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Title: La vita di Cola di Rienzo Author: D'Annunzio, Gabriele Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "La vita di Cola di Rienzo" *** GABRIELE D’ANNUNZIO VITE DI UOMINI ILLUSTRI E DI UOMINI OSCURI LA VITA DI COLA DI RIENZO FRATELLI TREVES EDITORI. MILANO. MCMXIII _Proprietà letteraria. Riservati tutti i diritti._ Copyright by Fratelli Treves, 1912. _Si riterrà contraffatto qualunque esemplare di questa opera che non porti il timbro a secco dell’Autore._ Tip. Treves. _PROEMIO DELL’AUTORE._ LA VITA DI COLA DI RIENZO DESCRITTA DA GABRIELE D’ANNUNZIO E MANDATA AD ANNIBALE TENNERONI SUO AMICISSIMO. _Se tu veda per la prima volta il ritratto di Erasmo dipinto da Hans Holbein, pur dopo aver letto l’Elogio della Follia i Colloquii e le chiliadi degli Adagi, credi di avere per certo dinanzi a te in quel punto la figura intiera del filosofo da Rotterdamo, in carne e in ispirito, quasi per improvviso lume di ragione e di rivelazione, qual non t’era apparsa dal paziente studio delle opere. Forse l’effigie offerta dalle sue scritture alla tua mente non differiva di molto da quella dei tanti Eruditi in berrettone di velluto e in zimarra di vaio, che nella vecchia Basilea degli stampatori curavano le edizioni di Giovan Froben, come ad esempio quel Sebastiano Brandt giuriconsulto e conte palatino il quale di sotto al peso delle Pandette sapeva un pochettin sorridere al pari del Fiammingo cui con la _Nave dei Folli_ aveva pur dato l’idea dell’_Elogio_. Ma ecco che, a un tratto, l’amico di Aldo Manuzio e di Pietro Bembo assume dinanzi a te aspetto di uomo incomparabile e inimitabile, non somigliando ad alcun altro, immoto nella sua propria verità ed eternità. Guardalo. Egli è là di profilo, con la sua berretta nera in capo, col robone azzurrognolo, nell’atto di scrivere tenendo il foglio sopra il declivio di un volume dalla rilegatura vermiglia. Nell’attenzione le sue palpebre s’abbassano su gli occhi di solito guardinghi; la bocca è chiusa e ripiegata profondamente negli angoli, piena di sapienza, di prudenza e d’ironia; il naso lungo ma scarno, dalle narici ampie e delicate, è come la sede espressiva di un senso acuito e vigile, che fiuta nelle mutazioni della vita il sentore dei più tenui soffii. Delle mani l’una tiene la penna con la facilità della consuetudine; l’altra, inanellata, tiene fermo il foglio sotto le dita chiuse egualmente; ed entrambe vivono esperte e placide nell’esercizio d’ogni giorno. Scrivono forse il comento all’adagio “_Nihil inanius quam multa scire_„? una epistola adulatoria ma cauta a Leone Decimo o al quarto Adriano o a Carlo Quinto? Esse non vivono men del volto, diverse da tutte le altre mani mortali con le lor dita grinzose le unghie corte le fitte pieghe palmari, come la foglia con le sue nervature dentature spartiture gualcita dal vento rósa dal bruco inargentata dalla chiocciola è dissimile alle miriadi delle sue compagne pendule nella foresta._ _Ecco che, per virtù d’un prodigio operato sopra una tavola con pennelli e colori pochi, tu hai conosciuto il famoso Erasmo non soltanto in carne ma in anima, non soltanto in vista ma in essenza; cosicché ti sembra che non gli olii abbiano stemprata la materia di quella pittura sì bene i più sottili spiriti dell’umano intelletto._ _Ora, se un artefice ti dipinge non un uomo illustre ma un oscuro e te lo rappresenta in tutta la sua singolarità vivo con l’energia rivelatrice del disegno, la tua commozione nel mirarlo non è minore dell’altra. Iacopo dei Barbari, su poco più d’una spanna, ti condensa una somma di vita incalcolabile entro una forma precisa che comprende a un tempo tutto il particolare e tutto l’infinito, tutto il reale e tutto l’ideale, quel che è e quel che può essere. Guarda il giovinetto simile allo sparviere: naso forte e adunco, bocca arcuata a scagliare la sfida e l’oltraggio, occhi resi più torvi dalla piega della palpebra che li restringe, capelli di rossor leonino. È nero vestito sul fondo di una dolce cortina bianca orlata di verde come la tunica della Primavera: là nell’angolo la lucernetta di ferro nutre una fiammella funeraria, e la cortina copre chi sa quale profondità perigliosa._ _Questi maestri giova che invochi colui il quale si sforzi di ritrovare l’arte latina della biografia; che non è se non l’arte di scegliere e d’incidere tra i lineamenti innumerevoli delle nature umane quelli che esprimono il carattere, che indicano la più rilevata o profonda parte dei sentimenti e degli atti e degli abiti, quelli che appariscono i soli necessarii a stampare una effigie che non somigli ad alcun’altra. Per ciò tra lo storico e il biografo è grande il divario, come tra il frescante e il ritrattista, il primo non considerando gli uomini se non nel più vasto movimento dei fatti complessi e nelle più efficaci attinenze con la vita publica, il secondo non rappresentandoli se non nei più saglienti rilievi della sua persona singolare._ _Osservato fu già come Plutarco, quando ci dice che Giulio Cesare era magro, di carnagione bianca e molle, soggetto al dolor di testa e al mal caduco, ci tocchi ben più a dentro che con gli ingegni de’ suoi paragoni. Quando Diogene Laerzio ci racconta che il divino Aristotile usava portar su la bocca dello stomaco un sacchetto di cuoio pien d’olio cotto e che, lui morto, fu ritrovata ne’ ripostigli della sua casa gran moltitudine dì coppi come in una bottega di Samo, egli incita la nostra imaginativa ben più che con l’esporci non senza grossezza le dottrine del Peripato. Nelle biografie come nei ritratti noi dunque cerchiamo con avidità e gustiamo con gioia tra i segni della vita particolare quelli che più appaiono dissimiglianti dai comuni, quelli che non concernono se non la singola persona, quelli che di un capitano di un poeta di un mercatante fanno sotto il sole un uomo unico nel genere suo. Per ciò consento al giudizio di colui che stima esser fiacco artefice il descrittor di vite il quale rifugga dall’incidere le minuzie e le bizzarrie per ismania di sollevarsi alla solennità della storia cui non è lecito considerare il naso di Cleopatra e la fistola del Re Sole se non nel riferirli all’evento universale._ _Per ventura non son rare nei nostri biografi, specie ne’ più ingenui, le pennellate di subitaneo risalto, che ci rendono vivo e respirante l’uomo. Guarda questa attitudine e questo movimento còlti all’improvviso da Filippo Villani nella vita di Dino del Garbo: “Era spesse volte usato sedere in sull’uscio della casa sua, e l’uno ginocchio sopra l’altro ponendo, quasi un giuoco di fanciulli velocissimamente girare una stella di sprone intantoché si stimava che con l’animo fosse altrove„. Eccoti Giovanni Boccaccio mentre racconta la novella di Tofano e di Monna Ghita: “Di statura alquanto grassa, ma grande: faccia tonda, ma col naso sopra le nari un poco depresso: labbri alquanto grossi, nientedimeno belli e ben lineati: mento forato, che nel suo ridere mostrava bellezza: giocondo e allegro aspetto in tutto il suo sermone„. Eccoti il buon cancelliere della Città fiorentina Coluccio Salutati: “Di statura più che mezzana ma alquanto chinato, con ossa larghe, colore quasi bianco, faccia tonda, larghe e pandenti mascelle, e con labbro di sotto alquanto più eminente: pronunziazione modesta ma tarda„. Dipinture alquanto rozze queste, lontane dalla maniera di Antonello da Messina o di Alberto Duro, ma pur nella loro semplicità, evidenti. E certo il ritratto di Farinata dipinto da Messer Filippo giudice non vale quello che Andrea dal Castagno drizzò su la parete della sala in Legnaia, con gagliardìa dantesca, tra Pippo Spano e Niccolò Acciaiuoli._ _Però, se ripenso la candid’arte di Vespasiano e se m’imagino di avere a dipingere in tavola a tempera la figura di quell’ottimo cartolaio nostro compare, io ben lo vedo nell’atto di soppesar con maraviglia e reverenza entro la sua palma rugosa la pietra che Maestro Tomaso avea tolta dall’arnione del cardinal di Santa Croce isparato. “Era di grandezza quanto un uovo d’oca, e di peso once diciotto.„ Ben per tal particolarità vorrei significarlo. Te ne ricordi? Il teologo di Serezana glie la dette in mano “a dimostrare la passione che aveva sopportata il cardinale„. E credo ch’eglino lacrimassero insieme, evocando sul calcolo sciagurato la fine eroica del monaco di Certosa; il quale “per non “voler rompere la sua regola„ non prese a rimedio il bicchiere di sangue di becco. “Papa Nicola non veniva mai a questo passo, di tanta costanza d’animo, quant’era nel cardinale, che non lacrimasse.„_ _Or tu comprendi perché in simili tratti io mi compiaccia, se dimenticato non hai la sera dilettosa che leggemmo insieme la Vita di Messer Branda e ce lo vedemmo vivo dinanzi, mentre ci pigliava la sua “scudella di pane molle nella peverada del pollo„ e si beveva i suoi “dua mezzi bicchieri di vino„. Ambo i nipoti anco eran là, che mangiavan ritti, con un tovagliolino in una spalla. E il famiglio nasuto portava panni di color moscavoliere e in capo una berretta da prete. E, dopo la cenuzza, il prelato se n’andava in camera sua, dov’era “uno semplice letto con un panno d’arazzo, il lettuccio sanza che vi fusse nulla se non il legname; e l’usciale del suo uscio era uno pezzo di panno azzurro, suvvi l’arme sua cucita„. E, prima di porsi a sedere su quel tettuccio per leggere il libro delle Sentenze al lume d’una candela di cera, il vecchione tastando cercava gli occhiali ch’ei soleva tenere in una buca._ _Si direbbe questo un quadretto d’interno, qualcosa come il fondo d’una storietta di Pesello dipinta in un corpo di cassone o in una predellina o in un tondo “a uso di minio„._ _Per ammirare _sub dio_ una grande figura piantata a cavallo con i due piedi ben saldi nelle staffe bisogna attendere che il Machiavelli si proponga di dipingere il Castracani emulando l’Orcagna che già avea posto il bel signore di Lucca nel Trionfo della Morte con un cappuccio azzurro avvolto intorno al capo e con uno sparviere in pugno. Ma il novo artista toglie lo sparviere a quel maraviglioso uccisore, lo arma di ferro battuto a freddo; anco gli toglie il cappuccio ché “sempre, e d’ogni tempo, come che piovessi o nevicasse, andava con il capo scoperto„. E lo alza in solidità monumentale, al culmine della sua virtù e della sua fortuna ma pur, come l’Orcagna, all’ombra della Morte; sicché i nostri occhi ora e sempre lo veggono là fermo a mezzodì sopra la porta di Fucecchio per aspettar le sue genti che tórnino dalla vittoria, esposto al vento pestifero che si leva di su l’Arno, il qual ci sembra veramente quel dantesco “impetuoso per gli avversi ardori„ preso a imagine del rombo levàtosi di su la schiuma antica dello Stige ove infuria la gente dispetta. Esemplare insigne quant’altri mai questo, mandato dall’incisore del _Principe_ a Zanobi Buondelmonti a Luigi Alamanni e ai suoi discepoli avvenire. I lineamenti gli atteggiamenti i movimenti son quivi scelti e ricomposti con acutissima sagacia, non impedita dal vano scrupolo della realtà esatta che è straniera all’arte eroica. Il disegno vi è semplice e grandioso, qua e là non senza crudezza di contorni opportuna e fierezza di scorti veloce, rilevato da un colorito così sobrio che la figurazione della battaglia tra Castruccio e i Fiorentini al guado dell’Arno fa pensare al cartone della guerra di Pisa condotto di mano di Michelagnolo. Trattata da quest’arte la gran persona esce compiuta nell’interezza del suo vigor naturale e dell’acquistata esperienza, con la sua musculatura e con la sua magnanimità, con i suoi motivi e con i suoi atti, con le norme del suo diritto che sembrano estratte dalla sostanza stessa delle sue midolle e poi constrette in brevità imperiosa, con tutta insomma la sua vita corporale animata dalla passione e dall’eloquenza._ _Accingendosi allo sforzo insolito, l’autore di queste _Vite di uomini illustri e di uomini oscuri_ non ha dunque nascosto a sé stesso le difficoltà disperate né ha voluto evitarle. Certo, la condizione più felice per l’opera del biografo è l’essere stato egli testimonio attento e assiduo della vita cui vuol descrivere. Osservando lo studio fedele che delle mani di Erasmo fece Hans Holbein prima di porsi a dipingerle in tavola, tu comprendi di qual nutrimento sia robusta quella immortalità. Ma per ristampar l’effigie dei grandi trapassati noi non possiamo ricercare le dubbie tracce delle lor virtù e dei loro vizii se non nelle croniche, nelle memorie, negli epistolarii, nelle lapidi, in simili materie inerti e consunte. Di tratto in tratto qualche lampo c’illumina e ci forvìa. Su la bocca di Cola di Rienzo “sempre riso appariva in qualche modo fantastico„ e in camera sua dopo morte fu trovato uno specchio etrusco in mezzo a talune tavolette cerate con antiche scritture. Gli occhi di Leon Battista Alberti si velavano subitamente di lacrime vedendo le prime fogliette della primavera. Giovanni de’ Medici, ancor che fosse di molto cuore, non ardiva dormir solo in una camera di notte. Ecco che il mistero caldo e mobile della vita ci attira, ci tocca, e ci sfugge._ _Per ciò io voglio ardirmi di accostare agli uomini illustri taluni uomini oscuri ch’io conobbi da presso e guardai intentissimo, specie quelli che più squallida passione sostennero per aver mancato alle lor alte sorti o per aver peccato contro sé mortalmente. O forse farò una invenzione d’una figura per raccontare coperto alcuna delle mie vite segrete. O forse abbandonerò del tutto questi disegni, per indulgere al mio capriccio e per secondare il tuo sorriso incredulo. Ma non mancherò di mandare a quello de’ miei figli che rinnova il mio nome e che mi parve ancor bello quando lo vidi l’ultima volta su la riva tirrena ignudo e adusto, non mancherò di mandargli una _Vita_ che gli promisi, la _Vita di Tomaso dei Cavalieri_, per non potere scrivere quella di Michelagnolo. “Sarebbe lecito dare il nome delle cose che l’uomo dona a chi le riceve: ma....„_ _A te oggi mando la _Vita di Cola_, composta or è sett’anni: a te e ai quattro o cinque amici che sai, come “al saggio de li buon conoscidori„. Sarei contento se tu rispondessi in novembre al fuoruscito insabbiato come in settembre Zanobi Buondelmonti al deposto Cancelliere dei Dieci di Libertà messo in Lucca a curare i negozii dei mercatanti fiorentini in risico pel fallimento di Michele Guinigi. “Leggemola et consideramola un poco insieme: Luigi, il Guidotto, il Diaccetino, Antonfrancesco et io; et generalmente ci risolvemo fussi cosa buona et ben detta.„_ _La composi nella mia villa di Settignano quando, per compiacere a un de’ miei spiriti allora dominante, io ritrovava senza sforzo i costumi e i gusti d’un signore del Rinascimento, fra cani cavalli e belli arredi. Non ch’io m’ingaglioffassi per tutto dì nell’osteria dello Scheggi come Nicolò a San Casciano tra oste beccaio e mugnaio; ma pur tutto dì ero tra stalla e canile con mastro e garzoni, amando la bestia più che l’uomo e non potendo del mio amore darle miglior prova che nel governarla._ _Sere d’ottobre tra l’Affrico e la Mensola, tra il pian di San Salvi e il poggio di Maiano, tra Rocca Tedalda e le Gualchiere di Girone, tra Montereggi e la Fonte de’ Tre Visi, quando tornavamo in brigata con la muta a guinzaglio e co’ cavalli al passo, che fumigavano come la campagna frescamente rotta dagli aratri! Il sole tra i fumi pareva una macina roggia che si volgesse in tondo a frangere; ma per ogni dove intatte pendevano tra le foglie sante le piccole ulive che non avean cominciato ancóra a invaiolare. E le viti, che avean esse già dato il lor frutto, quasi spoglie di pampani si tendevano fra tronco e tronco a guisa di corde; e tanta era talora la musica di tutte le cose, che ci sembrava fossero per vibrare come quelle di uno strumento. La macina in fuoco sprofondandosi, talora le vette di Fiesole restavano accese per alcuni attimi. Poi nuvole eleganti si sedevano su le colline, mutavano attitudine senza parere, e non si sapeva che facessero, ed era da credere che s’acconciassero o giocassero; quando a un tratto la più chiara sollevava il plenilunio in cima al braccio nudo come chi sollevi la palla che le è balzata in mano e la difenda. Tutta la campagna splendeva di sùbita luce, se ben la luna fosse d’incerta lustrezza. I muri graffiti lungo le strade, e le case dei poderi, e i mucchi delle selci splendevan di non so che candore interno e tacito. Dall’alto della sella scorgevo un acciottolato dinanzi a un porticale, un vivaio colmo in mezzo a un orto, una fossa di calcina presso a una fabbrica. E tutto splendeva di quella luce senza origine, come i pensieri nella mente solitaria. E un silenzio strano si faceva lungo le strade, per entro alle siepi, sopra gli argini, tale che le péste dei cavalli non sembravano interromperlo ma misurarlo. E quel silenzio, che pareva eguale, aveva pel mio sentimento le variazioni espressive dell’ombra che non è la stessa quando s’aduna entro l’occhiaia o nel cavo della gota o sotto la mascella. Lo indovinavo diverso, prima di giungere a uno svolto, sicché al mio lieve fremito la bestia sensibile drizzava le orecchie come in punto d’aombrare. Giuntovi, entravo in esso come in un ricordo e in un presagio. In qualche luogo era così meditativo e così dolce che, sorpassandolo, l’anima mi si volgeva indietro come pel rammarico d’una perduta saggezza o d’un bene non acquistato. In qualche altro luogo, mi saliva subito al viso e mi penetrava come l’odore dell’incenso e il fresco della navata penetrano la creatura che entrando nella chiesa sta per essere posseduta dal suo dio._ Sensualitade Turbami el vedere; Et carnalitade Nol mi lassa avere.... _Hai certo in mente, o amico, il cantico del tuo Iacopone. Ma non così era per me. Non mai era in me “tenzone fra l’anima e ’l corpo„; ché sempre sentivo sorgere dalla profondità della mia carne gli spiriti più puri e coi miei occhi torbidi riconoscevo gli iddii non manifesti in sostanze trasfigurate per me solo. Quanti divini connubii, quante indicibili generazioni di deità senza nome mi si scoprirono su quella sorta di orgoglio carnale che nasce dal vigore esercitato e dal coraggio messo a prova! Se ripenso l’erta che solevo prendere a sera tornando dal Campo di Marte col cavallo in sudore, là sul fianco di quel bello Arcolaio di Bernardo Gondi fiorito d’oleandri sino allo scorcio di settembre, io so come quella fosse la via misteriosa che mi conduceva non a Coverciano né a Poggio Gherardo ma nell’intimo di me stesso, nella mia più remota solitudine. E ancor mi sembra aver lasciato qualcosa di grande pregio laggiù, lungo i fossati ingombri di tritume, per un di que’ sentieri molli che da Malcantone vanno verso il Pino, ove mi mettevo salendo a galoppo su per l’argine erboso dell’Affrico, mentre i cani andavano fiutando come per ritrovare le estremità di non so che rotti legami e per ravvicinarle e rigiugnerle davanti all’ansito del cavallo che si calmava stazzonato._ _O Gignoro, luogo di deserta umiltà, dov’è ancor accolta la paziente pace benedettina come la belletta della pozza nel crocicchio, quante volte a sera passando sotto un’onda di campane ti riempii della mia anima più perfettamente che il soffio musicale non riempia una canna d’organo, mentre tutto il mio caldo corpo in un brivido repentino mi diveniva una cosa più fragile di un’ampolla appannata da un’acqua che vi si congeli e traspiri! Ahimè, non mai, per quanto mi sforzi, potrò rappresentar que’ modi del mio sentire, quando ogni mia esperienza era una comunicazione segreta per rinvenire il senso del mondo e la mia cotidiana vita era un’azione mutua e perpetua tra me e i demoni incogniti ch’evocava la mia magia. Ecco, riodo nella mia memoria l’urto dello zoccolo sonoro contro il sasso, in capo della via di Camerata dalla parte di San Domenico, e dietro me lo stridore del carro elettrico su la rotaia, lo stridore che si prolunga atrocemente nell’ombra come un coltello rimosso nella piaga d’un petto che si lasci torturare senza grido; e mi ricordo come quella mia angoscia improvvisa non mi salisse dal mio proprio cuore ma di più giù che il sasso, di più giù che la radice della collina bella. Tal luogo veniva incontro a me come una creatura eterna che mi fosse parente. Tal altro tratteneva e serbava per me la più volubile delle forze erranti. In un altro ritrovavo la mia oscurità, in un altro il mio splendore, in un altro il mio crepuscolo. Talvolta, senza causa, con la prestezza dell’inspirazione, il mio petto traboccava d’amore così che mi veniva una volontà di gettarmi giù di sella per porre la faccia contro la terra._ _Poi, come se da non so che tempera potente l’anima mi si freddasse e indurasse, m’accadeva di non esser più se non una sorta di spada nova nella guaina delle mie membra. E non gioivo se non di quello spirito crudo che tante volte appagai nel sangue delle mie tragedie. E una sì forte imaginazione si levava in me, che mi sentivo tutto aspro di quella “bizzarra salvatichezza„ ond’eran irti gli uomini di parte in Fiorenza “per lo mal seme venuto di Pistoia„. E mi pareva non esser dissimile a Guido Cavalcanti quand’ei spronò contra Messer Corso col dardo in mano, e i compagni non lo secondarono. Ma pur un giorno ci trovammo con il compiuto donzello Simone Donati al ponte ad Affrico per assalire Nicola dei Cerchi bianchi che andava al suo podere e alle sue mulina. E anco un altro giorno in su l’Affrico stesso fummo con Boccaccio Cavicciuli a perseguitare Gherardo Bordoni, e lo raggiungemmo e afferrammo, e gli tagliammo la mano e la recammo nel corso degli Adimari; e fu confitta all’uscio di Messer Tedici suo consorto, come nottola. E anco ci trovammo sopra a Rovezzano allora che il barone fu giunto e preso; e pur là eravamo allora che, di costa a San Salvi, con un sùbito raccapriccio fiutando la ferocia della bestia plebea ei levò dalle staffe le grandi podagre de’ piedi e si lasciò sfuggir la briglia dalla man gottosa, e piombò giù di sella per restarsi; e là in terra un dei Catalani gli diede della lancia per la gola, al conspetto dei monaci esciti di badia, onde ammirabile getto di sangue fu il motto estremo di sì bello parlatore._ _Sere d’autunno tra il Monte Ceceri e il Poggio a’ Pini, tra Mugnone e Zambra, quando sopra Borgunto a un tratto s’allargava una nuvola turchina, bassa come un tetto di lavagne, e per tutto era un silenzio molliccio come quel d’una cisterna coperta, e ogni piega della terra era già come un labbro proteso alla prima gorgata, l’odore piovano giungendomi al cuore innanzi che all’orecchia lo stroscio! Giungeva di lontano, e non proprio come un odore terrestro ma come una ricchezza indistinta, ma come un umido spirito che seco rapisse tutte le grazie fiesolane sparse tra Sant’Ansano e Belcanto, tra gli angeli di Luca e le modanature di Michelozzo, avendo toccato la rosa e lo smalto, il marmo e la dàlia. E mi gli volgevo come un poeta in sogno, di su la groppa, inspirato dal fiato di Fiesole medìcea. Ma, quando le fitte aste della pioggia cominciavano a risonare contro le picche dei cipressi, tralasciavamo la delizia come quei partigiani Neri e Bianchi che, stando a godersi in Santa Trinita un ballo di donne, spinsero di sùbito i cavalli l’un contro l’altro e s’azzuffarono. Partivamo a trotto chiuso verso Castel di Poggio, entrando nel fosco della rimbombante selva come nell’ombra ostile del secolo remoto, con l’animo d’una masnada che cavalcasse a vendicare una soperchieria contro un dei Manzecca, risoluta a non tornare indietro se non dopo avergli fatto quel che il masnadiere dei Donati fece in calen di maggio a Ricoverino di Ricovero. Rinforzando il rovescio, senza allentare il trotto giù per la discesa motosa, passavamo sotto i piombatoi di Vincigliata, poi lungo l’intorbidita Mensola sino al Ponte, e dal Borghetto su per l’erta vecchia di Settignano ove risfavillavano le selci. Travedevo i campi inondati, i solchi mutati in rivoli, i fossi traboccanti, qua e là una faccia del cielo riflessa in un di que’ specchi fuggitivi. I lauri del Belritorno aulivano come se la pioggia li avesse dirotti coi suoi mille e mille coreggiati d’argento. Balzavamo di sella, su lo spiazzo, fradici d’acquazzone e di sudore fino all’osso, palpando il collo della bestia generosa col guanto inzuppato. I garzoni accorrevano. Dai canili i cani rinchiusi abbaiavano rizzandosi contro i cancelli, ficcando tra le sbarre i musi lunghi e gli occhi ardenti. Chiamavo per nome i tornati, che mi saltavano addosso con le zampe lorde di fango, ansandomi in viso. Se taluno de’ più fiacchi rimasto per via mancava alla chiama, era un gran fischiare, un gran vociare, come in una Caccia di Franco Sacchetti o di Nicolò Soldanieri._ “Tè, tettè, tettè!„ “Ulivo, torna qua!„ “Va su, va su, Donnà!„ _Allora entrava in me una virtù singolare, vigilante e pronta ma pure involta di non so che sogno, di non so che bagliore fantastico, quasi avessi bevuto una qualche stupenda mescolanza. Respiravo in quella calda bestialità con tutti i miei pensieri concitati come nel furore della poesia. Vedevo, nel forte delle faccende, sorgere le figure segrete che si disformano quando l’arte le tocca, V’era luogo per qualche piccola divinità nella posta occupata dall’importanza del cavallo che aveva fatto il suo sforzo e che doveva essere ben governato. I movimenti consueti, resi agevoli ed esatti dalla pratica quotidiana, componevano il ritmo misterioso della perizia, che pareva regolato dalla mia ispirazione. Il palafreniere curvo su la lettiera asciutta, nell’ombra della pancia zaccherosa, e quello che stropicciava il fianco schiumante con una manciata di paglia per ogni mano, e quello che tuffava la spugna nella secchia tenendo la coda o il piede, ognuno accompagnava la bisogna con un certo soffiare ch’era come un suono lieve di persuasione e di blandimento, onde talvolta si formava non so che parola comunicando all’inquietudine della bestia sensibile la pena e l’amore dell’uomo._ _Credi tu ch’io fossi più ebro di me quando nel Deserto d’Arabia alla sosta della sera abbiadavo con un po’ di crusca o con un pugno d’orzo il mio stornello impastoiato, cominciando la luna appena a segnare tra immensità ed eternità il miracolo della mia ombra? Anche là, in quella stalla chiusa, tutto era lontananze e apparizioni dello spirito, tutto era disegni e scritture dello spirito, azioni mutue tra me e gli iddii subitanei. Anche là sentivo il mio cuore divenire più profondo e il mio occhio riacquistare la limpidità infantile, come nel Deserto, come su la spiaggia pisana, come intra du’ Arni, come al Gombo, come nella Versilia, come quando nasceva, dal mio respiro Undulna. Era ben là Undulna, trasfigurata in una grande cavalla baia che meritava il nome della pieghevole dea “dai piè d’ali„. Non docile, abbassava le orecchie, increspava le labbra mostrando le gengive, guardava a traverso mostrando il bianco venato di vermiglio; ma per entro i suoi belli occhi biechi scoprivo l’essere sconosciuto e divino che mi spiava come io un giorno tra le canne del Serchio spiavo il Centauro._ _V’è certo una Musa velata che conferisce un che di simile a quella grazia detta abituale dai teologi. Io ne fui ricco, all’aperto e al coperto. Le mie imaginazioni non erano se non atti di fede. Sapevo come i fantasmi da me veduti fossero più veri dei corpi e dei movimenti che li cagionavano. Tuttavia non mai accadeva che la mia attenzione esterna si interrompesse o si rilasciasse. La cigna sfibbiata, la sella tolta di sul dosso fumante, il riflesso d’una lanterna sopra una groppa lisciata dal torcione, la voce data dall’uomo per far poggiare o per calmare l’impaziente, uno sbuffo strepitoso, un nitrito più tenue che un fremito di gazella, l’odore della canfora, l’odore della farina nel beverone caldo, un bel guizzo di luce sul viso acceso d’un mozzo, la strana cifra segnata dai peli bianchi in un mantello rabicano, ogni gioco delle apparenze mi commoveva come la rivelazione d’una novità che in me solo toccasse il sommo del suo pregio. Di posta in posta, palpavo con la mano senza guanto la spalla le reni l’anca per sentirle asciutte; e più d’una volta eccitavo lo zelo con l’esempio, in gara di prontezza, ché tu sai quanto mi piaccia fra i destri esser più destro e a tutto mostrarmi accomodato. Nel canile, quasi carponi, in maniche di camicia, serrando il levriere tra le ginocchia, gli stropicciavo le zampe, le costole, la schiena, pel verso del pelo, sentendo con orgoglio le masse formidabili dei muscoli nelle cosce, i secchi tendini tanto possenti e pur tanto delicati. O sedentario amico, qual mai nostra sintassi eguagliò la virtù di quelle strutture? Esaminavo io medesimo, volta per volta, i piedi messi a dura prova dalla strada toscana ov’è re il barocciaio. Se mi parevan sensibili, li bagnavo con una ottima infusione di scorsa quercina e d’allume che raccomando ai miei seguaci spedati. D’un tratto, su la paglia fresca dei banchi le risse scoppiavano. Sotto la frusta che non valeva a separare i contendenti, tutto era fuoco d’occhi e ringhio di mascelle armate. Prendevo su le mie braccia il ferito che guaiva: gli trovavo lo sdrucio nella pelle fina, quasi strappo nella seta. Il combattente feroce ora frignava come un bimbo, lasciandosi medicare dalle mie dita leggère. Bisognava parlargli nella sua favella, consolarlo con le sue moine. Certo, amico, non ebbi mai tanta accortezza nel collegare i membri del periodo e nel volgerli alla clausola giusta, quanta ne dimostrai nell’usare l’ago del cerusico e nel mettere le fasce intorno a così difficile irrequietudine. E non mai, veramente, come tuffando le dita nella bacinella, considerai nel sangue un simbolo tanto sublime._ _Hai tu mai pensato che imbestiare può in un certo senso essere un modo di trasumanare? Non so più dove io abbia trovato, ma mi sembra in un Dialogo del Tasso, un detto il quale io non voglio più ricercare per non esser costretto di trascriverlo con esattezza e d’interpretarlo altrimenti che a mio modo. “Così come vi piacque imbestiarlo, vi piaccia anche deificarlo„. Vedo che il mio segreto lirico è in una sensualità rapita fuor de’ sensi. E questo non può sembrare un semplice bisticcio alla tua mente umbra, o cittadino di Todi._ _“Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in sull’uscio mi spoglio quella vesta cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali e curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che _solum_ è mio, et ch’io nacqui per lui....„ Te ne ricordi? Nel tempo delle nostre letture ad alta voce, una sera, come fui giunto a questo passo, non potei seguitare, tanto la commozione mi vinse. E una gentile donna, quivi presente, ricevette il mio tremito sin nel fondo del suo cuore; e credo che di poi meglio mi amasse._ _Ma che mai poteva essere per me ogni altro cibo? Mentre su le alte lettiere i cavalli copertati e abbeverati tritavano con agio l’avena, io veramente a mensa non mangiavo se non la mia anima mista, consentendo al medesimo Torquato che “niuna cosa è più soave della mistura„. Quivi sedeva la mia compagna per la notte; ma non ero ebro se non di me, come se fossi solo al mondo, dedito a tutto ottenere da me e a rifoggiare in simiglianza di me tutto ciò che intorno viveva, per deificarmi. Mi prolungavo nel passato, mi ricongiungevo alla mia eternità; ma come a dentro mi toccava la bellezza presente di quelle rose d’ottobre che ornavano la tavola, ancor molli di pioggia, un poco malate di freddo e d’ombra, più tènere e più misere che le piccole pugna chiuse dei poppanti assopiti!_ _La mia vita segreta era così bella che ogni giorno più la profondavo nel suo silenzio vivente. Bastava talora un grido in mezzo ai campi o uno stormire di cipressi perché ella si levasse in un sùbito tutta quanta con l’ansia di prendere la forma dell’arte. Ma le facevo violenza, la ricacciavo nella profondità._ “O profondato mare, altura del tuo abisso!„ _E vivevo in palese un’altra vita, mi sottoponevo a una disciplina avversa, curioso come fui sempre di conciliare l’inconciliabile e di concordare la discordia, per meritare dinanzi a me stesso quel titolo di Amimetobio male usurpato dalla grossezza romana di Antonio e de’ suoi compagni._ _Per ciò, invece di secondare il mio genio, m’imposi un cómpito determinato, allogai a me stesso un lavoro di lena, impresi a trattare una materia ignuda con la mia maestria, come i miei artieri settignanesi nella mia casa trattavano il legno, il ferro, la pietra. Anche nella scelta fui duro; perché da prima avevo pensato al Re Giannino e a una Siena affrescata con la maniera di Ambrogio Lorenzetti. Avevo di poi pensato a quel Bianco dell’Anciolina che tu ben conosci, al povero gesuato cantore di laudi ebro come Fra Iaco, al giovinetto lanaiuolo distrutto d’amore per l’immacolato Agnello, come apparve “bellissimo e delicato garzone„ all’uomo di Dio Giovanni in punto di partirsi da Siena per andare a Viterbo con rami d’ulivo incontro al Papa, quando Caterina Benincasa compieva vent’anni e cantava anch’ella la sua laude nel suo piccolo verziere intrecciando la ghirlanda di rose con le dita insanguinate dalle spine in commemorazione del divin Sangue. Avevo di poi pensato a Gentile Bellini, a Misser Zentil dalla collana turca, e al suo passaggio d’oltremare su la galera di Melchiorre Trevisan, e alla Bisanzio ancor profumata di neo-platonismo dopo la migrazione degli ellenisti, alla Costantinopoli di quel Maometto Secondo il qual non pregiava se non la guerra lo studio e la voluttà. M’ero pur volto a quel difficile nodo di vizii e di virtù ch’era Filippo di Filippo Strozzi, spirito diverso e ricco quant’altro mai, fatto a ogni cultura e a ogni licenza; e veduto l’avevo, corrotto e magnanimo, ambizioso e molle, sospetto a tirannide e sospetto a libertà, nella Napoli aragonese, nella Roma di Clemente Settimo, nella Firenze d’Alessandro e d’Ippolito, nella Parigi del Cristianissimo, ai suoi Banchi di Lione, in Vinegia col suo caro Lorenzino dal pollice stronco, verso Montemurlo a cavallo con la zagaglietta in mano, sotto le mura della mia Prato messo in sul ronzino al ludibrio della canaglia, lui, il magnificentissimo, il greculo amatore di putti, il “delitioso paradiso„ di Camilla Pisana, il “_dimidium animae_„ dei mignoni e delle meretrici, nelle cui braccia soleva obliare l’agrezza della viragine domestica e smarrire il filo dei Comentarii di Plinio._ _Or in un giorno di nebbia e d’uggia, per aver risognato un gran campo di papaveri visto quell’anno nella Campagna che n’era cruentata come d’una carneficina di baroni, e per aver fantasticato d’un nido di poiana scoperto nella medesima state, imbottito di crini di cavallo e putrido dei resti d’una donnola d’una biscia e d’una botta, mi si presentò la maravigliosa figura di Giovanni Vitelleschi propria alla terribilità dell’Agro quanto la vertebra d’un acquedotto o il rudere d’un colombario. Considerandola, mi sembrò che col medesimo punzone fosse coniata la medaglia di Cesare Borgia, al colpo secco del medesimo martello. Con che acerbo e profondo segno era da imprimerlo nella mia materia quel prete di Corneto che da scrivano del Tartaglia capo di bande s’era fatto despoto irresistibile e “terzo padre„ di Roma! L’impresa borgiana delle Marche, l’eccidio di Pietro Gentile in Recanati, l’espugnazione di Vetralla, la grande e radicata schiatta dei Vico quivi tronca di netto, il tagliamento dei Savelli e dei Colonnesi, l’abbattimento delle rocche in tutto il Lazio fumante, la statua equestre decretata al trionfatore in Campidoglio, Palestrina rasa di terra e lasciata come stoppia in cenere, Foligno occupata nell’oro e nel sangue dei Trinci, il crollo repentino di tanta potenza al ponte di Sant’Angelo sopra la gialla fiumana ineluttabile come la sorte, l’ultima spronata senza galoppo, l’agonia squallida nella prigione, il cadavere portato alla Minerva di notte “in giupetto, scalzo, e senza brache„, la spoliazione e l’infamazione postuma: quanti scorci profili contorni gagliardi per i miei cartoni, quanta convenienza alla maniera secca cruda e tagliente! Ma era alcuna grazia in alcuna di quelle figure, in altra era non so che rispondenza con certi miei sogni e ricordi; sicché le une e le altre avrei potuto amare o ammirare, essendo traboccante d’amore e disposto a donarmi. Per ciò me ne distolsi; e so che la cagione non può esserti chiara, né a qualtivogli. D’un tratto, tra lagno e strido di quel Poncelletto Venerameri capopopolo mandato dal Vitelleschi al supplizio e attanagliato e sbranato in Campo di Fiore, parvemi udir sibilare la pancia del Tribuno di Roma forata dallo stocco di Cecco del Vecchio. Onde avvenne che, quasi vòlto dal Cornetano medesimo verso quell’altro più antico prelato condottiere ch’ebbe nome Albornozzo, io mi rimanessi in Roma e nel Lazio e tra la baronìa facinorosa._ _Ecco per qual vicenda, o amico, mi costrinsi al lavoro improbo che richiedevano una mia _arcana disciplina voluntatis_ e la comunanza assidua con i miei artieri. Stabilito il cómpito, temperata la penna, composta con tutta pulitezza la prima pagina, mi sembrò far parte del loro corpo e in me raccogliere l’armonia di ognuno._ _Non ne serbi memoria tu che per me facesti qualche allogazione stando sul tirato più che tu potevi, sicché tu sembrasti “un po’ durettino„ al mio buon Romanelli? Di lui non ti rammenti?_ _Aveva un viso di melacotogna che di lanuginosa si fosse fatta setolosa, ché il rasoio non ci poteva, tanto la barba gli si rinfittiva in una notte, anche a luna calante. Ingoiava di continuo la saliva, ragionando e tacendo, quasi quel suo gran pomo d’Adamo gli si riseccasse di continuo nell’andar su e giù per quel collo che non pareva appiccarsi alle spalle ma nascere dal tallone riducendo a sé la lunga magrezza dinoccolata di tutto il corpo. E aveva un sorriso dolce che mi faceva pena, per quell’ingoiare che l’interrompeva sempre in su lo schiudersi; e due occhi umidi innocenti inquieti come quelli d’un lepratto, se bene egli mostrasse amare il Carmignano infiascato più che la rugiada su’ brocchi. Maestro di cazzuola ottimo, sol nel prendere la calcina dal vassoio con la punta della mestola e nello schiacciarla su la commettitura rivelava una mano sapiente nervosa e istintiva come quella d’un violinista; e starlo a guardare nell’opra m’era un diletto quasi musicale che m’arieggiava il mito ritmico delle mura tebane, sicché per baia io lo chiamavo Maestro Anfione da Feliceto e gli promettevo una martellina d’oro massiccio._ _E il Contri fabbro? Certo egli era stato a bottega col Caparra e, come per me aveva contraffatto a miracolo il famoso alare che mi mancava al paio, così aveva certo lavorato a quel che mandarono a prendere per il donzello i signori Capitani di Parte Guelfa costretti di contare prima i danari sopra l’incudine. Debbo però dire ch’egli mi faceva credenza e l’arra mi chiedeva di rado, tanto lo rapiva il gran sentimento ch’io avevo dell’arte sua e il mio piacere a vederlo battere e tirare il ferro bogliente e rinvenire l’antiche specie. Roco era e fioco e quasi sempre imbacuccato, per un’angustia de’ bronchi de’ polmoni, come direbbe il Redi; col quale credo consentisse anch’egli nel pregiare tanto il vino vermiglio quanto il bianco il dorato ed il mezzo colore. E si lamentava che la cura della Porretta non gli giovasse e si rammaricava che ora avesse a passare per l’acqua un ch’era passato per tanto fuoco. “Si sa: ci vuol tempo„ gli diceva il medico, quel nostro caro Andrea Nasini, sodo come il peperino del suo Montamiata, schietto come un fonte di Castel del Piano. Rispondeva egli, fioco, quasi da una fucina di sotterra: “Il tempo va e il ferro mi si fredda, sor dottore„. Ma con una nuova invenzione d’una beffa, ci venne fatto di prendere vendetta di quel certo vecchio che, al dire di Francesco Bracciolini, “tutto Il giorno sta co ’l polverino in mano„. Incomodato dall’aver continuo per casa un goffo smoccolatore di ceri e di lucerne, disperato di scoprir per tutto le macchie delle smoccolature e di soffrire a ogni momento il puzzo delle moccolaie, stufo di star sospeso tutta notte ai capricci del lucignolo e ai ghiribizzi dello stoppino, volli rassegnarmi ad accogliere nel bel palagio con pratello e corte, che fu de’ Tanagli e de’ Capponi, ahimè, l’atroce luce delle vie publiche, delle botteghe, dei teatri, delle stazioni. Or un giorno, considerando un singolare oriuolo a polvere comperato in Colonia, il quale portava otto ampolle racchiuse nella sua bella custodia di ferro battuto, mi percossi la fronte come Galileo dinanzi al lampadario del Duomo pisano. Due, quattro, sei, otto e più lampadine legate a coppia per il picciuolo potevan sostituire nella cassa le ampolle da sabbia e ingannare il vecchio Barba. Che alzata d’ingegno e che beffa luminosa! Corsi dal Contri che mi stava appunto racconciando una torciera lombarda a cui era ancóra attaccato il cerume in colature. Fece: “Questa è bona„. E, messo da parte l’altro arnese, súbito ci accingemmo a costruire il primo polverino senza polvere. In breve, su per gli stalli del refettorio, su per gli scaffali della libreria, intorno alle cappe dei camini, lungo le cornici degli armadii, da per tutto erano disposti gli emblemi dell’inesorabile Tempo, gli oriuoli d’arena dai vetri offuscati, dalle custodie arrugginite; ché avevamo perfin ritolto l’arte al guastatore. D’improvviso, a vespro, si rivelava il dolo. Il granello funebre non iscorreva più dall’ampolla nell’ampolla. Fermata era la fuga dell’attimo. La tacita misura era abolita. Tutti gli oriuoli risplendevano e illuminavano. Tu alzavi i tuoi occhi di chiosatore e dicevi in tuo latino: “_Tempus lucesci_„._ _Ma posso io non mentovare Maestro Annibale legnaiuolo, del quale ho tuttavia nell’orecchio quel suo peritoso e perpetuo “Io dirrei....„ e nel cuore quel suo mite aspetto di Giuseppe nazareno temente di calpestare i trucioli? Mi forniva un banco di canile e mi ristaurava un cassone del Quattrocento, mi componeva un gentil graticolato per sostenere una spalliera di rose e mi rabberciava un tramezzo sfondato dal calcio d’un cavallo. Lo vedo ancóra davanti a me, un poco sgomento, con la matita turchina su la bocca dove le parole gli s’ingarbugliavano, quando volle domandarmi se una certa ruota misteriosa, che io e un suo molto sveglio figliuolo detto il Morino andavamo ingegnando, fosse veramente per doventare la ruota della Fortuna o la quinta del carro._ _Te ne ricordi? Era di così raro e segreto pregio che l’avevo messa nel penetrale, in un angolo della libreria, dietro a un mappamondo; e tu le passavi accanto in sospetto come se, macchina infernale, dovesse scoppiare da un momento all’altro facendo scempio de’ Testi sacrosanti. Era l’ordegno costrutto con acume leonardesco, munito di molle nascoste che rendevano mobili e agevoli i quarti liberati dal cerchione rigido; e doveva su le vie attonite della terra sottentrare a quella tronfiona della gomma che non si salva dall’insidia dell’astuto chiodo e della vendichevole selce. Nel giorno della prova, cigolava con un suono tanto inaudito che perfino i cani più petulanti e i più tardi paperi fuggivano al passaggio. Sul primo virare, si sconquassò come un vecchio ombrello investito dalla raffica._ _Il Betti tagliapietra disse giudiziosamente: “To’, gli era meglio una macine„. Io credo che anche a questo mio scarpellatore tu paressi un poco duretto. Te ne ricordi? Aveva una testa risentita, alla maniera di Masaccio; che gli diveniva focosa per lo stare chinato come quella di Piero che cava i danari dal ventre del pesce nella cappella de’ Brancacci. E la sua testa ei l’aveva sopra un paio di brache che gli cascavano infino alle ginocchia; e non riusciva mai a tirarle su bene, in modo che restassero. E, standomi dinanzi bracalone su quelle gambe corte vestite di rigatino grinzo, mi ragionava della sua pietra bigia o serena e della sua cava di Maiano con tanta possa che pareva egli fosse il fratello minore di Monte Ceceri e che tutte le colonne della fabbrica degli Uffizii e altre innumerevoli di chiese e di palagi in Firenze fossero il suo parentado._ _Ricevuta l’allogazione, eseguiva coi gesti issofatto il lavoro. Tagliava facile nell’aria il sasso come il pattonaio una targa di pattona: ecco una soglia, ecco due stipiti, ecco un architrave. Ma bisognava vederlo quando alfine giungeva su lo spiazzo precedendo i barocci carichi che s’impuntavano nella carreggiata. Andava pur sempre bracalone; portava seco nondimeno la grana il peso e il polimento della pietra concia, come l’annunziatore porta l’annunzio. E tanto un giorno mi piacque che sorridendo incominciai per lui una Canzone pietrosa nello stile di Dante aspro._ _Caro il mio Betti, quanto mi aiutò egli a comprendere per che virtù la grande generazione fiorentina degli scultori nascesse dalle cave di macigni e come Michelagnolo sentir potesse d’aver tirato dal latte della sua balia settignanese gli scarpelli e il mazzuolo!_ _Questo lapicida mero, della generazione dei Gamberelli, dei Fancelli, dei Cioli, dei Lorenzi, dei Caprina, era certo l’uomo della sua materia, se altri mai. Ma io ebbi meco anche l’uomo della mia materia inviatomi dalla benignità di San Zanobi Spirito protettore Genio custode Nume conservadore dell’Academia della Crusca; e tu sai con che cirimonia mi fosse condotto dal più grazioso dei linguai e dal più serviziato degli amici, dal nostro Giuseppe Lando Passerini dei patrizii di Cortona litteratissimi._ _Subitamente parve che un odore di farina e di virtù si spandesse nella casa sospetta. “A gloria adunque di Dio servendo l’Academia serviamo San Zanobi, e insieme con la favella i pensieri e l’opre affinando, e purificando, l’amicizia di lui procuriamo; e se ella il più bel fiore ne coglie di nostra lingua, colga ancora a imitazione di San Zanobi, per meritare l’alta sua protezione, il più bel fiore delle virtù.„ Tu sai come io, candidato perpetuo, osservassi e l’una e l’altra regola._ _Era l’uomo un assistente al Frullone o, come dire, bidello; ovvero, come detto avrebbe con arguzia peregrina il segretario Bastiano de’ Rossi, Sergente del Castaldo, incaricato di trarre il sacco, di versarlo e scoterlo nella Tramoggia, dopo averne registrato la misura il peso e la bulletta al Campione. L’avevo preso perché mi aiutasse, anche co’ piedi, a compiere la mia difficile raccolta de’ Testi di lingua usati a stampa nel Vocabolario. Conosceva le botteghe dei vecchi librai fin sopra le cimase degli scaffali e ne’ ripostigli del banco. Andava fiutando rovistando frugolando per tutto, con quel suo passettino bilenco e scricchiante, con quel suo collo a vite, con quelle sue mani di rematico dalle nocca levigate come l’avorio d’una stecca da tagliare i fogli, con quella sua guardatura biava or di sotto or di sopra le lenti, con quel suo ombrelluccio color pulce ch’egli pareva tenere in pregio come fosse il serviziale dell’abate Anton Maria Salvini, sal mi sia. Un giorno che mi tirò da parte per confidarmi a bassa voce d’essere in traccia dell’Ariosto con le figure di Gerolamo Porro e del rarissimo Pecorone stampato da Gio. Antonio degli Antonii, notai che inchinandosi verso me alzava un piede e lo teneva così in aria alquanto. Da allora non seppi imaginarlo se non in quell’atto, su le soglie dei librai, immobile nel presentimento del testo raro, come il can da fermo dinanzi alla beccaccia; e, nell’imagine, non tenevo più conto delle lenti e dell’ombrello._ _Non ammetteva si potesse attribuire una qualche importanza ad altri libri che non fossero gli allegati dal Vocabolario. Credo che le più famose Biblioteche del mondo avrebber potuto ardere senza suo rammarico, purché salva rimanesse la raccolta dell’Academia o quella del Tortoli venerato arciconsolo. Se gli accadeva di dover rimettere nel suo luogo un libro vano ch’egli trovasse su la tavola, non mancava mai di capovolgerlo in segno di condanna. Quando con un inimitabile suono diceva “e’ Citati„, tre secoli di stacciature biancheggiavano in lui; e veramente pareva ch’egli avesse in corpo un burattello._ _Non credo che alcun mio libro gli fosse familiare. Tuttavia mi dimostrava una qualche ammirazione per non conoscere pur tra i virtuosissimi Academici un linguaio più ghiotto di me._ _Certi giorni, in fatti, quando era per mantenere qualche promessa di cosa eccellente o esquisita, lo aspettavo non senza impazienza. Sorridevo in me di quel sorriso indistinto che dentro mi nasce quando la grazia della mia vita converte una nota inclinazione dell’intelletto in un sentimento di novità inebriante. Quale uomo ignaro mostrava all’ospite frutti di così duro guscio che la sua gente non sapeva usarli se non in luogo di selci per le lapidazioni? Or questi li apriva facile con la lieve unghia, conoscendo e il punto e il modo; e la polpa virginea gli era un nutrimento quasi divino. Anche si racconta di non so qual tribù che non sapeva usare delle sue donne floride e chiuse, palpandole e scrutandole invano. Or avvenne che l’ospite improvviso, nell’ombra della tenda, rivelasse a taluna il piacere e la rendesse ferace; onde tutte poi si partirono in traccia del giacitore._ _La stanza dei libri dava sul lastrico d’una corticella inverdita dallo scolo delle docce; dove piante dalla fronda lustra, magnolie e camelie, ingrassavano nel terriccio dei larghi vasi di terra invetriati. Un delicatissimo cancellino, del secolo di Giannozzo Manetti, ne’ cui scompartimenti il ferraio aveva imitato a martello la figura del ragnatelo, riferiva a sé tutte le cose naturali con la seduzione dell’arte. Per la sua stessa tenuità pareva rendere più difficile l’adito e affinare il colore verdiccio della luce sino alla chiarezza di quella specie di berillo onde si dice fossero fatti gli occhi della Minerva nel tempio di Vulcano ad Atene._ _Se ne veniva col fardelletto il mio procacciante; e si soffermava sul limitare alzando un pochettino quel piede. Tentando io di togliergli il tesoro per impazienza, egli si schermiva aggirandosi, secondo il Testo, “al modo della trottola, ovvero ancóra dello stornello, ovvero palèo„. Per aizzarlo gli dicevo: “Sa Ella, cruscone, che ho messo la mano su _La leggenda e vita e penitenzia del grolioso Santo Guiglielmo d’Oringa eremita molto divoto e servo di Dio, il quale fu de’ Reali di Francia e duca de Pitavia_?„ Egli stava un poco ad ascoltare, con le ciglia inarcate sopra agli occhiali di traverso; poi spallucciava e ghignava rispondendo: “Non è de’ Citati„. Seguitavo io a punzecchiarlo: “Come? come? Ed ecco qua anco il _Trattato delle Quattro Stagioni di Messer Aldobrandino da Siena volgarizzato da Zucchero Bencivenni_„. Egli levava l’una delle mani libera, con l’indice teso, negando: “Non è de’ Citati. La non si confonda. La guardi quie„. Con infinita cautela disfaceva il nodo delle quattro cocche d’una gran pezzuola rossigna che doveva esser la pezzuola da sudore di Carlo Dati; e metteva fuori un opuscolo impresso su quella bella carta forte del Magheri che al tasto suona, o un volume giuntino che la vacchetta di Moscovia non aveva salvato dalle tarme, o un di quei Testi in carta turchina stampati all’insegna di Dante e distinti con l’impresa del Fruitone, “Ci si bei„ diceva “ci si bei.„_ _E la fragranza del beato Trecento si diffondeva fra gli scaffali. Ed egli mi spiava di sotto alle lenti, mentre io riscontravo i capitoli, mentre qua e là prelibavo le pagine; oppure si sedeva, si toglieva gli occhiali di sul naso e si metteva a nettarli con un de’ capi di quella pezzuola, restando fisso ma con l’orecchio teso, quasi ad ascoltare il battito del mio cervello. Ed era come se si fosse tolta una mascheretta; tanto quel suo viso, immiserito dal rinchiuso, dallo stantìo, e dal regime del lesso academico, si faceva più nobile e più dolce, da poterlo assomigliare con qualche indulgenza a una figura della vecchiezza di Giotto, a una di quelle che nella cappella dei Bardi o dei Peruzzi sopravvivono pur sì maltrattate. E mi piaceva allora, d’attribuirgli il candore di Ricordano e d’assegnarlo alla generazione di quei semplici i quali tenevan per fede che la reina Belisea, moglie di Catilina, andasse alla messa nella calonaca di Fiesole._ _Credeva quel semplice del farinaiuolo che l’officio mio fosse simile a quello dell’assaggiatore il quale scioglie la bocca del sacchetto, soppesa nella sua palma il fior della farina, lo fiuta, lo lecca, lo gusta, lo trova ottimo e gli mette il prezzo! Io dentro di me in quel tempo, o amico, ero giunto al sommo dell’arte magica, in ogni ora e su ogni caso o creatura pronto sempre a fare incantamento nascosto. Contenevo in me la mia poesia, corrente come il mio sangue, affinché non mi divenisse pel metro una forma compiuta e duratura ma mi fosse nei miei giorni una forza della mia vita libera, mi fosse il ritmo stesso della mia libertà e della mia intrepidezza. In ogni occasione tutto avventurare era non soltanto nel mio istinto ma nel mio proposito. Distruggermi e accrescermi a vicenda, talvolta quasi nel tempo medesimo, talvolta nel medesimo atto, era il mio gioco assiduo. Avevo ottenuto nel mio mondo interiore una sì maravigliosa instabilità che non soltanto il più lieve urto ma il soffio più lieve bastava a smuovere e scrollare immensi strati di coscienza, di cultura e di sogno con rivolgimenti mutamenti scioglimenti pari a quelli delle più rapide catastrofi. Professavo e interpretavo per me nel più alto senso quell’eresia che Valentino tentò di propagare nell’isola di Cipri: “Tutto è lecito a chi una volta ha ricevuto la grazia„. La grazia mi si manifestava in un succedersi quasi ininterrotto di epifanie. Ogni pensiero, ogni sentimento rilevati prendevano il carattere delle apparizioni. Certe sere, spiavo dentro me il levarsi della stella Espero, che doveva rendermi visibile il mio cuore. Certe notti, tutto in me era musica; e, come nell’orchestra il motivo passa per le famiglie degli strumenti sviluppandosi e trasformandosi, così mi pareva udir passare il mio tema fugace nell’infinita sinfonia dei secoli e delle genti. Il presagio della possibilità d’una vita divina, dopo tante vite da me vissute e distrutte, mi faceva ansare come su la soglia della morte. Io potevo forse volgere al mio significato umano la parola terribile: “Dai morti giacenti sul mio cammino, riconoscerete che io sono il signore„. Anche, negli alti silenzii fermi che sono i meriggi dello spirito, intendevo l’altra parola: “_Non alia sed haec vita sempiterna._ Questa tua vita è la tua vita eterna„. Poi sopravveniva l’allegrezza temeraria, quando il poeta gioca a dadi col demone e non sa s’egli creda più nel suo corpo o più nella sua anima, ché l’una è la verità o la menzogna dell’altro. Poi ritrovavo il mio buio; e della mia coscienza non mi rimaneva se non un aspetto misterioso e pauroso, simile a quei muri dei cimiteri monumentali, onde si veggono sopravvanzare soltanto le teste bianche delle statue funerarie._ _O amatore di libri, un certo mio modo di amarli e di possederli ti sarà sempre sconosciuto; né io saprò mai rendertelo chiaro. Niun d’essi viveva intiero; ma in tutti era un punto sensibile che sapevo cercare e premere, con la stessa perizia di quel medico di piaghe che in un capitoletto di questa _Vita_ sùbito ritrova l’osso nel collo di fra Moriale. Allora, per virtù d’intenzione, come già gli asceti seppero ottenere le stimmate, quel punto sensibile si trasponeva in me. E, come da una fitta in un fianco o all’apice d’una scapula nasce una febbre che invade tutto il corpo ed esalta il tono di tutto il sangue, da quello nasceva una potenza impreveduta operante in tutti i cerchi del mio spirito con un tumulto creatore. E forse quella rapida e splendida imagine dell’opera somigliava a quella che lo scrittore aveva avuta prima di comporla. E, dopo, come oggi, pensavo esser vero che l’arte di scrivere libri non fu ancóra scoperta. E consideravo gran parte de’ miei come quei nemici mortali che Ferdinando d’Aragona si piaceva di tener presso di sé bene imbalsamati a guisa di mummie, dopo averli fatti morire con le invenzioni più crudeli._ _“O Filotete, figliuolo di Pean, tu non saresti nell’isola di Lennos, col nostro peccato!„_ _Coglievo con l’occhio scorrente a piè d’una pagina questo grido e, non so perché, il cuore mi balzava come se a un tratto avessi udito gridare una voce eroica sul mio capo: mentre l’uomo dabbene con le sue dita nocchiute radunava le schede._ _Ed ecco s’alzava un compianto sublime. “O Cillaro, la tua bellezza non ricomperò te combattente!„_ _Ed ecco, più oltre, qualche parola s’adeguava al limite del silenzio. “La figliuola di Saturno aperse una porta, _e non fece stridore volgendosi il ganghero_„._ _E alcun’altra, ecco, si scioglieva al confine dell’aria. “Finalmente, piagnendo si disfece in fino alle tenere midolle; _e a poco a poco diventò vana ne’ lievi venti_.„_ _E in queste la voce della profonda saggezza pareva salire come per una vena tortuosa e alfine compirsi in una sentenza tonante. “Tutte le cose si mutano: niuna cosa muore. Lo spirito erra, e non muore in alcuno tempo. E sì come l’agevole cera si segna in nuove figure e non sta ferma com’ella era, e non osserva quelle medesime forme, ma pure ella è una medesima; così ammaestro io che l’anima è sempre una medesima, ma ch’ella va in isvariate figure. Adunque, acciò che la pietà non sia vinta dal desiderio del ventre, non vogliate turbare l’anime, che sono vostre parenti, con crudele morte: e ’l sangue non sia notricato col sangue. E però ch’io tratto di grande materia, e ho date le vele piene a’ venti; niuna cosa è in tutto il mondo che stia ferma.„_ _Ma altrove, in un dialogo più breve del vagito e del rantolo, tra un savio e un eroe entrambi innominati, la crudele morte era impeto di libertà e certezza di vittoria. “Onde venisti? — Del ventre. — Come ci venisti? — Piagnendo e nudo. — Dove se’? — Nel mondo, — Perché ci se’? — Per combattere, — Ove vai? — Alla morte. — Perché vai? — A vincere alfine.„_ _Forse il dabben uomo, in punto di sonnecchiare per la fatica dell’erta vecchia di Settignano, traudiva nel sopore i sussulti e gli intoppi del Frullone; ché di tratto in tratto si riscoteva. Io udivo nel silenzio il rombo dell’Arno gonfio alle Mulina, lo scalpitar d’un cavallo, l’uggiolar d’un cane, lo strillo d’un bimbo ai campi, il rodìo prossimo d’un tarlo, il polso del mio vigore; e divinavo, di là dalla parola impressa, i rapporti musicali della malinconia. Mezzo insonnito, col labbro di sotto un poco penzoloni, imbambolendo come se si ritrovasse su le ginocchia della reina Belisea, il cruscaio biasciava a quando a quando: “Ci si bei, ci si bei„._ _Or come il divoto del Santo Venerando Fiorentino Pastore Zanobi, quasi fosse untato col zibetto del Demonio, poté egli fare la fine di Messer Pietro divoto del suo Monichio e divotissimo della Zaffetta, della Nanna, della Pippa, della Riccia o di Matrema-non-vuole?_ _Un giorno mi giunse più saltabellante del consueto, con gli occhi vispi, con i pomelli rossi, con un ventoso zimarrino tanè tutto grinze e svolazzi, con un non so che d’insolitamente arzillo nel passo e nei modi, come se venisse dall’annuale Stravizzo academico, mezzo cotticcio e invaso dalle veneri della Cicalata. “Che novità?„ Mi rispose con uno schiocco di lingua così sguaiato che me ne scandolezzai. Mi portava una lauta ghiottornia: il _Viaggio al Monte Sinai_ di Simone Sigoli fiorentino del popolo di San Nicolò Oltrarno, un testo del Trecento, e de’ Citati._ _La lettura del _Milione_ m’aveva già empito d’un diletto e d’una maraviglia non dissimili a quelli che provai sfogliando per la prima volta la raccolta dei disegni di Pisanello e di Iacopo Bellini, lassù, nella stanza del Conservatore, entro il vano d’una finestra a’ cui vetri fumigava la nebbia della Senna grassa di cloache. Avevo cercato avidamente altri _Viaggi d’oltremare_, quello di Frate Nicolao da Poggibonizzi, quel di Frate Riccoldo da Monte di Croce, quel del Beato Oderico da Pordenone, e quelli del Frescobaldi, del Gucci, di Ser Mariano, prose più saporite assai che le “pomora di paradiso„ ivi laudate,_ _Apersi il volume come si apre una mela rosa, misi la stecca nelle pagine intonse come il coltello negli spicchi. “Al nome di Dio amen. Qui appresso faremo menzione delle nobiltà delle Terre d’oltremare quando si va al Santo Sepolcro di Cristo e de’ loro costumi e modi, e appresso quante giornate si fa da una Terra a un’altra e quello si truova in quel mezzo; e tutte le dette cose e condizioni e modi, personalmente le voglio dire io Simone Sigoli negli anni Domini 1384, quando andai a Santa Caterina al Monte Sinai e al Santo Sepolcro e nell’altre sante luogora con questa compagnia cioè Lionardo di Niccolò Frescobaldi, e Andrea di M, Francesco Rinuccini, e Giorgio di Guccio di Dino Gucci, Bartolommeo di Castel Focognano e Antonio di Pagolo Mei lanaiuolo, e Santi del Ricco vinattiere con sei nostri famigli. Partimoci di Firenze a dì 13 d’Agosto....„_ _Il cruscaio s’era seduto, non senza una certa inconvenienza; e mi teneva mente, con i pollici in quelle incavature del panciotto che stanno sotto le ascelle. Io scorrevo le pagine con una curiosità simigliante alla “disordinata vaghezza„ che i Padri tacciano di peccato; e mi soffermavo a ogni tratto, ritenuto dai capiversi come da quei freschi tralci che ti s’avvolgono quando entri nel vitalbaio. Mosso dalla delizia, leggevo qua e là ad alta voce. “Poi la sera quando appare il cielo stellato ciascuno comincia a mangiare carne e ogni cosa che a loro piace e manucano tutta la notte. E ciascuno prete d’ogni popolo va la notte tre volte con uno tamburello sonando per lo popolo suo, chiamando i suoi popolani per nome, dicendo: Manucate e non dormite, e fate la tal cosa scolpitamente, cioè di lussuria, acciocché la legge di Macometto si accresca....„_ _A questo punto udii un suono di natura indistinta, che in sul primo mi fece pensare a Barbariccia in Malebolge, poi al primo cigolare di certi congegni vocali nascosti nel corpo di certi autòmati e messi in movimento dalla chiave, poi a un organetto a manovella sconquassato dove qualche canna strida, qualche altra soffii, qualche altra sibili. Ed era uno scoppio di risa! E, come il cruscaio si sforzava di contenere la non decente ilarità, il suo stomaco ne pareva intimpanito._ _“Ora racconteremo della giraffa che bestia ella è„ io lessi, contraffacendo ad arte la mia voce, per una bizzarria subitanea di mettermi al gioco, “La giraffa è fatta quasi come lo struzzolo, salvo che lo ’mbusto suo non ha penne anzi ha lana....„_ _Non avevo più dinanzi a me l’uomo del Buratto ma, sia venia al bisticcio, un vero burattino di cenci e di stecchi agevolissimo i cui fili erano tutti nella mia mano. Lo spiritello della stravaganza, quel “mazzamurello„ che ebbe il suo nascondiglio nella carbonaia della mia casa paterna e che fin dall’infanzia m’ha in balìa, era apparito e incominciava a scapricciarsi come suole. Il sentimento della realtà m’abbandonava, una vita fantastica palpitando fra quelle tre pareti fitte di libri che sembravano a poco a poco inarcare e gonfiare i dossi come i gatti quando fanno le fusa. Ma, non so perché, udendo quello strano riso meccanico che pareva dislogare e disarticolare l’armatura del fantoccio su la seggiola scricchiolante, ridendo io medesimo, ben sapevo d’avere dinanzi a me la mia vittima prefissa._ _“Ancora diremo del leofante che bestia ella è e come egli è fatto.„_ _Quel pio Simone misurava tutto a braccia, come tutto fosse drappi di seta o pannilani: villate, castella, granai, giardini, torri tonde, gambe code corna di animali, cappelli bàtoli maniche barbe di saraini, cadì turcimanni e preti di moschette: cento braccia, braccia due e mezzo, braccia tre, e due bisanti d’oro al braccio, e il bisanto fiorini uno d’oro e un quarto, e la carne di castrone danari sedici la libbra di nostra moneta, e le quaglie vive denari sei l’una di nostra moneta, e anco pelate dal pollaiuolo. La sua beata goffaggine mi rammentava quella dei miei cucciolotti, più graziosa della grazia stessa. Il riso irrompendo dai precordii mi travolgeva le sillabe nella lettura. Con la coda dell’occhio sorvegliavo il mazzamurello dal muso di furetto, temendo ch’egli fosse per trascinarmi in una delle sue gighe vertiginose._ _“Del nìffolo gli esce uno budello quasi fatto a modo d’uno corno da sonare, e quando vuole egli il dilunga bene otto braccia e più quantunque egli vuole; e con questo budello piglia l’acqua che vuole bere; et io il vidi co’ miei occhi che mise questo budello in una bigoncia, e in uno punto con questo budello trasse più d’uno barile d’acqua in meno che tu non avresti bevuto un mezzo bicchiere di vino; e con questo budello piglia ogni cibo e metteselo in bocca. E quando vanno per cammino e trovassono alberi, non è sì grosso albero ovvero ramo, che se il leofante vi gitta suso il budello, incontanente lo schianta e tiralo a terra, tant’è la forza ch’egli ha in questo budello: e se niuno gli s’appressasse per modo ch’egli potesse aggiugnere con questo budello, darebbegli con esso a traverso e gitterebbelo in alto ben venti braccia e più, e poi il riceve sulle sanne, e si è morto„._ _Il cruscaio, sollevato di su la seggiola e agitato da una ilarità irresistibile da quanto il ballo di San Vito, si sbatteva qua e là fra tavola e scaffali, ora sfondando nell’urto una fila di vocabolarii, ora rovesciando una cassetta di schede, ora roteando e rimbalzando dalla spera celeste al mappamondo terrestre, senza poter più fermare il calcagno, senza poter più serrare le mascelle, mezzo uomo, mezzo autòmato, convulsione umana in carcassa di legno, stridore meccanico in ossatura viva, stravagantissima fra tutte le stravaganze da me imaginate mai. E il mazzamurello ruzzante e beffardo, aggraffate le falde dello zimarrino, me lo spingeva addosso o lo tirava nel canto con tanta facilità che io lo vedevo a vicenda appressarsi e allontanarsi indefinitamente come le figure labili dei sogni. E, appressandosi, il fantoccio levava il suo braccio di stoppa fin sotto al mio naso e barbugliava: “Con questo budello....„ E poi si divincolava e quasi pareva spezzarsi in due, a una nuova stretta di riso che lo pigliava pe’ fianchi, gli torceva il bellìco, gli chiudeva lo stomaco. “Se vi gitta suso il budello....„_ _Come schiantato, si riabbandonò di colpo su la seggiola rovesciandosi in dietro; rimase per un attimo in bilico, con quel gorgoglio arido nella gola aperta. Un golino del mazzamurello gli diede il tracollo. Seguì egli nella caduta la spalliera greve, levando all’aria per l’ultima volta il piede cionco; squittì, strise; batté la capata nel duro, non si mosse più. “E si è morto.„_ _Or a chi dunque ero io per confidare i miei quaderni da mettere nella tramoggia? Di quegli spiriti ilari che, come vuole Galeno, “o per titillazione o per allegrezza„ diffondendosi riempiono il cervello e storcono la bocca, ahimè, non mi rimaneva se non una inquietudine simile al rimorso. Il lavoro mi diveniva increscioso e vano. Avevo lasciato in mezzo alla vigna impantanata, là fuori di Porta San Lorenzo, il proposto di Marsiglia Pietro di Agapito Colonna, con la pappagorgia segata dalla sguerruccia di Sgariglia beccaio, supino in una pozza d’acqua piovana e di sangue imbelle. Or anche a me, come al signore di Genazzano, non riesciva di sfangare. Udivo la pialla di Maestro Annibale, la martellina del Romanelli, il martello del Contri, lo scarpello del Betti, suoni discreti dell’opera diligente; e io strascinavo la penna, parendomi di non più sapere dove si fosse “la bontà e virtù della locutione„, simile a uno scolare svogliato. E sospiravo la ben posta Domasco del buon Simone Sigoli, dove mi sarebbe stato dolce vivere da calligrafo copista, tagliando col temperino affilato il calamo de’ paduli di Bambilonia al modo del rostro dell’aquila, polendo con l’ovo di cristallo la carta di Samarcanda tinta in gruogo, facendo da me il mio inchiostro con la filiggine intrisa di gomma e di miele, avendo meco per ogni mio bene la mia scatola miniata di dentro e di fuori a custodia del calamaio di porcellana, dell’ampolla d’acqua, del crivelletto per la sabbia azzurra, del vasetto per la colla di farina. E avrei seguita la scuola dei Sette Maestri d’Asia Minore, esperto di molte scritture, e anche di scrivere con l’unghia come Nizham-eddin Bokhari; e domandato avrei mille piastre per pagina e una cogna d’acqua rosa. “Di fuori di Domasco ha di bellissimi giardini ben pomati d’ogni ragione frutti che tu sai divisare„, mi diceva Simone “e quando sono fronzuti è tanta la quantità, che ’l sole non vi può; e per questo gli uomini e le donne vi pigliano grandissimi piaceri. Ancora, ne’ detti giardini ha grandissima quantità di rose per tale che vi si fa l’anno molte migliaia di cogna d’acqua rosa, ed è della buona del mondo; e veramente egli è un gran piacere a vedere quella pianura con quelli bellissimi giardini.„_ _Ignava era la luce autunnale che ingiallivano i vetri tondi ne’ piombi. Di tratto in tratto, essendo in amore Pinchebella dagli occhi citrini, tutte le mute ululavano insieme di spasimo come i cinquemila cani di Bernabò Visconti. Un sol pensiero di bellezza lontana bastava perché il cervello costretto mi si sfaldasse come galestro. Non rifioriva in quel tempo il sanguine per i boschi e per le siepi della Versilia? E anche in un luogo dell’Apennino pistoiese ch’io so, lungo la fiumana che muove le cartiere; e anche laggiù, tra Ravi e Tirli, nella Maremma dove in quel tempo cominciavano certo ad arrivare le prime greggi, e i cinghiali abbandonavano i piani per rifugiarsi nei forteti, e tutti i laschi biancicavano di brina, e la beccaccia frullava d’improvviso uscendo dai capannoni di roghi, dai macchioni di sondro e di mortella, dalle felci infoltite sotto le sughere. Che avrei dato per ricamminare nella viottola di sabbia, a Bocca d’Arno, stretta tra ciuffi d’erbe e cannucce pieghevoli, quasi rosea, come una scriminatura!_ _Nulla è tristo quanto questi tedii e disgusti inattesi. La materia ingrata si vendicava contro il rigido artiere. Un flutto errante di poesia pareva a un tratto cancellare tutti i miei rilievi. Quasi iroso, opponevo la resistenza dell’arte volontaria. Per ciò, amico, tu troverai nella _Vita di Cola_ più d’una locuzione risentita e netta come la spica di Metaponto nella moneta incusa._ _Ti sovviene di quella mia cupa stanza da studio, attigua alla biblioteca? Aveva l’aspetto d’una sacrestia; somigliava, benché tanto minore, nella pàtina dei legni e nel sentimento del silenzio a quella sacrestia di San Giovanni in Parma, che m’è sì cara. Un’alta spalliera di noce ricorreva intorno, con le sue panche da sedere e con le sue tavole lunghe occupate dai leggìi. Un solenne leggìo da coro era nel mezzo; e due altri, d’altra forma, erano addossati a una parete, i quali provenivano da Santa Maria Novella; e ognuno reggeva, secondo la sua grandezza, un Antifonario, un Breviario, un Rituale, un Messale o un Ufiziòlo. E, nelle pagine aperte, le quattro linee parallele in rubrica tagliate dai neumi mi ricordavano di continuo che, dov’è l’arte, quivi è il Canto, e che questo mondo non è se non il mondo della Forma misurata._ _Or dov’è, or a chi serve e a quale uso, quella semplice e massiccia tavola francescana trovata nel refettorio d’un monastero perugino? E quella gentile scrivania, anche monacale, ad uso di scrivere in piedi, che pareva fatta alla mia statura, con tutte le sue comodità per ricevere il calamaio, le penne, la lampada e ogni altro arnese, con i suoi ripostigli per riporvi le carte, gli inchiostri, i libri utili e ogni altra cosa gelosa? Quivi tutta in piedi ardentemente fu scritta la _Laus Vitae_, con una lena ininterrotta, mentre su l’altra tavola era disteso il ròtolo che recava la figurazione della Sistina, simile per me a quel medesimo che svolge la Sibilla Delfica, simile al_ ròtolo santo che come vela quadra s’inarca alla banda contraria. _E là io composi _L’Otre_, con sì fermo polso: e là, con mano sì casta, le sette ballate del _Fanciullo_, e l’ode _Lungo l’Affrico_, e quel trasparente _Ulivo_, e quella fresca _Sera fiesolana_ cinta tre volte col salce come “il fien che odora„._ _Non si fenderà un giorno e non renderà sangue o succhio, quel mio buon legname, se tenuto è schiavo da qualche giudìo? E per quante crazie venduto fu dai miei scorticatori quel busto del Machiavelli dinanzi a cui avevo posto per offerta il più difficile dei miei freni, forse nell’intimo pregio non troppo dispàri con l’altro consecrato alla Dea cèsia da Cimone, “per acquistare la cavalleria spirituale„?_ _Debbo, o amico, a tal presenza l’aver descritto con sì strenua sobrietà la fine di Fra Moriale. Il discorso che il Priore tiene ai fratelli per confortarli e per accomiatarli prima d’esser condotto al supplizio, ora che lo rileggo e posso giudicarlo come cosa a me straniera, mi piace quanto l’orazion piccola del Conte di Poppi, abbandonato da Dio e dagli uomini, disceso sopra il ponte di Arno al conspetto di Neri Capponi. “Io morrò, e di mia morte non dubito. Mura di città non istimai se non quando erano da prendere; così la vita mia se non per dovermela conquistare ogni giorno. Ora penso che meglio m’è non avere potuto ricomperarla in contante, ché sempre di poi l’avrei avuta in dispregio come cosa rivendutami da un matto villano....„ È ben questa una maschia parola, se altra mai._ _Ma spensi alfine il figlio del taverniere, per il fendente di Treio notaro, e lo diedi al rogo ignominioso nel campo dell’Austa._ _Ero sospeso in quella delusa tristezza che sempre accompagna il termine d’ogni mia fatica, quando riconobbi il passo del cruscaio claudicante sul lastrico della corticella, e poco dopo udii picchiare con le nocca alla vetrata della libreria. Balzai in piedi, titubai per qualche attimo, accorsi: travidi pe’ vetri il zimarrino tanè floscio come se fosse appeso a una conocchia: apersi risoluto._ _Egli entrò, si soffermò alzando un poco quel piede; e mi guardò di sopra alle lenti sbieche con due occhi che volgendosi in su avevan l’aria di due bocce di porcellana bilicate. Più che mai mi parve un fantoccio fatto di panni e di stecchi. Sbirciai la cimasa dello scaffale per vedere se il mio mazzamurello non si fosse arrampicato lassù a tirare i fili. Non so che vita fantastica ripalpitò fra quelle tre pareti fitte di libri che sembravan di nuovo inarcare e gonfiare i dossi come i gatti quando fanno le fusa._ _“Mi manda l’Arciconsolo„ scilinguò “caso mai La me la volesse dare per la stacciatura.„_ _Su l’ultima sillaba la bazza restò aderente al pomo d’Adamo, come se la mascella dislogata non si potesse più chiudere; e la lingua, carnosa come quella d’un pappagallo, s’agitò senza suono._ _Mosso da non so che sentimento di necessità, mi volsi; andai verso la tavola, raccolsi tutti i quaderni, ne feci un fascio; tornai con esso verso il cruscaio. “Ecco.„_ _Egli aveva aperto sul burattello del suo cuore con le due mani ossute il zimarrino, a quel modo che s’apre un tabernacoletto di due usciuoli._ _“Ecco il Componimento„ dissi, forzando la voce come per farmi intendere da un sordo, giacché egli era doventato mutolo._ _E, dopo avergli introdotto in corpo il manoscritto caldo, sul quale il zimarrino si chiuse e abbottonò, volli dargli un leggero sorgozzone per rimettergli al posto la mascella. Sùbito la lingua, che si moveva a vuoto, rifavellò con un rumore di frullone, a salti, a intoppi. “Tre sono i luoghi, o libri, ne’ quali può essere il Componimento registrato; tratti i nomi sempre dal frumento che si macina, l’uno detto lo Stacciato, l’altro il Farina, il terzo il Fiore. Quando il Componimento non passa, si pone nello Stacciato, ove, come nell’infimo luogo, vien condannato. Quando ha ottenuto la maggior parte de’ voti favorevoli, si pone nel Farina, per di quindi, quando che sia, dopo un’altra stacciatura, salire nel Fiore.„_ _Su l’ultima sillaba la bazza ricascò, si ricongiunse al pomo d’Adamo._ _“Salir nel Fiore, salir nel Fiore!„ sospirai dal profondo. E gli diedi un secondo sorgozzone più netto, per rincastrarlo ricongegnarlo e riarticolarlo meglio._ _La non disperi, sa. La non disperi„ squittì dileguandosi come lo spaventacchio d’un orto portato via da un colpo di vento. E mi parve che il mio mazzamurello si desse a inseguirlo, di sotto alle magnolie e alle camelie, passando a traverso il ragnatelo di ferro battuto._ _Eccoti dunque, o amico, questa mia bene stacciata prosa. La mando, per testimonianza d’una maniera d’amore che non si può rompere, a te che mi fosti sempre congiunto di compagnia da non potere dividere, come direbbe il Beato. Pur quando ero a comporla, mi sembrava da me distante; e nondimeno ogni frase così polita, se la rileggevo attento, mi ammaestrava su la conoscenza di me medesimo; ché sempre lo stile non è se non una incarnazione illuminante, ed ogni pittura non è se non l’imagine del pittore. Sentirai qui più d’una volta, sin nell’ordine sintattico, la stessa mano che stropicciava e soffregava con arte i muscoli del sensibile levriere._ _Ora, ahimè, per questa mano comprendo come quel nostro antico sonatore di liuto smanioso di superarsi fosse disperato di non somigliare le due figliuole di Marco Volcatio, ciascuna delle quali aveva sei e sei dita! Chi troverà la nuova intavolatura?_ _Giunto al colmo degli anni, avendo già vissuto tante vite, io mi preparo tuttavia a novellamente vivere e a conoscere nuove deità, se la forza m’assista. Ogni notte sento con un brivido l’ora della rugiada, quando l’anima non è contaminata da alcuna grassezza di carne, come direbbe il Beato._ _Se Lapo di Castiglionchio mandò in dono al Petrarca un buon manoscritto, tu a me hai mandato un raro volgarizzamento della _Vita solitaria_ ricordandomi come esso Poeta fosse solito dire, secondo Leonardo Aretino, che solo il tempo della sua vita solitaria poteva chiamar vita, perché l’altro non gli era stato vita ma pena ed affanno. Questo anch’io so. E so che ancóra v’ha per me molte altre maniere d’esser compreso e incompreso, amato e abominato, glorificato e vituperato. E so che, d’origine libero, fattomi liberissimo, ho ancor da conquistarmi una più ardua libertà. E so che, sempre avendo più che arditamente operato, ancóra a più grandi ardiri ho da trascendere._ _Forse un discepolo potente e discosto mi rivolgerà domani il detto che gli parrà avere io meritato meglio di Servilio Vatia. “_Solus scis vivere._„ Intanto una vecchia canzone a ballo della Grande Landa mi ripete nel suo metro barbarico la medesima cosa._ “Iou ’n sréy tustém lou méste Menoun, Iou ’n sréy tustém lou méste.„ _Addio, amico mio lene e invitto. Assai mi son piaciuto di teco rivivere al tempo di già. Ecco, anche stanotte, l’ora della rugiada; che forse non è se non quella “ottima tenebria„ o quel “lucente tenebrore„ del povero gesuato in cui riecheggiava per le vie d’Italia il canto del tuo Iacopone._ Ognissanti, 1912. G. d’A. LA VITA DI COLA DI RIENZO I. L’uomo comunale viveva incorporato alla sua famiglia alla sua consorteria alla sua maestranza alla sua parte, in quella guisa che la figura sbozzata di basso rilievo aderisce alla vena del sasso, resta prigione della forza compatta onde nasce. Ma già l’acerrima arte dantesca aveva scolpito figure di tutto tondo, girato grandi ossature umane in attitudini di sdegno solitario, staccato d’ogni banda e fissato in piedestallo la prestanza dell’Eretico disceso da Catilina; ed esso l’artiere grifagno dalla gota macra aveva anco gittato di bronzi, nel più tristo fuoco delle passioni civiche, la sua propria statua e sollevàtala di contro alla Città e al Fato, visibile per sempre sul folto dei secoli come le torri di Dite rosse nella notte infernale. Il Poema per lui composto era il più duro atto di volontà che compiere si potesse in terra da un eroe rimasto solo con gli Elementi e con i suoi Pensieri. Le due mani della creatura terrestre fatta a imagine della Divina Mente non avevano mai operato nel tempo medesimo un prodigio duplice con tal fermezza. Come il venerando restauratore dell’Impero occidentale e liberator della Chiesa, l’alunno di Vergilio reggeva nell’una mano un mondo chiuso e crociato ma nell’altra non la verga dell’oro, sì bene la chiave protesa ad aprir la porta di un mondo caldo di natività urgenti. Quel tirannico spirito, cui fu bello aversi fatta parte per sé stesso, annunciava l’avvento delle volontà singolari, l’esaltazione della virtù soverchiatrice, l’amore effrenato del predominio e della gloria. Come quel suo magnanimo Uberti dalla cintola in su fuor dell’avello roggio, così dalla fornace scoperchiata degli odii cittadini cominciavano a drizzarsi col petto e con la fronte i dominatori. Pareva che, nel suolo già calpesto dalla Lupa e sorvolato dall’Aquila marzia, imbevute di sangue le radici innumerevoli delle genti fossero per produrre alla cima dell’arbore umana fiori più larghi, frutti più pesanti. Per ovunque apparivano anime spaziose, ardue stature, volti d’aspro risalto. La Tirannide e la Libertà si combattevano con l’unghie e coi rostri, entrambi della razza di Anteo giganteggiando ché, atterrate, ribalzavano con furor novello; e aveano fatto voto di ricementar torri e palagi l’una col sangue dell’altra come quell’antico di murar suo tempio con cranii d’uomini. Nella vicenda degli insediamenti e degli abbattimenti, delle congiure e dei riscatti, delle cacciate e dei racquisti, le virtù si moltiplicavano, il nerbo del braccio e dell’ingegno s’accresceva ognora più di possa e di destrezza, la gioia selvaggia di vincere o di morire ampliava il torace cui pareva angusto il giaco. Forme di vita politica variissime si creavano, alternandosi, intricandosi, soprapponendosi. Appetivano la novità i popoli come le greggi il sale. Frequenti come le violenze erano le dedizioni. Uguccione riceveva Pisa in dono, prendeva Lucca per forza. In breve giro di tempo Firenze offeriva sé a Roberto d’Angiò, al Duca di Calabria, a Gualtieri di Brenna; poi di sùbito si rivendicava in libertà, traeva i grandi dal palagio, rifermava sopra loro gli ordini di giustizia, dava la signoria alle ventuna capitudini dell’arte, in poco più d’un anno mutava quattro stati di reggimento, per tante rivolture passava dalla saviezza del Re da sermone alla mattezza di Messer Andrea bestia. Ma il cittadino costretto a vivere così tra tirannia e stato franco superava in durizia il ferro battuto tra incudine e martello. E se i serragli e le guernigioni di logge e di torri in piazza in crocicchio e in capo di ponte mettevano a pruova ogni ardire e ogni astuzia, l’esilio esaltava la volontà eroica in supremo: l’esilio che già del provvido Priore di Parte Bianca aveva fatto l’Ulisse cristiano, meravigliosamente avido di conoscenza, solo veleggiante su l’oceano d’Eternità. Or, costituite le Signorìe, si riaccendeva l’amor del vivere ornato. I vincitori, detersi dall’eccidio e assisi, accoglievano con umanità la Poesia e l’Eloquenza ospiti in toga aulica o in saio volgare. Pareva che Federico di Svevia risuscitasse ai Ghibellini esempio di cortesia cavalleresca. Già il Polentano amico di Dante aveva composto suoi dolci sonetti; or di mordere anco in rima dilettavasi Castruccio dalla rossa capelliera. Già Franceschino Malaspina aveva nominato il fosco fuoruscito procurator di pace al Vescovo di Luni; or Giovanni Visconti e il secondo Galeazzo commettevano ambascerie solenni a Francesco Petrarca. E il nato di gente nuova, con la scorta dei cavalieri colonnesi, recando tra le salmerie la porpora regia donatagli da Re Roberto, entrava trionfalmente in Roma vedova. II. Roma pativa tutti i mali, quasi che sopra la Donna dei regni si fossero abbattute le desolazioni e abominazioni annunciate dal ruggito dei profeti alle città di Giuda stese nella vergogna. Distrutta la magnificenza della sua forza; cadute a terra le statue della sua gloria; la fame e la strage indizii della vita rimasta nell’immensa ruina. Il lamento che la diserta faceva in sul limo del suo fiume non era udito dal Pontefice là nella ventosa Avignone intento a stimar con bilancia d’orafo se ogni fiorini otto gli dessero il peso legittimo di una oncia d’oro. Miserabile e formidabile l’aspetto dell’Urbe quale si rispecchiò negli occhi ceruli del settimo Arrigo giunto alla Porta del Popolo con sì ricco sogno e sì scarso arnese. Un drama più grande che quello cotidiano delle fazioni furenti vi si svolgeva espresso dalle pietre e dal suolo. La funebre voracità dell’Agro, non placata da tanto pasto secolare, pareva che stesse per inghiottire i Fori i Templi i Teatri gli Archi le Terme, tutti i testimonii venerandi che la Republica e l’Imperio con sì stabile fondamento avevan radicato nel tufo primiero. La bellezza dell’Urbe si faceva sotterranea, discendendo a poco a poco nel silenzio degli asfodeli verso i Mani degli Scipioni e de’ Cesari che l’avean creata a imagine della magnanimità loro. Gli sterpeti le vigne gli orti le paludi occupavano i luoghi tra ruina e ruina. Ma, come più andavan profondandosi nel lento seppellimento le moli illustri, la superbia dei nuovi ottimati soprapponeva al marmo scolpito la muraglia rozza di cotto e riconquistava il cielo con le torri inespugnabili che parevano i nudi fantasmi dei colossi antichi. Un’orrida città di guerra cresceva, irta di offese, sul composto lineamento di quella che aveva potuto acquietarsi contemplando l’orbe trionfato. Coi ruderi del Teatro di Pompeo costruivano la rocca gli Orsini; i Pierleoni con quelli del Teatro di Marcello. I Margani e gli Stazii si afforzavano nel Circo Flaminio, i Millini ed i Sanguigni nello Stadio di Domiziano. Poggiata al fulvo travertino del Colosseo la cittadella dei Frangipani comprendeva in una cintura di torri gli Archi di Giano, di Tito, di Costantino, il Septizonio e gli altri palagi imperiali, e le vestigia sante della Roma quadrata, e forse i santuarii dedicati al culto dei primi Eroi indigeti. Tenevano i Colonnesi il Mausoleo d’Augusto e tutta la valle tra il Monte Pincio e il Quirinale; i Savelli tutto l’Aventino; i Caetani parte dell’Isola Tiberina e il battifolle inalzato intorno al sepolcro di Cecilia Metella, ch’ebbe nome Capo-di-bove dai bucranii, ove il saettame era accumulato intorno al sarcofago illeso della sposa di Crasso. Rivale in potenza all’opere dei Frangipani la cittadella dei Conti abbracciava i Fori d’Augusto di Nerva e di Cesare ergendo incontro al Campidoglio sopra una base di macigni ciclopici la massa tetragona della torre mastra murata di cotto in tre ripiani con guernimento di merli bertesche e piombatoi, l’altissimo dei propugnacoli dominatore di tutta la cerchia, degno d’esser comparato per robustezza austera alle più valide arci della Republica. In tal selva nemica entrava Arrigo, attonito, coi suoi duemila cavalli e coi tre cardinali legati che dovevano incoronarlo. E dal maggio al giugno combatté di torre in torre, di bastita in bastita, di serraglio in serraglio, vanamente, per giungere al Vaticano che Giovanni d’Acaia e gli ottimati guelfi gli contendevano. Per giorni e giorni il sangue arrossò le vie, il fuoco arse le case, i cumuli degli uccisi abbarrarono i ponti: la chiericìa in piastra e maglia con spuntoni e corsesche armeggiò nei crocicchi; il vescovo di Liegi fu fatto prigione, gettato vivo in groppa d’un giannetto come soma, ammazzato dalla ferocia d’un balestriere di Catalogna; i palagi degli Orsini in Campo de’ Fiori furono messi a sacco; i frati francescani diedero il convento di Araceli in potere dei Bavari. Ma il Castel Sant’Angelo resisteva ad ogni assalto, precludendo la via al limitare degli Apostoli. Stanco e scorato, il Re chiese ai Cardinali che lo coronassero in Laterano. Quando alfine, dopo la cerimonia non lieta, bianco vestito e in zazzera discese dal caval bianco e sedette a convito su l’Aventino, egli udì gazzarra che le masnade orsine menavano a piè del colle, vide bolzoni e quadrella volar su le mense tratti dalle balestre guelfe. E certo ripensò con mestizia quel globo aureo, insegna dell’Impero, da Benedetto VIII offerto a un altro Arrigo; ch’era pien di cenere. III. Gran tempo di poi corse voce che, compita l’incoronazione in Laterano, all’Imperatore biondo troppo dolesse di partirsi da Roma senz’aver pur veduto la faccia della Casa di Pietro, e ch’ei ricorresse all’astuzia del travestimento per appagare il suo desiderio pio, essendo il quartiere guardato dalle milizie del principe d’Acaia e tutti asserragliati gli sbocchi circostanti. Corse voce che in abito di romeo, condotto da un paesano pratico delle vie, ei s’ardisse di passare per steccati fossi e barre ingannando i presidii e riescisse così a penetrare nella Basilica; ma che non tanto fosse coperto l’inganno da non destar qualche sospetto nei più occhiuti. Onde subitamente si levò rumore tra le genti guelfe, e fu fatta custodia in ogni capo di strada e ad ogni porta, e da banditori messe furono grossissime taglie addosso al Tedesco. Il quale ebbe modo di ridursi col suo compagno alla taverna d’un tavernaio nominato Rienzo, su la ripa del Tevere fra le mulina, dietro San Tomaso dei Cenci, sotto la Sinagoga. E quivi passò la notte, e poi più giorni si rimase celato fingendosi infermo, sinché i nemici non deposero il sospetto e non rallentarono la vigilanza. E quivi era una fresca donna e piacente chiamata Maddalena, moglie dell’oste, che lavava panni a prezzo e portava acqua alle case; e lontano era in quei giorni il marito. E nella primavera dell’anno vegnente nacque di costei un figliuol maschio; cui fu imposto il nome di Nicolaio. E poiché, partitosi l’Imperatore, il buon Latino che aveva condotto il romeo alla taverna non si tenne dal cianciare, l’acquaiuola conobbe d’aver dato in luce un bastardo di sangue imperiale. IV. Di questa favola si valse Cola negli anni della vanagloria quando mirava a rendere perpetua la sua signoria; ma, in verità, egli nacque d’infima plebe né mai poté cancellare da sé il marchio plebeo, ché anzi ne restò impresso ogni suo atto insino alla morte. E, mentre vagiva nella culla quegli che doveva esperimentar poi così crudamente la volubilità delle sorti e la fugacità dei sogni, l’Imperatore mòssosi di Pisa per andare a oste contro l’Angioino scendeva da cavallo a Buonconvento e coricato sul suo letto da campo rendeva lo spirito grave di grandi disegni e di più grandi speranze, là nelle lugubri maremme fumide di febbre sotto l’ardore d’agosto, veleggiando invano sul mare etrusco le settanta galee di Lamba Doria. Visse Cola l’infanzia triste nella casa tiberina, su i ginocchi della madre che sfioriva in lento male, tra i vapori del fiume limoso, sbigottendo egli allo strepito delle risse e al baccano delle gozzoviglie onde risonava la taverna di Rienzo. E, quando la madre passò di vita, fu egli mandato a stare in Anagni con un suo parente contadino; dove rimase fino al ventesimo anno, incolto e solitario ma già agitato dal flutto delle sue passioni e delle sue imaginazioni, in quella terra che serbava il ricordo dell’oltraggio di Sciarra e del cruccio di Bonifacio. Qual fuoco ardeva dentro dalla cerchia, laggiù, in fondo alla pianura deserta che chiudevano i Monti Prenestini e i Laziali accesi dal vespro? Sciarra Colonna, colui che aveva osato trascinar pel braccio il Caetani vacillante sotto il peso della tiara, non era stato eletto capitano del Popolo e condottiero delle milizie? Di tratto in tratto giungevano le novelle. I Romani avevano cacciato i grandi, riformato la città, chiamato Sciarra che la reggesse col consiglio di cinquantadue popolani, mandato ambasciatori a papa Giovanni in Avignone minacciandolo che, s’ei non fosse tornato con la corte, avrebber ricevuto a signore il Bavaro. Tornava dunque dall’esilio il papa? Non tornava. Cinque galee di Genovesi per mandato del re Roberto erano alla foce del Tevere acciocché non entrasse vettovaglia in città per la via del mare. Rotti erano i trattati? Il principe Giovanni e il cardinal degli Orsini con messer Napoleone avevano rotto le mura del giardino di San Pietro nella Città Leonina, per entrare con fanti e cavalli. Il popolo aveva sonato a stormo la campana di Campidoglio, e alle sbarre fatte gran battaglia s’era combattuta, e il principe e il legato s’eran posti in salvo con danno e disonore. E il Bavaro non veniva? Volevano dargli la signoria senza patti? Sciarra Colonna l’aveva chiamato. Ora passava la Maremma con grande affanno e tempo crudo e scarsità di grasce. Giungeva a Viterbo, si moveva per alla volta di Roma, aveva seco Castruccio duca di Lucca con molta moneta. Oh popolo semplice! I cinquantadue buoni uomini disputavano su i patti; e Sciarra in segreto ordinava e trattava la venuta di Ludovico, che lasciasse ogni indugio e si mettesse in cammino. E, quando gli ambasciatori furono giunti a Viterbo, commise il Bavaro la risposta dell’ambasciata a Castruccio; il quale fece sonare tutte le trombe nel campo e mandò bando che ogni uomo cavalcasse verso Roma; _e questa_ — disse agli ambasciatori di Roma — _è la risposta del signore Imperadore_. Qual prezzo del negozio aveva egli avuto, Sciarra il capitano? E Jacopo Savelli? e Tebaldo? Giungevano così a quando a quando le faville del fuoco civico fin là su i massi di travertino tagliati e commessi dall’antichissima forza degli Ernici. E il giovinetto Cola interrogava il suo parente canuto, ricercava i luoghi segnati dal sacrilegio, ritrovava le tracce dell’incendio. Di quivi il Colonna una mattina per tempo era entrato in Anagni a cavallo con le insegne e le bandiere del re di Francia gridando: «Muoia papa Bonifazio!» Quivi il magnanimo vecchio, sentendo il rumore e vedendosi abbandonato da tutti i cardinali e i famigliari, aveva detto: «Dacché per tradimento mi conviene morire, almeno voglio morire come papa.» E s’era posto a sedere su la sedia papale parato dell’ammanto di Pietro, cinto della Corona di Costantino, con in pugno le chiavi e la croce. E Sciarra lo aveva schernito, minacciato, manomesso, nel palagio dato alle fiamme e alla cupidigia dei saccheggiatori. Il sacrilego non era quegli che, in nome del popolo di Roma, ora incoronava il Bavaro e la sua donna, con rinnovata temerità? Per la prima volta un imperatore cristiano si faceva consacrare non dal papa o dal legato ma da un deputato del popolo: evento memorabile. E tutta la città levava grido: «Viva il nostro signore e re dei Romani!» E s’era piena di cherici e prelati e frati di tutti gli ordini, ribelli e scismatici di Santa Chiesa; e si spandeva nell’aria gran lezzo di eresìa, e non più si cantava officio sacro né sonava campana, e il sudario di Cristo era stato nascosto da un canonico di San Pietro perché non fosse offeso dallo sguardo degli scomunicati. Quali tempi si approssimavano? Il bello e avventuroso Castruccio nominato senatore di Roma, nel prendere l’officio con grandissima pompa, s’era messa indosso una toga di sciamito cremisi con lettere dinanzi che dicevano: «Egli è quel che Dio vuole,» e di dietro: «E’ sarà quel che Dio vorrà.» V. L’avvenire appariva come una nube di procella. Il Bavaro aveva gran fame d’oro: dopo aver tolto con martirio la signoria di Viterbo e il tesoro a Salvestro de’ Gatti, fece in Roma una imposta di trentamila fiorini, non senza indegnazione del Popolo che dalla presenza dell’imperatore s’attendeva larghezze e non carichi. Appresso, fece Parlamento nella Piazza di San Pietro; vestito di porpora, col globo e la verga, comparve solennemente su i grandi pergami eretti dinanzi alla chiesa; e, al conspetto della moltitudine silenziosa, con una molto lunga sentenza rimosse il prete Jacopo di Caorsa, il quale si faceva chiamare papa Giovanni ventiduesimo, dall’officio del papato e da ogni officio e beneficio temporale e spirituale; in fine promise che fra pochi giorni provvederebbe di dar buono pastore ai Cristiani. E ricongregò in fatti, poco dopo, il popolo a parlamento nel luogo medesimo; e fece venire dinanzi a sé un frate minore chiamato Pietro da Corvara; e lo mostrò ai Romani, e domandò se lo volessero per pontefice; ed eglino risposero gridando, che sì. E l’eletto ebbe nome Nicola quinto, ed entrò in chiesa trionfalmente. E poco dopo ancóra, il dì della Pentecoste, il Bavaro cavalcò verso il Vaticano, all’incontro dell’antipapa e della sua corte di cardinali scismatici; e, smontato in chiesa, mise a quel suo frate minorita la berretta scarlatta e da quello fu egli novamente coronato e confermato imperatore. Il popolo ondeggiava fra l’allegrezza delle pompe e l’orrore delle profanazioni. Ma quando, stretto dalla necessità della moneta e dalle continue scorrerie delle genti napoletane nella Campagna, Ludovico deliberò di partirsi col suo antipapa e i suoi cardinali, l’ira popolare insorse con grande strepito sì che la dipartita fu obbrobriosa come una fuga. La plebe scagliava sassi e scherni gridando: «Muoiano gli scomunicati e viva la santa Chiesa!» La notte medesima, senza contrasto, la città fu riformata all’obbedienza dell’Avignonese e dell’Angioino. Roma abiurò la fede data all’imperatore e all’antipapa, riconobbe per suo solo signore Giovanni XXII, rinunciò ad ogni diritto nella elezione pontificia e imperiale. La morte risparmiò al vecchio Sciarra Colonna l’onta dell’abiura o la pena del bando; ma Jacopo Savelli e Tebaldo cercaron grazia presso il papa e la trovarono. Tutto si dileguò come fumo. Dalla breve illusione della maestà restituita il popolo ricadde nella tristezza dell’abbandono, si ricolcò nella sua miseria, udendo il rombo delle contese che si riaccendevano con più furore fra le torri dei grandi. Quando l’orfano ventenne Cola di Rienzo, spentosi il tavernaio della Regola, tornavasene da Anagni per la via Casilina a quella santa e terribile Roma che più d’una notte gli aveva turbato i sonni nel durissimo letto, s’abbatté in una grande compagnia di penitenti vestiti dell’abito di San Domenico, con sul mantello cilestro una colomba bianca intagliata, che venivano gridando pace e misericordia. E si mescolò con costoro, e seppe ch’eran Lombardi, gentili uomini e rubatori, micidiali e religiosi, loici e mentecatti, chiamati fratelli della colomba, condotti da un frate Venturino bergamasco dell’ordine dei predicatori. E con essi giunse in città, e li vide che si rassegnavano alle chiese e in quelle dinanzi all’altare si spogliavano dalla cintola in su e si flagellavano. Errò per le vie anguste il contadino, smarritamente, oppresso dai ricordi della lontana infanzia; guardò le torri imbertescate, le case arse e disfatte, i palagi deserti, i chiostri invasi dall’erba e dal bestiame; s’arrestò agli sbocchi sbarrati dalle catene e dai serragli, ai capi dei ponti guardati dalle masnade con pavesi e balestre; fu testimone d’assalti, di ruberie, d’arsioni; udì a sera le laudi dei Battuti che passavano sul sangue e su le macerie a stormi tra il biancheggiare delle colombe intagliate, e ogni stormo con sua croce innanzi cantando. Come il frate da Bergamo congregò il popolo in Campidoglio per predicare la penitenza, confuso nella calca il giovine Cola stette ad ascoltare la predica; e forse per la prima volta, mentre la moltitudine gli mareggiava intorno mossa dalla parola, si risvegliarono confusamente in lui gli spiriti dell’eloquenza. Attentissimo egli era; e notò che i più attenti deridevano il frate a quando a quando cogliendolo in peccato di falso latino. VI. Ora appunto l’ottavo Bonifacio, che tuttavia copriva della sua grande ombra la natale Anagni, era stato il fondator vero dello Studio romano; e dalla sua terra appunto aveva egli promulgato la bolla statutaria, poco innanzi il tradimento e la prigionia, ai dottori e agli scolari concedendo una giurisdizione lor propria e la esenzione dalle imposte. E già nobili uomini ornati di tutte lettere, come Anibaldo Anibaldi, Romano Orsini, Egidio Colonna, Iacopo Stefaneschi, avevano interrotto con lo splendore di lor dottrina la notte di barbarie addensata su l’Urbe. Meraviglioso fu l’ardore del giovine plebeo nell’apprendere dalla viva voce, dalla tradizione, dall’autorità, dalla natura, da sé stesso. Imparò gramatica e retorica; studiò i poeti gli storici gli oratori; conobbe Sallustio, Livio, Cicerone, Seneca, Valerio Massimo; in Boezio e in Simmaco venerò la postrema dignità di Roma, l’amoroso uso della sapienza, la norma compiuta del ben vivere; nei Profeti della Bibbia trovò le imagini di fiamma, le sentenze imperiose, le grandi parole di minaccia di esortazione e di promessa. Ma dalle ruine s’ebbe egli il più strenuo insegnamento: gli antichi marmi furono i suoi più severi maestri; l’acume delle inscrizioni latine, ch’egli dilucidava, forte gli punse l’animo incitandolo. Bella e singolare questa giovinezza del figlio di Rienzo, in verità, la più nobile parte di sua vita, consacrata alla ricerca assidua e taciturna, ansiosamente china sopra le testimonianze della virtù prisca, perdutissimamente innamorata di un simulacro marmoreo, come quell’imberbe Astrolabio che nella leggenda demoniaca dona l’anello alla Statua in segno di amor perenne. VII. Egli vagava tutto il giorno fra le terme gli archi i colonnati, lungo le mura di Aureliano, sotto gli acquedotti omai aridi, nei deserti spiazzi ingombri di ruderi, diseppellendo le lapidi, liberando dalla crosta dei secoli le lettere incise, raccozzando i frammenti sparsi, nudando i volti delle statue mascherati dall’edera, interpretando le istorie scolpite nei bassi rilievi, leggendo ad alta voce i nomi dei consoli e degli imperatori, evocando in quel cimitero formidabile i fantasmi augusti, mentre gli pareva udire a quando a quando nel vento funebre gli urli della Lupa e i gridi dell’Aquila presaghi della seconda vita di Roma. Col favore del silenzio e della solitudine quel mondo sotterraneo gli si animò nella fantasia così fieramente, ch’egli credette esser divenuto quasi il consanguineo dei liberatori e dei pacificatori quiriti. Gli si affievolì o gli si sfigurò allora nello spirito ossesso la contezza della torbida e perigliosa materia su cui voleva egli imprimere l’imagine del suo sogno inefficace. Assai più romano delle sue meditazioni erranti era, in verità, quell’implacabile furore di guerra che insanguinava il tufo del Campidoglio ove il palagio del Comune pativa la mala ombra protesa dalla rocca dei Conti, dalla torre delle Milizie, dalla cittadella dei Frangipani emule dell’arce romùlea. Un gran guerriero era necessario alla gran bisogna, non un rètore facondo. Come la folgore favoleggiata profondandosi nel suolo s’indura a guisa di saetta aguzza, così ogni pensier novo apparito tra gli uomini deve convertirsi in spada silenziosa. Ma il deciferatore di lapidi, intento ad ascoltar ripercossi dalla sua intima eco gli accenti della grandezza, non trovò sotto le macerie la larga lama imperatoria, ottima e di punta e di taglio; anzi neppur quella che Stratone tenne ritta contro la mammella dell’usuraio Marco Bruto dopo la disfatta. Se un eroe vero fosse stato espulso dal cuor sepolto di Roma, una sola parola questi avrebbe proferito, veramente romana, nunzia velocissima delle azioni: Eccomi. _Adsum._ Chi deve lottare per la vita e per la salute, solo con la realtà delle cose e con l’ignobilità degli uomini, non ha il tempo di maturarsi in parola eloquente. Egli è inviato dal fondo dell’Infinito non per recar messaggi come un poeta, ma per condurre eventi come un re. Il plebeo, volgendosi dal silenzio venerando verso la plebe clamorosa, sentì la sua lingua contro i suoi denti vani mossa da un bisogno infrenabile di loquacità. Egli doveva così emettere tutto il suo fumo, prima di averlo convertito in fuoco gagliardo e durevole. I suoi atti eran per aver principio e fine in lettere ed in concioni. Si approssimava non il _Magister populi_ ma il _Dictator epistolarum_. VIII. Il figlio del tavernaio tiberino, apparso a molti eroe da trivio mal travestito in brandelli di porpora, era veramente l’eroe rappresentativo del Trivio medievale, se giovi consacrare ai suoi Mani questo bisticcio in commemorazione di quelli che gli furon cari come ornamenti prescritti dalla _Regula dictatoria_. Gramatico, retorico, dialettico, egli sembrava quasi incarnare la faticosa aspirazione delle Tre discipline a manifestarsi in un atto di vita e di regno, come se già il presentimento della primavera umanistica ne disciogliesse il rigore e la sterilità. Di quel vano sforzo creativo egli fu l’aborto ventoso battezzato nel culto tradizionale di Roma; e lo tenne a battesimo innanzi al mondo attonito la lirica illusione di quel Poeta laureato il quale s’era sottoposto all’esame triduano del Re da sermone per farsi degno di ascendere il Campidoglio. L’_ars notaria_ e l’_ars dictandi_ furono le due mammelle che lo nutrirono con sovrabbondanza, quando meglio sarebbegli valso a farlo maschio un solo sorso dell’aspro latte lupigno. Ma assai prima della esaltazione al tribunato non aveva egli scelto lo scettro che più gli conveniva e che sembrò non potersi mai più disgiungere dalle sue dita? quella «penna di fino ariento» con cui era uso esercitare il suo officio di tabellione remunerato. Il biografo antico ci dice che «in sua bocca sempre riso appariva in qualche modo fantastico». E sembra il riso ambiguo dell’àugure apparso a lui medesimo in quello specchio d’acciaio polito in cui si specchiò forse un giorno su l’orlo d’un sarcofago scoperchiato. Ma era un riso rivolto alla faccia del futuro, un riso generato dal sentimento superstizioso della sua predestinazione certa. «Quest’uomo, credetelo, a voi fu mandato dal cielo» doveva i Romani esortare il Petrarca. «Come rarissimo dono di Dio voi veneratelo; e fate di profferire per la salvezza di lui le vite vostre». Di lui doveva sognare il cantore di Scipione Africano: «Nel mezzo del mondo, e su la cima di una scoscesa montagna parvemi vederti sublime tanto che quasi giungevi a toccare il cielo. Paragonata a quella l’altezza di tutti i monti ch’io vidi, e qualunque altra che descritta lessi o intesi, stata sarebbe profonda e bassa vallèa: l’Olimpo stesso dai poeti nell’una e nell’altra favella tanto esaltato si riduceva a quel confronto umile colle. Basse sotto i piedi a gran distanza avevi le nubi; vicino il Sole ti girava sul capo. Ti circondava uno stuolo d’uomini forti, in mezzo ai quali tu di tutti maggiore sovra uno scoglio luminoso sedevi per sovrumana bellezza così splendente ed augusto, che Febo stesso pareva invidiarti....» L’errante evocatore delle Ombre non incontrò forse il Petrarca quando questi per la prima volta visitava Roma venendo dal castello di Capranica ove lo aveva bene accolto Orso dell’Anguillara sposo di Agnese Colonna e amico delle Camene? Certo lo vide di lontano aggirarsi, in compagnia dei patrizii illustri, pel Gianicolo per l’Aventino pel Monte Sacro, «dove tre volte sdegnosa ai padri si ritrasse la plebe», o assidersi su la volta delle Terme diocleziane a contemplare lo spettacolo delle grandi ruine e a ragionare delle grandi memorie con Giovanni di San Vito. Certo lo acclamò, quattro anni dopo, in quell’inclito aprile che parve illuminare un nuovo e inopinato Natale di Roma, quando il popolo per un giorno scosse da sé l’onta della sua servitù, quando i nobili per un giorno si mondarono del sangue fazioso, e in festante concordia tutta la gente romana sollevò con un sol gesto verso la fronte del Poeta la ghirlanda composta del primo ramo reciso al giovinetto alloro ch’era per divenire l’arbore vittoriosa del Rinascimento. IX. Una brezza viva di novità inaspriva l’aria. Non era anco sedata l’ultima onda del tumulto che aveva tolto dal Campidoglio i senatori patrizii di parte orsina e di parte colonnese per insediarvi i tredici priori delle arti. Il comune di Firenze, richiesto, aveva mandato suoi ambasciatori con gli ordini della giustizia «contra i grandi e potenti in difensione dei popolani e meno possenti». Si rinnovellava la memoria delle assemblee popolari convocate dal Bavaro per la elezione delle due potestà supreme; e il popolo sentiva sempre più risvegliarsi la coscienza degli antichi diritti maiestatici ond’era spogliato. Morto nel palagio avignonese il dodicesimo Benedetto, le speranze del racquisto si riagitarono. Un’ambasceria solenne fu inviata a Clemente VI in Avignone, composta di grandi di mediani e di minuti, per recargli la potestà civica e per supplicarlo di venire a rioccupare la sedia di Pietro. Ma né gli argomenti degli ambasciatori né il carme di Francesco Petrarca valsero a smuovere il Limosino; che da signor magnifico ricompensò il cantore conferendogli un buon priorato in quel di Pisa e fece intendere che a sollievo della fame romana avrebbe concesso l’anticipazione del giubileo. Moriva decrepito intanto il sommo maestro in teologia e divoto avvocato della Chiesa Roberto di Napoli, lasciando erede Giovanna l’adultera; e il Regno era sovvertito da mutazioni impetuose che si propagavano allo stato finitimo. Il governo dei tredici buoni uomini, rinsediato in luogo dei Senatori, spediva oratore al pontefice il notaro dalla penna d’argento Cola di Rienzo. Subitamente il popolo ebbe una voce sonora, un ampio gesto, una maschera cospicua. La prima epistola di Cola, scritta pel ragguaglio dell’ambasceria, fa pensare allo scoppio di una abondanza troppo a lungo compressa, ha gli accenti del delirio e dell’ebrezza, la foga di un salmo senz’arpa. «_Exultent in circuito vestro montes: induantur colles gaudio et universe planities.... Ecce namque coeli aperti sunt_....» Egli già conferisce a sé stesso il titolo di console romano e l’officio di legato popolare unico degli orfani, delle vedove, dei poveri. L’infatuazione lirica gli fa precorrere gli eventi. Nella Babilonia provenzale egli già assume l’aspetto dell’inviato dal Cielo, dell’eroe molto atteso. In tale aspetto compare a Francesco Petrarca, movendosi e atteggiandosi a similitudine del redentore ideale che il poeta s’era foggiato nel fuoco della sua mente; cosicché questi crede offerta per prodigio ai suoi occhi mortali la incarnazione dell’eterna imagine, e si accende di speranze sublimi, e già vede nel prossimo avvenire restaurato l’ordine con la libertà, riposto il vicario di Cristo nel suo soglio verace, ravvivato l’Impero alla fonte originaria del diritto popolare italico, restituita ai due poteri concordi la romana sede e alla madre Roma la supremazia del mondo. Il mutuo incitamento nei segreti colloquii sollevava il sogno d’entrambi a folle altezza. Eglino ripromettevano all’Urbe la perpetua sovranità che le aveva promesso Enea nel vergiliano: «_Imperium sine fine dabit_». L’impero non poteva in nessun modo cessare d’esser romano, ché l’imperatore — qualunque fosse la sua stirpe e qualunque la sua dimora — non poteva dire che a lui si appartenesse l’autorità venutagli da Roma; né poteva Roma cederla o trasferirla ad altri, avendola ricevuta in retaggio eterno. «Se solo rimanesse nell’Urbe l’ignudo sasso capitolino» diceva il Petrarca «pur quivi durerebbe senza fine l’imperio». E adduceva la sentenza di Giovanni XXII opposta al suo legato Bertrando del Poggetto che tentava indurlo a togliere di sul Tevere le due potestà per trasferirle in Guascogna: «Vescovi cartucensi noi saremmo allora, e l’imperatore equivarrebbe a un prefetto di Guascogna; mentre sarebbe papa quegli che in Roma esercitasse l’autorità spirituale, imperatore quegli che in Roma temporalmente signoreggiasse. _Velimus, nolimus, enim, rerum caput Roma erit._» La fede in questa indissolubile unità di Roma con la Chiesa e con l’Impero accomunava i due spiriti ardenti. «Quanti furono i signori di Roma, se bene ascritti nel novero degli Iddii, chiedevano al Senato e al Popolo licenza di eseguire ciò che volevano intraprendere; e, secondo che fosse o negata o conceduta, le meditate imprese cessavano o proseguivano.» Il tabellione si profferiva al rimatore come l’eroe capace di tradurre in opera l’alto concetto: come colui che voleva restituire al Popolo romano tutte le giurisdizioni e tutti gli uffici, tutti i privilegi e tutte le potestà ond’esso in qualunque tempo aveva investito altrui: come colui che voleva risollevare ricommettere e irrobustire di fresco cemento le ruine cagionate dall’orrida barbarie, germanica e dalla morbida barbarie avignonese. E il fresco cemento era nel suo pensiero il patto di alleanza tra le città latine, cui non avrebbe egli imposta l’obbedienza, sì bene con la legittima autorità di Roma confermato e assicurato le libertà e i privilegi, largito inoltre il diritto dell’elezione imperiale. E nel suo pensiero più segreto non considerava egli quel patto come uno strumento efficace a scuotere il giogo alemanno, a ristabilir l’impero italico, a vestire della porpora imperiale il liberatore, l’uomo novo, sé stesso? Incredibile fervore accendeva l’animo del Petrarca; e l’interna vampa sembrava renderlo cieco: «Quando ripenso» scriveva al notaro della Regola «quando ripenso il gravissimo santo discorso che mi tenesti l’altrieri su la porta di quell’antica chiesa, parmi avere udito un oracolo sacro, un dio, non un uomo. Così divinamente deplorasti lo stato presente, anzi lo scadimento e la ruina della repubblica; così a fondo mettesti il dito della tua eloquenza nelle nostre piaghe; che, ogni qualvolta il suono di quelle tue parole mi ritorna alle orecchie, me ne cresce il dolore all’animo, me ne sale la tristezza agli occhi; e il cuore che, mentre tu parlavi, ardeva, ora, mentre pensa, mentre ricorda, mentre prevede, si scioglie in lacrime, non già feminee ma virili, ma d’uomo che all’occasione oserà qualche cosa di pietoso secondo il potere a difensione della giustizia. E se anche per addietro io era col pensiero teco sovente, dopo quel giorno son teco più che sovente; e ora dispero, ora spero, ora ondeggiando tra speranza e timore dico in me stesso: Oh se fosse mai! oh se avvenisse a’ miei giorni! oh se anch’io fossi a parte di sì grande impresa, di tanta gloria!» Ma il legato dei tredici buoni uomini non soltanto ragionava in segreto con l’amico del Colonna; anche difendeva in palese al conspetto del pontefice la causa della plebe miseranda e si scagliava con indignazione copiosa contro le iniquità dei patrizii. Essendo il Limosino ornato di buone lettere e dedito allo studio dell’eloquenza, come quegli che aveva professato teologia in Parigi ed esercitato l’officio di cancelliere presso Filippo di Valos, ascoltava non senza favore le invettive del giovane romano, e la _novitas dicendi_ gli dava gran diletto. Per mala ventura il cardinal Giovanni Colonna, non tollerando le accuse fatte al suo parentado, prese a perseguitar l’imprudente e seppe contro di lui volgere l’animo del pontefice. Caduto in disgrazia, Cola visse alcun tempo in povertà, quasi mendico. X. La fortuna cominciava a giocare col capo di lui il suo gioco ridevole e tremendo. Come i taciti anni vissuti a cercar tra le ruine le testimonianze della gran Madre, così ci sembrano profondi quei mesi d’esilio sul Rodano vorace che, secondo il lagno petrarchesco, «tutti per sé gli onori del Tevere rodeva e ingoiava». Egli patì la miseria e l’infermità. Per giorni e giorni udì il gran vento di Provenza rintronargli nel cranio vacuo o agitargli pazzamente fra tempia e tempia i sogni d’infermo. Mal coperto di vesti logore, si trascinava sotto le muraglie impenetrabili del palagio babilonico; ove, stando egli «al sole come biscia», gli passava dinanzi agli occhi riarsi d’odio e di febbre alcun prelato corpulento _«Cupidinis veteranus, Baccho sacer et Veneri, non armatus sed togatus et pileatus»_. Non sentì egli allora la debolezza del suo braccio imbelle? la vanità della sua ambizione senza ugne e senza rostro? la disparità lacrimevole tra quel violento sogno imperiale e l’animo suo servile dominato dalla paura della morte? Chi mai gli avrebbe data la leva capace di risollevare alla luce del secolo un mondo caduto nell’abisso delle cose irrevocabili come la prora di Enea e l’ancile di Numa? Come quello scudo vermiglio caduto dal cielo, veggente tutto il popolo di Roma, era per cadergli ai piedi la spada fatale? Ma il fantastico riso vagava ancora su le sue labbra sporgenti quando, addossato a una colonna pagana nel vestibolo della Cattedrale, egli guardava l’imagine di Nostra Donna e del Figliuolo dipinta nella lunetta sopra la porta da quel Maestro Simone sanese cui il Petrarca aveva posto in man lo stile per ritrarre Laura. E fu Messer Francesco per certo il grazioso intercessore che gli impetrò il perdono da Giovan Colonna, così che esso cardinale lo rimise dinanzi al Papa. E in breve il dimacrato popolano in giubberello, non senza artificiose lusinghe cortigianesche (scaltro e versatile egli era e fra tante volpi inclinato naturalmente a volpeggiare), seppe racquistarsi presso il dottore in camauro il favor perduto; onde gli fu agevole ottenere l’officio di notaro della Camera urbana, remunerato con cinque fiorini al mese, e non soltanto tornarsene a Roma sul vento della lode, ché il breve papale encomiava i suoi costumi la sua devozione e la sua sapienza, ma esser pur anco difeso da Clemente contro i senatori Matteo Orsini e Paolo Conti i quali per vendicare le risapute infamazioni lo avevan sottoposto a processo. XI. Poco dopo la Pasqua dell’anno 1344 Cola di Rienzo, dunque, riassiso al suo banco notarile e ripresa tra le dita la sua penna d’argento, sorrideva sentendo già intorno al capo spirar l’aura popolare; ché assai gli giovava al conspetto del popolo l’aver efficacemente compiuta l’ambasceria, l’aver meritato l’odio degli ottimati, l’esser protetto apertamente dal pontefice, il ricoprire l’officio più adatto a soprapprendere le soverchierie dei baroni e le baratterie dei giudici. Da allora, mentre il gran sogno romano ardeva custodito nel profondo petto di Francesco Petrarca, queste furono le dicerie e le gesta del demagogo nella Città. Una volta, stando nel consiglio capitolino, levàtosi in piedi all’improvviso, con la movenza ciceroniana della prima catilinaria, pronunziò d’un fiato una orazione veemente contro i giudici i magistrati i rettori i patrizii che invece di por riparo ai mali della patria la subissavano senza ritegno. «Non siete buoni cittadini voi, ma sì perniciosissimi, che struggete il sangue del popolo, che in ogni strada e in ogni casa esercitate la ruberia e la violenza, che sovvertite ogni ordine, profanate ogni culto, usurpate tutti i diritti, vi arrogate tutti i privilegi, vi sottraete a tutte le leggi.» Lo ascoltavano i consiglieri in cerchio, senza ombra di rossore, con orecchio pacato e attento, come se fossero per istimare il gioco scenico di un istrione illustre. Quando il dicitore ebbe finito, si levò un Colonnese per nome Andreozzo di Normanno, allora camerario urbano, si accostò a colui che ancóra era acceso e ansante della fierissima perorazione, e senza far motto gli stampò una ceffata da maestro. Poi sorse lo scribasenato Tomaso Fortifiocca; e, battendo la manca su la piegatura del destro braccio agitato col pugno chiuso a scherno priapèo, diè la giunta all’uomo dalla gota rossa. Per certo durò nel consiglio, più che l’effetto della diceria, la risonanza del malo schiaffo. Sgonfiato e sbigottito, Cola rinunziò le catilinarie e tentò le allegorie apocalittiche. I Romani svegliandosi una mattina videro pendere alla parete del palagio senatorio una vasta tavola dipinta di figure e di cartigli; e le figure rappresentavano Roma vedova, le antiche Città flagellate, l’Italia oppressa, le Virtù cardinali, Bestie occhiute pennute cornute, Pietro e Paolo, isole desolate, navi in tempesta, altre cose molte; e ogni cartiglio parlante recava un distico, e la Fede cristiana così favellava: O sommo patre, duca e signor mio, Se Roma pere, dove starò io? I Romani rimirarono e si maravigliarono. Ma nulla accadde. Allora Cola imaginò una strana pompa. Esploratore di antichità avvedutissimo, egli aveva scoperto in un altare della Basilica Lateranense la favola di bronzo fatta preziosa quant’altra mai dall’incisa _Lex regia_, testimonio solenne del senatoconsulto per cui a Vespasiano era stato trasmesso l’imperio. Avendola interpretata, la fece conficcar nel muro dietro il coro, e intórnovi dipingere il Senato nell’atto dell’investitura. Congregò quindi il popolo e i nobili in Laterano a parlamento; e dei nobili vennero Stefano Colonna iuniore e quel figliuol suo Gianni dal Petrarca celebrato «divino giovane pieno dell’antica e vera romana grandezza». Il notaro comparve in guarnacca e cappa alemanna e cappuccio alle gote di fino panno bianco, portando bizzarramente in capo un cappelletto emblematico. Salì sul pergamo e prese a parlare per similitudini. Poi, additando la tavola bronzea, esclamò: «Vedete quanta era la magnificenza del Senato, che conferiva l’autorità all’imperio!» E comandò a uno scriba che leggesse il testo della Legge regia, e lo illustrò delle sue chiose abondanti, riducendosi a memoria i colloquii avignonesi intorno alla perpetuità di quei sovrani diritti. E in fine deplorò la miseria presente, profetò la fame prossima, evocò i campi incolti e deserti, deprecò la guerra e le spade, celebrò la pace e gli aratri. I Romani ascoltarono e plaudirono. Ma nulla accadde. Allora il demagogo moltiplicò le allegorie, le scritture, le discorse. Una nuova tavola dipinta egli appese al muro di Sant’Agnolo in Pescheria, costrutto entro il portico di Ottavia; su la porta di San Giorgio in Velabro, presso la Cloaca Massima, conficcò un cartiglio con suvvi scritto: «In breve tempo li Romani torneranno al loro antico buono stato». Ogni occasione gli fu bella a concionare. E i cittadini savii ridevano del notaro smanioso che intendeva riformare la disfatta città con quel suo spaccio di frottole bubbole e pastocchie quotidiano. Più anche ne ridevano i patrizii, non pensandosi che mordere potesse un tanto abbaiatore. Lo convitavano nei lor palagi, gli davano bere e mangiare grassamente dicendogli: «Chi troppo abbaia empie il corpo di vento; or qui ti conviene far del corpo sacco alla vivanda fina. Hai ganascia, bonissima epa, Sere.» E quei giovani asciutti e ferrigni, come Gianni Colonna, ridotti in muscolo e nerbo al mestiero della guerra, partecipanti della balestra e del verruto, lo tastavano, lo palpavano traverso la guarnacca, per sollazzo e per ispregio, valutavano da comperatori quella floscia carne sedentaria che già si gravava di adipe. Sghignazzavano e dicevano: «Senti già del grassetto, sere. Or noi ti vogliamo ben saginare perché tu esser possa in Norcia almen duca, se non puoi in Roma imperadore.» Non turbavano quelle manomessioni il conviva, ché a confronto della gotata di Andreozzo parevangli carezze e lezii. Egli rideva roco, masticando il boccone amaro; e rispondeva: «Certo che sarò imperadore; e guai alla ladronaglia dei baroni! Appiccherò i Colonna, decollerò gli Orsini, squarterò i Savelli, abbacinerò i Normanni, arderò i Caetani.» Le risa scrosciavano intorno alle mense; era lo schiamazzo, da un capo all’altro, più che tavernario. «Fa tuo sermone!» gridavano in coro i commensali. E poi che l’avevan costretto a tracannar la tazza colma, lo alzavano su la tavola in piedi come su pergamo. Ed egli sermonava a gran voce vituperandoli; e quanto più crudi erano i vituperii, tanto più alte le risa. Ma talora sùbito grido di allarme interrompeva la gozzoviglia e il sollazzo. Pronti in arme i nobili correvano alle barre e ai serragli, alle uccisioni e alle arsioni. Il sere, vedendo luccicare tanto ferro, pensava che gli bisognasse in fine esser lesto di mano com’era di lingua; e affrettava l’evento. XII. Tuttavia concionò pur una volta, prima di dar fiato alla tromba. In un luogo segreto su l’Aventino, sacro per antico alla libertà della plebe, adunò i più maturi de’ suoi partigiani, cavalierotti e mercatanti del popolo grasso, molto desiderosi del «buono stato». A costoro piangendo egli rappresentò anche una volta la miseria, la servitù, il periglio di Roma. Piansero con lui gli adunati, piansero e fremettero. Fu deliberata e giurata l’impresa. Era il 19 di maggio dell’anno 1347, la vigilia della Pentecoste. Stefano Colonna seniore si trovava con la milizia a Corneto per grano. Cola mandò bando in ogni capo di strada a suon di tromba, che il popolo convenisse in Campidoglio senz’armi al primo tocco della campana. Su l’ora di mezza notte, nella chiesa di Sant’Agnolo in Pescheria, udì trenta messe dello Spirito Santo. Su l’ora di mezza terza uscì dalla chiesa tutto armato ma nudo il capo. Gli era al fianco il vicario del papa, Raimondo vescovo di Orvieto, ch’egli avea saputo trarre alla sua parte; lo seguiva moltitudine di popolani con grandi clamori; lo precedevano tre gonfaloni: il primo amplissimo, tutto vermiglio con in campo l’imagine di Roma sedente su due leoni, ed era il gonfalone della Libertà e lo portava il buon dicitore Cola Guallato; bianco il secondo, con l’effigie di Sire san Paolo, ed era della Giustizia e lo portava Stefanello Magnacuccia notaro; il terzo era della Pace, con Sire san Pietro dalle chiavi d’oro. Il quarto, quel di Sire san Giorgio, non isventolava dispiegato ma sì, come vecchissimo e logoro, era chiuso in una custodia appesa a un’asta lunga. L’ordinanza inerme avanzava verso il Campidoglio, in aspetto di processione piuttosto che di ribellione, col favore del Paràclito. Misurando il suo passo su quello del Vescovo tardo, il liberatore prendeva audacia «benché non senza paura», come dice il candido cronachista che forse lo vide troppo aggravato dal ferro inconsueto. Giunto al palagio, arringò il popolo «con savie e ordinate parole come quegli che era di retorica ordinato maestro» e il tuono della sua voce tanto lo rese animoso ch’egli da ultimo fece sacramento di esporre la sua persona «a ogni pericolo» per l’amore del Papa e per la salute dei Romani. Terminata l’arringa, Conte figlio di Cecco Mancino lesse gli ordinamenti del buono stato, che riformavano la città alla signoria del popolo, affievolivano la forza dei grandi, schiantavano la tracotanza dei malefattori. Con grida di allegrezza il parlamento rimise nelle mani dell’uomo novo ogni potestà. I senatori abbandonarono il seggio: gran parte degli ottimati escì dalle mura. La mirabile mutazione fu compiuta senza colpo ferire. Una candida colomba aleggiò su l’assemblea pacifica, quando l’uomo novo si chiamò «Nicolaio Severo e Clemente, per grazia del clementissimo Signor Nostro Gesù Cristo, di libertà di pace di giustizia Tribuno, della sacra romana Republica liberatore». E il Gracco della Regola si sovvenne della lontana sera su la via Casilina, di fra Venturino bergamasco e dei Battuti; e indicò la colomba apparita come un fausto messaggio del Paràclito. Il Cielo consacrava l’eletto con quel battito d’ali. XIII. Or messere Stefano Colonna il maggiore, che stava a Corneto per l’incetta del grano, udita la novella, senza indugio cavalcò alla volta di Roma. Ceppo umano della più dura fibra questo vegliardo omai nonagenario che ancor metteva il piede nella staffa senza aiuto e inforcava saldamente il suo stallone. Tal razza di figliuoli e di nepoti era da lui rampollata negli anni, che pareva egli le avesse dato per cuna la sua targa e per nutrice la sua spada a doppio taglio e per battesimo il sangue orsino. Già Nicolò IV il minorita l’aveva fatto conte di Romagna; ed egli era entrato in Rimino l’anno medesimo in cui Gianciotto Malatesta vi trafiggeva i due cognati. Dalla rudezza del proconsole romano offese le libertà dei Comuni erano insorte; e i figli di Guido da Polenta avevano assalito in Ravenna e imprigionato il rettore. Il reduce in Roma erasi messo al fianco del suo padre Giovanni tratto in Campidoglio dal popolo su carro trionfale e gridato Cesare con grido eguale a quello delle coorti; poi aveva ottenuto la dignità senatoria, combattuto con la parola e con la balestra per l’elezione del nuovo papa, veduto l’anacoreta del Morrone pallido e tremante su l’asina condotta per la capezza da due re, veduto indi a poco Benedetto Caetani cinto di tiara su la chinea bianca pur tra quei due re scarlatti, sostenuto con tutti i suoi la collera taurina del gran prete d’Anagni, opposto alle folgori di Bonifazio l’orgoglio indòmito della colonna eretta, mirato il giullare di Dio Iacopone nella congiura di Lunghezza saltar come capro scagliando la satira pazzesca, udito senza sgomento la furia papale invocare l’universa Cristianità a prender la croce contro il mucchio d’uomini radicato nel sasso inespugnabile di Palestrina, finalmente lasciato dietro di sé nella via dell’esiglio la rocca ciclopica disfatta e rasa come al tempo di Silla, con la corda al collo i due cardinali congiunti, Sciarra errabondo come Caio Mario per macchie e per paludi. Taluno, dopo la ruina delle torri e dei càssari, avevagli domandato: «Or quale fortezza ti rimane, o Stefano?» Risposto aveva l’eroe sorridendo, con la mano sul gran petto: «Questa». E anco una volta era dalla sorte dimostro quale stupenda disciplina di virtù fosse per i magnanimi l’esiglio. Con atroce pertinacia il Caetani avea richiesto per ogni dove la testa dell’esule invitto, posto in opera ogni argomento di promesse di minacce di autorità di ricchezze per artigliarlo, errando quegli di terra in terra, oltremonte, oltremare, ospite di re talvolta, sembianza di re egli medesimo sempre, maggiore di ogni più grande sfortuna. Un giorno, nel tenitorio di Arles, caduto in mano di ricercatori prezzolati e richiesto di suo nome, senza indugio aveva risposto: «Sono Stefano Colonna cittadino romano», con sì alto coraggio che i sicarii non s’erano arditi toccarlo. E finalmente il principe dei nuovi Farisei era morto; e la colonna marmorea s’era rialzata più superba, e Stefano era rientrato in Roma ai combattimenti e alle vittorie: aveva rotto gli Orsini, sostenuto Arrigo VII contro Roberto d’Angiò, osteggiato il Bavaro, patito novamente il bando ma breve, ripreso le armi dentro e fuori le mura, dato ai suoi di continuo l’esempio del massimo ardire nel periglio, del massimo senno nel consiglio, del massimo decoro nell’esiglio. Or questo gran vecchio, udite le novelle, cavalcava a Roma pensandosi di poter leggermente castigare la pazzia del notaro. Giunto nella piazza di San Marcello, in prossimità della rocca colonnese fondata sul luogo ove nelle antiche apoteosi erano arse le salme imperiali, egli si fermò e disse «che queste cose non li piaceano». Il dì seguente, la mattina per tempo, Cola di Rienzo mandò a messere Stefano comandamento che si partisse da Roma. Il vecchio lacerò la cedola sul viso al messo capitolino, e gridò: «Se questo pazzo mi fa poco d’ira, io lo farò gittare dalle finestre di Campidoglio.» Riferita la minaccia al Tribuno, costui senza por tempo in mezzo sonò la campana a stormo. Tutto il popolo corse alle armi. D’ora in ora cresceva il tumulto. Considerato il pericolo e il suo scarso guernimento, il Colonna rimontò a cavallo, non seguìto se non da un sol fante da piede, e uscì della città per la porta di San Lorenzo. Giunto alla basilica, sostò sotto il portico; si sedette sopra un dei leoni che reggono i pilastri della porta, e masticando un pezzo di pane amaro meditò la vendetta. Un oscuro presentimento non gli gravò il cuore ferreo? Lì presso s’incurvava l’ampio arco di travertino costrutto da Augusto per sorreggere i tre acquedotti, sacro alla prossima strage dei Colonnesi e alla doglia del vegliardo superstite. Ben egli sul tramontare di un giorno, molt’anni innanzi, andando per via con Francesco Petrarca, aveva già vaticinato: «Ahi che, sovvertito l’ordine della natura, di tutti i figli miei sarò io l’erede!» E volto aveva altrove gli occhi gonfi di lacrime. XIV. Il Tribuno confinò tutti i baroni nelle loro terre e castella; occupò tutti i ponti e li sgombrò delle barre e de’ serragli; fece prendere i capi delle masnade che manteneano le ruberie in Roma e d’intorno; mandò editto ai nobili che venissero al suo conspetto in Campidoglio. Vennero i più, e volle egli giurassero sopra il corpo di Cristo obbedienza alle leggi della Republica. Li accoglieva in lunga cotta color di fiamma su l’arme, sforzandosi di parer terribile, tra gran moltitudine di sollecitatori cui egli rendea ragione con parola infaticata. E dopo i nobili vennero i giudici i notari i mercatanti, e giurarono fedeltà al buono stato perpetuo. Instituì la casa della giustizia e della pace, e piantò in essa il gonfalone di Sire san Paolo, nel quale stava la spada nuda e la palma della vittoria; e vi pose pacieri a comporre inimicizie, giustizieri a punire misfatti. L’ordine fu ristorato, la sicurezza regnò le vie i campi le selve. Il _dictator epistolarum_ mandò messi latori di epistole a tutti i Comuni e anco alle Signorie, al doge di Venezia, al marchese di Ferrara, a Luchino Visconti, al Sommo Pontefice, all’imperatore Ludovico, al re di Francia. In quelle epistole «luculentissime» egli narrava il felice evento, pregava che gli mandassero sindici e giureconsulti alla solenne assemblea indetta per ragionar delle cose utili al buono stato, convocava gli inviati delle città italiche a concludere in Roma il patto d’alleanza per una impresa di liberazione universale, e stabiliva al gran convegno il dì primo d’agosto. I messi correvano le province in lievissimo arnese, inermi, sol portando per insegna del loro officio una verghetta di legname mondo. Le genti accorrevano curiose alla novità di questi Mercurii senza talari e senza serpi; ai quali pareva il Tribuno avesse insufflato il suo spirito e il suo sermone smisuranti, ché al ritorno essi narravano cose oltremirabili come se magico fosse quel lor bastoncello dipinto. Tornati, ripartivano con nuove epistole. Giorno e notte gli scribi seduti ai lunghi banchi scrivevano sotto la dettatura di Nicolaio severo e clemente. Da prima non s’udiva stridere intorno a lui se non la penna d’oca; di poi s’udì stridere qualche ribechino, ché incominciarono venir d’ogni parte verso la grassa mensa tribunizia buffoni sonettatori cantatori e simil gente di corte a celebrare in rima il Camillo il Bruto il Romolo redivivi nell’Urbe. Forniva il Laureato, di lungi, le iperboli sonore. «Romolo fondò Roma; Bruto, che tante volte già nominai, la libertà; Camillo l’una e l’altra ebbe redintegrata. Or quale, o chiarissimo, da loro a te corre differenza se non questa: che Romolo una meschina città di fragile steccato ricinse, tu la città fra quante furono e sono grandissima d’inespugnabili mura hai circondato? Bruto da un solo, tu da molti tiranni usurpata la libertà rivendicasti? Camillo da recenti e ancor fumanti ruine, tu da rovine antichissime e l’una e l’altra, di cui già disperavasi, facesti risorgere? Salve a noi Camillo, a noi Bruto, a noi Romolo o qualunque altro sia nome onde ti piaccia chiamarti; salve, o fondatore della libertà, della pace, della tranquillità di Roma. Per te quelli che or vivono potranno liberi morire, liberi nasceranno per te quei che vivranno in futuro.» Vento di lode tanto impetuoso gonfiò smisuratamente il figlio del tavernaio e dell’acquaiuola, immemore omai del giubberello sbrandellato che nei giorni della disgrazia avignonese mal gli ricopriva il fianco scarnito dalla fame insonne. Cavalcò alle feste con grande stormo di cavalieri, bianco vestito su palafreno bianco, a simiglianza degli Imperatori nelle coronazioni preceduto dalla sua guardia di cento giovani scelti nel nativo rione della Regola, mentre un gonfalone regio gli sventolava sul cappelletto di perle. Scavalcò a San Pietro con infinito codazzo di giudici notari camerlenghi cancellieri pacieri sindici marescalchi, con suono di trombe e di nacchere, vestito di velluto mezzo verde e mezzo giallo foderato di vaio, tenendo in pugno una verga di acciaio sormontata da un aureo pomo che nella sua crocetta conteneva una scheggia del Legno santo. Dinanzi a lui Buccio figlio di Giubileo portava la spada nuda in segno di giustizia e Liello Migliaro gittava al popolaccio manate di danari attingendo di continuo alle sacca che due portatori gli sostenevano; dietro a lui Cecco di Alesso palleggiava lo stendardo dal sole d’oro e dalle stelle d’argento in campo cilestro; a destra e a manca gli camminavano cinquanta vassalli da Vitorchiano suoi fedeli, con gli spiedi in mano, irsuti come orsi. Su le scale di San Pietro i canonici con tutta la chiericìa in cotta bianca gli si fecero incontro agitando i turiboli e cantando: _Veni creator Spiritus_. Tante magnificenze non aveva ostentate il Bavaro. XV. Ma il villan rifatto andò sempre più oltre. Da buon demagogo egli peccava nel ventre. Già erasi acconciato a rallegrare i conviti dei nobili; ora, per vendicarsi della patita temperanza, si dava a spropositato bere e mangiare. Tutto dì crapulava, rinzeppandosi delle vivande più preziose, delle confetture più ricche, tra buffoni e giullari fràdici che berciavano canzoni e vomivano piacenterie ininterrottamente. Sotto pretesto di riedificare il palagio del Campidoglio, condannò in cento fiorini ciascun barone che per addietro avesse coperto l’officio di senatore. Ricevette l’oro, ma per iscialacquarlo in cene mal digeste e in apparati goffi. Volle che la sua moglie andasse per le vie con una corte di giovincelli adorni, seguita dalle patrizie umiliate, assistita dalle fantesche che le facevano vento, la spruzzavano di essenze, la difendevano dalle mosche. Un suo zio barbiere e cerusico di mezza matricola lasciò rasoio e lanciuola, ranno e mignatte, rizzò la cresta, si chiamò Gianni Rosso, e andò burbanzoso cavalcando a gambe larghe con iscorta d’onore. Una sua sorella vedova si maritò a barone di castella. Simili altri suoi parenti entrarono in grandezze; e scialavano senza pudicizia a spese del buono stato. Romanamente volle egli anche alternare la crapula con la crudeltà; ma la crudeltà sua fu della peggior sorta, come quella che nasceva dalla paura e usava bilance bugiarde. Per dar terrore ai nobili, dannò all’impiccagione un infermo di morbo mortale e accumulò intorno al supplizio le atrocità; che costui, chiamato Martino di Porto, nepote del cardinale di Ceccano, era idropico: secco il viso, esile il collo, riarso il labbro, enfiato a dismisura il corpo, «liuto da sonare parea». E stavasi in casa rinchiuso con la sua grandissima sete e con la sua molto leggiadra donna, chiamata Amasia degli Alberteschi, supplicando i fisici che lo medicassero. E il Tribuno lo fece pigliare nella propria casa, strappare di tra le mani della moglie, trascinare al Campidoglio come ladrone, spogliare della sua cappa al conspetto della plebaglia, impiccare senza indugio. E una notte e due dì lo lasciò pendere dalle forche, sì che la vedova dal balcone potesse scorgere quel tristo sacco pien d’acqua morta. Così resse Roma in odio ai potenti. Però dei potenti si giovava per mandarli a oste in sua vece, ché egli alle durezze del campo preferiva il suo «onesto e trionfai letto» ove dal solo strepito delle nari era accompagnato il sogno della vittoria. Cola e Giordano Orsini guerreggiarono per lui contro Gianni di Vico prefetto di Viterbo; egli s’addossò il carico di contare la pecunia prodotta dai tributi, la quale in verità era tanta che dava «increscimento e fatica» a noverarla. Avuta per tal modo la rocca di Respampano, avuti i càssari i passi e i ponti di Roma in tutto, e Ceri e Vitorchiano e Civitavecchia, «fece core» e ordinò Gianni Colonna capitano contro i ribelli della Campagna. Frattanto egli edificava una cappella, e dentrovi faceva cantare messe solenni con moltitudine di cantori e di luminarie; si poneva a sedere, e faceva stare dinanzi a sé i baroni in piedi e in zucca. Perché un tal giuntatore riuscisse a ciurmare per alcun tempo il mondo era pur necessario il soccorso del malo spirito che dal cerchio polito dello specchio etrusco balzando entrava nella mela d’oro fitta a sommo della verga. Da città e castella veniva gente credula al Campidoglio per giustizia. I comuni le signorie i reami rispondevano con ambasciate illustri al dettator di lettere. Un buono bolognese avventuroso, ch’era divenuto schiavo in terra saracina, subito dopo il riscatto corse a Roma e raccontò come il Soldano, udito che sul Tevere cresceva in gloria l’uomo novo, gridato avesse con sbigottimento grandissimo: «Sire Maometto aiuti la Saracinia!» La regina Giovanna, già sposa del suo drudo Aloisi, temendo le vendette del re ungaro per l’abominevole uccisione di Andreasso, si raccomandò alla grazia del Liberatore e donò cinquecento fiorini con giunta di gioie alla Tribunessa. Il principe di Taranto richiese d’amicizia il Severo e Clemente, con una legazione condotta da un arcivescovo. Perfino il Bavaro gli mandò — secondo fu bucinato — segreti messi, perché lo riconciliasse con la Chiesa. L’antico ciarlone schernito dal Fortifiocca, ora tronfio in seggio, atteggiato di maestà, col globo crociato in palma di mano, usurpava solennemente il versetto del Salmo: «Giudicherò la rotondità delle terre nella giustizia, e i popoli nell’equità». XVI. Il dì primo di agosto, al conspetto degli ambasciatori magnifici e di tutto il popolo romano, Cola di Rienzo prese l’ordine di cavalleria con la più buffonesca cerimonia che abbia mai accompagnato in terra esaltazione di falso eroe. Preceduto e seguito dalla solita mascherata allegorica, cavalcò al Laterano. Affacciàtosi alla bella loggia costrutta da Bonifacio VIII e dipinta da Giotto, in gonnella bianca, parlò: «Sappiate che questa notte mi deggio fare cavaliere. Tornate domani, e udrete cose che piaceranno a Dio in cielo e agli uomini in terra.» Come la moltitudine si fu dispersa, discese nella basilica ch’era l’Aula di Dio; assistette all’ufficio divino; poi, secondo l’usanza dei cavalieri antiqui, si apprestò al bagno che doveva renderlo puro qual pargolo. Il notaro ignudo che «sentiva già del grassetto» si adagiò con tranquilla impudenza nella conca di paragone ov’era fama si fosse bagnato l’imperator Costantino sotto gli occhi santi del Pontefice Silvestro per mondarsi dalla paganìa e dalla lebbra. Escito del lavacro, involto in drappi candidi, si appressò al letto alzato entro il recinto ottagono del battistero chiuso tra le colonne di porfido che il terzo Sisto avea tolte ai templi dei Gentili e quivi ordinate. Come fece per coricarsi, il letto crollò se bene era nuovo; e il sonno fu turbato dal tristo presagio. Ma al mattino, riapparso su la loggia di Bonifacio innanzi al popolo, tutto vestito di scarlatto e di vaio, ebbe cinta la spada da Vico Scotto, allacciati gli speroni da un Orsini e da un Armanni. Quindi, assunto il titolo di «Candidato dello Spirito Santo Nicolaio Severo Clemente liberatore della Città zelatore d’Italia amatore del mondo Tribuno augusto», fece leggere da un notaro capitolino un decreto che confermava Roma capo dell’orbe e fondamento della cristianità, donava la libertà perpetua e la cittadinanza romana alle genti di tutta la sacra Italia, dichiarava l’elezione dell’Imperatore e la signoria dell’impero appartenersi al romano popolo e all’italico, citava a comparire per la prossima Pentecoste Messer Lodovico duca di Baviera e Messer Carlo re di Boemia come quelli che si spacciavano per veri imperatori o già eletti all’impero, citava ancóra tutti i prelati i re i duchi i principi i conti i marchesi i popoli le Comunità, minacciandoli di procedere contro di loro in contumacia «secondo l’inspirazione dello Spirito Santo!» Non lo scoppio fragoroso delle risa e delle beffe coprì la fine di questa incredibile buffoneria, ma sì frastuono di trombe trombette nacchere e ciaramelle levato a coprir la protesta del Vicario pontificio. E il ciurmadore, tratta fuor della guaina la spada innocua, ferì il vento tre volte per tre bande a indicare le tre parti del mondo, e a ogni colpo vociò: «Questo è mio, questo è mio, e questo è mio.» E tuttavolta risa non s’udirono, né beffe, se bene tra la gente nuova fosse già per ispandersi taluno degli spiriti che in quell’ora fervevano entro l’anima libera del gran dileggiatore Giovanni Boccaccio. Ov’era egli, il Certaldese? A Ravenna, presso Ostasio da Polenta? a Forlì, presso Francesco Ordelaffi? Ah, se come il suo giudeo Abraam, si fosse egli ritrovato in Roma «per quivi vedere e considerare i modi e i costumi di quelli che a Roma vivono», non avrebbe egli forse potuto dare un fratello illustre al notaro da Prato ovunque conosciuto per Ser Ciappelletto? XVII. Ma la cerimonia della coronazione, annunciata per mezz’agosto, superò in gagliofferia stomachevole la precedente. Il retore fatuo aveva composto le sei corone tribunizie con ramoscelli colti su per l’Arco di Costantino, e il simbolo di ciascuna aveva illustrato con passi scelti a vànvera in antichi scrittori. Durante la messa, il priore lateranense si fece innanzi e gli offerì la corona di quercia dicendo: «Ricevila, perocché liberasti i cittadini da morte.» Il priore vaticano similmente gli offerì quella di edera dicendo: «Ricevila, perocché della religione fosti zelante.» Il decano di San Paolo gli porse quella di mirto dicendo: «Ricevila, perocché onorasti l’officio e la sapienza e aborristi l’avarizia.» Altri sacerdoti lo cinsero d’altre corone con altri detti. E frattanto un uomo in abito di mendico, con una spada in mano, gli ritoglieva del capo i serti a uno a uno, sogghignando, in ricordanza degli scherni e degli ammonimenti che accompagnavano un tempo i trionfatori quiriti; ma ritogliergli non potè l’ultima, d’argento, offertagli dal priore di Santo Spirito, ché l’arcivescovo di Napoli glie la dovette cerimonialmente ricalcare in capo. La burlesca rappresentazione ebbe termine con un’arringa in cui il Tribuno si paragonò al Nazzareno che nell’età di trentatre anni era salito vittorioso al Cielo com’egli ora, avendo senza spada liberato il popolo, saliva al culmine della gloria. Incredibile a dirsi: non scoppiò a ridere se non l’uomo vestito da mendico, per obbligo d’istrione ammaestrato; ma un monaco in odore di santità, frate Guglielmo, proruppe in lagrime. Con diadema d’argento e speroni d’oro, Cola sedette a conviti senza fine. Ebbe il guidapopolo così gozzovigliando il sùbito pensiero di mettere in opera contro i baroni, come un buon tirannello di Romagna o della Marca trivigiana, la trappola consueta. Li invitò a cena. Cinque Orsini e due Colonnesi furono i commensali. Stefano Colonna il vecchio, sempre disdegnoso e amaro, mosse disputa se convenisse a rettor popolesco meglio la parsimonia che la prodigalità. A mezzo della contesa, con un gesto rude il potente scosse al Tribuno un lembo della guarnacca e disse: «Meglio ti converrebbe portar vestimenta da bizzocco che queste da principe.» Cola fino a quel punto aveva titubato dinanzi alla perfidia troppo per lui audace. La vanità ferita ebbe tal sussulto che vinse la paura. Egli ritenne prigioni i suoi ospiti. Messere Stefano fu rinchiuso nella sala del Consiglio. Le guardie udirono tutta la notte ansare il suo cruccio leonino e risonare nel passo agitato le sue calcagna di bronzo. Di tratto in tratto egli scrollava col pugno la porta e comandava a gran voce che gli fosse aperta. Venne l’alba. In suo tenace orgoglio il vegliardo non poteva credere che quel plebeo si ardisse di mandare a ceppo o a laccio il capo della Grande Casata. Increduli eran certo anco gli altri, poiché Giordano e Rainaldo Orsini non poterono comunicarsi per aver mangiato di buon mattino i fichi freschi, essendo il dolce settembre. Ma il Tribuno aveva già disposto che fosse parato di bianco e di vermiglio il parlatorio, in segno di sangue, e che un frate minore ricevesse da ciascun patrizio la confessione e a ciascuno amministrasse il corpo di Cristo. Messere Stefano respinse il conforto, non volle apparecchiarsi alla morte ignobile, non prestò fede al rintocco della campana funebre: coperto della sua canizie eroica come da un’arme inviolabile, stette ad aspettare in silenzio l’evento. Quegli che più a dentro tremava d’incertezza, in verità, era il condannatore; cui la natura non avea dato la tempra di Ezzelino o di Castruccio. Vacillando egli, vennero alcuni cittadini prudenti a consigliargli la clemenza. Di sùbito accolse il consiglio, mutò il proposito. Era ora di terza: i baroni furono condotti al parlatorio, squillarono le trombe, il popolo attese avido e trepido il supplizio. Cola salì alla ringhiera e anche questa volta fece «uno bello sermone» di pace e di perdonanza. Non soltanto scusò i nobili dinanzi agli aspettanti, ma li colmò di officii e di beneficii, li nominò consoli capitani e prefetti, li regalò di ricche robe e di bei gonfaloni, li tenne a mensa senz’altra perfidia, se li trasse dietro a cavallo per le vie, in fine li accomiatò onestamente. Rare volte al mondo tanta rapidità di fortuna nell’acquistar lo stato si accompagnò con tanta inettitudine nel mantenerlo, e tanta prosunzione di parole con tanta impotenza di fatti. Tra quanti al mondo pervennero d’abietta origine in signoria nuova non vi fu mai alcuno, forse, che men di costui sapesse conoscere e usare la bestia e l’uomo, la frode e la fede, l’arme e la virtù, la crudeltà e la clemenza, il sopruso e la legge. Sùbito che furon liberati, i baroni escirono dalle mura, si ritrassero nella Campagna, afforzarono le ròcche e incominciarono la guerra. XVIII. Marino tenne il nerbo della ribellione e del guernimento. Rainaldo e Giordano Orsini, quelli delle «ficora fresche», vi condussero con grande ardore le opere: rimondarono il fosso, alzarono doppio steccato intorno, abbertescarono le torri, balestri e manganelle posero per tutto, fecero provvisione d’uomini di danari di armi e di vettovaglie. Il Tribuno, non stava già su gli avvisi: banchettava tra i suoi giocolari e cavalierotti, commetteva d’ogni sorta drappi ai setaiuoli di Calimala, dettava epistole agli scribi secondo le regole di Boncompagno fiorentino o secondo gli esemplari di Tomaso da Capua. Come i ribelli ebbero fornito l’apparecchio, egli spedì loro un messo che comparissero. Il messo fu rincorso e lasciato mezzo morto tra le vigne di Marino, non altrimenti che quell’altro il quale non avea pur potuto giungere alla corte avignonese e s’era rimasto là su la Durenza con lacerate le scritture e rotte le ossa e la verga. Per risposta Giordano e Rainaldo si presero di osteggiare le terre intorno a Roma e di menar preda ogni giorno fin sotto le mura, con molto sbigottimento dei cittadini. Un’altra volta il Tribuno li citò che venissero a sottomettersi, brandendo le folgori del suo furore; e, per ispaventarli, ordinò che entrambi sopra una parete del Campidoglio fosser dipinti col capo in giù. Allora Giordano si spinse fin su la porta di San Giovanni a prendere uomini femmine bovi pecore porci, ogni cosa trascinando alla ròcca; Rainaldo passò il Tevere, entrò in Nepi, arse e guastò tutto il territorio alla destra del fiume. Spinto dalle strida e dai lagni, il Severo finalmente bandì l’oste sopra Marino con ottocento cavalli e ventimila pedoni. Era tempo di vendemmia; l’uva matura gravava le belle vigne; colava il mosto dai tini. L’esercito raccogliticcio, più di saccomanni che di combattenti, si diede in furia a devastare i campi intorno al castello: tagliò le viti e gli alberi, bruciò le capanne, rubò gli ovili, portò il ferro e il fuoco sin nell’ombra dell’antichissima selva ferentina, sacra alla memoria della confederazione laziale che quivi tenne le assemblee solenni. Ma non fu dato l’assalto alle torri; furono bensì dati dal Tribuno per isfregio i nomi di Giordano e di Rainaldo a due veltri innocenti. Era giunto intanto a Roma il cardinale Bertrando di Deucio legato del papa e aveva spedito lettere al guastatore intimandogli di presentarsi senza tardanza. Cola levò l’assedio; ma, prima di partirsi, in quel rivo medesimo in cui era perito per la perfidia di Tarquinio Superbo il deputato aricino Turno Erdonio, egli affogò i due «cani cavalieri». Rientrò in città con le genti; disfece le case orsine ch’erano in fronte di San Celso; cavalcò al Vaticano. Tutto armato di piastra e maglia come un paladino che non sappia tregue, con manopole e morione, penetrò nella sacrestia, tolse la dalmatica d’oro e di perle imperiale, se la pose sopra l’arme a guisa di sorcotto; brandì la verga tribunizia, si accese di terribilità fantastica, e tra gli squilli delle trombe marziali comparve innanzi al Legato attonito. Aveva dal Pontefice il cardinal Bertrando facoltà piena di togliere a Cola ogni dominio, di riporre in Campidoglio due nuovi senatori eletti, di iniziare contro il deposto un processo per eresia, di usare coercizioni sopra i Romani perché lo rinnegassero entro il più breve termine. Il Santo Padre rimproverava al notaro della Camera urbana il titolo di tribuno augusto, il folle bagno nella conca di Costantino, l’alleanza con l’Ungaro contro Giovanna di Napoli, le violenze contro gli ottimati e il vicario, la citazione diretta contro Carlo e i principi dell’Impero, la violazione dei diritti chiesastici, l’abolizione di tutte le leggi sancite. Al vedere l’uomo ferrato e scettrato in dalmatica da imperatore, il cardinale restò senza voce. Ma Cola molto ingrossò la sua dicendo con arroganza: «Mandaste per noi. Or che volete mai?» Rispose l’altro: «Abbiamo per voi informazioni di Nostro Signore il Papa». Tonò il devastatore delle vigne di Marino: «Che informazioni son queste?» Il Legato con prudenza si tacque, pensando di mettersi al sicuro in Montefiascone ove risiedeva il rettore del Patrimonio. Cola escì dal Vaticano senza deporre la dalmatica in sacrestia, rimontò a cavallo, e fece novamente oste sopra Marino. XIX. Ma la rocca resisteva; e il cavaliere dello Spirito Santo chiamava invano a soccorso contro la duplice stecconaia i Fiorentini e gli altri alleati del primo patto. L’esercito popolesco ansava già nella fatica inconsueta, travagliato dalle balestre orsine, con scarsa vettovaglia e scarsissimo soldo. I cavalierotti mandavano lettere segrete a Stefano Colonna invitandolo a venire sotto le mura con la sua gente, ché gli avrebbero aperte le porte. Allora i Colonnesi, col favore del cardinal legato che macchinava in Montefiascone a danno del disobbediente, raunarono nella cittadella di Palestrina da cinquecento cinquanta cavalli e pedoni quattromila, per tentare lo sforzo. La novella della raunata mise grande spavento addosso al Tribuno, che «diventò come fosse infermo e matto». Non prendeva più cibo né sonno. Smaniava, farneticava, vedeva da per tutto traditori, faceva a ogni tratto sonare la campana patarina, congregava il popolo per raccontargli i suoi sogni e le sue visioni. Il Prefetto, chiamato, mandò innanzi a sé molte carra di frumento e venne di poi con cento lance, seguito da quindici baronetti di Toscana, accompagnato dal suo figliuolo Francesco, che per la prima volta vestiva Tarme. Cola rinnovò con lui l’insidia conviviale, ma senza pentirsi. Lo invitò a mensa co’ suoi; alle frutta lo fece prigione. Gli arnesi e i cavalli distribuì ai Romani. Radunò il popolo una volta per dirgli d’aver udito in sogno San Martino «lo quale fu figlio di tribuno» assicurare la vittoria su i nemici di Dio; un’altra volta per dirgli d’aver udito il santo papa Bonifacio vaticinare la postuma vendetta sopra gli odiati Colonnesi. Come costoro s’erano accampati a quattro miglia dalla città presso un luogo detto Monumento, l’interprete gridò esser questo il segno certo che non solamente sarebbero sconfitti, ma morti avrebbero quivi il lor monumento sepolcrale. E sùbito fece dar nelle trombe nelle nacchere e nelle ciaramelle, e ordinò le genti con l’aiuto di certi degli Orsini di Campo di Fiore e da Ponte Sant’Angelo, e di Giordano dal Monte. Diede per parola d’ordine «Spirito Santo cavaliere». Si mosse verso la porta di San Lorenzo, contro cui s’apparecchiava Io sforzo ostile. I baroni, sperando di occultare la marcia, s’eran discosti dalla via di Palestrina volgendo a quella di Tivoli e s’erano accampati in vicinanza del Ponte Mammolo. In su la mezzanotte Stefano Colonna iuniore, capitano di tutta l’oste, condusse fanti e cavalli sino al Monastero fuori le mura. Li travagliava la pioggia dirotta e il crudelissimo vento, di tratto in tratto giungendo con le ràffiche lo stormo delle campane di Campidoglio, segno della riscossa. Sotto il portico della basilica, Stefanuccio — che era infermo di vòmito e batteva i denti per la terzana ma dominava il malore col grande animo — adunò a consiglio i baroni collegati; i quali erano il suo primogenito Gianni, Pietro di Agapito signore di Genazzano, Giordano Orsini, Cola di Buccio Braccia, Sciarretta orfano di quel tremendo Sciarra castigatore di Bonifazio, Petruccio Frangipane e due Caetani di Fondi. Udivasi tuttavia la campana capitolina nello scroscio della pioggia; e Pietro di Agapito, il quale era grassoccio e alquanto più inclinato alle cautele che agli ardimenti per aver lasciato da giovine l’abito di chierico ma non l’indole, cominciò a disanimarsi e a vacillare. Egli aveva veduto in sogno la sua moglie, una degli Annibaldi, scapigliata in gramaglia vedovile; e temeva il presagio. Nel consiglio tenne per l’abbandono dell’impresa e per la rapida ritirata su Palestrina. Ma Stefanuccio gli mozzò le parole in bocca: prese con seco un sol fante, voltò il cavallo, e fu dinanzi alla porta, poiché sperava che taluno dei cavalierotti avrebbe mantenuta la promessa di aprire. Ad alta voce nella notte chiamò la guardia a nome; disse: «Sono cittadino di Roma; voglio a casa mia tornare; vengo pel buono stato». La guardia nominata non faceva motto. Egli batté con la manopola, iterando il grido. E allora un balestriere dall’androne gli rispose la guardia esser mutata, avere egli Paolo Buffa la custodia, non voler tradire la fede. Per segno di sua fermezza, non potendosi la porta aprire se non di dentro, accomandò la chiave a una verretta e con questa la scagliò a forza di balestro di là dall’arco di travertino. Cadde la chiave nella melma di un pantano. Disse il patrizio: «Buono balestriere, di te si ricorderà Stefano Colonna». E spronò verso il monasterio. Ai collegati disse: «Entrare non potiamo per via alcuna, che fummo tratti in inganno. Serrata è la porta e saldissima; difficile abbatterla, difficile appellare quel pazzo alla battaglia fuori mura. Giova rimettere il colpo ad altro giorno con più di forze, ma ritirarsi con onore passando in ordinanza davanti la porta a suon di trombe e a bandiere levate». Mise fanti e cavalli in tre schiere. Comandò che l’una dopo l’altra movessero verso la porta, quella rasentassero, dessero quindi la volta a man ritta per riprendere la via consolare. La prima, condotta da Sciarretta di Sciarra, si mosse ordinata; giunta sotto la porta sonò le trombe a disfida; voltò senza colpo ferire. Il medesimo fece la seconda, condotta da Petruccio Frangipane. La terza veniva avanti con più baldanza, ché vi s’accoglieva il fiore della cavalleria colonnese, la più animosa gioventù patrizia, la meglio in arme, la meglio in arcione, montata su romani di gran corpo o su giannetti alla leggiera, esercitata a ogni fazione e tanto ardente al combattere che Stefanuccio prima di muoverla aveva messo bando che sotto pena corporale niuno tentasse l’assalto. Precedevano il grosso gli otto primi feditori in antiguardo, tutti nobili; e tra questi Gianni Colonna il leoncello, arditissimo e fiero oltre misura, occhio del vegliardo. XX. Cominciava ad albeggiare tra il nuvolo; meno spessa era la pioggia, ma il terreno tutto melma e pozzanghere, sicché vi s’affondavano i cavalli fino alla grascella. Le genti del Tribuno e del popolo, ond’eran capitani Cola Orsini e Giordano dal Monte, avendo già le due volte udito gli squilli e lo scalpitìo sotto la porta, tumultuavano per appiccar la zuffa; e, come la chiave erasi involata con la verretta di Paolo Buffa e serrame e gangheri erano ben saldi all’urto, incominciarono a maneggiar le scuri contro l’imposta dritta. Udirono i feditori il rimbombo e il tumulto; e Gianni Colonna, credendo che i suoi partigiani sopraggiunti movessero quel romore e fossero a dirompere la porta con i mannaresi e le accette, sùbito imbracciò la rotella, abbassò la lancia su la coscia, prese di terreno alquanto per rincorrere, fu pronto alla spronata e all’impeto. Come l’imposta cadde, fulmineo irruppe nel varco con tanta furia che dinanzi a lui solo tutta la cavalleria avversa dié la volta e tutto il popolo sbigottito s’arretrò per una mezza balestrata alla lunga. Lo stendardo tribunizio cadde a terra di schianto nella belletta sotto le calcagna dei fuggiaschi; e il Tribuno bianco di terrore vide il cavaliere lampeggiante, alzò gli occhi al Cielo, credette venuta la sua ultima ora, altra parola non disse se non questa: «Ahi Dio, hammi tu tradito?» Ma i compagni non aveano seguito il temerario; che si ritrovò solo di là dalla porta, non guardato alle spalle, con in pugno il troncone, su la bestia impennata. Ripreso animo contro l’assalitore singolare, la pedonaglia romana gli si gettò addosso urlando. Il cavallo al clamore spiccò due gran lanci per costa e ricadde in una buca impantanata sul lato manco della porta travolgendo il suo signore che restò preso nella staffa e confitto nella melma negra. Lo sopraffecero i popolari armati di spiedi e di verruti con rabbia grande come quella lor prima paura; e, avidi dell’arme ricca, presero a dispogliarlo innanzi di finirlo. Si dibatteva il giovinetto terribile, sforzandosi di drizzarsi in piedi per tener testa alla canaglia che lo sopraffaceva sol perché atterrato. Gridava sperando essere udito dai suoi: «Colonna, Colonna!» Risonava su lo schiamazzo il grande nome. Strappatogli del capo l’elmetto, di dosso gorzarino spallaccio cosciale, tutto l’arnese pezzo per pezzo, la ferocia ladra lo abbrancava ignudo per dilacerarlo. Fonneraglia di Trevi fu il primo che lo colpì nell’inguinaia, passando il ferro basso tra il viluppo degli abbattitori. Gridava tuttavia l’intrepido: «A me, a me, Colonna!» Il suo padre dinanzi alla porta domandava ansioso: «Dov’è Gianni mio?» Risposto gli era: «Noi non sappiamo che aggia fatto, né dove sia gito». Allora sospettò Stefano che il suo leoncello fosse balzato pel varco. E, come buon sangue chiama buon sangue, anch’egli spronò, solo entrò nell’androne. Udì l’ultima voce del figlio, vide il figlio stramazzato nella buca melmosa, sopra il corpo sanguinante il viluppo degli uccisori. Come la masnada di Cola Orsini gli corse contro, egli voltò il cavallo, ripassò la soglia. Ma l’amore della creatura fu più forte che l’amor della vita. La febbre autunnale gli agghiadava le midolle e gli scoteva le ossa nell’armatura. Egli strinse i denti; silenzioso e disperato, spronò ancora una volta a rientrar nelle mura per soccorrere il figlio abbattuto. Lo vide morto, lo vide supino e ignudo, riverso il bellissimo capo, lorda la chioma di fango e di sangue, lacerato l’inguine pubescente, squarciato il divino coraggio del petto giovenile. I denti non disserrò; silenzioso si rivolse al varco dove splendeva in quel punto il repentino bagliore dei raggi saettati pel rotto dei nuvoli. Dalla torricella del presidio un macigno gli piombò su le spalle, percosse nella groppa lo stallone che impazzato lo sbalzò di sella contro la muraglia. Tramortito dall’urto, restò in terra. Sùbito fu calpesto; tratto fu dal popolo in mezzo alla sozzura; ebbe tronco il piè destro, aperto il viso tra occhi e naso come fauce belluina. Gittato sul cadavere figliale, mescolò il suo sangue maturo con quel virgineo ancor caldo di speranza fallace. XXI. Ma il fato dei Colonnesi non era compiuto. Imbaldanzito il popolo per le due uccisioni, da queste aizzato a proseguir la strage l’accanimento degli Orsini di Campo di Fiore e di Ponte Sant’Angelo per inimistà dei consorti e per odio dei competitori, costernati i cavalieri della congiura privi del duce magnanimo e soperchiati dal numero stragrande, le sorti della zuffa si volsero in breve contro questi ultimi che debole sforzo tentarono sotto la porta, respinti non ressero, scavalcati balenarono su la melma sdrucciolevole non potendo fermare il piè in terra, caddero l’un sopra all’altro, e l’uno vendette cara la vita e l’altro la domandò salva, e pochi rimasti in sella tornarono in fuga a briglia abbandonata, come Giordano di Marino e un Caetani di Fondi se bene perdessero sangue dalle ferite mortali. Caduto da cavallo il proposto di Marsiglia Pietro di Agapito Colonna, dove la mischia era men folta, cercava lo scampo. La veracità del sogno l’empiva di spavento. Impacciato dall’arme inconsueta e dalla pinguedine chericale, sfangava e ansimava pe’ pantani cercando di riparare a una vigna vicina. Da ribaldi raggiunto, si buttò ginocchione a pregare per Dio e per la Vergine che tutto gli togliessero ma gli lasciassero la pelle. Dei danari lo spogliarono, e poi del sorcotto a oro, e poi d’ogni arnese. Rimasto nudo e scalzo, pregava tuttavia, sperava tuttavia tornare alla sua donna e mai più ritrovarsi allo sbaraglio. Ma Sgariglia beccaio con una sguerruccia gli segò la pappagorgia. Giacque nella vigna supino il proposto, grasso bracato, più che sugna bianco, con la calva cotenna nella pozza del sangue grumoso, non uomo da fazioni ma da prebende. E poco di lungi stette il suo cugino Messer Pietro di Belvedere, e un Frangipani e un Caligaro, e un della famiglia di Lugnano, e Camillo bastardo di Stefanuccio. E dei nobili ottanta altri perirono, macellati furono, mozzi e tronchi: giacquero nella mota cruenta nudi al ludibrio della razzumaglia. XXII. Il Tribuno non s’era mai ardito escir fuori della porta né distaccarsi dall’ombra dello stendardo bruttato. Sempre la vista e il cozzo del ferro gli davano il tremacuore, perocché assai più famigliare ei fosse con gli inchiostri e coi vini che col buon succo delle vene virili. Quando vide Giordano dal Monte ricomparire sotto l’arco ad annunciar col guizzo dello stocco la vittoria piena, egli riprese colore; e rizzatosi dall’arcione fece sonare tutte le sue trombe d’argento a raccolta. Pronta aveva già la corona d’ulivo, e se la pose in capo; pronti già nel suo capo l’ordine e l’apparato del trionfo. Rimise le genti in ischiera e cavalcò a Santa Maria di Araceli con tripudio. Quivi appese in voto alla Vergine la corona d’ulivo e la verga d’acciaio. Rendute le grazie, salì al Campidoglio e si mostrò con la spada in pugno al popolo festante. Non una gocciola rossa interrompeva il nitore della lama imbelle; ma l’eroico mimo fece l’atto di forbirla al lembo della sua cotta cremisina, rotondamente. Disse: «Hai mozzata orecchia di tal capo, che non la poté tagliare Papa né Imperadore». E andò a mensa. Su l’imbrunire i cadaveri spogli di Stefano, di Gianni e del proposto furon trasferiti pietosamente dalla porta di San Lorenzo alla cappella sepolcrale della casata in Araceli. Coperti furon di coltri d’oro, intorniati di torchietti ardenti. Vennero le gentili donne colonnesi in gramaglia, seguite da una moltitudine di lamentatrici scarmigliata e lacera, per fare la lamentazione e l’ululo sopra i cari morti. Echeggiavano le strida e i pianti per l’erta sacra, e turbavano il convito nel palagio accosto. Montò in furore il Tribuno, e comandò che fossero scacciate le vedove col loro stuolo urlante, e negate le esequie agli uccisi. Parve nella minaccia rammemorar le parole da Stefano il Vecchio profferite quando in San Marcello aveva spregiato l’editto; perché gridò: «Se quei tre mi fanno poco d’ira, io li farò gittare nella fossa degli appesi, come maledetti spergiuri ch’ei sono». Allora i cadaveri nottetempo, senza pompa e senza ploro, furono portati nella chiesa di San Silvestro in Càpite ove i Colonnesi aveano fondato un monasterio per le figliuole di lor sangue. In segreto quivi, tra il virtuosissimo padre e il pusillanime congiunto, ebbe sepoltura e requie dalle pie donne l’imberbe eroe domatore di cavalli, che il Petrarca paragonava a Marcello diletto da Giove Ferètrio. XXIII. Era in funeraria solitudine rimasto il seniore, là sul monte di Palestrina consecrato alle distruzioni dalla prima ferocia di Silla. Nella cittadella per lui medesimo ricostrutta su le ruine sconvolte da Bonifacio, egli ricevette l’annunzio. Già tre figli della sua virtù aveva perduti in tre anni. Ora perdeva d’un tratto il primogenito foggiato a sua imagine e il leoncello sortito a superar tutti. Ascoltò, diritto in piedi, senza vacillare. Colore non mutò, non fece motto, non sparse lacrima, non mosse gesto di cruccio né sospiro d’ambascia. Soltanto gli occhi aridi chinò su l’ombra spaziosa che la sua statura non incurvata dal secolo stampava in terra; fissi li tenne in quella terra ingiusta che già tanta stirpe immatura aveva inghiottito e rifiutava la pace alle vecchissime ossa omai polite dai travagli del destino come le selci dal torrente infaticabile. Disse alfine, riscotendosi: «Sia fatta la volontà di Dio. Meglio è morire che sopportare il giogo di un villano». E, poiché non anche poteva coricarsi nella fossa, rimase in piedi ferrato ad apprestar le vendette. XXIV. Che taluno ripetesse al Tribuno, dopo il fatto d’arme compiuto dai due Orsini, l’ammonimento di Maharbale al Cartaginese dopo la battaglia di Canne, non è certo. Certo è bensì, che il dettatore né sapeva vincere né sapeva usare la vittoria. Invece di fare oste senza indugi sopra Marino e Palestrina per quivi sradicar di colpo ogni resistenza e ribellione di nobili, egli adunò la sua cavalleria di cavalierotti da lui chiamata sacra milizia e si credette satisfare all’importuna pretesa del soldo con una nuova facezia. Parlò: «Vògliovi dar paga doppia oggi. Venite meco». Ordinò le schiere. Vestì di drappi bianchi il figliuol suo Lorenzo, lo pose a cavallo, e lo menò seco a suon di nacchere e di trombette. Dov’ei volesse andar a parare con quella mostra, non sapeva alcuno. Cavalcò verso la porta tiburtina, al luogo della zuffa; ov’era rimasta nel terreno la pozza atroce con la melma e con l’acqua arrossate dal sangue magnifico di Stefanuccio Colonna e del feditore adolescente. Dinanzi la pozza smontò, fece smontare il figliuolo; inginocchiare lo fece su l’orlo tristo, attinse di quell’acqua sanguigna, ne asperse il prostrato dicendogli impronto: «Sarai Cavaliere della Vittoria». E gli astanti stupirono e inorridirono. Ed egli volle che i conestabili percotessero col piatto delle spade, secondo l’usanza, l’ignobile battezzato col fango suo pari più che col sangue degli eroi. Sì grande fu il disgusto, allo spettacolo, che i baroni di parte popolare si vergognarono di vestire arme in pro di tal cialtrone. E i cavalierotti e l’altra soldatesca, omai ristucchi di attendere la paga doppia e pur la mezza paga, mormoravano e si sbandavano; mentre il dannato Giordano Orsini, con le ferite ancóra aperte, rinnovava la guerra minuta portando il guasto fin sotto le mura, mentre Sciarretta Colonna collegatosi con Luca Savelli operava senza tregua, sovvenuto di danari e di uomini dal cardinal legato che ne traeva dalle città guelfe d’Umbria e di Toscana. Roma era affamata. I guerreggiatori chiudevano il passo alle vettovaglie. Rubbio di frumento valeva sette libre di moneta. La plebe dal mormorìo passava al tumulto. Lo spocchione, tutto dato alla crapula e al fasto, non vedeva né udiva. Dì e notte era ai conviti, vestito come un satrapo, grasso e rubicondo, esercitando la ganascia che aveva potentissima, inzeppando la ventresca che già diveniva badiale. Alle badìe infatti toglieva per impinguarsi; sequestrava le entrate delle chiese, le aziende dei mercanti, i beni delle comunità; prendeva l’oro a chi l’aveva, senza ritegno, ammutolendo con le minacce gli spolpati. Il tutto andava in ghiotteria e in scialo, in mantener buffoni e masnadieri. Così, mentre l’Orsino derubava e angariava di fuori, il medesimo egli faceva di dentro. Intollerabile era divenuto anche al popolo il giogo del villano. Costui non più si ardiva tener parlamento, per paura del furore improvviso. Il cardinal legato da Montefiascone minacciava la scomunica e il bando, il papa da Avignone esortava i cittadini che abbandonassero ai suoi errori l’uomo abominevole «la cui malizia strisciava qual serpe, mordeva qual scorpione, diffondevasi qual tossico». E il Petrarca, riconosciuta non senza rossore la vanità del suo lirico sogno, scriveva moltiplicando nella obiurgazione epistolare le figure e le sentenze: «Oh! che dirti potrei se non quello che Bruto diceva scrivendo a Cicerone? Sento vergogna di coteste vicende, di cotesta fortuna. Te dunque, che ammirò duca de’ buoni, oggi il mondo vedrà fatto satellite de’ ribaldi? Così per noi si mutaron le stelle, così nemico si fece il cielo? Dove n’andò quel Genio tuo salutare, col quale era fama che avessi tu continui convegni? Tanto eran grandi e incredibili le imprese tue. Ma a che m’affanno?... Io verso te correva, or volgo strada. Addio Roma, a te pure addio!» XXV. Senza ciance, i Colonnesi e gli Orsini di Marino lavoravano alla gagliarda. L’aumento su la gabella del sale, imposto dal Tribuno per pagare i mercenarii, esasperò i Romani già tribolati dalla carestia. Allora, pur tra i fumi del vino e i lazzi dei giullari, l’uom delirante udì il rombo della tempesta. E da prima il tremolìo intermesso della paura gli tenne luogo del solletico operato in sommo della gola dalle barbe della penna per vuotar col vomito il sacco e riempierlo ancóra. Ma, poco dopo, il tremolìo gli si converse in serramento che gli attanagliò stomaco e strozza e più non lasciò passar boccone. Finita fu la gran gozzoviglia capitolina. L’uomo non poteva né mangiare né dormire, di continuo agitato dalle larve e dai presagi. A ogni lieve romore, balzava in piedi credendo che crollasse il Campidoglio o che v’irrompessero nemici per uccidere. Al verso degli uccelli notturni, nascondeva il capo sotto i guanciali raggricchiandosi tutto nelle coltri. Per dodici notti un gufo malauguroso, quantunque scacciato dai servi più volte, tornò su la torre campanaria a gufare sinistramente agghiacciando le vene dell’insonne. Egli si sveniva come una femminetta, piagnucolava come un fantolino. Allora, per placare la sorte, cercò di raumiliarsi, di ritrar le corna in dentro, di farsi mansueto e pieghevole. Ricevette per suo compagno nel governo il vicario papale, si protestò obbedientissimo servo del Pontefice, rinunziò le pretese all’elezione dell’Imperatore, annullò i suoi decreti intorno ai diritti maiestatici del Popolo Romano, revocò le citazioni contro i principi alemanni, depose ogni potestà su i sudditi immediati della Chiesa, si spogliò financo dei titoli augusti per chiamarsi modestamente «Cola cavaliere e rettore per Nostro Signore lo Papa», appese all’altare della Vergine in Araceli tutti gli emblemi e tutte le insegne, infine per allontanare ogni sospetto di tirannide si mise allato un Consiglio di trentanove popolani. Ma sùbito scoppiarono dissidii tra costoro circa la gabella del sale e la nomina del capitano di guerra. Il popolo, mal disposto a un nuovo reggimento pontificio, negò l’ossequio al vicario. Questi accusò di doppiezza il Tribuno; minacciando, lasciò anche una volta la città e riparò a Montefiascone. Cola, rimasto solo, affannosamente si diede a riconciliarsi coi nobili, tolse dal carcere il Prefetto, tentò di stringere le nozze tra il figliuol di costui e la figlia di Giordano dal Monte, negoziò paci alleanze dedizioni. Ma, come più s’agitava, più si sprofondava il pusillo. La sua favola breve era compita. XXVI. Movendosi Lodovico re d’Ungheria a vendicare la vituperosa morte fatta in Aversa del suo fratello Andreasso e a racquistare il reame di Puglia, vennero anche in Roma ingaggiatori con mandato di levar soldati per lui. Un conte di Minerbino e paladino di Altamura, chiamato Giovan Pipino, con suoi fratelli conti di Potenza e di Nocera, stando adunque in Roma ad assoldare bande per l’Ungaro, commetteva ogni sorta di ribalderie e di ladrerie. Collegato con Luca Savelli e protetto dal cardinal vicario, si rideva delle citazioni tribunizie e imperversava con arroganza crescente. Ora, ai 15 di decembre, il Savelli fece affiggere alla porta della chiesa di Sant’Angelo un suo bando col quale invitava a una adunanza nelle sue case pel quarto giorno i suoi partigiani. Cola mandò un marescalco a lacerare il bando del sovvertitore e ad affiggere in suo luogo un atto d’intimazione a Luca perché comparisse nel termine di tre dì, sotto grave pena. L’officiale capitolino fu colto dalle genti del Pugliese e malmenato. Cola citò allora in giudizio il paladino di Altamura. Costui per risposta si afforzò nel circo Flaminio, alzò serragli e barre sotto l’arco di San Salvatore in Pesoli e in tutta la contrada dei Colonnesi, fece sonare a martello le campane della contrada, ragunò gente assai a cavallo e a piede, gridando: «Popolo! Popolo! Viva la Colonna, e muoia il Tribuno». Si trattava di menar le mani. Dov’era Giordano Orsini? La paura dirompeva al cavaliere dello Spirito Santo gomiti e ginocchia. Anch’egli fece sonare a stormo le campane. Per un dì e per una notte quella di Pescheria fu sonata del continuo da un giudeo; ma nessuno traeva a disfare le barre. Gli Orsini dal Monte non si mostravano; il popolo al romore si asserragliava nei suoi rioni e aspettava l’evento. Disperato il Tribuno mandò contro la forza dei ribelli un conestabile di nome Scarpetta; che rimase ucciso. E il buon giudeo si scalmanava tuttavia a scampanare a scampanare in Pescheria; e nessuno traeva alle barre; e Cola in Campidoglio «non sapeva che si facesse, sospirava forte, tutto raffreddato piagnea, sbigottito et annullato suo core era, non avea virtude per uno piccolo garzone». Così l’impresa del Liberatore si discioglieva in lacrimette e in balbettìo. Lacrimava egli e balbettava, lacrimavano e balbettavano i suoi familiari intorno, mentre il buon giudeo di lungi sonava senza riposo. Escito dal palagio, lasciando la sua camera piena zeppa di epistole dettate e non inviate, il notaro della Regola andò a rifugiarsi in Castel Sant’Angelo; e quivi si stette chiuso e celato alcun tempo, e lo raggiunse la moglie partitasi dalle case dei Lalli in abito di frate minore. XXVII. Dopo due dì, rientrò in Roma il vecchio Stefano Colonna con la sua fazione. E diede esempio memorando di magnanimità; ché non corse alle rappresaglie, non rinfocolò le ire, non perseguitò i congiunti del caduto né lui snidò dal suo rifugio, ma per evitare ogni dissenso gli ordinamenti mantenne e per dimostrare la sincerità della sua perdonanza diede in pubblico il bacio di pace al suocero di colui che aveva osato attinger l’acqua sanguigna dall’orribile pozza ov’era caduto il più bel fiore della virtù colonnese. Indi a poco rientrò anche Bertrando di Deucio e riformò lo stato abolendo tutti i decreti tribunizii ed eleggendo a senatori Bertoldo Orsini e Luca Savelli. I quali parvero ritrovare in Campidoglio il contagio del folle figuratore, poiché fecero dipingere sul muro Cola di Rienzo col capo in giù e a fianco di costui anche capovolti il cancelliere Cecco Mancino e il nepote Conte che teneva la rocca di Civitavecchia. A Civitavecchia erasi ricoverato il tremebondo; ma, quando il suo nepote fu dal cardinale costretto alla resa, tornò in Castel Sant’Angelo presso quegli Orsini che avevano combattuto per lui nel tempo delle fortune. Quivi la sua carne saginata, che però in tanto travaglio andava perdendo l’adipe accolto in sette mesi di buona pasciona, fu messa a prezzo. E parve così quasi avverarsi quell’augurio dei lepidi patrizii a cena, quando lui presagirono principe di Norcia se non imperator romano. Francesco Orsini, notaro pontificio in Avignone, mercatò per averlo e ingraziarsi il papa col darglielo nelle mani; ma perse tempo a stiracchiar la somma. Il suo nepote Nicolao trattava intanto con quel feroce Rainaldo di Marino che, non avendo perso memoria della trista notte di settembre passata in Campidoglio dopo la cena infida, voleva pagar di contanti la gioia del conficcarlo vivo in uno steccone del suo fosso; ma qui anche soverchio fu l’indugio del contratto. Volle il gioco della sorte che ambo i comperatori morissero di sùbito; sicché il mercatato ebbe salva la pelle. E, prima di mettersi al sicuro, trovò tempo e modo di far dipingere sul fianco della Chiesa di Santa Maria Maddalena in prossimità del Castello un’ultima allegoria d’un angelo calpestatore di draghi e di aspidi. Ma l’allegoria non ebbe effetto, anzi fu bruttata di loto e di sterco. Perduta ogni speranza di riscossa, Cola escì dalla città alla ventura, lasciando dietro sé la guerra civile la Compagnia del duca Guernieri e la pestilenza. XXVIII. Dove lo condussero il rammarico smanioso della signoria renunziata così stolidamente, il terrore delle persecuzioni papali indette contro l’eretico, la confusa angoscia del peccato, della penitenza, dei castighi celesti? Si bucinò ch’egli entrasse nel reame per chiedere soccorso al re Lodovico che vi aveva già vendicato Andreasso e riformata la terra. E chi disse che andò per mare sconosciuto su un legno; e chi disse che trattò col Nemico di Dio per cavalcar con lui sopra Roma e che, raccolto il denaro occorrente, il patto non ebbe séguito, perché il fratello di Cola si fuggì con la cassa; e chi disse perfino averlo visto in Roma aggirarsi ignoto tra i pellegrini accorsi alla perdonanza del Giubileo ed essere egli medesimo l’instigator segreto del verruto balestrato contro il cardinale Anibaldo. Il bandito pellegrinava ben più lontano, pei valichi dell’Apennino verso quel Morrone petroso ove s’erano inerpicati i tre vescovi per recare al fraticello scalzo l’annuncio terribile della sua assunzione. Certo, un numero sublime regola i passi dell’eroe colpito dal fato iniquo allorché, dopo avere stampata la sua più dura impronta su l’anima della stirpe, si rivolge verso il deserto, verso la rupe, verso la palude, verso la fiumana, tratto dalla necessità di rientrare nel silenzio originario ov’egli rimarrà solo co’ suoi pensieri inespressi che s’appiglieranno alla terra per infinite radici, solo con la sua verità disconosciuta che profondamente custodita nella terra si risolleverà domani fra gli uomini operosa quando il suo primo portatore si sarà disciolto e riconfuso nella malinconia del mondo. Ma l’appressarsi di quell’istrione stracco e rauco dall’aver troppe volte con bocca rotonda gittato al vento e alla plebe il nome ineffabile di Roma, l’appressarsi di quel rètore sgonfio a quell’aspra montagna tutta piena di anelito divino è senza alcuna bellezza, senza alcuna grandezza, in vero. Altare di sacrificio e d’implorazione tra i più venerandi, sollevato dall’ansia dello spirito sotterraneo verso i cieli troppo remoti, quella mole di sasso pareva nei secoli il fulcro dell’estasi umana. Nelle cavità polite e adorne dall’arte dell’acqua umile e casta, viveva un popolo di asceti perpetuamente rivolto verso l’oriental bagliore dell’Eletto ch’era per venire a purificare e rinnovellare il regno profanato. Il loro culto era di aspettazione vigile e trepida. Lo sposo novello della Povertà, il pastore angelico, sarebb’egli apparso nell’alba dell’ultimo orizzonte? o subitamente illuminato da un mattino paradisiaco sarebbe egli sorto di su la stuoia nella spelonca, risplenduto agli attoniti sul limitare, indi sceso dal monte alla pianura per compiere l’alta profezia? Essi vivevano aspettando, affrettavano con la preghiera la venuta, con la macerazione assottigliavano l’ingombro carnale perché l’anima potesse più facilmente ricevere il lume. E tuttavia talun dei più semplici dal vertice della rupe aprendo le braccia verso l’aurora ripeteva con bocca fedele il Cantico delle creature, o lo cantava a gran voce di giubilo simulando con due legni il gioco del liuto; e forse a vespro vedeva giungere per le vie dell’aria il Serafico e chinarsi con benigna letizia su la scodelletta di scorza a condirgli con l’olio dell’oliva umbra l’odorata erba alpestre o il legume farinoso. XXIX. Cola vestì la lana rozza con la stessa vanità con cui erasi composto nelle guarnacche di sciamito e di vaio. Non dimenticò la _regula dictatoria_ per la _regula paupertatis_. Si rimpinzò di cipolle per farsi modello degli Spirituali; si ingombrò di dottrine profetiche per improvvisarsi teologo. La Concordia il Decacordo il Comento, il Vangelo eterno di Gioachimo da Fiore, i vaticinii di Cirillo e della Sibilla, le Cronache delle sette tribolazioni, le glosse di Giovanni da Parma e di Pier Giovanni Ulivi, tutte le visioni e tutti i sogni suscitati dal turbine dell’Apocalisse in quanti affaticava l’ansia del Futuro, tutti si rimescolarono confusamente in quello spirito ventoso e caliginoso. Divenuto Gioachimita ardentissimo, egli per i due primi stadii del mondo — per il «carnale», compreso tra la creazione di Adamo e la natività di Cristo, per il «sacerdotale» fondato dal divino Figlio — discese al terzo stadio «monacale» che doveva iniziarsi con l’avvento d’un santo uomo eletto a riformar la Chiesa nella povertà. Or chi poteva esser mai questo angelico riformatore se non egli, Cola di Rienzo, lo scavalcato cavaliere del Paràclito? Simulando infatti la voce di un romito annunziatore dell’èra terza, volle egli persuadere a sé medesimo e ad altrui questa elezione. Non il buon frate Angelo da Monte di Cielo messaggero di Dio lo esortò a dipartirsi dall’eremo e a ridiscendere tra gli uomini per operare i novissimi prodigi, sì bene egli medesimo fu l’esortatore della sua follìa ribollita. «O Cola, a che t’indugi? Assai vivesti in solitudine. Or devi ricominciare a vivere per la salute dell’Universo. Il Signore ti ha scelto. Va, rècati all’imperator romano che nell’ordine è il centesimo, e tu assistilo qual precursore col consiglio e con l’opera. E non dubitare che Roma presto s’adorni della papale e imperiale corona, essendo già trascorsi i quarant’anni da che fu tolto a Gerusalemme il tabernacolo del Signore e rimasto per i peccati degli uomini lungi dalla sua vera sede». E l’industre gonfianùgoli imaginò che il romito per vie più incitarlo gli svolgesse sotto agli occhi i rotoli delle profezie di Merlino e quelli ov’eran trascritti i vaticinii incisi nelle due tavole d’argento offerte dall’Angelo a Cirillo sul monte Carmelo. In verità, anche questa volta la paura fu il più efficace stimolo al viaggio; ché egli seppe come l’arcivescovo di Napoli, conosciuto il rifugio, pensasse di prenderlo e di consegnarlo al cardinal Legato in Roma dove la memoria del Tribuno era tuttora viva e forse faziosa. Il terziario gittò la tonacella in un botro del Morrone e s’incamminò alla volta della Magna; valicate le Alpi, giunse alla città di Praga nel mese di luglio dell’anno 1350. XXX. Quivi capitò nella casa di uno speziale fiorentino; e lo pregò che lo presentasse a messer Carlo eletto imperatore per la Chiesa di Roma, volendo dirgli cosa di suo onore e di sua utilità. Il Boemo ammise al suo conspetto il pellegrino ignoto e gli consentì di esporre il messaggio. Allora Cola disse: «Fa vita santa in Montecelo un romito per nome Frate Angiolo; il quale ha eletto due ambasciatori, e l’uno ha mandato al Papa in Avignone e l’altro a voi Imperatore. Io sono quello». Il Boemo si chinò verso lo strano messo per iscrutarlo con que’ suoi grossi occhi di cane sagace, premendo il collo e il viso innanzi, com’era suo costume. Gli disse: «Parla, adunque». Il gioachimita parlò secondo la dottrina dei tre stadii. «Sappiate, messere Imperatore, che Frate Angiolo vi manda a dire che nel principio regnò sul mondo il Padre e dopo gli succedette il Figliuolo nella possanza; ed ora è la volta dello Spirito Santo, il quale deve regnare sul tempo a venire». Il gobbetto astuto, ch’era rimasto pelato de’ suoi peli per il beveraggio propinatogli dall’amor geloso della regina onesta, cessò dal tagliuzzar le verghette di salcio col coltelluccio, com’era suo costume e suo diletto nelle udienze. Avendo udito quell’uomo separare il Padre e il Figliuolo dallo Spirito Santo e avendo già notizia delle eresie di Cola, disse: «Sei tu colui, il quale io penso?» E l’altro: «Chi pensate voi ch’io sia?» E l’imperatore: «Io penso che tu sia il Tribuno di Roma». E questi: «Veramente io sono quel Cola a cui il Signore diè grazia di poter governare in pace in giustizia e in libertà Roma capo del mondo». E seguitò suo sermone presagendo una prossima strage di principi della Chiesa, la morte del pontefice, l’avvenimento di un pastore angelico, di un redivivo Francesco, che doveva iniziare la rinnovazione portentosa, edificando alla gloria del Paràclito un duomo assai più splendido del tempio di Salomone. «Questo pastore coronerà voi in Roma con un serto d’oro e me Tribuno con un diadema argenteo, a voi lasciando la signoria dell’Occidente, a me quella dell’Oriente. E saremo noi tre in terra l’imagine della santissima Trinità». Il Boemo, udendo tante favole, ricominciò a tagliuzzar le verghette di salcio e a movere i grossi occhi intorno; sì che pareva non attendesse alla diceria. Ma, com’ebbe finito Cola di sermonare, mandò Carlo per l’arcivescovo di Treveri e per altri vescovi molti, e per gli ambasciatori del re di Scozia, e per tutto il corpo de’ dottori, affinchè udissero i savii e giudicassero. Ed eglino giudicarono infette di eresia quelle dottrine e abominarono il dicitore. Il quale fu preso, costretto a distendere per iscritto il messaggio, e dato in custodia all’arcivescovo finché non giungesse la deliberazione del pontefice a cui l’imperatore aveva spedito l’empia scrittura sigillata col suo sigillo. XXXI. Stette Cola alcun tempo in Praga, trattato umanamente, passando i giorni a disputare con maestri di teologia. La sua facondia «faceva stordire quelli tedeschi, quelli boemi, quelli schiavoni». L’amico dei conviti, mal disposto alla frugalità francescana, si contentava di mangiare e bere all’alemanna; ché «assai vino, assai vivanda li era data». Per ingraziarsi il Boemo, gli disse: «Io sono del vostro sangue. Come Santo Alessio che, dopo il suo ritorno dal pellegrinaggio e sino alla morte sua visse sconosciuto nella casa paterna vituperato dai servi, io ben voleva tacermi. Ora parlo. Sono figliuolo bastardo di Enrico imperatore; sono del vostro sangue». E gli raccontò la favola della taverna, e magnificò anche una volta le sue imprese romane perché il Boemo non avesse a vergognarsi del parentado. Il gobbetto astuto aggrinzò nel sorriso le gote rilevate in colmo, e seguitò a tagliuzzar le verghette di salcio. Cola fu condotto in un triste castello su l’Elba; ove, afflitto dalla inclemenza dell’aria e dall’incertezza della sua sorte, passò lunghi mesi di prigionia confortandosi con la scrittura d’innumerevoli epistole, finché giunsero in Praga gli atti della inquisizione diretta contro di lui dal legato papale Giovanni vescovo di Spoleto. Il Boemo allora mandò l’eretico ad Avignone con buona scorta; e il papa lo ebbe finalmente nelle mani. Come Giovanna di Napoli, egli comparve dinanzi al collegio dei cardinali; ma non fu, come l’adultera, assolto. Fu rinchiuso nella più massiccia torre del palagio, con la catena al piede; e la catena era murata nella volta incrollabile! Narrava il Petrarca a Francesco dei SS. Apostoli avere il Romano evitato il supplizio per l’opinione che si era sparsa nel volgo esser egli un famoso poeta e come tale e da sì nobile studio santificata non potersi senza sacrilegio offendere la sua persona. Dell’antico laudatore aveva chiesto notizia il prigioniero sul primo entrare nella città, forse sperandone qualche soccorso, o perché la calda amicizia in quegli stessi luoghi nata gli tornasse alla mente; ma erasi ritratto nella solitudine di Valchiusa ad ascoltare la melodia del suo cuore doglioso colui che mirato aveva bella nel bel viso di Laura la morte. «Poteva egli aver compiuto in gloria i suoi giorni sul Campidoglio, e si ridusse invece con onta immensa della Republica e del nome romano ad essere prima da un Boemo e poi da un Limosino in carcere sostenuto!» deplorava colui che un giorno aveva anelato di avvolgere le mani entro i capegli dell’Italia sonnolenta per isvegliarla. Ma il Limosino, con improvvisa fortuna del catenato che pur riceveva «vitto assai sufficiente dalla scodella del Papa» e poteva leggere Tito Livio, si partì dal dolce mondo tralasciando la pompa decenne dispiegata con larghezza di re. E prese l’ammanto di Pietro il vescovo d’Ostia, sotto il nome d’Innocenzo VI, col proposito di ammendare la disonestà della Curia e di purgarla da ogni vituperio. S’adempiva la profezia di Frate Angiolo? Il nuovo Pastore disposava la Povertà? Così scaltramente seppe maneggiarsi Cola con questo uomo di buona vita e di non grande scienza, che assoluto perdonato benedetto fu posto a fianco del gran cardinale Egidio Albornozzo cui era commesso l’officio di pacificare l’Italia e di restaurare in Roma i diritti della Chiesa. XXXII. In Roma — corsa ogni giorno da quelle novità che non parevano a Matteo Villani degne di memoria «per i lievi e vili movimenti di quell’antica madre e donna del mondo» — era sorta, sul sangue orsino e colonnese versato alle barre nei tumulti d’agosto, una scimmia del Tribuno. Il popolo aveva gridato rettore della città lo scribasenato Francesco Baroncelli detto lo Schiavo «uomo di piccola e vile nazione, e di poca scienza»; ma, dopo quattro mesi di reggimento riformato su gli statuti toscani, lo aveva deposto a furia. La Signoria fu allora offerta al cardinal di Spagna giunto in Montefiascone; restituita fu al Papa la facoltà di porre suoi vicarii nel seggio senatorio. Se bene la novella della liberazione di Cola e il sentore della sua vicinanza già risollevassero nella parte popolare le memorie del primo tribunato e provocassero un certo fermento, il savio Egidio buon conoscitor d’uomini si guardò dal consentire alla designazione e insediò in Campidoglio Guido Patrizi. Memore dei suoi fatti d’arme innanzi a Taliffa e ad Algesira, il Conchese con ardita celerità, accresciuto dei diecimila uomini raccolti sotto la condotta di Giovanni Conti, sostenuto dalla lega di Firenze, di Siena e di Perugia, rinforzò la guerra contro il Prefetto di Vico pel recupero del Patrimonio. Vittorioso, coi Monaldeschi entrò in Orvieto; ebbe alfine curva ai suoi piedi calzati di ferro la nuca del ribelle, su cui pesavano tre scomuniche. Cola di Rienzo s’era ritrovato al campo con molti Romani; ai quali il rivederlo sano e salvo fuor di tanti pericoli pareva portento. Lo invitavano a rientrar nelle mura i cittadini «grandi lingue». E parevano ora gonfiarlo con l’arte sua istessa. Gli dicevano: «Torna alla tua Roma, curala di tanto male, siine novamente signore. Noi sovvenirti vorremo di favore e di forza. Non dubitare. Non mai tanto amato e addimandato fosti». Gli davano di queste vesciche i popolari e non un danaro. A parolaio parole, a promettitore promesse. XXXIII. L’Albornozzo lo tenne in Perugia, con scarsissima provvigione. Il reduce dalle spelonche francescane, il seguace della Povertà, fu preso allora dalla fame querula dell’oro, si diede tutto alla ricerca astuta, fu il sollecitatore insidioso dei mercatanti perugini, il frequentatore obliquo dei banchi e dei cambii, l’amico e l’emulo dei barattieri e dei truffardi, non ad altro inteso se non a lavorar buona pània da prendere merlotti. Ma i Perugini delle cinque Porte «feroci e d’agro consiglio», di continuo dediti a fare e a disfare leghe, a prendere e smantellar castella, a ricever terre in obbedienza e a venderle per contante, a batter moneta e a fermar leggi, a erigere Studii ed Archivii, a concedere cittadinanze e podesterìe, a rimetter Guelfi in patria e Priori in palagio, a ordire e a scuoprir congiure, a intraversar di catene e di barre i capi delle strade o a condurre in piazza la vena dell’acqua, a vender grano al papa o a beffarsi dell’interdetto, non aveano tempo né voglia di dare orecchio al cianciere floscio: governavano, guerreggiavano, mercatavano, edificavano: popolo di gran nerbo che pur allora dava consigliere al Legato in Viterbo quel Leggieri di Nicoluccio d’Andreotto forte di senno e di mano che doveva poi farsi capo dei Raspanti contro i Nobili. XXXIV. Non essendogli riescito di sedurre «con la dolcezza delle parole» i Signori Priori delle Arti che appunto nel giorno della Pentecoste sotto il Magistrato di Leggieri avevano incominciato ad abitare il palagio novellamente fatto, Cola pensò d’introdurre il suo miele e il suo vischio in quello Studio illustre che tra l’imperversare delle passioni civiche fioriva maravigliosamente. Nella scola di Giurisprudenza, già quivi illuminata dall’insegnamento di Cino ed ora dal divino ingegno di Bartolo, egli trovò infatti Messere Arimbaldo dottore di legge e Messere Brettone cavaliero di Narba fratelli carnali di Fra Moriale. L’uccellatore fu in gran giubilo, ché non poteva la sorte mandargli più bella presa. Ben sapeva egli come il friere di San Giovanni avesse dato in deposito ai mercanti di Perugia la molta moneta acquistata con le ruberie e con le taglie. Gli bisognava dunque trovar il modo di spillarne una parte. Se bene il Trivio e il Quadrivio figurati da Nicola Pisano fosser posti a bevere acqua continua intorno la fonte di Fra Bevignate, il notaro teologo si accomandò alla virtù del vin mero. Avviluppando il giovane e litterato Arimbaldo, volle sùbito con lui sedere a cena, trincare con lui. Tra l’una e l’altra coppa, versò la sua liquida eloquenza, rimescolò il latino di Tito Livio e quel dell’Apocalisse nelle celebrazioni della forza romana ripetute ornai sì gran numero di volte che perfino il vecchio leone serrato nella gabbia capitolina avrebbe potuto ruggirle a mente. L’effetto su l’animo giovenile fu prontissimo. Arimbaldo credette avere già in pugno la signorìa di Roma, vide sé già in vetta al Monte Tarpèo, vestito di porpora. Scrisse al devastatore della Marca: «Onorato fratello, più aggio guadagnato io in uno die, che voi in tutto lo tempo di vostra vita». E gli domandò licenza di togliere dal banco quattromila fiorini, perché Cola poneva a ogni sua cantafavola un medesimo ritornello: «A ciò fare bisogna moneta. In ciò moneta per cominciare bisogna, messere». Fra Moriale, uomo solito di far la misura rasa col fil della spada alle moggia dell’oro, tentennò alla richiesta. Egli odorava la follìa nell’avventura. Nondimeno, per amor del fratello, consentì; e il consenso accompagnò con l’ammonimento: «In primamente aggiate guardia che li quattro mila fiorini non si perdano». E anco promise che, in caso di malanno, verrebbe di persona al soccorso e farebbe le cose alla grande, secondo il suo costume. Intascati i fiorini, Cola non capiva nelle cuoia e nei panni per l’allegrezza. Per ciò panni mutò senza indugio, ma le cuoia serbò ai giudei dell’Austa. Il terziario del Morrone, pomposamente rivestito di guarnacca e cappa scarlatta foderata di vaio, su palafreno con sella alla gianetta e gualdrappa messa a oro, tra il dottore Arimbaldo e il cavalier di Narba, seguito da una turba di fanti e di donzelli, si partì per quella via che il figlio di Bernardone aveva stampata delle sue sante vestigia andandosene coi compagni verso Roma — al tempo di un altro guidapopolo chiamato Giovan Capoccio — per proporre al terzo Innocenzo la parabola della Povertà. XXXV. Il suo primo comparire dinanzi al cardinale Egidio, all’ossuto Spagnuolo domatore di tirannelli institutore di leggi e costruttor d’acquedotti, fu di paone tronfio che spieghi la coda e rimiri sue penne e dica crai-crai. Eccolo, il gesticolatore, figurato nella prosa dell’antico biografo come in una rozza pitturetta che su una parete della Suburra illustri la scena di un’atellana. «Mostravasi grosso, con suo cappuccio in canna di scarlatto e con cappa di scarlatto fodrata di panze di vari; stava superbo, capezzava, menava lo capo nanti e retro, come dicesse: Chi sono io? io chi sono? Poi rizzavasi ne le punte de li piedi, mo si alzava, mo si abbassava». Allora parlò e disse: «Legato, fammi senatore di Roma. Io vado e pàroti la via». Il volto ulivigno del Conchese, forte disciplinato nel dissimulare il pensier suo finché non fosse convertito in atto veloce, non mostrò forse né il disdegno né la pietà. Egli era ben l’uomo che, più tardi, richiesto di rendere i conti, doveva rispondere a Urbano V caricando un carro con le chiavi delle recuperate città e inviandoglielo senza motto. Considerò con l’occhio aguzzo il corpulento plebeo e, fattolo senatore, lo mandò volontieri _ad bestias_ ma senza dargli pur un tornese di viatico. Cola spedì un messo ad assoldare coi fiorini di Messere Arimbaldo duecento cinquanta barbute che, licenziate da Malatesta di Rimino, oziavano in Perugia. Con questi cavalli, con una masnada di fanti toscani e con alquanti perugini egli si mosse per alla volta di Roma. La fama lo precedeva. Il popolo si apparecchiava a festeggiarlo; la nobiltà stavasi in disparte, col piede nella staffa della balestra. Era il ferragosto dell’anno 1354, era il settimo anniversario dal giorno del lavacro nella conca di Costantino. XXXVI. Gli escirono incontro fino a Monte Mario i cavalierotti con rami d’ulivo e lo scortarono alla porta di Castello. L’entrata fu trionfale. Sotto la porta, nella piazza, sul ponte, per la strada ondeggiavano drappi, piovevano frondi, sonavano plausi e clamori. Giunto al Campidoglio, l’uffiziale del papa francioso rimpannucciato col denaro del ladron narbonese fece sua solita concione e si paragonò al re Nabucodonosor che, essendo la sua signoria giunta al cielo e pervenuta fino all’estremità della terra, fu scacciato d’infra gli uomini e per sette stagioni si rimase con le bestie e rugumò l’erba come i buoi e bagnato fu dalla guazza, tanto che il pelo gli crebbe come le penne alle aquile e le unghie come agli uccelli. Schiamazzava la plebaglia rimirando il notaro della Regola che imbestiatosi era per certo ma non parea già pasciuto d’erba né beverato di guazza, così ventroso e rubicondo, lucido di lardo e di sudore, con quella collottola e quella mascella più che badiali. Cresciuto bensì gli era il pelo ché aveva la barba lunga; e cresciute gli erano anche a tutto aggranfiare le granfie. Scioltissimo pur sempre lo scilinguagnolo ma molto ingrossato il fiato nella gargozza. E sùbito ricominciò egli a mandar suoi epistoloni insulsi per l’universo mondo, a spacciar sue spropositate promesse tra i perdigiorni, a spiccar suoi bandi e comandamenti goffi contro i nobili. Nominò capitani di guerra i due merlotti, Arimbaldo e Brettone; fece un tal Cecco da Perugia suo cavaliere e suo consigliere. Ma sopra ogni altra istituzione curò quella della dispensa, della mensa e della cantina; ché «distemperatissimo bevitore» era diventato, e giustificava la sua spaventevole sete con le scalmane prese nelle prigioni di Boemia. Non volle più conoscer acqua. Non soltanto a ogni ora del giorno e della notte mescolava nel suo otro il dolce e il brusco, il greco e l’ispano, l’albano e il trebbiano, il falerno e la malvasìa, il moscadello e il màmmolo; benanche si lavava con vin pretto le mani e la faccia. XXXVII. Chiamati all’obbedienza, i baroni non risposero. Dei Colonnesi l’orfano Stefanello, germano di quel Gianni che in un punto aveva lanciato il cavallo e l’animo oltre il limitare di Roma e dell’Eternità, non tralignava dalla sua progenie. Avendo composto nel sepolcro le terribili ossa dell’avo quasi centenni, unico superstite del suo ceppo egli si sforzava di tener ritta sul sasso di Palestrina la gran marmorea colonna contro il secolo procelloso. Come seppe il ritorno del villano battezzatore, si preparò a vendicare il sangue della pozza. Avendogli mandato il beone i cittadini Buccio di Giubileo e Gianni Caffarello per ingiungergli di venire all’omaggio, l’orfano ritenne i due messi, li imprigionò, fece a uno strappare un dente per ispregio, all’altro impose taglia di quattrocento fiorini d’oro. Con guardinga rapidità, condusse fuori della rocca le sue bande di arcieri, corse la campagna fin sotto le mura, menò gran preda di bestiame, si ritrasse, ricomparve, alternò la beffa e il danno, giocò d’astuzia e di destrezza, combattitore espeditissimo. Costretto dal mormorìo dei Romani, tirato su in arcione con gli argani, attorniato da una banda di famigli e di mercenarii Cola cavalcò fuor della Porta Maggiore, in ambio, ché il peso e l’ansima non gli consentivano altra andatura. Per la via Prenestina la sua gente sciamannata faceva vista di cercare tra i ruderi dei sepolcri. Tutta la campagna era muta e deserta, senza traccia di uomini e di bestie. La via tagliata nel tufo discendeva alla bassura del bulicame, risaliva pel dorso di Tor de’ Schiavi. E nulla era più miserevole di quella pinguedine pusillanime dondoloni in groppa a quella chinea grossa (sotto gli zòccoli ambianti risonava il lastrico antichissimo battuto un dì dalle coorti di Quinzio Cincinnato) mentre declinava il sole sul silenzio dell’Agro alla cui selvaggia grandezza s’erano talvolta agguagliati i nuovi sangui almeno per la tenacità degli odii per la ferocia delle oppressure per il dispregio della vita e della morte. Mormorava il tardo persecutore: «Che giova gire qua e là per lòcora senza vie?» E aveva paura del silenzio. Ma il buon mastro di guerra Stefanello co’ suoi lesti arcieri già traversava il taglio della rupe Sabina, passava innanzi alla cella del tempio di Giunone spingendosi innanzi la preda: ricoverava e le bande e le mandre di là dalle ruine dell’acquedotto, nella selva chiamata Pantano, presso il confluente; poi, fatta la notte, traeva il tutto alla ròcca in salvo. Cola volse per Tivoli; là sostò; là seppe, il giorno di poi, che la preda romana era già in Palestrina; furente, sfogò in millanterie, giurò l’ultima distruzione dei Colonnesi, scrisse gran numero di lettere, chiamò a sé le masnade mercenarie, rialzò il suo vecchio stendardo azzurro col sole e le stelle. Vennero i soldati pochi con bandiere trombe cornamuse e nàcchere molte; vennero Messer Brettone e Messere Arimbaldo capitani generali che avevano appresa l’arte della guerra dai giureconsulti dello Studio perugino per gareggiare col maggior fratello. Ma le barbute e i conestabili, come furono in conspetto del senatore, gli domandarono a gran voce le paghe; gli gridarono che combattere non poteano, avendo lasciato in pegno l’arnese. Prestamente il litteratissimo con una citazione dell’antiche storie foggiò una ciurmeria e per quella fu buono di trarre dalle borse dei due Narbonesi ancora un migliaio di fiorini. «Trovo nelle antiche storie scritto che in diffalta di pecunia il console adunò i baroni di Roma e disse: Noi, che teniamo le dignità e gli offici, esser dobbiamo i primi a donare secondo le forze di ciascuno. Tanta moneta sùbito fu raccolta, che la milizia ebbe tutte le sue paghe. Così voi due cominciate a donare; seguiranno gli altri l’esempio, e avremo denari a furore». I due impaniati nicchiarono ma non si ardirono contraddire alla dotta citazione; sciolsero di mala voglia le borse, e ciascuno diede cinquecento fiorini. La somma fu distribuita a tutta l’oste. Fatta la ragunata, Cola mosse all’assedio di Palestrina. Dinanzi alla cittadella ciclopica l’espugnatore atellano si diede a «capezzare» come dinanzi al chiuso cardinale Albornozzo. Levava dunque il capo, considerava le torri e il càssaro eccelso, rammemorava i più ingegnosi stratagemmi storici; poi diceva: «Questo è quel monte, lo quale mi conviene appianare». Ma le sue genti operavano fiaccamente, a quella calura d’agosto; non tagliavano gli alberi perché si piacevano di meriggiarvi all’ombra sazii di frutta. L’espugnatore seguitava a guatare il monte: vedeva entrar per le porte munite mandre di bestiame, lunghe file di giumenti carichi di salmerie; e domandava: «Quelli somarieri che vonno dicere?» Gli rispondevano: «Portano vettovaglie alla rocca». Ed egli: «Non si poterìa fare che non le portassero?» Gli rispondevano che troppo era aspra la fortezza del monte. Egli giurava allora, senza distogliere lo sguardo: «Mai non ti lento finché non ti consumo, o Palestrina». Una sera giunse al campo una femminetta e chiese udienza. Era la fante di Fra Moriale sopraggiunto in Roma con quaranta conestabili per mantener la promessa ai suoi fratelli e per vedere se fosse il caso di «far le cose magnifiche» secondo il suo costume. La fante, con l’animo di vendicare i mali trattamenti avuti dal suo padrone, riferì avere udito più volte il Narbonese far proposito di riscuoter suoi crediti pigliandosi la pelle lustra del senatore. D’improvviso il senatore levò l’assedio (era l’ottavo giorno) e di buon portante ritornò a Roma, pensandosi essere a lui più facile ordire la frode che condurre la guerra, e la cassa piena del malvagio friere giovargli assai meglio che il saettame del Colonnese scarno. XXXVIII. Sotto colore d’amicizia mandò egli a chiamare il fresco ospite, che venisse in Campidoglio co’ suoi fratelli e conestabili. Adoprato aveva la pania per invescare i due merli implumi; preparò la tagliuola per prendere il lupo rapace. Andò Fra Moriale, senza alcun sospetto, alla lieta accoglienza. Come fu giunto, si accorse d’esser incappato nell’ordigno e bestemmiò la sua balordaggine; ma non ebbe neppur tempo di mordersi le dita ché fu stretto in manette e in ceppi, legato inferrato imprigionato prestissimamente insieme con Brettone e con Arimbaldo. Cola ritrovava la celerità cesàrea. Dissimulando la cupidigia sotto la toga della giustizia, processò senza impaccio e indugio di procedura il friere di San Giovanni «come publico principe di ladroni, il quale aveva assalite le città della Marca, e di Romagna, e le città di Firenze, di Siena e di Arezzo in Toscana, e fatte arsioni e violenze e ruberie senza cagione in catuna parte, e molte uccisioni di uomini innocenti». Conobbe il friere come quello sbracato plebeo avesse più sete dell’oro che del sangue, e cercò maniera di fargli intendere che avrebbe comperata la libertà a qualunque prezzo. Consolava i fratelli con la speranza del riscatto. Rispondevano egli sospirando: «Deh faccialo per Dio!» Discesa la notte, il condottiero si addormentò raccolto in tondo alla guisa dei veltri, com’era uso nel campo sotto la tenda, facendo alla gota sostegno del braccio nerbuto; ché il manigoldo lo aveva alleggerito dei ferri infami. Scosso fu di sùbito nel primo sonno, condotto al tormento. Come vide la corda, si sdegnò contro l’audacia dei villani, attestò a gran voce la sua qualità di cavaliere spron d’oro, drizzò contro l’oltraggio il corpo e l’anima; né li curvò più mai fino al trapasso. Fece il novero delle sue imprese. «Capo della Grande Compagnia fui; e, perché cavaliere, venir volli ad onore. Prendere seppi e rivendere città, mettere taglie, terre guastare, uomini uccidere, femmine priemere. Quanto pesi mia spada sanno la Puglia la Toscana e la Marca». Dinanzi alla morte, la pervicacia del predone si accendeva di magnanimità. Ricondotto nel carcere, il priore dei Gioanniti domandò penitenza; e gli fu dato un confessore per acconciarsi con Domeneddio. Brettone e Arimbaldo nell’ombra si sforzavano di soffocare il singulto e il gemito, ma non tanto che non l’udisse il primogenito. «Cari fratelli, non vi dolete» parlò a conforto pacata e grave quella voce sì potente in levare e infrenare l’impeto dell’assalto e del saccheggio. «Voi siete anco in sul fiore come io era quando con la galèa di Provenza me ne andava in Levante, e la fortuna cacciò il legno arrenato nella bocca di questo antico Tevere ov’ella oggi m’ha pur ricondotto a perire. Predata e rotta fu la galèa, roba e arnese perdetti, ignudo scampai per la piaggia; dopo cinqu’anni fui vicario del Re d’Ungheria, tenni la città d’Aversa e il tesoro accolto. Di prima barba siete anco, dolci fratelli, e non conoscete ciò che è fortuna: i forti aiuta sebbene è fallace. Pregovi dunque che siate forti e savii e animosi al mondo come io fui, e che vi amiate e vi onoriate. Non temete, ché voi non morirete ora. Io morrò, e di mia morte non dubito. Mura di città non istimai se non quando erano da prendere; così la vita mia se non per dovermela conquistare ogni giorno. Ora penso che meglio m’è non avere potuto ricomperarla in contante, ché sempre di poi l’avrei avuta in dispregio come cosa rivendutami da un matto villano. Sono contento morire in quella terra dove transirono i beati Pietro e Paolo, nella misericordia di Dio avere pace, sul santo petto di Sire santo Giovanni posare. Su, fratelli, su, sangue mio buono! Per tua colpa, Arimbaldo, io uomo fui condotto in questo inganno come fantolino. Ma non ti dolere di me, non lacrimare. Sì bene vi sovvenga che non v’era pur ieri sopra me, o fratelli, meglio ammaestrato guerriero né meglio in arme né meglio a cavallo né di più sano consiglio né più ridottato». In questi conforti, la notte s’avvicinava al dì e cominciava l’alba ad apparire. Il friere sorse e volle udir messa. Ci stette scalzo, a gambe nude. Su l’ora di mezza terza sonò la campana, fu congregato il popolo. Condotto alla scalea del Campidoglio ov’era la gabbia del leone, il Provenzale ebbe pietà della fiera e fu allegro di morire. S’inginocchiò dinanzi all’imagine di Nostra Donna. Tre fraticelli lo assistevano. Il popolo silenzioso mirava la gentilesca grandigia del cavaliere vestito d’una roba di velluto fosco a liste d’oro. In piedi egli ascoltò la sentenza. Interruppe il lettore gridando: «Ahi Romani, e come consentite alla mia morte? Quale ingiuria da me aveste? E chi mai potrebbe oggi riformare a buono stato la città vostra miserabile, se non io che ridussi all’obbedienza col senno e col ferro Puglia, Marca e Toscana? Per la vostra miseria e per la mia ricchezza debbo oggi morire; ma trist’a voi, trist’a quel sozzo can traditore che m’ha fatto frode». Sentì fremito del popolo intorno; placato s’inginocchiò novamente innanzi alla Vergine. Come parvegli udire nella sentenza mentovar le forche, balzò di sùbito in piedi, pallido di corruccio, ergendosi di tutta la statura come per respingere l’infamia. Quelli che intorno gli stavano lo confortarono, che non dubitasse, che condannato era certo nel capo. Si acquetò allora; camminò con passo fermissimo al supplizio, verso la spianata del Monte Tarpeo. Il luogo era tristo e selvaggio, aduggiato dall’ombra delle alte forche, pascolo di capre, scalo di cordai, sparso di colonne infrante e d’oleastri contorti; onde scorgevasi la faccia travagliata dell’Urbe con le sue basiliche e i suoi chiostri, con le sue terme e i suoi circhi, con i suoi archi imbertescati e i suoi fori trincerati, col biancicore dei suoi marmi mezzo sepolti su cui le opere di mattone rosseggiavano quasi fossero costrutte di grumo impietrato. Egli volse in giro gli occhi grifagni; poi li affisò nella torre caetana delle Milizie fondata con possa ciclopica sopra il foro di Traiano. Il suo sogno di dominazione ripalpitò per un attimo su la cima del propugnacolo formidabile. Egli vide la sua Grande Compagnia, condotta dal conte Lando, cavalcare verso le terre lombarde a nuove prede, ignara della iniqua sorte. Disse: «Risollevare io voleva questa città vostra, o Romani. Ingiustamente muoio». Si accostò al ceppo, s’inginocchiò in terra, posò il capo a prova sul legno; poi si levò e disse: «Non sto bene». Si volse verso Oriente, a Dio si accomandò; di nuovo pose in terra i ginocchi; baciò il ceppo, e disse: «Dio ti salvi, santa Giustizia». Fece con la mano il segno della croce là dov’era per lasciar la vita, il segno baciò; si tolse il cappuccio bruno listato d’oro e lo gittò. Come la mannaia gli fu aggiustata sul collo, disse: «Non sto bene». E chiamò il suo medico di piaghe, ch’eragli presso con altri familiari. Il cerusico gli ritrovò la giuntura dell’osso e la indicò al carnefice. Tutto il popolo era intorno sospeso, rattenendo il respiro; i pastori guatavano da lungi attoniti; i mazzi della canapa risplendevano al sole d’agosto in cima delle aste tenute dai cordai; sì alto era il silenzio che si udiva il brucar delle capre negli sterpi. Al primo colpo mozza, la testa sbalzò. Al getto veemente del sangue si conobbe la potenza di quella vita. Pochi peli della barba rimasero nel ceppo. Sì netto fu il taglio che, quando i frati minori rappiccarono al busto il teschio, parve la grande spoglia avere intorno al collo un fil vermiglio. Tumulata fu in Araceli. XXXIX. Se Cola di Rienzo avesse avuto cuore di assistere allo spettacolo, avrebbe dal malvagio friere imparato almeno a ben morire. Aveva fatto appiccare Martino di Porto, il marito idropico di Monna Masia, per aver derubato la galèa di Provenza alla bocca del Tevere; e il giovane di Narba scampato al naufragio doveva in quel medesimo spiazzo ridursi sotto la mannaia del medesimo giustiziere! Percossi dalla magnanimità del guerreggiatore dinanzi al supplizio, i Romani mormoravano di rammarico e di corruccio. I più arditi già accusavano d’ingratitudine e d’avarizia colui che rimeritava con le catene il beneficio di Arimbaldo e publicava a sé il tesoro di Fra Moriale. Quegli adunò e arringò il popolo per acquietarlo, proponendo nella dicerìa una parabola impudente. «Faremo come fa lo trescatore: la pula manda al vento, il grano serba tutto per sé. Così noi avemo dannato questo falso uomo; e la moneta sua li suoi cavalli le sue armi terremo per far nostra briga». Dei centomila fiorini d’oro ebbe egli gran parte, il resto arraffò Messer Gianni di Castello; il papa ne sequestrò sessantamila nei banchi di Padova per incamerarli; i Fiorentini abbrancarono i depositi ch’eran nei banchi di Perugia. L’Albornozzo volle che Arimbaldo gli fosse mandato sano, e così fu fatto. Brettone rimase nella carcere capitolina, incatenato. Cola tra demenza e paura precipitava alla sua ultima onta. Levò nuove milizie contro i Colonnesi; creò capitano Riccardo Imprendente degli Anibaldi, buon mastro di guerra, poi a mezzo della ben condotta impresa lo cassò dalla capitanìa; pose nuove gabelle sul vino, sul sale, su altre derrate; mercanti e popolani grassi imprigionò per esigere riscatti; ultimamente, dandogli ombra il savio uomo Pandolfo de’ Pandolfucci antico cittadino e di grande autorità nel cospetto del popolo, senza colpa il fece pigliare e decapitare. Perduto ogni ritegno, sempre pieno di vino e di vivanda, attorniato da parassiti e da cagnotti di vilissima sorta, assunse apertamente abito e modi tiranneschi ma senza il nerbo della tirannìa. A guardia della sua persona levò cinquanta uomini per rione pronti allo stormo ma non li pagò. La mobilità dell’opinione e del sospetto travagliava la sua corpulenza pigra, come nuvolo d’estri affatica vacca da macello. Sermonando nel consiglio, dava in crosci di risa in scoppi di singulti. Rideva e lacrimava a un tempo; traballava nelle vertigini, s’arrovesciava nelle sincopi. Sobbalzando nel letto, tendeva l’orecchio alle strida degli uccelli notturni. XL. Ben altre strida gli giunsero di sùbito un mattino d’ottobre in su la nona mentre poltriva, essendosi lavata la faccia col greco secondo il costume. «Popolo! Popolo!» L’infamia della morte di Pandolfo aiutava nell’intenzione i Colonnesi e i Savelli. Con rapido movimento, ragunati i partigiani, dai rioni Colonna Trevi Sant’Angelo e Ripa cominciarono a levar rumore, corsero all’arme, escirono in moltitudine contro il Campidoglio gridando: «Popolo! Popolo!» I quattro torrenti ingrossavano e infuriavano sboccando nella piazza, invadendo le scale, cingendo il palagio d’ogni parte, battendo lo steccato e il muro onde Cola aveva chiusi gli intercolonnii della loggia. E la voce si mutava, tra la grandine delle pietre, urlo d’uomini di femmine di fanciulli concorde e implacabile: «Mora, mora il traditore! Mora chi ha fatta la gabella, mora!» Tuttavia intorpidito, levatosi sul cubito ascoltava il poltrone gli strepiti pensandosi che leggiere gli sarebbe sedar la sommossa con una arringa; poiché allora allora eragli giunta la lettera della conferma papale da publicare in consiglio. Si levò a chiamar la sua gente. Non rispondeva, non veniva alcuno. Giudici notari scribi camarlinghi famigli, tutti avevan già procacciato di campar la pelle fuggendosi; molti di loro s’eran anzi mescolati alla calca dei gridatori e soffiavano nella furia le lor vendette. I richiami affannati echeggiarono nelle sale deserte. La faccia di Cola mutò in livido il vermiglio, sotto il mollore del vin greco, quando gli venne innanzi con due soli fanti il suo parente Lòcciolo pellicciaro, vilissimo barattiere, pidocchio riunto. Crescendo il subbuglio, grandinando in su le mura sassi e quadrella, crepitando già nel legname la vampa, il senatore sbigottito chiedeva consiglio al venditor di fòderi. Cercava anco più disanimarlo costui, deliberato in cuor suo d’ingraziarsi la canaglia cacciandole nelle fauci la vittima obesa. «Non irà così, per la fede mia!» sclamò Cola riscotendosi; e la sua fede fu nella virtù dell’apparato e del sermone. Si vestì di tutt’arme a modo di cavaliere, si cinse il panzerone e il batticulo in tutto il tondo, s’infilò il sorcotto di porpora, si calcò la barbuta su la cuticagna, afferrò il gonfalone del Popolo, e così guernito se ne venne alla sala maggiore che aveva balconi di dietro e d’avanti per il traverso del palagio. Solo si affacciò; distese la mano verso il tumulto. Un nembo spesso di urli, di sassi, di dardi lo ributtò contro lo stipite. «Mora, mora!» Tentò egli agitare al vento del furore lo zendado in cima all’asta, additar la leggenda solenne _Senatus Populusque Romanus_. Un verruto lanciato da una balestra lo colse nella mano; le pietre gli ammaccarono l’arnese. Udiva egli i colpi nelle porte a sconquasso, salire sentiva l’ardor del fuoco appiccato al legname della steccaia e del ponte in sommo della scala perigliosa. Non potendosi più sostenere, si volse; e scorse Brettone di Narba aggrappato come pardo allo spiraglio della carcere, che rispondeva al popolo. Rivide l’odio e il sangue di Fra Moriale negli occhi del fratello superstite. Si ritrasse, preso dal terror gelido, cercando una via qualunque di scampo. L’ànsima lo soffocava, l’inutile ferrame gli impacciava le mosse. Trovò tovaglie da tavola, le annodò insieme, compose una sorte di canapo, se lo legò alla cintola, dai due fanti si fece discendere allo scoperto dinanzi la prigione del Tabulario. I prigionieri alle inferriate gli ulularono contro come lupi bramosi di addentarlo. Egli temette e arretrò, se bene avesse sopra di sé le chiavi. Si sporgeva Lócciolo intanto dal balcone d’avanti e faceva segni al popolo mastino che la bestia grossa se n’era scesa dall’opposta parte. Poi correva al balcon di dietro e confortava il parente soffiandogli che non dubitasse; e anco tornava alla canea e cennava la via buona per la presa. Stordito dal clamore e dal fragore incessanti (rapinoso ruggiva l’incendio alle porte), disperato della fortuna egli tentennò alcun tempo su le gambiere tra la paura dello strazio e l’ignominia della fuga. Si cavò la barbuta e la gittò a terra; incominciò a spogliarsi dell’arme. La vergogna gli ghiacciò le giunture delle braccia. Si chinò, raccolse i pezzi dell’arnese per rivestirseli. Un’ultima imagine delle antiche storie gli balenò nel cervello sconvolto e lo trasse al proposito di affrontare il periglio come eroe. Ma fu breve fervore, che la bestialità cieca del ventre vinse ed estinse. Nell’ora in cui il sangue degli uomini non può mentire né ciurmarsi, la severità della sorte inflessibile lo forzò a escir della porpora non sua per rientrar nel suo cencio. Figlio di taverniere tornò dinanzi alla prova il Tribuno augusto. Impiastrata d’olio e di pégola la prima porta fiammeggiava come fascio di sermenti. Le travi del solaio schiantandosi, la loggia era per piombar giù disfatta. Le lingue del fuoco già lambivano la porta seconda, che crepitò, arida come l’esca. Le schegge e le faville rompevano il fumo atro del bitume. L’ardore e il clamore incalzavano. S’udiva a quando a quando il ruggito del leone capitolino superare il tumulto. Il fuoco e la morte, le due purità del mondo, chiamavano l’eroe al gran paragone. E Cola svignò lesto nella casìpola del portinaio; ansando si liberò d’ogni ferro e d’ogni insegna; la spada lasciò per le forbici e per il paiuolo; con le forbici si tagliò la barba, col paiuolo si fregò la faccia. Così tonduto e filigginoso, tolse un tabarro consunto e di quello s’inviluppò; tolse un fascio d’una materassa con altri panni dal letto e sei mise in capo. Escì villano come nato era. Di corsa passò per mezzo all’incendio, traversò la loggia pericolante, scese la prima e la seconda scala senza essere conosciuto. Imitava la parlatura della Campagna dicendo agli altri: «Suso suso a gliu traditore. Suso a rubbare, che c’è robba assai». Passata l’ultima porta, quando era già quasi al sommo di scampare, l’occhio aguzzo di tal ch’egli aveva offeso, l’occhio infallibile dell’odio così col fascio in capo lo raffigurò. Gli vide il nemico luccicare ai polsi i braccialetti e lo conobbe più certo. «Dove vai tu?» gli fece, abbrancandolo. Sùbito gli strappò di collo quella materassa e il tabarro; lo discoperse al cospetto del popolo, gridando: «Ecco ecco lo traditore». D’intorno il tumulto cessò a un tratto; le mille e mille braccia, levate a percuotere e ad ardere, ricaddero. Solo il nemico non lentò la presa ma con la branca gagliarda trascinò la vittima anelante giù per la scala fino alla gabbia del leone, dove udito aveva la sentenza il friere prode di Santo Giovanni. Quivi lo spinse e lo lasciò senz’altro dire. Niuno apriva bocca. Stupor grande teneva il popolo. Grande silenzio era fatto intorno. S’udiva il ringhio della belva chiomata e l’ànsito dell’uomo corpulento. Stava costui discinto, sol col giubbetto verde che avea sotto l’arme e con le calze vermiglie: erangli rimasti agli omeri i musacchini, il cosciale alla destra coscia, una mezza falda su l’anca. Soffiava e guatava, col ceffo impiastrato di filiggine, simile a un fantoccio abbozzato e stoppato per chiasso da quella marmaglia istessa ch’era per isfondarlo. Guatava e biasciava, non potendo formare parola, ché il terrore gli aveva annodata la lingua nella chiostra dei denti. Balzò fuora dalla calca Cecco del Vecchio con lo stocco in pugno, e gli dié un colpo diritto nella ventraia; onde escì l’anima con sibilo come vento da otro forato. Lo spaventacchio barcollò alquanto su le rosse gambe; ma, prima ch’ei stramazzasse, Treio notaro gli spaccò il cranio con un fendente. Piombò giù di schianto la soma, senza motto né gemito. Allora gli si scagliarono sopra urlando i più feroci e tutto lo stamparono co’ ferri, a gara lo crivellarono, le mani gli orecchi il naso le pudende gli mozzarono. Poi, presigli in un cappio corsoio i fùsoli delle gambe, lo trascinarono fino alle case dei Colonnesi in San Marcello. Quivi giunti lo appesero per i piedi a un poggetto, con gran festa e gazzarra lo lapidarono. Penzolava giù senza il teschio, ché quel poco lasciatogli dai ferri erasi logorato nel lungo stràscino. Nudo era, di pelle come femmina bianco dove sangue non l’arrossava; e, al modo dei bùfoli in beccheria, dalla sparata grassezza le interiora ancor fumide sgorgavano mal ricoperte dalla rete lacera. Quivi rimase al publico ludibrio due dì e una notte, finché non ebbe appestato col gran fetore quel capo di strada. Per comandamento di Giugurta e di Sciarretta Colonna calato giù dal poggiuolo, fu tratto al campo dell’Austa, al luogo del Mausoleo imperiale, e dato alla rabbia dei Giudei sozzi che l’ardessero. Gli fecero costoro un rogo di cardi secchi, e in gran numero accorsero intórnogli ad attizzare il fuoco che nudrito dall’adipe vampeggiava forte. I vènti ebbero la cenere, i secoli la memoria, gli uni e gli altri discordi. Così scomparve il Tribuno di Roma. E l’Urbe stette su’ suoi colli sola co’ suoi fati e co’ suoi sepolcri. APPROVAZIONI. _A dì 30 novembre 1905._ _Noi appiè sottoscritti Censori, e Deputati, riveduta a forma detta Legge prescritta dalla Generate adunanza dell’Anno 1705 un’operetta del Signor Cavaliere Gabriele d’Annunzio, intitolata_ La Vita di Cola di Rienzo, _non abbiamo in essa osservati errori di lingua._ L’INCISCRANNATO } Censori dell’Accademia L’INARCOCCHIATO } della Crusca L’INCANCHERITO } Deputati. L’INCAPOCCHITO } _Attesa la sopraddetta relazione, si dà facoltà al Signor Cavaliere Gabriele d’Annunzio di potersi nominare nella pubblicazione di detta sua operetta Candidato perpetuo della Crusca e cognominare in conseguenza Lo Immaturo._ IL SOLLECITO ARCICONSOLO. _Il Signor Filippo Pieruzzi Canonico della Metropolitana Fiorentina si compiaccia di leggere con la sua solita attenzione la presente operetta intitolata_ Vita di Cola di Rienzo descritta da Gabriele d’Annunzio ec., _e di riconoscere se in essa vi sia cosa alcuna repugnante alla Santa Fede Cattolica, ed a’ buoni costumi, e referisca._ _Dat. il 7 novembre 1912._ IL VICARIO GENERALE. _Di Commissione di Monsign. Illustrissimo Vicario Generale è stato da me infrascritto letto il libretto intitolato_ Vita di Cola di Rienzo descritta da Gabriele d’Annunzio ec., _nel quale nulla ho trovato, che alla nostra Santa Fede, o ai buoni costumi repugni; ma bensì sparta per tutto, ed unita alla sceltezza dell’erudizione, una mirabile vaghissima proprietà, e struttura di voci, che senza lasciar di esser prosa, non manca del brio, e della gentilezza del verso; onde parmi potersi dire con verità, non essere in questo componimento disgiunte in alcun modo le Grazie dalle Muse._ _Di Casa, questo dì 15 novembre 1912._ Canonico FILIPPO PIERUZZI. _Attesa la soprascritta relazione si stampi._ IL VICARIO GENERALE. _il Nobile Sig. Telesforo Cerusichi, Consultore di questo S. Offizio, di Commissione del Padre Reverendissimo Inquisitore, si compiacerà con la sua solita attenzione rivedere la presente operetta intitolata_ La Vita di Cola di Rienzo descritta da Gabriele d’Annunzio ec., _con riferire poi, se si possa permettere alle stampe._ _Dat. dalla S. Inquisizione di Firenze il dì 28 novembre 1912._ FR. BARTOLOMMEO NAPPA DA PULICIANO Minor Conventuale Vic. Gener. del S. Ufizio di Firenze. _Reverendissimo Padre Inquisitore. In ubbidienza dell’ordine datomi dalla Paternità Vostra Reverendissima, ho letto con l’attenzione commessami la presente operetta intitolata_ La Vita di Cola di Rienzo descritta da Gabriele d’Annunzio ec., _e non ho in essa trovata cosa veruna repugnante alla nostra Santa Fede, o a’ buoni costumi. Ma con somma mia consolazione ho ammirata l’eloquenza, l’erudizione, e la copia de’ vezzi e delle gentilezze della lingua in sovrano grado posseduta dal chiarissimo Maestro, già noto, e celebre per altre sue opere, applaudite da tutta la Repubblica Letteraria nell’Universo Mondo, avendo unito al dolce di perfetta Lingua Toscana, l’utile di singolarissimi insegnamenti; onde lo giudico degnissimo della pubblica luce della stampa, per comune ammaestramento._ _Di Casa, 5 decembre 1912._ TELESFORO CERUSICHI mano prop. _Stante la sopraddetta relazione si stampi._ FRA BARTOLOMMEO NAPPA DA PULICIANO Min. Conv. Vic. Gen. del S. Offizio di Firenze. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "La vita di Cola di Rienzo" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.