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Title: La donna e i suoi rapporti sociali Author: Mozzoni, Anna Maria Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "La donna e i suoi rapporti sociali" *** This book is indexed by ISYS Web Indexing system to allow the reader find any word or number within the document. SOCIALI *** LA DONNA E I SUOI RAPPORTI SOCIALI DI A. MARIA MOZZONI IN OCCASIONE DELLA REVISIONE DEL CODICE CIVILE ITALIANO PROPRIETÀ DELL'AUTRICE MILANO, SETTEMBRE MDCCCLXIV _L'Autrice, avendo adempiuto alle vigenti prescrizioni, intende godere dei diritti di proprietà letteraria sanciti dalle leggi del regno d'Italia, non solamente nell'interno, ma anche a norma dei trattati internazionali._ Tip. Sociale, diretta da G. Ferrari A mia Madre Mentre i miei deboli sforzi dirigo all'utile della femminil gioventù e, tracciando alla donna i suoi doveri, e rivendicando i suoi diritti, tento sollevarla all'altezza della missione, alla quale Dio e la natura la sortivano adornandola d'intelligenza e di sentimento, io non posso porre in migliore accordo coll'argomento la mia mente ed il mio cuore che a Te consacrando questa mia fatica. A Te, che al venerando e santo carattere materno sì degnamente rendi l'onore, che ne ricevi; a Te, che il comun pregiudizio non dividesti che alla donna interdice il libero pensiero; a Te, che vita mi desti, latte ed insegnamento, questa mia dedica è tutt'insieme debito ed omaggio. Da tutt'altri implorerei indulgenza e generosa venia alle molte imperfezioni del mio lavoro; ma del cuor di madre è colpa dubitare, non altrimenti che della divina illimitata bontà; laonde aspetto nel Tuo aggradimento l'ampia mercede al mio buon volere. _L'affezionatissimma tua Figlia_ _A. MARIA._ Alle Giovani Donne _La revisione del Codice Civile italiano per opera del Parlamento nazionale mi poneva fra le mani un argomento — La donna, per vieto costume esclusa dai consigli delle nazioni, ha sempre subito la legge senza concorrere a farla, ha sempre colla sua proprietà e col suo lavoro contribuito alla pubblica bisogna, e sempre senza compenso._ _Per lei le imposte, ma non per lei l'istruzione; per lei i sacrificii, ma non per lei gl'impieghi; per lei la severa virtù, ma non per lei gli onori; per lei la concorrenza alle spese nella famiglia, ma non per lei neppur il possesso di sè medesima; per lei la capacità che la fa punire, ma non per lei la capacità che la fa indipendente; forte abbastanza per essere oppressa sotto un cumulo di penosi doveri, abbastanza debole per non poter reggersi da sè stessa._ _Ora, se la donna è impossibilitata dalle vigenti istituzioni a rivendicare il suo diritto in quel parlamento che, in qualità di rappresentanza nazionale, tutta dovrebbe rappresentar la nazione ne' suoi indispensabili e reali elementi, essa tenta almeno di farlo per quella via che non le può essere preclusa, per quella cioè della stampa; e possa la sua voce, che chiede _uguaglianza vera di tutti i cittadini innanzi alla legge_, esser raccolta colà dove il solenne mandato della nazione impone ogni equità e ogni giustizia._ _Strappare all'oscurantismo uno de' suoi più poderosi elementi, generalizzare l'istruzione donde un potente incremento alle libere istituzioni, creare un nuovo impulso alle scienze ed alle arti, duplicare le forze della nazione duplicando il numero de' suoi cittadini e raccogliendo tutti gl'interessi nel raggiungimento di un unico scopo, crearsi fama di illuminato e generoso sopra ogni popolo civile, ecco i vantaggi che debbono naturalmente scaturire dalla redenzione della donna nella nostra Italia._ _Se non che prevedo l'obiezione, che mi può esser fatta anche da qualche amico generoso della redenzione femminile; che cioè in mano all'ignorante ed al pregiudicato potrebbe assai facilmente servire il diritto ad uccidere il diritto; che pur troppo al dì che corre, subendo la donna le antiche influenze, e nè potendo d'un tratto diradarsi dinnanzi gli occhi la fitta tenebrìa di sessanta secoli, essa finirebbe o per non comprendere il suo diritto e trascurarlo o, che peggio è, per mal applicarlo, non altrimenti che un coltello, utilissimo arnese in mano al savio ed all'adulto, si fa pericoloso e funesto fra mani al bambino od al mentecatto._ _Nulla di più vero, e di più giusto in verità, che siffatto timore; laonde ciò considerando risolsi di rivolgere a voi, giovani donne, il mio libro, e parlare a voi dei vostri doveri prima, poscia dei vostri diritti, nè passerò a parlar di questi, se non quando mi lusingherò di avervi a sufficienza provato che il diritto sul dovere si fonda, non altro quello essendo che lo strumento col quale questo si compie._ _Ognun vede e sa, che potente ed efficace si è destato il bisogno d'istruzione nella donna in questo quinquennio di libera vita. Ognun vide l'entusiasmo che la donna italiana portò nel patrio risorgimento, la devozione sua agli interessi nazionali, i sacrificii che lieta compì sull'altare dei patrii bisogni._ _Se ciò tutto non rivela massima intelligenza della pubblica cosa; se l'avere scossa l'inconscia pace dell'ignoranza; se il suo caldo parteggiare per cose, per individui o per principii, non prova ampiamente in lei sazietà della vieta apatia, e bisogno supremo di nuova vita, di più libera atmosfera e di più ampio orizzonte; se ciò non è, dico, allora noi assistiamo ad un fenomeno che non ha ragione d'essere, epperò non possibile soluzione._ _Negare alla donna una completa riforma nella sua educazione, negarle più ampii confini alla istruzione, negarle un lavoro, negarle una esistenza nella città, una vita nella nazione, una importanza nella opinione non è ormai più cosa possibile; e gli interessi ostili al suo risorgimento potranno bensì ritardarlo con una lotta ingenerosa, ma non mai impedirlo._ _Ma ogni ragione e l'esperienza di tutti i secoli prova che l'iniziativa d'ogni redenzione incombe all'oppresso medesimo; epperò è duopo, studii la donna il suo terreno, e sciolgasi prima ad un tratto da ogni influenza che tenti piegarla e formarla ad interessi non suoi; ed ecco ragion per cui io tento riscattarla dai vieti principii d'una morale relativa per sostituirvi una morale assoluta, che non già sè stessa, ma le sole forme sue modifica in faccia ai rapporti._ _E tanto più credo doversi la donna formare ai severi principii dell'etica, in quanto che, per la natura delle nostre istituzioni, ella è costretta sottoscrivere a tutte le dottrine, leggi ed opinioni che vengano dall'uomo esposte, promulgate o diffuse, le siano, o no, utili e giovevoli; laonde a riscattarla da siffatta servitù dello spirito, nulla vidi di meglio a farsi, che convincerla della sua morale potenza, dell'altissimo fine cui è missionata, dei doveri e dei diritti che le creano d'intorno i molteplici rapporti._ _Se non che, nello imprendere questo lavoro, nel caricar le spalle di questo arduo incarico, sentomi travagliare da mortal peritanza; e come queste incertezze valermi possono compatimento ed indulgenza appo le gentili creature a cui la mia fatica è consacrata, voglio tutte porle in luce e vantaggiare così la posizione mia nei cuori vostri, o leggitrici, mostrandovi le difficoltà incontrate nel cammino che, in vista d'un possibile utile vostro, mi son incuorata a percorrere._ _Le leggi della morale scritte nei cuori nostri, e dalla ragione ogni dì più potentemente affermate e convalidate, stanno. E stanno indeclinabili, eterne, inconcusse in onta agli interessi, malgrado la debolezza, a dispetto delle passioni; e verso quelle s'indirizza ogni filosofia, che si proponga l'uomo e l'umanità guidare alla possibile perfettibilità. E della morale scrissero con ogni tema e con ogni forma migliaia di scrittori, e le sue leggi svolsero in ogni modo, ora con piana e facile allocuzione per l'età adolescente, ora con sublime potenza di raziocinio, e vastità di concetto, furono fatte argomento alle profonde investigazioni della filosofia._ _Mi si apriva adunque dinanzi un terreno ben battuto ed investigato da fini osservatori, e da valentissime penne trattato; e certo fatica molta non valeva di lavorare per aggiungere il peggio al meglio; e quand'anco non una misera intelligenza siccome la mia, ma un altissimo intelletto si fosse l'impegno assunto di percorrere di nuovo quella via, sarebbe pur sempre stato a mio credere superfluo lo ripetere ciò, che già in mille guise fu detto, lo illustrare ciò, che è già sì ricco d'illustrazione, e discutere di ciò, che tutte le opinioni già trova unanimi e concordi._ _D'altronde l'occhio a voi rivolgendo, lettrici mie, trovavo quantità di scrittori, che a voi consacrarono le penne ed i temi, e voi fecero argomento e le vostre doti, e la potenza vostra, e perfino le vostre fralezze, a lavori d'ogni genere, d'ogni forma, d'ogni portata; così che sarebbe impossibile darvi encomii più lusinghieri, e biasimi più indiscreti, nè mostrar di voi maggiore stima, nè di peggior dispregio caricarvi; e neppure alcun chè di nuovo insegnarvi; poi che da oratori d'ogni colore e pensamento vi si diresse la parola e l'insegnamento._ _E chi vi volle educate a passività assoluta e v'insegnò dover essere voi siccome cencio pieghevole, oggetto da strappazzo nelle mani di chi poteva e sapeva imporvi ogni sua voglia; e chi cinte di ferro il seno, e il volto ascoso dalla robusta celata d!un elmetto, vi cantò valorose nella lotta ed intrepide nel periglio; e chi, raccolte in lungo e fitto velo, inaccessibili a sguardo mortale, vi collocò fra il vestibolo e l'altare e, fra i vaporosi labirinti del misticismo, la perfezione vi additò nell'oblio di tutto e di tutti; e chi, dalla potenza dei vostri vezzi soggiogato, proclamò essere il fine della vostra mortale carriera la terra adornare e rallegrare col raggio della vostra bellezza, e la soavità del vostro sorriso, ed educate perciò vi vorrebbe a far somma stima di quella e ad avervi facile questo._ _Ora, dove insuperabile difficoltà credeami incontrare fu là appunto dove m'ebbi lo intelletto illuminato ed addirizzato. Il cuor si solleva involontario alla vista del sommo egoismo, che la maggior parte informa di quei volumi, e l'ingiusta giudizio, che ovunque pesa sulla donna che, biasimata od encomiata, è insultata sempre, dacché come essere relativo è ovunque considerata, e non mai siccome portante in sè stessa lo intrinseco valore dall'intelligenza e dal sentimento costituito, indipendentemente dal sembrar dessa, o no, amabile e bella, dall'essere ella, o non essere, oggetto di delirii o d'entusiasmi._ _Meditando meco stessa su cotal pregiudizio, attesi anzi tutto ad imporre silenzio alle passioni e ad esaminare freddamente, se per avventura, abbenchè falso, potesse alla donna tornar utile cotale opinione, e se da senno, dal curvar ella docile il collo al giogo di codesti esorbitanti giudizii, ne uscirebbe dessa più svilluppata d'intelletto, più solidamente informata a virtù, più potente nella sua influenza. Che se cotali conseguenze veduto avessi scaturire da quelle sconsolanti premesse, piegato avrei il capo riverente sotto la legge sovrana, che ci comanda il bene ad ogni costo._ _Ma tale non fu lo risultato delle mie disquisizioni, e spontaneo sorse il desiderio di combattere quei sistemi e di collocare la donna, non più nel posto assegnatole dagli interessi e dalle passioni altrui, ma sibbene in quello dovuto, secondo giustizia, all'importanza dei mezzi di cui dispone, e della missione di cui natura e provvidenza l'hanno incaricata._ _Ma aborrendo per natura dalla polemica pura che le passioni solleva e poco giova all'argomento; convinta che, più col fatto che colla parola si trionfa dei secolari pregiudizii se, come questo, basati su numerosi e forti interessi; desiderosa prima, e sovra tutto, d'esservi utile, persuasa che il conquisto del bene esige sforzo e violenza, ammaestrata dalla storia, che diritto ed importanza mai non si concedono gratuitamente, ma fa d'uopo conquistarseli; io mi rivolsi a voi, onde incoraggiarvi a tentare l'impresa; onde esortarvi a chiarire coi fatti quanto s'ingannino coloro, che bassamente di voi pensarono, che vi credettero incapaci di applicare lo innato ingegno a studii utili e severi, che crearono per voi una morale relativa, la quale vi pieghi ad interessi speciali, che non altro sembrano vedere in voi d'amabile se non ciò che non è vostro ma dono gratuito della natura, che di niuna influenza vi credono potenti oltre quella che sui ciechi istinti si fonda; dottrine queste che non è duopo mostrarvi come al nulla vi riducano quando, per fatto di natura matrigna, o d'età, o di circostanze, cessate d'essere oggetto di passione e di simpatia._ _E tanto basti per chiarirvi il punto mio di partenza — Il mio lavoro, siccome diretto all'utile vostro materiale e morale, e tendendo ad affermare il vostro individualismo, era d'uopo cominciasse per mostrarvi quali siete e non attraverso alte lenti della opinione._ _Dalle leggi eterne della morale all'infuori non v'ha arbitrato che pesi sulle umane azioni, il quale non sia continuamente modificato da circostanze di luogo, di tempo, di condizione e di persona, e capovolto affatto talora dai progressi della civiltà e dell'intelligenza. Un secolo fa, l'immortale Molière, colle sue _Preziose Ridicole,_ faceva argomento al sarcasmo la dottrina femminile; ed il pubblico francese applaudiva freneticamente all'autore, all'opera, all'argomento; in oggi l'istruzione femminile ha avvanzato. Sovente la donna dirige al pubblico la parola, ed è volentieri sentita e spesso lodata — Ecco l'opinione._ _È evidente che talune dovettero per prime affrontarla, ma siccome desse non gettavano il guanto che al pregiudizio, questo dovette pur far posto alla ragione._ _Negli scorsi secoli, in cui i più rinomati cavalieri spregiavano le lettere siccome studii imbelli e plebei[1] e si recavano a sommo vanto la incapacità di scrivere il nome proprio, una donna qualunque, del nostro secolo, sarebbe apparsa un mostro d'erudizione; e mentre agli uomini di quei tempi sarebbe stata intollerabile, per troppa dottrina, una donna ignorante de' tempi nostri, gli uomini attuali non son certo, per quel che mi sembri, molto incomodati bench'ella sappia qualche cosa di più._ _Dalle modificazioni che subisce la opinione pubblica, siccome in questa in tutte cose, ne inferisco necessità di avviare la donna a criterii men relativi, onde dall'oggi al domani ella non si trovi incompatibile colle nuove forme, che la civiltà impone alla morale._ _E dico _forme_, poiché se Gallo Sulpizio, ai tempi della romana repubblica, potè dividersi dalla sposa perchè comparsa in pubblico senza velo, il chè sembrò allora un insulto alla verecondia, questo fatto, nè poco tempo dopo sembrò tale in Roma stessa, nè sembrerebbe oggi alla pubblica coscienza; e se Egnazio Mecennio uccise sua moglie sull'istante per averla vista ber vino (contravvenendo alla legge di Romolo che lo vietava alla donna), eppure nè i giudici né la opinione non gli fecero di simile esorbitanza nessun delitto, sarebbe in oggi una bizzarra eccentricità chi pretendesse sconvenire alla donna l'uso del vino; come rimarrà a perpetuità immorale e deplorevole spettacolo sì nell'uomo che nella donna la ebbrezza, che però in altri tempi fu alzata al grado di sacro rito e si procurò ad onorare la divinità (testimonio le romane Baccanti e le greche Menadi) e non la pagana solo, ma la cristiana altresì._ _Informata la donna agli assiomi della morale, ed avvezza a scernere con sicurezza fra il bene ed il male, fra la forma e l'ente, fra i consigli sussurratigli all'orecchio dagli interessi e dalle passioni, ed i precetti intransigibili del dovere, fra le più o meno logiche esigenze dell'opinione, e l'incrollabile coscienza dei principii, ella non sarà più facile pesca all'amo delle seduzioni, che amano nell'attuale civiltà (che ha bandito la brutale violenza) porsi in aguato dietro speciose dottrine, ed avvilupparsi fra i facili argomenti d'una relativa e compiacente morale._ _Ed ecco in qual modo, sollevando la donna dall'opinione, intendo avviarla alla morale._ _La religione fu sempre e dovunque potentissimo mezzo a dominare la donna, e sta bene; ma io vorrei che questo sentimento, ch'è in lei tanto sentito e dominante, non in mano altrui fosse, ma in sua mano; non diretto a farla schiava perpetua dell'altrui avviso, epperò dell'interesse altrui talora cieco strumento, ma sollievo le fosse e guida attraverso i delirii dell'umana mente e gli errori d'una peranco non adulta filosofia._ _Gli è in vista di ciò che, partendo io dalla semplice ragione religiosa ad appagamento dello intelletto (dacché voi a qualunque culto apparteniate siete in possesso delle religiose dottrine), più che della teoria, della pratica applicazione mi sollecito di questo nobilissimo fra i sentimenti dell'anima umana. Laonde non sopìto e latente vorrei rimanesse in voi, oppure sterilmente espresso con atti esterni convenzionali che, per quanto moltiplicantisi, poco costano all'uomo, e meno onorano Iddio, siccome quelli che il loro pregio in sè stessi non recano, ma portarvi debbano alla virtù, all'amore universale, all'operosità._ _Considerando quindi la donna nella famiglia, e vedendovela ricca e forte di una potenza, che ha la sua segreta ragione nei cuori stessi di quelli che la circondano, eppure vedendo questa stessa potenza rinnegata dalle istituzioni, paralizzata dagli interessi, soffocata dallo abuso del muscolo, e dalla donna stessa sconosciuta e deprezzata per l'inscienza deplorevole del proprio valore, mi sorge spontaneo il voto, ch'ella si desti finalmente al sentimento dei propri mezzi, ed alla loro doverosa e lata applicazione. — Madre, vede passarsi fra le mani tutte le generazioni, sulle quali tutte ella possiede lo irrepugnabile vantaggio della prima educazione. Incalcolabili sono le conseguenze di questo fatto! l'uomo non giunge che assai difficilmente a sbarazzarsi dalle impressioni della prima infanzia. In quella età non sono già idee che si accatastano sopra idee, ma sensazioni che si aggiungono a sensazioni, cosichè le prime nozioni della vita possono chiamarsi vere _incisioni_, mentre i numerosi concetti, che attraversano la mente adulta, non sono che _panorami_. Da ciò ne deriva che, quando la donna sarà sorta alla coscienza di sè, e saprà e vorrà applicare lo immensurabile potere del materno ascendente, e l'arte avrà appresa dello educare, le generazioni saranno quali essa le vorrà._ _Nè meno potente è la donna sposa, quando le nuziali tede accese vengano dallo amore, massima potenza che abolisce e sopprime di fatto tutte le tirannidi escogitate dagli interessi, appoggiate dalle leggi, applicate dalla forza, e sottoscritte dalla debolezza, delle quali fu ed è dovunque e sempre, dal più al meno vittima la donna moglie. Non è che sotto la influenza dello amore, che risorgono i diritti della natura, e l'eguaglianza è ristabilita fra due esseri ambo d'intelligenza dotati e di sentimento, l'uno all'altro necessarii, l'un l'altro attraentisi. Epperò ogni interesse della donna, vuole, che fin quando i coniugali nodi retti non siano da più equi patti che quelli non sono dalle istituzioni nostre prescritti, ella non accetti che l'amore a mediatore del fatale contratto, senza di che, legata a perpetua servitù, sarà astretta a maledire ogni giorno le importabili catene. Che se l'amore avuto avrà pronubo al nodo, oh allora! non abbisogna di nessuna dottrina, di niun insegnamento. Egli solo ammaestra, egli rivela, egli compisce. Egli dona lo intuito dei secreti dell'altro, egli indovina ciò che sarà gradito, egli affronta il dolore, non paventa il sagrificio, non conosce querela, non ama il garrito, detesta la tirannia, e come fuoco sacro, che di continuo lavoro si nutre, abborre la inedia, ed all'utile, al meglio, alla felicità dell'oggetto suo, assiduamente si impiega._ _Ottenuto il frutto dell'amore, tutta la morale vitalità della donna si riversi su quello, seguendo i procedimenti della natura, che quel mezzo a cotal fine preponeva._ _Questo è il suo maggior campo d'azione, è questa la grave ed ardua missione sventuratamente finora sì sovente incompiuta, perchè argomento di serie meditazioni, d'assidue cure, d'eroiche abnegazioni, cose tutte però che, per quanto difficili, non sono altrimenti superiori alla sua potenza; tanto più s'ella voglia persuadersi, essere lo suo intelletto capace di molti lumi siccome il suo cuore sede di molto affetto._ _E mi giunge opportuno lo dimostrare, come il solo istinto materno, se per avventura sia sufficiente provvidenza alle fisiche esigenze dell'uomo animale, certo è impotente a creare ed informare l'uomo morale, ed abbisognar perciò la madre di coltura e sapere a ben fare la prima educazione._ _Ed eccomi perciò a considerar la donna in faccia alla scienza; a provarle come i fatti la dimostrano atta a coltivarla, di quanto essa aumenti il suo morale valore, di qual felice emulazione la femminile coltura faccia punto il viril sesso con sempre maggiore incremento di civiltà; di quanta maggiore autorità si circondi il carattere materno, se allo affetto, che ispira, aggiunga riverenza e stima del solido intelletto; di quanta maggiore efficacia sulla prole siano ammaestramenti che, non di tradizionale meccanismo, ma di profonda sapienza si recano la impronta._ _Ma la donna, costituita qual'è di vivace intelligenza e d'indole diffusiva, non ha esaurita nella cerchia angusta delle domestiche pareti la sua morale vitalità; epperò là non finiscono i suoi doveri._ _Ovunque, con altrui vantaggio e proprio, applicare può le sue nobili facoltà l'essere morale, là egli trova tracciato un dovere. La inerzia dello spirito non è ammissibile; e sarà sempre sventura forzata, se volontaria, delitto._ _Epperò eccomi ad indagare quale lavoro alla donna incomba in faccia alla società ad esserle utile elemento, e ad affermare in faccia a quella la sua importanza colla potenza del suo intervento, nello edificio civilizzatore elaborato dai collettivi conati delle masse unitarie._ _Aborrente da tutti gli estremi, ma imbevuta delle idee del mio secolo, che considerando nella donna la potente individualità, deve ad essere conseguente educarla ad occupare un posto più dignitoso che quello non sia da lei occupato fino ad oggi; credente fermamente che l'educazione e coltura della donna sia problema vitale per lei e per tutta quanta l'umanità; convinta che la donna, risollevata alla coscienza della sua nobilissima natura e dandosi pena di frugarsi in fondo al cuore, deve scoprirvi dei tesori d'amore, di persuasiva, di commiserazione, tutta una vita morale insomma non avvertita ancora, ed inesplorata; persuasa intimamente essere dover suo destarsi alla voce dell'umanità che la chiama, siccome potentissimo elemento, ad impiegarsi nel suo fatale lavoro, io mi rivolgo alla femminil gioventù e le predico incessantemente; no, non ti è lecito trascorrere oziando la vita alle feste, ai passeggi, in mezzo a mille bagatelle indegne di sciupar le ore d'un'anima intelligente, mentre tanto lavoro ferve intorno a te; no, non ti è lecito aggirarti smaniosa in cerca del riso e della gioia ad ogni costo, mentre la martoriata umanità si travaglia in un'angoscia intestina, e lagrime e sangue versa da mille pupille e da mille ferite, per l'egoismo dei pochi e l'ignoranza dei molti; no, non ti è lecito trarti in disparte, oziosa spettatrice degli affannosi conati dell'umanità verso il bene; che se il tuo dovere non senti, allora sentir dovrai le ineluttabili conseguenze del non averlo compiuto. Indarno cercherai la stima e l'affermazione della tua personalità, indarno tenterai rivendicare il naturale diritto e scuotere il giogo che ti grava ingeneroso il debole collo; tu stessa avrai affermata la tua impotenza morale, la intellettiva fragilità, la pusillanime natura, epperò la necessaria tutela, e la eterna servitù._ _Oh si desti la donna al sentimento della propria missione, alla fede degli umani destini! dopo sessanta secoli di assenza morale, ella può tuttavia giungere in momento assai opportuno._ _L'uomo ha quasi esaurito ogni sua risorsa. Egli ha fatto guerre, ha riportato vittorie, ha celebrato alla conquista ed abbruciò incensi alla gloria grondante sangue: ma poi s'avvide ch'egli era infelice; allora s'immerse nella meditazione, creò dei sistemi, li formolò, li applicò, indi li rifece, li corresse, e li tornò a fare; ma poi s'avvide che era infelice. Sorse il Cristo e gli sussurrò all'orecchio la segreta parola ch'era la soluzione del suo problema; ma egli non la comprese, laonde da cattiva interpretazione ne trasse pessima applicazione e s'avvide, ch'egli era ancora infelice. Allora egli escogitò una dottrina, che i tempi mostravano di facile applicazione, e quasi gli parve d'aver afferrato l'ultima parola della sua tesi; ella consisteva nel far felici i pochi di lumi, di potenza e dovizia, ed alle masse guarentire il benessere coll'inconscia ignoranza, siccome il gregge tripudia e saltella sul prato, insciente delle cesoie del tosatore e del coltello del beccaio; ma ben presto s'avvide, ch'egli era ancora infelice. E tornando sul cammino già fatto, egli ritrovò quella secreta parola sussurratagli all'orecchio dal Cristo, la raccolse, la meditò e la comprese; ma ecco la guerra degli interessi, i lamenti dello egoismo epulonico, i garriti del gaudente, la grave resistenza della massiccia ignoranza, tutti d'accordo a barricare lo generoso cammino del bene, il bel sentiero che alla sociale felicità conduce._ _Si ha d'uopo del disinteresse, ci abbisogna dell'amore, dell'amore quasi infinito dell'umanità, ci occorre abnegazione e violenza, commiserazione e sacrificio; avanti dunque, avanti la donna! Ecco il suo giorno ed il suo lavoro. Vile, inutile, ed eternamente serva quella che si ritira!_ _La povertà, il dolore e l'ignoranza, ecco i tre pupilli che reclamano la sua tutela e la sua provvidenza. Non è ella cosa, che la donna ha già seco stessa convenuta, ch'ella deve trovarsi dovunque si soffre e si piange? La gioia corrompe, il dolore migliora; meschina ed illusa colei che fugge dal pianto per incontrare il riso, il riso cinico, il riso ad ogni costo; ella sconfessa la sua soave natura, ella rinuncia alla sua santa missione, ella perde ogni diritto all'amor dei mortali. Che farà di lei lo addolorato s'ella lo fugge? che ne farà il felice se già è felice senza di lei?_ _Il sacro suolo della patria reclama pur egli il suo culto dal cuor della donna._ _Plutarco nelle sue _Donne illustri_, ci dimostra coll'irrefragabile eloquenza dei fatti, che le nazioni tutte, che vantano gloriose storie e magnanime tradizioni, ebbero delle madri infiammate di patrio amore e dei pubblici interessi tenere e sollecite._ _Le prime lezioni, che l'uomo dalla donna riceve, tutte debbono indirizzarsi ad instillargli la religione della patria sempre, e vieppiù a tempi nostri, nei quali question di vita e di morte s'agita per molti paesi, e sovra tutto alla bella terra del sì, madre sublime, che al mondo partoriva in ogni tempo le più splendide individualità ed intere nazioni di eroi. Si offuschi davanti ai patrii interessi ogni egoismo di famiglia; e la donna che non sa gli affetti immolare sull'altare dove il genitore, l'amante, il consorte, il fratello sacrificano la vita e versano il sangue, s'abbia pure il loro disprezzo; e indarno cerchi considerazione, indipendenza e diritti, a conservare i quali vuolsi la forte coscienza del bene anzichè debolezza di passioni._ _Ma no, la donna ha dato prove antiche e recenti di sentir vivamente la religione della patria; e mentre i nostri miti costumi la fanno de' suoi nati tenerissima, pure mai non esitò ad immolare lo egoismo materno sull'altare dei patrii bisogni. Ed alla religione della patria la vedemmo anzi educarla quando, nell'intimo conversare, ella additava alla prole bambina lo straniero usurpatore, che le membra intepidivasi ai nostri focolari, ed insolente saliva e scendeva le nostre scale e le narrava gli sdegni paterni e gl'infelici recenti conati, ed allora_ «_Quello sdegno passava nei figli_ «_Cui fu culla lo scudo del padre;_ «_Ed al figlio diceva la madre_ «_Quest'esempio tu devi seguir_». _Nè vani furono questi ammaestramenti, che nell'infausto decennio della straniera oppressione, ogni madre alla prole insinuava, che, bambina, le recenti prove del 1848 udivasi negli intimi recessi della sua casa narrare, appena innacessibile ai mille occhi d'una tirannica inquisizione, che finalmente_ «_Una selva di lancie si scosse_ «_All'invito del bellico squillo,_ «_Ed all'ombra del sacro vessillo_ «_Un sol voto discorde non fu._ «_E fratelli si strinser la mano_ «_Dauno, Irpino, Lucano, Sannita_ «_Non estinta, ma solo sopita_ «_Era in essi l'antica virtù_». _Colta qual'io vorrei la donna, informata a solidi criterii, ricca d'un'amabilità risultante dalle squisite doti dell'anima, e vieppiù adorna del vero gusto che alle leggi del bello ed alla natura si ispira, più che alle mille bizzare eccentricità della volubile moda; stimando il bello, il buono ed il vero, ovunque si presenta colla superiorità dello spirito leale, aperta sempre ad ogni bel sentimento, sorda alle passioni, schiava del dovere, anima della famiglia, sorriso della società, ella dev'essere molto sensibile alle manifestazioni del genio. Natura ha le cose così disposte, che l'uomo, finchè si voglia superiore, non si fa però che assai difficilmente superiore al disprezzo della donna, e molti fra quelli che affrontarono sventure, traversie e lotte d'ogni fatta, forza e vigoria trovarono a non soccombere nella stima d'una donna; nè congettura semplice è questa, e esperienza di pochi o molti fra loro che nominar si potrebbero, ma confessione altresì. Gian G. Rousseau, nell'Emile, dice; che niun uomo è indifferente alla disistima della donna; ed egli stesso pel primo, che tante severe verità le predicava, non poteva pur tuttavia rassegnarsi a non esserne apprezzato._ _La cognizione di questo fatto deve fare la donna circospetta nei giudizii, larga d'encomii al merito, e muta affatto davanti a quei luoghi comuni d'un falso spirito, a quelle ridicole _rodomontate_ di cui è costume della viril gioventù farsi bella davanti alla donna. Oh se la donna non fosse sensibile che col vero merito, quanto gli uomini diverrebbero migliori! Ma pur troppo sovente ella è mistificata dalle apparenze della forza ch'ella crede scorgere dietro parole, ad atti arditi, che non altro rivelano che una illimitata fiducia nelle proprie forze, non sempre dal fatto giustificata, dietro una violenza di modi che non altro esprime che debolezza e suscettibilità; all'ombra di imprese contro la morale, che più sono ardite e più ci dicono quanto tirannico sia quel giogo di passione dal quale è trascinato misero schiavo l'uomo, dietro certe arie da conquistatori che taluni assumono presso la donna ch'è un insulto diretto alla facile virtù, che le si suppone. Ma sventuratamente debbo dirlo, della donna è il demerito se gli uomini sono così; ella troppo sovente non è debole che per il vizio e la leggerezza, non è insensibile che alle virtù ed alla sapienza. Eppure se è la forza che la seduce, nella virtù e nella sapienza si trova, che importa superiorità d'animo, abnegazione ed eroismo, perseveranza di propositi, profondità e solidità d'intelletto!_ _Informata la donna ai principii, redenta dalle esorbitanze della opinione, sviluppata dalle tenebre della secolare ignoranza (il che se in parte da lei stessa dipende, assai e molto più dipende dalle nazionali istituzioni), non è più possibile certamente negarle il diritto._ _Lo Stato fu sempre ed è tuttavia colpevole verso la donna, chè, riconoscendola contribuente, la disconosce cittadina, e punendola delinquente, la nega capace._ _La legge non si mostra alla donna che armata di flagelli, gravida di doveri, avara in libertà, feconda in restrizioni; può essa, la donna, far lieti sagrificii ad un paese le cui istituzioni la trattano così ingenerosamente?_ _Può ella, da senno, credersi obbligata verso una patria, che è per lei triste e dura più che, non è per l'uomo l'esiglio?_ _Può essa, in cuor suo, rispettar quelle leggi che vede e sente sopra sè stessa ingenerose ed ingiuste?_ _Può essa allevare i suoi figli al culto di un paese, ch'ella non ha nessuna ragione di amare? E quando questo paese le cerca il suo oro, i suoi figli e talora persino le sue convinzioni, qual compenso le promette e le dà? Qual forza, quale argomento adoprerà essa per convincersi del suo dovere, per decidersi a compierlo?_ _Il dovere, fonte del diritto, è cosa santa ed equa, ma il dovere solo è schiavitù ed opressione._ _Tutte le rivoluzioni sociali, politiche, religiose, tutte ebbero, o segreta o palese, sempre però una movenza interessata. Non si accagioni dunque per avventura la donna di strettezza di cuore se chiede il suo diritto._ _Ogni lavoro vuol la mercede, ogni martirio vuol la corona; l'uomo ha proceduto per questa via al conquisto della sua libertà, non v'ha ragione che ne escluda la donna._ _Ed eccomi perciò a considerarla in faccia al diritto parziale ed al Codice Civile Sardo dopo averla guardata in faccia al diritto primitivo ed ingenito, davanti al quale ogni veduta d'interesse, di convenienza, d'opportunità, deve tacere, e la parzialità della legge non iscusa, né la debolezza del muscolo che non sarà mai equa base di diritto, nè l'ignoranza che si può vincere, nè l'incapacità ch'è sempre affermata, provata non mai._ _Che se talora, discutendo lo spirito delle nostre istituzioni avverrà, che la penna distilli qualche amarezza, dichiaro anticipatamente non aver io rancore con niuna personalità al mondo, ma scaturire queste involontarie dal vedere, quanto sia impossibile all'uomo astrarre da' suoi personali interessi anche quando si dà ad intendere di far di proposito detta giustizia, e questo spirito d'egoismo salire fino a mala fede, quando l'essere che si afferma debole ed incapace per ispogliarsi di diritti, si riconosce forte e responsabile per gravarsi di pene e di doveri._ _È assai possibile scrivere con più calma e con maggior freddezza; ciò servirebbe anche forse ad attirare sul mio argomento le grazie degli uomini serii, che varcata l'età delle passioni, le persone e le cose tutte guardano con filosofica ed imparziale apatia. Ma a me, giovine e donna, è pur lecito non far a pugni colla natura che si è in questo argomento alleata ai più vitali interessi, epperò non violentandomi affatto, parlo come penso e sento, persuasa e convinta di essere fedele interprete dei pensieri e dei sentimenti di molte del mio sesso._ _Le considerazioni fatte sulla situazione creata alla donna da leggi, che ancor troppo risentono lo spirito del secolo che precedette il 1789, mi conducono naturalmente a chiedere delle riforme che, se sono limitate, hanno in compenso il vantaggio di essere possibili, ed è in me profonda la convinzione, che un miglioramento nelle condizioni presenti della donna, non è vantaggio suo soltanto, ma altrettanto e più dell'umanità, che in tanta parte della donna si compone ed in altrettanta da lei dipende ed è influenzata._ _Ed eccovi scorse di volo le diverse parti della mia fatica. Come vedete, ella vi è tutta ed affatto consacrata, ad un solo fine si è ispirata, l'utile vostro, e dell'umanità._ _Accompagnando io la donna in tutte le situazioni, esaminandola sotto tutti i rapporti, e tenendo io a presentarle il suo meglio, volli precipuamente parlare alle giovinette che esordiscono nella vita, già istrutte, epperò in grado non solo di accogliere le leggi della morale sotto la forma d'apotegmi, che se meccanicamente s'incidono nella ferace memoria dell'adolescenza, di rado resistono saldi sotto la bufera sollevata dalle giovanili passioni, ed in faccia alle speciose dottrine che loro servono da campioni; ma capaci eziandio sono di seguire quei raziocinii, che conducono la loro mente ad apprezzarle, il loro cuore ad amarle, e decidono quindi la volontà a seguirle._ _So che non tutte, per avventura, le idee qui sviluppate troveranno la difficile unanimità delle simpatie, ma quale autore mai, qual libro, quale concetto, trovò tutte le adesioni? quante volte la verità, camminando a testa alzata nel suo dritto cammino, dovette porre, senza pur avvertirlo, il calcagno su qualche esistenza che nella polvere si trascinava, e scomporre il lento e pertinace lavoro di molto tempo? Lo scrittore dovrà egli dunque prender sempre la penna per osannare a tutte le passioni, a tutti gl'interessi, a tutti i pregiudizii dacché siansi eretti in caste, in sistemi, ed asciugarla al più presto dacché trovisi incompatibile con essi? Se considerazioni di personale interesse avessero sempre asciugate le penne, a qual punto sarebbe ogni umano progresso? E come combatterà il pregiudizio chi si uccide sul labbro la parola, per timore di lui? Chè ne sarebbe del cristianesimo se Cristo avesse temuta la croce? Chè del nuovo mondo se Colombo avesse paventato l'ardita navigazione? Chè della libertà se i popoli temono il sangue? Chè d'ogni utile impresa se bastasse ad arrestarla la tema delle possibili eventualità?_ _Certo se qualche concetto nel mio lavoro vien meno alla verità, ascriversi dovrà allo abbaglio dello intelletto, non mai a transazione di coscienza, ed a proposito di patteggiar coll'errore; ed essendomi io la verità proposta comechè sola base possibile alla morale, più dello scopo tenera che dei mezzi, accetto riconoscente ogni osservazione della critica che me illumini, ed alle mie lettrici accenni dove ho errato, chè inconsolabile sarei se vedessi che la fatica, che al bene ho rivolta, al male conducesse._ _I tempi avanzano. Il vecchio edificio del dispotismo, che tutto l'uomo incatena dal più intimo escogitato dell'anima fino al più indifferente degli atti umani, scricchiola sui cardini, scrolla e rovina. Pochi giorni ancora e lo spirito del cristianesimo sfolgorante della nuova sua luce, l'amore universale, precetto unico e nuovo, il raggio della sapienza, diffuso come lo spirito di Dio sulla faccia della terra, raccogliendo sulle ceneri di quello spento l'ultima zolla di terra, gli diranno, _parce sepultis_._ _Ed io mi trasporto collo spirito a quel giorno e, lasciate le polemiche a penne più valenti, la lotta a braccia più vigorose, attendo a preparare la donna di quei tempi; la donna, non più eccitamento a basse passioni ed ingombro al cammino della umanità, ma la donna ispiratrice di alti propositi, impulso potente ad ogni gentil costume, e ad ogni progresso dell'intelligenza._ _Riverente più ch'altri mai al dogma della libertà della mente, in una cosa non la riconosco libera, nello essere illogica e retriva, importando le morali facoltà, dovere di sviluppo e d'applicazione._ _Religiosa per ragione e per sentimento, nemica del pregiudizio, adoratrice della verità, schiava della morale, amante della patria, anima della famiglia, sollievo alla sventura, complemento della società, mostrandosi all'uomo in tutto e sempre dono di Dio; ecco la donna ch'io intesi preparare._ _Che se avvenga che all'altezza del fine non corrisponda fecondità di mezzi, il buon volere mi salvi, la innata bontà del sesso cui volli giovare mi sia indulgente, e la lusinga mi conforti, che alcuna sorga fra tante valorose scrittrici che raccolga il mio argomento e, svoltolo da' miei cenci, al pubblico lo presenti sotto forme più rigogliose e sfolgoranti._ LA DONNA E L'OPINIONE «Anima che per biasimo si dibassa O per lode s'innalza è debil canna Cui move a scherzo il venticel che passa» Molti e molti parlarono della donna, i quali anche pretesero parlarne seriamente, ma io non istimo che il difficile problema ch'ella presenta, all'uomo, alla famiglia, alla Società, svolto sì dottamente e finamente da tanti, in epoche diverse, e svariate località, abbia tutti interi raccolti i dati onde completi ne risultino i criterii; oserei anzi asserire, che niun scrittore forse trovossi, parmi, fin qui che, se uomo, sapesse appieno dimenticar le passioni, se donna, gl'interessi, onde sarei per dire desiderabile cosa nell'ardua tesi un criterio neutro affatto che, non punto interessato ad esagerare i vizii o i pregi del sesso femminile, nè a coprirli, ce ne desse la pittura imparziale e con essa i dati e gli estremi ove basare un solido raziocinio, a derivarne poi analoghe ed assennate le istituzioni che debbono moderarne le condizioni e gl'interessi. Dissi vizii o pregi, se pur tali possono esattamente chiamarsi le attribuzioni, o meglio, i naturali elementi, costituenti in un complesso logico, ed omogeneo, una natura ordinata ad un dato scopo, elementi tutti concomitanti e necessarii a far della donna un essere essenzialmente distinto dall'uomo, ed in pari tempo destinato a vivergli a fianco sempre utile e necessario, a somministrargli i proprii mezzi arricchendolo così d'un'altra potenza senza sommarsi con lui, identificarsi nelle sue viste e ne' suoi interessi per modo da essergli un'_alter ego_ senza cessare d'esser da lui distintissimo a perpetuare quella simpatica attrazione, che distingue i rapporti dell'uomo colla donna e li fa così soavi sopra ogni altro vincolo sociale, e che sparirebbero in una completa fusione. G. G. Rousseau considerò la donna in natura; Balzac ne disse dal punto di vista degli interessi virili; La Bruyère l'assoggettò a fina analisi senza che da questa si curasse poi derivarne riforma alcuna in lei od attorno a lei; Mad. Neker non la vide che dal punto di vista di istituzioni locali, facenti spesso a pugni colla vera natura degli esseri e delle cose. Nessuno, fra tanti, studiò di proposito l'influenza delle istituzioni sul suo carattere e sulle sue condizioni[2]. Tutti i poeti, dai grandi ai piccoli, dagli immortali ai _pria morti che nati_, la cantarono in ogni tono, e in ogni metro, vedendola ora colle traveggole del delirio amoroso, ora coi lividi occhiali dell'orgoglio e dell'odio per affetti incorrisposti od incompresi. Tutte le filosofie, tutti i sistemi se ne occuparono e tutti i legislatori. E chi pretese esser ella la pura e semplice femmina dell'uomo, e non dover egli perciò conservarla che nei soli interessi della generazione, deplorando di non poter precorrere il tempo del suo sviluppo e non disfarsene dappoi. Altri considerando invece che la donna non è atta alla generazione che in una fasi relativamente avvanzata della sua vita, e vedendola sopravvivere tanto tempo al disimpegno delle materne cure ne derivarono, non fosse con quelle la sua missione esaurita, e pensarono potesse nelle cose del mondo portare la sua influenza, ed intervenire siccome essere intelligente e volitivo, potente di mezzi proprii. Di qui la gelosa insistenza di tutte le leggi sovente ad impedire, e sempre a sfavorire implicitamente sì, ma non meno potentemente, il sapere ed i mezzi del sapere alla donna. Molti scrittori capirono il programma di convenienza del sesso virile, raccolsero al volo la segreta parola, e maestri dalle cattedre, oratori dai pergami, giudici dal tribunale dell'opinione, ganimedi dagli eleganti e voluttuosi gabinetti, padri con affettuosi sermoni, predicarono quotidianamente alla donna non convenirle la scienza. Tu non sei capace di lunghi e severi studii, le disse lo scienziato, e le dimostrava, come due e due fanno quattro, che la conformazione del suo cervello, la delicatezza de' suoi tessuti, la debolezza della sua fibra, la moltiplicità de' suoi bisogni, la dimostrano irrecusabilmente non nata alla scienza; ed ella si volse alla Teologia. Non ti è lecito, rispose questa, sta contro te l'opinione della sacra serie dei più illustri padri della Chiesa, cominciando da S. Paolo fino al sacrosanto Concilio Tridentino. D'altronde, qual bisogno hai tu di sapere? Credi ciò ch'io ti dico, e basta; la debolezza della tua mente non s'attenti di fissar lo sguardo nelle sacre cose: astienti anzi del tutto anche dalle profane _et non plus sapere quam oportet_. Ed ella si volse all'opinione. Questa, simile alla liquida massa dell'Oceano, ora spinge i suoi flutti come adamantini proiettili sino al Cielo, ora li preme fino all'abisso; fluttuante sempre, è determinata dai più, ed è sempre indipendente da ogni pressione che non sia numero. Le sue risposte sono categoriche; ella non si crede in dovere di motivare, non si dà pena di far analisi, di stabilir confronti, non si cura di premesse, non pensa a conseguenze, ed ella rispose alla donna, non voglio, non mi piace. Ed ella si volse a chi l'amava, ed egli le rispose: Come! Tu dunque disconosci tanto i vezzi di che ti fornì natura da voler andar in cerca d'altri meno attraenti; lascia ad una bocca meno piccola della tua la difficile articolazione di barbari paroloni, e non voler annuvolare il liscio marmo della tua fronte colle rughe dei calcoli, nè voler perdere il tuo celeste sorriso fra le gravi meditazioni, nè impallidir le rose del viso fra le veglie prolungate. Natura t'informò con tale studio, e di tal predilezione ti amò, che fece in te pregio l'ignoranza, e tu tutto sai, nulla sapendo. Era quasi convinta, pur s'attentò a scartabellar qualche volume della paterna biblioteca; ed ecco radunarsi a grave consiglio la famiglia ed il suo capo decidere che, consultata la religione, il costume e l'opinione, che esser debbono e sono, con ragione o senza, i tre padroni assoluti sotto i quali la donna stupida od intelligente, volente o non volente, deve piegare la testa; tutti ad unanimità decisero che la donna, se povera all'ago, se ricca all'ozio, passi la vita, ed altro scopo alla sua esistenza non cerchi oltre quello della _femmina_; che se poi s'annoiasse, libero a lei di sbadigliare a tutto suo agio. Esclusa dal sapere, la donna, rimaneva esclusa eziandio dal potere; ed eccola ridotta a passività assoluta, _cosa_ e non _essere_, di maggiore o minor valore relativo, di nessun valore intrinseco, orba d'ogni coscienza di sè, ch'è la prima ragione d'ogni forza. Sostituitosi, collo stabilimento del cristianesimo, il regno della intelligenza a quello della forza bruta, la donna divenne strumento tuttora vitale e poderoso alla politica sacerdotale. I religiosi terrori, certi affetti artificiali, specie di aberrazioni, di sovreccitazioni nervose, ibride creazioni del misticismo, furono allora poste in opera dai ministri di religione per averla piedi e mani legate, cieco e docile strumento ad ogni esorbitanza. E, per mezzo suo, Stati e famiglie poste a soqquadro, fatalmente compromessi e scalzati dalle radici rimangono nella storia a documento imperituro del quanto siano funeste la ignoranza e la morale passività nella donna. E sgraziatamente eravamo al punto in cui questa ignoranza e passività, non più un puro fatto era, ma era sistema. L'uomo avea riescito a convincerla non esserle lecito formare il minimo criterio, nè possibile formarne alcuno assennato, in base a che, avea ella abbandonato ogni studio siccome a lei improba quanto vana fatica; e questa estrema risultanza dello egoismo d'un sesso e dell'ignoranza dell'altro, diveniva alfine la pubblica opinione, assicurando al primo un tranquillo dominio. Ma ecco ai nostri tempi sorgere col programma di tutte le possibili libertà anche alla donna un'êra novella, ed in mezzo ad assennate e serie riforme affacciarsi le umoristiche esorbitanze inseparabili da ogni epoca di transizione; e tornar in campo, sublime per idealismo siccome venerata per vetustà di concetto, la Repubblica platoniana. Ed ecco che, mentre l'orientalismo proclama la donna puro stromento di piacere, il cattolicismo la vuole serva rispettata, la cavalleria scopo delle imprese e premio dei tornei, la teologia, come il vasaio colla sua creta, ne fa vasi d'onore o d'obbrobrio[3], la poesia il bersaglio a tutte le sue esagerazioni, il nostro secolo un'addizione al sesso virile; che fa la donna? La donna, siccome un attore che si orna per la scena, deve chiedersi ogni giorno qual commedia si rappresenti e davanti a qual pubblico, per sapere qual più le s'addica di tutti i costumi di che si vorrebbe coperta. Nessuna lusinga per lei d'uscirne coll'unanime aggradimento. Condannata ad esser relativa ai tempi, ai costumi, ai luoghi, agli individui, curva sotto il ponderoso fardello dei pregiudizii sociali, portando sola, la pena della licenza e degli errori dell'altro sesso, è, e sarà, finché non si desti alla coscienza di sè, il paria fra gli esseri viventi. Ma ecco il tempo di domandarci la ragione di sì svariati giudizii sulla donna, mentre i rapporti, che la accostano all'uomo, sono semplici, sono costanti. Il senno e la buona fede, che alcuni scrittori usarono scrivendo di lei, pare avrebbero dovuto condurli a conclusioni più assennate e meno ingenerose. Ciò accusa una viziatura di sistema forse più che non passione di dominio o gelosia di proprietà: ed il secolo, che aspira al conquisto d'ogni ragionevole libertà, non troverà esorbitante che la donna cerchi e studii il modo per dove iniziare la propria. Secondo me, la ragione per cui le condizioni della donna non poterono fin qui migliorare si è perchè ella non fu fin qui considerata dagli uomini, nè si considera ella stessa, se non in base e dal punto di vista di costumi e di istituzioni ben lungi dall'essere logiche e filosofiche, i quali formano poi una viziata opinione, sotto la cui prepotenza la donna, non so se più infelice o demoralizzata, è ben d'uopo curvi la testa. Ogni autore le mena quindi addosso colpi da orbo, niuno toccando la vera piaga, niuno scoprendo l'origine vera del male, e niuno raggiungendo necessariamente di tanti scritti, ai quali fu ed è scopo ed argomento, un concreto miglioramento delle condizioni del suo sesso. Ai tempi che volgono, parmi debbano alquanto modificarsi le esorbitanti opinioni, che in tutti i secoli e da tutti gli autori portaronsi sulla donna. Finchè questa, dalle masse e dagli individui, e dalle leggi e dalla teologia, era considerata siccome cosa di relativo valore, ed ella, oppressa, epperciò ignorante, accreditava colla passività del suo spirito siffatto giudizio, quelle opinioni, per quanto ingenerose, potevano tollerarsi, siccome un divoto uditorio, costretto al silenzio per riverenza del tempio, sente chiamarsi empio, peccatore e scellerato dal sacro oratore, senza punto protestare o scomporsi a tanta contumelia. Ma, la Dio grazie, ciò che esiste, alla perfine si fa sentire; e l'azione persistente del cristianesimo abborrente da ogni oppressione, e i poderosi conati della filosofia pella diffusione della sapienza, evocando alla coscienza di sè ogni essere intelligente, chiamarono la donna al sentimento dei proprii mezzi e dei proprii diritti; ed il pubblico criterio, compiendo ogni giorno una nuova evoluzione, ammette in oggi ciò che ieri niegava, e troverà domani logico ed equo, ciò che oggi gli apparve esorbitante. Tale è la legge fatale del progresso, legge che non mai tanto apparve come a dì nostri per la portentosa facilità delle comunicazioni, ed il generale sviluppo della vigente generazione sensibile, operosa e concitata. Questo fatto luminoso e costante ci dà il diritto di sperare, che la legislazione, che ancora non s'è accordata colla coscienza universale e, rispettivamente alla donna, si risente ancora di quel selvaggio _vae victis_ che insanguinava gli antichi codici, non tarderà a porsi meglio d'accordo collo spirito dei tempi e colle esigenze della giustizia. Dietro questo fatto gigante ed innegabile, imbevuta dalle idee del mio tempo, io non posso venir d'accordo con madama Neker che, nel suo trattato d'Educazione, vuole la donna assolutamente passiva, e peggio con Gian Giacomo Rousseau, che la vuole affatto relativa; chè e l'uno e l'altro di questi sistemi esprimono implicitamente la formola, che esplicitamente proclamano i codici degli Stati Unionisti, che tuttora conservano la schiavitù, cioè «_la legge si propone l'interesse del padrone, non tenendo conto alcuno del benessere dello schiavo_.» Massima che ogni spirito filosofico ripugna, ogni coscienza rivolta ed a tempi illuminati più non si conviene. Che se egli è vero che «le leggi tolgono spesso la origine, e sempre la modalità e le pavenze dalla pubblica opinione, la quale anzi generalmente le pronostica: e che, per essere buone, debbono corrispondere al grado intellettivo e morale raggiunto da un popolo, e consonare col politico reggimento, ormeggiando il bene ed il male, le virtù ed i vizii, in una parola, i bisogni del popolo»[4] non tarderemo certo a conseguire una sensibilissima riforma e miglioramento nella nostra legislazione per quanto spetta la donna, che, schiava ancora in faccia a quella e colpita di nullità, è nella pubblica coscienza salita a somma importanza; importanza che non le è già dalla cavalleresca cortesia dell'uomo, nè dal suo passeggiero capriccio impartita, come in altri tempi, ma da lei conquistata col suo intellettuale sviluppo, col suo benefico intervento nelle cose sociali, coll'ardente ed attivo interesse alle patrie vicende, e poderosamente reclamata dalla voce della giustizia che va ogni dì sostituendosi su maggior terreno alla bruta forza. Ora, tenuto calcolo di tutto ciò, l'autrice va seco stessa interrogandosi se in faccia alla maggior importanza della donna, ai nuovi destini che l'attendono, alla più lata istruzione che le si imparte, sia tuttora logica, possibile e conveniente l'educazione che i due sopracitati autori vorrebbero darle (e con essi dal più al meno tutti quelli che di lei scrissero e s'occuparono) educazione che, riassunta in poche parole, tende ad annichilarne la ragione, spogliarla d'ogni forza volitiva, deprimerne le più innocenti passioni, attutirne il sentimento colla sferza di mille doveri, che non son tali per lei che per l'altrui gusto ed interesse, incatenarne la intelligenza, circoscriverne e falsarne il criterio coll'autorità del pregiudizio, ristringerne nel più angusto spazio possibile ogni esterna manifestazione, ridurla in una parola al _sicut cadaver_, famoso trovato del Gesuitismo. D'altronde l'opera della educazione per sè stessa faticosissima, improba e penosa diviene allo educatore ed allo educato, quand'ella si prefigga di lottare per così dire, corpo a corpo colla natura, combatterla palmo a palmo, volerla attiva là dov'è passiva, volerla ottusa là dov'è aperta, volerle innestare dei sentimenti impossibili sugli innati: tutto ciò, dico, è come volere che il quadrupede divenga volatile, che il rettile si faccia pesce! Quando l'impresa non fosse assurda ed impossibile, noi non ne avremmo che un mondo ibrido e mostruoso. È cômpito della educazione lo incivilimento della specie e non la sua trasformazione come non è intenzione dell'orticulture metamorfosare, verbigrazia, la fragola nella lampuna, ma sì bene modificando nell'una e nell'altra la nativa asprezza ed angolosità, ingentilirne il sapore, svilupparne le forme, onde al palato ed alla vista più gradito sia il frutto ed ammirevole. Laonde l'educazione, a conseguire il suo scopo, deve conoscere la natura affidatale, investigarne l'intimo valore, il modo d'esistenza e di manifestazione, studiare la natura degli esseri e delle cose che nell'attualità e nel futuro, hanno ed avranno con lei dei rapporti, e questa legge dei rapporti che è la sintesi del viver sociale, vuol'essere non tanto determinata da una serie di atti esterni più o meno convenienti a chi li produce, e gradevoli a chi li vede (il che ridurebbe la educazione a pulire e lisciare la superficie nostra onde non essere ad altrui inamabili, con immane fatica dello spirito che deve alla materia assiduamente imporre atti, dalli interni sensi discordanti, ed a penosa continua menzogna dannarla), ma questa legge, sulla quale s'incardina e s'imperna la scienza della vita, deve lo spirito dello educato informare così, che gli divenga come la pietra del paragone a trovare in ogni più intricato caso il miglior partito, a giudicar sanamente degli uomini e delle cose trovando le convenienze loro, a portare in ogni suo procedimento quella franca ed amabile lealtà che risulta dalla concordia dell'atto e della parola, di questa e di quella colla mente e col cuore. Ora, se questi principii furono sempre più o meno applicati dall'educazione impartitosi all'uomo, non fu del pari trattata la donna, per la quale ogni rapporto sociale veniva caricato, o moderato, non secondo norma di ragione, ma di pregiudizio e negatole per soprappiù veniva ogni sentimento di sè, siccome relativa affatto ch'ella era ai criterii, ai gusti, alli interessi di chi le stava con qualche diritto d'attorno. Ma in mezzo al secolo, che si è prefisso a generoso cômpito la caduta d'ogni despotismo e l'associazione di tutte le forze morali, materiali, intellettive alla costruzione del sociale edificio, mi è ben lecito ed anzi doveroso il pensare altrimenti, e l'invocare una seria modificazione di un sistema riconosciuto ingiusto, divenuto impossibile. Fiduciosa nel sentimento di giustizia sì poderosamente sviluppatosi nel nostro secolo, profondamente credente nei destini dell'umanità, nella saviezza dei legislatori, nel progresso dello spirito umano, che niuna diga od argine riescì ad arrestare nel rapido e fatale suo corso, abbiano essi nome pregiudizio, interessi, od oscurantismo, noi aspettiamo nella perfetta calma della convinzione quell'avvenire, che non è lontano, nel quale le riforme invocate passeranno dallo stato di aspirazione nel dominio dei fatti. Frattanto nostro cômpito per ora si è, cercare per la donna un modo d'educazione che sia in miglior accordo col suo attuale sviluppo, che la ponga all'altezza dei suoi destini e della pubblica stima, che la provveda d'una miglior norma di criterio che quella non sia dell'opinione, che dandole la coscienza di sè e l'appreziazione de' suoi mezzi, la risollevi ai propri occhi e la spinga a cercar oltre le corporali attrattative la fama e la gloria, che ridonandola al sentimento del suo intrinseco valore, non la faccia eccedere nello accarezzare l'altrui gusto a spese della propria dignità e convenienza, che ponendo alla sua portata le arti ed il sapere, la tolga al vergognoso sciupinío che ora fa del suo tempo; che se questo sciopero è conseguente all'attuale sua educazione, come essendo di niun valore il tempo di chi nulla può produrre di serio, non lo sarebbe già quando convinta fosse d'aversi non diritto soltanto, ma eziandio dovere, di sviluppare ed applicare quelle facoltà che natura le impartiva, non a scialo di ricchezza produttiva, ma a fine provvidenziale diretta. Ed in vero, a chi credesse tuttora, che la donna altro fine all'esistenza sua cercar non debba, oltre quella della femmina, la natura eloquentemente risponde mostrandogli in lei facoltà, che sotto ogni aspetto eccedono gli uffici materni, e che in lei sopravvivono all'età destinata a cotali uffici, e sempre più si dilatano e si fortificano, il che la prova vocata a progredire. Che se talune educate al culto dell'opinione giusta od erronea ch'ella sia, si ritraggono dalle gravi occupazioni, per tema che le grazie vi facciano naufragio, o perchè tanto scredito si raccolse sulla coltura femminile, o per un falso giudizio invalso sulla pochezza della femminile capacità, ripeterò qui ciò che su tale argomento scrive La Bruyère ne' suoi _Caratteri_ «Pour quoi, dice egli, s'en prendre aux hommes si les femmes ne sont pas savantes? par quelles lois, par quels edits, par quels rescrits leur a-t-on défendu d'ouvrir les yeux et de lire, et de retenir ce qu'elles ont lû et d'en rendre compte dans leurs conversations et dans leurs ouvrages? Ne se sont elles pas au contraire établies dans cet usage de ne rien savoir, ou par la faiblesse de leur compléxion, ou par le soin de leur beauté, ou par une certaine légèreté qui les empêche de suivre une longue étude, ou par les distractions que donnent les details d'un domestique, ou par un éloignement naturel des choses pénibles et sérieuses, ou par une curiosité toute differente de celle qui contente l'esprit, ou par un tout'autre goût que celui d'éxercer leur mémoire? _Mais a quelque cause que les hommes puissent devoir cette ignorance des femmes, ils sont heureux, que les femmes qui les dominent d'ailleurs par tant d'entroits aient sur eux cet avantage de moins._» Chi non vedesse qui, che tutte le cause alle quali La Bruyère suppone doversi l'ignoranza della donna e la sua frivolezza, a non altro attribuir si debbono che all'educazione che le si dà, ad un falso criterio che le si forma, legga quest'altre che le seguono, nelle quali l'Autore, dopo avere asserito non essere la Donna _saccente_ che un oggetto curioso, ma affatto fuori d'uso, distinguendo dal pedantismo la vera sapienza soggiunge: «Si la science et la sagesse se trouvent unies en un même sujét, je ne m'informe plus du sexe, j'admire: et si vous me dites, qu'une femme sage ne songe guère à devenir savante, ou qu'une femme savante n'est guère sage, vous avez déjà oublié ce qui vous venez de lire, _que les femmes ne sont détournées des sciences que par de certains défauts. Concluez donc vous même, que moins elles auraient de ces défauts, plus elles seraient sages, et qu'ainsi une femme sage n'en serait que plus propre à devenir savante, ou qu'une femme savante, n'étant telle, que parce qu'elle a réussi a vaincre beaucoup de défauts rien est que plus sage_». Ora, questi concetti nati sotto la penna d'un uomo che, avendo battuto inesorabilmente coll'arma severa ed acre del ridicolo i difetti femminili, non può certo sospettarsi di galanteria, ci dicono che la donna, che in _diversi aspetti supera l'uomo_, gli cede in questo, per mollezza di volontà, che per lo più non sa vincere, per una leggierezza di tendenze, che non sa domare, per una certa atonia dello spirito che la fa schifa d'ogni tensione. Ecco i capi d'accusa che La Bruyère porta contro la natura femminile; ma a torto io credo sulla sua natura, e piuttosto sul sistema d'educazione che le fu sempre applicato, per cui gli uomini che «sont heureux que les femmes qui les dominent par tant d'endroits aient sur eux cet avantage de moins,» cambieranno, lo spero, con rassegnazione, questa felicità, con quella d'aversi nella donna, anche dal lato dello spirito, _un aiuto convenevole_, come si esprime la Genesi, e che possa supplire ed aggiungere alle esterne attrattive colle imperiture doti dell'anima e dell'intelligenza. E che piuttosto che alla femminile natura, a vizio d'educazione debba attribuirsi la poca tendenza della donna ai gravi studi ed alle utili occupazioni, appare evidente e dal precoce sviluppo delle fanciulle, e dalla vivacità e finezza del loro spirito, e dalla loro pronta percezione, e dalla attenzione che da loro prestasi all'insegnamento. Un fatto costante, generale, da potersi da chiunque constatare come noi ne fummo testimonii in diverse scuole elementari, è la molta maggior capacità che rilevasi nelle fanciulle a preferenza dei ragazzi, e il maggior amore allo studio accoppiato a maggior facilità d'apprendere coll'assoluta parità d'età e risultante sempre in qualunque numerica proporzione, sui fanciulli dell'altro sesso. Questo fatto che ci viene ogni giorno confermato dalle testimonianze di diversi educatori, ci veniva eziandio constatato con qualche meraviglia da due ispettori generali degli studi dietro ispezione nei convitti degli adulti d'ambo i sessi. A chè dunque dovrebbe attribuirsi e che altro accagionare della atrofia di quelle felici facoltà dello spirito femminile, di quella improvisa paralisi della sua intelligenza, di quei puerili e frivoli gusti che lo guadagnano in quell'età appunto in cui dovrebbe spogliarli avendoli avuti, e come mai i piaceri dell'intelligenza gli divengono indifferenti allora appunto che il suo completo sviluppo, la maturità del criterio, la maggior estensione delle cognizioni, dovrebbero rendervelo più che mai suscettibile e desideroso? Chè altro, dico, dovrassi accagionarne se non è un viziato sistema di educazione, il quale, anzi che trar partito della fecondità del terreno, si affatica a soffocarvi in germi i semi, s'ammazza ad atrofizzarvi i naturali frutti per sopra innestarvi delle artificiali escrescenze? Infatti, dopo avere eccitata la fanciulla allo studio ed incoraggiatevela con ogni fatta d'argomenti, dopo averle dimostrato l'utile sommo, la suprema necessità del sapere, dopo averle parlato di morale e di principii, nell'età in cui l'acerbità del criterio non è per anco in grado di tutto apprezzare il valore di cotali predicati, allorché poi i misteri della vita cominciano ad apparirle men tenebrosi, quando l'adulto senno si fa capace della logica di quelle dottrine, quando i sintomi forieri dello svegliarsi delle passioni vengono a darle la chiave di quegli arcani parlari ed ella ne intravvede l'applicazione, ecco cambiarlesi dinnanzi la scena. La sapienza, sente dirlesi, non è per la donna; oltreché le è perfettamente superflua, la rende inamabile, e la spoglia della semplicità che è il supremo de' suoi pregi; la morale, le si predica, certo è buona cosa, anzi necessaria, ma la donna ha la norma della sua morale nella pubblica opinione. I criterii assoluti non sono pel suo cervello, è troppo debole per affidarglisi, e dietro il giudizio altrui ella deve solo condursi; per cui eccone le conseguenze. Per la donna brillante la morale diventa la moda, per la divota il giudizio del confessore e d'ogni uomo che porti tonaca, per la buona moglie ogni fantasia del marito, per la fanciulla gli usi locali; e così facendo la donna, non fa che la logica applicazione delle apprese dottrine. Non vi stupisca più il vederla sì spesso errare ne' suoi giudizii, non vi meravigli l'indefessa assiduità colla quale attende ai gravi studii della _toilette_, non vi sorprenda l'eccessiva sua tendenza «_D'investigar di ciaschedun le oscure_ _Galanti storiette e le avventure_». Il desiderio di sapere, la necessità di trovare ai suoi parlari un argomento, le ha fatto far questa cattiva scelta; non dite più che lo spirito femminile diffetta di solidità ed è insufficiente a massiccio ed esatto raziocinio. — La donna, così essendo, è perfettamente logica; e se alcunché mi meraviglia è ch'ella non sia assai peggiore, vedendola assai generalmente conservare, in mezzo a tanta viziatura di principii, l'intima bontà del cuore. Forse da taluno si dirà, che l'opinione non deve assolutamente superarsi; chè indizio di sommo orgoglio o di perduta verecondia è lo anteporre il giudizio nostro individuale al collettivo criterio delle masse, e lo affrontar saldi ed imperterriti il biasimo di tutti; e fortificati dalla venerata autorità del filosofo ginevrino mi direte, che, vivendo sempre per la sociale organizzazione dipendente da altrui, ed essendo la riputazione il supremo bene della donna, e dipendendo questa sovente, più che dalla realtà delle cose, dalle apparenze loro, ne consegue che dessa, più che tutt'altri, debba dell'opinione esser timida e serva, ed essere, non già speciosamente, ma rigorosamente vero che, per la donna, felicità, importanza e valore dalla stima, che altrui ne fa, tutta dipende. — Grave è l'obbiezione, ma mi lusingo poter, così in base al fatto che al raziocinio, farvi equivalente risposta. Importa assai notomizzare alquanto questa pubblica opinione, che s'impone con tanta forza, che non da altri che dal suo beneplacito cava la ragione dell'autorità sua; analizzare la natura di questo supremo arbitrato, che tanto gravita sugli atti umani, e per la donna poi è ragione di nullità e di sventure. V'hanno opinioni generali a tutta l'umanità che tolgono l'origine, e la parvenza, dai bisogni, dalle tendenze, dai sentimenti innati all'umana natura; appartengono a questa categoria, a mo' d'esempio, tutte le religiose credenze scaturite dal sentimento della divinità, comune a tutti i popoli, a tutte le razze. V'hanno opinioni speciali determinate da un dato concorso di circostanze, in un dato tempo, in una data località; e sotto queste opinioni fluttuanti, per così dire, e precarie soggiacquero delle nozioni scientifiche e filosofiche, che sono per noi e pel nostro tempo fuor d'ogni discusso. — Così la virtù ed il vizio, la pietà e la ferocia, la verità e lo errore si diedero lo scambio nelle opinioni degli uomini siffattamente, da stimarsi sommamente pii i sacrifici d'umane vittime, sommamente logici ed equi la servitù ed il dispotismo, virtuoso lo sterminio, vile il perdono, codarda la misericordia, nobile e gentil costume l'ozio e l'ignoranza, negromanzia e diabolico mistero la scienza, ignobile l'industria, il lavoro plebeo; e via scendendo fino a dì nostri, non è raro vedere nell'opinione dei più, darsi lo scambio l'ignoranza e l'ingenuità, lo spirito di rivolta colla giusta opposizione, la pusillanimità colla moderazione, il cicalío coll'eloquenza, gli esterni atti del culto colla pietà, la ostinazione colla fermezza, l'ingenita selvatichezza colla verecondia, la brutalità col valore, la depravazione dello spirito coll'emancipazione della mente, la corruzione dei costumi colla giovanil leggerezza, col rispetto l'adulazione, colla condiscendenza la servilità, il pregiudizio colla verità. E questa erroneità di giudizii è un fatto così generale e costante, che non sarebbe soverchio il dire, che questa massa fluttante e discorde degli umani cervelli, in una cosa soltanto s'uniforma ed armonizza, nel colpire cioè assai di rado il vero aspetto e l'intimo valor d'una cosa. — E non è che dopo qualche secolo, dopo i combattuti conati di sublimi intelligenze, dopo sopite le lunghe e furiose fazioni che scindono l'umana società a proposito d'ogni discusso che riesce una verità a divenir testo all'opinione dei più, ad uniformare i giudizii delle masse. A questi anarchici procedimenti del pensiero, che sono ineluttabili, primo perchè l'umana intelligenza percorrendo un cammino ascendentale deve necessariamente essere imperfetta e pregiudicata finché giunta non sia ad afferrare l'ultima parola di ciascun problema: secondo pel fatto dell'individualismo per cui v'ha chi precorre di molto tempo le masse, e chi con loro cammina e chi dopo tutti giunge a lento passo, come trascinato da forza maggiore e non però persuaso. — In seno poi a tutte le umane società, per quanto nei primordii fondamentali sopra un assoluto piede d'uguaglianza, riposa in germi qualche elemento, che ben presto emerge, si isola, si eleva e poi signoreggia con forze morali o materiali, ed impone e modifica i procedimenti dell'opinione. Ma chiarifichiamoci con dei fatti. _L'astuzia._ — I Bramini, nell'India, col loro severo aspetto ed il mistero venerando di cui seppero circondarsi, riescirono a far occupare il secondo posto alla tribù dei guerrieri, alla cui testa era il Re. Nel discorso di Cristo sul monte, in San Matteo, leggiamo la lunga serie d'ipocrisie, coll'aiuto delle quali i Farisei della Mosaica Sinagoga avevano riescito ad ottenere sul popolo un supremo arbitrato in ogni cosa, ed a farlo agire, pensare e giudicare dietro gli interessi loro. _L'esempio._ — La manía teologica di Costantino il grande, divenne contagiosa alla corte, da questa si propagò alla nobiltà, dalla nobiltà alla borghesia, dalla borghesia all'esercito, dagli uomini s'appiccò alle donne, ed in men che nol dico, tutto l'impero fu maniaco, delirante, frenetico per la teologia, e dissensioni e controversie, ed immensi volumi, e guerre interminabili, e strazii quotidiani e discordie intestine ne scaturirono, ed empio ed eretico si considerava colui che di sì strano morbo non fosse infetto, e l'opinione esigeva imperativamente che si parteggiasse.[5] _Le passioni._ — I costumi della Grecia antica, che imponevano alla donna onesta la reclusione del gineceo, diedero ragione alla somma importanza che acquistarono in quel paese le cortigiane, laonde l'arte le immortalò nelle opere sue, la poesia le cantò, i filosofi tennero presso di esse le loro scuole, e la pubblica opinione aveva levato dalle loro fronti il marchio della vergogna.[6] _La forza._ — Roma imperiale, vedendo il nascente cristianesimo proscritto dagli editti imperatorii, e perseguito con tanta severità in tutte le provincie del vastissimo impero, vedendo i cristiani dati esca al fuoco, pasto alle fiere, bersaglio ai dardi degli arcieri affricani, finì col convincersi esser eglino gente infesta allo Stato ed all'umanità; e divenne universale l'opinione che essi fossero sola cagione delle calamità dello impero; onde fu necessario che la penna eloquente di Tertulliano s'incaricasse di ribadir quelle accuse ed assurde le dimostrasse. Più tardi i tribunali della sacra inquisizione, che siedenti presso che tutte le città del mondo cristiano, investiti di una potenza esecutiva assoluta, spaventavano le genti col quotidiano spettacolo dei più feroci castighi aggiuntisi al terrore di mali futuri ed eterni, di leggieri persuasero ai popoli cristiani dell'Evo Medio, che anche la più giusta e moderata ed urgente riforma invocata da pii ed onesti personaggi fosse esecranda eresia, onde videsi sovente, deplorevole spettacolo, il popolo stesso imprecare più volte a quelle vittime e recar sollecito l'esca ai loro roghi. _Gl'interessi._ — Talleyrand, conversando con Napoleone il grande della scienza mesmerica, che allora cominciava a convergere a sè l'attenzione dei dotti e dei curiosi, ed interrogatolo se fosse o meno d'avviso di incoraggiarla, ne ottenne questa risposta: «No, non facciamo del Mesmerismo una scienza legale; a noi giova ch'ella resti dubbia, combattuta, ed anche ridicola. Pensate chè diverrebbe la politica dei gabinetti.» _L'ignoranza._ — Sono così molteplici, ed incontransi a tante migliaia nella storia, le erronee opinioni accreditate, e tenacemente custodite per fatto d'ignoranza, che sarebbe più presto detto che tutta la storia dell'umana intelligenza è la prova di questo fatto. Socrate, dannato alla cicuta siccome empio per l'unità divina; Galilei, tradotto davanti al Santo Ufficio per avere sostituito il giro della terra a quello del sole; Sarpi, processato egli pure siccome eretico per la forma speciale delle sue pianelle; Andrea Vesale, condannato siccome negromante per le sue prime sezioni anatomiche; la chimica creduta per lungo tempo arte magica e diabolica; la epilepsia creduta possessione ed invasione demoniaca, la lebbra considerata siccome castigo divino dagli Orientali; i pregiudizii del popolo dei nostri giorni che, associando il sopranaturalismo ai fenomeni i più semplici e naturali, fa perfin talora della morte ch'è pure un fatto cotidiano e costante[7] un castigo di Dio; tutti questi erronei criterii come potrebbero altrimenti chiamarsi se non le naturali espressioni dell'ignoranza? Roma chiudeva, (pel supplizio d'una Vestale), tre giorni il foro, il Senato, i pubblici mercati, sospendeva i giuochi, la guerra, tutti i pubblici interessi ed i privati, ed offriva notte e giorno vittime espiatorie, persuasa che la battaglia sarebbe perduta, i giuochi sgraziati, gl'interessi ruinati se prima non avesse placati gli Dei. Avendo in Roma una donna difesa nel foro la propria causa, il Senato inviò a Delfo a consultare l'Oracolo per sentire quale sventura soprastasse alla città ed alla nazione per siffatta enormità. Sendosi abolito in Francia, per decreto di Sinodi provinciali, i banchetti nelle chiese che si facevano in dati giorni dell'anno, la cui sconvenienza andava al punto da ingombrare con piatti e bottiglie perfin l'altare sul quale il sacerdote celebrava, mentre e popolo e clero bivaccava, si inebbriava e schiamazzava insieme, il popolo non mancò di gridare all'empietà e s'accorava seriamente che si volesse distruggere la religione[8]. Se all'ignoranza delle verità morali e speculative avvien che s'aggiunga la ignoranza della storia e degli usi e costumi di tutti i popoli (che maggior estensione suol dare alle idee, e maggior quantità di dati presenta all'esattezza del giudizio come per lo più nelle masse), allora l'opinione pubblica diviene non già organo d'intelligenza, ma misura d'ignoranza. Basta la più leggiera tinta di storia per provarci quanto siano fluttuanti e precarie le opinioni, che non si fondano sui semplici e sovrani emanati della ragione; e siccome di assai poche verità assiomatiche trovasi l'uomo in possesso, così veggiamo lo spirito d'un secolo e d'una generazione differire enormemente dalle antecedenti e dalle susseguenti, addottarsi e ripudiarsi i sistemi, modificarsi assiduamente usi, costumi, ed istituzioni ormeggiando lente, ma indefesse il progressivo sviluppo dei popoli, il quale, attraverso a queste molteplici e svariate gradazioni morali, per legge fatale di natura e di provvidenza, sempre sale verso il meglio. Da tutto il fin qui detto emerge, che questo formidabile fantasma della opinione vuol essere guardato in faccia senza timore, e ben disquisito vuol essere, ed analizzato prima di accettarlo ed inchinarcegli siccome a supremo arbitrato. Esaminiamo se le forme solenni, che assume, siano per avventura il puntello di interessi parziali, la tonaca lunga ed affibbiata dell'ipocrisia, la legge caduca della forza, od il semplicissimo _così facea mio padre_, tanto potente sulle masse incolte che un bello spirito non chiamava senza ragione animal d'abitudine. Ben sovente ci accadrà di trovarci di fronte ad un colosso dal piè d'argilla; e le mie parole vi si appaleseranno ben vere, se riflettiate un istante ad un fatto gigante, che veggiamo svolgersi sotto late dimensioni nella nostra Italia in un solo quinquennio di libera vita. Chi non è colpito dalle modificazioni di idee, di opinioni, e perfin di credenze che vanno ogni dì operandosi nelle menti? Chi non meraviglia pensando che la Italiana Unità, che predicata da pochi Apostoli nel 1821, e creduta fino al 1859 una solenne utopia, in quell'anno stesso diveniva il nazionale programma e la coscienza universale? Io distinguevo testè le opinioni fluttuanti e precarie, che trovano per pochi momenti la loro ragion d'essere negli interessi, nella ignoranza e nelle passioni, dai supremi e semplici emanati della ragione morale, epperò la sana educazione, che ci aggioga agli impermutabili precetti di quella autorità, può e deve farci timidi e riverenti del giudizio e delle opinioni altrui, quando quelle vengano manifestate da individui, la cui nota virtù ed intelligenza possono e debbono, con ogni logica, farceli autorevoli; attesochè alla saviezza dei criterii concorra in essi la calma delle passioni e la lucidezza della mente. _Amo laudari a laudato viro._ In questa antica sentenza stanno conchiusi i ragionevoli ed equi confini della opinione autorevole. Autorità è questa dalla quale bene farà la donna di non mai ribellarsi, nè essere di quella stima indifferente, nè quel biasimo mai superare; poichè non libertà di spirito, o solidità di giudizio ciò mostrerebbe ma rivoltante spudore; che se per caso talora conducendosi dietro i pensamenti di persone lodevoli e lodate, od un consiglio loro seguendo errasse, e migliore dappoi avvertisse il proprio consiglio, cotali complici nello errore assai la giustificano e la assolvono. Ma qui deve arrestarsi la condiscendenza all'opinione altrui; che s'ella si proponga di voler a tutti piacere e di tutti avere la stima e l'aggradimento, immorale affatto diverrà e corrotta senza però lo intento conseguire, sendo i caratteri ed i cervelli umani sì svariati di gusto e di giudizio che, quando cotale illusa vi fosse, ben potrei dirle: «_Brami invan d'esentarti alle punture_ «_Se fur d'Appelle infin l'opre immortali_ «_D'un ciabattin soggette alla censura_». Che se a' pii esercizii rivolgerai l'animo a pietà inchinevole, sarai tosto nello spirito del volgo ipocrita o bigotta; se agli studii addestrar vorrai lo innato ingegno sarai pedante; se alla tavoletta intenta le lunghe ore ogni cura adoprerai ad esser bella, sarai tosto leggiera e vanerella; se del moto o del passeggio bisognosa ed amante, di spirito ozioso e svagato avrai la fama; se società raccogli nelle tue interne sale e di frequente sarai nei teatri vista, mille, più o men veri, galanti aneddoti circoleran sul conto tuo; se, della prole amante e del consorte, trarrai oscura e laboriosa vita fra domestici affetti e doveri, non mancherà chi a difetto di spirito e d'attrattive la volontaria solitudine attribuisca. Se, bella essendo e corteggiata, sarai costretta per genio o per dovere a chi il cuore negare, a chi la mano, di superba o di fiera t'acquisterai rinomanza. Se natura avesti matrigna e di bellezza manchi e d'attrattive, per ciò solo d'imperdonabile delitto sei già rea, e la grazia sarà per te affettazione, la dignità pretesa, smodato sfarzo la decenza, ogni virtù ti scemerà di pregio, ed ogni neo salirà fino a deformità mostruosa. Laonde, a premunire dalla ingiusta e dolorosa pressione di sì sventati e crudeli giudizii, la donna, che per la natìa timidezza dell'animo già li soffre e li teme (e per la sua debolezza è ben già di soverchio esposta agli oltraggi) ben lunge dal curvarle vieppiù la testa sotto il giogo ingeneroso, che il filosofo ginevrino si affatica a premerle sul collo, io le fo coraggio e le ripeto: «_Anima che per biasmo si dibassa_ «_E per lode s'innalza è debil canna_ «_Cui muove a scherzo il venticel che passa_». Epperò informata alle imprescrittibili leggi della morale, non d'altri schiava che del principio che a guida togliesti del tuo operare, coll'occhio fiso al nobile fine che programma facesti della tua vita, l'occhio e l'orecchio chiudi alle migliaia che tutti importisi vorrebbero a legislatori e tiranni, e fa «_Come il Villan che posto in mezzo_ «_Al rumor delle stridule cicale_ «_Senza curare il rauco strido loro_ «_Segue tranquillamente il suo lavoro_». LA DONNA E LA RELIGIONE Regi, monarchi, potentati, sacre maestà, vi ho nominate con tutti i vostri nomi? grandi della terra, altissimi, potentissimi e forse ben presto anche Onnipotenti Signori, noi, uomini, abbisogniamo, per le nostre messi, d'un po' di pioggia, di qualche cosa meno anche, d'un po' di rugiada. Fate della rugiada, mandateci sulla terra una goccia d'acqua! Una sola cosa, Lucillo, mi fa pena. Questi grandi corpi sono così costanti ed esatti nel loro cammino e nei loro rapporti, compiono con ordine così invariabile le loro evoluzioni, che un piccolo animale, rilegato in un angolo di questo immenso spazio che si chiama mondo, avendoli osservati, s'è fatto un sistema infallibile di predire a qual punto del loro corso tutti questi astri si troveranno da oggi a due a quattro a ventimila anni. Ecco il mio scrupolo, Lucillo; s'egli è per caso, ch'essi osservano leggi così invariabili, che cos'è l'ordine, che cos'è la regola? LA BRUYÈRE. Dilicatissimo e difficoltoso argomento è questo che imprendo a trattare, e tanto più oggidì in cui, questioni vitali si agitano nel paese in cui io scrivo, questioni di vita e di morte per tutta una casta, che il proprio parziale carattere ne ritrae, questione interessantissima ad ogni regione del globo, ad ogni popolo, ad ogni intelletto che si travagli nelle filosofiche disquisizioni, ad ogni cuore che palpiti nella incertezza degli umani destini oltre la tomba. Come procedere senza sollevare obiezioni, senza sconcertare credenze, senza urtare suscettibilità, senza sconcertare interessi? Come non cozzare qui colla sistematica negazione, là colla gratuita asserzione, a diritta colle astrazioni di Fourier, di Leroux, a manca con De l'Orgue e De Maître, davanti con Reynaud, dietro con tutta la miriade degli ascetici? E davvero assai peritosa e timida stommi del come mi condurrò, del punto da cui partirò nel vastissimo terreno che mi si apre a discorrere, della scelta che far convienmi fra le idee che copiose invadono la mente, dell'arte con cui eviterò l'urto dei triboli e la puntura delle spine in una strada che, tutta l'umanità percorre, eppure, più fu battuta, e meno si fa praticabile a chi non voglia sollevarsi di fronte una guerra di scandali e di pregiudizi che più lacera il cuore, che non guerra di spade. Pure già lo dissi nelle prime pagine, e giovami qui ripeterlo. Io preparo la donna dell'avvenire, di quell'avvenire che ogni intelletto, sazio di gratuito, ogni spirito esasperato dalla lotta che, dalle cieche passioni e dagli inverecondi interessi è combattuta alla verità ed alla morale, deve necessariamente affrettare coll'opera e col desiderio. E ferma in questo proposito, smessa ogni peritanza, m'innoltro alla libera sposizione delle idee. È assai possibile che il debole intelletto non abbia saputo, neppur dallo assiduo e pertinace studio di grandi autori, estrarre il vero, ed è ancor più possibile che la insufficienza della dialettica, e la poca facondia del dire, mi facciano irremissibilmente impotente a persuadere; ma mi resterà pur sempre chiaro e confortante testimonio la coscienza di avere, con ogni calma dello spirito e lealtà d'intelletto cercato il vero, e la mia fatica rivolta a presentarlo altrui, senza spirito di fazione, senza sistema preconcetto, senza fine secondo. E la donna, alla quale io parlo, accolga i miei sforzi con quella benevolenza che, se poco è meritata dallo intrinseco della mia fatica, non sarà certo sciupata invano dal buon volere, che mi ho, di porgere al mio sesso la sempre utile comunione delle idee. Essendo più pratico che teorico lo assunto mio, ed essendo io in ben altra situazione che quella d'un sacro oratore, il quale, od in un tempio di cattolici parli, o sermoneggi in una adunanza di _fratelli_, od il Corano commenti in una Moschea, sempre sa di parlare a chi come lui crede e sente, ed è già con esso lui d'accordo prima che parli, non mi è permesso saltare a piè pari nell'argomento, ma dobbiamo prima fondare di comune accordo le premesse. Non si tratta per me di persuadere ad altrui le convinzioni mie: non intendendo fare nè polemiche nè controversie. Io parlo alla donna d'ogni paese, ma specialmente italiana, e parlo alla sua indipendente ragione, al suo libero intelletto, per cui, a partire da basi concordi ed a meglio comprenderci, dal fatto partiremo e dallo assioma. La religione, metafisicamente considerata, è il _sentimento innato della divinità_. Essa fu siccome tale sentita da tutti i popoli e da tutti i tempi; e che ciò sia stato, lo provano gli innumerevoli monumenti e le tradizioni che la primigenia umanità legava alle posteriori generazioni; le quali poi a loro volta, anzichè sperdere quelle tradizioni e quei monumenti della fede dei padri loro, come fatto avrebbero quando non ne avessero ampiamente accolto il legato, altri ne aggiunsero, ed ogni generazione accrebbe così alle vegnenti il patrimonio delle credenze. Questo fatto che, siccome basato sulla semplice autorità, poco proverebbe se chiamato fosse a stabilire la verità d'una scientifica sposizione, od a convalidare la solidità d'un raziocinio che a sè stesso non basti (avvegnachè e storia e filosofia cospirino a non ammettere l'umanità degradata sibbene primitivamente ignorante) questo fatto, dico, diviene categorico e perentorio quando a provare la generalità e costanza di tal sentimento lo indiriziamo. Ora, siccome è vero che, l'effetto non nasce che dalla causa, la conseguenza tradisce la premessa, lo edificio rivela l'architetto, così l'universo predica una ragion prima. Il caso, che l'ateo volle a ragione di questo fatto, se è per lui ragione sufficiente, per lui _il caso è Dio_, e non v'è fra lui e il general sentimento che una questione di vocaboli; ma s'egli la considera siccome ragione accidentale egli da sè bene inesperto si proclama, avvegnacchè, sopra qualunque cosa egli esperimenti le combinazioni del caso, sempre le avrà avvertite, vaghe, disordinate e sopratutto incostanti; cosicchè il comun senso definisce col vocabolo _caso_ ogni combinazione, che manca affatto d'ordine, di durata e di leggi; il chè senza impugnare il testimonio della scienza (che va ogni dì scoprendo la ragion delle forze nel meccanismo universo, e potentemente le applica) senza rifiutare in ogni filosofia il supremo emanato della ragione fatto eminentemente ordinato, senza accagionare di allucinazione i nostri sensi tuttodì colpiti dall'armonia inalterabile della natura, sarebbe deplorabile follia diniegare. Meno evidente è all'intelletto l'immortalità e la vita futura, sebbene anch'essa non vada sprovvista di possenti ragioni, e ricca e forte della coscienza dei popoli. Come l'artefice elaborando l'arnese considera l'uso a cui lo destina, e le parti ne informa, e le forze e le misure ne proporziona, in vista di quello; altrettanto veggiamo aver natura praticato in tutte le sue produzioni, e questa saggia economia dell'universo è dalla scienza, ognor progressiva, ogni dì constatata su più late dimensioni; non altrimenti, tutte le facoltà ed attribuzioni dell'anima, siccome le parti tutte e tendenze del corpo, debbono necessariamente rispondere ad una data destinazione. Ora le facoltà dell'anima nostra eccedono sotto ogni aspetto la destinazione qualunque che aver potressimo circoscritta alla presente vita. Eccede l'insaziabile curiosità di tutto investigare, il tempo, i mezzi, le forze che all'investigazione abbisognano. Il senso morale, che l'uomo spinse fino agli estremi dello scrupolo delicato, non sarebbe che un'ironia in faccia ai pochi giorni di gioia e di vita che ci sono accordati. Nè si dica, che questo senso non sarebbe che una provvidenza di natura posta a tutela dei reciproci interessi; questo confine sarebbe d'assai soverchiato da un senso morale che limita gli atti anche intimi, anche indipendenti della vita umana. Il vivo desiderio dell'infinito, il cui soddisfacimento constatiamo impossibile nella esistenza che conosciamo, l'orrore del nulla così profondo, così sentito che non può esser domato dal terror dell'ignoto; tutti problemi sono questi, ai quali non è possibile che una soluzione, l'immortalità. Altro senso innato nell'uomo e profondamente sentito è il senso d'equità e di giustizia. Ora non potendo egli appagarlo, avversato qual'è dall'ignoranza, vinto dalle passioni, soggiogato dalla forza, immolato agli interessi, e sentendone tuttavia la somma ragione, trovò il dogma del premio e della pena, o meglio, lo sentì, ed in questo fondò la ragione della virtù e l'odio del vizio. Laonde l'esistenza della divinità creatrice, ordinatrice e provvidenziale, l'immortalità, il premio del bene e la punizione del male; ecco i tre dogmi che furono base alle teogonie tutte, e che ogni ragionevole intelletto può e deve ammettere. Ammessa l'esistenza della divinità, l'uomo le deve omaggio e riconoscenza, ed ecco sorgere la religione donde i culti ed i riti; ammessa l'immortalità ecco sorgere con essa l'infinito, e l'aspirazione all'infinito, donde l'indefinito progresso; ammesso il premio e la pena, ecco sorgere la ragione della morale, donde la sociale felicità. Premesse queste poche parole a prevenire le nostre lettrici del punto da cui partiamo, nè potendo noi più inoltrarci nelle religiose teorie senza specializzare, epperò renderci a molte impossibile (e non trovando pur necessario il farlo dacchè abbiam già trovato la ragione religiosa), passiamo a disquisirne i caratteri, segnalarne le viziose applicazioni e le vere. Essenzial carattere dell'ossequio, che l'uomo prestar deve alla divinità, è l'essere questo ragionevole, essendo ragionevole chi lo presta, e verità assoluta, e ragion d'ogni cosa, l'essere supremo a cui è rivolto; perciò l'assurdo è insulto a Dio, nè può essere scusato che dall'invincibile ignoranza. Assurdo perciò non potea ch'essere, a mo' d'esempio, il sacrificio, il quale intendeva onorar Dio col distruggere la sua fattura: ciò non potea scusarsi che dall'ignoranza, ma il Sacerdote il quale godeva le parti comestibili delle vittime sacrificate, epperò eccitava continuamente i popoli ai sacrificii, non era più ignorante, era furbo; e l'iterato fumo de' suoi incensi non era che un insulto a Dio, ch'egli faceva servire a suoi interessi. Più d'una vedrà forse altra cosa, che l'infanzia dello spirito umano, in questi riti dell'umanità primitiva, ma noi risponderemo con una sola osservazione. I sacrificii cruenti, criminosi, se di vittime umane, assurdi se di ostie brutali, cessarono sotto l'impero di due autorità. La prima fu il Vangelo, che promulgò la più razionale delle religioni; la seconda fu il progresso della civilizzazione, che chiarì allo spirito umano la vanità di cotali ossequi e la loro assurdità. Ora se i progressi della ragione resero incompatibile il sacrificio, ciò basta per dare il nome alla cosa. Dovendo l'umano ossequio alla Divinità essere razionale, ne emerge di natural conseguenza, che non debbano le esterne sue manifestazioni superchiare agli occhi nostri in importanza l'intimo sentimento che li produce. Che se al riconoscente affetto, che verso Dio ci porta e delle leggi imperscrittibili della morale ci fa teneri osservatori, come sendo dallo stesso suo dito scritte ne' cuori nostri, anteponiamo gli atti esterni e convenzionali del culto che, orbi per sè stessi d'ogni morale valore, altro non sono che l'espressione di quello, noi adopreressimo come chi il vetro anteponesse al diamante, il bacio all'affetto. Eppure, se poniamo a disamina lo zelo, con cui tutti gli ascetici scrittori moltiplicarono in ogni confessione, e classificarono in infinite categorie mille pie pratiche, e di quale importanza vollero circondarle e con quale entusiastico fervore le vollero raccomandate e praticate; davvero, non intendo calunniare le intenzioni loro, ma credo altro non s'avessero in vista che di soffocare il religioso sentimento ed imporgli silenzio onde lasciar luogo alla moltitudine delle parole, non dissimili dai sacerdoti di Baal (de' quali tanto si rideva il profeta Elia) che gridando con quanta forza era possibile ai loro polmoni, e continuando in tal baccano tutto l'intero giorno, se ne tornavano convinti che la loro sonnacchiosa Divinità li avesse alla perfine intesi e compresi. Il Cristo, che primo diede all'umanità l'idea del culto perfetto, stringeva e riassumeva, in una formola, quanto affettiva altrettanto razionale, l'espressione del religioso sentimento. Egli, che aveva l'un dopo l'altro attaccati e combattuti tutti i pregiudizii, si dichiara anche contro questo là dove dice: «Non vogliate essere come i gentili, che impiegano ad onorar Dio molte parole, e credono per la moltitudine di quelle esser meglio esauditi. In quanto a voi, quando volete pregare a Dio, chiudete l'uscio della vostra camera, e nel segreto pregate al padre vostro ch'è ne' Cieli». V'hanno però di molte le quali tutte assorbite dalli esterni atti del culto, moltiplicandoli ogni giorno senza ragione e senza misura, facenti assidua lettura di libri che insegnano colla Divinità un cotal linguaggio floscio ed affettivo, tutt'affatto profano ed indegno dei rapporti che intende di esprimere, portano l'intelletto nei campi vaporosi d'una dottrina; la quale assorbe le lunghe ore nel render l'anima timorosa di tutto, nel toglierle ogni generoso slancio, nel freddare ogni generosa passione, nell'atrofizzare più che sia possibile il cuore, nel rompere ogni suo più sacro e soave legame, nell'avezzarla ad una tensione morale di tanta forza da non sapersi più scernere fra il bene ed il male assoluto, il bene ed il male relativo e li atti tutti, che orbi sono di morale valore epperò all'uomo di libera scelta. Essi insegnano una dottrina tutta di distacco, d'isolamento, di meditazione e d'espiazione: essi nulla ammettono di spontaneo nello svolgimento della vita morale; tutti i menomi moti del cuore e della mente vengono vigilati, sorpresi, classificati più o men logicamente, e non persi di vista mai, dovendo essi tutti esser fedelmente riportati ad un cotale che l'incarico s'è assunto di avviar quest'anima alla perfezione; e, mediante le cure sue, ed i suoi lucidissimi precetti, si è ridotta a tale d'aversi di lui per ogni cosa stretto bisogno, di nulla veder senza li altrui occhi, di nulla giudicare senza l'altrui cervello, e di non potersi ristare dal mettere altrui in terzo fra sè ed i più intimi, e nè più gelosi segreti, «_Come se far non possa i fatti sui_ _Se in opera non pon gli organi altrui_». E questa assoluta insufficienza dell'individuo, questa perpetua minorità, dura fino alla morte; anzi va, questa forza astringente ed assorbente, sempre più incalzando fino a che, di quest'anima, che cammina alla perfezione, più non resta che un cadavere ed un automa che, di vita propria, non si ha che la parte fisica e vegetativa. Non volendo io per nulla affatto scendere nei penetrali dell'uman cuore per cercarvi le cause di questo ritrovato, che non mancò per avventura di appoggiare numerosi e forti interessi (non essendo nè la satira nè la storia l'assunto mio) io proseguirò nelle ragionate teorie prendendo dovunque il buono, e sceverando il falso ed il gratuito, guidata quale sono dallo schietto amore della verità e della luce. Accennavo, che quelle dottrine, che si propongono d'avviar l'anima alla perfezione, predicano il distacco, l'isolamento, la meditazione, e l'espiazione; e taluna avrà portato avviso, che troppo leggermente io condannassi teorie, che fini sì altamente spirituali si recano a programma. Spero di giustificare il mio verdetto, rifacendo un po' la storia morale dell'umanità; e come questa svolge la sua progressiva vita in diverse fasi tutte logiche ed inevitabili, così lo individuo, ch'è una frazione di questo gran corpo, deve seguirla e recare l'opera sua al collettivo lavoro; che se non fosse, e non dovesse essere, il progresso delle idee e dei costumi non potrebbe aver luogo; e l'umana storia in luogo di presentare all'occhio del filosofo un complesso armonico, logico, ordinato, ed a gran fine diretto, non mostrerebbe che un agglomeramento, senza forma e senza nome, di forze eterogenee, discordanti, ed elidentisi, un caos insomma senza ragionevole principio, che non altro verosimile fine presenterebbe che un universale sterminio ed esaurimento. Ora puossi egli ammettere, dietro l'ordine che vediamo nella creazione tutta, che tale esser possa il morale concetto di Provvidenza? Certo che no. Laonde camminando, noi individui, siccome le generazioni, in una via di progressivo sviluppo, c'incombe di studiare il tempo e la fase ch'esse percorrono a non inceppare ed anzi assecondare il comune lavoro. L'umanità bambina che, simile all'uomo di poco tempo, era incapace d'un lavoro affatto speculativo, ma trovavasi tuttavia sotto il dominio delle sensazioni, avendo col senso morale l'idea della virtù, ammirava però maggiormente quelle doti di natura e di fortuna, per le quali un uomo sugli altri aquista materiale e sensibile superiorità. Laonde meglio che la mitezza era stimato il corraggio, meglio che il generoso perdono la valorosa vendetta, più che la sublime lealtà dell'anima, l'astuzia feconda di mezzi e ricca di successi, più che riverenza dei diritti, il feroce sterminio e la prepotente conquista; più che la castigata verecondia, la dissoluta e facile bellezza. Di tal maniera di giudizio dell'antica umanità hassi pena più presto a sceverarne le troppe prove che ad adunarle. Tutto ce lo insegna, dall'_Iliade_ d'Omero fino ai sontuosi monumenti alle ceneri di Pitionice, fino agli incensi bruciati ad Alessandro, fino al divinizzamento dei Cesari. Queste dottrine vellicanti le passioni, e così ben maritate agli interessi, non potevano che condurre di ragione il mondo ad una general corruzione di cuore e depravazione di mente, di cui la storia non ci ripete il racconto dalla caduta della Romana Repubblica in poi. Era ben logico e voluto dalla natura delle cose che là come dovunque, il riparo ormeggiasse dappresso il male; e sorsero in allora le dottrine a cui accennavamo; dottrine che lottavano colle passioni corpo a corpo, e disputavano palmo a palmo il terreno agli interessi, isolando l'uomo dal contagioso contatto dei suoi simili, livellando le caste, staccando dalle perniciose ricchezze mezzi di feroce dispotismo, e sforzandosi di spiritualizzare l'uomo degradato per corruzione fino ai bruti tutta la sua vita concentrando nell'espiazione di un male divenuto ormai sì radicale ed universo, che impotente affatto era contro di lui l'opera dello individuo. Nulla di meglio infatti resta a farsi al sano, frammezzo alli appestati, che trarsi in disparte fin quando la scienza non ha ancor provvisto ai malati. Quelle dottrine ci vennero dall'Oriente e più precisamente dalle Indie, e dal loro istitutore si chiamarono Buddismo. Nell'epoca in cui le leggi e le istituzioni dei bramini erano in maggior forza, e s'erano diffuse in tutto il paese senza eccezione, sorse dalla casta dei guerrieri, e dalla famiglia dei Sackija, Gautarna, detto poi Budda, (lo suscitato) figlio di Re. Nacque egli nel 628 avanti Cristo. Si unì, secondo il costume del paese, a tre mogli; ma a 29 anni abbandonò padre, mogli ed un figlio, non che ogni diritto di successione al trono, e si ritirò nel deserto per darsi tutto a penitenza alla guisa dei Bramini. Rimase colà 6 anni e superò nella rigidezza della vita tutti coloro. A 36 anni sorse a predicare, e scorse fino agli 85 tutta l'India. Educato nella solitudine dei deserti, alla meditazione ed alla penitenza, dotato di sommi talenti, concepì l'ardito pensiero che il Braminismo, d'assurdi ripieno, se forse bastava fino allora all'India, non certo al resto del mondo. Primo nell'antichità superò i pregiudizi della nazionalità, e concepì l'idea dell'universale rigenerazione del mondo corrotto, e parlò di partecipare altrui il proprio bene. Il Buddismo sorse circa nel tempo in cui la Giudea diveniva provincia romana e con essa si eclissava la Mosaica religione. «In quel tempo (dice Costantino Hofler nella _Storia universale_), si nota nell'Oriente un sentimento di dolore e direi quasi di disperazione come se la sua vita fosse finita». Nell'India la predicazione di Budda addita al mondo la cagione di tal disperazione nella nullità delle cose, e riduce lo scopo della vita alla _distruzione di noi stessi_. — (A chè altro si riduce l'ascetica cattolica dei nostri giorni?) In massima le sue dottrine non differivano punto da quelle dei Bramini; ma differivano in questo, doversi da tutti, senza distinzione, raggiungere lo scopo della vita, come avendo egli pel primo superato i pregiudizi di caste e di nazionalità. Non occorrevano per Budda le divisioni di quelle (prima politica braminiana), nè le opprimenti leggi ch'erano di quella politica i naturali corollarii; tutti, senza eccezione, erano chiamati alla cognizione della verità, a tutti libero quindi di togliersi al giogo bramitico. Egli poi, Budda, era stato dal Cielo mandato a segnarne la via. «La vita è un sogno, dicea Budda. Quanto più l'uomo lavora colla propria distruzione alla propria santificazione, e tanto più scioglie il legame che tiene avvinto il mondo alla colpa.» — Notisi il desolante ed antifilosofico concetto che il mondo sia fatalmente portato alla colpa, quasi l'umano arbitrio, donde l'umana responsabilità, non esistesse. — Senza questo concetto dominante sarebbe stato impossibile chiamare l'uomo all'isolamento ed alla propria distruzione. Solo l'universale corruzione dei tempi, la ferocia dei costumi, il degradamento cui era scesa l'umana progenie, poteva ispirare una simile filosofia. «Il matrimonio, dicea Budda, si tollera come un male ch'è forza permettere; ma non dovrebbero esservi carnali relazioni, dovendo il mondo al più presto finire. Tutto è inganno quaggiù; e se pur qualche cosa v'ha che non sia mendace, quest'è ciò appunto di ritenere tutto inganno, di liberarsi e staccarsi da tutto». Budda si volse anzi tutto a quella parte del popolo indiano, che la legislazione Bramitica lasciata aveva in completa miseria, persuadendola a disertare la dottrina ed i costumi di quella per abbracciare la sua, in cui solo era la via di salute. La condizione di quel popolo era sì misera sotto i Bramini, che una dottrina sì sconfortante fu riguardata siccome dottrina di libertà. I seguaci di Budda non temevano la morte, da loro risguardata siccome liberatrice dei mali. Esso li educava alla pazienza, alla mitezza, all'assoluta abnegazione, a riguardar siccome ingiusta ogni distinzione sociale, ad invitare tutti, senza eccezione di persona, alla redenzione per opera di lui, ossia allo scioglimento finale della materia primitiva nel nulla. Le sue dottrine produssero gran sensazione in Oriente, e furono nell'India argomento di gravi dissensioni; e malgrado le persecuzioni, alle quali furono bersaglio allorché i Greci vi penetrarono col Magno Alessandro, vi si tenevano salde, specialmente nel nord-ovest del paese. Certo le dottrine Buddistiche erano un gran passo in quei tempi oltre misura materializzati e corrotti, ed ebbero appunto in quelle condizioni la loro ragion d'essere; ma venne il Cristo ad aprire all'umanità una nuova fase, ed allora principiarono ad essere spostate e retrive. Chiamati gli uomini ad amarsi ed a soccorrersi, iniziata la dottrina della giustizia e del perdono, costituita l'umanità in una repubblica di fratelli che altro _dottore_, altro _maestro_, altro _signore_ non riconosce che la verità predicata dal Cristo colla luce della ragione, colla mite ma vittoriosa forza della persuasione; eguagliati i doveri ed i diritti, chiamati tutti al lavoro ed alla cooperazione al comun bene, proclamato ogni uomo al suo simile solidale col precetto dell'amore e della diffusione; chiamato l'amico a dar per l'amico la vita, ed a beneficare al nemico; udita, ammirata ed accolta questa dottrina dal mondo, tenuta salda contro le lotte, uscita vittoriosa da secolari battaglie, la vecchia dottrina dell'isolamento, e della distruzione dell'uomo, non aveva più ragion d'essere ed era condannata a perire. Dopo aver demolito era ben d'uopo riedificare. Il risorgimento, la vita, la libertà, lo sviluppo di tutte le forze morali, i collettivi conati delle masse verso il bene comune, ecco il programma del Cristo, ed ecco la fase che ora percorre l'umanità. L'amore universale, precetto _unico_ e _nuovo_, nel quale quella dottrina si compendia, importa a natural conseguenza il compatimento, la tolleranza, la vicendevole riverenza, e pone al bando dell'umanità ogni dispotismo di fatto e di sistema, ogni autorità che si erge al dissopra della forza delle cose, dell'unanime consenso, del generale interesse. Ora la cattolica ascetica, che tante forze isola e paralizza, che tante intelligenze riduce a schiavitù, che tanti fervori raffredda, che tanti nobili slanci raffrena, che tanti generosi entusiasmi riveste delle grette forme del partito, che tante esistenze si tiene eternamente oscillanti e dubitative sul grave problema d'un moto primo, d'un estemporaneo escogitato, orbo di conseguenza perchè intimo, di un motto oziosamente ed innavvertemente sfuggito, d'uno svagamento intempestivo anche, ma tutto proprio della mobilità dell'organo pensante, tutto questo sistema non vi par egli, ditelo voi, roba da bambini e compassionevole miseria? L'analisi sistemata è studio pericoloso se da grandi e leali intelligenze non venga esercitato. La massa delle mediocrità, impotente già per sè stessa ad accogliere in uno sguardo tutti i lati d'un concetto, se per sovrappiù venga sistematicamente applicata ad un dettaglio, non ne diverrà che sempre più gretta e microscopica. Gl'interessi poi studiano il sofisma, le passioni cercano il cavillo, il dispotismo s'allieta dello scisma, e lo spirito debole, tratto in tortuoso e smarrito sentiero, sente più che mai il bisogno d'una guida, alla quale è costretto affidarsi ad occhi bendati, sia che al bene lo conduca ed al meglio, o sia che al peggio lo trascini, e nel suo proprio male lo immerga. Noi perciò vorressimo che la donna specialmente, che tanto è a religione inchinevole, e che al sentimento di essa sinceramente e sublimemente sposata può tanto bene produrre, la mente informata ai lucidi precetti di quella, meno gretta ed analitica fosse nella manifestazione di quel sentimento, meno oscillante, meno dubitativa nel giudizio del bene e del male, del convenevole e dello sconvenevole; vorremmo che dai chiari precetti della verità derivasse dei criterii sicuri a giudicare più sanamente di sè, d'altrui e delle cose tutte; vorremmo abborrisse da certi facili scandali, figli d'ignoranza e di pregiudizio, da certe intolleranze che, violenti e feroci, vertono sopra opinioni e riti, dottrine e cerimonie che finalmente non sono che svariati modi di esprimere un unico ed universal sentimento. Deplorevole cosa egli è questa, che cioè l'intolleranza più feroce, più esclusiva si mostri presso chi di molta pietà fa special professione; e non s'avveggono, codesti, che per essa più danneggiano la causa che intendono servire. E ben se lo sapeva il Cristo quando, reduci i suoi discepoli da Samaria e pregandolo dessi che implorasse fuoco dal cielo su quelle genti, che la predicazione loro aveano spregiato, rispose loro: _davvero; io non so da quale spirito siate condotti_. Le religiose intolleranze in ogni tempo, in ogni popolo generarono i danni più atroci, le guerre più sterminatrici, le passioni più violenti che abbiano mai inferocito l'anima umana. Testimonii le babiloniche barbarie contro gli Ebrei, gli sterminii di questi sopra i vicini popoli incirconcisi, le secolari persecuzioni del gentilesimo sul cristianesimo nell'Europa e nell'Asia, i sanguinosi scismi d'Oriente, la cattolica inquisizione dell'Evo Medio, le guerre di Maometto, le lotte dei Mori e della Spagna, le crudeltà che accompagnarono e compirono lo scisma Anglicano, le stragi degli Ugonotti e di Zuinglio, l'ostracismo dalla civil società degli Ebrei tuttora vigente in molti Stati della civilissima Europa. Che se l'intolleranza e l'esclusivismo, in sè stessi viziosi e maligni, fanno deplorevole mostra di sè in uno Stato, in una casta, nel viril sesso, come sendo la negazione d'ogni ragione, d'ogni filosofia, d'ogni umanità; nella donna poi, per natura mite, misericordiosa e diffusiva, son più che altrove mai spostati ed inopportuni. Tanto più se trattasi di religiose credenze, le quali naturalmente suppongonsi norma di costumi; come dovendo l'uomo per natura e per ragione essere conseguente. Laonde se voi l'altrui religiosa convinzione spregiate, voi stupirete altresì che gente di altra credenza, che non la vostra, possa essere onesta e rispettabile; e questo giudizio è puerile, è ingiusto, è falso, è superbo. Lo esclusivismo di tre cagioni è lo effetto; o di suprema ignoranza, o di massimo orgoglio, o d'interessi personali o di casta. La prima ragione vi farebbe torto, le altre vi farebbero immorali; nell'un caso e nell'altro il sentimento religioso sarebbe erroneo ed ippocrita, sendo non già l'Ente Supremo l'oggetto del vostro culto, ma il pregiudizio; non già la Divinità oggetto di vostra fede, ma pretesto di passioni, strumento d'interessi. Laonde, tutto il fin qui detto in poche parole riassumendo; il culto che alla Divinità si debbe, vuol essere razionale, come sendo il rapporto d'un ente ragionevole colla ragion suprema di tutto: dignitoso, come lo esige riverenza dell'essere infinitamente superiore; intimo, siccome trovando nello spirito la sua ragione, nel cuore l'innato suo sentimento. Sendo la religiosa credenza norma di costume, non può questa condurci che alla carità dei nostri simili, che figli tutti d'un medesimo padre, effetti d'una stessa causa, camminando tutti ad un unico fine, d'un solo lavoro tutti incaricati, ad una stessa perfezione tutti vocati, nell'onorar Dio tutti concordi, non havvi differenza fra noi che d'espressione, come v'ha moltiplicità di linguaggi, varietà di costumi, individualismo di caratteri, diversi gradi d'intelligenza, molte fasi di civiltà, mille e mille combinazioni di luogo, di tempo, di persona, di circostanze, che mutano, alterano, modificano o determinano in mille sensi diversi, l'espressione di quest'unico, universale, innato sentimento dell'umana natura. Ma io vi parlava fin ora siccome a gente profondamente e sentitamente religiosa, nulla supposizione fin qui facendo che taluna possa non esserlo; e certo, troppo porto alta opinione dell'intelligenza vostra, e della gentil conformazione del cuore, che in seno vi batte, per supporre altrimenti. Ma in forza di quelle combinazioni, alle quali accennavamo poco dianzi, non sarebbe impossibile che taluna fra voi atea si credesse. E dicevo credesse, perchè fuori del natural corso delle cose ella sarebbe, se lo fosse sostanzialmente. E come supremo degli oltraggi si è il negare a taluno alcuno degli istinti o delle potenze che il corpo umano esige ad esser perfetto e ben organizzato nell'interne e nell'esterne sue parti, ed a tutte esercitare le sue naturali funzioni; altrettanto e non minore insulto sarebbe il supporre che a taluna di voi difetti questo nobilissimo fra i sentimenti; tanto più che nella femminile natura ogni sentimento siede come in suo trono, sendo la donna, in ogni fasi della sua vita, accompagnata, guidata, sostenuta da quelli, per quelli capace d'ogni sacrificio, forte per quelli nelle abnegazioni, vittoriosa nelle lotte, indomita nelle difficoltà, d'ogni ardua impresa capace, perseverante nell'azione, tanto che, ciò considerando, un filosofo ebbe a dirsi, che la donna pensa, ragiona e decide col cuore, sentenza che, se per avventura un cotal poco speciosa e non certo matematicamente esatta, non arriva certo ad offenderci, per quanto poco caso sembra farsi della nostra potenza intellettiva. Ma posta per un istante questa ipotesi, che vi fosse un'atea fra voi che mi leggete, io non farò che riportarvi ai semplici ed elementari raziocinii che vi facevo negli esordii di questo capitolo, sendo la verità religiosa di tal natura a non esigere lunghe disquisizioni, nè raffinate teorie. Aprite gli occhi e vedete succedersi da tanti secoli il giorno e la notte, alternarsi con ordine eterno le stagioni, ripetersi senza fine dalla stessa causa gli effetti stessi; studiate i diversi climi co' loro diversi generi di vegetazione, colle diverse specie d'animali, investigatene l'ordine e le ragioni; studiate le scienze esatte coi loro infallibili assiomi: misurate nelle scienze speculative la potenza d'astrazione dell'umana intelligenza procedente con ordine invariabile di premessa in conseguenza e giunta con assiduo lavoro all'attual civiltà; vedete nella storia la logica dei fatti, sempre generati ed a lor volta generatori con ordine sì indeclinabile da non essere impossibile la profezia; nelle arti estetiche cercate le ragioni del bello, che tanto ci affascina lo spirito ed i sensi vellica sì piacevolmente, e voi le troverete e le riprodurrete subordinando l'azione vostra a regole ed a linee. Se quest'opera permanente, logica, ordinata, ch'è la creazione colle sue forze agenti sotto leggi invariabili, vi sembra lealmente l'opera delle combinazioni, allora vi chiederò con La Bruyère che cos'è l'ordine? che cos'è la regola? Qualunque ipotesi si faccia l'uomo per giungere a spiegarsi questo fatto che è l'universo, tutte sono mille volte più difficili a concepirsi dallo spirito, che quella assai più semplice dell'esistenza d'una causa prima, intelligente e volente. Egli è perciò che i progressi della ragione e delle scienze naturali hanno screditato la scuola _atea_ e sulle rovine di quella nacque la _razionalista_, la quale giunge per diversa via ad un egual meta. Quella negava ridendo, e negava per sistema e per progetto; ed a quella scuola viziosa per la sua maniera, immorale pel suo sistema preconcetto, il mondo deve però la demolizione del Medio Evo. Ma quell'abile demolitrice non valeva a nulla edificare, ed ella lasciava l'umana ragione come una carta sulla quale nulla v'era di scritto; ella dunque dovea finir di regnare, e moriva, lasciando a succeditrice nell'opera della emancipazione della intelligenza umana, la scuola razionalista, la quale cangiò il _Caso_ in Etere Cosmico, nella necessità di dare alla vita universale una ragione sufficiente. Ma essa pure ci conduce davanti a quel dilemma che ne accusa la debolezza. L'Etere Cosmico, il fluido vitale dell'universo è desso intelligente e volitivo? in questo caso siamo ancora una volta d'accordo; ma se non lo è, e non lo può essere, allora questo fatto dell'intelligenza e della volontà resta un'altra volta effetto senza causa, e la ragione si trova in bocca un osso più duro da rosicchiare che non l'esistenza divina. La scienza di tutti i tempi ha ammesso le ipotesi, e di quelle si serve con una frequenza ed una fiducia ch'è talora eccessiva. In questo problema solo, ch'è pure fra tutti vitale ed importantissimo, non sarà lecito e logico fra le molte ipotesi delle diverse scuole quella accettare, e ritenere, che soddisfa maggiormente alle esigenze della ragione? Conservando però profonda riconoscenza per tutti i sistemi che per iscopo finale delle loro fatiche si proposero la libertà della mente, noi propugniamo il principio religioso risultante dall'universale coscienza, voluto dalla ragione, aiuto poderoso alla sociale moralizzazione, donde il benessere universale. È duopo dunque questo scopo si raggiunga, epperò, ciò che maggiormente importa, ch'è di massima gravità e di vitale interesse, si è, che il sentimento religioso si manifesti in voi in maniera che non degeneri a vestir le forme dello spirito debole, della ragione inferma, dell'esclusivismo orgoglioso, dell'inumana intolleranza. Parlando Cristo colla donna di Samaria, questa gli diceva: «Tu sei giudeo e come tale crederai che Dio debba adorarsi in Gerusalemme, e non su quel monte ove l'adorarono i padri nostri» — (Notate che l'intolleranza ed il pregiudizio erano tali, ch'ella non sapeva figurarsi che un giudeo potesse transigere dall'esclusivo orgoglio del tempio di Gerusalemme) — Ed egli rispose: «In verità ti dico, che verrà un giorno che nè in Gerusalemme, nè in Garizim si adorerà Iddio, ma il Padre avrà adoratori in ispirito e verità». Due cose meravigliano in questa risposta e ne fanno, secondo noi, uno dei punti più salienti di quella meravigliosa dottrina, per la quale professiamo una sconfinata ammirazione. Alla specie di sfida che gli getta la donna, attribuendogli come giudeo tutti i pregiudizii della sua nazione, egli non risponde affatto e non se ne chiama offeso, dando in ciò somma prova di tolleranza; abbraccia quindi la forma della questione, e pone in un posto accessorio il grave problema di località sollevato dalla donna come non essendo vero culto, ma pura forma di culto, tutto chè con esterni atti si esprime; formola finalmente, con una frase sublime, il culto vero, dando ad ogni cosa il suo proprio carattere; chiama padre l'oggetto del culto, ch'è quanto dire _Causa_ e _Provvidenza_, e richiama con ciò il sentimento al quale la donna non pensava; chiama adorazione in ispirito e verità quel culto razionale e sentito che dal cuore e dall'intelletto partito non Garizim, o Gerusalemme, ma l'universo considera siccome il tempio di Dio; e dalla sublime vôlta del Cielo fino al brulichìo dell'esile verme, dai fecondi e scienti conati della ragione fino all'umile fiorellino ignaro di sè (inconscio delle meraviglie che in sè raccoglie); ovunque ode cantare le sue lodi, narrare i portenti della sua benefica e paterna munificenza; ed i riti diversi delle genti, e le più o men logiche cerimonie, con che l'uomo esprime il bisogno del culto, considera siccome sfoghi di natura vuoti affatto di senso se difettosi di sentimento, sempre forme e vesti, corpi e sostanza non mai. E veramente quel giorno preconizzato dal Cristo è giunto, e quelle sue parole, allora incomprese, sono nel nostro secolo un aperto programma. Lo ridestarsi dei popoli oppressi, la caduta imminente d'ogni tirannide, l'affermazione di tutti i diritti, lo sollevarsi delle caste, la coscienza dei doveri, il progresso dell'umanitarismo, la emancipazione delle intelligenze, l'amplesso fraterno che lega gli uomini d'ogni regione, la nausea del gratuito, il culto profondo del vero, questi dogmi del nostro secolo hanno staccato l'uomo dalle illusorie e speciose dottrine, dal culto della forza e dell'autorità, dai vieti pregiudizii di caste, di nazionalità, di confessioni e lo portano potentemente e fatalmente al vero, all'equo, al morale, alla sintesi del divino concetto creativo, al culto in ispirito e verità. Ed ecco il programma che deve la donna capire ed abbracciare e a non inceppare il comune lavoro, a non disconoscere il concetto della Provvidenza, a discostare egualmente e l'ipocrisia ed il pregiudizio, che, emanati da diverse fonti, si accordano in questo; nel preferire la forma all'ente, la corteccia al midollo. «Non è egli il cibo men che la vita, ed il corpo da più che il vestimento?» (S. MATTEO) Nè chiamando la donna ad associarsi nell'adesione a cotali concetti, intesi chiamarvela per solo entusiasmo dei tempi e perchè a lei si compete eziandio l'assidersi con tutta l'umanità al desco fraterno che la religione del Cristo apparecchiava a dirigere i voti inconsci, e le aspirazioni indefinite e tormentose della umana filosofia. Mai no. Mi rivolsi alla donna perchè, più dell'uomo inchinevole a religione, più data a pietà, recandosi seco pregiudizio di pessima educazione la forzata cecità della mente, fu e sarà sempre lo elemento nel quale l'errore religioso sposato agli interessi di casta troverà il suo naturale veicolo. Mentre la donna ogni studio rivolge a dominare ogni più onesto impulso di natura riguardando le passioni siccome nemici, anziché siccome costituenti la potenza dell'essere morale; mentre s'affanna a comprimere la innata sensibilità per sostituirvi quel glaciale indifferentismo gesuitico che vince in ispudore le ciniche utopie; mentre gl'interessi della patria, i reclami della civiltà, l'amore del consorte, e la tenerezza dei figli pospone con eroica abnegazione che il cuore le insanguina e l'anima le strazia e tutto sacrifica ed immola sull'ara di quella spietata divinità, che s'imbriaca di sangue e delle carni abbrustolite degli uomini fa al sozzo ventre delizioso orrendo pasto; la donna al certo, nella cecità della sua mente, nello entusiasmo della sua fede, crede che Dio esiga da lei tuttociò; pensando forse aver egli tutte cose create e ab eterno assoggettate con leggi fatali ad un ordine prestabilito per poi darsi il crudo e scipito piacere di obbligarle tutte a camminare a ritroso di quello impulso ch'egli stesso loro imprimeva. Ed ecco perciò miserevole e frequente spettacolo vedere la donna vittima di quell'infernale sistema ed insieme suo appoggio ed istrumento, consigliare e procurare nella prole la stessa sua cecità, distogliere il consorte, e il fratello, e l'amante dalla lotta generosa contro un principio, che il solo trasnaturamento della ragione e del sentimento le fanno riguardar siccome santo, e che tanto più deve incitare alla vendetta ogni spirito generoso, in quanto che vile lavora nelle tenebre d'un morale segreto, forte del sonno dello intelletto, che sopraffà, e del morale sentimento che narcotizza, simile a Dalila, che sorrider dovea seco stessa satanicamente ad ogni ciocca di capelli, che le vili forbici sottraevano alla testa di Sansone dormente. La donna così evirata di mente, dimentica tutta l'umanità per non vedere che sè e Dio; il Dio del dispotismo, il Dio, che canna labile dal capriccio d'ogni zeffiro agitata, appoggiando per sistema e per natura ogni autorità costituita, china il supremo suo scettro a salutare ogni sole che nasce, postergandosi continuamente il dì che tramonta; il Dio che impotente davanti allo avvicendarsi delle sconfitte e dei trionfi dei popoli e dei sistemi, viene ad arcano parlamento con tutte le sovranità che si contrastano il bel paese, oggi Franca, ieri Teutona, ed Ispana domani, e poi successivamente Greca, Turca e Cosacca, e dei suoi lumi divini li irradia, siccome le serve faci sfilano sui profanati lari le vinte popolazioni; il Dio che spolvera i fulmini del Vaticano e controfirma le sentenze di morte ai sovrani per la grazia di Dio; il Dio che scerne i Paria dalle nobili caste; sdegna gli Iloti e predilige i forti e li avventurati; il Dio che dei mali dell'uomo s'allieta, e suprema virtù ne esige di una inerte rassegnazione, nè la lotta generosa gli permette contro un male che può vincersi. Questi è il Dio formidabile e capriccioso che gli uomini hanno escogitato tutto simile a loro: troppo simile, perchè una ragione vergine da errori preconcetti possa accettarlo seriamente. Meno l'uomo è civilizzato e più il terrore agisce sulle sue fibre, e più presta egli spontaneo e profondo il suo culto alla forza, si manifesti pur essa colle forme dell'arbitrio, dell'ingiustizia e della crudeltà. Forzato egli dalla ragione ad attribuire a Dio una potenza assoluta, giudicandolo da sè non credette potesse Egli non abusarne, donde filtrò nell'anima sua lo indicibile terrore di trovarsi inerme nelle mani di un Onnipotente, giuoco de' suoi capricci da niuna legge determinati. Servi d'un Dio crudele e terribile, gli uomini si fanno a loro volta feroci e sanguinarii. A placare la sdegnata deità Omerica, ecco sotto la scure la vergine Polissena; le torve divinità di Cartagine trovano voluttuoso orrendo pasto nelle morbide carni degli arsi bambini; l'ebreo popolo a niuno perdona per onorar Dio, che punisce fin la pietà; il religioso terrorismo dell'Evo Medio accende i roghi in tutta la cristianità, il moderno consacra l'oppressione e vieta agli uomini di togliersi ai mali che li premono. Questo funesto errore contaminò tutti i popoli e tutte le religioni, talché non puossi meglio questo culto che quello accagionarne; tutti ne furono infetti, perchè nel tristo animo umano si giace ingenito il selvatico istinto della tirannia. Gli è perciò che, coll'animo perfettamente sgombro da passioni e da ire contro caste, o sette, o sistemi, ferma sempre ai principii, parlando alla donna d'ogni culto le dico; alza, se ti è possibile, la tua ragione verso Dio, e non voler chinare Iddio fino a te; sforzati di ormeggiare la sua bontà, e non trascinare lui ad appoggiar le tue ire od i tuoi amori; ricordati ch'Egli, padre di tutti i viventi, se può scegliere fra il giusto e lo ingiusto, non ha che una misura ed un peso pel grande e pel piccolo — Tutto quaggiù è mutabile per lo impulso, che Dio stesso imprimeva alla umana ragione. Chiamandola a progredire, egli le comandava il moto e le rivoluzioni; cammini l'uomo al meglio, e non tema; Dio è con lui, e le leggi scritte dal suo dito sono fatali. Cadono e sorgono popoli ed imperi, fra loro contrastano i principi e le genti, leggi e sistemi veggono la luce a tempo loro, regnano e muoiono; grandi unità, unità colossali attraversano qua e colà l'orizzonte della storia, segnandovi come luminose meteore una striscia di luce, e frattanto Iddio vede dall'alto svolgersi il dramma umano, conta i dolori e le gioie, compatisce agli errori, ed il suo sole sui buoni fa risplendere e sui malvagi, la terra tutta del suo fervido raggio rallegra, e tutti i viventi paternamente riscalda. Imitiamolo, anziché imporre leggi alla sua giustizia, segnar confini alla sua bontà e farci appo i nostri simili feroci zelatori di interessi che gli supponiamo, od interpreti di passioni che son tutte nostre. L'amore unisce ed armonizza, il terrore divide ed uccide; la bontà compra, seduce, trascina; lo esclusivismo discosta, irrita, reagisce; la religione può far gli uomini nemici e può farli fratelli; tocca alla nostra ragione ed al nostro cuore giudicare quale Iddio voglia di questi due risultati, e quale dei due l'umanità conduca al benessere ed alla perfettibilità. LA DONNA E LA FAMIGLIA Sendo questa mia fatica diretta all'utile insegnamento della femminil gioventù, non sarà affatto inutile, cred'io, uno sguardo retrospettivo onde disquisire, donde ci venga la famiglia, che cosa sia, in qual modo s'è formata, qual parte vi tocchi alla donna di diritti e di doveri, poiché la famiglia, siccome tutte l'altre istituzioni, si modificò, seguendo le fasi descritte dalla civiltà e dall'intelligenza umana. Laonde sarete già convinte, lettrici mie gentili, ch'io non intendo farvi una poetica apologia della famiglia, ma una semplice argomentazione sui rapporti ch'ella crea, seguendo l'ordine naturale delle cose, nel quale il sentimento scaturisce dal vedere e dal comprendere. E un tal sistema sembrami tanto più utile in quanto che tutti coloro, che della donna scrissero, tutti ripeterono in coro e fino alla nausea, che la donna sente più che non pensi, asserzione che, per vero dire, mi è sempre sembrata un terribile assurdo, non potendosi in buona logica nè amare, nè temere, nè riverire, nè odiare cosa, della quale non si apprezzino i pregi, o non si vedano i pericoli, non si riconosca la superiorità, o non si stimino i difetti; per cui il sentire è per lo appunto l'effetto necessario del vedere e del comprendere. Oltre allo avere influito sulla famiglia il carattere dei tempi e delle nazioni, si occuparono di lei, e ne moderarono lo sorti, le leggi e la teologia, la timidezza ed i pregiudizii nella donna, il troppo facile abuso della forza e l'arbitrio nell'uomo, la barbarie, gl'interessi e le passioni. Grazie alla filosofia, la mente, nella sua piena emancipazione, può oggi collocarsi ad un alto punto di veduta e portar libero ed imparziale giudizio sul lavoro di tanti secoli. È passato il tempo nel quale non la ragione, ma un'autorità qualunque diceva all'uomo, maschio o femmina, giovine o vecchio, principe o plebeo, è così perchè te lo dico io; e, dacché io te lo dico, non è, e non può essere altrimenti. La Verità predicata oggidì, sotto forma d'oracolo fa poca breccia; ed anzichè muoverne querela cogli uomini; coi tempi e coi costumi, come avviene a certi spiriti, non puri per avventura da segrete movenze d'interessi (i quali vorrebbero fosse l'umano spirito di più facile accontentatura) parmi meglio d'assai congratularsene coll'umanità negli interessi della Verità, che non mai tanto fulgida emerge quanto dalla libera discussione, non altrimenti che dallo atrito si sviluppa fosforica la scintilla. Divise sono le opinioni, se la famiglia dalla natura ci venga e sia originaria creazione di Dio, o se siasi svolta dalle umane istituzioni. I primi uomini doveano propagarsi per tutta la faccia della terra, epperò doveano scindersi continuamente le famiglie; laonde non altre donne s'aveano che le prime che incontravano, costume, che oggidì conservasi ancora presso diverse selvaggie tribù; e questo fatto appoggia la seconda di quelle opinioni. Comunque sia la origine di questo fatto, che ha ora innegabilmente ricevuto la sanzione dei secoli, certo è ch'egli presenta alla filosofia ed alla legislazione un quesito di grave importanza, sendo essa la culla delle umane generazioni, il teatro delle prime impressioni, la scuola ove ogni uomo s'inizia ai misteri della vita. La famiglia è la umana società, ridotta ai minimi termini, è la formola che la rappresenta completamente in tutti i suoi elementi. Non è che sotto questa formola che voi potete definire la famiglia di tutti i luoghi e di tutti i tempi. La questione più importante, il problema morale e sociale, è che cosa debba essere la famiglia, ed allora scaturiranno, come da ricca sorgente, diritti e doveri, affetti ed aspirazioni, gioie e sacrificii, ed apparirà colla sua serena e simpatica aureola quel quadro, innanzi al quale niun cuore indifferente, niun ciglio imperterrito, niuna mente arida d'idee, niuna memoria orba di soavissime reminiscenze. Ma sgraziatamente ovunque si porti lo sguardo, o sulla famiglia dei tempi andati o su quella dei presenti, ci è d'uopo confessare, che quelle gioie, quegli affetti non sono che accidentali, e ben sovente la famiglia in luogo d'essere il santuario degli affetti, è una cerchia di ferro nella quale si combatte la lotta dell'oppresso e dell'opressore; ove si svolge il tristissimo dramma della debolezza e dell'arbitrio, dello slancio e della compressione, del sentimento e della indifferenza. Ridotta a tale, la famiglia non è più che un'ironica ipocrisia. L'umanità non ha per anco generalmente ben compreso l'immenso vantaggio che le deriverebbe dal ricostituire la famiglia, che neppur oggi si può veramente dire tale, non essendo per anco affermate tutte le personalità che la compongono, e non potendo queste svilupparsi colla autonomia che natura loro concedeva, dovendo esse tutte pendere dall'arbitrio di un solo. Famiglia vera non può essere quella, nella quale havvi servo e padrone, tirannia e schiavitù. Non sono questi i rapporti di famiglia! Essi non sono finora riconosciuti ed applicati in niuna parte del mondo, ed anche nelle più colte e gentili regioni della civilissima Europa, certo non potrà dirsi abbia dessa raggiunto il suo ideale. Fino a quando i diritti ed i doveri saranno dai codici distribuiti con più o meno esorbitanti sproporzioni, fino a quando durerà nella famiglia la forma monarchica, essa altro non sarà che una pura e semplice frazione della società, nella quale il sentimento non è che accidentale, ed assai compromesso da un dispotismo senza controllo, e da una dipendenza scoraggiata dal non sentirsi tutelata. Il matrimonio, chiamato a legalizzare l'opera dell'amore ed a porre le basi della famiglia, dovea proteggere e propugnare gl'interessi dell'umanità bambina contro la mobilità degli affetti, la foga delle passioni, le seduzioni degli interessi; e tale sembra dovesse essere in tutti i tempi. In quella vece, è forza dirlo, non fu questo che uno sforzo di ragione e di civiltà. L'amor paterno non bastò sempre fra gli uomini a garantire neppur l'esistenza ad un neonato. Romolo dovette con leggi obbligare i Romani ad allevare i figli maschi e le primogenite fra le figlie fino ai tre anni, confidando nello sviluppo dell'affetto paterno, che sorgesse per quell'epoca a tutelare quelle vite innocenti. Questa legge, tuttochè ben poco protettrice, non si estendeva fino ai figli mostruosi e mal conformati, che il padre, preso l'avviso di cinque suoi vicini, poteva sacrificare. Le leggi Romane permettevano altresì al padre di vendere pubblicamente i figli già adulti, tuttochè quel fiero popolo stimasse la schiavitù peggior della morte. In Grecia fino ai tempi della massima sua civiltà, il neonato si poneva ai piedi del padre, e se questi noi rialzava o torceva la testa, la debole creatura era condannata a perire. Le leggi di Licurgo condannavano a morte tutti i neonati deformi. I Cartaginesi sacrificavano i loro bambini gittandoli in ardenti fornaci agli dei infernali, e riguardavasi questo atto snaturato, siccome atto sommamente pio. Per giudicare dei costumi ebraici riguardo alla prole, basta il leggere nel libro dei Giudici. In esso troviamo che Jefte, partendo pel campo, offrì in voto a Dio la persona che prima avrebbe incontrato ritornando dalla pugna. La figlia sua, al grido della vittoria d'Israele, uscì incontro al padre per festeggiarlo, Jefte sciolse il voto e la immolò. Nella China sono i missionarii, e delle donne pietose, che percorrono le campagne e le rive dei fiumi a salvare e raccogliere i bambini, che genitori snaturati abbandonano per sbarazzarsene. I Musulmani, tutti non avendo che concubine, non generano che servi e come si trattino ognun lo sa. Al giorno d'oggi ancora, presso quasi tutte le nazioni barbare, la vita del neonato non è appoggiata che ai naturali sentimenti, che per lo più mancano affatto. Negli Stati Unionisti d'America, al sud, mentre la legislazione, che riguarda i bianchi, rivela l'opera di sublimi intelligenze informate ad umanitarie dottrine, e sollecita si mostra di svolgere e maturare i fecondi portati della libertà, quella, che riguarda la razza nera, non riconosce di punto in bianco neppur la famiglia. Fra la lunga serie dei patimenti inflitti, con qual giustizia lo sa Dio, a quella razza, che per la rivoltante oppressione in cui geme è la macchia incancellabile di quegli Stati e di quei legislatori, la quotidiana separazione delle famiglie è certo uno di quelli che più sollevano ogni cuor sensibile, ogni spirito non isprovisto della naturale equità. I figli non appartengono ai genitori oltre l'esclusivo arbitrio del padrone della madre, di cui sono l'assoluta proprietà in forza del noto assioma legale _partus sequitur ventrem_. Se l'inerme bambino fu così trattato, e lo è tuttavia, nè giungono a fargli schermo le innocenti grazie dell'infanzia, che ammorbidir dovrebbero i petti più feroci; l'enorme abuso della forza non appare meno odioso e rivoltante nel modo con cui si trattò la donna che per la fragilità della sua fibra e la timidezza dell'animo doveva naturalmente esservi esposta. Abbastanza debole per potersi opprimere, abbastanza forte per imporle le più improbe fatiche e la più penosa servitù, vivendo con un essere rotto alle più brutali passioni, quale l'uomo della natura, egli non poteva trovare una creatura più facilmente tiranneggiabile, nè le passioni sue soddisfare se non togliendole ogni autonomia, ogni luce d'intelligenza, ogni nozione del naturale diritto; e sposando alla forza del muscolo l'orgoglio della mente, agglomerò sul capo della sua compagna ogni vitupero, intrecciando sul suo gli allori; caricò sulle spalle della donna la fatica e si tuffò negli ozii, impose a lei tutti i doveri serbando a sè tutti i diritti. Il matrimonio, anche ridotto ad istituzione religiosa, consacrò nelle sue formole la violenza e lo invilimento della donna. Quando la sposa non era rapita a forza come una preda od un bottino, il cui legittimo possesso non era più contestabile, era mercanteggiata e pagata come un oggetto qualunque. L'ultima cerimonia componente il complicato rito nuziale presso i Romani era una finta violenza; presso i Camiti (nell'Africa) il rapimento convenuto, ed il pagamento stipulato, è una formola sacramentale. La formola del rapimento trovasi anche presso gli Americani. Nell'Araucania il padre, che ha accordata sua figlia in isposa, la spedisce con un incarico qualunque, indicandole un cammino. Il marito, posto in agguato co' suoi amici, la rapisce e la porta nella sua capanna. Nelle vecchie Indie la donna non mangia mai col marito. Nella giovine Oceania, a Noukahiva, alle Isole Washingthon, ecc, non solo non mangiano le spose mai coi mariti, ma sono loro vietate per sovrappiù molte vivande all'uomo solo permesse. Nella Nubia è crudelmente punita se osa toccare la tazza o la pipa del marito. In tutto il regno di Loango, durante il pranzo del marito, la donna si tiene in piedi in disparte e non gli dirige la parola che genuflessa. In tutta la Nigrizia le cure dell'allattamento, l'apparecchio degli alimenti e dei liquori, le cure del focolare, la conservazione delle vesti, non sono tenuti per nulla. Ella deve ancora coltivare il tabacco, estrarre l'olio dalle palme, macinare il miglio, fornir la casa d'acqua e di legna, eppoi, come null'altro avesse a fare, mentre il marito dorme deve guardarlo dalle mosche. Durante le lunghe marcie, ogni peso, ogni imbarazzo le tocca di pien diritto. I Gallas lasciano le loro donne fendere penosamente la terra, lavorare, seminare, mietere, battere e raccogliere il grano. Lo stesso lavoro è rigorosamente imposto alla donna nel Congo, nella Guinea, nella Senegambia, nel Benin, nel Bournou, nel Mataman, nella Caffreria. Quel motto, _Ce n'est rien — c'est une femme qui se noie_, è praticato dagli indiani con una bonomia men fina, ma più vera di quella di Giovanni Lafontaine. Nelle improvvise innondazioni del Nilo, essi si occupano dapprima dei loro armenti, poi dei bambini, quindi dei vecchi, e finalmente, e dopo tutto, si ricordano delle donne. Agli Stati Uniti, all'epoca in cui gli inviati dei popoli che comprano ogni anno coi presenti la lor libertà, fanno ritorno ai nomadi penati, una folla di piroscafi risalgono il fiume maestoso. Gli uomini fumano pacificamente nel fondo delli schifi la loro pipa, e le donne, oppresse dalla fatica, tirano le barche colle corde; e nelle ore di sosta, stendono le reti e gli altri utensili da pesca, tagliano legna, prendono cura dei bambini, e preparono il pranzo agli oziosi mariti e li servono in tutto[9]. Attraverso le vergini foreste gemono dolori secolari. I dolori della donna vi si moltiplicano più che le sue gravidanze, più che i peli delle sue palpebre sì sovente bagnati di lagrime. — Presso i Mohawkse, e generalmente nelle tribù dei cacciatori, la donna deve cercare e portare come un cane la caccia fatta dal marito, che crederebbe offendere la sua dignità caricandola sulle proprie spalle. Sia questa un capriolo, un orso, un cinghiale, la donna, coll'aiuto delle sue vicine soccombenti sotto il peso, lo trascina dalla foresta alla casa, dove riposa pacifico il padrone. Il disprezzo per la donna è tale che l'atto di emancipazione del figlio si constata sul volto o sul dorso della madre. Il giorno in cui conta il suo quindicesimo anno, deve insultarla e batterla. Presso altre nazioni la donna può essere cambiata, venduta, permutata a piacere del marito, anche uccisa e mangiata s'egli crede farne un buon piatto[10]. Eccettuata qualche tribù, in cui i Sakemi (_Sagamos_) aprono i loro consigli alle matrone, l'oppressione della donna è consacrata da vecchi costumi. Presso altre tribù, alla nascita d'un bambino, il marito si corica come colpito da grande sventura. Il neonato e l'intiera casa sono sottomessi ad una gran purificazione. Altrove, ai primi sintomi di fecondità, la donna è condotta con lugubre cerimoniale al mare, e durante il tragitto piovono sopra di lei l'arena ed il fango, immondizie ed imprecazioni. E cotali costumi con poche varianti sono comuni alle due Americhe[11]. La licenza dei costumi, e la libidine di dominio, consacrano e mantengono attraverso ai secoli l'oppressione della donna; ed il nostro secolo istesso è testimonio degli sforzi ripetuti e talora infruttuosi, coi quali la invadente civilizzazione tenta assottigliare quello scettro di cui l'uomo abusò tanto. E che l'uomo più vicino alla natura sia il più dissoluto ed il più tiranno, e che la schiavitù della donna sia voluta dalle sue brutte passioni, tutta la storia dell'umanità lo prova, dal selvaggio, che insegue la donna fuggitiva nei boschi e poi l'abbandona feconda, fino all'orientale poligamia; dalla giovine donna dei Pampas (alla quale chiedete chi sia il padre del bel bambino al quale dà il materno alimento, e tutta ingenua vi risponde Chi può saperlo?) fino alle migliaia di eunuchi che garantiscono le inserragliate dame d'Oriente alla gelosia del Musulmano. La Tracia, la Babilonia, la Fenicia, l'Armenia ritennero la donna come cosa fiscale, epperò fu soggetta al servizio della prostituzione pubblica prima d'esser venduta all'incanto ad un padrone che dovea tenerle luogo di marito, a cui competeasi altresì il diritto iniquissimo di rivenderla o di disfarsene colla morte. E questo sprezzo rendea le Babilonesi refrattarie al nodo coniugale, fino a credere insopportabile la fedeltà in amore, ed a dichiararla contraria alle leggi della natura. Gli Ebrei, quando erano sazii della moglie, le facevano bere l'acqua della gelosia, consistente in una specie di ranno benedetto dal sacerdote, da cui l'infelice rimanea gonfia e morta in un attimo. Era poi per quei mariti motivo a ripudiarla l'aver cotta un po' soverchio la carne. In Lidia, la donna non avea chè pretendere dal genitore, ed era dannata a fornirsi la dote nel postribolo. Nell'Asia, e specialmente nell'Indous, considerata al disotto d'un mobile dacché nasce, anche oggidì si adusa alle catene, costringendone i teneri piedi in calzari di ferro, onde inabilitarla alla comune assuetudine di fuggir la tirannide maritale. A tal uopo la notte la tengono incatenata siccome belva feroce presso la casa. Quando invecchiasse durante il matrimonio, il marito la strangola. Quando il marito muore prima di lei, dev'essere immolata sul suo sepolcro, anche dalla mano del proprio genitore, ed in taluni luoghi sepolta viva. Presso i Parti era diritto dell'uomo vendere o disfarsi con la morte della moglie; e questo diritto, era comune al figlio contro le proprie sorelle. In Egitto, i maschi non assumevano nessun incarico per l'alimento dei genitori, di cui erano gli eredi, e questo peso dovea gravare le diseredate donne, il cui adempimento avveniva col mercimonio dissolutore del loro infelice personale. Gli Arabi potevano uccidere le donne soverchie che nascevano in famiglia. I Germanesi e gli antichi Galli, le dichiaravano schiave dell'uomo; laonde alla morte di lui le uccidevano sul suo sepolcro per andarlo a servire all'altro mondo, come lo aveano servito vivente con improbe fatiche. Questo è vivo uso degli Arabi i quali, nell'inerzia delle loro tende, confidano tutto il lavoro alla schiena della povera donna. Con cinque colonnati, il padre nel deserto vende la sua figlia a colui che la compera, non per avere uno spirito degno della sua affezione, ma per tenersi una macchina confacente a suoi materiali interessi. La Grecia e Roma, trasportando nella famiglia la dissolutezza filosofica, credevano onorar Venere e le altre lascive deità pagane colla prostituzione della donna, la quale, comperata come schiava, dopo aver concepito figliuoli, poteva essere cacciata ed uccisa impunemente. In Inghilterra la donna, con una corda al collo, poteva dal marito esser condotta al mercato per vendersi. Presso talune nazioni del Nord, le mogli sono schiave del marito; appena, colà, la donna mette il piè nei 40 anni, cessa di essere la madre di famiglia ed è sostituita da una moglie giovine. In ogni paese del mondo infine, dominato da qualunque legge, comunque la donna sembri apparentemente rispettata, pure quel rispetto non è che nominale; la ignoranza le fa spesso subire le crudeli pressioni dei deboli e la impotenza al vero bene cui è missionata. Difatto presso i popoli che si reputano più civili, perchè influenzati dal cristianesimo, benché veggasi appaiata all'uomo e non si torturi colle neronerie antiche, come appo i pagani; pure, se si mira la incapacità legale che si attribuisce alla donna, la nissuna comunione al pensiero civile per cui non ha attinenze coi pubblici affari del proprio paese, la privazione del sapere giudicata necessaria dai preti corrotti per mantenerla cieca in un'ipocrita castità; se si mira l'imperio maritale che, senza porvi nulla, le toglie anche il conforto di perpetuare il proprio nome nei figliuoli, esclusivo frutto delle sue viscere, e le usurpa il privilegio che la donna madre ha sulla propria fattura, conservato anche dai Romani alla femmina delle bestie coll'assioma sopracitato _partus sequitur ventrem_! e con la forza brutale le impedisce la libera esplicazione del pensiero dicendo proverbialmente, che le parole della donna sono il simbolo della innettezza e non meritano ascolto[12]; se si mira dico a questa incapacità fittizia, a queste opinioni vituperevoli, che pesano sulla donna; ai mille riguardi, vuoti di senso, ma pur penosissimi ai quali è sottoposta da costumi ancor semi-barbari; all'arbitrio del marito, dal quale deve sempre pendere, mentre questi non crede dover darsi alcuna briga di modificare sè od i suoi atti per gradirle menomamente; alla reclusione lunga, ed alla perpetua tutela alla quale è soggetta, così nella vita civile come nella famigliare, se si mira, ripeto, a tuttociò, siamo costretti a confessare che pur troppo l'orgoglio virile, e la forza muscolare, sono ancora in onore presso gli uomini, e la sacra dottrina del diritto non è da essi apprezzata se non in quanto favorisce agli esclusivi loro interessi. Eppure dovrebbe la Società persuadersi che la donna (questa creatura così intelligente, questo essere così sensibile, questo ultimo _fiat_ della potenza creatrice, questa opera divina, che riassumendo in sè stessa inesauribili tesori di sentimento e d'affetto, ci si appalesa nel sacro carattere materno la più vera immagine di Dio) non potrà disvelare all'uomo tutti i reconditi pregi di che provvidenza l'ebbe fornita, fino a che, abbrutita dalla materiale oppressione, scoraggiata dal morale disprezzo, ignota a sè stessa, priva d'ogni autonomia, giacerà siccome prezioso arnese di cui l'inesperto fanciullo ignori l'uso, e si balocchi fra le mani, e pesti, e trascini, e frantumi siccome cencio da strapazzo. La donna abbandonata per diffetto di estimazione, per assenza completa d'educazione, per incuria di costume ai suoi soli istinti, dà già per vero alla famiglia tutta sè stessa, nulla da lei ricevendo, fuorchè cure, legami ed umiliazioni; ed in questo stato di cose quale spirito equo e generoso oserebbe alzare inumanamente la voce sui difetti inseparabili dalla umana creatura non solo, ma altresì voluti necessariamente dall'assenza di luce educatrice? Oh datele dunque la coscienza di sè, si illumini sul principio da cui parte, sul fine a cui cammina si affermi la sua personalità, si sviluppi la sua morale autonomia, le si ridoni la stima a cui Dio adornandola di tanti pregi le diede diritto; ed allora come l'umanità l'avrà valida alleata nella via del progresso, lo individuo la troverà soavissima compagna nella burrascosa mortale peregrinazione; e la vivace e colta fantasia, e lo spirito gentile ed educato, e l'anima ove s'annida innato ogni soave e pietoso affetto, lo faranno lieto di quell'_aiuto convenevole_ che Dio intese dargli quando la plasmava. Non ha ella già sofferto abbastanza in sessanta secoli d'oppressione questa protomartire dell'umanità? E non è egli tempo che i legislatori si vergognino di avere adunato sulle fronti delle loro madri tanto vitupero, quanto ne agglomerarono colle loro brutali legislazioni? Non è egli tempo che gli uomini ricambiino, con un po' di riverenza e d'affetto, la tenerezza e le cure delle madri loro? La donna, stringendo al petto l'uomo bambino, e nutrendolo dello stillato del suo cervello, dovrà sempre allevarsi con tanto amore un nemico, un tiranno? L'uomo sarà egli sempre il supremo arbitrato della famiglia, chiudendo così a forza intorno a lui gli affetti della donna che nulla di meglio cercano, che di espandersi a tutto circondarlo della tepida atmosfera della benevolenza, e dello spontaneo e lieto sacrificio? «V'è un angelo nella famiglia, scrive Giuseppe Mazzini, che rende con una misteriosa influenza di grazie, di dolcezza e d'amore il compimento dei doveri meno amari. Le sole gioie pure e non miste, che sia dato all'uomo di goder sulla terra sono mercè quell'angiolo, le gioie della famiglia. Chi non ha potuto, per fatalità di circostanze, vivere sotto l'ali dell'angiolo la vita serena della famiglia, ha un'ombra di mestizia stesa sull'anima, un vuoto che nulla riempie nel cuore; ed io, che scrivo per voi queste pagine, io lo so. Benedite Iddio, che creava quell'angiolo, o voi, che avete le gioie e le consolazioni della famiglia! Non lo tenete in poco conto perchè vi sembri di poter trovare altrove gioie più fervide, e consolazioni più rapide ai vostri dolori. La famiglia ha in sè un elemento di bene raro a trovarsi altrove, la durata. Gli affetti in essa si estendono intorno lenti, innavvertiti, ma tenaci e durevoli siccome l'ellera intorno alla pianta; vi seguono d'ora in ora, si immedesimano taciti colla vostra vita. Voi spesso non li discernete, perchè fanno parte di voi, ma quando li perdete, sentite come un non so che di intimo, di necessario al vivere vi mancasse. Voi errate irrequieti e a disagio: potete ancora procacciarvi brevi gioie e conforti, non il conforto supremo, la calma, la calma dell'onda del lago, la calma del sonno della fiducia, che il bambino dorme sul seno materno. «L'angiolo della famiglia è la donna madre, sposa, sorella! La donna è la carezza della vita, la soavità dell'affetto diffusa sulle sue fatiche, un riflesso sull'individuo della provvidenza amorevole che veglia sull'umanità. Sono in essa tesori di dolcezza consolatrice, che bastano ad ammorzare qualunque dolore. Ed essa è per ciascun di noi la iniziatrice dell'avvenire». In questi concetti scaturiti da una gran mente e da un gran cuore, voi leggete che cosa esser debba la donna nella famiglia secondo il divino concetto; ma tale non potrà essere veramente che quando ella sarà estimata e coltivata: se non quando l'educazione e la stima le avranno data la coscienza di ciò che da lei esige la natura, che l'ha con tanto studio elaborata. Ella non sarà l'angelo della famiglia e dell'umanità se non quando e l'umanità e l'individuo la vorranno aver tale, sacrificando all'interesse di tutte le generazioni la vanità del dispotismo brutale, dello antifilosofico esclusivismo. In quel giorno l'uomo sarà completamente civilizzato in cui, riconoscendo l'autonomia della donna, porrà generoso un volontario confine alle facili esorbitanze della forza; in quel giorno la donna sarà tesoro alla famiglia, quando in soccorso delli istinti pietosi, accorrerà la forza dei principii, scaturiti da una illuminata educazione. In quel giorno l'uomo sarà completamente civilizzato in cui, sancendo l'ultima libertà della donna, porrà volontario freno alle sue passioni: in quel giorno egli meriterà l'amore della donna quando avrà finito di esigerlo come una gabella; in quel giorno egli coprirà d'infamia la donna infedele quando a sè stesso imporrà, per la stessa colpa, le conseguenze istesse. Fino a quel giorno il marito, la cui moglie é infedele, sarà ridicolo. Tutto il fin qui detto che potrebbe per avventura sembrare alle mie giovani lettrici una inutile digressione, a me non sembrò tale, volendo io, se mi è possibile, levare dallo spirito vostro il pregiudizio, così facile ad un giovine criterio, che tutte le vigenti istituzioni siano buone; la qual persuasione, meschini noi se tutta l'umanità dividesse, chè la vedressimo in allora arrestare la precipitosa sua corsa in uno dei punti i più intricati del suo morale cammino. Giova non solo, ma è necessario che tutti sappiamo ciò, che si fece, che si fa e che resta a farsi, onde dal passato prender norma nel preparare il futuro, nell'altrui interesse non solo, ma nel vostro altresì. La donna è, nella società e nella famiglia, tanto più utile quanto più è affermata la sua morale autonomia, quanto più le è concesso d'individualismo, quanto più è colta di spirito: e tanto più inchinevole agli affetti, quanto meno l'atmosfera che respira è agghiacciata dalle fredde esalazioni dei diritti e dei doveri legali. Ora, in tutta la serie da noi citata dei costumi più o meno selvaggi, certo noi non abbiamo riscontrata la famiglia, co' suoi affetti, co' suoi legami più dal sentimento voluti, che non esatti dalla forza delle leggi. Tutti i costumi da noi fin qui percorsi, non ci parlano che della patria e della marital potestà, d'una monarchia insomma, nella quale i doveri dei sudditi si riducono a sforzarsi di piacere al despota, e i diritti di questo a volgere al miglior utile proprio le persone, che da lui dipendono, e l'opera loro. Certo i costumi dei popoli d'occidente sono ben lungi da quelle esorbitanze, che troviamo presso le selvagge nazioni ed in tutta l'antichità, ma sono egualmente ben lungi dallo effettuare fra l'uomo e la donna quella eguaglianza di diritti, che sola può dare ai loro rapporti quella soavità di relazione, che stabilisce la mutua confidenza e la reciproca fiducia. Nè si dica che la perfetta eguaglianza di diritti e di doveri, fra l'uomo e la donna, introdurrebbe il disordine, l'incoerenza e l'anarchia fra le domestiche pareti. Viete scuse son queste che poca riflessione sulla natura delle cose non permette di porre seriamente innanzi. Se al governo della famiglia preponeste due elementi perfettamente simili, la rivalità e la discordia ne sarebbero l'effetto immediato, ma la natura ha già provvisto innanzi che noi la temessimo a cotale sconvenienza. Non tenuto conto di più o meno numerose eccezioni, le quali in ogni modo si fanno strada, ad onta d'ogni forza compressiva, l'uomo e la donna sono fra loro costantemente dissimili benché attraentisi. Sebbene l'uno e l'altra constino di eguali facoltà e delle stesse passioni, è però un fatto che le diverse proporzioni, colle quali e queste e quelle si trovano nell'uno e nell'altro, costituiscono di ciascun d'essi un tutto complessivo da non poter confondersi o tôrsi in abbaglio. Abbiano pure le leggi emancipata la donna, la sua voce delicata non sembrerà mai fatta per garrire; le sue lunghe palpebre la difenderanno sempre dallo sguardo procace; lo improvviso rossor della guancia rivelerà sempre la verecondia dell'animo; le sue membra delicate le predicheranno sempre l'odio alla lotta, ed il suo cuore scialaquatore d'affetti, sarà pur sempre quella stoffa, della quale natura ebbe tessuto lo eroismo dell'amore e la tenerezza materna. Allora sarà la famiglia, quando ogni individuo di essa svolgerà nel suo interno, siccome pianta nel proprio clima la propria vita morale, il proprio individualismo trovandosi di fronte a modificarne gli svolgimenti, non il diritto, non l'interesse, non la volontà d'un monarca, ma la ragione sola e l'affetto. Allora sarà la famiglia, quando l'uomo e la donna amendue forti della coscienza di sè, dei destini dell'umanità e dei doveri dell'individuo, ambi concorreranno colla più lata applicazione delle loro facoltà all'educazione dei loro nati, rispettando in essi la vegnente generazione, ed ogni via procurando ad ottenerne il più pronto morale sviluppo. Allora sarà la famiglia, quando, sparite dall'un canto le intolleranti insubbordinazioni, dall'altro le sistemate compressioni, non sia il giovine elemento in perpetua lotta col vecchio insofferente di consiglio e di freno, e quello a sua volta tenacemente despota e tiranno, immemore del tempo in cui lo tormentavano la stessa foga e le passioni istesse; talché veggonsi non di rado famiglie, che altro non sono, siccome dicevamo dapprincipio, che semplici frazioni del corpo sociale, presentare nelle loro viscere le crisi che sotto le monarchie presentano le nazioni, che, dopo secoli d'intestino travaglio, si distruggono e si esauriscono finalmente in una funesta anarchia. Ma dicevamo fin dal principio di questo lavoro, e lo prova tutta la storia, che essendo le leggi le necessarie scaturigini di prepotenti bisogni, e camminando desse sull'orme segnate dallo sviluppo dei popoli, è d'uopo questo si pronunci arditamente ed efficacemente. Ora a voi tocca, giovani lettrici mie, a persuadervi di cotal vostro interesse non solo, ma dovere. Quand'anche voi che mi leggete, per circostanze che non son troppo comuni, vi trovaste avviluppate in un'atmosfera d'affetti e di gioie che la vita vi tesse di rose e di perle; avete pur sempre dei doveri a compiere, dei doveri sociali, dei doveri da cui non può dispensarvi la condizione nella quale vi trovate, qualunque ella sia. Giovani, vi corre dovere di educarvi; spose, dovete amare; madri, vi dovete alla prole; cittadine, vi dovete alla patria; individuo, vi dovete alla società; creature, vi dovete alla religione; intelligenti, vi dovete al sapere; sensibili, vi dovete al bene, sotto qualunque forma vi si presenti. A voi tocca provare che si è in voi ridesta la coscienza del diritto, mostrando la piena coscienza del dovere, e che l'affermazione di quello meritate coll'adempimento di questo. Ogni bene, giova qui ripeterlo, ogni bene quaggiù dev'essere conquistato. La ricchezza è il prodotto del lavoro, la vittoria è il premio del valore, la virtù scaturisce dallo sforzo, la gloria è la corona del sacrificio, la libertà è figlia del sangue, il sapere è generato dallo studio, ed il diritto si conquista compiendo il dovere. Ora adempite al dovere di sviluppare, educare ed applicare nel più lato campo le vostre facoltà, e voi affermerete in un colla vostra potenza morale il diritto di esercitarla, e l'utile sarà non vostro soltanto, ma di tutta altresì l'umanità, della quale siete importante ed indispensabile elemento. Mostrandovi la famiglia siccome portato della civiltà, intesi provarvi la necessità ed il dovere che ci incombe di perfezionarla e la potenza che sta in noi di farlo, forti, come siamo, di ragione e di affetto. Il materno ministero sublimato dal dovere e santificato dall'affetto, è una potenza sul quale la donna fece quasi sempre ben poco assegnamento. La natura doveva dare al cuor della donna madre questa meravigliosa potenza d'affetto, del quale non riscontrasi nell'ordine di creazione altro esempio, avendo ad essa affidato la conservazione della specie bambina ed avendola incaricata del penoso e lungo ministero dell'allevamento. E veramente il dono della natura corrispose all'uopo. Il cuor della madre è il solo sul quale far si possa in ogni punto della vita, assegnamento. È il solo che più dà, e meno esige; che più è gaudente quanto più si sagrifica; che più ama, quanto più soffre; che non si esaurisce per tempo, che non si raffredda per indifferenza, che non si ributta per ingratitudine. Ogni altro affetto, per quanto puro e sublime, ha un punto interessato ed egoista, il solo amor materno non ha ritorno sopra sè stesso. Rimanga pur sola ed abbandonata la madre; ella segue il suo nato con l'occhio intento e l'ansio affetto nei vortici turbinosi dell'esistenza, pronta ad accorrere in suo soccorso, a dirigerlo col consiglio, a consolarlo nelle delusioni, e ravvivarlo nelle speranze, a vegliarlo sofferente, a medicarlo malato, ad incuorarlo nelle difficili prove della vita; come testè avviava i suoi primi passi, gl'insegnava ad articolare le prime voci, calmava i suoi primi vagiti, asciugava le sue prime lagrime. Questa durata della materna tenerezza ci prova, che il ministero suo non è compito collo sviluppo fisico dell'uomo, ma non fa che passare dalle prime materiali cure, alle morali e più serie sollecitudini volute dall'età più adulta. Son ben poche, la Dio mercè, le madri che vengono meno ai primi ufficii che richieggonsi dalla prole bambina la maggior parte trascendono anzi nel tormentarsi enormemente d'ogni maluccio la incoglie esagerandosene sotto ogni aspetto la gravità e le conseguenze. Per tutto il mondo non vorrebbero vedere i loro bambini buttare una lagrima, e ad ogni pena ed incomodo si sottopongono anzichè contrariarli in checchessia. Cieche affatto davanti ai sintomi forieri di nascenti passioni propendono cordialmente nel battezzare col nome di sensibilità, di spirito, di fermezza, d'ingegno, l'impeto, il capriccio, la cocciutaggine, l'impertinenza. Ma se queste viziature della tenerezza materna sono per avventura scusabili nella tenerissima età della prole, nella quale l'affetto che le si porta conserva un talchè di così vivace e quasi direi sensuale, e la piccolezza e la delicatezza del bambino ci ammorbidisce il cuore così da renderci penosissimo il difendercene; non è egualmente perdonabile che duri, quando uscito dalla puerizia l'uomo si avvia alla vita morale, per la quale può rendersi funesto nello ingigantire, il menomo diffetto. Perlochè di mano in mano che la prole va uscendo dall'infanzia il cieco e sensuale istinto materno deve dar luogo ad un intenso morale sentimento, e dappoichè il suo corpo è rinfrancato e la esistenza sua garantita dal vigor delle membra, deve volgersi ad informarne la mente ed il cuore con ogni sua potenza, e sollecitamente. Sì, la madre dell'uomo deve far molto di più di ciò che fanno le madri nelle altre specie animali onde soddisfare alla missione impostale. Dotata di intelligenza vivace e di squisito sentire, fornita di un prontissimo intuito ad afferrare i rapporti delle cose; conoscendo sola il tronco linguaggio dell'infanzia e potendo sola farsene comprendere, in forza di una misteriosa corrente vitale che continuamente circola fra lei ed il frutto delle sue viscere; che tanto tempo vive della sua vita, s'apprende de' suoi timori, delle sue gioie esulta, e succhia dal suo stillato il modificato della sua vita; conoscendo sola le mille circostanze che possono avere in lui determinato un dato temperamento donde date tendenze; avendo essa più ch'altri mai vivissimo interesse che la fattura sua volga al bene ed al meglio; avendo ella prima ch'ogni altro diritto d'innorgoglire de' suoi successi e di desolarsi d'ogni suo errore, come mai potrebbe dessa e da chi, farsi con frutto surrogare? Laonde importa ch'ella vigili attentamente i forieri sintomi delle passioni onde volgerle al bene, siccome i primi bagliori dell'intelligenza ad avviarlo ai primi criterii. Le membra del bambino, le diverse parti del suo corpo, oggetti ch'egli pei primi avverte e dei quali si occupa sendogli i più vicini, siano le prime nozioni che dalla madre riceva, coi vocaboli che li determinano, e le rispettive loro funzioni. Da questi, seguendo l'uso naturale delle cose, si volga agli oggetti tutti che gli vengono di mano in mano a portata coll'ordine stesso della natura senza nulla forzare, nulla violentare. L'uomo è così fatto che fin da quando coi primi vagiti chiede l'alimento del seno, soddisfatto appena questo imperativo bisogno immediatamente si volge a studiare il mondo che lo circonda; e cominciando dallo spiegarsi dinnanzi le sue dita, sorride ai loro movimenti e si addestra a muoverli e ad usarle. Indi si volge agli oggetti che si ha a portata, li palpa, li agita, ma non avendo le sue manine ancora nozioni alcuna delle diverse sensazioni tattili a determinarsi la natura loro, e non avendosi che il palato che pel fatto della nutrizione ha già acquistato nozione della propria funzione, mette ogni cosa a contatto di quello per respingerlo quindi se il palato non lo approva, o tenerselo caro se avvien che lo gusti. La luce è pur essa continua attrattativa al bambino sendo che è fenomeno che colpisce la sua tenera retina tutta nuova a cotal sensazione, talchè veggiamo nei bambini prodursi sovente lo strabismo per la loro insistenza e guardarla in onta alla difficoltà che a ciò fare risentano dalla situazione laterale in cui è posta da madri o nutrici poco accorte. Famigliarizzato colla vista degli oggetti che lo circondano, il bambino non si chiama soddisfatto; di raro anzi avverrà che si possa due volte cessarlo dal pianto col medesimo oggetto. La sua insaziabile curiosità cerca sempre il nuovo, e co' suoi movimenti, e co' suoi ripetuti sguardi, e colla velleità frequenti del pianto, e colla irrequietezza che lo tormentano, accenna continuamente ad un nuovo pascolo di cui i suoi occhi ed il suo spirito hanno bisogno. Egli vuol provare una dopo l'altra tutte le sensazioni, e dopo aver esaminato l'oggetto ed accontentata la facoltà visiva, lo batte ripetutamente sul suolo o contro un corpo duro, ed attento gusta del suono e se ne diletta e compiace, indi lo scompiscia fra le mani, lo applica al palato, se lo pone sotto i piedi, e lo studia insomma, lo investiga, lo esperimenta con tutti i mezzi che sono da lui conosciuti, con tutti gli strumenti che nei sensi gli ha natura forniti. Ed ecco i procedimenti delle natura. Partire dal noto per disquisire l'ignoto, dalla parte per arrivare al tutto, dal visibile per dedurne lo invisibile, dal concreto per derivarne lo astratto, dalla analisi onde fare con perfetta coscienza la sintesi. Tutte le astrazioni che vediamo al bambino insegnarsi nei nostri imperfettissimi sistemi d'istruzione non sono che un magazzino di vocaboli orbi per lui di relativa idea, che la sua memoria è forzata d'accatastare, e ritenere, e che ad onta d'ogni sforzo s'affretta di sgombrarne, per lasciare il posto di naturale diritto alle idee che vi entrano pel tramite possente delle sensazioni. Le porte dello spirito sono i sensi, tutto ciò che vi entra d'altra parte arrischia forte di non farvi lunga dimora. Non è egli deplorevole che un fanciullo italiano conosca tutte le diramazioni del Rio della Plata, e tutte le campagne da lui irrigate, ne conosca tutti i tortuosi giri e dove è confluente, e dove mette foce, eppoi ignori, quali acque bagnino la sua città natale? Non è egli risibile ch'egli discuta le leggi di Licurgo, e le Dodici Tavole, eppoi non sappia da quali istituzioni è più o meno tutelata la sua persona e la sua proprietà? Non è egli fuor di ragione ch'egli vi parli della guerra dei Titani nella greca genesi e conosca i più minuti particolari dell'assedio di Troja, eppo sia completamente straniero ai sanguinosi rivolgimenti che svolsero la libertà italiana, e le generose aspirazioni non rivolga al compimento dei patrii destini, e l'omaggio riconoscente e giusto, non serbi alle migliaia di martiri che sul campo, come dai patiboli, dalle prigioni e dall'esiglio fecondarono i semi della filosofia e prepararono l'attual civiltà? Studii adunque la madre l'ordine dalla natura stessa insegnato nel progressivo sviluppo della intelligenza, vigili attenta, sorprenda sollecita, ed assecondi assidua la curiosità del bambino incessantemente provocata dalli esterni oggetti, non si rifiuti giammai di soddisfare alla lunga serie dei _perchè_ così provvidamente abituali nella infanzia, e scaturendo le idee dalle sensazioni le ponga alla portata del tenero intelletto non ancora maturo alle ontologiche astrazioni. Certo che dovendo la madre continuare il più tardi possibile l'educazione del figlio, deve ella stessa prepararsi al difficile ministero colla coltura dello spirito, la elevazione della mente, e la morale abnegazione che la diverta completamente da ogni frivolezza e tutte rivolga le sue facoltà al serio compito di formare l'uomo. — Egli è perciò che fin dal principio di questo lavoro dicevamo che se il solo istinto materno basta al disimpegno delle materiali cure per quanto assidue e penose, che esige lo allevamento dell'uomo animale, non bastano certo per la educazione dell'uomo morale ed intellettuale. Occorre ed urge, e seriamente urge che la donna si convinca di questa verità onde più non avvenga siccome finora accadde che impegnandosi nel grave assunto della madre di famiglia, non creda puramente e semplicemente di porsi nella naturale condizione di tutti gli esseri che natura indistintamente chiama alla generazione, e di farsi una posizione sociale, ed assumere un nome col quale è presentata al mondo e consegnata ai pubblici registri. No, tutte le generazioni passano per le mani della donna, la quale trovasi con esse tutte in rapporto di causa ed effetto. Dalle fiere donne di Sparta nacquero i più grandi eroi della indipendenza, dalle altiere matrone di Roma nacquero i conquistatori del mondo, dalle mollissime ed abrutite donne d'Oriente nascono gli effemminati e retrivi musulmani, e dovunque e sempre, lo stato morale della donna è il termometro che segna esattamente i gradi della civiltà, della coltura, del carattere morale dei popoli e dei tempi. Gli è in vista di ciò, e ad arte ch'io ho parlato del materno ministero prima che del matrimonio, fatto che deve pur precedere quelle funzioni; e perchè non ignara, non astratta, non indifferente ella deve incontrare quel nodo che di tanto peso la grava, di sì importante missione, e di sì grave responsabilità. La scelta d'uno sposo è per la donna question capitale, e resa vieppiù capitale dalle nostre imperfette istituzioni che assoggettando assolutamente in tutto e sempre la sposa al capriccioso arbitrio del marito, il quale assume sopra di lei un autorità senza limiti e senza controllo; ne assorbe affatto l'autonomia, come la copre col suo nome, e la nasconde dietro la sua personalità. In questa condizione di cose, se una illuminata educazione, se la coscienza del giusto e del vero, dei diritti e dei doveri non ha creato nella donna un carattere morale, ella si troverà ben presto ridotta ad essere relativo, che continuamente si modifica, ed elasticamente si piega a tutte le morali situazioni create incessantemente intorno a lei da quell'essere che pensa, parla, ed agisce per lei, che l'assorbe nella sua vita, che ne' suoi rivolgimenti l'alza o l'abbassa, l'arresta o la trascina come il corpo fa dell'ombra sua, che affatto la scancella infine dal numero delle unità. E tale infallibilmente dev'essere la donna quando non è saldamente informata ai principii, e così vien trattata da qualunque uomo il quale trovi l'innato orgoglio legalizzato ed appoggiato dal valido puntello di istituzioni fatte _da lui_ e _per lui_, e nelle quali egli, ben lungi dal considerare la donna dietro i principii del naturale diritto, non la guardò tutt'al più che come una creatura dalla debole fibra, alla quale concedeva un protettorato, e s'applaudiva altresì di trovarsi cotanto generoso. Eppure alla vista di sì miserrime condizioni serbate alla donna sposa, condizioni che non possono modificarsi che davanti a quella fortissima, gigante divoratrice potenza che è l'amore, la quale ridendosi dell'uomo, de' suoi codici, del suo orgoglio, del suo geloso esclusivismo, lo soggioga, lo vince, lo abbatte, lo fa vittima dei suoi stessi desiderii, e servo della sua medesima forza, epperò schiavo della donna, lo riduce a cercare ogni arte a gradirle, a tentare ogni impresa a piacerle, a smettere ogni atteggiamento da padrone per addottare gli atti ed il linguaggio del supplichevole; davanti a questo fatto, dico, reso ancor più significativo dal contrasto delle nostre istituzioni, il quale ammonisce la donna sulla natura de' suoi veri interessi, e dovrebbe solo determinarla, che cosa fa dessa per lo più, in cose di tanto momento che tutta la riguarda, e sola, e per tutta la vita? Che fa? Mi sia concesso il dirlo usando d'una comunissima frase giornalistica. Ella brilla per la sua assenza. Uditelo voi stesse della mordace, ma pur veridica penna dell'immortale Parini «_Non di costume somiglianza or guida_ «_Gl'incauti sposi al talamo bramato,_ «_Ma la prudenza coi canuti padri_ «_Siede librando il molt'oro e i divini_ «_Antiquissimi sangui, e allor che l'uno_ «_Bene all'altro risponde, ecco Imeneo_ «_Scoter sua face; e unirsi al_ freddo sposo «Di lui non già _ma delle nozze_ amante «_La freddissima vergine che in core_ «_Già volge i riti del bel mondo, e lieta_ «_L'indifferenza maritale affronta_». Come se le istituzioni che tanto gravano sulla donna non bastassero, concorrono a ciò fare anche i costumi che non saprei donde trassero l'origine, e con quali dottrine giustifichino le loro modalità, e tutto così cospira a spingere la donna indifferente e sovente lieta a quel legame per lei così penoso che la natura sola colla invincibile prepotenza dell'amore dovrebbe forzarla ad accettare. Infatti non saprei perchè, la femminil gioventù debba essere dannata alla perpetua reclusione del convento o del gineceo; perchè nell'educazione che le si imparte altro non si procuri che la sua morale evirazione; perchè sottomessa ai più minuti capricci dei parenti, come più tardi lo è a quelli del consorte, nulla si trascuri per distruggere e nichilare la sua autonomia, per cancellare in lei ogni personalità. E questa nullità morale perdura al di là del termine della minorità legale, ed innoltra costante fino a che pare e piace allo incontrollabile arbitrio dei parenti. Ottenuta finalmente, come non è a dubitarsene, questa morale nichilità, allora si persuadono i parenti, averla perfettamente educata, ed assumendo allora la direzione assoluta dei movimenti della natura non consultandola in nulla, ma forzandola sempre, si vuol tuttodì intenta ai lavori d'Aracne quando vorrebbe consegnare alle carte i prodotti dello innato ingegno; la si spinge al misticismo, mentre ebbe da natura sortito lucido intelletto che dal gretto, dallo specioso, dal gratuito rifugge; le si pone fra mani uno spartito musicale quando l'occhio suo delira dietro alla sublime armonia della natura e freme in cuor suo di ricopiarla, oppure si sforza e colorire, al che natura non la sortiva, mentre tutta pende affascinata dalla magica arte dei suoni che le vengono vietati; e così mano mano si prepara a sagrificare gli affetti agli interessi, a impor silenzio alla natura per le convenienze sociali, a farsi insomma pieghevole, elastica, non altri principii avendo che le opinioni di chi le sta sopra con tanta prepotenza, non altra credenza che quella de' suoi parenti, non altra autorità che la loro, non altra coscienza che l'opinione pubblica, non altra legge che il capriccio del forte, non altri principii, che una perpetua condiscendenza alla necessità, non altra personalità che il nome proprio, non altra vita che la vegetativa. — E così si soffocano a migliaia ed a milioni le anime, e così si educano le schiave dell'uomo, all'accettazione completa della loro schiavitù, al profondo sentimento della propria nullità, ed al culto supremo della forza. — E tali sono le madri che si preparano alle generazioni illuminate, ai popoli liberi e civili! Nè si dica qui, per avventura, che se la donna avesse veramente prepotenza di genio, ella riuscirebbe a spezzare i vincoli che da tutte parti la annodano, a sollevare la pietra sepolcrale che la segrega della vita morale, a sbarazzarsi di quel sudario ove si tenta travolgere la sua anima incadaverita; e mi sussurrate di Spartaco e Masaniello, di Colombo e di Galilei, e della lunga serie dei martiri d'una idea, che sfidarono soli i numerosi campioni dell'errore e della tirannide da Davide fino a Socrate, dal primo Bruto fino ad Epicaride, fino al Savonarola, fino a Cola da Rienzo, ad Arnaldo da Brescia, agli eroi della greca indipendenza; fino ai fratelli Bandiera, fino al povero Sciesa, ed al piccolo Balilla; e vorreste con ciò dirmi, che la coscienza del diritto, la potenza del genio e l'energia del volere, se non trova preparata una strada la crea, dove trova elevata una barriera la supera, dove un nemico lo vince, dove un ingombro lo schianta, forte di quella leva che indarno cercava Archimede, che terra e cielo scuote e solleva, e che ogni elemento piega, doma e ricurva. A cotali osservazioni più diffusamente risponderò nei susseguenti capitoli, quando procurerò dare alla donna appunto la coscienza della sua capacità, rivelandole la sua potenza in ogni lavoro dello spirito, e non tanto coi raziocinii dei quali pochi dannosi pena di disquisirne il valore, od apprezzarne l'evidenza; quanto colla logica imperativa dei fatti che scioglie vittoriosamente i nodi intrecciati dalla più sottile dialettica e rovescia d'un tratto il gratuito edificio eretto dagli interessi e fondamentato da leggiere ed erronee premesse. Per ora mi basti aver constatato il fatto, che l'educazione che si dà alla donna è quella che tende ad allevare una schiava, ad annichilarla, ad insegnarle la tolleranza del dispotismo, a soffocarle in petto ogni sentimento che non entri nella cerchia degli interessi di chi la signoreggia, a distruggere in fine in lei l'opera di Dio che la sortiva intelligente e sensibile, per ridurla alla vita semplicemente vegetativa dello animale, alla inconscia ed automatica esistenza della cosa. Ed è a voi, mie giovani lettrici, ch'io dico tutto questo, ed è per voi che lo scrivo, esponendomi scientemente al biasimo di molti che, radicati nel pregiudizio, ottimisti sistemati, e convinti anche, dal benessere che circonda il loro individuo, che cordialmente adorano e teneramente accarezzano, simili all'animale che o beatamente pascoli la ghianda, o fugato sia dalla sferza, senza giammai sognare di levare lo sguardo a disquisire donde il pasto gli venga, o donde la botta, fa di ora in ora, di minuto in minuto ciò che può, o ciò che vuole, ammazzando a gran fatica uno dopo l'altra le giornate, tenendosi sempre il sentimento, la ragione, ed ogni moral facoltà allo stato latente. Nè schiverò meglio gli scandali farisaici di quegli spiriti divoti che non dal sublime spirito del cristianesimo, nè alla libertà del vangelo educati, ma dal trasnaturamento di quelle divine teorie corrotti e traviati, ogni emancipazione della mente battezzano, orgoglio pagano; ogni ribellione contro l'ingiustizia, e l'oppressione, rivolta al divino volere; bestemmiando così la bontà infinita di Dio essere serva, base e puntello del dispotismo, degli interessi, delle passioni o dei pregiudizii degli uomini. S'egli è possibile di più negare il fatto imperativo della indipendenza della ragione, e di maggiormente invilire Iddio ditelo voi? Ma come io vi esortava a voler trascurare certe opinioni, che generali anche siano, altro pur non segnano che i gradi d'ignoranza e di cecità intellettiva di chi le propugna, così io feci lungo il mio lavoro, e così farò fino alla fine, a compiere le promesse fatte di preparare la donna dell'avvenire, la madre delle future e più illuminate generazioni. Che s'egli è vero quel popolarissimo assioma: _Nemo dat quod non habet_, non sarà che sviluppando l'intelletto della donna, che avremo l'uomo sapiente; non sarà che coltivando il suo cuore, che si avranno popoli gentili, non sarà che risorgendola alla vita politica, ch'ella potrà elaborare nelle sue viscere i prodi, che il sacro suolo della patria difenderanno contro prepotenti invasioni, e purgheranno da straniere contaminatrici dominazioni; non sarà che elevando la donna all'altezza delle cristiane vedute, che potrà il mondo purgarsi da quelle pseudo-cristiane dottrine, che tante coscienze comprimono, che tanta intelligenze evirano, che tanti esseri, fanno refrattarii alle leggi della natura ed alla vita sociale, che tanta e pertinace guerra hanno impegnata con ogni filosofia, ogni progresso, ogni umana libertà, che rosseggiar fecero di sangue i nostri fiumi ed i nostri mari, e che tuttora tengono tirannamente vincolato il bel paese, come l'avvoltoio figgeva e rifiggeva nelle carni dello avvinto Prometeo l'artiglio spietato. Ricordatevi che, pel fatto della generazione, la donna fa l'uomo, e che però l'effetto tien natura sua dalla causa, il frutto dall'albero, la conseguenza dalla premessa; e come la forte e generosa lionessa non genera lo stupido e vile montone, nè la tortora selvatica e piagnolosa genera l'aquila sublime, così dalla donna stupida, inerte, passiva, non esce la prole che floscia, impotente ed appena moralmente larvata. Ciò ben comprendeva Casti quando scriveva: «_E inver come potrebbe esservi cosa_ «_Dall'origine sua diversa tanto,_ «_Che se l'origine sua fu difettosa_ «_Abbia di integra e di perfetta il vanto?_ «_Come da fonte limaccioso e impuro_ «_Scorrere umor potria limpido e puro?_» Ricordatevi che, per le supreme leggi della natura, l'umanità bambina è affidata alla donna, che dopo aver creato l'animale, deve formare l'essere morale. Ma se in quel primo processo la natura ha fatto tutto, qui deve tutto farsi, dalla educazione, dalla coltura, dalla forte e longanime potenza del volere, null'altro da natura ricevendo che l'appoggio dell'immenso ed inesauribile devozione materna, che d'ogni abnegazione e martirio si fa gioia e corona. E questi pensieri e queste meditazioni debbono, o giovinette, precedere il nodo coniugale, il quale non è che il mezzo che vi porge la materia del compito vostro. E nello improvviso nascer gigante dello amore che esplode istantaneo siccome fosforica scintilla; e nella balda e prepotente sua vita che spinge e trascina, maltratta e divora, tiraneggia, ammala ed uccide talora la più vigorosa esistenza; e nello spegnersi di cotanto incendio che non mai più le morte ceneri intepidisce, chiaro questo vero vi si appalesa, che cioè natura ebbe allo amore affidato la sua forza onnipotente e fatale per conservare la specie, il quale scopo conseguito, muore, non avendo più alcuna ragione di esistenza. Laonde voi lasciandovi all'intutto dalla natura insegnare, apprendete anzi tutto la importanza del fine, quindi la logica del mezzo; e, come alla unione sessuale vi date coll'occhio fisso ed intento alle conseguenze che scaturire ne debbono, in questa quindi consultate il voto della natura dalla ragione illuminato. E tanto più consultatelo in quanto che, la istituzione del conjugio, perpetuando per anni e per la intera vita, una condizione di cose che non furono volute che dalla prepotente forza d'un giorno e d'un momento, impegna la donna in un martirio prolungato, in una lotta incessante colle successive aspirazioni del cuore e la parola giurata, coi fortissimi reclami della natura e la firma da lei apposta al contratto. Oh almeno giovani lettrici mie, nei primi tempi del vostro connubbio, nel quale i più tremendi sacrificii si richieggono da voi, accorra almeno la natura con quel fitto velo, che sono i delirii dell'amore, ad attutire le angoscie supreme dell'oltraggiato pudore, ad abbruciare la stilla della offesa verecondia che sorge spontanea sulla ardente pupilla, a velare, colla mutua e libera espansione degli affetti e la divina armonia dei cuori, quelli umilianti rapporti di diritto e di dovere che il contratto sanciva, in onta alla natura, che le due parti accosta colla potenza sola dell'amore in ciascuna delle parti autonomicamente risiedente. Sarà sempre anche troppo presto che convertito ed assorbito il cuor vostro dalla materna tenerezza, e quello del consorte raffreddato dal pieno soddisfamento delle esigenze sue, e portata incessantemente al di fuori dagli affari e dalli interessi, sole rimarrete in faccia al fine, del quale non era l'accopiamento che mezzo, alla meta della quale il connubio non è che sentiero. Ed allora ambo rinsennati dai fatali ma precarii delirii della passione incendiaria; distrutta quella naturale armonia che senza sforzo faceva i voleri concordi e simultanei i desiderii; ecco la donna, la cui educazione fu passiva e nulla, dividere sè stessa fra il marito ed i figli, serva dall'un canto della forza, dall'altro dello istinto, non riuscendo nè a farsi amare dal marito, nè a farsi rispettare dai figli, nè ad educar questi, nè a smover quello, nè a domare in questi le passioni nascenti, nè a scemare in quello l'orgoglio gigante, risultando ed a quelli ed a questo troppo evidente la sua inferiorità di spirito, l'ignoranza della sua mente, la completa assenza di carattere morale. Non così quando, spenta la verde stagione dell'amore, che per sè stesso poco esigente, non tenta pur sempre giustificarsi nelle peregrine doti dell'oggetto, ma di sè solo pago e tutta seco recando la materia infiammabile, ama per esaurire la esuberante potenza che lo porta fatalmente ad amare, non così, dico, avviene alla donna la quale, al gratuito dono della natura accoppia o sostituisce le doti imperiture dello spirito e del sentimento. È pur qui il luogo di ripetere quell'adagio «a cattive leggi uomini migliori» chè sebbene quelle nello affermare la fittizia incapacità della donna non si diedero nessuna pena di fare restrizioni, pure il natural sentimento d'equità dal quale non può difendersi che l'uomo depravato, la forza del giusto e del buono, la maestà della virtù e del sapere che costringe ad inchinarsi la cervice la più orgogliosamente satanica, il culto sciente o spontaneo che molti uomini, la Dio grazie, porgono al vero merito, tutto, dico, come rende la donna gloriosamente atta al fine cui è missionata, la circonda eziandio d'un aureola luminosa che la difende dalla viril prepotenza, che intimida l'uomo, che attutisce nel suo braccio la petulanza ingenerata dalla forza del muscolo e sostituisce in lui a quella ignobile sensazione, che gliela faceva contemplare siccome semplice oggetto e spettacolo di voluttà (che è la suprema delle umiliazioni alla donna dagli istinti generosi) quella deferenza, quell'attaccamento e quella riverenza, che l'armonico e sublime accordo del bello e del grande, della virtù e del sapere, della nobile verecondia e della generosa abnegazione, debbono ingenerare in ogni essere morale. Dal fin qui detto potrebbe per avventura qualche mia lettrice ricavare, ch'io creda avere il matrimonio per solo scopo la propagazione e la conservazione della specie, nè potersi egli in mia mente disposare eziandio a più nobile fine. Diversi fra i moderni scrittori hanno considerato l'uomo e la donna non già come unità, ma quali esseri che aspettano dall'unione loro il complemento della loro personalità. Se in faccia agli interessi della specie ciò è assolutamente vero, non lo posso egualmente ammettere nel campo morale, vedendo ognun dei due autonomicamente, nel pieno possesso delle facoltà dello spirito, attivo e produttore. Mentre invece nel matrimonio per fatto delle istituzioni nostre la donna, abbandonata affatto all'arbitrio del consorte, ben lungi dal completarsi, si evira, ben lungi dall'acquistare, perde, se pure per lo suo meglio eleggerà di sagrificar sè stessa alla pace. In quanto a me, tenera di tutto ciò che tende a spiritualizzare l'umanità, ed a sempre più nobilitare uno stato che dallo apparire amabile, utile e venerando si reca a conseguenza maggior purezza di costume, credo, e fermamente credo, che il connubio debba recarsi a fine morale lo perfezionamento dell'un sesso e dell'altro; ed in vista di ciò ammiro la legge della indissolubilità che sembra emergere da siffatta credenza e proporsi un cotale intendimento. Ma io tengo per fermo che nè l'uomo nè la donna possono perfezionarsi in una unione qual'è voluta dalle nostre leggi e dai nostri costumi. Ed invero, che volete mai impari l'uomo da una creatura priva di senso morale, educata nè più nè meno che per piacergli, per obbedirgli, per ammirarlo, per adorarlo, per credere nella sua portentosa sapienza, per piegarsi in tutto e sempre alla sua volontà onnipotente, per toglierlo a norma e legge d'ogni suo operare? Se quest'uomo si tiene un po' di ragione e di moral dignità, deve sentirsi a stringere il cuore di vedersi a fianco una creatura così nichilita, o meglio questa larva di essere umano. Voi mi direte; egli la può educare, e risollevare l'anima sua; vi domando scusa, gli bisogna rifarla. Quando tutta una educazione non ha avuto per iscopo che di cancellare fino all'ultima traccia ogni sintomo di vita morale, in ragion d'ordine col quale si manifestava; quando una educazione non ha avuto per iscopo che di degradare l'essere umano al vile stato di cosa, quasi adirandosi con Dio e colla natura, che abbiano voluto intelligenza e volontà locare là dove l'uomo non crede averne d'uopo, credetemi, è utopia supporre, che possa quell'anima riabilitarsi non meno che risorgere un cadavere fradicio. E che volete mai, a volta sua, impari la donna, da un uomo beatamente convinto della propria eccellenza; la qual convinzione gli fu in cuore piantata e ribadita dai costumi che creano per lui una morale dagli ampli margini; dalle leggi che lo estimano sempre _capace_ anche quando è ignorante, sempre moderato ed onesto anche quando gli abbandona la donna senza controllarlo, sempre virtuoso anche quando le sostanze sciupa o disperde per conto di vizii e passioni? Credente fermamente nella legittimità della sua potestà, egli sa dare fino all'amore l'impronta ed il suggello del dispotismo, ed è ben lungi dal credere che la sposa sua possa direttamente o indirettamente pretendere a modificarlo. Nè crediate ch'io v'abbia posto sott'occhio due casi più o meno rari; mai no! Quella donna è la donna che ogni madre, ogni istituto vorrebbe aver educata ed ogni uomo proclama una buona moglie; quest'uomo, è l'uomo dei nostri costumi, è l'allievo dei nostri codici, e troverete a questo tipo generale poche eccezioni fattibili. Certamente che, se avviene che s'accoppii una di queste eccezioni virili, con una eccezione del sesso femminile, allora sono in grado di presagirvi un felice connubio; e come due belle tinte nel loro accostarsi si danno reciprocamente maggior risalto ed una ammirevole armonia ne risulta, così dall'uomo e dalla donna che reciprocamente si apprezzano e ragionevolmente e santamente si amano, è ben d'uopo n'esca il morale perfezionamento dacché non può l'amore essere eterno se non in quanto lo cementi la virtù. I successivi delirii del cuore sono domabili quand'egli si rechi in fondo un'immagine venerata, e gli farà costante ribrezzo l'idea di sopra edificarvi l'altare ad una divinità meno nobile, e meno pura. Come il tempo purifica e legittima l'amore, così l'indissolubilità di quel nodo è l'aureola di cui si cinge un'unione, di cui più santa e feconda non saprebbe escogitarsi. Direste voi che qui non v'abbia che conservazione e propagazione di specie? No. Qui vi ha tutta una scuola di perfezionamento. È l'orgoglio domato alla vista del merito; è la debolezza rinfrancata dalla forza; è la durezza che si ingentilisce; è il sentimento che si sposa alla ragione; è un re che si toglie volontario le insegne usurpate della signoria; è una nazione che lo ricambia colmandolo di gloria e d'onore; è la fermezza che non degenera nell'inflessibilità perchè la pietà e la clemenza le sussurrano istancabili all'orecchio i loro soavi consigli; è la pusillanimità che il cuor si dilata sentendosi vicino la ferma colonna della forza; è lo spirito dettagliato ed analitico disposato allo spirito complesso e sintetico d'onde risulta completa la scienza; è l'amor del concreto che doma gl'indiscreti voli dell'astrazione; è questa che quello spinge e solleva verso la filosofica speculazione donde nasce il vero; è una corrente insomma, luminosa e vitale, che due esseri identifica così da farli ciascuno a sua volta agente e paziente, modificato e modificatore, illuminatore ed illuminato. Davanti a sì sublime armonia di due esseri umani, è impossibile non riconoscere, che il matrimonio non debba al solo interesse della specie ridursi, ma costituire una società vera nella quale si dà e si riceve, e dove l'utile deve essere proporzionato alla somma del valore impiegatovi. Fuori di queste proporzioni sta l'ingiustizia, sta l'ineguaglianza, sta lo arbitrio, colle quali cose tutte è incompatibile il morale utile e l'avvanzamento degli associati. LA DONNA E LA SOCIETÀ Ovunque pensa, parla e si agita una esistenza, la sua vita importa a necessaria conseguenza un movimento, una modificazione, uno spostamento, per così esprimermi, fra le altre che sono intorno a lei, che cercano stabilire e conservare con essa armonici rapporti. Così, fin da quando natura ci dà, al dire di madama Sand, alla libera espansione della vita, noi ci vediamo circondati da una piccola società composta da amici e consanguinei, raccolti a festeggiare la nostra entrata nel mondo, a stringere con noi vincoli di benevolenza, alla quale per dovere di esseri sociali dobbiamo rispondere. Ma i diritti ed i doveri datici ed impostici da codesti rapporti sono troppo noti, troppo naturali, troppo costanti perchè occorra arrestarvici. Il naturale buon senso, e gli usi della nostra società rispettano ed amano questi rapporti, che, cresciuti e sviluppatisi con noi, fanno parte delle nostre abitudini, ed estendono per così dire i confini della famiglia. I rapporti più importanti per noi sono quelli che noi stessi formiamo col nostro carattere speciale, coll'educazione che ci viene impartita, che ci porta verso un dato elemento sociale piuttosto che verso un altro. I doveri scaturiscono e dallo elemento col quale siamo assiduamente a contatto, e dal grado di suscettibilità che con noi rechiamo intellettivo e morale, e dai bisogni dei tempi e dei luoghi. Laonde, sviluppato lo spirito, il cuore educato, più non rimane a farsi da noi che la semplice applicazione delle apprese dottrine. Farà egli bisogno per esempio di dire ad una creatura, che ha cuore, chè si faccia al letto del malato, o di chè abbisogni il poverello, o che cosa diffetti l'ignorante? A niuna di voi, gentili signore, che onorate questo mio libro della vostra lettura, a niuna di voi, per fermo, mancò nella colta educazione, che riceveste, nozioni sì elementari di virtù e di morale, e già tutte le praticate. Non foste voi viste pochi anni or sono, durante la guerra dell'indipendenza, tutte quante trasformate in infermiere? Gli annali della beneficenza non si adornano dessi forse dei vostri nomi dalla prima all'ultima pagina? E non forse voi fondaste sotto mille forme e denominazioni scuole, asili, istituti d'educazione pei figli del popolo? Io non posso che altamente lodare queste espressioni moltiplici e proteiformi dell'innata gentilezza e sensibilità che fa l'onore del sesso femminile, e mi rende orgogliosa d'appartenervi; ma se tutto ciò bastava in altri tempi di più scarsa luce intellettuale a far di voi gli angioli della umanità, ciò è troppo poco per oggi in cui la filosofia deve averci meglio illuminate sui veri interessi della umana specie. Fare ad altrui del bene non solo è dovere per tutti, è anche per tutti un diritto, ed un diritto che l'anima generosa si divora nell'impotenza di compiere; ed oh quale ingiustizia se al sol denaro fosse possibile questa suprema gioia del cuore! Ma no; a tutti la rese il vangelo possibile rivelando agli uomini l'amore, e facendone loro una soavissima legge all'infuori della quale l'umanità si travaglierà in un affanno perpetuo nella confusione delle idee e dei sistemi. Sì, la sapienza degli uomini è all'apice. E statisti e filosofi, legislatori, ed economisti portarono alternativamente, esperienze e principii, istituzioni e sistemi, ma nessuno di questi farmachi riescì ancora a guarire l'umana società dall'angoscia intestina. Il quadro dell'umanità ci presenta una lunga scala sulla quale sfilano i dolori e le miserie di tutti i secoli, dalla bestiale antropofagia fino alla servitù dei due terzi della specie, fino ai sistemi applicati del più satanico macchiavellismo. Nelle vergini foreste del nuovo mondo abbiamo uomini tuttora ai quali non è dato notizia neppur d'umana favella; interi popoli abbiamo viventi di preda come le belve in fertilissime terre; in Africa è l'esportazione dei negri che fende il cuore; nella China è l'infanzia esposta e derelitta; in tutto l'oriente è la servitù della donna, è l'evirazione di tante migliaia, è l'infame abrutimento degli oppressori. In tutto il mondo incivilito è la lotta della oppressione e della tirannide, dei principii e degli interessi, della ragione e della forza, del sentimento e dello egoismo. Oh chi soccorre a tanti mali, chi diraderà sì fitte tenebre d'ignoranza, chi consolerà tante miserie, chi domerà tante passioni, chi imporrà silenzio a sì spudorati interessi, chi curerà questo gran malato che è l'umanità, che indarno sempre esperimentò medici e trattamenti? l'abbandoneremo noi alla sola forza medicatrice che dà natura col suo perpetuo desiderio d'equilibrio e di benessere? Sì, il tempo avvanza e non indarno; ma questo cammino non ci condurrà alla meta che con dei secoli, e frattanto? e frattanto si demoralizza la società, si comprano e si vendono anime umane, si sparge sangue di popolo, si versano lagrime, si combatte, si soffre, si bestemmia e si muore! Faremo noi coro alla filosofia del _diritto solo_, e facendo alla nostra malata la diagnosi del suo malore le diremo, è l'inerzia che arresta nelle tue vene la potente circolazione, e mentre lascia diacciate ed anemiche le fonti vitali, produce parziali congestioni restando così deviato quell'umor prezioso che deve diffondere vita e calore in tutto il corpo? oppure, è la servitù e la ignoranza che ti travolgono piedi e mani legate nel sudario, e ti lasciano dissanguata in preda a tetanici sussulti? Alzati dunque e cammina, tu hai diritto al moto; respingi da te le bende mortuarie, tu hai diritto al benessere ed alla gioia! Sì è vero, i diritti stanno, ma non è ella una spietata ironia dire alla puppilla inferma, tu hai diritto di vedere! all'ignorante, tu hai diritto di sapere! al zoppo, tu hai diritto di correre? Oh curiamo prima l'occhio malato, eppoi diciamogli guarda! coltiviamo quel cervello eppoi diciamogli studia! distendiamo quei tendini eppoi diremogli cammina! L'umanità ha bisogno d'essere amata, sinceramente e vivamente amata, ed amata senza altra passione che del suo bene, senza altro interesse che del suo meglio. Amare! Ecco il divino concetto, ecco il miglior dei sistemi, la prima delle filosofie, il più efficace dei farmachi, la più sapiente delle legislazioni, il principio e la fine della scienza sociale. Quel malato migliora, che ha nel suo medico gran fiducia. Quell'esercito marcia infallibilmente alla vittoria, che è condotto da un duce che adora. Niuno dorme sonni più beati del bambino in grembo alla madre. L'umanità sarà di chi saprà amarla, e di chi saprà provarglielo meglio. Ciò non capirono in nessun tempo i despoti, e non fecero; egli è perciò che sono ora ridotti a tremare, circondati da mille spade; egli è perciò che sentono con ansio spavento i fremiti dei popoli servi, perenne minaccia allo edificio loro, sull'arena fondamentato. L'uomo, dal più grande al più piccolo, dal più dovizioso al più mendico, dal più sapiente al più ignorante, e selvaggio e civile, ha bisogno d'affetto, e dall'affetto solo si lascia vincere e domare, per l'affetto è qualche cosa, egli ne ha fame e sete, è la sua vita e la sua forza, senza di questo egli si isola; poi si deprava, quindi odia mortalmente tutta l'umanità. L'intelletto è orgoglioso, ed osa nella sua alterigia sfidar la ragione, e per non curvarsi al suo supremo arbitrato trova il cavillo e chiama il sofisma, e la civilizzante filosofia trovasi in faccia alla insuperabile barriera d'una volontaria ignoranza. La materia è sostanza bruta, i suoi desiderii hanno angusti i confini. «Il molto studio è fatica alla carne» disse Salomone; e la filosofia trovasi in faccia alla resistenza della massa inerte e massiccia. Il cuore solo è il lato debole dell'uomo, ed è questo che dovete cinger d'assedio e prender d'assalto; preso e domato, il resto non chiederà bentosto che di capitolare. Cristo insegnò una dottrina e ci diede un esempio; e l'una e l'altro importano a seguirsi sforzo e violenza, abnegazione e sagrificio; e queste cose cotanto difficoltose alla umana natura veniva egli a chiederle nel secolo il più depravato e corrotto di cui le storie ci parlino. Ma questa dottrina era la teoria dell'amore, quell'esempio era la pratica dell'amore e gli uomini amarono il Cristo e la sua legge; a migliaia ed a milioni si coscrissero nella sua chiesa; per lui spregiarono la vita e versarono il sangue; per lui si scoronarono i principi, e nello intendimento di onorarlo e di piacergli, ozii e libertà, gioie e mollezze lasciarono a mille e a mille per le perpetue reclusioni e le aridi solitudini dei deserti. L'umanità da educare ed incivilire, da illuminare e soccorrere, ecco il lavoro che incombe a tutti coloro che avendo una educazione avuta e dei lumi, trovansi in grado di dare ad altrui ciò ch'essi stesso han ricevuto. Mi chiedete voi del mezzo a ciò fare? Io rispondo, coll'amore; A qual fine? Affinchè gli uomini si amino. Con qual ricompensa? Gli uomini si ameranno. Ed io concepirei ben sinistra opinione di quella che queste pagine leggendo, trovasse quel fine e quella mercede insufficienti a quel mezzo ed a quella fatica. Ora chi mai convinto, che colla potenza dell'amore soltanto si potrà consolare, soccorrere, civilizzare questa povera umanità; chi dico, non si volgerebbe tosto alla donna? Non è ella quella creatura, sublime scialaquatrice d'affetti nella quale ogni pietà è innata, e tutta di sensibilità è plasmata? L'uomo non è giovine, che una volta sola in sua vita; ma la donna non reca ella in sè stessa i facili entusiasmi, l'indomabile speranza, la generosa ammirazione del grande, l'amore del sacrificio, che serbano intatta ai tardi anni la balda gioventù dell'anima? Non è dessa quella creatura nella quale così difficilmente s'insinuano i freddi consigli d'una egoista prudenza che medita per secoli, discute con dei volumi, e non trova un dito mai per operare? Non è alla donna il cui cuore è il serbatoio del sacro fuoco dell'amore, al quale Iddio affidava tutte le generazioni, a fecondare in esse i germi degli affetti, che fanno cogli entusiasmi giovanili le fronde ed i fiori, e i frutti recano nella matura età di sociale benessere? Non è egli alla sua voce insinuante che natura sposava la persuasiva? Non è egli davanti al suo dolce sorriso, ed al suo sguardo innocente che il figlio del popolo può deporre i secolari rancori contro le caste che sì a lungo l'oppressero? Gli uomini hanno fra loro vecchie ruggini; essi lottarono e colla forza brutale e colla astuzia ridotta a sistema, laonde si guardano tra loro torvi talora e diffidenti: ma la donna vittima sempre fra i grandi e fra i piccoli, nell'antichità e nell'attualità, la donna porta le mani pure di sangue non suo, e la mente vergine di errori volontarii. La sua puppilla ebbe lagrime per tutti i dolori; la sua borsa si aprì a tutte le miserie; le sue simpatie si pronunciarono per tutte le sventure, e non indarno mai le fu additato un bene che da lei dipendesse. Faccia pur Cicerone ad Augusto una lunga orazione con tutte le risorse dell'eloquenza per indurlo al perdono; lusinghi la sua vanità, si raccomandi allo splendor del suo nome, ed ottenga così dalle titillate passioni, ciò che non otterrebbe dal duro cuore. Vincenzo de' Paoli invece, dirà ad Anna d'Austria «Madama il vostro popolo ha fame». Ho dato tutto, ella risponde. Anche le vostre gioie? insiste egli; ed ella non ripeterà verbo, e correrà al suo scrigno, e glielo consegnerà quale si trova. Non è duopo di lunghe orazioni a muovere il cuore della donna; veda ella il bisogno e lo comprenda, e basta. Il suo cuore istesso serve d'oratore e d'argomento, di peroratore e di convinzione. Sia dessa o no, frivola e leggiera, non monta. Il suo volubile spirito si arresta, medita, si solleva, un angoscia lo preme; l'immagine di quella sventura la perseguita come l'ombra il corpo e la tormenta; ella non resiste più, si sente infelice, ha bisogno di togliersi quella mestizia; ed ecco che astraendo un momento da ciò che il mondo chiama la sua vita brillante, dimentica l'umido e le infreddature, gl'incomodi e le molteplici esigenze della vanità; supera il fango e la polvere, il sole e la neve, e va instancabile, viene e ritorna, ascende la scala del povero, infrange la consegna del ricco, e tanto fa e si adopera col cuore, colla parola e colla mano che ha raggiunto alfine lo scopo, e lieta ritorna e fiera del suo trionfo più assai che della ammirazione e dei plausi che tante volte raccolsero nei brillanti convegni del mondo gaudente. Non crediate però, lettrici mie, ch'io non vi parli, che dello sterile soccorso, che voi deponete nella mano che si stende verso di voi supplichevole. Fra tutti i modi di soccorrere ai materiali bisogni è questa la più imperfetta, e lasciatemi dirlo, la meno morale, e non può essere giustificata che dell'urgenza del bisogno, ma è quella pure che ridotta a sistema ed organizzata su larga scala, perpetua la mendicità, ed abrutisce lo spirito. Come può mai un essere dalla mente civilizzata vedersi davanti supplichevole e seminuda una creatura qual'è l'uomo ricco d'intelligenza, forte di braccio, non ad altro occupando la inerte sua vita, che nel distendere servilmente al suo simile la mano colla voce piagnolosa ed il languido sguardo? E qual diritto ha egli mai un uomo d'imporre al suo simile una tanta degradazione? Qual diritto ha egli di subordinare al suo arbitrio e capriccio l'esistenza d'un suo fratello? Questo sconcio che è l'accatonaggio va scemando più sempre coi progressi della industria che distribuisce più universalmente la ricchezza, laonde le mie parole non andando a colpire un fatto che vi si presenti su grandi proporzioni vi parranno per avventura troppo severe. Certo i nostri tempi differiscono assai dagli scorsi secoli nei quali ogni convento (e ve n'erano ad ogni svolto di via) vedeva ogni mattina raccôrsi sotto gli esterni portici una sterminata quantità di mendici d'ambo i sessi, e di tutte le età, che spettavano la quotidiana limosina. Che ne derivava da ciò? Ne derivava, che la maggior parte della umanità nelle nostre contrade vivesse pendente dallo arbitrio dei meno; ne derivava, che tutte quelle misere genti fossero serve consacrate di quei signori; ne derivava, che intere popolazioni non per altro vivessero che per istendere umile e timida la mano alla scodella limosinata, curvarsi fino a terra all'aspetto di un frate, baciar servilmente il lembo della sua tonaca e la corda della sua cintura. Ne derivava, ch'elleno si educassero al sentimento demoralizzatore della propria nullità, alla tolleranza della più provocante tirannide, all'ozio eterno donde la miseria perpetua. Lo stesso avveniva intorno ai forti castelli dei signori, dove una pietosa faceva distribuire costanti e quotidiani soccorsi. Quei costumi erano fatti per perpetuare il dispotismo feudale e la schiavitù personale. Come avrebbe mai potuto quella plebe emanciparsi dalla sistemata concussione de' suoi signori, senza cominciare dal rifiutare il loro pane, e dal vivere senza la loro sprezzante limosina? Ed ecco ciò che si fece, ed oggi quei terreni, che allora erano incolti, sono ricchi ed ubertosi, e l'agricoltore mangia il pane sudato all'ombra degli alberi da lui piantati, ed accosta il ricco colla fronte alta dell'uomo che nulla cerca, fuorché il credito suo. Ora, diminuite le proporzioni e l'accatonaggio, in faccia ai principii dell'umana libertà e dignità, presenta tuttavia la sconvenienza medesima. Soccorriamo al corpo provvedendo il lavoro, suppliamo alla debole potenza dell'operaio largheggiando nella mercede: ma non dimentichiamo mai la sua dignità d'uomo, il suo sacro diritto di vivere indipendente dal capriccio nostro; nè vogliamo colla impertinente elemosina buttargli in viso quell'insolente concetto che la limosina esprime e che val quanto dire: _vivi anche oggi, te lo concedo_. So pur troppo, che taluni fra gl'indigenti privi affatto di luce morale (e come l'avrebbero?) e vieppiù demoralizzati da una falsa beneficenza, che apre la borsa e la porge senza abbadare alla mano che vi si immerge, non sentono la umana dignità, e volontieri fanno inchini e genuflessioni, ed a tutto si abbasserebbero purché oziosa trar possano e vagabonda la vita. Lo spettacolo di questi uomini doppiamente infelici, perchè spinti dalla stessa beneficenza nello stato selvaggio, ed accoppianti la miseria dello spirito ai cenci del corpo, anzichè scoraggiare la buona volontà, deve vieppiù eccitarla. Pur troppo ben poco può farsi sulla generazione già adulta, incallita nell'ozio e nel vizio, ma tutto può farsi e con esito certo sulla nascente. Oh si dilati l'istruzione; si dia al figlio del popolo la coscienza di sè e della umana dignità, si incoraggi colla stima che mostriamo portargli, non dimentichiamo che egli è il più importante dei sociali elementi. È il popolo che costituisce gli eserciti; è il popolo che innonda le nostre città; è il popolo che provvede a tutti i nostri agi e bisogni; è il popolo che coltiva le nostre terre; il popolo farà senza di noi, ma noi meschini senza di lui. Donde emerse lo spregio della plebe adunque se non dal guardare leggermente ogni cosa? Il popolo è tale una potenza che perfino il dispotismo più sfrenato sente bisogno d'aversi la sua sanzione o di fingersi averla. Ogni setta, ogni partito vuol averlo amico, perchè cessa col popolo d'essere partito e setta, e diviene coscienza universale. Ma mentre ognuno, per poco rifletta, è forzato d'ammettere la vera sovranità del popolo, pure, illusi dalle apparenze, sedotti noi dalla lunga abitudine di guardarlo dall'alto, ed egli stesso avvilito della sua povertà, abrutito dalla lunga servitù e dallo spregio, perde ogni senso di dignità e tenta stordire i bisogni, ed attutire i dolori, abbandonandosi inerte alla miseria, affogando nelle orgie la troppo scarsa mercede d'improbe fatiche, donde poi sempre più misero n'esce ed abrutito. Eppure questo colosso, i cui fermenti fanno talora impallidire i tiranni, e che, spinto al colmo d'ogni sua pazienza, si erge gigante, recide teste coronate, intere caste travolge nei flutti dell'ira tremenda, e di tutta una regione non lascia che un oceano di sangue, nel quale si affoga la tirannide di tanti secoli (e così bene, che niuno sforzo di potere o di casta saprà tutta risorgerla) questo terribile elemento non si cura, non si educa, non si tenta dargli alcun principio, non si rispetta, e non si smettono sul conto suo pregiudizii ch'egli così ben vendicò sui padri nostri. Urge, e sommamente urge che il popolo s'illumini, si civilizzi, senza di chè vane saranno le nostre aspirazioni alla prosperità nazionale. Indarno tentano svolgersi, in seno alla libertà, libere istituzioni, se, applicato poi, trovansi gravide di disordini per la incoltura del popolo. Indarno noi guardiamo ansiosi ed impazienti ai confini che Iddio segnava al bel paese struggendoci in desiderii, se il popolo non sarà convinto, che combatte per interessi suoi, e per migliorare le sue misere condizioni. Forse avravvi fra voi, lettrici mie, taluna, santamente desiderosa del bene, e che a null'altro aspira che a vedersi tracciata una via; poiché gli è a voi specialmente affidata l'educazione del popolo. L'uomo è assorbito dagli affari, è sviato dagli interessi, è incatenato ad impieghi; voi siete libere del vostro tempo; oh non si sciupi in frivolezze e nonnulla. Non è lecito passar la vita nell'ozio, al passeggio, alle feste, scarozzando la nostra cara personcina dalla città in campagna e dalla campagna in città, custodendoci gelosamente da ogni cosa che disturbi la nostra pace, non guardando in viso mai la miseria ed il dolore, per non averne male ai nervi delicati; ciò tutto è egoismo e nullità; non è per questi fini che Iddio ci arrichiva d'intelligenza e ci faceva battere in petto un cuore capace di portenti se avvenga che abbracci la santa causa del bisogno. Non crediate degnarvi di troppo parlando famigliarmente col bravo figlio del lavoro; la sua mano incallita è più nobile assai della vostra bianca manina sepolta ne' pizzi, chè da lei tragge il pane e la casa tutta una famiglia. Sentite i suoi bisogni, provvedetegli lavoro, incoraggiatelo, mostrategli la stima e la riverenza ch'egli si merita, parlategli dell'associazione dell'industria e del capitale, che sola può emanciparlo dalla tirannide capitalista, provategli i vantaggi della coltura e della civilizzazione, onde assiduo intervenga a quelle istruzioni serali che mercè benemeriti cittadini già sono organizzate in tutte le nostre città. Parlate loro delle patrie speranze, della parte maggiore che a lui spetta nelle battaglie e nei trionfi, e combattete quella scoraggiante parola ch'egli ha sempre in bocca «_qualunque sia l'evento noi saremo poveri sempre!_» Mostrategli invece che l'interesse suo sopratutto si propugna nella causa nazionale, e come non sia che in grembo ad una potente e libera nazione che svolgersi possa l'abbondanza e la prosperità. Ed accennandovi i patrii interessi io già vi supponevo tutte, a non dubitarne, informate ai sacri doveri di cittadine. Nè crediate che le convinzioni vostre poco giovino alla causa nazionale. Voi partorite ed educate la generazione nascente, alla quale incombe di compiere i destini dell'Italia; succhi dessa dunque col vostro latte la religion della patria. Veggano i vostri sposi, amanti, fratelli ed amici la sacra fiamma che il petto vi riscalda; veggano i sacrificii che liete e sollecite recate sull'altare dei patrii bisogni, sacrificii d'oro e di figli, sacrificii d'amore e di famiglia, e ne siano punti a generosa emulazione. Animata la donna dal supremo culto della patria, supera sè stessa, scorda la debolezza della fibra e la delicatezza dei nervi, e giunge talora a far arrossire l'uomo coi prodigi del suo valore. Allorché Mario nella guerra contro i Teutoni ed i Cimbri volse in fuga una nazione di barbari detti Ambroni, le costoro donne si fecero loro incontro armate di spade e di scudi rimproverando loro la vile fuga, uccidendo e ferendo nemici e fuggitivi, e non rinculando mai fino agli estremi. Lo stesso fecero le donne Cimbre. I racconti di Tacito intorno alle donne britanniche ci fanno manifesto che, più degli uomini, erano in quella nazione valorose le donne. Quando Svetonio Paolino assali l'isola di Mona possente di popolo e ricetto dei rivoltosi, stavansi armati e stretti i nemici sul lido frammisti a molte donne. Dopo la presa dell'isola, Svetonio dovette affrontare le schiere britanniche capitanate da Baodicea moglie dell'estinto Prasutago, la quale circondata dalle sue figlie gridava esser le donne use in Brettagna a maneggiar la guerra; ma non venir ella allora a difendere quel regno, sibbene a vendicare i colpi di bastone ricevuti dai Romani e l'onore oltraggiato delle sue figlie. Fatta finalmente prigioniera, Baodicea si tolse col veleno all'onta della servitù. Allorchè la Signoria Turca minacciava di estendersi in Ungheria ed in Italia, le donne, paventando la vergogna del serraglio, spiegarono una energia, ed un valore di cui non sempre furono capaci i più intrepidi eroi. In una città di Cipro frammischiate ai soldati respinsero i Turchi combattendo sulle aperte brecce. Nell'isola di Lenno una donzella, imbrandita la spada e lo scudo dello spento genitore, arrestò i Turchi che già forzavano una porta, e li respinse fino al mare. Le Ungheresi fecero miracoli di valore nelle battaglie e negli assedii contro i Musulmani; le donne di Rodi e di Malta gareggiarono colle Ungheresi e le superarono per la persistenza del loro freddo e paziente coraggio. Così gli annali di quella nazione, come la storia della Veneta Repubblica, sono zeppe dei nomi di donne che eclissarono la gloria dei più prodi cavalieri. Immolare per la patria la vita è cosa tanto comune all'uomo quanto alla donna. Agesistrata, madre di Agide re di Sparta, appendendosi da sè stessa al capestro al quale la dannava l'Eforo Anfare diceva «Volentieri muoio se ciò può giovare a Sparta». Aretafila (contemporanea di Mitridate) tentò ogni via di liberare la patria sua Cirene dalla tirannia di Nicocrate. Benchè questi le fosse amante appassionatissimo e marito, pure veggendo ella soffrire il suo popolo non sapea consolarsene. Vedendo che niuno sorgeva a vendicar Cirene, tentò ella stessa il colpo, ma fallitole e sottoposta ad ogni fatta di tormenti, non però confessò il fatto, finchè Nicocrate, che pur sempre l'amava, si pentì d'averla fatta soffrire, e tentò consolarla con ogni onore e cortesia. Ma Aretafila fissa nel proposito di liberare l'afflitta patria, persuase la sua giovine figlia a sposar Leandro fratello del tiranno e ad eccitarlo con ogni arte a voler tentare la libertà di Cirene. Leandro così pregato dalla sposa, uccise il fratello; ma non però fu libera Cirene, ch'egli molto ben succedè a Nicotrate nel dispotismo e nella ferocia. Aretafila cominciò allora a tendere insidie a Leandro e chiamò Anabo capitano della Libia coll'esercito suo sopra Cirene, e presi con lui segreti accordi, persuase Leandro a venir con Anabo a parlamento. Egli vi andò, ed Anabo circondatolo nella sua tenda lo consegnò ai Cirenaici che, messolo in un sacco, lo gittarono nel mare. Cirene liberata, pregò, Aretafila di accettare le redini del governo, ma la generosa donna, che la patria aveva amata sempre più di sè stessa, consigliò la repubblica a voler volgere ella stessa a meglio le cose sue e si ritirò a menar vita privata. Epicaride, semplice schiava, aveva con tutto il fiore della nobiltà romana congiurato contro Nerone. Scopertasi la cospirazione, arrestati a cento a cento i congiurati e sottoposti alle torture, confessano e scoprono i fili della congiura. Epicaride sola, resiste ad otto giorni consecutivi di torture, e vinta alfine dalla violenza del fuoco, si taglia la lingua coi denti e la sputa innanzi all'imperatore onde porsi nella impossibilità di svelare. Arria, moglie a Cecina Peto personaggio consolare, difendeva sè stessa ed il consorte davanti all'imperatore Claudio, accusati essendo siccome complici nella congiura di Scriboniano contro di lui. Avendo l'imperatore intimato a Peto di uccidersi, e vedendo Arria che la destra gli tremava, sicché non sapeva decidersi a vibrare il colpo, le strappò di mano il pugnale se lo piantò nel petto, eppoi lo porse allo sposo dicendogli, «prendi che non fa male» e spirò. Nel Medio Evo è Giovanna d'Arco che salva la Francia dall'invasione straniera ed impedisce lo sfacelo della Monarchia. Ai nostri tempi è Carlotta Corday che sbarazza la Francia dal terribile Marat. (Vedi Levati, Donne Illustri). Ma lasciamo il campo delle unità, che ci condurrebbero troppo lungi, e che d'altronde potrebbero essere da taluno riguardate come puri fatti personali che poco costituir possono sulla totalità. La donna, che supera generalmente l'uomo in forza morale, e sa sopportare il lento e penoso martirio a cui la condannano, contro lei congiurati, la natura e le leggi, i costumi e gli individui; la donna, che sa trovare nell'anima sua quella virtù perseverante e silenziosa da tutti ignorata, da niuno applaudita, non incoraggiata e sorretta che dall'intima coscienza del dovere; la donna, dico, seppe sempre al par dell'uomo soffrire e morire per le sue convinzioni, dalla madre dei Maccabei che offriva, olocausti d'eroica fede, sè ed i suoi sette figli al Dio d'Israele, fino a madama Roland, che la testa lasciava sotto la scure della rivoluzione, benedicendo pur sempre alla rivoluzione. Che se tutti i Martirologi si adornano copiosamente di nomi femminili, ne sono per sovrappiù altrettanto poveri i vergognosi cataloghi delle apostasie e delle transazioni. La tenacità dei propositi e la inespugnabilità delle convinzioni nella donna, sono un fatto altamente constatato, e che ne farà sempre per ogni partito uh elemento della massima importanza. In tutte le guerre, in tutte le insurrezioni, in tutte le reazioni che hanno per morente un'idea, un sentimento, la donna vi porta tutta la foga d'un'anima giovine ed entusiasta. Sono le donne italiane che insegnano ai loro bambini l'odio dello straniero, che serbano vivo ed immortale, come le vergini di Vesta, il sacro fuoco dell'amor di patria, lo abborrimento d'ogni transazione contro l'insolente usurpazione e, nè dalle carceri, nè dalle flagellazioni vengono domate. Sono le donne polacche che a cento a cento sfidano lo knout e la Siberia, impavide davanti ad una lotta titanica, che altro soccorso non trova che nell'inaudito valore di tutta una nazione di eroi. E farei dei volumi, se tutti volessi porvi sott'occhio i fatti antichi e moderni che provano essere stato sempre il culto della patria principalissimo nei petti femminili. Certo ai tempi nostri non occorre, siccome negli scorsi secoli adoratori della conquista, che una nazione invocar debba in faccia ad un supremo pericolo tutti i suoi elementi a combattere, per cui è la forza morale, è il lieto sacrificio che tocca alla donna. La guerra, ch'è per noi suprema necessità, sarà pei nostri posteri supremo ridicolo, e noi certo non chiameremo a prendervi parte anche chi vi è dai costumi nostri dispensato, chè sarebbe davvero retrocedere il mondo in luogo di spingerlo avanti; ma finché quel giorno non sorga, finché problema di vita e di morte si agita per tante nazioni, oh lasci la donna i gravi nonnulla di che finora occupossi e, vergognando di starsene inerte davanti a tanto lavoro, rechi ognuna la sua pietra al nazionale edificio colla parola, coll'opera, coi mezzi. Non è egli tempo che la donna si ridesti alla coscienza dei doveri sociali, e più non si creda impotente ad utili e serie cose? Non è egli tempo che le sue giornate ed i suoi anni d'altre cose si riempiano che di quelle fastose bagatelle, che lo spirito le impiccioliscono, ed i più generosi sensi le atrofizzano? Non è egli tempo che il suo spirito d'altre cose si faccia curioso che di indagare «_Le vicende ascose_ «_Degli instabili amor, le cagion lievi_ «_Dei frequenti disgusti e i varii casi_ «_Del dì già scorso, le gelose risse,_ «_Le illanguidite e le nascenti fiamme,_ «_Le forzate costanze, e le sofferte_ «_Con mutua pace infedeltà segrete,_ «_Dolci argomenti a femminil bisbiglio?_» Non è egli tempo, che la sensibilità di cui natura la adornava e che di tanta potenza al bene è fonte, più non si sprechi per cause, che non la meritano, e più non si dica di lei ciò che il gran satirico disse della donna del tempo suo, «_Del suo diletto passerin la morte_ «_Fe' rossi gli occhi e li gonfiò di pianto?_» Non è egli tempo, che la donna senta essere chiamata a lavorar di concerto col resto dell'umanità alla diffusione dei lumi, al benessere universale? Non è egli tempo ch'ella ogni lode, ogni ammirazione, ogni simpatia conceda al genio ed alla virtù, trascurando affatto quegli uomini neghittosi, che la vita passano siccome gli accattoni ad esaurire i tesori ereditati dai padri loro, credendosi modestamente l'incarnazione d'ogni eccellenza, e nulla pur facendo per l'umanità; sicchè non continui a meritarsi il severo strale, che Casti le vibrò adombrandola nella leonessa regina, alla quale presentandosi un nuovo cortigiano, siccome «_L'asino lo protesse e lo propose,_ «_Ciò fu bastante, il merto si suppose?_» La conversazione della donna deve essere all'uomo non dilettevole solo, ma utile. I Musulmani gemono sotto la sferza d'una intollerabile noja, si abbandonano ad orgie sfrenate che mettono capo alla totale alienazione, i loro modi sono rozzi e selvaggi, ed i costumi loro ne rilevano il completo abrutimento. Gli è perchè non educando dessi la donna che all'esclusivo fine della femmina essi non ponno a lei rivolgere il moto e le idee. Prive di quello stimolo potente, ch'è per ogni spirito generoso la simpatica ammirazione della donna, prive della forza che scaturisce dalla sua feconda ispirazione, quelle infelici contrade condannando la donna, dannano sè stesse all'abrutimento ed alla stazionarietà. Tutto si agita, tutto si muove, tutto si svolge nella libera espansione della vita dove non è servitù e reclusione di donna. In occidente, dove quelle funebri istituzioni non penetrarono, benché la donna si senta attortigliata da mille legami, ha tuttavia tanto di libertà quanto basta per incuorarsi al lavoro, alla lotta, alla conquista del molto e del troppo che ancora le manca. Ed il mezzo diretto, infallibile, è di rendersi utile all'umanità, è di farle sentire la potenza del suo intervento, il valore intrinseco ed affermativo della sua personalità, gl'immensi vantaggi che le derivano dal tenerne calcolo, dal riconoscerla e dall'impiegarla. In fondo a tutti i problemi v'ha pur sempre un segreto movente d'interesse, dal quale la più generosa filosofia non saprebbe astrarre, e la storia ci presenta a provarcelo tutte le sue pagine, ogni sua riga. L'uomo dunque asservì la donna credendo suo interesse di farlo. Tocca a lei a provargli, ch'egli s'è ingannato, e che dalla sua emancipazione gliene ridonda ben più ricco interesse, vantaggi ben più preziosi. E parlando dello intervento della donna nell'opera universale, reclama di pien diritto un cenno particolare tutto l'elemento femminile insegnante, che dà sì splendide prove della speciale sua idoneità al grave e difficile ministero. Ed invero la pazienza longanime, la innata tolleranza, la voce insinuante, il pronto intuito fanno della donna l'educatrice per eccellenza; e ben desiderabile cosa ella è che i programmi della educazione femminile si allarghino tanto, da rendere possibile alla donna il continuare ed estendere il suo insegnamento oltre gli attuali confini. Non tema la legislazione di affidare alla donna un largo insegnamento. I confini della sua intelligenza furono dessi esplorati? Le risorse del suo spirito son esse dunque esaurite? E come, se da tanti secoli di nullità morale e di morale oppressione, è risorta più animata, più intelligente che mai; e nei tempi in cui l'urto potente delle idee, la lotta delle opinioni, il cozzo dei sistemi, l'agitazione delle filosofie abbujano lo intelletto virile, adesso appunto ella principia a capire, ed ha afferrato la segreta parola che stassene latente nell'umanità, impossibilitata a farsi strada dagli inverecondi rumori che sollevano nel mondo gli interessi dei pochi? L'umanità e la patria, la civiltà e la morale hanno bisogno della donna. Una più lunga assenza morale le confermerebbe sul capo la sentenza, che non fu finora che abuso di forza e figlia di pregiudizio, sentenza di morale inettitudine, che la consegna piedi e mani legati, e colla bocca imbavagliata, in balìa dello spregio insolente, dello scherno inverecondo. Ed invero non puossi negare ch'ella non abbia sentito la loro chiamata e risposto sollecita al loro appello. Essa ha risposto con madama Sand, nome caro alle lettere ed alla filosofia e che di tanta luce d'intelligenza fe' risplendere il suo sesso con quella miriade di volumi, che combattono ad oltranza ogni regresso ed oscurantismo; ha risposto con Miss Beeker Stow, apostolo della civiltà e del diritto nel nuovo mondo, che sola alzò già da tempo la voce poderosa e la parola eloquente a far arrossire l'umanità, che tollera la schiavitù ed il commercio delle anime umane; ella ha risposto coll'indirizzo delle donne del Nord alle donne del Sud, contro la schiavitù dei negri; ella ha risposto con Catterina II, nei suoi tentativi di civilizzazione nelle Russie, che facevano dire al signor di Voltaire, _la lumière nous vient du Nord_. Ella ha risposto colle centinaia, che diffusero e diffondono nella Società utili produzioni letterarie, filosofiche e scientifiche: ella ha risposto colle migliaia che si consacrano al conforto dell'umanità sofferente (sia col pubblico esercizio della medicina come nell'Inghilterra e nell'America; sia coll'assistenza agli infermi negli spedali come in tutta la cristianità) all'insegnamento dell'infanzia d'ambo i sessi, e della gioventù femminile; ella ha risposto fondando, dotando, dirigendo asili, spedali, orfanatrofii e ricoveri per ogni sventura, per ogni bisogno; erigendo dei comitati e delle associazioni per provvedere alle vittime delle patrie guerre, ai rifuggiti delle serve provincie: ella ha risposto e risponde tuttavia con quell'entusiasmo, che s'allieta dei sacrificii alla patria chiamata in tanti anni di reazione, e nella aperta lotta in Italia, ed in Polonia; e di troppa luce rifulge la sua solenne risposta perchè altro non sia mestieri dire al miscredente se non che, _aprite gli occhi e vedete_. Se taluna di voi, che mi leggete, vita neghittosa e vacua trascinasse, si desti al generoso esempio e vergogni la inutile esistenza in faccia a tanto lavoro ed a tanto bisogno. Pensi, che non è lecito viver quaggiù la vita parassita dell'edera che s'aviticchia intorno all'albero e ne succia l'umore, arrampica sul muro e ne rode il cemento. Chi è inutile quaggiù non è inutile solo, è nocivo, epperò nemico dell'umanità, la quale a giusta vendetta lo opprime sotto il pondo del suo più tremendo disprezzo. Non chiamate lavoro la insignificante direzione d'una casa o le industrie d'Aracne; le son queste manualità e dettagli opportuni, e necessarii eziandio, ma che non costituiranno mai un'essere utile alla Società, parlo a voi, donne ricche e colte. Fra voi, più d'una ammazzerà la vita in cotali cose, ch'io chiamerò, e tutta con me l'umanità, esistenza parassita. Ogni vita importa moto, epperò che il nostro corpo agiti più o meno utilmente le sue membra sta bene, ma che lo spirito nostro debba starsene eternamente latente e sopito, egli che è vocato a progredire, egli che vive della vita ragionevole, egli che dai bruti e dai vegetali vi scerne, la è cosa questa, che non da altri mai verravvi predicata che da chi trovi interesse nelle tenebre della vostra mente, nella nullità dello spirito vostro. Non ammettendo io, per natural corollario dei principii fin qui espressi, l'esclusione della donna dalla produzione industriale che importa abilità o vigore di membra, non la posso egualmente escludere da quella parte del lavoro sociale, che esige sviluppo ed applicazione delle facoltà intellettive. Partendo io dal principio, che ogni diritto ed ogni dovere ha per base e per ragion d'essere la facoltà, la quale colla sua legittima pretesa d'esercizio ce ne dà la coscienza, e questo principio reggendo esattamente in ogni essere umano a qualunque sesso egli appartenga, non vedo con qual ragione questa facoltà dovrebbe nell'uno esercitarsi liberamente e talora forzatamente, e nell'altro seppellirsi e soffocarsi affatto; tanto più che, nelle miserrime condizioni in cui versa la società nostra, la donna priva di mezzi di fortuna, impotente pel genere infimo del lavoro attualmente concessole, a sostenersi in faccia alle molteplici esigenze della vita civile, trovasi trascinata da fatale necessità al distruttor mercimonio delle sue membra infelici. Che se parlasi della donna agiata, la cui virtù è dalla educazione fortificata, se avvenga che un rovescio di fortuna la colpisca, chi non freme di vederla precipitare, senza via di mezzo, dalla splendida atmosfera d'una vita irradiata dalla luce dell'intelligenza sotto la sferza d'un'indefessa manuale fatica, che, mentre lo spirito generoso le preme ed angoscia, tanto pur non le acquista da calmare le smanie del dente digiuno? Invero è questo tale problema che reclama potentemente d'essere avvertito dai governi ben intenzionati, ai quali premer debbono il cuore le piaghe sociali, e che la mente si travagliano indefessamente nella ricerca di un rimedio e di un riparo al degeneramento fisico e morale della specie; ed invero il bisogno nella donna non esprime nullameno che questo. Là dove la donna ha duopo dell'uomo per vivere, la sua schiavitù è ben altrimenti dura, che dove questa non trova la sua ragione che nella forza del muscolo. La forza può distruggere l'opera della forza, ma la sferza del bisogno è tremenda; ella doma la più fiera natura, ella espugna la rôcca più salda, e dalla lotta deplorevole e funesta non ne escono che due demoralizzati ed una derelitta posterità. Se non che, dovendo io tornare sull'argomento del lavoro femminile, mi basterà per ora di avvertire le mie colte lettrici, che non si lascino sì leggermente sedurre dalla manía di classificare gli esseri, ed assegnar loro delle funzioni prima di aver ben studiata la natura; poiché gli è per lo appunto uno sterminio di classificazioni che ci abbisogna ora fare per riabilitare la donna e risollevarla dal fango, in cui fu per secoli trascinata. Ci abbisogna ora scernere in lei, attraverso ai pregiudizi antichi, la vera sua potenza, sceverare in lei l'opera della natura dall'opera fittizia della educazione, affinchè più non ripetano i nostri posteri le stolte sentenze, che con sì solenne gravità proclamarono fin qui le menti pregiudicate, _la donna dev'esser così_! Illusi! Studiate la natura in luogo di ammaestrarla; e ricevete voi le sue leggi anzichè volerle imporre le vostre. Ovunque la natura mostra ragione, là v'è dovere e diritto di progresso; ovunque mostra attitudini, là v'è dovere e diritto di funzione; ovunque presenta intelligenza e volontà nell'essere stesso accoppiati, là v'è in un colla capacità un diritto incontestabile al libero ed autonomico svolgimento della vita morale. Certe dottrine, che non riconoscono le unità umane, ma che veggono dovunque degli esseri incompleti, favorendo assai il sistema d'assorbimento inaugurato e gelosamente propugnato dal sesso ora felicemente regnante, trovano facili adesioni e caldi campioni. In quanto a me, sendomi dichiarata nemica di ogni dispotismo, col quale non scenderò mai a transazioni, principio dal rifiutare quelle dottrine coi loro pii corollarii, assumendomi di provare a luogo e tempo, che ogni unità umana ha in sè, da natura, quanto basta per fermare la base d'ogni diritto, pel compimento d'ogni dovere; e che però qualunque limitazione, rappresentanza e tutela esercitata ed applicata oltre i confini assegnati dalla vera e non fittizia natura delle cose, è un attentato mostruoso alla base d'ogni diritto che, non dall'uomo, ma dalla natura fu creata; e qui, come dovunque, dovremo poi constatare, che non si lotta mai con vantaggio contro la natura e le sue leggi morali. LA DONNA E LA SCIENZA Le donne antiche hanno mirabil cose Fatte nell'arme e nelle sacre muse, E di lor opre belle e glorïose Gran lume in tutto il mondo si diffuse. Ben mi par di veder ch'al secol nostro Tanta virtù fra belle donne emerga Che può dar opra a carta e ad inchiostro Perchè ne' futuri anni si disperga. ARIOSTO, _Canto XX_. Ridire tutto che fu detto, pensato e giudicato sulla creduta innettitudine dello spirito femminile alle produzioni dell'intelligenza, non è cosa che in due parole possa farsi. L'uomo, per fini che non è difficile troppo immaginare, tentò sempre persuaderselo, e colla forza e coll'autorità, colla potenza d'una opinione ingiusta, che egli diffuse in ogni modo, tentò persuaderlo alla donna altresì, la quale, a sua volta, siccome avviene che allo scoraggio ed al sentimento della propria nichilità tenga dietro una profonda ed assoluta atonia, principiò a persuaderselo ella stessa, e cadde così nella più funesta sventura che incogliere possa essere morale, nella completa incoscienza di sè, delle proprie facoltà, delle proprie forze. Tutto congiurò ad annichilirla: e la forza brutale, che di null'altro curavasi che di porre a profitto le sue membra a vilissima servitù; e la perpetua soggezione, che la tiene sempre pendente dallo arbitrio altrui, epperò informata la vuole ad estranei interessi; e la incapacità legale, che le è aggiudicata senza restrizione o considerazione d'età o di individuo; e la scienza, che sebbene la vegga starsi coll'uomo in ragione di causa e d'effetto, pure facendo per lei eccezione all'ordine delle cose tutte, pretende che qui soltanto sia la causa d'altra natura dello effetto suo: e la letteratura, che null'altro mai trova di laudabile in donna che l'occhio, le carni, le chiome, il grazioso incesso e le tornite membra; e lo abborrimento che molta parte degli uomini si reca ai gravi studi, onde fastidiosa loro torna ed importuna la donna, il cui spirito serio e colto sentono di non potersi facilmente sedurre colla scarsa scienza di sciorinare scipiti complimenti, nè col natural dono di un prepotente polmone; e lo angusto confine dalle istituzioni d'ogni paese statuito alla femminile coltura; ed il poco caso che sempre se ne fece, sicché dai corpi accademici perfino respinta, quasi gli allori da essi intrecciati non la scienza destinati siano a coronare, ma teste virili puramente e semplicemente. Da tutta questa congiura contro la femminile intelligenza che ne emerse? Ne emerse, che i progressi dello spirito umano siano più lenti; ne emerse che ogni uomo, aventesi ai fianchi una donna, in luogo d'aversi _lo aiuto a lui convenevole_, s'abbia un ingombro; ne emerse che questa creatura, nella quale si innoculò con tanto studio il sentimento della sua innettezza, perda ogni dignità, e con la dignità ogni morale; ne emerse che lo spirito suo, avendosi pur d'uopo d'alimento, nel lusso lo cerchi e nella sola fama concessale di bellezza, e la bellezza procuri con la vanità, e con la vanità resti ogni amor di famiglia assorbito, e si persuada alfine dover ella unicamente, siccome una odalisca, ornarsi a piacere, d'ogni altra cura immemore e non curante. Dietro simile educazione io non seppi mai concepire come si osi menar tanto scalpore del mal costume femminile e della poca costanza di sentimenti, e della mobilità dello spirito, e del vacuo cicalìo, e della inutile vita, e dei mille nonnulla di cui assidua la donna si circonda, così significativamente espressi e riepilogati dagli antichi romani con quel felice vocabolo di _mondo muliebre_! Forse che è lecito all'orticultore querelarsi di raccoglier cavoli dove piantò cavoli, e di non mieter che fieno dove non seminò che erba? Bisogna esser giusti! Cento volte lo dissi ed ancora lo ripeto: lo effetto tien natura della sua causa, e la conseguenza scaturisce spontanea dalla premessa. Oggidì, a vero dire, s'è mitigato non poco il pregiudizio della femminile pochezza d'intelligenza; ma per essere la società nostra meno idrofoba su questo articolo, non è però più larga nell'offrir mezzi di coltura alla donna che, se ella tenta lo innato ingegno volgere ad utili studii, mille materiali e morali imbarazzi le è d'uopo superare e vincere. Angusti e stinchi sono i programmi d'insegnamento che la riguardano. Le si parla di tutto, e quando comincia a comprendere le si chiude il libro dinnanzi e le si dice: _basta_; sicchè, s'ella sortì da natura spirito generoso e nobilmente curioso di sapere, vedesi dannata alla pena di Tantalo, nè v'ha provvedimento alcuno che incoraggi il suo genio, quand'anche prepotente si manifesti in qualsiasi branca dello scibile, mentre centinaia d'uomini, che natura sortiva inetti di spirito ed angusti di mente, insegue inesorabile la sferza del pedagogo, e da lor s'affatica e suda il mal capitato maestro ad estrar lume d'intelligenza, che però mai non giunge. Nè mi si dica che la baldanza del genio giunger deve a domare le difficoltà, a superare ogni barriera. Ciò è vero per alcuni, ma non lo può esser per molti, chè alla lotta non tutte le nature sortono inchinevoli, anche fra i parecchi che aver possono svegliata intelligenza; che se a cotal legge subordinar volessimo tutto il viril sesso (e lo fosse stato fin qui), l'umanità non avrebbe discorso pur la metà del suo intellettuale cammino, chè mancato avrebbe a tutte le intelligenze, che potentemente l'aiutarono, dottrina ed ispirazione. Raffaello non raggiunse la perfezione dell'arte se non dopo aver visto le opere immortali del Buonarotti; Cristoforo Colombo immaginò un nuovo mondo, essendo già peritissimo nauta e geografo; Galilei scopriva il moto della terra, sendo profondissimo in fisica; così Newton l'attrazione astrifera, così Volta la pila elettrica, e così in tutto e sempre procede lo spirito umano dal noto all'ignoto, sendo egli debole nell'intuizione e potente nel raziocinio. Ora, che per aversi comunemente una fiacca opinione della capacità femminile, le si accumulino davanti gli ostacoli, le si tolga ogni mezzo, e le si allunghi il cammino, questo è ciò che non giungo a giustificarmi, chè sarebbe come spargere dei ciottoloni e dei macigni sul suolo dove il bambino muove i primi passi adducendo a ragione ch'egli non sa camminare. Se questo sia logicare ditelo voi? Ma un cotal trasnaturamento dei semplici dettami della ragione non potè farsi universale coscienza, se non per quel difetto di principii che ci è tante fiate occorso di lamentare nel corso di questo lavoro. Gli uomini abbuiati dallo errore, e sedotti dagli interessi, non risalgono ai principii mai, si fanno sordi al dovere, giungono a scordarlo, quindi ad ignorarlo affatto, e la società scende alla fine a non essere altro che un meccanismo svolgentesi colle mobili e gratuite forme della convenzione. Si è convenuto adunque che la donna non deve sapere: epperò si dirige in modo la sua intelligenza, o meglio se ne sopprime così lo sviluppo, da condurla alla perfetta evirazione. Che se alcuna giunge, mediante erculei sforzi, a districarsi da quegli impacci, che ingombrano il sereno ed ampio orizzonte della sua mente, eccole addosso l'opinione co' suoi mille proiettili, ecco la critica coi suoi mille strali, la satira coi suoi morsi, la maldicenza coi suoi pungoli, il pregiudizio, lo scandalo e tutta la falange degli inutili e dei nocivi, di cui il mondo ha dovizia, che la lingua tengono nel nobile esercizio di parlare a proposito ed a sproposito di tutto, e di tutti, asserendo, condannando, ed assolvendo senza darsi briga nessuna di essere giusti e ragionevoli! E come lo sarebbero? Codesta gente (Dio loro perdoni) sono davanti all'umanità, che cammina verso la civiltà e verso il bene, come i ciottoli che si pongono davanti le ruote d'un veicolo; se questo nella sua corsa non riesce a triturarli, soverchiandoli rapidamente senza curarli, esso ne sarà arrestato. E ciò sia detto a voi, giovani mie lettrici, nel cui spirito per avventura allignasse nobile desiderio del sapere, e nel generoso intento veniste scuorate dal più o meno esteso pregiudizio. Coraggio, ed avanti! Il bene, è bene in sè stesso, ed a sè stesso basta, abbia o no l'applauso dei molti; e la coscienza del ben fare è largo compenso all'ignoranza, che non lo sa apprezzare. Nè crediate che l'intelligenza e le sue produzioni siano un privilegio dell'altro sesso chè, abbandonandovi al letargo nella creduta impossibilità di molto fare, nulla poi fate, e ad ozio vergognoso passate i giorni, gli anni, e la vita. Se gli uomini tutti avessero la mente di Alighieri, di Vico o di Macchiavello, l'umanità per vero sarebbe a sufficienza servita, ma le sono queste unità colossali che tutti i secoli celebreranno, vedendosene assai di rado riprodotte le copie, mentre a centinaia ed a migliaia veggiamo intelletti ottusi e spiriti angusti, che appena bastano al disimpegno dei famigliari interessi o di materiali gestioni, che non sono che la quotidiana ripetizione dell'egual meccanismo; chè in quanto ai mille altri che pur raggiungono gradi accademici, quando si considerino i lunghissimi anni di pertinace studio, e i mille mezzi d'istruzione aperti alla viril gioventù, la congiura dei parenti e degli insegnanti, delle istituzioni e delle opinioni, dei mezzi e della necessità a spingerveli, sarebbe invero un disgraziato fenomeno se difettasse loro anche quella facoltà che è la memoria, e quel poco di criterio necessario a rendersi conto di ciò ch'ella ritenne. Che se, dopo pochissima riflessione sul diverso procedere della educazione e dello insegnamento riguardo ai due sessi, veniste a stabilire, che l'uomo ha il privilegio dell'intelligenza; o che non sapremmo cosa pensarci del criterio vostro, o che saremmo indotti nel dubbio che, amando voi sopra ogni utile e nobile cosa la vacuità della vita e la inerzia dello spirito, onde almeno essere a voi conseguenti mostriate portar profonda la credenza della vostra nichilità. Ma s'egli è questo basso fine che vi muove, l'onta vostra non estendete ad altrui, e non calunniate tutto il sesso vostro, che potentemente e vittoriosamente vi risponde col linguaggio dei fatti. Sì, la donna, benché da mille materiali impacci circondata, a gran dispetto d'una educazione che altamente le raccomanda di saper meno che le sia possibile, di sotto all'immane pondo d'una opinione orba di senso morale, che le perdona più presto il mal costume che non il sapere[13], ha saputo ben sovente giungere attraverso a mille ostacoli a mordere il pane della sapienza ed a ristorare le assetate labbra nelle onde immortali d'Ippocrene. Nè le scienze esatte, nè le speculative, nè le opere della fantasia, nè quelle del gusto, nè le arti estetiche, nè le strategiche la trovarono insuscettibile, laonde ciò veggendo cantava lo divino Ariosto: «_Le donne son venute in eccellenza_ «_In ogni arte dove han posto cura_». E questo vi ripete l'antica Didone, che fondava Cartagine e la sua prosperità. La temuta Semiramide, che gettò le fondamenta di quello impero babilonico che assorbir dovea l'Asia tutta, ed i popoli civilizzò e le arti incoraggiò e protesse, e saggia legislazione impose, e vasti ebbe i concetti ed il braccio intraprendente. La fortissima Zenobia, che tenne salde le conquiste del consorte, le estese, e gli eserciti sempre guidò con arte profonda ad infallibile vittoria. Debora che, giudicando Israele con ogni saviezza durante lo teocratico governo, cantava di sè stessa: «Le villate in Israel erano venute meno, erano venute meno, finch'io Debora sursi, finch'io sursi per esser madre in Israel». Ella reggeva Israele nei difficili tempi, in cui stavasene travagliato dalla invasione di Jabin potente re di Canaan, che aveva sopra quel popolo spedito Sisara, del quale un'altra donna sbarazzava Israele. Amalasunta, regina degli Ostrogoti, che saggiamente resse l'Italia nella minorità del figlio Atalarico; e tentò civilizzare i suoi barbari popoli, ed il giovine principe educar fece, in onta ai costumi della sua nazione, nella scienza e nelle arti. La grande Isabella, che sortito avendo alti spiriti, cuor generoso ed indole intraprendente, sola fra i sovrani tutti d'Europa incoraggiava di protezioni e di mezzi Colombo all'alta scoperta, e finché visse lo coperse dalla vigliacca gelosia del consorte, e dalle basse persecuzioni dei grandi. Pulcheria, imperatrice d'Oriente, che preceduta e seguìta da una serie di principi inetti e viziosi, diede, nella durata del suo saggio reggimento, un'epoca di tregua e di prosperità al travagliatissimo impero. Atenaide, quindi Eudossia, che portò sul trono l'amor del sapere, laonde sposa d'un principe inetto, quale si fu Teodosio, giovine e bella nella più svagata e molle e dissoluta corte, qual era quella di Bisanzio, seppe pure la vita nobilitare fra utili e serie occupazioni. Scrisse un poema sulla vittoria delle legioni latine sopra le persiane falangi (l'anno 421). Verseggiò i cinque libri di Mosè e le profezie di Zaccaria e di Daniele. Scrisse un poema in tre volumi intorno a S. Cipriano ed a Santa Giustina, e finalmente pubblicò il Centone di Omero, unica fra le opere di lei che ancor ci rimanga. Elisabetta di Inghilterra, il cui talento politico potentemente si rivelò nei quarant'anni di prosperità che quel paese godè sotto il suo reggimento. Bianca di Castiglia, che resse con forte braccio i Francesi tumultuanti ed insofferenti del suo impero, ed abbenchè piissima, pure liberò i contadini dalla ecclesiastica autorità, che degenerata era in barbara tirannia. Maria Stuard, le cui sventure e la prematura tragedia impedirono solo di sviluppare i germi del raro ingegno. A quattordici anni conoscitrice di diverse lingue, con un'anima profondamente sensibile alle sublimi attrattive della estetica, arringava in purissimo latino la corte francese, che attonita l'udiva, davanti ai capi d'arte. Catterina I, imperatrice di tutte le Russie, che sorta dal popolo, non mostrossi però spostata sul trono, eseguì, dopo la morte del magno Pietro, la sua politica civilizzatrice, fondando i primi corpi accademici a Petersbourg. Catterina II, dal signor di Voltaire chiamata la _Semiramide del Nord_, che seppe sì gloriosamente regnare da farsi perdonare il violento colpo di Stato della notte dell'8 al 9 luglio, col quale sbarazzava il trono dell'inetto marito, e sola impugnava le redini dell'impero. Incoraggiò l'agricoltura, creò la marina, promulgò utili leggi per l'amministrazione e per la giustizia. Chiamò a Mosca i deputati di tutte le provincie allo scopo di riformare la legislazione, e presentò all'assemblea le istruzioni scritte di proprio pugno in francese, e che, traslate poi nel moscovita idioma, stanno deposte nella biblioteca dell'Accademia di Petersbourg. Allargò i confini del già vasto impero, legando a' suoi successori l'indomabile orgoglio della conquista. Cristina di Svezia, che portò sul trono un carattere intraprendente e fermo, e stese i confini del regno di molte provincie, resse con saviezza, amò le arti e le scienze, ed ella stessa lasciò monumenti della sua robusta intelligenza in diverse produzioni. Maria Teresa, che seppe con fermezza straordinaria, in freschissima età, resistere imperterrita a tutta l'Europa coalizzata, sostenendo, contro tutti, i diritti conferitile dalla Prammatica sanzione; ed all'ardua lotta si accinse col tesoro vuoto e 30 mila uomini male organizzati. Ridonata la pace all'impero, resse con scettro materno le diverse nazioni, e misera l'Italia se i suoi successori ne avessero tutti imitata la bontà e la saviezza: essi ci avrebbero adusi a baciare le straniere catene eternamente. Espulse i gesuiti, iniziando così quella riforma che Giuseppe II suo figlio proseguì con sì filosofico e felice ardimento. Nè così presto la finirei, se tutte nominar dovessi le donne che felicemente ressero popoli e nazioni[14], e che nei politici accorgimenti si segnalarono, anche non essendo alla testa degli Stati; riportandomene sopratutto a quella Francia che con una inqualificabile inconseguenza, mentre nega a testa di donna la corona, ed a destra femminile lo scettro, decreta però a quella le cure della reggenza, ed in mano le pone le redini del governo, rendendo così giustizia alla sua capacità nel mentre la insulta coll'esclusione nominale, quasicchè, di fatto, alla suprema reggente d'uno Stato la cuffia differisca dalla corona. Nè meno si segnalò la donna nelle scienze e nelle arti, alle quali ha pur chiuso affatto ogni cammino, e nelle quali non giunge a segnalarsi se non a patto di combattere da sola tutti gli ostacoli frapponentisi, di sollevarsi colla sola potenza del suo genio e della sua volontà, di sempre procedere nell'arduo sentiero senza maestro e senza guida. Saffo di Mitilene, per la classica bellezza dei suoi versi, fu sopranominata la decima Musa. La greca Aspasia salì in gran fama pel suo pubblico insegnamento di filosofia. La celebre Isotta, signora di Rimini, in acerbissima età trattava familiarmente le lingue morte, e versatissima fu in molte scienze e specialmente nella filosofia morale, nella fisica e nella poesia. Maria Cönnitz, versata nella scienza delle sfere, pubblicava, nel 1650, le sue riputate tavole astronomiche sotto il titolo di _Urania propitia_. Maria Angela Ardinghelli, napoletana, fu celebre nelle scienze fisiche e nell'algebra. La nobile Maria Gaetana Agnesi di Milano, fiorita nel principio dello scorso secolo, pubblicava, nell'età di 9 anni (!) una orazione latina in difesa della donna. Negli 11 anni conosceva il greco, tanto da gustarne gli autori e parlarlo speditamente (le lingue morte sono pure i due martirii della studiosa gioventù!) e conobbe il francese, lo spagnuolo, l'ebraico ed il tedesco, quindi l'animo volse a severe discipline. In età di 16 anni traslatò i supplementi del Freinsemio al Q. Curzio in quelle quattro lingue. Nel 1748 pubblicava il suo testo delle Istituzioni Analitiche, tanto di poi riputato, per cui Benedetto XIV la chiamava a coprire la cattedra onoraria d'analisi nell'università di Bologna. Non vuolsi ommettere, che questa rara donna accoppiò allo splendore dell'intelligenza la più profonda modestia, e la più integra virtù ad una peregrina bellezza, cose tutte che, per esperienza della pochezza della umana natura, sembrano, se non elidersi, certo almeno ben difficilmente accoppiarsi. Giuseppina Renier, della famiglia dei dogi Renier, donna di finissimo spirito, del quale fanno chiarissimo testimonio le opere da lei lasciateci e specialmente la sua accreditatissima storia: _Delle origini delle feste Veneziane_. Tullia d'Aragona, autrice del poema epico il _Meschino_, e chiara in ogni poesia. Teresa Bandettini, poetessa estemporanea. Tradusse i Paralipomeni e pubblicò il poemetto l'_Adone_ del Teseide, del Montramito e del Viareggio. Fu eccellente nella lirica e nelle cantate, nelle odi e in ogni forma poetica. Properzia dei Rossi, fu, nel secolo XV. pittrice e scultrice di molta fama. Rosalba Carriero, giunse a grande fama d'artista nella miniatura e nel pastello. Anna Monticelli, napoletana, fu chiara nel diritto. Pellegrina Amoretti, fu laureata in legge nell'università di Pavia, ed a profitto dei poveri sempre volse la rara eloquenza. Suor Maria Dominici, Ginnasi Catterina, Angela Cantalli Cevazza, Camilla Lauteri, Elisabetta Lazzarini, Isabella Pozzo, Lucia Scalini, Lucrezia Quistelli, Annida di Massimo, Arianna Maria Galli, Luigia Capomazza, Ginevra Gentosoli, Francesca Fantoni, Barbara Longhi, Veronica Fontana, Teresa Muratori, Teresa dal Po, Maria Robusta Tintoretta, Elena Recca, Lucrezia Scanfaglia, Flaminia Reggio e le tre sorelle Siriani, tutte, coltivarono con fortuna la pittura e tutte nel secolo XVI, secolo che altre assai ne conta, ma troppo lungo sarebbe lo annoverare. Maria Teresa Agnesi coltivò la musica, e delle sue composizioni ancor ci rimane la _Sofonisba_. La francese letteratura illustrarono la Scudery, la Fayette, Ninon, madama di Sevigné (le cui lettere sono tuttavia testo di stile epistolare), madama di Montespan, madama Maintenon, madamigella Lolotte. Nella filosofia morale si distinsero madama Neker, che nel suo trattato d'educazione rivaleggiò il famoso Emile di Rousseau; la marchesa di Sablé, madama Genlis. Nella filosofia sociale: madama Staël, e quel sommo intelletto che oggidì illustra la Francia sotto il pseudonimo di Giorgio Sand, Anna Dupin, baronessa Du Devaent, che tanta luce profonde sulla filosofia razionale, nei suoi numerosissimi lavori. In Italia coltivarono filosofia: Vittoria Colonna, la Stampa, la Gambaro, ed oggidì trattano morale filosofia la Guidi, la Ferrucci, la Torsellini, ed altre assai che la vita consacrano allo insegnamento della femminil gioventù. L'Irlanda vanta: in Maria Edgewort, l'inventrice del romanzo storico ed il fecondo ingegno che una miriade nel popolo ne diffuse a piacevolmente istruirlo. L'Inghilterra, le cui donne sono colte, ci mostra con orgoglio miss Witt Mario, vasto e profondo intelletto che dalla cattedra di New-York dettava all'accorsa gioventù i dettami del viver civile: e l'America del Sud, nel giorno in cui si leverà, colla schiavitù dei negri, la macchia che la deturpa, ergerà un monumento a miss Beecker Stow che le fa, col potente e benefico ingegno, da sentinella avanzata della civiltà. E dopo tutto il fin qui esposto ed il molto più ancora taciuto, che però le mie colte lettrici non ignorano, sulla potenza del femminile ingegno, non ci sembrerà certo adulazione ciò che Ariosto scrisse, ma essere pura e semplice verità. «_Le donne son venute in eccellenza_ «_In ogni arte dove han posto cura_». Perchè, mai adunque non porrebbero desse cura a coltivare in sè stesse, dalla età tenera, questi preziosi doni di cielo? Non sapete voi che l'umanità si travaglia per penuria d'intelligenza, e che la civiltà non potrà mai rapidamente universalizzarsi finchè non si generalizzi nella donna l'amor del sapere? Che non mai tanto l'uomo sarà punto a generosa emulazione, come quando temerà di vedersi per ogni dove dalla donna superchiato? Che non mai sarà la umana società tanto felice come quando l'uomo volgerà le sue mire conquistatrici al nobile primato dell'intelligenza, più non curando il primato del muscolo? Nè mi fate le timidi obiezioni dell'opinione, della critica, del biasimo. Per dio! siamo abbastanza numerose da formar noi pure un'opinione, un criterio, una coscienza; siamo una massa abbastanza compatta e potente da combattere con vantaggio e con successo contro la guerra di polmoni, che ci può muovere la opinione, che in molta parte da noi stesse è formata. «_Non distrugge città guerra di lingue_» come non consuma i libri la critica più spietata, come il sole non perde pur uno de' suoi raggi per agglomerarsi di basse nubi. È d'uopo che la donna alfin si sollevi al sentimento del suo intrinseco valore, e sè stessa estimi per quel che vale, e non dall'altrui giudizio sempre servilmente aspetti ed apprenda la cifra del suo valore. Si parlò da molti, e noi stessi parlammo, della influenza della donna nella famiglia e nella società, influenza che ogni esistenza esercita sulle vicine direttamente od indirettamente pel natural ordine delle cose, e nel caso nostro anche infinitamente più sentita, sendo i rapporti della donna coll'uomo tutti affettivi, epperò questo ascendente suo potente e diretto. Ma avviso nostro non è soltanto, che educare e coltivar si debba la donna, affinchè miglior utile rechi all'uomo, e più così a lui s'aggiunga di potenza morale chè, quando tutti qui fossero i motivi, che portar debbono la donna alla scienza ed allo sviluppo delle sue morali facoltà, rispondendo lo egoismo femminile degnamente al virile, potrebbe dessa, con qualche ombra di ragione, ricovacciarsi per altri secoli nella sua tranquilla nullità, dicendo: se l'uomo tentò abrutire il mio spirito, perchè mi affannerò io a produrre per lui; raccolga egli ciò che ha seminato, non trovi che nullità ove non piantò che ignoranza, e vizio mieta dove non seminò che pregiudizio. Perchè mi sacrificherei alla famiglia? Perchè ogni dolore incontrerei lieta per una prole che, adulta, imparerà dalle istituzioni del suo paese ad avermi in poco conto; per un consorte, che verso di me modestamente s'intitola padrone unico ed assoluto? Perchè sentirei io pietà del povero, mentre la mia stessa proprietà è soggetta all'arbitrio altrui, ed in faccia allo Stato tutti i danni soffre, e non gode nessun dei vantaggi? Perchè lo egoista istinto materno immolerei alla patria; e l'oro e le gioie e l'opera le consacrerei, se la schiavitù mia sta sotto ogni forma di governo nazionale o straniero, laonde le patrie questioni non sono per me che tesi astratte e di remotissimo interesse? Perchè ogni impulso di natura aggiogherei, tiranneggiando me stessa, per piacere ad un uomo che non si dà per me l'egual pena, creando a sè una morale dagli ampii margini, mentre a me disegna i confini più angusti appena escogitabili dal personale arbitrio? E la donna così pensando, ed operando in conseguenza, scarsa vendetta farebbe delle patite enormità; e non potrebbe l'uomo troppo lagnarsene: ed ella avrebbe il pien diritto di cavare cotali conclusioni dalla lunga storia de' suoi martirii. Ma oltrecchè la donna, fornita ben più dell'uomo d'animo generoso, di raro i conti suoi fa colli interessi, e sempre col cuore; ella così facendo non farebbe che ribadire le catene della sua schiavitù, ed affermare la nullità della sua intelligenza. Laonde non quei soli indiretti motivi portarla debbono a coltivarsi, ma altresì lo suo stesso interesse e diritto e dovere. E dicemmo diritto e dovere; e questo diritto e questo dovere stanno, in onta alla secolare oppressione in cui giacque la intelligenza femminile. Ed egli è appunto perchè il sapere è suo diritto e suo dovere, che vani riescirono tutti gli ostacoli, deboli i ceppi, sprezzate le autorità, superate le barriere, vinte le lotte, il sarcasmo domato e spuntati i ridicoli. Gli è appunto perchè il sapere è suo diritto e suo dovere, che l'uomo ragionevole ed equo piega alfine la vinta cervice innanzi allo splendido vero, alla evidente affermazione del fatto. Gli è appunto perchè è suo diritto e suo dovere, ch'ella pronta e spontanea rispose all'appello della civiltà, e di sè ingombra infinite scuole, dove la filosofia parli al popolo un benemerito; ed atto assiduo di presenza fa agli atti del nazional parlamento, rendendo talora più significativo il contrasto fra le affollate tribune e i vuoti stalli. Sì, il diritto ed il dovere sono ovunque dall'ordine delle cose posti in rapporto di causa ed effetto. Le attribuzioni dell'essere o della cosa determinano la sua destinazione, ed ecco il dovere; la potenza di porre quelle attribuzioni in moto a raggiungere quella destinazione, ecco il diritto. La donna, dotata d'intelligenza, ha tracciato il dovere nello sviluppo e nella applicazione di codesta medesima intelligenza, e nessun dovere mai fu sì fecondo in diritti. Lo sviluppo dello spirito e l'applicazione utile ed assidua delle sue facoltà importa l'affermazione del suo intrinseco valore donde l'estimazione, donde la consacrazione della sua autonomia, la abolizione della sua perpetua minorità, la libertà de' suoi atti, un diritto civile, un diritto politico, un più lato programma d'insegnamento, un vasto orizzonte discoperto alla nobile curiosità della mente, un utile e fecondo riempitivo alla sua vita, un rimedio potente e certo contro l'irrefrenabile sbadiglio cui è dannata dalla sua presente nullità. Oh venga presto quel giorno, che deve certo venire, nel quale la donna, profondamente compresa dalla coscienza de' suoi destini, e della propria virtù, forte del sentimento del proprio diritto, sorga a rifarsi con assiduo e nobile lavoro della nichilità morale di tanti secoli! Sorga quel giorno, che certamente verrà, nel quale la donna trovi nel tesoro della sua intelligenza la leva potente a sollevarsi dal petto quella pietra sepolcrale che la segrega, siccome cosa spenta, dal consorzio dei viventi alla vita morale! Oh spunti quel giorno, di cui già si traveggono i felici albori, nel quale la donna ogni ammirazione volgendo al genio ed alla virtù, si sbarazzi all'intorno di quei sdulcinati ed imbelli amatori, che nulla di meglio nè in sè, nè in lei ora trovando, cantano in essa: «_Stelle gli occhi, arco il ciglio, e cielo il viso,_ «_Tuoni e fulmini i detti, e lampi i guardi,_ «_Bocca mista d'inferno e paradiso;_ «_E che i sospiri son bombe e petardi,_ «_Pioggia d'oro i capei, fucina il petto_ «_Ove il magnano amor tempera i dardi_». Oh vergogni ogni donna di non ispirar nulla di meglio che di codesta roba! sì, meschina lei, finché null'altro trovasi di laudabile in lei fuorché ciò che non è suo. Non è possibile dirle più civilmente, con la migliore volontà del mondo, non posso farmi più onore di tanto, con sì meschino e sgraziato argomento. Giovani colte e lettrici mie, a voi tocca, ed a voi sopratutto importa che quel giorno presto si levi sull'orizzonte; e da voi eziandio affatto dipende. Oh spogliatevi delle inutili vanità, sgombrate il cieco pregiudizio, scuotetevi di dosso la indolenza dello spirito, fortificatelo ai gravi studii, volgetelo alle severe discipline, e sorgendo voi a nuova vita, un vivo impulso darete a tutta quanta l'umanità, che il vostro morale intervento aspetta, a completare l'opera sua col concorso di tutti gli elementi che la compongono. So che pur troppo tutto da voi non dipende: so che un dovere finora trascurato dalla società è la istruzione vostra, la quale non è per ora che un semplice dirozzamento, e quasi non basta neppure a darvi la coscienza del troppo che vi manca. Urge, per dio! che la coscienza pubblica si pronunci su questo bisogno! La donna è dalla legge punita quando trovasi in contravvenzione, eppure non le si dà nozione alcuna del diritto; la civil società la respinge siccome _incapace_, ma nulla le si insegna di ciò che può farla capace: l'opinion generale diffida della sua intelligenza ad onta dei fatti che l'affermano, ma non le si presenta niun mezzo di sviluppo e d'applicazione. Dichiarata non responsabile ed incapace in ogni atto che le dà dignità e le suppone intelligenza, responsabilissima reputata in ciò che la infama, e capacissima di ciò che la fa punire o spregiare, ella è veramente in faccia alla umana dignità il Paria e l'Ilota, col quale sì la legge che l'opinione non si danno pena alcuna d'esser logiche, conseguenti ed eque. L'istruzione ed il lavoro, ecco le sole forze che possono e debbono risollevare la donna ed emanciparla. Finché la società non l'avrà fatto, nessun argine resisterà al torrente della corruzione, niuna diga si opporrà al degradamento morale e materiale della specie. Nè la legislazione potrà dirsi filosofica e razionale finché di tutti i componenti la società umana non avrà tenuto conto, e non tutti avrà veracemente tutelato; nè le istituzioni potranno dirsi libere fino a che un elemento così numeroso qual è il femminile, dovrà tutte subirle, senza contribuire alla formazione loro; nè la civilizzazione potrà dirsi, non che compiuta, neppure iniziata, finché tanto resta nella società, che civile si chiama, d'ignoranza procurata, di forzata servitù e di insultante ostracismo sopra umane creature: nè un secolo potrà dirsi illuminato se non riconosce il diritto dell'intelligenza ovunque si trova. Istruite la donna! Se la natura non l'ha fatta pel sapere, ella non risponderà all'appello della scienza; ma s'ella vi risponde, allora è nell'ordine di natura e di provvidenza ch'ella concorra al sociale edificio. Ella ha diritto al più pronto sviluppo delle sue facoltà; vi ha diritto morale e giuridico. Lo Stato paga delle università per gli uomini, delle scuole politecniche per gli uomini, dei conservatorii d'arti e mestieri per gli uomini, degli istituti d'agricoltura per gli uomini. E per la donna? Potrà egli seriamente dirsi che lo Stato si occupi di lei? Le scuole primarie! Ecco tutto. Eppure lo Stato le impone delle leggi, la punisce nelle contravvenzioni, ha per lei dei tribunali, delle prigioni, e per la sua proprietà delle imposte. O non si consideri la donna neppur nei doveri, o le si accordino anche i diritti, senza di che lo Stato è colpevole verso di lei di violenza e di furto! E come noi severamente giudichiamo l'antica e barbarica tirannia, i posteri così giudicheranno quella del secolo XIX. Finirò colle parole di Fourier nel suo libro: _Théorie des quatre mouvemens_. «Che gli antichi filosofi di Grecia e di Roma abbiano sdegnato gl'interessi della donna non ci sorprende, dacchè questi rettori erano tutti partigiani innoltrati della pederastia, ch'essi avean levata in grand'onore nella bella antichità. Essi gettavano il ridicolo sulla frequentazione della donna, ed era questa passione considerata ignominiosa. Costumi siffatti ottenevano l'unanime suffragio dei filosofi che, dal virtuoso Socrate fino al delicato Anacreone, non proclamavano che l'amor sodomita ed il disprezzo della donna; la quale, quindi, relegata ad un secondo piano é rinchiusa siccome in un serraglio, era bandita dalla società, degli uomini». «Siffatti bizzarri gusti, non essendo in favore presso i moderni, non si può a meno di meravigliare che i nostri filosofi abbiano ereditato l'odio di quegli antichi sapienti per la donna, al proposito di astuzie, alle quali è forzata dall'oppressione che sopra le gravita, e dacchè le si costituisce un delitto d'ogni pensiero o parola conforme al voto della natura. «Chè di più inconseguente dell'opinione di Diderot, dove pretende che per iscrivere alla donna è d'uopo intinger la penna nell'_Iride_ e spolverare lo scritto col _pulviscolo delle ali della farfalla_? Le donne possono rispondere ai filosofi: «La vostra civilizzazione ci perseguita dacchè obbediamo alla natura; ci si sforza ad assumere un carattere fittizio, a non ascoltare che impulsi contrarii ai nostri desiderii. Per farci gustare dottrina siffatta è ben d'uopo mettere in giuoco le illusioni ed il menzognero linguaggio, come fate al soldato per illuderlo sulla sua misera condizione. S'egli fosse davvero felice, potrebbe accogliere un linguaggio semplice e vero, che hassi gran cura di non tenergli. Lo stesso è della donna; se libera fosse e felice, ella sarebbe meno avida d'illusioni e di _moine_, e non sarebbe d'uopo, scrivendole, di porre a contributo nè l'iride, nè la farfalla». — Pag. 146 e 147. «Quando la filosofia satirizza e schernisce i vizii della donna, essa fa la sua stessa critica; è dessa che produce quei vizii per un sistema sociale che, comprimendola fin dall'infanzia e durante tutto il corso della sua vita, l'astringe a ricorrere alla frode per abbandonarsi alla natura. «Voler giudicare la donna sul viziato carattere ch'essa spiega nella civilizzazione, equivarrebbe al voler giudicare la natura virile sul carattere del contadino russo, che non ha idea nessuna di libertà e d'onore, e sarebbe come giudicare il castoro sull'imbecillità che mostra nello stato domestico, mentre che nello stato di libertà e lavoro combinato, esso è il quadrupede più intelligente. Lo stesso contrasto apparirà fra le donne schiave della civiltà e le donne libere dell'ordine combinato[15]». «Esse sorpasseranno gli uomini in industria, nobiltà e lealtà, ma fuori dello stato libero e combinato, la donna diviene come il castoro famigliare ed il contadino russo, un essere tanto inferiore ai suoi destini ed a' suoi mezzi, che si inchina a spregiarla, quando dalle sole apparenze e superficialmente si giudichi». — Pag. 147. «Una cosa sorprende ed è, che le donne sonosi ognora mostrate superiori agli uomini, quando poterono sul trono spiegare i loro naturali mezzi, dei quali il diadema garantisce loro il libero uso. Non è egli certo che, sopra otto sovrane libere e senza consorte, sette hanno regnato con gloria, mentre sopra otto re contansi generalmente sette sovrani inetti? Le Elisabette, le Catterine non facevano la guerra, ma sapevano scegliere i loro generali, e basta per averli buoni. In ogni ramo d'amministrazione, le donne non hanno desse ammaestrato gli uomini? Qual principe ha superato in fermezza Maria Teresa, che in mezzo a supremi disastri, davanti alla vacillante fedeltà dei sudditi, in mezzo a ministri, come percossi da stupore, sola intraprende di tutti incuorare? Ella sa intimidire la dieta d'Ungheria, indisposta a suo riguardo, arringa i magnati in lingua latina e conduce i suoi propri nemici fino a giurare sulle loro spade di morire per lei. Ecco un sintomo dei portenti che opererebbe la femminile emulazione in un ordine sociale che lascierebbe un libero sfogo alle sue facoltà». — Pag. 148. «E tu, sesso oppressore, non sorpasseresti tu i difetti rimproverati alla donna, se una servile educazione ti informasse per crederti, siccome lei, automa fatto per obbedire a tutti i pregiudizii, e per strisciare davanti ad un padrone che lo azzardo ti darebbe? Non si sono esse viste le tue pretese di superiorità confuse da Catterina, che si pose sotto i piedi il sesso virile? Istituendo dei favoriti titolati ella ha trascinato l'uomo nel fango, ed ha provato così, che l'uomo può, nella sua piena libertà, annichilirsi egli stesso al disotto della donna, il cui avvilimento è forzato, e per conseguenza perdonabile». «Sarebbe d'uopo, per confondere la tirannia degli uomini che esistesse per un secolo un terzo sesso, androgino, e più forte dell'uomo. Questo nuovo sesso proverebbe a colpi di bastone agli uomini, ch'essi son fatti pel piacer suo quanto le donne. Udrebbersi allora gli uomini protestare contro la tirannia del sesso ermafrodita e confessare che la _forza esser non debbe l'unica norma del diritto_. Ora questi privilegi, questa indipendenza, ch'essi reclamerebbero contro il terzo sesso, perchè rifiutano essi d'accordare alla donna?» — Pag. 148. «Segnalando quelle donne, che seppero prendere un libero slancio, dalla virago, come Maria Teresa, fino alle tinte più dolci, come le Ninon e le Sevigné, sono in diritto di dire, che la donna in istato di libertà sorpasserà l'uomo in tutte le funzioni dello spirito e del corpo che non siano di competenza della forza fisica. «Già l'uomo sembra presentirlo; e si sdegna e si allarma quando la donna smentisce col fatto il pregiudizio che le accusa d'inferiorità. _La gelosia virile si è sopratutto manifestata contro le autrici: la filosofia le ha espulse dagli onori accademici, e rinviate ignominiosamente al domestico focolare_». — Pag. 148. «Qual'è oggi l'esistenza delle donne? Esse non vivono che di privazioni; anche nell'industria l'uomo ha tutto invaso fino alle minute occupazioni dell'ago e della penna, mentre veggonsi donne sobbarcate ai penosi lavori dell'agricoltura. Non è egli scandaloso di vedere atleti di trent'anni aggomitolati davanti ad un banco, o vettureggiando colle braccia vellose una tazza da caffè, come se mancassero donne o fanciulli per le occupazioni del banco o della casa?» — Pag. 159. «Quali sono dunque i mezzi di sussistenza per la donna priva di mezzi? La conocchia ed i suoi vezzi quando ancora ne ha. Sì, la prostituzione, più o meno velata, ecco l'unica risorsa che la filosofia loro ancora contende; ecco la sorte abietta ove le riduce questa civiltà, questa conjugale schiavitù ch'esse non hanno pure pensato ad attaccare» — Pag. 150. Fin qui Fourier, ed io, donna, a nome di tutto il mio sesso me gli protesto ben riconoscente, che la penna eloquente abbia impiegata per una causa, che interessar deve ogni spirito equo e generoso. Se non che, rivolgendomi di bel nuovo alla donna, le ricorderò, che se è dovere dell'uomo l'essere giusto; se sostituire dovunque il diritto alla forza è compito della filosofia; se l'uguagliare tutti gli individui dello Stato davanti alla legge, è opera doverosa della legislazione; è però dovere, diritto, interesse supremo e vitale della donna, che la iniziativa di queste riforme vengano da lei stessa. La storia ve lo ripete ad ogni pagina, ad ogni riga. I diritti e le libertà ottenute in dono sono illusorie; esse così sciolgono dalla servitù materiale, per travolgere sotto una schiavitù morale colui, che fu abbastanza codardo da non conquistarsela colla propria virtù. Il dono addormenta la coscienza del dovere e del diritto in luogo di svegliarla; ci adusa a lasciarci tutelare; ci sninnola in grembo ad un illusorio ottimismo, e così, coll'atonia dello spirito, ci riconduce pian piano alle catene. La donna fece sopra sè stessa, ed a sue spese, questa triste esperienza. Nel Medio Evo le corti d'amore diedero alla donna il nome di regina e di signora, essa fu elevata, fu magnificata, fu idolatrata. Ma quel culto era gratuito, era dono dell'uomo, di quell'essere bizzarro che, mentre allora si faceva trafiggere da mille spade, per meritarsi uno sguardo dalla donna de' suoi pensieri, trova ora esorbitante che ella voglia essergli compagna piuttosto che schiava. Ora la donna non si curò in allora di affermare la propria individualità; e sebbene delle più e men numerose unità sorgessero qua e là a tener desta e viva nel mondo l'idea della sua potenza intellettiva e morale, la massa femminile, cullata fra le nenie dell'amore, le si affidò all'intutto, e si addormentò di sonno profondo nel grembo di quella deità capricciosa. Avvenne ciò che avvenir dovea. Ella si destò, ma la sua condizione era affatto cangiata. Amore e Mammona occuparono il suo posto sull'altare venerato, l'uomo fu sacerdote, ed ella l'ostia ch'egli immolò in omaggio a quella copia mostruosa. Niun diritto, niuna libertà è potentemente affermata se a quella libertà non si accoppia la coscienza, a quel diritto non si aggiunge la potenza e la volontà di esercitarlo. Ora questa potenza, questa volontà, questa coscienza non può essere impartita che con una seria educazione, colla innoculazione della sapienza. Madri! se punto vi preme che le figlie vostre siano più felici di voi, oh non tardate a procurare alle loro facoltà il più pronto e più lato sviluppo. Sopra di voi, sulla tenerezza vostra, sulla vostra coscienza riposa tutto l'avvenire di una generazione. Madri! se punto vi preme e v'importa la riverenza dei vostri figli, oh! risollevatevi agli occhi loro colla forza della volontà e colla coltura dello spirito; che se adulti vedere dovranno il vituperio, che aduna sulle vostre fronti una generazione ingenerosa, ne tocchino però essi stessi con mano la flagrante ingiustizia, e si preparino a riscattarne le loro spose, figlie e sorelle. Ricordatevi che l'ignoranza, e la servitù della donna suonano ineluttabilmente, per lei, avvilimento, miseria, prostituzione; per l'uomo, corruzione, abrutimento; per la specie, degeneramento; per la filosofia un problema vitale insoluto; per la civiltà, una impossibilità di avvanzamento; per tutta l'umanità, un immenso ritardo nel suo cammino. Finirò col rivolgere a tutte le donne che trattano la penna, quelle severe parole di Fourier, amico generoso del sesso femminile, e verso il quale ogni donna, che ha un cuore, tiene un debito di gratitudine. Rimproverando egli loro con amarezza, di occuparsi così poco dei loro stessi interessi, egli scrive: «La loro indolenza in questo argomento è una delle cause, che hanno aumentato il dispregio dell'uomo. Lo schiavo non è mai più spregevole che quando, colla cieca e muta sommissione, persuade l'oppressore che la sua vittima è nata per la schiavitù». — Pag. 150. Infatti che fa la penna in mano alla donna, se non serve per la sua causa come per quella di tutti gli oppressi? Non basta che la donna, colle molteplici produzioni della sua mente, porti ogni giorno davanti alla società una nuova affermazione della sua intelligenza. Ciò sarebbe come pretendere che un popolo si sbarazzi da uno straniero dominio a furia di legali dimostrazioni. Lotta, lotta aperta vuol essere contro l'ingiustizia e la prepotenza. Non vedete che ogni dispotismo non allarga d'un anello le catene della sua vittima che quando sente stringersi al collo il nodo scorsoio? Temete forse l'opinione, il sarcasmo, il ridicolo che l'uomo tenta gettare a piene mani sulle aspirazioni della donna onde scoraggiarla dal generoso assunto? Tenetevelo per fermo, egli avrà ben più voglia e diritto di sorridere se non lo fate. Il vantaggio sarà tutto suo. LA DONNA IN FACCIA AL DIRITTO Tutti gli uomini hanno diritto di concorrere a quei beni che sono atti a conservare ed a _perfezionare_ il proprio individuo. Il diritto più eccellente dell'uomo è la libertà e l'indipendenza. Questa libertà comune, è una conseguenza della natura dell'uomo. .... giunto all'età della ragione, diviene egli solo giudice dei suoi mezzi e padron di disporne. Non può l'uomo cessar d'essere uomo, per divenire una cosa. Un particolare che aliena la sua libertà è folle; e la follia non può dare un diritto. Un tal atto è illegittimo e nullo. Tutti gli uomini sono uomini; che vuol dire; tutti hanno la stessa natura e gli stessi attributi essenziali; onde nasce per tutti l'identità dello stesso fine e degli stessi doveri. L'eguaglianza degli uomini in natura è la sorgente della benevolenza e dell'amore. L'uomo si porta ad amar sè stesso nei suoi simili. Se tutti gli uomini sono naturalmente eguali, niuno può nascere con un diritto di comandare ad un altro. TAMBURINI, _Corso di Filosofia Morale_. Se il dovere che ci sforza all'abnegazione ed al sacrificio, che ci grava di peso e di responsabilità, che c'impone talora di camminare a ritroso delle nostre tendenze ed aspirazioni rimorchiando fin la natura; se il dovere, dico, non facesse capo al diritto, egli non sarebbe che un sentiero senza meta, un indirizzo senza scopo, un tiranno che del tiranneggiare si fa gioia e sollazzo, godendosi di curvare l'umana fronte sotto un giogo ingeneroso, che tutte le nobili facoltà ne sfiacca e consuma in una tremenda quanto inutile lotta. Ma no; il dovere che la legge suprema della morale (che è in altri termini la legge dell'ordine) ci indica siccome necessità, non è che mezzo a raggiungere l'ordine, l'armonia, lo equilibrio sociale, donde il benessere e la perfettibilità universale, altissima meta che provvidenza ebbe additata ad ogni ragionevole esistenza. Ora, siccome il viandante che cammina alla patria, col desiderio a quella rivolto e colla mente di quella solo preoccupato, necessariamente sollecita il passo e dal suo sentiero il piede non ritorce, nè sedotto dalle bellezze incantatrici del paese che percorre, nè allettato dal mormorìo dei ruscelli, nè dall'ombra ospitale delle quercie secolari, ed instancabile batte la sua via, benché grondante sudore e dardeggiato dal sole, ripensando in cuor suo per aggiungersi lena il domestico letto, e il desco famigliare e il casto amplesso della sua donna e la giuliva e trepida corona de' suoi bambini; ogni essere umano così, incontra coraggioso il difficile e penoso dovere, quando a capo di quello veda ampia e proporzionata mercede. E gridi pure a suo senno la stoica filosofia, che proclama esser la virtù premio e corona alla virtù; che vuole accumuli l'uomo buone azioni a buone azioni, e lotte e sacrificii a sacrificii e lotte instancabilmente aggiunga, senza vuoto lasciarvi mai, e questo chiami felicità suprema e massimo piacer della vita. In quanto a me, ammirando la forza invitta di quei filosofi che lo eroismo si bevvero siccome l'acqua, odo tuttora la voce del moribondo Bruto, che lagnasi dell'error suo. «Infelice virtù, esclama egli, oh quanto mi sono ingannato nel seguirti! Io credea pure che tu fossi un ente reale, ed in questa convinzione mi ero attaccato a te stessa; ma ora m'aveggo, che tu non eri che un nome vano, ed un vano fantasma, misera preda, e schiava tu pure della fortuna!» E Bruto, così desolandosi, era logico; egli era veramente la vittima di un errore, egli scambiava il mezzo col fine. La virtù importa sforzo e violenza; e se questa violenza può riescire di compiacimento massimo allo intelletto, quando sovratutto ad alti fini s'ispira, esser non può mai gioia e piacere a quella parte dell'uomo che trovasi violentata, epperò è per sè stessa insufficiente a darci felicità. È duopo dunque, che noi vediamo nella virtù un mezzo che ci guida alla conquista del bene, e non già l'ultimo fine dell'uomo. Nè crediate già, mie gentili, ch'io così voglia ridur la virtù ad un mercato, strappandole dal capo quell'aureola luminosa di cui seppe lo stoicismo incoronarla per poi presentarla all'umana schiatta, siccome sola divinità alla quale piegare il ginocchio ed ardere incenso, mai no; la virtù deve farsi sublime ed eroica nel vincolo solidale che legar deve gli uomini d'ogni regione; laonde il bene universale cerchi e procuri prima ed a preferenza dello individuale, e reputi degna ed invidiata mercede al proprio lavoro il bene altrui. Questo è la logica della virtù ed il suo eroismo: lo stoicismo è assurdo e follia. Il gratuito non è degno mai dell'essere razionale, e non mai indicato, nè tollerato mai dalla natura, la cui sete continua è l'ordine e l'equilibrio; epperò l'uomo, che oggi combatte sè stesso senza prefiggersi a ciò fare un utile scopo, cadrà domani irremissibilmente, e la sua caduta sarà tanto più funesta, in quanto che non terrà nessuna ragione di rialzarsi. Ma lo scopo, al quale camminano l'umanità e l'individuo, è egli fatale? — Certo che sì. E questa fatalità è potentemente espressa dal tormentoso istinto del progredire, che descrive allo spirito umano un cammino eternamente ascendentale. Ora dov'è un istinto, là v'è una legge; dov'è una legge, là v'è un dovere; dov'è un dovere, là è tracciato un diritto; questo diritto non essendo che la legittima pretesa d'ogni essere al possedimento autonomico, ed al libero esercizio dei proprii mezzi, da natura diretti al compimento del fine. — Ed egli è in base a questo concetto, che la ragione mi presenta, ch'io posso asserire senza tema d'errare, che là dov'è un diritto senza dovere, od un dovere senza diritto, là v'è squilibrio e disordine, donde immoralità, essendo l'uno rispettivamente all'altro nei rapporti di compito e d'arnese. L'essere umano, dotato d'intelligenza e di volontà, è perciò stesso responsabile, sendogli il bene ed il male di libera scelta. Tale fu egli da Dio creato, nè puossi rapirgli questo primo fra i doni, di cui va altero, senza ledere la legge fondamentale della virtù, senza uccidere l'ente morale. Laonde, se l'affermazione di questa legittima pretesa di ciascun essere al libero esercizio delle funzioni, che gli fanno raggiungere il suo fine, è una necessità pratica, noi troviamo poi la ragione teorica e filosofica del diritto nella facoltà stessa dell'essere, per cui deve a questa ragione unica, a questa base incontrovertibile d'ogni diritto ispirarsi ogni filosofia, che aspiri ad imporsi alle umane generazioni coll'occhio intento al loro meglio. Certo non è senza ragione e senza verità, che molti filosofi cercarono e viddero in Dio la ragione del diritto, siccome in prima fonte d'ogni giustizia; ma oltreché il giudizio di Dio non ci perviene se non attraverso oracoli umani, questi stessi oracoli, per fralezza di mortale natura, troppo spesso s'ispirarono ad interessi ed a passioni; laonde pur ritenere volendo, che in Dio trovisi ogni diritto siccome necessario autore d'ogni giustizia, qui come dovunque, deve l'uomo travagliarsi colla sua ragione, poiché gli è questa la leva, che Dio gli poneva fra mani a sollevare ogni ingombro dal suo cammino, a diradarsi dagli occhi ogni tenebra, a trovare ogni verità. Procedendo nell'arduo cômpito potrà egli per avventura trovarsi in faccia colossali edificii, lavoro di cento secoli, e pur tuttavia su mobile arena fondamentati; e sentirà fors'anco cadersi stanche le braccia, e l'anima scoraggiata, di trovarsi così lungi dalla meta, e vedersi ad ogni tratto fra piedi lavoro fatale di demolizione. Ma pure coraggio ed avanti! La leale ricerca della verità, è guida cortese ed amica, che ci ripone spontanea sulla via; e lo schietto amor della giustizia ci porta pei due terzi di cammino. Il sentimento di giustizia, amo crederlo, trovasi per lo meno latente in ogni cuor d'uomo; ma non potendo l'uomo produrre atto morale senza concorso della volontà, e non potendo questa essere determinata nella sua azione se non in forza delle ragioni che lo intelletto le presenta, così risulta, che l'estrinsecamento del sentimento di giustizia sia sovente imperfetto, anche presso uomini di buona volontà; laonde più non deve meravigliare il vedere affermata talora l'ingiustizia anco là dove gli uomini si furono accinti di proposito a far della giustizia. E davvero, se egli è difficile trovare la verità allora quando una falsa idea ci ha fuorviati, quando poi trovasi falso od oscuro il punto di partenza, allora è impossibile moralmente il trovarla. Epperò la giustizia che ripeteva la ragione sua da Dio, subiva i moltiformi concetti che le nazioni si facevano di Dio medesimo; e certo la giustizia scaturita da Giove non poteva essere esattamente quella scaturita da Maometto, nè quella di Brama conciliarsi assai poteva con quella di Cristo; e sempre il maggiore o minore traviamento dello intelletto portò con sè frutto funesto la depravazione del cuore: ed amando anche l'uomo lealmente la giustizia, come l'avrebbe egli trovata cercandola allo infuori del suo solo possibile e vero posto? La rivelazione di Dio è eterna ed universale avendola egli incarnata nella natura, per lo che, non nelle molteplici modalità religiose deve l'uomo cercare la ragione del suo diritto, ad uniformare i criterii d'ogni nazione, ed a gettare le solide basi di un Diritto mondiale; sibbene nella facoltà insita all'essere umano, che prepotentemente gli indice il fine cui è vocato, e di cui la facoltà stessa è mezzo e ragione; ed allora sì, che le nozioni del diritto e del dovere saranno più lucide e salde, e non più eternamente oscillanti, ed esposte alle eventualità che ad ora ad ora minacciano, spostano e modificano le credenze. * Ma seguiamo lo svolgimento di queste nozioni nella coscienza umana; e vediamo, come dapprima vaghe e latenti, dovessero poscia avvertirsi e determinarsi. Queste due nozioni non erano nè necessarie, nè possibili al primo uomo, il quale, solo in mezzo al creato, non sentivasi limitato in nessun modo, per cui non dovettero essere che in progresso vagamente sentite, poi formulate, quindi più o meno imperfettamente applicate. Scaturite dapprima dai bisogni e dai rapporti che il solo spirito umano è in grado di constatare, in un colle leggi che li reggono, il filosofo trovò poscia la loro affermazione meditando sullo scopo della sua creazione e sui proprii destini; e come vide il soddisfacimento di quei bisogni in armonia con quello scopo e con quei destini, vide eziandio necessità di quel soddisfacimento a raggiungere il suo fine; e sorse in lui la coscienza del diritto, cioè, come dicemmo, la legittima pretesa d'ogni essere, allo sviluppo ed allo esercizio delle sue facoltà, epperò a tutti quei mezzi che eccitano, favoriscono e conseguono questo sviluppo e questo esercizio. Riconosciuta questa legge, prima ed anzi tutto nell'essere umano, era impossibile ad ogni logica, non estenderla a tutta la specie; epperò ogni essere non può, nè deve, riconoscere altra legittima limitazione al proprio diritto, che quella necessariamente stabilita dal diritto altrui, ed ecco la giustizia. Chi infatti troverebbe a ridire di quell'uomo che, trovandosi solo in vasta regione, se l'appropriasse ed estendesse la proprietà sua illimitatamente, senza scrupolo? Colui non farebbe che usare del diritto di proprietà, che il supremo fattore gli conferiva sulle cose, diritto, d'altronde, ch'egli divide con altri esseri viventi. Ma se costui, estendendo la sua proprietà, trova segnati i confini d'un altra, là egli trova eziandio il confine del suo diritto nel diritto del suo simile, ch'egli deve al par del suo proprio rispettare, siccome basato sulla stessa ragione. Riconosciuto dall'uomo il fine della sua creazione, e trovata l'aprezziazione dei mezzi da natura consociativi, ecco emergere spontaneo il dovere di applicarli, in proporzione dell'individuale potenza in vista di quello; epperò necessità di una sociale organizzazione che a questo principio si ispiri, ponendo ogni legislazione a propria base, che tutti i diritti legali esistenti, non esistono se non in forza di quel primo fondamentale diritto e per garantirlo, non essendo questo che lo sviluppo e l'applicazione di quello; laonde sarà più o meno filosofico il diritto parziale quanto più vedrassi ispirato, indirizzato e corrispondente allo scopo finale della esistenza umana. Non altrimenti, tutti i doveri parziali esistenti, debbono rivolgersi a raggiungere attivamente il nostro fine, ed a rispettare e favorire l'altrui attività allo stesso fine diretta. Vedo che questa dottrina ci conduce ineluttabilmente ad un'acerba censura delle nostre istituzioni e dei nostri costumi, ma ciò non mi riguarda, non essendomi io mai proposta di trovarmi d'accordo nè con pochi nè con molti, ma sentendomi io stessa nel mio pieno diritto, con quella perfetta coscienza che raccomandavo così caldamente alle mie lettrici. Ma qual è dunque l'umano destino, a raggiungere il quale, di tanti mezzi ha natura l'uomo arricchito, e di cui fin qui non parlavamo che vagamente e per sola incidenza? Egli ci vien insegnato da questi mezzi istessi. La rivelazione della natura è potente; e non può disobbedirsi nell'ordine fisico che incontrando il dolore e la morte, nell'ordine morale che colla degradazione del contravventore. Analizziamo con due parole questi mezzi, e la loro potente eloquenza. La insaziabile curiosità dello spirito superstite al decadimento della materia lo spinge fatalmente al progresso; essenzialmente socievole, l'uomo è chiamato all'amor de' suoi simili, donde la solidarietà e l'associazione, che sono la moltiplicazione indefinita della sua potenza; dotato di favella, solo, fra tutta la sterminata serie d'esseri viventi, questo dono diviene l'affermazione di quelle vocazioni, per la pronta comunione delle idee che sì potentemente lo sviluppano, ed utile e piacer sommo gli procurano nella conversazione de' suoi simili. Fornito del sentimento di giustizia e di commiserazione, sentendo bisogno supremo e tormentoso d'attività materiale e morale, egli vede nell'applicazione di queste facoltà tracciato lo scopo della sua vita. Egli deve dunque lavorare perchè attivo, con lavoro progressivo perchè istintivamente ansioso di progresso; lavorare di concerto co' suoi simili perchè socievole; farsi virtuoso perchè intimamente giusto; e così sviluppando con assiduo esercizio le sue facoltà, aggiungersi forza e potenza, coll'occhio fisso alla perfettibilità materiale, morale, intellettiva; egli deve in una parola crear l'ordine in sè stesso, nell'umanità, nel globo, armonizzando i rapporti coi bisogni, donde il benessere e la felicità, ultima e necessaria scaturigine della morale e della sapienza. Ora, la somma di potenza, che ciascun individuo porta a questo collettivo lavoro, è sì svariata ed indipendente da ogni forma esterna, che sfugge alla più minuta, come alla più lata classificazione. D'altronde non ci è possibile classificare logicamente la natura, dacché non ce ne sono note tutte le leggi; sicché facendolo, arrischieressimo forte di porre al posto della natura delle ottiche illusioni, delle erronee prevenzioni, o la deplorevole risultanza di pessimi sistemi. Dalla manìa delle classificazioni nacquero le più strazianti ingiustizie che hanno desolato l'umana progenie, e gli errori più cubitali della filosofia. Le classificazioni crearono i pregiudizii; i pregiudizii a loro volta generarono i Paria e gli Iloti; consigliarono lo sprezzo dello schiavo; suggerirono false ed inique prevenzioni sulle diverse razze colorate, che sgraziatamente perdurano presso molti che fanno anche professione d'intendersi alla giustizia. Dalle classificazioni donde i pregiudizii, nacquero gli odii profondi, e le lunghe ire internazionali, quasi l'uomo che abita l'altra sponda di un fiume, o l'altro versante di una montagna, essenzialmente differisca dall'uomo che abita la prima sponda ed il primo versante. Ora queste classificazioni vogliono bandirsi, siccome funeste cause d'isolamento fra gli uomini, siccome tendenti a ledere il diritto primitivo di ciascun uomo al giudizio dei proprii mezzi ed alla libera loro applicazione; siccome prepotenza che impone leggi alla natura e la sforza e violenta, con danno dell'individuo e dell'umanità. Infatti qual classificazione è egli possibile in faccia alla dimostrazione imperativa dei fatti? V'hanno criteri i quali, fortissimi nella speculazione filosofica, sono affatto inetti in qualsiasi elemento di scienza esatta, e viceversa. Un artista sublime non saprà fare la più semplice aritmetica operazione; un tale è campione nella fisica e nell'astronomia che è affatto insuscettibile e profano alla filosofia; e sarà quell'altro un Socrate od un Platone, senza che gli sia però possibile confezionare due versi. Nè è più facile, nè più possibile, classificare nelle loro morali idoneità i due sessi. Si disse l'uomo è forte, la donna è debole, ma vi hanno uomini debolissimi e donne fortissime; più, si educa l'uomo all'attività fisica e morale, e la donna all'inerzia fisica ed alla passività morale. Si disse, l'uomo soverchia la donna in intelligenza, e la donna supera l'uomo in sentimento. Sonvi però molti uomini che superano molte donne in sentimento, e molte donne che superano molti uomini in intelligenza; più, l'educazione che si sforza di favorire e di sviluppare la intelligenza nell'uomo, fa tutto il suo meglio per isfavorirla ed atrofizzarla nella donna. Si disse, l'uomo è fatto per l'attività, la donna per la quiete; è una gratuita asserzione, è una prevenzione locale. Parlandosi della donna e della famiglia, dovete aver letto i costumi di pressoché tutte le nazioni barbariche, che gravano la donna di tutte le fatiche, e dove le è imposta la massima attività, mentre gli uomini passano oziando la vita; più, anche fra noi vediamo i due sessi sobbarcarsi ad eguali fatiche nelle classi agricole e manufatturiere. E così via dicendo, quando vogliansi confondere le risultanze dell'applicazione dei nostri sistemi, colle leggi della natura che l'uomo non istudiò mai con ispirito vergine da criterii preconcetti, coll'animo emancipato dalla segreta ispirazione degli interessi; noi troveremo sempre le nostre classificazioni in faccia a sì sterminato numero d'eccezioni, da persuaderci essere quelle troppo poco attendibili. Dalla impossibilità di classificare ne emerge l'incompetenza d'un arbitrato qualunque a determinare le funzioni dell'individuo in faccia al lavoro sociale; e da quella incompetenza ne emerge a sua volta il diritto spettante all'individuo solo di determinarsi ad un genere di lavoro, dietro le attitudini ch'egli sente prepotenti in sè stesso, donde la varietà delle vocazioni, e la libertà della scelta dei mezzi ad assecondarle. Ora, una gran parte delle nullità morali, che ingombrano l'umana società, non possono ad altro accagionarsi che a questo incompetente arbitrato che si esercita dall'un individuo sull'altro, e da tutta la società su tutto un sesso. Si vollero classificare le morali idoneità dei sessi, e si vollero assegnare a ciascuno d'essi funzioni proprie dietro un tipo ideale escogitato in anticipazione; ma queste diverse attribuzioni parte scaturirono dalla poesia e dalla immaginazione; porzione molta è artificiata dalla forza prepotente dell'educazione, che a tutto riesce sendo l'essere umano eminentemente educabile: pochissime fondamentate dall'osservazione. E tutto questo teorico e gratuito edificio si fece pratico, senza che uomo si curasse di rilevarne le falsità e di deplorarne le conseguenze, mentre nessun filosofo s'attentò mai, ch'io mi sappia, di trovar differenze di carattere e di idoneità fra il maschio e la femmina nelle altre specie d'animali, dal processo della riproduzione all'infuori, nel quale fatto solo formano serie distinta; nè mai alcuno sognò di negare forza alla lionessa, o vietar la preda alla tigre, o di disconoscere nella volpe gli astuti accorgimenti, o di trovar l'aquila meno sublime dell'aquilotto. * È evidente che l'uomo, ignaro tuttavia di molte leggi naturali, e completamente al buio del concetto sintetico della creazione, non poteva derivare le sue classificazioni che dagli interessi suoi e dalle sue passioni. Egli adunque, con un comodissimo a priori, stabilì sè stesso centro e fine dell'universo, ed a sè convergendo gli esseri tutti e tutte le cose, ne statuì il valore, ne assegnò le funzioni, ne affermò l'importanza in base all'utile od al diletto che queste gli arrecavano. La donna, che gli è così vicina, e nella quale si giace tanta parte della sua miseria e della sua felicità, dovea necessariamente esser la prima a subire le conseguenze di un così ingenuo egoismo. Riconoscendo perciò l'uomo i vantaggi dell'iniziativa, volle vedere la donna, passiva più assai che non l'abbia mai fatta la natura. Avido di dominio e di signoria, imaginò di trovare in lei, bella l'umiltà, e perfino la viltà. Avendo scoperta la superiorità che dà la coltura sull'ignoranza, trovò buona cosa serbare a sè il privilegio dell'intelligenza, e vide nell'ignoranza della donna un vezzo ed un'attrattiva. Amante egli dell'impero e del comando, si figurò che per la donna sia gloria l'ubbidire. Cupido di possesso, si aggiudicò la donna siccome proprietà; e si persuase dovere la buona moglie credersi seriamente cosa del marito; e così via di trotto procedendo, egli trovò d'aversi confezionato un tipo femminile di tutta sua convenienza, e su questo tipo elaborò le leggi, i costumi e l'educazione della donna; e questo è tutto il lavoro che la filosofia compì rispettivamente alla donna in sessanta secoli. Nè potrebbe dirsi certamente che noi calunniamo l'uomo! Chi non ha letto nell'_Ecclesiaste_ il tipo ideale femminile che si era creato il più savio degli uomini? Chi non ricorda la condotta che S. Paolo comanda di tenere alla donna (vedi cap. II) della prima epistola a Timoteo; e (cap. II) della prima ai Corinti? Chi non sorride vedendo Rousseau sollecitarsi che le qualità, i vezzi, e fino le debolezze di Sofia calzino a cappello coi gusti e la natura d'Emilio? E perfino fra i moderni filosofi, che pretendono alla fama di novatori; non vediamo noi lo spirito medesimo? Leggo in Auguste Comte che, il _comando degrada radicalmente la donna_; che una savia apprezziazione dell'ordine universale farà comprendere al sesso affettivo, quanto _la sommissione importi alla dignità_.... Che il sacerdozio (dell'avvenire) farà sentire alla donna _il merito della sommissione_, sviluppando quest'_ammirabile_ massima d'Aristotile «la forza primaria della donna consiste nel superare la difficoltà dell'obbedire» e l'educazione l'avrà preparata a comprendere, _che ogni dominio_, lungi dallo elevarla realmente, _la degrada necessariamente_. Leggo Proudhon, ed a traverso i suoi mille paradossi, ed alla sua non interrotta serie di contraddizioni, veggo affacciarsi tratto tratto questi concetti: Affinchè il tipo femminile conservi le sue grazie ed i suoi vezzi, deve la donna accettare la potestà maritale (_sic!_). L'eguaglianza di diritti la farebbe odiosa, e trascinerebbe con sè delle deplorevolissime conseguenze, e, fra le molte a mo' d'esempio, la piccola bagatella della _perdita del genere umano!!!_ (Lettrici mie, non ve ne impressionate di troppo!) Leggo Michelet ed a traverso torrenti di poesia e di sentimento, in un impeto d'amore per la donna egli, la vede fatta _dall'uomo e per l'uomo_. Dolente di vederla sofferente e malata (la donna di Michelet è sempre malata) egli vede la necessità d'isolarla, di custodirla, di medicarla. Bambina non conoscerà che le sue poppattole; maritata, non vedrà che il marito ed i figli; vedova, gl'infermi e gli orfanelli. E di coltura? Non se ne parla. Il sapere la invecchia. E di lavoro? Nessuno. Si romperebbe tutta. D'altronde la manutenzione della cosa, tocca al proprietario della cosa. E di funzioni? Non ne è questione. La donna di Michelet, è una donna che adora suo marito, che è fatta da lui, che vive per lui, per lui solo, e che finisce poi probabilmente per morire di congestione al cuore in seguito ad una serie di emozioni tenere troppo frequenti. Bisogna confessare che, se l'uomo è egoista, lo è poi anche senza nessuna velleità, e di tutto cuore! Non v'è altro commento possibile a siffatte teorie. Ora, sia che si neghi alla donna ogni funzione, sia che le si assegni un lavoro, ella fu sempre fin qui in balìa dei capricci d'ogni filosofo, il quale le dà, o le toglie, la eleva, o la abassa, la invita o lo respinge in base al tipo ideale che ciascun di loro se ne forma. Ma al dì che corre deve la filosofia aver capito, che la soluzione di un problema sociale non può esser nella testa d'un uomo, ma se ne sta latente nella natura, la quale non potrà mai rivelarsi fino a che sarà interrogata coll'animo preoccupato da pregiudizii o da interessi veri o supposti. E dico veri o supposti, perchè tutto ciò che è fuori dell'ordine e del giusto, se può per avventura favorire un piccolo e precario interesse, deve però alfine chiarirsi ineluttabilmente incompatibile ed ostile ai grandi e duraturi interessi dell'individuo e dell'umanità; per cui, se a mo' d'esempio oggi trovava assai acconcio il forte il diritto di conquista, trovandosi domani in faccia un più poderoso avversario, era pur costretto a confessare essere ingiusto e precario il diritto della forza. Ma questi riflessi sendo stati fatti dall'uomo un po' tardi, anzi da pochi uomini fatti anco al dì che corre, ne avvenne che le istituzioni di tutti i tempi si risentirono di quelle prevenzioni e pregiudizii a cui accennavamo; ed al tempo in cui viviamo è pur doloroso dovere confessare che ancora la forza è in onore, che diritti e doveri sono più che parzialmente distribuiti, e che con una logica degna degl'interessi, più assai che della ragione, si aggiunge debolezza al debole gravandolo di doveri, si aggiunge forza al forte circondandolo di diritti. Laddove poi si consideri avere la legislazione come ogni altra istituzione ormeggiato lo sviluppo dei popoli ed i procedimenti delle civiltà, andranno necessariamente crescendo le meraviglie, trovandoci in grado e necessità di constatare la universale incoscienza della giustizia. Ma poteva egli essere altrimenti, dacché la filosofia non cercò e non istabilì una base generale di diritto, che soggiogando gl'interessi, ed ispirandosi ai principii, s'imponesse prepotentemente alla ragione, e si erigesse a coscienza universale? Epperò i legislatori, privi di luce ferma e costante a dirigersi, dovettero meschinamente ispirarsi ad interessi puri e semplici di luogo e di tempo, imponendo così all'opera loro il marchio fatale della caducità. Infatti veggiamo apparire evidente dalla storia della legislazione questa enorme lacuna ch'ella è la nessuna base del diritto, risultando per lo appunto le istituzioni le voci dei bisogni di un giorno e di un paese, anziché i logici corollarii ai un concetto unico e fermo. Ed invero, in faccia ad una base filosofica del diritto, che cosa avrebbero significato i diritti feudali? Dove si sarebbero fondate la signoria e la schiavitù personale? Sopra di che avrebbe potuto giustificarsi la patria e la marital potestà dei romani, per le quali la repubblica non riconosceva a cittadini che i capi di famiglia, non tutelando neppure la vita e la libertà delli altri membri? E qual logica analogia troviamo fra la forma reppubblicana del governo e la forma autocratica della famiglia romana? Ed ai nostri tempi (parlo di paesi civilizzati e progressisti) che cosa significano, in faccia al principio filosofico del diritto, l'ostracismo degli ebrei? Che cosa, le barriere elevate alla libera associazione dalla diversità di credenze? La diseredazione del figlio che ha lasciato la religione paterna? La frase comune a molti codici, tolleranza dei culti? La schiavitù delle razze colorate? La soppressione dell'intelligenza e dell'attività femminile? L'individuo, vivendo nella famiglia, e nella società, porta alternativamente in quella le impressioni ricevute in questa, ed in questa i sentimenti e le idee in quella assorbite; ed è però sommamente necessario che l'organizzazione politica armonizzi coll'organizzazione della famiglia, e lo spirito stesso e l'eguale indirizzo all'una ed all'altra! simultaneamente s'imprima. Senza questa congiura, per dir così, di tutte le istituzioni contro i facili eccessi delle passioni, non potrà mai l'uomo informarsi ai precetti della giustizia, nè mai potrà avvertirne la somma importanza. L'incoerenza conduce al gratuito, il gratuito all'arbitrio, l'arbitrio all'egoismo, l'egoismo all'ingiustizia. Ma in appoggio di questo mio concetto mi cadono in acconcio, e vi spiegheranno meglio assai ch'io non sappia l'importanza di questa coerenza di principii, le riflessioni del gran Beccaria sullo spirito delle famiglie, nel suo libro _Dei delitti e delle pene_. Ecco le sue parole: «Quante funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche più illuminati, ed esercitate anche dalle repubbliche più libere, per aver considerato la società piuttosto come un'associazione di famiglie che come una unione d'uomini?» «Vi siano 12,000 uomini ossia 20,00 famiglie, ciascuna delle quali sia composta di cinque persone compresovi il capo che la rappresenta. Se l'associazione è di famiglie vi saranno 2,000 uomini ed 8,000 schiavi; se l'associazione è di uomini vi saranno 10,000 cittadini e nessuno schiavo. Nel primo caso vi sarà una repubblica, e 2,000 piccole monarchie; nel secondo lo spirito repubblicano, non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura ove sta così gran parte della felicità e della miseria degli uomini. «Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sono l'effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, ossia dei capi di famiglia, lo spirito monarchico s'introdurrà poco a poco nella repubblica medesima, e i di lui effetti non saranno frenati che dagl'interessi opposti di ciascheduno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed eguaglianza. «Lo spirito di famiglia è uno spirito di dettaglio e limitato a piccoli fatti. Lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei principii generali, vede i principii generali e li condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte. «Nella repubblica di famiglia, i figli rimangono potestà del padre finchè vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte una esistenza dipendente dalle sole leggi. Avvezzi a piegare e temere nell'età più verde e vigorosa, quando i sentimenti sono meno modificati da quei timor d'esperienza che chiamasi moderazione, come resisteranno dessi agli ostacoli che il vizio sempre pone alla virtù, nella languida e cadente età, in cui anche la disperazione di vederne i frutti si oppone ai vigorosi cambiamenti? «Quando la repubblica è di uomini, allora la famiglia non ha una subordinazione di _comando_ ma di contratto, ed i figli, quando l'età li trae dalla dipendenza di natura, che è quella della debolezza e del bisogno di protezione e di difesa, divengono liberi membri della città, e si assoggettano al padre di famiglia per parteciparne i vantaggi, come uomini liberi nella grande società. «Nel primo caso i figli, cioè la più gran parte e la più utile della nazione sono alla discrezione del padre: nel secondo non sussiste alcun altro legame comandato, che quello sacro ed inviolabile di somministrarsi reciprocamente i necessari soccorsi, e quello di gratitudine per i beneficii ricevuti, il quale, non è tanto distrutto dal cuore umano quanto da una male intesa soggezione voluta dalle leggi. «Tali contraddizioni fra le leggi della famiglia e le leggi fondamentali della repubblica sono una feconda sorgente d'altre contraddizioni fra la morale domestica e la pubblica, epperò fanno sorgere un continuo conflitto nel cuore di ciascun uomo. La prima morale ispira soggezione e timore, la seconda, coraggio e libertà; quella, insegna a ristringere la beneficenza ad un piccol numero di persone senza spontanea scelta; questa, ad estenderla ad ogni classe di persone; quella, comanda un continuo sacrificio di sè stessi ad un idolo vano che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non è il bene di nessuno che la compone; questa insegna, di servire ai proprii vantaggi senza offendere le leggi, ed eccita ad immolarsi alla patria col premio dell'entusiasmo che previene l'azione. «Tali contrasti fanno che gli uomini si sdegnino di seguire la virtù che trovano inviluppata e confusa, ed in quella lontananza che nasce dalla oscurità degli oggetti così fisici che morali». Fin qui Beccaria, e noi facendo plauso alla sua equità aggiungiamo, che una legislazione, che non considera a cittadini tutti indipendentemente ed egualmente i membri della sua società, e non garantisce a ciascuno i mezzi di perfezionamento e la libera autonomia, perde il diritto al rispetto ed alla obbedienza, e dove punisce non esercita che una fredda violenza; poiché non l'uomo è fatto per la legge, ma la legge è fatta per l'uomo, e dove ella non raggiunge il suo bene ed il suo meglio non ha nessuna ragione d'esistere. Se la legge vuol essere amata ed obbedita, è duopo sia tale che ogni cittadino d'ogni età, d'ogni condizione, d'ogni sesso, vi trovi il suo conto, e l'affermazione d'ogni giusta libertà, d'ogni onesto diritto; è duopo ch'ella non crei neppure alla metà della umana popolazione una condizione, che assomiglia forte a tutte quelle dalle quali le nazioni col sangue si sono sottratte. La donna che, con sagrificio d'oro e di figli, con tanta forza d'entusiasmo e di devozione, si è associata nell'opera della politica redenzione non può certo tollerare per altri secoli la sua servitù personale. Ella sente che tutte le libertà e tutti i diritti si danno fraternamente la mano, epperò come propugnando la libertà della nazione mostrava di sentire il principio della libertà e di esser matura alla propria, deve ora, ad essere coerente e logica, rivendicarla, non potendo lo spirito pubblico non degenerare se non in quanto lo fortifichi il privato. * Dovendo, siccome abbiamo visto, consonare l'organismo politico coll'organismo interno della famiglia ad unificare negli uomini il principio della giustizia, vediamo ora come ciò avvenga ai nostri giorni, in cui l'atmosfera è tutta pregna delle luminose idee del diritto e dell'eguaglianza, in cui si mostra dalla pubblica opinione spregiarsi il brutale diritto della forza; in cui le classi altra volta peste e conculcate dalla aristocrazia feudale, forte della divina predilezione, se trovansi tuttora alle prese colla miseria, più non veggonsi almen contrastato il diritto naturale e la dignità umana. Entriamo, dico, nella famiglia, e veggiamo se avvi analogia fra l'atmosfera esterna e la interna; se il giovine che rispetta la dignità umana ed il diritto ingenito nel cenciaiuolo, che incontra per via, è educato a vederlo anche in sua madre; se il marito, che rispetta l'autonomia d'ogni vivente, non guarda per avventura la moglie siccome _cosa_ e _proprietà_; se l'uomo, che si crede obbligato a leali procedimenti verso l'uomo, non crede forse poter darsi maggior libertà ne' suoi rapporti colla donna. Produttrice dei germi fisici, riconducendo continuamente col suo recondito lavoro la specie al suo tipo, sola nel lungo e penoso travaglio della gestazione, sola nella terribile crisi che dà alla luce l'uomo, fornita sola da natura del solo alimento conveniente alla sua prima età, estremamente affettiva, attaccata alla sua fattura colla fatalità dell'istinto, eminentemente analitica ed intuitiva, la donna è veramente la creatrice e la conservatrice della specie. E la natura, ponendo in tanta evidenza la maternità, non lasciava alcun dubbio sulla sua legge; cioè, la tutela della prole è devoluta alla madre, che in tutte le specie è creazione, conservazione e provvidenza. Che cos'è la paternità? In faccia alla natura è un semplice impulso, in faccia alla legge è una ancor più semplice ipotesi, dovunque e sempre è ombra e mistero. Da ciò ne risulta, che se la madre ha sempre diritto innegabile al rispètto ed all'amor della prole, alla quale la natura la indice con evidenza; il padre non partecipa a questi diritti, se non in quanto siasi egli stesso incaricato di provare al figlio la paternità sua, tutti verso di lui compiendo quei doveri di alimentazione e di educazione che la ragione gli suggerisce. Tanto ci insegna semplicissima riflessione sulla logica dei fatti. Ma gli uomini sono eternamente inclinati a costruire gli edificii loro sulle ipotesi, ed anche qui preferirono meglio fondar sull'ipotesi che sull'evidenza; ed innalzarono la _patria potestà_ che, come piramide partita da larga base, col diritto di morte e di vendita sui figli, andiede in appresso assottigliandosi; ma ne rimane oggi stesso pur tanto da non lasciarci credere di troppo posteriori alla antica Roma. La paternità legale è la prima ragione della schiavitù della donna. Infatti, perchè fossero duratori questi rapporti artificiati, era duopo dar qualche corpo alla ipotesi, qualche esattezza all'induzione. Da qui la reclusione della donna; e cessata questa nel modo assoluto colla civiltà dei tempi, perdura tuttavia nel suo spirito e nel suo scopo nelle mille limitazioni della sua libertà. Da qui il diritto di comando, di sorveglianza, il supremo arbitrio del marito; la signoria dell'uomo insomma, e la servitù della donna. Sì, la madre dell'uomo non ha altro diritto che quello di soffrire per lui, di formarlo del suo sangue, di nutrirlo del suo latte, di sagrificarsi completamente, se vuole, ai suoi interessi, e basta. _La legge non riconosce nessuna maternità_; ed in mancanza del padre non ha la madre neppur _diritto di preferenza_ alla tutela della prole; laonde, rompendo così la legge ogni legame fra la madre ed i figli, dà a questi la prima lezione di immoralità e di ingratitudine, mentre strappa dalla fronte della donna la luminosa e simpatica aureola della maternità, insegnandole a far poco conto d'un carattere, ch'altro non può darle che triboli e spine. Apro infatti il codice Albertino e trovo, che il § 211 dichiara essere i figli sotto la potestà del padre fino alla loro emancipazione, o se egli sia morto non emancipato, son essi sotto la potestà dell'avo paterno. Col § 212 vieta al figlio di allontanarsi dalla casa paterna prima dei 25 anni compiti, senza il permesso del padre. Il § 215 dà al padre il diritto di far tenere in arresto il figlio non ancora quadrilustre, sulla sua semplice domanda. I § 216 e 217 permettono al padre di chiedere la detenzione del figlio per sei mesi, purché sia quatrilustre e fino a 25 anni inclusivi. Nell'uno e nell'altro caso non gli è imposta nessuna formalità o scrittura giudiziaria. L'ordine d'arresto sarà spiccato in iscritto senza essere neppur motivato. Ecco una potestà discretamente romana, e nella quale si dispone in tutti i sensi di una creatura umana senza neppure supporle una madre, la quale non ha in tutto ciò nemmeno un voto consultivo. Ma la madre non è ella almeno una limitazione del patrio diritto in forza del diritto incontestabile e solenne che le dà la natura, che affida la prole alle sue cure, e non a quelle del padre? Signore no. _La madre legittima non esiste_; e se qualche cosa può limitare la patria potestà sul figlio, non sarà mai la madre, bensì la _proprietà_; e non sarà questo il solo caso in cui vedremo la legge fare assai più stima della proprietà che della persona, principalmente se questa persona è una donna; ed eccone la prova nel § 220... «se il figlio ha beni proprii ed esercita una professione, non potrà aver luogo il di lui arresto se non mediante istanza nella forma prescritta nell'articolo 216, quand'anco il figlio non fosse giunto all'età d'anni 16». Ma la madre non ha essa mai in nessun caso dei diritti sulla prole? Oh sì; ma la legge nel concederli non riconosce già, nè apprezza il suo carattere materno ed il natural diritto che ne conseguita, ma rispetta e riconosce esclusivamente la volontà del defunto consorte. Il padre ha il diritto di nominare un tutore ai figli soggetti alla sua potestà; lo stesso diritto, compete all'avo sui nipoti soggetti alla sua potestà (§ 245). § 246. Se il padre o l'avo, rispettivamente come sopra, avrà nominato la madre tutrice, potrà destinarle un consulente speciale, _senza il cui parere ella non possa fare alcun atto relativo alla tutela_. La madre adunque non può esser tutrice, se non nominata tale per esplicita volontà di chi dovrebbe da lei ricevere un tale mandato, secondo ragion naturale; essendo a lei sola possibile l'indicare con certezza a chi competa; più, l'azione sua è così totalmente invalidata che il nome di tutrice diviene una derisione. Vedete infatti come la legge quando vuole s'intenda benissimo alle limitazioni. Epperò potrà la madre fare arrestare il figlio non soggetto alla potestà dell'avo, _ma_ purché vi concorra l'assenso di due prossimi parenti _paterni_ (§ 221); e nel caso che manchi l'assenso dei parenti richiesto dal § 221, supplisce l'art. 223, raccomandando al prefetto di _supplire con quelle maggiori informazioni_ che crederà del caso. Può la madre tutrice, nel caso di morte, eleggere un tutore ai suoi figli minori, _ma_ la sua elezione dovrà essere confermata dal consiglio di famiglia (§ 248). Se la madre tutrice vorrà rimaritarsi dovrà, prima del matrimonio, far convocare il consiglio di famiglia, il quale deciderà se la tutela debba esserle conservata. In mancanza di questa convocazione, essa perderà di pien diritto la tutela, ed il suo nuovo marito sarà solidariamente responsabile della tutela esercitata dalla madre per lo passato (!!?), ed in appresso indebitamente conservata (§ 253). (Mi dispenso dal commentare questo paragrafo, non sentendomi capace di scrutare il profondo abisso della mente del legislatore). Quando la madre conserva la tutela, o vi sarà stata riammessa, il consiglio di famiglia le darà _necessariamente_ a contutore il secondo marito, il quale diverrà solidariamente responsabile unitamente alla moglie, dell'amministrazione posteriore al matrimonio (§ 254). Come ognun vede, un patrigno ed una madre rispettivamente alla prole, nel sentimento del legislatore, sono equivalenti. La legge però, con una tenerezza tutta parziale per la madre, le accorda un diritto che se oltraggia la natura, ed è per la donna una lezione immorale, sente però in compenso una condiscendenza tutta cavalleresca. Coll'art. 252 non vuole che si obblighi la madre ad accettare la tutela dei suoi figli, e s'accontenta che ella ne adempia i doveri fino alla nomina di un tutore. Del resto poi, in difetto dei genitori o di un tutore esplicitamente eletto colle forme volute, la tutela spetterà all'avo paterno, in difetto di questo all'avo materno, e collo stesso ordine risalendo la linea ascendentale, deve sempre preferirsi al materno il paterno (§ 257). Quando poi concorrano alla tutela due bisavoli della linea materna, questi, subendo solidariamente colla madre lo spregio della legge per lei, vengono abbandonati all'arbitrio del consiglio di famiglia, che eleggerà fra i due (§ 259). Ed ecco come la legge onora il carattere materno! Ella non suppone neppure spontaneamente che la madre sia capace di tutelare i suoi figli (chè in quanto a diritto ne è ben raro questione quando degna occuparsi della donna). Ella accetta la decisione del marito defunto, o dell'avo, o del bisavo, che tutti camminano innanzi alla madre, e la tollera tutrice, purché però a sua volta tutelata. Nell'azione sua la madre tutrice inciampa ad ogni passo nei meticolosi _se_ e _ma_ del leguleio. Fra lei ed il suo pupillo la legge pone costantemente od il consulente speciale, od il consiglio di famiglia, o i due prossimi parenti, o le informazioni del prefetto. Ed ecco in qual modo la legge sa appoggiare i suoi stessi precetti! Davanti alla disistima che voi fate della maternità, davanti alla sanzione della materna incapacità che voi suggellate ad ogni paragrafo dei vostri codici, davanti alla spogliazione d'ogni diritto primitivo ed ingenito sulla persona della donna madre, chè cosa significa, di grazia, o legislatori, quell'art. 210 nel quale dite al figlio; «in qualunque età, stato e condizione ti trovi, onora e rispetta i tuoi genitori?» Dite da senno, signori miei? E chi sono i _vostri_ genitori? Voi certo intendete il padre, l'avolo, il bisavolo, e l'arcavolo paterno, non già la madre, che non vedo che in rapporti indirettissimi e fortuiti con questi figli, dei quali si dispone in ogni verso senza nessuno intervento suo. L'allievo dei vostri codici non conosce sua madre! Ella non è, e non può essere per lui che un oggetto di erudizione, una miseria, una incapacità incarnata; e se, volgendo lo sguardo sulla civil società, vedrò ancora talvolta ascoltata la voce potente della natura, ed onorata in qualche parte la maternità, dovrò esclamare: _a cattive leggi, uomini migliori!_ Se non che il disdegno, che i codici mostrano per la donna, non è che uno dei corollarii di quel principio così lucidamente impugnato dal Beccaria, che cioè, quel legislatore che considera la società come una associazione di famiglie, non deve necessariamente riconoscere a membri attivi che i capi di esse, e lasciar gli altri tutti nell'ombra ed in balìa del capo, sopprimendo così ogni diritto ingenito, sul quale si eleva prepotente il diritto parziale. * Se la legge tratta così la donna che, pel venerando carattere materno, si presenta all'uomo coll'autorità della causa sopra lo effetto suo; non è più a meravigliare che affatto la cancelli dal novero delle unità nei rapporti coniugali. Il marito legale è per la donna la evirazione intellettuale, la minorità perpetua, lo annichilamento della sua personalità. Infatti, se la donna è qualche cosa davanti alla legge, lo è quando è maggiore e libera; che, sebbene il legislatore tiri giù per conto suo dei tagli cesarei attraverso i diritti competenti a ciascun membro della civil società, la lascia almeno padrona di sè stessa, e le suppone la capacità di amministrarsi. Ma si marita essa? Da quel momento ella diviene incapace e minore, perde col suo nome anche la proprietà di sè medesima, e vi sfido a trovarmi un atto legale ch'ella possa fare senza il consenso del marito. Ma lasciam parlare la legge. Riapro il codice sardo ove tratta dei rispettivi diritti e doveri dei coniugi, e trovo al § 125: «I coniugi hanno il dovere di reciproca fedeltà, soccorso ed assistenza». Senz'altro va ad essere un paradiso terrestre! si tratta di una perfetta eguaglianza! Di una completa fraternità! È il matrimonio tipico! È l'ideale del coniugio! È l'androgino umanitario che fonde due esseri in una sola unità! Adagio, vediamo come s'intendono di reciprocanza e mutualità i nostri legislatori. § 126. «Il marito è in dovere di proteggere la moglie, la moglie di obbedire al marito». Ecco i primi albori della reciprocanza legale; discutiamoli un momento. Chè cosa sia la protezione che il marito deve alla moglie; qual logica analogia ella abbia coi costumi d'una civil società; qual fatica costi al marito questo fantasma di dovere, non si saprebbe definir veramente, circondati come siamo da leggi ed agenti d'ordine pubblico. Egli lavora siccome un re, i cui ministri fanno tutto, ed al quale pur tuttavia i beati popoli governati debbono innalzare inni di riconoscenza e d'ammirazione. Così la moglie vive sicura all'ombra della protezione maritale esattamente come viveva sicura sotto l'egida dei provvedimenti di pubblica sicurezza, il giorno prima d'aver aquistato il protettore. Ma niuno forse ardirà toccare alla moglie per timor del marito? Vi domando scusa. È più che dimostrato, che tutti i delitti sono possibili. Ma nel caso che la moglie venga insultata, sarà per lo meno dal marito vendicata? Neppure. La giustizia personale è vietata; essa è fatta esclusivamente delle leggi. Il legislatore, che prescindesse da questo principio fondamentale d'ordine pubblico, esporrebbe la sua società a terribili disordini e distruggerebbe la sicurezza personale. Chè cosa intende adunque la legge nello imporre al marito questa protezione? Intende di gravare il marito di un dovere, ma di un dovere da marito; tuttochè illusorio, però le serve per giustificare tutti i diritti di cui vuole circondarlo. Dichiarato protettore, epperò responsabile, ogni misura, od intorno o sopra il suo protetto, divien logica ed equa, e la legge ha ribadito così l'arbitrio maritale. Quella legge stessa però così vaga, così laconica, così speciosa sui doveri del marito, è quella stessa che sa molto bene determinarsi, amplificarsi e dimostrarsi nei doveri della moglie; e per primo le impone obbedienza, senza assegnare a questa obbedienza limite o confine, cosicchè, in faccia a tanta completa passività imposta alla metà della popolazione, io non so più chè cosa si voglia intendere il legislatore, dichiarando irrito e nullo ogni contratto, che stipuli l'alienazione personale. Ed invero, un rapido sguardo ai doveri della moglie ed ai diritti del marito, basterà per toglierci alla taccia d'esagerazione. Veniamo perciò ai logici corollarii della illimitata obbedienza. § 127. La moglie è obbligata ad abitar col marito, ed a seguirlo _dovunque_ egli crede opportuno di stabilire la sua residenza. (Notate ch'egli _solo_ giudica dell'opportunità locale del suo domicilio). § 128. La moglie deve concorrere al mantenimento del marito, quando egli non ne abbia i mezzi bastanti. § 129. La moglie non può stare in giudizio senza il consenso del marito. Se questi non voglia o non possa prestarlo, il Tribunale può autorizzarla. Notisi, che v'ha però un caso, nel quale può stare in giudizio senza il consenso del marito, e questo caso eccezionale, benchè assai logico e giusto, non è fatto per portar luce sull'astruso problema della protezione maritale; quando cioè è inseguita dalla legge per delitti o contravvenzioni. § 130. La moglie non può donare, nè alienare, nè ipotecare, nè aquistare a titolo sia gratuito sia oneroso, nè obbligarsi per nessuno degli atti eccedenti la semplice amministrazione, senza che il marito, personalmente od in iscritto, presti a ciascun atto il suo consenso. Dopo tutto ciò non sarà soverchio notificare alle mie giovinette lettrici, che la legge ammette anche nella donna il _diritto di proprietà_, tutto che, questi paragrafi non siano fatti per farlo credere. Nel § 137, la legge si mette una mano al cuore, e prova un palpito d'incertezza e d'apprensione pel marito. Egli lo vede circondato da pericoli e superchierie, e si trova in dovere di proteggere e tutelare il forte contro i verosimili eccessi del debole; epperò pone per lui le mani avanti e decreta in anticipazione che «l'autorizzazione od il consenso in genere, non sono validi, ancorchè stipulati nel contratto di matrimonio». Coll'articolo 139 poi, la legge ridona alla donna il _diritto pratico_ di proprietà, riconosce per un'ora di tempo la sua autonomia, permettendole di fare il suo testamento, senza autorizzazione o consenso del marito. Confessiamo che la legge è generosa, peccato che sia un po' tardi! * Che il vedovo marito si crucci o meno, per il decesso della sua consorte, che più o meno presto la scordi, poco importa alla legge; ma ciò che le sta a cuore sommamente si è, che la vedova non troppo facilmente si consoli del perduto protettore, ed a ciò efficacemente provvede nel § 145, dov'è disposto che «la vedova, contraendo nuove nozze, prima che siano trascorsi dieci mesi dopo la morte del marito, incorre nella _pena_ della perdita di tutti i lucri nuziali stabiliti dalla legge, o stipulati col primo marito, non che di tutte le liberalità, che a lei fossero pervenute dal medesimo». Notisi che quel vocabolo _pena_, di cui si serve la legge, supponendo una colpa, dichiara implicitamente criminose nella donna le seconde nozze; mentre il vedovo marito, erede della sposa defunta, è abilitato a scordarla innanzi sera. Ecco come s'intende la legge alla reciprocanza ed alla mutualità; ed ecco come ella è coerente al suo paragrafo 125. Ovunque vedesi la personalità della donna maritata affatto eclissata, ella non è che l'ombra del marito che la invalida, che la assorbe, che la annichila e dal quale non è emancipata neppur per la sua morte, non che pel caso di separazione di corpo e d'abitazione, nel qual caso, avendo ella la semplice amministrazione de' suoi beni, non può tuttavia senza il di lui consenso ed autorizzazione nè alienare, nè obbligare i suoi beni immobili, nè stare in giudizio per azioni _riflettenti li stessi suoi beni_. Quando si rifletta che, cessata colla legale separazione la comunanza degli interessi fra i coniugi, possono questi diritti del marito attraversare ad ogni tratto gl'interessi della moglie, subordinati quali sono ad ogni suo capriccio, ben si vedrà quanto la legge si solleciti del benessere della donna. E separata e non separata non può la moglie, senza consenso ed autorizzazione del marito, accettare incarico di esecutrice testamentaria; non può accettare nessun mandato; non può accettare nessuna donazione; non può validamente accettare nessuna eredità; non può assumersi fideiussione; in una parola, _civilmente non esist_e. Dove il marito si rifiuti all'assenso, il Tribunale di prefettura assume i suoi diritti, e conferma il rifiuto di lui, oppur prescinde secondo che gli pare; e questa specie di difesa, che la donna ripete dalla legge che controlla il rifiuto del marito, non è che un incoerenza di più in faccia al suo spirito, una oscurità di più ch'ella apporta a quell'oscuro _busillis_ che è la protezione maritale, un fatto di più che prova alla donna sposa, ch'ella è sempre minore od interdetta. Se non che, potrebbero per avventura, questi esorbitanti diritti maritali, se non certo giustificarsi, almeno spiegarsi sopra ciò, che, dovendo il consorte nutrirla, in caso di dissipazione ella cadrebbe a tutto suo carico. Ma, signori no, anche qui la legge ha provvisto per non aver ragione, col sopraccitato paragrafo 128, nel quale é disposto che, «la moglie debba alimentare il marito, quando egli non ne abbia i mezzi bastanti» per cui, soggiacendo ambedue allo stesso peso, qui, come dovunque, la legge si sollecita affinchè non vi soccomba che il debole. Il marito perciò potrà sciupare i beni suoi e quelli della consorte, ch'egli solo amministra senza controllo, eppoi dovrà esserne alimentato. Cosicché riassumendomi, abbia il marito torto o ragione, sia egli o non sia in buon accordo colla moglie, sia egli onesto od immorale, sia egli accorto e prudente, oppure stupido od incapace, la legge ha già deciso in anticipazione, che il matrimonio deve produrre nella donna l'evirazione delle sue facoltà; per cui deve divenire essenzialmente incapace, mentre nel marito deve aggiungere onestà ed intelletto, senza eccezioni e senza limitazioni. Ma se la legge fatta dall'uomo, è necessariamente altresì fatta per l'uomo, essendogli pressoché impossibile astrarre dal personale interesse; per lo meno, essendo la morale una, ed inalterabile, saranno in caso di contravvenzione strettamente pareggiati nella penalità? Ciò non potrebbe essere, senza che la legge cadesse in una delle più grosse incoerenze. Distribuiti parzialmente i doveri, ne risulta una disparità di situazione, donde relativa dev'essere la colpa, epperò relativo il castigo. Il § 486 del Codice penale, decreta che «la moglie, convinta d'adulterio, sarà punita col carcere, non minore di tre mesi, estensibile a due anni»; e che «il marito convinto di concubinato, sarà punito col carcere da tre mesi a due anni». Per quanto giusta vi sembri questa disposizione non v'andate a credere, che stabilisca almeno in un punto un po' d'eguaglianza. La legge ha trovato modo di sciogliere il marito da ogni pericolo, e togliere alla moglie ogni diritto di querela coi § 482 e 483, dichiarando che, la moglie può essere adultera dapertutto, mentre il marito non lo è, per lei, che quando si abbia tenuto la concubina sotto il tetto coniugale. Ma forse che la legge ha così disposto nella impossibilità di constatare più chiaramente il concubinaggio per parte del marito? Domando scusa. Quando la legge ammette la sorpresa in flagrante, dovunque, contro la moglie, non v'ha equità che possa vietare sul conto del marito la stessa ipotesi. Più, se contro la moglie, la legge ammette prove risultanti da lettere o carte dal complice scritte; non si vede equa ragione, per la quale le prove reputate legali contro la donna, non si reputino egualmente legali contro il marito. La legge considera ella nell'adulterio l'offesa al diritto coniugale? Or bene, questa davanti alla natura, davanti all'equità, davanti al suo medesimo § 125 è la stessa in ambo i coniugi. — O considera dessa le conseguenze? Allora l'elemento eterogeneo, che l'adulterio della donna arrischia d'introdurre nella famiglia del marito, è quello stesso, che il marito porta in un'altra famiglia; con quella maggior reità, che porta con sè davanti ad ogni sano criterio e davanti allo stesso codice penale, la provocazione e l'iniziativa. Più, il marito amministrando solo, le sostanze sue e della moglie, più funeste sotto ogni aspetto riescir debbono alla famiglia i suoi disordini. Egli può detrarre il patrimonio dei figli, egli può spogliare la moglie, per arricchire l'amica. Finalmente, giudicate da ciò, se il codice divide il pregiudizio degli onesti che la morale sia una, e quanto si solleciti d'essere seco stesso coerente ricordandovi dell'edificante § 125, al quale or ora accennavo: «I coniugi hanno _dovere di reciproca fedeltà_». Ma dandosi il caso che un uomo, nel quale il sentimento d'equità predomini lo innato egoismo, e porti alla sua sposa riverenza, siccome ad essere umano, ed in lei però considerando l'ingenito principio del diritto, non dipende egli dalla sua ragione, dal suo cuore, dalla sua volontà il riabilitarla, deponendo spontaneo i non equi diritti? Rispondo. Sapete voi come, i legislatori della Carolina del sud, impediscono gli assembramenti delli schiavi neri, la loro istruzione e la loro privata industria, che padroni coscienziosi potrebbero favorire con animo di avviarli all'emancipazione, il qual risultato sembra a quei signori un _notevole inconveniente_? Punisce insieme il padrone e lo schiavo. Con poche varianti il nostro codice, prevedendo questo caso appunto, che il marito possa voler riabilitare la sua compagna, dichiara anticipatamente nel § 1509, che gli sposi, nel loro contratto, non possono in alcun modo derogare ai _diritti risultanti sopra la moglie dall'autorità maritale_, ecc., e nel § 1511, avverte, che è egualmente vietato agli sposi di stipulare in modo generico, che il loro matrimonio verrà regolato da alcune delle leggi, statuti, consuetudini che non siano attualmente in vigore in questi Stati, e ciò tutto, _sotto la responsabilità del notaio, che incorrerà in una pena od anche nella deposizione della carica_. * Si può contrarre matrimonio sotto diverse forme di regime, ben inteso, che queste modificazioni non riguardano che la proprietà, restando in tutto e sempre la persona della moglie completamente alienata. E per primo, v'ha il regime della comunione dei beni, nel quale s'intende coniugato chiunque non abbia fatto convenzioni speciali; v'ha il regime della separazione dei beni; v'ha il regime dotale. Nel primo l'amministrazione dei beni comuni è devoluta al marito _solo_; i quali beni si compongono di tutti i mobili ed immobili, frutti ed interessi d'ogni natura, acquisiti anche dopo il matrimonio. Oltre il diritto di amministrare, egli solo può stare in giudizio per azioni riflettenti i beni della comunione. Egli può inoltre vendere, alienare, ipotecare questi beni senza concorso della moglie, non essendo richiesto il suo esplicito consenso, per la legale validità d'ognuno di questi atti. Ora, laddove si consideri che se abbia la donna posto dei beni in comunione, o col proprio censo, o col proprio personale lavoro, o col lento e penoso risparmio, deve pur sempre stendere al marito la mano per averne in tutto od in parte ciò che vuole ogni equità le sia dovuto, fortunata ancora se una cattiva amministrazione del marito, od i debiti da lui incorsi, od i suoi vizii e disordini non l'hanno spogliata di tutto, vedrassi chiaramente quanto un simile regime sconvenga alla donna. Nel popolo, i cui matrimonii si fanno senza contratto generalmente, non è raro vedere un marito beone, brutale, o giuocatore, sciupare in assidue gozzoviglie il più che modesto mobiliare raccolto della misera consorte, colle lunghe notti vegliate nel lavoro, o con indicibili economie, che spesso le costarono la salute. Bisogna perciò persuadere le donne del popolo a fare un contratto nuziale, ed a voi tocca, signore mie, ad accorrere in soccorso della loro improvvida ignoranza, in nome di quel vincolo solidale che unir deve la donna di tutti i ranghi sociali, poiché tutte sono egualmente oppresse dalle istituzioni; e passiamo ora a vedere come la legge tratta la donna nel contratto. Un secondo regime matrimoniale è il regime dotale. I beni dotali debbono esplicitamente dichiararsi tali; tutti gli altri sono detti parafernali o estradotali. I beni dotali sono inalienabili in regola generale. Il marito solo li amministra; i frutti sono destinati a concorrere al peso delle spese domestiche. La moglie può ricevere annualmente sopra sua semplice quietanza una parte delle rendite di essa dote, dietro esplicita convenzione nel contratto di nozze. Un terzo regime è la separazione dei beni. In questo caso la moglie ha il dominio non solo, ma anche l'amministrazione de' suoi beni parafernali, uniformandosi, in quanto all'esercizio dei suoi diritti, alle restrizioni citate più sopra, che la riducono all'impotenza d'ogni atto legale senza consenso esplicitamente prestato dal marito, od in caso di suo rifiuto, dal tribunale. Come ognun vede, la donna, in qualunque regime coniugale, è _schiava_ o _minore_. Per avere un diritto materno, ella non dovrebbe esser madre che di prole illegale, e per avere il reale possesso di sè stessa e delle cose sue, mai non dovrebbe piegare il collo al giogo del matrimonio; e così facendo ella non farebbe che ridurre a pratica le immorali lezioni, che le dà il codice con tanta eloquenza; donde poi la corrutela massima dei costumi; la origine incerta delle famiglie; la moltiplicazione allo infinito degli orfani e degli esposti, non potendo la donna, priva del diritto industriale, bastare all'alimentazione di numerosa prole; e ci darebbe così, delle generazioni degenerate dal punto di vista fisico, depravate, dal punto di vista morale, miserabili, dal punto di vista economico, e dal punto di veduta politico, terribile ed eterna minaccia all'organismo sociale. Se le cose, la Dio mercè, non sono ancora a questo punto (benché i grandi centri già mostrino prepotenti gli elementi, che vi ci debbono condurre più o meno presto, se non si pensa al riparo), gli è perchè, e unicamente perchè, l'umanità, migliore assai delle demoralizzatrici legislazioni che la reggono, nell'intima vita delle famiglie non applica e non osserva le leggi. Egli è perchè generalmente la donna, più morale assai che non la vorrebbero i codici, preferisce incatenare sè stessa e le sue sostanze, e piegare il collo sotto il giogo che vede e sente iniquo ed ingiusto, perchè, ed unicamente perchè, le guarentisce un po' d'onore; quell'onore che la legge non cura e calpesta, dando al marito il diritto di disconoscere il figlio; ed indulgente quale ell'è alle seduzioni, le cui conseguenze abbandona tutte intere al debole che tiene nell'ignoranza, e perdona al forte che istruisce, e che non vuol manco conoscere — § 185. Le indagini sulla paternità non sono ammesse — § 186. Le indagini sulla maternità sono ammesse. Questi due paragrafi fanno sorgere spontanea più d'una riflessione. L'egregio professore Albini, ne' suoi _Principii della filosofia del diritto_, ammette il diritto d'educazione dei figli siccome diritto non solo morale, ma anche giuridico — (§ 92 e 65). Più lungi egli vede nel padre solo le attitudini fisiche e morali, che ne fanno il necessario capo della famiglia; e su queste attitudini egli fonda la patria potestà, e con lui la legge, ch'egli ormeggia riverentemente, permettendosi talora delle timidissime osservazioni. Ma se la legge è davvero convinta, che il padre solo basti a reggere la famiglia, e provvedere i figli materialmente e moralmente, secondo è diritto loro _morale_ e _giuridico_, epperò si crede in obbligo di circondare il padre di tanta autorità, come dunque, smentendo a sè stessa, abbandona alla madre sola la prole naturale, col vietare la ricerca della paternità? O la legge adunque non crede necessaria tutta l'autorità di cui circonda il padre, o non crede la madre incapace, come sempre l'afferma, ma anzi assai più atta del padre, dacché le dà lo stesso cômpito senza gli stessi mezzi, o che disconosce nel figlio naturale il _diritto morale_ e _giuridico_, che il professore Albini vede così lucidamente servir di base alla patria potestà. Non sarò io certo che mi darò il fastidio di sgarbugliare questa aruffata matassa di incoerenze. * Procediamo ora ad un rapido sguardo sulle condizioni della donna maggiore, vedova o nubile ch'ella sia. Libera dai pesi della famiglia, non vincolata ad ogni ora e momento ai più minuti capricci d'un consorte, vivendo o della propria industria, o del proprio censo, non v'ha ragione nessuna che la debba, in faccia alla legge, inferiorizzare nei diritti competenti ad ogni cittadino. Eppure non è così. La legge assume sulla donna per conto suo una seconda edizione della patria potestà, e ne limita ad ogni tratto l'autonomia ed i diritti, con un'aria di sollecitudine che tutta rivela la sua profonda convinzione dell'incapacità femminile. Ed a ciò non si accontenta, ma con patente ingiustizia si dà premura eziandio di diminuire per lei anche quella porzione di beni, che l'ordine della natura le assegna, e vo' dire delle disposizioni della legge nelle successioni _ab intestato_. Il codice Albertino dedica un apposito capitolo alla consacrazione di questa flagrante ingiustizia, fondata sul vieto diritto feudale, il quale avea saputo imaginare, come ognun sa, a maggior bene e gloria delle famiglie, l'oppressione di tutti i suoi membri, quale forzatamente coniugato, quale violentemente monacato, tutti, meno uno, snaturatamente spogliati. Ora, nel secolo decimonono, il codice Albertino conserva fresche fresche le sue velleità feudali, e fa ancor dell'amore col passato trapassato. In grazia che l'umanità ha un secolo di più, si rassegna ad emancipare tutti i suoi membri maschi, chè, in quanto ai membri femmine, non c'è mai premura; ed egli trova d'altronde, che il diritto scritto fa molto bene d'emanciparsi un po' dal diritto naturale, troppo più democratico che non comportino certi interessi; per cui: «Trattandosi di successione paterna, o di altro ascendente paterno maschio, la porzione di successione che spetterebbe alla femmina, o suoi discendenti, eredi o non della medesima, _sarà devoluta, a titolo di subingresso_, e secondo le regole di successione, _ai suoi fratelli germani, o loro discendenti maschi da maschi_, ove esistano; e in difetto di fratelli germani o loro discendenti maschi, ai fratelli consanguinei e loro discendenti maschi da maschi come sopra». Il § 944 decreta la stessa disposizione riguardo alla successione d'un fratello germano e consanguineo, se la donna trovasi qui pure in concorrenza con maschi, o con loro discendenti maschi da maschi, come sopra. Il § 945 conferma la stessa disposizione riguardo alla successione materna, esclusa sola la concorrenza dei fratelli consanguinei. La donna sorella, è l'elemento sul quale fa, assai generalmente, le sue prime armi la petulanza virile; e queste disposizioni sembravano fatte per apporre la legale ratifica a questo comunissimo fatto; ma, cessato il feudalismo, gli uomini della legge sentono benissimo di non potere in alcun modo, non che giustificare, neppure spiegare, non fosse altro, con ragioni di coerenza siffatta ingiustizia. D'altronde la dottrina del diritto è oggidì abbastanza sentita dalla coscienza delle masse, perchè si possa più oltre procedere in un ordine di cose ormai divenuto impossibile. Nè ci riconosciamo noi stessi il diritto di più oltre insistere su questo proposito, dacché siamo informati, che la commissione incaricata di rivedere i codici dal Parlamento nazionale, ha già compreso questo articolo fra quelli, ch'esser debbono oggetto di riforma. Se la pubblica opinione è il movente di questa riforma, lodiamo altamente il suo tatto politico dei tempi: se è il sentimento di giustizia, lo lodiamo ancora più. Si ricordi tuttavia il Parlamento italiano, che queste anticaglie barbariche, ed altre ancora, disparvero già da tempo dai codici delle nazioni, che dall'Italia ricevettero la civiltà; e faccia però, che più d'una provincia nel bel paese ripensando alle teutoniche istituzioni non le rimpianga! Ma procediamo innanzi nell'esame delle condizioni della donna maggiore. Riguardo alla tutela vi sono titoli di dispensa, titoli di rimozione, titoli d'esclusione. Va senza dire, che i titoli di dispensa, per l'uomo sono gloriosi. Essi sono, od un privilegio annesso alle regie onorificenze, od un'impossibilità prodotta dalle grandi cariche dello Stato. Per la donna non è questione di tutto ciò, dappoichè l'uomo nel suo ingenuo egoismo, e nella beata convinzione della sua esclusiva eccellenza, non decreta che a sè stesso titoli e cariche; per cui la cosa è a riguardo di lei assai più semplificata. Il titolo di dispensa per la donna è il suo semplice rifiuto. Notate, che in questo caso non può essere che la madre od una ascendente. Il titolo di rimozione è un nuovo matrimonio, come quello che è sempre destinato a colpir di paralisi la sua vita morale. Il titolo d'esclusione in regola generale è per la donna, l'essere donna. La donna adunque, anche maggiore, è appena riputata capace d'amministrarsi; benché nel caso di certi atti legali, che la riguardano tutta sola, come a mo' d'esempio l'atto di donazione fra i vivi, sia più inceppata assai che l'uomo. Oltre all'esplorazione della sua libera volontà, per parte del prefetto o del giudice di mandamento, debbono essere sentiti in proposito due parenti della donante; od in difetto di quelli, due amici della sua medesima famiglia. Più, delle donazioni, che non importano l'obbligo d'omologazione, è più ristretto il numero dei casi per la donna, che non per gli altri cittadini. Le sue donazioni debbono tutte corredarsi della ratifica legale, non eccettuate che quelle fatte nella cerchia della famiglia e discendenti, a titolo di dote od aumento di dote. Esclusa, in regola generale, la donna dalla tutela ed anzi tutelata eternamente ella stessa, non deve meravigliare il vederla esclusa dal consiglio di famiglia, per cui, anche davanti a questo tribunale intimo, davanti al quale si agitano gl'interessi più cari al suo cuore, e dove la voce di una madre, di un'ava, di una sposa e di una sorella sembra reclamata dalla natura, trovasi la donna annullata dalla legge. Non dite più, che la donna è fatta per la famiglia; che nella famiglia è il suo regno ed il suo impero! Le son queste poetiche iperboli e vacue declamazioni, come mille altre di simil genere. Ella esiste nella famiglia, nella città e dovunque in faccia ai pesi ed ai doveri; da questi all'infuori ella non esiste in nessun luogo. * Partendo dal principio della assoluta nullità femminile, che la legge afferma nella prima sua pagina, snaturalizzando la donna, che sposa uno straniero, lieta si direbbe di trovar plausibile pretesto a sbarazzarsene, e che sancisce ad ogni articolo che la riguardi, dovrebbe, ad essere conseguente, non riconoscerle la responsabilità. Farà egli bisogno di ricordare al legislatore, che quell'essere è responsabile che porta nell'azione sua piena intelligenza, perfetta avvertenza e libera volontà; e che però, quella creatura, alla quale voi negate la pochissima intelligenza che basta a saper reggersi dietro la norma de' suoi stessi materiali interessi, tanto più dev'essere ottusa nelle nozioni tutte astratte e speculative del bene e del male, del giusto e dell'iniquo? In base a questo sillogismo, la cui logica soluzione si presenta spontanea all'occhio di chiunque, noi saremmo in diritto di credere, che la donna è riconosciuta incapace di contravvenzione, epperò altresì di castigo. Ma no; la legge che si ispira agli interessi e non ai principii è condannata per l'ordine fatale delle idee a contraddirsi. Leggo nel codice penale, che la donna è dichiarata a 18 anni perfettamente responsabile di sè stessa, epperò egli più non si crede in dovere di rivendicarne l'onore. Che se nuova, semplice, ignara, come pressoché tutte le giovinette, delle consacrate immoralità del codice, crede tuttavia alla santità della parola ed alla inviolabilità del giuramento e si lascia sedurre, allora la legge, come la plebe romana in faccia ad un cadavere sanguinoso, che rivela un assassino, domanda tenera e sollecita _s'è salvato lo poveretto?_ Senza pur sognare della vittima, la legge così si affretta d'informarsi se la vittima è diciottenne, e trovatala tale tira un gran fiato, ed accocolandosi ripete soddisfatta, _non è ammessa la ricerca della paternità_. Ma e se la misera giovinetta non trova più pane neppure a prezzo di penoso lavoro? Se pesa sopra di lei una farisaica opinione, che dai codici educata conosce due morali, una rigida pel debole e pel sedotto, un'altra dolce e larghissima pel forte e pel provocatore, chi toglierà dalla sua giovine fronte quell'angoscioso rossore? Come potrà, se povera, prender cura del frutto delle sue viscere che se è dalla legge ripudiato, ê però accolto e benedetto dalla natura? Chi? Come? Forse che la legge s'intende a tutto ciò? L'onore? Ma la legge ha ella mai riconosciuto un onore? Se ne è ella mai preoccupata? Mi ricordo ch'ella si è preoccupata delle diffamazioni; ma avreste voi per avventura la semplicità di credere che i fatti, che tolgono l'onore, siano tanto gravi e decisivi quanto le parole che l'insidiano? La legge si sollecita della proprietà più che della persona, delle parole più che dei fatti, quando degna occuparsi della donna. Ella si trova l'obbligo di tutelare la sua proprietà perchè si tratta di limitarla, e fa con lei della galanteria perchè voglia rinunciare a' suoi diritti sulla prole; ma non si trova in obbligo di tutelare la sua persona oltre i 18 anni, e non crede, per esempio, dovere spingere la galanteria fino a sottrarla al patibolo. Il giudice od il prefetto non le troveranno tanta intelligenza e piena coscienza di sè, da apporre ad un suo atto la legale sanzione; ma il rappresentante del pubblico ministero saprà mettere alla luce del sole così bene il suo ingegno, la sua finezza, la sua perfetta coscienza nell'azione, la sua piena responsabilità, che si dovrà riconoscere il suo pieno diritto a vent'anni di reclusione. Che importa alla legge di smentire a sè stessa ad ogni pagina, ad ogni riga? Ella vi si rassegna, perchè già sa filosoficamente, che ella è questa la sorte fatale d'ogni dispotismo, che, mentre spregia lo schiavo come nullità, fa ogni sforzo per mantenerlo tale, come partisse da un criterio diametralmente opposto. Ognun sa che la testimonianza dello schiavo negro non pregiudica il bianco, nè vantaggia sè stesso; ma quella stessa testimonianza, riputata fallace od imbecille se diretta a danno dell'oppressore ed a proprio vantaggio, è però creduta veridica ed autorevole se rivolta a proprio danno o de' suoi compagni di sventura. Quando l'ingiustizia mai non venisse con sè stessa in contraddizione, quando il diritto offeso nel suo principio e nella sua ragione non manifestasse in ogni sua parte profonda lesione alla logica ed alla giustizia, noi saressimo tentati di credere che il diritto e la giustizia non sono verità, che la mente umana delira sulle loro traccie dietro larve e fantasmi, e che la filosofia non ha per anco escogitato neppure l'alfa della base necessaria all'organismo sociale. Passiamo ora a disaminare le condizioni della donna in faccia ad altre istituzioni e ad altri diritti. Dovunque la troveremo martire, dappertutto la vedremo annichilata od inferiorizzata; pure, noi lo dichiariamo altamente, a dispetto dei mille ostacoli e delle cento ingenerose barriere che si elevano fra lei e la libertà, non disperiamo della sua sorte e portiamo profonda la fede de' suoi futuri destini. Come al popolo, che ha scosso il giogo di secolare oppressione, guardano ansiose le ancora oppresse nazioni; così i dolori tuttora spasmodici della misera umanità, le viete sue piaghe incancrenite, cercano la donna, che veggono lentamente svilupparsi dal funebre sudario e scostarsene ad una ad una le pieghe, che tali sono per lei appunto le pagine dei nostri codici. LA DONNA NELL'ESCLUSIONE DEL DIRITTO Tutti (gli uomini) hanno la stessa natura e gli stessi attributi; donde nasce per tutti l'identità dello stesso fine e degli stessi doveri. TAMBURINI, _Corso di Filosofia Morale_. Basato il diritto sulla facoltà, non individuale ma generale alla natura umana, visto essere il diritto la legittima pretesa d'ogni essere allo sviluppo delle facoltà proprie del suo tipo, ed a tutte compiere le funzioni che gli fanno raggiungere il suo fine; io non mi dilungherò a provare, che la donna, essere umano, non ha un diritto di meno dell'uomo, finchè non usurperà il sacro nome di diritto il privilegio. Solo dirò, che i giurisperiti tutti, benchè non formulandosi nessuna base filosofica di diritto, tutti però viddero voler giustizia e ragione che ad ogni essere umano si estenda il diritto; epperò, non potendo essi in nessun modo negare alla donna di appartenere all'umanità, venir poi essi tutti con loro stessi in contraddizione, ogni qualvolta li veggiamo porre squilibrio fra l'uomo e la donna, e così la giustizia ferire con una spada a due tagli che, mentre nega all'uno il diritto, accorda all'altro un privilegio. Gli è perciò che, di tutte le accuse portate contro la donna allo scopo di giustificare il modo iniquo, col quale è dalle leggi trattata, non essendo dalla natura nè dalla ragione sancite ma dalle sole passioni, nessuna può regger salda davanti a pochissima osservazione, ed in faccia alla vera base del diritto. Si disse: la donna è incapace. Ma non è possibile negare l'intelligenza di molte donne più di quel che si possa disconoscere l'imbecillità di molti uomini. Ma sull'intelligenza individuale non è basato il diritto. Si disse; la donna è debole. Non è possibile negare la forza e la vigoria di molte donne, come è impossibile negare la gracilità ed il cronicismo di molti uomini. Ma sulla forza e sulla sanità non è basato il diritto. Voi obiettate il genere delle sue funzioni? È impossibile dimostrare e provare che la maternità, l'ordine famigliare, sovente l'insegnamento, il commercio, la produzione industriale, siano occupazioni meno necessarie e meno nobili, che quelle dello straccivendolo, dello spazzino, e della livrea d'anticamera. Ma sulle funzioni non è basato il diritto. Forse che la sua speciale organizzazione, che la fa soggetta a crisi e peripezie, la rende insuscettibile all'esercizio del diritto? L'esercizio d'un diritto civile qualunque, non essendo un facchinaggio, potrà sempre esercitarsi dalla donna sana, meglio assai che dall'uomo malato, al quale pur tuttavia non si toglie; il che prova che sull'organizzazione normale non è basato il diritto. Ma la sua ignoranza, la rende inetta! Non è possibile negare la coltura di molte donne, più che non sia possibile di disconoscere l'ignoranza di molti uomini. Chi è più colto, della donna che dirige un istituto d'educazione ed il famiglio che guida ai pascolo i majali? Ma sulla coltura non è basato il diritto. Nè si potrebbe obiettare con maggior fortuna, la protezione che l'uomo esercita sulla donna, che abbiamo già visto illusoria, e dalla legge stessa rinnegata ogni qualvolta s'incarica di controllare il marito e di difendere contro di lui la donna. Non l'alimentazione, perchè oggidì la donna contribuisce alle spese della famiglia, sia colla sua dote, sia col suo censo, sia col lavoro personale, sicchè la casa che abita non è più casa maritale, ma coniugale. — In quanto poi alla donna maggiore, la questione non ha neppure ragione di posarsi. Non il mandato, perchè il mandato che il marito tiene dalla moglie, secondo il regime comune, è violentato ed imposto dalla legge, il che gli toglie ogni valore in faccia all'equità. — Anche questa obiezione, per la donna maggiore, non ha ragion d'essere. Non le molteplici cure della famiglia, perchè non sono queste più assidue che quelle del fabbro che batte dodici ore al giorno sull'incudine, del ministro che ha gli affari di tutto un regno, del soldato che è notte e giorno sotto l'incubo d'una severa e minuta disciplina. Per me, come per voi e per tutti, il ballerino vale la ballerina, il virtuoso la virtuosa, il sarto val la modista; non vedo differenza fra il merciaio e la merciaia, fra la fantesca che pulisce la casa e lo spazzino che scopa la strada, fra il bifolco che guida l'aratro e la contadina che rimonda i grani, fra l'operaio che tesse la tela e l'operaia che l'ordisce; qual differenza, vedete voi fra questi, di funzione, di prodotto, di valor personale? Perchè dunque la ballerina, la virtuosa, la modista, la merciaia, la fantesca, la contadina e l'operaia aver non possono i diritti che si stimano ragionevolissimi e competentissimi al ballerino, al virtuoso, al sarto, al merciaio, allo spazzino, al bifolco ed all'operaio? Se sulle funzioni, sul prodotto, sul valor personale fosse basato il diritto, ancora non potrebbesi, senza inconseguenza ed ingiustizia, escluderne la donna, che funziona, produce, e rappresenta un valore, come madre, come industriale, come proprietaria. Ma sopra tutto ciò, non è, non fu basato il diritto. Il diritto è fondato sulla facoltà riconosciuta propria di una data natura; come tale ogni essere d'ogni specie ha diritti suoi proprii. Nell'essere umano, se la facoltà non è sviluppata, ciò non può essere che per un difetto intrinseco, o per un difetto estrinseco. Se il difetto è intrinseco, l'individuo è malato, la sua insuscettibilità sia organica, sia accidentale, è una anomalia che nulla toglie al principio del diritto. S'egli non avrà coscienza o potenza d'esercitare il suo diritto, egli non pur cercherà di farlo. Così niuno crederebbe doversi spogliare de' suoi diritti civili l'alienato di mente. Egli non incorre di fatto che nella sospensione del suo esercizio. Od il difetto è estrinseco, e l'individuo è allora vittima del cattivo mezzo nel quale ha vissuto: dei provvedimenti che la società, o le persone della natura, o dalla legge delegate, non hanno prese per svilupparlo. Anche in questo caso, benchè di fatto egli non sappia esercitarlo, l'anomalia nulla può detrarre al principio generale del diritto. Ora queste riflessioni ci portano naturalmente ad esaminare la donna in faccia al diritto di educazione e di istruzione, riconosciuto siccome diritto morale e giuridico. * Io non dubito punto che, in una società illuminata ed educata al culto del vero e del giusto, basti gettare in mezzo un problema che soluto volga in meglio la sorte di pochi o di molti, perchè tosto divenga la tesi di simpatia per tutte le anime generose, e per voi poi, signore colte e gentili a cui io parlo, un punto fisso di direzione. Ebbene, la tesi ch'io vi pongo a tutti, è l'educazione della donna. La donna ha, come essere umano, diritto _morale e giuridico_ di educazione e di istruzione. Più, la proprietà femminile paga imposte al par della virile; ma siccome lo Stato non ha per lei educazione pubblica, non scuole tecniche, non ginnasii, non licei, non università; dunque lo Stato è colpevole, verso la donna, di furto. Come proprietaria e contribuente, ha diritto d'equità, ad educazione assai più solida, ad istruzione assai più larga, che quella non sia che le è impartita oggidì. Ed invero, chi oserebbe asserire che vi sia, al dì che corre, per la donna un'educazione, quando non si voglia chiamar tale ciò che in fatti non lo è; voglio dire la reclusione di quattro, sei, otto anni in un convento, cioè in un mondo artificiato, escendo dal quale non si può meglio dirsi educato, di quel che possa chiamarsi acclimatizzata una pianta di papiro in una serra d'Italia? Chi oserebbe asserire, che v'abbia oggidì per la donna un'istruzione, quando non si voglia chiamar tale ciò che in fatto non lo è, che ci dà, sotto la frase solenne di studii di perfezionamento, poco più che i vocaboli delle scienze che non si insegnano? Le funzioni dello spirito, dipendendo dallo stato normale degli organi, siccome appunto destinati alla estrinsicazione delle facoltà spiritiche, ne risulta, che lo sviluppo fisico sia un indispensabile preliminare e coadiutore allo sviluppo morale ed intellettivo. Ora, chi oserebbe asserire, che vi sia per la donna qualche ginnastico esercizio che ne moderi la pusillanimità; o se non altro aria, moto e giuochi, tendenti e sufficenti al suo fisico sviluppo nei suoi istituti e peggio ne' suoi conventi, quando non si voglia chiamar tale ciò che infetti non lo è; cioè il breve sollazzo, che goder possono le fanciulle sotto il severo e meticoloso cipiglio monacale? Vivendo quasi recluse con poca aria e meno moto, collo spirito non d'altro pasciuto che di pochi studii mal assortiti, che altro non sono che un dirozzamento: informate, o meglio sformate ai principii, perchè la metafisica loro è somministrata a larghe dosi in luogo di filosofia: allevate nel Buddismo più assai che al cristianesimo od alla ragione: impossibilitate a farsi un sano criterio per difetto di dati; per formarsi intellettivamente, moralmente e materialmente, non resta loro che di dar fine a questo simulacro di educazione, strano impasto d'elementi impossibili, per cominciarne un'altra, l'educazione del mondo, l'educazione dell'esperienza, l'educazione dell'osservazione, l'educazione insomma della natura; che se lasciata a sè stessa, procede nulla più che a passo di testuggine, ha, se non altro, il vantaggio ed il merito, di mostrar loro gli uomini, e le cose quali sono, e non ne falsa il criterio, non ne vincola la ragione, non ne atrofizza il cuore. Qual meraviglia se da siffatta educazione esce la donna incompatibile colla famiglia; qual meraviglia, se avvezza al nebuloso linguaggio metafisico, vi fa gli occhioni sui più semplici dettami della filosofia, e simile ad un cavallo, che tutto adombra, freme e raccapriccia di ciò che non comprende, e s'atterrisce fin della sua ragione? V'ha poi un altro genere d'educazione per la donna, cioè un altro estremo peggior del primo, ed al quale accennavo sul principio di questo lavoro; il quale, tendendo ad informare la donna al culto dell'opinione, non la educa già, la _adorna_, e la adorna della diafana superficie di molte, e molto belle cose, ed anzitutto si preoccupa di darle quei talenti, che la faranno meglio ammirare e piacere. L'esposizione è ricchissima, ma non è tale se non perchè tutto il magazzino è sul davanti. Queste donne non sono fatte per loro, sono fabbricate ad altrui uso e consumo. Qual meraviglia se da una siffatta educazione esce la donna vera nullità e ben tosto demoralizzata; poiché, dopo aver fatto al mondo il sagrificio delle sue facoltà, ed aver aspettato da lui riverentemente la cifra del suo valore, qual altro avvilimento, qual'altra degradazione le è impossibile? E nell'una educazione e nell'altra la donna non sa che si voglia intendere per progresso, per libertà, per diritto, per lavoro, per associazione, per solidarietà, per principii. Assorta collo spirito in un'atmosfera, che non è quella del mondo reale, inviluppatavi dal misticismo; oppure non amando che sè stessa, ed idolatrandosi sopra ogni cosa, il mondo avvanza ed ella resta indietro. Vede ella l'agitarsi di tanti uomini e di tante cose senza nulla capirvi; ode nelle discussioni frequenti il cozzo di cento idee: vede nella vita di mille partiti l'urto di contrarii interessi; vede combattersi sulla faccia della terra una titanica lotta; ma il suo spirito, incapace perfin di parteggiare, non ne è per nulla curioso; oppur cocciuta conservatrice vorrebbe risuscitare l'impossibile passato. Ora così non può, non deve camminare la cosa! Legislatori, occupatevi della educazione della donna! Non vi ostinate nella negazione della giustizia! Si consultino le sue attitudini, si assecondino le sue vocazioni e si applichino. Ella vi ha un _diritto morale e giuridico_. Se l'identità del fine tragge con sè identità di dovere, desso suppone altresì identità d'attitudini. Ora ciò tutto costituisce un diritto ingenito ed innegabile, donde un altro diritto, l'applicatone di queste attitudini educate e sviluppate in funzioni adequate e corrispondenti: funzioni che null'altro vieta alla donna che il meschino pregiudizio d'una lunga abitudine d'esclusione, che lei intimidisce dallo aspirarvi, e l'uomo ritragge e sfiducia dallo affidarle. L'intelligenza femminile è un terreno vergine ed inesplorato; peggio, è terreno sul quale imperversarono mai sempre ingenerosi i venti degli iracondi interessi, le grandini avvelenate delle satire e dei sarcasmi, le nebbie fitte ed asfisianti dei religiosi terrori a soffocarvi in germi, od a mietervi immatura la spontanea vegetazione. Ma siccome, in faccia al principio incontrovertibile del diritto, la donna ha diritto all'istruzione; siccome il suo spirito è vocato a progredire; siccome la sua intelligenza si è potentemente svegliata in pochi anni di libera vita; siccome tutti i diritti sono fratelli, e la donna lo capisce generalmente assai bene; siccome la filosofia reclama la donna per riceverne coll'impronta del suo genio un po' di possibile e di concreto, così voi la vedete, spinta da un impulso fatale, ingombrare infinito numero di istituti e di scuole ansiosa del sapere: e verrà giorno, in cui ella saprà imporsi, poichè saprà informare i suoi figli alle cose nuove, e col suo attivo intervento imprimerà un nuovo impulso alla rivoluzione sociale; poichè ella è sazia delle antiquate dottrine, delle quali voi vi ostinate a rivestire il suo spirito, e che voi già da tempo avete per conto vostro rejette; ella è sazia di fede, e vuole un'po' di ragione, ed alla sua fame più non bastano le aride bricciole dei vostri banchetti. Fate posto alla donna e tutto si rifonderà, e si riformerà meglio assai di quel che possiate fare voi pochi e rigorosi atleti del pensiero, che la mente indomita spingete fin nelle nubi, ed ai bassi mortali rimanete pur sempre incompresi, chè in voi ammirano nulla più che sublimi utopie. Fate posto alla donna, senza di lei l'umanità è incompleta; come spera ella compiere il suo lavoro? Fate posto alla donna, ed il suo arrivo nella vita sociale sarà il trionfo del diritto, della giustizia e della libertà. * Per la necessaria influenza, che la legislazione esercita sulla opinione, i costumi vi si uniformano e creano delle prevenzioni e dei pregiudizii, che durano imperterriti davanti alla guerra che loro combattono la ragione ed i fatti. Ora, avendo le leggi tutte, quali più, quali meno, inferiorizzata la donna, questa disistima si estese eziandio alle sue produzioni, benchè la ragione ed i fatti provino tutti i giorni, che il lavoro della donna è nobile, è necessario, è perfetto, quando anche non è identico a quello dell'uomo. Questa disistima della produzione femminile fa sì, che la donna debba starsene per una misera mercede da mane a sera inchiodata ad un lavoro penoso, non guadagnando talora pur tanto da levarsi la fame. E negli stabilimenti d'industria e di speculazione non è ella cosa convenuta, che la donna debba al par dell'uomo affaticare e produrre per una mercede assai più scarsa? Nè si dica, che la donna ha meno bisogni. In regola generale il lavoro dev'essere retribuito in ragione del suo intrinseco valore, e non già in vista del maggior o minor bisogno dell'operaio. Che se amano carità e filantropia largheggiare nella mercede là dov'è urgente e grave il bisogno, vuole la più elementare nozione di giustizia, che l'opera sia retribuita per non meno di quel che vale. D'altronde, che cosa significa questo che la donna ha meno bisogni? Quando si tratta di darle l'esercizio d'un diritto, allora diventa, la donna, la creatura dai mille bisogni e dalle molteplici esigenze. Allora vengono in campo le frequenti malattie, le perpetue lesioni nervose, le crisi inevitabili, i lunghi squilibri, e si vuol vedere uno stato morboso e patologico perfin nelle leggi puramente fisiologiche, che reggono il suo modo d'esistenza, per dimostrarla impotente, non che a muoversi dal suo scanno, neppure a far atto di presenza ad un atto legale di nascita o di matrimonio, sprofondata in un seggiolone. Ora, questa creatura, che si vuol fragile come una piuma di cigno, diviene ad un tratto d'una potenza erculea per affaticar tutto giorno come l'uomo, e meno di lui retribuirsi. Eh finiamola di contraddirci, e di porre le prevenzioni nostre al posto della natura. Il ricco vuole la donna esile, e tenta persuaderle che è di vetro affinchè, stesa tuttodì su un morbido sofà, punto non pensi a controllare il governo maritale. L'uomo del popolo persuade alla sua donna ch'ella è vigorosissima, per vivere egli pure del suo lavoro, se accade, come spesso, al marito di amar meglio le gozzoviglie che la fatica. A meno che non si vogliano calcolare, come altrettanto minor cifra di bisogni nella donna, l'ebbrezza alla quale generalmente l'uomo s'abbandona, ed ella no; il giuoco, vizio che l'uomo generalmente ha, e che la donna generalmente non ha; le frequenti gozzoviglie, che la donna operaia non conosce quasi, e nelle quali l'uomo del popolo affoga spesso il frutto del sudore della settimana, al quale avrebbe la sua famiglia sacrosanto diritto. Ecco i minori bisogni che ha la donna; ma vi sono poi i maggiori, che tutti si risolvono in economie per il tempo delle malattie, per la stagione priva di lavoro, per le minute provvidenze della casa, delle quali il marito non conosce neppure il nome, per le vesti ai bambini e talvolta ancora il pane a che il padre non pensa, e non è sgraziatamente troppo raro il caso. Oh voi almeno, mie giovani lettrici, per quell'affetto solidale e fraterno, che deve vincolarvi colle creature del vostro sesso, per quel sentimento di giustizia, ch'esser dovete prime ad applicare dovunque è un diritto da rivendicare; oh, non diminuite mai la mercede alla donna del popolo, che provvede ai vostri agi ed al vostro lusso. Quella moneta, che voi non sottraete al suo lavoro, in luogo d'accrescere un balocco più o meno elegante sul vostro tavolo, un fiore più o meno sfolgorante nelle vostre treccie, che la natura ha già fatte d'oro e di seta, andrà convertita in pane a saziar la fame d'una mezza dozzina d'angioletti, e si avvolgerà, tramutata in tepida lana, attorno ai loro nudi e tremanti corpicini. Non la trovate voi assai meglio impiegata? A redimere la donna dalla tirannide di questo ingiusto costume, non v'ha che l'associazione organizzata su larga scala. Vuolsi perciò tentare ogni mezzo a persuadere alla donna del popolo, che l'associazione è moltiplicazione indefinita di potenza, ma che, ad esser feconda in risultati, non deve arrestarsi ad un mutuo soccorso, ma devono le contribuzioni delle associate costituire un fondo da convertirsi in materia prima. Questa, lavorata poi dalle associate colla massima perfezione, sarebbe esposta alla vendita con prezzi più rilevati dei comuni. Ciascun membro sarebbe retribuito dalla società secondo il suo lavoro, e dedotte le spese d'acquisto della materia prima, si procederebbe ad epoche periodiche ad un'equa distribuzione degli utili. È però necessario, che l'associazione si estenda siffattamente in ogni città e provincia che sia impossibile al compratore il provvedersi quei dati generi altrove che nel magazzino della società. Senza di ciò l'emancipazione industriale della donna operaia resta affatto raccomandata al sentimento d'equità e di giustizia dell'uomo, e che cosa sia in diritto d'aspettarsene ella già sa, volgendo uno sguardo sulla condizione sua in tutti i secoli. * Oltre la miseria ed il bisogno, altre e peggiori conseguenze porta con sè la privazione del diritto industriale nella donna, e queste conseguenze si estendono all'uomo, ed infestano di orride piaghe tutte le generazioni. Già lo dicemmo altrove, la miseria nella donna suona prostituzione. Parent-Duchâletet attesta, che sopra tre mila creature perdute in Parigi, 35 soltanto erano in istato di poter nutrirsi. La legge poi, abbandonando alla donna tutte le conseguenze delle seduzioni, aggiunge anche il suo peso al giogo iniquo che già le gravita addosso, ed incoraggia l'uomo, che muove talora atroce guerra alla figlia del popolo. Sono manufatturieri che seducono le loro compagne d'industria, sono proprietarii e direttori di fabbrica che minacciano il rinvio alla giovine che loro non si abbandona e che, atterrita dal lurido spettro del digiuno, cede, ed è poi messa alla porta; sono padroni che scacciano dalle loro case giovinette disonorate, le quali trovano poi chiuse in faccia tutte le porte e tutti i volti atteggiati a dispregio; e l'impossibilità di onesta sussistenza le fa pendere dubbiose e tremanti fra l'infamia ed il suicidio. Ed invero, privata la donna del diritto industriale, chiusele davanti tutte le professioni, ridotta a vivere di poche industrie di infima retribuzione, ella è completamente alla discrezione di chi possa fornirle un po' di lavoro. Pensa ella bene a siffatta situazione della donna una certa farisaica virtù che, mentre perdona all'uomo l'uso e l'abuso d'una posizione ch'egli si è fatta col merito del muscolo, e lo sciopero ch'egli fa nel vizio delle sostanze e del patrimonio de' suoi figli, pretende poi, che ogni donna sia una eroina, che si lasci morir di fame anziché cedere alle esigenze del sempre immacolato provocatore? Dio mio! la società ha dessa un po' di quel viscere che si chiama cuore quando sparge a larghe mani il disprezzo e l'abiezione sulla fanciulla sedotta? Pensa dessa alle lotte tremende col bisogno dall'infelice combattute, alle vigilie frementi e sconsolate, alle lagrime cocenti che precedettero il fallo e lo seguirono, alla vergogna che le soffuse le guancie al solo ricordarlo, eppoi all'abbandono, al disprezzo prima temuto e poscia subìto, ai lunghi mesi di sofferenza, al frutto dell'errore a tutto suo carico, se pure non le fu indispensabile lo strazio d'allontanarsi il figlio di tanti dolori per abbandonarlo alla carità cittadina? Pensa dessa a tutto ciò la società quando, indulgente all'autor primo di tanti mali, apre talora a festeggiarlo le sue sale dorate ed i suoi brillanti convegni, e dovunque lo celebra amabile conquistatore? Ha dessa un cuore la società quando, disconoscendo nella donna il santo diritto di vivere del suo lavoro e non della sua persona, satirizza e chiama il ridicolo sopra uomini generosi che, tutti questi mali vedendo e deplorando, chieggono ad alta voce che si sottragga la metà del genere umano alla tirannia dell'altra; e più non si lasci codardamente la donna inerme bersaglio all'impeto di passioni e d'interessi non suoi, senz'altra difesa che quella d'un eroismo, che l'uomo, sovente schiavo incatenato d'ogni depravato istinto, è ben lungi dall'esser in diritto d'esigere da una creatura di lui già ben assai migliore? Ha dessa la società un bricciolo di quel sentimento d'equità e di giustizia di cui pur mena tanto scalpore, quando, mentre propugna per l'uomo libertà, e domanda assiduamente attività di commercio, circolazione di danaro, dilatazione del diritto, e freme e scalpita se l'ombra sola d'un dispotismo mostra di volerlo ledere in qualche parte; si fa poi lecito di menar colpi da orbo attraverso alla donna che, dopo avere con ogni sacrificio ed entusiasmo favoreggiato tutte le libertà, cerca ora la sua? Avendo la donna al par dell'uomo speciali attitudini, ha al par dell'uomo altresì diritto di svilupparle ed applicarle; questo c'insegna il principio del diritto ingenito. Vi ha diritto perchè, avendo diritto al lavoro, in lei sola sta la scelta del suo lavoro: vi ha diritto perchè praticamente e realmente ella lavora e produce; e nella industria e nel commercio, e nelle arti e nello insegnamento ella trovasi già su larga scala, e spiega a quest'ora delle attitudini, che si avrebbe forse avuto, non ha molto tempo, prurito di negarle. Vi ha diritto finalmente, perchè la società alla sua volta ha diritto, che la funzione venga esercitata da chi può meglio; e però, se fra più concorrenti, una donna mostra maggior idoneità, ella fra tutti vi ha diritto. Le siano dunque aperte le professioni, come già le furono aperte, benché in troppo angusto confine, le industrie; e trovi la donna del popolo, pane, e la donna colta, ma disagiata, onesto e decoroso guadagno. Fra le professioni, delle quali la donna sente e reclama con maggior calore la facoltà di esercizio, trovasi in primo luogo la medicina. È tempo veramente, ch'ella respinga assolutamente questa tirannica inquisizione virile sopra il suo corpo, e si pronunci energicamente sopra questo perpetuo oltraggio, che si fa al suo pudore. La facoltà medica già esercita nell'America del nord dalla donna verso la donna e verso l'infanzia, dà a quest'ora dei risultati, dei quali quelle popolazioni si applaudono; e non v'ha ragione perchè si debba negare in Europa, dove valenti scrittori dell'uno e dell'altro sesso si sono pronunciati sull'equità e sui vantaggi di questo provvedimento. * La donna fu ed è sempre considerata come fuor della legge, coll'aiuto della sua debolezza che si ha ogni studio ed ingegno di esagerare fino al ridicolo, e coll'opportuna _messa in iscena_ della sua pretesa incapacità, a smentire la quale sorgono dovunque invano splendidi fatti. Indarno la prosperità di mille case di commercio, di mille stabilimenti industriali attestano ed affermano i suoi talenti finanziarii ed amministrativi. Indarno le mille e multiformi produzioni del suo spirito fanno fede della svegliatezza e fecondità del suo ingegno. Invano regine e principesse, le cui splendide e recenti gesta non sono ad alcuno ignote, con saggio governo e con ogni forma di politico reggimento felicitando i popoli, e prosperando le sorti delle nazioni loro affidate, fecero e fanno fede dei talenti politici della donna. Indarno si odono tuttodì donne del popolo, coi loro schietti parlari, rivelarsi calde parteggiatrici, e darci della loro politica intelligenza una misura che non ci aspettavamo. L'opinione, o meglio la _prevenzione_ pubblica, alla quale omai non si può levar taccia di mala fede, si copre gli occhi, si tura le orecchie e ripete imperterrita: _la donna è incapace_. Ora, se si può vincere il pregiudizio, la mala fede non si vince; ma rimarrà pur sempre vero che, essendo il _diritto_ politico (non mi fermerò a discutere se con torto o con ragione) fondato sulla proprietà, ed essendo riconosciuta, affermata, e sopratutto _aggravata_ la proprietà femminile al par della maschile, la donna è dalla legge una volta ancora lesa e violentata. Non bisognava imporre alla donna una dote per maritarsi, non bisognava obbligarla al lavoro per mantenersi, non bisognava che ogni Adamo del secolo decimonono scaricasse addosso alla sua rispettiva Eva metà, e talora tutto il peso della sua condanna, ed allora si avrebbe potuto negarle la proprietà, che non può essere che prodotto del lavoro; e con quella e con questo, a monte i diritti civili, a monte i diritti industriali, a monte i diritti politici; e la dinastia virile sarebbe stata felicemente regnante fino alla consumazione dei secoli. Questa verità viddero i moderni novatori, epperò gli amici della donna le dicono, _lavora_; e gli avversari della sua redenzione si sbracciano a predicarle, ch'ella è di vetro e che arrischia di rompersi, muovendo un dito. Fortunatamente Proudhon, grande nemico della libertà femminile, arrivò troppo tardi ad avvertire i suoi compagni che il _lavoro è il grande emancipatore_. Gli uomini spostarono volontariamente il primo bottone, bisogna ora forzatamente spostar tutti gli altri; essi bevvero al calice oppiato dell'indolenza, bisogna subirne le conseguenze, e bere fino alla feccia. Essi hanno abdicato il dovere, epperò rinunciato il diritto. Oggi la donna è produttrice, proprietaria e contribuente; laonde al legislatore, che voglia salvar capra e cavoli, e non concedere alla donna il diritto elettorale, nè l'istruzione, non resta per isdebitarsi in faccia alla giustizia, che un solo ripiego, levare le contribuzioni alla proprietà femminile. Certi spiriti piccoli, ed incapaci di elevarsi fino agli incontrastabili principii della giustizia, sorridono di stupida sorpresa ad ogni idea, che loro giunga d'oltre la angusta cerchia abituale delle loro menti; ma siccome non è d'obbligo, la Dio grazie, nè la loro licenza, e tanto meno il loro intervento per rivoluzionare così nell'ordine delle idee, come in quello dei fatti; così, con loro buona pace, il movimento emancipatore della donna, che ebbe ad iniziatori altissime individualità dell'uno e dell'altro sesso, non potrà assopirsi e neppure arrestarsi, meglio di quel che si possa por argine al torrente precipitoso ed irrompente del principio delle nazionalità. È il logico corollario delle nuove idee, che si son poste in circolazione negli umani cervelli; bisogna subirlo. D'altronde, l'uomo e la donna non furono mai così perfettamente d'accordo come oggidì. Nè l'uno nè l'altra credono più a nessun diritto divino, nè a nessun monarchismo che non sia voluto dal libero suffragio dei governati. IL DA FARSI Poich'ebbi addimostrato che dal dovere nasce il diritto, non essendo questo che mezzo al compimento di quello, mi correva obbligo di parlarvi del diritto; epperò vi mostravo di volo le condizioni della donna in faccia alle istituzioni; e come queste sue condizioni siano tali da renderla affatto impotente al compimento di quel dovere cui è missionata; avvegnachè io vi mostrassi la donna non solamente ne' suoi rapporti cogli individui, ma eziandio coll'umanità; poichè, se da un lato le incombe gravissimo cômpito, come sposa e come madre, non meno grave ed indeclinabile, siccome ingenito e ad ogni altro anteriore, le impone un lavoro la qualità di membro sociale. Epperò questo lavoro io vi mostravo, non manipolato da laterali interessi, non imposto da questa o da quella volontà, non esatto da una forza qualunque soggiogabile, non manufatto da umane organizzazioni che si arrogano diritto di distribuire funzioni, come se quello prima avessero di distribuire attitudini; ma cômpito e dovere che nasce con voi, con voi cresce e si sviluppa, che prepotentemente vi s'impone nell'imponente e fatale linguaggio delle vostre facoltà che, assecondate, vi conducono a benessere ed a perfettibilità; compresse, vi fanno infelici o demoralizzate. Io vi mostravo che la negazione del dovere è la negazione del diritto, epperò vi eccitavo a riconoscervi quello, per poi chiedere l'affermazione di questo. Io non dubito punto che voi tutte, che mi leggete, abbiate ben compreso questa verità, che è la molla e la sintesi del meccanismo sociale; epperò vedo che mi chiedete, ch'io stringa in due parole tutto il da farsi, onde ottenere i mezzi d'azione, dappoichè vi riconoscete il dovere di azione, spogliandovi di quella misera impronta di servilismo e di pusillanimità, che ora deturpa il carattere femminile, scaturita per lo appunto dalla lunga oppressione subìta, e dalla incoscienza delle legittime pretese, che ogni essere può, e deve recare innanzi alla società, e determinandovi energicamente all'esercizio della vostra attività; laonde mi riassumo. Lo Stato nega alla donna l'istruzione, mentre la fa contribuente. Il codice le nega la capacità in faccia al diritto, mentre ne afferma la responsabilità in faccia alla contravvenzione ed alla pena. Lo Stato respinge la donna dalla vita politica, mentre ve la fa concorrere coi sacrificii. La legge subalternizza la donna nel matrimonio e le nega la maternità legittima, mentre la chiama a parte dei pesi domestici e le abbandona tutte le conseguenze della maternità illegale. Più, chiude ogni via alla sua intelligenza e le sbarra la strada ad ogni professione, disconoscendo così in lei il diritto di lavoro e d'attività. La donna deve dunque protestare contro la sua attuale condizione, invocare una riforma, e chiedere: I. Che le sia impartita un'istruzione nazionale con larghi programmi. II. Che sia parificata agli altri cittadini nella maggiorità. III. Che le sia concesso il diritto elettorale, e sia almeno elettore, se non eleggibile. IV. Che l'equilibrio sia ristabilito fra i coniugi. V. Che la separazione dei beni nel matrimonio sia diritto comune. VI. Che l'adulterio ed il concubinato soggiacciano alle stesse prove legali ed alle stesse conseguenze. VII. Che il marito non possa rappresentare la moglie in nessun atto legale, senza suo esplicito mandato. VIII. Che siano soppressi i rapporti d'obbedienza e di protezione, siccome ingiusta l'una, illusoria l'altra. IX. Che nel caso che la moglie non voglia seguire il marito, ella possa sottoporre le sue ragioni ad un consiglio di famiglia composto d'ambo i sessi. X. Che il marito non possa alienare le proprie sostanze sia a titolo oneroso, sia gratuito, nè obbligarle in nessun modo, senza consenso della moglie, e reciprocamente. — Dacchè il coniuge sciupatore dev'essere mantenuto dall'altro, è ben giusto che la controlleria sia reciproca. XI. Che la madre sia contutrice, secondo lo vuole diritto naturale. XII. Che il padre morendo elegga egli stesso un contutore, e la madre a sua volta elegga una contutrice ai suoi figli. XIII. Che sia ammessa la ricerca della paternità, e soggiaccia alle prove legali, alle quali soggiace l'adulterio. XIV. Che si faccia più severa la legge sulla seduzione, e protegga la donna fino ai venticinque anni. XV. Che sia la donna ammessa alla tutela ed al consiglio di famiglia. XVI. Che abbia la tutrice gli stessi diritti del tutore; e, dove v'abbia discordia, giudichi in prima istanza il consiglio di famiglia, quindi il tribunale pupillare. XVII. Che siano aperte alla donna le professioni e gl'impieghi. XVIII. Che possa la donna acquistare diritti di cittadinanza altrimenti che col matrimonio. * Se ho ammesse qua e colà delle limitazioni ai diritti competenti ad ogni cittadino, dichiaro esplicitamente, che non è già perchè io li sconfessi, rispettivamente alla donna. Ho già detto, ch'io credo dovere la donna apporre il suggello del suo genio sopra tutte le umane istituzioni, che fin qui non si possono che abusivamente chiamar tali, opera quali sono di una casta appartenente alla metà dell'uman genere; e non potrassi mai pensare altrimenti, finchè la specie nostra, come tutte le altre, sarà composta di due termini. Se m'arresto a questo punto, e mi rassegno a queste limitazioni, gli è perchè, sono queste le riforme, che credo possibili e mature. Cosichè, pronta a rivendicare domani ogni altro diritto quando vedessi opportuno di farlo, m'arresto in oggi dove vedo nei pregiudizii generali, e nello spirito dei tempi ancora bambini all'attuazione delle dottrine del diritto, segnati i confini della possibile redenzione femminile. Ma questo pochissimo è necessario ed urgente. Se le nazioni vogliono camminare alla libertà, è duopo, che non si trattengano in seno terribile ingombro e potente avversario, un elemento impersuaso e malcontento così numeroso, qual'è il femminile. Veda la donna associarsi la sua libertà a tutte l'altre, ed allora ella profonderà tesori di devozione e d'entusiasmo per la causa generale; ed è nella speranza e nel desiderio vivissimo, che questa verità sia compresa dai governanti, ch'io m'accomiato da voi, mie giovani sorelle. Giovine io pure, sto spiando con ansio interesse l'apparizione d'ogni idea, che favoreggi in qualche senso la santa causa della libertà; e spero di tornarvi a stringer la mano, per congratularci mutuamente del progresso, che la dottrina del diritto avrà fatto fra gli uomini, ed anzitutto del bene, che voi avrete fatto all'umanità a giusto compenso dell'averla dessa in voi riconosciuta ed onorata. Gli è in questa ferma fede che depongo la penna inviando, a nome di tutto il mio sesso, un saluto di simpatia ed un pubblico tributo di riconoscenza a tutti gl'ingegni dell'uno e dell'altro sesso, che propugnarono la causa della redenzione femminile colla parola e col fatto. Onore e lode pertanto a voi, Giuseppe Mazzini, Salvatore Morelli, Ausonio Franchi! Grazie a voi tutti, scrittori della _Ragione_ e della _Révue Philosophique_! Grazie a voi, Bazard, Enfantin, Léroux, Fourier, Légouvé, St. Simon, e Fauvety! Grazie a voi tutti uomini generosi, che propugnate tutte le libertà e tutte le redenzioni, elevandovi sopra le meschine ispirazioni degli interessi; e che colla parola, colla penna o coll'opera, affermate i diritti della donna! Essa farà tesoro dei vostri nomi, e li tramanderà ai suoi figli e nepoti circondati di gloria e d'onore! Grazie e grazie vivissime a Madama Sand, a Madama d'Hericourt, a Madama Deroin! Onore alle ceneri di madama Roland! Onore a voi tutte, donne del progresso; che, trattando con gloria le arti e la penna, affermate col fatto l'attitudine e la capacità femminile! Possa il vostro nobile esempio scuotere dall'inerzia la massa neghittosa, e chiamarle sul volto il rossore dell'aver tollerato in silenzio una sì lunga servitù. FINE. INDICE A MIA MADRE pag. III ALLE GIOVANI DONNE » V _La donna e l'opinione_ » 27 _La donna e la religione_ » 55 _La donna e la famiglia_ » 83 _La donna e la società_ » 121 _La donna e la scienza_ » 145 _La donna in faccia al diritto_ » 173 _La donna nell'esclusione del diritto_ » 219 _Il da farsi_ » 237 ERRATA-CORRIGE Pag. 4 lin. 7 dal cuor _del cuor_ » — » 8 dalla divina _della divina_ » 6 » 4 dalla nazione _della nazione_ » 12 » 8 d'una donna _una donna_ » 14 » 24 inumerosi _i numerosi_ » — » 26 farà sosta _sarà sorta_ » 18 » 5 applicaziane _applicazione_ » 24 » 7 precipusamente _precipuamente_ » — » 16 condueono _conducono_ » 25 » 34 ed ogni _ad ogni_ » 32 » 32 _Dulpamenta_ Pulpamenta » 34 » 24 Gia Giacomo _Gian Giacomo_ » 39 » 5 _leus_ Leurs » — » 13 sérieues _sérieuses_ » 56 » 13 Fouriere _Fourier_ » 64 » 13 aggloramento _agglomeramento_ » 84 » 30 originazia _originaria_ » 88 » 12 _sequiture ventrm_ sequitur ventrem » 89 » 8 Canciti _Camiti_ » — » 14 Nonkahiva _Noukahiva_ » — » 20 Coango _Loango_ » 90 » 9 comprono _comprano_ » 91 » 6 Sechems _Sakemi_ (_Sagamos_) » — » 22 civilizione _civilizzazione_ » — » 31 cucinaria _culinaria_ » — » 34 recatagli _della noia recatagli_ » 106 » 26 eppo _eppoi_ » 107 » 19 seriamenta _seriamente_ » 109 » 2 serbata _serbate_ » 124 » 7 dracciate _diacciate_ » 127 » 15 sventuro _sventure_ » 177 » 18 unità _verità_ » 185 » 29 donna _donna?_ » — » 31 Corinti? _Corinti._ » 188 » 37 fama _forma_ » 197 » 22 padrigno _patrigno_ » 210 » 34 dacché dà _dacchè le dà_ NOTE: [1] _Ognun sa che Carlo V. non sapeva scrivere neppure il proprio nome, talché servivasi per firmare d'un sigillo, nel quale l'orefice, _sotto la direzione d'un ecclesiastico_, avevalo compilato e quindi inciso._ [2] Parecchi moderni scrittori, propugnatori della redenzione della donna, studiarono anche l'influenza delle istituzioni sul suo carattere, ma le loro idee non sono per anco volgarizzate. [3] Mentre la donna riscuote nella cattolica canonizzazione l'onor degli altari, e nella persona della Vergine Maria è divinizzata (_Deipara_). St. Pier Damiani scrive esser le donne «Pulpamenta diaboli, virus mentium, aconita bibentium, gineceæ hostis antiqui, upupæ, ululæ, sanguisugæ, scorta, prostibula, volutabra porcorum pinguium, cubilia spirituum immundorum, nymphæ, sirenæ, lamiæ, dianæ, ecc., ecc.». Altri Padri e Dottori, le cui dottrine sono accreditatissime nella Chiesa, non sono per la donna nè meno idrofobi, nè più galanti. [4] Discorso pronunciato dal cav. Luigi Montagnini in occasione dell'apertura della corte di Cassazione, l'anno 1863. [5] Niuno ignora le furiose fazioni che divisero la chiesa in quei secoli che numerosissime dapprima, si fusero poscia in due denominate _bleu_ e _verde_. A questo proposito dice De Potter, nella sua _Istoire du Christianisme et des Eglises Chretiénnes_: «Il fut longtemps difficile de n'ètre ni néstorien ni eutechien.» Secondo questo scrittore le fazioni teologiche e le invasioni barbariche furono i solventi dell'impero Romano. [6] Aspasia, Laide, Frine, Glicera sono nomi celebri negli annali della Grecia, e videro prostrati ai loro piedi i Pericli, i Temistocli, gli Alessandri e perfino il severo Socrate ed il cinico Diogene. Le cortigiane erano sacre a Venere e participavano della riverenza e del culto prestato a quella divinità, e si credeva che le loro preci fossero presso di lei efficaci. Le cortigiane erano encomiate dagli scrittori in Atene. Aspasia era l'arbitra della pace e della guerra; e la statua di Frine si ergeva fra l'effigie di due re. Si innalzavano loro magnifiche tombe. Celebri sono i due monumenti che Arpalo fece alzare a Pitionice, sua cortigiana, l'uno in Babilonia e l'altro nell'Attica; onde così scrive Dicearco: «Chi va in Atene per la strada d'Eleusi, quando è presso la città tanto da poterne vedere i templi, trova sulla via un monumento di cui più bello non può vedersi, nè più grande, nè più magnifico. Egli crederà tosto esser questo il monumento di Milziade, di Pericle o di Cimone, eretto a spese pubbliche dalla città. Ma come sappia esser questo consacrato alla cortigiana Pitionice, qual opinione avrà egli degli Ateniesi?» (AMBROGIO LEVATI. _Donne Ill._) [7] La storia contemporanea ce ne ripete gli esempi. _La Civiltà Cattolica_ chiamava castigo di Dio la morte di Monsignor Bignami; era la voce degli interessi; ma quando taluni del popolo lo ripeterono, allora era la voce della ignoranza. [8] Nel XV secolo troviamo stabilite anche in Inghilterra le così dette _Messe ghiottone_, per cui la voracità e l'ubbriachezza si associarono alle cerimonie religiose. Queste messe venivano celebrate in onore della Vergine nel modo seguente: «All'alba del giorno, si univano nella chiesa gli abitanti della parrocchia, carichi di cibi e bevande d'ogni specie; finita appena la messa, cominciava il banchetto; il clero ed i laici vi si abbandonavano con pari ardore; la chiesa si trasformava in una taverna e diveniva teatro di contese, d'intemperanze e di ferite. Gli ecclesiastici e gli abitanti delle diverse parrocchie si disputavano il vanto a chi avrebbe le più splendide _messe ghiottone_, o a chi consumerebbe maggior copia di cibi e liquori in onor della Vergine. Allorché i Sinodi Provinciali proscrissero questi scandali vergognosi, ebbero il dispiacere di sentirsi tacciare di _voler distruggere la religione_». (MELCHIORRE GIOIA. _Galat._) Kotzebne, nell'opera intitolata: _La Confraternita del Corno_, dice: «Gli abitanti di Strasbourg, uomini e donne, si univano la notte del 29 agosto nella cattedrale per celebrarvi la dedica di questa chiesa, non già con preghiere ma con feste e bagordi. Invece di inni si cantavano canzoni bacchiche. Preti e laici tutti passavano la notte a mangiare e bere; l'altar maggiore serviva di credenza ed appena vi restava posto bastante pel prete che diceva la messa, nel mentre che sui gradini si cantava e si danzava per non dire di più. Gli altri altari erano egualmente ingombri di bottiglie. Era necessario che ciascheduno bevesse; e quegli che sopito dai vapori del vino si addormentava in qualche angolo era svegliato con punture di spille. I Domenicani che servivano la chiesa, trovando il loro conto in queste orgie, si guardavano bene dallo screditarle. Solamente nel 1480 un predicatore intrepido, chiamato Giovanni Geiler, vi si oppose sul pergamo; ma in onta ai suoi sforzi, questa festa popolare si conservò fino al 1549, in cui fu totalmente abolita da un Sinodo tenuto a Saverne». [9] Ciò accade tutti gli anni alla presenza d'una folla d'Europei, i quali non hanno mai tentato una parola a favore di quelle infelici. [10] Presso gli Schiavati, secondo rapporto d'un missionario, un marito malcontento della scienza culinaria di sua moglie, la uccise e la servì a' suoi amici in un banchetto per compensarsi, diceva, con quella vivanda della noia recatagli dalla sua inabilità per la cucina. [11] ROSELLY DE LORGUE. — _La Mort avant l'homme_, pag. 123, 124, 125, 126, 127, 128. [12] SALVATORE MORELLI. — _La Donna e la Scienza_, pag. 8, 9, 10 e 11. [13] Thòmas nel suo _Essay sur les femmes_, pagina 196, scrive: «Dans les siècles les plus éclairés on ne pardonnera pas aux femmes de s'instruire. Le gout des lettres a été regardé comme une sorte de mésalliance pour les grands ed un pédantisme pour les femmes. Quelques unes bravèrent ce prejugé, mais on leur en fit un crime.» [14] Montesquieu scrive al cap. XVII dello Spirito delle leggi. «Nelle Indie trovasi altri sommamente pago del governo delle femmine; ed è quivi stabilito che i maschi non regnino se non vengono da una madre del sangue medesimo e succedano le fanciulle che hanno madre del sangue reale. Secondo Smith, trovarsi i popoli d'Africa molto contenti del governo femminile. Se si aggiunga l'esempio della Moscovia e dell'Inghilterra si rileverà come riescano esse del pari nel governo moderato e nel governo dispotico». [15] A chi sembrassero oscure quelle parole, _stato combinato_, gioverà accennare che, l'impronta della scuola Falansteriana è la libertà individuale basata sulle seguenti nozioni: Tutte le nature son buone; esse non si pervertono che funzionando in un cattivo elemento. Nessun individuo rassomigliando perfettamente agli altri, ciascuno è solo giudice possibile delle proprie attitudini e non deve ricever leggi che da sè stesso. Le attrazioni sono proporzionate ai destini. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a pag. 244 (Errata Corrige) sono state riportate nel testo. *** End of this LibraryBlog Digital Book "La donna e i suoi rapporti sociali" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.