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Title: Il libro dei miraggi Author: Jolanda Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Il libro dei miraggi" *** JOLANDA Il Libro DEI MIRAGGI ROCCA S. CASCIANO LICINIO CAPPELLI EDITORE 1894 Proprietà letteraria Rocca S. Casciano Stab. Tip. Cappelli. _Al principe Aprile_ _la Dama d’Autunno_ _Dal Regno delle favole, 1894._ Forte come l’Amore Clotilde entrò un poco sbadatamente, cantando, nel salotto terreno della villetta dove accanto alla nonna che raccomodava il bucato, suo fratello declamava con molto fervore, leggendo. C’era anche il loro vicino, l’avvocato Dardanelli. — Ssss! — le fece questi con un’energia così brusca che la inchiodò sulla soglia, muta, sorpresa. Ma Roberto aveva già lasciato ricascare sulle ginocchia le mani, che reggevano il manoscritto, in atto di scoraggiamento. — Quella sgarbataggine... — cominciò a rimproverare seccamente la nonna, levando la testa piccina e ossuta dall’enorme lenzuolo che la seppelliva ammonticchiandosi su una sedia di contro. E dopo un momento di silenzio generale disse a Roberto, guardandolo attraverso gli occhiali amorosamente: — Continua. — No, è inutile, — mormorò il giovane con languore annoiato; — già a me quella spensieratezza ignorante mi fa sempre l’effetto di una secchia d’acqua sul capo. — E corrugò le sopracciglia, passandosi una mano fra i capelli biondi e fluenti, come se la secchia lo avesse inaffiato davvero. — Io son fatto così, che vuole? — riprese sorridendo a fior di labbra all’avvocato e alla nonna che lo guardavano costernati; — un nonnulla, in certi momenti di emozione artistica intensa, basta a smontarmi, a prostrarmi per chi sa quanto... — E dopo un guizzo nervoso piegò il manoscritto dispettosamente e si levò. — Questi poeti moderni sono pile di Volta, — osservò blandendo l’avvocato, mentre la nonna continuava a fissar Roberto con un po’ d’inquietudine. — Se avessi immaginato, — entrò a dire la ragazza punto intimidita, — non sarei certo comparsa e, se volete, me ne vado... Roberto fece una mossaccia ed uscì. — Ci siamo! — sbuffò la vecchina. — Tu, cara Clotilde, fai e dici sempre delle sciocchezze. Mi pare che oramai dovresti conoscere tuo fratello. Già, non c’è rimedio, ci vogliono dei riguardi... Quella gente là non è come noi, è fatta ad un altro modo, vive in tutt’altro mondo. Con tutte quelle idee nel cervello, sfido io! E pur troppo in ogni tempo e in ogni luogo ci fu e c’è qualcuno che li disconosce, che li deride... Pare impossibile! Roberto, che, per buona sorte, è cresciuto in un ambiente dove tutti lo apprezzano e lo ammirano, deve aver per sorella quella monellaccia là che non capisce niente.... Clotilde non sorrise e continuò a tagliarsi le unghie con le forbici della nonna, ritta in faccia a lei, contro lo stipite della porta che s’apriva sul giardino, più seccata dalla presenza e dagli sguardi dell’avvocato, che dalla ramanzina della signora Rita. Gli occhi di Dardanelli, tondi, piccoli, bruni, maliziosi nel faccione paffuto, quegli occhi impuri che parevano denudarle corpo e anima, la urtavano terribilmente. Quindi con bel garbo gli voltò le spalle, borbottando più per disimpegno che per altro: — Roberto _posa_, nonna mia... — Sentite chi parla di _pose_! — esclamò la nonna con un atto di desolata meraviglia. — Chi parla di _pose_! L’ha intesa, avvocato? Lei che fa la donna emancipata a quel modo! Lei che ha suscitato un mezzo scandalo con la fissazione di quegli studii... Zitta, zitta per carità! Clotilde sorrise, questa volta, continuando a rimaner voltata in là a capo chino. Intanto l’avvocato mangiava cogli occhi quelle spalle svelte, quella vita sottile, tutto quel bel corpo giovanile e fiorente costretto nell’abito nero da cui usciva libero e nudo il collo fresco, velato di capelli biondicci sfuggenti al voluminoso nodo fissato con uno spillo d’argento sulla sommità del capo. — Va là col tuo tanfo d’acido fenico — brontolò la nonna con disgusto. — Non mi ci avvezzerò mai. Clotilde scese il gradino di pietra e fece qualche passo nel giardino verde, fiorito, odoroso. Era un tramonto di primavera, roseo, diffuso, come un’aurora. Ma la nonna la richiamò quasi subito, ed ella dovè voltarsi, tornare indietro. L’avvocato la guardava avvicinarsi lenta, a capo chino, occupata sempre delle sue unghie, spiccando nettamente nella limpidità dell’aria; un ultimo raggio d’oro rosso le ravvivava il biondo scuro dei capelli. Si fermò a piè dello scalino senza sollevare il viso nè gli occhi; era assai pallida, sbattuta, e le lentiggini della sua pelle fina apparivano tutte su su fino nella fronte, che i capelli rialzati alla giapponese lasciavano scoperta. — Signora medichessa, faccia il piacere di terminare quest’orlo intanto — disse più ironica che scherzosa la nonna cedendole il suo posto accanto alla finestra, e uscì. La ragazza sedette un tantino soprapensieri e si tirò metà del lenzuolo sulle ginocchia. Poi si avvide di esser troppo vicina all’avvocato e con un moto quasi di ripugnanza ritrasse la scranna fin sull’estremo dello scalino di pietra. — Perchè s’allontana? — le chiese Dardanelli con la sua voce fessa e nasale che aveva una intonazione di dolcezza. — Cerco la luce, non lo sa che sono miope? — e il volto di Clotilde si colorì leggermente, fuggevolmente. — Non sarebbe una qualità per una medichessa, — seguitò l’avvocato, accostando ancora la sua sedia a quella di lei. — Non mi chiami così, la prego! — Ell’era quasi supplichevole. — Peno abbastanza a sopportare tutti i giorni le canzonature stizzose della nonna e le smorfie sprezzanti di Roberto, senza contare tutta la buona gente che scandalizzo e che mi regala le sue meraviglie, le sue disapprovazioni, i suoi consigli... Come se non sapessi ancora ciò che faccio, come se fosse peccato... — La sua voce oscillava. — E anche sua moglie, sa, anche lei... — Oh lasci stare mia moglie; è una grulla — s’affrettò a dire Dardanelli, che le alitava il suo fiato caldo sul viso. — La nonna è una vecchina all’antica. Roberto è tanto nelle nuvole... A me invece piace che le donne, quando sono belle come lei, s’emancipino così. Se ci saranno molte medichesse come lei, vedremo i medici in liquidazione... e gli ammalati maschi in aumento — finì sorridendo. Clotilde sentì l’offesa e fece spalluccie. Dardanelli le sfiorava la persona col suo corpo obeso. — Io ammalerò di certo... Se ammalerò verrà a curarmi? — le chiese ancora con la sua vocetta che si stemperava nella tenerezza. — Io no. Mi dedico alle malattie delle donne e dei bambini, lo sa pure... — cominciò lei, ruvida; ma s’interruppe con un sussulto. Il braccio di Dardanelli le allacciava la vita. — Impazzisce? — gridò Clotilde indignata, ribellandosi; — impazzisce? — E siccome l’avvocato la stringeva più forte, essa con l’ago gli punse la mano, violentemente. Dardanelli si ritirò subito con un moto frettoloso e grottesco, soffocando un’esclamazione di dolore. — Quanto male mi ha fatto!... — mormorò poi, occupandosi della puntura con quell’importanza esagerata e quell’inquietudine propria del sesso forte per le ferite di questa arma esclusivamente femminile, un’arma da silfo, fatta d’un minuzzolo di raggio siderale: — Guardi quanto sangue! lei che doveva guarirmi... — Ho imparato che si guarisce anche facendo del male, — ribattè la ragazza, rude, andandosene. — Si badi; — è un saggio. Ella non sapeva d’esser tanto indovina dicendo queste parole. * * * A notte alta, Clotilde, vegliava sola nella sua camera. La lucernina a petrolio, velata d’un bianco perlaceo, pioveva una luce chiara e tranquilla sulla giovine testa bionda china sul libro, e si diffondeva mite a lambire le pareti grigie a mazzi di rose. Nel fondo biancheggiava un letto stretto, monacale, su cui era un gran quadro di cui si vedeva soltanto rilucere la cornice. Un altro quadro stava appeso nell’angolo dov’era il tavolino di Clotilde, tra le due finestre: il ritratto a olio d’una donna giovine vestita di velluto nero con un piccolo collare di trina. All’abito austero, alla posa rigida e convenzionale faceva contrasto il volto quasi infantile, dall’espressione dolcissima e dallo sguardo amoroso rivolto verso la fanciulla con quel non so che di mesto, di stanco, di assorto, che hanno i ritratti dei morti non dimenticati. E sulla fanciulla, che studiava assidua, protetta da quello sguardo, fra i cortinaggi di velo delle finestre, alti e candidi come ali, nella solitudine feconda di quelle pareti gaie e silenti, parevano scendere benedizioni. Sul tavolino, fra l’aridità dei libri di scienza, dei trattati di patologia e di farmacologia, dei cartolari, delle boccette d’inchiostro, la nota delicata, femminile: un mazzolino di viole e un ramo di biancospino in un bicchiere. Clotilde leggeva, segnando in margine qualche periodo o qualche parola colla matita che si picchiettava poi sui denti stretti con un movimentino che pareva distrazione, ma che in lei caratterizzava il massimo dell’occupazione del pensiero in qualche cosa. Le viole e il biancospino odoravano forte sotto il calore del lume che li avvizziva; in lontananza, nella campagna, un cane abbaiava con insistenza noiosa e s’udiva fioco e continuo il gracidare delle rane. A lungo la testa bionda giovanile rimase china sui libri e sui quaderni di appunti; a lungo la lucernina diffuse luce e tepore nel silenzio che, inoltrando la notte, pare addensarsi sempre più come un velario invisibile e isolatore, intorno a chi veglia nelle case addormentate; Clotilde non ebbe uno sbadiglio nè un atto di stanchezza. Quando guardò l’orologio nascosto nella cintura, fece un atto incredulo di stupore. Erano le tre. Possibile! le tre? quasi cinque ore di studio continuo sfumate in un baleno! Era proprio una vera passione la sua, oh si! tanto forte da raccogliervi intorno tutta la sua giovinezza rigogliosa, fiorita di sogni. Sogni strani, d’una purezza immacolata, un po’ livida, un po’ mesta, un po’ fredda, come ogni grandiosità: imprese, uomini, cose. _Pace summa tenent_ era il motto che aveva scelto: pace, ma non quella di morte! La morte essa l’avrebbe combattuta, accanitamente, con tutte le forze del suo ingegno e della sua vita, l’avrebbe vinta, incatenata, fugata sventolando il vessillo della scienza in cui credeva con la fede ardente e cieca di una neofita; a cui benediva come ad un ideale di verità e di bellezza; a cui tendeva le braccia come alla felicità. Forse l’avrebbe trovata, lei, la felicità. L’avrebbe trovata in quel romitaggio splendido e austero dove sono così pochi gli eletti, così pochi quelli che vi ascendono, molto amando! La gloria, una posizione rispettabile, l’interesse materiale, ecco, — pensava Clotilde, — l’esca di quasi tutti i giovani studenti di medicina; ed anche quelli che hanno la vocazione vera, viva, sincera, sfrondano così presto i loro begli entusiasmi! perdono così presto la loro fede gioconda! — Ebbene, lei no: lo sentiva. Aveva un tesoro di volontà tenace e di amorevolezza; queste doti eminentemente muliebri, che fanno le eroine. Poi, la pietà. La pietà, la nota fondamentale del suo carattere, affinantesi qualche volta morbosamente. Da bambina era svenuta vedendo dei monelli tormentare un cagnolino cucciolo; e quando la nonna portava, implacabile, al gatto la trappola che conteneva il topolino smarrito e umiliato, c’era ogni volta una scena di singhiozzi e di preghiere che lasciavano la bimba nervosa per tutta la giornata. Si ricordava anche di aver vuotato tutto il contenuto del suo salvadenaro nel grembiule di un manovale, per riscattare un passerotto intirizzito, ed anche, lei, così mite e tranquilla, d’aver amministrato una buona dose di scapaccioni al fratellino che strappava le ali a una farfalla viva. Quando cominciò a frequentare la scuola e a formarsi la sua piccola esperienza intorno alle ingiustizie e alle miserie della vita, le generosità spontanee, le delicate abnegazioni divennero per lei un’abitudine, una necessità. Compagne scusate e protette, merende divise, compiti fatti di nascosto per qualche bambina poco intelligente e volonterosa, regalucci, elemosine, e con tal frequenza che la nonna aveva dovuto avvertir la maestra, poichè le bimbe più astute, con un po’ di commedia, la svaligiavano. Una sera, in principio d’inverno, era tornata a casa coi piedi nudi negli stivalini perchè aveva dato le sue calze nuove di lana a una bambina che piangeva dal freddo ai piedi. I suoi giocattoli, specialmente le bambole, andavano tutte, una dopo l’altra, a consolare qualche dolore infantile, a rallegrare qualche malatina, a far dimenticare qualche digiuno... pronta a pigliarsi poi con filosofica rassegnazione i rabuffi della nonna ed anche qualche correzione più spiccia dispensata dalle mani della vecchietta, niente affatto entusiasta di quel lusso di filantropia. A nove anni suo padre la mise in collegio, e ne uscì a quindici con tutti i primi premi per gli studi e per la buona condotta; lasciando edificate dietro di sè maestre e compagne per la sua intelligenza viva, la sua persistenza tenace nell’operosità, la dignità serena delle sue maniere che le attiravano intorno una deferenza che pareva rispetto. Una sol volta fu punita severamente, e fu per aver trasgredito l’ordine assoluto di non salire a certe camerette dell’ultimo piano, dove stava rinchiusa da anni una monaca pazza, «pazza per amore» bisbigliavano fra loro in segreto le educande. Clotilde era salita da lei una volta, poi due, poi dieci, poi aveva finito per visitarla regolarmente ogni giorno in un momento o nell’altro, quando poteva sfuggire alla sorveglianza, mettendo tutta la sua diplomazia e tutta la sua fredda volontà in quella disobbedienza, dopo che si era accorta d’un lievissimo miglioramento dell’infelice accarezzata dalle sue cure. Poi un bel giorno costei le si era avvinghiata al collo, tempestandola di baci con una furia così selvaggia, che la guardiana se ne spaventò e a scanso di responsabilità avvertì la Direttrice. Clotilde non potè veder la pazza mai più. Qualche tempo dopo, la monaca moriva. Rientrata in famiglia, fra sua nonna, suo padre, un militare in ritiro, e suo fratello, la giovinetta andava dicendo di volersi far suora di Carità. Ma la nonna, che odiava le romanticherie, fu la prima ad opporsi con una risolutezza che le accendeva il desiderio continuamente, più forse delle elette e spirituali figurine che vedeva passare nei discorsi di suo padre, quando evocava con lei i suoi ricordi di campo e di ospedale. L’attraeva il mistero gentile delle bende, quel mistero in cui non raggia che un viso e un nome: un viso sempre dolce, un nome soave che le fa migrare attraverso il mondo invisibili e sconosciute come una falange di angeli custodi scendenti dalle regioni in cui non c’è patria nè personalità. L’attraeva quella gran pace attiva nell’oblìo e nel riposo e nell’ignoranza d’ogni cosa, come se una blanda riviera letèa avesse dilagato sulle passioni e sui ricordi della vecchia vita naufragata; l’attraeva sopratutto l’abnegazione efficace, la carità feconda, la castità austera di quelle esistenze. Ella, che sognava di avere le braccia della Provvidenza per attirare e consolare tutti gl’infelici e i dolenti della terra, avrebbe potuto finalmente profondere quel tesoro d’affetto e di pietà che le si accumulava nel cuore. Oh esser utile e benefica! ardente e pia! Il miraggio tranquillo di quella vita turbava i suoi sonni di vergine come un desiderio d’amore. A deviare quella corrente che minacciava di portare serie burrasche in famiglia, venne un vecchio medico, amico di casa, una simpatica figura di patriota e di cavaliere, volta a volta brusco e cortese, un po’ strambo anche, ma sempre ameno e arguto come un monello. — Ebbene, — aveva risposto alla ragazza che gli confidava i suoi crucci; — ebbene, studia medicina. È press’a poco la stessa cosa, sai. È un apostolato filantropico e consolatore come l’altro e d’una carità più militante. Una donna vi può far miracoli. Prova. Ed avendo lei addotto timidamente la difficoltà degli studi, del tirocinio, egli le rispose con uno sguardo ironico e una scrollata di spalle: — Dell’ingegno e della volontà ne hai da dare a me; di freddezza e di una certa disinvoltura spregiudicata e dignitosa non devi difettare, se ti sentivi pronta a peregrinare per il mondo sola, pronta ad assistere a tutte le miserie degli ospedali e dei tuguri. Fa la medichessa. Questa volta Clotilde non aveva risposto nulla ed era rimasta un po’ di tempo a guardar diritto dinanzi a sè co’ suoi occhi larghi e neri che la miopia rendeva misteriosi. Forse si sarebbe limitata a pensarci su, se un incidente non l’avesse decisa. Furono i pettegolezzi di una vecchia serva. Essendo un giorno rimasta in casa sola con lei, la donnicciuola incominciò non richiesta a narrarle molti particolari della malattia che aveva spinto nel sepolcro la madre di Clotilde nel fiore della giovinezza. Clotilde, a cui avevano lasciato credere che il tifo l’avesse uccisa, seppe così che la mamma era morta dopo aver sofferto lungamente, eroicamente, di un male interno, cancrenoso, che nascondeva a tutti come una vergogna per non farsi curare da un uomo. Quando se ne accorsero era già tardi e ancora nessuno potè vincere quella ripugnanza invincibile, selvaggia. E il pudore la uccise. Clotilde a questa rivelazione rimase scossa rudemente, profondamente, intensamente, e tutta la pietà del suo cuore si sollevò come di fronte ad un’enorme ingiustizia. Una cosa orribile, inumana, il lento suicidio pieno di spasimi di quella madre che voleva vivere, in lotta con la donna che si lasciava morire avvolgendosi nell’ultimo velo della sua castità. L’anima delicata della fanciulla vibrò dolorosamente, senza che le lagrime o le convulsioni di compassione della sua infanzia sensibile si rinnovassero in questa grande amarezza, nella più grande compassione della sua vita. Rimase tre, quattro ore in camera, sola, in ginocchio dinanzi al ritratto della sua morta senza pregare nè piangere, muta, intontita, come se l’avessero appena portata al cimitero; rimase là con un un gran peso sul cuore, e nel cervello una fissazione sottile, acuta, insopportabile. Sua madre avrebbe potuto non morire dunque! Bastavano due mani bianche e una dolce voce femminile sul suo letto di dolore, nient’altro... E il mal di cuore non tormenterebbe il babbo incanutito innanzi tempo, e lei avrebbe veduto vivi, animati, per la casa quel sorriso e quello sguardo che erano un compendio di tenerezze e che oramai non ricordava che immobili così... Quando si risollevò, la sua decisione era presa. Studierebbe medicina. La mamma, Dio, glielo suggerivano, glielo imponevano come un dovere, come una missione. Era una specie di rivendicazione del suo cordoglio, una vendetta spirituale contro la morte, cui avrebbe tolto cento altre madri se le aveva rapita la sua. Il babbo la appoggiò e la nonna non osava opporsi troppo, pensando forse che era meno male medichessa che suora di Carità, o meglio, sperando che la via lunga e ardua la stancherebbe. Ma ciò non fu. Tutta la forte volontà, la prontezza dell’ingegno, la memoria viva, l’elasticità della fibra, tutta la ricchezza dei suoi quindici anni la fanciulla donò alla sua idea. Lo studio divenne la sua distrazione, il suo rifugio, il suo conforto, la sua dolcezza. Quando il babbo, che languiva, si spense, dopo le prime giornate di desolazione, Clotilde si rimise allo studio con più ardore, domandandogli l’oblìo come ad un’ebbrezza; e sovente, nelle ore che le ravvivavano il ricordo della sventura sofferta, le accadeva di reclinare la fronte con un lieve singhiozzare su qualche grosso trattato di Patologia che rimaneva aperto sotto quella testa bionda come per accogliere il suo dolore. Così fece tutti i corsi insieme agli studenti, ed ogni esame era per lei un trionfo. Riservata, semplice, modesta, i professori la preferivano francamente, e nessuno dei suoi compagni pensava a serbarle rancore, anzi pareva che cercassero anche loro di favorirla; forse per quel tal sentimento quasi di protezione cavalleresca che nasce dall’affratellarsi dei due sessi nella medesima scuola. Le altre studentesse erano meno indulgenti; ma poi Clotilde non si poteva dir bella e si vestiva e si pettinava così dimessamente che pareva lo facesse apposta per non dar nell’occhio, quindi in grazia di ciò, molto del suo talento le veniva perdonato. Entrata all’Università, le opposizioni della nonna ricominciarono. Clotilde, che non poteva contare sull’unico appoggio rimastole, quello del fratello, un egoista inutile, assorto sempre nelle sue visioni di gloria, si limitò a tener sodo senza difendersi; e questa resistenza silente e tenace irritava la vecchietta già inasprita dalla sventura. Se avesse usato un pizzico di diplomazia, l’urto sarebbe stato attenuato; ma la fanciulla era troppo franca, troppo fiera per fingere o anche solamente esagerare una sommessione affettuosa che avrebbe rasentato l’ipocrisia. Tutte le tenerezze della nonna erano per Roberto, ella lo sapeva bene, nè se ne lagnava per una gran dose d’alterezza e di filosofia, forse anche per un fondo d’indifferenza ch’era nel suo carattere. E non le aveva mancato di rispetto mai: nè con un atto, nè con una parola. Eppure la nonna, con quella minuta e fredda crudeltà che hanno talora i vecchi, non lasciava di stuzzicarla e di mettere a prova la sua fermezza, affidandole mille faccenduole da sbrigare, o noiosi lavori d’ago che le rubavano quasi tutte le sue ore di riposo ed anche qualcuna di studio. Clotilde tranquillamente si rifaceva vegliando. E la signora Rita, che non sapeva come fare a pigliarsela, si sfogava coi vicini, atteggiandosi a vittima di quella stramba ragazza che si impuntava a correr su e giù in tram dall’Università alla villetta e viceversa, mentre avrebbe potuto viver agiata e tranquilla fra il suo telaio di ricamo e i suoi fiori aspettando un marito, qualche buon giovine assennato e danaroso che certo non le sarebbe mancato. Ma così! chi doveva aver coraggio di avvicinarla? Una ragazza che studia medicina! che deve veder tutto e saper tutto... Uno scandalo, uno spino continuo, il cruccio della sua vecchiaia. E i vicini compiangevano in coro. Clotilde si spogliava nell’intimità della sua camera. Aveva spento la lucerna e acceso la candela sul tavolino da notte; la sua ombra sulla parete volteggiava lieve ed enorme. Che giornata faticosa! E quelle ore, là al teatro anatomico con quell’odore... E poi alla clinica quel bambino che urlava e quella madre così pallida e il professore che non finiva più di dimostrare, di spiegare... Ebbe ancora un brivido, ripensando quella scena che aveva scosso così rudemente, così dolorosamente la sua sensibilità femminile; e un vago sgomento le stringeva il cuore, pensando alla lunga serie di miserie, di strazi, a cui avrebbe dovuto ancora passar in mezzo, ancora e sempre, tutta la vita, come in una corsia infinita d’ospedale; cloroformizzandosi spiritualmente per non turbare con le sue sensazioni l’opera della scienza; scacciando le emozioni come un egoismo, la compassione come una crudeltà. Era rimasta con la sottanina breve di flanella a righe azzurre e bianche e con la sottovita di maglia grigia. Si spettinava, e così con le braccia levate in un atteggiamento grazioso di sirena o di dea, tutte le forme opulente del suo bel corpo sbocciavano. Il nodo dei suoi capelli era fermato da uno spillo d’argento, una specie di pugnaletto donatole da suo fratello che vi aveva fatto incidere su un motto cavalleresco: «_Non ti fidar di me se il cor ti manca._» Levato lo spillo, il torciglione si allentò mollemente ed ella con una mossa del capo lo fece ricascare sulle spalle allargandolo con le dita, sciorinandolo prima di farsi la treccia per la notte. I suoi capelli non erano lunghi, ma fini, abbondanti, ondulati e d’un bel castano che al sole s’indorava. ..... Oh le povere piccole membra contratte dallo spasimo...! oh il martirio intimo, muto di quella madre, e la voce del professore così calma...! e le sue dita così rapide e sicure quando avevano guidato il piccolo bisturi....! Quella visione d’angoscia non le si levava dalla mente. Anche la Ginoli, l’altra studentessa, era assai pallida: gli assistenti si affollavano, come se la curiosità vincesse la pietà. Ma non era curiosità soltanto, lo sapeva... Qualche profilo caratteristico o amico le si delineò nella mente: Santarelli biondo e scialbo col suo collo d’oca; il testone d’Embrici così timido e goffo, martire dello studio e dei compagni; Altarini, un saccentuzzo dalla voce stridula che soverchiava sempre; il bel Raimondi, che faceva perder la testa alla Ginoli; Serralta, detto il gobbino per la sua imperfezione che gli valeva qualche riguardo dai compagni, i motteggi della Ginoli e la compassione di Clotilde che si sapeva adorata in segreto da lui. Un viso da scimmia quello di Serralta, dai lineamenti continuamente in moto per una specie di tic nervoso, dagli occhietti maligni che si illanguidivano incontrando quelli della fanciulla, che col suo contegno severo non aveva mai incoraggiato quell’amore. Finì di spogliarsi in fretta e si cacciò fra le lenzuola candide e ruvide del suo letto duro. Ma non aveva sonno. La stanchezza e la veglia, che per solito la facevano cader giù addormentata come un masso, quella notte la tenevano desta in una lieve eccitazione di nervi tormentosa e dolce. Le pareva che una forza invincibile la obbligasse a tener gli occhi sbarrati e la fantasia in azione. Tutte le sue fibre vibravano, e nella sua mente era una ridda faticosissima d’immagini, di pensieri, di formule, di nomi tecnici, di visioni... Quel piccolo paziente e quella madre...! Clotilde non sapeva spiegarsi come mai quell’episodio le fosse rimasto impresso così vivamente nel cervello, mentre non ne aveva risentito sul momento una scossa esagerata. Non sapeva come mai quel quadro penoso, sopito nel resto del giorno, giganteggiasse ora nella solitudine della sua stanza così paurosamente da diventare un incubo. Seduta sul letto, con le braccia in croce contro il largo scollo della camicia che le scivolava dalle spalle, vagava con gli occhi spalancati negli angoli bui e cheti della sua stanza dove tutto pareva dormire: i libri ammassati sul tavolino, i mobili ordinati, la lucernina spenta, i suoi abiti ricascanti su una sedia in atteggiamento di abbandono, perfino uno de’ suoi stivalini rovesciato per terra. E le bianche tende, lievi e alte come ali, scendevano come per proteggere il sonno di tutta quella cameretta innocente. Ma lei no, non dormiva; e la candela accesa sul tavolino da notte, che dava delle luminosità auree alla treccia molle e cadente de’ suoi capelli, delle morbidezze alla nudità delle sue braccia e del suo collo torniti, dei candori languidi alle coltri e ai guanciali, pareva vegliare anche lei, maliziosamente. Poi, Clotilde lasciò ricascare la testa e le braccia sulle ginocchia piegate e si mise a piangere silenziosamente, senza perchè, senza motivo, così, per tristezza, per la gran tristezza arida della sua vita che minacciava di atrofizzare il suo cuore; per le scene lugubri che riempivano quelle ridenti giornate primaverili, giovani come lei; per quell’atmosfera sinistra d’ospedale e di morte, da cui si sentiva penetrare ogni giorno più, paurosamente. Intanto quelle lagrime le rilasciavano i nervi, le facevano bene, ed essa lo sapeva e ne provava un sollievo sempre più dolce, poichè attraverso alle lagrime che empivano le sue palpebre chiuse, su quel fondo di malinconia stanca, una figura virile andava delineandosi, nascondendo gradatamente orrori e tristezze, fondendo la sua angoscia lugubre in una soavità delicata e tranquilla che era quasi una gioia. Come l’aveva guardata quella mattina!...... Strano quello sguardo, che pareva una impertinenza ed era un’ingenuità. E quel sorriso muto, quando le aveva nascosto tra un libro il ramoscello di biancospino... E quell’atto sgarbato accompagnato da una parola che pareva una carezza... e quel saluto lungo, esitante, scorato; e quella voce armoniosa piena d’impazienze e di tenerezze. Quanti tesori da contare quel giorno e quanti forse anche per il giorno dopo, ancora e sempre, tutti i giorni, fino alla morte, fino all’eternità. Tutti i giorni così, una o due ore con lui, liberi, tranquilli, senza desiderare di più, senza sperare di più. Sorrise da sè col capo nascosto, poi si lasciò andare all’indietro sui cuscini, coll’anima alleggerita, la mente riposata in quell’unico pensiero blando. Il biancospino e le mammole, invisibili nell’ombra, dal loro vasetto sul tavolino effondevano una fragranza lieve nella camera chiusa. Clotilde la sentiva aleggiare su lei, come se tutti gli spiriti della primavera avessero invaso la sua camera per calmare i suoi tumulti e cullare il suo sonno con l’emanazione di tutti gli amori della natura. E si addormentò, con la candela accesa, la testa rovesciata da un lato, le dita intrecciate al cordoncino d’oro che le scendeva dal collo fra le pieghe della camicia. S’addormentò, ed ebbe un sogno d’amore tutto fiorito di mammole. * * * Contro il solito, Roberto scese quella mattina prima di Clotilde e uscì in giardino a passi lenti, cogli occhi stretti in aria meditabonda, la sigaretta fra le labbra, il ciuffo biondo de’ suoi bei capelli più scompigliato che mai. Andò a sedersi sul sedile di ferro fra il gruppo dei sicomori ancora sfrondati, ma già tutti ricchi di gemme e di bocciuoli. Ogni immobilità rigida e muta dell’aria, delle piante, della materia, pareva animarsi all’alito della primavera come al fiato di Dio. La nova stagione sorrideva tra timida e ardita, tutta grazie selvaggie, gentili sorprese, contraddizioni e stonature adorabili: come un adolescente. Dai rami secchi della siepe, ancora stecchita nel sonno invernale, sbocciavano fitti ed innocenti i fiori di biancospino; sotto il seccume antico dell’autunno odoravano invisibili e tepide le mammole; i grappoli della glicine ricascavano sul muro nudo della villetta fra le due ramificazioni spoglie e nodose. Roberto fissava, con la mente lontana, una finestra spalancata, che la glicine inghirlandava e in cui si gonfiavano alla brezza, come vele, le tende bianche, leggiere. Clotilde apparve sulla soglia della saletta d’ingresso con un libro sotto l’ascella, abbottonandosi un guanto. Ma Roberto non la vide, o finse di non vederla, se non quando gli passò vicino. — Che miracolo... — disse lei. — Miracoli della primavera, — rispose Roberto con un accento ispirato; ed essendogli caduto ai piedi il lapis di Clotilde, lo raccolse e glielo rese. — C’è da sperare che ne faccia un altro, — aggiunse dopo un’occhiata esaminatrice; — quello di farti smettere quel cencio di vestito che fa orrore. Ella si guardò, indifferente, una manica: — È poi così orribile? Io non me ne accorgo; non ci sono macchie, quindi..... Povero Roberto! — continuò sorridendo. — E dire che ti piacerebbe avere una sorella elegante che sfoggiasse abiti ogni settimana... — Dallo sfoggio alla miseria c’è tutta una sfumatura, — riprese lui, piccato. — Questa tua fissazione del nero, con quelle pieghe diritte come quelle delle monache, con quell’eterna cintura di nastro; quel cappellino che vorrebbe aver un’aria maschile, quella giacchetta che ti vedo da tre anni... andranno benissimo, non lo nego, per affermare le tue idee d’emancipazione, ma danno anche il diritto di deplorarle e la forza di bandire una crociata contro di voi, rinnegatrici d’ogni grazia e d’ogni gentilezza, refrattarie a ogni seduzione... profanatrici dell’eterno femminino... Clotilde lo affisò, incerta se scherzasse o se parlasse sul serio; ma Roberto non sorrideva, non scherzava. Gli era rimasto, solo, sul volto un’ombra dell’intima compiacenza per aver trovato quelle belle frasi d’oratore. Però seguì su un tono meno aspro: — Voi donne possedete sole il segreto delle raffinatezze delicate, delle sfumature indefinibili, delle armonìe indistinte, di tutte le finezze, di tutte le fragranze sottili, di tutte le cose immateriali e colorite e luminose che adornano il mondo. È come una grande volatilizzazione della bellezza che le donne fanno fluttuare su di noi, inafferabile, divina, inebriante, di cui esultiamo ignoranti e felici come i fanciulli che non sanno il perchè delle cose. Se rinunziate o sdegnate questa vostra missione stupenda, chi vi sostituirà? Che sarà del mondo? che sarà di noi? che sarà di voi, che perderete tutto il vostro fascino di delicatezza e di leggiadria, senza poter uguagliarci mai in quella forza, che a torto o a ragione ci rende alteri? Clotilde non amava le discussioni. Le scansava. Con suo fratello sapeva poi che non poteva ingolfarvisi senza che uno dei due ne uscisse ferito sul serio. Egli era troppo innamorato di parvenze, lei della verità. Rimase a capo chino, guardando il libro nell’attitudine d’una colpevole. Roberto aveva rimesso tra le labbra la sigaretta e mandava fuori in silenzio le nuvolette di fumo: — Via, — aggiunse sempre più dolcemente, — un po’ di rosa, un po’ di viola, un po’ di fiori, un po’ di primavera su quel vestito! Clotilde posò il libro sul sedile e s’inginocchiò per terra. — Ecco, — mormorò affondando la mano nel muschio umido e tepido fra cui spuntavano mammole, — ecco la primavera! — E si infilò le violette in quell’eterna cintura di nastro nero che si vedeva fra la giacchettina aperta. Un trotto cadenzato sulla via maestra la fece balzare. — Il _tram_, — disse, — bisogna spicciarsi; se no rischio di rimanere a piedi; addio! — E si mise a correre col suo libro verso il cancello nel lume biondo del sole mattutino, pronta e gaia al principio della sua giornata faticosa, mentre Roberto sul sedile, avvolto nella frescura profumata, vagava con la fantasia intorno a visioni di bellezza e a rime d’amore. * * * Si salutarono con un sorriso e cogli occhi radiosi per la gioia dolce sempre rinnovellata di quel primo vedersi. Egli, al solito, le prese il libro, la aiutò a salire sul _tram_, le fece posto accanto a sè sulla panchina in silenzio. Pareva ormai una cosa convenuta, e per una specie di tacito accordo o di complicità indulgente, quel posto rimaneva vuoto finchè ella saliva, oppure chi lo occupava se ne ritraeva subito premurosamente. E Clotilde non ne rimaneva imbarazzata e lui neppure, tanta schiettezza mettevano in quel sentimento che li avvinceva; un po’ più dell’amicizia, un po’ meno dell’amore. Da un anno continuavano a incontrarsi così tutti i giorni, i giovani, in quella breve gita mattutina, da quando lui era andato ad abitare una casetta fuori di porta per consiglio dei medici, che avevano raccomandato a sua madre l’aria libera della campagna per quel figliuolo, l’ultimo dei cinque che la tisi aveva spazzato via. Aroldo dava lezioni di musica; quindi ogni mattina era obbligato a scendere in città come Clotilde. Questa abitudine comune li aveva affratellati, poi era divenuta un sollievo per entrambi, poi una festa. Aroldo saliva alla stazione del _tram_, che era a due passi da casa sua, e dopo un mezzo chilometro saliva anche la fanciulla che attendeva il passaggio del carrozzone fuori dal cancello bianco del piccolo giardino. Quei due chilometri all’aria viva e fresca su quella panchina di tram, fra un chiacchiericcio animato, le risa, le discussioni gaie, le canzonature, sfumavano in un baleno; pure essi ne attingevano una forza insperata per le fatiche della loro giornata operosa: una specie di elasticità gioconda, che alleggeriva a lui la monotonia triste delle lezioni, a lei l’oppressione cupa dell’ospedale. Qualche volta i loro bisticci erano così ameni e le loro risate così spontanee che gli altri si voltavano a guardarli e sorridevano. Del resto, non erano numerosi i loro compagni di viaggio e sempre gli stessi: la serva del parroco col cesto delle spese; due scolaretti di ginnasio; una ragazza pallida e melanconica collo scialletto tirato sugli occhi, che andava a lavorare a giornata; il portalettere, un magrolino che aveva l’argento vivo addosso; un vecchione sonnacchioso; una lattivendola. Tutta gente che parlava poco, meno il portalettere che sfogava la sua parlantina toscana coi conduttori del _tram_. Entrati in città, al primo crocicchio, Clotilde e Aroldo facevano fermare e si lasciavano quasi senza salutarsi, in un’ultima risata, scendendo uno di qua l’altro di là, come se scappassero e senza voltarsi indietro. Lei svoltava subito nel vicolo che fiancheggiava l’Università; lui infilava i portici ampi, lucenti di marmi e di vetrine. — Come stanno i suoi malati? chiese Aroldo, appena Clotilde si fu seduta, colorita e palpitante ancora per la corsa. — Non mi faccia arrabbiare; oggi non ne ho voglia.... — Come me, dunque! Queste prime giornate di primavera mi mettono un’uggia addosso, inesplicabile; le lezioni mi diventano un supplizio... Se sapesse quante volte al giorno mando al diavolo scolari, musica, compositori, istrumenti, perfino Guido d’Arezzo... anzi, prima di tutti lui... Clotilde rise. — Sì; è una miseria, — disse poi, — questa svogliatezza e questa tentazione di vagabondaggio in primavera. Almeno piovesse; i nervi sono più tranquilli.... — I nervi? — ripetè ironicamente Aroldo; — lei non ha diritto di parlare di nervi sensibili.... con quei suoi bei studi.... ricostituenti.... — Già, — ribattè Clotilde con flemma incrociando le braccia; — ha ragione. — Meno male! I nervi? oh! come una damina fragile, lei che deve essere corazzata contro tutte le debolezze.... — Ha ragione. — Lei che adesso con tutta disinvoltura va ad analizzare freddamente tante sofferenze.... a dar dei nomi tecnici al dolore.... ad insozzarsi in un carnaio.... — No, il rispetto almeno! — interruppe lei, seria, posandogli una mano sul braccio. — È il mio pudore, la mia sensibilità.... Aroldo si tirò il cappello sugli occhi e seguitò a guardare contro il sole che gli coloriva il volto sbiancato. Le siepi che fiancheggiavano la strada luccicavano di rugiada e in un orto al di là era tutta una fioritura bianca e rosea, tenue, ridente sulla sfumatura cerulea del mattino come un bosco incantato, come un fantasioso sogno di redenzione. — Ma sa che lei è un miracolo? — esclamò a bruciapelo lui, rimandandosi indietro il cappello sino a metà del capo. E siccome Clotilde lo guardava tranquillamente coi suoi occhi miopi, velati, sibillini, senza parlare, egli proseguì brutalmente: — Un miracolo.... un mistero.... non so.... qualche cosa di strano insomma. Alle volte lei è di ghiaccio, altre volte ha certe risposte che ammutoliscono.... E tutto ciò senza una parola inutile, con un laconismo terribile e, scusi, non femminile.... Dopo tanto tempo che ci troviamo insieme ogni giorno, non so ancora nulla di lei, io.... di lei non ho colto nè un’impressione, nè un sentimento, nè un’emozione.... Vuol che le dica che questa freddezza feroce... romana.... mi fa quasi paura? — Mi onora troppo, — balbettò Clotilde arrossendo e celiando con un po’ d’imbarazzo. E cacciò le mani nelle tasche della giacchettina nervosamente, mentre ripigliava guardando dritta innanzi a sè nella strada bianca fra il verde tenero, rado, della vegetazione novella. — Ma chi le prova che io sia... quello che mi crede?.... Non mi piace parlare di me, ecco tutto, nè con lei, nè con nessuno. Tengo a rimpicciolire la mia personalità più che posso, per tentare di convincere le persone che amo, della verità, della serietà, sopratutto, della mia vocazione.... Aroldo corrugò le sopracciglia con un’espressione di dolore e fece un gesto come per parlare. Ma lei non gliene lasciò il tempo: — Ci sono dei ragazzi forti, dei giovinotti spregiudicati, perfino dei vecchi medici, che soffrono di tutta quella miseria; non ne dovrei soffrir io, donna? Sarebbe una mostruosità. Oh se ho sofferto! orribilmente, atrocemente... tanto più che erano obbligata a nascondere i miei terrori che avrebbero dato ragione a quelli che mi contrariavano... Quante notti senza dormire, tutte piene di incubi sanguinosi...! Quante giornate piene di nausea, di tetraggine...! Ma la notte sopratutto, oh la notte era orribile... E qualche volta ancora... sebbene siano due anni che vado al teatro anatomico... Ma non mi ci avvezzerò mai, temo... Aroldo si lisciava la barba breve, biondiccia, ricciuta, fissandosi le punte dei piedi. Clotilde parlava sommessa e con uno sforzo palese, arrossendo e impallidendo. Qualcuno de’ loro compagni di viaggio s’era voltato a guardarli, con una certa aria meravigliata per la apparente serietà dei loro discorsi di quella mattina. Negli occhi della ragazza malinconica passava qualche lampo d’invidia, e la serva e la lattivendola avevano scambiato una parola all’orecchio e un sorriso. — Eppure ho sempre vinto ogni ripugnanza, ogni debolezza... Ah, quando si vuole proprio! Neanche uno svenimento, sa? La Ginoli ha durato otto giorni a svenire... le bastava vedere la tavola di marmo... E gli studenti anche non scherzano... Ogni volta bisogna accompagnarne fuori uno. Ma io mai. Pure mi venivano i sudori freddi... Aroldo, immobile, a occhi bassi, taceva. — Gli è che, — continuò Clotilde, — a me accade una cosa strana. Quando risento un’impressione violenta, non è mai sul momento che mi accorgo di provarla, è sempre, dopo. Sul momento una forza insperata m’irrigidisce; ma il contraccolpo mi accascia. Durante le prime lezioni clinico-chirurgiche o le sezioni, mi serbavo fredda e tranquilla; alla notte battevo i denti dal terrore e ne avevo la febbre... Aroldo appoggiò le mani e la fronte al pomo del suo bastoncino d’ebano. — E la prova più rude, chi lo crederebbe?, non è per me l’anfiteatro. È la visita che faccio nella infermeria dei bambini. Tutti quei poveri corpicini travagliati, addolorati, straziati, quegli occhietti che supplicano un sollievo, che non sempre possiamo dare, quelle vocine che non sanno esprimere, se non piangendo le loro sofferenze e che sembrano ribellarsi al loro male come ad una crudeltà, a un’ingiustizia... che non vedono nel medico che un nemico barbaro e nei rimedi che un tormento... mi fanno l’anima così triste ed oppressa che qualche volta mi par d’impazzire d’ipocondria... Eppure è per loro che lotto... per loro che voglio vincere... a loro che sacrifico senza esitare tutti i sorrisi della vita... e non ho che ventiquattro anni.... Aroldo le afferrò il polso così improvvisamente e così forte da farla trasalire. I suoi occhi lampeggiavano; i suoi occhi belli e strani che avevano languori e tempeste inattesi. — No! no! — esclamò sottovoce, concitato: — No! — E la fissò negli occhi senza lasciarla, con un’espressione di sfida, che ella sostenne arditamente, ancora tutta rosea nel volto del suo entusiasmo di carità. La ragazza malinconica si voltò un poco sgomenta e il vecchione sonnacchioso, che dondolava il capo sul petto, aperse due occhietti imbambolati. Aroldo le lasciò il braccio per nascondersi il volto. — Non mi parli più di queste cose — pregò prostrato, vinto. Il sole all’Est li colpiva in pieno corpo e intiepidiva i loro abiti. Le violette, alla cintura di Clotilde, odorando acutamente, s’appassivano. * * * Il giorno dopo, lei affettò un po’ di sussiego, lui una disinvoltura esagerata. Aveva una parlantina facile, briosa, un’aria birichina e tanta comicità nei suoi atti, che Clotilde dovette finire per riderne schiettamente. Aroldo contraffaceva una sua scolara, la contessina sentimentale che da tre mesi rodeva un notturno di Chopin senza riuscire a far capire che cosa suonasse, neanche approssimativamente. — ..... allora si dispera, — continuava imitandone le pose languide. «Ah, professore..... non lo imparerò mai questo notturno indiavolato... e dire che lo _sento_ tanto.....» Ed io: «Coraggio... studî... riuscirà...» Ma questa è la risposta delle giornate buone. Quando poi ho la luna di traverso le rispondo brusco brusco: «Signorina bisogna decidersi, o avanti o indietro; lei non riuscirà che a farmi odiare Chopin a questo modo...» Proprio così, sa? — E quella povera signorina allora? — La signorina piange invariabilmente. E alla prossima lezione, trovo invariabilmente la contessa madre in salotto, sola, con una cera tra il gendarme e la vittima, che mi prega di mettere un po’ di zucchero nelle mie correzioni, perchè Maria è d’una sensibilità così eccessiva, così nervosa, che finirebbe per ammalarsi davvero... Uh, quelle mamme...! Sono il mio spauracchio le mamme, lo crede?... Vi appostano, vi assaltano, vi circondano per farvi subire interrogatorî senza fine, e domande suggestive e cortesie insidiose, e tutti i loro pettegolezzi e i loro apprezzamenti e le loro confidenze; vi mischiano ai loro puntigli, alle loro gelosiole, alle loro vendette... vi compromettono, vi tirano in ballo con un accanimento e una ferocia così sbalorditoia che non c’è forza umana capace di resistere... Altro che sabba Romantico!... Clotilde rideva col gomito sul ginocchio e il mento nella mano. Gli scolaretti, che avevano udito, volgevano altrove la faccia per ridere anche loro. Aroldo li fece osservare alla fanciulla. — Lei finirà per compromettersi coi suoi sfoghi, — gli disse Clotilde ridivenuta seria. Egli fece un moto di noncuranza. — Già, un giorno o l’altro ho fede di smettere questa vitaccia da cani... Potessi solamente trovare il modo di far rappresentare la mia opera... ah! — E giunse le mani lanciando in un sospiro quel desiderio e quella speranza che erano l’aspirazione della sua vita. — Io ci credo; ci creda anche lei, — sussurrò Clotilde con quella intonazione franca e sicura della sua voce che, unita allo sguardo velato de’ suoi occhi, faceva delle cose ch’essa diceva una specie d’oracolo: — La fede smuove le montagne.... — Sì, ma gli impresarî e gli editori sono peggio delle montagne! — ribattè lui con una serietà comica e desolata. — Intanto lavoro — aggiunge dopo un momento; — lavoro con un accanimento che dispera la mamma. Ma come fare?... ho tanta roba qui..... in testa, che mi opprime; che mi canta, che mi assorda, che frulla per sprigionarsi, per pigliare il volo..... Ed io m’affretto, m’affretto come se avessi paura di non arrivare in tempo a cantar tutti i canti che mi fluiscono dal cervello. L’ora fugge... bisogna spicciarsi a raccogliere la mèsse... perchè l’avvenire è lungo... è breve... chi sà...? Clotilde ebbe un brivido sottile, doloroso. Aroldo teneva le mani senza guanti aperte sulle ginocchia, due mani scarne, giallastre, uh po’ adunche. Ella ne vedeva tutti i giorni di quelle mani all’ospedale... — Forse è un avvertimento, — continuò lui, quasi serenamente. — I miei fratelli, quattro, sono morti tisici come il povero babbo. Il più giovine aveva diciotto anni, il maggiore è vissuto fino a trenta. Io ora ne ho ventisei. Ancora quattro anni, forse... — Ma non dica così! — esclamò Clotilde con la voce tremante. — Non sa che questo pensiero solo basta ad uccidere? Aroldo la fissò con rapida intensità; e negli occhi, parlando di morte, gli raggiò la vita poichè l’anima della fanciulla in quell’attimo era riflessa dal volto. La pietà l’aveva tradita... * * * Erano tutti in giardino dopo il desinare. Tutti, anche la famigliuola dell’avvocato Dardanelli, che veniva spesso, da buon vicino, a bere il caffè con la signora Rita. La vecchina seduta sul sedile di ferro fra i sicomori oramai tutti in fiore, metteva la quarta pallottola di zucchero nella sua tazza con le piccole mani scarne e tremolanti ascoltando la moglie dell’avvocato, la bella signora Giulia, che le parlava in fretta con la sua voce grossa e sgradevole. Roberto passeggiava fumando nel viale più appartato; Dardanelli, al solito, guardava avidamente Clotilde che chiassava coi bambini. — E lei non viene a prendere il caffè? — le chiese, andandole incontro col viso rosso e gli occhi lustri, sbuffante ed eccitato dalla digestione. — Sì, sì, — gli rispose la ragazza soffermandosi ridente, gaia, a braccia alzate per rafforzarsi il nodo de’ capelli con lo spillo d’argento, mentre i fanciulli le davano ancora delle strappatine provocanti al vestito, scappando. — Fermi, monelli! — urlò l’avvocato facendo gli occhiacci e accostandosi sempre più a lei. Clotilde fioriva in quella tinta strana e calda d’un tramonto nubiloso. I suoi capelli scompigliati, sfuggenti, parevano oro fulvo; il volto quasi sempre sbiancato era tutto roseo, gli occhi ancora tutti pieni del riso di quell’ora di spensieratezza obliosa. — Che cos’ha? un pugnale fra i capelli? — E le mani di Dardanelli la sfioravano. — Sì, — rispose Clotilde, secca, scansandosi. — Serve anche quello per i suoi studi di medicina? — chiese ancora l’avvocato, ridendo scioccamente. — Potrebbe guarire anche questo... — ribattè pronta la giovinetta con la sua voce sicura e il suo sguardo misterioso. Sedette su uno sgabello rustico vicino alla signora Dardanelli, che le sorrise. Ella aveva molta simpatia per la fanciulla e non si era mai accorta delle intenzioni poco oneste di suo marito, che credeva volesse bene a Clotilde come ad una figliuola. La signora Giulia fra i lillà fioriti pareva una Flora, una di quelle Flore formose e grossolane che servono qualche volta per ornamento dei giardini. Aveva i lineamenti regolari, la bocca ombrata da una lanugine bruna, gli occhi neri di taglio perfetto, ma sempre spalancati in un’espressione di meraviglia sotto l’arruffio di riccioli neri sfuggenti di sotto al _foulard_ rosso, annodato elegantemente sul capo come una cuffia. Quel fazzoletto, i cerchiellini d’oro alle orecchie e l’abito bianco s’addicevano assai al suo genere di bellezza forte, meridionale. Clotilde aveva appena appressato la tazza alle labbra, che la Rachelina le irruppe addosso strillando perchè era inseguita dal fratellino. Ell’ebbe appena il tempo di salvare la tazza dal naufragio e accolse la bimba sulle ginocchia. — Lascialo venire, ci difenderemo! E si difesero infatti con molta agilità e molta gaiezza dagli assalti bruschi di Nello, che si vendicò della sua disfatta contro un formicaio. La fanciulla teneva la testa della bambina appoggiata contro il seno rigoglioso, amorosamente, e Rachelina si abbandonava tutta, con quell’aria di riposo fidente che prendono i bambini fra le braccia di chi li ama assai. — Sei proprio nata per i ragazzi tu, — osservò la signora Giulia. — Per quelli degli altri... — aggiunse pungente la nonna. — Ci sono tanti bambini senza mamma, ci sarà una mamma senza figliuoli, — rispose subito Clotilde, dolce, risoluta. La signora Dardanelli, vedendo che la nonna faceva il viso arcigno, credette di sviare la tempesta chiedendo alla ragazza se non le pareva che Rachelina avesse l’aria abbattuta da qualche tempo. Clotilde rialzò il viso della bambina e le esaminò gli occhi, le gengive, le labbra. — È anemìa incipiente — rispose. — Bisogna consultare il medico per qualche ricostituente. La vecchietta si sfogò con una risatina ironica. — Ma e tu che sei una medichessa? Fa dunque una ricetta, da brava! Dì dunque qualche altra bella parolona.... _Anemìa_.... _incipiente_.... somiglia a un arnese di cucina.... Saranno vermi, dia retta a me, Giulia, un po’ di santonina o di calomelano e la bimba è bell’e guarita.... — No, no, — ribattè Clotilde con forza; — sarebbe una scimunitaggine. — Che? — gridò la signora Rita; — scimunita a me? Vergogna! Come vuoi che faccia a stimare la tua scienza se non t’insegna neanche a rispettare i vecchi? Già tu non hai un briciolo di cuore, nè per i tuoi, nè per nessuno... sei una saccentuzza arrogante, un’egoista di prima riga... — Clotilde pigliò in collo la bimba e fece per andarsene. — Va, va a stuzzicare anche tuo fratello ora! — le strillò dietro la vecchietta in collera, vedendola avviarsi verso il viale che Roberto misurava in su e in giù, fumando. — Almeno lui lascia in pace! rispetta almeno quel povero martire che si scervella per qualche cosa di bello e di buono.... La ragazza sorrise sarcasticamente e si diresse verso il cancello d’uscita, perseguitata dalla voce stizzosa della nonna, che finiva il suo sfogo con la signora Giulia. Sedette sul muricciuolo di pietra, al di fuori, stringendosi sempre alla bambina, ricacciando con sforzi inauditi le lagrime che le empivano gli occhi accecandola. Ecco la giustizia del mondo! Lei era una creatura indegna, senza cuore, una saccente boriosa, disutile e infingarda; e Roberto un martire glorioso, lui, che trascinava le giornate intere fra il fumo delle sigarette e le fantasticherie per concludere con qualche sguaiato verso d’amore, o qualche veemente tirata contro tutto e contro tutti, senza che si sapesse troppo bene il perchè, senza che lo sapesse neanche lui.... Roberto, che con la scusa d’esser poeta si faceva perdonare ogni stravaganza, ogni birbonata, ogni indelicatezza; e comandava e s’imponeva come un essere superiore, arbitro di tutto e degno di adorazione. La nonna lo giudicava una cima senza capir molto dei suoi versi e meno delle sue prose, condannate tutte, prima di nascere, al cestino delle redazioni. Roberto, a sentir lei, era un grand’ingegno, un talento disconosciuto; già, i grandi uomini hanno cominciato tutti così, poveretti, purtroppo; e qui la nonna non mancava mai di tirare in ballo Colombo e Galileo, senza che ci avessero troppo a che fare, veramente; ma lei non ne conosceva altri: e concludeva che se le creazioni di Roberto non erano accettate, voleva dire che i giornalisti erano ciuchi o invidiosi di lui che li metteva in sacco tutti quanti. I versi, oh i versi poi erano destinati senza dubbio a mettere a soqquadro il mondo...., solamente mancava l’editore.... E così a furia di batter questo tasto, Roberto, che non era un cretino, cominciava a diventarlo, convincendosi che lui solo aveva ragione e gli altri tutti torto, e tirava via a regalare qua e là ai giornali le sue sgrammaticate invettive o le sue insipide pornografie, che ognuno si guardava dal mettere alla luce, e s’atteggiava di più in più a genio incompreso. Ingiustizie! Clotilde baciava sui riccioli la bambina, piangendo. Ella, così forte, così padrona di sè, aveva di queste debolezze improvvise quando le tristezze le venivano da chi avrebbe dovuto raddolcirle la via già così scabrosa, già così triste. Era dunque una colpa consacrarsi ai dolenti? Una colpa seguire quel interno impulso, che la sospingeva ogni giorno più, riverente, ammirata, verso la scienza, l’iddia severa e bella che non abbaglia con promesse vane, che conquide lenta, sicura, formidabile?... Una colpa rinunziare per il trionfo d’un’idea, forse alla felicità, certo alla pace serena e ridente della vita? L’arte, oh! un’egoistica magnificenza che fa molti disgraziati; la scienza, una gran carità distribuita a tutti gli umani per farli meno poveri, meno infelici! Ed era ancora la pietà che le traboccava dal cuore. Roberto veniva verso il cancello: ella s’asciugò gli occhi in fretta, furtivamente, e si mise subito a parlare alla bambina sorridendo. Il giovine senza curarsi di lei venne a sedersi sul muricciuolo di fronte stiracchiandosi i baffetti con lo sguardo vago. Il sole, laggiù, all’estrema plaga serena, pareva stemperarsi in una fulgidezza aurea, incandescente. La nuvolaglia bigia si accavallava più in alto, come una rovina strana ed enorme di qualche costruzione ciclopica; si andava diradando verso levante in chiazze dense, fumose, in diafani lembi d’un velario fantastico stracciato dal vento, in una linea sinuosa e allungata, come di una costa lontana, avvolta nelle brume e nel mistero d’un paese di leggende e di sogni, popolato di larve. Tutto un altro mondo pieno di laghi, di terre, di edifici, di mostri, di forme tenui e gentili, veduto in miraggio come una gran promessa di purezza, di pace, di silenzio, come la visione apocalittica d’una patria diafana, destinata ad accogliere le anime che volano via dalla terra. Nella bianca strada battuta, e di là dalla siepe di biancospino, di là dal filare dei pioppi, su tutta la pianura vasta che verdeggiava appena, il vespro calava così, con una delicatezza muta, soave e triste, opprimendo. La primavera ha di questi silenzi eloquenti in cui par di sentire il germoglio interno di tutta la vita della natura, come si ascolta col volto indifferente il fermento di tutte le passioni latenti nell’anima. Clotilde calma, quasi sorridente, spasimava. La Rachelina le scivolò dalle ginocchia e scappò. Roberto e lei rimasero soli, muti, assorti; seduti, e appoggiati con le spalle ai pilastri del cancello. Roberto anzi si era steso sul muricciuolo come in un letto, con una gamba allungata e l’altra piegata, il sigaro in bocca; Clotilde seduta un po’ di traverso, con le braccia cadenti, senza atteggiamento alcuno. Improvvisamente le prime note d’un coro agreste si diffusero sonore. Le parole si perdevano così allungate nelle note tenute, lente, nelle parti divergenti e fuse in un’armonia melanconica e dolce, piena di maestà. Erano contadini che tornavano dal lavoro: le donne tenevano gli acuti, gli uomini i bassi, e le parti s’allontavano adagio, digradando melodiose, per riunirsi e risolvere diversamente, come una fuga. Un classicismo ingenuo, misto a un non so che di languido, di carezzevole; solenne ed umano. Roberto si rizzò e tese il braccio accennando a sua sorella d’ascoltare. E Clotilde ascoltava, immobile. La frotta dei contadini passò dinanzi a loro, a piedi nudi, sollevando un po’ di polvere. Prime schierate in fila, coi rastrelli sulla spalla, le donne, che scorgendo i due giovani ammutolirono ridendo e motteggiando fra loro un po’ vergognose; poi gli uomini, che continuarono a fare i bassi, impassibilmente, levando il capo, scamiciati, con la giacca sull’omero. I più vecchi invece di cantare dialogavano: qualcuno rimasto indietro per accender la pipa, raggiungeva correndo i compagni. A venti passi dopo il cancello ripresero tutti il coro; Roberto ricadde con gli occhi socchiusi, fumando, nella sua posa pigra di sognatore — Clotilde si levò adagio per seguire ancora i contadini con lo sguardo. Repente una soddisfazione, viva come una gioia, le aveva alleggerito il cuore. Era la coscienza di sentirsi anche lei, come quei suoi fratelli, degna del riposo..... * * * Il tram si fermò come al solito al cenno di Clotilde che aspettava sul cancello, tutta fresca nella freschezza stillante del mattino. Ma Aroldo non c’era, dovette salire senza che nessuno l’aiutasse e sedersi accanto alla ragazza malinconica che indovinando qualche tristezza le rivolse un’occhiata di simpatia. Il carrozzone si mosse fra il cicaleccio della lattivendola e della serva del parroco, che pareva un papavero, con la sua blusa nuova di mussola rossa a mezze lune gialle. Uno dei scolaretti riprese col portalettere la discussione un momento interrotta sulle collezioni di francobolli; e il vecchio sonnacchioso, vedendo Clotilde sola, non pensava più a richiudere gli occhi. La fanciulla sorpresa, ferita, si richiudeva tutta, lei, nell’inquietudine amara che le gravava sul cuore. Il suo amico non l’aveva abituata a queste assenze, ed ella si trovava a dolersene come d’un convegno svanito: e mille dubbi la travagliavano. Ammalato? partito? in collera? una tortura intima, inesprimibile, nel buio, nell’ignoto, a cui si aggiungeva un senso doloroso di meraviglia come per un inganno immeritato e beffardo. E a poco a poco, continuando quella pena opprimente, da quello stupore ne nasceva un altro, pauroso e dolce, al quale tutte le sue fibre rispondevano con una spontaneità ribelle che la sgomentava profondamente. Era l’amore dunque? Ma l’amore poteva cogliere così all’improvviso, insidiosamente, fra un bisticcio e una risata? Oh no, no, non era ancora l’amore! Un’amicizia viva, un fascino, una consuetudine soave, nient’altro. Oh l’amore no! E pareva implorare. Il sole le raggiava in volto, mitemente, si diffondeva ambrato nell’aria limpida, sulla doppia giovinezza della primavera e del mattino, chiara, cristallina, odorosa. Clotilde seguiva coll’occhio abbagliato il binario che si allungava sulla strada bianca, al sole, luccicando. Giammai quella gita le era parsa più lunga, più monotona, più triste; giammai aveva sentito come in quell’ora l’aridità lugubre dei suoi studi, la solitudine della sua vita. Un principio di rivolta fermentava in lei e germogliava e minacciava sbocciare nella luminosa complicità gaia di quel tripudio d’Aprile. Tutto intorno a lei le cantava la vita ed essa andava a chiudersi nel melanconico asilo della miseria e della morte. Un brivido le corse il corpo alla visione delle corsìe bianche, nude, silenziose, che l’aspettavano, popolate di sofferenze e di severità; al pensiero di andare a respirar quell’aura fredda di chiostro che raccoglieva l’ultimo soffio dalla bocca dei moribondi, che passava carica di lamenti, di spasimi, di sospiri, di imprecazioni....... al pensiero di tutte le fragilità e le miserie della mirabile macchina umana che si disfaceva ogni giorno sotto i suoi occhi, che si ricomponeva così a fatica, che si rivelava ognora più sotto la sua mano, sozza e divina. Membri sanguinolenti, faccie livide, muscoli contratti, rossori febbrili e pallori di morte passavano in una lucida fantasmagoria, come in sogno, ed ella si sentiva debole e ripugnante come il primo giorno che si recò all’ospedale. Un momento la visione si fece così intensa e inesorabile che Clotilde presa da una specie di terrore dovè superare con uno sforzo di volontà l’istinto di levarsi, di scendere, di fuggire attraverso i campi, di immergersi nel verde, nella fragranza, d’inebriarsene, per dimenticare. E ancora tornava l’immagine di lui. Che bel sogno andarsene così, soli, liberi, lungo qualche viottola romita, appena chiazzata d’ombra dalle fronde novelle, una viottola dai margini fioriti di viole e di margheritine, una viottola sconosciuta, tortuosa, interminabile, da riempir tutta di dolcezze e di sorrisi, che resterebbero dietro di loro come se sfogliassero canestri di rose per una ridente seminagione di petali. Il viso d’Aroldo radioso e gaio come nei bei momenti di spensieratezza, in quell’attimo le balenò così evidente ch’ella ne ebbe un palpito e un sorriso. In capo alla strada si profilava, con le sue cupole e le sue torri, la città, rossastra, che acquistava una strana tenuità nei vapori del mattino. Di là dalle siepi gli orti sfiorivano, invasi già da l’uniformità del verde. Un capinero nascosto vicino alla siepe gorgheggiava forte, melodiosamente. La ragazza malinconica raccolse pensosa un fior di pesco che il vento le aveva portato in grembo. Clotilde non reggeva più. L’agitazione nervosa la invadeva così violenta ch’ella temeva di tradirsi. Alla barriera fece fermare e scese bruscamente, lasciandosi dietro i commenti delle due donne, i sorrisi del portalettere e la curiosità del vecchione che si scomodò per seguirla con lo sguardo. Entrò sotto i portici dì quella via deserta e si mise a camminar lesta per dominarsi, ma giunta al primo palazzo dovè fermarsi, impedita da un crocchio di curiosi che facevano ala al portone. Una folla signorile usciva, le signore a braccio dei cavalieri, frettolose, pallide, scomposte, nelle sciarpe e nelle pelliccie gettate sull’abito da ballo. Molti equipaggi in fila aspettavano, e le carrozze si movevano subito dopo il colpo secco degli sportelli richiusi fra i complimenti, le celie, i saluti, lanciati a voce alta con l’audacia e l’eccitazione, che durava ancora, di quella nottata di veglia. E le voci rauche e stonate si soverchiavano, qualche fiore volava: un bel giovane bruno, senza soprabito e senza cappello, con la marsina coperta di decorazioni da _cotillon_, corse per un tratto di strada con la mano attaccata allo sportello d’un coupé da cui pareva non si sapesse staccare; poi rientrando, scherzoso, rubò il boa ad una signorina che indugiava sulla soglia per raccogliere un lembo strappato del suo abito di velo. «È il conte Villi!» si mormorava intorno al portone, nel pubblico composto in massima parte di serve e di bottegai. Ma Clotilde, che non voleva e non poteva mischiarsi al crocchio, cercò di farsi largo, e attraversò proprio nel momento in cui l’ultimo sciame delle signorine si sparpagliava, chiacchierino, gaio, in una varietà di veli, di trine, di sciarpe tramate d’oro. Ella, passando col suo abito nero, severo, chinò il capo come vinta da quel tripudio giovanile, da quella stanchezza folle, da quella fatuità brillante che le doveva rimanere ignorata sempre. Pure era un’eroina e una martire che passava. * * * ... Andavano soli, liberi, lungo la viottola romita, dai margini fioriti di viole e di margheritine, appena chiazzata d’ombra dalla frondosità novella; una viottola sconosciuta, tortuosa, interminabile, che Clotilde aveva veduto, non si ricordava dove, forse in sogno. Il mattino era tanto puro, ed essi così solleciti, che Aroldo le aveva proposto di scendere in città a piedi invece d’aspettare il tram; e dopo un bisticcio sulla scelta della strada, si erano rappacificati e venivano innanzi riuniti, egli col braccio sotto quello di lei, confidenzialmente, come due sposi. L’anima di Clotilde traboccava d’una dolcezza languida, penosa; egli appariva nervosamente vivace, e ciarlava esageratamente; pareva che il silenzio o un pensiero gli facesse paura. — ...... Dicevamo dunque?... ah, che ieri sera, stanotte anzi, ho terminato il Minuetto. Sono così contento... Sa che mi metterò subito a scrivere una Giga?.. Voglio provarmi nella musica antica; è una semplicità che riposa da tutto quel Wagnerianismo invadente... Dopo scriverò una Gavotta, poi forse un tema con variazioni, e mi piacerebbe anche un coro a sole voci rincorrentesi come un canone perpetuo. Vorrei poi comporre qualchecosa di sacro: un Offertorio, un’Ave Maria... — Troppa carne al fuoco, troppa.... osservò lei tranquilla, seria, crollando il capo. Ed egli fece una risatina di fanciullo, stringendole il braccio furtivamente: — Vedrà, vedrà, sentirà anzi.... Ma già, dimenticavo che lei odia la musica. — Che orrore! — E si sciolse sdegnosamente. Clotilde lo guardò un po’ sorpresa e si curvò a cogliere due violette bianche sul margine del fosso. Due o tre raganelle, spaventate, balzarono dall’erba nel filo d’acqua luccicante. — Fa orrore perfino alle rane.... — osservò Aroldo battendosi i piedi con un vincastro. Ma Clotilde non era in vena di scherzare e si fermò le mammole sul petto, tutta accesa nel volto, quasi vergognosa e ferita dall’atto e dalle parole d’un momento prima, più di quello che egli potesse credere. — Io amo i waltzer suonati dagli organetti, lo sa, disse poi, levandogli in volto gli occhi con uno sforzo di sincerità che si tradiva dal rossore insistente. — L’altra musica non la capisco tanto; poi ho così rare occasioni di udirne.... I waltzer suonati dagli organetti mi piacciono per quel non so che.... quella specie di cascata a intervalli regolari.... come spiegarmi?.... — Il ritmo, dica il ritmo.... — Sì, dev’esser così; il ritmo, dunque, che insiste, avvolge, folle e mesto ad un tempo, come una tentazione e una preghiera trascinate insieme in un’onda di passione; carezzevole e perfido, insidioso e vano come tutte le ebbrezze che vi fanno riddare fino al cielo e vi abbandonano in un cerchio di spuma. — E che ne sa lei di ebbrezze? interruppe Aroldo con uno de’ suoi scatti quasi brutali dopo aver ascoltato quella fanciulla parlare così, con crescente meraviglia. — Lei non ha diritto di parlare di queste cose... — È vero — rispose subito Clotilde francamente, ingenuamente; — ma mi pare che debba esser così, come ho detto io. Aroldo con la sua verga dava delle scudisciate alla siepe; i petali del biancospino piovevano lievi, odorosi. — ...... Però ho avuto torto a parlarne, — insistè lei arrestandosi, — ho avuto torto come sempre quando parlo di me. Volevo dire solamente che i waltzer mi piacciono.... perchè mi parlano un linguaggio tutto nuovo che m’affascina e m’impaura.... È come uno spiraglio da cui mi balena la vita... Oh Dio! — esclamò con tutta semplicità; — e avevo detto di non parlare di me! — Oh ne parli invece, ogni espressione è una meraviglia — soggiunse lui con una passione dolce, improvvisa. E abbandonandosi all’impulso di quel momento le allacciò la vita e la baciò sul viso, naturalmente. L’atto era stato così pronto e delicato che Clotilde non aveva potuto sottrarsi. Dopo chinò il capo e si velò la faccia con umiltà, come una colpevole, senza un atto, senza una parola. Aroldo aveva ancora passato il braccio sotto quello di lei e le parlava sommesso, dolce, come se fossero già amanti. — Voglio scrivere dei waltzer ora, per te, tutti pieni di passione e di languore e di carezze... come quelli di Strauss... Poi cercherò dei versi malinconici e ardenti e li dirò su quella musica, li dirò fin che ti abbiano vinta, finchè ti diano l’ali per slanciarti da quello spiraglio nella vita. La vita è bella, sai? ed è breve; tanto breve, che non c’è tempo di dormire.... E tu, che vuoi ostinarti nel sonno, sei colpevole, Clotilde.... Ella fece un movimento per sciogliersi da lui, ma Aroldo la strinse più forte: — Sei colpevole, sì! le gridò rudemente. — L’amore è la luce, è l’aria, è la bellezza, è l’anima dell’universo, è la parola di Dio e tu neghi tutto questo e tu ti seppellisci viva fra l’aridità della scienza che atrofizza la tua gioventù, la tua bellezza, il tuo cuore, che in cambio del tuo olocausto, ti lascierà il vuoto e la tristezza dell’imperscrutabile o ti spezzerà l’esistenza così, senza amore... Oh vivere senza amore, ma non si può, Clotilde, è vano: non senti che è vano, tu che parlando del ballo, dianzi, avevi senza volerlo, senza saperlo, gli accenti della passione? Clotilde camminava a occhi bassi, tanto pallida che pareva livida su quell’abito nero: con una ruga verticale sulla fronte, profondissima, che la invecchiava. Non trovava parole per rispondere e non rispondeva — poi le pareva che qualche cosa le gemesse nel cuore sotto quel gran giubilo che la staccava dalla terra, e la faceva inoltrare macchinalmente, come, abbagliata da una gran luce, che le nascondesse tutte le cose intorno e le affievolisse stranamente anche il suono delle parole che le giungevano solamente come una voce, come una melodia che l’avviluppava. Oh la dolcezza dolorosa di quell’ora, confusa, lieve, fluttuante, piena di profumi e di ebbrezze indefinite e inafferrabili come quelli di un sogno! Il nuovo perchè della vita che la avvolgeva nelle sue spire iridescenti! Le nuove speranze e i nuovi orizzonti mai conosciuti, eppure non incogniti, che ridevano da ogni lato fra i lembi della sua esistenza vera che si stracciavano, si sbandavano, si dileguavano come la nebbia ad una mite irradiazione di sole! La nuova maraviglia che la assaliva — una maraviglia soffusa di riverenza come dinanzi a un prodigio, come se fosse stata trasportata per incantamento in un pianeta splendido e ignoto, destinato per la sua patria, per la patria di tutti i felici..... I due giovani inoltravano per la viottola fresca, tortuosa, affondata fra gli alti margini dei campi bordati di alberi, come una stradicciuola di montagna. Il verde chiaro e lucente delle biade novelle, dell’erba, delle fronde che s’intrecciavano, quasi, sul loro capo e frastagliavano la via d’ombra e di sole, mettevano nella fulgidezza del mattino una velatura di smeraldo, mite, un po’ malinconica ma soave, come una luce di Purgatorio Dantesco. Il rigagnolo scorreva sotto l’erbe, luccicando tra il verde e tra i fiori, a pause — un rosignolo gorgheggiava forte, gioiosamente, trionfando sul pispiglio e sui cinguettii sommessi, lontani e vicini di centinaia di uccelli che celebravano il maggio. Aroldo continuava a versarle sul cuore parole, senza tregua, senza pietà, teneramente. — Se tu sapessi da quanto tempo immaginavo, sognavo di parlarti così! Ma come farlo nella volgarità di quel carrozzone di tram?..... Che conoscenza strana la nostra, non è vero? C’è tanta poesia e tanto mistero...! Io non so nulla della tua famiglia, tu nulla della mia; due veri pellegrini che s’incontrano e si riposano insieme... ma che non si lascieranno più... — finì sottovoce, guardandola amorosamente sul viso. Clotilde a capo chino taceva. — Debbo dirti una cosa — riprese dopo un momento Aroldo con una delle sue ruvidezze improvvise. — Io presto, presto, parto, vado lontano.... in America.... sì, fra due o tre mesi. Ho un cugino giornalista, laggiù, che guadagna a cappellate e non fa che invitarmi; mi dà speranza di metter in scena la mia opera, e mi ha già trovato degli scolari che mi pagheranno assai meglio di questi. Ho titubato un poco, poi mi sono deciso. O il viaggio e il clima mi uccideranno, e allora sarà una cosa spiccia; o mi fortificherò.... Clotilde, sempre in silenzio, con una mossa lenta di subita stanchezza, reclinò il capo sulla spalla di lui. — La libertà.... l’amore.... la felicità, — disse Aroldo attirandola a sè. Le parole esalate nell’abbondanza del cuore sbocciavano in quella solitudine, nell’orezzo verde, come fiori spirituali. — Sarà un amore divino il nostro, laggiù, e, non aver paura, non muoio io.... Finchè sarai con me, tu, così forte, così bella, così buona, non morirò..... Ella piangeva silenziosamente; piangeva, finalmente! col capo appoggiato alla spalla di Aroldo, già scheletrita; ed egli la baciava sul viso, sul collo, sui capelli, sulle mani, mani fredde, inerti. — Verrai, verrai.... Non è vero che verrai? Sì, lo so, ma dimmelo, voglio sentirmelo dire... Clotilde... è una parola così breve... è una parola sola.... Aroldo implorava così, ed ella rimaneva nelle sue braccia, sotto i suoi baci, senza forze, senza parole, con un gran schianto interno, come se il cuore le si torcesse; una sofferenza quasi fisica, orribile, contro la quale si dibatteva come se qualcuno glie l’infliggesse. Eppure era un lieve sforzo che l’avrebbe liberata, un lieve sforzo di volontà, tenue, dolce, oh così dolce! verso cui le pareva che tutta la sua vita interna s’inchinasse come verso una valle fiorita e odorosa veduta giù, all’imo, da una sommità brulla e cocente. La sua volontà piegava fino a spezzarsi, ma Clotilde sapeva che non si spezzerebbe, che si risolleverebbe come una molla, scattando. Intanto fra i tormenti di quel minuto d’agonia della durata d’un’eternità e della brevità d’un sogno, nell’innocente voluttà di quell’abbandono lagrimoso, di quei baci fraterni, di quella parvenza d’amore, ella assaporò tutta la sua parte di gaudio e di vita. Quando si riscosse sarebbe stata pronta a morire. — Addio — gli disse — non mi domandar nulla, io non mi appartengo più. Le mani d’Aroldo la ghermirono ai polsi come una morsa — ed al contatto di quelle dita gracili e nervose ella agghiacciò come se uno spettro l’avesse ghermita. Chiuse gli occhi, ma aveva già veduto passare in quelli di Aroldo, spalancati, stupiti, una luce di follìa. — No? — no? — no? — Fra lo smarrimento di tutto il suo essere, questa parola breve, soffocata, le piombava ad intervalli nel cervello, nel cuore, come i colpi di una mazza destinati ad ucciderla. Non aveva più lena. Le dita d’Aroldo si rilasciarono dopo un silenzio pauroso. — Ebbene vattene, — le disse con la voce che tremava. — Non dirò una parola di preghiera; non la meriti, non hai cuore, sei già una scienziata egoista e fredda, incapace d’uno slancio, d’un sentimento. Vattene.... addio.... ma bada: se violenti te stessa, se respingi l’amore che Dio comanda, offendi Dio e la natura: il fuoco sacro non si lascia spegnere senza sacrilegio, bada! Clotilde si strinse la testa fra le mani colpita da una sola parola: Non ho cuore, non ho cuore... — mormorò quasi inconsciamente. — Oh Dio, anche lui... Sarà vero dunque?... Non so amare... non ho cuore... — E si mise a correre, a correre come una pazza, giù per la viottola verde e romita. Dietro di sè udiva confusamente la voce di Aroldo che diceva ancora qualche cosa, poi uno scoppio di tosse, ed ella correva sempre e quella tosse dietro di lei s’affievoliva, ma continuava, continuava.... * * * Clotilde si trovò, quasi senza accorgersene, sotto il loggiato che girava intorno al cortile interno dell’ospedale, spazioso, freddo, in cui mormorava una fontana fra un gruppo di pini. Due uomini, reggenti una barella coperta, sparivano per una porticina; i carri mortuari, sempre pronti, attendevano. Apparirono una suora e un infermiere con le braccia cariche di biancheria; la suora, passando oltre in fretta, salutò la fanciulla. Dallo scalone di marmo intanto scendeva gente chiacchierando: erano il professore e gli studenti che venivano nell’anfiteatro per la lezione. Ella si riunì ad essi entrando; la Ginoli le sorrise con un cenno; Serralta, il gobbino, le si accostò annunziandole sottovoce che finalmente avevano un bel caso di _ipertrofia_. Ma gli infermieri avevano appena recato il letticciuolo su cui posava l’ammalato, che Clotilde svenne. * * * ..... Finalmente la sera, finalmente sola! Ella si richiuse nella sua cameretta con una specie di esultanza triste, di voluttà dolorosa, sperando un conforto dalla solitudine, nell’ombra. Andò a sedersi automaticamente, per consuetudine, dinanzi al suo tavolino di studio tra le due finestre, e rimase così, con le mani inerti in grembo e gli occhi chiusi. Ma il conforto non veniva. Anzi il suo pensiero, più libero in quel vuoto, s’indugiava più a lungo e più profondamente sugli avvenimenti della giornata. La viottola verde, certi effetti di luce, i profumi, i cinguettii, le tornavano in mente con un’evidenza così lucida e acuta da farla trasalire; e la voce di lui, udita a lungo in quella quiete dirle cose sì insolitamente dolci e paurose, le risuonava dentro stranamente, come se con le sue parole avesse bevuto il suo spirito, e lo tenesse, ora, imprigionato nel cuore, di dove continuasse a parlarle soavemente o rudemente, spossandola. Si sentiva ancora tentata di domandare pietà. Nella pace delle cose, tutt’intorno, le giungeva continuo e monotono il gracidar delle rane dagli stagni, laggiù; poi il festoso schioccar della frusta di qualche carrettiere lontano; poi il rosignolo che lanciò qualche nota nell’ombra e tacque subito, come se qualcuno l’avesse interrotto. Clotilde sentiva accrescersi sull’anima l’affanno opprimente, quasi sinistro: e non poteva scuotersi, nè piangere che qualche lagrima, rada, dagli occhi ardenti. Pure dentro di sè gemeva, piangeva, si ribellava a quell’amarezza invadente che si addensava come se la seppellisse giù nel buio d’una tomba. Si sciolse gli abiti e andò a sedersi a piè del letto, appoggiando la fronte sulle coltri fresche e bianche da cui le venne un vago senso di sollievo, e la memoria confusa d’una notte insonne per la vibrazione dei nervi troppo eccitati dal lavoro e da visioni dolorose. Quella notte, si ricordava, l’immagine di lui le aveva blandito i terrori, calmato i tumulti, le aveva dato il sonno e un fragrante sogno d’amore. Ora quella figura s’ergeva minacciosa, terribile, nella sua forza di malato, di moribondo, di cui lei accelerava la fine, che aveva forse già ucciso, là, sull’erba, fra due colpi di tosse e uno sbocco di sangue.... Un gelo la paralizzò e s’aggrappò alle coltri come presa dalle vertigini. Senza cuore! senza cuore dunque! Eppure tutta la sua vita non era che abnegazione e pietà. E si uccideva, e uccideva.... La disperazione le diede una forza quasi selvaggia. Ebbene, sì, avanti ancora, ad ogni costo — malgrado la tortura, malgrado la morte. Non si vince senza lotta, e non si diserta senza vigliaccheria. Seguendo il suo impulso di compassione verso quell’uno, ella seguiva l’amore, ella sostava in un’oasi refrigerante e queta, mentre un popolo di sofferenti errava nel deserto ardente, lei aspettando. No, essa non si apparteneva più, non poteva più disporre del suo cuore; il suo cuore era di tutti gl’infelici, di tutti i malati, di tutti i dolenti; non poteva defraudar tutti a vantaggio di quell’uno...... La melanconica pace dell’invincibile aleggiò infine sull’animo suo. Il dolore andava spegnendosi dalla forte volontà, dalla grandiosità del suo bel sogno umanitario; rimaneva il rammarico, luttuoso, profondo, dell’infelicità altrui; la tristezza di questo accumularsi di crucci intorno a sè, proveniente da lei, involontariamente, inevitabilmente, come per un’influenza maligna; rimaneva la titubanza e il desiderio ardente del neofita nell’ultima lotta che precede il martirio. In questo rilasciarsi delle sofferenze e dei dubbi che l’avevano travagliata, visioni tenui, antiche, della sua vita di studiosa le balenarono alla mente e si dilatarono come ripigliando il loro posto in lei, come immigrando da paesi lontani in cui fossero state esiliate da un usurpatore, ingiustamente. Rientravano a stuoli, le visioni antiche, buone, a ripopolare il suo cuore dopo l’uragano. Era la parola d’un maestro venerato e prediletto che aveva schiuso nuovi orizzonti; era il ricordo d’una difficoltà vinta, d’uno studio finito, d’un progresso, d’un trionfo dell’intelletto, d’una vittoria della scienza, d’una fratellanza simpatica e gaia e gentile; poi la falange delle speranze baldanzose, sante di pietà amorosa, che alleviavano la grave fatica e precedevano sicure quella gioventù nella lizza severa. E i bambini, tutti i bambini che aveva veduto languire malati o correre sani; tutti i bambini che conosceva e che immaginava; il suo minuscolo popolo di clienti avvenire, a cui lei avrebbe ridonato il vigore e la vita, si affollò nella sua mente inondandola di purezza, di pace; un mare di piccole teste, una selva di piccoli mani tese verso di lei, imploranti, fidenti, accennanti; e lei, simile alla buona Fata, inoltrava beneficando fra le giovani vite che sbocciavano come asfodeli al suo passaggio, mentre le madri da lungi mandavano un’armonia di benedizioni. ... Clotilde, affranta, si addormentò così, sulla sponda del suo letto, ninnata da tutta l’infanzia del mondo, come dagli angeli. * * * Era il luglio, afoso. Clotilde da quel giorno memorando aveva deciso di non riveder Aroldo mai più; e per non incontrarsi con lui, scendeva in città col primo tram e aspettava l’ora della lezione in casa della Ginoli. Infatti non si erano più trovati; ella lo aveva però riveduto un giorno, di lontano, sulla porta d’una birreria fra un gruppo d’amici. Rideva forte, chiassando. Clotilde ne aveva provato un’amarezza somma; poi, mano mano che quel giorno si allontanava, un sollievo sempre crescente, come se le avessero tolto un rimorso. Oramai era in pace. Le pareva che qualchecosa finalmente si fosse addormentato in lei, forse per sempre, e ne risentiva un riposo mesto, infinito. Dopo gli esami aveva continuato a studiare assiduamente nella tranquillità ombrosa della villetta, tanto più che la nonna le lasciava, insolitamente, un po’ di tregua. Al riaprirsi dei corsi, sarebbe entrata in quinto anno, nel penultimo anno di studi. Sarebbe ammessa alla Clinica regolarmente, avrebbe potuto formare le diagnosi, eseguire qualche operazione elementare e le varie medicazioni negli Ambulatorii; le avrebbero affidato qualche malato, le avrebbero lasciata più libertà d’andare, di studiare; avrebbe così cominciato a sentire la responsabilità, le soddisfazioni del suo ministero; avrebbe potuto agire, cimentarsi, misurare le forze del suo ingegno, dei suoi studi, della sua volontà; cominciare ad occuparsi specialmente del suo ramo di medicina prescelto: la cura delle malattie delle donne e dei bambini, per i quali sfogliava già da tempo dei grossi volumi di Pediatria. E qui la realtà sfumava nel sogno. Se fosse stata ricca a milioni avrebbe voluto inaugurare un grandioso ospedale per i bambini e per le loro madri, un ospedale tutto bianco di marmi e di cortinaggi, luminoso di sole, ridente di fiori: tutto scale, terrazze, fontane e giardini, sontuoso e romito come un’antica villa papale. Ma ahimè, non era ricca, e aveva dovuto ridurre il suo sogno a proporzioni più modeste per sperare di vederlo avverato. Lei, la Ginoli e Serralta, il gobbino, pensavano già sul serio a comperare qualche casamento del sobborgo, isolato e non discosto dalla città, per ridurlo ad ospedale infantile. Essi ne avrebbero la direzione, terminati i loro studi, e gli darebbero un indirizzo eminentemente moderno, occupandosi più dell’igiene che della cura, più dei preservativi che dei rimedi. Ci sarebbe anche una sezione per le donne, in un angolo appartato e tranquillo, dove tanta femminilità timida e sofferente potrebbe nascondersi fiduciosa e serena di sapersi affidata a mani sorelle. Tutto un rinascere di speranze, un germogliare di forze, un trionfo della vita fra gli effluvi dei fiori e delle benedizioni. Oh il bel sogno! Clotilde non poteva più passare una volta dinanzi al casamento adocchiato senza risentire un certo palpito, un certo rispetto per quel futuro santuario della scienza, in cui sapeva che rassicurerebbe tante madri nient’altro che con un sorriso e un bacio sui capelli delle loro creature; sorriso e bacio provenienti da un cuor di donna, in cui vigila la tenerezza materna, anche quando dorme la maternità. Ancora due anni di tirocinio penoso, poi la libertà di beneficare, di amare, di profondere i suoi tesori di carità. Clotilde ci pensava quella notte buia, affannosa; appoggiata ad una finestra spalancata della sua camera mentre la nonna dormiva. Non l’avrebbe abbandonata, la nonna, oh no: e se Roberto non ne avesse voluto sapere, avrebbe presa con sè la povera vecchina in una bella camera allegra del suo ospedale a raccontar le fiabe ai bambini. Pensò un momento a suo fratello che viaggiava: in cerca di un editore, diceva lui, e affermava la nonna. Ma Clotilde sapeva bene che si dimenticherebbe dell’editore alla prima stazione balneare. Non sarebbe la prima volta, e la nonna continuava a illudersi e Roberto a sbizzarrirsi, scusato, protetto. Pure non lo invidiava e non avrebbe dato, per un mese di quegli ozî gaudenti, neanche una delle sue giornate laboriose, così rapide, così feconde; che malgrado la sua naturale semplicità la facevano avvedere d’acquistare una superiorità sempre crescente, un’indulgenza sempre più serena. Clotilde leggeva un articolo in un giornale letterario che le aveva prestato Serralta. I suoi studi faticosi le facevano ricercare la cultura del bello come un riposo. Leggeva accanto alla finestra, alla luce della lucernina posata sul tavolino. La notte era scura, opprimente, greve; neanche uno spiro d’aria; la fanciulla soffocava anche così, un po’ discinta nella sua blusa di mussolina blu, tutta increspata, che lasciava indovinare solamente le forme bellissime del suo corpo; il nodo dei suoi capelli, fermati dal pugnaletto d’argento, si allentava; tutta la sua persona aveva quell’aspetto di languore molle che danno le sere d’estate molto calde, tutte piene d’insidie e di viltà. Clotilde s’era appoggiata al davanzale. Il giardinetto s’addensava nell’ombra; all’orizzonte i baleni si seguivano a pause come guizzi convulsi, le rane gracidavano forte, alla distesa, implacabilmente. La ragazza aguzzava lo sguardo per penetrare l’ombra, laggiù, poichè le era parso che qualcuno o qualcosa vagolasse nel giardino. Ma la sua miopia le nascondeva ogni cosa e quelle rane assordanti le impedivano di ascoltare. Sporgendosi con un movimento brusco le scivolò giù il giornale. «Benissimo,» pensò; «almeno ci fosse qualcuno davvero per rendermelo». E rimase ancora qualche tempo, spiando attenta, immobile. Ma non intravide più nulla. «Saranno le ombre dei miei occhi,» concluse. E si dispose a scendere per raccattare il giornale, poichè ell’era molto gelosa della roba che non le apparteneva. Accese la candela, traversò la stanza che divideva la sua dalla camera di suo fratello, ora vuota; scese le scale adagio, chetamente. Le faceva impressione di errare a quell’ora nella casa buia e silenziosa; e, coi nervi e la fantasia eccitati dal lavoro intellettuale, s’immaginò un momento di recarsi a un convegno furtivo. Allora il cuore le battè come se fosse vero, e ne sorrise, da sè, nell’ombra. Poi, una tristezza improvvisa le piombò sull’anima e l’immagine di Aroldo, in quell’attimo di spontaneità che non ebbe il tempo di domare, le apparve con un rimpianto. Inoltrò, sgomenta, come le accadeva sempre ogni volta che i sensi la soverchiavano all’improvviso — posò il lume per terra nella saletta d’ingresso e aperse l’uscio che metteva in giardino, chiuso diligentemente dalla nonna nella sua ultima ronda. Era agitata, nervosa; intuiva vagamente un pericolo — non sapeva quale, nè perchè. Scese lo scalino di pietra con precauzione poichè non ci vedeva affatto, e fece qualche passo verso la finestra della sua camera. Di colpo si sentì ghermire da due braccia robuste e un fiato ansante le alitò sul viso. — Ah, lo sapevo! — mormorò lei col cuore tumultuante per l’emozione inattesa e pur preveduta; — Aroldo! Ma poi dopo quel momento di silenzio rabbrividì. Aveva indovinato, più che intraveduto, l’avvocato Dardanelli. — Clotilde.... Clotilde.... — mormorava la sua voce che a quell’ora e nel buio assumeva un’intonazione strana; — non ne posso più, Clotilde... da due ore sono qui a misurare quella finestra... volevo salire.... io sono pazzo, Clotilde.... La fanciulla istintivamente cercò di svincolarsi, ma quelle braccia erano di ferro; ella ebbe allora la rapida percezione che lo smarrimento e la paura l’avrebbero perduta. Con un atto della sua forte volontà rispose calma, irrigidendosi: — Via mi lasci, è un cattivo scherzo... M’ha fatto avere uno spavento terribile; mi lasci, mi fa male a stringermi così... Ma egli la serrava più forte, inebriato di quella giovinezza opulenta che sentiva contro il suo corpo. — Mi lasci, — disse ancora Clotilde irata, puntellando le mani contro le spalle di lui e arrovesciandosi per allontanarsi da quel viso, per sottrarsi a quei baci; — mi lasci o grido! La sua calma fittizia era sparita: oramai non si dominava più, si dibatteva furiosamente, disperatamente, mentre egli la trascinava stringendola come fra una morsa, mormorando incoerenti parole di tenerezza. — Grido, grido.... — minacciava lei, con la voce strozzata dall’angoscia, quasi piangendo. E l’uomo cercava di farla tacere, di calmarla coi suoi baci impuri, e continuava a stringerla, a trascinarla... Clotilde non aveva più forze per lottare, ma la sua ira cresceva dalla sua debolezza. — Vile!... infame!... — esclamò, e gli sputò sul viso. Poi esasperata si strappò il pugnaletto dai capelli e glielo conficcò a più riprese in un braccio finchè le braccia si allentarono. Un lamento, un rantolo di rabbia, d’agonìa, chissà? la seguirono nella sua corsa rapida verso la casa dove giunse ed entrò e richiuse l’uscio, proprio mentre Dardanelli che la rincorreva, vi appoggiava le braccia nerborute per forzarlo, per ripigliarla ancora. Clotilde lo udì tempestare di pugni la fragile barriera, bestemmiando, con una voce che non aveva più nulla d’umano. Ella si lasciò cadere su una sedia semisvenuta, atterrita, esausta. Un rombare di tuono che crebbe e scoppiò in un fragore di fulmine soverchiò ogni rumore. Il temporale s’annunziava. * * * — Signora dottoressa, — disse il giorno dopo la nonna a Clotilde quando furono sedute a tavola, — c’è un ferito da curare. Cerchi di guarirlo bene, le faranno poi i sonetti... Ma siccome la ragazza, un po’ pallida, s’affrettava a inghiottire una dopo l’altra le cucchiaiate della minestra scottante, per evitare di rispondere, la signora Rita smise quel tono sardonico e disse naturalmente: — Davvero, sai, l’avvocato Dardanelli s’è ferito a un braccio. Me lo ha detto la Giulia poco fa. Stamattina s’era levato molto presto per lavorare in giardino, e nel rialzare i rami del gelsomino è caduto dalla scala a piuoli e s’è stracciato manica e carne contro i chiodi del muro. Sua moglie era tutta nervosa pensando al pericolo.... Se si fosse trovata presente, quella cadeva in convulsioni.... Clotilde respinse la scodella vuota e disse ad occhi bassi: — Spero che l’avvocato non mi aspetterà per curarsi.... — Pare di sì, — continuò la nonna, — giacchè non ha voluto chiamare il dottore. Fra lui e sua moglie hanno fasciato il braccio.... Dardanelli seguita a dire che è una cosa da nulla... Però gli è venuta la febbre. Clotilde era stata assalita da un dubbio repente, angoscioso. Dov’era il suo pugnaletto d’argento? se lo avessero trovato in giardino, insanguinato.... Lo aveva gettato via o no? Non se ne rammentava. — Non ci mancava che questa, povera gente; continuò la signora Rita trinciando il lesso. — Ce n’era d’avanzo della bambina malata... ha un febbrone, povera creatura.... ma già quando l’incomincia a dar dietro non si finisce più. Poi, già, la civetta s’è fermata due notti, due notti in fila, capisci? a cantare sulla finestra... me lo raccontava la Giulia.... S’ha un bel dire che sono scempiaggini, ma poi i fatti.... E tu hai sentito che temporale, stanotte? Che tuoni e che lampi.... Gesummaria, pareva il finimondo... Poi ha durato tutta notte a piovere... Bada qui, Clotilde, ohi a che pensi? è un ora che ti stendo il piatto.... La ragazza si scosse arrossendo; levò i tondi, ne rimise, si prese il lesso, ma non potè mangiare. Quel pensiero la torturava. E dovette rimanersene cheta fino al termine del desinare, ascoltando le ciarle della nonna che di quando in quando la pungeva col sarcasmo o col dispetto. Allorchè le fu possibile d’uscire, barcollava. Trovò il pugnaletto sotto i rami spezzati d’un geranio. Il vento e la pioggia avevano pestato le aiuole a segno che non era possibile scorgervi traccia di passaggio o di lotta; pure ella si sentì mancare scorgendo luccicare il suo gingillo fra la terra umida, in quel luogo. E come le accadeva sempre, il contraccolpo dell’emozione la terrorizzava. Lo raccolse con uno sforzo della sua volontà avvezza a superare le ripugnanze insuperabili, ma sentiva che se vi avesse trovato traccia di sangue non sarebbe più stata padrona di se. Nulla, invece. La tenue arma lavata dalla pioggia era forbita, riscintillante al sole. Clotilde salì in fretta nella sua camera e lo gettò sul cassettone come se le scottasse le mani, poi si abbandonò sul letto, bocconi, con le tempie, il cuore, le arterie tutte che le pulsavano violentemente. Si rialzò soltanto quando udì qualcuno bussare all’uscio e chiamarla angosciosamente. Andò ad aprire intontita, come balzata dal sonno. Vide la signora Giulia piangente, pallida, scarmigliata, senza lena. — La mia bambina muore! Clotilde, presto, aiuto, oh Dio, la mia bambina muore, aiuto!... Fu come il bicchier d’acqua che dissipa i fumi dell’ebbrezza. Clotilde si riprese in un attimo — Andiamo, andiamo — rispose energica, pronta, risoluta; e si mise a correre tenendo per mano la signora Giulia che si lasciava trascinare, spiegandosi fra i singhiozzi, a stento: — Il dottore non si trova... al solito... e la bambina si soffoca... Eppure ieri pareva nulla, ti ricordi? un po’ di febbre.... ma ora sta male... oh male... Ah, Vergine Maria, ascoltatemi, voi che siete madre... Clotilde traversò il giardino sempre correndo e trascinando sempre l’altra ansante, lagrimosa. Traversarono così anche la strada maestra e giunsero quasi subito al casinetto dei Dardanelli, a due passi. Solamente varcando la soglia ella si risovvenne del padre, ma il pensiero che le attraversò la mente non la fece esitare. Entrò, salì le scale e in un baleno fu nella camera dove la bambina rantolava. Dardanelli era là, presso la culla, tutto sbiancato. Essa agghiacciò scorgendolo. La signora Giulia si abbandonò sul petto di suo marito: — Enrico, coraggio.... c’è qui la Clotilde.... ce la salverà, lei.... Clotilde aveva spalancato la finestra e rialzato i cortinaggi della culla. Al solo vedere i lineamenti contratti della piccina capì. — Ah! la difterite... — disse dolorosamente nella sua inesperienza morale di neo-medichessa, e si strinse le mani alle tempie concentrando il pensiero con uno sforzo inaudito, in quel tumulto di sensazioni in cui pareva che il suo cervello riddasse. Poi la fermezza vinse. Volle ricordarsi.... si ricordava di una lezione del professore... della narrazione d’un caso consimile.... dell’eroismo d’un giovine medico, come lei ardente di carità.... — Presto, presto, una cànnula, — comandò; — una piccola cànnula purchessia, vuota, resistente... ma presto! — E mentre gli altri si affrettavano per la camera in disordine e per la casa, ella prese la bambina, la portò davanti ad una finestra, l’arrovesciò sulle sue ginocchia, le aperse la bocca.... Le membrane bianche si dilatavano sulla gola, maligne, tremende.... — Ah, ma presto — ella gridava ancora, ansiosa, quando la signora Giulia le tendeva già una piccola canna che serviva per le loro bibite in gelo, l’estate. E Clotilde, semplicemente, eroicamente, mentre gli altri tenevano la povera creatura che si dibatteva, le applicò la cànnula in gola aspirando forte con la bocca, a parecchie riprese e sputando mano mano delle chiazze bianche sul pavimento; ricominciando finchè la bambina potè respirare e piangere. — Ecco, — disse dopo, livida come una moribonda, — mentre si stringeva al seno la bambina e l’avvocato e sua moglie non potevano che piangere — la Rachelina per questa volta è salvata. Però non bisogna indugiare a chiamare il medico per il resto della cura... io non posso assumerne la responsabilità. Chiamate De Carli; è uno specialista. La signora Giulia scivolò per terra in deliquio baciandole le mani. Dardanelli rimasto immobile, ginocchioni sul tappeto, piangeva sempre, senza ritegno, silenziosamente, senza più curarsi di celare la sua debolezza. Clotilde pallidissima ma sicura e calma rimise in letto la Rachelina, le prestò ancora alcune cure suggerendo nel medesimo tempo alla serva smarrita i soccorsi per la sua padrona. E quando la signora Giulia inerte, fu adagiata sul largo letto matrimoniale e la serva fu uscita in cerca di qualche cosa, Dardanelli si trascinò in ginocchio vicino a Clotilde curva sulla culla; ella voltandosi lo vide così, ai suoi piedi, gemente, umiliato, implorante. — Mi perdona? balbettava: Clotilde, mi perdona? lei è una santa, oh mi perdoni!.... in nome di quell’innocente che le deve la vita mi perdoni!.... Ma Clotilde si scostò con ribrezzo, raccogliendo le vesti perchè non la toccasse. — No, — proruppe brusca, altera, — mi ha fatto troppo soffrire; non posso, se ne vada.... E siccome lui continuava a supplicare, a invocare, ella lo respinse adirata: — Vada!, — esclamò vada piuttosto a cercare un medico per la sua bambina... S’alzi, vada... vada! — ripetè con la voce smorzata, in un impeto di collera che nell’agitazione di tutto il suo essere fra tante diverse emozioni, minacciava di crescere fino al parossismo, fino alla follìa.... .... E invece la sua eccitazione si rilasciò subitamente, come la vela sgonfiata da una tregua di vento. Una strana stanchezza la invase, un’indifferenza somma per tutte le cose. — Ebbene sì, le perdono... — sussurrò pallida, debole, vinta — le perdono... Ella sapeva che non uscirebbe di là che per porsi in letto e morire. * * * Le imposte erano spalancate al vespro tranquillo, aurato. Un raggio del sole occiduo entrava dalla finestra di ponente, lumeggiava un angolo del tavolino ingombro di libri e lambiva la parete dirimpetto, grigia a mazzi di rose. Il letto, nel fondo, era vuoto, senza guanciali e senza coltri, con le materasse abballinate come dopo una partenza; nell’aria vagava ancora un odor d’etere misto ad incenso, soverchiati ambedue dall’odor acre dei disinfettanti. Sul tavolino da notte era rimasto un bicchier d’acqua, un piccolo termometro misuratore della febbre, e uno strumento chirurgico che aveva servito per la tracheotomìa. Sul cassettone due o tre forcelline di tartaruga, lo stiletto d’argento col motto cavalleresco: «_Non ti fidar di me se il cor ti manca_», e la cintura di nastro nero: appesa all’attaccapanni la blusa di mussola blu che serbava tuttora l’impronta molle d’un corpo. Dalle finestre aperte veniva un gracidare di rane e lo stridere dei grilli, poi le tende alte e lievi come ali, gonfiate da un soffio improvviso di brezza uscirono fra le persiane e palpitarono, in alto, come se volassero via. In quel punto se n’andava dal giardino una bara infiorata fra il biancheggiar delle cappe e le fiammelle rosse, irrequiete, dei ceri. Siccome i preti non avevano ancora incominciato a salmodiare, s’udiva lontanamente sulla via maestra un organetto suonare un waltzer. Romanze senza parole RESURREZIONE Quand’egli non annunziato, non aspettato, sollevò adagio, da sè, l’arazzo che nascondeva la porta del bizzarro salotto, ella era seduta nella solita poltrona sotto la finestra e leggeva. L’altissimo schienale della sedia rivolto contro l’uscio l’avrebbe tutta nascosta, s’essa non avesse tenuto la persona inclinata un po’ a destra, verso il bracciuolo, a cui appoggiava il gomito reggendosi la testa con la mano, nell’atteggiamento antico della meditazione e del sogno. Era vestita come sempre di bianco, e di lei non emergeva che l’estremità dell’òmero, il braccio piegato, lo squisito contorno della testa bionda acconciata con una treccia scendente, piegata a metà e ricondotta sulla nuca. La sala tutta parata di vecchio damasco bruno, dai mobili di querce angolosi, artistici, colossali, nello stile del trecento, era in un’ombra fresca e severa di chiesa, mantenuta dalle vetrate di piccoli cristalli ottangolari legati di piombo, che chiudevano due delle grandi finestre ogivali; la terza finestra, a cui ella leggeva, lasciava entrare dallo spiraglio delle vetrate socchiuse un filo di luce più viva che le sfiorava i capelli, faceva sorridere un ramoscello di biancospino nell’anfora poco discosto e animava un grande affresco di Giotto sotto il quale stava un organo da sala. Da un anno nulla era mutato nel vasto salotto. Pareva che tutto quel tempo non fosse passato; che l’estate non lo avesse infiammato del suo soffio di passione, che l’autunno non lo avesse desolato col suo pianto, che l’inverno non lo avesse intirizzito col suo gelo. Eternamente l’incipiente primavera; eternamente i biancospini e le mammole profumavano l’ombra refrigerante, misticamente obliosa; eternamente lei, bianca e mite al solito posto, leggendo. Era immobile e vaghissima come una figura dipinta. Quanto tempo resterebbe così? come sussulterebbe, come volgerebbe il capo, che direbbe udendo la nota voce mormorare il suo nome dolcemente, semplicemente, dietro l’alta poltrona? Allora il libro le cadrebbe ai piedi; ma un altro volume si riaprirebbe alla pagina dove fu abbandonato... ahimè all’ultima pagina: quella che non ha che una parola: Fine. Rileggerlo dunque... E che avrebbe potuto dir loro di più soave di quello che aveva già detto? Che avrebbe cantato di più folle di quello che aveva già cantato? Che avrebbe lagrimato di più doloroso di quelle lagrime già piante? Tutto si rinnovella, anche l’amore; ma nulla rinasce, neanche l’amore. I fiori di questa primavera non sono più quelli dell’altra primavera morta; le farfalle che ripetono sulle ali velate i medesimi geroglifici come una lingua perduta nei secoli che nessuno più intende, non sono più le stesse farfalle; l’onda che è giunta affannosamente a baciare la spiaggia prima di svanire, non la ribacia una seconda volta, in tutta l’eternità. Però le cose belle e fragili che non potevano durare, che non hanno durato, che raggiarono e disparvero, non precipitano nel cieco infinito, ma salgono, salgono, salgono a rivivere più fulgidamente, più durevolmente nell’esistenza spirituale del sogno; mentre le altre, quelle che si poterono afferrare, quelle che rimasero, si corrompono e si sfasciano miserevolmente per vecchiezza. Nella vita o nel sogno. Egli aveva un’anima di poeta e disse: Nel sogno. Ella stava immobile sempre come una figura dipinta. Immota e tranquilla e ignara dell’attimo solenne che passava; nessun presentimento, nessuna voce, nulla. Forse il suo spirito s’era involato e non rimaneva che il delicato involucro candido in quella oscura severità. Egli prese lentamente le due rose gemelle che s’inaridivano sul suo petto e le gettò ai piedi di lei come su una tomba. Poi fuggì. Natale Romantico Nella chiesetta del convento si celebravano le tre Messe di Natale. L’altar maggiore si ergeva nel fondo fra i rossi panneggiamenti di velluto, i veli cerulei e i galloni d’argento, illuminato dai ceri digradanti in una triplice schiera di fiammelle, coperto di lini e di merletti su cui scintillavano gli arredi sacri tra le palme di rose. Sulla gradinata nascosta dal tappeto, i sacerdoti s’inchinavano nelle gialle stole gemmate: fra la nebulosa profumata dell’incenso: una visione magnifica, che lasciava ancor più buia e nuda e povera la piccola chiesa in cui i soggoli e le bende delle monache impallidivano lontane, confusamente, come una coorte di larve. Giù per le navate solitarie interdette ai profani, l’organo versava torrenti sonori di melodie; ora formidabili come il clamore delle trombe d’una legione d’arcangeli giustizieri; ora dolcissimi, mormoranti appena, come in un sogno celestiale; ora appassionati e numerosi come mille e mille voci assurgenti e rincorrentesi nel delirio di un’estasi divina. Un poco in disparte, sotto la lampada accesa all’altare semibuio di Michele arcangelo, era prostrata suor Raffaella — la povera monachina malata e bizzarra, a cui si perdonava tutto, ora che doveva morire. La mattina stessa aveva sputato sangue di nuovo, e tutto il giorno era rimasta a letto per obbedienza — ma la sera non le avevano impedito di levarsi e scendere in chiesa per assistere alle tre messe della mezzanotte, le tre messe del Natale. Stava prostrata immobilmente sul duro inginocchiatoio di legno, con la faccia tra le mani gialle e scheletrite. E non aveva pregato, nè meditato, nè pianto. Aspettava con l’anima sospesa, l’invocato, dolcissimo prodigio. Oh Dio non l’avrebbe lasciata morire così, senza concederle di rivedere una volta il suo amore! poichè ella non domandava che di rivederlo un attimo, chinargli il capo sul petto e morire. Chi sà, chi sà! Forse non era caduto a Dogali, forse s’erano ingannati scrivendo il suo nome nel lugubre elenco, e bisognava cercarlo ancora, cercarlo invece fra i prigionieri delle tribù selvaggie, in qualche recesso ignoto della maligna terra dalle paurose leggende. Oh non poteva esser morto, lui! così ardito, così giovane, così forte, amato così!... E se era proprio morto, ebbene, lo rivedrebbe per miracolo; credeva piuttosto a questo che alla certezza di non ritrovarlo mai più. Erano anni che aspettava quel momento; anni! Da principio l’attesa placida, sicura, olimpica, coll’anima stemperata quasi in un immenso _nirvâna_; poi un periodo inquieto, dubitante, angoscioso, tremendo, a cui aveva seguito quell’attesa febbrile, inverosimile, ostinata, di ogni ora, di ogni minuto del giorno e della notte; un’attesa così intensa, nel fervido desiderare, che la sua vitalità vi si struggeva come in un crogiuolo ardente.... ed era la morte: essa lo sapeva, lo sentiva, pur non tentando di lottare: abbandonandosi anzi, quasi lieta di morire. Però quella notte uno spiro novo e fresco di speranza la vivificava. Era la notte di Natale, la notte santa delle mistiche corrispondenze tra la terra ed il cielo. Gli angeli, quella notte, in infinite e diafane spire allacciano i mondi, osannando al Messia nell’immensità che si riempie di parvenze radiose e di musica. Forse Iddio aveva scelto quella notte luminosa per compiere il miracolo, per renderle il suo amore. La seconda messa giunse a metà. Da piè dell’altare evaporò più densa e più odorosa la nube d’incenso; le campane in alto dindondavano solenni e gaiamente pie; dall’organo si effondeva sommessamente la cantilena agreste delle zampogne, la pastorale, semplice e sublime serenata della notte meravigliosa. E quella nenia ripetuta, ripetuta, ripetuta, nel ritmo ingenuo e amoroso di una ninna-nanna, blandiva i suoi tumulti, la cullava, la addormentava. Non aveva più senso di nulla. Ma quando sentì toccarsi lievemente sull’omero, scattò. No... non era ancora lui; era suor’Rosalia, la buona giovine novizia, impensierita della sua immobilità. — Si sente male, suor’Raffaella? Ella la fissò con gli occhi spalancati e non rispose. L’altra, appagata di saperla ancor viva, si rimise a pregare. Suor’Raffaella volse lentamente il viso aguzzo, che aveva una strana espressione di stupore, verso l’immagine dell’Arcangelo Michele che cacciava con la spada fiammeggiante gli angeli decaduti; e i suoi occhi neri e ardenti s’affisarono lungamente sull’immagine sacra che la lampadina faceva appena emerger dall’ombra. — Suor’Raffaella è devota di san Michele — dicevano le suore. Infatti era sempre là che s’inginocchiava, là che pregava e piangeva, quando poteva ancora piangere e pregare. La gentile e balda figura del biondo spirito cavaliere le ricordava il suo amore, fior di gentilezza e tempra d’eroe; così lo prediligeva e si prostrava a’ suoi piedi umilmente anche ora, quasi soggiogata da quell’energìa celeste.... o vinta dalla languida dolcezza d’un sogno. Questa volta lo affisò a lungo, intensamente, come se avesse dovuto stare un pezzo prima di rivederlo: poi reclinò ancora il capo fra le palme, esausta. Sentiva mancarsi il respiro e la vita; le voci dell’organo le ululavano confusamente negli orecchi, come il frastuono di un uragano; quelle campane alte e lontane le davano le vertigini; i vapori dell’incenso la soffocavano. Credette di morire, e la prese un folle desiderio d’aria, di libertà, di vita. Quelle campane insistenti, festose nell’altezza fredda e pura, le parlavano, la chiamavano, la volevano, l’attraevano irresistibilmente, la suggestionavano. Smemorata, quasi folle, staccò il rosario dal fianco, il rosario che sapeva le strette convulse delle esili dita che lo afferravano di notte sotto il capezzale o lo avvoltolavano con una monotonìa disperata nelle lunghe ore delle giornate vuote e silenti, e lo depose sugli scalini dell’altare; poi si alzò lieve e quasi incorporea, come un’ombra, e dileguò dalla porticina accanto all’altare, che conduceva al corridoio. Di là si saliva pure al campanile; l’uscio era aperto ed ella salì. Le campane con le loro vibrazioni sonore la volevano; lassù era l’aria, l’esultanza, la vita. Suor’Raffaella cominciò a salire la stretta scala a spirale reggendosi al muro, al buio, a tentoni, faticosamente; il respiro le diveniva ancor più difficile; la scala tortuosa e ripida le esauriva le ultime forze. Un’oppressione vaga incombeva su lei, un’oppressione che avanzando divenne un incubo, un terrore per quelle tenebre ignote e continue addensate nell’angusto spazio. La scala seguiva non mai interrotta, e nessun spiraglio, nessun lume; un’oscurità pesante di tomba. E ancora scalini e scalini ascendenti in una spira diabolica, interminabile. La testa le riddava vorticosamente, il suo respiro era un rantolo. Saliva, incontrando sempre nuovi gradini sotto il piede, incespicando, cadendo, rialzandosi, delirando, immaginandosi di uscire da un abisso sterminatamente profondo, di esser condannata a roteare così, innalzandosi nel buio, per l’eternità; sbarrando gli occhi, avidi d’un punto luminoso; spalancando la bocca, anelante di un soffio d’aria viva. Infine sostò, incapace di proseguire o di retrocedere, e s’abbandonò sugli scalini, sospesa in quel foro nero, fra due abissi.... Ma le campane la chiamavano, la volevano, le campane rimbombanti sonore e vicine, alle cui vibrazioni quel fragile edifizio pareva oscillare. E suor’Raffaella si levò, galvanizzata, e cominciò l’orribile ascensione brancicando nelle tenebre, oramai inconscia di sè, cieca, pazza, morente... Improvvisamente, a uno svolto, un rettangolo di blanda luce argentina le s’aprì dinanzi ed essa si slanciò. Era l’uscio che dava sulla stretta terrazza circolare, a pochi metri dalle campane. L’aria pungente e mossa l’avvolse tosto in una gelida carezza che la rimescolò bruscamente. Le parve di svegliarsi da un sogno atroce; battè le palpebre e sorrise. Era l’aria, la libertà, la vita. Laggiù, laggiù, tutto intorno la pianura immensa, morbidamente bianca di neve sotto il vasto plenilunio. Alberi, case, strade, apparivano vaghi e indistinti a quell’altezza: non rimaneva che la pianura giù, all’imo, candidissima, e sul suo capo l’etere terso, profondo, gemmato, in cui le pareva d’essere librata meravigliosamente. Libera, sola, sullo stretto spazio di quel pinnacolo eccelso, penetrata dalla magica nebulosa d’argento fluttuante nello spazio, si sentiva ingigantire smisuratamente e sprigionare dal suo involucro materiale, per trasformarsi in una parvenza luminosa e fantastica, dileguantesi nell’infinito con le vibrazioni di quelle campane rombanti accanto a lei che si slanciavano nel vuoto, gioiosamente. Finalmente non si ricordava più! non viveva più! non soffriva più! Era guarita. S’era immersa nell’altezza serena e fredda, come in un queto Lète dolcissimo e oblioso. L’immagine fascinatrice, abbarbicata da tanti anni al suo cuore con una tenacità così ardente da assorbirne la vita, l’immagine che l’inseguiva traverso le ore dell’occupazione, della preghiera, della meditazione, del riposo; nella veglia, traverso le lunghe notti invernali; nei sogni, in cui guizzava come uno sguardo, come una voce, come una parola; l’inebriante e fallace parvenza che la uccideva di desiderio cocente, l’aveva lasciata; era svanita; aveva dilagato nell’estasi di quell’ora vaga, fantastica, divina. Poi il candore vastissimo, lo spazio infinito l’assorbirono interamente; si sentiva già pronta a librarsi, lieve e immateriale e vaporosa come un’angelica forma; si sapeva coronata di stelle rifulgenti; sorrise. Sorrise alle campane che continuavano a slanciarsi folli, sonanti, mentre lei si puntellava al parapetto, salendovi faticosamente in ginocchio, rimanendovi un attimo, per slanciarsi anche lei nel vuoto bianco e luminoso e profondo, nel plenilunio sacro. Natale classico Alle due estremità della tavola, che era tutta un candore rilucente di cristalli e di argenteria, sedevano i padroni di casa. Lui, un vecchio generale in ritiro, un po’ arrustichito dalla sordità; con un torace di Ercole e due occhietti chiari e placidi, affondati fra la rubiconda grassezza del viso e le folte sopraciglia: Lei, che della sua altera bellezza, quasi celebre, serbava ancora la figura giovanilmente snella e una certa espressione di superiorità, che il profilo dantesco e la durezza dello sguardo accentuavano. Pareva nata per agire e per comandare; infatti, per il prestigio della sua bellezza, e più per una tenacità di volere logica e calcolatrice, aveva sempre menato tutti per il naso, cominciando dal generale che si credeva un tiranno. Povero generale! una buonissima pasta d’uomo e, malgrado i suoi settant’anni (anzi forse per questo), innamorato dell’ideale come uno scolaretto. La sua soddisfazione per quel pranzo di famiglia, a Natale, era profonda, sincera. Certe consuetudini tradizionali, certe solennità, le osservava e le rispettava come i suoi obblighi di cittadino e di soldato, ma con una dose maggiore d’entusiasmo e di convinzione, che le coloriva e le innalzava al grado di veri avvenimenti desiderati. I natalizî, gli onomastici, l’anniversario del suo matrimonio, Pasqua, Capo d’anno, Natale, costituivano per lui tante piccole oasi in cui pigliava fiato prima di rimettersi in via, scacciando, dimenticando, allontanando olimpicamente in quei giorni ogni preoccupazione molesta, ogni pensiero cruccioso. Ma il Natale era la solennità che preferiva, la solennità classica per eccellenza, che ogni anno gli faceva rovistare nel bagagliume delle memorie per arrivare a concludere con la narrazione di qualche episodio tragi-comico avvenuto proprio a lui e proprio per la sua ferma volontà di venirsene a Natale nel suo paese per mangiarvi, da buon ambrosiano, il tacchino e il panettone, e scaldarsi al ceppo tradizionale che doveva rimanere acceso fino alla mattina. Sua moglie, donna Laura, da persona intelligente, aveva sempre rispettato quei gusti e quelle consuetudini, senza rinunziare però a discorrerne con quella cert’aria di compatimento che doveva mantenerla sul suo piedestallo. Per lei il Natale non era che un pretesto per affermare solennemente, almeno una volta all’anno, la sua autocrazia che non cedeva nè ai tempi, nè ai costumi. Se non era più possibile la famiglia patriarcale come ella aveva vagheggiato per alimentare le sue aspirazioni feudali, rimanesse almeno l’obbligo di quel pranzo di Natale che raccoglieva tutti intorno a lei come un tacito omaggio alla sua autorità. Ciò che sarebbe riuscito ad ogni altra naturale e gradito, costituiva per lei, quasi unicamente, una soddisfazione d’orgoglio. C’erano tutti intorno alla mensa: suo figlio, lo stimato e noto giornalista dai capelli già grigi, coi bimbi e la governante inglese; la nuora, una bruna vivace e astuta dagli occhietti di cingallegra; sua figlia Marta, una creatura bizzarra, un po’ esile, fumatrice arrabbiata di sigarette, e suo genero, alto e grosso e brutto come l’Orco; infine l’altra figliuola giovinetta, sgusciata appena dalle mani dell’istitutrice. Poi i parenti più lontani, quelli che formavano il maggior ornamento al carro di donna Laura: una cugina vedova che veniva ogni anno da Firenze, splendida figura di Giunone, dai movimenti bruschi, ridanciana, provocante; un nipote ufficiale arrivato da Massaua, la vigilia, per quel famoso pranzo di Natale, e il figliuolo di un’amica morta, considerato oramai come un parente: il conte Silvestri, uno scavezzacollo e poeta per giunta. Donna Laura, naturalmente, dirigeva la conversazione anche a pranzo, intavolava i discorsi, lasciava cadere quelli che non le garbavano, ne troncava anche certi altri, risolutamente, qualche volta con un sol gesto o con uno sguardo insistente de’ suoi freddi occhi grigi. Quella sera però le sue armi cominciavano a spuntarsi contro quelle dell’ufficialetto, che tirava via a dialogare sotto voce colla sua bella vicina, la vedova, il cui florido busto si torceva per le risate frequenti, mentre gli occhi di lui luccicavano, fissi su quella nuca fresca e bianca che l’abito un po’ scollato scopriva. Il generale, col tovagliolo al collo, parlava poco e mangiava assai, occhieggiando spesso e volentieri verso la formosa vedovella e sorridendo del suo riso senza capir nulla; gli altri non badavano a loro. Ma, oltre gli occhi severi di donna Laura e quelli avidi del generale, altri due occhi spiavano, invidi e penetranti, quelli di Alda, un po’ troppo fredda e distratta alla mensa di Natale. — Si può sapere a che pensi, Alda? — ammonì con la sua consueta terribile freddezza donna Laura, vedendo che dimenticava perfino di incrociar le posate sul tondo; e la fanciulla arrossì voltando il viso verso il Baby, occupandosi -di lui per disimpegno. Un viso intelligente e simpatico, un tranquillo viso di donnina che un neo sulla guancia abbelliva. — .... sapete che cosa mi ha risposto? — continuava la voce aspra di Marta che si tagliava un’altra fetta di panettone: — «padronissima di andare; a una commedia di quel genere io non vengo!» E gli altri ridevano tutti, meno sua madre. — Ah! proprio così? — fece il conte-poeta stiracchiandosi i baffetti biondi un po’ soprapensieri. — Precise parole, ve lo assicuro. — Marta scrollava le briciole di panettone dall’elegante abito a ricami di passamanteria che le vestiva la figura svelta, nascondendole il collo troppo lungo. — Precise parole. E un’aria scandalizzata!... Credo che mi leverà il saluto... — È una cretina, — dichiarò placidamente l’Orco. — Oh, no, è furba! — corresse la brunetta con un movimento affermativo del capo e quello sguardo artificiosamente candido che la rendeva così graziosa. — Oh infine poi, — entrò a dire donna Laura con calma, autorevole, — ognuno è padrone di condursi come meglio crede; rispettiamo le opinioni. Se quella commedia urtava le sue convinzioni religiose o morali, ha fatto bene a non intervenirvi. Aggiungete poi che con questa sconfinata libertà, che ora informa l’arte e la vita, nulla di più facile che passare dalla leggerezza alla sconvenienza... — finì voltando il viso aggrinzito e incorniciato dai capelli grigi, arricciati, verso la vedova e l’ufficiale che non se ne davano per inteso. — Non lo credete? non lo credete? — mormorava sottovoce lui, infervorato, col viso acceso. — Gabriella!... scettica... cattiva... — Baie... — rispondeva lei col suo spiccato accento fiorentino, scrollando, le spalle opulente e chinando il capo per osservare con gli occhi miopi le cifre del tovagliolo; — baie, caro mio... — E la signorina Alda daccapo a guardare fissamente, lungamente, con una costanza e un ardire quasi disperato, il cugino ufficiale. Baby, trovandosi trascurato, la scotè violentemente per un braccio, rovesciando nell’atto un bicchiere di vino. — Ma quei bambini... sono d’un’indisciplinatezza... — cominciò donna Laura, rivolta a sua nuora, che fulminò con un’occhiata la governante, la quale a sua volta, col viso di fuoco, rimproverò in inglese il bambino. La governante era una ragazza florida e bionda, nè brutta nè bella, impassibile e muta sempre, persino negli occhi, che pareva non avessero pensiero. Eppure il malestro di Baby l’aveva richiamata alla realtà di lungi, oh di lungi assai, dalle nebbie nordiche fra cui intravedeva un ramo di pino inghirlandato di lampioncini rossi, e molti visi noti e cari, e un bisbiglio di voci, nel linguaggio della sua infanzia, ripetere con un buon sorriso: _A happy Christmas, my dear!_ — Uh! se potessi andarmene prima di mezzanotte senza che mamma se ne offendesse.... — pensava il figlio giornalista, mettendo un chicco di zucchero nella sua tazzina di caffè, in aria meditabonda. — Come lo chiamate questo profumo? — grugnì il generale, annusando l’aria verso la vedova che lo guardò un momento senza rispondere e poi disse: — Eliotropio! — voltandosi ad ammonire il suo turbolento compagno che le bisbigliava qualche cosa all’orecchio. — Non sarà sempre Natale... — rifletteva fra sè per consolarsi, Alda, col cuore stretto da uno sconforto senza fine. Poi pensava che passato Natale anche lui se ne sarebbe andato, e il buio e il silenzio avrebbero soffocato il suo bel sogno. Allora si contentava di soffrire. Mentre donna Laura dava dei consigli a sua nuora sul mezzo migliore per conservar fragrante il thè, il generale aveva trovato modo d’attaccare col conte Silvestri il suo discorso favorito: — Un natale senza neve! ma che vuoi? non mi pare neanche Natale... Ci vuol la neve alta mezzo metro... allora si gode il ceppo. Mi ricordo che nel sessantadue... Ma a proposito. — ripigliò come chi non vuol differire una questione importante, — a proposito, Laura, chi sta di guardia stanotte al ceppo? hai stabilito? — Ma chi vorrà! — rispose donna Laura un po’ seccata d’essere interrotta nei suoi ammaestramenti domestici; e se nessuno vorrà, il servitore.... — Ci sto io! — vociò con energia l’ufficialetto e, chi sà perchè? gli occhi gli brillarono come se avesse trovato la soluzione di qualche difficile problema. — Ebbene, ci starai tu, — replicò tranquilla la padrona di casa, che riprese a sua nuora il discorso dianzi interrotto. Gli altri guardarono tutti, discretamente meravigliati, dalla parte dell’ufficiale: il giornalista ebbe un sorriso maligno che trattenne subito. Alda impallidì. — Bravo, bravo, — approvò il generale. — Pare che il ceppo di casa Arnaldi sia destinato ad avere un servizio d’onore in tutte le regole. Fino a tre anni fa non ho ceduto a nessuno questo incarico... ed ora son contento che mi sostituisca un altro figlio dell’esercito. Anche l’anno scorso, mi pare... — No, l’anno scorso toccò a Silvestri; non è vero, Silvestri? — chiese Marta, accendendo la seconda sigaretta. — Chi? io? che cosa? — interrogò costui, cadendo dalle nuvole. — Ma questi poeti! — esclamò allargando le braccia il generale, sfiduciatamente. — Che cosa maturavi, si può sapere? un sonetto o un’ode barbara? — Un’elegìa, — mormorò quel monello di Silvestri, scambiando sottocchi uno sguardo d’intelligenza coll’Orco che sorrise. — Un elegìa?... — ripetè il generale che non aveva capito niente, e tornò a centellinare il suo caffè. La bella vedova pareva finalmente decisa a finirla col suo vicino, discorreva con l’uno o con l’altro animatamente: l’ufficialino intanto fumava con un’aria ingiustificabilmente radiosa. Gabriella parlava a donna Laura e alla brunetta di un abito, con quel suo fare risoluto, quei movimenti bruschi che facevano scricchiare il suo corsetto attilato di seta. — È inutile; non mi va, non mi va... con un personale come il mio, un colore simile... — _Fraise écrasée_... — disse in tono conciliativo l’elegante brunetta, che negli atti misurati, nella voce gentile, nella figura svelta dalle molli curve, era tutta l’essenza della femminilità. — Ma convinciti, Gabriella, che non si può lasciar pieni poteri alle sarte, — sentenziò donna Laura, seguendo coll’occhio indagatore Alda che, dopo averne chiesto il permesso, si era accostata al caminetto. Un camino all’antica, di pietra, che dava sempre un’impressione gelida con la sua impellicciatura di marmo bianco che non si riscaldava mai. Il ceppo fiammeggiava e crepitava gaiamente. Alda, col visetto serio, lumeggiato dai riflessi rossi, osservava gli ondeggiamenti leggieri delle vampe sul fondo fuligginoso. Presto donna Laura si alzò e gli altri la imitarono. Vennero tutti intorno al fuoco, meno il generale che sonnecchiava col tovagliolo al collo, dondolando il capo. — Ora si farà il _grand bézigue_, e alle undici il _thè_, — annunziò donna Laura, mentre la governante si ritirava coi bambini. E il giornalista, che aveva azzardato una sbirciatina all’orologio, se lo lasciò quasi sfuggir di mano. — Uff quella cambiale! che incubo... — pensava intanto Silvestri, ricaduto nelle sue meditazioni. — E Wera che si ostinava ad aspettarmi... Certo non la passerò liscia... Maledetto pranzo...! — .... Eppure in queste circostanze fa piacere offrire una famiglia a chi non l’ha, — osservò soddisfatta la padrona di casa, parlando di Silvestri con sua cugina. — La riconoscenza rassoda l’amicizia.... * * * La sala da pranzo era deserta da più di un’ora. Suonò il tocco. L’ufficiale aveva abbassato il gas e si era adagiato nella poltrona dello zio accanto al camino. Lo confortava la compagnia di qualche eccellente bottiglia e di un’appetitosa cenetta, messa là dal generale per alimentare la sua veglia. Nella penombra, con la gran tavola coperta dell’oscuro tappeto, la stanza appariva più vasta e più triste: il ceppo scoppiettava languidamente, proiettando bagliori purpurei e oscillanti sulle gambe di una sedia poco discosta e sul lembo cenerognolo dei calzoni dell’ufficiale. Le tende degli usci e delle finestre, tutte abbassate, ricascavano in fitte pieghe mantenendo un gradito tepore e il gran silenzio della casa addormentata. Il giovine, affondato nell’ampia poltrona che aveva la spalliera contro la porta, era pallido e nervoso, e pareva rimuginare un pensiero con ostinata intensità, mentre fissava, senza vederle, le maioliche biancheggianti in una rastrelliera che occupava tutta la parete di contro. Rimase così a lungo, trasalendo però ad ogni menomo rumore, andando perfino a sollevare adagio la portiera dell’uscio di anticamera.... Si avrebbe scommesso che aspettava qualcuno. — Grullo a chi ci crede, — concluse poi dopo un ultimo giro di ricognizione, ricascando nella poltrona; e con un breve gesto dispettoso strappò una nappina. In quel punto avvertì dietro di se un lieve fruscio e un sottile profumo di Eliotropio... Il poema dei bambini FANTASIA. Il libro è aperto e attende. Un gran libro niveo dalle pagine orlate di raggi. Ma chi lo scriverà il poema immacolato? Qual mano sarà così lieve e qual fantasia così alata per fissarlo in tutta la sua indeterminatezza misteriosa e divina?... La mano di un angelo, forse, e la fantasia d’una fata; le due figure vaporose fra cui si snoda l’innocente spira delle piccole anime che ingentiliscono il mondo. L’angelo, che veglia alto e fulgente a capo d’ogni culla, come sulla prora della navicella dantesca, potrebbe cantarci, forse, dei paesi dove vagano gli spiriti dei bambini addormentati sotto le cupole di trina o sotto gli scialli sdrusciti; ci dipingerebbe il paradiso che sognano, pieno di testine alate e di bambini morti che hanno portato fra le nuvole le loro bambole e i loro burattini, e danzano intorno ad un eterno Albero di Natale, e giocano con un Dio bambino come loro. Potrebbe rivelarci che cosa pensano quando esultano ad uno splendore o piangono ad una musica; quando rimangono assorti nella contemplazione d’un fiore e d’un viso; che avvertimenti ci danno quando la loro piccola mano ci avvince e ci trae; quando ci domandano una carezza e ci negano un bacio. L’angelo, forse, ci direbbe chi insegna loro a consolar così bene senza parlare, a persuadere, a riunire, a redimere, solo con la freschezza delle loro bocche, con l’espressione inconscia del loro sguardo, col profumo de’ loro riccioli, con la pace del loro respiro. Ci direbbe, l’angelo, come sanno certe parole così efficaci, così immaginose, così solenni, così tremende... ci narrerebbe le tristezze dei piccoli infermi, le malinconie degli abbandonati, le tentazioni dei vagabondi, gli odî degli oppressi, i rancori dei posposti: tutte le loro lotte, le loro vittorie, i loro martirii, i loro spaventi, i loro dolori, i loro palpiti, tutta la loro vita intima così pura, così vergine, su cui aleggia ancora l’alito di Dio! la loro vita che qualche volta non è che una breve sosta fra due voli — e l’angelo dalle grandi ali lo sa, egli che veglia sulle culle ridenti, sulle bare ornate come trionfi, sulle tombe infiorate e incise di nomi brevi che non hanno passato. E la fata, la bella fata dall’abito di broccato e dalla corona di regina verso cui salgono le invocazioni, i sospiri, i desiderî di tutta l’umanità minuscola che s’agita nei palazzi e nei tugurî, sa bene, lei, gl’ideali infantili! A lei, la loro Musa, i bambini confidano i sogni di gloria e di felicità; lei aspettano centinaia e centinaia di scarpette fra gli alari di bronzo dorato, sotto le cappe gigantesche dei vecchi camini, nel povero focolare, accanto agli sportelli delle stufe, vicino alle bocche dei caloriferi, ad ogni varco del labirinto buio e misterioso e fantastico per cui sanno che Ella peregrina la notte dell’Epifania. Lei sperano i piccoli cenciosi rannicchiati, intirizziti e digiuni; i duchini, che hanno sorpresa la mamma a piangere fra i cuscini di raso; le bambine timide e sensibili, che si nascondono per pregare ginocchioni e affratellano la sua immagine all’immagine di Maria. La bella fata potrebbe ridirci gli sgomenti paurosi, i terrori di tante testine cacciate sotto le coltri per non veder giganteggiare l’Orco o il Lupo Manaro nell’ombra; i desiderî fervidi di galoppare sui cavalli di legno verso le plaghe incantate dai castelli di diamante e dalle arancie d’oro, le visioni di paesi della cuccagna, dalle case di confetti e dai mobili di cioccolata, dove i bambini non studiano, dove le mamme non sgridano; dove Cappuccetto rosso, Puccettino, Cenerentola, la Bella, si rincorrono in un gran prato fra tutti i giocattoli del mondo. E additandoci il suo gaio corteggio di gnomi, di burattini, di spauracchi, di falconieri, di geni, ci spiegherebbe, lei, perchè i bambini sono così adorabilmente grotteschi qualche volta, così comici, così iperbolici, così eleganti, così sovrumani. Ci direbbe, lei, il segreto della fantasia infantile, ingegnosa, gentile, che alimenta qualche volta il primo germoglio d’un fiore divino. All’angelo e alla fata dunque, ad essi che sanno, il tracciare l’immacolato poema. E nei margini alluminati con le sfumature più ridenti, con le luminosità più gioconde, le figurine infantili lo ravviveranno. Tutti i bambini: dalle testoline idealmente bionde dei _baby_ nordici, ai musetti sudici degli spazzacamini, dai piccoli chinesi tutti goffaggine, giù giù sino ai corpicini agili e nudi dei bronzei marmocchi africani; tutti i bambini, di tutte le classi, di tutte le età, di tutti i tipi, di tutti i paesi: una fantasmagoria, una piccola moltitudine varia, innocente, primaverile. E sera e mattina, dal poema immacolato fra la vivente ghirlanda, s’effonderà un effluvio refrigerante, poichè le piccole anime si schiudono nei crepuscoli, e gli affetti e le preghiere evaporano sino al cielo, avvolgendo il mondo d’un incenso ideale, purificatore; significante agli scettici, ai dolenti, che sulla terra c’è ancora qualche cosa di puro, di bello, di vero, poichè ci sono loro... _Natale 1891._ Treccia bionda. Max, il giovane compositore di musica, finiva d’abbottonarsi l’abito, ritto dinanzi al grande specchio nel tepore, nella luce blanda, nel disordine della sua elegante camera di scapolo. Voleva esser calmo, ma le mani avevano movimenti bruscamente nervosi; ma sul viso pallido e serio si diffondeva un’ombra cupa, forse il riflesso di un’interna lotta. Nient’altro che un’ombra; eppure era già troppo per lui giovane e ardente di passione per la donna che lo aspettava ad un convegno d’amore.... Quell’ombra pareva un tedio ed era rimorso; giacchè egli non era un seduttore volgare, e gli si affacciava spesso in tutta la sua reale crudezza il pensiero tormentoso di tradire quell’uomo... il compagno della sua giovinezza, dei suoi studi, delle sue speranze, dei suoi disinganni: l’uomo generoso che lottava con lui e per lui, per assicurargli i trionfi, l’avvenire, la gloria, nella carriera difficile e ardimentosa; l’amico che lo aveva sempre consolato e moderato, con la calma benevola di un padre amoroso, negli scoraggiamenti o nelle ebbrezze della sua impetuosa natura. Max doveva tanto a quell’uomo e lo tradiva; gli doveva la rigogliosa vitalità dell’ingegno che lo rendeva ricco e felice, e gli toglieva la sua ricchezza, la sua felicità. Quando gli si figgeva questo pensiero nel cervello Max si sentiva vile e miserabile; ma il dualismo gli tumultuava nel cuore, ed era una strana passione quella che gli paralizzava l’anima e gli accendeva i sensi, prestandogli mansuetudini e timidezze di fanciullo, ribellioni titaniche, gelosie feroci. Inoltre con tutta la sua fervida fantasia d’artista, continuamente eccitata dalla creazione musicale, credeva al fato, al fato dell’arabo, al fato del medioevo, e vi si abbandonava, e si saturava di quelle teorìe che lo spogliavano d’ogni responsabilità, che gli facevano compiere gli atti più importanti della sua vita dietro una causa futile e comune per ogni altro, ma in cui egli vedeva maravigliose predestinazioni. Se qualche ostacolo gli avesse attraversata dapprima quella via d’amore così facile, e così piana, forse la sua esagerata dignità sarebbe rimasta spaurita dalle finzioni volgari, e quel suo misticismo superstizioso lo avrebbe fatto trionfare nella lotta. Ma pareva invece che un destino dolce e tremendo avvincesse la sua alla vita di Giselda con un delizioso laberinto di fila segrete che si serravano ogni giorno di più. Nulla gliela contendeva oramai: nè la vigilanza del marito assurdamente fiducioso, nè apparente scrupolo in lei addormentata in un fascino profondo, nè circostanze difficili, nè contrattempi, nulla; Giselda era sua, egli lo sapeva. Vinta dal suo sguardo, dalla sua voce, dalle sue melodie, ella non si difendeva, non tergiversava, non lottava: si abbandonava anche lei a occhi chiusi, incrociando le braccia, alla corrente fatale. Non sapeva che tremare e impallidire; come la prima volta sulla terrazza deserta, quando gli abbandonò le mani e il capo sul petto, — nell’aria molle, nel profumo, nell’incanto di quella notte di primavera... Guardò l’orologio. Ancora un’ora, un’eternità.... Si buttò sul divano facendosi vento col fazzoletto, poi terse qualche stilla di sudore sulle tempie. E s’ella si fosse scossa infine? se le voci della dignità e del dovere l’avessero svegliata dal sogno oblioso e fiorito? se fosse partita come minacciava, come implorava, quasi, dalla sua stessa volontà? S’alzò, si mise a passeggiare per la camera intorno ai mobili artistici di un gusto severo, passandosi le mani sugli occhi, ricacciandosi indietro i capelli convulsamente: il tappeto ammorzava i suoi passi; pareva un’ombra errante con l’alta statura, il viso smorto, l’abito nero. Passò davanti al balcone che si schiudeva sul Canal grande, ed ebbe appena uno sguardo indifferente, lui artista ed entusiasta della sua Venezia, per la lunga schiera incantata dei palazzi dirimpetto, sorgenti fra l’acqua e il cielo nel vasto silenzio e nella placida luce d’opale e di madreperla che solo i crepuscoli veneziani hanno. — «È meglio che mi levi di qui, — concluse; — almeno mi toglierò dall’inferno dell’attesa in questa solitudine...». — E s’avviò a pigliare i guanti sulla mensola, nell’angolo, ingombra di cofanetti e di gingilli: poi con lo sguardo vago, la mente assorta negli occhi neri, nel profumo, nel fascino di lei, pigiò macchinalmente il dito sulla molla di uno fra quei piccoli scrigni, lo aperse, vi cacciò la mano sbadatamente.... ma la ritrasse tosto con un brivido che lo agghiacciò, anima e corpo. Invece della liscia ed unita superficie del guanto, aveva sentito sotto le sue dita delle filamenta morbide e sottili come d’una matassa di seta. — Ah, che sacrilegio! — esclamò con vero ribrezzo; poi tentò di superarsi e volle richiudere il cofano frettolosamente. Ma la treccia bionda della morta ricascava fuori dallo scrigno, sollevando il coperchio, ricusando di togliersi alla sua vista, di rientrare nella sua tomba — imponendosi.... Max era rimasto immobile, con gli occhi fissi, la fantasia, sàtura di fatalismo, paurosamente colpita. Per la prima volta gli accadeva di aprire storditamente quel reliquiario che conteneva la memoria più soave, più mesta, più santa della sua vita; memoria da lui custodita con tutta la venerazione segreta di cui era capace la sua natura dolorosamente sensibile e trascendentale. Povera Maria! che profanazione! Egli s’assise là, nell’ombra di quel cantuccio sommerso nel crepuscolo, levò adagio, con le mani un po’ tremanti, la lunga treccia voluminosa a cui era avvinto strettamente un piccolo gruppo di seccume — fiori in un tempo lontano — e la lunga treccia gli scivolò sulle ginocchia in un molle abbandono di cosa morta, spiccando opacamente bionda sull’abito nero. Intanto, all’aprirsi del breve reliquiario, usciva lo sciame dei ricordi, e la memoria evocava fedele l’immagine della giovinetta: la delineava, come sempre, bianca, mite, gentile, sul balconcino gotico del vecchio palazzo tetro; nella gondola nera e slanciata fra la luminosità della laguna rispecchiantesi nei grandi occhi sereni di lei in tutte le sue misteriose e profonde trasparenze; nella vasta piazza marmorea sotto un cielo di cobalto, innanzi a San Marco scintillante di colori e d’oro, come un gioiello, nella calda fulgidezza del sole meridiano; mentre una frotta di colombi scendeva serrata, attorniava lei, bionda e ridente, poi si levava a volo sparpagliandosi con un brusco frullo d’ala. Rivedeva la sua fanciulla passare nelle tortuose, umide calli, benefica e soave come una buona fata; la rivedeva scendere e salire i ponti, lesta, leggiera, colla testa alta, il viso colorito, inebriata di gioventù, d’aria, di luce; la ritrovava prostrata sotto il lumicino rosso di una lampada moresca che faceva rilucere i mosaici nell’ombra della cattedrale bizantina; la ripensava come una sera estiva, ai Giardini, nel bianco lume lunare, appoggiata alla balaustra di marmo sulla laguna che si stendeva luccicante di riflessi d’acciaio; ricordava il lungo silenzio e il turbamento che li aveva colti all’improvviso in quella gran pace; ricordava il movimento quasi inconscio della manina sottile che sfogliava un fiore: persino le piccole fosforescenze dell’anellino di brillanti ricordava; e sopratutto di non averla veduta mai tanto idealmente bella come in quella sera, tutta irraggiata come una candida parvenza che dovesse svanire nelle ombre del Giardino, o nella serenità fredda del vasto plenilunio. Erano cresciuti assieme; si volevano bene come fratello e sorella; si vedevano tutti i giorni, a tutte le ore. Max non trovava ricordo dolce o triste della sua prima giovinezza che non fosse confuso alle risatine fresche, allo sguardo sereno, alle lagrime silenti, alla voce soave di Maria. Quante volte ella aveva spianato con le bianche dita una ruga precoce del volto, dileguato con gli occhi azzurri una nebbia uggiosa dal cuore del suo compagno! Quanti consigli miti, quante parole ragionevoli, quanta logica semplice adoperava per persuaderlo, per frenarlo, per animarlo, per fargli mutare un cattivo proposito di svogliatezza o di vendetta! Ed era cosa rara la sconfitta di Maria, giacchè anche lui allora era giovane, buono, impressionabile, pieno di entusiasmi e di fede. — Povera fanciulla! Come era leggiadra quell’ultima sera al suo primo ballo! come era lieta, spensierata e bella nell’abito bianco vaporoso, senza gioielli e senza fiori, lei, fiore e gioiello vivente con la carnagione d’una freschezza rosea e vellutata di petalo, le lunghe treccie di fili d’oro! Max ritrovava il fremito di delizioso sgomento che lo aveva assalito quella sera al contatto delle morbide treccie voluminose, quando volle puntarle un mazzolino in testa, proprio fra le ondulature delle trecce di fili d’oro. Rammentava il loro respiro ancora ansante dopo quel valtzer vertiginoso, il viso acceso, l’espressione ingenuamente maliziosa degli occhi color del mare, i movimenti della testolina irrequieta di Maria che si divertiva della goffaggine di lui, delle sue mani tremanti, del suo riso imbarazzato e nervoso. «Ora sei proprio bella!» le aveva detto poi, ed ella si era ammirata ad uno specchio, mormorando scherzosa: «Ebbene non lo leverò più!» E non lo aveva più levato, povera bambina! Si era ammalata l’indomani e la morte l’aveva portata via col mazzolino nelle treccie bionde... Ed ecco finalmente la tetra, la mestissima, l’incancellabile visione... il lettino bianco nella camera a colori ridenti, dove egli entrava per la prima volta e perchè ella moriva. Ecco il volto affilato, livido, in cui parevano sinistramente belli gli occhi color del mare; il sorriso buono; le piccole mani che gli si allacciavano al collo, la voce soave, fioca, all’orecchio: «Max, ho ancora il tuo mazzolino nelle treccie, vedi?... Quando non ci sarò più, riprendilo... ma pigliati pure la treccia, una delle mie treccie bionde che ti piacevano tanto: così il mazzolino non ne verrà separato e ti resterà qualchecosa di me...» Egli adolescente, innamorato, con la testa piena di romanticismo, nello strazio di quell’ora vagheggiò il suicidio; ed ella lo stringeva più forte con le piccole mani, persuadendolo, come quando faceva desistere da un cattivo proposito lo scolaro ribelle. «No, vivi, Max; vivi per i tuoi genitori, per mia madre... per la tua bell’arte vivi, lotta, studia, diventa artista, diventa celebre.... ma non ti dimenticare....» Ed egli aveva sentito sulle gote le lagrime di quella povera giovinezza morente — la sua ultima ribellione — il suo ultimo rimpianto alla vita. ..... Una fredda esistenza, un’esistenza di tumulti, un vuoto, un’aridità erano venuti dopo la morte della sua fanciulla... Uno sfrondamento di illusioni, di entusiasmi, di speranze... Un brulicame di basse passioni, di piccole menzogne... E quanto arrabattarsi per la felicità, per l’amore, per la gloria, veduti sempre all’orizzonte e sfumati sempre come splendidi miraggi! Oh se Maria non fosse morta, sarebbe la sua sposa, la sua difesa, il suo angelo custode, la pace e il riposo dell’esistenza sua. Ma la bionda visione era cancellata per sempre... Max, in quel cantuccio sommerso nell’ombra, con lo sguardo sulla treccia, viveva così nel passato senza più nozione del tempo e della realtà.... ..... — Signorino, non mi comanda di accendere i lumi? — disse la voce tremula e discreta del vecchio servo dalla soglia della camera elegante. Max diede un balzo e guardò l’orologio. L’ora del convegno era passata da quaranta minuti; l’ora attesa febbrilmente e sognata ardentemente aveva potuto dunque dileguarsi così? Egli non battè ciglio, non si mosse, ma qualche cosa moriva dentro di lui in tutti gli strazî di un’agonia disperata e tremenda. «Tu non lo vuoi, dunque, Maria; tu non lo vuoi! — » ripeteva il suo pensiero fra il tumulto de’ suoi sensi, fra quell’ultima lotta. E la bionda treccia, nel suo abbandono molle, pareva rispondergli, trattenendolo, tenue e possente come il braccio di un bambino che gli si fosse addormentato in grembo. Max chinò il capo come piegando ad una forza superiore. Una lenta stanchezza lo invase; uno scoramento, un languore indicibili; un senso di debolezza, d’impotenza a lottare col destino che gli si rivelava all’improvviso tremendo; un desiderio latente di finirla col dualismo che gli tendeva i nervi, gli assopiva le facoltà della mente, gli velava l’alta serenità fulgida dell’arte, in cui l’anima sua era solita a librarsi, a spaziare, a cercare le migliori compiacenze, le consolazioni più pure e più efficaci della sua vita tempestosa. Poi Maria era in lui; Maria, la bionda morta evocata: ed il basso brulichio delle passioni e dei desiderî sensuali non reggeva a quel confronto e fuggiva e si sperdeva da tutti i lati come le tenebre al raggio trionfale del sole. Le sue ebbrezze, il suo amore, la sua dissimulazione, tutta la miseria infine della sua condotta passata, lo disgustarono, lo umiliarono, lo nausearono come il ricordo d’un sogno oscenamente bugiardo.... Ebbene, no; non avrebbe da rimproverarsi una simile viltà: la viltà di prendere una povera donna debole e onesta; la viltà di tradire l’uomo che lo aveva beneficato. No, non avrebbe una macchia simile sulla sua coscienza d’uomo leale, sulla sua vita elevata dall’arte. Rialzò il capo alteramente, più calmo, poichè la sua immaginosa e mistica natura era già allettata dalla poesia del sacrifizio che gli aleggiava nel cuore sperdendo i resti di quell’ardente soffio di passione. Uscì sul balcone e rimase là finchè la notte scese sul Canal Grande e nel cielo palpitarono rilucenti le stelle. Nessun lume nelle enormi masse nere dei palazzi dirimpetto; qualche gondola appariva e spariva col rosso lumicino riflettentesi in striscia purpurea, verticale e tremolante nell’acqua bruna. Un bisbiglio di voci, un tonfo di remo, un breve, mite sciaguattìo; poi il silenzio, ancora il silenzio delle notti veneziane pieno di misteri, di dolcezze, di malinconie. Quando Max ebbe l’anima penetrata di quel silenzio e di quell’incanto; quando ebbe ascoltato tutto ciò che gli dicevano la notte stellata e i ricordi già lontani del suo grande amore domo dalla bionda morta innocente, passò nel suo salotto di studio ornato di opere d’arte antica e moderna, s’assise al pianoforte nascosto da vecchi arazzi e suonò. Suonò l’intera notte, nella sala semibuia, e cantò tutti i canti che gli fluivano dal cuore. Fu in quella notte che cominciò a comporre il capolavoro che gli diede la rinomanza e la gloria. Romanze senza parole I. FUTURO ..... Nel salotto non c’era nessuno. Il salotto sontuoso, artisticamente ingombro, pareva riposare nella penombra, avvolto nella sua stessa morbidezza voluttuosa, infingarda, fatta di cuscini, di tappeti, di panneggiamenti, fra cui scendevano specchi, luccicavano trofei, si disegnavano fogliami esotici e mobilucci, strani come mostri, o severi, di classica antichità. Si udiva scoppiettare nel camino la fiamma velata fantasiosamente dal parafuoco di piccoli vetri policromi, fatto d’un’invetriata di chiesa; da ogni anfora, da ogni vaso, da ogni coppa, emergevano mazzi enormi di fiori di serra, stretti fra i cartocci di trina da un giardiniere sapiente; sul divano largo, di damasco, giacevano astucci, libri, cofanetti, gingilli, i doni di Capodanno ancora a metà involti nella carta di seta; dalla spalliera una magnifica sciarpa di vecchia blonda ricascava flosciamente, e due pantofoline minuscole di felpa avorio, ricamate d’oro, posavano sul tappeto, tutte piene di viole fresche: leggiadri cornucopia di felicità. Accanto al fuoco, intorno ad una poltrona, un angolo più abitato, una nicchia prediletta fra una giardiniera tutta verde, un’alta arpa dorata, un tavolinetto a due piani con su fotografie, un portafogli di raso contenente un fazzoletto di trina — la novità elegante — un volumetto di versi intonso — un libriccino per gli appunti dalle pagine candide, dalla copertina d’avorio, sulla quale si delineavano luminosamente in argento le cifre di quell’anno novello. Poi, nel piano inferiore, una cestellina da lavoro piena di colori ridenti e minuzzoli d’oro, bomboniere, giocattoli, inezie. Tutto un sonnecchiare infantilmente placido delle cose; un abbandono vergine, fidente, pieno di freschezza; un’ignoranza piena di pace. Ma accanto alla finestra, su un cavalletto di pittore, una tela bianca, vuota, e sulla scrivanìa molti foglietti lucidi, bianchi, parevano minacciare muti, aspettando... II. PRESENTE ..... Ancora nessuno nel salotto. Ma vaga tuttavia un profumo sottile, indefinibile, fatto di tutte le essenze e di nessuna. Il fuoco è spento, e dalla finestra spalancata il sole entra in un’ondata d’oro, abbagliando mobili, stoffe, cose, che rivivono folli e gioconde nella luce logorante. Sulla lastra d’uno specchio sono state incise due iniziali col diamante, e dalle anfore, dai vasi, dalle coppe, tutt’una fioritura d’un sol fiore: di rosa thea; una delle quali giace vizza sul divano largo, di damasco, insieme a un piccolo pettine di tartaruga ambrata. Accanto all’arpa, un violino, e un foglio di musica: un canto mesto, largo, ma d’una passione quasi trionfale; accanto alla poltrona prediletta, sul tavolino, non c’è più che una sola fotografia in cui sorridono accostate due giovani teste: l’una virile, bruna; bionda l’altra, e della femminilità più soave. Fra il volumetto di versi è rimasto dimenticato un fiore; dalla cestellina esce un nastro azzurro in cui si sta ricamando una data, un numero: prosa volgare o poesia sublime; — nel libriccino di appunti si legge un verso di De Musset scritto due volte da mano diversa: «Comment vis-tu toi qui n’as pas d’amour?» E la testa bruna, virile, si delinea sulla tela del cavalletto, e sulla scrivanìa fra i foglietti lucidi, bianchi, fa capolino una lettera di cui non si leggono che due ultime parole: Ora e sempre. Tutt’un tripudio, un’ebbrezza delle cose in quel lieve disordine, nell’onda di sole che irrompe gloriosa, pennelleggiando, raddoppiando la vita, consumando come una fiamma... III. PASSATO .... Il salotto è abbandonato, deserto. Dalla finestra aperta il plenilunio piove raggi nel buio come in una tomba violata; le cose tutte paiono dormire il sonno eterno nell’ombra densa intorno alle pareti, e rivivere in sogno nell’irradiazione spettrale di quel rettangolo di luce. Nei vasi, nelle anfore, nelle coppe, appassiscono tristi e foschi i crisantemi; dall’arpa alta, dorata, pendono rotte due corde, sul tavolino la fotografia è rovesciata come la pietra d’un altare distrutto da mano sacrilega; il volumetto di versi trascina lacerato a brani; la cestellina da lavoro è chiusa, negletta; sull’ultima pagina del libriccino di appunti, un altro verso di De Musset, vergato con calligrafia femminile: .... «Elle songe une année a qui lui pense un jour.» Sulla tela del cavalletto scende un velo di crespo; sul divano largo, di damasco, un fazzoletto di trina intriso di lagrime; sulla scrivanìa, accanto ai pètali fossilizzati d’una rosa thea, in un foglietto bianco, una sola parola: «Addio.» Pasqua triste A destra del ponte che ricongiunge il villaggio diviso dal piccolo fiume, sulla spianata erbosa, dietro il circo in cui si accendevano i primi lumi, era il carrettone dei saltimbanchi: una minuscola casa mobile, verniciata di rosso, con le persiane verdi alle finestrette in cui non mancavano neppure le tendine di trina. Veduta di fuori faceva quasi invidia. Dentro era un laidume; cenci ammucchiati, suppellettili sudicie, arnesi logori d’ogni genere, qualche sedia sfondata. Era tutto. No... c’era anche un saccone sul quale stava accoccolata una donna a guardia d’un bambino lattante addormentato, supino, fra uno scialle scuro, con la faccetta terrea rivolta alla luce del vespro che pioveva dalla angusta finestra soprastante. Di là si udiva il brusìo continuo e confuso della rustica folla sul piazzale, il vociare dei venditori, delle risa, qualche fischio, qualche suono rauco e stonato d’un gingillo infantile. Tutta la manifestazione dell’ozio gaudente d’una sera solenne aspettata un anno. Era Pasqua di Resurrezione. La donna teneva il volto chino fra le mani che alla luce incerta parevano bianche. Ascoltava l’anima sua dolorare. Gemeva l’anima: — ... dodici anni... un attimo, un secolo.... dodici anni che non respiro quest’aria, che non vedo questo cielo, che lasciai la mia casa fuggendo di notte, come una ladra, con lui che mi aveva sconvolto il sangue e la ragione... Un saltimbanco... quante me ne dissero per dissuadermi, quante! «È un demonio che ti tenta» diceva la nonna. «È un Arcangelo,» rispondeva io. Era così bello con quella maglia azzurra, luccicante, che gli disegnava la persona agile e vigorosa, con quella testa ricciuta, lo sguardo altero! Lo chiamavano il _Principe_. Aveva una destrezza, una forza, un coraggio... Gli altri uomini al suo confronto mi parevano pigmei... Aveva un certo modo di affisare che soggiogava... un modo di pronunziare il mio nome, di dirmi che ero bella, che m’illanguidiva di dolcezza... Non potevo pensare che a lui, vivevo di lui... Egli era padrone di tutta me stessa, mi aveva incantata. Così, quando partirono dal paese e il Principe mi disse «Vieni» io andai. Dodici anni sono passati... Il babbo, la nonna, riposano accanto alla mamma, laggiù.... sotto l’erba... i miei fratelli si sono ammogliati lontano... hanno venduto il podere e la casa... non resta più nulla... perchè rimango io? Perchè non sono morta prima di ricomparire come un’ombra fra queste rovine?... Di qui so che si vede la finestra della mia camera... Io non la guarderò, ma sento che lei mi guarda... Ci sarà ancora il gelsomino che la inghirlandava, o si sarà inaridito?... Era là che ricamavo al mio telaio, là nel vano di quella finestra... ricamavo sulla battista per ore e ore... alla domenica leggevo, e ogni tanto sentivo passare sulla mia testolina la mano della nonna in una carezza frettolosa... s’affaccendava sempre, lei... Verso sera m’appoggiavo al davanzale senza far nulla: la luce scemava, il sole andava sotto, rosso, dietro i monti; io guardava i campi rigogliosi e tranquilli, da cui saliva un senso di frescura, e coglievo i gelsomini con la mente piena di fantasticherie... Una sera, ricordo, passò un giovane e raccolse una ciocca che mi era caduta; io ne risi: la seconda sera egli ripassò, io non risi più: la terza, invece, gli sorrisi e gli buttai un’altra ciocca di gelsomini. Era un giovane onesto, serio, intelligente e mi adorava; la nonna era così contenta ed io felice... Poi la fatalità mise sulla mia strada quell’uomo che travolse tutto, come un turbine sradica e schianta... Chi sa se Andrea vive, chi sa se vive fra i vincitori o fra i vinti, chi sa se è qui... Dio, se fosse qui e che volesse... Oh non mi riconoscerebbe certo più. Eppure mi sarebbe dolce in ogni modo riudire la sua voce, senza vederci, così, traverso la parete, la sua voce insinuante e buona, che mi ridonerebbe nella realtà un’ora del mio passato. Vorrei che gli fosse rimasto di me solamente un ricordo di pietà, come di una morta che si è veduta lungamente soffrire. E anche il giovane innamorato dovrebbe esser morto; resterebbe l’amico per intendermi e compiangermi, l’uomo ritemprato dalle lotte e dal dolore. Io gli direi della mia immensa miseria presente, dei rimorsi che mi mordono al cuore appena oso rivolgere lo sguardo al passato, della mia espiazione di dodici anni per un momento di aberrazione; gli direi che ero pazza, e se egli ha amato, certo sa di che si può esser capaci quando l’ebbrezza d’una passione sconvolge la mente... Eppure non oserei scolparmi, fui un’indegna... Ma se ne ha versate, lui, delle lagrime sul nostro amore spezzato, ne ho versate tante anch’io, e giorno, e notte, e sempre, sulle mie pazze illusioni dileguate, sulle mie creature morte di fatiche e di stenti, sulla mia logora esistenza che non ho coraggio di troncare!... Ne ho versate di gelosia, d’umiliazione, d’odio per quei miserabili istrioni che mi circondano; d’impotenza per un amore che non si spegne, che non mi strapperò dal cuore se non con la vita... Ne ho versate tante!... Ora non piango più... non ho pianto neanche stamattina quando ho veduto di lungi il campanile del mio paese... Sono muta, impietrita come una statua, ma non divengo insensibile... È una tortura di cui nessuno può immaginare la raffinatezza...» Un solenne e gioioso intervenir di campane fra la gaiezza oramai monotona dei rumori, mise in fuga da quell’anima indolorita gli amari ricordi e le visioni gentili. Le mani ricascarono, la donna rialzò il capo verso la finestrina dirimpetto, che inquadrava un lembo di cielo rosato ancora, la punta d’un pioppo e una stella. Le vecchie campane esultavano tentando di fondere la loro letizia bonaria e monacale alla trivialità umana. Fu dapprima uno sbadato preludio, poi un giocondo incalzare di suoni, ripetuto, insistente, una gazzarra di tutte le voci delle campane che parevano rifarsi delle ore di raccoglimento. Erano sempre le stesse, le loquaci e sapienti campane! quelle che la voce già tremula della nonna seguiva canterellando per rallegrare loro bambini, nelle lunghe e placide domeniche, seduta nell’orticello, mentre il loro padre fumava nella pipa, in silenzio, seduto un po’ più in là sulla sedia alquanto arrovesciata all’indietro, contro il muro... Di tutto, di tutto si ricordava; tutto si svegliava nel suo cuore al cicaleccio pio che riempiva le solitudini azzurre: e certi effetti di luce su certe pareti, e l’odor dei fiori che sfogliavano per le processioni; una coppia di tortorelle, e un quadro antico della Vergine, e delle ghirlande di crisantemi intrecciate insieme alla nonna in qualche vespro piovigginoso, già freddo... Ma sopratutto della dolce Pasqua casalinga che lasciava nella umile, queta dimora un cestellino di ova colorite in rosso, un ramoscello d’olivo, e una serenità più limpida, come dopo una buona pioggia. Dalle finestre spalancate al nuovo sole s’udivano le campane, così, nel pomeriggio, mentre il babbo trinciava l’agnello per la sua nidiata. Però le campane suonavano più raccolte, più gravi, allora; che si fossero dimenticate di suonare così?... Ah no, eccolo, eccolo! Le campane infine scioglievano il classico doppio, il saluto di più solenne esultanza, l’onore magno, reso alla giornata regale che dileguava dopo aver dato il segnale della resurrezione, lasciando sulle sue traccie la primavera. E la dolce pasqua casalinga, la pasqua che rinnovella i cuori come i giardini, la pasqua dell’olivo e dell’acqua lustrale e del perdono, passava memore e intangibile e vana su quell’anima sola, nell’ultimo e largo saluto di gloria che si effondeva dall’austerità del rustico campanile. Ma salutari lagrime scorrevano... La scarpina di Cenerentola — _Honny soit_... — All’udire suo marito che ordinava la carrozza per mezzanotte, Mimì si rizzò un poco dalla poltrona lunga dov’era stesa accanto al caminetto, fra le pelliccie e i cuscini, freddolosamente. — Dunque ci vai proprio? — gli chiese, appena scomparso il servo. Ed aveva la voce stonata per la penosa emozione che le toglieva ogni rimasuglio di speranza. — Ma sì, proprio, — rispose tranquillamente il crudele, senza levar gli occhi dal giornale scelto a caso fra quelli che ingombravano il tavolino. — E me lo dici così!?... — Mimì lo fissò ostinatamente coi begli occhi larghi, infantili, pieni di lacrime, stiracchiando nervosa una nappina del guanciale di felpa in cui affondava le spalle delicate. — Come dovrei dirtelo? Non lo sapevi già? se ne è parlato fin troppo.... e anche un po’ vivacemente, mi pare. C’è bisogno che ti ripeta, tesoro, che nelle piccole, come nelle grandi cose, quando ho deciso, nessuno mi smuove dal mio proposito? È una dote o un difetto essenziale del mio carattere.... La piccola Mimì sentì salirsi alle labbra una ressa di parole amare e sprezzanti, ma non ne lasciò uscire neanche una. Si contentò di coprirsi gli occhi con la mano. Dunque tutta la sua fine diplomazia femminile, di cui aveva fatto spreco quella sera per trattenerlo, era stata inutile! Dunque le sue carezze, le sue ingenue civetterie, i suoi immaginosi pretesti, i discorsi piacevoli, i frizzi arguti, le discussioni sull’arte, sostenute con tanto stento per un unico fine, tutto era stato vano; tutto dileguava innanzi alla fermezza incrollabile di quell’uomo che aveva fissato di darle un dispiacere, che temeva di perdere un briciolo della sua autorità facendole il sacrifizio di una sera di carnevale, mostrandosi compiacente almeno una volta con lei, povera donnina debole e amorosa, che non aveva da rimproverarsi se non di amarlo sempre come nel giorno delle loro nozze...! Era una crudeltà, una durezza, una barbarie inaudita! Tutta la sua anima semplice e buona si ribellava, riboccante di amarezza e di sconforto. Frattanto la piccola mano tornita che nascondeva gli occhi tremava, la testa e le spalle avevano lievi guizzi convulsi, le lagrime cascavano silenti una dopo l’altra fra i cuscini e le pelliccie. Egli la osservava ogni tanto, levando gli occhi dal giornale, con un misto d’inquietudine e di noia; la osservava brevemente, lisciandosi la barba bionda e fluente, nascondendo qualche impertinente sbadiglio. Gli dispiaceva un poco di vederla piangere, povera piccina. Una vera bimba, Mimì, piccola, mingherlina, rosea, ricciuta e... irragionevole. Non si ritrovava la donna che nelle movenze aggraziate, in qualche intonazione di voce triste e dolce, in qualche lampo dello sguardo. Egli l’aveva amata così, la amava tuttora; ma a modo suo: senza sacrificarle nessuna delle sue tendenze, delle sue abitudini, non curandosi di approvarla o di disapprovarla, di pensare un momento se ciò ch’ella gli chiedeva fosse giusto o meno. L’amava come una cosina leggiadra e fragile; sorrideva dei suoi entusiasmi, delle sue esultanze, delle sue allegrie chiassose; le donava un gingillo quando la vedeva triste; la ammoniva freddamente delle sue inesperienze, severamente de’ suoi capricci, come questo, per esempio, di scongiurarlo a rinunziare al veglione. Silvio continuava a difendersi fra sè; a pensare che non doveva lasciarsi imporre; che se avesse ceduto una volta era finita: Mimì ne approfitterebbe subito per ritentare la prova fin che sarebbe diventata la sua tiranna. Le donne sono così invadenti! Si provi a conceder loro un palmo di terreno, esigono dei chilometri! Precisamente come quell’astuto dio della mitologia indiana, che si rimpicciolì per ottenere tre passi di regno; poi, a grazia fatta, divenne così smisurato che in tre passi abbracciò terra e cielo e inferno.... Uh, niente, niente: aveva fatto benissimo a mostrarsi incrollabile anche per una cosa che a lui non importava affatto. Anzi, siccome ella piangeva, ora, col fazzoletto agli occhi e pareva far pompa delle sue lagrime, Silvio si alzò per andarsene. Non che temesse d’essere intenerito da quelle lagrime, oh no; Silvio era un uomo forte; voleva solamente levarsi da quella posizione ridicola e imbarazzante. Però non volendo neanche parere un tiranno le si avvicinò e scherzosamente le prese i polsi per forzarla a scoprire il viso; ma Mimì lo respinse sdegnosa, singhiozzando addirittura. — Perchè non vieni anche tu? — disse allora lui in fretta, a scanso di rimorsi. Inutile: Mimì scrollò le spalle e gli gridò dietro con la voce piena di stizza e di lagrime: — Dimentica d’avere una moglie stasera... è il meglio che tu possa fare... Silvio richiuse l’uscio dietro di sè con bel garbo; poichè non era neppure un villano. Ma Mimì avrebbe preferito una sfuriata a quella superiorità noncurante che la umiliava e la desolava. Doveva essere trattata proprio sempre come una bimba? come un piccolo essere inconcludente la cui volontà non merita neanche dr essere discussa? come una scema? Che tristezza! che infamia! Si strinse la testa, tutta a riccioli brevi e scomposti, fra i cuscini soffici, nel silenzio vuoto che era rimasto dopo il tenue colpo dell’uscio che si richiudeva; un silenzio vuoto, freddo, indifferente, malinconico, in cui le si addentrava di più quella spina nel cuore. «Perchè non vieni?» le aveva chiesto Silvio. Ma perchè non dirglielo prima? E perchè ripeterle invece tutta la giornata che le signore per bene non vanno al veglione? Certo era per questo che Silvio ci teneva tanto!... Ah, povera Mimì! Anche i gingilli e i mobilucci, che conoscevano le sue manine sapienti e lievi, parevano compiangerla e avvilupparla d’un’intima tenerezza, nella luce tranquilla della lampada dal paralume color di rosa. Ma ella con gli occhi foschi, rigida, covava il suo rancore. Ah se avesse osato!... Nei romanzi e nelle novelle si trovano le mogli che sguizzano al veglione per sorprendere i mariti infedeli; ma nella vita è un altro paio di maniche. Come procurarsi un abito e un cavaliere a quell’ora?... E il coraggio per pigliare una risoluzione così ardita?.... Pure, che sollievo, che acre voluttà misurare l’estensione della propria sciagura e drizzarsi davanti all’indegno come una apparizione di dolore, e atterrirlo, e annientarlo, e svergognarlo, e lapidarlo di rimproveri, e ridurlo nell’incapacità di scolparsi e di difendersi, e vederlo rodersi di rabbia e... di rimorso! Invece, nulla! Conveniva invece che lei si rodesse d’impotenza e di dubbio, accanto al fuoco, sola, come una Cenerentola.... .... Belle fantasie gemmate, colorite e luminose affollate di fate e di principi! Fosse venuta anche da lei la fata-madrina a farle una carrozza dorata di una zucca, e sei cavalli grigio-rasati di sei topi, e due paggi di due lucertoline; a renderla incognita e splendida! Come l’avrebbe ringraziata la piccola Mimì!.... Ma la fata non veniva, ed ella rimaneva accanto al fuoco, dolente; e si sentiva ben più mesta e povera della bella ignorante fanciulla che rigovernava le stoviglie fra la cenere del focolare: più mesta e più misera di Cenerentola, malgrado le pelliccie, e i cuscini di seta, e gli orecchini di brillanti; poichè il suo Principe innamorato le era appena apparso che lo perdeva per sempre. Pensando così alla fiaba, Mimì si guardava malinconicamente i piedini giacenti fra le pelliccie della poltrona lunga, i piedini arcuati, sottili, minuscoli nelle calze di seta nera e così ben calzati dalle scarpette scollate a fibbia severa: stile Luigi XVI. Erano il suo vanto quei piccoli piedi che avevano una tradizione gloriosa d’ammirazioni, d’invidie, e di.... baci, un tempo! Ma quel tempo era passato, era già lontano, svaniva già nella nebulosa dei ricordi. E dire che era appena scoccato il primo anniversario delle loro nozze! Che sgomento! Intanto per le contrazioni nervose dei piedini mèmori, una scarpa elegante era sfuggita sul tappeto del pavimento. Mimì la guardò appena, così affranta come era, e immerse il piede libero fra la folta pelliccia, asciugandosi per l’ultima volta gli occhi col fazzoletto ch’era divenuto una spugna. Non li poteva tener più aperti gli occhi; le bruciavano tanto! aveva tanto pianto! Anche la testa ora le ardeva e le doleva un poco, e tutti i suoi nervi, a lungo tesi ed eccitati, si rilasciavano gradatamente, abbandonandola ad una prostrazione quasi dolce. Si aggiustò meglio fra i cuscini di felpa con un movimento amoroso e inconsciamente civettuolo, un movimento di micio o di bimbo che vuol essere carezzato. Anche lei pareva domandare una carezza a quei cuscini morbidi e un rifugio a quel tepore molle di nido. * * * Come le era venuto tutto il coraggio per la grande impresa?.... Dove aveva trovato quell’ampio domino nero, che la nascondeva così bene? E chi l’accompagnava?... Se ne ricordava forse, Mimì? Poteva pensarci nello strazio in cui si dibatteva l’anima sua in quell’orribile notte infernale? Che confusione, che caldo, che frastuono, che volgarità! quel caos di gente e di colori, che le si stringeva addosso soffocando la sua personcina, la spauriva; quella ridda vorticosa, urlante, le dava vertigini dolorose. Serrandosi al suo compagno per sottrarsi agli urti, agli scherzi, alle mani di quella folla ubriaca, non distoglieva lo sguardo da un palco dove suo marito, il suo Silvio, beveva sciampagna accanto ad una procace «Follìa» dai biondi capelli disciolti sulle spalle nude. Che orrendo martirio!.... Aveva singhiozzato e riso sotto la maschera, aveva invocato Dio, inveito... ella, così mite e buona! E il suo strano compagno rimaneva muto, impassibile, misterioso, senza pensare a calmarla, a darle un po’ di coraggio o di rassegnazione. Un contegno inesplicabile che la esasperava di più.... .... Poi s’era messa a cercare quel palco affannosamente, inutilmente; aveva errato lungo i corridoi interminabili, involuti e semibui come catacombe; aveva raccolto tutte le sue forze per chiamarlo — una pazzia! — per gridare quel nome, e nessun suono usciva dalle sue labbra aride — una strana impotenza di voce che la strozzava.... .... Ah, finalmente, eccolo! eccolo con lei, l’indegno! lo spergiuro! Finalmente ella potè sciogliere l’orribile groppo, sollevare il suo cuoricino ferito con quel torrente caldo, vivo, abbondante, inestinguibile, furioso, di parole amare e ardenti che fluivano spontanee, alimentate dalla disperazione e dall’amore. Ed ora fuggire lontano, per sempre, non vederlo mai più. .... Correva addirittura, trascinando il suo muto cavaliere, lungo i corridoi, lungo le scale, attraverso l’atrio, correva zoppicando poichè aveva perso una scarpina.... Che freddo al piede.... Ma che importa? L’essenziale era di fuggire, di fuggire, di fuggire.... * * * Silvio tornò a casa dopo un’ora. Gli era bastato compier l’atto d’autorità libera e assoluta presso sua moglie e sentirsi sempre capace di quell’incrollabilità di propositi che era la sua gloria. S’era molto seccato a quel veglione più stupido degli altri; ed entrando nel salotto gaio, luminoso e tranquillo, nel tepore dopo il freddo aspro della via, provò una sensazione di piacere, quasi di sollievo. Mimì dormiva nella poltrona-lunga, fra le pelliccie, accanto al fuoco quasi spento. Proprio come una bimba bizzosa! La contemplò un poco alla luce mite della lampada velata di rosa. Era pallida, scarmigliata; aveva le palpebre livide e le sopracciglia ancora lievemente aggrottate. Sul tappeto del pavimento biancheggiava il fazzoletto di lei; Silvio lo raccolse, era umido di lagrime. Intanto vide anche una delle eleganti scarpette alla Luigi XVI giacere abbandonata... Un vero campo di battaglia. Qualche crisi nervosa, forse.... Sentì un tantino di rimorso... cioè rimorso, no, non sarebbe il caso! dì rammarico, via; poichè non era proprio un tiranno, sebbene quella grullina con le sue scene tragiche tentasse di farlo credere. Non l’aveva mai veduta così desolata... che follìa!... Se avesse a soffrirne poi? Era così piccina, così fragile... Le toccò il piedino scalzo; — lo sentì di ghiaccio e lo ricoperse con un lembo di pelliccia, accuratamente. Certo non c’era un’altra donna al mondo con un paio di piedini uguali... Quante dolci pazzie gli avevano fatto commettere! Quella scarpetta pareva quella d’una bimba, d’una fata, di Cenerentola; proprio: la scarpina di Cenerentola. Invogliava di empirla di confetti, di fiori, di baci... Mimì mormorava parole inintelligibili, si agitò con inquietudine e finì per rizzarsi di scatto, seduta, con gli occhi spalancati, non ancora ben desta. — Sei tu, Silvio! — balbettò, poi, vedendogli la sua scarpetta fra le mani, continuò smarrita: — Ma dunque era vero... l’ho persa proprio al veglione.... — Sì, — disse Silvio ridendo, indovinando. Sei stata al veglione nella carrozza della fata Mab.... E s’inginocchiò cavallerescamente a’ suoi piedi. — Ti ricordi la fiaba di Cenerentola? «.... La signorina dimenticò ciò che la madrina le aveva raccomandato, di guisa che udì battere il primo tocco di mezzanotte, quando credeva che non fossero ancora le undici. «Si alzò e scappò via come una gazzella; il principe la seguì e non potè raggiungerla, ma essa lasciò cadere una scarpettina di vetro che il principe innamorato raccolse e serbò. «Era una scarpina così piccola, — seguitò Silvio quasi ridente, in un tono affettuosamente tenero, — così microscopica, che non andava bene a nessuna donna. Finalmente vennero a provarla a Cenerentola che stava sola accanto al fuoco.» Cenerentola-Mimì si prestava male a quel gioco, così impermalita come era. Pure allungò a Silvio il piccolo piede che aspettava d’essere calzato. Ma il Principe-amante, questa volta, invece di mettere una scarpetta tolse anche l’altra, e in quell’attitudine d’amore e di penitenza le coprì i piedini di baci. Romanze senza parole. _List! Spirits speak!_ I. MATTUTINO. La camera è piccola, bianca, tutta bianca; velata di bianco al letto, alle finestre socchiuse da cui entra il pallore dell’alba. Pochi mobili, fragili, leggieri, sgombri. Su una pelle d’ermellino a piè del letto langue un mazzetto di viole; nel letto riposa un piccolo essere: una bimba, un fanciullo, una giovinetta: un viso roseo, una testa bionda; l’espressione è cancellata dall’abbandono del sonno, le palpebre velano l’anima. Nell’angolo più oscuro qualche cosa di massiccio, di cupo, di enorme si determina in quella tenuità; qualche cosa che s’agita, che vive in quel mistero blando. Sono due gattini che ruzzano su un antico seggiolone di cuoio. Due gattini color di nebbia, dagli occhi di turchese che si provocano, s’assaliscono, si rincorrono, si guatano con delle mosse inconsulte, grottesche; ignoranti la loro stessa volontà; comici nella leggiadra del nastro rosso troppo largo di cui hanno ornato il collo e che all’uno di essi è passato sotto il mento come una cravatta in caricatura; piccoli e deboli nell’ampio seggiolone austero che parla di forza e di grandezza. L’alba inoltra una luce incolore nella stanza; quella giovinezza bionda respira placidamente, ritmicamente nell’incoscienza della vita. Uno dei gattini, nella vivacità irreflessiva delle mosse, è caduto dentro una scarpetta abbandonata ai piedi della poltrona e di là incrocia lo sguardo con l’avversario, che sosta sul limite del sedile guardando in giù con commiserazione profonda. Gioco, riposo, raccoglimento, candore, gracilità nella piccola stanza che pare un’oasi d’avvenire, dove il passato veglia in un canto, nell’ombra, solo come una sicurezza, un augurio. L’aurora rosata è imminente nella camera bianca, tutta bianca. Fuor dei vetri pispigliano gli augelli su un ramo di mandorlo in fiore e tintinna il mattutino. L’uno dei gattini mordicchia il nastro della scarpetta con una specie di voluttà; l’altro è sceso dal seggiolone, e coi movimenti snelli e feroci di una giovane tigre, si balocca con le viole morte fra l’ermellino.... II. MERIGGIO. Sulla stesa aromatica, molle, di fieno falciato, la giovine sposa ha dimenticato o gettato il suo ombrellino purpureo, tutto aperto come un calice sotto il sollione, tutto fiammeggiante come un’ara accesa. Una sciarpa di seta morbida e profumata e un piccolo volume di versi d’amore paiono ardere dentro l’ombrellino come in olocausto, e nella breve ombra serica, al di fuori, giacciono cuori dorati di margherite spirate in un’ultima parola di passione. La giovine sposa non era sola. Una canna d’èbano è confitta lì accanto, vigile e altera, simile ad una piccola antenna; il manico d’argento fino sfavilla al sole. Così il gentile trofeo glorioso vive e s’infiamma nella calda luce meridiana, mentre tutte le campane si ripetono festosamente il saluto dell’ora feconda, mentre l’animuccia fragrante di mille fiori falciati s’invola dalle invisibili bocche moribonde nell’umido tepore della terra, e più innanzi un campo di grano, già raso e ancora biondo, sorregge i fasci della pingue messe, e una nidiata novella cinguetta fra i rami frondosi d’un olmo, e due farfalle tardive, dalle tinte calde, si rincorrono per distruggersi in un baleno d’amore. Poi, all’improvviso, una folata di vento del Sud; una nube nera, la voce del tuono come un comando del destino; ed ecco il libro svolgere le pagine affannosamente e non quetarsi che a un canto di morte; ecco la fragile antenna oscillare, ecco la sciarpa candida sospinta irreparabilmente verso una siepe di spine; ecco una mandra di puledri inebriati, folli, passare sul gentile trofeo, lacerando, schiantando. III. VESPRO. Dall’alto pendono grappoli d’uva di un fosco e tranquillo color di rubino. La vite, l’antica vite, riveste tutto il pergolato che si apre ad archi sull’orticello regolare, solitario. Ai lati dell’estremo lembo di sentiero che conduce dritto al pergolato, due aiuole di radicchio furono sacrificate e coltivate a fiori, i buoni ed ignoranti fiori degli orti, dalle tinte cariche passate di moda, dal profumo sgarbato o sgradevole. Qualche rosaio piantato qua e là simmetricamente, ancora fiorito di alcune rose che non corrotte dalla soverchia civiltà hanno a gloria di non aggiungere titoli al loro nome e al loro colore che ha un patrimonio secolare di madrigali e di canzoni — ai loro piedi si stende il basilico aromatico che sa i drammi delle povere stanze, e la lavanda misteriosa che sa i segreti della notte di San Giovanni, e la minuscola maggiorana, eternamente infantile. Più oltre, cespi di garofano plebeo paiono raccontare gli idillî grossolani della scorsa estate, e due piante di gigli pensano al fiore assente, appassito fra le mani ceree di una monaca morta o fra i lumi di un altare consacrato a Maria; mentre i girasoli privi dell’ansiosa pupilla d’oro sembrano averla chiusa finalmente in una stanca rassegnazione. Un’aura mista di verità e di favola spira nell’orticello solitario; una giovialità antica e innocente di epigrammi e di allegorie; mentre sulle nubi fioccose intinte nel tramonto, par di veder passar adagiata qualche deità dell’Olimpo migrante verso dolci nozze. Sotto il pergolato c’è una sedia a bracciuoli dalle curve d’una arretrata eleganza, e un tavolino dai bordi rialzati tutt’intorno, previdentemente, come una tenue arginatura. Il queto recesso verde è deserto per poco: sul tavolino Ella ha posato, senza piegarla, la calza incominciata coi ferri irti, provocanti e insidiosi come un piccolo arnese di guerra montato per un assalto; il gomitolo è ruzzolato in un angolo e sarebbe caduto senza la provvida sponda; il libro ascetico, in cui ella leggeva placide meditazioni, è rimasto aperto sotto i suoi occhiali levati in fretta; la bellissima tabacchiera dalla miniatura inghirlandata di diamanti, ch’essa nasconde sempre come una vergogna, è pure dimenticata sul tavolino, ed anche una delle sue manopole di lana nera. Sulla spalliera della seggiola è rigettato lo scialle bigio. S’ella lo vedesse lambire il terreno umidiccio! Qualchecosa di estremamente dolce o di estremamente triste l’ha chiamata. Il sole scende pomposo dietro i pioppi in una atmosfera di polvere d’oro, accompagnato dagli addii dei bronzi di un vecchio campanile, non mesti, ma gloriosi, come dopo una bella e buona opera coraggiosamente compiuta. Nella lor bonaria esultanza le antiche campane giungono perfino a ricordare ritmi e arie di danze perdute che udirono nella loro gioventù. Così non si affliggono della fine dell’oggi, poichè entrano nell’ombra celebrando la vigilia dell’indomani. Un’allodola invisibile canta un epitalamio nelle regioni radiose. Una schifosa lumaca tenta il passaggio della tabacchiera. IV. CREPUSCOLO. L’ombra della angusta cappella è rotta appena dalle due lampade veneziane di ferro, a vetri rossi, appese dinanzi all’altare. Fuori, la neve turbina nell’aquilone diaccio e si ammonticchia sul davanzale dell’alta finestra contro i piccoli vetri rotondi, imbiancando la luce come un’alba; il vento ulula, sbatte e flagella, ma nell’interno regnano supremi il silenzio e l’immobilità. L’altare verdeggia cupamente di semprevivi, ma dai gradini sale e si effonde un’acuta fragranza di giacinti e di viole da un indistinto cespite. Una forma si agita sull’inginocchiatoio e si queta. Subito una folata violenta si ingolfa e spalanca i vetri dell’antica finestra, come per dar adito a qualche cosa di spirtale. Le lampade oscillano — i semprevivi rabbrividiscono; un rosario penzolante dall’inginocchiatoio ondeggia: si discerne ora nel nuovo chiarore una gran ghirlanda di giacinti e di viole a piè dell’altare e una forma umana raccolta in una pelliccia, prostrata, col volto nascosto fra le braccia immobilmente. La neve entra dalla finestra e fiocca lenta e lieve sul pavimento; il vento spegne le lampade, arriccia i merletti dell’altare, sbatacchia rabbiosamente il rosario contro il legno dell’inginocchiatoio, disperde il profumo dei fiori, intirizzisce. Tutto si lamenta o si ribella, eccetto la forma umana prostrata sull’inginocchiatoio, eccetto una lastra di marmo, dirimpetto alla finestra, che sta pallida e forte sotto il flagello della bufera. Nel chiarore nivale si legge su quella lastra: _Pax_. Crisantèmi Il giardiniere entrò senza troppi riguardi nella stanzaccia di sgombero che non aveva divani nè tappeti; ma appena vide che c’era la signorina, si fermò impacciato e confuso d’essersi arrischiato fin là con gli scarponi motosi e la giacca di bordato. Credeva di non trovare nessuno, tutt’al piú la cameriera. Si scusò. — Chè, chè, vieni pure, Cencio! — disse allegra la signorina, da quella buona figliuola che era. — M’hai portato i fiori, eh? bravo! — E gli levò di mano senza tanti complimenti il gran paniere di vimini, dove s’affastellavano malinconici e stillanti i crisantemi. E il giardiniere non aveva ancora richiuso l’uscio dietro di sè, che le sue mani impazienti li avevano già sparpagliati sulla tavola quadrata, nel vano della finestra, in una tepida ondata di sole. — Così — mormorò, arrampicandosi più che sedendosi sull’enorme seggiolone di cuoio usato, da cui scappavano bioccoli di crine; e cercò le forbici e il gomitolo sotto i fiori. Quel seggiolone rococò e la tavola quadrata a bordi rialzati, intorno a cui correva una laminetta d’ottone arrugginita, avevano appartenuto alla nonna; poi, lei morta, erano stati relegati fra i vecchiumi nella stanzaccia di sgombero nuda e bianca, sempre inondata di sole; dove la signorina sgusciava spesso per frugare nei cassettoni zoppi o nei ripostigli dell’armadietto dalle tendine verdi, in cui scopriva sempre nuove bricciche curiose. Aveva trovato un vecchio almanacco che conteneva qualche sonetto del nonno; un passaporto ingiallito, dov’erano i connotati della nonna giovine; un pettine istoriato, qualche centimetro di trina antica, qualche ritaglio di damasco per i suoi lavorucci; perfino un ricamo a fiamme sbiadito, di cui aveva rivestito la cartella della sua scrivania. Intanto nella stanzaccia poteva cantare a pieni polmoni, e non quelle stucchevoli romanze a cui la condannava la mamma; cantare come piaceva a lei; musica e parole di sua fantasia, secondo le salivano dall’anima alle labbra; melodie e pensieri appassionati o gioiosi in una limpida e bizzarra vena inesauribile di rosignuolo. Anche, perchè negarlo? ci veniva volontieri per la ragione che dalla grande finestra, spalancata sempre all’aria e al sole, si scorgeva benissimo il lembo verde d’un giardino signorile, dove, a certe ore del giorno, si vedevano eseguire esercizi ginnastici sulle sbarre o sull’altalena due o tre monellucci snelli e agili come funamboli. Erano i cugini della signorina. Però in quel momento il lembo di giardino rimaneva deserto col suo gruppo di semprevivi cupi che dondolavano le vette nella mitezza del sole autunnale, come vecchioni crogiolantisi a un tepore di stufa semispenta; nè la signorina pareva curarsene menomamente, intenta come era a raggruppare i crisantemi, non sollevando mai il capo, se non per lanciare qualche occhiata fuggevole contro la parete dirimpetto, dove fra due o tre gabbie rotte, un paravento, uno scaffale e una vecchia bandiera c’era una seggiola sfondata e su quella un ritratto a olio della nonna, che la guardava, voltando un poco il capo, col suo sorriso tranquillo e indulgente di vecchietta buona. La fanciulla proseguiva lesta l’opera gentile in quell’onda calda, abbagliante, di sole, che pareva insultare alla rovina austera del suo seggiolone rococò e stemperare nella fulgidezza aurea la personcina di lei, così tenue e delicata, quasi diafana, col visino e le mani trasparenti di biancore anemico, i capelli luminosamente biondi, le ciglia d’oro, come raggi sottili, intorno all’azzurro intenso dei suoi occhi in cui vagava sempre e solamente un riso gaio ed inconscio di giovinezza. I crisantemi smorti, i tristi figli della vecchia stagione vizza e stanca, rifiorivano sotto la carezza del sole, sotto le agili dita che li avvincevano sapientemente. E i piccoli mazzi s’allineavano lungo i bordi rialzati della vecchia tavola; il bianco dominava, ma un bianco gialliccio e senza profumo, che faceva pensare a una zitellona in veste di sposa. Accanto al bianco il rosso, cupo, vellutato, un rosso arcigno di tappezzeria; poi i crisantemi gialli, fiore e colore giapponese, alla cui vista balena alla mente un _Mikado_ grottesco, adorato come un dio fra gli splendori del paese più fantasioso del mondo. Infine i crisantemi rosa, i più piccini e i più graziosi; il rosa d’un bottone di margheritina, il rosa antico dell’abito della fanciulla nascosto dal grembiule di batista che s’allacciava sulle spalle sotto due voluminose coccarde di nastro e di trina, fra cui sortiva esile il suo collo nudo e bianco di adolescente. Il saliscendi della vecchia porta, sollevato con un colpo secco, smorzò uno stornello in gola alla signorina, che ebbe paura di vedersi comparire la mamma o l’istitutrice, e trasalì. Invece comparì uno dei suoi cuginetti, i ginnastici. — Miracolo che ti si scova qui, Noemi! — esclamò con un gesto largo il giovinetto, mingherlino e biondo come lei. — Dovresti addirittura battezzarla per tuo salotto questa stanzaccia... Se i topi non ti facessero la concorrenza, quasi, quasi... eh? Noemi sorrise tutta accesa, nel volto; nel collo e persino nelle mani, da una vampata di sangue. — ... Si può sapere che cosa fai in quel seggiolone, dinanzi a quei brutti fiori? Mi sembri una maga che distilli qualche filtro per le sue stregherie... La signorina gli diede un buffetto sulle mani, che si stendevano minacciose verso i crisantemi. — Sarebbe meglio che tu m’aiutassi, Aldo... — Che onore! E a far che? — È una ghirlanda per la povera nonna, — disse Noemi a mezza voce, come gli confidasse un segreto; ma il cuginetto la guardò con le sopracciglia inarcate in comica sorpresa. — Che vuoi che se ne faccia la nonna della tua brutta ghirlanda? La sua tomba è piena di fiori! Stamattina le nostre mamme ne hanno mandato al Camposanto una carrozza piena... — Fiori comperati, — osservò Noemi. — Non è la stessa cosa. Voglio che la buona nonnetta abbia i fiori del suo vecchio giardino, intrecciati da me. E glieli porterò io con miss Annie domattina... Sono tanto brutti poi? Ti ricordi? la nonna amava i crisantemi... Aldo non rideva più. Prese un fiore e lo lasciò; poi un mazzetto, e odorandolo guardò lei in un certo modo che la fece ammutolire. Ed ella si vendicò di quella confusione e di quel nuovo rossore con una spallucciata, come se Aldo la canzonasse. Intanto non finiva più di avvoltolare il filo sugli steli riuniti d’un gruppo di crisantemi. — Dunque? — chiese il giovinetto con la voce tutta mutata e raddolcita improvvisamente; — posso aiutarti? — Ma... sì! — rispose la signorina alzando gli occhi un po’ sorpresa. — Cercati una seggiola... — Non è facile, non è facile... — canticchiò Aldo, girandosi da tutti i lati. Intanto, ritto, sulla sedia sfondata, scorse il ritratto della nonna, che guardava anche lui. — Ve’, ve’... chi ha messo là quel ritratto della nonna? — L’ho posato io là, ma per un momento. Scenderà nella mia camera. Era in quel canterano carico di polvere e di ragnatele... — Somiglia poco... — osservò il cuginetto che s’affaticava a sbarazzare uno sgabello da una cassetta di vecchi ferramenti e di utensili da cucina fuori d’uso. — Ecco, guarda, Noemi... Ora tu sei la castellana, io il tuo paggio, — le disse accomodandosi sull’alto sgabello di legno scolpito, che aveva nettato alla meglio col fazzoletto. Erano una graziosa cosa quei due fanciulli nel sole che inondava libero metà della cameraccia ingombra di vecchiumi, lei piccina e sottile, una figurina a toni delicati che occupava poco spazio nel gran seggiolone severo di cuoio; lui esile, aristocratico, sull’alto sgabello, con la testa bionda, ondulata, curva sui fiori: lo stesso colore dei capelli di lei, meno leggieri e più lucenti, la stessa tinta di carnagione diafana, la stessa magrezza gentile delle membra adolescenti. Parevano fratello e sorella. — _Dites, la jeune belle, — Où voulez vous aller?_... — cominciò a cantare Aldo per rompere il silenzio. — Se ti figuri d’avere una bella voce... — mormorò la signorina, dando una forbiciata agli steli troppo lunghi. Aldo riunì due fiori: — Così? — chiese umilmente; — va bene, così? — Copia quelli e non mi seccare! — rispose Noemi additandogli i mazzetti allineati; — non sciupare tanto cotone e non tagliare i gambi troppo corti... Ancora quello sguardo intenso, strano, quasi furtivo di lui, ed ella riavvampò chinando il capo sui crisantemi. Poi, ad un rumore di carrozza giù nella strada, Noemi balzò alla finestra. — Chi è, Noemi? — La contessa Sangiorgi.... Quante visite ha oggi la mamma! Aldo schiuse le labbra. Voleva dire: — Meglio! — ma si trattenne. — Com’è che non ti chiama in salotto? — L’ho pregata di lasciarmi in pace oggi, perchè dovevo fare la lezione inglese di due giorni. — Ah! — Aldo le lanciò un’occhiata di sottecchi, sorridendo maliziosamente con una dolcezza segreta, come se quella bugia li riunisse in una complicità ch’egli vagheggiò satura dei romanzeschi misteri d’un convegno d’amore. Noemi tornò al suo posto sul seggiolone respirando con un — ah! — prolungato, il sole e la luce. — .... perchè, se la mamma sapesse che sono qui, — continuò come scusandosi del suo sotterfugio, — mi sgriderebbe di perdere il tempo, di tenere spalancata la finestra, di stare al sole.... io che l’adoro il sole! Vediamo che fai.... Sì, non c’è male, non credevo.... Ora continua tu a fare i mazzi, io comincerò a riunirli in ghirlanda. Aldo continuò a fare i mazzi senza parlare. Sentiva il cuore traboccargli di soavità, e quella soavità scorrergli per tutte le fibre in una vita nuova che gli donava slanci, aspirazioni, desiderii indefiniti, ma alti e grandiosi. Nulla gli pareva impossibile o difficile nella mite ebbrezza di quell’ora; rinveniva in sè l’entusiasmo d’un apostolo e la stoffa d’un eroe, e non gli riusciva di spiegarsi perchè. Noemi canterellava o lo stuzzicava motteggiandolo. Ma anche lei quel giorno aveva certi turbamenti strani negli atti e nella voce, e molti rossori importuni. Poi, nel suo intimo, un eccitamento insolito, come quando si aspetta una felicità promessa e desiderata; un lieve eccitamento ricascante ad intervalli in una specie di melanconia che le dava voglia di piangere. Soffriva; pure non avrebbe rinunziato al diletto segreto di quella sofferenza, che le rivelava vagamente e nebulosamente il perchè della vita. Presto i mazzolini furono tutti pronti e la ghirlanda arrivò a metà fra le sue dita destre; Aldo, rimasto in ozio, si mise a incidere colla punta delle forbici una iniziale sul tavolino. — Ma che passatempi da monello! — sgridò Noemi debolmente, poichè aveva indovinato e veduto quel bell’_enne_ che si sviluppava. Egli sorridendo imperterrito lo compì e vi intrecciò bizzarramente un _A_. La signorina seguitò zitta e mogia la sua ghirlanda, ascoltando i battiti violenti del suo piccolo cuore. — È la tavola vecchia della nonna, questa tavola, dì.... Noemi?.... — .... Sì. — Aveva tardato a rispondergli, perchè le si dilagava ancora nel cuoricino palpitante la dolcezza inattesa che le aveva procurato il suo nome profferito da lui. — Me ne ricordo.... — sospirò Aldo continuando sempre nella sua artistica barbarie, che ora gli ispirava un cuore passato da un dardo. — Quante volte, da piccoli, vi abbiamo ruzzolato su i gomitoli, te ne ricordi, Noemi? La nonna ci lasciava fare, poichè i gomitoli non cadevano, imprigionati fra i bordi rialzati. A noi pareva una tavola dà bigliardo. — .... Sì — disse ancora dolcemente lei. Poi esitando gli domandò le forbici, che Aldo le presentò con un atto cavalleresco, un riso luminoso ed eloquente negli occhi e sulle labbra schiuse. — Aspetta, aspetta, son qua per aiutarti, — soggiunse con un’adorabile inflessione di protezione affettuosa nella voce, vedendo che le proporzioni della ghirlanda incominciavano ad impicciarla sul serio. E ne sollevò un lembo reggendolo. — Quasi, ti soffoca, — mormorò col medesimo sorriso e sullo stesso tono. — Grazie, — aveva detto Noemi. — È quasi finita, — aggiunse ora, malinconica; ed Aldo trasse un sospirone che le carezzò tepidamente il viso. Non parlavano quasi più, assorti nella loro vita interna tutta di sensazioni così rapide e nuove e intense, ch’era divenuta una pena. Egli stava rubando furtivamente alla ghirlanda un crisantemo rosa, piccino, dal cuore giallo come una margherita, poi con un atto riguardoso e delicato passò il fiore fra le trine del grembiule di lei. A Noemi ricascarono le mani in grembo. Seria, muta, tremante, ella seguì con lo sguardo le dita di Aldo, e negli azzurri occhi, non più ridenti, vagava una soave tristezza come se l’anima sua fosse conscia di sprigionarsi dall’ombra della queta notte senza sogni, e per sempre. Nel silenzio affannoso, pieno di palpiti, ella alla sua volta trasse dalla ghirlanda un altro crisantemo rosa, per lui. Ma mentre le sue manine un po’ tremanti tentavano di fissarlo al colletto dell’abito del suo compagno, Aldo le prese i polsi, la attirò, e un bacio innocentemente ardente riunì i loro capelli biondi su quei fiori dei morti, nella tepida ondata di sole. La nonna li guardava dal ritratto sorridendo. Dietro le scene. — Che? te ne vai, Carmelita? — disse col rammarico negli occhi e nella voce donna Luisa alla contessa, trattenendola per le mani; — te ne vai proprio all’ora del mio «_five o’ clock tea_?» Bada, sarei capace d’impermalirmi come Turiddu quando compar Alfio si rifiutò di bere il suo vino! — aggiunse in tono leggero di scherzo, poichè avevano chiacchierato sino allora nel salotto della Cavalleria Rusticana. — Mi rincrescerebbe, tanto più che a me è interdetto quel famoso «_a piacer vostro_» che fa sempre tanto effetto, — ribattè la contessa Carmela, sorridendo tranquilla, mentre seguiva lo scherzo con la sua voce fievole. — Non posso mettermi a tua disposizione dacchè parto domani.... — È per domani irrevocabilmente, contessa? — deplorò il galante capitano Olimene. — Sì, — disse solamente lei, che appariva alta e pallida nel suo abito nero. — E.... non tornerai tanto presto, forse? — chiese con un’ansia non benissimo dissimulata, la voce melodiosa di donna Luisa. — Non si torna tanto presto dall’Oriente, — rispose la contessa con la più perfetta naturalezza. — Quando poi s’ha a compagno di viaggio un viaggiatore esperto e spietato come mio zio che è capace di non farmi grazia nè d’un minareto nè d’una moschea... — Perchè mai la contessa Sanlorenzo veste sempre di nero da un mese in qua? — chiedeva ingenuamente dal suo cantuccio la nipotina del commendatore alla sua vicina. — È forse in lutto? — Forse, — rispose l’altra, a cui scintillavano due occhietti maliziosi; poi, vedendosi osservata dal marchese Arturi, soffocò uno scoppio di tosse nel fazzoletto, arrossendo un poco. — Il nero le sta molto bene, la ringiovanisce, — seguitò l’altra ammirando coi suoi placidi occhi chiari la figura svelta della contessa Carmela che si disegnava severamente sullo sfondo artistico d’un arazzo luccicante di fili d’oro, e il viso pallido, ancor più pallido e fine sotto la tesa del gran cappello a penne di struzzo fra cui scintillava un fermaglio di vecchi diamanti. — Ah... quando è così poi... non ho coraggio di trattenerti, — diceva ora donna Luisa perfidamente bella, piegando il capo di Ebe giovinetta, con quel movimento civettuolo che faceva perder la testa ai suoi adoratori; — trattandosi di un pranzo scientifico-letterario, e un pranzo d’addio, poi... Una cosa commovente.... Già mi ruberai qualche amico stasera, il professor Lapi, Modesti, Farigliano, non è vero? Cino De Romei... — continuò disinvolta, figgendo gli occhi ingenui in quelli dell’amica con raffinata crudeltà. — Cino De Romei replicò la contessa tranquillamente, senza che la menoma contrazione del volto tradisse le sue sensazioni. Per essere ammessi a questa categoria dei miei pranzi bisogna avere l’età come per essere eletti senatori.... — Ma i suoi amici sono davvero _eletti_, — mormorò Olimene; — beati loro... — Oh, non li invidii troppo, capitano. Sono i privilegi dell’autunno, della stagione dei frutti.... — Proibiti, — mormorò un freddurista ostinato che si nascondeva fra un vaso del Giappone e una giardiniera di rose. — Addio, dunque, bella. Portami un paio di pantofoline dal tuo Oriente, — concluse allegra donna Luisa; e le due signore si baciarono, mentre la signorina dagli occhi maliziosi canticchiava sottovoce guardandosi la punta delle scarpette: «Compar Turiddu, avete morso a buono... c’intenderemo bene; a quel che pare!...» La contessa Carmela Sanlorenzo si congedava dagli altri con una graziosa parola e un sorriso per ognuno. Si era animata; pareva intimamente soddisfatta del suo viaggio in oriente; ma un momento in cui il sorriso cessò, i suoi occhi ebbero un lampo di luce sinistra e il suo volto un’espressione di odio e di dolore. Non fu che un attimo: prima d’uscire mostrò ancora in un ultimo saluto leggiadro e dignitoso il suo sorriso sereno, come sempre. Il servo la seguì per la fila dei salotti, nell’anticamera, e incominciò a scendere dopo di lei, da un lato del largo scalone ornato di cactus e di palmizî. Ella prese a scendere lentamente, con pena, gli scalini nascosti dallo spesso tappeto. Il sorriso era sparito; tornava l’espressione dolorosa del volto, la luce fosca negli occhi grandi e neri cerchiati d’ombra, a cui s’aggiungeva un abbandono stanco della persona che la invecchiava, ora, di dieci anni. Scendeva; gli abiti scivolavano giù dagli scalini dietro la sua persona con un lieve fruscìo; il suo piccolo piede si posava quasi incerto sul liscio tappeto, la mano stringeva convulsamente il manico dell’ombrellino finamente intarsiato d’argento. Scendeva. Allo svoltare della scala, sul pianerottolo, dietro un gruppo di camelie, s’incontrò faccia a faccia con un uomo che saliva. Era Cino De Romei. Si salutarono: ella col suo semplice e grazioso cenno del capo, egli mettendosi in disparte, per lasciarla passare, con un inchino e una premura alquanto esagerati. Fu tutto; nè l’uno nè l’altra udirono il suono delle loro voci: egli continuò a salire a testa alta; ella a discendere a capo chino, serrando come in una morsa il manico dell’ombrellino intarsiato d’argento. La contessa Carmela Sanlorenzo continuò a scendere e pensava: — Ecco così, — pensava — ci siamo incontrati a uno svolto del cammino; così. Io discendevo già la vita col mio fardello di amarezze; lui saliva con la speranza che gli dava le ali. Abbiamo sostato un momento; poi lui ha ripreso a salire, io a discendere come prima, più stanca di prima, poichè neanche l’amicizia sua mi conforta più, divenuta impossibile, oramai, come una vergognosa transazione o come un’ipocrisia... Dunque più nulla: dunque dimenticare. Dimenticare tutto, dalle ore più soavi in cui l’amore non era ancora che un benessere affascinante, dolcissimo e ignoto, che avviluppava entrambi e che dava un’intonazione lieta ai discorsi e alle cose più futili; alle ore tempestose del desiderio e della passione...: dimenticare le buone serate che abbiamo passate nel mio salottino di studio, serate di lavoro coscienzioso che credevamo di prendere tutti due sul serio... Egli mi leggeva i suoi versi bellissimi, io i miei, molto mediocri, ma in cui diceva di trovare una finezza e una percezione profonda... Pure, siamo giusti: avevo incominciato in buona fede, la mia parte di amica saggia, di consiglierà, di mamma... Non fui io la prima a cambiar scena. Animandolo a venire da me a correggere i suoi lavori e a farsi aiutare a riordinare quel caos di foglietti volanti, pensavo proprio solamente di rendergli un servizio da amica vera, di offrirgli il mezzo che cercava per sottrarsi alle mille distrazioni oziose che lo tentavano, che lo attiravano suo malgrado e gli vuotavano il cervello e gli inaridivano il cuore. Era una dolcezza accogliere le sue confidenze, le sue confessioni, le sue speranze: sgridarlo, consigliarlo, animarlo... una dolcezza sempre più viva, sempre più profonda, sempre più invadente, finchè l’anima mia ne divenne satura e non vissi più che per lui... Quando non mi rimase più forza per fargli intendere ragione, si sommerse la rigida barriera dei quindici anni che ci separano, e invece del giovine poeta e della signora matura, si trovarono faccia a faccia due innamorati... ecco tutto. Ma la commedia è finita; io riprendo la mia parte di madre-nobile, egli recita da amoroso con una nuova attrice, veramente giovine questa volta. Non mi resta dunque che benedirli e andarmene a recitare altrove, e con più coerenza, un’altra parte di madre-nobile. — Come è cangiata Carmelita; — pensava Cino De’ Romei continuando a salire le scale a testa alta con una luminosità di trionfo negli occhi: — oggi ha tutto l’aspetto di una signora matura. Fui il gran pazzo... Meritava proprio di bruciarsi il sangue di passione per un anno, di commettere tante follie, di gettare alla morte e all’infinito la sfida audace della felicità e dell’amore per arrivare, incontrandoci, a salutarci appena, come due estranei... Peccato! una bella amicizia guastata così scioccamente... e un’amica come Carmelita, un’amica schietta, spregiudicata, saggia, intelligente e buona così, non è facile da surrogare... Forse, quando parecchi anni saranno passati, ella mi permetterà di riannodare un’intimità innocente... Ed io, divenuto illustre e serio, anderò ancora da lei a correggere i miei versi... che non saranno più pericolosi... perchè allora sarà il tempo di comporre i madrigali ingenui e di celebrare in sestine l’amore ideale. Oggi la giovinezza mi tumultua nel cuore e mi inebria dei suoi inni, e una formosa Dea m’attrae con tutti i suoi fascini... Oh, donna Luisa! bellissima realtà, oggi la poesia, la gloria, l’arte sei tu!... Cino De Romei giunse al sommo della scala. «Salve!» gli disse il cuore, dilatato dall’orgoglio e dalla felicità, mentre passava sotto la portiera di damasco dell’anticamera. — Addio, — mormorava la contessa Carmela indugiando un ultimo momento sulla soglia, addoloratamente. Mammole _Douce est la mort qui vient_ _en bien aimant!_ La strada s’allungava a perdita d’occhio, bianca e diritta fra il verde, ed essi tornavano al villino lentamente, avvinti, col viso colorito dai riflessi del sole occidentale. Lei aveva appoggiato alla spalla del suo compagno la testa avvolta nella sciarpa a maglia di seta fine, e qualche momento chiudeva gli occhi languidamente, abbandonandosi tutta alla pace soavissima di quel memorabile vespro; godendo di ricercare nelle più intime fibre dell’anima esuberante d’amore, la vibrazione dell’eterno inno primaverile gioioso. E quando un bacio lieve su le palpebre la riscoteva, ella riaprendo gli occhi stupendi incontrava di nuovo quello sguardo continuo, amoroso ed ardente che la spossava di dolcezza... Parlavano poco, a lunghe pause, giacchè erano intensamente felici; e quella felicità negata e contrastata per tanto tempo, pareva loro così inverosimile ancora, che tremavano di affermarla, di rallegrarsene, per timore che al suono delle loro voci dileguasse, come un sogno. Finalmente egli le domandò sommesso, semplicemente, se aveva freddo, e le serrò più forte la vita col braccio, rimettendole intorno al collo un lembo indocile della sciarpa, mormorandole ancora qualchecosa che il vento si portava via; lei sorrideva senza rispondere, con gli occhi socchiusi nella vasta limpidezza lucente del cielo. Intorno a loro, nel verde tenero, c’era un senso gentile di frescura, e lontano, su in alto, s’udiva il trillo d’un’allodola invisibile. — Ti ricordi, Arrigo, di quel primo giorno? Fu in un pomeriggio come questo... Questa volta fu lui che assentì sorridendo in silenzio. — Ti ricordi di quelle povere violette bianche? Il giovane sostò, la sciolse dall’abbraccio e trasse da una tasca interna la serica busticina elegante, dove riposavano i fiorellini ingialliti. Lei rimase muta, appoggiata all’ombrellino chiuso e gli occhi le brillarono: — Ancora con te? — mormorò poi, ma lo sapeva bene che c’erano ancora, che ci starebbero sempre. — Anche dopo morte, — diss’egli; e baciò i fiori. Laggiù all’orizzonte in quella festa di colori sfolgoreggianti fra i tronchi, in quel saettare di raggi aurei che sprizzavano tra le fronde, qualchecosa d’indistinto pareva muovere ed avanzare lentamente; ma essi non vedevano nulla, abbacinati dallo splendore, assorti nell’estasi del loro idillio. — Avevo sedici anni quel pomeriggio, lontano, — continuò lei appoggiando la manina inguantata sulla spalla del giovine, — quel pomeriggio lontano in cui mi sorprendesti a strappare ferocemente le mammole che tu raccogliesti poi con tanta religione, ed ero ancora una monelluccia stordita che non si accorgeva di essere ammirata, nè se ne curava... Eppure in quell’odoroso giorno d’aprile, fra tutti quei trilli e quell’azzurro, piansi per la prima volta di tristezza, poichè mi rinvenni nell’anima un abisso in cui era un silenzio sconsolato... — Eri sulla soglia del tempio d’un dio ignoto... — soggiunse lui piegando carezzevolmente il capo sulla morbida mano inguantata, abbandonata sulla sua spalla. — Oh come sentivo la vicinanza di quel dio, come mi turbava quell’attesa solenne!... — esclamò essa, commossa; — poi, senti Arrigo, la divinazione venne improvvisamente... Capii che solamente amando sarebbero scesi nella mia anima, a colmarne il vuoto, quei trilli, quella luce, quei profumi che mi facevano piangere d’una strana malinconia: ascoltai il mormorio di voci che s’era levato intorno a me e compresi che le cose tutte parlavano, inneggiavano, deridevano la mia ignoranza.... Allora strappai le violette... Egli le prese delicatamente fra le mani la testa, e la baciò senza parlare, con un sorriso intenerito. — .... dopo salii nella mia camera, m’inginocchiai e in quell’ardore di fede che mi dava la tristezza chiesi a Dio ingenuamente di amare anch’io, di amare molto, con tutte le facoltà del cuore, della mente, dell’anima; con tutto lo slancio e la forza della mia giovinezza, e di essere riamata così... — Dio ti ascoltò quel giorno... — cominciò lui con impeto, ma la piccola mano gli chiuse la bocca. — Ascolta: fu un olocausto; chiesi a Dio di respirare tutto il profumo, di godere tutta l’ebbrezza infinita di questo amore sovrumano, non fosse che per un giorno; e gli offersi in cambio... la mia vita... — Taci! — proruppe lui con un brivido; — perchè dir questo oggi, un giorno di nozze? perchè l’hai detta quella parola? perchè? — E la baciò a lungo sulle labbra come per cancellare quella parola funebre. Ella rideva, rideva, con la bocca schiusa, fresca come un fiore, gli occhi pieni di sereno; rideva sfidando il destino, forte di gioventù, d’amore. E laggiù, tra gli alberi, la massa confusa veniva innanzi, insensibilmente, misteriosamente sulla bianca strada. La signora aspirava intanto nell’aria con delizia un odor acuto di mammole, e cercava sulla sponda erbosa del fossato, scostando le fogliuzze con l’ombrellino. — Oh, delle mammole! — esclamò lieta; — delle violette bianche come quelle, Arrigo! Ecco un bell’augurio, vedi?... — E fece per slanciarsi dalla breve sponda; egli la trattenne facendole gli occhiacci, per usare subito della sua novella autorità di marito. — È così che ci si fa male, bambina! un minuto di pazienza e avrai le violette. — E scese destramente. Ella gli additava, con l’ombrellino, violette invisibili. — Ma no, Arrigo... dalla parte opposta... laggiù sotto la siepe... bisogna passare attraverso la siepe, — concluse ritentando di scendere la sponda sdrucciolevole. Egli la prese risolutamente alla vita e la posò giù, accanto a lui. — Vieni dunque, — disse aprendole un varco fra i rami di biancospino e staccando con tutta delicatezza un lembo della sciarpa fine impigliato nei rovi. — Non è una impresa facile; ti sfido... — Davvero? Allora vedremo chi ne coglierà di più, — rispose lei gettando l’ombrellino, e levandosi un guanto in fretta. Intorno, la solitudine completa: e quello splendido tramonto fiammeggiante soltanto per essi sulla rigogliosa pianura. Ella si affrettava, ridendo a brevi trilli sommessi sotto la frondosa siepe fiorita, affondando la mano bianchissima nell’erba; lui non aveva mai colto mammole con tanto ardore. ma nonostante i suoi sforzi si trovava spesso a rallentare la foga di quel gioco, distratto dalla vista della breve mano agile, dell’errare di un ricciolino scompigliato dalla brezza, da una molle curva che si accentuava, da un tratto di calza di seta che disegnava l’attaccatura del piede, fine e nervosa. Così lei potè cantare vittoria risalendo sulla strada; aveva delle mammole nelle tasche, lungo la scollatura a risvolti del soprabito, negli occhielli, nelle pieghe della sciarpa, nell’ombrellino. Ne era imbarazzata, ed egli per vendicarsi le riempì anche le mani dei bianchi fiorellini odorosi...... La giovine signora vi immerse il viso respirando avidamente; poi reclinò ancora la testa sulla spalla di lui esausta dal tumulto di emozioni, di sentimenti, di ricordi, che le si levava in cuore al sottile profumo. — Come sono felice!... Come siamo felici, Arrigo! — esclamò finalmente, non resistendo al bisogno di gettare quel grido alle piante, all’azzurro infinito... Ma il suo compagno pareva preoccupato e intento a discernere sulla strada un convoglio che si avanzava lento, che era già a pochi metri da loro, socchiudendo gli occhi contro la fusione fulgida di tinte calde che lo abbarbagliava. Poi si fece riparo agli occhi con la mano e vide, e provò un rapido senso di gelo al cuore. Il povero feretro veniva innanzi portato da due robuste campagnuole vestite di mussola bianca, scortato dal chierichetto che inalberava gagliardamente sull’asta la piccola croce; un prete a fianco borbottava le preghiere col libro aperto e altre due ragazze in abito bianco seguivano per dare il cambio. Nient’altro; non un fiore sulla lugubre coperta nera che dissimulava appena la bara; non un salmodio diffondentesi sonoro e poetico nella pace vespertina; non un parente, non un amico, non un senso di tristezza o di pietà: si leggeva la noia nei volti rubicondi delle ragazze, sull’emaciato volto del prete, sul viso infantile del chierichetto roseo; solamente la noia e il desiderio di sbarazzarsi al più presto di quell’incomodo. Chi era steso la dentro? Un bimbo? una fanciulla? una giovane sposa? la conclusione tragica d’un rustico romanzo d’amore, o una prima pagina candida su cui il destino aveva scritto «fine»?... Essi non lo domandarono, ammutoliti in un superstizioso sgomento... Ma poi quella povera bara d’un essere sconosciuto che passava fredda e nera nella campagna verde, piena di vita, di palpiti, di profumi sotto il cielo soffuso dell’ultima luce fiammante; attirò la pietà dei due felici rimasti immobili e stretti l’uno all’altro... Quando il feretro passò, rasentandoli quasi, il prete lanciò verso di loro una rapida occhiata, e la signora con un atto gentile ma pronto come uno scongiuro, gittò sulla bara tutte le sue violette. I fiorellini piovvero costellando lievi il rozzo panno nero: qualcuno cadde, altri il vento disperse, e il rustico corteo inoltrò misterioso e silente. Presto scomparve nella nebbia che già nascondeva la strada a settentrione, mentre i giovani sposi, strettamente abbracciati, ripresero la via, adagio, verso il sole. Romanze senza parole. ORME. Sull’orlo estremo del lido sabbioso, soffice, umido, incrostato di conchiglie, si mescono e si seguono orme di passi umani interminabilmente: l’ombra d’un filo di vita svolto fra la solitudine sterile e una moltitudine invisibile, — fra la sosta immemore d’un limbo che tutto cancella e un’azzurra eternità. Gli umani sono passati in lunga teoria sullo stretto sentiero, avidi d’oblìo, di speranze, di sogni. Le orme narrano: alcuni ritornarono dopo breve cammino delusi; non poterono dimenticare, nè chiedere, nè illudersi: altri proseguirono per lungo tratto insieme, come sfidando con balda audacia la vicenda delle cose perchè riuniti; poi uno ritorna, è stanco, sfiduciato; un altro si smarrisce nella sabbia fine, asciutta, infida; un terzo si scosta ed erra finchè la spuma delle onde lambe e rode le traccie del suo passaggio; l’ultimo inoltra solo, accanto al solco leggiero e continuo d’un bastone. Poi anche il solco cessa, e l’uomo inoltra ancora senza appoggio, ancora, ostinatamente..... Infine le alghe brune e muschiate si dilatano, tutto nascondendo. Orme d’un piedino minuscolo, spesse, irregolari, seguite da orme larghe, sicure: i primi passi. Altre orme irregolari con un seguito di piccole buche: gli ultimi. Le orme dei ricchi, tenui, dai tacchi che scavano fossette; le orme dei giovani, lievi, discoste; quelle dei felici, attraversate ogni tanto da un’iniziale, da un zig-zag; e, finalmente, orme di piedi veri, ignudi, grossolani, a una distanza tanto regolare da parer calcolata con una precisione matematica: il passo della gente che sa cosa vuole e dove va. Dinanzi a quelle orme le altre si scansano. Sono le orme faticate del lavoro. Gli umani sono passati così fra la solitudine e l’eternità. Domani un soffio di brezza solleverà forse le grigie sabbie volubili che ne cancelleranno ogni traccia; ma nella loro evoluzione le onde affaccendate si dilateranno per raccoglierne nel grembo azzurro, maternamente, l’ultima memoria. VENDETTA. L’ultima finestra della casa, al primo piano, verso ponente, s’apriva fra le rame flessibili del gelsomino. Una mano delicata le dirigeva, le domava, le dissetava, le intrecciava in riposo, le avvinceva in catene fraterne. Quando le piccole costellazioni bianche si staccavano, erano raccolte con tanta sollecitudine che non una veniva contaminata dal fango del terreno o dalla bava dei ragni, che anelavano a quel candore. Ma nell’ombra fresca dai riflessi di smeraldo serpeggiava un soffio vivo, indomabile, che si sfogava in cento insidie piccine, malignamente. Gli olezzi diffondevano la più eloquente delle serenate; qualche tralcio ribelle dava ogni dì la scalata e s’insinuava a spiare nella stanza, avido: le ciocche fiorite si protendevano, offrivano i mazzetti naturali, desiderosi di avvizzire su un seno ardente; alla brezza, che le carezzava, le foglioline rispondevano acconsentendo con un fremito novo; al vento che passava fischiando, i rami si dibattevano desolatamente. La finestra s’apriva di buon mattino e l’alito verginale che ne usciva, blandiva il soffio maligno, stornava le insidie, mitigava le ebbrezze. Quando un fior di cardenia apparve sul davanzale. Quel fior di cardenia venne disputato alla distruzione a lungo, tenacemente. Tutta la notte l’anforina di cristallo rosa che reggeva la corolla rimaneva sul parapetto, fuor dell’imposte chiuse, assistendo al colloquio della cardenia con la luna piena; candida e sola come lei. Il gelsomino fu negletto; le rame crebbero vagabonde e selvagge fino a ricascare su loro stesse stanche del vano errare; le stelline bianche emigrarono liberamente, ma per posar presto in un molle strato odoroso sul terreno, come un sudario mistico; qualcuna s’indugiava, si smarriva nei meandri verdi, s’impigliava fra le ragnatele lievi, iridate, luminose, in fondo a cui il ragno attendeva. Infine il fior di cardenia ingiallì del tutto e fu portato via. Ma venne poi una gabbiuzza popolata di colibri, poi un pappagallo fiammante, poi una scimmietta freddolosa, poi un virgulto di rose, poi una coppa riscintillante di pesciolini d’oro. Inutile; la morte spazzava tutto via. Qualche cosa dava il malocchio a quella finestra che s’apriva fra le rame di gelsomino. Nell’inverno la camera fu rimessa a nuovo: cortine azzurre, lievi, scesero lungo le doppie vetrate dov’era una fioritura di mammole, e una lampada ardeva tutta notte, velata e misteriosa, come in un santuario. I viandanti che passavano intirizziti levavano lo sguardo sorridenti o sospirosi e bisbigliavano: «Là regna Amore...» Ma il gelsomino non udiva; era atrofizzato dal gelo, e ignudo, inerme, dormiva. Quando il bacio pietoso della Primavera lo destò, ahimè! si vide mutilato e inceppato vigorosamente contro il muro! Invano si ribellò, invano i mazzetti implorarono sotto il davanzale il rifugio tepido, consueto; invano la fragranza dispersa nell’aria si diffuse in elegie amorosamente, e le stelline erranti si posarono fra le stecche delle persiane come per esplorare, e i tralci più arditi si svincolarono e bussarono stimolati dal vento; la finestra dalle cortine azzurre irrideva, soave, al loro dolore. Così trascorse l’estate, una lunga estate. In ottobre, mentre le prime pioggie scendono a risvegliare inesorabilmente dal sogno di una tornante primavera, nella lotta fra le illusioni che evaporano con gli ultimi profumi di tutti i fiori della terra, e le gelide realtà che piovono con le fredde lagrime del cielo, — la finestra rimase chiusa, triste, e i rami ingigantiti infransero i loro ceppi, e la flagellarono sera e mattina ululando ferocemente. Dopo molti giorni la finestra si riaprì, in un vespro d’oro, nell’assenza degli olezzi e nell’immobilità delle fronde che oscillarono estatiche, quasi spaurite della conseguita vittoria. La finestra rimase vuota e aperta fino all’alba, con le cortine calate e le imposte che gemevano sui cardini in uno sconsolato abbandono. Nell’alba nebulosa, livida, fredda, le cortine azzurre tremolarono, uscirono e palpitarono in alto, come due aluccie impazienti di volar via. Allora pel varco libero, simile a un piccolo stuolo vittorioso e invadente, entrò nella camera della morta uno sciame di gelsomini. Ultimi bagliori. Il conte Alberto Farigliano di Roccamare rientrava intirizzito dal nevischio pungente d’un uggioso pomeriggio di Febbraio. Gettati al servo pelliccia e cappello biancheggianti di diaccioli, traversò lesto l’appartamento in cui il calorifero diffondeva un tepore più che primaverile e giunse al remoto salottino di sua moglie. Era sicuro di trovarla laggiù. La contessa infatti pareva addormentata nell’ampia poltrona di broccato nero, quasi bocconi, col volto nascosto in un piccolo guanciale morbidissimo posato sul bracciolo. In quell’atteggiamento, coll’abito sciolto e lucente di felpa bianca dai riflessi madreperlacei, nella luce azzurreggiata dalle tendine abbassate, diede ad Alberto l’idea d’una perla nella sua nicchia. Egli inoltrò chetamente: nel ricco salotto ondeggiava un acuto profumo di cardenia. Non si vedeva nulla del volto di lei; solo l’ammasso dei suoi capelli fini, castani, allentati con un po’ di disordine, e le sottili mani aggrappate al cuscino. Alberto la contemplò lungamente. Poi si mosse per andarsene, ma nel movimento un po’ brusco urtò una sedia leggiera, fuori di posto, e la signora sussultò forte, levando il viso sbiancato e fissandolo sbigottita, come se nel primo momento non lo riconoscesse. — Dormivi? — Sì, forse... da quanto tempo sei qui, Alberto? — chiese alla sua volta lei, che abbozzò un sorriso, subito dileguato come un ombra sulle sue labbra tremolanti, e le bianche mani passarono e ripassarono sugli occhi. — Ho un po’ di emicrania oggi; — aggiunse con un fil di voce. — Tieni troppo caldo e troppi fiori intorno a te, mia cara. Or’ora stavo per farne un fascio. Tu finirai per asfissiarti, esagerando così. Essa stava immobile, con le mani serrate alle tempie, gli occhi fissi sui meandri del tappeto. Poi, risolutamente, si alzò e venne fin presso la scrivania d’un squisito stile del Rinascimento, sulla quale si mise a frugare senza scopo. Nella penombra, fra i larghi fogliami esotici e i mobili artistici, quell’alta figurina bianca pareva svanire come una parvenza. Suo marito le cinse la vita con un braccio e l’attirò a sè, dolcemente. — Sai, Letizia, ho una cattiva notizia da darti. Mi tocca partire.... La contessa trasalì ancora, lo guardò rapidamente coi bellissimi occhi, e si sciolse dall’abbraccio. — Dove vai? — A Berlino... Sono incaricato di una missione di qualche importanza dal ministero e, capirai, col ministero non si scherza. Parto lunedì. — .... Starai lontano molto tempo? — Temo di sì. L’affare per cui vado non è da sbrigarsi in poche ore... Tre, quattro, cinque mesi.... ma poi vedremo.... Non ne so nulla insomma. La contessa Letizia rimase a capo chino e fra loro vi fu un prolungato silenzio. Eppure era lo stesso impulso che lottava nei loro cuori con degli ostacoli suscitati dalla loro diversa debolezza: era lo stesso sottile sgomento pauroso per una parola ch’egli avrebbe voluto sentirsi dire da lei che rimaneva muta, per una parola che Letizia aveva terrore di sentirsi dire, in quel giorno, in quell’ora... — Pensavo che tu potresti.... — la contessa ebbe un piccolo moto di altera meraviglia — tu potresti passar questo tempo dalla zia Fanny o pregarla di venirti a tenere compagnia. Per rispetto alle convenienze non sarebbe bene che tu rimanessi sola.... Letizia continuava a guardarlo come se pensasse a tutt’altro. — Sì, — mormorò poi; — riflettevo anch’io a questo. — ..... allora siamo perfettamente d’accordo, — concluse Alberto con la sua freddezza solita. Ed uscì. — Come sono vile, ah come sono vile! — disse in cuor suo la giovine contessa; e si lasciò andare sulla seggiolina della scrivania, tutta pallida, a occhi chiusi; mentre due grosse lagrime le rigarono le guancie e caddero in bollicine sulla sua cartella dalle cifre d’oro. Ma ecco che dinanzi alle palpebre abbassate, come se un velario fosse calato dinanzi alla realtà della sua vita per lasciarla vivere più intensamente nel sogno, le ricomparve repente la balda e bionda figura d’uomo, di un uomo che non era suo marito, fissa come l’aveva avuta inesorabilmente in tutta quella penosa giornata, ed essa, questa volta per cacciarla spietatamente, aperse gli occhi. Fu un rimedio vano. Se la visione svanì, i suoi pensieri seguirono fluenti il loro corso, come l’onda del ruscello gira intorno ad un debole ostacolo messo per arrestarla.... Lo aveva riveduto dopo quattro anni, improvvisamente, quel giorno stesso, nell’uscire dal salotto d’un’amica, mentre egli vi entrava. E nello scoprirsi il capo biondo, cedendole il passo, l’aveva misurata con lo sguardo sàturo d’una tal curiosità volgare e galante che Letizia aveva arrossito. Ma aveva arrossito meno per l’indignazione che per il colpo di trovarselo lì dinanzi quando meno ci pensava, e con lo stesso fàscino irresistibile ch’era stato il tormento e il sorriso dei suoi sedici anni. Un vanesio, del resto, quel tenentino di cavalleria! Non aveva il capo che a far la corte alle signore eleganti, mentre le signorine gli sospiravano dietro: ella lo sapeva; lo aveva già giudicato col suo nascente senno di giovinetta, da quel contegno irragionevolmente mutevole con lei, innamorata di lui da morirne, sempre. Era così spigliato, così attraente, così carino! Una volta, l’ultima volta che si erano incontrati le aveva giurato che se il padre di lui non desisteva dall’opporsi al loro matrimonio, si sarebbe ucciso... Uno spavento, un supplizio... una dolce e tremenda e insistente tentazione di fuggirsene davvero attraverso l’Europa, com’egli le proponeva.... Ma aveva troppo pensato al dolore dei suoi; le era mancato il coraggio. Poi quell’amore tempestoso, a pause, nutrito di stranezze che non capiva e di audacie che la rimescolavano, le faceva paura..... Era così ingenua e così giovine! Dopo, non si erano più riveduti, ma essa sapeva che non era morto, che viveva come prima, più di prima. A diciotto anni aveva sposato, senza entusiasmo, ma con affezione profonda, il giovane diplomatico che suo padre le presentava. Quell’amore gentile, rispettoso, cavalleresco, quasi tutto fiori e delicatezze, le era parso un refrigerio, e la sua anima ancora un po’ malata e la sua gracile fibra di damina spirituale, vi avevano trovato una soavità infinita. Meno qualche vampata di quando in quando che le portava un palpito e un malessere d’un minuto, al tenente biondo non pensava più. ...... L’oscurità aveva invaso il bel salotto profumato di cardenie, quand’ella, levandosi svogliatamente, si avvicinò alla finestra e rialzò le tendine. A Roma la neve non dura; non se ne vedeva più traccia: pioveva. Pioveva monotonamente, tranquillamente. Letizia rimase con la fronte che bruciava, appoggiata ai cristalli, lo sguardo smarrito. Ancora una lotta. Anderebbe o no al _Bal-en-rose_ dell’ambasciata di Francia, quella sera? Da un lato l’aspirazione alla pace, all’oblio, il presentimento vago di un pericolo....; dall’altro il desiderio stesso di questo pericolo, il fascino d’un’emozione nuova, il piacere acre di riaprirsi una ferita nel cuore per sentirlo palpitare più forte..... — Il pranzo è servito, — annunziò la voce indifferente del domestico dalla soglia. La contessa si scosse. Erano soli, suo marito e lei, quella sera a mensa. Dio! una lunga, penosa dissimulazione..... Si ravviò alla meglio i capelli, al buio, per non chiamare la cameriera e s’avviò, lenta, per le stanze illuminate verso la sala da pranzo. * * * Si fecero servire il caffè accanto al fuoco nella sala da pranzo vasta e severa. Letizia, seduta un po’ di traverso sul seggiolone dall’alta spalliera, appoggiava sul paracenere i piedi, piccoli, calzati di raso color madreperla, come l’abito a cui la fiamma prestava strani bagliori; Alberto, vestito come sempre, correttamente di nero, nella sedia di fronte centellinava il caffè fumante, odoroso. Erano soli, silenziosi; un’atmosfera di noia e di tristezza gravava. Durante il pranzo, fra il via vai dei servi, avevano scambiato qualche osservazione, qualche frase insipida; ma ora non si pigliavano neanche più la briga di fingere e la loro tormentosa preoccupazione rispuntava evidente. — Riuscirà molto bene a quel che pare il _bal-en-rose_ dell’Ambasciata francese, — uscì a dire finalmente Alberto, posando il tazzino; — le sale sono addobbate con buon gusto ed hanno trasformato la grande terrazza in una grotta fantastica dove sarà bello riposare. Tu ci vieni? — seguì col tono più naturale del mondo, ma che alla contessa Letizia, per la disposizione d’animo in cui era, parve un abile quesito indagatore. La lotta che ancora era in lei, cessò bruscamente. — Sì, vengo, — rispose con alterigia senza alzare gli occhi. — Hai dato gli ordini in proposito? — chiese il marito senza scomporsi. — Sì... Ma perchè mi chiedi se vengo? Ti dispiace forse? — ribattè la signora sollevandosi un poco e ritirando i piedi dal paracenere, i piedini nervosi che s’agitavano continuamente, mentre negli occhi neri e grandi era una cattiva espressione di sfida. — Perchè dovrebbe dispiacermi, Letizia? Te lo chiedo, ricordandomi d’averti sentito parlare di emicrania poco fa, e notando in te infatti un aspetto un po’ sofferente..... Quella compostezza, quel tono di voce tranquilla le fecero dare una strappata ai cordoni del bell’abito dai riflessi di madreperla, irritata, impaziente. Sentiva dentro di sè un fermento di rivolta, un incalzante desiderio di ricatto, senza saper bene perchè. — Invece io sto benissimo... — la sua voce risuonò stonata nell’ampia sala; — ti prego di credere che sto benissimo e che non ho punto bisogno di riposo.... — Quando è così, mia cara, — fece lui guardando l’orologio, — mi pare che faresti bene ad allestirti. Le signore ci mettono un po’ di tempo... — finì sorridendo. La contessa si levò, gli passò davanti senza guardarlo, e quella vaga figurina bianca scomparve, come una visione luminosa, sotto l’arco dell’alta porta, dalla camera vasta e severa. Alberto affisava il fuoco, immobile. * * * — ...... ebbene, contessa, si va all’assalto di cotesta grotta ideale? — le chiese con allegra baldanza il tenentino biondo, che non si era più scostato da lei dopo quella fine di valtzer ballata intensamente, in silenzio. — Avanti, _en marche_! — rispose Letizia scherzosa, balzando in piedi. Traversarono la gran sala da ballo, splendente, gaia d’abbigliamenti in tutte le gradazioni di rosa come un gran roseto vivente, ella al braccio di lui, animata, ridanciana, con uno scintillio negli occhi neri. Non era più la languida signora che qualche ora prima nascondeva la testa nei guanciali in atteggiamento sofferente; nel suo incedere, nei movimenti, nelle parole aveva un’insolita vivacità. Eppure, una delle mani sottili e bianche, nascosta ora dal lunghissimo guanto profumato, brancicava nervosamente fra le pieghe dell’abito e sgualciva alquanto l’ideale vaporosità della garza appena soffusa di color roseo, come un’aurora. Quel monello di tenente non smetteva intanto di susurrare tante paroline belle col capo chino su lei fino a sfiorarle i riccioli, paroline belle e spiritose, forse, giacchè ella ne rideva di cuore, crollando la testa vezzosa e distribuendo saluti e sorrisi alle amiche e ai conoscenti che incontrava e che la osservavano con una punta di malizia negli occhi. — Eccoci nel «regno delle favole» — canterellò sull’aria del _Mefistofele_ il tenente De’ Falchi, entrando con la sua compagna, dopo un giro abbastanza lungo attraverso l’infilata di sale, sulla terrazza dove non c’era quasi nessuno. Una ridente illusione. Una grotta scavata in qualche blocco enorme di cristallo rosa. La luce viva, diffusa, dietro le pareti, ne faceva spiccare il colore e la velata trasparenza. Rosai fioriti s’arrampicavano qua e là fra i sedili di pietra nera, e i fili d’argento delle fontane luccicavano misteriosi nei cespugli verdi, ricascando con un sommesso mormorio nelle vasche seminascoste dalle larghe e strane foglie di molli piante aquatiche. In terra uno spesso tappeto bianco, vellutato, che in vari punti i pètali delle rose sfogliate ricoprivano. Quella luce opacamente rosea, dopo tanto sfolgorio di arazzi e di festoni, riposava l’occhio e faceva pensare ad un paese misterioso di sogni e di pace. Eppure Letizia non si sentì più tanto padrona di sè come laggiù nelle sale rumorose, dove aveva risposto coi frizzi e col sarcasmo brillante alle galanterie del giovane ufficiale. Le parve che in quel silenzio tutta la sicurezza, di cui s’era compiaciuta in segreto, vacillasse, e ne fu seccata. Ma non volle farlo supporre e si soffermò ammirando. — Il regno delle favole...! E la regina? — diss’ella senza nessuna intenzione, ingenuamente, non dubitando di parer lei davvero l’incarnazione della bellezza, della gioventù, della poesia, così graziosa, bianca, delicata nell’abito vaporoso, stellato di brillanti. De’ Falchi non si lasciò sfuggire l’occasione per dirglielo e lo fece con parole così blande e così dolci che parevano carezze. La contessa con piccole mosse comiche d’esagerata modestia si velava il volto col ventaglio di trina. Poi, rannuvolandosi in un subito fra il gioco, ebbe un sospiro. Anche lui era bello, bello come un giovine Nume! Anche lui pareva un eroe degli antichi tempi con la divisa luccicante, la bionda testa irrequieta, gli occhi vivi, il personale slanciato. Come era bello così! più bello nel suo meriggio di giovinezza, che quando, ancora adolescente, quasi, le aveva parlato d’amore. La musica che si udiva lontanamente, come un’eco, aveva ripreso. Un crocchio di persone che conversavano laggiù si sciolse. La principessa Montegaudio, passando accanto ai due, ebbe un’occhiata severa, ma il vecchio generale ch’era con lei quasi sorrise. Letizia e De’ Falchi rimanevano soli. — Ce ne andiamo? — diss’ella con un tono indolente simulato: e lo trasse con delicatezza dietro gli altri. Ma il tenentino fece due passi, poi s’arrestò. — Guardate prima nel _carnet_, vi prego! — disse come se domandasse la proroga d’una sentenza crudele. Guardarono insieme, mentre nella fretta del cercare le loro mani si sfioravano. Non c’era nessun nome. Egli ebbe un profondo respiro di sollievo. — Non importa, non importa, — soggiunse Letizia, che pareva contrariata. — Andiamo in un altro luogo. — Dove trovare un luogo più bello per la vostra bellezza?.... per la mia ammirazione?..... Io passerei la vita, qui, con voi.... — Prima di tutto le ho proibito assolutamente di darmi del _voi_! — e Letizia gli battè il ventaglio sulle dita, — damerino incorreggibile... — Pardon, Contessa! — disse subito De’ Falchi con una lievissima intonazione ironica. — Ogni tanto mi dimentico che sei anni sono passati.... Ho la memoria un po’ logora, vedete..... in certi casi. E trovandoci insieme ancora, in questo luogo di sogno io sogno d’avervi ancora accanto libera, amante, mia.... Letizia, già presso alla soglia, si fermò ancora, tornò indietro. No, così non andava proprio. Darle del _voi_ e rievocare il passato! Erano le condizioni del loro trattato di pace, queste? Un ufficiale dell’esercito mancare di parola così! Vergogna, cento volte vergogna! Ma De’ Falchi s’impadronì della terribile manina e la imprigionò sotto il suo braccio senza staccarne la sua mano. — Contessa Letizia Farigliano di Roccamare, — cominciò con quel suo fare tra ardente e sentimentale e scherzoso, irresistibile per lei, — mi dica dunque che cosa debbo fare per ottenere perdono...... Vuole tutte queste rose in omaggio? Vuole che le dica dei versi, dei bei versi? Una volta le piacevano e mi sgridava perchè non li sapevo mai... Ora ne so. La signora ebbe ancora un moto di ribellione, di sdegno, ma non resistè al suo compagno che l’allontanava dalla porta d’uscita, stringendole più forte la mano. — Senta, — continuò de’ Falchi, — sono versi che sembrano scritti apposta per lei e sembrano scritti da me, per dirli adesso. — Poi seguì a voce un po’ bassa, con appassionata dolcezza: Sul viso il tuo respiro caldo m’aleggierà Come un profumo; e come una soave musica La tua voce divina mi darà pace all’anima Accanto a te seduto, ne’ tuoi capelli biondi Immergerò la mano, e dei dolci misteri Del core io parlerò coi tuoi grand’occhi neri.... Lei lo lasciò dire, giocherellando col ventaglio e facendo un po’ la distratta e un po’ la disinvolta; in realtà sommergendosi nella melodia di quei versi, di quella voce, che le avevano messo nel cuore un palpito violento, stranamente delizioso. — Di chi sono? — chiese poi, tanto per non star zitta, già smarrita. — Sono d’un giovane poeta e appartengono a un poemetto, intitolato «La leggenda del cuore». Vede, anche là nella leggenda sono soli l’innamorato e la Diva, è in una specie di paradiso terrestre come questo... Solamente quella diva era più buona di questa.... si lasciava anche dare del _tu_. La signora levò il capo e non rispose. Era seria, soffriva. Qualche cosa di estremamente violento, come un incantesimo, la teneva ora là, muta, ascoltando, mentre il seno seminascosto dai veli si sollevava frequentemente nel respiro breve, e la collana di brillanti nel tenue e ritmico movimento aveva un abbagliante saettio di raggi e di colori. Passando accanto a un rosaio ne strappò un fiore e fece per gettarlo nel bacino d’acqua accanto, ma De’ Falchi le impedì l’atto. — Vede se è cattiva? — disse con una brusca tenerezza. — Che male le ha fatto, per esempio, quella povera rosa? Lei fa così di tutto, di fiori, di uomini... — Io no; è il destino che sfoglia tutto intorno a me... — mormorò lei quasi piangente. E sedette sul sedile di pietra nera, l’ultimo sedile, appartato, nel fondo del poetico ambiente. Era come in una nicchia di rose: a’ suoi piedi la fontana; tutto intorno molto verde messo là per ragione di prospettiva, li isolava. Potevano credersi in un pianeta ideale. De’ Falchi le sedette accanto e le cinse la vita con un braccio. — Il destino siamo noi, — le disse dolce, insinuante; — e noi ci ameremo tanto, tanto; ci ameremo per tutte le ore perdute, per tutte le ore che mi hai rubato, che mi hai tradito. Sono io il tuo sposo, e tu sei mia. Nessuno dei due ha dimenticato, vedi? Nè tu nella pace, nè io nella tempesta dove cercavo di sommergere l’immagine tua. Sei stata la rovina della mia vita, tu, Letizia; non m’hai amato abbastanza... ma ora, quand’anche questo amore dovesse passare come un turbine sulle nostre esistenze, noi non ci separeremo più.... Letizia udì confusamente le ultime parole. Quell’accento di passione, quello sguardo che la bruciava, quel soffio che usciva dalle labbra del giovine a carezzarle la fronte, quel luogo fantasiosamente bello, tutto, tutto finiva di paralizzarla, di perderla... Svincolò dolcemente le mani e si velò il volto impallidito: «Oh amore dei miei giovani anni... Oh mio ideale!» gemette l’anima sua, ed appoggiò esausta la testa fra le rose. Ma la voce insinuante la perseguitava, le rispondeva all’orecchio: «Oh, i fini capelli odorosi, la delizia e il delirio della mia giovinezza.... il mio tesoro rubato io lo riprenderò!» — E fra le rose, fra il profumo, ella sentì il suo bacio fra i capelli.... ma a quel contatto scattò, si riprese improvvisamente, mentre una nevata di petali rosati cadeva dai rami bruscamente scossi sul sedile di pietra nera. — Oh no, Carlo è troppo tardi, — disse dolorosamente. E con un’improvvisa energìa si diresse sola, frettolosa, verso la porta. La musica cessava allora. * * * Rientrata in casa non si coricò. Si richiuse nelle sue stanze congedando la cameriera. Ritta, nella luce chiara e diffusa del piccolo spogliatoio parato a colori ridenti, dinanzi allo specchio alto e stretto che la rifletteva bianca e bella, così senza gioielli e senza guanti, ella si scioglieva il vestito lentamente, lasciando errare gli occhi pensosi fra gli accessorî del suo abbigliamento gettati qua e là alla rinfusa. E gli occhi neri, profondamente cupi, si posavano, senza sguardo, dal ventaglio prezioso di merletto al fazzolettino di Malines, dal carnet d’argento ossidato ai lunghi guanti che serbavano ancora l’impronta delle sue braccia scultorie, della sua tenue mano; dalla sciarpa di blonda profumata di violetta che le avvolgeva il collo, uscendo, all’iridescente splendore dei brillanti che si ammucchiavano nel cofanetto aperto. Mentre le scivolava ai piedi l’abito in una densità gentile di colori, come un nebuloso piedestallo, Letizia ne trattenne bruscamente un lembo accendendosi in viso. Nascosto e protetto da una piega, aveva trovato un petalo di rosa, fragile avanzo che tenne lungamente fra le dita convulse, immersa nel ricordo di quel momento di sgomento e di amore. Poi infilò una veste da camera, passò nel suo salottino, s’accertò se gli usci erano ben chiusi e sedette alla scrivania. Scrisse due pagine, senza interrompersi, alla luce oscillante di un candelabro; ma incontrando cogli occhi un ritratto, si gettò indietro nella seggiolina, col respiro mozzo, le tempie umide di sudore gelato. Cacciò il ritratto in un cassetto e si rimise a scrivere, poi rallentò, posò la penna, e mise il volto nelle mani. Perchè le venivano quelle idee adesso? Suo marito dormiva inconscio....... forse non aveva neanche osservato Carlo De’ Falchi fra la folla; certo non lo conosceva, ed ignorava l’idillio fuggitivo della sua primavera..... Riprese la penna; lo stianto d’un mobile la fece balzare in piedi nascondendo il foglio vivacemente..... poi si rassicurò dandosi della grulla. Gli usci erano chiusi, la casa addormentata in un fitto silenzio. Chi poteva immaginare ch’essa vegliava scrivendo delle lettere d’amore? .... E _lui_? Che faceva _lui_ a quell’ora? Sognava la sua diva dai fini capelli odorosi?.... Ah, se avessero detto alla poveretta dove e come _lui_ finiva la notte..... «Ancora pochi giorni, scriveva, poi saremo liberi di vederci quando ne abbiamo voglia, senza timori, senza sorveglianze.... Il mondo? Che importa a noi del mondo? Ci amiamo, il mondo siamo noi! Era destinato così....» E ripensando a quelle parole ardenti, s’interrompeva fremendo ancora d’emozione. Nessuno le aveva parlato mai così appassionatamente, con quella veemenza pazza ed inebriante; nessuno! Alberto? Oh, Alberto così freddo, così severo, così compassato, preoccupato solamente delle convenienze, semplicemente deferente e cortese con lei, senza scatti, senza entusiasmi per la sua bellezza, Alberto che la riguardava come un oggettino d’arte raro e fragile di sua proprietà — bisognava pur dirlo — non sapeva amare! O forse non l’amava, non l’aveva mai amata! «Forse anche m’inganna, forse ha un’amante», concluse Letizia; e nell’eccitamento di nervi in cui si trovava, si ripetè che allora essa poteva ben riamare chi l’adorava; che era nel suo diritto!.... Ma queste teorie che volevano pur convincerla ondeggiavano confusamente nella sua povera mente smarrita e non acquetavano le piccole serpi che la mordevano al cuore.... * * * — Letizia, — disse suo marito entrando il pomeriggio seguente nel salottino profumato, — ti porto una vecchia conoscenza. Il marchese Carlo De’ Falchi che mi dice di averti conosciuta da signorina e che ieri sera mi si rivelò come il fratello di un mio carissimo amico di collegio, morto. Ecco due titoli che gli danno diritto alla nostra amicizia. De’ Falchi, che seguiva Alberto, si inchinò ossequiosamente alla contessa; ed ella, sollevandosi un poco, tutta bianca nel viso, gli tese la mano senza parlare. Aveva un abito di raso nero molto semplice, un gioiello antico al collo, una rosa alla cintura; abbigliamento severo che le dava una grazia tranquilla e dignitosa. Egli però la preferiva come la sera prima, con le spalle e le braccia nude, rosate, fra la sfumata trasparenza dei veli; ma si guardò bene dal lasciarlo apparire in quello sguardo balenante che le gettò attraverso il viso come un bacio rovente. La giovane contessa era sul punto di tradirsi: nascose le mani tremanti; ma il sangue le pulsava violentemente al cuore, le ronzava negli orecchi. Cinque minuti prima avrebbe dato dieci anni di vita per rivederlo, ma non così, non in presenza di suo marito, non terzo nella loro intimità. Perchè non aveva aspettato, benedetto ragazzo? Ma era possibile che avesse tanto impero su se stesso da non svelare mai, nè con uno sguardo, nè con una parola imprudente, il loro segreto? Non doveva sentirsi ribollire il sangue alla vista di quell’uomo che la possedeva? Non doveva avvampare di sdegno, di gelosia, di amore, udendolo parlarle famigliarmente — entrando nella casa in cui vivevano in comune — dove _doveva_ sentire l’eco dei loro baci?.... E come queste passioni tumultuanti non lo avrebbero perduto? E allora cosa accadrebbe tra quei due uomini?... Questo l’ingenua contessa si chiese angosciosamente. Ma De’ Falchi fino dalle prime frasi mostrò una disinvoltura, una calma, una naturalezza invidiabili. Fu cordiale ed espansivo verso Alberto; gentile e rispettoso con lei, e non un momento lasciò languire il dialogo. Fece con arguzia la rassegna della festa; parlò d’un romanzo francese che faceva il giro dei salotti, dell’equipaggio nuovo del duca d’Arce, di un ritratto all’antica fatto dal celebre ed estroso Fides alla principessa Montegaudio, di un matrimonio dell’aristocrazia, di una acconciatura della Regina. Letizia lo guardava fissamente ascoltando, e taceva. Quella disinvoltura dileguava le sue paurose fantasticherie, sì, ma vi lasciava un fondo di tristezza e di dolore. Taceva. De’ Falchi chiese a un punto se la signora contessa fosse sofferente. — Sì, — diss’ella bruscamente, — soffro... — Ma la voce le morì nell’incontrare gli occhi di suo marito che le parve volessero scrutarle nell’anima. — Soffri? È naturale, — osservò Alberto con perfetta calma. — Anche ieri non ti sentivi punto bene. Dovevi prevedere le conseguenze di un ballo nelle tue condizioni di debolezza e di squilibrio nervoso. La contessa si arrovesciò lentamente nella poltrona abbassando gli occhi a passarsi in rivista le unghie opaline. Uno sgomento strano le aveva stretto il cuore a quelle parole, di cui credette afferrare un secondo significato noto a lei sola. Si sentiva morire. — Sarebbe un quadro antico questo? — chiese improvvisamente l’ufficiale levandosi a osservare un ritratto fiammingo appeso alla parete. — Si, un _Van Dick_, — rispose il conte alzando alquanto le tendine della finestra. La luce chiara battè loro sul viso e li circonfuse. Alberto, alto, bello, nobile, con le mosse e l’aspetto principeschi; De’ Falchi molto meno attraente della sera innanzi, al chiarore del giorno che gli metteva in evidenza le rughe precoci sul volto scialbo ed avvizzito; le occhiaie livide che gli cerchiavano gli occhi gonfi, senza splendore. La giovine signora lesse in pochi minuti su quel viso tutta la storia d’una bassa vita corrotta, poichè un senso di fredda ragionevolezza le era filtrato nel cuore. Perchè? da quando? Lo ignorava; ma in quei pochi minuti sentì che si risvegliava dal suo splendido sogno, senza scosse, senza spavento; ma si risvegliava, irreparabilmente. — Eccellente, eccellente, e conservato, poi! Nell’ammirare, de’ Falchi colse un momento favorevole per sussurrare a Letizia: Scrivetemi! Poi si congedò, inchinandosi e salutandola militarmente con gli occhi ridenti che lo tradivano. La contessa ebbe appena la forza di fare un cenno col capo, e quando furono usciti, suo marito e lui, s’abbandonò ad un pianto convulso tutto scosse e sussulti, un pianto lungamente represso che prorompeva disperato e violento. Era l’addio ad una larva del passato, era rimorso del sogno, era vergogna di quella realtà prosaica piena d’ipocrisia e di viltà. Oh! il suo vaneggiare di quei due giorni! il vaneggiare dolce e doloroso! la lotta per difendere l’invasione del proprio cuore! il turbamento sfumato in languore soave nel sentirlo cedere a poco a poco a quell’onda di passione rinascente che le offuscava la ragione.... quella pagina d’amore fra le rose, la lunga lettera folle, scritta e non inviata, i rimorsi soffocati dal ricordo di quella stretta e di quel bacio, la fisima di un amore purificatore, sublime, che dovrebbe redimere l’amato e fargli ricominciare la vita per lei.... che rimaneva di questo?... Il prisma scintillante e variopinto era ridivenuto un vetro volgare. Ella sarebbe divenuta l’amante di quell’ufficiale di cavalleria che conquistava con un astuto opportunismo il cuore di suo marito per poterla corteggiare a suo comodo: sarebbe vissuta dividendosi prosaicamente fra quei due uomini, menando una triste vita di finzioni, di lotte, di rodimenti, di bassezze; tormentata dalla memoria de’ suoi anni di vita illibata e serena per guadagnarsi infine lo sprezzo e l’abbandono dell’uomo al quale faceva il sacrifizio della sua dignità. Tale fu la tetra visione che la sua anima onesta e candida intravide in un lampo di cruda luce e dalla quale rifuggì inorridita e salva. Era guarita, lasciando brani di sè al ferro e al fuoco; ma che importa? Era guarita. * * * Dovette mettersi in letto, affranta. La sua delicata fibra di donna fu la sola parte di lei sconfitta nella terribile prova. Ebbe una lunga e acuta crisi di nervi, poi nel meriggio seguente migliorò e volle alzarsi. Ma era ancora così debole che fu obbligata a lasciarsi andar subito sulla _chaise-longue_ per appoggiare la testa indolenzita. Di là guardava intorno tranquillamente coi grand’occhi cerchiati di nero, occhi innocenti e mesti di bimba malata, come se rivedesse dopo un lungo e pericoloso viaggio quelle pareti del suo santuario d’affetti e di ricordi. Frattanto una gran pace, una dolce pace succedeva alla dilaniante agitazione di poche ore prima; una pace feconda di buoni propositi che si lasciavano dietro un profumo di fiori che sbocciano sotto un sole caldo e luminoso. E carezzava tutto intorno con lo sguardo quel nido tepido di raso e trine; accarezzava la poltroncina dove Alberto era solito sedersi, dove lo aveva veduto anche in quelle dodici ore di strazio, con la faccia pallida, senza respiro, senza movimento se non per accostarsele a farle odorar l’etere, o rinnovarle il ghiaccio, o darle qualche sorso di cognac, carezzando con la bella mano aristocratica quelle di lei brancicanti fra le coltri.... Vedeva il cofano scolpito, custode dei suoi gentili ricordi di infanzia e di adolescenza, dello spensierato tempo lontano che raggiava mitemente in una luce rosata e nebulosa, a cui ella volgeva l’occhio sempre intenerito. Aveva conservato un ricordo di tutto: dei giorni di palpiti, di speranze, d’angoscie, di lutto, di solitudine, di esultanza; poi le giornate gioiose piene di canti e di fiori della fidanzata, lieto poema terminato da un giorno di smarrimento che era passato lasciando nello stipo un fascio di fiori d’arancio e un lungo velo bianco. Poi venivano i mobili e le pareti ingombre di gingilli ognuno dei quali le rammentava un’attenzione delicata del suo compagno, una frase affettuosa, un bacio, un anniversario dolce, tutta la storia del presente ricco d’amore, d’amore vero, refrigerante e sicuro, ch’era idolatria e protezione ad un tempo. E là, dirimpetto, i grandi ritratti de’ suoi morti che la guardavano fiso, cogli occhi animati da una così strana luce di tenerezza e di malinconia che le fece mormorare cento volte: Perdono, perdono, perdono.... Infine si levò, risoluta, calma, seria, come se stesse per compiere un dovere od obbedisse ad una ispirazione superiore; e scrisse poche righe su un cartoncino liscio, con la sua elegante calligrafia di signora: «Credete a me, Carlo, è meglio che non ci rivediamo mai più. Ho dei gusti borghesi, compatitemi! preferisco rimanere semplicemente una donna onesta che diventare la Diva di qualche leggenda. Addio. — Letizia. Chiuse il cartoncino in una busta con l’indirizzo e la fece impostare subito dalla cameriera. Poi tornò a fissar gli occhi de’ suoi morti. Quando si riscosse, il sole sul tramonto lambiva le trine del soave nido serico e una nota voce risuonava nell’anticamera. La contessa si avvicinò allo specchio e si ricompose i capelli. Suo marito entrò soffermandosi sulla soglia. — Già levata? brava! ti senti dunque meglio? — e mosse verso di lei premuroso, un po’ triste. — Guarita, Alberto, guarita! — Letizia ebbe un impercettibile sorriso sibillino. Poi gli mise lentamente le braccia al collo e gli nascose la testa sul petto, contro il cuore. — Dì, Alberto, — susurrò, — mi perdoni le mie bizze, la mia musoneria? hai veduto? non stavo bene, erano i nervi... — Già i nervi, quei benedetti nervi... — Alberto le carezzava adagio i capelli, ninnandola come una bimba. Erano nella spera di sole che traversava obliquamente la stanza e s’insinuava nel letto, fra le cortine: Letizia rialzando la leggiadra testa la ebbe tutta intrisa d’un oro ardente. — Dimmi, Alberto, quando parti? — gli chiese con risolutezza. Egli esitò un istante. — Ma... dissi lunedì, e lunedì è dopodomani. Avresti qualche cosa in contrario? Mi dispiacerebbe perchè non posso differire... — .... io no, anzi... — rispose lei tutta rossa e palpitante; — gli è che.... volevo saperlo.... te l’ho domandato, — aggiunse rapidamente — perchè vorrei venir con te! Oh, Alberto, portami via con te! Gli ricadde sul cuore tutta commossa. Alberto rimase un minuto in silenzio, immobile; poi il signore serio, rigido, sempre dignitoso e corretto la strinse fra le braccia con uno slancio di giovane innamorato ripetendo a voce bassissima: — Sii benedetta; grazie, grazie.... Ma, di colpo, le prese tutte due le mani, obbligandola a rimanere là dritta dinanzi a lui come dinanzi a un giudice. I suoi lineamenti avevano assunto adesso un’espressione autorevole, severa, quasi di durezza. — Hai scelto dunque? — le disse lentamente, fissandola negli occhi. — Non te ne pentirai? — Ah, Alberto! — Era un grido di dolore, ma Letizia sostenne quello sguardo risoluta, orgogliosa. — No? — continuò lui scosso più che non lo volesse parere; — no, proprio? Ebbene, sono contento, Letizia, perchè è quello che mi aspettava da te. Poichè, vedi, — seguitò freddamente, — avendo la coscienza di valere di più, ho voluto che tu ci vedessi accanto, per paragonare, per sce... — Oh no, per pietà, Alberto, non la ridire l’orrenda parola! — gridò lei svincolando le mani per posargliele sulla bocca. — Mi crederai se ti dico che fu un sogno? solamente un sogno della mente malata? un breve sogno di cui ho rimorso, ma di cui non debbo arrossire? Che sono ancora degna di te, della tua stima, del tuo amore, del tuo nome.... Mi credi? Alberto la guardò negli occhi neri che raggiavano. — Ti credo, — disse semplicemente. La gloria dell’ago. Quasi vil donna che ’l cor d’ozio ha vago E sol adopri la conocchia e l’ago. TASSO, _Rinaldo_. Uscite dall’ombra, o aghi umili, buoni. Uscite senza ritrosia; è il quarto d’ora della riabilitazione, il quarto d’ora del trionfo. Ecco, giungono. I primi adescati sono i meno modesti: gli aghi aristocratici che luccicano come minuzzoli di raggi siderali sulla felpa degli astucci, sul raso delle cestelline adorne, in cui trascinano le giornate, oziando, col loro strascico di fili di seta multicolore, sospinti di quando in quando da un ditale d’avorio o d’argento, fra la severità d’un artistico ricamo che palpita alla brezza marina, o ride ai riflessi del sole che s’infiltra tra il verde d’un ramo, o s’immalinconisce nella penombra d’un salotto, stiracchiato da una mano fine, nervosa, durante una visita importuna. Poi arriva la gran moltitudine degli aghi borghesi: aghi solidi, utili, infilati semplicemente di bianco o di nero, gli aghi più attivi, affacendati sempre, sempre pronti ad ogni sorta di lavoro, un esercito di carità che veglia e provvede dalle vedette d’avorio, di legno, di metallo, in cui li relegano, a gruppi, mani frettolose e sapienti. Questi sono gli aghi d’esperienza, poichè della vita conoscono le lotte, i trionfi, le gioie, gli sconforti, i palpiti, i sogni, le miserie, le follie. Quante cose hanno da raccontarsi, quando si trovano in crocchio a vegliare negli agorai! Uno è passato fra le trine d’una bianca veste di sposa, un altro fra il crespo d’un abito di lutto, un terzo in una cuffietta di neonato, un quarto è andato a rischio di spezzarsi tra la paglia del cappellino d’una signorina capricciosa, un quinto ha svegliato con una puntura la giovine cucitrice, stanca e illanguidita, un sesto ha fatto la spola cento volte fra un tovagliolo logoro d’una vecchietta avara; il suo vicino invece è ancora indolenzito a furia di rattoppar calzine d’ogni dimensione. Un altro ancora s’è bagnato delle lacrime d’una sposina negletta, un altro non ha fatto che..... disfar punti sbagliati fra dita abbandonate a loro stesse dalla mente assorta in una fantasticheria, o intenta a sugger parole dolci da una voce virile, armoniosa....... Oh, aghi, anche galeotti, dunque, qualche volta siete voi?!... Vengono, robusti, giganti, gli aghi rustici che rappezzano i sacchi e le camicie dell’alpigiana e scendono con lei in città, quando diventa balia in qualche bel palazzo, a ricordarle quell’ultima sera dei suoi monti, allorchè agucchiava cogli occhi velati e il cuore gonfio accanto alla culla del suo figliuolino; o quell’altro giorno ancor più lontano, quando un ago simile si spezzò al bacio improvviso d’un giovane coscritto a lungo aspettato. Sono aghi ingenui, inoffensivi, che hanno in sè una poesia fresca e sana e tutta la purezza dell’infanzia che li predilige, tutta l’ignoranza beatamente grottesca delle bambole e dei burattini. Ecco gli aghi scolastici in una minuziosa scala di proporzioni; aghi silenziosi, discreti, affaticati, qualche volta crudeli, disamorati sempre, poichè, meno qualche onorevole eccezione, si nascondono, sfuggono, si spezzano anche volentieri, pur di sfuggire alla tirannia di quelle ore fisse di ginnastica educatica. Ecco, accanto, gli aghi del chiostro, muti, eterni, suffusi di luccicori lustrali, e la scarsa falange degli aghi maschili dai movimenti bruschi, ineleganti, gli aghi dei tappezzieri e dei soldati, e gli aghi degli ospedali, aghi malinconici, addolorati, benefici, riparatori, «_Prima di trista e poi di buona mancia_,» come la lancia del divo Achille, poichè oltre ciò, voi, aghi, sapete anche punire una mano temeraria e puntare all’occhiello un fiore desiderato.... Oh, aghi, aghi, chi vi canterà degnamente? Come rendere tutto il germogliare di sensazioni, il disegnarsi di miraggi che si levano, al pensiero di voi, nel mio cuore? Aghi buoni, umili, filosofici, saggi compagni e testimoni eloquenti della vita muliebre, consiglieri di pace, confidenti di tanti nostri sogni ingenui, folli, mesti, a cui parete rispondere con una parola di ritmo pacato, pieno di senno, balenando assidui tra la piega dell’orlo, o coi ridenti rabeschi che si tramano sul canovaccio come rispecchiando in un lago tranquillo le chimère splendide e vane dei poveri cervelli femminili. Aghi, aghi, che sapete tante cose che gli altri non sanno, tanti palpiti repressi, tante angoscie velate sotto una calma fittizia, tante fissazioni opprimenti del pensiero assorto da un punto luminoso di faro, tanti dubbi tremendi, tante supposizioni false che dànno la voluttà del martirio, tante ore d’attesa, oh quante! le lunghe, pazienti, logoranti attese femminili a cui è compagno il lavoro, ore d’un supplizio minuto, crudele, continuato, che l’uomo non sa. Oh, aghi snelli, rilucenti, dai miti riflessi di luna, antichi maestri di pazienza, quanto meglio sarebbe ascoltar voi qualche volta, quando pacificamente incrociati sul lavoro che attende, pare ci consigliate di non legger quei versi, di non scrivere quella lettera, di non uscire a quella passeggiata; quando con la soddisfazione intima e schietta che viene da voi, ci adescate alle dolcezze dei semplici, dei felici che non conoscono il faticoso errare nei campi stellati e dolorosi dell’arte, del pensiero! Meglio, si, meglio l’umile agucchiare che il soave e velenoso intenerirsi ai casi di Lancillotto; meglio l’ago, che la penna. E noi torneremo all’antico; agucchieremo. Là è un regno tutto nostro di pace feconda, come la terra beata dell’ultimo sogno di Faust; là, finora, nessuno ci giudica, nessuno ci motteggia, nessuno ci sferza. L’ago pesa meno della penna alle nostre mani delicate e.... conclude di più. _Ave_, dunque, ago, fortezza, difesa, e gloria nostra! FINE. INDICE Forte come l’Amore Pag. 1 Romanze senza parole » 75 Natale Romantico » 78 Natale Classico » 86 Il poema dei bambini » 97 Treccia bionda » 101 Romanze senza parole » 112 Pasqua triste » 116 La scarpina di Cenerentola » 122 Romanze senza parole » 182 Crisantèmi » 140 Dietro le scene » 150 Mammole » 157 Romanze senza parole » 165 Ultimi bagliori » 170 La gloria dell’ago » 197 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Il libro dei miraggi" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.