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Title: La donna e i suoi rapporti sociali
Author: Mozzoni, Anna Maria
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "La donna e i suoi rapporti sociali" ***

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SOCIALI ***

                                LA DONNA
                                   E
                        I SUOI RAPPORTI SOCIALI


                                   DI
                            A. MARIA MOZZONI


                      IN OCCASIONE DELLA REVISIONE
                       DEL CODICE CIVILE ITALIANO

                         PROPRIETÀ DELL'AUTRICE



                      MILANO, SETTEMBRE MDCCCLXIV



    _L'Autrice, avendo adempiuto alle vigenti prescrizioni, intende
   godere dei diritti di proprietà letteraria sanciti dalle leggi del
      regno d'Italia, non solamente nell'interno, ma anche a norma
                     dei trattati internazionali._

                  Tip. Sociale, diretta da G. Ferrari



A mia Madre


Mentre i miei deboli sforzi dirigo all'utile della femminil gioventù
e, tracciando alla donna i suoi doveri, e rivendicando i suoi diritti,
tento sollevarla all'altezza della missione, alla quale Dio e la natura
la sortivano adornandola d'intelligenza e di sentimento, io non posso
porre in migliore accordo coll'argomento la mia mente ed il mio cuore
che a Te consacrando questa mia fatica.

A Te, che al venerando e santo carattere materno sì degnamente rendi
l'onore, che ne ricevi; a Te, che il comun pregiudizio non dividesti
che alla donna interdice il libero pensiero; a Te, che vita mi desti,
latte ed insegnamento, questa mia dedica è tutt'insieme debito ed
omaggio.

Da tutt'altri implorerei indulgenza e generosa venia alle molte
imperfezioni del mio lavoro; ma del cuor di madre è colpa dubitare, non
altrimenti che della divina illimitata bontà; laonde aspetto nel Tuo
aggradimento l'ampia mercede al mio buon volere.

                                     _L'affezionatissimma tua Figlia_

                                                          _A. MARIA._



Alle Giovani Donne


_La revisione del Codice Civile italiano per opera del Parlamento
nazionale mi poneva fra le mani un argomento — La donna, per vieto
costume esclusa dai consigli delle nazioni, ha sempre subito la legge
senza concorrere a farla, ha sempre colla sua proprietà e col suo
lavoro contribuito alla pubblica bisogna, e sempre senza compenso._

_Per lei le imposte, ma non per lei l'istruzione; per lei i sacrificii,
ma non per lei gl'impieghi; per lei la severa virtù, ma non per lei
gli onori; per lei la concorrenza alle spese nella famiglia, ma non
per lei neppur il possesso di sè medesima; per lei la capacità che la
fa punire, ma non per lei la capacità che la fa indipendente; forte
abbastanza per essere oppressa sotto un cumulo di penosi doveri,
abbastanza debole per non poter reggersi da sè stessa._

_Ora, se la donna è impossibilitata dalle vigenti istituzioni a
rivendicare il suo diritto in quel parlamento che, in qualità di
rappresentanza nazionale, tutta dovrebbe rappresentar la nazione
ne' suoi indispensabili e reali elementi, essa tenta almeno di farlo
per quella via che non le può essere preclusa, per quella cioè della
stampa; e possa la sua voce, che chiede _uguaglianza vera di tutti
i cittadini innanzi alla legge_, esser raccolta colà dove il solenne
mandato della nazione impone ogni equità e ogni giustizia._

_Strappare all'oscurantismo uno de' suoi più poderosi elementi,
generalizzare l'istruzione donde un potente incremento alle libere
istituzioni, creare un nuovo impulso alle scienze ed alle arti,
duplicare le forze della nazione duplicando il numero de' suoi
cittadini e raccogliendo tutti gl'interessi nel raggiungimento di un
unico scopo, crearsi fama di illuminato e generoso sopra ogni popolo
civile, ecco i vantaggi che debbono naturalmente scaturire dalla
redenzione della donna nella nostra Italia._

_Se non che prevedo l'obiezione, che mi può esser fatta anche da
qualche amico generoso della redenzione femminile; che cioè in mano
all'ignorante ed al pregiudicato potrebbe assai facilmente servire il
diritto ad uccidere il diritto; che pur troppo al dì che corre, subendo
la donna le antiche influenze, e nè potendo d'un tratto diradarsi
dinnanzi gli occhi la fitta tenebrìa di sessanta secoli, essa finirebbe
o per non comprendere il suo diritto e trascurarlo o, che peggio è,
per mal applicarlo, non altrimenti che un coltello, utilissimo arnese
in mano al savio ed all'adulto, si fa pericoloso e funesto fra mani al
bambino od al mentecatto._

_Nulla di più vero, e di più giusto in verità, che siffatto timore;
laonde ciò considerando risolsi di rivolgere a voi, giovani donne, il
mio libro, e parlare a voi dei vostri doveri prima, poscia dei vostri
diritti, nè passerò a parlar di questi, se non quando mi lusingherò di
avervi a sufficienza provato che il diritto sul dovere si fonda, non
altro quello essendo che lo strumento col quale questo si compie._

_Ognun vede e sa, che potente ed efficace si è destato il bisogno
d'istruzione nella donna in questo quinquennio di libera vita. Ognun
vide l'entusiasmo che la donna italiana portò nel patrio risorgimento,
la devozione sua agli interessi nazionali, i sacrificii che lieta compì
sull'altare dei patrii bisogni._

_Se ciò tutto non rivela massima intelligenza della pubblica cosa;
se l'avere scossa l'inconscia pace dell'ignoranza; se il suo caldo
parteggiare per cose, per individui o per principii, non prova
ampiamente in lei sazietà della vieta apatia, e bisogno supremo di
nuova vita, di più libera atmosfera e di più ampio orizzonte; se ciò
non è, dico, allora noi assistiamo ad un fenomeno che non ha ragione
d'essere, epperò non possibile soluzione._

_Negare alla donna una completa riforma nella sua educazione, negarle
più ampii confini alla istruzione, negarle un lavoro, negarle una
esistenza nella città, una vita nella nazione, una importanza nella
opinione non è ormai più cosa possibile; e gli interessi ostili al suo
risorgimento potranno bensì ritardarlo con una lotta ingenerosa, ma non
mai impedirlo._

_Ma ogni ragione e l'esperienza di tutti i secoli prova che
l'iniziativa d'ogni redenzione incombe all'oppresso medesimo; epperò è
duopo, studii la donna il suo terreno, e sciolgasi prima ad un tratto
da ogni influenza che tenti piegarla e formarla ad interessi non suoi;
ed ecco ragion per cui io tento riscattarla dai vieti principii d'una
morale relativa per sostituirvi una morale assoluta, che non già sè
stessa, ma le sole forme sue modifica in faccia ai rapporti._

_E tanto più credo doversi la donna formare ai severi principii
dell'etica, in quanto che, per la natura delle nostre istituzioni, ella
è costretta sottoscrivere a tutte le dottrine, leggi ed opinioni che
vengano dall'uomo esposte, promulgate o diffuse, le siano, o no, utili
e giovevoli; laonde a riscattarla da siffatta servitù dello spirito,
nulla vidi di meglio a farsi, che convincerla della sua morale potenza,
dell'altissimo fine cui è missionata, dei doveri e dei diritti che le
creano d'intorno i molteplici rapporti._

_Se non che, nello imprendere questo lavoro, nel caricar le spalle
di questo arduo incarico, sentomi travagliare da mortal peritanza; e
come queste incertezze valermi possono compatimento ed indulgenza appo
le gentili creature a cui la mia fatica è consacrata, voglio tutte
porle in luce e vantaggiare così la posizione mia nei cuori vostri, o
leggitrici, mostrandovi le difficoltà incontrate nel cammino che, in
vista d'un possibile utile vostro, mi son incuorata a percorrere._

_Le leggi della morale scritte nei cuori nostri, e dalla ragione
ogni dì più potentemente affermate e convalidate, stanno. E stanno
indeclinabili, eterne, inconcusse in onta agli interessi, malgrado la
debolezza, a dispetto delle passioni; e verso quelle s'indirizza ogni
filosofia, che si proponga l'uomo e l'umanità guidare alla possibile
perfettibilità. E della morale scrissero con ogni tema e con ogni
forma migliaia di scrittori, e le sue leggi svolsero in ogni modo, ora
con piana e facile allocuzione per l'età adolescente, ora con sublime
potenza di raziocinio, e vastità di concetto, furono fatte argomento
alle profonde investigazioni della filosofia._

_Mi si apriva adunque dinanzi un terreno ben battuto ed investigato
da fini osservatori, e da valentissime penne trattato; e certo fatica
molta non valeva di lavorare per aggiungere il peggio al meglio; e
quand'anco non una misera intelligenza siccome la mia, ma un altissimo
intelletto si fosse l'impegno assunto di percorrere di nuovo quella
via, sarebbe pur sempre stato a mio credere superfluo lo ripetere ciò,
che già in mille guise fu detto, lo illustrare ciò, che è già sì ricco
d'illustrazione, e discutere di ciò, che tutte le opinioni già trova
unanimi e concordi._

_D'altronde l'occhio a voi rivolgendo, lettrici mie, trovavo quantità
di scrittori, che a voi consacrarono le penne ed i temi, e voi fecero
argomento e le vostre doti, e la potenza vostra, e perfino le vostre
fralezze, a lavori d'ogni genere, d'ogni forma, d'ogni portata; così
che sarebbe impossibile darvi encomii più lusinghieri, e biasimi più
indiscreti, nè mostrar di voi maggiore stima, nè di peggior dispregio
caricarvi; e neppure alcun chè di nuovo insegnarvi; poi che da oratori
d'ogni colore e pensamento vi si diresse la parola e l'insegnamento._

_E chi vi volle educate a passività assoluta e v'insegnò dover essere
voi siccome cencio pieghevole, oggetto da strappazzo nelle mani di chi
poteva e sapeva imporvi ogni sua voglia; e chi cinte di ferro il seno,
e il volto ascoso dalla robusta celata d!un elmetto, vi cantò valorose
nella lotta ed intrepide nel periglio; e chi, raccolte in lungo e fitto
velo, inaccessibili a sguardo mortale, vi collocò fra il vestibolo e
l'altare e, fra i vaporosi labirinti del misticismo, la perfezione vi
additò nell'oblio di tutto e di tutti; e chi, dalla potenza dei vostri
vezzi soggiogato, proclamò essere il fine della vostra mortale carriera
la terra adornare e rallegrare col raggio della vostra bellezza, e la
soavità del vostro sorriso, ed educate perciò vi vorrebbe a far somma
stima di quella e ad avervi facile questo._

_Ora, dove insuperabile difficoltà credeami incontrare fu là appunto
dove m'ebbi lo intelletto illuminato ed addirizzato. Il cuor si solleva
involontario alla vista del sommo egoismo, che la maggior parte informa
di quei volumi, e l'ingiusta giudizio, che ovunque pesa sulla donna
che, biasimata od encomiata, è insultata sempre, dacché come essere
relativo è ovunque considerata, e non mai siccome portante in sè stessa
lo intrinseco valore dall'intelligenza e dal sentimento costituito,
indipendentemente dal sembrar dessa, o no, amabile e bella, dall'essere
ella, o non essere, oggetto di delirii o d'entusiasmi._

_Meditando meco stessa su cotal pregiudizio, attesi anzi tutto ad
imporre silenzio alle passioni e ad esaminare freddamente, se per
avventura, abbenchè falso, potesse alla donna tornar utile cotale
opinione, e se da senno, dal curvar ella docile il collo al giogo
di codesti esorbitanti giudizii, ne uscirebbe dessa più svilluppata
d'intelletto, più solidamente informata a virtù, più potente nella sua
influenza. Che se cotali conseguenze veduto avessi scaturire da quelle
sconsolanti premesse, piegato avrei il capo riverente sotto la legge
sovrana, che ci comanda il bene ad ogni costo._

_Ma tale non fu lo risultato delle mie disquisizioni, e spontaneo sorse
il desiderio di combattere quei sistemi e di collocare la donna, non
più nel posto assegnatole dagli interessi e dalle passioni altrui, ma
sibbene in quello dovuto, secondo giustizia, all'importanza dei mezzi
di cui dispone, e della missione di cui natura e provvidenza l'hanno
incaricata._

_Ma aborrendo per natura dalla polemica pura che le passioni solleva
e poco giova all'argomento; convinta che, più col fatto che colla
parola si trionfa dei secolari pregiudizii se, come questo, basati su
numerosi e forti interessi; desiderosa prima, e sovra tutto, d'esservi
utile, persuasa che il conquisto del bene esige sforzo e violenza,
ammaestrata dalla storia, che diritto ed importanza mai non si
concedono gratuitamente, ma fa d'uopo conquistarseli; io mi rivolsi a
voi, onde incoraggiarvi a tentare l'impresa; onde esortarvi a chiarire
coi fatti quanto s'ingannino coloro, che bassamente di voi pensarono,
che vi credettero incapaci di applicare lo innato ingegno a studii
utili e severi, che crearono per voi una morale relativa, la quale
vi pieghi ad interessi speciali, che non altro sembrano vedere in voi
d'amabile se non ciò che non è vostro ma dono gratuito della natura,
che di niuna influenza vi credono potenti oltre quella che sui ciechi
istinti si fonda; dottrine queste che non è duopo mostrarvi come al
nulla vi riducano quando, per fatto di natura matrigna, o d'età, o di
circostanze, cessate d'essere oggetto di passione e di simpatia._

_E tanto basti per chiarirvi il punto mio di partenza — Il mio lavoro,
siccome diretto all'utile vostro materiale e morale, e tendendo
ad affermare il vostro individualismo, era d'uopo cominciasse per
mostrarvi quali siete e non attraverso alte lenti della opinione._

_Dalle leggi eterne della morale all'infuori non v'ha arbitrato che
pesi sulle umane azioni, il quale non sia continuamente modificato da
circostanze di luogo, di tempo, di condizione e di persona, e capovolto
affatto talora dai progressi della civiltà e dell'intelligenza. Un
secolo fa, l'immortale Molière, colle sue _Preziose Ridicole,_ faceva
argomento al sarcasmo la dottrina femminile; ed il pubblico francese
applaudiva freneticamente all'autore, all'opera, all'argomento; in
oggi l'istruzione femminile ha avvanzato. Sovente la donna dirige al
pubblico la parola, ed è volentieri sentita e spesso lodata — Ecco
l'opinione._

_È evidente che talune dovettero per prime affrontarla, ma siccome
desse non gettavano il guanto che al pregiudizio, questo dovette pur
far posto alla ragione._

_Negli scorsi secoli, in cui i più rinomati cavalieri spregiavano le
lettere siccome studii imbelli e plebei[1] e si recavano a sommo vanto
la incapacità di scrivere il nome proprio, una donna qualunque, del
nostro secolo, sarebbe apparsa un mostro d'erudizione; e mentre agli
uomini di quei tempi sarebbe stata intollerabile, per troppa dottrina,
una donna ignorante de' tempi nostri, gli uomini attuali non son certo,
per quel che mi sembri, molto incomodati bench'ella sappia qualche cosa
di più._

_Dalle modificazioni che subisce la opinione pubblica, siccome in
questa in tutte cose, ne inferisco necessità di avviare la donna a
criterii men relativi, onde dall'oggi al domani ella non si trovi
incompatibile colle nuove forme, che la civiltà impone alla morale._

_E dico _forme_, poiché se Gallo Sulpizio, ai tempi della romana
repubblica, potè dividersi dalla sposa perchè comparsa in pubblico
senza velo, il chè sembrò allora un insulto alla verecondia, questo
fatto, nè poco tempo dopo sembrò tale in Roma stessa, nè sembrerebbe
oggi alla pubblica coscienza; e se Egnazio Mecennio uccise sua moglie
sull'istante per averla vista ber vino (contravvenendo alla legge di
Romolo che lo vietava alla donna), eppure nè i giudici né la opinione
non gli fecero di simile esorbitanza nessun delitto, sarebbe in oggi
una bizzarra eccentricità chi pretendesse sconvenire alla donna l'uso
del vino; come rimarrà a perpetuità immorale e deplorevole spettacolo
sì nell'uomo che nella donna la ebbrezza, che però in altri tempi fu
alzata al grado di sacro rito e si procurò ad onorare la divinità
(testimonio le romane Baccanti e le greche Menadi) e non la pagana
solo, ma la cristiana altresì._

_Informata la donna agli assiomi della morale, ed avvezza a scernere
con sicurezza fra il bene ed il male, fra la forma e l'ente, fra i
consigli sussurratigli all'orecchio dagli interessi e dalle passioni,
ed i precetti intransigibili del dovere, fra le più o meno logiche
esigenze dell'opinione, e l'incrollabile coscienza dei principii,
ella non sarà più facile pesca all'amo delle seduzioni, che amano
nell'attuale civiltà (che ha bandito la brutale violenza) porsi in
aguato dietro speciose dottrine, ed avvilupparsi fra i facili argomenti
d'una relativa e compiacente morale._

_Ed ecco in qual modo, sollevando la donna dall'opinione, intendo
avviarla alla morale._

_La religione fu sempre e dovunque potentissimo mezzo a dominare
la donna, e sta bene; ma io vorrei che questo sentimento, ch'è in
lei tanto sentito e dominante, non in mano altrui fosse, ma in sua
mano; non diretto a farla schiava perpetua dell'altrui avviso, epperò
dell'interesse altrui talora cieco strumento, ma sollievo le fosse e
guida attraverso i delirii dell'umana mente e gli errori d'una peranco
non adulta filosofia._

_Gli è in vista di ciò che, partendo io dalla semplice ragione
religiosa ad appagamento dello intelletto (dacché voi a qualunque culto
apparteniate siete in possesso delle religiose dottrine), più che della
teoria, della pratica applicazione mi sollecito di questo nobilissimo
fra i sentimenti dell'anima umana. Laonde non sopìto e latente
vorrei rimanesse in voi, oppure sterilmente espresso con atti esterni
convenzionali che, per quanto moltiplicantisi, poco costano all'uomo,
e meno onorano Iddio, siccome quelli che il loro pregio in sè stessi
non recano, ma portarvi debbano alla virtù, all'amore universale,
all'operosità._

_Considerando quindi la donna nella famiglia, e vedendovela ricca e
forte di una potenza, che ha la sua segreta ragione nei cuori stessi
di quelli che la circondano, eppure vedendo questa stessa potenza
rinnegata dalle istituzioni, paralizzata dagli interessi, soffocata
dallo abuso del muscolo, e dalla donna stessa sconosciuta e deprezzata
per l'inscienza deplorevole del proprio valore, mi sorge spontaneo
il voto, ch'ella si desti finalmente al sentimento dei propri mezzi,
ed alla loro doverosa e lata applicazione. — Madre, vede passarsi
fra le mani tutte le generazioni, sulle quali tutte ella possiede lo
irrepugnabile vantaggio della prima educazione. Incalcolabili sono le
conseguenze di questo fatto! l'uomo non giunge che assai difficilmente
a sbarazzarsi dalle impressioni della prima infanzia. In quella
età non sono già idee che si accatastano sopra idee, ma sensazioni
che si aggiungono a sensazioni, cosichè le prime nozioni della vita
possono chiamarsi vere _incisioni_, mentre i numerosi concetti, che
attraversano la mente adulta, non sono che _panorami_. Da ciò ne deriva
che, quando la donna sarà sorta alla coscienza di sè, e saprà e vorrà
applicare lo immensurabile potere del materno ascendente, e l'arte avrà
appresa dello educare, le generazioni saranno quali essa le vorrà._

_Nè meno potente è la donna sposa, quando le nuziali tede accese
vengano dallo amore, massima potenza che abolisce e sopprime di fatto
tutte le tirannidi escogitate dagli interessi, appoggiate dalle leggi,
applicate dalla forza, e sottoscritte dalla debolezza, delle quali
fu ed è dovunque e sempre, dal più al meno vittima la donna moglie.
Non è che sotto la influenza dello amore, che risorgono i diritti
della natura, e l'eguaglianza è ristabilita fra due esseri ambo
d'intelligenza dotati e di sentimento, l'uno all'altro necessarii,
l'un l'altro attraentisi. Epperò ogni interesse della donna, vuole,
che fin quando i coniugali nodi retti non siano da più equi patti
che quelli non sono dalle istituzioni nostre prescritti, ella non
accetti che l'amore a mediatore del fatale contratto, senza di che,
legata a perpetua servitù, sarà astretta a maledire ogni giorno le
importabili catene. Che se l'amore avuto avrà pronubo al nodo, oh
allora! non abbisogna di nessuna dottrina, di niun insegnamento. Egli
solo ammaestra, egli rivela, egli compisce. Egli dona lo intuito dei
secreti dell'altro, egli indovina ciò che sarà gradito, egli affronta
il dolore, non paventa il sagrificio, non conosce querela, non ama
il garrito, detesta la tirannia, e come fuoco sacro, che di continuo
lavoro si nutre, abborre la inedia, ed all'utile, al meglio, alla
felicità dell'oggetto suo, assiduamente si impiega._

_Ottenuto il frutto dell'amore, tutta la morale vitalità della donna si
riversi su quello, seguendo i procedimenti della natura, che quel mezzo
a cotal fine preponeva._

_Questo è il suo maggior campo d'azione, è questa la grave ed ardua
missione sventuratamente finora sì sovente incompiuta, perchè argomento
di serie meditazioni, d'assidue cure, d'eroiche abnegazioni, cose tutte
però che, per quanto difficili, non sono altrimenti superiori alla sua
potenza; tanto più s'ella voglia persuadersi, essere lo suo intelletto
capace di molti lumi siccome il suo cuore sede di molto affetto._

_E mi giunge opportuno lo dimostrare, come il solo istinto materno,
se per avventura sia sufficiente provvidenza alle fisiche esigenze
dell'uomo animale, certo è impotente a creare ed informare l'uomo
morale, ed abbisognar perciò la madre di coltura e sapere a ben fare la
prima educazione._

_Ed eccomi perciò a considerar la donna in faccia alla scienza; a
provarle come i fatti la dimostrano atta a coltivarla, di quanto essa
aumenti il suo morale valore, di qual felice emulazione la femminile
coltura faccia punto il viril sesso con sempre maggiore incremento
di civiltà; di quanta maggiore autorità si circondi il carattere
materno, se allo affetto, che ispira, aggiunga riverenza e stima del
solido intelletto; di quanta maggiore efficacia sulla prole siano
ammaestramenti che, non di tradizionale meccanismo, ma di profonda
sapienza si recano la impronta._

_Ma la donna, costituita qual'è di vivace intelligenza e d'indole
diffusiva, non ha esaurita nella cerchia angusta delle domestiche
pareti la sua morale vitalità; epperò là non finiscono i suoi doveri._

_Ovunque, con altrui vantaggio e proprio, applicare può le sue nobili
facoltà l'essere morale, là egli trova tracciato un dovere. La inerzia
dello spirito non è ammissibile; e sarà sempre sventura forzata, se
volontaria, delitto._

_Epperò eccomi ad indagare quale lavoro alla donna incomba in faccia
alla società ad esserle utile elemento, e ad affermare in faccia
a quella la sua importanza colla potenza del suo intervento, nello
edificio civilizzatore elaborato dai collettivi conati delle masse
unitarie._

_Aborrente da tutti gli estremi, ma imbevuta delle idee del mio secolo,
che considerando nella donna la potente individualità, deve ad essere
conseguente educarla ad occupare un posto più dignitoso che quello non
sia da lei occupato fino ad oggi; credente fermamente che l'educazione
e coltura della donna sia problema vitale per lei e per tutta quanta
l'umanità; convinta che la donna, risollevata alla coscienza della
sua nobilissima natura e dandosi pena di frugarsi in fondo al cuore,
deve scoprirvi dei tesori d'amore, di persuasiva, di commiserazione,
tutta una vita morale insomma non avvertita ancora, ed inesplorata;
persuasa intimamente essere dover suo destarsi alla voce dell'umanità
che la chiama, siccome potentissimo elemento, ad impiegarsi nel suo
fatale lavoro, io mi rivolgo alla femminil gioventù e le predico
incessantemente; no, non ti è lecito trascorrere oziando la vita alle
feste, ai passeggi, in mezzo a mille bagatelle indegne di sciupar le
ore d'un'anima intelligente, mentre tanto lavoro ferve intorno a te;
no, non ti è lecito aggirarti smaniosa in cerca del riso e della gioia
ad ogni costo, mentre la martoriata umanità si travaglia in un'angoscia
intestina, e lagrime e sangue versa da mille pupille e da mille
ferite, per l'egoismo dei pochi e l'ignoranza dei molti; no, non ti è
lecito trarti in disparte, oziosa spettatrice degli affannosi conati
dell'umanità verso il bene; che se il tuo dovere non senti, allora
sentir dovrai le ineluttabili conseguenze del non averlo compiuto.
Indarno cercherai la stima e l'affermazione della tua personalità,
indarno tenterai rivendicare il naturale diritto e scuotere il giogo
che ti grava ingeneroso il debole collo; tu stessa avrai affermata la
tua impotenza morale, la intellettiva fragilità, la pusillanime natura,
epperò la necessaria tutela, e la eterna servitù._

_Oh si desti la donna al sentimento della propria missione, alla fede
degli umani destini! dopo sessanta secoli di assenza morale, ella può
tuttavia giungere in momento assai opportuno._

_L'uomo ha quasi esaurito ogni sua risorsa. Egli ha fatto guerre, ha
riportato vittorie, ha celebrato alla conquista ed abbruciò incensi
alla gloria grondante sangue: ma poi s'avvide ch'egli era infelice;
allora s'immerse nella meditazione, creò dei sistemi, li formolò,
li applicò, indi li rifece, li corresse, e li tornò a fare; ma poi
s'avvide che era infelice. Sorse il Cristo e gli sussurrò all'orecchio
la segreta parola ch'era la soluzione del suo problema; ma egli non
la comprese, laonde da cattiva interpretazione ne trasse pessima
applicazione e s'avvide, ch'egli era ancora infelice. Allora egli
escogitò una dottrina, che i tempi mostravano di facile applicazione, e
quasi gli parve d'aver afferrato l'ultima parola della sua tesi; ella
consisteva nel far felici i pochi di lumi, di potenza e dovizia, ed
alle masse guarentire il benessere coll'inconscia ignoranza, siccome
il gregge tripudia e saltella sul prato, insciente delle cesoie del
tosatore e del coltello del beccaio; ma ben presto s'avvide, ch'egli
era ancora infelice. E tornando sul cammino già fatto, egli ritrovò
quella secreta parola sussurratagli all'orecchio dal Cristo, la
raccolse, la meditò e la comprese; ma ecco la guerra degli interessi,
i lamenti dello egoismo epulonico, i garriti del gaudente, la grave
resistenza della massiccia ignoranza, tutti d'accordo a barricare lo
generoso cammino del bene, il bel sentiero che alla sociale felicità
conduce._

_Si ha d'uopo del disinteresse, ci abbisogna dell'amore, dell'amore
quasi infinito dell'umanità, ci occorre abnegazione e violenza,
commiserazione e sacrificio; avanti dunque, avanti la donna! Ecco il
suo giorno ed il suo lavoro. Vile, inutile, ed eternamente serva quella
che si ritira!_

_La povertà, il dolore e l'ignoranza, ecco i tre pupilli che reclamano
la sua tutela e la sua provvidenza. Non è ella cosa, che la donna ha
già seco stessa convenuta, ch'ella deve trovarsi dovunque si soffre e
si piange? La gioia corrompe, il dolore migliora; meschina ed illusa
colei che fugge dal pianto per incontrare il riso, il riso cinico, il
riso ad ogni costo; ella sconfessa la sua soave natura, ella rinuncia
alla sua santa missione, ella perde ogni diritto all'amor dei mortali.
Che farà di lei lo addolorato s'ella lo fugge? che ne farà il felice se
già è felice senza di lei?_

_Il sacro suolo della patria reclama pur egli il suo culto dal cuor
della donna._

_Plutarco nelle sue _Donne illustri_, ci dimostra coll'irrefragabile
eloquenza dei fatti, che le nazioni tutte, che vantano gloriose storie
e magnanime tradizioni, ebbero delle madri infiammate di patrio amore e
dei pubblici interessi tenere e sollecite._

_Le prime lezioni, che l'uomo dalla donna riceve, tutte debbono
indirizzarsi ad instillargli la religione della patria sempre, e
vieppiù a tempi nostri, nei quali question di vita e di morte s'agita
per molti paesi, e sovra tutto alla bella terra del sì, madre sublime,
che al mondo partoriva in ogni tempo le più splendide individualità
ed intere nazioni di eroi. Si offuschi davanti ai patrii interessi
ogni egoismo di famiglia; e la donna che non sa gli affetti immolare
sull'altare dove il genitore, l'amante, il consorte, il fratello
sacrificano la vita e versano il sangue, s'abbia pure il loro
disprezzo; e indarno cerchi considerazione, indipendenza e diritti, a
conservare i quali vuolsi la forte coscienza del bene anzichè debolezza
di passioni._

_Ma no, la donna ha dato prove antiche e recenti di sentir vivamente
la religione della patria; e mentre i nostri miti costumi la fanno
de' suoi nati tenerissima, pure mai non esitò ad immolare lo egoismo
materno sull'altare dei patrii bisogni. Ed alla religione della patria
la vedemmo anzi educarla quando, nell'intimo conversare, ella additava
alla prole bambina lo straniero usurpatore, che le membra intepidivasi
ai nostri focolari, ed insolente saliva e scendeva le nostre scale e le
narrava gli sdegni paterni e gl'infelici recenti conati, ed allora_

      «_Quello sdegno passava nei figli_
    «_Cui fu culla lo scudo del padre;_
    «_Ed al figlio diceva la madre_
    «_Quest'esempio tu devi seguir_».

_Nè vani furono questi ammaestramenti, che nell'infausto decennio
della straniera oppressione, ogni madre alla prole insinuava, che,
bambina, le recenti prove del 1848 udivasi negli intimi recessi della
sua casa narrare, appena innacessibile ai mille occhi d'una tirannica
inquisizione, che finalmente_

      «_Una selva di lancie si scosse_
    «_All'invito del bellico squillo,_
    «_Ed all'ombra del sacro vessillo_
    «_Un sol voto discorde non fu._
      «_E fratelli si strinser la mano_
    «_Dauno, Irpino, Lucano, Sannita_
    «_Non estinta, ma solo sopita_
    «_Era in essi l'antica virtù_».

_Colta qual'io vorrei la donna, informata a solidi criterii, ricca
d'un'amabilità risultante dalle squisite doti dell'anima, e vieppiù
adorna del vero gusto che alle leggi del bello ed alla natura si
ispira, più che alle mille bizzare eccentricità della volubile moda;
stimando il bello, il buono ed il vero, ovunque si presenta colla
superiorità dello spirito leale, aperta sempre ad ogni bel sentimento,
sorda alle passioni, schiava del dovere, anima della famiglia, sorriso
della società, ella dev'essere molto sensibile alle manifestazioni
del genio. Natura ha le cose così disposte, che l'uomo, finchè si
voglia superiore, non si fa però che assai difficilmente superiore al
disprezzo della donna, e molti fra quelli che affrontarono sventure,
traversie e lotte d'ogni fatta, forza e vigoria trovarono a non
soccombere nella stima d'una donna; nè congettura semplice è questa,
e esperienza di pochi o molti fra loro che nominar si potrebbero, ma
confessione altresì. Gian G. Rousseau, nell'Emile, dice; che niun
uomo è indifferente alla disistima della donna; ed egli stesso pel
primo, che tante severe verità le predicava, non poteva pur tuttavia
rassegnarsi a non esserne apprezzato._

_La cognizione di questo fatto deve fare la donna circospetta nei
giudizii, larga d'encomii al merito, e muta affatto davanti a quei
luoghi comuni d'un falso spirito, a quelle ridicole _rodomontate_ di
cui è costume della viril gioventù farsi bella davanti alla donna. Oh
se la donna non fosse sensibile che col vero merito, quanto gli uomini
diverrebbero migliori! Ma pur troppo sovente ella è mistificata dalle
apparenze della forza ch'ella crede scorgere dietro parole, ad atti
arditi, che non altro rivelano che una illimitata fiducia nelle proprie
forze, non sempre dal fatto giustificata, dietro una violenza di modi
che non altro esprime che debolezza e suscettibilità; all'ombra di
imprese contro la morale, che più sono ardite e più ci dicono quanto
tirannico sia quel giogo di passione dal quale è trascinato misero
schiavo l'uomo, dietro certe arie da conquistatori che taluni assumono
presso la donna ch'è un insulto diretto alla facile virtù, che le si
suppone. Ma sventuratamente debbo dirlo, della donna è il demerito se
gli uomini sono così; ella troppo sovente non è debole che per il vizio
e la leggerezza, non è insensibile che alle virtù ed alla sapienza.
Eppure se è la forza che la seduce, nella virtù e nella sapienza
si trova, che importa superiorità d'animo, abnegazione ed eroismo,
perseveranza di propositi, profondità e solidità d'intelletto!_

_Informata la donna ai principii, redenta dalle esorbitanze della
opinione, sviluppata dalle tenebre della secolare ignoranza (il che
se in parte da lei stessa dipende, assai e molto più dipende dalle
nazionali istituzioni), non è più possibile certamente negarle il
diritto._

_Lo Stato fu sempre ed è tuttavia colpevole verso la donna, chè,
riconoscendola contribuente, la disconosce cittadina, e punendola
delinquente, la nega capace._

_La legge non si mostra alla donna che armata di flagelli, gravida di
doveri, avara in libertà, feconda in restrizioni; può essa, la donna,
far lieti sagrificii ad un paese le cui istituzioni la trattano così
ingenerosamente?_

_Può ella, da senno, credersi obbligata verso una patria, che è per lei
triste e dura più che, non è per l'uomo l'esiglio?_

_Può essa, in cuor suo, rispettar quelle leggi che vede e sente sopra
sè stessa ingenerose ed ingiuste?_

_Può essa allevare i suoi figli al culto di un paese, ch'ella non
ha nessuna ragione di amare? E quando questo paese le cerca il suo
oro, i suoi figli e talora persino le sue convinzioni, qual compenso
le promette e le dà? Qual forza, quale argomento adoprerà essa per
convincersi del suo dovere, per decidersi a compierlo?_

_Il dovere, fonte del diritto, è cosa santa ed equa, ma il dovere solo
è schiavitù ed opressione._

_Tutte le rivoluzioni sociali, politiche, religiose, tutte ebbero, o
segreta o palese, sempre però una movenza interessata. Non si accagioni
dunque per avventura la donna di strettezza di cuore se chiede il suo
diritto._

_Ogni lavoro vuol la mercede, ogni martirio vuol la corona; l'uomo
ha proceduto per questa via al conquisto della sua libertà, non v'ha
ragione che ne escluda la donna._

_Ed eccomi perciò a considerarla in faccia al diritto parziale ed al
Codice Civile Sardo dopo averla guardata in faccia al diritto primitivo
ed ingenito, davanti al quale ogni veduta d'interesse, di convenienza,
d'opportunità, deve tacere, e la parzialità della legge non iscusa,
né la debolezza del muscolo che non sarà mai equa base di diritto, nè
l'ignoranza che si può vincere, nè l'incapacità ch'è sempre affermata,
provata non mai._

_Che se talora, discutendo lo spirito delle nostre istituzioni avverrà,
che la penna distilli qualche amarezza, dichiaro anticipatamente non
aver io rancore con niuna personalità al mondo, ma scaturire queste
involontarie dal vedere, quanto sia impossibile all'uomo astrarre
da' suoi personali interessi anche quando si dà ad intendere di far
di proposito detta giustizia, e questo spirito d'egoismo salire fino
a mala fede, quando l'essere che si afferma debole ed incapace per
ispogliarsi di diritti, si riconosce forte e responsabile per gravarsi
di pene e di doveri._

_È assai possibile scrivere con più calma e con maggior freddezza; ciò
servirebbe anche forse ad attirare sul mio argomento le grazie degli
uomini serii, che varcata l'età delle passioni, le persone e le cose
tutte guardano con filosofica ed imparziale apatia. Ma a me, giovine
e donna, è pur lecito non far a pugni colla natura che si è in questo
argomento alleata ai più vitali interessi, epperò non violentandomi
affatto, parlo come penso e sento, persuasa e convinta di essere fedele
interprete dei pensieri e dei sentimenti di molte del mio sesso._

_Le considerazioni fatte sulla situazione creata alla donna da leggi,
che ancor troppo risentono lo spirito del secolo che precedette il
1789, mi conducono naturalmente a chiedere delle riforme che, se sono
limitate, hanno in compenso il vantaggio di essere possibili, ed è
in me profonda la convinzione, che un miglioramento nelle condizioni
presenti della donna, non è vantaggio suo soltanto, ma altrettanto
e più dell'umanità, che in tanta parte della donna si compone ed in
altrettanta da lei dipende ed è influenzata._

_Ed eccovi scorse di volo le diverse parti della mia fatica. Come
vedete, ella vi è tutta ed affatto consacrata, ad un solo fine si è
ispirata, l'utile vostro, e dell'umanità._

_Accompagnando io la donna in tutte le situazioni, esaminandola sotto
tutti i rapporti, e tenendo io a presentarle il suo meglio, volli
precipuamente parlare alle giovinette che esordiscono nella vita,
già istrutte, epperò in grado non solo di accogliere le leggi della
morale sotto la forma d'apotegmi, che se meccanicamente s'incidono
nella ferace memoria dell'adolescenza, di rado resistono saldi sotto la
bufera sollevata dalle giovanili passioni, ed in faccia alle speciose
dottrine che loro servono da campioni; ma capaci eziandio sono di
seguire quei raziocinii, che conducono la loro mente ad apprezzarle, il
loro cuore ad amarle, e decidono quindi la volontà a seguirle._

_So che non tutte, per avventura, le idee qui sviluppate troveranno la
difficile unanimità delle simpatie, ma quale autore mai, qual libro,
quale concetto, trovò tutte le adesioni? quante volte la verità,
camminando a testa alzata nel suo dritto cammino, dovette porre, senza
pur avvertirlo, il calcagno su qualche esistenza che nella polvere si
trascinava, e scomporre il lento e pertinace lavoro di molto tempo?
Lo scrittore dovrà egli dunque prender sempre la penna per osannare
a tutte le passioni, a tutti gl'interessi, a tutti i pregiudizii
dacché siansi eretti in caste, in sistemi, ed asciugarla al più presto
dacché trovisi incompatibile con essi? Se considerazioni di personale
interesse avessero sempre asciugate le penne, a qual punto sarebbe ogni
umano progresso? E come combatterà il pregiudizio chi si uccide sul
labbro la parola, per timore di lui? Chè ne sarebbe del cristianesimo
se Cristo avesse temuta la croce? Chè del nuovo mondo se Colombo avesse
paventato l'ardita navigazione? Chè della libertà se i popoli temono
il sangue? Chè d'ogni utile impresa se bastasse ad arrestarla la tema
delle possibili eventualità?_

_Certo se qualche concetto nel mio lavoro vien meno alla verità,
ascriversi dovrà allo abbaglio dello intelletto, non mai a transazione
di coscienza, ed a proposito di patteggiar coll'errore; ed essendomi io
la verità proposta comechè sola base possibile alla morale, più dello
scopo tenera che dei mezzi, accetto riconoscente ogni osservazione
della critica che me illumini, ed alle mie lettrici accenni dove ho
errato, chè inconsolabile sarei se vedessi che la fatica, che al bene
ho rivolta, al male conducesse._

_I tempi avanzano. Il vecchio edificio del dispotismo, che tutto l'uomo
incatena dal più intimo escogitato dell'anima fino al più indifferente
degli atti umani, scricchiola sui cardini, scrolla e rovina. Pochi
giorni ancora e lo spirito del cristianesimo sfolgorante della nuova
sua luce, l'amore universale, precetto unico e nuovo, il raggio della
sapienza, diffuso come lo spirito di Dio sulla faccia della terra,
raccogliendo sulle ceneri di quello spento l'ultima zolla di terra, gli
diranno, _parce sepultis_._

_Ed io mi trasporto collo spirito a quel giorno e, lasciate le
polemiche a penne più valenti, la lotta a braccia più vigorose, attendo
a preparare la donna di quei tempi; la donna, non più eccitamento
a basse passioni ed ingombro al cammino della umanità, ma la donna
ispiratrice di alti propositi, impulso potente ad ogni gentil costume,
e ad ogni progresso dell'intelligenza._

_Riverente più ch'altri mai al dogma della libertà della mente, in
una cosa non la riconosco libera, nello essere illogica e retriva,
importando le morali facoltà, dovere di sviluppo e d'applicazione._

_Religiosa per ragione e per sentimento, nemica del pregiudizio,
adoratrice della verità, schiava della morale, amante della patria,
anima della famiglia, sollievo alla sventura, complemento della
società, mostrandosi all'uomo in tutto e sempre dono di Dio; ecco la
donna ch'io intesi preparare._

_Che se avvenga che all'altezza del fine non corrisponda fecondità di
mezzi, il buon volere mi salvi, la innata bontà del sesso cui volli
giovare mi sia indulgente, e la lusinga mi conforti, che alcuna sorga
fra tante valorose scrittrici che raccolga il mio argomento e, svoltolo
da' miei cenci, al pubblico lo presenti sotto forme più rigogliose e
sfolgoranti._



LA DONNA E L'OPINIONE


                            «Anima che per biasimo si dibassa
                          O per lode s'innalza è debil canna
                          Cui move a scherzo il venticel che passa»

Molti e molti parlarono della donna, i quali anche pretesero parlarne
seriamente, ma io non istimo che il difficile problema ch'ella
presenta, all'uomo, alla famiglia, alla Società, svolto sì dottamente
e finamente da tanti, in epoche diverse, e svariate località, abbia
tutti interi raccolti i dati onde completi ne risultino i criterii;
oserei anzi asserire, che niun scrittore forse trovossi, parmi, fin
qui che, se uomo, sapesse appieno dimenticar le passioni, se donna,
gl'interessi, onde sarei per dire desiderabile cosa nell'ardua tesi
un criterio neutro affatto che, non punto interessato ad esagerare
i vizii o i pregi del sesso femminile, nè a coprirli, ce ne desse la
pittura imparziale e con essa i dati e gli estremi ove basare un solido
raziocinio, a derivarne poi analoghe ed assennate le istituzioni che
debbono moderarne le condizioni e gl'interessi.

Dissi vizii o pregi, se pur tali possono esattamente chiamarsi
le attribuzioni, o meglio, i naturali elementi, costituenti in un
complesso logico, ed omogeneo, una natura ordinata ad un dato scopo,
elementi tutti concomitanti e necessarii a far della donna un essere
essenzialmente distinto dall'uomo, ed in pari tempo destinato a
vivergli a fianco sempre utile e necessario, a somministrargli i
proprii mezzi arricchendolo così d'un'altra potenza senza sommarsi
con lui, identificarsi nelle sue viste e ne' suoi interessi per modo
da essergli un'_alter ego_ senza cessare d'esser da lui distintissimo
a perpetuare quella simpatica attrazione, che distingue i rapporti
dell'uomo colla donna e li fa così soavi sopra ogni altro vincolo
sociale, e che sparirebbero in una completa fusione.

G. G. Rousseau considerò la donna in natura; Balzac ne disse dal
punto di vista degli interessi virili; La Bruyère l'assoggettò a
fina analisi senza che da questa si curasse poi derivarne riforma
alcuna in lei od attorno a lei; Mad. Neker non la vide che dal punto
di vista di istituzioni locali, facenti spesso a pugni colla vera
natura degli esseri e delle cose. Nessuno, fra tanti, studiò di
proposito l'influenza delle istituzioni sul suo carattere e sulle sue
condizioni[2].

Tutti i poeti, dai grandi ai piccoli, dagli immortali ai _pria morti
che nati_, la cantarono in ogni tono, e in ogni metro, vedendola
ora colle traveggole del delirio amoroso, ora coi lividi occhiali
dell'orgoglio e dell'odio per affetti incorrisposti od incompresi.

Tutte le filosofie, tutti i sistemi se ne occuparono e tutti i
legislatori. E chi pretese esser ella la pura e semplice femmina
dell'uomo, e non dover egli perciò conservarla che nei soli interessi
della generazione, deplorando di non poter precorrere il tempo del
suo sviluppo e non disfarsene dappoi. Altri considerando invece che
la donna non è atta alla generazione che in una fasi relativamente
avvanzata della sua vita, e vedendola sopravvivere tanto tempo al
disimpegno delle materne cure ne derivarono, non fosse con quelle
la sua missione esaurita, e pensarono potesse nelle cose del mondo
portare la sua influenza, ed intervenire siccome essere intelligente
e volitivo, potente di mezzi proprii. Di qui la gelosa insistenza di
tutte le leggi sovente ad impedire, e sempre a sfavorire implicitamente
sì, ma non meno potentemente, il sapere ed i mezzi del sapere alla
donna.

Molti scrittori capirono il programma di convenienza del sesso virile,
raccolsero al volo la segreta parola, e maestri dalle cattedre,
oratori dai pergami, giudici dal tribunale dell'opinione, ganimedi
dagli eleganti e voluttuosi gabinetti, padri con affettuosi sermoni,
predicarono quotidianamente alla donna non convenirle la scienza.

Tu non sei capace di lunghi e severi studii, le disse lo scienziato, e
le dimostrava, come due e due fanno quattro, che la conformazione del
suo cervello, la delicatezza de' suoi tessuti, la debolezza della sua
fibra, la moltiplicità de' suoi bisogni, la dimostrano irrecusabilmente
non nata alla scienza; ed ella si volse alla Teologia. Non ti è lecito,
rispose questa, sta contro te l'opinione della sacra serie dei più
illustri padri della Chiesa, cominciando da S. Paolo fino al sacrosanto
Concilio Tridentino. D'altronde, qual bisogno hai tu di sapere? Credi
ciò ch'io ti dico, e basta; la debolezza della tua mente non s'attenti
di fissar lo sguardo nelle sacre cose: astienti anzi del tutto anche
dalle profane _et non plus sapere quam oportet_. Ed ella si volse
all'opinione. Questa, simile alla liquida massa dell'Oceano, ora spinge
i suoi flutti come adamantini proiettili sino al Cielo, ora li preme
fino all'abisso; fluttuante sempre, è determinata dai più, ed è sempre
indipendente da ogni pressione che non sia numero. Le sue risposte sono
categoriche; ella non si crede in dovere di motivare, non si dà pena di
far analisi, di stabilir confronti, non si cura di premesse, non pensa
a conseguenze, ed ella rispose alla donna, non voglio, non mi piace.
Ed ella si volse a chi l'amava, ed egli le rispose: Come! Tu dunque
disconosci tanto i vezzi di che ti fornì natura da voler andar in cerca
d'altri meno attraenti; lascia ad una bocca meno piccola della tua la
difficile articolazione di barbari paroloni, e non voler annuvolare il
liscio marmo della tua fronte colle rughe dei calcoli, nè voler perdere
il tuo celeste sorriso fra le gravi meditazioni, nè impallidir le rose
del viso fra le veglie prolungate. Natura t'informò con tale studio,
e di tal predilezione ti amò, che fece in te pregio l'ignoranza,
e tu tutto sai, nulla sapendo. Era quasi convinta, pur s'attentò a
scartabellar qualche volume della paterna biblioteca; ed ecco radunarsi
a grave consiglio la famiglia ed il suo capo decidere che, consultata
la religione, il costume e l'opinione, che esser debbono e sono,
con ragione o senza, i tre padroni assoluti sotto i quali la donna
stupida od intelligente, volente o non volente, deve piegare la testa;
tutti ad unanimità decisero che la donna, se povera all'ago, se ricca
all'ozio, passi la vita, ed altro scopo alla sua esistenza non cerchi
oltre quello della _femmina_; che se poi s'annoiasse, libero a lei di
sbadigliare a tutto suo agio.

Esclusa dal sapere, la donna, rimaneva esclusa eziandio dal potere; ed
eccola ridotta a passività assoluta, _cosa_ e non _essere_, di maggiore
o minor valore relativo, di nessun valore intrinseco, orba d'ogni
coscienza di sè, ch'è la prima ragione d'ogni forza.

Sostituitosi, collo stabilimento del cristianesimo, il regno della
intelligenza a quello della forza bruta, la donna divenne strumento
tuttora vitale e poderoso alla politica sacerdotale.

I religiosi terrori, certi affetti artificiali, specie di aberrazioni,
di sovreccitazioni nervose, ibride creazioni del misticismo, furono
allora poste in opera dai ministri di religione per averla piedi e mani
legate, cieco e docile strumento ad ogni esorbitanza. E, per mezzo suo,
Stati e famiglie poste a soqquadro, fatalmente compromessi e scalzati
dalle radici rimangono nella storia a documento imperituro del quanto
siano funeste la ignoranza e la morale passività nella donna.

E sgraziatamente eravamo al punto in cui questa ignoranza e passività,
non più un puro fatto era, ma era sistema. L'uomo avea riescito a
convincerla non esserle lecito formare il minimo criterio, nè possibile
formarne alcuno assennato, in base a che, avea ella abbandonato ogni
studio siccome a lei improba quanto vana fatica; e questa estrema
risultanza dello egoismo d'un sesso e dell'ignoranza dell'altro,
diveniva alfine la pubblica opinione, assicurando al primo un
tranquillo dominio.

Ma ecco ai nostri tempi sorgere col programma di tutte le possibili
libertà anche alla donna un'êra novella, ed in mezzo ad assennate e
serie riforme affacciarsi le umoristiche esorbitanze inseparabili da
ogni epoca di transizione; e tornar in campo, sublime per idealismo
siccome venerata per vetustà di concetto, la Repubblica platoniana.
Ed ecco che, mentre l'orientalismo proclama la donna puro stromento di
piacere, il cattolicismo la vuole serva rispettata, la cavalleria scopo
delle imprese e premio dei tornei, la teologia, come il vasaio colla
sua creta, ne fa vasi d'onore o d'obbrobrio[3], la poesia il bersaglio
a tutte le sue esagerazioni, il nostro secolo un'addizione al sesso
virile; che fa la donna? La donna, siccome un attore che si orna per
la scena, deve chiedersi ogni giorno qual commedia si rappresenti e
davanti a qual pubblico, per sapere qual più le s'addica di tutti i
costumi di che si vorrebbe coperta. Nessuna lusinga per lei d'uscirne
coll'unanime aggradimento. Condannata ad esser relativa ai tempi, ai
costumi, ai luoghi, agli individui, curva sotto il ponderoso fardello
dei pregiudizii sociali, portando sola, la pena della licenza e degli
errori dell'altro sesso, è, e sarà, finché non si desti alla coscienza
di sè, il paria fra gli esseri viventi.

Ma ecco il tempo di domandarci la ragione di sì svariati giudizii sulla
donna, mentre i rapporti, che la accostano all'uomo, sono semplici,
sono costanti. Il senno e la buona fede, che alcuni scrittori usarono
scrivendo di lei, pare avrebbero dovuto condurli a conclusioni più
assennate e meno ingenerose. Ciò accusa una viziatura di sistema
forse più che non passione di dominio o gelosia di proprietà: ed il
secolo, che aspira al conquisto d'ogni ragionevole libertà, non troverà
esorbitante che la donna cerchi e studii il modo per dove iniziare la
propria.

Secondo me, la ragione per cui le condizioni della donna non poterono
fin qui migliorare si è perchè ella non fu fin qui considerata dagli
uomini, nè si considera ella stessa, se non in base e dal punto di
vista di costumi e di istituzioni ben lungi dall'essere logiche e
filosofiche, i quali formano poi una viziata opinione, sotto la cui
prepotenza la donna, non so se più infelice o demoralizzata, è ben
d'uopo curvi la testa. Ogni autore le mena quindi addosso colpi da
orbo, niuno toccando la vera piaga, niuno scoprendo l'origine vera del
male, e niuno raggiungendo necessariamente di tanti scritti, ai quali
fu ed è scopo ed argomento, un concreto miglioramento delle condizioni
del suo sesso.

Ai tempi che volgono, parmi debbano alquanto modificarsi le esorbitanti
opinioni, che in tutti i secoli e da tutti gli autori portaronsi sulla
donna. Finchè questa, dalle masse e dagli individui, e dalle leggi
e dalla teologia, era considerata siccome cosa di relativo valore,
ed ella, oppressa, epperciò ignorante, accreditava colla passività
del suo spirito siffatto giudizio, quelle opinioni, per quanto
ingenerose, potevano tollerarsi, siccome un divoto uditorio, costretto
al silenzio per riverenza del tempio, sente chiamarsi empio, peccatore
e scellerato dal sacro oratore, senza punto protestare o scomporsi a
tanta contumelia. Ma, la Dio grazie, ciò che esiste, alla perfine si
fa sentire; e l'azione persistente del cristianesimo abborrente da
ogni oppressione, e i poderosi conati della filosofia pella diffusione
della sapienza, evocando alla coscienza di sè ogni essere intelligente,
chiamarono la donna al sentimento dei proprii mezzi e dei proprii
diritti; ed il pubblico criterio, compiendo ogni giorno una nuova
evoluzione, ammette in oggi ciò che ieri niegava, e troverà domani
logico ed equo, ciò che oggi gli apparve esorbitante. Tale è la legge
fatale del progresso, legge che non mai tanto apparve come a dì nostri
per la portentosa facilità delle comunicazioni, ed il generale sviluppo
della vigente generazione sensibile, operosa e concitata.

Questo fatto luminoso e costante ci dà il diritto di sperare, che la
legislazione, che ancora non s'è accordata colla coscienza universale
e, rispettivamente alla donna, si risente ancora di quel selvaggio _vae
victis_ che insanguinava gli antichi codici, non tarderà a porsi meglio
d'accordo collo spirito dei tempi e colle esigenze della giustizia.

Dietro questo fatto gigante ed innegabile, imbevuta dalle idee del
mio tempo, io non posso venir d'accordo con madama Neker che, nel
suo trattato d'Educazione, vuole la donna assolutamente passiva,
e peggio con Gian Giacomo Rousseau, che la vuole affatto relativa;
chè e l'uno e l'altro di questi sistemi esprimono implicitamente la
formola, che esplicitamente proclamano i codici degli Stati Unionisti,
che tuttora conservano la schiavitù, cioè «_la legge si propone
l'interesse del padrone, non tenendo conto alcuno del benessere dello
schiavo_.» Massima che ogni spirito filosofico ripugna, ogni coscienza
rivolta ed a tempi illuminati più non si conviene. Che se egli è
vero che «le leggi tolgono spesso la origine, e sempre la modalità
e le pavenze dalla pubblica opinione, la quale anzi generalmente le
pronostica: e che, per essere buone, debbono corrispondere al grado
intellettivo e morale raggiunto da un popolo, e consonare col politico
reggimento, ormeggiando il bene ed il male, le virtù ed i vizii, in
una parola, i bisogni del popolo»[4] non tarderemo certo a conseguire
una sensibilissima riforma e miglioramento nella nostra legislazione
per quanto spetta la donna, che, schiava ancora in faccia a quella
e colpita di nullità, è nella pubblica coscienza salita a somma
importanza; importanza che non le è già dalla cavalleresca cortesia
dell'uomo, nè dal suo passeggiero capriccio impartita, come in altri
tempi, ma da lei conquistata col suo intellettuale sviluppo, col
suo benefico intervento nelle cose sociali, coll'ardente ed attivo
interesse alle patrie vicende, e poderosamente reclamata dalla voce
della giustizia che va ogni dì sostituendosi su maggior terreno alla
bruta forza.

Ora, tenuto calcolo di tutto ciò, l'autrice va seco stessa
interrogandosi se in faccia alla maggior importanza della donna, ai
nuovi destini che l'attendono, alla più lata istruzione che le si
imparte, sia tuttora logica, possibile e conveniente l'educazione
che i due sopracitati autori vorrebbero darle (e con essi dal più al
meno tutti quelli che di lei scrissero e s'occuparono) educazione
che, riassunta in poche parole, tende ad annichilarne la ragione,
spogliarla d'ogni forza volitiva, deprimerne le più innocenti passioni,
attutirne il sentimento colla sferza di mille doveri, che non son
tali per lei che per l'altrui gusto ed interesse, incatenarne la
intelligenza, circoscriverne e falsarne il criterio coll'autorità del
pregiudizio, ristringerne nel più angusto spazio possibile ogni esterna
manifestazione, ridurla in una parola al _sicut cadaver_, famoso
trovato del Gesuitismo.

D'altronde l'opera della educazione per sè stessa faticosissima,
improba e penosa diviene allo educatore ed allo educato, quand'ella
si prefigga di lottare per così dire, corpo a corpo colla natura,
combatterla palmo a palmo, volerla attiva là dov'è passiva, volerla
ottusa là dov'è aperta, volerle innestare dei sentimenti impossibili
sugli innati: tutto ciò, dico, è come volere che il quadrupede divenga
volatile, che il rettile si faccia pesce! Quando l'impresa non fosse
assurda ed impossibile, noi non ne avremmo che un mondo ibrido e
mostruoso.

È cômpito della educazione lo incivilimento della specie e non la sua
trasformazione come non è intenzione dell'orticulture metamorfosare,
verbigrazia, la fragola nella lampuna, ma sì bene modificando nell'una
e nell'altra la nativa asprezza ed angolosità, ingentilirne il sapore,
svilupparne le forme, onde al palato ed alla vista più gradito sia il
frutto ed ammirevole.

Laonde l'educazione, a conseguire il suo scopo, deve conoscere la
natura affidatale, investigarne l'intimo valore, il modo d'esistenza
e di manifestazione, studiare la natura degli esseri e delle cose che
nell'attualità e nel futuro, hanno ed avranno con lei dei rapporti,
e questa legge dei rapporti che è la sintesi del viver sociale,
vuol'essere non tanto determinata da una serie di atti esterni più
o meno convenienti a chi li produce, e gradevoli a chi li vede (il
che ridurebbe la educazione a pulire e lisciare la superficie nostra
onde non essere ad altrui inamabili, con immane fatica dello spirito
che deve alla materia assiduamente imporre atti, dalli interni sensi
discordanti, ed a penosa continua menzogna dannarla), ma questa legge,
sulla quale s'incardina e s'imperna la scienza della vita, deve lo
spirito dello educato informare così, che gli divenga come la pietra
del paragone a trovare in ogni più intricato caso il miglior partito,
a giudicar sanamente degli uomini e delle cose trovando le convenienze
loro, a portare in ogni suo procedimento quella franca ed amabile
lealtà che risulta dalla concordia dell'atto e della parola, di questa
e di quella colla mente e col cuore.

Ora, se questi principii furono sempre più o meno applicati
dall'educazione impartitosi all'uomo, non fu del pari trattata
la donna, per la quale ogni rapporto sociale veniva caricato, o
moderato, non secondo norma di ragione, ma di pregiudizio e negatole
per soprappiù veniva ogni sentimento di sè, siccome relativa affatto
ch'ella era ai criterii, ai gusti, alli interessi di chi le stava con
qualche diritto d'attorno.

Ma in mezzo al secolo, che si è prefisso a generoso cômpito la
caduta d'ogni despotismo e l'associazione di tutte le forze morali,
materiali, intellettive alla costruzione del sociale edificio, mi è
ben lecito ed anzi doveroso il pensare altrimenti, e l'invocare una
seria modificazione di un sistema riconosciuto ingiusto, divenuto
impossibile.

Fiduciosa nel sentimento di giustizia sì poderosamente sviluppatosi
nel nostro secolo, profondamente credente nei destini dell'umanità,
nella saviezza dei legislatori, nel progresso dello spirito umano,
che niuna diga od argine riescì ad arrestare nel rapido e fatale suo
corso, abbiano essi nome pregiudizio, interessi, od oscurantismo, noi
aspettiamo nella perfetta calma della convinzione quell'avvenire, che
non è lontano, nel quale le riforme invocate passeranno dallo stato di
aspirazione nel dominio dei fatti. Frattanto nostro cômpito per ora
si è, cercare per la donna un modo d'educazione che sia in miglior
accordo col suo attuale sviluppo, che la ponga all'altezza dei suoi
destini e della pubblica stima, che la provveda d'una miglior norma di
criterio che quella non sia dell'opinione, che dandole la coscienza
di sè e l'appreziazione de' suoi mezzi, la risollevi ai propri occhi
e la spinga a cercar oltre le corporali attrattative la fama e la
gloria, che ridonandola al sentimento del suo intrinseco valore, non
la faccia eccedere nello accarezzare l'altrui gusto a spese della
propria dignità e convenienza, che ponendo alla sua portata le arti ed
il sapere, la tolga al vergognoso sciupinío che ora fa del suo tempo;
che se questo sciopero è conseguente all'attuale sua educazione, come
essendo di niun valore il tempo di chi nulla può produrre di serio, non
lo sarebbe già quando convinta fosse d'aversi non diritto soltanto,
ma eziandio dovere, di sviluppare ed applicare quelle facoltà che
natura le impartiva, non a scialo di ricchezza produttiva, ma a fine
provvidenziale diretta.

Ed in vero, a chi credesse tuttora, che la donna altro fine
all'esistenza sua cercar non debba, oltre quella della femmina, la
natura eloquentemente risponde mostrandogli in lei facoltà, che sotto
ogni aspetto eccedono gli uffici materni, e che in lei sopravvivono
all'età destinata a cotali uffici, e sempre più si dilatano e si
fortificano, il che la prova vocata a progredire.

Che se talune educate al culto dell'opinione giusta od erronea ch'ella
sia, si ritraggono dalle gravi occupazioni, per tema che le grazie vi
facciano naufragio, o perchè tanto scredito si raccolse sulla coltura
femminile, o per un falso giudizio invalso sulla pochezza della
femminile capacità, ripeterò qui ciò che su tale argomento scrive La
Bruyère ne' suoi _Caratteri_ «Pour quoi, dice egli, s'en prendre aux
hommes si les femmes ne sont pas savantes? par quelles lois, par quels
edits, par quels rescrits leur a-t-on défendu d'ouvrir les yeux et de
lire, et de retenir ce qu'elles ont lû et d'en rendre compte dans leurs
conversations et dans leurs ouvrages? Ne se sont elles pas au contraire
établies dans cet usage de ne rien savoir, ou par la faiblesse de leur
compléxion, ou par le soin de leur beauté, ou par une certaine légèreté
qui les empêche de suivre une longue étude, ou par les distractions que
donnent les details d'un domestique, ou par un éloignement naturel des
choses pénibles et sérieuses, ou par une curiosité toute differente
de celle qui contente l'esprit, ou par un tout'autre goût que celui
d'éxercer leur mémoire? _Mais a quelque cause que les hommes puissent
devoir cette ignorance des femmes, ils sont heureux, que les femmes qui
les dominent d'ailleurs par tant d'entroits aient sur eux cet avantage
de moins._»

Chi non vedesse qui, che tutte le cause alle quali La Bruyère suppone
doversi l'ignoranza della donna e la sua frivolezza, a non altro
attribuir si debbono che all'educazione che le si dà, ad un falso
criterio che le si forma, legga quest'altre che le seguono, nelle quali
l'Autore, dopo avere asserito non essere la Donna _saccente_ che un
oggetto curioso, ma affatto fuori d'uso, distinguendo dal pedantismo la
vera sapienza soggiunge: «Si la science et la sagesse se trouvent unies
en un même sujét, je ne m'informe plus du sexe, j'admire: et si vous
me dites, qu'une femme sage ne songe guère à devenir savante, ou qu'une
femme savante n'est guère sage, vous avez déjà oublié ce qui vous venez
de lire, _que les femmes ne sont détournées des sciences que par de
certains défauts. Concluez donc vous même, que moins elles auraient
de ces défauts, plus elles seraient sages, et qu'ainsi une femme sage
n'en serait que plus propre à devenir savante, ou qu'une femme savante,
n'étant telle, que parce qu'elle a réussi a vaincre beaucoup de défauts
rien est que plus sage_».


Ora, questi concetti nati sotto la penna d'un uomo che, avendo battuto
inesorabilmente coll'arma severa ed acre del ridicolo i difetti
femminili, non può certo sospettarsi di galanteria, ci dicono che la
donna, che in _diversi aspetti supera l'uomo_, gli cede in questo, per
mollezza di volontà, che per lo più non sa vincere, per una leggierezza
di tendenze, che non sa domare, per una certa atonia dello spirito che
la fa schifa d'ogni tensione. Ecco i capi d'accusa che La Bruyère porta
contro la natura femminile; ma a torto io credo sulla sua natura, e
piuttosto sul sistema d'educazione che le fu sempre applicato, per cui
gli uomini che «sont heureux que les femmes qui les dominent par tant
d'endroits aient sur eux cet avantage de moins,» cambieranno, lo spero,
con rassegnazione, questa felicità, con quella d'aversi nella donna,
anche dal lato dello spirito, _un aiuto convenevole_, come si esprime
la Genesi, e che possa supplire ed aggiungere alle esterne attrattive
colle imperiture doti dell'anima e dell'intelligenza.

E che piuttosto che alla femminile natura, a vizio d'educazione debba
attribuirsi la poca tendenza della donna ai gravi studi ed alle utili
occupazioni, appare evidente e dal precoce sviluppo delle fanciulle,
e dalla vivacità e finezza del loro spirito, e dalla loro pronta
percezione, e dalla attenzione che da loro prestasi all'insegnamento.
Un fatto costante, generale, da potersi da chiunque constatare come noi
ne fummo testimonii in diverse scuole elementari, è la molta maggior
capacità che rilevasi nelle fanciulle a preferenza dei ragazzi, e il
maggior amore allo studio accoppiato a maggior facilità d'apprendere
coll'assoluta parità d'età e risultante sempre in qualunque numerica
proporzione, sui fanciulli dell'altro sesso.

Questo fatto che ci viene ogni giorno confermato dalle testimonianze di
diversi educatori, ci veniva eziandio constatato con qualche meraviglia
da due ispettori generali degli studi dietro ispezione nei convitti
degli adulti d'ambo i sessi. A chè dunque dovrebbe attribuirsi e che
altro accagionare della atrofia di quelle felici facoltà dello spirito
femminile, di quella improvisa paralisi della sua intelligenza, di
quei puerili e frivoli gusti che lo guadagnano in quell'età appunto
in cui dovrebbe spogliarli avendoli avuti, e come mai i piaceri
dell'intelligenza gli divengono indifferenti allora appunto che il suo
completo sviluppo, la maturità del criterio, la maggior estensione
delle cognizioni, dovrebbero rendervelo più che mai suscettibile e
desideroso? Chè altro, dico, dovrassi accagionarne se non è un viziato
sistema di educazione, il quale, anzi che trar partito della fecondità
del terreno, si affatica a soffocarvi in germi i semi, s'ammazza ad
atrofizzarvi i naturali frutti per sopra innestarvi delle artificiali
escrescenze?

Infatti, dopo avere eccitata la fanciulla allo studio ed
incoraggiatevela con ogni fatta d'argomenti, dopo averle dimostrato
l'utile sommo, la suprema necessità del sapere, dopo averle parlato
di morale e di principii, nell'età in cui l'acerbità del criterio
non è per anco in grado di tutto apprezzare il valore di cotali
predicati, allorché poi i misteri della vita cominciano ad apparirle
men tenebrosi, quando l'adulto senno si fa capace della logica di
quelle dottrine, quando i sintomi forieri dello svegliarsi delle
passioni vengono a darle la chiave di quegli arcani parlari ed
ella ne intravvede l'applicazione, ecco cambiarlesi dinnanzi la
scena. La sapienza, sente dirlesi, non è per la donna; oltreché le
è perfettamente superflua, la rende inamabile, e la spoglia della
semplicità che è il supremo de' suoi pregi; la morale, le si predica,
certo è buona cosa, anzi necessaria, ma la donna ha la norma della
sua morale nella pubblica opinione. I criterii assoluti non sono pel
suo cervello, è troppo debole per affidarglisi, e dietro il giudizio
altrui ella deve solo condursi; per cui eccone le conseguenze. Per la
donna brillante la morale diventa la moda, per la divota il giudizio
del confessore e d'ogni uomo che porti tonaca, per la buona moglie ogni
fantasia del marito, per la fanciulla gli usi locali; e così facendo la
donna, non fa che la logica applicazione delle apprese dottrine.

Non vi stupisca più il vederla sì spesso errare ne' suoi giudizii, non
vi meravigli l'indefessa assiduità colla quale attende ai gravi studii
della _toilette_, non vi sorprenda l'eccessiva sua tendenza

    «_D'investigar di ciaschedun le oscure_
    _Galanti storiette e le avventure_».

Il desiderio di sapere, la necessità di trovare ai suoi parlari un
argomento, le ha fatto far questa cattiva scelta; non dite più che lo
spirito femminile diffetta di solidità ed è insufficiente a massiccio
ed esatto raziocinio. — La donna, così essendo, è perfettamente logica;
e se alcunché mi meraviglia è ch'ella non sia assai peggiore, vedendola
assai generalmente conservare, in mezzo a tanta viziatura di principii,
l'intima bontà del cuore.

Forse da taluno si dirà, che l'opinione non deve assolutamente
superarsi; chè indizio di sommo orgoglio o di perduta verecondia è lo
anteporre il giudizio nostro individuale al collettivo criterio delle
masse, e lo affrontar saldi ed imperterriti il biasimo di tutti; e
fortificati dalla venerata autorità del filosofo ginevrino mi direte,
che, vivendo sempre per la sociale organizzazione dipendente da altrui,
ed essendo la riputazione il supremo bene della donna, e dipendendo
questa sovente, più che dalla realtà delle cose, dalle apparenze loro,
ne consegue che dessa, più che tutt'altri, debba dell'opinione esser
timida e serva, ed essere, non già speciosamente, ma rigorosamente
vero che, per la donna, felicità, importanza e valore dalla stima, che
altrui ne fa, tutta dipende. — Grave è l'obbiezione, ma mi lusingo
poter, così in base al fatto che al raziocinio, farvi equivalente
risposta.

Importa assai notomizzare alquanto questa pubblica opinione, che
s'impone con tanta forza, che non da altri che dal suo beneplacito cava
la ragione dell'autorità sua; analizzare la natura di questo supremo
arbitrato, che tanto gravita sugli atti umani, e per la donna poi è
ragione di nullità e di sventure.

V'hanno opinioni generali a tutta l'umanità che tolgono l'origine, e la
parvenza, dai bisogni, dalle tendenze, dai sentimenti innati all'umana
natura; appartengono a questa categoria, a mo' d'esempio, tutte le
religiose credenze scaturite dal sentimento della divinità, comune a
tutti i popoli, a tutte le razze.

V'hanno opinioni speciali determinate da un dato concorso di
circostanze, in un dato tempo, in una data località; e sotto queste
opinioni fluttuanti, per così dire, e precarie soggiacquero delle
nozioni scientifiche e filosofiche, che sono per noi e pel nostro
tempo fuor d'ogni discusso. — Così la virtù ed il vizio, la pietà e la
ferocia, la verità e lo errore si diedero lo scambio nelle opinioni
degli uomini siffattamente, da stimarsi sommamente pii i sacrifici
d'umane vittime, sommamente logici ed equi la servitù ed il dispotismo,
virtuoso lo sterminio, vile il perdono, codarda la misericordia,
nobile e gentil costume l'ozio e l'ignoranza, negromanzia e diabolico
mistero la scienza, ignobile l'industria, il lavoro plebeo; e via
scendendo fino a dì nostri, non è raro vedere nell'opinione dei più,
darsi lo scambio l'ignoranza e l'ingenuità, lo spirito di rivolta colla
giusta opposizione, la pusillanimità colla moderazione, il cicalío
coll'eloquenza, gli esterni atti del culto colla pietà, la ostinazione
colla fermezza, l'ingenita selvatichezza colla verecondia, la
brutalità col valore, la depravazione dello spirito coll'emancipazione
della mente, la corruzione dei costumi colla giovanil leggerezza,
col rispetto l'adulazione, colla condiscendenza la servilità, il
pregiudizio colla verità.

E questa erroneità di giudizii è un fatto così generale e costante, che
non sarebbe soverchio il dire, che questa massa fluttante e discorde
degli umani cervelli, in una cosa soltanto s'uniforma ed armonizza, nel
colpire cioè assai di rado il vero aspetto e l'intimo valor d'una cosa.
— E non è che dopo qualche secolo, dopo i combattuti conati di sublimi
intelligenze, dopo sopite le lunghe e furiose fazioni che scindono
l'umana società a proposito d'ogni discusso che riesce una verità a
divenir testo all'opinione dei più, ad uniformare i giudizii delle
masse.

A questi anarchici procedimenti del pensiero, che sono ineluttabili,
primo perchè l'umana intelligenza percorrendo un cammino ascendentale
deve necessariamente essere imperfetta e pregiudicata finché giunta
non sia ad afferrare l'ultima parola di ciascun problema: secondo pel
fatto dell'individualismo per cui v'ha chi precorre di molto tempo le
masse, e chi con loro cammina e chi dopo tutti giunge a lento passo,
come trascinato da forza maggiore e non però persuaso. — In seno poi a
tutte le umane società, per quanto nei primordii fondamentali sopra un
assoluto piede d'uguaglianza, riposa in germi qualche elemento, che ben
presto emerge, si isola, si eleva e poi signoreggia con forze morali
o materiali, ed impone e modifica i procedimenti dell'opinione. Ma
chiarifichiamoci con dei fatti.

_L'astuzia._ — I Bramini, nell'India, col loro severo aspetto ed il
mistero venerando di cui seppero circondarsi, riescirono a far occupare
il secondo posto alla tribù dei guerrieri, alla cui testa era il Re.

Nel discorso di Cristo sul monte, in San Matteo, leggiamo la lunga
serie d'ipocrisie, coll'aiuto delle quali i Farisei della Mosaica
Sinagoga avevano riescito ad ottenere sul popolo un supremo arbitrato
in ogni cosa, ed a farlo agire, pensare e giudicare dietro gli
interessi loro.

_L'esempio._ — La manía teologica di Costantino il grande, divenne
contagiosa alla corte, da questa si propagò alla nobiltà, dalla nobiltà
alla borghesia, dalla borghesia all'esercito, dagli uomini s'appiccò
alle donne, ed in men che nol dico, tutto l'impero fu maniaco,
delirante, frenetico per la teologia, e dissensioni e controversie,
ed immensi volumi, e guerre interminabili, e strazii quotidiani e
discordie intestine ne scaturirono, ed empio ed eretico si considerava
colui che di sì strano morbo non fosse infetto, e l'opinione esigeva
imperativamente che si parteggiasse.[5]

_Le passioni._ — I costumi della Grecia antica, che imponevano alla
donna onesta la reclusione del gineceo, diedero ragione alla somma
importanza che acquistarono in quel paese le cortigiane, laonde l'arte
le immortalò nelle opere sue, la poesia le cantò, i filosofi tennero
presso di esse le loro scuole, e la pubblica opinione aveva levato
dalle loro fronti il marchio della vergogna.[6]

_La forza._ — Roma imperiale, vedendo il nascente cristianesimo
proscritto dagli editti imperatorii, e perseguito con tanta severità
in tutte le provincie del vastissimo impero, vedendo i cristiani dati
esca al fuoco, pasto alle fiere, bersaglio ai dardi degli arcieri
affricani, finì col convincersi esser eglino gente infesta allo Stato
ed all'umanità; e divenne universale l'opinione che essi fossero sola
cagione delle calamità dello impero; onde fu necessario che la penna
eloquente di Tertulliano s'incaricasse di ribadir quelle accuse ed
assurde le dimostrasse.

Più tardi i tribunali della sacra inquisizione, che siedenti presso
che tutte le città del mondo cristiano, investiti di una potenza
esecutiva assoluta, spaventavano le genti col quotidiano spettacolo dei
più feroci castighi aggiuntisi al terrore di mali futuri ed eterni,
di leggieri persuasero ai popoli cristiani dell'Evo Medio, che anche
la più giusta e moderata ed urgente riforma invocata da pii ed onesti
personaggi fosse esecranda eresia, onde videsi sovente, deplorevole
spettacolo, il popolo stesso imprecare più volte a quelle vittime e
recar sollecito l'esca ai loro roghi.

_Gl'interessi._ — Talleyrand, conversando con Napoleone il grande della
scienza mesmerica, che allora cominciava a convergere a sè l'attenzione
dei dotti e dei curiosi, ed interrogatolo se fosse o meno d'avviso
di incoraggiarla, ne ottenne questa risposta: «No, non facciamo del
Mesmerismo una scienza legale; a noi giova ch'ella resti dubbia,
combattuta, ed anche ridicola. Pensate chè diverrebbe la politica dei
gabinetti.»

_L'ignoranza._ — Sono così molteplici, ed incontransi a tante migliaia
nella storia, le erronee opinioni accreditate, e tenacemente custodite
per fatto d'ignoranza, che sarebbe più presto detto che tutta la storia
dell'umana intelligenza è la prova di questo fatto.

Socrate, dannato alla cicuta siccome empio per l'unità divina; Galilei,
tradotto davanti al Santo Ufficio per avere sostituito il giro della
terra a quello del sole; Sarpi, processato egli pure siccome eretico
per la forma speciale delle sue pianelle; Andrea Vesale, condannato
siccome negromante per le sue prime sezioni anatomiche; la chimica
creduta per lungo tempo arte magica e diabolica; la epilepsia creduta
possessione ed invasione demoniaca, la lebbra considerata siccome
castigo divino dagli Orientali; i pregiudizii del popolo dei nostri
giorni che, associando il sopranaturalismo ai fenomeni i più semplici
e naturali, fa perfin talora della morte ch'è pure un fatto cotidiano
e costante[7] un castigo di Dio; tutti questi erronei criterii
come potrebbero altrimenti chiamarsi se non le naturali espressioni
dell'ignoranza?

Roma chiudeva, (pel supplizio d'una Vestale), tre giorni il foro, il
Senato, i pubblici mercati, sospendeva i giuochi, la guerra, tutti i
pubblici interessi ed i privati, ed offriva notte e giorno vittime
espiatorie, persuasa che la battaglia sarebbe perduta, i giuochi
sgraziati, gl'interessi ruinati se prima non avesse placati gli Dei.

Avendo in Roma una donna difesa nel foro la propria causa, il Senato
inviò a Delfo a consultare l'Oracolo per sentire quale sventura
soprastasse alla città ed alla nazione per siffatta enormità.

Sendosi abolito in Francia, per decreto di Sinodi provinciali, i
banchetti nelle chiese che si facevano in dati giorni dell'anno, la
cui sconvenienza andava al punto da ingombrare con piatti e bottiglie
perfin l'altare sul quale il sacerdote celebrava, mentre e popolo e
clero bivaccava, si inebbriava e schiamazzava insieme, il popolo non
mancò di gridare all'empietà e s'accorava seriamente che si volesse
distruggere la religione[8].

Se all'ignoranza delle verità morali e speculative avvien che
s'aggiunga la ignoranza della storia e degli usi e costumi di tutti
i popoli (che maggior estensione suol dare alle idee, e maggior
quantità di dati presenta all'esattezza del giudizio come per lo
più nelle masse), allora l'opinione pubblica diviene non già organo
d'intelligenza, ma misura d'ignoranza.

Basta la più leggiera tinta di storia per provarci quanto siano
fluttuanti e precarie le opinioni, che non si fondano sui semplici
e sovrani emanati della ragione; e siccome di assai poche verità
assiomatiche trovasi l'uomo in possesso, così veggiamo lo spirito d'un
secolo e d'una generazione differire enormemente dalle antecedenti
e dalle susseguenti, addottarsi e ripudiarsi i sistemi, modificarsi
assiduamente usi, costumi, ed istituzioni ormeggiando lente, ma
indefesse il progressivo sviluppo dei popoli, il quale, attraverso a
queste molteplici e svariate gradazioni morali, per legge fatale di
natura e di provvidenza, sempre sale verso il meglio.

Da tutto il fin qui detto emerge, che questo formidabile fantasma della
opinione vuol essere guardato in faccia senza timore, e ben disquisito
vuol essere, ed analizzato prima di accettarlo ed inchinarcegli siccome
a supremo arbitrato. Esaminiamo se le forme solenni, che assume,
siano per avventura il puntello di interessi parziali, la tonaca
lunga ed affibbiata dell'ipocrisia, la legge caduca della forza, od il
semplicissimo _così facea mio padre_, tanto potente sulle masse incolte
che un bello spirito non chiamava senza ragione animal d'abitudine.
Ben sovente ci accadrà di trovarci di fronte ad un colosso dal piè
d'argilla; e le mie parole vi si appaleseranno ben vere, se riflettiate
un istante ad un fatto gigante, che veggiamo svolgersi sotto late
dimensioni nella nostra Italia in un solo quinquennio di libera vita.

Chi non è colpito dalle modificazioni di idee, di opinioni, e perfin di
credenze che vanno ogni dì operandosi nelle menti? Chi non meraviglia
pensando che la Italiana Unità, che predicata da pochi Apostoli nel
1821, e creduta fino al 1859 una solenne utopia, in quell'anno stesso
diveniva il nazionale programma e la coscienza universale?

Io distinguevo testè le opinioni fluttuanti e precarie, che trovano per
pochi momenti la loro ragion d'essere negli interessi, nella ignoranza
e nelle passioni, dai supremi e semplici emanati della ragione morale,
epperò la sana educazione, che ci aggioga agli impermutabili precetti
di quella autorità, può e deve farci timidi e riverenti del giudizio e
delle opinioni altrui, quando quelle vengano manifestate da individui,
la cui nota virtù ed intelligenza possono e debbono, con ogni logica,
farceli autorevoli; attesochè alla saviezza dei criterii concorra in
essi la calma delle passioni e la lucidezza della mente.

_Amo laudari a laudato viro._ In questa antica sentenza stanno
conchiusi i ragionevoli ed equi confini della opinione autorevole.
Autorità è questa dalla quale bene farà la donna di non mai ribellarsi,
nè essere di quella stima indifferente, nè quel biasimo mai superare;
poichè non libertà di spirito, o solidità di giudizio ciò mostrerebbe
ma rivoltante spudore; che se per caso talora conducendosi dietro i
pensamenti di persone lodevoli e lodate, od un consiglio loro seguendo
errasse, e migliore dappoi avvertisse il proprio consiglio, cotali
complici nello errore assai la giustificano e la assolvono.

Ma qui deve arrestarsi la condiscendenza all'opinione altrui; che
s'ella si proponga di voler a tutti piacere e di tutti avere la stima
e l'aggradimento, immorale affatto diverrà e corrotta senza però lo
intento conseguire, sendo i caratteri ed i cervelli umani sì svariati
di gusto e di giudizio che, quando cotale illusa vi fosse, ben potrei
dirle:

      «_Brami invan d'esentarti alle punture_
    «_Se fur d'Appelle infin l'opre immortali_
    «_D'un ciabattin soggette alla censura_».

Che se a' pii esercizii rivolgerai l'animo a pietà inchinevole, sarai
tosto nello spirito del volgo ipocrita o bigotta; se agli studii
addestrar vorrai lo innato ingegno sarai pedante; se alla tavoletta
intenta le lunghe ore ogni cura adoprerai ad esser bella, sarai tosto
leggiera e vanerella; se del moto o del passeggio bisognosa ed amante,
di spirito ozioso e svagato avrai la fama; se società raccogli nelle
tue interne sale e di frequente sarai nei teatri vista, mille, più
o men veri, galanti aneddoti circoleran sul conto tuo; se, della
prole amante e del consorte, trarrai oscura e laboriosa vita fra
domestici affetti e doveri, non mancherà chi a difetto di spirito e
d'attrattive la volontaria solitudine attribuisca. Se, bella essendo
e corteggiata, sarai costretta per genio o per dovere a chi il cuore
negare, a chi la mano, di superba o di fiera t'acquisterai rinomanza.
Se natura avesti matrigna e di bellezza manchi e d'attrattive, per
ciò solo d'imperdonabile delitto sei già rea, e la grazia sarà per te
affettazione, la dignità pretesa, smodato sfarzo la decenza, ogni virtù
ti scemerà di pregio, ed ogni neo salirà fino a deformità mostruosa.

Laonde, a premunire dalla ingiusta e dolorosa pressione di sì sventati
e crudeli giudizii, la donna, che per la natìa timidezza dell'animo
già li soffre e li teme (e per la sua debolezza è ben già di soverchio
esposta agli oltraggi) ben lunge dal curvarle vieppiù la testa sotto il
giogo ingeneroso, che il filosofo ginevrino si affatica a premerle sul
collo, io le fo coraggio e le ripeto:

      «_Anima che per biasmo si dibassa_
    «_E per lode s'innalza è debil canna_
    «_Cui muove a scherzo il venticel che passa_».

Epperò informata alle imprescrittibili leggi della morale, non d'altri
schiava che del principio che a guida togliesti del tuo operare,
coll'occhio fiso al nobile fine che programma facesti della tua
vita, l'occhio e l'orecchio chiudi alle migliaia che tutti importisi
vorrebbero a legislatori e tiranni, e fa

      «_Come il Villan che posto in mezzo_
    «_Al rumor delle stridule cicale_
    «_Senza curare il rauco strido loro_
    «_Segue tranquillamente il suo lavoro_».



LA DONNA E LA RELIGIONE


                            Regi, monarchi, potentati, sacre maestà,
                          vi ho nominate con tutti i vostri nomi?
                          grandi della terra, altissimi, potentissimi
                          e forse ben presto anche Onnipotenti
                          Signori, noi, uomini, abbisogniamo, per
                          le nostre messi, d'un po' di pioggia,
                          di qualche cosa meno anche, d'un po' di
                          rugiada. Fate della rugiada, mandateci
                          sulla terra una goccia d'acqua!

                            Una sola cosa, Lucillo, mi fa pena.
                          Questi grandi corpi sono così costanti
                          ed esatti nel loro cammino e nei loro
                          rapporti, compiono con ordine così
                          invariabile le loro evoluzioni, che un
                          piccolo animale, rilegato in un angolo di
                          questo immenso spazio che si chiama mondo,
                          avendoli osservati, s'è fatto un sistema
                          infallibile di predire a qual punto del
                          loro corso tutti questi astri si troveranno
                          da oggi a due a quattro a ventimila anni.
                          Ecco il mio scrupolo, Lucillo; s'egli è
                          per caso, ch'essi osservano leggi così
                          invariabili, che cos'è l'ordine, che cos'è
                          la regola?

                                                        LA BRUYÈRE.

Dilicatissimo e difficoltoso argomento è questo che imprendo a
trattare, e tanto più oggidì in cui, questioni vitali si agitano
nel paese in cui io scrivo, questioni di vita e di morte per tutta
una casta, che il proprio parziale carattere ne ritrae, questione
interessantissima ad ogni regione del globo, ad ogni popolo, ad ogni
intelletto che si travagli nelle filosofiche disquisizioni, ad ogni
cuore che palpiti nella incertezza degli umani destini oltre la tomba.

Come procedere senza sollevare obiezioni, senza sconcertare credenze,
senza urtare suscettibilità, senza sconcertare interessi? Come non
cozzare qui colla sistematica negazione, là colla gratuita asserzione,
a diritta colle astrazioni di Fourier, di Leroux, a manca con De
l'Orgue e De Maître, davanti con Reynaud, dietro con tutta la miriade
degli ascetici? E davvero assai peritosa e timida stommi del come
mi condurrò, del punto da cui partirò nel vastissimo terreno che mi
si apre a discorrere, della scelta che far convienmi fra le idee che
copiose invadono la mente, dell'arte con cui eviterò l'urto dei triboli
e la puntura delle spine in una strada che, tutta l'umanità percorre,
eppure, più fu battuta, e meno si fa praticabile a chi non voglia
sollevarsi di fronte una guerra di scandali e di pregiudizi che più
lacera il cuore, che non guerra di spade.

Pure già lo dissi nelle prime pagine, e giovami qui ripeterlo. Io
preparo la donna dell'avvenire, di quell'avvenire che ogni intelletto,
sazio di gratuito, ogni spirito esasperato dalla lotta che, dalle
cieche passioni e dagli inverecondi interessi è combattuta alla verità
ed alla morale, deve necessariamente affrettare coll'opera e col
desiderio.

E ferma in questo proposito, smessa ogni peritanza, m'innoltro alla
libera sposizione delle idee.

È assai possibile che il debole intelletto non abbia saputo, neppur
dallo assiduo e pertinace studio di grandi autori, estrarre il vero,
ed è ancor più possibile che la insufficienza della dialettica, e
la poca facondia del dire, mi facciano irremissibilmente impotente a
persuadere; ma mi resterà pur sempre chiaro e confortante testimonio la
coscienza di avere, con ogni calma dello spirito e lealtà d'intelletto
cercato il vero, e la mia fatica rivolta a presentarlo altrui, senza
spirito di fazione, senza sistema preconcetto, senza fine secondo.
E la donna, alla quale io parlo, accolga i miei sforzi con quella
benevolenza che, se poco è meritata dallo intrinseco della mia fatica,
non sarà certo sciupata invano dal buon volere, che mi ho, di porgere
al mio sesso la sempre utile comunione delle idee.

Essendo più pratico che teorico lo assunto mio, ed essendo io in ben
altra situazione che quella d'un sacro oratore, il quale, od in un
tempio di cattolici parli, o sermoneggi in una adunanza di _fratelli_,
od il Corano commenti in una Moschea, sempre sa di parlare a chi come
lui crede e sente, ed è già con esso lui d'accordo prima che parli,
non mi è permesso saltare a piè pari nell'argomento, ma dobbiamo prima
fondare di comune accordo le premesse.

Non si tratta per me di persuadere ad altrui le convinzioni mie: non
intendendo fare nè polemiche nè controversie. Io parlo alla donna
d'ogni paese, ma specialmente italiana, e parlo alla sua indipendente
ragione, al suo libero intelletto, per cui, a partire da basi concordi
ed a meglio comprenderci, dal fatto partiremo e dallo assioma.

La religione, metafisicamente considerata, è il _sentimento innato
della divinità_. Essa fu siccome tale sentita da tutti i popoli e
da tutti i tempi; e che ciò sia stato, lo provano gli innumerevoli
monumenti e le tradizioni che la primigenia umanità legava alle
posteriori generazioni; le quali poi a loro volta, anzichè sperdere
quelle tradizioni e quei monumenti della fede dei padri loro, come
fatto avrebbero quando non ne avessero ampiamente accolto il legato,
altri ne aggiunsero, ed ogni generazione accrebbe così alle vegnenti il
patrimonio delle credenze.

Questo fatto che, siccome basato sulla semplice autorità, poco
proverebbe se chiamato fosse a stabilire la verità d'una scientifica
sposizione, od a convalidare la solidità d'un raziocinio che a sè
stesso non basti (avvegnachè e storia e filosofia cospirino a non
ammettere l'umanità degradata sibbene primitivamente ignorante) questo
fatto, dico, diviene categorico e perentorio quando a provare la
generalità e costanza di tal sentimento lo indiriziamo.

Ora, siccome è vero che, l'effetto non nasce che dalla causa, la
conseguenza tradisce la premessa, lo edificio rivela l'architetto,
così l'universo predica una ragion prima. Il caso, che l'ateo volle
a ragione di questo fatto, se è per lui ragione sufficiente, per
lui _il caso è Dio_, e non v'è fra lui e il general sentimento che
una questione di vocaboli; ma s'egli la considera siccome ragione
accidentale egli da sè bene inesperto si proclama, avvegnacchè, sopra
qualunque cosa egli esperimenti le combinazioni del caso, sempre le
avrà avvertite, vaghe, disordinate e sopratutto incostanti; cosicchè
il comun senso definisce col vocabolo _caso_ ogni combinazione, che
manca affatto d'ordine, di durata e di leggi; il chè senza impugnare
il testimonio della scienza (che va ogni dì scoprendo la ragion
delle forze nel meccanismo universo, e potentemente le applica) senza
rifiutare in ogni filosofia il supremo emanato della ragione fatto
eminentemente ordinato, senza accagionare di allucinazione i nostri
sensi tuttodì colpiti dall'armonia inalterabile della natura, sarebbe
deplorabile follia diniegare.

Meno evidente è all'intelletto l'immortalità e la vita futura, sebbene
anch'essa non vada sprovvista di possenti ragioni, e ricca e forte
della coscienza dei popoli.

Come l'artefice elaborando l'arnese considera l'uso a cui lo destina,
e le parti ne informa, e le forze e le misure ne proporziona, in vista
di quello; altrettanto veggiamo aver natura praticato in tutte le sue
produzioni, e questa saggia economia dell'universo è dalla scienza,
ognor progressiva, ogni dì constatata su più late dimensioni; non
altrimenti, tutte le facoltà ed attribuzioni dell'anima, siccome le
parti tutte e tendenze del corpo, debbono necessariamente rispondere
ad una data destinazione. Ora le facoltà dell'anima nostra eccedono
sotto ogni aspetto la destinazione qualunque che aver potressimo
circoscritta alla presente vita. Eccede l'insaziabile curiosità di
tutto investigare, il tempo, i mezzi, le forze che all'investigazione
abbisognano. Il senso morale, che l'uomo spinse fino agli estremi
dello scrupolo delicato, non sarebbe che un'ironia in faccia ai pochi
giorni di gioia e di vita che ci sono accordati. Nè si dica, che questo
senso non sarebbe che una provvidenza di natura posta a tutela dei
reciproci interessi; questo confine sarebbe d'assai soverchiato da un
senso morale che limita gli atti anche intimi, anche indipendenti della
vita umana. Il vivo desiderio dell'infinito, il cui soddisfacimento
constatiamo impossibile nella esistenza che conosciamo, l'orrore del
nulla così profondo, così sentito che non può esser domato dal terror
dell'ignoto; tutti problemi sono questi, ai quali non è possibile che
una soluzione, l'immortalità.

Altro senso innato nell'uomo e profondamente sentito è il senso
d'equità e di giustizia. Ora non potendo egli appagarlo, avversato
qual'è dall'ignoranza, vinto dalle passioni, soggiogato dalla forza,
immolato agli interessi, e sentendone tuttavia la somma ragione, trovò
il dogma del premio e della pena, o meglio, lo sentì, ed in questo
fondò la ragione della virtù e l'odio del vizio. Laonde l'esistenza
della divinità creatrice, ordinatrice e provvidenziale, l'immortalità,
il premio del bene e la punizione del male; ecco i tre dogmi che furono
base alle teogonie tutte, e che ogni ragionevole intelletto può e deve
ammettere.

Ammessa l'esistenza della divinità, l'uomo le deve omaggio e
riconoscenza, ed ecco sorgere la religione donde i culti ed i riti;
ammessa l'immortalità ecco sorgere con essa l'infinito, e l'aspirazione
all'infinito, donde l'indefinito progresso; ammesso il premio e la
pena, ecco sorgere la ragione della morale, donde la sociale felicità.

Premesse queste poche parole a prevenire le nostre lettrici del punto
da cui partiamo, nè potendo noi più inoltrarci nelle religiose teorie
senza specializzare, epperò renderci a molte impossibile (e non
trovando pur necessario il farlo dacchè abbiam già trovato la ragione
religiosa), passiamo a disquisirne i caratteri, segnalarne le viziose
applicazioni e le vere.

Essenzial carattere dell'ossequio, che l'uomo prestar deve alla
divinità, è l'essere questo ragionevole, essendo ragionevole chi lo
presta, e verità assoluta, e ragion d'ogni cosa, l'essere supremo a
cui è rivolto; perciò l'assurdo è insulto a Dio, nè può essere scusato
che dall'invincibile ignoranza. Assurdo perciò non potea ch'essere,
a mo' d'esempio, il sacrificio, il quale intendeva onorar Dio col
distruggere la sua fattura: ciò non potea scusarsi che dall'ignoranza,
ma il Sacerdote il quale godeva le parti comestibili delle vittime
sacrificate, epperò eccitava continuamente i popoli ai sacrificii, non
era più ignorante, era furbo; e l'iterato fumo de' suoi incensi non era
che un insulto a Dio, ch'egli faceva servire a suoi interessi.

Più d'una vedrà forse altra cosa, che l'infanzia dello spirito umano,
in questi riti dell'umanità primitiva, ma noi risponderemo con una sola
osservazione. I sacrificii cruenti, criminosi, se di vittime umane,
assurdi se di ostie brutali, cessarono sotto l'impero di due autorità.
La prima fu il Vangelo, che promulgò la più razionale delle religioni;
la seconda fu il progresso della civilizzazione, che chiarì allo
spirito umano la vanità di cotali ossequi e la loro assurdità. Ora se
i progressi della ragione resero incompatibile il sacrificio, ciò basta
per dare il nome alla cosa.

Dovendo l'umano ossequio alla Divinità essere razionale, ne emerge di
natural conseguenza, che non debbano le esterne sue manifestazioni
superchiare agli occhi nostri in importanza l'intimo sentimento che
li produce. Che se al riconoscente affetto, che verso Dio ci porta e
delle leggi imperscrittibili della morale ci fa teneri osservatori,
come sendo dallo stesso suo dito scritte ne' cuori nostri, anteponiamo
gli atti esterni e convenzionali del culto che, orbi per sè stessi
d'ogni morale valore, altro non sono che l'espressione di quello,
noi adopreressimo come chi il vetro anteponesse al diamante, il bacio
all'affetto.

Eppure, se poniamo a disamina lo zelo, con cui tutti gli ascetici
scrittori moltiplicarono in ogni confessione, e classificarono in
infinite categorie mille pie pratiche, e di quale importanza vollero
circondarle e con quale entusiastico fervore le vollero raccomandate
e praticate; davvero, non intendo calunniare le intenzioni loro, ma
credo altro non s'avessero in vista che di soffocare il religioso
sentimento ed imporgli silenzio onde lasciar luogo alla moltitudine
delle parole, non dissimili dai sacerdoti di Baal (de' quali tanto si
rideva il profeta Elia) che gridando con quanta forza era possibile ai
loro polmoni, e continuando in tal baccano tutto l'intero giorno, se
ne tornavano convinti che la loro sonnacchiosa Divinità li avesse alla
perfine intesi e compresi.

Il Cristo, che primo diede all'umanità l'idea del culto perfetto,
stringeva e riassumeva, in una formola, quanto affettiva altrettanto
razionale, l'espressione del religioso sentimento. Egli, che aveva l'un
dopo l'altro attaccati e combattuti tutti i pregiudizii, si dichiara
anche contro questo là dove dice: «Non vogliate essere come i gentili,
che impiegano ad onorar Dio molte parole, e credono per la moltitudine
di quelle esser meglio esauditi. In quanto a voi, quando volete pregare
a Dio, chiudete l'uscio della vostra camera, e nel segreto pregate al
padre vostro ch'è ne' Cieli».

V'hanno però di molte le quali tutte assorbite dalli esterni atti
del culto, moltiplicandoli ogni giorno senza ragione e senza misura,
facenti assidua lettura di libri che insegnano colla Divinità un cotal
linguaggio floscio ed affettivo, tutt'affatto profano ed indegno dei
rapporti che intende di esprimere, portano l'intelletto nei campi
vaporosi d'una dottrina; la quale assorbe le lunghe ore nel render
l'anima timorosa di tutto, nel toglierle ogni generoso slancio, nel
freddare ogni generosa passione, nell'atrofizzare più che sia possibile
il cuore, nel rompere ogni suo più sacro e soave legame, nell'avezzarla
ad una tensione morale di tanta forza da non sapersi più scernere
fra il bene ed il male assoluto, il bene ed il male relativo e li
atti tutti, che orbi sono di morale valore epperò all'uomo di libera
scelta. Essi insegnano una dottrina tutta di distacco, d'isolamento,
di meditazione e d'espiazione: essi nulla ammettono di spontaneo nello
svolgimento della vita morale; tutti i menomi moti del cuore e della
mente vengono vigilati, sorpresi, classificati più o men logicamente, e
non persi di vista mai, dovendo essi tutti esser fedelmente riportati
ad un cotale che l'incarico s'è assunto di avviar quest'anima alla
perfezione; e, mediante le cure sue, ed i suoi lucidissimi precetti,
si è ridotta a tale d'aversi di lui per ogni cosa stretto bisogno, di
nulla veder senza li altrui occhi, di nulla giudicare senza l'altrui
cervello, e di non potersi ristare dal mettere altrui in terzo fra sè
ed i più intimi, e nè più gelosi segreti,

    «_Come se far non possa i fatti sui_
    _Se in opera non pon gli organi altrui_».

E questa assoluta insufficienza dell'individuo, questa perpetua
minorità, dura fino alla morte; anzi va, questa forza astringente
ed assorbente, sempre più incalzando fino a che, di quest'anima, che
cammina alla perfezione, più non resta che un cadavere ed un automa
che, di vita propria, non si ha che la parte fisica e vegetativa.

Non volendo io per nulla affatto scendere nei penetrali dell'uman cuore
per cercarvi le cause di questo ritrovato, che non mancò per avventura
di appoggiare numerosi e forti interessi (non essendo nè la satira nè
la storia l'assunto mio) io proseguirò nelle ragionate teorie prendendo
dovunque il buono, e sceverando il falso ed il gratuito, guidata quale
sono dallo schietto amore della verità e della luce.

Accennavo, che quelle dottrine, che si propongono d'avviar l'anima
alla perfezione, predicano il distacco, l'isolamento, la meditazione,
e l'espiazione; e taluna avrà portato avviso, che troppo leggermente
io condannassi teorie, che fini sì altamente spirituali si recano a
programma. Spero di giustificare il mio verdetto, rifacendo un po' la
storia morale dell'umanità; e come questa svolge la sua progressiva
vita in diverse fasi tutte logiche ed inevitabili, così lo individuo,
ch'è una frazione di questo gran corpo, deve seguirla e recare l'opera
sua al collettivo lavoro; che se non fosse, e non dovesse essere,
il progresso delle idee e dei costumi non potrebbe aver luogo; e
l'umana storia in luogo di presentare all'occhio del filosofo un
complesso armonico, logico, ordinato, ed a gran fine diretto, non
mostrerebbe che un agglomeramento, senza forma e senza nome, di
forze eterogenee, discordanti, ed elidentisi, un caos insomma senza
ragionevole principio, che non altro verosimile fine presenterebbe che
un universale sterminio ed esaurimento.

Ora puossi egli ammettere, dietro l'ordine che vediamo nella creazione
tutta, che tale esser possa il morale concetto di Provvidenza? Certo
che no. Laonde camminando, noi individui, siccome le generazioni, in
una via di progressivo sviluppo, c'incombe di studiare il tempo e la
fase ch'esse percorrono a non inceppare ed anzi assecondare il comune
lavoro.

L'umanità bambina che, simile all'uomo di poco tempo, era incapace
d'un lavoro affatto speculativo, ma trovavasi tuttavia sotto il dominio
delle sensazioni, avendo col senso morale l'idea della virtù, ammirava
però maggiormente quelle doti di natura e di fortuna, per le quali
un uomo sugli altri aquista materiale e sensibile superiorità. Laonde
meglio che la mitezza era stimato il corraggio, meglio che il generoso
perdono la valorosa vendetta, più che la sublime lealtà dell'anima,
l'astuzia feconda di mezzi e ricca di successi, più che riverenza dei
diritti, il feroce sterminio e la prepotente conquista; più che la
castigata verecondia, la dissoluta e facile bellezza. Di tal maniera
di giudizio dell'antica umanità hassi pena più presto a sceverarne
le troppe prove che ad adunarle. Tutto ce lo insegna, dall'_Iliade_
d'Omero fino ai sontuosi monumenti alle ceneri di Pitionice, fino agli
incensi bruciati ad Alessandro, fino al divinizzamento dei Cesari.

Queste dottrine vellicanti le passioni, e così ben maritate agli
interessi, non potevano che condurre di ragione il mondo ad una general
corruzione di cuore e depravazione di mente, di cui la storia non ci
ripete il racconto dalla caduta della Romana Repubblica in poi.

Era ben logico e voluto dalla natura delle cose che là come dovunque,
il riparo ormeggiasse dappresso il male; e sorsero in allora le
dottrine a cui accennavamo; dottrine che lottavano colle passioni
corpo a corpo, e disputavano palmo a palmo il terreno agli interessi,
isolando l'uomo dal contagioso contatto dei suoi simili, livellando le
caste, staccando dalle perniciose ricchezze mezzi di feroce dispotismo,
e sforzandosi di spiritualizzare l'uomo degradato per corruzione fino
ai bruti tutta la sua vita concentrando nell'espiazione di un male
divenuto ormai sì radicale ed universo, che impotente affatto era
contro di lui l'opera dello individuo. Nulla di meglio infatti resta
a farsi al sano, frammezzo alli appestati, che trarsi in disparte fin
quando la scienza non ha ancor provvisto ai malati.

Quelle dottrine ci vennero dall'Oriente e più precisamente dalle Indie,
e dal loro istitutore si chiamarono Buddismo.

Nell'epoca in cui le leggi e le istituzioni dei bramini erano in
maggior forza, e s'erano diffuse in tutto il paese senza eccezione,
sorse dalla casta dei guerrieri, e dalla famiglia dei Sackija,
Gautarna, detto poi Budda, (lo suscitato) figlio di Re. Nacque egli
nel 628 avanti Cristo. Si unì, secondo il costume del paese, a tre
mogli; ma a 29 anni abbandonò padre, mogli ed un figlio, non che ogni
diritto di successione al trono, e si ritirò nel deserto per darsi
tutto a penitenza alla guisa dei Bramini. Rimase colà 6 anni e superò
nella rigidezza della vita tutti coloro. A 36 anni sorse a predicare, e
scorse fino agli 85 tutta l'India.

Educato nella solitudine dei deserti, alla meditazione ed alla
penitenza, dotato di sommi talenti, concepì l'ardito pensiero che il
Braminismo, d'assurdi ripieno, se forse bastava fino allora all'India,
non certo al resto del mondo. Primo nell'antichità superò i pregiudizi
della nazionalità, e concepì l'idea dell'universale rigenerazione del
mondo corrotto, e parlò di partecipare altrui il proprio bene.

Il Buddismo sorse circa nel tempo in cui la Giudea diveniva provincia
romana e con essa si eclissava la Mosaica religione.

«In quel tempo (dice Costantino Hofler nella _Storia universale_), si
nota nell'Oriente un sentimento di dolore e direi quasi di disperazione
come se la sua vita fosse finita».

Nell'India la predicazione di Budda addita al mondo la cagione di tal
disperazione nella nullità delle cose, e riduce lo scopo della vita
alla _distruzione di noi stessi_. — (A chè altro si riduce l'ascetica
cattolica dei nostri giorni?)

In massima le sue dottrine non differivano punto da quelle dei
Bramini; ma differivano in questo, doversi da tutti, senza distinzione,
raggiungere lo scopo della vita, come avendo egli pel primo superato i
pregiudizi di caste e di nazionalità.

Non occorrevano per Budda le divisioni di quelle (prima politica
braminiana), nè le opprimenti leggi ch'erano di quella politica i
naturali corollarii; tutti, senza eccezione, erano chiamati alla
cognizione della verità, a tutti libero quindi di togliersi al giogo
bramitico.

Egli poi, Budda, era stato dal Cielo mandato a segnarne la via.

«La vita è un sogno, dicea Budda. Quanto più l'uomo lavora colla
propria distruzione alla propria santificazione, e tanto più scioglie
il legame che tiene avvinto il mondo alla colpa.» — Notisi il desolante
ed antifilosofico concetto che il mondo sia fatalmente portato alla
colpa, quasi l'umano arbitrio, donde l'umana responsabilità, non
esistesse. — Senza questo concetto dominante sarebbe stato impossibile
chiamare l'uomo all'isolamento ed alla propria distruzione. Solo
l'universale corruzione dei tempi, la ferocia dei costumi, il
degradamento cui era scesa l'umana progenie, poteva ispirare una simile
filosofia. «Il matrimonio, dicea Budda, si tollera come un male ch'è
forza permettere; ma non dovrebbero esservi carnali relazioni, dovendo
il mondo al più presto finire. Tutto è inganno quaggiù; e se pur
qualche cosa v'ha che non sia mendace, quest'è ciò appunto di ritenere
tutto inganno, di liberarsi e staccarsi da tutto».

Budda si volse anzi tutto a quella parte del popolo indiano, che
la legislazione Bramitica lasciata aveva in completa miseria,
persuadendola a disertare la dottrina ed i costumi di quella per
abbracciare la sua, in cui solo era la via di salute. La condizione
di quel popolo era sì misera sotto i Bramini, che una dottrina sì
sconfortante fu riguardata siccome dottrina di libertà. I seguaci di
Budda non temevano la morte, da loro risguardata siccome liberatrice
dei mali. Esso li educava alla pazienza, alla mitezza, all'assoluta
abnegazione, a riguardar siccome ingiusta ogni distinzione sociale, ad
invitare tutti, senza eccezione di persona, alla redenzione per opera
di lui, ossia allo scioglimento finale della materia primitiva nel
nulla.

Le sue dottrine produssero gran sensazione in Oriente, e furono
nell'India argomento di gravi dissensioni; e malgrado le persecuzioni,
alle quali furono bersaglio allorché i Greci vi penetrarono col Magno
Alessandro, vi si tenevano salde, specialmente nel nord-ovest del
paese.

Certo le dottrine Buddistiche erano un gran passo in quei tempi
oltre misura materializzati e corrotti, ed ebbero appunto in quelle
condizioni la loro ragion d'essere; ma venne il Cristo ad aprire
all'umanità una nuova fase, ed allora principiarono ad essere spostate
e retrive.

Chiamati gli uomini ad amarsi ed a soccorrersi, iniziata la dottrina
della giustizia e del perdono, costituita l'umanità in una repubblica
di fratelli che altro _dottore_, altro _maestro_, altro _signore_
non riconosce che la verità predicata dal Cristo colla luce della
ragione, colla mite ma vittoriosa forza della persuasione; eguagliati i
doveri ed i diritti, chiamati tutti al lavoro ed alla cooperazione al
comun bene, proclamato ogni uomo al suo simile solidale col precetto
dell'amore e della diffusione; chiamato l'amico a dar per l'amico la
vita, ed a beneficare al nemico; udita, ammirata ed accolta questa
dottrina dal mondo, tenuta salda contro le lotte, uscita vittoriosa
da secolari battaglie, la vecchia dottrina dell'isolamento, e della
distruzione dell'uomo, non aveva più ragion d'essere ed era condannata
a perire. Dopo aver demolito era ben d'uopo riedificare.

Il risorgimento, la vita, la libertà, lo sviluppo di tutte le forze
morali, i collettivi conati delle masse verso il bene comune, ecco il
programma del Cristo, ed ecco la fase che ora percorre l'umanità.

L'amore universale, precetto _unico_ e _nuovo_, nel quale quella
dottrina si compendia, importa a natural conseguenza il compatimento,
la tolleranza, la vicendevole riverenza, e pone al bando dell'umanità
ogni dispotismo di fatto e di sistema, ogni autorità che si erge al
dissopra della forza delle cose, dell'unanime consenso, del generale
interesse.

Ora la cattolica ascetica, che tante forze isola e paralizza, che tante
intelligenze riduce a schiavitù, che tanti fervori raffredda, che tanti
nobili slanci raffrena, che tanti generosi entusiasmi riveste delle
grette forme del partito, che tante esistenze si tiene eternamente
oscillanti e dubitative sul grave problema d'un moto primo, d'un
estemporaneo escogitato, orbo di conseguenza perchè intimo, di un motto
oziosamente ed innavvertemente sfuggito, d'uno svagamento intempestivo
anche, ma tutto proprio della mobilità dell'organo pensante, tutto
questo sistema non vi par egli, ditelo voi, roba da bambini e
compassionevole miseria?

L'analisi sistemata è studio pericoloso se da grandi e leali
intelligenze non venga esercitato. La massa delle mediocrità,
impotente già per sè stessa ad accogliere in uno sguardo tutti i lati
d'un concetto, se per sovrappiù venga sistematicamente applicata ad
un dettaglio, non ne diverrà che sempre più gretta e microscopica.
Gl'interessi poi studiano il sofisma, le passioni cercano il cavillo,
il dispotismo s'allieta dello scisma, e lo spirito debole, tratto in
tortuoso e smarrito sentiero, sente più che mai il bisogno d'una guida,
alla quale è costretto affidarsi ad occhi bendati, sia che al bene
lo conduca ed al meglio, o sia che al peggio lo trascini, e nel suo
proprio male lo immerga.

Noi perciò vorressimo che la donna specialmente, che tanto è a
religione inchinevole, e che al sentimento di essa sinceramente e
sublimemente sposata può tanto bene produrre, la mente informata
ai lucidi precetti di quella, meno gretta ed analitica fosse nella
manifestazione di quel sentimento, meno oscillante, meno dubitativa nel
giudizio del bene e del male, del convenevole e dello sconvenevole;
vorremmo che dai chiari precetti della verità derivasse dei criterii
sicuri a giudicare più sanamente di sè, d'altrui e delle cose tutte;
vorremmo abborrisse da certi facili scandali, figli d'ignoranza e di
pregiudizio, da certe intolleranze che, violenti e feroci, vertono
sopra opinioni e riti, dottrine e cerimonie che finalmente non sono che
svariati modi di esprimere un unico ed universal sentimento.

Deplorevole cosa egli è questa, che cioè l'intolleranza più feroce, più
esclusiva si mostri presso chi di molta pietà fa special professione;
e non s'avveggono, codesti, che per essa più danneggiano la causa che
intendono servire. E ben se lo sapeva il Cristo quando, reduci i suoi
discepoli da Samaria e pregandolo dessi che implorasse fuoco dal cielo
su quelle genti, che la predicazione loro aveano spregiato, rispose
loro: _davvero; io non so da quale spirito siate condotti_.

Le religiose intolleranze in ogni tempo, in ogni popolo generarono i
danni più atroci, le guerre più sterminatrici, le passioni più violenti
che abbiano mai inferocito l'anima umana. Testimonii le babiloniche
barbarie contro gli Ebrei, gli sterminii di questi sopra i vicini
popoli incirconcisi, le secolari persecuzioni del gentilesimo sul
cristianesimo nell'Europa e nell'Asia, i sanguinosi scismi d'Oriente,
la cattolica inquisizione dell'Evo Medio, le guerre di Maometto,
le lotte dei Mori e della Spagna, le crudeltà che accompagnarono e
compirono lo scisma Anglicano, le stragi degli Ugonotti e di Zuinglio,
l'ostracismo dalla civil società degli Ebrei tuttora vigente in molti
Stati della civilissima Europa.

Che se l'intolleranza e l'esclusivismo, in sè stessi viziosi e maligni,
fanno deplorevole mostra di sè in uno Stato, in una casta, nel viril
sesso, come sendo la negazione d'ogni ragione, d'ogni filosofia,
d'ogni umanità; nella donna poi, per natura mite, misericordiosa e
diffusiva, son più che altrove mai spostati ed inopportuni. Tanto più
se trattasi di religiose credenze, le quali naturalmente suppongonsi
norma di costumi; come dovendo l'uomo per natura e per ragione essere
conseguente. Laonde se voi l'altrui religiosa convinzione spregiate,
voi stupirete altresì che gente di altra credenza, che non la vostra,
possa essere onesta e rispettabile; e questo giudizio è puerile, è
ingiusto, è falso, è superbo.

Lo esclusivismo di tre cagioni è lo effetto; o di suprema ignoranza,
o di massimo orgoglio, o d'interessi personali o di casta. La prima
ragione vi farebbe torto, le altre vi farebbero immorali; nell'un caso
e nell'altro il sentimento religioso sarebbe erroneo ed ippocrita,
sendo non già l'Ente Supremo l'oggetto del vostro culto, ma il
pregiudizio; non già la Divinità oggetto di vostra fede, ma pretesto di
passioni, strumento d'interessi.

Laonde, tutto il fin qui detto in poche parole riassumendo; il
culto che alla Divinità si debbe, vuol essere razionale, come sendo
il rapporto d'un ente ragionevole colla ragion suprema di tutto:
dignitoso, come lo esige riverenza dell'essere infinitamente superiore;
intimo, siccome trovando nello spirito la sua ragione, nel cuore
l'innato suo sentimento.

Sendo la religiosa credenza norma di costume, non può questa condurci
che alla carità dei nostri simili, che figli tutti d'un medesimo padre,
effetti d'una stessa causa, camminando tutti ad un unico fine, d'un
solo lavoro tutti incaricati, ad una stessa perfezione tutti vocati,
nell'onorar Dio tutti concordi, non havvi differenza fra noi che
d'espressione, come v'ha moltiplicità di linguaggi, varietà di costumi,
individualismo di caratteri, diversi gradi d'intelligenza, molte fasi
di civiltà, mille e mille combinazioni di luogo, di tempo, di persona,
di circostanze, che mutano, alterano, modificano o determinano in
mille sensi diversi, l'espressione di quest'unico, universale, innato
sentimento dell'umana natura.

Ma io vi parlava fin ora siccome a gente profondamente e sentitamente
religiosa, nulla supposizione fin qui facendo che taluna possa non
esserlo; e certo, troppo porto alta opinione dell'intelligenza vostra,
e della gentil conformazione del cuore, che in seno vi batte, per
supporre altrimenti. Ma in forza di quelle combinazioni, alle quali
accennavamo poco dianzi, non sarebbe impossibile che taluna fra voi
atea si credesse. E dicevo credesse, perchè fuori del natural corso
delle cose ella sarebbe, se lo fosse sostanzialmente. E come supremo
degli oltraggi si è il negare a taluno alcuno degli istinti o delle
potenze che il corpo umano esige ad esser perfetto e ben organizzato
nell'interne e nell'esterne sue parti, ed a tutte esercitare le sue
naturali funzioni; altrettanto e non minore insulto sarebbe il supporre
che a taluna di voi difetti questo nobilissimo fra i sentimenti; tanto
più che nella femminile natura ogni sentimento siede come in suo trono,
sendo la donna, in ogni fasi della sua vita, accompagnata, guidata,
sostenuta da quelli, per quelli capace d'ogni sacrificio, forte per
quelli nelle abnegazioni, vittoriosa nelle lotte, indomita nelle
difficoltà, d'ogni ardua impresa capace, perseverante nell'azione,
tanto che, ciò considerando, un filosofo ebbe a dirsi, che la donna
pensa, ragiona e decide col cuore, sentenza che, se per avventura un
cotal poco speciosa e non certo matematicamente esatta, non arriva
certo ad offenderci, per quanto poco caso sembra farsi della nostra
potenza intellettiva.

Ma posta per un istante questa ipotesi, che vi fosse un'atea fra voi
che mi leggete, io non farò che riportarvi ai semplici ed elementari
raziocinii che vi facevo negli esordii di questo capitolo, sendo la
verità religiosa di tal natura a non esigere lunghe disquisizioni, nè
raffinate teorie.

Aprite gli occhi e vedete succedersi da tanti secoli il giorno e la
notte, alternarsi con ordine eterno le stagioni, ripetersi senza fine
dalla stessa causa gli effetti stessi; studiate i diversi climi co'
loro diversi generi di vegetazione, colle diverse specie d'animali,
investigatene l'ordine e le ragioni; studiate le scienze esatte
coi loro infallibili assiomi: misurate nelle scienze speculative la
potenza d'astrazione dell'umana intelligenza procedente con ordine
invariabile di premessa in conseguenza e giunta con assiduo lavoro
all'attual civiltà; vedete nella storia la logica dei fatti, sempre
generati ed a lor volta generatori con ordine sì indeclinabile da
non essere impossibile la profezia; nelle arti estetiche cercate le
ragioni del bello, che tanto ci affascina lo spirito ed i sensi vellica
sì piacevolmente, e voi le troverete e le riprodurrete subordinando
l'azione vostra a regole ed a linee.

Se quest'opera permanente, logica, ordinata, ch'è la creazione colle
sue forze agenti sotto leggi invariabili, vi sembra lealmente l'opera
delle combinazioni, allora vi chiederò con La Bruyère che cos'è
l'ordine? che cos'è la regola? Qualunque ipotesi si faccia l'uomo per
giungere a spiegarsi questo fatto che è l'universo, tutte sono mille
volte più difficili a concepirsi dallo spirito, che quella assai più
semplice dell'esistenza d'una causa prima, intelligente e volente.

Egli è perciò che i progressi della ragione e delle scienze naturali
hanno screditato la scuola _atea_ e sulle rovine di quella nacque la
_razionalista_, la quale giunge per diversa via ad un egual meta.
Quella negava ridendo, e negava per sistema e per progetto; ed a
quella scuola viziosa per la sua maniera, immorale pel suo sistema
preconcetto, il mondo deve però la demolizione del Medio Evo. Ma
quell'abile demolitrice non valeva a nulla edificare, ed ella lasciava
l'umana ragione come una carta sulla quale nulla v'era di scritto;
ella dunque dovea finir di regnare, e moriva, lasciando a succeditrice
nell'opera della emancipazione della intelligenza umana, la scuola
razionalista, la quale cangiò il _Caso_ in Etere Cosmico, nella
necessità di dare alla vita universale una ragione sufficiente. Ma
essa pure ci conduce davanti a quel dilemma che ne accusa la debolezza.
L'Etere Cosmico, il fluido vitale dell'universo è desso intelligente e
volitivo? in questo caso siamo ancora una volta d'accordo; ma se non lo
è, e non lo può essere, allora questo fatto dell'intelligenza e della
volontà resta un'altra volta effetto senza causa, e la ragione si trova
in bocca un osso più duro da rosicchiare che non l'esistenza divina.

La scienza di tutti i tempi ha ammesso le ipotesi, e di quelle si serve
con una frequenza ed una fiducia ch'è talora eccessiva. In questo
problema solo, ch'è pure fra tutti vitale ed importantissimo, non
sarà lecito e logico fra le molte ipotesi delle diverse scuole quella
accettare, e ritenere, che soddisfa maggiormente alle esigenze della
ragione?

Conservando però profonda riconoscenza per tutti i sistemi che per
iscopo finale delle loro fatiche si proposero la libertà della mente,
noi propugniamo il principio religioso risultante dall'universale
coscienza, voluto dalla ragione, aiuto poderoso alla sociale
moralizzazione, donde il benessere universale.

È duopo dunque questo scopo si raggiunga, epperò, ciò che maggiormente
importa, ch'è di massima gravità e di vitale interesse, si è, che il
sentimento religioso si manifesti in voi in maniera che non degeneri
a vestir le forme dello spirito debole, della ragione inferma,
dell'esclusivismo orgoglioso, dell'inumana intolleranza.

Parlando Cristo colla donna di Samaria, questa gli diceva: «Tu sei
giudeo e come tale crederai che Dio debba adorarsi in Gerusalemme,
e non su quel monte ove l'adorarono i padri nostri» — (Notate che
l'intolleranza ed il pregiudizio erano tali, ch'ella non sapeva
figurarsi che un giudeo potesse transigere dall'esclusivo orgoglio del
tempio di Gerusalemme) — Ed egli rispose: «In verità ti dico, che verrà
un giorno che nè in Gerusalemme, nè in Garizim si adorerà Iddio, ma il
Padre avrà adoratori in ispirito e verità».

Due cose meravigliano in questa risposta e ne fanno, secondo noi, uno
dei punti più salienti di quella meravigliosa dottrina, per la quale
professiamo una sconfinata ammirazione.

Alla specie di sfida che gli getta la donna, attribuendogli come giudeo
tutti i pregiudizii della sua nazione, egli non risponde affatto e non
se ne chiama offeso, dando in ciò somma prova di tolleranza; abbraccia
quindi la forma della questione, e pone in un posto accessorio il
grave problema di località sollevato dalla donna come non essendo
vero culto, ma pura forma di culto, tutto chè con esterni atti si
esprime; formola finalmente, con una frase sublime, il culto vero,
dando ad ogni cosa il suo proprio carattere; chiama padre l'oggetto del
culto, ch'è quanto dire _Causa_ e _Provvidenza_, e richiama con ciò il
sentimento al quale la donna non pensava; chiama adorazione in ispirito
e verità quel culto razionale e sentito che dal cuore e dall'intelletto
partito non Garizim, o Gerusalemme, ma l'universo considera siccome
il tempio di Dio; e dalla sublime vôlta del Cielo fino al brulichìo
dell'esile verme, dai fecondi e scienti conati della ragione fino
all'umile fiorellino ignaro di sè (inconscio delle meraviglie che in sè
raccoglie); ovunque ode cantare le sue lodi, narrare i portenti della
sua benefica e paterna munificenza; ed i riti diversi delle genti, e
le più o men logiche cerimonie, con che l'uomo esprime il bisogno del
culto, considera siccome sfoghi di natura vuoti affatto di senso se
difettosi di sentimento, sempre forme e vesti, corpi e sostanza non
mai.

E veramente quel giorno preconizzato dal Cristo è giunto, e quelle sue
parole, allora incomprese, sono nel nostro secolo un aperto programma.

Lo ridestarsi dei popoli oppressi, la caduta imminente d'ogni
tirannide, l'affermazione di tutti i diritti, lo sollevarsi delle
caste, la coscienza dei doveri, il progresso dell'umanitarismo, la
emancipazione delle intelligenze, l'amplesso fraterno che lega gli
uomini d'ogni regione, la nausea del gratuito, il culto profondo
del vero, questi dogmi del nostro secolo hanno staccato l'uomo dalle
illusorie e speciose dottrine, dal culto della forza e dell'autorità,
dai vieti pregiudizii di caste, di nazionalità, di confessioni e lo
portano potentemente e fatalmente al vero, all'equo, al morale, alla
sintesi del divino concetto creativo, al culto in ispirito e verità.

Ed ecco il programma che deve la donna capire ed abbracciare e a
non inceppare il comune lavoro, a non disconoscere il concetto della
Provvidenza, a discostare egualmente e l'ipocrisia ed il pregiudizio,
che, emanati da diverse fonti, si accordano in questo; nel preferire la
forma all'ente, la corteccia al midollo.

«Non è egli il cibo men che la vita, ed il corpo da più che il
vestimento?» (S. MATTEO)

Nè chiamando la donna ad associarsi nell'adesione a cotali concetti,
intesi chiamarvela per solo entusiasmo dei tempi e perchè a lei si
compete eziandio l'assidersi con tutta l'umanità al desco fraterno che
la religione del Cristo apparecchiava a dirigere i voti inconsci, e
le aspirazioni indefinite e tormentose della umana filosofia. Mai no.
Mi rivolsi alla donna perchè, più dell'uomo inchinevole a religione,
più data a pietà, recandosi seco pregiudizio di pessima educazione la
forzata cecità della mente, fu e sarà sempre lo elemento nel quale
l'errore religioso sposato agli interessi di casta troverà il suo
naturale veicolo.

Mentre la donna ogni studio rivolge a dominare ogni più onesto
impulso di natura riguardando le passioni siccome nemici, anziché
siccome costituenti la potenza dell'essere morale; mentre s'affanna
a comprimere la innata sensibilità per sostituirvi quel glaciale
indifferentismo gesuitico che vince in ispudore le ciniche utopie;
mentre gl'interessi della patria, i reclami della civiltà, l'amore
del consorte, e la tenerezza dei figli pospone con eroica abnegazione
che il cuore le insanguina e l'anima le strazia e tutto sacrifica ed
immola sull'ara di quella spietata divinità, che s'imbriaca di sangue
e delle carni abbrustolite degli uomini fa al sozzo ventre delizioso
orrendo pasto; la donna al certo, nella cecità della sua mente,
nello entusiasmo della sua fede, crede che Dio esiga da lei tuttociò;
pensando forse aver egli tutte cose create e ab eterno assoggettate
con leggi fatali ad un ordine prestabilito per poi darsi il crudo e
scipito piacere di obbligarle tutte a camminare a ritroso di quello
impulso ch'egli stesso loro imprimeva. Ed ecco perciò miserevole e
frequente spettacolo vedere la donna vittima di quell'infernale sistema
ed insieme suo appoggio ed istrumento, consigliare e procurare nella
prole la stessa sua cecità, distogliere il consorte, e il fratello,
e l'amante dalla lotta generosa contro un principio, che il solo
trasnaturamento della ragione e del sentimento le fanno riguardar
siccome santo, e che tanto più deve incitare alla vendetta ogni
spirito generoso, in quanto che vile lavora nelle tenebre d'un morale
segreto, forte del sonno dello intelletto, che sopraffà, e del morale
sentimento che narcotizza, simile a Dalila, che sorrider dovea seco
stessa satanicamente ad ogni ciocca di capelli, che le vili forbici
sottraevano alla testa di Sansone dormente.

La donna così evirata di mente, dimentica tutta l'umanità per non
vedere che sè e Dio; il Dio del dispotismo, il Dio, che canna labile
dal capriccio d'ogni zeffiro agitata, appoggiando per sistema e
per natura ogni autorità costituita, china il supremo suo scettro
a salutare ogni sole che nasce, postergandosi continuamente il dì
che tramonta; il Dio che impotente davanti allo avvicendarsi delle
sconfitte e dei trionfi dei popoli e dei sistemi, viene ad arcano
parlamento con tutte le sovranità che si contrastano il bel paese,
oggi Franca, ieri Teutona, ed Ispana domani, e poi successivamente
Greca, Turca e Cosacca, e dei suoi lumi divini li irradia, siccome le
serve faci sfilano sui profanati lari le vinte popolazioni; il Dio che
spolvera i fulmini del Vaticano e controfirma le sentenze di morte ai
sovrani per la grazia di Dio; il Dio che scerne i Paria dalle nobili
caste; sdegna gli Iloti e predilige i forti e li avventurati; il Dio
che dei mali dell'uomo s'allieta, e suprema virtù ne esige di una
inerte rassegnazione, nè la lotta generosa gli permette contro un male
che può vincersi.

Questi è il Dio formidabile e capriccioso che gli uomini hanno
escogitato tutto simile a loro: troppo simile, perchè una ragione
vergine da errori preconcetti possa accettarlo seriamente.

Meno l'uomo è civilizzato e più il terrore agisce sulle sue fibre,
e più presta egli spontaneo e profondo il suo culto alla forza, si
manifesti pur essa colle forme dell'arbitrio, dell'ingiustizia e della
crudeltà. Forzato egli dalla ragione ad attribuire a Dio una potenza
assoluta, giudicandolo da sè non credette potesse Egli non abusarne,
donde filtrò nell'anima sua lo indicibile terrore di trovarsi inerme
nelle mani di un Onnipotente, giuoco de' suoi capricci da niuna legge
determinati.

Servi d'un Dio crudele e terribile, gli uomini si fanno a loro volta
feroci e sanguinarii. A placare la sdegnata deità Omerica, ecco sotto
la scure la vergine Polissena; le torve divinità di Cartagine trovano
voluttuoso orrendo pasto nelle morbide carni degli arsi bambini;
l'ebreo popolo a niuno perdona per onorar Dio, che punisce fin la
pietà; il religioso terrorismo dell'Evo Medio accende i roghi in tutta
la cristianità, il moderno consacra l'oppressione e vieta agli uomini
di togliersi ai mali che li premono.

Questo funesto errore contaminò tutti i popoli e tutte le religioni,
talché non puossi meglio questo culto che quello accagionarne; tutti
ne furono infetti, perchè nel tristo animo umano si giace ingenito il
selvatico istinto della tirannia.

Gli è perciò che, coll'animo perfettamente sgombro da passioni e
da ire contro caste, o sette, o sistemi, ferma sempre ai principii,
parlando alla donna d'ogni culto le dico; alza, se ti è possibile, la
tua ragione verso Dio, e non voler chinare Iddio fino a te; sforzati di
ormeggiare la sua bontà, e non trascinare lui ad appoggiar le tue ire
od i tuoi amori; ricordati ch'Egli, padre di tutti i viventi, se può
scegliere fra il giusto e lo ingiusto, non ha che una misura ed un peso
pel grande e pel piccolo — Tutto quaggiù è mutabile per lo impulso, che
Dio stesso imprimeva alla umana ragione. Chiamandola a progredire, egli
le comandava il moto e le rivoluzioni; cammini l'uomo al meglio, e non
tema; Dio è con lui, e le leggi scritte dal suo dito sono fatali.

Cadono e sorgono popoli ed imperi, fra loro contrastano i principi e le
genti, leggi e sistemi veggono la luce a tempo loro, regnano e muoiono;
grandi unità, unità colossali attraversano qua e colà l'orizzonte
della storia, segnandovi come luminose meteore una striscia di luce,
e frattanto Iddio vede dall'alto svolgersi il dramma umano, conta i
dolori e le gioie, compatisce agli errori, ed il suo sole sui buoni
fa risplendere e sui malvagi, la terra tutta del suo fervido raggio
rallegra, e tutti i viventi paternamente riscalda.

Imitiamolo, anziché imporre leggi alla sua giustizia, segnar confini
alla sua bontà e farci appo i nostri simili feroci zelatori di
interessi che gli supponiamo, od interpreti di passioni che son tutte
nostre.

L'amore unisce ed armonizza, il terrore divide ed uccide; la bontà
compra, seduce, trascina; lo esclusivismo discosta, irrita, reagisce;
la religione può far gli uomini nemici e può farli fratelli; tocca
alla nostra ragione ed al nostro cuore giudicare quale Iddio voglia di
questi due risultati, e quale dei due l'umanità conduca al benessere ed
alla perfettibilità.



LA DONNA E LA FAMIGLIA


Sendo questa mia fatica diretta all'utile insegnamento della femminil
gioventù, non sarà affatto inutile, cred'io, uno sguardo retrospettivo
onde disquisire, donde ci venga la famiglia, che cosa sia, in qual
modo s'è formata, qual parte vi tocchi alla donna di diritti e di
doveri, poiché la famiglia, siccome tutte l'altre istituzioni, si
modificò, seguendo le fasi descritte dalla civiltà e dall'intelligenza
umana. Laonde sarete già convinte, lettrici mie gentili, ch'io non
intendo farvi una poetica apologia della famiglia, ma una semplice
argomentazione sui rapporti ch'ella crea, seguendo l'ordine naturale
delle cose, nel quale il sentimento scaturisce dal vedere e dal
comprendere. E un tal sistema sembrami tanto più utile in quanto che
tutti coloro, che della donna scrissero, tutti ripeterono in coro e
fino alla nausea, che la donna sente più che non pensi, asserzione che,
per vero dire, mi è sempre sembrata un terribile assurdo, non potendosi
in buona logica nè amare, nè temere, nè riverire, nè odiare cosa,
della quale non si apprezzino i pregi, o non si vedano i pericoli,
non si riconosca la superiorità, o non si stimino i difetti; per cui
il sentire è per lo appunto l'effetto necessario del vedere e del
comprendere.

Oltre allo avere influito sulla famiglia il carattere dei tempi e delle
nazioni, si occuparono di lei, e ne moderarono lo sorti, le leggi e la
teologia, la timidezza ed i pregiudizii nella donna, il troppo facile
abuso della forza e l'arbitrio nell'uomo, la barbarie, gl'interessi
e le passioni. Grazie alla filosofia, la mente, nella sua piena
emancipazione, può oggi collocarsi ad un alto punto di veduta e portar
libero ed imparziale giudizio sul lavoro di tanti secoli.

È passato il tempo nel quale non la ragione, ma un'autorità qualunque
diceva all'uomo, maschio o femmina, giovine o vecchio, principe o
plebeo, è così perchè te lo dico io; e, dacché io te lo dico, non è,
e non può essere altrimenti. La Verità predicata oggidì, sotto forma
d'oracolo fa poca breccia; ed anzichè muoverne querela cogli uomini;
coi tempi e coi costumi, come avviene a certi spiriti, non puri per
avventura da segrete movenze d'interessi (i quali vorrebbero fosse
l'umano spirito di più facile accontentatura) parmi meglio d'assai
congratularsene coll'umanità negli interessi della Verità, che non mai
tanto fulgida emerge quanto dalla libera discussione, non altrimenti
che dallo atrito si sviluppa fosforica la scintilla.

Divise sono le opinioni, se la famiglia dalla natura ci venga e sia
originaria creazione di Dio, o se siasi svolta dalle umane istituzioni.
I primi uomini doveano propagarsi per tutta la faccia della terra,
epperò doveano scindersi continuamente le famiglie; laonde non altre
donne s'aveano che le prime che incontravano, costume, che oggidì
conservasi ancora presso diverse selvaggie tribù; e questo fatto
appoggia la seconda di quelle opinioni.

Comunque sia la origine di questo fatto, che ha ora innegabilmente
ricevuto la sanzione dei secoli, certo è ch'egli presenta alla
filosofia ed alla legislazione un quesito di grave importanza,
sendo essa la culla delle umane generazioni, il teatro delle prime
impressioni, la scuola ove ogni uomo s'inizia ai misteri della vita. La
famiglia è la umana società, ridotta ai minimi termini, è la formola
che la rappresenta completamente in tutti i suoi elementi. Non è che
sotto questa formola che voi potete definire la famiglia di tutti i
luoghi e di tutti i tempi.

La questione più importante, il problema morale e sociale, è che
cosa debba essere la famiglia, ed allora scaturiranno, come da ricca
sorgente, diritti e doveri, affetti ed aspirazioni, gioie e sacrificii,
ed apparirà colla sua serena e simpatica aureola quel quadro, innanzi
al quale niun cuore indifferente, niun ciglio imperterrito, niuna mente
arida d'idee, niuna memoria orba di soavissime reminiscenze.

Ma sgraziatamente ovunque si porti lo sguardo, o sulla famiglia dei
tempi andati o su quella dei presenti, ci è d'uopo confessare, che
quelle gioie, quegli affetti non sono che accidentali, e ben sovente la
famiglia in luogo d'essere il santuario degli affetti, è una cerchia di
ferro nella quale si combatte la lotta dell'oppresso e dell'opressore;
ove si svolge il tristissimo dramma della debolezza e dell'arbitrio,
dello slancio e della compressione, del sentimento e della
indifferenza. Ridotta a tale, la famiglia non è più che un'ironica
ipocrisia.

L'umanità non ha per anco generalmente ben compreso l'immenso vantaggio
che le deriverebbe dal ricostituire la famiglia, che neppur oggi
si può veramente dire tale, non essendo per anco affermate tutte
le personalità che la compongono, e non potendo queste svilupparsi
colla autonomia che natura loro concedeva, dovendo esse tutte pendere
dall'arbitrio di un solo.

Famiglia vera non può essere quella, nella quale havvi servo e padrone,
tirannia e schiavitù. Non sono questi i rapporti di famiglia! Essi
non sono finora riconosciuti ed applicati in niuna parte del mondo,
ed anche nelle più colte e gentili regioni della civilissima Europa,
certo non potrà dirsi abbia dessa raggiunto il suo ideale. Fino a
quando i diritti ed i doveri saranno dai codici distribuiti con più o
meno esorbitanti sproporzioni, fino a quando durerà nella famiglia la
forma monarchica, essa altro non sarà che una pura e semplice frazione
della società, nella quale il sentimento non è che accidentale, ed
assai compromesso da un dispotismo senza controllo, e da una dipendenza
scoraggiata dal non sentirsi tutelata.

Il matrimonio, chiamato a legalizzare l'opera dell'amore ed a porre
le basi della famiglia, dovea proteggere e propugnare gl'interessi
dell'umanità bambina contro la mobilità degli affetti, la foga delle
passioni, le seduzioni degli interessi; e tale sembra dovesse essere
in tutti i tempi. In quella vece, è forza dirlo, non fu questo che uno
sforzo di ragione e di civiltà. L'amor paterno non bastò sempre fra gli
uomini a garantire neppur l'esistenza ad un neonato.

Romolo dovette con leggi obbligare i Romani ad allevare i figli maschi
e le primogenite fra le figlie fino ai tre anni, confidando nello
sviluppo dell'affetto paterno, che sorgesse per quell'epoca a tutelare
quelle vite innocenti. Questa legge, tuttochè ben poco protettrice, non
si estendeva fino ai figli mostruosi e mal conformati, che il padre,
preso l'avviso di cinque suoi vicini, poteva sacrificare.

Le leggi Romane permettevano altresì al padre di vendere pubblicamente
i figli già adulti, tuttochè quel fiero popolo stimasse la schiavitù
peggior della morte.

In Grecia fino ai tempi della massima sua civiltà, il neonato si poneva
ai piedi del padre, e se questi noi rialzava o torceva la testa, la
debole creatura era condannata a perire.

Le leggi di Licurgo condannavano a morte tutti i neonati deformi.

I Cartaginesi sacrificavano i loro bambini gittandoli in ardenti
fornaci agli dei infernali, e riguardavasi questo atto snaturato,
siccome atto sommamente pio.

Per giudicare dei costumi ebraici riguardo alla prole, basta il leggere
nel libro dei Giudici. In esso troviamo che Jefte, partendo pel campo,
offrì in voto a Dio la persona che prima avrebbe incontrato ritornando
dalla pugna. La figlia sua, al grido della vittoria d'Israele, uscì
incontro al padre per festeggiarlo, Jefte sciolse il voto e la immolò.

Nella China sono i missionarii, e delle donne pietose, che percorrono
le campagne e le rive dei fiumi a salvare e raccogliere i bambini, che
genitori snaturati abbandonano per sbarazzarsene.

I Musulmani, tutti non avendo che concubine, non generano che servi
e come si trattino ognun lo sa. Al giorno d'oggi ancora, presso quasi
tutte le nazioni barbare, la vita del neonato non è appoggiata che ai
naturali sentimenti, che per lo più mancano affatto.

Negli Stati Unionisti d'America, al sud, mentre la legislazione, che
riguarda i bianchi, rivela l'opera di sublimi intelligenze informate
ad umanitarie dottrine, e sollecita si mostra di svolgere e maturare i
fecondi portati della libertà, quella, che riguarda la razza nera, non
riconosce di punto in bianco neppur la famiglia. Fra la lunga serie dei
patimenti inflitti, con qual giustizia lo sa Dio, a quella razza, che
per la rivoltante oppressione in cui geme è la macchia incancellabile
di quegli Stati e di quei legislatori, la quotidiana separazione
delle famiglie è certo uno di quelli che più sollevano ogni cuor
sensibile, ogni spirito non isprovisto della naturale equità. I figli
non appartengono ai genitori oltre l'esclusivo arbitrio del padrone
della madre, di cui sono l'assoluta proprietà in forza del noto assioma
legale _partus sequitur ventrem_.

Se l'inerme bambino fu così trattato, e lo è tuttavia, nè giungono
a fargli schermo le innocenti grazie dell'infanzia, che ammorbidir
dovrebbero i petti più feroci; l'enorme abuso della forza non appare
meno odioso e rivoltante nel modo con cui si trattò la donna che per la
fragilità della sua fibra e la timidezza dell'animo doveva naturalmente
esservi esposta. Abbastanza debole per potersi opprimere, abbastanza
forte per imporle le più improbe fatiche e la più penosa servitù,
vivendo con un essere rotto alle più brutali passioni, quale l'uomo
della natura, egli non poteva trovare una creatura più facilmente
tiranneggiabile, nè le passioni sue soddisfare se non togliendole ogni
autonomia, ogni luce d'intelligenza, ogni nozione del naturale diritto;
e sposando alla forza del muscolo l'orgoglio della mente, agglomerò sul
capo della sua compagna ogni vitupero, intrecciando sul suo gli allori;
caricò sulle spalle della donna la fatica e si tuffò negli ozii, impose
a lei tutti i doveri serbando a sè tutti i diritti.

Il matrimonio, anche ridotto ad istituzione religiosa, consacrò nelle
sue formole la violenza e lo invilimento della donna.

Quando la sposa non era rapita a forza come una preda od un bottino,
il cui legittimo possesso non era più contestabile, era mercanteggiata
e pagata come un oggetto qualunque. L'ultima cerimonia componente
il complicato rito nuziale presso i Romani era una finta violenza;
presso i Camiti (nell'Africa) il rapimento convenuto, ed il pagamento
stipulato, è una formola sacramentale. La formola del rapimento
trovasi anche presso gli Americani. Nell'Araucania il padre, che ha
accordata sua figlia in isposa, la spedisce con un incarico qualunque,
indicandole un cammino. Il marito, posto in agguato co' suoi amici, la
rapisce e la porta nella sua capanna.

Nelle vecchie Indie la donna non mangia mai col marito. Nella giovine
Oceania, a Noukahiva, alle Isole Washingthon, ecc, non solo non
mangiano le spose mai coi mariti, ma sono loro vietate per sovrappiù
molte vivande all'uomo solo permesse. Nella Nubia è crudelmente punita
se osa toccare la tazza o la pipa del marito. In tutto il regno di
Loango, durante il pranzo del marito, la donna si tiene in piedi
in disparte e non gli dirige la parola che genuflessa. In tutta la
Nigrizia le cure dell'allattamento, l'apparecchio degli alimenti e
dei liquori, le cure del focolare, la conservazione delle vesti, non
sono tenuti per nulla. Ella deve ancora coltivare il tabacco, estrarre
l'olio dalle palme, macinare il miglio, fornir la casa d'acqua e di
legna, eppoi, come null'altro avesse a fare, mentre il marito dorme
deve guardarlo dalle mosche. Durante le lunghe marcie, ogni peso, ogni
imbarazzo le tocca di pien diritto. I Gallas lasciano le loro donne
fendere penosamente la terra, lavorare, seminare, mietere, battere e
raccogliere il grano.

Lo stesso lavoro è rigorosamente imposto alla donna nel Congo, nella
Guinea, nella Senegambia, nel Benin, nel Bournou, nel Mataman, nella
Caffreria. Quel motto, _Ce n'est rien — c'est une femme qui se noie_, è
praticato dagli indiani con una bonomia men fina, ma più vera di quella
di Giovanni Lafontaine. Nelle improvvise innondazioni del Nilo, essi si
occupano dapprima dei loro armenti, poi dei bambini, quindi dei vecchi,
e finalmente, e dopo tutto, si ricordano delle donne.

Agli Stati Uniti, all'epoca in cui gli inviati dei popoli che comprano
ogni anno coi presenti la lor libertà, fanno ritorno ai nomadi
penati, una folla di piroscafi risalgono il fiume maestoso. Gli uomini
fumano pacificamente nel fondo delli schifi la loro pipa, e le donne,
oppresse dalla fatica, tirano le barche colle corde; e nelle ore di
sosta, stendono le reti e gli altri utensili da pesca, tagliano legna,
prendono cura dei bambini, e preparono il pranzo agli oziosi mariti e
li servono in tutto[9].

Attraverso le vergini foreste gemono dolori secolari. I dolori della
donna vi si moltiplicano più che le sue gravidanze, più che i peli
delle sue palpebre sì sovente bagnati di lagrime. — Presso i Mohawkse,
e generalmente nelle tribù dei cacciatori, la donna deve cercare
e portare come un cane la caccia fatta dal marito, che crederebbe
offendere la sua dignità caricandola sulle proprie spalle. Sia questa
un capriolo, un orso, un cinghiale, la donna, coll'aiuto delle sue
vicine soccombenti sotto il peso, lo trascina dalla foresta alla casa,
dove riposa pacifico il padrone. Il disprezzo per la donna è tale
che l'atto di emancipazione del figlio si constata sul volto o sul
dorso della madre. Il giorno in cui conta il suo quindicesimo anno,
deve insultarla e batterla. Presso altre nazioni la donna può essere
cambiata, venduta, permutata a piacere del marito, anche uccisa e
mangiata s'egli crede farne un buon piatto[10].

Eccettuata qualche tribù, in cui i Sakemi (_Sagamos_) aprono i loro
consigli alle matrone, l'oppressione della donna è consacrata da vecchi
costumi. Presso altre tribù, alla nascita d'un bambino, il marito
si corica come colpito da grande sventura. Il neonato e l'intiera
casa sono sottomessi ad una gran purificazione. Altrove, ai primi
sintomi di fecondità, la donna è condotta con lugubre cerimoniale al
mare, e durante il tragitto piovono sopra di lei l'arena ed il fango,
immondizie ed imprecazioni. E cotali costumi con poche varianti sono
comuni alle due Americhe[11]. La licenza dei costumi, e la libidine di
dominio, consacrano e mantengono attraverso ai secoli l'oppressione
della donna; ed il nostro secolo istesso è testimonio degli sforzi
ripetuti e talora infruttuosi, coi quali la invadente civilizzazione
tenta assottigliare quello scettro di cui l'uomo abusò tanto.

E che l'uomo più vicino alla natura sia il più dissoluto ed il più
tiranno, e che la schiavitù della donna sia voluta dalle sue brutte
passioni, tutta la storia dell'umanità lo prova, dal selvaggio, che
insegue la donna fuggitiva nei boschi e poi l'abbandona feconda, fino
all'orientale poligamia; dalla giovine donna dei Pampas (alla quale
chiedete chi sia il padre del bel bambino al quale dà il materno
alimento, e tutta ingenua vi risponde Chi può saperlo?) fino alle
migliaia di eunuchi che garantiscono le inserragliate dame d'Oriente
alla gelosia del Musulmano.

La Tracia, la Babilonia, la Fenicia, l'Armenia ritennero la donna
come cosa fiscale, epperò fu soggetta al servizio della prostituzione
pubblica prima d'esser venduta all'incanto ad un padrone che
dovea tenerle luogo di marito, a cui competeasi altresì il diritto
iniquissimo di rivenderla o di disfarsene colla morte. E questo sprezzo
rendea le Babilonesi refrattarie al nodo coniugale, fino a credere
insopportabile la fedeltà in amore, ed a dichiararla contraria alle
leggi della natura.

Gli Ebrei, quando erano sazii della moglie, le facevano bere l'acqua
della gelosia, consistente in una specie di ranno benedetto dal
sacerdote, da cui l'infelice rimanea gonfia e morta in un attimo. Era
poi per quei mariti motivo a ripudiarla l'aver cotta un po' soverchio
la carne. In Lidia, la donna non avea chè pretendere dal genitore, ed
era dannata a fornirsi la dote nel postribolo.

Nell'Asia, e specialmente nell'Indous, considerata al disotto d'un
mobile dacché nasce, anche oggidì si adusa alle catene, costringendone
i teneri piedi in calzari di ferro, onde inabilitarla alla comune
assuetudine di fuggir la tirannide maritale.

A tal uopo la notte la tengono incatenata siccome belva feroce presso
la casa. Quando invecchiasse durante il matrimonio, il marito la
strangola. Quando il marito muore prima di lei, dev'essere immolata
sul suo sepolcro, anche dalla mano del proprio genitore, ed in taluni
luoghi sepolta viva.

Presso i Parti era diritto dell'uomo vendere o disfarsi con la morte
della moglie; e questo diritto, era comune al figlio contro le proprie
sorelle.

In Egitto, i maschi non assumevano nessun incarico per l'alimento
dei genitori, di cui erano gli eredi, e questo peso dovea gravare
le diseredate donne, il cui adempimento avveniva col mercimonio
dissolutore del loro infelice personale.

Gli Arabi potevano uccidere le donne soverchie che nascevano in
famiglia.

I Germanesi e gli antichi Galli, le dichiaravano schiave dell'uomo;
laonde alla morte di lui le uccidevano sul suo sepolcro per andarlo
a servire all'altro mondo, come lo aveano servito vivente con improbe
fatiche.

Questo è vivo uso degli Arabi i quali, nell'inerzia delle loro tende,
confidano tutto il lavoro alla schiena della povera donna. Con cinque
colonnati, il padre nel deserto vende la sua figlia a colui che la
compera, non per avere uno spirito degno della sua affezione, ma per
tenersi una macchina confacente a suoi materiali interessi.

La Grecia e Roma, trasportando nella famiglia la dissolutezza
filosofica, credevano onorar Venere e le altre lascive deità pagane
colla prostituzione della donna, la quale, comperata come schiava, dopo
aver concepito figliuoli, poteva essere cacciata ed uccisa impunemente.

In Inghilterra la donna, con una corda al collo, poteva dal marito
esser condotta al mercato per vendersi.

Presso talune nazioni del Nord, le mogli sono schiave del marito;
appena, colà, la donna mette il piè nei 40 anni, cessa di essere la
madre di famiglia ed è sostituita da una moglie giovine.

In ogni paese del mondo infine, dominato da qualunque legge, comunque
la donna sembri apparentemente rispettata, pure quel rispetto non è
che nominale; la ignoranza le fa spesso subire le crudeli pressioni dei
deboli e la impotenza al vero bene cui è missionata.

Difatto presso i popoli che si reputano più civili, perchè influenzati
dal cristianesimo, benché veggasi appaiata all'uomo e non si torturi
colle neronerie antiche, come appo i pagani; pure, se si mira la
incapacità legale che si attribuisce alla donna, la nissuna comunione
al pensiero civile per cui non ha attinenze coi pubblici affari del
proprio paese, la privazione del sapere giudicata necessaria dai
preti corrotti per mantenerla cieca in un'ipocrita castità; se si
mira l'imperio maritale che, senza porvi nulla, le toglie anche il
conforto di perpetuare il proprio nome nei figliuoli, esclusivo frutto
delle sue viscere, e le usurpa il privilegio che la donna madre ha
sulla propria fattura, conservato anche dai Romani alla femmina delle
bestie coll'assioma sopracitato _partus sequitur ventrem_! e con
la forza brutale le impedisce la libera esplicazione del pensiero
dicendo proverbialmente, che le parole della donna sono il simbolo
della innettezza e non meritano ascolto[12]; se si mira dico a questa
incapacità fittizia, a queste opinioni vituperevoli, che pesano sulla
donna; ai mille riguardi, vuoti di senso, ma pur penosissimi ai quali
è sottoposta da costumi ancor semi-barbari; all'arbitrio del marito,
dal quale deve sempre pendere, mentre questi non crede dover darsi
alcuna briga di modificare sè od i suoi atti per gradirle menomamente;
alla reclusione lunga, ed alla perpetua tutela alla quale è soggetta,
così nella vita civile come nella famigliare, se si mira, ripeto,
a tuttociò, siamo costretti a confessare che pur troppo l'orgoglio
virile, e la forza muscolare, sono ancora in onore presso gli uomini, e
la sacra dottrina del diritto non è da essi apprezzata se non in quanto
favorisce agli esclusivi loro interessi.

Eppure dovrebbe la Società persuadersi che la donna (questa creatura
così intelligente, questo essere così sensibile, questo ultimo _fiat_
della potenza creatrice, questa opera divina, che riassumendo in sè
stessa inesauribili tesori di sentimento e d'affetto, ci si appalesa
nel sacro carattere materno la più vera immagine di Dio) non potrà
disvelare all'uomo tutti i reconditi pregi di che provvidenza l'ebbe
fornita, fino a che, abbrutita dalla materiale oppressione, scoraggiata
dal morale disprezzo, ignota a sè stessa, priva d'ogni autonomia,
giacerà siccome prezioso arnese di cui l'inesperto fanciullo ignori
l'uso, e si balocchi fra le mani, e pesti, e trascini, e frantumi
siccome cencio da strapazzo.

La donna abbandonata per diffetto di estimazione, per assenza completa
d'educazione, per incuria di costume ai suoi soli istinti, dà già
per vero alla famiglia tutta sè stessa, nulla da lei ricevendo,
fuorchè cure, legami ed umiliazioni; ed in questo stato di cose quale
spirito equo e generoso oserebbe alzare inumanamente la voce sui
difetti inseparabili dalla umana creatura non solo, ma altresì voluti
necessariamente dall'assenza di luce educatrice?

Oh datele dunque la coscienza di sè, si illumini sul principio da
cui parte, sul fine a cui cammina si affermi la sua personalità, si
sviluppi la sua morale autonomia, le si ridoni la stima a cui Dio
adornandola di tanti pregi le diede diritto; ed allora come l'umanità
l'avrà valida alleata nella via del progresso, lo individuo la troverà
soavissima compagna nella burrascosa mortale peregrinazione; e la
vivace e colta fantasia, e lo spirito gentile ed educato, e l'anima
ove s'annida innato ogni soave e pietoso affetto, lo faranno lieto di
quell'_aiuto convenevole_ che Dio intese dargli quando la plasmava.

Non ha ella già sofferto abbastanza in sessanta secoli d'oppressione
questa protomartire dell'umanità? E non è egli tempo che i legislatori
si vergognino di avere adunato sulle fronti delle loro madri tanto
vitupero, quanto ne agglomerarono colle loro brutali legislazioni?
Non è egli tempo che gli uomini ricambiino, con un po' di riverenza
e d'affetto, la tenerezza e le cure delle madri loro? La donna,
stringendo al petto l'uomo bambino, e nutrendolo dello stillato del suo
cervello, dovrà sempre allevarsi con tanto amore un nemico, un tiranno?

L'uomo sarà egli sempre il supremo arbitrato della famiglia, chiudendo
così a forza intorno a lui gli affetti della donna che nulla di meglio
cercano, che di espandersi a tutto circondarlo della tepida atmosfera
della benevolenza, e dello spontaneo e lieto sacrificio?

«V'è un angelo nella famiglia, scrive Giuseppe Mazzini, che rende con
una misteriosa influenza di grazie, di dolcezza e d'amore il compimento
dei doveri meno amari. Le sole gioie pure e non miste, che sia dato
all'uomo di goder sulla terra sono mercè quell'angiolo, le gioie
della famiglia. Chi non ha potuto, per fatalità di circostanze, vivere
sotto l'ali dell'angiolo la vita serena della famiglia, ha un'ombra
di mestizia stesa sull'anima, un vuoto che nulla riempie nel cuore;
ed io, che scrivo per voi queste pagine, io lo so. Benedite Iddio, che
creava quell'angiolo, o voi, che avete le gioie e le consolazioni della
famiglia! Non lo tenete in poco conto perchè vi sembri di poter trovare
altrove gioie più fervide, e consolazioni più rapide ai vostri dolori.
La famiglia ha in sè un elemento di bene raro a trovarsi altrove, la
durata. Gli affetti in essa si estendono intorno lenti, innavvertiti,
ma tenaci e durevoli siccome l'ellera intorno alla pianta; vi seguono
d'ora in ora, si immedesimano taciti colla vostra vita. Voi spesso non
li discernete, perchè fanno parte di voi, ma quando li perdete, sentite
come un non so che di intimo, di necessario al vivere vi mancasse. Voi
errate irrequieti e a disagio: potete ancora procacciarvi brevi gioie
e conforti, non il conforto supremo, la calma, la calma dell'onda del
lago, la calma del sonno della fiducia, che il bambino dorme sul seno
materno.

«L'angiolo della famiglia è la donna madre, sposa, sorella! La donna
è la carezza della vita, la soavità dell'affetto diffusa sulle sue
fatiche, un riflesso sull'individuo della provvidenza amorevole che
veglia sull'umanità. Sono in essa tesori di dolcezza consolatrice, che
bastano ad ammorzare qualunque dolore. Ed essa è per ciascun di noi la
iniziatrice dell'avvenire».

In questi concetti scaturiti da una gran mente e da un gran cuore,
voi leggete che cosa esser debba la donna nella famiglia secondo il
divino concetto; ma tale non potrà essere veramente che quando ella
sarà estimata e coltivata: se non quando l'educazione e la stima le
avranno data la coscienza di ciò che da lei esige la natura, che l'ha
con tanto studio elaborata. Ella non sarà l'angelo della famiglia e
dell'umanità se non quando e l'umanità e l'individuo la vorranno aver
tale, sacrificando all'interesse di tutte le generazioni la vanità del
dispotismo brutale, dello antifilosofico esclusivismo.

In quel giorno l'uomo sarà completamente civilizzato in cui,
riconoscendo l'autonomia della donna, porrà generoso un volontario
confine alle facili esorbitanze della forza; in quel giorno la
donna sarà tesoro alla famiglia, quando in soccorso delli istinti
pietosi, accorrerà la forza dei principii, scaturiti da una illuminata
educazione.

In quel giorno l'uomo sarà completamente civilizzato in cui, sancendo
l'ultima libertà della donna, porrà volontario freno alle sue passioni:
in quel giorno egli meriterà l'amore della donna quando avrà finito
di esigerlo come una gabella; in quel giorno egli coprirà d'infamia
la donna infedele quando a sè stesso imporrà, per la stessa colpa,
le conseguenze istesse. Fino a quel giorno il marito, la cui moglie é
infedele, sarà ridicolo.

Tutto il fin qui detto che potrebbe per avventura sembrare alle mie
giovani lettrici una inutile digressione, a me non sembrò tale, volendo
io, se mi è possibile, levare dallo spirito vostro il pregiudizio, così
facile ad un giovine criterio, che tutte le vigenti istituzioni siano
buone; la qual persuasione, meschini noi se tutta l'umanità dividesse,
chè la vedressimo in allora arrestare la precipitosa sua corsa in
uno dei punti i più intricati del suo morale cammino. Giova non solo,
ma è necessario che tutti sappiamo ciò, che si fece, che si fa e che
resta a farsi, onde dal passato prender norma nel preparare il futuro,
nell'altrui interesse non solo, ma nel vostro altresì.

La donna è, nella società e nella famiglia, tanto più utile quanto
più è affermata la sua morale autonomia, quanto più le è concesso
d'individualismo, quanto più è colta di spirito: e tanto più
inchinevole agli affetti, quanto meno l'atmosfera che respira è
agghiacciata dalle fredde esalazioni dei diritti e dei doveri legali.

Ora, in tutta la serie da noi citata dei costumi più o meno selvaggi,
certo noi non abbiamo riscontrata la famiglia, co' suoi affetti, co'
suoi legami più dal sentimento voluti, che non esatti dalla forza
delle leggi. Tutti i costumi da noi fin qui percorsi, non ci parlano
che della patria e della marital potestà, d'una monarchia insomma,
nella quale i doveri dei sudditi si riducono a sforzarsi di piacere al
despota, e i diritti di questo a volgere al miglior utile proprio le
persone, che da lui dipendono, e l'opera loro.

Certo i costumi dei popoli d'occidente sono ben lungi da quelle
esorbitanze, che troviamo presso le selvagge nazioni ed in tutta
l'antichità, ma sono egualmente ben lungi dallo effettuare fra
l'uomo e la donna quella eguaglianza di diritti, che sola può dare
ai loro rapporti quella soavità di relazione, che stabilisce la mutua
confidenza e la reciproca fiducia.

Nè si dica che la perfetta eguaglianza di diritti e di doveri,
fra l'uomo e la donna, introdurrebbe il disordine, l'incoerenza e
l'anarchia fra le domestiche pareti. Viete scuse son queste che poca
riflessione sulla natura delle cose non permette di porre seriamente
innanzi. Se al governo della famiglia preponeste due elementi
perfettamente simili, la rivalità e la discordia ne sarebbero l'effetto
immediato, ma la natura ha già provvisto innanzi che noi la temessimo a
cotale sconvenienza.

Non tenuto conto di più o meno numerose eccezioni, le quali in ogni
modo si fanno strada, ad onta d'ogni forza compressiva, l'uomo e la
donna sono fra loro costantemente dissimili benché attraentisi. Sebbene
l'uno e l'altra constino di eguali facoltà e delle stesse passioni, è
però un fatto che le diverse proporzioni, colle quali e queste e quelle
si trovano nell'uno e nell'altro, costituiscono di ciascun d'essi un
tutto complessivo da non poter confondersi o tôrsi in abbaglio.

Abbiano pure le leggi emancipata la donna, la sua voce delicata non
sembrerà mai fatta per garrire; le sue lunghe palpebre la difenderanno
sempre dallo sguardo procace; lo improvviso rossor della guancia
rivelerà sempre la verecondia dell'animo; le sue membra delicate le
predicheranno sempre l'odio alla lotta, ed il suo cuore scialaquatore
d'affetti, sarà pur sempre quella stoffa, della quale natura ebbe
tessuto lo eroismo dell'amore e la tenerezza materna.

Allora sarà la famiglia, quando ogni individuo di essa svolgerà nel
suo interno, siccome pianta nel proprio clima la propria vita morale,
il proprio individualismo trovandosi di fronte a modificarne gli
svolgimenti, non il diritto, non l'interesse, non la volontà d'un
monarca, ma la ragione sola e l'affetto.

Allora sarà la famiglia, quando l'uomo e la donna amendue forti della
coscienza di sè, dei destini dell'umanità e dei doveri dell'individuo,
ambi concorreranno colla più lata applicazione delle loro facoltà
all'educazione dei loro nati, rispettando in essi la vegnente
generazione, ed ogni via procurando ad ottenerne il più pronto morale
sviluppo.

Allora sarà la famiglia, quando, sparite dall'un canto le intolleranti
insubbordinazioni, dall'altro le sistemate compressioni, non sia
il giovine elemento in perpetua lotta col vecchio insofferente di
consiglio e di freno, e quello a sua volta tenacemente despota e
tiranno, immemore del tempo in cui lo tormentavano la stessa foga e le
passioni istesse; talché veggonsi non di rado famiglie, che altro non
sono, siccome dicevamo dapprincipio, che semplici frazioni del corpo
sociale, presentare nelle loro viscere le crisi che sotto le monarchie
presentano le nazioni, che, dopo secoli d'intestino travaglio, si
distruggono e si esauriscono finalmente in una funesta anarchia.

Ma dicevamo fin dal principio di questo lavoro, e lo prova tutta la
storia, che essendo le leggi le necessarie scaturigini di prepotenti
bisogni, e camminando desse sull'orme segnate dallo sviluppo dei
popoli, è d'uopo questo si pronunci arditamente ed efficacemente.
Ora a voi tocca, giovani lettrici mie, a persuadervi di cotal vostro
interesse non solo, ma dovere. Quand'anche voi che mi leggete, per
circostanze che non son troppo comuni, vi trovaste avviluppate in
un'atmosfera d'affetti e di gioie che la vita vi tesse di rose e di
perle; avete pur sempre dei doveri a compiere, dei doveri sociali, dei
doveri da cui non può dispensarvi la condizione nella quale vi trovate,
qualunque ella sia. Giovani, vi corre dovere di educarvi; spose, dovete
amare; madri, vi dovete alla prole; cittadine, vi dovete alla patria;
individuo, vi dovete alla società; creature, vi dovete alla religione;
intelligenti, vi dovete al sapere; sensibili, vi dovete al bene, sotto
qualunque forma vi si presenti. A voi tocca provare che si è in voi
ridesta la coscienza del diritto, mostrando la piena coscienza del
dovere, e che l'affermazione di quello meritate coll'adempimento di
questo.

Ogni bene, giova qui ripeterlo, ogni bene quaggiù dev'essere
conquistato. La ricchezza è il prodotto del lavoro, la vittoria è il
premio del valore, la virtù scaturisce dallo sforzo, la gloria è la
corona del sacrificio, la libertà è figlia del sangue, il sapere è
generato dallo studio, ed il diritto si conquista compiendo il dovere.
Ora adempite al dovere di sviluppare, educare ed applicare nel più
lato campo le vostre facoltà, e voi affermerete in un colla vostra
potenza morale il diritto di esercitarla, e l'utile sarà non vostro
soltanto, ma di tutta altresì l'umanità, della quale siete importante
ed indispensabile elemento.

Mostrandovi la famiglia siccome portato della civiltà, intesi provarvi
la necessità ed il dovere che ci incombe di perfezionarla e la potenza
che sta in noi di farlo, forti, come siamo, di ragione e di affetto.

Il materno ministero sublimato dal dovere e santificato dall'affetto, è
una potenza sul quale la donna fece quasi sempre ben poco assegnamento.

La natura doveva dare al cuor della donna madre questa meravigliosa
potenza d'affetto, del quale non riscontrasi nell'ordine di creazione
altro esempio, avendo ad essa affidato la conservazione della
specie bambina ed avendola incaricata del penoso e lungo ministero
dell'allevamento. E veramente il dono della natura corrispose all'uopo.
Il cuor della madre è il solo sul quale far si possa in ogni punto
della vita, assegnamento. È il solo che più dà, e meno esige; che più
è gaudente quanto più si sagrifica; che più ama, quanto più soffre; che
non si esaurisce per tempo, che non si raffredda per indifferenza, che
non si ributta per ingratitudine. Ogni altro affetto, per quanto puro
e sublime, ha un punto interessato ed egoista, il solo amor materno non
ha ritorno sopra sè stesso.

Rimanga pur sola ed abbandonata la madre; ella segue il suo nato
con l'occhio intento e l'ansio affetto nei vortici turbinosi
dell'esistenza, pronta ad accorrere in suo soccorso, a dirigerlo col
consiglio, a consolarlo nelle delusioni, e ravvivarlo nelle speranze, a
vegliarlo sofferente, a medicarlo malato, ad incuorarlo nelle difficili
prove della vita; come testè avviava i suoi primi passi, gl'insegnava
ad articolare le prime voci, calmava i suoi primi vagiti, asciugava le
sue prime lagrime.

Questa durata della materna tenerezza ci prova, che il ministero suo
non è compito collo sviluppo fisico dell'uomo, ma non fa che passare
dalle prime materiali cure, alle morali e più serie sollecitudini
volute dall'età più adulta. Son ben poche, la Dio mercè, le madri che
vengono meno ai primi ufficii che richieggonsi dalla prole bambina
la maggior parte trascendono anzi nel tormentarsi enormemente d'ogni
maluccio la incoglie esagerandosene sotto ogni aspetto la gravità e le
conseguenze. Per tutto il mondo non vorrebbero vedere i loro bambini
buttare una lagrima, e ad ogni pena ed incomodo si sottopongono anzichè
contrariarli in checchessia. Cieche affatto davanti ai sintomi forieri
di nascenti passioni propendono cordialmente nel battezzare col nome
di sensibilità, di spirito, di fermezza, d'ingegno, l'impeto, il
capriccio, la cocciutaggine, l'impertinenza.

Ma se queste viziature della tenerezza materna sono per avventura
scusabili nella tenerissima età della prole, nella quale l'affetto che
le si porta conserva un talchè di così vivace e quasi direi sensuale,
e la piccolezza e la delicatezza del bambino ci ammorbidisce il
cuore così da renderci penosissimo il difendercene; non è egualmente
perdonabile che duri, quando uscito dalla puerizia l'uomo si avvia alla
vita morale, per la quale può rendersi funesto nello ingigantire, il
menomo diffetto.

Perlochè di mano in mano che la prole va uscendo dall'infanzia il
cieco e sensuale istinto materno deve dar luogo ad un intenso morale
sentimento, e dappoichè il suo corpo è rinfrancato e la esistenza
sua garantita dal vigor delle membra, deve volgersi ad informarne la
mente ed il cuore con ogni sua potenza, e sollecitamente. Sì, la madre
dell'uomo deve far molto di più di ciò che fanno le madri nelle altre
specie animali onde soddisfare alla missione impostale. Dotata di
intelligenza vivace e di squisito sentire, fornita di un prontissimo
intuito ad afferrare i rapporti delle cose; conoscendo sola il tronco
linguaggio dell'infanzia e potendo sola farsene comprendere, in forza
di una misteriosa corrente vitale che continuamente circola fra lei
ed il frutto delle sue viscere; che tanto tempo vive della sua vita,
s'apprende de' suoi timori, delle sue gioie esulta, e succhia dal
suo stillato il modificato della sua vita; conoscendo sola le mille
circostanze che possono avere in lui determinato un dato temperamento
donde date tendenze; avendo essa più ch'altri mai vivissimo interesse
che la fattura sua volga al bene ed al meglio; avendo ella prima
ch'ogni altro diritto d'innorgoglire de' suoi successi e di desolarsi
d'ogni suo errore, come mai potrebbe dessa e da chi, farsi con frutto
surrogare?

Laonde importa ch'ella vigili attentamente i forieri sintomi
delle passioni onde volgerle al bene, siccome i primi bagliori
dell'intelligenza ad avviarlo ai primi criterii.

Le membra del bambino, le diverse parti del suo corpo, oggetti ch'egli
pei primi avverte e dei quali si occupa sendogli i più vicini, siano le
prime nozioni che dalla madre riceva, coi vocaboli che li determinano,
e le rispettive loro funzioni.

Da questi, seguendo l'uso naturale delle cose, si volga agli oggetti
tutti che gli vengono di mano in mano a portata coll'ordine stesso
della natura senza nulla forzare, nulla violentare. L'uomo è così
fatto che fin da quando coi primi vagiti chiede l'alimento del seno,
soddisfatto appena questo imperativo bisogno immediatamente si volge
a studiare il mondo che lo circonda; e cominciando dallo spiegarsi
dinnanzi le sue dita, sorride ai loro movimenti e si addestra a
muoverli e ad usarle. Indi si volge agli oggetti che si ha a portata,
li palpa, li agita, ma non avendo le sue manine ancora nozioni alcuna
delle diverse sensazioni tattili a determinarsi la natura loro, e non
avendosi che il palato che pel fatto della nutrizione ha già acquistato
nozione della propria funzione, mette ogni cosa a contatto di quello
per respingerlo quindi se il palato non lo approva, o tenerselo caro
se avvien che lo gusti. La luce è pur essa continua attrattativa al
bambino sendo che è fenomeno che colpisce la sua tenera retina tutta
nuova a cotal sensazione, talchè veggiamo nei bambini prodursi sovente
lo strabismo per la loro insistenza e guardarla in onta alla difficoltà
che a ciò fare risentano dalla situazione laterale in cui è posta da
madri o nutrici poco accorte.

Famigliarizzato colla vista degli oggetti che lo circondano, il bambino
non si chiama soddisfatto; di raro anzi avverrà che si possa due volte
cessarlo dal pianto col medesimo oggetto. La sua insaziabile curiosità
cerca sempre il nuovo, e co' suoi movimenti, e co' suoi ripetuti
sguardi, e colla velleità frequenti del pianto, e colla irrequietezza
che lo tormentano, accenna continuamente ad un nuovo pascolo di cui i
suoi occhi ed il suo spirito hanno bisogno.

Egli vuol provare una dopo l'altra tutte le sensazioni, e dopo aver
esaminato l'oggetto ed accontentata la facoltà visiva, lo batte
ripetutamente sul suolo o contro un corpo duro, ed attento gusta del
suono e se ne diletta e compiace, indi lo scompiscia fra le mani, lo
applica al palato, se lo pone sotto i piedi, e lo studia insomma, lo
investiga, lo esperimenta con tutti i mezzi che sono da lui conosciuti,
con tutti gli strumenti che nei sensi gli ha natura forniti.

Ed ecco i procedimenti delle natura. Partire dal noto per disquisire
l'ignoto, dalla parte per arrivare al tutto, dal visibile per dedurne
lo invisibile, dal concreto per derivarne lo astratto, dalla analisi
onde fare con perfetta coscienza la sintesi.

Tutte le astrazioni che vediamo al bambino insegnarsi nei nostri
imperfettissimi sistemi d'istruzione non sono che un magazzino di
vocaboli orbi per lui di relativa idea, che la sua memoria è forzata
d'accatastare, e ritenere, e che ad onta d'ogni sforzo s'affretta di
sgombrarne, per lasciare il posto di naturale diritto alle idee che vi
entrano pel tramite possente delle sensazioni. Le porte dello spirito
sono i sensi, tutto ciò che vi entra d'altra parte arrischia forte di
non farvi lunga dimora.

Non è egli deplorevole che un fanciullo italiano conosca tutte le
diramazioni del Rio della Plata, e tutte le campagne da lui irrigate,
ne conosca tutti i tortuosi giri e dove è confluente, e dove mette
foce, eppoi ignori, quali acque bagnino la sua città natale?

Non è egli risibile ch'egli discuta le leggi di Licurgo, e le Dodici
Tavole, eppoi non sappia da quali istituzioni è più o meno tutelata la
sua persona e la sua proprietà? Non è egli fuor di ragione ch'egli vi
parli della guerra dei Titani nella greca genesi e conosca i più minuti
particolari dell'assedio di Troja, eppo sia completamente straniero ai
sanguinosi rivolgimenti che svolsero la libertà italiana, e le generose
aspirazioni non rivolga al compimento dei patrii destini, e l'omaggio
riconoscente e giusto, non serbi alle migliaia di martiri che sul
campo, come dai patiboli, dalle prigioni e dall'esiglio fecondarono i
semi della filosofia e prepararono l'attual civiltà?

Studii adunque la madre l'ordine dalla natura stessa insegnato
nel progressivo sviluppo della intelligenza, vigili attenta,
sorprenda sollecita, ed assecondi assidua la curiosità del bambino
incessantemente provocata dalli esterni oggetti, non si rifiuti giammai
di soddisfare alla lunga serie dei _perchè_ così provvidamente abituali
nella infanzia, e scaturendo le idee dalle sensazioni le ponga alla
portata del tenero intelletto non ancora maturo alle ontologiche
astrazioni.

Certo che dovendo la madre continuare il più tardi possibile
l'educazione del figlio, deve ella stessa prepararsi al difficile
ministero colla coltura dello spirito, la elevazione della mente, e
la morale abnegazione che la diverta completamente da ogni frivolezza
e tutte rivolga le sue facoltà al serio compito di formare l'uomo. —
Egli è perciò che fin dal principio di questo lavoro dicevamo che se
il solo istinto materno basta al disimpegno delle materiali cure per
quanto assidue e penose, che esige lo allevamento dell'uomo animale,
non bastano certo per la educazione dell'uomo morale ed intellettuale.
Occorre ed urge, e seriamente urge che la donna si convinca di questa
verità onde più non avvenga siccome finora accadde che impegnandosi
nel grave assunto della madre di famiglia, non creda puramente e
semplicemente di porsi nella naturale condizione di tutti gli esseri
che natura indistintamente chiama alla generazione, e di farsi una
posizione sociale, ed assumere un nome col quale è presentata al mondo
e consegnata ai pubblici registri. No, tutte le generazioni passano
per le mani della donna, la quale trovasi con esse tutte in rapporto
di causa ed effetto. Dalle fiere donne di Sparta nacquero i più grandi
eroi della indipendenza, dalle altiere matrone di Roma nacquero i
conquistatori del mondo, dalle mollissime ed abrutite donne d'Oriente
nascono gli effemminati e retrivi musulmani, e dovunque e sempre, lo
stato morale della donna è il termometro che segna esattamente i gradi
della civiltà, della coltura, del carattere morale dei popoli e dei
tempi.

Gli è in vista di ciò, e ad arte ch'io ho parlato del materno
ministero prima che del matrimonio, fatto che deve pur precedere quelle
funzioni; e perchè non ignara, non astratta, non indifferente ella
deve incontrare quel nodo che di tanto peso la grava, di sì importante
missione, e di sì grave responsabilità.

La scelta d'uno sposo è per la donna question capitale, e resa
vieppiù capitale dalle nostre imperfette istituzioni che assoggettando
assolutamente in tutto e sempre la sposa al capriccioso arbitrio del
marito, il quale assume sopra di lei un autorità senza limiti e senza
controllo; ne assorbe affatto l'autonomia, come la copre col suo
nome, e la nasconde dietro la sua personalità. In questa condizione di
cose, se una illuminata educazione, se la coscienza del giusto e del
vero, dei diritti e dei doveri non ha creato nella donna un carattere
morale, ella si troverà ben presto ridotta ad essere relativo, che
continuamente si modifica, ed elasticamente si piega a tutte le morali
situazioni create incessantemente intorno a lei da quell'essere che
pensa, parla, ed agisce per lei, che l'assorbe nella sua vita, che ne'
suoi rivolgimenti l'alza o l'abbassa, l'arresta o la trascina come il
corpo fa dell'ombra sua, che affatto la scancella infine dal numero
delle unità.

E tale infallibilmente dev'essere la donna quando non è saldamente
informata ai principii, e così vien trattata da qualunque uomo il
quale trovi l'innato orgoglio legalizzato ed appoggiato dal valido
puntello di istituzioni fatte _da lui_ e _per lui_, e nelle quali egli,
ben lungi dal considerare la donna dietro i principii del naturale
diritto, non la guardò tutt'al più che come una creatura dalla debole
fibra, alla quale concedeva un protettorato, e s'applaudiva altresì di
trovarsi cotanto generoso.

Eppure alla vista di sì miserrime condizioni serbate alla donna
sposa, condizioni che non possono modificarsi che davanti a quella
fortissima, gigante divoratrice potenza che è l'amore, la quale
ridendosi dell'uomo, de' suoi codici, del suo orgoglio, del suo geloso
esclusivismo, lo soggioga, lo vince, lo abbatte, lo fa vittima dei suoi
stessi desiderii, e servo della sua medesima forza, epperò schiavo
della donna, lo riduce a cercare ogni arte a gradirle, a tentare
ogni impresa a piacerle, a smettere ogni atteggiamento da padrone per
addottare gli atti ed il linguaggio del supplichevole; davanti a questo
fatto, dico, reso ancor più significativo dal contrasto delle nostre
istituzioni, il quale ammonisce la donna sulla natura de' suoi veri
interessi, e dovrebbe solo determinarla, che cosa fa dessa per lo più,
in cose di tanto momento che tutta la riguarda, e sola, e per tutta la
vita? Che fa? Mi sia concesso il dirlo usando d'una comunissima frase
giornalistica. Ella brilla per la sua assenza. Uditelo voi stesse della
mordace, ma pur veridica penna dell'immortale Parini

    «_Non di costume somiglianza or guida_
    «_Gl'incauti sposi al talamo bramato,_
    «_Ma la prudenza coi canuti padri_
    «_Siede librando il molt'oro e i divini_
    «_Antiquissimi sangui, e allor che l'uno_
    «_Bene all'altro risponde, ecco Imeneo_
    «_Scoter sua face; e unirsi al_ freddo sposo
    «Di lui non già _ma delle nozze_ amante
    «_La freddissima vergine che in core_
    «_Già volge i riti del bel mondo, e lieta_
    «_L'indifferenza maritale affronta_».

Come se le istituzioni che tanto gravano sulla donna non bastassero,
concorrono a ciò fare anche i costumi che non saprei donde trassero
l'origine, e con quali dottrine giustifichino le loro modalità, e
tutto così cospira a spingere la donna indifferente e sovente lieta a
quel legame per lei così penoso che la natura sola colla invincibile
prepotenza dell'amore dovrebbe forzarla ad accettare. Infatti non
saprei perchè, la femminil gioventù debba essere dannata alla perpetua
reclusione del convento o del gineceo; perchè nell'educazione che le
si imparte altro non si procuri che la sua morale evirazione; perchè
sottomessa ai più minuti capricci dei parenti, come più tardi lo è a
quelli del consorte, nulla si trascuri per distruggere e nichilare la
sua autonomia, per cancellare in lei ogni personalità. E questa nullità
morale perdura al di là del termine della minorità legale, ed innoltra
costante fino a che pare e piace allo incontrollabile arbitrio dei
parenti.

Ottenuta finalmente, come non è a dubitarsene, questa morale nichilità,
allora si persuadono i parenti, averla perfettamente educata, ed
assumendo allora la direzione assoluta dei movimenti della natura non
consultandola in nulla, ma forzandola sempre, si vuol tuttodì intenta
ai lavori d'Aracne quando vorrebbe consegnare alle carte i prodotti
dello innato ingegno; la si spinge al misticismo, mentre ebbe da natura
sortito lucido intelletto che dal gretto, dallo specioso, dal gratuito
rifugge; le si pone fra mani uno spartito musicale quando l'occhio
suo delira dietro alla sublime armonia della natura e freme in cuor
suo di ricopiarla, oppure si sforza e colorire, al che natura non la
sortiva, mentre tutta pende affascinata dalla magica arte dei suoni
che le vengono vietati; e così mano mano si prepara a sagrificare gli
affetti agli interessi, a impor silenzio alla natura per le convenienze
sociali, a farsi insomma pieghevole, elastica, non altri principii
avendo che le opinioni di chi le sta sopra con tanta prepotenza, non
altra credenza che quella de' suoi parenti, non altra autorità che la
loro, non altra coscienza che l'opinione pubblica, non altra legge
che il capriccio del forte, non altri principii, che una perpetua
condiscendenza alla necessità, non altra personalità che il nome
proprio, non altra vita che la vegetativa. — E così si soffocano a
migliaia ed a milioni le anime, e così si educano le schiave dell'uomo,
all'accettazione completa della loro schiavitù, al profondo sentimento
della propria nullità, ed al culto supremo della forza. — E tali sono
le madri che si preparano alle generazioni illuminate, ai popoli liberi
e civili!

Nè si dica qui, per avventura, che se la donna avesse veramente
prepotenza di genio, ella riuscirebbe a spezzare i vincoli che da
tutte parti la annodano, a sollevare la pietra sepolcrale che la
segrega della vita morale, a sbarazzarsi di quel sudario ove si tenta
travolgere la sua anima incadaverita; e mi sussurrate di Spartaco e
Masaniello, di Colombo e di Galilei, e della lunga serie dei martiri
d'una idea, che sfidarono soli i numerosi campioni dell'errore e della
tirannide da Davide fino a Socrate, dal primo Bruto fino ad Epicaride,
fino al Savonarola, fino a Cola da Rienzo, ad Arnaldo da Brescia,
agli eroi della greca indipendenza; fino ai fratelli Bandiera, fino al
povero Sciesa, ed al piccolo Balilla; e vorreste con ciò dirmi, che la
coscienza del diritto, la potenza del genio e l'energia del volere, se
non trova preparata una strada la crea, dove trova elevata una barriera
la supera, dove un nemico lo vince, dove un ingombro lo schianta, forte
di quella leva che indarno cercava Archimede, che terra e cielo scuote
e solleva, e che ogni elemento piega, doma e ricurva.

A cotali osservazioni più diffusamente risponderò nei susseguenti
capitoli, quando procurerò dare alla donna appunto la coscienza della
sua capacità, rivelandole la sua potenza in ogni lavoro dello spirito,
e non tanto coi raziocinii dei quali pochi dannosi pena di disquisirne
il valore, od apprezzarne l'evidenza; quanto colla logica imperativa
dei fatti che scioglie vittoriosamente i nodi intrecciati dalla più
sottile dialettica e rovescia d'un tratto il gratuito edificio eretto
dagli interessi e fondamentato da leggiere ed erronee premesse.

Per ora mi basti aver constatato il fatto, che l'educazione che si dà
alla donna è quella che tende ad allevare una schiava, ad annichilarla,
ad insegnarle la tolleranza del dispotismo, a soffocarle in petto
ogni sentimento che non entri nella cerchia degli interessi di chi
la signoreggia, a distruggere in fine in lei l'opera di Dio che la
sortiva intelligente e sensibile, per ridurla alla vita semplicemente
vegetativa dello animale, alla inconscia ed automatica esistenza della
cosa.

Ed è a voi, mie giovani lettrici, ch'io dico tutto questo, ed è per
voi che lo scrivo, esponendomi scientemente al biasimo di molti che,
radicati nel pregiudizio, ottimisti sistemati, e convinti anche, dal
benessere che circonda il loro individuo, che cordialmente adorano e
teneramente accarezzano, simili all'animale che o beatamente pascoli
la ghianda, o fugato sia dalla sferza, senza giammai sognare di levare
lo sguardo a disquisire donde il pasto gli venga, o donde la botta,
fa di ora in ora, di minuto in minuto ciò che può, o ciò che vuole,
ammazzando a gran fatica uno dopo l'altra le giornate, tenendosi sempre
il sentimento, la ragione, ed ogni moral facoltà allo stato latente.

Nè schiverò meglio gli scandali farisaici di quegli spiriti divoti che
non dal sublime spirito del cristianesimo, nè alla libertà del vangelo
educati, ma dal trasnaturamento di quelle divine teorie corrotti e
traviati, ogni emancipazione della mente battezzano, orgoglio pagano;
ogni ribellione contro l'ingiustizia, e l'oppressione, rivolta al
divino volere; bestemmiando così la bontà infinita di Dio essere serva,
base e puntello del dispotismo, degli interessi, delle passioni o dei
pregiudizii degli uomini. S'egli è possibile di più negare il fatto
imperativo della indipendenza della ragione, e di maggiormente invilire
Iddio ditelo voi?

Ma come io vi esortava a voler trascurare certe opinioni, che generali
anche siano, altro pur non segnano che i gradi d'ignoranza e di cecità
intellettiva di chi le propugna, così io feci lungo il mio lavoro, e
così farò fino alla fine, a compiere le promesse fatte di preparare
la donna dell'avvenire, la madre delle future e più illuminate
generazioni.

Che s'egli è vero quel popolarissimo assioma: _Nemo dat quod non
habet_, non sarà che sviluppando l'intelletto della donna, che avremo
l'uomo sapiente; non sarà che coltivando il suo cuore, che si avranno
popoli gentili, non sarà che risorgendola alla vita politica, ch'ella
potrà elaborare nelle sue viscere i prodi, che il sacro suolo della
patria difenderanno contro prepotenti invasioni, e purgheranno da
straniere contaminatrici dominazioni; non sarà che elevando la donna
all'altezza delle cristiane vedute, che potrà il mondo purgarsi da
quelle pseudo-cristiane dottrine, che tante coscienze comprimono, che
tanta intelligenze evirano, che tanti esseri, fanno refrattarii alle
leggi della natura ed alla vita sociale, che tanta e pertinace guerra
hanno impegnata con ogni filosofia, ogni progresso, ogni umana libertà,
che rosseggiar fecero di sangue i nostri fiumi ed i nostri mari, e che
tuttora tengono tirannamente vincolato il bel paese, come l'avvoltoio
figgeva e rifiggeva nelle carni dello avvinto Prometeo l'artiglio
spietato.

Ricordatevi che, pel fatto della generazione, la donna fa l'uomo, e
che però l'effetto tien natura sua dalla causa, il frutto dall'albero,
la conseguenza dalla premessa; e come la forte e generosa lionessa non
genera lo stupido e vile montone, nè la tortora selvatica e piagnolosa
genera l'aquila sublime, così dalla donna stupida, inerte, passiva, non
esce la prole che floscia, impotente ed appena moralmente larvata.

Ciò ben comprendeva Casti quando scriveva:

    «_E inver come potrebbe esservi cosa_
    «_Dall'origine sua diversa tanto,_
    «_Che se l'origine sua fu difettosa_
    «_Abbia di integra e di perfetta il vanto?_
    «_Come da fonte limaccioso e impuro_
    «_Scorrere umor potria limpido e puro?_»

Ricordatevi che, per le supreme leggi della natura, l'umanità bambina
è affidata alla donna, che dopo aver creato l'animale, deve formare
l'essere morale. Ma se in quel primo processo la natura ha fatto tutto,
qui deve tutto farsi, dalla educazione, dalla coltura, dalla forte
e longanime potenza del volere, null'altro da natura ricevendo che
l'appoggio dell'immenso ed inesauribile devozione materna, che d'ogni
abnegazione e martirio si fa gioia e corona. E questi pensieri e queste
meditazioni debbono, o giovinette, precedere il nodo coniugale, il
quale non è che il mezzo che vi porge la materia del compito vostro.

E nello improvviso nascer gigante dello amore che esplode istantaneo
siccome fosforica scintilla; e nella balda e prepotente sua vita
che spinge e trascina, maltratta e divora, tiraneggia, ammala ed
uccide talora la più vigorosa esistenza; e nello spegnersi di cotanto
incendio che non mai più le morte ceneri intepidisce, chiaro questo
vero vi si appalesa, che cioè natura ebbe allo amore affidato la sua
forza onnipotente e fatale per conservare la specie, il quale scopo
conseguito, muore, non avendo più alcuna ragione di esistenza. Laonde
voi lasciandovi all'intutto dalla natura insegnare, apprendete anzi
tutto la importanza del fine, quindi la logica del mezzo; e, come alla
unione sessuale vi date coll'occhio fisso ed intento alle conseguenze
che scaturire ne debbono, in questa quindi consultate il voto della
natura dalla ragione illuminato.

E tanto più consultatelo in quanto che, la istituzione del conjugio,
perpetuando per anni e per la intera vita, una condizione di cose
che non furono volute che dalla prepotente forza d'un giorno e d'un
momento, impegna la donna in un martirio prolungato, in una lotta
incessante colle successive aspirazioni del cuore e la parola giurata,
coi fortissimi reclami della natura e la firma da lei apposta al
contratto.

Oh almeno giovani lettrici mie, nei primi tempi del vostro connubbio,
nel quale i più tremendi sacrificii si richieggono da voi, accorra
almeno la natura con quel fitto velo, che sono i delirii dell'amore,
ad attutire le angoscie supreme dell'oltraggiato pudore, ad abbruciare
la stilla della offesa verecondia che sorge spontanea sulla ardente
pupilla, a velare, colla mutua e libera espansione degli affetti e
la divina armonia dei cuori, quelli umilianti rapporti di diritto e
di dovere che il contratto sanciva, in onta alla natura, che le due
parti accosta colla potenza sola dell'amore in ciascuna delle parti
autonomicamente risiedente.

Sarà sempre anche troppo presto che convertito ed assorbito il cuor
vostro dalla materna tenerezza, e quello del consorte raffreddato
dal pieno soddisfamento delle esigenze sue, e portata incessantemente
al di fuori dagli affari e dalli interessi, sole rimarrete in faccia
al fine, del quale non era l'accopiamento che mezzo, alla meta della
quale il connubio non è che sentiero. Ed allora ambo rinsennati dai
fatali ma precarii delirii della passione incendiaria; distrutta
quella naturale armonia che senza sforzo faceva i voleri concordi e
simultanei i desiderii; ecco la donna, la cui educazione fu passiva e
nulla, dividere sè stessa fra il marito ed i figli, serva dall'un canto
della forza, dall'altro dello istinto, non riuscendo nè a farsi amare
dal marito, nè a farsi rispettare dai figli, nè ad educar questi, nè a
smover quello, nè a domare in questi le passioni nascenti, nè a scemare
in quello l'orgoglio gigante, risultando ed a quelli ed a questo troppo
evidente la sua inferiorità di spirito, l'ignoranza della sua mente, la
completa assenza di carattere morale.

Non così quando, spenta la verde stagione dell'amore, che per sè stesso
poco esigente, non tenta pur sempre giustificarsi nelle peregrine
doti dell'oggetto, ma di sè solo pago e tutta seco recando la materia
infiammabile, ama per esaurire la esuberante potenza che lo porta
fatalmente ad amare, non così, dico, avviene alla donna la quale, al
gratuito dono della natura accoppia o sostituisce le doti imperiture
dello spirito e del sentimento.

È pur qui il luogo di ripetere quell'adagio «a cattive leggi uomini
migliori» chè sebbene quelle nello affermare la fittizia incapacità
della donna non si diedero nessuna pena di fare restrizioni, pure il
natural sentimento d'equità dal quale non può difendersi che l'uomo
depravato, la forza del giusto e del buono, la maestà della virtù e del
sapere che costringe ad inchinarsi la cervice la più orgogliosamente
satanica, il culto sciente o spontaneo che molti uomini, la Dio grazie,
porgono al vero merito, tutto, dico, come rende la donna gloriosamente
atta al fine cui è missionata, la circonda eziandio d'un aureola
luminosa che la difende dalla viril prepotenza, che intimida l'uomo,
che attutisce nel suo braccio la petulanza ingenerata dalla forza
del muscolo e sostituisce in lui a quella ignobile sensazione, che
gliela faceva contemplare siccome semplice oggetto e spettacolo di
voluttà (che è la suprema delle umiliazioni alla donna dagli istinti
generosi) quella deferenza, quell'attaccamento e quella riverenza, che
l'armonico e sublime accordo del bello e del grande, della virtù e del
sapere, della nobile verecondia e della generosa abnegazione, debbono
ingenerare in ogni essere morale.

Dal fin qui detto potrebbe per avventura qualche mia lettrice ricavare,
ch'io creda avere il matrimonio per solo scopo la propagazione e la
conservazione della specie, nè potersi egli in mia mente disposare
eziandio a più nobile fine.

Diversi fra i moderni scrittori hanno considerato l'uomo e la donna
non già come unità, ma quali esseri che aspettano dall'unione loro il
complemento della loro personalità. Se in faccia agli interessi della
specie ciò è assolutamente vero, non lo posso egualmente ammettere nel
campo morale, vedendo ognun dei due autonomicamente, nel pieno possesso
delle facoltà dello spirito, attivo e produttore.

Mentre invece nel matrimonio per fatto delle istituzioni nostre la
donna, abbandonata affatto all'arbitrio del consorte, ben lungi dal
completarsi, si evira, ben lungi dall'acquistare, perde, se pure per lo
suo meglio eleggerà di sagrificar sè stessa alla pace.

In quanto a me, tenera di tutto ciò che tende a spiritualizzare
l'umanità, ed a sempre più nobilitare uno stato che dallo apparire
amabile, utile e venerando si reca a conseguenza maggior purezza di
costume, credo, e fermamente credo, che il connubio debba recarsi a
fine morale lo perfezionamento dell'un sesso e dell'altro; ed in vista
di ciò ammiro la legge della indissolubilità che sembra emergere da
siffatta credenza e proporsi un cotale intendimento.

Ma io tengo per fermo che nè l'uomo nè la donna possono perfezionarsi
in una unione qual'è voluta dalle nostre leggi e dai nostri costumi.
Ed invero, che volete mai impari l'uomo da una creatura priva di senso
morale, educata nè più nè meno che per piacergli, per obbedirgli, per
ammirarlo, per adorarlo, per credere nella sua portentosa sapienza, per
piegarsi in tutto e sempre alla sua volontà onnipotente, per toglierlo
a norma e legge d'ogni suo operare? Se quest'uomo si tiene un po'
di ragione e di moral dignità, deve sentirsi a stringere il cuore di
vedersi a fianco una creatura così nichilita, o meglio questa larva di
essere umano.

Voi mi direte; egli la può educare, e risollevare l'anima sua; vi
domando scusa, gli bisogna rifarla. Quando tutta una educazione non ha
avuto per iscopo che di cancellare fino all'ultima traccia ogni sintomo
di vita morale, in ragion d'ordine col quale si manifestava; quando
una educazione non ha avuto per iscopo che di degradare l'essere umano
al vile stato di cosa, quasi adirandosi con Dio e colla natura, che
abbiano voluto intelligenza e volontà locare là dove l'uomo non crede
averne d'uopo, credetemi, è utopia supporre, che possa quell'anima
riabilitarsi non meno che risorgere un cadavere fradicio.

E che volete mai, a volta sua, impari la donna, da un uomo beatamente
convinto della propria eccellenza; la qual convinzione gli fu in cuore
piantata e ribadita dai costumi che creano per lui una morale dagli
ampli margini; dalle leggi che lo estimano sempre _capace_ anche quando
è ignorante, sempre moderato ed onesto anche quando gli abbandona la
donna senza controllarlo, sempre virtuoso anche quando le sostanze
sciupa o disperde per conto di vizii e passioni? Credente fermamente
nella legittimità della sua potestà, egli sa dare fino all'amore
l'impronta ed il suggello del dispotismo, ed è ben lungi dal credere
che la sposa sua possa direttamente o indirettamente pretendere a
modificarlo.

Nè crediate ch'io v'abbia posto sott'occhio due casi più o meno rari;
mai no! Quella donna è la donna che ogni madre, ogni istituto vorrebbe
aver educata ed ogni uomo proclama una buona moglie; quest'uomo, è
l'uomo dei nostri costumi, è l'allievo dei nostri codici, e troverete a
questo tipo generale poche eccezioni fattibili.

Certamente che, se avviene che s'accoppii una di queste eccezioni
virili, con una eccezione del sesso femminile, allora sono in grado
di presagirvi un felice connubio; e come due belle tinte nel loro
accostarsi si danno reciprocamente maggior risalto ed una ammirevole
armonia ne risulta, così dall'uomo e dalla donna che reciprocamente si
apprezzano e ragionevolmente e santamente si amano, è ben d'uopo n'esca
il morale perfezionamento dacché non può l'amore essere eterno se non
in quanto lo cementi la virtù.

I successivi delirii del cuore sono domabili quand'egli si rechi in
fondo un'immagine venerata, e gli farà costante ribrezzo l'idea di
sopra edificarvi l'altare ad una divinità meno nobile, e meno pura.

Come il tempo purifica e legittima l'amore, così l'indissolubilità di
quel nodo è l'aureola di cui si cinge un'unione, di cui più santa e
feconda non saprebbe escogitarsi.

Direste voi che qui non v'abbia che conservazione e propagazione di
specie? No. Qui vi ha tutta una scuola di perfezionamento. È l'orgoglio
domato alla vista del merito; è la debolezza rinfrancata dalla forza;
è la durezza che si ingentilisce; è il sentimento che si sposa alla
ragione; è un re che si toglie volontario le insegne usurpate della
signoria; è una nazione che lo ricambia colmandolo di gloria e d'onore;
è la fermezza che non degenera nell'inflessibilità perchè la pietà e la
clemenza le sussurrano istancabili all'orecchio i loro soavi consigli;
è la pusillanimità che il cuor si dilata sentendosi vicino la ferma
colonna della forza; è lo spirito dettagliato ed analitico disposato
allo spirito complesso e sintetico d'onde risulta completa la scienza;
è l'amor del concreto che doma gl'indiscreti voli dell'astrazione; è
questa che quello spinge e solleva verso la filosofica speculazione
donde nasce il vero; è una corrente insomma, luminosa e vitale, che due
esseri identifica così da farli ciascuno a sua volta agente e paziente,
modificato e modificatore, illuminatore ed illuminato.

Davanti a sì sublime armonia di due esseri umani, è impossibile non
riconoscere, che il matrimonio non debba al solo interesse della
specie ridursi, ma costituire una società vera nella quale si dà e si
riceve, e dove l'utile deve essere proporzionato alla somma del valore
impiegatovi.

Fuori di queste proporzioni sta l'ingiustizia, sta l'ineguaglianza, sta
lo arbitrio, colle quali cose tutte è incompatibile il morale utile e
l'avvanzamento degli associati.



LA DONNA E LA SOCIETÀ


Ovunque pensa, parla e si agita una esistenza, la sua vita importa
a necessaria conseguenza un movimento, una modificazione, uno
spostamento, per così esprimermi, fra le altre che sono intorno a lei,
che cercano stabilire e conservare con essa armonici rapporti.

Così, fin da quando natura ci dà, al dire di madama Sand, alla libera
espansione della vita, noi ci vediamo circondati da una piccola società
composta da amici e consanguinei, raccolti a festeggiare la nostra
entrata nel mondo, a stringere con noi vincoli di benevolenza, alla
quale per dovere di esseri sociali dobbiamo rispondere. Ma i diritti
ed i doveri datici ed impostici da codesti rapporti sono troppo noti,
troppo naturali, troppo costanti perchè occorra arrestarvici. Il
naturale buon senso, e gli usi della nostra società rispettano ed amano
questi rapporti, che, cresciuti e sviluppatisi con noi, fanno parte
delle nostre abitudini, ed estendono per così dire i confini della
famiglia.

I rapporti più importanti per noi sono quelli che noi stessi formiamo
col nostro carattere speciale, coll'educazione che ci viene impartita,
che ci porta verso un dato elemento sociale piuttosto che verso
un altro. I doveri scaturiscono e dallo elemento col quale siamo
assiduamente a contatto, e dal grado di suscettibilità che con noi
rechiamo intellettivo e morale, e dai bisogni dei tempi e dei luoghi.
Laonde, sviluppato lo spirito, il cuore educato, più non rimane a farsi
da noi che la semplice applicazione delle apprese dottrine.

Farà egli bisogno per esempio di dire ad una creatura, che ha cuore,
chè si faccia al letto del malato, o di chè abbisogni il poverello, o
che cosa diffetti l'ignorante?

A niuna di voi, gentili signore, che onorate questo mio libro
della vostra lettura, a niuna di voi, per fermo, mancò nella colta
educazione, che riceveste, nozioni sì elementari di virtù e di
morale, e già tutte le praticate. Non foste voi viste pochi anni or
sono, durante la guerra dell'indipendenza, tutte quante trasformate
in infermiere? Gli annali della beneficenza non si adornano dessi
forse dei vostri nomi dalla prima all'ultima pagina? E non forse voi
fondaste sotto mille forme e denominazioni scuole, asili, istituti
d'educazione pei figli del popolo? Io non posso che altamente lodare
queste espressioni moltiplici e proteiformi dell'innata gentilezza e
sensibilità che fa l'onore del sesso femminile, e mi rende orgogliosa
d'appartenervi; ma se tutto ciò bastava in altri tempi di più scarsa
luce intellettuale a far di voi gli angioli della umanità, ciò è troppo
poco per oggi in cui la filosofia deve averci meglio illuminate sui
veri interessi della umana specie.

Fare ad altrui del bene non solo è dovere per tutti, è anche per tutti
un diritto, ed un diritto che l'anima generosa si divora nell'impotenza
di compiere; ed oh quale ingiustizia se al sol denaro fosse possibile
questa suprema gioia del cuore! Ma no; a tutti la rese il vangelo
possibile rivelando agli uomini l'amore, e facendone loro una
soavissima legge all'infuori della quale l'umanità si travaglierà in un
affanno perpetuo nella confusione delle idee e dei sistemi.

Sì, la sapienza degli uomini è all'apice. E statisti e filosofi,
legislatori, ed economisti portarono alternativamente, esperienze e
principii, istituzioni e sistemi, ma nessuno di questi farmachi riescì
ancora a guarire l'umana società dall'angoscia intestina. Il quadro
dell'umanità ci presenta una lunga scala sulla quale sfilano i dolori
e le miserie di tutti i secoli, dalla bestiale antropofagia fino alla
servitù dei due terzi della specie, fino ai sistemi applicati del più
satanico macchiavellismo.

Nelle vergini foreste del nuovo mondo abbiamo uomini tuttora ai quali
non è dato notizia neppur d'umana favella; interi popoli abbiamo
viventi di preda come le belve in fertilissime terre; in Africa è
l'esportazione dei negri che fende il cuore; nella China è l'infanzia
esposta e derelitta; in tutto l'oriente è la servitù della donna,
è l'evirazione di tante migliaia, è l'infame abrutimento degli
oppressori. In tutto il mondo incivilito è la lotta della oppressione
e della tirannide, dei principii e degli interessi, della ragione e
della forza, del sentimento e dello egoismo. Oh chi soccorre a tanti
mali, chi diraderà sì fitte tenebre d'ignoranza, chi consolerà tante
miserie, chi domerà tante passioni, chi imporrà silenzio a sì spudorati
interessi, chi curerà questo gran malato che è l'umanità, che indarno
sempre esperimentò medici e trattamenti? l'abbandoneremo noi alla sola
forza medicatrice che dà natura col suo perpetuo desiderio d'equilibrio
e di benessere? Sì, il tempo avvanza e non indarno; ma questo cammino
non ci condurrà alla meta che con dei secoli, e frattanto? e frattanto
si demoralizza la società, si comprano e si vendono anime umane, si
sparge sangue di popolo, si versano lagrime, si combatte, si soffre, si
bestemmia e si muore!

Faremo noi coro alla filosofia del _diritto solo_, e facendo alla
nostra malata la diagnosi del suo malore le diremo, è l'inerzia
che arresta nelle tue vene la potente circolazione, e mentre lascia
diacciate ed anemiche le fonti vitali, produce parziali congestioni
restando così deviato quell'umor prezioso che deve diffondere vita e
calore in tutto il corpo? oppure, è la servitù e la ignoranza che ti
travolgono piedi e mani legate nel sudario, e ti lasciano dissanguata
in preda a tetanici sussulti? Alzati dunque e cammina, tu hai
diritto al moto; respingi da te le bende mortuarie, tu hai diritto al
benessere ed alla gioia! Sì è vero, i diritti stanno, ma non è ella una
spietata ironia dire alla puppilla inferma, tu hai diritto di vedere!
all'ignorante, tu hai diritto di sapere! al zoppo, tu hai diritto di
correre?

Oh curiamo prima l'occhio malato, eppoi diciamogli guarda! coltiviamo
quel cervello eppoi diciamogli studia! distendiamo quei tendini eppoi
diremogli cammina!

L'umanità ha bisogno d'essere amata, sinceramente e vivamente amata, ed
amata senza altra passione che del suo bene, senza altro interesse che
del suo meglio.

Amare! Ecco il divino concetto, ecco il miglior dei sistemi, la prima
delle filosofie, il più efficace dei farmachi, la più sapiente delle
legislazioni, il principio e la fine della scienza sociale.

Quel malato migliora, che ha nel suo medico gran fiducia.
Quell'esercito marcia infallibilmente alla vittoria, che è condotto da
un duce che adora. Niuno dorme sonni più beati del bambino in grembo
alla madre.

L'umanità sarà di chi saprà amarla, e di chi saprà provarglielo meglio.
Ciò non capirono in nessun tempo i despoti, e non fecero; egli è
perciò che sono ora ridotti a tremare, circondati da mille spade; egli
è perciò che sentono con ansio spavento i fremiti dei popoli servi,
perenne minaccia allo edificio loro, sull'arena fondamentato.

L'uomo, dal più grande al più piccolo, dal più dovizioso al più
mendico, dal più sapiente al più ignorante, e selvaggio e civile, ha
bisogno d'affetto, e dall'affetto solo si lascia vincere e domare, per
l'affetto è qualche cosa, egli ne ha fame e sete, è la sua vita e la
sua forza, senza di questo egli si isola; poi si deprava, quindi odia
mortalmente tutta l'umanità.

L'intelletto è orgoglioso, ed osa nella sua alterigia sfidar la
ragione, e per non curvarsi al suo supremo arbitrato trova il cavillo
e chiama il sofisma, e la civilizzante filosofia trovasi in faccia
alla insuperabile barriera d'una volontaria ignoranza. La materia è
sostanza bruta, i suoi desiderii hanno angusti i confini. «Il molto
studio è fatica alla carne» disse Salomone; e la filosofia trovasi in
faccia alla resistenza della massa inerte e massiccia. Il cuore solo
è il lato debole dell'uomo, ed è questo che dovete cinger d'assedio e
prender d'assalto; preso e domato, il resto non chiederà bentosto che
di capitolare.

Cristo insegnò una dottrina e ci diede un esempio; e l'una e l'altro
importano a seguirsi sforzo e violenza, abnegazione e sagrificio;
e queste cose cotanto difficoltose alla umana natura veniva egli a
chiederle nel secolo il più depravato e corrotto di cui le storie ci
parlino. Ma questa dottrina era la teoria dell'amore, quell'esempio
era la pratica dell'amore e gli uomini amarono il Cristo e la sua
legge; a migliaia ed a milioni si coscrissero nella sua chiesa; per
lui spregiarono la vita e versarono il sangue; per lui si scoronarono
i principi, e nello intendimento di onorarlo e di piacergli, ozii e
libertà, gioie e mollezze lasciarono a mille e a mille per le perpetue
reclusioni e le aridi solitudini dei deserti.

L'umanità da educare ed incivilire, da illuminare e soccorrere, ecco
il lavoro che incombe a tutti coloro che avendo una educazione avuta
e dei lumi, trovansi in grado di dare ad altrui ciò ch'essi stesso han
ricevuto.

Mi chiedete voi del mezzo a ciò fare? Io rispondo, coll'amore; A qual
fine? Affinchè gli uomini si amino. Con qual ricompensa? Gli uomini si
ameranno. Ed io concepirei ben sinistra opinione di quella che queste
pagine leggendo, trovasse quel fine e quella mercede insufficienti a
quel mezzo ed a quella fatica.

Ora chi mai convinto, che colla potenza dell'amore soltanto si potrà
consolare, soccorrere, civilizzare questa povera umanità; chi dico,
non si volgerebbe tosto alla donna? Non è ella quella creatura,
sublime scialaquatrice d'affetti nella quale ogni pietà è innata, e
tutta di sensibilità è plasmata? L'uomo non è giovine, che una volta
sola in sua vita; ma la donna non reca ella in sè stessa i facili
entusiasmi, l'indomabile speranza, la generosa ammirazione del grande,
l'amore del sacrificio, che serbano intatta ai tardi anni la balda
gioventù dell'anima? Non è dessa quella creatura nella quale così
difficilmente s'insinuano i freddi consigli d'una egoista prudenza che
medita per secoli, discute con dei volumi, e non trova un dito mai per
operare? Non è alla donna il cui cuore è il serbatoio del sacro fuoco
dell'amore, al quale Iddio affidava tutte le generazioni, a fecondare
in esse i germi degli affetti, che fanno cogli entusiasmi giovanili
le fronde ed i fiori, e i frutti recano nella matura età di sociale
benessere? Non è egli alla sua voce insinuante che natura sposava la
persuasiva? Non è egli davanti al suo dolce sorriso, ed al suo sguardo
innocente che il figlio del popolo può deporre i secolari rancori
contro le caste che sì a lungo l'oppressero?

Gli uomini hanno fra loro vecchie ruggini; essi lottarono e colla forza
brutale e colla astuzia ridotta a sistema, laonde si guardano tra loro
torvi talora e diffidenti: ma la donna vittima sempre fra i grandi e
fra i piccoli, nell'antichità e nell'attualità, la donna porta le mani
pure di sangue non suo, e la mente vergine di errori volontarii. La sua
puppilla ebbe lagrime per tutti i dolori; la sua borsa si aprì a tutte
le miserie; le sue simpatie si pronunciarono per tutte le sventure, e
non indarno mai le fu additato un bene che da lei dipendesse.

Faccia pur Cicerone ad Augusto una lunga orazione con tutte le risorse
dell'eloquenza per indurlo al perdono; lusinghi la sua vanità, si
raccomandi allo splendor del suo nome, ed ottenga così dalle titillate
passioni, ciò che non otterrebbe dal duro cuore. Vincenzo de' Paoli
invece, dirà ad Anna d'Austria «Madama il vostro popolo ha fame». Ho
dato tutto, ella risponde. Anche le vostre gioie? insiste egli; ed ella
non ripeterà verbo, e correrà al suo scrigno, e glielo consegnerà quale
si trova.

Non è duopo di lunghe orazioni a muovere il cuore della donna; veda
ella il bisogno e lo comprenda, e basta. Il suo cuore istesso serve
d'oratore e d'argomento, di peroratore e di convinzione. Sia dessa o
no, frivola e leggiera, non monta. Il suo volubile spirito si arresta,
medita, si solleva, un angoscia lo preme; l'immagine di quella sventura
la perseguita come l'ombra il corpo e la tormenta; ella non resiste
più, si sente infelice, ha bisogno di togliersi quella mestizia; ed
ecco che astraendo un momento da ciò che il mondo chiama la sua vita
brillante, dimentica l'umido e le infreddature, gl'incomodi e le
molteplici esigenze della vanità; supera il fango e la polvere, il sole
e la neve, e va instancabile, viene e ritorna, ascende la scala del
povero, infrange la consegna del ricco, e tanto fa e si adopera col
cuore, colla parola e colla mano che ha raggiunto alfine lo scopo, e
lieta ritorna e fiera del suo trionfo più assai che della ammirazione e
dei plausi che tante volte raccolsero nei brillanti convegni del mondo
gaudente.

Non crediate però, lettrici mie, ch'io non vi parli, che dello sterile
soccorso, che voi deponete nella mano che si stende verso di voi
supplichevole. Fra tutti i modi di soccorrere ai materiali bisogni è
questa la più imperfetta, e lasciatemi dirlo, la meno morale, e non può
essere giustificata che dell'urgenza del bisogno, ma è quella pure che
ridotta a sistema ed organizzata su larga scala, perpetua la mendicità,
ed abrutisce lo spirito. Come può mai un essere dalla mente civilizzata
vedersi davanti supplichevole e seminuda una creatura qual'è l'uomo
ricco d'intelligenza, forte di braccio, non ad altro occupando la
inerte sua vita, che nel distendere servilmente al suo simile la
mano colla voce piagnolosa ed il languido sguardo? E qual diritto
ha egli mai un uomo d'imporre al suo simile una tanta degradazione?
Qual diritto ha egli di subordinare al suo arbitrio e capriccio
l'esistenza d'un suo fratello? Questo sconcio che è l'accatonaggio va
scemando più sempre coi progressi della industria che distribuisce più
universalmente la ricchezza, laonde le mie parole non andando a colpire
un fatto che vi si presenti su grandi proporzioni vi parranno per
avventura troppo severe.

Certo i nostri tempi differiscono assai dagli scorsi secoli nei quali
ogni convento (e ve n'erano ad ogni svolto di via) vedeva ogni mattina
raccôrsi sotto gli esterni portici una sterminata quantità di mendici
d'ambo i sessi, e di tutte le età, che spettavano la quotidiana
limosina. Che ne derivava da ciò? Ne derivava, che la maggior parte
della umanità nelle nostre contrade vivesse pendente dallo arbitrio
dei meno; ne derivava, che tutte quelle misere genti fossero serve
consacrate di quei signori; ne derivava, che intere popolazioni non per
altro vivessero che per istendere umile e timida la mano alla scodella
limosinata, curvarsi fino a terra all'aspetto di un frate, baciar
servilmente il lembo della sua tonaca e la corda della sua cintura.
Ne derivava, ch'elleno si educassero al sentimento demoralizzatore
della propria nullità, alla tolleranza della più provocante tirannide,
all'ozio eterno donde la miseria perpetua.

Lo stesso avveniva intorno ai forti castelli dei signori, dove una
pietosa faceva distribuire costanti e quotidiani soccorsi. Quei costumi
erano fatti per perpetuare il dispotismo feudale e la schiavitù
personale. Come avrebbe mai potuto quella plebe emanciparsi dalla
sistemata concussione de' suoi signori, senza cominciare dal rifiutare
il loro pane, e dal vivere senza la loro sprezzante limosina? Ed ecco
ciò che si fece, ed oggi quei terreni, che allora erano incolti, sono
ricchi ed ubertosi, e l'agricoltore mangia il pane sudato all'ombra
degli alberi da lui piantati, ed accosta il ricco colla fronte alta
dell'uomo che nulla cerca, fuorché il credito suo.

Ora, diminuite le proporzioni e l'accatonaggio, in faccia ai principii
dell'umana libertà e dignità, presenta tuttavia la sconvenienza
medesima. Soccorriamo al corpo provvedendo il lavoro, suppliamo
alla debole potenza dell'operaio largheggiando nella mercede: ma non
dimentichiamo mai la sua dignità d'uomo, il suo sacro diritto di vivere
indipendente dal capriccio nostro; nè vogliamo colla impertinente
elemosina buttargli in viso quell'insolente concetto che la limosina
esprime e che val quanto dire: _vivi anche oggi, te lo concedo_.

So pur troppo, che taluni fra gl'indigenti privi affatto di luce
morale (e come l'avrebbero?) e vieppiù demoralizzati da una falsa
beneficenza, che apre la borsa e la porge senza abbadare alla mano che
vi si immerge, non sentono la umana dignità, e volontieri fanno inchini
e genuflessioni, ed a tutto si abbasserebbero purché oziosa trar
possano e vagabonda la vita. Lo spettacolo di questi uomini doppiamente
infelici, perchè spinti dalla stessa beneficenza nello stato selvaggio,
ed accoppianti la miseria dello spirito ai cenci del corpo, anzichè
scoraggiare la buona volontà, deve vieppiù eccitarla.

Pur troppo ben poco può farsi sulla generazione già adulta, incallita
nell'ozio e nel vizio, ma tutto può farsi e con esito certo sulla
nascente. Oh si dilati l'istruzione; si dia al figlio del popolo la
coscienza di sè e della umana dignità, si incoraggi colla stima che
mostriamo portargli, non dimentichiamo che egli è il più importante dei
sociali elementi. È il popolo che costituisce gli eserciti; è il popolo
che innonda le nostre città; è il popolo che provvede a tutti i nostri
agi e bisogni; è il popolo che coltiva le nostre terre; il popolo farà
senza di noi, ma noi meschini senza di lui. Donde emerse lo spregio
della plebe adunque se non dal guardare leggermente ogni cosa? Il
popolo è tale una potenza che perfino il dispotismo più sfrenato sente
bisogno d'aversi la sua sanzione o di fingersi averla. Ogni setta, ogni
partito vuol averlo amico, perchè cessa col popolo d'essere partito
e setta, e diviene coscienza universale. Ma mentre ognuno, per poco
rifletta, è forzato d'ammettere la vera sovranità del popolo, pure,
illusi dalle apparenze, sedotti noi dalla lunga abitudine di guardarlo
dall'alto, ed egli stesso avvilito della sua povertà, abrutito dalla
lunga servitù e dallo spregio, perde ogni senso di dignità e tenta
stordire i bisogni, ed attutire i dolori, abbandonandosi inerte alla
miseria, affogando nelle orgie la troppo scarsa mercede d'improbe
fatiche, donde poi sempre più misero n'esce ed abrutito.

Eppure questo colosso, i cui fermenti fanno talora impallidire i
tiranni, e che, spinto al colmo d'ogni sua pazienza, si erge gigante,
recide teste coronate, intere caste travolge nei flutti dell'ira
tremenda, e di tutta una regione non lascia che un oceano di sangue,
nel quale si affoga la tirannide di tanti secoli (e così bene, che
niuno sforzo di potere o di casta saprà tutta risorgerla) questo
terribile elemento non si cura, non si educa, non si tenta dargli alcun
principio, non si rispetta, e non si smettono sul conto suo pregiudizii
ch'egli così ben vendicò sui padri nostri.

Urge, e sommamente urge che il popolo s'illumini, si civilizzi, senza
di chè vane saranno le nostre aspirazioni alla prosperità nazionale.
Indarno tentano svolgersi, in seno alla libertà, libere istituzioni,
se, applicato poi, trovansi gravide di disordini per la incoltura del
popolo. Indarno noi guardiamo ansiosi ed impazienti ai confini che
Iddio segnava al bel paese struggendoci in desiderii, se il popolo non
sarà convinto, che combatte per interessi suoi, e per migliorare le sue
misere condizioni.

Forse avravvi fra voi, lettrici mie, taluna, santamente desiderosa
del bene, e che a null'altro aspira che a vedersi tracciata una via;
poiché gli è a voi specialmente affidata l'educazione del popolo.
L'uomo è assorbito dagli affari, è sviato dagli interessi, è incatenato
ad impieghi; voi siete libere del vostro tempo; oh non si sciupi
in frivolezze e nonnulla. Non è lecito passar la vita nell'ozio, al
passeggio, alle feste, scarozzando la nostra cara personcina dalla
città in campagna e dalla campagna in città, custodendoci gelosamente
da ogni cosa che disturbi la nostra pace, non guardando in viso mai
la miseria ed il dolore, per non averne male ai nervi delicati; ciò
tutto è egoismo e nullità; non è per questi fini che Iddio ci arrichiva
d'intelligenza e ci faceva battere in petto un cuore capace di portenti
se avvenga che abbracci la santa causa del bisogno.

Non crediate degnarvi di troppo parlando famigliarmente col bravo
figlio del lavoro; la sua mano incallita è più nobile assai della
vostra bianca manina sepolta ne' pizzi, chè da lei tragge il pane e la
casa tutta una famiglia. Sentite i suoi bisogni, provvedetegli lavoro,
incoraggiatelo, mostrategli la stima e la riverenza ch'egli si merita,
parlategli dell'associazione dell'industria e del capitale, che sola
può emanciparlo dalla tirannide capitalista, provategli i vantaggi
della coltura e della civilizzazione, onde assiduo intervenga a quelle
istruzioni serali che mercè benemeriti cittadini già sono organizzate
in tutte le nostre città. Parlate loro delle patrie speranze, della
parte maggiore che a lui spetta nelle battaglie e nei trionfi, e
combattete quella scoraggiante parola ch'egli ha sempre in bocca
«_qualunque sia l'evento noi saremo poveri sempre!_»

Mostrategli invece che l'interesse suo sopratutto si propugna nella
causa nazionale, e come non sia che in grembo ad una potente e libera
nazione che svolgersi possa l'abbondanza e la prosperità.

Ed accennandovi i patrii interessi io già vi supponevo tutte, a non
dubitarne, informate ai sacri doveri di cittadine. Nè crediate che le
convinzioni vostre poco giovino alla causa nazionale. Voi partorite
ed educate la generazione nascente, alla quale incombe di compiere i
destini dell'Italia; succhi dessa dunque col vostro latte la religion
della patria. Veggano i vostri sposi, amanti, fratelli ed amici la
sacra fiamma che il petto vi riscalda; veggano i sacrificii che liete
e sollecite recate sull'altare dei patrii bisogni, sacrificii d'oro e
di figli, sacrificii d'amore e di famiglia, e ne siano punti a generosa
emulazione. Animata la donna dal supremo culto della patria, supera sè
stessa, scorda la debolezza della fibra e la delicatezza dei nervi, e
giunge talora a far arrossire l'uomo coi prodigi del suo valore.

Allorché Mario nella guerra contro i Teutoni ed i Cimbri volse in fuga
una nazione di barbari detti Ambroni, le costoro donne si fecero loro
incontro armate di spade e di scudi rimproverando loro la vile fuga,
uccidendo e ferendo nemici e fuggitivi, e non rinculando mai fino agli
estremi. Lo stesso fecero le donne Cimbre.

I racconti di Tacito intorno alle donne britanniche ci fanno manifesto
che, più degli uomini, erano in quella nazione valorose le donne.

Quando Svetonio Paolino assali l'isola di Mona possente di popolo e
ricetto dei rivoltosi, stavansi armati e stretti i nemici sul lido
frammisti a molte donne. Dopo la presa dell'isola, Svetonio dovette
affrontare le schiere britanniche capitanate da Baodicea moglie
dell'estinto Prasutago, la quale circondata dalle sue figlie gridava
esser le donne use in Brettagna a maneggiar la guerra; ma non venir
ella allora a difendere quel regno, sibbene a vendicare i colpi di
bastone ricevuti dai Romani e l'onore oltraggiato delle sue figlie.
Fatta finalmente prigioniera, Baodicea si tolse col veleno all'onta
della servitù.

Allorchè la Signoria Turca minacciava di estendersi in Ungheria ed in
Italia, le donne, paventando la vergogna del serraglio, spiegarono una
energia, ed un valore di cui non sempre furono capaci i più intrepidi
eroi. In una città di Cipro frammischiate ai soldati respinsero
i Turchi combattendo sulle aperte brecce. Nell'isola di Lenno una
donzella, imbrandita la spada e lo scudo dello spento genitore, arrestò
i Turchi che già forzavano una porta, e li respinse fino al mare. Le
Ungheresi fecero miracoli di valore nelle battaglie e negli assedii
contro i Musulmani; le donne di Rodi e di Malta gareggiarono colle
Ungheresi e le superarono per la persistenza del loro freddo e paziente
coraggio. Così gli annali di quella nazione, come la storia della
Veneta Repubblica, sono zeppe dei nomi di donne che eclissarono la
gloria dei più prodi cavalieri.

Immolare per la patria la vita è cosa tanto comune all'uomo quanto
alla donna. Agesistrata, madre di Agide re di Sparta, appendendosi
da sè stessa al capestro al quale la dannava l'Eforo Anfare diceva
«Volentieri muoio se ciò può giovare a Sparta».

Aretafila (contemporanea di Mitridate) tentò ogni via di liberare la
patria sua Cirene dalla tirannia di Nicocrate. Benchè questi le fosse
amante appassionatissimo e marito, pure veggendo ella soffrire il suo
popolo non sapea consolarsene. Vedendo che niuno sorgeva a vendicar
Cirene, tentò ella stessa il colpo, ma fallitole e sottoposta ad ogni
fatta di tormenti, non però confessò il fatto, finchè Nicocrate,
che pur sempre l'amava, si pentì d'averla fatta soffrire, e tentò
consolarla con ogni onore e cortesia. Ma Aretafila fissa nel proposito
di liberare l'afflitta patria, persuase la sua giovine figlia a
sposar Leandro fratello del tiranno e ad eccitarlo con ogni arte a
voler tentare la libertà di Cirene. Leandro così pregato dalla sposa,
uccise il fratello; ma non però fu libera Cirene, ch'egli molto ben
succedè a Nicotrate nel dispotismo e nella ferocia. Aretafila cominciò
allora a tendere insidie a Leandro e chiamò Anabo capitano della
Libia coll'esercito suo sopra Cirene, e presi con lui segreti accordi,
persuase Leandro a venir con Anabo a parlamento. Egli vi andò, ed Anabo
circondatolo nella sua tenda lo consegnò ai Cirenaici che, messolo in
un sacco, lo gittarono nel mare. Cirene liberata, pregò, Aretafila di
accettare le redini del governo, ma la generosa donna, che la patria
aveva amata sempre più di sè stessa, consigliò la repubblica a voler
volgere ella stessa a meglio le cose sue e si ritirò a menar vita
privata.

Epicaride, semplice schiava, aveva con tutto il fiore della nobiltà
romana congiurato contro Nerone. Scopertasi la cospirazione, arrestati
a cento a cento i congiurati e sottoposti alle torture, confessano e
scoprono i fili della congiura. Epicaride sola, resiste ad otto giorni
consecutivi di torture, e vinta alfine dalla violenza del fuoco, si
taglia la lingua coi denti e la sputa innanzi all'imperatore onde porsi
nella impossibilità di svelare.

Arria, moglie a Cecina Peto personaggio consolare, difendeva sè
stessa ed il consorte davanti all'imperatore Claudio, accusati essendo
siccome complici nella congiura di Scriboniano contro di lui. Avendo
l'imperatore intimato a Peto di uccidersi, e vedendo Arria che la
destra gli tremava, sicché non sapeva decidersi a vibrare il colpo, le
strappò di mano il pugnale se lo piantò nel petto, eppoi lo porse allo
sposo dicendogli, «prendi che non fa male» e spirò.

Nel Medio Evo è Giovanna d'Arco che salva la Francia dall'invasione
straniera ed impedisce lo sfacelo della Monarchia.

Ai nostri tempi è Carlotta Corday che sbarazza la Francia dal terribile
Marat. (Vedi Levati, Donne Illustri).

Ma lasciamo il campo delle unità, che ci condurrebbero troppo lungi, e
che d'altronde potrebbero essere da taluno riguardate come puri fatti
personali che poco costituir possono sulla totalità.

La donna, che supera generalmente l'uomo in forza morale, e sa
sopportare il lento e penoso martirio a cui la condannano, contro lei
congiurati, la natura e le leggi, i costumi e gli individui; la donna,
che sa trovare nell'anima sua quella virtù perseverante e silenziosa
da tutti ignorata, da niuno applaudita, non incoraggiata e sorretta
che dall'intima coscienza del dovere; la donna, dico, seppe sempre al
par dell'uomo soffrire e morire per le sue convinzioni, dalla madre dei
Maccabei che offriva, olocausti d'eroica fede, sè ed i suoi sette figli
al Dio d'Israele, fino a madama Roland, che la testa lasciava sotto la
scure della rivoluzione, benedicendo pur sempre alla rivoluzione.

Che se tutti i Martirologi si adornano copiosamente di nomi femminili,
ne sono per sovrappiù altrettanto poveri i vergognosi cataloghi
delle apostasie e delle transazioni. La tenacità dei propositi e la
inespugnabilità delle convinzioni nella donna, sono un fatto altamente
constatato, e che ne farà sempre per ogni partito uh elemento della
massima importanza.

In tutte le guerre, in tutte le insurrezioni, in tutte le reazioni
che hanno per morente un'idea, un sentimento, la donna vi porta tutta
la foga d'un'anima giovine ed entusiasta. Sono le donne italiane che
insegnano ai loro bambini l'odio dello straniero, che serbano vivo
ed immortale, come le vergini di Vesta, il sacro fuoco dell'amor
di patria, lo abborrimento d'ogni transazione contro l'insolente
usurpazione e, nè dalle carceri, nè dalle flagellazioni vengono domate.
Sono le donne polacche che a cento a cento sfidano lo knout e la
Siberia, impavide davanti ad una lotta titanica, che altro soccorso non
trova che nell'inaudito valore di tutta una nazione di eroi.

E farei dei volumi, se tutti volessi porvi sott'occhio i fatti antichi
e moderni che provano essere stato sempre il culto della patria
principalissimo nei petti femminili.

Certo ai tempi nostri non occorre, siccome negli scorsi secoli
adoratori della conquista, che una nazione invocar debba in faccia ad
un supremo pericolo tutti i suoi elementi a combattere, per cui è la
forza morale, è il lieto sacrificio che tocca alla donna. La guerra,
ch'è per noi suprema necessità, sarà pei nostri posteri supremo
ridicolo, e noi certo non chiameremo a prendervi parte anche chi vi
è dai costumi nostri dispensato, chè sarebbe davvero retrocedere il
mondo in luogo di spingerlo avanti; ma finché quel giorno non sorga,
finché problema di vita e di morte si agita per tante nazioni, oh lasci
la donna i gravi nonnulla di che finora occupossi e, vergognando di
starsene inerte davanti a tanto lavoro, rechi ognuna la sua pietra al
nazionale edificio colla parola, coll'opera, coi mezzi.

Non è egli tempo che la donna si ridesti alla coscienza dei doveri
sociali, e più non si creda impotente ad utili e serie cose? Non è egli
tempo che le sue giornate ed i suoi anni d'altre cose si riempiano che
di quelle fastose bagatelle, che lo spirito le impiccioliscono, ed i
più generosi sensi le atrofizzano? Non è egli tempo che il suo spirito
d'altre cose si faccia curioso che di indagare

                    «_Le vicende ascose_
    «_Degli instabili amor, le cagion lievi_
    «_Dei frequenti disgusti e i varii casi_
    «_Del dì già scorso, le gelose risse,_
    «_Le illanguidite e le nascenti fiamme,_
    «_Le forzate costanze, e le sofferte_
    «_Con mutua pace infedeltà segrete,_
    «_Dolci argomenti a femminil bisbiglio?_»

Non è egli tempo, che la sensibilità di cui natura la adornava e che di
tanta potenza al bene è fonte, più non si sprechi per cause, che non la
meritano, e più non si dica di lei ciò che il gran satirico disse della
donna del tempo suo,

    «_Del suo diletto passerin la morte_
    «_Fe' rossi gli occhi e li gonfiò di pianto?_»

Non è egli tempo, che la donna senta essere chiamata a lavorar di
concerto col resto dell'umanità alla diffusione dei lumi, al benessere
universale? Non è egli tempo ch'ella ogni lode, ogni ammirazione,
ogni simpatia conceda al genio ed alla virtù, trascurando affatto
quegli uomini neghittosi, che la vita passano siccome gli accattoni ad
esaurire i tesori ereditati dai padri loro, credendosi modestamente
l'incarnazione d'ogni eccellenza, e nulla pur facendo per l'umanità;
sicchè non continui a meritarsi il severo strale, che Casti le vibrò
adombrandola nella leonessa regina, alla quale presentandosi un nuovo
cortigiano, siccome

    «_L'asino lo protesse e lo propose,_
    «_Ciò fu bastante, il merto si suppose?_»

La conversazione della donna deve essere all'uomo non dilettevole
solo, ma utile. I Musulmani gemono sotto la sferza d'una intollerabile
noja, si abbandonano ad orgie sfrenate che mettono capo alla totale
alienazione, i loro modi sono rozzi e selvaggi, ed i costumi loro ne
rilevano il completo abrutimento. Gli è perchè non educando dessi
la donna che all'esclusivo fine della femmina essi non ponno a lei
rivolgere il moto e le idee. Prive di quello stimolo potente, ch'è per
ogni spirito generoso la simpatica ammirazione della donna, prive della
forza che scaturisce dalla sua feconda ispirazione, quelle infelici
contrade condannando la donna, dannano sè stesse all'abrutimento ed
alla stazionarietà. Tutto si agita, tutto si muove, tutto si svolge
nella libera espansione della vita dove non è servitù e reclusione di
donna.

In occidente, dove quelle funebri istituzioni non penetrarono, benché
la donna si senta attortigliata da mille legami, ha tuttavia tanto
di libertà quanto basta per incuorarsi al lavoro, alla lotta, alla
conquista del molto e del troppo che ancora le manca.

Ed il mezzo diretto, infallibile, è di rendersi utile all'umanità, è
di farle sentire la potenza del suo intervento, il valore intrinseco ed
affermativo della sua personalità, gl'immensi vantaggi che le derivano
dal tenerne calcolo, dal riconoscerla e dall'impiegarla.

In fondo a tutti i problemi v'ha pur sempre un segreto movente
d'interesse, dal quale la più generosa filosofia non saprebbe astrarre,
e la storia ci presenta a provarcelo tutte le sue pagine, ogni sua
riga. L'uomo dunque asservì la donna credendo suo interesse di farlo.
Tocca a lei a provargli, ch'egli s'è ingannato, e che dalla sua
emancipazione gliene ridonda ben più ricco interesse, vantaggi ben più
preziosi.

E parlando dello intervento della donna nell'opera universale, reclama
di pien diritto un cenno particolare tutto l'elemento femminile
insegnante, che dà sì splendide prove della speciale sua idoneità
al grave e difficile ministero. Ed invero la pazienza longanime, la
innata tolleranza, la voce insinuante, il pronto intuito fanno della
donna l'educatrice per eccellenza; e ben desiderabile cosa ella è che
i programmi della educazione femminile si allarghino tanto, da rendere
possibile alla donna il continuare ed estendere il suo insegnamento
oltre gli attuali confini.

Non tema la legislazione di affidare alla donna un largo insegnamento.
I confini della sua intelligenza furono dessi esplorati? Le risorse
del suo spirito son esse dunque esaurite? E come, se da tanti secoli
di nullità morale e di morale oppressione, è risorta più animata, più
intelligente che mai; e nei tempi in cui l'urto potente delle idee,
la lotta delle opinioni, il cozzo dei sistemi, l'agitazione delle
filosofie abbujano lo intelletto virile, adesso appunto ella principia
a capire, ed ha afferrato la segreta parola che stassene latente
nell'umanità, impossibilitata a farsi strada dagli inverecondi rumori
che sollevano nel mondo gli interessi dei pochi?

L'umanità e la patria, la civiltà e la morale hanno bisogno della
donna. Una più lunga assenza morale le confermerebbe sul capo la
sentenza, che non fu finora che abuso di forza e figlia di pregiudizio,
sentenza di morale inettitudine, che la consegna piedi e mani legati,
e colla bocca imbavagliata, in balìa dello spregio insolente, dello
scherno inverecondo.

Ed invero non puossi negare ch'ella non abbia sentito la loro chiamata
e risposto sollecita al loro appello.

Essa ha risposto con madama Sand, nome caro alle lettere ed alla
filosofia e che di tanta luce d'intelligenza fe' risplendere il suo
sesso con quella miriade di volumi, che combattono ad oltranza ogni
regresso ed oscurantismo; ha risposto con Miss Beeker Stow, apostolo
della civiltà e del diritto nel nuovo mondo, che sola alzò già da tempo
la voce poderosa e la parola eloquente a far arrossire l'umanità,
che tollera la schiavitù ed il commercio delle anime umane; ella
ha risposto coll'indirizzo delle donne del Nord alle donne del Sud,
contro la schiavitù dei negri; ella ha risposto con Catterina II, nei
suoi tentativi di civilizzazione nelle Russie, che facevano dire al
signor di Voltaire, _la lumière nous vient du Nord_. Ella ha risposto
colle centinaia, che diffusero e diffondono nella Società utili
produzioni letterarie, filosofiche e scientifiche: ella ha risposto
colle migliaia che si consacrano al conforto dell'umanità sofferente
(sia col pubblico esercizio della medicina come nell'Inghilterra e
nell'America; sia coll'assistenza agli infermi negli spedali come in
tutta la cristianità) all'insegnamento dell'infanzia d'ambo i sessi, e
della gioventù femminile; ella ha risposto fondando, dotando, dirigendo
asili, spedali, orfanatrofii e ricoveri per ogni sventura, per ogni
bisogno; erigendo dei comitati e delle associazioni per provvedere alle
vittime delle patrie guerre, ai rifuggiti delle serve provincie: ella
ha risposto e risponde tuttavia con quell'entusiasmo, che s'allieta
dei sacrificii alla patria chiamata in tanti anni di reazione, e nella
aperta lotta in Italia, ed in Polonia; e di troppa luce rifulge la sua
solenne risposta perchè altro non sia mestieri dire al miscredente se
non che, _aprite gli occhi e vedete_.

Se taluna di voi, che mi leggete, vita neghittosa e vacua trascinasse,
si desti al generoso esempio e vergogni la inutile esistenza in
faccia a tanto lavoro ed a tanto bisogno. Pensi, che non è lecito
viver quaggiù la vita parassita dell'edera che s'aviticchia intorno
all'albero e ne succia l'umore, arrampica sul muro e ne rode il
cemento. Chi è inutile quaggiù non è inutile solo, è nocivo, epperò
nemico dell'umanità, la quale a giusta vendetta lo opprime sotto il
pondo del suo più tremendo disprezzo.

Non chiamate lavoro la insignificante direzione d'una casa o le
industrie d'Aracne; le son queste manualità e dettagli opportuni,
e necessarii eziandio, ma che non costituiranno mai un'essere utile
alla Società, parlo a voi, donne ricche e colte. Fra voi, più d'una
ammazzerà la vita in cotali cose, ch'io chiamerò, e tutta con me
l'umanità, esistenza parassita. Ogni vita importa moto, epperò che il
nostro corpo agiti più o meno utilmente le sue membra sta bene, ma che
lo spirito nostro debba starsene eternamente latente e sopito, egli che
è vocato a progredire, egli che vive della vita ragionevole, egli che
dai bruti e dai vegetali vi scerne, la è cosa questa, che non da altri
mai verravvi predicata che da chi trovi interesse nelle tenebre della
vostra mente, nella nullità dello spirito vostro.

Non ammettendo io, per natural corollario dei principii fin qui
espressi, l'esclusione della donna dalla produzione industriale che
importa abilità o vigore di membra, non la posso egualmente escludere
da quella parte del lavoro sociale, che esige sviluppo ed applicazione
delle facoltà intellettive.

Partendo io dal principio, che ogni diritto ed ogni dovere ha per
base e per ragion d'essere la facoltà, la quale colla sua legittima
pretesa d'esercizio ce ne dà la coscienza, e questo principio reggendo
esattamente in ogni essere umano a qualunque sesso egli appartenga,
non vedo con qual ragione questa facoltà dovrebbe nell'uno esercitarsi
liberamente e talora forzatamente, e nell'altro seppellirsi e
soffocarsi affatto; tanto più che, nelle miserrime condizioni in cui
versa la società nostra, la donna priva di mezzi di fortuna, impotente
pel genere infimo del lavoro attualmente concessole, a sostenersi in
faccia alle molteplici esigenze della vita civile, trovasi trascinata
da fatale necessità al distruttor mercimonio delle sue membra infelici.

Che se parlasi della donna agiata, la cui virtù è dalla educazione
fortificata, se avvenga che un rovescio di fortuna la colpisca, chi
non freme di vederla precipitare, senza via di mezzo, dalla splendida
atmosfera d'una vita irradiata dalla luce dell'intelligenza sotto la
sferza d'un'indefessa manuale fatica, che, mentre lo spirito generoso
le preme ed angoscia, tanto pur non le acquista da calmare le smanie
del dente digiuno?

Invero è questo tale problema che reclama potentemente d'essere
avvertito dai governi ben intenzionati, ai quali premer debbono il
cuore le piaghe sociali, e che la mente si travagliano indefessamente
nella ricerca di un rimedio e di un riparo al degeneramento fisico
e morale della specie; ed invero il bisogno nella donna non esprime
nullameno che questo.

Là dove la donna ha duopo dell'uomo per vivere, la sua schiavitù è ben
altrimenti dura, che dove questa non trova la sua ragione che nella
forza del muscolo. La forza può distruggere l'opera della forza, ma
la sferza del bisogno è tremenda; ella doma la più fiera natura, ella
espugna la rôcca più salda, e dalla lotta deplorevole e funesta non ne
escono che due demoralizzati ed una derelitta posterità.

Se non che, dovendo io tornare sull'argomento del lavoro femminile,
mi basterà per ora di avvertire le mie colte lettrici, che non si
lascino sì leggermente sedurre dalla manía di classificare gli esseri,
ed assegnar loro delle funzioni prima di aver ben studiata la natura;
poiché gli è per lo appunto uno sterminio di classificazioni che ci
abbisogna ora fare per riabilitare la donna e risollevarla dal fango,
in cui fu per secoli trascinata.

Ci abbisogna ora scernere in lei, attraverso ai pregiudizi antichi,
la vera sua potenza, sceverare in lei l'opera della natura dall'opera
fittizia della educazione, affinchè più non ripetano i nostri posteri
le stolte sentenze, che con sì solenne gravità proclamarono fin qui
le menti pregiudicate, _la donna dev'esser così_! Illusi! Studiate la
natura in luogo di ammaestrarla; e ricevete voi le sue leggi anzichè
volerle imporre le vostre.

Ovunque la natura mostra ragione, là v'è dovere e diritto di progresso;
ovunque mostra attitudini, là v'è dovere e diritto di funzione; ovunque
presenta intelligenza e volontà nell'essere stesso accoppiati, là v'è
in un colla capacità un diritto incontestabile al libero ed autonomico
svolgimento della vita morale.

Certe dottrine, che non riconoscono le unità umane, ma che veggono
dovunque degli esseri incompleti, favorendo assai il sistema
d'assorbimento inaugurato e gelosamente propugnato dal sesso ora
felicemente regnante, trovano facili adesioni e caldi campioni.

In quanto a me, sendomi dichiarata nemica di ogni dispotismo, col quale
non scenderò mai a transazioni, principio dal rifiutare quelle dottrine
coi loro pii corollarii, assumendomi di provare a luogo e tempo, che
ogni unità umana ha in sè, da natura, quanto basta per fermare la base
d'ogni diritto, pel compimento d'ogni dovere; e che però qualunque
limitazione, rappresentanza e tutela esercitata ed applicata oltre i
confini assegnati dalla vera e non fittizia natura delle cose, è un
attentato mostruoso alla base d'ogni diritto che, non dall'uomo, ma
dalla natura fu creata; e qui, come dovunque, dovremo poi constatare,
che non si lotta mai con vantaggio contro la natura e le sue leggi
morali.



LA DONNA E LA SCIENZA


                          Le donne antiche hanno mirabil cose
                          Fatte nell'arme e nelle sacre muse,
                          E di lor opre belle e glorïose
                          Gran lume in tutto il mondo si diffuse.

                          Ben mi par di veder ch'al secol nostro
                          Tanta virtù fra belle donne emerga
                          Che può dar opra a carta e ad inchiostro
                          Perchè ne' futuri anni si disperga.

                                      ARIOSTO, _Canto XX_.

Ridire tutto che fu detto, pensato e giudicato sulla creduta
innettitudine dello spirito femminile alle produzioni
dell'intelligenza, non è cosa che in due parole possa farsi.
L'uomo, per fini che non è difficile troppo immaginare, tentò sempre
persuaderselo, e colla forza e coll'autorità, colla potenza d'una
opinione ingiusta, che egli diffuse in ogni modo, tentò persuaderlo
alla donna altresì, la quale, a sua volta, siccome avviene che allo
scoraggio ed al sentimento della propria nichilità tenga dietro una
profonda ed assoluta atonia, principiò a persuaderselo ella stessa,
e cadde così nella più funesta sventura che incogliere possa essere
morale, nella completa incoscienza di sè, delle proprie facoltà, delle
proprie forze.

Tutto congiurò ad annichilirla: e la forza brutale, che di null'altro
curavasi che di porre a profitto le sue membra a vilissima servitù;
e la perpetua soggezione, che la tiene sempre pendente dallo
arbitrio altrui, epperò informata la vuole ad estranei interessi;
e la incapacità legale, che le è aggiudicata senza restrizione o
considerazione d'età o di individuo; e la scienza, che sebbene la vegga
starsi coll'uomo in ragione di causa e d'effetto, pure facendo per
lei eccezione all'ordine delle cose tutte, pretende che qui soltanto
sia la causa d'altra natura dello effetto suo: e la letteratura, che
null'altro mai trova di laudabile in donna che l'occhio, le carni,
le chiome, il grazioso incesso e le tornite membra; e lo abborrimento
che molta parte degli uomini si reca ai gravi studi, onde fastidiosa
loro torna ed importuna la donna, il cui spirito serio e colto sentono
di non potersi facilmente sedurre colla scarsa scienza di sciorinare
scipiti complimenti, nè col natural dono di un prepotente polmone;
e lo angusto confine dalle istituzioni d'ogni paese statuito alla
femminile coltura; ed il poco caso che sempre se ne fece, sicché dai
corpi accademici perfino respinta, quasi gli allori da essi intrecciati
non la scienza destinati siano a coronare, ma teste virili puramente e
semplicemente.

Da tutta questa congiura contro la femminile intelligenza che ne
emerse? Ne emerse, che i progressi dello spirito umano siano più
lenti; ne emerse che ogni uomo, aventesi ai fianchi una donna, in
luogo d'aversi _lo aiuto a lui convenevole_, s'abbia un ingombro;
ne emerse che questa creatura, nella quale si innoculò con tanto
studio il sentimento della sua innettezza, perda ogni dignità, e con
la dignità ogni morale; ne emerse che lo spirito suo, avendosi pur
d'uopo d'alimento, nel lusso lo cerchi e nella sola fama concessale
di bellezza, e la bellezza procuri con la vanità, e con la vanità
resti ogni amor di famiglia assorbito, e si persuada alfine dover ella
unicamente, siccome una odalisca, ornarsi a piacere, d'ogni altra cura
immemore e non curante.

Dietro simile educazione io non seppi mai concepire come si osi menar
tanto scalpore del mal costume femminile e della poca costanza di
sentimenti, e della mobilità dello spirito, e del vacuo cicalìo, e
della inutile vita, e dei mille nonnulla di cui assidua la donna si
circonda, così significativamente espressi e riepilogati dagli antichi
romani con quel felice vocabolo di _mondo muliebre_! Forse che è lecito
all'orticultore querelarsi di raccoglier cavoli dove piantò cavoli, e
di non mieter che fieno dove non seminò che erba? Bisogna esser giusti!
Cento volte lo dissi ed ancora lo ripeto: lo effetto tien natura della
sua causa, e la conseguenza scaturisce spontanea dalla premessa.

Oggidì, a vero dire, s'è mitigato non poco il pregiudizio della
femminile pochezza d'intelligenza; ma per essere la società nostra meno
idrofoba su questo articolo, non è però più larga nell'offrir mezzi
di coltura alla donna che, se ella tenta lo innato ingegno volgere ad
utili studii, mille materiali e morali imbarazzi le è d'uopo superare e
vincere.

Angusti e stinchi sono i programmi d'insegnamento che la riguardano.
Le si parla di tutto, e quando comincia a comprendere le si chiude
il libro dinnanzi e le si dice: _basta_; sicchè, s'ella sortì da
natura spirito generoso e nobilmente curioso di sapere, vedesi dannata
alla pena di Tantalo, nè v'ha provvedimento alcuno che incoraggi il
suo genio, quand'anche prepotente si manifesti in qualsiasi branca
dello scibile, mentre centinaia d'uomini, che natura sortiva inetti
di spirito ed angusti di mente, insegue inesorabile la sferza del
pedagogo, e da lor s'affatica e suda il mal capitato maestro ad estrar
lume d'intelligenza, che però mai non giunge.

Nè mi si dica che la baldanza del genio giunger deve a domare le
difficoltà, a superare ogni barriera. Ciò è vero per alcuni, ma
non lo può esser per molti, chè alla lotta non tutte le nature
sortono inchinevoli, anche fra i parecchi che aver possono svegliata
intelligenza; che se a cotal legge subordinar volessimo tutto il viril
sesso (e lo fosse stato fin qui), l'umanità non avrebbe discorso pur
la metà del suo intellettuale cammino, chè mancato avrebbe a tutte le
intelligenze, che potentemente l'aiutarono, dottrina ed ispirazione.

Raffaello non raggiunse la perfezione dell'arte se non dopo aver visto
le opere immortali del Buonarotti; Cristoforo Colombo immaginò un nuovo
mondo, essendo già peritissimo nauta e geografo; Galilei scopriva
il moto della terra, sendo profondissimo in fisica; così Newton
l'attrazione astrifera, così Volta la pila elettrica, e così in tutto e
sempre procede lo spirito umano dal noto all'ignoto, sendo egli debole
nell'intuizione e potente nel raziocinio.

Ora, che per aversi comunemente una fiacca opinione della capacità
femminile, le si accumulino davanti gli ostacoli, le si tolga ogni
mezzo, e le si allunghi il cammino, questo è ciò che non giungo a
giustificarmi, chè sarebbe come spargere dei ciottoloni e dei macigni
sul suolo dove il bambino muove i primi passi adducendo a ragione
ch'egli non sa camminare. Se questo sia logicare ditelo voi?

Ma un cotal trasnaturamento dei semplici dettami della ragione non potè
farsi universale coscienza, se non per quel difetto di principii che
ci è tante fiate occorso di lamentare nel corso di questo lavoro. Gli
uomini abbuiati dallo errore, e sedotti dagli interessi, non risalgono
ai principii mai, si fanno sordi al dovere, giungono a scordarlo,
quindi ad ignorarlo affatto, e la società scende alla fine a non essere
altro che un meccanismo svolgentesi colle mobili e gratuite forme della
convenzione.

Si è convenuto adunque che la donna non deve sapere: epperò si dirige
in modo la sua intelligenza, o meglio se ne sopprime così lo sviluppo,
da condurla alla perfetta evirazione. Che se alcuna giunge, mediante
erculei sforzi, a districarsi da quegli impacci, che ingombrano il
sereno ed ampio orizzonte della sua mente, eccole addosso l'opinione
co' suoi mille proiettili, ecco la critica coi suoi mille strali, la
satira coi suoi morsi, la maldicenza coi suoi pungoli, il pregiudizio,
lo scandalo e tutta la falange degli inutili e dei nocivi, di cui
il mondo ha dovizia, che la lingua tengono nel nobile esercizio di
parlare a proposito ed a sproposito di tutto, e di tutti, asserendo,
condannando, ed assolvendo senza darsi briga nessuna di essere giusti e
ragionevoli! E come lo sarebbero?

Codesta gente (Dio loro perdoni) sono davanti all'umanità, che cammina
verso la civiltà e verso il bene, come i ciottoli che si pongono
davanti le ruote d'un veicolo; se questo nella sua corsa non riesce
a triturarli, soverchiandoli rapidamente senza curarli, esso ne sarà
arrestato. E ciò sia detto a voi, giovani mie lettrici, nel cui spirito
per avventura allignasse nobile desiderio del sapere, e nel generoso
intento veniste scuorate dal più o meno esteso pregiudizio. Coraggio,
ed avanti! Il bene, è bene in sè stesso, ed a sè stesso basta, abbia o
no l'applauso dei molti; e la coscienza del ben fare è largo compenso
all'ignoranza, che non lo sa apprezzare.

Nè crediate che l'intelligenza e le sue produzioni siano un privilegio
dell'altro sesso chè, abbandonandovi al letargo nella creduta
impossibilità di molto fare, nulla poi fate, e ad ozio vergognoso
passate i giorni, gli anni, e la vita. Se gli uomini tutti avessero
la mente di Alighieri, di Vico o di Macchiavello, l'umanità per vero
sarebbe a sufficienza servita, ma le sono queste unità colossali che
tutti i secoli celebreranno, vedendosene assai di rado riprodotte le
copie, mentre a centinaia ed a migliaia veggiamo intelletti ottusi
e spiriti angusti, che appena bastano al disimpegno dei famigliari
interessi o di materiali gestioni, che non sono che la quotidiana
ripetizione dell'egual meccanismo; chè in quanto ai mille altri che pur
raggiungono gradi accademici, quando si considerino i lunghissimi anni
di pertinace studio, e i mille mezzi d'istruzione aperti alla viril
gioventù, la congiura dei parenti e degli insegnanti, delle istituzioni
e delle opinioni, dei mezzi e della necessità a spingerveli, sarebbe
invero un disgraziato fenomeno se difettasse loro anche quella facoltà
che è la memoria, e quel poco di criterio necessario a rendersi conto
di ciò ch'ella ritenne.

Che se, dopo pochissima riflessione sul diverso procedere della
educazione e dello insegnamento riguardo ai due sessi, veniste a
stabilire, che l'uomo ha il privilegio dell'intelligenza; o che non
sapremmo cosa pensarci del criterio vostro, o che saremmo indotti nel
dubbio che, amando voi sopra ogni utile e nobile cosa la vacuità della
vita e la inerzia dello spirito, onde almeno essere a voi conseguenti
mostriate portar profonda la credenza della vostra nichilità.

Ma s'egli è questo basso fine che vi muove, l'onta vostra non estendete
ad altrui, e non calunniate tutto il sesso vostro, che potentemente e
vittoriosamente vi risponde col linguaggio dei fatti.

Sì, la donna, benché da mille materiali impacci circondata, a gran
dispetto d'una educazione che altamente le raccomanda di saper meno
che le sia possibile, di sotto all'immane pondo d'una opinione orba
di senso morale, che le perdona più presto il mal costume che non
il sapere[13], ha saputo ben sovente giungere attraverso a mille
ostacoli a mordere il pane della sapienza ed a ristorare le assetate
labbra nelle onde immortali d'Ippocrene. Nè le scienze esatte, nè le
speculative, nè le opere della fantasia, nè quelle del gusto, nè le
arti estetiche, nè le strategiche la trovarono insuscettibile, laonde
ciò veggendo cantava lo divino Ariosto:

    «_Le donne son venute in eccellenza_
    «_In ogni arte dove han posto cura_».

E questo vi ripete l'antica Didone, che fondava Cartagine e la sua
prosperità.

La temuta Semiramide, che gettò le fondamenta di quello impero
babilonico che assorbir dovea l'Asia tutta, ed i popoli civilizzò e le
arti incoraggiò e protesse, e saggia legislazione impose, e vasti ebbe
i concetti ed il braccio intraprendente.

La fortissima Zenobia, che tenne salde le conquiste del consorte, le
estese, e gli eserciti sempre guidò con arte profonda ad infallibile
vittoria.

Debora che, giudicando Israele con ogni saviezza durante lo teocratico
governo, cantava di sè stessa: «Le villate in Israel erano venute meno,
erano venute meno, finch'io Debora sursi, finch'io sursi per esser
madre in Israel». Ella reggeva Israele nei difficili tempi, in cui
stavasene travagliato dalla invasione di Jabin potente re di Canaan,
che aveva sopra quel popolo spedito Sisara, del quale un'altra donna
sbarazzava Israele.

Amalasunta, regina degli Ostrogoti, che saggiamente resse l'Italia
nella minorità del figlio Atalarico; e tentò civilizzare i suoi barbari
popoli, ed il giovine principe educar fece, in onta ai costumi della
sua nazione, nella scienza e nelle arti.

La grande Isabella, che sortito avendo alti spiriti, cuor generoso ed
indole intraprendente, sola fra i sovrani tutti d'Europa incoraggiava
di protezioni e di mezzi Colombo all'alta scoperta, e finché visse
lo coperse dalla vigliacca gelosia del consorte, e dalle basse
persecuzioni dei grandi.

Pulcheria, imperatrice d'Oriente, che preceduta e seguìta da una serie
di principi inetti e viziosi, diede, nella durata del suo saggio
reggimento, un'epoca di tregua e di prosperità al travagliatissimo
impero.

Atenaide, quindi Eudossia, che portò sul trono l'amor del sapere,
laonde sposa d'un principe inetto, quale si fu Teodosio, giovine e
bella nella più svagata e molle e dissoluta corte, qual era quella di
Bisanzio, seppe pure la vita nobilitare fra utili e serie occupazioni.
Scrisse un poema sulla vittoria delle legioni latine sopra le persiane
falangi (l'anno 421). Verseggiò i cinque libri di Mosè e le profezie
di Zaccaria e di Daniele. Scrisse un poema in tre volumi intorno a
S. Cipriano ed a Santa Giustina, e finalmente pubblicò il Centone di
Omero, unica fra le opere di lei che ancor ci rimanga.

Elisabetta di Inghilterra, il cui talento politico potentemente si
rivelò nei quarant'anni di prosperità che quel paese godè sotto il suo
reggimento.

Bianca di Castiglia, che resse con forte braccio i Francesi tumultuanti
ed insofferenti del suo impero, ed abbenchè piissima, pure liberò i
contadini dalla ecclesiastica autorità, che degenerata era in barbara
tirannia.

Maria Stuard, le cui sventure e la prematura tragedia impedirono solo
di sviluppare i germi del raro ingegno. A quattordici anni conoscitrice
di diverse lingue, con un'anima profondamente sensibile alle sublimi
attrattive della estetica, arringava in purissimo latino la corte
francese, che attonita l'udiva, davanti ai capi d'arte.

Catterina I, imperatrice di tutte le Russie, che sorta dal popolo,
non mostrossi però spostata sul trono, eseguì, dopo la morte del
magno Pietro, la sua politica civilizzatrice, fondando i primi corpi
accademici a Petersbourg.

Catterina II, dal signor di Voltaire chiamata la _Semiramide del Nord_,
che seppe sì gloriosamente regnare da farsi perdonare il violento
colpo di Stato della notte dell'8 al 9 luglio, col quale sbarazzava
il trono dell'inetto marito, e sola impugnava le redini dell'impero.
Incoraggiò l'agricoltura, creò la marina, promulgò utili leggi per
l'amministrazione e per la giustizia. Chiamò a Mosca i deputati di
tutte le provincie allo scopo di riformare la legislazione, e presentò
all'assemblea le istruzioni scritte di proprio pugno in francese, e
che, traslate poi nel moscovita idioma, stanno deposte nella biblioteca
dell'Accademia di Petersbourg. Allargò i confini del già vasto impero,
legando a' suoi successori l'indomabile orgoglio della conquista.

Cristina di Svezia, che portò sul trono un carattere intraprendente
e fermo, e stese i confini del regno di molte provincie, resse con
saviezza, amò le arti e le scienze, ed ella stessa lasciò monumenti
della sua robusta intelligenza in diverse produzioni.

Maria Teresa, che seppe con fermezza straordinaria, in freschissima
età, resistere imperterrita a tutta l'Europa coalizzata, sostenendo,
contro tutti, i diritti conferitile dalla Prammatica sanzione; ed
all'ardua lotta si accinse col tesoro vuoto e 30 mila uomini male
organizzati. Ridonata la pace all'impero, resse con scettro materno
le diverse nazioni, e misera l'Italia se i suoi successori ne avessero
tutti imitata la bontà e la saviezza: essi ci avrebbero adusi a baciare
le straniere catene eternamente. Espulse i gesuiti, iniziando così
quella riforma che Giuseppe II suo figlio proseguì con sì filosofico e
felice ardimento.

Nè così presto la finirei, se tutte nominar dovessi le donne
che felicemente ressero popoli e nazioni[14], e che nei politici
accorgimenti si segnalarono, anche non essendo alla testa degli Stati;
riportandomene sopratutto a quella Francia che con una inqualificabile
inconseguenza, mentre nega a testa di donna la corona, ed a destra
femminile lo scettro, decreta però a quella le cure della reggenza,
ed in mano le pone le redini del governo, rendendo così giustizia alla
sua capacità nel mentre la insulta coll'esclusione nominale, quasicchè,
di fatto, alla suprema reggente d'uno Stato la cuffia differisca dalla
corona.

Nè meno si segnalò la donna nelle scienze e nelle arti, alle quali ha
pur chiuso affatto ogni cammino, e nelle quali non giunge a segnalarsi
se non a patto di combattere da sola tutti gli ostacoli frapponentisi,
di sollevarsi colla sola potenza del suo genio e della sua volontà, di
sempre procedere nell'arduo sentiero senza maestro e senza guida.

Saffo di Mitilene, per la classica bellezza dei suoi versi, fu
sopranominata la decima Musa.

La greca Aspasia salì in gran fama pel suo pubblico insegnamento di
filosofia.

La celebre Isotta, signora di Rimini, in acerbissima età trattava
familiarmente le lingue morte, e versatissima fu in molte scienze e
specialmente nella filosofia morale, nella fisica e nella poesia.

Maria Cönnitz, versata nella scienza delle sfere, pubblicava, nel
1650, le sue riputate tavole astronomiche sotto il titolo di _Urania
propitia_.

Maria Angela Ardinghelli, napoletana, fu celebre nelle scienze fisiche
e nell'algebra.

La nobile Maria Gaetana Agnesi di Milano, fiorita nel principio dello
scorso secolo, pubblicava, nell'età di 9 anni (!) una orazione latina
in difesa della donna. Negli 11 anni conosceva il greco, tanto da
gustarne gli autori e parlarlo speditamente (le lingue morte sono
pure i due martirii della studiosa gioventù!) e conobbe il francese,
lo spagnuolo, l'ebraico ed il tedesco, quindi l'animo volse a severe
discipline. In età di 16 anni traslatò i supplementi del Freinsemio
al Q. Curzio in quelle quattro lingue. Nel 1748 pubblicava il suo
testo delle Istituzioni Analitiche, tanto di poi riputato, per cui
Benedetto XIV la chiamava a coprire la cattedra onoraria d'analisi
nell'università di Bologna. Non vuolsi ommettere, che questa rara donna
accoppiò allo splendore dell'intelligenza la più profonda modestia,
e la più integra virtù ad una peregrina bellezza, cose tutte che,
per esperienza della pochezza della umana natura, sembrano, se non
elidersi, certo almeno ben difficilmente accoppiarsi.

Giuseppina Renier, della famiglia dei dogi Renier, donna di finissimo
spirito, del quale fanno chiarissimo testimonio le opere da lei
lasciateci e specialmente la sua accreditatissima storia: _Delle
origini delle feste Veneziane_.

Tullia d'Aragona, autrice del poema epico il _Meschino_, e chiara in
ogni poesia.

Teresa Bandettini, poetessa estemporanea. Tradusse i Paralipomeni
e pubblicò il poemetto l'_Adone_ del Teseide, del Montramito e del
Viareggio. Fu eccellente nella lirica e nelle cantate, nelle odi e in
ogni forma poetica.

Properzia dei Rossi, fu, nel secolo XV. pittrice e scultrice di molta
fama.

Rosalba Carriero, giunse a grande fama d'artista nella miniatura e nel
pastello.

Anna Monticelli, napoletana, fu chiara nel diritto.

Pellegrina Amoretti, fu laureata in legge nell'università di Pavia, ed
a profitto dei poveri sempre volse la rara eloquenza.

Suor Maria Dominici, Ginnasi Catterina, Angela Cantalli Cevazza,
Camilla Lauteri, Elisabetta Lazzarini, Isabella Pozzo, Lucia Scalini,
Lucrezia Quistelli, Annida di Massimo, Arianna Maria Galli, Luigia
Capomazza, Ginevra Gentosoli, Francesca Fantoni, Barbara Longhi,
Veronica Fontana, Teresa Muratori, Teresa dal Po, Maria Robusta
Tintoretta, Elena Recca, Lucrezia Scanfaglia, Flaminia Reggio e le tre
sorelle Siriani, tutte, coltivarono con fortuna la pittura e tutte nel
secolo XVI, secolo che altre assai ne conta, ma troppo lungo sarebbe lo
annoverare.

Maria Teresa Agnesi coltivò la musica, e delle sue composizioni ancor
ci rimane la _Sofonisba_. La francese letteratura illustrarono la
Scudery, la Fayette, Ninon, madama di Sevigné (le cui lettere sono
tuttavia testo di stile epistolare), madama di Montespan, madama
Maintenon, madamigella Lolotte.

Nella filosofia morale si distinsero madama Neker, che nel suo trattato
d'educazione rivaleggiò il famoso Emile di Rousseau; la marchesa di
Sablé, madama Genlis.

Nella filosofia sociale: madama Staël, e quel sommo intelletto che
oggidì illustra la Francia sotto il pseudonimo di Giorgio Sand, Anna
Dupin, baronessa Du Devaent, che tanta luce profonde sulla filosofia
razionale, nei suoi numerosissimi lavori.

In Italia coltivarono filosofia: Vittoria Colonna, la Stampa, la
Gambaro, ed oggidì trattano morale filosofia la Guidi, la Ferrucci,
la Torsellini, ed altre assai che la vita consacrano allo insegnamento
della femminil gioventù.

L'Irlanda vanta: in Maria Edgewort, l'inventrice del romanzo storico
ed il fecondo ingegno che una miriade nel popolo ne diffuse a
piacevolmente istruirlo.

L'Inghilterra, le cui donne sono colte, ci mostra con orgoglio miss
Witt Mario, vasto e profondo intelletto che dalla cattedra di New-York
dettava all'accorsa gioventù i dettami del viver civile: e l'America
del Sud, nel giorno in cui si leverà, colla schiavitù dei negri, la
macchia che la deturpa, ergerà un monumento a miss Beecker Stow che
le fa, col potente e benefico ingegno, da sentinella avanzata della
civiltà.

E dopo tutto il fin qui esposto ed il molto più ancora taciuto, che
però le mie colte lettrici non ignorano, sulla potenza del femminile
ingegno, non ci sembrerà certo adulazione ciò che Ariosto scrisse, ma
essere pura e semplice verità.

    «_Le donne son venute in eccellenza_
    «_In ogni arte dove han posto cura_».

Perchè, mai adunque non porrebbero desse cura a coltivare in sè stesse,
dalla età tenera, questi preziosi doni di cielo? Non sapete voi che
l'umanità si travaglia per penuria d'intelligenza, e che la civiltà
non potrà mai rapidamente universalizzarsi finchè non si generalizzi
nella donna l'amor del sapere? Che non mai tanto l'uomo sarà punto a
generosa emulazione, come quando temerà di vedersi per ogni dove dalla
donna superchiato? Che non mai sarà la umana società tanto felice come
quando l'uomo volgerà le sue mire conquistatrici al nobile primato
dell'intelligenza, più non curando il primato del muscolo? Nè mi fate
le timidi obiezioni dell'opinione, della critica, del biasimo. Per
dio! siamo abbastanza numerose da formar noi pure un'opinione, un
criterio, una coscienza; siamo una massa abbastanza compatta e potente
da combattere con vantaggio e con successo contro la guerra di polmoni,
che ci può muovere la opinione, che in molta parte da noi stesse è
formata.

    «_Non distrugge città guerra di lingue_»

come non consuma i libri la critica più spietata, come il sole non
perde pur uno de' suoi raggi per agglomerarsi di basse nubi.

È d'uopo che la donna alfin si sollevi al sentimento del suo intrinseco
valore, e sè stessa estimi per quel che vale, e non dall'altrui
giudizio sempre servilmente aspetti ed apprenda la cifra del suo
valore.

Si parlò da molti, e noi stessi parlammo, della influenza della
donna nella famiglia e nella società, influenza che ogni esistenza
esercita sulle vicine direttamente od indirettamente pel natural
ordine delle cose, e nel caso nostro anche infinitamente più sentita,
sendo i rapporti della donna coll'uomo tutti affettivi, epperò questo
ascendente suo potente e diretto.

Ma avviso nostro non è soltanto, che educare e coltivar si debba
la donna, affinchè miglior utile rechi all'uomo, e più così a lui
s'aggiunga di potenza morale chè, quando tutti qui fossero i motivi,
che portar debbono la donna alla scienza ed allo sviluppo delle sue
morali facoltà, rispondendo lo egoismo femminile degnamente al virile,
potrebbe dessa, con qualche ombra di ragione, ricovacciarsi per altri
secoli nella sua tranquilla nullità, dicendo: se l'uomo tentò abrutire
il mio spirito, perchè mi affannerò io a produrre per lui; raccolga
egli ciò che ha seminato, non trovi che nullità ove non piantò che
ignoranza, e vizio mieta dove non seminò che pregiudizio. Perchè mi
sacrificherei alla famiglia? Perchè ogni dolore incontrerei lieta per
una prole che, adulta, imparerà dalle istituzioni del suo paese ad
avermi in poco conto; per un consorte, che verso di me modestamente
s'intitola padrone unico ed assoluto? Perchè sentirei io pietà del
povero, mentre la mia stessa proprietà è soggetta all'arbitrio altrui,
ed in faccia allo Stato tutti i danni soffre, e non gode nessun dei
vantaggi? Perchè lo egoista istinto materno immolerei alla patria;
e l'oro e le gioie e l'opera le consacrerei, se la schiavitù mia sta
sotto ogni forma di governo nazionale o straniero, laonde le patrie
questioni non sono per me che tesi astratte e di remotissimo interesse?
Perchè ogni impulso di natura aggiogherei, tiranneggiando me stessa,
per piacere ad un uomo che non si dà per me l'egual pena, creando a
sè una morale dagli ampii margini, mentre a me disegna i confini più
angusti appena escogitabili dal personale arbitrio?

E la donna così pensando, ed operando in conseguenza, scarsa vendetta
farebbe delle patite enormità; e non potrebbe l'uomo troppo lagnarsene:
ed ella avrebbe il pien diritto di cavare cotali conclusioni dalla
lunga storia de' suoi martirii. Ma oltrecchè la donna, fornita ben più
dell'uomo d'animo generoso, di raro i conti suoi fa colli interessi, e
sempre col cuore; ella così facendo non farebbe che ribadire le catene
della sua schiavitù, ed affermare la nullità della sua intelligenza.
Laonde non quei soli indiretti motivi portarla debbono a coltivarsi, ma
altresì lo suo stesso interesse e diritto e dovere.

E dicemmo diritto e dovere; e questo diritto e questo dovere stanno,
in onta alla secolare oppressione in cui giacque la intelligenza
femminile. Ed egli è appunto perchè il sapere è suo diritto e suo
dovere, che vani riescirono tutti gli ostacoli, deboli i ceppi,
sprezzate le autorità, superate le barriere, vinte le lotte, il
sarcasmo domato e spuntati i ridicoli. Gli è appunto perchè il sapere
è suo diritto e suo dovere, che l'uomo ragionevole ed equo piega
alfine la vinta cervice innanzi allo splendido vero, alla evidente
affermazione del fatto. Gli è appunto perchè è suo diritto e suo
dovere, ch'ella pronta e spontanea rispose all'appello della civiltà,
e di sè ingombra infinite scuole, dove la filosofia parli al popolo
un benemerito; ed atto assiduo di presenza fa agli atti del nazional
parlamento, rendendo talora più significativo il contrasto fra le
affollate tribune e i vuoti stalli. Sì, il diritto ed il dovere
sono ovunque dall'ordine delle cose posti in rapporto di causa ed
effetto. Le attribuzioni dell'essere o della cosa determinano la
sua destinazione, ed ecco il dovere; la potenza di porre quelle
attribuzioni in moto a raggiungere quella destinazione, ecco il
diritto.

La donna, dotata d'intelligenza, ha tracciato il dovere nello
sviluppo e nella applicazione di codesta medesima intelligenza,
e nessun dovere mai fu sì fecondo in diritti. Lo sviluppo dello
spirito e l'applicazione utile ed assidua delle sue facoltà importa
l'affermazione del suo intrinseco valore donde l'estimazione,
donde la consacrazione della sua autonomia, la abolizione della sua
perpetua minorità, la libertà de' suoi atti, un diritto civile, un
diritto politico, un più lato programma d'insegnamento, un vasto
orizzonte discoperto alla nobile curiosità della mente, un utile e
fecondo riempitivo alla sua vita, un rimedio potente e certo contro
l'irrefrenabile sbadiglio cui è dannata dalla sua presente nullità.

Oh venga presto quel giorno, che deve certo venire, nel quale la
donna, profondamente compresa dalla coscienza de' suoi destini, e
della propria virtù, forte del sentimento del proprio diritto, sorga
a rifarsi con assiduo e nobile lavoro della nichilità morale di tanti
secoli!

Sorga quel giorno, che certamente verrà, nel quale la donna trovi nel
tesoro della sua intelligenza la leva potente a sollevarsi dal petto
quella pietra sepolcrale che la segrega, siccome cosa spenta, dal
consorzio dei viventi alla vita morale!

Oh spunti quel giorno, di cui già si traveggono i felici albori, nel
quale la donna ogni ammirazione volgendo al genio ed alla virtù, si
sbarazzi all'intorno di quei sdulcinati ed imbelli amatori, che nulla
di meglio nè in sè, nè in lei ora trovando, cantano in essa:

    «_Stelle gli occhi, arco il ciglio, e cielo il viso,_
    «_Tuoni e fulmini i detti, e lampi i guardi,_
    «_Bocca mista d'inferno e paradiso;_
    «_E che i sospiri son bombe e petardi,_
    «_Pioggia d'oro i capei, fucina il petto_
    «_Ove il magnano amor tempera i dardi_».

Oh vergogni ogni donna di non ispirar nulla di meglio che di codesta
roba! sì, meschina lei, finché null'altro trovasi di laudabile in lei
fuorché ciò che non è suo. Non è possibile dirle più civilmente, con la
migliore volontà del mondo, non posso farmi più onore di tanto, con sì
meschino e sgraziato argomento.

Giovani colte e lettrici mie, a voi tocca, ed a voi sopratutto importa
che quel giorno presto si levi sull'orizzonte; e da voi eziandio
affatto dipende. Oh spogliatevi delle inutili vanità, sgombrate il
cieco pregiudizio, scuotetevi di dosso la indolenza dello spirito,
fortificatelo ai gravi studii, volgetelo alle severe discipline, e
sorgendo voi a nuova vita, un vivo impulso darete a tutta quanta
l'umanità, che il vostro morale intervento aspetta, a completare
l'opera sua col concorso di tutti gli elementi che la compongono.

So che pur troppo tutto da voi non dipende: so che un dovere finora
trascurato dalla società è la istruzione vostra, la quale non è per
ora che un semplice dirozzamento, e quasi non basta neppure a darvi la
coscienza del troppo che vi manca.

Urge, per dio! che la coscienza pubblica si pronunci su questo bisogno!
La donna è dalla legge punita quando trovasi in contravvenzione, eppure
non le si dà nozione alcuna del diritto; la civil società la respinge
siccome _incapace_, ma nulla le si insegna di ciò che può farla
capace: l'opinion generale diffida della sua intelligenza ad onta dei
fatti che l'affermano, ma non le si presenta niun mezzo di sviluppo e
d'applicazione.

Dichiarata non responsabile ed incapace in ogni atto che le dà dignità
e le suppone intelligenza, responsabilissima reputata in ciò che la
infama, e capacissima di ciò che la fa punire o spregiare, ella è
veramente in faccia alla umana dignità il Paria e l'Ilota, col quale
sì la legge che l'opinione non si danno pena alcuna d'esser logiche,
conseguenti ed eque.

L'istruzione ed il lavoro, ecco le sole forze che possono e debbono
risollevare la donna ed emanciparla. Finché la società non l'avrà
fatto, nessun argine resisterà al torrente della corruzione, niuna diga
si opporrà al degradamento morale e materiale della specie.

Nè la legislazione potrà dirsi filosofica e razionale finché di tutti
i componenti la società umana non avrà tenuto conto, e non tutti
avrà veracemente tutelato; nè le istituzioni potranno dirsi libere
fino a che un elemento così numeroso qual è il femminile, dovrà tutte
subirle, senza contribuire alla formazione loro; nè la civilizzazione
potrà dirsi, non che compiuta, neppure iniziata, finché tanto resta
nella società, che civile si chiama, d'ignoranza procurata, di forzata
servitù e di insultante ostracismo sopra umane creature: nè un secolo
potrà dirsi illuminato se non riconosce il diritto dell'intelligenza
ovunque si trova.

Istruite la donna! Se la natura non l'ha fatta pel sapere, ella non
risponderà all'appello della scienza; ma s'ella vi risponde, allora
è nell'ordine di natura e di provvidenza ch'ella concorra al sociale
edificio.

Ella ha diritto al più pronto sviluppo delle sue facoltà; vi ha diritto
morale e giuridico.

Lo Stato paga delle università per gli uomini, delle scuole
politecniche per gli uomini, dei conservatorii d'arti e mestieri per
gli uomini, degli istituti d'agricoltura per gli uomini. E per la
donna? Potrà egli seriamente dirsi che lo Stato si occupi di lei? Le
scuole primarie! Ecco tutto.

Eppure lo Stato le impone delle leggi, la punisce nelle
contravvenzioni, ha per lei dei tribunali, delle prigioni, e per la sua
proprietà delle imposte. O non si consideri la donna neppur nei doveri,
o le si accordino anche i diritti, senza di che lo Stato è colpevole
verso di lei di violenza e di furto! E come noi severamente giudichiamo
l'antica e barbarica tirannia, i posteri così giudicheranno quella del
secolo XIX. Finirò colle parole di Fourier nel suo libro: _Théorie des
quatre mouvemens_.

«Che gli antichi filosofi di Grecia e di Roma abbiano sdegnato
gl'interessi della donna non ci sorprende, dacchè questi rettori erano
tutti partigiani innoltrati della pederastia, ch'essi avean levata
in grand'onore nella bella antichità. Essi gettavano il ridicolo
sulla frequentazione della donna, ed era questa passione considerata
ignominiosa. Costumi siffatti ottenevano l'unanime suffragio dei
filosofi che, dal virtuoso Socrate fino al delicato Anacreone, non
proclamavano che l'amor sodomita ed il disprezzo della donna; la
quale, quindi, relegata ad un secondo piano é rinchiusa siccome in un
serraglio, era bandita dalla società, degli uomini».

«Siffatti bizzarri gusti, non essendo in favore presso i moderni, non
si può a meno di meravigliare che i nostri filosofi abbiano ereditato
l'odio di quegli antichi sapienti per la donna, al proposito di
astuzie, alle quali è forzata dall'oppressione che sopra le gravita, e
dacchè le si costituisce un delitto d'ogni pensiero o parola conforme
al voto della natura.

«Chè di più inconseguente dell'opinione di Diderot, dove pretende che
per iscrivere alla donna è d'uopo intinger la penna nell'_Iride_ e
spolverare lo scritto col _pulviscolo delle ali della farfalla_?

Le donne possono rispondere ai filosofi: «La vostra civilizzazione ci
perseguita dacchè obbediamo alla natura; ci si sforza ad assumere un
carattere fittizio, a non ascoltare che impulsi contrarii ai nostri
desiderii. Per farci gustare dottrina siffatta è ben d'uopo mettere in
giuoco le illusioni ed il menzognero linguaggio, come fate al soldato
per illuderlo sulla sua misera condizione. S'egli fosse davvero felice,
potrebbe accogliere un linguaggio semplice e vero, che hassi gran cura
di non tenergli. Lo stesso è della donna; se libera fosse e felice,
ella sarebbe meno avida d'illusioni e di _moine_, e non sarebbe d'uopo,
scrivendole, di porre a contributo nè l'iride, nè la farfalla». — Pag.
146 e 147.

«Quando la filosofia satirizza e schernisce i vizii della donna, essa
fa la sua stessa critica; è dessa che produce quei vizii per un sistema
sociale che, comprimendola fin dall'infanzia e durante tutto il corso
della sua vita, l'astringe a ricorrere alla frode per abbandonarsi alla
natura.

«Voler giudicare la donna sul viziato carattere ch'essa spiega nella
civilizzazione, equivarrebbe al voler giudicare la natura virile sul
carattere del contadino russo, che non ha idea nessuna di libertà e
d'onore, e sarebbe come giudicare il castoro sull'imbecillità che
mostra nello stato domestico, mentre che nello stato di libertà e
lavoro combinato, esso è il quadrupede più intelligente. Lo stesso
contrasto apparirà fra le donne schiave della civiltà e le donne libere
dell'ordine combinato[15]».

«Esse sorpasseranno gli uomini in industria, nobiltà e lealtà, ma
fuori dello stato libero e combinato, la donna diviene come il castoro
famigliare ed il contadino russo, un essere tanto inferiore ai suoi
destini ed a' suoi mezzi, che si inchina a spregiarla, quando dalle
sole apparenze e superficialmente si giudichi». — Pag. 147.

«Una cosa sorprende ed è, che le donne sonosi ognora mostrate superiori
agli uomini, quando poterono sul trono spiegare i loro naturali
mezzi, dei quali il diadema garantisce loro il libero uso. Non è egli
certo che, sopra otto sovrane libere e senza consorte, sette hanno
regnato con gloria, mentre sopra otto re contansi generalmente sette
sovrani inetti? Le Elisabette, le Catterine non facevano la guerra,
ma sapevano scegliere i loro generali, e basta per averli buoni. In
ogni ramo d'amministrazione, le donne non hanno desse ammaestrato gli
uomini? Qual principe ha superato in fermezza Maria Teresa, che in
mezzo a supremi disastri, davanti alla vacillante fedeltà dei sudditi,
in mezzo a ministri, come percossi da stupore, sola intraprende di
tutti incuorare? Ella sa intimidire la dieta d'Ungheria, indisposta
a suo riguardo, arringa i magnati in lingua latina e conduce i suoi
propri nemici fino a giurare sulle loro spade di morire per lei. Ecco
un sintomo dei portenti che opererebbe la femminile emulazione in un
ordine sociale che lascierebbe un libero sfogo alle sue facoltà». —
Pag. 148.

«E tu, sesso oppressore, non sorpasseresti tu i difetti rimproverati
alla donna, se una servile educazione ti informasse per crederti,
siccome lei, automa fatto per obbedire a tutti i pregiudizii, e per
strisciare davanti ad un padrone che lo azzardo ti darebbe? Non si sono
esse viste le tue pretese di superiorità confuse da Catterina, che si
pose sotto i piedi il sesso virile? Istituendo dei favoriti titolati
ella ha trascinato l'uomo nel fango, ed ha provato così, che l'uomo
può, nella sua piena libertà, annichilirsi egli stesso al disotto della
donna, il cui avvilimento è forzato, e per conseguenza perdonabile».

«Sarebbe d'uopo, per confondere la tirannia degli uomini che esistesse
per un secolo un terzo sesso, androgino, e più forte dell'uomo. Questo
nuovo sesso proverebbe a colpi di bastone agli uomini, ch'essi son
fatti pel piacer suo quanto le donne. Udrebbersi allora gli uomini
protestare contro la tirannia del sesso ermafrodita e confessare
che la _forza esser non debbe l'unica norma del diritto_. Ora questi
privilegi, questa indipendenza, ch'essi reclamerebbero contro il terzo
sesso, perchè rifiutano essi d'accordare alla donna?» — Pag. 148.

«Segnalando quelle donne, che seppero prendere un libero slancio, dalla
virago, come Maria Teresa, fino alle tinte più dolci, come le Ninon e
le Sevigné, sono in diritto di dire, che la donna in istato di libertà
sorpasserà l'uomo in tutte le funzioni dello spirito e del corpo che
non siano di competenza della forza fisica.

«Già l'uomo sembra presentirlo; e si sdegna e si allarma quando la
donna smentisce col fatto il pregiudizio che le accusa d'inferiorità.
_La gelosia virile si è sopratutto manifestata contro le autrici:
la filosofia le ha espulse dagli onori accademici, e rinviate
ignominiosamente al domestico focolare_». — Pag. 148.

«Qual'è oggi l'esistenza delle donne? Esse non vivono che di
privazioni; anche nell'industria l'uomo ha tutto invaso fino alle
minute occupazioni dell'ago e della penna, mentre veggonsi donne
sobbarcate ai penosi lavori dell'agricoltura. Non è egli scandaloso
di vedere atleti di trent'anni aggomitolati davanti ad un banco,
o vettureggiando colle braccia vellose una tazza da caffè, come se
mancassero donne o fanciulli per le occupazioni del banco o della
casa?» — Pag. 159.

«Quali sono dunque i mezzi di sussistenza per la donna priva di mezzi?
La conocchia ed i suoi vezzi quando ancora ne ha. Sì, la prostituzione,
più o meno velata, ecco l'unica risorsa che la filosofia loro ancora
contende; ecco la sorte abietta ove le riduce questa civiltà, questa
conjugale schiavitù ch'esse non hanno pure pensato ad attaccare» — Pag.
150.

Fin qui Fourier, ed io, donna, a nome di tutto il mio sesso me gli
protesto ben riconoscente, che la penna eloquente abbia impiegata per
una causa, che interessar deve ogni spirito equo e generoso.

Se non che, rivolgendomi di bel nuovo alla donna, le ricorderò, che
se è dovere dell'uomo l'essere giusto; se sostituire dovunque il
diritto alla forza è compito della filosofia; se l'uguagliare tutti
gli individui dello Stato davanti alla legge, è opera doverosa della
legislazione; è però dovere, diritto, interesse supremo e vitale della
donna, che la iniziativa di queste riforme vengano da lei stessa.

La storia ve lo ripete ad ogni pagina, ad ogni riga. I diritti e le
libertà ottenute in dono sono illusorie; esse così sciolgono dalla
servitù materiale, per travolgere sotto una schiavitù morale colui, che
fu abbastanza codardo da non conquistarsela colla propria virtù.

Il dono addormenta la coscienza del dovere e del diritto in luogo di
svegliarla; ci adusa a lasciarci tutelare; ci sninnola in grembo ad un
illusorio ottimismo, e così, coll'atonia dello spirito, ci riconduce
pian piano alle catene.

La donna fece sopra sè stessa, ed a sue spese, questa triste
esperienza. Nel Medio Evo le corti d'amore diedero alla donna il nome
di regina e di signora, essa fu elevata, fu magnificata, fu idolatrata.
Ma quel culto era gratuito, era dono dell'uomo, di quell'essere
bizzarro che, mentre allora si faceva trafiggere da mille spade,
per meritarsi uno sguardo dalla donna de' suoi pensieri, trova ora
esorbitante che ella voglia essergli compagna piuttosto che schiava.

Ora la donna non si curò in allora di affermare la propria
individualità; e sebbene delle più e men numerose unità sorgessero
qua e là a tener desta e viva nel mondo l'idea della sua potenza
intellettiva e morale, la massa femminile, cullata fra le nenie
dell'amore, le si affidò all'intutto, e si addormentò di sonno profondo
nel grembo di quella deità capricciosa.

Avvenne ciò che avvenir dovea. Ella si destò, ma la sua condizione era
affatto cangiata. Amore e Mammona occuparono il suo posto sull'altare
venerato, l'uomo fu sacerdote, ed ella l'ostia ch'egli immolò in
omaggio a quella copia mostruosa.

Niun diritto, niuna libertà è potentemente affermata se a quella
libertà non si accoppia la coscienza, a quel diritto non si aggiunge
la potenza e la volontà di esercitarlo. Ora questa potenza, questa
volontà, questa coscienza non può essere impartita che con una seria
educazione, colla innoculazione della sapienza.

Madri! se punto vi preme che le figlie vostre siano più felici di voi,
oh non tardate a procurare alle loro facoltà il più pronto e più lato
sviluppo. Sopra di voi, sulla tenerezza vostra, sulla vostra coscienza
riposa tutto l'avvenire di una generazione.

Madri! se punto vi preme e v'importa la riverenza dei vostri figli, oh!
risollevatevi agli occhi loro colla forza della volontà e colla coltura
dello spirito; che se adulti vedere dovranno il vituperio, che aduna
sulle vostre fronti una generazione ingenerosa, ne tocchino però essi
stessi con mano la flagrante ingiustizia, e si preparino a riscattarne
le loro spose, figlie e sorelle.

Ricordatevi che l'ignoranza, e la servitù della donna suonano
ineluttabilmente, per lei, avvilimento, miseria, prostituzione;
per l'uomo, corruzione, abrutimento; per la specie, degeneramento;
per la filosofia un problema vitale insoluto; per la civiltà, una
impossibilità di avvanzamento; per tutta l'umanità, un immenso ritardo
nel suo cammino.

Finirò col rivolgere a tutte le donne che trattano la penna, quelle
severe parole di Fourier, amico generoso del sesso femminile, e verso
il quale ogni donna, che ha un cuore, tiene un debito di gratitudine.
Rimproverando egli loro con amarezza, di occuparsi così poco dei loro
stessi interessi, egli scrive:

«La loro indolenza in questo argomento è una delle cause, che hanno
aumentato il dispregio dell'uomo. Lo schiavo non è mai più spregevole
che quando, colla cieca e muta sommissione, persuade l'oppressore che
la sua vittima è nata per la schiavitù». — Pag. 150.

Infatti che fa la penna in mano alla donna, se non serve per la sua
causa come per quella di tutti gli oppressi?

Non basta che la donna, colle molteplici produzioni della sua mente,
porti ogni giorno davanti alla società una nuova affermazione della
sua intelligenza. Ciò sarebbe come pretendere che un popolo si sbarazzi
da uno straniero dominio a furia di legali dimostrazioni. Lotta, lotta
aperta vuol essere contro l'ingiustizia e la prepotenza. Non vedete che
ogni dispotismo non allarga d'un anello le catene della sua vittima che
quando sente stringersi al collo il nodo scorsoio?

Temete forse l'opinione, il sarcasmo, il ridicolo che l'uomo tenta
gettare a piene mani sulle aspirazioni della donna onde scoraggiarla
dal generoso assunto? Tenetevelo per fermo, egli avrà ben più voglia e
diritto di sorridere se non lo fate. Il vantaggio sarà tutto suo.



LA DONNA IN FACCIA AL DIRITTO


                            Tutti gli uomini hanno diritto di
                          concorrere a quei beni che sono atti a
                          conservare ed a _perfezionare_ il proprio
                          individuo.

                            Il diritto più eccellente dell'uomo è la
                          libertà e l'indipendenza. Questa libertà
                          comune, è una conseguenza della natura
                          dell'uomo.

                            .... giunto all'età della ragione,
                          diviene egli solo giudice dei suoi mezzi e
                          padron di disporne.

                            Non può l'uomo cessar d'essere uomo, per
                          divenire una cosa.

                            Un particolare che aliena la sua libertà
                          è folle; e la follia non può dare un
                          diritto. Un tal atto è illegittimo e nullo.

                            Tutti gli uomini sono uomini; che vuol
                          dire; tutti hanno la stessa natura e gli
                          stessi attributi essenziali; onde nasce per
                          tutti l'identità dello stesso fine e degli
                          stessi doveri.

                            L'eguaglianza degli uomini in natura è
                          la sorgente della benevolenza e dell'amore.
                          L'uomo si porta ad amar sè stesso nei suoi
                          simili.

                            Se tutti gli uomini sono naturalmente
                          eguali, niuno può nascere con un diritto di
                          comandare ad un altro.

                            TAMBURINI, _Corso di Filosofia Morale_.

Se il dovere che ci sforza all'abnegazione ed al sacrificio, che ci
grava di peso e di responsabilità, che c'impone talora di camminare
a ritroso delle nostre tendenze ed aspirazioni rimorchiando fin la
natura; se il dovere, dico, non facesse capo al diritto, egli non
sarebbe che un sentiero senza meta, un indirizzo senza scopo, un
tiranno che del tiranneggiare si fa gioia e sollazzo, godendosi di
curvare l'umana fronte sotto un giogo ingeneroso, che tutte le nobili
facoltà ne sfiacca e consuma in una tremenda quanto inutile lotta.

Ma no; il dovere che la legge suprema della morale (che è in altri
termini la legge dell'ordine) ci indica siccome necessità, non è
che mezzo a raggiungere l'ordine, l'armonia, lo equilibrio sociale,
donde il benessere e la perfettibilità universale, altissima meta che
provvidenza ebbe additata ad ogni ragionevole esistenza.

Ora, siccome il viandante che cammina alla patria, col desiderio
a quella rivolto e colla mente di quella solo preoccupato,
necessariamente sollecita il passo e dal suo sentiero il piede non
ritorce, nè sedotto dalle bellezze incantatrici del paese che percorre,
nè allettato dal mormorìo dei ruscelli, nè dall'ombra ospitale delle
quercie secolari, ed instancabile batte la sua via, benché grondante
sudore e dardeggiato dal sole, ripensando in cuor suo per aggiungersi
lena il domestico letto, e il desco famigliare e il casto amplesso
della sua donna e la giuliva e trepida corona de' suoi bambini; ogni
essere umano così, incontra coraggioso il difficile e penoso dovere,
quando a capo di quello veda ampia e proporzionata mercede.

E gridi pure a suo senno la stoica filosofia, che proclama esser la
virtù premio e corona alla virtù; che vuole accumuli l'uomo buone
azioni a buone azioni, e lotte e sacrificii a sacrificii e lotte
instancabilmente aggiunga, senza vuoto lasciarvi mai, e questo
chiami felicità suprema e massimo piacer della vita. In quanto a me,
ammirando la forza invitta di quei filosofi che lo eroismo si bevvero
siccome l'acqua, odo tuttora la voce del moribondo Bruto, che lagnasi
dell'error suo. «Infelice virtù, esclama egli, oh quanto mi sono
ingannato nel seguirti! Io credea pure che tu fossi un ente reale, ed
in questa convinzione mi ero attaccato a te stessa; ma ora m'aveggo,
che tu non eri che un nome vano, ed un vano fantasma, misera preda, e
schiava tu pure della fortuna!»

E Bruto, così desolandosi, era logico; egli era veramente la vittima
di un errore, egli scambiava il mezzo col fine. La virtù importa sforzo
e violenza; e se questa violenza può riescire di compiacimento massimo
allo intelletto, quando sovratutto ad alti fini s'ispira, esser non può
mai gioia e piacere a quella parte dell'uomo che trovasi violentata,
epperò è per sè stessa insufficiente a darci felicità.

È duopo dunque, che noi vediamo nella virtù un mezzo che ci guida alla
conquista del bene, e non già l'ultimo fine dell'uomo.

Nè crediate già, mie gentili, ch'io così voglia ridur la virtù ad un
mercato, strappandole dal capo quell'aureola luminosa di cui seppe lo
stoicismo incoronarla per poi presentarla all'umana schiatta, siccome
sola divinità alla quale piegare il ginocchio ed ardere incenso, mai
no; la virtù deve farsi sublime ed eroica nel vincolo solidale che
legar deve gli uomini d'ogni regione; laonde il bene universale cerchi
e procuri prima ed a preferenza dello individuale, e reputi degna ed
invidiata mercede al proprio lavoro il bene altrui. Questo è la logica
della virtù ed il suo eroismo: lo stoicismo è assurdo e follia.

Il gratuito non è degno mai dell'essere razionale, e non mai indicato,
nè tollerato mai dalla natura, la cui sete continua è l'ordine
e l'equilibrio; epperò l'uomo, che oggi combatte sè stesso senza
prefiggersi a ciò fare un utile scopo, cadrà domani irremissibilmente,
e la sua caduta sarà tanto più funesta, in quanto che non terrà nessuna
ragione di rialzarsi.

Ma lo scopo, al quale camminano l'umanità e l'individuo, è egli
fatale? — Certo che sì. E questa fatalità è potentemente espressa dal
tormentoso istinto del progredire, che descrive allo spirito umano un
cammino eternamente ascendentale.

Ora dov'è un istinto, là v'è una legge; dov'è una legge, là v'è un
dovere; dov'è un dovere, là è tracciato un diritto; questo diritto
non essendo che la legittima pretesa d'ogni essere al possedimento
autonomico, ed al libero esercizio dei proprii mezzi, da natura diretti
al compimento del fine. — Ed egli è in base a questo concetto, che
la ragione mi presenta, ch'io posso asserire senza tema d'errare, che
là dov'è un diritto senza dovere, od un dovere senza diritto, là v'è
squilibrio e disordine, donde immoralità, essendo l'uno rispettivamente
all'altro nei rapporti di compito e d'arnese.

L'essere umano, dotato d'intelligenza e di volontà, è perciò stesso
responsabile, sendogli il bene ed il male di libera scelta. Tale fu
egli da Dio creato, nè puossi rapirgli questo primo fra i doni, di
cui va altero, senza ledere la legge fondamentale della virtù, senza
uccidere l'ente morale. Laonde, se l'affermazione di questa legittima
pretesa di ciascun essere al libero esercizio delle funzioni, che gli
fanno raggiungere il suo fine, è una necessità pratica, noi troviamo
poi la ragione teorica e filosofica del diritto nella facoltà stessa
dell'essere, per cui deve a questa ragione unica, a questa base
incontrovertibile d'ogni diritto ispirarsi ogni filosofia, che aspiri
ad imporsi alle umane generazioni coll'occhio intento al loro meglio.

Certo non è senza ragione e senza verità, che molti filosofi cercarono
e viddero in Dio la ragione del diritto, siccome in prima fonte
d'ogni giustizia; ma oltreché il giudizio di Dio non ci perviene se
non attraverso oracoli umani, questi stessi oracoli, per fralezza di
mortale natura, troppo spesso s'ispirarono ad interessi ed a passioni;
laonde pur ritenere volendo, che in Dio trovisi ogni diritto siccome
necessario autore d'ogni giustizia, qui come dovunque, deve l'uomo
travagliarsi colla sua ragione, poiché gli è questa la leva, che
Dio gli poneva fra mani a sollevare ogni ingombro dal suo cammino, a
diradarsi dagli occhi ogni tenebra, a trovare ogni verità.

Procedendo nell'arduo cômpito potrà egli per avventura trovarsi in
faccia colossali edificii, lavoro di cento secoli, e pur tuttavia
su mobile arena fondamentati; e sentirà fors'anco cadersi stanche le
braccia, e l'anima scoraggiata, di trovarsi così lungi dalla meta, e
vedersi ad ogni tratto fra piedi lavoro fatale di demolizione. Ma pure
coraggio ed avanti! La leale ricerca della verità, è guida cortese
ed amica, che ci ripone spontanea sulla via; e lo schietto amor della
giustizia ci porta pei due terzi di cammino.

Il sentimento di giustizia, amo crederlo, trovasi per lo meno latente
in ogni cuor d'uomo; ma non potendo l'uomo produrre atto morale senza
concorso della volontà, e non potendo questa essere determinata nella
sua azione se non in forza delle ragioni che lo intelletto le presenta,
così risulta, che l'estrinsecamento del sentimento di giustizia sia
sovente imperfetto, anche presso uomini di buona volontà; laonde più
non deve meravigliare il vedere affermata talora l'ingiustizia anco là
dove gli uomini si furono accinti di proposito a far della giustizia.

E davvero, se egli è difficile trovare la verità allora quando una
falsa idea ci ha fuorviati, quando poi trovasi falso od oscuro il punto
di partenza, allora è impossibile moralmente il trovarla.

Epperò la giustizia che ripeteva la ragione sua da Dio, subiva i
moltiformi concetti che le nazioni si facevano di Dio medesimo; e certo
la giustizia scaturita da Giove non poteva essere esattamente quella
scaturita da Maometto, nè quella di Brama conciliarsi assai poteva
con quella di Cristo; e sempre il maggiore o minore traviamento dello
intelletto portò con sè frutto funesto la depravazione del cuore: ed
amando anche l'uomo lealmente la giustizia, come l'avrebbe egli trovata
cercandola allo infuori del suo solo possibile e vero posto?

La rivelazione di Dio è eterna ed universale avendola egli incarnata
nella natura, per lo che, non nelle molteplici modalità religiose deve
l'uomo cercare la ragione del suo diritto, ad uniformare i criterii
d'ogni nazione, ed a gettare le solide basi di un Diritto mondiale;
sibbene nella facoltà insita all'essere umano, che prepotentemente
gli indice il fine cui è vocato, e di cui la facoltà stessa è mezzo e
ragione; ed allora sì, che le nozioni del diritto e del dovere saranno
più lucide e salde, e non più eternamente oscillanti, ed esposte alle
eventualità che ad ora ad ora minacciano, spostano e modificano le
credenze.

                                   *

Ma seguiamo lo svolgimento di queste nozioni nella coscienza umana; e
vediamo, come dapprima vaghe e latenti, dovessero poscia avvertirsi e
determinarsi.

Queste due nozioni non erano nè necessarie, nè possibili al primo uomo,
il quale, solo in mezzo al creato, non sentivasi limitato in nessun
modo, per cui non dovettero essere che in progresso vagamente sentite,
poi formulate, quindi più o meno imperfettamente applicate. Scaturite
dapprima dai bisogni e dai rapporti che il solo spirito umano è in
grado di constatare, in un colle leggi che li reggono, il filosofo
trovò poscia la loro affermazione meditando sullo scopo della sua
creazione e sui proprii destini; e come vide il soddisfacimento di quei
bisogni in armonia con quello scopo e con quei destini, vide eziandio
necessità di quel soddisfacimento a raggiungere il suo fine; e sorse in
lui la coscienza del diritto, cioè, come dicemmo, la legittima pretesa
d'ogni essere, allo sviluppo ed allo esercizio delle sue facoltà,
epperò a tutti quei mezzi che eccitano, favoriscono e conseguono questo
sviluppo e questo esercizio.

Riconosciuta questa legge, prima ed anzi tutto nell'essere umano, era
impossibile ad ogni logica, non estenderla a tutta la specie; epperò
ogni essere non può, nè deve, riconoscere altra legittima limitazione
al proprio diritto, che quella necessariamente stabilita dal diritto
altrui, ed ecco la giustizia.

Chi infatti troverebbe a ridire di quell'uomo che, trovandosi solo
in vasta regione, se l'appropriasse ed estendesse la proprietà sua
illimitatamente, senza scrupolo? Colui non farebbe che usare del
diritto di proprietà, che il supremo fattore gli conferiva sulle cose,
diritto, d'altronde, ch'egli divide con altri esseri viventi. Ma se
costui, estendendo la sua proprietà, trova segnati i confini d'un
altra, là egli trova eziandio il confine del suo diritto nel diritto
del suo simile, ch'egli deve al par del suo proprio rispettare, siccome
basato sulla stessa ragione.

Riconosciuto dall'uomo il fine della sua creazione, e trovata
l'aprezziazione dei mezzi da natura consociativi, ecco emergere
spontaneo il dovere di applicarli, in proporzione dell'individuale
potenza in vista di quello; epperò necessità di una sociale
organizzazione che a questo principio si ispiri, ponendo ogni
legislazione a propria base, che tutti i diritti legali esistenti,
non esistono se non in forza di quel primo fondamentale diritto e per
garantirlo, non essendo questo che lo sviluppo e l'applicazione di
quello; laonde sarà più o meno filosofico il diritto parziale quanto
più vedrassi ispirato, indirizzato e corrispondente allo scopo finale
della esistenza umana.

Non altrimenti, tutti i doveri parziali esistenti, debbono rivolgersi
a raggiungere attivamente il nostro fine, ed a rispettare e favorire
l'altrui attività allo stesso fine diretta.

Vedo che questa dottrina ci conduce ineluttabilmente ad un'acerba
censura delle nostre istituzioni e dei nostri costumi, ma ciò non mi
riguarda, non essendomi io mai proposta di trovarmi d'accordo nè con
pochi nè con molti, ma sentendomi io stessa nel mio pieno diritto, con
quella perfetta coscienza che raccomandavo così caldamente alle mie
lettrici.

Ma qual è dunque l'umano destino, a raggiungere il quale, di tanti
mezzi ha natura l'uomo arricchito, e di cui fin qui non parlavamo che
vagamente e per sola incidenza?

Egli ci vien insegnato da questi mezzi istessi. La rivelazione
della natura è potente; e non può disobbedirsi nell'ordine fisico
che incontrando il dolore e la morte, nell'ordine morale che colla
degradazione del contravventore. Analizziamo con due parole questi
mezzi, e la loro potente eloquenza.

La insaziabile curiosità dello spirito superstite al decadimento
della materia lo spinge fatalmente al progresso; essenzialmente
socievole, l'uomo è chiamato all'amor de' suoi simili, donde la
solidarietà e l'associazione, che sono la moltiplicazione indefinita
della sua potenza; dotato di favella, solo, fra tutta la sterminata
serie d'esseri viventi, questo dono diviene l'affermazione di quelle
vocazioni, per la pronta comunione delle idee che sì potentemente
lo sviluppano, ed utile e piacer sommo gli procurano nella
conversazione de' suoi simili. Fornito del sentimento di giustizia e
di commiserazione, sentendo bisogno supremo e tormentoso d'attività
materiale e morale, egli vede nell'applicazione di queste facoltà
tracciato lo scopo della sua vita. Egli deve dunque lavorare perchè
attivo, con lavoro progressivo perchè istintivamente ansioso di
progresso; lavorare di concerto co' suoi simili perchè socievole; farsi
virtuoso perchè intimamente giusto; e così sviluppando con assiduo
esercizio le sue facoltà, aggiungersi forza e potenza, coll'occhio
fisso alla perfettibilità materiale, morale, intellettiva; egli deve
in una parola crear l'ordine in sè stesso, nell'umanità, nel globo,
armonizzando i rapporti coi bisogni, donde il benessere e la felicità,
ultima e necessaria scaturigine della morale e della sapienza.

Ora, la somma di potenza, che ciascun individuo porta a questo
collettivo lavoro, è sì svariata ed indipendente da ogni forma esterna,
che sfugge alla più minuta, come alla più lata classificazione.
D'altronde non ci è possibile classificare logicamente la natura,
dacché non ce ne sono note tutte le leggi; sicché facendolo,
arrischieressimo forte di porre al posto della natura delle ottiche
illusioni, delle erronee prevenzioni, o la deplorevole risultanza di
pessimi sistemi.

Dalla manìa delle classificazioni nacquero le più strazianti
ingiustizie che hanno desolato l'umana progenie, e gli errori più
cubitali della filosofia. Le classificazioni crearono i pregiudizii; i
pregiudizii a loro volta generarono i Paria e gli Iloti; consigliarono
lo sprezzo dello schiavo; suggerirono false ed inique prevenzioni
sulle diverse razze colorate, che sgraziatamente perdurano presso
molti che fanno anche professione d'intendersi alla giustizia. Dalle
classificazioni donde i pregiudizii, nacquero gli odii profondi, e
le lunghe ire internazionali, quasi l'uomo che abita l'altra sponda
di un fiume, o l'altro versante di una montagna, essenzialmente
differisca dall'uomo che abita la prima sponda ed il primo versante.
Ora queste classificazioni vogliono bandirsi, siccome funeste cause
d'isolamento fra gli uomini, siccome tendenti a ledere il diritto
primitivo di ciascun uomo al giudizio dei proprii mezzi ed alla libera
loro applicazione; siccome prepotenza che impone leggi alla natura e la
sforza e violenta, con danno dell'individuo e dell'umanità.

Infatti qual classificazione è egli possibile in faccia alla
dimostrazione imperativa dei fatti?

V'hanno criteri i quali, fortissimi nella speculazione filosofica, sono
affatto inetti in qualsiasi elemento di scienza esatta, e viceversa.

Un artista sublime non saprà fare la più semplice aritmetica
operazione; un tale è campione nella fisica e nell'astronomia che è
affatto insuscettibile e profano alla filosofia; e sarà quell'altro un
Socrate od un Platone, senza che gli sia però possibile confezionare
due versi.

Nè è più facile, nè più possibile, classificare nelle loro morali
idoneità i due sessi. Si disse l'uomo è forte, la donna è debole, ma
vi hanno uomini debolissimi e donne fortissime; più, si educa l'uomo
all'attività fisica e morale, e la donna all'inerzia fisica ed alla
passività morale.

Si disse, l'uomo soverchia la donna in intelligenza, e la donna supera
l'uomo in sentimento. Sonvi però molti uomini che superano molte donne
in sentimento, e molte donne che superano molti uomini in intelligenza;
più, l'educazione che si sforza di favorire e di sviluppare la
intelligenza nell'uomo, fa tutto il suo meglio per isfavorirla ed
atrofizzarla nella donna.

Si disse, l'uomo è fatto per l'attività, la donna per la quiete; è una
gratuita asserzione, è una prevenzione locale. Parlandosi della donna
e della famiglia, dovete aver letto i costumi di pressoché tutte le
nazioni barbariche, che gravano la donna di tutte le fatiche, e dove
le è imposta la massima attività, mentre gli uomini passano oziando
la vita; più, anche fra noi vediamo i due sessi sobbarcarsi ad eguali
fatiche nelle classi agricole e manufatturiere. E così via dicendo,
quando vogliansi confondere le risultanze dell'applicazione dei nostri
sistemi, colle leggi della natura che l'uomo non istudiò mai con
ispirito vergine da criterii preconcetti, coll'animo emancipato dalla
segreta ispirazione degli interessi; noi troveremo sempre le nostre
classificazioni in faccia a sì sterminato numero d'eccezioni, da
persuaderci essere quelle troppo poco attendibili.

Dalla impossibilità di classificare ne emerge l'incompetenza d'un
arbitrato qualunque a determinare le funzioni dell'individuo in faccia
al lavoro sociale; e da quella incompetenza ne emerge a sua volta il
diritto spettante all'individuo solo di determinarsi ad un genere di
lavoro, dietro le attitudini ch'egli sente prepotenti in sè stesso,
donde la varietà delle vocazioni, e la libertà della scelta dei mezzi
ad assecondarle.

Ora, una gran parte delle nullità morali, che ingombrano l'umana
società, non possono ad altro accagionarsi che a questo incompetente
arbitrato che si esercita dall'un individuo sull'altro, e da tutta la
società su tutto un sesso.

Si vollero classificare le morali idoneità dei sessi, e si vollero
assegnare a ciascuno d'essi funzioni proprie dietro un tipo ideale
escogitato in anticipazione; ma queste diverse attribuzioni parte
scaturirono dalla poesia e dalla immaginazione; porzione molta è
artificiata dalla forza prepotente dell'educazione, che a tutto riesce
sendo l'essere umano eminentemente educabile: pochissime fondamentate
dall'osservazione. E tutto questo teorico e gratuito edificio si
fece pratico, senza che uomo si curasse di rilevarne le falsità e di
deplorarne le conseguenze, mentre nessun filosofo s'attentò mai, ch'io
mi sappia, di trovar differenze di carattere e di idoneità fra il
maschio e la femmina nelle altre specie d'animali, dal processo della
riproduzione all'infuori, nel quale fatto solo formano serie distinta;
nè mai alcuno sognò di negare forza alla lionessa, o vietar la preda
alla tigre, o di disconoscere nella volpe gli astuti accorgimenti, o di
trovar l'aquila meno sublime dell'aquilotto.

                                   *

È evidente che l'uomo, ignaro tuttavia di molte leggi naturali, e
completamente al buio del concetto sintetico della creazione, non
poteva derivare le sue classificazioni che dagli interessi suoi e dalle
sue passioni. Egli adunque, con un comodissimo a priori, stabilì sè
stesso centro e fine dell'universo, ed a sè convergendo gli esseri
tutti e tutte le cose, ne statuì il valore, ne assegnò le funzioni,
ne affermò l'importanza in base all'utile od al diletto che queste gli
arrecavano.

La donna, che gli è così vicina, e nella quale si giace tanta parte
della sua miseria e della sua felicità, dovea necessariamente esser la
prima a subire le conseguenze di un così ingenuo egoismo.

Riconoscendo perciò l'uomo i vantaggi dell'iniziativa, volle vedere
la donna, passiva più assai che non l'abbia mai fatta la natura.
Avido di dominio e di signoria, imaginò di trovare in lei, bella
l'umiltà, e perfino la viltà. Avendo scoperta la superiorità che dà la
coltura sull'ignoranza, trovò buona cosa serbare a sè il privilegio
dell'intelligenza, e vide nell'ignoranza della donna un vezzo ed
un'attrattiva. Amante egli dell'impero e del comando, si figurò che
per la donna sia gloria l'ubbidire. Cupido di possesso, si aggiudicò la
donna siccome proprietà; e si persuase dovere la buona moglie credersi
seriamente cosa del marito; e così via di trotto procedendo, egli trovò
d'aversi confezionato un tipo femminile di tutta sua convenienza, e su
questo tipo elaborò le leggi, i costumi e l'educazione della donna;
e questo è tutto il lavoro che la filosofia compì rispettivamente
alla donna in sessanta secoli. Nè potrebbe dirsi certamente che noi
calunniamo l'uomo!

Chi non ha letto nell'_Ecclesiaste_ il tipo ideale femminile che si era
creato il più savio degli uomini?

Chi non ricorda la condotta che S. Paolo comanda di tenere alla donna
(vedi cap. II) della prima epistola a Timoteo; e (cap. II) della prima
ai Corinti?

Chi non sorride vedendo Rousseau sollecitarsi che le qualità, i vezzi,
e fino le debolezze di Sofia calzino a cappello coi gusti e la natura
d'Emilio?

E perfino fra i moderni filosofi, che pretendono alla fama di novatori;
non vediamo noi lo spirito medesimo? Leggo in Auguste Comte che, il
_comando degrada radicalmente la donna_; che una savia apprezziazione
dell'ordine universale farà comprendere al sesso affettivo, quanto _la
sommissione importi alla dignità_.... Che il sacerdozio (dell'avvenire)
farà sentire alla donna _il merito della sommissione_, sviluppando
quest'_ammirabile_ massima d'Aristotile «la forza primaria della donna
consiste nel superare la difficoltà dell'obbedire» e l'educazione
l'avrà preparata a comprendere, _che ogni dominio_, lungi dallo
elevarla realmente, _la degrada necessariamente_.

Leggo Proudhon, ed a traverso i suoi mille paradossi, ed alla sua non
interrotta serie di contraddizioni, veggo affacciarsi tratto tratto
questi concetti: Affinchè il tipo femminile conservi le sue grazie ed
i suoi vezzi, deve la donna accettare la potestà maritale (_sic!_).
L'eguaglianza di diritti la farebbe odiosa, e trascinerebbe con sè
delle deplorevolissime conseguenze, e, fra le molte a mo' d'esempio,
la piccola bagatella della _perdita del genere umano!!!_ (Lettrici mie,
non ve ne impressionate di troppo!)

Leggo Michelet ed a traverso torrenti di poesia e di sentimento, in
un impeto d'amore per la donna egli, la vede fatta _dall'uomo e per
l'uomo_. Dolente di vederla sofferente e malata (la donna di Michelet
è sempre malata) egli vede la necessità d'isolarla, di custodirla, di
medicarla. Bambina non conoscerà che le sue poppattole; maritata, non
vedrà che il marito ed i figli; vedova, gl'infermi e gli orfanelli.
E di coltura? Non se ne parla. Il sapere la invecchia. E di lavoro?
Nessuno. Si romperebbe tutta. D'altronde la manutenzione della cosa,
tocca al proprietario della cosa. E di funzioni? Non ne è questione.
La donna di Michelet, è una donna che adora suo marito, che è fatta da
lui, che vive per lui, per lui solo, e che finisce poi probabilmente
per morire di congestione al cuore in seguito ad una serie di emozioni
tenere troppo frequenti.

Bisogna confessare che, se l'uomo è egoista, lo è poi anche senza
nessuna velleità, e di tutto cuore! Non v'è altro commento possibile a
siffatte teorie.

Ora, sia che si neghi alla donna ogni funzione, sia che le si assegni
un lavoro, ella fu sempre fin qui in balìa dei capricci d'ogni
filosofo, il quale le dà, o le toglie, la eleva, o la abassa, la invita
o lo respinge in base al tipo ideale che ciascun di loro se ne forma.
Ma al dì che corre deve la filosofia aver capito, che la soluzione di
un problema sociale non può esser nella testa d'un uomo, ma se ne sta
latente nella natura, la quale non potrà mai rivelarsi fino a che sarà
interrogata coll'animo preoccupato da pregiudizii o da interessi veri o
supposti.

E dico veri o supposti, perchè tutto ciò che è fuori dell'ordine e del
giusto, se può per avventura favorire un piccolo e precario interesse,
deve però alfine chiarirsi ineluttabilmente incompatibile ed ostile
ai grandi e duraturi interessi dell'individuo e dell'umanità; per cui,
se a mo' d'esempio oggi trovava assai acconcio il forte il diritto di
conquista, trovandosi domani in faccia un più poderoso avversario, era
pur costretto a confessare essere ingiusto e precario il diritto della
forza.

Ma questi riflessi sendo stati fatti dall'uomo un po' tardi, anzi da
pochi uomini fatti anco al dì che corre, ne avvenne che le istituzioni
di tutti i tempi si risentirono di quelle prevenzioni e pregiudizii
a cui accennavamo; ed al tempo in cui viviamo è pur doloroso dovere
confessare che ancora la forza è in onore, che diritti e doveri
sono più che parzialmente distribuiti, e che con una logica degna
degl'interessi, più assai che della ragione, si aggiunge debolezza al
debole gravandolo di doveri, si aggiunge forza al forte circondandolo
di diritti.

Laddove poi si consideri avere la legislazione come ogni altra
istituzione ormeggiato lo sviluppo dei popoli ed i procedimenti delle
civiltà, andranno necessariamente crescendo le meraviglie, trovandoci
in grado e necessità di constatare la universale incoscienza della
giustizia.

Ma poteva egli essere altrimenti, dacché la filosofia non cercò e non
istabilì una base generale di diritto, che soggiogando gl'interessi,
ed ispirandosi ai principii, s'imponesse prepotentemente alla ragione,
e si erigesse a coscienza universale? Epperò i legislatori, privi di
luce ferma e costante a dirigersi, dovettero meschinamente ispirarsi ad
interessi puri e semplici di luogo e di tempo, imponendo così all'opera
loro il marchio fatale della caducità.

Infatti veggiamo apparire evidente dalla storia della legislazione
questa enorme lacuna ch'ella è la nessuna base del diritto, risultando
per lo appunto le istituzioni le voci dei bisogni di un giorno e di un
paese, anziché i logici corollarii ai un concetto unico e fermo.

Ed invero, in faccia ad una base filosofica del diritto, che cosa
avrebbero significato i diritti feudali?

Dove si sarebbero fondate la signoria e la schiavitù personale?

Sopra di che avrebbe potuto giustificarsi la patria e la marital
potestà dei romani, per le quali la repubblica non riconosceva a
cittadini che i capi di famiglia, non tutelando neppure la vita e la
libertà delli altri membri?

E qual logica analogia troviamo fra la forma reppubblicana del governo
e la forma autocratica della famiglia romana?

Ed ai nostri tempi (parlo di paesi civilizzati e progressisti) che
cosa significano, in faccia al principio filosofico del diritto,
l'ostracismo degli ebrei?

Che cosa, le barriere elevate alla libera associazione dalla diversità
di credenze?

La diseredazione del figlio che ha lasciato la religione paterna?

La frase comune a molti codici, tolleranza dei culti?

La schiavitù delle razze colorate?

La soppressione dell'intelligenza e dell'attività femminile?

L'individuo, vivendo nella famiglia, e nella società, porta
alternativamente in quella le impressioni ricevute in questa, ed in
questa i sentimenti e le idee in quella assorbite; ed è però sommamente
necessario che l'organizzazione politica armonizzi coll'organizzazione
della famiglia, e lo spirito stesso e l'eguale indirizzo all'una ed
all'altra! simultaneamente s'imprima.

Senza questa congiura, per dir così, di tutte le istituzioni contro
i facili eccessi delle passioni, non potrà mai l'uomo informarsi ai
precetti della giustizia, nè mai potrà avvertirne la somma importanza.
L'incoerenza conduce al gratuito, il gratuito all'arbitrio, l'arbitrio
all'egoismo, l'egoismo all'ingiustizia.

Ma in appoggio di questo mio concetto mi cadono in acconcio, e vi
spiegheranno meglio assai ch'io non sappia l'importanza di questa
coerenza di principii, le riflessioni del gran Beccaria sullo spirito
delle famiglie, nel suo libro _Dei delitti e delle pene_. Ecco le sue
parole:

«Quante funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli
uomini anche più illuminati, ed esercitate anche dalle repubbliche più
libere, per aver considerato la società piuttosto come un'associazione
di famiglie che come una unione d'uomini?»

«Vi siano 12,000 uomini ossia 20,00 famiglie, ciascuna delle quali
sia composta di cinque persone compresovi il capo che la rappresenta.
Se l'associazione è di famiglie vi saranno 2,000 uomini ed 8,000
schiavi; se l'associazione è di uomini vi saranno 10,000 cittadini e
nessuno schiavo. Nel primo caso vi sarà una repubblica, e 2,000 piccole
monarchie; nel secondo lo spirito repubblicano, non solo spirerà nelle
piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura
ove sta così gran parte della felicità e della miseria degli uomini.

«Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sono l'effetto dei
sentimenti abituali dei membri della repubblica, ossia dei capi
di famiglia, lo spirito monarchico s'introdurrà poco a poco nella
repubblica medesima, e i di lui effetti non saranno frenati che
dagl'interessi opposti di ciascheduno, ma non già da un sentimento
spirante libertà ed eguaglianza.

«Lo spirito di famiglia è uno spirito di dettaglio e limitato a piccoli
fatti. Lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei principii
generali, vede i principii generali e li condensa nelle classi
principali ed importanti al bene della maggior parte.

«Nella repubblica di famiglia, i figli rimangono potestà del padre
finchè vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte una
esistenza dipendente dalle sole leggi. Avvezzi a piegare e temere
nell'età più verde e vigorosa, quando i sentimenti sono meno modificati
da quei timor d'esperienza che chiamasi moderazione, come resisteranno
dessi agli ostacoli che il vizio sempre pone alla virtù, nella languida
e cadente età, in cui anche la disperazione di vederne i frutti si
oppone ai vigorosi cambiamenti?

«Quando la repubblica è di uomini, allora la famiglia non ha una
subordinazione di _comando_ ma di contratto, ed i figli, quando l'età
li trae dalla dipendenza di natura, che è quella della debolezza e del
bisogno di protezione e di difesa, divengono liberi membri della città,
e si assoggettano al padre di famiglia per parteciparne i vantaggi,
come uomini liberi nella grande società.

«Nel primo caso i figli, cioè la più gran parte e la più utile della
nazione sono alla discrezione del padre: nel secondo non sussiste
alcun altro legame comandato, che quello sacro ed inviolabile di
somministrarsi reciprocamente i necessari soccorsi, e quello di
gratitudine per i beneficii ricevuti, il quale, non è tanto distrutto
dal cuore umano quanto da una male intesa soggezione voluta dalle
leggi.

«Tali contraddizioni fra le leggi della famiglia e le leggi
fondamentali della repubblica sono una feconda sorgente d'altre
contraddizioni fra la morale domestica e la pubblica, epperò fanno
sorgere un continuo conflitto nel cuore di ciascun uomo. La prima
morale ispira soggezione e timore, la seconda, coraggio e libertà;
quella, insegna a ristringere la beneficenza ad un piccol numero di
persone senza spontanea scelta; questa, ad estenderla ad ogni classe
di persone; quella, comanda un continuo sacrificio di sè stessi ad un
idolo vano che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non è il
bene di nessuno che la compone; questa insegna, di servire ai proprii
vantaggi senza offendere le leggi, ed eccita ad immolarsi alla patria
col premio dell'entusiasmo che previene l'azione.

«Tali contrasti fanno che gli uomini si sdegnino di seguire la virtù
che trovano inviluppata e confusa, ed in quella lontananza che nasce
dalla oscurità degli oggetti così fisici che morali».

Fin qui Beccaria, e noi facendo plauso alla sua equità aggiungiamo, che
una legislazione, che non considera a cittadini tutti indipendentemente
ed egualmente i membri della sua società, e non garantisce a ciascuno
i mezzi di perfezionamento e la libera autonomia, perde il diritto al
rispetto ed alla obbedienza, e dove punisce non esercita che una fredda
violenza; poiché non l'uomo è fatto per la legge, ma la legge è fatta
per l'uomo, e dove ella non raggiunge il suo bene ed il suo meglio non
ha nessuna ragione d'esistere.

Se la legge vuol essere amata ed obbedita, è duopo sia tale che ogni
cittadino d'ogni età, d'ogni condizione, d'ogni sesso, vi trovi il suo
conto, e l'affermazione d'ogni giusta libertà, d'ogni onesto diritto;
è duopo ch'ella non crei neppure alla metà della umana popolazione una
condizione, che assomiglia forte a tutte quelle dalle quali le nazioni
col sangue si sono sottratte.

La donna che, con sagrificio d'oro e di figli, con tanta forza
d'entusiasmo e di devozione, si è associata nell'opera della politica
redenzione non può certo tollerare per altri secoli la sua servitù
personale. Ella sente che tutte le libertà e tutti i diritti si danno
fraternamente la mano, epperò come propugnando la libertà della nazione
mostrava di sentire il principio della libertà e di esser matura
alla propria, deve ora, ad essere coerente e logica, rivendicarla,
non potendo lo spirito pubblico non degenerare se non in quanto lo
fortifichi il privato.

                                   *

Dovendo, siccome abbiamo visto, consonare l'organismo politico
coll'organismo interno della famiglia ad unificare negli uomini il
principio della giustizia, vediamo ora come ciò avvenga ai nostri
giorni, in cui l'atmosfera è tutta pregna delle luminose idee del
diritto e dell'eguaglianza, in cui si mostra dalla pubblica opinione
spregiarsi il brutale diritto della forza; in cui le classi altra
volta peste e conculcate dalla aristocrazia feudale, forte della
divina predilezione, se trovansi tuttora alle prese colla miseria,
più non veggonsi almen contrastato il diritto naturale e la dignità
umana. Entriamo, dico, nella famiglia, e veggiamo se avvi analogia
fra l'atmosfera esterna e la interna; se il giovine che rispetta la
dignità umana ed il diritto ingenito nel cenciaiuolo, che incontra
per via, è educato a vederlo anche in sua madre; se il marito, che
rispetta l'autonomia d'ogni vivente, non guarda per avventura la moglie
siccome _cosa_ e _proprietà_; se l'uomo, che si crede obbligato a leali
procedimenti verso l'uomo, non crede forse poter darsi maggior libertà
ne' suoi rapporti colla donna.

Produttrice dei germi fisici, riconducendo continuamente col suo
recondito lavoro la specie al suo tipo, sola nel lungo e penoso
travaglio della gestazione, sola nella terribile crisi che dà alla luce
l'uomo, fornita sola da natura del solo alimento conveniente alla sua
prima età, estremamente affettiva, attaccata alla sua fattura colla
fatalità dell'istinto, eminentemente analitica ed intuitiva, la donna
è veramente la creatrice e la conservatrice della specie. E la natura,
ponendo in tanta evidenza la maternità, non lasciava alcun dubbio sulla
sua legge; cioè, la tutela della prole è devoluta alla madre, che in
tutte le specie è creazione, conservazione e provvidenza.

Che cos'è la paternità? In faccia alla natura è un semplice impulso, in
faccia alla legge è una ancor più semplice ipotesi, dovunque e sempre è
ombra e mistero.

Da ciò ne risulta, che se la madre ha sempre diritto innegabile al
rispètto ed all'amor della prole, alla quale la natura la indice
con evidenza; il padre non partecipa a questi diritti, se non in
quanto siasi egli stesso incaricato di provare al figlio la paternità
sua, tutti verso di lui compiendo quei doveri di alimentazione e di
educazione che la ragione gli suggerisce.

Tanto ci insegna semplicissima riflessione sulla logica dei fatti. Ma
gli uomini sono eternamente inclinati a costruire gli edificii loro
sulle ipotesi, ed anche qui preferirono meglio fondar sull'ipotesi che
sull'evidenza; ed innalzarono la _patria potestà_ che, come piramide
partita da larga base, col diritto di morte e di vendita sui figli,
andiede in appresso assottigliandosi; ma ne rimane oggi stesso pur
tanto da non lasciarci credere di troppo posteriori alla antica Roma.

La paternità legale è la prima ragione della schiavitù della donna.
Infatti, perchè fossero duratori questi rapporti artificiati, era
duopo dar qualche corpo alla ipotesi, qualche esattezza all'induzione.
Da qui la reclusione della donna; e cessata questa nel modo assoluto
colla civiltà dei tempi, perdura tuttavia nel suo spirito e nel suo
scopo nelle mille limitazioni della sua libertà. Da qui il diritto di
comando, di sorveglianza, il supremo arbitrio del marito; la signoria
dell'uomo insomma, e la servitù della donna.

Sì, la madre dell'uomo non ha altro diritto che quello di soffrire
per lui, di formarlo del suo sangue, di nutrirlo del suo latte, di
sagrificarsi completamente, se vuole, ai suoi interessi, e basta. _La
legge non riconosce nessuna maternità_; ed in mancanza del padre non
ha la madre neppur _diritto di preferenza_ alla tutela della prole;
laonde, rompendo così la legge ogni legame fra la madre ed i figli,
dà a questi la prima lezione di immoralità e di ingratitudine, mentre
strappa dalla fronte della donna la luminosa e simpatica aureola della
maternità, insegnandole a far poco conto d'un carattere, ch'altro non
può darle che triboli e spine.

Apro infatti il codice Albertino e trovo, che il § 211 dichiara essere
i figli sotto la potestà del padre fino alla loro emancipazione, o
se egli sia morto non emancipato, son essi sotto la potestà dell'avo
paterno.

Col § 212 vieta al figlio di allontanarsi dalla casa paterna prima dei
25 anni compiti, senza il permesso del padre.

Il § 215 dà al padre il diritto di far tenere in arresto il figlio non
ancora quadrilustre, sulla sua semplice domanda.

I § 216 e 217 permettono al padre di chiedere la detenzione del figlio
per sei mesi, purché sia quatrilustre e fino a 25 anni inclusivi.
Nell'uno e nell'altro caso non gli è imposta nessuna formalità o
scrittura giudiziaria. L'ordine d'arresto sarà spiccato in iscritto
senza essere neppur motivato.

Ecco una potestà discretamente romana, e nella quale si dispone in
tutti i sensi di una creatura umana senza neppure supporle una madre,
la quale non ha in tutto ciò nemmeno un voto consultivo.

Ma la madre non è ella almeno una limitazione del patrio diritto in
forza del diritto incontestabile e solenne che le dà la natura, che
affida la prole alle sue cure, e non a quelle del padre?

Signore no. _La madre legittima non esiste_; e se qualche cosa può
limitare la patria potestà sul figlio, non sarà mai la madre, bensì
la _proprietà_; e non sarà questo il solo caso in cui vedremo la legge
fare assai più stima della proprietà che della persona, principalmente
se questa persona è una donna; ed eccone la prova nel § 220... «se
il figlio ha beni proprii ed esercita una professione, non potrà aver
luogo il di lui arresto se non mediante istanza nella forma prescritta
nell'articolo 216, quand'anco il figlio non fosse giunto all'età d'anni
16».

Ma la madre non ha essa mai in nessun caso dei diritti sulla prole?

Oh sì; ma la legge nel concederli non riconosce già, nè apprezza il suo
carattere materno ed il natural diritto che ne conseguita, ma rispetta
e riconosce esclusivamente la volontà del defunto consorte. Il padre ha
il diritto di nominare un tutore ai figli soggetti alla sua potestà; lo
stesso diritto, compete all'avo sui nipoti soggetti alla sua potestà (§
245).

§ 246. Se il padre o l'avo, rispettivamente come sopra, avrà nominato
la madre tutrice, potrà destinarle un consulente speciale, _senza il
cui parere ella non possa fare alcun atto relativo alla tutela_.

La madre adunque non può esser tutrice, se non nominata tale per
esplicita volontà di chi dovrebbe da lei ricevere un tale mandato,
secondo ragion naturale; essendo a lei sola possibile l'indicare con
certezza a chi competa; più, l'azione sua è così totalmente invalidata
che il nome di tutrice diviene una derisione.

Vedete infatti come la legge quando vuole s'intenda benissimo alle
limitazioni.

Epperò potrà la madre fare arrestare il figlio non soggetto alla
potestà dell'avo, _ma_ purché vi concorra l'assenso di due prossimi
parenti _paterni_ (§ 221); e nel caso che manchi l'assenso dei parenti
richiesto dal § 221, supplisce l'art. 223, raccomandando al prefetto di
_supplire con quelle maggiori informazioni_ che crederà del caso.

Può la madre tutrice, nel caso di morte, eleggere un tutore ai
suoi figli minori, _ma_ la sua elezione dovrà essere confermata dal
consiglio di famiglia (§ 248).

Se la madre tutrice vorrà rimaritarsi dovrà, prima del matrimonio,
far convocare il consiglio di famiglia, il quale deciderà se la tutela
debba esserle conservata.

In mancanza di questa convocazione, essa perderà di pien diritto la
tutela, ed il suo nuovo marito sarà solidariamente responsabile della
tutela esercitata dalla madre per lo passato (!!?), ed in appresso
indebitamente conservata (§ 253).

(Mi dispenso dal commentare questo paragrafo, non sentendomi capace di
scrutare il profondo abisso della mente del legislatore).

Quando la madre conserva la tutela, o vi sarà stata riammessa, il
consiglio di famiglia le darà _necessariamente_ a contutore il secondo
marito, il quale diverrà solidariamente responsabile unitamente alla
moglie, dell'amministrazione posteriore al matrimonio (§ 254).

Come ognun vede, un patrigno ed una madre rispettivamente alla prole,
nel sentimento del legislatore, sono equivalenti.

La legge però, con una tenerezza tutta parziale per la madre, le
accorda un diritto che se oltraggia la natura, ed è per la donna una
lezione immorale, sente però in compenso una condiscendenza tutta
cavalleresca. Coll'art. 252 non vuole che si obblighi la madre ad
accettare la tutela dei suoi figli, e s'accontenta che ella ne adempia
i doveri fino alla nomina di un tutore.

Del resto poi, in difetto dei genitori o di un tutore esplicitamente
eletto colle forme volute, la tutela spetterà all'avo paterno, in
difetto di questo all'avo materno, e collo stesso ordine risalendo la
linea ascendentale, deve sempre preferirsi al materno il paterno (§
257).

Quando poi concorrano alla tutela due bisavoli della linea materna,
questi, subendo solidariamente colla madre lo spregio della legge per
lei, vengono abbandonati all'arbitrio del consiglio di famiglia, che
eleggerà fra i due (§ 259).

Ed ecco come la legge onora il carattere materno! Ella non suppone
neppure spontaneamente che la madre sia capace di tutelare i suoi figli
(chè in quanto a diritto ne è ben raro questione quando degna occuparsi
della donna). Ella accetta la decisione del marito defunto, o dell'avo,
o del bisavo, che tutti camminano innanzi alla madre, e la tollera
tutrice, purché però a sua volta tutelata. Nell'azione sua la madre
tutrice inciampa ad ogni passo nei meticolosi _se_ e _ma_ del leguleio.
Fra lei ed il suo pupillo la legge pone costantemente od il consulente
speciale, od il consiglio di famiglia, o i due prossimi parenti, o le
informazioni del prefetto.

Ed ecco in qual modo la legge sa appoggiare i suoi stessi precetti!
Davanti alla disistima che voi fate della maternità, davanti alla
sanzione della materna incapacità che voi suggellate ad ogni paragrafo
dei vostri codici, davanti alla spogliazione d'ogni diritto primitivo
ed ingenito sulla persona della donna madre, chè cosa significa, di
grazia, o legislatori, quell'art. 210 nel quale dite al figlio; «in
qualunque età, stato e condizione ti trovi, onora e rispetta i tuoi
genitori?»

Dite da senno, signori miei? E chi sono i _vostri_ genitori? Voi certo
intendete il padre, l'avolo, il bisavolo, e l'arcavolo paterno, non
già la madre, che non vedo che in rapporti indirettissimi e fortuiti
con questi figli, dei quali si dispone in ogni verso senza nessuno
intervento suo.

L'allievo dei vostri codici non conosce sua madre! Ella non è, e non
può essere per lui che un oggetto di erudizione, una miseria, una
incapacità incarnata; e se, volgendo lo sguardo sulla civil società,
vedrò ancora talvolta ascoltata la voce potente della natura, ed
onorata in qualche parte la maternità, dovrò esclamare: _a cattive
leggi, uomini migliori!_

Se non che il disdegno, che i codici mostrano per la donna, non è che
uno dei corollarii di quel principio così lucidamente impugnato dal
Beccaria, che cioè, quel legislatore che considera la società come una
associazione di famiglie, non deve necessariamente riconoscere a membri
attivi che i capi di esse, e lasciar gli altri tutti nell'ombra ed in
balìa del capo, sopprimendo così ogni diritto ingenito, sul quale si
eleva prepotente il diritto parziale.

                                   *

Se la legge tratta così la donna che, pel venerando carattere materno,
si presenta all'uomo coll'autorità della causa sopra lo effetto suo;
non è più a meravigliare che affatto la cancelli dal novero delle unità
nei rapporti coniugali.

Il marito legale è per la donna la evirazione intellettuale, la
minorità perpetua, lo annichilamento della sua personalità.

Infatti, se la donna è qualche cosa davanti alla legge, lo è quando
è maggiore e libera; che, sebbene il legislatore tiri giù per conto
suo dei tagli cesarei attraverso i diritti competenti a ciascun
membro della civil società, la lascia almeno padrona di sè stessa, e
le suppone la capacità di amministrarsi. Ma si marita essa? Da quel
momento ella diviene incapace e minore, perde col suo nome anche la
proprietà di sè medesima, e vi sfido a trovarmi un atto legale ch'ella
possa fare senza il consenso del marito. Ma lasciam parlare la legge.

Riapro il codice sardo ove tratta dei rispettivi diritti e doveri dei
coniugi, e trovo al § 125: «I coniugi hanno il dovere di reciproca
fedeltà, soccorso ed assistenza».

Senz'altro va ad essere un paradiso terrestre! si tratta di una
perfetta eguaglianza! Di una completa fraternità! È il matrimonio
tipico! È l'ideale del coniugio! È l'androgino umanitario che fonde
due esseri in una sola unità! Adagio, vediamo come s'intendono di
reciprocanza e mutualità i nostri legislatori.

§ 126. «Il marito è in dovere di proteggere la moglie, la moglie di
obbedire al marito». Ecco i primi albori della reciprocanza legale;
discutiamoli un momento.

Chè cosa sia la protezione che il marito deve alla moglie; qual logica
analogia ella abbia coi costumi d'una civil società; qual fatica costi
al marito questo fantasma di dovere, non si saprebbe definir veramente,
circondati come siamo da leggi ed agenti d'ordine pubblico. Egli lavora
siccome un re, i cui ministri fanno tutto, ed al quale pur tuttavia
i beati popoli governati debbono innalzare inni di riconoscenza e
d'ammirazione. Così la moglie vive sicura all'ombra della protezione
maritale esattamente come viveva sicura sotto l'egida dei provvedimenti
di pubblica sicurezza, il giorno prima d'aver aquistato il protettore.

Ma niuno forse ardirà toccare alla moglie per timor del marito?

Vi domando scusa. È più che dimostrato, che tutti i delitti sono
possibili.

Ma nel caso che la moglie venga insultata, sarà per lo meno dal marito
vendicata?

Neppure. La giustizia personale è vietata; essa è fatta esclusivamente
delle leggi. Il legislatore, che prescindesse da questo principio
fondamentale d'ordine pubblico, esporrebbe la sua società a terribili
disordini e distruggerebbe la sicurezza personale.

Chè cosa intende adunque la legge nello imporre al marito questa
protezione?

Intende di gravare il marito di un dovere, ma di un dovere da marito;
tuttochè illusorio, però le serve per giustificare tutti i diritti di
cui vuole circondarlo. Dichiarato protettore, epperò responsabile, ogni
misura, od intorno o sopra il suo protetto, divien logica ed equa, e la
legge ha ribadito così l'arbitrio maritale.

Quella legge stessa però così vaga, così laconica, così speciosa sui
doveri del marito, è quella stessa che sa molto bene determinarsi,
amplificarsi e dimostrarsi nei doveri della moglie; e per primo
le impone obbedienza, senza assegnare a questa obbedienza limite o
confine, cosicchè, in faccia a tanta completa passività imposta alla
metà della popolazione, io non so più chè cosa si voglia intendere il
legislatore, dichiarando irrito e nullo ogni contratto, che stipuli
l'alienazione personale.

Ed invero, un rapido sguardo ai doveri della moglie ed ai diritti
del marito, basterà per toglierci alla taccia d'esagerazione. Veniamo
perciò ai logici corollarii della illimitata obbedienza.

§ 127. La moglie è obbligata ad abitar col marito, ed a seguirlo
_dovunque_ egli crede opportuno di stabilire la sua residenza. (Notate
ch'egli _solo_ giudica dell'opportunità locale del suo domicilio).

§ 128. La moglie deve concorrere al mantenimento del marito, quando
egli non ne abbia i mezzi bastanti.

§ 129. La moglie non può stare in giudizio senza il consenso del
marito. Se questi non voglia o non possa prestarlo, il Tribunale può
autorizzarla.

Notisi, che v'ha però un caso, nel quale può stare in giudizio senza
il consenso del marito, e questo caso eccezionale, benchè assai logico
e giusto, non è fatto per portar luce sull'astruso problema della
protezione maritale; quando cioè è inseguita dalla legge per delitti o
contravvenzioni.

§ 130. La moglie non può donare, nè alienare, nè ipotecare, nè
aquistare a titolo sia gratuito sia oneroso, nè obbligarsi per nessuno
degli atti eccedenti la semplice amministrazione, senza che il marito,
personalmente od in iscritto, presti a ciascun atto il suo consenso.

Dopo tutto ciò non sarà soverchio notificare alle mie giovinette
lettrici, che la legge ammette anche nella donna il _diritto di
proprietà_, tutto che, questi paragrafi non siano fatti per farlo
credere.

Nel § 137, la legge si mette una mano al cuore, e prova un palpito
d'incertezza e d'apprensione pel marito. Egli lo vede circondato da
pericoli e superchierie, e si trova in dovere di proteggere e tutelare
il forte contro i verosimili eccessi del debole; epperò pone per lui
le mani avanti e decreta in anticipazione che «l'autorizzazione od il
consenso in genere, non sono validi, ancorchè stipulati nel contratto
di matrimonio».

Coll'articolo 139 poi, la legge ridona alla donna il _diritto pratico_
di proprietà, riconosce per un'ora di tempo la sua autonomia,
permettendole di fare il suo testamento, senza autorizzazione o
consenso del marito. Confessiamo che la legge è generosa, peccato che
sia un po' tardi!

                                   *

Che il vedovo marito si crucci o meno, per il decesso della sua
consorte, che più o meno presto la scordi, poco importa alla legge;
ma ciò che le sta a cuore sommamente si è, che la vedova non troppo
facilmente si consoli del perduto protettore, ed a ciò efficacemente
provvede nel § 145, dov'è disposto che «la vedova, contraendo nuove
nozze, prima che siano trascorsi dieci mesi dopo la morte del marito,
incorre nella _pena_ della perdita di tutti i lucri nuziali stabiliti
dalla legge, o stipulati col primo marito, non che di tutte le
liberalità, che a lei fossero pervenute dal medesimo».

Notisi che quel vocabolo _pena_, di cui si serve la legge, supponendo
una colpa, dichiara implicitamente criminose nella donna le seconde
nozze; mentre il vedovo marito, erede della sposa defunta, è abilitato
a scordarla innanzi sera.

Ecco come s'intende la legge alla reciprocanza ed alla mutualità; ed
ecco come ella è coerente al suo paragrafo 125.

Ovunque vedesi la personalità della donna maritata affatto eclissata,
ella non è che l'ombra del marito che la invalida, che la assorbe, che
la annichila e dal quale non è emancipata neppur per la sua morte, non
che pel caso di separazione di corpo e d'abitazione, nel qual caso,
avendo ella la semplice amministrazione de' suoi beni, non può tuttavia
senza il di lui consenso ed autorizzazione nè alienare, nè obbligare
i suoi beni immobili, nè stare in giudizio per azioni _riflettenti li
stessi suoi beni_.

Quando si rifletta che, cessata colla legale separazione la comunanza
degli interessi fra i coniugi, possono questi diritti del marito
attraversare ad ogni tratto gl'interessi della moglie, subordinati
quali sono ad ogni suo capriccio, ben si vedrà quanto la legge si
solleciti del benessere della donna.

E separata e non separata non può la moglie, senza consenso
ed autorizzazione del marito, accettare incarico di esecutrice
testamentaria; non può accettare nessun mandato; non può accettare
nessuna donazione; non può validamente accettare nessuna eredità; non
può assumersi fideiussione; in una parola, _civilmente non esist_e.
Dove il marito si rifiuti all'assenso, il Tribunale di prefettura
assume i suoi diritti, e conferma il rifiuto di lui, oppur prescinde
secondo che gli pare; e questa specie di difesa, che la donna
ripete dalla legge che controlla il rifiuto del marito, non è che un
incoerenza di più in faccia al suo spirito, una oscurità di più ch'ella
apporta a quell'oscuro _busillis_ che è la protezione maritale, un
fatto di più che prova alla donna sposa, ch'ella è sempre minore od
interdetta.

Se non che, potrebbero per avventura, questi esorbitanti diritti
maritali, se non certo giustificarsi, almeno spiegarsi sopra ciò, che,
dovendo il consorte nutrirla, in caso di dissipazione ella cadrebbe a
tutto suo carico. Ma, signori no, anche qui la legge ha provvisto per
non aver ragione, col sopraccitato paragrafo 128, nel quale é disposto
che, «la moglie debba alimentare il marito, quando egli non ne abbia
i mezzi bastanti» per cui, soggiacendo ambedue allo stesso peso, qui,
come dovunque, la legge si sollecita affinchè non vi soccomba che il
debole. Il marito perciò potrà sciupare i beni suoi e quelli della
consorte, ch'egli solo amministra senza controllo, eppoi dovrà esserne
alimentato.

Cosicché riassumendomi, abbia il marito torto o ragione, sia egli o
non sia in buon accordo colla moglie, sia egli onesto od immorale, sia
egli accorto e prudente, oppure stupido od incapace, la legge ha già
deciso in anticipazione, che il matrimonio deve produrre nella donna
l'evirazione delle sue facoltà; per cui deve divenire essenzialmente
incapace, mentre nel marito deve aggiungere onestà ed intelletto, senza
eccezioni e senza limitazioni.

Ma se la legge fatta dall'uomo, è necessariamente altresì fatta
per l'uomo, essendogli pressoché impossibile astrarre dal personale
interesse; per lo meno, essendo la morale una, ed inalterabile, saranno
in caso di contravvenzione strettamente pareggiati nella penalità?

Ciò non potrebbe essere, senza che la legge cadesse in una delle più
grosse incoerenze. Distribuiti parzialmente i doveri, ne risulta una
disparità di situazione, donde relativa dev'essere la colpa, epperò
relativo il castigo.

Il § 486 del Codice penale, decreta che «la moglie, convinta
d'adulterio, sarà punita col carcere, non minore di tre mesi,
estensibile a due anni»; e che «il marito convinto di concubinato, sarà
punito col carcere da tre mesi a due anni».

Per quanto giusta vi sembri questa disposizione non v'andate a credere,
che stabilisca almeno in un punto un po' d'eguaglianza. La legge ha
trovato modo di sciogliere il marito da ogni pericolo, e togliere alla
moglie ogni diritto di querela coi § 482 e 483, dichiarando che, la
moglie può essere adultera dapertutto, mentre il marito non lo è, per
lei, che quando si abbia tenuto la concubina sotto il tetto coniugale.

Ma forse che la legge ha così disposto nella impossibilità di
constatare più chiaramente il concubinaggio per parte del marito?
Domando scusa.

Quando la legge ammette la sorpresa in flagrante, dovunque, contro
la moglie, non v'ha equità che possa vietare sul conto del marito
la stessa ipotesi. Più, se contro la moglie, la legge ammette prove
risultanti da lettere o carte dal complice scritte; non si vede equa
ragione, per la quale le prove reputate legali contro la donna, non si
reputino egualmente legali contro il marito.

La legge considera ella nell'adulterio l'offesa al diritto coniugale?
Or bene, questa davanti alla natura, davanti all'equità, davanti al suo
medesimo § 125 è la stessa in ambo i coniugi. — O considera dessa le
conseguenze? Allora l'elemento eterogeneo, che l'adulterio della donna
arrischia d'introdurre nella famiglia del marito, è quello stesso, che
il marito porta in un'altra famiglia; con quella maggior reità, che
porta con sè davanti ad ogni sano criterio e davanti allo stesso codice
penale, la provocazione e l'iniziativa. Più, il marito amministrando
solo, le sostanze sue e della moglie, più funeste sotto ogni aspetto
riescir debbono alla famiglia i suoi disordini. Egli può detrarre il
patrimonio dei figli, egli può spogliare la moglie, per arricchire
l'amica.

Finalmente, giudicate da ciò, se il codice divide il pregiudizio degli
onesti che la morale sia una, e quanto si solleciti d'essere seco
stesso coerente ricordandovi dell'edificante § 125, al quale or ora
accennavo: «I coniugi hanno _dovere di reciproca fedeltà_».

Ma dandosi il caso che un uomo, nel quale il sentimento d'equità
predomini lo innato egoismo, e porti alla sua sposa riverenza, siccome
ad essere umano, ed in lei però considerando l'ingenito principio del
diritto, non dipende egli dalla sua ragione, dal suo cuore, dalla sua
volontà il riabilitarla, deponendo spontaneo i non equi diritti?

Rispondo. Sapete voi come, i legislatori della Carolina del sud,
impediscono gli assembramenti delli schiavi neri, la loro istruzione e
la loro privata industria, che padroni coscienziosi potrebbero favorire
con animo di avviarli all'emancipazione, il qual risultato sembra a
quei signori un _notevole inconveniente_? Punisce insieme il padrone e
lo schiavo.

Con poche varianti il nostro codice, prevedendo questo caso appunto,
che il marito possa voler riabilitare la sua compagna, dichiara
anticipatamente nel § 1509, che gli sposi, nel loro contratto, non
possono in alcun modo derogare ai _diritti risultanti sopra la moglie
dall'autorità maritale_, ecc., e nel § 1511, avverte, che è egualmente
vietato agli sposi di stipulare in modo generico, che il loro
matrimonio verrà regolato da alcune delle leggi, statuti, consuetudini
che non siano attualmente in vigore in questi Stati, e ciò tutto,
_sotto la responsabilità del notaio, che incorrerà in una pena od anche
nella deposizione della carica_.

                                   *

Si può contrarre matrimonio sotto diverse forme di regime, ben inteso,
che queste modificazioni non riguardano che la proprietà, restando in
tutto e sempre la persona della moglie completamente alienata.

E per primo, v'ha il regime della comunione dei beni, nel quale
s'intende coniugato chiunque non abbia fatto convenzioni speciali; v'ha
il regime della separazione dei beni; v'ha il regime dotale.

Nel primo l'amministrazione dei beni comuni è devoluta al marito
_solo_; i quali beni si compongono di tutti i mobili ed immobili,
frutti ed interessi d'ogni natura, acquisiti anche dopo il matrimonio.

Oltre il diritto di amministrare, egli solo può stare in giudizio per
azioni riflettenti i beni della comunione.

Egli può inoltre vendere, alienare, ipotecare questi beni senza
concorso della moglie, non essendo richiesto il suo esplicito consenso,
per la legale validità d'ognuno di questi atti.

Ora, laddove si consideri che se abbia la donna posto dei beni in
comunione, o col proprio censo, o col proprio personale lavoro, o
col lento e penoso risparmio, deve pur sempre stendere al marito la
mano per averne in tutto od in parte ciò che vuole ogni equità le sia
dovuto, fortunata ancora se una cattiva amministrazione del marito,
od i debiti da lui incorsi, od i suoi vizii e disordini non l'hanno
spogliata di tutto, vedrassi chiaramente quanto un simile regime
sconvenga alla donna.

Nel popolo, i cui matrimonii si fanno senza contratto generalmente,
non è raro vedere un marito beone, brutale, o giuocatore, sciupare in
assidue gozzoviglie il più che modesto mobiliare raccolto della misera
consorte, colle lunghe notti vegliate nel lavoro, o con indicibili
economie, che spesso le costarono la salute.

Bisogna perciò persuadere le donne del popolo a fare un contratto
nuziale, ed a voi tocca, signore mie, ad accorrere in soccorso della
loro improvvida ignoranza, in nome di quel vincolo solidale che unir
deve la donna di tutti i ranghi sociali, poiché tutte sono egualmente
oppresse dalle istituzioni; e passiamo ora a vedere come la legge
tratta la donna nel contratto.

Un secondo regime matrimoniale è il regime dotale. I beni dotali
debbono esplicitamente dichiararsi tali; tutti gli altri sono detti
parafernali o estradotali.

I beni dotali sono inalienabili in regola generale. Il marito solo li
amministra; i frutti sono destinati a concorrere al peso delle spese
domestiche.

La moglie può ricevere annualmente sopra sua semplice quietanza una
parte delle rendite di essa dote, dietro esplicita convenzione nel
contratto di nozze.

Un terzo regime è la separazione dei beni. In questo caso la moglie
ha il dominio non solo, ma anche l'amministrazione de' suoi beni
parafernali, uniformandosi, in quanto all'esercizio dei suoi diritti,
alle restrizioni citate più sopra, che la riducono all'impotenza d'ogni
atto legale senza consenso esplicitamente prestato dal marito, od in
caso di suo rifiuto, dal tribunale.

Come ognun vede, la donna, in qualunque regime coniugale, è _schiava_ o
_minore_.

Per avere un diritto materno, ella non dovrebbe esser madre che di
prole illegale, e per avere il reale possesso di sè stessa e delle cose
sue, mai non dovrebbe piegare il collo al giogo del matrimonio; e così
facendo ella non farebbe che ridurre a pratica le immorali lezioni,
che le dà il codice con tanta eloquenza; donde poi la corrutela massima
dei costumi; la origine incerta delle famiglie; la moltiplicazione allo
infinito degli orfani e degli esposti, non potendo la donna, priva del
diritto industriale, bastare all'alimentazione di numerosa prole; e ci
darebbe così, delle generazioni degenerate dal punto di vista fisico,
depravate, dal punto di vista morale, miserabili, dal punto di vista
economico, e dal punto di veduta politico, terribile ed eterna minaccia
all'organismo sociale.

Se le cose, la Dio mercè, non sono ancora a questo punto (benché i
grandi centri già mostrino prepotenti gli elementi, che vi ci debbono
condurre più o meno presto, se non si pensa al riparo), gli è perchè,
e unicamente perchè, l'umanità, migliore assai delle demoralizzatrici
legislazioni che la reggono, nell'intima vita delle famiglie non
applica e non osserva le leggi. Egli è perchè generalmente la donna,
più morale assai che non la vorrebbero i codici, preferisce incatenare
sè stessa e le sue sostanze, e piegare il collo sotto il giogo che
vede e sente iniquo ed ingiusto, perchè, ed unicamente perchè, le
guarentisce un po' d'onore; quell'onore che la legge non cura e
calpesta, dando al marito il diritto di disconoscere il figlio; ed
indulgente quale ell'è alle seduzioni, le cui conseguenze abbandona
tutte intere al debole che tiene nell'ignoranza, e perdona al forte che
istruisce, e che non vuol manco conoscere — § 185. Le indagini sulla
paternità non sono ammesse — § 186. Le indagini sulla maternità sono
ammesse.

Questi due paragrafi fanno sorgere spontanea più d'una riflessione.

L'egregio professore Albini, ne' suoi _Principii della filosofia del
diritto_, ammette il diritto d'educazione dei figli siccome diritto
non solo morale, ma anche giuridico — (§ 92 e 65). Più lungi egli
vede nel padre solo le attitudini fisiche e morali, che ne fanno il
necessario capo della famiglia; e su queste attitudini egli fonda la
patria potestà, e con lui la legge, ch'egli ormeggia riverentemente,
permettendosi talora delle timidissime osservazioni.

Ma se la legge è davvero convinta, che il padre solo basti a reggere
la famiglia, e provvedere i figli materialmente e moralmente, secondo
è diritto loro _morale_ e _giuridico_, epperò si crede in obbligo di
circondare il padre di tanta autorità, come dunque, smentendo a sè
stessa, abbandona alla madre sola la prole naturale, col vietare la
ricerca della paternità? O la legge adunque non crede necessaria tutta
l'autorità di cui circonda il padre, o non crede la madre incapace,
come sempre l'afferma, ma anzi assai più atta del padre, dacché le dà
lo stesso cômpito senza gli stessi mezzi, o che disconosce nel figlio
naturale il _diritto morale_ e _giuridico_, che il professore Albini
vede così lucidamente servir di base alla patria potestà.

Non sarò io certo che mi darò il fastidio di sgarbugliare questa
aruffata matassa di incoerenze.

                                   *

Procediamo ora ad un rapido sguardo sulle condizioni della donna
maggiore, vedova o nubile ch'ella sia.

Libera dai pesi della famiglia, non vincolata ad ogni ora e momento ai
più minuti capricci d'un consorte, vivendo o della propria industria,
o del proprio censo, non v'ha ragione nessuna che la debba, in faccia
alla legge, inferiorizzare nei diritti competenti ad ogni cittadino.

Eppure non è così. La legge assume sulla donna per conto suo una
seconda edizione della patria potestà, e ne limita ad ogni tratto
l'autonomia ed i diritti, con un'aria di sollecitudine che tutta rivela
la sua profonda convinzione dell'incapacità femminile. Ed a ciò non
si accontenta, ma con patente ingiustizia si dà premura eziandio di
diminuire per lei anche quella porzione di beni, che l'ordine della
natura le assegna, e vo' dire delle disposizioni della legge nelle
successioni _ab intestato_.

Il codice Albertino dedica un apposito capitolo alla consacrazione
di questa flagrante ingiustizia, fondata sul vieto diritto feudale,
il quale avea saputo imaginare, come ognun sa, a maggior bene e
gloria delle famiglie, l'oppressione di tutti i suoi membri, quale
forzatamente coniugato, quale violentemente monacato, tutti, meno uno,
snaturatamente spogliati.

Ora, nel secolo decimonono, il codice Albertino conserva fresche
fresche le sue velleità feudali, e fa ancor dell'amore col passato
trapassato.

In grazia che l'umanità ha un secolo di più, si rassegna ad emancipare
tutti i suoi membri maschi, chè, in quanto ai membri femmine, non c'è
mai premura; ed egli trova d'altronde, che il diritto scritto fa molto
bene d'emanciparsi un po' dal diritto naturale, troppo più democratico
che non comportino certi interessi; per cui: «Trattandosi di
successione paterna, o di altro ascendente paterno maschio, la porzione
di successione che spetterebbe alla femmina, o suoi discendenti, eredi
o non della medesima, _sarà devoluta, a titolo di subingresso_, e
secondo le regole di successione, _ai suoi fratelli germani, o loro
discendenti maschi da maschi_, ove esistano; e in difetto di fratelli
germani o loro discendenti maschi, ai fratelli consanguinei e loro
discendenti maschi da maschi come sopra».

Il § 944 decreta la stessa disposizione riguardo alla successione
d'un fratello germano e consanguineo, se la donna trovasi qui pure in
concorrenza con maschi, o con loro discendenti maschi da maschi, come
sopra.

Il § 945 conferma la stessa disposizione riguardo alla successione
materna, esclusa sola la concorrenza dei fratelli consanguinei.

La donna sorella, è l'elemento sul quale fa, assai generalmente, le
sue prime armi la petulanza virile; e queste disposizioni sembravano
fatte per apporre la legale ratifica a questo comunissimo fatto; ma,
cessato il feudalismo, gli uomini della legge sentono benissimo di non
potere in alcun modo, non che giustificare, neppure spiegare, non fosse
altro, con ragioni di coerenza siffatta ingiustizia. D'altronde la
dottrina del diritto è oggidì abbastanza sentita dalla coscienza delle
masse, perchè si possa più oltre procedere in un ordine di cose ormai
divenuto impossibile. Nè ci riconosciamo noi stessi il diritto di più
oltre insistere su questo proposito, dacché siamo informati, che la
commissione incaricata di rivedere i codici dal Parlamento nazionale,
ha già compreso questo articolo fra quelli, ch'esser debbono oggetto di
riforma.

Se la pubblica opinione è il movente di questa riforma, lodiamo
altamente il suo tatto politico dei tempi: se è il sentimento di
giustizia, lo lodiamo ancora più. Si ricordi tuttavia il Parlamento
italiano, che queste anticaglie barbariche, ed altre ancora, disparvero
già da tempo dai codici delle nazioni, che dall'Italia ricevettero
la civiltà; e faccia però, che più d'una provincia nel bel paese
ripensando alle teutoniche istituzioni non le rimpianga!

Ma procediamo innanzi nell'esame delle condizioni della donna maggiore.

Riguardo alla tutela vi sono titoli di dispensa, titoli di rimozione,
titoli d'esclusione.

Va senza dire, che i titoli di dispensa, per l'uomo sono gloriosi.
Essi sono, od un privilegio annesso alle regie onorificenze, od
un'impossibilità prodotta dalle grandi cariche dello Stato. Per la
donna non è questione di tutto ciò, dappoichè l'uomo nel suo ingenuo
egoismo, e nella beata convinzione della sua esclusiva eccellenza, non
decreta che a sè stesso titoli e cariche; per cui la cosa è a riguardo
di lei assai più semplificata.

Il titolo di dispensa per la donna è il suo semplice rifiuto. Notate,
che in questo caso non può essere che la madre od una ascendente.

Il titolo di rimozione è un nuovo matrimonio, come quello che è sempre
destinato a colpir di paralisi la sua vita morale.

Il titolo d'esclusione in regola generale è per la donna, l'essere
donna.

La donna adunque, anche maggiore, è appena riputata capace
d'amministrarsi; benché nel caso di certi atti legali, che la
riguardano tutta sola, come a mo' d'esempio l'atto di donazione fra i
vivi, sia più inceppata assai che l'uomo. Oltre all'esplorazione della
sua libera volontà, per parte del prefetto o del giudice di mandamento,
debbono essere sentiti in proposito due parenti della donante; od in
difetto di quelli, due amici della sua medesima famiglia. Più, delle
donazioni, che non importano l'obbligo d'omologazione, è più ristretto
il numero dei casi per la donna, che non per gli altri cittadini.
Le sue donazioni debbono tutte corredarsi della ratifica legale, non
eccettuate che quelle fatte nella cerchia della famiglia e discendenti,
a titolo di dote od aumento di dote.

Esclusa, in regola generale, la donna dalla tutela ed anzi tutelata
eternamente ella stessa, non deve meravigliare il vederla esclusa
dal consiglio di famiglia, per cui, anche davanti a questo tribunale
intimo, davanti al quale si agitano gl'interessi più cari al suo cuore,
e dove la voce di una madre, di un'ava, di una sposa e di una sorella
sembra reclamata dalla natura, trovasi la donna annullata dalla legge.

Non dite più, che la donna è fatta per la famiglia; che nella famiglia
è il suo regno ed il suo impero! Le son queste poetiche iperboli e
vacue declamazioni, come mille altre di simil genere. Ella esiste nella
famiglia, nella città e dovunque in faccia ai pesi ed ai doveri; da
questi all'infuori ella non esiste in nessun luogo.

                                   *

Partendo dal principio della assoluta nullità femminile, che la
legge afferma nella prima sua pagina, snaturalizzando la donna, che
sposa uno straniero, lieta si direbbe di trovar plausibile pretesto
a sbarazzarsene, e che sancisce ad ogni articolo che la riguardi,
dovrebbe, ad essere conseguente, non riconoscerle la responsabilità.

Farà egli bisogno di ricordare al legislatore, che quell'essere è
responsabile che porta nell'azione sua piena intelligenza, perfetta
avvertenza e libera volontà; e che però, quella creatura, alla quale
voi negate la pochissima intelligenza che basta a saper reggersi dietro
la norma de' suoi stessi materiali interessi, tanto più dev'essere
ottusa nelle nozioni tutte astratte e speculative del bene e del male,
del giusto e dell'iniquo?

In base a questo sillogismo, la cui logica soluzione si presenta
spontanea all'occhio di chiunque, noi saremmo in diritto di credere,
che la donna è riconosciuta incapace di contravvenzione, epperò altresì
di castigo.

Ma no; la legge che si ispira agli interessi e non ai principii è
condannata per l'ordine fatale delle idee a contraddirsi.

Leggo nel codice penale, che la donna è dichiarata a 18 anni
perfettamente responsabile di sè stessa, epperò egli più non si crede
in dovere di rivendicarne l'onore.

Che se nuova, semplice, ignara, come pressoché tutte le giovinette,
delle consacrate immoralità del codice, crede tuttavia alla santità
della parola ed alla inviolabilità del giuramento e si lascia sedurre,
allora la legge, come la plebe romana in faccia ad un cadavere
sanguinoso, che rivela un assassino, domanda tenera e sollecita _s'è
salvato lo poveretto?_ Senza pur sognare della vittima, la legge così
si affretta d'informarsi se la vittima è diciottenne, e trovatala tale
tira un gran fiato, ed accocolandosi ripete soddisfatta, _non è ammessa
la ricerca della paternità_.

Ma e se la misera giovinetta non trova più pane neppure a prezzo di
penoso lavoro?

Se pesa sopra di lei una farisaica opinione, che dai codici educata
conosce due morali, una rigida pel debole e pel sedotto, un'altra
dolce e larghissima pel forte e pel provocatore, chi toglierà dalla sua
giovine fronte quell'angoscioso rossore?

Come potrà, se povera, prender cura del frutto delle sue viscere che se
è dalla legge ripudiato, ê però accolto e benedetto dalla natura?

Chi? Come? Forse che la legge s'intende a tutto ciò? L'onore? Ma la
legge ha ella mai riconosciuto un onore? Se ne è ella mai preoccupata?

Mi ricordo ch'ella si è preoccupata delle diffamazioni; ma avreste
voi per avventura la semplicità di credere che i fatti, che tolgono
l'onore, siano tanto gravi e decisivi quanto le parole che l'insidiano?

La legge si sollecita della proprietà più che della persona, delle
parole più che dei fatti, quando degna occuparsi della donna.

Ella si trova l'obbligo di tutelare la sua proprietà perchè si tratta
di limitarla, e fa con lei della galanteria perchè voglia rinunciare a'
suoi diritti sulla prole; ma non si trova in obbligo di tutelare la sua
persona oltre i 18 anni, e non crede, per esempio, dovere spingere la
galanteria fino a sottrarla al patibolo.

Il giudice od il prefetto non le troveranno tanta intelligenza e piena
coscienza di sè, da apporre ad un suo atto la legale sanzione; ma il
rappresentante del pubblico ministero saprà mettere alla luce del sole
così bene il suo ingegno, la sua finezza, la sua perfetta coscienza
nell'azione, la sua piena responsabilità, che si dovrà riconoscere il
suo pieno diritto a vent'anni di reclusione.

Che importa alla legge di smentire a sè stessa ad ogni pagina, ad ogni
riga? Ella vi si rassegna, perchè già sa filosoficamente, che ella
è questa la sorte fatale d'ogni dispotismo, che, mentre spregia lo
schiavo come nullità, fa ogni sforzo per mantenerlo tale, come partisse
da un criterio diametralmente opposto.

Ognun sa che la testimonianza dello schiavo negro non pregiudica
il bianco, nè vantaggia sè stesso; ma quella stessa testimonianza,
riputata fallace od imbecille se diretta a danno dell'oppressore ed a
proprio vantaggio, è però creduta veridica ed autorevole se rivolta a
proprio danno o de' suoi compagni di sventura.

Quando l'ingiustizia mai non venisse con sè stessa in contraddizione,
quando il diritto offeso nel suo principio e nella sua ragione non
manifestasse in ogni sua parte profonda lesione alla logica ed alla
giustizia, noi saressimo tentati di credere che il diritto e la
giustizia non sono verità, che la mente umana delira sulle loro traccie
dietro larve e fantasmi, e che la filosofia non ha per anco escogitato
neppure l'alfa della base necessaria all'organismo sociale.

Passiamo ora a disaminare le condizioni della donna in faccia ad altre
istituzioni e ad altri diritti.

Dovunque la troveremo martire, dappertutto la vedremo annichilata od
inferiorizzata; pure, noi lo dichiariamo altamente, a dispetto dei
mille ostacoli e delle cento ingenerose barriere che si elevano fra
lei e la libertà, non disperiamo della sua sorte e portiamo profonda la
fede de' suoi futuri destini.

Come al popolo, che ha scosso il giogo di secolare oppressione,
guardano ansiose le ancora oppresse nazioni; così i dolori tuttora
spasmodici della misera umanità, le viete sue piaghe incancrenite,
cercano la donna, che veggono lentamente svilupparsi dal funebre
sudario e scostarsene ad una ad una le pieghe, che tali sono per lei
appunto le pagine dei nostri codici.



LA DONNA NELL'ESCLUSIONE DEL DIRITTO


                            Tutti (gli uomini) hanno la stessa natura
                          e gli stessi attributi; donde nasce per
                          tutti l'identità dello stesso fine e degli
                          stessi doveri.

                            TAMBURINI, _Corso di Filosofia Morale_.

Basato il diritto sulla facoltà, non individuale ma generale alla
natura umana, visto essere il diritto la legittima pretesa d'ogni
essere allo sviluppo delle facoltà proprie del suo tipo, ed a tutte
compiere le funzioni che gli fanno raggiungere il suo fine; io non mi
dilungherò a provare, che la donna, essere umano, non ha un diritto
di meno dell'uomo, finchè non usurperà il sacro nome di diritto il
privilegio.

Solo dirò, che i giurisperiti tutti, benchè non formulandosi nessuna
base filosofica di diritto, tutti però viddero voler giustizia e
ragione che ad ogni essere umano si estenda il diritto; epperò,
non potendo essi in nessun modo negare alla donna di appartenere
all'umanità, venir poi essi tutti con loro stessi in contraddizione,
ogni qualvolta li veggiamo porre squilibrio fra l'uomo e la donna, e
così la giustizia ferire con una spada a due tagli che, mentre nega
all'uno il diritto, accorda all'altro un privilegio.

Gli è perciò che, di tutte le accuse portate contro la donna allo scopo
di giustificare il modo iniquo, col quale è dalle leggi trattata, non
essendo dalla natura nè dalla ragione sancite ma dalle sole passioni,
nessuna può regger salda davanti a pochissima osservazione, ed in
faccia alla vera base del diritto.

Si disse: la donna è incapace.

Ma non è possibile negare l'intelligenza di molte donne più di
quel che si possa disconoscere l'imbecillità di molti uomini. Ma
sull'intelligenza individuale non è basato il diritto.

Si disse; la donna è debole.

Non è possibile negare la forza e la vigoria di molte donne, come è
impossibile negare la gracilità ed il cronicismo di molti uomini. Ma
sulla forza e sulla sanità non è basato il diritto.

Voi obiettate il genere delle sue funzioni?

È impossibile dimostrare e provare che la maternità, l'ordine
famigliare, sovente l'insegnamento, il commercio, la produzione
industriale, siano occupazioni meno necessarie e meno nobili,
che quelle dello straccivendolo, dello spazzino, e della livrea
d'anticamera. Ma sulle funzioni non è basato il diritto.

Forse che la sua speciale organizzazione, che la fa soggetta a crisi e
peripezie, la rende insuscettibile all'esercizio del diritto?

L'esercizio d'un diritto civile qualunque, non essendo un facchinaggio,
potrà sempre esercitarsi dalla donna sana, meglio assai che dall'uomo
malato, al quale pur tuttavia non si toglie; il che prova che
sull'organizzazione normale non è basato il diritto.

Ma la sua ignoranza, la rende inetta!

Non è possibile negare la coltura di molte donne, più che non sia
possibile di disconoscere l'ignoranza di molti uomini. Chi è più colto,
della donna che dirige un istituto d'educazione ed il famiglio che
guida ai pascolo i majali? Ma sulla coltura non è basato il diritto.

Nè si potrebbe obiettare con maggior fortuna, la protezione che l'uomo
esercita sulla donna, che abbiamo già visto illusoria, e dalla legge
stessa rinnegata ogni qualvolta s'incarica di controllare il marito
e di difendere contro di lui la donna. Non l'alimentazione, perchè
oggidì la donna contribuisce alle spese della famiglia, sia colla sua
dote, sia col suo censo, sia col lavoro personale, sicchè la casa che
abita non è più casa maritale, ma coniugale. — In quanto poi alla donna
maggiore, la questione non ha neppure ragione di posarsi.

Non il mandato, perchè il mandato che il marito tiene dalla moglie,
secondo il regime comune, è violentato ed imposto dalla legge, il che
gli toglie ogni valore in faccia all'equità. — Anche questa obiezione,
per la donna maggiore, non ha ragion d'essere.

Non le molteplici cure della famiglia, perchè non sono queste
più assidue che quelle del fabbro che batte dodici ore al giorno
sull'incudine, del ministro che ha gli affari di tutto un regno, del
soldato che è notte e giorno sotto l'incubo d'una severa e minuta
disciplina.

Per me, come per voi e per tutti, il ballerino vale la ballerina, il
virtuoso la virtuosa, il sarto val la modista; non vedo differenza
fra il merciaio e la merciaia, fra la fantesca che pulisce la casa e
lo spazzino che scopa la strada, fra il bifolco che guida l'aratro e
la contadina che rimonda i grani, fra l'operaio che tesse la tela e
l'operaia che l'ordisce; qual differenza, vedete voi fra questi, di
funzione, di prodotto, di valor personale? Perchè dunque la ballerina,
la virtuosa, la modista, la merciaia, la fantesca, la contadina e
l'operaia aver non possono i diritti che si stimano ragionevolissimi e
competentissimi al ballerino, al virtuoso, al sarto, al merciaio, allo
spazzino, al bifolco ed all'operaio?

Se sulle funzioni, sul prodotto, sul valor personale fosse basato il
diritto, ancora non potrebbesi, senza inconseguenza ed ingiustizia,
escluderne la donna, che funziona, produce, e rappresenta un valore,
come madre, come industriale, come proprietaria. Ma sopra tutto ciò,
non è, non fu basato il diritto.

Il diritto è fondato sulla facoltà riconosciuta propria di una data
natura; come tale ogni essere d'ogni specie ha diritti suoi proprii.

Nell'essere umano, se la facoltà non è sviluppata, ciò non può essere
che per un difetto intrinseco, o per un difetto estrinseco.

Se il difetto è intrinseco, l'individuo è malato, la sua
insuscettibilità sia organica, sia accidentale, è una anomalia che
nulla toglie al principio del diritto. S'egli non avrà coscienza o
potenza d'esercitare il suo diritto, egli non pur cercherà di farlo.
Così niuno crederebbe doversi spogliare de' suoi diritti civili
l'alienato di mente. Egli non incorre di fatto che nella sospensione
del suo esercizio.

Od il difetto è estrinseco, e l'individuo è allora vittima del cattivo
mezzo nel quale ha vissuto: dei provvedimenti che la società, o le
persone della natura, o dalla legge delegate, non hanno prese per
svilupparlo. Anche in questo caso, benchè di fatto egli non sappia
esercitarlo, l'anomalia nulla può detrarre al principio generale del
diritto.

Ora queste riflessioni ci portano naturalmente ad esaminare la donna in
faccia al diritto di educazione e di istruzione, riconosciuto siccome
diritto morale e giuridico.

                                   *

Io non dubito punto che, in una società illuminata ed educata al culto
del vero e del giusto, basti gettare in mezzo un problema che soluto
volga in meglio la sorte di pochi o di molti, perchè tosto divenga la
tesi di simpatia per tutte le anime generose, e per voi poi, signore
colte e gentili a cui io parlo, un punto fisso di direzione.

Ebbene, la tesi ch'io vi pongo a tutti, è l'educazione della donna.

La donna ha, come essere umano, diritto _morale e giuridico_ di
educazione e di istruzione.

Più, la proprietà femminile paga imposte al par della virile; ma
siccome lo Stato non ha per lei educazione pubblica, non scuole
tecniche, non ginnasii, non licei, non università; dunque lo Stato è
colpevole, verso la donna, di furto.

Come proprietaria e contribuente, ha diritto d'equità, ad educazione
assai più solida, ad istruzione assai più larga, che quella non sia che
le è impartita oggidì.

Ed invero, chi oserebbe asserire che vi sia, al dì che corre, per la
donna un'educazione, quando non si voglia chiamar tale ciò che in fatti
non lo è; voglio dire la reclusione di quattro, sei, otto anni in un
convento, cioè in un mondo artificiato, escendo dal quale non si può
meglio dirsi educato, di quel che possa chiamarsi acclimatizzata una
pianta di papiro in una serra d'Italia?

Chi oserebbe asserire, che v'abbia oggidì per la donna un'istruzione,
quando non si voglia chiamar tale ciò che in fatto non lo è, che ci
dà, sotto la frase solenne di studii di perfezionamento, poco più che i
vocaboli delle scienze che non si insegnano?

Le funzioni dello spirito, dipendendo dallo stato normale degli
organi, siccome appunto destinati alla estrinsicazione delle facoltà
spiritiche, ne risulta, che lo sviluppo fisico sia un indispensabile
preliminare e coadiutore allo sviluppo morale ed intellettivo.

Ora, chi oserebbe asserire, che vi sia per la donna qualche ginnastico
esercizio che ne moderi la pusillanimità; o se non altro aria, moto e
giuochi, tendenti e sufficenti al suo fisico sviluppo nei suoi istituti
e peggio ne' suoi conventi, quando non si voglia chiamar tale ciò
che infetti non lo è; cioè il breve sollazzo, che goder possono le
fanciulle sotto il severo e meticoloso cipiglio monacale?

Vivendo quasi recluse con poca aria e meno moto, collo spirito non
d'altro pasciuto che di pochi studii mal assortiti, che altro non
sono che un dirozzamento: informate, o meglio sformate ai principii,
perchè la metafisica loro è somministrata a larghe dosi in luogo di
filosofia: allevate nel Buddismo più assai che al cristianesimo od alla
ragione: impossibilitate a farsi un sano criterio per difetto di dati;
per formarsi intellettivamente, moralmente e materialmente, non resta
loro che di dar fine a questo simulacro di educazione, strano impasto
d'elementi impossibili, per cominciarne un'altra, l'educazione del
mondo, l'educazione dell'esperienza, l'educazione dell'osservazione,
l'educazione insomma della natura; che se lasciata a sè stessa, procede
nulla più che a passo di testuggine, ha, se non altro, il vantaggio
ed il merito, di mostrar loro gli uomini, e le cose quali sono, e non
ne falsa il criterio, non ne vincola la ragione, non ne atrofizza il
cuore.

Qual meraviglia se da siffatta educazione esce la donna incompatibile
colla famiglia; qual meraviglia, se avvezza al nebuloso linguaggio
metafisico, vi fa gli occhioni sui più semplici dettami della
filosofia, e simile ad un cavallo, che tutto adombra, freme e
raccapriccia di ciò che non comprende, e s'atterrisce fin della sua
ragione?

V'ha poi un altro genere d'educazione per la donna, cioè un altro
estremo peggior del primo, ed al quale accennavo sul principio di
questo lavoro; il quale, tendendo ad informare la donna al culto
dell'opinione, non la educa già, la _adorna_, e la adorna della diafana
superficie di molte, e molto belle cose, ed anzitutto si preoccupa
di darle quei talenti, che la faranno meglio ammirare e piacere.
L'esposizione è ricchissima, ma non è tale se non perchè tutto il
magazzino è sul davanti. Queste donne non sono fatte per loro, sono
fabbricate ad altrui uso e consumo.

Qual meraviglia se da una siffatta educazione esce la donna vera
nullità e ben tosto demoralizzata; poiché, dopo aver fatto al mondo il
sagrificio delle sue facoltà, ed aver aspettato da lui riverentemente
la cifra del suo valore, qual altro avvilimento, qual'altra
degradazione le è impossibile?

E nell'una educazione e nell'altra la donna non sa che si voglia
intendere per progresso, per libertà, per diritto, per lavoro, per
associazione, per solidarietà, per principii.

Assorta collo spirito in un'atmosfera, che non è quella del mondo
reale, inviluppatavi dal misticismo; oppure non amando che sè stessa,
ed idolatrandosi sopra ogni cosa, il mondo avvanza ed ella resta
indietro. Vede ella l'agitarsi di tanti uomini e di tante cose senza
nulla capirvi; ode nelle discussioni frequenti il cozzo di cento idee:
vede nella vita di mille partiti l'urto di contrarii interessi; vede
combattersi sulla faccia della terra una titanica lotta; ma il suo
spirito, incapace perfin di parteggiare, non ne è per nulla curioso;
oppur cocciuta conservatrice vorrebbe risuscitare l'impossibile
passato.

Ora così non può, non deve camminare la cosa!

Legislatori, occupatevi della educazione della donna! Non vi ostinate
nella negazione della giustizia! Si consultino le sue attitudini, si
assecondino le sue vocazioni e si applichino. Ella vi ha un _diritto
morale e giuridico_.

Se l'identità del fine tragge con sè identità di dovere, desso suppone
altresì identità d'attitudini. Ora ciò tutto costituisce un diritto
ingenito ed innegabile, donde un altro diritto, l'applicatone di queste
attitudini educate e sviluppate in funzioni adequate e corrispondenti:
funzioni che null'altro vieta alla donna che il meschino pregiudizio
d'una lunga abitudine d'esclusione, che lei intimidisce dallo
aspirarvi, e l'uomo ritragge e sfiducia dallo affidarle.

L'intelligenza femminile è un terreno vergine ed inesplorato; peggio,
è terreno sul quale imperversarono mai sempre ingenerosi i venti degli
iracondi interessi, le grandini avvelenate delle satire e dei sarcasmi,
le nebbie fitte ed asfisianti dei religiosi terrori a soffocarvi in
germi, od a mietervi immatura la spontanea vegetazione.

Ma siccome, in faccia al principio incontrovertibile del diritto, la
donna ha diritto all'istruzione; siccome il suo spirito è vocato a
progredire; siccome la sua intelligenza si è potentemente svegliata in
pochi anni di libera vita; siccome tutti i diritti sono fratelli, e la
donna lo capisce generalmente assai bene; siccome la filosofia reclama
la donna per riceverne coll'impronta del suo genio un po' di possibile
e di concreto, così voi la vedete, spinta da un impulso fatale,
ingombrare infinito numero di istituti e di scuole ansiosa del sapere:
e verrà giorno, in cui ella saprà imporsi, poichè saprà informare
i suoi figli alle cose nuove, e col suo attivo intervento imprimerà
un nuovo impulso alla rivoluzione sociale; poichè ella è sazia delle
antiquate dottrine, delle quali voi vi ostinate a rivestire il suo
spirito, e che voi già da tempo avete per conto vostro rejette; ella
è sazia di fede, e vuole un'po' di ragione, ed alla sua fame più non
bastano le aride bricciole dei vostri banchetti.

Fate posto alla donna e tutto si rifonderà, e si riformerà meglio assai
di quel che possiate fare voi pochi e rigorosi atleti del pensiero, che
la mente indomita spingete fin nelle nubi, ed ai bassi mortali rimanete
pur sempre incompresi, chè in voi ammirano nulla più che sublimi
utopie.

Fate posto alla donna, senza di lei l'umanità è incompleta; come spera
ella compiere il suo lavoro?

Fate posto alla donna, ed il suo arrivo nella vita sociale sarà il
trionfo del diritto, della giustizia e della libertà.

                                   *

Per la necessaria influenza, che la legislazione esercita sulla
opinione, i costumi vi si uniformano e creano delle prevenzioni e
dei pregiudizii, che durano imperterriti davanti alla guerra che loro
combattono la ragione ed i fatti.

Ora, avendo le leggi tutte, quali più, quali meno, inferiorizzata la
donna, questa disistima si estese eziandio alle sue produzioni, benchè
la ragione ed i fatti provino tutti i giorni, che il lavoro della
donna è nobile, è necessario, è perfetto, quando anche non è identico a
quello dell'uomo.

Questa disistima della produzione femminile fa sì, che la donna debba
starsene per una misera mercede da mane a sera inchiodata ad un lavoro
penoso, non guadagnando talora pur tanto da levarsi la fame.

E negli stabilimenti d'industria e di speculazione non è ella cosa
convenuta, che la donna debba al par dell'uomo affaticare e produrre
per una mercede assai più scarsa?

Nè si dica, che la donna ha meno bisogni. In regola generale il lavoro
dev'essere retribuito in ragione del suo intrinseco valore, e non già
in vista del maggior o minor bisogno dell'operaio. Che se amano carità
e filantropia largheggiare nella mercede là dov'è urgente e grave il
bisogno, vuole la più elementare nozione di giustizia, che l'opera sia
retribuita per non meno di quel che vale.

D'altronde, che cosa significa questo che la donna ha meno bisogni?

Quando si tratta di darle l'esercizio d'un diritto, allora diventa,
la donna, la creatura dai mille bisogni e dalle molteplici esigenze.
Allora vengono in campo le frequenti malattie, le perpetue lesioni
nervose, le crisi inevitabili, i lunghi squilibri, e si vuol vedere uno
stato morboso e patologico perfin nelle leggi puramente fisiologiche,
che reggono il suo modo d'esistenza, per dimostrarla impotente, non che
a muoversi dal suo scanno, neppure a far atto di presenza ad un atto
legale di nascita o di matrimonio, sprofondata in un seggiolone.

Ora, questa creatura, che si vuol fragile come una piuma di cigno,
diviene ad un tratto d'una potenza erculea per affaticar tutto giorno
come l'uomo, e meno di lui retribuirsi.

Eh finiamola di contraddirci, e di porre le prevenzioni nostre al posto
della natura. Il ricco vuole la donna esile, e tenta persuaderle che è
di vetro affinchè, stesa tuttodì su un morbido sofà, punto non pensi a
controllare il governo maritale. L'uomo del popolo persuade alla sua
donna ch'ella è vigorosissima, per vivere egli pure del suo lavoro,
se accade, come spesso, al marito di amar meglio le gozzoviglie che la
fatica.

A meno che non si vogliano calcolare, come altrettanto minor cifra
di bisogni nella donna, l'ebbrezza alla quale generalmente l'uomo
s'abbandona, ed ella no; il giuoco, vizio che l'uomo generalmente ha,
e che la donna generalmente non ha; le frequenti gozzoviglie, che la
donna operaia non conosce quasi, e nelle quali l'uomo del popolo affoga
spesso il frutto del sudore della settimana, al quale avrebbe la sua
famiglia sacrosanto diritto.

Ecco i minori bisogni che ha la donna; ma vi sono poi i maggiori,
che tutti si risolvono in economie per il tempo delle malattie, per
la stagione priva di lavoro, per le minute provvidenze della casa,
delle quali il marito non conosce neppure il nome, per le vesti ai
bambini e talvolta ancora il pane a che il padre non pensa, e non è
sgraziatamente troppo raro il caso.

Oh voi almeno, mie giovani lettrici, per quell'affetto solidale e
fraterno, che deve vincolarvi colle creature del vostro sesso, per quel
sentimento di giustizia, ch'esser dovete prime ad applicare dovunque
è un diritto da rivendicare; oh, non diminuite mai la mercede alla
donna del popolo, che provvede ai vostri agi ed al vostro lusso. Quella
moneta, che voi non sottraete al suo lavoro, in luogo d'accrescere
un balocco più o meno elegante sul vostro tavolo, un fiore più o meno
sfolgorante nelle vostre treccie, che la natura ha già fatte d'oro e
di seta, andrà convertita in pane a saziar la fame d'una mezza dozzina
d'angioletti, e si avvolgerà, tramutata in tepida lana, attorno ai loro
nudi e tremanti corpicini. Non la trovate voi assai meglio impiegata?

A redimere la donna dalla tirannide di questo ingiusto costume,
non v'ha che l'associazione organizzata su larga scala. Vuolsi
perciò tentare ogni mezzo a persuadere alla donna del popolo, che
l'associazione è moltiplicazione indefinita di potenza, ma che, ad
esser feconda in risultati, non deve arrestarsi ad un mutuo soccorso,
ma devono le contribuzioni delle associate costituire un fondo da
convertirsi in materia prima.

Questa, lavorata poi dalle associate colla massima perfezione, sarebbe
esposta alla vendita con prezzi più rilevati dei comuni.

Ciascun membro sarebbe retribuito dalla società secondo il suo lavoro,
e dedotte le spese d'acquisto della materia prima, si procederebbe ad
epoche periodiche ad un'equa distribuzione degli utili.

È però necessario, che l'associazione si estenda siffattamente in ogni
città e provincia che sia impossibile al compratore il provvedersi quei
dati generi altrove che nel magazzino della società.

Senza di ciò l'emancipazione industriale della donna operaia resta
affatto raccomandata al sentimento d'equità e di giustizia dell'uomo,
e che cosa sia in diritto d'aspettarsene ella già sa, volgendo uno
sguardo sulla condizione sua in tutti i secoli.

                                   *

Oltre la miseria ed il bisogno, altre e peggiori conseguenze porta
con sè la privazione del diritto industriale nella donna, e queste
conseguenze si estendono all'uomo, ed infestano di orride piaghe tutte
le generazioni.

Già lo dicemmo altrove, la miseria nella donna suona prostituzione.

Parent-Duchâletet attesta, che sopra tre mila creature perdute in
Parigi, 35 soltanto erano in istato di poter nutrirsi.

La legge poi, abbandonando alla donna tutte le conseguenze delle
seduzioni, aggiunge anche il suo peso al giogo iniquo che già le
gravita addosso, ed incoraggia l'uomo, che muove talora atroce guerra
alla figlia del popolo.

Sono manufatturieri che seducono le loro compagne d'industria, sono
proprietarii e direttori di fabbrica che minacciano il rinvio alla
giovine che loro non si abbandona e che, atterrita dal lurido spettro
del digiuno, cede, ed è poi messa alla porta; sono padroni che
scacciano dalle loro case giovinette disonorate, le quali trovano poi
chiuse in faccia tutte le porte e tutti i volti atteggiati a dispregio;
e l'impossibilità di onesta sussistenza le fa pendere dubbiose e
tremanti fra l'infamia ed il suicidio.

Ed invero, privata la donna del diritto industriale, chiusele davanti
tutte le professioni, ridotta a vivere di poche industrie di infima
retribuzione, ella è completamente alla discrezione di chi possa
fornirle un po' di lavoro.

Pensa ella bene a siffatta situazione della donna una certa farisaica
virtù che, mentre perdona all'uomo l'uso e l'abuso d'una posizione
ch'egli si è fatta col merito del muscolo, e lo sciopero ch'egli fa nel
vizio delle sostanze e del patrimonio de' suoi figli, pretende poi, che
ogni donna sia una eroina, che si lasci morir di fame anziché cedere
alle esigenze del sempre immacolato provocatore?

Dio mio! la società ha dessa un po' di quel viscere che si chiama cuore
quando sparge a larghe mani il disprezzo e l'abiezione sulla fanciulla
sedotta?

Pensa dessa alle lotte tremende col bisogno dall'infelice combattute,
alle vigilie frementi e sconsolate, alle lagrime cocenti che
precedettero il fallo e lo seguirono, alla vergogna che le soffuse
le guancie al solo ricordarlo, eppoi all'abbandono, al disprezzo
prima temuto e poscia subìto, ai lunghi mesi di sofferenza, al frutto
dell'errore a tutto suo carico, se pure non le fu indispensabile lo
strazio d'allontanarsi il figlio di tanti dolori per abbandonarlo alla
carità cittadina?

Pensa dessa a tutto ciò la società quando, indulgente all'autor primo
di tanti mali, apre talora a festeggiarlo le sue sale dorate ed i suoi
brillanti convegni, e dovunque lo celebra amabile conquistatore?

Ha dessa un cuore la società quando, disconoscendo nella donna il santo
diritto di vivere del suo lavoro e non della sua persona, satirizza e
chiama il ridicolo sopra uomini generosi che, tutti questi mali vedendo
e deplorando, chieggono ad alta voce che si sottragga la metà del
genere umano alla tirannia dell'altra; e più non si lasci codardamente
la donna inerme bersaglio all'impeto di passioni e d'interessi non
suoi, senz'altra difesa che quella d'un eroismo, che l'uomo, sovente
schiavo incatenato d'ogni depravato istinto, è ben lungi dall'esser in
diritto d'esigere da una creatura di lui già ben assai migliore?

Ha dessa la società un bricciolo di quel sentimento d'equità e di
giustizia di cui pur mena tanto scalpore, quando, mentre propugna
per l'uomo libertà, e domanda assiduamente attività di commercio,
circolazione di danaro, dilatazione del diritto, e freme e scalpita se
l'ombra sola d'un dispotismo mostra di volerlo ledere in qualche parte;
si fa poi lecito di menar colpi da orbo attraverso alla donna che, dopo
avere con ogni sacrificio ed entusiasmo favoreggiato tutte le libertà,
cerca ora la sua?

Avendo la donna al par dell'uomo speciali attitudini, ha al par
dell'uomo altresì diritto di svilupparle ed applicarle; questo
c'insegna il principio del diritto ingenito. Vi ha diritto perchè,
avendo diritto al lavoro, in lei sola sta la scelta del suo lavoro:
vi ha diritto perchè praticamente e realmente ella lavora e produce;
e nella industria e nel commercio, e nelle arti e nello insegnamento
ella trovasi già su larga scala, e spiega a quest'ora delle attitudini,
che si avrebbe forse avuto, non ha molto tempo, prurito di negarle.
Vi ha diritto finalmente, perchè la società alla sua volta ha diritto,
che la funzione venga esercitata da chi può meglio; e però, se fra più
concorrenti, una donna mostra maggior idoneità, ella fra tutti vi ha
diritto.

Le siano dunque aperte le professioni, come già le furono aperte,
benché in troppo angusto confine, le industrie; e trovi la donna
del popolo, pane, e la donna colta, ma disagiata, onesto e decoroso
guadagno.

Fra le professioni, delle quali la donna sente e reclama con maggior
calore la facoltà di esercizio, trovasi in primo luogo la medicina.

È tempo veramente, ch'ella respinga assolutamente questa tirannica
inquisizione virile sopra il suo corpo, e si pronunci energicamente
sopra questo perpetuo oltraggio, che si fa al suo pudore.

La facoltà medica già esercita nell'America del nord dalla donna verso
la donna e verso l'infanzia, dà a quest'ora dei risultati, dei quali
quelle popolazioni si applaudono; e non v'ha ragione perchè si debba
negare in Europa, dove valenti scrittori dell'uno e dell'altro sesso si
sono pronunciati sull'equità e sui vantaggi di questo provvedimento.

                                   *

La donna fu ed è sempre considerata come fuor della legge, coll'aiuto
della sua debolezza che si ha ogni studio ed ingegno di esagerare fino
al ridicolo, e coll'opportuna _messa in iscena_ della sua pretesa
incapacità, a smentire la quale sorgono dovunque invano splendidi
fatti.

Indarno la prosperità di mille case di commercio, di mille stabilimenti
industriali attestano ed affermano i suoi talenti finanziarii ed
amministrativi.

Indarno le mille e multiformi produzioni del suo spirito fanno fede
della svegliatezza e fecondità del suo ingegno.

Invano regine e principesse, le cui splendide e recenti gesta non
sono ad alcuno ignote, con saggio governo e con ogni forma di politico
reggimento felicitando i popoli, e prosperando le sorti delle nazioni
loro affidate, fecero e fanno fede dei talenti politici della donna.

Indarno si odono tuttodì donne del popolo, coi loro schietti
parlari, rivelarsi calde parteggiatrici, e darci della loro politica
intelligenza una misura che non ci aspettavamo.

L'opinione, o meglio la _prevenzione_ pubblica, alla quale omai non si
può levar taccia di mala fede, si copre gli occhi, si tura le orecchie
e ripete imperterrita: _la donna è incapace_.

Ora, se si può vincere il pregiudizio, la mala fede non si vince;
ma rimarrà pur sempre vero che, essendo il _diritto_ politico (non
mi fermerò a discutere se con torto o con ragione) fondato sulla
proprietà, ed essendo riconosciuta, affermata, e sopratutto _aggravata_
la proprietà femminile al par della maschile, la donna è dalla legge
una volta ancora lesa e violentata.

Non bisognava imporre alla donna una dote per maritarsi, non bisognava
obbligarla al lavoro per mantenersi, non bisognava che ogni Adamo del
secolo decimonono scaricasse addosso alla sua rispettiva Eva metà, e
talora tutto il peso della sua condanna, ed allora si avrebbe potuto
negarle la proprietà, che non può essere che prodotto del lavoro; e
con quella e con questo, a monte i diritti civili, a monte i diritti
industriali, a monte i diritti politici; e la dinastia virile sarebbe
stata felicemente regnante fino alla consumazione dei secoli.

Questa verità viddero i moderni novatori, epperò gli amici della donna
le dicono, _lavora_; e gli avversari della sua redenzione si sbracciano
a predicarle, ch'ella è di vetro e che arrischia di rompersi, muovendo
un dito.

Fortunatamente Proudhon, grande nemico della libertà femminile, arrivò
troppo tardi ad avvertire i suoi compagni che il _lavoro è il grande
emancipatore_.

Gli uomini spostarono volontariamente il primo bottone, bisogna ora
forzatamente spostar tutti gli altri; essi bevvero al calice oppiato
dell'indolenza, bisogna subirne le conseguenze, e bere fino alla
feccia. Essi hanno abdicato il dovere, epperò rinunciato il diritto.

Oggi la donna è produttrice, proprietaria e contribuente; laonde al
legislatore, che voglia salvar capra e cavoli, e non concedere alla
donna il diritto elettorale, nè l'istruzione, non resta per isdebitarsi
in faccia alla giustizia, che un solo ripiego, levare le contribuzioni
alla proprietà femminile.

Certi spiriti piccoli, ed incapaci di elevarsi fino agli
incontrastabili principii della giustizia, sorridono di stupida
sorpresa ad ogni idea, che loro giunga d'oltre la angusta cerchia
abituale delle loro menti; ma siccome non è d'obbligo, la Dio grazie,
nè la loro licenza, e tanto meno il loro intervento per rivoluzionare
così nell'ordine delle idee, come in quello dei fatti; così, con
loro buona pace, il movimento emancipatore della donna, che ebbe ad
iniziatori altissime individualità dell'uno e dell'altro sesso, non
potrà assopirsi e neppure arrestarsi, meglio di quel che si possa
por argine al torrente precipitoso ed irrompente del principio delle
nazionalità.

È il logico corollario delle nuove idee, che si son poste in
circolazione negli umani cervelli; bisogna subirlo.

D'altronde, l'uomo e la donna non furono mai così perfettamente
d'accordo come oggidì. Nè l'uno nè l'altra credono più a nessun diritto
divino, nè a nessun monarchismo che non sia voluto dal libero suffragio
dei governati.



IL DA FARSI


Poich'ebbi addimostrato che dal dovere nasce il diritto, non essendo
questo che mezzo al compimento di quello, mi correva obbligo di
parlarvi del diritto; epperò vi mostravo di volo le condizioni della
donna in faccia alle istituzioni; e come queste sue condizioni siano
tali da renderla affatto impotente al compimento di quel dovere cui è
missionata; avvegnachè io vi mostrassi la donna non solamente ne' suoi
rapporti cogli individui, ma eziandio coll'umanità; poichè, se da un
lato le incombe gravissimo cômpito, come sposa e come madre, non meno
grave ed indeclinabile, siccome ingenito e ad ogni altro anteriore, le
impone un lavoro la qualità di membro sociale.

Epperò questo lavoro io vi mostravo, non manipolato da laterali
interessi, non imposto da questa o da quella volontà, non esatto da una
forza qualunque soggiogabile, non manufatto da umane organizzazioni
che si arrogano diritto di distribuire funzioni, come se quello
prima avessero di distribuire attitudini; ma cômpito e dovere che
nasce con voi, con voi cresce e si sviluppa, che prepotentemente vi
s'impone nell'imponente e fatale linguaggio delle vostre facoltà che,
assecondate, vi conducono a benessere ed a perfettibilità; compresse,
vi fanno infelici o demoralizzate.

Io vi mostravo che la negazione del dovere è la negazione del
diritto, epperò vi eccitavo a riconoscervi quello, per poi chiedere
l'affermazione di questo.

Io non dubito punto che voi tutte, che mi leggete, abbiate ben compreso
questa verità, che è la molla e la sintesi del meccanismo sociale;
epperò vedo che mi chiedete, ch'io stringa in due parole tutto il da
farsi, onde ottenere i mezzi d'azione, dappoichè vi riconoscete il
dovere di azione, spogliandovi di quella misera impronta di servilismo
e di pusillanimità, che ora deturpa il carattere femminile, scaturita
per lo appunto dalla lunga oppressione subìta, e dalla incoscienza
delle legittime pretese, che ogni essere può, e deve recare innanzi
alla società, e determinandovi energicamente all'esercizio della vostra
attività; laonde mi riassumo.

Lo Stato nega alla donna l'istruzione, mentre la fa contribuente.

Il codice le nega la capacità in faccia al diritto, mentre ne afferma
la responsabilità in faccia alla contravvenzione ed alla pena.

Lo Stato respinge la donna dalla vita politica, mentre ve la fa
concorrere coi sacrificii.

La legge subalternizza la donna nel matrimonio e le nega la maternità
legittima, mentre la chiama a parte dei pesi domestici e le abbandona
tutte le conseguenze della maternità illegale.

Più, chiude ogni via alla sua intelligenza e le sbarra la strada ad
ogni professione, disconoscendo così in lei il diritto di lavoro e
d'attività.

La donna deve dunque protestare contro la sua attuale condizione,
invocare una riforma, e chiedere:


I. Che le sia impartita un'istruzione nazionale con larghi programmi.

II. Che sia parificata agli altri cittadini nella maggiorità.

III. Che le sia concesso il diritto elettorale, e sia almeno elettore,
se non eleggibile.

IV. Che l'equilibrio sia ristabilito fra i coniugi.

V. Che la separazione dei beni nel matrimonio sia diritto comune.

VI. Che l'adulterio ed il concubinato soggiacciano alle stesse prove
legali ed alle stesse conseguenze.

VII. Che il marito non possa rappresentare la moglie in nessun atto
legale, senza suo esplicito mandato.

VIII. Che siano soppressi i rapporti d'obbedienza e di protezione,
siccome ingiusta l'una, illusoria l'altra.

IX. Che nel caso che la moglie non voglia seguire il marito, ella possa
sottoporre le sue ragioni ad un consiglio di famiglia composto d'ambo i
sessi.

X. Che il marito non possa alienare le proprie sostanze sia a titolo
oneroso, sia gratuito, nè obbligarle in nessun modo, senza consenso
della moglie, e reciprocamente. — Dacchè il coniuge sciupatore
dev'essere mantenuto dall'altro, è ben giusto che la controlleria sia
reciproca.

XI. Che la madre sia contutrice, secondo lo vuole diritto naturale.

XII. Che il padre morendo elegga egli stesso un contutore, e la madre a
sua volta elegga una contutrice ai suoi figli.

XIII. Che sia ammessa la ricerca della paternità, e soggiaccia alle
prove legali, alle quali soggiace l'adulterio.

XIV. Che si faccia più severa la legge sulla seduzione, e protegga la
donna fino ai venticinque anni.

XV. Che sia la donna ammessa alla tutela ed al consiglio di famiglia.

XVI. Che abbia la tutrice gli stessi diritti del tutore; e, dove
v'abbia discordia, giudichi in prima istanza il consiglio di famiglia,
quindi il tribunale pupillare.

XVII. Che siano aperte alla donna le professioni e gl'impieghi.

XVIII. Che possa la donna acquistare diritti di cittadinanza altrimenti
che col matrimonio.

                                   *

Se ho ammesse qua e colà delle limitazioni ai diritti competenti ad
ogni cittadino, dichiaro esplicitamente, che non è già perchè io li
sconfessi, rispettivamente alla donna.

Ho già detto, ch'io credo dovere la donna apporre il suggello del suo
genio sopra tutte le umane istituzioni, che fin qui non si possono che
abusivamente chiamar tali, opera quali sono di una casta appartenente
alla metà dell'uman genere; e non potrassi mai pensare altrimenti,
finchè la specie nostra, come tutte le altre, sarà composta di due
termini.

Se m'arresto a questo punto, e mi rassegno a queste limitazioni, gli è
perchè, sono queste le riforme, che credo possibili e mature. Cosichè,
pronta a rivendicare domani ogni altro diritto quando vedessi opportuno
di farlo, m'arresto in oggi dove vedo nei pregiudizii generali, e nello
spirito dei tempi ancora bambini all'attuazione delle dottrine del
diritto, segnati i confini della possibile redenzione femminile.

Ma questo pochissimo è necessario ed urgente.

Se le nazioni vogliono camminare alla libertà, è duopo, che non
si trattengano in seno terribile ingombro e potente avversario, un
elemento impersuaso e malcontento così numeroso, qual'è il femminile.

Veda la donna associarsi la sua libertà a tutte l'altre, ed allora ella
profonderà tesori di devozione e d'entusiasmo per la causa generale;
ed è nella speranza e nel desiderio vivissimo, che questa verità sia
compresa dai governanti, ch'io m'accomiato da voi, mie giovani sorelle.

Giovine io pure, sto spiando con ansio interesse l'apparizione d'ogni
idea, che favoreggi in qualche senso la santa causa della libertà; e
spero di tornarvi a stringer la mano, per congratularci mutuamente del
progresso, che la dottrina del diritto avrà fatto fra gli uomini, ed
anzitutto del bene, che voi avrete fatto all'umanità a giusto compenso
dell'averla dessa in voi riconosciuta ed onorata.

Gli è in questa ferma fede che depongo la penna inviando, a nome
di tutto il mio sesso, un saluto di simpatia ed un pubblico tributo
di riconoscenza a tutti gl'ingegni dell'uno e dell'altro sesso, che
propugnarono la causa della redenzione femminile colla parola e col
fatto.

Onore e lode pertanto a voi, Giuseppe Mazzini, Salvatore Morelli,
Ausonio Franchi! Grazie a voi tutti, scrittori della _Ragione_ e della
_Révue Philosophique_! Grazie a voi, Bazard, Enfantin, Léroux, Fourier,
Légouvé, St. Simon, e Fauvety!

Grazie a voi tutti uomini generosi, che propugnate tutte le libertà
e tutte le redenzioni, elevandovi sopra le meschine ispirazioni degli
interessi; e che colla parola, colla penna o coll'opera, affermate i
diritti della donna! Essa farà tesoro dei vostri nomi, e li tramanderà
ai suoi figli e nepoti circondati di gloria e d'onore!

Grazie e grazie vivissime a Madama Sand, a Madama d'Hericourt, a Madama
Deroin! Onore alle ceneri di madama Roland!

Onore a voi tutte, donne del progresso; che, trattando con gloria
le arti e la penna, affermate col fatto l'attitudine e la capacità
femminile!

Possa il vostro nobile esempio scuotere dall'inerzia la massa
neghittosa, e chiamarle sul volto il rossore dell'aver tollerato in
silenzio una sì lunga servitù.


  FINE.



INDICE


  A MIA MADRE                                    pag. III
  ALLE GIOVANI DONNE                              »     V
  _La donna e l'opinione_                         »    27
  _La donna e la religione_                       »    55
  _La donna e la famiglia_                        »    83
  _La donna e la società_                         »   121
  _La donna e la scienza_                         »   145
  _La donna in faccia al diritto_                 »   173
  _La donna nell'esclusione del diritto_          »   219
  _Il da farsi_                                   »   237



ERRATA-CORRIGE


  Pag.    4   lin.   7   dal cuor             _del cuor_
   »      —    »     8   dalla divina         _della divina_
   »      6    »     4   dalla nazione        _della nazione_
   »     12    »     8   d'una donna          _una donna_
   »     14    »    24   inumerosi            _i numerosi_
   »      —    »    26   farà sosta           _sarà sorta_
   »     18    »     5   applicaziane         _applicazione_
   »     24    »     7   precipusamente       _precipuamente_
   »      —    »    16   condueono            _conducono_
   »     25    »    34   ed ogni              _ad ogni_
   »     32    »    32   _Dulpamenta_         Pulpamenta
   »     34    »    24   Gia Giacomo          _Gian Giacomo_
   »     39    »     5   _leus_               Leurs
   »      —    »    13   sérieues             _sérieuses_
   »     56    »    13   Fouriere             _Fourier_
   »     64    »    13   aggloramento         _agglomeramento_
   »     84    »    30   originazia           _originaria_
   »     88    »    12   _sequiture ventrm_   sequitur ventrem
   »     89    »     8   Canciti              _Camiti_
   »      —    »    14   Nonkahiva            _Noukahiva_
   »      —    »    20   Coango               _Loango_
   »     90    »     9   comprono             _comprano_
   »     91    »     6   Sechems              _Sakemi_ (_Sagamos_)
   »      —    »    22   civilizione          _civilizzazione_
   »      —    »    31   cucinaria            _culinaria_
   »      —    »    34   recatagli            _della noia recatagli_
   »    106    »    26   eppo                 _eppoi_
   »    107    »    19   seriamenta           _seriamente_
   »    109    »     2   serbata              _serbate_
   »    124    »     7   dracciate            _diacciate_
   »    127    »    15   sventuro             _sventure_
   »    177    »    18   unità                _verità_
   »    185    »    29   donna                _donna?_
   »      —    »    31   Corinti?             _Corinti._
   »    188    »    37   fama                 _forma_
   »    197    »    22   padrigno             _patrigno_
   »    210    »    34   dacché dà            _dacchè le dà_



NOTE:


[1] _Ognun sa che Carlo V. non sapeva scrivere neppure il proprio nome,
talché servivasi per firmare d'un sigillo, nel quale l'orefice, _sotto
la direzione d'un ecclesiastico_, avevalo compilato e quindi inciso._

[2] Parecchi moderni scrittori, propugnatori della redenzione
della donna, studiarono anche l'influenza delle istituzioni sul suo
carattere, ma le loro idee non sono per anco volgarizzate.

[3] Mentre la donna riscuote nella cattolica canonizzazione l'onor
degli altari, e nella persona della Vergine Maria è divinizzata
(_Deipara_). St. Pier Damiani scrive esser le donne «Pulpamenta
diaboli, virus mentium, aconita bibentium, gineceæ hostis antiqui,
upupæ, ululæ, sanguisugæ, scorta, prostibula, volutabra porcorum
pinguium, cubilia spirituum immundorum, nymphæ, sirenæ, lamiæ, dianæ,
ecc., ecc.».

Altri Padri e Dottori, le cui dottrine sono accreditatissime nella
Chiesa, non sono per la donna nè meno idrofobi, nè più galanti.

[4] Discorso pronunciato dal cav. Luigi Montagnini in occasione
dell'apertura della corte di Cassazione, l'anno 1863.

[5] Niuno ignora le furiose fazioni che divisero la chiesa in quei
secoli che numerosissime dapprima, si fusero poscia in due denominate
_bleu_ e _verde_. A questo proposito dice De Potter, nella sua _Istoire
du Christianisme et des Eglises Chretiénnes_: «Il fut longtemps
difficile de n'ètre ni néstorien ni eutechien.» Secondo questo
scrittore le fazioni teologiche e le invasioni barbariche furono i
solventi dell'impero Romano.

[6] Aspasia, Laide, Frine, Glicera sono nomi celebri negli annali della
Grecia, e videro prostrati ai loro piedi i Pericli, i Temistocli,
gli Alessandri e perfino il severo Socrate ed il cinico Diogene.
Le cortigiane erano sacre a Venere e participavano della riverenza
e del culto prestato a quella divinità, e si credeva che le loro
preci fossero presso di lei efficaci. Le cortigiane erano encomiate
dagli scrittori in Atene. Aspasia era l'arbitra della pace e della
guerra; e la statua di Frine si ergeva fra l'effigie di due re. Si
innalzavano loro magnifiche tombe. Celebri sono i due monumenti che
Arpalo fece alzare a Pitionice, sua cortigiana, l'uno in Babilonia e
l'altro nell'Attica; onde così scrive Dicearco: «Chi va in Atene per
la strada d'Eleusi, quando è presso la città tanto da poterne vedere i
templi, trova sulla via un monumento di cui più bello non può vedersi,
nè più grande, nè più magnifico. Egli crederà tosto esser questo il
monumento di Milziade, di Pericle o di Cimone, eretto a spese pubbliche
dalla città. Ma come sappia esser questo consacrato alla cortigiana
Pitionice, qual opinione avrà egli degli Ateniesi?» (AMBROGIO LEVATI.
_Donne Ill._)

[7] La storia contemporanea ce ne ripete gli esempi. _La Civiltà
Cattolica_ chiamava castigo di Dio la morte di Monsignor Bignami; era
la voce degli interessi; ma quando taluni del popolo lo ripeterono,
allora era la voce della ignoranza.

[8] Nel XV secolo troviamo stabilite anche in Inghilterra le così dette
_Messe ghiottone_, per cui la voracità e l'ubbriachezza si associarono
alle cerimonie religiose. Queste messe venivano celebrate in onore
della Vergine nel modo seguente: «All'alba del giorno, si univano nella
chiesa gli abitanti della parrocchia, carichi di cibi e bevande d'ogni
specie; finita appena la messa, cominciava il banchetto; il clero ed
i laici vi si abbandonavano con pari ardore; la chiesa si trasformava
in una taverna e diveniva teatro di contese, d'intemperanze e di
ferite. Gli ecclesiastici e gli abitanti delle diverse parrocchie si
disputavano il vanto a chi avrebbe le più splendide _messe ghiottone_,
o a chi consumerebbe maggior copia di cibi e liquori in onor della
Vergine. Allorché i Sinodi Provinciali proscrissero questi scandali
vergognosi, ebbero il dispiacere di sentirsi tacciare di _voler
distruggere la religione_». (MELCHIORRE GIOIA. _Galat._)

Kotzebne, nell'opera intitolata: _La Confraternita del Corno_, dice:
«Gli abitanti di Strasbourg, uomini e donne, si univano la notte del 29
agosto nella cattedrale per celebrarvi la dedica di questa chiesa, non
già con preghiere ma con feste e bagordi. Invece di inni si cantavano
canzoni bacchiche. Preti e laici tutti passavano la notte a mangiare e
bere; l'altar maggiore serviva di credenza ed appena vi restava posto
bastante pel prete che diceva la messa, nel mentre che sui gradini
si cantava e si danzava per non dire di più. Gli altri altari erano
egualmente ingombri di bottiglie. Era necessario che ciascheduno
bevesse; e quegli che sopito dai vapori del vino si addormentava
in qualche angolo era svegliato con punture di spille. I Domenicani
che servivano la chiesa, trovando il loro conto in queste orgie, si
guardavano bene dallo screditarle. Solamente nel 1480 un predicatore
intrepido, chiamato Giovanni Geiler, vi si oppose sul pergamo; ma in
onta ai suoi sforzi, questa festa popolare si conservò fino al 1549, in
cui fu totalmente abolita da un Sinodo tenuto a Saverne».

[9] Ciò accade tutti gli anni alla presenza d'una folla d'Europei, i
quali non hanno mai tentato una parola a favore di quelle infelici.

[10] Presso gli Schiavati, secondo rapporto d'un missionario, un marito
malcontento della scienza culinaria di sua moglie, la uccise e la
servì a' suoi amici in un banchetto per compensarsi, diceva, con quella
vivanda della noia recatagli dalla sua inabilità per la cucina.

[11] ROSELLY DE LORGUE. — _La Mort avant l'homme_, pag. 123, 124, 125,
126, 127, 128.

[12] SALVATORE MORELLI. — _La Donna e la Scienza_, pag. 8, 9, 10 e 11.

[13] Thòmas nel suo _Essay sur les femmes_, pagina 196, scrive:
«Dans les siècles les plus éclairés on ne pardonnera pas aux femmes
de s'instruire. Le gout des lettres a été regardé comme une sorte de
mésalliance pour les grands ed un pédantisme pour les femmes. Quelques
unes bravèrent ce prejugé, mais on leur en fit un crime.»

[14] Montesquieu scrive al cap. XVII dello Spirito delle leggi. «Nelle
Indie trovasi altri sommamente pago del governo delle femmine; ed è
quivi stabilito che i maschi non regnino se non vengono da una madre
del sangue medesimo e succedano le fanciulle che hanno madre del
sangue reale. Secondo Smith, trovarsi i popoli d'Africa molto contenti
del governo femminile. Se si aggiunga l'esempio della Moscovia e
dell'Inghilterra si rileverà come riescano esse del pari nel governo
moderato e nel governo dispotico».

[15] A chi sembrassero oscure quelle parole, _stato combinato_, gioverà
accennare che, l'impronta della scuola Falansteriana è la libertà
individuale basata sulle seguenti nozioni:

Tutte le nature son buone; esse non si pervertono che funzionando in un
cattivo elemento.

Nessun individuo rassomigliando perfettamente agli altri, ciascuno
è solo giudice possibile delle proprie attitudini e non deve ricever
leggi che da sè stesso.

Le attrazioni sono proporzionate ai destini.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a
pag. 244 (Errata Corrige) sono state riportate nel testo.



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