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Title: Mio figlio!
Author: Farina, Salvatore
Language: Italian
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                            SALVATORE FARINA


                              MIO FIGLIO!


                           UNDECIMA EDIZIONE



                              S. T. E. N.
                 Società Tipografico-Editrice Nazionale
             (già: Roux e Viarengo, M. Capra e A. Panizza)
                             TORINO, 1915.



                          PROPRIETÀ LETTERARIA

                                 (3135)

                  Officine grafiche della S. T. E. N.
           (Società Tipografico-Editrice Nazionale) — Torino.



AI MIEI FIGLI

_perchè quando non saranno più bambini, trovino in queste pagine gli
affetti semplici della loro età presente, e più tardi una maggior parte
di chi gli ha tanto amati_

  Milano, 1º Novembre 1881.



A chi legge

(PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE)


_Quando pubblicai la prima volta le parti staccate di questo libro
modesto, i critici mi avvertirono di due cose, cioè che io andava
troppo per le lunghe, insistendo soverchiamente nei particolari; e che
correva troppo senza nemmeno toccare episodii importanti della piccola
ma eterna epopea domestica. Con la scorta di questi due criteri, io,
come è accaduto ad altri, continuai a fare a modo mio. Ora che il
libro, bene o male, è compiuto, mi credo in obbligo di avvertire chi
legge che non ho voluto scrivere un romanzo, e che per ciò non si
aspetti una narrazione filata. Qua e là, fra le parti del libro, ho
lasciato di proposito un intervallo dove fosse posto ad altre gioie e
ad altri dolori, per la ragione medesima che mi consigliò di rifiutare
le considerazioni troppo personali e gli avvenimenti non volgari.
Dirò tutto: Questa volgarità di casi e queste lacune mi daranno un
collaboratore in ogni padre che voglia leggere il mio libro._

_D'un altro disinganno a cui va incontro il lettore non sarà male che
io mi scagioni a bella prima._

_Mio Figlio!_ non è un protagonista, non è nemmeno un personaggio vero
e proprio; è un sentimento, è il grido di tutta l'umanità, anzi di
tutta la natura._

_Quale intento mi sono io proposto? Non lo so bene; mi ricordo che
quando una voce di là dalle Alpi mandò un grido che a molti non
piacque, e in casa nostra altre voci gridarono anche più forte e in
un modo che dispiacque a moltissimi, più d'uno sentì il bisogno di
mettersi alla finestra e di gridare: _Mio Figlio!_ Forse lo sentii
anch'io questo bisogno, e allora, per vizio d'abitudine, presi la
penna... e peccai. Oggi che le vociferazioni cominciano a cessare,
questo libro non vuole aver punto l'aria di una protesta. — Che cosa
vuole esso dunque? Vuole che un padre di famiglia, dopo la lettura,
faccia una carezza ai suoi bambini._

                                                            S. FARINA



PRIMA CHE NASCESSE


I.

Non lo aspettavamo più: anzi, per dire il vero, non lo avevamo
aspettato mai. Ci eravamo sposati senza secondi fini, unicamente per
isposarci, e il giorno delle nozze parve a me il più bello di tutta
la mia vita, perchè con esso incominciava finalmente la vita nostra.
Vedere qualche cosa di là da un grande amore, immaginare un'altra gioia
diversa da quella di attraversare il mondo a braccetto nello stesso
sentiero, Evangelina ed io, mi sarebbe sembrata l'offesa d'un nano al
gigante che nutrivamo nel petto. Io scrivo «nutrivamo», perchè anche
Evangelina mi amava molto, senza di che non si sarebbe adattata a
diventare la signora Placidi.

A quel tempo non avevo ancora scavato la miniera del codice di
procedura civile, e lo studio dell'avvocato Placidi era poco più di una
buona intenzione. Per giunta avevo allora, ed ho anche oggi, un nome di
battesimo grottesco, di quelli che smorzerebbero un incendio amoroso.
Mia moglie mi chiama Onda (ed è già una tribolazione), ma il mio vero
nome — non lo credereste — tutto quanto il mio nome è Epaminonda.

Si diceva dunque che non lo aspettavamo più, cioè che non lo avevamo
aspettato mai, perchè ci eravamo sposati senza secondi fini. E sì che
non erano mancati gli eccitamenti!

Al nostro ritorno dal viaggio di nozze, parenti, amici, amiche, quanti
ci aspettavano alla stazione, ci accolsero con certi sorrisi, che mi
avrebbero messo in impiccio se non mi fossi preparato a ridere; la mia
Evangelina, poveretta, era indifesa, e quanto più io rideva, tanto più
essa si faceva rossa. Era quello che i parenti e gli amici volevano; si
sarebbe detto che non mancasse altro alla loro felicità.

— Ce l'hai? ce l'avete? — E guardavano negli occhi di mia moglie,
la sottoponevano a un interrogatorio pieno di allusioni, di cui la
poverina non capiva gran cosa, poi guardavano me dandosi l'aria di
complici, o mi cacciavano un gomito nelle costole, socchiudendo un
occhio. Mio suocero, un ometto pieno di buon umore e di vivacità, non
faceva altro che girare intorno alla sua figliuola, e chiederle: — Me
l'hai portato? — come se dovesse averlo nella valigia.

Ci fu persino un professore di aritmetica, il quale, abusando della
sua professione e della sua scienza, fece un calcolo ardito dinanzi
alla mia Evangelina, e sostenne che, siccome noi ci eravamo sposati in
luglio, _lui_ doveva venire in marzo, con le prime viole. Naturalmente
tutti costoro non dicevano mai chiaro di chi parlassero; ma non era
difficile intendere che si trattava di mio figlio.

Poi venne il quesito del sesso, e qui la disparità dei pronostici fu
inconciliabile. Per mio suocero non correva dubbio, era un maschio (un
ingegnere), ma la vecchia zia Simplicia, la quale si offriva di tenere
la nostra creatura al fonte battesimale, diceva che doveva essere
una femmina, e lasciava intendere in mille modi, senza dirlo, che il
meglio che la nascitura Semplicetta potesse fare sarebbe di copiare
col tempo le grazie semplici della madrina. Per accontentarli tutti,
io rispondeva invariabilmente che mio figlio era neutro. E lo diceva
ridendo, senza farmi un'idea della tortura inflitta a tutti i padri
in erba di dover adorare per molti mesi un figliuolo senza sesso. Ma
quando m'immaginavo di averli indotti in buon'ora a lasciare in pace la
mia poveretta, non mancava mai un pensatore più arguto di me, il quale
suggeriva serio serio a mia moglie il modo migliore di accontentare il
babbo e la madrina: — Faccia il paio — diceva lui — posto che ci si è
messa.

Ma no, benedett'uomo, che non ci si era messa! A quattr'occhi avremmo
riso dell'inganno di quella buona gente, se non ci fossimo fatto
uno scrupolo. Ci parve d'essere in obbligo di aspettarla, la povera
creaturina, che ad ogni costo doveva venire con le viole; di parlarne
qualche volta come se vi credessimo, tanto per non aver l'aria di
respingerla dall'amplesso di babbo e di mamma.

L'aritmetica del professore cominciò a servire anche a noi, ma senza
ansie nè sgomenti. Si diceva: — Le viole verranno prima di lui — e si
era già rassegnati a vederlo venire co' mughetti e con le ciliege.

E ogni mese che passava, mentre leggevamo lo sconforto sulla faccia
di mio suocero, la zia Simplicia, i parenti, gli amici e le amiche,
con tutte le gradazioni della pietà e della misericordia, ci facevano
intendere che eravamo due buoni a nulla.

Ci puntigliammo e fu inutile: vennero le viole, vennero i mughetti, non
recando altro che il loro profumo; e vennero le ciliege, ma ahimè!...
sole.

Questo figliuolo, che non si decideva a nascere, turbava già la nostra
pace; io vedeva bene che sotto il riso allegro di mia moglie si celava
un'ansia segreta, e tante volte non mi riusciva di cancellare coi baci
le nuvole della sua fronte.

Spesso la sorprendevo seduta in un canto, curva sul cucito, ma senza
mettere un punto, con gli occhi fissi a terra; me le accostavo pian
pianino, la baciavo sul collo, ella dava un tremito, poi mi diceva:
— Cattivo! — perchè le avevo fatto paura, e in ultimo mi mostrava la
faccia sorridente; ma checchè ella facesse e dicesse, io indovinava
una lagrima nei suoi occhi buoni, e in quel suo sorriso dolce, vedevo
ancora un pensiero fuggitivo e mesto. Quale?

Me lo disse un giorno: tremava, la poverina, di non bastare alla
mia felicità; era vergognosa e sgomenta di non sapermi regalare un
bamboletto color di rosa. E per quanto io le dicessi che non me ne
importava, che non sapevo che farmene, ella, guardandomi negli occhi e
sospirando, soggiungeva:

— Lo vedi bene; il matrimonio non è quello che pensavamo noi, e quando
ti sarai persuaso che il nostro poteva metter meglio...

Non le lasciavo finire la frase; le chiudevo la bocca con un bacio, la
costringevo a fare per la camera un giro di valzer, e se non bastava
ancora, me la pigliavo in braccio come una bambina e la portavo per
tutte le stanze del nostro appartamento, che erano quattro, senza
contare un bugigattolo per la fantesca. Finiva col ridere.

Mia moglie non era leggiera, ed io non la deponeva mai a terra senza
protestare che per un uomo come me il peso di una moglie come lei
era sufficiente, e per carità non istesse a mettermi sulle spalle un
marmocchio che non conoscevo.

Beffavo la mia prole futura allegramente; avrei fatto di peggio; non mi
sarebbe spiaciuto di sembrare un padre snaturato, tanto per mostrarmi a
lei quello che ero per davvero: un marito esemplare.

Con queste arti mi riuscì di persuaderla che il meglio che le rimanesse
a fare era di mostrarmi la sua faccia gioconda, e di allietarmi la vita
col lume dei suoi occhi sereni.

E una volta mi disse:

— È proprio vero che tu non l'hai desiderato mai?

— Chi?

— Tuo figlio.

— Mai — risposi solennemente.

Essa inorridì per celia; poi tirò innanzi.

— Io m'era proprio messa in capo che tu lo aspettassi, che non potessi
più far di meno di lui, che lo amassi più di me... e ne ero gelosa.

— To'! — esclamai — se non era nemmeno concepito, come lo poteva amare?

— È quello che pensavo anch'io: come fa ad adorare un nascituro, che
non vuol nascere, solo perchè nascendo dovrebbe essere suo figlio? In
fin dei conti è uno sconosciuto. E pure ti guardavo di nascosto, ti
vedevo pensoso e dicevo dentro di me: «Vi pensa, non sa darsi pace, lo
adora!».

Povera Evangelina! Mi amava proprio.

Amava anche l'ordine, anzi qualche cosa di più dell'ordine, la
simmetria; poichè non bisogna confondere queste due virtù domestiche.
L'ordine può essere un abito; la simmetria è un sentimento, ed è sempre
più severa.

Per comprendere quanti piccoli sacrifici mi fosse costato
l'accontentare quella simmetria tiranna, bisogna essersi trovati a
metter su casa con una borsa magra ed aver avuto dinanzi agli occhi
quattro pareti, in cui decentemente non potevano stare che quattro
quadri od otto, mentre voi avevate la mezza dozzina giusta.

Basta, mia moglie amava prima me, poi la simmetria, ed io sosterrò in
faccia a tutti che essa aveva collocato bene i suoi affetti, almeno
rispetto alla simmetria. Quando mi conduceva misteriosamente per mano
in una stanza, e mi abbandonava poi al mio stupore dicendomi: — Guarda
— ed io guardavo e non vedevo nulla, e finalmente vedevo e mi stupivo
che ella avesse trovato modo di migliorare una simmetria che pareva
perfettissima, allora non tralasciavo mai di dirle: Brava!

Talvolta soggiungevo: — Vedi un po' queste sei seggiole disposte
così bene, due ai capi della tavola, quattro a farsi riscontro nelle
pareti; non ti hanno l'aria di avere un intendimento e di obbedire ad
una intelligenza tacita? Muovine una, e l'intelligenza che le anima se
ne va, le seggiole ridiventano niente più che seggiole; e pazienza se
fossero di un legno prezioso e foderate di damasco, ma sono di noce e
hanno il fondo di paglia.

Evangelina rideva, perchè era contenta; ed io tiravo innanzi:

— Se quel monello che a quest'ora doveva essere al mondo si decidesse
mai a venire per davvero, sai tu la bella prodezza che imparerebbe
col tempo?... Imparerebbe a tormentare la tua simmetria, a cacciarla
di casa come fanno certi artisti che conosco io, i quali, invece di
dipingere dei bei quadri o scrivere dei buoni libri, trovano più comodo
di passar per genii, facendo la guerra agli istinti da borghesuccio, al
_convenzionalismo_ ed ai sentimenti comuni.

— Ci pensi ancora? — mi domandava Evangelina con uno sgomento adorabile.

Si sott'intende: «a quel monello».

E mi toccava ripeterle per la centesima volta che ero felice così, che
non desideravo nulla, e che _anzi_...

— Dillo, dillo, che _anzi_...

Lo devo dire? Non solo ero felice e non desideravo nulla, ma mi pareva
che un figlio mi avrebbe dato più noia che piacere. Che farne di un
erede prima d'aver avviato benino lo studio di avvocato per affidarlo
a lui nella mia vecchiaia? Aspettavo con una certa impazienza la
clientela, questa sì: ma alla progenitura non pensavo quasi senza un
po' di terrore.

Tiravamo innanzi a forza di risparmio, peccando sette volte al giorno
di desiderio, e fabbricando certi castelli, che sfidavano con arroganza
tutte le leggi dell'equilibrio. Poveretti tutti e due, Evangelina
con la sua dote mingherlina, io co' miei codici e col mio diploma
dottorale, facevamo galloria spendendo l'avvenire.

Pensandoci bene, doveva esser chiaro a tutti che un figlio per noi
sarebbe stato un lusso pernicioso; e non capivo come quel buon uomo
di mio suocero, che aveva sudato a mettere insieme la dote e sui miei
tesori non s'era mai fatto alcuna illusione, si ostinasse a credere che
l'appendice di un figlio fosse necessaria alla nostra felicità.

— I figli — diceva io filosoficamente — vengono al mondo nudi e pieni
di appetito.

E questa massima semplice e profonda ispirava altre riflessioni meno
semplici, e non meno profonde, a mia moglie, la quale era in tutto
della mia opinione.

— Un figlio — diceva essa — sarebbe forse una bella cosa, ma
bisognerebbe non andar più al caffè la sera, nè al teatro.

— Quanto a questo — rispondevo — basterebbe che io smettessi di
fumare... è un sacrifizio, ma per mio figlio lo farei.

E mi pareva d'essere un eroe ogni volta che accendevo il sigaro.


II.

Avevamo preso l'abitudine d'andarcene a desinare alla trattoria,
variando ogni giorno.

— Che bella cosa! — diceva mia moglie ingenuamente. Io non mi secco
a far la spesa, non mi adiro mai perchè la fantesca abbia pagato
troppo cari i legumi primaticci; non ho la noia di veder soffiare
in un fornello che non si vuol accendere, quando ho appetito; non
vi è pericolo che lo stufato pigli il bruciaticcio o che la minestra
sappia di fumo. La nostra mensa è imbandita a tutte le ore del giorno;
d'inverno si va in una bella sala, molto più larga delle nostre quattro
stanze insieme, si sceglie un deschetto accanto ai vetri per veder
la gente che passa; d'estate si sta al fresco in giardino, e basta
picchiar sul bicchiere con la forchetta per aver tutto quanto si può
desiderare... proprio come nei palazzi delle fate.

— Pagando all'ultimo — notava io ridendo.

Ma allora Evangelina, facendosi forte della sua esperienza di buona
massaia, mi dimostrava come due e due fan quattro che, tirati bene
i conti, lo stesso desinare della trattoria ci sarebbe costato molto
più in casa; e a me non rimaneva che inchinarmi alla sua dottrina, e
pregarla con un sorriso di perdonare ad un grosso ignorante la felicità
di cui non aveva merito.

Avevamo scelto a modello del nostro più tardo avvenire una coppia di
vecchietti pieni di rughe e di buon umore. Costoro venivano ogni giorno
alla trattoria; lei si toglieva un certo cappellino che pareva un
imbuto, lui si affrettava ad appenderlo pe' nastri all'attaccapanni,
poi si mettevano a sedere, mostrando la loro canizie intatta. Si
consultavano a bassa voce e lungamente prima di decidersi a chiedere
il medesimo cibo, poi lo chiedevano col cuore leggiero, e lo vedevano
venire sorridenti, e se lo mangiavano con raccoglimento, rallegrandosi
ogni tanto con un'occhiata della scelta giudiziosa che avevano
fatto. Quando se ne andavano a braccetto, pareva che fosse scomparsa
l'allegria. Evangelina ed io si stava un po' zitti; poi l'uno o l'altro
diceva:

— Anche noi faremo quella figura; non avendo figliuoli nè altri
impicci, noi pure ce ne andremo sempre a desinare alla trattoria.

Insomma ci volevamo bene, ed eravamo persuasi entrambi che il mondo
cominciasse e finisse in noi.

Bisognava vederci, quando uscivamo a braccetto dalla trattoria: io con
lo stuzzicadenti in bocca, ritto, impettito, superbo; la mia Evangelina
serena e sorridente; lieti l'uno e l'altro della bella luce del
tramonto, o del bel temporale estivo che minacciava di farci correre
a casa, o della magnifica nevicata; bisognava vederci allora per
comprendere quanto sentimento squisito emani da una digestione facile
compiuta in due.

Si va? Si rimane? Si corre o si tira innanzi adagino? Si faceva come si
voleva.

Non vi era pericolo che, durante la nostra assenza, i nostri figliuoli
rotolassero giù dalle scale, o si picchiassero da buoni fratelli, o
mettessero fuoco alle lenzuola del letto con un fiammifero rubato in
cucina.

Senti? E' un marmocchio che strilla come una prima donna, od è una
prima donna, che...? Non vi è dubbio, è proprio un marmocchio.

Si alza uno sguardo di compassione al terzo piano, donde scendono
quelle note di soprano, e si tira innanzi; quel marmocchio non è il
nostro. E si pensa: pazienza, povere mammine, i vostri angioletti ve li
manda il cielo!

Poco più oltre s'incontra un altro bimbo, che fa i primi passi; quanto
è carino! barcolla tutto, vi viene voglia di corrergli sempre dietro
con un guanciale in mano per buttarglielo ai piedi prima che cada
e si faccia male. Ma eccolo che si pianta in mezzo alla via e non
si vuol più muovere; la madre, il padre, la fantesca s'ingegnano di
persuaderlo; non riescono a nulla: provano a pigliarlo per mano, e
l'omino caccia strilli così forti da far cessare a un tratto quelli del
suo collega del terzo piano, il quale sta probabilmente ad ascoltare.
A quel chiasso si raduna un po' di gente... Che è stato? Niente di
strano; un fenomeno naturale; la povera madre si fa rossa, il padre
si guarda intorno cercando un abisso, la fantesca raccoglie ogni cosa
e tira innanzi; la famigliuola affretta i passi verso casa, qualcuno
ride, la folla si dirada.

E noi ci guardiamo in faccia alla muta; poi dico scherzando:

— Sono le prime consolazioni che un marmocchio bene allevato si crede
in dovere di dare a babbo e mamma.

— E sono nulla forse al paragone di quelle che riserba loro nella
vecchiaia — dice Evangelina.

— Quando sarà all'Università di Pavia — proseguo io — e farà la
conoscenza d'una certa signora Rosa, amica degli studenti, e del venti
per cento il mese.

— E quando, per due parole dette troppo forte al caffè, andrà sul
terreno, come dicono, con un compagno di scuola.

— Quando... ah! — m'interrompo, colpito da un'idea compassionevole — se
quel povero padre potesse vedere fin d'ora tutti i dolori che gli serba
questo marmocchio, gli darebbe una sculacciata di sicuro... ma non ora
— soggiungo, pensando meglio.

— Perchè non ora? — domanda Evangelina.

Io rido, essa mi comprende, e ripiglia a ridere così forte, che i
passanti ci guardano, poi si voltano indietro per guardarci ancora.
Ne sentiamo di quelli che dicono: — Sono sposi freschi, sono felici!
— Mi volto anch'io e li guardo con indulgenza, e mi piglia una gran
tentazione di dir loro:

— Sissignori, questa è la mia Evangelina, non è molto che ci siamo
sposati, ci vogliamo bene e siamo felici.


III.

Nel nostro egoismo ci eravamo scelti un compagno, ma con giudizio: era
un amico discreto che cantava tutto il giorno il nostro epitalamio,
pigliava parte alle nostre gioie, senza mai pretendere più di quello
che gli potevamo dare. Non era una fenice, come potreste credere, ma
solo della famiglia. E come si chiamava? Si chiamava _merlo_, senza
perciò essere propriamente un merlo. Non era neppure uno storno e
nemmeno un passero solitario; cantava come un tenore di cartello,
fischiava come un abbonato; allo stato in cui era rimasta la scienza
ornitologica per me e mia moglie, quel pennuto era un merlo. E ad ogni
modo esso visse e morì portando questo nome non suo e facendone l'uso
migliore.

Ancora me lo ricordo quel giorno crudele; dal mattino il nostro
compagno, potrei dire nostro figlio, se ne stava in un cantuccio
della gabbia, immobile, con gli occhi velati; ogni tanto si provava a
beccare svogliatamente un insetto che gli cadeva dal becco; rimaneva
indifferente alle seduzioni dei lombrichi più squisiti che possano fare
la felicità d'un merlo; mia moglie non sapeva che pensare, chiedeva
ai vicini ed ai lontani che malattia poteva essere quella del suo
merlo, e come andasse curata. E in un'occasione tanto dolorosa essa
diede prova di un cuore veramente materno, prodigando mille tenerezze
a quella povera bestiola, chiamandola con cento vezzeggiativi; invano.
Dopo essere stato ingiustamente merlo in vita, quella creaturina alata
doveva morire nel fiore degli anni, come si dice, senza farci sapere
il suo nome vero. E nessuno me lo toglierà dal capo: quel poveretto
si era dato volontariamente la morte per sottrarsi ad un mondo pieno
d'ingiustizia e d'ignoranza — perchè il portinaio che lo aveva avuto in
cura negli ultimi giorni e prometteva solennemente di salvarlo, scoprì,
facendo l'autopsia, che il defunto aveva trangugiato un ago da cucire.
Il ferro micidiale gli aveva passato il ventricolo da parte a parte;
il portinaio inorridiva, inorridivo anch'io, e tra tutti e due si andò
d'accordo di dar sepoltura onorata al morto, senza svelare a mia moglie
l'occulto dramma di cui avevamo sotto'cchio la catastrofe crudele.

Non vorrei fare un sospetto maligno a danno del mio prossimo, ma lo
feci allora, ed a ripeterlo oggi non mi pare che la colpa si aggravi
tanto da non poterla portare: da un certo impaccio del portinaio, da
una penna traditrice che gli si era attaccata come un'accusa ad un
lembo della giacchetta, e più che altro dalla singolare premura di
farmi sapere che il nostro merlo era stato sepolto in giardino, io fui
fatalmente indotto a credere che la sepoltura viva fosse lui, come se
gli leggessi l'epitaffio sul panciotto.

Sì, perchè il defunto era grasso; i dispiaceri non gli avevano tolto
l'appetito, e fino al giorno in cui aveva fatto il nero proposito di
uccidersi con un ago da cucire rubato a mia moglie, egli aveva beccato
gli insetti e le bricciole di carne con l'avidità del merlo più ben
intenzionato della creazione. E vorrei sbagliare, e vi troverei una
specie di conforto, ma temo che appunto perchè non era un merlo, sia
stato il più saporito dei merli.

Più tardi, passata l'oppressione della catastrofe, io trovai la forza
di ridere e di scrivere un epitaffio, e il mio solo rammarico fu di non
poterlo scolpire sul sepolcro autentico.

La perdita di quella creaturina incognita che ci salutava ogni mattina
a gola spiegata, che veniva a beccarci amorosamente le dita, e che non
ci era costata alcun dispiacere, aveva commosso anche me. Per un pezzo,
sempre che vidi una gabbia vuota, mi tornò in mente il compagno del
nostro talamo infecondo e beato. Vero è che, vedendo la mia Evangelina
intenerita, mi affrettavo a consolarla dicendole che, stando alla
migrazione delle anime, il nostro merlo doveva essere a quest'ora un
cagnolino, o forse, col tempo, farsi degno di nascere uomo... e figlio
alla signora Evangelina, moglie dell'avvocato Placidi.

L'idea era bislacca, ma produceva il suo effetto, che era di metterci
di buon umore.

— Pensa un po' — mi diceva qualche volta mia moglie — se, invece di
perdere un merlo, avessimo perduto un figlio!

Io vi pensava, e mi venivano in mente dieci madri disperate per aver
perduto le loro creature, un padre impazzito, un altro padre suicida
per la stessa causa; e conchiudevo serio serio che per non vedersi
morire un figliuolo, la sola precauzione consigliata dall'esperienza è
di non vederlo mai nascere.

E mi fregavo le mani, e ridevo, ed ero contento, e sentivo di far
contenta la compagna della mia esistenza, non mettendo di mezzo fra noi
e la nostra felicità altro che un desiderio vivo, un desiderio modesto,
— il primo cliente.

Oh! il primo cliente!

Lo aspettavo da mattina a sera, frugando nei codici per esser preparato
a riceverlo degnamente, davo sesto ai miei libri, mettevo in fascio
le mie carte, che, così disposte, sfidavano l'occhio più esercitato a
riconoscere che non fossero pratiche bene avviate. Qualche volta il mio
primo cliente veniva, aveva un caso intricato, io gli dava udienza con
sussiego, lo eccitavo a fare la lite e mi proponevo di trascinarmelo
dietro senza soverchia fretta per le scale di tutti i tribunali
competenti, iniziandolo ai misteri della procedura civile.

Egli mi stava ad ascoltare; ad ogni parolone difficile che mi usciva
di bocca, spalancava certi occhi che parevano finestre, e se ne andava
sbalordito della mia scienza e disposto a farmi la procura _ad lites_.
Cari sogni!... Da questo sonnambulismo egoistico e dolce mi svegliai un
giorno di repente.

La mia Evangelina soffriva; da una settimana non mangiava quasi,
si lamentava di certe doglie, di un certo malessere, di un po' di
languore. — Non sarà nulla — diceva; e per consolarla ripetevo anch'io:
— Non sarà nulla.

Ma una mattina si svegliò più malata del solito.

— Oh, cielo! — pensai — se mi morisse!

E scesi le scale per chiamare un celebre medico che stava al primo
piano, faceva le sue visite in carrozza, e doveva guadagnare in un
giorno tutta la mia rendita d'un mese.

Mentre egli veniva su, pensavo: — Il difficile sarà pagarlo, ma avrò
tempo; ora bisogna salvare la mia Evangelina. — E prima di entrare in
casa fui tentato di dire a quell'uomo celebre: — Per carità, mi salvi
la mia Evangelina! — Me ne trattenne una certa dignità virile che
volevo serbare anche nella sventura.

Il medico visitò mia moglie, le guardò la lingua e le toccò il polso,
le fece certe interrogazioni, a cui essa rispose titubando; all'ultimo
rise, e sentenziò che non era nulla.

— Non vi è pericolo? — chiesi con voce tremante.

— Signor no, almeno per ora. — E mi trasse in un canto per dirmi
furbescamente: — Gliela dia lei la notizia alla signora...

— Sarebbe mai?...

— Sicuro.

Invece di accompagnare il medico sul pianerottolo, come volevo, mi
pare d'averlo spinto garbatamente fuori dell'uscio; dopo di che, senza
nemmeno chiudere la porta, corsi al capezzale della mia ammalata.

— Lo sai come si chiama la tua malattia? Non lo sai? Vuoi saperlo?

— Come si chiama?

— Si chiama Augusto...

Evangelina mi gettò le braccia al collo e mi coprì di baci, mormorando
fra le lagrime:

— Era dunque per questo che io sentivo di amarti di più! Perchè eravamo
in due a volerti bene.


IV.

— Sono guarita! — mi disse Evangelina.

— Lo vedo!... Ma che fai ora?

— Mi levo, non so più stare in letto...

Io la trattenni dolcemente, le accomodai i guanciali sotto il capo, le
tirai le coperte fino alla gola, le lisciai la rimboccatura e la fronte
e stetti un istante a contemplare la mia opera in silenzio.

Evangelina mi aveva lasciato fare senza resistere, perchè le piaceva
godersi lo spettacolo della mia gravità carezzevole; ma quando mi vide
ritto e immobile dinanzi a lei, prima mi pregò di non guardarla in quel
modo, poi tornò a dire che assolutamente non voleva stare a letto, che
si sentiva benissimo, e perchè io tenni duro, essa mi voltò le spalle
con l'atto dispettoso d'un fanciullo viziato, subito si volse ancora e
mi sorrise.

Allora le dissi serio serio:

— Non bisogna far pazzie; il tempo vano è passato, il tempo frivolo non
tornerà più; dobbiamo mettere giudizio e pensare alla famiglia.

— Sentitelo! — esclamò Evangelina. — Il tempo vano in cui ci volevamo
bene è passato; non tornerà più quel tempo frivolo, quando il signorino
non pensava ad altro che a farmi contenta.

Le volli chiudere la bocca con un bacio, e non riuscii, essa si lasciò
baciare mezza la bocca, e, con l'altra metà, continuò a dire:

— Già, il signorino me lo dice in faccia; quando avrà suo figlio non mi
guarderà neppure; ma non l'ha ancora suo figlio, ed io sono capace...

Bontà divina! Di che cosa non doveva essere capace quella mia pallida
faterella, che stava facendo il miracolo eterno!

— Taci — le dissi sottovoce — taci; non bisogna scherzare su questo,
non dobbiamo sfidare la sorte. Lo sai bene quanto t'amo; e non hai
detto tu pure che ti pareva d'amarmi di più, ora che siete in due a
volermi bene?

Evangelina stette un po' in silenzio, sorridendo alle prime sue idee
materne; poi mi disse sbadatamente:

— Amalo, sì, amalo; non ne sono gelosa.

Il suo pensiero era altrove, il mio correva per l'aperta campagna.

In quel mentre la nostra fantesca ci portò il caffè; noi ci guardammo
alla sfuggita, sorbimmo la bevanda gravemente, e non ci uscì parola di
bocca, finchè la nostra gazza domestica non si accinse a tornarsene in
cucina.

— Mi farai il piacere di fermarti un poco di più — le disse allora mia
moglie; — il signore deve uscire, io non sto molto bene e non voglio
rimaner sola.

— Che cos'ha? — domandò la fantesca.

— Sono un po' costipata, non sarà nulla.

— La mia cara costipata! — esclamai quando fummo soli — come le sai
dire le bugie!

— Ho fatto male forse? Dovevo dire le cose come stanno a quella
ciarliera perchè fra un quarto d'ora tutta la casa, dal pianterreno al
soffitto, e tutti gli inquilini, a cominciare dai cavalli del dottore
in scuderia fino ai passeri del tetto, sapessero che io sono...?

— Hai fatto benissimo, anzi bisognerà tenerla segreta la nostra
felicità; ci sembrerà più nostra; non la deve conoscere anima viva,
neppur tuo padre.

— E perchè mio padre no?

— Ebbene tuo padre sì, ma lui solo; nessun altro ne sospetti fino a
tanto che non sia più possibile nasconderla.

E facevo un gesto largo, un gesto enorme, alla cui vista la mia
Evangelina fu presa da terrore.

— Non voglio — disse; ed io ridendo restrinsi successivamente le
linee circolari de' miei gesti, finchè mi parve che li vedesse con
rassegnazione.

— Perchè hai detto che _il signore_ deve uscire? — le domandai.

— Ma... l'ho detto senza pensarci... mi pareva...

— Mi mandi via — dissi — confessa che sei tu che vuoi rimaner sola...
me ne vado...

E mi valsi di questo per non confessare che anch'io sentivo un bisogno
prepotente di andarmene a girellare un pochino co' miei pensieri,
mentre non sapevo indurmi a lasciar sola la mia malata preziosa.

— Vado — dissi.

— Aspetta... ed ora va, e pensa sempre a me.

Dove ho messo tanti puntini, si capisce che allora era bisognato
mettere un bacio.

— Sempre a te — risposi, e fuggii con la spensieratezza mista di
rammarico di un marito frivolo, il quale corra ad una festa, lasciando
a casa la moglie.


V.

Scesi le scale a salti come un monello, sotto gli occhi meravigliati
d'un inquilino del secondo piano, che usciva lui pure di casa, e
dovette abbrancarsi alla ringhiera per lasciare passare la mia valanga.

Sul portone di strada mi arrestai come uno smemorato. Guardavo a destra
e a mancina, probabilmente per decidere da qual parte mi convenisse
meglio avviarmi, ma non ne avevo coscienza; e quando l'inquilino che mi
ero lasciato alle spalle m'ebbe raggiunto e, datami un'occhiata rapida
ed indagatrice, si fu incamminato verso i bastioni, io lo seguii a
passo lesto e gli passai innanzi un'altra volta.

Che diamine mi frullasse pel capo, ancora non lo sapevo; erano
molte cose insieme; fra tutte una idea indistinta si affacciava ogni
tanto, ed era che io fossi uscito di casa ed avessi sceso le scale
a precipizio per incontrar sulla via un cotale che poi non v'era. E
chi poteva essere costui? Io non lo sapevo, ma mi pareva proprio che
qualcuno mi mancasse, ed alla prima cantonata mi fermai da capo a
guardare di qua e di là.

Vidi distrattamente l'inquilino del secondo piano, il quale, avendomi
raggiunto un'altra volta, si credette in diritto di lanciarmi in
piena faccia un'occhiata di rimprovero, dopo di che affrettò il passo
singolarmente, perchè io vedessi bene che non era stato lui, con la sua
sbadataggine, a cagionare la disgrazia dei nostri tre incontri in tre
minuti.

— Povero diavolo! — pensai.

Nient'altro. E mi venne la tentazione di raggiungerlo, di infilare
il mio braccio nel suo e di tirarmelo dietro riluttante per le vie
luminose della mia festa; invece non mi mossi e lo lasciai dilungare
nel suo squallore.

A un tratto mi sentii stringere le gambe; dalle nuvole, in cui
girellavo col pensiero, abbassai lo sguardo ai piedi... e vidi allora
quel che cercavo: un bambinello sgambucciato, con gli omeri ignudi, la
faccia ridente.

Tutto si faceva chiaro! Se avevo sceso le scale a precipizio, doveva
essere perchè sentivo il bisogno segreto di portare una carezza ad un
bimbo; e se due volte ero passato innanzi all'inquilino del secondo
piano, certo lo aveva fatto, perchè, senza pensarlo, mi pareva che
non potessi uscire di casa con altro fine; e volevo essere il primo a
pigliarmi sulle braccia questo omino che aspettava sulla cantonata.

Lo presi, lo baciai, volli sapere se mi volesse bene, ed egli,
ripetendo la sua prima lezione, mi rispose che me ne voleva _tanto
così_. Non era poco, perchè, nel dire, allargava le braccia come se
volesse toccare i confini di due orizzonti.

Si adirino pure i filosofi, i quali corrono dietro alla verità: io dico
che quella piccola bugia su quelle piccole labbra mi rese più felice
d'ogni loro vero più verosimile.

Mi guardai intorno; non passava anima viva in quel punto, e il bimbo
mi sorrideva; era da far venire la tentazione di nasconderlo sotto
la giacchetta e rubarlo... Ad impedire il delitto si affacciò da una
bottega vicina la testa gioconda d'una mammina gentile che aveva visto
tutto.

Ella chiamò con accento, che non sapeva essere severo, una volta, due:
— Emilio, Emilio!

Ma Emilietto non si mosse: fissava gli occhioni stupefatti in un mio
bottoncino da camicia, che era di vetro sfaccettato e pareva a lui un
brillante d'acqua purissima.

Allora la giovane madre uscì, attraversò la via e venne a pigliarmi
dalle braccia il bambinello dicendo:

— È mio.

E soggiunte poche parole di scusa che io non intesi, se ne andò col suo
tesoro.

Io tirai innanzi a mani vuote, ma col cuore pieno d'una dolcezza
insolita, con la mente scompigliata da un turbine di nuovi pensieri.

Ogni tanto, di mezzo a una folla d'immagini ancora indistinta, usciva
una donna sorridente, la mammina di poc'anzi, e mi ripeteva con dolce
sicurezza:

— È mio.

Allora io spingeva lo sguardo su quel cielo purissimo, e co' pochi
cirri vaganti, mi componevo le sembianze d'una creaturina di paradiso
impaziente di venire al mondo, e dicevo io pure con baldanza:

— È mia!

Già ne sentivo la presenza: l'avevo al fianco, o mi precedeva facendo
tutte le moine dell'infanzia, ma certo era là per darmi dei baci che
sembrassero aliti d'un venticello smarrito nella infinita calma di quel
mattino di maggio.

Così fantasticavo; ma ad un tratto mi pareva sentirmi abbandonato, e
dicevo a me stesso:

— Ora è corso a casa per non ingelosire la mamma: tornerà fra poco...

L'aspettavo davvero, piantandomi in mezzo al viale e porgendo la faccia
alle sue carezze.

Non occorre d'essere molto poeti per avere delle idee simili; è lecito
essere anche avvocati senza clientela, come vedete. Quello che non
vi parrà vero è che possiate invecchiare, e che tutta l'esperienza
degli anni e il senno maturo non vi sappiano far dono migliore che
restituirvi le care stravaganze di un tempo. Oggi ho settant'anni
sonati (non sono molti, no, non sono molti) e ricomincio a sognare
press'a poco come allora (però senza aspettare più nessuno; sono
arrivati tutti da un pezzo!), e dico che vi sono sentimenti veri in
un quarto d'ora della vita soltanto, e che bisogna trovarne uno, dopo
averli dimenticati tutti, per riconoscere come quello che diciamo
stravagante, il più delle volte sia solo naturale e semplice.

Oggi ho settant'anni sonati e non mi paiono molti; quel giorno che
camminavo in quel viale a passo concitato, con la testa alta, chiedendo
le carezze al venticello e interrogando la natura, quel giorno ne avevo
appena venticinque, e mi parevano troppi.

Abbracciavo tutta la mia vita passata con uno sguardo di misericordia
e mi facevo rimprovero di aver perduto la gioventù, perchè in essa non
ritrovavo un pensiero, un sentimento degni del mio stato presente.

— Sono stato cieco fino a mezz'ora fa — dicevo — ho attraversato la
giovinezza brancicando fra le ombre; mio figlio ha avuto pietà di me,
e mi ha tolto la benda; io non ho mosso un dito per cavarmela dagli
occhi. Ho fatto il cinico per vezzo, lo scioperato per abitudine, gli
esami di laurea per necessità, il marito per imitazione; e il pensiero
che oggi occupa tutto me stesso non l'ho avuto mai, ed io nulla ho
fatto per rendermi degno della mia nuova missione. Se è vero che
d'ogni azione, buona o cattiva, commessa da scapoli, c'è il pericolo di
specchiarsi nei propri figli, quante cosaccie rischio di vedere nel mio
povero nascituro! Ah! egli meritava un padre migliore!

E mentre mi facevo questi rimproveri ed esalavo i miei lamenti, mi
meravigliavo di non sentire il minimo strazio di rimorso, nè alcuna
desolazione di sconforto; al contrario, ero contento, ero soddisfatto
di me medesimo; padre generoso e felice, assolvevo tutte le mie colpe
di giovinotto.

E se vi fu giorno che avessi un altissimo concetto del mio valore,
non è quello temuto, in cui vinsi la prova dell'esame di diritto
canonico all'Università di Pavia, nè l'altro memorando in cui mi furono
infilati l'enorme anello dottorale e la toga sterminata, nè l'altro
in cui, dinanzi al sindaco, mi pigliai la mia Evangelina per sempre;
l'altissimo concetto del mio valore l'ebbi quel giorno solo in cui
sentii d'essere padre.

Mi pareva che, solo guardandomi alla sfuggita, si dovesse vedere la
mia grandezza. E quando in quei viali solitari, ritrovo di amanti e di
sfaccendati, dove sembra che non si debba fare altro che passi lenti,
qualcuno si voltava a guardare questo genitore superbo, che camminava
frettoloso e con la testa alta, allora io mi sentiva lusingato come di
una lode concessa al mio segreto trionfo.

All'ombra delle acacie, sopra una panca di granito, vedevo un
vecchierello canuto, che guardava la sabbia lucente del viale con
occhi spenti, e mi ricordavo d'averlo visto tante volte nella medesima
panca, nella stessa positura, con quello sguardo tale e quale, e
pensavo: — Se costui, quando correva dietro ai pazzi tripudii, si fosse
arrestato un istante nella sua via a considerare i granelli luminosi
che gli parevano gemme preziose ed erano sabbia, certo avrebbe piegato
a diritta od a mancina, si sarebbe messo per i sentieri erbosi e
tranquilli che menano al matrimonio e alla paternità. Ed avrebbe ora
una casa, e avrebbe un figlio forte e generoso, una giovine quercia,
che lo proteggerebbe nei giorni di vento, lui, povera canna fragile e
cadente.

Il vecchio alzava il capo vedendomi passare; pensava, certo, che i suoi
figli avrebbero avuto la mia età, e che ora sarebbero alla vigilia di
farlo nonno... Poveretto! non gli dite che per lui il mondo è stato un
gran tavoliere; che ha voluto le commozioni del giocatore, che si è
giocato la vita e l'ha perduta; non glielo dite... Io, crudele nella
mia felicità, ero tentato di tornare indietro per dirglielo. E se
resistevo alla tentazione, non era perchè quel vecchio poteva ridermi
in faccia e dirmi: «Io ho moglie e figliuoli; ho fatto colazione poco
fa e mi piace venirmene a digerire in questo bel viale»; ma perchè
poteva rompere in un singhiozzo, che avrebbe amareggiato tutta la mia
gioia, ed esclamare: «I miei figliuoli sono morti; il povero padre è
rimasto solo a piangerli; quando guardo la sabbia del viale, penso ad
_essi_ che dormono là sotto...».

E poi mi piaceva porgere orecchio a tutte le voci del mio cuore
contento.

Ecco un abete bruno e melanconico; sono tanti anni che lo vedo, sempre
immobile ed immutabile, con quella faccia scura d'ogni stagione e di
ogni giorno. Ma oggi è lieto e stende le sue cento braccia nere per
mostrarmi il verde pallido delle sue ultime foglie, i piccoli germi dei
suoi frutti, dei suoi figli.

Ecco un ippocastano gigantesco, che ad ogni folata del venticello
blando accarezza con le larghe foglie la sua prole ispida e pungente;
ed ecco un olmo, le cui foglioline sono agitate da un tremito continuo,
come nell'aspettazione e nella trepidanza: gli è nato un piccolo
rampollo ai piedi, sa che fra poco il giardiniere passerà col falcetto,
e trema pel suo neonato.

Preceduto dalle immagini del mio pensiero, che si muovono nell'azzurro
del cielo, io cammino spedito e passo oltre. Ma qualcuno tirandomi
per le falde dell'abito mi trattiene: è l'acacia spinosa della siepe;
e mentre io m'arresto a districarmi e sorrido di quello scherzo
innocente d'una bella annoiata, essa col fruscìo delle frondi mi dice
qualche cosa che non capisco. Poi spingo l'occhio nel fitto dei suoi
rami e vedo il nido incominciato d'un fringuello. Ed ecco il futuro
padre della prole alata; esso si posa sulla sabbia del viale con una
pagliuzza in bocca, ad aspettare che io me ne vada pei fatti miei;
l'acacia mi abbandona; io le raccomando col pensiero di celare il suo
tesoro agli occhi delle civette e dei monelli; e tiro innanzi.

Più oltre trovo il laghetto, le anitrelle che si inseguono e i
pesciolini d'oro, e in ultimo mi abbandono sopra un sedile di sasso
a contemplare una processione di formiche, che si avviano cariche di
fardelli enormi al formicaio lontano.

E da quelle sabbie popolose, dalle frondi dell'acacia, dell'olmo,
dell'ippocastano, dalle acque tranquille del piccolo lago, per tutto,
dalla terra e dal cielo si alza una voce trepida che ripete: — Mio
figlio!

Io guardo all'azzurro profondo, in cui si apre l'occhio del sole, alla
prateria tranquilla e verde, alle acque rugose; sento l'aria balsamica
agitata appena dai voli e dai canti, e indovino il fine segreto, il
fine unico e grande di tutte le cose create; mi par di penetrare il
fascino occulto della bellezza, l'irresistibile ed ignota potenza
dell'amore, ed esclamo commosso: — Oh! i dolci inganni della natura!

Tutto ciò che ride ai baci del sole, tutto ciò che lavora nel silenzio,
tutto ciò che abbella e si fa bello, tutto tende allo stesso fine.

Quale?

Per l'occhio distratto che ammira, pel senso che si diletta, per lo
spirito leggiero che si compiace, per l'anima che obbedisce credendo
di costringere l'universo ai suoi voleri, è l'amore. Per la mente
indagatrice, per l'occhio scrutatore, per lo spirito non mai contento,
è la figliolanza.

Vaghi fiori del prato e delle aiuole, uno solo è il segreto della
vostra bellezza ed io l'ho nel cuore; domani sarete appassiti e
spregevoli per gli altri, non per me che spingo l'occhio fra le chiuse
cortine dei vostri letti nuziali.

Mi guardo intorno con l'anima piena della mia idea e dico:

— Quell'albero ama, quel passero ama, amano quei fiori e quegli insetti
e quella nuvola che porta in grembo tante consolazioni di rugiada; ama
il sole che ci guarda, ed amano le stelle che ammiccano agli amanti
nelle notti serene, e tutto ciò che ama è vittima d'un caro inganno dei
sensi.

Alla svolta d'un viale, in una panca di sasso che si nasconde fra le
spire della glicinia, ecco appunto due vittime.

Essa non è bella, ma ha una faccetta capricciosa, un naso aquilino,
due occhioni azzurri, e porta con grazia un monte di capelli biondi;
a _lui_ non guardo; ma dev'essere bello, perchè quella donnina ha buon
gusto.

Sono così occupati a interrogarsi negli occhi, che non mi vedono
neppure, ed ho tempo di piegare a mancina.

Me ne vado per non disturbare quelle due creature semplici, che vanno
cercando insieme una felicità ignota. Io le so tutte le bugie che va
loro dicendo il cuore.

Perchè quella donnina bionda ha messo un fiore del prato fra tanti
capelli non suoi? — Perchè l'ippocastano si è vestito di foglie, perchè
il bruco deforme ha sfoderato le ali di farfalla.

La parola che trema in ogni labbro di giovinetta è l'_amore_; ma le
mille voci della natura ripetono come nenia carezzevole un accento più
profondo e più vero: — Mio figlio! Mio figlio!

_Mio figlio!_ Tutta la vita è in queste parole; svelate alla famiglia
il santo inganno dell'amore che la prepara, svelate alla società i
cento inganni o generosi o stolti delle passioni, dei bisogni che la
tengono insieme; che rimane? — _Mio figlio!_


VI.

Avevo fantasticato abbastanza; il pensiero ritornava alla mia casetta,
dove mi aspettava un cuore di donna pieno di quell'inganno tanto
dolce al mio cuore, e le gambe mi portavano frettoloso dove correva il
pensiero.

Rividi passando la processione delle formiche, che si disegnava come
un filo nero sulla sabbia lucente; rividi l'acacia discreta, il pioppo
tremante, l'ippocastano enorme, e poichè era destino che io, così
felice, dovessi quel giorno dare un'afflizione al mio prossimo, rividi
anche il vicino del secondo piano, il quale se ne tornava a casa col
suo passo invariabile. Che importa? egli probabilmente mi mandò al
diavolo, ma io non v'andai, gli venni innanzi, infilai l'uscio di casa
prima di lui, e feci i gradini a quattro a quattro non mi arrestando
che sull'ultimo pianerottolo, dove per verità stentai a ripigliare
fiato.

Mentre allungavo la mano per afferrare il pomo del campanello un
tremendo pensiero venne a mozzarmi le aluccie d'oro che mi sentivo
alle spalle: — Se non fosse vero niente, se io avessi fatto un sogno
baldanzoso... — Di repente la porta mi si schiuse in faccia; mi apriva
Evangelina medesima, Evangelina che si era levata da letto e mi aveva
visto venire dal finestrino, Evangelina in cui io fissava gli occhi
sospettosi ed inquieti.

— Sai? — mi disse sfuggendo al mio sguardo con un certo impaccio — sai?
non era vero niente.

Ma il sorriso che avevo posto sul labbro domandava misericordia, e la
poveretta n'ebbe e mi buttò le braccia al collo. Mi disse subito che
mi voleva castigare, perchè ero stato tanto tempo fuori di casa; ma mi
perdonava e perciò tutto andava benissimo.

— Che hai fatto in quest'ora? — le chiesi.

Tante cose aveva fatto in quell'ora e un quarto (perchè era passata
un'ora e un quarto, anzi un'ora e venti minuti, e dovetti convenirne
io stesso per non dar del bugiardo al nostro unico orologio a pendolo),
aveva fatto tante cose. Prima di tutto si era levata dal letto, poi si
era vestita, aveva dato sesto alle stanze, ed aveva avuto voglia di una
limonata.

— E l'hai bevuta?

Non l'aveva bevuta, perchè le era mancato lo zucchero e non aveva il
limone.

— Bisognava mandarne a prendere... — esclamai — bisognava...

Evangelina m'interruppe:

— Bisognava mettere giudizio e farsi venire un'altra voglia.

— E che voglia ti sei fatta venire?

— Di darti un bacio — mi rispose — ed ora me la cavo, questa è una
voglia lecita, perchè non costa nulla. Non siamo ricchi!

— Lo so! — esclamai — la colpa è mia!

— Di tutti e due — corresse Evangelina ridendo.

— Di nessuno — soggiunsi ridendo anch'io. — La colpa è del mio primo
cliente, che non sa risolversi a litigare; venuto il primo, gli altri
seguiranno; vedrai.

— Vedremo — disse Evangelina, parlando per sè e pel nascituro.

— Pure — insistei — una limonata non è una fiumana e non può travolgere
neppur una casa spiantata come questa... E pensa se la nostra
creaturina avesse a venire al mondo con la faccia color di limone!

— Corbellerie! — mi disse Evangelina con molto sussiego — i medici
assicurano che le così dette voglie non dipendono tanto dalla voglia
sentita, quanto dall'ansia di certe madri sciocche, che si mettono in
capo questo sproposito. La _gestazione_...

Io la guardava a bocca aperta.

— Quali medici? — interruppi.

Volle dirmi una bugia; non le riuscì e mi confessò tutto. Fra le
tante cose fatte nell'ora e un quarto della mia assenza, era questa:
arrampicarsi sullo scaleo con un coraggio da matrona, prendere
nell'ultimo palchetto della mia libreria un grosso volume in _folio_,
che trattava d'ostetricia. Facendo salti enormi e pericolosi, poteva
dirlo d'averlo letto tutto.

Ringraziai la Provvidenza che in quei salti le aveva risparmiato la
caduta in un certo capitolo, dove si parla di certi ferri e del modo di
servirsene, con un linguaggio che a suo tempo mi aveva messo i brividi.

Evangelina, avendo confessato il proprio peccato, mi svelò anche la sua
intenzione di rileggere con comodo quel libraccio, senza perderne una
sillaba; ma io la pregai tanto di rinunziare a quell'idea, che ella si
arrese e mi pose fra le braccia il grosso volume. Più tardi lo chiusi a
chiave nella scrivania, come un cattivo soggetto.

Qualche giorno dopo quel memorando mattino di maggio, venne mio
suocero dalla campagna; gli avevamo dato la strepitosa notizia, ed egli
accorreva, lasciando i bacherozzoli, per portarci i consigli della sua
esperienza.

A sentir lui, il nascituro _doveva essere_ un maschio, un ingegnere
alto e robusto, bruno, con la barba nera, pieno di ingegno; non
pretendeva che gli somigliasse nel naso e negli occhi, perchè
riconosceva modestamente che in fatto di nasi e di occhi si poteva far
meglio; ma infine, se mai... non sarebbe scontento, tutt'altro.

Quando la mia Evangelina sentì parlare della barba nera del suo
nascituro, cominciò a ridere e non smise per un pezzo.

La sera però mi chiese:

— E' proprio necessario che sia un maschio?

— Necessario, no...

E non aggiunsi altro per timore d'offendere la mia figliuola, se mai
fosse tale.

Rispetto alle sembianze, non andavo d'accordo con mio suocero; il mio
piccino io lo voleva biondo, ricciuto e bianco, almeno fino a tanto che
non fosse in età di portare i baffi o il cappellino; e mia moglie era
della mia opinione.

Quanto all'ingegno poi, se davo fede alla statistica, avevo da starmene
contento; perchè, a conti fatti, mio figlio doveva nascere in gennaio
e questo pare il mese in cui vengono al mondo i più grandi intelletti
dell'umanità. Veramente la cosa mi era parsa stramba, quando l'avevo
appresa la prima volta, ma allora mio figlio non era concepito e io
poteva beffarmi della statistica.

Non me ne beffavo più ora.

Molte altre cose avevo letto, che mi tornavano in mente, ed altre ne
andavo leggendo ogni giorno sulle influenze dirette ed indirette che
uomini e cose hanno sui nascituri.

L'esame delle influenze dirette mi lasciava contento; mio padre e
mio nonno non andavano soggetti a certe malattie che si chiamano
ereditarie; io neppure; altrettanto poteva dire Evangelina, cosicchè
nostro figlio si doveva rallegrare che non gli toccherebbe un'eredità
di malanni, invece dei quattrini che ci mancavano.

Quanto alle influenze indirette, non seppi resistere alla tentazione
di portarmene una favorevole in casa. Quando si è letto in un libro
serio che se le donne greche d'oggi hanno i grand'occhi e le belle
forme, lo devono a Fidia ed a Prassitele, e che il tipo greco si è
conservato in virtù dell'arte ellenica, quando si è letto questo e
altro, a un povero padre in erba non rimane scampo; bisogna che egli si
faccia amiche le belle arti. Così feci io, al più buon patto possibile.
Comprai due copie di capolavori, due puttini di gesso, nudi, grassocci,
tondi come amorini; erano veramente la stessa personcina in due diversi
momenti della giornata; in uno rideva, perchè aveva preso un uccellino;
piangeva all'altro perchè le era scappato. Feci ridere il mio bimbo
di gesso in stanza da letto, lo lasciai piangere in salotto; così, in
qualunque ora della giornata, o si svegliasse dal sonnellino meridiano,
o lavorasse di cucito a preparare le fasce, o ricevesse le amiche, o
leggesse nel vano della finestra, la mia Evangelina doveva sempre avere
dinanzi agli occhi il suo modello classico.

Passavano i giorni, le settimane e i mesi.

La grossa minaccia che io aveva creduto di fare per celia alla mia
Evangelina si veniva compiendo e pareva oramai certo che sarebbe
superata dal fatto. Mia moglie, consolata alla meglio dalla sarta, si
rassegnava.

Cominciavo a sperare anch'io che mio figlio fosse un maschio, posto che
doveva essere un colosso.

Naturalmente non ne dicevo nulla alla mia Evangelina, guardavo con
sospetto i camicini che ella preparava con compiacenza, mi parevano
soverchiamente piccoli, e lo tenevo per me.

Un giorno, per altro, preso nascostamente uno di codesti indumenti
minuscoli, provai a misurarlo al puttino di gesso, a quello che rideva.
La cosa non fu facile, ma mi riuscì. La mia statuetta faceva una
bizzarra figura così conciata, e non volli privare mia moglie di uno
spettacolo curioso. Essa venne e rise, ed io allora notai, senza aver
l'aria di insistere, che il camicino mi pareva un po' stretto.

— Per la statua — disse Evangelina, — per lui sarà fin troppo largo;
l'ho tenuto più grande del modello.

— Sarà grosso — osservai scherzando.

— Sarà come deve essere — mi rispose rassegnata.


VII.

Nostro figlio era già vivo prima che nascesse; ci consolava, ci
migliorava, educando la nostra mente ed il nostro cuore.

Fu da lui che mia moglie apprese come, per quanto possa parere il
contrario, sia fredda ed uggiosa la casa in cui non ardono i fornelli,
dove non si consuma il sagrifizio del pane e del vino a colazione, a
desinare, e magari anche a cena. E fu da lui che io imparai a rifornire
il mio bagaglio scientifico, senza disperare della clientela che non
veniva.

Egli era savio, dotto, arguto, indulgente e severo; trovava tutte
le vie per giungere al nostro cuore; prestava un pensiero occulto
a ogni cosa e affinava la nostra mente, tanto da poterlo leggere ed
approfondire; egli ci rendeva attenti alla vita che si moveva intorno
a noi; ci dava la pietà, la pazienza e la rassegnazione; quando era
l'ora ne infondeva il coraggio, la forza e l'audacia. E rese me umile
e superbo, come deve essere l'uomo che pensa e sente; parlandoci di sè
stesso, obbligandoci a fingercelo dinanzi alla mente in mille modi,
nelle diverse età, ad indovinare fin d'allora i suoi futuri bisogni,
ci schiuse mille scrigni riposti dove stanno le piccole verità date
all'uomo nella vita: e ci fece ricercatori desiderosi della verità
grande che si cela.

Sì, nostro figlio era vivo assai prima che nascesse; nè mai amico
o parente era penetrato così addentro nell'anima nostra come quel
nascituro.

Lo aspettavamo pazienti, con la trepidanza con cui si attenderebbe un
vecchio amico morto, al quale fosse concesso di tornare al mondo.

Il solo che non sapesse aspettare con tranquillità era mio suocero.

Nei primi giorni di gennaio egli ci piombò improvvisamente in casa,
dicendo: — _Deve_ venire oggi o domani, perchè io non ho tempo da
perdere. — Parlava del nipotino, il quale, per obbedienza, la mattina
successiva avvisò la mia povera Evangelina della sua venuta.

Fu in casa uno scompiglio silenzioso. Evangelina cominciò col piangere,
perchè aveva paura; poi si fece forza, e io la vidi, sbigottito, andare
e venire per la casa come un'eroina.

Avevo perduto più di mezza la testa, e mio suocero l'aveva perduta
tutta quanta; camminava su e giù per la camera toccando le fasce, i
camicini, le pezzuole senza far nulla e credendo in buona fede di darci
un aiuto poderoso. Venne la levatrice, venne un'amica zelante, e venne
il medico, che doveva rimanere con noi in salotto.

Mi pare che, dopo tutto quel via vai, un silenzio profondo occupasse
le nostre povere stanze; ero come smemorato; mio suocero mi veniva
ogni tanto innanzi, mi guardava negli occhi senza dirmi nulla: io
non istaccava lo sguardo pauroso di dosso al dottore, il quale,
indifferente e tranquillo, leggeva un libro che aveva trovato sul
tavolino.

Ma quando dalla porta socchiusa ci giunse un gemito straziante, io
mi feci così pallido e mio suocero si fece così rosso, che il medico
si rizzò, toccò il polso ad entrambi senza averne l'aria e ci pregò
d'andare a spasso un quarticino d'ora.

— Che fanno qua tanto tanto?

A noi pareva di far molto; in verità non facevamo nulla; e il medico
espresse più chiaro il suo pensiero dicendoci: che «se mai occorresse
l'opera sua, saremmo di impiccio».

— Ma non occorrerà?... — chiesi io.

— Non occorrerà di sicuro; però, diano retta, se ne vadano.

Ce ne andammo come due scolari cacciati dal signor maestro.

Giunti sulla via ci arrestammo istintivamente entrambi, mio suocero
ed io, ad ascoltare se mai si udisse ancora uno di quei gemiti che ci
avevano toccato il cuore. Se l'avessimo udito, saremmo tornati indietro
di sicuro. Non si udiva nulla; ci avviammo.

Mio suocero infilò il suo braccio destro nel mio, e sentendo che il
cuore mi batteva forte, cominciò a consolarmi a modo suo.

— Sarà un maschio — mi disse.

Io non risposi nulla; ed accelerai il passo verso i bastioni.

La campagna era desolata, gl'ippocastani nudi e coperti di neve, la
sabbia dei viali indurita dal gelo. Non vedevo più i bei frutti, nè le
formiche operose; faceva un freddo rigido che teneva nascoste tutte le
creature; solo qualche passero affamato saltellava qua e là.

A una svolta nota rividi l'acacia che mi aveva trattenuto, e spinsi
l'occhio fra i suoi rami spogli, cercando il nido — era scomparso;
certamente, dopo d'avere scaldato l'amore d'una famigliuola alata,
aveva fatto la gioia di un monello.

Con che sguardo diverso vedevo tutte quelle cose! La mia Evangelina
soffriva crudelmente, ed io avrei quasi rinunziato a una felicità che
doveva costarle tanti dolori. Mio suocero, dopo di avermi incoraggiato
dieci volte dicendomi: — Sarà un maschio! — ebbe un momento di
sconforto, e mi disse come parlando a sè stesso: — Se non fosse un
maschio!

Io sorrisi, pensando che, fortunatamente, se non era un maschio, doveva
essere una femmina.

A un tratto il nonno impaziente voltò le spalle e mi disse con
sicurezza:

— Andiamo, a quest'ora è nato.

Ed io sentii un brivido dolce per tutto il corpo.

Camminavano a passi celeri, come se davvero fossimo aspettati.

Entrando nel portone di casa mia ci guardammo in volto; nessuno era là
a dirci con lo sguardo la nostra sorte. La portinaia attendeva alle sue
faccende in un'altra stanza, e s'affacciò appena appena a guardarci.

Mi pareva che doveva essere informata di tutto; invece, disgraziata!
non sapeva nulla.

E vidi uscire dal buco profondo, in cui si erano celati, i cento
avversari crudeli ed impotenti d'ogni umana felicità, terrori,
sospetti, minaccie di disgrazie orribili...

Mi diedi a correre, salii le scale a precipizio... Ad un tratto mi
arrestai, mi volsi ansante, mi buttai nelle braccia di mio suocero.

Avevo udito il grido, che è una nota di paradiso; la vocetta, che è una
musica; il pianto, che è una carezza!



LE TRE NUTRICI


I.

In quell'occasione solenne mio suocero perdette assolutamente la
misura; appena ebbe udito il grido del neonato, mi afferrò per un
braccio, mi guardò con due occhi spiritati, poi si avviò di corsa
tirandosi me dietro, come se fossi un padre ribelle, e non volessi
saperne di riconoscere la mia prole.

Venni così, impreparato alla gioia, fin sul limitare del nostro nuovo
amore; colà mio suocero mi voleva indurre a starlo ad aspettare un
momentino di fuori, mentre egli, forte della sua esperienza di nonno,
andrebbe ad accertare il sesso; ma si era fatto un po' di rumore, ci
avevano uditi di dentro, l'uscio si aprì, e il medico, affacciandosi
nel vano, ci disse sottovoce:

— Silenzio... è un maschio!

Volli passare la soglia, ma mio suocero, sempre sregolato nella
manifestazione dei suoi sentimenti, mi si avvinghiò al collo con un
pretesto d'amplesso e per poco non mi tolse il fiato; poi mi lasciò
stare e mi ripetè sottovoce:

— Silenzio... è un bel maschio!

Entrammo.

La mia pallida Evangelina, appena mi vide, mi sorrise dal suo letto,
e allungò una mano verso di me; corsi a lei, la baciai sulla fronte,
le mormorai sottovoce certe parole strane che intendevamo noi soli;
ma nel fare tutto ciò mandavo in giro per la camera uno sguardo
indagatore, e tenevo d'occhio mio suocero, un po' per gelosia che egli
si impadronisse della mia creaturina prima di me, più per timore che,
nel suo entusiasmo di nonno, ne facesse scempio con un bacio enorme o
con una carezza smisurata. Io sì, mi sentiva la vocazione, e mi sentiva
l'arte di portare in braccio mio figlio!

Ma dov'era mio figlio?

Il nonno impaziente si era accostato in punta di piedi alla culla nuova
e tirava su con mille precauzioni un lembo della cortina di mussola.
Evangelina lo stava a guardare, sorridendo con malizia: aveva lo
stesso sorriso di complicità il medico, lo aveva più ancora la signora
Geltrude.

— Dov'è? — chiesi sottovoce.

Evangelina volse verso di me gli occhi pieni d'amore, e sollevando un
tantino le lenzuola, mi mostrò al suo fianco un corpicino minuscolo
stretto in una fascia candida, con una faccetta rossa nascosta fra i
merletti di una cuffia troppo larga.

Lo riconoscevo: era lui, mio figlio!

Appena sentì penetrare sotto le lenzuola l'aria più fredda della
camera, egli aprì gli occhi. Lo chiamai per nome «Augusto!» e mi guardò
senza stupore: fatto audace, allungai la mano e sentii sotto un mio
dito una guancia morbida e vellutata. Mio figlio fu bonino; prese la
carezza senza cacciare uno strillo, ed io ne argomentai subito che
dovesse avere un'indole paziente e rassegnata.

Non mi saziavo di guardarlo: era tanto bello! Quando finalmente
sollevai il capo, facendo ricadere a malincuore il lenzuolo sotto
cui mio figlio spariva come se non esistesse, vidi in faccia a me,
all'altra sponda del letto, mio nonno, tutt'occhi e bocca per guardare
e per ridere alla muta.

— Lo hai contemplato abbastanza? — mi disse. — Ora dàllo qua, che me lo
goda anch'io.

E siccome non gli davo retta e facevo il giro del letto per andargli a
dire che il nostro Augusto si trovava bene al caldo e che era meglio
lasciarvelo, egli allungò le braccia, e con un garbo da far piangere
i sassi, ghermì la mia creaturina e se la prese in braccio. Quando
gli fui accanto, egli aveva già la sua preda ed andava su e giù per la
camera, niente affatto disposto a cederla. Prima lo guardai con un po'
di terrore, poi gli andai dietro come un mendicante; da ultimo, vedendo
che mio figlio lasciava fare senza piangere, mi arrestai presso ad
Evangelina, presi una sua mano nelle mie e sorrisi io pure con lei, col
medico e con la signora Geltrude.

La cosa andò bene finchè mio suocero si accontentò di guardare il
nipotino, di chiamarlo «gioia, amore» e simili, di sorridergli, di
dondolarlo lievemente nelle braccia, di lisciargli le guancie con la
punta delle dita; ma quando, vinto dal fascino di quegli occhietti che
lo guardavano sbigottiti, sedotto da un sorriso che egli pretendeva di
vedere sui labbruzzi rosei, volle dargli un bacio, allora mio figlio
gli fece intendere con uno strillo che smettesse, perchè non gli
piacevano i baci della gente baffuta. Accorsi subito a proteggerlo,
temendo che mio suocero tornasse da capo, ma il povero uomo era
contrito e non sapeva che fare per indurre il piccolo disgustato a
tacere.

— Dàllo a me — gli dissi solennemente.

E non glielo dissi, ma gli feci intendere che col babbo sarebbe subito
stato zitto.

— Dàllo a me — insistei.

Mi guardò in aria di canzonatura e me lo diede.

Fu il caso o una specie di miracolo? Io non vorrei vantarmi, ma mio
figlio tacque di repente, apri gli occhietti e me li fissò in faccia
estatico.

Sentivo bene che il povero nonno doveva esser mortificato, ma non
vedevo nulla in quel momento, fuorchè gli occhietti della mia creatura.

Una risata mi tolse alla contemplazione; non mi mossi neppure; era
il nonno che si vendicava. Rise anche il medico, e rise Evangelina, e
perfino la signora Geltrude; allora alzai gli occhi.

— Guardati nello specchio — suggerì mio suocero.

Avevo accanto la specchiera di mia moglie, e mi bastò volgere il capo
per sentire anch'io la tentazione di corbellarmi. Non avrei mai creduto
che vi potesse essere più d'una maniera di portare in braccio la
propria prole primogenita, nè sopratutto che ve ne fosse una tanto più
burlesca d'ogni altra. Questa appunto avevo scelta. Non ve la starò a
descrivere, perchè è indescrivibile come tutte le cose sublimi.

Non importa: mio figlio mi guardava e mi sorrideva — giuro che mi
sorrideva — ed io era il babbo più felice di tutto quanto lo stato
civile. Per non commettere anch'io lo sproposito di far piangere il mio
sangue con un bacio, e per non rinunciare ai miei diritti, ero tentato
di mozzarmi i baffi in presenza di tutti o di farmeli mozzare da mio
suocero; trovai di meglio, qualche cosa che, se non era un bacio vero
e proprio, gli somigliava molto. Con infinite precauzioni mi riuscì
d'accostare alla faccetta di Augusto tutte le parti presso a poco
liscie del mio viso.

Ossia che il tepore gli ricordasse le sensazioni più dolci della sua
vita passata, ossia che il mio naso gli rivelasse le prime dolcezze che
lo aspettavano nella vita estrauterina, ad ogni modo _sta in fatto_,
come diciamo noi avvocati, che mio figlio trovò quell'amplesso paterno
di suo genio. E sfido la parte avversaria a provare il contrario.

La parte avversaria quel giorno era mio suocero, il quale, perchè
Augusto non solo si godeva il tepore, ma mi aveva afferrato il naso
coi labbruzzi e dondolava la testina, ansimando forte, pretendeva
che quelle dimostrazioni erano dirette a tutt'altri che al padre
vanaglorioso.

Io lasciava dire.

— Ti piglia per la sua balia — insistè mio suocero — ed è da compatire
perchè non ha la pratica. La mia Evangelina appena nata faceva così.

Guardai la mia pallida compagna, che sorrideva nel suo letto, poi il
naso di mio suocero, e crollai risolutamente il capo dicendo:

— Non può essere.

Li feci ridere tutti. Perfino la signora Geltrude, la quale andava e
veniva in punta di piedi facendo tante cosuccie, prima si arrestò per
ridere, poi venne a prendermi di mano la mia creatura con tutto il
sussiego di collaboratrice.

— Signora no — le dissi, sfoderando per la prima volta i diritti
paterni — mi piace tenermelo ancora un poco, e me lo tengo. Loro ridano
se hanno voglia.

Allora quell'eccellente donna andò a prendere in un canto un bicchiere
d'acqua tiepida bene inzuccherata, mi accennò di mettermi a sedere
dinanzi a un deschetto, vi pose il bicchiere e nel bicchiere immerse
una specie di fantoccino di tela che mi cacciò in mano addirittura,
dicendo:

— Glielo dia da succhiare.

La stavo a guardare sbalordito della sua disinvoltura; quand'ebbi
compreso di che si trattava, mi posi a sedere, accomodai malamente
mio figlio sul braccio mancino, e con la mano libera cominciai il mio
uffizio di nutrice.

Il pasto di Augusto fu lungo; ogni volta che dovevo immergere il
poppatoio nell'acqua inzuccherata, mandavo in giro un'occhiata
ammirativa, come per dire: «Che appetito!». E ad uno ad uno, ripetevano
tutti: «Che appetito!... e che balia!».

Mio suocero si venne a mettere dietro la mia sedia, appoggiò
tranquillamente i gomiti alla spalliera, e stette un pezzo senza
parlare; si accontentava di fare a mio figlio dei cenni, delle smorfie
e certi suoi sorrisi sgangherati; finalmente, quando Augusto mostrò
d'averne abbastanza, gli disse:

— Lo sai, furfantello, che tu succhi da maestro? Chi ti ha insegnato a
succhiare così? Non è stata la mamma di sicuro... dunque chi è stato?
Non ci vorrai far credere che senza un corso regolare di studi, un
uomo mortale, fosse anche un talentone come te, possa venire al mondo
per isbalordire suo nonno con la propria dottrina. Dunque chi ti ha
insegnato a succhiare così? Ho capito, ho capito... non mi stare a dir
altro; è un segreto.

Mio figlio approfittò della licenza, chiuse gli occhietti, piegò la
testina per sentire il caldo del mio petto, e si addormentò. Allora, da
uomo sicuro del fatto mio, annunziai al nonno incredulo che Augusto era
tornato con gli angeli, e lo andai a riporre con infinite precauzioni
accanto alla mamma sorridente.


II.

L'uffizio di prima balia di mio figlio durò tre giorni interi, ed io lo
tenni scrupolosamente per me fino all'ultima ora, contrastandolo a mio
suocero, che ne voleva la sua parte.

Il terzo giorno, all'ora della prima colazione, quando con l'orologio
in mano mi feci al capezzale del letto per annunziare a mio figlio
che si dava in tavola, che vidi mai?... Vidi commosso, ed allargai
le braccia in cui si gettò mio suocero delirante, vidi il nostro
angioletto attaccato al seno di sua madre, la quale guardava ora noi
ora lui sorridendo. Si stette un pezzo in contemplazione dinanzi a
quello spettacolo amoroso, senza timore di dar noia al poppante, che
appena appena s'era degnato di alzare il capo per chiedere scusa della
licenza alla prima balia.

Estatico dinanzi a quel quadro, quasi non mi avvidi che mio suocero
usciva dalle mie braccia come vi era entrato. Egli andò a prendere
il deschetto e lo cacciò in un canto, pose il bicchiere dell'acqua
inzuccherata sul canterano, ed in tutte le movenze svelte e gioconde mi
faceva intendere: «Questi arnesi in avvenire non saranno buoni a nulla,
ed io ne sono proprio contento».

Pover'uomo! era geloso; da un pezzo io me ne era accorto. Non gli
sembrava vero che mio figlio, il sangue della sua figliuola, dovesse
appartenere più a me che a lui. Io mi sentiva pieno d'indulgenza,
ma egli ne abusava. E quando, perchè me le faceva più grosse, lo
scongiuravo scherzando d'aver riguardo al mio stato di puerperio, egli
alzava le mani al soffitto con un atto buffo che non mi faceva ridere,
perchè quasi quasi aveva l'aria di esprimere la convinzione che non ci
entrassi per nulla e che mio figlio si fosse fatto da sè.

Trovai ben io il mezzo di fargli smettere lo scherzo feroce; finsi di
pigliar sul serio quanto diceva per isvilire la mia paternità, anzi
andai oltre esagerando e conchiusi:

— Noi diventiamo genitori a buon mercato; i figliuoli nostri ci
appartengono appena per quel tanto che ne cedono a noi le loro madri;
mio figlio, ne convengo, è più di Evangelina che mio, come Evangelina è
più di sua madre buonanima che tua.

Allora mio suocero volle _distinguere_, tale e quale come un avvocato,
per provarmi che le figlie sono un'altra cosa.

— Che cosa sono? — insistei.

— Sono un altro paio di maniche — balbettò; ma non seppe dir altro.

Intanto, era venuto per due giorni soli, ne erano passati tre, e non si
moveva: lo aspettavano mille faccende, ed egli non sapeva staccarsi dal
nipotino.

Finalmente il medico dichiarò che tutto andava benissimo, che Augusto
stava a meraviglia, che la puerpera era fuor di pericolo; suggerì una
regola severa e non tornò più.

La signora Geltrude venne alcuni giorni ancora, tanto per dar lezioni a
Evangelina, la quale faceva prodigi d'intelligenza e di buona volontà,
e si veniva formando sotto gli occhi nostri una mammina perfetta.

Da ultimo se ne andò anche la buona signora. Solo mio suocero non se
ne andava; aveva messo radici. Pensava spesso alle proprie faccende e
diceva: «Chi sa come andranno le cose? Senza di me, qualche diavoleria
capiterà di sicuro! Partirò domani; non mi state più a dire di fermarmi
perchè sarà inutile!».

Ma il domani noi tornavamo all'assalto, imperterriti entrambi: «Rimani
oggi ancora, oggi solo». E il pover'uomo rimaneva quel giorno, e non se
ne andava l'altro.

La mattina del venerdì, che aveva proprio fermato di lasciarci, si
svegliò di umore bisbetico. Era da compatire, gli capitavano tutte
quella mattina.

Pensate. La valigia si trovò, non si sa come, divenuta stretta; i pochi
panni che da Monza a Milano avevano viaggiato comodamente, non dovevano
avere la stessa fortuna da Milano a Monza. Quando mio suocero, perdendo
la pazienza, provava in fretta e furia a stendere sotto quel che aveva
steso sopra, poi, per la ventesima volta, chiudeva il coperchio della
valigia e ci si metteva su in ginocchio, alzando le mani al cielo,
avrebbe impietosito i sassi; ma la valigia era inesorabile. Mancavano
sempre due buone dita a poterla chiudere.

— È una stregheria — diceva allora fra i denti — una perfidia; tutta
questa robaccia è pur venuta da Monza, o perchè ora non vuol tornare a
casa?

Evangelina, che intanto s'era levata da letto, venne sorridendo ad
assistere alla scenetta; portava in braccio il piccino, e mi si mise al
fianco senza far rumore.

— Torniamo da capo — soggiungeva mio suocero con la calma della
disperazione. — Proviamo a lasciar queste camicie della disgrazia per
ultime; a riempire i vani faremo servire queste calze del demonio...
Angiolo bello... gioia, amore, tesoruccio mio!

E il povero nonno, che si era finalmente accorto della presenza
d'Evangelina, balzò in piedi di botto dando un calcio alla valigia per
portare una carezza ad Augusto.

Si era trasformato in volto; aveva spianato le rughe della fronte e
faceva gli occhi dolci. Dove l'aveva trovato quel sorriso bonario? Chi
gliela aveva data quella serenità gioconda? Mio figlio.

Quando ebbe prodigato le carezze ed i nomignoli ad Augusto senza
farlo uscire dalla sua olimpica indifferenza, tornò ai preparativi del
viaggio.

— Vieni qua — diceva, mettendosi in modo da non perdere d'occhio
il bimbo e parlando ora alla valigia, ora a suo nipote — vieni qua,
birbona; mi hai fatto disperare abbastanza. Sentiamo che cosa ti dà
noia? Sono queste ciabatte della malora?... Caro!... gli vuoi bene
al nonno? Sì?... To' un bacio... E tu smettila, ne ho abbastanza,
altrimenti ti pianto e me ne vado senza di te a Monza. È questo che tu
vuoi, cenciosa maledetta?... Ah! ora vorresti chiuderti, mi pare; ti
lascerai chiudere?

Così dicendo cadeva in ginocchio per la ventunesima volta; si aspettava
che la valigia facesse ancora la ribelle, ma invece si lasciò chiudere,
ed egli, che non era preparato alla nuova arrendevolezza, mi parve per
verità più dispettoso che consolato.

— Il nonno se ne va! — disse poi rialzandosi e portando un sospiro ed
altre carezze al bimbo; — lo sai che se ne va il nonno?

I malumori di mio suocero non erano finiti; già era venerdì e bisognava
aspettarselo, lo diceva lui.

Basti dire che quando la valigia si fu lasciata chiudere, mio suocero
si avvide con un orrore novissimo in lui (era il disordine in persona),
che stava per mettersi in viaggio senza la cravatta. Si andò in giro
per tutta la stanza a cercare l'indumento birbone, che si era cacciato
chi sa dove, e naturalmente (quest'avverbio è di mio suocero) e
naturalmente non si trovò nulla.

In quanti luoghi impossibili può un uomo di giudizio cercare una
cravatta che si nasconde! Io non me ne sarei fatta un'idea mai, se non
avessi visto quel brav'uomo sollevare il coperchio della zuccheriera,
con la speranza che un prestigiatore invisibile avesse voluto fargli la
burletta.

All'ultimo Evangelina ebbe un'idea piena di luce.

— L'avrai cacciata per isbaglio nella valigia!

Fu un lampo nel buio; sissignori, la cravatta era nella valigia, la
quale, in penitenza di quest'ultimo tiro, ricevette dal suo padrone
un ultimo calcio, di cui non aveva punto bisogno per campare i giorni
assegnati in questo mondo fragile a una valigia.

I malumori di mio suocero ancora non dovevano finire; non era per nulla
venerdì, e bisognava aspettarselo; era sempre lui che lo diceva.

La partenza del treno era segnata nell'orario alle undici e mezza,
bastava uscir di casa alle undici per arrivare in tempo, senza
scalmanarsi; se non che quando il nostro infallibile orologio a pendolo
segnava i tre quarti, l'orologio da tasca di mio suocero voleva che
fosse poco più della mezza, ed era infallibile anch'esso.

A chi credere?

— Il mio orologio è in regola — brontolò il povero viaggiatore — quella
vostra baracca vuol mandarmi via dieci minuti prima.

— Se avesse coscienza e giudizio — entrò a dire Evangelina, chiedendo
scusa con un'occhiata al nostro unico orologio — se avesse coscienza e
giudizio farebbe proprio il contrario. Ma segna l'ora di Roma, e il tuo
segnerà quella di Monza.

— E siccome io vado a Monza e non a Roma, ha ragione il mio.

— Ne ha cento! — esclamai ridendo.

— Ne ha mille — rispose mio suocero.

Non ne aveva nemmeno una, e il viaggiatore ostinato giunse alla
stazione in tempo per vedersi chiudere sul muso lo sportello dei
biglietti.

Con mia gran meraviglia, prese la cosa allegramente.

— In fin dei conti — disse con una serenità insolita — ha forse ragione
lui; è meglio ch'io non parta oggi, è venerdì...

— Il meno che ti potesse capitare — interruppi ridendo — era che
la locomotiva uscisse dalle rotaie e se ne andasse pei campi del
territorio milanese minacciando le gambe dei gelsi punto frettolosi di
tirarsi da banda per lasciarla passare.

Mio suocero non aveva l'aria di viaggiatore corbellato, tutta propria
di chi ha perduta la corsa e se ne torna soletto a casa con la valigia;
pareva anche lui arrivato appena, camminava spedito, e fu il primo a
passare sotto gli occhi dei gabellieri, i quali si accontentarono di
prendere la valigia in mano e di pesarla per aver tempo di leggere
sulla faccia del bravo uomo il candore della sua coscienza, dopo di che
ci lasciarono passare.

— Me ne è andata bene una! — esclamò il poveraccio.

— Tutte ti andranno bene se rimarrai una settimana ancora con noi e se
vorrai tenere a battesimo il nostro piccolo Augusto.

In quel momento mio suocero non rispose, ma quando ebbe riveduto il
nipotino e ne ebbe udito la vocetta di pianto, allora buttò in un canto
la valigia e il pastrano, e togliendosi i guanti e soffiandosi le dita
per riscaldarle:

— Epaminonda mio — disse — una settimana no, non posso; ho mille
faccende a Monza, non posso proprio; ma se vuoi che io battezzi tuo
figlio, te lo battezzo domenica, parola di cristiano battezzato.

— Bravo babbo! — esclamò la pallida mammina — bravo babbo! La zia
Simplicia mi ha scritto poc'anzi, è guarita, è disposta a venire da
Pavia per far la madrina.

— Le manderemo un dispaccio perchè venga subito — aggiunsi.

Mio suocero non diceva nulla; s'era scaldato le dita abbastanza per
poter accarezzare il bimbo senza farlo strillare, e non badava ad
altro.

Quando credeva che la funzione solenne dovesse compiersi senza di
lui, unicamente sotto gli auspicii della zia Simplicia, ne parlava
perfino con eresia, facendo dell'acqua benedetta una complice della
costipazione. Ora no; il battesimo, se doveva dire il suo pensiero, era
una bella cosa.

E volle che lo facessimo con solennità, invitando gli amici a mangiare
i confetti; pagava lui.


III.

La zia Simplicia giunse la mattina della domenica; notai subito che era
già entrata sul serio nella sua parte di madrina; non era una zia come
un'altra, anzi non era più donna, era una corporazione religiosa, una
missione, e nella sua piccola valigia, sembrava portare tutta quanta la
fede cristiana.

La zia Simplicia aveva desiderato una femmina, e mio suocero lo
sapeva; per lui questo solo desiderio era una colpa, e si sentiva poco
disposto a perdonare, ma quando udì la madrina chiamare il cielo in
testimonio che il piccolo Augusto era il ritratto parlante del nonno,
allora cominciai a vedere sulle labbra del povero uomo un sorriso di
beatitudine che vi doveva rimanere tutto quel giorno.

Non dirò le peripezie battesimali; ad Augusto non piacque il sale della
sapienza, ma si lasciò immergere nell'acqua benedetta con uno stoicismo
ammirando, e permise al nonno di rinunziare per lui al demonio, in
latino.

Bisognava vederlo e sentirlo il nonno! Quanto a me non sapevo
resistere; quando il latino usciva più tormentato dalla sua bocca era
inutile, il demonio era più forte di me: mi tiravo di là o giravo sui
tacchi, mi tenevo le costole e commettevo un sacrilegio.

D'una cosa mi stupii grandemente quel giorno, ed è che i convitati al
battesimo, dopo d'essere andati in estasi contemplando mio figlio,
vantandone tutte le virtù fisiche e morali, cioè il nasino non più
grosso di un cece, i labbruzzi rosei, la pelle liscia e il sorriso
visto cogli occhi della fede, e poi la pazienza e la prudenza, dopo
aver vantato questo ed altro, non sentissero il bisogno di star tutta
la sera in contemplazione di tante meraviglie, e preferissero parlar
della politica estera od empirsi le tasche di confetti. Anche mio
suocero ne fu mortificato, e quando, dopo d'essere andato in giro per
la quarta volta col nipotino in braccio per far vedere come sapeva
dormire senza che nessuno mai glielo avesse insegnato, comprese che
bisognava rimettere in culla il piccino e non chiedere altro, perchè
l'indifferenza aveva dato tutta la tenerezza di cui era capace; allora
si andò a sedere in un canto, e fece il broncio.

Vennero i momenti degli addii; tutti con pensiero concorde dichiararono
di non potersene andare senza rivedere il piccolo battezzato in culla;
ed io vidi riaccendersi la luminaria nel viso di mio suocero.

Andarono nella stanza da letto, due alla volta, gli uomini preceduti
da me, le signore da Evangelio, e invariabilmente seguiti dal nonno
festoso. Facevano circolo intorno alla culla, si curvavano un tantino,
poi sottovoce uno esclamava: — Come è bello! — e l'altro: — Non ho
mai visto un bimbo simile a questo; — e un altro: — Tesoro! Si farebbe
mangiare!

Non ne credevo un'acca, e pure mi batteva il cuore.

D'un'altra cosa mi stupii forte quel giorno; quando tutti se ne furono
andati, quando il ciaramellìo di tante voci estranee fu cessato, quando
l'illuminazione del nostro salotto fu spenta, e noi ci trovammo in tre
accanto alla culla, ad interrogare in silenzio il sonno della nostra
creatura, mi stupii forte di non sentire nemmeno l'ombra di quella
malinconia, che segue il finire d'ogni festa; anzi, passando poi col
lume in mano nel salotto, e notando lo scompiglio delle seggiole, mi
parve che la riunione degli amici risalisse a un tempo lontano, tanto
rapidamente si era cancellata dal mio spirito.

Tendendo l'orecchio avrei forse potuto udire ancora sulla via la voce
di un convitato allegro, e mi bastava chinarmi per raccogliere il tappo
di una bottiglia od un confetto sfuggito da una mano men larga della
buona intenzione, e pure ero tentato di chiedere a me stesso se davvero
ci fosse stata una festa in casa mia.

Gli è che la mia festa, la nostra festa, era un'altra; ed anche
allora che tutti si rallegravano con noi e ci colmavano di lusinghe,
in salotto ed in anticamera, Evangelina ed io eravamo altrove, e
rispondendo parole e sorrisi, lo facevamo da lontano.

La mattina successiva tutto andò benissimo; la valigia si lasciò
chiudere senza il secondo fine di nascondere la cravatta alle ricerche
del suo proprietario, gli orologi si trovarono d'accordo, mio suocero
baciò una volta noi melanconicamente, diede una dozzina di baci
tremendi alla _sua_ creatura, e uscì di casa rassegnato. E non perdette
la corsa, anzi giunse alla stazione cinque buoni minuti prima della
chiusura degli sportelli. Mi parve veramente che si rammaricasse di
aver fatto male i suoi conti e d'essere giunto troppo presto; però non
lo disse. E come credete che egli spendesse il tempo prezioso che gli
era rimasto? Ve la do in mille.

— Ragazzo mio — mi disse solennemente — ragazzo mio, _te lo raccomando_.

Misericordie celesti!

Io fui così sbigottito da chiedere: — Chi? — mentre avevo inteso
benissimo, ed egli ebbe la incredibile faccia tosta di guardar prima
l'orologio, poi di tirare innanzi due buoni minuti a raccomandarmi di
averne cura, di non lasciarlo costipare esponendolo all'aria fredda, di
aver pazienza, di fargli delle carezze, perchè i bimbi hanno bisogno di
carezze, di dargli ogni tanto un cucchiaino di sciroppo di cicoria, e
per poco non aggiunse «di volergli bene».

Io lo guardava a bocca aperta; un impiegato gli gridava nelle orecchie:
«Chi parte per Sesto, Monza, Seregno, Como!», ed egli, imperterrito,
data un'altra guardatina all'orologio, tornava da capo.

Sissignori, tornava da capo a raccomandarmi, a raccomandare proprio a
me, d'aver pazienza con mio figlio, di far delle carezze a mio figlio,
perchè i bambini ne hanno bisogno, e di non esporre mio figlio all'aria
fredda, come se io non aspettassi altro che la partenza del nonno per
cavarmi questo capriccio paterno!

— Chi parte per Sesto, Monza, Seregno, Como!

— Va, va — gli dissi spingendolo un tantino — va, altrimenti chiudono e
perdi la corsa... Buon viaggio!

Egli mostrò il biglietto alla guardia della sala d'aspetto, e prima
d'infilare l'androne, si volse, mi sorrise, sollevò un dito in aria e
mi disse:

— Non dimenticare la cicoria!


IV.

L'uomo si avvezza a tutto, dicono i filosofi; ed io che ho dovuto
avvezzarmi a tante cose, non istento a ripetere che l'uomo si avvezza a
tutto, tranne forse alla colica e al mal di denti, sebbene i filosofi
non lo dicano. Ma di quante sono abitudini al mondo, affermo che non
ve n'ha una che si pigli più presto di quella d'esser felice. Nè so se
convenga argomentarne che la felicità sia lo stato naturale dell'uomo,
o che lo stato naturale dell'uomo sia l'infelicità, poichè quando
abbiamo una contentezza, l'abitudine ce la scolorisce e la sciupa, e
inclino a credere che queste due massime contraddittorie e vane possano
essere patrocinate con la stessa eloquenza inutile da un medesimo
avvocato; ma ripeto con sicurezza, che non è cosa a cui l'uomo si
avvezzi meglio che alla felicità.

Queste idee non mi vengono ora per la prima volta; quando ero padre
novellino, avevo altro per il capo. E pure ruminando oggi accanto al
fuoco la mia filosofia sconquassata e cercando esempi per puntellarla,
uno ne vado a pigliare proprio in quel tempo beato e lontano in cui ero
padre novellino.

Sbalordito ancora dalla grandezza dell'appartamento di suo padre,
Augusto non attraversava mai le nostre quattro stanze, senza girare
intorno gli occhietti sbigottiti; se era avviato a piangere, bastava
fargli toccare con mano un candeliere inargentato od un bicchiere, o un
vetro della finestra, o una qualsiasi meraviglia che nella confusione
gli fosse sfuggita, ed egli subito stava zitto ad ammirare; la sera,
quando accendevo il lume, era capace di smettere il suo pasto per
contemplare lungamente la misteriosa fiammella che ardeva in casa del
babbo; per dir tutto in poche parole, Augusto era venuto al mondo da
quindici giorni soltanto, e pure a me pareva di averlo avuto sempre. La
sua faccetta rotonda era quella di un vecchio amico d'infanzia, la sua
vocina svegliava un'eco nel mio cuore; era di pianto, e sonava dentro
di me come una nota allegra; gli occhi suoi attoniti, i dondolamenti
del capo, i moti delle gambuccie intolleranti della fasciatura,
tutto ciò mi ricordava cose dimenticate, cose a cui non avevo badato
abbastanza, cose dolci e belle.

Quei quindici giorni di vita nuova si allargavano stranamente, fino ad
invadere tutta la mia vita passata, fino a parermi impossibile l'avere
vissuto altrimenti; ero proprio tentato di crederlo: mio figlio ed io
ci conoscevamo da un pezzo.

Tante volte, nel mezzo della notte, mi svegliavo sul mio letto da un
cattivo sogno in cui non ero più padre, e dopo aver teso l'orecchio
per udire la respirazione soave del mio piccolo innocente, mi lasciavo
portare senza resistere molto dall'onda dei pensieri, che andavano
verso il tempo in cui non ero padre ancora.

Ma mi allontanavo a malincuore; era come se avessi deposto sulla
strada il fardello della mia paternità, e potesse passare un ladro
e rapirmelo; perciò non lo perdevo di vista, camminavo a ritroso e
tornavo indietro ogni tanto; però le memorie tentatrici spesso mi
portavano lontano; ritrovavo tutti i miei dolori più acuti, ed erano
scioccherie; tutte le mie dolcezze più care, e mi parevano senza
sapore; mancava a tutte qualche cosa — mio figlio.

Quanto più lietamente, ripigliato il fardello della mia nuova felicità,
io me lo portavo senza sgomento attraverso il labirinto dell'avvenire!

In quel viaggio amoroso, mio figlio pigliava mille aspetti; ora si
accontentava di saltare poco più d'un annetto, era slattato appena,
moveva i primi passi barcollanti, passava sotto la mensa senza curvarsi
e veniva ad appoggiare la testina ricciuta al mio ginocchio; subito
dopo era uno studente chiassoso all'università, camminava con un grosso
bastone in mano, empiva le strade di Pavia delle sue prodezze notturne,
giocava al biliardo e si beccava l'esame di diritto canonico; poi
tornava a Milano addottorato _in utroque_, a meravigliare con la sua
eloquenza mio suocero, il quale l'avrebbe sempre creduto un ingegnere;
proteggeva i pupilli e le vedove — furfantello! — poi s'innamorava
d'una bella fanciulla di 18 anni, io dava il consenso e lui se la
sposava e mi faceva nonno.

Ed io? Non c'era più verso di sognare per me solo; in ogni mio castello
in aria io metteva un castellano — ed era lui. Non mi pareva possibile
immaginare la mia clientela, la mia fama d'avvocato, i miei guadagni
e i miei risparmi senza quel caro bimbo venuto al mondo due settimane
prima.

Io gli metteva un dito nella mano ed egli me lo stringeva con tutte le
sue forze, e mi guardava:

— Siamo intesi — dicevo scherzosamente per far sorridere la pallida
mamma; e ripetevo dentro di me sul serio, con una saldezza di proposito
che mi pareva capace di sfidare il destino: «siamo intesi!... finchè la
morte non ci divida!».


V.

Avevo sempre pensato alla morte, e vi pensavo ancora, ma infinitamente
meno: il fantasma bieco aveva cominciato a tirarsi indietro dacchè mio
figlio era al mondo; già non era più che forma vaporosa nel lontano
orizzonte, e a quella distanza non mi faceva paura.

Fino a pochi mesi innanzi avevo avuto mille malanni; ero stato prima
tisico, poi apopletico, e in un quarto d'ora più crudele, financo
idropico; — la mia Evangelina mi aveva guarito da molti morbi: pur me
ne rimaneva qualcuno non confessato, più lento nei suoi effetti, men
formidabile della tisi e della idropisia, ma similmente fatale; e mi
accadeva tante volte di interrompere a mezzo una ciancia allegra perchè
essendosi fatta allusione all'età senile di un Tizio qualunque, io
diceva subito fra me e me: «a quell'età non ci arrivo di sicuro».

La mia morte precoce doveva trovarmi preparato; ecco perchè vi pensavo
tanto; mi ero anche prefisso di mettere in iscritto le mie ultime
volontà; doveva essere un testamento olografo per risparmiare le spese
notarili, e se non lo aveva fatto, è perchè i malanni che minavano la
mia esistenza facevano la cosa tanto alla sordina da lasciarmi a volte
l'illusione che io dovessi campare più di Matusalemme.

Venne mio figlio, e tutte le melanconie mi uscirono dal capo. Mi sentii
forte, sano e longevo. Non istentai a persuadermi che l'idropisia
dovesse rispettare il babbo d'una creaturina venuta al mondo ieri
l'altro, e mi parve che la mia vita si allungasse per lo meno di tutto
il tempo necessario a tirar su il mio figliuolo; avevo, a dir poco,
vent'anni buoni dinanzi a me. La morte mi concedeva una proroga alla
vigilia di presentarmi al tribunale, e non vi fu mai avvocato più
felice di averla ottenuta. Mi uscirono dunque dal capo l'idropisia,
la tisi, l'apoplessia e perfino il testamento olografo — non avevo io
forse un erede legittimo?

Ma poichè la natura umana fa le sue cose per via di compensazione, a
volte mi veniva l'idea contraria. A tutti i miei malanni implacabili
avevo già opposto una rassegnazione stoica; avevo detto, contando i
miei nemici cronici: «Siete in tanti e siete cronici, ma è tutt'uno,
non mi farete morire più d'una volta»; — ora invece sentivo bene che
il mio stoicismo non mi avrebbe servito a nulla; se non fosse stata la
generosità degli avversari che deponevano le armi, non avrei saputo
rassegnarmi di sicuro ad andarmene, a lasciar mio figlio, a vivere
press'a poco tranquillamente fino all'ora della partenza.

Fra queste idee e le altre, tirati bene i conti, ero proprio felice: mi
venivo facendo certe abitudini nuove di cui mi trovavo benone. Volevo
bene alla mia casa, e cominciavo a pensare che chi ne possiede una
non ha punto bisogno d'andarsene al caffè a leggere la gazzetta ed a
spoliticare cogli amici. Uscivo dopo la colazione e dopo il desinare,
portando un bacio di Evangelina sulla bocca e una stretta di mano di
mio figlio legata all'indice della mano destra; camminavo diritto e
fiero, accelerando il passo se vedevo le larghe spalle d'una balia
brianzola che portasse in braccio un bimbo, rallentando l'andatura
quando l'avevo raggiunta per aver agio di esaminare quel piccino non
mio.

E volevo esser giusto, e mi pareva d'esserlo; pure tutti i bimbi che
passavano nella via — e non ve n'era mai passati tanti — erano meno
belli del mio. Se ne trovavo qualcuno bianco come la neve, biondo e
ricciuto come un amore, con due occhioni azzurri, prima mi provavo a
darne il merito all'età, poi vedendo proprio che mio figlio non poteva
diventare nè bianco come neve, nè biondo, e forse nemmeno ricciuto,
non avendo l'esempio in famiglia, finivo col trovare in Augusto qualche
cosa di magnifico che l'altro non aveva.

Tutti quei lattanti che invadevano le vie di Milano per godersi il
sole di gennaio, mi guardavano curiosamente; a volte erano patiti e
mesti, e pure mi sorridevano perchè io gesticolava alle spalle della
loro corpulenta nutrice, e tutti, sani ed infermicci, poveri e ricchi,
avevano l'aria di dirmi: «Tante cose ad Augusto!».

Accadeva ora più spesso d'una volta, che un omino alto due spanne,
spadroneggiando sul marciapiedi, mi si cacciasse fra le gambe e
sollevasse la testina a guardarmi, e non si volesse staccare dai miei
calzoni, non ostante i consigli d'una mammina rossa dalla vergogna e
dalla compiacenza; — il piccolo prepotente non apriva bocca se non per
la meraviglia, ma io lo intendevo benissimo; diceva: «Ti conosco, io ti
ho visto quando ero piccino, io, l'anno scorso; allora non camminavo
ancora, e tu non ti degnavi neppure di guardarmi perchè non eri babbo
allora!».

«Bimbo mio, hai ragione, non ero babbo e non pensavo neppure a
diventarlo — ecco perchè non badavo ai bimbi; — più vedevo la gente
grossa e pettoruta, e più la pigliavo sul serio, e leggendo nella
gazzetta le alte astuzie della politica e la profetica filosofia
del listino della borsa, ammiravo l'umanità operosa e forte. Ora sì,
bimbo mio, ti vedo; e so una cosa che tu non sai: so che tu e i tuoi
compagni siete i padroni bisbetici e amorosi di tutta questa gente
grossa che lavora a spingere in alto la borsa o a dipanare la politica.
E le astuzie finissime, e le grandi imprese degli uomini — te lo dico
perchè non m'intendi e non ne puoi abusare — tutte, tutte, non una
eccettuata, fanno capo a te. Noi par che si faccia cose grandi, cose
enormi (dico noi, per modo di dire, perchè io solo aspetto un cliente
che non viene), e invece, bimbo mio, lavoriamo ad allattare voi altri,
a tirarvi su felici, almeno contenti; diventiamo ricchi ed avari per
voi, ci facciamo un nome onorato per lasciarlo a voi, sudiamo nelle
scienze per iscoprire qualche cosa che vi renda più cara la vita, e
prepariamo le opere d'arte che ve la facciano parere più bella; e tutto
questo e altro con un conforto unico: che le vostre vocette cessino di
piangere e ci dicano: bravi! Qualcuno vi dimentica davvero, altri crede
di dimenticarvi, ma tutti, e in ogni momento della vita, lavoriamo per
voi; quando l'umanità s'immagina di fare le rivoluzioni, le battaglie,
le patrie, essa fa una cosa sola sempre: tira su i propri bimbi. Addio,
furfantello vezzoso, tu non hai capito un'acca, ma non importa, perchè
non hai nemmeno bisogno di capire».

Tornavo a casa, dove mi aspettava la mia festa tranquilla: il bimbo
color di rosa, la mammina pallida e sorridente.


VI.

Ma un giorno Augusto piangeva forte, attaccandosi al seno della povera
madre, che era più pallida del solito, ed aveva gli occhi rossi.

Mi arrestai sulla soglia, côlto da quello sbigottimento che prepara il
cuore a ricevere le sciagure.

— Che cosa è stato? — balbettai.

Evangelina chinò la fronte e guardò con occhi lagrimosi il povero bimbo
piangente.

— Che ha? — insistei con più coraggio.

— Non so, non so... — rispose la poveretta, e chinava la fronte per
nascondermi le lagrime.

— Che hai?... Che cosa ha Augusto?...

— Io, nulla... — balbettava la povera madre.

Mi si piegavano le ginocchia; Evangelina mi guardò. Lesse forse, nel
fondo del mio cuore di padre, uno sgomento più tremendo dello stesso
suo dolore, perchè gettandomi un braccio al collo, e tirandomi presso
a lei, e coprendomi il volto di baci e di lagrime, mi disse con voce
rotta dall'angoscia:

— Nostro figlio ha fame!

Da principio non compresi; guardavo ora lei, ora il bimbo e ripetevo
come uno smemorato: «Ha fame!», e fissando gli occhi nel pallore della
mia povera compagna, lessi tutto, in silenzio, col cuore stretto. Poi
mi curvai sopra Evangelina, le asciugai il viso con la pezzuola, e
facendo una carezza a lei e una ad Augusto perchè stesse zitto:

— Da quando? — interrogai dolcemente.

— Da ieri — mi rispose la povera madre dandomi uno sguardo di
riconoscenza — da ieri soltanto; ne avevo ancora stamane, poco poco:
non te ne ho detto nulla, credevo che mi tornasse; ma poc'anzi, quando
ho inteso piangere nostro figlio, ho sentito un rivolgimento per tutto
il corpo, ed ho pensato: «Sia lodato il Cielo, il latte mi ritorna!»,
ed ho detto ad Augusto: «Non piangere», e me lo sono stretto al seno.
Il poverino avrà creduto che sua madre lo ingannasse, perchè non ha
trovato nulla... più nulla. Ha pianto ed ho pianto anch'io.

E così dicendo la poveretta non istaccava gli occhi attoniti da me;
sembrava chiedermi scusa.

— Il pianto non rimedia a nulla — dissi dolcemente — rasserenati, il
latte tornerà — e vedendo che si sentiva come umiliata, soggiunsi:
— Sono tante le madri a cui è toccata prima di te questa piccola
disgrazia... e vi hanno rimediato tutte...

— Come hanno fatto?...

— Non si sono disperate, hanno preso a prestito il latte d'un'altra
donna, oppure hanno nutrito il bimbo col poppatoio, aspettando
tranquillamente che il latte tornasse.

— E tornava?...

— Tornava.

— Presto?

— A volte nello stesso giorno.

Gli occhi d'Evangelina ringraziavano me, invocavano il cielo.

— Ed ecco come avresti dovuto fare — soggiunsi ridendo per farle
cuore. — Dove diamine aveva cacciato il poppatoio tuo padre?... Ah!
eccolo!... Manderemo a prendere del latte fresco, lo dilungheremo con
l'acqua tiepida, condiremo la miscela di zucchero di prima qualità e
faremo intendere ad Augusto che oggi la sua prima nutrice lo invita a
desinare, e che babbo e mamma gli dànno il permesso.

Evangelina si provò a ridere del mio sussiego, ma il suo riso
nascondeva male tutta l'ansia materna.

— Farò io — mi disse poi, e mi voleva pigliare di mano il poppatoio e
il bimbo.

— Signora no — risposi — è un diritto acquisito...

Per un po' la faccenda andò benino; Augusto, sentendosi qualche cosa
fra le labbra, cessò di piangere, diè una succhiatina piena di avidità,
sentì il liquor saporito e tirò innanzi; già io mi voltava verso la
povera madre che mi stava a guardare con le lagrime agli occhi, per
dirle: «Vedi, ora metti il cuore in pace e lascia fare a me»; ma
Augusto diè il primo segno di scontentezza, scostò la testina dal
poppatoio, e la scosse gemendo, poi, riafferrando il mio arnese, tacque
per succhiare da capo, poi cessò e pianse un'altra volta, e così di
seguito; da ultimo non ne volle più sapere, e lasciò il pasto cacciando
uno strillo.

Tutte le ansie crudeli riassalsero la povera madre; la quale pigliò la
creaturina in braccio, e la portò su e giù per la stanza dondolandola e
mormorandole fra i baci cento parole amorose.

— È naturale! — dicevo io andandole dietro — è naturale che faccia lo
scontento dopo una scorpacciata, non sarebbe un uomo mortale se non
facesse così... vedi quanto latte è rimasto in fondo al bicchiere...

Ma sì, Evangelina non mi dava retta, e nostro figlio, ostinandosi
nella sua idea, appoggiava la testina al seno della madre addolorata, e
agitava il corpicino in una maniera propriamente bisbetica.

— È una cattiveria — insistevo — ha mangiato come un lupo, non può aver
appetito... è un piccolo ostinato... ecco...

Ero quasi indispettito sul serio; Evangelina, per alleviare a nostro
figlio il rigore paterno, lo baciò e ribaciò con frenesia; ma egli
saldo nella sua idea e tenace nel proposito di farla trionfare
piangendo...

Quella giornata passò alla meglio; e passò pure la notte; e qual notte!

Il domani bisognò decidere; il latte non tornava, la mia Evangelina ne
era non so se più sgomenta o vergognosa.

— Crederà che faccia a posta — diceva coprendo di baci il piccolo
insoddisfatto; e guardando me con occhi sbigottiti, mormorava: — Non
sono buona a fare la mamma... non sono buona a nulla!

Le consolazioni di parole erano vane, finchè Augusto non istava zitto;
aveva torto, perchè il latte che gli offrivo io era tale e quale
come quello della mamma, per confessione della stessa Evangelina,
anzi più dolce, più saporito; ed io nel porgerlo mettevo un garbo
singolarissimo; aveva torto, ma provatevi a mettere la ragione in
un cervellino di poche settimane; il meno che si rischi è di perdere
la propria, e me ne avvedevo io, ma in tempo, quando per poco non mi
pigliava il dispetto.

Bisognò decidere: l'allattamento artificiale non andava a genio ad
Augusto, e nemmeno di noi due, dunque...

— Proviamo un giorno ancora — disse Evangelina — chi sa che il latte
non mi ritorni...

— Proviamo...

Il latte non tornò, e il poppatoio non entrò nelle grazie del bimbo.

La gran parola fu detta, ed Evangelina l'udì come l'eco di una voce che
già aveva suscitato a tumulto il suo cuore di madre, l'udì lagrimosa,
ma rassegnata.

— Bisogna procurargli una balia!

Avevo inteso dire molto male di queste disgraziate madri, che il più
delle volte abbandonano i propri figli ad altre donne, per allattare i
figliuoli dei ricchi.

— Calunnie! — pensai — bisognerebbe invece dir male della società, che
le riduce a campare a prezzo del sentimento materno; e poi ne troveremo
una che abbia perduto davvero suo figlio, e a cui paia di ritrovarlo
nel nostro Augusto.

Ma questa idea, che consolava me, non andava a versi di Evangelina; il
soverchio amore di una nutrice prezzolata offendeva l'amor suo; non me
lo diceva, anzi mi assicurava il contrario, ma io vedevo benissimo che
essa preferiva una balia piena di latte e di pazienza, e un tantino
indifferente. Se avesse osato esprimere tutto il suo pensiero, mi
avrebbe detto — e io l'intendeva come se lo dicesse davvero: «Gli dia
pure il latte, posto che non so dargliene io; ma non gli voglia bene
come una madre, perchè a questo basto io sola».

Dopo essere andato a raccomandarmi al medico, alla signora Geltrude,
al farmacista del canto della via, ed avere avuto da tutti e tre
la promessa di una balia pel domani, tornando a casa mi grattavo
l'orecchio, d'onde erano entrate tre paroline del farmacista.

— Vuole una balia che rimanga in casa con loro? — mi aveva detto.

— Sicuro — avevo risposto — mia moglie non potrebbe separarsi dal
piccino.

E il savio farmacista aveva soggiunto che mia moglie era da
_compatire_, che anzi faceva benissimo, perchè _quando si può_ è
meglio.

_Quando si può_. Queste tre paroline, che mi avevano solleticato
dandomi l'illusione d'essere già un giureconsulto pieno di clientela,
mi si erano appiccicate all'orecchio; e perciò io me lo grattavo per
via.

Non isvelai le mie ansie e le mie paure alla povera Evangelina; la
quale quando seppe che tre balie si disputavano l'onore di allattare il
nostro piccino, prima lo baciò, poi sorrise e da ultimo mi disse:

— Sono contenta.

Beata lei! A me le tre paroline del farmacista non lasciavano requie;
gran parte della notte la spesi tentando di puntellare nel buio della
mia cameretta certi miei calcoli audaci, che si sfasciavano e perdevano
ciffe da tutti i lati.

— Devo aver fatto male i conti — dicevo — oppure le balie si fanno
pagare più di quello che io credo; possibile che il latte costi tanto
caro? Alimentare una balia campagnuola non deve poi essere l'ira del
cielo; mangerò un po' meno io, tanto mettevo pancia... il salario si sa
che cosa può essere; non andremo più al caffè, magari cesserò di fumare
se sarà necessario...

Allineavo le cifre nel buio, sommavo, sottraevo; oh gioia! mi rimaneva
un piccolo residuo; e pure non sapevo fidarmi a quell'aritmetica
confortatrice; nessuna delle quattro operazioni reggeva alla prova
tremenda delle paroline farmaceutiche. Vi doveva essere sbaglio...
tornavo da capo, sommavo, sottraevo, e mi rimaneva sempre un piccolo
residuo. Finalmente trovai il sonno e la pace.


VII.

Nelle prime ore del mattino una tremenda scampanellata annunziò una
visita straordinaria, una delle tre nutrici probabilmente, o forse
tutte e tre insieme.

Andai io stesso ad aprire, e vidi ammirato una mole rubiconda e fresca,
che empiva tutto il vano dell'uscio. Quella contadina grassa e tonda,
già fornita a dovizia di fianchi e cose analoghe, aveva spropositato
le sue forme, indossando, a dir poco, sei gonnelle; io ne vedeva tre
spuntare una sotto l'altra; aveva una pezzuola di seta in capo, e due
grossi orecchini che facevano un chiasso da non si dire intorno alla
faccia paffuta.

— Sono la balia — mi annunziò, irrompendo nell'anticamera e girando
intorno l'occhio curioso — mi ha mandato il farmacista...

Non udii altro; mi parve come se repentinamente qualcuno mi avesse
attaccato all'orecchio gli enormi pendenti della balia, tanto era il
chiasso che facevano le tre paroline del farmacista.

— Venite avanti — dissi raccogliendo tutto il mio sussiego — venite
pure avanti, buona donna.

Io l'avevo chiamata _buona donna_ con malizia; sentivo che quella
nutrice enorme rimpiccioliva me, e mi pareva così di ridurre lei a
proporzioni più modeste.

— L'avvocato... l'avvocato... Acidi...

— Placidi...

— Placidi o Acidi fa lo stesso... È lei l'avvocato?

— Sì, sono io.

La scrutai nel viso per vedere come accogliesse questa notizia; sulla
sterminata superficie carnosa apparve un lieve sorriso e nient'altro.

Io mi avviai, essa mi seguì; vedevo con la coda dell'occhio che si
guardava sempre intorno, e notai che, passando in salotto, toccò la
stoffa delle tende.

Non isperavo nulla di buono.

— È permesso? — dissi sull'uscio della stanza da letto, tanto per far
intendere a quella balia spropositata che se le nostre tende erano di
lana e cotone, nelle maniere e nel resto non volevamo che di cotone ne
entrasse nemmeno un filo.

Le contadine hanno il criterio corto, ma non lo hanno grosso come
si dice; al contrario, fin dove arrivano, sono fine, finissime,
sopraffine; la buona donna, che quasi spingeva me perchè spingessi
l'uscio, intese la lezione, si arrestò, mi diede un'occhiata alla
sfuggita, ed aspettò per entrare che Evangelina avesse detto: — Avanti.

Era però incorreggibile; appena entrata, sbirciò la culla, il letto,
il canterano, le tende; poi rimase impettita dinanzi a mia moglie, la
quale si faceva rossa rossa.

— Come vi chiamate buona donna? — domandò Evangelina, radunando tutto
il suo coraggio.

— Benedetta, mi chiamo... Benedetta Corti... il mio uomo fa il
carrettiere, e non è mai in casa lui... il mio figlio se l'è voluto
prendere il Signore... e per questo vado a far la balia... è la seconda
volta che vado in casa dei _signori_...

Aveva parlato di suo figlio morto con una gran forza d'animo; nel
pronunziare la parola _signori_, diede ancora una sbirciatina fuggitiva
al canterano.

Che cosa non avrei pagato allora per avere in casa i mobili dorati e
una cassa forte, tanto da opprimere quel colosso villereccio sotto il
peso delle mie ricchezze! Avrei pagato, immagino, una grossa somma che
non avevo.

— E anche la prima volta vi era morto il figlio?

— Sissignora — rispose quella femmina — noi povera gente abbiamo _la
croce che ci aiuta_.

La croce che ci aiuta! Queste strane parole significavano nè più nè
meno che la _mortalità dei bambini!_ E allora quasi me ne adirai;
ma dacchè ho parlato con parecchie madri contadine, so che tutte
hanno la stessa idea e usano lo stesso frasario, senza perciò essere
cattive di cuore; amano i loro piccini finchè sono vivi, si consolano
d'averli perduti con l'immagine della croce che aiuta la povera gente.
La miseria ha la sua logica, e l'uomo si consola facilmente con una
metafora.

— Avete molto latte? — s'arrischiò a domandare Evangelina.

— Altro! — esclamò la balia, e senza dire nemmeno «si guardi» sprigionò
dal busto due recipienti enormi, due minaccie d'indigestione.

Io vidi col pensiero il mio piccolo Augusto scomparire in
quell'abbondanza, mangiucchiare, satollarsi e crescere a vista
d'occhio.

— E potete venir subito? — chiese Evangelina...

Benedetta Corti sorrise, mettendo in mostra certi denti larghi come
palette, ma candidissimi, poi rispose che «non sapeva». Ed io intesi, e
intese anche Evangelina che ciò significava: «secondo i casi».

— Vediamo — entrai a dire, mettendomi a sedere e rovesciando il corpo
indietro come se dessi udienza ad un cliente — vediamo: che cosa vi
s'ha a dare?

Presa così di fronte, Benedetta Corti ebbe un momento di debolezza,
si dondolò sui fianchi, guardò le sedie ed i quadri, e nella ricerca
affannosa delle parole, fu poco fortunata, perchè trovò soltanto
queste:

— Mi hanno mandata e sono venuta, io non ne ho colpa!

Ebbi l'intuizione del vero, ed ammutolii.

— Quanto vi dobbiamo dare? — domandò Evangelina.

— Ecco, se ho da dire... la casa è piccola; ma è ben esposta —
rispose Benedetta — non ci starei malvolontieri... quanto al mese?...
trentacinque lire... me le davano anche gli altri _signori_.

Io non respirava più e la balia proseguì:

— Gli usi lor signori li sanno?...

— Sì, li sappiamo — risposi — ma è sempre meglio intendersi.

Benedetta fu della mia opinione.

— Sicuro che è meglio — asserì — una cosa o conviene o non conviene;
dico bene?

Io le assicurai che diceva benissimo e che la sua osservazione era
profonda; mi pareva così di placarla.

— Dunque abbiamo detto trentacinque lire il mese — ricominciò quel
donnone — al primo dente cento lire; altre cento ai primi passi, e
alla fine dell'allattamento cinquecento... me le hanno date gli altri
signori...

Evangelina non mi staccava più gli occhi di dosso; io, ricevuta la
botta formidabile senza batter ciglio, avevo preso il mio partito.

— Le par molto? — mi domandò Benedetta Corti.

— Mi pare abbastanza..., molto veramente no — risposi con sussiego, ed
ebbi gusto di vedere che quella mole contadinesca si lasciava prendere
e cominciava a non saper più come pensare dei fatti miei. Mandava in
giro certe occhiate scrutatrici piene di un'incertezza deliziosa.

Poi si rinfrancò e proseguì, contando sulle dita:

— Due abiti ogni stagione, gli orecchini, il medaglione d'oro, e
l'_argento nuovo_ in testa... niente altro...

— Non avete dimenticato nulla?... — dissi alzandomi da sedere.

— Che sappia io, no — fu la risposta ingenua.

— Quand'è così, siamo intesi, proseguii.

— Sì... Proprio?... Devo venire domani?... Vuole che dia un po' di
latte al piccino?

— No, non importa, siamo intesi, noi penseremo e vi faremo dare la
risposta dal farmacista.

Benedetta Corti cadde dall'alto, e non si fece male; sorrise, salutò
con grande inchino mia moglie, e si avviò solennemente, empiendo della
sua presenza ognuna delle nostre quattro stanze. Sull'uscio si volse,
mi raccomandò di conservarmi e sparve.

Ero contento di me, e corsi a portare una risata allegra al capezzale
della mia Evangelina.

La povera madre si era presa in grembo la nostra creatura piangente e
la copriva di carezze e di lagrime.


VIII.

Non mi diceva nulla, a me bastava guardare nel mio cuore per leggere
nel suo; stavo zitto, e la lasciavo piangere; pensavo: «Le faranno bene
le lagrime»; ma quando, parendomi che avesse pianto abbastanza, e fosse
venuto il momento di dirle due parole confortatrici, mi curvai sopra
il nostro bimbo, e lo baciai per farmi cuore, allora sentii svanire la
strana serenità della mia desolazione, qualche cosa mi fe' intoppo alla
gola, volli parlare e singhiozzai. Singhiozzai davvero, non mi vergogno
di dirlo, singhiozzai proprio nel momento che mi pareva d'aver trovato
la sola idea capace di asciugare le lagrime della povera madre.

L'idea era questa: «L'aria dei campi farà bene a nostro figlio», e mi
era sembrata una consolazione; solo nel provarmi a dirla, ne sentii
tutta l'ironia amara.

Evangelina non era un'eroina; pure, se le facevo toccare con mano che
essa non era neppure la moglie di un eroe, subito pigliava animo, mi
diventava un'altra. Già ne avevo fatto l'esperimento più d'una volta,
e lo rifeci allora. La poveretta ribaciò il bimbo, cancellò le lagrime
con la pezzuola, e mi fece vedere gli occhioni rossi, ma asciutti.

— Epaminonda — mi disse — non far così anche tu; bisogna aver coraggio.
Che pena veder pianger te!

— Un uomo grande e grosso, un uomo togato! — dissi io — hai ragione,
bisogna aver coraggio... bisogna pigliar le cose come vengono... del
resto due lagrime non fanno male neppure a un avvocato... purchè non le
vedano i clienti... e i miei non le possono vedere... sono lontani...
sa Dio dove sono.

Volevo ridere, come vedete, e vi riuscivo male.

Intanto a forza di baci, Evangelina aveva saputo tranquillare la nostra
creatura.

— Non siamo abbastanza ricchi! — disse mia moglie senza staccar gli
occhi dal visino di Augusto e parlando al piccolo innocente. — Babbo e
mamma sono due poveretti. Tu te ne andrai lontano, ci dimenticherai, e
vorrai bene a chi ti darà il latte.

Allora entrai a dire:

— L'aria dei campi gli farà bene; tanti ricchi sfondati fanno allattare
le proprie creature in campagna... per igiene... perchè l'ossigeno
allarga i polmoni... domandane ai medici, ti diranno tutti che l'aria
dei campi fa tanto bene ai bimbi, e che l'ossigeno...

Evangelina mi sorrise melanconicamente, e non lo disse, ed io intesi
benissimo quel che ella mi avrebbe voluto rispondere:

— Epaminonda mio — mi avrebbe detto se non avesse temuto di affliggermi
— anche le carezze della mamma fanno tanto bene ai bimbi.

Sospirai di nascosto e non dissi altro.

Più tardi trovammo entrambi la forza di ritornare sull'argomento di
Benedetta Corti, e di parlarne quasi mettendo lei e noi in canzonatura.

— Trentacinque lire ogni mese! — esclamai — non sarebbe bastato
separarmi dal sigaro per sempre; forse avrei dovuto fare qualche altro
sacrificio.

— E le cento lire al primo dente, dove si andavano a prendere?

— E le altre cento ai primi passi?

— E le cinquecento ultime? E l'argento nuovo e gli orecchini d'oro?

— E le due vesti ogni stagione?

Ci stringemmo la mano forte, e ridemmo sommessamente per non isvegliare
il bimbo.

— Povero Augusto! — dissi parlando al caro dormente. — Tu non
pretenderai l'impossibile da babbo e mamma, e ci vorrai bene
egualmente, e verrai su sano, forte e buono; metterai il primo
dente senza farti pregare, farai i primi passi senza cadere, e senza
trascinare nella tua caduta i tuoi genitori poveretti. Non avrai, no,
una balia enorme, come Benedetta Corti...

M'interruppi colpito da un'idea che non mi era venuta prima e dissi a
mia moglie:

— Se ci pigliavamo in casa quella mole contadinesca, come si faceva a
nutrirla? Vi avevi pensato tu?

Evangelina non vi aveva pensato neppur lei, e mi guardava con due
occhioni sbalorditi; il mio terrore comico quasi la faceva ridere; ed
io ripigliai il filo del mio discorsetto ad Augusto:

— Non avrai, no, una balia enorme, come Benedetta Corti, una balia che,
per nutrire te, avrebbe forse mangiato tuo padre, ma avrai un balietta
giovine, fresca, bella, che ti sorriderà sempre e ti darà del latte
saporito; respirerai l'aria pura dei campi, e ogni tanto noi verremo a
vederti.

Queste erano veramente idee consolatrici, ed Evangelina me ne
ringraziava con gli occhi.

Un'ora dopo io faceva sapere al farmacista del canto della via che mi
ero ingannato, che avevo creduto di _potere_ e invece non _potevo_, e
lo pregavo di trovarmi una balia meno colossale di Benedetta Corti, ma
bella, fresca, e che vivesse poco distante da Milano.

L'ottimo farmacista non parve punto meravigliato del mio mutamento
di proposito; e dopo d'aver osservato con la stessa profondità della
prima volta che _quando non si può... è meglio_, mi disse che aveva il
fatto mio, una _sposa_ di Musocco, e che l'avrebbe mandata ad avvertire
subito.

Ed io me ne andai a casa a raccomandare a mia moglie ed a mio figlio
che stessero allegri, perchè avevamo una sposa di Musocco, fresca,
giovine e bella.

Si chiamava Marianna; era piccina, bianca, carnosa, e quando entrò in
casa mia seguita dal suo uomo, mi parve che entrasse il buon umore.

Anch'essa cominciò con le parole sacramentali: «sono la balia!» — ma le
accompagnò con una risatina gioconda; poi, come ravvedendosi, aggiunse:
«Se mi vogliono...» — e rise ancora.

Ci bastò un'occhiata a quella donnina ed una di intelligenza fra
di noi, per decidere fermamente tutti e due, Evangelina ed io, che
Marianna allatterebbe nostro figlio.

Facemmo alcune domande ora alla _sposa_, ora all'_uomo_; ma rispondeva
sempre la sposa; l'_uomo_, quando era interpellato direttamente,
pigliava un'aria curiosissima; lo vedevamo dibattersi un momento con
un avversario invisibile, finchè Marianna non lo toglieva d'impiccio
rispondendo lei e ridendo.

Rideva di tutto quella balietta vezzosa; la sua boccuccia pareva fatta
unicamente per ridere e per lasciar vedere i denti piccolissimi ed
immacolati; perfino quando le chiesi se da Milano a Musocco si poteva
andare a piedi senza faticar troppo, essa mi rispose che _erano quattro
passi_; e rise.

Un quarto d'ora dopo eravamo d'accordo in tutto, e Marianna dava ad
assaggiare il proprio latte ad Augusto, il quale non trovò nulla a
ridire.

Fu convenuto che la _sposa_ resterebbe con noi un paio di giorni,
l'_uomo_ se ne andrebbe a Musocco, e tornerebbe poi con la carriola a
prendersi la moglie e il poppante.

— Va bene? — chiesi al marito.

— Va benissimo — rispose Marianna; e rivolgendosi al suo uomo gli
ordinò d'andarsene e di tornare due giorni dopo con la carriola; e
tutto ciò ridendo.

— Come si chiama il vostro uomo? — domandai.

Questa volta, dalla rapida lotta impegnata col suo avversario
invisibile, il balio uscì vincitore; aveva capito che non era bello
lasciar rispondere la _sposa_ anche in una domanda così _ad hominem_.

— Giuseppe! — disse, e si fece tutto rosso in viso; poi rinfrancato dal
suono della propria voce, ripetè: — Mi chiamo Giuseppe — ed aggiunse
animosamente: — per servirla.

Proprio vero che un eroismo ne tira un altro, e che anche nelle imprese
più difficili tutto sta ad incominciare.

Marianna rideva come se avesse udita un'arguzia piena di sale: ridemmo
anche noi, e allora Giuseppe si asciugò la fronte sudata col rovescio
della manica e ci fece vedere che anche lui aveva i denti bianchi
come neve; ma fingeva solo di ridere, non rideva, non ne era capace in
momenti simili.

— Vado — disse, dopo essersi provato invano ad andare senza dirlo; ma
quando l'ebbe detto, pur troppo bisognava andare; ed era difficile:
fare l'inchino, voltarsi, infilar l'uscio, e rinchiuderselo alle
spalle. Dio! quanto è mai penosa la vita in casa dei signori! Non
sapendo probabilmente risolversi a tanta mimica, il poveraccio ne
faceva un'altra: guardava di qua e di là, per avere il pretesto di
interrogare sua moglie con un'occhiata fuggitiva.

— Vado — ripetè, senz'altro frutto che peggiorare la sua condizione,
perchè ancora non si moveva.

Allora Marianna si staccò dal seno il nostro Augusto, lo depose con
garbo nel letto accanto alla mamma, e venne a piantarsi in faccia al
marito e a dirgli ridendo:

— Va, che cosa aspetti?

— Vado — disse Giuseppe per la terza volta, e se ne andò davvero, a
ritroso, inchinandosi senza perderci d'occhio, finchè ebbe urtato col
piede nell'uscio. Allora si voltò rapidamente, si cacciò in testa il
cappello e sparve.

Marianna sprigionò la sua risatina d'argento, disse: «Con permesso», e
venne dietro al suo uomo.

Rimasti soli, mia moglie ed io sentimmo il bisogno di abbracciarci;
doveva essere l'istinto della imitazione, perchè in quel momento
Giuseppe e Marianna facevano altrettanto in anticamera.

— Il mio Giuseppe — ci disse la balia rientrando — è un po' timido, se
ne saranno accorti anche loro, è un buon figliuolo.

Non rideva.

— Adesso è andato! — soggiunse; e anche questa volta non rise.

Quando mia moglie le disse: «Si vede che vi vuol bene...», Marianna
ritrovò tutto il suo buon umore.

— Altro che! — rispose, e ricominciò i trilli ed il gorgheggio.

Marianna fu subito di casa; i nostri mobili non le mettevano
soggezione, noi neppure; si pigliò Augusto in braccio e lo portò di qua
e di là tutto il giorno, dando una mano a tante cosuccie.

La mia povera Evangelina non la lasciava un momento; aveva sempre un
pretesto per venirle dietro, e se anche le mancavano i pretesti, le era
dietro ugualmente come un automa; ogni tanto metteva la faccia amorosa
sotto il visino di Augusto; e se il piccino allungava la mano mostrando
di voler andare con la mamma, che festa!

Ma bisognava avvezzarlo a star con Marianna, perchè più tardi non
avesse a patirne troppo!

«Più tardi! — pensavo — doman l'altro! povero cuor di madre!».

Augusto era bonino e Marianna gentile; si piacquero, si vollero bene;
anche senza gli stimoli dell'appetito, era chiaro che nostro figlio
stava volentieri con la sua balia.

— Spero che si avvezzerà! — diceva Evangelina.

— Lo _spero_ anch'io — dicevo, e ne ero sicuro.


IX.

Quei due giorni volarono.

Fra una risata e l'altra, Marianna ci descrisse il suo paese, ci menò
attraverso il labirinto del suo parentado complicato, enumerò i vicini
e le vicine, ed i frequentatori assidui della stalla. Entrata nella
stalla, non ne uscì per un pezzo: fece una descrizione così amorosa
dell'unica giovenca bianca e del cavallo balzano, che fu per me come se
conoscessi da un pezzo le due ottime bestie; c'informò per filo e per
segno della canapa che vi si filava, dei discorsi che vi si facevano,
dei matrimoni che vi si erano combinati e degli amori che vi nascevano
ogni anno.

Cianciava volentieri e bene Marianna, e quando parlava della sua
stalla, credevate proprio di vederla, tutta coperta di stoppia, con
l'unico finestrino chiuso da un'intelaiatura di carta da gazzette;
vedevate le connocchie canute e tremanti come vecchierelle, i fusi
giranti fra le gambe degli innamorati, le occhiate lucenti nell'ombra;
e udivate ogni tanto, in mezzo alle risate e alle maldicenze, la nota
lamentosa della giovenca. Io poi vi aggiungeva mentalmente un'altra
nota, quella della mia creatura, perchè sapevo bene che il povero
Augusto avrebbe passato in quella stalla il rimanente del suo primo
inverno.

La mattina del giorno in cui Giuseppe doveva arrivare con la carriola
per pigliar la _sposa_ e il bimbo, io notai che Evangelina si
affaccendava di qua e di là, per le stanze, camminando più ritta del
solito, e movendosi a scatti; adunava fasce e camicini, camicini e
fasce, e poi cuffiotti e pannilani; ma annodava a volte il fardello
senza aver finito di riporvi la roba, poi lo snodava senza aggiungervi
nulla. Avrei fatto così anch'io.

Potendo stare in ozio, mi ero preso Augusto in braccio, e gli facevo
sottovoce le mie raccomandazioni.

Gli dicevo d'essere buono, di non piangere, di star sano, e anche di
voler bene alla Marianna ed a Giuseppe, ma di non dimenticare il babbo
e la mamma!

Ad ogni rumore di ruote sulla via, sentivo che mi si mozzava il
respiro, cercavo Evangelina con gli occhi, e la vedevo immobile,
intenta, senza fiato anch'essa.

Giuseppe ritardava. Il poveraccio venne quando meno ce l'aspettavamo,
senza farsi precedere da alcun rumore; egli confessò veramente a sua
moglie di aver tirato il cordone del campanello, ma così poco, che non
aveva sonato neppure. Gli era mancato il coraggio di tornare da capo e
se n'era rimasto sul pianerottolo aspettando la provvidenza, la quale
ebbe misericordia di lui mezz'ora dopo e lo fece entrare quando uscì la
fantesca per attingere acqua.

E la carriola? Forse che aveva una ruota spezzata? O il cavallo balzano
era incomodato? Io lo sperai un istante. Ahimè! Non era capitata
nessuna disgrazia; il cavallo stava benissimo e la carriola era tutta
intera a nostra disposizione; solamente per non disturbare il nostro
portinaio, costringendolo a spalancare il portone, Giuseppe aveva
lasciato il cavallo e la carriola da un oste fuori di porta.

Queste cose non le disse propriamente col linguaggio volgare dell'umana
razza, ma fece tanto che le lasciò intendere.

Era giunta l'ora: bisognava proprio andare; il nostro orologio a
pendolo sembrava avere gran fretta di vedere partito nostro figlio...

Evangelina prese in braccio Augusto, gli assestò la cuffia e i merletti
del camicino perchè facesse la sua brava figura in mezzo alla gente,
lo baciò una volta e due, ripetè cento raccomandazioni a Marianna, e
ribaciò suo figlio dieci volte.

In quel momento pareva proprio un'eroina.

— Vedranno che starà benissimo — veniva ripetendo Marianna.

— Oh! sì! sì! — aggiunse Giuseppe ingrossando la voce — starà benissimo.

Io mi sentiva il cuore stretto, presi nella mia la mano di Evangelina e
dissi precipitosamente:

— Andate... adesso... subito... verremo presto a vedere come sta...

La balia comprese, si tirò dietro per la falda della giacchetta il suo
uomo, e infilò le scale.

Allora Evangelina non si potè trattenere, mi si rovesciò addosso e mi
bagnò il viso di lagrime... poi staccandosi improvvisamente venne sul
pianerottolo... voleva rivedere suo figlio ancora una volta.

Ma la balia era in fondo alle scale.

— Vuoi che la richiami? — dissi con voce tremante.

— Sì... cioè no, è meglio che non lo veda, non saprei più separarmi...
è meglio che anche lui, poverino, non mi veda piangere... forse gli
farebbe male.

Le lasciai quest'illusione, e non le dissi un mio pensiero cattivo:
«Augusto non ci voleva bene, poichè ci abbandonava senza angoscia, come
se andasse a una festa».

Ci facemmo alla finestra per vederlo passare «Eccolo là in braccio di
Marianna!». La buona donnina lo sollevava sulle braccia, gli diceva
probabilmente di guardare alla finestra del quarto piano, dove era la
mamma, ma egli non le badava neppure.

Vedemmo la faccetta rosea, poi la vesticciuola bianca, poi ancora
l'ultimo lembo del nastro azzurro sotto il portico... poi più nulla,
fuorchè gli occhi curiosi dei vicini di casa alle finestre dirimpetto.

Ed io, pigliando mia moglie per un braccio, la ritrassi con dolce
violenza dal davanzale, richiusi le vetrate con una mano, trattenendo
con l'altra la madre sconsolata.

— Evangelina — dissi.

— Epaminonda!

— Che hai?

Sorrise melanconicamente; aveva l'aria di dirmi che me lo potevo
immaginare quello che aveva.

— È andato — soggiunsi — non va lontano, potremo vederlo spesso, tutte
le settimane, anche tutti i giorni.

Evangelina non mi dava retta; mi aveva seguìto nel mio studiolo senza
resistere, e mandava in giro per la stanza uno sguardo attonito e
spento.

— Dov'è Musocco? — mi chiese all'improvviso.

— A pochi chilometri dalla porta; ci si va in dieci minuti con la
strada ferrata; a piedi, lo hai inteso tu stessa, sono quattro passi; e
li vogliamo fare allegramente più di una volta... domani, se vuoi.

Evangelina non badava a me, si era accostata alla parete dove era
appesa una carta geografica dell'Italia e cercava Musocco.

Ah! Musocco mancava! il geografo, che aveva disegnata quella carta non
aveva un bimbo a Musocco.

— Dev'essere qua — diss'io, correggendo con la matita la dimenticanza
del geografo — vedi, ecco Rho, ecco Milano; Musocco è in mezzo.

Evangelina guardò il punto che la matita aveva lasciato sulla carta,
poi guardò me, e si provò a sorridermi.

— Fa freddo — balbettò.

Faceva freddo nelle nostre stanze abbandonate.


X.

Sveglio da un'ora, avevo già interrogato nell'ombra tutte le fisionomie
note della nostra camera solitaria; ed erano tutte meste perchè la
culla era vuota.

Mi abbandonavo alla mia melanconia liberamente; Evangelina dormiva.

Appena essa fu desta, perchè non mi leggesse in fronte le idee nere, e
non ne provasse il contagio, entrai a dire con voce allegra:

— Evangelina mia, si va a Musocco stamane?

Così non ebbe tempo di ricordare la sua angoscia materna senza aver
sotto mano il rimedio.

— Bisogna essere forti — mi rispose titubando — è forse meglio
aspettare ancora, dar tempo al nostro piccino d'avvezzarsi alla nuova
vita...

E a queste parole vide essa pure al par di me il caro innocente, in un
camerone troppo grande, entro una culla di vimini accanto a un letto
enorme con la coperta a scacchi rossi; vide certamente tutto questo,
perchè s'interruppe e disse sospirando:

— Chissà come avrà passato la notte...

— Si va a Musocco? — mi affrettai a rispondere.

— È forse meglio aspettare... se Augusto ci vede, piange di sicuro,
soffre, si ammala...

Ma l'idea era messa innanzi, ed aveva tante seduzioni, che non fu
possibile resisterle; e quando la terza volta ripetei: «Si va a
Musocco?», eravamo quasi fuor dell'uscio, avviati ad andarvi.

Vi andammo, non a piedi, lungo la via maestra, staccando le spine alle
acacie delle siepi, come avevo detto io, per abbellire la mia proposta,
ma con la strada ferrata per fare più presto.

La nostra apparizione nella via principale di Musocco fu segnalata da
uno stupore immenso dei borghigiani; in molte finestre s'incorniciavano
faccie petulantelle e curiose di fanciulle spettinate, e quando eravamo
passati dinanzi ad una porta io vedeva con la coda dell'occhio sporgere
una testina a guardarci.

Si diceva: «Sono i signori della Marianna, vanno dalla Marianna».

E una sposa di buona volontà ci passò innanzi di corsa.

— Scommetto che va ad avvisare Marianna — dissi con un po' di dispetto
— perchè non si lasci sorprendere dai signori, senza aver tempo di fare
un po' d'apparato scenico intorno al nostro bimbo.

Mia moglie sospirò e non disse nulla.

— Del resto è naturale — soggiunsi.

Camminavamo a casaccio; giunti a una cantonata, ci arrestammo non
sapendo che via seguire.

— Da quella parte, il terz'uscio — ci gridò dietro una donna.

Mi voltai meravigliato che in paese tutti sapessero chi eravamo noi e
dove volevamo andare...

La buona donna, vedendoci perplessi, ci raggiunse e ripetè, sicura del
fatto suo:

— Da questa parte, il terz'uscio... ecco la Marianna!

Era proprio lei, ci veniva incontro col nostro Augusto in braccio, e
rideva.

Evangelina voleva prendere il piccino, sotto gli occhi dei curiosi,
a costo di sciuparsi la mantellina, si trattenne, e ci avviammo verso
casa.

Dopo l'angoscia d'un esercito di donne d'ogni età, che ci chiesero se
eravamo stati sempre bene, come se fossimo vecchie conoscenze, dopo
l'agonia delle presentazioni del parentado e del vicinato, io per
tagliar corto chiesi di Giuseppe, e saputo che l'uomo era al lavoro,
entrai addirittura nella camera nuziale.

Là almeno fummo press'a poco liberi, sebbene ogni tanto qualche
contadinella si avvicinasse troppo all'uscio socchiuso, a causa d'uno
spintone ricevuto da un'amica d'infanzia.

Evangelina baciava e ribaciava Augusto, io gli teneva una mano sulla
testina, e mi guardavo intorno.

Era proprio il camerone che avevo visto come in sogno; solo che la
culla era di legno e non di vimini, e la coperta del letto a gran
fiorami gialli; in un canto sorgeva un forziere enorme e in un altro un
grosso mucchio di grano.

E com'era andata?

Benissimo. Augusto era stato buono, docile, pieno di appetito.

E come aveva passato la notte? A meraviglia, mangiando e dormendo, non
aveva messo una lagrima.

— E voi? — chiese Evangelina a Marianna.

Prima la balia rise di cuore (era la sua missione in terra), poi
rispose:

— Gli voglio già bene, povero angioletto.

Povero angioletto! aveva proprio l'aria d'essere contento; ci guardò
sbigottito, mi parve che ci sorridesse; niente altro.

Poi mostrò d'avere appetito; e Marianna se lo attaccò al seno.

— Hai mangiato tanto poco fa — gli disse — ma non importa, to'...

Augusto nascose le faccetta rossa nel seno della nutrice, e si
addormentò. L'appetito era un pretesto.

— È furbo! — disse Marianna — io me ne sono già accorta.

E non so perchè, mi sentii tutto consolato all'idea che mio figlio
fosse tanto furbo.

Non avevamo tempo da perdere, volendo approfittare del treno; senza
abbandonare il piccino, visitammo la stalla dove Marianna ci presentò
la giovenca bianca. Il cavallo era andato con Giuseppe.

— Peccato! — disse Marianna.

— Sarà per un'altra volta — risposi per consolarla.

Si consolò infatti, e rise.

Pur troppo bisognò separarci, lasciare di nuovo nostro figlio. Ma
eravamo più tranquilli, più rassegnati; solo ci afflisse segretamente
il vedere che Augusto, svegliatosi per ricevere le nostre ultime
carezze, si mostrò di malumore, e non ci restituì i baci e i sorrisi.

— Addio! — disse un'ultima volta Evangelina dallo sportello del vagone.

— Addio! — ripetei sommessamente, salutando da lontano mio figlio, che
si perdeva nell'orizzonte come un punto bianco.

Poi vidi una forma umana che si allontanava nella strada maestra,
Marianna; non discernevo più Augusto.

Il viaggio era breve e parve lungo, perchè non fu detta una parola.

— Che hai? che pensi? — chiesi ad Evangelina nel salire le scale di
casa.

— Ho come una spina nel cuore — mi rispose mestamente — penso che
nostro figlio non ci ama più.

— Non dir così — le mormorai all'orecchio, stringendomela al seno sul
pianerottolo, di' piuttosto che non ci ama ancora.

Era una consolazione anche questa.

In salotto ne trovammo un'altra: un uomo di aspetto massiccio, solenne,
un fittaiuolo della _bassa_, che aveva un _caso_ complicato da espormi
e non se ne voleva andare senza avermi consultato.

Me lo feci dire due volte: avevo una gran voglia di chiedergli come mai
avesse fatto a conoscere il mio nome ed il mio recapito, ma pensai che
bisognava «rispettare i segreti della gente», e resistei come un eroe.

— Favorisca — gli dissi con molto sussiego; e lo precedei
grandiosamente nel mio studio; quando vi fu, lo pregai d'aspettarmi un
momento finchè mi fossi tolto il cappello e il pastrano.

Ma non mi tolsi nulla, buttai tutto all'aria; e alla mia Evangelina
sbigottita annunziai con un bacio sonoro una scoperta che avevo fatto
allora.

— Il cielo — le dissi — fa le sue cose per via di compensazione; dov'è
un gran dolore, mette subito una gran gioia.

— Qual gioia? — chiese.

— Dunque non l'hai conosciuto? È lui, ti dico, è lui: il primo cliente!



CORAGGIO E AVANTI!


I.

— Ed ora va — mi disse mia moglie — non farlo aspettare.

— Lascia che aspetti — risposi allegramente — l'ho aspettato tanto
anch'io. Mi vendico.

Ma in così dire fui colto da una strana paura, cioè che il mio primo
cliente, abbandonato a sè stesso, si pentisse e pigliasse l'uscio
alla chetichella. Non ero nemmeno ben sicuro che fosse una persona
vera, sebbene grassa e tonda; poteva essere una visione, un'ombra che
fingesse la mole carnosa d'una parte contendente. Mi uscirono dal cuore
tutti i sentimenti di vendetta; mi mossi, attraversai il salotto con
quattro passi affrettati, ed entrai nello studio senza nemmeno mettermi
indosso un cencio di sussiego dottorale.

Il mio cliente non era dileguato, e mentre mi adattavo sulla faccia una
gravità non mai veduta, sorridevo e ridevo dentro di me della sciocca
paura che mi era passata per la testa.

— Prego... si acco... modi — dissi, e lo dissi con tanta solennità,
mettendo un intervallo così lungo tra una sillaba e l'altra, che la mia
prima vittima potè magari credere un momento che io la volessi pregare
di accopparsi per risparmiarne a me la noia.

— È per un muro divisorio — cominciò a dire quell'uomo prezioso; io lo
interruppi chiedendogli scusa e pregandolo di dirmi prima il suo nome e
cognome, la patria, la professione.

— Venanzio Solera da Cuggiono, possidente.

Scrissi quel nome e quel domicilio sul primo foglietto capitato,
come se vi fosse pericolo di dimenticarmene, poi feci un sorriso che
significava: — noi avvocati abbiamo una tale confusione di nomi per
la testa!... — E il signor Venanzio Solera ne cominciò un altro, che
probabilmente voleva dire: — Già loro avvocati... — Io lo interruppi
rifacendomi serio:

— Dunque si tratta d'un muro divisorio?

— Sissignore, d'un muro divisorio.

E man mano, prima con la gravità suggeritagli dal mio sussiego, poi
con la vivacità della sua indole litigiosa, che si veniva accalorando
al pensiero delle torture morali patite da un anno, Venanzio Solera mi
espose l'iliade di certi infissi che voleva far togliere da un muro.

Il mio cliente aveva tutte le ragioni di esercitare un diritto
sacrosanto che gli era stato assicurato dalla prudenza di suo nonno
buon'anima; aveva in suo favore un atto notarile, il codice, la
giurisprudenza; solo aveva contrario il signor Luigi Magni del fu
Pietro, e gli _infissi_ rimanevano nel muro.

— Mi fanno male — diceva candidamente il signor Venanzio, e si toccava
il petto come se li avesse cacciati attraverso il corpo.

Ma io non lo potevo compiangere; lo ammiravo nè più nè meno; il suo
male mi pareva uno di quei fenomeni meravigliosi che si manifestano
in terra per incominciare la clientela di un avvocato novellino; quel
muro coi suoi _infissi_ io me lo vedeva dinanzi alto e solenne come un
baluardo.

— Dietro quel muro è il tuo avvenire — dicevo mentalmente a me stesso;
— dietro quel muro è la tua clientela numerosa; dietro quel muro sono i
trionfi forensi, gli agi di Evangelina e di tuo figlio.

E a questi pensieri sentivo dentro un rimescolìo strano, in cui si
perdeva il mio sussiego posticcio, e insieme col lampo oratorio che mi
balenava negli occhi appariva il sorriso bonario del padre di famiglia
contento. Non dicevo nulla a parole, ma dovevo avere un poema scritto
sulla faccia, perchè il mio cliente, che da un po' parlava a spizzico e
senza staccarmi gli occhi di dosso, a un tratto ammutolì e sorrise.

— Dica, dica — balbettai, cercando di richiamare la mia gravità
fuggitiva.

— Le ho domandato se voleva trattare la mia causa, ed ha fatto di no
col capo.

— Scusi — diss'io — ero distratto; noi andremo in tribunale e vinceremo
la lite.

— Sarà una cosa lunga?

Mentii.

— Sarà una cosa spiccia; abbiamo tutto in nostro favore; lei mi faccia
la procura _ad lites_, penso io al resto.

E senza dargli tempo a riflettere, mi tirai dinanzi un foglio di grossa
carta, su cui scrissi in rondo: _Solera contro Magni_, poi sollevai il
capo e dissi:

— È fatto.

Lo dissi con una cert'aria di trionfo che mi doveva parere stranissima
più tardi, pensandoci, ma che in quel punto mi veniva fuori così
naturale da indurre in errore il mio cliente, il quale si credette in
obbligo di curvarsi per ammirare da vicino il mio rondo e lasciarmi
intendere che approvava pienamente la mia maniera energica di spingere
innanzi le cose.

Ebbi paura che mi canzonasse, e senza guardarlo in faccia lo pregai di
dirmi che cosa avesse fatto dal canto suo per evitare la lite.

_Evitare la lite!_ Sì, io ebbi il disperato coraggio di pronunziare
queste parole, e quando le ebbi sillabate interamente senza trattenerne
neppure un briciolo coi denti, alzai gli occhi. Ero rassegnato a
contemplare un orrore: Venanzio Solera che si pentiva di aver voluto
trascinare in tribunale Luigi Magni del fu Pietro, e che ringraziandomi
infinitamente d'avergli fatto venire un buon pensiero, si rizzava in
piedi, mi stringeva la mano, infilava l'uscio... spariva!

Invece no; il mio cliente non si moveva; gli era passata da un pezzo la
voglia di pigliar con le buone quell'_orso male allevato_; era venuto
perchè era tempo di farla finita, e non se ne voleva andare senza
lasciarmi nelle mani il suo litigio.

— Dio ti benedica! — volli esclamare in un impeto di contentezza.
Invece domandai con sussiego: — Che uomo è?

Intese subito che parlavo della parte avversaria, e rispose
semplicemente: — _Un orso!_...

Ma mentre egli me lo metteva innanzi tinto dei più neri colori, io lo
guardava con gratitudine, quasi con amore.

Vedevo in Luigi Magni del fu Pietro il cardine, il fondamento della mia
clientela, il capo stipite d'una razza di gente litigiosa disposta ad
andare fino in cassazione contro di me prima, poi contro mio figlio, e
mi pareva che avrei voluto averlo dinanzi per ringraziarlo, stringergli
la mano, chiedergli la sua fotografia, poi farlo condannare nelle spese
e nei danni.

Un'altra via si apriva al mio pensiero. — Come mai — dicevo mentalmente
guardando in faccia Venanzio Solera — come mai è venuta in capo a
questo brav'uomo l'idea di farsi rappresentare in tribunale da me?

Pensavo a mio suocero che dal giorno del matrimonio di sua figlia non
aveva fatto se non consigliare inutilmente le liti più spropositate
ai suoi amici e conoscenti di Monza, e che invano era diventato egli
stesso intrattabile nei negozi, dacchè aveva un genero avvocato. Ma non
era stato lui a mandarmi il mio cliente, perchè, avendo interrogato
abilmente il signor Venanzio, egli mi fece intendere che non si
occupava nè di seta, nè di bozzoli, nè di bachi, e che a Monza non era
stato mai.

Non mi sarebbe spiaciuto andar debitore della clientela a mio suocero;
pure quando ebbi dal signor Venanzio l'assicurazione del contrario,
provai un senso di piacere affatto nuovo ed inesplicabile, pensando che
la mia fama era volata fino a Cuggiono. E come aveva fatto a volare, se
non mi ero accorto che le fossero spuntate le ali?

Dolce mistero! Nè mi affannai a volerlo svelato; in sostanza, è sempre
meglio per l'amor proprio di un avvocato che l'origine della sua
clientela si perda in un'incertezza deliziosa.

Venanzio Solera fu docilissimo; ascoltò tutti i miei consigli, promise
di fare quello che io gli raccomandai, e siccome era letterato,
sottoscrisse la procura, tirando un po' in lungo questa delicata
operazione, ma in sostanza con onore; e in fine, senza che io gli
dicessi nulla, da uomo ben informato, fece il deposito per le prime
spese processuali.

A tutti questi miracoli io assisteva senza stupore, perchè già mi ero
avvezzato alla mia fortuna.

— Basteranno? — mi chiese il mio cliente miracoloso, accennando il
mucchietto di biglietti di banca che aveva deposto sulla scrivania.

Compresi, e senza dir parola contai la somma e feci la ricevuta. Allora
il signor Venanzio ebbe paura di aver ferito la mia dignità e ripetè
con diverso accento: — Basteranno?

Feci un gesto sibillino, e il mio cliente dovette accontentarsene. La
_seduta_ era finita e ci avviammo.

— Bisognerà pure che paghi _lui_ in ultimo — diss'egli allegramente.

— Non dubiti — risposi con un sorriso.

E come se avessi detta un'arguzia saporita, Venanzio Solera si arrestò
in anticamera, mi prese le mani, me le strinse, e rise forte.

Indovinai che era uno di quegli uomini i quali arrivano tardi nelle
ciancie, e che incominciano soltanto quando si può ragionevolmente
credere che il discorso sia finito. Gli leggevo in faccia il desiderio
di trattenermi una buona mezz'ora sull'uscio a ripetermi la storiella
del muro. Il suo ideale sarebbe stato di poter discutere la lite fra di
noi, e condannare Luigi Magni in contumacia; invece io non vedeva l'ora
che il mio cliente se ne fosse andato per ridiventare fanciullo con la
mia Evangelina, che, proprio come se la vedessi, era già lì, dinanzi
alla mia scrivania, piena di felicità e d'impazienza.

— E glieli faremo staccare! — insistè il signor Venanzio.

Parlava degli _infissi_, ed io lo feci ridere chiassosamente un'altra
volta, dicendo:

— Bisognerà pure che li stacchi!

— Dovesse anche staccarli con le sue proprie mani — aggiunse il mio
cliente.

E mi guardò in faccia aspettando un'altra arguzia. Ebbi uno scrupolo di
coscienza e lo accontentai.

— Dovesse anche staccarli coi denti!

La felicità del signor Venanzio non si descrive; basti dir questo che
egli ebbe paura della soverchia gioia, ed aprì l'uscio per darsi alla
fuga. Sperava certo che io lo trattenessi, perchè lo vidi farsi serio
come per tirarsi in mente qualche cosa, in realtà perchè cercava un
pretesto di chiudere un'altra volta l'uscio e ripigliare la posizione
di prima. Ma io avevo spinto prudentemente un piede nel vano aperto,
rasente allo stipite, e non lo ritrassi. Venanzio Solera dopo essersi
provato a dondolare un paio di volte la porta senza che gli potesse
tornare in mente la cosa importantissima che ancora mi voleva dire,
diede un'occhiata disperata al mio piede, si battè la fronte per
punirla della sua smemorataggine, e se n'andò a malincuore, promettendo
di tornar presto.

— Non dimentichi di mandarmi tutte le carte — gli dissi, quando ebbe
sceso un paio di gradini.

Si arrestò di botto e si volse; col sorriso rassegnato diceva: «Sono
quaggiù misero e sconsolato, non posso far altro che sorridere prima di
andarmene».

Egli continuò a scendere, ed io tornai nel mio scrittoio, dove
Evangelina, che aveva preso il mucchietto di banconote e le stava
contando, appena mi vide mi buttò le braccia al collo, e scrollandomi
tutto mi fece perdere in un attimo l'ultimo avanzo del mio sussiego
dottorale.

                                   *
                                  * *

— Ed ora, coraggio e avanti! — esclamò mia moglie — il primo cliente ce
l'hai.

— Ce l'abbiamo, devi dire; il signor Venanzio Solera è patrimonio
comune, è mio, è tuo, è di nostro figlio; la sua lite è entrata in casa
per non uscirne mai più.

— Per non uscirne mai più? — balbettò Evangelina guardandomi negli
occhi con una specie di terrore ingenuo — dunque quel povero uomo
litigherà sempre?

— Sì — asseverai con enfasi — Venanzio Solera litigherà sempre con
Luigi Magni del fu Pietro.

Spiegai subito l'allegoria ardita:

— Venanzio Solera è la clientela. _Solera contro Magni_ è l'impresa
della mia vita.

Allora Evangelina, facendosi rossa in viso pel piacere, battè le mani
ed entrò in metafora anche lei.

— Venanzio Solera ci empirà la guardaroba di bella biancheria con le
cifre; Venanzio Solera metterà una bella tavola di mogano in salotto,
un attaccapanni di rovere in anticamera, tanto bel rame lucente in
cucina. Non è vero che farà tutto questo?

Io aveva preso i biglietti di banca che erano sulla scrivania e li
venivo contando con molta freddezza d'animo; alla domanda singolare
della mia Evangelina sorrisi, ma proseguii a contare, e solo quando
ebbi finito risposi tranquillamente:

— Sì, credo anch'io che Venanzio Solera abbia questa missione in terra,
e chi sa?... egli farà forse di meglio.

— Che cosa? — domandò mia moglie, che trovava gusto ad anticipare col
pensiero tutte le prodigalità della mia clientela.

— Per esempio — risposi — ci allargherà la casa; cinque stanze sono
veramente troppo poche per un avvocato, ce ne vogliono almeno nove,
e non sarà male che l'abitazione abbia due ingressi sul medesimo
pianerottolo, per uno dei quali passeranno soltanto i clienti...

— E ci si metterà tanto di scritta: _Avvocato Placidi_... di porcellana
o d'ottone.

— Meglio di porcellana... è meno comune.

— Meglio d'ottone... — disse Evangelina — è meno fragile. Un bel giorno
poi — soggiunse — per l'anniversario del nostro matrimonio, mi regalerà
una bella macchina da cucire...

— A doppio punto e col pedale — dissi ridendo.

Prima mia moglie mandò un sospiro a quel tempo lontano, poi rise
anch'essa delle fanciullaggini del nostro bel tempo presente.

Ma era rimasta un'ombra sulla sua fronte, e non ce l'aveva potuta
mettere la macchina Howe a doppio punto.

— Per incominciare — dissi mutando tono — Venanzio Solera farà qualche
cosa oggi stesso...

L'ombra non se ne andava, e mia moglie non si affrettò a chiedere: _che
cosa?_

— Oggi stesso — ripetei misteriosamente.

— Che cosa? — domandò Evangelina.

— Me l'hai da dire tu che cosa hai, e perchè, mentre si parla della
nostra reggia futura, tu mi pianti qui per andartene col pensiero...
dove? dimmelo subito; a che pensavi?

— Pensavo — rispose Evangelina melanconicamente — che se Venanzio
Solera fosse arrivato un anno prima, non sarebbe stato necessario
mandare Augusto a Musocco.

Io la consolai facendole osservare che, per pigliarci la balia in casa,
un anno di patrocinio non sarebbe bastato.

— Che cosa farà oggi stesso? — mi chiese poi alludendo a Venanzio
Solera.

— Ti comprerà un calendario, perchè sa che ne hai piacere... un bel
calendario da appendere sopra il caminetto. È un lusso che ci possiamo
permettere.

Evangelina approvò la spesa, osservando giudiziosamente che un bel
calendario si doveva poterlo comprare con ribasso, essendo già passato
tutto gennaio e più di mezzo febbraio.

                                   *
                                  * *

Bisognava informare della nostra fortuna anche mio suocero, perchè
trovasse requie e non perdesse il suo tempo correndo dietro ai clienti
dei suoi figli; bisognava descrivergli la bellezza di Musocco, il latte
della balia, l'appetito di Augusto, la rassegnazione d'Evangelina, e
tutto ciò fu fatto in quattro pagine fitte, in principio da me, poi da
mia moglie.

Rileggendo la lettera prima di mandarla, Evangelina si avvide che aveva
dimenticato di parlare del balio; il povero Giuseppe, facendosi piccino
piccino, trovò posto nei margini; dopo di che, chiuso il foglio nella
busta, uscimmo per andarlo a gettare insieme in una buca.

Al momento di appiccicare sulla lettera il francobollo, guardai mia
moglie, che mi guardava sorridendo. Il suo sorriso, espresso a voce
alta ed _intelligibile_, significava che quello era un francobollo
speso bene, ed io, che era della medesima opinione, mentre cacciavo la
lettera nella buca ripetei:

— Ecco un francobollo bene speso!

Invece no, quello era un francobollo sprecato, tanto è fallace la
contentezza umana!

Tornati a casa, mezz'ora dopo, chi trovammo a braccia aperte,
ingombrando il vano dell'uscio e gridando con voce stentorea che per
entrare in casa ci bisognava passare sul suo corpo?

— Il babbo! — esclamò Evangelina.

Proprio lui, mio suocero.

L'amarezza del francobollo sprecato per un po' scomparve travolta nel
piccolo tumulto della gioia, poi si mostrò un istante, per sparire di
nuovo in eterno.

— Peccato! — disse mia moglie.

— Peccato ch'io sia venuto? — interrogò mio suocero, fingendo di
intendere così per farsi fare un'altra carezza.

— No — rispose ingenuamente Evangelina — peccato che ti abbiamo scritto
una lunga lettera, e non sono dieci minuti che l'abbiamo impostata.

— Sicuro — insistei — non sono dieci minuti.

Era invece una mezz'ora buona e lo sapevamo benissimo; ma ogni dolore
vuole il suo balsamo e la sua vendetta, e dopo d'aver sagrificato quei
venti minuti alla rettorica tiranna, il francobollo ci parve vendicato
abbastanza e non ci fece ombra di male.

Nell'abbracciare sua figlia, mio suocero era quell'eccellente
allevatore di bachi che avevo sempre conosciuto; nel baciar me, nello
stringerci la mano, nel guardarmi, aveva una certa aria diplomatica che
non gli avevo visto mai.

— Ho bisogno di parlarti — mi disse solennemente quando fummo soli.

E perdendo ad un tratto la pazienza, e con la pazienza la solennità,
aggiunse alla buona:

— Ti porto una lite.

— Una lite! — esclamai guardando con occhio sospettoso.

Egli rimase serio e ripetè gravemente:

— Ti porto una lite, una bella e buona lite; si tratta d'un
compromesso. Giovanni Resta si era obbligato a comprare dei bozzoli ad
un dato prezzo, ora nega il suo obbligo... ed io...

— Tu!... sei dunque tu l'avversario?

— Sicuro; non ti pare che io possa stare in giudizio come un altro?
Ho detto a Giovanni Resta che ha torto, e deve sentirselo ripetere in
tribunale, in appello ed in cassazione. Litigheremo, e vogliamo ridere;
sarà una cosa lunga...

— C'è un contratto? — domandai.

— Di scritto nulla, ed è perciò che si fa la lite; se avessi in mano
un po' di nero sul bianco, credi tu che Giovanni Resta andrebbe in
tribunale con la sicurezza di farsi dar torto? Ma noi sosterremo la
validità del contratto verbale, lo faremo giurare, e se giura, lo
accuseremo d'aver giurato il falso. Io dico _faremo_, ma sei tu che
farai tutto questo; io torno a Monza col primo treno.

— C'erano dei testimoni? — domandai con una pacatezza che metteva mio
suocero alla desolazione.

— Ce n'era uno, ma non si ricorda di nulla. Che importa? ti dico che tu
lo fai giurare, e che se giura...

— Se dài retta a me — interruppi solennemente — accomodi le cose alla
buona, non litighi e non ti guasti con Giovanni Resta, di cui puoi aver
bisogno.

— Dunque credi che mi darebbero torto?

— Ne ho paura.

— Non importa; ho detto a Giovanni Resta che lo volevo trascinare in
tribunale, e lo trascineremo.

Io scrollava il capo così risolutamente, che mio suocero, sbalordito,
s'interruppe lasciando cadere le braccia lungo i fianchi.

— Hai sbagliato carriera — mi disse beffandomi senza amarezza — dovevi
farti prete. Evangelina sarebbe venuta a confessarsi da te, avresti
conciliato tutti i litigi terreni al cospetto del tribunale celeste; la
tua eloquenza, perchè io sono sicuro che ne hai una, sebbene non sappi
che farne, ti avrebbe servito a far la predica.

L'idea di vedermi prete e di confessare la mia Evangelina mi metteva di
buon umore; mio suocero tirava innanzi a ferirmi con le sue ironie, ma
era come se mi facesse il solletico.

— Non c'è da ridere — mi disse ad un tratto — bada che rifiuti il tuo
primo cliente... bada che...

— Ma dunque non sai? — proruppi. — È vero, tu non puoi sapere... te
l'abbiamo scritto poc'anzi, e siccome la lettera è impostata, mi pareva
quasi che tu dovessi sapere...

— Che cosa?

— Che ho un cliente, che ho una lite!

— Davvero? — balbettò il pover'uomo; e, cosa strana! nella sua faccia
si alternavano luci ed ombre, come se alla contentezza si mescesse un
po' di dispetto. — E come si chiama?

— Si chiama Venanzio Solera, il suo avversario è Luigi Magni del fu
Pietro; stanno a Cuggiono tutti e due, sono vicini di casa; v'è un muro
divisorio comune in cui Luigi Magni ha piantato certi infissi che il
mio cliente è in diritto di fargli staccare.

— Sono vicini di casa?

— Già.

— Hanno un muro comune?

— E Luigi Magni ha piantato gli infissi.

— Non v'è dunque pericolo che facciano la pace, non è vero?... se sono
vicini di casa ed hanno un muro comune? Ah! quanto sono contento!

Mi buttò le braccia al collo e mi confessò commosso che aveva voluto
litigare con Giovanni Resta tanto per darmi una causa, che del
rimanente Giovanni Resta era un galantuomo, ed avrebbe benissimo potuto
giurare il falso in buona fede.

In quel punto rientrava Evangelina.

— Vieni qua — le disse suo padre, aprendo le braccia con un gesto
teatrale.

L'abbracciò e baciò in silenzio, poi la spinse verso di me perchè io
facessi altrettanto.

— Il primo passo è fatto — soggiunse il padre contento — coraggio e
avanti! Ed ora parliamo del piccino... È un bel paese Musocco? La balia
è bella? Augusto ne è soddisfatto? E non ha sofferto troppo non vedendo
più il nonno?

Vide negli occhi di Evangelina un luccichìo sospetto, e soggiunse
abbassando la voce ed accarezzandole il viso:

— L'aria dei campi gli farà bene!


II.

Coraggio e avanti!

Dopo Evangelina mio suocero, e dopo mio suocero qualcuno dentro di me
venne ripetendomi in ogni ora della vita: «Coraggio e avanti!».

Ah quanto bene mi fecero queste dolci parole! A noi piace prefiggere
un termine ai nostri sacrifizi per aiutarci a sopportarli. Diciamo
volentieri: porterò il mio fardello fin là, poi camminerò libero
e spedito; e così aveva detto anche io. Facendo il mio piccolo
sacrifizio quotidiano, già aveva pensato: «Ancora uno oggi, e un paio
ancora domani e doman l'altro, la sorte farà il resto, mi manderà un
cliente!».

E il primo cliente era venuto, ma senza portarci se non cose che
avevamo in casa: una maggiore contentezza e una speranza più robusta,
non contando un calendario a prezzo ribassato. Avevamo ancora alcune
finestre senza cortine, e ce ne consolavamo ancora amando smodatamente
la luce, ed io portava bravamente il mio cappello a staio delle nozze,
il più lisciato di tutti i cappelli del mondo incivilito, col pretesto
sempre nuovo che «non ci avevo testa», s'intende ad occuparmi di simili
bazzecole. Ahimè! no, non era così affaccendato, come volevo parere;
ci accadeva ancora di uscire entrambi a braccetto, Evangelina ed io,
unicamente per andare a gettare una lettera in una buca lontana.

Ma non pativamo nè noia, nè sgomento, perchè ci dava abbastanza da fare
l'impiego delle nostre rendite. In ciò mia moglie aveva fatto studi
profondi; io devo a lei la convinzione che ogni lira si compone di un
gran numero di centesimi; molto prima di lei me l'aveva detto mia madre
buon'anima, e, poverina, non era riuscita a persuadermi.

Quando volevamo stare allegri, come altri viaggia per isvagarsi, o
va alla commedia od all'opera, noi ce ne andavamo a braccetto lungo
le vie fiorite del nostro avvenire. Ed erano sempre nuove vedute,
orizzonti più dorati di quelli del tropico, castelli ricolmi d'ogni
delizia, teatri in cui assistevamo a scene attraenti e udivamo canti
consolatori, accompagnati da suoni, che parevano carezze.

Quelli erano i giorni di sole.

E vennero i giorni di pioggia e di vento, al cui ricordo mia moglie
rabbrividisce ancora ed io sorrido. Per lo più erano i lunedì
dell'ultima settimana del mese, ma sempre e ad ogni modo giungevano
inaspettati, anzi contro tutte le nostre previsioni; si era allegri,
quasi spensierati, il calendario segnava _tempo costante;_ ed ecco
Evangelina si accostava alla finestra e tornava a dirmi che pioveva;
cioè che nei nostri calcoli della vigilia avevamo dimenticato il conto
della legna, o quello della lavandaia, e che in sostanza prima del
mezzodì in tutta la casa dell'avvocato Placidi non sarebbe rimasto un
soldo, a pagarlo un milione.

Allora la fronte dell'avvocato Placidi si oscurava per ricevere le
ispirazioni del suo genio, e il suo genio, senza perder tempo, gli
suggeriva di cavare dal taschino del panciotto l'orologio d'oro, un
Vacheron di Ginevra, di metterlo fra due fiocchi di bambagia in uno
scatolino di cartone, cacciare lo scatolino col suo contenuto in una
tasca, abbottonarsi ben bene ed incamminarsi senza paura. E l'avvocato
Placidi, fatto docile dalla esperienza, non si ribellava più come la
prima volta; quanto era pronto il consiglio, altrettanto era spiccia
l'esecuzione; egli cavava dal taschino il suo orologio, gli domandava
scusa per celia, o gli faceva un discorsetto sulla sorte degli orologi,
che vengono al mondo con la calotta d'oro, sentenziava che le calotte e
le altre cose d'oro, tanto invidiate, hanno il loro lato cattivo anzi
pessimo; e quando con la sua parlatina era riuscito a far ridere sua
moglie, che lo stava guardando con occhi di pietà, allora si rifaceva
serio, si abbottonava per resistere in strada all'istinto di guardar
l'ora e si avviava senza paura...

Si avviava; mi avviavo.

Finchè attraversavo le vie popolose, la mia disinvoltura non era
esposta a dure prove; tutto al più qualche monello, vedendomi
abbottonato fin sotto il mento, per il gusto di farmi sbottonare e poi
ridere della mia bonarietà coi colleghi, mi chiedeva che ora era.

Ma io usciva di casa preparato a tutto, e rispondevo allungando il
passo: — Sono le otto e mezza.

Entrando nella viottola deserta, dove si apriva la nota porticina
col numero 3, sentivo battere il cuore, e giravo intorno sguardi
sospettosi; dalle finestre e dalle porte cent'occhi erano attaccati
ai miei passi, e al momento d'infilare l'uscio fatale mi pareva che
tutti i segreti bisbigli di cui ero consapevole alzassero il tono a un
tratto.

L'abitudine, che a poco a poco doveva darmi un po' di sicurezza,
in questo non mi servì a nulla, perchè a ogni mia apparizione
nella viottola paurosa, io aveva prima la coscienza, poi la prova
testimoniale d'essere diventato più celebre; il falegname del canto era
il primo a vedermi e subito lasciava il suo banco e veniva sull'uscio
con la pialla in mano; il calzolaio dirimpetto, docile al richiamo,
alzava il capo. E giungevano al mio orecchio dialoghetti come questo:

— È lui, l'amico del numero 3.

— Chi sa mai chi sia?

— Chi lo sa?

Tacevano.

Dalle finestre d'un primo piano si affacciavano due donnette di buon
umore, che ridevano sempre non badavo a nessuno, tiravo dritto con
lo sguardo fisso, e nel passare la soglia tremenda mi pareva d'udire
il falegname ed il calzolaio, che mi avevano seguìto con gli occhi,
esclamare quasi all'unissono: — È entrato!

Quando ero entrato, e lo spettacolo era finito, quei due potevano
ripigliare il lavoro senza scrupoli, badando solo ad alzar gli occhi
ogni tanto per vedermi ripassare all'uscita, ma le mie afflizioni non
sempre erano al termine. Se avevo la fortuna d'affacciarmi solo allo
sportello, la cosa era facile e spiccia; la _padrona_ mi conosceva,
mi salutava come un vecchio avventore, domandandomi notizie della mia
salute con una segreta e rispettosa pietà nell'accento e nelle parole;
io cavava di tasca l'orologio; essa diceva: _È sempre quello_, non
già per canzonarmi, solo per farmi intendere che non era necessario
raschiarlo con un temperino, nè sfregarlo sulla pietra di paragone.
— _Sempre quello_ — rispondevo. Anche la somma che mi veniva prestata
era sempre quella; ma per un'abitudine del suo commercio la buona donna
prima me l'annunziava: _Cinquanta lire!_ Chinavo la testa sul petto,
intascavo il mio tesoro. — A rivederla, — diceva la _padrona_, e io la
ringraziava con un sorriso, perchè avevo notato che quando poi tornavo
a riscattare il pegno, essa non mi diceva più a _rivederla_, sebbene
avesse molte ragioni di sperare che mi rivedrebbe ancora.

A volte non ero solo; giungevo in coda ad un drappello di donne,
e mi toccava aspettare in un canto, sotto le occhiate curiose, col
cuore stretto dalla miseria di quella povera gente, che per due lire
impegnava un lenzuolo o tre camicie. E mi veniva un pensiero maligno
e dolce, cioè che la mia umiliazione doveva servire almeno a qualche
cosa: a consolare quegli infelici, a far loro sapere che nella gente
che essi guardano con occhio di invidia vi può essere chi soffre più di
loro, perchè è costretto a vergognarsi della propria miseria.

In quella brigata di donne vi erano le ardite che scherzavano del
dolore e parlavano della sventura a voce alta; vi erano le timide e
le dolenti; io ne vidi più d'una che piangeva, asciugarsi le lagrime e
guardarmi con rispetto, e vidi le risancione smettere il riso sguaiato
per sorridermi, facendo omaggio a una miseria che credevano peggiore
della loro, perchè era diversa.

Tutto ciò era triste, tanto triste, che nell'atto di consegnare
il mio orologio sotto gli occhi di quelle donne, non mi pareva più
di essere l'avvocato Placidi, d'avere una casa, una clientela e un
avvenire. Ma ritrovavo tutto me stesso appena svoltato il canto della
viottola tremenda, e non ostante la consapevolezza di dovervi tornare,
dimenticavo nelle braccia della mia Evangelina tutte le umiliazioni
patite.

Forse il merito era un po' del mio umore bonario, e certamente ne
aveva la sua gran parte la faccia melanconica e sorridente della mia
Evangelina; ma non devo tacere che, nell'andare e nel tornare e per
tutto il tempo della difficile operazione del pegno, qualcuno mi era
venuto continuamente ripetendo all'orecchio, senza che io gli dessi
retta, le note parole: — Coraggio e avanti! — E possiamo non badare
una volta e dieci a una voce che ci dice: — Coraggio! — viene poi il
momento che questa parola benefica trova la via del nostro cuore.

— Come è andata? — mi chiedeva Evangelina.

— Cinquanta lire — rispondevo: — eccole.

— Questo lo so; c'era molta gente? Ti ha veduto qualcuno di nostra
conoscenza? E quella donna ti ha riconosciuto?

— È andata benissimo — dicevo io; e quando era andata malissimo, non
aggiungevo altro.

— Se quella donna sapesse che sei l'avvocato Epaminonda Placidi! Non vi
andrai più, non i vero?

— Bisognerà pure che vada per ripigliare il mio orologio. Sai?... ieri
notte mi ero dimenticato di caricarlo, pareva che lo sapessi... e pure
poverino! camminava ancora... si fermerà alle dieci.

— A riscattarlo manderemo qualcuno.

— No, andrò io; oramai sono conosciuto; e poi, chi sa? sarà forse
l'ultima volta.

Forse? Evangelina ne era sicura, e come potete credere, finchè mi fu
possibile, non le tolsi la dolce illusione.

E venne una domenica in cui corsi trionfando a riscattare il mio
Vacheron, ma venne pure un lunedì in cui attraversai la viottola
paurosa per andarlo ad impegnare un'altra volta.


III.

Augusto intanto cresceva a vista d'occhio, si faceva rosso e tondo come
un puttino modellato senza economia, nel gesso.

Le passeggiate a piedi fanno bene alla salute. Ci avviammo spesso,
Evangelina e io, prima a braccetto lungo la strada maestra, poi pel
sentieruolo, tenendoci per mano come due innamorati, fino a Musocco,
dove ci aspettava lo spettacolo meraviglioso della nostra creatura
indifferente, non d'altro occupata che di vantare con le opere
l'eccellentissimo latte della balia.

Io, l'indifferenza sublime di mio figlio la pigliavo con una certa
filosofia; Evangelina no; la sua superbiuzza materna non le dava tanta
forza da nascondere a' miei sguardi che era gelosa.

Ed era forse geloso io pure, quando, mettendo la faccia presso a quella
di mio figlio, egli per un po' mi guardava stupito, poi invece di
buttarmi le braccia al collo, come gli doveva consigliare la voce del
sangue, cacciava uno strillo.

Questo disastro seguiva raramente, ma ci piombava entrambi nella
desolazione. Quei giorni si tirava in lungo la visita, dimenticando
Milano, il tribunale e i clienti; non si avrebbe avuto cuore di venir
via senza prima aver fatta la pace con nostra figlio, e all'ultimo,
riconfortati alla meglio da un'ombra di sorriso che era passata
sui suoi labbruzzi, o da una carezza che egli aveva ricevuto con
rassegnazione, ci avviavamo a passi lenti a Milano.

Poi ritrovavamo il nostro passo spedito, la nostra piccola filosofia
quotidiana, noi stessi. E ci consolavamo a vicenda dell'ingiustizia
di Augusto, e io ridiventava l'avvocato Placidi per difendere la mia
progenitura.

— La voce del sangue! — dicevo cinicamente — chi vi crede oramai? Non
si fa sentire nemmeno più sul palcoscenico. E non bisogna lagnarsene;
aveva detto tante corbellerie questa voce famosa! Invece la voce del
latte!...

Ma non avendo la lena di andar oltre, mi provavo a ridere. Evangelina
non rideva, ed io tirava innanzi con crescente convinzione.

— Corrono molte voci nel mondo che nessuno ha mai udito: la voce del
popolo, la voce di Dio, la voce della coscienza, eccetera; invece non
si sente mai dire: la voce della minestra, la voce dell'arrosto, come
se non parlassero ogni santo giorno, non escluse le vigilie, ad ogni
uomo digiuno. Non ho io ragione?

— Hai ragione — mi rispondeva Evangelina — ma bisognerà tornare presto
a trovarlo; è necessario che egli si avvezzi fin d'ora a vederci, a
conoscerci, a volere un po' di bene a noi, che gliene vogliamo tanto.

Parlava di lui, ed io che non aveva cessato un momento di pensarvi, mi
rifacevo grave per dire:

— Lo svezzeremo presto e lo toglieremo da balia. Fino a che età poppano
i bimbi? Lo sai tu?

— Secondo i casi — rispondeva la povera mammina sospirando — fino a un
anno e mezzo; ve n'è di quelli che vogliono il latte fino a due anni,
magari fino a tre.

«Il nostro non sarà di quelli — sentenziava il padre, baldanzoso in
apparenza, sgomentato in fondo. — Intanto hai ragione, bisogna andar
spesso a vederlo; è necessario che egli impari a volerci bene».

                                   *
                                  * *

A quel che bisognava fare non mancavamo davvero; l'ottima Marianna
non doveva avere più nemmeno una settimana di sicurezza, sapendo che
da un momento all'altro le potevamo capitare alle spalle e coglierla
in flagrante reato di disamore alla nostra creatura, ma non perciò si
sgominava o smetteva il suo bel riso; aveva anch'essa il suo talismano:
voleva un gran bene ad Augusto.

— È proprio come se fosse mio — diceva per rassicurarci; e a queste
parole ingenue io, da un piccolo tumulto che seguiva dentro di me,
indovinava una battaglia nel cuore di Evangelina.

— È furbo — asseriva talvolta la vezzosa balietta — sa farsi voler
bene; quando vuole poppare, le sa ben lui le piccole moine... è proprio
pieno di malizia. Io dico che diventerà _qualche cosa_... perchè ha
talento.

Ascoltavamo in silenzio, tra contenti e mortificati di dover apprendere
tutto il valore della nostra creatura da un'estranea; poi Evangelina
si chinava a baciucchiare il piccolo tesoro, ed io, che non mi potevo
permettere altrettanto a causa dei baffi, invece di dichiararmi lieto
di apprendere che mio figlio era pieno di malizia, balbettavo che _lo
sapevamo._

Allora la balia mi faceva vedere i denti immacolati, e approfittando di
un momento in cui la faccia rosea di Augusto era scoperta, gli scoccava
con disinvoltura un bacio rumoroso che il piccino si pigliava senza
mormorare.

Se avessimo fatto noi altrettanto, Dio sa che strilli!

— Mi conosce, da me lascia fare — diceva Marianna — non c'è pericolo
che voglia andare con altri... la notte, quando ha freddo, si fa
sentire: allora me lo piglio in letto, ed egli sa dove mettere la
faccetta per sentire il calduccio.

Tutte queste notizie ci davano una consolazione strana, che ci faceva
molto felici e un po' desolati. Avevamo pure raccomandato cento volte
alla balia che di notte non si pigliasse in letto nostro figlio; ma
non volevamo nemmeno che egli piangesse nella culla o che patisse il
freddo.

— Dio buono! — mormorava Evangelina — e se lo soffocasse?

— Soffocarlo! — esclamava la balia — dillo un po' tu se ti faccio
male?...

E siccome Augusto non diceva nulla, ella spiegava minutamente alla
mammina mal pratica l'arte sua amorosa di tener in letto il bimbo
senza alcun pericolo, ed era così felice e così allegra nella sua
dimostrazione, che Evangelina doveva finire col dichiararsi interamente
soddisfatta.

E non era vero, povera Evangelina, che tu fossi interamente soddisfatta.

                                   *
                                  * *

Io che mi venivo ammaestrando sui libri nell'arte di allevare i
figliuoli, un giorno dissi alla balia:

— Bisognerebbe cominciare fin d'ora a dargli la pappa...

— La pappa! — balbettò Marianna sbigottita — è troppo presto; non ha
che sei mesi.

Mia moglie mi guardava non osando darmi torto, come le suggeriva il suo
istinto di madre, e forse sperando che io avessi ragione.

— Dovrà cominciare dal poco — insistei gravemente — in principio il
guscio d'un uovo sarà la sua scodella; prima una volta il giorno, poi
due; siano le pappe di semolina di buona qualità, non molto dense e ben
cotte in buon brodo di pollo o di manzo...

Una risata interruppe la lezione che io sapeva così bene a memoria.

Era la balia che, non ostante il rispetto da me ispiratole, non aveva
saputo frenare il suo buon umore.

— Scusi — diceva — è più forte di me.

Sì, l'idea del brodo di pollo era più forte di lei.

— Per fare il brodo di pollo o di manzo — osservò correggendo con un
tantino di gravità il suo irriverente buon umore — ci vuole il pollo
o per lo meno il manzo; i signori come loro queste cose le hanno
sempre... ma noi....

Un'occhiata furba di Evangelina mi ripetè «i signori come noi...» e
un mio sorriso finì la frase: «queste cose le hanno sempre...», poi mi
venne un'idea luminosa:

— Al brodo penseremo noi — dissi — ma bisogna prometterci di dare per
davvero le pappe al bimbo; avete inteso come si fa... il guscio di un
uovo... la semolina ben cotta...

Aveva inteso, prometteva tutto.

Evangelina mi guardò un istante dubbiosa; poi le lessi in faccia che
ella aveva indovinato la mia bell'idea.

Quella sera, al momento di assestare i conti della giornata,
aggiungemmo allegramente al nostro bilancio la spesa mensile di un
vasetto di estratto di carne.


IV.

La nostra casa intanto si veniva facendo bella; quasi non passava
settimana che non si arricchisse di qualche piccolo ornamento utile;
oltre del calendario, che faceva bella mostra di sè nel mio studiolo,
avevamo un termometro Réamur, le cortine bianche in quasi tutte
le finestre, dei geranii, delle rose, dei garofani in anticamera,
sopra una gradinata di legno fatta a posta e inverniciata come la
guardaroba, in modo da fingere benissimo il legno di rovere (pensiero
applauditissimo di Evangelina); sopra il tavolino della sala un
portasigari sempre pieno di _virginie_ che invecchiavano al servizio
del nostro decoro domestico (pensiero poco applaudito dell'avvocato
Epaminonda che non fumava) — e non era tutto: possedevamo un orologio
a muro, che sonava le ore e le mezz'ore con una gravità insolita,
un cannocchiale da teatro, un bel calamaio di vetro, e perfino due
candelabri di porcellana. Possedevamo pure altre cose che sarebbe
non difficile ma noioso enumerare, e altre ne venivamo aggiungendo
festosamente man mano. Una però ci mancava ancora, desideratissima fra
tutte e più costosa di tutte, una lampada che scendesse dal soffitto
del salotto, proprio nel mezzo della stanza, sopra il tavolino.

Ci eravamo ingegnati in mille modi di resistere a quel pensiero
rovinoso; io, per esempio, aveva comprato un albo di ritratti, e
l'aveva messo sopra il tavolino, parendomi che così dovessi rinunziare
più facilmente alla lampada; Evangelina un giorno mi aveva fatto
trovare all'improvviso un successore al nostro merlo buon'anima, di cui
la gabbia portava il lutto da più d'un anno.

Tutto ciò era qualche cosa, anzi era molto, ci faceva felici, ma non
contenti; dopo di aver distribuito con molta simmetria i parenti e
gli amici nell'albo, istintivamente Evangelina alzava gli occhi al
soffitto, e io, quando avevo ascoltato per un po' il fischio del merlo
nel vano della finestra, io stesso mi trovava senz'avvedermene in
contemplazione dinanzi alla famosa lampada che ancora non pendeva sul
tavolino.

Doveva pendere, era necessario, era fatale; giudicatene voi stessi.

Senza dirmi nulla, non così segretamente che io non fiutassi, tornando
a casa, il mistero, Evangelina era venuta preparandomi con le sue mani
una bella improvvisata.

Io fingeva, per contentarla, di non mi avvedere di nulla, e solo la
vigilia del gran giorno, quando un'allegria insolita di mia moglie
e certi suoi sorrisi strani avrebbero fatto scorgere a un cieco che
l'improvvisata era pronta, solo allora mi credei in dovere di far
l'uomo avveduto, e le dissi molto astutamente: — «Evangelina mia, tu me
n'hai fatta qualcuna, o me la stai facendo».

Se avessi insistito un po' la poveretta mi avrebbe detto tutto allora,
come ne aveva gran voglia, ma io non le volli permettere di sprecare
in un momento di fragilità mezza la compiacenza a cui aveva diritto;
volevo pagare con un grande stupore e a tempo opportuno tutto il prezzo
della sua segreta fatica; pigliai per buona moneta la sua prima bugia,
mutai discorso, e uscii dicendo dentro di me: «Sarà per domani; e che
cosa sarà mai?».

Non dovevo aspettare tanto a saperlo. Evangelina ebbe pietà di me e di
lei, e al mio ritorno mi fece trovare — indovinate — appeso al mezzo
del soffitto del nostro salotto, un magnifico cestello di carta di
varii colori, sorretto da ghirlande pure di carta e da cui uscivano
fiori ed erbe a profusione.

— Ti piace? — mi chiese Evangelina con un tremito di contentezza nella
voce.

— Bravissima! — le risposi prontamente — hai avuto un'idea bella,
proprio bella.

— Non è vero che sta bene?

— Sì, sta proprio bene; è come se ci fosse la lampada; almeno l'effetto
è identico.

— È quello che ho pensato anch'io: quando dal mezzo del soffitto
penderà un cestello, rinunzieremo più facilmente alla lampada che costa
troppo, almeno per ora, finchè non fiocchino i clienti.

— Hai ragione, alla lampada ora non ci si penserà più.

Ahi! vanità dei propositi umani! e quanto è mai fallace la medicina
delle nostre passioni!

Il cestello, che doveva farci dimenticare la lampada, ce la ricordava
invece ad ogni momento.

«Vi pare che io qui stia bene, e non avete torto: ma al mio posto starà
meglio la lampada; io poi starò benissimo nel vano della finestra, fra
le cortine bianche di bucato!».

Così parlava il cestello, ora grazioso, ora beffardo, ora brutale,
sempre con insistenza muta.

Per farla corta, dopo una settimana di quell'ossessione, una mattina
mia moglie ed io uscimmo di casa come cacciati dal nostro destino,
andammo di buon passo al più prossimo bazar, entrammo senza titubanza,
e dopo una scelta penosissima, ce ne tornammo a casa seguìti da un
facchino che portava la nostra lampada.

Entrando nel salotto, il cestello per la prima volta mi fece pietà, ma
non lo dissi; fu Evangelina a esclamare allegramente guardandolo: «Oh!
miseria! e dire che ci pareva una bella cosa!»

Due ore dopo ci tenevamo per mano sul limitare dell'uscio per giudicare
dell'effetto che faceva il nostro salotto guardato in distanza, con la
meravigliosa lampada nel mezzo e il cestello nel vano della finestra.

Era uno spettacolo magnifico; noi, fatti accorti dall'esperienza e
frenando il nostro entusiasmo, ci accontentavamo di dire che la casa
dell'avvocato Placidi «cominciava a pigliare un certo aspetto...».

                                   *
                                  * *

Ancora Augusto non aveva visitato la casa paterna; prima il freddo
invernale, poi le pioggie di primavera, e il tempo incostante avevano
consigliato la prudenza; ma ora splendeva il magnifico sole di luglio,
le giornate erano lunghe, egli poteva venire senza pericolo la mattina
e andarsene la sera.

Venne.

Ci eravamo levati di buon'ora, perchè ci pareva d'avere tante cose
da fare per prepararci degnamente alla nostra festa; dopo aver dato
alcuni ordini in cucina e assestato i mobili della casa, Evangelina,
non sapendo che altro fare, se ne venne ad assistere alla delicata
operazione della mia barba.

— Or ora sarà qui — mi disse col tremito dell'impazienza nella voce.
E siccome non le potevo rispondere, si andò a mettere dinanzi ai vetri
per guardare in cortile e vederlo passare, non accorgendosi neppure che
mi toglieva la luce.

— Evangelina... — dissi dolcemente.

Essa si volse, mi comprese, e senza dir nulla lasciò la finestra. Io
con un'occhiata fuggitiva le lessi in faccia che era in uno di quei
momenti difficili in cui la felicità soverchia le nostre forze, e per
sopportarla abbiamo bisogno come di un pretesto di dolore.

— Quanto tempo oggi per quella barba! — disse mia moglie un momento
dopo.

Mi volsi e le sorrisi. Pensavo: «Ecco come è fatto l'uomo! se non ci si
bada, si è insoddisfatti, irascibili, maligni, unicamente perchè si è
felici». E con una calma feroce:

— Non vedi l'ora, non è vero? — le dissi.

— Non ho la tua _placidezza_ — mi rispose — è tardi, egli non viene, e
tu sei sempre lì dinanzi allo specchio. Che cosa ti è venuto in mente
stamane di raderti?

— Che cosa ti viene in mente stamane di darti alla desolazione perchè
mi rado?

La _desolazione_ era di troppo; me ne pentii subito, ma era tardi.

Evangelina non mi rispose, cominciava a farmi il broncio. Per un po'
tirai innanzi tranquillamente poi non seppi reggere:

— Ahi! — dissi.

Speravo che mi domandasse almeno se m'ero fatto male col rasoio; non
fiatò neppure; toccò a me soggiungere con un po' d'ironia:

— Consolati, è stato uno sbaglio, non mi sono fatto nulla.

Ella si rizzò da sedere di scatto, ed io, vinto alla mia volta dal mio
piccolo demonio, era disposto a lasciarla uscire dalla camera, senza
correrle dietro per impedirle di piangere, quando un rumore di passi
mi ferì l'orecchio e curvandomi istintivamente a guardare attraverso i
vetri, vidi lui, proprio lui, che attraversava il cortile in braccio
della balia, la quale cercava inutilmente di farlo guardare alla
finestra del babbo.

— Evangelina! — dissi voltandomi; ed essa, che aveva indovinata al pari
di me, fu pronta a ricevere la carezza del babbo felice.

— Perdonami — mormorò con un bacio... — stavo diventando cattiva.

— Lo stavo diventando anch'io — risposi in fretta... — ora è passato,
andiamogli incontro.

Evangelina non mi ascoltava più; aveva aperto la porta di casa ed era
già sulle scale per essere la prima ad impadronirsi di suo figlio.

                                   *
                                  * *

Quel giorno fu festa in casa dell'avvocato Placidi.

Io aveva lasciato un bel po' che Evangelina si tenesse Augusto in
braccio a mormorargli fra baci, che non finivano mai, certe paroline
senza senso, a ripetergli mille volte con voce di carezza una domanda
melanconica e dolce: «Non la conosci ancora la mamma?» Sì, da uomo
che sa aspettare, io aveva lasciato che ella facesse i suoi comodi;
doveva venire la mia volta e mi accontentavo di sorridere ad Augusto da
lontano, andando dietro a mia moglie per la camera, appoggiandomi alla
spalliera della sua seggiola.

E poi la balia si credeva forse in dovere di non staccarsi dal
piccino, e sebbene non osasse mettersi a sedere sulle nuove seggiole
imbottite che le davano soggezione, era sempre lì, non se ne andava.
M'indispettivo pensando come non le venisse voglia di girellare un po'
per Milano, di andare a vedere la galleria, o il duomo, e non sapevo
come mandarla via senza offenderla.

Fortunatamente ci pensava anche mia moglie.

— Marianna — le disse a un tratto con molto garbo — va in cucina e di'
alla fantesca che ti faccia scaldare un po' di brodo; mangerai pure una
zuppa?

Marianna non disse di no, raccomandò a mio figlio di aspettarla senza
piangere e sparve.

E io le venni dietro tranquillamente e le chiusi l'uscio alle spalle
senza far rumore. Poi mi volsi, Evangelina mi presentò il bimbo e me lo
accomodò sulle braccia. Pareva una cosa intesa.

Feci sapere a mio figlio che mi ero raso lungamente poco prima a posta
per lui, non avesse paura di avvicinare la sua faccetta al faccione
del babbo, e gli spiegai che cosa fosse il babbo, quanto amore e quanta
gratitudine egli dovesse all'autore de' suoi giorni.

Augusto fu buono e mi lasciò dire senza piangere; ogni tanto mi
guardava in bocca con molta curiosità, come se avesse visto uscirne le
mie stranissime parole, poi girava gli occhi sbigottiti per la camera.
Allora presi ardire e lo condussi a visitare tutta la casa paterna,
salvo la cucina, arrestandomi per toccare ogni cosa che dava un suono,
mettendolo dinanzi a tutti gli specchi di casa, che erano tre, compreso
quello della barba, per veder crescere il suo stupore.

Ma il suo stupore non cresceva; era, come la nostra festa, come il
nostro amore, una cosa profonda ed eguale, inalterabile, tranquilla.
Egli non piangeva, e noi non sapevamo che fare per dimostrargli la
nostra gratitudine.

— Gli diamo la pappa?

— Diamogliela.

Mia moglie andò in cucina, lasciando Augusto in mie mani, ed io non fui
tranquillo finchè non la vidi rientrare con uno scodellino e... senza
la balia.

Augusto prima si schermì, poi assaggiò la pappa e parve trovarla
saporita, perchè ne volle ancora; noi non rifinivamo di lodarlo per la
sua valentìa e d'incoraggiarlo ad ogni cucchiaio.

— Proviamo a sfasciarlo — dissi poi — gli farà piacere sentirsi libero.

Provammo, e quando quella fascia che pareva doversi allungare
all'infinito fu snodata interamente, e ci apparve nostro figlio col
solo camicino indosso, ritto come un piccolo personaggio mitologico sul
tavolino:

— Voglio vederlo tutto — sclamai.

Gli slacciammo il camicino, ed egli si mostrò nudo nudo al nostro
sguardo amoroso.

— Frine dinanzi all'areopago! — dissi celiando sulla nostra felicità.

Evangelina mi guardò, sorrise per acconsentire alla mia malizia, poi
soggiunse seria seria:

— E più bello!


V.

Quella giornata non doveva finire, e finì più presto delle altre.

Venne l'ora crudele, in cui nostro figlio, rifasciato, rivestito con la
cuffia in testa, sebbene nelle braccia della mamma, non altro aspettava
che Giuseppe per andarsene.

E venne anche Giuseppe col berretto in una mano e una grande incertezza
di movimenti nell'altra. Poi la notte entrò nelle nostre stanze piene
ancora del caro assente, senza che noi ci accorgessimo del buio.

Fu la fantesca a portare molto tempo dopo il lume acceso; allora anche
l'amato fantasma se ne andò; rimanemmo interamente soli.

— A quest'ora dorme — mi disse Evangelina rispondendo al mio pensiero.

— E sogna babbo e mamma.... il babbo sopratutto...

Siccome lo scherzo non bastava, chiamai la fantesca, e le feci un cenno
che essa comprendeva benissimo.

Allora soltanto Evangelina sorrise.

Aspettai un po' trattenendo mia moglie con una gravità teatrale, e
interrogando con gli occhi il nostro orologio a pendolo, dissi:

— Possiamo andare.

Diedi il braccio a Evangelina, e ci avviammo tutti e due, io grave,
essa ridente, a goderci il magnifico lume della nostra lampada accesa
in salotto.

                                   *
                                  * *

Dopo quel giorno le visite d'Augusto e le nostre si fecero più
frequenti, e sul finire d'autunno tornando da Musocco a casa non
avevamo più il segreto affanno di una volta. Fra nostro figlio e noi si
era fatta amicizia: egli ormai conosceva _babbo e mamma_, e facendosi
pregare un po' pronunziava malamente questi teneri nomi per mandarci in
estasi.

La via maestra non ci pareva più tanto polverosa e la pianura lombarda
apriva agli occhi nostri orizzonti nuovi, deliziose vedute.

— Hai badato? Mi ha riconosciuta da lontano ed ha agitato le braccia
per l'allegrezza! — diceva la mamma.

— Verissimo — rispondeva il babbo — ci ha riconosciuti subito; e quando
io gli feci vedere i bei grappoli d'uva che avevamo portato per lui...
te ne sei accorta?... ha allungato tutte e due le mani...

— Sì, e diceva _due_, perchè voleva averne un grappolo in ciascuna mano.

Tutto questo era verissimo; nostro figlio conosceva noi, conosceva
l'uva, sebbene la vendemmia non fosse incominciata ancora, e quando
d'una cosa che gli andava a genio ne voleva molta, per misurare la
quantità e la capacità massime, egli pigliava le sue mani, che erano
_due_.

Sì, Augusto faceva tutto questo, mettendo di buon umore sua madre, e
svegliando gl'istinti filosofici del babbo, il quale faceva — ahi! non
sempre dentro di sè — delle considerazioni, che avrebbero dovuto essere
curiose, sulla proprietà e sul possesso.

— Osserva — dissi un giorno — come si manifesta l'istinto della
proprietà in Augusto; egli vede sulla tavola una cosa che gli piace, ne
piglia con tutte e due le mani; quanto ha afferrato è _suo_; tutto quel
che è rimasto sulla tavola non gli appartiene. — E entrando mentalmente
nella mia toga di avvocato, soggiunsi con un tantino di enfasi
oratoria: — Quanto è dunque vero che la proprietà richiede il possesso!
Badiamo però a non esagerare il principio, argomentandone che in ogni
caso il possesso tenga luogo di titolo, cioè che la proprietà sia il
furto. La proprietà non nasce mai senza il possesso, ma può senza il
possesso mantenersi... — A poco a poco avevo preso il tono giusto, cioè
mi canzonavo coscienziosamente, ma parendomi di vedere io stesso nelle
mie ultime parole una luce che i giurisperiti non ci avevano messo;
m'infervorai sul serio.

— Senti bene, Evangelina, perchè è una trovata; senti bene.

Evangelina voltò la faccia verso di me, ma pensava ad altro, e io,
benchè sicuro che non mi ascoltava, ripetei, contando le sillabe d'ogni
parola, e dando un giro più elegante alla mia frase:

— La proprietà senza il possesso non nasce, ma può senza il possesso
mantenersi.

Evangelina disse _ah!_ appena appena; io mi dichiarai soddisfatto.

Si tornò a parlare di Augusto.

Se ne parlava sempre, era la nostra felicità futura.

— In marzo avrà quattordici mesi; del latte della balia non saprà più
che farne; ha già messo quattro dentuzzi bellissimi; ne sta mettendo
altri due; per mangiar le pappe e le minestre basteranno; non è vero
che basteranno?

                                   *
                                  * *

E un giorno, un bellissimo giorno d'aprile, Augusto venne con un
mazzolino di viole in ogni mano. Le viole piacevano tanto alla mamma,
e la balia lo sapeva, ma qualcuno forse aveva detto a mio figlio che,
regalate da lui, le viole sarebbero piaciute tanto anche al babbo, e
perciò egli ne aveva voluto due.

Quel giorno Augusto entrò in casa, com'era sempre entrato, girando
sguardi curiosi di qua e di là, sorrise a babbo e mamma, come lui
solo sapeva sorridere, si lasciò menare in giro per le stanze senza
piangere, e dormì il sonnellino di un'ora nella culla, tal quale come
le altre volte; ma facendo tutto ciò che aveva sempre fatto, egli aveva
forse una solennità insolita, un'amorevolezza nuova, perchè metteva nel
nostro cuore una gioia più luminosa e più grave? No: Augusto veniva per
non andarsene più.

Tutto quel giorno vidi luccicare due grosse lagrime negli occhi della
balia. Non perciò la compiangevo. La felicità mi rendeva crudele.

E quando fu l'ora degli addii, Evangelina venne a porgere a Marianna
il bambinello, perchè lo baciasse, e prima la povera donna rise per
obbedienza al proprio temperamento, poi pianse senza far piangere mio
figlio, poi rise un'altra volta del suo Giuseppe, che si asciugava le
lagrime con l'ala del cappello, io ebbi un rimescolìo di sentimenti
buoni e cattivi, e un sentimento sopra tutti: la gioia di veder mio
figlio indifferente.

E glielo dissi tra il serio e il faceto:

— Bravo, tu sei un eroe!

Allora la balia non rise.

Evangelina mi diede uno sguardo di pietà che mi fece vedere il fondo
del mio cuore di padre, e mi consegnò Augusto per essere libera di
baciare replicatamente quella faccia lagrimosa in cui nostro figlio
aveva imparato a sorridere.

E allora la balia rise.

A quella scena, di cui più tardi dovevano venirmi in mente tutti i
particolari penosi, allora io assisteva con un'impazienza dissimulata
appena; tutto il dolore della povera donna, che cessava d'esser madre
di Augusto, diventava piccino al paragone della nuova grandezza che
pigliava a un tratto il sentimento della mia paternità.

Tenevo Augusto in braccio, pensando che fra pochi minuti egli
comincerebbe a essere interamente mio figlio. Sorridevo al disgraziato
Giuseppe, e intanto pensavo che lo avrei spinto volentieri fuori
dell'uscio.

Se n'andarono — e Augusto non pianse!

Rimasti soli col piccolo eroe, ci sentimmo per un po' come impacciati
della nostra felicità; non sapevamo in che modo fargli festa, e
dimostrargli la consolazione che ci dava col suo contegno esemplare, e
glielo dicevamo fra i baci come se ci dovesse intendere. E chi sa? egli
forse ci capiva benissimo.

— È un omino — dicevamo — è pieno di giudizio!

— Sei un omino, sei pieno di giudizio!

— Mi guardi? Sono il babbo...

— Sono io la tua mamma!...

Non piangeva!

— Ridi — gli dicevamo, stuzzicandolo sui labbruzzi — ridi, così, bravo:
di' un po' «mamma!» dillo...

Egli non rideva, nè diceva _mamma_, ed era tutt'uno come se facesse
quanto gli chiedevamo, perchè non piangeva.

Ma la sera, quando fu l'ora di metterlo a dormire, ed egli si vide in
un'altra culla, in un luogo diverso dal camerone enorme in cui aveva
passato tutta la sua esistenza, parve cercare intorno qualche cosa
e qualcuno. Ci curvammo sopra di lui, mettendo tutto il nostro amore
negli occhi, per dargli forza — invano. Augusto mandò un grido, che mi
passò il cuore, e pianse.

Pianse molto, pianse troppo, pianse tanto da farmi pietà e dispetto.

— Ha sonno — dicevo — e si ostina a stare sveglio per piangere. Non lo
guardiamo più. Strilli quanto vuole.

Egli strillava più forte, appena facevamo atto di allontanarci dalla
culla, e noi tornavamo al suo capezzale commossi e lusingati.

— Fa il cattivo, ma ci vuol bene — dicevo a mia moglie — ci vuol
proprio bene!

Finalmente il sonno lo pigliò a tradimento. Fu un gran silenzio in casa
dell'avvocato Placidi.

                                   *
                                  * *

Con che gioia salutai l'alba del domani, che ce lo mostrò nella
culla, tranquillo e con gli occhi aperti! E con quanto terrore vidi
approssimarsi l'ora fatale di metterlo a dormire un'altra volta!

— Ora sentirai che smanie — dicevo ad Evangelina, quasi per tentare mio
figlio a darmi una mentita.

Evangelina non mi rispose, e Augusto non si lasciò pigliare nel mio
tranello, e pianse come non si piange nemmeno nelle grandi afflizioni;
però questa volta pianse con metodo, concedendosi ogni tanto un
brevissimo intervallo di silenzio per ripigliare fiato. In uno di tali
intervalli mi giunsero all'orecchio queste parole pronunziate dal mio
vicino di casa, con l'intenzione palese di farle passare attraverso la
parete:

— Che cosa fanno a quel bambino? Gli cavano la pelle?

— No, signore — risposi imitando il suo accento — lo fasciamo appena.

Evangelina rise, Augusto ricominciò a piangere.

La cosa andò così per parecchi giorni ancora; provammo di tutto, a
fasciarlo in un'altra camera, ad aspettare che il sonno lo pigliasse
in braccio alla mamma per adagiarlo poi nella culla; ma quando ci
allontanavamo in punta di piedi, il piccolo disgraziato si svegliava,
riconosceva la _situazione_ e ci richiamava con uno strillo.

Si vedeva chiaro, era un puntiglio; ogni sera mi pareva di non doverlo
perdonare vita natural durante a mio figlio; e ogni mattina, alla sua
prima occhiata innocente, si faceva la pace.

E poi, s'egli faceva le bizze al momento di andare a letto, tutto il
giorno invece era buono come il pane, buono come la pappa e come le
minestrine che gli piacevano tanto.

Già cominciava a sorridermi, ad allungare la mano quando voleva
afferrarmi per la barba, a dirmi certe sue paroline garbate che io
intendeva benissimo, se dalle braccia della mamma voleva venire nelle
mie. Faceva anche di più; stava ritto senza cadere, sol che avesse una
seggiola a cui appoggiarsi ed il suo bubbolino coi sonagli per passare
il tempo.

Insomma ci faceva felici, e prometteva di farci felicissimi più tardi.

Avere nella vita uno scopo che si è prossimi ad ottenere e che,
ottenuto, non mozzerà le ali di nessuna illusione, non è forse la
maggiore delle felicità della terra? — Lo scopo nostro era di vedere
Augusto camminare da solo di stanza in stanza, per pigliar possesso di
tutta la casa paterna.


VI.

Una mattina, appena levati da letto, prima ancora di prendere il caffè,
chi trovammo in cucina? La balia!

Era partita da Musocco all'alba, in compagnia del suo Giuseppe,
unicamente per vedere la _sua_ creatura; Giuseppe era andato per certa
faccenda di semente di bachi, tornerebbe più tardi, perchè anche lui,
poverino, non sapeva più resistere senza vedere Augusto.

Dicendo queste cose, la povera Marianna rideva ancora; ma in quale
maniera!

La sua visita ci dava noia, e a me faceva dispetto; pareva che ce lo
leggesse in cuore, ce ne domandava scusa cogli occhi.

Evangelina era impietosita; io no; pensando agli strilli notturni
di Augusto, durati quasi fino alla vigilia, non trovavo dentro di me
neppure tanta forza di carità cristiana da nascondere il malumore.

— Non sono che otto giorni! — dissi — la vostra visita ci fa sempre
piacere; che vogliate bene ad Augusto lo comprendiamo, ma se Augusto vi
vede, si torna da capo...

La mia vanità paterna era mortificata nel fare questa confessione;
nondimeno la feci intera.

— Se Augusto vi vede, vorrà tornare con voi; ancora non è avvezzo bene
alla separazione; ha pianto anche ieri... (non era vero, da due notti
non piangeva) domani non avrà più pace...

Marianna, che aveva chinata la testa, la sollevò sorridendo fra le
lagrime.

— Ha pianto perchè voleva me, non è così? Voleva proprio me?...

— Già... probabilmente... sicuro, voleva voi; è avvezzo a voi; se vi
vede è capace di piangere una settimana di seguito... potrebbe anche
ammalarsi...

Non avendo potuto difendere il mio amor proprio di padre, esageravo il
pericolo.

Evangelina non diceva nulla, perchè probabilmente non sapeva che
risolvere, quando si udì il gemito di Augusto, che si era svegliato e
ci chiamava.

— Anima cara! — esclamò Marianna.

Non udii altro, perchè mi avviai di corsa, non volendo far aspettare
mio figlio.

Poco dopo Evangelina mi raggiunse per aiutarmi a vestirlo, ma Augusto
ed io ci eravamo affrettati a fare una bella sorpresa alla mamma, e
quando essa entrava, noi terminavamo appunto d'infilare il vestitino
azzurro.

Volevo assaporare il nostro trionfo, ma mia moglie non me ne diede
tempo.

— L'ho persuasa — disse melanconicamente.

— Chi?

— La balia. L'ho persuasa, si rassegna ad andarsene.

— Se n'è andata?

— Se ne andrà subito; è di là anche Giuseppe...

— Possono ben fare colazione prima... — mi suggerì il rimorso.

— La stanno facendo.

— Sia lodato il cielo! — esclamai un po' scrollato — tornino fra
un mese, magari fra quindici giorni, quando questo piccolo mariuolo
abbia imparato tutta la differenza che corre fra i suoi genitori e la
balia... allora potranno vederlo quanto vogliono.

— Ho promesso che lo vedranno lo stesso — disse Evangelina
tranquillamente.

— Vederlo?

La mia cattiveria non ebbe tempo di tornare a galla, perchè subito
mia moglie mi spiegò in che modo innocente intendeva di lasciar vedere
nostro figlio alla balia.

— Essa starà in cucina dietro l'uscio, noi in salotto; lo vedrà dal
buco della serratura.

Era una magnifica idea, e non trovai a ridire, se non che mi offersi di
stare anch'io in cucina dietro all'uscio.

— Perchè?

— Non si sa mai.

Mia moglie andò in salotto con Augusto, io corsi in cucina. Trovai
Marianna pronta; Giuseppe, che aveva un grosso boccone in bocca, lo
mandò giù a rischio di soffocarsi per darmi il buon giorno.

— È pronto — dissi — se volete vederlo...

La balia, senza rispondere, accostò l'occhio alla toppa: «Eccolo! —
balbettò, e proseguì a mormorare delle parole incoerenti che erano
carezze... — Dio! com'è bello! — disse poi — guardalo anche tu,
Giuseppe...».

Ma non si scostava dall'uscio, e il suo uomo dovette farle intendere i
propri diritti con uno spintone.

Allora Giuseppe disse: «Con permesso» e si pose anche lui in
osservazione.

La balia era impaziente, guardava me, guardava il marito, e ripeteva
a tutti e due: «Com'è bello!» — finchè, parendole d'aver concesso
troppo al suo uomo, lo avvertì col medesimo linguaggio da lui adoperato
poc'anzi, e il povero balio si rizzò e mi fece vedere una faccia
trasfigurata, dicendomi con una filosofia di cui non vidi il fondo, che
«era un destino fatto così».

Intanto Marianna mormorava:

— Caro! la signora gli dice di guardare di qua, e lui, povero
innocente, lui guarda; non lo sa che sono qua io... non lo sai... anima
bella! Ah! se potessi baciarmelo tutto!

E si voltava a buttarmi un'occhiata per vedere se vi fosse ancora una
speranza di ottenere questa grazia, poi senza aspettare la risposta,
rimetteva l'occhio alla toppa.

— Fra un mese — rispondevo io — fra quindici giorni forse... ora
sarebbe volergli male.

E chiedevo con gli occhi l'approvazione di Giuseppe, che me la dava
docilmente, a malincuore.

                                   *
                                  * *

— To' — esclamò ad un tratto Marianna — pare che voglia camminare.....
la signora l'ha messo accanto alla sedia ed egli si stacca... si
stacca...

Non seppi più resistere.

— Voglio vederlo anch'io!

Marianna mi lasciò il posto: guardai.

Augusto si era veramente staccato dalla seggiola, stava in bilico alla
meglio, ma non osava muoversi, benchè Evangelina, china a due passi
dinanzi a lui e protendendo le mani per essere pronta a sostenerlo, lo
tentasse con le parole e con le moine.

Si vedeva chiaro, Augusto aveva una gran voglia di correre a buttarsi
nelle braccia di sua madre, e la distanza che lo separava gli faceva
paura.

Pensai: «Andrò io a fargli coraggio» e dissi forte: — Mi raccomando,
non facciamo imprudenze.

Spinsi l'uscio il tanto appena da lasciarmi passare, ed entrai dicendo
a mio figlio: — C'è qua anche il babbo.

Intese benissimo che quando c'è il babbo non si deve aver paura di
nulla, e appena mi fui curvato anch'io facendogli delle mie braccia un
baluardo, egli prima si mosse imperterrito, poi, atterrito dalla sua
audacia, venne a buttarsi disperatamente nelle braccia... della mamma.

Attraverso l'uscio della cucina giunse fino a me un piccolo grido
d'entusiasmo; Augusto non l'udì, ed io scoccandogli un bacio sulla
bocca:

— Bravo! — gli dissi solennemente — il primo passo l'hai fatto; ed ora,
figlio mio, coraggio e avanti!



MIO FIGLIO STUDIA


I.

Quell'anno nostro figlio ci aveva promesso solennemente di studiare, di
essere uno dei primi della scuola.

Evangelina ed io gli avevamo detto:

— Bravissimo! — soggiungendo però con un tacito accordo d'indiscrezione
che non doveva bastargli d'essere fra i primi, ma che bisognava
mettersi primo addirittura. E allora Augusto aveva spalancato gli
occhioni e ci aveva detto con una specie di terrore che il Panseri era
troppo forte.

Subito quel signor Panseri cominciò a farmi stizza: solo al pensare che
mio figlio aveva tanta paura di lui, mi venivano in mente certe idee
prive di senso comune, certi propositi indeterminati, certe baldanze
inesplicabili, come se io dovessi cacciarmi non visto nell'ultima panca
della scuola, poi, dal posto dell'asino, rizzarmi in piedi e con una
vocetta tremenda pronunziare queste parole solenni: — Signor maestro,
sfido l'imperatore romano! — E al cospetto di tutta la scolaresca
sbigottita, farmi innanzi a lui, all'imperatore Panseri, e chiamarlo
sul terreno dell'analisi grammaticale e logica, e tentarlo nei
soggetti, nei verbi e negli attributi, poi avvolgerlo in un sillogismo
traditore, spingerlo in un dilemma senza uscita e fargli perdere
scettro e corona.

Questa singolare idea di prestare la mia scienza a mio figlio perchè
ne facesse un uso tanto fatale al signor Panseri, continuò a trottarmi
per la testa anche quando seppi che nelle scuole comunali di Milano
non usavano più i tornei meravigliosi d'una volta, e che da un pezzo,
fin da quando non si studiava più il _qui quae quod_ in versi, e non
vi era bisogno di nascondere la _ferula_ del signor maestro se non
si sapeva la lezione, fin d'allora nessuno aveva più inteso parlare
dell'imperatore romano e dell'imperatore cartaginese suo rivale.

In altri momenti, disperando di poter compiere alcuna di quelle mie
prodezze, guardavo le cose con occhio diverso; vedevo mio figlio che
era piccino e gracile, più gracile e piccino; pensavo quanto il suo
corpicciuolo irrequieto dovesse trovarsi a disagio fra le panche della
scuola, sotto gli occhi del signor maestro, o me lo immaginavo curvo
per lunghe ore sopra una lezione ribelle; allora la vantata forza del
signor Panseri non mi tirava a cimento, mi rassegnavo a permettere
che quell'imperatore minuscolo si avvolgesse nella sua porpora, senza
provare la tentazione di strappargliela di dosso e di far palesi a
tutta la scolaresca le sue vergogne grammaticali.

E dicevo ad Augusto pargole riboccanti di senno:

— Tu studia la lezione per aprire la mente alla verità, fa il còmpito
giornaliero per esercitarti in ciò che avrai imparato; al Panseri non
badare neppure, come se non esistesse, e chissà che un giorno o l'altro
non ti trovi d'essergli passato innanzi senza aver patito le ansie del
cimento. La scienza, figlio mio, ha questo di divino...

Mio figlio non istava ad ascoltare che cosa avesse di divino la
scienza; l'idea di passare innanzi al signor Panseri non gli poteva
entrare per nessun verso; bastava accennargliela di passata perchè egli
vi si fermasse, sbigottito del mio coraggio, e facesse di no col capo.
Assolutamente il signor Panseri era troppo forte, ed io non lo poteva
soffrire.


II.

Intanto Augusto mi veniva svelando il segreto del suo nuovo e
straordinario amore allo studio; quell'anno doveva avere dei
libri nuovi, non so quali e quanti, un'infinità, ed uno più grosso
dell'altro, ma tutti grossi abbastanza!

— Costeranno un occhio del capo — diceva Evangelina, non ancora guarita
del tutto dai piccoli terrori economici che l'avevano tormentata nei
primi anni del nostro matrimonio, quando il mio primo cliente non si
voleva decidere a chiamare in tribunale la parte avversaria.

— La scienza non costa mai troppo — rispondevo con un sorriso da
milionario; così rasserenavo mia moglie e mettevo in capo a mio
figlio una massima; ed era bella e buona economia anche questa. Ma sì,
Augusto non dava retta a me, non badava a sua madre, lasciava dissipare
l'interruzione e ripigliava a fare sulle dita il conto dei suoi libri.

— Il _Compendio di Storia_, uno, l'_Aritmetica_, due, i _Diritti e i
doveri del cittadino_, tre, la _Storia Sacra_, e la _Grammatica_.

— Non l'hai già la _Grammatica_? — chiedeva sua madre.

— Quella _era_ la _Grammatichetta_ — rispondeva Augusto.

E bisognava vedere a che cosa si riduceva in bocca di mio figlio quella
che un tempo _era_ la _Grammatichetta_, per comprendere che in avvenire
non poteva essere più nulla.

Veramente non era più gran cosa. Quando io volli vederla, sebbene
piccola ed indegna, per non so quale recondito istinto di misericordia
verso la specie grammaticale, prima Augusto si schermì dicendo che
l'aveva nel cassetto, e che nel cassetto non ce l'aveva più, e che
non sapeva dov'era, poi portò a sua madre un arnese irriconoscibile.
Aveva uno o più occhi disegnati e non finiti in ogni pagina un numero
d'orecchi incalcolabili, senza l'aiuto della piccola _Aritmetica_ sua
compagna, che non istava meglio, come accertammo subito dopo. Con tanti
occhi e tanti orecchi, sarebbe stata una crudeltà abbandonare i due
libriccini in questo mondo di calcoli sbagliati e di sgrammaticature,
ed io vidi senza stupore che la mia Evangelina se n'andava a riporre
quegli invalidi in un cassetto.

— Farai lo stesso trattamento ai libri di quest'anno? — domandai a mio
figlio senza rancore, ma con un biasimo sottinteso.

Augusto mi rispose assolutamente di no; perchè i libri di quell'anno
erano tanti, ed erano grossi, ed erano belli, perciò li avrebbe tenuti
con mille riguardi. Ed era proprio come se li avesse davanti; li
contemplava con amore e faceva atto di lisciarne la coperta.

— Quando me li compri, babbo?

— Domani.

— Oggi no? — insistè con quella sua civetteria a cui non potevo
resistere.

— E perchè no? — chiesi maliziosamente.

Allora lo sfacciatello spiccò un salto, e corse a portare alla mamma
la buona novella che il babbo andrebbe subito subito a comprare i libri
nuovi.

Non andai solo; venne anche lui, e quando ebbe tutti i suoi libri in
un fascio, non li volle più abbandonare; se li prese a braccetto come
buoni amici, e con ansia mista di sussiego mi consigliò di far presto
per farli vedere subito alla mamma.

Per via non diceva nulla; la sua testina ricciuta aveva pensieri gravi.
A quell'età i pensieri gravi rendono il passo leggiero, e io stentava a
tener dietro a mio figlio.

Quando fu alla porta di casa, Augusto spiccò un salto così audace, che
la nuova Grammatica, novissima agli esercizi della scolaresca, non potè
reggere, gli scivolò dal braccio e cadde.

Cadde, e non si fece male, perchè il pianerottolo era pulito: e io ne
resi grazia agli Eterni e alla fantesca, pensando all'afflizione che
mio figlio avrebbe provato se avesse visto solo un'ombra nell'azzurro
della copertina immacolata.

In questa come in molte altre cose, Evangelina non aveva le opinioni di
suo figlio; essa diceva, per esempio, che si mettono troppi libri nelle
mani della gioventù, per avere il pretesto di chiamarla studiosa, e si
permetteva di dubitare che Augusto avesse poi a leggere tutte quelle
pagine.

Il piccolo studioso era sicuro del contrario e lo affermava a viso
aperto, senza placare la mamma. La quale insisteva:

— Io invece temo che non le leggerai nemmeno mezze; e sono poi sicura
d'una cosa... di una cosa...

— Di che cosa?

— Sono sicura che fra una settimana tutti questi bei libri avranno
perduta la coperta...

— Come devono fare a perderla? — domandava Augusto fingendo di non
capire.

— Se non lo sai tu...

Allora il piccolo furbo faceva un atto dispettosetto e minacciava di
andarsi a chiudere in camera e di leggere tutti i libri nuovi d'un
fiato, per farla vedere alla mamma. Quanto alle coperte... quanto alle
coperte.... Le lisciava con delicatezza, le guardava con amore; aveva
ragione lui intanto.

E io dissi senza ridere:

— Serbala sempre questa tenerezza per le coperte dei tuoi libri, non
lasciarti vincere mai dalla tentazione di strapparle per fartene un
cappello da carabiniere, nè una barca, nè un'oca; bada a non versarvi
sopra il contenuto del tuo calamaio; accontentati di scrivervi il
tuo nome, senza illustrarlo col ritratto dei tuoi compagni di scuola
e tanto meno del signor maestro. Serbala, sì, serbala sempre questa
tenerezza che ora dimostri, perchè l'amore delle coperte dei libri è il
fondamento...

Avevo un'idea vaga che l'amore delle coperte dei libri fosse il
fondamento di qualche cosa; ma non sapevo bene di che, e per non dirla
grossa volli tacere, sperando, un po' tardi, che mio figlio non mi
avesse dato retta. Invece era là, tutt'occhi e tutt'orecchi, e mi toccò
spingere innanzi la frase a ogni costo.

E fu così che quel giorno affermai solennemente in faccia a mio figlio,
il quale non ne capì una sillaba, essere l'amore delle coperte e dei
frontispizi il fondamento d'ogni dottrina vera... o falsa.

Se riuscimmo a star serii, Evangelina ed io, dopo esserci scambiati
un'occhiata, bisogna dire che la coscienza dei nostri doveri seppe
fare un miracolo. Augusto ad ogni modo lesse qualche cosa nella nostra
faccia, capì che ne avevo detto una grossa, probabilmente veniva
ripetendo fra sè e sè la mia frase sconclusionata, ingegnandosi
di vederne il fondo; ed io, per fargli perdere il filo delle sue
idee e correggere alla meglio lo sproposito paterno, mi affrettai a
commetterne un altro.

— Fra tutti quei libri — domandai a mio figlio — quale preferisci?

Non mi capiva.

— Quale ti è più caro? A quale vuoi più bene?

Li guardò alla sfuggita, con poca speranza di scorgere in qualcuno
delle qualità straordinarie che meritassero un affetto speciale; erano
tutti nuovi, non sapeva che rispondere, voleva bene a tutti.

— E pure — insistei con malizia — ve n'è uno che non ti seccherà mai,
che non ti darà mai un dispiacere, nè un affanno, nè uno sgomento, che
ti sarà amico discreto tutto l'anno... ed è quello lì... quello, sì,
proprio quello...

— Il vocabolario! — balbettò Augusto; e soggiunse pigliandolo in mano:

— Ah! sì, perchè è legato, e poi è più grosso.

— Già, è più grosso ed è legato... per questo... Del resto bisogna
amarli tutti i libri di scuola, che ci aprono l'intelletto e ci
spezzano il primo pane della scienza...

In fondo era l'idea di mio figlio; anzi egli andava più in là: li
amava tutti senza secondo fine, e non entrava ombra di metafora nel suo
istinto amoroso.


III.

Augusto non era il solo ad amare i propri libri; vi era in casa chi
li amava più di lui, e d'un amore più cieco: Laura, sua sorella, una
personcina alta due spanne, che si reggeva benissimo sulle gambuccie e
non barcollava più camminando, ma ancora non sapeva leggere.

Quello era un amore sviscerato! Se vedeva da lontano un libro d'Augusto
dimenticato sulla tavola, accorreva festosa, immaginandosi di poterlo
pigliare, ma giunta presso la tavola non vedeva neanche più il libro, e
allora mandava in giro certe occhiate smarrite, che facevano ridere il
fratello maggiore.

Non rise un pezzo: nella testina di Laura germinò un'ideuzza baldanzosa
(quell'idea, coltivata con amore, crebbe rapidamente, diventò sublime)
ed un giorno la personcina alta due spanne, visto il _Compendio di
Storia_ sul tavolino, accorse a gran passi, afferrò il tappeto e tirò
con tutte le forze centuplicate dalla passione. Non pensava al pericolo
di farsi venire addosso una valanga, o per dire meglio vi pensava, ma
era preparata a tutto, perchè seguitò a tirare; solo all'ultimo momento
chiuse gli occhi, non altro. Il _Compendio di Storia_ cadde travolto
nelle pieghe dell'ampio tappeto; Laurina, rimasta incolume, rialzò il
caro caduto, se lo strinse al seno palpitante ancora della prodezza
compita, e venne a posarlo sulle ginocchia del babbo, il quale aveva
visto ogni cosa e rideva.

— Non ridere — mi disse Laurina.

Ammutolii. Essa mi scrutò prima attentamente in faccia per vedere se
dovesse fidarsi della mia gravità, poi aprì alla rovescia il _Compendio
di Storia_ di suo fratello, e, con un seriume bizzarro, cominciò a
leggere sopprimendo le virgole:

— «Due più due quattro più due sei più due otto più due ventidue più
due ventiquattro più due dodici più due quaranta...».

Chiuse il libro e soggiunse gravemente:

— Ecco, l'ho letto tutto! — poi se n'andò contenta perchè il babbo era
stato serio.


IV.

Ancora la scienza dei miei figli non mi aveva fatto male ed io
poteva crederla assolutamente innocua; delle ariuzze d'omino saputo
che pigliava Augusto al ritorno dalla scuola non avevo diffidenza
nè sospetto, anzi me ne compiacevo e lo incoraggiavo con tutta la
rettorica paterna.

— Studia — gli dicevo solennemente — figliuolo mio, studia con coraggio
se vuoi farti uomo.

La frase non aveva bisogno di commento, perchè, almeno per mio figlio,
io era un _uomo fatto_ da un pezzo; ma la mia Evangelina credeva
necessario soggiungere:

— Piglia esempio dal babbo, studia e diventerai come lui.

— Diventerò anch'io avvocato?

— Senza dubbio — entravo a dire — ed avrai una magnifica clientela, e
sarai famoso.

— Tu sei famoso!

— Altro che!

Questa bugia enorme è di mia moglie.

— Quanti libri bisogna studiare per diventare avvocato famoso?

— Tanti.

— Anche il _Compendio di Storia_?

— Anche quello.

— E bisogna saperlo tutto?

— Sicuramente.

Senza avvedermene, io avevo commesso il più grosso sproposito della mia
carriera di genitore.

Augusto mi lasciò in gran pensiero e poco dopo l'udii cantare nella
camera attigua la sua lezione; rileggeva con una specie di puntiglio
insolito lo stesso periodo, si provava poi a ripeterlo a memoria, e
sbagliava, e si correggeva, e tornava da capo, cantando sempre:

— _Il re di Persia, Dario; figlio d'Istaspe, detto anche Assuero, volle
scegliere una moglie tra le più oneste...

— Il re di Persia, Dario, figlio d'Istaspe, detto anche... detto
anche..._ (pausa).

— _Il re di Persia, Dario, figlio d'Istaspe, detto anche Assuero, volle
scegliere una moglie fra le più oneste ed avvenenti_...

Ed io, ignaro della mia sorte miseranda, mi fregavo le mani e non
pensavo nemmeno a domandarmi qual donna onesta ed avvenente avesse poi
menato in moglie quel Dario figliuolo d'Istaspe, detto anche _Assuero_,
che non voleva entrare in capo a mio figlio.

— Gli entrerà — pensavo. — Augusto è ostinato come suo padre: vedrai
che Dario finirà col darsi vinto, ed entrerà prigioniero con tutto il
suo seguito.

Nel seguito di Dario, per mia disgrazia, vi era della gente di cui non
udivo più parlare da un pezzo, e a me allora non poteva nemmeno passare
per il capo che fosse prudente rinfrescarmene la memoria.

Il dì dipoi, Augusto mi venne incontro con un'aria soddisfatta.

— La so tutta! — mi disse da lontano.

— Che cosa?

Incominciò addirittura:

— Il re di Persia, Dario, figlio d'Istaspe, detto anche _Assuero_...

Ma io aveva alle calcagna un cliente melanconico che bisognava mandare
in appello, e con tutta la buona volontà di far felice Augusto, non gli
potei dar retta.

La faccia scura del mio cliente era appena scomparsa dietro l'uscio,
quando si affacciò più sotto, nel vano, la faccetta maliziosa di mio
figlio.

— Dunque — dissi aprendogli le braccia perchè vi si slanciasse con
un salto, come usava fare — dunque il re di Persia, Dario, figlio
d'Istaspe, detto anche _Assuero_?...

Augusto non si moveva; era pieno di scienza.

— Dunque — insistei spinto dal mio destino — dunque voleva scegliere
una moglie tra le più oneste e le più avvenenti?... E l'ha poi trovata?

— _Lo sai bene_ che l'ha trovata?

Allora soltanto vidi l'abisso su cui mi aveva spinto la mia imprudenza;
perchè, ahi! non lo sapevo nè bene nè male; me ne ero dimenticato
interamente. Mi sentii in balìa di mio figlio, il quale poteva darmi a
credere, se glie ne venisse la tentazione, che il re di Persia aveva
sposato la sua serva come il nostro vicino dirimpetto, e feci una
ginnastica prodigiosa per salvarmi. Per un po' mi riuscì; avevo già
strappato ad Augusto la confessione che la moglie di Dario si chiamava
Ester, ed era orfana, ed aveva uno zio chiamato Mardocheo; quando venne
ad Augusto la curiosità di sapere perchè Mardocheo non si fosse dato a
conoscere al re suo parente. Un perchè ci doveva essere, «tanto più —
soggiungeva mio figlio — che se Mardocheo non avesse fatto così, Dario
non si sarebbe fidato tanto di _quell'altro_, sai, _quell'altro_...
aspetta...»

Io sorrisi ed aspettai con una pazienza esemplare, ma (pensi chi ha
cuor di padre la mia tortura) _quell'altro_ non sapevo proprio chi
fosse. Aspettavo e sorridevo; _quell'altro_ non venne.

— L'ho sulla punta della lingua — diceva Augusto, e sollevava gli
occhioni al soffitto, o me li metteva in faccia alla sfuggita sperando
l'impossibile, cioè che io gli venissi in aiuto senza offenderlo.

Me ne piangeva il cuore, ma fui inesorabile.

— Non la sai ancora bene — dissi — una ripassatina ci vuole...

— L'ho qui... aspetta...

Questa volta uscì di corsa.

Quando egli tornò trionfante a dirmi che quell'altro si chiamava
Amanno, io mi era tirato dinanzi un grosso volume di Pandette, e potei
far credere a mio figlio di essere immerso nella scienza, mentre non
facevo che ripetere a me stesso: — Dottore mio, sei un asino!


V.

La natura benigna non ha permesso all'uomo, e sia pure l'asino più
convinto, d'incrudelire contro sè stesso. Quelle _Pandette_, che avevo
dinanzi agli occhi e non vedevo, erano mie buone amiche da un pezzo:
approfittando dello stupore che segue ogni gran disastro dell'amor
proprio, esse mi parlarono blandamente così:

— _Justiniani Institutionum libri quatuor_... I bei tempi passati
dell'Università! Le belle notti vegliate insieme!

Io sospirava e voltava le pagine senza interrompere.

— _Capitis diminutio tria genera sunt_ — insistevano le dotte pagine;
ed io proseguiva rialzando gli occhi dal libro con una compiacenza
istintiva; — _maxima, media, minima; tria enim sunt quae habemus:
libertatem, civitatem, familiam. Igitur quum omnia haec amittimus...
Omnia haec_ le so ancora.

Mandavo un sospiro a Mardocheo e voltavo pagina.

— _Proetoris verba dicunt: Infamia notatur_....

Ed io sorridevo e senza avvedermene tiravo innanzi a ripetere a occhi
chiusi le parole confortatrici del pretore.

Ad ogni sentenza latina veniva dietro un codazzo di memorie allegre;
mi ricordavo in che luogo, in qual'ora e in compagnia di chi
avevo imparato a distinguere le _res mancipi_ dalle _nec mancipi_,
l'_hereditas_ dalla _bonorum possessio_, mi era persino rimasto in
mente che il _vadimonium_ (quel _vadimonium_ che gli studenti di terzo
anno mandano inevitabilmente al diavolo per far ridere i matricolini)
aveva prima messo di buon umore me, poi mi aveva servito a far lo
spiritoso con altri.

Ah! Giustiniano! quello era un gran re! Altro che Dario figlio
d'Istaspe!

E mentre una voce nemica mi gridava da lontano: «E che ne sai tu di
Dario figlio di Istaspe?» Giustiniano mi metteva sotto gli occhi una
sentenza, che diede un altro corso ai miei pensieri.

— _Nasciturus pro jam nato habetur_, — dicevano le _Pandette_; ed
io, colpito da un senso nuovo che mi si rivelava in quella massima,
esclamavo:

— È vero! mio figlio era vivo prima che nascesse!

Lieto di questa chiosa, che mi pareva più profonda di tutta la dottrina
del pretore, me ne andai allegramente ai tempi lontani, in cui non
avevo nè un figlio, nè un cliente.

Ritrovando più tardi il re di Persia implacabile, prima mi strinsi
nelle spalle, poi lo mandai a farsi benedire.

— Il tuo regno è finito — gli dissi — è finito da... (qui, se lo
avessi saputo, avrei messo un numero preciso d'anni, di mesi e di
giorni per dar solennità al mio periodo), è finito da secoli, e ad un
galantuomo dev'essere lecito vivere senza immischiarsi nei fatti tuoi.
Io poi faccio l'avvocato, e lo faccio bene, domandane al tuo collega
Giustiniano; ho tante faccende io, e se a suo tempo mi sono rotto la
testa per fartici entrare, oggi sono nel mio diritto pretendendo che tu
ne esca tutto d'un pezzo.

E per istinto d'arte oratoria agitavo la testa come se vi fosse rimasto.

La mimica che accompagnava il mio monologo durava ancora e il monologo
era finito, quando mi avvidi d'avere un testimonio. Augusto, il quale
con lo zaino ad armacollo veniva a darmi il bacio, prima di andar a
scuola.

Per solito quella scenetta seguiva così: «Si può?» diceva mio figlio.
Non altro, ed io intendevo: «Sono qua per il bacio», e subito, da
qualunque lontananza di codice, accorrevo col pensiero, aprivo le
braccia, egli vi si slanciava facendo un tentativo per respingere lo
zaino, che entrava sempre di mezzo, in quell'amplesso, ed i nostri
tre corpi si allacciavano stretti. «Mi raccomando», dicevo poi con
solennità paterna, sprigionando Augusto, il quale se ne andava seguito
dal suo zaino enorme, ed io stentavo a ritrovare _l'alinea_ in cui
ero rimasto, perchè mettevo bensì gli occhi sul codice, ma il pensiero
accompagnava un tratto mio figlio.

Questa volta, baciando Augusto, sentii che qualche cosa s'era mutato
nei rapporti tra me e lui, e che il mio amore paterno, l'unico amore
in cui credevo non dovesse entrar mai la civetteria, aveva anch'esso le
sua vanità.

Ero stato sempre per mio figlio il migliore degli uomini, e non avevo
mai rifiutata nessuna delle perfezioni che egli mi attribuiva. Perchè
me lo mettevo a sedere sul braccio teso e lo portavo in giro per la
camera, egli mi ammirava dicendo: — Come sei forte! — ed era perfino
andato a dire in cucina allo spaccalegna che il babbo era più forte di
lui.

Gli era bastato vedermi curvo sopra i grossi volumi, e contare i
palchetti della mia libreria per non dubitar più che io fossi un
portento di dottrina.

— Tu sai tutto! — mi diceva nel tempo in cui egli non sapeva nulla, e
in questa idea trovava un conforto alla sua ignoranza.

— Tu sai più del maestro! — affermava qualche volta, ed io capivo
subito che quel giorno il signor maestro aveva abusato della sua
scienza per tormentarlo.

Non dico che fossi propriamente in buona fede intascando tutta
quell'ammirazione, ma vi trovavo gusto e sapevo di far felice mio
figlio.

Ahi! L'opinione magnifica che Augusto s'era fatta del babbo non poteva
più durare! Già Dario figlio d'Istaspe aveva dato il primo colpo alla
mia grandezza bugiarda; chi sa se prima di sera un altro personaggio
famoso non dovesse uscire dalle pagine del _Compendio di Storia per
isvergognarmi in faccia a mio figlio!_

Mi sentii ripigliare dai miei dubbi; tutto ciò che mi ero messo dinanzi
per farne una barricata in cui la mia ignoranza si avesse a trovare
al sicuro, mi sembrò a un tratto inutile e biasimevole; e ragionando
precisamente all'opposto di poco prima, mi parve che non mi fosse
lecito vivere un'ora di più su questa terra se non mi fossi ficcato
bene in capo tutta la storiella dello zio della moglie del re di
Persia.

Nessuno mi vedeva; frugai nella libreria, ne estrassi una storia antica
e vi cercai avidamente la tranquillità della mia coscienza turbata.

Non lo avessi mai fatto!

In capo a mezz'ora io era il più desolato degli uomini; e dopo aver
sfogliato il volume, leggicchiando qua e là e trovando in ogni pagina
un capo d'accusa, arrestai l'occhio attonito nell'indice che pareva
messo a posta in fine del libro come una requisitoria, a dimostrarmi
compendiosamente quello che io era colpevole di sapere male o di non
sapere niente affatto.

Era caduta la benda alla mia ignoranza! Poc'anzi mi potevo illudere
pensando che, perchè tante cose me l'ero messe in capo _in illo
tempore_ e non le avevo mai mandate via come Dario, _potessero_
esservi rimaste. M'accorgevo ora che tutta quella buona gente ebraica,
assira, persiana, se n'era andata alla chetichella, lasciando una gran
confusione di date e di regni nel mio cervello.

Non era più luogo a dubbiezze; mi trovavo in faccia a un dilemma
inesorabile: o rassegnarmi a passare per un asino agli occhi di mio
figlio, o rifare coraggiosamente il mio bagaglio storico.

— La storia è la maestra della vita — diceva qualcuno dentro di me
— non ti è lecito goderti il tuo presente se non hai sulle dita il
passato dell'umanità.

— Baie! — rispondeva dentro di me un altro — te lo sei pur goduto
finora il tuo tempo senza l'aiuto di alcuna gente morta; tu continui
a far così in avvenire e te la ridi. Che poi la storia sia la maestra
della vita, lo vanno dicendo da un pezzo, ma ancora non è provato;
se te l'ho a dire in confidenza, questa mi pare una bella frase messa
lì come un puntello, per reggere una scienza enorme e vana. La storia
non ha mai generato alcuna cosa al mondo, fuorchè compendi di storia e
monografie storiche. Le dinastie dei Faraoni si succedono, passano, e
che cosa lasciano all'umanità? Poche piramidi che non servono a nulla.
Eccoti la storia.

Queste parole dell'anonimo che ragionava dentro di me furono un
raggio di luce al mio spirito rabbuiato; io aveva trovata un'uscita al
terribile dilemma, e quest'uscita era la _filosofia_.

Si sa che la filosofia serve i dotti e gl'indotti senza guardar in
faccia a nessuno: io vado più oltre e dico che per un ignorante non vi
ha altra via di scampo che diventar filosofo e farsi _un sistema_.

Il mio sistema filosofico doveva servirmi ad inculcare a mio figlio la
necessità di studiare tutte le cose che il babbo aveva studiato _per
aver poi_ _il diritto_ di dimenticarle tutte come il babbo.

Era un'idea grande ed ardita; da principio mi piacque, l'ammirai, poi
mi parve d'un'arditezza impertinente, d'una grandezza spropositata;
nuovo alla ginnastica dei filosofi, ebbi vergogna, lo confesso, e
tornai a sentimenti più umili.

Quel giorno, invece di recarmi in tribunale con la baldanza d'un uomo
preparato a tutte le sorprese della procedura civile, vi andai col fare
dimesso di uno scolaro che non sappia bene la lezione.

E mentre l'avvocato avversario esponeva le sue ragioni e citava
non so quale sentenza della Corte Suprema per ottenere addirittura
il sequestro della roba del mio cliente, io fissava lo sguardo sul
presidente, sui giudici, sull'avvocato, ricercando sotto quelle toghe
e quei berrettoni la mia gente persiana. Pensavo: «Se ora sorgessi
all'improvviso a domandare uno schiarimento sopra Mardocheo, chi di
costoro me lo direbbe? quel giudice che sonnecchia no certo; e nemmeno
il presidente con tutto il suo sussiego!»

Quando poi toccò a me rispondere alle enormi pretese della parte
avversaria, sorsi baldanzosamente a dire che mi opponevo al sequestro,
invocando il codice e la civiltà. — «Abbiamo ancora delle buone
ragioni da esporre — esclamai — e vogliamo essere ascoltati!» — E
soggiunsi eloquentemente: — «Non siamo più ai tempi dei Faraoni e dei
re persiani. Oggi Assuero non farebbe impiccare Amanno senza dargli il
tempo di _provvedersi in appello_».

Ditelo voi: che c'entrava Amanno? E pure la frase fece effetto, e al
mio cliente non fu sequestrata la roba; segno che la storia può servire
a qualche cosa.


VI.

Radunai tutta la mia buona volontà, e rubando ogni sera mezz'ora alle
mie cause e il compendio di storia a mio figlio, mi avviai anch'io
in mezzo agli Assiri e ai Persiani. Camminavo senza fretta, non
ero punto assetato di scienza storica, come potreste credere, e mi
bastava precedere d'un passo mio figlio nel suo compendio, tanto da
non essere esposto a tavola a certe sorprese, che avrebbero guastato a
me la digestione, a mio figlio il rispetto ammirativo che egli doveva
all'autore dei suoi giorni.

Le cose andarono bene per un po'; ma venne un disgraziato mattino in
cui la scolaresca, che era rimasta meco in Persia, e precisamente al
regno di Dario III Codomano, se n'andò, senza avvertirmi, in Assiria,
e la sera medesima mio figlio, non immaginando quanto male mi facesse,
nominò alla mia presenza Salmanassarre e Sennacheribbo.

Io prima finsi di non intendere, e fatto un vano tentativo per
ricondurlo in Persia, dove mi sarei ritrovato come in casa mia, fui
costretto a lasciarlo dire.

Poi vennero altre sorprese; la geografia, la storia sacra e perfino
l'aritmetica di mio figlio avevano conservato meco dei segreti.
Incoraggiati dall'esempio del catechismo, che era con me pieno di
misteri, quei tre libriccini di poche pagine mi tormentarono mattina e
sera, mi guastarono regolarmente il desinare per parecchie settimane, e
turbarono i miei sonni.

Io lasciava un sacramento per seguire il corso di un fiume americano,
che a farlo apposta non poteva essere più tortuoso; scendevo un monte
dopo aver interrogato l'aspetto di un paese, e trovavo la geometria
piana, una geometria che mi facea venir la tentazione di rifar la
salita del monte e non scendere più alla pianura.

Cieli misericordiosi! Quanto era grande la mia ignoranza! Non sapevo
più nulla, peggio ancora: sapevo degli errori, perchè quel po' che mi
era rimasto in mente era confuso ed inesatto.

Ripigliare da bel principio tutti i miei studi, come se dovessi ancora
presentarmi agli esami, rifarmi una dottrina nuova, ecco il rimedio
eroico; ma io fui vile, mi accontentai di rattoppare la mia scienza
dove lasciava vedere i gomiti e le ginocchia.

E non andò molto che Augusto mi colse in fallo una volta, due, dieci,
prima con istupore, poi con dolore, da ultimo con malizia. Non mi
diceva più, come nei bei tempi della sua innocenza: tu sai tutto:
al contrario gli accadeva di spropositare coraggiosamente in faccia
mia nelle cose più elementari, perfino nei diritti e nei doveri dei
cittadini, che erano il mio pane quotidiano, e di rifiutare senza
arroganza, ma con sicurezza, la mia correzione, dicendomi la frase
sacramentale, che ha fatto impallidire tanti genitori:

— L'ha detto il maestro!

Evangelina si provava a difendermi, metteva tutte le sue forze
centuplicate dall'affetto e dalla buona fede nel sollevare me sopra il
signor maestro; ma era inutile. Augusto non diceva già che non fosse
vero; se non che alla prima occasione mi lasciava intendere che sulla
mia dottrina famosa non si faceva più alcuna illusione, ripetendo quasi
sottovoce:

— L'ha detto il maestro!

Ed io studiava in segreto, con un disordine che dipingeva lo
stato della mia mente, le montagne, le popolazioni, il quadrato
dell'ipotenusa, l'eucarestia.

Invano. Incalzato dal mio destino, venni finalmente in faccia alla
prova suprema.


VII.

Avevano dato a mio figlio un difficile problema da risolvere, e il
poveretto, che non era forte nelle matematiche, non se ne poteva
cavare.

— Augusto non sa fare il còmpito — mi venne a dire Evangelina. Questi
maestri non so dove si abbiano la testa. La bella maniera di tormentare
un povero ragazzo! È tutta la mattina che lo vedo curvo a tavolino; mi
fa proprio pena: dovresti aiutarlo.

— Aiutarlo io! — esclamai — e allora che gli giova l'andare a scuola?
Se i problemi glieli dànno, è segno che deve saperli risolvere; e se
non sa, è meglio che il maestro se ne avveda e rifaccia la spiegazione;
e poi, sono tanto occupato!

Evangelina, meno scrupolosa, andò probabilmente a provarsi lei a fare
quel che io non volevo, perchè poco dopo tornò a dirmi:

— È un problema difficilissimo; v'entra la geometria piana. Augusto non
può risolverlo, piange...

— Piange?

Andai subito, e nell'attraversar la soglia dello stanzino in cui
Augusto si torturava da un'ora, ebbi come il presentimento d'una
catastrofe. Ma non ero più in tempo a dare indietro; mi accostai a mio
figlio, gli accarezzai prima il visino lagrimoso, poi, con un po' di
sussiego:

— Dà qua — dissi... — «Un fabbricante di mattoni deve consegnare tanti
mattoni quanti ne occorrono all'ammattonato di una stanza di forma
trapezoidale, i cui lati misurano... ecc.» Non è difficile — dissi. — E
non sei buono a cavartene?

Mio figlio non rispose; mi guardava con quell'ammirazione ingenua di
altri tempi mista a un tantino di stupore. E io soggiunsi:

— Io non ho tempo, e poi tocca a te fare il còmpito; se i tuoi còmpiti
dovessi farli io, sarebbe inutile che tu andassi a scuola. Ora però
hai lavorato troppo; divàgati: va in cortile e corri; poi torna su e ti
sarà più facile.

— È troppo difficile — disse lui.

— È facile — dissi io.

Egli andò in cortile a correre, e io presi il suo posto dinanzi al
tavolino.

La misericordia celeste risparmi a ogni padre la tortura che provai
quella mattina. Ciò che mi sembrava facile da lontano, mi apparve irto
di mille difficoltà appena volli riflettere. Evangelina mi stava a
guardare, indovinando anche essa il mio imbarazzo; io sentiva Augusto
che faceva il chiasso nel cortile, vedevo col pensiero una comparsa
urgente che avevo lasciata sulla mia scrivania, e continuavo a star
lì come inchiodato, sfogliando dispettosamente la geometria piana,
calcolando, cancellando, rifacendo i calcoli sbagliati.

A poco a poco la testa mi si empì siffattamente di cifre, che non mi
raccapezzai più; sbagliavo perfino le somme, e per ritrovare l'errore
d'unità (un'unità di mattoni!) perdevo un tempo prezioso. Mi vennero
a dire che un cliente mi voleva parlare; gli feci rispondere che ero
occupatissimo e non potevo dargli udienza. Ma si fece una luce nel mio
cervello; il problema mi si affacciò netto, e io non istentai cinque
minuti a risolverlo.

— È fatto — dissi a Evangelina. — Davvero non era facile; io poi non ci
ho più pratica...

Era inutile che mendicassi delle scuse, Evangelina mi ammirava, nè più
nè meno; e io vidi quella sua ammirazione passare tutta d'un pezzo
nello spirito smaliziato d'Augusto, quando egli venne su e trovò il
problema risoluto.

E non mi parve davvero di aver perduto il mio tempo; anzi, rientrando
nel mio studio, avevo una certa solennità, come se vi portassi la
fiaccola della scienza.

A questo punto mi aspettava il mio destino. Invece di tornare da scuola
allegro e di far irruzione nella mia camera a dirmi che aveva preso
dieci decimi e la lode per il còmpito, Augusto entrò in casa come un
cane battuto, e se ne stette in cucina.

E quando io volli sapere che cosa avesse, mi rispose di mala voglia che
il problema era sbagliato.

— È impossibile! — esclamai.

— Guarda — mi disse melanconicamente mio figlio; — doveva dare 4526
mattoni, e invece ne dà 3916.

Io guardai, non vidi nulla. Se tutti quei mattoni mi fossero caduti
addosso, non mi avrebbero fatto tanto male.

Ma accanto alle sventure il cielo mette le consolazioni, e io ne trovai
una dinanzi alla scrivania. Era Laurina, la piccola studiosa; essa
si era arrampicata sulla poltrona e leggeva attentamente il codice di
procedura.

— Senti, babbo — mi disse appena mi vide entrare — senti; la so tutta:
«due più due quattro più due otto più due dieci più due ventidue più
due ventiquattro più due trenta.»



INTERMEZZO


_Qui l'avvocato Epaminonda Placidi narra una scenetta che assolutamente
non lo riguarda._

Erano alle frutta; aspettavano il caffè.

Dopo aver dato una frasetta a dieci argomenti, tanto per iscoprire,
senza averne l'aria, il sentiero in cui si era avviata la mente di
suo marito, essa fece una smorfietta e tacque. Ma egli, che aveva
risposto a monosillabi quando essa parlava, non si avvide nemmeno che
ora incominciava a star zitta di proposito, e tirò innanzi per la sua
viottola solitaria.

Non camminò un pezzo.

Essa (cioè la signora Ermenegilda) non tardò a capire che bisognava
ricorrere a un rimedio eroico, e ruppe il silenzio un'altra volta.

— Ti ho detto quel che mi è capitato stamane?

— No... che cosa ti è capitato?

— Era sul Corso... usciva dalla bottega della guantaia, no... dalla
bottega del... aspetta...

Il marito (cioè il signor Ermenegildo), pregato così di aspettare, non
osava muoversi, ma tanto era lontano. Aspettò un pochino; Ermenegilda
non diceva parola.

Allora il poveraccio fece uno sforzo eroico, diede un'occhiata
melanconica ai propri pensieri, e piantando gli occhi in faccia alla
moglie:

— Dunque uscivi dalla bottega della guantaia... — le disse. — E poi?

Ermenegilda fece un atto di trionfo modesto, e rispose con un sorriso:

— Tu eri partito per un paese ignoto; credo volessi scoprire le
sorgenti del Nilo...

— Bada che le hanno già scoperte — interruppe Ermenegildo ridendo.

— Davvero? Io non me n'era accorta — disse la moglie con un vezzo
infantile... — Dunque eri assente, viaggiavi coi treni celeri, e io non
isperava vederti tornare per un gran pezzo... quando mi venne la bella
idea d'entrare nella bottega della mia guantaia; uscendo, veggo che sei
lì, ritornato col treno celerissimo. Hai fatto buon viaggio?

— Grazie — disse il marito levandosi da sedere e facendo il giro della
breve tavola per deporre un bacio su quella bocca scherzosa.

Ermenegilda pigliò il bacio con dignità, ma non restituì nulla; e dopo
aver aspettato invano, il signor marito rifece il giro della tavola e
si andò a sedere al suo posto.

— Era proprio distratto — disse.

Nessun pericolo che si distraesse ancora; teneva i gomiti appoggiati
alla mensa, le mani sulle tempie e gli occhi spalancati come due
finestre a guardare in faccia sua moglie.

— Sentiamo, a che pensavi? — domandò Ermenegilda abbandonandosi
sull'alto schienale della seggiola.

— Te lo voglio dire; pensavo all'amico Santi. L'ultima volta che fu
qui, te ne ricordi? Saranno due settimane...

— Più di venti giorni — corresse la moglie.

— Già, venti! Come corre il tempo!

— Questo poi sì; corre!...

— Dunque — si affrettò a proseguire il marito — dunque l'ultima volta
che l'amico Santi fu qui... ma prima di tutto, come lo giudichi tu
l'amico Santi? Che indole ti pare che abbia? Sotto la vernice fredda
dell'uomo che ha sposato la scienza...

— Scusa, l'amico non ha anche sposato sua moglie?

— Sicuro, gli scienziati hanno i loro momenti di distrazione...

— Bada che ti avvii male — disse Ermenegilda, senza uscire dalla sua
indolenza posticcia.

— Sei tu che m'interrompi sempre. Ti domandavo come giudichi l'amico.

— È un amico tuo, un amico di casa... io non lo giudico.

— Sei crudele oggi.

— Mi vendico.

— Ebbene te lo dirò io che cosa vi è sotto la vernice fredda di quello
scienziato: vi è un cuore caldo, un'anima poetica, un'immaginazione di
cui non gli è facile aver sempre le redini in mano.

— E tutto questo tu l'hai veduto l'ultima volta che l'amico Santi fu
qui?...

— Precisamente; ventidue giorni fa, dunque...

— Ventitré — corresse la moglie — era un mercoledì; non potendo uscire
di casa a fare la nostra solita passeggiata dopo il desinare, ve ne
andaste voi due soli, a braccetto come due scapoli, e il signorino
tornò dopo la mezzanotte...

— Ora sbagli tu; mancava un quarto d'ora alla mezzanotte; l'amico Santi
aveva preso il treno delle undici e venti; salvo aver le ali del nostro
merlo, non era possibile essere a casa prima...

— Sentiamo il resto — disse Ermenegilda con indulgenza.

Allora Ermenegildo provò a farsi serio, e con un tantino di gravità
insolita, un tantino appena, senza mai staccare gli occhi dal viso
della moglie, spiccicando le parole con lentezza, parlò così:

— Si discorreva della vita matrimoniale... non so perchè si era venuti
su questo discorso... ah! perchè pioveva, perchè tu eri rimasta a
casa sola... Egli mi diceva che fa press'a poco la stessa mia vita,
che se sua moglie sta a casa, egli appena appena si muove a far due
passi dopo il desinare, poi torna al suo studiolo a leggicchiare, a
scrivere accanto al fuoco, e che per quanto paia monotona un'abitudine
tranquilla, la felicità non è mai molto diversa.

Sebbene Ermenegildo avesse continuato a leggere negli occhi della
moglie l'effetto d'ogni parola, a questo punto s'interruppe per
giudicarne meglio.

Ermenegilda era impassibile.

— Non è diversa niente affatto — esclamai, e gli dissi come la penso
io riguardo alla felicità. — Tu sai come la penso; dinanzi alla
felicità...

— Dinanzi alla felicità — proseguì la moglie, come se recitasse una
lezione — gli uomini sono tutti eguali: la felicità è nel desiderio;
l'uomo che più desidera è più felice...

— Sbagli — Corresse dolcemente il marito filosofo — la felicità è
nel desiderio d'una cosa che si possa ottenere, condito d'un tantino
d'incertezza.

— Ottenuta una cosa — proseguì Ermenegilda — bisogna saperne desiderare
un'altra...

— Ma che non sia troppo improbabile o difficile. Di coloro che, appena
hanno formato un desiderio, subito possono soddisfarlo, si deve dire
che non conoscono la felicità...

— La quale è un intervallo fra un desiderio e la sua soddisfazione. Ed
ecco perchè i ricchi e i poveri, dove cessano i bisogni imperiosi della
fame, della sete, del caldo e del freddo, cominciano a essere eguali.

— Bravissima! — diceva Ermenegildo — bravissima! — Ma si vedeva chiaro
che aveva perduto il filo e non sapeva come andare innanzi.

Ermenegilda gli venne in aiuto.

— Dicevamo che la vita dell'amico Santi non è _molto_ diversa dalla
felicità... E quella di sua moglie è _molto_ diversa?

— Non lo so, non mi sono informato; in simili casi uno non può parlare
che per conto proprio. Ti credo felice perchè... perchè sono felice io
con te; ma se andassi a dire agli altri che ti faccio felice, che tu
mi adori, e che io merito la tua adorazione, mi piglierebbero per uno
sciocco. E poi — proseguì con un'aria baldanzosetta — e poi che ne so
io veramente se tu sei molto o poco felice con me? Posso forse scendere
in fondo al tuo cuore, visitare tutte le più piccole celle del tuo
cervello, dove s'annicchia talvolta l'immaginazione scontenta?

Invece di rispondere Ermenegilda sospirò, e il povero Ermenegildo non
riuscì a capire se facesse per canzonatura o per impazienza.

Era come se avesse infilato una veste nuova in cui si trovasse a
disagio, e non potesse mutarsela perchè già fuori di casa. Veramente la
sua disinvoltura gli faceva strane smorfie sulla persona; ma oramai era
avviato, e tirò innanzi.

— Ermenegildo — mi diceva l'amico Santi — noi gente di scienze o
di lettere o d'arti abbiamo forse un avversario più degli altri;
quell'immaginazione medesima, che ci dà tante dolcezze, che ci
incoraggia a salire le alture faticose del vero e del bello con la
promessa di più ampi orizzonti, può darci e ci dà talvolta aspre
battaglie. Mentre noi siamo tranquilli a casa, al focolare, e guardiamo
la felicità nella faccia serena della nostra compagna, negli occhioni
delle nostre creature, v'è una parte di noi che se ne va... Dove?...
Lontano; a sognare cose nuove: affetti, sorrisi, lagrime; a indovinare
gli aspetti ignorati della bellezza.

Ermenegildo pigliò fiato; Ermenegilda, che aspettava quel momento, si
accontentò di dire con una ironia lieve lieve:

— In sostanza, voialtri uomini di arti o di scienze o di lettere
non dovreste prender moglie. È una idea vecchiotta, ma non quanto la
verità, che è eterna.

— Chi dice questo? — interruppe il marito con la forza della
convinzione. — Lo dicono gli scapoli fino a trent'anni; dopo i
trent'anni nessuno più lo pensa; dopo i quaranta nessuno più lo dice...

— Il pittore Vaghi lo dice ancora, ed ha sessantacinque anni sonati —
osservò Ermenegilda con malizia.

— Il vecchio pittore Vaghi ha ricominciato a dirlo dieci anni fa,
quando si rassegnò a perdere interamente la speranza di trovar una
moglie giovane e bella.

— Come lo sai?

— Lo immagino. Egli ha sempre adorato la gioventù e la bellezza delle
donne; ora ha i capelli bianchi e non è ricco... Torniamo all'amico
Santi.

Ermenegilda mandò un sospiro o uno sbadiglio all'amico Santi, e
ripigliò la positura di prima.

— Vi sono due esseri in noi — prosegui Ermenegildo; — uno casalingo,
bonaccione, pieno di giudizio e d'ordine; l'altro fantastico,
insoddisfatto; uno si appaga delle cose, l'altro vorrebbe le ombre
delle cose; forse non è bene, appunto quando l'uno dei due ha tutto,
che l'altro non abbia nulla; potendolo fare senza peccato, perchè
quella parte di noi che sogna non dovrebbe avere il suo alimento? —
Così mi parlava l'amico Santi. — Vi sono sentimenti (dice lui) che a
mia moglie non posso esprimere; mi darebbe del matto o si spaventerebbe
fuor di misura; bisogni, anzi sfumature di bisogni, aspirazioni
indefinite dell'anima, estasi del pensiero (è sempre lui che parla),
delle quali io mi compiaccio perchè sono una parte non indegna del mio
essere, e che mia moglie non capisce. Un legame di due intelligenze, un
interrogarsi ed un rispondersi, magari da lontano, di due anime che si
comprendono, non dovrebbe offendere il patto sacro del matrimonio.

— Amore platonico... — mormorò Ermenegilda.

— Io direi _platonico_, se vuoi, ma non direi _amore_...

— Diciamo _affetto_... diciamo...

— Diciamo anche _affetto_...

Non sapeva che dire; ora la docilità pensosa di sua moglie lo
imbarazzava peggio della beffa.

— Insomma tu mi hai capito — ripigliò accalorandosi; — l'amico Santi è
incapace di fare una cosa che possa gettare la più piccola ombra sopra
sua moglie... e pure... non dovrei dirtelo, perchè è una confidenza...
e pure...

— Se non devi dirlo, non lo dire, Ermenegildo: è forse meglio.

Balenava una strana luce negli occhi della bella indolente.
Era curiosità? era malizia? Ermenegildo ne cercò inutilmente il
significato, e riprese smorzando di repente quel po' di fuoco che prima
aveva messo nelle sue parole:

— Sbagliavo; anzi te lo devo dire. Chi fa una confidenza a un uomo
ammogliato o a una donna maritata, deve sapere di farla a marito e
moglie. Non è lecito al primo venuto mettere un segreto fra due coniugi
che si vogliono bene.

Voleva soggiungere, ed avrebbe fatto bell'effetto oratorio: «che fra
due coniugi che si vogliono bene non deve frapporsi mai nemmeno l'ombra
di un segreto;» ma si avvide in tempo che egli era precisamente avviato
a provare l'opposto.

— Pur troppo! — soggiunse con una faccia da sant'Ignazio — pur troppo,
poichè la natura umana non è perfetta, e vi sono cose che ci affliggono
senza ragione, qualche piccolo segreto innocente nasce talvolta
inosservato nel letto nuziale.

La tenera sposa esalò un sospiro, che poteva benissimo significare:
«Pur troppo!»

— Per farla corta: l'amico Santi ha un affetto purissimo per una donna.
Quest'affetto è la sua gioia segreta; e mi ha confessato che spesso,
ricevendo una lettera di questa lontana amica, a cui egli svela i suoi
pensieri più riposti, gli pare di sentire come una carezza dell'ideale;
allora si sente più forte, più generoso, più buono e, lo crederesti?...
anche più affettuoso con la moglie.

— È strano! — si contentò di dire Ermenegilda.

— Non è strano niente affatto! Egli sa, cioè teme, di fare un torto a
sua moglie... e più si sente felice, e più crescono i suoi scrupoli.

— Ha degli scrupoli?...

— Sì; chiedeva a me se dovesse smettere o no quella corrispondenza...

— E tu?

— Io gli dissi... che cosa gli poteva dire io?... che, giudicando
così all'ingrosso, se non vi era pericolo di male, nè di dispiaceri
domestici... mi pareva... ch'egli potesse alimentare un sentimento, che
in fondo... non aveva nulla d'ingeneroso.

— E lui?

— Egli mi assicura che dispiaceri non ne possono nascere, perchè le
lettere gli arrivano con un recapito segreto.

— E quella donna ti ha egli detto chi sia?

— Non mi ha detto altro se non che essa pure ha marito.

— Ti ha detto che fosse giovine e bella?

— Giovine sì; della bellezza non ne so nulla... non se n'è parlato...

— Si vedono qualche volta?

— Raramente; egli la vede quando viaggia, ma viaggia poco:
s'incontrano, ed è come se non fosse nulla fra di loro; si riconoscono
appena. Tutte queste cose, io dico, non accadrebbero, se la società
stupida e le piccinerie dell'anima umana non avessero reso impossibile
l'amicizia schietta e palese fra un uomo e una donna; se, fuori del
matrimonio, la malignità non vedesse sempre l'adulterio. Io sostengo
che se è prezioso avere un amico fidato...

— Tanto più dolce sarebbe avere un'amica, alla quale poter affidare i
pesi più delicati dell'anima, perchè ci aiutasse a portarli. Forse non
hai torto; ma io penso a lei, a quella donna maritata, che alimenta una
fiamma innocente, ma segreta; segreta, ma lontana... Ho degli scrupoli
per essa. A te che ne pare?

Ermenegildo confessò candidamente che non vi aveva mai pensato.

— Ma non mi sembra che la cosa cambi... — disse.

— Io temo di sì...

— Lo temo anch'io...

— E pure — si affrettò a dire Ermenegilda — perchè un uomo ammogliato
possa avere innocentemente una... come diciamo?... una corrispondenza
d'amorosi sensi con la moglie d'un altro, bisogna pure che questa
moglie d'un altro acconsenta e corrisponda...

— Sicuramente — disse Ermenegildo agitando il capo con energia — è
sempre il vecchio vizio di noi uomini di guardare le cose da un lato
solo... Sicuramente, perchè un uomo ammogliato possa... bisogna pure
che ci sia la moglie di un altro, che...

— E quella incognita non perde nulla ai tuoi occhi? La stimi tu
egualmente come se non nascondesse nulla al marito?

— Sicuro che la stimo; non dico proprio egualmente... cioè sì, la stimo
egualmente. La colpa non è sua, se il mondo, se il marito... Certo la
stimerei di più se... ma bisognerebbe che il marito non fosse un uomo
volgare...

Ermenegilda gli aveva fissato gli occhi bene aperti in faccia, ed è
forse questo che gli imbrogliava di nuovo il filo delle idee.

— Volevo dire che la stimerei di più se potesse dir tutto al marito;
ma probabilmente se non gli dice nulla è perchè suo marito non saprebbe
ricevere bene una confidenza simile.

— Sarebbe pur bello — sospirò Ermenegilda — che si potesse dire tutto,
proprio tutto al marito! Che estasi quell'accordo di tre anime!

Ermenegildo, trionfatore modesto, ancora non era arrivato a convincersi
della propria vittoria, quando a un tratto vide sua moglie sollevarsi
a mezzo e porgergli la mano attraverso la tavola. Ed egli prese quella
bella manina, e riconobbe che era bianca, grassoccia e bella, proprio
bella, ma come in sogno.

— Amico — gli disse Ermenegilda con un tantino di enfasi teatrale,
che lo svegliò del tutto; — amico, io ti ho già troppo offeso tacendo,
dissimulando, facendo la commedia finora; tu sei degno di saper tutto:
quella donna, quell'amica lontana del signor Santi, sono io! Da un anno
egli mi scriveva segretamente e io gli...

Ma era già stretta fra le braccia del marito, e un bacio le chiudeva la
bocca, non potè terminare la frase.

Si provò più volte a condurre alla fine la sua confessione, sempre
invano. Ermenegildo la baciava e rideva.

— Sì, ho detto la verità — soggiunse Ermenegilda fra i baci — io non
credeva di far male... ma non ne ero sicura; il nostro buon amico era
turbato anche lui... dal rimorso... l'ultima volta che fu da noi a
desinare, ventidue giorni fa... quel mercoledì che pioveva... per poco
non ti svelò il suo segreto... il nostro segreto... innocente. Ripetimi
— soggiunse sprigionandosi dalle carezze — ripetimi che questa nostra
corrispondenza non ti offende, che questa tenerezza di due anime...

A questo punto il contagio dell'ilarità di lui aveva preso anche lei.

— Pietà di me... — mormorò il marito stringendosi le costole — non
farmi morire così...

Il riso dell'incredulo Ermenegildo durava ancora, quando Ermenegilda si
era di già rifatta seria.

Era entrata nel cervello di quella donnina una idea vendicativa.

— Sì, sono io — ripetè con faccia seria; e il marito rise ancora.

— Sì, sono io — insistè; e il marito non rise più, ma venne a lei
gravemente, e pigliandole il mento con due dita, cominciò:

— Ho compreso, so tutto quello che mi vuoi dire: facili sono le
teoriche fatte sulle spalle degli altri; l'esempio invece prova...

Sua moglie lo interruppe:

— L'esempio non prova nulla di nulla, l'esempio è l'accidente, è
il caso; la teorica è la dottrina. Ma lo vedo bene io, tu non mi
credi, non mi vuoi credere. E pure te l'assicuro, Ermenegildo mio, la
consolatrice lontana del comune amico Santi sono io; te ne posso dare
le prove...

Ermenegilda frugò nelle proprie tasche, poi porgendo un foglio al
marito, che non fu pronto a pigliarlo, soggiunse semplicemente:

— Leggi.

Questa volta Ermenegildo si fece pallido; Ermenegilda battè le mani.

— Ti ho fatto paura! — esclamò l'astuta donnina con un impeto di gioia
— ora sono vendicata!

— Dammi quel foglio — balbettò Ermenegildo...

Lo prese e lo lesse da cima a fondo con molta gravità.

Era un autografo della modista; vi si parlava di un cappellino
di paglia di Firenze, con piume, nastri, blonde, fiori e simili,
d'un cappellino non ancora saldato che costava meno di nulla, d'un
cappellino assolutamente indegno di coprire una testina così accorta.

— Signora — disse Ermenegildo con una severità burlesca — questo foglio
mi appartiene.

Ermenegilda chinò il capo, rassegnata alla propria sorte. Più volte
in quella giornata memoranda, la risata nacque sulle labbra dei due
coniugi; rinacque repentinamente e rimorì fra gli spasimi d'una lunga
agonia.



LA PAGINA NERA


I.

Avevo il cuore turbato, ma la faccia ridente per ingannare Evangelina.

— Che hai? — mi disse vedendomi.

— Nulla; i bambini?

— Giocano.

Sorrisi meglio, e volli darle un bacio, ma a mezza via ella tirò
indietro il capo per guardarmi negli occhi. Allora mi vidi scoperto.

— Che hai? — insistette; e la paura, entrando nel suo cuore di sposa e
di madre, le faceva abbassare la voce.

— Nulla — ripetei. — I bambini giocano?

— Sì... Augusto! Laurina! — gridò la povera mamma.

Giungono di corsa i due cari monelli. Augusto è il primo, e con un
salto mi viene sulle braccia; Laurina, che lo segue da vicino, mi si
butta tra le gambe.

È un assalto di baci e di domande: Augusto parla, Laura ripete le sue
parole. Ma oggi io non ascolto quella musica, quasi non l'intendo.
Le guardo a lungo, poi le bacio a lungo, le mie creature; sento
per la prima volta un sapore amaro alla mia grande dolcezza. Uno
sguardo pietoso di Evangelina mi va cercando l'anima; comprendo che
la poveretta soffre, spiccico dalle mie gambe la tenace Laurina, poi
lascio scivolare Augusto.

— Andate a giocare, ma state buoni, non correte troppo, per non
sudare... la finestra è chiusa?

I bimbi non rispondono; sono già in cucina.

— Sta zitta — dico a mia moglie; — senti Augusto che fa le due parti
di tamburino e di generale; Laurina — mi par di vederla — gli sta alle
calcagna per fare l'esercito.

La poveretta stette zitta un momento, poi mi chiese con voce in cui
tremavano tutte le corde materne:

— Che è stato?

                                   *
                                  * *

— Nulla — diss'io. — Sono uno sciocco a darmi tanto pensiero, come se
dovesse subito toccare la stessa disgrazia anche a noi.

— Quale disgrazia? — insistè Evangelina, e pareva meno rinfrancata.

— Quando un tegolo casca sul capo d'una persona di nostra conoscenza...

Io vidi sulla faccia della mia povera compagna qualche cosa che non
m'aspettavo dal mio paragone spropositato; allora m'interruppi e dissi
cambiando tono di voce:

— Via, non ti spaventare anche tu più del necessario; all'avvocato
Marozzi è morto il figlio l'altra notte, ecco tutto... e ti dicevo
appunto che non è una buona ragione...

— È morto di angina maligna? — interruppe Evangelina, che si era fatta
pallidissima.

— Già, di angina maligna — balbettai; — ma venivo dicendo a me stesso
che non è una buona ragione di spaventarsi tanto... che quando una
tegola cade sul capo, mettiamo pure di un amico, non perciò esciamo di
casa con la tremarella e abbiamo paura di tutte le grondaie.

Evangelina mi fe' cenno di star zitto, e stette in ascolto; dalla
cucina e dall'anticamera giungeva fino a noi il chiasso del tamburo
di guerra, interrotto con gran frequenza dagli ordini del generale. La
disciplina non impediva all'esercito di unire ogni tanto la sua voce a
quella del comando.

— Era un bel ragazzo — disse mia moglie fissando gli occhi nella parete
— robusto, forte, ed è morto così?

— In pochi giorni...

— E i medici?

— I medici non ne capivano nulla, gli bruciavano la gola, gli davano
del chinino; ieri l'altro stava meglio, ieri è morto.

Evangelina si coprì la faccia con le mani, poi si scosse, e le brillava
negli occhi un'energia selvaggia quando chiamò una seconda volta:

— Augusto! Laura!

                                   *
                                  * *

Si udì nella stanza vicina la voce del generale, che ordinava di
rompere le file, e immediatamente fu visto l'esercito approfittare
della licenza per venire ad abbracciare la mamma.

Augusto, non essendo potuto arrivare prima della sorella, aspettò
d'essere chiamato una seconda volta e si affacciò all'uscio; ma era
ancora occupato a cacciare le molle del comando in un fodero ideale.

— Venite qui che vi guardi — disse Evangelina scherzosamente — dritti
tutti e due; bene; ora mettete fuori la lingua... benone; ed ora
ricacciatela dentro...

Ma ai due piccoli monelli non pareva vero di aver trovato quest'altro
giuoco, che si poteva fare con la mamma, e continuarono a star lì,
a bocca aperta, con le linguette penzoloni, ridendo d'un riso rauco,
giocondo. Bisognò picchiare sulla bocca d'Augusto per farli smettere
tutti e due, perchè quando Laurina non si credette nell'obbligo di
secondare il fratello maggiore, disse col suo solito sussiego: «che
ridere!» e non rise più.

— Vediamo — ripigliò gravemente la mamma: — tu, Augusto, non ti senti
un po' male al capo, e nemmeno tu, bimba mia? E alla gola non sentite
dolore? Non provate alcuno stento nell'inghiottire?

Augusto aveva una mezza pagnottina in tasca.

— Sta a vedere — disse; e ne addentò un grosso boccone che fece sparire
prontamente.

— Sta a vedere... — cominciò a dire Laurina frugando nel suo vestitino
senza tasche; la mamma la interruppe con un bacio.

— Bisogna dirlo subito alla mamma appena vi sentite un po' di male al
capo o in gola. Ed ora andate pure a giocare; ma non correte troppo per
non sudare.

Invece di sfoderare le molle del comando, mio figlio sciolse alla
nostra presenza la corda che gli serviva di cinturino, e dichiarò alla
sorella che bisognava cambiar giuoco.

— Faremo il giuoco del medico — disse; — tu sarai l'ammalata ed io
verrò a guarirti.

— Sì, sì, — disse Laurina — facciamo il giuoco del medico.


II.

Era entrato un nemico in casa nostra, la paura. La nostra felicità
medesima gettava una grande ombra intorno a sè; ogni nostra contentezza
moriva in un'idea superstiziosa: «siamo stati troppo fortunati
finora!».

Con la speranza di leggere che l'angina maligna era scomparsa
interamente, o che avevano trovato il rimedio infallibile per
combatterla, io apprendeva mattina e sera il numero dei _casi_, e tutte
le dicerie strane che si facevano intorno alla nuova malattia.

— Un giorno un medico condotto, che subito pigliò agli occhi miei
l'aspetto di un genio sagrificato in un paesello, mandò la prima
ricetta contro l'angina maligna, assicurando che con quel sistema di
cura tutti i suoi ammalati erano guariti.

Ed io sentii la tentazione di correre in piazza e radunarmi molta gente
intorno per leggere la ricetta, e mi domandai sul serio se non vi fosse
mezzo di obbligare tutti i medici, fossero anche famosi, a tentare la
cura di quel medico condotto.

«Perchè già, pensavo malignamente, a questi signori medici della
città non parrà decoroso lasciarsi fare la lezione da un collega della
campagna».

A buon conto io tagliai con le forbici quella ricetta preziosa e la
serbai nel taccuino.

Ma il giorno dopo, altri due medici di campagna si credettero in dovere
di far conoscere al pubblico il loro metodo di cura; ed erano due
metodi differentissimi fra di loro; e, cosa bizzarra ma crudele nella
sua amenità, non rassomigliavano neppure al metodo del primo medico,
sebbene fossero infallibili tutti e due.

Io tagliai con le forbici anche quelle ricette, e serbai anche quelle
per iscarico di coscienza, salvo a decidere se meritasse la preferenza
il sugo di limone, l'acido fenico, o il ghiaccio puro. Un po' di
scetticismo era già entrato nella mia mente turbata, ma credevo ancora
che uno di quei tre rimedi fosse il _buono_.

In seguito le ricette si moltiplicarono, e i _casi_ pure.

Continuavo per abitudine la mia raccolta, finchè un giorno Evangelina
mi disse con un sorriso amaro:

— Che cosa dovrebbe fare una povera madre? Mettere tutte le ricette in
un cappello e farne estrarre una dal suo piccolo ammalato...

— Oppure — dissi — provarle una dopo l'altra.

— Ieri — mi rispose con voce rauca — un bambino di sei anni fu colto
dalla malattia mentre giocava ed è morto stamane; l'altro giorno il
figlio di un medico se ne andò all'altro mondo in poche ore.

— Come lo sai? — chiesi.

Anche mia moglie da qualche tempo leggeva le gazzette.


III.

Io la udiva da un pezzo la voce arcana che annunzia il dolore, ma
cercavo d'ingannare me stesso e di riconfortare Evangelina.

— Le nostre traversie le abbiamo avute — dicevo; — abbiamo penato la
nostra parte.

E frugavo nel passato cercando di radunare tutti i dolori dimenticati
della nostra vita per farmene uno scongiuro, o per lo meno una
speranza.

— Ti ricordi quel giorno che in tutta la casa dell'avvocato Placidi non
era rimasto un quattrino?

— E che ti toccò mettere a pegno il tuo _Vacheron_... Se me lo ricordo!
— sospirava mia moglie.

— Non fu una volta sola — insistevo frugando ancora; mi sta fisso in
mente un certo Natale che ci rimangiammo il povero _Vacheron_, tante
volte mangiato e rimangiato. E ti ricordi quando Augusto s'ammalò
stando a balia! che sgomento! E quando Laurina ebbe quel grosso
furuncolo e bisognò far venire un chirurgo dell'Ospedale Maggiore per
tagliarlo — che orrore!... E la costipazione tremenda che ti aveva
tolto la voce! E... e...

— E la morte violenta del nostro merlo per avere inghiottito un ago da
cucire? — diceva Evangelina mettendo una nota schietta in quella falsa
elegia.

— Tu scherzi ora; ma di' non fu anche quello un dolore?

— Non dico di no.

— Sta zitta — concludevo con un gemito da ipocrita — che abbiamo
sofferto abbastanza.

Non era vero, e lo sentii ben io quando Evangelina soggiunse in buona
fede:

— Sì, ma è passato tanto tempo, ed ora siamo così felici! E quante
gioie non abbiamo avuto in compenso!

Stette un po' a pensare, e in un momento potè raccogliere nel passato
tante contentezze comuni, e le vide uscire dalla dimenticanza così vive
e così fresche ancora, che la sua faccia s'illuminò d'un sorriso.

— Non ci badasti mai? — mi disse poi. — Le nostre gioie ci seguono
nella vita; i dolori no, il cuore li seppellisce.

— No, non me ne sono mai accorto.

— Io sì; quando mi provo a rifarmi col pensiero i godimenti vecchi vi
riesco, ed è un godimento nuovo; e se volessi addolorarmi sul serio
perchè tanti anni fa ti toccò mettere a pegno il tuo _Vacheron_, o
perchè l'anno scorso Laurina ebbe un rosso furuncolo...

— E se fosse morta? — interruppi brutalmente.

Essa ammutolì e mi guardò in viso sbigottita.

Povero cuor di madre!

Invano io mi chiudo all'immagine del dolore; il dolore è qua, e mi
dice: — «prepàrati a soffrire».


IV.

Eravamo a tavola.

Augusto aveva mangiato la zuppa dichiarando che lo faceva per
accontentare la mamma; non gli avevamo badato — era tanto burlone!
Ma quando venne in tavola il lesso, egli prese il suo piatto e lo
capovolse bruscamente.

— Che maniere sono queste? — domandò mia moglie.

— Non voglio mangiare — rispose Augusto.

— Che hai? Non ti senti bene?

Sostenne che non aveva nulla, ma che non voleva mangiare.

— Fa come il Nini — entrò a dire Laurina. — L'ha visto fare al Nini; il
Nini fa sempre così a tavola.

Poteva essere. La vigilia era stato invitato a desinare da un vicino
di casa per far compagnia al Nini, una personcina potentissima, che
trattava i suoi genitori con molta severità.

— È uno scherzo — dissi allora.

Non era uno scherzo.

— È un capriccio? — chiesi sentendo che mi bisognava far la voce
grossa. — Dà qua il piatto.

Allora Augusto, invece di ubbidire, mi guardò in viso, scostò la
seggiola dalla mensa, e lasciandosi scivolare a terra, fece atto di
allontanarsi.

Fummo in piedi a un tempo, Evangelina ed io, tremanti entrambi.

— Augusto! — balbettai.

— Augusto mio — gridò la povera madre — che hai?

— Non ho nulla — disse il piccolo ribelle.

Gli toccai la fronte. Scottava.

Sentendosi finalmente compreso, Augusto non si ribellò più. Io lo presi
in braccio e corsi a deporlo, così vestito, nel suo lettuccio.

Evangelina mi era venuta dietro.

Pallidi, muti, ci curvammo sopra di lui.

Egli non aveva voglia di rispondere alle nostre domande, ed era già
pentito d'aver fatto il cattivo; per contentarci cercava di sorridere.

— Bisognerà avvertire il medico — mi disse Evangelina affannosamente; —
manda la fantesca, io lo spoglio e lo metto a letto.

M'avviai come un condannato; gli occhi di Augusto mi accompagnarono
fino sull'uscio.

Passando dinanzi alla stanza da pranzo, vidi Laurina, che era rimasta a
sedere sulla sua seggiola alta.

Essa mi chiamò:

— Babbo? perchè Augusto faceva il cattivo?

— È ammalato — risposi senza muovermi.

— Senti, babbo — mi disse — vieni qua.

E quando le fui vicino, volle che mi chinassi per dirmi all'orecchio:

— Non l'hai sgridato, non è vero?


V.

Speriamo! — mi disse il medico avviandosi meco a visitare il piccolo
ammalato.

Altri prima di lui me lo aveva detto: «Speriamo!» È il trastullo
degli sventurati. Quando un vento maligno ha scoperchiato la casa e
si è portato via tutta la gioia, tutta la pace che conteneva, che fa
l'uomo? Siede lagrimando in mezzo alle rovine, raccoglie i fuscelli
e le bricciole e se ne fa uno strano balocco. Ogni cosa intorno a lui
piange, ed egli pure piange, ma intanto porge l'orecchio a una voce che
canta.

A me quella voce aveva detto che la malattia di Augusto era una cosa da
nulla, una infreddatura, una leggera gastrica; e me lo continuò a dire
con un'ostinazione stupida o maligna fino al capezzale del mio caro
infermo, quando la faccia del medico si era oscurata, e già l'anima mia
aveva letto la propria condanna.

Stavamo entrambi in silenzio; non osavamo interrogare il medico
mentre scriveva la ricetta, quando egli si rivolse a me per dirmi che
bisognava mettere le pezzuole fredde sulla gola del piccolo ammalato e
mutargliele con frequenza, e che si doveva fargli tenere continuamente
dei pezzetti di ghiaccio in bocca, e dargli una cucchiaiata di chinino
ogni mezz'ora, io dissi di sì col capo a ogni consiglio, ma non osava
domandare come si chiamava la mia sciagura, perchè lo sapevo.

In anticamera la povera Evangelina ebbe il coraggio di chiedere:

— V'è pericolo?

— Non si può dire nulla per ora — rispose il medico: — queste malattie
sono insidiose; vedremo stasera. Bisognerà pure allontanare la
sorellina.

Allora soltanto balbettai:

— Angina maligna, non è vero?

— Già, già — disse il medico — angina maligna.

— Però non è delle più gravi?

Volevo essere ingannato ed egli mi comprese:

— Non pare delle più gravi; vedremo stasera.

Se ne andò; noi ci trovammo soli nelle braccia l'un dell'altro,
dimentichi della vita, del dovere, del nostro dolore medesimo, perfino
della nostra creatura, per singhiozzare come fanciulli.

— Ah! non piangere così, almeno tu — mi disse Evangelina; — mi fa
troppo male.

E io sorrisi, me ne ricordo...

In quel mentre udii parlare nella cameretta di Augusto; accorsi. La
piccola Laurina era là, al capezzale del fratellino, e si rizzava in
punta di piedi per guardarlo.

— Va via — gridai con collera.

Essa mi guardò, non mi comprese e venne a buttarmisi fra le ginocchia
ridendo.

Quella sera medesima Laurina ci abbandonava; quando attraversò il
cortile tenuta per mano da un amico, che non aveva avuto paura di
portarsi a casa il contagio, e si volse a salutare i genitori che
stavano alla finestra; quando ci gridò: «torno subito», mi parve che se
ne andasse l'ultima immagine ancora intatta della nostra felicità.

La piccina sparve, e una voce mi disse: «tu non la rivedrai se non
quando il tuo destino sarà compiuto». E un'altra voce mi disse:
_Coraggio_. Era quella di Evangelina.

Ci stringemmo per mano, e così uniti movemmo incontro al fantasma della
morte.


VI.

Cominciarono giorni crudeli, passati nell'aspettazione delle paure
notturne.

Ah! quelle notti eterne vegliate al capezzale di una creatura adorata,
solo, con la mente ingombra di terrori, in una cameretta, le cui
sembianze si trasformavano paurosamente agli occhi miei allucinati dal
sonno!

Io lo vedo ancora il mio bimbo malato; veglio e mi par di dormire,
dormo e mi par di vegliare, e ancora lo guardo, povera sentinella
dell'amore, quando non discerno più nulla.

Poi mi scuoto, interrogo l'orologio, mi avvicino, muto le pezzuole
agghiacciate sulla gola del mio bimbo e comincio l'invariabile tortura.

— Augusto!

Non mi risponde: apre un occhio, mi guarda, m'implora.

— Augusto, bisogna prendere la medicina.

Egli geme; il chinino non gli piace, e suo padre è inesorabile.

— È la cosa d'un momento, un sorso solo. Piglialo per farmi piacere.

Egli guarda me, guarda la medicina, vuol farsi forza.

— Sì, sì... ora la piglio, ecco... un momento ancora... aspetta.

Prego e comando, scherzo e minaccio d'andar in collera, poi guardo
l'orologio... ah! i minuti volano, e se non piglia il chinino, il mio
bimbo morrà!

— Senti — gli dico allegramente — lo piglierai da solo; io vado un
momento di là, torno e tu lo hai preso. Vediamo un po' se sei capace di
far questo!... Poi lo diremo alla mamma, che sarà contenta di te.

Allora egli ha pietà del mio strazio e trangugia la bevanda amara; ed
io respiro perchè ho mezz'ora di pace!

Ecco, ripassano dinanzi agli occhi miei tutti gli spettri melanconici
della veglia; i mobili scricchiolano, e a ogni nuovo rumore è una
orrenda immagine.

A intervalli guardo nell'anima mia, e mi piglia un'immensa pietà di
me stesso. Quale rovina! Nulla più vi rimane, nemmeno l'amore forse.
Mi pare che si venga formando nel mio cervello un pensiero egoistico
capace di lottare con la sventura e vincerla. Già dico fra me e me:
«che bella cosa essere indifferenti a tutto!»

Non è forse il principio dell'indifferenza? Vi penso.

«Che m'importa della casa, della mia poca ricchezza che m'è costata
tanto? Che m'importa del mio nome, della mia fama? Sono stato veramente
uno sventato. Ero forte e baldanzoso, potevo rimanere solo a sfidare la
povertà e la vita!

Non avrei oggi mio figlio morente! E dove sarebbe Augusto? E di chi
sarebbe la mia Evangelina che amavo tanto? L'amore! Che cosa è l'amore?
Il dolore forse. E il dolore che cos'è?»

Una mano mi regge il capo, che lotta a fatica col sonno.

— Vatti a riposare — mi dice Evangelina — sono qua io.

Apro gli occhi e guardo quel viso bianco e melanconico. Mi sembra
d'amare ancora.

— Hai dormito? — domando a mia moglie.

— Sì, e ho fatto un bel sogno; come ho io potuto fare un bel sogno?

— Un bel sogno! — ripeto senza avvedermene.

Essa mi comprende, mi piglia per mano e mi conduce presso al letto
della nostra creatura.

— Non ti sembra che stia meglio? — mi dice. — Il suo sonno è
tranquillo. Tu sei stanco — soggiunge: — povero Epaminonda!

— Povero Epaminonda! — ripeto con un sorriso amaro.

Allora essa mi stringe forte la mano, si rizza in punta dei piedi e mi
porge la guancia.

— Bacia qua — mi ordina con dolcezza; — così; ora bacia tuo figlio in
fronte senza svegliarlo, e ora va a riposare.

Sento che un po' di quella forza femminile penetra nel mio cuore.


VII.

Mi vado a buttare vestito sopra un letto, e provo a chiamare il sonno;
ma il sonno, cacciato per lunghe ore come un importuno, ora non viene.
Chiudendo gli occhi vedo delle figure strane accostarsi al mio letto;
mi sembra d'essere caduto in mezzo a una popolazione smorfiosa e
occupata unicamente di me. Sono faccette sorridenti o beffarde; e basta
ch'io apra gli occhi perchè si rimpiattino negli angoli della stanza.

Porgo orecchio e non odo verun rumore. Potessi almeno dormire! Potessi
dimenticare per un'ora sola la mia sventura!

Richiudo gli occhi; ecco ancora i fantasmi; provo a fissare col
pensiero altre immagini, e riesco, e spesso la mia mente è lontana; ma
essi, tenaci, sempre al mio capezzale.

Ora sono con la mia Laurina, voglio essere con lei sola; il dolore mi
ha fatto ingiusto; e in questi giorni l'ho dimenticata. Che fa essa in
questo momento? Dorme. E io la vedo in una camera ignota, in un letto
non suo, con la manina sotto la guancia e con le labbra socchiuse.

Mentre pensavo alla mia bimba, e coll'intensità del desiderio me la
raffiguravo in quell'atto, cento fantasmi mi sono passati dinanzi e
mi hanno fatto la loro smorfia; eccone degli altri; un visino di donna
che sorride, una testa scapigliata di fanciulla che sorride ancora, una
faccia dolente che non sorride più, un volto rugoso che minaccia.

Per un pezzo è questo il mio sonno; poi, non so quando, non so come,
la folla si dirada, scompare, e io torno al capezzale d'Augusto.
Finalmente dormo.

Dormo, ed ecco il mio sogno.

È notte alta. Evangelina si riposa nella camera vicina, e io veglio co'
miei pensieri al capezzale di Augusto. Rifaccio tutta la via percorsa
dal giorno che ho conosciuto Evangelina; ritrovo tutte le mie gioie,
e m'avvedo ch'erano nient'altro che speranze; perchè quando io avea
assaporato una comodità domestica o una soddisfazione d'amor proprio,
si sottintendeva sempre che tutto ciò era per i miei figli.

Ritrovo pure i miei vecchi dolori, e misurandoli con l'immenso dolore
presente, mi sembrano indegni d'avermi fatto soffrire. Non aveva io
perduto l'appetito la prima volta che il cronista di una gazzetta
aveva scritto di me che ero troppo grave, e della mia eloquenza che
era vecchiotta e sentimentale, portando invece alle stelle l'arguzia
e l'efficacia dell'avvocato Righi mio rivale? E sentendomi ripetere
dallo stesso cronista le medesime censure, e sentendo dire ancora
dell'avvocato Righi che era _arguto_ ed _efficace_, e ciò alla
distanza di un mese, con le identiche parole, come se l'industrioso
cronista le avesse incise nell'acciaio o nel marmo, anzichè stampate in
un'effemeride, non avevo io avuto la dabbenaggine di perdere un'ora del
mio tempo a far la critica coscienziosa della mia eloquenza e della mia
gravità per vedere d'emendarmi?

Sì, io aveva fatto questo e altro nel buon tempo.

E penso: se quel cronista mi volesse fare la compitezza di stampare
domani che io sono un asino, anzi un cretino, che ho scroccato la mia
riputazione nel foro, e che invece l'avvocato Righi è un colosso?

Non avrebbe poi torto; io devo essere un asino; l'altro è un colosso, e
io non me ne avvedo perchè sono un cretino.

E proseguo a fare io stesso l'opera del cronista; mordo la mia vanità
d'avvocato per calmare l'ambascia paterna; così nei dolori cocenti
troviamo un sollievo pizzicandoci a sangue le carni.

E se domani quel critico mi venisse innanzi per godersi il mio
imbarazzo, ed io dovessi aprirmi il petto con le mie unghie, per
dirgli: «Guarda, il mio bimbo è morto».

Io grido nel sonno, e mi pare di svegliarmi a quel grido, e che il mio
bimbo mi chiami al suo capezzale per dirmi:

«Babbo, non piangere; non lo dire alla mamma, io muoio».

Allora mi sveglio davvero, e mentre riconosco d'essere nel mio letto
e d'aver sognato, spalanco gli occhi nel buio e tremo. Se il mio
sogno fosse un avviso, e il mio Augusto dovesse proprio morire! Se
agonizzasse ora! Se fosse morto!

Ascolto; per un po' non si ode nessun rumore, poi il canterano
scricchiola e l'armadio gli risponde. Ah! È un segnale!...

— Evangelina! — chiamo affacciandomi all'uscio della cameretta.

E mi si offre allo sguardo l'aspetto invariato della mia sventura; il
nostro bambino che soffre, la povera madre, che volge verso di me la
faccia patita ma serena.


VIII.

Non sono ancora uscito di casa dacchè pende sopra mio figlio la
minaccia della morte.

Oggi, coi gomiti appoggiati alla finestra chiusa, spingo l'occhio,
a traverso il cortile, fino al portone d'ingresso, e di là sopra un
pezzo della via solitaria, in cui ogni tanto passano due gambe, di cui
non vedo altro che l'estremità, come un compasso dimezzato. Ed il mio
pensiero si stacca istintivamente dalla sua ambascia per fantasticare
su quelle monche visioni.

«Quelle gambe sono passate con rapidità e portavano calzoni di tela
azzurra, dunque erano sicuramente di un operaio; e queste invece sono
di un accattone; si muovono così lente, che ho il tempo di esaminarle,
pare che fatichino a trattenere i cenci di cui sono coperte, ed hanno
ai piedi certe ciabatte senza tempo e senza nome».

La mia mente ha tanto bisogno di andar vagando, che quasi dimentica la
mia sventura.

Perciò quando mi volto, la cameretta dove il mio bimbo soffre mi
stringe il cuore come uno sconforto nuovo. Ma Augusto dorme: ha preso
il chinino poc'anzi, mi posso trastullare ancora.

Oggi la mia sventura è docile e si tira indietro per lasciarmi
riaffacciare alla vita.

Già sono fatto abile in questo giuoco, di cui l'impreveduto soltanto mi
pare formare la grande attrattiva; lo voglio insegnare a chi soffre.

«Scommetti, dico a me stesso, che prima a passare sarà una donna?» —
«No, sarà un uomo». — Si ode un passo pesante sul marciapiedi — «Ho
vinto la scommessa; è un uomo». Sì, ma che uomo? Presto, si avvicina...
Non vi può essere dubbio, un damerino; ha stivali canterini.

Gli stivali canterini passano — oh! stupore! — sono portati da due
gambe sbilenche che i calzoni non hanno potuto seguire in quella via
tortuosa fino all'ultimo, rimanendo sospesi sul collo del piede.

Dunque non l'impreveduto soltanto forma la grande attrattiva del mio
giuoco; vi è anche la sorpresa.

E vi è altro.

Uno strano rumore giunge fino a me; non è un passo, non è la ruota
d'una carriola a mano, non è una gruccia, non è nemmeno il picchio
sordo d'una gamba di legno. Che cosa è mai? È un rumore strascicato
come d'un fardello di cenci che venga spinto sul marciapiedi... Eccolo!

O severa natura, quale spettacolo!

Là, in quel breve vano, dove finora non ho veduto il mio prossimo che
fino all'altezza del ginocchio, mi appare tutta quanta una figura
umana, che giace quasi bocconi, con la parte inferiore del corpo
appoggiata sopra una base di legno, e cammina con le mani, trascinando
le gambe paralitiche e contorte.

Dinanzi al portone, quell'uomo si arresta; cava una mano dalla grossa
ciabatta in cui la nasconde, e rimanendo appoggiato a terra coll'altra,
si asciuga il sudore, si guarda intorno e nuovamente s'avvia.

Dove va? Dove andiamo?

Mi tolgo dalla finestra e mi avvicino al letto di mio figlio:

— Augusto, bisogna prendere la medicina.


IX.

Un giorno Evangelina vuole che io esca, che vada a respirare una
boccata d'aria buona, ed io ascolto la strana proposta crollando il
capo. E mia moglie insiste.

— Non vi è nessun pericolo — dice. — Augusto non istà peggio del
solito; va a spasso, ti farà bene.

È vero, Augusto non sta peggio del solito; e io non sto meglio affatto.
Una boccata di aria buona mi farà bene: se dovrò vegliare, chi sa
quante notti ancora, non mi devo ammalare. Dò retta ad Evangelina,
esco.

Giunto sul cortile, mi volto, e sono tentato di risalire le scale; non
ho cuore di abbandonare la mia creatura.

Ma Evangelina ha preso le sue precauzioni, è dietro i vetri, mi sorride
per incoraggiarmi. Veggo un vicino di casa, che mi guarda curiosamente;
mi incammino.

Andrò ai giardini pubblici, dove l'aria di Milano è più buona, farò un
giro sui bastioni, uno solo, poi tornerò a casa.

Per via, la gente che mi conosce mi guarda e mi saluta in una maniera
insolita, in cui mi pare di scorgere una specie d'ammirazione, e non me
ne stupisco; bensì, mi fa meraviglia la strana compiacenza da cui sono
dilettato nel mio dolore, e il senso di vanità che provo al pensiero
che molti diranno: — Quanto deve soffrire l'avvocato Placidi! — Vi
penso e cerco di spiegarmi perchè, mentre io stesso ho di me un più
alto concetto, mentre non trovo chi mi superi tra quanti soffrono, e
non veggo chi mi eguagli tra la gente felice, pure sono fatto tanto
umile, da non sapere nemmanco più che cosa sia la superbia.

«Sarà, dico, perchè il dolore matura per poco in noi certe qualità che
si perdono nella contentezza; e forse sarà perchè l'uomo quando soffre
è sempre un po' bambino; egli ha conservato un balocco, almeno uno, e
lo vuol nascondere.

«Perchè nasconderlo?

«Se mio figlio guarisce, io giocherò con lui alla palla, alla trottola,
a rimpiattino. Se mio figlio guarisce!»

Intanto, senz'avvedermene, ho preso la via più lunga per andare ai
giardini.

«Ho sbagliato strada!» penso; e mi avvedo allora che l'istinto mi sta
portando verso la casa in cui abita la mia Laurina.

L'addormentato desiderio si sveglia e grida dentro di me: «Voglio
vederla!»

Ma è impossibile: io porto meco il contagio dell'angina maligna;
poc'anzi un amico, vedendomi da lontano, ha scantonato, ed io gli
perdono: ha una figlioletta che adora.

Ecco le finestre della casa; a quest'ora la mia bimba giuoca con la
bambola, pensa a me forse, forse piange, e una voce segreta non le dice
di accostare una sedia alla finestra, per salutare il babbo attraverso
i vetri.

L'aspetto un po'; la gente che mi vede guardare in su, alza gli occhi,
crolla il capo e sorride, e una donnetta volonterosa, passandomi
rasente, mi getta un'occhiata ad uncino.

Io vedo tutto ciò come in sogno, poi mi scuoto e mi stacco da quel
posto di osservazione; ma mentre mi volto ancora, con la speranza
che la mia bimba sia venuta in questo mentre alla finestra, mi sento
stringere le gambe in una maniera conosciuta. Abbasso lo sguardo....
anima mia! è proprio Laurina!

Essa tornava dalla passeggiata con la fantesca, mi ha visto da lontano,
e mi è corsa incontro.

— Babbo — mi dice — conducimi con te; voglio tornare a casa, voglio
vedere la mamma!

— Laurina! Laurina mia! — balbetto — sei tu? e come stai?

Un terrore mi lega le membra, non oso chinarmi per carezzarla, non oso
accostare il suo visino alla mia faccia.

— Babbo, perchè non mi dài un bacio?

La piglio, la sollevo, me la stringo al petto, e la bacio sulla fronte
e sui capelli.

Poi la depongo in terra, le raccomando di star buona, le prometto di
venire a prenderla per portarla a casa; le parlo di Augusto, della
mamma; le riempio la testina di speranze, di idee gentili e allegre;
le getto in cuore disordinatamente tutte le dolcezze che trovo, la
promessa di una bambola nuova, i baci della mamma, le passeggiate
col babbo, i giuochi col fratello guarito; poi l'abbandono un po'
sbigottita ancora, e fuggo per non lasciarmi tentare un'altra volta.

Essa mi grida dietro:

— Babbo, tanti baci alla mamma! — e s'avvia tranquillamente come una
donnina.

Allora io mi arresto a guardarla, e la seguo con gli occhi finchè
scompare: poi guardo in alto cercando qualcuno per dirgli amaramente:

«Puniscimi; non ho saputo trattenermi, ed ho baciato in fronte mia
figlia».

Prima di rientrare nella camera del mio dolore, svanisce l'imagine di
Laurina, ed io dico per consolarmi:

«Non l'ho baciata in bocca!»


X.

La mia fibra è forte; dopo il primo giorno non ho pianto più; ma da
due giorni il mio piccino mi sgomenta; egli non sta peggio, il medico
anzi nota un leggero miglioramento, e pure io non oso guardare nel mio
cuore, dove è entrata una strana paura.

Una mattina, dopo la visita del medico, rimaniamo soli al capezzale di
Augusto, sua madre e io; egli ci guarda per un poco faticando a tener
gli occhi aperti, poi si abbandona a quel sopore greve da cui suole
uscire ad intervalli, afferrandosi la gola con tutte e due le mani e
spasimando.

È acceso in volto, e quel rossore della febbre non ci lascia scorgere
quanto sia patito.

Lo fissiamo entrambi senza dir nulla; a un tratto Evangelina si scosta
dal letto e va nella camera vicina, io le vengo dietro e la trovo con
la testa appoggiata al muro. Piange.

— Ah! non fare così — le dico — perchè piangi?

— Tu pure piangi.

— Non è vero....

— Sì, è vero; guarda. E perchè piangi? Non lo sai nemmeno. Lo so io,
perchè non speri più nulla.

Piangiamo tutti e due liberamente; poi Evangelina si asciuga gli occhi
e dice:

— Poc'anzi mi è sembrato di vederlo morto; ma il poveretto vive ancora,
non dobbiamo abbandonarlo. Vieni.

Mi prende per mano, ed io mi lascio condurre come un fanciullo.

                             . . . . . . .

Egli visse!

Lasciatemi rompere questa penosa ricostruzione del mio dolore; mi pare
d'essere un ingrato se non grido la mia gioia.

Sì, Augusto visse. Augusto vive, per far felice il babbo e la mamma.

Evangelina ha ragione: le nostre gioie ci seguono nella vita; i dolori
no, perchè il cuore li seppellisce.



MIO FIGLIO S'INNAMORA


I.

Era stato un tempo, quando mio figlio non studiava ancora la storia
antica, che egli pigliava me a confidente dei suoi segreti pensieri,
e mi faceva cento domande difficili. Voleva sapere, ed era nel suo
diritto, se le stelle fossero veramente lumicini, e perchè il sole si
nascondesse ogni sera, e se, camminando sempre diritti per tante ore di
seguito, s'incontrasse poi la fine del mondo. Ma quando, non contento
di penetrare in compagnia del babbo nei più ardui misteri cosmici,
chiedeva che io gli svelassi tutti i segretuzzi paterni, per esempio,
chi è che fa i bambini, e come li fa, allora io mi raccomandava alla
più savia delle figure rettoriche, e con una serie di reticenze ben
combinate riuscivo in breve a mettergli una castissima confusione
d'idee nel cervello.

— Ho capito — diceva quando disperava assolutamente di capire, e se
n'andava a giocare, dandomi però di nascosto una certa occhiata nella
quale a me pareva di leggere: «Bada bene, fra noi due c'è un segreto, e
non ce l'ho messo io».

Ne ero sconfortato e dispettoso, e pure che farci? Evangelina, mio
suocero, i parenti, gli amici, le amiche, i moralisti, i pedagoghi,
quelli del vecchio e quelli del nuovo sistema, tutti, dalla cattedra,
dal pulpito, dal confessionale, dai libri, tutti quanti erano e sono
d'accordo nel sentenziare che «certe cose i fanciulli non le devono
sapere.»

— Sciocchezze! — diceva io, quando mi pungeva l'estro della ribellione
— anzi asinerie! Questa massima si riduce nella pratica ad una
commedia ridevole, e pazienza se fosse soltanto ridevole, ma è anche
pericolosa. Augusto fingerà di non saper nulla, e noi faremo sembiante
di credere alla sua innocenza fin che egli abbia baffi e mosca! Allora
ci degneremo di confessargli che non lo abbiamo comprato alla fiera, nè
trovato sotto un cavolo dell'orto; ma egli probabilmente non ci verrà
più a domandare, come oggi, perchè per trovare dei figli sotto i cavoli
dell'orto bisogna mettersi in due, e se è proprio necessario che prima
siano sposati.

Evangelina non trovava nulla da opporre, quando io sentenziava che non
bisognava confondere l'ignoranza con l'innocenza. Era pronta essa pure
a ribellarsi teoricamente; ma quanto a mettere la mia ribellione in
pratica, cioè svelare e spiegare ad Augusto, alla prima occasione, che
lei ed io, che lui, eccetera, non sentiva proprio il cuore. Non me lo
sentiva nemmeno io.

La conseguenza fu che Augusto continuò a dichiararci d'aver capito,
quando altro non aveva inteso se non che gli si voleva nascondere la
verità, finchè si fu avviato alla scuola pubblica per intraprendere più
gravi e nobili studi.

Per far uscire dal capo dei fanciulli certe curiosità malsane, ancora
non si è trovato di meglio che l'antico testamento; e la virtù del
testo sacro deve essere miracolosa.

Infatti appena messo il piede nel paradiso terrestre, veduto un po' da
vicino il pericoloso albero del bene e del male, intesa all'ingrosso
la storia del pomo e della foglia del fico, mio figlio non mi fece più
alcuna domanda.

Quel silenzio sgomentava il mio cuore di padre; avevo paura d'una
dottrina segreta che si veniva formando tutta a scuola, e avrei pagato
qualche cosa per sapere almeno a che punto si trovasse. Speravo che
i colleghi di mio figlio non ne sapessero molto più di lui, e pure in
ogni monello che passava per la via, trascinando lo zaino sul lastrico
del marciapiedi, vedevo un maestro dotto e pericoloso. A tavola mi
provavo talvolta a tentare Augusto; gli dicevo per esempio:

— Non mangiare troppo in fretta, potresti fare un'indigestione, e noi
non vogliamo perderti; ci sei costato caro.

E la piccola Laurina interrompeva:

— Anch'io sono costata tanti soldi?

Allora l'enigmatico fratello le rispondeva con un po' di canzonatura:

— Tu sei costata un po' meno, perchè sei una donna; le donne —
soggiungeva, dando un'occhiata maliziosa alla mamma, per farle
intendere che scherzava — le donne costano meno degli uomini.

Laurina era d'opinione contraria.

— Non è vero — asseriva senza scomporsi — costano più.

— Costano meno — insisteva Augusto.

— E allora — diceva Laurina che in fondo era indifferente — quando avrò
dei soldi, io comprerò bambine soltanto, per averne di più.

— E che cosa ne faresti delle bambine? — chiedeva io.

— Le vestirei.

— E il latte? — interrompeva mio figlio bruscamente — glielo daresti tu
il latte?

Laura era pronta a tutto, anche a dare il latte alle sue bambine, e
Augusto si lasciava sfuggire:

— Per dare il latte ci vogliono... ci vuole una cosa che tu non hai.

Si faceva rosso in viso, e io non riusciva a capire se quella parte
della sua dottrina mi dovesse far paura.

— Per dare il latte ai bambini — diceva Evangelina — prima bisogna
diventar grandi.

— E per diventar grandi bisogna essere sempre buoni — sentenziava
Laurina col suo sussieguzzo di donnina minuscola.


II.

— Quando sarò grande, sposerò te, babbo — mi disse un giorno mia figlia.

Col medesimo accento, con le identiche parole, tale e quale aveva
parlato in altri tempi Augusto. Ora non più.

Senza nemmeno sollevare gli occhi dal piatto, crollò il capo
sdegnosamente e continuò a mangiare la sua porzione di lesso.

— Sì, che lo sposerò — insistè Laura; — non è vero che ti sposerò?

— Sì, mi sposerai.

— Lo vedi!

Mio figlio non seppe resistere e disse alla sorellina:

— Fa per celia, non capisci? Quando tu sarai grande, il babbo
sarà vecchio vecchio.... avrà i capelli bianchi — (mi guardava per
anticipare con la immaginazione i guasti che il tempo avrebbe fatto
nella mia persona) — avrà la faccia tutta così — (e me la tagliava
intenzionalmente a fette con la mano); non avrà più denti...

Io lo interruppi in quella disgraziata rappresentazione, dicendogli che
denti ne avrei in ogni tempo, perchè me li farei rimettere.

— Ah! — disse Augusto senza scomporsi; — e allora ti metterai anche la
parrucca...

— No, perchè avrò i capelli bianchi, l'hai detto tu stesso...

— Sì... ma pochi, pochi, pochi; appena un po' qui e qui — (si toccava
dietro le orecchie) — come il nostro direttore...

Laurina aveva inteso benissimo che quel deterioramento di suo padre
sarebbe stato un ostacolo grave alle nozze, e rinunziò subito al suo
fidanzato, per sceglierne un altro.

— Ebbene — disse — io sposerò te, mamma!

Ma allora Augusto rise così forte, che sua sorella ebbe paura d'aver
detto una corbelleria, e guardò prima la mamma, poi me, interrogandoci
alla muta.

Stavamo serii entrambi per far intendere a nostro figlio che il suo
buonumore passava il segno, ma non glielo volevamo dire apertamente per
non metterlo in sospetto del nostro intimo sgomento.

— Sposare la mamma! — esclamò finalmente Augusto — non lo sai che per
sposarsi bisogna essere un uomo e una donna...

— E poi — entrò a dire Evangelina — quando tu sarai in età di sposarti,
sarò vecchia anch'io come il babbo; avrò anch'io la faccia tutta così e
i capelli bianchi.... sarò brutta, non piacerò più a nessuno.

— A me piacerai sempre — disse Laurina.

— Anche a me — disse Augusto; e di passata, con la frettolosità di chi
ha un'idea fissa che vuol esprimere, si lasciò scappare una sentenza
che io raccolsi e pagai con un bacio.

— Le mamme non diventano mai brutte — disse egli; prese il mio bacio
con rassegnazione e proseguì: — ma non è questo; per sposarsi bisogna
essere un uomo e una donna.

Laurina trovò un'uscita alla legge inesorabile:

— L'uomo sarò io — disse — mi metterò i calzoni!

Pensate l'ilarità impertinente di quello scolaro di quarta elementare!

Avevamo voglia di ridere anche noi, e stavamo sempre serii, fin troppo.

— Bella figura che faresti tu _facendo l'amore_ coi calzoni.

_Facendo l'amore!_ pensai annuvolandomi.

— _Facendo l'amore!_ — dissi forte — che significa ciò? Che parole son
queste? Le hai imparate a scuola?

— No — mi rispose Augusto candidamente — hai detto tu stesso un giorno
che prima di sposarsi _si fa l'amore._

Ah! Era vero, e io me n'ero dimenticato; prima di sposarsi si fa
l'amore!

E diedi a mio figlio un altro bacio che egli mi restituì con una certa
diffidenza.

A troncare quella scenetta pericolosa venne in tavola il pesce.

— Ragazzi — esclamai solennemente — bisogna smettere le ciancie
e badare bene alle spine; tu, Augusto, non hai bisogno di
raccomandazioni, e tu, pallina mia, sta bene attenta, perchè se ti va
una spina in corpo, muori.

Laurina non mi rispose, aveva gli occhi fissi nel proprio piatto, dove
Evangelina, non si fidando interamente alla mia raccomandazione, veniva
levando essa stessa le spine dalla porzioncella di pesce.

— Mamma, come fanno i pesci che hanno le spine in corpo a non morire?


III.

Con tutta quella dottrina in capo, non era sperabile che mio figlio
si accontentasse lungamente della teorica, e io mi aspettava che da
un giorno all'altro si provasse a farne l'applicazione, innamorandosi.
Ma quando immaginavo di veder prorompere l'incendio amoroso, la prima
fiamma di mio figlio era già spenta; nata e alimentata in segreto,
egli l'aveva soffocata senza ricercare la perduta confidenza di babbo
e mamma, i quali non ne avrebbero nemmeno veduto la traccia, se il caso
non li avesse fatti padroni di un piccolo documento, che diceva così:

      «_Cara_ Giovanna,

  Ieri sera ridevi troppo, tu ridi sempre troppo, e poi sei troppo
  magra, non mi piaci più. Ti scrivo per farti sapere che ti
  tradisco...

                                                          AUGUSTO».

Povera Giovanna! Io non sapevo chi fosse, ma l'idea di quel coricino
così precocemente ulcerato dall'abbandono, mi faceva ripetere tra il
serio ed il faceto:

— Povera Giovanna! Povera bimba tradita!

Evangelina mi aveva preso il foglio di mano, lo rileggeva senza poter
frenare l'ilarità.

— È crudele, ma schietto — osservai — il piccolo traditore...

Mia moglie mi interrompeva per raccomandarsi...

— Taci: non ne posso più...

— Il piccolo traditore — proseguivo — conserva ancora delle abitudini
generose che perderà più tardi; tradisce le innamorate magre, ma
annunzia il tradimento. Ahi! Povera Giovanna, povera bimba abbandonata!

E mi veniva un altro pensiero.

— Il tradimento amoroso è un fatto complesso — dicevo a Evangelina, che
continuava inutilmente a farmi cenno di star zitto: — suppone un altro
amore neonato. Augusto, ci scommetto, pianta la sua cara Giovanna... la
chiama _cara_, non è vero?... ultima ipocrisia involontaria...

— _Cara_, sì, _cara_, ed è sottolineato — mi rispose mia moglie.

— È sottolineato? Dunque è un'ironia? E nostro figlio è solo in quarta
elementare! Pensa che uso disgraziato farà della rettorica in ginnasio
e in liceo! Ma dicevamo... Che cosa dicevamo?

— Dicevi che Augusto pianta la sua cara Giovanna per un'altra _donna_...

— _Donna_... già, donna. E bisogna sapere chi è la fortunata rivale...
Ma prima di tutto, chi è Giovanna? Lo sai tu?

— Sì che lo so — mi rispose Evangelina ridendo sempre — è la bambinaia
del padrone di casa.

— Una bambina di vent'anni almeno!

— Ne confessa ventidue.

La conoscevo anch'io quella bimba lunga e magra come il digiuno,
capelli rossi, sul musetto biricchino una gran contentezza di tutta la
sua persona.

Si erano veduti e amati in cortile, alla luce del crepuscolo, quando,
dopo il desinare, tutti gli inquilini mandavano i bimbi a scorrazzare
e le bambinaie a far stragi in quei teneri cuori; ma senza far torto
a Giovanna, mi pareva che mio figlio si fosse comportato come qualche
volta a tavola, quando, docile ai consigli della ghiottoneria più che
a quelli del buon gusto, sceglieva la porzione più grossa o il confetto
più lungo.

Fra le bimbe dell'età sua che si rincorrevano in giardino, ve n'erano
parecchie assai carine, e una fra le altre che si chiamava Angela,
e aveva la singolare abilità di svegliare la _musa_ (dico la _musa_)
dell'avvocato Placidi. In fatti, io che da tempo immemorabile non aveva
più chiamato gli occhi, la bocca e i capelli altrimenti che col loro
nome di vocabolario, dicevo volentieri che gli occhi di Angela erano
due spiragli di cielo, i suoi capelli uno strano tessuto di seta e
d'oro, e che quando era aperta al sorriso la sua bella boccuccia — Dio
ne scampi e liberi ogni bella donnina! — pareva una ciliegia matura
beccata da un passero intelligente.

E poichè nella classica terra di Dante è destino di ogni umana creatura
di sesso maschio che a nove anni perda la testa per una Beatrice, io
avrei visto di buon occhio che la Beatrice di mio figlio si chiamasse
Angela. E sapendo per pratica che degli amori di uno scolaro non si
vantaggiano se non la calligrafia e la letteratura nelle sue forme
epistolare e poetica, mi pareva che mi sarei rassegnato più facilmente
a vederlo maltrattare la storia antica e l'aritmetica per farne omaggio
ai due spiragli di cielo della sua innamorata.

Ma Angela aveva un grave difetto agli occhi di mio figlio; era una
bambina, non toccava ancora i nove anni! Augusto giocava a nascondersi
con lei come con le altre, nè la cercava di preferenza, nè la trovava
con gioia maggiore, nè, trovatala, se la stringeva al petto col
pretesto di non lasciarla scappare. Lo vedeva bene io stando alla
finestra; non voleva saperne di fare l'amore con lei!

E la tradita Giovanna intanto? La tradita Giovanna portava la sua croce
con bastante rassegnazione, a volte esalando dei sospiri esagerati,
smaniando a volte per gelosia, ma per lo più ridendo. Spesso, in un
trasporto d'amorosa follia, si pigliava in braccio il ricalcitrante
innamorato, e lo baciava a forza, al cospetto di tutta la gente
minuscola del cortile, per punirlo della sua perfidia; subito dopo si
calmava, e una volta accettò perfino di farsi la mediatrice dei novelli
amori di Augusto recapitando un suo bigliettino calligrafico... a chi?
Alla bella Giulia, alla sorella maggiore di Angela.

Questa giovinetta non scendeva mai in cortile, aveva diciott'anni
compiti ed era alla vigilia di farsi sposa ad un ufficiale di
cavalleria. Tanti ostacoli insieme non avevano sgomentato l'eroica
audacia di mio figlio, il quale appena ebbe visto Giulia alla
finestra, subito le scrisse che la voleva sposare, e che la sciabola
dell'ufficiale di cavalleria non gli faceva paura.

Giovanna aveva portato la lettera e la risposta in forma d'un cartoccio
di confetti, e il piccolo Don Giovanni, sempre più ardito, una
domenica, all'ora in cui Giulia soleva uscire per andare alla messa,
l'aveva aspettata sulle scale per darle un bacio; ma vedendola, si era
sentito mancare il coraggio ed era fuggito ignominiosamente.

Il tiro a ogni modo era fatto, perchè, saputo del cartoccio di
confetti, dopo aver sgridato suo figlio, soffocando a stento una gran
voglia di ridere, Evangelina si sentì in dovere di far visita alla
famiglia della bella Giulia, e una settimana dopo Augusto con le sue
maniere strambe aveva sedotto padroni e servi in quella casa, non
escluso l'ufficiale di cavalleria suo rivale, a cui dichiarava in
faccia d'avergli rubato la sposa.

Che farci? Ridevano tutti e ridevamo anche noi. Per un po' Augusto
servì di legame fra i due fidanzati senza saperlo, e non tardò forse
a notare che quando egli aveva colto un bacio sulla bocca di Giulia,
subito l'uffizialetto lo chiamava a sè per pigliarselo caldo caldo. Una
volta manifestò innanzi a tutti il suo sospetto.

— Perchè non la baci anche tu? — conchiuse — te lo permetto.

La cavalleria fu proprio sgominata; per la prima volta in vita mia quel
giorno vidi un uffiziale dell'esercito farsi rosso.

Poi Augusto spiccò un salto sulle ginocchia della bella fanciulla e
la baciucchiò sulle guancie, sugli occhi, sui capelli, perfino sulle
orecchie; per pigliarne possesso, diceva lui.

— Ora sei mia — asserì — ti ho baciata tutta.

L'uffizialetto cercava di fare il disinvolto, sorrideva, rideva, e non
riusciva a nascondere una gran voglia di fare altrettanto, e in fondo
faceva una grama figura.

— Tu sei _invidioso_? — gli chiese poi mio figlio, e come se
gli leggesse nell'anima, soggiunse per consolarlo: — Non te l'ho
guastata... e poi è mia.

— Non sono _geloso_ — ripetè l'uffizialetto, e lo ripetè inutilmente: —
non sono _geloso_.

Augusto, senza perdere il filo della sua idea, sentenziò con un
sussiego corbellatorio:

— L'invidia è un peccato mortale; andrai a bruciare all'inferno.

L'uffizialetto prima fece come gli altri, rise; poi sospirò come un
mantice, guardando negli occhi la sua Giulia, poi disse che, senza fare
un viaggio così lungo, gli pareva già di bruciare benino.

Anche Giulia sospirò leggermente, appena il tanto da tenersi accesa,
dopo di che continuarono a bruciare in silenzio tutti e due.


IV.

L'inferno dell'uffizialetto durò ancora parecchie settimane; una
mattina la bella Giulia lo pigliò per mano e lo introdusse solennemente
nel paradiso del palazzo municipale, e subito dopo in chiesa, come chi
dicesse in un nuovo purgatorio. Poi gli sposi, più pallidi del solito,
si avviarono a casa per fare una refezione leggera prima di partire.

Qui gli aspettava di piè fermo mio figlio; aveva la faccia un po'
stravolta, gli occhi lucenti, e quando cominciò a parlare gli tremava
la voce. Non smanie, nè rimproveri, nè collere di gelosia, ma qualche
cosa di peggio: versi!

    _In questo giorno sospirato e bello_

egli aveva chiesto un prestito alla Musa, che non doveva ispirarlo
se non più tardi, in seconda ginnasiale; e la Musa gli aveva concesso
nientemeno che quattordici versi, di quei lunghi, endecasillabi e anche
più, tutti facilmente riconoscibili alle rime chiare e lampanti, salvo
una.

Fin d'allora le Muse corsero rischio di pentirsi della loro
arrendevolezza, perchè Augusto, anticipando i novissimi tempi, voleva
leggersi stampato, e toccò a me suo padre, in quel giorno nefasto (egli
diceva_ sospirato e bello_; ma si sa... i poeti!) in cui un ufficiale
di cavalleria gli rapiva legalmente l'innamorata, toccò a me, suo
padre, negargli un'innocente consolazione, col pretesto specioso che
_velo_ della seconda quartina non rimava perfettamente con _bello_ nè
con _anello_ della prima.

Gli sposi partirono, e mio figlio, dopo aver detto addio
tranquillamente alla bella fuggitiva, se ne tornò a casa a piangere
in versi. Pianse l'abbandono e maledisse l'esistenza, ma con la
maledizione ancora calda calda sul labbro mi confessò che faceva _per
celia_, e che in fondo non era mai stato così contento di vivere come
ora, che aveva trovato quel giochetto nuovo.

— Non bisogna dire le bugie — consigliò sua madre.

— Non sono bugie — spiegò Augusto — è poesia... la poesia è così; non è
vero, babbo?.

Per alcune settimane fu come un'orgia di endecasillabi mal contati
in quel cervellino di poeta. Augusto aveva trovato, in un vecchio
scaffale, un arcade antico e polveroso, e se ne era fatto il suo
compagno, il suo maestro. Facendo come vedeva fare in quel codice
amoroso, egli battezzava la sua nuova fiamma anonima ora Filli, ora
Clori; vittima volontaria del suo estro, si infliggeva la tortura lenta
di intarsiare le rime del suo autore nei propri versi; così non gli
accadde più di far rimare _velo_ con _anello_, senza averne la poetica
licenza. Ne venivano fuori ogni giorno sonetti con tanto di coda, e
pure senza capo nè coda, come vi potete immaginare, in cui il rancidume
arcadico era temperato molto opportunamente da un po' di _realismo_
anticipato, nei punti in cui gli era cascato l'asino.

E nondimeno chi avesse guardato allora in fondo al mio cuore di padre
vi avrebbe visto un'indulgenza strana, anzi una specie di contentezza
stupida di sapere mio figlio, a dieci anni, _autore_ recidivo di
birbonate simili.

Le scappatelle amorose e poetiche di Augusto ancora non mi avevano
dato ombra di afflizione; il piccolo poeta, quando aveva preso commiato
dalla sua Musa, come quando scendeva dalle ginocchia della sua Giulia,
se n'andava tranquillamente a studiare la lezione e fare il còmpito;
a scuola era attento, e negli esami finali di quell'anno, con prodezze
verbali e scritte, fece onore a babbo e mamma, a Filli, a Clori e alla
Musa. Ma ahi! un giorno, un disgraziato giorno, dopo essere andato al
ginnasio con la febbre d'un conquistatore, Augusto tornò a casa come un
vinto. Là, sulle panche della scuola, egli aveva ritrovato la Musa, ma
non già la sua ispiratrice, la sua cara e italica Musa, bensì un'altra,
priva di rime, piena di dittonghi e di desinenze strane; _Musa, Musae_,
la musa della prima declinazione latina!

Egli mi confessò che da principio era stato tentato di farle festa,
come a una vecchia amica, la quale gli fosse venuta incontro per
introdurlo nel tempio della grammatica latina; ma da quel poco che
avevano potuto vedere, a lui e ai suoi colleghi rimaneva poca speranza
di stare allegri in seguito, nelle declinazioni in us e in es, nei
verbi e nei pronomi.

Già nel numero plurale della prima declinazione, quando la musa
diventava _musarum_, cominciava ad essere irriconoscibile... «E che
necessità, diceva lui, che necessità di studiare il latino, dal momento
che è una lingua morta?». Io gli spiegava che la lingua latina è la
lingua madre, cioè la lingua di Cicerone, che è il babbo dei grandi
avvocati, cioè la lingua di Virgilio, che è il babbo di Dante, cioè la
lingua di Orazio, che è il babbo della buona satira, cioè la lingua di
Giustiniano, eccettera, eccettera.

E soggiungevo con sussiego:

— Quando tu sarai avvocato, dovrai sapere il latino per intendere gli
antichi codici; anche se sarai medico, questa lingua morta ed immortale
non ti sarà inutile; pensa che fino a poco tempo fa le ricette si
facevano in latino; la scienza antica è scritta in latino: quasi tutte
le citazioni con cui si dà una certa grandezza agli argomenti piccini,
quasi tutte le citazioni con cui si puntellano gli argomenti zoppi sono
latine.

Mio figlio mi ascoltava a bocca aperta, senza intendere gran che, ma
con uno sgomento crescente.

— Allora deve essere molto difficile! — sospirava.

— No — dicevo — è facilissimo; in principio sembra così, ma poi è cosa
da nulla.

— Tu l'hai studiato?

— Altro che!

— L'hai studiato tutto?

— Tutto.

— Anche i verbi? Anche _hic, haec e hoc_? Anche _dies, diei_?

L'insistenza di mio figlio aveva un significato occulto. Più d'una
volta con la sua geometria fresca fresca, o con la sua storia antica
della vigilia, egli aveva colto in fallo la mia scienza; ora mi
pigliavo la rivincita.

— L'ho studiato otto anni — rispondevo con sicurezza — e non me ne
pento; quando l'avrai studiato otto anni anche tu...

Augusto m'interruppe:

— Allora, se ti dànno qualunque scritto in latino, tu lo capisci tutto?

Il tranello era perfido.

— Quando l'avrai studiato otto anni anche tu — proseguii senza
batter ciglio — ne saprai quanto ne so io! ma non devi scoraggiarti
da principio, nè stancarti in seguito: bisogna studiare molto le
declinazioni, le coniugazioni, e più tardi il reggimento dei verbi...

— Il reggimento dei verbi? — balbettò Augusto.

E gli si dipinse in volto un'immensa paura di non poter mai resistere
all'urto d'un avversario simile.

— Il reggimento dei verbi — soggiunsi ridendo — non è un reggimento
come l'intendi tu.

Gli spiegai all'ingrosso come lo intendeva io, senza rassicurarlo
interamente.


V.

Contro ogni mia aspettazione, la cosa andò peggiorando in seguito; dopo
aver dato del tu alle nove muse, non era più possibile che mio figlio
si rassegnasse a studiare il latino con un po' di metodo.

— Le regole! — diceva lui con una ribellione da monello: — non so che
farne io delle regole! A che servono le regole? Chi le ha fatte le
regole della grammatica latina?

— Le hanno fatte i grammatici — rispondevo con molta serenità —
studiando gli autori classici, lo spirito della lingua...

— E perchè non le hanno fatte anche per il milanese?

— Perchè il milanese non è una lingua, ma un dialetto...

Egli stette un po' in pensiero, e parve trovare dentro di sè un
argomento convincente.

— Già il milanese è più facile; la Laurina, senza declinazioni e senza
coniugazioni, a due anni e mezzo parlava il milanese benissimo...
invece per il latino ci vogliono otto anni.

Mi scappò detto:

— E non bastano — e mi pentii subito e soggiunsi serio serio: — bisogna
poi esercitarsi tutta la vita.

— Tu ti sei esercitato sempre? — mi domandò a bruciapelo Augusto. — Non
ne fai più degli errori?

Non vi era scampo; per mettere in salvo la dignità paterna senza dire
una bugia, bisognava rispondere in latino.

— _Errare humanum est; homo sum et nihil humani a me alienum puto_.

Augusto prima mi guardò in bocca curiosamente, poi si strinse nelle
spalle e se ne andò mugolando fra i denti: _nominativo domus la casa,
genitivo domi della casa, dativo domo alla casa, accusativo_...

Laurina, che da un'ora udiva suo fratello parlare dentro di sè quello
strano linguaggio, a un certo punto credette di aver capito, e mi venne
a dire trionfando:

— Babbo, io lo so quello che dice Augusto.

— Davvero, e che cosa dice?

— Dice che il duomo è più grande di una casa.

— E non ha forse torto...

Tutt'altro! Laurina gli dava ragione, ma non credeva che fosse
necessario ripeterlo tante volte. Era andata anche lei in duomo, e
aveva ben visto che era grande; e ciò che l'aveva colpita più di tutto
era stato un quadro, dove si vedeva una Madonna con le mani giunte, in
mezzo a tanti angeli rotti.

Rimasi un po' sbigottito anch'io, ma finii coll'intendere che gli
_angeli rotti_ di mia figlia erano testine alate.

Augusto, sentendomi ridere, ripigliava ferocemente la sua declinazione:
_singolare nominativo, domus la casa..._

La sua voce passava per varie gradazioni, si faceva tenera, poi
beffarda, per diventar dispettosa al primo intoppo, e tornar da capo
con ferocia.

Presa per quel verso, anche la seconda declinazione s'impuntava a non
volergli entrare in capo.

— Smetti — gli dissi — va a giocare, divàgati; ora studieresti
inutilmente, perchè pensi ad altro.

Ammutolì, segno che avevo indovinato.

— A che pensavi studiando?

— Pensavo che Laurina non sa il milanese soltanto, ma sa anche
l'italiano, senza essere mai andata a scuola; pensavo che a scuola...

— Ebbene a scuola?... — chiesi raccogliendo in un'interrogazione tutta
la severità paterna.

Non volle finire il suo pensiero, ed io intesi benissimo che egli
cominciava a pensare quello che ai miei tempi avevo pensato io, senza
confessarlo in casa.


VI.

Fu per opera della disperazione.

Non sapendo come consolarsi altrimenti della grama figura che faceva a
scuola col latino, mio figlio decise in cuor suo d'innamorarsi un'altra
volta. Quando uno studente ha preso una deliberazione così fatale alla
sua pace, per solito si guarda attorno, e se la fortuna lo aiuta, non
tarda a ritrovare il _caro oggetto_. Così fece mio figlio, e io ne fui
testimonio.

Una sera, verso il tramonto, le mammine e i babbi stavano alle finestre
del cortile a godersi le risate dei bimbi e la frescura.

Si giocava a mosca cieca, un giuoco allegro e senza pericoli, a cui i
_grandi_ avevano lasciato che pigliassero parte anche i più piccini,
per contentarli. E io raccomandava appunto alla mia Evangelina di non
perdere d'occhio le mosse furbe d'un marioletto alto una spanna, il
quale si accostava in punta di piedi per tirare la falda dell'abito a
_mosca cieca_, poi fuggiva un gran tratto, credendosi inseguito, poi si
fermava in distanza e alzava la testina trionfante verso un balcone del
terzo piano, per ricevere il plauso di uno spettatore indulgente.

Augusto no, non ci guardava; ci aveva interamente dimenticati; egli
aveva fatto alleanza con Angela, con la bionda Angela, quella dei
labbruzzi di ciliegia, ed era attentissimo a non lasciarla cadere nelle
mani di _mosca_.

Angela veniva su a vista d'occhio, ed era sempre la più vaga creaturina
che io avessi mai veduto; giocando si era fatta rossa rossa in viso, e
alcuni ricciolini di capelli erano sfuggiti al pettine; vi potete bene
immaginare che non ci perdeva nulla. Correndo intorno al penitente, e
voltandosi bruscamente quando aveva gridato _mosca_, si trovava ogni
tanto nelle braccia di mio figlio; allora si pigliavano per mano,
e mentre correvano così allacciati, Evangelina mi faceva notare che
Angela era due buone dita più alta di Augusto.

— Non può essere — diceva io — è la pettinatura che la fa sembrare così.

Invece era proprio _così_, anzi per ciò solo aveva dato nell'occhio ad
Augusto.

Egli le parlava senza impaccio, la maltrattava anche un tantino, col
pretesto di darle un savio consiglio o uno spintone salutare, ma ogni
tanto, guardandola di nascosto, pareva stupito di vedere cose a cui
non aveva mai badato, cioè un nasino birichino, due occhioni aperti e
sereni, e il resto.

A volte si distraeva in questa contemplazione e toccava ad Angela a
pigliarlo per un braccio, salvarlo da _mosca_ e tirarselo dietro un
tratto.

Una di quelle distrazioni fu fatale ai due futuri innamorati: _mosca_
venne presso a loro, allungò le mani, afferrò qualche cosa, strinse, e
tutto il coro dei bambini squillò battendo le mani: _presa! presa!_

Sì, Angela era presa; il disgraziato, che da mezz'ora brancolava nel
buio, si era già tolta la benda, si fregava gli occhi abbagliati e
rideva del proprio trionfo.

Angela pure rideva. Si fecero innanzi per metterle la benda tre dei
più impazienti e dei più audaci, ma così piccini che sarebbero stati
imbarazzati a cavarsene con onore, se Angela non si fosse chinata.

Allora entrò di mezzo mio figlio:

— Che cosa volete fare voi altri?

Prese la benda, appoggiò le labbra all'orecchio di Angela, per dirle
qualche cosa che nessuno doveva intendere, poi fece egli stesso la
bendatura, una bendatura che era una carezza, senza stringere troppo,
senza tappare le orecchie, senza imprigionare i ricciolini belli.

Insospettiti da tante precauzioni e dalle parole che mio figlio aveva
pronunziato all'orecchio di _mosca_, qualcuno, chinandosi a guardare
sotto il naso di Angela, insinuò: _ci vede_!

— Non vedo niente! — protestò la fanciulla.

A ogni modo bisognava stringere un po' più la benda per salvare le
apparenze della giustizia, e mio figlio non lasciò che altri se ne
immischiasse.

Una risata, un gridio confuso: _mosca! mosca!_; tre o quattro spinte
di qua e di là, e tutti i monelli si sbandarono lasciando la povera
ragazza sola nel mezzo del cortile.

La biondina era proprio impacciata, si moveva, appena chinandosi,
allungando le mani, ma non osando fare un passo per non cadere.

Si faceva già un gran ridere della sua disadattaggine e ne rideva anche
lei.

— State a vedere — disse Augusto con molto sussiego — state a vedere
che la vado a baciare e non mi piglia.

— Anch'io! — esclamò un altro.

— Tu no — rispose Augusto — soltanto io.

E come se avesse dato le migliori ragioni per convincere un avversario,
con queste quattro parole e con uno spintone il piccolo prepotente
ottenne che l'altro rinunziasse all'impresa; dopo di che vi si accinse
lui.

Si accostò in punta di piedi un tratto; poi tossì, poi disse «sono
qua» e si fece indietro, poi si spinse innanzi, la rasentò e fuggì —
impostore! — come se avesse paura d'esser preso; all'ultimo afferrò
Angela per le mani e la baciò più volte sulla bocca ridente. Ma o la
fanciulla era forte davvero, o mio figlio s'indebolì di troppo; il
fatto è che fu preso, e rimase lungamente stretto fra le braccia di
Angela, in mezzo alle risate del coro, che di nuovo strillava in buona
fede: _mosca! mosca!_


VII.

A tarda sera, quando le voci delle mammine timorose dell'umidità
scesero dalle finestre in cortile a richiamare i bimbi, e s'udì a
un tratto: — _Angela!_ — e noi aggiungemmo: _Augusto! Laura!_ — due
piccole ombre si staccarono dal muro, salutandosi alla libera, senza
stringersi la mano, senza guardarsi neppure in faccia, e si separarono
(ipocriti!) senza voltarsi.

Più difficile fu staccare Laura da un marioletto precoce, di tre
anni appena, il quale, perchè mia figlia gli faceva da mammina con
una pazienza da angelo, strillava come un piccolo demonio e voleva
portarsela a casa.

Quella notte Augusto vegliò a tavolino un'ora più tardi del solito,
perchè doveva rifare il còmpito, diceva lui. Quel còmpito, fatto e
rifatto dieci volte, incominciava invariabilmente, ineluttabilmente
così: «adorata fanciulla!»

Egli si provò anche, e io ne ritrovai le traccie, a scriverle dei
versi, ma vedendo forse che non gli tornava comodo dire a sillabe
contate e in rima tutto il suo pensiero, vi rinunziò quella notte,
e non credo che ricadesse mai più in tentazione. Perchè voleva amare
sul serio, amò in prosa; ma, o Muse! quale prosa e quanta! In ogni ora
del giorno io trovava mio figlio intento a consegnare a un pezzetto di
carta il suo grande amore.

Egli non si confidava meco, come potete immaginare: aveva al contrario
una gran paura dei miei sorrisi, delle mie parole buttate all'aria come
per proporgli la mia complicità, e custodiva gelosamente i tentativi
mal riusciti del suo stile epistolare, ma non così che io non trovassi
modo di seguirne nascostamente la formazione e lo sviluppo.

Nei primi giorni era uno stile saltellante a stento, come certa prosa
moderna; ma a poco a poco il suo periodo si allargò per lasciar entrare
in folla gli aggettivi, gli avverbi, le metafore e perfino qualche
pensiero originale e qualche sentimento genuino. E allora il suo stile
apparve gonfio, come certa prosa moderna. In capo a due mesi di tale
esercizio, Augusto era il primo della scuola per l'italiano, e il
signor maestro, uomo di modestia antica, si domandava in buona fede
come avesse fatto il birboncello a cavar tanto sugo dalle sue lezioni.


VIII.

E come accoglieva Angela la prosa di mio figlio? Tranquillamente, con
una gravità che era per me una rivelazione sempre nuova.

Lo dissi una volta a Evangelina, ed Evangelina trovò che avevo ragione:
«le fanciulle sono sempre mature per l'amore».

Forse perchè ancora non le erano spuntate le ali della rettorica, e
di quelle della grammatica e della ortografia non si poteva fidare
interamente, forse perciò solo era restia a scrivere, o lo faceva
con un laconismo degno dei bei tempi di Sparta; ma a ogni modo
quella prudente parsimonia di parole otteneva un doppio e magnifico
effetto: il suocero curioso ammirava l'anticipata dignità femminile
di sua nuora, non badando a qualche peccatuzzo contro l'ortografia, e
all'adorato Augusto, anche con doppia t, non pareva d'essere _adorato_
abbastanza.

Se quella fiamma avesse continuato un pezzetto ancora ad ardere
con la medesima felicità, non turbata da un alito di vento maligno,
probabilmente sarebbe andata a finire come le altre; un bel giorno
Augusto avrebbe scritto ad Angela per farle sapere che la tradiva, e si
sarebbe guastato un'altra volta col latino. Ma ad alimentare il fuoco
amoroso interveniva ogni tanto qualche piccolo litigio, e vegliava come
una rigida vestale, indovinate chi... la gelosia!

Sì, Augusto era geloso, e ah! non aveva che troppe occasioni di
esperimentare il morso del suo piccolo demonio. I giuochi innocenti
del crepuscolo erano dolcezza e fiele che la sorte gli mesceva
quotidianamente; i baci che egli otteneva di nascosto, squisita
ambrosia, erano attossicati da quelli che taluno più di lui ardito
carpiva in palese; vi era fra gli altri un suo compagno di scuola,
anche meno forte di lui nel latino, che non è dir poco, ma più forte
a pugni, il quale baciava impunemente tutte le ragazze e dava degli
scapaccioni ai maschi. Mio figlio restituiva coscienziosamente gli
scapaccioni, ma era impotente a vendicare i baci.

— Ti sei lasciata baciare! — rimproverava egli.

Angela non vi aveva colpa, era stata presa alla sprovveduta, e poi
giurava di non voler niente bene a quel monello.

— Che cosa devo fare? — diceva.

Che cosa doveva fare la poverina? Augusto pensava un po'; non sapeva
nemmeno lui.

— Mordilo — consigliava a casaccio.

Se il destino non aveva deciso altrimenti, queste scenette finivano
così, e finivano bene; ma a volte si tiravano dietro uno strascico di
musoneria crudele.

Allora mio figlio, invece di correre in cortile subito dopo il
desinare, con una freddezza calcolata si accingeva, contro l'igiene,
a fare il còmpito, il còmpito vero e proprio, o studiava la lezione
ad alta voce, in modo da essere inteso in cortile. Intanto io, senza
far le meraviglie del caso nuovo, mi andava a mettere alla finestra.
Angela, col musetto melanconico per aria, mi sorrideva, e io a lei;
pensavo con una contentezza che ora mi sembra singolare: «gli vuol
proprio bene!»

Avrei voluto gridarle: — non dubitare, verrà; — avrei anche voluto
andare a prendere mio figlio per un orecchio e trascinarlo ai piedi
della sua innamorata; ma il mio dovere di padre era di non accorgermi
di nulla.

Augusto resisteva un po', facendo anche lui lo sbadato; e quando io,
dopo un breve silenzio, chiamavo forte: Angela! e domandavo alla cara
fanciulla perchè non giocasse con gli altri, mio figlio prima gridava
più forte il suo latino della lezione, alzandone improvvisamente il
tono a simiglianza degli acquazzoni estivi, poi, come un acquazzone
estivo, improvvisamente abbassava la voce fino al mormorìo, poi
deponeva il libro sulla scrivania e si veniva a mettere accanto a me
per farsi vedere da Angela.

Ma vedendo lei così afflitta e così bella, sebbene essa non dicesse
parola e chinasse a terra la faccia arrossata dal piacere, un repentino
rivolgimento accadeva nell'animo del piccolo innamorato. «Ora vengo»
annunziava: «la so tutta!» soggiungeva rivolgendosi a me con poca
speranza di corbellarmi. — «Bravo!» conchiudeva io con molto sussiego.

Il monello è già lontano, è in cortile, è a braccetto d'Angela, e
interroga sospettoso la finestra del babbo, il quale guarda una nuvola,
come gl'insegna il suo dovere di padre.


IX.

Vedersi all'alba dalle finestre, affidare all'etere compiacente il
principio di un bacio che sarà compiuto con sicurezza più tardi,
incontrarsi poi su per le scale, in cortile, per via andando a scuola,
e potersi abbandonare verso il tramonto, col pretesto di rimpiattello
o di mosca cieca, ai teneri cicalecci dell'amore; ditelo voi che
dalla strada, perduti in mezzo alla folla, mandate i sospiri a una
finestra del quarto piano, chiusa da un padre severo, ditelo voi: non è
soverchia felicità?

E pure mio figlio non ne aveva abbastanza; gli rimaneva un desiderio
insoddisfatto, un desiderio prepotente: impadronirsi di Angela, non
lasciarla più... sposarla, sissignori! Povero Augusto! Io indovinava
la strana condizione del suo spirito innamorato; il tempo severo, il
tempo inesorabile non trattava la futura coppia allo stesso modo; era
con _lui_ lento, pigro, sgarbato; con _lei_ era vario, industrioso,
galante.

Già, sebbene minore di due anni, Angela era quattro dita più alta di
Augusto; e crescendo ogni giorno a vista d'occhio, rimaneva bella.

Un giorno scese in cortile coi capelli annodati in una foggia più
semplice, e un altro giorno la mamma le allungò le vesti, e un altro
giorno, tornando da scuola, non portò più i libri in mano, ma li
consegnò alla fantesca. Era semplice e innamorata ancora; ma non era
più la bimba d'una volta.

Augusto assisteva a questa trasformazione col cuore sgomento;
maltrattato dall'età, egli aveva il naso fiorito e la fronte piena di
bernoccoli; dimagrava senza crescere in proporzione e la sua faccetta
espressiva era oscurata da pensieri amari.

Fu un periodo di torture.

Dopo tutti i guasti che l'amore, l'età e il latino avevano fatto nel
corpo di mio figlio, la sorte gli riserbava un'altra afflizione ben più
amara: la partenza d'Angela!

Angela _partiva_, cioè a dire abbandonava a Pasqua il cortile e
la casa. Addio facili colloqui, addio sicuri baci, addio giuochi
innocenti, addio per sempre, addio, addio, addio!

Così scrivevano gl'innamorati, esagerando il tono pel gusto d'essere
molto infelici.

— Giurami che sarai mia o di niun altro — scriveva mio figlio, e Angela
giurava, per non sbagliare, su ciò che aveva di più sacro al mondo.

Venne il giorno crudele della separazione; Angela portò l'amor suo
in una via lontana, in un quartierino con le finestre verso corte. Il
disastro era compiuto.

No, ancora il disastro non era compiuto; ma che si dovesse compiere era
destino.

Facendo ogni giorno una carezza ad Angela, dando ogni giorno uno
scapaccione ad Augusto, aggiungendo un vezzo a lei, un furuncolo a lui,
il tempo maligno intraprese l'opera villana di separare l'inseparabile,
di distaccare due cuori che si erano giurati «su ciò che di più caro
eccetera» di battere l'uno per l'altro.

Solo un mese dopo la _partenza_ d'Angela, essendo andati a far visita
ai suoi genitori, la nostra nuora ci apparve trasformata; già Augusto
nel farsele intorno provava una soggezione istintiva.

Si adoravano ancora per iscritto, ma a quattr'occhi la bimba d'ieri
l'altro aveva certe movenze, certi sguardi da donna che sconvolgevano
tutto il sistema amoroso di mio figlio.

Fu peggio quando Angela, dopo essere rimasta cinque mesi in campagna,
tornò a Milano in novembre. Io stesso, vedendola, alla presenza
di mio figlio la chiamai _signorina_. E m'avvidi, dalla risposta,
dall'accento, da un certo sussiego carino assai, che non per la prima
volta un uomo barbuto le dava questo titolo che fa battere il cuore a
tredici anni.

Ma aveva essa tredici anni veramente?

Sì, tredici anni compiti, e li portava come una donnina: Augusto, a
disagio nei suoi quindici, se ne stava in un canto, solo col suo amore
spaiato. Non vi era più da farsi illusioni; al paragone di Angela,
mio figlio era un fanciullo; il giochetto d'amarsi poteva durare
alcuni mesi ancora, purchè egli si acconciasse alla parte di vittima
predestinata; doveva poi inevitabilmente finire per una sciabola che
picchiasse sul lastrico in onore della signorina, o per un sigaro
votivo che si accendesse nel buio della notte in una finestra borghese
verso corte.

Mio figlio sentì il destino che gli piombava addosso e lo prevenne. Il
suo sistema di tradimento perfezionato da una lunga pratica epistolare,
gli suggeriva di scrivere; ed avendo differito troppo, il caso volle
che egli si facesse bello d'un eroismo non suo: parlò.

Quel che egli dicesse alla sua bella, quali frasi adoperasse per
farle intendere che la lasciava libera di accettare gli omaggi
dell'ufficialità dell'esercito, non lo seppi mai.

Furono probabilmente poche parole dette nel vano della finestra
in salotto, un giorno che Angela era venuta a farci visita, mentre
la mamma, Evangelina e io affermavamo con mirabile accordo che la
temperatura si faceva rigida e che già il termometro segnava...

Che cosa segnava il termometro?

Io seguiva con la coda dell'occhio le mosse dei due che si erano
avvicinati con un po' di titubanza. Mio figlio parlava, scrivendo col
dito degli _A_ maiuscoli sui vetri appannati, e cancellandoli tosto;
Angela ascoltava guardandolo fissamente.

— Va bene — mormorò essa in ultimo.

E mio figlio, scattando come una molla, annunziò con molta disinvoltura:

— Nevica!

— Davvero?

— Davvero?

Ma già avremmo dovuto immaginarlo; da alcuni giorni la temperatura si
era fatta rigida, il termometro segnava...

Che cosa segnava il termometro?


X.

Un'ora dopo Angela se ne volava dalla mia casa come un uccelletto a
cui avessero aperto la gabbia; doveva essere impaziente di portare nel
mondo la libertà spensierata dei suoi tredici anni sonati.

Un amore bambinesco è un impaccio quando l'età annunzia alla fanciulla
che il vero amore non è lontano.

Come se non avesse aspettato mai altro, Angela approfittò così bene
della licenza, che in pochi mesi nessuno più potè supporre che essa
avesse avuto qualche cosa di comune col suo primo adoratore.

Ed era sempre più bella, la perfida! sempre più carina, sempre più
adorabile, la spergiura! Se ne avvedevano tutti, lo dicevano tutti,
tranne mio figlio.

Dall'alto del suo cielo amoroso, egli era ricaduto nella sua sepoltura
latina.

Già erano parecchi annetti che lottava con le regole, già si era
acciuffato con la sintassi e con la prosodia, già ripeteva enfiando
le gote: _Quousque tandem abutere_, quando un giorno entrò in casa una
gran notizia: Angela era sposa!

Laurina istintivamente si guardò nello specchio; mio figlio non
impallidì, non disse verbo; ma la mattina successiva trovai sulla sua
scrivania un rimasuglio di distico latino andato a male.

Si leggeva ancora non ostante le cassature:

    _Non tu, formosa..._
    _Te, pulcherrima... nuptiæ..._

Il resto non aveva voluto venire.



IL MARITO DI LAURINA


I.

Laurina dichiarava ancora di volere sposare a ogni costo il babbo,
o per lo meno la mamma, e già io mi era domandato cento volte tra il
serio ed il faceto: «Chi sa mai dove vive, dove abita, se è vicino o
lontano, e che cosa fa in questo momento? È bello? Studia? Si fa onore?
Io non lo vorrei grasso, nè melanconico. Sarà allegro, sarà magro?»

— Chi? — interrompe un lettore.

Il marito di Laurina.

«Che a quest'ora sia nato, non ne posso dubitare; la mia bimba è piena
di giudizio, e non commetterà mai la corbelleria di sposarsi a un uomo
più giovane di lei. Ma chi sa mai dov'è? forse a venti passi di qua;
forse agli antipodi, e a suo tempo dovrà fare mezzo il giro del mondo
per venirsi a innamorare di mia figlia».

A volte poi dicevo a Evangelina:

— Pensare che già il destino gli ha appaiati, che nostro genero è là,
in un punto dello spazio, e che egli, tutto occupato de' suoi studi,
non sospetta neppure che Laurina cresce e si fa bella, con la missione
di fargli perdete la testa!

Evangelina crollava il capo, e dava un'occhiata alla sua creatura,
la quale intanto ingannava il tempo dell'aspettazione facendo un
sermoncino alla bambola, o leggendo a voce alta in un libro tenuto alla
rovescia.

Col tempo questo essere mal definito, che se ne viveva in un cantuccio
dell'orbe terraqueo, aspettando che la sorte gli mettesse innanzi
mia figlia per avere la degnazione di pigliarsela, col tempo questo
fidanzato anonimo si andò facendo bello di tutte le virtù.

Non aveva che dieci anni più di Laurina; era alto, snello e bruno;
portava i baffi e la mosca, e fra i baffi e la mosca un sorriso
in cui si leggeva la sua anima buona. Apparteneva a una eccellente
famiglia borghese, e un po' di ben di Dio al sole non gli mancava; più
che d'altro era ricco della volontà, che insegue la fortuna, della
perseveranza che la raggiunge, della prudenza che, raggiuntala, non
se la lascia sfuggire di mano, dell'amore che raddoppia ogni ricchezza
divisa.

Sì, era innamorato e non si poteva lagnare, perchè era anche
corrisposto.

Si dovevano sposare fra dieci anni o dodici, una bella mattina di
maggio, prima dinanzi al Sindaco, poi in chiesa; e appena sposati se ne
andrebbero per l'Italia, coi treni diretti, per ritornare un mese dopo
a Milano più innamorati di prima.

Lo conoscevo, gli volevo bene, me n'ero fatto un amico, e chiamavo lui
pure: «mio figlio»; ma non perciò quel fantasma di genero diventava
importuno.

Solo nelle ore di ozio di suo suocero, egli veniva qualche volta a
fargli visita, e appena si annunciava un cliente o appariva un usciere,
se ne andava alla chetichella. Poi le sue visite si vennero facendo
tanto più rare e fuggitive, quanto più il tempo dell'avvocato Placidi
diventava prezioso.

E un giorno, in un viale dei pubblici giardini, mentre io me n'andava
superbamente a spasso, con mia figlia a braccetto, egli mi disse un
«addio» melanconico, e mi voltò le spalle per sempre.

Quella scena mi sta sempre dinanzi agli occhi.

Io mi vedo dunque con la mia Laurina a braccetto, in un viale
dei pubblici giardini, poco prima dell'imbrunire. Ho la testa in
processione, non penso a nulla: cioè no, penso che sono contento di
me, che mi è finalmente riuscito di sfuggire ai miei clienti, i quali
mi seguirebbero volentieri da per tutto, alle preture, in tribunale,
in appello, in cassazione, alla passeggiata, all'inferno; penso che
comincio a mettere pancia, ma senza ombra di rammarico, perchè sotto la
toga un po' di pancia fa bella figura; e penso che mia figlia, la quale
mi cammina al fianco con passo spedito, gettando ogni tanto nel caro
vuoto del mio cervello una domanda o una esclamazione, mi arriva oramai
al mento, sebbene io porti la testa alta. E penso che, nel vedermi
passare con tanta solennità, la buona gente, che mi conosce di vista,
appena appena si arrischia a salutarmi, temendo di turbare il corso dei
miei gravissimi pensieri.

Due giovanotti ci passano innanzi, si voltano, ci guardano, sorridono
e si comunicano le loro impressioni. Mi pare di comprendere che uno ci
abbia presi per inglesi, e che l'altro, dandogli pienamente ragione,
aggiunga che viaggiamo per la luna di miele; e invece di sentire i
sussulti della mia vanità di uomo ben conservato, mi adiro dentro di me
e vorrei correr dietro a quei due malaccorti e gridar loro: — «Balordi,
oh non vedete che la mia Laurina ha sedici anni e che io sono suo
padre?» Mia figlia mi domanda ridendo:

— A che pensi?

E io rallento il passo che avevo accelerato involontariamente. — Tu,
quando pensi molto — osserva Laurina — corri e non te ne accorgi.

La guardo, le sorrido, ed ella si contenta, e io riconosco che la gente
ha ragione, che mia figlia ha propriamente l'aria di una donnina, e che
vista al fianco d'un uomo... cioè che io... visto al fianco di lei...
Assolutamente il mio amor proprio d'uomo ben conservato vuole la parte
sua; ha lasciato passare la colleruzza dell'offeso sentimento paterno,
ed è rimasto ad aspettare, ma gli hanno fatto l'elemosina e non è punto
disposto a restituirla.

È l'ora di evocare il fidanzato di Laura: eccolo alla svolta del viale;
è più grave del solito avendo dovuto invecchiare ad un tratto di tre
anni, nondimeno sorride perchè il momento sospirato si avvicina.

— Lo conosci quel signore? — mi domanda mia figlia.

«Se lo conosco! è una mia creatura! Sono ormai dodici anni che ci
conosciamo; quel signore non è un signore; è di casa; guardalo bene, è
lo sposo che tuo padre ti ha preparato... Sorridigli, te lo permetto,
fallo felice, amalo...»

Vidi questa risposta come se qualcuno la scrivesse rapidamente innanzi
a me, e pensai: «verrà un giorno che dovrò risponderle così»; poi volsi
il capo per seguire con gli occhi il signore che era passato. Appunto
si voltava egli pure, e io ebbi agio di vederlo.

— Non lo conosco — dissi a mia figlia; — credo di non averlo mai
veduto, pare un capo d'ufficio o un colonnello giubilato. Ma perchè mi
fai questa domanda?

— Ci è già passato vicino due volte, e ci ha guardati fisso; e non oggi
soltanto... anche l'altro giorno...

— Sarà un frequentatore dei giardini pubblici...

— L'altro giorno eravamo in galleria...

— Gli sembrerà di conoscermi... non è una cosa difficile... a Milano
tutti sanno chi è l'avvocato Placidi...

Mi arrestai in tronco, perchè mia figlia mi strinse più forte il
braccio, bisbigliando:

— Zitto, è lui!

To'! Laurina riconosceva _quel signore_ al passo!

Era un passo frettoloso, saltellante e accompagnato da una bizzarra
musica di stivali, ma per averla così bene nell'orecchio, mia figlia
aveva già dovuto udirla più d'una volta.

Quel signore ci raggiunse, guardò Laurina lungamente, passò oltre,
sempre saltellando, e giunto alla estremità del viale, tornò indietro a
passo lento, trovando ancora il modo di saltellare.

Feci in un istante le più strambe congetture.

«Quello è un parente lontano, forse un cugino della madre di mia
moglie; emigrò all'estero per disperazione amorosa, non essendo potuto
arrivare al cuore della sua bella, buon'anima, prima di mio suocero;
è rimasto scapolo, si è fatto milionario; ora ritorna in cerca di
un erede; dicono che la mia Laurina sia tal quale il ritratto di sua
nonna a sedici anni; gli sembrerà di rivederla; mia figlia, grazie al
cielo, non ha bisogno che nessuno s'incomodi dall'America per portarle
la dote, ma se le piovesse un milioncino nel cestello di nozze non
offenderebbe nè me, nè lei, nè la misericordia celeste».

Stavo serio, perchè l'incognito si avvicinava, e dentro di me
ridevo; intanto che venivo pagando alla meglio il tributo d'ilarità a
quell'idea barocca, altre idee si facevano avanti.

«Quello è un padre di stampo antico, che non si fida del criterio del
suo primo maschio, e vuole scegliergli lui stesso la sposa. Laurina ha
un'aria tanto modesta, ed è così carina, che non si potrebbe fare una
scelta migliore. Rimane a vedersi se a noi conviene il pretendente...».

L'incognito non era più che a pochi passi, e io, guardandolo alla
sfuggita, vidi con uno sgomento nuovo che egli saltellava peggio di
prima, e che avea preso una cert'aria civettuola e galante, facendo
luccicare stranamente le pupille nella loro cornice di rughe e piegando
la testa con un vezzo tutto suo.

Non volevo credere ai miei occhi; e mi bisognò pure arrendermi alla
evidenza quando il vecchietto, passandoci rasente, spinse l'ardire fino
a manifestare il suo incendio con un sospiro.

Proprio così: quello che io credeva un colonnello americano imbarazzato
nel far testamento cercava forse un erede, ma lo voleva legittimo, e
aveva messo gli occhi su mia figlia.

— È un matto! — dissi a Laurina in maniera d'essere inteso dallo strano
pretendente, e attraversai il viale per cacciarmi fra le aiuole.

Speravo così d'avere sgominato il vecchio satiro, ma voltandomi poco
dopo vidi che egli saltellava per raggiungerci da un'altra parte e
pigliarci ancora una volta di fronte.

Intanto all'estremità del viale, un giovinotto bello e melanconico
mi faceva addio con la mano, senza che io trovassi un accento per
dirgli: — «rimani, tu sei la gioventù, tu sei la forza, tu sei l'amore;
chiedimi oggi stesso la mano di Laurina, e Laurina è tua». L'audacia di
un balordo stagionato mi toglieva la forza di trattenere il mio ideale.

— Affretta il passo — dissi a Laurina. Essa senza comprendere, mi
secondò, e a me parve di averla sottratta a un pericolo, quando alla
porta di casa vidi che l'incognito non aveva potuto seguire le nostre
traccie. «Sia ringraziato il cielo — pensai; — l'asma lo ha tradito!»

— Chi era quel vecchio? — mi domandò un'altra volta mia figlia.

Io, per non ispaventarla troppo, svelandole il mio pensiero, le dissi
che era un matto, che non poteva essere se non un matto.


II.

Non era un matto! O almeno egli non si credeva tale.

Ci aspettò un giorno, due, tre, nei viali dei giardini pubblici e
in galleria; all'ultimo non ne potendo più, fece un rapido esame di
coscienza, un paio di proponimenti spicciativi, ma saldi, diede un
addio frettoloso alla sua bella vita di scapolo, e si presentò alla
porta di casa mia per chiedermi la mano di Laurina.

Io stava meditando un ricorso in cassazione; avevo trovato undici cause
di nullità nella sentenza d'appello, che dava torto al mio cliente;
ed ero attento a trovarne ancora una, per fare la dozzina, quando una
musica in anticamera ruppe la mia industria.

«È lui!» pensai, rizzandomi in piedi di scatto, come per ricacciarlo
fuori dell'uscio, ma mi rimisi subito a sedere. Uno dei miei scrivani
mi portò un biglietto di visita.

— Aspetti — dissi, senza nemmeno guardare; e rimasto solo lessi,
sotto uno stemma coronato, un magnifico nome, uno di quei nomi che non
invecchiano e sembrano dover essere portati dai giovanotti soltanto:
Libero de' Liberi.

Guardai all'uscio ripetendo dentro di me: «Non sarà male che faccia
anticamera».

L'impazienza mi vinse e gridai:

— Fatelo venire innanzi.

Perchè mi tremava la voce?

Il signor Libero de' Liberi entrò. Era proprio lui, ed io potei subito
notare che si era premunito alla meglio contro la prima impressione e
che usciva allora allora dalle mani del parrucchiere.

— Ho il piacere di parlare all'avvocato Placidi? — disse sorridendo
risolutamente.

Avevo avuto tempo di fare anch'io il mio proposito, e mi accontentai
d'inchinarmi e di accennargli una sedia.

Egli impiegò un tempo relativamente lungo nel mettersi a sedere, e
parve cercare un istante qualche cosa fra le proprie gambe e quelle
della seggiola; ma vedendo ch'io non fiatava, si decise a ripigliare la
parola:

— Vengo per un affare delicato... un affare, dirò così, delicato...
propriamente delicato...

Non era carità la mia di starmene ad aspettare in silenzio il resto,
ma volevo che il vecchio temerario pagasse sino all'ultimo quattrino il
prezzo della sua balordaggine.

Ed egli parlava, sebbene io facessi di tutto per intimorirlo; diceva:

— L'avvocato Placidi non è celebre per nulla: la fama narra che egli ha
il cuore... pari all'ingegno...

Vedendo che io non apriva bocca nemmeno per interromperlo e per
respingere la sua adulazione, proseguì mutando accento:

— Quando un uomo ha un negozio... dirò così... difficile per le mani,
e gli bisogna un valido patrocinio, non vi è meglio che l'avvocato
Placidi. Non dica di no...

Io non diceva nè sì nè no, ma a questo punto mi venne la debolezza
di credere che il signor Libero de' Liberi, invece di aver fatto
quella grande asineria che consiste nell'innamorarsi a sessant'anni
di una fanciulla di sedici, stesse lì lì per commettere quell'altra
di trascinare il suo prossimo in tribunale. E siccome, essendo così
le cose, era mio stretto dovere di non negargli tutto il mio «valido
patrocinio» e di accogliere con dignitosa gratitudine le sue parole di
lode, gli staccai gli occhi di dosso un momentino per inchinarmi.

Non l'avessi mai fatto! Gli balenò sulle labbra un sorriso di
trionfo, e dal modo con cui, senza nemmeno rispondere al mio inchino,
si accomodò sulla seggiola, appoggiando il dorso alla spalliera ed
accavallando una gamba sull'altra, io vidi che oramai si teneva sicuro
della vittoria.

— Il mio negozio è intricato — ripigliò a dire con crescente
disinvoltura — si tratta del mio futuro matrimonio.

Si cancellò dalla mia fronte fin l'ombra della condiscendenza che
vi era balenata un istante; ma quell'uomo singolare non se ne avvide
nemmeno e tirò dritto:

— Sissignore, si tratta del mio matrimonio, poichè sono ancora celibe.
Dirà che all'età mia è un po' tardi; ma prima di tutto quanti anni
crede che io abbia?...

Mi lesse in faccia che la risposta non lo avrebbe contentato, e si
affrettò a togliermi con garbo l'arma che mi aveva messo sbadatamente
nelle mani.

— Ho cinquantacinque anni, anzi non gli ho compiti ancora; li avrò fra
un mese e sette giorni... Non credo che sia troppo tardi per pigliar
moglie... nè troppo presto — soggiunse per rispondere forse ad un
sorriso ironico che aveva visto sulle mie labbra. — Ho saputo aspettare
io! Ne conosco più d'uno che a quest'ora è pentito di non avermi dato
retta, e di aver avuto troppa furia di prender moglie, come se le
ragazze da marito dovessero mancare... La leggerezza, signorini miei,
guasta i nove decimi dei matrimoni; il mio non può andar a male...
perchè vi ho pensato molto.

Ancora non avea messo innanzi la mia figliuola, e io poteva, senza
commettere villania, cedere alla tentazione di dargli il fatto suo, e
chi sa? fors'anche prevenire una discussione fastidiosa. Quand'egli
si vantò d'aver pensato molto al suo matrimonio, io, senza ombra di
malignità nell'accento, feci la mia timida osservazione:

— Forse troppo!

Fu come se gli avessi avventato una doccia fredda; rimase stordito
alquanto, subito reagì, baldanzoso come un galletto.

— Le domando scusa, credo d'averci pensato abbastanza e niente più.

— Le domando scusa anch'io — entrai a dire con un magnifico accento da
minchione che tante volte ho poi cercato inutilmente di imitare; — le
domando scusa anch'io, ma con le persone che si degnano di richiedere
il mio patrocinio, ho sempre avuto l'abitudine d'essere schietto. Non
vi devono essere sottintesi fra un avvocato e il suo cliente; è la mia
massima.

Egli m'interrompeva col gesto, io avevo infilato la mia dimostrazione,
e non ero disposto ad arrestarmi fin che fossi andato alla fine.

— Prima d'entrare nei particolari del suo negozio, mi lasci esprimere
alcune idee generali. Scopo del matrimonio è, o almeno dev'essere, la
figliolanza; quando gli sposi sono giovani, hanno dinanzi l'avvenire;
la prole nascitura, salvo impreveduti disastri, è al sicuro, perchè
crescerà sotto l'occhio amoroso dei genitori, i quali avranno tutto il
tempo d'invecchiare al servizio della felicità dei loro figli; passata
una certa età, il matrimonio significa l'abbandono innanzi tempo delle
creature stentate che si metteranno al mondo.

Vedendo l'inefficacia della sua mimica per troncarmi in bocca il
periodo, il signor De' Liberi aveva preso bravamente il partito di
lasciarmi dire, annotando con una fregatina di mani le parole che,
secondo me, dovevano ferirlo nel vivo.

Quando io tacqui, egli non si affrettò neppure ad interrompermi, e
solo dopo essersi fregato ancora una volta le mani mi disse, curvando
il capo verso il pavimento e guardandomi di sotto in su in una maniera
vezzosa:

— Posso parlare?

— Parli.

— Ecco — incominciò egli, imitando malamente la strana dolcezza del
mio accento — ella può avere mille ragioni astratte, che al caso mio
non fanno, per tante altre ragioni concrete che le dirò poi. Ripeto
che ella può avere mille ragioni astratte, non dico già che le abbia.
Dirò anzi, se permette, che non nè ha nemmeno una. Mi spiego. Che
del mio matrimonio sia scopo la figliolanza, passi in rettorica, ma
logicamente non può passare. La figliolanza è per solito la conseguenza
del matrimonio, ed io desidero che il mio non faccia eccezione; ma
lei non mi vorrà dire sul serio che i coniugi senza prole siano come
chi dicesse i falliti del matrimonio, e che la loro unione riesca
inutile. Io voglio pigliar moglie anche per avere dei figliuoli, ma
prima di tutto perchè ho visto abbastanza del mondo da contentare tutte
le curiosità pericolose per la vita domestica, e posso oramai aprire
tranquillamente il cuore a un affetto vero e durevole. Piglio moglie
perchè credo giunta per me l'ora di essere amato e d'amare; e il mio
affetto non sarà cieco, anzi si vanterà d'essere intelligente. Se non
isbaglio, ho qualche anno più di lei....

— Quindici — insinuai con garbo.

— Ho qualche anno più di lei, e si può fidare della mia esperienza.
Ebbene, io le assicuro che i giovani non sanno amare, che prima dei
quarant'anni nessuno può vantarsi di sapere l'abbici dell'arte di
rendere felice una donna; io la so tutta...

Si era andato accalorando a poco a poco, e nella foga della
confutazione aveva smesso l'accento melato dell'esordio; ma a questo
punto indovinò forse nel mio sorriso il timore che egli avesse
avuto tempo di dimenticare quell'arte di cui s'impara l'abbici
a quarant'anni, perchè, abbassando la voce e ripigliando il fare
carezzevole di prima, ripetè:

— Ho cinquantacinque anni non compiti, sono nel fiore dell'età. Io le
leggo in faccia, che, sebbene più giovane di me, lei si crede vecchio;
invecchi per davvero e diventerà della mia opinione. È il difetto
della nuova generazione, quello di voler essere decrepita. La natura
aveva assegnato all'uomo un periodo di vita, al cui paragone le nostre
due età messe insieme fanno appena appena una fiorente virilità. La
fisiologia delle piante e degli animali ha dimostrato che ogni creatura
vivente può campare otto volte il tempo che impiega a raggiungere il
suo massimo sviluppo. L'uomo si forma fino a venticinque anni; faccia
il conto; sono dugento anni di prova che l'umana impazienza è riuscita
a ridurre a meno della metà. Ma io non sono impaziente; ho buona salute
perchè mi sono goduto il mondo con metodo. Faccio conto di campare
ancora molti anni, di vedere i miei figli maschi nell'esercito o in una
pubblica amministrazione, e di dare alle mie ragazze dei mariti... che
mi somiglino...

Sorrise con malizia. Era la prima allusione alla mia Laurina, ma non
andò oltre. Contentone della parte che gli avevo messo nelle mani, non
voleva barattarla con un'altra. Senza sfidare apertamente un rifiuto,
egli difendeva la sua causa con comodo sapendo benissimo d'essere
inteso. Ed io quasi mi pentiva di non averlo messo con le spalle al
muro.

— Mettiamo — ripigliò dopo una pausa — per farle piacere, mettiamo che
scopo del matrimonio sia la figliolanza, mettiamo che mia moglie mi
dia dei figli, mettiamo anzi allegramente che me ne dia una dozzina, e
infine mettiamo che un accidente imprevisto mi faccia morire prima del
tempo e tolga alla mia famiglia il più amoroso dei mariti e dei padri;
il danno, relativamente alla enorme sventura, sarà irreparabile per me
solo.

Abbassò la voce e prese un'aria modesta nel soggiungere:

— Sono ricco!

Non sapevo veramente come ribattere; nel campo dei ragionamenti
astratti tutto quello che ancora potevo opporre era un _ma_.

— Me ne rallegro — risposi — ma...

Egli pensò ch'io volessi maggiori spiegazioni e rincalzò così l'ultimo
suo argomento:

— Sono ricco, e non me ne vanto, perchè le mie ricchezze non me le
son fatte io: ad ogni modo, sia ringraziato mio padre buon'anima,
sono ricco; posseggo ottocentomila franchi quasi tutti in cedole del
debito pubblico e in risaie. Se sarà necessario, assicurerò la mia
vita a favore dei miei eredi. Io non ho la sciocca paura di morire
subito dopo essermi assicurato; tutt'altro; so, perchè me lo insegna
la statistica, che chi si assicura ha la probabilità di campar molto
di più, e che solo perciò le società d'assicurazioni spartiscono dei
grassi dividendi. Ma posso morire d'una caduta da cavallo; posso essere
fulminato, sebbene la mia casa di città e quella di campagna siano
munite di parafulmini; posso perire in uno scontro ferroviario...

— Possiamo — interruppi gravemente — essere presi alla sprovveduta in
una notte serena, ed essere accoppati e seppelliti in un punto solo, da
un bolide che ci caschi addosso.

— Perciò — prosegui senza scomporsi — mi propongo d'assicurare la mia
vita; e lo farò la vigilia delle nozze. Sarà una specie di dote che
porterò io a mia moglie, la quale deve entrare nella casa coniugale col
suo fardelletto di ragazza e niente più.

Questa volta credette proprio d'avermi soggiogato, perchè mi piantò gli
occhi in faccia come un creditore. Lasciai durare il silenzio quanto
bastasse a far perdere al mio avversario un po' di sussiego, poi dissi
tranquillamente:

— Io sono qui a discutere con lei intorno a una teorica, di cui non
veggo l'applicazione.

— L'applicazione, l'applicazione.... l'applicazione eccola: lei ha una
figliuola che mi piace, sissignore, mi piace; mi piace molto, mi piace
troppo, mi piace tanto che vorrei sposarla. Non conoscendo nessuno per
farmi presentare — proseguì dopo una breve pausa con accento più umile
— eccomi qua alla libera; siccome è un negozio che mi sta a cuore,
ho voluto trattarlo in persona. Non ignoro che corrono pel mondo dei
pregiudizi contrari alla mia felicità; voglio difenderla io stesso.

Parlava con una gravità inusata, e non pareva più il medesimo uomo di
prima, quando soggiunse:

— Se dopo queste spiegazioni, rimane ancora qualche cosa di bizzarro
nella mia condotta, signor avvocato, si metta nei miei panni e mi
difenda lei.

Era il punto difficile: al momento di dare un'afflizione a quell'uomo
audace, io lo trovava simpatico, e quasi non mi pareva audace; era
ben conservato, non bello, ma di lineamenti regolari; se non gli
aveva ritinti, i capelli che gli rimanevano erano pochi ma neri.
Pensavo: «quanti babbi e quante mammine si lascerebbero tentare dalle
sue ottocentomila lire di patrimonio! Palazzo in città, palazzo in
campagna, risaie, cedole del debito pubblico.... Oh! quante fanciulle
di sedici anni perderebbero la testa!...

— In tutto ciò — risposi gravemente — io non vedo altro di bizzarro se
non la sproporzione dell'età; che lei pigli moglie a cinquantacinque
anni è cosa naturalissima, non avendola presa prima... ma lei forse
ignora quanti anni ha la mia Laura.

— Laura! Si chiama Laura?

— Si chiama Laura Antonietta Maria Eugenia, e non ha che _sedici_ anni!

Pronunziai queste parole in modo che dovessero colpirlo, e per verità
egli parve scrollato. Senza dargli tempo di riaversi, proseguii:

— Vedendola alla passeggiata, al braccio del babbo, quando giuoca alla
signorina, può ingannare, ma è proprio una bimba; va a scuola e veste
ancora la bambola di nascosto.

Mi ascoltava a bocca aperta; uscito dal primo stordimento, i sedici
anni di mia figlia non lo scoraggiavano più; tutt'altro; pareva
estasiarsi a ogni mia parola e ricominciava a farmi dispetto.

— Sedici anni! — balbettò quando io tacqui vedendo che le mie parole
non facevano altro che solleticare la sua fantasia amorosa... — Sedici
anni sono pochi... quando non sono abbastanza. Questa volta credo
che bastino: come lei dice benissimo, la signorina Laura è molto
sviluppata; vedendola alla passeggiata, non le si darebbero sedici
anni soltanto... Sedici anni!... compiti beninteso... che significano
diciassette pel giorno delle nozze. Ebbene in fede mia, tanto meglio:
io non ho nulla in contrario!...

— Mi spiace di contraddirle — interruppi infastidito; — ma sono
costretto a ringraziarla dell'onore che vuol fare a mia figlia...

— Un momento: non mi dica di no, senza lasciarmi parlare. Lei stesso
poco fa diceva naturalissimo che io pigliassi moglie...

— Sicuro... e soggiungerò, se me lo permette, che nei suoi panni la
vorrei stagionata.

— Mi scusi tanto, ma lei farebbe una corbelleria. Alla mia età non vi
è altra scelta: o rimanere scapoli, o sposare una fanciulla, non dico
proprio di diciassette anni...

— Manco male!

— Ma che non abbia passato i venti. Un matrimonio, come lo voglio
fare io, ha tutte le probabilità di essere felicissimo; non si sono
ancora ficcati dei grilli in una testina di fanciulla; non vi sono
entrate delle opinioni storte, quasi non vi sono entrate nemmeno
delle opinioni; è un terreno vergine, pronto a ricevere ciò che vi
si saprà seminare. Io non costringerò già mia moglie a fare quello
che mi piacerà, ma farò mia moglie come mi piacerà che sia, cioè a
dire felice. E perchè una moglie sia felice, mi pare che debba essere
affettuosa, modesta, casalinga e innamorata... del marito. Sbaglio?
A diciassette anni è già una festa il solo entrare in possesso d'un
mazzo di chiavi; giocando a far la padrona, la fanciulla si innamora
della casa e si fa un'abitudine dell'amor coniugale. Una felicità
così incominciata deve sfidare il tempo a dispetto dei teatri, de'
libri e delle amiche; perchè, dica lei: che cosa mancava quasi sempre
nei matrimoni andati a male? «Mancava il marito». Le abitudini, le
curiosità, le irrequietezze dei giovani d'oggi fanno che nella maggior
parte dei matrimoni il marito sia assente. La moglie abbandonata si dà
per disperazione ai romanzi e alle amiche. E se una volta sbaglia, e
per eccesso di disperazione si dà anche a un amico, di chi la colpa?...
Sorride, signor avvocato? Segno che ho ragione...

— Lei non ha torto, lei dice delle cose piene di giudizio; ma io non
posso rispondere altro se non che per ora ho tutt'altro per il capo che
dar marito a mia figlia...

— Ebbene, aspetterò... posso aspettare.

Lo guardai in faccia come si guarda un portento, egli indovinò il mio
pensiero e soggiunse:

— Non dico d'aver del tempo da buttar via, ma per farle piacere posso
aspettare... Sentiamo, quanto tempo vuole che io aspetti? Un anno,
due?...

— Si va fuori di strada, caro signore; io da lei non voglio nulla; se
mi fa l'onore di chiedermi la mia opinione astratta in proposito del
suo matrimonio, io glie la dò nuda e cruda. I ragionamenti con cui lei
difende la sua causa sono speciosi, sono belli, fanno, come diciamo
noi, _effetto_; ma a chi ne ricerca il fondo appaiono quello che sono:
i sofismi dell'impotenza.

Quest'ultima parola per poco non lo fece andare in collera, e
gli bisognò adoperare tutta la sua forza d'animo per respingerla
pacatamente.

— Impotenza no... tutto quello che vuole, signor avvocato, ma
impotenza, no; io sono nelle sue mani; maltratti me, se crede, ma non
offenda le verità fisiologiche...

— Non ho voluto offendere la fisiologia, e se l'ho offesa senza saperlo
ne chiedo scusa — proseguii: — le dicevo dunque il mio parere astratto;
ed è che il matrimonio deve essere comunanza d'idee, di istinti,
di bisogni, di aspirazioni, di sentimenti, cementata dall'amore. Le
sproporzioni enormi di età creano quasi sempre un legame fittizio, in
cui deve essere o tutto sacrifizio da una parte o tutta condiscendenza
dall'altra...

— Un po' di sacrifizio da una parte — interruppe con accento melato —
un po' di condiscendenza dall'altra....

— Se poi mi chiede mia figlia — proseguii senza badargli — le dirò
che io non ne dispongo come una derrata; se ne disponessi, mi piace
parlarle schietto, non gliela darei.

— E, a parer suo, si stenterà a trovar un padre che voglia dare alla
propria figliuola un uomo come me, senza il costo d'un quattrino?...
perchè io non voglio dote...

— Non dico questo; credo anzi che lei non istenterà niente affatto: ma
le consiglio di riservare sempre per ultimo, come fa oggi, l'argomento
della dote. Dare la dote alla propria figliuola, anche se costa un
sacrifizio, è un diritto che i genitori si tengono caro, a cui essi non
vogliono rinunziare.

Mi guardò con una gran voglia di contraddire al mio ottimismo, ma io
guardai lui bene in faccia, s'inchinò e tacque.

— Forse — disse poi freddamente — quando la signorina Laura saprà...

— Mia figlia — interruppi levandomi da sedere — non saprà nulla; essa è
in età che non mi obbliga a consultarla.

Con questa dichiarazione esplicita gli diedi un colpo tremendo.

— È singolare — balbettò — lei dispone così della felicità di sua
figlia senza nemmeno interrogarla.

— Scusi, ma io non dispongo di nulla; lascio mia figlia libera di fare
a suo tempo, e con giudizio, la propria felicità.

— La felicità — sentenziò quell'ostinato — non si presenta sempre due
volte; io ho la coscienza di poter fare felice la signorina Laura, e
mi pare che non vi sarebbe alcun male se la signorina conoscesse le mie
intenzioni...

— La signorina Laura — ribattei con pacatezza — fino a due anni fa era
contenta di sposare il babbo: dica un po' lei se mi devo pigliare la
briga di metterle in capo il suo strano progetto.

— Voleva sposare il babbo! — esclamò con gioia quell'innamorato
testardo; — voleva sposare il babbo!...

— Scusi — dissi per troncare la sua estasi — dimenticavo che sono
aspettato.

— Ritornerò — diss'egli prontamente — ci pensi...

Mi porgeva la mano, ed io la presi un momentino; s'inchinò, m'inchinai,
sparve.

Rimasto solo, mi sentii come sopraffatto dal peso di una sventura che
le mie forze paterne non bastassero a sopportare, e corsi a gettare il
mio sgomento nel seno di Evangelina.


III.

Evangelina rise. L'idea che Laura a sedici anni avesse suscitato
la follìa amorosa d'un vecchio celibe, e sopratutto che io me ne
affliggessi come d'una sventura toccata alla nostra bambina, questa
idea la metteva di buon umore.

— Me lo farai conoscere — diceva; — quando egli tornerà mi avvertirai,
e io starò al finestrino per vederlo passare. Ma perchè non ridi anche
tu?

Provavo, ed era inutile; mi pareva che il vecchio pretendente fosse
rimasto lì, in qualche cantuccio della stanza, a crollare il capo
dicendo: «Tu ridi pure, io tanto tanto sposerò tua figlia».

— Ridi — insisteva Evangelina.

— Che ci vuoi fare? non posso. Mi sento umiliato per Laurina,
mi pento sinceramente di non essere stato abbastanza villano con
quell'imbecille, perchè in sostanza egli ha quasi avuto gli onori della
giornata co' suoi argomenti...

— La ragazza non glie l'hai data!

— È tutt'uno, egli si crede sicuro di pigliarsela; lo dice chiaro che
è ricco, che è ben conservato, che sa tutta l'arte di amare. Laura non
potrà resistergli, egli ne è persuaso... Torna, torna, vecchio balordo,
e te lo darò io l'irresistibile...

Evangelina non ne poteva più; le mie parole non le lasciavano trovare
un po' d'equilibrio; rideva dondolandosi di qua e di là come una pianta
tormentata dal vento, e a un mio ultimo gesto essa aprì disperatamente
le braccia e si buttò, per ridere meglio, sul canapè.

— Sia ringraziato quel signore... come si chiama? Non avevo mai riso
tanto in vita mia.

Io ero interamente placato; avrei riso volentieri anch'io, ma
m'ingegnavo di mantenere il seriume perchè Evangelina se lo potesse
godere.

— Ha da capitare proprio a Laurina! — esclamai.

— E che vi è di male? — interruppe mia moglie. — A trovare un
pretendente come lo vogliamo noi, nostra figlia ha tempo, ma uno come
questo non le si presenterà mai più.

— Che ne sappiamo noi? Io comincio a credere che per ogni fanciulla
che arriva alla maturità, vi sono almeno due vecchi ben conservati ed
impazienti che aspettano.

— Io ne sono persuasa.

— La società è fatta così — proseguii: — i giovani vanno in cerca delle
donne stagionate... degli altri, e i vecchi si pigliano le fanciulle.
Ma pensa un po' che orrore! la nostra Laurina!...

Ammutolii. Laurina entrava allora. Con quel suo sennino perspicace,
capì subito che stavamo troppo zitti, buttò un'occhiatina qua e là,
tanto da non aver l'aria d'accorgersi che ci dava noia, e s'avviò
all'uscio opposto per andarsene com'era venuta.

— Laura!

Si arrestò sulla soglia, volgendo a me la faccia sorridente; le feci un
cenno ch'ella comprese e corse a buttarmisi nelle braccia. Stringendole
il mento con una carezza, e tenendo la sua testina alla distanza di
tutto il mio braccio allungato cominciai burlescamente una specie di
esame malizioso, che a un tratto, pensando all'avvenire ignoto di mia
figlia, si volse in tenerezza profonda, e subito dopo in dispetto.

E mi venne detto senza avvedermene: animale! perchè mi si presentava
alla mente quel vecchio egoista, che a lasciarlo fare...

Evangelina ripigliò a ridere, come se io avessi dato il segnale, mentre
nostra figlia veniva interrompendo ora il babbo, ora la mamma:

— Che cosa è stato? Perchè ridete?


IV.

Provai da quel giorno un bizzarro sentimento verso mia figlia, un misto
di tenerezza e di rispetto, come se a un punto medesimo si fosse fatta
donna e rifatta si fosse bambina.

Anche Evangelina sentiva a quel modo.

— Se penso che Laura ha già avuto una proposta di matrimonio, non mi
pare neanche più la mia figliuola; e quando faccio il conto e trovo
che il pretendente può quasi essere suo nonno, mi sembra ieri che mi fu
resa dalla balia.

Per non dire il vero a nostra figlia, ci credemmo in obbligo
d'inventare una storiella, tanto da acquetare la sua curiosità; ma
Laura ci fece intendere in silenzio che accettava le nostre parole come
già aveva fatto dell'ultimo balocco, per chiuderlo senza scontentarci
in un cassetto.

— Scriviamone al babbo — suggerì Evangelina.

— Andrà in collera.

— Al contrario, si farà un po' di buon sangue, povero vecchio!

Povero vecchio! Ohimè, sì, il tempo passa e mio suocero non era più
quel vecchietto vivace, che saltava intorno ai nipotini; era oramai un
nonno venerando, sebbene egli non ne volesse convenire ed ammettesse
appena appena che cominciava a declinare. Aveva passato la sessantina
e serbava, ultimo fiore della sua folta canizie, il buonumore schietto.
Lavorava ancora per non darsi vinto, per non invitare la morte, diceva
lui, a fargli visita prima del tempo; la filanda di Monza era il suo
castello, e da qualche tempo ne usciva di mala voglia per non essere
preso in un agguato.

In compenso delle visite che ci faceva desiderare troppo, mandava
frequenti lettere a sua figlia, a suo genero e sopratutto a suo nipote.
Aveva trovato non so dove un certo stile semplice, snello e pieno di
malizia, che gli stava bene in pugno e che egli maneggiò alla prima
senza impaccio; quattro facciate di una scrittura fitta fitta spesso
non bastavano a esaurire il suo umore giocoso; ve n'entrava anche in un
_poscritto_ nei margini.

Erano confidenze, erano consigli, erano gai sermoncini che egli
faceva ad Augusto, e sopratutto disegni per l'avvenire. Sì, l'amabile
vecchietto assicurava a mio figlio, studente di leggi all'Università
di Pavia, che verrebbe un giorno in cui se la spasserebbero insieme.
«L'avvenire è di chi sa aspettarlo». Questa frase, che ricorreva spesso
nelle sue lettere, era per lui tutta la filosofia consolatrice della
vecchiaia.

Naturalmente nell'epistolario del nonno era un posticino anche per
Laura, un posticino appena, tre pagine in tutto. «Non so che cosa
scriverti», diceva per iscusarsi di lasciare una pagina bianca; «ho
dimenticato come si fanno le letterine alle fanciulle; ai miei tempi
l'educazione delle ragazze era già una cosa tanto complicata, che se
per poco è andata peggiorando come il resto, si corre il rischio di
fare uno sproposito dopo quattro parole».

Quando io gli scrissi della domanda di matrimonio del signor De'
Liberi, seguì quello che ci aspettavamo.

— Non bastando un intiero volume a raccogliere la sua vena, vedrai —
avevo detto a Evangelina — vedrai che verrà a Milano.

— E vorrà vedere da vicino il pretendente, non vi è ombra di dubbio.

Venne infatti, e parve che avessimo indovinato tutte le sue intenzioni,
perchè, penetrando in casa all'improvviso, era splendente ed irrequieto
come un fuoco d'artifizio, e la sua prima domanda fu:

— Dov'è?

Credevamo che parlasse del signor De' Liberi, egli invece voleva vedere
Laurina, e quando seppe che fino alle due era sempre a scuola, ripetè
con una meraviglia ingenua:

— A scuola! È in età da marito e me la mandate ancora a scuola!

Si avvicinò alla finestra per vedere se per caso Laura attraversasse
in quel punto il cortile tornando a casa; poi guardò l'orologio senza
veder l'ora, poi lo guardò un'altra volta per veder l'ora, e finalmente
disse:

— E come sta Augusto? Benone; mi ha scritto anche l'altro ieri; — però
studia troppo, si vuole ammazzare quel povero ragazzo... Che bisogno
vi è di studiare tanto per far gli esami? Io glie lo raccomando sempre;
gli esami si fanno come si può, si passa a scappellotto, poi si diventa
avvocati famosi.

Mi pose una mano sull'omero per avvertirmi che parlava per celia, e
proseguì:

— La vostra lettera mi ha fatto venire una magnifica idea; quella
ragazza non bisogna più mandarla a scuola, è ora di darle marito...
anzi, mi meraviglio di non avervi pensato prima.

— Volevi darle marito a quindici anni?

— Darglielo è un conto, pensarvi è un altro; mi pare che se avessi
pensato a questo per cacciar la malinconia...

— Hai la malinconia tu? — chiesi con accento incredulo.

Egli alzò una mano e cominciò solennemente:

— Ragazzo mio...

Ma si pentì subito, e finì la frase in una risatina, fra le braccia di
sua figlia.

— E che cosa fa Laurina a scuola?

— Studia...

— L'arte di far felice il nonno gliela insegnano a scuola? Quelle
letterine francesi che mi manda le scrive a scuola? Sa la storia, sa
sonare il pianoforte, sa far di conto... che altro studia?

— Le ragazze d'oggi devono sapere la storia naturale, la fisica, la
geometria, la chimica, il tedesco e qualcos'altro...

Egli alzò gli occhi al cielo per chiamarlo in testimonio di quanto
stava per dire, e disse un'eresia. Disse, il cielo glielo perdoni,
disse che per mettere al mondo dei figliuoli le ragazze non hanno
bisogno di sapere la chimica.

Non ci domandava conto del signor De' Liberi, ed io, impaziente di
veder mio suocero in preda alle convulsioni dell'ilarità, fui il primo
a mettergli innanzi quell'argomento saporito.

— E il signor De' Liberi? Non dimentichiamo il signor De' Liberi.

Immaginavo d'essere interrotto da uno scoppio di buon umore; ma siccome
mio suocero sembrava aspettare la spiegazione del mio accento beffardo,
mi toccò soggiungere:

— Ah! quanto ne abbiamo riso!

— È ritornato? — domandò senza ridere.

— Ancora no, e mi stupisce; alla sua età non si ha tempo da buttar
via...

Mio suocero fu pronto a interrompermi.

— Quanti anni ha?

— Te l'abbiamo scritto, cinquantacinque sonati.

Egli mi guardò in faccia e sentenziò severamente:

— A cinquantacinque anni si è ancora giovani; a quaranta qualche volta
si è ancora ragazzi.

— E a sedici?

— A sedici anni — prosegui il vecchio rasserenato e sorridente — a
sedici anni si è bambine o si è donnine, secondo i casi. Laura, per
esempio, è una donnina e bisognerà darle marito presto.

— Diamole il signor De' Liberi! — insinuai.

— Lascia stare il signor De' Liberi; che cosa ti ha fatto il signor De'
Liberi?

— Mi ha chiesto Laurina in moglie, ed io propongo di contentarlo; egli
è ancor giovane, è nel fiore de' suoi cinquantacinque anni sonati... la
sproporzione d'età non gli fa paura...

— È la sproporzione d'età che lo attira — mormorò mio suocero come
rispondendo a sè stesso — è l'infanzia che ci attira tutti; quando i
nostri capelli cominciano a incanutire, sono le larve della gioventù e
dell'amore che...

Ci voleva un po' di silenzio in coda a questa reticenza filosofica, ma
noi forse ne mettemmo troppa, perchè il vecchietto si scosse, ci guardò
in faccia, e questa volta ridendo in modo esuberante, dichiarò che se
le ragazze a sedici anni sono la vera e propria calamita della gente
calva o canuta, uno che sotto la calvizie o la canizie conservi almeno
un dito di cervello deve farsi forza e resistere; e che il signor De'
Liberi era un asino calzato e vestito se pigliava un istinto per un
bisogno e la propria debolezza per la propria forza.

— Però s'ha a compatirlo — si affrettò a soggiungere... — e levarcelo
dai piedi con garbo. Me ne incarico io, purchè...

Ogni tanto gettava un'occhiata in cortile, attraverso i vetri; a un
tratto s'interruppe e passò un raggio di luce sulla sua faccia.

— Eccola! — mormorò appoggiando il viso alla vetrata... — quanto è
cresciuta! quanto è bella! Ma chi è quel signore che l'accompagna?

— È lui — esclamai picchiando il vetro colla fronte.

Era il signor De' Liberi! Sempre saltellante e disinvolto, e
accompagnato sempre dalla sua musica, che attraversava i vetri e
giungeva fino a noi, egli camminava accanto a mia figlia, la quale
non sospettando la perfidia in un uomo di quell'età, gli fissava
in volto gli occhi innocenti, mentre egli le diceva... Che cosa mai
le diceva?... E la fantesca? Stupida creatura! Eccola là che arriva
tranquillamente in ritardo, dando un'ultima occhiata e buttando un
ultimo pezzo di dialogo al portinaio.

Un momento dopo Laura venne di corsa a portarmi una carezza, a mezza
strada vide il nonno che aspettava a braccia aperte, sviò e fu prima da
lui.

— Ci è di là un signore... vecchio — disse quando potè uscire
dall'amplesso.

— Chi è quel signore _vecchio_? Che cosa ti diceva? Come mai ti seguiva?

— È quello stesso che abbiamo visto insieme nei giardini, te ne
ricordi? quello che porta gli stivali canterini... Ieri uscendo da
scuola lo incontrai per via e mi salutò, oggi pure, per combinazione
veniva da te... Montiamo nell'_omnibus_ e monta anch'egli; ci troviamo
a sedere dirimpetto... — La signorina Placidi? — mi domanda. — Sì,
signore — rispondo. — Ho fatto male?

— No, no, tira via...

— Conosco il babbo — prosegue lui; — lo vado appunto a trovare; crede
che sarà in casa a quest'ora? — Credo di sì — rispondo. — Poi l'omnibus
si ferma, egli scende, m'aiuta a scendere e lascia che Margherita
faccia da sè. E ora è là che ti aspetta per parlarti di un negozio
importante.

— Come lo sai?

— Me l'ha detto lui che ha un negozio importante con te; mi sembra un
po' chiaccherino quel signore e anche un po' curioso; voleva sapere se
vado volentieri a scuola... Nel salutarmi mi ha detto di conservarmi
_sempre così_... Sempre così... come?

Mio suocero non istette ad ascoltare altro, e s'avviò incontro al
signor De' Liberi; io, temendo che ne facesse scempio, gli venni
dietro.


V.

Non si sgominò niente affatto vedendo comparire due persone invece
d'una; ci accolse con un inchino, con un sorriso, e appena fu a tiro,
s'impadronì della mia mano.

— Mio suocero — cominciai a dire...

— Il nonno! — esclamò egli — l'avrei indovinato; è il suo ritratto!

Con questa bugia enorme egli metteva fuor di combattimento un
avversario, ma inaspriva l'altro; perciò soggiunse, rivolgendosi a me:

— È strano che uno possa somigliare a molte persone, che poi fra loro
non hanno ombra di somiglianza.

Io ammisi concisamente che era strano, e pregai il signor De' Liberi di
mettersi a sedere.

— Il signore — dissi parlando a mio suocero, con l'aria d'informarlo
per la prima volta — il signore ci ha fatto l'onore di chiedere la mano
di Laurina.

Era inutile proseguire perchè mio suocero, ancora gongolante della
sua somiglianza strana con mia figlia, faceva intendere col capo e col
sorriso che sapeva tutto, e che era disposto a compatire ogni cosa.

— Vengo per la risposta — disse il signor De' Liberi, rivolgendosi
addirittura al nonno.

— La risposta... — balbettò il pover'uomo imbarazzatissimo nel
dover dare un'afflizione in cambio di una lusinga; — la risposta
non deve offenderla... Noi comprendiamo... io capisco benissimo e so
compatire... alla nostra età... lo dicevo poc'anzi con mio genero...
l'infanzia ci attira...

Il signor De' Liberi pareva in un'angustia grande; gli era penetrata
una spina in una parte molto sensibile... non poteva star fermo...

— Scusi... — diceva; ma mio suocero non era uomo da lasciarsi
interrompere al momento di prendere il filo.

— Scusi lei... — ribatteva: — Laura è proprio una ragazza, sebbene
paia una donnina a vederla, non è possibile pensare a questo matrimonio
sul serio. Si figuri un po' l'avvenire; pochi anni ancora e noi saremo
vecchi quando Laura...

Questa volta il signor De' Liberi non potè resistere.

— Quanti anni ha il signore?

— Capisco che cosa vuol dire — rispose mio suocero; — ho infatti
qualche anno più di lei; ma questo non fa nulla; non siamo ancora
vecchi nè io nè lei, ma abbiamo intenzione di invecchiare; almeno io ce
l'ho...

— Ce l'ho anch'io, ma col tempo... mentre lei, mi scusi...

— Io... scusi... alle ragazze di sedici anni ho rinunziato da un pezzo,
e se dà retta a me, deve rinunziare anche lei.

Mio suocero, dicendo queste parole, non somigliava niente affatto
a Laurina; aveva messo nella voce un piccolo tremito d'impertinenza
garbata, e gli lucevano gli occhi nella cornice ispida di peli bianchi.
Il signor De' Liberi fu impassibile.

— Vi rinunzio — disse con sussiego impagabile; — aspetterò che ne abbia
venti.

Mio suocero ed io ci guardammo esterrefatti da quella minaccia; poi
ridemmo senza pigliarci soggezione. Rise anche il signor De' Liberi, ma
solo per farci smettere, poi proseguì:

— E siccome sono un galantuomo, oso sperare che il signor avvocato non
mi vorrà chiudere le porte di casa sua come a un monello o a un nemico.

Che cosa rispondergli? Che al contrario le sue visite ci avrebbero
sempre fatto piacere...

— Grazie — disse egli rizzandosi da sedere; — un'altra volta la
pregherò di presentarmi alla sua signora; ora me ne vado...

— Creda pure — entrò a dire mio suocero interamente placato.

— Creda... — dissi io.

— Credano — disse lui — non mi dispero mai, perchè so aspettare.

— L'avvenire è di chi aspetta — sentenziò mio suocero.

— A ben rivederla.

— A ben rivederli. — Infilò l'uscio, e seguìto da noi, attraversò le
stanze senza voltarsi; sulla porta d'ingresso fece un ultimo inchino e
sparve.

Un momento dopo attraversava il cortile a passo di conquista, e
sollevava gli occhi alla finestra, forse con la speranza di vedere la
piccola dama de' suoi pensieri. Ci ritirammo in fretta per non farci
scorgere; ed io, lasciando spenzolare le braccia dinanzi a mio suocero
che mi stava a guardare a bocca aperta:

— Mia figlia è condannata — dissi. — Non ho più speranza di salvarla.

— Che cosa dici mai?

— Dico che quell'uomo è capace di aspettare quattro anni e di
sposarsela; è il destino che lo vuole.

Un po' del mio timore superstizioso era penetrato nell'animo del povero
nonno.

— Vedremo anche questa — diceva. — È impossibile che Laurina stia
quattro anni ancora senza trovar marito. Gliene troveremo uno, bisogna
trovargliene uno subito... io ti aiuterò.

— Stando a Monza!

— Che credi? Se appena appena mi tenti, sono capace di piantare la
filanda per cacciarmi in casa tua come un invalido... Mi vuoi?

— Vieni — esclamai solennemente — vieni a ripetere queste parole in
faccia a tua figlia e a tua nipote.

Io lo trascinai meco, ed egli lasciò fare ridendo.


VI.

A forza d'invocare la parola data e di ripetere che l'uomo deve a
sè stesso, non già nella vecchiaia, ma prima, un po' di riposo nel
seno della propria famiglia, mio suocero si indusse a scrivere al
suo ragioniere, affidandogli l'incarico di assestare ogni cosa e di
affittare o vendere la filanda; e al momento di abbandonarmi la lettera
preziosa perchè io pensassi ad avviarla a Monza, egli prima vi mandò
un gran sospiro, poi mi spiattellò in viso che tutte le mie insistenze
e tutte le moine di sua figlia e la stessa parola che gli era sfuggita
non gli avrebbero impedito di andarsene se non fosse stato di...

— Di Laurina?

— No d'un'idea, d'un capriccio che m'è venuto.

Non volle dir altro e parve accomodarsi con sufficiente rassegnazione
alla nuova vita. Però la sera di quel medesimo giorno mi disse:

— È strano; mi sembra un anno che ho rinunciato alla filanda, non
ho mai sentito come ora il bisogno di andarmene... non dubitare,
rimango... non per te, sai? non per voi altri, ma perchè sono un
egoista, un impertinente, uno sfacciato...

Non capivo nulla, ed egli pigliava gusto a confondermi sempre più il
cervello.

— Mi diranno incontentabile, lo dicano, sono fatto così e non mi sono
fatto io. Ho un'idea ardita — ripeteva — e non te la voglio dire.

Aveva invece una gran voglia di dirmela, ma quella era un'idea così
ardita, ch'egli stentava a esprimerla ad alta voce per timore d'essere
castigato.

Quando meno vi pensavo, rompendo un altro filo di ciancie che pareva
dovesse durare un gran pezzo, mio suocero mi fermò, fermandosi, e con
voce malsicura:

— Te lo voglio proprio dire — disse — te lo voglio proprio dire quello
che mi sono messo in capo: dar marito, il più presto possibile, alla
mia Laurina.

— Sapevamcelo! — esclamai.

Egli mi diede un'occhiata compassionevole e soggiunse maliziosamente,
senza badare all'interruzione:

— Darle marito perchè ti faccia presto nonno. Tu non sai cosa sia
essere nonno e non te ne puoi fare un'idea.

— Grazie — gli dissi con falsa solennità; — la tua premura mi commuove,
io non ho fretta.

— Se non l'hai tu, l'ho ben io.

— Tu sei già nonno; che te ne importa?

Ma la luce che era sulla faccia gongolante del povero vecchio, illuminò
il mio cervello: il gran segreto mi fu svelato.

— Bisnonno! — esclamai.

— Bisnonno — disse abbassando la voce — voglio essere bisnonno, sono
forse ancora in tempo, e Laurina non è capace di farmi penare.

Quando questa idea fu entrata nel cervello di mio suocero l'occupò
tutto, e vi regnò dispoticamente, mattina, sera e parte della notte.
Gli venivano da Monza notizie incerte e contraddittorie sulla filanda
che lo aveva tenuto prigioniero tutta la vita; il compratore non si
trovava; il compratore era trovato; il compratore era pentito. E mio
suocero rimaneva impassibile e sicuro del fatto suo.

— So già come andrà a finire — diceva — il compratore c'è, ma tarda
a farsi innanzi per spendere meglio il suo denaro; all'ultimo momento
arriverà di corsa; intanto... diamo marito a Laurina.

— Non ha che sedici anni — osservava mia moglie.

— Compiti, quasi diciassette; tu non ti sei forse maritata a
diciassette anni?

— Scusa babbo, ne avevo quasi diciotto.

— Non gli avevi compiti. Vediamo, che vita fate voi altri? Non avete
una sera di ricevimento? Non andate in qualche casa dove Laurina possa
farsi vedere?

— Andiamo in casa del Cavaliere...

— E che si fa dal Cavaliere?

— Si discorre, si giuoca, si suona il pianoforte.

— Laurina sonerà a quattro mani; io starò attento a voltar le pagine...
E quando si va in casa del Cavaliere?

— La casa del Cavaliere è aperta ogni giorno.

— In casa del Cavaliere — proseguì Evangelina — si trova sempre la
mensa imbandita, una chicchera di caffè, un bicchiere di birra e uno di
rosolio.

— Le ragazze vi trovano marito?

— Qualche volta sì...

— Mi farai conoscere il Cavaliere — conchiuse mio suocero gravemente.

La casa del Cavaliere, come la chiamavano per abbreviazione, era
veramente la casa degli amici, di cui si notava una straordinaria
affluenza in tutte le stagioni dell'anno.

Il proprietario era a quel tempo un bel vecchietto di sessantacinque
anni, senza un pelo di barba sulla faccia rifiorita; aveva avuto in
passato un solo nemico, una malattia di nervi, che gli aveva dato
battaglia assidua senza riescire a fargli perdere la cordialità con gli
uomini e la galanteria con le signore. E la cordialità e la galanteria
avevano in lui strane esigenze. Andarsi a sedere nel posto più
infelice, dare il braccio alle due signore più vecchie e affliggersi di
non poter rimorchiare la terza nei passi difficili, mettersi addosso,
sotto il sole di luglio, gli scialli di tutta una comitiva di donnine
timorate della costipazione, offrirsi primo a far le strade più
disastrose per portare una notizia, scrivere calligraficamente dieci
lettere di quattro pagine per raccomandare una persona ignota senza
dar fastidio a dieci conoscenze. Tutte queste e altre simili imprese
erano il suo pane quotidiano. Vi ringraziava se gli davate una piccola
noia; se gliela davate grande, ve ne serbava una gratitudine eterna.
Sacrificarsi per il prossimo era la sua ambizione, se pure non era il
suo destino, se pure non era la sua condanna. Glielo dissi una notte
che, dopo essergli andato incontro alla stazione, egli non aveva avuto
pace finchè non gli era riuscito di accompagnar me fino all'uscio di
casa mia.

— Cavaliere — gli dissi — lei espia qualche colpa orrenda; in un'altra
vita, Dio sa quante me ne ha fatte vedere! Ma a quest'ora le ho
perdonato.

Era dunque in casa del Cavaliere che mio suocero si proponeva di
trovare il marito di Laurina.


VII.

Il mercoledì successivo era giorno di gala per il Cavaliere. La
notte prima, all'ora di entrare in letto, un telegramma era venuto a
dirgli che il colonnello Ipsilonne, antico compagno d'armi che egli
credeva morto nella battaglia di Novara, sarebbe arrivato all'una dopo
mezzanotte per ripartire all'alba.

Bisognava andargli incontro alla stazione perchè il colonnello
Ipsilonne lo diceva chiaro, in quel linguaggio telegrafico che ha
tanta somiglianza col linguaggio disciplinare del reggimento: «trovati
alla stazione». E poi sapere che quel povero Colonnello scampato
alla mitraglia passava tre o quattro ore in una sala d'aspetto, che
doveva essere stanco, forse annoiato, forse pieno di sonno, sapere
tutto questo e rimanersene nel proprio letto e non vegliare e non
annoiarsi egli pure, sarebbe stato un egoismo feroce, degno della
sua vita passata, e il Cavaliere, ritornando al mondo, aveva promesso
solennemente, al Padre Eterno, di emendarsi.

Era adunque andato alla stazione ed aveva trovato l'antico compagno
d'armi in gran collera contro l'Amministrazione delle strade ferrate,
per un involto che si era perduto; al Cavaliere era riuscito di placare
il Colonnello, di trovare l'involto e di incaricarsi a farlo pervenire
al suo recapito; poi egli aveva cenato, senza averne voglia, al caffè
della stazione, pagando lui. Insomma aveva passato una bellissima
notte.

Spuntava il sole del mercoledì quando il Cavaliere se ne tornava a
casa beato. Non si fregava le mani perchè le aveva occupate tutte due
da quell'involto birbone, causa di tanta collera e di tante fatiche,
non essendosi trovato, a quell'ora mattutina, altro che un cocchiere
il quale dormiva a cassetta così profondamente che sarebbe stato una
crudeltà svegliarlo.

Dunque quel giorno il Cavaliere era beato; veramente, per una di quelle
inesplicabili contraddizioni a cui cedono anche le nature più generose,
egli si provava a farci credere che mandava al diavolo il Colonnello;
ma il sorriso lo tradiva, e gli si leggeva benissimo in faccia l'intima
compiacenza di aver perduta la notte.

Erano tutti là, i fedeli frequentatori della casa comune del
Cavaliere. Si trovavano benone ed accorrevano dai quattro punti
cardinali, sfidando ogni sorta d'intemperie, se ne andavano intorno
alla mezzanotte, e il Cavaliere li accompagnava fin sulla strada per
ringraziarli un'ultima volta dell'incomodo che si erano preso.

La padrona di casa aiutava con molto garbo il Cavaliere suo marito a
compiere la missione che gli era stata affidata in terra, sopportando
con disinvoltura la propria porzione di noie.

Erano dunque tutti là; il vecchio maggiore giubilato, dando alla
comitiva ordini e contrordini che il solo cavaliere eseguiva per tutti;
l'avvocato M., mio buon collega, conosciuto in tribunale per la sua
eloquenza non meno che per la sua pancia; Arturo, il bello, giovine
impiegato d'ordine, che aveva di sè un altissimo concetto; il signore
A, la signora B, il conte C, e le altre lettere dell'alfabeto.

Mio suocero fece prima straordinariamente lieto il padrone di casa,
poi fu condotto in giro a dichiararsi anche lui lietissimo di far la
conoscenza degli altri, e, dopo questa iniziazione, trovandosi libero
di fare il suo comodo, cioè d'andarsene a spasso in giardino o in
sala da pranzo a fare una fumatina, egli si sdraiò in un seggiolone a
dondolo e cominciò l'esame dei giovani, senza perder d'occhio Laurina
la quale se ne stava accanto al pianoforte, in un crocchio di fanciulle
dell'età sua, che sfogliavano della musica, minacciandoci di molte
sonate a quattro mani.

Ogni tanto il mio vecchietto mi chiamava per chiedermi:

— Chi è quel giovane alto e biondo, con l'occhialetto a sghimbescio,
che volta le spalle alle ragazze?

— È il bell'Arturo; viene qui regolarmente per farsi rapire, ma queste
povere ragazze non hanno ancora abbastanza coraggio per un'impresa
simile.

— E quell'altro che legge, chi è?

— È il signor Paolo, un buon figliuolo; viene qui a leggere la gazzetta
sotto la protezione della mamma; così almeno una volta alla settimana è
informato di quanto accade nel mondo.

— E gli altri sei giorni?

— Studia, dipinge, suona e se ne vergogna; temo che faccia dei versi,
ma non ne sono sicuro.

— Bisognerà domandarglielo.

— Guardatene bene; spirerebbe ai tuoi piedi...

— E perchè viene?

— Perchè ci viene sua madre, quella vecchietta che trema in
quell'angolo.

— Non mi piacciono i timidi — brontolava mio suocero, e ripigliava a
guardare di qua e di là...

A un tratto nel vano dell'uscio, in fondo alla sala, apparve agli occhi
nostri una visione...

— Il signor De' Liberi — balbettai.

Egli si fece innanzi, ci passò rasente, fingendo di non vederci, mosse
incontro alla padrona di casa, sempre seguìto dal Cavaliere, si fece
presentare alle signore, salutò con sussiego i signori, e, passando
dinanzi al crocchio di fanciulle, mi parve che gettasse un'occhiata
come si getta un laccio quando ci si ha molta pratica. Allora qualcuno
sospirò dentro di me: «L'ha presa!».

Mio suocero ed io ci guardavamo negli occhi.

Il signor De' Liberi, che perseguitava mia figlia fin fra le pareti
della casa del Cavaliere, pareva a tutti e due uno di quei personaggi
fatali che frequentano i vecchi romanzi.

Ma come mai quell'uomo era riuscito a penetrare nella casa dell'amico
nostro?

La spiegazione che ne ebbi dal Cavaliere doveva empirmi di
superstizioso terrore, perchè si faceva chiaro che un destino
rimbambito favoriva i disegni del vecchio innamorato. Pensate:
l'involto, il pernicioso involto che il Cavaliere aveva portato con le
sue proprie mani, per incarico del colonnello Ipsilonne, era diretto
appunto al signor Libero De' Liberi!

Non potendo tardare un minuto a compiere il mandato — (egli diceva:
«volendo sbarazzarsi della seccatura») — il Cavaliere era andato a
quell'ora mattutina fino alla porta di casa De' Liberi, e colà aveva
lasciato nelle mani del portinaio l'involto, un biglietto di visita
ed una piccola bugia scritta con la matita: «Il Cavaliere Tal dei tali
manda da parte del colonnello Ipsilonne».

Il signor Libero De' Liberi, che sapeva il fatto suo, si avviò, dopo
il mezzodì, a casa del Cavaliere col pretesto di ringraziarlo; e parlò
dell'avvocato Placidi come d'una vecchia conoscenza.

— Gli amici dei nostri amici... — cominciò il Cavaliere incalzato dal
suo destino e dal mio.

Il signor De' Liberi l'aiutò a stiracchiare con grazia il vecchio
proverbio... e si fece invitare ai famosi mercoledì.

Il resto si capisce. Per non perder tempo, l'ardito vecchio cominciava
dalla stessa sera.

Bisognava vederlo, il signor De' Liberi, per farsi un'idea della sua
faccia tosta! Un'ora dopo il suo ingresso aveva stretto un'altra volta
la mano a tutte le signore, senza scontentare gli uomini.

Aveva la barzelletta pronta, un repertorio di aneddoti e di sciarade, e
il caro dono di quel bizzarro seriume che fa ridere tanto.

Tutta quella gente, che non lo aveva ancora visto in faccia alla luce
del sole, era pronta ad aprirgli il proprio cuore.

Egli trionfava modestamente, ed io, che lo teneva d'occhio, lo vidi,
più d'una volta, raccogliere con un sorriso gli omaggi della comitiva
e deporli, con un'occhiata, ai piedi di mia figlia, che non si avvedeva
di nulla.

Le ragazze intanto avevano lasciato il pianoforte per vedere i giuochi
di prestigio, e chi faceva i giuochi di prestigio era sempre lui, il
signor De' Liberi.

Ma il pianoforte non perdona; a un tratto fece udire un accordo
secco. Era il bell'Arturo che si lagnava dell'abbandono in cui veniva
lasciato. Allora il signor Paolo gli venne accanto:

— Suoni qualche cosa lei — gli disse l'altro.

Il signor Paolo sonare innanzi a tanta gente! Questa idea mostruosa gli
fece paura, volle fuggire, ed ecco il drappello di fanciulle che alla
nota voce del pianoforte accorre e lo circonda.

Qualcuna ha udito le parole del bell'Arturo e ripete:

— Sì, signor Paolo, suoni qualche cosa!

Ahi! Povero signor Paolo!

Egli si guarda intorno smarrito, non vuol dire di sì, non può dire di
no, è preso, è spinto, è messo a sedere, e le sue dita strappano dalla
tastiera l'accordo della disperazione.

— In si bemolle! — esclama una voce.

Mi volto, ci voltiamo tutti: è il signor De' Liberi.

Egli si alza, fa il giro dell'ampia tavola da giuoco e, col pretesto
di mettersi alle spalle dell'infelice pianista, si spinge in mezzo alle
ragazze fino al fianco di mia figlia.

Il signor Paolo non ode più nulla; suona un galoppo vertiginoso,
come per istordirsi, suona a capo basso, guardando sotterra; e suona
benissimo.

Poi si alza e fugge senza raccogliere gli applausi.

— Un pezzo a quattro mani! — raccomanda la padrona di casa.

Ma la modestia è contagiosa e nessuna delle ragazze si vuol cimentare.
Allora il signor De' Liberi si volge a mia figlia e, pigliandola per
mano:

— Lo soneremo noi un pezzo a quattro mani, non è vero signorina?

Evangelina, disgraziata!, ride.

Mio suocero ed io, invece, saltiamo in piedi tutti due. La vecchia
volpe incomincia a farci paura sul serio.


VIII.

Il signor De' Liberi, sia fatta giustizia, attaccò con grande
sicurezza, e perchè la mia figliuola, alquanto sbigottita in principio,
toccò un bemolle che non era in chiave, egli le disse che andava
benissimo, ma che in chiave non v'erano che quattro bemolli. Dopo
di che camminarono di conserva entrambi, senza alcun intoppo, fino
all'ultima battuta.

Fu un subisso d'applausi, di cui il vecchio mariuolo non volle
pigliare la porzione che gli spettava per farne omaggio a mia figlia,
aggiungendovi anzi i propri battimani tranquilli.

Avvenne poi un rimescolìo di persone, durante il quale mia figlia si
trovò respinta dal pianoforte per lasciare il posto a tre signorine
impazienti di sonare a quattro mani. Si udì appena, appena:

— Sonate voi altre...

— No, voialtre.

E quella che si era tirata alquanto indietro per aggiungere un po' di
mimica modesta alle proprie parole, fu subito lasciata in disparte.

Le due povere ragazze sonarono, sonarono bene, sonarono anche forte
per vincere il chiasso delle ciancie, ma tanto tanto nessuno le udì,
tranne, forse, la terza signorina la quale era rimasta in piedi alle
loro spalle, e, voltando le pagine, misurava la distanza che separava
le amiche dall'ultima battuta.

Il Cavaliere dichiarava il signor De' Liberi un pianista di prima
forza, e il signor De' Liberi rifiutava quest'onore dicendo che tutto
il merito era di mia figlia; che quanto a lui da più di un anno non
toccava un pianoforte — (Doppio merito!» osservava giustamente il
Cavaliere); — che quando si fa la vita disordinata dello scapolo non
si trova tempo a nulla, e non ci vuole meno di una piccola maliarda
per stimolare l'estro artistico (io gli scagliai un piccolo fulmine, ma
egli guardava Laurina che era distratta); che del resto si proponeva di
risvegliare il proprio pianoforte più tardi.

Dicendo le ultime parole mi guardava; io guardai lui fissamente e
gli dissi alla muta no; egli resse all'urto e ripetè sì, poi cercò lo
sguardo di Laurina.

— Va a correre in giardino se n'hai voglia — dissi a mia figlia — ed
essa vi andò, ma senza correre.

Subito il signor De' Liberi troncò le ciancie, prese a braccetto il
padrone di casa e lo trasse in giardino.

Si udirono benissimo gli accordi del pezzo a quattro mani che giungeva
al termine; grandi applausi che le due signorine fecero benone a non
raccogliere, poi silenzio.

E uno uscì a dire all'improvviso:

— Che persona simpatica quel signor de' Liberi!

— Quanti anni avrà? — chiese un altro.

— Cinquantacinque soltanto — risposi malignamente.

— Ne dimostra sessanta! — esclamò una voce vendicativa.

Era il bell'Arturo, che parlava per la prima volta; ma con poca
fortuna, perchè tutte le signore e le signorine rimaste in sala
protestarono in coro che era una calunnia, che il signor De' Liberi non
dimostrava più di cinquant'anni, anzi meno, non più di quarantacinque,
anzi meno.

                                   *
                                  * *

Dopo il trionfo di quella sera, il signor De' Liberi diventò uno dei
più assidui in casa del Cavaliere. Era là il suo palcoscenico, dove
egli metteva in mostra tutti i suoi talenti a uno a uno, senza mai
tradire la smania impaziente che guasta tante belle imprese terrene.

Egli imitava i varii rumori della sega, lo sbuffare accelerato d'una
locomotiva e il canto del gallo con tanta perfezione da ingannare
gl'inquilini del pollaio: e quando, dopo essere stati tutti zitti ad
ascoltare, giungeva da lontano, nel silenzio della notte, la risposta
d'un galletto corbellato, e si usciva a ridere in coro, il signor De'
Liberi si faceva serio per dichiarare che non voleva darci noia.

Invano le fanciulle, le signore e noi stessi, sì noi stessi, compreso
mio suocero, lo scongiuravamo di fare ancora il temporale cogli occhi,
o il fuoco d'artifizio con la bocca e con le braccia; egli si schermiva
con arte sopraffina, e cambiava discorso.

In sostanza quell'ultimo arrivato era già l'anima dei mercoledì del
Cavaliere; l'ombra sua non solamente oscurò, ma cancellò perfino dalla
memoria d'un tempo divenuto rapidamente antico le sembianze di un paio
di burloni di seconda e di terza qualità, che tante volte erano stati
i soli a ridere delle proprie celie. Costoro continuavano a venire per
forza d'inerzia, ma si erano fatti singolarmente gravi tutti e due, e
per istinto si andavano a sedere l'uno accanto l'altro; così quando il
signor De' Liberi ne faceva una delle sue, si provavano invano a star
serii, puntellandosi a vicenda; in ultimo bisognava che ridessero anche
loro.

Naturalmente, come aveva subito approfittato della licenza scroccatami
per venire a far visita «alla mia signora,» così approfittò della
domestichezza nata e cresciuta in casa del Cavaliere per trapiantarla
in casa mia. Egli fece questo con tutte le cautele che richiedeva una
pianticella neonata, preparandole prima il terreno e dandole poi un
tutore robusto, mio suocero; così dopo alcuni giorni si potè vantare in
faccia mia che la nostra amicizia saprebbe sfidare le tempeste.

Niente di male, dico io, purchè avesse rinunziato a ogni pazza idea
sopra mia figlia. Ma no, egli abusava dell'ospitalità e dell'amicizia
per insinuarsi perfidamente nell'animo di Laurina, la quale rideva ad
ogni parola di lui, e cominciava a trovare che egli tardava sempre a
venire e che se ne andava troppo presto.

Però facciamogli giustizia: se il signor De' Liberi s'industriava per
piacere a mia figlia, se qualche volta, in presenza di tutti noi, le
dichiarava con accento scherzoso che era innamorato di lei e che la
voleva sposare, non gli uscì mai di bocca una parola che la nostra
Laura potesse pigliare sul serio. Il suo disegno, che parrà per lo
meno ardito, se a me pareva impertinente, era questo: «innamorare la
fanciulla dei suoi pensieri, indurla a non poter vivere senza di lui,
costringere i genitori ed il nonno a buttargliela nelle braccia per
disperazione».

Per riuscire a ciò, egli curava e variava molto gli abiti, dalle cui
maniche faceva uscire quattro buone dita di polsini insaldati e lucidi,
si radeva ogni mattina e si faceva pettinare dal parrucchiere. Così
accomodato, a me pareva una rovina, ed avrei gridato a mia figlia:
«guardati!» — ma all'occhio inesperto d'una fanciulla che cosa
sembrava?

Faceva anche qualche cosa di peggio, l'amico De' Liberi, per
guadagnarsi la sposa: screditava la gioventù, metteva in burletta i
giovani.

Seguendo a dritto filo una delle sue teoriche, si arrivava a questa
conclusione che, passata la infanzia, noi attraversiamo gli anni in
una specie di sonnambulismo erotico, per risvegliarci, intorno ai
cinquantacinque sonati, maturi per _l'amore_.

La sua dottrina insegnava ancora che i giovani d'oggi sono guasti, sono
frolli, sono scontenti e corrono incontro al suicidio.

— Vi vadano soli! — esclamava: — le ragazze di buona famiglia
dovrebbero rifiutarsi di accompagnarli!

E perchè i colpi astratti non gli sembravano abbastanza sicuri, egli
pigliava ad uno ad uno i giovanotti che frequentavano la casa del
Cavaliere e la mia, e con un'industria felicissima ne scopriva le
debolezze, le imitava, esagerandole, e ci faceva ridere alle loro
spalle. Diceva, per esempio, del signor Paolo:

— Gran bravo giovane! ottimo cuore, bell'ingegno... un po' timido; — e
dicendo queste parole, i gesti serrati alla persona, l'accento dimesso,
il sorriso che chiedeva misericordia e perfino gli occhi del signor De'
Liberi erano quelli del signor Paolo tali e quali.

La volpe astuta spacciava così i suoi avversari col ridicolo, senza
ricorrere alla maldicenza.

Intanto passavano i mesi, e mariti non se ne presentavano. Mia figlia,
per quello che mi pareva, si veniva facendo sempre più belloccia;
andava a genio a molti, non dispiaceva a nessuno, e tutto ciò
inutilmente.

Se non fosse stato di mio suocero, il quale perdeva la pazienza, e
del signor De' Liberi che non la perdeva, i diciassette anni di Laura
avrebbero fatto tranquillo me, come facevano tranquilla sua madre; ma
con quei due vecchi al fianco, il problema d'un marito a mia figlia
cominciava ad inquietarmi.

Talora vi pensavo non senza terrore; e per avere il diritto di
scusarmi agli occhi miei di una inquietudine intempestiva, cominciava
dall'accusare tutti i padri dell'universo mondo per la trascuranza che
mettono nel ricercare a tempo un buon marito alle loro figliuole.

Non erano poche le ragazze di mia conoscenza che non avevano trovato
marito. Mi venivano dinanzi a una a una: la rassegnata, l'inquieta,
l'irascibile, l'ascetica e la sentimentale; le bionde, tutte troppo
magre o troppo grasse; le brune col labbro e col mento ornato da una
peluria maligna. Un tempo erano state belloccie anch'esse, alcune
bellissime e ricche; ed avevano tutte indistintamente fatto per lunghi
anni le scale del pianoforte senza arrivare a nulla.

«Povera e bruna Laurina, se ti dovesse toccare la stessa sorte!»

Fatti audaci dalla nuova debolezza, tutti i nemici della mia felicità,
nemici vecchi e codardi che avevo sbaragliato lavorando ed amando, mi
mostravano il pugno da lontano.

«Tu non sei più giovane, gridavano, tu non sei più robusto come una
volta; già le tue digestioni sono lente, la tua vista si è indebolita
e il tuo sistema nervoso è offeso; tu stai morendo a bocconcini; un
giorno te ne andrai del tutto, ma consolati, ti faremo un bel funerale,
v'interverrà tutto il foro milanese».

Quando l'idea della mia prossima fine mi perseguitava, facendomi vedere
la mia creatura sola nel mondo, senza una casa sua, senza un amore
suo, mi accadeva d'invidiare il forte signor De' Liberi, il quale, con
quindici anni più di me sulle spalle, se la rideva, sicuro di arrivare
all'ottantina.

— È tutt'uno — dicevo — ha una magnifica fibra.

— Peccato che non abbia dieci anni di meno! — sospirava mio suocero.

— Dieci anni di meno, ti pare che basterebbero? Ce ne vorrebbero almeno
venti.

Era quella la mia convinzione, che le dottrine del vecchietto ardito
venivan scrollando a poco a poco.

                                   *
                                  * *

Il tempo passa e il Signor De' Liberi invecchia; sì, invecchia; non
ostante il pettine, il rasoio e i polsini inamidati; a dispetto del
sarto, del parrucchiere, del dentista; checchè egli faccia e dica,
cammini o salti, o lampeggi con gli occhi nelle collere d'un temporale,
o sbuffi come una locomotiva, egli invecchia, ed io ne sono contento.
Osservo con un piacere amaro che dopo il temporale egli non si
rasserena mai interamente, perchè gli rimangono tre rughe sulla fronte,
e che al contrario nell'imitare la pioggia e i fuochi d'artifizio ha
ancora perfezionato l'arte sua, perchè gli è caduto un altro dente.

Ma quando su quella faccia tosta sono venuto scoprendo i segni del
tempo vendicatore, non è raro che sorga qualche donnina o qualche
fanciulla a dichiarare che il signor De' Liberi ringiovanisce ogni
giorno.

Aimè! anche Laurina è della stessa opinione!

— Questo è ancora nulla — osserva imprudentemente il signor De' Liberi:
— bisognerà vedermi un giorno!

Qual giorno? È il suo segreto.

                                   *
                                  * *

E il tempo passa e di mariti nemmeno l'ombra. Se dopo aver fatto tante
smorfie, si dovesse finire col dare la nostra Laura a questo vecchio
ben conservato, non sarebbe meglio dargliela addirittura? Sebbene il
signor De' Liberi faccia intendere che egli sa e può aspettare, perchè
la fisiologia gliene dà il permesso, anche mio suocero è d'opinione che
si vanti.

Questo pensiero ipocondriaco balena appena, ed è subito ricacciato. È
rimasto ancora un grosso capitale di buon senso in casa nostra, ed è
Evangelina che ne ha la chiave. Io posso spendere allegramente per un
pezzo, pensando che mia figlia va alla scuola e studia la storia, ed è
coi re longobardi. Prima che arrivi all'evo moderno ci vorrà del tempo,
ed io non avrei nemmanco piacere che Laura andasse a nozze senza essere
informata almeno almeno della rivoluzione francese.

In fondo chi ogni tanto mi mette in capo la malinconia di pensare al
matrimonio di mia figlia, è il nonno impaziente, quel povero vecchio
che non ha tempo da buttar via, e lo sa, ed è tutt'occhi e tutt'orecchi
per cogliere in casa e fuori di casa un'occhiata incendiaria, o un
sospiro assassino che siano diretti a Laurina.

«Lo assistano i cieli! — dico a me stesso — io non voglio più pensare;»
— e i cieli non lo assistono, e io vi ripenso.


IX.

Fu in casa del Cavaliere la notte di san Silvestro dell'anno....
Lasciamo stare l'anno.

Al solito vi si era radunata molta gente, per salutare col bicchiere in
mano il primo vagito dell'anno nuovo. Io dico vagito, non per amore di
metafora, ma solo perchè quell'anno si annunziò con un vero e proprio
vagito, che ci venne fatto udire attraverso l'uscio della sala, con
voce di ventriloquo, dal signor De' Liberi.

Ho una memoria confusa di ciò che seguì in quella notte: ricordo che
il Cavaliere fu molto occupato a stappar bottiglie venerabili ed a
mandare in giro dei pasticcini; ricordo che le fanciulle ballarono
con frenesia, per lo più fra di loro, non bastando i nuovi cavalieri
reclutati nella guarnigione di Milano, e che qualcuno fu messo a sedere
dinanzi al pianoforte un po' prima delle nove, e tenuto là, a forza
di ringraziamenti, di sorrisi e di pasticcini, fino alla mezzanotte in
punto. Quando l'orologio a pendolo prese a sonare le dodici, fu prima
un gran silenzio, poi qualcuno cominciò ad apostrofare con enfasi
l'anno spirato, senza poter dir altro che «Va, va, va,» perchè il
vagito dell'anno nuovo ci fa voltare tutti insieme e ridere in coro...

E ricordo che risi più forte più tardi, quando mi fu appreso che
cosa avrebbe detto qual tale se gli avessero lasciato finire la sua
invettiva: «Va, va, va, — avrebbe detto — e non ritornare mai più;»
raccomandazione di cui l'anno mille ottocento e tanti non aveva alcun
bisogno.

Altro non ricordo, se non che il signor De' Liberi abbracciava le più
belle ragazze e sgambettava come un ossesso, col pretesto di polca e
di mazurca, che sparlava più del solito e a voce alta della gioventù
frolla dei nostri tempi, e che perseguitava la mia Laurina per farla
ridere quando le permetteva di ballare con altri.

Non ricordo proprio null'altro, fino al momento in cui, usciti
all'aperto per tornarcene a casa, mio suocero, invece di pigliarsi
a braccetto mia moglie, lasciò che le nostre donne — egli disse
proprio le _nostre donne_ — si avviassero innanzi e prese me con molto
mistero, e trascinandomi prima alcuni passi in silenzio, mi disse poi
solennemente e semplicemente:

— L'ho trovato.

— Chi?

— Il marito di Laurina!... cioè l'innamorato, che diventerà marito a un
nostro cenno; ne aveva già un sospetto, ma ora ne sono certo; indovina
chi è; ma già è inutile, non lo puoi indovinare, è l'ultimo a cui avrei
pensato... indovina...

— Come vuoi che faccia, se è tanto difficile?... ho anche la testa un
po' confusa...

— È il signor Paolo!...

— Possibile! il signor Paolo innamorato di mia figlia!

Aveva ballato il signor Paolo? Io non me ne era accorto.

— È rimasto tutta sera al pianoforte — mi disse mio suocero — non si è
mosso un momento, e io l'ho potuto osservare con comodo; ho veduto dove
andavano i suoi sguardi, mentre le mani correvano sulla tastiera, ho
notato che la sua faccia buona... ha la faccia buona il signor Paolo...
pareva una luminaria, appena Laura cessava di ballare ed andava a
ringraziarlo, e si faceva scura quando Laura ballava con quel signore
lungo... Chi è quel signore lungo? me l'hanno presentato, ma il nome mi
è uscito di mente.

Era nello stesso caso anch'io; avevano presentato anche a me quel
signore lungo, ma al nome non avevo nemmeno badato.

— Dicevi che il signor Paolo...

— Il signor Paolo è cotto appuntino... ne ho le prove.

Mi pareva che vantasse troppo la propria perspicacia; ma egli era
sicuro del fatto suo.

— Laura! — disse forte, affrettando il passo — l'hai tu la mia pezzuola
di seta?

— Io no — rispose Laura, senza fermarsi, ma tastandosi istintivamente
nelle tasche.

— Mi pareva d'avertela data per bendare quel signore lungo, nel
_cotillon_...

— Sì, ma te l'ho restituita...

— È vero; to', eccola... l'ho trovata! — disse mio suocero dopo aver
frugato in tutte le tasche.

Laura continuava a frugare anch'essa, sebbene il nonno le ripetesse che
era inutile...

— È strano! — disse Laurina — non trovo più la mia; l'ho perduta.

— La troverai — dissi io — non sbottonare il soprabito; fa freddo... ti
puoi buscare qualche malanno.

— Non la troverà mai più — mormorò mio suocero al mio orecchio —
gliel'ha rubata...

— Chi?

— Il signor Paolo; l'ho visto con questi due occhi cogliere il momento
in cui Laura aveva deposto la pezzuola sul pianoforte, impadronirsene
facendo lo sbadato, guardarsi intorno, fingere di asciugarsi il sudore,
per baciarla, e cacciarsela in tasca; dopo di che si è fatto così
pallido, che io sono corso ad offrirgli un po' di vino bianco...

— Sei un pochino sbadata — diceva intanto la mamma: — tu perdi sempre
qualche cosa... anche l'altro giorno perdesti un guanto.

— L'avrò lasciata in casa del Cavaliere; si troverà.

— Così dicevi del guanto... e non si è trovato...

Al lume di un lampione io vidi che mio suocero era gongolante.

— Anche il guanto!

— Crederesti?

— Tu ne dubiti? È sempre lui il ladro.

— Ma quel tuo signor Paolo è un malfattore.

— Sarà benissimo; gl'innamorati timidi sono capaci di tutto.

— E Laura?

— Laura non sa ancora nulla, ne sono sicuro; a suo tempo si innamorerà
anch'essa, e li sposeremo. Mi sono informato: il signor Paolo è un
partito eccellente; sua madre non è molto ricca, ma non ha altri figli;
lui è ingegnere meccanico, studia, lavora e guadagna; si sta facendo il
nido, m'hanno detto...

Zitti! Eravamo giunti alla porta di casa.

                                   *
                                  * *

Il domani Laura mi parve un po' più mesta del solito, ma non ne ebbi
sgomento.

«Succede sempre così — pensai. — In fondo al calice d'ogni allegria è
un po' d'amaro: bisogna imparare a bere, bisogna avvezzarsi alla vita».

Non era di questa opinione il nonno.

— Quel mariuolo ha parlato, ovverossia ha fatto parlare il pianoforte;
egli ha toccato il tasto che significa _segreto amore_; e Laura l'ha
capito a volo: perciò è mesta. Niente di male; li sposeremo un po'
più presto. Quanto a me mi rassegno a darle marito senza che sappia
la storia moderna. Non ha forse studiato un po' di chimica? Ebbene
io sostengo che per mettere al mondo dei figliuoli basta un po' di
chimica.

Era l'impazienza che lo faceva parlare così.

Tornati in casa del Cavaliere, dopo molte raccomandazioni a Laurina
di non perdere un'altra pezzuola, e tenuto d'occhio il signor Paolo,
si fece bensì palese a Evangelina e a me che egli era l'innamorato,
e perciò il ladro del guanto e del fazzoletto, ma acquistammo pure
la convinzione che Laura non era informata di nulla. E mentre essa
guardava il signor Paolo in faccia, gettandogli in cuore il turbamento,
senza saperlo, pareva perfino impossibile che un giorno potessero
trovarsi legati l'uno all'altra per sempre.

— Lasciamoli fare — consigliava mio suocero; — s'intenderanno.

— S'egli non parla, non s'intenderanno in sempiterno.

Non vi era pericolo che _egli_ parlasse. Era diventato maestro
nell'arte di toccare tutto ciò che Laura aveva toccato, di rubarle i
mazzolini e gli spilli, di seguirla da lontano con gli occhi, fingendo
di leggere la gazzetta; da vicino non osava neppure guardarla.

Costretto a mettersi al pianoforte, toccava il solito tasto del
segreto amore e successivamente quelli dell'amore ardente, dell'amore
disperato; ma dite un po' se riuscì a mio suocero d'indurlo a sonare
un pezzo a quattro mani con mia figlia! Ne moriva di voglia, ma non
vi fu verso; si dichiarava incapace, e all'ultimo, non sapendo come
schermirsi, si raccomandava... a chi? al signor De' Liberi, il quale
non si faceva pregare.

Il signor De' Liberi sì che sonava a quattro mani con mia figlia! Egli
pigliava anche delle libertà innocenti, quella, per esempio, di darle
dei colpetti sulla mano sinistra per farla ridere, o d'andare a toccare
una nota acuta che non era scritta sulla musica, passando audacemente
sopra tutte e due le mani di Laurina.

E che faceva il disgraziato Paolo? Lo incoraggiava, gli diceva _bravo_
e _bravissimo_ (non osava dir _bravissima_ e nemmeno _brava_), voltava
le pagine ed era felice.

Per arrivare a Laurina — disgraziato! — egli pigliava proprio la via
più lunga: si attaccava istintivamente al signor De' Liberi.

Quando non era il primo a ridere delle arguzie del vecchio rivale,
perchè troppo tardi aveva sollevato il capo dalla gazzetta, era lui che
nel coro delle risate metteva la nota robusta.

Se per disgrazia qualche motto saporito del signor De' Liberi,
giungendo in mal punto, era caduto a terra senza che alcuno se ne
avvedesse, chi pensava a raccoglierlo? chi chiamava l'attenzione del
prossimo, sperando che il signor De' Liberi lo ripetesse? e quando il
vecchio astuto non si voleva arrendere, chi si pigliava la parte goffa
di ripetere la frasetta arguta di un altro? Sempre il signor Paolo.

Si può bene immaginare che di quel passo egli non avanzava gran
fatto incontro alla sposa; ma, vedendo il vecchio amico suo in tanta
dimestichezza con la fanciulla amata, a lui pareva di far loro cammino.

— Quel povero giovane — mi faceva osservare mio suocero — è capace
di pigliare a confidente delle proprie pene suo rivale. Bisogna farla
finita; invitalo a venire a casa il sabato...

— L'ho già invitato: verrà il prossimo sabato; me l'ha promesso.

Lo aspettammo, e non venne. Si seppe più tardi che egli aveva
accompagnato fin sull'uscio il signor De' Liberi, ma che col pretesto
d'una emicrania non aveva voluto salire le scale.

Mio suocero, senza dirmi nulla, mi trasse in una camera lontana;
ci ponemmo in osservazione dietro i vetri d'una finestra, al buio.
Stando zitti non si tardò ad udire sul marciapiedi dirimpetto un passo
regolare e lento; poi alla luce d'un lampione vedemmo passare il signor
Paolo.

— Disgraziato! — gli gridammo insieme.

Mio suocero ebbe l'istinto di avventarglisi, e picchiò della fronte
nella vetrata.

E giunse fino a noi la voce allegra del pianoforte, che cantava
vittoria in sala, sotto le dita nervose del signor De' Liberi.


X.

Una sera, entrando in casa del Cavaliere, mi sentii tirare per la
manica in anticamera.

— Ho bisogno di parlarle — mi disse il Cavaliere.

— Agli ordini suoi — risposi.

Ma il Cavaliere era prima di tutto agli ordini di mia moglie e di mia
figlia, per aiutarle a deporre il manicotto, lo sciallo e il cappello;
altri gravi uffici lo attendevano in sala, offrire un complimento alle
signore, una seggiola a chi stava ritto, un argomento di conversazione
ai taciturni; dimodochè, dopo aver svegliata la mia curiosità, mi
obbligò a tenermela insoddisfatta per più d'un'ora. Me ne chiese più
tardi mille scuse, e, dopo essersi assicurato ancora una volta che
tutto andava benino, che la conversazione era animata, che le ragazze
facevano cerchio intorno al signor De' Liberi, e che il pianoforte
gemeva per virtù del signor Paolo, cominciò così:

— Ho una missione delicata da compiere presso di lei... le chiedo scusa
fin d'ora, io non ne ho colpa...

L'esordio prometteva un cattivo cliente. Sorrisi per incoraggiare la
confidenza e stetti ad ascoltare il resto.

— Si ricorda d'aver visto in casa mia il dottor Lelli, un medico di
reggimento, un giovane pieno d'ingegno...

— L'avrò veduto, ma non me ne ricordo...

— Venne in casa mia una volta sola, di passaggio; andava a Pavia per
concorrere ad una cattedra operativa... ha poi vinto il concorso e
lascerà il reggimento... non ha che ventinove anni...

Il disordine con cui il Cavaliere mi veniva descrivendo il dottor Lelli
prometteva non un cliente buono o cattivo, ma un marito per Laurina.
Cercai mio suocero cogli occhi; egli era là alle spalle del signor
Paolo che aveva messo al pianoforte, e gli voltava le pagine della
musica.

Il signor Paolo sonava una nota romanza scelta da lui non senza
malizia; le parole che egli si guardava bene dal pronunziare,
esprimevano appunto lo stato d'animo d'un giovanotto senza giudizio,
il quale vorrebbe dire tante cose alla innamorata, e non osa, e si
raccomanda successivamente alle quattro stagioni dell'anno e ai quattro
elementi perchè vadano a fare la difficile ambasciata.

Il dottor Lelli era stato più pratico.

— È un caro giovane — proseguì il Cavaliere — figlio d'un mio antico
compagno d'armi, rimase orfano a venti anni e deve il proprio stato
a se stesso; non già che sia senza un soldo; ha anzi un piccolo
patrimonio... Ma dunque non si ricorda proprio d'averlo visto, un bel
giovane alto?...

— Molto alto?

— Sì molto alto... ma non troppo... una magnifica statura...

— Bruno?

— Baffi neri e capelli neri, occhi dolci...

— Mi pare di ricordarmelo; ed è dottore di reggimento?

— Era dottore di reggimento fino a ieri l'altro; ora è professore
all'Università di Pavia.

— Ebbene? — chiesi.

— Ebbene, quel povero giovane ha visto la sua Laurina, ha ballato con
essa, se n'è innamorato... e vorrebbe sposarla! Ho detto.

    Aura di maggio tepida
      Le parla al cor commosso,
      Svela l'occulto palpito
      Ch'io dir non posso,

canticchiava il signor De' Liberi in tono minore, e tutte le ragazze
erano attente ad ascoltarlo.

— Possibile! — dissi — una sera è bastata...

— Sono bastate poche ore; a queste cose devono bastare pochi minuti
— sentenziò il Cavaliere; — mi scrive una lunga lettera che le farò
leggere se permette.

(A questo punto troncò la frase e si precipitò a raccogliere il
ventaglio caduto ad Evangelina).

— Io non so dare consigli ad una faccenda così grave — proseguì tornato
al mio fianco — mi accontento di esporre i fatti. Il dottor Lelli è
giovane, robusto, studioso, ha uno stato che deve al proprio ingegno;
farà certamente felice la donna che...

— Laura è proprio una fanciulla — osservai — ha diciassette anni.

— I diciassette anni della sposa non hanno mai guastato un buon
matrimonio.

Questa era anche l'opinione del signor De' Liberi, il quale, non
vedendo la nube che oscurava il suo orizzonte matrimoniale, cantava,
dando delle occhiate a mia figlia:

    Estivo sol, che al gelido
      Labbro non dài calore.
      Tu la segreta illumina
      Ansia del core!

E il signor Paolo accompagnava tutto questo!

Feci un cenno a mio suocero ed egli accorse; protetti dal chiasso
vocale ed istrumentale, ci mettemmo d'accordo così: il dottor Lelli
verrebbe a far visita al Cavaliere; noi ci troveremmo _per caso_ in un
dato giorno, e quando il candidato piacesse a mia figlia...

E _dille_, cantò il vecchio pazzo:

    E dille, o melanconica
      Stagion dell'anno estrema,
      L'amor che, in petto indocile,
      Sul labbro trema.

Fu un subisso d'applausi; dopo di che il signor De' Liberi dichiarò
che il protagonista della canzonetta era un imbecille; che le stagioni
dell'anno non servono per dire a una bella ragazza che le si vuol bene,
se non si ha la lingua in bocca...

— O negli occhi — soggiunse bersagliando mia figlia.

Si scostò dal pianoforte e venne difilato incontro a noi.

Io credo che fiutasse il pericolo.

— I tempi si fanno brutti — sospirò mio suocero; — il commercio ch'è il
termometro, il vero termometro, ci avverte...

Non vi starò a dire di che cosa il commercio ci avvertisse per bocca di
mio suocero.


XI.

Vi era da tare una cosa difficile: informare Laurina, perchè,
trovandosi poi col dottor Lelli, si desse la briga di guardarlo e di
dichiararci se le piaceva o no. Questa parte spettava di diritto a
Evangelina, e la povera madre non si sapeva decidere, e vedeva delle
difficoltà.

— Sarebbe quasi meglio che non sapesse nulla — diceva: — non ci perderà
la sua disinvoltura di fanciulla...

— Ma corre il rischio — opponeva il nonno — di trovarsi quasi sposata
senza sapere com'è fatto il naso dello sposo.

Evangelina non si spaventava di questo pericolo.

— Una ragazza — asseriva essa — vede sempre un giovanotto, anche se non
lo guarda.

— Laura! — chiamai per troncare ogni titubanza, e la piccina che non
era molto lontana, accorse innanzi al domestico tribunale.

Al primo vederla, acquistai la coscienza che non avevamo nulla di nuovo
da dirle.

— Questa briccona sa tutto! — osservai forte.

Laura si fece rossa in viso, ma protestò che non sapeva nulla.

— Quand'è così, avvicinati — e le presi le due mani perchè non mi
fuggisse. — Vi è un signore lungo lungo che ti vuol bene, che ti
vorrebbe sposare; ma egli è troppo lungo e tu sei troppo bambina; quel
signore non mai finito è un dottore, e si chiama Lelli; tu hai ballato
con lui l'altra sera, e non te ne ricordi di sicuro, non sai se ti
piaccia o non ti piaccia...

Approfittò d'un momento che allentai la stretta per isprigionarsi e
fuggire piangendo.

Sua madre le andò dietro.

                                   *
                                  * *

Recandomi in casa del Cavaliere per il noto colloquio, eravamo tutti un
po' impacciati, ma meno di tutti Laurina.

Essa si stringeva al braccio della mamma e sorrideva; si sentiva donna,
e questo sentimento nuovo era una forza.

Quanto a me, non mi ero mai sentito così minchione.

Il cavaliere ci vide da lontano e ci venne incontro; il giovane
dottore stava ritto in fondo, ma gli occhi suoi e quelli di Laurina
s'incontrarono subito e dissero: «per tutta la vita!»

Non fu la desolazione che io aveva temuto; feci il disinvolto senza
avvedermene, e quando me ne avvidi non mi stupì niente affatto.

— Il dottor Lelli, figlio d'un mio ottimo amico — disse il Cavaliere.

— Ci conosciamo! — gridò mio suocero.

Intanto la signora Amalia, non dimenticando la scenetta combinata col
marito, dichiarò senza batter ciglio che non si aspettava la nostra
visita. Questa bugia enorme ne suggerì un'altra a mia moglie.

— Volevamo andare a teatro e vi abbiamo rinunciato all'ultimo momento.

Il dottor Lelli ci salutò ad uno ad uno con molta gravità.

— Signorina... — balbettò in ultimo, pigliando la mano di mia figlia.

Egli non soggiunse altro, ed essa non aprì bocca.

                                   *
                                  * *

— A primavera le nozze — sentenziò più tardi mio suocero; — intanto
Laurina non andrà a scuola, e prometterà solennemente al babbo di
studiare la storia moderna in casa; fino a primavera silenzio con
tutti!

— Silenzio!

Era cosa giurata.

Forse perciò il sabato successivo gli amici erano informati di ogni
cosa. Chi aveva parlato? Chi era il traditore? Ci guardammo in faccia e
ridemmo.

Quel sabato il signor De' Liberi non venne, e per tutta la settimana
successiva non si lasciò vedere. Non era ammalato, tutt'altro;
sopportava con coraggio la propria sventura e stava benone. Un giorno
finalmente ci piombò in casa all'improvviso: era ilare, svelto. Si
rallegrò con mia figlia e con noi, strinse la mano dello sposo e ci
annunciò le sue nozze future.

— La sposa? — fu chiesto da ognuno; — chi è la sposa?

La sposa era la signorina Alice, compagna di scuola di Laurina.

— È proprio una bambina — esclamò il vecchio pazzo in aria compunta. —
Non ha ancora diciotto anni.

— Chi è questa signorina Alice? — mi domandò mio suocero. — Qualche
mostriccino in gonnella, spero?

Ohimè, no! la disgraziata era anche bella!

Il signor Paolo, protetto dall'amica notte, fu visto per alcune sere
aggirarsi nei dintorni di casa mia, come un'anima di pena; poi se ne
tornò al suo cantuccio e ripigliò eroicamente la gazzetta.



NONNO!


I.

Se ne vanno! Ecco Laurina che asciuga in fretta le lagrime e si
affaccia allo sportello per darci l'ultimo addio, mentre lui è contento
come una pasqua — il mostro! — e continua a sorriderci dal finestrino
accanto.

Anche noi continuiamo a sorridere: mio suocero, Evangelina e io, tutti
e tre abbiamo messo fuori il nostro lumicino acceso. Ma la luminaria
sta per ispegnersi; la locomotiva fischia e sbuffa, il treno si scuote,
rincula e si avvia.

Voglio dare un'ultima stretta di mano a mia figlia, e riesco appena
a toccarle la punta delle dita, perchè qualcuno mi avverte di tirarmi
indietro. Accompagno un po' il visino bianco che si perde nello spazio:
poi veggo sventolare la pezzuola che ha asciugato tante lagrime...
poi non veggo più nulla, perchè ho anch'io negli occhi qualche lagrima
ribelle.

Mi volto: mio suocero e la mia Evangelina, che avevo dimenticato un
istante, non sorridono più; la luminaria è spenta.

In questo momento vi è un uomo solo al mondo che sorrida? Sì, ve n'è
uno di sicuro, ed è lui, che si porta via la nostra creatura, per
sempre.

Io continuo a vederlo nello spazio: Laurina piange in un canto, ed egli
si curva per dirle che i compagni di vagone la guardano, poi si volta e
sorride.

I compagni di vagone, me ne sono accertato, sono due vecchietti
soltanto; essi non hanno avuto paura di assistere alle tenerezze di
due sposi che fanno il loro viaggio di nozze, e sono rimasti, mentre un
giovinotto e due signore mature fuggivano.

— Avranno buona compagnia — dissi. — Quei vecchietti hanno il biglietto
per Parma.

— Viaggeranno meglio da Parma a Firenze — osservò mio suocero,
provandosi ad essere malizioso — purchè siano soli.

Allora Augusto, senza dir nulla, diede il braccio a sua madre; ci
avviammo.

— È stato un buon pensiero — uscì a dire mio suocero per rompere la
monotonia del silenzio — è stato un buon pensiero quello di avvertire
gli amici e i conoscenti che non s'incomodassero a portare altri
augurii agli sposi fino alla stazione.

— Sì, è stato un buon pensiero — risposi subito.

Mia moglie si voltò un momentino verso di noi, e disse anch'essa:

— Sì, è stato un buon pensiero — dopo di che proseguimmo taciturni fino
a casa.

Sulla soglia mio suocero s'impadronì del braccio d'Augusto e gli disse:

— Avvocatino, vieni a spasso con me; mi parlerai dell'università, ma
dell'università senza esami, tutta scolaresca e niente professori.

Passò sulle labbra dell'avvocatino in erba un sorriso di ambizione
contenta.

— Dove andiamo? — chiese; salutò la mamma e il babbo con un cenno del
capo, e si allontanò con molta disinvoltura a braccetto del nonno.

Gli accompagnammo un breve tratto con lo sguardo; parevano due vecchi
amici.

                                   *
                                  * *

Evangelina non era proprio allegra.

— I nostri figli ci abbandonano — mi disse appena entrati in casa,
lasciandosi cadere sopra un canapè. — Noi peniamo tanto a metterli al
mondo, a tirarli su, a circondarli d'amore, finchè un giorno ci voltano
le spalle per seguire il mondo che li chiama.

Un pensiero press'a poco simile stavo facendo anch'io. Mi ero accorto
che Augusto aveva imparato all'università a salutare il babbo e la
mamma con un grazioso movimento del capo di sotto in su, quando vi
era pericolo di essere colto in flagrante reato di tenerezza filiale;
poc'anzi poi avevo notato che, dopo quel saluto molto contegnoso,
che doveva dare ai passanti un'idea della sua anticipata virilità,
mio figlio aveva tirato diritto, a braccetto del nonno, senza
neppure voltarsi. E da dieci minuti, aspettando che io gli badassi,
l'avvocato Placidi veniva raccogliendo tutti gli elementi di difesa
per patrocinare la causa d'Augusto innanzi al tribunale della mia
indulgenza paterna.

Accolsi dunque le parole di mia moglie con un sospiro spontaneo e
genuino, che arrivai però in tempo a prolungare esorbitantemente per
pigliare il tono della celia.

— Hai proprio ragione — dissi: — i nostri figli ci abbandonano,
pigliano marito e partono col treno diretto, oppure, col pretesto di
studiare la legge, se ne vanno all'università. E lasciano noi, che
abbiamo penato tanto a metterli al mondo...

Non rise, come io sperava, anzi crollò il capo melanconicamente, ed io
mi feci serio.

— Hai visto come ci saluta Augusto se qualcuno può vederlo?

— No, non ho visto — risposi; e allora essa mi fece vedere, dicendo:

— Così ha fatto.

Aveva proprio fatto così.

— E non si è neppure voltato!

— To'! — esclamai — perchè volevi che si voltasse? Ci siamo separati
sul portone...

Evangelina lesse l'anima mia con un'occhiata pietosa, e crollò ancora
il capo dicendo:

— S'egli non ha sentito che gli occhi di suo padre e di sua madre lo
accompagnavano, di chi la colpa? Una volta lo sentiva. La colpa è anche
nostra — soggiunse; — noi vogliamo che i nostri figli imparino tante
cose belle, ma credo che non ci occupiamo abbastanza d'insegnare loro
ad amarci.

— L'amore filiale non s'insegna; è un istinto.

— E l'istinto si educa — ribattè mia moglie, che era disposta a
sentirsi infelice. — Augusto ci vuol bene, io lo so, ma in pubblico se
ne vergogna.

— Distinguo — interruppi; — non si vergogna di volerci bene, solo
di dimostrarcelo; egli crede che, per esser uomo quanto vorrebbe,
gli bisogni prima di tutto parere; non può sapere ancora che, per
parere uomo, basta esserlo. Per affrettare la propria virilità, egli
comincia dal romperla pubblicamente con tutte le tenerezze passate. La
tenerezza, non è la forza, egli ne è sicuro. Come vedi, è una piccola
evoluzione intima, in cui la scuola non entra per nulla. Chi terrebbe
cattedra di amor filiale all'università?

Non pretendeva questo nemmeno Evangelina, solo che qualche cosa
bisognasse fare.

— Se sulla porta d'una scuola — proposi — s'incidesse per esempio:
onora tuo padre e tua madre?

— Ti pare che sarebbe inutile? Io credo di no, dal momento che Augusto,
perchè ha ventidue anni, si vergogna di baciare sua madre in pubblico!

— Non si vergognerà fra un anno o due; e poi contentiamoci della
sostanza delle cose: io so che tuo figlio ti adora, e mi basta.

— Basta anche a me — disse volgendomi la faccia melanconica; — ma mi
sento così sola, ora che quella poveretta è partita...

— Così _sola_! — mormorai, cercando nel suono di questa parola il suo
senso arcano — così _sola_.

                                   *
                                  * *

Laura non è _sola_ — cominciai lentamente dopo un breve silenzio. —
Laura non è _sola_, nè poveretta. Il suo sposo è per lei sua madre, suo
padre, suo nonno. Egli è buono, e l'ama. Consoliamoci.

Avevo indovinato il sentimento di Evangelina, la quale mi guardò e mi
sorrise.

— Dacchè Laura è partita — mi disse con accento più vivace — ho sempre
dinanzi agli occhi la sua cameretta abbandonata; appena entrata in
casa, volevo andare a visitarla, me n'è mancata la forza; ora mi
ritorna, andiamo.

Mi prese per mano, attraversammo a passo frettoloso le stanze... Eccoci
nella cameretta gentile, in cui prima di noi è entrato un raggio di
sole.

Ci fermiamo un momento sul limitare, respirando appena, per non far
fuggire il caro fantasma che abita ancora quel luogo; poi mia moglie
va lentamente a curvarsi sul letticciuolo e nasconde la faccia nel
guanciale di sua figlia.


II.

Io guardava con occhio attonito. Le note sembianze di quella cameretta,
indifferenti al raggio di sole che penetrava dalla finestra, non
mi sorridevano più come una volta. Persino i putti rosei, che
avevamo messo a folleggiare sul parato e sulle tende, si lamentavano
dell'abbandono.

Vidi spuntare uno stivaletto di sotto una seggiola, e vi fissai
l'occhio fantasticando.

Mia moglie non si moveva; io mi avvicinai alla piccola scrivania di
Laura, su cui erano sparse poche carte, e istintivamente radunavo le
pagine sparse, quando mi fermarono gli occhi alcune parole scritte con
mano mal sicura:

«Alla mia cara mamma — dicevano — perchè sappia che l'ultimo mio
pensiero di fanciulla è stato per essa».

Leggendo queste due righe, io vedeva mia figlia ritta al mio posto,
in abitò di nozze; scriveva coi guanti e in fretta per non farsi
aspettare, poi si voltava per guardarsi intorno prima di lasciare per
sempre il nido che suo padre e sua madre avevano fatto bello per lei;
intanto deponeva la penna sulla scrivania... dov'è la penna? Ma la
penna rotolava a terra... Eccola appunto!

— Evangelina! — chiamai con voce commossa. Mia moglie sollevò il capo a
guardarmi, e fu indovina.

— Leggi — le dissi; e intanto che essa leggeva, io mi chinai a
raccogliere la penna.

— Angelo caro! — mormorò la povera madre contenta.

                                   *
                                  * *

— L'ultimo suo pensiero di fanciulla è stato per te — cominciai a
dire lasciandomi cadere sopra una seggiola, a piedi del letto; — ma il
penultimo fu per il babbo, ne sono sicuro, sebbene non sia scritto.

Evangelina temette di scorgere nelle mie parole un'ombra di gelosia, e
mi guardò alla sfuggita; io la rassicurai soggiungendo:

— A quest'ora pensa a tutti e due, e quel dabbenuomo di suo marito,
perchè la vede sorridere, immagina che abbia dimenticato il babbo e
la mamma, la casa e il mondo, per pensare solo ad essere innamorata di
lui: tutti così i mariti.

— Angelo caro! — mormorò Evangelina e venne a sedersi in faccia a
me, nell'unica seggiola rimasta, al capezzale del letto. Sembrava che
visitassimo una cara ammalata, e io ne feci subito l'osservazione.

— Invece visitiamo un'assente: — disse la povera madre; ed era svanita
ogni nube dalla sua fronte, e già gli occhi suoi lucevano ricercando,
nell'avvenire, la felicità di sua figlia.

— Laurina — entrai a dire con la gravità di un giudice — Laurina è
buona, e ha diritto d'essere felice.

— La felicità — rispose mia moglie, abbassando la voce — non è sempre
di chi la merita. Vi sono delle anime tanto buone, che paiono venute al
mondo per far bella la sventura.

Io dissipai quella idea superstiziosa assicurandole che Laurina,
diventando moglie, saprebbe trovare un paio di difetti nel suo sangue
paterno... — (O materno — interruppe Evangelina ridendo: e io feci
l'aggiunta senza ridere; — o materno)... tanto da meritare il castigo
della felicità per sè, per il marito e per i figli nascituri.

— Suo marito è buono — disse Evangelina contenta — è proprio buono.

— Ha un cuore d'oro, e vuol bene a nostra figlia.

— Non vi è pericolo che egli si guasti, come è accaduto a tanti; è un
uomo serio... fin troppo... Ecco — prosegui mia moglie trattenuta da
quell'idea maligna — se dovessi proprio dire tutto il mio pensiero, mi
pare troppo serio...

— Se dovessi dire tutto il mio pensiero — soggiunsi — mi pare anche
troppo lungo.

Rise e subito l'idea maligna la lasciò andare.

— La serietà del marito — dissi allora — è un pericolo quando la moglie
è frivola, o quando il marito non ha conosciuto il mondo.

— Il dottor Lelli lo ha conosciuto?

— Lo ha conosciuto.

— Come lo sai?

— Me lo diceva lui stesso. A formare l'uomo moralmente sano — mi
diceva — devono concorrere alcuni elementi malsani, che si formano
e si dissolvono. È press'a poco ciò che il signor De' Liberi, suo
rivale, te ne ricordi? chiamava «le curiosità contente dell'uomo maturo
pel matrimonio». Salvo che egli aveva avuto troppe curiosità, e per
contentarle tutte ci aveva messo del gran tempo.

— E il dottore ti ha confidato?...

— Non mi ha confidato... ma ho capito; ho capito che non è un ingenuo,
che sa la sua parte di mondo...

Mia moglie non era soddisfatta; trattandosi del marito di sua figlia,
aveva anch'essa una grande curiosità da contentare. Allora mi ricordai
d'essere avvocato. Nei momenti difficili dell'arte oratoria, che cosa
mai ci salva, se non è la rettorica?

— Bisogna avere bevuto una volta almeno un po' di feccia, per imparare
a bever la vita senza intorbidarla.

— Nostro genero ne ha bevuto della feccia?

— Nostro genero ha imparato a vivere.

Evangelina stette un po' in silenzio, e a me parve di poterla
abbandonare un istante alle sue fantasticherie, per seguire col
pensiero gli sposi che si allontanavano col treno diretto.

A un tratto mia moglie esclamò:

— A quest'ora sono a Codogno, stanno per arrivare a Piacenza.

— Sbagli — dissi; — non possono essere che a Lodi.

— Vediamo l'orario?

— Vediamo l'orario.

E alla povera madre sembrò d'essere ancora avvicinata alla
sua creatura, quando, interrogato l'orario, l'ora e il minuto,
potè affermare che gli sposi dovevano essere a mezza via tra
Casalpusterlengo e Codogno.

— Un po' più che a mezza via — corressi scrupolosamente.

Per tacito accordo, tenendo l'orologio in mano, aspettammo che il treno
si fermasse a Codogno; allora ci guardammo in viso senza dubitare della
serietà di quell'atto.

— Sono arrivati a Codogno! — disse mia moglie gravemente.

— Non ancora — esclamai con uno scatto che la fece ridere; — il treno è
in ritardo di due minuti.

                                   *
                                  * *

Cominciò da Codogno il nostro viaggio attraverso l'avvenire dei nostri
figli; in quelle terre incognite io veniva innanzi aprendo il passo
a mia moglie; e quando l'inquietudine materna faceva spuntare uno
sgomento dove il padre ingenuo aveva seminato una speranza, affrettavo
l'andatura e volgevo gli occhi a un altro orizzonte. Ma per quanto io
facessi, il nostro cielo si oscurava ogni tanto; noi e i figli nostri
e i figliuoli dei nostri figli avevamo cento maniere accertate d'essere
felici, e una sola di non essere; ma quest'una valeva più di cento, si
chiamava l'_ignoto_.

— La felicità non si governa con le leggi delle probabilità — disse ad
un certo punto Evangelina.

— Beati gl'infelici! — soggiunsi io tra il serio e il faceto. — Essi
possono sperare.

E mia moglie ripetè con un tremito nella voce, e proprio sul serio:

— Beati gl'infelici! Essi possono sperare.

Ma giunse fino a noi un rumore di passi che si avvicinavano. Ci rimase
appena il tempo di sorriderci a vicenda per prepararci a sorridere al
nonno.

Vidi, abbandonato sulla specchiera, il nastrino azzurro che mia figlia
portava al collo la vigilia; me ne impadronii passando e lo cacciai nel
taschino del panciotto.

Mia moglie non si avvide di nulla, e io senza sapere perchè, ne fui
contento.

— Dov'è Augusto? — domandò Evangelina a suo padre, che entrando nella
camera di Laurina sembrava provare qualche cosa di cui egli medesimo si
stupiva.

— È di là che studia; quel povero ragazzo non ha in capo che la sua
laurea. Già!... — sospirò guardandosi intorno — la gabbietta era
graziosa, ma vi mancava il nido, e la rondinella è andata a farselo.
Dite un po'; eravate qui a sospirare voi altri?

— Manco per sogno! — proruppi. — Lo sai? Tutto ben esaminato e
ponderato, Laurina ha fatto un matrimonio magnifico, e sarà felice e
farà felice suo marito.

Mio suocero prese a guardare prima me, poi sua figlia, e di nuovo me
con una curiosità corbellatoria.

— Saranno felici — mormorò Evangelina.

— Proprio? — chiese lui con una gran voglia di beffarci; ma non seppe
vincersi ed esclamò ingrossando la voce:

— Io vi dico che saranno felici e che avranno dei figliuoli! Questo ve
lo dico io: e li avranno presto... almeno uno!

— Maschio? — domandai.

— Non lo so — rispose ingenuamente il povero uomo.

Si capiva che oramai egli era di facile contentatura, e che, pur
d'avere un pronipote, non avrebbe guardato al sesso.


III.

Lo dissi un giorno: i nostri figli sono la nostra seconda gioventù,
anzi sono la gioventù vera; chi non ha avuto moglie e figliuoli non è
stato mai giovane, _tutt'al più_ celibe.

_Tutt'al più_ era detto per celia, il rimanente sul serio, e mia moglie
l'aveva inteso alla prima, senza altro commento fuor quello degli
avvenimenti della vigilia.

Una mattina era arrivata la prima lettera di Laura sposa; aspettata con
ansia, letta con trepidanza, quella lettera, dettata dal nuovo amore
di moglie e dal vecchio amore di figlia, ci diceva felicità che noi
conoscevamo.

E un altro giorno erano finalmente arrivati gli sposi medesimi, che,
con un inganno dolcissimo, ci erano piombati in casa ventiquattro ore
prima dell'ora prefissa: quel ritorno non somigliava menomamente a un
altro; mancavano gli indifferenti, mancavano i via vai delle carrozze
e la voce rauca che gridava le gazzette del giorno innanzi. E pure a
me, a Evangelina, e probabilmente anche a mio suocero, ne ricordava un
altro: il nostro.

Il nonno non aveva dimenticato la sua parte: egli girava in salotto
attorno a Laurina con la stessa curiosità maliziosa con cui venticinque
anni prima, alla stazione, aveva fatto arrossire sua figlia. Ecco
un'altra porzione del nostro passato che ci veniva restituita.

Poi era venuta l'ora di separarci un'altra volta dai nostri figli,
poichè l'università di Pavia voleva il suo professore e il suo
studente, e il professore non era disposto a rendere la propria preda.

Mio suocero un po' imbronciato, non così per la partenza dei nipotini,
come per non avere ancora potuto fare la minima scoperta sicura nel
bagaglio degli sposi — egli diceva propriamente _bagaglio_ — per
consolarci dell'abbandono in cui eravamo lasciati, non sapeva far altro
che dirci:

— Ora lo dovete intendere che cosa significa avere cuore di padre;
quando mi piantavate in Monza per venirvene a Milano, non lo
sospettavate neppure... la gran lezione ce la dànno i figli.

Sì, la gran lezione ce la dànno i figli; essi ci ridanno il meglio di
noi stessi, ci rivelano i genitori nostri, ci riconducono così fino
alla sorgente degli affetti!

                                   *
                                  * *

Fu per un po' una gran melanconia.

La nostra casa abbandonata, che ci parlava così forte dei nostri
assenti, era come un amico nella desolazione; le volevamo un gran bene,
ma la sfuggivamo per istinto. Andavamo volontieri a spasso, Evangelina
e io; e ci accadeva di ritrovare per via una traccia perduta dai nostri
figli con maggior piacere che a casa.

Gli è che i viali e i cespugli dei giardini si ricordavano allegramente
delle nostre creature che avevano conosciuto appena, mentre in casa
ogni cantuccio che aveva giocato a rimpiattino con essi, ogni mobile,
ogni tenda parlavano dei loro compagni con accento lagrimoso.

Si faceva volontieri della filosofia in quel tempo, anche per consolare
il nonno, il quale era scontento di certe notizie contraddittorie
che giungevano periodicamente da Pavia, e minacciava ogni tanto di
lasciarci per andarsene a stare coi nipoti e farli morire di vergogna.

Si faceva anche il sofisma:

— Che ci manca? — dicevamo. — Non siamo noi propriamente felici?
Forse lo siamo troppo ed è ciò che ci offende. Noi possiamo pensare
continuamente che ogni antico voto è stato esaudito, e goderci così
a tutte le ore lo spettacolo della nostra felicità. Ma ciò soverchia
le forze umane. Avremmo bisogno di esser messi a contatto della
felicità medesima, perchè l'abitudine ce la scolorisse e ce la rendesse
sopportabile, facendo nascere in noi altri desiderii.

E un altro momento, senza badare alla contraddizione, ci trovammo
d'accordo a dire:

— Ci manca qualche cosa? Sì, qualche cosa ci manca: ebbene, godiamocelo
questo qualche cosa che ci manca, perchè esso fa più sicura e durevole
la nostra felicità. Ci vuole un pizzico di desiderio a condire
un'esistenza felice.

Il nostro caro vecchio ci lasciava dire, ma crollava il capo. Il
pizzico di desiderio egli ce l'aveva, e pure non era felice.

Esagera la dose — si diceva.

E indagando ancora filosoficamente, si venne a concludere che il
desiderio puro e semplice non serve se non è corretto da un po' di
speranza, e sopratutto se lo inacidisce l'impazienza.

Il povero uomo aveva un desiderio robusto e non gli mancava la
speranza; ma era impaziente e guastava ogni cosa.

Non gli si poteva dar torto: procedendo per via d'indagini, Evangelina
riusciva ad accertare che il nostro caro vecchio doveva aver passato
i... Ma che non vi fosse modo di sapere appuntino quanti anni aveva?

— Molti e troppi — rispondeva lui, scotendoseli dalle spalle; — gli
anni sono come i quattrini che i bambini buttano nel salvadanaio; non
contandoli più, si moltiplicano.

La nuova amica di casa, la filosofia, mi tirava per la falda dell'abito
e mi assicurava che a una certa età io pure sarei ridiventato bambino
per non contare più gli anni.

A me pareva d'essere già rassegnato ad invecchiare; ma l'amica mi
faceva osservare con malizia che rassegnarsi prima del tempo non è
difficile.


IV.

A contentare il nonno, il quale non vedeva l'ora di recarsi a Pavia
_per vedere_, e non aveva cuore di abbandonarci, sopraggiunse un
avvenimento festoso: la laurea del nostro Augusto.

Io chiesi una dozzina di _rinvii_, dando la posta ai clienti ed agli
avversari per la quindicina successiva, e me ne andai a Pavia con la
gioia di uno scolaretto in vacanza.

Sapevo che mio figlio aveva scelto a tema della sua tesi la _persona
giuridica_ secondo il diritto romano, ed avevo notato con molto piacere
che, sapendo le lingue morte come me, aveva nondimeno potuto puntellare
tutti i suoi argomenti con citazioni latine, come avevo fatto io al mio
tempo.

Una tesi di diritto romano è sempre una tesi rispettata dalla
scolaresca, ed anche dai professori, e forse mio figlio l'aveva scelta
per questo; ma non per questo solamente. Giudicatene: la _persona
giuridica_ richiede anzitutto la persona fisica; e la persona fisica
che cosa richiede? Qui nasce baruffa fra i commentatori; vi è chi si
accontenta che la creatura umana sia nata viva, e vi è chi la vuole
vitale. A ventidue anni Augusto si era fatto delle opinioni salde su
questo proposito, e non gli spiaceva di far vedere al mondo che alla
vigilia di diventare dottore in _utroque_, non vi è ombra di dubbio, si
è già uomini consumati.

Egli mi sbalordì propriamente con la quantità di testi che si era messo
in bocca per confondere i contraddittori. Quando io mi provai a fingere
l'eloquenza degli avversari e sfoderai la mia citazione irruginita:
_Septimo mense nasci perfectum partum videtur jam receptum est propter
auctoritatem Hippocratis doctissimi viri..._ passò un sorriso sulle
sue labbra — o dottissimo Ippocrate, quale sorriso! — poi gridò:
_distinguo_!

E distinse fra il _perfecte natus_ e il _parto vitale_ con tanta
sottigliezza, e invocò in suo aiuto tanti celebri fisiologi ed
anatomisti contemporanei, compreso suo cognato presente, che il
_doctissimus vir_ fece la più grama delle figure.

Fu anche peggio alla laurea.

Quando mio figlio si sentì addosso la mantellina nera del candidato,
quella mantellina stretta e svolazzante, che non copre nulla, che
non promette nulla, salvo il ridicolo al laureando il quale per sua
sciagura fosse per diventare mutolo; quando Augusto si sentì preso per
gli omeri e per il collo da quel desiderio di toga, capì che la sua ora
era venuta, s'inchinò dinanzi ai professori senza guardare in faccia a
nessuno, ed aspettò di piè fermo la prima botta.

Allora fu visto il professore di diritto canonico dire una parolina
all'orecchio del professore di medicina legale, poi salutare il
candidato.

«Ci siamo! — pensò un altro dentro di me: il diritto canonico è il
rivale del diritto romano; chissà dove andrà a trovare il lato debole?
ad ogni modo l'urto sarà tremendo».

— _Septimo mense_ — cominciò il professore masticando le parole a
una a una — _nasci perfectum partum videtur jam receptum est propter
auctoritatem doctissimi viri Hippocratis..._

Il professore s'interruppe, per assicurarsi che le signore presenti non
avevano capito un'acca e per aumentare la propria disinvoltura con una
presa di tabacco; dopo di che soggiunse:

— Così sta scritto nei codici; o perchè dunque Ella sostiene che la
vitalità non è necessaria alla persona fisica dei Romani?

Udendo l'argomentatore incominciare come avevo incominciato io,
capii che mi verrebbe voglia di ridere più tardi; ma non ero ancora
rassicurato; temevo che il sussiego del professore facesse perdere la
bussola al mio laureando. Egli era là, rigido come un arco teso, pronto
a scoccare la sua risposta; guardava davanti a sè, proprio in faccia a
Ippocrate, e non mi vedeva.

Aspettando le prime parole di Augusto, le udivo innanzi che
gli uscissero di bocca, dimesse e timide, oppure baldanzose e
spropositate... Tacevano tutti; — toccava a lui...

Fu un colpo da maestro.

Mio figlio cominciò in latino tale e quale come il professore, e
continuando la citazione interrotta, disse:

— «_... et ideo credendum est, eum qui ex justis nuptiis septimo
mense natus est, justum filium esse_. — Dunque l'autorità d'Ippocrate
— proseguì in lingua volgare rinvigorita da un sorriso di trionfo —
è invocata per stabilire la presunta legittimità dei figli, non per
determinare la personalità _fisica_...

«Se non che questa _auctoritas doctissimi viri_ — proseguì temendo
che non gli si presentasse più l'occasione di confondere Ippocrate
(che non gli aveva fatto nulla) — dev'essere accettata _con beneficio
d'inventario..._ (il professore di diritto civile sorrise, il
professore di medicina legale si dimenò in modo da lasciar intendere a
tutti che egli era il più competente a giudicare il valore di quanto il
candidato stava per dire) — giacchè la fisiologia moderna e la benefica
medicina legale (furbone!) hanno stabilito che la persona fisica può
essere perfetta anche prima del termine prefisso da Ippocrate.

«Basti ricordare — proseguì Augusto con una eloquenza crescente — il
caso di Fortunato Licetti, il quale, nato dopo quattro mesi e mezzo
di gestazione, morì a ottant'anni. Forse che per i Romani Fortunato
Licetti non sarebbe stato un uomo?»

Il professore di diritto canonico rispose, dandogli torto, ci
s'intende, con dell'altro latino; col sorriso gli dava tutte le
ragioni: all'ultimo gli rivolse un cenno di approvazione con la mano, e
tacque.

Fu la volta del professore di diritto civile, il quale cominciò in
italiano, col latino alle spalle:

— «Ella ha sostenuto fin qui che la persona giuridica non richiede la
vitalità, ma solo che la creatura umana sia nata viva: io vado più in
là, e sostengo che non richiede neppure la nascita, ma si accontenta
del concepimento...»

« — _Nasciturus pro jam natur abetur_» — interruppe mio figlio.

Egli commetteva un'imprudenza togliendo di bocca al suo professore la
citazione latina; ma non se n'ebbe a pentire, perchè il professore ne
aveva in serbo altre dieci e le mise innanzi pacatamente, cercando
di confondere le idee del candidato. Allora mio figlio invocò un
altro testo: «_ventri tutor dari non potest, curator potest_» — e il
professore rimase contento.

Così passando incolume dall'uno all'altro avversario, il laureando si
coprì di gloria; e quando fu proclamato che Augusto Placidi figlio
di Epaminonda era dottore in _utroque_, molti mi vennero a dire che
l'_aula magna_ non vedeva spesso trionfi simili.

La modestia in quel momento solenne non mi abbandonò del tutto, ma
mi toccò fare una gran fatica per trattenerla. Mio suocero invece si
vantava; diceva a quanti lo volevano intendere: _è di razza_.

In mezzo a quell'onda di compiacenza, un'idea gli oscurava il volto
ogni tanto; e appena giunto a casa egli si piantò solennemente in
faccia a Laurina per dirle:

— Abbraccia tuo fratello, che ha parlato latino come un messale,
e domandagli che ti spieghi con suo comodo il casetto di Fortunato
Licetti.

— Che casetto?

— Domandalo a lui — e soggiunse guardando al soffitto: — quattro mesi
e mezzo possono bastare, ma questa disgraziata ha preso marito per
giocare con la bambola!

Io feci osservare timidamente che Fortunato Licetti era un fenomeno, ma
egli crollò le spalle.

Per avere un pronipote avrebbe accettato anche un fenomeno!


V.

Nell'autunno successivo mio suocero ammalò. Una mattina, dopo aver
fatto la sua passeggiata solita, sentendo che le gambe lo reggevano
male, si era rimesso a letto.

— Non vi spaventate — disse appena ci vide entrare nella sua stanza —
è una costipazione; appena me la sono sentita venire addosso, ho detto:
è una costipazione — e siccome non voglio che pigli possesso di questa
vecchia carcassa che mi serve benissimo, sono tornato a letto. È una
giornata fredda, soffia un po' di tramontana; guardatevi voi pure.
Evangelina, sei ben coperta?

Egli cercava di sviare l'inquietudine dei suoi figli, e noi fingemmo
di pigliare la cosa allegramente per non lasciargli scorgere il nostro
affanno.

— Hai fatto bene — dissi — è forse inutile chiamare il medico, perchè
si capisce che è una cosa da nulla, ma in ogni modo...

Protestò che di medici non ne voleva sapere, che non aveva mai avuto
fiducia nelle medicine.

— Stai meglio ora? — gli domandò Evangelina.

— Sto benone — rispose battendo i denti.

Venne il medico; avvertito da noi che probabilmente sarebbe accolto
male, entrò nella camera dell'ammalato in punta di piedi.

— Se non mi vuole me ne vado — disse stando all'uscio; — vedo già di
che si tratta, è una cosa da nulla; con quella faccia si seppellisce il
medico — aggiunse volgendosi a noi.

Ciò detto entrò; e il povero vecchio non trovò modo di andare in
collera; fors'anche, poichè le apparenze erano salve, poichè non si
recava offesa a quel decoro che egli metteva nell'essere sempre sano,
non gli spiaceva sentir l'opinione della scienza, e si offrì all'esame
del dottore con sufficiente rassegnazione.

Il medico toccò il polso e la fronte, e fece un gesto di approvazione;
guardò la lingua e si mostrò contento; ascoltò il petto e le spalle e
parve soddisfatto.

— Quanto a polmoni — disse mio suocero con un'ombra di compiacenza —
sto benone, ma mi sento stanco, ecco, ho bisogno di riposo.

Il medico gli diede ragione, l'aiutò ad adagiarsi nel letto e gli tirò
le coltri sul petto, raccomandandogli di star coperto.

Gli parlava come a un bambino; non ancora rassicurati, noi trattenevamo
il respiro.

— Le scriverò una pozione calmante — disse il dottore; — ne dovrà
pigliare una buona cucchiaiata ogni ora.

— Purchè non sia troppo dolce.

— Non sarà troppo dolce.

— Non stia a dire a quei ragazzi — raccomandò l'ammalato — che io sono
in fil di vita; sarebbero capaci di crederlo.

Il medico rise, e noi facemmo eco nell'uscire.

— Ebbene? — domandai.

— La cosa non pare gravissima per sè, ma può diventarlo per l'età.
Quanti anni ha?

— Quanti anni ha? — domandai a Evangelina.

— Non lo sa nemmeno sua figlia; se è necessario possiamo... (il medico
accennò che non era necessario); — deve però aver passato i settanta.

— Speriamo — concluse il medico; — stasera avrà la febbre, ritornerò
domani; bisogna prepararlo a ricevere le mie visite, e fargli pigliare
le medicine.

Accompagnai il medico fin sull'uscio di casa. All'idea della sventura
mi sentivo venire un gran coraggio: pensavo ad Evangelina.

Essa era già al capezzale del padre, il quale batteva i denti e cercava
di leggerle negli occhi la sentenza del medico.

— Ha detto che sono spacciato, non è vero? Non gli date retta.

Evangelina ebbe la forza di ridere.

                                   *
                                  * *

La malattia andò peggiorando, ed io che a ogni visita veniva leggendo
sulla faccia del medico, il quarto giorno vi lessi che rimaneva poca
speranza di conservarci il caro vecchio.

Si parlò d'un consulto, e fu fatto accorrere con un telegramma il
dottor Lelli, nostro genero. Lo accompagnava Laurina, alla quale pochi
mesi di matrimonio avevano dato tutta l'apparenza d'una donna fatta.

Il nonno che stentava a respirare e parlava con affanno, vedendola
cadere come un fiore al suo capezzale, trovò ancora un accento sonoro
per esclamare un _oh!_ di gioia: e perchè Laurina, nel vederlo soffrir
tanto, si oscurò in volto e fu tentata di piangere.

— Sorridi — disse — mi fa bene.

— Nonno mio! Nonno mio! come ti senti?

— Ora sto benone — rispose l'infermo, e abbandonò sul guanciale la
testa stanca dalla febbre.

— Dov'è tuo fratello?

Laurina si volse a domandarcelo con un'occhiata.

— A Pisa — risposi; — di là andrà a Firenze, a Roma e a Napoli. Ha
voluto vedere l'Italia, un dottore in utroque è nel suo diritto. Gli
scriveremo...

Accennò col capo che non era necessario; stette in silenzio, come per
raccogliere un po' di forza, ma senza abbandonare la mano di Laura, poi
disse forte:

— Sei venuta per portarmi la buona notizia?

Laura interrogò il marito con un'occhiata, appoggiò le labbra
all'orecchio dell'infermo, e noi vedemmo la faccia del nonno
trasfigurata dalla gioia.

Non disse nulla, chiuse gli occhi per assaporare la nuova felicità, e
non lasciò andare la mano di Laurina.

— Come ti senti? — domandò Laura, quando egli finalmente si decise a
riaprire gli occhi.

— Sto bene, licenziate i medici — mormorò con voce spenta; e parve
addormentarsi.

Laura stette lungamente immobile, non osando togliere la propria mano
da quella stretta amorosa, finchè il nonno non l'ebbe rallentata.
Allora ci venne incontro lacrimando.

— Che cosa gli hai detto? — domandai; e aveva anch'io un filo di
speranza dinanzi agli occhi.

— Ho dovuto ingannarlo — rispose Laurina. — Povero nonno!

— Era necessario! — aggiunse mio genero.

— Hai fatto bene! — disse Evangelina.

Convenni anch'io che aveva fatto bene, non potendo far di meglio.

                                   *
                                  * *

La medicina di mia figlia parve miracolosa a tutti, quando, dopo
due ore di assopimento, la voce del vecchio tuonò nella stanzetta
melanconica rompendo il nostro bisbiglio sommesso.

— Laurina! — chiamò egli con accento fermo.

E la buona creatura si affrettò a mettere nelle labbra e negli occhi la
menzogna innocente per accorrere al capezzale dell'infermo.

Egli la guardò con una specie di affanno, poi chiese titubando:

— Ho sognato, o è proprio vero?...

— È vero.

— Ragazzi — gridò allora la voce del vecchio rifatta limpida come nei
bei tempi — io vi dico che sono guarito, e che domani sarò in piedi;
anzi mi leverò subito.

Fece l'atto di mettere una gamba fuori del letto, ma giungemmo in tempo
a trattenerlo.

— Capisco — disse dolcemente — non bisogna dar scandalo alle signore;
sarà per domani.

Il domani si sentì più debole, e i medici lo trovarono peggiorato,
sebbene egli protestasse che si sentiva benone.

Fu per molti giorni una lotta tenace fra la malattia e la volontà
del vecchio; quando sembrava soffocato dall'affanno, e lo sgomento
ci stringeva il cuore, egli ci toglieva di repente da quel silenzio
disperato con una parola baldanzosa: _allegri!_

Poco dopo, la lotta finiva, ed egli riafferrava la vita.

Ma quando la speranza era ritornata in mezzo a noi, e si era tutti
intorno al letto porgendo orecchio credulo a ciò che il nostro caro
ammalato diceva e a quanto dicevamo noi stessi, un sospiro rantoloso
dissipava ogni dolce visione. Ricominciava l'oppressura.

Dopo una notte più travagliata delle precedenti, una mattina, una bella
mattina d'ottobre, il vecchio ci chiamò tutti intorno a sè con un cenno
del capo. Pareva tranquillo; la serenità d'un'altra vita era discesa
sulla sua faccia disfatta.

— Come ti senti? — gli chiesi.

— Bene — rispose; e aggiunse senza amarezza: — ma è finita!

Io volli ridere, Evangelina e Laura vollero piangere, ed egli ci
obbligò a guardarlo negli occhi.

— Ho vissuto abbastanza — disse lentamente — non mi posso lamentare;
sono stato felice, me ne vado contento...

Poi allungò il braccio con fatica, come cercando qualche cosa.

A uno a uno andammo a mettere la nostra mano nella sua, ed egli ce la
strinse debolmente.

Disse a ciascuno di noi una parola affettuosa.

A me disse e non me ne vergogno:

— Tu sei buono!

Disse a sua figlia:

— Tu mi chiuderai gli occhi quando sarò morto; e mi darai un bacio, io
lo sentirò ancora.

E disse a Laurina, con un bisbiglio carezzevole che stringeva il cuore:

— Gli parlerai di me, gli insegnerai a volermi un po' di bene.

Ripigliò un po' di forza e chiese:

— Dov'è Augusto?

— A Napoli; gli abbiamo scritto che tu non stai bene... verrà...

— Sto bene — mormorò; — gli direte che...

Non potè soggiungere altro; una specie di sopore cadde sopra di lui e
gli troncò le parole.

— Nonno! — gridò Laura stringendo sempre quella mano, imbiancata e
ingentilita dalla malattia.

Eravamo curvi sul letto; non piangevamo ancora.

Il vecchio riaprì gli occhi e guardò Laura fissamente.

— Poveretta! — disse, e fu l'ultima parola; le sue labbra si schiusero
a sorriderci dall'altra vita.

— Egli sa tutto! — gridò allora mia figlia e si coprì la faccia con le
mani.


VI.

Me ne ricordo: mio genero e io pensammo a scegliere una sepoltura
all'aperto, e vi piantammo con le nostre mani un rosaio; poi, facendo
la scoperta che il nostro caro vecchio era morto a ottant'anni, mi
venne in mente il paragone del salvadanaio a cui egli ricorreva per
nascondere l'età, e lo continuai dicendo a me stesso: il salvadanaio è
spezzato!

Mi ricordo anche d'un passero, che saltellava nel viale del cimitero il
giorno della sepoltura, ma non mi sovviene più nulla di quanto accadde
nel mio cuore, fino al giorno in cui nella nostra casa addormentata
incominciarono a rivivere malinconicamente un desiderio, una speranza,
un'idea allegra, e poi a uno a uno i doveri, le ansie, le contentezze,
tutto ciò che aveva accompagnato il caro vecchio nella tomba.

Per quello sbigottimento, che lascia la morte quando ci colpisce in una
persona cara, ci eravamo sentiti come morti in lui, e allo stesso tempo
avevamo avuto lui sempre vivo al nostro fianco. — Eravamo stati per un
po' come in aspettazione di qualche cosa, che correggesse l'errore del
nostro pensiero melanconico, e riponendo noi dinanzi a noi stessi, ci
costringesse a guardare in faccia a un sepolto vivo, e dirgli: «tu sei
l'avvenire!»

Fu una lettera di Augusto che ruppe il fascino della tomba recente.
Dinanzi all'incanto del golfo di Napoli, egli si sentiva accendere un
estro nuovo, e servendosi d'uno stile che non aveva nulla di comune con
l'eloquenza del foro, cercava di far intendere ai genitori il proprio
entusiasmo, e di tentare il nonno.

«Nonno mio — gli diceva in un proscritto dedicato a lui solo — tu
non sei vecchio, tu sei ancora capace di gran cose; eccone qua una:
mandami col telegrafo una sola parola, ma questa sia: aspettami, e io
ti aspetterò, e passeremo la vita tra Posilippo e Sorrento, chiedendone
scusa alla mamma e al babbo che saranno costretti a raggiungerci. Se tu
non mandi il telegramma, partirò fra otto giorni».

Allora Evangelina scoppiò in lagrime, e io singhiozzai per consolarla.

Non avevamo voluto che la notizia dolorosa trovasse nostro figlio
solo, in un paese non suo, e gli rendesse penoso il lungo viaggio del
ritorno; perciò non gli avevamo scritto nulla. Ma mentre prima ci era
sembrato di far bene, ora di quel silenzio avevamo rimorso.

— È una cosa crudele — diceva Evangelina — lasciare quel povero ragazzo
nell'inganno perchè scriva di queste lettere.

E io ci pensava un po', domandandomi se veramente fosse una cosa
crudele e verso chi.

Evangelina asciugò le lacrime, andò a sedere affannata alla scrivania,
e sul primo biglietto di carta capitatole scrisse rapidamente a suo
figlio. Io lasciai fare continuando a domandarmi se il nostro silenzio
fosse stato una crudeltà, e se quelle linee nere che Evangelina veniva
schierando in colonna con mano tremante, fossero l'atto pietoso che
doveva correggerla.

Quando Evangelina ebbe colmato in breve la prima facciata, voltò
il foglio per proseguire, ma lo trovò scritto in magnifico rondo da
uno scrivano dell'avvocato Volli, mio avversario nella quistione di
un prato irrigatorio, e sottoscritto con uno sgorbio dell'avvocato
medesimo. Allora mia moglie si arrestò come ad un segnale convenuto;
depose la penna tranquillamente, e mi disse che forse era meglio
continuare a tacere fino al ritorno di Augusto.

— Sì, è meglio — dissi.

— Però gli scriverai che venga; se si potesse prepararlo senza fargli
male?...

«Figlio caro — scrissi subito, sopra un altro foglio, dopo essermi
assicurato che nè l'avvocato Volli, nè altri mi sarebbe venuto a
interrompere — prima d'ogni altra cosa, sappi che il nonno è un
po' ammalato, e che alla sua età lo possiamo perdere da un momento
all'altro...».

A questo punto però mi arrestai; mi pareva che se il caro vecchio fosse
stato vivo, non avrei scritto a quel modo...

Ma, per preparare nostro figlio senza farlo soffrire, non vi era altro.
Ripigliai a scrivere più lentamente, pesando le parole; Evangelina
leggeva stando dietro la mia seggiola e diceva ogni tanto benissimo,
quando la porta si aprì alle nostre spalle e apparve il dottor Lelli,
mio genero.

Quell'apparizione improvvisa mi fece balenare alla mente due idee.

— Disgrazie!

— Niente affatto — diss'egli sorridendo senza l'entusiasmo che avrei
voluto. E l'altra idea si nascose.

— Augusto — proseguì — arriverà domani.

— Domani! se scrive a noi che arriverà fra otto giorni!

— Arriverà domani o stasera — insistè mio genero.

— È arrivato! — balbettai...

— È di là — esclamò la madre.

Era più vicino ancora, proprio dietro l'uscio, e appena Evangelina
volle andare di là, si sentì stretta da due braccia poderose.

Una melanconia profonda correggeva la gioia di Augusto.

— Come mai?... — chiesi. Ed egli mi rispose:

— È stata una lettera di mia sorella; ho indovinato tutto; non ho
potuto rimanere lontano da casa nel momento del dolore.

Non disse altro; volle visitare la cameretta abbandonata dal nonno, e
stette lungamente a guardare un ritratto del vecchio; poi si avviò, per
fargli visita, al cimitero.

Faceva tutto ciò con gravità insolita; e io compresi che il primo
dolore della sua vita maturava a un tratto tutta la parte di lui che
sarebbe rimasta acerba chi sa quanto.

Mio figlio è uomo.


VII.

Non è uomo soltanto, è anche avvocato.

Un bel giorno fece la sua domanda in carta bollata, e saltò bravamente
l'ultimo fossatello che lo separava dalla curia, giurando nelle mani
del consigliere Longhi, mio buon amico, di essere il campione della
vedova e del pupillo, tale e quale come suo padre.

E un altro giorno, Augusto, dopo essere andato in giro per tutta
la casa con la toga indosso, per misurarsela, consegnò il prezioso
indumento al vecchio usciere, e si avviò al tribunale, dove giunse
prima della toga. Era per un furto qualificato. L'accusato, un mariuolo
di prima forza, più volte recidivo, non poteva ragionevolmente sperare
di cavarsela senza un po' di carcere.

— Ascolta — avevo detto a mio figlio — nel difendere un accusato, tu
non domandare nè a lui nè a te stesso se egli è colpevole o no; tu
cerca di metterti in capo che è innocente. Gli argomenti con cui l'uomo
riesce a persuadere sè stesso sono sempre i più felici, i più nuovi,
i più sottili. Sopratutto non ti devi fare dei falsi scrupoli; e se
credi alla verità assoluta, non istare a cercarla nel foro. Le verità
assolute nel foro erano due ai miei tempi, cioè che la verità per un
avvocato è sempre relativa, e che la giustizia umana è fragile. In
questi ultimi anni se n'è scoperta una terza: ogni reato è un errore
di ragionamento generato da una anormalità del cranio, per lo più
dal cervello che si attacca alle pareti ossee. La medicina legale
lavora a ottenere che tutti i misfatti da far raccapriccio siano
puniti solamente quando li commettano i galantuomini, perchè si deve
ragionevolmente supporre che l'_organismo_ della gente onesta sia
perfetto e la malvagità dell'uomo dotato d'ogni virtù sia tutta in lui;
quanto ai furfanti, la loro cattiveria è nel cranio, è nella materia
grigia, è nella membrana, o nel che so io, non in essi.

Augusto si era contentato di sorridere, rispondendo:

— Per me l'accusato non esiste; si fa un'accusa, e io m'ingegno di
contrapporre una difesa; la giustizia ascolti e pesi.

L'avevo guardato a bocca aperta, vedendo che egli si preparava a
incominciare dove io, senza quasi averne coscienza, ero andato a finire
per forza d'abitudine.

Quel giorno, in mezzo al profano volgo che assisteva al dibattimento,
l'usciere solo, con suo inenarrabile dolore, vide, o indovinò,
l'avvocato Placidi seniore, il quale, per assistere al trionfo
dell'avvocato Placidi juniore, senza dargli soggezione, si era
accontentato di stare in piedi, con le spalle addossate al muro e con
un garzone macellaio addossato alla propria pancia.

Il macellaio era piccino e naturalmente irrequieto; si dimenava in
punta di piedi, e ricadeva scoraggiato sulla propria base; non perciò
io soffriva le pene del purgatorio; bensì mi metteva in croce il
Pubblico Ministero, prima con le sue domande inutili ai testimoni, poi
con le conclusioni feroci.

Finalmente egli tacque, e seguendo il consiglio che il mio giovane
macellaio gli diede in modo da non essere inteso dalle guardie, si
rimise a sedere.

— La parola alla difesa — disse il presidente.

Allora si alzarono tutti in punta di piedi per vedere bene mio figlio,
e mi rizzai io pure. Egli era là, tranquillo, disinvolto, magnifico,
dentro la sua toga nuova; qualcuno osservò accanto a me che gli pareva
troppo giovane; ma il macellaio, voltandosi, gli assicurò che era
meglio.

— «Signori — incominciò Augusto, e finse di radunare alcune carte per
dar tempo all'attenzione di fermarsi tutta sopra di lui; poi ripetè: —
Signori!...»

Dichiarò tranquillamente che si reputava fortunato di esordire nella
carriera del pubblico patrocinio, avendo un còmpito così facile e così
bello, ribattere cioè un'accusa infondata, proclamare l'innocenza d'un
infelice.

Era una bella frase e piacque a tutti; questa che venne dopo era ancora
più bella:

— «Io sento il bisogno di chiedere una grande indulgenza verso di me,
ma domanderò solo giustizia per il disgraziato che siede su quella
panca».

Bisognava vedere il mio garzone macellaio dopo queste parole, e
sopratutto bisognava sentirselo addosso per comprenderlo. Ma io non
gli badava più; in quel momento egli era padrone di arrampicarsi su
qualunque parte della mia persona, e se non lo fece, glie ne dichiaro
ora tutta la mia gratitudine.

Ero felice, come non ero stato mai; mi abbandonavo con una compiacenza,
di cui non mi sarei creduto capace, a tutte le tentazioni della vanità;
diceva anch'io: _è di razza!_

Mio figlio parlò, senza arrestarsi, una buona mezz'ora: aveva l'accento
giusto, la voce armoniosa, il gesto largo, sobrio; ogni tanto metteva
nel suo discorso delle pause sapienti; faceva — lo posso dire senza
peccato? — faceva quasi come me; e minacciava di fare — questo lo posso
dire senza peccato — minacciava di fare anche meglio di me in seguito.

Quando affermò che un padre amoroso, un marito esemplare come quello
che sedeva sulla panca dell'umiliazione, doveva essere restituito
alla sua famiglia, corse un mormorio d'approvazione nel pubblico, e il
presidente dovette minacciare di far sgombrare la sala.

Ah! perchè il macellaio mio vicino non era più là a sancire quel
trionfo! Egli se n'era andato poco prima della perorazione; dopo aver
interrogato due volte un grosso orologio d'argento sotto il grembiale
insanguinato, dopo essersi arrestato un po' sull'uscio, aveva dovuto
obbedire alla voce del dovere che lo chiamava dal macello.

Il primo cliente di mio figlio fu assolto. Egli venne un giorno con le
lacrime agli occhi a ringraziare il suo avvocato, e a promettergli di
scolpirsi in cuore il beneficio ricevuto, per non tornare mai più in
carcere. Ma l'uomo è debole e il peccato è robusto. Il poveraccio con
le migliori intenzioni del mondo non potè mantenere la seconda metà
della promessa; ne fece una più grossa della prima, e fu condannato
alla reclusione dove si trova ancora.

Io sono disposto a credere che gli sia riuscito più facile a mantenere
la prima parte della promessa, e che abbia serbato eterna gratitudine
al suo primo avvocato, ma non ne sono sicuro.


VIII.

Le cose si mettevano benone; mio figlio, per mia virtù, non doveva
attraversare nessuna delle burrasche che a suo tempo avevano sbattuto
l'avvocato Epaminonda. Egli non doveva logorarsi nell'aspettazione
inquieta del primo cliente; non aveva che a scegliere nello studio di
suo padre fra le cinquanta cause vecchie o nuove ch'io spingevo innanzi
pian pianino, pei sentieruoli della procedura; poteva pigliarsene una
tutta per sè; oppure passare dall'una all'altra, e fare nello stesso
giorno una citazione, una comparsa, una domanda d'appello o di rinvio.
Così faceva, e divenne in breve un collaboratore prezioso.

Essendomi accorto che sopra ogni cosa trovava gusto a presentarsi in
tribunale, io di buon grado lasciava a lui quest'ufficio; si lavorava
in comune, a casa mettevamo insieme tutti gli elementi di difesa del
nostro cliente, ma per lo più era lui che faceva la chiacchierata ai
signori giudici e ai signori giurati.

Parlava bene, con una bella voce baritonale, non ancora velata da un
po' di catarro come la mia. Da principio esponeva le cose con ordine e
con pacatezza, poi man mano si accalorava fino a un impeto che pareva
irrefrenabile; ma si frenava di repente all'ultimo; e quel passaggio
rapido dalla foga alla calma produceva, bisogna dirlo, un grande
effetto oratorio.

Le ultime sue parole erano lente e sommesse, tanto che i giurati, i
giudici e il pubblico dovevano tendere bene tutte e due gli orecchi per
udirle. Così egli finiva in mezzo a un silenzio teatrale.

Da chi aveva imparato quella sua arte oratoria? Non da me. Il mio
metodo era tutt'altra cosa. Pacata da principio alla fine, amena
e frizzante, se si porgeva l'occasione, la mia eloquenza scattava
a l'ultimo; la mia voce un po' melata nell'esordio, sarcastica
nell'esposizione dei fatti, diventava tuono un momento solo, nel
conchiudere. Questo era il mio metodo, e l'avevo sempre creduto il
migliore. E anche quando Augusto cominciò a gettare nella mia mente
il dubbio amaro che vi fosse un genere d'eloquenza più abile del mio,
persistei nella maniera che mi aveva servito per tanto tempo.

— Signor avvocato — mi dicevano gli amici del tribunale e della
Corte d'appello — sa che suo figlio si fa onore? _Fortes creantur
fortibus..._

Io respingeva quel latino tentatore con la più falsa delle modestie,
una modestia che era la vanità in persona.

— Davvero! — insistevano gli amici — lo dicono tutti: in tribunale non
si è intesa da un pezzo una parlantina così elegante, così lucida, così
ordinata... un garbo oratorio così...

E qui mi pareva, in coscienza, che la lode passasse il segno;
parlantine eleganti, lucide, ordinate se n'era sempre udito in
tribunale; io stesso aveva parlato per un'ora e un quarto la vigilia...

Il colpo brutale lo ricevei un altro giorno attraverso un uscio, e fu
l'usciere che me lo diede.

Ero arrivato tardi in tribunale e venivo accostando un occhio e un
orecchio alla porta socchiusa della sala d'udienza; mio figlio aveva
finito allora allora la sua difesa, e mi piaceva sentire come venisse
giudicata. Ed ecco quello che, detto confidenzialmente per bocca
dell'usciere a un caporale di fanteria, infilò il mio orecchio e mi
passò da parte a parte.

— Suo padre — disse l'usciere con l'accento sentenzioso proprio di
questa classe d'uomini di legge — suo padre _parlava_ bene anche lui,
ma _questo qui..._

_Questo qui_ era mio figlio!

Nella baruffa, che segui dentro di me fra la vanità e il sentimento
paterno, da principio parve trionfare la vanità; ma solo perchè
l'avversario si picchiava con le proprie mani.

Ve lo figurate voi questo modello di padre che coglie sè stesso
nell'atto di esclamare sottovoce: — «Mio figlio! ha da essere proprio
mio figlio che mi passa innanzi! Fosse un altro pazienza!» — e altre
tenerezze simili?

Io sapeva che l'invidia nasce da un contatto e si alimenta di una
vicinanza, e avrei potuto misurare i gradi delle diverse invidie, di
cui mi onoravano i miei vicini, a cominciare dal sentimento robusto
dell'agente di cambio, il cui uscio di casa si apriva dirimpetto
al mio nel medesimo pianerottolo, passando per quello più fiacco
degli inquilini del piano di sotto, del piano di sopra o della casa
dirimpetto, dei miei colleghi, amici e conoscenti, fino all'invidia un
po' scolorita, pronta a rifiorire alla prima occasione, degli abitanti
del mio paesello natale; ma che potesse mettersi tra padre e figlio
anche l'ombra di quel sentimento maligno non l'avevo sospettato mai,
e mi era sentito al sicuro dall'invidia di Augusto e aveva sentito
Augusto al sicuro dall'invidia mia, come se uno di noi (meglio io) se
ne fosse andato all'altro mondo... o per lo meno agli antipodi.

Fu dunque una scoperta dolorosa quella che io feci allora nel mio cuore
di padre, e mi affrettai a punirmene, dichiarando a quanti trovai quel
giorno, sotto i portici del tribunale, avvocati, procuratori e giudici,
che l'avvocato Placidi seniore non era più nulla e non aspettava dal
foro altri trionfi fuor quelli di suo figlio.

— Vi farà onore — mi rispondevano.

— Mi farà torto — insistevo sorridendo; — ma vi sono preparato.

Allora l'avvocato, il procuratore e il giudice dichiaravano che
questo non poteva succedere, che la mia fama era... che il mio valore
dovrebbe... e io rivedeva ancora il sorriso melanconico del mio amor
proprio.

Venne un giorno in cui il mio amor proprio non ebbe più sorrisi,
perchè non si fece più illusioni. Mio figlio era così famoso per la
sua parlantina, che metteva me assolutamente nell'ombra; ed io, per
conservare un po' di lustro alla mia eloquenza, decisi di non parlare
mai più in tribunale.

Fu un bel tiro, e ne rido ancora con Augusto, il quale non vuol
convenirne; sì, fu un bel tiro, un magnifico tiro.

Il silenzio mi restituì in breve tutta la mia fama di oratore, e i
trionfi di mio figlio l'aumentarono; perchè quando egli faceva per
innalzarsi, coloro che avevano udito me in altri tempi, e specialmente
chi non mi aveva udito mai, mi portavano al cielo. Più d'una volta mio
figlio, dopo una difesa splendida, se le ha dovute sentir fischiare
all'orecchio queste parole, che mi lusingavano, sebbene fossero
bugiarde:

— Bisognava sentir suo padre!

Egli, invece di adirarsi, assicurava che era verissimo; lo diceva a
tutti, lo diceva a me stesso.

E io? Ero quasi tentato di crederlo.


IX.

Ci eravamo preparati ad aspettare con rassegnazione; la filosofia, la
fisiologia, l'esempio del nonno e il nostro esempio medesimo avevano
contribuito a darci quella serenità che, utile in molte occorrenze
della vita, è poi indispensabile nei nostri rapporti coll'Eterno Padre.

Avevo detto ad Evangelina:

— Tu compivi i vent'anni quando ti venne la prima idea di Augusto...
te ne ricordi? Farà così anche Laurina; finchè non abbia vent'anni non
riuscirà a nulla di buono; meglio così: il suo Epaminonda nascerà più
robusto.

— Spero bene — aveva risposto Evangelina — spero bene che non ti
metterai in capo di battezzarlo Epaminonda?...

Al che avevo ribattuto solennemente:

— Le colpe dei padri saranno espiate dai figli...

E intanto Laurina aveva compiuto i vent'anni, e non si decideva a farci
nonni.

— È finita! — dissi un giorno — se vogliamo avere un nipotino, non ci
rimane altro scampo che pigliare con le buone Augusto, e farlo cadere
in un tranello.

— Che sarebbe a dire...

— Dargli moglie!

Era una buona idea anche quella. Perchè mai Augusto non pigliava
moglie? Forse non vi pensava, e basterebbe dirglielo. Quanto a farci
nonni, non vi poteva essere ombra di dubbio ch'egli spiccierebbe il
negozio alla lesta. Già, io aveva sempre sospettato un po' di mio
genero, e cominciavo a mettere tutta la colpa addosso a lui. Mia figlia
non era capace di comportarsi così; aveva avuto ben altri esempi
in famiglia; una delle sue bisnonne aveva messo al mondo sei figli:
l'altra nove, due dei quali gemelli.

— Quel tuo dottore... — dissi, terminando le riflessioni ad alta voce.

— Perchè mio? — domandò Evangelina.

— Perchè io non lo voglio; quel tuo dottore mi era sembrato troppo
lungo, non avevo torto; è una pianta venuta su all'ombra...

Ma mentre noi ne sparlavamo a questo modo, nostro genero aveva fatto di
tutto per contentarci; senonchè ingannato da certi falsi indizi e dalla
propria scienza medica profonda, non si avvide d'essere padre se non
quando la sua paternità avrebbe cavato gli occhi ad un cieco.

La natura si diletta talvolta a fare simili gherminelle alle mogli dei
professori di medicina.

Il primo pensiero del dottor Lelli fu di avvisare il suocero e la
suocera con una lettera piena di dubitativi.

«Se... ma... però... potrebbe essere...» ecco il sugo dell'epistola, la
quale finiva minacciando a mia figlia un consulto.

— Te li figuri tu i professori della facoltà medica di Pavia, tutti
intorno a nostra figlia? Quel disgraziato tratta sua moglie come un
caso patologico... perchè non raduna addirittura un congresso?

Glielo domandai in persona il giorno successivo:

— Perchè non raduni addirittura un congresso? Guarda... fammi il
piacere... guarda...

Laurina mi fuggì di mano, e io le corsi dietro per raccomandarle di non
correre.

Mio genero rideva con grande indulgenza; ed Evangelina si asciugava una
lagrima di nascosto.

— Perchè piangevi poco fa? — le chiesi.

Non me lo volle dire, ma io indovinai.

                                   *
                                  * *

Viaggiando il giorno dopo col treno omnibus, notai in me due sentimenti
opposti: il rammarico di abbandonare Pavia, e l'impazienza di arrivare
a Milano.

Ma era un'impazienza allegra, che da quel giorno doveva accompagnarmi
perfino nell'andare al tribunale.

Ritrovavo mio suocero in me stesso, comprendevo ora tutte le
singolarità dell'amore geloso del nonno per i miei figli; sentivo in
embrione, come cosa che si venisse formando nel mio cervello, quella
teorica che il nostro caro vecchio mi aveva già dimostrato inutilmente
a suo tempo: i nostri figli appartengono più al nonno da parte di
madre, che al padre medesimo. Provasse un po' mio genero a vantare
diritti più autentici del mio sul nascituro.

Certamente la donna sopporta la gioia meglio dell'uomo, il che
non significa (come la nostra vanità potrebbe essere tentata di
soggiungere) che noi altri uomini sopportiamo meglio il dolore. Se non
sdegnassimo di aprire più spesso le valvole che furono date all'umana
natura, cioè il riso ed il pianto, saremmo forti per lo meno quanto le
nostre donne, più forse, ma non ve l'assicuro.

Evangelina mi stava a guardare dal suo cantuccio; con una dolcezza
penetrante il suo sguardo veniva leggendo tutta l'anima mia senza
fallare.

Sentivo questo così bene, che a un certo punto mi chiusi bruscamente
in me stesso, dandomi un'aria svogliata e indifferente, perchè non si
leggesse d'un mio segreto disegno.

— Tu dove vai? — mi chiese mia moglie un'ora dopo.

— Dò una capata in tribunale, e torno subito e tu?

— Esco anch'io.

Non mi disse dove andava, e io non lo domandai, per risparmiarmi
un'altra interrogazione.

Uscimmo insieme: ed io accompagnai un buon tratto Evangelina. Fu lei la
prima a dire:

— Io devo passare di qui.

— Io di qui. Arrivederci...

— Fra quanto?

— Fra un paio d'ore.

Ci separammo alla cantonata della via traversa.

Avevamo conservato un'abitudine d'innamorati e di sposi: quella di
voltarci, e benchè oramai vecchi, non isbagliavamo mai il momento.

Mi voltai proprio quando essa si voltava, e dandole quell'ultimo
saluto silenzioso (ne chiedo scusa alla gente seria) trovai alla solita
tenerezza il sapore leggermente amaro del mio piccolo inganno.

Sì, perchè io aveva detto una bugia, e invece di andare al tribunale,
mi avviava semplicemente al cimitero.

Non avevo voluto mettere delle idee melanconiche in capo a mia moglie;
essa probabilmente si sarebbe ostinata a volermi accompagnare in quella
visita a suo padre, ed io sapeva per esperienza come queste visite
andavano a finire.

Quanto a me, mi sentiva forte; poteva assaggiare la malinconia senza
timore che mi desse al capo, come per lo più succede: e poi da un pezzo
non visitavo più quella tomba... chi sa di quanti seccumi bisognerebbe
mondare il rosaio? Camminavo a passo celere, ora che Evangelina non mi
poteva più vedere.

— Sei nonno! — mi diceva qualcuno — _nonno!_ prova a ripetere questa
parola — e io provavo. — Tu ricominci la vita per la terza volta; ti
sembrava quasi d'aver finito; d'essere al mondo per far numero; ora
ecco un altro scopo: la culla d'un altro figlio.

Il rosaio era scomparso; non mi rimaneva più dinanzi alla mente se non
la tomba di mio suocero, ma aveva le cortine di mussola bianca, come
una culla.

Quando io fantastico, corro — è Laurina che me n'ha avvertito; — le
mie gambe avevano vent'anni quel giorno; nondimeno per le giravolte che
m'era toccato fare, arrivai in cimitero dopo mia moglie.

Proprio così, la poveretta aveva avuto la mia medesima idea; ed era là,
dinanzi a me, che s'avviava fra le tombe.

Subito mi fermai, guardando all'uscita; essa mi sentì, si volse e mi
sorrise. Che piacere! poteva ancora sorridere, non era troppo mesta! la
raggiunsi e la presi a braccetto con molta gravità, senza dir parola,
mentre essa mi veniva guardando negl'occhi per godersi il mio corruccio
burlesco.

— Signora! — cominciai tragicamente...

— Signore! — mi rispose con un fil di voce...

Allora io volli ridere, ed Evangelina si affrettò a dirmi con la sua
voce e con la sua maniera solite:

— Per carità, sta zitto; siamo in camposanto!

— To', è vero — mormorai — siamo in camposanto. Ma come mai —
soggiunsi, adattando la voce al luogo — come mai ti è venuta la mia
stessa idea?

— Come mai ti è venuta la mia stessa idea?

— E come hai fatto per arrivare prima di me?

— È un segreto — mi rispose sottovoce.

— Davvero non capisco, eravamo fuori di strada tutti e due, e ho le
gambe più lunghe delle tue.

— Non ti voglio far penare — mi disse, con l'aria di farmi una gran
confidenza. — Sono venuta in carrozza.

Mi picchiai la fronte e sclamai come ispirato: _capisco!_ E mia moglie
conchiuse: _bravo!_

Allora ci fu impossibile tenerci dal ridere, ma lo facemmo con
discrezione.

— Siamo vecchi — entrò a dire mia moglie — siamo quasi nonni, facciamo
come i monelli, e forse offendiamo i morti.

— Non aver questo scrupolo — risposi alzando un po' la voce perchè
mi sentissero i morti più vicini: — se i morti ci possono intendere,
avranno cara questa allegria serena che visita le loro tombe. Si viene
sempre in cimitero a dire ai morti che si soffre della vita e che
si vorrebbe raggiungerli presto. Essi saranno contenti di sapere che
nella vita si ama ancora, e che quando si ama molto, quasi quasi non si
soffre.

Evangelina mi strinse il braccio per ringraziarmi di queste parole e si
staccò da me per rizzare una croce posta come segnale sopra una fossa
recente. Poi proseguimmo la via in silenzio.

— Gli ho portato un fiore — disse a un tratto Evangelina, mostrandomi
un mazzolino di viole che teneva sotto il mantello.

Io presi le viole gravemente e ne aspirai il profumo, guardando mia
moglie negli occhi. Non era mesta, non le tremava la voce, ma ancora
non ero sicuro che la vista della tomba di suo padre...

Eccola... ecco il salice, che nasconde la colonnina intera, sul cui
capitello s'intrecciano due corone: a mio padre, a mio nonno...

Evangelina si staccò da me, e corse ad inginocchiarsi dinanzi alla
tomba, io le rimasi alle spalle cercando con gli occhi i seccumi del
rosaio fiorito... Poco dopo mia moglie si volse e sollevò il capo per
farmi vedere che non piangeva. Non mi pareva vero, e spensieratamente
le dissi: _brava!_

Si rizzò, e incominciammo tutti e due in silenzio l'opera di mondare il
salice e il rosaio dai seccumi.

— Bada — dissi — non istaccare quelle foglie accartocciate: è una
specie di bruco intelligente che le ha accomodate così per la sua
famiglia.

Evangelina si accostò a guardare dentro alle foglioline come in un
cannocchiale, poi lasciò ricadere il ramo, e sorrise.

Ma fu senza pietà con un ragno che era venuto ad attaccare i suoi fili
dalla colonna al rosaio; e quando ebbe distrutto con la pezzuola tutta
quell'opera bella e faticosa, mi disse per giustificarsi:

— Questo non era un nido, era una trappola.

Maggio era già passato sulla campagna, e il muricciuolo del cimitero
non l'aveva potuto trattenere; l'alito suo aveva risvegliato mille
forme di vita fra le tombe.

Spingendo l'occhio sotto la pietra di una fossa vicina, io vedeva il
corpicino d'una lucertola bruna così immobile che pareva di bronzo, e
chinandomi a sgombrare dalle male erbe la poca terra che appartiene
ancora oggi a mio suocero, io misi allo scoperto l'ingresso di un
formicaio, dove si faceva un gran lavoro.

Quelle creaturine che uscivano dalla fossa del nostro caro vecchio,
per ritornarvi cariche di preziosi fardelli, sembravano lì per essere
interrogate.

— Se ci potessero rispondere — disse Evangelina, che non sapeva
staccare lo sguardo da quella piccola gente nera...

— Ti direbbero che i morti non hanno alcun bisogno di noi, e che
dobbiamo pensare ai nostri figli.

Le mie parole erano solenni; ma l'accento con cui le pronunciai era
facile e leggiero, come era facile e leggiera, quel giorno, tutta
l'anima mia.

Non passò alcuna nuvola sul nostro orizzonte, dicemmo addio al caro
vecchio e ci separammo da lui senza dolore.

Passando accanto a una tomba, Evangelina lesse il nome di una bimba di
quattro anni, e disse mestamente:

— Anche i bimbi muoiono!

Io sospirai: _pur troppo!_ e il mio egoismo si affrettò a soggiungere
a bassa voce che questo pericolo per due dei miei figli era passato, e
che il terzo aveva ancora da nascere... pur troppo.

E sospirai un'altra volta.

Nemmeno quest'ultimo sospiro potè guastare la mia serenità; facevo lo
scontento per ipocrisia, ma in fondo non desideravo nulla.

Nulla, proprio nulla, no. Desideravo un maschio; avevo anch'io
questa debolezza, e come a punirmi dell'offesa anticipata che venivo
facendo alla mia nipotina, mi affrettai a scrivere a mia figlia per
raccomandarle di nutrirsi bene, di non correre, di scendere le scale
pacatamente, di non fare degli sforzi gravi (per esempio, sollevare
dei pesi enormi... e che altro?), insomma di condurre il negozio con
giudizio, senza badare al _sesso_.

                                   *
                                  * *

Fu la pallida mammina che, sollevando il corpicciolo della creatura
tanto aspettata, la collocò con molta precauzione nelle braccia del
nonno.

Poi disse:

— Babbo, sei contento? — e lo veniva guardando negli occhi con la
certezza di leggervi la felicità.

Il nonno non rispose neppure; volle baciare la nipotina, che lo
guardava con molta attenzione, e non seppe come fare; volle accarezzare
il visino con la mano, ed ebbe paura di soffocarla; volle correre
col suo prezioso fardello per tutte le stanze, volle ridere, volle
piangere.

Fino a poche ore prima aveva accarezzato col pensiero un bel maschio,
robusto più del necessario per quell'età, panciuto come il nonno; e
dinanzi a quella neonata color di rosa si domandava come avesse potuto
desiderare _un altro._

Sua moglie e suo genero lo stavano a guardare e ridevano; e la mammina
gli domandava inutilmente:

— Babbo, sei contento?

Ebbene, no, non era contento, e lo disse:

— Vorrei baciarla e non posso, per causa dei baffi; vorrei farle delle
carezze, e non posso servirmi che d'un dito; vorrei rapirla, fuggire
con essa, e non posso perchè ho paura che si costipi. Come vuoi che io
sia contento?

Per consolare il nonno gli fu detto che la neonata era tutta lui, negli
occhi, nella fronte e perfino nel naso.

Quando mi ripetono queste cose (perchè sono io il nonno) mi afferro
gravemente il naso come per pigliarne le misure e lo confronto col
nasino non più grosso di un cece della neonata. Faccio lo scettico, per
decoro. Faccio di più: ammetto che la mia bimba somigli anche un poco
alla nonna, e un po' alla mamma, e un pochino (pochino davvero) a suo
padre — ma che essa abbia una somiglianza strana con me non vi è ombra
di dubbio. Me lo dicono tutti.


  FINE.



INDICE


  A CHI LEGGE (prefazione alla Iª edizione)          _Pag_. 9
  PRIMA CHE NASCESSE                                   »   11
  LE TRE NUTRICI                                       »   55
  CORAGGIO E AVANTI                                    »  115
  MIO FIGLIO STUDIA                                    »  169
  INTERMEZZO                                           »  199
  LA PAGINA NERA                                       »  215
  MIO FIGLIO S'INNAMORA                                »  245
  IL MARITO DI LAURINA                                 »  288
  NONNO!                                               »  357



Cenno Bibliografico di MIO FIGLIO!


Pubblicato in frammenti, ebbe parecchie edizioni di ciascuna parte,
oltre 3 edizioni dell'opera completa, Roux e Favale, Torino.

Nel 1881 fu fatta un'edizione di gran lusso con illustrazioni italiane
dell'Edel; poi un'edizione economica nell'anno 1882; e la 3ª, 4ª, 5ª e
6ª edizione, furono pubblicate da A. Brigola.

TRADUZIONI:

Tedesca. — Nella =Deutsche Rundschau=; poi in volume dall'editore
Paetel, Berlino, 1884, traduttori Dohm e Offmann. — Nuova edizione
economica, Engelhorn, Stuttgart. — Altre traduzioni: editore Reclam,
Lipsia, traduttore W. Lange, del solo _Marito di Laurina_. — Altra
edizione del Marito di Laurina fu pubblicata a Berlino dall'editore
Auerbach, 1882. — _L'Intermezzo_, che fa parte di _Mio Piglio!_,
fu pure tradotto dall'illustre poeta R. Hamerling, e pubblicato
dall'editore Larl Prockasta a Vienna.

Danese. — Editore Schubothes, Copenaghen, traduttore Winkel Horn, con
bel ritratto.

Belga. — Editore Gilon, Verviers, traduttore Gravrand.

Francese. — Tradotta da F. Reynard, pubblicata nel =Temps=, 1886, poi
dal Charpentier, Parigi, 1886.

Spagnuola. — Illustrata con incisioni spagnuole e buon ritratto,
editore D. Cortezo, Barcellona, 1887, trad. Maria de la Pena.

Ungherese. — Nel giornale letterario =Fovarosi Lapok= a Buda-Pest.

Olandese. — Editore Rogge, 1882, traduttori Van der Venter e Dott.
Epkema.

Svedese. — Molte parti di quest'opera furono pubblicate in giornali e
riviste.

Croata. — Nei giornali =Vienac= e HRVARSKA VILA di Zagabria.

Boema. — Un'edizione czeca a Praga presso Hynek — Traduzione czeca di
=Mio figlio studia= nel giornale =Prokok= di Praga. — Altra traduzione
del =Nonno= nel giornale =Zlata=, Praga.

Traduzione stenografica di PRIMA CHE NASCESSE.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



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