editori fu scambiato per un doppio _f_. Vedi CRAMER, _Progr. de sigla Digestorum ff._ Chilon 1790. Spesso, nel citar le leggi, invece di L. si pone _fr._, perchè in fatto son piuttosto frammenti. Già al tempo che si compilarono le Pandette, molte opere di diritto erano o perdute o scarse a Costantinopoli, poichè di Casellio vi si dice che _scripta non extant, sed unus liber_; di Trebazio, che _minus frequentatur_; di Tuberone, che _libri parum grati sunt_, ecc. ecc. Le Pandette stesse poco mancò non andassero perdute; giacchè, se anche è una storiella quella dell'unica copia serbatasi ad Amalfi, ne prova però la rarità. Più tardi gli eruditi raggranellarono i brani de' varj autori sparsi per le Pandette, e li disposero secondo i libri dond'erano tolti; e ad alcuni passi recò non poca luce il ravvicinarli e paragonarli. Degli scrittori di diritto antegiustinianei pochi ci arrivarono intatti; i più, alterati da qualche legislatore, come tutti quelli nella raccolta giustinianea. Queste opere di diritto sono o _Libri prudentum_, o _Codices constitutionum_, ossieno diritto antico e diritto posteriore. Fra i primi voglionsi particolarmente mentovare: 1. I frammenti _Regularum_ di Ulpiano; 2. Le _Instituta_ di Gajo, di cui parliamo; 3. Le _Receptæ Sententiæ_ di Paolo, conservateci mutile dai Visigoti; 4. _Lex Dei, sive Collatio legum mosaicarum et romanarum_, raccolta fatta sul dechino dell'Impero Occidentale, del pari che 5. _Consultatio veteris jurisconsulti_; 6. _Vaticana juris fragmenta_. I codici sono: 1. Frammenti del Gregoriano e dell'Ermogeniano; 2. Il Teodosiano; 3. Le Novelle degli imperatori da Teodosio a Giustiniano. Le iscrizioni su pietra o su bronzo, contenenti testi di leggi, senatoconsulti, editti od atti, sono preziosi come testi autentici, mentre i libri non ci danno che le copie. Furono raccolti da Spangenberg (Berlino 1830) col titolo, _Antiquitatis romanæ monumenta legalia, extra libros juris romani sparsa_. Egli stesso avea pubblicato a Lipsia nel 1821 una raccolta d'atti del diritto romano, vale a dire contratti, testamenti e simili; _Juris romani tabulæ negotiorum solemnium, modo in ære, modo in marmore, modo in charta superstites_. E già ne' _Papiri diplomatici raccolti ed illustrati_, a Roma nel 1805, il Marini avea pubblicato una collezione d'atti sopra papiro. Delle leggi ed atti giuridici che abbiamo su bronzo, i principali sono: _Senatusconsultum de Bacchanalibus_ del 567 di Roma, che riporteremo nell'_Appendice I_. _Lex Thoria agraria_ del 613, che sta sul rovescio della tavola che contiene la _lex Servilia repetundarum_ del 654 circa; _Tabula Heracleensis_, frammenti trovati il 1732 nell'antica Eraclea presso Taranto, di varie leggi dal 664 al 680 di Roma, o, secondo Savigny, del 709: e sta nel museo di Napoli; _Plebiscitum de Thermensibus majoribus Pisidis_, forse del 690, degente nel museo Borbonico, dove pure la _lex de scribis viatoribus;_ _Lex Rubria de Gallia Cisalpina, del 708 circa_: fu trovata mutila a Velleja, e deposta a Parma; _Lex Regia_, ossia il senatoconsulto dell'impero di Vespasiano, dell'823 di Roma: sta nel museo Capitolino, anch'essa mutila. Impropriamente chiamasi senatoconsulto: bensì tale è quello _de ædificiis negotiationis causa non diruendis_, dell'801 o 809, dissotterrato da Ercolano; e un altro _de Asclepiade Clazomenio_, uno _de Triburtibus_, uno in onore di Germanico. Si han pure due rescritti di Vespasiano dell'833, trovati uno a Malaga, l'altro in Corsica; un'_Epistola Domitiani, spectans ad litem inter Falerienses et Firmanos de subsecivis_, trovata presso Faleria; l'_Edictum Diocletiani de prætiis rerum_, del 303 d. C., tariffa dei prezzi e de' salarj, del quale un esemplare sta nel Museo Britannico, un altro a Aix: l'_Edictum Constantini Magni de ordine judiciorum publicorum_ del 311 d. C., tratto da schede della Biblioteca Ambrosiana. Va anche mentovata l'orazione di Claudio imperatore in senato sul comunicare la cittadinanza ai Galli, la quale si conserva a Lione in due pezzi di bronzo; e _Tabula Trajani alimentaria_ sui fondi destinati da Trajano ad un ospizio di orfani nel 108 d. C., scoperta il 1747 a Velleja. Altre riferiscono testamenti, rendite, rescritti di magistrati, atti municipali, determinazioni di confini, fra' quali vuole una menzione particolare la sentenza, resa nel 633 di Roma, sopra le differenze nate tra i Genuesi e i Genuati, e che conservasi nel palazzo municipale di Genova. Nel secolo XVI cominciaronsi indagini storiche sopra il diritto romano, e massime i Batavi ne meritarono ottimamente. Lavori grandiosi però non apparvero che entrante il secolo passato; e primo quello di Gian Vincenzo Gravina, che nel 1701 pubblicò _Origines juris civilis_; poi in Germania Eineccio nel 1716, _Antiquitatum romanarum jurisprudentiam illustrantium syntagma_, che è il sunto più compito e chiaro degli studj storici fatti sin allora. Questo riguarda solo la storia interna del diritto romano; l'esterna fu dal medesimo trattata nell'_Historia juris civilis romani ac germanici_. Alla 1733. La quale distinzione della storia esterna ed interna fu prima introdotta dal Leibniz. L'esterna, ossia generale, considera solo l'andamento della legislazione d'un popolo, dando a conoscere l'origine e i progressi delle fonti del diritto, cioè de' costumi, delle leggi, de' codici, gli avvenimenti politici che v'ebbero influenza, la successione dei giureconsulti, le scuole loro, le opere e l'efficacia sulle riforme della legislazione. L'interna, o vogliasi dire _le antichità del diritto_, è la storia speciale de' principj del diritto medesimo, mostrando come progredirono lo stato delle persone, il reggimento domestico, la storia delle proprietà, delle istituzioni giudiziali, delle leggi penali, insomma le particolarità della legislazione d'un popolo. [206] Dell'autorità attribuita alla consuetudine, molte testimonianze abbiamo: _Pleraque in jure non legibus, sed moribus constant_. QUINTILIANO, Instit., v. 3. — S_ed et ea quæ longa consuetudine comprobata sunt, velut tacita civium conventio, non minus quam ea quæ scripta sunt, jura servantur_. Leg. 35 pr. Dig. tit. I. lib. 3. — _Omne jus aut consensus fecit, aut necessitas constituit, aut firmavit consuetudo_. Leg. 40 ivi. — Anche Portalis, nel discorso preliminare al Codice francese, pose: _Les codes des peuples se font avec le temps, mais, à proprement parler, on ne les fait pas._ [207] Plutarco, in _Romolo_; DIONIGI D'ALICARNASSO, lib. II. [208] _Sei stuprum commisit aliudve peccassit, maritus judex et vindex estod, deque eo cum cognatis gnoscitod._ XII Tavole. [209] Vedi tutta l'_Aulularia_ di Plauto. [210] GIUSTINIANO, Nov. 91. [211] GIUSTINIANO, Nov. 53. [212] _Tutoris auctoritas necessaria est mulieribus, si lege aut legitimo judicio agant, si se obligent, si civile negotium gerant._ ULPIANO, Framm. tit. XI. [213] _Nov._ 118, cap. 5. [214] Sotto l'impero figurano grandemente Giulia Domna, Soemi, Mammea, Zenobia; e al declinare di esso Pulcheria, Eudossia, Placidia, Onoria, Giustina. [215] Sant'Ambrogio (_Hexameron_, lib. VI. c. 4. § 22) scrive: _Natura hoc bestiis infundit, ut catulos proprios ament, et fœtus suos diligant. Nesciunt illa odia novercalia, nec, mutato concubitu, parentes a sobole depravantur, neque noverunt præferre filios posterioris copulæ. Nesciunt charitatis differentiam._ — Vedi il Cod. Teod. _De secundis nuptiis_; e POTHIER, _Pandectæ_, tom. II. p. 89. [216] Sotto Giustiniano potea ciascuno avere la concubina: _Cujuscumque ætatis concubinam haberi posse palam est, nisi minor annis duodecim sit._ Dig. lib. XIV. tit. 1. I. 4. Vanno in tal senso intesi i passi di concilj o d'autori ecclesiastici, ove si parla della concubina. [217] Sant'Agostino vuole che la madre abbia il maggior diritto nel maritare la figlia, se pur questa non sia maggiorenne: _Puellæ fortassis... apparebit et mater, cujus voluntatem in tradenda filia omnibus, ut arbitror, natura præponit; nisi eadem puella in ea ætate fuerit, ut jure licentiori sibi ipsa eligat quod velit._ Ep. 233 ad Benenatum. [218] Furono ridotti in versi a questo modo: dirimenti — _Error, conditio duplex, insania mentis,_ _Nec non mandati vitium, puerilis et ætas,_ _Raptus, adulterium, cædes, cognatio, votum,_ _Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas,_ _Si sit affinis, si clandestinus, et impos;_ _Hæc facienda vetant connubia, facta retractant._ impedienti — _Ecclesiæ vetitum, nec non tempus feriatum,_ _Atque catechismus, sponsalia, jungite votum,_ _Par nisi sit cultus, nisi proclamatio terna,_ _Ni sacer accedat ritus, patrisque voluntas;_ _Hæc prohibent fieri, permittunt facta teneri._ [219] Arcadio temperò questo rigore, assolvendo dal fuoco; poi abrogò la legge. Cod. Giust., lib. III. tit. 7. l. 2; tit. 12. l. 3; lib. V. tit. 4. l. 19. [220] _Penes nos occultæ conjunctiones, idest non prius apud Ecclesiam professæ, juxta mœchiam et fornicationem judicari periclitantur._ TERTULLIANO, De prudentia. [221] — La chiesa (dice Tertulliano) prepara il matrimonio, e ne stende il contratto, l'oblazione delle preghiere lo conferma, la benedizione il suggella, Dio lo ratifica. Due fedeli portano lo stesso giogo; non sono che una carne sola, un solo spirito; pregano insieme, insieme digiunano, insieme sono alla chiesa, alla mensa divina, nelle traversie, nella pace». _Ad uxorem_. — Del quale testo porge un esteso commento il Goudefroy sulla legge III del Cod. Teod. _De nuptiis_. E dopo Tertulliano viveva Modestino, che del matrimonio diede l'elegantissima definizione _conjunctio maris et fœminæ, consortium totius vitæ, divini et humani juris communicatio_. Dig. _De ritu nupt._ I. 1. [222] _Repudium, quod permissum aliquando, jam prohibet... Solus enim separabit qui et conjunxit... In totum enim, sive per nuptias, sive vulgo, alterius viri admissio adulterium pronuntietur._ TERTULLIANO, De monogamia. [223] Cod. Giust., lib. III. _De patria potestate_. [224] Inst., _Per quas personas_. Gotofredo (sulla legge del Cod. Teod. _de maternis bonis_) avverte che ciò stabilivasi _christiana disciplina paullatim patriæ potestatis duritiem emolliente_. [225] PAOLO, _Sent._ v. 1. BYNCKERSHOECK, _De jure occidendi liberos_. [226] SVETONIO, in _Claudio_, 25; Dig. lib. XLVIII. tit. 8. l. 2; lib. II. tit. 2. [227] SPARZIANO in _Hadriano_, 19. — _Dominorum potestatem in suos servos illibatam esse oportet, nec cuipiam hominum jus suum detrahi_. Dig. lib. II. tit. I. l. 6. [228] Cod. Giust., lib. I. tit. 19. l. 1; lib. VII. tit. 13. l. 1. [229] Florio, _Hist._, III. 20. [230] Cod. Teod., lib. IX. tit. 12. l. 1; tit. 18. l. 40. tit. 12. l. 1; Cod. Giust., lib. III. tit. 38. l. 2. [231] Opera capitale su questo punto è SAVIGNY, _Das Recht des Besitzes_. Giessen 1803. Vi fecero dilucidazioni e commenti WARN-KÖNIG (_Analyse du Traité de la possession par M. de Savigny_ Liegi 1824), e LHERMINIER (_De possessione; analytica Savinianæ doctrinæ expositio._ Parigi 1828). [232] Tit. _De usucapione_, e _De nudo jure Quiritium tollendo_. [233] Cicerone prova che Archia era cittadino romano perchè fece testamento. [234] Inst. II. 22, _De lege Falcidia_. [235] _Aucupatione syllabarum insidiantes_. L. II. del Cod. Giust. _De formulis_, dell'anno 342. [236] Cod. Giust., lib. III. tit. 1. l. 13. [237] Cod. Teod., lib. XIV, tit. 1. l. 1. [238] Ulpiano scrive che, se una donna fu successivamente concubina del patrono, poi del figlio di esso, e ancora del figlio di questo, non crede operi regolarmente: NON PUTO EAM RECTE FACERE. Dig. lib. I. tit. 1. l. 3. [239] _Aliudve quid simile admiserint_. Dig., tit. _Ad leg. Jul. maj._ [240] _Sacrilegii instar est dubitare an dignus sit quem elegerit imperator_. Cod. _De crim. sacril._ La copiò re Ruggero nelle costituzioni di Napoli, tit. IV. [241] _Nam ipsi pars corporis nostri sunt_. Dig. l. cit. [242] Cod. Teod., tit. _De falsa moneta_. [243] Ammiano Marcellino, XVI. 8. [244] Cod. Giust., lib. IX. tit. 8. l. 6. [245] Lib. IV. tit. 15; lib. IX. tit. 42; lib. X. tit. 8. 9. 10. [246] Lib. IX, tit. 8. l. 1 e 2. [247] VOPISCO in _Alex. Sev._; Cod. Teod., tit. _Ad leg. Jul. maj._ [248] _Nomina quidem servavimus, legum autem veritatem nostram fecimus. Itaque si quid erat in illis seditiosum (multa etiam talia erant ibi reposita), hoc decisum est et definitum, et in perspicuum finem deducta est quæque lex_. Cod. Giust., lib. I. tit. 17. l. 3. [249] Cod. Teod. tit. _De petit._, e _De famos. libell._ — Le seguenti leggi trovansi sparse nel codice stesso. [250] Ivi, tit. _De indulg. crim._ — Il Muratori, nel riferir ciò all'anno 409, dice che tal costume durava a' suoi giorni in moltissimi luoghi della cristianità, e nominatamente a Modena. [251] Ivi, lib. XI, tit. 30. l. 68; Cod. Giust., De leg. _Digna vox_. [252] _Nitimur aliquid invenire semper et naturæ consequens, et quod possit priora corrigere_. Nov. 18 præf. Il sig. Troplong, nell'_Influenza del cristianesimo sopra la legislazione_, conchiude: — Il diritto romano fu migliore nell'età cristiana che nelle antecedenti; e il dire contrario è paradosso o mala intelligenza; ma è inferiore alle legislazioni moderne, nate all'ombra del cristianesimo, e meglio penetrate del suo spirito». Gaudenzio Paganini nel 1638 beffò Giustiniano amaramente per avere abolito le leggi d'agnazione, ed essersi mostrato favorevole alle ragioni delle donne. Sagrifizio alle idee pagane, che vorrebbe nei secoli cristiani resuscitare i pregiudizj di Catone, il privilegio contro il diritto comune. Il grancancelliere L'Hôpital, volendo sviare i Francesi dalla legislazione romana per tenerli alle consuetudini patrie, incaricò Francesco Holmann di scrivere l'_Anti-Tribonien, ou Discours sur l'étude des lois_; dove, animandosi dell'odio contro Cujaccio, flagella non solo la giustinianea, ma tutta la legislazione romana, con acutezza e ardimento talvolta felice, sempre parziale. [253] Paolino, nella _Vita di sant'Ambrogio_. Anche Orosio ed altri autori ascrivono la vittoria su Radagaiso a miracolo; e a Firenze e nel Mugello si alzarono allora chiese a santa Reparata. [254] ZOSIMO, lib. 5. [255] Nel 1554 fu trovato sul Vaticano il costei cadavere, con molti oggetti preziosi; ne' soli abiti aveva trentasei libbre d'oro. [256] Fa pietà l'orrore che Rutilio Numaziano mostra per quell'enorme colpa, ch'egli trova peggiore di quella di Nerone: _Omnia tartarei cessent tormenta Neronis,_ _Consumat stygias tristior umbra faces._ _Hic immortalem, mortalem percutit ille;_ _Hic mundi matrem perdidit, ille suam._ Itinerarium, II. [257] AMMIANO MARCELLINO, lib. XIV. Secondo Dureau de la Malle, l'Egitto aveva appena un milione d'abitanti; un milione e ducentomila la Sicilia; dieci milioni la Gallia; qualcosa meno l'Italia; la Grecia, deserta. [258] Nella descrizione di quella peste trovansi molti sintomi simili al vajuolo, che molti credono abbia preceduto la invasione degli Arabi. [259] VOPISCO, 48. [260] AMMIANO MARCELLINO, XVIII. 5; XXXI. 9. [261] _Epist._ 39. [262] Cod. Teod., lib. XI. tit. 28. l. 2. [263] DIONE, lib. LXXV. E desolazione e briganti sono dunque di buona pezza anteriori al dominio dei papi, cui se ne ascrive la colpa. [264] Cod. Teod., lib. XV. tit. 47. l. 1; lib. IX. tit. 30. l. 3. 5. [265] Ivi, lib. IX. tit. 34. [266] SIDONIO APOLLINARE, _Ep._ v. 5. Di Scronato egli dice: _Exultans Gothis, insultansque Romanis, leges theodosianas calcans, theodoricinasque praeponens... Barbaris provincias propinans_. Ep. VII. 7. [267] SOCRATE, _Storia eccl._, v. 8. [268] CLAUDIANO, _in Eutropium_, I, 401. [269] Lib. XXVIII. [270] AGOSTINO, _De civ. Dei_, I. 32; OROSIO, I. 6. [271] _De Providentia_. [272] San Girolamo (_adversus Rufinum_, lib. II) ricorda Filistone, Lentulo, Marullo, altri autori di commedie biologiche ed etologiche, drammi ove si riproduceano le abitudini della vita domestica e che perciò sarebbero preziosi a conoscere. [273] Tutto ciò raccogliamo da un curiosissimo frammento di Olimpiodoro, conservatoci da Fozio. Il quale Olimpiodoro compose un verso che in latino suona: _Est urbs una domus: mille urbes continet una urbs._ Anche Rutilio Numaziano (_Itinerarium_, III) canta: _Quid loquar inclusas inter laquearia sylvas_ _Vernula quæ vario carmine ludit avis?_ [274] _Epist._ 14. [275] SIMMACO, lib. VIII. ep. 65. [276] _Ipsa Roma orbis domina, in singulis insulis domibusque, Tutelæ simulacrum cereis venerans ac lucernis, quam ad tuitionem ædium isto appellant nomine, ut tam intrantes quam exeuntes domos suas, inoliti semper commoveantur erraris_. SAN GIROLAMO, Comm. in Isaia. [277] AMMIANO MARCELLINO, XIV. 6. XXVIII. 2. — _Plena sunt conventicula nostra hominibus, qui tempora rerum agendarum a mathematicis accipiunt. Jam vero, ne aliquid inchoetur aut ædificiorum aut hujusmodi quorumlibet operum diebus quos ægyptiacos vocant, sæpe etiam nos movere non dubitant_. S. AGOSTINO, Expos. epist. ad Galatas, cap. IV. [278] Sant'Agostino non approva il fatto, _De civ. Dei_, II. 17. [279] SOZOMENE, IX. 10. [280] GIORNANDES, _De rebus goticis_, cap. XXX. [281] Lo disse egli stesso ad un Narbonese, il quale lo riferì a san Girolamo in un suo pellegrinaggio a Terrasanta, presente Orosio, che ce lo tramandò, lib. VII. 43. [282] Olimpiodoro, presso Fozio. [283] Orosio dice tremila ducento legni; Marcellino settecento. [284] PROCOPIO, _De bello gotico_. [285] È la legge che uffizialmente riconobbe il culto cristiano come unico dominante, XVI _kalendas decembris_ 408. Cod. Teod., lib. XVI. tit. 10. l. 29. [286] Ivi, lib. XVI. tit. 10. l. 13. 14. 15. 16. [287] GIORNANDES, _De rebus goticis_, cap. 33. [288] Siccome De Guignes, _Histoire des Huns, des Turcs et des Mongols_, 1756-58. Lo contraddissero Ghébard nella _Storia d'Ungheria_, I, 187, poi Klaproth, Rémusat, e omai tutti gli Orientalisti. Bensì Rémusat e Saint-Martin riconobbero i Geti e gli Asi negli Yue-ti e Osi, rammentati negli annali dei Cinesi come biondi. In una relazione dei regni buddici troviamo verso il 500 gli Yue-ti in guerra coi popoli sulle rive dell'Indo, per disputare la tazza d'oro di Budda. Le ragioni etimologiche hanno scarso valore, allorchè sieno isolate. In fatti Bergmann (nel _Nomadische Streifereien unter den Kalmuken_. Riga 1804, vol. I. p. 129) trova la radice del nome di _Muntsak_ padre di Attila nel mongolo _mu_ cattivo e _tzak_ tempo; Attila è da lui mutato in _Etzel_, che significa qual cosa di maestoso. Egualmente, o con meno stiracchiatura, si spiegano col parlare ungherese: Attila è _atzel_ acciajo; Muntsag, _ment tseg_ fertilità. Altri potrebbe dedurre il nome d'Attila dalla radice _atta, atti, ætti,_ che in molte lingue asiatiche suona giudice, capo, re; donde Attalo re marcomanno, Attalo di Pergamo, Attalo mauro, Atea scita, Atalarico, Eticone, ecc. V'è chi riscontra i nomi di Bleda, Balamir, Munzuk nei nomi slavi di Blad o Vlad, Bolemir, Muzok. [289] A questa descrizione di Giornandes si conforma quella di Sidonio Apollinare, vescovo di Clermont nel 472, il quale canta nel carme II, vs. 245: _Gens animis membrisque minax: ita vultibus ipsis_ _Infantum suus horror inest. Consurgit in arctum_ _Massa rotunda caput; geminis sub fronte cavernis_ _Visus adest, oculis absentibus: acta cerebri_ _In cameram vix ad refugos lux pervenit orbes;_ _Non tamen et clausos, nam fornice non spatioso_ _Magna vident spatia, et majoris luminis usum_ _Perspicua in puteis compensat puncta profundis._ _Tum, ne per malas excrescat fistula duplex,_ _Obtundit teneras circumdata fascia nares,_ _Ut galeis cedant. Sic propter prælia natos_ _Maternus deformat amor, quia tensa genarum_ _Non interjecto fit latior area naso._ _Cætera pars est pulchra viris. Stant pectora vasta,_ _Insignes humeri, subcincta sub ilibus alvus._ _Forma quidem pediti media est, procera sed extat_ _Si cernas equites, sic longi sæpe putantur_ _Si sedeant._ [290] Così chiamati non dai Vendi, ma da ἐν ἴημι, _venuti_. [291] STRABONE, lib. XI. [292] _Æmula Bajanis Altini litora villis._ MARZIALE. [293] Una tradizione, che correva già ai tempi di Ottone da Frisinga, fa fondata Udine da Attila. Egli avea altro in vista che fondare città; ma forse su quell'altura, così singolare nel piano, si ritirò una parte della popolazione carnica del Friuli, e se ne formò quell'abitato, che però non trovasi nominato se non nel 983 quando Ottone II donò al patriarca Rodualdo _castellum Utini_. [294] _Frammenti di Damascio_ nella Biblioteca di Fozio, p. 1039. [295] _Lupus est homo homini; non homo, quem qualis sit non novit._ PLAUTO, Asinaria, II. 4. [296] _Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant._ TACITO. [297] Il nostro Gravina è uno dei primi che riconosca il merito delle conquiste romane. Aristotele pose, e Cicerone sostenne che la natura dà alla ragione l'imperio sopra la barbarie, e l'interesse de' popoli rozzi esige sieno sottomessi a dominazione intelligente. Ora la dominazione di Roma (dice esso Gravina, _Origo juris civilis_, I. 16) fu la sola giusta, perchè _in vertice rationis humanæ_; non considerava come nemici che i nemici dell'umanità; non toglieva ai vinti che la facoltà di fare il male; imponeva servitù a quei soli che preferivano un'esistenza selvaggia al vivere sociale; mentre a' Greci e ad altri popoli civili permetteva di vivere secondo le leggi loro; proponeasi per iscopo di propagare la civiltà, e realizzare l'associazione universale. [298] _Hæc est quæ in gremium victos, quæ sola recepit,_ _Humanumque genus communi nomine fovit,_ _Matris non dominæ ritu, civemque vocavit_ _Quem domuit, nexuque pio longinqua redemit._ _Hujus pacificis debemus moribus omnes_ _Quod, velut patriis regionibus, utitur hospes..._ _Quod cunctis gens una sumus._ CLAUDIANO, Consul. Stiliconis, II. 150. Anche Plinio maggiore conobbe l'efficacia civilizzatrice dell'unità romana e della lingua: _Omnium terrarum alumna eadem et parens, numine Deum electa, quæ sparsa congregaret imperia, ritusque molliret, et tot populorum discordes ferasque linguas sermonis commercio contraheret, colloquia et humanitatem homini daret, breviterque una cunctarum gentium in toto orbe patria fieret_, III. 6. [299] _Filia curialis, si, genitalis soli amore neglecto, in alia voluerit nubere civitate, quartam mox omnium facultatum suarum ordini conferat, a quo se alienari desiderat_. Nov. Major, IV. [300] Vedi il nostro Cap. XLVII. — Il decadimento personale dell'impero non potrebbe più al vivo ritrarsi di quel che fa Salviano, _De gubernatione Dei_, v. 5. 8: _Inter hæc vastantur pauperes, viduæ gemunt, orphani proculcantur, in tantum ut multi eorum, et non obscuris natalibus editi, et liberaliter instituti, ad hostes fugiant, ne persecutionis publicæ afflictione moriantur; quærentes scilicet apud Barbaros romanam humanitatem, quia apud Romanos barbaram inhumanitatem ferre non possunt. Et quamvis ab his, ad quos confugiunt, discrepent ritu, discrepent lingua, ipso etiam, ut ita dicam, corporum atque induviarum barbaricarum fætore dissentiant, malunt tamen in Barbaris pati cultum dissimilem, quam in Romanis injustitiam sævientem. Itaque passim vel ad Gothos, vel ad Bagaudas, vel ad alios ubique dominantes Barbaros migrant, et commigrasse non pænitet. Malunt enim sub specie captivitatis vivere liberi, quam sub specie libertatis esse captivi. Itaque nomen civium romanorum, aliquando non solum magno æstimatum, sed magno emptum, nunc ultro repudiatur ac fugitur, nec vile tantum, sed etiam abominabile pene habetur. Ecquod esse majus testimonium romanæ iniquitatis potest, quam quod plerique et honesti, et nobiles, et quibus romanus status summo et splendori esse debuit et honori, ad hoc tamen romanæ iniquitatis crudelitate compulsi sunt, ut nolint esse romani? E poco avanti: Ubi, aut in quibus sunt, nisi in Romanis tantum, hæc mala? Quorum injustitia tanta, nisi nostra? Franci enim hoc scelus nesciunt; Hunni ab his sceleribus immunes sunt; nihil horum est apud Vandalos, nihil horum apud Gothos. Tam longe enim est, ut hæc inter Gothos Barbari tolerent, ut ne Romani quidem, qui inter eos vivunt, ista patiantur. Itaque unum illic Romanorum omnium votum est, ne unquam eos necesse sit in jus transire Romanorum. Una et consentiens illic romanæ plebis oratio, ut liceat eis vitam, quam agunt, agere cum Barbaris. Et miramur, si non vincantur a nostris partibus Gothi, cum malint apud eos esse quam apud nos Romani! Itaque non solum transfugere ab eis ad nos fratres nostri omnino nolunt, sed, ut ad eos confugiant, nos relinquunt._ [301] Gli scrittori ecclesiastici mostrano ben altri sentimenti verso gli Unni d'Attila e i Vandali di Genserico. [302] _Apocalissi_, cap. XVII. [303] AMMIANO MARCELLINO, _Hist._, XV. [304] _Singulos universosque nostro monemus edicto, ut, romani roboris confidentia, ex animo quo debent propria defensare cum suis adversus hostes, si vis exegerit, salva disciplina publica, servataque ingenuitatis modestia, quibus potuerint armis, nostrasque provincias ac fortunas proprias, fideli conspiratione et juncto umbone tueantur_. Costituz. di Valentiniano III del 430. [305] _Sive integra diœcesis in commune consuluerit, sive singulæ inter se voluerint provinciæ convenire, nullius judicis potestate tractatus utilitati eorum congruus differatur; neve provinciæ rector, ac præsidens vicariæ potestati, aut ipsa etiam præfectura decretum æstimet requirendum_. Costituz. del 382. [306] Costituz. del 418. [307] Atto non raro nei primi Cristiani. Nell'_Epist._ I di san Clemente leggiamo: — Molti de' nostri conoscemmo, i quali volontariamente si posero in ceppi per redimere altrui; molti che si assoggettarono alla schiavitù per pascere gli altri col prezzo della venduta libertà». [308] _Nov._ III, in calce al Cod. Teod. [309] Erano per lo più ottenute da favoriti, che ne abusavano per trarricchire colle più sottili arti. Una ci è nota dalle leggi. Essendosi peggiorata la moneta, pretendeano non ricevere che oro, portante il conio di Faustina e degli Antonini: il che raddoppiava l'aggravio; giacchè chi non ne avesse, dovea venire a gravose composizioni. [310] _Nov._ IV, in calce al Cod. Teod. [311] SIDONIO, _Paneg._ Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Il testo greco è stato trascritto tal quale, senza alcuna correzione. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Storia degli Italiani, vol. 4 (di 15)" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.