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Title: Angiola Maria - Storia domestica
Author: Carcano, Giulio
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Angiola Maria - Storia domestica" ***

   [Illustrazione: Angiola Maria]

                             ANGIOLA MARIA

                            STORIA DOMESTICA


                                   DI
                             GIULIO CARCANO


                 TERZA EDIZIONE, COLL'AGGIUNTA INEDITA
                                  DEL
                       MANOSCRITTO DEL VICECURATO



                                 MILANO
                  PER L'EDITORE PIETRO MANZONI LIBRAIO
                               MDCCCXLV.



                           TIP. GUGLIELMINI.



ANGIOLA MARIA



A CORINNA


    O spirito gentile,
      Che nel silenzio a visitarmi scendi;
      E a un angelo simile
      La più ascosa del cor favella intendi:

    Dimmi, qual luce è questa
      Che splende alla deserta anima mia?
      E qual memoria desta
      L'amica del pensier malinconia?

    Luce è d'amor, che move
      Dall'ignota virtù de la bellezza;
      Malinconia, che piove
      La segreta del pianto alma dolcezza! —

    In tempo lieto io vidi
      La tua sembianza, e ancor mi sei presente;
      E ancora mi sorridi,
      E all'arcano tuo raggio arde la mente.

    La tua fronte serena
      È quasi all'alma trasparente velo;
      E l'occhio che balena
      Par che dica alla terra: Io son del cielo!

    Diva solinga e pura,
      Questi adunque ti sacro umili fiori;
      Prole di zolla oscura,
      Da te cercan la vita ed i colori.

    Li colsi sull'aurora,
      Nè perduta avran forse ogni fragranza;
      V'è una lagrima ancora:
      È la lagrima pia della speranza!

Marzo, 1839.



LIBRO PRIMO.

              1. Con due ale sollevasi l'uomo da terra, cioè con la
                semplicità e con la purità: semplicità dev'essere
                nell'intenzione, purità nell'affezione. — Non è
                creatura così piccola e vile che non rappresenti la
                divina bontà.

              2. Il cuor puro trapassa il cielo e l'inferno.

                                               _Tommaso da Kempis._



PROLOGO.


Non è poesia senza verità e senza virtù. Se la Musa non veste il
semplice manto della Verità; se la Virtù non le insegna il suo casto
e tranquillo sorriso, le creazioni della poesia saranno indifferenti,
o vane; poichè l'arte non è solamente figlia dell'inspirazione, ma
anche della sapienza. Allora il poeta non avrà il suo più dolce premio,
quell'intimo assenso ch'è la risposta dell'anima; non troverà nessuno
che consacri a lui un pensiero, un affetto. — Il cuore poi ha sempre
bisogno d'amare; esso sente bensì e gusta quanto accarezzi la sua parte
di creta, ma intende e ama ciò che solleva la sua parte più bella, la
coscienza.

Per chi studia il cuore e le sue migliori affezioni, che nutrono le
virtù semplici e domestiche, anche la vita della più umile creatura,
anche la storia segreta dell'anima più modesta, sono una lezione
sublime, quant'è il meditar sulla sorte dell'uomo grande e caduto,
sull'età delle nazioni, sui fatti terribili e sanguinosi degli uomini.

E noi, deh! non vogliamo crederci e parer peggiori di quello che siamo:
le grandi virtù son rare, e per questo appunto son grandi; ma la virtù
modesta, la virtù docile e vera abita in mezzo di noi. E tu, sempre
che la cerchi, ad ogni passo puoi incontrarti in essa; e la ritrovi
ne' piccoli e ne' potenti; e più spesso forse nella casa che nel
palazzo, perchè, se non foss'altro, i più vivono nelle case, i pochi
ne' palazzi. — Ond'io penso, che una fedele pittura della vita onesta e
innocente sia studio più gentile e miglior pascolo dell'anima, che non
la trista notomía d'una società fattizia e malata, di che grandemente
si compiacquero molti; poichè, mentre questa non fa che serrarti il
cuore e stillarti nell'anima il dubbio, lo sconforto e l'egoismo,
quella invece nutre l'amore e procaccia l'esempio.

L'innocenza poi ha in sè stessa un incanto di semplicità così vero,
una dolcezza di vita e di costume sì schietta, che l'anima più severa
e restia non può a meno di sentirne la bellezza, di donarle grazia,
amicizia, o se non altro, di dimostrarle rispetto. Egli è ciò che v'ha
in terra di più celeste!

Ma anch'essa, questa virtù tutta sorriso e fiducia, è fuggitiva e
pellegrina nel mondo. Dapprima il cielo, il sole, la bella natura,
la contentezza dell'oggi e del dimani, tutto è per lei. Essa cerca
l'amore, senza invidia e senza sospetto; è felice, e ha bisogno che gli
altri sieno felici con essa. — È il fanciullo, il quale non conosce
che suo padre e sua madre, e ama chiunque folleggi con lui e gli
compiaccia; i suoi pensieri son lieti, come una fresca corona di rose
sulla sua testa infantile.

Se non che, troppo presto il pianto domanda il suo diritto, e l'alba
della vita dura per poco. Dice un filosofo, che l'uomo è sì grande,
che la sua grandezza appare anche in ciò, ch'egli si conosce misero.
Così, quand'esso sente il peso de' suoi dolori, trova in sè medesimo
una forza novella: la speranza. Questa gli dona la consolazione
dell'amicizia, la dolcezza dell'amore; ed egli, incapace di sprezzar
sè medesimo, sente pur sempre d'esser capace del bene. Allora l'amore
solleva il cuore, consiglia la fede, suscita la volontà; e così tutti i
nostri giorni fossero come quelli in cui veramente amiamo!

Ma il cammino della vita è difficile. Il potere degli avvenimenti,
dell'opinione, del costume crea nell'uomo, per dir così, una seconda
natura; e questa, il più delle volte, soggioga la prima. Onde i più
fortunati son coloro che, senza fallire la via, toccano alla meta,
e che hanno saviezza abbastanza per vivere in pace con sè stessi, o
coraggio abbastanza per soffrire.

E anch'essa, la debole creatura che solo nacque per amare o per
piangere, anch'essa, che vide morirsi d'intorno i più bei fiori della
vita, conserva nel cuore un tesoro, la sua rassegnazione e la sua
fede. L'angustia del dubbio, il languore dell'abbandono logorano la sua
fragile esistenza; pure essa sostiene le prove della sventura, che son
lunghe e dolorose, perchè la sventura è fedele. Ella è sola quaggiù,
ma Dio è sopra di lei! E l'ultimo sacrifizio che fa un'anima innocente,
è il più bello, il più sublime testimonio della virtù abitatrice della
terra. — Così la storia d'una vita semplice e giusta può esprimersi in
tre parole: innocenza, amore e sacrifizio.



I.

UNA DOMENICA.


Chi vede un'alba di primavera nella nostra bella Italia, in questo
cielo così quieto e trasparente della Lombardia, e non sente aprirsi
libero il cuore e l'anima sollevarsi leggiera e serena, come al
respirare un'aria che la nutre, ch'è la sua, non ebbe certamente, nè
avrà mai, quel senso divino, che Dante, con sublime verità, chiamava
intelletto d'amore. Questo sentimento così grande e puro non è gioia,
nè maraviglia; non è nemmeno un'estasi; è l'intimo affetto della
bellezza della natura, è vera poesia.

Se tu hai contemplato qualche volta una di queste aurore, là sulle rive
beate del lago di Como, dimmi, non ti nacque nell'anima un pensiero
almeno, che la vita vi può esser più felice, gli anni più lenti e men
gravi, il cuore più giusto, più in pace? E non pregasti allora, che
Dio rendesse migliori i figli di questa dolce patria, dove si piacque
di crear così bella e benedetta la natura? — Se tu non facesti questo
voto, io lo feci per te!


Era una mattina piena d'incanto. — La primavera cominciava appena;
la limpidezza dell'aria e lo splendore del cielo, l'armonia della
vita e della natura, tutto era bellezza e mistero. È il bel tempo,
che il poeta sogna la gioventù del mondo, i giorni della creazione,
quando terra e cielo forse non avevano che un nome; è il bel tempo,
che rinnova que' miracoli della produzione, i quali all'uomo semplice
e saggio si manifestano nelle grandi provvidenze della materia e
della forza; che al ricco ozioso ristora la stanca complessione, e al
povero contadino fa la promessa d'una buona annata. Allora noi sentiam
più forte il bisogno d'amare i nostri fratelli, d'amar la terra dove
nascemmo, i luoghi dove il nostro cuore apprese tanti cari nomi, fece
tanti bei sogni nell'innocenza e nell'amore, e dove anche abbiam dovuto
gustare i primi dolori, e piangere la prima volta!

O nostra patria! — Ecco il sole, che nella pienezza della sua luce
suscita l'allegrezza nel cielo, sparge la fecondità nelle campagne,
la tranquillità nella vita, e l'amore nell'anima di tutti! Ecco
interminate pianure, su cui l'occhio si perde; ecco laghi che ripetono
il sereno del cielo, e fiumi maestosi, e acque irrigatrici; ecco
campagne verdeggianti di gelsi, fiorenti di messi; colline liete d'una
perpetua ubertà; monti che un'assidua coltura rivestì di vigneti e di
pascoli, di casolari e di borgate! Qui la bellezza del cielo e della
terra, la frequenza degli uomini, la leggiadria delle donne... È la
terra de' nostri padri, dell'antica nostra religione, delle poche sante
memorie che ancora ci rimangono. Non si cerchi di più. Il giovine ha
bisogno della gloria, e della felicità, e ne vuole almeno la sembianza!


Quel giorno era una domenica. — Dalle sponde e per le costiere de'
monti che coronano le acque tranquille del lago di Como, s'udiva a
intervalli ripetersi per l'aria e confondersi, a cento distanze, quasi
in allegro accordo, uno scampanare di festa dai paesetti, de' quali è
seminata quella beata parte di terra.

Il più bello di quella scena, la ridente prospettiva di tanti villaggi
che illuminati dal sole si specchiano nelle onde, quel misto di luce
e di colori, quelle indefinite temperanze di vapori e d'ombre, tutto
ciò sfida del pari il pennello del pittore e la magia della parola. Non
son altro che poveri casali sparsi qua e là, sul dosso d'una collina,
sulla costa d'un monte, o a fior dell'acqua; spicca solamente fra essi
qualche casa più alta dell'altre, dipinta di bianco e circondata da una
vite verdeggiante, o protetta dal bizzarro fogliame di qualche albero
antico. Eppure sono i luoghi che t'accontentan l'occhio e il cuore, e
che, veduti una volta, non sai più dimenticare.

Al solo volger dello sguardo, su d'ogni punta che si prolunga
nell'acqua, vedi bei villaggi distendersi a lungo della sponda, l'uno
più dell'altro pittoresco e ameno, che sembrano sorti fuor del lago per
incantesimo: su di ciascuna riva, su di ciascun'erta, arrestano la tua
attenzione nobili e vasti palazzi degni di principi, a' quali ascendi
per un ampio ordine di scaglioni; villette solitarie ed eleganti, che
s'elevano al piede o sul fianco della montagna, ricinte di giardini
tutti in fiore, adorne di piante rare e strane, consolate d'ombre
perenni; più in su, la meschina casupola del montanaro e l'angusto
suo campicello; poi la costiera si fa più ripida; spesseggiano gli
arboscelli, e salendo ancora, non discerni che larghi strati bigiognoli
d'ardesia, erbe grame che ne tappezzano i fianchi, e il saltellare
d'acque montane. — Dall'una all'altra parte ti si presentano innanzi,
ad uno, a due, a tre, i paesetti, quale sopra una pendice boscosa,
quale sopra un ciglione tagliato a perpendìcolo, o in un seno di lago,
o a cavaliere d'una roccia nuda e sporgente; mucchi di case, che ti
sembran colà annidate per un giuoco dell'uomo: e se sollevi gli occhi
fino a' vertici più alti, vedi disegnarsi nell'azzurro del cielo i
contorni d'un'antica chiesa votiva, ch'è solitaria custode delle valli
sottoposte.

Eccoti in faccia un bel promontorio, coronato d'alcuni gruppi di
pini, ove dal poggio fino alla scesa siede il più vago paese che ti
si dipinga alla veduta; scena pittoresca di case modeste e tranquille,
d'ombrosi vigneti e d'orti aprichi; pacifico asilo che seduce e invita
nel suo seno l'uomo stanco delle cose di quaggiù. E dietro a questo
superbo spettacolo d'acque, di piante e d'abitari, vedi altri monti;
e dietro a quelli, altre cime, le Alpi; poi tutto l'orizzonte lucido
e fiammeggiante, il sole che sparge una luce infinita, purissima
sull'inquieta superficie del lago, e regna nel mezzo del cielo in tutta
la solennità del suo splendore, come lo sguardo di Dio che si riposa
sulla terra per risvegliarla alla vita. — Oh! per dire una sì gran
maraviglia ci vuol ben altro che la mia povera penna.


La piccola chiesa gotica di **** era aperta; e si vedeva il buon
popolo della pieve entrarvi frettoloso e divoto, in fila, a gruppi,
a brigatelle, mentre che le campane replicavano ancora l'ultimo tocco
della messa della domenica. Per le viuzze oscure e chiuse dalle povere
abitazioni, per le callaie bistorte e fiancheggiate d'un muricciolo
di ciottoli, che sboccano nella piazzetta, da ogni casa, da ogni
porta del dintorno, si vedevan salire, calare, incontrarsi donne,
uomini e fanciulli: le madri si menavan dietro le figliuole, mentre
i garzoncelli, nel loro bell'abito delle feste, correvan saltellando,
come vispi capretti, sulla riva e pel greto; le fanciulle camminavano
leste leste e raccolte fra i piccoli crocchii, che i compari e i
giovani del paese andavan facendo qua e là sul sagrato della chiesa,
fino a che la campana tacesse.

Era proprio una bella gente; faccie floride e vivaci, fronti contente,
aperte, su ciascuna delle quali avresti potuto legger la bontà del
montanaro, mista a non so che d'ardito e di sagace, ond'è noto fra
noi chi nacque sul lago; la bontà lombarda, e la toscana sottigliezza.
I giovani sfoggiavano i loro acuminati cappelli a larga tesa, ornati
d'un fibbiaglio d'acciajo, il farsetto nuovo di fustagno verde e le
ampie brache di grosso velluto nero; nè più si contava fra essi che
qualche vecchio fedele ancora al giubbone, all'alta cintura di cuoio
e a' calzeroni di lana avvoltati sopra il ginocchio, in quella foggia
che suol chiamarsi anche da noi _barulè_. Le fanciulle invece portavano
addoppiato sulla testa un fazzoletto di vivaci colori, che copriva
quella bella corona di spadine d'argento, onde le contadine lombarde
hanno trapunte le trecce; andavano, quasi tutte del pari, vestite d'una
semplice sottana di tela turchina, e di certi busti o giubberelli di
seta o di rascia, rossi o cilestri, allacciati allo sparato delle
maniche e del petto da molti galanetti di fettuccie, ch'erano una
grazia. E mentre passavano, alcuna di quelle belle montanine lasciava
indietro una rapida occhiata furtiva sui gruppi de' giovinotti del
paese, forse cercando il suo innamorato; e qualch'altra si stringeva
alla compagna, per nascondersi a uno sguardo audace che la cercava;
ma la compagna volgeva il capo, e la tradiva con risa mal represse.
A ciascuna giovinetta che di là s'avviasse, bisogna pur dirlo, que'
garzoni arditi lanciavano di soppiatto una parolina, un motto, un
sogghigno; e certo ch'eran da compatire, chè in piccolo paese si
conoscono tutti, come fossero una famiglia. Ma quando videro di lontano
venire alla volta della chiesa due donne vestite di nero, essi tacquero
subito; e, con certo rispetto, si tirarono in disparte.

Quelle due donne erano madre e figlia; una, curva della persona,
portava sul volto magro e già rugoso, sebbene non apparisse molto
vecchia, i segni del dolore che accorcia l'età; l'altra era giovinetta
e fresca, ma così pallida e bianca, che nessuno, in quell'abito oscuro,
e sotto quello zendado nero, l'avrebbe detta una contadina. Era il suo
viso di gracile contorno e d'un ovale perfetto; gli occhi, che parevano
ancora rossi del piangere, teneva chini a terra; e le mani, congiunte
sopra il seno con un fare onesto e rassegnato, raccoglievano lo zendado
d'intorno al sottile suo busto. Essa non era grande della persona,
ma snella e graziosa del portamento; e più di tutto i suoi piccoli
piedi, che spiccavano sotto le pieghe della nera sottana, rapivano gli
occhi. In somma, v'era in lei qualche cosa di gentile e di raro, che al
primo vederla non avresti pensato mai la fosse nata da povere genti,
in un oscuro villaggio; chè invece pareva, sì dilicata e contegnosa
ch'ell'era, allevata nel seno di ben più eletta condizione. Eppure
era un fiore bello e modesto di quell'ignoto terreno, cresciuto in
quell'aria libera e viva.

Già tutti erano entrati nella piccola chiesa; dove, in silenzio e con
una quiete consueta, si dividevano, gli uomini a parte destra, le donne
a sinistra, savio costume antico che ancor dura nelle nostre campagne.
Al cominciar della messa, s'inginocchiavano tutti al punto stesso,
come i figliuoli che aspettano la benedizione del loro padre. E in quel
giorno, era un loro fratello, un giovin prete del paese, che, in vece
del vecchio curato, offriva per essi al Signore il divino Sacrifizio.

La sua voce era chiara, solenne, ma commossa: le semplici parole
del messale, cantate da lui con severa cadenza, avevano un non so
che di tremolo e malinconico. Tutti que' contadini, in un sincero
raccoglimento, parevano ascoltare con più divota attenzione quelle
ripetute orazioni, ch'essi non intendevano, ma che accompagnavano
nella fede e nella giustizia de' loro cuori. Ma quando il prete si
rivolgeva dalla mensa dell'altare per dire: _Pregate, o fratelli!_
— o per ripetere quelle sante parole: _Il Signore sia con voi!_ essi
guardavansi l'un l'altro in atto di compassione; poichè s'erano accorti
ch'egli aveva pianto, e che nel presentare al Signore i voti de' suoi
fratelli aveva pur domandato per sè consolazione e pace.

Ma v'erano nella chiesa due donne che intendevano la pienezza di quel
dolore, perchè ne portavano anch'esse una gran parte; erano quelle
stesse, vestite a bruno, alle quali, mentre passavano poco prima, i
buoni contadini avevan dimostrato certa onoranza e rispetto. Oh nessuno
colà, in quel giorno, pregava con tanto fervore, con tanta pietà, come
quelle due donne!

Quand'ebbe finita la messa e benedetto il piccol popolo, il giovine
sacerdote si rivolse, e con voce piana e tranquilla disse dall'altare
una di quelle parabole evangeliche, piene di semplicità affettuosa, di
santa benevolenza, che scendon nell'intimo de' cuori con la soavità del
virtuoso consiglio e nella divina schiettezza della verità.

Le sue parole non eran cercate, nè mandate a memoria: egli parlava
semplicemente, parlava il linguaggio dell'anima religiosa; e un cuore
pieno di fede e di speranza era sulle sue labbra. La grandezza di
quella dottrina, che con l'unico precetto d'una vita divina quaggiù,
spiegata a esempio delle virtù umane, ha rinnovato la faccia della
terra, rivelavasi nell'umile verità delle sue parole; e la santità di
quella morale che consola e che persuade, adatta alla severa ragione
del saggio, come a' naturali intelletti di que' contadini, inspirava
ne' loro cuori la contentezza della pace e della fratellanza — perchè
egli parlava loro d'una giustizia incolpabile e del terrore de'
cattivi in mezzo al trionfo, delle afflizioni di questa terra e del
contraccambio preparato lassù, di carità e di preghiere, di perdono e
di rassegnazione.

Intanto un giovin signore era entrato nella chiesa; e messosi in un
canto, senza che molti s'addassero della sua presenza, si rimase con
attenta maraviglia, per seguir le parole che il prete allora proferiva
con accento più rapido e commosso, e ch'eran queste:

— O miei fratelli, io lo domando a voi, e fra voi, a ciascun di coloro
a' quali il Signore ha già mandato le sue prove, se non sia vero
che nel tempo della disgrazia noi ci ricordiam della religione, noi
sentiamo il bisogno di credere in essa, e confessiamo ch'è la verità!
Allora corriamo a inginocchiarci all'altare, e domandiam di poter
pregare e di piangere; poichè gli uomini non risposero alle nostre
parole di dolore, e il nostro cuore non trovò pace nelle speranze
terrene. Ah sì! non c'è umana superbia, la quale non cada dopo un'ora
di miseria. — Oh! lasciate che sia disprezzato colui che mette la sua
ragione nel cielo, e la sua fede nel Signore! Egli sa la verità più
del filosofo che tentenna nell'oscurità del dubbio, e più del grande
che ride e si dimentica. I'ho conosciuto, o miei fratelli, questi
uomini che si chiamano i sapienti, e quelli che voi credete felici e
potenti come i maghi, perchè son ricchi e hanno un gran nome: io le
ho vedute queste grandi felicità, che i piccoli invidiano senza nè
manco indovinarle — deh! che valgon mai, con le loro eterne menzogne,
co' piaceri pagati a peso d'oro, e più di tutto con quella nausea di
sazietà che le accompagna! — Sì! lo credete! nessun uomo quaggiù ha il
diritto d'esser più felice del suo fratello! — Tutti posson esserlo del
pari, perocchè lo stesso Libro è aperto a tutti, e la felicità è nella
_verità_, e la contentezza nella _giustizia_. Gli è meglio patire, come
il povero, come voi; e benedir al Signore, quando vi concede il vostro
pane quotidiano, quando manda un lungo sonno di riposo sulle vostre
coltri non invidiate, che non vivere schiavo delle usurpazioni, de'
pregiudizii di quel mondo che non conoscete, e veder tutti i giorni
il disinganno faccia a faccia, e crescere il proprio bene a scapito di
quello degli altri. Il Signore ha vissuto nel tempo, è venuto fra noi,
e ha voluto esser l'ultimo degli uomini: nessuno maledica dunque al
Signore nella povertà e nella disgrazia!.. Egli v'ha dato l'allegrezza
del cielo, l'aspetto d'una natura sorridente e feconda: Egli ha tolto a
voi e a tutti i vostri fratelli che vivono in questa parte di terra, un
nome potente, temuto una volta, e adesso dimenticato, inutile!.. Ma il
Signore ha detto: Siate sempre fratelli, amatevi sempre! E io vi ripeto
nel nome di lui: Ricordatevi che il Signore ha in mano il passato e
l'avvenire, ch'egli suscita dal peccato la rigenerazione, dalla morte
l'eternità! Educate nella rettitudine e nell'amore i vostri figliuoli,
perchè essi vi consoleranno, e piangeranno quando voi sarete morti,
e terranno sempre nel loro cuore la vostra memoria. — Oh! io non ho
mai parlato a voi con tanta effusione di cuore come in questo giorno,
nel quale invano gli occhi miei van cercando una cara testa canuta
in mezzo di voi, la testa del padre mio, che con tanta gioia avrei
veduto levarsi intenta alle mie povere parole, sotto le vôlte di questa
chiesa. — Sia pace all'anima di quell'onesto vecchio! Oh ditelo voi
pure con me, e perdonatemi, se domando la vostra preghiera anche per
un dolore ch'è tutto mio.... La vostra preghiera, o fratelli, è per un
giusto! —

Il prete s'interruppe a queste parole, e un singhiozzo mal represso,
e un pianto a gran pena trattenuto, s'udirono scoppiare in un angolo
della chiesetta. Erano le due donne vestite di nero, le quali avevan
cercato in vano di soffocare un affanno recente, al ricordarsi
dell'uomo di cui parlavano le malinconiche parole del prete.

Il giovin signore volse uno sguardo a quella parte, e si
sentì commosso, poichè indovinò il segreto d'una sventura così
involontariamente confessata, di un dolore così sincero. Egli guardò
ancora, e vide sotto il velo bruno, ond'era ricoperta la giovinetta,
l'eloquente pallidezza d'una fronte verginale e addolorata, ch'era
stata dinanzi rosea di freschezza e sorridente; vide due occhi neri che
piangevano tacitamente, un volto bianco e soave che s'inchinava, che
gli ricordava uno di que' volti d'angiolo dipinti da Raffaello.

Anche il prete fermò, quasi non volendo, gli occhi a quel lato, ma
subito ne li distolse: le due donne erano sua madre e sua sorella. —
Egli continuava:

— La vita è breve, l'affanno è passeggiero anch'esso; ma verrà tempo
che tutti i dolori saranno consolati. Non invidiate a coloro che stanno
in alto, e non desiderate che venga il giorno di poterli calpestare
e disprezzare voi pure, com'essi forse fanno adesso con voi; perchè
il Signore ha benedetto l'uomo che patisce, e beato è colui che muore
con maggior carico d'amore e di dolore!... Pregate, o miei fratelli,
pregate per voi, per i vostri figliuoli, per i vostri poveri morti!...
E quando, la sera, ve ne state raccolti in devoti crocchietti dinanzi
alle vostre porte, dicendo in comune le vostre preghiere, o insegnando
a ripetere a' vostri fanciulli il paternostro, non vi sconfortate se i
cattivi passano e ridono. Essi non conoscono il tesoro d'una tranquilla
coscienza, nè la contentezza delle anime semplici e credenti. E così
io parlo a voi, perchè il profeta del Signore ha detto — e qui il prete
levava la fronte con un ardor solenne, e il suo aspetto era acceso d'un
sacro entusiasmo: — Lo spirito di Dio è sopra di me, perchè Dio m'ha
consacrato, e mi mandò a portar la sua parola a' mansueti di cuore, a
medicare gli addolorati, a prometter l'indulgenza a' prigioni, e la
libertà a quelli che stanno rinchiusi. Egli mi mandò a predicare il
tempo della misericordia e il giorno della vendetta, a consolar tutti
quelli che piangono, a dar loro la corona per la cenere, il balsamo
della gioia per il lutto, il manto della lode per le sofferte angustie.
E costoro saranno chiamati i forti della giustizia, la radice della
gloria del Signore. Perchè, come la terra produce i suoi frutti, e
come l'orto gérmina la sua semente, così il Signore farà sorgere la
giustizia e la santità in faccia a tutte le genti. —

Il sacerdote benedisse il popolo, e scese dall'altare. E il giovine
se n'andò, maravigliato di questa semplice eloquenza, che a lui parve
sublime; se n'andò meditando a quella scena di dolore sì schietto e
religioso, della quale l'aveva fatto testimonio il caso. Pensava alle
due donne, al prete, a quella gente commossa, all'umile chiesa; nè
ricordavasi d'aver provato mai un senso così mestamente pietoso, come
quello che toccava allora il suo cuore.



II.

SUL TERRAZZO.


Una villa, che ancora si vede, a breve distanza di ****, sorgere sulla
riva destra del lago, fabbricata nello stile malinconico e severo
dell'architettura del secolo passato, ha un bel terrazzo, che su d'una
roccia stagliata stendesi alquanto nell'acqua, e lascia allo sguardo
abbracciare la pittoresca veduta di quelle cinque miglia di lago,
chiuse tra Como e la punta di Torno. Su quel terrazzo, che è come il
prolungamento d'un'ala della casa, andavano e venivano, nella stessa
mattina, alcuni servi per apparecchiar la consueta colezione de' loro
padroni, una colezione all'inglese.

E di fatto, una famiglia inglese aveva preso a pigione la villa per
tutta la state di quell'anno. Era un vecchio signore venuto co' suoi
figliuoli a cercare, sotto il ridente nostro cielo lombardo, alcuni
mesi di salutar riposo dalle fatiche dell'aristocrazia. Avevano
lasciato per la prima volta il cielo nebbioso di Londra e lo splendido
tumulto della vita politica e cittadina; chè un viaggio sul continente
è, per l'inglese, medicina d'ogni rovescio; per l'inglese che, in casa
sua, tesse tranquillamente la politica delle cinque parti del mondo; e
fuori, sen va a centellare con egual costanza il suo tè sui ghiacci del
gran San Bernardo, e all'ombra delle Piramidi.


— Vieni, Elisa! diceva una bionda giovinetta, correndo fuori colla più
graziosa sveltezza su quel terrazzo. Vieni, dunque! chè le dieci ore
sono testè sonate al villaggio, e il mio buon appetito me ne avverte.
Nostro padre verrà subito anch'esso.

— Eccomi, cara! le rispondeva uscendo Elisa, la sorella di Vittorina.
Che bel giorno! che bel cielo! io aveva letto e sentito dir tante cose
dell'Italia, ma non pensavo che fosse sì bella!

— Bada prima, o sorella, a servire il tè! e poi, farai le tue
contemplazioni alla buon'ora. Pensa a noi, te ne prego, o fantastica
creatura. Vedi mo! quest'aria, che in te risveglia la poesia, in me
stuzzica l'appetito!

Ma l'Elisa, ch'era la sorella maggiore, una giovinetta pallida,
malinconica e bella come la Malvina d'Ossian, non dava pensiero alla
premura di Vittorina. Ella s'era abbandonata mollemente sul poggiuolo
del terrazzo, e distratta guardava l'acqua del lago, che rompevasi con
monotono gorgoglío al piede del sasso: e diceva sotto voce, parlando
con sè stessa: — O mia povera madre! se tu pure fossi qui con noi! Io
t'ho conosciuta appena: ero sì piccina ancora, quando n'abbandonasti
per andare in paradiso!... Ma pure mi ricordo di te, mi ricordo de'
tuoi baci, delle tue carezze.... Tu eri malinconica! Oh se tu fossi
qui con noi, io non piangerei, ma così!... — E sollevava la faccia al
sereno del cielo.

Venne in quella sul terrazzo un vecchio signore, d'alta statura, di
contegno serio e severo. Egli salutò d'un cenno della mano le due
giovinette, poi si mise a sedere. Vittorina gli corse al fianco, e
lo baciò in fronte, con una tenerezza infantile, dicendogli: — Buon
giorno, padre mio! come state?

— Bene.

— Volete ch'io serva il tè? Io farei subito colezione ben volentieri!
Ma non siate così brusco: l'aria di questo paese non vi rallegra?

— Sì, quel che vuoi, cara. Ma l'Elisa che fa?

— Eccomi, padre mio! perdonate, io era distratta ne' miei pensieri.

Nel mentre le due sorelle apprestavano il tè, lord Guglielmo Leslie se
ne stava taciturno, corrucciato in viso, e le gomita appoggiate alla
tavola in atto d'interno dispetto; le due giovinette si sogguardavano
tacitamente a ora a ora. Ma la fronte di Vittorina era serena e gaia,
e sulla sua bocca scherzava sempre un ingenuo sorriso; Elisa invece
levava gli occhi azzurri e intenti, e pareva voler leggere nella cupa
meditazione del padre, perchè sentiva il bisogno di dividere il suo
dolore e di confortarlo.

Quella era dunque una mattina assai mesta, in faccia a un cielo
incantevole, nel giorno più bello della primavera.

Dopo un lungo silenzio, e poi ch'ebbero finita la colezione, Elisa si
rivolgeva a suo padre, e vincendo una certa titubanza, dicevagli con
tutta soavità: — Perdonategli, padre mio, perdonate al nostro buon
Arnoldo! Ditemi che non è vero che voi non l'amiate più!.. dunque, se
l'amate ancora...

— Chi mi parla di colui?... rispose con piglio severo il lord.

— È la vostra Elisa, padre mio, la vostra Elisa a cui pur volete tanto
bene... Ma voi ne volete anche ad Arnoldo, e nel vostro cuore gli
perdonate, non è vero?

— Finitela, riprese il padre suo, finitela! Guai a chi mi parla di
riconciliazione con quell'uomo indegno!... È troppo! — E battè con
tal impeto di rabbia il pugno sulla tavola, che la povera Elisa si
levò sbigottita; e Vittorina, che già stava per aggiunger la sua alla
preghiera della sorella, balzò indietro, e mise un grido di spavento.

Il vecchio lord, mormorando ancora — È troppo! — aggrottava le ciglia:
poi, alzatosi dispettosamente, volgeva le spalle alle figliuole, e
rientrato in casa, chiudevasi dietro le imposte. Elisa e Vittorina
rimasero guardandosi l'una l'altra, e senza osar seguirlo cogli occhi,
nè dir parola.


Lord Guglielmo Leslie discendeva da una famiglia antica e chiara. I
Leslie avevano avuta non l'ultima parte nelle vicende politiche del
loro paese; e quantunque fossero scaduti da quell'antico splendore
di potenza famigliare che i secoli e le ricchezze avevano sancita,
nondimeno serbavan tuttavia gli avanzi d'un orgoglio aristocratico,
e di quella superbia, direi quasi dinastica, che i severi Inglesi,
più che tutti gli altri, seppero conservare in mezzo a tutte le loro
cittadine libertà e a' loro civili procedimenti. Non c'è popolo, che
al pari degl'Inglesi sia così ostinato e sdegnoso mantenitore de'
privilegi e delle franchigie che i nobili vantano sui cittadini, e
che nel mentre combatte in pace e in guerra per la causa della libertà
delle nazioni, conservi con tanta gelosia i suoi privilegi e diritti;
i quali almeno non sono, colà come altrove, una boria ridicola, poichè
posano saldi sopra una base di fatto, come il cammino degli avvenimenti
e le vicende del poter civile ve li hanno essenzialmente stabiliti.

I Leslie di Falconbridge tenevano ancora alcuni vasti poderi in una
delle più colte contrade del mezzodì d'Inghilterra. Al principiar del
nostro secolo, non eran rimasti di quella famiglia che due fratelli,
lord Giorgio e sir Guglielmo. Il primo, dopo che sostenne una grave
magistratura dello Stato, andò a ritirarsi nelle sue terre, in seguito
d'una mutazione del ministero; e il re aveva premiato le sue fatiche e
il suo prudente ritirarsi a tempo col titolo di barone. Ma lord Giorgio
non aveva figliuoli, e la sua recente dignità doveva passar nella
linea cadetta. Sir Guglielmo dunque tenne aperti gli occhi sull'andar
delle cose; accarezzò sempre le opinioni del fratel suo, e aspettò
il giorno che gli avrebbe dato nuovi diritti e nuovi doveri. Nella
futura grandezza dell'unico suo figliuolo Arnoldo, egli concentrava
tutta la sua stessa potenza e quella del nome della sua famiglia, del
quale era così geloso veneratore. Altero per costume e per educazione,
tenace, fino allo scrupolo, della sua antica nobiltà e delle domestiche
abitudini alle quali era stato ligio per tant'anni, dal tempo che
viveva nell'antico castello di suo padre, là nell'Hampshire, sir
Guglielmo pareva dispettoso d'invecchiare, senza vedere che le sue
speranze s'avverassero mai. Non dirò ch'egli avesse desiderata la
morte di suo fratello lord Giorgio, per venire in possessione delle
sue grandi tenute e per andarne esso pure a sedersi nel parlamento; ma
stava ad aspettarla, perchè Giorgio era d'alcuni anni più vecchio di
lui, e di salute logora e fiacca.

A quarant'anni, sir Guglielmo s'era ammogliato con Arabella Randale,
che l'aveva fatto padre d'Arnoldo e di quelle due care giovinette,
Elisa e Vittorina.

La povera Arabella non era stata felice! Sacrificata, come pur troppo
avvien di sovente anche fra noi, all'orgoglio e all'interesse, era
stata gettata, qual vittima, nelle braccia d'un uomo ch'ella non amava,
e che le tolse il suo per darle un nome, che non le fece palpitare
soavemente il cuore, se non quando divenne il nome de' suoi figli.
Ma l'anima sua era pia, la sua volontà docile e rassegnata. Tutta la
vita di lei, che non fu lunga, era stata uno studio costante e secreto
d'amar l'uomo ch'erale toccato a compagno, di cercare le più sane e
oneste idee della mente di quest'uomo, le sue virtù sebben piccole,
e le affezioni del suo cuore, per rispettarlo e amarlo in quelle.
Ma sir Guglielmo era uno di coloro a' quali la natura sembra aver
rifiutato il dovere amoroso di marito e di padre. Agitato da continui
pensieri di fumo e d'ambizione, travagliato da mala vicenda nella sua
domestica economia, egli era quasi sempre meditabondo, accigliato,
dispettoso: fosse il cielo torbido o sereno, si raccontasse di fortune
o di miserie, si spargesse la gioia o il dolore nella famiglia o ne'
circoli, sempre la stessa nube era sulla sua fronte, lo stesso amaro
sorriso sulle sue labbra. Non mai egli sovvenne la disgraziata sua
donna di quelle consolazioni che cancellano tante memorie penose, nè
mai le fu largo di quelle sollecite cure che medicano anche le più
triste piaghe della vita. Arabella aveva vent'anni quando fu maritata
a sir Guglielmo; a trentadue ella moriva, moriva portando seco tutto
il cordoglio della sua vita sconosciuta e negletta. Aveva compiuto il
sacrifizio di tutto ciò che v'ha di più sacro, la fede e l'amore; e
non lasciava in terra che un pensiero di rammarico e un ultimo ardente
desiderio: il pensiero de' suoi tre figliuoli, i quali, così giovani
ancora, restavano senza di lei: il desiderio ch'essi almeno, più di
lei, fossero felici.

Dopo la morte di sua moglie, sir Guglielmo si mise dentro, assai più
che prima non avesse fatto, nelle pubbliche cose. Egli si dimostrò
allora uno de' più caldi sostenitori del partito _tory_, come già era
sempre stato; e adoperò nome, fatiche e promesse al trionfo della sua
parte. Sebbene non fosse quel che si chiama uom di Stato, e i più lo
tenessero in conto di persona di comune levatura, nondimeno aveva
quella prudenza politica che insegna di non arrischiar mai troppo,
e quell'accorgimento che consiglia i mediocri ad appoggiarsi a'
potenti senza farseli necessari, e a giovarsi a tempo di loro, facendo
sembiante d'ajutarli.

Mandò, com'è quasi legge pe' ricchi inglesi, il suo Arnoldo a viaggiar
sul continente; affinchè poi, tornato in patria, si ponesse fra i
candidati delle elezioni, per cominciare la sua via politica nel
parlamento. Egl'intanto menò splendida vita in Londra, fece illustri
amicizie, e molto profuse della sua ricchezza.

Alla fine, lord Giorgio era morto nel suo feudal castello
dell'Hampshire; e per accontentare la lunga aspettativa e la boria
gentilesca del fratel suo, l'aveva chiamato unico e universale suo
erede. Sir Guglielmo, divenuto così lord Leslie, vedeva avverarsi
una dopo l'altra le sue speranze già da lungo tempo mature. Richiamò
allora dal continente suo figlio Arnoldo, impaziente d'aprirgli un
avvenire più sicuro e splendido; di preparargli una condizione, che non
solamente gli procacciasse rispetto, ma facesse rumore e invidia.

Arnoldo abbandonava a malincuore, e colla speranza di rivederle,
le bellissime spiaggie di Mergellina, di Baja e di Pozzuoli, ove
trovavasi allora; abbandonava la delizia di quel mare e di quel cielo
veramente italiani, per ritornarsene, ignaro della domestica fortuna
che l'aspettava, nel seno della superba Londra. Qui vide suo padre
acceso più che mai di volontà d'onori e di ricchezze, attorniato di
favoreggiatori e di nuovi amici; i quali vivevano tutti del suo credito
e de' suoi conviti, e vendevansi a gara alla sua potenza.

Il giovine amava le solenni memorie domestiche, e l'antica grandezza
della sua famiglia così severa, veneranda e tranquilla, di cui il
pensiero de' suoi prim'anni gli risvegliava la poetica ricordanza. Ma
allora il suo cuore non era più il cuor del fanciullo; Arnoldo non era
più quel di prima. Educato dall'esperienza de' viaggi, dallo spettacolo
di tanti e variati costumi, dagli avvenimenti che dovunque parevano
incalzarlo, dagli stessi suoi pensieri che si maturavano a una volontà
più tenace e a più costanti proponimenti, il giovine si persuadeva che
il tumulto della vita civile non era per l'uomo che sortì da natura
affetti generosi ma tranquilli, non era per lui.

Egli era entrato nell'onesta casa del cittadino di Parigi, e nella
soffitta del povero operaio di Lione; stanco dalla lunga via sotto
gli ardori del sole d'estate, s'era riposato all'ombra d'una vecchia
quercia spagnuola, in mezzo a una banda di _guerrilleros_, che
dormivano d'intorno a lui sicuri e spensierati, sul nudo terreno, co'
fidi loro moschetti a lato; aveva durato molte notti sotto il tetto
d'un casolare svizzero, in cima delle Alpi, alla vista delle eterne
ghiacciaie, e del paese povero e libero; s'era adagiato nella barca
del gondoliere veneziano, e aveva vogato nel navicello del pescatore
di Napoli. Allora egli aveva sentito forte più che mai nel cuore la
voce misteriosa della verità e della bellezza, che spiegano allo
sguardo sempre e da per tutto una poesia potente e divina, nello
spettacolo della natura e nelle vicissitudini del cielo e del mare,
nella religione della povertà e nell'entusiasmo degli umani sacrifizi;
allora aveva meditato a sè stesso, e aveva conosciuto che ben poca cosa
diventano, in faccia d'una provvidenza così grande, le glorie storiche
e l'orgoglio d'una famiglia che conta i nomi degli avi e de' redati
poderi, nè si giova delle larghe fortune, che per far nuova grandezza e
per ambizioni maggiori.

Il cuore d'Arnoldo era buono e mite; generoso, com'è il giovine a
vent'anni, ardente di trovar nella vita la bellezza e l'amore, come
il poeta nelle sue prime inspirazioni, egli avrebbe fatto rinuncia
del suo avvenire e forse della sua stessa fortuna, preparata con sì
lunga solerzia, per una vita oscura e modesta, ma consolata dalla
benevolenza, dall'amore, dalla semplice e tranquilla amicizia. L'arte
della vita per lui altro non era ancora che il bel sogno della virtù.

Una sera, lord Leslie, all'uscir della Camera de' Pari, chiamò con gran
mistero il figlio nel suo gabinetto. E con insolita amorevolezza, e con
la fronte serena, egli ch'era sempre accigliato e di scarse parole,
s'aperse con Arnoldo, gli disse d'avere spesa tutta la sua vita per
lui; gli ragionò della grandezza della sua casa, dell'onoranza degli
avi; e conchiuse col proporgli un illustre accasamento, che doveva
ristorar la sua ricchezza, crescere il favore del suo nome, e a lui
medesimo aprire la luminosa via degli onori. In sulle prime, il giovine
ristette mutolo e scontento; ma poi non potè rifiutare a suo padre di
conoscere almeno la damigella che doveva essergli promessa sposa: e
la cosa stette intanto segreta. La vide dunque, e la conobbe; essa era
bella, orgogliosa e leggiera; era fatta per i piccoli trionfi del gran
mondo, non per viver nel cuore d'un uomo. Arnoldo sentì subito che non
avrebbe potuto amarla mai; vide che, insieme alla fanciulla, gli era
necessario sposare anche la causa de' parenti di lei, gli parve quasi
d'esser venduto; e a questo repugnava. Aperse allora la sua risoluzione
al padre, che impaziente aspettava, e lo scongiurò di comandargli
qualunque sacrifizio, fuorchè quello del suo cuore.

Levò la testa il lord in atto di maraviglia, impallidì a quella
negativa improvvisa; e congedò, senza dir nulla, ma in superbo atto,
il ribelle figliuolo. Lord Leslie aveva già impegnata la sua parola a'
genitori della fanciulla; e quello strano rifiuto d'Arnoldo rovesciava
tutto l'edificio delle sue speranze. Poichè invano ebbe intromessi i
consigli d'alcuni autorevoli parenti per vincere l'ostinata ripulsa
del figliuolo, risolvè di lasciar l'Inghilterra, e se ne venne con
rapido viaggio in Italia, insieme con Elisa e Vittorina. Arnoldo,
ignaro affatto di quella subitanea partenza, e dolente dell'ingiusto
sdegno del padre, ascoltò il buon pensiero di seguitarlo, per tornar
più presto che potesse in pace con lui. Partì non molto dipoi, e lo
raggiunse, ch'egli era di fresco arrivato.

Io non dirò come il padre e il figlio s'incontrassero sul terrazzo
della villa di ****, nè dirò le lagrime e le preghiere delle due
giovinette, che tentarono invano di mitigare la cupa collera di
quell'uomo sdegnato.

— Io sono figliuol vostro, diceva Arnoldo supplichevole, e voglio
starmi con voi! Se voi non mi perdonate ancora, aspetterò che il tempo
e la conoscenza delle mie virtuose intenzioni mi tornino alla grazia
vostra. Sì, avrò pazienza, finchè voi non pronunziate sul mio capo la
maledizione!...

Lord Leslie pareva commosso; ma non cedette, nè rispose che questo: —
Andatevene, sconsigliato! Io non vi rivedrò finchè non abbiate fatto
miglior senno. — E ogni ragione fu inutile.

Ma Arnoldo non rinunciò alla sua virtuosa speranza. Prese a pigione una
piccola casa, che non era a più d'un miglio di quella villa; abbastanza
contento, se gli avvenisse d'incontrar le sue buone sorelle o sul lago,
o sui sentieri della montagna. Con esse, egli ingannava molte ore,
ragionando di tante care cose, di tante memorie che portava nel cuore.


La storia di codesta vicenda famigliare potrà, cred'io, spiegare
la sdegnosa tristezza del lord, e l'amorevole preghiera delle due
fanciulle, in quella mattina.



III.

A DIPORTO SUL LAGO.


Le due sorelle eran restate per alcun tempo sul terrazzo, dopo che
il padre loro s'era ritirato. Mortificate e timide, come chi sente
ripetersi la negativa di cosa già prima domandata nè ottenuta mai, esse
guardavansi e tacevano. I loro pensieri eran diversi, ma i loro cuori
eran del paro sbigottiti per quell'ostinato dispetto; nè sapevan come
mai un padre potesse, quantunque offeso, non aprire per il primo le
braccia a un figlio che prega. Avventurate! elleno si ricordano ancora
della madre loro, e di quell'amore con cui le accarezzò fanciullette;
elle non sanno di che sia capace un antico orgoglio, quand'è caduto da
un'alta speranza.

Elisa fu la prima che, avvicinandosi a sua sorella e abbracciandola con
gran dolcezza d'affetto, le propose di scendere nella piccola barca,
e di andarsene così sole a diporto lungo le rive del lago, che lucido
e trasparente, al par del cielo, pareva le invitasse: quella buona
fanciulla sperava che forse le sarebbe accaduto di vedere di lontano il
suo Arnoldo, o di mandargli un saluto; e questa fiducia la consolava
dell'amarezza che il rimprovero paterno le aveva gettato nel cuore. —
Eran due giorni, ch'essa non incontravasi col fratello, e il segreto
timore ch'egli potesse abbandonar que' luoghi, e toglierle la cara
speranza, che pur nutriva, di riconciliarlo col padre, le angustiava i
pensieri.

Alla proposta della sorella, la leggiera nuvola di mestizia, che aveva
offuscato la placida fronte di Vittorina, si dileguò; e la sua bocca
s'aperse al sorriso e alla risposta d'un lieto consenso.

Discesero inosservate, attraversarono l'ombreggiato viale del giardino,
e calarono fino alla dàrsena; la quale aprivasi, come una grotta
silenziosa, appiedi del terrazzo. Qui Vittorina, con un grido di
gioia, balzò in una delle due barchette assicurate a grossi anelli
di ferro; distaccò ella stessa colle sue piccole mani la catena che
la legava al masso, e distese la destra, per prender quella d'Elisa;
la quale, con maggior ritrosia, arrischiando un passo dall'ultimo
scalino della sponda che le acque lambivano, la seguiva nella barca.
Allora Vittorina, dato di piglio all'un de' remi, l'appuntò con agile
movimento contro la muraglia, e sospinse la barchetta fuor della
darsena, sì bene come l'avrebbe fatto un robusto navicellaio.

E quando furono un po' al largo, affidò l'altro remo a Elisa, dicendole:

— Via, sorella, aiutami almeno, se vuoi che andiamo innanzi. Già tu
se' una cattiva barcaiuola, lo so! ma ti farò io da maestra. Dunque...
guarda! — Non così! Tien saldo quel remo — allunga la destra — allenta
adesso! — così! Non lo levar tant'alto, e fa che il remo si tuffi
senza strepito, e senza mandar quegli sprazzi d'acqua... così! bene!
Tien dietro a me, d'accordo, se no, vedi! la barca tentenna come una
tròttola. Aspetta — adesso!... — E la giovinetta rideva di cuore.

La barca leggera andava scorrendo lungo la costiera, sotto l'ombra
oscura che gli annosi macchioni e i massi scheggiati, coperti
d'eriche e di musco, gettavano sulle onde. E le due soavi figure delle
giovinette rematrici si disegnavan leggiadramente sul fondo della verde
parete della riva; la quale pareva via via fuggisse, a mano a mano
che il battello col suo continuo ondeggiamento si dilungava nel lago,
quieto e scintillante come lo zaffiro.

Esse erano tutt'e due vestite d'un semplice abito bianco, e cinte d'un
nero grembiule di seta, a foggia di guarnelletto; entrambe portavano
una ciarpetta di velo color di rosa, ripiegata d'intorno la persona, e
allacciata dietro con un nodo vezzoso; e, seguendo la vicenda de' remi,
s'alzavano e s'abbassavano insieme le giovenili loro teste, ch'eran
coperte d'un leggiadro cappello di paglia annodato di sotto il mento;
ma i bianchi veletti de' loro cappelli svolazzavano all'indietro,
scherzosamente agitati dalla fresca brezzolina, che spirava lungo i
dossi e i pendii delle montagne del lago; perchè da quella parte non
era disceso ancora il raggio del sole già alto.

Allorchè d'un buon tratto di lago si furono allontanate dalla villa,
le due sorelle allentarono i remi, lasciando andar la barchetta al
capriccio dell'onde; ma le onde erano sì tranquille, e parevan cullare
il legno con sì grazioso moto, che Elisa e Vittorina, rapite dalla
magica scena che si distendeva loro d'intorno, sedettero, deposti i
remi sulla piccola prora, l'una accanto all'altra. E mentre tenevansi
soavemente abbracciate, le anime loro erravano negli amorosi pensieri
e nelle divine fantasie, che non si risvegliano fuorchè in mezzo a
que' luoghi felici, nell'ora splendida del meriggio, mentre disopra
i casolari d'ogni paesetto del lago vedi levarsi, come una nuvoletta
sottile, una lunga striscia di fumo, e dai campanili delle chiese
sparse sulle montagne, odi echeggiare in un aereo concerto il sacro
saluto del mezzogiorno.

Così stettero per qualche tempo ad ammirare quel delizioso paese, che
con sì grande e variato spettacolo di movimento e di quiete, e con sì
superba armonia di cielo, d'acqua e di monti, ampiamente presentavasi
dinanzi ai loro sguardi. Poi, quasi mosse da uno stesso pensiero, gli
occhi loro s'arrestarono su quel mucchio di case che formano la terra
di ****, cercando sul pendio del piccolo promontorio una casa nota, la
quale sorgeva più in alto dell'altre, all'ombra d'un verde poggio.

Stettero fisse per lunga pezza alle finestre di quella casa; era là che
il loro Arnoldo dimorava.

Ma quelle imposte non s'apersero; e per quanto Elisa e Vittorina
cercassero con gli occhi, nulla poteron vedere.

— Io temo che neppur quest'oggi non gli possiamo dire una parola,
cominciò allora Elisa.

— Fors'egli se ne va errando su per la montagna, soggiunse la sorella.

— O forse... non è più qui!

— Oh non lo credere! — E poi, come colpita da un'idea: Vuoi tu sapere
s'egli è qui? Poniamci a cantare! Egli ne sentirà, si getterà in una
barca, raggiungerà la nostra, e noi saremo contente. A te!

— Ma se nostro padre di lontano ci scoprisse?...

— Eh! vuoi che ne proibisca di cantare? E poi, scommetto che adesso
egli è già immerso nella lettura de' suoi eterni giornali: jeri n'ha
ricevuto un grosso piego da Londra; e certo, per tre o quattr'ore non
sente più nulla; dorme nella sua politica.

— Or bene?

— A te dunque! Canta la romanza che quel giovine italiano ha
scritta l'anno scorso sul tuo albo. È patetica, e piace tanto ad
Arnoldo! —

Elisa non voleva: ma Vittorina, stringendosele più vicino in quel suo
vezzo leggiadro, ne la pregava con un bacio. — Ed Elisa cantò.

    IL RICORDO

    CANZONE DI ELISA.

    Egli è solo! — E la fida memoria
      Già l'estrema sua lagrima elìce:
      Chi può dargli col tardo consiglio
      Anche un'ora del tempo felice?..
      Egli è solo! alla gioja, al dolore
      Più non s'apre il ferito suo core.

        Muti, eterni i suoi giorni si volgono:
      Pur nell'ora del vespro romita
      S'addormenta il pensier dell'esiglio,
      Il suo cuor si risveglia alla vita.
      Ei contempla del duol nella piena
      La sua parte di cielo serena! —

    Ahi! degli anni sull'alba alle lagrime,
      Infelice! le luci schiudea:
      Sulla povera cuna deserta
      La piangente sua madre vedea!..
      Ella è morta! — Nè a lui più rimane
      Che invocar la suprema domane!

        Chi può dirgli: Quel giorno che perdesi
      T'è promessa d'un giorno più lieto?
      Quando ogni ora di lutto è coverta,
      Quando tace ogni gaudio segreto,
      Nè v'ha raggio che allegri e dipinga
      Il sentier di sua vita raminga?

    Ha perduto l'amore e la patria,
      Fin la stanca speranza ha perduta!
      La materna memoria era viva...
      Morì anch'essa nell'anima muta!
      Non ha un seno in cui pianga o s'asconda,
      Non ha un cor che al suo grido risponda.

        Un estranio terreno raccoglie,
      Il suo pianto e il negletto suo frale.
      Presso al mar, sul confin della riva.
      Col sorriso d'un ultimo vale,
      Splendi, o sole, a la fin del viaggio,
      La sua croce saluta d'un raggio!

Così cantava, ma la voce della giovinetta era malinconica e lenta, e il
suo canto morì sull'acque del lago, come il gemito d'una colomba.

— Che buona Elisa! disse, scuotendo la testa, la gaia Vittorina. E come
vuoi che Arnoldo ci senta, se tu canti con una voce patetica, come la
sciagura che la tua canzone ricorda?... Oh! vedo che tocca a me! la mia
voce è più lieta, più viva; e se nostro fratello non è lontano di qui
una lega, scommetto che risponderà al nostro richiamo! —

E la vezzosa sorella si fece essa pure a cantare. La voce di lei
era limpida, giojosa ed acuta; e mentre gli accenti che scioglieva
dall'innocente suo labbro, vibravano in vivace gorgheggio per
quell'aere così tranquillo, il suo roseo volto coloravasi d'un'insolita
vivezza, e gli occhi suoi scintillavano d'una leggiadria, d'un fuoco,
che parevano chiamare i baci.

    IL DESIO.

    CANZONE DI VITTORINA.

    I giorni che fuggìro
      Non richiamar, donzella!
      L'età primiera è bella,
      È dolce il suo sospiro!
      Ma la gentil tua vita
      Fu a l'avvenir nudrita.

    Ascolta, o giovinetta,
      D'amor la pia parola!
      Non pianger tutta sola
      Ne' tuoi pensier negletta;
      Come deserto fiore,
      Che non olezza e muore.

    Non sai che la tua viva
      Gota scolora intanto,
      Che già vi solca il pianto
      La ruga intempestiva?
      Che quando amor vorrai,
      Ei non verrà più mai?...

    Se il sovvenir le preme,
      L'ore a volar son tarde.
      Senti il mio cor com'arde,
      Come sospira e teme!
      Non sa il dolor che sia,
      Ma il primo amor desía.

    D'una pudica rosa
      Sempre le trecce io m'orno;
      E allor che splenda il giorno,
      Che mi diran: Se' sposa!
      Porrò sul vergin cuore
      La rosa dell'amore!

Non era finita la canzone, che le due sorelle discernevano, al basso
della costiera, un giovine agitare un fazzoletto bianco; un giovine che
subito avevan riconosciuto.

Ravvisarlo, e gettarsi sopra i remi, e vogare entrambe con lena eguale
alla volta della riva, fu un istante. Raggiavano di sincera gioja le
care fisonomie delle fanciulle; e pareva ch'Elisa avesse in un momento
imparato a tuffare il suo remo con quella destrezza, che poco prima
Vittorina studiavasi invano d'insegnarle.



IV.

NELLA CASETTA.


Intanto che la barca leggiera delle due giovinette solca a dilungo le
placide acque del lago, entriamo in una piccola casa del paesello, la
quale sorge poco sopra della riva, sull'orlo d'una facile discesa, e
par quasi nascondersi dietro il lento dosso che forma l'ultima radice
della montagna. Un cortiletto le s'allarga sul davanti; e il muricciolo
che lo circonda, cala sino al filo dell'acqua. Sopra la porticella
bassa e quadrata, a cui si sale per quattro scalini rozzi e malsicuri,
e sulle due finestre inferriate dell'angusto pian terreno, una delle
quali rischiara una povera ma decente cucina, e l'altra un salottino
dipinto a verde ma umido e nudo, vedi stendersi all'infuori un bel
pergolato, ricco di novello fogliame e di pendenti tralci gemmati. Al
di su poi della pergola, s'aprono alcune altre finestre ineguali; e le
impannate dischiuse vi lasciano entrare la piena luce di quel bel sole.
Fuori d'una finestretta, ch'è presso all'angolo manco della casa, e
sul cui margine s'intrecciano e arrampicano i viticchi del convòlvolo
silvestre tutti fioriti di candide campanelle, vedi svolazzare una
leggiera tendicciuola.

Era quella la casa del povero Andrea. Colà, pochi giorni innanzi,
quell'uom dabbene era morto, lasciandovi sole Caterina, la sua donna, e
Angiola Maria la sua cara figliuola.

In tempi migliori, quando viveva ancora il conte Francesco ****,
signore della villa, in quell'anno abitata dalla famiglia inglese, fu
l'Andrea il fattor della casa, l'intendente, il factotum di quel buon
padrone. Eppure, com'egli era sempre stato un uomo onesto, così, al
contrario di quel che al solito si vede, benchè agente dell'altrui,
non aveva mai saputo avanzar nulla per sè. E per ciò quando, morto il
suo antico signore e venduta la villa, egli venne lasciato in libertà,
fu abbastanza contento di potersi ritirare in quell'umile casetta che
lo aveva veduto nascere, e donde poteva ancora scorger di lontano il
palazzo, come sempre continuava a chiamarlo, il palazzo del vecchio
conte. Egli non ebbe più cuore, l'Andrea, di mettersi al servizio di
qualch'altro padrone; e neppure per diventare il più ricco fittaiuolo
della _Bassa_, avrebbe acconsentito di abbandonare la riva del suo
lago, l'acqua sulla quale era nato. E se ne morì contento in quel
fidato ricovero, in faccia ai monti e a quel cielo ch'egli aveva amato
sempre come cosa sua. I suoi settant'anni eran corsi in tanta oscurità,
in tanta quiete!

Carlo, il suo figliuolo maggiore, era in quel tempo vicecurato in un
povero paese della Valtellina: e anche questa fortuna, egli la doveva
al conte Francesco, il quale alcuni anni prima aveva fondato apposta
un piccolo beneficio per il giovane abate. La signora contessa poi,
un'aurea donna, piena di bontà e d'amore, aveva posta una singolare
affezione nella piccola Angiola Maria; e siccome dal cielo erale stata
negata la consolazione d'aver de' figliuoli, così ella si teneva cara
la fanciulletta, come se la fosse sua propria.

Gli è inutile ch'io vi dica, perchè ben lo pensate, che, ogni volta
la buona contessa Anna venisse a passare i più lieti mesi dell'anno
nella villa del lago, la prima cosa a chiedere era della piccola Maria.
Quella ragazzetta era così graziosa e bellina fin da' suoi primi anni,
aveva il volto così ritondetto e color di rosa, e i capegli tra il
biondo e il bruno così lucidi e inanellati che rubava al primo vederla
i baci e le carezze di tutti. Le sua voce ancor fanciullesca aveva già
quell'insinuante dolcezza ch'è segno di un'anima timida e amorosa: e il
suo ingenuo parlare e le schiette domande che faceva, dimostravan che
la sua nascente ragione era semplice e retta, e che già la sua mente
era commossa dal trepido desiderio di pensare e di conoscere.

La contessa Anna dunque rapiva spesso alla madre quella cara creaturina
sì bella, ch'era la sua piccola delizia. E qualche volta poi la
condusse con sè alla città; nè poco ci voleva allora per vincere una
certa ritrosìa del buon Andrea, il quale finiva ad obbedire, perchè
la era volontà dei padroni, ma in cuor suo pensava che da quella
domestichezza co' signori non ne poteva venir bene per una povera
figliuola come la sua. Alla madre invece, la pareva una benedizione del
cielo; ella si trovava, è vero, come perduta, quand'era sola, ma il suo
orgoglio materno, ben naturale, n'era consolato, chè vedeva crescer sì
bianca e bella la figliuola, ch'ella chiamava sua perla, sua ricchezza.

Quando la fanciulla si fe' più grandicella, la contessa se la teneva
più sovente in compagnia, talvolta per le lunghe ore della mattina,
talvolta per l'intera giornata, e le prodigava ogni cura, con
sollecitudine quasi materna. Sotto gli occhi suoi, la fanciulla imparò
a legger que' libri, che sono l'amore delle tenere menti appena s'apron
facili agli accorti consigli del senno; e di que' libri, una Storia
Sacra, tutta adornata di belle figure miniate, era il suo prediletto.
Poi, seduta accanto dell'amorosa protettrice, Maria attendeva a qualche
gentil lavoro d'ago o di spola; o si piaceva, sullo stesso scrittojo
della contessa, di sgorbiar fogli di carta, copiando e ricopiando
il nome della buona signora e quelli di suo padre, della mamma e del
fratello; e quest'era la sua gran gioja. Oh! quanto l'amorevole donna
era dolcemente rapita da quell'anima candida e ingenua, ch'essa vedeva
a poco a poco prender come una nuova vita, alle semplici lezioni del
bello e della virtù! Oh quanto era commossa dalle parole di Maria
che rispondevano alle sue, dall'affetto di quella innocente che le
chiedeva la grazia d'un bacio, dalle stesse sue lagrime, quando, per
qualche lieve cruccio, il suo picciol cuore non trovava altra risposta
che un largo pianto! — Quella era una beatitudine, e assai sovente
la contessa, dopo d'aver a lungo contemplata la fanciulla, si faceva
mesta, e pensava che felicità sarebbe stata la sua, se anch'ella avesse
potuto sentirsi chiamar madre, se anche a lei avesse il cielo concessa
una figliuola come quella.

Ma la felicità di questi anni doveva presto finire. Il conte Francesco
morì, e l'ottima sua compagna lo seguì presto al sepolcro. Erano
svaniti i bei sogni di mamma Caterina; il compare Andrea aveva avuto
ragione. Angiola Maria non abbandonò più la casa paterna, ma pur vi
crebbe bella e serena com'era sempre stata; perchè quell'impronta
virtuosa che il suo cuore aveva ricevuto, non poteva cancellarsi
più. Pareva che la giovinetta portasse la pace e il bene con sè; il
vecchio suo padre menava giorni tranquilli, d'altro non ragionando che
delle sue lontane memorie, de' tempi burrascosi della sua gioventù, e
de' suoi buoni padroni; e Caterina divideva colla figliuola le poche
faccende della casa, serbando però sempre le più dure per sè, e paga
abbastanza nella sua tenerezza di vedersi sorridere d'intorno quel
fior sì gentile della sua Maria. Solo il giovine vicecurato mancava a
compire la loro felicità: la parrocchia era lontana dalla sua terra, e
la strada era rotta e aspra, a traverso di monti e vallate. Pure, una o
due volte l'anno, egli veniva nel seno de' suoi cari, veniva a sparger
di letizia le tranquille abitudini di quella domestica esistenza.

Ma il buon Andrea cominciava a sentire il peso della vecchiezza. Già da
tre o quattr'anni egli aveva appeso sopra il capezzale del suo letto
il fedele archibugio, l'unica sua gloria, l'ultima sua amicizia; dopo
ch'eragli morto il suo vecchio cane Azor, stato un tempo custode della
villa, e poi suo compagno nella disgrazia, Andrea non era uscito mai
più alla caccia del gallo di montagna o del camoscio sulle balze del
Legnone, nè a quella degli anitrini e degli smerghi nelle paludi di
Colico e del forte di Fuentes. Oramai altro spasso non si dava che
quello di pigliar soletto ogni mattina il sentiero della riva, fino
all'antico palazzo, e di riposare, in faccia al sole, sul sedile di
sasso che stava ancora presso la porta della fattoria. Era la sua più
cara abitudine; le ore gli fuggivano in pace, e la sua mente serena gli
si dipingeva sulla fronte calva, ma senza rughe.

Un giorno, l'ora consueta passò; e come non fu veduto tornare a
casa, la sua Maria venne con passo rapido e con cuore inquieto fino
alla villa; ma si rassicurò quando lo vide seduto all'usato posto,
che pareva dormisse. La fanciulla s'avvicinò, quietamente sedette
presso di lui, e temendo di risvegliarlo, se ne stava a contemplarlo
in atto d'amore.... Quando, chinandosi più vicino al suo volto,
s'accorse che non dormiva; i suoi occhi erano aperti, travolti, senza
sguardo; il capo piegato sul petto, immobile, la bocca stranamente
contraffatta. Allora spaventata levossi, lo prese per una mano, era
fredda, insensibile, lo chiamò a nome più volte, e non rispose; lo
riscosse fortemente.... e lo vide cader rovescioni da un lato sopra il
sedile, come un cadavere. Diede un alto grido di terrore la fanciulla,
chiamò soccorso: due giovani del paese che passavano al basso della
riva, salirono a quella volta; e un pescatore non lontano che udì quel
grido, lasciò la sua barca e accorse anch'esso. Trasportarono a casa il
povero vecchio che credettero morto, e lo deposero sul suo letto; non
mi domandate come lo ricevesse la sua donna, che lagrime fosser quelle
dell'infelice figliuola! — Ma il medico del paese, che non fu tardo a
correre, trovò che il pover uomo aveva ancora un fil di vita; egli era
stato colpito d'apoplessìa, ed era morto di mezzo la persona. Andrea
si ridestò ancora una volta; guardò, e riconobbe quelle sventurate di
Caterina e di Maria, e le benedisse co' tremanti segni della mano, chè
non potè colle parole. Alcuni dì appresso egli aveva finito di patire.

Gli uomini che fanno vita di mondo dicono che la povera gente ha
ruvida la pelle, che il suo dolore è simile alla sua allegrezza,
ridicolo e rumoroso, come lo scoppiar de' mortai in una sagra di
villaggio; l'indomani quel ch'è stato è stato. Io non so se sia
così, ma son persuaso che il dolore della gente semplice e buona del
popolo è più vivo e sincero di quello de' grandi, ne' lor magnifici
funerali e nell'ereditarie gramaglie. Fra noi, nelle colte e fiorenti
città, gli uomini nascono e muoiono, ridono, piangono, gavazzano e
si disperano, tutti nello stesso momento, uno accanto all'altro; e
sovente un sol piano di casa, una sola parete, dividon l'orgia d'un
convito dall'agonia d'un moribondo; nessuno lo sa, nessuno se ne
cura. L'etichetta poi, tra i profumati suoi codici, ha pur quello del
dolore; il vestire a lutto è prescritto a mesi, a giorni; il bruno è
una legge sancita per tutti, fuorchè pel gran cancelliere di Francia
e per i nepoti del papa; padre, madre, fratelli, avoli, zii, moglie,
marito, cugini primi, secondi, eccetera, a ciascheduno il suo, nemmeno
un'ora di più; è la tariffa del dolore pesato, direi quasi, a once e
dramme. Si lasciano le case ov'è entrata la morte, si chiudono a chiave
le camere del _caro defunto_, si spediscono cento lettere dolorose
coll'orliccio nero, si fa stampare l'indispensabile necrologia, si
ricevon le visite d'una monotona e ceremoniosa condoglianza, si vestono
di nero i fanciulletti che sorridono, e il servidorame che susurra
e conta sulle dita il sospirato assegnamento vitalizio. E intanto
che si deplora la luttuosa morte, con tutta l'energia della vita si
disuggellano e confrontano i testamenti, si frugano e si compitano i
codicilli.

Ma io venero il dolore della povera gente, quello schietto e rozzo
dolore che non conia frasi, e di conforto non vuol saperne. Nessuno,
fuorchè il buon campagnuolo, mi parla più del suo nonno _buon'anima_;
nessuno, fuorchè la vecchia massaia, o la sposa de' nostri contadi,
quando ricorda alcuno de' suoi che non è più, ne accompagna il suo nome
con quel santo augurio: _Gesù per lui!_


Ma torniamo nella solitaria casetta d'Andrea.

Il giovine vicecurato sedeva presso la finestra del salottino, tenendo
nelle mani il suo breviario socchiuso. Egli alzava a quando a quando la
testa, e volgendo gli sguardi fuor della piccola finestra, perchè solo
il cielo fosse testimonio del suo sospiro, gemeva sommessamente; poi
restava immobile, e si lasciava cader il volume sulle ginocchia. Allora
i suoi pensieri erravano lontano; le memorie del dolore, le memorie di
questa terra, si mischiavano alle interrotte frasi de' salmi che le sue
labbra recitavano susurrando.

Intanto sua madre e sua sorella, affaccendate negli apparecchi d'un
parco desinare, andavano e venivano, a passi cauti, in quella e
nell'altra stanza, ch'era la cucina; e scambiavan fra loro poche e
sommesse parole, per non turbare la sua meditazione e la sua preghiera.

Un'ora di poi, il piccol desco fu pronto. La tavola era coperta d'una
tovaglia nostrale, ma pulita e bianca; a ciascuno de' tre lati una
modesta posata e una seggiola di paglia; all'altro capo della tavola
fumava la minestra allora versata in una capace scodella a manichi
rabescati e dipinta di fiori azzurri, avanzo di qualche vecchia
eredità. Le due donne sedettero l'una dirimpetto all'altra, senza
parlare; e un momento appresso, il prete ripose il suo libro, e venne a
collocarsi in mezzo di loro.

Al cominciar del desinare, che presentava una strana mischianza di
festivo nell'arredo, e di malinconico nelle persone che vi sedevano,
nessuno de' tre ruppe il silenzio. Guardavansi a ora a ora l'un
l'altro; e la madre, che trangugiava a stento qualche cucchiaiata di
minestra, non poteva distaccare gli occhi dalla faccia del figlio, e
pareva fare una gran resistenza al piangere.

— Via, mamma, che fate? disse alla fine il prete con certa bruschezza;
non v'accorate in questa maniera: non avete già pianto abbastanza?

— Oh! siete voi che parlate così, don Carlo? rispose rammaricata
la buona donna. Non v'ho veduto piangere anche voi che adesso mi
rimproverate? Jeri, quando siete capitato qui, e che io vi son venuta
incontro sull'uscio, non v'ho veduto forse far tutto per nascondermi le
lagrime?

— O mamma! in quel momento...

— Lo so, che faceste per amor mio, per non mi crucciar di più;
ma quando avete lasciato cadere la testa, qui, sulla mia spalla,
e m'abbracciaste stretta stretta, io mi sono accorta che voi
piangevate... E stamane, quando faceste quella bella predica, che non
ne ho sentito mai l'uguale, nemmeno in duomo a Como, non avevate anche
voi gli occhi rossi, e non vi tremava la voce?

— Sì, sì, è vero! buona mamma, perdonatemi! Ma bisogna peraltro esser
cristiani, pensar che Dio ha voluto così, che stiamo quaggiù per
soffrire, e rassegnarci. Quando ci tocca il male, pensiamo al bene che
prima il Signore ne ha fatto. Così noi benediremo sempre il suo nome!
Il nostro povero padre almeno è morto vecchio: e non avremmo potuto
forse perderlo tanto tempo innanzi, se Dio avesse voluto?...

— Oh! tu hai ragione, Carlo, disse allora sua sorella. Il Signore non
abbandona mai! Egli che ci manda i travagli, ci darà sempre anche la
forza di sostenerli.

— Buona Maria, tu sei un angelo! È la tua innocenza che parla: oh che
tu possa essere sempre così rassegnata! Tocca a te di sostenere il
coraggio di nostra madre... E anche il mio, sai, perchè sento che ho
bisogno delle tue parole; mi sforzo di parer franco, ma sono afflitto e
perduto d'animo.

Poi tacevano tutti e tre, e si riguardavano alternamente in segreto.
Solo la vecchia madre, non dimentica dalla sua abitudine di buona
massaia, levavasi a ogni tratto da sedere, per toglier dal treppiè
sul quale cuocevano e apprestare a' suoi figli le due vivande ch'ella
stessa aveva ammanite; un piatto di lùppoli conditi, e una bragiuola.

Ma poi ch'ella era di nuovo seduta, non poteva star di ripetere: Quando
penso che quella buon'anima di vostro padre non ebbe la consolazione
di vedervi diventar curato, o don Carlo, nè di sentirvi a predicar sì
bene, nè ebbe la gioia di seder a tavola con voi, là, a quel posto
ch'è vôto, e di bere insieme a voi una bottiglia di quel suo vin
vecchio, l'ultimo avanzo della cantina del signor conte!... E dire,
che anche lui, il signor conte, quel re degli uomini, è morto già da
tant'anni!... Oh se Dio m'avesse almeno chiamata lassù, me, prima del
povero Andrea!...

— Fareste meglio a tacere, cara mamma! Voi siete una benedetta donna!
Che pensieri, per carità, che pensieri vi girano in mente! Guardate
adesso! col vostro dire, anche Maria non fa che mandar giù lagrime.
Via, dunque, parliam d'altro. Di forestieri ne son capitati quest'anno?

— Credo che sì, Maria rispose.

— Certo, aggiunse la madre: un signore inglese è venuto a star nel
palazzo, e vi resterà per tutto l'anno. Pochi dì innanzi morire, Andrea
gli aveva parlato a quel signore, e anche alle sue figliuole, che son
così belle... E pensare che il poveruomo, adesso, non c'è più!

— Povera mamma! è impossibile parlar d'altro! disse Maria. O mio Carlo,
se almeno tu fossi stato qui cinque giorni fa, quando è succeduta la
disgrazia, e ch'io non sapeva trovare una parola di conforto da dire
a nostra madre! Io domandava alla Madonna il coraggio, ma alla mamma
non sapevo dir altro che: il Signore ha voluto così... E poi, dopo
trattenute le lagrime un pezzo, che mi scoppiava il cuore, anch'io
finiva a pianger con lei.

— Oh così l'avessi potuto, com'io voleva, trovarmi fra voi! O Maria, se
tu sapessi qual colpo fu per me il ricevere la tua lettera, che senza
dirmi il pericolo di nostro padre mi fece tremare per la sua vita!...
E non poter subito correre a vederlo!... Il curato era anch'esso
inchiodato in letto da una malattia ostinata; io non poteva, io non
doveva partire. Il Signore mi consegnò dell'altre anime; e non m'era
permesso abbandonar quelle, nemmeno per accompagnar l'anima di mio
padre nel suo transito da questo mondo all'altro. In che stato io mi
fossi, pensate!

— Ecco qui! e voi, don Carlo, perchè adesso mi parlate così? Forse per
tenermi su allegra? disse sua madre.

— Il signor curato, quantunque si sentisse ancora male, mi stimolava
a correr qui; e mi diceva, oh ne lo rimeriti il cielo! che per lui
l'andava meglio, che si sarebbe trascinato giù del letto, e avrebbe
in qualche modo servita la parrocchia... Eppure aspettai; la più
dura prova ch'io soffersi, fu questa! Ma c'è sempre il rimedio della
provvidenza; due giorni appresso, il signor curato era sano, che mi
parve un miracolo. E io partii allora, e fu egli stesso che m'imprestò
il suo biroccio, e mi mise le redini in mano... Ah! io sperava ancora
d'arrivare in tempo.

— O Carlo, Carlo!.. lo interruppe Maria scuotendo mestamente il capo.

— Non fu così! pazienza. E il buon prete lasciava cader fra le mani la
testa.

E qui nuove lagrime invano soffocate da una parte e dall'altra, e
affettuose occhiate e strette di mano, come per annodare più forte que'
legami d'amore che la morte aveva rallentato.

Finito il piccolo desinare, che in quel dì non fu condito nè dalla fame
nè dalla contentezza, ragionarono insieme de' pochi fatti loro, e di
quel ben di Dio ch'era loro rimasto: e consisteva tutto in un po' di
terra sulla falda della montagna, e in un magro capitale di cinquemila
lire, avanzo de' sudori dell'onesto castaldo, ch'egli stesso pochi anni
prima aveva messo a traffico ne' magli di ferro, là sopra di Lecco.
Un altro tenue peculio di tremila lire aveva lasciato la buona defunta
contessa, nel suo testamento, in dote a Maria; ma gli eredi, con certe
loro scuse di passività da purgare e di attività da liquidare, non
avevan pagato mai quel piccolo legato; e poi se n'erano scordati, e
l'Andrea non aveva avuto cuore nè fronte di cercar più nulla; perchè,
diceva, quella era roba de' signori, e in giustizia a lui non avrebbe
dovuto toccare.

L'unico voto di don Carlo sarebbe stato che le due donne potessero
lasciar il paese, e venir a stabilirsi con lui, nella sua parrocchia
di Valtellina. E anch'esse lo volevano, chè pesava loro il pensiero
della futura solitudine: ma quest'era impossibile. Bisognava vender la
casa, vender la terra, fare de' grossi sacrifizii; e tutto questo per
andare a stentar la vita in un paese lontano, solitario, sepolto nel
grembo d'una vallata infeconda, dove non abita che uno sparso e povero
popolo di mandriani e di caprai; i quali al cominciar dell'inverno
lasciano i loro dirupi per calare al piano, ne' dintorni delle città,
e non tornare alle abbandonate case che allo squagliarsi delle nevi.
Nel durar delle lunghe invernate, era colà il buon prete conforto e
sostegno d'una grama moltitudine di vecchi, di donne, e fanciulli, che
rimanevano nell'alpestre villaggio; egli divideva con loro la scarsa
rendita del suo beneficio, e tutti lo benedicevano. — Che avrebber
mai fatto sua madre e sua sorella, in quella solitudine squallida e
malsana?

— Sentite dunque, disse don Carlo alle due donne. Poichè il mio paroco
me l'ha consentito, io resterò qui con voi, tre o quattro settimane,
finchè abbia fatto quel che c'è a fare in queste triste congiunture.
Messo che avrò in sesto i nostri pochi interessi, tornerò al mio
romitorio. Io per me rinuncio alla parte che mi può toccare, e voglio
che quel poco che abbiamo, non è vero, mamma? serva per voi, e per te,
Maria, per te, quando troverai qualche onesto partito. E in appresso,
se il Signore farà ch'io possa venir paroco in qualche paese men tristo
e più vicino a voi, per esempio, qui sul lago... allora v'aprirò la
mia casa, v'aprirò le mie braccia, e dirò a tutte e due: Venite a star
con me, a consolarmi la vita. Oh allora sì che mi parrà ancora d'esser
felice! —

Caterina e Maria eran commosse e persuase; esse guardavan con tacita
tenerezza il prete, che oramai era l'unico loro angelo protettore. E il
prete, levatosi e fattosi vicino a sua madre, strinse tra le sue mani
la destra della buona vecchia che piangeva, e la baciò con verecondo
rispetto. Poi la sorella gli stese la sua; ed egli stringendola del
paro, se la pose sul cuore, con una forza d'affetto che non può dirsi.

Indi a poco uscì della casetta.



V.

UNA PRIMA CONOSCENZA.


Il giorno se n'andava, e il sole declinando al più sereno tramonto che
mai rallegrasse la primavera, spargeva una luce d'oro e di fuoco nel
purissimo orizzonte dell'Alpi lontane; una luce, che scemando a mano
a mano nella diffusa interminata armonia degli splendidi suoi colori,
dal rosso di fiamma, fino al croceo porporino e al roseo morente
nell'azzurro, pareva mandar gli ultimi saluti del giorno alla nostra
parte d'Italia.

E intanto un leggero vapore s'innalzava, s'innalzava lentamente
sulle acque del lago, che risplendevano ancora di quell'argentina
e tranquilla varietà de' riflessi dell'occidente, commosse dalla
freschissima brezza a una lieve increspatura; un leggero vapore,
che non era una nebbia, ma pareva quell'immenso velo di luce quieta
che l'iride quasi sempre spiega al cessar d'un temporale; era come
un etereo profumo, che si levasse per imbalsamar l'aria sempre pura
e per rivestire di nuova incerta bellezza le rive deliziose. E quel
velo trasparente, aereo, dilatavasi a poco a poco in tutto il cielo,
conciliando quella pensierosa malinconia, ch'è tanto cara alle anime
che vivon di sè stesse e delle loro memorie, quando le rapisce la
contemplazione dell'infinito, donde nè l'occhio nè il cuore vorrebbero
staccarsi giammai.


Per una stradetta solinga, che discendeva con facile declivio alla riva
del lago, se n'andava passeggiando lento lento il giovine vicecurato;
e arrestavasi talora, sollevando distrattamente gli occhi al cielo, o
fissandoli con una cupa immobilità sul terreno, così come lo movevan
le molte angustie in che era posta la sua mente. Erano i suoi pensieri
d'una tristezza insolita, inquieta; erano i pensieri del suo avvenire
e di quello di due creature tanto amate, e per lui sacre allora più che
mai.

Alla svolta del sentiero, mentre il prete affrettava involontariamente
i passi, quasi tenendo dietro alla foga delle idee che lo crucciavano,
uno sconosciuto, il quale presso al margine della strada era seduto
sulla rovina d'un di que' rozzi ponti che attraversano i torrentelli
di quelle rive, levossi d'improvviso. E, chiuso un libro che stava
leggendo, s'avanzò incontro al vicecurato, e si tolse con atto cortese
di saluto il berretto; quest'era un dire: mi preme di far la vostra
conoscenza.

Era il giovine Arnoldo.

Sulle prime don Carlo, il quale aveva tutt'altra voglia che di parlare,
e peggio con uno sconosciuto, pensò di risponder al saluto, e salutando
andarsene per la sua via, come fece; ma l'altro, che apposta gli
s'era fatto incontro, con deciso animo di parlargli, ne lo trattenne
con instanza rispettosa, e in atto di scusa gli disse: — Mi perdoni,
signor abate, se ardisco così d'attraversare il sentiero della sua
passeggiata. Io però ringrazio la fortuna che m'ha fatto incontrar con
lei.

— Signore, non so veramente a che io debba questa sua gentilezza.

— Signor abate, ella non mi conosce; non sa nè manco chi io mi sia; e
io, al contrario, sebbene non sappia il suo nome, io la conosco, e la
stimo con sincerità.

— Come? non saprei davvero...

— Ma prima, la mi permetta che io mi faccia conoscere a lei, quantunque
ciò forse poco importi. Io sono inglese, e mi chiamo Arnoldo Leslie.

— Forse, ella è della famiglia del lord che dimora là, nella villa ****?

— Io sono della sua famiglia! sono suo figlio. — Così rispose, con
un sospiro represso, il giovine, e ristette pensoso alcun tempo,
poi soggiunse: — Stamane, io passava a caso per la piazza del paese:
vidi aperte le porte della chiesa, a cui nella loro divota sincerità
concorrevano i contadini d'ogni parte, e udii il suono d'una voce che
parlava alla raccolta moltitudine. Non so da che proposito io fossi
condotto, quando venni nel piccolo tempio; so bene che appena v'entrai
e intesi poche parole di quel discorso, io mi sentii conciliato a certa
tristezza, a cui mai non rispondevano i miei poco lieti pensieri.

— Oh! se le pareti d'una povera chiesa di campagna son meschine e nude,
le rende auguste la solennità de' misteri che vi si spiegano!

— Ma voi parlaste a quella gente con tale semplicità d'affetto e
di parole, che non credetti quasi a me stesso, tanto io era lontano
dell'aspettarmi di trovare in quell'oscuro tempio chi ragionasse di
Dio e della virtù con tale mitezza di pensieri e insieme con tanta
efficacia. Oh! i'ho sentita nel mio cuore, e letta su que' volti rozzi
e intenti de' vostri ascoltatori la pietà semplice e religiosa, quella
pietà che finora io non ho incontrato mai nè sotto gli archi de'
santuarj delle più superbe città, nè in Roma stessa, fra le auguste
pareti di San Pietro.

— Mi perdoni, signore! Ella mi vuol far merito di quanto forse fu solo
effetto d'un particolare sentimento del suo cuore. D'altra parte, io
non dissi se non quello che l'anima mia e la povera condizione di que'
buoni contadini mi chiamavano alla memoria.

— Oh! io me n'avvidi, signor abate; voi parlaste secondo il cuore, e il
cuore è tutto! Ma quando uscii della chiesa, più che non maravigliassi
della schietta sapienza delle ascoltate verità, io sentiva in me stesso
il desiderio di conoscer più davvicino colui che le aveva pronunziate.
Sì! non solamente nella sua voce e nell'efficace convincimento delle
parole, ma nel suo volto, nel girare degli occhi, nella commozione
che tutto l'agitava, io indovinai in lui un uomo d'alti pensieri e
d'anima generosa, l'uomo che ha sofferto e pianto, che ha studiato e
conosciuto, l'uomo della sventura e del sacrifizio.

— Ella si piace, signore, di far del romanzesco, cred'io! disse don
Carlo con un tal sorriso di scontento.

— No, non è così! riprese serio il giovine, a cui quella dura risposta
spiacque.

— Mi fa maraviglia l'udire, soggiunse il vicecurato, che un giovine,
come lei, nell'ardore dell'età e della fortuna, s'occupi di cercar
quegli uomini oscuri e per lo più dal mondo disprezzati, che vivono in
un cantuccio della terra, per consacrare questi poveri anni al bene
di pochi loro fratelli. Del resto, le confesso, io non veggo altra
generosità nel sacrifizio che feci, se non quella che mille altri, al
par di me, conduce per la stessa via.

E queste parole egli diceva con una certa poco nascosta intenzione di
tagliare a mezzo un colloquio che gli pareva strano, e l'impacciava. Ma
il giovine Arnoldo, benchè il vedesse, dimostrò di non se ne accorgere,
e continuò con un far d'amichevole premura, mentre teneva dietro a'
passi del prete, che lentamente s'era mosso per il suo sentiero:

— Io ben lo vedo, voi siete sorpreso forse che un uomo, nato sotto
altro cielo, e cresciuto ne' principii d'un'altra fede, qui venga
a cercar la conoscenza d'un prete cattolico, in un paese romito e
senz'altra ragione o scusa, che quella d'una sua buona volontà. Questo
vi parrà certo un capriccio... Ma se sapeste!... Io son solo! e spero
d'aver ritrovato in voi un'anima che m'intenda e mi compatisca: oh
perdonatemi dunque!

— O mio buon signore, questa simpatia, non so se di pensieri o di
sentimento, che vi spinse a cercar di me, solo perchè il caso vi portò
a udire alcune poche parole, che non son già mie, ma del Vangelo;
questa simpatia vostra, cred'io, scemerebbe ben presto, se voi poteste
gettar uno sguardo nel mio cuore. Esso è come un libro di poche pagine,
è una storia di solitario dolore; e la storia del dolore è sempre
monotona e grave ad altrui!

— È dunque vero? e a ciò io m'aspettava. Voi dunque avete sofferto?...

— Ma, buon Dio! che domandate voi da me?

— Quel ch'io domandi? nol so. — E il giovine rimase di nuovo mutolo e
pensoso.

E intanto, seguendo quasi involontariamente il pendio del sentiero,
essi eran discesi a lenti passi fin presso la riva del lago; e poi,
continuando taciturni tutt'e due per la costiera folta d'arboscelli e
cespugli, salivano dall'altro lato del ridente promontorio di ****,
donde, nell'orizzonte più vasto e vaporoso, la più bella ed estesa
parte del Lario, illuminata da quel pacifico tramonto, spiegavasi in
magica lontananza agli attoniti loro sguardi.

Ma il vicecurato, più sovente che non riguardasse a quello spettacolo
ben noto al suo cuore, volgeva gli occhi sulla fisonomia del giovine
inglese; il quale sollevava la faccia commossa da non so che di mesto e
sdegnoso insieme, come chi frema d'un pensiero che vorrebbe cacciarsi
di mente, e non può. Pareva che il prete volesse indovinare i segreti
di quell'animo giovenile e ardente, che per certo non aveva volontà
ed affetti, quali tutti hanno: e sebbene don Carlo sentisse, in quel
doloroso momento della sua vita, desiderio di tutt'altra cosa che di
nuovi amici, pure la strana maniera con che il giovine forestiero gli
cercò amicizia e conforto, la sincerità che rivelavasi nell'espressione
malinconica della sua brama, e anche la speranza di poter in qualche
modo far del bene a un'anima creata forse per miglior destino; tutto
parve s'unisse nel suo cuore a consigliarlo di rispondere a quel
fraterno richiamo.

Arnoldo intanto camminavagli a fianco, e tuttavia nutriva pensiero di
guadagnarsene la fiducia, perchè le parole gravi e contegnose del prete
gli dimostravan chiaramente, ch'egli non era di coloro i quali nel
volger d'un'ora ti sono amici; amici a posta d'ognuno, che ti rubano
i tuoi e ti vendono i loro segreti, se pur ne hanno; che si sfiatano
in protestazioni di servitù e di fede, e poi, il giorno appresso se
avviene, ti rinfacciano amaramente l'angoscia che hai deposta nel
loro cuore; usurpatori del nome santo dell'amicizia, infami che ti si
prostrano a' piedi quando la buona fortuna ti sorride, e dappoi, se
ti coglie la sventura, ti gettano il fango sul viso, ti guardano in
cagnesco e sogghignano.

Ad Arnoldo dunque non rincrebbe quell'esitanza del giovin prete, e
quell'inquieta tema d'aprire il cuor suo, che rivelavano in un'anima
severa e forte un pudore quasi verginale. Egli vide però che, per farsi
amico di quest'uomo, gli era d'uopo avvicinarsegli con semplicità e
fede, e dimostrargli di esser degno dell'affetto che a lui domandava.
Gli si rivolse quindi, e — Mi duole, disse, d'avervi forse sviato dal
vostro diporto della sera. Se la mia compagnia vi disturba, vi prego a
scusarmi; io vi lascio.

Don Carlo, il quale un momento prima avrebbe forse risposto: Fate come
v'aggrada, — allora conobbe che la scusa del giovin forestiero era
dettata da una dilicata civiltà, schiva sempre di troppa instanza, e
sentì un segreto rimorso della ritrosia con cui prima aveva accolto le
parole di lui. E poi, se in quel momento si lasciavan così, forse tutto
era finito fra loro. E perciò, quando Arnoldo si volse per riprendere
il già battuto sentiero, e' gli accennò di fermarsi, e disse: — Oh
no! signore: la vostra compagnia m'onora, e vi son grato. Oggi poi, e
massime in questo momento, ho bisogno di distrarre i miei pensieri,
perchè la vista di questi luoghi, in vece di consolarmi, come io
sperava, mi rattrista. Io non so se questo giovi, ma la memoria, che ha
un gran potere sopra di noi, la memoria qualche volta pesa e opprime.
In questi luoghi io vissi fanciullo, vissi circondato d'illusioni e di
poesia, accarezzato dalle speranze, e adesso....

— Eppure io credeva, Arnoldo rispose, che una scena bella com'è
questa potesse calmare il dolore di qualunque ferita morale. È qui
che s'impara a pensar veramente; qui, il cuore è libero e largo. La
solitudine è madre de' grandi concepimenti, e in faccia a questa natura
sempre stupenda e tranquilla...

— Ah, non v'illudete, o signore! È questa una parte di terra, come
qualunque altra; e anche qui il dolore ha la sua casa, il dolore più
grande forse della consolazione che pur vi si ritrova. Se non temessi
d'annojarvi, io vi darei un testimonio di ciò in me stesso. Credete
a me, la natura è dappertutto bella e amica, e gli è dal nostro cuore
che nasce la sventura; anzi bisogna dire che noi stessi la vogliamo,
bisogna credere il dolore una necessità, com'è il desiderio d'esser
felice... Signore! la mia tristezza contrasta colla serenità del giorno
che tramonta — indi a poco soggiunse con voce tremante di commovimento:
— Ma, s'io vi dicessi che appena cinque giorni fa, in questi luoghi, è
morto mio padre, che alla sua donna ed alla figlia sua non rimane più
nessuno al mondo, tranne il povero prete che vi parla?... Oh pensando a
loro, bisogna ch'io pianga!...

Arnoldo senti stringersi il cuore; la verità di quel filiale cordoglio
lo compunse vivamente; e il pensiero tremendo, improvviso, ch'egli
pure forse avrebbe potuto perdere un padre, il suo vecchio padre che
l'aveva sdegnosamente cacciato dal suo seno, lo toccò d'involontario
raccapriccio. Egli prese allora la mano del giovin prete, e la strinse
in atto di affettuoso rispetto.

Intanto s'era fatto notte.

Don Carlo levò gli occhi, e: — Io veggo, disse, là in fondo, tra
quel gruppo di case, un lume passar dall'una all'altra finestra della
mia dimora. Là stanno le due donne abbandonate; esse m'aspettano, e
io so che han bisogno di consolazione. Permettete dunque, signore,
ch'io vi lasci; pure vi ringrazio di cuore della bontà che mi voleste
dimostrare, e vi domando scusa della mestizia delle mie parole.
Perdonatemi! e se mai non vi fosse discaro di visitare un prete
sconosciuto e solitario, quella è la mia casetta! Voi siete sì cortese,
ch'io vi rivedrò sempre volontieri. Buona notte, signore!

E se n'andò.

Arnoldo stette ancora per lungo tempo in quello stesso luogo, chè la
notte era bella e stellata, e il suo cuore commosso da mille pensieri.



VI.

DALLO SPEZIALE.


A chi di noi non accadde più d'una volta, alla campagna, ne' bei giorni
de' nostri autunni, di sedere in circolo al convegno che sovente si
raccoglie nella bottega dello speziale? A chi non toccò di trovarsi
talora in mezzo a' consueti frequentatori di quell'officina, primario
centro, anzi cuore del villaggio, condotto dallo spasso, dal non saper
che fare, o dall'abitudine, fra que' meschini ragionari di grandi
cose, fra quella gara di vecchie piacevolezze, avvicendate dalle
rancide novelle politiche e cittadine, o da un eterno ricambio degli
stessi motti e delle stesse avventure, quotidiano alimento di baie, di
pettegolezzi, di piccoli intrighi?

La bottega dello speziale è la camera legislativa, è l'accademia, il
club, il caffè, l'aula enciclopedica del paese. Non v'e forse quistione
di Stato o conflitto ministeriale in alcuno de' cinque grandi gabinetti
europei, e fin nel Divano del Gran Signore, che la ragione non ne sia
attaccata, combattuta, difesa, pesata e decisa nella bottega d'uno
speziale di villaggio; non v'è causa di pace e di guerra, nè dispaccio
telegrafico, nè legge nuova di Stati e di Comuni, che là non sia letta,
meditata e commentata, da disgradarne quasi que' barbassori Pari e
deputati di Francia e d'Inghilterra. E tutto questo sulla fede d'un
solo testo, ma inesausto, irrefragabile e bollato, quello d'una grama
gazzetta di provincia; la quale, aspettata con bramosa curiosità, vi
capita fresca fresca, al più presto, cinque o sei dì dopo la data che
ha in fronte.

Dunque, come in tutte le nostre ville, il convegno delle persone
importanti di **** era nella

                     OFFICINA CHIMICO-FARMACEUTICA
                           DI SAMUELE D****.

Così era scritto al sommo della porta di quella bottega, in parole
inesplicabili e scomunicate per que' buoni terrazzani. La qual bottega
s'apriva a doppii e massicci battenti sull'angolo che fanno la piccola
piazza e la principal via del paese.

I soliti frequentatori di quella erano il signor curato, il medico
condotto, l'agente comunale, un vecchio signorotto, che figurava come
una delle importanze, o, per dirlo alla moderna, delle notabilità del
paese; e il primo deputato, grosso possidente di quel territorio. Gli
altri due deputati, sebbene per la dignità della carica ne vantassero
il diritto, non vi capitavan che rade volte, perchè le erano persone
dozzinali, che scrivendo il loro nome avevano il vizio di lasciar
sempre fuori qualche sillaba; come diceva, geloso dell'uficio suo, il
loro collega.

Una sera — la settimana susseguente al giorno che abbiamo descritto
— sedevano appunto a circolo nella bottega dello speziale, il signor
curato, l'agente comunale e il vecchio signorotto. Era costui uno di
que' piccoli _nabab_ del lago, specie di persone affatto particolare
del paese; uno di quelli, che partiti in gioventù col bastone e il
fardelletto del merciajolo sulle spalle (nel contado li chiamano
_barometta_), vanno pellegrinando per Francia e per Inghilterra; e
fatto un po' di fortuna, tornano alla casupola in cui nacquero, la
fanno rifabbricare più alta d'un piano e tutta intonacata di bianco,
e riposano in essa il resto della vita, facendosi dar del signore, e
raccontando mirabilia di quel che han fatto o veduto.

Il curato poi era un uomo sui sessant'anni, di fisonomia benevola, di
persona ritonda e soda, in somma una buona pasta di vecchiotto, che
pareva fatto per vivere in santa pace i suoi cent'anni; di costume era
piacente, purchè non gli mettessero la mattana addosso, com'era non
il rado, la fiocaggine d'una infreddatura toccata nel quotidiano suo
passeggio sulla bass'ora, o la noja d'una stentata digestione, dopo
un desinare d'etichetta presso alcuno de' signorazzi che villeggiasse
nella contrada.

Il curato dunque, il quale, al solito, se ne stava a suo grand'agio
sdraiato in un seggiolone, che il signor Samuele aveva collocato
nel miglior cantuccio della stanza, proprio per il signor curato
_exclusive_ (così egli soleva dire), leggeva, al lume d'una fumosa
candela, la gazzetta arrivata allor allora per il procaccio del
distretto.

I tre circostanti pendevano da quella lettura, come la gente del buon
tempo antico dalle parole dell'Oracolo: solamente il signor Gaspero
(quest'era il nome del vecchio signorotto) dimenava qualche volta il
capo in atto di dissentimento, o sogghignava con un cotal suo vezzo,
lasciando vedere due file di denti lisci e ben saldati. Lo speziale e
l'agente, a bocca aperta, stavano intenti alle parole del curato, che
leggendo si piaceva di frastagliar quelle politiche novità d'alcune sue
chiose e considerazioni, giudicate voi se fossero profonde!

— «Il ministero inglese, se si deve prestar fede a' rumori che
corrono, sta per mutarsi.» — L'ho detto io, che la doveva finir così!
Era impossibile durarla!... Non c'è stato buon sangue mai, mai, tra
que' signori delle Camere e i ministri! La è curiosa da vero, voler
governare loro signori, e non esser d'accordo giammai nel darla, la
legge! eh! eh!...

— Propio tale quale nel nostro convocato, dove ognuno vuol dire il suo
sproposito! commentò l'agente della comune.

— Sì! sì! ma, zitto! badate. — «Dicesi che lord **** voglia dare la
sua dimissione. Jeri mattina, Sua Grazia s'è trasferito dal re; e
si pretende che quanto prima il nobile lord deporrà nelle mani di S.
M. il portafogli.» — Ma bravo! così avrei fatto anch'io! deporre il
portafogli! bravo il mio lord ****! — «Se la crisi si verificasse, e
se così di subito il ministero fosse disciolto, il partito de' _whigs_
ne scapiterebbe, perchè, attesa la chiusura delle Camere, le notevoli
riforme, che stavansi maturando dai radicali, sarebbero aggiornate fino
alle nuove sessioni; e la buona riuscita ne diventerebbe più ardua.» —
Conseguenza chiara come il sole!

— Il partito dei whigs? Cos'è questo _whigs_? saltò su a domandare, con
una smorfia innocente, l'agente comunale.

— E i radicali?... Che voglion dire? chiese anch'egli il signor Samuele.

— I whigs? i radicali? rispose il curato, con un'aria di compassione.
Che cosa sono?... Se nol sanno nemmen essi che cosa sieno! I whigs
sono un partito, i radicali sono un altro partito, e voi sapete che i
partiti, non si domanda cosa sieno: gente nemica d'altra gente! Ma i
galantuomini non sono di nessun partito; perchè galantuomo è chi vive
in pace con tutto il mondo.... Oh andiam innanzi.

— Adagio, adagio! prese a dire allora con un far d'importanza il signor
Gaspero, che fra coloro era tenuto in conto d'uomo di gran criterio,
perchè aveva veduto al mondo più che Ulisse, al suo tempo, dopo la
caduta di Troja. Egli, intanto che il curato parlava, aveva sorriso fra
sè e sè con una compiacenza segreta. Se volete, vel dirò io cosa sono
i _whigs inglesi_! Dovete sapere che là, come dappertutto, i signori
e i poveri diavoli si guardan di traverso, per gelosia, per invidia,
per prepotenza, che so io... e cercan sempre di guadagnarla gli uni
sugli altri, perchè nel mondo, vedete, la cammina così! I primi dunque
si chiamano i _whigs_, gli altri i _tories_, mi pare... o viceversa,
ch'è poi lo stesso, perchè non è il nome che fa la cosa. Avete capito?
Adesso continui pure, signor curato.

— «La compagnia delle Indie Orientali tenne nella passata settimana
una sessione, alla quale sono intervenuti, eccetera...» salto questo
paragrafo e questa filza di nomi indiavolati, perchè non la mi pare una
notizia di peso.

— Ma però, mi dica di grazia, tornò a domandar lo speziale, che
compagnia è questa? l'ho udita menzionar le tante volte nella gazzetta.

— Dev'essere, rispondeva ancora il curato, una società d'uomini dotti,
filosofi, letterati e simil gente, i quali da lungo tempo hanno mandato
in que' paesi a cercarvi le antichità; con che fine poi, non so.

— Oh! oh! ma lei s'inganna, caro signor curato! lo interruppe un'altra
volta il signor Gaspero col suo risolino. La compagnia delle Indie
è una società di negozianti, tutti ricconi sfondolati: altro che
letterati! altro che dotti!

— Oibò! questa poi non me la bevo, replicava il curato, stizzito per
quella nuova interruzione, e punto sul vivo. So ben che lei mi canzona!
Cosa devon fare de' negozianti in que' paesi di barbarie, di miseria?
Ma solamente la spesa del viaggio!... E poi, là... con quelle belle
usanze d'impalare e bruciar vivi!... Se lo sanno i poveri missionari, a
cui tocca di portar un po' di vita cristiana fra que' diavoli incarnati
d'Indiani!... Negozianti? oh! oh!

— Ma io l'ho veduta l'Inghilterra, sa lei, signor curato? l'ho girata
in lungo e in largo; e di questi Marc'Antonii, che parlan di milioni,
come noi di scudi, io n'ho veduti e conosciuti parecchi, come conosco
lei. E a me bisogna credere, chè de' paesi n'ho attraversati tanti, che
quasi non me ne ricordo più i nomi.

— Sarà un'altra compagnia; ma questa non può, essere...

— Eppure, caro signor curato, questa volta...

— Scommetto che non è una compagnia di mercanti...

— Che la fosse una compagnia comica?... domandò, per vedere d'accomodar
le partite, l'agente comunale.

— Eh! tacete voi!... E qui il povero curato, che in tutto il tempo
di sua vita non aveva mai viaggiato più in giù di Como e più in su di
Colico, sentiva scaldarsi il sangue, e fissando il suo contradditore:
Questa volta, dice, eh! mi pare anche a me d'aver letto la mia parte
di buoni libri, e ciò val tanto quanto il suo aver viaggiato, perchè
quelli che scrivono han sempre ragione, e ne sanno un po' più di me e
di lei... dunque, per dincibacco! mio caro signor Gaspero, posso aver
ragione io, e lei torto!...

— Ma la si quieti, don Gioachimo, e mi badi...

— Eh le zucche! continuava l'altro, gettando sulla tavola la gazzetta,
con una stizza da non dire. Lei l'ha sempre con me; già è un pezzo che
me ne sono accorto.

— Io?...

— Sempre contraddirmi, sempre! tutto! È cosa incredibile! Scommetto
che se dico che adesso è notte, lei sosterrà ch'è giorno chiaro! Gli è
proprio un dispetto!

— Ma, caro signor curato, la si calmi!...

— Ma lei ha ragione! ma sarà come vuole...

E, così dicendo, lo speziale e l'agente a stento lo trattenevano
nel suo seggiolone, chè già stava per alzarsi sdegnosamente, e aveva
ripigliato la canna e il cappello per andarsene. Nè poco ci volle per
farlo rimanere; andava borbottando che già erasi fatto troppo tardo, e
ch'egli aveva la testa a ben altre cose che a quelle bazzecole: e così
mulinando fra sè stesso, tirava fuori a ogni momento dal taschino de'
calzoni il suo grosso oriuolo d'argento, e studiava le ore e i minuti.

Il signor Gaspero, che dal canto suo ben sapeva d'aver ragione,
trascinandosi la seggiola dietro, aveva voltate le spalle al curato,
e susurrava anch'egli: Che ignorante ostinato! Sicuro, quest'oggi ha
fatto una cattiva digestione.

E forse la cosa non sarebbe finita così, se in quel momento non
foss'entrato nella bottega, con un far frettoloso e straordinario, e
con una ciera tutta nuova il signor dottore.

— Gran novità, signori! una cosa che non m'è capitata mai: indovinate
mo, signor Samuele, donde vengo?

— Che so io? da un'avventura galante.

— Eh! non ho di questi belli spassi! E lei, signor Gaspero?

— Ma... non saprei! forse da una vincita a tarocchi?

— Eh via! tutt'altro.

— Ma dunque da che? domandarono a una volta l'agente e lo speziale.

E il dottore con voce seria, bassa, come rivelasse un mistero: — Vengo
in questo punto dalla villa ****, dove fui chiamato, per visitar quel
signore inglese, quel lord, ch'è venuto a starvi due mesi fa, e che
adesso minaccia di lasciar qui le ossa!

— Oh!... sclamarono a coro, lo speziale, l'agente, il curato e il
signor Gaspero.

— Se la è così, soggiunse poi il primo d'essi, voi gli avrete dunque
parlato, a quest'uomo così ricco e così arrabbiato, che nessuno ancora
ha veduto ch'è tampoco, perchè se ne sta sempre chiuso laggiù nel
palazzotto, come l'orso nella sua tana.

— Dite, l'avete veduto?

— Veduto? no, veduto veramente, no!

— Come? bravo dottore! disse ridendo sonoramente il signor Gaspero. Ma
che razza di visita gli avete fatto?

— Dirò, ecco qui cosa fu. Io me n'andava stasera solo e quieto a casa
mia, al batter delle nove, e stavo per metter la chiave nella toppa
della porta, quando mi si fa incontro, e mi ferma, tagliando l'aria con
un gesto, un uomo alto, vestito di nero, meglio ch'io non sia. Domando
che cosa voglia; non risponde, toglie fuor di tasca una letterina, e me
la consegna. Io non poteva leggerla al chiaror di luna; dunque entro in
casa, e invitato colui a salire, gli domando se aspetti risposta; egli
mi fa segno col capo di no, e si pianta ritto, là, presso la porta.
Salgo le scale, chiamo mia sorella Cecilia, che corra col lume: era al
buio ancora la stordita! Basta, quando Dio volle, ella comparve col
candeliere, e io, che morivo di voglia d'uscir del dubbio, apersi la
lettera; era linda, lucida, e scritta d'un caratterino d'amore, bello
da baciare...

— O dottore, lei torna giovine di vent'anni! disse il signor Gaspero.

— Eh! confesso che alla prima la credetti una dichiarazione amorosa...
Era firmata _Elisa Leslie_... ma lessi! non dicev'altro, se non che
subito, e in segreto, dovessi andare alla villa, dietro il latore del
biglietto, per la premura d'un malato. Discesi dunque, e dicendo: Son
qua, seguitai l'uomo nero e muto, che poi seppi essere un cameriere
del lord. Mi fece entrar nel palazzo per una porta nascosta e per un
andito nella cucina; di là, salita una scaletta torta e buia, mi mise,
dentro un salotto, dove mi disse d'aspettare, e mi piantò solo. Alla
fine comparve una bella giovine, una delle figliuole del lord... Non
vi ricordate d'averle vedute talvolta a diporto giù per il lago?...
Bene, era la più grande, la più smorta delle due; essa mi salutò con
grazia, e mi disse, tutta affannosa, e pregandomi di non parlare con
anima viva, che l'ammalato era suo padre; che da lungo tempo una tetra
malinconia lo travagliava, e che pochi giorni innanzi, al ricevere
non so che cattive notizie d'Inghilterra, aveva avuto un accesso di
forti convulsioni, che risvegliarono una tosse sanguigna; che nella
mattina poi, le convulsioni e la tosse avevano spiegata una spaventosa
violenza: la povera giovinetta parlava e insieme piangeva, e mi
scongiurava che salvassi suo padre. Fu allora che, fatto un passo,
domandai di veder l'ammalato; e la fanciulla: Oh gli è impossibile,
disse, trattenendomi; mio padre non vuol vedere nessuno, nessuno fuor
di me e di mia sorella; l'ha giurato! nè, per quanto noi l'abbiam
pregato, non ci permise mai di chiamar un medico; egli non fa altro
che ripetere di voler morire!... E bene, che avrei dovuto fare? come
vedere, conoscere, ponderare?... Io avevo un bel replicare: Senza
la diàgnosi, cosa si fa? la fanciulla tornava da capo a pregare, a
piangere. Era un impiccio nuovo per me!... Pensai, studiai, diedi
un'occhiata mentale a tutta la mia teoria, perchè pratica sui lord non
ne ho mai fatta... infine, scrissi queste pozioni e quest'empiastro,
che faranno o no, come Dio vuole. E ora, a voi, signor Samuele! Spedite
le ricette; premura e attenzione, che ci avrete il vostro conto!

E gittò sulla tavola dello speziale due lunghe indicifrabili scritture,
che preparavano sa il cielo quali cose! Il signor Samuele si piantò gli
occhiali sulla gobba del naso, e si mise a studiarle.

— Ora viene il buono, continuava il dottore; io aveva raccomandato
alla signorina una rigorosa cura morale e uno scrupoloso trattamento
dietetico dell'ammalato, ed essa mi congedava col miglior garbo del
mondo, ringraziandomi mille volte — manco male! Partita lei, tornò quel
cameriere, e cavandosi con atto di singolar rispetto il cappello, mi
mise nelle mani un cartoccetto, e m'accompagnò fino alla porticina.
Io presi la via inverso il paese; e cammin facendo, il raggio della
luna, che stasera è sì bella e tonda, mi fece naturalmente pensare di
guardar nella cartolina: l'apersi, guardai... mi pareva e non mi pareva
una moneta piccola, gialla... oh! oh! foss'oro! Il cuore mi battè
subito, e qui giunto, entrai nel primo uscio, dove vidi lume... dite
mo? era un luigi d'oro, un buon luigi doppio, perchè gl'inglesi non
contan che luigi e ghinee... Ecco qui — e tolse fuori la moneta ancora
incartocciata — non è vero, signor Gaspero, lei che n'avrà vedute di
questa razza, non è genuino, di peso?... Che bel curare i lord! La è
un'avventura questa? vi pare?... Qui non ci son baie.

— Ma bravo dottore! queste sono visite di nuova stampa per voi, disse
il signor Gaspero.

— Oh sì! proprio, nè sarà l'ultima, spero.

— Bravo, bravo! ma quel lord! chi sa mai quel che ci cova qui sotto?
soggiunse l'agente.

Lo speziale intanto aveva messo sossopra la sua officina, e ingombrata
la tavola d'una folla di boccie, vasi e fiaschetti. Rimboccate le
maniche della giubba fino al gomito, stava stemperando e mescolando
unguenti, siroppi e giulebbi, con uno scrupolo di scienza, degno di
que' due barbuti figuroni, onde un vecchio pittore comasco aveva
istoriate le grosse imposte della sua bottega, e che volean dire
Ippocrate e Galeno.



VII.

SCENA DI FAMIGLIA.


In una stanza solitaria, abbandonata del palazzo, lord Leslie
nascondeva sè stesso e la sua cupa tristezza allo sguardo di tutti.
Nessuno v'aveva mai messo piede, fuori delle sue figliuole e d'un
antico famigliare, favorito del padrone, come son que' buoni vecchi che
contan più di quarant'anni di servigio in una casa.

La stanza non guardava al lago, ma al fianco della montagna, e solo
la rischiaravano verso sera i pallidi riflessi del sole cadente. Un
letto di foggia antica e chiuso da verdi cortine di seta, era collocato
nell'alcova che s'apriva nel fondo: allato, un gran seggiolone a
bracciuoli coperto di velluto damascato, una tavola con le gambe a
rabeschi, e sopravi una guantiera con tazze di cristallo e vaselli
d'argento. Pendevano dalle pareti gli antichi ritratti di famiglia,
quell'ultime memorie de' nostri vecchi, che oramai non hanno altro
rifugio che i cameroni e gli anditi buj delle ville deserte, se pur non
albergano capovolti, in mucchio, su le soffitte o ne' soppalchi delle
nostre case, o non sono dagli stessi figli e nipoti, come succede,
mandati all'incanto su pe' muricciuoli. — Un armadio di legno nero
intarsiato, uno scrittoio ingombro di carte e libri alla rinfusa,
e poche seggiole rivestite di coperture di saja verde, compivano la
suppellettile di quella trista dimora.

Già da venti lunghi giorni il lord era là, inchiodato nel suo letto
dall'improvviso malore che l'aveva colto; era là, con la sola compagnia
de' suoi foschi pensieri e delle sue speranze antiche, richiamate con
un accoramento febbrile, assaporate quasi per crucciarsi l'animo con la
loro memoria.

Le sue figliuole, que' due angioli che il Signore gli aveva mandato,
perchè fossero la sua più fedele consolazione nella vôta esistenza,
pareva che gli venissero in uggia anch'esse. Quand'erano a fianco del
suo letto, sedute insieme nell'ampio seggiolone, con le leggiadre lor
teste abbandonate su gli stessi origlieri che lo sorreggevano; quando
venivano a confortarlo con quelle parole che a' figli nessuno insegna,
e ch'essi soli sanno trovar sì bene, egli non sentiva l'armonia delle
care voci, che avrebbero versato sul suo cuore ferito il balsamo
dell'amore. Assorto ne' pensieri che lo facevan dispettoso d'ogni
altra cosa, egli voltavasi bruscamente dall'altro lato, se una d'esse
lo chiamava teneramente col nome di padre; e poi le congedava con mal
piglio, dicendo di volere star solo e di non aver bisogno delle lor
fanciullesche carezze.

Piangevan silenziosamente le buone giovinette al suo duro parlare, e
se n'andavano mute e lente; ma, uscite appena, compativano insieme al
povero padre, chè il suo male l'avesse fatto inquieto ed aspro; e si
confortavano a vicenda ad aver pazienza, chè forse, con l'amorose loro
sollecitudini, avrebbero medicato il dolore di lui, e vinta la sua
ostinata tristezza. E si fermavano nella vicina stanza, origliando a
ogni più lieve rumore; e riscosse, appena che uno sfogo improvviso di
tosse turbasse il caro ammalato, accorrevan di novo al suo fianco; e
lo pregavano, col pianto sugli occhi, che per amor loro bevesse alcuna
delle pozioni che gli apprestavano per temperare quella sua angoscia
convulsiva. Ma non gli svelarono mai che un medico le avesse ordinate;
sarebbe stato lo stesso che dirgli di spezzarne le boccie contro
la parete; bensì, con pietoso inganno, rassicuravano sempre ch'eran
semplici calmanti da esse loro apparecchiati.

Ma le innocenti non sapevano che la principal cagione di quel male
fosse l'ira dell'egoismo ingannato che lo rodeva, fosse l'estrema
rovina delle sue lunghe fatiche, l'ultimo crollo d'un edifizio a cui
per tutta la vita aveva lavorato, l'edifizio della sua grandezza!
Le novelle a lui venute d'Inghilterra per lettere e per gazzette, e
confermate pur troppo presto, avevano rivelato a lord Leslie che tutto
il suo credito, un tempo così potente, era perduto, che le sue mene
politiche cagionavano la caduta della sua stessa fazione; e che le
nuove elezioni della sua contea, ultima speranza a lui rimasta, erano
cadute sopra individui della parte opposta, e, fra quelli, sul più
conosciuto suo civile nemico. E di più, gli toccò perfino di legger ne'
giornali la storia della sua rottura col figlio, travolta, esagerata,
come si suole, commentata per suo discredito, quasi fosse stata una
domestica tirannide. Tutto ciò, e anche meno sarebbe certo bastato,
finì a suscitare nella sua logora vita un subitano rovescio; la
malattia che da lungo tempo covava, si spiegò violenta; e senza l'amore
e la paziente attenzione di quelle soavi creature d'Elisa e Vittorina,
lord Leslie avrebbe forse dovuto soggiacere a quell'ultima offesa
dell'orgoglio già vulnerato.

Non era la mattina, ed Elisa, a passo cauto, leggero, entrava nella
camera del padre ammalato; il suo cuore batteva di speranza e di
segreto timore. Ella rimosse con mano tremante la verde cortina
dell'alcova, si sollevò lieve su la persona, e guardò. — Suo padre
pareva dormire d'un sonno tranquillo; perchè il respirar di lui non era
più sì affannoso, e la calva sua fronte, che ombravano due ciocche di
grigi capegli, era pallida e serena.

La buona figlia sentì allargarsi il cuore, levò al cielo gli occhi,
domandò una benedizione all'anima di sua madre, perchè le dèsse forza
di compiere il generoso proposito, per cui quel giorno ell'era venuta
così di buon'ora nella stanza paterna. E poi lenta avanzando, s'adagiò
cheta cheta nella seggiola, accanto al capezzale di suo padre; e
abbandonata a' pensieri ond'era pieno il suo animo verginale, si
perdette ne' sogni dell'avvenire, in quell'estasi che un'intemerata
speranza dipinge come d'un'iride di felicità.

Intanto, senza ch'ella se ne fosse accorta, il padre s'era svegliato;
e il primo oggetto che gli appariva, era l'amorosa fanciulla sedutagli
accanto, era quella sembianza angelica e pura, che la faceva parere
cosa non mortale. Egli, senza pur muoversi, la guardava, ned ella s'era
ancora riscossa; la guardava, non l'aveva creduta mai così bella. —
Povero padre! quel pensiero d'innocente orgoglio nasceva nel suo cuore
forse per la prima volta! Continuava a contemplarla, e sentiva un
piacere mite, segreto, che non aveva provato mai.

Allora trasse una mano fuor delle coltri, e strinse con dolce forza il
braccio della figlia, ch'essa pianamente aveva poggiato su la sponda
del letto. Elisa a un tratto si risentì, e le parve che il padre
leggesse ne' suoi pensieri, che quello sguardo la penetrasse sino in
fondo al cuore... I suoi sogni eran sì belli! Arrossendo per subitanea
tema, si chinò verso di lui, e disse: — O mio padre! io era venuta a
spiare il momento che vi sareste svegliato, e intanto i miei pensieri
m'avevano rapita lontano lontano, ch'io quasi vi dimenticava; o mio
caro povero padre!

— Buona Elisa! tu mi vuoi bene, lo so! tu mi sei cara, adesso più che
mai! rispondeva l'ammalato con tale accento di mitezza insolita, che la
figlia non credette quasi a sè stessa.

— E potrei non amarvi? Ma ditemi prima che avete passato una notte
quieta, e che state meglio di jeri...

— Sì, sì! Sto bene, bene da vero.

— Corro dunque a dirlo a Vittorina, che aspetta qui fuori questa buona
novella. Pure, siete assai pallido, e la vostra mano arde e trema...

— Non importa, io sto bene! perchè, sappi, il mio male è qui, qui
dentro!... E con la destra si premeva il cuore.

— O padre mio! che pena mi danno le vostre parole! Oh non dite così;
dite che noi possiam consolarvi, poichè nostra è una parte del vostro
dolore! Deh fatevi cuore, siate giusto con voi medesimo! E se troppo
vi pesa, come dite voi, la cattiveria degli uomini, oh copriteli di
disprezzo e d'obblio! E guardate a noi, pensate alle vostre due figlie,
e anche al vostro... sì, al povero... Ma s'arrestò d'improvviso, e
chinò gli occhi a terra, sbigottita da uno sguardo terribile di suo
padre.

— Finite! Che cosa volevate dire? chiese il lord con tono severo, ma
fatto più dolce in viso.

— Oh nulla! Elisa rispondeva. Io non so, io parlava come il cuore mi
suggeriva... mi compatite?

— No! voi lo sapete pure, che non si deve pronunziar quel nome dinanzi
a me: bisogna dimenticarlo!

— Dimenticarlo?... non lo potrei. È mio fratello!

— Egli non è più mio figlio, e io non lo vedrò mai più! Ho già
cancellato dalla memoria anche il suo nome.

— Dio! s'io fossi quell'infelice, ne sarei morta!

— Tu, buona fanciulla, non m'avresti fatto il male ch'egli mi fece!

— Ma se ora ne piangesse, se non parlasse che di voi, se non avesse
altra speranza che del vostro perdono, che di vedervi una volta?

— Egli? oh come t'inganni! Tu non conosci gli uomini, tu non sai come
certi cuori son fatti! V'ha de' figli che calpesterebbero il cadavere
del padre, se fosse messo a traverso della loro via!...

— Ah non parlate così! Egli... era buono; e forse, se il vostro
sdegno...

— Eh non sai tu, che quell'uomo ha rovesciata la mia più lieta fortuna,
l'opera di tutta la mia vita? È lui, che ha gettato nel fango la
canizie di suo padre, lui che mi lima i giorni, che mi precipita prima
del tempo nella fossa! — E il lord s'era levato su la persona, e il
suo volto ardeva di tutto l'antico sdegno: ma, indi a poco, raccolse le
coltri, e s'abbandonò, come oppresso, sugli origlieri, dicendo con voce
mutata: — Via! non parliam più di lui! non affrettiamo con un impeto
inutile l'ora fatale che non tarderà a venire! Povera Elisa! tu sola
mi resti, tu che intendi cosa sia il segreto dolore di tuo padre. Tua
sorella è troppo giovinetta, è ingenua, spensierata; essa vede le rughe
della mia fronte, ma non la ferita del mio cuore.

— O padre mio, se sapeste, non io sola, ma tutti piangiamo per voi...
Oh! ricordatevi che l'ultimo voto di nostra madre fu la felicità e la
pace di noi tutti... e che invece!... perchè, anche lui...

— Lui! sempre lui! Sa egli forse ch'io son qui, presso a morire, in
terra straniera, e per sua colpa? Io giuro che se il sa, ne ride!

— Gran Dio!... proruppe la figlia, e si coperse con le mani il volto
già bagnato di lagrime. No, non è vero! oh se sapeste!...

— Ma voi, che sapete di colui?... dov'è? dite... dite! rispondete a
vostro padre.

— È qui!... balbettò allora con voce timida e sommessa la giovinetta;
qui, ne' dintorni. No, egli non era partito, come voi avete creduto.
Son due mesi che se ne sta in una povera casa, non lontano di noi,
nascondendosi a tutti, e a voi più che a tutti, perchè l'avete con
sì gran collera scacciato. Era questo il nostro gran segreto!... Oh
perdonateci! Quante volte egli volle tornare, gettarsi dinanzi a voi,
stringer le vostre ginocchia, e giurare di sagrificar tutto al più
piccolo vostro volere!...

— Che sento? Egli è qui? Ha dunque dimenticato che nulla v'è più
di comune fra noi? E perchè non è partito, perchè non lascia ch'io
sopporti in pace questo male?

— Egli aspetta il vostro perdono...

— E intanto che aspetta... io qui languisco, dimenticato da tutti...
Oh! aspetti, aspetti pure, ch'io morirò ben presto, e porterò con me
nella fossa il nome di mio padre!... Aimè, che ho vissuto infelice per
morire infelice! Oh s'egli non avesse spezzato ogni legame fra noi, se
venisse a sostenere il mio capo, a dirmi una parola di compassione!...
Ma no! egli non verrà. Il suo cuore non è impastato che di bassezza
e d'egoismo. Se fosse qui, mi lascerebbe languire, finire così, senza
cercar di vedermi?

— Ah signore, voi lo dite? ah ditelo un'altra volta, e lo vedrete
inginocchiarsi a' piedi del vostro letto, piangere, domandarvi la
vostra benedizione! Ricordatevi, padre mio, ricordatevi che voi l'avete
respinto dal vostro seno! Dite adesso una pietosa parola. Ma, voi
l'avete già detta!... e Arnoldo, ah! lasciate ch'io vi confidi tutto,
Arnoldo è là che v'ascolta, che piange nelle braccia di Vittorina...
E così parlando con inesprimibile dolcezza d'amore, ella correva
affannosa all'uscio della stanza, e — Vieni, diceva, mio povero
Arnoldo, vieni! tuo padre ti perdona! ah ringraziane Dio!...

Entrava Arnoldo, pallido, sommesso, e fatto umile dal gran dolore. Il
vedere suo padre così mutato, così invecchiato in due mesi, gli spezzò
il cuore d'affanno. In quel momento, egli sentiva la forza di rinunziar
per lui a ogni speranza, a ogni volere. Oh! nulla avrebb'egli osato
negare a quel vecchio, che per la prima volta vedeva giacere oppresso
sotto la muta sentenza d'una morte aspettata.

S'avanzava lentamente, s'avvicinava al letto, china al terreno la
testa, coprendosi d'una mano gli occhi; piangeva, nè sapeva trovar
parole a spiegar la piena degli affetti, che sì forte in quel momento
lo conturbavano. Egli rivedeva suo padre, lo rivedeva più mite e meno
ingiusto; e la speranza di consolarci giorni travagliati di quell'uomo
caduto, gli faceva parer men dura la parola d'accusa che stava per
pronunziare contro sè stesso. L'immagine di un padre prostrato in
una prematura vecchiezza, portante il peso d'una sciagura quantunque
voluta, lo ferì nel più vivo del cuore. Egli cadde in ginocchio a'
piedi del letto di lui.

Lord Leslie sentivasi, pur non sapendo come, trascinato da un'angoscia
segreta a perdonare, a dimenticare il passato, a rivivere come un tempo
nell'unico suo figlio. Sollevossi allora sul letto; e alzando la sua
testa calva e superba, nell'impeto d'un prepotente pensiero, stese la
destra ad Arnoldo; il quale con rispetto la strinse, chinando su di
essa la fronte. Ma il lord non disse una parola; il suo volto non fu
rischiarato dal sorriso, il suo sguardo non si levò al cielo.

Fu una pace gelida, incerta. Pareva che un destino, col quale entrambi
avessero tentato di lottare invano, li riunisse in quel momento. Nel
cuore del figlio, l'interno contento era temperato da un grave dolore,
ma nel suo volto, più che gioja e dolore, leggevansi timidezza e
rispetto: in vece l'impassibile e severa fronte del padre non era da
nessun affetto rasserenata; le rughe, che da tanto tempo la solcavano,
non erano scomparse, gli occhi suoi non furon bagnati d'una lagrima, il
suo sguardo fu lucido e fisso. — Era lo strano e fiero contrasto di due
cuori concitati e diversi; e quasi faceva terrore la verità di quella
scena semplice e muta!

Ma le due giovinette eran tutte commosse. Elisa, piena di gioja, perchè
quella pace era stata opera sua, nascondeva nel seno di sua sorella il
volto e le lagrime della tenerezza. E Vittorina teneva fissi gli occhi
sopra di lei, e col sorriso d'un gaudio celeste la baciava in fronte.



VIII.

AMICIZIA.


In quel mezzo, dopo il primo incontro d'Arnoldo e di don Carlo lungo il
solitario sentiero della montagna, la conoscenza loro s'era fatta non
solamente più fidata e più stretta, ma, grazie al costume, all'alterna
stima, e allo stesso giovenile entusiasmo del cuore, era divenuta
oramai una vita compagnevole e intima.

Il giovine inglese non ebbe a male quella prima peritosa accoglienza
del vicecurato; e il giorno dopo il loro incontro, come gli aveva
permesso, venne a visitarlo, e seppe con maniere riverenti e modeste
cattivarsene l'attenzione e la fiducia.

Quella stessa mattina, quando nel partire attraversò il salotto a
terreno della casa, il giovine rivide le due donne che aveva notate
nella chiesa, la domenica innanzi; e il prete, accompagnandolo fino
alla porta, gli disse ch'erano sua madre e sua sorella. La prima,
al suo passare, aveva fatta una riverenza; ma la fanciulla non aveva
sollevato la testa dal lavoro al quale stava intesa.

Don Carlo, tornando col pensiero al novello colloquio avuto con
Arnoldo, conobbe che l'anima di questo giovine non era solo dilicata
e onesta, ma degna ancora di studio, e di raro pregio. Si persuase
che Arnoldo non era uno di quegli scioperati che viaggian per paesi,
di cui non sanno che il nome, d'altro non solleciti che degli agi e
piaceri che abbandonarono in casa loro. Poco gli bastò per intendere
che l'anima di lui era calda di nobili affetti e di volontà generosa,
che lo spettacolo di tante cose nuove vedute e cercate aveva messo nel
suo cuore, non logorato ancora da impetuose speranze, nè da violente
passioni, un'incerta tristezza di pensieri, un'involontaria e immatura
dubbiezza di tutto. Era la timidità d'una mente degna di miglior sorte;
era l'inerzia d'una vita giovine e negletta che ripiegasi, per dir
così, sopra sè stessa, nell'indifferenza delle cose che la circondano;
era l'uomo che s'abbandona per non si rialzar forse mai, se la
sventura nol trascini alla disperazione, o l'ebbrezza della fortuna non
l'acciechi con un delirio.

Arnoldo aveva cuore schietto e ardente. Egli non era creato per le
compassate e meschine passioni, che nella nostra società trovano sempre
la loro nicchia: ma a lui mancava quella costante energia del volere,
che sola dà forza per trionfare delle grette apparenze di virtù che il
mondo accarezza, e per non farsi reo di quelle piccole infamie, con cui
si pensa bene spesso di guadagnar la stima degli altri. Benchè nato in
quella casta privilegiata, che di per sè stessa chiamasi il gran mondo,
egli cercava un'aria men corrotta; ma volle, per dir così, venire a
transazione co' suoi affetti, con la sua coscienza; e non seppe più
vivere nè d'illusioni, nè di dolori. Anzi non potè gettarsi di dosso
la noja che gli si fece compagna, quando vide andarsene in fumo tutte
le felicità, tutte le virtù che aveva amate; quand'egli, che si credeva
così esperto della vita, conobbe che il mondo era ben diverso da' suoi
sogni, e confessò d'esser novizio.

Allora ritornò alla memoria de' suoi primi anni; tornò fanciullo nel
grembo di sua madre, alla meditazione di quell'ore felici, quando
ignorava che cosa fossero la gloria, la felicità, l'amore, nè d'altro
si nutriva che delle belle speranze dell'avvenire, educato dalle sante
parole dell'affetto materno e da' semplici consigli della sapienza. Ma,
aimè! quello fu l'ultimo incanto della giovinezza; sentì di non poter
più riposare nel passato, si trovò solo.

Eppure l'anima sua era sempre travagliata dal desiderio della vita
e del riposo, perchè in essa il fuoco della virtù non era spento;
e viveva tuttavia, benchè negletto, in un angolo del suo cuore, un
barlume di fede. Le vicende de' rapidi e diversi viaggi, che sovente
trascinano al cinismo e alla noja, conciliarono in vece l'anima
d'Arnoldo all'amor della pace e della solitudine. Da quel tempo, una
tinta di non so quale malinconia fu sparsa in tutti i suoi pensieri.

Rifece allora gli studii della adolescenza, amò la semplice verità,
e si persuase che la miglior felicità che sia lecito sperar quaggiù,
consiste in una vita libera e operosa, in una vita spesa a profitto
altrui nell'onestà di tranquilla fortuna, senz'aspettare di esser dagli
uomini ricambiati del bene che facciamo, ma con l'intima fede che il
bene di per sè stesso produrrà lieti frutti quando che sia. Pure per
lungo tempo, abbandonato com'egli era, nulla meditò, nulla fece; e la
coscienza della virtù non era altro ancora che un bel voto de' suoi
pensieri. Alla sua vita mancava tuttavia l'alito primo, il conforto
dell'amore e dell'esempio, che dà il coraggio dell'azione. E giunto
a quell'ora, in cui è forza lottare fra il disinganno e la speranza,
l'anima sua o si giaceva prostrata nell'inazione, o gemeva della sua
inutilità, come sotto il peso d'un vecchio rimorso.

Lo sguardo cauto e sagace del vicecurato aveva indovinata la vita di
quel giovine, che non era fatto per un destino infelice, e pareva
volerlo. Il loro colloquio gli spiegò ben presto tutto il profondo
d'un cuore, che a caro prezzo comprava l'amara lezione dell'esistenza.
Ma egli, a cui era toccato d'assaggiare innanzi tempo di ben più
fieri dolori, egli che nella sua ora aveva, come un uom disperato,
combattuto e vinto, sentì allora una segreta e dolce compassione
di quell'abbandonata giovinezza, e si compiacque nella fiducia di
consolarla e di sostenerla.

Così, dopo pochi amichevoli ragionamenti, l'uno e l'altro furon lieti
di quella fortuita conoscenza; e s'erano raccontati a vicenda que'
riposti segreti che apprezza e serba la sola amicizia. Intanto Arnoldo
tenne per gran ventura che il vicecurato, per alcune domestiche ragioni
e pel ritardo messo della pretura di **** a regolar la tutela della
giovine Maria, dovesse rimanere più a lungo che prima non pensasse. E,
dal canto suo, don Carlo divideva di buon grado col giovine forestiero
le ore di libertà.

Essi furono veramenti amici. E in que' luoghi pieni di vita, nella
tranquillità di quelle rive sempre liete e sempre nuove, i loro cuori
sentivano più forte il bisogno di rallegrarsi nella concordia de'
pensieri, nell'adorazione della bellezza, e più di tutto di gustare il
sublime del desiderio e il dolce del compianto. — Allorchè il tumulto
del mondo non disturba la maestà della natura, oh come il cuore si
versa nel contraccambio delle più intime virtù consigliate dalla
religiosa estasi della contemplazione! oh come è bello e grande il
credere e lo sperare insieme!

Un giorno, abbandonati all'inquieto corso d'una barca leggera,
quand'era il lago conturbato a più rapito ondeggiamento, sotto lo
spirare del _tivàno_ dell'Alpi, essi confidavano i liberi pensieri,
i voti misteriosi d'una più lieta aspettativa al cielo schietto e
azzurro, e nell'alterna vicenda del remigare vedevano fuggirsi a fianco
le rive, i palazzi, le ville; poi, quando il vento taceva e il lago
tornava quieto, miravano l'acqua disotto ripetere, come un'instabile
interminata scena, il bel paese, e disopra le nubi abbracciarsi e
ravvolgersi sorvolando i vertici della montagna — come se l'anima
arcana della natura tutta si risentisse in un'armonica commozione di
vita.

Un altro giorno invece, seguivano le viottole più erte e dirupate della
costiera, e su su pel monte a lungo inerpicandosi salivano con una
gioia selvaggia di libertà; contenti di trovarsi soli e dimenticati
su le più ardue vette, di guardare di là, per ogni parte, fin dove
l'occhio poteva, l'ampio orizzonte delle pianure, de' laghi, delle
Alpi e del cielo, come un immenso oceano di luce e di colori! — E là,
su quelle cime, sedevano su la dispersa rovina d'un casolare sfasciato
dall'acque montane, o sul tronco d'un vecchio albero sradicato dal
fulmine e marcito dal tempo; e disopra i loro capi non vedevano
sollevarsi che qualche rado cucuzzolo di monte, con la sua veste
di neve agghiacciata, o qualche rozza croce di legno, piantata nel
crepaccio d'un masso forse da un povero pastore, chi sa da quant'anni.

E più d'una volta cercavano nuovi sentieri sui fianchi dell'alpe dove
il terreno, scemo d'umori e di fecondità, cessa d'esser ricoperto
d'erba e ombreggiato di piante, dove non altro s'incontra che qualche
rara segreta sorgente col suo fresco zampillo d'un fil d'acqua, o
un'ampia zolla rivestita di muscosa verzura, o d'un rosato tappeto di
ciclamini. E, su per que' dossi, il giovine Arnoldo andava cercando con
mano paziente l'erbe più rare e le pianticelle mirabili e sconosciute,
che pare l'aria vi cresca con più facile germoglio, solo per la pastura
d'un branco errante di capre. Perchè egli aveva messo studio e amore
a quella cara scienza dell'erbe e delle piante, che ama e intende la
natura, e insegna con solitaria consolazione che in ogni angolo della
terra v'è una virtù misteriosa, una bellezza.


Una mattina, Arnoldo e don Carlo sedevano sur uno degli alti terrazzi
della malinconica e deserta Pliniana.

Il cielo era cinericcio e nebbioso; e i loro pensieri sentivano di
quella solenne quiete della natura, che pare più muta e mesta, s'è
una giornata avversa della sua più bella stagione. Arnoldo tenevasi
spiegato sulle ginocchia il suo albo, e disegnava lo schizzo della
veduta che gli s'apriva dinanzi — quella fuga di monti dietro un
monotono velo di nebbia; lo spumoso torrente che si rovescia da un'erta
cima a fianco del vetusto palagio; quel cielo bigio, uniforme, che gli
richiamava al pensiero il cielo della patria, una delle scene della sua
mesta e cara contrada, quel sacro cantuccio di terra, in cui riposavano
le ossa di sua madre. Don Carlo, poco lontano di lui, meditava
scrivendo sopra un foglietto, che appoggiato a un volume della Bibbia
e' si teneva fra mano.

Quando Arnoldo ebbe finito il suo disegno, s'avvicinò all'amico, e
gli si mise accanto, in atto d'aspettare: ma quegli non si riscosse, e
continuava a scrivere.

— Che scrivete, don Carlo? domandò Arnoldo.

— Amico mio, sono pensieri ch'io vo gettando su questa carta, tali
quali m'ardono in cuore, schietti, nudi; egli è un ritorno innocente
alla giovinezza già passata per me, la quale non m'è più che una
memoria. Che volete? Noi italiani, noi figli di questo cielo e di
questa terra, oh no! non possiam distaccarlo dal cuor nostro l'amore
della poesia, che succhiamo forse col latte delle nostre madri, che
beviamo coll'aria del nostro paese... L'armonia del canto è la più pura
voce dell'anima!.. E io, vedete, qui, in quest'ora di solitudine, in
questo luogo sublime, sento risvegliarmisi nel pensiero i miei sogni
d'una volta, parmi ancora d'esser giovine, italiano, poeta!...

— Oh il vostro sentire è nobile e bello! ditemi, ve ne prego, leggetemi
il vostro canto: chè anche il cuore di chi nacque di là dell'Alpi sente
e batte più forte, se la parola della bellezza lo scuote.

— Deh! che volete mai ch'io pensi e scriva? Non è, ve l'ho detto, che
la tarda rimembranza d'un tempo che non torna più. Ora, la mia sorte è
certa e tranquilla, e il mio cuore contento. Fare a' miei fratelli quel
poco di bene che per me si possa, nella condizione in che mi pose la
provvidenza, questo fu il primo mio voto, e sarà l'ultimo.

— Ma come potete voi col cuore sì caldo, con la mente fatta pura dal
fuoco dell'ingegno?... lo interruppe Arnoldo.

— Dimenticate l'uomo, e non guardate in me che il povero prete. Io
sono un nulla agli occhi del mondo, ma c'è delle anime che non mi
disprezzano. Sono que' pochi miei fratelli che vedono in me il loro
unico protettore; per essi, io sono il mediatore fra i travagli di
questa terra e la consolazione del Signore. Io parlo loro di semplici e
sublimi verità, ed essi m'ascoltano; io raccolgo la confessione della
loro debolezza, e li conforto al meglio; me li veggo inginocchiati ai
piedi, e fo sopra d'essi il segno della croce, il segno del perdono;
io battezzo i lor bambini, e seggo accanto del loro letto di morte,
e le anime n'accompagno al Creatore, benedicendole... Che altra umana
felicità poss'io invidiare?.. Oh! chi intende la grandezza di questa
divina missione, e la compie con quella forza, che sola la fede può
dare, non ha altro affetto quaggiù, non ha altro voto, se non che sia
fatta la volontà del Signore sulla terra come nel cielo!

— Queste son cose sublimi, e il vostro proposito è grande, come la
virtù ch'è necessaria per adempirlo. Ma io credo, amico, che il dir
addio alla gloria della scienza, alla dolcezza della vita, all'onore
della patria stessa, vi debba esser costato un gran sacrifizio! e
forse...

— Deh! chi mi assicurava che sarei venuto in fama, che avrei trovato
nella gloria il compenso della vita spesa per la sapienza? e ciò
foss'anche, gli è poi vero che sia questa una felicità, o almeno un
riposo de' nostri desiderii?... Ah! credetelo a me! io, dimenticato
nella mia oscurità, vivo più contento di voi... E la sola cosa che
adesso sparga di mestizia i miei giorni è il pensiero di mia madre e di
mia sorella. Povere e buone creature! esse non avranno l'appoggio che
di me aspettavano...

— Ma che cosa potreste far di più per loro? Nel tempo che siete qui,
non avete voi preparata loro una condizione onesta e sicura?...

— Sì; ma io dovrò abbandonarle. Pochi giorni ancora, e tornerò dove mi
chiama il mio debito sacro, che già per troppo tempo l'ho dimenticato.
Oh! Dio mi conceda ch'io possa una volta vederle tutte e due vicine a
me, sotto il mio tetto, ch'io viva con loro, sì... perchè io le amo,
vedete! sono i soli legami che mi uniscono alla terra: mia madre, la
donna amorevole e pietosa! mia sorella, l'angiolo della modestia e
della pazienza!...

— Non v'affliggete per loro; la virtù che si nasconde è sempre felice.
Su via, aprite l'animo a più lieti pensieri; e se non è troppo esiger
da voi, leggetemi ciò che avete scritto stamane, ve ne prego!


Il vicecurato stette alquanto a guardar taciturno il suo giovine amico;
e poi levatosi lesse:

    LA VOCE DELLA FEDE.

    I

    Perchè il mesto a la terra estremo vale,
      Anima mia, ti rinovella il pianto? —
      Poni giù il peso del dolor mortale,
      Pensa che solo il sagrifizio è santo!
      E tu, Signor, della speranza l'ale
      Dona al sospiro dell'ultimo canto;
      E tu l'adempi, se nel ciel non muore,
      La preghiera del pianto e dell'amore!

    II

    Quando, de' miei prim'anni in sul sentiero,
      Sparsa di fior la terra a me s'aprío,
      Con volo incauto il giovenil pensiero
      I fantasmi seguì d'ogni desio!
      Era un sogno la vita! il vel leggiero
      D'un'iri circonfusa la vestío;
      E 'l sol le rise di sua luce blanda,
      E amor la cinse de la sua ghirlanda.

    III

    O mia terra! o miei voti! — Io vi credea
      Il supremo confin d'ogni speranza:
      Altra prece il mio labbro non avea,
      Il mio cor non ardea d'altra fidanza;
      Io cantava di voi, di voi piangea,
      E appena un'ombra muta ora m'avanza;
      Quasi memoria di perduta voce,
      Quasi in terra deserta unica croce! —

    IV

    O Verità! quando tremante e anelo
      Del tuo regno alle sfere il guardo alzai,
      E quando all'infinita eco del cielo
      Il mio profondo gemito affidai,
      Perchè dal grembo dell'immobil velo,
      Mandato un raggio, un raggio tuo non m'hai?
      Perchè tace al mio cuor la luce eterna
      Dello spirto d'amor che ti governa?

    V

    Oh! il divino tuo sol ch'arde e non pare,
      Riluca al declinar degli anni rei!
      Se l'alme sofferenti ha Dio più care,
      Spargi di duolo tutti i giorni miei!
      Tu la solinga lampa dell'altare,
      Tu del martirio la corona sei!
      L'angelo dell'estrema dipartita,
      Il primo dì della seconda vita. —

    VI

    O Verità! ti credo anch'io, ti sento!
      E il verbo adoro de la gran promessa,
      Che il tuo libro mi schiuse in novo accento,
      Retaggio eterno d'una prole oppressa!
      Tu il ciel m'additi, e tempri il mio lamento,
      Tu splendi, e l'ombra arcana ha luce anch'essa!
      Già spira il tuo divin soffio sull'alma,
      Che ne deliba la siderea calma.

    VII

    Benedetta quell'ora, e benedetto
      L'astro che mi snebbiò la fosca via!
      Più non sorge dal cor mortale affetto;
      Altro è il fonte che l'anima sitía.
      La fè diemmi l'amor dell'intelletto,
      D'un secolo cadente all'agonia!
      Ed io baciai come un terreno santo
      Il suol che bevve de' fratelli il pianto.

    VIII

    Adempi, o Dio, la mia speranza, e scenda
      Del tuo servo nel cor l'alta parola;
      Sì che a' fratelli la virtude ei renda,
      Che l'opre edúca, ed il patir consola.
      Dammi l'accento che il perdono apprenda,
      Dammi l'amor che a nova età sia scola!
      All'avvenir promesso il cor nutrica,
      Apri il volume de la grazia antica! —

    IX

    Ecco il tempio e l'altare, ecco la Croce!
      Oh! ch'io mi prostri su la sacra pietra.
      Signor, questa ch'io sento è la tua voce!
      La tua voce è la fè che mi penétra.
      Stanco è lo spirto della pugna atroce;
      Geme, e la pace de' tuoi santi impetra;
      Contempla il fin d'ogni creata cosa,
      E nell'amplesso dell'Uom-Dio riposa.

    X

    Addio, sogni mortali! E tu fugace
      Ne le mie notti ombra evocata, addio!
      Qui nel sacro ricinto, ove si tace
      Dell'alma sconsolata ogni desio,
      Assiso al raggio dell'eterna face,
      L'aurora invoco del tuo regno, o Dio!
      Che renda all'uom di tua promessa erede
      Un amore, una patria ed una fede!

Lesse questo canto con voce grave e commossa il giovin prete; poi
sollevò gli occhi e li tenne lungamente fissi nella faccia china
e pensosa del suo ascoltatore. Ma su la corrugata fronte di lui,
nell'obliqua e muta guardatura, egli vide balenare un ascoso pensiero;
su quella fisonomia indovinò una segreta ironia, un'intenzione amara,
che mal suo grado s'appalesava.

Tacquero entrambi un poco; poi Arnoldo, come facesse forza a sè
medesimo, — Amico, interrogava, parlatemi di cuore: quanto avete qui
scritto, lo sentite voi veramente? Crederò che il vostro cuore abbia
per sempre trovato, come voi lo dite, quel riposo, quella rassegnazione
ch'è un'incredibile virtù, e fa sì che la fede divenga coscienza in
voi?

— O amico, rispose l'altro, fin adesso noi non abbiamo mai seriamente
discorso intorno a sì gravi cose; ma io ben conobbi tutta la vostra
vita dal primo giorno che m'incontrai con voi: io ho penetrato il cuor
vostro e la sua piaga!... Lasciate che io la scopra a voi stesso; è la
mancanza d'una fede!... Povero giovine, io vi compiango!

— Oh sì! proruppe l'altro, dopo una solenne pausa, compiangetemi! Non
so dir che tumulto s'agiti qui dentro talvolta! Non so dir con quale
ardore cercassi anch'io questa che voi chiamate virtù, certezza e
verità, la fede! — ma non la trovai. Tutto calpestato, tutto diseccato
e morto! Io penso che la fede non sia più che il rifugio dell'anime
semplici, ingenue, fiacche: in quanto a me, non la vidi che in una
povera chiesa di montagna, in un'officina, in un tugurio... e, anche
là, fu un mistero per me! Ma voi... ma chi ha dubitato una volta, chi
ha pianto per la sete della scienza, chi ha numerato in un cuore i
bàttiti della virtù, e le convulsioni del delitto... Oh io vi credeva
di tempra più forte e disdegnosa!

— Uomo ingannato! tu non sai quanto ti costi la tua illusione, o che
debolezza sia questa che tu stimi forza! Tu non vedi con quell'occhio
di pace con cui io guardo agli uomini, alle cose, per ascendere fino a
Colui che gli uni e le altre ha fatto. Ma forse, verrà qualche momento
nella tua vita...

— Eh! lasciamo un proposito del quale non possiamo convenire, e non sia
questo che turbi la nostra amicizia... Ma l'ora è tarda, e non vorrei
che il cattivo tempo ne cogliesse. Seguitiamo per quella via, se così
vi piace, e torniamo a casa dalla parte di terra.

L'altro si mosse senza far nuove parole; ma nel resto del cammino fin
al paese, il loro ragionare fu più contegnoso e più cauto del solito.



IX.

AMORE.


Ma in quell'amicizia, che il giovine forestiero aveva cercata con
tanto studio, non si nascondeva un'altra cura più gelosa e segreta,
un pensiero più intimo, più ardente, il primo pensiero dell'amore,
l'imagine di Maria?

Il giovine non può esser mesto a vent'anni: egli non vuole allora la
malinconia e la meditazione, ma ha bisogno d'un affetto più potente che
l'aiuti, che gli faccia sentire il fremito della vita; sia l'amore o
l'ambizione, la gloria o la scienza, sia l'avvenire o la fede che lo
commuova, gli è forza che il suo entusiasmo si nutra e viva. Guai a
colui che a vent'anni ha il fiele dell'amarezza nel cuore, e il ghigno
del disprezzo sul labbro!

È nella solitudine, nella pace della campagna, che il giovine è
più inchinevole alla dolcezza d'un affetto. Nel seno d'una bella e
tranquilla natura, noi siamo, o almeno ne par d'essere, più virtuosi;
crediam più facilmente all'amicizia, ascoltiamo il consiglio della
benevolenza, gustiamo la pietà, cerchiamo l'amore. Non tutti pensano
che sia così, ma non conta: non sono io il primo che così pensi e
creda.

Arnoldo fra gli altri così credeva. Nella vita solinga, abbandonata
che menava in quel villaggio, presso a suo padre, alla sua famiglia,
e costretto a nascondersi, a divorare in segreto il suo cordoglio,
aspettando pur con fiducia che qualche raggio amico lo riconducesse
nel seno de' suoi, la coscienza del giovine e saggio vicecurato era
stata una gioia, una felicità per lui. Trovandosi solo, egli sentiva
la necessità di cercar un amico che temperasse il suo sconforto, e lo
compatisse. E questa sì cara amichevole servitù nessuno gli avrebbe
potuto prestare meglio che don Carlo, il quale de' dolori di questa
terra aveva abbastanza veduto per poterli prendere sul serio.

Qui Arnoldo gli scoperse perchè ruppe col padre suo; e di quella
domestica guerra di cui molti avrebber riso, egli vide e conobbe
tutta l'acerbità e il disgusto. E non solo ne patì per l'amico, ma gli
consigliò di tornare in pace a ogni patto, dicendogli che la collera
del padre non poteva esser vinta che dall'amore delle sue sorelle.

Ma quando Arnoldo si rallegrava con sè stesso dell'amico acquistato,
una memoria più cara gli si risvegliava nell'anima. Si ricordava di
quel giorno in cui aveva ascoltata la predica del vicecurato, là nella
chiesa del paese. Pensava a quella bellissima e modesta creatura, che
aveva veduto pregare, inginocchiata presso la madre, a quella sembianza
malinconica e pur così serena nel dolore, a quel volto candido sotto
il nero zendado. Egli aveva accompagnato con la sua la preghiera che
allora faceva l'anima sofferente della fanciulla. Poi si ricordava
che il dì appresso, quand'egli era ito a visitare il prete nella sua
casetta, aveva riveduta la fanciulla, e al rivederla s'era turbato:
ella invece non aveva sollevato gli occhi, non s'era quasi accorta di
lui; e la piccola scortesia gli era dispiaciuta.

Questa memoria ei la serbava come un segreto; ma non ardiva ancora
d'interrogare il proprio cuore, quantunque il dubbio, in cui egli era,
gli fosse assai penoso. Ma poi, di volta in volta ch'egli tornava alla
casetta del lago, e quando, fatto più dimestico con le due donne, vide
la semplice bonarietà della madre dell'amico suo, e scoperse l'anima
delicata e sensitiva della sorella di lui, allora provò una gioia
tranquilla e solitaria, una consolazione che non aveva gustata da tanto
tempo. Respinto dalla sua, parevagli quasi d'aver trovato un'altra
famiglia; i suoi pensieri, che prima erano agitati da un gran tumulto
di cose, i dubbii cocenti che sempre lo travagliavano, le speranze
incerte, le visioni che disturbavano i suoi sonni e la sua solitudine,
tutto il cuor suo si faceva sereno, si riposava, appena egli passasse
il limitare di quell'umile casa — dove non era nessun rumore, fuorchè
il lento batter del fiotto al basso del muricciolo dell'angusto
cortile; dove non era nessun'ombra fuorchè quella della verde tettoia
formata dalla vecchia vite che saliva bistorta accanto all'uscio della
casa.

Al primo avvicinarsi a Maria, egli non poco si maravigliò, chè gli
parve di trovare in essa una rara modestia, una riserbatezza semplice
insieme e sicura, insomma una soavità di costume che, alla prima,
annunziava non solo la bellezza nativa del cuore, ma anche lo studio
e la squisitezza de' modi. Il suo portamento era timido, ma aveva non
so qual vezzo; il sorriso rado e quieto, il parlare assai modesto, ma
vero; e quel che più toccava il cuore, era il suono dolcissimo della
sua voce. Ella portava sempre un vestitino schietto, semplicissimo,
ch'era povero ma mondo, e fatto dalle stesse sue mani; i suoi bei
capegli eran pettinati con gran cura; le sue mani bianche, come quelle
d'una damigella. Ben vedevasi ch'ella conosceva d'esser nata in umile
stato; ma che pur non aveva dimenticata ancora la gentilezza delle
consuetudini d'una volta, la più eletta educazione della sua prima età.

Arnoldo trovava Maria spesso taciturna e pensierosa. Egli non le
aveva parlato quasi mai, quantunque la vedesse sovente; perchè ben
di rado ella e sua madre discendevano nel salottino a terreno, quando
il giovine vi si trovava in compagnia del vicecurato. Quindi Arnoldo
ardeva del desiderio di conoscere i pensieri di quell'anima pudica
e ritrosa, che pareva chiudere in sè stessa un tesoro di dolcezza
e d'amore. E cominciò a pensare che la giovinetta doveva sentir con
dolore la povertà della sua condizione, perchè il suo cuore era stato
un giorno accarezzato dalle grazie della vita; a pensare ch'ella aveva
la virtù d'esser felice ancora nell'oscura sua tranquillità, e che
forse sentiva più forti que' nobili affetti di che il fratel suo gli
ragionava sempre con tanto ardore. Arnoldo aveva egli potuto legger
nel cuore di Maria?... O era il suo un incauto sospetto, un fumo che
appannava il limpido specchio di quell'anima pura?...

L'idea che Maria fosse degna di miglior sorte, la fiducia di
sollevarla, di darle una vita novella, lo sedusse, lo vinse: il suo
pensiero non corse più in là. Egli dunque s'abbandonò a quelle nuove e
gentili illusioni. Un amore poetico, misterioso, un amore non rivelato,
e tranquillo ancora nella sua purezza, gli suscitò nel cuore sogni
tutti novi, che gli promettevan tuttavia qualche cosa di celeste in
terra.

Questo amore era il suo più prezioso segreto; uno sguardo, una parola
non l'avevano tradito ancora. Dopo molto esitare e molto pentirsi,
risolvette di tacersi e aspettare, con la sola speranza, che la
simpatia di quell'anima candida nascesse spontanea per lui.... Nel
principio dell'amore il giovine, non pensa che al suo cuore sol basterà
per poco quella solitaria delizia; ch'egli ben presto cercherà, vorrà
corrispondenza d'affetto: egli non pensa che tranquillo può essere
il sorriso della virtù, non quello della passione, e che, sparita la
prima aurora dell'amore, esso non gli dipingerà più la vita co' suoi
bei colori; ma l'abitudine l'avrà circondata della muta sua nebbia! e
allora verrà il tempo del disinganno, e fors'anche del rimorso.

E non era la prima volta che Arnoldo amasse. Ma erano stati amori
d'ebbrezza e di delirio; amori di un giorno, d'un'ora: visioni fugaci
e lusinghiere di donne bianche e rosee, di semidive trasparenti sotto
i ben foggiati merletti, fra l'onda delle trine e dei veli, ne' molli
velluti, o nelle pelliccie profumate; erano stati capricci di facili
seduzioni, usurpate dolcezze, e misteriosi ritrovi; gioie sparse di
fiele e sfuggenti più rapide che non fosser venute, lasciandosi dietro
un torpore, un tedio, se pur non era affanno e dispetto. Fino allora,
dell'amore egli s'era fatto giuoco, come le donne s'eran fatto giuoco
di lui: le grandi, le infelici passioni, colle quali si pretende
di dare una tempra così romanzesca alla nostra società, egli soleva
chiamarle le passioni a buon mercato. Si può perdonargli, perchè quando
amò per la prima volta, credeva che l'amore fosse tutt'altra cosa!

Ma ora quel cruccio e quell'amarezza avevano ceduto il luogo ad altri
voti, ad altri pensieri. Egli non credeva ancora all'amore, ma pur
credeva all'incanto della bellezza; e già si sentiva migliore, da
quel punto in cui una povera fanciulla, che nol cercava, che non
lo guardava, era divenuta, per dir così, la forma ideale delle sue
fantasie. E non sapeva che quel divino soffio che spira la vita alla
bellezza, è amore!


Già eran passati alcuni giorni da che Arnoldo era tornato in grazia
del padre; e non avendo in quel tempo riveduto l'amico, lasciò la villa
e prese il sentiero lungo il lago che conduceva alla casetta. L'acqua
era quietissima; la sera bella, ma senza luna; ed egli pensieroso più
dell'usato.

Bussò. Chi venne ad aprirgli fu Marta, la vedova d'un pescatore, che
Caterina, dopo la morte di suo marito, aveva fatto venire in casa
sua per le bisogne domestiche, e per non rimaner tutta sola con la
figliuola, quando don Carlo fosse partito.

La Marta, che già conosceva il giovine, — Non c'è nessuno, signore!
disse, restando su la porta. Don Carlo è dal signor curato di qui, e
Caterina e Maria sono ite in chiesa al rosario; nè son tornate ancora.

— Dunque me n'andrò! disse Arnoldo, col cuor malcontento.

— Ma, se volesse fermarsi, possono tardar poco...

— Oh non importa!... Ma sì, aspetterò, bisogna ch'io parli a don
Carlo. — E seguendo la donna, attraversò le due stanze a terreno, e
per la scala che riusciva in un canto del salotto, ascese nella camera
dell'amico. Marta pose giù sur uno scrittoio il lume, e se n'andò.

Poco stante, egli s'accorse che le due donne eran tornate a casa,
intese la voce di Maria che cercava di Marta, quella voce che gli era
sì cara. Poi rispondersi, bisbigliare fra loro, e non far zitto...
Certo Marta aveva detto alle donne ch'egli era là, ed esse s'eran
ritirate nell'ultima cameretta, dall'altra parte della casa.

Intanto Arnoldo aspettava. E lo sguardo suo errava distratto su le
carte e su' pochi libri, de' quali era sparso lo scrittoio del prete:
un volume delle OPERE DI SANT'AGOSTINO, un TOMMASO DA KEMPIS, un
DANTE di vecchia edizione, il BREVIARIO e la BIBBIA; e qua e là, fra
que' volumi, vide gettati a caso alcuni fogli e quaderni manoscritti.
Ne prese uno, l'aperse e lo guardò. Eran pensieri scritti in uno
o in altro giorno, nel tempo della solitudine, in ore di tristezza
o di meditazione. Egli lesse in que' fogli amare parole, parole di
sconforto e di sdegno, dettate, senza dubbio, da una potente e gelosa
cura, e poi temperate da un voto di pace, da un ricordo di pietà o di
rassegnazione, da un augurio di virtuosa coscienza.

Una pagina, ch'egli scorse con rapido sguardo, diceva:

                                                A' 30 d'aprile 18..

  «Il mio povero padre è morto! — E io non lo vidi nella sua ultima
  ora, io non ebbi il conforto di bagnar del mio pianto la sua testa
  moribonda! — Oh che lagrime io avrei sparse, e con che fervide
  parole pregato!.... Ma no: anche questa misera speranza doveva
  esser vana. — È un'altra prova che il Signore mi ha mandata!...»

                                                    A' 2 di maggio.

  «.... Le lagrime di mia madre, il dolore tacito e rassegnato della
  mia dolce sorella, hanno umiliata l'anima mia. E a me tocca di
  consolarle, a me di sorridere, col cuore serrato dall'affanno!
  Datemi forza, o Signore; e benedite, benedite sempre a quelle
  pietose e cristiane creature!

E più sotto, a caratteri rapidi, intralciati, che mostravan la foga
dello scrivere:

  «.... Perchè il cielo è così sereno, e la natura così feconda e
  lieta? — Una storia di secoli di sangue, inutile insegnamento a'
  miei fratelli — una contrada senza nome e senza avvenire — un'età
  grave a sè stessa — uomini vili e ciechi, che non sanno se vivano
  e perchè...! Non è uno scherno della provvidenza?... O forse è
  la pena d'un eterno peccato, la dimenticanza della prima virtù
  che Dio ci ha data, la virtù del volere?... No! no! via da me
  questi mortali e terribili pensieri! — Non ho madre e sorella,
  a cui preparare una sorte migliore, non ho tanti poveretti a'
  quali un dovere più sacro della vita e della morte mi lega per
  sempre?............

Volse la pagina e continuò:

  «— Jeri ho incontrato quel giovine straniero. Non so perchè egli
  brami sì forte di conoscermi e di leggermi in cuore. Pure, l'anima
  sua mi pare schietta e nobile; vorrei rivederlo, perchè mi sarebbe
  dolce lo spargere qualche consolazione in un cuor ben fatto, in
  una vita giovine e capace di bene. — Stasera, quando raccontai a
  mia madre l'impensato incontro, Maria mi disse d'aver veduto più
  d'una volta quel solitario giovine, che da qualche tempo dimora in
  questi contorni; e avend'io soggiunto ch'era un gentiluomo inglese,
  si maravigliò che cercasse di farsi amico mio. — Buona fanciulla,
  le dissi, tu non sai di quali oscuri mezzi talvolta si valga il
  Signore per il nostro bene! Chi sa che quell'anima traviata e
  deserta non trovi nella calma delle mie parole, e nella povera
  virtù d'un uomo ignoto, com'io sono, un occulto consiglio, un
  nuovo conforto a miglior meta, la prima parola forse d'una verità
  aspettata, e non pur conosciuta!... Allora, io ben m'avvidi, il
  puro intelletto dell'ingenua fanciulla comprese d'un lampo il mio
  segreto proposito. Oh la purezza del cuore e del costume sono la
  più vera luce del pensiero!... —

  «— Buona e infelice Maria! Io penso bene spesso a te, e ti
  compiango, perchè l'anima tua parmi destinata a sofferir molto
  quaggiù. Il tuo cuore sente troppo, e troppo di buon'ora tu hai
  gustato i piaceri dell'anima, per viver contenta nella tua meschina
  sorte.... Ecco a che si riduce la benevolenza del ricco! — Con te,
  io non ho mai fatto parola di ciò... Ma oggi bastò una lagrima che
  ti cadde dagli occhi ad agghiacciarmi il cuore. Ella mi parlava
  del giovine forestiero. Oh! con qual accento, con qual sorriso
  celeste mi disse: Egli dev'esser buono, e pare infelice! E tu
  devi consolarlo, o fratello: oh se le tue parole gli toccassero
  il cuore!... Io non potrei sopportare il pensiero ch'esso abbia ad
  andar perduto in questo mondo e nell'altro!..........

Arnoldo non lesse più innanzi. Gettò dispettoso il libro, un amaro
sogghigno errava su le sue labbra. Egli ristette, lo sguardo fisso, le
braccia serrate al petto, con un brivido nel cuore e uno strano tumulto
ne' pensieri.

Dopo alcun tempo don Carlo, tornato a casa, salì nella stanza; e,
veduto l'amico in atto di sì profonda occupazione, che non s'accorse
del venir suo, lentamente gli s'avvicinò.

— Arnoldo, voi m'avete aspettato, non è vero?

— Siete voi? rispose, riscotendosi, il giovine. Sì, venni a cercarvi.
Da alcuni giorni io non vi ho veduto; e temevo quasi non foste partito.

— Converrà bene ch'io vi lasci presto; e forse non resterò qui oltre
domani...

— Come?

— Gli è già parecchie settimane ch'io son qui. Oramai, le poche brighe
che domandavano la mia presenza, sono finite. Jeri mi fu consegnata
la tutela di mia sorella, e di quel poco ben di Dio che le tocca, e
quest'oggi ho riscossa porzione d'un vecchio credito, che mio padre
teneva verso un tale di Lecco. Adesso, mi richiama altrove un dovere
assai più sacro.

— V'assicuro che mi sa male che voi partiate. Ma, vel prometto, verrò
a trovarvi, e vi scriverò. Il vostro nome non è di quelli che si
dimenticano sì presto; e la conoscenza nostra, io spero, non morrà,
come tante che profanano la virtù e la fiducia dell'amicizia.

— Dio il voglia! E quanto a me, vi confesso che una certa tristezza
m'assale nel lasciar questa mia povera casa, e mia madre, e Maria...
Esse qui resteranno, con la compagnia di molti travagli; e io non
potrò, solo e lontano di loro...

— Oh non pensate! finchè io starò qui, verrò di frequente a visitare la
buona vostra madre; e poi condurrò meco le mie sorelle, e farò conoscer
loro Maria. Ed esse s'ameranno certo, perchè anche Elisa e Vittorina
sono due amorose fanciulle... Oh voi noi sapete ancora! Ho seguito il
vostro consiglio; e furon esse che calmarono lo sdegno di mio padre,
che m'han condotto nel suo seno... Da che non ci siam veduti, la pace
fu fatta: io domandai perdono a mio padre d'una colpa non mia; ma lo
feci di cuore, perchè da tanto tempo non avevo inteso la sua voce!

— È dunque vero? Oh voi siete felice! Il cuor vostro gusterà una di
quelle gioie non concesse che alla virtù cristiana d'umiliarsi.

Don Carlo ringraziò l'amico per quella sua cortese promessa; e poi,
prima di prender commiato, volle dirla anche a sua madre. Usciti di là
e passati per un piccolo corridore, vennero nella stanza dov'erano le
donne, le quali non aspettavano quella visita.


Era la cameretta di Maria.

La parete ignuda e bianca; da un lato un letticciuolo, a capo del quale
pendeva un quadretto dipinto, l'immagine della Madonna addolorata;
e più sotto, una candela benedetta e un crocifisso d'argento. Il
letticciuolo coperto d'una coltre di color cilestro; e le lenzuola
ripiegate sovr'essa eran sì candide, che non parevano ancor tocche.
Da un altro lato, una piccola finestra che guardava nel cortile verso
il lago, mezzo nascosta da una tendetta bianca. Qualche seggiole
di paglia, un rozzo tavolino, suvvi una piccola spera, e un vecchio
armadio in un canto, compivano la suppellettile della cameretta.


Arnoldo sentì una tacita gioia in cuore, quando il suo sguardo
s'arrestò su quella scena modesta e casalinga.

I raggi pallidi, che fuggivan di sotto il coperchio della lucerna,
mandavano una quieta luce su l'angelica faccia della fanciulla, e su
le piccole sue mani intese a lavorar di maglie; i suoi bruni capegli
rilucevan lisci e spartiti su la fronte, e le ricadevan dietro le
orecchie in folte e facili anella, fino a toccarle il seno, china come
ell'era; una veste semplice di percallo cenerino, e un nero fazzoletto
appuntato nella cintura aggiungevano una grazia pudica al contorno
della sua leggiadra persona. La madre sedeva anch'ella presso la
tavola, occupata a rimendar con l'ago alcuni suoi lini; e la vecchia
Marta più addietro, presso la parete e sur un trespolo, era attenta
all'arcolaio, e dipanava. — Il lume della lucerna, che disegnava con
varia movenza d'ombre e di chiarore quel gruppo sì raccolto, dava
all'umile scena un incanto di quiete e d'armonia: pareva uno di quei
cari quadretti fiamminghi, così semplici, così veri.


— Sapete, madre mia? disse don Carlo entrando; bisogna ch'io parta
domani: ho deciso.

— Come? io non ne sapevo nulla: gli è propio vero? domani, doman
mattina?... dimandò con turbato accento Maria, e sollevò la faccia. E
voleva dir di più, ma s'accorse che con suo fratello anche un altro era
là; chinò il capo, e ristette tra pentita e peritosa di quella domanda,
che le era uscita del cuore.

— È necessario, rispose il prete; chè io restai qui con voi più ancora
che non avrei dovuto.

E Caterina intanto scuoteva la testa, in atto di rassegnazione
malcontenta, e mormorava piano: Già son avvezza a mandar giù di più
amari bocconi... dunque pazienza!

— Sì! abbiate pazienza anche stavolta, mamma Caterina, la confortava
Arnoldo. La speranza del rivedersi è intanto qualche cosa: io poi
vi darò spesso notizie del figliuol vostro, perchè gli ho promesso
d'andare a visitarlo a ****.

— Lei è propio un buon signore! rispose, facendo le sue grazie, là
madre.

— Oh sì! aggiunse Maria con una voce soave, ma così timida e fioca, che
Arnoldo l'intese appena.

— Fatevi pur cuore, nè fate star di malanimo anche me. Già bisogna
ch'egli sia così! diceva don Carlo.

— Ma crediate, amico, riprese Arnoldo, ch'io m'ero assuefatto così
bene a passare i dì con voi, in questa contrada! Errando con voi da
qualsiasi banda, ogni paesello, ogni villa aveva la sua storia, ogni
montagna, ogni rupe il suo nome; e temo che mi costerà il divezzarmi...

— Lei è un signore, soggiungeva Caterina, e non vorrà pensare a noi...

— Che dite? anzi, se non me lo negate, voglio far conoscere le mie
sorelle a voi e a vostra figlia, che siete così amorevoli e buone.

— Oh Signore! noi avremo vergogna, rispose la madre.

— No, non può essere, ve n'assicuro.

— Oh noi desideriamo tanto di conoscerle, soggiunse vivamente e
arrossendo alcun poco Maria; noi le ameremo!

Quella sera, l'ultima che don Carlo passava presso de' suoi, chi sa per
quanto tempo, egli rimase fino ad ora tarda con le donne, le quali a
malincuore pensavano al domani. Anche Arnoldo stette un buon pezzo in
quella modesta compagnia, in mezzo a' que' dolci colloqui familiari,
in cui si ripetono tante lievi e care cose, e s'avvicendan parole, di
consiglio, di ricordo, d'aspettazione. L'animo suo era pieno d'una pura
contentezza; e quando, salutato di novo l'amico, tornò per la riva del
lago alla villa, egli ripensava alla buona famiglia, e gli pareva che
il suo cuore rimanesse là, in quell'angusta cameretta.



X.

LE TRE FANCIULLE.


Al domani, il vicecurato si mise in via per la sua parrocchia. Caterina
non potè trattenere alcune lagrime, mentre ch'esso, facendo per montar
nel biroccio, le prese una mano, e le disse: — Addio dunque, mamma;
state bene, e tenetevi su allegra!

Maria invece non pianse, e se ne stava, indifferente quasi, a guardar
il fratello che partiva. Se non che, quand'egli si distaccò da loro,
la fanciulla se gli avvicinò, e appoggiate le mani alla spalla di lui,
e lasciando cadere su quelle la testa, con voce sommessa gli disse: —
Non crediate già, Carlo, che non m'incresca il vedervi andar via; ma,
se anche non vi dico niente, pensate che vi tengo sempre nel cuore.
E voi? Oh vi ricorderete di me; non è vero? e qualche volta anche
mi scriverete, perchè le vostre parole fanno la mia vita... Ah voi,
adesso, o Carlo, siete per me padre, fratello e tutto!

Il fratello la guardò con tenerezza, ma non seppe rispondere. Le
strinse la mano con amore; e poi montò nel calessino che partì.


Passarono quindici giorni. E la vita di Caterina e della figliuola,
non segnata d'altro avvenimento, che dall'alternarsi della domestica
giornata, volgeva silenziosa e solitaria; perchè la lontananza del
vicecurato, il quale per alcun tempo aveva mitigato alle due donne
l'amarezza della vita, lasciava allora un altro vuoto ne' loro
pensieri, e faceva quasi parer inutili quelle quotidiane cure, che
prima eran per esse un'abitudine, una necessità.

Intanto credevano che anche Arnoldo le avesse dimenticate; egli non
era più ritornato a quella povera dimora; e una volta Caterina scappò
a dire: Fidatevi delle parole de' signori! per me, non ci credo più! —
Ben le aveva soggiunto Maria: Che volete, mamma, che venga a far qui da
noi quel signore? Egli avrà ben altre cose da pensare! — Ma la vecchia
replicava che quel giovine s'era fatto amico del suo don Carlo, e che
appunto per ciò doveva essere un po' diverso dagli altri; e poi, che
nessuno gli aveva cercato di venirle a trovare; e ch'esse, infin de'
conti, avrebbero tanto e tanto mangiato con lo stesso appetito la loro
minestra.

— Avete ragione, mamma! aveva risposto Maria mestamente: noi siamo
poveri, ed egli non verrà più!

Appunto la mattina di quel giorno, ch'ebbero menzionato fra loro per
la prima volta il nome del giovine forestiero, Maria, sedendo presso
il murettino del lago a guardar le barche che radevano la riva, intese
un vicino rumore di voci nuove e allegre. Si levò curiosa per correre
alla porta; e, in quella, vide entrar nel cortiletto le due damigelle
inglesi, accompagnate da Arnoldo.

Ella rimase d'improvviso interdetta, muta, e sentì un tremito segreto;
ma poi ripigliò cuore, e mosse verso le gentili visitatrici: era
sopravvenuta intanto anche sua madre.

Entraron nella saletta, e Arnoldo presentò alla buona comare e a Maria
le sorelle, dicendo: — Elisa e Vittorina desiderano di conoscervi; voi
sarete amiche, perchè i cuori, come i vostri, s'intendono sempre!

Maria arrossì, e non sapeva che dire; ma ritirandosi un poco susurrò: —
Oh questo sarà uno de' più bei giorni per me!

— Sì, sì, esclamò allegramente Vittorina. Voglio che stiamo insieme;
voi verrete sul lago nella nostra barchetta; voi c'insegnerete le belle
canzoni delle montagne, sarete la nostra guida sui sentieri dell'alpe.
Ah sì! dobbiamo passar di belle ore in compagnia.

Anche Elisa avvicinavasi a Maria, e la pigliava con affetto per mano,
dicendole: — Noi ci vorremo bene, come vostro fratello e Arnoldo, non è
vero? Egli, sapete, ci parlò sovente con tanto amore di lui, di vostra
madre e di voi. Non abbiate soggezione di noi; la vostra fisonomia è
tanto dolce e bella!

— Non mi mortificate così: io sono una povera fanciulla, e voi...

— Noi, riprese l'Elisa, siamo ben liete di conoscervi; e se vostra
madre è sì buona per non dirne di no, torneremo domani, per condurvi
con noi alla villa; e sarà una giornata di contentezza.

— E vi mostreremo, aggiunse Vittorina, cento cose belle; i nostri
anelli, gli smanigli, le collane, le ciarpette e tant'altri vezzi, che
sono una maraviglia a vederli. E ne daremo anche a voi, pensate! ch'e'
devono stare pur bene a quel vostro collo, sì sottile e bianco!

— Tu se' proprio uno spiritello! disse Arnoldo, mentre Maria alle
parole della giovinetta chinava la faccia sul seno, e di novo
arrossiva. Allora Vittorina, in atto di tenerezza infantile, le gettò
le braccia al collo, e col suo pronto sorriso:

— Perdonami, o Maria! ho creduto di farti piacere col dirti che sei
bella!

— Tu verrai, Maria, aggiunse Elisa, non è vero? dillo! vogliam
raccontarci tante cose! Perchè, sai, adesso noi possiamo godere in
pace questo tempo sì allegro, questo cielo sì bello! Adesso, noi non
tremiamo più per la vita di nostro padre; egli era ammalato, ammalato
assai, ma dopo che Arnoldo tornò, sta molto meglio.

— Buona Caterina, riprese Arnoldo allora, fu appunto per causa di mio
padre che non venni prima a trovarvi; ma son contento, chè vi veggo di
buona ciera e serena.

— Graziadio! rispose la vecchia.

— Voi avrete forse pensato ch'io v'avessi dimenticata?

— Nemmen per sogno!

E Caterina fu presta ad acconsentire alla graziosa premura che le due
damigelle le avevano fatta. Era un grand'onore per lei vedere la sua
figliuola cercata da due signorine così leggiadre e buone, e il suo
amor proprio non n'era poco lusingato; perchè pensava che in ogni
maniera non poteva esser che una fortuna quella conoscenza.

Ben presto le tre giovinette divennero amiche, come se già da un anno
si fossero conosciute. E quasi ogni giorno, Elisa e Vittorina venivano
a cercar di Maria, e con essa dividevano l'allegrezza di tutte l'ore.
Bene spesso le avresti vedute seder in crocchio sul terrazzo della
villa, intese allo studio de' loro disegni e lavori, al canto di care
e semplici melodie, o abbandonate a fanciulleschi e sinceri colloqui. E
talvolta anche il vecchio lord, che oramai era convalescente, sedendosi
nel suo seggiolone in un angolo del terrazzo, contemplava in atto di
segreta gioia quelle tre testoline giovani e aeree, che si chinavano
e si levavano con un tripudio irrequieto, con un sorriso più eloquente
d'ogni parola; e l'ampio foglio del _Times_, ch'egli si teneva spiegato
sotto gli occhi, cadeva allora dimenticato su le sue ginocchia; e nel
suo cuore l'arida politica cedeva il posto alla dolcezza d'un senso
affatto novo.

Più sovente le fanciulle andavano a diporto per i paesi della riva,
o facevano una corsa su la montagna, e Arnoldo veniva con esse in
compagnia. Era un alternar di risa schiette e d'allegri modi, un dolce
motteggiare, un mescersi di voci argute e soavi, una corrispondenza di
gioia e d'affetto.

Alcuna volta invece, al levar della luna, essendo il tempo chiarissimo,
e l'aria consolata dalla freschezza della sera, le tre fanciulle
discendevano di nascosto nel giardino della villa, e sen venivano
all'ombra per la riva bruna del lago. Poi calate chetamente nella loro
fida barchetta, davano a gran lena ne' remi, e pigliavano il largo.
La luna si rifletteva bellissima nel lago, come in uno specchio; ma,
a ora a ora, l'acqua commossa da uno spirar di vento leggero pareva
tutta risplendente di tremole scagliette d'argento. Quel fianco delle
montagne, su cui spargevasi il pieno chiarore della luna, pareva
circonfuso dalla vaporosa luce d'un incantesimo, e ne spiccavano i seni
e i dossi, i paesetti e le case; l'opposto fianco invece si perdeva in
un'ombra uguale e fitta, che nulla interrompeva, tranne il luccicare di
qualche picciol lume, qua e là, dal balcone d'una villa, o dalla porta
d'un casolare. E la barca delle giovinette fuggiva rapida su l'onde,
come se avesse l'ale, e portasse le fate abitatrici di quella poetica
contrada.

Poi, quando tornavano alla riva, vedevasi quella barchetta fermarsi
al piede dell'alto terrazzo; e l'aria taciturna risonava dell'armonia
d'una prediletta canzone.

    UN CHIAROR DI LUNA.

    INSIEME

      Sei cheta, o notte, ma non sei mesta,
    Quando riluce sereno il ciel!
    L'ora beata d'amore è questa,
    Questa è del canto l'ora fedel!
    Andiam compagne! La notte è bella;
    Stacchiam dal lido la navicella.

        Aura di sera — spira leggiera;
      Geme alla sponda — l'onda che muor.
      La luna è chiara, splendon le stelle;
      Le tre sorelle — cantan d'amor!
            La luna è chiara,
            Cantan d'amor!

    VITTORINA

      Io sono lieta, non ho pensieri;
    Tutto è sorriso d'amor per me!
    L'oggi è fuggito, fuggito è l'ieri;
    Oltre il domani speme non v'è.
    Ma quando l'alma brilla contenta,
    Oh! perchè l'ora non va più lenta?

        Odi una stanca — voce che manca?
      Di veglia è grido, che dà il pastor.
      Ve' il lume errante d'una facella,
      La barca è quella — del pescator;
            Canta, o sorella,
            Canta d'amor!

    ELISA

      Lieta è dell'ore l'aerea danza,
    La vita a un roseo vespro è simíl;
    E il dïadema della speranza
    È della sera l'astro gentil,
    La cui tranquilla luce amorosa
    Sulla mia fronte lieve riposa.

        Per l'aure lente — l'arpa gemente
      Diffonde un suono che cerca il cor!
      Vedi alla bruna sua finestrella
      La damigella — china sui fior!
            Canta, o sorella,
            Canta d'amor!

Fra l'una e l'altra canzone era una pausa; e le ultime voci s'andavan
perdendo a poco a poco nell'aria silenziosa della notte, sì che quasi
non poteva dirsi se il canto fosse venuto dalla terra, o dal cielo. E
pareva che ciascuna delle due sorelle volesse all'accento confidare il
segreto del proprio pensiero. Quando poi toccava a Maria a cantare,
essa che non aveva avuto altro maestro che il cuore, e che solo col
fino senso dell'orecchio misurava l'armonia, sapeva esprimere tutta la
soavità, tutta la malinconia dell'anima sua nelle fresche e semplici
note della sua voce.

    MARIA

      Nel ciel romito ho un astro anch'io,
    Che nessun vide, nessuno amò!
    Pudico raggio, deh splendi al mio
    Povero core che ti trovò!...
    Io t'amo, o stella, che sempre vegli,
    Ed amo l'onda dove ti spegli.

        De' giorni il fiore — s'inchina e muore,
      Breve è l'affanno, sacro il dolor:
      Dal basso esilio, l'alma più bella
      Alla sua stella — ritorna ancor.
            Canta, o sorella,
            Canta d'amor!

    INSIEME

      O cielo amico, ciel di zaffiro,
    Ah ne risplendi sempre così!
    Senza una nube, senza un sospiro
    Di nostra vita trapassi il dì;
    Nè rio pensiero mai turbi il core,
    Che solo cerca silenzio e amore!

        Aura di sera — spira leggiera,
      Geme alla sponda — l'onda che muor.
      La luna è chiara, splendon le stelle:
      Le tre sorelle — cantan d'amor.
            La luna è chiara,
            Cantan d'amor!

Il più sovente, venuta la sera, le due damigelle accompagnavano Maria
alla casa di sua madre; e là s'intrattenevano alquanto a frascheggiare
con la vecchia Marta, e a raccontare la lieta giornata alla buona mamma
Caterina, come già la chiamavano. E la buona mamma Caterina quasi ne
piangeva di consolazione.


In questa dolce e sollazzevole amicizia corsero così due mesi, i due
mesi dell'estate: e su quella felicissima riva, dove gli ardori del
sirio e del sollione sono temperati dalla freschezza dell'acque, e dal
respiro quotidiano de' venti della pianura e dell'alpe, e ristorati
dall'ombra delle montagne e dal silenzio perenne della natura, le tre
fanciulle gustavano una contentezza così serena, che non avrebbero
cercato di più. Quando la gioia è vera il cuore crede ch'essa durerà
sempre!

Anche Arnoldo non era mai stato lieto come allora, e quasi gli pareva
un sogno la sua felicità. In quel tempo d'una confidente esistenza, in
que' giorni fuggevoli e uguali, egli lasciava che l'anima sua errasse
in balìa di facili illusioni; i suoi pensieri non eran più quelli
d'una volta; egli trovava in essi una quiete insolita; e diceva che
una stella nova e più pura era comparsa nel suo cielo. Arnoldo amava
la povera Maria, e l'amava sinceramente. Eppure spesso, quand'era
solo e domandava a sè stesso, se Maria, nella sua innocenza, avesse
potuto indovinar quel segreto ch'egli aveva sì caro; un sospetto
sorgeva a turbarlo con voce importuna, dipingendogli alla mente
quell'angiolo come una povera creatura, ch'egli voleva far sua vittima
per abbandonarla poi nella sciagura. Allora l'amor suo gli pareva
una menzogna, le sue parole uno scherno crudele, ogni suo sguardo
furtivo un'infame seduzione. Ma quand'essa era là, in mezzo alle sue
sorelle, folleggiante e graziosa come Vittorina, tenera e meditabonda
come Elisa; quando, con quella pura sua voce, gli cercava l'anima
dolcemente, o la rapiva con la magia d'una sua canzone montanina,
allora le fosche fantasie acchetavansi; egli credeva all'amore, credeva
al suo cuore e a Dio.


E la fanciulla? — Povera innocente! tu ancora non sai che sia l'amore
d'un uomo! Nessuno ha gettato mai sopra di te un solo di quegli sguardi
che consumano come fiamma, e lasciano un solco nel cuore; nessuno
t'ha detto una parola, per rivelarti che l'abbandono del cuore e del
pensiero ci può costar tante lagrime e tanto sacrifizio. Tu non ami
che tua madre, il fratel tuo, Dio, il cielo, il tuo villaggio e i
tuoi fiori!... Oh guardati, e ti salva dall'amore, finchè hai tempo
ancora! L'anima tua è tuttavia pura e soave; essa trema, come una
rosa tocca dal primo vento. Perchè abbandonasti il cantuccio della
stanza di tua madre, e la tua piccola finestra incoronata di fiori?
Aimè! gli occhi di chi non conosce l'amarezza del pianto che si versa
quando l'innocenza è morta, guardano al futuro attraverso il prisma
ingannevole del presente; e il cuore, se non è ferito, non crede al
dolore! — Povera Maria! oh come tu benediresti a quella voce che ti
dicesse: Tu se' troppo ingenua, tu se' troppo sicura di te stessa!



XI.

SULLA BASS'ORA.


La Malizia, questa losca sorella della Bugia, questa fata capricciosa
e segreta, la quale, sebben zoppichi su le sue grucce ineguali, pur
tanto cammina che bene spesso vince della mano la Verità; la Malizia,
ospite vecchia del nostro mondo, è stata sempre, per quanto si faccia
o si dica, la regina delle cose, e ha codice, ragione e diritto;
perchè forse la provvidenza le permise d'attecchire, crescere e
moltiplicarsi, come la gramigna nel campo, di spiegarsi e regnare,
come le nubi nel cielo. La Malizia passeggia sotto le vôlte dipinte
delle case de' grandi, vestita d'un giubba trapunta di frastagli d'oro
o d'uno splendido saio, siede alle mense e ne' circoli del bel mondo,
coperta le spalle di màrtora o d'ermellino, di sete indiane, di veli
aerei; trotta per le vie sotto l'abito modesto del cittadino; studia,
medita, scribacchia anch'essa, come il più grave filosofo; ha il suo
scanno nel cantuccio del focolare del borghigiano, e la rozza panca di
legno sotto la tettoia del contadino; s'adagia a sua posta nel caffè,
nella bottega, nel palchetto del teatro; sbircia, sogghigna, ciancia,
gracchia, trincia a destra, a sinistra; e a sentirla, gli è sempre
per amor del bene, o per onor del vero. — Nessuno dunque maraviglierà,
cred'io, ch'ella avesse culto e alunni anche su quella beata riva del
lago, tra le poche case del nostro paesetto.


Su la bass'ora d'un bel dì, il signor curato passeggiava nella piccola
spianata che si stendeva dinanzi la sua casa, in compagnia di quel
signor Gaspero, il vecchio signorotto, del quale abbiam già fatta la
conoscenza; e discorrevano fra loro a tutto bell'agio. Benchè costoro,
come vedemmo, non fossero i migliori amici del mondo, e l'uno non
andasse molto a sangue all'altro, pure lo star insieme e la necessità
di tenersi in credito, facevano che si cercassero come due vecchi
colleghi, o piuttosto come due gelose potestà rivali. E poi, don
Gioachino non era uomo da legarsela al dito per qualche motto lanciato
alla sua pretensione politica o letteraria, chè anzi piccavasi di non
se ne far gran caso, come se si fosse trattato d'un complimento.

— Ehi! signor Gaspero, diceva il curato, se foste venuto mezz'ora fa,
v'avrei fatto sedere alla mia tavola tale e qual era; ne vengo or ora.
Eh! un desinarino da povero curato, ma da galantuomo; poco ma buono! è
il mio assioma.... ah! ah!

— Oh lo so per esperienza! si mangia bene da voi....

— Non fo per dire, ma la mia Sabina sa il fatto suo: da un par d'anni
poi ne son contentone. Quest'oggi, vedete, m'ha regalato un bel pezzo
di stufato fumante, con certe cipollette in sugo, che parevan perle; e
poi una fricasséa di polli, che valeva un Perù!...

— Corbezzoli! la è una dottorona la vostra serva; scommetto ch'ella sa
a menadito tutto il _Cuoco Piemontese_, e che la vi corregge anche i
testi latini delle vostre prediche.

— Ah! ah! sempre di buon umore il nostro signor Gaspero!

— Che volete, curato? Se non si cerca di passare, il meno mal che si
possa, questi quattr'anni di vita che ci avanzano....

— Buon per voi, che sul vostro non tempesta mai!... Ma per me,
v'assicuro ch'io conto delle giornate brusche, e che qualche volta mi
tocca di roder catene.

— Canzonate, o dite da vero? Chi fa mai più beata vita della vostra?

— Voi volete parlare, ma non le pigliate su voi quelle che mi toccano,
proprio a me, che doverle inghiottire, la è dura! Ma, ma!... è meglio
non pensarci, chè basterebbe a farmi far cattiva digestione.

— Ma via! che avete? dite su: non son forse vostro amico, io?

— Sì! voi siete un galantuomo, ma a questo mondo c'è dei birbanti.
Io che non ho mai avuti impicci, sentite mo che cosa mi capita! —
La settimana passata, fo una giterella a Como, per non so che miei
interessi.... certo poco danaro, che ho messo da parte in tant'anni,
e che ho voluto portare io stesso, in confidenza, ad un legale di
là, un po' mio parente, perchè me ne cavi una cinquantina di lire
d'interesse... Mo, vedete! Eran sei anni che non mettevo il piede in
quella maladetta città; e sta, che quell'unica volta che ci casco,
trovo un avviso che mi chiama, là.... da... (E qui gli bisbigliò
a mezza voce un bel nome tondo.) Mi capite? Così è... proprio da
lui! Bisognò dunque trottar subito... là dov'ero aspettato. Non vi
dico nulla!.... Cose grosse, cose di fuoco; mi voglion mettere in
compromesso, mi vogliono giuocare sicuro, io che non ho mai fatto nè
detto male a nessuno...

— Ma che diamine mai?...

— Lo sapete voi? lo so anch'io. Fu un serio e lungo interrogatorio
di lui, di lui stesso... capite? — E vi dico la verità, che la flemma
delle sue domande mi faceva sudare, nello stesso tempo che la serietà
delle sue occhiate mi metteva i brividi. E tutto, indovinate mo?... per
amor di quel sapientaccio presontuoso di don Carlo.

— Oh!...

— Che so io de' garbugli che può avere colui?... E bene, sul conto suo,
mi domandò più di cento cose; e ch'io sapevo, e che dovevo sapere...
che quel prete era nativo di qui; ch'io conoscevo quali corrispondenze
avesse, perchè quest'estate passasse qui tre mesi, e che ci doveva
essere la sua buona ragione; che discorsi, che vita facesse, e che so
io... Vi dico che avevo tanto di testa! Cercava ben io di rimbeccar
quelle antifone alla meglio, ma era peggio! Io aveva bel dire, la
responsabilità è sempre del povero paroco... E poi, sentite questa!
— Non è la prima volta, conchius'egli infine nel congedarmi, che voi
date serii motivi di censura!... sue precise parole. Figuratevi che
condizione fosse la mia, a questi schietti complimenti!

— Ma non siete arrivato a capire?...

— Poco o niente. Furono avvertimenti sordi, misteriosi, consigli dati
a mezz'aria, lasciati indovinare; ma, se non fallo, qui ci cova sotto
qualche cosa di...

— Di che?

— Eh signor Gaspero! penso ch'io sono una bestia a ciarlar tanto di
queste materie così gravi: lasciamo andare, lasciamo andare....

— Ehi, m'offendete! dite su! Credete ch'io sia un bamboccio o un
birbone? Parlate!

— Ma! ma! ma!... voi non sapete che brutto rischio si corre....

— Ditelo, che lo saprò.

— In somma, in somma! volete propio saperlo?... Io credo che ci sia in
aria qualcosa di torbido, di marcio, cioè di... rrrr... E nell'orecchio
dello strabiliato compagno finì una terribile parola.

— Bah!...

E qui tacquero tutt'e due, e si guardarono in faccia un pezzo l'un
l'altro, senza batter palpebra. Poi il signor curato, levando
lentamente una mano, e mettendo l' indice a traverso le labbra,
diede all'amico un'occhiata di gran significazione, come per dirgli:
Silenzio, per amor del cielo!

E l'altro, facendosi piccino e stringendosi nelle spalle, rispose con
la stessa smorfia.

In quel mezzo, altri capitavano su la spianata, e camminando
sbadatamente andavan di lungo pe' fatti loro; se non che, due d'essi,
veduti ch'ebbero don Gioachino e il signor Gaspero, attraversarono
la strada, e vennero difilati alla volta loro. Erano il dottore e
il deputato politico del paese. I quattro fecero tra loro le solite
scambievoli cortesie, con una sberrettata che rese l'uno all'altro
in aristocratica solennità, a grand'edificazione de' villani che
di là passavano. La conversazione interrotta si rannodò; e fu lo
stesso curato che per il primo pigliò la parola, sollecito di mutar
l'argomento, e pauroso non fosse mai per iscappare al signor Gaspero
qualche allusione alla confidenza fattagli.

— Dunque, che c'è di nuovo, signor Mauro? disse, voltandosi al deputato
politico.

— Eh! che vuol mai ch'io sappia, io! rispose quegli. Lei, don
Gioachino, lei che sa di politica, che vive di giornali, me le
racconterà le notizie.

— Oh sant'iddio! L'ho detto tante volte, caro mio signor Mauro, ch'io
non m'impaccio di faccende mondane! Io vivo in questa tana, come un
tasso di montagna... Io non c'entro, io non c'entro, lo dico e lo
protesto! io dormo all'ombra del mio campanile, e di queste cose che
bruciano, me ne lavo le mani.

Questa protesta, che non sarebbe certo uscita di bocca al curato in
altro tempo, gli fu allora suggerita dalla fresca tema di vedersi a
qualche brutto giuoco, per la maledetta smania che aveva di pesare
su la sua bilancia i destini d'Europa. Il buon uomo s'era ingannato:
nessuno badava, più che agli abitatori della luna, alla congrega
dottrinaria dello speziale; ma allora la paura era entrata in corpo al
povero don Gioachino, e per lui era lo stesso che se l'avessero tenuto
per un Robespierre in saio nero.

— Dunque, mutiam discorso, seguitò, perchè vedete bene!... Già, non è
bisogno dirne di più;..

Gli astanti capirono, o credettero di capire, quella reticenza. E
il signor Gaspero, che aveva la chiave del mistero, — Or via, disse,
volete che ce n'andiamo in compagnia giù fino alla riva? Non può star
molto, che passi il Vapore...

— Andiamo! risposero.

— E anche lei, signor curato, soggiunse il deputato politico; via!
venga, non si faccia pregare.

Cammin facendo cianciarono, al solito, di cose inutili. Ma poco stante,
il dottore, additando una barchetta che prendeva il largo: — Guardate!
disse, non è quella laggiù la barchetta delle nostre damine inglesi,
qui della villa?

— Ah si! è proprio quella! già si sa, il dottore ha buoni occhi, e
conosce le belle fanciulle un miglio lontano.

— Via, signor Gaspero! So ben che lei scherza: non me n'intendo io.

— Eh voi siete un giovinotto, signor Paolino, un dottore di primo pelo!
Caspita, che su' trent'anni, come voi adesso, ne feci anch'io delle
belle, e qui e via di qui; ma era il secolo passato, amico, quel tempo
di cui adesso si ride.. povera gente!

— Buon pro le facciano, padron mio, ma le ripeto, lei s'inganna a
partito!

— Andate là, volpone dottorato, che avete buon gusto. Già lo sappiamo
anche noi; è quella dagli occhi cilestri, dall'aria sentimentale! ah!
ah!... diceva il deputato.

— Anche voi volete spassarvi alle mie spalle, signor Mauro?

— Via, confessate, signor Paolino, non è così? non è quella del
bigliettino color di rosa, quella del luigi doppio? L'avete pur
raccontata voi la storiella.

— Oh andate al malanno, ch'io vi mando! rispose piccato il dottore.

— Ehi! la vi pizzica? ripetè l'altro, dunque è segno ch'è vero!

— Ah! ah! quest'è bella, è nuova di conio. Il dottore muore dietro
all'Inglesina! oh me la godo proprio... E il signor Gaspero, con quella
sua ciera piacente, rideva, rideva di gusto.

— Ma via, finitela! lasciatelo stare quel povero figliuolo, se non
volete che gli salti la mosca, continuando così come fate a dargli la
soia, soggiunse il curato.

— Se voglion pigliarsi il bel tempo, lasciateli dire. Magàri la fosse
così!

Intanto eran giunti alla strada che fiancheggia la riva. La barchetta,
ch'era stata la cagione innocente di quel cicaleccio, passava
rapida, alla distanza d'un trar di pietra; ond'è ch'essi videro
le due giovinette e Maria, che guardavano verso di loro, ridendo e
motteggiando con una sì schietta allegria, ch'era un'invidia. Arnoldo
remava, e Vittorina, seduta su la poppa, governava il timone, a ogni
momento volgendone l'ala a suo capriccio, sicchè il battello vogava in
isbieco, come per obliqua via, lasciandosi dietro su l'onda un lungo
solco schiumoso e serpeggiante.

— E quella martorella, scappò fuori a dire il curato, levando
con la punta dirizzata verso la barca la sua lunga canna dal pome
d'osso bianco; la tosa d'Andrea, ch'è divenuta damigella delle due
_milordine_, eh! che ve ne pare?

— Quella giovine sa il suo conto! disse il dottore.

— Oh sì, da vero, il curato ripigliò; ma questa sua confidenza io
non l'approvo, son cose fuori di posto: una ragazza, una contadina,
un'ignorantella, vedetela là, che vuol fare la burbanzosa, la
superbetta, mettere il gonnellino di moda, capricci! e far pensare
intanto, e far dire... No, non va bene! causa quella testa matta di suo
fratello prete, che anch'esso ha la sua vena di dolce! vuol comparir
filosofo, politico, romantico... Oh la vedrà bella anch'esso, la vedrà
bella!...

— Ma, lei non è il curato? dimandò il signor Mauro; non tocca a lei
a dare una buona rammanzina alla ragazza, un'altra a sua madre, e
ricondurre all'ovile la pecorella smarrita, come lor signori dicono in
pulpito tante volte?

— Ehi son parole: ci vuol altri che me! È l'ingordigia, la sete di far
quattrini. La vecchia tale e quale la conoscete, fa la bigotta, ma le
premono i comodi e la cucina; e poi, vuol mettere da parte, per que'
pochi dì che le restano a campare... e la figlia è la sua insegna!

— Oibò! oibò! che dite mai, curato? l'interruppe il signor Gaspero,
queste son cose...

— Cose da non credere, ma che son vere! Pensate forse ch'io sia qui,
come si suol dire, il bastone della scopa? So, vedo e conosco!

— Ma non basta, bisogna...

— Bisogna che questi villani non sieno teste di scoglio, come sono. Ma
che ci posso far io? e' la sarebbe come se volessi asciugar il lago col
mio cappello. Non hanno badato mai alle parole del loro paroco! il qual
paroco non ha più di due polmoni, che, una volta asciutti, non possono
riempirsi di fiato, come una tinozza di vino!

— Ah! ah! ma che v'importa a voi, che la giovine, la quale è poi savia
e buona, vada con quei signori?

— A me, come me, certo che no! ma se, per causa sua, avessi de'
pasticci? Io ci vedo da lontano... Quel vecchio milord, che sarà
luterano, puritano, manicheo, o qualche cosa di simile, fa una strana
vita, la vita del mistero... Il suo signor figlio poi...

— Dite un po': è forse quello che aveva fatta tant'amicizia col
vicecurato?

— Giusto! E colui, poteva far di peggio? Pensate! un prete, che deve
sempre guardar bene a tutto quel che fa e che dice, un prete, com'è
lui, viaggiar su per i monti, andar giù per il lago, in compagnia d'un
forestiero libertino, d'un... dio sa che cosa? Già, è sempre stato
un bel capo colui!... E mi ci voglion tirar dentro per i capegli, me?
Oh se la sbagliano! Io me ne lavo le mani, non ne voglio saper nulla,
faccian loro! Son pazzo a pensarci su... Non è egli vero, che non tocca
a me?

— Del prete, rispondeva sempre il signor Gaspero, del prete io non
parlo! Siete l'autorità ecclesiastica del paese, la prima! Ma della
giovine, chi vi può dir nulla? Eh via! chiudete un occhio, e lasciate
che l'acqua vada in giù; perchè alla fine, non è essa padrona del suo?
E potendo far la sua fortuna, la sarebbe una baggea a star lì, sempre
appiccicata alla sottana di sua madre!

— Bravo il nostro signor Gasperino! dicevagli il deputato, nel dargli
d'una palma su la spalla: già l'ho sempre sentito far l'avvocato
delle belle donne! Ora poi, che si tratta della graziosa figliuola
d'Andrea... ch'è veramente un bel fiore di primavera, un fiore che,
scommetto, vorrebbe trapiantar volentieri nel suo giardino!

— Ehi, Mauro, che spropositi mi dite? cosa volete ch'io faccia, co'
miei sessantacinque anni, col mio peso e con la mia mezza parrucca?...
Ho altre fantasie; sono stato giovine anch'io, e al mio tempo, non fo
per dire, era un giovinotto un po' più vivo di quelli del dì d'oggi...
non so se mi capite! Ho avuti i miei grilli, e me la sono spassata alla
buon'ora! E ho fatto anch'io, come si dice, le mie campagne, sono stato
attore anch'io, ma adesso mi conviene accontentarmi della parte di
spettatore; e ridere, quando c'è da ridere, della commedia che il mondo
mi fa d'intorno.

— Non faccia troppo il filosofo, caro signor Gaspero, soggiunse il
dottore, contento, a dir poco, di rendergli di rimbalzo le parole
che motteggiando gli aveva dette a principio della via. Anche
sul suo conto, se ne sa qualcosa. E ne so una io... e se non me
l'avesse raccontata quel brav'uomo d'Andrea, non la direi... I suoi
sessantacinque anni? Non gli credete, al signor Gaspero, quando dice
che gli pesano; ha i suoi capricci ancora, un grillo che gli mette il
prurito da un pezzo; e se non fosse che...

— Via è matto il dottore, disse l'allegro vecchio.

— Matto io? sarà; ma nol fu già lei, signor mio, quando sottomano, alla
sorda, lasciò sentire al padre della Maria, che cosa penserebbe se mai
fosse capitato un partito alla sua povera figliuola, un partito come
va; e se saprebbe farglielo parer buono; un uomo un po' sugli anni sì,
ma vegeto, sano; e poi, persona di credito, particolare danaroso...
Ehi, dica: non è così, signor Gaspero?

— Che bravo poetai che rima! crollando il capo quegli diceva.

— Altro che poeta! Lo so ben io! Se non fosse stato il buon galantuomo
a rispondere, come pochi pur troppo rispondono in questi casi: Ma,
io non ho che questa tosa, e ch'ella se lo trovi il marito, e sia
contenta. Sono un povero diavolo, gli è vero; ma è meglio pochi stracci
e cuor contento, che non abbondanza di fuori, e cuor voto di dentro...
Non è così?

— Pigliatelo, vi dico, il dottore! tenetelo saldo, ch'è matto, matto da
legare!

— E che mal ci sarebbe se la fosse come lui dice? soggiunse il deputato.

— Ma sì, che mal ci sarebbe? ripetè il signor Gaspero.

— Bene, dico io!... Ma sapete, conchiudeva il curato, che le nostre
sono ciance da far ridere i morti? E mi pare che tutti siate un po' in
cimberli, a chiacchierar così in pubblico di donnette e d'amori, come
fanno i giovinotti della città al caffè! Oh finiamola, ch'è tempo! Ecco
appunto il signor Samuele, che viene a questa volta. Ehi, ehi! signor
Samuele, venite qua! Non vi pare che sia il Vapore quello laggiù in
fondo, sotto la punta di Laglio?... Ohe, non vi dicon niente i vostri
occhiali?

— Mi pare e non mi pare; lo speziale rispose, levando il naso, e
mettendo il rovescio della mano alla fronte, a mo' di visiera.

Ed esso e gli altri s'aggrupparono sur un monticello della riva, per
aspettare, con la loro quotidiana curiosità, il passaggio di quella
barca che da pochi anni aveva segnato un nuovo e grave avvenimento
nella loro vita. E là, su quel pianerottolo, figuravano un crocchietto
degno del vivace pennello del nostro Migliara.



XII.

ADDIO AL LAGO.


O terra solitaria e ridente, che il lago da tutt'e due i lati viene ad
abbracciare col suo limpido specchio, o paesello che siedi su la china
del promontorio, incoronato d'alberi d'ombra perenne e rallegrato da
un misto digradar di sparsi colori, il verde dell'erbe freschissime,
il rosso e il gialliccio delle foglie che cominciano ad appassire,
il cupo del pino, dell'elce, e dell'abete, e il roseo degli odorosi
ciclamini che tutto l'anno rivestono la tua bella pendice, addio!..
Noi lasciamo le tue ore tranquille, l'innocente allegria de' tuoi
passatempi, l'aria tua sincera e salubre, i lieti diporti su l'acque, i
sentieri serpeggianti su per la montagna; noi abbandoniamo la casìpola
che un'annosa vite ombreggia, la remota dàrsena con le sue barche
pescherecce, la scoscesa costiera del lido, la chiesa antica e modesta,
la cappelletta al crocicchio del bosco... Addio!

Ma la memoria de' luoghi, che un tempo avemmo cari, dove passammo gli
anni giovenili in libertà e in pace, questa memoria, che si nasconde
nel cuore, ma non si cancella mai, verrà con noi, cara e segreta
compagnia. E quando sorgeranno, nel mezzo della vita, i giorni delle
lunghe prove e della tradita fatica, quando fra il rumore del mondo
e l'angustia del futuro, volgeremo indietro uno sguardo al tempo
che prometteva la felicità, allora ci sarà dolce il tornare, almeno
col cuore, a riposarci in que' luoghi, dove la solitudine è piena
de' nostri primi amori e di tante piccole storie da fanciulli; dove
conosciamo ogni palmo di terra, ogni albero, ogni cespuglio; dove ne
pare ancora dover esser meno amaro il ricordarsi del dolore sofferto.


L'oscura sorte d'Angiola Maria sta per mutarsi: un giorno, una parola
cambiano tante cose quaggiù; bastò un giorno per sedurre i pensieri
della giovinetta con le lusinghe d'una vita più bella, d'una vita che
fino a quel tempo era stata per lei un bel sogno fuggitivo, dal quale
senza rammarico si risvegliava. La dimestichezza nata fra essa e le
due damigelle compagne, il rivedersi tutt'i giorni, la concordia de'
pensieri e de' cuori, la necessità di cercarsi, di volersi bene, quella
fiducia della giovinezza sì schietta nell'anime buone, tutto si combinò
per condurre Maria a lasciarsi vincere dalla preghiera d'Elisa e di
Vittorina d'accompagnarle quell'inverno a Milano. Elleno speravano, in
segreto, che poi l'avrebbero persuasa d'andar con loro in Inghilterra.

Io avrei dovuto dirvi prima, che il vecchio lord, al cader
dell'autunno, stanco della sua lunga solitudine, e ristorato
alquanto nella salute, aveva, con gran rammarico delle due fanciulle
e d'Arnoldo, risoluto di passar l'inverno nella città. Però,
quando bisognò partire, Vittorina fu quella che trovò lo spediente
d'acconciarla bene per tutti. Un bel dì, fece a suo padre molte carezze
e una preghiera; e il lord, colto in buon'ora, acconsentì. Non occorre
dirlo, la mamma Caterina non si fece neppur essa lungamente pregare,
chè anzi non capiva in sè dal piacere, quando Elisa l'assicurava che
si sarebbero tenuta la sua cara Maria, come una compagna, un'amica;
che al primo giorno della primavera l'avrebbero a lei restituita, e
tant'altre promesse. E poi, la buona vecchia voleva troppo bene alla
sua figliuola; allorchè questa parlava, ella non sapeva trovar più
ragione in contrario. — Oh l'amar molto è la gioja e il martirio delle
povere madri!

Il più serio fu, quando bisognò scriverne al vice-curato. Maria sapeva
i pensieri, sapeva il cuore di suo fratello; e dubitava che quella
partenza così nova, quel lasciar sola la madre per tutto l'inverno, a
lui non dovesse parer bene. Tremava la povera fanciulla nello scrivere
e suggellar quella lettera, tremava e non ne sapeva il perchè. Ma
bisognava farlo; sua madre non aveva posta altra condizione, tranne
questa, che vi fosse il consenso di don Carlo.

Chi si pigliò la briga di portar la lettera al suo destino, fu lo
stesso Arnoldo, per una buona ragione che coperse di due buone scuse,
cioè di fare una visita all'amico, e di percorrere un'altra volta,
innanzi abbandonarla, quella bella contrada.

Prima che uscisse l'alba della vegnente mattina, una barca lo traghettò
a ***, dov'erano i cavalli di suo padre. Qui giunto, condusse fuori
uno svelto e brioso leardo; montò in sella, e seguitando i sentieri
lungo la montagna, viaggiò tutta la giornata, per arrivare innanzi sera
alla lontana parrocchia. Più d'una volta fallì il cammino, e gli fu
forza tornar indietro, e rifare lunghi tratti della strada già corsa;
onde sentiva dispetto dell'indugio, e compassione della sua povera
cavalcatura. Già da parecchie ore il cavallo andava di buon portante
o di galoppo su per quelle strade appena praticabili, e sbuffava
dalle nari per la lunga fatica; la sua criniera ondeggiava sollevata
dalla sottile brezzolina d'ottobre; le ferrate sue zampe percotevan
con violento passo sui grossi ciottoli di que' sentieri franati: ma
il giovin cavaliere non pareva mai stanco di tener piede in istaffa.
Soltanto egli lasciava, a quando a quando, che il cavallo continuasse a
passo la via, e intanto gli accarezzava il collo e la criniera.

Al mezzo del cammino, scese di sella, e fermossi per breve tempo in un
deserto casolare, il quale d'osteria non aveva altro che l'insegna; un
tugurio, che la mala sorte aveva collocato in fondo di una solitaria
valle. Condusse egli stesso il suo cavallo in un canto della corte,
innanzi a una mangiatoia tarlata; poi entrò nella cucina, sedette,
e senza parlare si refiziò con uno stantío resto di torta e con
certo cacio di capra che gli fu messo innanzi, e che poi condì con
un bicchiero di vino acido; e pure l'ostessa ne aspettò un pezzo il
complimento. Era una giovine e tarchiata colligiana, la quale gli
s'era piantata in faccia, con le pugna appuntate sul descaccio zoppo,
quantunque fosse più usa a guardare, con due occhi grigi e furbi, il
bel muso d'un contrabbandiere al lume della luna, che non la faccia
dilicata e i capegli biondi d'un giovinotto inglese innamorato.

Ripigliò il cammino, e lungo la strada, la sua fantasia, seguendo
sempre gli stessi pensieri, vestiva d'una immagine sola la varia
scena della natura ridente o selvaggia ch'egli attraversava; i gruppi
d'alberi, i casali, i dirupi e le frane, il ruscello e il torrente, la
piccola pianura e la greggia col mandriano, la siepaia e il cacciatore,
il paesello e il cimitero, tutto pareva fuggirgli dinanzi, come s'egli
fosse nel paese delle visioni. Sola una meditazione nutriva il suo
cuore; nè quel pensiero era mai sì forte, come quando traeva fuori la
lettera di Maria, e ne contemplava con segreta gioja le parole della
soprascritta; la quale, del resto, era pur semplice, e non so che
incanto avesse.

A un'ora di notte, arrivò alla parrocchia, e scavalcò all'uscio
d'una povera abitazione, che un pecoraio gl'insegnò esser quella del
vicecurato. E lo trovò nella più interna delle due camere, ch'erano
tutta la casa, lo trovò a vegliare in mezzo a' suoi volumi, qua e là
sparsi, ammucchiati o aperti, al lume d'una piccola lucerna.


Al vedere l'inaspettato visitatore, il prete s'alzò, e, fattosegli
incontro, sorrise; poi, senza parlare, gli strinse con grand'amore la
mano; ma il suo aspetto era pallido, malinconico il sorriso, lo stesso
andare aveva qualche cosa di penoso e d'incerto.

— Siate il benvenuto amico mio! Dunque non l'avete dimenticato il
povero prete? Nella mia solitudine, la vostra venuta è una vera
benedizione. Oh credetelo! il mio cuore n'è riconoscente.

— Mio buon Carlo: tocca a me il domandarvi perdono, se questa è la
prima volta che vengo a visitarvi; non ho tenuta la mia promessa, lo
so; ma... mio padre...

— Non dite di più: vi so troppo buon grado del piacere che adesso
mi fate, e v'assicuro ch'io aveva un gran bisogno di vedere un volto
amico.

— Io vi trovo assai mutato da tre mesi, magro, sparuto: siete stato
forse malato?

— No! io sto bene: è l'animo mio ch'è malato. Ma di me non parliamo;
voi...

— I' ho una lettera da consegnarvi... una lettera di Maria, di vostra
sorella.

— Che? accadde mai qualche disgrazia a mia madre?

— Oh! ella sta bene e vi saluta, la buona donna; ell'è così rubizza e
così lieta!

— Dio la benedica! Ma questa lettera di Maria...

— Eccola! essa vi domanda che acconsentiate di lasciarla per qualche
tempo con noi, che andiamo a passar l'inverno a Milano... Le mie
sorelle ve ne pregano anch'esse!

— Maria?.. disse il prete, maravigliando e cadendo d'improvviso in
gravi pensieri. Indi aperse lentamente il foglio, lo lesse attento, e
ripiegatolo lo intascò. Il giovine intanto lo riguardava, in atto di
serio esitare. Indi a poco il prete gli domandò: — Quando contate di
partire?

— Domattina, forse. Perchè... non so se mio padre.... dubitando rispose
Arnoldo.

— Domattina dunque avrete la mia risposta per Maria.

E detto ch'ebbe, mutò discorso, nè più parlò di sua madre, nè di sua
sorella. Ma raccontò all'amico la vita che menava in quella valle; vita
di sacrifizio e di coraggio, e che avrebbe presto distrutte le forze
d'altri uomini di tempra più salda della sua. Quella remota parrocchia
di poveri terrazzani, dispersa in abituri e capanne, senza ricolto e
senza decime, metteva a dura e verace prova il ministero dell'uom del
Signore, chiamandolo a tutte l'ore dov'era bisogno di consolazione e di
costanza, e dove albergavano il pianto e la fame.

Ma essendosi fatta l'ora tarda: — Pensiamo per voi, disse don Carlo.
Voi siete stanco, rotto dal viaggio; qui nel paese, non v'è locanda
di sorta, chè altri non vi capita se non qualche vagabondo, o al più
due volte l'anno qualche viandante che abbia perduta la strada. Se
v'accontentate, vi cederò il mio letto; già, lo sapete, siete sotto il
tetto d'un povero romito...

Ma, negando l'altro in ogni maniera: — Bene, soggiunse il prete, il
mio Bernardo, è un buon cristiano di questi monti che m'ajuta e mi
serve, vi preparerà alla meglio un lettuccio sul canapè ch'è nell'altra
stanza. Scusatemi, amico! v'accorgerete stanotte di non essere nelle
belle case, e ne' buoni letti della vostra Londra. Dunque, addio e
buona notte!


Arnoldo si coricò; ma alle stanche membra non concedevano riposo
l'ardore e l'inquietudine della mente combattuta da cento pensieri più
strani delle larve d'un cattivo sogno. Vegliava dunque, e dopo qualche
tempo s'accorgeva che nella stanza vicina il prete era pur desto;
perchè la lucerna mandava ancora, per alcune fessure dell'uscio, il
sottile suo raggio.

Dapprima non gli giungeva all'orecchio nè voce nè respiro; poi intese
come il muover lento e grave d'un passo, che pareva misurar chetamente
la stanza. Il giovine si trasse di novo sotto le coltri, e cercò
dormire, ma invano... Origliava, non fiatava; passò un'ora, ne passò
un'altra; e sempre sentiva il prete andare e venire su e giù lentamente
per la camera.

Tutto a un tratto lo riscosse uno strepito, come d'una seggiola che
scricchioli sotto il peso di persona che sopra vi s'abbandoni; e in
quella, gli parve d'udire un affannoso sospiro, e poi queste parole: —
Mio Dio!.. dammi forza e costanza!...

Allora, vinto da non so che terrore, egli stava per balzar dal letto,
quando s'accorse che la lucerna era spenta, e che tutto era silenzio.

Alla mattina, Arnoldo pensava di chiedere al prete, in nome
dell'amicizia, la spiegazione di quel mistero, la causa della
preoccupazione grave e dolorosa in cui l'aveva trovato. Pure, quando
se lo vide venire incontro, con aspetto serio ma tranquillo, per fargli
nuova scusa della sua meschina ospitalità, e s'accorse che gli tagliava
a mezzo ogn'inchiesta la quale a lui riguardasse, allora pensò che
quello doveva essere un segreto geloso e profondo, uno di que' segreti
che si trema di confidare allo stesso cuor dell'amico; e tacque.

Con un turbamento involontario Arnoldo ricevette la lettera che il
vicecurato aveva scritta in risposta a quella di Maria.

Quando, preso commiato e salito in sella, il giovine ripetè un sincero
saluto, il prete gli s'avvicinò, e strettagli forte la destra, —
Arnoldo, disse, voi siete un uomo onesto, e il cuor vostro è buono
e generoso. Voi siete abbastanza felice, ma io non ho più nessuno
quaggiù!.. Il futuro c'incalza e trascina, e Dio solamente lo conosce:
se dunque a Lui piacesse che noi non avessimo a incontrarci più su
la terra, e se mai l'avvenire vi menasse di nuovo in quest'Italia,
non dimenticate mia madre e mia sorella! Confortale l'una, proteggete
l'altra... Oh voi fortunato, se avrete questa consolazione di poter
dire: C'è alcuno che mi ama e mi benedice! Addio!

Arnoldo si sentì commosso fino alle lagrime; ma fattosi forza, — Addio,
rispose, virtuoso amico! State di buon animo; io spero che ci rivedremo
ben presto. Addio!

E, dato di sprone al cavallo, s'allontanò.


Due giorni appresso, la famiglia de' Leslie era partita dalla villa,
e Maria aveva abbandonato la natale sua terra. La mano della fanciulla
aveva tremato nell'aprir la lettera di suo fratello; erano poche linee
che dicevano:

  — «Chi deve avere maggior pena che tu parta di qui, mia cara Maria,
  è la nostra buona mamma. S'ella dunque vuol fare questo sacrifizio,
  e tu segui allora la tua volontà. La famiglia, nel cui seno ti
  ritrovi, è un raro esempio di nobiltà vera e onesta. Ma non ti
  scordar mai, sorella, chi tu sia! Conserva il tuo cuore; pensa
  che un cuore come il tuo è una gemma, la quale, perduta una volta,
  non si ritrova mai più. Io spero per altro che la tua lontananza
  non sarà lunga: quando ritornerai, fa di trovare ancora nella tua
  povera casa, e sotto il cielo che il Signore t'ha dato, quegli
  stessi pensieri e quella stessa vita, che ora vi lasci. E se mai
  tu temi che non sia per essere così, oh! non abbandonare, te ne
  scongiuro, la tua povertà e il silenzio dell'oscurità in cui se'
  nata. Addio, mia sorella! Che il Signore t'accompagni! —

                                                            Carlo.»

Caterina pianse nel leggere questa lettera così semplice, ma non ebbe
cuore di stornar la figliuola dalla proposta partenza. Maria mise
insieme le sue poche robe; e la stessa mattina, nell'andar dall'una
all'altra stanza della casa, le pareva che quell'abbandono le pesasse
sul cuore, e quel breve viaggio le fosse imposto come una penitenza.

La buona madre anch'essa, quando il momento fu venuto di staccarsi
dalla sua Maria, sentì nel suo segreto un dispiacere, un pentimento
quasi d'avere accondisceso all'impensata a quella partenza: e le
vennero a mente le parole che ripeteva un tempo il suo pover'uomo,
quando la signora contessa teneva con sè la fanciulletta: Verrà un
giorno che ve ne pentirete, e non vi sarà più rimedio! — Ma non disse
nulla, e cacciò via quel tristo pensiero.

Nel tragittare il lago, per raggiungere le carrozze del lord, che
stavano aspettando su l'opposta riva, Maria non potè nascondere
l'angoscia che la stringeva, benchè non piangesse. Dilungandosi
dalla sponda, guardava la madre sua e la vecchia Marta, che dalla
soglia della casa le mandavano ancora baci d'amore; guardava la sua
finestretta e la pergola del cortile. E certamente, se non era la
presenza del vecchio signore, che quantunque buono e carezzevole con
lei, pure la teneva nell'imbarazzo della suggezione, essa avrebbe
lasciato libero sfogo alle sue lagrime.

Elisa, guardandola con mestizia, le compativa; Vittorina l'abbracciava,
ripetendole le più liete cose che siensi dette mai per consolare chi
abbandona la prima volta i luoghi, a cui la vita serena di molt'anni
donò tanta bellezza.

Nel tempo di quel tragitto, un giovane barcaiuolo accompagnava il lento
batter del remo nell'acqua con una semplice canzone del suo paese, su
l'andar della seguente.

    IL COMMIATO.

    CANZONE DEL BARCAIUOLO.

    O Rita bella, mia Rita, addio!
      Ah! ti ricorda dell'amor mio.

    I' vo lontano dal suol natío,
      Lascio la barca che mi fu cuna;
      Solo, ramingo, pel mondo io vo.
      I' vo cercando la mia fortuna!
      Se il buon destino non è restio,
      Quando ritorno, ti sposerò.
    O Rita bella, mia Rita, addio!

    Ah! ti ricorda, cara, quand'io
      Sott'altro cielo, mesto, lontano,
      Penserò all'ora di questo dì;
      Che noi qui stretta ci siam la mano,
      Che un solo giuro due cori unío,
      E che il Signore quel giuro udì!
    Ah ti ricorda dell'amor mio!

    Là, presso l'erta di quel pendio,
      Cui lieta cinge la vigna in fiore,
      Vedi una casa, del monte al piè?
      Se fosse nostra!... Mi sta nel cuore
      Da tanto tempo questo desio!
      S'io vi potessi viver con te!..
    O Rita bella, mia Rita, addio!

    Oh sta, mio core! già l'alba uscío.
      Partir bisogna, lasciar la valle,
      Se ricco un giorno mi vuoi sposar!
      D'un fardelletto carco le spalle,
      Povero e franco, men vo con Dio...
      Ma prima, o cara, ti vo' baciar!
    Ah ti ricorda dell'amor mio!

    O Rita bella, mia Rita, addio!
      Ah ti ricorda dell'amor mio!


   [Illustrazione: — Sia ringraziato il Signore, disse il
   mendicante dopochè si furono allontanati, che m'abbia mandato
   l'inspirazione di continuar la strada.... — Lib. II, pag. 281.]



LIBRO SECONDO

              Non mi chiamate Noemi (cioè bella), ma chiamatemi Mara
                (cioè amara), perchè l'Onnipotente m'ha ricolmata di
                grandi amarezze.

                                               _Nel libro di Ruth._



I.

ALTRO TEMPO, ALTRA VITA.


Ecco Milano, la bella e ricca Milano! I larghi viali suburbani, che
ornati d'una doppia fila d'alti platani, la circondano, come delle
verdi ombre d'un giardino; i suoi lieti bastioni, le sue porte,
che ora ti figurano la superba idea dell'arte romana studiata da'
compassi dell'arte moderna, e ora ti presentano l'umile ingresso
d'una borgata; i suoi corsi larghi, lisci ed asciutti, le sue variate
vie fiancheggiate di modesti palazzi e di case belle e recenti dalla
fronte allegra, dalle spesse e diritte finestre; tutto ti farebbe
creder quasi d'essere in una città sorta ieri, se le belle cupole, e
i campanili delle vecchie sue chiese, e quelle superbe colonne cadenti
di San Lorenzo, unico avanzo della nostra grandezza a' migliori giorni
di Roma, e più di tutto la mole sublime e gigantesca del Duomo con
le cento sue guglie aeree, non sorgessero a ricordarti che i secoli
passati hanno ancora le loro grandi vestigia, e signoreggiano, direi
quasi, con l'armonia della loro maestà vetusta su d'un vasto anfiteatro
di case, che la mediocrità costruì in compagnia del comodo, del
risparmio e della convenienza.

Ma non cercare gli avanzi delle nostre glorie municipali; son pochi e
inutili per noi, e furono sepolti dai secoli, o dispersi dagli uomini.
Non aprire i volumi della storia, che adesso non è il tempo; essa ha
delle pagine scritte col sangue, pagine terribili che fanno fremere
e lagrimare; e altre ne ha, ornate delle più belle glorie italiane,
pagine sante, che sono l'entusiasmo e la speranza di chiunque si
ricordi ancora di portare il nome de' suoi antichi. — Milano è la città
del gran signore e dell'onesto privato, del mercatante e dell'ozioso,
del filosofo e del povero galantuomo; è la città semplice e colta,
generosa e ospitale, la patria della bella vita e del buon cuore.
Tutto il mondo è paese, dice il proverbio; ma i proverbi, massime gli
antichi, non han più ragione.

Eppure colui che per la prima volta abbandona l'aria pura della
campagna e la solitudine d'una terra ignota, non può trovar nella città
quel soggiorno di delizie e di fortuna, che forse prima aveva sognato,
nè quella pace oscura che nessuno al mondo invidia, tranne chi l'ha
perduta.

V' è una certa tristezza nella consueta tranquillità cittadina, una
certa monotonia nella quotidiana vicenda delle sue costumanze, una
noia negli spassi, un'inerzia nella vita, che talvolta ti par quasi
di trovarti solo e abbandonato in mezzo alla frequenza della gente, e
ti stanchi di vedere il malcontento in seno della ricchezza, e da una
parte l'orgoglio, e il disprezzo dall'altra, e dappertutto l'abitudine
e l'indifferenza per quanto ti s'agita o muta d'intorno. Al principio
dell'inverno poi, quando il cielo non ha sole, e la terra non ha altro
che nebbie e fumo, la è una scena a cui l'anima immalinconisce e si fa
grave e noiosa.

Le vie spesseggiano di popolo, ma son taciturne; è un andare e venire,
un mischiarsi, un incontrarsi da ogni parte; ma ciascuno cammina per le
faccende sue, o, se non ha faccende, s'accontenta di badare a quello
che altri fa e dice. La scena poi è sempre la stessa: è il fanciullo
che ora a ritroso, or saltelloni s'avvia alla scuola col fascetto
de' libri sur una spalla, e il pigro servo o la fante brianzuola che
gli tien dietro; è l'onesto impiegato che col suo lento passo usato
s'incammina all'ufficio per la strada da vent'anni battuta, chiuso nel
suo pastrano di panno turchino e col fido ombrello sotto l'ascella; il
solito gruppo de' lettori d'affissi alle cantonate, il fattorino che
torna zufolando alla bottega, la femminetta divota o la vecchia dama,
seguita dal servitore in livrea e con l'astuccio degli occhiali e due
grossi libri fra mano, le quali spesseggiando i passi se ne vanno alla
messa della parrocchia; è l'ozioso che girando a zonzo arresta tutti
gli amici e i conoscenti ne' quali s'imbatte, o dà gli occhi entro
ogni bottega, o numera le finestre d'ogni nuova fabbrica; è il giovine
signore, che dall'alto suo cocchio inglese balza su le soglie del
palazzo di qualche eletta contessa, lasciando al valletto di dieci anni
le briglie de' focosi puledri.

Nondimeno nella città è un bel vivere per tutti. Ben so che spesso
bisogna vedere e tacere, e mordersi la lingua o far orecchie di
mercante; so che bisogna sorridere a tanti amici di cappello,
accarezzare quelli che ti stanno di sopra, e quelli stessi che
t'invidiano, e guardar confuso nella folla il traino cortigiano
dell'ignoranza, e tremare talvolta perfino d'una segreta stretta di
mano dell'uomo sincero; so che bisogna fremere e arrossire, se non per
te, per altrui; e chinar la testa alle opinioni che, al pari di tanti
piccoli tirannelli, si cozzano, e voglion regnare insieme... Ma finchè
nella patria troverai un amico che ti dica una buona parola, finchè
avrai nella tua casa alcuno che t'ami, alcuno da amare, oh! terrai
sempre caro il nome della tua città, come quello di tua madre!


La famiglia de' Leslie, venuta a Milano, aveva preso dimora in una
bella e comoda casa, situata in una delle più popolose vie della città.
La casa apparteneva a una vedova dama, la quale, alla morte del marito,
s'era ritirato nel secondo piano, per nascondervi il suo lutto e i suoi
quarant'anni, e per cedere a qualche ricco pigionale il quartiere del
piano _nobile_, come qui si chiama.

Le damigelle, non avendo altri pensieri che di gioia, s'addomesticarono
in pochi dì con la vita cittadina e co' novi piaceri, e dimenticarono
il lago e i suoi pacifici ozii. Ma così non era di Maria. Essa non
aveva creduto da prima, che così presto si sarebbe trovata sola sola; e
già s'accorgeva che le mancava qualche cosa, e non sapeva che pensare a
sua madre, e pensare a suo fratello.

Pure ne' primi giorni, la novità di tutto quello che la circondava,
le cure divise con le compagne per mettere in ordine la nuova casa,
e assettare ogni cosa nella piccola stanza che ciascuna d'esse
aveva scelto per sè, fu una sollecitudine, un pensiero. Ma poi,
quel trovarsi chiusa sempre tra le pareti d'una sala, quantunque
tappezzata da lucenti arazzi e sfavillante d'oro e di cristalline
lumiere, quel correre alle finestre, e non veder che tetti e case, a
traverso l'aria greve e fosca, e cercare invano con l'occhio la linea
serpeggiante delle montagne, e i noti paesetti su l'opposta riva, e
l'incerta lontananza dell'acqua: tutto ciò la faceva ben sovente muta,
incresciosa a sè stessa, e le aveva rapito quell'aria di freschezza e
di sorriso, ond'era prima così bella e serena.

Arnoldo e le sue sorelle impiegarono que' primi dì nel visitare a
parte a parte le nostre chiese più antiche e famose, i pochi monumenti
dell'arti, le molte fabbriche degne d'esser vedute. Il giovine era
stato a Milano in altri tempi, e aveva conosciuta la città; egli si
faceva dunque compagno delle fanciulle in quegli utili diporti della
mattina, e dava loro la spiegazione di tutto, meglio che non l'avrebbe
fatto un facondo cicerone di piazza.

Ma elleno non potevano mai persuader Maria ad accompagnarle. Maria
temeva di farsi vedere con esse in mezzo a tanta gente; e s'ella da
prima non aveva pensato mai alla gran distanza che separava l'oscura
fanciulla dalle nobili damigelle, quest'idea dolorosa cominciò allora a
tormentarla con un assiduo rimprovero.

Quand'era sola poi, rifletteva a quello strano mutamento della sua
povera sorte, domandava a sè stessa perchè mai avesse acconsentito
a seguire una famiglia che non era la sua, e come la si potesse
abbandonar così, anima e cuore, a quella vita tutta nuova per lei,
e a che fine la sarebbe venuta. Tutto le pareva un sogno; ma il
turbamento che le s'era messo nel cuore, era vero. Allora sentiva
il desiderio d'una consolazione lontana, ignota, che nessuna cosa al
mondo le avrebbe potuto dare, nemmeno il ritorno alla sua casa, alle
braccia di sua madre. Per la prima volta, ella pensava a sè stessa, a
sè sola; all'avvenire, ai suoi timori, alle sue speranze. Oh! perchè
tutte quelle angustie, perchè quelle inquietudini e quel rammarico si
quietavano nel suo cuore, quando Elisa o Vittorina correva a scuoterla
da' suoi mesti pensieri con l'ingenuo bacio d'una sorella, o quando
sentiva soltanto pronunziar fra loro il nome d'Arnoldo, o sostava al
suono della sua voce, a quello de' suoi passi?

Lord Leslie intanto, giunto appena in città, ripigliò la sua vita
altera e dispettosa, com'è costume de' vecchi, che senton oggi il tedio
di quel che jeri bramarono. Lo strepito della città gli ricordava il
tumulto della sua vita passata, i lunghi anni travagliati dalle cure
della grandezza e dall'inimicizia della sorte. Egli dunque tornò a
starsene chiuso e solitario, a non voler vedere anima viva; e alternava
le lunghe ore della sua giornata fra il tè, le gazzette inglesi e la
corrispondenza epistolare de' suoi agenti di Londra e de' gentiluomini
della sua parte.

Arnoldo amava passar la più gran parte del giorno in compagnia
delle sorelle; chè la dimestichezza d'una vita modesta e uguale, le
consuetudini quotidiane, quella sì cara onestà del costume di Maria,
e quella sua semplice bellezza, tutto s'univa per fargli più prezioso
un amor puro e segreto. Nè Elisa e Vittorina ne' loro cuori ingenui
n'avevano ancora il più lontano sospetto; e lord Leslie stesso, anzi
che a codesto affetto d'Arnoldo, avrebbe creduto alla prossima rovina
della superba aristocrazia del suo paese.

Era in quel torno capitato a Milano tra i molti inglesi che passar vi
sogliono nell'inverno, un baronetto, antico amico de' Leslie, il quale
trattenutosi pochi dì, venne a portar loro le fresche notizie della
patria; e fu il solo che il lord acconsentisse di vedere. Era un uomo
di mezz'età, con un falso e ricciutello toppè d'un biondo rossigno;
volto di tinta accesa, ma sincero; cravatta e corpettino bianchi;
abito di color verde inglese, soppannato di velluto, a larghe rivolte
e larghi quarti; un occhialetto d'oro pendente al collo, e manichini
increspati su' guanti gialli; insomma, lo scapolo elegante, il _dandy_
di quarant'anni.

Costui sedeva, una sera, in mezzo al piccolo circolo delle due
damigelle, d'Arnoldo e della nostra fanciulla. Fosse l'aria vivida
d'Italia che l'animasse più del solito, fosse la leggiadria delle
giovinette, fatto è che quella sera egli faceva le spese della
conversazione; sfoggiava quegli scherzosi nonnulla, per cui nel bel
mondo anche il dappoco diventa fior di senno; ciarlava, rideva per
tutti, chè non pareva fosse nato al di là della Manica; e, com'era
stato gran viaggiatore, ripezzava il suo parlare or della lingua
nativa, or della nostra e or della francese. Ad Elisa, in men di
mezz'ora, egli aveva già ricordato a una a una le amiche damigelle che
l'aspettavano nella contea, e le s'era fatto vicino per bisbigliarle
all'orecchio che un giovine poeta italiano errava sempre intorno al
deserto castello de' Leslie; e poi aveva presa la piccioletta mano di
Vittorina, e le aveva descritte a parte a parte le splendide feste, i
passeggi, le danze, le corse de' cavalli, le compagne fatte spose.

— Oh perchè non son giovine anch'io come voi! seguitava il brioso
baronetto. Per voi è l'aurora, per me il mezzodì, per voi splende
il sole della bella Italia, per me quello del nord; pure non sono
malcontento di me stesso... I' ho fatto più lunghi viaggi, che non
Colombo, Marco Polo, Vasco de Gama e il capitano Cook, tutt'insieme!
Ho veduto il mondo; ma lo darei tutto, se fosse mio, per un anno
solo de' vostri... L'amore è la più bella parola di tutte le lingue;
domandatelo, miss Elisa, al vostro poeta, e voi, miss Vittorina, al
vostro cuore!...

— Voi siete molto gaio, sir Edwin, l'interruppe Arnoldo; e la vostra
vita, se alcuno la scrivesse mai, dovrebb'essere un bel romanzo.

— O amico mio, pensate! press'a poco come quello di Gil Blas de
Santillana. Anch'io sono sempre stato di buon umore, _a jolly
fellow_... E poi? non credete forse che la vita di qualunque uomo,
fra i venti e i cinquant'anni almeno, sia un romanzo?... Quella d'una
giovinetta poi, quella d'una bella donna!... _Oh delicious! delicious!_

— Aimè! disse ridendo Vittorina, io non ho tocca ancora l'età del
romanzo.

— Sì, sì! per un volto e per un cuore come il vostro, il romanzo
comincia a quindici anni. Ma per me... la mia stella tramonta! ah! ah!
l'ipoteca dell'età pesa anche su lo spirito! eh! eh!

— Via, via, sir Edwin, soggiunse Elisa, consolatevi, chè lo spirito è
un genio bizzarro che non ha paura del tempo!... Ma lasciam le follie;
e voi continuate a darci le novelle de' nostri amici di Londra. Non ci
avete ancora detto nulla d'Elena nostra cugina? l'avete veduta?...

— Miss Davison? Essa è l'ultimo angelo _of our merry England_, che mi
sorrise prima della mia partenza. Essa è sempre più bella, una maga,
una divinità! I nostri _dandys_ le fanno corona sempre e da per tutto;
è il sospiro di tutti, l'idolo che tutti adorano. Ma nessuno trionferà,
perchè noi la serbiamo per l'amico nostro Arnoldo. Non va bene?...

— V'assicuro, rispose Arnoldo, ch'io non fo di questi aurei sogni. Io
vorrei piuttosto amare, che adorare...

— Che c'è di novo? voi siete così mesto e circospetto, ch'io non vi
riconosco più. Ma, a proposito, come riusciste a far pace con vostro
padre, dopo quel terribile scacco?... A lui, non ebbi cuor di parlarne.
Oh se sapeste! il nobile duca era uscito de' gangheri... le vostre
superbe zie, la marchesa... la viscontessa, facevano _un commèrage_;
tutta Londra lo seppe; se ne parlò a Bath, Brighton, Chelthenham...
E quella povera miss? così giovine, così ricca e così bella? Ma essa
si consolerà! ah! ah!.. Eppure, lasciate che io le dica, sir Arnoldo,
ell'era fatta per voi!...

Arnoldo non potè più sopportare l'insipido cicaleccio del baronetto; e
poi, Maria era presente. Costui aveva toccato una corda, che in quel
punto risvegliava un ricordo doloroso nel suo cuore; quindi troncò a
mezzo il discorso, alzandosi bruscamente, e preso il cappello, uscì.
Sir Edwin non s'avvide, o finse di non s'avvedere di quel mal garbo;
si rivolse ancora alle fanciulle, e continuò le sue vôte facezie.
Maria, nascosta quasi in un canto della sala, era stata silenziosa
e indifferente per tutta la sera; se non che, alle ultime parole del
baronetto, rivolse un momento gli occhi ad Arnoldo, e sentì ferirsi nel
cuore, come d'una punta mortale.


Alcuni giorni appresso, ell'era sola nella sua camera; le due
damigelle, col padre e con Arnoldo, se n'erano ite a un ritrovo, in
casa d'un gran personaggio. Mentre frugava nel suo armadietto, le
era venuta sott'occhio l'ultima lettera del vicecurato, quella con
cui le aveva concesso di partir di casa sua. Essa l'aprì, la meditò
lungamente, china la fronte, e fissi gli occhi, che lasciavano cadere
involontarie lagrime su le smorte sue guance: e quelle parole, che
la prima volta l'avevano appena commossa, allora la fecero tremare.
Alla fine, abbandonò la mano che teneva il foglio, e appoggiò l'altra
dolorosamente sul cuore, come cercando di soffocarne il palpitar
crescente. Allora proruppe in un pianger dirotto.

Essa aveva letto nel proprio cuore. Ciò che fino a quel dì era stato un
segreto, un mistero per lei, le apparve lucido e schietto al pensiero,
divenne una certezza, una verità, che la riempì di confusione e quasi
di spavento.

— Oh Signore! ella diceva in mezzo alle lagrime, osando appena
esprimere con un lamento l'angoscia del cuore. È possibile che sia
così?... Ch'io mi lasci andare a pensar sempre a lui, anche senza
volerlo, a lui, più che a mio fratello, più che a mia madre?...
Oh! cosa son io a confronto di lui?... Povera mamma! perchè l'ho
abbandonata?... Essa crede ancora ch'io sia innocente come un angelo,
essa che mi diceva tante volte: Io t'ho messo il nome di Angiola,
perchè tu sii sempre il mio angelo; te ne ricorda!... Ed egli?.. Oh
se avesse a pensare ch'io sia venuta qui, qui in casa sua, con le sue
sorelle, perchè gli voglia bene! Ah povero me! che abisso!... Come è
avvenuta una cosa sì terribile?... Me l'aveva pur detto mio fratello,
che in questa famiglia non credono come noi, e che per ciò appunto io
dovessi esser tanto più buona e pia... E ora? sento che il cuore mi
dice ch'io son rea!... No, no, non è possibile! È un sogno ch'io fo,
è la mia fantasia ammalata; io tremo, e parmi quasi d'avere i brividi
della febbre.

E intanto ch'essa con voce fioca diceva queste parole, s'era
abbandonata sur una seggiola, accanto del suo letto, e lasciava cader
sul seno la testa. Ma pensava ancora. — Io fuggirò di qui, pensava;
domani, subito, io dovrei lasciar questa casa! Ma come mai lo potrò
fare?... Oh Signore! quest'è forse un castigo... Pure, che colpa è
stata la mia per meritarlo? Ah toglietemi voi da questa angustia!...
Io sono infelice sì! ma è poi vero, ch'io faccia tanto male ad amarlo?
Perchè veniva egli così spesso, lassù, in casa nostra? perchè anche
mio fratello l'amava? perchè mi parve così degno d'esser amato da
tutti, così onesto e cortese?... Egli voleva tanto bene a mia madre! Il
suo cuore è sì buono! E come si compiaceva di sedere all'ombra della
vite, sui nostri scanni di paglia, di parlar con noi, di raccontarci
tante cose! Ma io non gli ho detto mai nemmeno una parola, che potesse
far credere a lui... No, no... Se io non ardisco nè anche guardarlo,
quand'è presso di me! Oh se mai egli venisse ad averne il più piccolo
sospetto, credo che ne morirei di vergogna!...

Qui tornava a sollevarsi, e appoggiando il viso su le palme, e i gomiti
alle ginocchia, gemeva in silenzio. I suoi bei capegli, nell'agitarsi
ch'ella faceva sotto il peso di quel dolore, s'erano snodati, e le
si spargevano giù sulle spalle e sul grembo, a somiglianza d'un nero
velo. Ma poi continuava a martoriarsi ne' suoi terrori: — Gran Dio!
cosa sarà di me?... Quand'anche io cercassi di tornare a casa mia,
la mamma non vorrà più vedermi; e io pur sento che adesso non avrei
coraggio d'andare a gettarmi nel suo seno. E le due damigelle, esse
che m'han voluto un sì gran bene, che per tanto tempo mi tennero
quasi come una sorella?... Ah no! Se io non le avessi conosciute, non
sarei a quest'ora ridotta a piangere così!... Ed egli? E suo padre,
quell'uomo così severo, che non dice mai una buona parola, nemmeno a'
suoi figliuoli?... Io credo che se avesse a saperlo m'ucciderebbe forse
con un solo di que' suoi sguardi!... Oh misera ch'io sono! io vedo che
quest'amore sarà la mia morte!...

Così ella, che fin allora aveva indirizzata tutta la sua mente a
quella candida affezione e che altro più non sapeva desiderar nè
cercare, adesso ne rifuggiva con terrore; e per la prima volta che
s'accorgeva di amare, gustava tutto l'assenzio che si mesce all'amore.
L'idea della sua pace perduta, il dubbio e la vergogna, la memoria de'
suoi, il dolore della sua povera sorte, i pensieri di Dio e della sua
fede innocente, e, insieme a questi affanni, anche la sola nascosta
speranza che nutriva, di poter pure essere amata, tutto le pesava sul
cuore già debole e stanco; e una folla di nuove e tremende immagini le
accerchiava la mente smarrita.

E già si sentiva venir meno a poco a poco; i suoi pensieri si
mischiavano, si confondevano, più rapidi, agitati, cocenti; poi le
pareva si facessero cupi, gravi, un peso insopportabile; ella perdette
la conoscenza, e abbandonò la testa su gli scomposti cuscini del letto.

La sua fronte appoggiavasi grave e lenta sopra il braccio manco; e la
sua faccia appariva d'una bianchezza muta, al par delle lenzuola su cui
riposava. Nella dolorosa inquietezza di quell'oppressura, la semplice
e linda vesticciuola che le stringeva la persona, s'era slacciata allo
sparato del collaretto; e sul candore del suo collo e d'una spalla
seminuda spiccava la nera striscia d'un nastrino, dal quale pendeva
una piccola crocetta d'argento, un dono fattole dalla sua nonna, fin da
quando essa non aveva che sette anni.


Arnoldo aveva abbandonata prima della mezzanotte la splendida festa; e
per le vie mute, solitarie della città, ritornava a casa, in compagnia
de' suoi pensieri torbidi e malcontenti. L'allegria del ballo, la pompa
della bellezza, e lo sfoggio dell'onore e dei tesori più non potevano
scuotere da quell'anima giovine e malata l'inerzia che la spossava, nè
domarne la noia che innanzi tempo vi s'era messa, la noia, questa dura
fatica d'una vita che non è feconda.

Allorchè Arnoldo, rientrato in casa, passò lungo il corritoio, su cui
s'apriva la camera di Maria, ne vide l'uscio socchiuso; il poco lume
che n'usciva, era quel bagliore morente che tremola nell'ombra, come
un augurio sinistro. Egli passò, ma il suono d'un gemito profondo,
affannoso, lo fece sostare un istante, l'agghiacciò d'improvviso. Tese
l'orecchio, stette ondeggiando fra due pensieri, un brivido ignoto gli
sopraprese; poi aperse cautamente l'uscio, ed entrò nella cameretta.

Maria posava come prima sulla seggiola, abbandonato il capo sul letto,
e il viso coperto d'un pallore mortale; se non che aveva le braccia
raccolte sul seno, e le mani congiunte insieme, in atto di preghiera.

Arnoldo, appena si fece innanzi, sentì darsi una stretta al cuore,
così lo sbigottì l'aspetto della fanciulla immota e giacente come
persona morta. S'avvicinò tremando; ma il leggero sospirare a cui si
schiudevano appena le labbra di Maria, l'assicurò ch'essa era immersa
in languido sonno.

Egli prese la lucerna, e velandone il raggio con una mano, sì che tutto
il chiarore si raccolse sull'angelico viso della sopita, stette attento
e senza moto a contemplarla lungamente. Arnoldo non aveva veduta mai
creatura più bella.

Una vampa improvvisa gli arse nell'intelletto, gli corse per le vene;
un funesto riso gli stava su le labbra, e una luce fosca gli splendeva
negli occhi; il suo cuore batteva violento... Ma non era un palpito
di gioia, era un fremito d'ebbrezza. E in quell'istante, un pensiero
d'inferno gli attraversò, come un fulmine, la mente.

— No! no! egli disse: io credo che se osassi toccarle un dito, la
maledizione del cielo cadrebbe sul mio capo! Ah! perchè mai è così
grande la magia della bellezza nel dolore?... No, io non devo restar
qui! O santa memoria di mia madre, aiutami!... Bisogna ch'io fugga!...
ma come potrei io lasciarla così? Ella non riposa, ella soffre e
addolora. O Maria, tu hai mutato il mio cuore, tu mi facesti credere
alla virtù, risorgere nella speranza, amar la vita! Il mondo, gli
amici si ridono di me... Che importa? Egli è perchè non hanno altre
armi contro il cuore che l'ironia e il disprezzo! Ma tu, Maria, tu mi
benedirai!... Ella mi ama, sì!... e forse avrebbe la forza di morire,
prima di confessarlo una volta sola.

Queste parole sommesse, agitate del giovine, e l'ardente suo sospiro
risvegliarono d'improvviso la fanciulla. Ella aperse gli occhi, e vide
Arnoldo; e vederlo, e dar un grido, e balzare in piedi precipitosa
per fuggir della camera, fu tutt'una cosa. Ma il giovine le si pose
dinanzi, la trattenne, e poi ritraendosi d'un passo, — Ah! restate,
Maria, disse, restate e perdonatemi! Io passava di qui, intesi un
lamento, entrai, pensando che aveste bisogno di soccorso. Io v'amo
troppo, e non dovete aver timore di me!

— Oh per amor del cielo, tacete! Io non so nulla, lasciatemi,
lasciatemi partire!...

— No, ascoltate, Maria!... Voi m'avete ridonata la vita, per voi ho
ancora gustato giorni d'una felicità, ch'io credeva impossibile! Voi,
senza saperlo, avete fatto puro il mio cuore: e io ritrovai tanti anni
perduti!...

— Oh dio! dio! lasciatemi andare!... non vedete quanto male mi fanno le
vostre parole?...

E la fanciulla s'inginocchiava innanzi a lui, giungendo le mani,
supplichevole e affannata.

— Maria! rispos'egli, chinandosi verso di lei, in atto di sollevarla;
ascoltami, Maria, te ne scongiuro, o dimmi almeno che mi perdoni!

— Oh! io non ho nulla con voi! Cosa m'avete fatto?... Io voglio
ritornare al mio paese, io voglio mia madre! Ah! non l'avessi
abbandonata, non sarei adesso una povera infelice!

— Sì? dunque è vero, dunque è vero che m'ami?... Oh! io lo so, il
tuo segreto è mio! Maria! Maria, amami! io non cerco che il tuo amore
innocente!...

Maria non fece motto, non rispose che con un gemito. S'alzò, fece
alcuni passi, tentò ancora di fuggire; ma l'impeto di tanti e contrarii
affetti, che tutti in una volta avevano oppresso il suo cuore, le tolse
ogni lena: il piede non la sostenne più, e sarebbe caduta sul terreno,
se non era Arnoldo a reggerla con le sue braccia.

Egli la contemplò ancora; e il vedere ch'essa andava mancando e
respirava a pena, lo riscosse, gli mise nell'anima ignoto terrore...
Non sapeva che fare, e chiamò alcuno che venisse a soccorrere la
svenuta. Ma nessuno comparve. Allora chinò il suo viso su quello della
fanciulla, e le baciò la bocca, con un bacio timido, furtivo, quasi
sperando di poter con esso richiamarla alla vita.... Ma il tocco di
quelle labbra fredde e semiaperte gli destò in cuore il ribrezzo, lo
sgomento di chi commette un delitto. Allora chiamò di nuovo; e, sendo
accorsa una fantesca, confidò la fanciulla alle sue cure, e usci in
silenzio.

Dopo quel giorno, Maria fu sempre pallida e taciturna. Ella aveva
perduto il suo sorriso e il suo bel colore, come l'ultima rosa
dell'autunno.



II.

ORE DI TRISTEZZA.


La fanciullesca amicizia ch'era nata tra le due figlie del signore
inglese e Maria non doveva certamente durare più che un passatempo
di campagna, un giovenile capriccio. Tra l'una e l'altre v'era troppa
distanza, perchè potessero vivere insieme nella concordia de' pensieri
e del costume, rallegrarsi delle stesse speranze, senza invidia
nè gelosia, e vagheggiar lo stesso avvenire: la buona, la semplice
amicizia ha bisogno di cuori che abbiano sempre la stessa fede, le
stesse speranze, lo stesso amore. Era quello in vece un bel sogno, un
sogno dorato ma passeggero. Un anno ancora, e forse le figliuole del
lord, cercate da ricchi e illustri sposi, avrebbero dimenticata la loro
amica, la compagna di pochi dì, alla quale non sarebbe rimasto altro
che tornar più povera di prima, e infelice, dove prima non era, alla
deserta casa del suo villaggio.

Eppure Vittorina ed Elisa non pensavano che doveva esser così; perchè
sentivano ancora come sia dolce l'amare con quell'incerto desiderio e
quella serenità modesta, che sono il più bel dono della giovinezza,
fino a tanto che il soffio gelido del mondo, e le piccole superbie
della società non hanno appannato i sinceri affetti del cuore.

E Maria anch'essa, la quale appena sapeva che cosa fosse la vita,
s'abbandonava alla malía di quel sentimento che subito c'incatena,
quando vediamo d'essere accarezzati, amati. Ma il soggiorno della città
e le abitudini del mondo signorile dovevano presto rivelarle il vero, e
farle sentire il molto amaro di che era mista la poca gioia gustata per
breve stagione.

Non andò gran tempo che gl'inviti a splendidi festini, a nobili
brigate, e le visite fatte e ricevute, come impone la schizzinosa
cerimonia, e i circoli dei forestieri, divezzarono lord Leslie dalla
solitudine a cui pareva si fosse condannato. Le buone novelle politiche
venute dallo straniero l'avevano riconciliato con le sue speranze
d'una volta; egli frequentava le più illustri case, conduceva sempre
con sè le figliuole, e voleva che Arnoldo le accompagnasse. Nel cuore
dell'inverno, le armonie de' nostri teatri e l'allegria delle veglie
e de' balli, chiamarono ad altri pensieri, ad altre premure le due
giovinette; le quali prima avevano menata una vita troppo modesta
e casalinga per non piacersi, come suole avvenire, di que' variati
sollazzi che per loro avevano ancora la seducente lusinga della novità.

Intanto Maria in tutto quel tempo, e furono due lunghi mesi, visse
quasi sempre abbandonata e solitaria, in mezzo al tumulto della città,
fra il continovo sentir ricordare le feste del dì passato e il vedere
apparecchiarsi a' piaceri della domane, feste e piaceri che non erano
per lei! E oh! quante volte allora desiderava di trovarsi a casa sua,
al fianco di sua madre, accanto del suo arcolaio; e sentiva in sè
stessa un accoramento di vedersi così negletta; e divorava in segreto
le lagrime dell'amore e dell'abbandono.

Quand'essa rimaneva in casa, in quelle lunghe sere invernali, che
sembrano eterne a chi nella solitudine ha de' dolori a cui meditare;
quando altro non le giungeva all'orecchio fuor di quel lontano
mormorare, ch'è l'indizio della vita notturna d'una città, e pensava
che nessuno poneva mente allo sfogo del suo dolore; allora, dopo d'aver
tentato inutilmente d'occuparsi nell'una o nell'altra cosa, per disviar
gli assidui pensieri che le stavano in cuore, rimembrava la pace che
non avrebbe trovata mai più, e cercava di persuadersi della stoltezza
di quell'amore che l'aveva fatta smarrire, e della vita inutile e
desolata, che ormai le restava a compiere.

Nelle prove del dolore quell'anima fiduciosa e pura aveva trovato
la forza di conoscer la vita e la funesta sua realtà; perchè pare
pur troppo, che la conquista d'una ferma ragione valga il prezzo
dell'innocenza e del disinganno: così bisogna che l'albero perda i
suoi fiori, perchè si fecondi il frutto. Maria, che non aveva veduto
il mondo, che non aveva trovato sul suo cammino se non persone amiche e
liete di poterla amare, Maria, in quell'ore di solitaria tristezza, era
divenuta una creatura nova. Allora la vita, che un tempo si dipingeva
dinanzi e lei così serena e bella, spogliavasi di tutta la sua magìa;
anch'essa la timida fanciulla sentiva nel cuore una pena ignota, muta,
indistinta, e poi la puntura segreta del primo rimorso; anch'essa
aveva una parola, un'acerba parola per domandare al Signore con che
ragione l'avesse resa infelice! E non le parevano più cosa impossibile
la malizia degli uomini e la fortuna de' cattivi; per la prima volta,
l'amaro sorriso dell'odio aveva sfiorato la sua bocca: ella pure
sentiva d'avere una forza intima, potente, la forza di disprezzare chi
le aveva fatto del male.

In que' momenti angosciosi, si metteva a scrivere al fratello di ben
lunghe lettere, nelle quali effondeva tutta l'amarezza del cuor suo
e il compianto del suo misero destino. Ed eran fogli sparsi più di
lagrime che di parole; era la pietosa confessione d'un'anima che non
sa reggere al primo colpo del dolore. E poi lacerava, bruciava ciò che
aveva scritto; si sforzava d'esser tranquilla, e, raccolti i pensieri,
toglieva fuori, e ponevasi a leggere con voce commossa il suo libro
delle preghiere.

Così passavano per lei i giorni e le settimane di quel tristissimo
inverno. Ella vide che sarebbe stato una follia il domandare alle
amiche perchè non la conducessero con loro, dopo ch'ella stessa s'era
tante volte mostrata ritrosa a accompagnarle; e le fanciulle non
ebber più cuore di pregarnela, quando si furono accorte che il padre
repugnava all'intima confidenza da loro messa in Maria.

La giovinetta dunque soffocava il suo affanno; e tremando sempre che
una parola, un gesto, un'occhiata potesse tradire quel segreto, il
primo ch'ella avesse avuto mai, e che avrebbe voluto nascondere anche
a sè medesima, cercava d'ingannar chiunque appena le volgesse uno
sguardo; cercava di parer lieta, quando il suo cuore non era pieno che
d'una sola malinconica idea. Egli era pur doloroso il veder sempre un
mesto pallore sulla sua fronte, e un sorriso di gioia sulle sue labbra!


Ma in quel tempo, il segreto turbamento d'altri e più gravi pensieri
agitava la mente di Arnoldo. La quiete della meditazione, che fa
nascere la necessità di conoscere e di sapere; la libertà dell'anima,
che conduce allo studio di quanto v'ha di più riposto nella vita, e
che in mezzo al tumulto degli uomini è così facilmente dimenticato e
perduto; la volontà non più tentata dall'esterne apparenze e scevra
d'ira o di timore: tutto ciò aveva fatto maturo l'intelletto del
giovine a uno studio nuovo e più severo della vita. Troppo spesso la
sana mente e la fredda ragione sono umiliate da una specie di vago
abbattimento, da un amaro disgusto delle cose, perchè possano essere
capaci di grandi e virtuose risoluzioni. La coscienza del dovere,
senza l'alito segreto dell'affetto, non è virtù; perchè la virtù viva
nel cuore, non basta la persuasione indotta dalia muta esperienza del
fatto; è forza che al fatto si trovi una spiegazione, un principio
sovrano: il misterioso legame dell'anima con la vita.

Arnoldo aveva conosciuto nella nostra città uno di quegli uomini di
semplici costumi e d'animo incorrotto, i quali in mezzo del mondo
sieguono con passo sicuro una via negletta e taciturna, la via
dell'onesta saggezza. Gli applausi e la gloria non sono per loro, anime
grandi e oscure; ma sono per loro la tranquillità dell'uomo modesto
e la forza del giusto; essi vengono sulla terra ignoti, dimenticati,
e se ne vanno del pari; ma il frutto delle parole e dell'esempio loro
sopravvive, e non può andar perduto.

Quest'uomo del quale io non dirò il nome, perchè i buoni non cercano
lode nè invidia nel mondo, paghi dell'amore dei pochi, nel piccolo
cerchio di coloro che si ricordano del bene avuto; quest'uomo, con
la dolcezza dei consigli e con la forza mite d'un senno angelico e
consapevole del cuore umano, indirizzò e sostenne i pensieri di Arnoldo
a quel fine a cui l'anima sua da tanto tempo anelava. Egli lo preparava
a' gravi studi, lo nutriva di ferventi meditazioni e di calda volontà,
accendeva il suo coraggio, rinfrancava la sua vigilanza, gli prometteva
la vittoria dopo la battaglia, e dopo la fatica il sospirato riposo.

Alle severe lezioni di lui Arnoldo consacrava allora la più gran parte
del suo tempo; ond'avveniva ch'egli si rimanesse, talvolta anche per
gli intieri giorni, lontano dalla sua casa e dall'amata giovinetta.
E poi, quando ritornava, quasi sempre appariva mesto, chiuso nel suo
pensiero; non parlava, e passava lunghe ore intento a nuove e severe
letture, con l'animo combattuto da strane ed inquiete fantasie. Non
di meno, con gran cautela, egli tenne sempre nascosta a tutti la
ragione di quelle sue assenze quotidiane, di quell'assidua e muta
preoccupazione. Maria soltanto se n'era accorta, ma taceva; e per il
suo cuore era un tormento di più.

Pure in mezzo a quest'ignota cura d'Arnoldo, vi era de' giorni ne'
quali l'amore, che pareva quasi divenuto in lui una quieta abitudine,
si faceva più forte del suo proposito, più grande della sua virtù.
Allora egli s'abbandonava a' suoi sogni antichi, a quei fallaci disegni
che fa sempre l'incauta giovinezza, persuasa che la scusa dell'amore
renda tutto facile e giusto. Allora la leggiadra immagine di Maria
non rallegrava più come prima tutti i suoi pensieri; il suo cuore
era ardente, oppresso; egli la cercava sovente, e poi quando le era
vicino sentiva conturbarsi; voleva parlarle, spiegarle l'amor suo, ma
non sapeva con che parole. E se mai avveniva che i timidi occhi della
fanciulla s'incontrassero per un momento ne' suoi, essa era colta da un
terrore nascosto, non mai provato.

Una mattina — era in febbraio — le due sorelle e Maria sedevano
silenziose presso un tavolino di lavoro, non lungi dalla finestra, da
cui penetrava una luce fosca, attraverso i cristalli che la gelata
nebbia notturna aveva indorato dei più bizzarri rabeschi. Arnoldo,
appoggiato alla spalla del camino, volgeva senza attenzione le pagine
d'un volume che teneva fra le mani. Poco di poi, essendo venuta una
mercantessa di mode, le due sorelle uscirono; e Arnoldo rimase solo con
la fanciulla.

Tacevano entrambi, e Maria non osava levare gli occhi dal lavoro, al
quale pareva intenta. Arnoldo aveva posto giù il libro, e la rimirava,
tutt'occupato nella sola idea dell'amore. Alla fine se le avvicinò, e
con voce rapida e commossa, — Maria! le disse, è tanto tempo ch'io devo
parlarvi, e voi...

Maria taceva; ma il suo cuore era tremante, e batteva rapido e forte.

— Maria, ascoltami, te ne scongiuro!

— Pensi signore! io non posso, non devo...

— No! Maria, bisogna che tu m'ascolti. Lo so, lo vedo, tu mi fuggi
sempre, temi pur anche un mio sguardo, eviti di rispondermi una parola.
Ma la tua timidezza, la tua angustia ti fanno più cara, più celeste al
mio cuore!... Oh non mi respingere, Maria! Il mio amore ha bisogno del
tuo!

— Deh! non parli così! rispose la fanciulla. Io non ho nulla a questo
mondo, e lei vorrà farmi più infelice di quel ch'io sono?...

— Io non ho altra speranza che l'amor tuo! Dal primo giorno che ti vidi
ti ho amata, e la tua felicità è l'unico mio voto... Oh se potessi
spiegarti quanta dolcezza tu spargesti nella mia vita!... Ma no, io
ti chiedo solo una parola!... Dimmi che mi ami, e io son pronto a far
qualunque cosa per te! Mio padre potrà maledirmi, ma togliermi al tuo
cuore giammai!... Noi fuggiremo di qui, andremo sotto un altro cielo
bello e beato, come il cielo del tuo lago! E tua madre, la buona tua
madre ci benedirà... Essa verrà e starà sempre con noi. Ah! dimmi una
parola, e domani, quest'oggi ancora...

— Ah no, no! per carità, non si prenda così amaro giuoco di me! Io non
so che cosa lei voglia dire!...

— O Maria, tu sei la creatura più santa ch'io trovai sulla terra!
Perchè non vuoi credere al tuo cuore, perchè non a me stesso? Io non ho
mentito mai! non temere... Tu non mi rispondi? non mi guardi nemmeno?

Maria si coperse il viso con tutt'e due le mani.

In quel momento rientrarono le due sorelle, tutte festevoli, recando
ciascuna un bell'abito di velo trapunto; ch'era destinato per il
ballo del domani. Entrambe corsero verso di Maria, e le mostrarono
quei graziosi vestili: e mentr'ella li ammirava, nascondendo il
suo turbamento sotto un menzognero sorriso, Arnoldo fissò sopra di
lei uno sguardo ardente, uno sguardo che voleva dire tutta la sua
speranza d'amore; e quando s'avvide che la fanciulla l'aveva compreso,
s'allontanò.

Quel giorno, Maria non fu più veduta, nè all'ora consueta del pranzo,
nè a quella del tè. Ella s'era chiusa nella sua camera; e, dopo lunghi
pensieri e lungo affannarsi, aveva scritto una lettera, come se in
quel foglio fosse l'ultimo consiglio della sua pover'anima perduta; lo
suggellò, e vi mise sopra il nome di suo fratello.

Poi, di nascosto, sola e frettolosa, era uscita. Ella stessa, Maria,
volle da nessuno veduta portar quella lettera, perchè temeva che
qualunque altro, a cui l'affidasse, avrebbe indovinato ciò che v'era
scritto dentro. Attraversò alla ventura due o tre vie, dubitando al
volgere d'ogni contrada, e tutta paurosa, benchè fosse coperta nel
suo velo e quasi nascosta in esso. Più d'una volta pensò d'arrestare
qualche passeggiero, perchè le indicasse dov'era la posta delle
lettere; ma sempre si pentiva e seguitava innanzi. Alla fine,
avvenutasi in un vecchio, che aveva veduto levarsi il cappello nel
passare sotto un'immagine della Madonna, gli s'accostò, e confusa gli
fece la sua domanda; il galantuomo la guardò, fece un certo atto di
maraviglia, poi sorrise e le insegnò la via. Ed ella vi corse quasi
volando, e lasciata cadere la lettera nella cassetta della posta, tornò
a casa, con più rapido passo e con l'anima più tremante di prima.



III.

UN COLLOQUIO.


Passò quel giorno, e il dì appresso, e l'altro ancora. Maria non voleva
abbandonare la sua solitaria cameretta; e una muta malinconia s'era
messa nel suo cuore, in luogo dell'amore e del pianto. Le due sorelle
la credevano ammalata. Vittorina la guardava mestamente, le diceva
che non era più quella, nè sapeva che pensare; ma Elisa, più tenera
e dotata di più squisito senso, non fu tardata sospettare la cagione
di quel segreto tormento, quantunque non avesse l'animo di parlarne
a Maria; la quale intanto languiva, e si teneva per sè tutto il suo
dolore.

In quelle due o tre notti, che sogni, che sogni terribili e confusi
avevan turbato i pochi, interrotti riposi della povera innocente! Era
stato il delirio, il primo spavento d'un'anima vergine e angosciosa.


Sognava le cime delle sue montagne, i temporali del lago, il fulmine
che incendiava la casa di sua madre; sognava d'essere trasportata
attraverso a un turbine di polvere, in una carrozza trascinata da
cavalli coperti di schiuma, e si vedeva seder vicino un giovine,
vestito di nero, pallido e muto, che la guardava con occhi immoti,
ardenti... Ella voleva dar un grido, ma la voce le moriva soffocata
nel seno; sentiva un gran peso sul cuore, un fuoco in ogni vena, e il
cocchio fuggiva, volava, senza calpestìo di cavalli, senza strepito
di ruote, e per l'aria morta non si sentiva un soffio di vento; ai
lati, di fronte passavano, sparivano come per magìa, selve, case, rupi,
rovine; e quel giovine era sempre al suo fianco, immobile, e sorrideva
con un sorriso che la faceva abbrividire... Voleva essa gettarsi dalla
carrozza, ma l'impeto del balzo che arrischiava, non finiva mai, e
le toglieva il respiro, ed era come un'agonia eterna. — Poi la scena
mutavasi... Le pareva di trovarsi nella camera in cui era nata, nella
camera del suo povero padre. Avvicinavasi allo scomposto letto, sul
quale giaceva addormentata la madre sua; s'inginocchiava a lato del
capezzale, pregando in silenzio, aspettando ch'ella si risvegliasse;
poi sollevava la testa, tendeva l'orecchio, ma non udiva nè respiro nè
anelito; quel sonno era dunque sì grave?... Levavasi allora, stringeva
tra le sue mani la destra della dormente: quella destra era fredda
fredda! Si chinava per baciar la fronte materna... Ahi! sua madre era
morta! — Ma quell'affanno non bastava; altro era il luogo del sogno,
altri i terrori. Era la chiesa del suo paesello, era il confessionale
del vecchio paroco; ella si metteva in ginocchioni presso la piccola
grata, tentava di parlare e non poteva... Alla fine, mormorò una parola
sola, e la voce del confessore proferì sul suo capo la maledizione
del Signore e la dannazione eterna... Gran Dio! era quella la voce
del fratel suo! Allora la poveretta cadde all'indietro tramortita sul
pavimento della chiesa....


E risvegliavasi coperta d'un freddo sudore, senza conoscenza del
dove si trovasse, senza saper quasi di tornare alla vita; tremava di
raccapriccio, sentiva uno spasimo, una contrattura in ogni fibra, le
si oscuravano gli occhi, la sua mente si smarriva; e le pareva che il
dolore e lo spavento fossero per finire con la sua vita. Poi ricadde
assonnata, e nulla più seppe.

Alla tarda mattina, nel ridestarsi, trovossi fra le braccia della buona
Elisa. E l'Elisa solamente aveva qualche parola di conforto per la sua
povera amica. Oh! come volontieri Maria avrebbe versato nel seno di lei
il suo caro e penoso segreto. Ma troppo essa temeva che nessuno avrebbe
voluto credere mai alla sua pura intenzione.

Finalmente, passato il terrore di quella notte, e riavutasi un poco,
lasciò il letto, dicendo di sentirsi bene, ma di non essere ancora in
istato d'abbandonar la sua camera. Si mise a lavorare, ma quasi le sue
dita non potevano adoperar l'ago, nè tenere le cesoìne, e la sua mano
tremante cadeva spesso sul grembo. Traevasi lenta presso alla finestra,
e stava talvolta per lunghe ore a guardare il cielo cenerognolo e i
tetti coperti di neve delle case dirimpetto, e le persone che passavano
per la strada e che apparivano al suo sguardo appannato come ombre
indifferenti.

Pure, dopo quella muta quiete, v'era dei momenti in cui l'anima sua
s'apriva ancora alla gioia d'una candida speranza, ai pensieri del
suo affetto virtuoso. Quand'essa tornava col cuore a' quei dì felici
del passato autunno, ne' quali ancora non sapeva d'amare; quando
dimenticava sè stessa, e l'assenza di _lui_ faceva per un istante
più ardita la sua timida fiamma, allora il suo bel sorriso di prima
rasserenava ancora il suo volto, e il sospiro d'una segreta dolcezza
scopriva involontariamente la fiducia del suo povero cuore.


Erano quattr'ore dopo mezzodì, quell'ora in cui la nostra città è così
malinconica e tetra nell'inverno, dopo che un breve saluto del sole,
apparso a consolar la fredda mattina, è già fuggito, e quando la nebbia
bassa, densa, umidiccia nasconde tutto il nostro bel cielo lombardo.
Erano dunque quattr'ore, allorchè una fanciulla ravvolta in una
mantellina di seta oscura, e chiusa nel velo nero di che aveva coperto
il suo cappellino modesto, attraversava il ponte, che dalla via dov'era
la casa dei Leslie mette presso alla piccola chiesa di San ***.

Ella entrava nella chiesa, dopo d'aver più d'una volta lasciato
sfuggire indietro uno sguardo, quasi che temesse d'esser veduta o
seguita. Chi in quel momento le fosse stato vicino, si sarebbe accorto
che la giovinetta camminava incerta e paurosa, avrebbe dubitato ch'ella
entrasse nel luogo santo, non già per deporre a' piedi del Signore una
preghiera consueta, ma per cercare un ricovero, un luogo qualunque,
dove le fosse concesso d'adagiarsi e riposare; perchè pareva veramente
ch'ella a stento potesse reggersi su la persona.

La chiesetta era vôta; solo una povera donnicciuola stava pregando
ginocchione sui gradini della balaustrata dell'altare, e il susurrío
delle sue orazioni interrompeva la solennità di quel sacro silenzio.
Faceva già buio all'intorno; e la luce moribonda del giorno si spargeva
appena nell'alto della nuda vôlta. Il vecchio sagrestano, uscito del
piccolo coro, veniva a versar novo olio nelle lampane dell'altare;
e poi, attraversata la chiesa, andava ad accendere un cero innanzi a
un'immagine dell'Angelo custode, in una cappella a fianco dell'altare.
Rientrato ch'egli fu nella sagrestia, s'intesero indi a poco alcuni
rintocchi lenti, malinconici della campana. Era il primo segno della
benedizione della sera.

La giovinetta si collocava in un canto della chiesa, sur una panca
ch'era presso la parete, e poco lungi dalla cappella dell'Angelo
custode. Sedette in quell'angolo oscuro, dove le pareva di starsene
all'ombra del Signore; e assorta in un sacro raccoglimento, tentò di
superare il terrore segreto, che l'agitava. Perchè mai era venuta sola,
a un'ora sì tarda, e che grazia voleva domandar al Signore?... Essa nol
sapeva; cercava un momento di pace, aveva bisogno di respirare un'aria
benedetta, di piangere, non veduta che da Colui, il quale può consolare
tutte le afflizioni.

Sollevò all'altare vicino gli occhi, che s'arrestarono su quel sacro
quadro rischiarato da fioco lume; e vide la celeste figura dell'Angelo,
che in quel momento la illuse proprio come fosse viva, poichè, rivolta
la testa al cielo e alzata la destra, pareva in atto di ricordarle
che soltanto lassù è il tesoro della misericordia e della pace d'ogni
cuore. Allora ella fece per inginocchiarsi, ma il rumore d'alcuno
ch'entrava in quel punto nella chiesa, la riscosse subitamente.

Soprastette, e guardò da quella parte. Ah! il suo timore non era stato
dunque vano! Essa riconobbe il giovine che poco prima l'aveva seguita
per tutta la via... Egli era là, vicino a lei, e la chiamava sotto voce
per nome.

La fanciulla non rispose, nè si rivolse a lui; ma cadendo su le
ginocchia e nascondendo il volto nelle mani tremanti, effuse l'anima
sua nella più calda e pietosa preghiera che mai l'innocenza abbia
innalzata al Signore. Era un voto timido, celestiale; era una parola
profferita dal cuore, col più puro palpito dell'amore e della fede;
una parola che il labbro non avrebbe potuto articolare. Essa dimandò
al Signore che la salvasse da quella tentazione, che le concedesse
di morir presto, anche lontana da tutto ciò che aveva di più caro al
mondo, lontana da sua madre, piuttosto che abbandonarla alla passione
di quel giovine, di cui, senz'esser rea, non poteva ascoltar le parole.

Ma Arnoldo le s'era fatto più accosto, e con voce di sommessa
preghiera, — O Maria, diceva, non aver nessuna tema, se ho voluto
parlarti, se l'ho voluto qui, in questo luogo santo. Io rispetto il
tuo cuore e la tua onestà; ma sappi che nessuno deve conoscere l'amore
che ci unisce. E poi, egli è qui che ho pensato di confidarti un altro
segreto, un segreto, il quale non può essere inteso che da te e da
Dio.... Dio, spero, lo benedirà!...

Maria tacque ancora.

— Tu tremi, povera e buona fanciulla! continuava il giovine. Forse in
questo momento l'anima tua mi respinge, e ha terrore delle mie parole;
tu forse mi credi un uomo senza cuore, senza pietà. Ma rassicurati! Tu
non sai, nè puoi immaginare quanto bene m'abbia fatto il conoscerti,
l'esserti vicino, l'amarti...

— Oh cosa dice mai? ardì rispondere allora con accento languido la
giovinetta. Non profferisca queste parole! Noi siamo in faccia al
Signore, in chiesa. Almeno, abbia compassione di me... Anche lei ha una
religione, anche lei ha bisogno di Dio!

— Ascoltami, Maria!... Io sto per metterti a parte d'un gran segreto;
la tua anima pura sarà la prima che lo riceva, la sola che per ora
possa saperlo. Verrà tempo, e forse non è lontano, che si farà noto
a tutti questo mistero, la cui conoscenza adesso sarebbe forse causa
della mia e della tua perdita.

Maria non replicò, ma levando il capo rivolse al giovine un'occhiata,
in cui appariva tutta l'angoscia del dubbio e del sospetto.

— Io sono cattolico, o Maria, riprese Arnoldo con voce grave e
commossa; la tua religione è la mia! Il mio cuore ha conosciuto errori
antichi e fatali, e ormai io sento d'esser rinato a una nova vita.
Dio che t'ha fatto bella come l'anima tua, Egli che ha voluto ch'io
t'amassi, ebbe finalmente pietà delle lunghe battaglie sofferte dal mio
cuore, delle inutili speranze dalle quali fui agitato per tanto tempo!
Chi, se non Egli, mandò sul mio cammino, incontro a me, quell'anima
forte e credente del fratel tuo? Chi, se non Egli stesso, da tanti anni
mi tormenta con questa smania ch'io provo di riposare in una fede, in
una verità, che non mi riuscì di trovar mai in nessuna cosa mortale?...
Tu col candido affetto che m'inspirasti, hai cominciata l'opera pietosa
della mia conversione; tuo fratello, in quel tempo d'una felice e
tranquilla amicizia, la indirizzò; un altro giusto, un uomo oscuro
e sapiente ch'io aveva conosciuto in questa stessa città, or son tre
anni, e che adesso mi rivide, e m'accolse come un suo figlio perduto,
ha persuaso il mio cuore, ha vinto e mutato del tutto la mia mente!

Queste parole penetravano fino al fondo l'anima di Maria. Un turbamento
sconosciuto, misterioso, la riscosse tutta; ella riguardò incerta
il giovine con un'espressione impossibile a dirsi. Ed egli tacque,
e prostratosi a canto di lei, stette per qualche tempo in una mesta
meditazione.

Poi si levò, e in atto più rispettoso e sicuro ripigliò: — Maria,
ora tu lo vedi: non può essere che io t'abbandoni; ora sai quanto sia
grande il bene che tu m'hai fatto, e conosci che il Signore non vorrà
punirmi, se venni qui ad aprirti il mio cuore, se qui, innanzi a Lui,
io voglio giurarti...

— Ah no! non dica di più, la fanciulla l'interruppe, sostenuta da
un'occulta forza della sua virtù. Io benedico il Signore, perchè ha
esaudita la più ardente delle mie preghiere; ma altro io non posso fare
che questo!... No, no! da qui innanzi, oh! non pensi più a me... Io
sono abbastanza felice!

— Di che parli tu mai? la tua virtù, la tua innocenza meritano ben
altro premio e maggiore di quello ch'io ti posso dare. Ma tu forse
dubiti ancora, tu pensi che io non ti dica la verità!... Oh credilo,
Maria, io non potrei mentire con te! la sola cosa che m'affanni, è il
dovere aspettar tanto ancora a far palese a tutti il mio cuore. Tu non
conosci il mondo e le sue opinioni più dure d'ogni legge; e io non ne
ho mai sentito il peso, come in questo momento. Bisogna ch'io taccia e
nasconda a tutti, e più che ad ogni altro a mio padre, questo segreto
che confidai a te sola. Qual ch'essa sia la mente d'un padre, dev'esser
venerata, temuta. E io non avrei forza adesso per andare incontro a
tutto il suo sdegno, e più che allo sdegno al suo dolore; ma presto
verrà un momento più propizio per rivelargli l'animo mio... Tu vedesti,
Maria, com'egli pensa e come vive; ma non sai che una risoluzione come
la mia è per lui un delitto, una vergogna da non esser perdonata mai
più ad un uomo; tu non sai ch'egli potrebbe fors'anche gettar sopra di
me la sua maledizione!

— Oh! che dura prova dunque le toccherà di sostenere! rispondeva la
fanciulla con atto pietoso. Ma Dio le ha fatto conoscere la verità, ed
egli le donerà anche la sua grazia.

— Se tu lo preghi per me, o Maria, egli lo farà!... Ma intanto, ah! non
costringere il tuo cuore a rifiutarmi!

— No, no! sento ch'è impossibile! io devo abbandonarla, io devo tornare
presso a mia madre.

— Giammai, giammai!... Consolati, o Maria, e spera!

In quel mezzo, entravano alcuni buoni fedeli. Arnoldo s'allontanò
dalla fanciulla, e maravigliato quasi di quel severo senso di rispetto
ch'essa, con le sue poche parole, aveva saputo destargli nel cuore,
turbato e incerto uscì della chiesa.

Maria restava tuttavia inginocchiata. S'udì il secondo, poi il terzo
tocco della campana; e il sagrestano ricomparve, e accese le lampane
e i ceri dell'altare. Il piccolo tempio a poco a poco s'affollò di
modesta e buona gente, venuta dalle soffitte, dalle botteghe, dalle
cure casalinghe, dal lavoro, a ringraziare il Signore; anime contente
e semplici, a cui la fede non manca mai, perchè è necessaria alla loro
vita, come la fatica delle braccia. Echeggiò la vôlta della chiesa
delle sacre litanie, e il fumo dell'incenso avvolse con l'odorosa sua
nube l'altare. Il popolo era d'ogni parte divotamente inginocchiato
sul nudo terreno; la sua orazione fu breve e rozza, ma sincera; e il
sacerdote la benedisse in nome del Signore.

Tutti se n'andarono; la chiesa tornò vôta e oscura, e Maria era ancora
prostrata nella sua umile e fervida preghiera. L'anima sua, nella
pace di quelle sante pareti, aveva abbandonata la memoria de' giorni
dolorosi ch'eran passati, e quella stessa timida e vereconda speranza
che faceva l'unico suo bene su questa terra: domandò a Dio di viver
pura e senza rimorso com'era stata fin allora, e nelle sue mani pose
le propria vita e tutti gli affanni che a Lui fosse piaciuto di mandare
sopra di essa. E poi fece le sue orazioni della sera, con quell'ardente
affetto, con che le ripeteva nei primi anni della sua fanciullezza;
e non dimenticò il nome della sua povera madre lontana, nè l'anima
benedetta del padre suo.

Una fiducia mesta, ma pur soave, e una consolazione che non era di
questa terra, mitigarono, come benefica rugiada, il cordoglio di quella
vita debole e combattuta, la sollevarono, e la fecero ritornare alla
pace della sua virtù mansueta.

Quando si rialzò, s'accorse che era sola nella chiesa; e in quella, il
sagrestano le s'accostò per avvertirla che l'ora di chiudere la porta
era venuta. — Allora uscì chetamente, ma appena trovossi in mezzo della
via, in quell'ora insolita, e intese il noioso frastono ch'empie le
strade al cominciar della notte, si smarrì tra l'ombre fitte che le
pareva di vedere agitarsi, e tra lo smorto chiarore delle lanterne
che tremolava in mezzo alla nebbia; sicchè quasi non sapeva a qual
parte indirizzarsi. Per buona ventura la casa non era lontana, ed essa
raddoppiò i suoi passi e il suo coraggio. Ma il giovine amante che poco
lontano l'aspettava, appena la scorse uscire della chiesa, le si mise
dietro a breve distanza, e la accompagnò fino alla sua dimora. E Maria
non se n'avvide; chè ell'era tutta ricreata da' suoi nuovi e tranquilli
pensieri, e nella sua gioia nascosta si confidava di poter essere
ancora felice.



IV.

L'ONESTÀ DEL POVERO.


Il cameriere di lord Leslie apriva con cauto riguardo l'uscio della
sala, in cui al consueto se ne stava ritirato il suo signore, e facendo
una gran riverenza, annunziava che un prete, il quale già s'era
presentato un'altra volta in quella mattina e che dicevasi l'abate
****, aspettava l'onore di poter parlare a Milord.

— A me? chi può esser costui? Io non ho mai conosciuto alcun prete
italiano! rispose seccamente il vecchio signore, senza alzar gli occhi
dalla tavola a cui sedeva, e su la quale erano spiegate e sparse molte
lettere e carte.

Il cameriere non ardì far nessuna osservazione. Ma Elisa, che per
avventura era là seduta in compagnia di suo padre, alzando i suoi begli
occhi verso di lui, — Oh noi lo conosciamo, padre mio, disse; è il
fratello della nostra Maria!

— A quest'ora non ricevo alcuno, lo sapete! soggiunse il lord, e
ripigliò in mano il _Morning-Chronicle_.

— Deh lasciate ch'egli venga! Forse vorrà parlarne di sua sorella; e,
voi non lo sapete... essa, già qualche tempo, non ha più bene....

— E dunque venga.

Era di fatto il fratello di Maria, il nostro vicecurato. Per la
prima volta egli si trovava in faccia del padre dell'amico suo; e
quell'aspetto immobile e superbo pareva l'impacciasse non poco. Il lord
non gli disse di sedere; ed egli si faceva innanzi lento, tenendo in
una mano il cappello, e tentando coll'altra i bottoni della sua lunga
sopravveste di panno oscuro.

Don Carlo, se già non ve l'ho detto, toccava al più a' trent'anni;
pure sul suo volto, ch'era simpatico e sereno, leggevasi l'incerta
espressione d'una grave benchè velata amarezza, la traccia profonda del
travaglio dell'anima. Le anticipate cure della giovinezza combattuta,
avevano lasciato su la sua schietta e bella fisonomia le prime rughe
di quel dolore segreto, il quale non si parte dal cuore che con la
vita. Gli occhi suoi eran vivaci e intenti; appariva in essi l'ardor
del pensiero temperato dal costume della meditazione e del patimento;
la fronte alta, e assai calva, il sorriso fuggevole e sparso anch'esso
d'un'ombra di malinconia; contegnoso nell'andare, ma alquanto chino
della persona. Era un uomo che aveva molto studiato e molto dubitato;
pure nella lunga guerra che sostenne contro sè stesso, e contro la
sua fede, tra il passato e l'avvenire, tra la disperazione degli
uomini e la coscienza di Dio, la sua energia, la sua volontà del bene
non s'eran logorate o scemate; ma bensì rivolte al santissimo scopo
di far migliori i suoi fratelli, e di risparmiare a molti di loro
quelle crudeli prove per le quali egli aveva dovuto passare, prima di
riposarsi nella sicurezza della virtù, prima di viver nella fede. Il
suo nome, ch'era degno di chiarezza e di gratitudine, giacerà oscuro,
non sarà ricordato tra gli uomini; nessuno forse parlerà mai della
semplice sublimità della sua mente, della carità del suo cuore, del
poco che potè fare, e del molto che sofferse; ma chi lo conobbe e amò,
non potrà rifiutare una lagrima alla sua memoria.

Il vicecurato, facendo passare il suo cappello dall'una all'altra
mano, non sapeva in qual modo chiamar sopra di sè l'attenzione del
signore inglese, che non lo guardava, come s'egli non fosse là. Elisa,
avvedutasi di quell'impaccio, ne fu tocca e volle parlare la prima.
Ma il prete, che in quel momento di silenzio fu assediato da una
folla di pensieri, e così fortemente conturbato che tutto s'accese
d'un involontario rossore, fece un passo innanzi, fissò gli occhi
sul vecchio, e disse con voce ferma e lenta: — Signore, io la prego,
m'ascolti!

Il lord, scosso alquanto dalla serietà di quell'accento, levò il capo,
e guardò il prete, senza parlare. Ma intanto, ripiegato il giornale, lo
depose, e fece un gesto, come per significare: Parlate, ma spicciatevi
presto.

— Signore, soggiunse allora il vicecurato, ciò che qui mi conduce,
la è cosa per me di troppo alta importanza, perchè non m'arrischi a
disturbarla un momento. Io sono una persona oscura, senza nome; ella,
un signore illustre e potente. Ma, s'assicuri, io qui non venni a
domandarle favori o protezioni, nè a inginocchiarmi dinanzi a lei,
poichè a nessuno io son uso prostrarmi, fuorchè a Dio. Ella è uno di
coloro che si chiamano grandi; e se questo nome vuol dire qualche
cosa, ella deve aver caro l'onor suo, al par di quello dell'ultimo
degli uomini. Dunque io mi presento a lei, a cercar giustizia per il
nome mio ignoto, ma puro come il suo, per il nome mio calpestato nella
virtù d'una infelice creatura, a me più cara dell'anima stessa... Ella
m'intende, o signore....

— Io non intendo nulla, signor abate; e quello che so, gli è che non vi
conosco, e che nessuno ha ardito mai parlarmi come voi adesso.

— Perchè vuole avvilirmi così? Cred'ella che l'abito di che sono
vestito, mi proibisca di parlarle com'io fo?... Ella non sa chi io sia?

— Voi non siete certo nel vostro miglior senno, signor abate....

— Bene sta all'uomo ricco e potente di disprezzar colui che gli domanda
la ragione del suo onore, schiacciarlo nel fango, ridere di lui come
d'uno stolto!... O Signore, reggi il mio cuore, e dammi pazienza.

— Ma io vi ripeto che non so quel che diciate, come forse nol sapete
voi stesso. E buon per voi, che non mi trovaste in cattivo momento...
Pure, io son giusto; e se avete qualcosa con persona che m'appartenga,
se alcuno de' miei v'avesse offeso, che so io... dite, spiegatevi
chiaro; ma sopra tutto pensate innanzi a chi parlate.

Così rispondeva il lord con un'altera serietà; ma si sarebbe potuto
indovinare, che le parole del prete e la persuasione ch'era in esse
avevano suscitato nel cuore del vecchio un'ansietà inquieta, il
sospetto di qualche cosa di grave.

— Dunque, o signore, ripigliò il prete, con voce fatta più umile,
ella vuole ch'io arrossisca dinanzi a lei, nel ripetere una storia
che copre di disonore la mia sfortunata sorella?... Ebbene, milord,
io dirò tutto. All'onestà d'un'oscura famiglia non rimaneva altra
protezione, fuorchè l'infelice che adesso le parla. Una madre amata e
una sorella innocente, eran tutto il suo bene.... Vi fu un uomo che,
allettato dalla bellezza di questa innocente, pose gli occhi sopra di
lei; e vederla, e concepire il più nero tradimento che sia, fu per esso
tutt'una cosa. S'infinse amico del sincero fratello, violò la santità
d'una povera famiglia, ingannò la madre semplice e buona, ingannò la
credula fanciulla, la sedusse con la promessa di farla sua sposa, la
persuase a fuggire... Signore, quest'uomo vile, è suo figlio!... Oh non
creda alle mie parole! In questa lettera è la confessione della misera
tradita. Fu mia colpa, lo vedo, d'essere stato così cieco; fu nostro il
danno, e sarà nostra ed eterna la vergogna! La madre che ne morirà, la
figlia avvilita per sempre... oh non importa! Ora, il rimpiangere quel
ch'è stato è inutile... Ma, per il nome di Dio, la si ricordi che anche
l'onore del povero è sacro!...

— Avete finito?

— Non ancora. Voglio dirle ch'io non cerco nulla da lei; perchè a chi
tutto ha perduto in terra, nulla più resta a domandare agli uomini.
E quella infelice non avrà più consolazione in questa vita, che la
speranza del perdono nell'altra... Io non vedrò il figliuol vostro; ma
non vi chiedo se non ch'egli sappia per vostra bocca, e a mio nome, che
il suo è più che un delitto, è un'infamia!... e che il cielo un giorno
ne terrà conto!

— Orsù, le vostre parole mi stancano.... Nulla m'è noto di ciò che
aveste l'ardimento di raccontare; e se avessi pensato mai, che quella
giovine potesse levar gli occhi sul figliuol mio, l'avrei fatta, a
quest'ora, cacciar di mia casa!

— Gran Dio! risparmiatemi almeno l'insulto... È una menzogna, uno
scherno atroce! So pur troppo che non si conta per nulla la vita d'una
povera creatura; so che i gran signori, come ora voi, ridon di queste
cose, le chiamano capricci, passatempi, se pur non dicono essere per
noi un onore, che voi, nobili, discendiate così basso, a portar la
vergogna dov'è la miseria!... Ma, per carità, se non potete rendermi
giustizia, compatitemi almeno!...

— Fate ciò che v'aggradisce: se pensate che sir Arnoldo abbia macchiato
il vostro nome, parlatene con lui... Egli vi saprà rispondere, e vi
metterà in pace... Io, per me, non ho altro a dirvi!

— Ch'io parli con lui?... No mai, mai! Una volta avevo pur creduto
all'onestà, alla grandezza del suo cuore; povero ingannato ch'io
m'era! Non l'ho cercato, nol vedrò più. La mia coscienza e quest'abito
stesso, non mi farebbero forse dimenticare ch'io son uomo! Ma... venni
a voi, perchè siete padre e vecchio! pensavo che almeno una parola di
giustizia, una lagrima di compassione, non me l'avreste negate. Voi
pure mi schernite?... Ma no! non siete voi, è il Signore che volle
umiliarmi. S'adempiano i suoi giudizi!

— Adesso parlate come si deve! E mi dispiace di non potere far nulla
per voi. Vorreste voi forse che comandassi a sir Arnoldo Leslie di
sposar vostra sorella? Il rimedio sarebbe opportuno!...

— Ve lo ripeto, o signore; io nulla domando da voi! E volesse egli
anche togliermi la creatura che mio padre m'ha consegnata, vi dichiaro
ch'io la vedrei più volentieri morire, che sposarsi a tal uomo....

— Oh! in ciò siam d'accordo; vorrei anch'io lo stesso. Una contadina,
che raccolsi per compassione... Ma, in verità, più vi penso, e più
credo che tutto questo sia un vostro sogno; gli è impossibile che sir
Arnoldo...

— Basta così: io son venuto per condur via da questa casa quella
infelice, e nessuno me lo può vietare!... Il pane, ch'ella ha mangiato
in casa vostra, lo piangerà per tutta la vita a lagrime cocenti; e così
il cielo perdoni a voi la vostra durezza, come a lei la sua colpa!
Di questo solamente vi prego, che vogliate dire al figliuol vostro,
ch'egli ci ha rapito tutto, e ch'io gli ho perdonato! Sì, egli lo
sappia, ma si guardi bene dal cercar me, dal cercare la sua vittima;
essa è come morta per lui! Che se così non fosse, guai a lui e a me!
Forse non sarei più quello che sono adesso, e il tradimento potrebbe
fruttare la vendetta!

Benchè lord Leslie avesse dato orecchio alle parole del prete con
una fredd'alterigia e con l'ironia d'un esteriore disprezzo, pure il
tremito involontario delle sue labbra, e l'attenzione delle pupille
sotto le ciglia ristrette in torvo atto, dimostravano l'interno suo
sdegno. Mentre il vicecurato parlava, anche la fronte del superbo
Inglese si faceva scura; e chi avesse potuto legger nell'animo suo,
avrebbe conosciuto che cento diversi e rapidi sospetti gli passavano
innanzi, come nuvole sinistre. — È egli possibile, domandava a sè
stesso, che mio figlio si sia perduto in un amore così indegno di lui?
Eh via, sarà stato il solletico d'un momento, e forse egli stesso ne
ride a quest'ora! Ma se veramente l'amasse, se avesse promesso di
sposarla... Che importa? son promesse che legano come i giuramenti
dell'ubbriaco! Pure, Arnoldo... non posso credere che Arnoldo...
Egli, ch'era diventato circospetto e severo, egli che sapeva d'aver a
fare con un fratello così sdegnoso e audace... È impossibile! O fu un
giuoco da parte sua, o una strana seduzione della fanciulla. Ma in ogni
modo, il miglior partito è ch'essa vada subito al suo malanno, e che
noi torniamo in patria... Sì, sì, è tempo oramai. Il momento è buono,
l'orizzonte politico si rischiara per noi, e l'era d'operare è venuta;
bisogna che sir Arnoldo esca in iscena una volta... altro che perdersi
dietro a sogni puerili!

Eran questi press'a poco i pensieri che volgeva in mente il vecchio
signore, all'udire i lamenti di don Cario. Ma intanto, qual era
l'agitazione della compassionevole Elisa?... Essa voleva bene a Maria,
e già da qualche tempo, turbata dal sospetto dell'amore d'Arnoldo,
aveva veduto la fanciulla soffrire, senza poter confortarla! Sentì
dunque stringersi il cuore, impallidì, quando intese le parole del
prete, quando vide due lagrime agghiacciate su le ardenti sue guance, e
pensò all'avvenire infelicissimo di Maria. Più d'una volta, essa volle
gettarsi a' piedi del padre, pregarlo di non disprezzare con amare
parole la sventura, di perdonare a un'ira giusta; ma un interno terrore
la contenne suo malgrado, e rimase muta e sbigottita, testimonio
innocente di quella scena.

— Or via, riprese il lord, alzandosi; andate, andate, e conducete con
voi la vostra sorella. Ch'io più non la vegga, e sopratutto che sir
Arnoldo non ne sappia nulla! Voi diceste anche di troppo, mi pare, e la
mia pazienza...

— Non temete, o signore. Noi lasciamo questa casa senza maledirla; noi
andiamo a nascondere nella solitudine la nostra disgrazia, a cercare
alla misericordia di Colui che ha in mano il passato e l'avvenire il
perdono del male che qui ci fu fatto!

Così disse, e premendo la destra sul cuore, in cui il dolore e
lo sdegno si facevano guerra ancora, levò al cielo, con sublime
rassegnazione, gli occhi; poi li chinò di nuovo, li rivolse senza senso
all'intorno, e si mosse per uscir della stanza.

— Aspettate, se vi piace, soggiunse il lord richiamandolo. Ricevete
questo leggiero compenso che vi offro, e scordatevi per sempre di noi!
— E così dicendo, trasse fuori dalla cassetta della tavola una borsa, e
gliela mise innanzi.

Il vicecurato, alla vista di quell'oro, arse di rossore, poi divenne
smorto e sentì scorrere tutto il sangue al cuore: — Ripigliate
il vostro danaro! L'oro può pagare l'infamia, ma non comprare la
dimenticanza di quel che è stato! Voi potete disonorarmi per sempre,
ma farmi vile non mai! Che questa viltà ricada sul vostro capo, o
piuttosto... che Dio abbia compassione di voi!

Il prete era uscito, e lord Leslie l'accompagnava con un'occhiata
indifferente, e con un sorriso sardonico: poi quando la porta fu
richiusa tentennò il capo e susurrò: — Io non so come durassi a star
cheto con quell'uomo ardito e superbo. E, tutto pensato, mi persuado
sempre più che la cosa non sia così! Bisogna che mio figlio mi
scopra... Si cerchi subito di lui. Intanto, sarà meglio partire prima
che avvenga peggio... — Poi, rivolto a Elisa: — Lascio a te, figliuola
mia, di disporre che tutto sia preparato per la nostra partenza fra
pochi dì. Noi torneremo a Londra; è il tempo dell'elezioni, la stagione
delle brighe, e gli è necessario ch'io non perda terreno. Dunque, hai
inteso. Ma per ora non ne far parola con alcuno: voglio così.


Intanto don Carlo, chiesto a un servo dove fosse la camera di Maria,
entrava in quella. La fanciulla, al vederlo così d'improvviso, proruppe
in un grido soffocato; era un grido di gioia vera, ma repressa da
occulto terrore. E balzò per corrergli incontro, per gettarsi nelle
sue braccia; ma egli si ritirò d'un passo, volse la testa, e stese
risoluto la destra, quasi per respingerla dal suo seno. Allora
l'infelice si ritrasse anch'ella, si lasciò cadere sopra una seggiola,
e, nascondendosi il viso, singhiozzava affannosa.

Il fratello la guardava e taceva.

— Gran Dio! dunque è vero?... proruppe egli dopo un breve momento. E
le s'avvicinò, le prese affettuosamente una mano, e fissando sovr'essa
un compassionevole sguardo: — Maria! che avete mai fatto?... Noi siamo
stati incauti, gli è vero, ma voi, voi siete perduta per sempre!...
Abbandoniamo questa casa disgraziata; oh così non v'aveste mai posto
il piede! Non piangete, è tardi, è inutile!... Venite, venite con me!
Che vostra madre almeno non sappia mai quel che è succeduto, ch'ella
possa almeno morire in pace!... Perchè tremate?... perchè mi guardate
così?...

— Oh come parlate, Carlo? Non sono io forse più vostra sorella?

— Sì! voi lo siete ancora; se non fosse per questo, sarei venuto a
cercarvi? rispondeva il prete con amarezza. Ah! perchè non vi siete
ricordata di me, quand'era tempo ancora!... Io v'amo anche adesso,
perchè siete infelice, e voi... Oh sì, piangete pure, e sperate che il
Signore avrà misericordia di voi...

— O mio Dio! rispose con voce debole la fanciulla. Io sono innocente,
ve lo giuro, io sono innocente!... Ah, conducetemi, conducetemi da mia
madre!

— Sì?... tu lo dici?... Ah! ripetimi che sei ancora virtuosa e pura,
lo ripeti, perchè io ho bisogno di crederlo!... Dimmi ch'è proprio
vero!...

— Sì, Carlo, io sono innocente, e ne chiamo in testimonio l'anima di
nostro padre.

— Dio! te ne ringrazio... E la sua fronte si serenò, e un lampo
d'indicibile gioia gli balenò negli occhi.

Allora egli la sollevò pietosamente, e con la destra abbracciandole la
persona, spinto dal grande affetto, la baciò sulla fronte, e — Vieni,
le disse con forza, finchè il cielo ti permette d'uscir di qui ancora
onesta! Ritorniamo all'asilo della nostra montagna, alla nostra povera
casa. Tua madre t'abbraccerà, oh con quanta contentezza! e tu potrai
ritrovare presso di lei la tua consolazione, e non l'abbandonerai
più. Vieni, o mia povera sorella! Tu non eri fatta per il rumore della
città, per i vizi del bel mondo, per i piaceri d'un giorno di questi
giovani eroi!... Non te ne rammaricare, ma benedici il tuo buon angelo,
che a tempo ti salva!... Pochi dì ancora, e il tuo cuore sicuro e
perdonato racquisterà le pace di prima; pochi dì ancora, e que' sogni
che avevan turbata la tua vita e i tuoi verecondi pensieri, saranno
svaniti. Non temer, no, di soffrire! Ma scaccia dal cuor tuo un amore,
che t'avrebbe renduta per sempre infelice... Credilo a me! Il dolore
nasce accanto al piacere, e dove adesso più si gode, è là che un'ora
dopo si piangerà più forte... Oh! diamo con l'animo sereno un addio
a questi luoghi d'amara ricordanza... alla miseria di queste gioie,
alla voluttà di questi vili trionfi! un addio alle lucide pompe della
città, a' suoi canti notturni, alle sue superbe case, alle sue povere
officine, un addio a chi tripudia e s'inebbria, un addio e una lagrima
a chi si martira e piange!

Racconsolata da queste amorose parole, la giovinetta sollevò le
pupille, e riguardò il fratello, con una viva confidenza espressa nel
viso, con tenere parole di gratitudine, parole di soavità non terrena,
ma celeste. — Oh verrò con te, gli rispose, verrò con te, o Carlo, che
m'hai salvata! Oh quando ti scrissi quella lettera, fu un'inspirazione
del cielo! O mio fratello, mio padre, guidami tu! Fa ch'io riveda
presto nostra madre, ch'io possa posare la mia testa sul suo seno, e
stare con lei sempre, sempre!...

Così alternando le parole e le lagrime, Maria fece un involto del poco
ch'era suo; e benchè le fosse amaro di partire, senza dar un ultimo
saluto alle due buone giovinette, pure non fece motto, e seguitò
i passi del fratello. Ma innanzi abbandonare quella stanza bella e
modesta, dove essa aveva per la prima volta sognato la speranza e
l'amore, non potè a meno di volgere ancora un mesto sguardo a quelle
care pareti, a quegli arredi, a quei pochi libri che lasciava sopra la
tavola...

L'addio della fanciulla non fu che un profondo e doloroso sospiro;
ma con esso, Maria accompagnava una muta preghiera dell'anima, una
preghiera per l'uomo che le aveva per sempre rapito la pace.



V.

PARTENZA E MISTERO.


Una settimana appresso, due grandi e pesanti carrozze da viaggio, che
su gli sportelli portavano dipinto un ampio stemma, e ciascuna delle
quali era tirata da quattro cavalli da posta, avevano attraversato la
città ed erano uscite per la porta Vercellina. I postiglioni toccavan
di sproni alla spacciata, facevano scoppiar le fruste, e davano fiato
alle rauche cornette.

Nell'interno della prima di quelle vetture sedevano un uomo vecchio
e grave e un bel giovane; sul sedile di fronte stavano due gentili
damigelle avvolte in mantelli eleganti e guerniti di pellicce. Nella
seguente poi, che reggeva da tergo due larghi, neri bauli e parecchie
grosse valigie, era sepolto in mezzo a un mucchio di fardelli il fedele
cameriere del vecchio signore; due altri servitori stavano seduti a
cassetta.

Il padre e il figlio tacevano, assorti in profondi e contrarii
pensieri; le due fanciulle malcontente d'abbandonare così presto il
nostro bel cielo, alternavano fra loro poche e interrotte parole.
Esse ricordavano la lieta vita passata, la voluttà dell'aria che
si respira nel cerchio dell'Alpi, su le rive dei laghi; e a mano a
mano lasciavansi dietro con rincrescimento le colte campagne che già
cominciavano a sentire il primo tepore della bella stagione. Alle
parole che facevano si frammischiava sovente il nome della loro povera
e semplice amica, accompagnato da un pensiero doloroso. Ma pur quel
nome non portava con sè nessuna amarezza; perchè Elisa non poteva
persuadere a sè stessa che l'anima pura di Maria fosse colpevole, come
aveva sospettato il padre suo; e Vittorina non sognava neppure che la
causa di tutti que' guai fosse l'amore, ignara qual era ancora che per
amore si pianga e si soffra, come aveva fatto la fanciulla.

Ma ben altre erano le fantasie d'Arnoldo. Quel giorno che il vicecurato
apparve d'improvviso per salvar la sorella e ricondurla con sè, volle
il caso che Arnoldo rimanesse lontano; e, sul far della sera, quando
tornò a casa, egli ignorava tuttavia ogni cosa. Vittorina fu la prima
che gli corse incontro, e gli diede la trista novella. Com'egli fosse
abbattuto dall'intendere che Maria era partita per sempre, e quanto
patisse in quel momento solo il suo cuore lo seppe. S'era fatto
pallido, cupo; l'ira, l'affanno, il sospetto erano entrati in un punto
nell'anima sua; ma non si scoperse, non disse parola.

In quella medesima sera, lord Leslie gli aveva fatto dire che sentiva
desiderio di parlargli; ed egli non indugiò a presentarsi a suo padre.
Il vecchio gli venne incontro di subito, lo prese per mano, e senza
accennare alla più lontana idea di ciò ch'era stato, gli mise innanzi
con parole amichevoli e gravi le nuove urgenti circostanze che lo
consigliavano a ritornare alla patria, senza por tempo in mezzo; gli
spiegò sott'occhio lettere d'uomini potenti, che gli avevano disegnato
l'andar delle cose e la gravezza del momento; gli parlò poi del debito
di non tradir l'avvenire, i proprii diritti, la parte alla quale s'era
legato, della necessità infine di giovarsi di quella congiuntura, per
non essere avvantaggiato da altri, e racquistare almeno ciò che prima
aveva perduto.

Arnoldo rimase confuso, annientato quasi dalle parole paterne. Il
vecchio non imponeva, ma cercava consiglio, pregava; ond'egli che
dapprima era stato pensoso, irresoluto, rompendo alla fine il silenzio,
uscì a proporre al padre, che l'unico partito da seguitare era quello
d'un sollecito ritorno in Inghilterra. L'accorto sguardo del lord aveva
indovinata la via per arrivare al cuor generoso del figlio; la sua fina
politica famigliare aveva trionfato.

Il giovine però sentiva il peso di quel dovere penoso che su le
prime aveva accettato con volontà sincera. Accondisceso ch'egli
ebbe, il pensiero di perder Maria gli tornò in cuore, gli si fece
insopportabile; voleva parlar di nuovo a suo padre, scoprirgli ogni
cosa; ma poi riflettè, e conobbe che sarebbe stato lo stesso che
perdere tutto. E intanto sorse a consolarlo una nuova speranza,
che forse, cedendo da principio, gli sarebbe stato agevole poi, nel
volgere di qualche tempo, di preparar l'animo paterno a non porre più
altro contrasto alla sua volontà; e vinto così l'antico pregiudizio
dell'orgoglio domestico, egli sarebbe stato padrone della sua mente e
del suo cuore. Allora per non saper trovare altra uscita, abbracciò
il più facile consiglio a cui, per la fiducia del meglio, assai di
sovente si appigliano gli animi incerti e miti, quello di tacere e di
aspettare.

Ma pure egli era torbido e travagliato. Non poteva spiegare a sè stesso
la causa di quell'improvviso fuggir della fanciulla, dopo tutto ciò
ch'era stato; nè comprendere come il vicecurato fosse venuto e partito,
senza cercare di lui, senza aspettare di vederlo. Ben gli nacque in
mente l'idea, che Maria forse avesse confessato al fratello il segreto
dell'amore che li univa; ma per ciò appunto si corrucciava di più,
pensando al basso e falso concetto che l'amico doveva farsi di lui, non
conoscendo ancora la purezza del suo proposito, il mutamento dell'anima
sua. E desiderava di poter rivedere, innanzi partire, la giovinetta; e
voleva parlarle almeno una volta, accertarla del suo ritorno dopo breve
tempo, e ripeterle la già fatta promessa.

Allora, dopo ch'ebbe inutilmente tentato più d'una via per trovar nella
città chi gli desse qualche contezza del luogo in cui il vicecurato
potesse aver formato dimora, dopo ch'ebbe risoluto di trasferirsi
segretamente, prima al paesello del lago, poi all'alpestre villaggio di
Valtellina; pentito dell'una e dell'altra cosa s'abbandonò all'inutile
rammarico, all'inquietudine, a disegni cupi e sdegnosi. Pensò anche
di palesare il suo stato a quel saggio uomo che aveva avuto tanto
potere su la sua vita e ch'egli venerava come secondo padre, onde lo
sovvenisse di consiglio; pure, quando fu sul punto di farlo, non ardì
aprirgli l'animo, o temette forse il giudizio del semplice ma austero
vecchio.

Intanto il dì della partenza era venuto. Tutto quello ch'egli potè fare
fu di scrivere una lunga lettera al vicecurato, nella quale n'acchiuse
un'altra indirizzata a Maria; mandò queste lettere alla posta, e pregò
il cielo che arrivassero al più presto al loro destino.


Dov'era allora la nostra fanciulla?

In certe povere stanzette, confinate nella soffitta deserta d'un antico
palazzo, che appartenne un tempo alla famiglia del conte Francesco
****, viveva ancora la vedova del vecchio maggiordomo di quella casa.
Dopo la morte degli ultimi padroni, il palazzo era stato venduto,
spogliato delle sue tappezzerie di damasco e delle dorate suppellettili
che l'adornavano da forse un secolo; e un negoziante, arricchito di
fresco e non ancora ritirato dagli affari, l'aveva acquistato e fatto
restaurar tutto alle fogge del gusto moderno, con le sue sete, co'
lucidi arredi parigini, co' molli tappeti turchi.

Quella vedova era una buona vecchietta, servizievole, cicalona,
tutt'amore del prossimo e de' poverelli, lodatrice eterna de' tempi
suoi e de' suoi ottimi padroni, e massimamente della defunta signora
contessa; la quale non l'aveva dimenticata nel testamento, e le aveva
lasciato una provisioncella, vita sua durante, un trenta soldi al
giorno e l'abitazione: era tutto quel che la povera donna possedeva
quaggiù. Pure essa viveva contenta, e col suo sordo sogghignare, diceva
bene spesso: Chi molto abbraccia, nulla stringe; ma chi sa contentarsi
del poco, campa un pezzo e col cuor largo. — Quel negoziante, al quale
certi lontani parenti della contessa, che ne furon gli eredi, avevano
venduto il palazzo, dovette accettare tra gli altri patti anche la noia
di tenersi in casa la vecchia vedova. E questa poi fu sempre ostinata a
non voler abbandonare quella dimora dov'era vissuta per trent'anni; di
modo che il novo padrone mise giù il pensiero di farla sloggiare con le
buone, come aveva stimato facile, nella fiducia che la vecchia sarebbe
presto ita a cercar posto nell'altro mondo.


A quest'antica conoscente, alla signora Giuditta, come in tutto il
quartiere era chiamata, affidò dunque il vicecurato la sua afflitta
sorella. Essa gli aveva tante volte portati su le sue braccia l'uno e
l'altra in giorni più lieti, quand'erano ancora ragazzetti, che non se
n'era dimenticata; ma non gli aveva veduti da tanto tempo, che quasi
non lo credè vero, allorchè le si fecero conoscere. Pure li ricevette
a braccia aperte, e dimandò loro del buon Andrea, della comare
Caterina, del palazzo, di cent'altre cose e perfino del vecchio Azor;
rammaricandosi di tutto quello che non era più, e benedicendo il cielo,
che la sua vecchia amica si ricordasse ancora di lei.

Nell'ignota dimora della vedova Giuditta, don Carlo dunque pensò di
nascondere Maria alle ricerche e alla persecuzione di colui, ch'egli
credeva essere stato il suo seduttore; giacchè intendeva di fermarsi
ancora per qualche giorno a Milano, e di ricondurre poi egli stesso la
fanciulla a sua madre.

Maria, ne' primi dì, non sapeva accomodarsi a quella nova solitudine.
Ignara di quel che fosse avvenuto, dopo che aveva abbandonato la
casa de' Leslie, di quel che potesse fare Arnoldo per ritrovarla, e
sedotta ancora da una lontana idea di rivederlo, di separarsi in pace
da lui, idea che la sua virtù e l'affetto le richiamavan sempre, non
come una colpa, ma come unica consolazione, ella passava le ore in
una rassegnazione dolorosa. Non piangeva più, ma faceva ogni sforzo
per ritornare più spesso che poteva alla memoria di sua madre; pure,
qualche volta, in segreto, ripeteva ancora il nome di colui che per il
primo le aveva promesso amore, e sentiva ch'essa non avrebbe più potuto
amar nessuno, come aveva amato lui.

Ella non usciva mai, e stava sempre in compagnia della vedova, la quale
non sapeva immaginare perchè una creatura, giovine e bella come Maria,
fosse così tacita e mesta. Intanto il fratel suo consumava que' pochi
giorni nel visitar gli amici che gli restavano ancora, antichi suoi
compagni di scuola, alcuni de' quali erano allora parochi nella città,
e altri procacciavan di guadagnarsi, con la penna e con gli studi, una
vita stentata ma libera e onesta.

E nel rinnovarsi di quelle conoscenze, che avevano messa profonda
radice ne' cuori, di quella corrispondenza di sentimenti e di simpatie,
ch'è sì bella quando la sorgente ne sia virtuosa e schietta, e fedele
la ricordanza, oh! come gli pareva di ringiovenire, di ritornare
a quell'età d'affetto e di desiderio, in cui si crede che la buona
volontà sia tutto, e nulla la difficoltà delle opinioni e del potere
altrui; in cui è certa e giusta l'aspettativa, e santa l'energia della
fede e del contraccambio!...

Con quali sinceri trasporti gli amici si rividero, s'abbracciarono!
Con qual fratellanza di gioia e di dolore rinnovellarono le memorie
della giovinezza! Come lagrimarono gli amici che non erano più,
ch'eran mancati nell'ora migliore! Come compiansero a quelli che
avevano tradito le speranze di loro concetto, un bell'avvenire, la
vita intera!... E le promesse di star sempre uniti col cuore, se con le
persone non potevano, d'adempiere insieme all'eterno dovere di render
migliori gli altri, di non cader mai d'animo, nè per la tirannia de'
pregiudizii e del tempo, nè per la cieca guerra delle passioni, e di
servir liberamente alla causa della verità, preparando d'accordo, per
quanta forza e per quanto cuore era in essi, il bene e la giustizia
per tutti; queste altissime promesse si ripeteron più d'una volta ne'
loro ragionari dolci e solenni, e furono santificate da' voti e dalle
preghiere di que' giusti e generosi che amavano e che soffrivano.

Così alcuni di que' dì felici, che il buon prete non credeva di trovare
più su la terra, e dietro a' quali l'anima sua aveva ben sovente
sospirato nelle solitudini della campagna, in mezzo alla povertà e
alla dura vita del contadino, o sotto gli umili archi della chiesa del
suo villaggio, alcuni di que' dì felici sorgevano ancora per lui; e lo
consolavano nel momento che, ferito nella più viva parte del cuore,
s'era umiliato innanzi alla superbia degli uomini, all'ingiustizia
delle cose. Ed egli se ne rallegrava con sè stesso, chè da tanto tempo
aveva rinunciato all'allegrezza: nè alcun funesto presentimento venne a
turbar la purità di quell'affetto antico e santo, e il felice presagio
d'un'età migliore!... Ma troppo spesso le nostre più vive speranze son
le più vane!


Un giorno — non eran passate più di due settimane da che Maria stava in
casa della vedova — le due donne avevano apprestato un desinare assai
modesto, e aspettavano il vicecurato.

È passato il mezzodì; passano una, due, tre ore, ed esse aspettano
ancora, e il vicecurato non comparisce. Su le prime, non si dan
pensiero di quel suo tardare, rassicurandosi nell'idea che forse
qualche impreveduta circostanza ne lo trattenga. Ma poi all'abbassar
del giorno, quando l'una e l'altra ebbero finito di ripetere
le consuete scuse che si van cercando per ingannar l'angustia
dell'aspettare invano, allora, con quel senso di tristezza che desta il
veder farsi sera, crebbe il loro dubbio e l'inquietudine. E taciturne
entrambe si pongono a sedere presso una delle finestre che dà sul
cortile, s'interrogano a vicenda con gli occhi, e guardano ogni momento
verso il cancello del palazzo, in attenzione curiosa d'ognuno ch'entri
o passi.

Da quella finestra vedevasi, per il vano del portone, lungo tratto
della frequentata corsìa. Si fece notte, le campane delle chiese erano
già silenziose per tutta la città, e le donne aspettavano ancora. In
ogni passeggero che attraversasse quel breve spazio, pareva loro di
riconoscere il prete; ma nessuno mai s'arrestava, nessuno svoltava in
quella porta. Maria ben cercava di persuadersi che nulla ci fosse di
più naturale di quell'assenza, ma invano; un interno timore la vinceva,
l'anima sua andava immaginando qualcosa di funesto, un pericolo, un
tradimento, una sciagura improvvisa; e già, come una spina, le stava
fitta in cuore l'angustia, che il suo Carlo non avesse a ritornare mai
più!

La vedova, indispettita alla fine di quel lungo tedio, cominciò a
sfogarsi, a brontolare fra sè e sè: — Vedete mo, che vezzo! Son già
passate più di sei o sett'ore.... Ha ragione chi dice: aspettare e
non venire, cosa da morire! Intanto voi siete ancora a digiuno, la
mia tosa! Manco male, ch'io ho pensato meglio di voi... ma domani, il
resto di quel pollo e di quella zuppa sarà roba da buttar via per la
finestra... Che cosa crede d'esser poi quel vostro signor fratello? Non
è all'osteria, e se qui c'è poco, c'è del cuore almeno! Ma, adesso che
ci penso.... Scommetto che, senza dir nulla, avrà desinato altrove; e
noi siamo state sì buone ad aspettarlo... Oh via, levatevi su, e peggio
per lui! mangiate un po' anche voi, chè almanco non si consumi questa
poca grazia di Dio....

— Ora non potrei, signora Giuditta, non potrei da vero... ho un gruppo
qui, una cosa che m'opprime....

— Oibò, non mi fate smorfie! In questi dì, non avete mangiato mai, più
che non mangi un piccione.... E poi, non dormite, avete una ciera che
fa pietà.... Via! ecco quel che son divenute le nostre ragazze! vedete
un po' quel che si guadagna a star nelle case de' grandi signori...
La minestra di casa vostra vi fa schifo... Non dico così per voi,
ma al giorno d'oggi, si vede, tutti vogliono stare in sul grande...
Ebbene? sorridete un po'!... Che dirà vostra madre? Quella è una donna
casalinga, sincera, alla mano... Che dirà, quando vi rivedrà con quel
viso di panno lavato?...

La fanciulla taceva, pensava che sua madre non le aveva mai detto
parole così amare; e quell'inutile conforto le parve più duro di
qualunque rampogna.

Non era lontana la mezzanotte, quando s'intese un calpestio su per
l'angusta scala che saliva a quelle stanze. Le strepito risvegliò
l'attenzione della vedova, la quale, seduta accanto del focolare,
recitava il rosario con accento basso e sonnacchioso, e fece palpitare
il cuor della fanciulla, che s'era presso a lei raggruppata, trovando
appena voce di rispondere all'avemarie.

— Siete voi, Carlo? domandò essa, con una gioia sicura, levandosi
subitamente; siete voi una volta?... Oh sia ringraziato il cielo!

Nessuno rispose. Ma, poco stante, un bussare forte e strano all'uscio
risonò nelle tre stanzette del povero quartiere.

— Ohe! che rumore di casa del diavolo, signor abate? gridò stizzosa la
vecchia. Bella musica dopo averci fatto aspettare tutto il dì e tutta
la notte!

Intanto Maria era corsa ad aprire.


Si presentaron due sconosciuti, col cappello basso su gli occhi,
abbottonati fin sotto al mento in un palandrano nero. La fanciulla
diede un grido, e balzò indietro atterrita; la vecchia spalancò tanto
d'occhi, e facendosi ritta ritta su la persona, appuntò le braccia su
l'anche, in atto di stupore e di dispetto.

Ma l'uno de' due sconosciuti, avanzatosi verso le donne, si pose
l'indice della mano attraverso le labbra, e, — State zitte, disse loro,
non v'inquietate, non gridate! Non veniamo per farvi nessun male, noi
siamo impiegati, facciamo il nostro dovere; e non si cerca di voi. Ma,
per amore, silenzio!

— Eh! ch'io non so niente, e qui non c'è nessuno, cominciò a gridare la
vecchia. E... e...

— Silenzio, dico, adesso! ripetè colui; risponderete a quel che siamo
per domandarvi. E voi, soggiunse voltandosi al compagno — una faccia
lunga, scura e smorta, che gli stava sempre alle calcagna, come la sua
ombra — ponetevi là, a quel tavolino, e scrivete!

E l'altro fece, senza dir nulla.

— Siete voi la vedova Giuditta ****? chiese allora l'uomo che parlava.

— Sì, son io! rispos'ella; ma perchè voi... perchè lui... perchè io...

— Voi, tacete! e la giovine qui presente è la nominata Angiola Maria
****?

— Son io quella, rispose alla sua volta la fanciulla, ma con voce
debole e tremante.

— Bene! E si rivolse di nuovo alla vecchia: Abita in casa vostra il
prete Carlo ****, fratello di questa giovine?

— Sì, ma è solamente da pochi dì, ch'io stessa gli ho fatto il piacere
di tenerlo qui, con sua sorella; e l'ho fatto perchè siam vecchi amici,
e se a questo mondo non ci fosse un po' di carità...

— Basta, tacete! Non ho domandato questo.

— Ma se non posso tacere! Sono una donna onesta, nè voglio che
nessuno...

— Tacete! vi replico, e badate a me. Da quanto tempo quel prete abitava
qui?

— Fanno giusto quindici giorni ieri...... fu un venerdì! Quando si
dice!... Ecco che cosa vuol dire un venerdì!... In verità santa, è una
cosa da non credere... Una storia simile non m'è capitata mai!

— Volete finirla con queste chiacchiere inutili? Ditemi piuttosto, dove
tenete la roba del vostro ospite?

La Giuditta, inasprita più che mai, non sapendo comprendere la ragione
di quell'interrogatorio, rispose alzando le spalle, e con un gesto
indicò l'altra camera; poi si mise a guardare or l'una or l'altra di
quelle due faccie, per vedere se le riuscisse di poter raccapezzare
qualche cosa di così fatto garbuglio. Ma l'uno senza complimenti, preso
un lume ch'era sulla tavola, l'accese, e passò nella vicina stanza,
come fosse in casa sua; e l'altro intanto continuava a scrivere col
muso duro, con gli occhi inchiodati sul suo scartafaccio.

Maria, tutta piena di spavento, non osava quasi respirare; essa aveva
indovinato che il suo povero Carlo correva qualche gran pericolo, che
coloro eran venuti per metter le mani sul fatto suo; e, resa ardita
dal suo stesso terrore, si mosse per correr dietro a quell'uomo, e
domandargli, per la pietà del cielo, che cosa fosse avvenuto del fratel
suo. Ma colui, avendo trovato di là ciò che cercava, ricomparve su
l'uscio, tenendo sotto il braccio un piccolo fascio di carte, e alcuni
libri (erano le memorie, il breviario, il vecchio Dante e la Bibbia del
buon prete). Pose il tutto su la tavola, rilegò con somma diligenza
il fascio, e v'improntò, senz'altro dire, un gran suggello. Poi,
volgendosi alla giovinetta, tolse fuori e le porse una lettera dicendo:
— È di vostro fratello! Per quest'oggi la nostra incombenza è finita.
Buona notte!... E fece un cenno al collega; il quale si levò, ripose
via il grosso scartafaccio, e si chiuse di nuovo nel suo palandrano. E
per dov'erano venuti, uscirono.

La fanciulla allora s'abbandonò su la seggiola ch'era più vicina,
tenendo stretto fra le mani il foglio fatale, che non aveva cuore
d'aprire. Ma quando la vecchia, strabiliata ancora di quant'era
succeduto, fece per toglierle quella carta, allora Maria la riguardò in
volto, corrucciata insieme e pietosa, poi chinò gli occhi, e lesse, che
quasi le mancava la voce:

      «Maria, mia cara sorella!

  «Colui che ti consegnerà questa lettera, ti dirà anche ciò che
  sia di me. Il cuore mi piange di dover lasciarti sola per qualche
  tempo; ma rassicurati, non sarà che per pochi dì, forse per poche
  ore! Pure, te ne prego, fa in modo che nostra madre venga anch'essa
  al più presto a Milano. Povera donna!... Ma in quanto a me, non
  le dir altro per carità, se non che sono ammalato, che spero e
  ho bisogno di rivederla. Il cielo benedica te e lei. Di' ancora
  alla buona signora Giuditta, che mi compatisca e mi perdoni. — Tu
  intanto prega il Signore per me, e fatti cuore; io non ho nulla di
  che rimproverarmi in faccia agli uomini. Mia amata, mia infelice
  sorella! ricordati sempre, che quanto succede quaggiù, è tutto per
  volontà di Dio!...»

Misera giovinetta! — Che cuore fosse il suo allora, di quale spavento,
di quali fantasmi fosse agitata e piena per essa la notte che seguì
quel terribile giorno, nessuno il potrebbe immaginare, non che dirlo.
Aimè! tutto l'affanno che può versarsi in cuore umano, era versato nel
suo; e per maggior dolore, la sorgente di questa nuova sciagura era un
mistero per lei!



VI.

IL FRATELLO E LA MADRE.


La mattina del dì appresso, la signora Giuditta che aveva la mente
intorbidata dalle conghietture più strane, e si sentiva morir della
voglia di sfogarsi con qualcheduno, mise sossopra la casa e il
vicinato, e raccontò a tutti il suo gran caso. A credere a lei, si
trattava di cose straordinarie; e com'ella non ci poteva veder dentro
chiaro, così s'era ficcato in capo di trovare il bandolo della matassa.

Dunque, in manco d'un'ora, aveva narrato la strana avventura della
notte alla portinaia della casa, alla moglie dello speziale dirimpetto,
perfino alla fruttaiuola e alla lattivendola del contorno; ma nessuna
di queste comari, com'è naturale, ne sapeva niente; e quando le avevano
risposto con un:.. Oh!..» Bontà divina!... o che so altro, avevan
finito.

La signora Giuditta stava per tornarsene e casa, con la sua pettegola
curiosità in corpo, quando la sorte la fece incontrare col signor
Giosuè, uomo di un certo conto, e priore della dottrina cristiana nella
parrocchia, il quale era tutto cosa sua. A costui dunque, come bene
pensate, ella ricantò la sua storia, non gli facendo grazia del più
piccolo particolare.

Ed egli allora, ch'era un di coloro che sanno o credono di sapere tutto
quello che succede e non succede, tirandola in disparte con un'aria
cupa, — Cara signora Giuditta, le disse col sussiego di chi dà un gran
parere, io so come va il mondo! Tutti i salmi finiscono in gloria, e
una donna come voi... non so se mi spieghi... Basta, avete fatto male a
impicciarvi con certa gente...

— Ma lei ne sa dunque qualcosa?

— E dàlle! volete voi venirle a contare a me? Sentite mo. Jeri mattina,
giusto alle dieci ore, io mi trovava nella sagrestìa, intanto che
quel prete stava dicendo messa. Veggo entrare due signori, che vengono
dritto verso di me, mi pigliano in mezzo, così alla buona come fossero
miei amici da vent'anni, e mi domandano il nome e cognome del prete...
Io mo ne sono subito addato...

— Sì! sì! ebbene?

— Risposi loro con pulitezza; ed essi, senza cerimonie, si misero a
sedere, uno da una parte, l'altro dall'altra, parlandosi fra loro con
certe occhiate di traverso... finchè la messa finì. E pensare, che io
quel momento fui tanto sciocco d'interrogarli che cosa volessero!...
L'uno mi fissò gli occhi addosso e non rispose, l'altro brontolò fra'
denti: La non è cosa che la riguardi; e mi voltò le spalle.

— Son quelli, scommetterei che son quelli stessi: dica, dica su...

— Insomma, finita che fu la messa, e tornato il prete nella sagrestia,
quei due signori s'alzarono, gli andarono incontro in atto di rispetto,
ed egli a loro... bisogna che si conoscessero! E l'un d'essi gli disse
alcune poche parole, ch'io non intesi... Il prete allora impallidì,
diventò bianco come il camice che aveva appena posto giù, poi rosso
come bragia, guardò intorno, sospirò e disse chiaro: Sono pronto,
vengo con loro!... Io restai di sasso e, non so perchè, sentivo le
gambe barcollarmi sotto... Egli in vece, credereste? passandomi vicino
mi rivolse uno sguardo tranquillo, e disse: Caro signor Giosuè, a
rivederci!

— Oh la cosa non è dunque tanto seria, com'io credeva!...

— Non m'interrompete adesso! Una carrozza era fuori della chiesa ad
aspettare. Nel porre il piede sul predellino, egli si fece il segno
della croce, poi si mise dentro, e quei due dietro a lui. E io, alla
lontana, così come n'andassi per i fatti miei, tenni dietro alla
carrozza... Ma quando la vidi svoltar la cantonata, e compresi dove
l'andava a riuscire... ho detto dentro di me: Tutti i salmi finiscono
in gloria! Ci siamo, è fatta!... e presi un'altra strada.

— Tutto va bene, ma fin qui non ci capisco ancora il perchè...

— Il perchè? il perchè? ci son certi perchè al mondo, così serii, che
non bisogna cercar di sapere, o quando mai per disgrazia si sanno,
tacerli!... Con voi però, che siete donna prudente, posso dire una
parola. Sappiate dunque che quel prete s'è trovato in un grosso guaio
con un gran signore forestiero; che, pochi dì fa, dev'essere fra loro
avvenuta una scena scandalosa, per causa d'una giovine, d'una fuga,
d'un rapimento, d'un intrigo... cose, cose che mettono in compromesso
la coscienza e qualche cosa di più. Dunque tutto è spiegato. E poi,
quand'uno se la prende contro i pesci grossi, gli è raro che n'esca
netto... So quel che dico, lo so di buon luogo, e l'affare è chiaro!
Voi però non ve ne impacciate. E, per carità, abbiate giudizio con chi
che sia!... Già ve l'ho pur detto, la prudenza non è stata messa per
niente tra le virtù cardinali.

— O signor Giosuè, si figuri! Solo mi dispiace per quella povera
giovine...

— Sopra tutto non state ad aprir bocca con lei! Non ci mancherebb'altro!

— Bene, tacerò... le prometto che tacerò.

— Si, sarà meglio, chè mi pento quasi di aver parlato io! Oh, signora
Giuditta, a rivederci.

— Un momento, dica... senta...

Il priore della dottrina cristiana gli aveva voltato il tergo, e se
n'era ito.

La signora Giuditta, con la fantasia agitata, in un mar di pensieri,
combattuta fra il desiderio di spiegarsi con Maria (la quale, secondo
lei, era la colpa di tutto) e la promessa data di tacere, trovò appena
la strada di casa sua.

Quando entrò, la fanciulla le venne incontro interrogandola con gli
occhi, se mai le recasse qualche buona novella; e in quel suo sguardo,
in quella sembianza, leggevasi tutto l'affanno d'un'anima che non
crede a una sventura e non ha la forza per sostenerla. La vedova, a
cui pizzicava la voglia di parlare e di dire alla poveretta: Tutto è
stato causa vostra anch'essa ne fu veramente tocca; e la compassione le
suggerì qualche parola d'amicizia e di conforto. Al che la fanciulla
rispose con lo stringere e baciare le mani di lei, in atto di viva
gratitudine e di dolore, sforzandosi di parer tranquilla.

Rilessero insieme la lettera del vicecurato; conghietturavano, dicevano
dieci volte le stesse ragioni, ma non sapevano che ben fare. Alla fine
fu stabilito fra di loro, che prima di scrivere alla mamma Caterina,
come raccomandava la lettera, o d'andare a prenderla al paese, come
voleva Maria, avrebbero aspettato fino al posdomani, affidate che
potesse in quel mezzo ritornare don Carlo.

Ma il posdomani passò, e non comparve persona, e non venne parola.
Perduta quella poca speranza che per i cuori buoni ha sempre qualche
sorriso, benchè mesto e solitario come un fil di luce, Maria cominciò
a pentirsi di non esser subito partita a cercare sua madre; e, d'una
in altra fantasia, andava creando le più funeste cose del mondo. E
quantunque la vedova fosse stata prudente, forse per la prima volta in
vita sua, e le avesse taciuto i sospetti di quella sparizione; pure,
fra gli altri dolorosi pensieri, venne in mente a Maria anche questo
che quant'era avvenuto poteva essere una vendetta dell'uomo potente con
cui il fratel suo aveva ardito cozzare per salvarla. Ma tal pensiero
era così grave e terribile, che al suo cuore mancava la forza di
sopportarlo.

Così abbandonavasi alle sue dolenti illusioni, alle sue inquiete paure.
Intanto la vedova aveva trovato modo, per via d'un ex-procuratore
del suo antico padrone, di far sapere ogni cosa alla mamma Caterina,
affinchè, il più presto che poteva, affrettasse di trasferirsi a
Milano: a dir quel ch'era, tutto il trambusto di que' giorni non le
dava poco pensiero; nè si sarebbe accomodata, in caso di qualche cosa
di grave, a tenersi in casa per un pezzo quella giovine, ch'era stata
la pietra dello scandalo e che in fin dei conti non le apparteneva.

Per consolare Maria, le annunziò dunque che fra due o tre giorni,
alla più lunga, sarebbe venuta sua madre, ch'ella stessa s'era per
ciò raccomandata a una persona di proposito, e che non occorreva la si
pigliasse altro fastidio. Questa novella e l'idea di trovarsi presto
nelle braccia della madre, rasserenarono per quel giorno l'anima e
la fronte della giovinetta; e una consolazione le ne promise vicina
un'altra, quella di poter finalmente rivedere anche il fratello.

Passati tre giorni, un biroccio s'arrestava alla porta del palazzo.
Era dessa, la comare Caterina, venuta a Milano in compagnia del signor
Gaspero, quel vecchio possidente che abbiamo incontrato più d'una volta
in questa storia semplice e nostrale. Costui aveva ricevuta una lettera
del procuratore al quale la signora Giuditta s'era raccomandata: e,
inteso di che si trattava, senz'indugio persuase alla Caterina quel
piccolo viaggio, la condusse con sè a Como; e qui noleggiata una
vettura, l'accompagnò egli stesso a Milano, dove per abitudine capitava
sempre una volta all'anno.

Maria era accorsa alla piccola finestra del cortile. Ella guardò, vide
di lontano la madre che si congedava dal suo compagno di viaggio, ne
intese la voce, e dimenticò tutto. Pochi momenti appresso, Caterina
stringeva tra le braccia la sua povera figlia, e Maria nascondeva sul
seno materno il viso, che solo per un istante si tinse ancora del suo
vivo colore.

Senza piangere, senza parlare, stettero così in quel dolce e prolungato
abbracciamento; e pareva che la fanciulla non volesse distaccarsene
più.

— Maria, mia buona e cara figliuola, disse alla fine la madre. Oh!
perchè m'hai tu abbandonata? questi sei mesi sono stati sei anni
per me! Oh Madonna santa! come ti sei cambiata, povera tosa! Non ti
riconosco più!... Ma com'è mai che ti trovo qui? Non sei più nella casa
di quel signore inglese?... E voi, signora Giuditta, e mio figlio...
è qui don Carlo? ma perchè non ho io saputo niente fin adesso?... M'
hanno detto ch'era ammalato... io voglio vederlo! dov'è egli?... Ditelo
dunque, non mi fate penare!...

Queste molte inchieste, che alla misera suggeriva tutto in un punto
il materno suo cuore, posero nell'impaccio la vedova; la quale s'era
bene accorta che la vecchia comare era al buio di tutto. Maria non
aveva coraggio di dire una parola; e guardava, guardava la madre, senza
togliere mai gli occhi da quell'amato volto, in cui la solitudine ed
il dolore avevano in poco tempo solcate più profonde le rughe dell'età.
Ma, atteggiata com'ella era, in muta e affannosa contemplazione, la sua
celeste figura suscitava nell'anima una pietà mista a terrore.

Alla fine la Giuditta, fatta la faccia tosta e il cuor duro, pensò:
Qui è meglio parlare; un momento o l'altro, bisogna pur ch'ella sappia
tutto...

— Cara la mia Caterina, prese dunque a dire, non vi crucciate così:
fatevi un po' di coraggio!

— Oh misericordia! che male c'è di nuovo?...

— Già lo sapete, a questo mondo dei cattivi ce n'è anche troppi! E
son sempre gli stracci che vanno all'aria, come dice il proverbio... E
tocca spesso ai buoni a portare la pena dei tristi...

— Oh santa pazienza! parlate, non mi tenete qui su le spine...

— Eh! ognuno ha la sua croce, e c'è chi deve portarla anche per gli
altri... E già si sa, bisogna star preparati sempre...

— A che? ma dite su una volta! parla tu, Maria; chè in questo modo ben
più mi spaventate e mi fate morire! Mio figlio sta forse male? forse...

— No, no, egli sta bene, ma...

— Signore, datemi cuore! ma che?...

Per tutta risposta, Maria non fece che gettarsi un'altra volta nelle
braccia di sua madre. E la vedova raccontò tutto quel che sapeva,
tacendone però la cagione, per la pietà di Maria. La povera donna
non volle credere a nulla; il colpo era troppo forte, e l'anima sua
semplice e piena d'amore non lo sostenne. Ella non pensò nemmeno a
chiedere il perchè di quella rovina; non poteva dubitare che il figlio
non fosse innocente; il nome di suo figlio era sempre stato per lei
come quello d'un santo. Stanca degli anni e sola, ella metteva in
lui tutto il suo cuore, tutto il suo tenero orgoglio di madre: aveva
speranza e vita nell'unico amato, il quale dopo la morte del suo
pover'uomo, com'essa diceva, doveva essere il padre della sua Maria.

La buona donna! Nella solitudine della sua dimora, un tempo rallegrata
dalla presenza e dall'affetto de' suoi cari e poi rimasta vòta,
deserta, come un sepolcro, ella si consolava e si pasceva dell'idea,
che l'uno o l'altra avrebbero sortito una modesta e onorevole
condizione su la terra, e che un giorno forse ne' suoi più tardi anni,
l'avrebbero circondata di cure e d'amore, e a larga mano compensata
de' sacrifizii fatti, e della vita tediosa che trascinava. Non si
rammaricava mai che sola compagnia le restasse la vecchia Marta, perchè
conosceva il cuore de' figli suoi, e le pareva quasi d'abitar con loro,
di viver con loro, quantunque lontani; l'unico desiderio che nutrisse,
era di poterli di tanto in tanto rivedere; e ogni dì si teneva certa
di presto abbracciarli, in questa certezza essendo tutta la sua gioia.
Seduta sovente, al tepido sole delle mattine d'inverno, sotto la nuda
pergola della casa, con la sua conocchia fedele, la buona madre pensava
alla povertà, alla pace, raccontava la storia d'altri anni, raccontava
quella dell'avvenire; ed era felice quando parlava della sua bella
Maria o del suo curato alla Maria che le sedeva rimpetto, pettinando
la matassine del lino. E allora, senz'avvedersene, le due comari
s'arrestavano dal lavoro; all'una spezzavasi il filo della conocchia
o cadeva di mano il fuso; all'altra si perdeva il lino nelle punte del
pettine. Ma entrambe, in que' momenti, sollevavano al cielo gli occhi
e il cuore, con un pensiero più santo d'ogni preghiera, e del pari
benedetto.

Ma ora che diversi pensieri, che mutamento!


La mamma Caterina, per tutto quel dì e per molti altri ancora, non
volle ascoltare ragione, nè consolazione, nè speranza; non domandava
che suo figlio, non voleva che vederlo. Ed essa pure, come prima aveva
fatto Maria, si figurava alla mente angustie e spaventi, s'abbandonava
ai più tristi presagi, non porgeva più orecchio a nulla, nemmeno al
piangere della sua figliuola.

Fu allora che l'amorosa fanciulla, la quale innanzi alla venuta della
madre credeva di dover ben presto finire nell'affanno di que' giorni,
si sentì maggiore di sè stessa. Una virtù, ignota a lei fino allora,
la costanza nel soffrire raddoppiò il suo debole coraggio; ma la sua
fermezza, la calma delle parole e degli atti avrebbero dimostrato ben
più crudele il martirio dell'anima a chi avesse potuto vedere il suo
segreto. Ella soffogava le lagrime; ed era ne' momenti del maggior
dolore, che la sua voce si faceva più sicura e più affettuosa. E
sorrideva; era un riso malinconico il suo, ma era un riso celeste.

In que' giorni che sempre da uno stesso travaglio misurati fanno parer
eterna la vita, così Maria con l'amor suo procacciava d'ingannare a
sua madre le ore contate dall'afflizione; essa ragionava di tante cose
passate, della loro casa, della vigna su la costa, della vecchia Marta,
degli altri amici del paese. E ringraziava il cielo con tutta l'anima,
quando vedeva che le sue parole avevano temperata per poco l'amarezza
della sciagura presente. Ella nascose nel fondo del proprio cuore tutta
la sua parte d'affanni; ella comprese e tolse sopra di sè quel dolore
inesprimibile, che solamente pel cuor delle madri non è un mistero;
quell'angoscia, la quale non trovava parole nè lagrime, perchè ha de'
segreti che a umano orecchio non possono confidarsi e che il cuore
altrui non ha mai conosciuto.

Non v'è piaga quaggiù che il tempo non sani; l'abitudine stessa del
soffrire può talvolta diventar quasi cara e necessaria; l'amore,
l'ambizione, la vendetta, il rimorso, lascieranno pur una volta in
pace l'anima di cui han fatto strazio; ma la ferita che porta il cuor
d'una madre per amore de' figli suoi, non v'ha balsamo che la medichi,
non felicità nè tempo che vi spargano sopra la mesta consolazione
dell'obblio.


Così, abbandonate e senza saper nulla mai di quel loro caro, Caterina
e Maria trascinavano i dì, le settimane, in casa della vedova; la
quale non aveva potuto far di meno di tenerle con sè per qualche tempo
ancora, quand'esse, deliberate d'aspettare che fosse decisa la sorte
del prete, ne la pregarono, a patto di pagarle trenta soldi al giorno,
per le spese. Ciò veramente andava poco a' versi alla Giuditta, causa
la paura di cert'altre visite della specie di quella prima che non
aveva ancora dimenticata; ma poi, per amor di bene, non seppe dir di
no.


Una mattina, erano uscite di buon'ora le due donne per andare insieme a
vendere a qualche mercante di mode un velo nero trapunto dalla Maria,
in que' dì solitari e mesti: era dessa, che col lavoro delle sue mani
sostentava anche la madre. Essendo a caso capitate presso la piccola
chiesa di S.***, la Caterina, la quale non lasciava passar giorno che
non andasse a pregare il Signore per il suo povero figliuolo e per sè
stessa, si volse a quella parte e fece per entrar nella chiesa. Ma
d'improvviso la fanciulla, tutta compresa dal terrore d'una funesta
ricordanza, le si strinse al braccio, la trattenne, e con voce segreta
e supplichevole: — Oh no! madre mia, non andiamo in questa chiesa; io
non devo, non posso entrarvi più.

— Perchè, Maria, perchè?... Che hai? tu tremi, diventi smorta! ti senti
male?

— No! madre mia, è un segreto.... un segreto che nessuno doveva
conoscere! Ah se sapeste che in questa chiesa.... O mio Dio! toglietene
per sempre dal mio cuore la memoria!

— Maria! che mistero è questo? parla, dimmi...

— Qui no, no, cara madre!... Torniamo a casa, ve ne prego, e vi dirò
tutto. Oh povera me, oh povero mio fratello!

E tornarono a casa. In quel giorno Maria non trovò parola che potesse
spargere un po' di serenità su l'addolorata fronte di sua madre.
Attendeva taciturna a' suoi lavori, s'appartava soletta a ricamare al
telaio, per nascondere la viva angoscia che l'opprimeva; ma più d'una
volta un leggero gemito, un volger degli occhi al cielo, un giunger
le mani inquietamente, scoprivano il patimento del suo cuore. Invano
la madre la stimolava a confidarle quel segreto. — Oggi non potrei,
rispondeva; domani, mamma, domani saprai tutto! Oh dimmi prima che mi
perdonerai!

Pure, venuta la sera, quand'esse rimasero sole, in tempo che la vedova
era discesa dalla portinaia della casa a pescar le novità, ch'erano
poi sempre le solite, la fanciulla non potè resistere più alla materna
preghiera; e con molte parole, spesso interrotte da lacrime e da scuse,
raccontò l'amor suo, la promessa, il giuramento che quel giovine le
aveva fatto, i dubbii, il timore che le avevano persuaso di ricorrere
al fratello, e tutto ciò ch'era avvenuto di poi; e in fine non tacque
nemmeno ch'ella si teneva certa di non essere stata tradita, e aveva la
persuasione che la disgrazia del suo povero fratello non era avvenuta
per causa sua.

La buona Caterina amava tanto la figliuola che non ebbe pure
il pensiero di farle il più piccolo rimprovero, perchè si fosse
abbandonata ad un innocente sì, ma incauto affetto. In vece le
compativa, e procurava ella stessa di consolar quella fede e
quell'ingenua aspettativa, ch'erano la vita della sua Maria. Così la
conoscenza di quel segreto, se non valse a scemare, parve almeno far
più leggero, col disviarlo, il dolore delle due disgraziate: poichè
sembra che un'arcana pietà del cielo nutra il conforto della fiducia
nel momento più grave dell'affanno, e rivolga a consolazione d'un cuore
travagliato quelle stesse memorie che a un cuore libero sarebbero di
troppo molesto peso.

E così forse il Signore le preparava a poco a poco a una più tremenda,
inaspettata disavventura.


In quella stessa sera, la madre e la figlia sentivano nell'anima
una confidenza cara quasi al pari della certezza; e quantunque fosse
riuscito vano il poco che avevano potuto tentare a fine di rivedere il
loro Carlo, o di sapere almeno qualche cosa di quell'unica vita in cui
s'eran raccolte tutte le loro speranze, tutti i loro timori, pure non
avevan creduto mai come allora a un buon presentimento.

Maria, seduta accanto del tavolino, stava leggendo una pagina d'un
suo libricciolo alla madre e alla vedova amica; le quali, composte
a religiosa attenzione, pendevano dalle labbra di lei; quel libro
era l'ultimo ricordo donatole dal fratello, era l'aureo volumetto
dell'Imitazione di Cristo. Essa leggeva, e l'incerto raggio del lume
che le ardeva vicino, sembrava quasi circondare la sua candida fronte
di quell'aureola, che si suol vedere dipinta intorno alla testa de'
santi.


«Non si turbi dunque il tuo cuore, e non abbia paura.

«Abbi fede in me, e nella mia misericordia ti fida.

«Quando tu pensi d'essermi più lontano, allora è spesse volte ch'io ti
son più vicino.

«Quando tu credi quasi perduta ogni cosa, allora le più volte tu hai in
mano maggior materia di merito.

«Non è tutto gittato, perchè alcuna cosa ti sia avvenuta sinistramente.

«Non dêi tu giudicar delle cose secondo il presente tuo sentimento,
nè per alcuna disavventura, onde che ella ti avvenga, scorarti tanto
perdutamente, nè in modo riceverla, come se ogni speranza ti fosse
tolta di dovertene rilevare mai più.

«Non volerti credere derelitto del tutto, se per alcun tempo io
ti mandi alcuna tribolazione, oppure io ti ritolga la bramata
consolazione; essendo che per tal via si va al regno de' cieli....

«Quello che ti ho dato, il mi posso ritogliere, e rendertelo quando mi
piaccia.

«Quando alcuna cosa ti do, ella è mia: quando me la riprendo, non
prendo del tuo; poichè mio è ogni bene e ogni dono perfetto.

«Se io ti lascio venire gravezza alcuna o avversità, non isdegnartene,
nè cader di animo; io posso rilevartene prestamente e cambiarti in
gaudio ogni noia.

«Ma non pertanto io son giusto, e da commendare altamente, quando io fo
questo con te!...»


La fanciulla leggeva queste schiette e sublimi parole con tanta verità
e dolcezza, che parvero alle due donne un consiglio venuto dal cielo.

— O mia madre! disse poi Maria, il libretto che vedete è un dono che
m'ha fatto, gli è poco tempo, il nostro Carlo! E queste parole mi
sembran le sue... Io mi ricordo ch'egli stesso me le fece leggere un
giorno, quel primo giorno che venne lassù a visitarci, dopo la morte
di nostro padre. E ogni volta ch'io ne rileggo solo una pagina, non
so come, mi sento più forte, più in pace.... Oh! egli è buono, egli è
un'anima santa, il nostro Carlo, e il Signore avrà pietà di lui e di
noi!

Caterina abbracciò sua figlia con gran tenerezza, e poi staccossi da
lei, per andare a coricarsi.

La fanciulla, rimasta sola, riaperse a caso il libro, e le cadde
sott'occhio un foglietto scritto dalla mano di suo fratello, e forse
dimenticato là entro: eran gli ultimi versi ch'egli aveva dettati.

    IL CALICE DEL DOLORE.

      O Signor, s'egli è decreto
    Che il tuo servo a te ritorni,
    Pria che pieni egli abbia i giorni,
    Io t'adoro umíle e lieto!
    Vegga alcun di me più degno
    Il meriggio del tuo regno.

      Sento anch'io, che s'avvicina
    La stagione a me suprema;
    Pure ondeggia, e spera, e trema
    L'alma schiava e pellegrina;
    Come indomito nemico,
    Sorge ancora il dubbio antico.

      Tu che il puoi, Tu la tempesta
    Della vita, o Dio, m'acqueta!
    Del tuo raggio almen fa lieta
    La brev'ora che mi resta.
    Quanto io piansi, e quanto amai,
    O mio Dio, Tu solo il sai!

      Nella polve a Te prostrato,
    Bevvi al calice del duolo:
    Ebbi un voto, un grido solo,
    Sotto il pondo del mio fato!
    Ma la voce dell'eletto
    I fratelli han maledetto.

      O mia patria antica e bella,
    O mio sole, io vi saluto!
    E tu, madre, e tu, sorella,
    Ond'è mai quel pianger muto?
    Ogni stilla è in ciel raccolta:
    Ah pregate! Iddio v'ascolta.

      Deh! se il figlio t'abbandona
    Tutta sola in questa terra,
    Al dolor della sua guerra,
    Pensa, o madre, e gli perdona!
    La sua vece è omai compiuta,
    L'ora santa è già venuta.

      Apri, o Dio, la ferrea stanza,
    Che non s'apre al mio lamento;
    Scendi a me nel gran momento,
    Mi rinnova la speranza;
    Su la bocca scolorita
    Posa l'ostia della vita!

      Prega allor, mia dolce suora,
    Fior che il cielo in terra mise,
    Che le nostre alme divise
    Ricongiunga l'ultim'ora!
    Prega, e riedi alla tua sfera;
    Patria questa a noi non era!

La fanciulla lasciò cadere una calda lagrima su gli amati caratteri,
i quali, mentre leggeva, le si offuscavano, le si confondevano sotto
gli occhi... Ma il terrore ristagnò il pianto, un arcano terrore più
grande d'ogni angoscia. Dio buono! quelle parole eran dolorose, come il
lamento d'un uomo vicino a morire. Allora la poveretta perdè il cuore,
e volle, ma non potè piangere.

Batteva la mezzanotte. Que' rintocchi sordi, prolungati dell'ore
le rispondevano fino all'anima, come il suono lento della campana
dell'agonia. Era sola, in mezzo a una luce fioca, moribonda, a quella
luce stanca, ondeggiante della candela vicina a spegnersi; i suoi
pensieri erravano dietro le incerte larve della fantasia, si facevan
tutti d'un fosco colore; una tema assidua, indefinita, uno stringimento
al cuore, strano, non provato mai, eran più forti del suo coraggio.
Ella fece pochi passi per accostarsi al suo letto, ch'era in un canto
di quella camera; ma non n'ebbe la lena, e sedette di nuovo allo stesso
luogo. Allentò su la tavola le braccia in croce l'uno sopra l'altro, e
su vi lasciò cadere il capo oppresso e stanco. Allora fu la pietà del
cielo che diffuse nelle gracili sue membra quel profondo sopore che
somiglia al sonno, e che, se non conforta, interrompe almeno la fatica
d'un gran dolore. E la misera ne aveva tanto bisogno!


Il dì seguente, si mormorò da alcuni, e la terribile nuova giunse pure
alle sventuratissime due donne, che in quella stessa notte, colto
da sùbita e crudel malattia in poche ore, il povero don Carlo era
morto. Fu un rumore sordo, occulto, ben presto soffocato e ben presto
dimenticato.

Ma passati due mesi, nessuno seppe, nessuno raccontò che la disgraziata
sua madre finisse anch'essa di crepacuore e di miseria in un letto
dell'ospedale. La morte d'una madre è cosa troppo santa e pietosa; a me
mancan le parole per raccontarla, e la fanciulla anch'essa non confidò
il segreto di questo suo dolore a nessuno.... Ella non aveva più nè
fratello, nè madre. Povera Maria abbandonata!



VII.

IL PANE ALTRUI.


Ditemi dove sia chi ricordi le gioie e i dolori del povero, chi
ne racconti l'amore schietto e vero, come la sua povertà, la
buon'amicizia, la generosità che ignora sè stessa; ditemi dove sia chi
dipinga la sua virtù, più feconda di quella de' sapienti, la sua fede
sincera, la sua speranza nell'altra vita?

E chi volete che ripeta le rozze canzoni del povero, la sua spensierata
ilarità, che numeri le sue dure giornate e i figli suoi, che rammenti
il suo nome, di padre in figlio; se, quando battè stanco del cammino
alla porta altrui, nessuno gli aperse, se nessuno sa che egli era vivo,
e che poi è morto?

Eppure le catapecchie aperte al sole e al vento sorgono accanto de'
bei palazzi, e al piede delle ville superbe stanno i tugurii co' loro
spenti focolari. Per le strade e pe' corsi, la carrozza del signore
urta e sperde la folla; e vedi il funerale del povero andar rasente
la muraglia della via, quasi messo in fuga, mentre la turba curiosa
s'arresta a contemplare un cocchio vòto e due livree listate d'oro,
alla porta d'un antico palazzo.

Ma la provvidenza non dimentica i poveri che sopportano la fatica,
che non chiedono altra consolazione, tranne quella di guadagnare il
pane pe' loro figliuoli. Essa sola può rendere il bene fecondo per
tutti, essa che dalla debolezza suscita, quando che sia, il coraggio
e la forza, essa che fa nascere dalle lagrime la gioia, e apparecchia
la pace a coloro che han sostenuto lunghe prove; quella gioia che
si ravviva a ogni lieta benchè piccola vicenda, e quella pace che
s'acquista quando il cuore senza viltà può benedire altrui. Il povero
che divide col fratello più infelice di lui la mercede prima numerata
con avara brama, si getta la notte sul suo stramazzo, forse più
tranquillo e pago che non il milionario, quando si riposa in letto
sprimacciato, su' gonfi guanciali, protetto dal baldacchino di velo
frangiato, dopo avere aperta una scuola, o fondato un ospedale, dove
gli par già di vedere, su la fronte della porta, scolpito in pietra il
suo nome e i suoi titoli superbi, pagati coll'oro, o con la viltà.

E poi nessuno v'è che poco o assai non viva per la domane. Se a ogni
passo trovi chi bestemmia la povertà ne' giorni numerati sempre dagli
stenti, i balzelli che non ristanno, il pane che rincara, trovi pure
chi maledice alle noie della vita, al piacere marcito dall'abitudine,
alla grandezza che fugge sempre, all'anima stessa che non si riposa
mai. E lo scontento agita gli uni e gli altri: colui che vanta un gran
nome e un gran censo, che ha sempre pranzi e ville, donne, cavalli e
teatri, sen va felice d'essere invidiato; ma egli stesso ben sovente
invidia la ruvida indifferenza, la credula mente, e la dura libertà del
povero.

Intanto gli anni passano per tutti, il sole nasce e tramonta su le
prosperità e su le disavventure umane, la natura spoglia e riveste
la sua bellezza; ma l'età perde i suoi fiori, e non si rinnova più! E
l'uomo, quest'essere così fiacco insieme e forte, così timido e così
audace, l'uomo non sente venir meno la vita, e cedere quasi sotto ai
piedi la terra; non s'accorge che, a una a una, sfumano innanzi a lui
le più gentili e care illusioni, che la sua memoria ha l'ale corte,
che il suo cuore si va sempre più stancando di battere..... Oh quant'è
più felice colui, il quale, nell'allegrezza e nel dolore, non sa che
credere, sperare e amare!


Sul cadere di una malinconica giornata di novembre — era appunto il dì
de' morti — un'orfanella, in povero ma decente vestito bruno, e coperta
d'un velo, se n'andava, assorta in profondi pensieri, verso il campo
santo suburbano di Porta Tosa. Il sole non era tramontato ancora; ma si
nascondeva innanzi tempo dietro una gran fascia cenerognola di nuvole;
e pareva negare il mesto e poetico saluto dell'ultimo suo raggio a
quella vasta e sacra campagna, tutta seminata di basse croci, e a
quella gente buona e fedele, venuta a consacrare un'ora alla memoria e
alla preghiera, nel soggiorno de' trapassati.

L'orfanella entrava anch'essa nel campo santo, in mezzo a una
processione di povere donne, delle quali parecchie venivano traendosi
dietro due o tre figliuoletti, alcune si recavano un bambino su le
braccia, altre camminavan sole e taciturne; e quale se ne andava
pregando in compagnia, e quale piangeva, e quale si fermava in un
compunto raccoglimento. Essa attraversava que' nudi sentieri; e
lasciava dietro a sè alcuni buoni vecchi, che, tenendo il bastoncello
in una mano e il rosario nell'altra, recitavano con mesta cantilena
quelle orazioni che presto dovevano esser ripetute sul proprio loro
capo. Vedeva, qua e là, al piede della bassa muraglia, all'angolo di
qualche cippo, mendicanti accosciati sul terreno, appena coperti dagli
ultimi cenci e portanti su le ginocchia le stampelle incrocicchiate,
andar invocando lamentevolmente la pietà di chi era men povero di loro:
vedeva più d'una madre infelice, circondata dalla miserabile corona di
tre o quattro bambini, l'uno lattante, piangenti gli altri, sollevar la
testa e con gli sguardi muti e l'estenuato aspetto raccomandarsi alla
carità del passeggiero, nel nome di Quella che fu chiamata la Madre
de' dolori; e da lontano e da presso, d'intorno a lei, in ogni canto,
spargersi in pietosa ricerca, entro per quella folta selva delle croci,
intere famiglie; e poi, a mano a mano, ciascuna di queste raccogliersi
vicino a una croce nota, inginocchiarvisi all'intorno, rispondere
insieme alla stessa preghiera; da un'altra parte, un vecchio già curvo
insegnare al figlio adolescente, sul cui braccio s'appoggiava, dove
riposasse suo padre e dove la madre sua; e qui, una donna starsene
solitaria e muta presso una lapida recente; e là, al piede d'un'altra,
due giovanette pari d'età e di sembianza, che sembravan gemelle,
spargere pochi fiori e piangere senza ritegno.

Maria, la nostra orfanella, s'aggirava anch'essa nel sacro terreno; ma
non cercava una croce, perchè questo santo segno non era stato posto
per distinguer dall'altre la fossa della povera sua madre. Pure, essa
conosceva quella zolla, ignota a tutti, cara a lei sola; essa aveva
veduto scavar quella terra, l'aveva visitata, quando nessuno era
passato ancora a calpestarla; e di poi, quando un'erba verde e fresca
la ricoperse, era tornata spesso a pregare colà; ell'amava quel breve
palmo di terra, e amava le bianche pratelline che lo smaltavano.

In quel dì solenne, Maria aveva speso i piccoli risparmi del suo
guadagno per far celebrare una messa di suffragio per l'anima di sua
madre; e poi era venuta a visitare un'altra volta quell'angolo santo,
a ripetere una di quelle orazioni, delle quali non è parola che non
salga nel cielo. Era là, in ginocchio, con la persona abbandonata
mollemente e come stanca; e lasciando cadere sul grembo le mani
intrecciate, rivolgeva al cielo la faccia, in quel soavissimo atto
in che il Bartolini ha scolpito la sua divina statua della Fiducia in
Dio. Affissandosi alla lontana dimora de' cieli, le pareva che l'anima
di sua madre potesse di lassù vederla, e che ancora le benedicesse; e
in fondo del suo cuore, mista alla dolcezza di quel sacro dovere, si
risvegliava una segreta fidanza, una virtù tranquilla, che il Signore
non l'avrebbe abbandonata mai. Il solo pensiero che in quell'ora
dolorosa le fosse grave era quello di non sapere in qual altro canto
di terra avessero portato a riposare per sempre lo sventurato suo
fratello, di non potere almeno spargere qualche lagrima là, dove forse
nessuno mai aveva detto un _requiem_.

Così, benchè sola al mondo, la povera orfana ritrovava ancora la pace
nel sentimento religioso dell'innocenza e nella memoria de' pochi che
l'amarono! Così, il ricordarsi di quel primo affetto, che sull'alba
della vita era stato per essa un amaro disinganno, non la turbava
più; non era che un'idea di tranquilla rassegnazione, o un sospiro
di timida speranza! Anche il pensiero, che spesso l'assaliva, d'esser
predestinata a morir giovine, allora non aveva più spavento per lei;
era anzi come la mesta aspettazione di chi non vede l'ora che sia
adempita una promessa. Essa aveva già assaggiata l'amarezza d'altri
contrasti e d'altre angustie, in quel breve tempo ch'era passato dopo
la misera morte del fratello e della madre; e nessun legame più l'univa
alla terra.

Angiola Maria, dopo perduta la madre, restò per qualche settimana
ancora nella casa della signora Giuditta la vedova del maggiordomo;
e visse colà abbandonata, ma paga almeno di poter nascondere a tutti
il travaglio del suo cuore. Ma quando, a poco a poco, il dolore
si fece un po' quieto, e la mente tornò a' pensieri della vita e
dell'avvenire, allora conobbe che anche troppo a lungo la vedova s'era
pigliato carico di lei, e ch'ella, giovine e fresca com'era, doveva
oramai cercare altrove di che vivere con la fatica delle sue mani.
Sulle prime deliberava di tornarsene al paese, dove confidava di poter
ancora compire onestamente i suoi pochi dì. Ma poi, non ebbe cuore di
abbandonar così presto quel luogo dove suo fratello e sua madre eran
morti, e dov'essa aveva amato e sofferto.

Una mattina dunque, prese il buon punto che la sua vedova amica,
la quale, come sapete, era una donna piena di buona volontà per il
prossimo, doveva andarsene non so dove, per certa raccomandazione; e
arrossendo con una vezzosa modestia: — Ho a pregarla anch'io di una
cosa, signora Giuditta, ho a dirle....

— Cosa volete? dite pur su col cuore in mano, la mia figliuola!....
Così la vedova, dopo la morte di Caterina, era solita di nominar
l'orfanella, come una pietà segreta le suggeriva.

— Ecco qui, diceva Maria, lei ha fatto anche troppo per me; e io vedo
in vece di non essere al mondo altro che un peso a quelli che m'han
voluto bene... Ah sì, di quanto disturbo, di quant'angustia le siamo
state causa noi, la mia povera mamma, e io massimamente! Oh così
potessi almanco fare anch'io qualcosa per lei!... Ma pur troppo; non
posso altro che tenermi nel cuore il bene ch'ella m'ha fatto, e pregare
il Signore, che a lei ne renda altrettanto....

— Oh! non istate a dir così, poverina, chè avete sofferto anche troppo;
e io non ho potuto far niente per voi....

— Lo può far adesso, signora Giuditta. Gli è un pezzo che ci penso,
e capisco ch'è una vergogna... Buona come sono a guadagnarmi quel
poco che mi può bastar a vivere, non devo star qui, come fin adesso,
d'incomodo a lei e di bene a nessuno... È ben vero che fuori di lei
non ho più chi pensi a me, non ho più a cui pensare: ma, tant'e tanto,
ho risoluto d'allogarmi in qualche maniera, di mettermi a qualche
servizio. Dica lei stessa, se non è vero che così fo bene?...

— Sì, la mia figliuola! avete un cuore, che dirlo è poco; ma v'andate
cruciando a torto, e dovete star con me.

— No, no: è già troppo gran tempo, le ripeto; o non bisogna da vero che
la vada così, perchè n'avrei sempre rimorso in cuore....

— Ma cosa pensate dunque di fare?

— Le dirò: prima volevo quasi tornarmene al mio paese, chè là forse
potrei ancora trovar qualcheduno che si ricordasse di me; ma poi,
venuta al punto di dir addio per sempre a questo luogo, dove avrei
dovuto lasciare tutto quanto io aveva di caro, non ebbi forza di farlo;
chè quasi mi pareva di perdere per la seconda volta la madre mia. Oh la
mi compatisca, signora Giuditta! chè, in verità, c'è de' momenti, ne'
quali non so nemmen io perchè sia ancor qui! Ho pochi anni, è vero...
ma, adesso, che ho a fare a questo mondo?...

— Oh vi compatisco sì, ma certe cose non bisogna poi prenderle tanto
sul serio, perchè staremmo freschi allora! Già lo so che avete la
testina un po' guasta.... È stata una gran benedetta signora quella
nostra padrona! e coll'avervi tenuto con sè ne' vostri primi anni e
fatto imparar a leggere e scrivere troppo presto.... Vedete, certe idee
che avete voi, io non le ho mai avute, nè anche in sogno.

— Ma, lei è buona, e non m'abbandonerà così! Per carità dunque, lei
che conosce tante brave persone, mi raccomandi a qualcheduna: chè mi
trovino un posto qualunque, un luogo, un servizio, tanto che mi dia
come poter campare questi dì che m'avanzano; io cerco poco, e purchè,
come le ho detto, non abbia a darle più questa noia, io m'accontento.

— Lo farò, Maria, se voi lo volete, lo farò: oh vivesse ancora la
buon'anima di mio marito! quello era un uomo di proposito; ha servito
sempre delle eccellenze..... ah! ma saran quasi vent'anni ch'è
morto!...

— O signora Giuditta! una buona parola soltanto, a qualche pia dama,
a qualche signora.... può valer molto; e io la terrò come un nuovo
benefizio.

— Bene, sì! parlerò, vi prometto, lasciate pensare a me... Andrò questa
mattina stessa dal signor canonico ****, ch'è un bravo, un sant'uomo, e
che conosce tutti gli ottimi signori di Milano.... Ma, non credeste mai
che non vi volessi più in casa mia!...

— Oh perchè, dopo tutto il bene che m'ha fatto, mi vuol dare questa
mortificazione? No, no! l'assicuro, signora Giuditta, quel che le ho
detto è il più vivo desiderio che mi sta in cuore!

— Dunque farò come volete, e quando prometto io... — E fattole una
carezza, se n'andò.

Benchè la Giuditta fosse una donnicciuola sincera, e avesse, per dir
vero, fatto qualche bene alla nostra fanciulla e a sua madre, nella
passata loro strettezza, pure non intendeva di prendersi sopra di sè
il peso di quella giovine; la quale, secondo lei, aveva mani e braccia
come tutte l'altre, e non era che un po' ammalata di testa. E poi,
siccom'essa era sempre stata avvezza a quel monotono andare di vita, a
quel piccolo inerte egoismo d'una vecchia governante pensionata, così
quel gran guai ch'era sopravvenuto al povero vicecurato, le era parso
un pensier del malanno, un garbuglio, un finimondo. Far del bene al
prossimo, sì — pensava la Giuditta — quando per l'altrui bene non ci
vada il nostro, la salvezza dell'anima, come andrebbe qui; perchè la
cosa è seria e brusca.... E se la Caterina era una buona donna, e se
la Maria è una tosa d'oro, c'è però di mezzo quella storia scura del
prete, che non ho mai potuto capire, e di cui ho fatto bene a tacer
sempre, come m'aveva saviamente consigliato il signor Giosuè.

Ella dunque non lasciò fuggir l'occasione: la stessa mattina, appena la
fanciulla le ebbe spiegato il suo cuore, trottò diritto alla casa del
signor canonico; e, trovato il modo di parlargli, narrò la disgrazia
dell'orfana, e lo scongiurò, con una litania di lamenti, che la
pigliasse sotto la sua protezione. Egli le promise di far qualche cosa,
e durò gran fatica a rinviarla, chè la non finiva più di piagnucolare.

Passati alcuni dì, la vedova ritornava alla porta del canonico, il
quale non era in casa; ma essa, con la pazienza di chi vuol ottenere
a qual si sia costo, l'aspettò due lunghe ore. Alla fine il canonico
comparve, e veduta che l'ebbe farsegli vicino e attaccarsegli alla
zimarra, — Siete una benedetta donna, le disse, ve l'avevo pur detto
d'aspettare che vi facessi avvertir io stesso! Ma via, poi che la vi
preme tanto, dite a questa vostra giovine che la si presenti, domani,
verso mezzodì, alla signora marchesa ****, alla quale ho già parlato
di lei; vedrò d'esserci anch'io, e faremo di trovarle un destino.
Domani.... a mezzodì.... avete inteso?

— Oh quanta carità, signor canonico! Lei fa da vero un'opera santa! —
E si chinò per baciargli la mano, ch'egli, per modestia, nascose nelle
pieghe della zimarra.

— Sì, sì: andate, la mia donna, e ringraziate Dio che ci sieno ancora
al mondo persone caritatevoli. — E passò innanzi.

Non è a dire quanto lieta tornasse a casa la vecchia Giuditta, con
questa novella; lieta, perchè nel riuscirle di metter via, com'essa
diceva, una giovine onesta, le era pur concesso alfine di racconciarsi
nella sua pace casalinga, salvando l'opinione della pietà. Appena pose
il piede sul suo limitare, non potè trattenersi dall'abbracciar la
giovinetta, dicendole: Lo sapevo ben io, che quel brav'uomo del signor
canonico non promette per niente! Non ve l'ho detto, ch'egli avrebbe
subito trovato dove allogarvi?.... Ebbene, la cosa è fatta: domattina
vi presenteremo alla marchesa ****, ch'è una gran signora, una dama che
ce n'è poche come lei, una di quelle sul far della mia povera padrona,
delle quali pur troppo s'è quasi perduta la stampa; mettetevi nelle sue
mani, e al resto non pensate; è il caso vostro, e ne son contenta per
voi!....

— O signora Giuditta, quanto le devo mai! Queste sue parole danno la
vita, e io ne la ringrazierò e benedirò sempre.

E Maria passò quella giornata nel rassettare il suo miglior vestito,
apparecchiata da quel momento a mettersi per la via che la volontà del
Signore le destinasse.

Il giorno seguente, al primo tocco del mezzodì, le due donne si
trovavano alla casa della marchesa, poichè la Giuditta s'era messo
in capo di volere ella stessa presentarla a quella dama. Entrarono in
uno di que' vecchi palazzi, che portano un nome storico, e de' quali
pochi avanzano nella nostra città; uno di que' palazzi che, in mezzo
alle nostre moderne case dalla fronte gretta e linda, dalle molte
finestre e da' leggeri terrazzini, mostrano ancora la pesante e soda
struttura d'un secolo e mezzo fa, il gran frontone della porta, i muri
intonacati di sasso nericcio, i radi e ampii finestroni con le loro
fosche invetriate e gli enormi davanzali: appunto come appare talvolta,
in mezzo a gaia gioventù, uno di que' zazzeroni sessagenari che non
si sono ancora emancipati dalla coda e dalla polvere di Cipri, nè
dalle grosse fibbie d'argento alle scarpe, nè dai due tondi orologi di
Bordier con le catenelle d'acciaio a pendaglio sotto la giubba larga e
quadrata.

Per uno scalone, che pareva il vestibolo d'una chiesa, salirono al
quartier della dama. Un vecchio servitore, infagottato in una livrea
orlata di passamano turchino, ricevette le due donne in una vasta
anticamera; e le fece di là passare nell'attigua galleria lunga e buia,
dove stettero ad aspettare il buon momento di presentarsi alla signora
marchesa. E passata una mezz'ora, che a loro parve eterna, una gran
scampanellata destò gli echi di tutti que' cameroni, e fece batter
più forte il cuore delle due donne, avvertendole che il buon momento
era venuto. Quello stesso vecchio servitore attraversò la galleria,
borbottando fra le gengive, e scomparve dietro una porta rivestita di
flanella verde; ma indi a poco tornò, e tenendo aperto l'usciale che
metteva alle stanze interne, fece segno alla giovine che lo seguisse;
e lasciò la vecchia, dispettosa di quel complimento, a contemplare a
suo grado i seggioloni d'alta spalliera che fiancheggiavan le pareti,
le facce torve e barbute di que' quadri neri e le soffitte di legno di
noce a cassettoni dell'antica galleria.

Benchè il passo della fanciulla fosse tremante, e più tremante il suo
cuore, nell'attraversar le due sale che conducevano al gabinetto della
sconosciuta dama, pure rassicuravasi pensando, che quella signora,
s'era vero ciò che la vedova le aveva detto, doveva esser buona e
pietosa; e rammentava la prima sua benefattrice, la contessa Anna; ma
tanto aveva sofferto la poveretta, che non confidava più di trovar chi
potesse amarla adesso, com'era amata allora.

Quando il servitore ebbe aperto l'usciuolo del gabinetto, s'intese di
là entro una voce: — Venite pure, quella giovine, venite; la signora
marchesa ha la degnazione di ricevervi.

Ella entrò, in atto rispettoso, fece alcuni passi, e modestamente
sollevò gli occhi. La marchesa era seduta sur un canapè rivestito d'una
copertura di seta gialla, scendente fino al suolo e foggiata a guisa di
cortine; tutto il gabinetto e il rimanente della suppellettile era pure
tappezzato d'una stoffa gialla, a grandi screzii e fiorami, riquadrata
entro cornici sottili, dorate, adorne de' più bizzarri fregi, intagli e
ghirigori, che avrebber fatto la maraviglia de' nostri moderni amatori
dell'arredare antico. Parea e malinconica penetrava la luce per l'unica
finestra del gabinetto, di sotto a' lembi semiaperti di due tende di
damasco verde, rischiarando a pena un quadro sacro di fresca data, che
pendeva su l'opposta parete, in una gran cornice nera a trafori; il
ritratto d'una santa vergine e martire.

La signora marchesa mostrava nell'aspetto la dignità d'un buon mezzo
secolo compiuto; e benchè altri non fosse con lei che il signor
canonico, suo direttore spirituale e amico di casa, pure la si teneva
ritta e dura su la persona, con la faccia secca, grinzosa, e acuto il
mento, e le braccia strette a' fianchi e distese sul grembo, come si
disegnano le sfingi. Una cuffia bianca di ricchi merletti a cannoncini
le s'impadiglionava su la testa e proteggeva due ciocche di capegli
biondi artificiali; uno scialle nero le copriva le spalle magre e la
persona; e i suoi piccoli piedi, che forse erano stati la disperazione
de' ballerini dell'aristocratico _minuetto_, spuntavano appena dal
lembo della sua sottana color di nocciuolo, per appoggiarsi sur uno
sgabelletto di cannucce. Sul tavolino che le stava dinanzi, era un
monticello di libri co' dossi e fogli dorati, volumi superbi al di
fuori ma umili e pietosi al di dentro, un calamaio di cristallo co'
becchi del pennaiuolo d'argento, posato su d'un fascio di lettere e
carte, e un vassoio d'eguale fattura.

Il canonico, che le sedeva a lato, finiva allora di succhiar la
consueta cioccolata sul dipinto labbro della chicchera, e per una sua
vecchia abitudine ne risciacquava il fondo coll'acqua cedrata: egli era
in veste talare, secondo il suo costume per le visite della mattina;
delle quali la prima era appunto per il buon cioccolate della marchesa.

Due lunghe, uguali e scrutatrici occhiate, della marchesa, vo' dire,
e del canonico, furono il primo interrogatorio che subì la fanciulla;
e bastarono a rapire al suo cuore la poca fiducia con che veniva,
e ad agghiacciarle su gli occhi una lagrima di gratitudine, che già
v'era spuntata. Essa cercava invano sul volto bianco e arcigno della
severa dama un ricordo della simpatia e del sorriso della buona e mite
contessa, ch'era stata la sua seconda madre. Gli occhi piccoli e bigi
della marchesa, e le sue labbra sottili senza colore, e compresse
in uno stentato risetto, davano alla sua fisonomia un non so che di
stranamente pietoso, un'apparenza di compassata bontà. E bisogna dire
che l'esame di quelle occhiate non fosse molto propizio alla nostra
Maria, se le prime parole che la dama le rivolse, furon queste: —
M'avevano detto che una povera giovine cercava di raccomandarsi alla
nostra compassione; ma siete voi? vestita così come venite, m'avete
aria d'una damigella!

— Signora marchesa, mi perdoni! Io porto ancora questo vestito nero,
perchè ho perduto mia madre; nè mi pare ch'esso disdica alla mia umile
condizione.

— Però quel color nero fa spiccar la vostra fisonomia; siete un po'
pallida, ma bellina.

— Oh! mia signora, non mi mortifichi così!

— Via, non arrossite!... Ma lasciamo andar questo per ora, e veniamo al
sodo. Dunque, lei, signor canonico... E così dicendo volgevasi verso
di lui con un chinar del capo — lei, m'assicura da vero.... Perchè,
aggiunse fissando di nuovo gli occhi su la fanciulla lo dovete alla sua
raccomandazione, se acconsento a far qualche cosa per voi....

— Oh signora marchesa!... la prego, la prego... disse in atto d'umiltà
e di riverenza il canonico; già è la nostra parte, di noi altri preti,
quella di procurar il bene de' poveri. E quando s'ha la fortuna d'aver
a fare con dame illustri e pie, come lei, signora marchesa....

— Il male è, ripigliò questa, che pur troppo la nostra carità il più
delle volte è sterile: è il grano che cade in terreno sassoso, come
dice il Vangelo. Ma, parlando di questa giovine, spero che n'avremo
bene.... Dunque voi vi chiamate?...

— Angiola Maria ****. I miei parenti erano poveri, ma onesti.... e
adesso sono morti....

— Sì, sì, la solita storia; tutte dicono così! ma prima, spiegatevi:
v'adattereste a servire?

— Ah! rispose Maria con un profondo sospiro; non mi rimane altro
destino, bisogna ch'io sia pur rassegnata a questo.

— Eh! mi pare che abbiate il vostro piccolo orgoglio anche voi....

— Bisogna compatirla, mormorò il signor canonico; era usa a star
bene, e m'han detto che passò qualche tempo in una casa di signori
inglesi....

— Ah sì?... domandò strabiliando la marchesa; veramente, questa è
una circostanza che non mi piace niente affatto.... Ma chi vi mise in
quella casa forestiera?

— È stata una fortuna.... il caso.... io era la compagna delle
damigelle di quel signore; stetti alcuni mesi con esse, dopo che io le
ebbi conosciute sul lago; e fu il mio povero fratello....

— Vostro fratello? dunque voi avete un fratello?

— Io l'ho avuto.... Anch'egli è morto, signora. E qui non potè stare
di nascondere fra le mani il volto e le lagrime che quelle memorie le
chiamavano su gli occhi.

— E questo vostro fratello che cos'era? Così, con la freddezza di un
giudice che processa, continuava la marchesa il suo interrogatorio.

— Era vicecurato in un piccolo paese, a ***.

— Come?... come?... interruppe allora il canonico; e battendo la
tavola con una palmata, che fece sobbalzare a un punto il calamaio, il
vassoio, la tazza e i libri: sarebb'esso mai questo vostro fratello, il
prete Carlo ***?

— Egli stesso! proferì con fioca voce la sbigottita giovinetta, e chinò
subito sul seno la faccia, lasciando in quell'atto cadere il velo, che
prima aveva sollevato.

— Possibile?... oh vergogna!... scandalo!... orrore!... Signora
marchesa, signora marchesa, non ne facciamo niente.... io ritiro la mia
raccomandazione..... Non si può, la mia ragazza, non si può! So ben che
ci canzonate!

— Che cos'è mai? per amor del cielo! dica, signor canonico, si spieghi,
ch'io mi sento già venir fredda!... E la marchesa, sbarrando con
ispavento i suoi piccoli occhi, scuoteva la cuffia a gran rischio di
scompigliare le bionde sue ciocche.

Il canonico si levò in piedi, e delle braccia fatto arco su la tavola,
si chinò all'orecchio della marchesa, sfiorando quasi con le labbra i
merletti della preziosa cuffia; e le susurrò, in poche parole, non so
che mistero.

Ma quelle sue parole furono come un tocco di folgore. La marchesa balzò
in piedi anch'essa, con una ciera sdegnosa e stralunata; lanciò alla
povera tosa un'occhiata fulminea; ma poi, a poco a poco, si ricompose
nella prima dignità, e mutato lo sguardo dell'ira in quello della
gelida compassione: — Andate, povera giovine, le disse, andate! Io ne
sono proprio accorata, ma non posso far niente per voi... la cosa è
troppo seria. Voi forse non ne avete colpa, ma le leggi, il governo, la
religione, e la quiete della mia coscienza voglion così; è impossibile,
impossibile!....

Ciascuna di queste dure parole apriva nel cuore di Maria una nuova
ferita. Una maledizione le era dunque caduta sul capo, una maledizione
terribile, immeritata, che faceva altrui delitto la pietà verso
l'infelice orfanella? Era dunque l'infamia che pesava sopra il nome del
suo fratello, sopra quel nome innocente e caro? Essa tremava come se
fosse veramente colpevole; la sua mente si smarriva, nè so qual forza
la sostenesse in quella difficile prova. Ella s'avanzò con sommessione,
com'era venuta, verso la sdegnata marchesa; e timida arrischiò un
passo e tentò di baciar la mano di lei, per chiederle perdono d'averla
sturbata. Ma la pia e superba dama ritirò la mano, e la congedò
dicendo: — Mi rincresce, la mia ragazza, ma, per ora, non m'è concesso
assolutamente di potervi far del bene. Chi sa che col tempo....
Piuttosto, cercate ricovero in qualche casa oscura, in uno stabilimento
di carità, in un ritiro.... sarà meglio! E intanto tener lontano i
pensieri mondani, avvezzarsi alla modestia, al raccoglimento.... e
sopra tutto poi, alla rassegnazione. Quanto a me, vi prometto, che se
m'avverrà, spenderò forse per voi qualche buona parola anch'io.... ma
dipenderà dalla vostra buona condotta.

E così detto, si volse al suo fedele consigliero, e si mise a parlargli
in segreto e con gran calore.


Maria trovò nella galleria la vecchia Giuditta; la quale, rassegnata
ad aspettarla, erasi a tutto bell'agio accovacciata entro un gran
seggiolone del seicento, sotto i piè d'uno degli antenati della
marchesa; uno di que' cinquanta ritratti, con irti mustacchi, gorgiera
spagnuola, cappa bruna e brache gonfie e listate. E, come vide Maria,
le venne incontro con volto sereno, che voleva dire: E così? siete
contenta?

Ma la fanciulla, tutt'ancora confusa, le prese tremando la mano, e
stringendosi a lei vicino: — Andiamo, le disse, andiamo via! Oh lei,
signora Giuditta, è più buona di loro: lasciamo per carità questa casa,
le dirò tutto poi. — E partirono.


Fu dopo questo, e dopo un novello inutile tentativo appresso d'un'altra
caritatevole signora, la quale trovò Maria d'età troppo fresca
per poter far da cameriera a una sua figliuola che doveva andare a
marito, fu allora che la povera giovine accettava di collocarsi, come
ricamatrice, nella bottega d'una crestaia, una delle cento amicizie
antiche della signora Giuditta. E si tenne abbastanza fortunata, chè
almeno in quell'oscura vita nessuno le avrebbe rimproverato il suo
dolore e la sua misera condizione; nessuno sarebbe venuto ancora a
ripeterle all'orecchio una maledizione all'infelice fratel suo.

Così aveva passato già sei mesi nella povertà e nel lavoro, paziente
e tranquilla. Era come s'ella fosse morta per tutti; nessuno che
domandasse il suo nome, nessuno che le dicesse una parola amorosa, o
le avesse chiesto mai il perchè della sua tristezza. Anche la signora
Giuditta, da prima così premurosa, così affannona, pareva averla
dimenticata; poichè, appena le venne fatto d'appoggiare altrove la
fanciulla, non si lasciò più vedere. Non già ch'ella fosse senza cuore,
ma voleva respirare da quel gran trambusto avuto in poco tempo, chè non
s'era figurato mai potesse succeder tanto al mondo a una donna. Maria
però era venuta più d'una volta a visitarla, perchè essa non avrebbe
potuto dimenticar mai il più piccolo bene a lei fatto; e poi, quella
dimora era stato l'ultimo asilo della madre sua, innanzi che l'avessero
portata via, all'ospedale; era là, che il suo Carlo l'aveva condotta
in un giorno di fatale disinganno; era là, che essa l'aveva veduto
l'ultima volta.

L'onesta crestaia la teneva in casa sua, e le aveva destinata una
cameretta buia, a mezzo la scala, che prima serviva all'uso di
ripostiglio, e che rispondeva sur un cortiletto angusto e uggioso. In
quel bugigattolo altro non c'era che un cassettone, un letto povero e
basso, o piuttosto una grama materassa gettata su due panche nane, e
un piccolo scanno nella stradetta fra il letto e la parete. Una luce
morta, chiusa dal colore oscuro delle tettoie all'intorno, calando a
traverso de' piccoli vetri verdognoli della finestra ferrata, dava a
quell'umide pareti un aspetto più tristo ancora, e quasi di carcere.

Eppure la buona orfanella, allorchè si trovava nel misero asilo, dove
poteva pensare o piangere non veduta, credeva ancora d'esser libera;
essa, che un tempo temeva di restarsene sola, allora cercava, amava
il silenzio e l'ora solitaria. E quando, dopo l'assiduo lavoro della
giornata, ritornava alla tarda sera nell'abbandonata cameretta; e
quando in ginocchio a fianco del suo letto, chino il viso su le povere
coltri, offeriva al Signore il giorno ch'era passato; il Signore allora
spirava in quell'anima vergine l'alito della rassegnazione e della
pace. E poi, ella coricavasi col cuor libero e con la mente serena,
dormiva ancora i soavi sonni dell'infanzia. E l'angelo custode vegliava
certamente nella sua nube sopra il capezzale dell'innocente.


Così dunque Maria aveva passato sei mesi. E nel giorno de' morti era
venuta su la fossa della madre, fra i poveri e i buoni, a portare
anch'essa il tributo della sua orazione a quel Dio, che benedice al
dolore prezioso de' piccoli, e rasciuga le loro lagrime.



VIII.

LE ALUNNE DELLA CRESTAIA.


Se mai, al tramontar d'un bel giorno, quando, o miei giovani amici,
andate a zonzo per le vie della città, lasciando vagar la fantasia
dietro gli scherzosi buffi di fumo del vostro cigarro, vi siete fermati
presso la porta invetriata della bottega d'una crestaia; se mai vi
piacque d'andare sbirciando, con un'occhiata curiosa, la lieta scena
che presentano le giovinette operaie in quel laboratorio della moda, io
vo' scommettere che con un sorriso su le labbra e con un grillo nella
mente avete detto: — Oh il bel cespuglio di rose che paiono aspettare
chi primo le colga!... E poi forse, appoggiati alla spalla della
muraglia, dietro il prisma di que' tersi cristalli, vi sarete fermati a
rallegrarvi gli occhi nell'affaccendato crocchio delle belle fanciulle.
— E via col fumo del cigarretto, i più matti pensieri vi avran fatto
girare il capo, e sarete rimasti inchiodati là, senz'accorgervi
forse neppure degli urtoni e degli sgambetti di qualche frettoloso
passeggiero.

Un banco lucido, incorniciato, attraversa per il lungo quell'elegante
officina, coperto e ingombro tutto di scatolone aperte, di cartoni e
di cassette; sopra le quali sfoggiano spiegate le più aeree stoffe, i
più graziosi trapunti: i veli, i nastri, i mussolini, le sete danno al
luogo un non so che di fantastico, di nebuloso, come si dipingerebbe
il misterioso gabinetto d'una sultana delle Mille e una notti. Entro
per le scansie, che nascondono tutto il giro della parete, vedi pendere
in bell'ordine da lucidi piuoli le cuffie, le trine, i cappellini,
le berrette, le gorgierine increspate, i cappucci, e l'altre cento
maniere d'ornamenti che inventò l'arte capricciosa della donnesca
civetteria. In mezzo a quell'onda trasparente di veli e di tessuti,
spicca la sollecita figura della maestra crestaia, che mentre attende
a foggiare il merletto d'una cuffia, o il bizzarro galano dell'ultimo
cappello, leggiadra creazione delle sue cesoie, non perde però d'occhio
l'inquieto gruppo delle giovani alunne; le quali, sedute in giro alla
tavola de' lavori, sotto lo splendore d'una bella lampana di cristallo,
si van raccontando una all'altra in segreto le lor piccole confidenze,
i loro novi amoretti, e alternano intanto facili risa, motteggi e baie.

Sono sei o sette fanciulle, vispe, sollazzevoli, accorte una più
dell'altra, che tra l'agucchiare e il ricamare lasciano scappar certe
loro rapide e loquaci occhiate verso l'entrata; e poi, sorridendo e
guardandosi fra loro di nascosto, dan di gomito alla vicina, quando
alcuna arrossendo d'improvviso abbassi il capo sul suo lavoro, sia che
con la coda dell'occhio abbia veduto passar lungo la via il suo giovine
innamorato, o sentito il picchiar del suo bastone su lo scalino della
bottega, oppure distinto fra il continuo strepito del di fuori il noto
zufolare della sua arietta.

Una sola di quelle fanciulle se ne stava modesta e silenziosa, tutta
intenta al collaretto già mezzo ricamato che teneva fra le dita; e
mentre che le testoline irrequiete delle gaie compagne si volgevano di
qua, di là a ogni momento, ne' più leggiadri e furbetti modi, quell'una
s'inchinava in atto tranquillo e pensoso, quasi che fosse straniera al
sommesso cicaleccio dell'altre, a quel sì frequente scoppiar di risa
mal trattenute. Se non che gli occhi talvolta riposava, come incantati,
sul suo gentil ricamo; e allora essa non cuciva più, e la mano che
teneva l'ago, posava oziosa su le ginocchia. Bensì, di tanto in tanto,
le compagne le dicevano qualche lieta parola, o le facevano qualche
malignuzza domanda; ma essa non rispondeva che sollevando i suoi begli
occhi, aprendo appena le labbra a un leggero sorriso. E certo le amiche
non le avrebbero perdonato quella sua malinconica ritrosia; ma sapevan
tutte, che alla poverina non restava più nè padre, nè madre; e che non
aveva saputo ancora trovarsi un innamorato: per questo la compativano,
e la chiamavano Maria la novizia.

— Senti, Ghita! diceva alla sua vicina con segreto susurrio, la più
tristarella di quel gruppo, una piccola brunetta, che aveva un par
d'occhi di fuoco, e le guance paffutelle e colorite, come lo spicchio
di una melagrana. Senti, ma non dirlo nemmeno all'aria, per carità!
Gli è un pezzo che volevo parlarti di una cosa.... perchè, devi sapere
che sono stufa di non aver nessuno che mi guardi a me! Tu, o Ghita, e
Rosina, e Stella, avete pure il vostro amoroso; e me, non c'è anima che
mi cerchi...

La Ghita rideva a questa sincera confessione, e — Che vuoi che ti
faccia io? rispondeva sotto voce anch'essa....

E l'altra: — St! st! chè la maestra guarda verso di noi, e ne fa gli
occhiacci, che par quasi la ci voglia mangiare.

Pure, di lì a poco, si chinò ancora all'orecchio della compagna, e
ripigliò: — Dunque.... tu sei felice, Ghita! tu che la sera, appena
fuori di qui, trovi l'Eugenio, lì su' due piedi, che t'aspetta; e
subito gli dai di braccio, e ve n'andate in santa pace; ma io...

— Tu sei ancora una ragazza, o Luisa, rispondeva l'amica; hai quindici
anni appena, e non è più di tre mesi, che sei qui con noi.

— Che importa mai? Se son giovine, tanto meglio! Credo poi di non
esser così brutta che m'abbiano a metter in un canto come un cencio; e
non sono poi nè smorta come la Maria, nè losca come quella superba di
Carlotta....

— Abbi un po' di pazienza, che la capiterà presto anche per te la
fortuna; se non è venuta, vuol dire che non è adesso la tua ora.

— E io sento in vece che l'ora è questa... Ma ascolta una buona volta,
qual sia il piacere che mi devi fare....

— Gran segreti fra la Luisa e la Ghita! disse allora, battendo sul
tombolo la spoletta del suo ricamo, la Carlotta, che sedeva in faccia a
loro.

— Niente del tutto! E poi, che ne vuole saper lei, signora pretendente?
rispose la prima, indispettita.

— Oh! oh! come la ti fuma subito! Non si può dirti nulla! soggiunse
Stella, la sua vicina.

— Lasciatemi un po' stare, replicò Luisa più corrucciata ancora; e
in quella piccola ira, alzava con sgarbo le sue tonde spallucce: le
compagne la guardavano di sottecchi, e sogghignavan fra loro. — E
voglio dire e fare quel che mi piace, riprese poi, cogliendo il buon
punto, che la maestra dal suo banco stava mostrando ad una merciaia del
vicinato non so che fazzoletti di mussolino. — E se voi altre non mi
lascerete stare, ve ne dirò tante da farvi diventar rosse di vergogna,
dalla prima all'ultima, da farvi scappare!...

Tutte ridevano; Maria soltanto, con un'aria di dolce compassione, levò
gli occhi sopra di Luisa; ma questa, ostinata nel suo capriccio, si
trasse con la sua seggioletta più vicino alla fedel Ghita, e continuò:
— Ascoltami tu, che sei buona; voglio proprio dirti tutto, a marcio
dispetto di queste grazie sgarbate. Sappi dunque, che stamane ho veduto
passare di qui, più di due o tre volte, il tuo Eugenio, in compagnia
d'un altro; quest'altro io non lo conosco, ma mi ricordo d'averlo
veduto, e dev'esser suo amico.... Bene, questo bel giovine, perchè è un
bel giovine, sai?... mi pareva che mi guardasse me.... oh anzi, ne son
certa! E se tu fossi capace stasera di domandargli, all'Eugenio, chi
sia quel suo amico.... oh! ti vorrei far mille baci. Senti, mi dice il
cuore, che quel giovine passa di qui proprio per me. Egli è di bella
statura, ha una fisonomia così cara, ha certi baffetti biondi.... e
poi, un bel fare.... Oh! gli è sicuro un signore, e io muoio di voglia
di sapere se è per me.... se è lui.... Oh cara Ghita, lo farai a me
questo piacere, di', lo farai?...

— Sì, sì, ma se poi non fosse che un riscaldarti la testa!...

— Oh Ghita! tu non gli hai dato mente, perchè guardi sempre il
tuo Eugenio; ma io... Sai? gli è perchè mia nonna, non contenta di
recitar tutto il dì la corona, che in fine non è lei che m'ha fatto,
non ha voluto mai lasciarmi andar sola per le vie, e manda sempre ad
accompagnarmi, innanzi e indietro, quello stupido del mio fratello
minore, che fa il copista da un avvocato: se non fosse così, oh me la
spasserei ben alle spalle di queste cattive, che adesso ridon di me!
Quel bel giovine, che tu sai, m'avrebbe già parlato, e vorrei farne
crepar molte dall'invidia... Oh sì! vedi, perchè non son degni di
stargli a confronto nè il Colombo, quel malcreato che fa all'amore con
la Carlotta, nè il signor Antonio che parla alla Rosalia, e che avrà
i suoi buoni cinquant'anni... No, no, io nol vorrei cambiare il mio
amoroso, nè col Pietro della Clarina, proprio degno di lei, un giovine
di bottega; nè col contino pitocco di cui si vanta tanto la Stella, e
nemmeno quasi col tuo Eugenio; sebbene, bisogna dirlo, Eugenio li valga
tutti insieme. E io, credilo, io sarò sempre la tua vera amica....

— Senti, Luisa, rispondeva la Ghita a quell'inquieto cicaleccio: di
malizie n'hai da vendere, ma tant'è, io ti voglio bene, perchè sei
sincera; e gli domanderò....

— Sì, ma stasera, stasera. Lascia poi fare a me... Domani, quando mio
fratello verrà a prendermi, gli dirò che voglio accompagnarti a casa:
andremo insieme, e tu troverai l'Eugenio, e ci sarà anche l'altro...
Oh che bene! che allegria! non posso star cheta, solo a pensarci. — E
la tristarella rideva di cuore. Ma quel suo ridere risvegliò ancora il
motteggiar delle compagne.

— Oh! la è lunga stasera!... diceva una; e le altre: — Già, lei è
sempre la disturbatrice!

— Qualche gran mistero!

— Oh lo sapremo anche noi! la Ghita ne lo dirà.

— Sei pur buona tu, Ghita, a darle ascolto.

— Che si faccia sposa la Luisa? oh, oh!

— E chi volete che la tolga?...

Ma queste amare baie ferivano il cuore della Luisa, che girò una lenta
e torva occhiata su le compagne. E voleva rispondere, ribatter quelle
parole nemiche con più acerbi rimbrotti; ma ella arrossiva, e le sue
mani tremavano: allora lasciando cadere il collaretto increspato, a cui
avrebbe dovuto lavorare, appoggiò stizzita la sua piccola testa su la
tavola, e ruppe in un improvviso scoppio di pianto.

Maria, che sola era stata sempre silenziosa, sentì pietà della Luisa;
e quando questa, non trovando più armi contro la sorda guerra delle
pazzerelle amiche, finì a rispondere col pianto, ella s'alzò, le si
fece accosto, le strinse con affetto una mano; indi, rivolta alle
compagne, — Via, disse, siate buone! non vedete che vi riuscì di
farla piangere? sareste mo contente d'esser ne' suoi panni?... E poi,
che v'ha fatto mai, poverina? Su dunque lasciatela in pace, e fate
vedere che avete buon cuore. E tu, Luisa, non piangere! ti vogliamo
bene tutte, vedi! la è stata una burla; non àbbilo per male, o pensa
piuttosto che non c'è rosa senza spine, e che tu sei ancora felice di
non aver altri guai! Oh tu non conosci che si ha a sopportare a questo
mondo di ben più grandi travagli!

Ma la buona intenzione di Maria, e le sue miti parole fecero peggio;
perchè le fanciulle, dispettose del sentirsi ammonire da una che poco
amavano — Oh vedi! bisbigliarono fra loro, vedi un po' questa che vuol
far la dottoressa!

— E perchè se n'impiccia ella adesso?

— Eh la santarella! sentitela, che fa la dottrina cristiana....

— Taci, taci, Maria; si conta di belle cose anche di te, e non ci far
parlare.

Così la tempesta, che prima minacciava la Luisa, scoppiò in vece su la
buona Maria; la quale mortificata essa pure, tornava mutola a sedere.
Ed essendo in quel punto la crestaia scomparsa dietro l'uscio interno
della bottega, per salir alle sue stanze di sopra, quelle mordaci
cervelline non si tennero più, e si voltaron tutte contro di Maria.

In quella, s'intese il battere delle otto. Allora fu un cinguettio,
uno scoppiar di risa e di scherzi, un coro di vocine stridule e gaie,
una furia di smettere i lavori alla rinfusa, di gettar su la tavola
i guancialetti, le spole, le cuffie disfatte, i ricami su disegni
incartocciati, le cesoie, i ditali. E ciascuna delle fanciulle correva
a pigliare il suo cappellino di seta e lo scialle a scacchi o a
quadretti, e tutte in una volta assediavano la povera Maria, che sola
fra tutte era rimasta al lavoro. Pareva quel confuso cicalio che fanno
le passerette d'una colombaia, sul vespro d'un bel dì d'estate.

Diceva una: — Senti, Maria! tu, in fondo, non sei una cattiva pasta di
ragazza, ma vuoi far la gatta morta, e non ti sta bene.

E l'altra: — Non le guardate, ch'è marcia invidia che la fa parlare.

E una terza: — No, no; scommetto che sa fare anche lei il fatto suo, e
voi la chiamate la novizia! andate là, povere sciocche!... Chi diceva
così era la Carlotta, la più sguaiatella e la più brutta, alla quale
tutte si strinsero intorno, pressandola con cento interrogazioni.

— Ah sì, dici? anche lei, con quella faccia compunta? Ma contane dunque
qualcosetta, se ne sai!

— Ah! ah! son proprio contenta! Non l'avrei mai creduto; e come?... e
dove?...

— Sì, dilla su, com'è stata? dunque l'ha avuto anche lei il suo bello,
eh? altro che prediche, che amor del prossimo!

— Ah! l'ha avuto anche lei l'amoroso? Egli l'avrà piantata, e per
questo arrabbia che noi ce lo teniamo!... Oh conta, conta su!

— Ma io non so altro... ma non posso dire... E poi io nol fo per
vendetta, perchè io le voglio bene alla Maria... Così, ma inutilmente
rispondeva la maligna Carlotta, mentre tutte le eran d'intorno, e chi
per un braccio la pigliava, e chi le scuoteva un lembo dello scialle, e
chi le tirava i nastri del cappellino: pareva quasi giocassero a gatta
cieca.

Maria rivolse alle compagne uno sguardo in cui appariva più la
preghiera che il compatimento; ma quelle continuavano a ridere, a
chiacchiere con gran bisbiglio; e non vi fu che la Luisa, la quale,
forse per gratitudine, fattosele vicina, le disse all'orecchio: — Buona
Maria, scusami se tutto è per cagion mia!... E le diede un bacio di
cuore.

Certamente, il giuoco avrebbe preso mala piega, se in quel punto non
ricompariva la crestaia. La quale, veduta quella confusione, e intesa
quella strana armonia di risa e di voci, si fermò nel bel mezzo della
bottega, e girando un'occhiata lunga e severa sul crocchietto delle
inquiete alunne, che alla sua presenza s'eran ricomposte in silenzio,
umili, quatte e stupite, fece loro una solenne gridata, ch'egli era un
pezzo che non toccavano la compagna; e con questa le congedò una dopo
l'altra, che non vedevano l'ora d'andarsene.

La piccola Luisa fu l'ultima, poi che dovette aspettar che venisse il
caro suo fratello; e n'aveva tanto corruccio che dispettosa batteva
i piedi. Ma appena lo vide metter il capo dentro la porta invetriata
della bottega, strisciò una goffa riverenza alla maestra crestaia, e
poi subito scappò via, come un uccello.

Chi avesse avuto il capriccio di tener dietro a quelle farfalline,
n'avrebbe veduta una, appena fuor dell'uscio, pigliarsi al braccio
del bel giovinotto che stava ad aspettarla, avvolto, come il conte
d'Almaviva, nel suo mantello; un'altra andar sola sola, rasente la
muraglia, e via dilungarsi in mezzo della gente; un'altra poi, giunta
a capo della via, arrestarsi, e guardar con ansietà di su, di giù,
per ogni parte, in atto di chi cerca alcuno che non compaia; e questa
stringersi presso la compagna, raccontare cammin facendo i suoi gelosi
misteri d'amore; e quella dare una scrollatina di spalle e raddoppiare
i passi, se avveniva che qualche mal capitato zerbino le augurasse
la buona notte o le stendesse la mano indiscreta; in somma, una di
quelle scene tra il chiaro e l'oscuro, così deliziose a' nostri giovani
eroi che vanno in volta per la città, paladini notturni, in traccia
d'amorose venture, come i bracchi dietro l'acceggia.


In quella sera, quando si ritirò nella sua camera abbandonata, Maria
benedisse il cielo di poter finalmente lasciar libero sfogo a' suoi
sospiri. La sua mente era più che mai agitata da mille immagini
dolorose; ma soprattutto l'angustiava un dubbio, un sospetto, un
pensiero spaventoso, ch'ella non osava confessare al suo cuore.

Si pose a sedere; meditava a sè stessa, alla sua vita, e le pupille
le si gonfiavano di lagrime. La folle allegria delle compagne,
i loro ghiribizzi, que' motti, que' consigli facili e maliziosi,
non rispondevano al suo costume timido e dolce, alle sue dolenti
ricordanze; ella si accuorava di dover tacere sempre, di vedersi
negletta, perchè non aveva il cuore come l'altre; pativa di non esser
amata, e pur pensava ch'essa non avrebbe potuto confidarsi a nessuno.
Ma tutto questo era ancora nulla; il peso della sua vita essa l'aveva
portato in silenzio e con rassegnazione fino a quel dì; e in quel
dì appunto, un'improvvisa circostanza bastò a risvegliare nel suo
cuore appena riposato un'antica e terribil guerra. — Quella stessa
mattina, un giovane era passato più d'una volta dinanzi la bottega (se
vi ricordate, i furbi occhietti della Luisa l'avevano ben notato),
e Maria, nel gettare uno sguardo involontario su la via, lo vide
anch'essa, lo conobbe... Era desso, era il suo Arnoldo! — Le parve
ch'egli pure la conoscesse; le parve che gli occhi di lui si fossero
scontrati ne' suoi... E poi non si ricordava più di nulla; essa non
l'aveva più veduto.

Fu un sogno, un'illusione?... No, no, l'anima sua era troppo in pace
nel punto ch'egli passò, perchè quella vista fosse un inganno de'
suoi pensieri. Già il rivederlo aveva rinnovato tutti i dolori della
sua vita, e vinto il suo cuore; il rivederlo sola una volta bastava a
rapirle di nuovo la calma e la forza in tutto quel tempo riavute, la
memoria stessa di sua madre, e quella di tutto il pianger che aveva
fatto... Ella ebbe ancora un momento, un solo momento di speranza e
di gioia! — Ma come si trovava egli qui?... E perchè tornava, e che
voleva da lei? Dunque non era tutto finito fra loro, non erano come
morti l'uno per l'altro? Non era dessa la povera orfana, alla quale non
restava più nulla in questa terra, più nulla fuorchè la virtù?

Questo segreto patimento, che solo un'anima pura e addolorata può
intendere, tolse a Maria il sonno di quella notte. Ma al mattino,
quando appena per le fessure delle imposte il primo chiarore penetrò
nella misera stanza, essa, lasciato il suo letto, fece una preghiera
più fervida dell'usato; e quando si levò di terra, la sua deliberazione
era già presa. Salì serena e composta, come soleva, alle camere della
crestaia; e quando la seppe levata, bussò leggermente all'uscio di lei.
La buona donna aveva preso ad amarla; cosicchè, sentita appena la sua
voce, la fece venire a sè e le dimandò che volesse, dandole animo a
parlare. La fanciulla rispose aver un segreto a scoprirle e una grazia
a chiederle; si trattenne un pezzo con lei e le aperse tutto il suo
cuore.

Quella mattina, ella non discese nella bottega, e la sua seggiolina
rimase vòta: le compagne n'ebbero gran maraviglia e bisbigliarono fra
loro mille congetture di quest'improvvisa assenza: per tutto il dì non
parlarono d'altro, nemmeno de' loro amorosi. Poi, la mattina appresso,
la crestaia annunziava alle curiose alunne che Maria era partita di
casa sua; ma per tentare che facesse or l'una or l'altra, affine di
aver la chiave di quel segreto, non riuscirono a nulla; la brava donna
mantenne a Maria il silenzio promesso.

Alla fine, quando fu venuta la sera, le fanciulle, prima del rintocco
delle sospirate ott'ore, svolazzarono fuor della bottega; e ciascuna
ebbe a raccontare al suo fedele la storia della scena del dì passato e
della compagna scomparsa.

Noi lasceremo le altre, e terrem dietro con passo leggiero alla Ghita,
la quale camminando stretta stretta al braccio del suo Eugenio, gli
parlava con quell'ingenuo cicaleccio che nelle giovani crestaie ha
pur il suo vezzo. Perchè, se nol pensaste, la Ghita era una buona
ragazza, fresca come un botton di rosa, un po' capricciosetta ma
savia; essa, quantunque alunna d'una crestaia, era graziosa e onesta;
e le piaceva ch'Eugenio l'accompagnasse, perchè, poverina! aveva
tanta paura di correr sola le vie; nè il suo innamorato poteva ancora
vantarsi d'averle mai carpito un sol bacio. Egli poi, l'Eugenio, era
un giovine come ce n'è tanti, allegro, buon tempone, ma di cuor mite e
sincero; e benchè facesse all'amore per non saper fare di meglio, pur
egli credeva ancora all'amore. Unico figlio d'un vecchio impiegato di
scarse fortune, egli era scritturale in una buona casa di commercio.
Una mattina, stando solo al terrazzino gli venne veduta, al terzo piano
della casa dirimpetto, una giovine, la quale inaffiava due vasetti di
fiori su la sua finestruola; stette a contemplarla lungamente, e gli
parve bella: era Ghita. E poi, quando la fanciulla uscì, le si mise
dietro, la seguitò come la sua ombra fedele, e così fece per un mese.
Passato il quale, essa non ebbe cuore di far la ritrosa, chè se n'era
accorta; un giorno, rispose al saluto del suo bel vicino, il giorno
appresso gli concesse un'occhiata e un bel sorriso; poi venne una buona
parola, e poi se n'andarono in compagnia; sicchè il povero giovine, a
poco a poco, s'innamorò da vero della fedele sua dea del terzo piano.

— Senti, mio caro! diceva in quella sera Ghita all'amico. L'altro dì,
tu m'hai raccontata la storia d'un bel giovine forestiero, quello...
del nome non mi ricordo più... quel bravo giovine con cui t'ho veduto
passar più d'una volta. Tu m'hai pur detto ch'egli voleva sposar la mia
compagna, la Maria, che gli piaceva tanto da un pezzo; ma che poi tutto
era ito a monte, e non s'erano più veduti, e...

— Sì, rispondeva il giovine, or bene? avresti forse detto alla tua
compagna, che l'amico suo è qui e che a qualunque costo vuol parlar con
essa?

— No, no; t'avevo promesso di tacere, e ho taciuto.... benchè avessi
una tentazione, a dirtela schietta, di mostrare che sapevo tutto
anch'io, e di farla arrossire un po' quella Maria, ch'è un'acqua morta,
e fa l'innocentina...

— Via, che vuoi dirmi dunque, che mi fai gli occhietti?

— Io voleva dirti che tu non mi vuoi bene, che sei un cattivo arnese,
e non avresti cuor di fare come quel tuo bravo amico, che vuole un ben
dell'anima alla Maria...

— Di far che, maliziosa?

— Di sposarmi, signorino! gli susurrò all'orecchio, con una graziosa
moina. Tu non m'hai promesso ancora, ma lo farai, non è vero? quando
sarai padrone del fatto tuo; perchè adesso sei un buon giovine, e
null'altro, com'io una buona tosa...

— Tu sei una matterella, e appena fuor del guscio, pensi già...

— Oh se tu mettessi un po' di giudizio, mi sposeresti...

— Non mi parlar di malinconie, o ch'io ti pianto qui su' due piedi.
Dimmi piuttosto, che c'è di nuovo di Maria, perchè mi preme di
sapere...

— Oh vedi! una certa idea me l'aveva fatta già dimenticare. Maria
dunque, Maria non c'è più!

— Come non c'è più? dici da vero?

— Se n'è andata, e non si sa come, nè dove...

— È fuggita?...

— Chi lo sa? Certo, la cosa non è chiara; ma io credo ch'essa non ne
voglia saper altro di quel tuo amico; perchè io ci vedo, sai? Oh la
è così; essa l'avrà riconosciuto, quando passava con te per la via; e
per paura di far dire, e per non voler anche lei adattarsi come tutte
l'altre, avrà pensato di schivar l'occasione e di fuggire...

— È impossibile! e perchè dunque? e dove mai?

— Io la conosco quella giovine; ha le idee storte, certe fantasie,
ch'io non so propio quel che la si peschi. Figurati, non fa che
pensare o piangere; se parla, se ride, è un miracolo... Io per me, la
compatisco, poveretta! così giovine, e non aver più nessuno; ma, suo
danno, se la è così semplice da scappar via quando c'è chi l'ama, la
cerca... e di più la vuole sposare! Non è egli vero, ch'è peggio per
lei?

— Sì, sì! Ma intanto, come farò a dirlo a lui? Non so, da vero, come si
possa esser matto, incocciato così per una come lei; e venir apposta
d'Inghilterra e star un mese a cercarla... Io per me, a quest'ora
l'avrei già mandata... dio sa dove!

Ma essi, allo svoltar della via, si guardano indietro, camminano
con passi così presti e spessi, e si parlan così davvicino, ch'è
impossibile seguitarli ancora e rubar loro le parole... E poi, il più
ladro mestiero della terra!

Lasciamo dunque che la giovine coppia se ne vada in pace per la sua via.



IX.

SPERANZA E DUBBIO.


Nel salotto d'un modesto albergo della città, un giovine passeggiava
su e giù, coll'andar lento, interrotto di chi è preoccupato da profondi
e importuni pensieri. Nel camino ardeva scintillando un fuoco vivo, un
di que' cari fuochi così salutari che ti sciolgon le membra da' brividi
de' primi freddi del dicembre; eppure, benchè un nebbione fitto fitto
impregnasse l'aria e le vie de' suoi vapori, la finestra della stanza
era aperta, spalancata; come si suol fare a' primi soli d'aprile.
Il giovine teneva le braccia incrociate sul petto e gli occhi fissi
all'angusto spazio di terreno che misurava co' passi; e in mezzo a'
pensieri lasciavasi sfuggir di bocca ora un lamento, ora una parola di
dispetto, secondo che lo vincesse impazienza o dolore. E poi, quasi
per togliersi a quell'ostinato meditare, s'avvicinava alla finestra,
e appoggiato alla soglia se ne stava a contemplare con occhio muto la
gente, le strade, le case e il sole biancastro e senza raggi attraverso
a quel velame di nebbia, che gli somigliava alla scena d'un sogno.

— Eccomi solo! egli pensava: solo, abbandonato a ventitrè anni, tristo
come un colpevole, inutile ad altrui, a me stesso!... Povera mia vita,
povero mio cuore, che siete mai? È questa la felicità ch'io cercava, la
verità, la pace di cui tanto aveva sete l'anima mia?... Benchè giovine,
la vita mi costò a quest'ora troppo duro saggio; ma, a questo mondo,
ciò che patisce il cuore soltanto, non si conta per nulla, l'ho perduto
tutto, tutto; e non mi resta nemmeno il ricordarmi del passato senza
sgomento e senza rimorso. È egli possibile che mio padre, il vecchio
mio padre m'abbia maledetto?... Gran Dio! sostieni l'anima mia, dammi
la virtù, di soffrire, o ch'io mi perdo!...

— E gli uomini?... essi che non credono e non vivono che per il
fatto, eterni schernitori d'ogni entusiasmo, d'ogni sacrifizio,
d'ogni patimento dell'anima, mi volgon le spalle, mi tengono a vile,
mi chiamano stolido, e fors'anche infame!... No, no! io fui, io sono
più forte di voi tutti! Sia ciò che vuole, la voce della coscienza,
la necessità dell'avvenire, l'infinito desiderio della verità gridan
più alto di voi; e io vi disprezzo. Ho ben già fatto ancor più; a
questa immensa speranza della verità ho sacrificato la canizie di
mio padre, il pianto delle mie sorelle, il mio nome, la gloria e gli
agi che il mondo m'aveva promesso, tutto, la religione stessa della
mia famiglia!... Pure, per gli altri, io sono un uom fiacco, uno
spirito vile, un imbecille. E qual è la mia colpa? Quella d'aver osato
confessare apertamente, in faccia a tutti, di credere!... A che mi
valse dunque la lotta lunga, penosa del dubbio? E se fu un martirio,
perchè non ne ho io trionfato ancora?... Io sono cattolico! l'ho detto,
e gli amici miei risero; ho creduto alla fede che m'insegnarono la
semplice eloquenza d'un santo, l'amicizia d'un giusto, l'amore d'un
angelo; ed essi risero!... Oh dolore, in cui v'ha di che maledir
l'intelletto, e di sospirar di finire!

— Io aveva tanto bisogno di riposo, eppur sento che il mio cuore
sostiene ancora una fiera guerra. Se ritorno coll'anima su la vita
passata, mi ricordo che a quindici anni io contava già amari giorni;
che talvolta io mancava sotto il peso della noia, e tal altra la mia
mente perdevasi nell'infinito. Ma almeno allora io poteva piangere...
Oh perchè la povera mia madre mi fu tolta sì presto! Io avrei vissuto
dell'amor suo, dell'amor suo, unica virtù di tutta la mia vita!
Oh perchè mio padre fu sempre così avido di grandezze, e io così
indifferente a ciò che chiamasi gloria e fortuna?... Se una passione
cieca, violenta m'avesse trascinato, come tant'altri ch'io vidi e
conobbi, sarei forse meno infelice che adesso non sono. Io non so
qual condanna s'aggravi sul mio capo; ma so che ho sofferto, ho veduto
piangere e soffrire quei pochi che mi amarono... No, no! gli è meglio
ch'io discacci questi dolorosi pensieri...

E tornava a passeggiare, e l'anima cupa gli si leggeva su la fronte
sdegnosa; i suoi passi erano più concitati, e gli occhi torbidi e
irrequieti, segno della tempesta che dentro sopportava. Alia fine
rimase per qualche tempo immobile, come se i suoi pensieri tacessero;
poi si gettò sopra una seggiola, abbandonò gravemente il capo fra le
mani, appoggiandosi alla tavola ch'era presso il camino; e di nuovo
s'immerse nelle più scure fantasie.

— È impossibile! il mio cuore non ha più che un'illusione sola...
Quell'oscura fanciulla, l'unica che, io abbia amato coll'anima mia,
l'unica che non abbia ardito confidare il suo al mio affetto, e che
pure mi ha amato, anch'essa m'abbandonò, non è più qui! Dunque non la
vedrò più, io che sperava di trovar vicino a lei una pace che per breve
tempo ho pur gustata, in que' pochi giorni fuggitivi, i soli giorni che
con dolcezza io richiami!...

— Buona e povera Maria! anche tu hai portato il peso del dolore, ma
pure fosti meno sventurata di me. Non sono io sulla terra solo, al
pari di te? ma tu vivi ancora la tua vita pura e tranquilla, non hai
il cuore turbato dalle tempeste che agitano il mio; l'affanno t'ha
oppressa, ma le tue lagrime sono silenziose e care, sono le lagrime
della virtù e della rassegnazione: io in vece non posso piangere, e
se piango, non son lagrime di conforto, ma di disperazione!... Oh le
mie notti! le ore terribili della notte così gravi e mute, e piene di
fantasmi! È allora che la mia mente va farneticando nelle tenebre,
che l'anima mia si dibatte, come in un mare senza confini. Tenebre
dappertutto, nel dì e nella notte, su la terra e nel cielo, tenebre
il passato e l'avvenire, la vita e la morte!... O Signore! questa è
la fede che tu m'hai data?... Eppure, io credeva!... e quando pregai
d'essere ricevuto nel grembo della tua Chiesa, allora il cuor mio era
sincero, era sicuro e forte. Deh! come in allora, ponmi al fianco, o
Signore, alcuno che mi ami, e mi ricordi sempre che questa fede non è
un sogno dell'anima, ma la vera, l'unica consolazione della vita!

— Oh! che sarà mai intanto di Maria, di quell'innocente creatura, che
per l'amor mio è fatta infelice? Io devo cercarla, ridonarle la pace
che le ho tolta, e, quantunque io non possa più restituirle nè madre nè
fratello, potrò almeno, se il cielo consente, e s'ella mi crede ancora,
tenere il mio giuramento. E Dio che l'ha benedetta, benedirà me pure!


Di lì a poco, alcuno bussò leggermente all'uscio della stanza. Era un
giovine di bell'aspetto e di modi cortesi, un tale che noi conosciamo
da poco in qua; era Eugenio, l'amico della graziosa alunna crestaia.

Com'egli avesse fatto la conoscenza d'Arnoldo Leslie, perchè si fossero
poi legati, io ve lo dirò adesso, se vi piace.

Il giovine inglese era tornato in Italia due mesi prima, nell'ottobre;
e, come ben lo pensate, col disegno di trovar Maria, la quale gli stava
sempre nel cuore; era stato il primo amor suo, era il solo anello che
ancora lo attaccasse alla vita.

Attraversata Francia e Svizzera, poi venuto a Como, s'era fatto
trasportare senza indugio al paesello di Maria. La prima gioia che
gustasse, dopo tanto tempo, fu al salutare la bella riva e quella
conosciuta e amata dimora; egli pensava di trovar colà, nella loro pace
di prima, Maria e sua madre... Balzò dalla barca, cercò impaziente
con gli occhi la casetta: le finestre eran tutte chiuse; solo vide
semiaperta un'imposta della porticella di strada, e seduta a capo degli
scalini la vecchia Marta.

Essa non lo riconobbe; ma quando e' le disse il proprio nome, — Oh
santissima Vergine! esclamò, cosa viene a far qui adesso lei? Non
sa che non c'è più nessuno? Non sa che sono tutti morti?... cioè,
la Caterina e don Carlo... e che di Maria non s'ebbe più nuova nè
imbasciata, dopo la gran disgrazia...

Arnoldo non chiese, non volle sapere di più. Ma il dì seguente, tornò
muto e lento a quella casa deserta; rivide la Marta, domandò e conobbe
la breve storia della sventurata famiglia, o almeno quel tanto che
n'era noto alla vecchia; e pianse con lei.

Di là poi, se n'era venuto a Milano. Presentatosi con note
commendatizie a quella casa di commercio, nella quale Eugenio
trascinava il suo meschino noviziato, egli s'avvenne in questo giovine,
che gli sembrò dabbene e sincero; e com'ebbe più d'una volta occasione
di trattar con lui, quando andava a riscuotere qualche somma di proprio
credito (perchè, per buona o cattiva fortuna, a questo mondo non si
vive soltanto d'amore e di fantasie); così, non di rado accadeva che se
ne tornassero in compagnia, senza esser per questo i più grandi amici
del mondo.

Arnoldo, d'altro non sollecito che di saper la sorte di Maria, aveva
inutilmente tentato ogni mezzo di trovarne traccia. Solitario per
costume, e divenuto poi più diffidente, non volle aprire a nessuno
l'animo suo; ma visse ritirato e malinconico nell'albergo poco noto,
dove aveva preso stanza e dove altri non capitava che quel buon giovine
dell'Eugenio; il quale talvolta, e quasi per forza, lo trascinava seco
a diporto, per guarirlo dalla sua cupa tristezza, dicendogli che lo
_spleen_ l'avrebbe presto fatto finir tisico.

Per questo, Eugenio non conduceva l'amico nè lungo le monotone strade
di circonvallazione, nè sotto i castani già brulli e nudi delle
nostre solitarie mura, ma se lo traeva dietro per le corsìe più liete
e frequenti di popolo; e tenendosi al braccio del compagno, sapeva,
in quelle passeggiate, trovar fuori l'ora opportuna di venire verso
la nota bottega, dove sedeva a ridere e a lavorare la sua Ghita; e
questa ne lo ringraziava con una lunga occhiata, con un sorriso. Ma una
volta fra l'altre, mentre al solito passavano appunto presso l'entrata
della bottega, Arnoldo a caso rivolse gli occhi da quella parte, e
vide, o gli parve vedere, la sua Maria che sedeva occupata al ricamo,
vicina alla vetriera della porta... Si fermò, riguardolla ancora...
era proprio dessa. Poco mancò che non gli sfuggisse un grido di gioia
improvvisa. Ma la fanciulla non s'era distratta dal lavorio, non lo
aveva riconosciuto. Egli allora, sforzandosi di parer indifferente,
chiese all'amico se fosse stato mai in quella bottega; ed Eugenio,
pensando che l'altro avesse indovinato il suo segreto, lo guardò
sogghignando, e rispose che sì; poi, da buon figliuolo com'era, gli
confidò il suo amoretto con la Ghita.

Arnoldo l'aveva appena ascoltato; colmo l'animo del contento d'aver
riveduta Maria, egli abbandonavasi alla soavità dell'antico affetto,
alla voluttà della speranza adempita. Il suo volto s'era fatto
sereno, il suo cuore leggiero e aperto; parlò e rise, sì ch'Eugenio ne
strabiliò, pensò fosse effetto della sua medicina, di darsi un po' di
bel tempone, e poco stette che non lo consigliasse allora, da bravo
amico, a far come lui, e pigliarsi dett'e fatto una bell'amorosa,
gaja, alla buona, che certamente gli avrebbe cacciato la mattana. Ma
si pentì e restò intraddue; quando, prima che si lasciassero, Arnoldo
gli strinse forte una mano, dicendogli seriamente: — Ho un servigio a
chiedervi: venite domattina da me, ch'io devo confidare al vostro onore
una cosa che mi preme.

— Ben fortunato di potervi servire, gli aveva risposto Eugenio;
di me potete viver sicuro, io vi stimo troppo, e... Ma non finì il
complimento, e se n'andò pensando: Che vorrà mai quest'originale? O
ch'egli è matto, o ch'io non ci vedo.


La mattina vegnente, non mancò all'ora data; e Arnoldo, con gran
mistero, gli scoperse la promessa che lo legava alla nostra fanciulla,
per la quale soltanto era tornato in Italia; e soggiunse che, dopo
molte vane ricerche, il caso gliela aveva fatta incontrare nella
modesta bottega d'una mercantessa; in quella appunto, a cui eran
passati vicino il dì innanzi in compagnia.

Eugenio maravigliò e rise, chè gli pareva un sogno; ma l'altro prese
sul serio la cosa, e fattogli giurare di non dir nulla, volle da
lui la promessa di far di tutto, perch'egli potesse in qualche modo
parlare alla giovine amata. Eugenio disse che non pensava l'affare
molto scabroso; e prima di sera aveva già messo a parte del suo segreto
l'amica, poichè non avrebbe potuto tenerlo intero per sè, a malgrado
di tutte le promesse del mondo. Ma, saputo ch'egli ebbe dalla compagna
che Maria era una giovine un po' diversa dall'altre, e che faceva la
ritrosa e la santoccia, s'avvide non essere la cosa sì facile, e non
seppe più dir nè fare.

Fu il giorno appresso che la fanciulla disparve, come già sappiamo.
Arnoldo ne disperò quasi, ma Eugenio era là per consolarlo e dargli
buona speranza; rassicurava esser quello un ghiribizzo, una delle
solite furberie delle fanciulle, le quali vogliono vedersi correr
dietro il poveraccio che abbia la disgrazia d'innamorarsene. — Pure
molti dì eran passati, senza che uno o l'altro avessero potuto ancora
saper la verità. Ben aveva tentato più volte l'Eugenio di far parlare
la crestaia, spacciando grandi promesse a nome dell'amico, ma non n'era
venuto a capo: la buona donna fu muta, ostinata a custodire il segreto;
benchè il giovine pensasse ch'egli era piuttosto per malizia che per
virtù scrupolosa. Arnoldo, perduta la fiducia di ritrovarla, si rimise
alla vita indifferente e monotona di prima, a quella vita tediosa che
coll'inerzia del di fuori ricopre l'interno cruccio. Così era venuto il
dicembre.


— Eugenio! diceva adunque Arnoldo al suo nuovo amico, quella mattina in
cui l'abbiamo trovato che passeggiava nella sala dell'albergo: Eugenio,
sedete qui, accanto a me. Le prove d'amicizia che m'avete dato, il
vostro onesto costume, la vostra premura, meritano ch'io metta in voi
maggior confidenza. Voi mi conoscete appena, e poco sapendo di me forse
mi giudicate male. Gli è giusto dunque ch'io vi spieghi il mistero che
a voi ancora mi copre, gli è giusto che mi conosciate meglio: forse
allora, se nel cuor vostro avete riso di me, mi compatirete!

Il tono severo di quest'esordio scosse un poco Eugenio: e poi, i
colloqui serii non erano il suo forte; nondimeno, fatta all'amico una
solenne protesta d'osservanza, si pose a giocar distrattamente con le
molle fra le ceneri del focolare.

E l'altro prese a raccontargli la storia dell'amor suo, meglio che non
abbiamo potuto far noi in queste pagine modeste; cosa ben naturale,
era l'amante che parlava, e il suo cuore s'effondeva nelle parole, con
una verità semplice, poetica. Ma Eugenio intanto pensava che l'amico
suo era un bel pazzo, e ch'egli, se fosse stato ne' suoi panni, certo
non avrebbe perduto il tempo in quelle malinconie, e a far all'amore
alla romantica con una tapinella; mentre invece avrebbe potuto a suo
capriccio fare il mestier del Michelaccio, quel beato mestiero che non
s'insegna, e che tutti sanno e sapranno sempre.

— Dopo quel tempo d'una felicità ch'io quasi non credeva possibile,
così continuava Arnoldo il suo racconto; dopo quel tempo, vennero per
me i giorni dell'amarezza e dello sconforto. Ma qui, bisogna che vi
confidi un'altra cosa che ancora non sapete, il vero mio nome. Voi mi
conoscete per Arnoldo Randale; questo non è il mio casato, ma quello
della famiglia di mia madre; e per segrete ragioni io lo presi al mio
ritorno in Italia. Mio padre è lord Guglielmo Leslie.

L'amico Eugenio levò gli occhi con gran maraviglia a quella sonora
parola di _lord_; e, poste giù le molle con che giocava, stette con più
cheta attenzione ad ascoltarlo.

— Mio padre, seguitava Arnoldo, è un uomo severo, superbo del suo
nome e dell'antica sua nobiltà, quant'altri mai; i suoi principii sul
fatto e su la condizione sociale son quelli d'un vero Inglese, onore,
orgoglio e fermezza; il motto dell'arme gentilizia de' Leslie sembrava
appunto dettato per lui: _Sempre salire!_... Ma, fin dagli anni
infantili, il mio cuore s'apriva in vece all'incanto delle miti virtù
di mia madre, dolcezza e compassione, amicizia e amore. Io sento di non
esser nato per quelle che chiamansi le grandi virtù del nostro secolo,
una politica che si veste del fastoso nome di filantropia, e una
civiltà che pesa tutto su le bilance dell'industria. Passai i prim'anni
dell'adolescenza nella casa d'uno zio di mia madre, venerabile vecchio,
di cuor giovine e caldo, uom generoso, soccorrevole e costante; egli
era irlandese e cattolico, e aveva perduto il figlio, la nuora e i
nipoti, tranne uno solo che formava le delizie dell'abbandonata sua
vecchiaia..... Questo giovine cugino fu il mio primo amico! Ah! pochi
anni appresso, anch'egli era morto...

— In quel tempo appunto, ripigliava il giovine dopo una pausa, nel
nostro paese gli spiriti bollivano in quella famosa guerra d'opinioni
e di parte, che tenne grandemente agitati tutti i giusti e i buoni, la
controversia della emancipazione de' cattolici. Mio zio metteva in cima
de' più cari suoi voti la sospirata legge, e ne procacciò il trionfo,
per quanto potè e seppe. Parmi ancora vederlo scuotere la sua testa
canuta, e volgere al cielo gli occhi accesi d'un insolito ardore di
gioventù, dicendomi dover la giustizia trionfare una volta o l'altra
anche su questa terra, e nessun sacrifizio esser poco, per guarire la
patria d'una piaga che per tre secoli aveva fatto la vergogna della
superba nostra civiltà!... Ma appena mio padre conobbe i nobili sforzi
del suo parente e il mio entusiasmo a pro di questa causa generosa,
mi rivolle presso di sè, caldo sostenitore, com'egli fu sempre, degli
antichi rancori. E mi mandò a viaggiar sul continente, perchè la mia
mente si spogliasse di queste fantasie, ch'egli chiamava la scorza del
fanciullo, e imparasse a conoscer gli uomini e le cose. Ma era tardi.
Io aveva già sposata la parte degli oppressi; io amava il culto solenne
e maestoso della Chiesa a cui mi guidava fanciullo il mio vecchio
zio, e dove univo le mie alle candide orazioni del mio povero cugino;
l'arida e corrotta dottrina, e la troppo mutabil fede nel seno della
quale io nacqui, non avevano parlato mai al mio cuore.

— Nel mio viaggio attraversai, come un uomo nuovo, quest'Italia
così degna d'amore e di venerazione; di città in città, vidi le
sue basiliche, le sue cupole, le sue chiese, nelle quali mi pareva
che l'arte veramente divina traducesse all'anima il mistero della
suprema bellezza; vidi i capilavori di Michelangiolo, di Raffaele,
di Tiziano, di Guido, di cent'altri; tutto mi rapì, mi commosse; e
questo, il posso dire, fu il principio della mia conversione. Conobbi
molti uomini d'alto ingegno, di semplice probità, uomini di fede e
di sapienza; conversai con essi, ritrovai in loro le virtù, le parole
dello zio Randale; e finalmente, venuto in questa stessa vostra città,
Dio mi fece incontrare con quel saggio che doveva rinverginar la mia
mente, vincere il dubbio del mio cuore, sollevare la mia speranza e la
forza del mio intelletto a una lieta novella. Fin d'allora io voleva
abbandonar l'eresìa; pure quell'uomo, ch'io venerava come il mio
salvatore, aveva letto nel mio cuore, e veduto che la mia deliberazione
era più d'entusiasmo che di convincimento; e non assentì. Ma,
congedandomi con lagrime di consolazione, mi disse di lasciar fare al
Signore, che avrebbe condotta a' fine l'opera sua.

Intanto Eugenio, al quale il racconto riusciva nuovo e strano (egli
che non aveva mai pensato sul serio a' paternostri e a' credo della sua
nonna), diceva tra sè e sè che quel giovine aveva più del dottore che
del lord, onde l'avrebbe indovinata meglio se fosse venuto al mondo a'
bei tempi del bordone e delle cocolle: del resto, che le belle Madonne
dipinte sui quadri l'avessero convertito, non lo capiva; chè per lui,
tutte quelle belle sante color di rose e gigli, e quelle Maddalene
penitenti che aveva veduto, gli avevan fatto frullare tutt'altri
pensieri in capo.

— Dopo qualche tempo, riprese Arnoldo, mio padre mi richiamò a casa;
ma avend'io rifiutato un illustre matrimonio al quale egli stesso mi
destinava, s'inasprì contro di me; mi respinse, e venne con le mie
sorelle in Italia, ov'io lo seguitai poco di poi. Ma qui, l'amore
di Maria e l'amicizia del fratel suo, come già v'ho narrato, mi
ricondussero a' più santi pensieri, alla religione... Tornato in
patria, volli alfine adempire il proposito fatto, e andai a visitare
il mio buon zio, il quale più nulla aveva saputo della mia sorte;
quell'uom venerando, giunto nell'ultima vecchiezza, era divenuto
cieco. Lo trovai inchiodato dagli anni su d'una seggiola antica, ma
con la mente lucida e col cuore tranquillo. Egli pianse di gioia al
racconto delle arcane vie per le quali la provvidenza aveva condotto
l'opera della mia salute; e levando in atto solenne la nuda sua testa,
e con le mani tremanti cercando la mia, mi benedisse, ed esclamò che
oramai moriva contento, perchè il Signore lasciava nella sua famiglia
l'eredità della fede. Alcun tempo appresso, egli si fece trasportare,
quantunque cieco, nella chiesa in cui io feci la pubblica abbiura
dell'eresía!... La memoria di quel dì non uscirà mai dal mio cuore!...
Ma da quel dì stesso, non rividi mio padre, e forse nol vedrò più.
Nessuno, ben che il fatto della mia conversione menasse qualche rumore
della città, nessuno ebbe l'animo di farne motto con lui; talchè seppi
poi ch'egli ne aveva letto la notizia sui fogli pubblici... Mi fu
riferito che nell'impeto del suo sdegno egli m'abbia maledetto... Oh
Dio! No, no, io non lo crederò mai; e tu, o Signore, non consenti che
un padre maledica al figliuol suo!... Il vero è ch'io fuggii, come un
colpevole, abbandonai famiglia, amici e patria; non avrei potuto vivere
come uno straniero vicino alla mia casa, a' miei; e mutai nome e cielo.
Poi, qui speravo di trovar quel riposo che sempre fugge dinanzi a me,
e qui mi chiamavano ancora una promessa, un amore... Ah! sì, che almeno
io ritrovi quella virtuosa fanciulla! Essa non mi respingerà più; ora,
io non sono il giovine ricco e potente, sono il figliuol diseredato, il
povero esigliato che domanda conforto, che ha bisogno di trovar alcuno
che l'ami ancora.

— Ah! esclamò Eugenio, vi dico in coscienza che di certe cose io non
ne so straccio! Ma se, per dio, non v'avessi intes'io a raccontare voi
stesso la vostra storia, la crederei proprio, come se mi dicessero che
il Gran Turco s'è fatto eremita. Un giovine come voi, un signore, un
uomo d'ingegno, far questa fine... Scusate, sapete; ma, a me, questi
miracoli non m'entrano in testa; sebbene, a dirvela com'è, tutto ciò
m'abbia imbrogliato un po' le idee; m'avete tirato giù certe ragioni,
certi scrupoli, a cui non ho mai pensato in vita mia.

Arnoldo taceva, e teneva fissi sopra il compagno gli occhi con un'aria
tra mesta e grave.

— E vorrei veder adesso, soggiungeva Eugenio, che quella fortunata
fanciulla volesse far la schizzinosa. È impossibile! e scommetto che il
suo nascondersi è furberia bell'e buona per tirarvi meglio in trappola.

— Non è vero! Voi non la conoscete, rispose sdegnoso Arnoldo.

— Sarà, lo dite voi, sarà! Ma pur non vorrei che... E, con un tal
maligno sorriso, Eugenio scoteva il capo.

— Ah! voi ridete, voi ridete, come gli altri che mi tengono per uno
stolto!... Ma voi non sapete quel che si passa qui dentro, quel che si
può perdere e sperare!

A queste parole dette con fuoco, l'altro tacque, si strinse nelle
spalle, e conchiuse mentalmente: Non c'è da dire! bisogna persuadersi
ch'egli pizzichi del matto.

Ma poco di poi, quando Arnoldo gli confidò che al domani partiva
per andare in cerca di Maria, al paesello del lago o nel dintorno, e
conchiuse pregandolo in nome dell'amicizia di tentar tutto, durante la
sua assenza, per averne egli pure contezza, Eugenio aveva promesso di
far l'impossibile: e si lasciarono, buoni amici come prima.



X.

UN'ALTRA PROVA.


Una casa di gretta apparenza, con le muraglie dipinte del colore del
tempo e scalcinate, con un ballatoio alla lunga a ciascuno de' suoi
due piani e un'ampia gronda tarlata che si versa all'infuori, come
la tesa d'un cappellaccio su la fronte d'un pitocco, guarda su d'una
rimota piazzetta, in una parte lontana della città, presso a uno de'
nostri abbandonati _terraggi_. Da un fianco, il murello d'un'ortaglia
che fa gomito nell'attiguo chiassuolo, dall'altro una casipola lunga,
bassa, bucata d'usci e finestre come un crivello, angusto ricovero di
povera gente; e vicino, una vecchia siepe su d'un ciglione di terra,
che risponde a una strada fangosa, bistorta, orlata d'un fossato. V'ha
ancora pochi angoli della nostra bella e ringiovenita Milano, i quali
presentino un aspetto così malandato e tristo, da parer veramente la
casa delle streghe; e chi si volesse pigliar lo spasso di cercare quel
gruppo d'abituri ch'io descrivo, non aspetti al domani; perchè forse,
dov'è la casa del signor Cipriano, troverà un bel palazzetto dalla
fronte allegra e linda e dalle gelosie verdi, e in vece del rozzo
casamento da vicini col marcio fossato al piede, si vedrà sorgere
dirimpetto una fabbrica bianca, recente, di cinque piani, da far
invidia a chiunque abbia due spanne di terra al sole.

Il signor Cipriano era un antico fabbricatore di cioccolatte, il
quale, avendo avanzate di buone migliaia di scudi, e non volendo morir
sul mestiero, chiusa bottega, si ritirò a goder negli ultimi anni il
frutto de' suoi sudori in santa libertà. Egli aveva dunque comperato
quella casa a mezzo prezzo; ma poich'era assai taccagno e aveva spesa
sempre la sua lira per venti soldi almeno, si ridusse a menar grama
vita in quella topaia cadente, dove una volta aveva sognato di far il
signorone. E parevagli di toccare il cielo col dito, allorchè sdraiato
su d'una panchetta accanto al fuoco, col fido suo fiaschetto di vin
d'Ossona al fianco, ruminava, tra l'una e l'altra mezzina, il conto
degl'interessi de' suoi capitali, all'uno o al due per cento il mese.
Quand'egli attraversava la piazzetta per entrar nella sua porta, andava
tronfio, a lento passo, con le mani intrecciate sotto la schiena; e,
levando il grosso ventre e il naso bernoccoluto, sbirciava su per
le finestre e pe' terrazzini le più tonde e frescoccie comari del
contorno: tutti lo conoscevano, e gli facevan di cappello, quasi al
bassà del quartiere; perchè tutti supponevano che tenesse un bel morto
sepolto in cantina.

Dal primo all'ultimo de' sessant'anni, a cui toccava allora, egli era
stato schivo sempre d'ogni molestia e d'ogni cura; e se non volle mai
tor moglie, fu per non avere il pensiero de' figliuoli e l'impaccio
della donna, ch'egli soleva chiamare la più spallata mercanzia del
mondo. Ma, poco tempo prima, s'era condotte in casa la signora Barbara,
sua sorella, vedova d'un fallito, e la Savina figlia di lei, che
sole di tutti i parenti gli eran rimaste, e che s'accontentarono di
governare la casa e pagar la pigione; perchè l'idea di fare un dì
o l'altro una grossa eredità era l'áncora della loro speranza. In
casa però, il signor Cipriano aveva sempre tenuta la mestola a suo
modo; e ben se lo sapeva quello zotico baccellone di Michele, ch'era
l'unico famiglio, quando il padrone, dotato d'una memoria spilorcia
da far fremere, gli faceva dar conto ogni dì, della croce dell'ultimo
quattrino.


Nella casa di questo novello Arpagone noi troviamo adesso la nostra
fanciulla, in qualità di cameriera della signora Barbara; la quale,
incapricciata che la sua Savina diventasse una damigella e facesse un
bel partito co' fiocchi, non voleva più vederla attendere alle meschine
cure della famiglia.

Maria vi stava già da un mese. Abbandonata ch'ebbe la bottega della
crestaia, si gettò nelle braccia dell'unica conoscente che le restava,
la signora Giuditta; e pianse, raccontando il pericolo che correva, e
la scongiurò che le procacciasse un altro ricovero, una casa onesta,
dove potesse viver più sicura, e nascosta a tutti. Appunto alcuni dì
prima, la signora Barbara s'era raccomandata alla Giuditta (da un pezzo
si conoscevano) chè facesse di trovarle una brava e savia giovine, la
quale, contenta di poco, s'allogasse presso di lei. Dunque, la cosa fu
ben presto combinata; e Maria, altro non sospirando che un'esistenza
casalinga e solitaria, ringraziò il cielo che le avesse conceduto quel
ricovero.

Ell'era così docile e buona, che subito la signora Barbara prese a
volerle bene; e il suo costume, le sue parole avevano un incanto così
gentile e dolce, ch'essa pure la giovinetta Savina le pose molto amore,
e volle subito che tra loro si dessero del tu. Maria le apparecchiava
ogni mattina il più fresco e mondo vestito che pareva sempre del dì
delle feste, un candido grembiule coll'orlo a traforo, e un bel collare
a pieghette, e la cuffietta la più leggiadra, ch'era una grazia a
vederla. E la madre si ringalluzziva tutta, nè capiva in sè della
gioja, trovando sì bellina e compita d'ogni cosa la figliuola, che
tutt'altra sembrava da quella di prima.

Tutta la casa poi, in quel breve tempo, risentiva già della presenza
d'una sollecita regolatrice, a cui il buon ordine e la mondezza sono
necessità e abitudine; i vecchi mobili polverosi, muffati, del signor
Cipriano, le tende delle finestre e le cortine de' letti luride e
cadenti, avevan ripigliato un'aria di giovinezza e di pretensione.
Fino quel semplice di Michele, il famiglio, voleva farsi in quattro
per ripulire e rassettar le camere, il salotto e la cucina; e lavorava
a tutta schiena a rigovernar le pentole, le casseruole, le stoviglie,
obbediente come un cagnolino a tutto quel che Maria gli dicesse; perchè
glielo diceva con un far così benevolo, ch'egli, usato a ricever buone
lavate di capo dal padrone per cose da nulla, sarebbe per essa ito
nel fuoco. L'avaro era il solo che più di frequente brontolasse di
quelle novità; nè ci voleva meno di tutto l'accorgimento e di tutta la
pazienza della sorella a persuaderlo che un uomo della sua qualità, con
venti mila lire buone di rendita, doveva tenersi in credito, e aver una
casa da cristiano; ma la ragione che lo faceva star più cheto, era che
non gli toccasse di far vedere la luce a un soldo di più.

Dopo che stava in quella casa, Maria non ne usciva mai, fuorchè la
domenica di buon'ora, per andare alla messa nella chiesa più vicina.
L'inverno si rabbruscava sempre più; il cielo era quasi sempre
rannuvolato e piovoso, e le prime nevi avevan già messo nell'aria
quella muta malinconia, che par s'acconci tanto bene a una vita
rassegnata e oscura.

Sbrigate le faccende di casa, tutta la gioia di Maria era di potersi
ritirare nel silenzio della sua camera. Allora rialzata una cortina
del balcone che metteva su la ringhiera, sedeva assidua al suo lavoro,
là presso, sotto la poca luce; e le pianticelle d'un vaso di garofani,
ch'essa teneva su d'un vicino armadietto, lasciavan talvolta cadere
sul suo grembo alcune secche fogliette. Quel piccolo vaso, senza
un fiore, quell'arida pianticella, quegli steli d'un pallido verde,
ricadenti su l'orlo del vaso, bastavano a risvegliar nell'anima sua il
dolore del tempo passato, il mesto desiderio d'un avvenire più felice.
Si ricordava che nella casa di suo padre, sovra la soglia della sua
finestra verso il lago, ella soleva una volta educare una famigliuola
de' fiori che più amava; e via via, di pensiero in pensiero, il suo
cuore la rapiva... Essa non era più là, era con sua madre e con la
vecchia Marta, era con suo fratello... e con un altro!


E dimenticava tutto, per ricordarsi solamente d'una appassionata
canzoncina, che un giorno era tanto piaciuta all'amico suo:

    ROSA.

      Chi è che vien sì lenta e sospirosa?
    Povera Rosa! Rosa innamorata!

      Era un raggio del ciel la sua sembianza;
    Ora è senza color, senza parola:
    Prima al canto d'amor, prima alla danza,
    Ed ora agli occhi di ciascun s'invola;
    E se ne va piangente, e tutta sola
    Lungo la riva di fiori smaltata.

      Su la bell'alba move, in vesta bianca,
    E par l'ultima stella del mattino;
    Tacita riede, quando il giorno manca,
    E pare il primo raggio vespertino;
    All'alba e al vespro, sempre a quel cammino
    Sen viene la fanciulla sconsolata.

      Perchè si volge sempre al ciel lontano?
    Qui non è cosa più che la conforta!
    Madre infelice! E tu la cerchi invano;
    D'un angelo la vita in terra è corta!
    Madre, non hai più figlia!... Ell'è già morta,
    E già rivola a Dio l'alma beata.

      Chi a pianger vien sul sasso ov'ella posa?
    Povera Rosa! Rosa innamorata!

Ma nella dolcezza del suo rapimento veniva a turbarla l'acuta voce
della piccola Savina, la quale era inquieta, caparbia, un vero
demonietto; e non la poteva star sola un'ora co' suoi pensieri di
quindici anni, senz'annoiarsi. Allora essa correva dalla Maria, e
saltellandole intorno, come un furetto, ora voleva che le acconciasse
un riccio, ora che le stringesse la cintura, or una cosa, or un'altra.
E poi, se le frullava il capriccio, Maria doveva porsi a giocar con
lei; e pigliato un mazzo di carte, bisognava che la si facesse a
indovinare, se la padroncina avrebbe avuto un amante, se giovine,
ricco, bello e che so io. Maria paziente ne appagava i bizzarri
ghiribizzi, le presagiva le più liete cose del mondo, tutto com'essa
voleva; e la Savinetta allora le balzava al collo, le dava baci, le
diceva ch'era tutta bella, e che appena divenuta una gran signora, essa
l'avrebbe tenuta sempre con lei, e di più, che s'ella fosse stata un
bel giovinotto co' baffi l'avrebbe sposata su' due piedi. Maria non si
piaceva delle scioccherìe di quel farfarello; ma pur era bisogno che
qualche volta mostrasse di sorridere, perchè non la facesse peggio.

Così ella provava quanta pena costi a un animo debole e piagato la
lotta dell'interno dolore con le amare inezie della vita. E non aver
nessuno a cui svelare i segreti della sua pena, nessuno che le dicesse
una parola, che le desse un consiglio; e in vece dover sempre parer
lieta, e sorridere quando altrui piaceva, tutto ciò logorava il cuor
suo; come un succo velenoso che fa morire lo stelo d'un fiore, quando
appena il primo germoglio comincia ad aprirsi al sole.

Pure, a poco a poco, l'aria dolce e l'ingenuità della fanciulla
parevano aver fatto breccia perfino nello scabro cuore dell'avaro.
Maria non se n'era accorta, ma il vecchio Arpagone non brontolava più
come prima, non andava gironzando per la casa, le mani nelle tasche del
giubbone, come soleva, e sguardando in cagnesco; fin al povero Michele
non faceva più il viso arcigno, quando se lo faceva venir innanzi per
saldare i conti, o comandar il desinare. Ond'era, che que' di casa e i
vicini, i quali l'avevano sempre conosciuto per un sornione dannato,
volevano sbattezzarsi per la maraviglia, non potendo capacitarsi di
vedere il signor Cipriano rientrar in casa fuor dell'ore usate e con
un'ariona allegra, della quale i suoi debitori del vicinato non avevan,
da anni e anni, neppur sognato l'ombra.

Ma il più strano fu, quando venuta la domenica, egli fu veduto
attraversar la piazzetta, vestito d'un pastrano nuovo color marrone e
con un cappello rimberciato, che pareva volesse sfidar l'aria; a mano
a mano ch'egli passava, l'ortolana, la pizzicagnola, la tabaccaia e
l'altre comari del quartiere gli tenevan dietro con gli occhi, e poi si
guardavan tra loro stupite, come per dire: — O la è vicina la fine del
mondo, o il signor Cipriano vuol morire.


Nessuno l'avrebbe pensato, pure egli era vero, che da qualche tempo
la graziosa figura di Maria trottava per il cervello del vecchio
barbogio. Alla sera quand'egli seduto nel salotto, presso il camino,
in cui ardevano due legni in croce, si traeva di tasca, e rileggeva la
bisunta vacchetta del suo _dare_ e _avere_ (cosa ch'egli faceva tutti
i santi giorni dell'anno, come un buon prete recita il suo breviario),
gli occhi suoi piccoli e rossigni stoglievansi spesso dalle cifre
arabiche ond'era tempestato quel libretto, per riposarsi sul leggiadro
gruppo di Maria e della Savinetta che stavano poco lungi, accanto della
tavola, l'una a cucire, l'altra a ridere ed a ciaramellare. Il dilicato
aspetto di Maria, la sua testa vezzosa e coperta d'un bel pannolino
bianco orlato d'azzurro che le si allacciava sotto al mento, i capegli
scompartiti e lucidi, gli occhi grandi e modesti, quella faccia bella
che cominciava a ripigliare il suo tenero incarnato, e quelle piccole e
bianche mani inquiete sul lavoro, e lo schietto abbandono della snella
persona, tutto aveva in lei una tale magia, che al signor Cipriano, a
cui per le frequenti sorsate del suo pretto vin d'Ossona luceva un poco
la vista e ballava la camera intorno, l'aerea figura della Maria era
come l'apparizione d'un bellissimo sogno. Allora egli perdeva il filo
de' suoi conti, il dare e l'avere gli andavano insieme sotto gli occhi,
e scambiava numeri e parole; ogni zero gli pareva la bella testolina di
Maria.

Così in quelle sere, mentre il vôtar de' bicchieri gli scaldava le
vene e i polsi, la presenza della vezzosa creatura gli metteva nella
fantasia il grillo dei vent'anni; e dimenticava i suoi capegli grigi e
il naso bitorzoluto e il suo piatto viso color di vinacce. E che non
avrebb'egli dimenticato, se lasciò perfino passar due giorni interi,
senz'esigere dal Michele il rendiconto dello scudo rimastogli nelle
mani per far le spese?

Allora, facendosi coraggio s'alzava, e, data una scosserella alle
membra ingranchite, s'accostava pian piano, coll'andar del gatto, alla
tavola dove sedevano le due giovinette, poco stante dalla signora
Barbara. E appoggiati i gomiti alla spalliera della seggiola di
Maria, contorceva il viso con una smorfia, che avrebbe dovuto essere
un sorriso; e dondolando la testa or su l'una spalla, or su l'altra,
domandava: — Che fate di bello. Maria?

— Sto ricamando un fazzoletto da collo per la signora Savina.

— Oh come sei brava! adoperi l'ago, ch'è una delizia vederti.

— Come mi starà bene quel collare, non è egli vero, zio? Voglio
metterlo il dì del Natale! diceva la Savinetta; e intanto, non potendo
star cheta, andava tagliuzzando con le cesoine le frange del grosso
tappeto che copriva la tavola.

— Oh! ti starà bene anche di troppo, per quella maledetta smania di tua
madre di spenderti intorno tutto il fatto tuo.

— Lasciate pensare a chi tocca, voi! rispondeva la madre, chè non
sapete mai cosa vi diciate.

— Bene, bene, tal sia di voi! Ma tu, Maria, che sei così bellina, e sai
far tante care cosette, perchè vai sempre con quel vestito povero, nè
mai t'adorni di qualche ricamo delle tue belle manine?... E con quel
suo strano vezzo dondolava sempre il capo, battendo con le dita il
tamburo sull'appoggiatoio della scranna.

— Oh! per me non ci penso neppure, io sono povera! rispondeva Maria con
un sospiro, senza levar gli occhi dal trapunto.

— Via, via, ripigliava il vecchio, non ti crucciare. Tu sei carina,
buonina... e se non fosse... Oh sì, tu adesso sei della famiglia, e
vorrei quasi... capisci? Io sono di cuor tenero, mi piace che tutti
mi voglian bene... capisci? Però, non son ricco... è un babbuino chi
lo crede; lo devo ben saper io, io che sono capo di casa: una famiglia
costa gli occhi del capo, altro che baje!... Ma pure, vada!... per le
feste del Natale, ti voglio regalare, sì regalare... uno scialle rosso,
a fiori, magnifico, che ti ruberà gli occhi! E tu lo porterai per amor
mio, non è vero?

— Ah no! signore, non faccia niente, io ne la prego! lo interrompeva
Maria, arrossendo tutta.

— Tant'è! l'ho detto, e lo farò. E levandosi ritto, teneva fissi su lei
gli occhi di bragia, la divorava con gli sguardi.

— Ecco qui, voi! gli dava allora sulla voce la sorella. Che idee vi
girano in capo? Non avete mai in vita vostra regalato alla mia Savina,
ch'è pur l'unica vostra nipote, nemmen la capocchia d'uno spillo, e
adesso vi salta il capriccio di donar uno scialle alla serva?... Cosa
credete che costi? non ve la cavate con manco d'un paio di luigi! avete
capito?... Eh andate a letto, chè la testa vi gira, e non mettete così
sossopra le figliuole! Maria è una brava fanciulla, e fa bene a dir
no. Pensateci bene... due luigi! voi che gridate tanto di me, che per
una settimana tempestate, s'io spendo mezzo scudo!... Andate, andate in
letto, ch'è l'ora.

Per buona ventura quelle parole, due luigi! eran magiche sul vecchio
spilorcio; il quale, pigliato un moccolo, obbediva, brontolando frasi
scucite, e incamminavasi verso la sua camera, tentennando la grossa
persona su le gambe mal ferme. Ma quand'era sull'uscio, rivolgevasi; e
levando il lume alla dirittura de' suoi occhi lustri e accesi, salutava
con la palma tesa la fanciulla, e lo diceva con una vocina stonata: —
Buona notte, Marietta! buona notte, mia bella stella d'oro! ah! ah! eh!
eh!... E, data una girivolta, imboccava nell'uscio e se n'andava.


Fino a quel dì, sull'anima candida di Maria non era caduta pur l'ombra
d'un pensiero di tema: ella viveva sicura, e senza alcun sospetto che
il suo padrone tenesse gli occhi sopra di lei. Era innocente, nè il
suo cuore poteva concepire quanto d'abbietto e d'infame vi fosse nelle
semplici e rotte frasi che il vecchio le indirizzava in quella sera.
Abbandonata nella disgrazia, benchè avesse patito molto, essa ignorava
ancora che sciagure più atroci e prove più dolorose sovrastano alla
povera innocenza; ignorava che l'uomo sembra quasi compiacersi di
gettar la contaminazione dov'è la miseria, come se questa possa esser
la scusa della colpa.

Ma in quella sera, le si svegliò nell'anima un turbamento, un timor
muto, del quale non sapeva spiegar la cagione. Quando si ritirò,
sentiva un'inquietudine ne' pensieri, un raccapriccio in tutte le
fibre, come il senso arcano d'una nuova sciagura; e ad ogni momento
tremava di trovarsi tutta sola. Le risonavano ancora all'orecchio le
parole che il vecchio le aveva dette, e ch'essa non intendeva; ancora
le pareva di vedere il suo volto contraffatto dal ghignar di quella
sua strana giovialità, i suoi guardi di fuoco, e gli atti schifi, e
il maligno saluto. Quelle parole, quell'aspetto le somigliavano un
terribile scherno, e le mettevano in cuore un gelo, un ribrezzo che non
aveva provato mai.

Volgeva intorno gli occhi sbigottiti, e il viso sparso di
freddo sudore; trattenendo il respiro, tendeva l'orecchio al più
leggero strepito che si movesse nell'altre stanze. E, nel terrore
dell'abbandono, domandava al cielo la grazia d'essere liberata da
quell'affanno, che le pareva effetto d'una visione spaventosa.

A poco a poco tornata in pace, s'avvicinò al suo letto, e slacciando il
fazzoletto che le copriva la testa, si sgruppò la bella treccia bruna,
che le si diffuse tutta sulle spalle e sul seno...

In quel momento, le percosse d'improvviso l'orecchio un quieto
strisciar di pianelle, come il passo d'alcuno che s'accostasse al suo
uscio. Sollevò al cielo il volto supplichevole; e poi, serrando le
braccia strettamente al seno, si raccolse come in sè stessa, e stette
senza movimento e quasi senza vita. Così una giovinetta indiana, la
quale, fuggita dalla sferza del sole, riposavasi all'ombra del fedele
sicomòro, si risveglia con subitano balzo da' suoi sogni dorati, e
rimane muta, fredda, tremante, sotto la malía degli accesi occhi del
serpente, che vede trascinarsi col lubrico ventre su per la zolla di
muschio, ov'essa poco dianzi dormiva.

Poi, quel cauto stropiccìo di passi le parve allontanarsi, e poco di
poi cessar del tutto. Essa palpitava ancora, ma lo sgomento che l'aveva
compresa divenne meno; diede un gran sospiro, e le si allargò il cuore.
Pure, quando fece per ispogliarsi del suo modesto vestito, un segreto
istinto di pudore, che le nacque nell'animo in quel momento come il
gemito dell'innocenza, le persuase di coricarsi vestita com'era, senza
quasi ch'ella osasse domandarne a sè medesima il perchè.

Si gettò dunque sul letto, ma per tutta la lunga notte non potè chiuder
gli occhi al sonno, nè trovar un istante di quiete. A ogni poco, il
più lontano suono la riscoteva; e balzando a sedere su la coltre,
ascoltava, tremava. E que' risalti e quelle paure erano per nulla:
una volta era lo stillare d'alcuni ghiacciuoli che staccatisi dalla
grondaia battevano su la balconata; poi, era un gatto che saltando
dall'abbaìno attraversava su pel lungo ballatoio della casa; poi,
qualche povero diavolo, un di coloro che non han luogo nè fuoco, il
quale cacciato fuor della porta del vicino tavernaio, se n'andava in
ronda gagnolando qualche rozza canzone, e faceva scricchiolare sotto
i suoi passi la neve gelata, camminando a sghembo, come si dipinge la
saetta.

Oh come la fanciulla benedisse il ritorno della mattina! Ma gli ultimi
giorni del dicembre, sotto l'umida coperta delle nebbie, nascono sì
tardi su le tetre vie della città, e stillano i brividi della tristezza
nel cuore. Nondimeno ella spalancò il balcone, e tutta consolata
bevendo quell'aria cruda ma aperta, credette di tornare alla vita.
Quando fu per uscire della sua camera, un dubbio inquieto le arrestava
ancora il passo, perchè sopra ogni cosa temeva d'incontrarsi sola col
vecchio padrone. In casa nessuno erasi levato, fuori di quel poveraccio
del Michele: e Maria lo pregò con tal modo le desse una mano a
rassettar le camere, che il buon uomo non sel fece dire due volte, e in
manco di mezz'ora rimuginò e ripose tutte le masserizie, che si sarebbe
potuto specchiarvisi.

Poi, per tutto il dì, Maria non si tolse mai dal fianco della
sua padrona, schivando sempre, con uno o con un altro pretesto,
d'abbandonar la camera ove stava con essa e con la figliuola. Ma il
signor Cipriano era uscito di buon'ora, nè tornò fino al desinare;
durante il quale, rimase sopra pensiero, non disse mai parola, non
guardò a nessuno, e tenne un broncio duro che gli s'acconciava a
meraviglia. Maria non poteva crederlo, ma pur non desiderava di più: la
sorella e la nipote di lui non ci vedevan dentro chiaro.

Il dì dopo fu lo stesso, così che la fanciulla cominciò a rassicurarsi,
a pensare che il suo timore fosse il giuoco d'un sogno cattivo; ella
si persuase perfino, che il sospetto che l'aveva presa, fosse un reo
pensiero dell'anima sua, una colpa di più... Povera innocente!


Intanto il dì del Natale era passato, e nella casa del vecchio avaro
tutto camminava col solito andare. La mattina breve, ma pur tediosa,
era appena ingannata dalle poche faccende della famiglia, e da qualche
rara visita d'una comare del vicinato o d'alcuna delle amiche della
padrona. La sera poi, al consueto, le tre donne sedevano presso la
tavola; e il signor Cipriano se ne stava nel salotto, rincantucciato al
focolare, in compagnia del suo fiasco di vin vecchio, e studiava sul
fido libricciolo degli interessi il conto della fin dell'anno, quel
conto fatale ai poveri debitori; e al saldar di ciascheduna partita,
vôtava d'un fiato il colmo bicchiero, e lanciava un'occhiata lunga
e maligna alla giovinetta pensosa; una somma, un buon bicchiero, e
un'occhiata di traverso, e via con questo giuoco. A mezza sera le
donne si ritiravano, e il padrone rimaneva ancora per un buon pezzo a
succiare del suo boccale; e allargando le gambe a cavalcioni del fuoco,
rintascato il libro nero, lasciava le briglie a' suoi pensieri, si
deliziava ne' più bei castelli in aria che abbian mai ballonzato nel
cervello d'un vecchio.


Una sera fra le altre — egli era solo, e bisogna che qualche strano
ghiribizzo gli stuzzicasse la fantasia, perchè grattavasi le orecchie,
e di tanto in tanto, sfregandosi le mani o facendosi scricchiolare
le dita, borbottava strane e rotte parole, lasciava sfuggire certe
mute risa, da disgradarne il don Bartolo della commedia; al quale
somigliava, imbacuccato com'era in una grossa berretta di cotone e
nell'emerita vestaccia da camera che aveva tutti i colori dell'iride.

— Tant'è! bisogna venirne a capo, o non sono io!... È oramai tempo!
non posso proprio star più nella pelle — così borbottava il maligno
vecchiardo. — Ho un fuoco qui dentro che mi brucia!... Mi par quasi di
non aver più testa, e tutto mi balla in giro. Ecco! di tante belle cose
ch'io aveva pensate da dirle, non ne so più un'acca. E sì, che quando
mi ci metto, so parlare in punta di forchetta!... Maledette le parole!
Basta, sarà quel ch'ha da essere. Quando la vedo, mi sento rimescolar
tutto... Ma ella? se bastasse il promettere, manco male, le prometterei
Roma e Toma... E qui pensava.

— A ogni buon conto, se la tristarella ha il cattivo uso di serrarsi
in camera la notte, questa controchiave farà il fatto mio... Una volta
ch'io ci sia, il resto vien di per sè. Vorrei vederla, che quel musetto
avesse ad arricciare il naso alla vista di questo bel rotolo di ruspi
nuovi!... E si toglieva di tasca un cartoccio, e lo contemplava con
occhi di ramarro.

— Veramente, penso che dodici son troppi, e mi piange il cuore...
perchè, se la fosse come tant'altre con qualche cencio e un par
d'orecchini... e saltar tant'alto!... Eh! una volta, che tempi! Gli
è vero che allora io era più fresco, e che quell'altre non tenevano
soltanto a' miei soldi... E si ringalluzziva, poi guardandosi
nell'antico specchiaccio ch'era sopra il camino, scoteva il capo e
rannuvolavasi in volto. — Ma questa piagnolona non so come pigliarla.
Se non fosse che le voglio un bene matto!... Eh via! chè il mio
grimaldello apre qualunque uscio... E riponeva il rotoletto.

— E poi? vada _todos_! la sarà l'ultima questa, non ci casco più
da vero, mi costa troppo caro: tant'e tanto, di questi dodici bei
zecchinetti, mi ricatterò su quel piccolo prestito d'ieri... Ma basta,
basta, non voglio arrischiar troppo, chè potrei far qualche marrone,
e perder la testa. Dunque, zitto, zitto! Parmi che a quest'ora tutti
debbano dormire... E levavasi, e camminando su le punte de' piedi
andava a uno, poi all'altr'uscio della stanza, appostandosi alla toppa
a origliare. — Oh non è niente!... mi pareva... è un'immaginazione! E
poi, sono in casa mia e, alla peggio, tengo il coltello per il manico,
io! Dirò che risvegliato dal rumore, m'è parso che alcuno entrasse
in casa, che da buon padrone non voglio scandali, e... gliela farò
pagar salata, la caccerò di casa mia... Ah! ah! sono un uomo io? Or
che ci penso, potrei anche smagrire il rotolo, tirarne fuori uno o
due di questi ruspi; un di più, un di manco, è lo stesso per lei; già
non la starà a contarli. — E pigliato il piccolo cartoccio, ne traeva
fuori uno zecchino, e se lo riponeva nel taschino del panciotto. Poi
passeggiava per la stanza lentamente, con passi studiati, accorti,
poi tornava a origliare. E solo, a ora a ora, susurrava: — Ah! mia
speranzina, mio tesoro! che m'hai stregato, che m'hai rubato il cuore,
che m'hai fatto diventar giovine di vent'anni!...

E il vecchio rimbarbogito s'avviò verso l'uscio del salotto. Ma
n'andava di male gambe, chè tra il molto vino bevuto e una cotal
segreta paura, adombravasi, sostava a ogni passo, quasi che alcuno lo
spiasse; e si guardava le calcagna, come il lupo che sente le peste del
villano.


Nel mentre che il reo babbaccio così andava mulinando l'infame suo
tentativo, Michele, il dabben servitore, insospettito del perchè il
padrone, a quell'ora così tarda, non si fosse coricato, si cacciava
all'oscuro per il corridoio che conduceva alla camera di Maria; poi,
cautamente avvicinatosi all'uscio ch'era chiuso, batteva un tocco
leggero, dicendo sotto voce: — Maria, aprite, son io, sono Michele;
aprite per carità!

L'uscio s'aprì, e la fanciulla comparve ansiosa, atterrita, tenendo il
lume in una mano, e con l'altra raccogliendosi sul seno il giubboncino,
del quale già stava per dispogliarsi.

— O Maria, disse Michele con accento rapido e sommesso; bo una cosa a
dirvi, e in tutt'oggi non ho potuto mai trovar il momento...

— Oh! che c'è mai? per amor del cielo, parlate! esclamò la giovine,
divenuta pallida pallida per il terrore che si faceva più grande.

— Egli è perchè siete così buona, e non mi dà l'animo di vedervi
rovinata: ahi se potessi dir tutto quel che so... Ma no, vi basti, che
non ci state bene voi, in questa casa; che il padrone v'ha messo gli
occhi addosso; e voi non sapete che uomo sia, massime quando si lascia
prender dal vino... Ah, per carità, pensateci e tremate! Non siete
sicura, vi dico, e il Signore abbia compassione di voi...

— O mio Dio, mio Dio! Che cosa ho a fare?

— Fuggire, fuggir di qui, più presto ch'è possibile. Ah se sapeste,
Maria, che lagrime ha fatto versare quell'uomo!... Se vi dicessi la
storia d'un'altra poveretta... Domandate la vostra licenza, andate via,
credete a me, che vi voglio bene, come se foste mia figliuola. Voi non
potete dormir in pace nel vostro letto!

Maria ascoltava, come istupidita, queste parole, e cogli occhi
immobili, e con le labbra gelide e semiaperte, muta e senza senso
guardava Michele, quasi aspettando da lui una parola, un pensiero. Poi,
vinta dal dolore, rompendo a uno schianto — Oh! perchè mai, disse, non
m'avete parlato prima? Ora, abbiate voi compassione di me, salvatemi
voi, fate ch'io fugga subito di questa casa!

— Oh è impossibile! Come volete ch'io faccia? è impossibile adesso!
dove vorreste andare? Pensateci; e domani, o posdomani, qualche
pretesto non vi mancherà.

No, domani, no! Adesso, vi dico, adesso... io sono nelle vostre
mani, salvatemi, salvatemi! E piena di raccapriccio e di spavento,
guatava per il buio del corridore, come se già temesse l'avvicinarsi
dell'odioso padrone.

— Non sapete, ripigliava Michele, quel ch'arrischio solo per avervi
avvisata? il mio pane per tutto il resto della vita; io sarei cacciato
di qui: e dove trovare allora chi voglia di me, vecchio e gramo come
sono?...

— Anche voi m'abbandonate, buon Michele? E bene, Dio mi darà forza;
e dovessi anche gettarmi giù dalla finestra, domani non sarò più in
questa casa!

— O mio Dio! Siete voi che parlate così, Maria? No, no, farò tutto,
farò quel che volete. Sentite dunque...

— Oh il cielo vi benedica! ma ch'io fugga sul momento... Domani, questa
notte... qui io sarei già morta!

— Sentite bene! raccogliete qualche cosa del vostro; poi, senza
strepito, zitta e lenta, andate a basso, ch'io starò giù ad aspettarvi
appiè della scala... Per una fortuna del cielo, ho qui una vecchia
chiave dello sportello: vi metterò fuori e, se v'accontentate d'un
povero cantuccio per questa notte, bussate a quella porticina qui
poco lontano, la seconda voltato il canto: vi stanno una mia sorella e
Brigida la mia figliuola; dite che vi mando io; v'apriranno, e sarete
la ben venuta: domani poi, all'alba, verrò anch'io; e intanto il
Signore v'inspirerà che cosa fare.

— Ch'Egli vi dia del bene! Non sarà mai che il mio cuore dimentichi un
benefizio sì grande!... E stringeva con affetto le mani dell'onesto
famiglio; e su quelle cadeva una sua lagrima, una lagrima di
riconoscenza.

Questo colloquio agitato, sommesso, fu cosa d'un momento. Un momento
dipoi, Michele era scomparso; e a tentone attraversando la stanza
vicina e l'antisala, con gran cautela disserrò l'uscio che rispondeva
sul pianerottolo della scala; lasciatolo socchiuso, discese, e si pose
con animo inquieto ad aspettare, presso la porta di strada.

Maria intanto, tutta ancora smarrita e tremante, era rientrata nella
sua camera, e non potendo sopportar l'angoscia che le toglieva quasi
il respiro, abbandonavasi per poco su d'una seggiola, sentendo bisogno
più che mai di racquistare tutto il suo coraggio. Poi, riscossa da quel
letargo, al destarsi di nuovo spavento, si racconciò in fretta nella
sua semplice vesta, e già s'era mossa per uscire, quando le sovvenne
di pigliar seco il rosario benedetto che la madre le aveva confidato al
suo letto di morte. Tornò indietro, lo cercò fra le cose sue, che aveva
lasciate; e trovatolo, con un santo pensiero infantile, e non sapendo
quasi quel che si facesse, se lo pose al collo.

In quella, apparve su l'entrata della camera la stupida, esosa figura
del signor Cipriano. Egli aveva trovato schiuso l'uscio, e non volle
di meglio; chè, vinto il primo passo, si teneva sicuro del fatto suo.
S'avanzava pian piano, con un andar rotto, incerto; e sul volto acceso
dal fuoco del vino, gli si leggeva il sinistro ghigno d'una compiacenza
che aveva qualcosa di bestiale. Egli volle parlare, balbettò; ma, al
primo vederlo, la fanciulla mise un disperato grido, un grido soffocato
dal terrore, e corse a nascondersi nel più lontano angolo della stanza.
Il vecchio continuava ad avvicinarsi tentennando, e sogghignava, e
teneva sempre sovr'essa gli occhi intenti e bramosi.

Quando fu vicino alla debole sbigottita creatura, la quale,
rannicchiata sul pavimento, tentava di farsi scudo delle braccia
tremanti, nè osava di respirare, come se un respiro solo avesse potuto
perderla, il vile vecchio distese la destra per sollevarla dal terreno,
e chinossi lentamente sopra di lei.

Allora, inspirata dal suo verginale coraggio la giovinetta levò la
testa, e con uno sguardo sublime, ardente di disprezzo e di vergogna,
fissò gli occhi sicuri e innocenti su la delirante faccia del vecchio.
Il quale, colto da involontaria tema, ristette scompigliato, e diede
addietro due passi. Essa continuava a guardarlo, senza dire parola:
quell'aspetto laido e ributtante, le suscitò nel cuore un fremito così
doloroso che per salvarsi dall'orrore che l'agghiacciava, come se le
fosse sorta dinanzi l'apparizione d'un demone, strinse con ambe le mani
la sacra medaglietta del rosario che le pendeva sul seno, e la baciò.
Quel bacio fu più che una preghiera, più che un voto.

Il vecchiardo, il quale, non aspettando quella scena, temeva quasi di
vedersi fuggir di mano la sua preda, fece i due passi che lo dividevano
da lei, e chiamandola a nome e ringhiando, allungò di nuovo le braccia
per afferrarla; ma la fanciulla con un rapido balzo distaccossi da
lui, e fuggendo corse verso l'uscio. Allora il reo vecchio, fatto più
audace dall'impensata resistenza, le attraversò la via, brancicando qua
e là, e dando pugni all'aria per trattenerla nella sua fuga; e sentendo
la poveretta con dolorose grida invocar misericordia e soccorso, egli
ruppe in maledizioni, e inseguendola d'ogni parte, giunse ad afferrarla
per le mani; ma a quell'impuro tocco, poco mancò che Maria non cadesse
svenuta.

Egli mischiava intanto preghiere e bestemmie con rauca voce, e
ripeteva parole insensate, atroci; e serrando i denti per l'ira, e
quasi schizzando fuoco dagli occhi grifagni, minacciava, minacciava
d'ammazzarla se non tacesse.


In quel momento terribile, la fanciulla, raccolta la poca lena che
ancor le restava, e sostenuta nel cuore da una virtù sovrumana,
fremendo d'orrore in ogni sua fibra, fece sembiante di cedere alla
brutale forza che la strascinava... Poi, con una improvvisa stratta,
si sciolse del feroce abbracciamento del vecchio, e sorta di lancio,
con quell'impeto che lo spavento aveva fatto più grande, lo respinse,
lontano, gridando: — Lasciatemi, infame! il Signore vi punisca!...
lasciatemi!

Il vecchio demente, mezzo ebbro e arrancato com'era, rinculò
barcollando, vacillò, e cadde rovescioni sur una tavola; e traendo
seco a ridosso la tavola, il lume e ogni altra cosa, stramazzò con
gran tonfo sul terreno, nè potè più rialzarsi: ammaccato e malconcio,
andava lamentandosi con un rantolo affogato, interrotto; finchè giacque
immobile e riverso nel lurido sfinimento dell'ebbrezza.

Maria era fuggita.



XI.

IL RITORNO.


Era un giorno freddo e oscuro, nel cuor di gennaio. Stendevasi per
tutto il cielo un immenso, uniforme padiglione di nuvole cenericcie e
cupe, non interrotte da nessuno screzio di sereno, nè pure distinte
dalla lieve striscia di quel chiarore pallido, che sembra almeno
rammentare esservi ancora sotto al malinconico manto dell'inverno il
nostro sole. L'atmosfera, che la notte innanzi s'era irrigidita per
lo spirare d'un acuto, gelido rovaio, pareva più greve nella sua morta
quiete, come allorchè promette vicina la neve.

La strada era solitaria, le rive, le campagne si confondevano mute,
nude, in tutta la squallidezza del l'inverno: le rotaie del cammino
erano insudiciate d'un limaccio pesto, sdrucciolevole, e rotte a ogni
tratto da fossatelli e da pozze. La natura intirizzita e moribonda, le
piante aride e grame che lasciavano cadere qualche ramicello spezzato
dal gelo, l'ultime foglie già morte; non un fiore, nè un fil d'erba
che spuntasse di sotto la neve già vecchia e gelata, nè un passero
che saltellasse fra i vizzi rami. In mezzo a quella scena, la quale
t'avrebbe messo il freddo nell'ossa e nel cuore, erano solo indizio di
vita i tocchi replicati e sordi del mezzodì, che venivano dal campanile
d'un lontano paese. E la neve, già promessa dal rovaio della notte
innanzi, cominciava a cadere fitta, quieta, a larghe falde; sì che ben
presto tutta la campagna fu ricoperta d'una nuova veste biancastra, che
lasciava appena indovinare giù per le avvallate costiere la pesta del
cammino.


Già da molte ore continuava a nevicare a gran fiocchi; eppure su
quella strada deserta un povero cavalluccio, con la groppa coperta d'un
ruvido coltrone addoppiato, andava trascinando a fatica una di quelle
carrette a due ruote, con le spallette armate di quattro legni ad arco,
e sopravi tesa una grossa tela di canapa, che formava il tetto dello
strabalzante traino. Sul davanti, era seduto, con le gambe penzoloni
all'infuori d'una delle stanghe, un buon villano, il padrone della
carriuola: egli aveva una berretta rossa e nera, tirata su gli orecchi,
cadente da una banda e suvvi un vecchio cappellaccio sfondato; e invece
di mantello, anch'esso, come la sua bestia, portava su le spalle un
grosso boldrone di lana. Di tanto in tanto dava un buono scrollo alle
briglie di corda che teneva fra le mani, e col mozzicone della frusta
punzecchiava le anche del paziente ronzino, o co' più strani versacci
l'aizzava a un impossibile trotto; perchè la povera bestia, con le
zampe ingranchite dal gelo, sprofondava fin sopra al garretto nella
neve già alta, e a stento vi rompeva una callaia, inciampando sovente,
e levando il muso, sbuffante come un Rabicano.

— Uh! uh!... maledetta bestia! gridava il villano il quale, come gli
eroi d'Omero, aveva costume di parlare col suo cavallo: uh! uh!....
e' pare che sia la prima volta che tu batti questa strada, e sì che,
per dannata sorte, io potrei contarne gli alberi e i sassi... hop!
hop! non c'è verso; è come se parlassi alla cavalla orba del mulino...
Poveraccia! un po' di ragione l'hai anche tu; chè con una neve di
questa fatta, non ci si può vedere più in là del naso... Ah! la è
una vita ladra la vita della povera gente! Oh se almeno, arrivato che
fossi a casa, mi aspettasse un po' di roba da cristiano sul tagliere,
un bel fuoco allegro, e un buon letto!... Ma non c'è santi per noi!...
La casa è aperta alla furia di questo tempo indemoniato, i miei due
marmocchi a piangere sulla porta, e la mia donna a gridarmi dietro che
non ho guadagnato una boccicata; e rotte le impannate delle finestre,
e sul focolare morto una pentola screpolata!... E poi domani, andare
in giù con quattro ceste d'erbaggi, e qualche fardello, se pur capita,
e tornare in su il dì appresso con le ceste vôte, e le tasche magre...
E poi da capo sempre la stessa vita, finchè sia venuta l'ora di tirar
le calze... Oh! se qualche volta non si guardasse in su, di sopra
ai tetti, sarebbe meglio vendere l'anima al diavolo che forse è più
galantuomo di tante birbe di questo mondo!... Ah che giornata! che
neve!... Eh! uh! trotta, che la mangiatoia t'aspetta con una buona
bracciata di fieno; trotta, trotta, se non vuoi star digiuna come me,
bestia dell'inferno!

Così andava brontolando il villano; mentre spingeva gli sguardi di
sotto all'ale del cappellaccio, per vedere attraverso la folta neve se
spuntasse l'acuta cima del campanile del suo paese.

In quel punto, un lungo sospiro, il gemer d'una voce soffocata, che
uscivan del fondo della carretta, gli ruppero il filo dei pensieri; e
allora rivolto indietro il capo si ricordò della giovine, alla quale
partendo da Milano egli aveva avuta la carità di ceder quell'angolo;
una poveretta che aveva incontrato, appena fuor delle porte della
città, sola, tapina e malata. E per tutto il durar del viaggio, che
certo avevano fatto un diecisette miglia, ell'era rimasta là, in quel
fondo, come in un nascondiglio, accosciata, raccolta ne' suoi miseri
panni, e coperta d'una vecchia mantellina nera, che nascondeva quasi
del tutto il suo viso pallido e le sue bianche mani tremanti di freddo;
nè lungo la via aveva detto mai una parola, ma era stata così cheta,
che il buon cavallaro aveva già dimenticato la sua compagna di viaggio.

Pure quel nuovo gemito aveva un non so che di doloroso, che ruppe il
cuor del buon uomo; il quale si pose a contemplar la giovinetta con
quella compassione rozza ma schietta, che sì forte sentono i cuori di
coloro, i quali, senza saperlo, fan vita domestica con la sventura. E
vide l'infelice, benchè si tenesse tutta chiusa nella sua mantellina,
agitata da frequenti brividi, tremante per tutta la persona con le
labbra livide e semiaperte, e il viso scolorito e rigato di lagrime.
Ella piangeva, soffriva, eppure soffocava il suo dolore.

— Ehi! cos'avete, quella giovine? vi vien male? dite su! mi fate una
compassione...

— No, rispose con una voce debolissima che appena giunse all'orecchio
del cavallaro; no, ho dei travagli...

— Eppure, voi dovete aver freddo, tremate come una foglia! Mi
rincresce, sapete, che faccia un tempo così brusco, più per voi, che
per la mia povera bestia e per me! Siete così bianca e sparuta, che non
vorrei che questo vento gelato vi portasse via.... Maledetta neve! non
n'è mai venuta tanta, come in quest'inverno; è proprio una Russia!...
Ah! trotta, bestia poltrona!... Oh, guarda ch'io non ci aveva dato
mente! prendete, la mia figliuola, prendete questo mio tabarro; è una
grossa coperta di lana, ma tant'e tanto vi terrà un po' di caldo; e io,
bestia! che non ci ho pensato prima!...

— Oh! no, brav'uomo, rispondeva la giovinetta; io sto bene, e poi siam
vicini al vostro paese: non è vero?

— Eh! questa dannata strada non la finisce mai, come quella del
paradiso; il campanile lungo, lungo del nostro Cantù è sempre là,
nè mai ci s'arriva. Pigliate, via! pigliate la coperta; avreste ben
potuto cercarmela voi, chè per me gli è tutt'uno, ci sono avvezzo a
fare questa vita, e ho l'ossa dure... Mo, brava, siete buona, così!
chiudetevi ben dentro che vi sentirete meglio, e tiratevi i piedi
sotto... Oh! guardate, se una giornata come questa la doveva toccar
proprio a noi, con questo vento che taglia la faccia, e questa neve che
seguita allegramente. Brr! brr!...

— Vi ringrazio della vostra carità, disse la fanciulla, che
ravviluppatasi nel boldrone del villano sentiva di tornare in vita, ed
era tocca nel profondo del cuore dalle parole del galantuomo.

— Oh! riprese l'altro, fate conto davvero di tirar innanzi fino a Como,
con questo tempaccio del diavolo?

— Sì: prima che ci arriviamo, il tempo può calmarsi: e poi se mai si
facesse più cattivo, mi fermerò lungo la strada in qualche cascina; ma
bisogna ch'io arrivi a Como prima di notte.

— Ma, perchè mai andate così sola? e come vi siete arrischiata?...

— Non ve l'ho detto? vo a casa mia, dove non ho più nessuno: e se non
foste stato voi sì buono, che mi prendeste su in vostra compagnia, io
già aveva risoluto, mi sarei messa in istrada tant'e tanto.

— Pover'anima, vi compatisco! perchè lo so anch'io che cos'è patire,
e anch'io la mia parte di disgrazia l'ho avuta, vedete... Oh! gli è
pur troppo vero che le disgrazie son come le ciliegie, lo sapete il
proverbio... In pochi anni, me ne son capitate delle belle, che quasi
non le potrei contare; e in verità santa, penso che a noi, povera
gente, tocca proprio di vivere, se il vivere è portar fastidii...
Con tutto questo, se sapeste, nella mia miseria c'è dei momenti che
non invidio, di cuore, a tutti quei gran signoroni che ho conosciuti;
perch'io, povero e ignorante tal qual mi vedete, so cos'è il mondo; e
son certo che se avessi a metter su uno di que' loro vestiti foderati
di seta e coi bottoni dorati, ci creperei dentro prima di sera... No,
no! una minestra col lardo, un bicchier di vino, e un sonno duro tutte
le notti — e viva i poveri diavoli! Vedete, sono già otto o dieci anni
ch'io fo questa vita di trottare innanzi e indietro, due o tre volte la
settimana, dal mio paese fino a Milano; e pure, ogni volta che lascio
quel gran Milano là in fondo, e mi trovo all'aperto, io respiro largo,
e mi sento battere il cuore più giusto... Ah!

A queste sincere parole, che il cavallaro diceva per confortar la
fanciulla, essa non potè rispondere che con un sospiro, in cui era
l'amarezza di tante ricordanze! Poi tacquero entrambi, finchè il
ronzino, il quale, a malgrado de' sodi colpi che il padrone gli menava
sulle schiene, mogio e stracco, tirava di lungo per il disagiato
cammino, li ebbe strascinati fino all'entrata di Cantù.

Intanto il mal tempo cominciava a calmarsi, e la neve e il vento a poco
a poco cessavano. A un crocicchio di strade, la carretta s'arrestò; e
la giovine, per quanto il buon villano ne la pregasse, non consentì a
nessun patto a fermarsi in casa sua, e discese.

Per dir tutto, il cavallaro non si disperò per questo, che già in cuor
suo pensava al rabbuffo che poi avrebbe tocco dalla sua donna. — Via,
dunque, disse, se dovete veramente andar innanzi, non voglio tenervi.
Di qui a Como, c'è una buona camminata, un'ora e mezzo grossa... e la
strada, la sapete?

— Oh sì! e poi, spero di trovare alcuno di qui, da far la via insieme.

— Può darsi; la strada è battuta, ma con tutto questo, non vi fidate
troppo.

— E bene, sarà come Dio vuole! Egli, che m'ha aiutato sempre, non vorrà
abbandonarmi adesso! E quanto a voi, io non potrò che ricordarmi sempre
del servizio che mi avete fatto.

— Eh! m'è costato poco, la mia figliuola; che quasi m'ero dimenticato
che c'eravate voi nel fondo della mia carretta. Oh! promettetemi
almanco, che se aveste a passar ancor di qui, se tornaste un'altra
volta a Milano, farete capitale di me; al caso, cercate conto di
Battista il cavallaro; e tutti v'insegneranno.

— Ah no! colà io non ritornerò mai più; e così non vi fossi andata
mai!... Addio dunque, buon Battista; ricordatevi qualche volta anche
voi della povera orfanella.

Il buon villano pareva commosso, e: — Che almeno io sappia il vostro
nome, riprese, perchè voglio che stasera la mia piccola Tecla dica
un'avemaria per voi...

— Sì, la preghiera dell'innocenza mi farà del bene! ditele dunque che
raccomandi la povera Angiola Maria.

Al momento di congedarsi, la giovinetta s'avvicinò al cavallaro,
e traendo dalla taschetta del grembiale una moneta d'argento, fece
prova di mettergliela nelle mani; ma egli, levata la destra in atto di
malcontento, si fe' brusco in viso, e con un salto fu di nuovo al suo
posto su la carretta; menò una buona sferzata al suo ronzino, il quale,
come sentisse l'odore della stalla vicina, tirò innanzi di galoppo: un
momento appresso, l'uomo e la carretta erano scomparsi; e la fanciulla
si trovò sola, in mezzo alla strada deserta e nevosa.

Ma quella sicurezza ignara quasi del pericolo, quel semplice coraggio
che la provvidenza ha messo nell'anime innocenti, in quel duro momento
rinacque in essa. Ell'era sola, ma pensava che intanto sua madre in
cielo pregava per lei; il cuor suo batteva tranquillo, nella fiducia
che la risoluzione da lei presa le fosse stata inspirata di lassù;
onde, senza nessun terrore, s'apparecchiava a incontrare la traversìa
del cammino, il rigore della stagione e l'incertezza dell'avvenire.

Solo un pensiero di malinconia le chiamò in quell'ora una lagrima sugli
occhi; era un involontario ritorno dell'anima al passato, il ricordarsi
con che diverso augurio, con che lusinghiere speranze essa aveva
attraversato, poco più d'un anno prima, quelle stesse strade, que'
luoghi stessi, che voti erano stati i suoi, che incantesimo pareva la
sua vita. E adesso, in poco tempo, qual funesto mutamento, qual lezione
dolorosa!... Non più speranza nè amore, non più madre nè fratello,
nè altra consolazione o promessa; dietro a sè lasciava il disinganno
dell'innocenza, e l'orrore della malizia degli uomini; e nell'avvenire,
non aveva più nulla, nulla, se non la fede nel Signore; la fede, che
serbava sempre per essa lo stesso sorriso, ed era come quell'angolo di
cielo azzurro, che ha una stella di pace nel mezzo, quando la notte è
buia e l'aria carica di nubi nere.


Maria si mise per una viottola di traverso, che la guidò sul sagrato
d'una antica chiesa, fuori dell'abitato, che quei del paese chiamano la
Madonna de' miracoli. Per avventura la porta n'era aperta; ella entrò,
e inginocchiata appiè dell'altare, innalzò a Dio dal fondo del cuore
una preghiera pudica, ardente, segreta; una preghiera tutta d'amore,
che nessuno le aveva insegnata, e ch'era così pura, così preziosa! La
chiesa era vasta, deserta, oscura; un lumicino, sprizzando le ultime
scintille, moriva a fianco dell'altare. In quella solitudine, in quel
silenzio le risovvenne la sera, quando, sola del pari al cospetto di
Dio e tutta tremante d'una gioia segreta, aveva ascoltate le calde
parole del giovine straniero e ricevuta la promessa dell'amor suo.

Allora compresa da religioso spavento, quasi che le pesasse su l'anima,
grave come la memoria d'un delitto, quell'importuno pensiero, posò la
fronte ardente sul freddo marmo della balaustra dell'altare e con ferma
voce proferì queste parole:

— O Signore, io aveva dimenticata la vita oscura e tranquilla, nella
quale voi mi poneste; e la vostra mano s'è aggravata sopra di me.
Io adoro il vostro giudizio; ma se il piangere che ho fatto, se le
prove che voi mi mandaste, han potuto espiare in qualche modo la mia
colpa, oh! salvatemi voi da questa memoria che mi perseguita, datemi
il mio cuore di prima!... Io perdono a tutti quelli che m'hanno fatto
soffrire, e voi perdonate a me! E perdonatemi ancora, se vi prego, o
Signore, per _lui_! È soltanto perchè anche a lui apriate gli occhi
della mente, onde vi conosca e v'adori nella grazia della fede.
Io benedico il vostro santo nome; e voi guardate al breve cammino
dell'orfanella su questa terra!...

Fatta questa preghiera, si levò con una tacita divozione; e togliendosi
dal collo il rosario di sua madre, che ancora teneva nascosto in seno
da quella notte fatale in cui era fuggita dalla casa del suo esoso
padrone, appese quel dono povero ma prezioso accanto dell'altare,
come un'offerta della cosa più cara ch'ella s'avesse; l'appese fra
i molti voti d'altre infelici e afflitte creature, ond'era coronata
quella santa immagine della Madre di Dio. E così, compito ch'ella ebbe
l'ultimo sacrifizio del suo amore sulla terra, uscì della chiesa con
l'anima piena d'una contentezza soave, di pensieri intemerati e tutti
nuovi; e il cuor suo si sentì riposato in quella certezza che consola i
più lunghi travagli, nella certezza che dal Signore le era perdonata la
sua colpa.

Attraversato il borgo, allora taciturno e quasi deserto, si mise per la
vecchia strada di Como, lungo quella bella costiera orlata dall'ultime
cascine del paese; e con leggiero e spedito passo, benchè il terreno
fosse molle e manchevole per la neve recente, camminava pronta e
sicura; poichè, portando essa povere vesti e grossi zoccoli all'uso
delle contadine, pensava che nessuno l'avrebbe osservata; e quasi le
pareva fosse tornato quel tempo che, fanciulletta ancora, correva in
libertà su per gli erti dossi della sua terra, a cercar pe' sentieruoli
e sotto le più tarde nevi i cespi delle viole de' suoi monti.

Ma l'aria che prima s'era mitigata, si fece a poco a poco più cruda e
tagliente. La fanciulla rivolgeva attorno per la campagna gli occhi
attoniti e stanchi; e quell'uguale, infinita veste biancastra, che
tutto ricopriva il piano e l'altura, le metteva ancora nell'anima certa
mestizia, mentre la gelida brezza le feriva il viso dilicato, e le
correva con un brivido per le membra infievolite. Ella tentò allora di
seguitar con più rapido passo la via, chè sperava il camminare potesse
ridarle animo e calore di vita; ma, essendo rimasta digiuna per tutto
quel giorno, sentiva già languir le poche sue forze, perchè non era più
avvezza a quell'aspra vita. E ben presto il suo non fu più camminare,
ma uno strascinarsi lentamente su per la salita, che comincia a
due miglia circa dal paese a cui aveva dato le spalle; e i passi le
mancavano, e più d'una volta fu costretta di fermarsi e appoggiarsi
al tronco d'un albero, a un masso della riva, per non cadere oppressa
e sfinita. E nessuno v'era che potesse intendere il suo gemito, quel
gemito che il durare del patimento avrebbe strappato alle anime ben più
forti che la sua non fosse; ella avrebbe potuto venir manco e finire
colà, senza che nessuno il sapesse: per tutta la strada non aveva
incontrato anima viva.


Alla fine, di lontano, in mezzo alle nebbie che andavano sempre più
raddensandosi, gli occhi abbagliati della fanciulla distinsero un
mucchio di case, la piccola colonna di fumo nericcio, che fuggiva
del comignolo d'un casolare poco discosto; poi le giunse all'orecchio
l'abbaiare d'un cane; e le parve quasi il saluto d'un amico.

Allora, ripigliato un po' di lena, strascinò a stento i passi fino alla
casupola che prima aveva scorta; e giunta all'entrata d'una morta siepe
di pruni, che faceva cinta alla piccola aia dinanzi alla casa, vide
quel cane che malinconiosamente uggiolava. Pure al suo avvicinarsi, il
buon animale levò il muso e si tacque, come se l'aspetto d'una creatura
sofferente l'avesse raumiliato. Ristette un momento la fanciulla, in
forse d'entrare o d'andarne altrove a cercar qualche ristoro; ma il
cane allora attraversò la corte saltellando verso la casa, e a ogni
poco guardando indietro quasi che volesse invitare un ospite aspettato;
e giunto all'uscio d'una stanza a terreno, con lo spingere del muso ne
aperse le imposte, e la fanciulla gli tenne dietro.

Era la cucina umida, tetra del povero contadino: le pareti e le
travi della soffitta nere di fumo e di fuliggine, una tavolaccia nel
mezzo, dall'un canto una rastrelliera appiccata al muro, con sopravi
in bell'ordine una mezza dozzina di tondi di peltro lucenti e poche
mezzine di terra; gli altri canti della stanza tutti ingombri degli
arnesi della campagna ammucchiati, disfatti e ancora polverosi,
l'aratro, le marre, l'erpici, i coreggiati, le vanghe; in faccia poi
l'ampio focolare, dove ardeva stridendo e sfavillando un bel fuoco di
legne secche; e su la sporgente capanna del camino posavano il vecchio
e lungo archibugio, per traverso su due grossi arpioni, il mortaio
e la falce. Presso a quell'allegra fiamma, sedeva sur un rozzo ceppo
un contadino attempato, ma vegeto e d'aspetto gioviale; e rimpetto a
lui se ne stava, con la rocca assestata sotto l'ascella manca, la sua
donna, la quale torcendo il fuso con preste dita filava alla distesa un
grosso pennecchio di lino.

Maria s'accostò con peritanza; ma il contadino con quella schiettezza
bonaria e serena, ch'è proprio tutta lombarda, fece la più onesta
accoglienza alla giovinetta pellegrina; la quale, vinta quella prima
tema, arrischiò di domandare per carità qualche po' di ristoro.

Quei contadini erano buona gente, marito e moglie, i quali menavano
vita abbastanza contenta nella loro povertà; perchè il poco che
avevano, era anche di soverchio per essi, dopo una recente disgrazia
ond'erano stati colpiti, cioè quella d'aver veduto morir prima di loro
l'unica figliuola avuta, una poverina di quindici anni. E appunto
la memoria della perduta figliuola rinacque nello stesso momento in
cuor dell'uno e dell'altra, appena Maria apparve loro innanzi. Il suo
bianco volto, i suoi occhi grandi e intenti, il suo andare faticato,
tutto fece quasi credere a quelle due buone creature che fosse l'anima
della loro Margherita, la quale tornasse una volta a visitarle: era
questa l'illusione d'un dolore ancor vivo; il ricordarsi ch'essa pure,
la Margherita, soleva così in compagnia del vecchio cane tornarsene
spesso dal vicino chioso, ov'era stata a far pascolare la sua fedele
vaccherella.

La ricoverarono dunque, come fosse stata veramente la loro figliuola,
e la fecero sedere nel canto del focolare; poi, intanto che il bravo
compare le poneva innanzi una scodella di latte fresco e un bel pezzo
di pan raffermo, dicendo ch'era tutto quanto restava loro per quel
dì, la sua donna traeva di dosso alla fanciulla l'umido saione che
le copriva la testa e le spalle; e, accarezzandole i neri capegli, li
rasciugava dalle gelate goccie di che erano stillanti ancora. Quella
premura affettuosa e quelle carezze furono un balsamo per il cuor di
Maria.

Un'ora di poi, essa abbandonava la casupola ospitale, seguita dalla
sincera compassione, dagli augurii di quelle due buone creature;
e persuasa che il Signore, il quale l'aveva prima fatta incontrare
coll'onesto cavallaro, e poi condotta alla casa del contadino dabbene,
l'avrebbe accompagnata nel resto della via. E ben s'era anche il buon
campagnuolo profferto di venirle dietro, per un tratto di cammino; ma
essa, che già non sapeva come dimostrargli la sua riconoscenza, non
volle a qualunque modo assentire, e si rimise sola per il suo sentiero.
Pure, appena uscita, vide che il vecchio cane del casolare l'aveva
preceduta; e giunta poi dove la strada faceva volta al basso, lo scorse
ancora sopra un'altra ripa, ov'erasi fermato, e donde la seguì per gran
tempo cogli occhi, finchè si fu dilungata.

La via s'avvallava, facendosi di tratto in tratto più lubrica e
difficile; e fuor dalle gole dell'alture vicine soffiava cruda e
sottile la tramontana; eppure, alla fanciulla, quell'aria spirava
benedetta e salutare; perchè veniva dalla sua terra natale, e pareva
dirle che dietro alle folte nebbie di che essa vedevasi circondata,
erano le creste delle sue montagne, e le care acque nelle quali
specchiavasi il suo paesello.

Al piede di quella scesa, attraversava un rustico ponte gittato a
cavallo d'un torrente, che coll'onda grossa e limacciosa rodeva i
margini della riva: un uomo era seduto a capo della sponda del ponte,
sur un masso di tufo, che forse l'urto delle piene estive aveva
rovesciato. Era un vecchio mendicante; portava la bisaccia vuota al
collo e un giubbone di lana rattoppato, alla foggia dei montanari; e
stringendo con le due mani un nodoso bastone, se lo teneva piantato,
dinanzi e appoggiava al vertice di quello la testa contornata di radi e
canuti capegli e d'una barba grigia e irta.

La fanciulla s'arrestò in faccia del vecchio, e con un sentimento di
celeste compassione tolse fuori una moneta d'argento, l'unica a lei
rimasta e che appena sarebbe bastata a procacciarle qualche soccorso
lungo la via; e la lasciò cadere nella palma callosa e tremante che in
quel momento il povero le tese. Egli fissò gli occhi con meraviglia su
la moneta, poi li levò con una espressione indicibile sul volto della
fanciulla, confuso e in atto di dubbio e d'inchiesta.

— Ditemi, buon vecchio, gli domandò allora Maria, è questa a mancina la
buona strada per Como?

— Sì, tenete per di là, dopo un duecento passi vi troverete sulla
strada maestra, poco lontana della Camerlata... Ma dite, quella buona
giovine, non avete voi paura d'andar così sola a quest'ora, in una
stagione di questa fatta?

— No! mi son messa alla volontà del cielo; e pregatelo anche voi per
me...

— Oh pensate! anzi, se non fossi vecchio e stracco come sono, vorrei
farvi compagnia; sono incamminato anch'io verso Como; ma fiacco e
malato qual mi vedete, e dopo aver fatte venti lunghe miglia sotto la
neve, appena potrò prima di notte tirar innanzi fino a quella cascina
ch'è laggiù.

— Vi ringrazio della buona intenzione, ma io devo andare ancor molto
lontano, e si fa tardi. Addio!


Ripigliò il cammino, e ben tosto trovossi all'imboccar della strada
maestra. A mano a mano ch'essa progrediva, il nebbione si levava più
denso e cupo, stillando i suoi umidi e crassi vapori nell'aere gelato.
Già non era più di due miglia lontano della città: e qualche viandante
povero come essa, e alcune carrette e calessi tenevano quella via.
Sicchè essa allora si sentiva a battere il cuore più sicuro di prima,
quando camminava sola per la strada di traverso.

Passò davanti al portone d'una vecchia taverna, che spiccava con le
muraglie sgretolate e tutte nere di fumo sotto le tettoie biancastre
per la neve caduta: il carro d'un mulattiere era sotto il portone, e
dalle grate di legno delle finestre usciva a lampi il chiarore d'una
gran fiamma rossiccia. S'udiva, ora distinto, ora confuso, uno strepito
di molte voci, un alto e sonoro scrosciar di risa: la fanciulla tremava
di freddo e continuava per la via, seguendo intanto con l'anima la
storia de' suoi mesti pensieri.

Non molto dipoi, il suo orecchio fu percosso da un rumor di ruote e di
cavalli; e quel carro, che aveva veduto sotto la porta dell'osteria, le
passò vicino: lo conducevano due giovani e robusti mulattieri; uno de'
quali seduto di traverso su la schiena d'un vigoroso mulo, cantava a
piena gola, sur una rauca e strana solfa; e l'altro camminava a fianco
del carico, traendo spesse boccate di fumo da una corta pipa di gesso
che teneva inchiodata in un angolo delle labbra, e facendo agli orecchi
delle bestie chioccare a grandi scoppii la sua grossa scuriada.

Quando i due ebbero adocchiato la fanciulla cominciarono un l'altro a
parlarsi in un rozzo gergo, alternando fra loro certe risa sguaiate e
certi atti misteriosi, che la giovinetta ne raccapriciò tutta, e più
stretto si chiuse sul viso e sul seno il rozzo panno che la copriva,
rallentando i passi per rimanere indietro. Ma un d'essi, mettendo fuori
un aspro gorgheggio che somigliava all'urlo d'un mastino, attraversò
d'un salto il fossatello che lo divideva dal sentiero dov'era Maria,
e le si piantò dinanzi, ficcandole nella faccia gli occhi arditi
e travolti. La fanciulla gelò, e arretrandosi con un involontario
ribrezzo chinò la testa e si coperse il volto con le mani; l'altro
allora, al quale era cosa nuova quella paurosa modestia, le si fece
incontro più audace; e con un motto vergognoso, che ripetè con la buona
intenzione di calmar gli scrupoli della giovinetta, le profferse di far
la strada in compagnia.

Ella non rispose; ma d'improvviso volgendo le spalle allo sfacciato,
cercò di salvarsi dalle sue mani col fuggire: il terrore le dava l'ale,
ma il giovane la seguiva, la incalzava; e l'altro mulattiero, veduta la
scena, balzava dalla groppa della sua cavalcatura, e correva anch'esso
in aiuto del compagno.

Maria ansante, affannosa, fuggendo, guatava per ogni parte se alcuno
giungesse, e nessuno si vedeva. Già i due le stavano sopra, e con
avide braccia, come una colomba che due falchi si contendano, già
l'abbrancavano; quand'ecco un uomo sbucar fuori da una viuzza della
campagna: era il vecchio mendicante, che Maria aveva incontrato
al ponticello del torrente. Costui la vide, corse, gettossi fra la
fuggitiva e i due inseguenti; e strinse al suo seno la sbigottita
fanciulla, con un braccio che l'ira fece ancor forte, nel tempo stesso
che levò l'altro armato del nodoso bastone, minacciando di romper
l'ossa al primo che si fosse avvicinato: tutto fu un istante.

I due compagni, sorpresi dall'imbarazzo si guardarono in faccia un
l'altro; ma il vecchio, con ferma voce, gridò: — Non fate un passo, o
scellerati, e tornate per la vostra strada! Io non ho paura di voi;
e voi accopperete me, vecchio come sono, prima di toccare a questa
fanciulla la punta d'un dito!

— Cos'ha mai questo demonio di vecchio? disse uno allora; e l'altro:
— Malann'aggia il dannato che guasta il fatto nostro! E come c'entri
tu, vecchia tramoggia dismessa? Vanne al diavolo che t'aspetta, o
t'avrai a pentire!... E tutt'e due allora fecero per iscagliarsi sul
mendicante, e strappargli di mano il bastone, ch'egli teneva ancora
sollevato in atto di minaccia su le loro teste. La giovinetta aveva
gettato le braccia al collo del suo difensore, e vi si teneva stretta,
avvinghiata.

— Lasciatela stare, per dio! il vecchio riprese con accento disperato,
lasciatela stare: ella è mia figlia!...

Queste parole fecero uno strano effetto sulle anime rozze ma schiette
de' due garzonacci: e l'accorta menzogna, che la stretta del pericolo
suggerì al pover'uomo, fu quella che salvò la fanciulla dallo
scellerato insulto.

— Ella è mia figlia! replicò l'animoso vecchio, e la sua nuda fronte
si corrugava, ardevano gli occhi, e tutte le sue membra per lo sdegno
tremavano. I due giovani si trassero indietro, colti da un cotale
istinto di vergogna che non sapevano spiegare a sè stessi; e sui loro
volti foschi e fortemente scolpiti lo svergognato ardimento aveva
ceduto il luogo a un insolito senso di compassione, che li faceva
stupidi e muti.

Alla fine: — Andiamo, Anselmo! disse uno, questo non è pane per i
nostri denti; e voi, galantuomo, perchè non l'avete detto alla prima,
ch'ell'era vostra figlia?... Non avete a far con dei birboni; e vi
sareste risparmiato a voi l'incomodo d'alzare il bastone, e a noi il
rischio di rompervi le corna.

Ciò detto voltaron le spalle; e, pigliatosi a braccio un l'altro, se
n'andarono zufolando di concerto, per correr dietro a' loro muli che
avevano perduto di vista.

— Sia ringraziato il Signore! disse il mendicante, dopo che si furono
allontanati, che m'abbia mandato l'inspirazione di continuar la strada:
io son vecchio, gli è vero, ma mi ricordo d'altri anni e d'altri
tempi... e, per dio! vi giuro, che a costo di questi quattro dì che mi
restano di vita, quegl'infami non avrebbero ardito non solo di torcervi
un capello, ma nemmeno di dirvi una parola di più... Or via! andiamo,
io mi sento bene; la mia forza antica mi è tornata in corpo, e voglio
venir con voi fino laggiù alla città.

La fanciulla lo guardava con una soave tenerezza, dalla quale
traspariva tutta la gratitudine d'un'anima pura, che non sa trovar
parole per esprimere quello che prova.

— Creatura del cielo! continuava il mendicante, voi avete stesa la mano
al povero vecchio, voi avete spartito con lui forse l'ultimo vostro
pane! Poco fa, quando là sul ponticello, vi siete fermata dinanzi a
me e con atto di compassione m'avete guardato, io ho veduto spuntare
una lagrima sugli occhi vostri; era tanto tempo che non incontravo
una faccia pietosa!... Adesso, io sono infelice; ma anch'io sono stato
un uomo e ho vissuto giorni ben diversi... oh! ma allora, in vece di
questo giubbone, io portava la divisa gloriosa del soldato, io aveva
veduto più di trenta battaglie, io odorava con gioia il fumo del
cannone; e queste mani, che adesso vedete tremare, hanno piantato una
delle bandiere di Napoleone, là sui tetti delle case di Smolensko,
in mezzo ai ghiacci della Russia!... ma, ora tutto è finito da tanto
tempo; e nessuno sa più nè manco ch'io mi sia... Voi sola m'avete
consolato con un'occhiata d'amore; siate dunque benedetta!

Maria s'era appoggiata al braccio del vecchio; e alternando parole di
conforto al racconto delle loro vicende così diverse, ma dolorose del
paro, continuarono a camminare in compagnia, fino a che giunsero presso
alla città. Qui si fermarono e si separarono: Maria, con un senso di
riverenza e d'affetto strinse la mano della sua guida, quella mano arsa
e callosa che poco prima s'era levata in sua difesa, e a malincuore si
congedò dal vecchio mendicante, che più non doveva rivedere.

Battevano le quattr'ore di sera sulla torre d'una chiesa del sobborgo
di Sant'Agostino, quando la giovinetta, sola un'altra volta e sostenuta
dal suo cuore, l'unico fedele che rimanga agli infelici, prendeva
la via della montagna, sperando pure di potere almeno arrivare
presso al suo paese, prima che la notte fosse venuta. Pensava che le
sarebbe stato impossibile il trovare in quell'ora una barca che ve la
tragitasse, tanto più che non l'era nemmeno avanzato di che pagarne il
nolo; e poi, il timore d'esser conosciuta, e la ripugnanza che sentiva
a mettersi di nuovo in mezzo alla gente per le vie oscure ed anguste
della città, le accrescevano la sicurezza di poter giungere egualmente
da parte di terra al termine del suo viaggio: era quella la strada
del suo terreno nativo, e l'aveva trascorsa più già d'una volta fin da
fanciulla, in compagnia del padre suo.

L'alpestre cammino era disagiato e rotto, ma i passi della fanciulla
eran rapidi e sicuri; un segreto coraggio la sosteneva, dicendole che
dopo un'ora di via ella sarebbe finalmente giunta al luogo della sua
pace, a quel ricovero così sospirato e pianto, dove oramai aveva poste
le sue poche speranze, tutta la sua vita. La poveretta si pasceva,
camminando, di queste pure idee consolatrici: e mentre continuava la
sua via su per la difficile erta, pareva che la ricordanza de' suoi
mali recenti andasse dietro a lei fuggendo, svanendo a poco a poco,
come l'angustia di un pericolo già passato. Domandava a sè medesima, se
la vecchia Marta fosse ancor viva, se l'aspettasse ancora, se l'avrebbe
stretta nelle sue braccia, se le avrebbe perdonato e tenuto luogo di
madre. In mezzo a queste immagini, la cui amarezza era temperata dalla
fiducia, Maria non s'accorgeva dell'asprezza della strada, e le sue
gracili membra portavano con alacrità l'insolita fatica.

Di poche e rade tracce umane eran tocche le nevi di quelle dirupate
rive; il fianco della montagna, tagliato a mezzo della via che conduce
da uno all'altro di que' sette miserabili e oscuri villaggi, i quali
si chiamano con superbo nome le sette città di Blevio, presentava in
tutta la sua nudità lo squallore dell'inverno, che aveva fatto quasi
impraticabile i sentieri e le coste. Macigni rovinati di recente, e
ricoperti tutti dallo stesso manto di neve; alberi conquassati dagli
eterni rovai, e minaccianti di rovesciar su la strada, co' rami più
annosi squarciati, che crepitavano al più leggiero soffiare del vento;
e gore d'acqua putrida, ghiacciata, dov'era rotta o fessa la terra;
e giù giù, per il dosso della montagna, boscaglie nude, stecchite e
rigagnoli di nevi squagliate: vecchi torrenti che trascinavansi dietro
ceppaie sbarbicate e lembi di terreno lacerati dall'impeto del gorgo,
poi con fracasso si dividevano, si moltiplicavano saltando per le
rapide balze e rovinando per entro le scoscenditure e le frane con uno
scrosciare dirotto, il solo strepito che sturbasse la sepolta natura;
e al basso, in fondo, spiccando col suo cupo colore, sotto il cielo
torbido e bruno e sotto ai monti tutti bianchi, la verde e muta acqua
del lago.


Intanto era sopraggiunta la notte; e, dopo molti pericoli e molto
terrore, Maria aveva attraversato l'ultimo di que' sette villaggi.
Passando, non aveva veduto che il riflesso di qualche tardo lume,
dietro il pertugio ingraticolato d'una casipola; non aveva incontrato
che due o tre montanari, i quali, senza badare a lei, s'erano perduti
per le tenebrose callaie del paese. Cominciava a spirar di nuovo la
tramontana e a fioccar più larga e più folta la neve, sbattuta dal
vento, che fischiava rompendosi contro ai dirupi e sollevava ne' suoi
vortici quella già caduta.

Più d'una volta la fanciulla, la quale infiacchita, affranta dal
crudele viaggio, oramai reggevasi a stento, sentì mancarsi sotto i
piedi il terreno, e alzò uno strido di spavento, uno strido che quella
stessa orrida solitudine lasciava senza risposta; più d'una volta
con disperato sforzo si mise a correre a tutta lena su la perigliosa
via, a fianco de' precipizii, sul margine degli sdrucciolevoli massi,
come per salvarsi dal turbine che pareva inseguirla; e poi affannosa,
anelante e credendo veramente di morire, s'avvinghiava con le deboli
braccia al tronco d'un albero, alle punte d'uno scoglio. E il vento
quasi si facesse giuoco della misera creatura, come d'una gracile
canna, or la incalzava e or la respingeva infuriando; nella foga del
correre contro l'impeto dell'uragano, essa aveva perduto la mantellina
che la copriva: e, a ogni buffa del vento, le sue trecce sciolte le
sferzavano sul candido collo e sul viso livido e agghiacciato. Poi
tornava a camminare, e sollevando di sopra il capo le mani strettamente
intrecciate, sembrava tra l'orror dello spavento e il gemere della
preghiera domandasse al cielo la morte come una grazia; stanca la vista
le si appannava, le si confondevano nella mente gli stessi pensieri di
terrore, e già più non sapeva dove ella fosse.


Alla fine, il sentiero cominciava a calar al basso; e in mezzo al fosco
della notte e allo smorto biancheggiar delle nevi, parve a Maria di
vedere un filare d'alberi, un muro, una casa...

A tentone seguitava la guida di quel muro, e trovavasi in faccia d'un
cancello chiuso fra due cadenti pilastri. Appoggiò la fronte alle
fredde aste del cancello... e riconobbe ch'era il campo santo del suo
paese; e credè perfino discernere il mucchio di terra dov'era sepolto
suo padre e la croce coperta di neve che lo proteggeva.

Allora si mise devotamente inginocchioni su l'entrata del sacro
terreno; e da quella scena di morte richiamata d'improvviso ai
pensieri della vita, pregò, pregò a lungo... Ma il disagio patito, la
dolorosa via, l'angoscia e il rimorso, tutto le piombò in quel punto
su l'anima, la quale forse più non era attaccata che per un filo
all'esistenza. Ella abbrividiva, si sentiva sfinire, ardeva, gelava
nel momento stesso... Non ebbe più forza di tenersi al cancello che
aveva abbracciato, e lasciandosi cader giù lentamente su l'agghiacciato
terreno, giacque come morta.


Un'ora di poi lo scalpitar d'un cavallo turbava il silenzio mortale di
quella desolata riva. La notte era già alta, l'uragano cessato; e solo
testimonio di vita era il fremito indistinto del lago, che si rompeva
alla sponda col monotono spumeggiar del fiotto.

Il giovin cavaliero, ravvolto nel suo corto mantello, pareva
disprezzare tutto il rigore della stagione, e consolarsi quasi nel
respirar l'aria asprissima della montagna. Egli aveva abbandonato
le redini sul collo del suo cavallo, che con passo lento e stanco
discendeva per la china.

Allorchè giunse presso al campo santo, il suo sguardo cadde a caso
sopra qualche cosa d'opaco che spiccava sul bianco terreno. Raccolte
le briglie, volse il cavallo da quella banda, e curvandosi sulla sella
vide al debole chiaror della neve onde appariva coperta ogni cosa
all'intorno, una misera creatura la quale pareva svenuta o estinta; e
pensò ch'era forse colà venuta dal paese a pregare per i suoi morti,
e che la crudezza del freddo o l'imperversar dell'uragano l'avevano
ridotta a quegli estremi.

Il cuore gli tremava forte; fermò il cavallo, scese di sella; e poi
chinatosi sul terreno presso quella salma assiderata, riconobbe ch'era
una povera giovinetta; e sorreggendola sulle sue braccia la sollevò
alquanto e la sostenne, inginocchiato com'era, sì che la testa grave
e cadente dell'estinta si rovesciò su la sua spalla. Allora egli
avvicinò il suo volto alla bocca della infelice, per conoscere se un
alito leggero di vita scaldasse ancora le sue membra immobili, fissò
gli occhi sovr'essa; ma al primo guardare, nulla vide, nulla distinse,
quasi che l'anima sua non avesse più senso... Tornò a fissar quella
fronte, que' labbri, que' cigli, ogni fattezza... e un brivido gli
corse per tutte le vene, e si sentì passar attraverso al cuore come la
fredda lama d'un pugnale... Arnoldo l'aveva riconosciuta.



XII.

SAGRIFICIO.


Chi non vide la bottega del signor Samuele, il nostro speziale, in
quella notte, non penserà forse ch'io possa,

«Credendo e non credendo, dicer vero.»

Fu un agitarsi, un andar e venire, una faccenda, un tramestío, che a
memoria d'uomo non s'era mai veduto il simile in quelle quattro mura; i
novellieri del paese n'ebbero a cianciar per lungo tempo, e a farne le
più belle e strane conghietture del mondo.


Nel mezzo della stanza, sopra il seggiolone ch'era là, solito trono
d'ogni sera del signor curato, giaceva coricata e sostenuta da alcuni
guanciali, la povera giovinetta, la quale non dava più nessun segno
di vita. Erane il viso bianco e smunto, e solo al contorno degli occhi
infossati e delle labbra sottili appariva dipinto d'un rossor livido,
cupo e morente nel pallidissimo colore della fronte e delle gote;
ma gli occhi eran chiusi, le braccia al lungo del fianco distese,
irrigidite; e tutta la bella persona immota, raggruppata, per così
dire, in sè medesima e co' ruvidi panni raccolti d'intorno, che
s'informavano dalle dilicate membra, era stesa nella grave, abbandonata
positura d'un cadavere.

Presso a lei, curvo sopra uno de' bracciuoli della seggiola, stava il
giovine inglese, muto e smorto esso pure, quasi come la svenuta; e le
sue pupille senza moto non si staccavano mai dalla faccia di Maria; la
quale posava con la testa arrovesciata all'indietro, come se l'anima
di lei avesse già abbandonata quella sua verginale dimora. Nè altra
cosa rivelava la vita in quella strana immobilità del giovine, fuorchè
il leggero mover delle labbra, quasi che pronunziassero parole senza
suono, e tremassero commosse dall'incerto e sublime sorriso che fu dato
solamente al dolore, quando ancora non abbia perduta tutta la speranza.

Con le faccie lunghe, curiose, guardandosi di sottecchi a ogni
momento, uno in atto d'interrogare come la sarebbe ita, e l'altro di
rispondere che non lo sapeva, se ne stavano il signor curato e il
deputato politico, dietro il seggiolone, presso d'un tavolino; sul
quale vedevasi lo scacchiere abbandonato, con le pedine sparsevi sopra:
e da certe occhiate, che i due lasciavan cadere su quello a ora a
ora, s'indovinava in essi il rammarico della partita intralasciata. In
mezzo a loro allungava il collo, come il solitario cappone dalla stia,
l'agente comunale, quotidiano testimonio e giudice delle sette disfide
de' due campioni a dama.

Colui che dall'altra parte gesticolava con gran foga nel parlar
sottovoce al dottore, era quel vecchio galantuomo del signor Gaspero;
egli, ragionando, spiegazzava la gazzetta che ancor teneva fra le mani,
l'ultima capitata al paese in quel dì stesso. E qui, torna bene che
conosciate la prudenza del curato; il quale, dopo il brusco esempio
di quel disgraziato don Carlo, aveva smesso non poco del suo ardore
politico; e, ceduto il diritto della lettura al signor Gaspero, si
era rassegnato alla parte d'ascoltatore, accontentandosi durante la
sessione parlamentaria in casa dello speziale, di scrollare il capo,
fregarsi le mani, o d'andar traendo lunghi sospironi, o di sogghignar
fra sè e sè; il qual diplomatico suo vezzo faceva allora il termometro
infallibile della politica del paese.

Intanto lo speziale e il dottore s'affaccendavano a gara intorno
alla tramortita fanciulla, con una sollecitudine e un'umanità degne
veramente del secol nostro; e mettevano alle prove la dottrina e l'arte
per richiamarla alla vita, e per conoscere se mai un palpito ancora
poteva essere suscitato in quel cuore che più non batteva. Lo speziale,
rimboccato un lembo del suo grembiule di tela roana scura, e inforcato
il naso con gli occhiali, davasi attorno con una premura, un affanno da
non dire, e rimestava le cassette, gli armadii e le scansìe, le quali
dalle spalancate vetriere presentavano la tremenda falange de' vasi
e delle boccie di polveri e manteche, d'olii e di sali, di succhi e
quintessenze, da disgradarne Avicenna e Hanhemann. Il dottore aveva già
invano sperimentato di stropicciar le tempie, la fronte e i polsi della
giovinetta con essenze spiritose, e metteva giù con dispetto le inutili
ampolle; invano le aveva posto sopra il seno de' pannilini riscaldati,
e di grosse coperte le aveva ravvolte le insensibili membra. Tutti
volevano dir e fare; proponevano, discutevano, parlavano tutti in una
volta; era un trambusto, un frastornío, che avrebbe potuto risvegliare
i sette dormienti della leggenda. — E quella gran gara era l'effetto di
due sole parole, pronunziate dal nostro giovine eroe allorchè, entrato
nella bottega, con infinito stupore e maraviglia di tutti, recandosi
su le braccia la svenuta fanciulla, depose sul seggiolone il caro suo
peso, e disse: — Tutto quanto io posseggo a chi salva questa giovine!


Ma poichè il mio racconto, con vostra buona pazienza, cammina a
rilento, non v'incresca di volgere indietro un'altra occhiata.

Era passato più d'un mese dal dì che Arnoldo abbandonava Milano, per
venire in traccia della perduta Maria. Se vi ricorda, quando seppe
ch'essa non era più nella bottega della crestaia, nè potè averne
in altra maniera notizia alcuna, si mise in mente che la si fosse
ricoverata al suo paese, presso alcun parente; e partì con questa
certezza. Venuto fino a ****, prese a pigione una parte dell'antico
palazzotto, ove suo padre aveva prima dimorato; ma quant'egli fece
per trovar qualche traccia della giovine orfana, fu tutto vano. Queste
ricerche replicate e sempre perdute gli facevano scorrere nell'affanno
e nel dubbio i tristi giorni dell'inverno; e un mese così passò.

C'erano pure alcuni dì, ne' quali sentiva ancora di vivere: eran
quelli, in cui salito in sella d'un giovine cavallo, che da un pacifico
Comasco aveva in quel torno comperato, s'arrischiava su per le rotte
strade delle montagne, sfidando l'aspreggiare della stagione, e la
traversìa de' venti. Quelle corse selvagge lungo i margini dell'acque
e sopra i fianchi de' dirupi, gli ricordavano la sua patria, il suo
cielo, le nebbie del mare, il castello del buon zio, la combattuta
sua giovinezza; tutta la prima, la vera poesia dell'anima vergine e
ardente. Poi succedevano de' giorni, ne' quali gli tornava incresciosa
la vita, e gli pareva che al suo soffrire non restasse altro conforto
che un novello soffrire. Allora se ne stava, le ore intere, appoggiato
alla finestra della sua stanza, guardando il lago, e si sprofondava
nella meditazione e nel passato: un volume, suo fedele amico, un bello
Shakspeare, ch'era un ricordo del cugino Randale, del compagno de' suoi
prim'anni, gli stava aperto dinanzi; e gli uomini disegnati da quel
gran pittore dell'anima e della vita pigliavano agli occhi suoi figura
e movimento. Vedeva sè stesso nello sfortunato Edgardo, il figliuolo di
Glocester; piangeva al sublime delirio, alle cocenti lagrime di Lear,
fremeva a' soliloquii di Macbeth, e pensava a suo padre; per lui, la
tenera Cordelia, l'innamorata Desdémona, la dolente Caterina, eran
sempre Maria. Altre volte, e il più sovente, camminava di buon mattino
fino alla casetta d'Andrea, che la vecchia Marta abitava ancora, quanto
solitaria e grama, lo pensate! E' vi restava per tutta la giornata,
seduto in un canto del focolare, poco lontano dalla vecchierella; la
quale non faceva che parlargli di _quella cara tosa_. Era la meschina
dimora unico avanzo del bene della fanciulla; e senza il buon signor
Gaspero, che aveva salvato per miracolo dagli artigli dell'esattore
comunale la casa e la vigna, tutto sarebbe stato perduto. Egli poi lo
fece perchè, a dirvela in confidenza, sentiva ancora il batticore per
la giovinetta, che si ricordava d'aver le tante volte fatto ballonzare
piccina su le sue ginocchia.


Arnoldo dunque contemplava, con l'anima tremante e con lo sguardo
fisso, atterrito, immobile, la faccia della fanciulla; e stava spiando,
se in mezzo a' tormenti, con che il dottore e lo speziale straziavano
quella bianca e dilicata creatura, il cuore e le labbra di lei si
riaprissero al gemito dell'esistenza. Con ambe le mani e' le strinse la
destra agghiacciata, e avvicinandola alle sue labbra, con quell'affetto
che solo può essere consacrato dalla terribile idea della morte,
v'impresse un lungo ardente bacio d'amore, delirando quasi che con quel
bacio gli fosse dato restituirle la vita; come Romeo, quando venne alla
tomba di Giulietta.

La baciò di nuovo, la contemplò... soprastette... E poi, balzando
d'improvviso, con un accento soffocato dall'impeto della gioja,
proruppe: — Ella vive ancora!...

Non era una vana illusione; quella fredda mano aveva risposto al premer
delle sue con un bàttito leggero, fuggitivo. Era il tornar della vita;
egli allora, tutto tremante di speranza e di terrore, le posò la destra
sopra il seno, e quel leggier risalto si ripetè: era il cuore che
ripigliava il suo palpitare.

Nè molto andò ch'essa riaperse e lasciò errar debilmente all'intorno
gli occhi estatici e muti; e fece come un grande sforzo per sollevare
la testa; poi gli occhi si richiusero, e la testa ricadde. Arnoldo
sentì di nuovo la crudele stretta dell'angoscia, e il suo volto si
ricoperse di mortale pallidezza. Allora afferrò per un braccio lo
scompigliato dottore che gli era vicino, e fortemente scuotendolo, — Mi
rispondete voi della sua vita? domandava con alto spavento. Ed esso,
sotto la tortura di quelle valide stratte, balbettava: — Rispondo,
rispondo io... Non tema; mi lasci, mi lasci andare!...

— Ma questo letargo mi spaventa! replicava il giovine, dando un altro e
più fiero squasso al braccio del povero dottore.

— Non tema, questi rispondeva, è un semplice sopore, è una cosa
naturale... Io me l'aspettavo... bisogna che sia così!

Ma lo speziale, veduta quella potente dimostrazione, rinunziava
all'intrapresa cura, alla speranza del grosso regalo; e cautamente,
come un buon capitano che prevede a tempo il pericolo, ritiravasi
dietro la trincea del suo banco.

Intanto bisognava pensare a collocar la malata in qualche altra parte,
dove potesse riposare, meglio che non in quel duro seggiolone del
curato; bisognava trovare una camera, un letto: lo speziale era nel
cimento d'offrir il suo per quella notte, e Arnoldo già aveva risoluto
di farla trasportar nella villa; quando il signor Gaspero venne fuori
col miglior consiglio: e fu, che mandassero a chiamar la Marta, e
portassero la fanciulla nella sua propria casa, che non era lontana; e
così almeno la poveretta, al suo risvegliarsi, sarebbesi trovata sotto
un tetto conosciuto, tra le braccia d'una persona amica.

Mandarono dunque per la Marta; e come la buona donna si rimanesse
consolata insieme e sbigottita, tra la contentezza di riveder la
sua Maria, e il dolore di ritrovarla in quello stato, può credersi
appena. Ma Arnoldo e il dottore pressavano, sicchè ben presto ebbero
trasportata la giovinetta, tutta ravviluppata nelle coltri, a casa sua;
dove giunti, la posero in quella camera, ch'essa un tempo occupava, nel
suo letticciolo, ch'era ancor rifatto.

Essa era tuttavia immersa in un sopore profondo. Arnoldo, che l'aveva
sostenuta tra le sue braccia, con quella cura attenta e gelosa della
quale solo l'amore è capace, si trattenne per lunga pezza appiè del
letto; e, seduto sur uno sgabello, col capo chino su le ginocchia,
s'abbandonò a lunghi e dolorosi pensieri. Poi, avendo il medico
raccomandato gran silenzio e quiete, acconsentì a ritirarsi nel
piccolo andito vicino, e si riposò sopra una seggiola, presso la porta
socchiusa della cameretta: donde gli giungeva all'orecchio l'affannoso
e grave respirar di Maria, la quale, riavuta alfine dal suo lungo
svenimento, era caduta in un sonno profondo. Marta stette a vegghia
tutta la notte presso il capezzale della fanciulla.


La mattina seguente, sul primo albeggiare — erasi il cielo durante la
notte sgomberato dalle nuvole, e risplendeva uno di que' dolci soli
d'inverno, che consolano il cuore degli uomini e la malinconia della
natura, uno di que' soli che, dopo l'imperversare del cattivo tempo,
non sono radi in quel beato angolo della terra. — Maria si riscosse
dal profondo suo sonno, e sollevandosi lentamente su la persona, alzò
gli occhi, e vide il primo raggio di quel sole, smorto ma pur limpido,
che penetrava per la finestra, e cadeva sopra il suo letto. Guardò
trasognata all'intorno, e ravvisò la figura amorevole e serena della
Marta; la quale, seduta da un canto, stava a mirarla tra confortata e
pietosa, senza poter dire sola una parola. Riebbe allora la conoscenza,
tornò a volger gli occhi per ogni parte, chè ancora non sapeva dove
fosse. Era pur quella la sua cameretta, un tempo sì cara, il soggiorno
d'un'età più felice; era il raggio del suo sole che la salutava, era
quella la casa di suo padre e di sua madre. E già non si ricordava più
d'aver pianto e patito... Ell'era ancora là, eran tornati i giorni
della sua fanciullezza.... tutto era stato un sogno, un lungo e
terribile sogno!

Ma rivolse il capo dall'altro canto, e gli occhi suoi s'incontraron
negli occhi d'un giovine di nobile aspetto, che, incrociate sul petto
le braccia, la contemplava silenzioso, ma sorridente. Essa lo guardava,
e coll'incertezza dello sguardo pareva domandar chi fosse quel giovine.
Allora tutti i suoi pensieri si sollevarono nella mente, si confusero,
le ripiombarono in un punto sul cuore; la speranza che tutto fosse
stato un sogno era svanita... Distolse gli occhi da lui, gettò le
braccia al collo di Marta, che s'era fatta a lei più vicina; e tutto
nascondendo il viso in quell'amplesso si mise a piangere, come si
piange quando con le lagrime a lungo represse si può sfogar un dolore
raggruppato per tanto tempo nel cuore.

— Oh! cosa le avete voi fatto, signor Arnoldo?.. domandò la Marta,
posando in atto di compassione la destra sul capo chino della
giovinetta.

— Io l'ho amata!.. rispos'egli.


In quel mezzo, il medico comparve su l'uscio della camera. Maria era
ricaduta sui cuscini del letto, in un nuovo spossamento di tutte le
forze. Il dottore le si avvicinò, studiò con attenzione il suo volto
colorato allora d'un leggier vermiglio, e gli occhi incavati e morti;
le toccò i polsi, che rispondevano con ardenti e ineguali bàttiti
febbrili, e conobbe che il male era più serio che prima non pensava.
Ma, benchè in cuore lo sentisse, pure tacque al giovin forestiero
il suo fatale sospetto; e limitossi a ordinare alcune pozioni, e a
prescriver novamente che lasciassero l'ammalata in un assoluto riposo,
procurando di risparmiarle la più piccola sensazione di piacere e
di dolore. E poi, si volse ad Arnoldo, e, fattosi un po' d'animo,
gli comandò d'allontanarsi da quel luogo, se pur voleva che la vita
dell'ammalata fosse salva.

Arnoldo obbedì a malincuore, ma obbedì. Uscito in compagnia del
dottore, quando furon nell'andito, si fermò, e lo prese per la destra,
dicendo: — Giuratemi ch'ella vivrà! con un accento che fece tremare il
pover'uomo; il quale lo guardò, e balbettando rispose: — Oh! oh! oh!
tutto sta nelle mani di Colui ch'è lassù!...

Chi amò veramente e pianse al terribile dubbio di dover perdere per
sempre l'amor suo, immagini l'angoscia dell'innamorato giovine. Alla
vita di quella creatura era allora attaccata la vita della sua fede,
il coraggio dell'anima sua, tutta la sua speranza terrena. Fino a
quel giorno, egli non aveva pensato mai esser così dura la solitudine
a un'anima che ha bisogno d'amore e d'esempio; e quando ritrovò
quell'angelo di pura bellezza, che nella sua mente egli aveva rivestito
dei più ideali colori della virtù, confidò finalmente che il cielo si
fosse riaperto per lui. Il solo pensiero di dover perderla ancora gli
appariva tremendo, come l'anátema della disperazione; egli stesso non
aveva creduto fino allora d'amarla tanto!


Il dì seguente, il medico dovette pur troppo confermarsi nel concepito
sospetto; gl'indizi d'una lenta febbre di consunzione si manifestarono
nell'ammalata; la sua notte era stata senza sonno; al letargo del dì
innanzi eran succeduti il turbamento, il delirio, l'obblio del passato
e il vago presentimento d'un termine vicino; e a tutto ciò ben presto
s'aggiunsero una tosserella aspra e muta, e un assiduo languore.
L'infelice si lamentava spesso d'atroci punture al cuore, d'un sordo
tintinnìo negli orecchi, d'improvvise fiamme che le ardevano il sangue,
le oscuravano gli occhi e la mente; e allora, le coltri le pesavano sul
seno, le erano insopportabili; e, con un fievole gemito, diceva di non
poter respirar l'aria che la circondava.

Poi succedeva un lunga spossatezza, e pareva che la sua vita andasse
mancando, come un raggio che si dilegua; pareva che ogni ora dovesse
esser l'ultima per lei. La buona Marta era sempre al fianco di quel
letto; e la sorreggeva, e apprestava le medicine dal dottore ordinate:
benchè essa nel suo cuore molto soffrisse, aveva forza di non piangere,
e trovava sempre qualche pietosa parola per sostenerla. Ma quando
l'ammalata era quieta, e ch'ella si sedeva sola a' piedi del letto,
allora lasciava tacitamente scorrere le sue lagrime; e coll'anima sua
semplice e fedele pregava, sempre in segreto, la Madonna.

Talvolta, nel cuor della notte, Maria a un tratto balzava esagitata, in
mezzo a que' sonni leggieri, se pur sonni potevano dirsi gli sfuggevoli
riposi che il dolore, stanco quasi di tormentarla, le concedeva; ella
balzava a seder sul letto, e cacciandosi indietro con le mani tremule e
scarne i lunghi capegli, che umidi di febbrile madore le si stendevan
sul viso, spingeva gli occhi attoniti fra l'ombre della camera, e poi
levava la destra convulsa per additar quelle immagini sinistre che
l'assediavano, o quelle persone amiche con le quali immaginavasi di
parlare e di piangere. Allora i suoi pensieri vagavano nelle torbide
memorie del passato; la sua innocenza, l'amor suo, i pericoli corsi,
le sue disgrazie, e tutti quelli che l'avevano avuta cara, e quelli che
le avevano fatto del male, tutto le si affacciava in un punto all'anima
oppressa; e le sue interrotte parole erano piene di pietà e di dolore.
La sola Marta era testimonio di que' solitari e compassionevoli
lamenti.


— Perchè mai mi lascian tutti così sola, sola, dopo ch'io fui sempre
perseguitata?... Oh Dio! che ho fatto di male? O mia madre, io pensava
sempre a voi, quand'ero lontana; ma questo povero cuore... questo
cuore non era mio! Tengo qui dentro un segreto, che non devo scoprire
a nessuno, neppure a lui, a lui che... ah il suo nome io non potrò
dirlo mai!.. perdonatemi, o mia buona mamma! Dio m'ha castigato...
perdonatemi voi!... S'egli mi parla di qui innanzi, tacerò, farò la
sorda, fuggirò via... Aimè! dove sono?... Questa è la chiesa ov'egli
m'aspetta, questo è l'altare — Ave, Maria, piena di grazia, il Signore
è con te... — Forse non verrà! Ah no! eccolo, è lui!... Perdono, o
Signore! io ascoltai la sua promessa, perdono!

E ricadeva illanguidita e senza movimento, per sollevarsi ancora, dopo
pochi momenti, rapita dall'impeto di nuove immagini: — Egli tornerà,
il suo cuore è buono; le sue parole son vere, come la virtù; con
quello sguardo, è impossibile non dir la verità!... Oh caro! io l'avrò
convertito, egli crederà nella nostra santa fede, e verrà a pregar il
Signore con me... Io sono pallida, lo so; ho patito tanto e sto ancora
assai male... Guardatemi, ditemi: è egli possibile che non mi riconosca
più, che più non sappia chi sono?... No, non è vero! esso era pur qui,
io l'ho veduto; e m'ha ben ravvisata, e m'ha sorriso come una volta!
S'io non fossi bella come prima, avrebb'egli sorriso?...

E anch'essa la povera giovinetta, come se contemplasse un'ombra
presente, sorrideva così da strappar le lagrime a chiunque l'avesse
ascoltata in quell'ora.

Dopo un altro istante di riposo, risorgeva ancora lentamente, giacchè
invano la desolata Marta tentava con amorose e ripetute preghiere
di far ch'ella si coricasse più tranquilla. E giungendo le mani, e
scuotendo il capo, in atto di chi racconta lunghi travagli sostenuti,
ripigliava: — Io non ho amato altri che te, e non te l'ho detto mai!...
Ma per amor del cielo, non ne parlare con persona viva... Vedi! mia
madre è morta, mio fratello, mio padre, tutti son morti!... Io sono
sola a questo mondo... e tu! tu mi puoi dare il paradiso o l'inferno...
Io vorrei esser tua; ma temo che lassù in cielo non sia scritto così!
Vieni, vedi, questa è quella Madonna, a' piè della quale mi giurasti
di volermi sempre bene... T'avvicina, pigliami per mano! Dio ne
benedirà!... Ma, chi è mai quel prete? lo vedi tu? io lo riconosco...
è lui, è mio fratello, è il tuo amico... Oh Dio! Dio eterno! fuggiamo,
lasciami! Non vedi ch'egli leva la destra in atto terribile di
minaccia? non senti ch'egli ne maledice tutt'e due?...

Ma il cielo pietoso, dopo quelle notti d'angoscia, dopo quelle visioni
di sgomento, le concedeva almeno lunghe ore d'una calma benefica e
sollevatrice, interi giorni di pace e di rassegnazione; nel volger
de' quali dolce le tornava lo sfogo del pianto, il conforto d'una
calda preghiera, e soave perfino il ricordarsi del dolore sofferto,
il pensare a quello che ancora le restava a soffrire. In quel tempo
però ella poco parlava, e pareva quasi straniera a ogni affetto che
la riavvicinasse a questa vita: l'avresti creduta una di quelle sante
giovinette martiri della prima età cristiana, le quali, in mezzo a'
tormenti, contemplavano estatiche una corona celestiale.


Io non dirò tutto il patire di quella meschina, chè già questa semplice
narrazione è troppo compassionevole e piena di pianto. La malattia
della povera Maria fu lenta, sorda, penosa; più d'una volta essa toccò
a quel tremendo punto, in cui la sola speranza che rimanga è un domani
nel cielo; più d'una volta fece temere di vederla finire, dopo alcuno
di quegli impeti di tosse convulsiva che di frequente l'assalivano.

Eppure il dottore, sia che non fosse troppo sapiente, sia che vedesse
più in là che non sembrava, ebbe segreta speranza di salvarla ancora;
e nelle cure assidue che le prodigava, non tardò ad accorgersi che il
male non aveva soggiogato del tutto quella debole complessione, e che
anzi a poco a poco rimetteva della sua crudeltà; onde fu persuaso che
se alla fanciulla non erano quaggiù promessi lunghi anni, le sarebbe
stato conceduto almeno di vedere più d'una primavera, e forse di
respirar novella vita nel balsamo dell'aria nativa.

Egli non s'ingannò. Venne la primavera, e ben presto la gracile salute
della nostra giovinetta cominciò e rifiorire. Il silenzio dell'anima
e la pace della natura poterono più che gli sforzi dell'arte; ma
per non far ingiustizia a quel dabbene del dottore, bisogna dire che
la paziente attenzione e lo studio che pose a risparmiare alla sua
ammalata ogni più leggiera commozione e più di tutto ogni memoria della
sua vita passata, fanno fede ch'era miglior medico ch'egli medesimo
non si credesse, un medico filosofo, voglio dire, come pretendono
d'essere tutti i nostri medicuzzi d'ieri. Non permise ad Arnoldo di
visitar Maria che una sola, o al più due volte la settimana; e sempre
in compagnia di lui, per due eccellenti ragioni: una, perchè il mondo
non dicesse, l'altra, perchè un solo colloquio che fosse finito con far
piangere l'ammalata, avrebbe potuto rovinar il sistema della sua cura.
Dunque, in tutto quel tempo, Arnoldo era stato quasi straniero per
Maria; essa non osava domandare di lui, neppure alla Marta; ed egli,
temendo sempre che il cielo non gli rapisse quel fiore sì adorato, si
tenne in una mesta e contegnosa lontananza. La Marta poi, la quale
dapprima, finchè durò il male di quella sua diletta, aveva saputo
soffocar le lagrime, allora piangeva; ma piangeva di consolazione.


Era un mattino, un bellissimo mattino, al principio d'aprile.

Maria sedeva al raggio di quel puro sole, nel cortiletto che si
specchiava al lago; sedeva tranquilla presso il muricciolo, sul quale
erano ancora i suoi vasi di fiori, quantunque inferme e cadenti ne
fossero le odorose pianticelle. Essa respirava l'aria imbalsamata dai
profumi della mattina; e il suo viso alquanto pallido ancora, mostrava
quel soave incanto di bellezza, che tocca assai di più, quando rivela
il segreto d'un'anima che si ricorda de' suoi dolori. Un sorriso
ineffabile, misto d'una dolcissima malinconia, errava sulle sue labbra
ancora smunte; e la lieve tinta rosata onde le si coloravano le gote,
faceva spiccare di più la muta candidezza del suo bel volto e del
sottile suo collo.

Arnoldo entrò nel quieto ricinto; nè Maria, assorta ne' suoi pensieri,
s'avvide di lui. Egli le si avvicinò lentamente: la fanciulla alzò
allora gli occhi, e la sua fronte si velò d'un vivo rossore, che
subito sparve. Alla prima, Maria non trovò parola; poi balbettò come
un saluto; e il giovine, fattosi a sederle d'accanto, si rimase lungo
tempo a guardarla, incerto e pensieroso. Ed essa, inchinate le pupille
a terra, taceva.

— O Maria! diss'egli finalmente, io benedico quest'aria così serena e
in pace, questa gioja di tutta la natura, questa divina bellezza della
terra e del cielo che vi restituiscono la vita, che sembrano sorridervi
per consolarvi di tutto quel ch'è passato!... Voi siete nata in un
paese beato; questi monti e quest'acque sono la più bella contrada del
mondo... Oh vi fossi nato anch'io, oh fossi anch'io italiano!... Ma
voi lo sapete, o Maria, i' ho risoluto di non abbandonar più questi
luoghi. Ora, son solo su la terra, e costretto a fuggire dalla casa de'
miei padri, a portare un nome che non è mio! Una volta io era potente,
adulato, cercato; ora mi respingono tutti. Ma voi non mi respingete,
no; io non posso più che offrirvi un'umile sorte e l'esilio; ma voi
siete buona, e manterrete la vostra promessa!... Ditelo, Maria, ditelo
adesso ch'è tempo! Fra voi e me non c'è più distanza; e una vita
modesta, ma beata con voi, è la sola felicità alla quale io voglia,
alla quale mi sia concesso d'aspirare.

— Lei è un buon signore, ha un cuor che d'uguali ce n'è pochi! Ma io
cerco inutilmente esprimere quel che sento... Ah! se le mie parole
hanno qualche valore agli occhi suoi, deh m'ascolti, signor Arnoldo!...
E così Dio mi mandi forza di parlarle com'io devo, in questo momento
che deciderà della mia vita!

— Dite, Maria! Il farmi felice o infelice per sempre, sta in voi... a
voi lascio la mia sorte! Ho saputo rispettar fin adesso ogni vostro
desiderio, non v'ho mai ricordata una promessa... perchè il vostro
dolore, le vostre disgrazie...

— Per carità, signor Arnoldo, non parliam più di me. È di lei che mi
preme, della sua felicità, del sacrifizio ch'ella vorrebbe fare. Oh!
ritorni per un momento su la sua vita passata; pensi a lei stesso, come
deve fare un uomo; e poi decida.

— Come, o Maria, sarebbe possibile che ricusaste d'unire la vostra
sorte alla mia? dopo tutto quel ch'è stato, dopo tanto amore?... Oh io
vi amo ancora, o Maria, vi amo, come la prima volta che vi ho veduta,
come quel giorno...

— Non mi dica così, signor Arnoldo, io ne la prego col mio cuore,
con le mie lagrime!... Se ha ancora della stima per me, parliamo
come fossimo stranieri uno all'altro. Non è vero ch'ella non abbia
più nessuno a cui pensare... Suo padre soffre certamente per la sua
lontananza, e sospira di rivederla prima di morire, di lasciarle il
suo nome e l'onor della famiglia... E le sue buone sorelle?... e il
suo paese che lo chiama, che l'aspetta, che ha bisogno di lei?...
queste cose, appena io capisco come sieno, ma pur sento che son vere.
Non posso creder che suo padre l'abbia maledetto, non è vero che più
nessuno si ricordi di lei! E se anche, al primo momento, lo sdegno
l'avesse fatto ingiusto, si sarà pentito da poi; perchè padre e
madre perdono tutto, piuttosto che i figliuoli... E se dapprima, per
l'onore, ella ha creduto bene d'abbandonare chi lo disprezzava, adesso
è il momento di far vedere a loro stessi, che la persuasione e non il
capriccio l'hanno consigliata, e che ha ancora, lasci ch'io lo dica, lo
stesso cuore e la stessa virtù!

— Buon Dio! siete voi che mi parlate così? chi vi disse tutte queste
cose? chi ve le inspira? Io, sì, lo sento il cruccio di star lontano
da' miei... so che le mie buone sorelle piangono e m'aspettano. Ma,
per me, il domandar perdono sarebbe un rinnegare la verità che ho
abbracciata! Nè per questo i' ho fatto sacrifizio d'ogni cosa; l'ho
fatto per ciò che tutti calpestano, la fede e la coscienza. O Maria, lo
veggo! voi non mi amate più!

— Ah! signor Arnoldo, non dica, non pensi così. Io era già morta, ella
mi salvò! Oh questa riconoscenza ch'io sento, basterà oramai essa sola
a riempiere tutta la mia vita!...

— Voi parlate di riconoscenza, ed è amore ch'io vi domando. E che?
s'io dovessi anche tornarvi, là nella mia patria, se l'onore mi vi
chiamasse, non andrei io superbo di mostrar a tutti qual angelo io
possegga? non benedirei sempre il cielo di poter mettervi a parte
d'ogni contentezza della vita, di farvi grande, come siete degna
d'essere, più d'ogni altra donna?

— Il suo cuore è buono e generoso; ma io, quantunque nulla sappia in
confronto di lei, pur sento che questa la è un'illusione. Nol so da
vero, perchè mai abbia preso a voler bene a una poveretta come me;
pure, so ch'io non lo meritava, e che non ero nata per questa fortuna.
Oh! non la mi guardi così! se ascoltassi soltanto il mio cuore, una
cosa sì amara io non potrei dirla... E poi, capisco pure ch'io le parlo
troppo male; ma al momento in che siamo, bisogna dir tutto com'è.

— Cielo! oltre al non amarmi più, potreste voi pensare, o Maria, che
verrebbe tempo ch'io avessi a mancare alla mia fede, all'amore?...

— No! vedo pur troppo che non so spiegarmi, o ch'ella non m'intende!...
E questi suoi rimproveri mi fan piangere. Ma io non voglio dire
di lei... Tutti l'hanno amato, e l'ameranno sempre: e come nol
dovrebbero?... Nessuno ardirà disprezzar la fortunata che porterà
il suo nome. Ma a questa donna felice, se mai fosse d'una condizione
diversa dalla sua, una meschina come son io, non sarebbe rìserbata una
continua rampogna, un tormento segreto, eterno?... Potrà mai credere
a quegli onori che non sono per essa, e non arrossire di trovarsi con
quelli che mentono con la bocca e disprezzano nel cuore, con quelli che
tacciono per compassione?... Oh! gli occhi di chi ha molto sofferto
leggono nell'interno di coloro da' quali non sono amati, abbastanza
per poter piangere ancora. E poi, viene il tempo il più amaro. Quegli
che prima era l'amico, il fratello, il padre suo, il suo tutto, non
la guarda più come in quel giorno, in quel giorno felice che nasce
una volta sola, e non torna più; non le chiede più di quelle parole,
che un tempo facevano la sua gioia, il suo conforto. Egli è un uomo,
un cittadino; ha la gloria che lo chiama, la vita che gli comanda, la
società che l'accarezza, il mondo che lo guarda... Egli non è più solo,
come in quel giorno così bello!

— Maria, Maria, che dite voi mai?

— Ah! lasci ch'io sfoghi tante cose che da sì gran tempo porto nel
mio cuore! Quella poveretta che sente non essergli più necessaria,
quella, che al pari d'un fiore per un giorno gli piacque, non è più
la medesima... Ella tace sempre, ella piange spesso; ed egli volge
indietro la testa, e cerca altri fiori più freschi, più belli, perchè
l'uomo ha sempre bisogno della bellezza... Oh mio Dio! quest'angoscia
basta sola a far morire di dolore la infelice! E il dubbio che
l'accompagna sempre, e il timore di proferire una parola sola che a
lui dispiaccia, e l'affanno segreto di sentirsi così piccola cosa a
paragone di lui, e la stessa grandezza dell'amore che gli porta, di
quell'amore ch'egli con un pensier solo può maledir per sempre...

— Non più, Maria, non più!... Ecco, era una speranza del tutto vana la
mia, e voi spezzate l'ultimo anello della mia vita... Tu, o Maria?...
tu, la più bella e la più santa creatura del Signore, l'unica stella
ch'io avessi ancora, tu puoi abbandonarmi? Abbandonarmi, quand'io,
per amarti, ho dimenticato patria, parenti, nome, tutto?... Gran dio!
dunque la virtù ch'io cercai sempre, altro non era che un delirio, la
poesia de' vent'anni, l'incanto d'una primavera?... Bisogna che sia
così. E adesso, che farò?... Tornerò nel mondo, mi getterò in questo
vortice di cose, nell'ebbrezza della passione, nella vita del momento;
sì, riderò delle lagrime che si piangono da per tutto, e di quelle che
farò versare anch'io; e a coloro che mi rinfacceranno di non creder più
a nulla, nemmeno alla virtù, dirò; Gli uomini m'han voluto così! peggio
per loro.

Maria raccapricciò a queste strane parole, chinò la testa e impallidì.
Arnoldo la guardava quasi sdegnoso, e levandosi a un tratto, mosse per
allontanarsi.

— Oh si fermi, signor Arnoldo, proruppe allora la sbigottita fanciulla,
e non mi lasci in questo modo!... Io le ho parlato come una povera
giovine onesta; ho fatto il mio dovere. Ella non sa, non vede il mio
dolore; ma io soffrirei ben più, se non avessi coraggio di parlarle
col cuore in mano. La grandezza, la felicità che mi vuol dare, non
son fatte per me: questi due anni della mia vita non saranno stati
altro che un sogno, ma il più bello di tutt'i miei sogni!... Quando
penso a queste quattro mura, dove son nata, dove per tanto tempo sono
stata felice anch'io... quando penso a mio padre, a mia madre... Oh se
vivessero ancora... non mi avrebbero certamente benedetta!

— Se que' buoni vivessero ancora, vorrei metter la nostra sorte nelle
loro mani. E anch'esso, vostro fratello...

— Il mio povero Carlo!.. Ah se sapesse quello ch'egli pensava e diceva!
Questa forza ch'io sento di parlarle come feci, me l'hanno data le sue
parole, e la santa virtù che inspiravano... Io me lo ricordo, come
se fosse adesso; egli, il mio buono e santo fratello, mi disse una
volta... qui, qui appunto dove siamo noi: Abita sempre nel luogo in
che il Signore ti collocò; Egli solo è Quello che non abbandona mai!
Conserva il tuo cuore, e vivi povera e modesta come sei nata!...

E, ripetendo questo ricordo, Maria singhiozzava. Il giovine era
commosso e sorpreso da contrarii pensieri.

— Ecco, ripigliò indi a poco Maria, che le ho aperto l'anima mia.
Un'altra ragione poi... non ho nemmeno il cuore di dirla, ma pur è
vera anch'essa... ed è questa, ch'io sento di potere durar poco: la
è un'idea che ho avuto sempre... Ma, adesso, Dio mi darà la virtù di
patire per questo poco tempo.

— No, Maria, non lo dire; no, non è vero!... Vuoi tu vedermi disperato,
vuoi tu ch'io maledica al mondo e a Dio?...

A questa imprecazione la fanciulla non resse; il coraggio, che fin
allora l'aveva fatta maggiore di sè stessa, era esausto: ella tornava
una fragile, sofferente creatura com'era prima. Fece per parlare, e non
potè; sentì sciogliersi le membra, vide appannarsi, confondersi le cose
a lei d'intorno, e la sua voce non seppe formar che un debole sospiro.

— O Maria! o mio angelo tutelare, diceva Arnoldo con supplichevole
affetto, sostenendola: ascoltami, o Maria, non m'abbandonare, non
morire!... Tu sei una santa, io ti venero come mia madre! Farò tutto
quello che vuoi; parla... guardami! dimmi una parola sola... Non m'ami
più? Ah! non importa... Io sarò infelice; ma tu ascoltami, non morire,
oh non morire!... Ti son forse odioso? Ah no, no! dimmi che non è vero!
E perdonami: io voleva un poco della tua felicità, un poco della pace
del tuo cuore. Parla, o Maria! ma non mi togliere tutta la speranza.
Vuoi tu ch'io parta, che corra a gettarmi a' piedi di mio padre?... Io
me n'andrò, domani... oggi... subito! Ma tu vivi, aspettami, e lascia
ch'io creda all'amor tuo.

— Sì, sì, è ben meglio che parta, signor Arnoldo! disse Maria, alla
quale le ardenti parole del giovine avevano restituito un po' di
coraggio, quantunque misto a un segreto fremito di terrore; è ben
meglio che parta! Io per me, spero che Dio m'aiuterà... Senta dunque:
s'ella torna nella sua patria, io l'aspetterò per un anno... e poi...
quando veramente fosse la volontà del cielo...

— Questa condizione è dura, Maria; nè so come potrò obbedire...

— Ah! è necessario ch'ella s'allontani per qualche tempo, che torni in
pace col padre suo!... Consoli le sue sorelle; e mi nomini a loro; a
quella buona Elisa, se la si ricorda ancora del mio nome. Io intanto
penserò a lei, sempre a lei, signor Arnoldo, ch'è stato così buono per
me! Io non aveva più nulla a questo mondo, nulla fuorchè la mia onestà;
ella ha avuto compassione di me, e io la benedirò sempre, pregherò
sempre per lei!...

Arnoldo era commosso fino alle lagrime. Contemplava Maria con una muta
tenerezza; e la piena degli affetti che agitavano il suo cuore, non
poteva trovare un'uscita. Alla fine le si appressò umiliato, le prese
una mano, se la recò alle labbra, la baciò, la bagnò del suo pianto, e:

— Addio, le disse, Maria! Addio per un anno.

— Addio! rispose con voce sicura la fanciulla; ma il suo cuore
addolorato in quel momento tremò che non fosse _per sempre_.


Il seguente mattino, Arnoldo abbandonava quelle rive, abbandonava
l'Italia. Tornato alla villa, dopo il colloquio avuto con Maria, vi
aveva trovato alcune lettere d'Inghilterra, e fra queste una d'Elisa
sua sorella, la quale dipingendole il rovescio ch'erasi fatto nella
salute del padre suo, il terrore e l'abbandono in che essa e Vittorina
vivevano, lo scongiurava a non perder nemmeno un'ora, a ritornar
subito, a ricordarsi del nome che portava, e del dovere di figlio
e d'Inglese, che lo richiamavano in patria. Questa lettera finì di
persuadere Arnoldo. Bisognava dunque partire, senza riveder Maria,
tutto il comandava: e chi sa anche s'egli potrà ancora arrivar a tempo
per ricevere la benedizione del padre suo?

Egli dunque partì. Maria, che in tutta quella notte non aveva potuto
chiuder occhio mai, s'era levata col sole, e se ne stava appoggiata al
davanzale dell'aperta sua finestra, a contemplar di lontano la villa
**** dov'egli abitava.

I balconi del terrazzo erano spalancati; quella parte della casa aveva
l'aspetto d'un luogo abbandonato di recente. Quel pianerottolo deserto,
quell'alto terrazzo, quelle vôte finestre, le mettevano nell'anima
un'involontaria tristezza. I suoi sguardi calarono lenti e distratti al
lungo della riva... In quel momento, essa vide una barchetta staccarsi
dal piccolo porto che si apriva al piede della villa. Un uomo, chiuso
nel suo mantello, era in quella, barca, la quale ben presto pigliò
il largo; il barcaiuolo faceva forza di remi contro il vento che
increspava tutta la superficie del lago. Un grido doloroso, invano
trattenuto, le scoppiò dal più profondo del cuore... Allora, come
fosse stato scosso da quel grido, Arnoldo levò il capo, e di lontano la
riconobbe. Si alzò, stese la mano verso di lei nell'atto d'un ultimo
saluto; poi, quasi oppresso da una forza prepotente, s'abbandonò di
nuovo su la prora della barca: la quale fuggendo via via si dilungò
rapidamente, finchè non apparve più che come un punto nero nell'iride
dell'acque che riflettevano il sole nascente.

Ma quand'ebbe perduta di vista quella barchetta, la povera Maria sentì
mancarsi il cuore: uno schianto improvviso la soffocò; e proruppe in
lagrime d'amarissimo cordoglio, in quel piangere caldo e dirotto di
chi non ha più speranza. Ella pensava che tutto era finito, che non
l'avrebbe riveduto mai più.

Angiola Maria visse ancora un anno, nella solitaria casetta, in
compagnia della sua vecchia amica, ch'erale prodiga delle cure le più
amorevoli, e si ricordava così spesso di _lui_.

Aveva raccolte sei o sette povere fanciulline del contado, tutte da
quattro a cinque anni, belle angiolette da' capegli d'oro e dai visetti
color di rosa, tenere anime che l'amavan come una madre. E insegnava
loro a leggere, a dire quelle prime orazioni del fanciullo, che sono
il più soave profumo che si alzi ne' cieli; e si deliziava di vederle
folleggiare, quelle piccine, per le aiuole del suo cortiletto; e tutte
le metteva a parte di quel poco ben di Dio che a lei era avanzato.

Così ell'era abbastanza felice, perchè persuasa e contenta d'aver
compito il suo dovere.

Innocente e sublime creatura! Essa aveva compito il suo sacrifizio.

Al cominciare dell'altro inverno, que' fatali indizii d'una lenta
consunzione, sopita per qualche tempo ma non vinta, tornarono a
spiegarsi; e il dottore, il quale a quando a quando capitava a
visitarla, si fu subito accorto della funesta verità.

Pure Maria trascinò i suoi giorni per tutta l'invernata. A poco a
poco, ella si consumava, finiva, senza temer di nulla, senza soffrire:
Dio è sempre pietoso, e volle risparmiarle quegli ultimi patimenti.
Le fanciullette sue amiche venivano ancora, quasi ogni dì, a tenerle
compagnia; qualche volta, alcuna d'esse, la più grandicella, le
domandava perchè mai la fosse così pallida e dimagrita, e nel domandare
piangeva... Ma ell'era rassegnata; nè fu udita mai pronunziare un solo
lamento; chè anzi, assorta talora in una dolce meditazione, le sue
labbra s'aprivano a un tranquillo e celeste sorriso.

Tornò la primavera, tornò il bel sole, tornarono i fiori; ma il cielo
non fu più sereno, nè più ebbe l'aria balsamo per lei. Oramai, ella non
sorgeva più dal suo letticciolo.

Al principio dell'aprile, in quel dì stesso che, un anno prima, aveva
veduto partir Arnoldo, ella restituiva l'anima pura al Creatore. E
le fanciulle ch'essa aveva tanto accarezzato, e la Marta, alla quale
lasciò la sua casetta, e quel buon galantuomo del signor Gaspero, che
sempre le aveva voluto bene, furon coloro che l'accompagnarono l'ultima
volta fin al luogo del suo riposo. Ella è sepolta presso a suo padre; e
quelle due zolle sono protette da una croce sola.

Alcune settimane dopo la morte di Maria, il signor Gaspero stava
leggendo agli amici le novità della gazzetta: sedevano a circolo
su l'entrata della bottega di Samuele; poichè al venir della state,
l'aristocrazia del paese, come i capi delle tribù indiane, soleva tener
consiglio a cielo sereno. Dunque, fra le altre novelle, sotto la data
di Londra, egli lesse questa:

  «— Sir Arnoldo, figlio di lord Leslie, quello stesso, la cui
  conversione alla fede cattolica menò gran rumore l'anno passato
  nel bel mondo, fu eletto membro del parlamento pel borgo di ****.
  Pretendesi che l'onorevole baronetto debba menare in isposa una sua
  cugina, la bella e ricca erede di lord S..... miss Elena Davison.»

Il buon vecchiotto continuò a leggere; nè a lui, nè al dottore (il
quale però conservava ancora, come reliquie, certe tre quadruple di
Spagna lasciategli in dono dal giovine inglese), nè al curato, nè allo
speziale, cadde in pensiero che quell'onorevole baronetto fosse appunto
il bel forestiero che avevano conosciuto. Non vi fu che il deputato
politico, il signor Mauro, se pur ve ne ricordate, il quale susurrò a
mezza voce: — Quel nome non m'è nuovo... Ma via, che importa a noi?...

Bisogna dire per altro, che di Maria non si dimenticarono. Il signor
Gaspero raccontò più d'una volta la storia della povera tosa; e n'era
sempre commosso, e conchiudeva seriamente: — Il mondo è una scala, e
ciascuno deve starsene al suo scalino. La provvidenza non ha creato
per niente i signori e i poveri diavoli. Dunque rimani contento nella
condizione in che la Provvidenza t'ha collocato, nè voler sollevarti da
quella, per non perdere pace, libertà e salute... Ma, dopo un momento,
scrollava il capo, e con un sogghigno di compiacenza soggiungeva: —
Quest'è vero! Eppure io sono la prova del contrario. Se fossi sempre
stato quel baggeo ch'io m'era da fanciullo, la mia fortuna a quest'ora
sarebbe di menar la barca fino a Domaso e di pescar gli agoni laggiù
sotto la riva; ma perchè, in que' bei tempi, non me ne stetti con
le mani nel giubbone, da povero merciaiolo son diventato quel che
sono, e ho veduto quel che so io; e almeno ho casa e tetto, e posso
far e disfare anch'io la mia parte; nè mi manca nulla, fuorchè la
consolazione d'un'anima bella, come fu Maria. Ma, un'altra come lei,
non la troverò più, se campassi anche gli anni di Noè.



IL MANOSCRITTO

DEL VICECURATO



I. L'OSPITE MONTANARO.


Cadeva l'autunno del 184*. Sull'imbrunire d'una di quelle care e
malinconiche giornate, in cui le memorie dell'amore e dell'amicizia
risvegliano nell'anima il bisogno di pensare e di piangere, io andava
lentamente camminando sull'alpestre via che conduce al solitario
villaggio di ****. Già avevo dato le spalle all'umide inabitate
reliquie del castello di Fuentes, e più non m'appariva nella lontananza
neppur quell'ultima lucida zona dell'Adda, che sboccando fuor dell'Alpi
di Valtellina s'allarga e s'impaluda là dove comincia ad aprirsi
il lago di Como. Le montagne all'ingiro s'eran velate di quel cupo
uniforme colore che spandono i poetici crepuscoli dell'autunno; e più
non si distingueva nè un villaggio, nè una chiesa, nè un campanile:
appena gli ultimi riflessi del sole già caduto tingevano tuttora d'un
roseo a grado a grado fuggente l'altissima cresta del Legnone, che
sola, fra tutti gli altri monti all'intorno, portava il suo candido
cappuccio di neve.

Io era solo, e non sapendo se, prima della notte fatta, mi fosse
possibile giungere al villaggio il più vicino, cominciavo a trovar la
via più lunga e meno romanzesca che non mi paresse da prima, più umida
e più trista la sera. E dubitai d'aver fallito il cammino; sicchè io
era già sul punto di voltar indietro i passi per tornarne al paese
d'onde veniva. Ma a poco a poco una cotale magia che si diffonde dalla
silenziosa maestà della natura, una specie di vaghezza dolorosa che ne
fa parer bello lo stesso terrore, e in uno quella meraviglia che andiam
sempre cercando nell'incertezza delle cose di quaggiù, mi diedero animo
a continuar la via.

Allora mi venne all'orecchio il rumore d'un passo lento e grave che
moveva dietro al mio, e l'eco d'una monotona cantilena, della quale
non poteva ancora distinguer le parole, ma che aveva non so che di
patetico e misterioso a cui mal non rispondevano i miei pensieri e le
confuse fantasie ond'era occupata in quel momento l'anima mia. Nelle
grandi solitudini, fuor dello strepito degli uomini e della vita, dove
la natura regna ancora nella primitiva e severa sua bellezza, una sola
voce, un suono lontano, un sospiro del vento che ti rechino di nuovo
i pensieri del mondo che avevi, senza saperlo, dimenticato del tutto,
d'improvviso ti rapiscono a quella contemplazione dell'infinito, a
quell'intima forza dell'anima che dianzi ti facevano maggiori di te
stesso, e ti ripiombano nella realtà delle cose, direi quasi, nel
terrore d'esser uomo e d'esser solo.

Mi fermai in mezzo della via, e diedi attento l'orecchio al suono che
andavasi man mano facendo più distinto e più vicino. Egli era forse
(pensai) un alpigiano di quella valle, che tardivo al par di me, si
trovava sulla medesima strada per tornarsene a casa, e ingannava il
tempo e il cammino ricantando alcuna delle vecchie canzoni del suo
paese. Così parevami dicesse press'a poco quella canzone:

    Vedi la striscia bianca
      Che pare un nugoletto?
      Il vecchio non si stanca:
      È il fumo del suo tetto.

        O mia foresta bruna,
      O cime del Legnon!
      Passò la terza luna
      Che da voi lunge io son.

    Ampia, serena e chiara,
      Qui l'aria il cor non serra:
      La povertà m'è cara
      Nella mia poca terra!

        La nebbia eterna stagna
      In seno alla città:
      Cercai la mia montagna;
      Sognai la libertà!

    Cantar qui m'è concesso
      De' miei figliuoli al canto:
      Gli antichi miei qui presso
      Dormon nel campo santo.

        Per me sei vasto e bello,
      Povero casolar! —
      Ritorna al paesello
      Il vecchio montanar.

— Ecco, diceva io tra me, dove si va a nascondere la semplice poesia,
amica del sole e del cielo sereno. Le rimembranze della passata età,
e le schiette, calde fantasie di questi abitatori d'ignote capanne
serbano ancora un'impronta di quella naturale dolcezza antica che noi
perdemmo: sono incolte, ma pur belle le armonie che d'una in altra
generazione consolano le loro veglie invernali, le tranquille domeniche
e gli allegri giorni della vendemmia, quand'essi s'accolgono a crocchio
sulla spianata al raggio del sole occidente! L'uomo della città ritrova
la sua patria per tutto il mondo: non v'è più che il montanaro il quale
ami la sua rupe e la casipola che sopra vi siede, e viva contento della
sua povertà all'ombra del campanile che lo vide a nascere.

In quella, sul sentiero che saliva con rapida svolta verso il colmo
d'una piccola altura, vidi venirne verso di me un vecchio; il quale,
sebben curve le spalle sotto il peso d'un fardello appiccato alla
cima del suo bastone, moveva con passo così alacre e spedito che in
un momento m'avrebbe oltrepassato, ov'io stesso non gli fossi ito a
rincontro, domandandogli: — Brav'uomo, siete del paese?

Egli fermossi: parve maravigliato di trovare uno straniero a sì
tarda ora su quella via. E guardandomi prima un poco, con cert'aria
diffidente, ch'era forse un resto della sperienza di fresco imparata
nella città, mi rispose: — Sì, o signore, torno a casa mia.

— Quant'è lontano di qui il vostro paese? e come si chiama?

— Oh bello! si chiama ****; e in una buona mezz'ora al più, del mio
passo, ci sarò arrivato.

Il nome del villaggio non mi parve nuovo, ma non sapevo in quale angolo
della memoria cercarlo.

— Se non v'incresce, soggiunsi, verrò fino al paese con voi; chè in
mezzo alla notte, e ignaro di questi monti e di queste valli, avrei
tema di perdere il sentiero.

— Come le piace, signore! Ma se mai credesse di trovare alloggio
al paese, cangi pure la strada fin d'adesso; chè sulla costa della
vallata, fra que' sassi del tempo del diluvio, non ci stanno che un
cinquanta povere e disperse tettoje, aperte al sole e alla neve, come
Dio vuole; e son case quelle ove non può dormire se non chi vi nacque.

— Ci sarà almeno il curato; ed egli forse...

— Eh! il curato? so bene che quando alcuno di lor signori capita nelle
nostre parti, si fa servir da osteria la casa della parrocchia; ed
è un onore che fanno... Il curato c'è sicuro, un bravo prete, non fo
per dire; ha un cuor da padre, un cuore proprio da buon montanaro. E
pure...

— E pure che cosa, amico mio?

— Ecco, vorrei dirle, non so se il signor curato vedrà tanto volentieri
in casa sua la faccia d'un forastiero. Egli fa la vita del romito;
quella poca terra e que' scarsi livelli che fanno tutta la prebenda,
gli bastano appena per non morir di fame. Perchè, il paese è povero,
caro signore; e anche noi vecchi, quasi ogni anno, dobbiamo andarne
a cercare un po' di sorte alla Bassa, e dopo aver tagliati i boschi
de' nostri monti, girare laggiù facendo il manovale, o qualch'altro
duro mestiero. Ma intanto, con la grazia di Dio, la si campa da povera
gente.

— E voi credete dunque che il vostro signor curato avrebbe cuor di
lasciarmi sulla via? Eh! per un uomo che insegna il vangelo sarebbe una
bella carità!

— Non è questo; ma gli è che pur troppo nella nostra povera terra,
benchè rintanata fra l'Alpi, i forestieri han finora condotto la
mala fortuna. E il paroco anche lui, vede, ha dovuto imparare a non
creder troppo alla gente, dopo la disgrazia del nostro vicecurato...
Oh! ma quello sì era un uomo! che cosa dico? era un santo, la nostra
provvidenza. Bisognava vederla quella testa che pareva inspirata
veramente dal Signore! Così giovane e così sapiente! E il suo cuore,
chi nol conobbe, chi non l'ha benedetto?... Egli spartiva con noi
il suo pane, egli andava a comprare del suo le medicine per i poveri
malati, e veniva a consolarci nella disgrazia, o a piangere con noi:
tutti, dal primo all'ultimo, vecchi, uomini e figliuoli, noi abbiam
imparato a ripetere il suo nome con una benedizione.... Oh! chi
l'avesse veduto com'io che andavo in casa sua tutt'i giorni per que'
pochi servigi che gli occorrevano!... Bisognava poi sentirlo, come lo
sentivano tutti quei della vallata, che venivano a frotte quand'egli
predicava e parlava delle cose del Signore, che dovevasi proprio dire
ch'era la verità santa. Anche il signor curato, quantunque vecchio e
superior suo, lo stimava come un dottore, lasciava facesse tutto lui;
e quell'uomo del Signore era veramente il nostro padre, il nostro
fratello.

Mentre il vecchio alpigiano così mi parlava, mi risovvenne il come non
mi fossero ignoti quel paese e la sventura del vicecurato: la quale io
aveva udito raccontare alcuni anni innanzi, e m'avea dato di potere
scrivere nella pace della giovanile mia stanza un libro semplice ma
vero; un libro che nel gran vortice della letteratura dovea sortire un
destino ben più lieto di quanto (non per la consueta umiltà d'autore,
ma per coscienza di sè) avesse sperato mai colui che lo scrisse. E mi
cadde in mente che più d'uno trovò ravvolta di soverchio mistero la
storia di quel prete, credendo così tutt'altro che vera una sciagura
ch'io non aveva potuto raccontare in modo più chiaro.

In quel momento, trovandomi a pochi passi dal villaggio, in cui visse
per alcun tempo il buon prete del quale parlavami il montanaro, pur non
sognando, per certo ch'io l'avessi mai conosciuto, pensai che il caso
m'offeriva forse un'occasione di saper qualche cosa di più che da prima
non avessi potuto raccapezzare di quella storia buja, o se non altro di
visitare i luoghi, dove quell'anima eletta così piena dell'amore degli
uomini e del desiderio del bene aveva lasciato la migliore eredità che
di noi possa restar sulla terra, una memoria incontaminata e benedetta.
E tutto in questo pensiero, ringraziai la fortuna che m'avea messo per
quell'alpestre contrada e fatto compagno di via del buon vecchio. Il
quale continuava con le schiette e vive sue parole a ragionarmi delle
virtù umili e grandi del vicecurato, e ripeteva a ogni poco che il
Signore l'aveva rivoluto troppo presto con lui.

Il montanaro sapeva solo che negli ultimi dì del viver suo l'infelice
prete aveva patite grandi e immeritate sciagure, sapeva ch'era morto
lontano lontano di là, e che la sua famiglia era ita per il mondo alla
misericordia di Dio. Io mi guardai bene dal rivelare all'onest'uomo
il poco che m'era noto della tremenda verità; chè temevo quasi rapire
all'anima sua semplice e buona quel culto segreto, quel religioso amore
che serbava ad una vita caduta sì presto in man de' cattivi, e ch'era
stata (per dir come il buon montanaro) la vita d'un martire.

Io camminava a fianco del vecchio, senza dirgli più nulla, e lasciando
che a sua possa egli interrompesse l'alto silenzio della notte,
parlandomi della sua montagna e delle città vedute, del suo paese, del
magro ricolto, del maggior figliuolo morto da pochi mesi, e dell'altro
partito l'anno innanzi coscritto militare, che più non sperava
rivedere, vicino com'era ad andarne a star co' suoi vecchi. — I miei
pensieri ritornavano a quegli anni in cui avevo anch'io conosciuto
e amato il misero vicecurato, e s'eran fatti così dolorosi ch'io
sentiva a quando a quando alcuna lacrima cadermi dagli occhi. E pure,
erami dolce in quell'ora il pensare alla mia patria!... Il montanaro,
accorgendosi ch'io più non dava mente alle sue parole, guardava la
luna che allora appunto si levava limpida e bella, come un diadema
d'argento, dietro gli altissimi gioghi dell'alpe; e canterellava ancora
a mezza voce:

    Cercai la mia montagna,
    Sognai la libertà!

Dopo un'ora buona di cammino (poichè su per la via de' monti, quando
vi dicono una piccola mezz'ora s'intende un'ora grossa al manco)
cominciammo a trovar le prime case del villaggio. Non si vedeva
più neppure un lumicino, ch'era già spento ogni focolare; nulla che
rompesse l'alta quiete notturna, se non il lontano romoreggiar del
vento fra le cime de' pini e degli annosi castagni; talchè mi pareva
d'attraversare un di que' paesi adombrati, morti, che talora ne
fuggono dinanzi agli occhi ne' sogni. L'alpigiano mi condusse lungo la
costiera per certe viottole che facevano giravolta a ogni cinque passi;
e calando sempre, si fermò alla fine dinanzi un casolare isolato,
dicendomi: — Questa è casa mia.

E battè forte all'uscio.

— Nessuno m'aspetta per certo, ripigliò poi: la mia vecchia e
l'Assunta, la figliuola del mio povero Pietro, mi credono ancora
laggiù alla fiera di Delebio; e il Sandro, quell'altro disutile che
m'ha lasciato, sarà ancora sull'alpe con le poche bestie, finchè vi
abbia pur qualche spanna di terra erbosa; le altre due grame vacche,
poveraccie! le vendei sulla fiera: chè aspettiamo una trista invernata;
e non potendo far vivere le bestie, bisogna pensare a campar noi.

Tornò a battere, e una voce rispose di dentro; poi s'udi uno strepitar
di zoccoli accorrenti, e levarsi il travicello che sprangava l'uscio, e
due donne in un gruppo comparir nel vano della porta: una d'esse teneva
alzata dinanzi agli occhi una fumigante lampanetta che maggior lume non
mandava d'una lucciola estiva.

— Oh Madonna santissima! disse la vecchia, siete voi?

— O caro il mio nonno! soggiunse la fanciulla che, vedendo uno
straniero, ardiva appena far capolino dietro la spalla della vecchia.
Che il Signore vi benedica! Ben lo diss'io che non poteva esser altri
che voi.

Entrammo nel casolare. Il messere col quale, camminando di conserva, io
aveva fatto più ampia conoscenza, e in cui veramente io vedeva uno di
que' patriarchi di montagna che più non si trovano se non là dove si
respira l'aria libera e pura, mi fece sedere sotto la capanna del suo
camino, dinanzi un'allegra vampa di rami secchi che le due donne ebbero
presto accesa sul largo focolare. Poi mi profferse di spartir con lui
quella poca di cena che trasse fuor della sua bisaccia, un resto di
pollanca fredda, e un bel pane bianco, messi in serbo la mattina: però
che l'ospite mio, come poi seppi, era un di quelli che nel paese poteva
dire la loro ragione, e possedeva terra e bestie, essendo da vent'anni
e più il primo deputato della comune.

Piacquemi di trovare ancora fra queste buone creature un esempio
dell'antica ospitalità a cui il mondo più non crede; e, rese grazie
all'onesto vecchio della sua cordiale profferta, accettai di preferenza
dalle mani della giovane montanina una colma scodella di fresco latte.
L'Assunta era una fanciulla di sedici anni, una brunetta dalle pupille
di foco e di forme spigliate e snelle: il breve guarnelletto turchino
lasciava vedere un bel piede e una gamba fatta al tornio; il suo busto
di lana rossa le serrava bene alla persona; e il bianco fazzoletto,
che teneva aggruppato di sotto al mento, faceva spiccare di più i bruni
contorni del suo viso e le due lunghe treccie di bei capegli neri che
le scendevano sul seno. E pure non era bella l'Assunta; ma aveva nella
sembianza quella dolcezza che annunzia la pace del cuore, e negli occhi
vivaci quella gioia che accompagna i semplici pensieri: ma nel lindo
suo vestire, nell'ingenua sua positura, seduta qual era sulla grossa
radice d'un albero a canto del focolare e intenta all'avolo suo che
andava narrando tutto quanto aveva detto e fatto da che s'era partito,
l'Assunta mi parve in quel momento una poetica figura, e poco mancò che
i miei pensieri pigliassero tutt'altro colore e che un diverso perchè
mi facesse fermar dimora in quella lontana e povera vallata.

A poco a poco, senza metter ombra alla sincerità del vecchio lo
ricondussi sulla via di parlarmi del vicecurato; e gli dissi che, per
me, ero contento di dormir quella notte, per qualche ora, in un angolo
della sua cucina, facendomi letto d'un bel mucchio di secche foglie
colà raccolte; io pensava che miglior giaciglio non avrei forse trovato
a venti miglia all'ingiro, e che così solevano dormire al tempo antico
paladini e trovatori.

— Or fa sett'anni, mi narrava il messere, noi avevamo ancora il nostro
vicecurato. Egli ne conosceva tutti dal primo all'ultimo, veniva a
sedere presso i nostri fuochi, nelle nostre povere stalle; nè mai
s'intese parlar meno di disgrazie nel paese che in quel tempo. Già vel
dissi, egli era il braccio destro del signor curato, e ogni cosa egli
facesse, era per lo meglio. Aveva un'anima santa, e quanti de' nostri
può dirsi, tornassero a vita per quella speranza ch'egli solo sapeva
dare, per quell'amore con che faceva carità a tutti di quel poco che
possedeva. Egli ci diceva sempre: — Sono povero anch'io al par di voi
altri, sapete! Ma il Maestro in nome del quale io vi parlo volle essere
quaggiù l'ultimo degli uomini; ed io v'amo tutti come miei fratelli...
La povertà è la terra di promissione.

Queste poche parole, ricordate nell'umile dimora con un sacro rispetto
dal montanaro, mi ridipingevano alla mente l'austera e pallida figura
di quell'uomo che aveva sostenuto quaggiù, per quanto era in lui, il
còmpito della verità e del sacrificio. Chiesi allora al buon vecchio
perchè e come mai l'avessero perduto quel loro padre e amico: ed egli,
dopo aver sospirato, guardommi con non so qual turbamento. Poi, con
voce commossa continuò:

— Un giorno, era nella state del 183*, una brutta giornata d'agosto,
nella quale tre temporali maledetti si scatenarono un dopo l'altro
su questa povera nostra valle, comparve qui nel paese un giovine
straniero, perduto forse sulla via, come lei in questa notte. Con
sè non portava nè bagaglio nè altra cosa; ma andava chiuso in un
mantellaccio e teneva calcato fin sugli occhi un cappello acuto
all'alpigiana. Al primo tetto che trovò, chiese alla Menica, la quale
stava filando sul suo uscio, quale fosse la casa del vicecurato. La
Menica a quella domanda, alla foga, all'agitazione dello straniero
che guardavasi indietro ogni momento, capì bene che colui, quantunque
vestisse il giubbone di lana e portasse le grosse scarpe del montanaro,
era tutt'altro da quel che compariva. E com'io appunto di là passava,
mi fe' un cenno del capo domandandomi se volessi accompagnar quell'uomo
alla casa del vicecurato. Io, che fo sempre di cuore un servigio al
prossimo, dissi al giovine che mi tenesse dietro, e m'incamminai lungo
la ripa, fino alla chiesa: colui mi stava alle calcagna, fissandomi con
cert'occhi che m'avrebbero fatto paura, se non mi fossi addatto che
il falso montanaro pareva aver egli stesso una gran paura in corpo.
Il signor vicecurato, quando fummo a due passi da casa sua, usciva
appunto, con un libro sotto il braccio; come soleva sempre a quell'ora,
quando andava solo a girar per la montagna. Il giovine gli corse
innanzi, ed appena i loro occhi s'incontrarono, vidi don Carlo diventar
tutto bianco nel viso, e levar la mano verso di lui, come per parlare
e non poter dir parola; ma poi subito ricomporsi, pigliar per mano il
forestiero, e rientrare con gran furia in casa. Ed io che, senza nulla
comprendere, faceva per andargli dietro, udii serrarmi dinanzi quella
porta che da tant'anni era sempre stata aperta a tutti.

— E non si venne poi a sapere chi fosse lo straniero? domandai.

— Quel giovine, poi che andò là entro non fu più veduto uscirne.
Chi disse vi sia stato chiuso tutta la notte, chi tre giorni, e chi
più d'una settimana: chi fosse, nessuno il seppe mai. Pietro il mio
figliuolo, che allora era ancor qui con noi, mi raccontò d'averlo
veduto passare il dì seguente, prima che l'alba uscisse, e andarne
in compagnia del vicecurato per la selva de' pini, e arrampicarsi
poi verso il Sasso Aguzzo; in somma chi ne disse una, chi un'altra;
io per me non potrei giurar nulla. Quel che so pur troppo è che
da quell'ora don Carlo non fu più lui; era sempre malinconico, non
parlava quasi mai: ed io, che lo vedeva ogni mattino, lo trovai più
d'una volta seduto al tavolo della sua stanza, con un gomito sur un
vecchio librone e la testa appoggiata alla mano, intanto che scriveva
e piangeva. Appena si fosse di me accorto, faceva il viso sereno e
alzandosi mi pigliava per mano, e mi chiamava il suo buon Bernardo, il
suo amico vero. Più d'una volta mi domandò s'io mi sarei sempre di lui
ricordato, ove mai gli fosse toccato di lasciar la nostra valle in cui
aveva passato quattr'anni di pace... Alcun tempo di poi, il vicecurato
partì per il suo paese, ch'è sul lago di Como, e mi disse che n'andava
a vedere per l'ultima volta il suo vecchio padre moribondo: stette
lontano quasi tutta la state, poi tornò in mezzo di noi, salutato e
venerato dall'amore di tutti; chè senza lui ne pareva d'esser come
pecore senza pastore. Passò anche quell'inverno, venne la primavera; e
il vicecurato, da un dì all'altro, senza che alcuno ne sapesse nulla,
abbandonò di nuovo il paese, e andò, s'è vero quel che fu detto, laggiù
fino a Milano. Quella mattina, egli stesso venne qui a salutarmi;
il fuoco era acceso come adesso, ed egli sedette su quello scanno di
paglia dove lei siede adesso, mi consegnò la chiave della sua casa, e
mi disse addio. Dopo quel dì non ricomparve più ne' nostri monti.

Così narrava l'alpigiano, e il suo racconto m'invogliò più che mai di
penetrare il mistero che pareva circondar gli ultimi anni della vita
del buon prete, quantunque un segreto presentimento mi dicesse che la
causa della sua sciagura era stata troppo alta e tremenda, e che, per
quanto avessi potuto raccorre della verità, non mi sarebbe fatto per
certo di rivelar del tutto quel mistero all'anime compassionevoli di
coloro che avevano già versata qualche lagrima sull'umile storia di
Angiola Maria.

Ma pure, confidando di trovare almeno qualche dimenticata reliquia
delle memorie del vicecurato che mi facesse più sacro il nome suo e più
nota la sua preziosa virtù, determinai di condurmi la vegnente mattina
a visitare il signor curato per cercar la via d'alleggerirgli un poco
la coscienza di que' vecchi segreti che certamente gli dovevano pesare.

Il montanaro, vedendo ch'io me ne stava imperterito senza più dargli
ascolto, credè mi tornasse indifferente il suo discorrere, o fossi
colto dal sonno: m'offerse allora il suo letto, ch'era nella stanza
superiore, ma ch'io non volli a ogni patto accettare; contento di poter
dormire una notte sulle foglie secche, come una volta il romeo che
tornava di Terra Santa.

Dettogli che sprangasse di nuovo la porta e addormentasse il fuoco
sotto le ceneri, diedi all'ospite mio la felice notte: e ravviluppato
nel mio mantello mi gittai su quel silvestre letto de' nostri
primi padri. La buona comare faceva l'alte maraviglie; la fanciulla
guardavami di sottecchi, lasciando sfuggire un involontario riso, e
l'una e l'altra s'avviarono sulla rozza scaletta che appoggiavasi alla
parete opposta al camino; poi sul pianerottolo si fermarono un poco;
e dall'alto guardando giù nel cantuccio dov'io stava mi salutarono
un'altra volta e disparvero.

Io dormii un sonno intero e tranquillo, come da lungo tempo non aveva
dormito; ma sognai l'Alpi e il lago, e la povera casa del vicecurato
e gli occhi limpidi e bruni dell'Assunta, la gaia figliuola del
montanaro.

Sorsi coll'alba e trovai già levati i miei buoni ospiti. La giovinetta,
sulla breve spianata dietro la casuccia, stava mugnendo la sua piccola
giovenca; e il vecchio messere era già pronto a servirmi di guida per
la valle e sul monte; poichè la sera innanzi io diceva che volontieri
avrei fatto un'escursione nel dintorno. Ma non appena seppe ch'io
voleva prima di tutto far la conoscenza del signor curato, si esibì
di condurmi a lui, contento, a dir poco, ch'io avessi preferito nella
passata notte la sua umile dimora a quella del curato medesimo. Allora
seguitai i suoi passi, facendo alle due donne promessa di ritornare.

Il curato di **** aveva veduto passare la metà de' suoi settant'anni
in quell'ignota parte di Valtellina: la sua era forse la più povera
pieve della diocesi. Uomo semplice e dabbene, di timida e ombrosa
natura, egli avea menato colà una vita così solitaria, così uguale
che quasi la sua povertà gli era divenuta necessaria; e da nessuno al
mondo invidiato, non portava invidia a nessuno. In tutto quel tempo,
l'unico avvenimento che turbasse la lunga pace di lui, fu la vicenda di
don Carlo, il suo vicecurato: quella storia, nella quale non seppe mai
veder chiaro, era stata per lui come lo scoppio d'una bomba; e soleva
dire ne' momenti di grande espansione di cuore: — Guai a questo mondo
a chi non vuol tacere! io per me veggo che non potrò rifarmi più da
questo tracollo!

Quel buon uomo adunque rimase in sulle prime tra insospettito e
impacciato dall'inattesa mia visita. Mi guardava di traverso con una
cotal ciera scura in uno e piacente, e a ogni mia domanda rispondeva
appena con qualche fugace monosillabo, quasi avesse temuto che gli
rubassi i pensieri. Ebbi un bel dirgli il mio nome, il caso che m'avea
fatto capitare in que' luoghi, e l'intenzion sincera d'andar cercando
per quei contorni i pochi avanzi del tempo antico, da' quali potessi
cavar qualche vecchia storia da fare un libro; egli lasciava morir
sempre il discorso, e pareva tentasse ogni uscita per salvarsi dal
pericolo della conversazione. Lasciai sfuggirmi di bocca il nome del
suo antico vicecurato, e dissi che l'avevo un poco conosciuto; mi
rispose con un gelido: _Ah sì?_... e per quella mattina non potei
strappargli più sola una sillaba.

Allora m'accommiatai da esso, ma non senza chiedergli licenza di
tornare a presentargli il mio rispetto innanzi abbandonare il paese.
E per tutto il dì n'andai vagando in compagnia del mio ospite su
per le vicine montagne, al raggio d'un bel sole d'autunno, e ben
lieto di vedere un lembo di quella terra che nel passato secolo era
stata testimonio di lunghe e feroci guerre di parte, quando in essa
soffiarono sì forte la libertà e la riforma.

Ma la ritrosia del signor curato non mi tolse dall'intento mio: e
quella sera medesima, io era amichevolmente seduto vicino a lui ad
un piccolo desco, dinanzi ad un certo botticello di legno, colmo
dell'ottimo vin di Sassella: un orciuolo d'antica foggia, col beccuccio
sporgente che quegli alpigiani chiamano ancora _galéda_, come lo
chiamavan press'a poco i Romani. Fosse virtù di qualche libagione del
patrio suo vino, fosse il consiglio della fedele sua Brigida e del
mio ospite montanaro, il vecchio paroco s'era ammansato, e potei a
poco a poco entrargli in buona grazia. Tempestato dalle mie inchieste
sulle cose antiche del paese, egli non trovando più il filo d'uscir
del laberinto in che s'era messo, scappò a dire che se ci fosse stato
ancora il suo _quondam_ vicecurato, il quale ne sapeva anche di troppo
e aveva scritto un mucchio di scartafacci appunto sulle antichità ch'io
cercava, m'avrebbe potuto dire di quegli antichi tempi di miseria tutto
quanto io voleva e non voleva sapere.

Allora il posi alla stretta; ed egli mi confessò che di fatto don Carlo
gli avea lasciato una confusione di quadernacci e di fogli sparsi dove
forse avrei potuto pescar notizie; ma che, non avendo egli mai avuto
nè tempo nè voglia di leggere quella scrittura così fina e minuta,
giacevano tutt'ora in un cassettone dimenticato del suo studio, se pure
i topi avevano loro avuto misericordia. In quella, con generoso atto
si tolse fuor dal taschino de' calzoni, la chiave dello studio e me la
porse. Non mi parve pur vero d'aver sì presto guadagnata la vittoria; e
colta la palla al balzo, come si dice, presi un lume e penetrai nello
studio, del curato. Frugai arditamente nel barcollante cassettone, e
trovai molte memorie di cose antiche, di che forse mi gioverò un'altra
volta, se a me non verranno meno il tempo, l'amicizia del lettore e la
sua pazienza.

Fra quelle venni a capo di raccogliere le poche e scucite pagine del
manoscritto del buon prete; e stimai di darlo fuori tal quale; perchè,
leggendo que' caratteri e ripensando a quell'uomo del sagrificio,
mi rasciugai qualche lagrima, e dissi nell'anima mia: — Tu solo il
giudicasti, o Signore! ed i figliuoli degli uomini avranno speranza
sotto il velame delle tue ale.



II. IL MANOSCRITTO.


  2 di settembre 18..

........ Eccomi nella solitudine, in mezzo alle Alpi che sempre amai,
che vidi fin dagli anni della fanciullezza circondar la più bella parte
della mia patria, come d'una sublime corona[1]. Qui forse, nel silenzio
del mondo, in faccia alla grande maestà della natura, avranno tregua
i pensieri che in mezzo agli uomini mi tormentavano, e pace i dolori
di che fu pasciuta la mia gioventù troppo inesperta del vero e troppo
credula del bene.

Il Signore che mi chiamò per questa via, mi dia lena di correrla
alacremente e di toccarne la meta. Or mi conviene diventare un
uomo nuovo, dispogliarmi degli affetti e de' voleri che fin qui mi
trascinarono d'uno in altro peggior disinganno, sollevar gli occhi al
cielo, a quell'unica patria de' buoni e de' giusti; al cielo verso il
quale elevano le gigantesche loro cime questi monti, esultando quasi e
narrando in armonia col firmamento le glorie dell'Eterno.

Diedi un addio al mio vecchio padre, alla madre mia, all'innocente
mia sorella. Che il Signore vi protegga sempre, o giuste o semplici
creature! Là sulle rive del lago, io tornerò ben sovente fra voi co'
miei pensieri, seguirò coll'anima e col desiderio i vostri passi;
siederò invisibile con voi intorno all'umil focolare; e ricordandomi
di quel tempo che più non può tornare per me, porrò giù il peso delle
immeritate angosce e il cumulo delle recenti sciagure. Qui troverò,
lo spero, creature schiette e buone come voi, o miei parenti! qui non
ire, non invidie, non basse e perfide congiure di chi s'adombra d'ogni
forte e generosa parola; qui non verrà a turbarmi il cuore la fastosa
ignoranza o la melliflua impostura di coloro a cui s'inchina il mondo;
qui umili doveri da compiere, oneste compiacenze, tranquille opere di
virtù non conosciuta e perciò non calpestate; qui lagrime da rasciugare
e cuori da tener vivi nella speranza; qui solitudine, silenzio e pace.

  7 di settembre.

I pochi, i quali han fatto di me quella vana e volgar conoscenza che
suolsi troppo presto chiamar amicizia, mi credevano misantropo, o
forse orgoglioso; molti mi davan taccia d'uomo irrequieto, bollente,
pericoloso, mi chiamavano una testa falsa e matta; i più mi avevano un
po' di compassione, trattandomi da sognatore, da utopista, da uomo nato
fuor del tempo suo.

Ed io che, dopo tanta guerra di dubbj e di terrori, non perdei quella
calda volontà di bene, la quale fu l'alito primo della mia vita, io
che potei credere e riposare nella verità promessa da Colui che da una
croce annunziò a tutti gli uomini ch'eran fratelli, doveva io forse
mettermi alla tremenda prova di disperare un'altra volta, di lottare
ogni dì a faccia a faccia col disinganno, di rinunziare a quel solo
amore che può vivere eterno, e senza del quale non è fede?... No!
Sieno grazie alla Provvidenza che mi tolse di mezzo a coloro ch'io
voleva poter amare come fratelli, e che invece mi attraversarono la via
come nemici, e m'insidiarono come lupi bramosi. Ora io li abbandonai,
forse per sempre; ma non pagai offesa con offesa, nè sola una stilla
dell'odio loro è caduta nel mio cuore.

Ben so che per guadagnarmi i loro preziosi favori, le bugiarde loro
carezze bastavami soffocar nel mio petto le ardenti speranze, i forti
augurii di virtù e di giustizia ch'io non temeva far manifesti a
qualunque si fosse con la sincerità dell'uomo giovine e credente; che
bastavami chinar la fronte a ogni loro detto, mentire a me stesso,
rinnegar la voce dell'anima con un servile ossequio; e farmi stromento
della loro potenza, o almeno tacere.... Ah no! no! mai! Codesta non fu,
non sarà la parte mia sopra la terra; e il campo seminato dal male non
può fruttar la verità.

Abbandoniamo queste amare ricordanze. Vi fu un tempo, nel quale le
poetiche immagini della prima età potevano consolarmi delle traversie
sopravvenute.

Allora io scriveva:

    — «Nacqui in riva del Lario: a me fu cuna
    Il battello sull'onde, ed infantile
    Trastullo il remo e la paterna rete;
    E fanciullo scherzai con la riflessa
    Imago del fanciul che si specchiava
    Prono nell'acque. — In quell'etade appresi
    D'ogni riva, d'ogni antro e d'ogni rupe
    I varii nomi, i tramandati casi;
    E men fe' dono la verace bocca
    D'antico pescator; perchè nell'ora
    Ch'egli gittava insidïando l'amo
    All'ondivago pesce, ad ascoltarlo
    Cheto io sedessi del battello in seno.» —

O mio lago, o splendida gemma della Lombardia! tu fosti il mio primo
amore. Oh! perchè non nacqui più povero ancora di quel ch'io sono!
Se mio padre, anzichè essere l'agente di nobile e ricco signore, non
avesse avuto al mondo che il suo navicello e la sua rete, forse io pure
non sarei stato che un umil pescatore; e non uscito mai dalla cerchia
de' miei monti, altro non avrei imparato ad amare che la pace e la
tempesta del lago. — Le memorie del passato mi ripiombano sul cuore.
Chi m'avrebbe detto, allorchè adolescente appena io contemplava rapito
da una fiera gioja di libertà le procelle e i fulmini che scrosciavano
sul mio Lario, oh! chi m'avrebbe detto che assai più tremende, dovevano
essere le tempeste dell'anima mia!

  1 d'ottobre.

La pace ritorna. La vita stanca e travagliosa qui si rintegra, si
rinnova nella calma di questi bei giorni dell'autunno; e il sole
tranquillo che indora le spalle della montagna rimpetto alla mia
finestra, sembra mandare il benefico riflesso della sua luce nell'anima
mia.

Da tanto tempo io non poteva godermi una contentezza così salutare,
così vera. E se vuole il cielo che passino per me soltanto pochi mesi
di raccoglimento e di pacifica meditazione, senza che si risvegli a
conturbarmi lo sdegno d'una vita costretta a consumarsi nella lunga
aspettativa de' giorni promessi da Colui che venne ad abitare fra gli
uomini, e fu vera luce dell'universo; allora forse la modesta missione
che a me fu posta mi parrà più bella e sacra, perchè dimenticata e
disprezzata dal mondo; allora forse Dio mi perdonerà il passato, e
terrà conto del mio sagrificio.

Coloro in mezzo a' quali vedrò scorrere la breve mia vita terrena, mi
amano e mi vengono intorno. con rispettosa attenzione; ma non sanno
ch'io non potrò render loro per questo affetto altra cosa che poche
parole a confortarli nelle sciagure. Ben vorrei, come ne sento gran
bisogno nell'anima, aprir coll'eloquenza della semplice verità i
loro intelletti, far ragionevole il loro ossequio alla fede, scendere
nel fondo de' loro cuori, e suscitarvi quella scintilla che li renda
migliori di quel ch'essi sono, di quel che furono i padri e gli avi
loro. Eglino sono contenti del poco, è vero; ma intanto anneghittiscono
nella povertà, disimparano ad amare coloro che soffrono, ad amare il
ben comune, per quell'affetto più augusto, più fiacco, direi quasi
per quell'egoismo che li fa attaccati alla loro famiglia, al campanile
della parrocchia, alle povere glebe della loro vallata. Ma pure chi sa
che, procacciando di migliorare, per quanto è da me, gli umili destini
di codesti montanari, io non dovessi invece riuscire a farli men
felici, o men rassegnati di quel che sono? —

  2 d'ottobre.

Oggi, con dolor profondo mi toccò d'esser testimonio d'una contesa fra
due mandriani, che mi persuase quanto sia pur troppo insensata e forte
fra gente d'uno stesso paese quella vecchia ruggine, quell'inimicizia
che sembra aver posta radice eterna nel cuor degli uomini, e più che in
ogni altra in questa nostra patria.

Uno de' due mandriani è nativo di questa, l'altro di valle San Giacomo:
son vicini, son fratelli, parlano lo stesso dialetto; eppure serbano
tuttavia quel rancore che separò i loro padri, che accese tanto fuoco
di guerra in queste pacifiche contrade, che fece sparger tanto sangue
e pianger tante madri. Sedevano sulla medesima panca di legno fuor
dell'osteria, e bevevano alla stessa mezzina. Una sola parola di
dispetto, una pretesa di soperchieria per causa d'una capra comperata
o venduta attizzò la discordia: maledissero i loro paesi; maledissero
i parenti e lo stesso Dio che li vede. La collera li fe' ciechi l'un
contro l'altro, e dalla bestemmia e dal vile insulto sarebbero venuti
alle coltella, se il mio braccio, più forte della mia parola, non fosse
giunto a tempo di domar la selvaggia loro natura.

O mio Dio! È dunque vero? anche qui, anche ne' luoghi dove la vostra
onnipotenza parla all'intelletto e al cuore con le meraviglie d'una
natura vergine ed austera, la cattiveria e l'odio faranno germogliare
la loro trista semenza? L'uomo, la vostra creatura grande e misera
è lo stesso sempre e in ogni parte della terra? Dal tempo del primo
fratricida il cuore umano non s'è dunque mutato?... Qual profondo
mistero in ogni cosa! — E noi che siamo sì piccoli, noi che strisciamo
per un giorno, come l'insetto, sulla faccia della terra, vorremo con
audace intenzione sollevar la fronte insino a Voi, interrogarvi, e
pretendere che il buono e il giusto trionfino a questo mondo?... O
Signore, tenete la vostra mano sul nostro capo, e dissipate il fumo
dell'orgoglio che n'accieca.

Le generazioni vengono, passano e scompaiono per sempre dalla terra ove
tennero dimora. Chi potrà dire di qui a mill'anni i popoli che saranno
sepolti sotto a questa parte di mondo?. L'Alpi e l'acque e tutta la
contrada che mi circonda non hanno forse mutato anch'essi e rimutato
aspetto e natura? E noi andiamo fantasticando dietro all'ombra d'un
nome, dietro al sogno d'una patria, e confidiamo sia adempiuta sulla
terra che invecchia sempre quella promessa che, sola non può morire?...

Quest'ampia regione di monti che fu agli antichissimi tempi la stanza
d'un popolo solo, se pur non mentono la tradizione e la storia, vide
ne' tempi a noi più vicini la lotta di due razze diverse e mortali
nemiche fra loro. Il Valtellino abborre ancora il Grigione; nè
vicinanza, nè signoria, nè forza di guerra o di pace poterono mai
operare che codeste due genti ne facessero una sola. Per questo forse
la scissura fatta dalla riforma luterana fu origine d'una delle più
lunghe, sanguinose e feroci rivoluzioni che l'Europa abbia veduto
mai. — Un dabben montanaro m'additava, non ha molto, sull'alta cupola
della chiesa della Madonna a Tirano la bruna statua di san Michele,
colla spada in pugno, e, — Vede lei, dicevami nell'atto di farsi il
segno della Croce, vede, egli è quello là il Santo che tenne lontano
da questo paese la peste de' luterani!... Io nulla risposi; ma andava
pensando nell'anima mia alle molte e triste cagioni che hanno fatto
d'ogni lembo di terra cotante patrie diverse.

  27 d'ottobre.

Io mi proposi d'adoperare il tempo che mi sopravanza, dopo compiuti
gli obblighi sacri del ministero, nell'andar cercando di sito in
sito fin dove mi sia concesso inoltrare nelle quotidiane e solitario
mie peregrinazioni, le reliquie de' secoli passati, le tradizioni
antichissime che son vive tuttora nelle povere capanne del mandriano
e del carbonajo sugli altipiani e ne' diroccati casolari degli umili
paeselli; nell'andar raccogliendo le semplici cantilene delle fanciulle
montanine e le pie leggende delle vecchie filatrici; nel visitar gli
avanzi rovinosi e pittoreschi di qualche feudale castello di cui più
nessuno sappia il nome; e gli abbandonati cimiteri e le lapide votive;
e più di tutto nello studiar quelle antiche patriarcali costumanze, che
sono come il simbolo della giustizia nelle famiglie, la religion vera
del passato.

Dachè incominciai, senz'alcuna pretensione di sapienza antiquaria,
queste utili e studiose ricerche, la mia vita ben più occupata e
operosa che prima non fosse, assorta nel meditare e nello scrivere,
invogliata dalle prime scoperte a novelli e più forti studii, si
ricompone in quella temperanza equanime di volontà e di sentimento ch'è
la miglior medicina delle avverse cose.

Son quasi corsi due secoli dalle terribili guerre che per furor di
politica ricoperta del manto della religione, disertarono queste
contrade; e la memoria della rivolta qui sopravvive ancora; qui suona
ancora sul labbro de' fieri Valtellini la bestemmia antica contro il
luterano; qui l'odio rugginoso verso le tre Leghe Grigie, alimentato
dalla contesa proprietà del territorio, non è spento del tutto: mentre
nessuno più si ricorda della tirannide spagnuola che, sotto colore di
protezione, soffiava alimento a' dissidj, e col pretesto della fede
calpestata e della santa causa della religione rinfocava le moltitudini
alla riscossa. E guai, allorchè un popolo si solleva in nome della fede
de' padri suoi!...

  15 di novembre.

In questa solitudine, altro io non desidero che la fedele compagnia
d'un amico che riceva nel suo cuore la pienezza del mio, che meco
divida il segreto del dolore e della speranza, e mi riconforti e
sostenga ov'io ricada, come pur troppo avvien qualche volta, negli
antichi terrori, in quelle fatali malinconie che m'avvelenarono l'anima
non ancor del tutto guarita. Ohimè! basta un giorno solo di dubbio e
di fiacchezza, un'ora sola d'interiore viltà per ripiombarmi in un mar
d'incertezze, per togliermi la pace appena ottenuta coll'assidua fatica
dello spirito.

Tornato a casa col cuor pieno di rancore e di pianto, trovai la Bibbia
sul mio tavolo: a caso l'apersi e mi venne sott'occhio quel lamentoso
e poetico salmo, con cui il profeta ne' giorni della persecuzione
confidava l'anima sua al Signore:

— «Io mi confido nel Signore. Perchè dite voi all'anima mia: Ti
trafuga, come il passero al monte?

Poichè gli empi, ecco, han teso l'arco; apprestarono le saette nella
faretra, per saettarle contro a' retti di cuore in luogo scuro.

Dopo che ruinarono ciò che voi avete fatto, e che mai poteva il giusto?

Il Signore nel suo tempio Santo, il Signore ha la sua sede nel cielo.

Gli occhi suoi veggono il povero; le sue palpebre interrogano i
figliuoli degli uomini.

Il Signore interroga il giusto e l'empio: colui che ama l'iniquità odia
l'anima sua.

Pioverà lacci sugli empi; fuoco e zolfo e procelloso turbine è porzione
del loro calice.

Perocchè il Signore è giusto, e amò la giustizia; e la faccia di lui
riguarda all'equità.» —


Che altro avrei potuto dire al Signore, fuorchè offerirgli dal profondo
anche per me questa santa preghiera?...

  21 di novembre.

Ho riveduto il solo amico che mi rimase della mia giovinezza, l'uomo
ch'io amo e onoro come padre e fratello, quell'amico a cui la sorte,
o per dir più vero la provvidenza di Colui che scruta i cuori, parve
volesse congiungere per sempre la mia vita con quella catena di
gratitudine ch'è più forte della vita stessa. E l'averlo riveduto una
volta dopo lunghi mesi, e per solo un giorno, mi fece sentir ben più
doloroso e vivo quel bisogno di fratellanza e d'amore che fu il primo
tormento dell'anima mia.

Con lui, coll'uomo il più modesto, il più degno di fede ch'io m'abbia
conosciuto, parlai di quel tempo che non tornerà più per noi; e sentii
riaprirsi una dopo l'altra tutte le mie ferite. Ed ora ch'egli se n'è
ito e ch'io mi trovo nel mio romitorio, solo ancora, al cospetto delle
grandi e severe ombre de' tempi andati, sento in me medesimo vergogna
e dolore d'aver rimpianto un'altra volta con l'amico le mie giovanili
vicende; e mi pesa, direi quasi, d'essermi abbandonato così ad una
soverchia ed intempestiva effusione del cuore. Ecco qual povera cosa
siam noi! Io stimava d'aver domo e vinto per sempre il mio passato, mi
credevo forte, impassibile, e tetragono, come dice il poeta, a' colpi
della sciagura. E invece, poche parole di malinconici ricordi e poche
lagrime versate in un momento d'abbandono e di fralezza, mi rapirono il
frutto di tanto volere e di tanto sacrifizio.

Che avrà detto, o pensato di me l'amico mio?... Egli, forse, mi trovò
ben mutato da quel che fui; o forse più non mi stima che un cuor
debole, inetto alle grandi prove dell'esistenza, un povero illuso, un
fanciullo!

Ma se all'opposto fosse tutto amor proprio, fosse superbia che
m'accieca questa brama di comparire agli occhi dell'amico altro da quel
che sono? Non fu egli che m'aperse il cuor suo e la sua casa, che mi
prodigò tutto quanto la santa amicizia può dare, che mi restituì il
coraggio di vivere, e mi strappò alle braccia di morte che mi voleva
far suo?... Egli sedè le intere notti al mio capezzale, allorchè
lottando col male e venuto quasi all'agonia io delirava e diceva
parole di furore e di pianto alle mie fatali speranze, alla tradita
mia giovinezza, alle mille ombre che dì e notte m'assediavano. Egli
stesso con occhio sapiente studiava intanto il lampo del mio sguardo e
il pallor del mio viso; con la mano pietosa premeva la mia, contava i
bàttiti delle mie arterie e i pochi minuti di posa che la febbre e il
dolore concedevano allo strazio de' nervi e allo spavento dell'anima. —
Io era solo, povero, lontano da' miei, calpestato da' potenti, umiliato
dagli amici, e languente in un letto non mio, sospiravo di finire
una volta: ed egli fratello, amico, medico, benefattore, mi fece dono
d'una vita perchè tornassi non indegnamente a respirar fra gli umani;
egli rimise in pace l'animo mio, e mi rese quasi altero delle sofferte
nemiche fortune. Su quel desco, ove con esempio raro di vera grandezza
quell'uom saggio e buono aveva con me spartito il suo pane e profferta
la metà della sua tazza, io scrissi le pagine consacrate alla gloria
d'un Grande che non è più; e a quelle pagine io poneva in fronte il
nome dell'amico venerato e caro. Nullo di più m'era concesso. Ma questo
nome che i piccoli e i buoni conoscono, questo nome che l'orfanello e
la povera femminella impararono da tanto tempo a benedire, era per me
il solo degno d'unirsi a quello del sommo genio italiano, per il quale
fu rinnovata l'arcana scienza della natura e il nome della mia patria
non morrà mai[2].

Così, io non vendei la memoria intemerata della sapienza all'oscuro
dovizioso o all'indegno possente; non infransi l'aureo simulacro della
gloria, per fonderne la corona all'infamia: ma di quel nome altissimo
io feci l'umile ghirlanda della gratitudine al beneficio.

                            . . . . . . .

  Amico mio.[3]

— M'è di grande consolazione il poter tornare a te in questi giorni
d'amarezza e di prova, ne' quali anch'io, come Colui che portò tutti
i nostri dolori, posso quasi dire: L'anima mia è trista fino alla
morte!...

Io vivea qui dimenticato, e non potei dimenticare. Le passioni degli
uomini tornarono a visitarmi nella solitudine, ed io ascoltai quelle
voci che altre volte avevano conturbata la mia giovinezza: ed un
affetto ch'emunge le forze dello spirito e rimpicciolisce le idee
dell'umanità e dell'infinito si risvegliò nel mio cuore, ove forse
non ancora spento del tutto consumava non veduto le più pure sorgenti
della vita, siccome fuoco che vive addormentato sotto la cenere. A
tanto mio dolore s'aggiunse una piaga novella, il rimorso: poichè io
sono ancora talvolta il trastullo d'una fuggitiva larva di bellezza;
e mi trovo così debole e vile in faccia di me stesso che parmi nessun
sagrificio esser poco, per ricompormi quest'avvenire ch'io voglio e non
so disprezzare, che fugge sempre più da me lontano, e si porta con sè a
brano a brano la mia vita.

Tu sai la compassionevole vicenda che mi persuase di rinunziare alle
facili glorie concesse dal mondo a chi appena sappia lusingar le inezie
del suo tempo, e farsi campione del vizio imbellettato di virtù.. Io
volli sposar la parte di coloro che patiscono; e nato povero e nudo,
morrò povero e nudo.

Perocchè non per nulla avrò detto addio alle splendide fantasie
dell'arte, alle severe meditazioni della scienza, a' giorni tempestosi
e ardenti della gioventù, alle grandi speranze dell'uom pellegrino
in cerca della verità, a tutto quello che formò la poetica visione
de' miei vent'anni.... Amore, amicizia, patria, sapienza, gloria, non
bastano per legarmi a questa vita; più non sono per me altro che il
primo batter d'ale che fa l'anima nostra verso l'infinito, il simbolo
della virtù eterna, di quel bene che non alligna in terra, perchè la
terra ritornerà nel suo nulla, e il bene è immortale.

                            . . . . . . .

  Amico!

— V'ha qualche ora nella quale credo che Dio non abbia accolto il
suo servo: e parmi ch'egli maledica come opera di superbia, ovvero di
disperazione questo sacro e terribil dovere ch'io m'assunsi (io così
pieno ancora di ribelle volontà, di mortali odii, d'inutili speranze)
d'annunziare agli uomini la sua verità, il giorno del suo regno. Allora
lo spavento e l'angoscia incurvano la mia fronte; io vo' cercando i
luoghi più solinghi e dirupati di quest'Alpi selvagge; io piango senza
trovar sollievo dal piangere, e dico nel mio cuore: O Signore! come,
potrò recar la tua pace agli uomini, io che non ebbi mai pace per
me!...

In tali giorni d'abbandono e di miseria morale, ben io tento di
temperar l'interno patimento colle dolci distrazioni della lettura
e dello studio, tornando ad evocar le belle imagini della poesia,
le grandi ombre di coloro che parlano il vero e furono infelici, e
infelici ben più ch'io non sia!

Ma anche la poesia è morta nel mio cuore...

                            . . . . . . .

— Io aveva fermo nell'animo di non tornar mai più agli antichi
prediletti studi della poesia; io voleva darmi tutto alle austere
contemplazioni della sacra scienza, che sola ormai può consolarmi de'
tanti disinganni provati, delle stolte speranze umane, delle menzognere
imagini evocate dall'inquieta fantasia che vuol levarsi nella regione
dell'impossibile... Eppure, in questi dì, tornai alla poesia, al culto
di quell'arte che mi rende ancora così belli gli anni giovenili.

Rovistando fra vecchie carte, rinvenni abbozzi di novelle poetiche, di
poemetti, di canzoni, di tragedie; sorrisi di me stesso e de' sogni
miei, rileggendo que' miseri brani. Mi sembravano come le macerie
d'un edifizio caduto in rovina prima che di poche braccia sorgesse
dal terreno. Mi provai a scrivere; ma sarà in vano. La letteratura
del nostro tempo, se ne togli pochi i quali temono di mostrarsi fra
gli altri per la coscienza di una virtù intemerata, ma pur tremante e
sdegnosa, è fatta per tutt'altro che per educare il cuore ed innalzar
la mente alla vera grandezza. È una letteratura smascolinata, come
quell'arcigno del Baretti direbbe, una letteratura da canapè, buona
tutt'al più per i gabinetti delle damine svenevoli e profumate.

Nondimeno scrissi anch'io: ho gittato giù l'abbozzo di due tragedie.
Nell'una il Buondelmonte, vorrei dipingere, a diversità degli altri che
tentarono lo stesso tema, l'origine della fiorentina repubblica, e il
fiero carattere del Mosca,

«Che disse: Lasso! capo ha cosa fatta.»

Nell'altra, il Procida, vorrei mostrare quanto possa amor di patria
in lotta coll'amicizia e coll'amor paterno. Ma le mie forze non
basteranno, lo temo, all'altezza del concetto.

                            . . . . . . .

Quando nè lo studio nè la contemplazione della natura valgono a tormi
dal cuore il peso che vi sta sopra da lungo tempo, allora prendo la
penna per scrivere a te, amico mio, a te che sai la storia della mia
vita, e solo fra tutti puoi compatire al solitario prete, all'uomo
il quale nulla più domanda su questa terra tranne di vivere nella
memoria onesta de' pochi montanari che fanno la sua famiglia. Allorchè
seppi rinunziare alle illusioni della mente superba d'aver vestita
di novelle forme la vecchia filosofia del dubbio, quando parlai agli
uomini di quella religione di fratellanza e d'amore che sola può
apparecchiar l'avvenire, coloro che stavano in alto gittarono la
vergogna e il disprezzo sopra di me. Avrebbero voluto che la mia fede
si facesse serva delle imposture mondane e delle rugginose pretensioni
della forza: io cercava d'abbracciare il povero e l'oppresso, che al
par di me pativano e pregavano; ed essi mi rinfacciarono la ferrea
legge del fatto, mi presentarono agli occhi de' miei fratelli come un
sognatore irrequieto, come un uomo perduto dietro i delirii dell'umano
pensiero, dietro le novità della filosofia e della religione. E i miei
fratelli risero di me. Allora io non poteva più ritornar fanciullo e
raccogliermi nell'innocenza della vita e della speranza; e sapendo già,
per averne fatto duro saggio, quel che fosse il mondo, sentii tutta
l'amarezza d'una vita inutile e tormentosa. Ma al tempo stesso una
grande e nuova luce d'amore s'era fatta dentro di me, nel profondo: e
in questa si rintegrò la mia fede a poco a poco; e, divenuta matura, la
ragione unì i pochi e deboli suoi sforzi a quelli di tanti e tanti che
combattono quaggiù per la causa dell'onestà e della giustizia.

I miei mali cominciarono a parermi ben picciola cosa al paragone de'
molti e grandissimi che aggravano l'umanità, e fui persuaso da quel
momento che ognuno il quale cammini con semplicità per la via su cui
la Provvidenza lo mise, nè mai rinneghi sè stesso, nè venga a patto
con la propria coscienza, potrà dire un giorno: O Signore, anch'io
feci la mia parte di bene, e vissi sempre nella fede, nella speranza, e
nell'amore! — Perdonai da quel momento all'uomo che col suo tradimento
m'aveva ferito nella più viva parte del cuore: mi gittai nelle tue
braccia, t'apersi tutt'i miei segreti; e tu mi donasti il coraggio di
vivere e d'operare. Gli uomini mi calunniavano ed io li amai; essi mi
respinsero; e chinai la testa; poi venni a nascondere in questa povera
valle il mio oscuro ma innocente apostolato.

E oggi anch'io ripeto a te le dolorose parole che un moribondo amico
mandava a me lontano: Fra me e te esiste un legame che la morte non
rompe!..

                            . . . . . . .

  Mio buon padre.

Nel mio romitaggio, sento il bisogno di tornare a voi, di venir
col pensiero all'umile casa ove nacqui, a quel paradiso de' miei
anni infantili che si specchia nell'acque purissime del lago. Io
veggo, padre mio, il vostro incredulo sogghigno a queste poetiche
ricordanze; ma se vi dirò che la nostra casetta, dove abita mia madre,
dove, nascosta come la rosa silvestre, si fa bella e grande la buona
Angioletta, è il più sacro, il più desiderato angolo della terra per me
che pur vidi molto e molto conobbi, forse non sorriderete più così, e
darete un pensiero anche voi, un pensiero di compassione alla tristezza
che bene spesso viene a tenermi compagnia.

Non è già ch'io mi lagni della mia condizione, e del trovarmi qui
solo, in povera e lontana contrada, dopo che i primi augurii della
vita m'avevano promesso ben diverso avvenire. Sulla via ch'io tentai
d'aprirmi, ardente qual fui di volere e di fiducia, ma scarso pur
troppo di virtù, non trovai altro che spine; e m'avvidi che nell'ampio
teatro del mondo il poco ch'io poteva fare m'avrebbe alla fine
guadagnato le ire e le maligne persecuzioni di chi s'adombra d'ogni
franca e generosa parola, di chi suol chiamar delitto il coraggio
d'alzar la testa contro le prepotenze umane e quelle della fortuna.

Per questo, benedissi come venuta dal cielo l'inspirazione che mi
condusse qui, fra i poveri e i semplici, qui dove soffrono e aspettano,
come la più gran parte degli uomini, tante creature per le quali morì
sulla croce Colui che aveva pur detto a tutti: _Io sono la via, la
verità e la vita!_... Vi ricordate? la prima volta ch'io ho voluto
parlar da un pulpito, con nuovo ardimento, di certe grandi verità delle
quali non sarà mai strappata la radice della terra, delle mie parole
si prevalse il fanatismo, le condannò il fariseo e ne fu scandolezzata
la debole virtù. Così sempre avviene; ed io non voleva chiamar sulla
casa di mio padre, sui vostri bianchi capegli il turbine che di subito
sorse a minacciarmi; pensai a mia madre, a mia sorella, e obbediente a
chi mi percoteva, rinunziai ad ogni gloria e mi tenni abbastanza felice
di questa parte che Dio m'aveva ancora serbata. Qui i buoni alpigiani
mi conoscono e mi riveriscono come padre, m'ascoltano e mi amano come
fratello; qui m'è consolazione il pensiero di quel filosofo: _Se utile
non è quel che facciamo, stolta è la gloria_.

Ma non più di questo....

                            . . . . . . .

Ringrazierete per me l'Angioletta di quella cassettina contenente
poche cipolle de' panporcini de' nostri monti, ch'essa mi mandò per il
Bernardo l'ultima volta che capitò al paese. Direte a lei e alla mamma
che non si scordino di me nelle loro orazioni grate al Signore; io non
n'ebbi mai tanto bisogno come in questo momento.

Se mai tornasse a vedervi l'amico mio P*** e vi domandasse di me,
ditegli che i poveri miei nervi risentono ancora a quando a quando
le fiere commozioni patite, e che la mia testa qualche volta non è a
segno del tutto; ch'egli stesso mi scriva se le lunghe peregrinazioni
ch'io vo facendo ogni dì per questi monti, possano o no di soverchio
abbattere le mie forze e fare in me effetto contrario a quello ch'io
m'era promesso.

Un'altra cosa vi commetto per la mia cara sorella. Ella sa dove stanno
i pochi libri che innanzi partire lasciai, fra l'altre cose mie, in
quella che fu la mia povera e beata cella. Nello scaffaletto a manca
dello scrittoio, vicino alla finestra, troverà alcuni vecchi volumi
giallognoli e mezzo rosi dal tarlo: sono i cari e preziosi amici della
mia passata gioventù. Fra essi v'hanno due libri rilegati in carta
pecora e intitolati l'uno: I soliloqii di sant'Agostino, e l'altro La
Citta' di Dio. Nell'armadio situato nell'angolo dov'era il mio letto,
ne troverà pure alcuni altri più vecchi ancora, fra cui un volume delle
Opere di san Tommaso ed uno di quelle di Sant'Ambrogio; e un altro più
piccolo, al quale manca il frontispizio; è il Trionfo della Croce di
fra Girolamo Savonarola: quest'ultimo lo conoscerà dal mio nome scritto
di mia mano sull'ultima pagina, sotto ad un braccio che tiene impugnata
una spada e che vi disegnai quand'ero chierico ancora. Se l'Angiola
riesce a raccozzare quel piccol mucchio di libri, ne' quali pongo
tutta la mia speranza per quest'inverno, voi, mio buon padre, farete di
trovar modo a spedirmeli al più presto nel modo che vi par meglio; io
ne pagherò lo spendio all'uomo che me li porterà.

                            . . . . . . .

  Mio padre.

Vi raccomando quel che già vi scrissi nell'altra, di tener sempre
presso di voi le lettere che per me venissero alla posta di Como,
e di non darle in mano di nessuno, fuorchè del Bernardo che verrà a
pigliarle alla fin del mese a mio nome. Se ve'n fosse alcuna pressante,
questa potrete consegnarla all'amico mio P*** che sa il come mandarla a
questo mio nido di montagna.

Dite a mia madre, che al tornar della primavera ho speranza di venire
a casa per qualche dì: che veggo il momento di sedermi ancora, come
quand'ero fanciullo, vicino a lei sugli scalini della nostra porta: e
che le farò raccontare un'altra volta la storia de' poveri morti di
Torno. Oh! quante memorie leggiere, fuggitive, tessute, come tutte
le cose della nostra vita, di piccole gioie e di grandi dolori, mi
rifanno dinanzi al pensiero tutta l'età passata, e mi sforzano a
piangere un'altra volta!... Perchè non sono io nato che per invocar la
benedizione del Signore sopra coloro che denno trovare ogni lor bene
nel patimento mitigato dalla speranza?... Io la sentiva nel mio cuore
una fiamma più ardente, l'alito della fede, il coraggio di morire per i
miei fratelli!....

  2 di maggio 18..[4]

«Niuna cosa violenta può esser perpetua.»

E fino a quando vedrò sulla terra il trionfo del male? O Signore,
tu rovesci i potenti dal seggio, ed esalti gli umili; ma tu dicesti
ancora: il regno mio non è di questo mondo.

Noi dovremo dunque piegar sempre la fronte, come in atto di vile
osservanza, in faccia alla malizia che si veste di pompose apparenze,
che vince la semplice onestà colle sue compre lusinghe, o colla
ipocrisìa, la peggior delle tirannidi?... Combattere la forza brutale
che non concede alla stanca umanità di sollevare il capo da quella
nebbia d'ignoranza in cui da secoli le misere generazioni son costrette
a vivere, o piuttosto a morire; parlare in nome di Quegli che spirò sul
Calvario annunziando agli uomini che son tutti fratelli, e figliuoli
dello stesso Padre che ama e perdona, è una grande e dolorosa parte che
a pochi fu dato di compire sulla terra!

Il tempo, come spaventoso torrente, trascina via con sè gli uomini e
le idee; pochi nomi benedetti, poche sante e divine parole rimangono
appena a far testimonianza del passato, a fermar la promessa del
futuro. Avventurato chi visse nell'aspettazione de' tempi migliori,
procacciando intanto ed operando il bene, come se dovesse da un dì
all'altro fruttare! Dio ha veduto il cuor suo, Dio raccolse le sue
lagrime; e quando seduto in disparte, come Geremia, stette solitario e
tacque, Dio gli perdonò il silenzio e la luce del cielo venne sopra di
lui.

Ed il suo cuore sollevò un'altra volta quel profetico lamento:

— «La parte mia è il Signore; e per questo io l'aspetterò.

Buono è il Signore all'anima che in lui pone speranza e lo cerca.

Buona cosa è procacciar nel silenzio la salute del Signore.

Buona cosa è all'uomo il portar il giogo nella sua giovinezza.

Siederà solitario e tacerà; poichè Dio gl'impose il suo carico.

Metterà la sua bocca nella polve, cercando se vi sia speranza.

Porgerà la guancia a chi lo percuote, sarà pasciuto d'obbrobrio.

Perocchè il Signore non lo respingerà da sè in sempiterno.

E s'egli affligge, ha pur compassione, secondo la moltitudine delle sue
misericordie.»

  12 di maggio.

Qual nuova e più grave sciagura sovrasta a me o ad alcuno de' miei
cari. Io n'ho da parecchi dì il doloroso presentimento; poichè la pace
gustata per alcun tempo, alle forti contemplazioni della scienza,
infiammatrice dell'intelletto, alla soave poesia della natura è
succeduta nell'animo mio l'amarezza delle cose, la codardia del dubbio,
e quasi una paura di me stesso. Questo fu sempre per me il presagio di
un tristo giorno della vita.

I miei vecchi volumi non mi racconsolano più; non mi sembran più che
vani, indicifrabili enigmi, i quali altra cosa non mi fanno certo, se
non che quaggiù nulla è certo.

Non posso scrivere, non posso nè manco pensare...

  19 d'agosto.

Io mi reputava sì forte, sì provato della vita, e padrone di me
medesimo da sostener con fronte serena e animo tranquillo ogni e
qualunque nuova e più dura sperienza; e dopo essermi seduto tante volte
al capezzale della morte, dopo aver veduto spirar nel bacio di Dio
tante infelici e candide creature, e aver accompagnato sulla tremenda
soglia dell'eternità tanti uomini ciechi del bene, travagliati dal
patimento, consunti dalla disperazione o dal rimorso, io credeva che
più nulla d'umano potesse conturbare ancora i miei pensieri. — Deh! che
cosa è mai l'uomo, se tu nol visiti colla tua forza, o Signore?

Oggi, dopo molti anni, il caso o piuttosto il volere di Chi tutto
dispone per il bene, ricondusse a me dinanzi quell'uomo che forse fu
la prima cagione di tutte le mie disgrazie. Io gli avea dato nella
generosa effusione del mio cuore giovine ancora il santo nome d'amico;
ed egli lo ha rinnegato questo nome così bello! Egli mi rapì la
prima, la più poetica lusinga della vita, l'amore; mi derise con una
crudele indifferenza nelle innocenti mie illusioni; e a coloro che
poco m'amavano, se pur non m'odiavano già per la naturale ed avventata
libertà del pensiero, per quello ardimento che di rado è scompagnato
da un cuore acceso del desiderio d'operar qualche cosa a pro d'altrui,
egli pose in mano de' potenti il segreto che doveva partorirmi
l'infamia, o farmi morire!...

Ma, come Dio anche quaggiù non consente sempre la vittoria ai cattivi,
io, povero, oscuro e calpestato verme, fui più forte di coloro che si
levarono a stormo contro di me. Vinsi l'impostura e l'aperta menzogna:
poi mi ritrassi a piangere il mio passato nel silenzio della casa del
Signore, e perdonai.

Perdonai, sperando che Dio a me pure perdonasse. Ed Egli m'avea dato
codesta pace; e fatto puro il mio cuore del lievito dell'ira, parevami
d'avere in me spogliato per sempre il vecchio Adamo.

La mattina era bella. — Per sollevare i pensieri dal peso delle angosce
che ne' passati dì m'avevano prostrato siffattamente, m'incamminavo
verso il sentiero della selva, dalla parte ove sorgono tappezzate di
lambrusca e di parietaria le rovine dell'antica torre lombarda: è là
dov'io passo in faccia alle maestose, lontane ghiacciaie dell'Alpi
e all'interminato azzurro del cielo le più solitarie e beate ore del
viver mio.

Appena fuor della porta, un uomo incappucciato in un gabbano da
montanaro mi s'affaccia d'improvviso. Io lo guardai; teneva china a
terra la fronte, voleva come parlare; e pareva tremasse.

— Chi siete? domandai.

— Uno che... vi conosce; rispose o piuttosto balbettò, senza levar gli
occhi.

Quella voce non mi parve al tutto ignota; ma lo strano vestire, la
sua dubitazione, lo sgomento con che andava guardandosi intorno,
turbarono un poco me pure; e persuaso ch'era ben'altro da quel che i
suoi meschini panni mostrassero, me gli feci più accosto e di nuovo il
richiesi:

— Che volete da me?

— Sono un povero fuggitivo; venni a chiedervi asilo.

— Ma, signore! ripigliai: nè vi conosco, nè so...

— Sì, mi conoscete; è in nome dell'amicizia ch'io vengo a voi.

E dicendo così, tolse giù il vecchio cappellaccio che gli copriva mezzo
il volto, e mi guardò con aria supplichevole e malcerta. Ancora nol
ravvisai.

— Per carità, m'aprite la porta di casa vostra! voi, ministro del
Signore, abbiate compassione dell'uom fuggiasco, perseguitato... — E
qui abbassò la voce, e facendo un passo verso di me, dopo che di nuovo
si guardò dietro le spalle: Io sono Alberto ***: io fui vostro amico!

Egli era colui che m'avea tradito.

Quel che si passava a quel momento nel mio cuore, io non voglio nè
potrei scriverlo.


Egli dimorò sotto al mio tetto due dì e due notti, nè io gli domandai
se fosse innocente, o perchè avesse scelto ricovero nella casa d'un
uomo a cui egli avea fatto tanto male e che fors'anco avrebbe potuto
restituirgli il suo tradimento.

Ah no! mai, mai! Colui che uccide è più misero di chi rimane ucciso:
egli mi credè generoso e incapace del delitto di che spensieratamente
e per leggiera causa non dubitò farsi reo contro di me. Io non so
le conseguenze, le quali per la mia pietà potrei incontrare; ma non
le temo. Nè fu pietà la mia, fu giustizia. A lui diedi tutto quel
poco danaro che avevo, pregai per esso il Signore, e in quel momento
dimenticai tutto il passato. Egli era più che amico mio, era fratello;
Dio solo, Dio che mi lesse nel fondo dell'anima, mi giudicherà!

Quando volle partire, io gli aveva stesa la mano e lo contemplava
fissamente senza far motto. Mi parve commosso, soggiogato dalla memoria
di quel che fu tra me e lui: mi guardò egli pure, poi mi si gittò al
collo, e pianse.

  3 di maggio.

..... Nessuna novella del fuggitivo. Che il cielo l'accompagni! Il
mio cuore s'è allargato nella pace di prima. Io sono rassegnato e
tranquillo nella mia coscienza.

Non so spiegarmi il come non ricevessi ancora riscontro alcuno da *** e
da *** alle ultime mie lettere....

                            . . . . . . .

«[5]Molti presuntuosi reputano impossibile tutto ciò che per loro o
non si sa o non si fa; moltissimi considerano le grandi cose che non
intendono o che non sono capaci di operare, come inutile fatica d'un
esaltato fanatismo; e stanchi prima d'intraprendere, si addormono sui
morbidi ma dannosi letti dell'ozio. Tanto è superbo l'amore di noi
stessi per non confessare la propria ignoranza e la propria debolezza;
tanto è artificioso per giustificarla; tanto è ingiusto per assolverla.
Frattanto l'infingardaggine si scusa colla pretesa impossibilità alle
grandi cose, per non confessare il timore dell'utile fatica; ed il
vizio colla pretesa loro inutilità, per non denunciarsi da sè medesimo
vile ed iniquo; l'infingardaggine ed il vizio diventano costume: e
perchè ciò che non è il costume dei più, sia tristo, sia buono, si
chiama fanatismo e pazzia, ogni bello e generoso ardire vien collocato
indegnamente in quest'ultima classe.»


... «L'uomo contempla rappresentata ne' grandi genii, in una pompa la
più solenne e nella sua più illustre magnificenza, la propria natura:
una sublime compiacenza lo fa inorgoglire delle proprie forze; l'animo
s'eleva ai più ardui concepimenti; il cuore s'infiamma ai più scabrosi
sperimenti; nulla più si tollera di mediocre senza una nausea mortale
ed un magnanimo disprezzo.»


... «Nella rivoluzione de' tempi occorrono età così sciagurate per
corruttela di costume, e così impudenti per abitudine di vizio che
portano in trionfo la colpa, infamemente la collocano sugli altari
della virtù, e, per averle cangiato nome, reputano di purgarsi da
sacrilega idolatria. Allora, gentilezza di modi le mollezze, gloria
l'oro, modestia la viltà, prudenza il timore, umiltà la codardìa,
obbedienza la venalità, senno il raggiro, economia l'usura, avvedutezza
la frode, laude l'adulazione, belle arti la lussuria: in una parola, la
colpa virtù. Tale è il rovescio miserando e scandaloso che si fa d'ogni
buono in cattivo, quasi che per mutar di vocabolo mutino le cose: ma
dando così chiaro a vedere che ogni uomo sente che non è stromento di
scelleratezza, e che tale è necessità per esso la virtù che il delitto
non abbraccia se non colorato dalle tinte di quella. Anche scellerato,
ama d'ingannarsi che non è: epperò, perdendo la virtù ne conserva la
divisa, onde molta è la ciurma degl'ipocriti: e così, se dappertutto
ove sono uomini il delitto ha schiavi, in nessun luogo regna a fronte
scoperta. Quindi accade che, se in così fatti tempi sorge un magnanimo
amico della virtù e del vero, tutti se gli fanno intorno co' sassi; ed
è ben conseguente, perocchè se giunga face là ove tutti han bisogno
di tenebre per ascondere la colpa, tutti si sforzano di spegnerla
subitamente. Delitto dell'amore di noi medesimi, che giustificando i
propri errori è pur uopo che le virtù contrarie condanni per evitar
contradizione: sicchè in cuore invidia l'altrui virtù, e col labbro
la lacera e la condanna. Del resto, la verace virtù che passeggia nel
mezzo alla finta, tacitamente denunzia la colpa nascosa sotto le sue
larve, e coll'opera del paragone squarcia la veste dell'impostura
la più veneranda e la più astuta. Allora si distingue la virtù
dall'ipocrisia che fa studio d'imitarla, coll'eguale facilità che un re
da scena da un re da trono, ed è per questo che in tale condizione di
tempi la virtù e la sapienza sono guardate come due possenti nemiche;
ed è per questo che solo compaiono attraverso lo squarciato manto
d'un'illustre povertà; e che sempre le ritrovi fuggiasche sulle spinose
vie della persecuzione, e spesso ancora fra le catene e dentro la
carcere dell'omicida e del ladro.»


... «Le grandi speranze e i grandi sforzi sono de' generosi; le forti
presunzioni e i deboli attentati de' superbi... Io tutto spero, tutto
tento, nulla presumo!»


... «Se è vero che dal conoscere scende ogni volere e dal volere
ogni operazione umana, con cui si satisfa all'inesorabile bisogno, si
accontenta il desìo insaziabile e si verificano le indelebili speranze,
e nella cui somma soltanto può essere riposta quella felicità ch'è data
ai mortali; se è vero, io dico, tutto questo, debbe scusarsi la nostra
curiosità che tutto ad un solo sguardo vorrebbe possedere lo scibile
umano. Anzi questa curiosità io la reputo come il possente motivo
onde la natura invita l'uomo a ricercarla nel sacrario della scienza:
come col desio della felicità lo spinse alle perenni agitazioni delle
sorti mortali. Quindi è che, una volta messa sulle vie delle indagini
per un sì grande impulso, non già s'avanza gradatamente e con tarda
saggezza, contenta ad un vero discreto; ma impaziente delle sagge
dimore della riflessione, si avanza baldanzoso, prima fidata al solo
probabile, poi al verosimile, ed in ultimo anche al falso in colore
di vero; e così per volere acquistare la vetta per la più spedita via,
corre la più lubrica; e correndo questa bene spesso ritombola al basso.
A spogliar la cosa di veste metaforica, fatto è che quando cessa il
vero ce lo fabbrichiamo coll'ipotesi del nostro cervello; e vien poi
una demenza filosofica che delira argomenti in suo soccorso; i quali,
accreditati dall'umano orgoglio e dall'umana ignoranza, gli ottengono
la cittadinanza del vero; e così, come dicevano i Greci, si abbraccia
la nube per la diva. — Non già ch'io abborra dall'uso giudizioso
dell'ipotesi: so benissimo ch'essa sola batte alle porte della verità;
anzi m'aggrada quella sua audacia con che la sollecita a parlare e le
squarcia il velo più misterioso. Mi rammento di Newton che con essa
s'innalzò in mezzo de' cieli e che da esso imparò come due mirabili
forze equilibrino i firmamenti. Io abborro che lo stromento diventi la
cosa, che la via si reputi a meta, e voglio che l'ipotesi non si usurpi
nome di realtà, ma che con felice metamorfosi si cangi in essa. Ma pur
troppo più persuadono i nomi che le cose: onde il fatto inesorabile
bene spesso appalesa le gradite menzogne di noi stessi: _decipimur
specie recti_.»


.... «La feconda meditazione de' grandi, tacita e nascosa ne' suoi
preziosi ritiri, non ha nemmeno l'applauso che il saltimbanco ottiene
sul trivio; anzi spesso dal volgo le sue sapienti lentezze e le sue
cautele da precipitato giudizio s'imputano a colpa e si accusano d'ozio
e di pigrizia. Ma i grandi, sdegnosi di piatire con una plebe che ha
bisogno d'assiduo cicaleccio per non morir d'inedia sulle vie e ne'
fori, ne confondono le menzogne recando in pubblica luce il frutto
delle loro nascoste fatiche.»


... «Le più sublimi speranze non bisogna misurar col solo calcolo
del corto soffio dell'umana vita. Non bisogna solo calcolar quanto
possa l'individuo; ma quanto può la specie, la cui vita è lunga come
la sua perfettibilità. L'orgoglio umano è una menzogna quasi sempre
nell'individuo; ma spesso nella specie è una verità; è uno sprone
a quanto ella di fatto può. Questo esiste in ogni individuo; e ogni
individuo, al divisamento, è pari al motivo; ma, all'opera, non potendo
quanto la specie, ciò che non sa o non fa lo reputa per un cotale
astuto giro dell'amor di sè stesso o inutile o impossibile. — Ma la
specie all'opposto può di più che non sappia: ognuno porti quel masso
che reggono le sue spalle, e l'edificio s'innalzerà verso il cielo
saldo e sublime. Io l'ho detto: Umana perfezione? un sogno: Umana
perfettibilità, una via di cui non conosco la meta, ma sulla quale io
pure cammino.


    . . . . . . . . . . «La patria
    «Empie a mille la bocca, a dieci il petto»

Eppure è il centro a cui dobbiamo tendere tutti del paro; e quando
l'interesse privato non è congiunto al pubblico, e perde questa forza
che tira al centro, la società si dissolve. La patria per tanto è
un nome sì augusto, sì venerando, sì santo che al paragone di lui
perdono i più bei nomi di ricchezza, di gloria, d'arti e di scienze.
Se le scienze si opponessero a questo ch'è il primo de' doveri e delle
glorie, le scienze sarebbero un delitto.»


... «Molti, non sapienti ma cerretani, han d'uopo d'ingannare, per non
saper istruire; d'apparenza per esser poveri di realtà; però cangiano
la cattedra nel banco del trivio; non parlano, ma tuonano; non usano
moderato gesto, ma fendono l'aria con tutto il braccio; non dicono cose
ma parole; non hanno espressione viva ed esatta del proprio pensiero,
ma pomposi e vuoti fantasmi mendicati qua e là; e ravvolgono le loro
sentenze nelle tenebre, perchè il lume disvela la loro miseria; si
fanno difficili per non essere avvicinati; non si lasciano intendere
per timore d'esser conosciuti; non hanno altro merito che quello di
strisciarsi dietro una gran toga che copre la loro mendicità; stanno
nel breve cerchio del loro zero, coll'importanza di chi siede in
un gran regno, simili agli oracoli ch'erano oracoli appunto, perchè
nelle tenebre nascondevano la menzogna. E con tal arte d'ipocrisia
scientifica sanno ingannare il volgo degli studenti e nel frastuono
dell'applauso di costoro nascondere il dispregio de' pochi.»


... «Il problema della vita non si risolve mai interamente che
nell'estremo punto dell'esistenza mortale. Ho veduto molti filosofi
studiare l'uomo in culla con ogni modo di accurata osservazione: per
me credo che lo spettacolo dell'uomo che muore non sia meno importante
per la storia del cuore umano, nè meno utile per l'umanità. È certo
che la virtù e un premio immortale della virtù non appaiono mai tanto
una necessità per l'uomo, quanto al momento ultimo della vita mortale.
Questo è l'unico tesoro che non perda il suo aureo colore sulle sponde
del letto dell'agonia e nelle stesse tenebre del sepolcro.»


... «Erano ben saggi quegli antichi Egizii che posero un tribunale il
quale giudicasse la vita di coloro che morivano, e incidesse le giuste
sue sentenze sulle pietre de' sepolcri e sull'arche degli estinti:
si passi la corteccia della cosa, e ciò parrà verissimo per molti
riguardi. Le parole esistenza e nulla rivelano l'_essere_ e il _non
essere_: e l'uomo inevitabilmente tormentato dal desiderio e dalla
speranza della felicità, non potendo trovarla che nel sentire, è pur
forza che rifugga possentemente dal non sentire; in altro modo che
conosca tutta l'opposizione che v'ha tra l'essere e il non essere,
tra le parole esistenza e nulla. È per questo ch'egli, non volendo
perdere in tutto questa vita mortale alla quale la natura lo congiunse
con tanto amore, creò un commercio d'affetti, di misericordie e di
soccorso tra il mondo vivo e il mondo estinto: sicchè egli s'illuda di
non perdere del tutto dopo l'estremo sospiro quanto ne' travagliati
anni della vita umana gli fu più caro, più desiato e più sperato. La
natura medesima sembra lo consigli a consolarsi delle sorti mortali;
mentre suscitando un fioretto sulla funebre zolla, par che voglia
infiorare l'ultimo velo che copre l'uomo. — Il genio colossale degli
Egizii fabbrica le piramidi; i Greci, primi amanti del bello, seminano
fiori e versano unguenti intorno a' sepolcri; i popoli cacciatori
e barbari seppelliscono coll'estinto i suoi dardi e il suo arco,
e sospendono sulla fossa di lui i trofei della sua vittoria; e lo
stesso sciagurato reo di sangue, spesso prima di salire il patibolo
lascia scritto il proprio nome sulle luride pareti della sua prigione.
Poichè la prospettiva della vita, tutto che bella e sparsa di fiori,
è sempre chiusa da una sepoltura, a noi riesce cara la croce piantata
sovr'essa, che conservi il nostro nome e c'impetri una preghiera. —
La religione de' sepolcri educa i nostri cuori ai sentimenti i più
sacri che formano, per così dire, gli amplessi con cui l'uomo s'unisce
in società. La pietà, la misericordia, la gratitudine, l'amore sono
provocati, nudriti e rinforzati dalla religione degli estinti. Colui
che sente la possa e il fremito che inspira una negra croce, sulla
quale leggiamo il bianco nome d'un nostro caro, è forse il barattiere
o l'usuraio? — È vero: una vecchierella che al rintocco della campana
da morto in sulla sera fa piegar le ginocchia alla figlia di sua figlia
innanzi all'entrata d'un camposanto, le segna a dito le croci di quelli
ch'essa non vide, le congiunge le tenere mani, e corregge le inesperte
labbra che balbettano un'innocente preghiera... oh sì! forse è derisa
dall'orgogliosa filosofia che insolente passeggia sulle teste dei
popoli; ma essa forse con maggiore utilità fa sorgere in quel tenero
cuore i sentimenti delle virtù le più veraci, le più sacre. — »

                            . . . . . . .

    — «E un'invisibil Vergine del cielo[6]
    È per l'aura sospesa, e mi risponde
    Confortando ad amar quella bellezza
    Che traspar dal sereno eterno riso...
    Del ciel m'invoglia santamente; obblio
    Gli atroci disinganni, de' ribaldi
    L'ira operosa, ed il fatal periglio
    Di fidente innocenza. Ed ondeggiando
    Sopra gli abissi del commosso lago
    Entro un leve battèl, tranquillamente
    Con lei converso a lungo; e mi rivela
    Che la calma dolcissima, cui piove
    La queta notte in cor del mesto, è parte
    Di quella che nel ciel fra poco aspetto.»

  7 d'aprile 18..

Eterno Iddio! abbi compassione della mia vita!... Ho ricevuto or ora
una lettera di mia sorella. M'annunzia che il mio povero e vecchio
padre sta molto male, e che desidera vedermi ancora una volta prima di
morire.

O Signore! dammi ch'io possa arrivare in tempo! dammi ch'io possa
compiere anche questo penoso e santo dovere!....

                             . . . . . . .



III.

COMMIATO.


Intanto ch'io scorreva cogli occhi e col cuore quel manoscritto, che
a me fu caro ben più di quanto parrà agli altri che lo leggeranno,
il dabben pievano s'era chetamente addormentato nel suo seggiolone a
canto del camino, dopo aver veduto il fondo della sua antica e fedele
_galéda_.

Eran forse passate due lunghe ore, allorchè io rientrando nel
salottino con que' pochi fogli che, per dir vero, senza soverchio
scrupolo m'intascai, lo vidi risvegliarsi di botto e fissarmi in
volto due occhiacci da spaurato; chè, non ricordandosi forse più del
suo forastiero, Dio sa per chi m'avea scambiato in quel momento.
Feci le viste di non accorgermi del terrore che senza volerlo gli
avevo cacciato in corpo, nè di quell'impaccio con cui egli andavasi
raccostando alla meglio lo sbottonato panciotto e la lunga sottana
d'un equivoco negro colore, che nell'abbandono del suo sonnecchiar
vespertino aveva in dietro arrovesciata, non senza mettere un poco in
compromesso la sua gravità di prima.

Lo ringraziai il meglio che seppi della bontà colla quale m'avea
lasciato frugare nel suo studio, e poi, per un certo prurito della
coscienza, trassi di tasca il rotolo delle carte di che m'era fatto
padrone; e gli chiesi il permesso di portarle meco per alcuni dì,
affine di trarne le note che m'occorrevano. Egli allora per dársi un
cotale sussiego d'inquisitoria importanza pigliò lo scartafaccio, senza
badare che lo pigliava alla rovescia; e dato che v'ebbe un'occhiata mel
rendè soggiungendo: — So cos'è, so cos'è... Poh! lo tenete, lo tenete
pur fin che vi grada, ch'io per me di coteste malinconie non ho mai
voluto l'impaccio e tanto meno adesso. E così, a dirla fra noi due, non
mi fossi tirato addosso per que' brutti anni il fastidio di colui che
le ha scarabocchiate tutte quelle pagine; che non l'avrei pagata con
perder l'appetito per più d'un mese. Basta! ebbi il mio santo anch'io,
e per buona sorte la è passata la trista burrasca. Ma v'accerto che
sebben quello fosse una cima d'uomo, come dicono, per me fu il primo
e l'ultimo prete che mi tenni vicino. Mi riuscì di accomodarla con
monsignore; e d'allora in poi, io solo, povero e vecchio qual mi
vedete, ho tirata la barca della parrocchia, e spero continuare per un
bel pezzo ancora!...

Essendo fatta l'ora tarda, mi congedai dal pievano, pensando fra me di
mandargli in segno d'animo grato per il donatomi manoscritto un bel
Breviario nuovo che gli servisse in vece di quello tutto squadernato
e bisunto ch'io aveva veduto sul suo tavolo. E così poi feci, appena
giunto a Milano.

Tornai alla casuccia del mio buon alpigiano. E con lui, il seguente
mattino, volli visitare quella ch'era stata la dimora dell'infelice
don Carlo. Erano poche camerette, anguste, nude, disabitate, cadenti:
e come appartenevano alla prebenda, nessuno le aveva più occupate dal
giorno che il vicecurato s'era di là partito per non tornarvi più. Mi
si serrò d'angoscia il cuore, veggendo che servivano di ripostiglio
alle vecchie e rotte suppellettili della chiesa, e che in fondo della
stanza terrena eran riposti il cataletto de' poveri della parrocchia,
alcuni rugginosi candelabri di ferro usati ne' funerali, due panche
sgangherate, una barella; e nel canto, la zappa e la vanga del
becchino.

Nulla più v'era che serbasse ancora in quel cadente tugurio la più
piccola traccia della memoria di un giusto.


In sul meriggio, salutai la povera famiglia del Bernardo, quelle buone
e sincere creature ch'io aveva già preso ad amare, e che nella fede
de' loro cuori benedicevano tuttora al nome del vicecurato. Allorchè
m'arrestai un poco sul breve altipiano donde si vedevano in gruppo
le prime case di quell'ignota terricciuola, mi venne all'orecchio la
limpida voce argentina della figlia del montanaro che cantava così:

    Io la vidi salire alla montagna
      Io la vidi seder presso al torrente. —
          O mia compagna,
          Che fai tu qui?

    Salutava cantando il sol cadente,
      Povera abbandonata alpigianella! —
          L'Ave Maria
          Sonar s'udì.

    Allora sollevò la faccia bella,
      Le parole dicea dal piagner rotte, —
          Ma la sua stella
          Non apparì.

    A mezzo del cammin giunse la notte,
      Un nugol nero circondò la luna. —
          L'antica Fata
          Dall'antro uscì.

    Accanto a lei passò la Maga bruna.
      Povera alpigianella abbandonata! —
          Sulla montagna
          Essa morì.

— Chi sa, diss'io fra me, ch'egli stesso, il buon prete, non abbia
insegnato a quella montanina codesti semplici versi modulati su qualche
poetica tradizione dell'Alpi! E il mio pensiero, raffigurando la bella
sembianza dell'Assunta, ricordò ancora la fine della povera Angiola
Maria, alla quale parevami quasi compiangere quel malinconico canto.



INDICE.


  A Corinna                                             _Pag._ 3
  Prologo                                                  »   7

  LIBRO PRIMO.

     I. Una domenica                                       »  11
    II. Sul terrazzo                                       »  21
   III. A diporto sul lago                                 »  31
          Il ricordo, canzone                              »  35
          Il desio, canzone                                »  36
    IV. Nella casetta                                      »  38
     V. Una prima conoscenza                               »  50
    VI. Dallo speziale                                     »  58
   VII. Scena di famiglia                                  »  68
  VIII. Amicizia                                           »  76
          La voce della fede, stanze                       »  83
    IX. Amore                                              »  88
     X. Le tre fanciulle                                   » 100
          Un chiaror di luna, ballata                      » 104
    XI. Sulla bass'ora                                     » 110
   XII. Addio al lago                                      » 121
          Il commiato, canzone                             » 129

  LIBRO SECONDO.

     I. Altro tempo, altra vita                            » 133
    II. Ore di tristezza                                   » 147
   III. Un colloquio                                       » 155
    IV. L'onestà del povero                                » 164
     V. Partenza e mistero                                 » 175
    VI. Il fratello e la madre                             » 187
          Il calice del dolore, versi                      » 199
   VII. Il pane altrui                                     » 201
  VIII. Le alunne della crestaia                           » 219
    IX. Speranza e dubbio                                  » 232
     X. Un'altra prova                                     » 245
          Rosa, ballata                                    » 249
    XI. Il ritorno                                         » 265
   XII. Sacrifizio                                         » 287

  IL MANOSCRITTO DEL VICECURATO.

     I. L'ospite montanaro                                 » 313
          Il ritorno, canzone                              » 315
    II. Il manoscritto                                     » 328
   III. Il commiato                                        » 359
          L'alpigianella, ballata                          » 361



NOTE:


[1] Sembra che queste prime pagine del manoscritto si riportino al
tempo che il buon prete fu mandato viceparoco in quel povero e ignoto
villaggio di montagna.

[2] Pare che qui intendesse parlare d'Alessandro Volta, di cui forse
avea scritto a quel tempo.

[3] Qui il manoscritto presentava una lacuna, e pareva fosse stato
per parecchi mesi interrotto. A quel tempo forse riportansi i pochi
brani delle lettere che trovai fra que' fogli, scritte con mano quasi
illeggibile, spiegazzate e lacere, sicchè vedevasi che prima di finirle
il vicecurato s'era pentito e le aveva gittate a parte.

[4] Forse il manoscritto fu ripigliato all'entrar della seguente
primavera; se pur non erano mancati alcuni foglietti.

[5] Queste note e questi pensieri trovai qua e là sparsi sopra alcuni
brani di carta frapposti alle pagine del manoscritto: erano per
avventura frammenti o postille di qualche libricciuolo messo in luce
senza nome in altro tempo. Ne tenni conto, perchè parmi rivelino meglio
ancora quali fossero la mente e il cuore del vicecurato.

[6] Questi pochi versi trovai scritti sulla coperta d'una lettera
d'altrui mano: era forse una lettera della sua povera e buona sorella.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



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