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Title: Attraverso il Cinquecento
Author: Graf, Arturo
Language: Italian
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CINQUECENTO ***


                              ARTURO GRAF


                               ATTRAVERSO
                                   IL
                              CINQUECENTO


                    PETRARCHISMO ED ANTIPETRARCHISMO
                      UN PROCESSO A PIETRO ARETINO
                               I PEDANTI
               UNA CORTIGIANA FRA MILLE: VERONICA FRANCO
                         UN BUFFONE DI LEONE X

                              (_Ristampa_)



                                 TORINO
                             CASA EDITRICE
                            ERMANNO LOESCHER
                                  1916



                          PROPRIETÀ LETTERARIA

            Tip. OLIVERO & C. · Via Accademia Albertina ang.
                     Piazza Carlo Eman. II, Torino.



PETRARCHISMO ED ANTIPETRARCHISMO



PARTE PRIMA

PETRARCHISMO


Il Petrarchismo è una malattia cronica della letteratura italiana. A
cominciare dai tempi stessi del poeta che gli diede il nome, e a venir
giù sino a quelli dei nonni o bisnonni nostri, ogni secolo della nostra
storia letteraria se ne mostra, non voglio dire infetto, che potrebbe
parere troppo irriverente verso la causa prima e non volontaria del
male, ma soprappreso, o colpito, in varii modi e con diversità di
grado e di effetti. È una specie di febbre ricorrente, da cui non so
se possiam dirci ancora in tutto e per sempre guariti, ma che già più
di una volta c’ebbe a tornar perniciosa. Il Petrarca era ancor vivo e
vegeto che molti già, com’egli stesso ci dice, si facevano belli delle
sue spoglie, tentavano di tramandare sull’ali stesse dell’ingegno
di lui il nome loro ai posteri. Costoro, che spacciavan per proprii
i versi stessi del cantore di Laura, sono certo i petrarchisti più
petrarchisti che sieno mai stati. Poi, subito dopo, comincia la
imitazione, comandata, in certo qual modo, da quella riputazione
strabocchevole, e forse senza riscontro, la quale, avendo accompagnato
il poeta in vita, non fece, lui morto, se non accrescersi e
confermarsi. Zenone da Pistoja, che in due migliaja di fastidiosissimi
versi deplorò quella morte, fa dire al mondo, vedovato del suo poeta:

    Quest’era la colonna del mio stato
      Quest’era luce mia universale,
      Come dal sol da lui illuminato.

E, veramente, a questo sole ebbero a scaldarsi infiniti, cui Febo molto
volentieri avrebbe lasciato morirsi di freddo, nel bujo.

Ebbe petrarchisti il Trecento; ebbene il Quattrocento, e non pochi;
ma il secolo in cui il petrarchismo galla, lussureggia, trionfa e
strabocca, è il Cinquecento: così che quando si parla di petrarchismo,
subito la mente corre a quel secolo, come se a quello esso appartenesse
strettamente ed in proprio.

Quali le ragioni del fatto?

A tale domanda alcuni storici della letteratura non dànno risposta di
sorta, paghi di descrivere incompiutamente, o anche solo di registrare
il fatto; altri rispondono assai per le spicce, con pericolo grande di
risponder male[1].

Il buon Settembrini, che batteva sempre su quel suo chiodo (ma
non sempre a torto, intendiamoci) della oppressione civile ed
ecclesiastica, nemica così del pensiero, come della unità e libertà
d’Italia, dice a tale proposito[2]: «La Lirica è essenzialmente
affettuosa: tra gli affetti il solo amore era libero, non dava sospetto
ai principi ed alla Chiesa: il Petrarca fra gli antichi ed i moderni
è il maggior poeta di amore: i monumenti antichi di recente scoperti
e pubblicati fecero stabilire come principio di arte l’imitazione:
ecco come fu imitato il Petrarca». A ciò si risponde che significare
altri affetti nel verso non era poi così rigorosamente vietato,
provando il contrario gli esempii noti del Guidiccioni, dell’Alamanni,
e di quant’altri, e non furono pochi, ebbero allora a deplorare i
mali d’Italia, a esecrarne le cagioni, a ricordare con dolore e con
desiderio i tempi e le glorie antiche; che il petrarchismo non è tutto
contenuto nella poesia imitativa di quei lirici; che il fatto, ben
lungi dall’avere una causa sola, ne ha parecchie, le quali si potranno
vedere specificate più oltre.

Uno storico tedesco della letteratura italiana, il Ruth, cerca le
cause del petrarchismo del Cinquecento in una innata ed incurabile
debolezza dell’ingegno italiano, e dice che, senza una tale debolezza,
il Petrarca non sarebbe stato mai, come fu, canonizzato massimo
poeta[3]. A quest’affermazione sommaria, che fa torto ad uno storico
di professione, troppe cose ci sarebbero da opporre; ma basterà, per
mostrare quanto sia vana ed ingiusta, ricordare che il Petrarca non fu
meno ammirato nella rimanente Europa di quello fosse in Italia; che di
petrarchisti ce ne furono in Ispagna e in Portogallo, ce ne furono in
Francia, ce ne furono in Inghilterra, ce ne furono, sebbene più tardi,
come di ragione, in Germania; e che però quella presunta debolezza,
se è del popolo italiano, è anche di tutti gli altri popoli a cui si
allargò la coltura del Rinascimento. Certamente il Settembrini e il
Ruth, per non parlare di altri, o non colgono il vero, o lo colgono
solamente in parte.

Il petrarchismo del Cinquecento è un fatto storico e letterario assai
complesso, e le cause di esso sono molteplici e variamente composte
e intrecciate, per modo che non riesce troppo agevole determinare
il prima e il poi dell’apparire e dell’operar loro; ma le più, se
non tutte, si possono riferire, come a principio, o a recapito, alla
coltura del Rinascimento, la quale, com’è noto, si specifica, non
solamente in una moltitudine di forme, ma in una moltitudine ancora
di tendenze e d’indirizzi. In queste forme, in queste tendenze, in
questi indirizzi, sono da ricercare le ragioni del petrarchismo; mentre
in forme, tendenze, indirizzi di opposta natura sono da ricercare
le ragioni dell’antipetrarchismo, che, come fenomeno di reazione, o
sintomo di nuova evoluzione, si appalesa in quel medesimo secolo. Nelle
pagine che seguono io mi propongo di parlare, così del petrarchismo,
come dell’antipetrarchismo, e, secondo l’ordine richiede, comincio dal
primo.

Il petrarchismo del Cinquecento è, come ho detto, un fatto complesso,
che prende varie forme: studiando queste forme, quali la vita del tempo
ce le vien presentando, noi potremo, senza sforzo, darci ragione delle
cause che lo produssero.

La forma più appariscente assunta da esso è la imitazione, quale la
ci mostrano i canzonieri degli innumerevoli petrarchisti: dico la più
appariscente, e, se vuolsi, anche la principale; non certo la sola. Di
cotesta imitazione si parla in tutte le nostre storie letterarie; ma
un po’ troppo in succinto, e senza la debita distinzione e l’opportuno
apprezzamento dei modi, dei gradi, delle vicende. Dire che la lirica
nostra di quel secolo è, presso che tutta, imitazione del Petrarca,
gli è dire la verità, ma non tutta la verità; giacchè dentro al fatto
generale ci son molti fatti particolari, i quali han tutti la loro
significazione, e meriterebbero di essere diligentemente raccolti
e ordinati. Io non intendo di supplire qui al difetto delle storie
letterarie, al che si richiederebbe lavoro molto maggiore di questo; ma
solo di ricordare alcune cose già note, e di metterne innanzi parecchie
altre che fanno al proposito.

Antesignano, corago e campione dei petrarchisti del Cinquecento è
messer Pietro Bembo, uomo di mediocre ingegno, ma di molta e varia
erudizione, educato in tutte le finezze e peregrinità di quella coltura
nelle Corti di Urbino e di Roma, nella impareggiata Venezia; non vero
poeta, ma studiatore e rifacitor di poeti; ringrandito dalla fama
fuori d’ogni misura, gridato meraviglia e fenice del secolo. Se s’ha
a credere a quanto scrive nel _Dialogo della storia_ Sperone Speroni,
Aldo Manuzio confessava che prima del Bembo il Petrarca non era
conosciuto in Lombardia e nel Veneto[4], dove, per contro, fu poi tanto
cognito, e tanto studiato, che Giangiorgio Trissino poteva con tutta
sicurezza affermare intendersi il Petrarca meglio in Lombardia che in
Firenze[5]. E Venezia diventò appunto il propugnacolo e la principal
sede del petrarchismo in Italia. Sulle orme del Bembo si accalca un
popolo di rimatori d’ogni generazione e d’ogni temperamento, in mezzo
a cui, a far fede della forza dello andazzo, si trovano storici e
politici, come il Machiavelli; veri poeti, come l’Ariosto; poeti da
succiole, come Lodovico Paterno; medici insigni, come il Fracastoro;
eruditi di peso, come il Trissino; buoni mariti, come il Rota; buone
mogli, come Vittoria Colonna; scapestrati, come il Molza; cortigiane,
come Tullia d’Aragona; uomini gravi, come il Varchi; artisti, come
Michelangelo; attrici, come Isabella Andreini; e cardinali, e frati, e
cortigiani, e guerrieri, e mecenati, e parassiti, e pedanti.

Tutti costoro imitano, ma non tutti ad un modo; chè anche in ciò
l’indole propria di ciascuno, gli studii, certi abiti della mente,
la condizione di vita, dovevano, o poco o molto, farsi sentire. C’è
chi studia di appropriarsi quanto più può la lingua, lo spirito, la
maniera del Petrarca, e procaccia poi di rifare il modello, senza
altrimenti curarsi di conformare in qualche modo a quel modello se
stesso, e alla vita di quello la propria vita. Per costoro l’arte del
Petrarca è una veste che s’attaglia a ogni dosso. Così il Bembo ruba
le forme di cui il Petrarca aveva rivestito il suo purissimo amore
per Laura e ci caccia dentro l’amore troppo diverso per quella sua
Morosina, che lo fece padre di parecchi figliuoli. Certo, non si può
frantendere più di così l’indole e il magistero della poesia. Gerolamo
Muzio petrarcheggiò in onore di quella famosissima Tullia d’Aragona,
che, non giova nasconderlo, figura in certa _Tariffa_ dell’inclita
città di Venezia; e Bernardino Rota, men malamente, scrivendo le _Rime
in vita e in morte_ della propria moglie, Porzia Capece. Altri, con
alquanto più di buon giudizio, procurava di rifar dentro di sè l’anima
del Petrarca, e intorno a sè alcuna condizione della vita di lui,
o lasciava credere che così facesse. Il Cariteo scovava a dirittura
un’altra Laura, e spasimava per lei dodici anni; e quattordici durava
lo struggimento del Sannazaro per la bella Carmosina; undici quello del
buon Guidiccioni per non ricordo quale _fera_ virtuosa e bella. C’era
chi si attaccava alle falde del maestro, e non osava scostarsi un passo
da lui; e c’era chi, pure imitando, si studiava di metter qualche cosa
di suo ne’ suoi versi. Così ebbero lode, per alcuna tentata novità,
Giovanni Della Casa, Angelo Di Costanzo, ed altri. Parecchi imitatori
si accozzavano insieme, e di pezzi componevano un nuovo Canzoniere,
come può vedersi nelle _Rime di diversi eccellenti autori in vita e
in morte dell’illustrissima signora Livia Colonna_, stampate in Roma
nel 1555. Più che imitatori erano i centonisti, i quali rifacevano il
Petrarca con lo stesso Petrarca, e spesso i versi di lui forzavano a
dire ciò che mai non avevano detto: e abbiamo centoni del Sannazaro,
di Bernardino Tomitano, d’Isabella Andreini, di un Fabrizio Accolti,
di un Luc’Antonio Ridolfi, di altri. Un Giulio Bidelli, mostro di
pazienza, giungeva a mettere insieme _Dugento stanze e dui capitoli,
tutte de versi del Petrarca_. Si usava anche di lardellare con versi
del Petrarca i proprii componimenti. Così Isabella Andreini compose un
capitolo in cui ogni terzetto finisce con un verso del Petrarca, e il
medesimo, già molto prima, aveva fatto per celia Pietro Aretino: un
Fabio Cavofigli, da Bitonto, morto nel 1570, compose un poema in sei
canti, intitolato _L’Esiglio_; dove ogni stanza termina con un verso
del Petrarca.

Non mancava chi, lasciando al _Canzoniere_ i suoi versi, ne rubava le
rime, per avere il gusto di accodarvene altri, di sua fattura. Un po’
meno che imitatori direi coloro i quali pigliavano dal Petrarca di
seconda o di terza mano, facendosi seguaci dei seguaci di lui, come a
dire del Bembo e di monsignor Della Casa. Si veniva ad avere per tal
modo un Petrarca assottigliato e annacquato con processo che ricorda
certe soluzioni ripetutamente diluite dei chimici; e se i versi dei
primi imitatori posson rassomigliarsi a un vinello di poco spirito e
manco sapore, quelli dei secondi sono a dirittura la risciacquatura
del tino. C’era ancora chi pensava di dover compiere o rifare il
_Canzoniere_, oppure dargli un opportuno riscontro. Uno Spina componeva
_Il bel Laureto_ (Milano, 1547) tutto in lode di Madonna Laura, che, a
suo giudizio, non doveva essere stata dal Petrarca abbastanza lodata.
Nel 1552 si pubblicavano in Venezia _I sonetti, le canzoni, et i
trionphi di M. Laura in risposta di M. Francesco Petrarca per le sue
rime in vita, et dopo la morte di lei pervenuti alle mani del magnifico
M. Stephano Colonna_. E senza più, Ludovico Paterno osava chiamare
_Nuovo Petrarca_ un suo sciattissimo canzoniere in vita e in morte di
una madonna Mirzia (Venezia, 1560). Per agevolare la imitazione, o il
furto, si moltiplicarono i _Rimarii del Canzoniere_.

La prosunzione in molti di questi imitatori era assai grande, e più
d’uno si credette d’aver superato il maestro, o che il superasse fu
creduto da altri. A noi le rime di monsignor Della Casa non pajono
veramente gran cosa: ma il Varchi, il Tasso ed altri non isdegnarono
di studiarci sopra, di esporle e di commentarle: il primo di aprile
del 1616 Orazio Marta mandava al conte di Castro un suo parere, in
cui quasi quasi pone il Casa sopra il Petrarca. In un suo epigramma
latino Marc’Antonio Flaminio dà al Molza più gloria che a Tibullo e al
Petrarca, e ciò per aver egli saputo riunire in sè il pregio dell’uno
e dell’altro poeta. Il marchese di Mantova scriveva a Pietro Aretino
il 27 d’agosto del 1524: «La canzone mi è sommamente piaciuta in la
imitazion aveti fatto di M. Francesco Petrarca: lo avete molto, secondo
il nostro judizio, superato, e nel corso lassatolo drieto a voi un gran
pezzo»[6]. E sì che messer Pietro non ci teneva punto a passare per un
gran petrarchista.

Il Petrarca era maestro massimo di poesia; da lui si ripetevano e si
ricavavano tutte le parti e le norme dell’arte. Il poeta che senza
paragone si cita più di frequente nelle Poetiche del Cinquecento, è
lui; veggane le prove chi vuole nelle Poetiche di Bernardino Daniello,
di Mario Equicola, del Muzio, del Minturno, di Andrea Gilio e di altri.
E non è a dire se versi del Petrarca occorrano spesso nel _Tesoro di
concetti_ poetici del Cisano e in altre consimili raccolte. A mostrare
di quanto favore egli abbia goduto in quel secolo basta ricordare
che le edizioni del _Canzoniere_, di trentaquattro ch’erano state nel
Quattrocento, salirono a centosessantasette, per cadere a diciasette
soltanto nel secolo successivo; mentre le edizioni della _Divina
Commedia_ furono rispettivamente in quei tre secoli di quindici, di
trenta e di tre. Dante ebbe anche nel Cinquecento ammiratori ardenti,
come, per citarne due, Michelangelo Buonarroti e Giambattista Gelli; e
qualcuno ce ne fu che, come il Cosmico, osò porlo sopra il Petrarca;
ma, ad ogni modo, la fama sua fu ben poca a paragone della fama di
questo. Ed era lo spirito del secolo tutto intero che voleva così.
Il Cinquecento era fatto per intendere il Petrarca e per non intender
Dante. Fermiamoci un poco a considerare perchè.

Immaginatevi il rigido e sdegnoso Alighieri, quell’Alighieri, che, come
dice Giovanni Villani, _quasi filosofo mal grazioso non bene sapeva
conversare co’ laici_, in mezzo ad uno di quei crocchi eleganti dove la
coltura, l’ingegno, la beltà, la cortesia, gli affetti teneri e gentili
si stimolavano a vicenda, si davano scambievolmente risalto e valore;
uno di quei crocchi che formavano la principale attrattiva della vita
in Urbino, in Ferrara, in Mantova, in Roma, in Venezia: certamente egli
vi si sarebbe trovato molto a disagio, ed anche agli altri sarebbe
stato cagion d’imbarazzo. Poneteci per contro il Petrarca e vedrete
subito ch’egli ci si trova, come si suol dire, nel suo centro. Gli è
che il Petrarca, malgrado le melanconie ascetiche e i disgusti profondi
che di tanto in tanto lo soprapprendono, è quasi, già nel Trecento, un
uomo del Cinquecento; è il maestro insuperato e insuperabile di tutte
le squisitezze e di tutte le eleganze. Un secolo come il Cinquecento,
che ricerca in ogni cosa la peregrinità e la grazia, che tutto affina
e illeggiadrisce, che, rifuggendo istintivamente da quanto è semplice,
primitivo, ingenuo, fa della vita un’arte, per non dire un artificio,
doveva riconoscere nel Petrarca il solo poeta volgare degno d’essere
posto in ischiera coi poeti dell’età augustea, e compiacersi della
poesia del Canzoniere come di quella che meglio assecondava, blandiva,
esprimeva i gusti e gl’ideali suoi proprii. A dirla in una parola, è
la cortigiania del secolo XVI, presa nella sua duplice e più larga
significazione di forma di coltura e forma di vita, che leva sugli
altari il Petrarca, e in molteplici guise ne promuove il culto. Però
s’intende quale sia il pensiero di monsignor Della Casa, quando, nel
_Galateo_[7], appunta di disonestà alcuni vocaboli e versi di Dante,
e dice che dal poeta della _Commedia_ non si può apprendere _l’arte di
essere grazioso_. Al Petrarca, nè monsignore, nè altri, avrebbe potuto
muovere così brutto rimprovero.

In fatti noi troviamo il petrarchismo in istretta relazione anche con
la cortigiania più frivola e scioperata, quella che si spendeva tutta
nelle graziosità non sempre di buona lega della vita esteriore, senza
dignificarsi nell’amore degli studii e delle buone arti. Dice Pietro
Aretino nella _Cortegiana_[8] che certi cortigianuzzi effeminati e
sciocchi avevano molto a mano il Petrarca; e altrove, per bocca di
quella sua Nanna[9], descrive i leggiadri cavalieri di Roma, quali
usavano mostrarsi per le vie, «andando soavi soavi co’ loro famigli
a la staffa, ne la quale tenevano solamente la punta del piede,
col Petrarchino in mano, cantando con vezzi». Il Petrarchino era il
_Canzoniere_, in edizione elegante, di piccolo formato[10]. In una
scena del _Furbo_, commedia di Cristoforo Castelletti, l’innamorato
Aurelio si presenta con un Petrarca in mano, regalatogli dalla
diva[11]. Sì fatti stucchevoli vagheggini descrive quel cervel balzano
del Garzoni nella sua _Piazza universale di tutte le professioni del
mondo_[12]: «caminano tutto il giorno vestiti come ninfati Narcisi, col
fiore nell’orecchia, con la rosa in mano, coi suoi guantetti profumati,
con la gamba attilata, col passo artificioso, col motto galantino,
con l’andar lesto, che pajono daini di Soria, e qui si fermano un
tratto, danno una occhiata, fanno un cenno, tranno un sospiro, fan di
pennacchino una volta, salutan sotto voce, si raccomandano alquanto,
ricevono un risetto forbito, un guardo maliziosetto, e allora col
farsetto pien di gioja partono cantando, e vanno a casa a comporre
una sestina, o un madrigaletto, dove il cieco d’Adria non s’accorge
che la mariuola gli ha furfato in versi, senza essere discoverta da
veruno». Una genía che vive e prospera ancora, come si vede. Costoro
dovevano molto spesso rassomigliare a quel messer Simpliciano che
descrive il Bandello[13], dicendo, tra l’altro, che era «il più
polito ed il più profumato giovane di Milano; e teneva un poco, anzi
che no, del Portogallese; che ogni dieci passi, o fosse a piede o
cavalcasse, si faceva da uno dei servidori nettar le scarpe». Aveva
ragione il Castiglione, che gli escludeva dal consorzio dei veri e
buoni cortigiani[14]: «Questi, poi che la natura, come essi mostrano
desiderare di parere ed essere, non gli ha fatti femine, dovrebbono,
non come buone femine essere estimati, ma, come publiche meretrici, non
solamente delle corti de’ gran signori, ma del consorzio degli uomini
nobili esser cacciati».

Anche costoro, dunque, dovevano, alla lor maniera, favorire il
petrarchismo, mentre non dovevano certo, da parte loro, contrariarlo
quegli Spagnuoli che, maestri di scioperata e sdilinquita cortesia,
avevano, come dice l’Ariosto, messa _la signoria sino in bordello_.
Quei Don Cirimonia di Moncada e quei Signor Lindezza di Valenza, di
cui ride il sempre arguto Aretino, stretti in cintura, come li ricorda
il Sanga, _attillati, odoriferi, schifi....., la spadiglia a canto,
fumosi, il mozzo dirieto, per vida de la Imperadrice, e con l’altre lor
lindezze attorno_[15], sempre _assassinati d’amore_, dopo aver veduto
il Petrarca godere di tanta considerazione in casa loro, dovevan dar
mano ad allargarne il culto anche tra noi. E c’è memoria di un Don
Diego, il quale osò persino d’imbrancarsi col gregge degli imitatori,
facendo così venire la muffa al naso al buon Lasca, che sotto nome di
messer Goro della Pieve, gli scaraventò contro un sonetto, esortandolo
a levarsi di Firenze. Non si può ragionevolmente non credere che
costoro facessero spalla con molto impegno al petrarchismo, se è vero
ciò che dice il Mauro, che cogli Spagnuoli entrò in Italia una nuova
usanza di sospiri:

    Non era in uso quel baciar di mani
      Nè ’l sospirar sì forte alla spagnola,
      Ch’or è sì proprio de’ napoletani[16].

E chi al mondo sospirò più di messer Francesco? Così la cortigiania
favoriva il petrarchismo, non meno con le sue tendenze cattive che con
le buone.

Si capisce come il Petrarca, riconosciuto maestro insuperabile e
modello unico della poesia lirica, dovesse tirarsi dietro a rimorchio,
oltre agli ingegni migliori, anche un infinito popolo di poetastri
e poetucoli da strapazzo, pei quali la imitazione era ineluttabile
necessità, mentre per gli altri, almeno sino ad un certo punto, era
libera elezione. La molta e diffusa coltura, se reca alla società cui
appartiene benefizii grandi e molteplici, reca pur qualche danno, fra
gli altri quello di promuovere e di stimolare un dilettantismo non
sempre di buona lega. Ciò si vede in ispecial modo in quel secolo XVI,
nel quale la smania di passare per letterato, d’imbrattar fogli e di
stampar libri, assume il carattere di una vera e propria epidemia.
Aggiungasi che il mecenatismo, falso o sincero, dei tempi, suscitava
molte facili speranze, e faceva seguaci delle muse molti ch’erano nati
per la striglia, e pur vagheggiavano il pane con poca fatica lucrato,
gli onori e i favori delle Corti. Per tacere degli altri, i poeti, o
direm meglio, i verseggiatori di quel secolo sono come l’arene del
mare. _Può far Domenedio che i poeti ci diluvino come i Luterani?_
esclama l’Aretino nel prologo della _Cortegiana_. E nella commedia[17]
ricorda un Cinotto, un Casto da Bologna, un prete Marco da Lodi, e nel
Capitolo all’Albicante un fra Porro, tutti d’una buccia e d’un midollo.
Alcuni, come il Querno, il Baraballo, il Brittonio, il Gazoldo,
riuscirono per singolare concorso di casi, a tramandare ai posteri
un nome vituperato; ma quanti altri mai affondarono irrevocabilmente
nel mar dell’oblio? quanti vissero e morirono senza che il nome loro
uscisse fuori di quei tristi e luridi tinelli, dove dividevano cogli
staffieri e coi mozzi di stalla la scarsa pietanza? E a che cosa doveva
riuscire tra le mani di costoro il Petrarca? Contro uno di questi,
certo Eufrosino Lapini, si scaglia con un veemente sonetto il Lasca:

                    Oh gran gagliofferia,
    Veder le vostre goffe e fredde stanze,
    Piene di passerotti e discordanze;
                    E per belle creanze
    Metter quei versi del Petrarca in guisa
    Che chi li legge crepa delle risa!

Ma il Petrarca non era solamente l’oracolo della poesia; era ancora
l’oracolo della lingua. E perchè? Anche di ciò la ragione è da cercare
nella coltura del nostro Rinascimento. Di mezzo a quella coltura vien
fuori quel particolar gusto, quel complesso di opinioni e di indirizzi,
quella suscettività e intolleranza in materia di lingua, che formano
il purismo. Considerare il purismo nostro non altrimenti che come un
fatto di rigidità e di grettezza accademica, solo perchè l’Accademia
della Crusca ne fu massima fautrice e tutrice, non è nè ragionevole
nè giusto. In sostanza il purismo non è se non la esagerazione e la
conseguenza finale di quelle stesse tendenze per cui, in mezzo ad un
popolo, viene a formarsi, diversa dalla volgare, la lingua colta,
letteraria od aulica che voglia dirsi. Come tale il purismo non è
cosa propria della nostra storia letteraria soltanto, ma comune,
quando in una, quando in altra forma, a tutte le storie letterarie:
sebbene possa tra noi, per le condizioni stesse della coltura nostra,
essere riuscito più che altrove fastidioso ed eccessivo. La soverchia
raffinatezza, già tendente a leziosaggine, della coltura e del
costume, importa, insieme con molt’altre cose, anche una elezione
minuziosa, schifa e sofistica nel fatto della lingua, la quale vuolsi
rivesta quel carattere di signorile ed inappuntabile eleganza, che è
proprio di tutte l’altre cose, e delle forme e dei modi a quella vita
appartenenti. Come per veste ed ornamento del corpo si scelgono allora
i panni più costosi e più belli, così per veste del pensiero le parole
più nobili e più peregrine; e l’uso artificioso che un’arte men degna
fa di quei panni, un’arte più degna, o più presuntuosa, fa di quelle
parole. Nascono per tal modo ad un tempo la preziosità della lingua
e la preziosità dello stile, per cui l’uomo colto e cortigianesco,
nel fatto del parlare e dello scrivere, come in ogni altra cosa, si
distingue e separa dal volgo. E poichè quel medesimo lavoro di scelta
si viene ancora esercitando sulle cose di cui è lecito parlare, e
sulle idee che è lecito esprimere all’uomo di finita coltura, e che
perciò la materia del discorso si viene restringendo entro una cerchia
sempre più angusta, ne segue che tutta quella parte di lingua, la
quale risponde a cose e a pensieri non contenuti in tale cerchia, è
facilmente considerata come impura, guardata con sospetto, e messa
in contumacia, se non rinnegata affatto. Così nasce quella grande
smanceria e quella solenne pedanteria che si chiama il purismo, il
quale, per una parte di buono che possa avere, ne ha nove di cattivo,
e, quando giunga alle ultime sue conseguenze, dissangua la lingua,
uccide il pensiero, cancella di sana pianta le cose. E un altro fatto
si consideri. L’umanesimo ebbe per lungo tempo in dispregio il volgare;
era però naturale che il giorno in cui si piegava a fargli un po’ di
posto a canto al greco e al latino, si mostrasse assai schifiltoso e
severo, e si desse a cercare, per levarlo a tant’onore, il volgare men
volgare che fosse possibile di trovare. L’umanesimo, quanto a lingua,
era divenuto assai schizzinoso studiando in Cicerone e in Virgilio, e
in tutto oramai recava la tormentosa preoccupazione dell’aureo.

Così stando le cose, qual altro miglior esemplare di lingua poteva
scegliere il Cinquecento che il Petrarca, il sempre purgato e sempre
manieroso Petrarca, il quale avendo da esprimere i pensieri e i
sentimenti più delicati e più nobili, e da ritrarre le cose più
piacenti e leggiadre, poteva schiumare, per uso suo, la parte più
odorifera e linda del vocabolario, e lasciar tutta l’altra da un canto?
Nessuno, certo, almeno per la poesia. Gli è vero che quel grandissimo
pedante del Salviati ebbe a dire Dante più puro del Petrarca[18], e che
il medesimo disse pure Torquato Tasso[19]; ma questa non era opinione
molto cattolica. Gli è vero ancora che accanto al Petrarca si ponevano
Dante e il Boccaccio; ma quando si dice accanto, s’intende ai fianchi,
egli nel mezzo. Così li vide veramente il Caporali nella reggia di
Parnaso:

    Nella più badiale e ricca sede
      Stava il Petrarca, ed a man destra Dante
      E ’l gran Boccaccio alla sinistra siede[20].

Niccolò Liburnio intitolò _Le tre fontane_ certa sua opera grammaticale
fatta sugli esempii di Dante, del Petrarca, del Boccaccio; ma se la
fontana principale era per la prosa il Boccaccio, per la poesia era
il Petrarca. Anzi il Giovio, nei suoi _Elogia_, chiama a dirittura il
Petrarca _italicae linguae conditorem et principem_. Le regole della
grammatica si cominciarono più particolarmente a fissar sul Petrarca;
e anche qui ci troviamo dinanzi, se non primo, certo uno dei primi,
messer Pietro Bembo, il quale, se ebbe in sè molti buoni ingegni, non
ebbe però mai il sentimento della lingua viva, e in fatto di lingua
e di stile aperse una scuola di pedanteria, che da ben poco può dirsi
chiusa[21]. Frughi chi ha tempo le molte grammatiche del Cinquecento e
vegga il posto e l’officio che vi tiene il Petrarca.

Insomma il Petrarca è maestro e signore, così del vocabolario, come
della grammatica, e in suo nome si fanno le leggi, e in suo nome
si assolve e si scomunica. Egli è in lingua ciò che San Tommaso in
teologia. Ond’è che il Castelvetro, volendo dare in capo al Caro per
ragione di quella sua canzone dei _Gigli d’oro_, comincia asciutto
asciutto con un _Il Petrarca non userebbe_, e ci attacca una filatessa
di voci e di modi che pare a lui abbiano dell’eretico. Ma certo non a
tutti doveva riuscire agevole l’uso di quelle parole melate e di quelle
graziette confettate del Petrarca, e qualcuno se n’aveva da avvedere.
E pare se ne avvedesse quello sciocco innamorato di Gerozzo, nella
_Pinzochera_[22] del Lasca, quando invasato dal pensiero della sua
bella, si lasciava scappar di bocca: «ch’è di quella ladra, traditora,
rubacuori? maledetto sia il Petrarca!» O non dev’egli parere tanto
più strano, che in quello sciagurato gergo ch’ebbe nome di lingua
jonadattica entrasse l’uso, secondo attesta Nicola Villani[23], di dire
_anima Petrarca_ per anima di pietra, come si diceva studiare il Boezio
per essere un bue, e _leggere il Mattioli_ per avere del matto?

Perchè il Petrarca non era solamente il grande erudito, il grandissimo
poeta; ma era ancora il solennissimo innamorato, il maestro e il
dottore di tutti gli innamorati; onde ben a ragione lo chiamava il
Domenichi _gran maestro per pratica e per scienza di tutti gli affetti
amorosi_[24]. E qui ci si scopre un’altra e principalissima ragione di
simpatia fra il nostro poeta e quegli uomini del Rinascimento.

L’amore, che tiene un gran posto nella vita di tutti i popoli e
di tutti i tempi, ne tiene uno grandissimo nella vita italiana del
Cinquecento, e ci si presenta con forme e con caratteri che, parte
sono generali e comuni, parte sono specifici e proprii. Dico amore e
dovrei dire amori; perchè quell’amore è di due maniere, teoretico e
pratico; e certo in nessun tempo corse tanta diversità dal teoretico
al pratico quanta allora si vede. Che cosa fosse l’amore pratico nel
Cinquecento sa chiunque abbia una qualche cognizione dei costumi e
della vita di quella età, e può ognuno vederne i documenti e udirne
le testimonianze parlanti nella novella, e in molt’altra parte di
letteratura contemporanea: amore sensuale e brutale, senza pudore
e senza velo; amore che non è altro ormai se non un rigoglio e un
impeto di appetiti animali, l’istinto che si sfrena e soverchia.
Questo è l’amore che risponde alla furia di godimento ond’è invasata
e agitata allora la società italiana, furia che la trascina su tutte
le vie della dissolutezza e la esercita in tutte le forme della
colpa e del vizio. Una triste istoria che a me non tocca narrare! Ma
di contro a questo l’altro amore si leva, l’amore che risponde alla
intellettualità fiorita dell’umanesimo ed ha suo luogo fra gl’ideali
più elaborati di quella coltura. Già col restaurato platonismo era
sorta tutta una dottrina d’amore puro ed etereo, che se in molte parti
si rassomiglia a quella dell’amore cavalleresco, se ne distingue e
disgiunge pel carattere essenzialmente filosofico de’ presupposti e
degli argomenti, e continua e svolge la dottrina degli antichi lirici
nostri. Oltre di ciò, data la società del Cinquecento, dati quegli
uomini educati in tutte le raffinatezze del pensiero, del sentimento
e del costume, non era possibile che per essi non s’indagassero, non
si tentassero le forme più immateriali, più delicate, più difficili
a reggersi ed a serbarsi, della relazione affettuosa fra l’uno e
l’altro sesso. Non era possibile che uomini, il cui animo era aperto
ad ogni incanto di bellezza e di venustà, non riuscissero talora a
levarsi alla contemplazione serena, non conturbata da grossolanità di
appetiti, della bellezza e della venustà muliebre, e a farne obietto
di culto. E nei crocchi dove la donna sedeva regina, e dove i più
culti intelletti gareggiavano di ingegnosità e di acume, i sentimenti
e i pensieri attinenti a quel culto dovevano rivestire le forme più
delicate e più peregrine. L’amore, i suoi caratteri, gli effetti,
porgevano assai frequente argomento di discorso e di disputa a quelle
geniali conversazioni. «L’avervi io conosciuta savia ed ingegnosa più
assai che non fu mai Nicostrata, Diotima, o Targelia», scriveva Ottavia
Bajarda a Camilla Testa, «mi fa confidente e molto ardita a chiedervi
la soluzione di alcuni dubbii che l’altro giorno nella mia casa da
ingegnose donne si trattorno»[25]; e seguita con una lunga filza di
quesiti d’amore.

Formavasi così quella dottrina artificiosa, e anche parecchio
pedantesca, la quale poneva l’amore puramente sensuale e corporeo
agl’infimi gradi della scala, l’amore santificato dal matrimonio,
nel mezzo, e l’amore ideale o platonico, emancipato dai sensi, e
figlio, come dicevasi, di Venere celeste, in sulla cima; e questo
poi considerava come causa, nella natura umana, di molte qualità
ed operazioni virtuose, e come anello di congiungimento con l’amore
divino. Questa dottrina si trova esposta e discussa da innumerevoli
autori del Cinquecento, in iscritture di ogni forma e qualità;
trattati, dialoghi, ragionamenti, lezioni, commentarii. E questi autori
sono varii di condizione e d’ingegno, filosofi, storici, novellatori,
poeti, cortigiane: sì, persino cortigiane, giacchè la celebratissima
Tullia di Aragona scrisse un dialogo della _infinità_ di questo amore,
lei che pur aveva dell’altro sì pertinente ed ampia cognizione. Al
quale proposito è da notare che la stessa grande, anzi eccessiva
depravazione dei costumi, contribuì forse a far sorgere, o a dar
risalto, per ragion di contrasto, a questo amore puro e spirituale.
Così in tempi di corruzion soverchiante viene in onore la letteratura
pastorale, e l’arte gode di porre a riscontro della turpitudine della
vita reale la innocente serenità dell’idillio. L’amor trascedente si
accompagna in assai facile modo con la scostumatezza.

Del resto andrebbe errato chi credesse che questo amore fosse cosa
assolutamente ed esclusivamente teoretica, vivesse soltanto nei
ragionamenti e nei libri, e non avesse anche nella vita il suo luogo.
Si contan sulle dita gli scrittori del Cinquecento che non abbian
vantato in vita loro alcuno amore purissimo e santissimo: e sappiam
che le donne più illustri allora per beltà, senno, e illibatezza
di costumi, ebbero tutte una corte di adoratori ossequenti, che si
contentarono di adorarle e di celebrarle.

Certo, molti di questi amori, anzi la grandissima parte, furono
tutti di testa, furono un’eleganza tra l’altre eleganze, furono una
ostentazione, o una divisa, che non aveva nulla di vero, fuori delle
parole che la esprimeva; molti altri furono men puri che non piacque
agl’interessati di dire; ma ce ne fu pure qualcuno di reale e di
sincero: basterà ricordare per tutti l’amore che per Vittoria Colonna
nutrì la maschia anima di Michelangelo. Di molti di quei pretesi
innamorati platonici e lodatori dell’amor platonico, sappiamo che
nella vita pratica indulsero a tutt’altre voglie che non son quelle
da essi ostentate nelle loro scritture; ma noi siamo pure in grado
d’intendere come uomini dissoluti, che senza ritegno alcuno appagavano
i sensi, potessero, ajutati da felice coltura di mente, in certi
tempi e condizioni, compiacersi di un amor peregrino e puro, con quel
sentimento medesimo con cui si compiacevano dei più squisiti miracoli
d’arte; potessero fregiarsene e insuperbirne.

Io non ho bisogno di entrare qui nella disamina di quella sottile
scienza d’amore elaborata dal Cinquecento, la quale, se molto ha
del sofistico e del fastidioso, e troppe occasioni di chimerizzare
senza costrutto porse a moltissimi scioperati, mostra peraltro, in
compenso, uno studio spesso meraviglioso dell’animo e degli affetti
umani, un’arte in sommo grado penetrativa nello sceverare gli elementi
del sentimento. Di ciò si ha la prova, per non parlar d’altri,
negli _Asolani_ del Bembo, e nel terzo libro del _Cortegiano_ del
Castiglione; ma quel tanto che ho detto basta a fare intendere come,
anche per questa parte, il Petrarca dovesse tornare molto accetto
alla culta società del Cinquecento, e dovesse inoltre con le sue
rime molto efficacemente promuovere in seno ad essa quella dottrina e
quell’entusiasmo d’amore. Giacchè fu egli un grandissimo innamorato,
del carattere appunto che quella dottrina vagheggia, ed è il suo
canzoniere un libro, dove, con arte non mai sorpassata, e non ostante
il molto falso che vi si trova, sono analizzati, descritti, chiariti,
con osservazione acutissima, con inesauribile copia di pensieri e
d’immagini, i fenomeni tutti, o, come allora dicevasi, gli accidenti
della passione amorosa. Agli uomini del Cinquecento parve il Petrarca
ciò che ancora, e giustamente, pareva all’Alfieri,

    Quel sì gentil d’amor, mastro profondo;

e quanti ebbero allora animo aperto all’amore furono necessariamente
suoi discepoli. Abbiam veduto che i poeti innamorati usavano il suo
linguaggio, e che i vagheggini imbertoniti cantavano i proprii suoi
versi. «Come farei io bene uno assassinato d’amore», fa dire l’Aretino
all’Istrione, nel Prologo della sua commedia _Il Marescalco_; «non
è Spagnuolo, nè Napolitano, che mi vincesse di copia di sospiri,
d’abbondanza di lagrime, e di cerimonia di parole; e tutto pieno di
lussuriosi taglietti[26] verrei in campo col paggio dietromi vestito
de’ colori donatimi da la diva, e ad ogni passo mi farei forbire le
scarpe di terzio pelo, e squassando il pennacchio, con voce sommessa,
aggirandomi intorno a le sue mura, biscanterei:

    Ogni loco mi attrista ove io non veggio...».

Il qual verso è appunto un verso del Petrarca. Quanto ai trattatisti,
dirò così, dell’amore, essi citano ogni momento il nostro poeta come
autorità di cui nessun’altra è maggiore.

Così l’Italia s’empieva d’amori alla petrarchesca, in verso e in prosa,
e il Sarrazin avrebbe potuto vederci ciò che più tardi vide in Francia,
ai funerali del poeta Voiture:

    Les Amours d’obligation,
    Les Amours d’inclination,
    Quantité d’Amours idolâtres,
    Une troupe d’Amours folâtres,
    Force Cupidons insensés.
    Des Cupidons intéressés,
    De petits Amours à fleurettes,
    D’autres petites Amourettes,
    Mêmement de vielles Amours,
    Qui ne laissent pas d’avoir cours,
    En dépit des Amours nouvelles,
    . . . . . . . . . . . .
    Et, bref, tant d’Amours qu’à vrai dire,
    On ne pourrait pas les décrire.

Se il Petrarca era maestro in materia d’amore, non poteva non essere in
materia di bellezza e di leggiadria, egli che aveva celebrata la più
leggiadra e la più bella delle donne. In fatti, nei numerosi trattati
che il Cinquecento consacrò alla bellezza muliebre, il suo nome è
spesso citato, e versi suoi ricorrono con molta frequenza[27].

Ricco di tanta riputazione, e circondato di tanto favore e di sì gran
plauso, non è a stupire se il Petrarca vide allora calar sui suoi
versi, come stormo d’uccelli alla pastura, un nugolo di espositori
e di commentatori, venuti giù dalle gelide plaghe della grammatica
e della retorica, e smaniosi di far anatomia di quel bel corpo del
_Canzoniere_. E anche qui noi troviamo ogni fatta d’ingegni e di
attitudini. Ecco in prima riga i commentatori grossi, che accaparrano
il _Canzoniere_ tutto intero e lo rivendono a lor bell’agio a ritaglio;
ecco poi l’infinita schiera degli espositori minuti, che sudano un
anno sopra un passo oscuro, recitano in pubblico cinque lezioni sopra
un sonetto, scrivono cento pagine sopra un verso. Il famoso sonetto
_Era il giorno che al sol si scoloraro_ fece spiritare da quattro
generazioni di espositori. Il buon Benedetto Varchi recitava nel 1565,
nello studio Fiorentino, la bellezza di otto lezioni sulle così dette
_Canzoni degli occhi_, il che faceva dire ad Alfonso de’ Pazzi:

    Le canzoni degli occhi ha letto il Varchi,
      Ed ha cavato al gran Petrarca gli occhi.

Ma a che pro moltiplicare gli esempii? Le bibliografie del Rossetti,
del Marsand e del Ferrazzi scusano così ingrata fatica. Fatta eccezione
di pochi buoni e sensati, tutti coloro che si davan aria di esporre
e di commentare son degni d’andarne in ischiera con coloro che si
credevano d’imitare; e come uscisse conciato il Petrarca dalle lor mani
si può immaginar facilmente. Io dovrò riparlare di loro quando verrò
a dire dell’antipetrarchismo: lasciamoli intanto dormire del sonno
profondo che giustamente si sono con le loro fatiche acquistato.

Ma non è da passare in tutto senza qualche ricordo un’altra, e non
iscarsa schiera di scioperati, formata di coloro che, senza troppo
curarsi d’intendere i versi del poeta, si davano ad investigare per
entro la vita di lui certe cose ingarbugliate ed oscure, e a muoverci
sopra dubbii e questioni. Madonna Laura e l’amore del Petrarca per
lei destavano molte e poco discrete curiosità. Nel 1545 ci fu chi
pretese d’avere scoperta la tomba della famosissima donna. Alfonso
Cambi Importuni si affaticò a ritrovare il giorno e l’ora precisa
dell’innamoramento di messer Francesco; un Ludovico Gandino compose
una lezione sopra un dubbio come messer Francesco _non lodasse Laura
espressamente dal naso_. Di questi e di altri fa menzione Anton
Francesco Doni: «Chi dice de’ versi, chi de’ vocaboli; un altro non
vorrebbe che ’l Petrarca avesse fatto i Trionfi, ed a certi non sa
buon loro quel verso: _Standomi solo un giorno alla fenestra_: oltre al
combattimento che s’ode far tutto il giorno di Laura divina e di Laura
umana[28]».

Ma altre testimonianze ed altre prove ci rimangono del favore
grandissimo onde godette il Petrarca nel Cinquecento, degne d’essere
rilevate. Se il _Canzoniere_ era cantato, e probabilmente, almeno in
parte, saputo a mente dai vagheggini di professione, non poteva poi
essere ignorato da una classe di buone persone con cui essi signori
vagheggini solevano avere famigliarità molta, voglio dire dalle
cortigiane. Noi sappiamo come il Cinquecento riproduca, insieme con
molt’altre cose, e fatta ragione di differenze inevitabili, l’etèra
antica. Nè ciò avviene per caso. Le cortigiane si risentono allora
ancor esse di quella che è condizione comune di tutta la società, e non
possono sottrarsi agli influssi della generale coltura. Quella tra esse
che si fosse serbata digiuna di ogni studio, che avesse mostrato di non
aver sentimento di poesia nè gusto d’arte, avrebbe avuto un’attrattiva
di meno e avrebbe scapitato. Perciò noi le vediamo intente a
procacciarsi un certo grado di coltura, e, come allora dicevasi, quelle
virtù che fanno la persona di più grata conversazione[29]. Avrà ragione
l’Aretino, quando fa dire a Ponzio nella _Talanta_[30]: «Sappi che
le ribalde si danno a grattar l’arpicordo, a cicalar del mondo, ed a
cantar la solfa, per assassinar meglio altrui, e guai per chi vuole
udire, come elleno san ben sonare, ben favellare, e bene ismusicare»;
ma fatto sta che esse imparavano a far tali cose e più altre ancora. La
famosa Imperia fu coltissima e imparò a far versi da Niccolò Campano,
detto lo Strascino. Veronica Franco andò celebre per le sue terze rime,
e tutti sanno qual fama acquistasse la già più volte ricordata Tullia.

Nei _Ragionamenti_[31] dell’Aretino è ricordata una famosa cortigiana
romana, conosciuta sotto il curioso nomignolo di _Madrema non vuole_,
la quale, dice l’Antonia, una delle interlocutrici del dialogo, «si fa
beffe di ogni uno che non favella a la usanza, e dice che si ha da dire
balcone e non finestra, porta e non uscio, tosto e non vaccio, viso
e non faccia, cuore e non core, ecc.». E altrove lo stesso Aretino fa
dir di lei a un certo Lodovico[32]: «ella mi pare un Tullio, e ha tutto
il Petrarca e ’l Boccaccio a mente, e infiniti e bei versi latini di
Virgilio e d’Orazio e d’Ovidio e di mille altri autori». Certe lettere
pubblicate di recente[33] mostrano quanto alle volte fosse in coteste
donne il garbo e il buon gusto, quanta la schiettezza nel modo di
pensare e di scrivere, e la (almeno apparente) gentilezza dell’animo.
La Tullia abbiam veduto come imitasse anch’ella il Petrarca, e
Ludovico Domenichi ricorda una disputa che intorno al Petrarca appunto
fecero alcuni gentiluomini in casa di lei[34]; molt’altre di certo
lo leggevano, e, ardisco dire, lo gustavano. In Venezia Lucrezia
Squarcia si lasciava vedere spesso col Petrarchino in mano, e una
Laura sembra si facesse a dirittura chiamare Laura del Petrarca. A
una Fulgenzia il buon Andrea Calmo mandava, o fingeva di mandare, in
regalo il _Canzoniere_ del Petrarca, il _Decamerone_ e un _Libro della
ventura_, accompagnando il tutto con una lettera, di cui giova riferire
il seguente curioso e grazioso passo[35]: «Madona mia speculativa,
prudente, e acorta, tantosto che la secretaria di nostri cuori me ha
mostrao la vostra polizza, la qual reverentemente averta, e con mille
basi onorà, in quel instante anditi a comprar questi tre libri, cusì
a mio muodo, cognossando esser al proposito de la vostra complesion,
de la vostra natura, e del vostro judizio, e anche per imparar,
descorando, qualche bel trattesin, per i nostri debesogni. Adunca vu
lezerè el Petrarca, considerando quanta longhezza de anni el portete
amor a madona Laura, e quante fatighe, passion, suspiri, lagreme e
male note el patite per essa, metandola, in vita, sora de ogni altra
creatura amorosa, e in morte può, tegnir conclusion che la sia intel
pi bel liogo di beai; sì che credo che vu l’averè molto ben da caro, e
tanto pi che, co ’l gustarè, vu butarè da banda quelle vostre fandonie
de istorie, e de zanze trivial, minchione, e material; l’altro è le
Cento novele del Boccazzo dove fè vostro conto che ’l sia un recetario
de tutti i amanti, perchè in quelle diese zornae, ghe se truova el modo
da inamorarse, da meter i ordeni, da sconder el so moroso, da scampar
via, da far le so vendete co i maridi, da risponder a le sansere,
da far la santa, da far la crudel, da far la gofa e breviter da piar
tutti i rimedii, da offender e da defenderse, talmente che oltra ste
circonstanzie, se fa una lengua elegante, se fa bela creanza, e se fa
bonissima memoria; el terzo che ve mando è quel piasevele libro della
Ventura, da star con le parente in berta, e anche int’una compagnia
de femene, e de omeni; tragando quei tre dai se intende le pi gran
stampie, le pi gran zanze, le pi gran busie del mondo».

Quelle _fandonie de istorie e zanze trivial_ sono i romanzi
cavallereschi, e certe storie e fiabe popolari in parte ancor vive, di
cui nelle sue lettere il Calmo fa assai spesso ricordo[36]. _Il libro
della ventura_ è forse quello intitolato _Bugiardello_, che dovette
avere gran voga[37].

Ma torniamo al Petrarca. Racconta il Giraldi Cinzio in una delle
sue novelle, che un certo ascolano, innamoratosi di una bellissima
cortigiana di Napoli, per nome Nea, non avendo denari da poterle dare,
«si diede a comporre versi di varie maniere, a sembianza del Petrarca,
come quegli che di acuto e di gentilissimo ingegno era, e recitando a
costei quando un mandriale, e quando un sonetto, e quando una canzona,
e quando un’altra cosa a sua lode composta, le prometteva, s’ella
di lei il compiaceva, di allogarla nel seno della immortalità». Ma,
soggiunge il buon novelliere: «era di tal natura costei, che se vi
fosse ito il Petrarca accompagnato da Apolline e dalle muse, e non vi
fosse ito colle mani piene,» non avrebbe potuto averne il più picciol
favore[38].

Forse il Petrarca non avrebbe troppo arricciato il naso vedendo il suo
canzoniere tra le mani di così fatte donne, e sentendo ripetere dalle
lor labbra alcuno dei sonetti da lui composti per la divina sua Laura;
ma non so poi che cosa avrebbe detto, se gli fosse toccato di leggere
certo capitolo, dove Lodovico Dolce fa sperticatissime lodi di un suo
_ragazzo_ (κίναιδος in greco), dicendo, tra l’altro:

    Avea il Petrarca e gli Asolani a mente,
      E a tempo e loco, s’io gliel comandava,
      Sguainava un sonettin leggiadramente[39];

e se avesse udito Fidenzio Glottocrisio Ludimagistro tradurre in versi
pedanteschi il primo sonetto del _Canzoniere_ per offrirlo al leggiadro
Camillo, _acerbo lanista_ del suo cuore. Povero messer Francesco, via!

Il Petrarca era dunque in tutte le mani e in tutti i luoghi.
Frequentava le aule dei palazzi coi cortigiani; girava per le vie
in compagnia di melici spasimanti; entrava nella scuola sotto la
magistrale zimarra dei retori e dei grammatici; penetrava in chiesa con
la canzone _Vergine bella che di sol vestita_; saliva sul pulpito coi
predicatori che citavano a gara i detti e i versi sentenziosi di lui,
e, senza troppo confondersi, dava una capatina sino negli spogliatoi
delle etère in voga. Nè finisce qui: noi lo incontriamo ancora in
luoghi che parrebbero meno acconci all’indole ed all’umor suo. Ranuccio
Farnese, trovandosi accampato, co’ suoi cavalleggieri, non molto dopo
il sacco di Roma, sotto Viterbo, un giorno, finito di desinare, prese
in mano il _Canzoniere_, e molto galantemente ne lesse parecchie rime
ai commensali[40]. Anche sul teatro ebbe a mostrarsi il buon Petrarca,
giacchè nel 1579, in Venezia, i comici Gelosi lo fecero comparir
sulla scena per recitar le lodi del Groto[41]. E probabilmente capitò
in altri luoghi ancora, ed entrò nella botteguccia dell’artigiano
e si strofinò alle panche dell’osteria, perchè Niccolò Franco, il
gran nemico dell’Aretino, così dice parlando di lui nel suo dialogo
intitolato _Il Petrarchista_: «l’opra sua (_intendi il Canzoniere_) è
venuta a tale che approvata per un comune conforto di tutte le qualità,
si vede ne le mani fin de la plebe, la quale de le sue cose sa rendere
buona ragione»[42].

Se il Petrarca aveva, nella vita cortigianesca, la parte che s’è
veduto, non parrà strano che versi suoi si togliessero per farne motti
ed imprese. Il Domenichi reca questa impresa di Alessandro Piccolomini:

    Sotto la fè del cielo, all’aer chiaro.
    _Tempo non mi parea da far riparo_[43].

Scipione Ammirato, nel suo dialogo _Il Rota_, ricorda un cavaliere
che aveva tolto per impresa un albero, i cui rami rompevansi sotto il
carico dei frutti, e cui accompagnava il verso del Petrarca:

    Povero sol per troppo averne copia[44].

Ed altre se ne potrebbero notare. Sembra inoltre che certi luoghi del
_Canzoniere_ suggerissero nuove maniere di giuochi alle brigate gaje e
cortesi[45].

Ma una possente ajutatrice del petrarchismo fu senza dubbio la musica.
Abbiam già veduto che gl’innamorati bellimbusti andavan cantando versi
del _Canzoniere_ in omaggio delle loro belle, e, naturalmente, il
cantarli era occasione e cagione dello apprenderli a mente. Ma questo
Petrarca in musica non era cosa da bellimbusti soltanto. È noto come
nel Cinquecento, insieme con tutte le altre arti che abbelliscon la
vita, e il cui esercizio orna la persona, venga in grande onore anche
la musica. Lo studiarla ed il coltivarla era proprio di quanti, uomini
o donne, si piccavano di fine educazion cortigiana; e si ricordano
gli esempii di quegli artisti celeberrimi che all’esercizio di molte
e svariate arti, pittura, scultura, architettura, sentirono il bisogno
allora di aggiungere anche quello della musica, accompagnata spesso con
la poesia. Studiava musica persino un Benvenuto Cellini, uomo certo non
molto ossequente alle leggi del vivere cortigianesco. Il conte Lodovico
da Canossa dice nel libro di Baldassar Castiglione[46]: «Signori...
avete a sapere ch’io non mi contento del Cortegiano, se egli non è
ancor musico, e se, oltre allo intendere ed esser sicuro a libro, non
sa di varii instrumenti». E seguita parlando accortamente dei pregi
della musica e della potenza che essa ha in penetrar gli animi _teneri_
e _molli_ delle donne[47]. Si vede subito quale stretta relazione la
musica, specialmente vocale, dovesse avere, non solamente con gli
eleganti costumi e col gusto fine del tempo, ma ancora, e più, col
donneare cortigianesco e con l’amore. Si cantano versi d’amore per le
vie, e sotto i balconi delle innamorate, la notte; si cantano nell’aule
sfarzose dei palazzi, alla luce abbagliante dei doppieri; si cantano
nei grati ozii delle ville, sotto l’ombre ospitali; e spesso chi canta
è egli stesso autore della musica e dei versi, è preso dalla passione
che sfoga o palesa col canto, come quell’Antonio Bologna di cui
narra il Bandello[48]. Tutta Italia risuona dei melodici languori del
madrigale. Come mai non si sarebbe pensato a vestire di note i versi
del più musicale dei poeti e del maggiore fra gli spasimati d’amore?

Lo stesso Petrarca componeva le sue rime al suono del liuto, e ciò
spiega, almeno in parte, quella grande soavità che ci si sente.
Cominciarono subito a metterle in musica i contemporanei di lui,
e tra gli altri si fa ricordo di Jacopo da Bologna, che intonò,
come allora dicevasi, il madrigale _Non al suo amante più Diana
piacque_[49]. Si seguitò a fare lo stesso nel Quattrocento, finchè,
sopravvenuta la Rinascenza piena e fiorita, l’universal culto che
si rendeva al Petrarca ebbe a mostrarsi, più assai che non si fosse
fatto in passato, anche con le forme della musica. Ed ecco tutta
una schiera di compositori esercitar l’arte loro sui versi di lui.
Certo, si preferivano i madrigali, perchè il madrigale era considerato
componimento musicale per eccellenza; ma non per ciò si lasciavano
l’altre rime. In una sua Orazione al cardinale Pisani, quel curioso
ingegno del Ruzzante finge che un contadino del Padovano vegga, tra il
sonno e la veglia, il Petrarca (Cecco Spetrarca) che lo manda appunto
a quel cardinale, per indurlo a non gettar giù la casa del poeta in
Padova, come aveva intenzione di fare, per ingrandire la Cattedrale.
Parlando della camera in cui era il ritratto del Petrarca, il contadino
dice: «E tanto pì l’è vero quel ch’à ve dighe, que in quella cambaretta
ello ghe fè una bona parte de quiggi smardegalle (_intendi madrigali_),
que sti zovegnatti spua grosso dal tempo d’anchuò va scantuzzando tutto
el dì». Ma molt’altre cose si mettevano in musica in quel secolo, come
mottetti, ballate, ottave, sonetti, per non parlare delle villotte alla
padovana, delle canzoni alla villanesca, delle canzoni alla napolitana,
ecc. I sonetti, cosa che importa a noi di notare, godevano di molto
favore, e persino il Folengo narra nel _Baldo_[50], come per passar la
noja del viaggio, i quattro eroi, Rubino, Falchetto, Cingar e Baldo,
andassero appunto cantando sonetti:

    Quatuor hi varios pergunt cantando sonettos.

Non ci dice se fossero del Petrarca; ma è certo che molti di quelli
del Petrarca, e forse tutti, furono messi in musica, e il simile si
fece delle ballate, delle sestine, delle canzoni. Sì, persino delle
canzoni, le quali confrontate con le nostre romanze, potrebbero a noi
parere alle volte un po’ lunghette. Già alcune se ne trovano messe in
musica dal celebre Bartolomeo Tromboncino, che Pietro Aretino ricorda
come vivo nel prologo della _Talanta_[51], e, tra l’altre, le due che
cominciano: _Sì è debile il filo a cui s’attene_, e _Che debbo io far?
che mi consigli Amore?_ E queste stesse, e molt’altre, insieme con
sonetti, ballate, sestine e madrigali, si trovano musicate da Vincenzo
Ruffo, da Francesco Orso, da Stefano Rossetti, da Teodoro Riccio, dal
celebre Cipriano Van Rore e da altri molti. E non solo le rime d’amore
furono messe in musica, ma anche le altre: così Teodoro Riccio intonò
la famosa canzone _Italia mia_, e Cipriano Van Rore vestì di note
il terribile sonetto _Fontana di dolore, albergo d’ira_. Ma le rime
d’amore erano certamente preferite, e chi sa quante volte la gemebonda
canzone, o il sospiroso sonetto dell’innamorato poeta, cantati da
una voce commossa, al fremer soave di un liuto, furono _galeotti_
di nuovi amori, e principio, pur troppo, di nuovi canzonieri. Del
resto, giova avvertirlo, molt’altri versi si mettevano in musica, così
volendo quella quasi frenesia musicale dei tempi. «Se non piacciono
ai petrarchisti i Serafini», dice Antonfrancesco Doni, «lascingli
stare; ci saran bene di quegli che lo impareranno a mente per cantarlo
su la cetera, con far le serenate alla druda»[52]. E intende parlare
di Serafino Aquilano; ma chi si vuol persuadere che anche in ciò il
primato spettava al Petrarca, legga ciò che Luigi Groto narra della sua
concittadina Alessandra Lardi, cantatrice insuperabile e divina (morta
nel 1568), la quale cantando rime del poeta intonate da Francesco
Adriani, rapiva, ammaliava, faceva andare in visibilio la gente[53].

E un’altr’arte s’inspirava dal sommo poeta, la pittura. Si
moltiplicarono in quel secolo i ritratti fatti per mano di dipintori
famosi, e Raffaello ne introduceva la immagine nel suo Monte Parnaso,
e in un suo quadro la introduceva il Vasari. Perin del Vaga ritraeva
la scena della incoronazione in Campidoglio; altri dipinsero il poeta
insieme con l’amata sua donna. Assai probabilmente Raffaello trasse dai
due Trionfi della Fama e dell’Amore l’idea della Scuola d’Atene e del
Monte Parnaso: altri i Trionfi tutti, o alcuni di essi riprodussero col
pennello. A vie più glorificare il poeta gareggiavano con la pittura
l’altre arti sorelle, la scultura e la incisione.

Primo in tante cose, il Petrarca diventa primo in tutte: nel medio evo
si sarebbe fatto senza dubbio di lui un taumaturgo, di lui che ebbe
pure a sostenere un’accusa di magia. Perciò non istupiremo, udendo
dire al Bembo che il Petrarca piaceva oltre modo, non solamente a
coloro che di proposito attendevano a poesia, ma anche a coloro _che
a tutte le altre arti più si danno o sonosi dati che a questa_[54].
Sperone Speroni loda molto l’onestà del Petrarca, e dice che dell’amore
egli fece scala al cielo, e che è da tenere non meno per predicatore
che per poeta[55]. Pare che il buono Speroni, facendo allora officio
di avvocato, non si ricordasse, o non volesse ricordarsi di certe
taccherelle che, senza troppo frugare, si possono trovare in dosso
anche al poeta canonico. Di uno scrittore così costumato e virtuoso non
potevano non occuparsi coloro che attendevano a dare ammaestramenti
e norme circa la educazione, e Lodovico Dolce, parlando nel _Dialogo
della instituzione delle donne_[56], per bocca di un certo Flaminio,
dei libri volgari che una fanciulla può leggere, esce in queste parole:
«Tra quelli, che si debbono fuggire, le novelle del Boccaccio terranno
il primo luogo, e tra quelli, che meritano esser letti, saranno i primi
il Petrarca e Dante. Nell’uno troveranno, insieme con le bellezze
della volgar poesia, e della lingua toscana, esempio di onestissimo
e castissimo amore, e nell’altro un eccellente ritratto di tutta la
filosofia cristiana». E più oltre[57] la Dorotea, con cui quel Flaminio
ragiona, dice appunto di aver letto più volte il Petrarca; mentre
non dice altrettanto di Dante. Non so poi se il Dolce facesse qualche
riserva per certi luoghi del _Canzoniere_ che diedero molto da meditare
a espositori e commentatori, quale, per citarne uno, è quello ove
occorrono i notissimi versi:

    Con lei foss’io da che si parte il sole,
    E non ci vedess’altri che le stelle.
    Solo una notte, e mai non fusse l’alba.

Qualcuno in sì fatto argomento l’avrà certo pensata diversamente
da lui. Lodovico Vives, che raccomanda alle donne la lettura delle
opere di san Gerolamo, di sant’Agostino, di sant’Ambrogio, e di altri
padri e dottori della Chiesa, e quella pure degli scritti di alcuni
gentili, come Platone, Cicerone, Seneca[58], proibisce severamente
il _Decamerone_, e non dice una parola in favor del Petrarca; si
capisce che non doveva averlo in grazia[59]. Ma Lodovico Vives
non era italiano. In Italia non solo si raccomandava, dagli uomini
colti, la lettura del Petrarca, ma il Petrarca stesso era ancora
molto di frequente allegato, come autorità di prim’ordine, in certe
disputazioni. Ricorda il Bandello[60] che, parlandosi in presenza
d’Ippolita Sforza, dei costumi delle donne, alcuni che affermavano
non aver queste pregio maggiore della onestà, citarono il sonetto del
Petrarca:

    Cara la vita, e dopo lei mi pare ecc.;

e più raccolte si fecero allora dei _versi morali_, delle _sentenze_,
delle _comparazioni_ e dei _proverbii_ di lui.

Giovanni Boccaccio aveva profetato che il sepolcro del Petrarca
diventerebbe famoso al pari di quello di Virgilio, e che da tutte le
parti del mondo vi trarrebbero le genti in pellegrinaggio. E così
avvenne in fatto. Arquà, dove il poeta era morto, e dove, prossima
all’arca che racchiudeva le spoglie di lui, sorgeva la casa in cui egli
aveva passati gli ultimi anni di sua vita, diventò nel Cinquecento
una specie di san Giacomo di Compostella letterario e laico. I varii
e successivi possessori della modesta quanto famosa casetta, non solo
non ne contesero mai l’accesso a nessuno, ma si adoperarono per dare
ai pietosi visitatori ogni possibile soddisfazione; e forse al troppo
zelo di alcuno di essi si deve l’una o l’altra delle cose stimate del
Petrarca che ancor vi si vedono, lo stipo, la scranna, la gloriosa
gatta. In un breve capitolo in lode del poeta, capitolo attribuito da
alcuni al Doni, da altri al Sansovino o all’Anguillara, si legge:

    Mi dite che in Arquato è una bell’arca,
      Lontan da Padoa circa dieci miglia,
      Dove son Tossa del Toscan Petrarca.
    Che ’l luogo ad un Parnaso s’assomiglia.
      E d’Italia non pur gente vi corre,
      Ma di Francia, Lamagna e di Castiglia.

Che peccato che non ci sia rimasto di quel tempo, come ci è di
tempi più prossimi a noi, un libro dove fossero raccolti i nomi dei
visitatori, e i pensieri che suggeriva loro la vista di quelle sacre
mura! Chi sa quali curiose sorprese ci avrebbe serbate e quante utili
notizie.

Un’altra e capitale testimonianza del culto reso al Petrarca noi
l’abbiamo dunque nei pellegrinaggi che si facevano ad Arquà. Non
ispiacerà pertanto al lettore se io mi soffermo un poco sopra di ciò,
e se, traendo argomento da una, gli mostro quali dovevano essere
in genere quelle visite. Il libro d’onde traggo l’esempio è _Il
Petrarchista_, dialogo di Ercole Giovannini, poeta bernesco morto
nel 1591. L’autore narra di un nobil giovane bolognese, per nome
Claudio Gozzadini, il quale, desideroso di veder cose nuove, lasciata
Bologna, capita in Padova, e di quivi, _per non mancare a se stesso di
tanta conoscenza_, si reca a visitare Arquà. Giuntovi, vede per prima
cosa il sepolcro del poeta, eretto da Francesco da Brossano, e ne fa
prendere esatta misura al servitore. Sopraggiunge intanto un valentuomo
d’Arquà, il signor Paolo Valabio, il quale, accontatosi col bolognese,
lo invita a casa sua, e poi gli fa da cicerone, e gli mostra una per
una tutte quelle meraviglie. Mentre s’avviano alla casa del poeta,
vedono entrarvi un drappello di gentildonne, tratte dalla medesima
curiosità. Il Valabio mostra e descrive all’ospite suo ogni parte della
illustre dimora: ecco le porte, ecco il frantojo e la legnaja, e qui
la scala di pietre cotte che scende in cantina, e là un camerino. Dal
lato destro è la cucina, di contro una camera, poi altre camere, donde
si passa in una sala comoda, dove sono parecchie pitture, le quali
mostrano il Petrarca e Laura che discorrono insieme. Questa è quella
meravigliosa credenza, di stupendo lavoro, che si dice essere stata del
poeta. Viene appresso la stanza dove il poeta stava ordinariamente,
e dove morì. Entrato in luogo di tanta santità, il signor Gozzadini
non può più frenare l’entusiasmo che gli gonfia lo spirito, e prorompe
in quest’apostrofe un po’ da secentista, ma che doveva riprodurre su
per giù i pensieri e i sentimenti della più parte dei visitatori:
«O luogo felice, e degno d’esser smaltato di zaffiri, e delle più
preziose pietre che mai dall’Oriente uscirono. Felice piano, che hai
sostenuto le piante di così onorato colosso di virtù, gloriose mura
che difendeste per tanti mesi dai contrarii accidenti dell’aria quelle
membra, che in terra da tanti si facevan con stupore onorare e riverire
amorosamente. Glorioso coperchio, che fosti cielo a colui che in terra
fu stimato oracolo dei letterati».

In questa felicissima stanza il buon bolognese vede, sopra il camino,
le ossa di quella che fu gatta del Petrarca, e legge i versi latini
che in onor di lei aveva composti il padovano Antonio Querenghi
(1546-1633), discepolo di Sperone Speroni, segretario in Roma del
collegio dei cardinali e referendario delle due segnature, poeta e
prosatore latino di molto grido, _uom principale_ in varie lingue, come
afferma il Tassoni, e che

    ... tutto a mente avea sant’Agostino[61].

In quegli eleganti distici parla la gatta stessa, e nel primo non si
perita di dire che il Petrarca ebbe due amori, il primo lei, il secondo
Laura, e asserisce poi che a lei si deve se le rime composte in onore
di Laura non furono preda dei topi. Questa gatta dabbene dovette avere
altri lodatori, giacchè il Tassoni, ricordato Arquà, ricordato il
Petrarca, dice di lei che

                          in secca spoglia
    Guarda dai topi ancor la dotta soglia;

e soggiunge:

    A questa Apollo già fe’ privilegi,
      Che rimanesse incontro al tempo intatta,
      E che la fama sua con vari fregi
      Eterna fosse in mille carmi fatta:
      Onde i sepolcri de’ superbi regi
      Vince di gloria un’insepolta gatta[62].

E certo, oltre ai regi, questa vince tutte le altre gatte che furono,
e le celebrate da Ortensio Lando e dal Coppetta, e persin quella
Rosa trucidata da un furioso soldato, la quale allo Stoppino, suo
inconsolabile signore, inspirò quei versi maccheronici sì, ma pieni di
tenerezza:

    Sola meae giornos vitae rendebat allegros.
    Heu! quid agam infelix, sine te, mea Rosa, quod ultra?
    Non potero sine te laetum sperare solazzum.

Dopo la gatta il signor Claudio ammira la sedia del poeta, e sebbene
gli paja povera cosa, e troppo indegna di tanto possessore, pure
ne toglie, a mo’ di reliquia, un pezzetto di certo arazzo che la
copriva; d’onde si vede che i ricercatori di curiosità furono e
saranno in ogni tempo gli stessi: più oltre misura la tavola dello
studio, meravigliandosi che tant’uomo potesse capire in sì picciola
stanza. Girata la casa, il signor Paolo mostra al signor Claudio il
maggior tesoro che sia in quella, cioè molte scritture di mano dello
stesso Petrarca, e lettere di lui a Laura e di Laura a lui, _cose vie
più ricche delli tesori di Creso_, e in una scatola d’ebano, aghi e
spilli, un ditale, un pettine, un pezzo di specchio, tutte reliquie di
Madonna Laura, e in una borsa di damasco verde il _privilegio_ della
incoronazione in bellissima pergamena, e il preteso racconto di essa
incoronazione scritto da Sennuccio Del Bene. Il signor Claudio vede,
tocca, legge, ragiona, ammira, si esalta in se stesso della fortuna
toccatagli e ringrazia quanto più può il cortesissimo signor Paolo.

Visitatori così fatti dovevano essere assai numerosi, e ve ne dovevano
capitar di fanatici, i quali non sempre si saran contentati, come
il signor Claudio, di un pezzettino di arazzo logoro. Anzi io mi
meraviglio che solamente nel secolo XVII, e non prima, si sia trovato
un arrabbiato come quel frate Tommaso Martinelli, che osò rompere
l’arca dentro cui riposava il corpo del poeta, e levarne un braccio
che non si sa dove sia andato a finire. Da altra banda pellegrinaggi
si facevano anche a Valchiusa e alla pretesa tomba di Laura, e con
che anima si facessero dagli adoratori del Petrarca, e che cosa
si ammirasse da loro, dice satireggiando Niccolò Franco nel suo
_Petrarchista_. Tra i visitatori illustri del sepolcro di Laura si
dice sia stato anche Francesco I, il quale compose per la gloriosa
donna un elegante epitafio. Un altro epitafio componeva per lei Giulio
Camillo Delminio, il ciarlatanesco inventore del _Teatro_ in cui si
apprendevano tutte le scienze e tutte le arti.

L’universalità e la vivezza del culto reso durante tutto il Cinquecento
al Petrarca ci prova che noi non abbiam qui dinanzi un fatto
accidentale, una voga capricciosa, o l’effetto di una particolare
oppressione esercitata dal di fuori sopra lo spirito degli italiani. Il
petrarchismo non è una anomalia nella vita e nella coltura del secolo
XVI, ma è un portato del Rinascimento. Non di tutto il Rinascimento,
intendiamoci; perchè lo spirito del Rinascimento stesso è formato
d’ideali e di tendenze molteplici, il più delle volte cospiranti
insieme, ma spesso ancora contrastanti fra loro. Non si dimentichi
che in ogni condizione di vita sociale il moto delle idee si fa di
azione e di reazione. Il petrarchismo vien fuori da quelle tendenze
del Rinascimento che ho enumerate di sopra: da cert’altre tendenze,
disformi o contrarie, vien fuori l’antipetrarchismo. E di questo mi
rimane ora a parlare.



PARTE SECONDA

ANTIPETRARCHISMO


L’antipetrarchismo, in parte è semplice resistenza ed opposizione
all’andazzo comune; in parte è espressione di concetti e d’ideali nuovi
nella vita e nell’arte.

Certo, i petrarchisti eran falange, gli antipetrarchisti manipolo, e
per giunta, quelli si coprivano dell’autorità di un gran nome, cosa che
in ogni tempo bastò a dar credito, e spesso vittoria, alle opinioni,
alle fazioni, alle scuole; mentre gli altri si facevan forti della
ragione, del buon senso, di certi diritti dell’umano intelletto, non
troppo chiaramente enunciati, ma pur sentiti, o piuttosto presentiti.
Fra costoro noi troviamo l’intera scuola di quelli che si potrebbero,
parmi, opportunamente chiamare gli scapigliati della letteratura
nel Cinquecento; una man d’uomini che fanno il letterato come altri
farebbe il capitan di ventura; menan la vita come i _picaros_ dei
romanzi spagnuoli; non han troppa dottrina, ma bensì ingegno, e buon
giudizio ancora, quando deliberatamente non dieno, come del resto fanno
troppo sovente, nel bizzarro e nel paradossale; sono poco rispettosi
dell’autorità, punto teneri della tradizione, ribelli alla regola,
vaghi di novità, e provveduti, per miglior patrocinio de’ proprii
gusti, di una imperturbabile audacia, cui troppo sovente si fa compagna
la sfrontatezza. A questa scuola, di cui non fu ancora chi studiasse
l’indirizzo generale e l’opera comune, appartengono Pietro Aretino,
Antonfrancesco Doni, Niccolò Franco, Ortensio Lando, alcun altro.

Antipetrarchismo, nel Cinquecento, non vuol dire proprio proprio il
contrario di petrarchismo. Se il petrarchismo importa, anzi tutto, una
esagerata venerazione pel Petrarca, l’antipetrarchismo non include
di necessità avversione al grande imitato, ma è più spesso semplice
avversione alle dottrine, agl’intendimenti e alla pratica letteraria
degli imitatori. Al Petrarca stesso pochi si fanno addosso con
deliberato proposito; siane cagione una riverenza vera e sentita, o
il timore di guastar le cose proprie, dando troppo risolutamente di
cozzo nella opinione prevalente. Tuttavia anche di questi più arditi
non mancano. Non parliamo di certi saccentuzzi boriosi che per quattro
_cujus_ che sapevano si tenevano assai da più del Petrarca. In uno di
quei ragionamenti dei _Marmi_ del Doni[63], il Coccio ricorda certi
pedanti, che non istimavan degni il Sannazaro e il Molza di portar
loro dietro il Petrarca; e assai maggior del Petrarca si stima il
pedante Zanobio nella commedia _L’Idropica_ di Battista Guarini. Ma col
Petrarca se la prendevano, e gli davan di buone risciacquate, Lodovico
Castelvetro, che pure rimproverava al Caro l’uso di voci che non erano
nel _Canzoniere_, e Gerolamo Muzio, per tacere di Alessandro Tassoni,
che solamente nel 1602, o 1603, scrisse quelle sue _Considerazioni_
con cui mise il campo a rumore[64]. Per contro non dobbiamo badare più
che tanto a quel matto di Ortensio Lando, quando nella sua _Sferza de’
scrittori antichi e moderni_, mandata fuori sotto il nome di Anonimo
d’Utopia, scappa a dire[65]: «Non è negli trionfi di M. Francesco
una ignoranza espressa d’istoria e languidezza di stile? non vi ha
eziandio ne’ suoi sonetti alcuni ternari che mal si convengono con
gli quaternari? Parlate un poco col mio M. Francesco Sansovini, e
costrignetelo per vita della sua diva ch’ei vi dica gli falli quai ha
già in questo scrittore accortamente osservati, e poi diretemi s’egli è
degno d’esser letto, e che per ispianarlo affaticati si sieno l’Alunno,
il Filelfo, il Velutello, il Gesualdo, il Fausto, il Castelvetro,
Giulio Camillo e il buon Daniello? So io certo ch’egli fu sempre molto
timido nelle cose appartenenti alla lingua tosca». Non è da badargli,
dico, non ostante ciò che di sincero vi può essere in quest’ultima
osservazione, giacchè egli stesso, in un altro scritterello, intitolato
_Una breve esortazione allo studio_, usa tutt’altro linguaggio, e del
Petrarca dice: «mai certo produsse natura il più gentil scrittore».
Gli è che l’amore del paradosso è quello che troppo spesso gli muove
la lingua. E così non dobbiam prender sul serio Bernardino Daniello,
studiosissimo del nostro poeta, quando, in una lettera ad Alessandro
Corvino[66], citando una sentenza tolta dal _Canzoniere_, pone tra
parentesi: _come disse quella pecora del Petrarca_; perchè gli è questo
un semplice scherzo; e uno scherzo più innocente ancora è quello di
Andrea Calmo, quando, in una lettera ad Angelo Barocci[67], chiama il
Petrarca, con parole che parrebbero avere un tantino del derisorio,
_savio trombon de le rime_.

Ma i petrarchisti non eran mica il Petrarca, e coi petrarchisti si
parlava alla libera. Anzi tutto si vuol far loro intendere, per ogni
buon fine, e perchè sappiano quanto e’ pesano, che da quella loro
poesia biascicata e da ruminanti, alla poesia del _Canzoniere_, ci
corre parecchio. Rubin parole al _Canzoniere_ quante più possono; lo
spirito non glielo ruberanno di certo.

    Gli altri poeti imitar lo potranno,
      E potranno anc’usar le sue parole.
      Ma alla sostanza non s’accosteranno[68].

Il rubare è la loro qualità specifica e la loro operazione consueta.
«Volete conoscere un petrarchista in vista?», dice Niccolò Franco,
«guardiate che no sa fare un sonetto, se no ruba versi o non infilza
parole»[69]. E si vanta di non aver rubato in vita sua un mezzo verso
al Petrarca, nè al Boccaccio, «come fanno i poeti de la selva de
l’aglio»[70]. Egli concederebbe la imitazione, ma non può menar buono
il furto: «O petrarchisti (che vi venga il cancaro a quanti sete!)
io ve l’ho pur detto che parliate come il Petrarca, ma che non gli
rubiate i versi con le sentenze»[71]. A una sua loquace lucerna fa
dire: «Lascio questi, (_cioè i poeti che ne’ versi loro risuscitano
tutta la mitologia_) e mentre mi van gli occhi ad un’altra infornata,
che s’infinge di star di banda, m’accosto, e veggo che son quegli che
scartafacciano il Petrarca con Giovan Boccaccio. Veggo quando gli
tolgono i mezzi versi e tal volta i versi interi. Veggo quando van
facendo scelte de le parole, de l’invenzioni e de le sentenze, che
facciano al proposito di quel che scrivono, non curandosi di parer
poveri d’intelletto. E per che si credono di non esser visti ne i
furti che fanno, gli comincio a sgridar dietro: Io v’ho pur visto; io
v’ho pur saputo cogliere; io v’ho pur chiappati, ladri, tagliaborse,
giuntatori, mariolacci! A rubare il Petrarca, ah? A spogliare il
Boccaccio, eh?»[72]. Altrove dice: «Il Petrarca fu sempre e _per omnia
saecula_ sarà il primo, ed egli solo farebbe i sonetti simili ai suoi.
Becchinsi il cervello, chè tra ’l fare e il contraffare ci son più di
diece miglia»[73]. Talvolta, per meglio burlarsi di questi imitatori,
o piuttosto ladri, il Franco finge di lodarli. Così nel dialogo
intitolato _Il Petrarchista_, stampato la prima volta in Venezia nel
1539, egli fa che il Sannio, uno degli interlocutori, dette molte lodi
del Petrarca, soggiunga: «Onde perciò non pur lo dovrebbero i rimatori
imitare e rubare, ma i prosatori liberamente pigliarne, non solamente
tutte le parti del parlare, i modi, le clausole e le figure, che ne
le sue composizioni sono quasi stelle al cielo cosparte, ma ciò che
c’è, _ecc_.»[74]: mentre poi, in altro suo dialogo introduce lo stesso
Sannio a vituperare «certe gentuzze, che se non rubano quattro versi,
non ne sanno mettere due insieme»[75]. Nè si creda ch’egli esageri.
Nel _Dialogo della Rettorica_ dello Speroni Antonio Brocardo racconta
come, essendo ancor giovinetto, si dèsse tutto allo studio del Petrarca
e del Boccaccio, e poi a compor versi. «Allora pieno tutto di numeri,
di sentenzie, e di parole petrarchesche e boccacciane, per certi
anni fei cose a’ miei amici meravigliose: poscia parendomi che la mia
vena s’incominciasse a seccare (perciocchè alcune volte mi mancava i
vocaboli, e non avendo che dire, in diversi sonetti uno stesso concetto
m’era venuto ritratto) a quello ricorsi che fa il mondo oggidì; e con
grandissima diligenzia fei un rimario o vocabolario volgare: nel quale
per alfabeto ogni parola, che già usarono questi due, distintamente
riposi; oltra di ciò in un altro libro i modi loro del descriver le
cose, giorno, notte, ira, pace, odio, amore, paura, speranza, bellezza,
sì fattamente raccolsi, che nè parola nè concetto non usciva di me,
che le novelle e i sonetti loro non me ne fossero esempio. Vedete voi
oggimai a qual bassezza discesi, ed in che stretta prigione e con che
lacci m’incatenai»[76].

In certa lettera che finge scritta al Petrarca, il Franco chiama
gli imitatori una delle due disgrazie più grosse toccate al poeta.
Vero è che in quella risposta della lucerna, già citata, fa del
Bembo sperticatissime lodi, costituendolo duce e moderatore di tutta
una famiglia di poeti, fra cui spiccano Gerolamo Quirino, Gerolamo
Molino, Bernardo Navagero, Bernardo Cappello, il Molza, il Fortunio,
lo Speroni, il Beazzano, il Grazia, Bernardo Tasso, l’Alamanni, il
Varchi, il Rota, il Tansillo[77]; ma notisi che quando scriveva
queste cose, nell’anno 1538, egli si trovava in Venezia, proprio
nell’orbita di quell’astro maggiore dei cieli poetici ch’era allora
messer Pietro Bembo; e così di più altre contraddizioni o menzogne
sue noi potremmo avere spiegazione, se ci fosse dato di confrontarle
con certi casi della sua vita, di quella vita lacera e fortunosa, che
per eccessivo rigore di una giustizia che tropp’altre cose vedeva
e comportava senza punto risentirsi, doveva miseramente finir sul
patibolo. Ma, ad ogni modo, nell’anima sua, e per libero giudizio, il
Franco fu antipetrarchista convinto, e ne vedremo altre prove. Quel
mettere a sacco il _Canzoniere_, con levarne non pur le parole, ma i
versi interi, pareva brutto del resto a molt’altri, e l’Aretino, per
isvergognar quell’usanza, intarsiava di versi tolti appunto di là entro
lo sconcio capitolo _Alla sua Diva_, e con versi tolti similmente di
là cominciava lo stesso Franco alcuni sonetti della sua troppo famosa
_Priapea_[78].

Quelle voci insolite e schife, que’ modi peregrini ed azzimati, tutte
le sdilinquite eleganze onde, togliendole al modello, gl’imitatori
venivano cospargendo e infiorando i loro componimenti, fastidivano
alla lunga chi non avesse in tutto indolciti e smascolinizzati l’anima
e i sensi. Ci erano orecchie cui meglio gradiva una musica di suono
alquanto più grave e magari più aspro. Parlando di Michelangelo
Buonarroti, dice il Berni nella sua epistola a fra Bastiano del Piombo,
apostrofando per l’appunto i petrarchisti:

    Tacete unquanco, pallide viole,
    E liquidi cristalli e fere snelle:
    Ei dice cose, e voi dite parole.

E queste parole, che infilate come perle, lucide e fredde, erano
molta parte del vocabolario degl’imitatori, venivano in uggia a chi
liberamente e a piene mani attingeva al tesoro della lingua viva; e
quei quattro concettuzzi stremenziti che formavano la trama e l’ordito
degl’innumerevoli canzonieri facevano venir l’affanno a chi era uso di
respirar largamente nel mondo vario delle idee e delle cose. «Dico»,
esclama il Franco[79], «che in tal maniera son cresciute ne l’età
nostra l’acutezze de gli intelletti, ed hanno i gattolini aperti
talmente gli occhi, che ci vuol altro che falde di neve, pezze d’ostro,
collane di perle, altro che smaltar fioretti, adacquare erbette,
frascheggiare ombrelle, e nevicare aure soavi per sonettizzare a la
petrarchesca». E altrove: «Veggo in un batter d’occhi monti, colli,
poggi, campagne, pianure, mari, fiumi, fonti, onde, rivi, gorghi,
prati, fiori, fioretti, rose, erbe, frondi, sterpi, valli, piagge,
aure, venti, liti, scogli, sponde, cristalli, fiere, augelli, pesci,
serpi, greggi, armenti, spelunche, tronchi, uomini, dei, stelle,
paradiso, cielo, luna, aurora, sole, angeli, ombre e nebbie»[80]. È
questo, un po’ in iscorcio, il vocabolario dei petrarchisti.

Il Garzoni, biasimati aspramente coloro che ricantavano le vecchie
favole della mitologia, e detti più meritevoli di scusa coloro che
spacciavano le storie dei Reali di Francia, di Buovo d’Antona, di
Erminione, di Drusiana, di Pulicane, di Macabruno e altre sì fatte,
soggiunge, con aperta canzonatura[81]: «E più ragionevolmente fanno i
poetucci moderni, che attendono solamente a sfodrar fuori ne’ sonetti
un lor _sovente_, un _dogliose note_, un _verdi piagge amene_, un
_lieti boschi_, un _ritrosetto amore_, un _pargoletti accorti_, un _bei
crin d’oro_, un _felice soggiorno_, dove non dan molestia ad altri che
alle dive loro, nè sono almeno di tanto stomachevole invenzione come
gli antichi, i quali, se non fanno convertire gli uomini in piante, le
dee in fiumi, le ninfe in fonti, i satiri in augelli, non hanno fatto
cosa di buono. Ma questi limpidetti poeti petrarcheschi almeno trovano
soggetto e parole assai convenienti, perchè in un tratto t’assegnano a
una sfera come intelligenza, a un polo come un cardine, a un orbe come
una stella, e ti fanno apparer dal Nilo al Gange e da Calpe a Tile con
sana cosmografia tutto illustre e glorioso». E l’Aretino, più risoluto
e più energico[82]: «Sterpate da le composizioni vostre i ternali del
Petrarca, e poi che non vi piace di caminare per sì fatte strade, non
tenete in casa vostra i suoi _unquanchi_, i suoi _soventi_, ed il suo
_ancide_, stitiche superstizioni de la lingua nostra: nel replicare
l’istorie ed i nomi discritti da lui, allontanatevigli più che potete,
perchè son cose troppo trite». Meglio ancora biasimava quel gergo
artifiziato Pietro Nelli in una delle sue satire, dicendo[83]:

    Mi piace usar vocaboli sanesi
      Non tirati con argani, o con ruote,
      Perch’io vo’ che i miei versi sieno intesi.
    Questi c’hanno oggimai lasciate vuote
      Le bisacce al Petrarca e la scarsella,
      E pieno ’l mondo d’uopi e di carote,
    Quasi mi fanno recer le budella
      Col parlar su lo stitico e far mostra,
      Come già il corvo, dell’altrui gonnella.

E nel secondo sonetto della sua _Priapea_, il Franco gridava:

    Lungi, ser petrarchisti dal bel stile,
    Che le rime con gli uopi profumate.

Se c’era dunque chi voleva la lingua pedissequa e stretta ai panni di
messer Francesco e di messer Giovanni, c’era pure, per buona ventura,
chi stimandola uscita ormai di pupillo, la voleva padrona di sè e degli
andamenti suoi. Annibal Caro, nel Proemio a quel suo noto _Commento
di ser Agresto_ ecc., dice che, quanto a lingua, non vuole usare, nè
la boccaccevole, nè la petrarchevole, ma solamente la pura toscana in
uso a’ suoi dì. L’Aretino, che scriveva come gli uscia dalla penna, si
faceva beffe di certe riprensioni che gli venivano dagli Accademici di
Lucca, i quali sempre avevano in bocca: _il verbo vuole essere nelle
prose in ultimo, e cotesto non disse il Petrarca_[84]. Tra quegli
stessi che non s’arrischiavano a usare nelle scritture la lingua
parlata, c’era pure chi si ribellava alla doppia tirannide del Petrarca
e del Boccaccio. «Non so adunque come sia bene», fa dire a Lodovico da
Canossa il Castiglione nel suo _Cortegiano_[85], «in loco d’arricchir
questa lingua e darli spirito, grandezza e lume, farla povera, esile,
umile ed oscura, e cercare di metterla in tante angustie, che ognuno
sia sforzato ad imitare solamente il Petrarca e ’l Boccaccio, e che
nella lingua non si debba ancor credere al Poliziano, a Lorenzo de’
Medici, a Francesco Diaceto e ad alcuni altri che pur sono Toscani,
e forse di non minor dottrina e giudicio che si fosse il Petrarca e
il Boccaccio». In una lettera al Corrado, scritta da Roma l’ultimo di
febbrajo del 1562, il Caro dice a proposito di certe voci non usate dal
Petrarca[86]: «E ’l dire che non si debba scrivere con altre parole,
che con le sue, è una superstizione: e questo punto è stato di già
esaminato e risoluto così dagli uomini di giudicio». Non così bene
risoluto tuttavia che quella tirannide non durasse più o meno grave
tutto quel rimanente secolo. In una curiosa lettera, indirizzata a
Francesco Petrarca dal mondo, ai 5 di decembre del 1570, il Groto,
che altrove confessa avere certo suo sonetto «un poco di parentado»
con altro del sovrano poeta, descrive un viaggio che fece a Bologna
per visitare la _Cavaliera_ Volta. Dice di voler narrare quel viaggio
in versi; chiedere pertanto a esso Petrarca licenza di usare vocaboli
non usati nel _Canzoniere_, giacchè «sono alcuni pedanti, alcune
scimmie, alcuni petrarchisti ed alcuni poeti salvatichi, i quali hanno
introdotto per legge inviolabile, e per regola indispensabile, che
in verso volgare non possono usarsi altre voci di quelle, che usaste
voi, nei vostri componimenti»[87]. E sì che questi _pedanti_, queste
_scimmie_, questi _poeti salvatichi_, erano stati esposti alle risa del
pubblico fin sulla scena. L’Aretino, volendo dare in breve un saggio
di ciò che fosse quella lor lingua, e del costrutto dei loro poetici
discorsi, aveva fatto dire all’Istrione nel Prologo del _Marescalco_:
«Spettatori, snello ama unquanco, e per mezzo di scaltro a sè sottragge
quinci e quindi uopo, in guisa che a le aurette estive gode de lo amore
di invoglia, facendo restío sovente, che su le fresche erbette, al
suono de’ liquidi cristalli cantava l’oro, le perle e l’ostro di colei
che lo ancide».

Quanto all’imitazione, c’era chi non voleva saperne per nulla, e chi
l’ammetteva sì, ma con certo temperamento. L’Aretino, che si fregiava
del nome significativo e pomposo di _segretario della natura_, la
stimava una pusillanimità e viltà degl’ingegni. «Di chi ha invenzione»,
diceva egli, «stupisco, e di chi imita mi faccio beffe, conciosia che
gli inventori sono mirabili e gli imitatori ridicoli»[88]. E altrove
ancora dice molto assennatamente[89]: «il Petrarca e il Boccaccio
sono imitati da chi esprime i concetti suoi con la dolcezza e con la
leggiadria con cui dolcemente e leggiadramente essi andarono esprimendo
i loro, e non da chi gli saccheggia, _ecc._». Il che torna a dire che i
grandi modelli vanno studiati per imparar da essi le vie e il magistero
dell’arte, e non per rifare ciò che essi ottimamente han già fatto.
In un luogo della sua _Apologia_ contro il Castelvetro, Annibal Caro
dice per bocca del Predella, bidello: «Non sarebbe pazzo uno, che,
volendo imparare di camminare da un altro, gli andasse sempre drieto,
mettendo i piedi appunto donde colui li lieva? La medesima pazzia è
quella che dite voi, a voler che si facciano i medesimi passi, e non
il medesimo andare del Petrarca. Imitar lui, vuol dire che si deve
portar la persona e le gambe come egli fece, e non porre i piedi nelle
sue stesse pedate». E più largamente ancora sembra che la pensasse il
buon Guidiccioni, quando in una lettera ad Antonio Minturno scriveva
parergli «viltà lo star sempre rinchiuso nel circolo del Petrarca e
del Boccaccio, e massimamente a quelli i quali s’hanno acquistato con
i lor sudori qualche credito di vera lode»[90]. Potevano gl’imitatori
immaginarsi facilmente d’aver pareggiato il Petrarca in un tempo in
cui, a detta del Sansovino, c’erano cantambanchi che si tenevan da più
di lui, incedevan gonfii e pettoruti e volevano che ognuno facesse loro
di berretta[91]; ma era la loro una sciocca immaginazione, e ciò che il
Folengo diceva di alcuno[92]:

    Tal volse del Petrarca sulle cime
    Salir, ch’or giace in terra con gran scherno,

era, in parte almeno, vero di tutti, anche dei più famosi.

L’imitare, e l’imitar male, essendo assai più agevole dell’inventare,
ne veniva che infiniti si davano a comporre colla falsariga del
Petrarca innanzi, che, se non avessero avuto quella opportunità e quel
comodo, si sarebbero forse astenuti dall’imbrattar carte. Ognuno che
sapesse contare undici sillabe sulle dita e avesse in capo quattro
dozzine di rime, si credeva da tanto di poter rifare il Petrarca. A
tale proposito si ha nei _Mondi_ del Doni una curiosa scenetta. Siamo
nel _Mondo misto_, dove Momo _conduce le anime a considerare lo stato
loro_. Si presenta un’anima e tra Momo e lei è questo dialogo:

  MOMO. Chi fosti tu al mondo?

  ANIMA. Scarpellino e poeta.

  MOMO. O che discordanza che è questa! come di sartore e barbiere.
  Che scarpellavi tu e componevi?

  ANIMA. Io m’avevo fatto un bel libro di monti, mari, sterpi, e
  valli, tutto in rima.

      Di fior, fioretti, ombre, erbe e viole,
      Poggi, campagne e poi pianure e colli,
      Con fonti, gorghi, prati, rivi ed onde.

  MOMO. Oh tu cicali in versi sì petrarchevolmente! Io ne vo’ fare
  una querela in Parnaso. Andrai pur là, che tu non istai bene fra
  noi altri; va, fatti infrascare di questi lauri.

  ANIMA.

      Piaggie, liti, scogli, venti ed aure,
      Cristalli, fiere, augelli, pesci e serpi,
      Greggi, spelunche, armenti, tronchi, antri, dei,
      Stelle, paradiso, ombre, nebbie, omei.

  MOMO. Costui è pazzo; odi versi! Sapevi tu far altro? e avevi messo
  altro nel tuo libro?

  ANIMA. L’edere d’Ippocrene, gli amenissimi platani, i dirittissimi
  abeti, l’incorruttibil tiglio, le canne di Menalo, le querce di
  Dodona, i mirti d’Aganippe, i noderosi castagni e gli eccelsi
  pini[93].

Il buon Momo non vuol udirne di più: fa ingollare allo scarpellino
poeta certo beverone e lo rimanda al mondo d’onde è venuto.

Il Doni era grande ammiratore del Petrarca, come prova, tra l’altro,
una lettera tutta in lode del sommo poeta, lettera che si legge
nella sua _Zucca_; ma i petrarchisti, o i petrarchevolisti, come più
acconciamente li avrebbe chiamati Mattio Franzesi, specie quelli di
bassa lega, non li poteva soffrire, e con lui non li potevan soffrire
quanti avevano giusto concetto dei fini e della dignità dell’arte.
Quello strabocco di poesia annacquaticcia, scolorita, scipita, faceva
alla fine venir la nausea a chi era di più forte sentire, di gusti
meno smaccati, e più d’uno lamentava col Franco che tanto si fosse
rinforzata in Italia la maledetta foja della _sonettaria_. Chi si
sentiva muovere dentro qualcosa di vivo e di caldo, chi credeva d’avere
qualcosa di proprio da dire, non poteva non farsi beffe di que’ poeti
da scranna, a’ quali accenna il Mauro nel suo capitolo _Della caccia_,
là dove dice che

                             i lor versi
      Ricaman d’altro che d’oro e di seta;
    E negli studi stan sempre a sedersi,
      Ove tengon le muse pei capelli,
      Che sputan detti leggiadretti e tersi.

Molti avevano, non solo un buon concetto di ciò che deve essere poesia
in genere, ma ancora come un presentimento indistinto ed ansioso
di un’arte nuova che dovesse avvenire, di un nuovo mondo poetico
che dovesse essere rivelato alle genti, dove non la imitazione, ma
l’invenzione, non la pedissequa timidità, ma il felice ardimento
segnassero la via della gloria, e non potevano acconciarsi a quella
poesia peritosa e servile, sonante di parole e vuota d’idee, fatta di
tasselli e lisciata con la pomice. Altro si voleva oramai. «O turba
errante», esclamava l’Aretino con intuito meraviglioso e con bella
efficacia di parole, «io ti dico e ridico che la poesia è un ghiribizzo
de la natura ne le sue allegrezze, il qual si sta nel furor proprio,
e mancandone, il cantar poetico diventa un cimbalo senza sonagli, e un
campanil senza campane; per la qual cosa, chi vuol comporre, e non trae
cotal grazia da le fasce, è un zugo infreddato[94]». E altrove, con
assai buon sentimento del vizio capitale della imitazione: «Io non mi
son tolto da gli andari del Petrarca, nè del Boccaccio, per ignoranza,
che pur so ciò che essi sono; ma per non perder il tempo, la pazienza
e il nome nella pazzia del volermi trasformar in loro, non essendo
possibile[95]».

L’Aretino doveva essere per natura e per consuetudini letterarie
un gran nemico del petrarchismo, nè deve far credere altrimenti
la somma riverenza da lui sempre addimostrata al principe di essi
tutti, all’eccellentissimo Bembo, cui più di una volta difese contro
detrattori temerarii, e cui chiama immortalissimo, reverendissimo,
celeste, dicendosi indegno persin di lodarlo, gridando che egli
aveva data _agli uomini la ricetta del come possano diventare iddii_,
assicurandogli eternità di fama in un sonetto quando e’ fu morto[96].
Biasimi e lodi costavano egualmente poco al Divino, cioè nulla. Egli ed
il Bembo stavano sui convenevoli, perchè l’uno temeva dell’altro; ma
non eran uomini che potessero intendersi e accordarsi in nulla; e per
ciò che spetta all’Aretino, ha certamente ragione l’autore di quella
Vita di lui che va sotto nome del Berni, quando dice che non poteva
soffrire il Bembo sebbene assai lo lodasse.

Ciò che della poesia petrarchevole pensava Pietro Aretino altri ancora
pensavano; ma niuno certamente espresse il suo pensiero in forma più
compiuta di quello fece in un apposito capitolo contro i petrarchisti
Cornelio Castaldi, poeta poco noto, ma cui spetta nulladimeno il
vanto di essersi tratto fuori del comun gregge e d’aver tentato nuove
vie[97].

    Leggo talor tutto un vostro volume
      Da capo a piedi ch’io non vi discerno
      D’arte o d’ingegno un semivivo lume.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Io già vi amai, ed or non vi disamo,
      Anzi v’onoro e riverisco in tanto
      Che del versificar padri vi chiamo.
    Ma non so darvi poetico vanto,
      Perocchè mai non mi parrà poeta
      Chi sol l’orecchi e mie pasce col canto.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Questo vostro infilzar di parolette
      Mi rappresenta alla tenera etate.
      Quando un fanciullo ad imparar si mette:
    Che s’ei non scrive su carte rigate,
      Non sa tener da sè dritta la mano,
      Per non esser le dita anco addestrate.

E conchiude col verso:

    Biasmo lo stil dove l’ingegno dorme,

il quale dice appunto ciò che un altro verso dice, un verso moderno che
fece chiasso e diventò proverbiale:

    Odio il verso che suona e che non crea.

Del resto, nelle tendenze molteplici e discordi della letteratura
contemporanea il petrarchismo incontrava altre avversioni ed altri
contrasti. Anzi tutto non potevano essere fautori suoi quegli umanisti
intolleranti ed intransigenti che non avevano in pregio se non le opere
dei greci e dei latini, e stimavano cosa vile l’usare scrivendo altra
lingua che quella di Cicerone e di Virgilio. Contro a costoro ha un
sonetto il Lasca, nel quale li pettina a dovere. Li chiama pedanti e
logicuzzi; li accusa di mandare in rovina

    La lor lingua toscana o fiorentina;

li strapazza, perchè nelle scienze concedono gli onori

    Tutti ai latini ed ai greci scrittori,

mentre i più grandi fra quelli,

    Virgilio, Orazio, Pindaro ed Omero
    Appetto a Dante non vagliono un zero,

e son anche assai da meno del Petrarca e del Boccaccio. Ma quegli
stessi scrittori che si opponevano alle sciocche pretese dei pedanti,
quelli che, con ogni ragione, volevano essere italiani e non latini,
si scoprivano poi alla lor volta nemici, non del Petrarca, ma del
petrarchismo, se, come appunto è del Lasca, ritenevano nei gusti,
nel modo di pensare, nell’uso della lingua, alquanto, anzi molto,
del popolaresco; giacchè l’umor loro, schietto e nativo, non poteva
acconciarsi a quelle raffinatezze e a quegli arzigogoli della
petrarcheria. Anche il Lasca mostrava di professare una grande
ammirazione pel Bembo; ma bisognerebbe poter vedere che cosa ci
fosse sotto a quella sua ammirazione, e un pocolino il lascia vedere
egli stesso. Che non potessero essere molto teneri delle melanconie
petrarchevoli, e di una poesia moccicona, che si disfaceva in pioggia
di lacrime, ed esalava in vento di sospiri, quegli spiriti giovialoni
ed arguti, quei, come il Caro li chiama, poeti bajoni, che argomento
a verseggiare traevano dai casi minuti della vita d’ogni giorno, dai
piccoli piaceri un po’ volgari, dalle piccole miserie un po’ ridicole,
dalle mille storture degli uomini e delle cose, voglio dire i creatori
della poesia bernesca con a capo il loro padre comune, e con essi
quanti di tal poesia facevano festa e sollazzo, si capisce troppo
facilmente e non bisogna dimostrarlo. E così la intendeva il Lasca,
quando in una poesia da lui premessa alla edizione delle rime del
Berni, usciva a dire:

    Chi brama di fuggir maninconia,
      Fastidio, affanno, dispetto e dolore;
      Chi vuol cacciar da sè la gelosia,
      O, come diciam noi, martel d’amore,
      Legga di grazia quest’opera mia,
      Che gli empirà d’ogni dolcezza il cuore;
      Perchè qui dentro non ciarla e non gracchia
      Il Bembo merlo, o ’l Petrarca cornacchia.

E nella lettera a Lorenzo Scala, premessa egualmente a quelle rime,
diceva «le petrarcherie, le squisitezze, le bemberie, avere, anzichè
no, mezzo ristucco il mondo.» Perciò possiam credere che al duca di
Mantova non tornasse sgradito l’avvertimento che gli dava l’Aretino,
quando, mandandogli certa composizione ghiotta del Veniero, diceva:

    Non aspettate veder la lindezza
      Dell’andar petrarchevole a sollazzo,
      Ch’a ricamar fiori e viole è avvezza.

Di quella lindezza doveva averne assai anche il duca di Mantova. Per
chi amava di parlar grasso e ridere alla sbracata (e Dio sa s’era gusto
di molti) non c’era canzoniere d’amore che valesse un sol capitolo
del Berni. Gabriello Simeoni non si peritava di dirlo apertamente e di
stamparlo.

    Chi dice che ’l gentil compor berniesco
      Non è il più bel che si leggesse mai
      Sta dell’ingegno e del giudizio fresco.
    Puossi con esso trar sospiri e guai
      Senza tanti uopi, unquanchi, schivi e snelli,
      Che dan che fare a gl’ignoranti assai.
    Voglion le feste questi poverelli
      Passarsi il tempo con un libro in mano
      Senza tanti Laudivi o Vellutelli[98].

E notisi che il Simeoni fu grande ammiratore del Petrarca, e due volte
si recò a visitare Valchiusa, una il sepolcro del poeta. Per parte
loro i petrarchisti dovevano guardar con dispetto i poeti berneschi
e la lor poesia, e cercare di screditarli quanto più potevano, nè
io dirò che peccassero in questo. Certo il Giraldi Cinzio doveva
esprimere il pensiero di molti, quando scriveva: «Alle cose basse
nacque medesimamente il Bernia tra’ toscani, e tutti coloro che per
loro principale esercizio a quel modo han scritto ch’egli scrisse;
e infelici mi pajono quegli ingegni che spendono le lor buone ore in
così fatte scritture, piene di nascosta disonestà, e di materie plebee,
che sol dilettano a’ salcicciai, ed a simil sorti di genti»[99]. Che
dilettassero solo a’ salcicciai e a simil sorte di genti, non è punto
vero; e ad ogni modo rimane dubbio qual fosse poesia più oziosa se la
bernesca o la petrarchesca. Questa era certo più sciocca.

Nè più dei berneschi potevano essere amici al petrarchismo i poeti
maccheronici, che già nel fatto della lingua si mostravano sciolti
da ogni regola, non sottoposti ad autorità di sorte alcuna, figli e
fautori del proprio capriccio.

Ma se di molte beffe toccavano agl’imitatori del Petrarca, molte del
pari ne toccavano ai commentatori. Non commentatori, ma crocifissori
li chiama l’Aretino. «Se», dice egli nel Prologo della _Cortegiana_,
«la selva di Baccano fosse tutta di lauri, non basterebbe per coronar
crocifissori del Petrarca, i quali gli fanno dir cose con i loro
comenti che non gliene fariano confessare diece tratti di corda». Quel
bel matto di Alfonso de’ Pazzi si burla in un sonetto di coloro che
avevano _cava_ di commenti, e ricorda in un altro

    ..... l’Accademia, ’l Varchi e ’l Gello,
    C’han messo Dante e ’l Petrarca in bordello.

Lo stesso Aretino dice in una lettera al duca di Mantova[100]: «Se
l’anima del Petrarca e del Boccaccio, nel mondo suo, è tormentata,
come son le loro opere nel nostro, debbono rinnegare il battesimo». Il
Franco li scardassa in questo modo nella sua Epistola al Petrarca[101]:
«Or questi dunque, perchè si conosceano non valere ad altro, si son
posti a contentare le vostr’opere vulgari, ingegnandosi di trovarvi
novità di chimere per parere ingegnosi, e di recarci ciance infinite
per parere facondi. Ma con che rumor di scodelle i lavaceci si vadano
poi imboccando le vostre fantasie, volendole intendere al vostro
dispetto, non ve ’l potrei scrivere per una lettera. E volesse pure
Iddio che fussero stati soli i processi fattivi sopra i versi, ed i
tormenti dativi sopra i sensi, perchè son stati più i chiassi fatti
in disonor de l’onore e del nome, per aver voluto investigare, se voi
feste o non feste quella cosa con monna Laura, s’ella ebbe marito
o no, se fu sterile o fe’ figliuoli, se ’l cardinal Colonna ve la
tolse a forza d’oro, se ’l papa vi promettesse il cappello volendogli
consentire una sorella di cui era invaghito, con tante altre sporche
dispute ch’io mi vergognarei d’annoverarle scrivendo». Quando il Franco
così scriveva, erano già stati pubblicati per le stampe i commenti
dello Squarciafico, del Filelfo, del Vellutello, del Fausto, di Silvano
da Venafro, del Gesualdo e di altri. E non meno acerbamente, anzi più,
si esprime il Groto in quella lettera che ancor egli volle scrivere al
Petrarca[102]: «Di novo non ci è altro, se non che ’l vostro canzoniere
è più confuso, più rimescolato, più riversciato che le foglie scritte
dalla Sibilla ad un lungo soffiar di borea, di austro, di levante e
di ponente. Voi medesimo, se ’l vedeste, no ’l riconoscereste. Ci è
di più, che vi fan cinguettare a lor modo, e dove pensate dir pettini,
vi fan dir cesoje. A madonna Laura vostra han dato nome, chi di anima,
chi di poesia, chi di filosofia, e mille altre chimere fantastiche di
commentari. O se voi tornaste di qua avreste pur che fare co ’l notajo
del maleficio, o danno dato! quanti ne fareste frustare, e impiccar per
ladri! Ogni un s’ingrassa del vostro grasso, e s’ingrassa del vostro
sugo; chi vi pela di qua, chi vi taglia di là, chi vi ruba, chi vi
scaca, chi vi assassina». E qui l’autore lasciati i commentatori, torna
a pigliarsela con quei gaglioffi d’imitatori. Ma già prima del Groto il
Giraldi Cinzio aveva scritto: «E per non parlare degli altri, si son
trovati e si trovano oggidì alcuni che, lasciati i sensi veri, fanno
tali farnetichi su alcune cose del Petrarca, che pajono spiritati che
dicano le maraviglie; e ovunque trovano la voce di amore o di natura,
o di Giove, o di Giunone, o di disire, o di bellezza, o di sole, o di
cielo, o di altre tali cose, vi vogliono tirare ciò che se ne scrisse
mai dal principio del mondo insino alla loro età»[103].

Con tanta gente ai fianchi, sopra, sotto, d’ogni banda, imitatori,
spositori, commentatori, musici, compilatori di vocabolarii,
fabbricatori di grammatiche e di Arti poetiche, il malcapitato Petrarca
fa pensare a un di quei bacherozzoli, che spesso si trovan pei campi,
sepolti sotto un acervo di affamate ed affacendate formiche. Egli era
come un nuovo Mecenate che, mal suo grado, faceva le spese a un nugolo
di parassiti, ed era giusto che qualcuno, non potendolo egli, levasse
la voce contro l’importunità e la improntitudine di costoro. In una
sua madrigalessa in morte di Lodovico Domenichi, il buon Lasca, che
in tant’altre cose sapeva mostrarsi uomo di retto sentire e di sano
giudizio, esclama:

    Una turba infinita
    Di poetacci vive e di scrittori,
    Pedanti e correttori,
    Che metton tutto il mondo sottosopra,
    Ogni antica storpiando e modern’opra,
    Come Dante e ’l Petrarca fede fanno,
    Con gran vergogna e danno, e con rovina
    Dell’Accademia nostra Fiorentina,
    Che fa molte parole e pochi fatti.

Molte parole e pochi fatti, come fu sempre usanza delle accademie.
Poetacci e pedanti si contenta chiamarli il Lasca, ma meglio
minuzzapetrarchi, lambiccaboccacci e stuccalettori di piccola levatura
li chiama il Grappa in quel suo commento alla canzone del Firenzuola in
lode della salsiccia[104]. E tenendosi più strettamente al Petrarca, il
Franco fa dire alla sua lucerna[105]: «Veggo le cataste dei libri tanto
alte, che mi tremano gli occhi a guardarci su... Veggo il Petrarca
commentato, il Petrarca sconcacato, il Petrarca imbrodolato, il
Petrarca tutto rubato, il Petrarca temporale e il Petrarca spirituale».
Una pietà!

Abbiam veduto di quanto favore al petrarchismo fossero certi spiriti
amorosi che aleggiavano in mezzo alla colta ed elegante società del
Cinquecento; ma non ci dimentichiamo che sotto e a’ fianchi di questi
spiritelli aerei, lindi, decenti, altri se ne agitavano di più grossa
natura, di più liberi portamenti; non ci dimentichiamo che di contro
all’amore dei canzonieri c’era l’amore delle novelle e delle commedie;
di contro al piacere di spasimare il piacere di godere. Già quegli
amori a cui, non che la speranza, non era lecito nemmeno il desiderio,
quello stemperarsi in lacrime, quel dileguarsi in sospiri, tante
metafisicherie e tanti arzigogoli cacciati dentro al più spontaneo
degli affetti, alla lunga venivano a noja. Gli spasimanti perpetui
cominciavano a diventar ridicoli. Odasi ciò che dice Ercole Bentivoglio
in una sua satira indirizzata a M. Andrea Napolitano:

    Andrea, tra le pazzie che non son meno
      Di riso grande che di biasmo degne,
      Di ch’oggi è sì questo vil mondo pieno,
    Posto è il pensier, che ’n tutti or par che regne,
      Cieco d’amor, quando la notte e ’l giorno
      Spende l’uom dietro a queste donne indegne.

E più oltre, canzonando lo stesso Andrea:

    Ite pensoso per quest’ampie strade,
      Con gli occhi a tutte le finestre intenti,
      Molli talor di tepide rugiade.

Poi ricorda un tal Cupennio:

    Che profumato tutto ’l dì sospira
      Al sole ed alla pioggia, e alla finestra
      Gli occhi con certa gravitate gira.

Luigi Alamanni va più in là, e nella satira a M. Albizzo Del Bene
biasima, non solamente quell’amore cortigianesco, ma ogni amore che,
dice, è di grande nocumento agli uomini, nati a cose maggiori, è
cagione d’infiniti guai. Cita il proprio esempio:

    Anch’io con Febo gli amorosi strali
      Al santo bosco già cantai d’intorno,
      E so quante menzogne io dissi e quali.

Chi poi sentiva l’amore secondo natura e secondo umanità, si stizziva
di quell’amore dei filosofanti e dei sonettai, inviluppato nei
concetti, e con tante gale di sofismi intorno da parere un altro.

    L’amore è diffinito così spesso
      Da questi dotti, e così pesto e trito,
      Ch’omai non più si conosce egli stesso,

dice Pietro Nelli in una delle sue satire. Francesco Sansovino la
rompe con tutti i risguardi e dice chiaro di preferire l’amore quieto,
naturale e senza cerimonie di una sgualdrina, agli amori smancerosi
delle nobili dame[106]. Certo non tutti avevano i gusti, dirò così,
troppo semplici del Sansovino, e anche del Berni, che componeva que’
saporiti capitoli in lode della sua _schiattona_, e molti indulgevano
ad amori alquanto meno volgari, quali la novella e la commedia ci
mostrano; ma erano pur sempre amori molti diversi da quelli di messer
Francesco e di madonna Laura. Ora, se tra costoro c’era chi, per
vaghezza di contrasto, cercava gli amori ideali dopo aver fruito, o
mentre ancora fruiva, di quelli che chiameremo pratici; molto maggiore
doveva essere il numero di coloro che si attenevano ai pratici, senza
cercare più là. E costoro eran tutti naturali nemici del petrarchismo.

Il sentimento di questa classe di nemici, assumeva, tra le altre, una
forma caratteristica, la forma di un dubbio circa la qualità degli
amori del poeta e della donna celebrata da lui. Questi amori erano essi
stati così puri come si diceva? Difficile il crederlo, e nel Canzoniere
stesso si cercavano le prove del contrario. Alcuno più benevolo, come,
ad esempio, Nicolò Astemio[107], credeva che tutto quell’amore altro
non fosse che una finzione; sospetto antico, contro il quale ebbe a
difendersi lo stesso Petrarca. Per contro, Pietro Cresci, autore di
un’apposita dissertazione, alla famosa purità ci credeva assai poco, e
Ubaldo De Domo non ci credette punto. Cesare Caporali è d’avviso

    Che in Valchiusa non gì la cosa netta;

e Antonfrancesco Doni narra, nei _Marmi_[108], di una disputa fatta
nell’orto de’ Rucellai, e riferita da quella buona femmina della
Zinzera, nella quale disputa molti sostennero questa stessa opinione:
«e tenevano che egli (_il Petrarca_) avesse amato donna, donna, donna
da dovero; e che egli avesse anco corso il paese per suo: ma come
uomo che era religioso, dottore, vecchio e calonaco di Padova, non
voleva che restasse accesa sì fatta lucerna della fama; e appiattò la
cosa sotto mille queste e mille quelle; la pose in bilico acciò che
la non si potesse mai affermare; perchè la fu così giusta, giusta, ma
che sempre si trovasse qualche oncino d’attaccarsi in pro e contra».
Costoro non erano di certo poeti petrarchisti. Nè solo si dubitava
della qualità di quello amore, ma, ancora della condizione di madonna
Laura. In una delle _Lettere argute_ del Rao, tra parecchie tesi
da disputare c’è la seguente: _Che madonna Laura, tanto amata dal
Petrarca, ebbe modi e costumi di montanara, contra l’espositore di esso
Petrarca_[109].

Si mettano insieme tutte queste avversioni grandi e piccole, tutti i
biasimi che abbiam notati sin qui, con le ragioni loro, e si vedrà
che l’antipetrarchismo era una forza grande, piena di uno spirito
vigoroso. Questo spirito, nella sua forma più acuta, si manifesta
mediante la parodia. Gli imitatori del _Canzoniere_ si videro a un
tratto ai fianchi altri imitatori, i commentatori altri commentatori;
ma mentr’essi facevan da senno, quegli altri facevan per beffa,
e nell’alto lor riso travolgevano i seguaci e un pochino anche il
maestro.

Ed ecco di fronte a Laura divina, di fronte a quel tipo invariabile
di donna bionda, gelida e perfetta dei canzonieri, levarsi come una
visione apocalittica la megera del Berni.

    Chiome d’argento fine, irte e attorte
      Senz’arte intorno a un bel viso d’oro;
      Fronte crespa, u’ mirando io mi scoloro,
      Dove spunta i suoi strali Amore e Morte;
    Occhi di perle vaghi, luci torte
      Da ogni obietto diseguale a loro;
      Ciglia di neve, e quelle, ond’io accoro,
      Dita e man dolcemente grosse e corte;
    Labbra di latte, bocca ampia, celeste;
      Denti d’ebano, rari e pellegrini;
      Inaudita, ineffabile armonia;
    Costumi alteri e gravi; a voi, divini
      Servi d’Amor, palese fo che queste
      Son le bellezze della donna mia.

Quei divini servi d’amore non lascian dubbio quanto alle intenzioni
del poeta; la canzonatura va a cogliere in pieno gli spasimanti
petrarchisti e le lor dee[110]. Il Doni regala quattro madrigali
alla sua Crezia, di cui dice di non aver mai veduto cosa più brutta,
e in una lettera a Tiberio Pandola fa chiaro il pensiero ch’ebbe
in comporli: «Ho poetato per burlarmi del mondo, e per farmi beffe
d’alcuni scatolini d’amore, i quali non sanno uscire di: _Madonna, io
v’amo e taccio_, e: _S’io avessi pensato_, e simili altre ciabatterie,
oggimai così fruste come le cappe de’ poeti». Col medesimo intendimento
compone Agnolo Firenzuola un capitolo sopra quella sua donna, che

    Farebbe innamorare un pa’ di buoi,

e di cui descrive tutte le bellezze e novera tutte le virtù. La Cecca
celebrata da Filippo Sgruttendio nella sua _Tiorba a Taccone_, e altre,
vanno con quelle in ischiera.

I lamenti in morte di donne che, alcuna volta, non saranno nemmeno
esistite, suggeriscono altri lamenti. Francesco Bracciolini compone i
suoi sonetti in morte di Lena fornaja; ma altri, prima di lui, aveva
spinto più oltre la beffa, e del Berni si ha una canzone sopra la morte
delle sua civetta, di Agnolo Firenzuola un’altra canzone sopra la morte
di un’altra civetta, del Coppetta una canzone in perdita di una gatta,
di suor Dea de’ Bardi una in morte di una ghiandaja, e altre simili
di altri. In tutti questi componimenti si ritrovano atteggiamenti di
pensiero, di sentimento, di frase, che tutti rimandano alla prima lor
fonte, le rime del Petrarca in morte di Laura. Questa forma di parodia
incontrò molto: Ortensio Lando ci dice di aver cantato la morte di un
cavallo, di un cane, di una scimia, di una civetta, di una gazza, di
un mergone, di un gallo, di una gatta, di un grillo, e _d’altri vili
animali_[111].

Ma una forma più piena e più risoluta di parodia era il travestimento.
Il padovano Menon travestì la canzone: _Chiare, fresche e dolci acque_,
cominciando:

    O acque fresche e chiare
      On le suo belle gambe
      Se lavè la Tietta l’altro dì;

e il simile fece il suo concittadino Begotto, il quale travestì pure
alcuni sonetti. In un libro assai raro intitolato _Figaro Tuogno da
Crespaoro, e no so que altri buoni Zugolari del Pavan e Vesentin,
Smissiaggia de Sonagitti, Canzon e Smaregale in lengua Pavana_ (Padova,
1556), si trovano alcuni componimenti in lingua rustica, ne’ quali è
parodiato il Petrarca. Quel bizzarro ingegno di Andrea Calmo travestì
allo stesso modo una cinquantina di sonetti, l’ultimo dei quali, che
nel _Canzoniere_ del Petrarca comincia col verso _Pace non trovo e non
ho da far guerra_, è accompagnato da un largo commento. Veramente non
si può dire che in queste parodie ci sia molta di quell’arguzia che
pure abbonda in altri scritti del medesimo autore, ma, ad ogni modo,
eccone un saggio.

    Benedetto sia ’l zorno, ’l mese, e l’anno,
      E la stason, e ’l tempo, e l’ora, e ’l ponto,
      E la contrà, e ’l liogo, onde fu’ zonto
      Da quel bel viso che me fa gran danno.
    Sia benedetto el primo dolce affanno
      Ch’Amor m’ha dao, quando son sta conzonto,
      E l’arco con le frezze, che m’ha ponto
      D’una piaga mortal piena d’inganno.
    Benedetta la boxe, e ’l so parlar,
      I passi, el sonno, i vecci, la bellezza,
      I andamenti, el star, el caminar.
    Sia benedetta quella so vaghezza,
      El so vestir col so pulio manzar,
      Da far la morte star in allegrezza.

Maffeo Veniero, quel medesimo che poi fu arcivescovo di Corfù, e cui
furono malamente imputate alcune sconce scritture di un altro Veniero,
amico e discepolo dell’Aretino, si burlò assai piacevolmente nella
canzone sua _La strazzosa_ delle lindure, delicature e lambiccature
degli amori petrarchevoli. Giambattista Lalli, l’autore del notissimo
travestimento della _Eneide_, travestì pure ventinove sonetti,
due ballate, una sestina, una canzone del Petrarca. Questi suoi
componimenti ci traggono ormai fuori dei termini del Cinquecento,
ma vogliono, ciò nondimeno, essere ricordati, perchè non fanno se
non seguitare una tendenza sorta molto prima. E chi vuol vedere che
cosa diventassero alle mani del Lalli le rime dell’innamorato cigno
di Valchiusa, legga i due seguenti sonetti, in cui se ne veggono
trasformati altri due fra i più famosi del _Canzoniere_.

    Per far d’un buon cappon ghiotta vendetta,
      Un ladroncel, sebben non mai l’offese,
      Celatamente un giorno egli sel prese,
      Com’uom che a nocer luogo e tempo aspetta.
    Con la manina poi sua gola stretta,
      L’uccise, e far non valse altre difese;
      Poscia dal mio pollajo il furbo scese
      Con furia tal che parve empia saetta.
    Io conturbato da sì fiero assalto,
      Non ebbi tanto nè vigor nè spazio,
      Che potessi al bisogno prender l’armi.
    Al ladro, al ladro, gridai sempre ed alto;
      Ma non fu un cane che in sì duro strazio
      A poterlo acchiappar volesse aitarmi.

    Quando d’Apollo in ciel si scoloraro
      Per gire in mare ad annegarsi i rai,
      Ritornò il ladro, ed io che ben guardai,
      Chiamai li sbirri e subito il legaro.
    Non ebbe punto tempo a far riparo,
      Che dal giudice, tosto i’ me n’andai,
      E fu bello e convinto, onde i suoi guai
      Nel voler capponar s’incominciaro.
    Era venuto in tutto disarmato,
      E non credea ch’i’ avessi o voglia o core
      Di vendicarmi e d’acchiapparlo al varco.
    Il buon giudice poi per farsi onore
      Gli diè perpetuo bando dal suo stato
      E ’l pose alla berlina sotto a un arco.

S’intende come questa poesia derisoria, che faceva del _Canzoniere_
un uso così diverso da quello dei petrarchisti, non dovesse troppo
giovare alla riputazion di costoro. Ma la parodia non colpiva soltanto
gl’imitatori, colpiva ancora i commentatori. Parodia di commento sono i
_Cicalamenti_ del Grappa intorno al sonetto _Poi che mia speme è lunga
a venir troppo_[112], e una esposizione della canzone _Ben mi credea
passar mio tempo omai_, che lo stesso Grappa dice d’aver composta.
Parodia è una _Lauretta celebrata, dialogo di_ Marcantonio Petilio,
_diviso in sei Ragionamenti, ove, oltre all’ordinato progresso degli
amori del Petrarca si dà la vera intelligenza alla canzone_ Mai non
vo’ più cantar come soleva, _da niuno ancora intesa_[113]. E parodie
sono quelle innumerevoli cicalate e dicerie, e quei commenti da burla,
come il Commento del Caro alla Ficata del padre Siceo, quello del
citato Grappa alla canzone del Firenzuola in lode della Salsiccia,
e molt’altri. Nella _Lezione o vero cicalamento di maestro Bartolino
dal canto de’ bischeri sopra ’l sonetto_ Passere e beccafichi magri
arrosto[114], si ricorda un Don Agiato da Valdiriposo, professore
di Salamanca, che su questo medesimo sonetto aveva composte ventidue
lezioni, e ci si deride molto saporitamente l’argomentare, l’anfanare,
l’arzigogolare degli espositori. In un luogo l’autore dice, quasi con
le stesse parole dell’Aretino riferite poc’anzi: «questi espositori
e commentatori fanno dire... a questi poveri poeti cose che non
l’avrebbon dette con diece tratti di corda, nè, mi fate dire, pur mai
pensate»; e quivi stesso si burla di coloro che si mettono a _legger
lezioni_ per le accademie e _fanno le cantafavole lunghe lunghe_.
Il Doni, che per burlarsi dei commentatori del Petrarca, commentò il
Burchiello, e instituì un confronto fra l’uno e l’altro poeta; il Doni,
in quella sua cicalata intitolata _La Chiave_, fa di strane chiose a
quel _passo molto oscuro_ del Petrarca,

    Del mio cor donna l’una e l’altra chiave
    Avete in mano;

e dice che molti commentatori s’avvilupparono in questo caso, e
cita opinioni, giudizii e luoghi dello Stiracchia, del Zicotto, del
Mentolone, del Savonarola, di Bartolo e di messer Pietro Bembo. E di
quelle cantafavole lunghe lunghe ricordate dal Cecchi, con cui altri
pretendeva di spianare concetti e luoghi difficili del _Canzoniere_, dà
buon saggio il Calmo in una sua lettera, dove scrive[115]: «diseva ben
el precettor del Certaldese: «Grami nu, pessi, che sta in aqua sporca!»
O infelici, o stolti, o miseri, ad quid perdizio ve rosegheu la mente,
ve lacereu el pensier, ve strupieu i spiriti, ve insanguineu el cuor,
affaneu el stomego, ve tormenteu i membri, ve stracheu la memoria,
ve aflizeu l’interior, e ve intrigheu l’anema? incerti d’ogni vostra
operazion, inbindai con l’ozio alle rechie, col pè in la fossa, con la
stamegna in cao, e col porta inferi che ve coverze? Che giova el tanto
fadigar vu e i vostri e far fadigar altri col mondo insieme?» e su
questo tono seguita per un pezzo.

Ma un altro avversario, punto da disprezzare, trovava il petrarchismo
nel sentimento religioso, il quale, se in molti era spento affatto, o
sonnecchiava, in altri non pochi serbavasi vivo, ed anzi si risentiva,
si rinfocolava a contatto di quella gran corruzione che riempieva
il secolo. Il Petrarca stesso, come cristiano, ebbe di molti dubbii
circa l’amor suo, e se talvolta vide in esso una virtù gentile che
lo guidava a salvazione, assai più spesso il considerò come una mala
passione che lo toglieva a Dio, e se ne doleva e se ne scusava. Certo,
nel suo _Canzoniere_ molte cose ci sono che non le vorrebbe disdire
un asceta; e chi mettesse insieme tutte quelle gravi massime e quelle
savie sentenze circa la fugacità del tempo, la imminenza della morte,
il nulla dei beni mondani, la bellezza della virtù e la turpitudine del
vizio, potrebbe farne un libretto da porre a canto ai più devoti che
abbia la letteratura cristiana; ma gli è pur certo che molt’altre cose
ci sono le quali a un’anima timorata non possono non parer biasimevoli,
e per non cercare più in là, quel così grande amore riposto in
una creatura discorda troppo dal supremo ideale cristiano che è lo
smarrimento in Dio. Aggiungasi che quello splendore d’arte onde brilla
il _Canzoniere_ accresceva il pericolo di certi lenocinii.

Era perciò naturale che uomini d’animo austero e molto devoti
guardassero con sospetto il libro del poeta, specie quando lo vedevano
correr per tante mani ed essere da tanti studiato e imitato, e
pensassero al modo di combatterne i mali influssi, o di correggerne
il vizio e di renderlo innocuo. Antonio Cammelli, detto il Pistoja,
ricorda in un suo sonetto certo predicatore che in pulpito _stracciava
al Petrarca il mantello_[116]. Il Pistoja non lo avverte; ma noi
possiamo essere sicuri che costui predicava al deserto: altri, meglio
avvisati, pensando che a voler mandare in bando il _Canzoniere_
si sarebbe perduto tempo e fatica, credettero di conseguire più
sicuramente il fine loro con sottoporlo ad un travestimento speciale
che fu detto spiritualizzamento.

Questa operazione dello spiritualizzare consisteva nel togliere ad
uno scrittore quanto nelle opere sue ci fosse di men che onesto, o di
semplicemente profano, con sostituirvi una sostanza nuova di cose e di
pensieri in buon accordo con la morale e con la fede. Era una specie
di conversione che si operava nei libri. Si lasciavano intatte quanto
più era possibile le forme, ma ci si metteva dentro un’anima nuova;
si allettava i lettori con l’esca di un titolo famoso e, usando di una
pietosa frode, si metteva loro tra mani un libro che veniva a dire il
contrario di quanto aveva detto insino allora.

Quest’arte, non men faticosa che meritoria, fu molto in onore in
Italia nel Cinquecento, e fu praticata anche fuori d’Italia. Tutti i
libri più famosi e meno in odore di santità ebbero a capitarle sotto,
e così furono spiritualizzati, spesso ripetutamente, da parecchi,
il _Decamerone_, l’_Orlando Furioso_, le rime del Bembo, alcune di
Torquato Tasso, e via dicendo. E questa furia di spiritualizzare andò
tant’oltre che si spiritualizzarono cose come il famoso _Lamento_ in
cui Strascino da Siena trattò in volgare e popolarmente il tema che il
Fracastoro ebbe a trattare eruditamente e in latino: il mal francese.

Ben s’intende come la operazione dovesse presentare difficoltà più
o meno grandi, a seconda dei libri, e dovesse importare dei libri
stessi una trasformazione più o meno piena. Si vede subito che a
spiritualizzare il _Canzoniere_ del Petrarca ci voleva assai meno
fatica che non a spiritualizzare, poniamo, il _Decamerone_, e che per
ispiritualizzarsi quello s’avea a trasformare molto meno di questo. Il
_Decamerone spirituale_ di Francesco Dionigi da Fano non altro conserva
del libro di messer Giovanni che il titolo innocuo, e la partizione in
dieci giornate; le cento novelle se ne son ite, e il luogo loro è preso
da cento ragionamenti morali, in cui si tratta di castità, di digiuno,
di povertà, di tribolazione, di pazienza, ecc., e che nella edizione
veneziana del 1594 tengono la bellezza di 659 pagine in quarto, assai
fitte e dove non si torna mai a capo. Altro che le metamorfosi di
Ovidio! Col Petrarca non bisognavano procedimenti così radicali; a lui
si potevano lasciare le parole immutate assai spesso, e qualche volta
anche i pensieri.

Lo spiritualizzamento del _Canzoniere_ è di più guise e di diversi
gradi. La forma, dirò così, più mite è quella che s’incontra in
alcuni centoni, dove con versi del Petrarca, si cantano le lodi della
Vergine, o si tratta altro sacro argomento. Qui lo spiritualizzamento
non si esercita propriamente nel _Canzoniere_, ma fuori di esso, e i
componimenti che ne nascono non han punto la pretesa di sostituirsi al
libro onde traggono la sostanza. Di giunta in essi la parola del poeta
rimane inalterata. Ma l’opera trasformatrice passa oltre, invade il
_Canzoniere_ stesso, e ne penetra tutte le parti, finchè riesce alla
piena trasmutazione di esso. Un’altra maniera di spiritualizzamento si
otteneva mediante un’acconcia interpretazione, che, lasciando intatto
il testo, vedendo simboli dove il poeta certamente non ne aveva messi,
riusciva a quei concetti religiosi e morali che per lo appunto si
ricercavano. E questa maniera era quella che ragionevolmente avrebbe
dovuto ottenere migliore effetto, perchè non toglieva il poeta,
camuffandolo stranamente, ai molti suoi ammiratori. Del resto questo
procedimento non era nuovo. Durante tutto il medio evo si moralizzarono
a questo modo le opere più profane, si cercarono negli scrittori
pagani dottrine a cui non avevano sognato mai: basti dire che delle
stesse _Metamorfosi_ di Ovidio si fece un libro morale, quasi un libro
cristiano.

Nel 1544 un frate Feliciano Umbruno da Civitella diede in luce un
_Dialogo del dolce morire di Gesù Christo sopra le sei Visioni di
M. Francesco Petrarca_. Sono ragionamenti teologici fra la Signora
Giacopa Pallavicina da Parma e un tal Leonzio, e prendono argomento da
alcuni notissimi luoghi del _Canzoniere_. L’autore, del resto, chiama
insipido, agreste e disordinato il proprio discorso, e schiettamente
confessa la ignoranza propria. Il primo ragionamento si aggira intorno
a quei due versi:

    Una fera m’apparve da man destra
      Con fronte umana da far arder Giove:

la fera è il serpe tentatore. Il secondo commenta ed espone gli altri
due:

    Indi per alto mar vidi una nave
      Con le sarte di seta e d’or la vela:

la nave è Maria Vergine; e via di questo andare. Di qualità simile a
quest’opera di fra Feliciano dev’essere una _Esposizione spirituale
sopra il Petrarca_, composta da Pietro Vincenzo Sagliano e stampata in
Napoli nel 1590, ma a me sconosciuta.

Costoro mutavano solamente il pensiero del poeta; altri mutavano il
pensiero e la parola. Nel 1547 Gian Giacomo Salvatorino dava alle
stampe in Venezia un _Thesoro de Sacra Scrittura sopra rime del
Petrarcha_. Il libro s’apre con un sonetto a Gesù crocifisso ed a
Maria Vergine, poi ne vengono due _alli candidi e benigni lettori_, poi
alcuni versi latini _In maledicos_, poi un madrigaletto del cavaliere
Luigi Casola, in cui si presagisce a Gian Giacomo maggior gloria che
non ebbe il Petrarca, giacchè:

                        più vale
    Un’impresa celeste che mortale.

Seguono altri versi latini in lode dello stesso Gian Giacomo, il quale
poi, in _sonetti XXI tra sè retrogradi_, ci informa di parecchie cose
degne d’essere sapute: e che egli cominciò la sua fatica nel 1537,
essendo allora in età di trentatrè anni; e che ben due anni vi spese;
e che senza l’ajuto di Dio non avrebbe potuto nemmeno concepire quelle
_benedette_ sue rime; e che l’idea gli fu suggerita dal Malipiero, di
cui loda lo stile _leggiadro_, _santo, divino_. Fatto sta che queste
sue rime, sien esse pur benedette fin che si vuole, non potrebbero
essere più sciagurate. I sonetti del Petrarca ci sono rifatti quando
una, quando due, quando tre volte, e sono uno, due, tre assassinamenti.
L’autore fa come un sonatore che ripeta più volte, variandola in
più modi, e guastandola sempre più, una stessa frase musicale. Egli
comincerà col Petrarca:

    Era ’l giorno ch’al sol si scoloraro;

poi ripiglierà:

    Essend’oggi quel dì che scoloraro;

e poi da capo:

    E uscendo i tuoi d’Egitto scoloraro.

La trasformazion dei soggetti è spesso assai strana. Il sonetto: _Orso,
e’ non furon mai fiumi nè stagni_, nel quale il Petrarca si lagna del
velo e della mano di Laura che gli tolsero la vista de’ suoi begli
occhi, si muta in una invettiva contro _Pilato e suoi compagni._

Ma il primato tra gli spiritualizzatori del Petrarca spetta
incontestabilmente a Gerolamo Malipiero, il cui nome ci è capitato
innanzi pur ora, autore del _Petrarca_ spirituale. Fu questo Malipiero
un minore osservante di molta devozione e di gran zelo, valente
predicatore, si dice, e girò, predicando, l’Italia. Il libro suo fu
stampato la prima volta in Venezia nel 1536, ristampato ivi stesso
due anni dopo, e fu tanta la voga sua che, in quel medesimo secolo,
ebbe non meno di dieci edizioni. Ad esso allude il Franco in quella
più volte citata Risposta della Lucerna, dicendo: «Il male è che ci
sono stati di quegli che v’han voluto far cristiano ducento anni dopo
la morte, e di prete v’han fatto frate, ponendovi e cordone e zoccoli
e scapolare, chiamandovi il Petrarca spirituale». Ad esso allude il
Giraldi Cinzio ricordando l’opera di tale che ha _fatto spirituale_
il Petrarca, e «vestendolo da frate minore, e poi cingendolo di corda,
gli ha messo i zoccoli in piedi»[117]. Esaminiamo un po’ più da presso
questo libro stupido, ma curioso.

L’autore stesso ci dice le ragioni che glielo fecero fare. Egli
si scaglia contro la disonesta letteratura de’ tempi suoi, e
specialmente contro le commedie, corruttrici di ogni buon costume.
Molte anime vanno in perdizione per colpa delle male letture. Il
_Canzoniere_ del Petrarca non è senza molto pericolo, ed egli prese
a rifarlo, vedendo tanti giovani, _domentre_ cedono alle lusinghe
degli _illecebrosi canti_, lasciata la via della virtù, _nell’abisso
di perpetua morte strabocchevolmente precipitarsi._ Per ciò ha _con
opportuni e convenevoli antidoti espurgati da ogni veleno antico i
leggiadri sonetti del Tosco poeta_, sì che _niente più_ potranno loro
essere nojosi. Dubita veramente che le rime del _Tosco poeta_ non
abbiano, passando per le sue mani, perduto alquanto di lor politezza
e leggiadria; ma si consola vedendole così monde e spogliate di ogni
vanità. Tutto ciò si dice in un discorsetto che, insieme con altri
nove, si trova a mezzo del volume. Ma la cosa certo più bella di esso
volume è un dialogo fra il Petrarca stesso e l’autore, dialogo che
fa officio di prologo, e in cui con ingegnosa invenzione si finge che
il poeta chieda al frate di fargli quel servizio di spiritualizzarlo.
Così si chiudeva la bocca a chi credesse d’averci a ridire. L’autore
è andato, come tanti altri, in pellegrinaggio ad Arquà, e ha già
ammirato il sepolcro e la casa del poeta. Essendo ormai l’ora calda,
egli si è ritratto in un boschetto, e quivi, pieno _dentro e di fuori
d’ineffabile giocondità_, si riposa e si ricrea. All’improvviso gli
appare una figura _più che umana_, la quale il saluta con un: _Dio ti
salvi, o Malipiero_. È il Petrarca, o per dir meglio l’anima sua, che
dice al frate, come sia relegata in quel boschetto per divino giudizio,
sino a tanto che sia _ritrattata l’opera degli amorosi_ suoi sonetti
e canzoni. Stupore del frate a cui il poeta spiega come le sue rime
abbiano in sè molte male parti, e a cui chiede da ultimo di voler
procacciare egli stesso quella ritrattazione con purgar le profane
rime da ogni _ozioso parlare_ e trasformare lui di poeta in teologo. Il
frate si sgomenta, che non gli sembra _impresa da pigliare a gabbo_; ma
il buon Petrarca che non vede l’ora di uscirsene di colà per volare in
paradiso, lo conforta, lo inanima, e per farlo al tutto risolvere gli
promette che il suo stesso angelo custode gli suggerirà tutti i nuovi
e buoni concetti che egli, il poeta, già da tempo è venuto preparando
in quella solitudine per ridursi _spirituale._ Vinto da tante ragioni,
il frate accetta il delicato officio, non senza tuttavia esprimere
il dubbio che il Petrarca teologo non sia per avere tanti ammiratori
quanti il Petrarca poeta, nè senza lamentare la molta tristizia dei
tempi: il poeta ringrazia, e i due, datasi la posta in paradiso si
separano.

Io non istarò ora a dar minuto ragguaglio del libro, che sarebbe abusar
troppo della pazienza dei lettori. Dirò solo che il travestimento è
tale da far tenere per certissimo che il poeta fu senz’altro prosciolto
da quella sua pena. Basti dire, per attenerci a pochi esempii,
che Cupido si trasforma in Padre Eterno e in Gesù, Stefano Colonna
similmente in Gesù, Laura in Maria, in Dio Padre, in Gesù, in morte, in
anima, nella carne che dà noja al poeta e non so in che altro.

Il nuovo _Canzoniere_ è diviso in due parti: nella prima sono i
sonetti, nella seconda le canzoni e le altre rime, che l’autore
schiettamente confessa avergli data assai più fatica che non i sonetti.
Lo spiritualizzamento essendo stato operato con i proprii concetti del
Petrarca, e mercè l’ajuto dell’angelo suo custode, non poteva riuscire
se non di piena soddisfazione del Petrarca stesso, il quale, in fatto,
in un apposito sonetto _a gli animi gentili_, dice che le sue rime
così purgate torneranno assai più di prima accette a chi è in grado
di pigliare _il ver diletto e non più l’ombra_; e in altro sonetto,
dove la discorre con un critico, dice anche più. Questo merita d’esser
riportato per intero:

    CRITICO.  Petrarca, ond’è che vai sì altero e molto
                Allegro in faccia più che per addietro?
    PETRARCA. Non sai che il core uman, sia chiaro o tetro.
                Sua qualità fuor pinge a l’uom nel volto?
    CRITICO.  Conosco ciò; ma dimmi, ond’hai raccolto
                Spirto di sì gioconde rime e metro?
    PETRARCA. Mercè del dotto e saggio Malipetro,
                Che d’amor vano e grave error m’ha sciolto.
    CRITICO.  Dunque la tua soave e dolce lira
                Più Laura non risona?
    PETRARCA.                        Non già certo.
    CRITICO.  Che poi?
    PETRARCA.         Il sommo ben che mi dà vita.
    CRITICO.  Felice tu, che impresa sì delira
                Lasciasti, ed hai a Cristo il canto offerto,
                Onde fia eterna tua Musa gradita.

E in un ultimo sonetto non so qual Francesco Prierio loda il frate
d’aver purgato il _Canzoniere_ meglio che non purgasse _d’ogni ria
feccia_ il Pantheon papa Bonifacio, quando, toltolo al culto degli
idoli, lo consacrò a Maria. Finalmente, nel tergo dell’ultima carta, fa
capolino ancora una volta il frate dabbene, e dice che, mercè la divina
grazia, egli ha composto il suo _Petrarca spirituale a comune utilità
de’ Mortali_, si sottomette in tutto _alla determinazione della santa
madre Chiesa_, e raccomanda a chi legge la emendazion degli errori
_commessi nel veloce corso degli impressori._

La Chiesa che ormai cominciava a fare il viso burbero, e che, dopo la
lunga carnascialata degli anni precedenti, sentiva il bisogno di un
po’ di quaresima, gradì e favorì l’opera del ben intenzionato frate. La
poesia del Petrarca cominciava a putire alla madre spirituale in via di
ravvedimento, e gl’imitatori non godettero più la grazia di prima. Nel
1547, morto appena il Bembo, si cercò d’impedire in ogni modo che si
facesse in Roma una ristampa del suo Canzoniere, e anzi si tentò di far
condannare il libro, tentativo ripetuto poi nel 1585. Un’anima pietosa
lo tolse sotto la sua protezione e lo spiritualizzò[118]. Ma anche gli
spiritualizzamenti non erano senza pericolo: il _Dialogo_ già ricordato
di Feliciano Umbruno fu proibito dal Concilio di Trento.

Intanto venivano a poco a poco mutando anche i gusti letterarii. Il
secentismo batteva alle porte con nuovi ideali, con una poetica che
escludeva in modo assoluto l’imitazione, e che ben può compendiarsi in
quei due versi del Marini:

    È del poeta il fin la meraviglia;
    Chi non sa far stupir vada alla striglia.

Durante tutto quasi il Seicento, il Petrarca è dimenticato; poi, con
l’Arcadia, si rinnovella il suo culto. L’Italia è invasa da un nuovo
popolo di petrarchisti, allagata da un nuovo mare di sonetti, di
canzoni, di madrigali e di sestine; ma i nuovi imitatori, conciati
come tutti sanno dalla frusta del Baretti, derisi dal Goldoni nel
_Poeta fanatico_, non son da più degli antichi, anzi da meno assai,
e, alludendo così agli uni come agli altri, ben diceva quella virile e
sdegnosa anima dell’Alfieri:

    So che in numero spessi e in stil non rari
      Piovon tuttor dalle italiane penne
      Lunghi e freddi sospir d’amor volgari,
      Per cui da Laura in poi niun fama ottenne.

Cattivi versi, ma ottima sentenza.



UN PROCESSO A PIETRO ARETINO


Sono ormai tre secoli e mezzo che sul dosso di Pietro Aretino si suona
a doppio e a distesa. Critici, storici, politici, moralisti, uomini
di largo e di angusto pensare, progressisti e retrogradi, gli si
avventarono contro con la medesima furia, e con lo stesso deliberato
proposito di non dargli quartiere. Non c’è accusa, invettiva,
contumelia che non gli sia stata gettata in capo; non colpa e bruttura
che non gli sia stata apposta. Il suo nome è nome d’infamia, simbolo
di turpitudine e di scelleratezza: Francesco De Sanctis, che pur
ebbe tanto intelletto di umanità, disse che un uomo ben educato non
pronunzierebbe quel nome innanzi a una donna[119].

I più degli storici della nostra letteratura, anche recentissimi,
ne parlano con palese o mal celato ribrezzo, quasi scusandosene col
lettore, e perchè qualche cosa bisogna pur dirne; ma ripetute quelle
quattro notizie più divulgate, confermati alla lesta i giudizii già le
molte volte pronunziati, passan oltre di corsa, spolverandosi i panni e
sputando, come se avessero dato di petto in un ammorbato. E in verità
che un gran dubbio entra nell’animo non la critica sia cosa di là da
venire, o piuttosto sogno di alcuni spiriti travagliati, quando si ode
il buono e liberale Settembrini, dopo aver chiamato l’Aretino _sozzo e
sfacciato impostore_, e con forma più spiccia _un furfante_, esclamare:
_Per me io non credo ciò che l’Aretino scrisse di sè, nè ciò che altri
scrisse di lui,... nè voglio indagare quello che potrebb’essere vero e
quello che potrebb’essere falso_[120]. Ma che giustizia è mai questa,
che nega di fare per l’Aretino ciò che suol farsi per ogni più tristo
e più vile ribaldo, scernere di tra le molte imputazioni ed accuse le
vere dalle false? E voi come fate a narrare la sua vita, se non credete
nè a ciò che egli scrisse di sè, nè a ciò che altri scrisse di lui?

Ultimamente il Virgili, in un libro per molti rispetti pregevole,
volendo ad ogni modo levar sugli altari Francesco Berni[121], cercò
di accrescere infamia quanta più potè all’Aretino, e ci si adoperò
in guisa da far venire a lui stesso il sospetto che quella che a lui
pareva storia ad altri potesse parere romanzo. Ma l’eccesso provoca
naturalmente l’eccesso, e perciò non è da meravigliare se, or son pochi
anni, il signor Giorgio Sinigaglia venne fuori con un volume[122] per
molte ragioni men che mediocre, ma pure non mancante di qualche pregio,
almeno d’intenzione, dove Pietro Aretino è dipinto, non solamente come
un grande uomo, ma come un galantuomo ancora.

Il lettore si avvede che non è mio proposito passare in rassegna
e discutere le opinioni svariate e i giudizii non sempre concordi
degli infiniti che ebbero a scrivere di Pietro Aretino. A far ciò non
basterebbe un volume. Io prendo le mosse dal giudizio più comune e
più ripetuto; dal giudizio che ha fermato i caratteri dell’uomo nel
concetto della gente colta; dal giudizio tradizionale e consuetudinario
che ha fatto dell’Aretino il maestro e l’apostolo di tutte le
corruzioni e un pessimo scellerato, negandogli in pari tempo ogni
merito di scrittore; e cerco se non si possa riuscire a un giudizio
meno assoluto, cioè più equo. Perchè, in verità, mi pare che nel
processo fatto al gran reprobo non si sia tenuto conto di molte cose,
e non sempre si sieno osservate le debite norme, e che la condanna si
risenta troppo della mala procedura. Io non faccio qui l’avvocato,
e non intendo punto mostrare, a furia di cavillosi argomenti, che
l’Aretino è il contrario di ciò che comunemente si crede. Io faccio lo
storico e il critico, ed è tutt’altro il mio scopo. Riconosco fondate
in molta parte le accuse a lui mosse; e non voglio menomamente celare o
travisare le sue molte poltronerie. Sì certo; egli è avido, insolente,
servile, bugiardo, scostumato e svergognato; ma ha pure alcune qualità
buone da opporre a queste pessime; e poi il mancamento, considerato
in sè stesso, non dà la misura esatta della colpa. Noi abbiamo ora
un concetto della imputabilità assai diverso da quello che si ebbe
in passato, e non ci sembra di poter recare di un fatto e di un uomo
giusto giudizio, se non consideriamo infinite cose che sono intorno a
quel fatto e a quell’uomo, più o meno strettamente congiunte con essi;
e abbiamo ormai della legge universale di causalità un concetto così
prepotente che subito dal particolare vogliamo assorgere al generale.

Ciò premesso, non credo inutile nè inopportuno rivedere un poco il
processo di Pietro Aretino, e cercare se meriti conferma, o se voglia
essere in tutto o in parte riformato il comune giudizio che uno storico
tedesco chiuse e condensò in una frase unica, chiamando il gran reo il
Cesare Borgia della letteratura.

A tal fine bisogna che noi vediamo:

1º che c’è di vero in certi racconti che in un modo o in un altro
arrecano infamia all’Aretino;

2º qual è l’indole morale di lui, quali sono i caratteri e le ragioni
della sua tristizia;

3º qual è il carattere e il valore di lui come scrittore.


I.

Che intorno a Pietro Aretino s’è formata una specie di leggenda,
si vede subito, appena si confrontan fra loro i racconti varii
della sua vita e si notano le contraddizioni. E tutto favoriva,
a dir vero, la formazione di sì fatta leggenda: la fortuna grande
e quasi inesplicabile dell’uomo; il mal animo di chi procacciava
sfogo all’invidia denigrando e mentendo; il sacro orrore delle anime
timorate, che ingigantiva, come sempre suol fare, la perversità di lui,
e inconsciamente le conferiva quant’era mestieri perchè riuscisse piena
ed intera. Non si dimentichi che gli uomini, in ogni tempo, ebbero
bisogno, come di tipi di santità, così di tipi di scelleraggine.

L’Aretino stesso in parecchie sue lettere si lagna dei molti invidiosi
che dicevano di lui cose non vere, e gli attribuivano scritti a cui
non aveva tampoco pensato, e discorsi che non aveva neppure sognati; si
lagna più particolarmente di certi _cortigianuzzi_ che si dilettavano
di _soffiare nel fuoco_[123]. Alcuni di costoro erano forse in buona
fede; argomentavano da ciò ch’egli avrebbe potuto fare il fatto.
Così fu che gli si attribuì il troppo famoso opuscolo _De tribus
impostoribus_, attribuito a tant’altri, e così è che il Virgili vuole
ad ogni modo ch’egli abbia avuto parte nella composizione di certi
sciagurati libercoli di Lorenzo Veniero, sebbene questi ne rivendichi
a sè tutto il merito, e sebbene di quella partecipazione non siavi una
prova al mondo[124]. Appunto qui noi vediamo la leggenda porre in opera
uno dei suoi procedimenti speciali, che consiste in torre agli oscuri
per dare agli illustri, a chi viene sempre più campeggiando e prendendo
figura nella finzione. Gli è in virtù di tal procedimento che si sono
formati gli eroi leggendarii; e come a Carlo Magno fu dato vanto di
imprese che altri compierono prima o dopo di lui, così a Pietro Aretino
fu dato carico di libri che altri scrisse, non egli.

La leggenda aretinesca, come ogni altra leggenda, prende le mosse
dalla nascita dell’eroe, e lo seguita poi, un po’ interrottamente, a
dir vero, sino alla morte. Essa si prefigge, innanzi tutto, di dargli
vili, o anche sconci ed illegittimi natali, affinchè l’infamia sua
cominci col nascere, e appaja, in certo modo, originale e necessaria.
Anton Francesco Doni, nel _Terremoto_, per meglio giustificare la
identificazione ch’ei fa dell’Aretino con l’Anticristo, lo dice figlio
di un terziario e di una pinzochera; ma anche _vilissimo figliuolo d’un
ciabattino._ Niccolò Franco, in quegli obbrobriosi sonetti che gli
compose contro, ora chiama il padre di lui contadino, ora calzolajo.
L’autore di quella sconcia _Vita_ che andò già sotto nome del Berni, e
non si sa propriamente di chi sia, parla di un padre villano e di una
madre schiavona e baldracca. E sulla fede di un così fatto narratore
infiniti ripeterono che Pietro Aretino nacque di una Taide di bassa
lega. Quanto al padre ci fu chi mise fuori un’altra favola, meno
ingiuriosa se vuolsi, ma non meno falsa. Il buon Mazzuchelli[125] si
affatica a dimostrare che l’Aretino fu figliuolo naturale di Luigi
Bacci, cavaliere d’Arezzo; e prima di lui aveva affermato il medesimo
quel dabben uomo, per non dirgli altro, del Crescimbeni, che a sua
volta aveva trovata la bella notizia nelle _Glorie letterarie di
Valdichiana, opera inedita di Jacopo Maria Cenni, rimasa in Napoli,
ove l’autore morì_[126]. E subito questo padre fu accettato per buono
e per autentico da quegli stessi infiniti che dalle mani dell’anonimo
libellista avevano accettata la madre. Ora è da notare che il signor
Jacopo Maria Cenni morì circa un secolo e mezzo dopo l’Aretino, e
che l’anonimo libellista, il Doni, il Franco, i quali tutti conobbero
l’Aretino di persona, del cavaliere Luigi Bacci non dicono verbo, e
non ne dice verbo nemmeno un Medoro Nucci, che fu tra i nemici più
pericolosi dell’Aretino, e che per essere appunto di Arezzo era in
grado di saper certe cose, e non si sarebbe fatto riguardo di dirle.
Anche costui fa l’Aretino figliuolo di un calzolajo.

Alessandro Luzio, in un buon lavoro pubblicato non ha molto[127],
sbugiardò tutta questa leggenda dei natali dell’Aretino, e sceverò
la verità dalle calunnie e dalle favole. Il padre dell’Aretino fu un
povero calzolajo per nome Luca; la madre una buona e bella popolana
chiamata Tita. Costei, non solo non fu quella svergognata che si
volle far credere; ma fu anzi una donna di ottima indole e di onesti
costumi, teneramente amata dal figlio, e da lui sempre ricordata con
ammirazione ed orgoglio. S’ella fosse stata una prostituta, l’Aretino
si sarebbe ben guardato dal parlarne altrui, e non avrebbe chiesto con
tanta insistenza, quanta certe lettere dimostrano, copia del ritratto
di lei al Vasari; nè il Vasari stesso avrebbe ardito di prenderla a
modello per l’immagine della Vergine Annunziata da lui dipinta sopra
la porta della chiesa di San Pietro in Arezzo; nè i cittadini d’Arezzo
avrebbero certo comportato un tal vituperio. Quanto al padre, l’Aretino
lascia scorgere, è vero, di vergognarsene; ma questo suo vergognarsene
prova appunto che gli era figliuolo, e toglie ogni probabilità a quella
storiella di Luigi Bacci. Se l’Aretino avesse saputo d’esser figlio
di costui, o se avesse saputo che tale era reputato da alcuni, non
avrebbe mancato di diffondere e di confermare quella opinione, da cui
poteva venirgli più onore che biasimo. Giacchè egli, che pure amando
svisceratamente le sue figliuole, non si curò mai di legittimarle,
adducendo a scusa che le aveva in modo legittimate con l’animo da non
richiedersi altra cerimonia, viveva in un secolo poco soggetto agli
scrupoli. E come avrebbe egli potuto vergognarsi di essere bastardo,
vedendo tutto giorno principi e papi con le masnade dei bastardi
intorno, e bastardi salire ai supremi onori e sedere in trono? Certo
egli si sarebbe trovato in assai numerosa compagnia, e avrebbe potuto
con miglior animo e più sicurezza esprimere quel giudizio a lui caro,
che difficilmente e di rado opera cose degne nel mondo chi è di origine
abietta.

Ma se nulla di vero c’è nella leggenda dei genitori dell’Aretino,
vediamo se alcun che di vero ci sia, o almen di probabile, in quanto
si narrò di altre persone della sua famiglia. Pietro non fu il solo
figlio di Luca e di Tita; egli ebbe alcune sorelle, almeno due; di
fratelli non è ricordo. Ora, verso queste sorelle, la leggenda non
fu nè più riguardosa, nè più giusta di quello fosse verso la madre.
Francesco Berni, in un sonetto notissimo, e che più altre volte dovrò
ricordare, fa menzione di due sorelle che l’Aretino aveva, secondo
lui, _a grand’onore_, nel lupanare della sua città natale. Il Franco,
in varii de’ suoi sonetti, parla, quando di una sorella, quando di
due, esercitanti il vituperoso mestiere. Che poi molt’altri abbiano
ripetuto quelle accuse senza punto curarsi di accertarne la verità, è
quasi soverchio avvertire. E sì che non è poi tanto difficile avvedersi
della loro falsità. Un primo dubbio già avrebbe dovuto far nascere il
fatto della nobiltà e del gonfalonierato conferiti a Pietro da’ suoi
concittadini. Per quanto que’ d’Arezzo potessero essere di manica
larga, è difficile pensare che volessero, coprendo sè di ridicolo
e di vergogna, fare quella dimostrazione ad un uomo le cui sorelle
erano state in Arezzo stessa, e forse erano tuttavia, inquiline di
postribolo. Ma il vero si è che le due sorelle dell’Aretino, delle
quali è memoria, furono entrambe maritate, l’una con un messer
Scipione, l’altra con Orazio Vanotti, soldato, e lasciarono, morendo
entrambe innanzi all’Aretino, quella due figliuole, questa due maschi
gemelli. Della prima l’Aretino ricorda come ardentemente desiderasse di
collocare una delle figliuole nel nobile monastero di Santa Caterina
in Arezzo, e com’egli si adoperasse per farcela entrare. L’altra morì
assai giovane, di puerperio, nel 1542, ed è quella stessa che, essendo
ancora zitella, nel 1536 fu inchinata dal duca Alessandro de’ Medici,
di passaggio per Arezzo, come gloriando ricorda pur l’Aretino in una
lettera di quell’anno medesimo scritta a esso duca[128]. Certo, non
mancano nemmeno in quel secolo esempii di prostitute che attendono al
mestiere pur essendo maritate; ma questi esempii occorrono di solito
fra le cortigiane propriamente dette, che vivono libere, non fra
le meretrici di bassa mano raccolte nei lupanari. Ora, nel 1536, la
seconda sorella di Pietro era ancora in casa, come si ha dalla lettera
suddetta, e certamente non faceva la prostituta. Come credere, in
fatti, che Alessandro de’ Medici, per poco schizzinoso che fosse in
materia di onestà e di decoro, volesse ossequiare pubblicamente una
sgualdrina? E come credere, d’altra parte, che le nobili religiose di
Santa Caterina volessero accogliere nel loro monastero la figliuola
di una donna, non solo di bassa condizione, ma infame? Tutte le prove
dunque del meretricio di quelle due sorelle consistono in alcuni versi
del Berni e del Franco, entrambi nemici acerrimi dell’Aretino, e l’un
di essi, il secondo, a causa della velenosa sua lingua, impiccato per
la gola. Confessiamo che in qualsivoglia giudizio le affermazioni di
testi così sospetti non sarebbero accolte se non con grande riserbo,
e che diedero saggio di molta leggerezza, per non dir peggio, coloro
che senza più le gabellarono per veridiche e per sicure. Aggiungiamo
che essi mostrano di conoscere assai poco e assai male l’Aretino, se
credono che un uomo come lui, così abile a trar vantaggio di tutto,
a riunire e coordinare tutti gli elementi del successo, potesse
commettere il grossolano, l’incredibile sproposito, di lasciare le
sorelle sue in una condizione da cui a lui stesso non poteva ridondare
che discredito e infamia. Questo sproposito l’Aretino non lo commise.
Noi lo vediamo adoperarsi con ogni impegno, ricorrere a tutte l’arti
ond’era maestro, per mettere insieme un po’ di dote alla sua sorella
più giovane: qualora egli non avesse ciò fatto per semplice ragione
d’amor fraterno, certo l’avrebbe fatto per accorgimento d’uomo che ha
una condizione e una riputazione da conservare.

Che cosa rimane dunque di tutta questa leggenda obbrobriosa che nemici
arrabbiati e libellisti senza nome fabbricarono intorno alla nascita e
alla famiglia di Pietro Aretino? Nulla di nulla, o solo una prova della
malignità o dell’errore loro. Vediamo se si possa prestar più fede ad
altri racconti che tutti, quali in un modo, quali in un altro, tendono
sempre a quel medesimo fine di screditare, di svergognare l’Aretino.
Io non affermo già che alcune delle cose che vi si narrano non possano
anche esser vere; ma dico che in generale quei racconti sono, o per una
o per un’altra ragione, tali da destare grave sospetto, e da non poter
essere ricevuti per veri finchè non sieno suffragati da più sicure
prove. Un tribunale non li accoglierebbe che a titolo di semplice
informazione.

Si dice che l’Aretino, quasi fanciullo ancora, dovette fuggirsene
dalla patria per certo sonetto da lui composto contro le indulgenze.
Ciò dovrebbe provare come, sino dai più teneri anni, fosse stata in
lui quell’indole maligna e insolente di cui s’ebbero poscia a vedere
gli effetti. Ma chi è che lo dice? Gerolamo Muzio, suo nemico mortale.
E quando lo dice? Quando importa far credere al mondo che l’Aretino,
oltre ad essere una sentina di vizii, è anche un miscredente o un
eretico. La stessa intenzione appare in un’altra storiella, ove è
detto, che avendo l’Aretino, in Perugia, veduta nella pubblica piazza
una pittura che rappresentava Maria Maddalena a’ piè di Cristo, con
le braccia aperte, andatovi di nascosto, dipinse tra quelle braccia un
liuto. Ma tale storiella non ha più antico narratore di Carlo Caporali,
che visse un secolo dopo l’Aretino, e non dice d’onde l’abbia tratta.
Entrambi i racconti sono poi in contraddizione diretta coi modi che
l’Aretino serbò tutto il tempo di vita sua in materia di religione.

Uno dei fatti più spesso ricordati e più universalmente tenuti per
veri, è che l’Aretino fosse alcun tempo legatore di libri in Perugia, e
ogni suo sapere acquistasse in quell’esercizio, con occasione di vedere
e leggicchiare le carte che andava cucendo. Ma ciò si trova affermato
la prima volta in una nota al già citato sonetto del Berni, nella
stampa vicentina del 1609: e con quale scopo si trova affermato? Con
quello evidentemente di dare alla coltura dell’Aretino, qual ch’ella si
fosse, una origine in tutto umile e fortuita, e d’ispirarne altrui un
assai povero concetto.

Andiamo innanzi.

Nel libello anonimo già ricordato si narra che l’Aretino dovette
lasciare la casa di Agostino Chigi, il ricchissimo e munificentissimo
banchiere senese, per avervi rubato una tazza d’argento. Ora, nè
il Berni, nè il Franco, nè il Doni, nè altri sanno nulla di questa
tazza; chè se qualche cosa ne avessero saputo, non avrebbero mancato
di aggiungere ai molti titoli vituperosi che gli dànno anche quello
di ladro. Del resto, questo del rubare non era vizio che potesse
facilmente accordarsi con certe qualità, buone o cattive che fossero,
dell’Aretino, il quale fu egli sì molte volte rubato e da chi più
godeva della sua fiducia. Inoltre egli non lascia occasione di levare
a cielo il Chigi, ricordandone la umanità e la larghezza, il che non
avrebbe certamente fatto, anzi avrebbe in tutto taciuto di lui, se ne
fosse stato cacciato di casa per ladro.

E molt’altre cose si narrano in quella _Vita_: che, sendo d’anni
diciotto circa, si fe’ cerretano, e andossene in Lombardia, e cantò in
banca a Vicenza, avendo compagno in tal mestiere un certo Calcagno;
che poi s’acconciò per garzone con un oste in Bologna; che stanco di
fare il garzone, si rese frate in un convento di Ravenna; che toltosi
anche di là, si mise per mezzano, per pazzo e per buffone con Leone X,
ed ebbe compagni altri mezzani, altri pazzi e buffoni, e alcuna volta
si adoperò a voltar lo spiedo in cucina; che si acconciò, dopo, per
istaffiere con Giovanni de’ Medici, il gran capitano; che morto costui,
se ne tornò a Roma, e servì Clemente _di quello che prima aveva servito
Leone_; che dopo il famoso sacco, e dopo un certo scherzo che ebbe a
patire dagli Spagnuoli, se ne andò, truffato un Ferrarese, a Venezia,
ecc. ecc. L’anonimo autore dice aver udito narrar tali cose, parte a
Niccolò Franco, e parte al Marcolini, il famoso stampatore, compare
dell’Aretino; ma quanto al Franco mente di certo, perchè costui, se le
avesse sapute, non avrebbe mancato di metterne qualcuna in quei suoi
sonetti, che pur sono più centinaja. Aggiungasi che nè il Berni, nè il
Doni ne fanno ricordo.

Molte altre cose racconta l’autor della _Vita_, alcune delle quali
di tanta turpitudine che non si possono nemmeno accennare, e tali che
appena avrebbe potuto risaperle chi sempre fosse stato alle calcagna di
Pietro e avesse fatto vita con lui; altre di tal qualità che mostrano
l’indole bugiarda di tutto il racconto. Così egli dice che la madre di
lui, la notte innanzi al parto, sognò un otre di vino; che compiuti
appena i cinque anni, il fanciullo si mise a studiare la Maccaronea
di Merlin Coccajo, nel qual caso questi avrebbe dovuto egli stesso
comporla in età di cinque o sei anni; che essendogli stati posti
dinanzi Virgilio e il Petrarca da un canto e la _Regina Ancroja_ e gli
Amori di Luciano dall’altro, egli tolse questi e lasciò quelli; che
fatto altro simile esperimento con rame, argento ed oro, egli acchiappò
l’oro alla bella prima. Poi gli attribuisce certi strani componimenti,
e fra gli altri alcune pappolate e cantafere che lo stesso Aretino,
nella commedia _La Cortegiana_, fa gridare da un _furfante che vende
istorie_, e cioè; _la guerra del Turco in Ungheria, le prediche di
Fra Martino, il Concilio, la cosa d’Inghilterra, la pompa del Papa
e dell’Imperadore, la circumcisione del Vaivoda, il sacco di Roma,
l’assedio di Fiorenza, lo abboccamento di Marsilia_[129]; e poi ancora
l’istoria del becco all’oca, che si ha inserita nel _Mambriano_ del
Cieco da Ferrara, e la novella di Biancofiore, _rubata_ al Boccaccio.
Per mostrare del resto quanto l’autore si curasse di esser veridico,
basta avvertire ch’egli fa dire al Berni la vita dell’Aretino potersi
facilmente comprendere in quella commedia, e al Mauro, l’altro
interlocutore del dialogo, che l’Aretino _sarà stato_ tutto quello che
in detta commedia dice di sè stesso il Rosso ad Alvigia: frate, garzone
di oste, giudeo, alla gabella, mulattiere, compagno del bargello, in
galera, mugnajo, corriere, mezzano, cerretano, furfante, famiglio degli
scolari, servitor dei cortigiani, il diavol e peggio. La storia di
Lazarillo di Tormes!

Sarebbe fatica sprecata voler mostrare la poca consistenza e la minore
credibilità di tutto il racconto dell’anonimo diffamatore; ma non
sarà fuor di luogo far vedere con un pajo di esempii come egli alteri
i fatti e mentisca. Primo esempio: egli dice che l’Aretino servì
Clemente _di quello che prima avea servito Leone_, cioè di mezzano,
di buffone e di pazzo, lasciando intendere con ciò che assai vile era
la condizione sua in corte del pontefice. Ora, certe lettere scritte
dal duca di Mantova all’Aretino, e dall’agente di Mantova in Roma
a esso duca, lettere uscite dall’Archivio Gonzaga, e su cui non può
cader dubbio di alterazione[130], provano che l’Aretino in corte del
pontefice godeva di molta considerazione, e molto poteva sull’animo del
pontefice stesso. Secondo esempio, che serve anche contro il Doni. Dice
l’autor della _Vita_: «Scrisse al Duca di Ferrara il poeta chiedendo
denari: non volse Ercole che un furfante si vantasse che un Signore si
degnasse di lui: ebbe a male il poeta e scrisse del Duca. Ercole il
seppe e tenne uomini per ammazzarlo a Venezia. Non successe tal cosa
perchè egli stava serrato in casa, parte per questo, parte per debiti».
«Onde deriva che il Duca di Ferrara vive con tanta quiete? Perchè non
vi dona», dice messer Antonfrancesco nel _Terremoto_, e afferma inoltre
che il Duca lo fece sacchettare di santa ragione. Ma mente egli e mente
l’anonimo, e della menzogna d’entrambi ci sono le prove autentiche
e chiare. A più riprese il Duca fece all’Aretino regali; e troviamo
ricordo di una veste di raso nero assai pomposa, di un anello con un
diamante, di cinquanta scudi d’oro, di altri cento scudi d’oro, di una
coppa d’argento dorato, di due altre vesti assai ricche; nè gli donò
solamente, ma gli si fece ancora raccomandare dal proprio segretario
Bonleo, il quale scriveva al Divino di non porgere orecchio a chi gli
dicesse male del Duca[131].

Tralascio altre accuse, o di minor rilievo, o in tutto generiche, e
vengo a quanto fu narrato, creduto, ripetuto e ammesso universalmente
per certissima verità circa la morte dell’Aretino. Questa storia è
nota a tutti. Un giorno, l’Aretino, udendo narrare non so che fatti
di quelle sue sorelle meretrici, preso da un irrefrenabile impeto di
riso, e arrovesciatosi, per ridere più spappolatamente, sulla scranna
che lo reggeva, cadde allo indietro, e percosso il capo in terra,
rimase morto sul colpo. La fine parve degna dei principii e di tutta
intera la vita dell’uomo nefando, incontrò il gusto del pubblico,
ebbe conferma dai moralisti, fu rinarrata in novella e rappresentata
in pittura. Ma chi è il primo che parli di sì fatta morte? Un Antonio
Lorenzini, fiorito sul principio del secolo decimosettimo. Si vede
subito di quali elementi, in virtù di quali suggestioni la leggenda
siasi formata. Bisognava che l’ultimo atto dell’Aretino sulla scena del
mondo confermasse quella vita tutta di turpitudini, anzi, in certo modo
la epilogasse e concludesse come nell’ultima pagina si epiloga e si
conclude un libro. E certo non si poteva immaginare favola che meglio
mostrasse in breve la infamia della famiglia dell’Aretino, il cinismo
di lui, e la giustizia e congruenza della punizione. A taluno parve
che l’Aretino non si dovesse lasciar morire a quel modo, senza fargli
dire qualche cosa che provasse l’empietà di lui, come il fatto provava
la svergognatezza; e così alla favola principale si attaccò un po’ di
coda, e si disse che lo scelleratissimo uomo non morì subito subito, e
che ricevuta la estrema unzione, profferì un’ultima bestemmia, dicendo:

    Guardatemi da’ topi or che son unto.

La leggenda, dico, era formata ingegnosamente e tale da ottenere
universale credenza, tanto più che in essa c’era, come vedremo, una
parte di vero: ciò nondimeno non potè fare che altre leggende non
nascessero. Qualcuno ci fu che lo volle morto di apoplessia[132], forse
come morte conveniente a una vita di stravizii; ma altri pure ci fu che
non si contentò nè di una morte naturale, nè di una morte violenta, ma
fortuita. Non meritava l’Aretino di morire impiccato? ebbene, egli morì
impiccato. Così almeno racconta in un suo sermone latino Michele de
l’Hôpital, il famoso cancelliere di Francia[133]. Non dimentichiamo che
tal morte era stata, in certo modo, profetizzata dal Berni all’Aretino
e che le profezie fanno venire altrui la voglia di vederle avverate. Il
Berni ebbe anche a toccare di certo squartamento che sarebbe seguito
alla impiccagione; ma l’autor della favola, non s’intende perchè, non
volle profittarne. Doveva essere persona discreta.

Ora si sa come morì l’Aretino, e tutte le leggende si dileguano
dinanzi al documento irrefragabile che porge di quella morte autentico
e preciso ragguaglio. È questo un certificato di Pietro Paolo
Demetrio, parroco di S. Luca in Venezia, il quale attesta d’aver
sepolto cristianamente l’Aretino in quella chiesa, e dice che questi
morì di morte subitanea, cadendo da una sedia a bracciuoli, e che
il giovedì santo, _avanti che finisse gli ultimi suoi giorni_, si
confessò e comunicò, _piangendo lui estremamente_, come, dice il buon
prete, _vidi io stesso_[134]. Tale dichiarazione fu fatta dal parroco
venticinque anni dopo la morte di Pietro, nel 1581, e a richiesta di
un Domenico Nardi da Reggio, il quale probabilmente l’avrà domandata
per imporre con essa silenzio alle vituperose dicerie. Giova notare che
il certificato fu fatto con intervento di notajo e che non gli manca
nemmeno la convalidazione ducale. Ciò che in esso si dice della caduta
da una sedia, raccostato a quanto l’Aretino racconta in certo luogo di
sè stesso, dicendo che era suo costume di arrovesciarsi indietro ogni
qualvolta rideva di gusto, mostra come possa esser nata la leggenda
principale circa il modo della sua morte. La fantasia supplì le sorelle
meretrici, prendendole dal sonetto del Berni e da quelli del Franco.

La leggenda dell’Aretino, bugiarda per quanto spetta alla nascita,
bugiarda per quanto spetta alla morte, è senza alcun dubbio bugiarda
per molta altra parte. Questa leggenda, del resto, noi non la
conosciamo nemmeno intera. Essa ci apparirebbe di certo assai più
estesa, se, come giunsero sino a noi le accuse e le imputazioni del
Franco, del Doni, dell’anonimo biografo, così ancora ci fossero giunte
quelle di altri nemici e detrattori suoi, per esempio di quel Colvi,
che anch’egli andava spargendo vituperii dell’Aretino.

Io non dico già che l’Aretino non possa aver fatto, soprattutto in
certi anni più oscuri della sua vita, alcune di quelle cose onde fu
accusato, o alcune, almeno, simili a quelle; ma dico che non ci son
prove per credere ch’ei le abbia fatte veramente. E aggiungo che gli
accusatori suoi, taluno non abbastanza noto, altri troppo noti, altri
necessariamente poco o male informati, non meritan fede nè molta nè
poca. Chi voglia fare un processo all’Aretino non deve in tal caso
tener conto delle testimonianze altrui, ma solo delle confessioni sue
proprie, di ciò ch’egli stesso lascia vedere e indovinare di sè.


II.

Veniamo alla seconda parte del giudizio.

Certe accuse fatte all’Aretino sono calunniose e false; altre non è
dimostrato che sieno vere. Non è provato, e non è nemmeno probabile,
ch’egli abbia rubato, o truffato, o commesso altre di quelle
gagliofferie grosse per cui allora, assai più facilmente di ora, si
finiva in un fondo di prigione, o si dava a dirittura nel capestro.
Ma che per ciò? Egli rimane pur sempre un uomo scellerato e vile,
una natura profondamente corrotta, uno di quei mostri che disonorano
l’umanità senza però capitar mai sotto al rigor delle leggi. Egli
non sarà un delinquente, se si vuole, ma è certo un turpe ribaldo. Ed
ecco altre accuse ed altre invettive. Udite i testimoni che rosarii
recitano. L’Aretino è un furfante, un ignorante, un arrogante, un boja,
un prosuntuoso, un porco, un traditore, un mostro infame, un idolo del
vituperio, dice il Berni. L’Aretino è un goffo, un bajante, un ribaldo,
un ciurmatore, una puttana, un somaro da legnate, una sentina di vizii,
dice il Franco. L’Aretino è un poltrone, un bestione, un mariuolo, una
carogna, il vitupero degli uomini, la schiuma di tutti i furfanti, il
colosso dei goffi, il tagliaborse dei principi, la guida degli asini,
il Sardanapalo della gagliofferia, dice il Doni. Sta bene; ma questi
sono i testimoni dell’accusa: udiamo un poco anche i testimoni della
difesa. Ecco ben altro linguaggio: l’Aretino è divino, divinissimo,
non men divino che immortale, umanissimo, eccellentissimo, magnifico,
onorando, virtuosissimo, unico, figliuolo della verità, discepolo
e miracolo della natura, salute del mondo, gloria del cielo, dicono
principi, cardinali, letterati, donne colte e gentili, frati e soldati.
Se voi fate il conto, trovate che per un testimone che dice male, ce ne
son dieci che dicono bene.

E poi, questi testimoni che dicon male bisogna vederli un po’ più da
vicino. Chi sono essi? Prendiamo quei tre che ci sono già comparsi
dinanzi, e non ci curiamo d’altri. Il Berni, in complesso, è un
brav’uomo, sebbene abbia anch’egli in dosso qualche taccherella, di
cui, se si volesse parlare, bisognerebbe parlare a porte chiuse; ma
gli altri due sono due lanzichenecchi della penna, due stradiotti
della letteratura, niente più onesti dell’Aretino, ma molto meno
accorti di lui. Costoro gli erano stati un tempo in casa, e avevano
mangiato del suo pane, e s’erano rimpannucciati a sue spese, e finchè
durò l’amicizia lo levarono ai sette cieli; rotta poi l’amicizia, per
ragioni che qui non accade ricordare, ne fecero, secondo la usanza
non mai dismessa dei poltroni, il governo che s’è veduto. Il Berni
scaraventava contro l’Aretino quel suo sonetto per far le vendette
del datario Giberti, suo padrone, il quale non è poi dimostrato che
non avesse qualche torto con l’Aretino; ma gli altri due composero le
loro sconce invettive a solo sfogo di animo invelenito, chè non erano
nè l’uno nè l’altro uomini da levarsi a campioni disinteressati della
offesa moralità e della virtù conculcata. Costoro chiamavano l’Aretino
un furfante e avrebbero data l’anima per potersi trovar ne’ suoi panni.

Altri infiniti ebbero, come abbiam veduto, dell’Aretino, tutt’altra
opinione. Che vuol dir ciò? Vuol dire che alla generalità degli uomini
del suo tempo l’Aretino non parve quel tristo di tre cotte che pare
a noi. Ora, una massima mi pare da doversi stabilire anzi tutto: che
nessuno, cioè, debba essere giudicato più malvagio di quello ch’ei
fu tenuto dall’età sua, quando, ben s’intende, l’età sua abbia avuta
di lui giusta ed intera cognizione. Gli è quanto dire che non si vuol
giudicare nessuno coi criterii di una moralità o poco o molto diversa
da quella comunemente accettata nella società cui egli appartenne, e
d’onde solamente potè derivare la norma del suo operare; o se pur si
vuole giudicare con quei criterii, non si deve giudicare lui solo, ma
con lui la intera società di cui fu membro. Il valore esatto di un uomo
non si ha se non quando un tal uomo, si consideri nell’ambiente suo,
in mezzo alla vita varia e complessa di cui egli è, al tempo stesso,
organo e produzione; giacchè ogni valore è necessariamente relativo.
Che direste voi di chi volendo giudicare, poniamo, la figura principale
di un quadro storico, togliesse appunto quella figura dal quadro, e
si facesse a considerarla separatamente dall’altre figure e dalle cose
tutte che il pittore, non senza le sue buone ragioni, gli pose intorno?
Direste ch’egli opera malamente, e che il giudizio suo non può non
riuscire parziale ed erroneo, giacchè la figura principale forma un
tutto con quelle altre figure e con quelle cose ancora, e non la può
intendere chi la consideri disgiuntamente da esse, o chi la ponga in
altro quadro, in relazione con altre figure e con altre cose. Non meno
parziale, non meno erroneo deve riuscire il giudizio di chi toglie
l’Aretino dall’ambiente suo, e vuol giudicarlo secondo i principii
di una morale che non fu quella dei suoi tempi. Fate campeggiare la
figura dell’Aretino, sopra un fondo d’idealità cavalleresca, o di
puritanismo anglicano, e la vedrete staccarsene vigorosamente, e vi
parrà mostruosa: fatela campeggiare sul fondo del Cinquecento, ch’è il
suo, e la vedrete spiccar molto meno, e vi parrà meno brutta d’assai.
I contemporanei conobbero l’Aretino quanto noi, anzi, certo, meglio
di noi; pure non l’ebbero, generalmente parlando, in quell’orrore
in cui noi lo abbiamo. E perchè questo? Perchè i suoi vizii e le sue
ribalderie erano cose comuni di quel tempo, erano il portato di quella
vita, erano una pece di cui, o poco o molto, tutti si mostravano tinti.

Qui ci sarebbe da entrare in un lungo discorso circa la immoralità
del Cinquecento, quella immoralità così intimamente connessa, così
compenetrata colla cultura della Rinascenza, che, se l’una non fosse
stata, nemmeno l’altra sarebbe stata; ma un tale discorso, quando
non si volessero ripetere le cose più note e i giudizii più triti,
quando si volesse entrare un po’ nell’esame del come e del perchè,
del quando e del quanto, ci trascinerebbe così lontano che il povero
Aretino non parrebbe più che un punto perduto in infinito spazio, e
non sarebbe troppo agevole tornare a lui. Contentiamoci dunque di
riaffermare questa nota verità che il Cinquecento è profondamente
immorale, e aggiungiamo che la misura, o se si vuole, la portata della
sua immoralità, è data dallo sconfinato spazio che separa la vita reale
dall’ideale cristiano, che pur allora si mette innanzi come norma, e
come scopo di quella vita. Ogni società che, professando in astratto
una certa dottrina morale (sia poi ottima, o non sia, poco importa),
non solo rimane molto discosto dalla predicata perfezione, ma opera
ancora in piena contraddizione con quella dottrina, è una società
profondamente corrotta. E tale è la società del Cinquecento, la società
descritta dal Machiavelli e dal Guicciardini.

Facciamoci ora a considerare uno per uno i vizii capitali dell’Aretino,
quelli per cui gli si muovono più aspre censure, e vediamo se e come
s’attenuino, paragonati con le condizioni generali dei tempi, e tenuto
il debito conto delle cause che li producono, e talvolta ancora del
fine cui tendono.

Il Doni chiama l’Aretino il tagliaborse dei principi; ma si dimentica
di dire che i principi erano i tagliaborse dei popoli. Ad ogni modo,
una delle più gravi accuse fatte all’Aretino concerne le arti con le
quali egli carpì denari e regali a principi e non principi, e sguazzò
tutto il tempo di vita sua, o almeno la miglior parte della vita sua,
quella del soggiorno in Venezia. Queste arti, tutte riprovevoli, sono
l’adulazione, la diffamazione, la minaccia, lo scherno, la menzogna.

Ma, quando s’è detto ciò, rimangono molt’altre cose da dire. Bisogna
ricordare quale fosse la condizione dei letterati in quel secolo
XVI, preconizzato il secol d’oro delle lettere. Era, in verità, una
condizione assai triste. Ai giorni nostri, chi fa questo benedetto
mestiere di scriver libri, camperà forse magramente, ma vive del giusto
prezzo delle sue fatiche, ma vive libero, e per poco che s’innalzi
sopra il livello comune, almeno in certi paesi, facilmente arricchisce,
scrive come vuole e di ciò che vuole, impone i suoi patti all’editore,
i suoi gusti e le sue idee al pubblico. Ben altrimenti andava la
cosa nel Cinquecento. Nel Cinquecento il libro non aveva, come ha
oggidì, un valor commerciale definito, e la proprietà letteraria era
poco intesa e meno rispettata. Il letterato non viveva del _prezzo_
dell’opera sua, ma del _premio_ che altri potesse benignamente
largirgli, e tal premio riceveva misura assai meno dal proprio merito
di lui che dalla liberalità maggiore o minore, incerta e capricciosa
del largitore. Il letterato supponeva un mecenate e lo cercava;
viveva all’ombra sua e alle sue spese, si faceva mezzo servo e mezzo
parassita. Si vedono subito le conseguenze di un tale stato di cose.
Vivendo della malsicura munificenza del suo protettore, il letterato
doveva continuamente attendere a che la fonte delle largizioni non si
seccasse; doveva esercitar l’ingegno, e spesso logorarlo, in una lotta
sorda e umiliante, piena di pericoli e di sorprese, nella quale egli
si studiava di estorcere quanto più poteva, e il mecenate, di solito
un principe, cercava di dare il meno possibile; doveva fare del libro
uno strumento e un’arme di quella lotta, piegandolo a mille esigenze
estranee al suo pensiero e all’arte sua. Egli diventava necessariamente
cortigiano, adulatore e bugiardo; si chiamava poeta, storico, o
filosofo, ma era soprattutto un accattone travestito. E nessuno mai
potrà dire quanto danno abbia recato alle lettere nel Cinquecento la
parassita mendicità dei letterati.

Che poi quella vita fosse assai triste, assai dura, anzi al tutto
incomportabile agl’ingegni più nobili, si comprende facilmente: tutti
ricordano ciò che ne lasciò scritto l’Ariosto; Torquato Tasso, molto
ajutato dalla natura, gli è vero, ci smarrì la ragione.

Ora si avvicinavano i tempi di un grande mutamento, così in questa,
come in molte altre cose. Era nata l’arte che doveva redimere lettere
e letterati dall’uggioso patronato dei mecenati, e quest’arte era la
stampa. La stampa mutava il significato, l’importanza, i destini del
libro; essa assicurava, insieme con la base sociale, anche la base
economica della letteratura. Ma era questo un grande rivolgimento,
e un difficil lavoro, che non poteva compiersi in un giorno. Anche
qui bisognava procedere per gradi. Fra la letteratura, chiamiamola
così, di servizio, e la letteratura indipendente, ci doveva essere una
letteratura intermedia, partecipe dell’una e dell’altra condizione.
Fra il letterato che chiede la elemosina e il letterato che mette
in vendita il suo libro, ci doveva essere il letterato che impone
l’elemosina; e questo letterato fu Pietro Aretino.

Pietro Aretino non era uomo da acconciarsi alla condizione ordinaria
dei letterati del suo tempo; l’indole sua, i suoi gusti, non glielo
concedevano. Chiamandosi _uomo libero per la grazia di Dio_, egli dava
a conoscere una delle inclinazioni più forti, dirò uno degli istinti
di quella sua rigogliosa e mal disciplinata natura, tutta impastata di
appetiti voraci. Amò veramente sopra ogni altro bene la libertà, e per
amor di lei adorò Venezia, la più libera città d’Italia in quel tempo,
e la più ospitale a chiunque non pretendesse ingerirsi nella politica.
Non era nato per commisurar la sua vita ai piaceri, o peggio, agli
ordini di un padrone; non poteva soffrire d’avere sopra e d’intorno chi
gli desse soggezione o fastidio. In quel suo amore di libertà, come
in più altre cose sue, c’è molto dell’uomo moderno. Odiava le corti
di odio mortale, e mai non si lasciò sfuggire l’occasione di dirne il
maggior male che seppe. E che quest’odio non fosse ingiusto provano
le infinite voci che d’ogni parte si levano contro di esse. Gabriello
Simeoni chiama la corte

Sepoltura e prigion dell’uomo vivo;

e soggiunge:

    Proprio è la corte come una puttana,
      Che par bella di fuora, e poscia drento
      Parte non ha che si ritrovi sana[135].

Cominciando un suo capitolo intitolato appunto dalla corte, Cesare
Caporali dice che in essa

                                la vita
    È registrata al libro della morte[136].

Un altro perugino, Vinciolo Vincioli, prelato e protonotario
apostolico, piantata, sul finire del secolo, la Corte di Roma, scrive,
pieno l’animo di fastidio e di stizza:

    Parmi che in Corte il vivere e il morire
      La stessa cosa sia, ed è tutt’una
      Il diventar poeta e l’impazzire.
    . . . . . . . . . . . . . . . .
      Io rassomiglio gentiluomo in Corte
      A gentildonna che vive in bordello[137].

Alessandro Allegri, in un capitolo dove sfoga que’ medesimi sentimenti,
grida:

    Lo star in corte e l’esser ammalato,
      Mi pajon come dir frate’ carnali.
      Tanto s’agguaglia l’un all’altro stato.

Cento fra prosatori e poeti descrivono la corte come una sentina
di vizii, una cloaca d’obbrobrii, un ergastolo di miserie, dove,
dice il Garzoni, «i semplici sono beffati, i giusti perseguitati, i
presontuosi e gli sfacciati sono favoriti»; dove «van prosperando gli
adulatori, i mormoratori, le spie, i referendarii, gli accusatori, i
calunniatori, i gaglioffi, i malvagi, le male lingue, i truffatori,
gl’inventori de’ mali, i seminatori di zizania, e altra generazione
di ribaldi»; dove «gli stupri, i rapimenti, gli adulterii, le
fornicazioni, i puttanesimi, le ruffianerie, sono i giuochi e piaceri
de’ cortigiani»[138]. Al Sardo, diventato cortigiano, fa dire Lodovico
Domenichi in uno de’ suoi dialoghi: «E così Dio mi salvi, che ogni
volta che io mi ricordo della mia condizione, non mi par più d’essere
nè libero nè uomo, ma della più misera sorte di schiavi che sia al
mondo»[139]. Ed era in vero, se non sempre, nella più parte dei casi,
una misera condizione e un vile esercizio. Aspettare in anticamera le
mezze giornate che il signore si degnasse di far conoscere il voler
suo; accompagnare il signore di giorno e di notte, a piedi o a cavallo,
dovunque gli piacesse d’andare; correre a staffetta in missione ad ogni
minimo cenno di lui; ajutarlo in mille negozii e in mille intrugli;
non mangiare se quegli non aveva mangiato, non coricarsi se quegli
non s’era coricato; misurare e pesare ogni parola, non dir troppo,
nè troppo poco; camminare, starsi, sedere, ridere, gestire, sempre
con certa osservanza e certo proposito; schermirsi da mille offese
manifeste ed occulte; opporre insidie ad insidie e calunnie a calunnie;
non avere un’ora mai di sicurezza e di pace, e, in premio delle molte
fatiche sostenute per lui, toccar dal signore canate furiose, cadere
subitamente in disgrazia, e vedere dissipate in un giorno le speranze
di molti anni; questi erano, con qualche varietà nella misura e nel
modo, a seconda dei casi, questi erano gli offici, queste le venture
dei miseri cortigiani. Quanti ebbero a trovarsi da ultimo nella
condizione di quegli incauti ed improvvidi, de’ quali dice Vittoria
Colonna che

        ne le gran corti consumando
    Il più bel fior de’ lor giovenil anni,
    Mentre utile ed onor van ricercando,
    Sol ritrovano insidie, oltraggi e danni![140].

I più cauti, o i più alteri, o i men bisognosi, talvolta anche coloro
che già erano stati scottati, sapevano starne lontani, e qualcuno vi fu
che del suo starne lontano assegnò le ragioni. Invitato ad andarsene
in corte di Roma, Gerolamo Fenaruolo rispondeva in un suo capitolo a
Vettor Ragazzoni: Che ci farei io, e come potrei durar quella vita?

    Io parlo sempre come qui si parla,
      E dico pane al pane, e vino al vino,
      Senza molto pensier di profumarla.
    . . . . . . . . . . . . . . . .
    Quando ch’io sudo, voglio dir ch’io sudo,
      Quando ch’io tremo, voglio dir ch’io tremo,
      E vo’ dir cotto al cotto, e crudo al crudo[141].

Domandato perchè s’ostinasse a rimanere in Provenza e fuggisse le
corti, Luigi Alamanni rispondeva nella satira a Tommaso Sertini,
ricordando le infinite miserie dei cortigiani, confessando di non saper
l’arte che si richiede a salir l’altrui scale, affermando di preferire
la pace a quanti onori e agi si possono avere in corte[142].

Nè questi agi erano poi tali e tanti che potessero compensare e
consolare della miseria morale, della viltà di quella vita; anzi erano
assai scarsi ed incerti. Di regola, i signori, quanto più spendevano e
spandevano in pompe, in sollazzi, e nei mille sfoggi con cui cercavano
di accrescere a sè medesimi lustro e nominanza, tanto più parsimoniosi
e più stretti si mostravano in provvedere ai bisogni di chi li serviva;
e se non lesinavano essi, lesinavano per proprio conto e in proprio
beneficio i ministri. Certo, come non tutti i signori erano eguali,
così non erano eguali tutte le corti; ma se nelle grandi si stava il
più delle volte, anche per questo rispetto, assai male, figuriamoci
come si dovesse star nelle piccole. Giacchè non è in quel secolo così
smilzo signore, non così indebitato cardinale in Roma, che non voglia
avere, come allora si dice, la sua famiglia, e se non una corte intera,
una mezza corte.

    Ogni signor di trenta contadini,
      E d’una bicoccuzza usurpar vuole
      Le cerimonie dei culti divini,

diceva messer Pietro in un capitolo al re di Francia. I cardinali,
per acquistar credito e seguaci, abbisognavano di molti quattrini, e
per metterli insieme, lesinavano sul vitto e sull’altre spese. Onde
l’Ariosto:

    Perciò gli avanzi e le miserie estreme
      Fansi, di che la misera famiglia
      Vive affamata e grida indarno e freme.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Dalle otto oncie per bocca, a mezza libra
      Si vien di carne, e al pan di cui la veccia,
      Nata con lui, nè il loglio fuor si cribra.
    Come la carne e il pan, così la feccia
      Del vin si dà, c’ha seco una puntura
      Che più mortal non l’ha spiedo nè freccia[143].

Messer Pietro fa dire il resto a Flaminio nella sua _Cortegiana_[144],
e se pur qualcosa vi manca, Cesare Caporali, che in Roma appunto
ebbe a servir cardinali, la supplisce; mentre altri dà ragguaglio di
come si mangiava e si vestiva e si alloggiava nelle corti di assai
principi, che avevano più reputazione che denari, o più boria che
umanità. Ed ecco venir fuori le descrizioni e le dipinture dei non
mai abbastanza detestati e maledetti tinelli, dove, tra povere e lorde
pareti, intorno a rozzi deschi coperti di tovaglie ricamate d’untume,
sedeva promiscuamente una turba affamata, e l’uom di lettere aveva non
di rado commensali gli staffieri e i buffoni; dove, quando non fosse
già incerconito, si annacquava il vino, si misurava il pan raffermo,
la broda di turpi minestre faceva venire il rancico in gola, la vacca
tigliosa disarticolava le mandibole e strappava i denti, e le frittate
erano di così stremenzita complessione che il vento se le portava a
volo. Antonio Cammelli, che d’ogni cosa faceva sonetti, raccontava a un
amico gli orrori del tinello:

    Cenando, Fedel mio, jersera in corte.
      M’apparecchiar Serafino e Galasso
      Una tovaglia lavata col grasso
      Che mostrava la mensa per le porte.
    Poi le vivande che mi furon porte,
      Fu l’insalata mal condita, ahi lasso!
      Il pan peloso, più duro che sasso;
      Filava il vin, per la paura, forte.
    La madre di Buezio avvolta a un osso
      Mi dieder prima, che del brodo puro
      Aveva ancor la cimatura addosso.
    Diedi de’ denti su quel cuojo duro,
      (L’un era affaticato e l’altro scosso).
      Col culo al scanno e con li piedi al muro.

                Allor dissi: — Io non curo
    Di questa imbandigion mangiarne troppa.
    Ch’io non son uso a pettinare stoppa. —
                E poi volsi la groppa
    E dissi che chi in corte è destinato;
    Se non muor santo si muor disperato[145].

Ora, Pietro Aretino non voleva nè morir santo, nè morir disperato. Non
voleva essere uno di quei letterati morti d’inedia, di cui fa ricordo
Pierio Valeriano, e nemmeno uno di quei _cortigianetti spelatini_ di
cui parla in certa lettera a Gerolamo Agnelli[146]: voleva vivere a
modo suo, parlare a suo senno, mangiare a sua posta, scialarla il più
possibile, e a monsignor Guidiccione, che l’esortava ad andarsene a
Roma, scriveva: «Vorrei piuttosto essere confinato in prigione per
dieci anni, che stare in palazzo»[147]. Ricordava certo predicatore
che «per non si affaticare in disegnar la Corte, mostrò al popolo
l’inferno dipinto»[148]. E chi voglia meglio conoscere l’animo di lui
in proposito legga la sua _Cortegiana_ e il suo _Ragionamento delle
corti_.

Questo è l’inferno da cui l’Aretino volle redimere anzi tutto sè
stesso, e da cui pensò forse di redimere a dirittura le lettere col suo
esempio. Egli si vanta di aver trovato il segreto per rendere i signori
generosi e graziosi, e di avere _con le sue braccia_ aperta ai dotti
una strada, per la quale camminando, possono _farsi beffe degl’intrighi
e delle insidie signorili_. «Io ho scritto ciò che ho scritto», dice in
una lettera dei 3 d’aprile del 1537 a messer Giannantonio di Foligno,
«per grado della virtù la cui gloria era occupata dalle tenebre
dell’avarizia dei signori; ed innanzi ch’io cominciassi a lacerargli
il nome, i virtuosi mendicavano le oneste comodità della vita, e se
alcun pur si riparava dalle molestie della necessità, otteneva ciò
come buffone e non come persona di merito; onde la mia penna armata
dei suoi terrori ha fatto sì che essi riconoscendosi hanno raccolti
i belli intelletti con isforzata cortesia, la quale odiano più che i
disagi»[149].

Ma l’Aretino, non solo amava la libertà, amava anche molto, e forse
troppo, quelle _oneste comodità della vita_ di cui ragiona nella
lettera testè citata, e le quali poi non sempre erano oneste. Madre
natura, bisogna dirlo, l’aveva formato per la vita godereccia,
moltiplicando in lui gli appetiti, dandogli una salute di ferro, uno
stomaco di struzzo, una giocondità imperturbabile, un gusto accorto, un
certo senno alla casalinga, e conservandogli intere negli anni più che
maturi tutte le vigorie della giovinezza. Dobbiamo confessare che con
una complessione fisica e morale come la sua le difficoltà inseparabili
dall’esercizio della virtù si accrescono di molto.

E poi non era egli figliuolo del suo secolo? di quel secolo festaiuolo
e gaudente che, come un dissoluto, si logorò nei piaceri? di
quel secolo inventore di tutte le squisitezze e fastosità? Egli è
l’immagine del secol suo, egli ne raccoglie, ne condensa in sè tutte
le inclinazioni e tutti i bisogni: e se godere il più che si può era
stato sommo ideale di un pontefice come Leone X, qual meraviglia che
fosse di un Pietro Aretino? Nato povero e di vile condizione, egli
è tutto pieno degl’istinti della grandezza, e loda coloro, che, pur
non essendo principi, vivevano come Gerolamo Rovero, «magnificando
la pompa del vestire e la splendidezza del mangiare con nuovi modi
di nobiltà»[150], e dice che «l’uomo tanto si prolunga la vita
quanto adempisce i suoi desiderii»[151]. Perciò buona tavola, casa
signorile, belle donne, conversazione piacevole, ricchi panni, sontuose
suppellettili, quanto il lusso richiede, quanto san procacciare le
arti, erano cose necessarie al suo vivere. E odiava la povertà, non
solo per le privazioni che arreca seco, ma ancora per le angustie
che pone intorno all’animo, per quella necessità che ne porta seco di
misurare ogni atto e ogni pensiero, e di fare dell’aritmetica minuta la
legge e la direttrice della vita; necessità così incresciosa a chiunque
sia di spiriti un po’ rigogliosi, così grave a lui, che si faceva beffe
di coloro «che dan conto a sè stessi di sè»[152]. Noi potremo biasimare
l’Aretino per questo suo modo d’essere, ma dovremo riconoscere in lui
l’uomo del Rinascimento.

Rifiutando di vivere in corte, l’Aretino non poteva vivere senza le
corti, cioè senza i principi; e muovere i principi a dare non era la
più facile cosa del mondo. Io sono ben lungi dal voler giustificare
le arti adoperate dall’Aretino per conseguire i suoi fini; ma dico, e
parmi sia da tenerne conto, che tali arti parevano allora assai meno
riprovevoli di quello pajano ora. L’adulazione era allora in tutte
le bocche, tanto più gradita quanto più smaccata, e andava non solo
da inferiore a superiore, ma ancora da eguale ad eguale. I più onesti
nemmen essi sapevano, o potevano tenersene immuni, e basti ricordare,
lasciando ogni altro esempio, le lodi che da un Baldassar Castiglione
e da un Lodovico Ariosto ebbe il pessimo cardinale Ippolito d’Este. La
ciarlataneria dell’Aretino fu grande certo; ma se c’è un secolo, che a
rispetto d’altri, meriti d’essere chiamato il secolo dei ciarlatani,
il Cinquecento è quello. Un sentimento esagerato del proprio valore,
altro portato, come si sa, di quello spirito della Rinascenza, n’è
senza dubbio la prima cagione; ma poi ci si aggiungono il bisogno e la
concorrenza che fanno il resto. Ed è concorrenza rabbiosa, giacchè i
letterati sono molti e non c’è pane per tutti. Chi non si tira innanzi,
chi non grida e non magnifica la sua merce, chi non promette più di
quanto possa attenere, corre rischio di morirsi di fame. Il Cinquecento
è pieno di queste strane figure d’uomini, che, o si vantano di dare
altrui la immortalità coi versi, od ostentano una scienza ignota e
trascendentale, o propongono certi loro incomprensibili trovati per
acquistare con somma facilità ogni dottrina, o vogliono a dirittura
riformare il mondo. Di tutto e in tutti i modi si batteva moneta. Luca
Gaurico, che l’Aretino chiama profeta dopo il fatto, si buscava, è
vero, per le sue predizioni astrologiche, cinque tratti di corda da
Giovanni Bentivoglio; ma, in compenso, da papa Paolo III il vescovado
di Civitate, con 300 ducati d’oro di rendita, più una buona pensione
e non so che altro. L’Aretino si trovava in buona compagnia, e non mi
pare che fosse il primo della brigata, egli, che spesso confessò di non
sapere le cose che veramente non sapeva, ed erano più che parecchie.
Fausto da Longiano, per esempio, e Giulio Camillo Delminio e Ortensio
Lando, per non citarne altri, mi pajono assai più ciarlatani di lui.
Vero è che Pietro Aretino ebbe come un presentimento di quella più
perfetta ciarlataneria moderna, che, con nome fortunatamente non
nostro, si chiama _réclame_. Notabile a tale proposito una lettera da
lui scritta al saltimbanco Modenese, dove lo prega di volere, con la
naturale eloquenza largitagli dalla natura, «scampanare del suo nome
ben bene»[153].

Si fa un gran carico all’Aretino d’avere usato coi principi, quando
l’adulazione non giovava, la maldicenza, e di avere estorto pensioni
e regali a parecchi, minacciando i furori della sua lingua e della
sua penna. Che egli abbia adoperato così, non si può negare; che così
abbia ottenuto gran parte della sua reputazione, è certissimo; ma non
è il caso di troppo turbarsene, perchè, a dir vero, il giuoco andava
da galeotto a marinaro. I costumi e le usanze dei più di quei principi
si conoscono anche troppo, e il fare stentare chi li serviva, e il
non attenere mai le promesse, non erano certo i loro maggiori difetti.
In verità che l’Aretino fece bene a taglieggiarli, e che facesse bene
parve allora a moltissimi, e moltissimi il dissero, e fra gli altri il
Dolce, che acerbamente lagnandosi, in certo suo capitolo, dell’avarizia
dei principi, esclama:

    O Aretino, benedetto voi,
      Che vendete li principi al quattrino,
      E gli stimate men d’asini e buoi[154].

Da altra banda, dove noi non vediamo se non male, i contemporanei
dell’Aretino spesse volte non videro se non bene. Leggasi, di grazia,
questo passo del _Dialogo della rettorica_ di Sperone Speroni, dove con
altri interlocutori è introdotto il Brocardo, prima che s’inimicasse
l’Aretino[155]:

  BROCARDO. Sia al mondo un buono uomo pien d’eloquenza e d’ingegno;
  il quale uscito dalla sua patria solo e nudo, quasi un altro
  Biante, venga a starsi in Bologna: che farà egli dell’arte sua? Se
  egli accusa o difende; ecco un vile avvocato che vende al vulgo le
  sue parole: se delibera; non sendo parte della repubblica, i suoi
  consigli non sono uditi. Tacerà egli, e fia sua vita oziosa? non
  veramente: ma di continuo con la sua penna nella causa dimostrativa
  biasimando e lodando, la sua eloquenzia eserciterà. La qual cosa
  non per odio o per premio, ma per ver dire facendo, in poco tempo
  non solamente da’ pari suoi, ma da’ signori e da’ regi sarà temuto
  e stimato.

  SORANZO. Questo vostro eloquente (se non m’inganna la simiglianza)
  è il ritratto dell’Aretino.

  BROCARDO. Io non nomino alcuno; ma chiunque si è, ei non può esser
  se non grand’uomo.

Un predicatore, fratello del famoso Fausto da Longiano, giungeva
sino a dire «che a voler riformare la nazione umana, la natura e Dio
non potrebbe ritrovare mezzo migliore, quanto produrre molti Pietri
Aretini».

Del resto bisogna considerare la cosa un po’ più dall’alto, perchè, o
io m’inganno, o di ben altro si tratta che della particolare tristizia
di messer Pietro. I contemporanei non seppero intendere perchè i
principi si mostrassero così benevoli a un uomo che si gloriava di
chiamarsi loro flagello, e si facessero suoi tributarii: l’Aretino
stesso, probabilmente, non riuscì a darsi pieno conto del fatto; ma
noi possiamo intenderlo meglio di loro e di lui. Non vi accorgete che
una nuova cosa era nata nel mondo? Francesco I che lo sollecita ad
andarsene a stare con lui, Carlo V che se lo fa cavalcare a fianco,
Giulio III che lo bacia in viso, gli altri tutti che lo colmano di
onori e di doni, non s’inchinano propriamente all’Aretino, ma a quella
tal cosa, che ancora non ha nome, e che già fa sentir la sua forza. E
qual è questa cosa? Non altro che la libera parola, la quale fissata
e moltiplicata mediante la stampa, corre traverso il mondo, sparge
novelle e giudizii e crea la pubblicità, punge cuori e intelletti e
crea la pubblica opinione, si fa insegna, si fa dottrina, provoca le
fruttifere discussioni, inizia i rinnovamenti. I principi sentono
in confuso che è sorta di mezzo agli uomini una nuova potenza che
può travolgere i troni e spezzare gli scettri, e vengono a patti
con lei, e cercano di farsela amica. Nell’Aretino essi riconoscono
il suo rappresentante; tristo rappresentante, non nego, ma primo.
Valga un esempio. Nel 1536 Francesco I tratta di allearsi col Turco
per andare addosso a Carlo V. Che fa messer Pietro, allora molto
in grazia dell’imperatore? Scrive al re cristianissimo una lunga e
impetuosa lettera, in cui, senza tante cerimonie, gli nega il nome di
cristianissimo e di re, gli rinfaccia di chiamare in proprio ajuto
barbari ribelli a Dio, lo accusa di aver _tirato nel core della
Cristianità lo coltello ottomanico_, lo avverte che non ci sarà
principe cristiano il quale, o per zelo di religione, o per timore
dell’armi turchesche, _non s’armi almen col core_ contro di lui. Tal
lettera non andava al solo re Francesco, andava a tutti i principi,
era divulgata per tutto. E quale effetto doveva recare in un tempo in
cui era vivo negli animi il sospetto e minacciosa la vicinanza degli
infedeli? Questo, di creare una opinione favorevole all’imperatore,
ostile al re. Così appunto il re e l’imperatore la intesero; e questi,
senza dubbio, largheggiò più che mai col Divino; quegli gli fè donare e
promettere perchè non isparlasse di lui[156].

Ora, se è vero tutto ciò, se è vero quanto afferma Michelangelo
Buonarroti, e si vede in cento altri modi confermato, che «i Re e
gl’Imperatori avevano per somma grazia che la penna dell’Aretino li
nominasse»[157], perchè dovremo noi stimare cosa sì rea che l’Aretino
volesse dai principi essere sovvenuto nei suoi bisogni, com’egli li
sovveniva nei loro? Certo, in far ciò, egli poco si curava della
verità, manco della delicatezza e del decoro; ma, ripeto, aveva a
trattare con tali che spesso non valevano più di lui, e, ad ogni modo,
non faceva opera diversa da quella di un cattivo giornalista dei tempi
nostri che dica e disdica, biasimi e lodi a seconda del tornaconto,
senza però credersi meritevole di essere additato alle genti quale
mostro di scelleratezza. E fu detto, non senza ragione, che Pietro
Aretino è il primo dei giornalisti.

Ma non giornalista soltanto. In pro dei suoi clienti egli sapeva
adoperarsi con altro ancora che con la penna; nè sono tutti vantamenti
bugiardi i suoi quando parla di maneggi condotti a buon fine, di
vantaggi da lui procacciati. In alcune sue lettere il duca di Mantova
si loda dei buoni uffizii che l’Aretino gli rendeva in Roma con
Clemente VII, buoni uffizii confermati dall’ambasciatore Gonzaga; senza
l’ajuto dell’Aretino forse il duca Alessandro non diventava genero di
Carlo V.

Un’altra accusa capitale grava sull’Aretino, ed è quella di
scostumatezza. La vita sua è descritta come un tessuto di turpitudini;
egli stesso è considerato quale il principe e il padre della
letteratura disonesta. Anche quest’accusa vuol essere esaminata
alquanto.

Scartiamo, anzi tutto, certe imputazioni di vizii nefandi, e
scartiamole, non già perchè sia dimostrata la loro falsità, ma
perchè, venendo esse da quei biografi appassionati e mendaci, da quei
libellisti che abbiam veduto, la verità loro è più che sospetta. E
anzi a provarle false senz’altro mi pare che si potrebbe addurre una
ragione di cui non fa mestieri essere fisiologo, patologo o altro, per
apprezzare il valore: Pietro Aretino amava troppo le donne.

Ma poniamo pure che l’accusa sia vera e confermata da certe cose che
l’Aretino stesso dice nella prima e nella seconda edizione del suo
_Orlandino_; sarebbe certo un carico molto grave, ma egli potrebbe
consolarsene vedendo quanto grossa brigata s’abbia d’attorno. _Haud
ignota loquor_. La Chiesa scagliava contro il turpe fallo tutti i suoi
fulmini, e la giustizia secolare minacciava ai rei nientemeno che
il rogo; ma ha pur ragione l’Aretino quando fa dire al Rosso nella
_Cortegiana_[158] che se il fuoco del cielo avesse dovuto cogliere,
come in antico, coloro che di quel fallo si dilettavano, tosto il
mondo si sarebbe votato _di signori e di grandi uomini_. E avrebbe
potuto soggiungere di parecchie altre sorta di genti. Che fosse vizio
comune degli umanisti, non è solo l’Ariosto ad affermarlo[159]; che
i cardinali non l’avessero in troppo orrore, non è solo Lutero a
dirlo[160]; che Leone X ci cascasse è, credo, una solenne calunnia,
ma è calunnia raccolta dal Giovio, vescovo di Nocera, e quel gran
letterato che tutti sanno[161]; pel qual vescovo e letterato il Lasca
compose il seguente epitafio:

    Qui giace Paol Giovio ermafrodito.
    Che vuol dire in volgar moglie e marito;

mentre poi il medesimo Lasca non si faceva scrupolo di tessere un
capitolo intero in lode delle così dette mele[162]. In un sonetto
della sua _Priapea_, il Franco nota tutti coloro che sono macchiati di
quel vizio, il papa, i cardinali, i principi e gli altri. Dicono che
Paolo III, udito il giuoco che Pier Luigi, suo figliuolo, aveva fatto
al vescovo di Fano, pronunziasse essere stata quella una leggerezza
giovanile, e non è provato che sia tutto calunnia, il giuoco del
principe e il detto del Pontefice. Alla inclinazione che per quel
vizio mostravano i preti accenna nella Calandria il Bibbiena, prete
egli stesso; e alla inclinazione che per esso mostravano i frati
accenna in un suo innominabile scritto Antonio Vignali, altrimenti
detto l’Arsiccio Intronato. Cito costoro, ma altri dieci si potrebbero
citare. Dice lo stesso Aretino che i cortigiani dovevano saper
essere agenti e pazienti, e che in corte di Mantova tutti odiavano le
donne[163]. L’autore dell’anonima _Vita_ fa dire al Mauro che «come
alcuno ha punto bel viso, subito se ne corre verso Roma», dove «le
bardasse precedono gli uomini dotti, le bardasse sono li patroni,
e li virtuosi li schiavi; da tutti sono avute care le bardasse, e
trionfano»; cosa confermata dal Brantôme, il quale racconta di un
giovane gentiluomo francese, bellissimo, il quale, essendo capitato
a Roma, _fut regardé d’un si bon oeil, et par si grande admiration de
sa beauté, tant des hommes que des femmes, que quasi on l’eust couru à
force, et là où ils le sçavoient aller à la messe, ou autre lieu public
de congregation, ne failloient ni les uns ni les autres de s’y trouver
pour le voir_, ecc.»[164]. Ciò avveniva pure in altre città d’Italia e
il Garzoni parla «degli sfrontati Ganimedi, che increspano le chiome
a guisa di femine, si fanno i ricci politi, e spargono le morbide
guance di mille profumi per far correre i galavroni al mele»[165]. Dopo
Roma, la peggior reputazione in così fatto argomento l’aveva forse
Venezia, dove (lo dice il Sanudo) le meretrici giungevano a lagnarsi
col patriarca Antonio Contarini di non poter più vivere, stante la
concorrenza; ma in Francia il turpe vizio era comunemente designato
col nome di usanza italiana, secondo avverte Benvenuto Cellini[166],
che d’averla seguitata fu più d’una volta accusato. E che lunga lista
si potrebbe fare di coloro che ne furono o imbrattati a dirittura, o
un tantino spruzzati! e con qual meraviglia ci si vedrebbe a canto a
Francesco Berni nientemeno che Michelangelo Buonarroti e forse Torquato
Tasso! Il Berni, che fu mandato in una badia di monaci Cassinesi
nell’Abruzzo, a guarire di certo suo turpe amore[167], chiedeva in un
capitolo ad Antonio Dovizi:

    Che fate voi de’ paggi che tenete
      Voi altri gran maestri, e de’ ragazzi,
      Se ne’ bisogni non ve ne valete?

e consigliava:

    Attenetevi al vostro ragazzino;

e tesseva un capitolo in lode delle _pesche_[168]. Michelangelo
Buonarroti compose quarantotto epitafii, un madrigale, un sonetto per
Cecchino Bracci, giovinetto di apollinea bellezza, morto di diciassette
anni, in Roma[169]; e quanto al Tasso, c’è di lui una lettera che
dà da pensare non poco[170]. L’usanza è così diffusa che nessuno più
se ne vergogna, nessuno si nasconde; anzi se ne parla e se ne scrive
comunemente e pubblicamente, come di cosa accetta all’universale, e
(giunge a dire il Firenzuola, un prete) di maggior _riputazione_[171].
Si vergogna forse Giovanantonio Bazzi, il pittor famoso, d’esser
cognominato il Sodoma? Veggansi, di grazia, le lodi che di quella
usanza di maggior _riputazione_ lasciarono nei lor versi, oltre ai già
citati, un Giovanni Della Casa, un Lodovico Dolce, un Andrea Lori, un
Curzio da Marignolle, e altri dieci, e altri cinquanta[172]. Certo,
non tutti costoro avranno conformato i fatti alle parole; ma le parole,
quando altro non provino, provano che nella comune opinione era quello
un picciolo peccato, che nulla poteva detrarre alla buona riputazione
di un uomo, uno di quei peccati, come dice la Sostrata nella
_Mandragola_ del Machiavelli, che se ne vanno con l’acqua benedetta.
E l’Aretino ricorda che come punto uno si mostrasse schivo delle
donne, si faceva di lui questo giudizio, ch’egli attendesse ad altri
amori[173].

La moltiplicità stessa e il rigor delle leggi provano la diffusione
del male, che non riuscivano per altro a estirpare. Nel 1518, in
Venezia, certo prete Francesco da S. Polo, colto in fallo, fu chiuso
in una gabbia di ferro e appeso al campanil di San Marco; sul qual
fatto si compose, secondo l’uso dei tempi, un Lamento[174]. Nel 1545
un altro prete, Francesco Fabrizio, vi fu decapitato ed arso[175].
Pio V perseguitò questi peccatori ad oltranza. Paolo Tiepolo, oratore
della Repubblica, scriveva da Roma il 20 di luglio del 1566: «Si usa
dal Governator di ordine di Sua Santità ogni diligenzia per aver nella
mano, e gastigar quei che han usato il brutto vizio della sodomia, onde
già alquanti giorni se ne abbrusciò uno in Ponte, e ultimamente ne è
stato ritenuto un cittadin romano, assai ricco, con molti altri, che
si tengono consapevoli e partecipi delli errori suoi. Onde alquanti
gentil’omeni principali di questa città si sono absentati»[176]. Il 2
d’agosto del 1578, Antonio Tiepolo scriveva: «Sono stati presi undeci
fra Portughesi e Spagnuoli, i quali adunatisi in una chiesa, ch’è
vicina San Giovanni Laterano, facevano alcune lor cerimonie, e con
orrenda sceleraggine, bruttando il sacrosanto nome di matrimonio, si
maritavano l’un con l’altro, congiongendosi insieme, come marito con
moglie. Ventisette si trovavano, e più, insieme il più delle volte,
ma questa volta non ne hanno potuto coglier più che undeci, i quali
anderanno al fuoco, e come meritano»[177]. Il caso tuttavia più noto e
più notabile è quello del famoso Jacopo Bonfadio che, innocente forse,
fu decapitato ed arso in Genova, nel 1550. Ma queste erano eccezioni.
Di regola i peccatori invecchiavano non disturbati, come il poeta
Porcellio, di cui narra il Bandello la curiosa istoria, e il peccato
porgeva occasione di detti arguti e di amabili burle[178]. Adriano VI,
il bisbetico ed odiato papa fiammingo, aveva fermato il proposito di
estirparlo a ogni modo quando lo colse la morte: non so se ne sarebbe
venuto a capo; so che avrebbe avuto molto da fare. Se dunque l’Aretino
fu reo, fu con altri infiniti, e non dovrebbe per ciò esser fatto
segno a un aborrimento particolare; ma io ho già accennata la ragione
la quale deve farci stimare più probabile ch’egli, di questo peccato
almeno, fosse innocente[179].

L’Aretino amava molto le donne, e sempre ne aveva una brigata per casa,
e, dal suo nome, si chiamavano le Aretine. Ma chi se ne scandalezzava,
chi se ne meravigliava? Il concubinato era allora tanto in favore
quant’era in discredito il matrimonio. Non era cosa da vergognarsene:
il Bembo fece nota al mondo, soavemente petrarcheggiando, la sua
Morosina, sul cui sepolcro i poeti d’Italia sparsero lacrime e fiori.
L’Aretino non ha punto bisogno di celare altrui le sue Aretine. Veggasi
con quanta disinvoltura, con qual sicurezza di non toccar per nulla un
soggetto sconveniente, le ricorda in una lettera a Luigi Gonzaga[180].
E più anni dopo egli poteva, senza commettere errore, mandare una di
queste sue amiche alla regina di Francia.

Ma veniamo ormai alle opere sconce dell’Aretino: esse formano buona
parte della infamia di lui.

A nessuno, credo, può cadere in animo di difenderle; ma, riconosciuto
e detto che sono turpi, bisogna subito soggiungere che sono turpi
della comun turpitudine. Chiamare l’Aretino il padre della letteratura
disonesta è ingiusto e irragionevole, perchè il vero padre non si
conosce, e ad ogni modo, nel Cinquecento, i padri sarebbero molti.
Si fa un gran romore per quei tristi sonetti con cui egli dichiarò e
illustrò certe immagini famose di Giulio Romano; ma troppo facilmente
si dimentica che quelle immagini, prima d’essere commentate dal poeta,
erano state disegnate da un pittore, incise da un incisore. Lasciate
l’Aretino nel suo guazzo, se volete giudicarlo giustamente, e il suo
guazzo è il suo secolo. Ora, meravigliarsi della disonestà dell’Aretino
quando quella stessa disonestà è tutto intorno a lui, occupa tutti
i gradi sociali, ingombra l’aria che si respira, infetta e perverte
ogni cosa, a dirittura ha del puerile. Non siam noi nel secolo di quel
Leone X che assisteva alla rappresentazione della _Calandria_, della
_Mandragola_ e dei _Suppositi_? di quel Clemente VII che ascoltava
leggere le sconce novelle del Firenzuola e ne premiava l’autore? E già
nel secolo precedente non aveva il Poggio composte in corte di Roma
le sue _Facezie_? Certi componimenti del Casa, del Molza, del Caro,
del Tansillo, dello stesso reverendissimo Bembo, degl’innumerevoli
berneschi, son essi veramente meno sconci di quelli dell’Aretino? Sono
più oneste quelle commedie, più pulite quelle novelle? Ma al secolo
XVI mancava il senso della decenza. Benvenuto Cellini racconta certi
fatti della sua vita di scapestrato con quella semplicità medesima,
con quella stessa bonarietà con cui parla di una forma o di un getto.
Nelle conversazioni più eleganti e più colte, in presenza di donne e
di prelati, non c’era cosa di cui non si parlasse liberamente, e lo
provano, per tacere d’altre testimonianze, certi luoghi di un libro
onestissimo, il _Cortegiano_ del Castiglione. Le fanciulle stesse
udivano impavidamente ogni cosa, e d’ogni cosa parlavano, e non canzona
lo Straparola quando, nelle sue _Piacevoli notti_ pone in bocca a certe
damigelle _oneste e leggiadre_ novelle ed enimmi da far arrossire un
mascheron di fontana. E che cosa si potesse dire e mostrare in pubblico
provano i _Canti carnascialeschi_, provano certe mascherate[181]. E
chi vuol sapere che cosa un autor di commedie potesse fare ingozzare al
suo uditorio, legga, di grazia, il Prologo del _Pedante_ di Francesco
Bello, e se non rece, salute.

E poi siam sempre a quella. Chi si scandalezzava delle composizioni
turpi dell’Aretino? Doveva scandalezzarsene il duca di Mantova, che
n’era ghiotto? dovevano scandalezzarsene i cardinali di Lorena e di
Trento, che, prima l’uno, poi l’altro, accettarono la dedica della
_Cortegiana_? doveva scandalezzarsene il buon popolo bolognese,
che alla rappresentazione di questa commedia assisteva nella prima
settimana di quaresima del 1537, cosa di cui lo stesso Aretino ebbe
a stupire, per essere, com’egli dice, Bologna _ancilla de’ preti_?
dovevano scandalezzarsene le donne torinesi, delle quali scriveva
Bernardino Arelio a messer Pietro, a proposito di un vituperoso
libercolo di Lorenzo Veniero: «Ah la bella festa che li fanno queste
madonne intorno»?[182] doveva scandalezzarsene l’Orfino, accolito e
commissario apostolico, il quale, dando notizia a messer Pietro di una
rappresentazione dell’oscenissimo _Marescalco_, fatta in Foligno, lo
prega _si vogli dignare_ mandargli qualche altra sua commedia? o il
Franco, che le turpitudini aretinesche biasimava nei più turpi sonetti
che mai siensi composti? La verità è che nessuno se ne scandalezzava.
Quei luridi libri furono la prima volta proibiti, insieme con altri
assai, solo nel 1557 e nel 1558, quando, cioè, era già cominciata
quella che si suol chiamare reazione o riforma cattolica: prima non
sarebbe venuto in mente a nessuno, come non venne in mente a nessuno, o
solo a pochissimi, di meravigliarsi che quella stessa penna che aveva
scritti i _Ragionamenti_ osasse delineare le vite di Cristo e della
Vergine.

Nemmeno per questo rispetto dunque merita l’Aretino d’esser messo in
luogo appartato, fuori del suo secolo; nemmeno per questo rispetto è
egli quell’uomo tristamente singolare, quel mostro, che si vuol fare di
lui[183].


III.

Veniamo ad un’altra accusa mossa all’Aretino, la quale assai più delle
altre mi pare sia ingiusta, e mi darà occasione di porre in rilievo
alcune qualità commendevoli dell’uomo infame. Sarà l’ultima di ordine
morale che dovrò considerare.

L’Aretino, si dice, è, per giunta al resto, un uomo di animo duro, di
natura astiosa e malevola. Ora, a me pare ch’egli sia nel fondo appunto
il contrario, e che se diventa cattivo, diventa per le necessità di
quel suo tristo mestiere. Non ho bisogno di avvertire che certe pessime
qualità possono assai bene andar congiunte con qualche bontà di animo,
e qualche bontà di animo mi par di trovare nell’Aretino, la quale
certamente non era ne’ suoi avversarii.

Di quella sua malvagità si recano parecchi esempii, fra gli altri la
storia dei sonetti feroci ch’egli compose contro il povero Brocardo,
e furono, secondo dice egli stesso, cagione della sua morte. A questo
vantamento disgraziato è da creder poco, perchè non so se nel mondo
siasi mai dato il caso che dei sonetti (i giambi d’Archiloco non erano
sonetti) abbiano ammazzato qualcuno, e nel Cinquecento l’invettiva e il
vitupero erano armi lecite, o, almeno, comunemente adoperate. Ad ogni
modo, altri parecchi si levarono contro il Brocardo con accuse velenose
e rabbiose, e in tutto questo imbroglio mi pare faccia assai più brutta
figura l’onesto, il contegnoso Bembo, il quale sollecitava l’ajuto
della penna dell’Aretino, e si teneva nell’ombra, che non l’Aretino,
il quale si poneva a cimento per lui. E morto il Brocardo, il
virtuosissimo Bembo non cessò d’odiarlo, mentre lo sciagurato Aretino
compose certi sonetti nuovi, in sua lode.

Un altro esempio si cita, ed è quello della guerra fatta al datario
Giberti, reputato uno dei più onorati e virtuosi uomini del suo tempo;
ma bisogna dire che noi non sappiamo propriamente quali ragioni d’odio
ci fossero tra i due, e bisogna soggiungere che non è in tutto levato
il dubbio che quelle pugnalate date allo Aretino in Roma dal bolognese
Achille della Volta fossero date a conto di esso Giberti, e ricordare
che la possibilità di certe vendette poco cristiane è pure accennata
dal Berni, là dove dice nel suo sonetto:

    Giovammatteo, e gli altri ch’egli ha presso,
      Che per grazia di Dio son vivi e sani,
      T’affogheranno ancora un dì ’n un cesso.

In quel benedetto Cinquecento anche gli onesti avevano qualche volta
di strani ghiribizzi, e la vita di un uomo contava poco in un tempo in
cui persino i papi praticavano con tanto buon successo l’assassinio. Io
non so poi che l’Aretino si sia mai sbarazzato dei nemici col metodo
sbrigativo che usava Benvenuto Cellini, e tutti dicono che Benvenuto
Cellini è un grande artista, un po’ turbolento, un po’ stravagante,
un po’ scostumato, ma tanto amabile: nessuno dice ch’egli sia un
ribaldo e un infame. Il Cinquecento è tra l’altro, a dispetto dei
manierati costumi, a dispetto dell’arti fiorite e del _Galateo_, un
secolo di grande efferatezza, un secolo di passioni neroniane, pieno di
malfattori mostruosi e di delitti spaventevoli. Se l’Aretino fosse un
malvagio nel senso che qui s’intende, sarebbe ancora al suo posto e in
buona compagnia; ma egli non è un malvagio.

Sembra strano, a prima giunta, parlare della bontà dell’Aretino, e pure
questa bontà c’è, riconosciuta da molti, fra gli altri da Giovanni
de’ Medici, che a troppa bontà ascriveva certi dispiaceri incontrati
dall’amico suo. Lasciamo stare che l’Aretino osservava le pratiche
della religione in cui era cresciuto, e che il suo confessore in
Venezia, il buon padre Angelo Testa, si faceva da lui raccomandare
al cardinale Santa Croce; lasciamo stare, dico, perchè tenuto conto
della qualità del sentimento religioso nel Cinquecento, di che non è
da discorrere ora, ciò proverebbe assai poco. Ma la sua bontà si dà a
conoscere per altro. L’amore per i congiunti può conciliarsi, è vero,
con molta durezza verso gli estranei, ma esso è pur sempre segno e
prova di umanità. E l’Aretino amò teneramente la madre, e di amore
svisceratissimo le proprie figliuole[184]. Ajutò di buon animo le
sorelle, i cognati, i nipoti e si adoperò perchè altri li ajutasse. Che
lasciasse languire il padre nella più profonda miseria fu detto, ma fu
detto dal Franco, ed è poco probabile, perchè egli ci teneva troppo a
non far cosa che potesse attirargli biasimo dai suoi concittadini.

Ma noi abbiamo altre prove della bontà d’animo dell’Aretino. L’uomo
stimato pessimo tra i cattivi si rallegrava delle venture altrui, si
doleva delle disgrazie: desideroso di godere, gli piaceva che tutti
godessero intorno a lui e insieme con lui. Fra le sue lettere ce ne
sono moltissime con le quali caldamente raccomanda ad amici e fautori
potenti, ora un artista insigne come il Tiziano[185], o Sebastiano del
Piombo, ora un povero diavolo mezzo morto di fame, ora un uomo dabbene
a cui sia stato fatto un sopruso, o un imprudente capitato in qualche
brutto impiccio; e tra le lettere scritte a lui moltissime ce ne sono
di gente che si loda e che ringrazia dei buoni uffizii da lui fatti,
dei benefizii ricevuti. Era umanissimo con le donne che aveva in casa,
ai suoi servigi, e mente il Doni quando dice che minacciando e bravando
tutto il giorno egli si faceva tiranno _della meschinità loro_. Ciò non
si sarebbe potuto accordare con la giovialità della sua natura. Leggasi
invece la lettera con cui egli richiama in casa una Lucietta, fantesca,
la quale se n’era fuggita dopo d’avergli fracassato non so che quantità
di stoviglie, e veggasi com’egli piacevolmente si burli della paura di
lei, dicendo la sua collera essere _più corta che un fumo di_ paglia,
chiamando la casa sua una taverna, dove non si serra il pane e non si
adacqua il vino[186]. L’umanità sua si ribellava ai maltrattamenti,
anche quando fossero inflitti nel nome della giustizia. Raccomandando
al cardinal Santa Croce un povero predicatore perseguitato, egli
esclama: «Cristo, per quel che s’intende nell’umanità sua, non lasciò
nè prigioni, nè ruote, nè corde, nè fuoco»[187]. Pensiero che a ben
pochi allora poteva cadere in mente.

Sentì vivamente l’amicizia e fu pronto ad accoglierne il sentimento
nell’anima, il che certo non è proprio delle nature subdole e bieche.
Egli stesso si dice facilissimo in donarsi altrui[188], e in certe
amicizie si mostra esempio raro di fedeltà e di costanza. Diceva gli
amici essere _stelle poste nel cielo del corso umano_[189], e in molte
delle sue lettere esprime con vive parole il fervore che quell’affetto
gli metteva nell’animo, le gioje che gli procacciava. E se ebbe
amici traditori, che ricambiarono con villanie e con calunnie i suoi
benefizii, ebbe amici sinceri e devoti, che lo amarono com’egli li amò.
Il Tiziano fu una cosa con lui. Senza di lui Giovanni de’ Medici diceva
di non poter vivere. Antonio da Leva gli scriveva avere la sua amicizia
più cara di una città. Veronica Gambara gli scriveva: «... ringrazio
la fortuna, che per ricompensarmi di tutte le offese per sua gentilezza
fin ora fattemi, mi abbia dato la grazia vostra, la qual più estimo che
quanti mali e beni possa o voglia mai più darmi»[190]. Che poi, oltre
a quello dell’amicizia, l’Aretino potesse ricevere nell’animo altri
sentimenti gentili, prova quel suo tenero amore per Perina Riccia[191];
prova la gratitudine lungamente serbata e sovente espressa a Ferraguto
de Lazzara, che due volte gli aveva salva la vita; provano altri fatti
di cui potrebbe farsi ricordo.

Ma la virtù sua principale fu la liberalità. «Se», scriveva egli al
cardinal di Trento, «io potessi tanto dare, quanto mi è forza ricevere,
il mio animo mostrerebbe quel ch’egli è, e non ciò ch’ei pare»[192].
In una lettera a Giambattista Castaldo, parlando di certo furto che gli
era stato fatto, dice: «Ma Dio lo perdoni a chi assassina me, che do a
ognuno quel ch’io ho: per ciò mai niente ho, nè averò, se non cambio
vezzo: la qual cosa non è possibile, perchè io ebbi la prodigalità
per dota, come la maggior parte degli uomini ha l’avarizia»[193];
e la liberalità chiamava una _virtù di natura con arte_[194]. A
quella sua idolatrata Perina Riccia, che dei molti benefizii, e del
grandissimo amore, doveva poi mostrarglisi tanto ingrata, scriveva
«che il vedersi manicar l’ossa è il trionfo di una generosa natura e
non d’una sontuosa boria»[195]. Dava quattrini a comari, a soldati, a
bisognosi d’ogni sorta, e si scusava del poco e del tardi: persin delle
vesti si privava a comodo degli amici, e rimaneva «dispogliato in casa
i sei e gli otto giorni»[196]. Ad amici e protettori mandava piccoli
presenti o grossi donativi, e al duca di Mantova si vantava di aver
regalato per più migliaja di scudi[197]. Che assai volte egli facesse
ciò con mire interessate non si può negare; ma è ingiusto dire che nol
faceva per altro; è ingiusto non tener conto di quella sua prodigalità
istintiva, di quelle sue inclinazioni da gran signore che abbiamo già
notate, e che gli facevano dire: «A me piacciono i filosofi signorili
e pieni di nobili maniere»[198]. La sua casa era un porto di mare,
dove capitava ogni specie di gente, soldati male in arnese, pellegrini
afflitti, letterati affamati, e _ogni sorta di cavalieri erranti_.
E ciò è confermato dal Doni e da Scipione Ammirato. I _servitori
cani_ ci rubavano a man salva. Ad un amico che lo esortava ad essere
meno prodigo e a curar meglio gl’interessi, scriveva: «Mai non sarà
vero ch’io serri alle turbe quell’osteria che gli è stata aperta 18
anni»[199]. E così spese nel corso di sua vita meglio di 70,000 scudi,
grossissima somma a quei tempi.

Ma non si vuole ammettere che l’Aretino potesse far cosa buona;
non si vuol credere che sotto a quei panni ch’egli si procacciava
col suo tristo mestiere potesse esserci un po’ di cuore. La sua
generosità, dice il signor conte Giammaria Mazzuchelli, muove dalla
sua ambizione[200]. Leggendo della prodigalità dell’Aretino, ci torna
in mente quel marchese Alberto Malaspina, trovatore nostro, che rubava
alla strada per aver modo di regalare. Ma l’Aretino fu certamente più
onesto di lui. Avendo un servitore del ricco mercante Battista Vitale
smarriti in sua casa 300 zecchini, egli li fece restituire prontamente,
e non volle di ciò lode alcuna. Quanti, che in cospetto del mondo sono
assai meno infami dell’Aretino se li sarebbero tenuti!

Non dovendo l’Aretino, secondo la sentenza dei giudici suoi, avere
in sè cosa buona, bisogna che anche l’aspetto abbia del cattivo, sia
rivelatore dell’interna tristizia. Dice sì l’Ammirato che difficilmente
si sarebbe potuto vedere _un vecchio più bello, nè più pomposamente
vestito_; ma, in verità, egli doveva essere un brutto vecchio, per
quanto vestito pomposamente, giacchè il viso è specchio dell’anima. Ed
ecco qua, per l’appunto, il ritratto dipinto da quel valentuomo del
Tiziano. «Figura di lupo che cerca la preda», esclama Francesco de
Sanctis. «L’incisore gli formò la cornice di pelle e gambe di lupo,
e la testa del lupo assai simile di struttura sta sopra alla testa
dell’uomo»[201]. Pare chiaro, tanto più che lo Chasles aveva già fatto
prima la stessa, stessissima osservazione[202]; ma per meglio giudicare
di questa somiglianza lupina bisognerebbe confrontare gli altri
ritratti dell’Aretino: in quello pubblicato ultimamente dal Sinigaglia
è assai più facile riconoscere il satiro che non il lupo[203]. Giova
ad ogni modo notare che quello dipinto dal Tiziano non produceva nel
Franco l’impressione che sembra produrre nei critici moderni. Il Franco
ne parla in parecchi de’ suoi sonetti. In uno, toccando della perfetta
somiglianza, dice:

    Tutte le sue fattezze son ritratte
      Dal vero, così queste, come quelle,
      E gli occhi son sì veri e le mascelle,
      Che non somiglia tanto il latte al latte.

E in un altro, volgendosi allo stesso Tiziano:

    Però ch’egli è miracolo che un atto
      Gli abbiate dato ch’aggia dell’onesto,
      E che ne paja savio e modesto,
      Nè mostri pur aver sempre del matto.

_Onesto, savio, modesto!_ o dov’è il lupo?


IV.

L’Aretino parla volentieri delle proprie virtù, si chiama da sè
stesso virtuoso, ed è così chiamato dagli altri. Che vuol dir ciò?
È egli un ipocrita che, celando il vero suo essere, si ammanta della
virtù che non ha? E quegli altri, sono essi illusi, sono ingannati,
che non ben conoscono colui che lodano? Niente affatto. L’Aretino
non è un ipocrita, anzi è un grande odiator degli ipocriti. Egli
fa ciò che fa, naturalmente, svelatamente; mena vita sbracata e non
nasconde il suo giuoco. Un ipocrita non avrebbe mai pubblicati quei
sei volumi di lettere in cui egli si mostra intero, sotto tutti
gli aspetti. Quanto agli altri, sapevan benissimo con chi avevan da
fare. Che cosa dunque vuol dire quel _virtuoso?_ Vuol dire che il
Rinascimento s’è formato un nuovo concetto della virtù, un concetto
molto diverso dal cristiano, un concetto strettamente legato alle
forme e agli ideali di quella coltura. Della virtù cristiana certo si
parla e si scrive in quel secolo; ma non è più che un tema retorico:
tutti l’ammirano e la lodano, nessuno la pratica. Secondo quel nuovo
concetto, virtuoso è chiunque raccolga in sè certa copia di pregi,
di attitudini, di maestrie, buone, non a procacciare il paradiso, ma
credito e riputazione nel mondo. Perciò l’avvenenza, la grazia, gli
amabili portamenti, un ingegno pronto e vivace, una varia dottrina, la
destrezza ne’ maneggi, ecc., saranno tutte parti dell’uomo virtuoso. E
virtuoso sarà chi riesce eccellente nell’esercizio di alcuna arte, come
poesia, pittura, scoltura, architettura, musica. Benvenuto Cellini è un
virtuoso. In una lettera a monsignor Guidiccione l’Aretino parla della
_innata bontà e virtù_ del Molza. Virtuosi si chiamano anche oggigiorno
i cantanti. Come mai non avrebbe dovuto essere un virtuoso l’Aretino?

O quanto io son venuto dicendo sin qui manca affatto di ragionevolezza,
o l’Aretino non è quel pessimo scellerato che di lui si vuol fare. Ma
poniamo che sia, e vediamo a quale conseguenza si giunga. Il Berni,
nel suo sonetto, dice l’Aretino venuto in odio a tutti; ma non dice
il vero, perchè l’Aretino ebbe, finchè visse, innumerevoli amici, e
tra gl’innumerevoli moltissimi che furono e sono onore d’Italia. Ora
bisognerebbe dire che tutti costoro fossero una mala gente, dacchè
amavano, accarezzavano, lodavano un così tristo uomo; e cialtroni
a dirittura coloro, e non eran pochi, che, come Sperone Speroni,
insuperbivano di essere amati da lui; e poco men che sgualdrine le
donne, spesso d’alto lignaggio, che lo ringraziavano degli sconci libri
da lui ricevuti; e peggio che sgualdrina Veronica Gambara che chiamava
avventurosa Angela Serena perchè da lui _novellamente amata_. E venendo
ai protettori, con qual nome bisognerebbe chiamare quei cardinali di
Santa Chiesa che lo favorivano e lo raccomandavano al papa? E come si
dovrebbe giudicare Clemente VII che, poco dopo il fatto dei sonetti
lussuriosi, lo creava cavalier di Rodi? Come Giulio III, che lo baciava
in fronte e lo faceva cavalier di San Pietro? Come il duca di Parma,
il troppo noto Pier Luigi Farnese, il quale, dopo essere stato da lui
vituperato, si adoperava perchè gli dessero il cappello di cardinale?
Come Paolo III, padre di esso duca e pontefice, che, per quanto si sa,
non fu troppo alieno dal darglielo? Come Carlo V, che se lo faceva
cavalcare a fianco, altamente onorandolo? Come la sua città natale,
che gli conferiva la nobiltà e il gonfalonierato? Come, in fine, quei
principi tutti che lo blandivano, lo adulavano, lo regalavano, se lo
strappavano l’uno all’altro, e così facendo nutrivano la tracotanza
e la malvagità sua? Non si vede che l’infamia dell’Aretino è infamia
di tutti costoro? Ben lo comprese il Franco, che con impareggiabile
violenza ingiuria i principi tutti che davano al suo nemico, e sopra
tutti ingiuria l’imperatore.

    Che pena merteria giusta e spedita
      Quel principe gaglioffo che con doni
      Contra le leggi gli mantien la vita?

grida egli in uno de’ suoi sonetti. E in un altro:

    Se tra voi chi è il più goffo è il più divino,
      E se nell’ignoranza fate i calli,
      Che gran cosa se date all’Aretino?

I protettori son degni in tutto del protetto. E in verità, di chi s’ha
a stimare più vergognoso il procedere, dell’Aretino, che, dopo averlo
vituperato, chiedeva scusa a Clemente VII, o di Clemente VII che,
dopo quei vituperii, mandava all’Aretino un onorifico breve? E chi più
tristo, l’Aretino che vendeva i servigi e le lodi al duca di Mantova, o
il duca di Mantova, che impermalito di non so che, minacciava l’Aretino
di farlo ammazzare? Ha ragione dunque il Franco quando, in un terzo
sonetto, uscendo dai gangheri, esclama:

    O sacre maestà, ch’oggi tenete
      Il mondo in mano, o principi preclari,
      O becchi svergognati quanti sete!

Di questo dilemma non s’esce: o l’Aretino è migliore della sua fama,
o della sua infamia sono partecipi infiniti; e in tal caso non c’è
ragione di tirar lui solo fuori del mazzo.


V.

Abbiamo considerato l’Aretino sotto l’aspetto morale; consideriamolo
ora sotto l’aspetto letterario. Cerchiamo in lui lo scrittore, vediamo
qual sia, e che giudizio si meriti.

Non ho bisogno di dire che anche per questa parte abbondano i dispregi
e i biasimi dei critici, e che scarso è il numero di quelli a cui
gli scritti dell’Aretino non pajano a dirittura una vergogna della
letteratura italiana, e ciò indipendentemente dalla disonestà e
perversità loro. Non ci curiamo di questi giudizii, che troppo tempo
vorrebbero ad essere ricordati ed esaminati, e procuriamo di formarci
in materia un concetto proprio, e, se possibile, giusto.

Chiameremo noi, col Sinigalia, Pietro Aretino un grande uomo? Sarebbe
invero abusar troppo delle parole. Supposto pure che le facoltà del
grand’uomo le avesse, egli era talmente inviluppato in interessi e
maneggi di bassa lega, che male avrebbero quelle potuto operare e
recar frutto. E poi, queste facoltà superlative, egli non le aveva, e,
checchè paja dire in contrario egli stesso, sapeva di non averle. Il
suo ingegno era un ingegno pronto ed accorto, ma mancava di elevatezza.
Non era in lui quella veduta larga dello spirito che abbraccia nella
loro interezza le cose, nè quella fruttifera curiosità che spinge
alla speculazione o all’indagine. Dice egli stesso che non cercava di
conoscere ciò che è occulto o troppo alto[204]; e in più lettere sue si
ride di coloro che logorano il cervello dietro al perchè delle cose.
Odiava i pensieri che affaticano e turbano, e però accettava la fede
comune e tradizionale, il confessore e le pratiche d’uso, protestando
di non volersi immischiare in certe dispute arruffate, riparandosi
dietro il nome di Cristo, non come un fervido credente, ma come uno
che voglia togliersi d’imbarazzo, e non avere a rispondere di nulla,
dicendo a chi gli dà noja: ecco qua il padrone e il maestro, vedetevela
con lui. I riformatori e gli eretici gli davano ombra al par dei
filosofi: odiava dello stess’odio Platone e Lutero.

A questo proposito mi sembra opportuna una osservazione. L’Aretino fu
reputato, non solo eretico, ma anche ateo, e la prova del suo ateismo
fu cercata principalmente nei suoi costumi e nelle sue azioni. Ma
se in nessun tempo la vita prova a rigore le dottrine, meno che in
ogni altro tempo le prova nel Cinquecento. In quel secolo si poteva
credere, non dirò ferventemente, ma sinceramente, e vivere del resto
come quel _porcus de grege Epicuri_ di cui parla Orazio. La famosa
dottrina immaginata dai gesuiti per conciliare con la devozione la vita
mondana, dottrina che procacciò loro tanto favore e tanta potenza, si
trova applicata di fatto nell’Italia del Cinquecento assai prima che i
gesuiti se ne facessero campioni e maestri.

Poco atto agli alti voli, chiuso alle idee trascendenti ed astruse,
l’ingegno dell’Aretino, ingegno essenzialmente pratico, si trova a suo
agio nel mondo della realtà immediata, fra le cose e gli uomini che gli
sono cogniti e famigliari. Quivi esso si muove con mirabile agevolezza
e si mostra dotato di grande perspicacità. L’Aretino conosce a fondo il
suo tempo, e questa conoscenza spiega in gran parte i suoi successi.

Indicata la qualità dell’ingegno, vediamo ora alcune idee che l’Aretino
aveva in fatto di letteratura, e propugnava con calore; poi daremo una
rapida occhiata alle opere.

L’Aretino aveva, com’è noto, pochissimi studii, e l’accusa d’ignoranza
non fu certo una di quelle ch’egli udì farsi meno frequentemente. Ma
lungi dal vergognarsene, se ne teneva, cercando anche in ciò una prova
della felicità del suo ingegno.

Vivendo in un secolo in cui si pretendeva supplir con lo studio a ogni
mancamento di natura, e in cui poeti formati sui libri credevano poter
emulare Omero ed Orazio solo perchè avevano Orazio ed Omero a mente,
egli si mostrò sempre avverso allo studio insistente, pedantesco,
che toglie altrui il senso vivo e diretto delle cose, e crea nello
studioso una coscienza tutta artificiale, ed estranea al mondo cui
quegli appartiene. «Il soverchio de lo studio», scriveva all’amicissimo
suo Agostino Ricchi, «procrea errore, confusione, maninconia, colera
e sazietà», e raccomandava gli ozii opportuni, dicendo: «Non si sa
egli, che le vacazioni sono il giardino in cui si ricrea il vigore de
lo intelletto?»[205]. Dava alla natura assai più importanza che non
allo studio, giacchè, diceva, «dalla culla e non dalla scola deriva
l’eccellenza di qualunque ingegno mai fusse»[206]. Sentiva che nel
genio c’è qualche cosa di spontaneo e d’inconsapevole, di dato e non
fatto, che appunto è uno dei caratteri suoi più notabili. Diceva che
i _poeti da senno_ «si ragguagliano a i fonti, i quali scaturiscono
l’acque vive, limpide e dolci, non sapendo perchè, nè in che
modo»[207]. Ottima sentenza, ma assai dura a quei poeti senza numero
che vivevano truffando i mezzi versi, e i versi interi, ai classici, o
al Petrarca. Affermava inoltre l’artificio vero esser quello «che nasce
dal naturalmente vivace in la penna, e non quello che si ritrae dallo
studio ne i libri»[208]. Non già che alla natura dèsse tutto il merito,
e nulla stimasse lo studio e l’esercizio. Nelle sue lettere lodava
spesso chi attendeva a studiar con impegno, e ad un giovane, Antonio
Gallo, scriveva: «Sappiate pure che la natura senza la esercitazione
è un seme chiuso nel cartoccio, e l’arte senza lei è niente»[209]. Ad
ogni modo val più assai un buon ingegno naturale, cui manchi lo studio,
che non un povero ingegno infarcito di dottrina, giacchè _il giudicio
è figliuolo de la natura e padre de l’arte_, «e il litterato, che ne
è privo, può simigliarsi a un armario pien di libri»[210]. Certo, così
dicendo, l’Aretino faceva un po’ il _Cicero pro domo sua_, ma non è men
vero che diceva bene, e che non sarebbe agevole trovare in quel secolo
chi dica altrettanto in modo così chiaro e reciso.

Ponendo l’ingegno sopra lo studio, la natura sopra l’arte, l’Aretino
implicitamente condannava la imitazione, altra piaga del suo tempo; ma
non lasciò di condannarla anche esplicitamente, e sempre con grande
vivacità di parole. Innumerevoli sono le lettere dove egli biasima
e svergogna la frega di coloro che volevano rifare ciò che altri
avevan già fatto, o mutar sè in altri, impresa sciocca e disperata. I
petrarchisti non ebbero avversario più risoluto di lui, e s’egli pur
ne loda qualcuno, il fa, pur troppo, per ragioni in tutto estranee
al suo convincimento. Alcuna volta distingue gl’_imitatori_ dai
_rubatori_[211]; ma ciò solo per una caritatevole concessione fatta
all’amicizia. Raccomandava a tutti di seguitar la natura, dicendo
che i precetti di lei avanzano quelli di qualsiasi Orazio[212], e di
seguitarla si gloriava assai egli stesso. Al Doni scriveva: «andate
pure per le vie che a voi mostra la natura se volete che gli scritti
vostri faccian stupire le carte dove son notati»[213]; e a Vincenzo
Fedeli, oratore della Repubblica in Milano: «chi ha qualche spirito
di natura non tiene uopo de la stitichezza, che lambicca a gocciola
a gocciola alcune paroline sì magre, che non solo vituperano i
concettuzzi, che pur vorrebbero esprimere, ma intrigano altrui di
sorte, che chi legge i sogni loro sognano nella maniera che sognano
essi»[214]. Ed egli otteneva lode da parecchi, tra gli altri da Paolo
Manuzio, per essersi scostato dal _comune sentiero_, per aver lasciate
le vestigia dei maestri, cosa che sgomentava ancora, tanti anni dopo,
l’ortodossia letteraria del povero Mazzuchelli[215].

Da tutto ciò si ricava che l’Aretino sentiva il bisogno di un’arte,
più particolarmente di una poesia, meno artificiale, meno accademica,
più intimamente connessa con la vita, e che dalla vita, direttamente,
traesse l’inspirazione e gli spiriti. Il poeta, secondo lui, deve aver
l’occhio alla natura, non ai modelli; vivere con la natura in comunione
vitale e continua, imparare da lei l’arte sua. Ardito pensiero in un
tempo in cui si aveva per ogni maniera di componimento una ricetta
bella e fatta, e l’_arti poetiche_, composte dietro gli esempii di
Aristotele e di Orazio, insegnavano a fabbricar poemi epici, commedie,
tragedie di perfetta fattura, e ora, a noi, d’insopportabile lettura;
in un tempo in cui, dovendosi parlare di pubblici eventi e di pubbliche
occorrenze, non si guardava tanto a ciò che il caso richiedeva, quanto
a ciò che aveva detto Cicerone quindici secoli prima. L’Aretino ebbe
tale un sentimento della originalità quale non si trova in nessuno de’
suoi contemporanei, e primo in Europa levò il grido di ribellione che
poi il Francese raccolse nel verso famoso:

    Qui nous délivrera des Grecs et des Romains?

Ciò spiega pure la sua ammirazione sconfinata, il suo amore
appassionato per artisti come il Tiziano, che movevano dalla natura
per giungere all’arte. Egli stesso vedeva le cose con gli occhi di un
pittore, e le impressioni vigorose e vive che riceveva dalla natura lo
dispensavano dall’andar ricercando nei libri le impressioni altrui. Noi
che abbiam sempre in bocca la natura, la spontaneità del sentimento, la
relazion necessaria della poesia con la vita; noi che abbiamo scosso il
giogo dei modelli detti insuperabili, banditi i tipi e le forme fisse,
bruciate le arti poetiche, e fatte, almeno a parole, tant’altre belle
cose, noi non possiamo, senza contraddirci, non riconoscere in Pietro
Aretino uno dei nostri.

Da questo bisogno di libertà e di larghezza, sentito non meno
vivamente nell’arte che nella vita, si generano nel nostro autore
alcune ripugnanze, alcune avversioni di cui è a tener conto, sebbene
non sempre le palesi egli stesso. Loda molto in pubblico lo stile dei
prosatori gravi e corretti, come il Bembo e monsignor Della Casa, ma
si sfoga poi nella intimità dell’amicizia, deridendo i boccaccevoli,
burlandosi di quel sonaglio del verbo in ultimo, dicendo che si deve
scrivere come il bisogno richiede e l’anima detta. Bella massima, ma da
lui stesso poco seguita, e vedremo perchè. Per certi uomini professa
palesemente grande ammirazione, ma senza dubbio li ha in uggia nel
secreto dell’anima, appunto perchè rappresentano tendenze e dottrine
in tutto opposte alle sue. Tali il Bembo e il Varchi, per non citarne
altri. E quando egli dice di temere il giudizio del Bembo e di volersi
stare in tutto alla sua sentenza[216], mente e si burla di chi gli
crede. A tal proposito si vuol notare che l’Aretino si mostra spesso
assai buon giudice del valore e delle riputazioni altrui, e che se in
moltissimi casi non appar tale, se molti giudizii suoi sono esagerati
od erronei, gli è che il più delle volte c’entra di mezzo qualche
ragione di utilità e di convenienza. Riconosce che Erasmo «ha islargati
i confini de l’umano ingegno»[217]; ma nell’istesso modo leva a cielo
taluno di cui persino il nome sarebbe perduto, se egli non l’avesse
scritto in capo di una lettera.

Molte altre cose odia l’Aretino. Odia le accademie e i loro
_ciarlamenti_, e _pecora giojellata_ chiama un cavalier Mainoldo,
uno di quei fastidiosi recitatori di lezioni accademiche[218] di cui
non è ancora spento il seme. Vero è che poi troviamo lui pure socio
di più accademie. Odia i rifacimenti, come quello che dell’_Orlando
Innamorato_ fece il Berni, giacchè stima infamia «il porsi al viso del
nome la mascara de i sudor dei morti»[219]. Odia tutto ciò che sa di
vieto e di muffito, ed ha il sentimento della lingua viva come pochi
allora mostran d’avere. «Volesse Iddio», scrive a Lodovico Fogliano,
«che le prose masticate dalla continua diligenza di molti, fossero così
pure e così usate come son le parole, che mentre parlate vi trae di
bocca l’uso famigliare della favella». E soggiunge: «Che abbiam noi a
fare dei vocaboli usati non si usando più? A me par vedere ser Apollo
con le calze a campanile, quando veggio uopo in collo di questa e di
quella canzone»[220]. Odia l’infinito stuolo dei cattivi e pessimi
poeti che assordavan l’Italia, dolendosi che sino ai maestri di stalla
facessero versi[221]. Ma odia sopra ogni altra cosa i pedanti; e ciò
si capisce, perchè i pedanti personificano tutte le tendenze avversate
da lui. Molti nemici e derisori ebbero i pedanti nel Cinquecento[222],
ma nessuno più acerbo dell’Aretino, che, e nelle commedie, e nelle
lettere, e in molti altri scritti suoi non lascia di beffarli, di
tartassarli e di vituperarli. In una lettera al Marcolino li paragona
alle femmine presuntuose e sciocche, le quali sempre vezzeggian sè
stesse: «quelle quattro letteruzze ch’essi hanno, sono i belletti, con
cui tentano d’abbellirsi il ceffo della fama, che gli pare avere»[223].
Gli chiama goffi; dice che standosi essi sempre confitti negli studii
non sanno nemmen d’esser nati: e in un’altra lettera allo stesso
Marcolino si ride «di quella assidua pazienza, che tormenta lo stuolo
della pedagogaria, che mura il sesso di tali ne gli scanni de gli
studi, che i da pochi frequentano lo intero di tutti i dì e la somma
di tutte le notti»[224]. Si ride dei _Ciceroni salvatichi_ come se ne
rideva Erasmo: si burla di chi, come l’Ubaldino, _crepa di studio_; e
i così fatti, con bella invenzione di vituperio, chiama _asini degli
altrui libri_[225]. Del resto l’Aretino ha della pedanteria, o, se
meglio piace, nel caso presente, del pedantismo, un concetto assai
più largo, più curioso e più notabile che i suoi contemporanei non
abbiano. Per lui, uomo pratico, e tutto del suo mondo, è pedante,
non solo chi si sta sempre a cavallo della grammatica, chi insegna
ai putti, chi parla un gergo sciagurato che non fu mai vivo, insomma
il tipo notissimo della commedia e della novella; ma, in generale,
chiunque non sappia veder la vita che traverso le pagine dei libri,
chiunque sconoscendo la necessità dei tempi, le opportunità delle cose,
in una parola il vivo della storia, pretende di restaurare comechessia
l’irrevocabile passato. Perciò la pedanteria non è delle sole lettere,
ma della politica ancora e di tutto il resto. «I pedanti,» egli dice,
«poichè hanno assassinato i morti, e con le lor fatiche imparato a
gracchiare, non riposano fino a tanto che non crocifiggano i vivi. E
che sia il vero, la pedanteria avvelenò Medici, la pedanteria scannò il
duca Alessandro, la pedanteria ha messo in castello Ravenna e, quel che
è peggio, ella ha provocata l’eresia contra la fede nostra per bocca di
Lutero pedantissimo»[226]. Lasciamo stare Martin Lutero e il cardinal
di Ravenna; ma gli è certo che la pedanteria, intesa a quel modo che
s’è notato, ebbe molta parte nel tirannicidio, rimesso dal secolo XVI
in onore. Lorenzino de’ Medici si paragonava da sè stesso a Timoleone;
Pier Paolo Boscoli sognava di emulare Bruto.


VI.

L’Aretino componeva con somma facilità. Ridendo di coloro che non san
mai levarsi dal tavolino, diceva che la sua natura sputava «fuor dello
’ngegno ogni sua cosa in due ore»[227]. E si vantava di non lavorare
più di due ore per mattina, e di non aver d’altro bisogno, per compor
le sue opere, che di una penna, di un po’ d’inchiostro, di un manipolo
di carta. Gli è che egli portava dentro di sè tutto il suo mondo.
Negli anni maturi quella grande facilità gli venne scemando, e nel 1537
scriveva a Francesco Dall’Arme: «La vecchiaja mi impigrisce l’ingegno,
ed amor che me lo dovria destare, me lo addormenta. Io soleva fare XL
stanze per mattina, ora ne metto insieme appena una; in sette mattine
composi i _Salmi_, in dieci la _Cortegiana_ e il _Marescalco_, in
XLVIII i due _Dialoghi_, in XXX la Vita di Cristo»[228].

È impossibile lavorare in tal modo e raggiungere la perfezione.
L’Aretino lo sa, e conosce assai bene ciò che manca alle cose sue, le
quali certamente furono ammirate più dagli altri che da lui stesso.
Non bisogna badare a certi suoi vantamenti, che hanno sempre uno scopo
pratico. Quando non è forzato a decantar la sua merce, il giudizio
ch’egli ne dà è giudizio tutt’altro che indulgente. «Dal buono e
non da lo assai nasce la gloria de le composizioni», si legge in una
lettera a Giovanni Agostino Cazza[229]. Egli sa che piegando l’arte
al vantaggio si uccide l’arte, e parla con certa amarezza delle carte
che gl’imbratta _lo stimolo del disagio, e non lo sprone della fama_.
Al Bembo scriveva: «A me bisogna trasformare digressioni, metafore e
pedagogarie in argani che movano, ed in tanaglie che aprano. Bisognami
fare sì che le voci de i miei scritti rompino il sonno de l’altrui
avarizia, e quella battezzare invenzione e locuzione che mi reca
corone d’auro e non di lauro»[230]. Al duca di Mantova scriveva che
del pensiero ch’ei faceva di certo suo componimento era secretario
il fuoco[231]. Dal Marcolino, suo compare, fece bruciare tremila
stanze del poema di Marfisa[232]. Del titolo di divino, datogli anche
dall’Ariosto e da Bernardo Tasso, e largito del resto a molt’altri,
si fregiava volentieri, perchè gli cresceva credito, ma era il primo
a farsene beffe[233]. Teneva i proprii capitoli superiori a quelli del
Berni; ma scemava a sè stesso il merito dell’averli composti giudicando
assai severamente, e, bisogna pur dirlo, non malamente, la poesia
bernesca, dicendo che «la fama di coloro che invecchiano drieto a lo
scriver ciancie da riso è ridicola»[234].

Non è dunque un deficiente sentimento d’arte che spinga l’Aretino a
scrivere come scrive; ma, per una parte, certa naturale sua foga, per
un’altra il mestiere.

Anzi l’Aretino ebbe sentimento d’arte vivissimo, e quand’altro non ci
fosse in favor suo, basterebbe a redimerlo da quella geenna d’infamia
in cui fu posto l’amore pien d’entusiasmo che professò tutto il tempo
di vita sua per la statua e pel quadro; quell’amore che lo fece, più
che amico, fratello al Tiziano; quell’amore che lo spingeva a chiedere
con tanta istanza al Buonarroti di quei disegni che _dava al fuoco_, e
a pregare il Vasari di procacciargliene. Ora, questo amore, specie alla
pittura, non è senza importanza per noi, che ricerchiam lo scrittore.
«Io mi sforzo», diceva l’Aretino al Valdaura, «di ritrarre le nature
altrui con la vivacità con che il mirabile Tiziano ritrae questo e quel
volto»[235].

E bisogna dire che qualche volta ci riesce, e forse ci sarebbe riuscito
sempre, se non fossero state le ragioni di quel maledetto mestiere.

Nell’Aretino ci sono, a dir proprio, due scrittori, assai diversi tra
loro, anzi opposti a dirittura: l’uno che scrive per amor di guadagno,
mentendo affetti e pensieri, cercando i soggetti utili; l’altro che
scrive senza preoccupazioni, abbandonandosi all’impulso geniale di ciò
che _detta dentro_; quello tutto ammanierato, vacuo e falso; questo,
vero, naturale, efficacissimo. Leggete ciò che l’Aretino scrive, quando
vuol levare a cielo qualcuno di cui veramente non gli cale più che
tanto, ma da cui si ripromette vantaggio: ciò che gli esce dalla penna
è della peggio retorica che si possa imaginare, e in quelle pagine,
gonfie d’iperboli pazze, e tutte chiazzate di metafore strane si sforma
l’aspetto delle cose, come si snatura l’indole d’ogni sentimento. È
l’Aretino di parata, l’Aretino cui bisogna _trasformare digressioni,
metafore, e pedagogarie in argani che movano, ed in tanaglie che
aprano._ Ma leggete ciò che l’Aretino scrive per proprio conto, per
isfogar l’animo, per intrattenersi con gli amici più intimi: trovate
un tutt’altr’uomo, e c’è da rimaner meravigliati in vedere come lo
scrittore ampolloso e affettato, lo scrittore che pareva non potesse
dir cosa senza alterarne in qualche modo l’essere, lo scrittore
esagerato e iperbolico, riesca un osservatore diligente, un descrittore
vero ed efficacissimo di quanto gli sta d’intorno. Veramente egli vede
le cose con l’occhio con cui le vedeva il Tiziano, e la visione avuta
sa rendere felicemente con la parola, facendo della penna un pennello.

A persuadersi di ciò basta leggere certe lettere sue. Non ricorderò
quella famosa al Tiziano, dov’è descritto il Canal Grande sull’ora
del tramonto, perchè troppo nota e troppo spesso citata[236]. Certo
essa è un documento assai singolare; ma altre ce n’ha, non meno
importanti a mio giudizio, e che sono veri quadri di genere. Leggasi
quella dov’è narrata la vita semplice e pacifica di Simone Bianco
scultore[237]; leggasi l’altra in cui si ricordano con desiderio scevro
di amarezza i bei tempi passati, i facili amori e l’altre scapestrerie
giovanili[238]: se ne legga una assai breve, dove l’autore ringrazia
frate Vitruvio dei Rossi, che gli aveva mandato a regalare certe
ghiottornie minute[239]. Si vegga con quanta vivacità è ritratto quel
Pietro Piccardo, che sapeva tutte le storie e tutti i fatterelli del
tempo, cortigiano finito, sempre tra donne[240]. Si vegga con quanta
festività, con quanta arguzia è descritto il vivere spensierato di
questo stesso Piccardo e di monsignor Zicotto, che si facevano «portare
come un pajo di pontefici, dando giubilei, intimando concilii e
canonizzando santi»[241]; con quanta evidenza è ritratto lo spettacolo
pieno di varietà e di movimento, a cui l’Aretino cotidianamente
assisteva dalle finestre di casa sua sul Canal Grande[242]; con quanto
sentimento del pensare e della vita del popolo sono descritte le smanie
e gli anfanamenti per il giuoco del lotto[243]. Non si lasci di leggere
ciò che nel _Ragionamento delle corti_ è narrato dei capricci di Fra
Mariano, e poi si dica se nel Cinquecento sono molti che abbiano il
senso della realtà così desto e così perspicace; che scrivano così
vivo, con efficacia così ingegnosa e al tempo stesso così spigliata,
con tanta virtù di rilievo e di colorito.

E qui tocchiamo allo stile dell’Aretino, intorno a che ci sarebbe,
volendo, molto da dire. L’Aretino pretese di essere un novatore in
fatto di stile e molti dei contemporanei gli diedero ragione. In un
capitolo dove il Fenaruolo si rallegra con Domenico Veniero dei nuovi
onori ricevuti, si legge:

    Udirete il signor Pietro Aretino
      Cantar in quel suo bravo primo stile,
      Che gli diede il cognome di divino[244].

E Ortensio Lando nella _Sferza de’ scrittori antichi e moderni_[245]:
«Se pertanto leggerete gli scritti del divino Pietro Aretino egli
vi condurrà all’alta rocca della toscana eloquenza, e condurravvi
per vie inusitate e nove, non più calpestate da veruno; scorgeretevi
per dentro alcuni lumi meravigliosi, da’ quali intenderete quanto
possa natura senza l’ajuto dell’arte». E novatore egli fu veramente.
Anche qui noi troviamo l’Aretino in contrasto con la tradizione,
ribelle all’autorità. Egli ha in uggia lo stile di prammatica, lindo,
corretto, misurato con le seste, architettato secondo le regole, tutto
riscontri simmetrici e appoggiature meditate. Per lui lo stile non è
architettura, ma scoltura e pittura, e deve prender forma e colore da
ciò che si muove nell’animo, e piegarsi, non ad una legge astratta di
compostezza e d’armonia, ma, volta per volta, a quella che è indole
propria del soggetto. Il suo sogno è di poter tradurre nelle parole il
plastico delle cose, la intensità e il fervor della vita; e conscio
di riuscirci in una certa misura, esclama: «attengasi a me chi ha
rilievo nelle rime ed efficacia nelle prose, e non chi mostra profumi
ne gl’inchiostri e miniature nelle carte»[246]. In una lettera famosa
al Comandator d’Alcantara dice che ne’ versi suoi «si tondeggiano
le linee delle viscere, si rilevano i muscoli delle intenzioni, e si
distendono i profili degli affetti intrinsechi»[247]. A Bernardo Tasso
rimprovera d’essere «più inclinato all’odor dei fiori che al sapore
dei frutti»[248]. Abusa del colorito, e ha certi procedimenti di stile
in tutto simili a quelli dei moderni seguaci del naturalismo o verismo
letterario; per esempio usar l’aggettivo in maniera di sostantivo.

Naturalmente, con tanta preoccupazione del vistoso e dell’efficace, con
voler far produrre alle parole la impressione che producono le cose,
l’Aretino spesso rompe _lo fren dell’arte_, passa i segni del buon
gusto e del buon giudizio, e s’impania in quelle iperboli sformate, in
quei traslati mostruosi, in quegli aggrovigliamenti di concetti e di
parole, in quella sofistica dello stile, che rendono insopportabile a
noi la lettura di moltissime pagine sue, ma che hanno riscontro negli
scritti di più di un verista moderno. Perciò egli fu considerato come
l’iniziatore e come il padre di quel mal gusto che ebbe tra noi il
nome di secentismo. Lo Chasles, il quale in più altre occasioni mostra
buon accorgimento, dice a tale proposito: «Le seicentisme date da
l’Arétin. Ce ne fut plus la parole grave et nue de Machiavel, ni la
fluidité de Bembo. On commença, d’après son exemple, à personnifier
tout; les Marini, les Achillini ne sont que ses copistes... Avant lui
personne n’avait écrit de cette façon»[249]. Ma è vero ciò? no; anzi è
falsissimo.

L’Aretino ha certamente ajutato, affrettato l’avvenimento del
secentismo, ma nulla più. Il secentismo si produce intorno a lui, è
nato prima di lui. Il D’Ancona ha potuto scrivere un bello studio sul
_secentismo nella poesia italiana del secolo XV_, e secentismo si trova
nella letteratura d’altri tempi e d’altri luoghi. Il Petrarca non è
egli spesso un secentista della più bell’acqua? son poco secentisti
certi trovatori di Provenza? e chi più secentista di Ennodio? Gli
è che sotto questo nome poco appropriato di secentismo si comprende
una certa condizion delle menti, un temperamento del gusto, una forma
d’arte, che possono bensì nel Seicento nostro essersi prodotti con
carattere più spiccato, ma che, come effetto di certe determinate
cause, non sono punto proprii di quel secolo soltanto. Ora, dello
straboccare del secentismo nel secolo appunto che gli diede il nome,
si potranno indagare alcune cause speciali, come l’influsso spagnuolo,
o l’esempio di alcuni scrittori; ma è certo che l’arte stessa del
Cinquecento, e quella civiltà tutta intera, ponevano sulla sua via,
spingevano ad esso. Chi vuol persuadersene legga gli imitatori del
Petrarca. Parrà strano a dire, anche perchè l’Arcadia, quando cominciò
la reazione contro il secentismo, si mise innanzi, come duca e dottore,
il Petrarca; ma non è men vero che una delle cause principali del mal
gusto del Seicento è per appunto il petrarchismo.

E s’intende perchè. I petrarchisti, non avendo altro a fare che
ripetere que’ sentimenti invariabili, quei pensieri già espressi le
tante volte, cercavano d’introdurre qualche novità nei loro versi
rincarando la preziosità dello stile, contorcendo il concetto e la
frase, moltiplicando le metafore. L’amore, quando non è sentito
e sincero e vuole spacciarsi per sincero e sentito, cerca, senza
avvedersene, l’espressione esagerata e falsa, che di necessità diventa
secentismo. Vedasi che cosa interviene ai trovatori provenzali della
decadenza. E a un’altra cosa è da por mente. La raffinata coltura del
Cinquecento si trae dietro certi bisogni, suscita certe tendenze, che
non mancan mai, o sotto una, o sotto altra forma, dov’è raffinatezza
soverchia. In quegli animi, allevati e ammaestrati in ogni maniera
di delicature, schifi del triviale, facilmente si produce sazietà,
e sempre si muove un desiderio del peregrino e dello insolito, donde
possa venire nuovo eccitamento, e allettamento non ancora provato. Ora,
un desiderio così fatto, conduce o prima o poi al secentismo, e poichè
quel desiderio tanto più sormonta quanto più la civiltà è raffinata,
e quanto più prossimo il tempo del suo decadere, si può dire che ogni
civiltà finisca nel secentismo, il quale, non fa bisogno avvertirlo,
non è proprio delle sole lettere, nè delle sole arti sorelle. La
civiltà romana, sopraggiunta dalla sfioritura, produce la più mostruosa
depravazione che la storia ricordi: il secentismo dei costumi.

Se, dunque, noi vogliamo esser giusti, dobbiamo dire che Pietro Aretino
ajuta il secentismo a prodursi, ma che il produttor vero del secentismo
è il Cinquecento.


VII.

L’Aretino si esercitò in tutti i possibili generi letterarii, dalla
pasquinata alla tragedia, dalla novella al poema epico, dalla lettera
al racconto ascetico. Non tutte le cose sue sono di pari valore, ed il
valor di parecchie è pochissimo; ma volerle mettere tutte in un fascio
e sentenziare che in tutte c’è poco o nulla di buono è, non solamente
ingiusto, ma assurdo. Diamo un’occhiata alle principali.

L’Aretino riesce meglio assai nella prosa che nel verso. A quella sua
natura intemperante e scomposta doveva esser più particolarmente grave
il giogo della misura e della rima, increscioso il magistero delicato
ed arduo della poesia. Ciò nondimeno, compose, secondo l’uso de’ tempi,
infiniti versi, d’ogni qualità e suono. I sonetti sono in generale
cattivi, e pessimi quelli in cui si tuffa nel patetico e nell’eroico;
ma i capitoli, se inferiori, e di molto, a quelli del Berni, sono
tuttavia pieni di vivacità e d’arguzia, e possono stare alla pari con
quelli dei migliori berneschi.

I saggi di poema cavalleresco che ci son pervenuti, i tre canti della
_Marfisa_, i due delle _Lagrime d’Angelica_, non sono a dir vero gran
cosa, benchè più che grande sembrassero al Doni, prima che d’amico
diventasse nemico, e a Bernardo Accolti, che si faceva chiamar l’Unico.
L’Aretino stesso non doveva esserne troppo contento, se dell’uno e
dell’altro poema mandò fuori poco più che il principio, e se della
_Marfisa_ faceva abbruciare, come abbiamo veduto, le migliaja di
stanze.

Egli, che aveva così vivo sentimento della realtà, non doveva trovarsi
troppo a suo agio in quel mondo favoloso della epopea romanzesca,
e se pure ci si cacciò dentro, il fece, senza dubbio, per seguitare
l’andazzo, o per mostrare che poteva provarsi in questa come in ogni
altra impresa letteraria. Tanto più degno di lode parrà che egli sia
riuscito a introdurre in quei saggi suoi qualche novità d’invenzione,
che siasene uscito con essi dalla via più trita, e, diciamolo pure,
più nojosa; ma non è men vero che all’indole del suo ingegno e ai
suoi gusti, assai più della _Marfisa_, delle _Lagrime d’Angelica_ e
dell’_Astolfeida_, quasi sconosciuta, si confà l’_Orlandino_.

L’_Orlandino_ è un tentativo di poema burlesco, in cui Orlando, e Carlo
Magno e i paladini tutti, oggetto già di tanta e sì loquace ammirazione
poetica, sono posti alla berlina, vituperati, trasformati in ghiottoni
e in poltroni. Fu detto che così facendo l’Aretino abbassava il
mondo cavalleresco al suo livello; ma non mi pare giudizio giusto.
L’_Orlandino_ è un frammento di poema parodico e satirico, e prima di
pronunziare così aspra sentenza, si deve considerare se la parodia e
la satira sono in tal caso legittime ed opportune. E sono certamente.
Non bisogna dimenticare che quel mondo cavalleresco era già venuto a
noja gran tempo innanzi, e che le prime satire e parodie s’incontrano
in Francia, nel paese a cui le moderne letterature debbono l’epopea
carolingia e l’epopea bretone. Non bisogna dimenticare che di quella
noja si genera il _Don Chisciotte_. In Italia Luigi Pulci già con
molto buon garbo si burla dei suoi cavalieri, e basta pensare all’uso
che nel Cinquecento si fece delle finzioni romanzesche, allo strabocco
di poemi imitati dall’_Orlando Innamorato_ e dall’_Orlando Furioso_,
che allora allagò e sommerse l’Italia, per intendere che una reazione
era, non legittima soltanto, ma inevitabile. E la reazione venne e
venne col _Baldo_ di Teofilo Folengo e con l’_Orlandino_ del nostro
Pietro, il quale, in una sua lettera al capitano Faloppia, si burla
anche delle _ciabatterie_ dei poeti della Tavola Rotonda[250]. E in
un altro _Orlandino_ il Folengo chiama con uno strano nome, e danna a
un uso ch’io non dirò qual sia, tutti i poemi cavallereschi, meno il
_Morgante_, l’_Innamorato_, il _Furioso_ e il _Mambriano_[251].

Ma le composizioni senza dubbio più pregevoli dell’Aretino sono le
drammatiche. Raccostare per l’_Orazia_ l’Aretino allo Shakespeare è
pazzia bella e buona; ma non è men vero che è questa una delle migliori
tragedie del Cinquecento, la prima che risolutamente si scosti dal
tipo classico, e quella tra tutte che procede con fare più largo, e che
spira più vivo soffio di umanità. Essa accenna alla maniera che tenne
più tardi lo Shakespeare, e non è questa una picciola gloria. Quanto
alle commedie, sono certamente delle migliori del nostro Teatro, e,
direi, superiori a tutte, meno due o tre. Con esse l’Aretino si toglie
deliberatamente dall’usanza comune, ch’era di rifar Plauto e Terenzio,
usanza a cui nemmeno un Lodovico Ariosto volle o potè ribellarsi.
Discepolo della natura, quale si protesta anche una volta nel Prologo
dell’_Orazia_, l’Aretino si studia di riprodur sulla scena il suo
mondo, e mette una buona volta da banda quelle favole stantie di padri
ingannati, di figliuoli discoli, di servi nemici degli uni e ajutatori
degli altri, per surrogarle con altre, desunte immediatamente dalla
vita dei tempi. I vecchi tipi tradizionali e invariabili fanno luogo
nelle sue commedie a figure vive, a veri caratteri, tratteggiati con
molta bravura, e molta e fine cognizione del cuore umano: tale è quel
maniscalco cui si dà ad intendere che il signore vuol fargli tor moglie
per forza; tale quel Plataristotile, filosofo speculativo, che ha il
capo pieno di alte massime, e piena la bocca di gravi sentenze, e nulla
vede della tresca che gli fanno intorno i servitori e la moglie; tale
quell’ipocrita, di cui basti dire che il Molière lo conobbe certamente,
e se ne giovò per il suo _Tartufe_; tali altri molti. Qui i servitori
non sono i soliti inventori di burle e di trappole in danno dei vecchi
avari, in benefizio dei giovani scapestrati; ma lavorano per proprio
conto, fanno i proprii interessi, e più accorti di tutti, di tutti
beffandosi, empiono la scena di scontri e di casi ridicoli. Giannico,
il ragazzo del maniscalco, è il più petulante e fastidioso monello che
si possa veder sul teatro, e Ippolito Salviano, mutandogli il nome
in Farfanicchio, lo introdusse in certa sua commedia. Le burle e le
truffe del Fora e del Costa nella Talanta sono saporitissime novelle
messe in azione. I personaggi principali hanno intorno una turba di
personaggi secondarii, i quali riproducon l’ambiente; mercanti, ebrei,
cantastorie, dottori, capitani, pedanti, frati, sbirri. Nell’ultima
scena della _Talanta_ ce ne sono non meno di diciannove riuniti.

Non so perchè dica il Burckhardt che l’Aretino non era buono di trovare
la vera disposizione drammatica di una commedia[252]. Ad ogni modo la
misura della propria potenza comica l’Aretino la dà nel _Marescalco_,
dove una situazione unica è protratta e sostenuta per cinque interi
atti senza che l’interesse languisca un momento. E molti altri pregi ci
sono in queste commedie. I prologhi sono i più nuovi, i più briosi, i
più ingegnosi che siensi mai scritti, e quelli del Lasca fanno la ben
magra figura al paragone. Il dialogo è di una vivezza insuperabile,
naturale e argutissimo, meno che nelle scene d’amore patetico, dove
l’Aretino non si sente troppo dimestico. I soliti cattivi spedienti
di somiglianze strane, di abiti scambiati non mancano; ma non se ne fa
quell’abuso che nelle altre commedie del tempo. Insomma non dice troppo
chi dice che la tragedia e le commedie dell’Aretino accennano a una
riforma del teatro importantissima.

Dell’altre opere che mi sembra opportuno ricordare mi sbrigo in due
parole. I _Ragionamenti_ saranno infami fin che si vuole; ma come
dialoghi sono dei più gustosi che il Cinquecento abbia prodotto, e in
essi, non meno che nelle commedie, guizza un fuoco di satira che lascia
il segno ove tocca. Perchè, non dispiaccia ai suoi troppo arrabbiati
nemici, e ai suoi detrattori implacabili, l’Aretino ha in sè tale un
rigoglio di spirito satirico, che pochi in quel secolo hanno l’eguale.
Lodovico Ariosto, sferzati, nella satira a Pietro Bembo, gli umanisti
viziosi, i poeti increduli e vaghi di mutarsi il nome cristiano in
pagano, esclama:

    Ma se degli altri io vuo’ scoprir gli altari,
      Tu dirai che rubato e del Pistoja
      E di Pietro Aretino abbia gli armari.

Scipione Ammirato chiama _maravigliosa_ l’eloquenza con cui l’Aretino
_spiegò tutta l’arte del puttanesmo_. Le lettere furono le prime
lettere volgari che si stampassero, e fecero che molti poi si
mettessero a comporne e stamparne. Esse sono per noi un repertorio
prezioso di notizie d’ogni maniera, e contengono fedelissime dipinture
dei tempi, il che non poteva intendere il Menagio, quando disse di non
averci mai trovato dentro cosa che potesse mettere ne’ suoi libri[253].
Certo l’Aretino aveva ragione di tenerle assai migliori di quelle di
Bernardo Tasso[254].

Quanto alle opere sacre dirò ch’esse non dispiacquero punto ai
contemporanei; che furono tradotte in francese; che Vittoria Colonna
avrebbe voluto che l’Aretino si desse tutto intero a comporne, e che
anche il Dolce ne compose di simili. Non le difendo, anzi dichiaro che
sono nojosissime a leggere; ma a chi fa un grave carico all’Aretino
per aver mescolato ai racconti degli Evangeli, o alle leggende dei
santi, favole da lui immaginate, dico che così praticando l’Aretino
non faceva peggio di coloro che ci cacciavan dentro tutta la mitologia.
Letterariamente parlando, faceva assai meglio.


VIII.

E ora concludiamo.

L’Aretino non è quel pessimo e mostruoso uomo che s’è voluto fare
di lui, o almeno non merita solo l’infamia, se le male qualità che
gliel’hanno procacciata appartengono, non meno che a lui, al suo
secolo.

L’Aretino non può essere messo nel novero dei grandi scrittori, perchè
non lasciò dopo sè nessun capolavoro; ma alcune delle cose sue sono
molto pregevoli, e tutte fanno fede di uno spirito ardito e di certe
tendenze novatrici delle quali non fu tenuto conto abbastanza, e
che meritano invero molta considerazione. A mio giudizio, l’Aretino
ha, come letterato, assai più importanza che non il Guidiccioni, il
Casa, o alcun altro simile, il cui nome figura nientedimeno assai più
onoratamente nelle molte storie della nostra letteratura.

La doppia infamia, morale e letteraria, che ingombrò il nome
dell’Aretino, si deve in parte alla invidia degli emuli superati da
lui, in parte, e credo principalmente, alla reazione cattolica. La
Chiesa, in vena di riforme, guardò con dispetto e con esecrazione quel
secolo che pur da un pontefice doveva prendere nome, e detestò quei
costumi, ch’essa stessa, scientemente o non, aveva favoriti, ma che
le procacciarono poi la più grande jattura che mai le sia toccata, lo
scisma di Lutero. E poichè condannare intero quel passato non poteva
senza condannare in pari tempo sè stessa, e poichè diveniva urgente
di dare altrui un chiaro concetto di quella depravazione da cui
bisognava appunto scostarsi, essa riversò tutta l’ira sua sopra alcuni
che in quel secolo avevano primeggiato, e, come tipi, li propose alla
abominazione delle genti. Così incontrò all’Aretino; così incontrò
anche al Machiavelli; e l’uno e l’altro furono messi fuori dell’umano
consorzio, furono cacciati nel deserto come capri emissarii, carichi
delle colpe d’Israele.

O prima o poi si troverà chi rinarri, nel modo che dai tempi è
richiesto, la vita di Pietro Aretino, e non sarà un accusatore, nè un
panegirista, ma uno storico. Non so quali nuove e particolari notizie
potrà recare l’opera sua; ma la leggenda, credo, ne sarà sparita, e
ne terrà il luogo questo giudizio: Pietro Aretino non è, moralmente
parlando, peggior del suo secolo, e come scrittore vale più di parecchi
che godono assai miglior fama di lui.



I PEDANTI


I.

Questo sciagurato nome di pedante non ebbe sin dal principio tutta
l’estensione di significato che ha ora; ma denotò propriamente il
pedagogo, il maestro di scuola, una specie soltanto del largo e
copiosissimo genere pedantesco.

Quale la origine del nome non è bene accertato. C’è chi la volle
rintracciare nel verbo latino pedere, il cui significato può vedersi
nei vocabolarii. Gli etimologisti moderni ammettono come più probabile,
ma non come sicura, la derivazione dal greco παιδεύειν, istruire,
allevare. Quanto al tempo in cui il nome cominciò ad usarsi, dice il
Varchi nell’Ercolano[255]: «Quando io era piccino, quegli che avevano
cura de’ fanciugli insegnando loro... e menandogli fuora, non si
chiamavano, come oggi, pedanti, nè con voce greca pedagogi, ma con
più orrevole vocabolo ripititori». Essendo il Varchi nato nel 1502,
dalla sua affermazione si ricaverebbe che quell’uso non cominciò se non
passati parecchi anni del secolo xvi; ma d’altra banda il nome si trova
già in alcuni sonetti burchielleschi, i quali, se si potesse proprio
provare che sono del pazzo poeta e barbiere fiorentino, mostrerebbero
l’uso esserci stato sino dalla prima metà del secolo xv. Checchessia
del nome, certo la cosa è assai antica: il pedante nostro discende in
linea retta dal pedagogo e dal ludimagistro dei greci e dei latini.
Vero è che il Doni, nel suo commento ai sonetti di esso Burchiello,
narra, _fondandosi sulle testimonianze_ di Erodoto, di Appiano, e di
Gioseffo, che il primo pedante fu un ladro, il quale scampò dalle
forche solo perchè una pubblica meretrice lo chiese per marito. Il
nome dalla lingua italiana passò nella francese, nei bei tempi in
cui tutti gli eleganti di Francia si gloriavano di parlare italiano;
passò nella spagnuola, nella portoghese, nell’inglese, nella tedesca,
e diventò subito nome di sprezzo e di scherno. Il più gran dispetto
che si potesse fare ai pedanti fu appunto di chiamarli pedanti. Per
darci ragione di quello sprezzo e di quello scherno, vediamo un po’ di
che maniera fossero le qualità fisiche e morali, quali le condizioni,
gli atti e i portamenti di coloro che ne erano colpiti. Documenti e
testimonianze abbondano; non abbiamo che a consultarli, e a trarne gli
elementi della nostra descrizione.

Cominciamo dal dire che il pedante genuino, o, piuttosto il pedante
tipico, non ha col favoloso Narciso e con lo storico Antinoo nessuna,
nemmen remotissima parentela, e delle Grazie non conosce se non
quel tanto che ne scrissero i poeti. Piuttosto allampanato che
magro, piuttosto scontrafatto che brutto, egli veste miseramente e
bizzarramente di panni logori e sucidi, forzando ad accomunarsi in una
lamentabile livrea di miseria le fogge più disparate e più repugnanti.
Ciò che il rigattiere rifiuta trova sul suo dorso un ultimo e durevole
impiego[256]: la toga pelata di un pedante, dice Tommaso Garzoni, _non
ha visto manco di cinque Jubilei._ Il Caporali, parlando nella _Vita
di Mecenate_[257], dei vari lasciti fatti da costui nel suo testamento,
dice:

    Or veniamo a i legati de i Pedanti,
      . . . . . . . . . . . . .
      . . . . . . . . . . . . .
    Ei lasciò lor un valigion di stracci,
      Due toghe rotte, un berrettin macchiato,
      E una camicia vecchia e senza lacci.

Il bagaglio non era dunque loro di grande impaccio: certo pedante
descritto dall’Aretino[258], e di cui dovrò riparlare, aveva per tutta
masserizia una «sacchetta dova tenea due camisce, quattro fazzoletti,
e tre libri con le coperte de tavole». Se al detto sin qui si aggiunge
che il pedante riusciva goffo in ogni suo atteggiamento, o movenza,
e che spesso il suo volto si vedeva (se non mentono i narratori)
_ricamato di scabbia gallica_, o di altra sì fatta galanteria, si
avrà di lui una immagine non certo finita ed intera, ma sufficiente al
proposito nostro.

Brutto sotto l’aspetto fisico, il pedante non appar bello davvero
sotto l’aspetto morale. Egli è, di solito, un uomo ottuso di mente;
ricco talvolta di memoria, ma poverissimo sempre di giudizio; privo
di qualsiasi genialità, e spesso spesso sciocco di una sciocchezza
tanto più ridicola quanto più inviluppata di saccenteria. Egli ha
quella che l’Elvezio chiamava la più incurabile delle stupidità, la
stupidità acquistata con lungo studio. Gli è assai raro che in quelle
raccolte di facezie e di motti di cui ebbe tanta copia il Cinquecento,
si trovino detti arguti posti in bocca a pedanti[259]; mentre è
frequentissimo il caso che si narrino esempii incredibili della lor
grulleria. Il Doni racconta di uno che avendo veduto il discepolo
sputare sopra un ferro per accertarsi se fosse caldo, sputò poi, con
lo stesso intendimento, sulle lasagne, e non avendole udite friggere,
se ne cacciò in bocca una gran forchettata e si cosse tutto[260]. E
quale l’ingegno, tali naturalmente gli studii e la coltura. Il pedante
è, come dice l’Aretino, l’asino degli altrui libri; è un uomo nel cui
capo non entra nulla, se l’autorità di un libro non ce la fa entrare.
Infatuato dell’antichità e dei classici, disprezza, senza punto
conoscerlo, il mondo in cui vive, ma a cui veramente non appartiene.
Del resto anche l’antichità, che egli crede di aver famigliare, è
per lui un mondo chiuso, di cui non considera e non conosce se non la
scorza. Egli ha letto tutti gli autori latini, se non anche i greci;
ma dei poeti ha colto la parola, non l’anima, degli oratori il suono,
non le ragioni, dei filosofi tutto il più le sentenze, non le larghe
e poderose intuizioni. Ha la memoria pronta, e anche ben guernita;
ma quella sua memoria non è un libro fatto e nemmeno un zibaldone; è
uno schedario. La sua sapienza è tutta di citazioni: nei _Ragguagli
di Parnaso_ Trajano Boccalini ce ne dà un giusto concetto, quando ci
mostra i pedanti che coi bacili in mano vanno raccogliendo le sentenze
e gli apoftegmi che _scatarrono_ i savii dell’antichità[261]. E quando
compongono, se pur compongono, non fanno altro che mettere in carta
di nuovo ciò che in carta han trovato, compilar ristretti, o manuali,
o trattati. Parlando dei pedanti, Niccolò Franco fa dire alla sua
lucerna: «Gli veggo star d’intorno a i libri, facendosi scoppiare
il core per imparare due parolette per lettera, per attestarle senza
proposito. Non gli veggo mai scrivere cosa alcuna di lor farina. Veggo
che non san far altro che repertorii, vocabulisti, arti da far versi, e
modi da componere pistole»[262].

Il pedante è prima di ogni altra cosa, e sopra ogni altra cosa, un
grammatico: uno sfregio alla verità, una offesa al buon senso non
lo commuovono; un mancamento ai precetti di Prisciano e di Donato
lo fa uscire dai gangheri. Trajano Boccalini dice che in Parnaso fu
attaccata un giorno grande zuffa tra i pedanti, gli _epistolarii_ e
i commentatori, per un disparere se _consumptum_ dovesse scriversi
con la p o senza la p. Apollo, stomacato, voleva cacciarli tutti fuor
del suo regno, ma poi ce li lasciò stare a istanza di Cicerone e di
Quintiliano[263]. Quanta fosse del resto la pedanteria dei grammatici
si può vedere in certi esempii recati dal Pontano[264] e da Alessandro
degli Alessandri[265], per tacer d’altri. Il pedante non parla mai
facile e piano, chè gli parrebbe di ragguagliarsi al volgo; orna
quanto più può la dizione, studia la voce e il gesto, canta _così le
prose come i versi_[266]; sapendo di non poter essere inteso da chi lo
ascolta, commenta e dichiara egli stesso ogni parola che dice[267],
e non avendo mai nulla da dire che importi, ha sempre in pronto
un’apostrofe, un epifonema, una serqua di aforismi, una orazione
spartita secondo le regole. Egli ha la dottrina e l’arte del vaniloquio
vestito d’enfasi e di magniloquenza. Nella _Cena delle Ceneri_ di
Giordano Bruno, il pedante Prudenzio interrompe il racconto di certo
Teofilo, altro interlocutore del dialogo, e dove questi aveva detto:
_dopo il tramontar del sole_, egli muta e supplisce: _Già il rutilante
Febo, avendo volto al nostro emisfero il tergo, con il radiante capo ad
illustrar gli antipodi sen giva_. Ne segue un piccolo diverbio:

  FRULLA. Di grazia, _magister_, raccontate voi, per che il vostro
  modo di recitare mi soddisfa mirabilmente.

  PRUDENZIO. Oh, s’io sapessi l’istoria.

  FRULLA. Or tacete dunque, nel nome del vostro diavolo.

Che importa al pedante che quanto ei dice non sia al proposito,
se, come a lui sembra, è ben detto? In uno dei suoi _dialogi
piacevoli_[268] il Franco introduce un pedante Borgio, quello stesso
contro cui scrisse una delle più vituperose sue epistole[269]. Questo
pedante è morto e giunto sulla riva d’Acheronte: ma non può indursi
a passar come gli altri, e prega Caronte di aspettare un poco, tanto
che egli possa comporre una orazioncella da recitare in cospetto di
Plutone. Ottenuta licenza, comincia a discutere con sè stesso se la
orazione debba appartenere al genere dimostrativo, al deliberativo, o
al giudiciale. Scelto il dimostrativo, ricorda di aver letto in Tullio
che cinque sono _le parti de l’officio de l’oratore_, invenzione,
disposizione, elocuzione, memoria e pronunciazione. Poi va oltre,
ricercando i _colori retorici_, provando con esempii la virtù loro,
e finalmente mette insieme il suo discorso con esordio, narrazione,
divisione, confermazione e conclusione. Il Franco dimentica di dirci
quale accoglienza il pedante Borgio si avesse da Plutone. Nemmen
dopo morto il pedante cessa d’esser pedante. Nel suo lucianesco
dialogo intitolato _Charon_, il Pontano introduce l’anima di un
Pedano grammatico, giunto allora allora agli Inferni. Pedano pensa ai
discepoli che ha lasciati nel mondo, e prega istantemente Mercurio
di voler loro riferire alcune cose di gran rilievo da lui risapute
dallo stesso Virgilio poc’anzi; e cioè, come Aceste donasse ad Enea,
non cadi di vino, ma anfore; come lo stesso Aceste vivesse anni
centoventiquattro, mesi undici, ventinove giorni, tre ore, due minuti e
mezzo secondo; che Enea toccò la terra d’Italia con entrambi i piedi a
un tempo, ecc. Ludovico Domenichi racconta di un pedante che stando per
affogare, gridava forte: _O Dio, che ti pare del nostro Cicerone? che
cura tiene egli dei suoi amici?_[270].

Il pedante non si contenta, per distinguersi dal volgo, di parlare
secondo i precetti dell’arte oratoria e con l’esempio di Cicerone
innanzi; ma usa inoltre di una lingua sua propria. Quando può parla
latino, perchè il latino, a suo giudizio, è la lingua nobile, la lingua
perfetta, la lingua per eccellenza; quando non può parlar latino, e
la necessità lo sforza, parla volgare; ma allora per ricattarsi, alle
parole e alle frasi volgari, mescola le parole e le frasi latine,
sparge di latinismi il suo dire, e fa un guazzabuglio che nessuno
intende. Il Garzoni narra di un pedante che volendo dar nuova altrui
come nella città sua di Bologna c’erano molti banditi, i quali si
temeva che un dì o l’altro non ammazzassero il governatore, disse:
_Io vereo che per la copia di questi esuli un giorno non venga necato
l’antistite_. E narra di un altro, che indirizzando una lettera in
Padova, sulla piazza del vino, alla spezieria della Luna, scrisse:
_Nella città Antenorea, in sul Foro di Bacco, all’Aromatario della Dea
Triforme_[271]. Nè questa era usanza dei soli pedanti italiani: il
Montaigne racconta di un amico suo, che avendo a discorrere appunto
con un pedante, prese per burlarsi di lui, a _contrefaire un jargon
de galimatias, propos sans suitte, tissu de pièces rapportées, sauf
qu’il estoit souvent entrelardé de mots propres à leur dispute_, e così
facendo lo tenne un giorno intero _à débattre_, pensando il pedante
_toujours respondre aux objections qu’on lui faisoit_[272].

Sappia pochissimo, come d’ordinario accade, o sappia malamente assai
cose inutili, come pure incontra talvolta, il pedante presume sempre
moltissimo di sè, incede con magistrale gravità, con volto d’uomo
immerso in alti e reconditi pensieri, con atti dottorali e schivi.
Certo pedante, introdotto da Metello Grafagnino in un suo bizzarro
capitolo, ascrive alla schiera dei _ludimagistri_ Aristotele, Platone,
Socrate, Seneca, e molti altri antichi e moderni, e a questo modo fa
sè pure della loro schiera. Francesco Ruspoli, in uno de’ suoi sonetti,
definisce il pedante

    Gigante d’ambizion, di saper nano;

e soggiunge:

    Appena l’_a bi ci_ solo col dito
      Ei discerne, e non sa l’indicativo,
      Che giunge d’insolenza all’infinito[273].

Questa insolenza mostravano più particolarmente i pedanti nel
riprendere altrui, nel censurare le altrui fatiche, in nome delle
sane dottrine e del corretto gusto, di cui si stimavano depositarii e
tutori. «Vorrei», dice l’Aretino nel Prologo dell’_Ipocrito_, «levati i
pedanti a cavallo, che il sovatto d’una scuriata gli insegnasse il come
si fanno l’opre, e non come le si mordono». E son noti quei versi del
Boileau:

    Un pédant, enivré de sa vaine science,
    Tout hérissé de grec, tout bouffi d’arrogance,
    Et qui, de mille auteurs retenus mot pour mot,
    Dans sa tête entassés, n’a souvent fait qu’ un sot,
    Croit qu’un livre fait tout, et que sans Aristote
    La raison ne voit goutte, e le bon sens radote.

Ma se i pedanti non avessero avuto altri difetti che la superbia e
l’insolenza, si sarebbero potuti, sino ad un certo punto scusare; il
guajo si è che ne avevano altri, e parecchi e grossi. Il pedagogo è da
scegliere tra mille, diceva il Vida; _quaerendus rector de millibus_,
lasciando intendere che tra mille se ne poteva trovare uno buono.
Saba da Castiglione, ne’ suoi _Ricordi ovvero Ammaestramenti_[274],
vorrebbe «le città fossero ben proviste, e fornite di maestri di
scuola, li quali fossero catolici, spirituali, maturi, gravi, onesti,
ben accostumati», appunto come troppo spesso non erano. Nè manca
chi, facendo il novero di tutte le lor _virtù_, li chiama bugiardi,
ghiottoni, poltroni, ipocriti, seminatori di discordie, ladri, ponendo
fine alla assai più lunga litania colla menzione punto velata di
un vizio che, in antico, la Grecia aveva dato a Roma, e che certo,
nel Cinquecento, non era dei soli pedanti[275]. Nell’_Inferno degli
scolari_ dice il Doni che i pedanti sono «viziosi, golosi, negligenti,
ignoranti, goffi, rozzi, nojosi, fastidiosi, ribaldi, scelerati e
peggio»[276]. Peggio chè?

I pedanti erano di due maniere, secondo che esercitavano l’ufficio
loro nelle famiglie che li tenevano a stipendio, o in iscuole,
sovvenute o non sovvenute dal pubblico erario; ma qual che si fosse
il modo dell’esercizio, non variavano le usanze loro e non variava
l’indole dell’insegnamento. Che cosa fosse questo insegnamento si può
arguire dalla qualità degl’insegnanti. Se passava oltre i gradi di una
istituzione primaria, il che non sempre accadeva, il latino prendeva
subito, ben s’intende, luogo principalissimo; ma in qualunque grado si
fosse, era e rimaneva, non occorre dirlo, essenzialmente _pedantesco_.
Non chiedete al pedagogo il più elementare avvedimento di quella
scienza che da lui prende il nome, la pedagogia. L’arte di rendere
gradito, e, appunto perchè gradito, fruttuoso lo studio, è un’arte
ch’egli ignora, e che disprezzerebbe, se la conoscesse. Ha tanto sudato
egli a imparar ciò che sa! bisogna bene che altri sudi a sua volta.
Ciò che in qualsiasi disciplina è più esterno e men vivo, la formola
che strozza il pensiero, la regola che gli allaccia le ali, la lettera
che uccide, ecco l’oggetto d’ogni diligenza pel pedante, ecco le cose
intorno a cui egli non si stanca e non rifinisce di dare ammaestramenti
e precetti. Per lui la mente del discepolo è come un bossolo vuoto
dentro, e l’arte dell’istruire consiste tutta nell’imbossolarvi certa
quantità di cognizioni in modo che non vi patiscano alterazione, e le
si possano, ad ogni bisogno, tirar fuori tali e quali vi furono messe.
Come il gesuita, il pedante lavora a uccidere l’intelletto, salvo che
nol fa, come il gesuita, per deliberato proposito: il suo insegnamento
non tende ad altro, dice il Montaigne, _qu’à remplir la memoire,
lasciando l’entendement et la conscience vuide_. E se ciò è vero, chi
oserà dire che l’insegnamento pedantesco sia sparito dal mondo?

I libri che in Italia formavano la necessaria scorta di ogni
pedante erano: le grammatiche di Prisciano e di Donato, le _Regole
Sipontine_, la _Cornucopia_, il _Liber de metris_, di Niccolò Perotto,
il _Catholicon_ di Giovanni Balbi, il _Calepino_, le _Regole_ del
Cantalicio, lo _Spicilegio_ del Mancinello, il _Dottrinale_, ed altri
così fatti, di vario argomento, che non mette conto di ricordare. Il
Folengo, narrando la fanciullezza turbolenta del suo eroe Baldo, dice:

    Fecit de norma mille scartozzos Donati,
    Inque Perotinum librum salcicia coxit[277].

Ai libri manuali si accompagnavano, secondo che l’insegnamento si
allargava più o meno, alcuni testi classici e anche qualche libro
volgare; ma ognuno può immaginarsi che cosa diventasse lo studio e
la interpretazione dei classici, se, come dice Bartolomeo Amigio, un
pedante che appena aveva letto lo _Spicilegio_ del Mancinello e le
_Regole_ del Cantalicio, si arrogava di commentar Platone[278].

Di questo insegnamento gretto, meccanico, essenzialmente infecondo
del pedante, nessuno diede immagine più adequata di quella che, con
celia non men profonda che arguta, porge il Rabelais, parlando della
educazione di Gargantua[279]. Quel dabben uomo di Grandgousier, avendo
riconosciuto nel figliuolo un mirabile ingegno naturale, volle che
un’ottima istituzione venisse in ajuto della natura, e traesse dal ben
disposto seme il frutto perfetto. Tubal Oloferne, il reputatissimo
maestro scelto a tale ufficio, si pose all’opera, e in ispazio di
cinque anni insegnò all’alunno l’abbicì; poi gli lesse il Donato, il
Faceto, il Teodoleto e l’_Alanus in parabolis_, spendendoci intorno
tredici anni, sei mesi e due settimane. Dopo di ciò gli espose il
_De modis significandi_ con tutti i commenti che se ne fecero, e
consumò in tale esercizio diciotto anni e undici mesi; ma questo tempo
trascorso, Gargantua sapeva il tutto a memoria, e poteva anche ridirlo
alla rovescia, e _prouvoit sur ses doigts à sa mère, que de modis
significandi non erat scientia_. Allora il buon maestro pose mano al
_Computo_; ma dopo sedici anni e due mesi di tale insegnamento, si
morì,

    Et fut l’an mil quatre cents vingt,
      De la verole qui lui vint.

Un secondo maestro, per nome Jobelin Bridé, lesse allora ed espose
all’alunno alcuni altri libri della stessa farina; dopodichè il padre
cominciò finalmente ad avvedersi che il figlio _en devenoit fou, niais,
tout resveux et rassoté. De quoi se complaignant à don Philippes des
Marais, viceroi de Papeligosse, entendit que mieulx lui vauldroit rien
n’apprendre, que tels livres soubs tels précepteurs apprendre. Car leur
sçavoir n’estoit que besterie, et leur sapience n’estoit que moufles,
abastardissant les bons et nobles esperits, et corrompant toute fleur
de jeunesse._ Allora Grandgousier affidò Gargantua a Ponocrate, un
maestro di animo generoso ed aperto, di larga e viva coltura, la
istituzion del quale, opposta e contraria, sotto ogni rispetto, a
quella degli altri due, può in gran parte anche oggi considerarsi come
modello di una istituzione proficua, intesa a svolgere armonicamente
tutte le buone energie della natura umana.

Ma ciò che il Rabelais dimentica di dirci si è che l’argomento
pedagogico per eccellenza, la _prima et ultima ratio_ del pedante era
lo staffile. Lo staffile è, da tempo antichissimo, come l’emblema del
pedagogo, la divisa, se si può dire, del suo insegnamento. Il buon
Orazio, intento negli anni maturi a cogliere _il dolce_ della vita,
ricordava ancora, con vago terrore, il _plagosus Orbilius_ a cui era
stata soggetta la sua fanciullezza; Marziale rammenta le _ferulae
tristes, sceptra paedagogorum_. Una pittura di Ercolano mostra quanto
antica sia la pratica di quello che gli scolari d’Italia chiamarono
con figurato eufemismo il _cavallo_. Lo staffile si adoperava tanto
dai pedanti domestici, quanto dai pedanti che tenevano scuola aperta;
ma se quelli dovevano, sotto gli occhi delle persone di casa, usarne
con qualche discrezione, questi potevano usarne ed abusarne come e
quanto loro piaceva. Qual meraviglia, se le descrizioni che ce ne son
pervenute, ci dipingono la scuola come un altro inferno? Non iscuola
la diresti, esclama in un impeto d’ira Erasmo da Rotterdam, ma luogo
di tortura, dove non si ode altro che crepito di sferze, strepito
di verghe, lamenti, singulti, e minacce atroci; e soggiunge cose
incredibili dei mali trattamenti che in sì fatti _luoghi di tortura_
si infliggevano ai fanciulli da uomini, come dice egli stesso, troppo
sovente agresti, scostumati, lunatici, insani di mente[280]. Intimidire
l’alunno, riemperne l’anima di una specie di sacro terrore, in guisa
da spegnervi ogni vivezza e bollore di spiriti tracotanti e riottosi,
ecco ciò che il pedante si proponeva di conseguire anzi tutto; senza
sospettar nemmeno che il primo effetto delle sue pratiche era di
rendere odioso ogni studio, e di fiaccare nell’alunno stesso quelle
morali energie senza l’esercizio delle quali non è studio che frutti.
Vincere e domare la caparbia e ribelle natura, ecco il supremo canone
pedagogico; d’onde la incredibile usanza di picchiare anche quando non
ci fosse fallo, senza una ragione al mondo, di buon mattino, per ben
preparare al lavoro della giornata. E quando non erano busse, erano,
come dice il Garzoni, modi di chiedere terribili, grida strepitose, un
passeggiar per la scuola _a guisa di tanti pavoni_[281], uno starsi in
cattedra, dice Cyrano de Bergerac, a mo’ di un Cesare, facendo tremare
sotto lo scettro di legno il popolo della piccola monarchia[282]. Ebbe
ragione il Bronzino di dire, parlando dell’età dell’oro:

    Non erano spaventi o battiture
      Pe’ fanciulli, e la scuola e la bottega
      Ancor non erano in _rerum naturae_ (_sic_)[283];

ma più ragione ebbero quegli scolari di Pavia, di cui narra Cesare Rao
in una delle sue _Argute e facete lettere_[284], i quali un bel giorno
levarono il loro pedante a cavallo e lo regalarono di più di _cento
scoriate_, ripagandolo delle infinite che gli aveva date loro. Essi
tennero la via seguita sin da principio dal giovine Baldo:

    Nunquam terribilis quid sit scoriada provavit
      Namque paedagogis hic testam saepe bolabat[285].

I fanciulli che avevano il pedante in casa, soggiacevano a disciplina
meno bestiale, ma non imparavano di più, e correvano altri pericoli.
La presenza del pedante in casa poteva dare, e dava spesso, luogo a
corruttele, a scandali, a guai d’ogni maniera, specialmente se, come
accadeva di solito, le famiglie a fine di spender meno, si pigliavano
per maestro un qualche paltoniere, non meno povero di dottrina che nudo
di ogni dignità. Perciò lo Spelta, di cui ho già citato il libro, si
mostra grande avversario di quelli che chiama _maestri casalenghi_, si
duole della _goffaggine_ de’ gentiluomini che vogliono il pedante in
casa, e si dichiara risolutamente fautore delle scuole pubbliche. Egli
non crede che l’insegnamento dato in casa possa riuscir mai di qualche
vantaggio al discepolo, «perchè quando anco il povero maestro vuole
riprendere o castigar il furbo di qualche errore, subito la signora
madre corre di sopra, o dove insegna, e fa cappellate d’importanza al
_cujum pecus_. Il quale temendo di perdere la pagnocca, lascia correre
cinque settimane per un mese. E mangiando la panigada in pace, diviene
grassetto, compra l’offelle, la gioncadina co l’alunno, ed insieme
stanno su le papardine. Ben voluti dalla padrona che se ne serve in più
servigi. Fa del fattore, o del mastro di casa; egli è insomma quello
che taglia il budello in tavola»[286].

Ma qualche volta faceva anche altro, ed entrava un po’ troppo nelle
buone grazie della padrona. Parlando di certe gentildonne, dice
il Rosso nella _Cortegiana_ dell’Aretino: «Ed i pedanti ancora
ne vanno beccando qualcuna... non gli bastando figli, fratelli e
fantesche»[287]. In uno dei _Ragionamenti_ dello stesso Aretino si
narra la stomachevole istoria di certa donna maritata, la quale «si
inghiottonì di un di questi pedagoghi affumicati, che si tengono ad
insegnare per le case, il più unto, il più disgraziato, il più sucido
che si vedesse mai»[288]. La buona femmina tanto fece che riuscì a
trarselo in casa. S’intende come il pedante, fatto amico della padrona,
dovesse poi diventar egli padrone, e mettersi sotto tutta la famiglia,
a cominciare dal melenso marito. In tal condizione egli poteva sembrar
degno d’invidia a tutto l’innumerevole stuolo dei ghiottoni e dei
parassiti. Gabriello Simeoni dice nella _Satira dell’avarizia del
mondo_:

    Può far Domenedio tanto da bene,
      Ch’a pedanti e notai sia il mondo in mano,
      Il mondo cieco e pazzo da catene?
    Di natura è il pedante aspro e villano,
      Implacabile, avaro e discortese,
      Crudel, superbo, sospettoso e vano.
    Prima s’acconcia in casa per le spese,
      Poi qual Margutte ognun si caccia sotto,
      E del tutto è padrone in men d’un mese[289].

Giovanfrancesco Ferrari, poeta bernesco dei men noti, ma non dei meno
pregevoli, tesseva un capitolo in lode della pedanteria, e giurava di
volersi far pedante, parendogli non ci fosse al mondo stato più comodo
di quello.

    A me pare un bel che, stando a sedere
      Vender le sue parole notte e giorno
      E cavarne il vestire, il pane e il bere.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    E poter obedito comandare
      A tutti quei di casa, e a la padrona
      Star dirimpetto a cena, a desinare.
    Ed esser ascoltato, qual persona
      Dotta e sacciuta, con attenzione,
      Mentre che de i cujusse si ragiona.
    E su le dita dir la sua ragione,
      E con qualche argomento in baricoco
      Far restar il messere un bel castrone[290].

Ma quando il pedante non riusciva a farsi padron di casa, oppure
quando teneva scuola aperta per conto suo, come travagliata, quanto
misera e vile era la sua condizione! I salarii (che stipendii non si
posson chiamare) erano derisorii il più delle volte: «la viltà del
prezzo è sì fatta, ch’è vergogna a sentirla», dice l’anima del pedante
Anisio in uno dei dialoghi del Franco; e Caronte le chiede invano il
quattrino che gli si deve[291]. La concorrenza era grande e rabbiosa e
produceva naturalmente il suo effetto: in uno dei sonetti attribuiti al
Burchiello, volendosi dare un’idea dello sterminato numero di gondole e
di camini che erano in Venezia, si vengono ricordando, come termini di
paragone, varie cose di cui si afferma essere grandissima copia, e ci
si dice, tra l’altro, che non è tanta poveraglia in Milano, e che non
istanno tanti pedanti per le spese. Nessuno più del pedante meritava di
entrare nella onorata Compagnia della Lesina, e l’onorata Compagnia non
lasciò di accoglierlo nel suo seno[292].

Ma quante altre miserie oltre a questa miseria! Ortensio, uno degli
interlocutori della sesta veglia di Bartolomeo Arnigio[293], ce ne
dà qualche concetto, riferendo le querele del proprio suo precettore.
_Sciagurato stento_ l’insegnare: i fanciulli, già guasti dai genitori,
hanno in odio ogni studio, si beffano dei maestri, si addormentano
durante la lezione. Che pena far entrar loro in capo quel po’ di
latino, e udir poi lo strazio che ne fanno! Che fatica far apprendere
ai tristanzuoli un po’ di buon costume! Per dispiacer che n’abbia,
il maestro è forzato a _dar sorgozzoni, tirar per le orecchie, dar
su le palme, e far levar a cavallo: tragico esercizio!_ E i padri
sempre scontenti, sempre a lagnarsi che il figliuolo non impara e a
darne colpa al maestro; il quale è da tutti schernito, è chiamato il
pedante, il pedagogo, il domine: _perfin le fanti gli voltan sossopra
i libri, lo trattan da gufo, d’allocco e da barbajanni_. Disse il buon
Lafontaine:

    Je ne sais bête au monde pire
      Que l’écolier, si ce n’est le pédant:

mettete queste due _bestie_ a vivere insieme nella medesima casa, e
dite se ci può essere al mondo miseria maggiore della loro.

Ma tutto ciò è ancor poco a paragone della comune avversione,
dell’universale disprezzo che involgevano, come in un atmosfera
irrespirabile, la _gens_ dei pedanti; avversione e disprezzo che
parvero eccessivi a taluno e degni di biasimo[294], ma che formavano
ormai pubblica opinione, e facevano dire al Doni in busca d’impiego,
ch’egli era pronto a torsi in corte ogni officio che gli si volesse
dare, _da pedante e cappellano infuori_[295]. Il nome stesso di pedante
era diventato uno sfregio e un vitupero.


II.

Le ragioni dell’odio contro ai pedanti erano, come s’è potuto vedere,
parecchie, e non piccole; ma tra esse una era maggiore delle altre, e
nasceva da ciò che più propriamente qualificava il pedante, da quella
angustia d’animo, da quella dottrina arida, da quella seccaggine
prosuntuosa, dal tutto insieme delle qualità fastidiose e ridicole
che appunto costituiscono ciò che si dice spirito pedantesco. Ora, se
si considerano le cose un po’ più da vicino, l’odio può parere, per
questo capo, un po’ ingiusto, perchè lo spirito pedantesco non è nel
Cinquecento così proprio dei pedanti, che anche fuori di loro non se
ne trovi in abbondanza, e perchè quello che in essi è deriva in gran
parte e dipende da quello che alita loro intorno. Vero è che essi lo
accumulano e lo condensano, come certi apparecchi dei fisici fanno
della elettricità.

L’umanesimo nasce con in corpo il germe della pedanteria. La erudizione
ha come una tendenza naturale a diventar pedantesca, e questa tendenza
tanto più si rafforza, quanto più l’oggetto intorno a cui si vanno
esercitando gli studi, sembra nobile, alto, degno di particolare
ammirazione; quanto più esso respinge, come minori e men degni,
altri oggetti di studio, e lega gli spiriti, assoggettandoli ad una
servitù da cui non è più loro possibile emanciparsi. Ora, l’umanesimo
era per una buona metà, se non per tre quarti, erudizione, e, per
giunta, erudizione che aveva dietro di sè, e un pochino anche dentro
di sè, le tradizioni dello scolasticismo medievale. L’ammirazione
appassionata dei classici, lo studio esclusivo ed assiduo dell’opera
loro, dovevano conferire, o rafforzare abiti intellettuali non troppo
disformi da quelli della pedanteria, produrre una nuova superstizione
letteraria, come tutte le superstizioni, intollerante e sofistica. Un
alto disprezzo si spandeva sopra quanto non era antico e classico.
Mentre il verbo greco e latino diventava una cosa sacra, oggetto di
culto geloso, si rifiutava la propria lingua nativa e si schifavano
gli autori che l’avevano recata negli scritti. L’autorità sempre più
s’imponeva nel nome di quei grandi di cui si adoravan le carte; la
imitazione si affermava norma suprema dello scrivere, ed ogni più
lieve trascorso contro a quel nuovo diritto, o diciam meglio, a quella
nuova religione, era giudicato mancamento mostruoso ed inescusabile. Lo
spirito pedantesco informa ed agita tutto un popolo di studiosi, di cui
non è facile dire quanto abbiano giovato, quanto nociuto alla coltura e
alle lettere: grammatici puntigliosi, espositori fanatici, commentatori
arrabbiati, leggitori insaziabili, disputatori implacabili, eruditi
aridi e ponderosi. Dov’è maggior pedanteria che nelle controversie
di quegli umanisti, i quali sopra un vocabolo disputavano gli anni,
vituperandosi a vicenda? E chi più pedante di quei Ciceroniani, con
tanta garbo derisi da Erasmo, i quali non leggevano altro che gli
scritti di Cicerone, passavano la vita a fare indici e repertorii di
tutti i vocaboli, di tutte le frasi, di tutte le eleganze di Cicerone,
avevano in casa loro, per ogni stanza, una immagine di Cicerone,
sognavano la notte di Cicerone, e si credevano in buona fede diventare
altrettanti Ciceroni? Gli umanisti, che spesso furono insegnanti,
dovettero, seguitando le proprie tendenze, contribuire non poco a dare
all’insegnamento un certo indirizzo pedantesco; Vittorino da Feltre,
con la larghezza del metodo e degli intendimenti suoi, è fra essi una
eccezione, se non unica, certo assai rara.

I pedanti sono figli, non in tutto legittimi, se si vuole, ma pur
figli, dell’umanesimo, e l’umanesimo nel Cinquecento, se muta tempre in
parte, se si fa meno bisbetico e più liberale, conserva, ciò nondimeno,
nel fondo, le qualità e gli intendimenti che lo avevano contraddistinto
nel secolo precedente. Gli è nel Cinquecento che il ciceronianismo
si fa più invadente e più intollerante; gli è nel Cinquecento che
noi troviamo oltre a una dozzina di latinisti inferociti, intesi a
screditare in tutti i modi il volgare, e a dire che per gli italiani
era una vergogna scrivere italiano anzichè latino[296]. Come si vede,
i pedanti non erano poi in quel mondo come pesci fuor di acqua, o come
piante venuteci su a dispetto dell’aria e del suolo, e a prima giunta
non s’intende bene perchè il Cinquecento si sia, per mille bocche
e mille penne, tanto burlato dei fatti loro, se i fatti loro erano
un pochino i fatti suoi, e se i burlati potevano rispondere con un
_Medice, cura te ipsum_, o a dirittura con un _De te fabula narratur_.
Ma il Cinquecento ha in sè molte svariate cose e molti, diversi, e
spesso opposti indirizzi; e quando si consideri un po’ più da presso
ciò che gli si agita dentro, e i moti contrarii che lo traggono in qua
e in là, s’intende come esso abbia potuto promuovere e respingere, in
un tempo medesimo, le medesime cose, favorirle e avversarle, volerle e
deriderle. Gli è, del resto, ciò che più e meno avviene in ogni tempo
entro alle civiltà più complesse e più mobili.

A dispetto di non poche titubanze e di non poche contraddizioni, il
Cinquecento è secolo novatore, secolo di ribellioni e di riforme,
pieno di vivi fermenti e d’audace irrequiete. Lo affatica uno spirito
indocile, che sentendosi a disagio entro l’angustia della tradizione,
si sforza di slargare tutto intorno i termini del pensiero e della
vita. Si comincia allora a sfatare la consuetudine, a scuotere
l’autorità. Aristotele, che per tanti secoli aveva rette e disciplinate
le menti, si vede sorgere a fronte risoluti avversarii; il dogma, di
qualunque specie esso sia, è fatto oggetto di libero esame. Nascono le
scienze d’osservazione e di sperimento, chiamate, sin da principio,
a mutar faccia al mondo; nasce la critica; nasce nuova filosofia.
In materie di lettere, se c’è chi fa l’imitazione articolo di fede e
condizion di salute, c’è pure chi la nega e la schernisce, e chiede
e insegna la libertà dell’ingegno e dell’arte; se dieci vogliono
si scriva latino, cento vogliono si scriva, e scrivono, italiano, e
l’italiano pongono sopra il latino; e se nel parlare e nello scrivere
italiano, sono, come dice Baldassar Castiglione, _certi scrupolosi,
i quali, con una religion e misterii ineffabili di questa lor
lingua_[297], spaventano altrui, riuscendo essi stucchevoli, sono pure
moltissimi spregiudicati, i quali parlano e scrivono di vena, con
nativa proprietà, con ispontanea eleganza, e si ridono dei papassi
del si può e del non si può, e dei loro falsi evangeli. In materia
di coltura e di educazione, i migliori, possiam dire i più, sentono
assai largamente. Non si dimentichi che il Cinquecento vagheggia
un tipo ideale di uomo compiuto, capevole di tutti gli amori e di
tutti gli interessi cui può dar esca l’incivilito costume, la vita
varia ed intensa; e nel quale le potenze tutte armonizzate fra loro
si sostentino a vicenda e si promuovano. Un uomo sì fatto non nasce
nelle scuole dei pedanti, e la pedagogia che se lo proponga a modello
non può esser quella di aridi grammatici, di vani, tronfii, miseri
annaspatori di parole. E in fatto non è. Leon Battista Alberti, Maffeo
Vegio, Enea Silvio Piccolomini, Pandolfo Collenuccio nel secolo XV;
nel XVI Antonio Ferrari, Sperone Speroni, il Sadoleto, Bernardo e
Torquato Tasso, Orazio Lombardelli ed altri non pochi, professano
in fatto di educazione dottrine, porgono ammaestramenti, che già
Vittorino da Feltre aveva recati in pratica, e che la scienza dei
giorni nostri ammira, e non disconfessa. In mezzo a una società a
cui Baldassar Castiglione consacrava il suo _Cortegiano_ e Monsignor
della Casa il suo _Galateo_, il pedante sconcio della persona e degli
atti, ligneo d’animo, ispido d’inutile dottrina, estraneo alla vita,
chiuso a ogni senso di bellezza e di gentilezza, non poteva essere
considerato altrimenti che come una negazion vivente degli amori e
delle aspirazioni de’ tempi, non poteva non attirar su di sè l’odio e
la derisione.

E l’odio e la derisione dovevano (in parte l’abbiamo già veduto)
trovare nella letteratura opportunità di soggetti, varietà di
espressione, e segnare, passando da una ad un’altra forma di
componimento, i varii gradi della intensità loro.

La derisione, non dirò men tagliente, ma meno vilificativa, è quella
che investe il gergo pedantesco, e si esercita mediante una imitazione
più o meno ingegnosa, ma caricata sempre, di esso. Questa imitazione
talvolta si unisce ad altri elementi di satira in composizioni di
più largo soggetto; tal altra porge essa l’elemento unico, o almeno
principale, in composizioni apposite. Ne nasce quello che appunto fu
chiamato stile pedantesco; ne nasce la poesia fidenziana.

Il gergo pedantesco non è cosa immaginata a solo scopo di canzonatura,
o di celia, come la poesia maccheronica. S’indovinan subito le ragioni
che dovevano persuadere al pedante l’uso di un linguaggio disforme dal
comune, di un linguaggio intinto e intriso di latino; tanto più intinto
ed intriso quanto più egli era pedante di buona lega; e basta gettar
l’occhio sull’_Hypnerotomachia_ di Francesco Colonna, non volendo
citar altri esempii, per saper subito di che tempra quel linguaggio
si fosse[298]. La poesia fidenziana prende il nome da quel Fidenzio
Glottocrisio Ludimagistro, sotto specie del quale il conte Camillo
Scrofa vicentino stampò, circa il mezzo del secolo XVI, alcuni sonetti,
e qualche altro breve componimento, intitolandoli _Cantici_. Lo Scrofa
non è, come fu creduto a torto, l’inventore di quella poesia[299]; ma
a lui spetta il vanto, qual esso sia, di averla condotta a un grado
di perfezione da cui rimasero non meno discosti i predecessori che gli
imitatori suoi.

La satira dei _Cantici_ non colpisce soltanto, bisogna dirlo, il
gergo pedantesco, giacchè in essi Fidenzio fa manifesta la passione
messagli nelle midolle dalla _eximia alta beltate_ del giovinetto
Camillo Strozzi, passione che lo strazia e lo consuma. L’innamorato
ludimagistro ruba la prima mossa al Petrarca:

    Voi, ch’auribus arrectis auscultate
      In lingua hetrusca il fremito e il romore;

poi si abbandona al furor poetico. Loda le bellezze e gli atti del suo
Camillo,

                    plenissimo inventario
    D’ogni egregia et notabil pulchritudine.

si duole dei suoi rigori e della mente

    D’una cote Caucasea assai più dura,

lamenta gli inutili donativi, dice l’incendio che lo divora maggior
di quello che già distrusse _l’antico et superbo Ilio_, vede per la
prossima morte che lo aspetta

                   orbato e viduo
    Delle lettere humane l’aureo studio;

e si prepara l’epitafio. Chi vuol saperne di più legga i _Cantici_, chè
a noi ora non importa di dirne altro.

Lo Scrofa ebbe, come s’è notato, imitatori in gran numero, e se nelle
loro composizioni la satira prende più particolarmente di mira il
gergo dei pedanti, si volge anche, non di rado, ad altri oggetti.
In un sonetto del Giroldi si accenna alle contese che fervevano tra
i toscani, sostenitori del volgare, e i pedanti, sostenitori del
latino[300]; in un capitolo già citato di Metello Grafagnino, un
pedante ricordando i bei tempi dei Maroni e dei Mecenati, quando, dice
egli, i valentuomini pari suoi erano debitamente tenuti in pregio e
onorati, si lagna forte della mutata condizione delle cose e del secolo

    Infido, inerte, vafro e versipelle,

in cui gli è toccato di vivere. Tra i componimenti maggiori di cui va
ricca la poesia fidenziana mi contenterò di ricordare l’_Itinerario in
lingua pedantesca_ di Giovanni Maria Tarsia, stampato in Vicenza nel
1574, e _L’Hippocreivaga musa invocataria_ di Antonio Maria Garofani,
stampata in Ferrara nel 1580, entrambi rarissimi. L’_Itinerario_ è un
lungo racconto in terza rima e cinque capitoli che certo pedante fa
di un suo viaggio, e delle _erumne perpesse tra’ Lucani_. Un putto,
per nome Costanzo, da lui trovato nel tugurio di un pescatore, fa
qui l’officio che nei _Cantici_ di Fidenzio appartiene a Camillo. Il
pedante innamorato della leggiadria e de’ bei modi di lui, esclama:

                        O età gerula
    D’ogni buon giogo quando se’ educata
    Con scutica, solertia, amore e ferula.

Dopo varii casi ridicoli e strani il buon maestro capita in Pisa
ed è da quegli scolari accolto con beffe e con dispregi[301].
L’_Hippocreivaga musa_ è un _cantico erudito e preceptorio_ in
centottantasette ottave, cui tengono dietro otto sonetti. Parla in esso
un pedante facendo un guazzabuglio pazzo di nomi mitologici, di favole
e di ogni maniera di classiche reminiscenze[302]. Poesia fidenziana, o
pedantesca, si continuò, del resto, a comporre anche nel secolo XVII;
ma a differenza della maccheronica, essa rimase genere essenzialmente
proprio dell’Italia[303].

La buaggine dei pedanti non poteva mancare di portare acconcio
argomento ai novellieri. Nelle _Cene_ di quel ghiribizzoso ed arguto
ingegno del Lasca son due novelle in cui si narrano burle atroci fatte
appunto a pedanti. Nella prima è un _leggiadro, accorto e piacevole
giovane_, il quale dopo essere stato sette anni sotto la guardia di
un pedagogo, _il più importuno e ritroso che fosse giammai_, trova,
passati altri dieci anni, la opportunità di vendicarsi delle noje
infinite e del danno che ne aveva avuto, e si vendica in modo bestiale,
che io non ridirò[304]. La seconda narra di un altro pedante, il
quale, essendo, come i più de’ suoi pari, _villano, dappoco, povero,
senza virtù e brutto_, ardisce, nullameno, innamorarsi di una giovane
bellissima e nobile, e le scrive lettere, e compone in lode di lei
ballate e sonetti, i più ribaldi che mai si vedessero, e un capitolo
_che non n’avrebbero mangiato i cani_. Il fratello della fanciulla, e
alcuni amici suoi, per punirlo di tanta tracotanza, fattogli credere
che l’amor suo fosse corrisposto, riescono una notte a trarselo in
casa, e quivi, in iscambio del piacere ch’ei si aspettava, gli dànno
tante frustate quante non ne può portare, lasciandolo mezzo morto;
poi un fantoccio fatto ad immagine sua, e rivestito de’ suoi panni,
pongono alla gogna di Mercato Vecchio, e lui da ultimo, dopo avergli
con una fiaccola arso la barba e i capelli, empiendogli di vesciche il
viso, e fatto un altro scherzo da non ricordare, cacciano fuori ignudo,
sotto una pioggia dirotta[305]. Un altro pedante innamorato e burlato
comparisce in una novella di Pietro Fortini[306]: a costui tocca in
premio di rimaner sospeso a mezz’aria per una fune che doveva trarlo
sino alla finestra della donna amata; burla a cui, in certi racconti
del medio evo, si vede assoggettato Virgilio, o Ippocrate.

Assai più che la poesia fidenziana non faccia, queste novelle mostrano
il mal animo che s’aveva contro i pedanti; ma il genere di componimento
in cui la satira che li flagella si fa più piena e vigorosa, è la
commedia, perchè nella commedia il pedante viene in persona a far
mostra di ogni ridicolaggine sua, e ad esporsi al riso e alle beffe.
Padre o progenitore di quanti pedanti comparvero nel Cinquecento, e
poi, sulla scena può considerarsi quel Ludus, che nelle _Bacchidi_ di
Plauto non intende nulla delle inclinazioni e dei bisogni dell’alunno,
nulla dell’amore, nulla di molte altre cose, e predica inutilmente una
inutile sapienza, odiato dal giovane, che non cura i suoi avvertimenti,
non sostenuto dal padre, che ricorda di aver fatto a’ tempi suoi ciò
che appunto fa ora il figliuolo. Ma sarebbe errore il credere che
gli innumerevoli pedanti della cui presenza si allegrano le commedie
del Cinquecento, altro non sieno che riproduzioni di quel primo tipo
plautino. I commediografi potevano bensì tener quel tipo presente
e giovarsene; potevano anche copiarlo in tutto o in parte, come, a
mo’ di esempio, fecero, Lodovico Domenichi nelle _Due Cortigiane_,
e il Bibbiena nella _Calandria_; ma non avevano poi che a guardarsi
d’intorno per trovar vivo e vero il comico personaggio, e bello e
pronto a passare dalla scuola alla scena. Il pedante di quelle commedie
nostre risale dunque, se vuolsi, come il servo imbroglione, come il
parassita affamato, come il capitano millantatore, a una figura del
teatro latino; ma è, bisogna tenerlo presente, più originale, più
autonomo di tutti costoro, e ci si presenta sotto una moltiplicità di
aspetti, con una varietà di movenze, che il servo, il parassita, il
capitano non conoscono.

Michele Montaigne dice in uno de’ suoi Saggi[307]: «Je me suis souvent
despité en mon enfance de voir ès comedies italiennes toujours un
_pedante_ pour badin». In fatto, il pedante che doveva poi trovar luogo
anche nella commedia francese, compare assai per tempo nella italiana.
La già citata _Calandria_ del Bibbiena, rappresentata la prima volta
in Urbino fra il 1504 e il 1508, ce ne mostra il primo esempio. Il
Polinico della _Calandria_, modellato sopra il Ludus delle _Bacchidi_,
già offre alcuni dei caratteri per cui più spicca il pedante sul
teatro; ma alcuni soltanto, e quelli ancora hanno poco rilievo, come
del resto par che si addica all’indole fiacca della intiera commedia.
Egli è bensì, come la regola vuole, poco ascoltato dal discepolo Lidio,
e molto beffato dal servo Fessenio; ma parla lingua piana e naturale,
non l’intruglio di latino e di volgare che tutti i pari suoi usano
sulla scena. Del resto egli non comparisce che una volta sola, e nulla
conta nell’azione.

Nelle commedie dell’Ariosto non troviamo pedanti, nè in quelle di
Francesco d’Ambra, nè in quelle di Giambattista Gelli, di Agnolo
Firenzuola, di Girolamo Parabosco, del Varchi, del Salviati, del
Cecchi, del Lasca, e di molti altri di cui sarebbe assai lunga la
lista. Il Lasca scrisse bensì una commedia intitolata _Il pedante_,
ma egli stesso poi, non sappiamo il perchè, la diede alle fiamme.
Ritroviamo il pedante in due commedie di Pietro Aretino, nel
_Marescalco_ e nella _Talanta_, e se quello della Talanta somiglia
molto al Polinico della _Calandria_, e non merita gli sia fatta
attenzione, quello del _Marescalco_ tocca già la pienezza del carattere
comico che gli si appartiene, e vuol essere considerato come un modello
imitato dopo da molti. Il _Marescalco_ fu stampato la prima volta
nel 1533, e da indi in poi le commedie in cui ha parte il pedante si
moltiplicano fuor di misura: non essendomi possibile di tener dietro
a tutte, e nemmeno di esaminare partitamente e raffrontar tra loro le
principali, io mi contenterò di levare da questa e da quella quanto mi
parrà più acconcio a dare una immagine, non di uno o di altro pedante
in particolare, ma del personaggio in genere.

Come il capitano si dà a conoscere agli spettatori, prima ancor di
aprir bocca, per quella durindana che si trascina dietro, per quella
andatura che pare dia la mossa ai tremuoti, per quella guardatura a
stracciasacco, il pedante dà subito contezza di sè per quel libro
che ha in mano, per quel cappelletto frusto che gli coperchia il
cucuzzolo, per quella gabbanella logora, o per quella toga sdruscita
che lo insacca. Incede compassato, aggrotta le ciglia, leva in alto
l’indice rigido di magistral sufficienza, e da tutta la sua strana
e sparuta figura trasuda la dappocaggine, l’albagia, l’arroganza
e, spesso spesso, la fame. Alle prime parole che gli escon di bocca
l’uditorio si sganascia dal ridere. Egli parla con dottoral gravità,
con sostenuto compiacimento il nobile linguaggio che lo distingue
dal volgo, e poichè nessuno lo intende, si lagna d’aver a fare con
gente grossa ed ignorante. «Non è più satievole et ispiacevol cosa»,
dice Metafrasto nei _Torti amorosi_ di Cristoforo Castelletti, «che
volere aguzzare questi ingegni rozzi, zotichi, scabri, ferruginei,
rubigginosi, rintuzzati e sciocchi»[308]: e nei _Vani amori_ del
Loredano Alfesibeo rimprovera a Torello e Fabrino la loro ignoranza:
«Per essere voi persone idiote e di ottuso cerebro sete esclusi da i
termini di apprehendere gli eloquii retorici, e le speculate figure de
i grammatici»[309]. Allora, come l’Ermogene della _Prigione d’amore_
di Sforza degli Oddi, egli si restringe col suo «Tullio, ad accozzare
insieme tutti i luoghi topici»[310]. La lingua che il pedante parla
di solito è, come s’è inteso, un guazzabuglio di latino e di toscano;
ma questa regola non è senza eccezione. Archibio, nel _Travaglia_ del
Calmo, usa una mescolanza di latino e di bergamasco; Favonio, negli
_Errori_ di Giacomo Cenci, una di latino e di siciliano; Melano nel
_Giardino d’amore_ di Lorenzo Guidotti (secolo xvii) una di latino
e di napoletano. La composizione dell’intruglio varia, secondo che
prevale l’uno o l’altro elemento, e varia ancora la intelligibilità di
esso. Dal non potere o non volere gli altri personaggi della commedia
intendere ciò che il pedante dice, nascono errori, bisticci, diverbii
ridicoli. Nell’_Interesse_ di Niccolò Secchi, Lelio, che è femmina
in vesti maschili, e amante di Fabio, volge a significato osceno, per
adattarlo alla condizion propria, il senso delle parole di Ermogene,
suo pedante. Del gergo del pedante dice il parassita Ciacco nel
_Ragazzo_ di Lodovico Dolce: «Le parole di questo babuasso, mezze per
lettera e mezze per volgare, mi pajono di quegli animali antichi, che
avevano l’aspetto d’uomo e i piè di capra»[311]. Vedendo di non poter
essere inteso, il pedante si risolve talvolta di parlate _idiotamente_,
come nel _Marescalco_ dell’Aretino[312], ma non ci riesce. Sofronio,
nelle _Stravaganze d’amore_ di Cristoforo Castelletti, oltre che nel
solito gergo, parla anche in prosa rimata: «È vana cotesta temenza:
perchè le quadrella de la favella che l’arco di qualunque, quantunque
mordace, bocca iscocca, non sono a fieder possenti le persone lontane,
ecc.»[313].

Il pedante da commedia, come quello vero, di regola non fa stima che
della lingua latina e degli scrittori latini; ma se egli si risciacqua
del continuo la bocca coi nomi di Cicerone e di Virgilio[314], qualche
volta anche si vanta di aver sulle dita le eleganze toscane, di
conoscere a fondo i gran maestri dell’idioma volgare. Il già ricordato
Metafrasto dei _Torti amorosi_ cita Dante e il Boccaccio; Agasone nella
_Fanciulla_ di Giambattista Marzi, e Aristarco negli _Ingiusti sdegni_
di Bernardino Pino, leggono certe stanze da essi composte a imitazione
del Petrarca; Aristarco si vanta di avere commentato la _duodecima_
giornata del _Decamerone_[315]. Ma un genere di componimento di cui
molto si compiace il pedante è il sonetto volgare con le rime latine.
Il pedante del _Marescalco_ ricorda certa sua maccheronea; ma questa è
una eccezione.

Dice Sofronio nelle _Stravaganze d’amore_: «I nostri ragionari deono
esser puri, sinceri, schietti, candidi, ignudi d’ogni velo di stomacosa
affettatione»[316]; ma noi abbiam già veduto come egli osservasse
i proprii precetti. Parlando, il pedante di buon conio osserva la
gradazione, nota figure grammaticali e retoriche, bolla solecismi,
propone etimologie, reca in mezzo definizioni, adduce sentenze,
cita autori, chiosa testi, apre e chiude parentesi, indica persino
l’interpunzione. Non è mai al proposito. Di qualunque cosa gli si
parli, anche quando più stringa il bisogno, egli toglie occasione a
trarre in mezzo qualche bella autorità, o qualche esempio notabile,
ed essendo tutto parole, si vanta, come l’Aristarco degli _Ingiusti
sdegni_, che se molti fossero i pari suoi, tosto tornerebbero al
mondo gli Antonii, i Catulli, i Crassi, i Gracchi e quegli altri
omaccioni del tempo antico[317]. Argomenta secondo tutte le forme del
sillogismo, concede la maggiore, nega la minore, e tenendosi sempre a
cavallo della logica, dice spropositi da cavallo. Ha sempre qualche
regola generale da applicare al caso particolare, non mai qualche
avvedimento o consiglio che possa far pro. Ha egli da ammonire un
giovane innamorato? La natura d’amore si è questa, e Platone dice
così. Si duole taluno con lui di cosa che gl’intravenga? Udite questo
passo di Seneca. Vuol egli biasimare i suoi tempi? Eccolo con l’_auri
sacra fames_, e l’_o tempora, o mores_. Gli è la troppa dottrina che
porta così: Agasone confessa che l’avere troppo famigliare Cicerone
talvolta gli nuoce[318]. Come non dar ragione a Flaminio, quando,
dopo aver sopportato un pezzo i nojosi discorsi del suo precettore,
esclama: «Io non credo che sia il più ladro romper di testa, nè il più
crudo crepacuore che l’esser sforzato di dare orecchia a uno di questi
pedanti!»[319].

Il discepolo che, come quello introdotto da Persio in una delle
sue satire, è sempre svogliato, e a cui un primo amore moltiplica
nell’animo l’odio nativo al giogo magistrale, e il servo che gli tien
di mano, sono i primi e più naturali nemici del pedante, ma non sono
i soli. De’ personaggi che gli stanno intorno nessuno gli è amico
propriamente, nemmeno il padre dell’alunno, ed egli è sempre alle prese
con capitani, con bari, con parassiti, con parabolani, con baldracche,
bastonato spesso, deriso e vituperato sempre. Nel _Marescalco_, un
giovane paggio e quella mala zeppa di Giannico gli appiccan dietro
certi scoppietti, cui poi dan fuoco; nel _Travaglia_ del Calmo è preso
a sassate da un Garbino, ragazzo; nell’_Altea_, di Giovanni Sinibalbo
da Morro, è messo in un sacco; nella commedia di Francesco Bello,
appunto intitolata _Il Pedante_, egli, sebbene si dica _eletto et
approbato da sua Santità, censore et maestro regionario, con stipendio
congruo et condecente_, finisce solennemente picchiato. Non dico nulla
delle beffe e dei biasimi, che cominciano con istravolgere nelle più
strane guise il nome del malcapitato, nome già di per sè molte volte
ridicolo[320], e finiscono con invettive e contumelie. Metafrasto è
dal servo Balestra chiamato _armario, archivio, calendario di tutte le
castronerie, chiavica delle sciocchezze_[321]; nell’_Altea_ di Giovanni
Sinibaldo un altro servo regala al pedante Plauto l’obbrobrioso
nome di Gano di Maganza. Nella _Turca_ di Giovan Francesco Loredano,
Agrimonio, minacciato di legnate, si salva ricordando che _gli Oratori
sono rispettati da tutte le leggi humane_; ma discepolo e servo lo
caricano di vituperii, con versi ridicoli fatti ad imitazione dei suoi.
Nella _Fantesca_ di Giambattista Della Porta, Essandro, minacciando
Narticoforo di andargli dietro sino a Roma per ucciderlo, grida: _Non
so io che abiti vicino al Culiseo?_[322]. Il povero pedante non ha che
un personaggio solo con cui ricattarsi di tutte le beffe e di tutte
le busse che gli toccano, e questo è il capitano, spesso suo rivale
in amore. Il capitano sbravazza, inveisce, ma finge di non volere
adoperar l’arme contro un vile pedante, e allora il vile pedante,
col volume che ha tra le mani, gli dà un picchio in sul capo e gli
fa levar le calcagna. Ho accennato a rivalità d’amore: non di rado
infatti il pedante è innamorato, e s’intende, senza dirlo, che di
quanti pedanti son sulla scena, l’innamorato è il più ridicolo. Allora
i suoi sospiri, i suoi vezzi, le sue smanie, le epistole amatorie che
detta, i versi che compone, i discorsi che studia e manda a memoria,
sono nuova occasione di scherno, e spesse volte di peggio. E come se
tanto non bastasse, dopo avere per tutta la durata della commedia fatto
ridere alle sue spalle, egli, non di rado, rimasto solo sulla scena,
dà licenzia agli spettatori, e con l’ultime sue parole suscita l’ultima
risata.

Il lettore non l’avrà, spero, a male, se dopo avergli mostrato qual
fosse in genere il personaggio comico del pedante, io gli faccio passar
dinanzi un po’ più a bell’agio il pedante di una particolare commedia,
il pedante più perfetto che sia sul teatro, il pedante di quella
singolarissima commedia che è il _Candelaio_ di Giordano Bruno. Egli
si chiama Manfurio e Pollula è il suo discepolo. Entrando in iscena la
prima volta, egli trova costui in compagnia di certo Sanguino, furfante
di tre cotte, e lo saluta benignamente e latinamente: _Bene reperiaris,
bonae melioris optimaeque indolis adolescentule! Quomodo tecum agitur?
ut vales?_ L’alunno si scusa in volgare di non potersi trattener oltre
con lui, ed egli:

  Ho buttati indarno i miei dictati, li quali nel mio almo minervale
  (excerpendoli da l’acumine del mio Marte) ti ho fatto nelle candide
  pagine col calamo di negro _atramento intincto exarare_. Buttati,
  dico, _incassum, cum sit_ che a tempo e loco, _earum servata
  ratione_, servirtene non sai. Mentre il tuo precettore con quel
  celeberrimo _apud omnes, etiam barbaras, nationes_, idioma lazio
  ti sciscita, tu _etiamdum_, persistendo nel commercio _bestiis
  similitudinario_ del volgo ignaro, _abdicaris a theatro literarum_,
  dandomi responso composto di verbi, quali da la balia et
  _obstetrice in incunabulis_ hai susceputi, _vel, ut melius dicam_,
  suscepti. Dimmi, sciocco, quando vuoi _dispuerascere_?

  SANGUINO. Maestro, con questo diavolo di parlare per gramuffo, o
  catacumbaro, o delegante e latrinesco, ammorbate il cielo e tutto
  il mondo vi burla.

  MANFURIO. Sì, se questo megalocosmo e machina mundiale, o scelesto
  et inurbano, fusse de’ pari tuoi referto e confarcito.

La scena seguita su questo tono, finchè Marfurio, riconciliatosi
con l’alunno e con Sanguino, gli accomiata dicendo: _Itene dunque
coi fausti volatili!_ Rimasto solo, trova una nuova etimologia di
_muliercula_, derivandola da _mollis Hercules_, e affrettandosi per
andare a notarla nel _libro delle proprie elucubrazioni_, esclama:
_Nulla dies sine linea!_[323].

Sorpasso a una scena comicissima[324] nella quale un messer Ottaviano
finge di non poter reggere alla dolcezza che gli mette nell’animo
il parlar di Manfurio, poi, fattisi recitare da costui certi versi,
scelleratissimi, muta registro e lo schernisce, scimmiottandolo;
sorpasso a un’altra[325], nella quale Manfurio legge a Pollula certi
altri suoi versi, insegnandogli l’arte di fare i punti secondo la
ragione dei periodi e a profferire con la dovuta energia; sorpasso
a una terza[326], in cui Manfurio fa derivare la parola _pedante_ da
_pede ante_, «_utpote quia_ have lo incesso prosequitivo, col quale fa
andare avanti gli erudiendi pueri», e Giovanni Bernardo, pittore, la
fa derivare da _pe_, pecorone, _dan_, da nulla, _te_, testa d’asino;
e vengo alle scene capitali, dove toccano a Manfurio gli ultimi danni
e le ultime vergogne. Corcovizzo, altro furfante, socio di Sanguino,
di Barra e di Marca, fingendo di voler cambiare sei doppioni, arraffa
a Manfurio una decina di ducati[327]. Vedendo il gaglioffo darsela a
gambe, Manfurio grida con quanto fiato ha in corpo: «Olà, olà, qua,
qua! ajuto, ajuto! Tenetelo, tenetelo! A l’involatore, al rurreptore,
al surreptore! Al fure, amputatore di marsupii et incisore di
crumene!». Accorrono Barra e Marca, i quali, fingendo di non intendere
ciò che il pedante si voglia con quel _fure_ e con quel _surreptore_,
si lasciano fuggire il ladro di mano.

  BARRA ... E voi per che non cridavate al mariolo, al mariolo? che
  non so che diavolo di linguaggio avete usato.

  MANFURIO. Questo vocabolo che voi dite non è latino, nè etrusco, e
  però non lo proferiscono i miei pari.

  BARRA. Perchè non cridavate al ladro?

  MANFURIO. Latro, assassinator di strada, _in qua, vel ad quam
  latet. Fur, qui furtim et subdole_, come costui mi ha fatto, _qui
  et subreptor dicitur a subtus rapiendo, vel rependo_, per che sotto
  specimine di uomo da bene, mi ha decepto. Oimè, i scudi! . . . . .
  . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

  MARCA. Dite, perchè non correvate a presso lui?

  MANFURIO. Volete voi, ch’un grave moderator di ludo literario e
  togato avesse per _publica platea_ accelerato il gresso?[328].

Soppraggiunge Sanguino, il quale dice di sapere chi sia il ladro,
e dove si appiattì, e promette al pedante di fargli ricuperare gli
scudi, purchè vada con esso loro in traccia del reo. A tal fine gli
fa mutare i panni magistrali coi cenci degli altri due compari[329];
dopo di che i tre lo conducono in una casa con due porte, abitata
da certe meretrici, e lasciatolo sotto un atrio, se ne vanno
tranquillamente pei fatti loro. Questo secondo inganno è narrato dallo
stesso Manfurio[330], e non è l’ultimo: ora viene il maggiore. Ecco in
iscena Sanguino, Marca, Barra e Corcovizzo travestiti da sbirri[331]:
Manfurio, per sua disgrazia, capita loro tra’ piedi. I falsi sbirri
non lo riconoscono per maestro, fingon di credere ch’egli abbia rubato
quel mantelletto che ha indosso, lo assoggettano a un ridicolo esame,
mostrano d’intender male quanto egli dice dei generi e lo chiudono
in una stanza per poi condurlo innanzi al magistrato. Al finire della
commedia lo trascinano di nuovo sulla scena e il capitan Sanguino gli
offre di lasciarlo andar libero a patto che dia tutti i denari che ha
in borsa, o si prenda dieci spalmate, o cinquanta staffilate a scelta.
Non volendo perdere quei pochi scudi che ancor gli rimangono, il pover
uomo nega di averne ed elegge le spalmate; ma, fatto saggio delle
prime, chiede in grazia le staffilate. Barra se lo leva sulle spalle,
Marca lo tien per i piedi, Corcovizzo gli spunta le brache, e Sanguino
comincia a batter la zolfa, ordinando al pedante di tener bene il
conto.

  SANGUINO. Al nome di S. Scoppettella, conta, tof.

  MANFURIO. Tof, una. Tof, oh, tre. Tof, oh, ohi, quattro. Tof, oimè,
  oimè! Tof, ahi, oimè. Tof, o per amor di dio, sette.

  SANGUINO. Cominciamo da principio un’altra volta; vedete se dopo
  quattro son sette. Dovevi dir cinque.

  MANFURIO. Oimè! che farò io? Erano _in rei veritate_ sette.

  SANGUINO. Dovevi contarle ad una ad una. Orsù via, di nuovo. Tof.

  MANFURIO. Tof, una. Tof, oimè! due. Tof, tof, tof, tre di dio. Tof,
  non più. Tof, tof, non più! chè vogliamo, tof, veder ne la giornea,
  tof, che vi saran alquanti scudi.

  SANGUINO. Bisogna contar da capo, chè ne ha lasciate che non ha
  contate.

  BARRA. Perdonategli di grazia, signor capitano, per che vuol far
  quell’altra elezione di pagar la strenna.

  SANGUINO. Lui non ha nulla.

  MANFURIO. _Ita, ita_; chè adesso mi ricordo aver più di quattro
  scudi.

Invece di quattro, gli sbirri gli trovano sette scudi, e già si
accingono a levarlo di nuovo a cavallo per punirlo con altre staffilate
di quella menzogna, quand’egli li placa, lasciando loro nelle mani,
oltre agli scudi, anche il mantello e la giornea; poi, rubato,
burlato, bastonato, ma non guarito della sua pedanteria, ricomincia a
sgramuffar come prima, e con un ultimo, ridicolo sproloquio accommiata
gli spettatori. Questo Manfurio non è, del resto, il solo pedante
immaginato dal Bruno: un altro se ne trova, come abbiam veduto,
nella _Cena de le ceneri_, e più altri nel _De la causa, principio et
uno_, nel _De l’infinito universo e mondi_, nella _Cabala del cavallo
pegaseo_.

Il personaggio del pedante, come quello del capitano, passando
d’una in altra commedia, si esagera sempre più, si fissa in certi
caratteri, tende, come il capitano appunto, come il dottore, come il
servo, a diventar maschera[332]. Cresce in pari tempo il numero delle
commedie in cui esso compare: Giambattista Guarini lo introduce nella
_Idropica_; Gerolamo Razzi nella _Gostanza_; Giambattista Della Porta
in quattro delle sue dodici commedie, e nelle loro lo introducono altri
parecchi. Poi un bel giorno il pedante passa dalla commedia erudita
nella commedia a soggetto; ma non vi prende quel luogo che parrebbe
vi dovesse prendere. Probabilmente gli nocque il carattere troppo
letterario, e la difficoltà che incontravano autori di poche lettere
a maneggiare la lingua pedantesca[333]. Flaminio Scala compose uno
scenario intitolato per l’appunto _Il Pedante_. Cataldo è un tristo
della peggior risma, il quale si caccia nelle famiglie, e con bei modi
e paroline accorte si fa passare per uomo integerrimo. Maestro del
figliuolo di Pantalone, s’invaghisce d’Isabella, moglie di costui, e
tenta di trarla alle sue voglie. Moglie e marito ordiscono una trama.
Cataldo è colto nella camera della donna e tratto in camicia sulla
scena. Tre servitori, vestiti da beccai, con gran coltellacci tra mani,
vengono per fargli un brutto scherzo; ma ad istanza di certo capitano
si muta il troppo crudo castigo in una solenne bastonatura. Da ultimo
egli è cacciato con gran vergogna, _come uomo infame e vituperoso ad
essempio de gli altri pedanti manigoldi e furfanti come lui_[334].
Come si vede, questo Cataldo ha qualche somiglianza con l’Ipocrito
dell’Aretino e col Tartufo del Molière.

Non solo per tutto il Cinquecento, ma nel Seicento ancora il pedante
rallegra di sua presenza le scene, cacciandosi, oltrechè nelle
commedie solite, in commedie allegoriche e in drammi musicali[335]. Lo
ritroviamo nella _Farza Cavajola della Scola_ del salernitano Vincenzo
Braca[336]; lo ritroviamo, il secolo scorso, nell’opera buffa _Socrate
immaginario_, in cui ebbe mano il Galiani[337]. Con le commedie e con
le compagnie comiche nostre, il pedante passò in Francia, e salì le
scene francesi; mi basterà ricordare a tale proposito il _Pédant joué_
di Cyrano de Bergerac e il _Mariage forcé_, il _Dépit amoureux_, il
_Bourgeois gentilhomme_, e le _Femmes savantes_ del Molière. Il _Dépit
amoureux_ altro non è che una imitazione dell’_Interesse_ del Secchi.
Anche la commedia di Giordano Bruno fu imitata in Francia e pubblicata
nel 1633 sotto il titolo di _Boniface et le pédant_.

Ma non finisce qui la dolorosa istoria del pedante. La poesia
fidenziana fa la parodia del linguaggio ch’ei parla; la novella narra
casi forse non veri; la commedia stessa lo deride assai più che non lo
vituperi; ma tutto ciò non basta; ci vuol anche l’invettiva diretta
e sanguinosa. Pasquino, che se la prendeva con tutti, non poteva non
prendersela ancor coi pedanti: una bella mattina egli mise fuori un
sonetto di mala fattura e di peggior sentimento, dove son questi versi:

    Jate in malora, schiuma di furfanti,
      Scaccia pagnotte, come un fegatiello,
      Ch’a riempir questo vostro budello
      Non bastarien le trippe di Elefanti.
    Senza vergognia, senza discrezione,
      Ch’è madre vostra (?), ne venete a Roma,
      Credendo qua spacciar reputazione[338].

Ho già ricordato Francesco Ruspoli: nessuno mai deve avere avuto coi
pedanti _fojosi e sbraculati_ odio maggiore di lui. I parecchi sonetti
ch’egli scaraventa loro addosso, dove toccano lasciano il segno. In
uno li invita a un banchetto, in cui fa bella mostra, fra l’altro,
una _insalatina di rasoi_; in un altro li mette nelle mani di tutti
i diavoli dell’inferno; in un terzo invoca loro addosso _macine in
pezzi, frombole e mattoni_; in più altri tocca certi tasti di assai
cattivo suono, alludendo ai _bei garzoni_ che non sono sicuri nemmeno
_in sagrestia_, chiamando Sodoma _la gran madre de’ pedanti_; in
tutti scaglia loro sul viso le più grosse ingiurie che mai sieno state
scritte. Prendendone uno di mira più particolarmente, esclama:

    L’orrenda bocca e le ganasce infami
      Di quel pedante spalancate al sole
      Spazzino gli assassin colle pistole
      Per farvi alle murelle co’ tegami[339].

Era questo certo il modo più sbrigativo per correggerli di ogni vizio,
e, soprattutto, per farli tacere.

Ora i pedanti non figurano più nella commedia, nella novella, nella
poesia. Ciò non vuol già dire che non ci sieno; ma hanno alquanto
mutato pelo. La loro è razza vivace e di buon nerbo; finchè non le
manchi il pane non le mancherà la vita.



UNA CORTIGIANA FRA MILLE: VERONICA FRANCO



PARTE PRIMA


I.

La mattina del 18 di luglio, dell’anno 1574, Venezia era tutta in
fervore ed in giubilo: in quella mattina appunto l’antica _dominante_
adriatica doveva accogliere fra le sue mura ed ospitare il giovane
Enrico di Valois, duca d’Angiò, e da poco più di tre mesi re di
Polonia, il quale, abbandonata clandestinamente la sua buona città
di Cracovia, e piantati in asso i suoi fedelissimi sudditi, se ne
tornava a piccole giornate in Francia, per cingervi la maggiore corona
che Carlo IX, suo fratello, morendo a ventiquattro anni, gli aveva
inaspettatamente lasciata.

Le accoglienze e i festeggiamenti furono solenni e trionfali, degni
in tutto dell’ospite augusto, degni di quella magnifica Signoria,
degni della città più opulenta e fastosa che fosse allora in terra
di cristiani; di quella che, nonostante alcun segno di già cominciata
decadenza, nativi e forestieri s’accordavano a chiamare la regina dei
mari, la meraviglia del mondo.

Già più giorni innanzi, il Senato aveva mandato incontro al principe
fortunato, sino a Vienna, il segretario Bonriccio. Alla Pontebba,
cioè al confine, cominciarono le onoranze maggiori. Patrizii illustri
inchinarono il re al suo entrare nel territorio della Repubblica,
e gli diedero il benvenuto; il duca di Ferrara gli andò incontro
sino a Spilimbergo; e dovunque erano artiglierie, salve fragorose e
ripetute diedero segno di esultanza e fecero plauso al suo passaggio.
La sera del 17, un sabato, il re giunse a Murano, già celebre sin
da allora per l’artificio mirabile de’ suoi vetri, e vi passò la
notte. Il giorno seguente, il doge in persona, accompagnato da tutta
la Signoria, andò a levarlo con una galea soprammodo pomposa e lo
condusse al Lido, ove era eretto, davanti alla chiesa di San Niccolò,
un magnifico arco trionfale, opera del famoso Palladio, e di contro
all’arco una grande e bellissima loggia, con dieci colonne d’ordine
corinzio, e con figurate all’intorno tutte le virtù. Al Lido fu
celebrata una messa, e poi il re fu condotto in Bucintoro al palazzo
Foscari, dove ogni cosa era apparecchiata per degnamente ospitarlo, e
quaranta giovani gentiluomini erano ordinati a servirlo. La notte ci
fu grande luminaria per tutto il Canal Grande, e nei giorni seguenti
le feste succedettero alle feste, gli spettacoli agli spettacoli,
ininterrottamente, con tanta magnificenza e pompa, con sì grande
concorso e letizia di popolo, che nulla di simile si ricordava, nè
s’era veduto mai, nemmeno al tempo dell’entrata in Venezia di Caterina
Cornaro, già stata regina di Cipro. Il lunedì si fece una grandissima
regata _d’ogni sorte legni_, cosa che al giovane re riuscì al tutto
nuova, e incontrò molto il suo gradimento. Il martedì entrata solenne
del duca di Savoja, che con molti altri signori veniva ad ossequiare il
re di Francia. Il mercoledì sontuoso banchetto nelle sale del Palazzo
ducale, preceduto da un _Te Deum_ in San Marco, rallegrato da _musiche
e concerti inauditi_, e seguito dalla rappresentazione di una _tragedia
in canto_: le mense erano imbandite per tremila persone. Il giovedì
il re fece visita al doge, e poi fu a una festa privata nel palazzo
del Patriarca Grimani, del quale visitò anche il celebre _studio
d’antichità_, o vogliam dire museo. Il venerdì giunsero in Venezia il
duca di Mantova e il Gran Priore di Francia, e il buon re ebbe il gusto
di prender parte in Consiglio alla elezione dei magistrati, e diede
palla d’oro per Giacomo Contarini, che fu fatto dei Pregadi: la sera
fuochi artificiali meravigliosi davanti al palazzo Foscari. Il sabato
visita all’Arsenale, che era ancora il primo del mondo, seguita da
_una bellissima colazione di confezioni, e di frutti di zuccari, coi
cortelli, con le tovaglie, coi piatti, e con le forcine_ (_cosa non più
escogitata_) _fatte di zuccaro_. La domenica ballo nella sala del Gran
Consiglio, _dove si trovarono dugento gentildonne di singolar bellezza,
tutte vestite di bianco, e adornate di perle, e d’infinite gioje
di uno incredibil valore_; poi _colazione ricchissima_ con sessanta
maniere di confezioni. Il lunedì guerra di bastoni fra Castellani e
Niccolotti al Ponte dei Carmini. Tutti i giorni, alle due ore di sera,
_singolarissimi concerti_ dinanzi al palazzo Foscari[340].

Il martedì finalmente, decimo giorno dall’arrivo, si partì il re da
Venezia, innamorato di quella città e di quel popolo, cattivato da
quelle accoglienze, stupito di tante impareggiabili pompe, lasciando
molti e cospicui pegni del suo gradimento e del suo favore, e
giurando, affermano gli storici, ch’egli era per serbare eterna e
fedele memoria dell’onore fattogli e della dimostratagli benevolenza.
Ma gli storici che diedero particolareggiato ragguaglio di quegli
avvenimenti memorabili; gli storici che ricordano come il re visitasse
nel Fondaco dei Tedeschi il banco di quei Fugger, ricchi sfondolati, i
quali, usi di soccorrere di denari imperatori e papi, potevano anche
a lui far comodo di cento o dugentomila fiorini, e come comperasse
da uno di quegli orafi di Rialto uno scettro di grandissima valuta
e di mirabil lavoro; gli storici, dico, non accennano neanco di
passata a un altro fatto del principe, fatto che può avere poca
importanza per la storia di Polonia e di Francia, ma che per noi ne
ha moltissima. Un bel giorno, ma più probabilmente una bella notte,
il giovane re, abbarbagliati gli occhi dallo sfolgorio dei drappi
d’oro, degli ostri, dei giojelli, delle argenterie, delle luminarie e
dei fuochi artificiali; intronati gli orecchi dalle lunghe dicerie,
dagli innumerevoli versi recitati in suo onore, dai _singolarissimi
concerti_ e dallo sbombardamento delle artiglierie; imbuzzito a furia
di desinari interminabili, e di _colazioni ricchissime_; leggermente
fastidito delle cerimonie ufficiali, e, si può credere, messo in
uzzolo dalla vista di tante belle patrizie, sentì desiderio di alcun
gaudio più tranquillo e più intimo, e uscito alla chetichella dal
miracoloso palazzo che ancora si specchia nell’acque del Canal Grande,
se n’andò, guidato senza dubbio da un Mentore servizievole e discreto,
in contrada di San Giovanni Crisostomo, e quivi picchiò all’uscio di
una casa di onesta e decorosa apparenza, entro la quale fu immantinente
ricevuto. In quella casa abitava Veronica Franco, veneziana di nascita,
cortigiana di professione, poetessa per inclinazione e per ingegno.
Il serenissimo doge e l’almo Senato non avevano pensato che Enrico di
Valois, re di Polonia e di Francia, non passava il ventesimoterzo anno
dell’età sua.

La notizia del fatto memorabile noi la dobbiamo alla Veronica
stessa, la quale, in una lettera scritta appunto _all’invittissimo e
cristianissimo Re Enrico III_, e che è la seconda del suo volume di
_Lettere familiari a diversi_, ricorda con legittimo orgoglio il giorno
felice in cui egli degnò di sua regale presenza l’_umile abitazione_ di
lei. La Veronica non entra in altri particolari circa il colloquio; ma
noi abbiamo ragione di credere che il re ne rimanesse contento, perchè
in partirsi tolse un ritratto di lei, condotto in ismalto, e fece
molte _benigne e graziose_ offerte, le quali non sappiamo che seguito
avessero. Nella lettera ella promette di dedicare a lui un suo libro,
e gli manda intanto due sonetti, nel primo dei quali la visita di lui
è assomigliata alle visite che Giove si degnava di fare in antico alle
povere mortali, e nell’altro ella esprime il desiderio di alzar _fuor
del mondo_ e _sopra il cielo_ con le sue lodi il giovane eroe

    In armi, e in pace, a mille prove esperto.

Ma che donna mai era cotesta Veronica, e quali le sue prerogative,
perchè un re coronato, ospite della più illustre e possente delle
repubbliche, andasse, in occasione di tanta solennità, a visitarla
nella propria casa di lei, ne togliesse come grato ricordo il ritratto,
le facesse graziose e generose profferte? Che donna era cotesta, la
quale poteva farsi lecito di scrivere a cotal re una lettera in cui
quella visita e quelle altre particolarità erano ricordate, poteva
offrire e promettere un libro in cui ella, Veronica, avrebbe celebrato
e glorificato quel re, e poteva far pubblica quella lettera per le
stampe, di maniera che a ognuno fosse dato vederla? Se noi diciamo
ch’ella era una cortigiana, come innegabilmente era, ci par di dire
cosa la quale non solo non giustifichi e non ispieghi i portamenti
di lui e di lei, ma dovrebbe, piuttosto, far supporre di lui e di lei
portamenti in tutto diversi. Ora, nè il re mostra di vergognarsi della
famigliarità ch’egli ha con la cortigiana, nè la cortigiana mostra
di sospettare che il re possa vergognarsene, e che per conseguenza
s’addica a lei un prudente riserbo e una lodevole discrezione. Ma se
così è, vorrà dire che quel nome di cortigiana, non ha, o non aveva
allora, il pessimo significato che gli si suole attribuire; vorrà dire
che la cortigiana non era giudicata così severamente come pare a noi
che dovrebb’essere giudicata, e che il più mite e benevolo giudizio
le permetteva di tenere nella civil società un luogo che non avrebbe
altrimenti tenuto, di godere immunità e benefizii che non avrebbe
altrimenti goduto.

Procuriamo dunque, prima di andare innanzi, di farci un giusto
concetto di ciò che fosse la cortigiana nel Cinquecento, e gioviamoci
a tal fine delle testimonianze e dei giudizii dei contemporanei.
Tali testimonianze e tali giudizii non sempre sono concordi, anzi si
contraddicono spesso; ma se noi riusciamo ad intender bene le ragioni
che variamente muovono giudici e testimoni, le contraddizioni si
spiegheran facilmente, e non ci torran di conoscere il vero delle cose.
La digressione sarà un pochino lunga, ma, oso sperare, non nojosa; e
se, giunti al termine di essa, avremo acquistato della cortigiana, dei
suoi costumi, della sua condizion di vita, una nozione più piena e più
esatta che prima non avevamo, ci riuscirà incomparabilmente più agevole
intender l’animo e la vita di Veronica Franco, alla quale allora
ritorneremo[341].


II.

Sperone Speroni, in una Orazione che compose contro le cortigiane e
le innumerevoli _loro opere irrazionali_, esce a un certo punto in
queste formali parole: «Dico adunque..... che la cortigiania delle
male femmine è una antica, ma vile e sozza professione, novellamente
di gentil nome adornata. Scorti altra volta latinamente e meretrici
per vero nome solea chiamarle la Italia; ma per più vero e più
proprio si nominavano peccatrici. Io veramente sendo fanciullo con
tal disprezzo sentia parlarne per le contrade, mentre passavano alla
sfuggita, che quelle istesse, che ogni vergogna parea che avessero
per niente, dalla natura sospinte, che razionali l’avea pur fatte, al
lor dispetto arrossavano; ed era tanto cotal rossor vergognoso, che
vincea l’altro, ond’elle il viso si ricopriano: or non so come, o per
qual cagione l’uso del mondo, che in fatto e in detto è corrotto, le
voglia chiamar cortigiane»[342]: egli, lo Speroni, le chiama invece
_monstri infelici_. Poniamo che in questa lamentazione ci sia parecchia
retorica, e che nel tempo in cui l’autore di essa era fanciullo, cioè
nei primi anni del secolo XVI, le _peccatrici_ non fossero così pronte
ad arrossire come egli pretende; di vero c’è ad ogni modo una cosa per
noi molto importante, anzi due: la prima, che l’uso del mondo voleva
allora si chiamassero cortigiane quelle che in passato si solevano
chiamar peccatrici (o altrimenti, chè lo Speroni non si cura, o
forse non si degna, di ricordare altri nomi); la seconda, che queste
cortigiane erano imbaldanzite molto, e non si vergognavano più tanto di
loro condizione come in passato se n’erano vergognate; il che non vuol
dir altro se non che quella condizione sembrava molto men vile agli
occhi lor proprii e agli occhi altrui.

Il mutamento del nome rivela in questo caso un mutamento profondo
avvenuto nelle idee e nella vita. Il nome di _peccatrice_ era suggerito
da certi concetti fondamentali della credenza religiosa e della morale
cristiana, e implicava biasimo assoluto, senza temperamento alcuno:
il nome di _cortigiana_ è suggerito da tutt’altri concetti, in massima
parte contrarii a quelli, e non solo, per sè, non implica biasimo, ma,
anzi, implica lode, e, starei per dire, glorificazione. Esso rimanda
senz’altro al Rinascimento, alla sua coltura, alle sue tendenze, al
nuovo intuito delle cose, e al nuovo sentimento della vita che quello
recò nel mondo. In fatti, dov’è che la coltura del Rinascimento, e la
vita informata a quella coltura, riescono più intense, più piene, e
raggiungono la perfezione loro? Nelle corti e intorno alle corti. E
qual è l’uomo in cui meglio si personifica quella coltura, e che più
pienamente sa vivere quella vita? Il cortigiano perfetto, quale l’ha
descritto nel famoso suo libro Baldassar Castiglione. Ora, per sè
stesso, il nome di cortigiana non diversifica da quello di cortigiano
se non pel genere; è, come quello, nome di tutto onore, e suggerisce,
al par di quello, l’idea (molte volte contraddetta dai fatti, nol
nego) che la persona designata per esso sia persona ornata d’ogni
pregio e virtù, persona compita, della cui conversazione nessuno s’ha a
vergognare, come essa non s’ha a vergognare della sua qualità.

Il Rinascimento fiorito chiama dunque con nome onorifico la donna
che l’età precedente chiamava con nome d’infamia; al qual proposito
non si vuol dimenticare che un altro nome onorifico viene a lei dato
nel Cinquecento, ed è quello di signora. Ma qui non si tratta di un
semplice mutamento di nome, come potrebbe a prima giunta sembrare,
e come, a torto, lo Speroni vorrebbe lasciar credere. Sotto il nome
mutato c’è la cosa anch’essa mutata; e se la cortigiana rimaneva pur
sempre una peccatrice, non era più la peccatrice di prima. Vero è
che, l’uso degenerando in abuso, il nome di cortigiana fu molto spesso
dato nel Cinquecento a tutte le donne di mala vita, indistintamente;
ma di quanti altri nomi, serbati in principio a un uso particolare,
non è avvenuto lo stesso?[343]. Tutti i nomi che hanno dell’onorevole
vanno soggetti a indebite appropriazioni, a illegittime estensioni di
significato. Da altra banda, se le donne tutte di mala vita furono
spesso nel Cinquecento chiamate cortigiane, non è men vero, che si
cercò, allora stesso, con qualificazioni e con aggiunti di più e men
felice invenzione, di ripristinare le distinzioni opportune, e toglier
di mezzo l’equivoco. Così è che in certo censimento della città di
Roma, fatto ai tempi di Leone X[344], si trovano le denominazioni di
_cortesana_, o di _curiale_, senz’altro, che dicono, l’una in volgare,
l’altra in latino, il medesimo; di _cortesana puttana_, di _cortesana
da lume_ o _da candela_, e di _cortesana onesta_. A noi quell’accozzo
di _cortesana_ e di _onesta_ sembra veramente una cosa assai strana;
ma ai contemporanei di Leone X non sembrava così. Giovanni Burchard,
maestro di cerimonie di Alessandro VI, e vescovo di Città di Castello,
narra una curiosa storia di certa Cursetta romana, da lui chiamata,
senza esitazione alcuna, _meretrix honesta_, e narra pure come l’ultima
domenica d’ottobre dell’anno 1501, vigilia d’Ognissanti, cenarono
col duca Valentino, nel Palazzo apostolico, cinquanta _meretrices
honestae, cortegianae nuncupatae_, le quali dopo cena danzarono ignude
e fecero altre prove di lor valentia e di lor arte in presenza di
esso duca, della sorella di lui Lucrezia, e del padre di entrambi, il
buon pontefice Alessandro VI[345]. Questo passo del famoso diarista
prova, tra l’altro, che il nome di cortigiana era venuto in uso,
secondo ogni probabilità, già qualche anno prima del 1500, e che lo
Speroni assegnava a quel nome un’origine troppo tarda[346]. In un
libro di memorie della famiglia Chigi, scritto da quel Fabio Chigi che
poi fu papa col nome di Alessandro VII, la famosa Imperia è chiamata
_nobilissimum Romae scortum_[347]. Il censimento testè citato fa anche
ricordo di _cortigiane piacevoli_ e di _cortesane della minor sorte_,
e usa altri nomi che non accade ripetere. Da canto suo Marin Sanudo
chiama in un luogo de’ suoi _Diarii_ le cortigiane di lusso _puttane
sontuose_, e _onorata e nominata meretrice_ chiama in un altro certa
signora Angiola. Una Lista fiorentina dell’anno 1569 classifica le
meretrici in ricche, mediocri e povere[348], e le ricche sono per lo
appunto le cortigiane oneste.

Vediamo dunque un po’ più da vicino qual fosse la condizione, quali
fossero i costumi e i portamenti di queste cortigiane oneste, o se
troppo dispiace l’associazione di quel sostantivo e di quell’aggettivo,
delle cortigiane senz’altro, avvertendo che noi non vogliamo badare
ora se non a quelle cui tal nome appartiene più ragionevolmente, a
quelle cioè che debbono in molta parte il carattere e l’esser loro alla
civiltà del Rinascimento. Delle altre, più numerose assai, cui quella
civiltà non educò, non trasformò, non vogliam tener conto.

Chiamata a vivere in mezzo ad una società in cui la coltura era
largamente diffusa, e che aveva la coltura in grandissimo pregio, la
cortigiana doveva esser colta, tanto più che le donne oneste erano, in
certe classi, spesso coltissime. Nella commedia del Guarini intitolata
_L’Idropica_, Loretta, che è una figura non molto viva, ma, se si
può dire, molto corretta di cortigiana compita, così parla di sè:
«vedendo mia madre (perchè già la sua macina faceva più crusca assai,
che farina) la buona piega della vita mia, pensò di rinverdire nella
mia giovinezza le sue passate prodezze: ed avendomi fatte imparare le
sette arti liberali, aperse casa a tutta Vicenza, cominciando a tener
trebbj d’ogni sorta»[349]. La famosa Imperia, fiorita nei primi anni
del secolo, aveva appreso a compor rime volgari da Niccolò Campano,
detto lo Strascino, ed era in grado di leggere, sembra, gli autori
latini. Lucrezia, soprannominata _Madrema non vuole_, sapeva riprendere
chiunque non parlasse secondo il buon uso, o quello che a lei sembrava
il buon uso, e un cotal Ludovico, il quale fa professione di praticar
cortigiane, dice di lei in uno dei _Ragionamenti_ di Pietro Aretino:
«ella mi pare un Tullio, e ha tutto il Petrarca e ’l Boccaccio a mente,
ed infiniti e bei versi latini di Virgilio e d’Orazio e d’Ovidio e di
mille altri autori»[350]. Lucrezia Squarcia, veneziana, ricordata in
certa _Tariffa_, si faceva vedere

    Recando spesso il Petrarchetto in mano.
    Di Virgilio le carte ed or d’Omero,

e spesso disputava del parlar toscano[351]. Una Nicolosa, ebrea,
ricordata ancor essa dall’Aretino, leggeva i salmi in ebraico[352].
Tullia d’Aragona e Veronica Franco hanno i nomi loro registrati
onorevolmente nelle storie letterarie. Camilla Pisana aveva composto
un libro e datolo a correggere a Francesco del Nero[353], e le lettere
di lei che si hanno a stampa sono scritte con un fare un po’ caricato,
ma non prive di eleganza, con latinismi frequenti e con intere frasi
latine. Ercole Bentivoglio indirizza a una signora Agnola, veneziana
(forse Angela Zaffetta) il suo capitolo _Della lingua tosca_, ed
esprimeva il desiderio d’imparare da lei il dolce e garbato dialetto
di Venezia. Se s’ha a credere ad Alfonso de’ Pazzi, Tullia d’Aragona,
non solo faceva correggere le sue scritture dal Varchi, ma col Varchi
insieme studiava e lavorava:

    La Tullia, il Varchi ed Ugolino e lei
      Han fatto lega e studian tutta notte,
      E voglion pur che i ranocchi sian botte
      E che gli etruschi non siano aramei[354].

Vero è che taluna, non riuscendoci da sè, si faceva comporre da qualche
letterato amico le lettere e i versi.

Ma la cortigiana di recapito non si contentava della sola coltura
letteraria; essa doveva ancora andare adorna di altre _virtù_, come
allora dicevasi; cantare, se la natura le aveva fatto dono di bella
voce[355], sonare uno o più strumenti, danzare con grazia, e usare
poi sempre soavità nel parlare, e garbatezza nei modi. Bisognava che,
stando almeno alle apparenze, si potesse dir sempre di lei ciò che il
Lasca diceva di Nannina Zinzera[356]:

    D’atti è sì piena, e modi signorili,
      Che come l’ombra dal sol fuggir suole,
      Fuggon da lei le cose basse e vili;

e ciò che il Coppetta diceva a Ortensia Greca[357]:

    E che voi non volete, a tutti è espresso
      O meccanica cosa, o men ch’onesta
      Far, nè lasciar che vi si faccia appresso.

Aveva dunque torto il pedante Cinzio di certa commedia del Domenichi a
dire: _Le cortigiane non sono cortigiane nè cortesi_[358].

La cortigiana non aveva obbligo d’essere letterata e scrittrice; ma
doveva avere lo spirito pronto e la lingua sciolta; doveva sapere
coi vezzi, col brio, con l’arguzia, coi modi affabili e accorti, col
vario uso delle sue varie virtù, invaghire i cortigiani, ammaliare i
letterati, imbertonire i prelati, intrattenere un crocchio, prender
parte a una disputa, dar anima a una festa. L’Aretino, scrivendo a una
Zufolina, amicissima sua, accenna allo scaltrito ingegno, alla arguta
festività, alla signorile creanza ch’ella ebbe dall’_aria del toscano
paese_, dalla _natura_ e dalla _pratica_, e dice tra l’altro: «i
Duchi e le Duchesse se intertengano con lo intertenimento delle vostre
chiacchiare molto insalate e molto appetitose; sentenzie che fumano
vi scappano di bocca e tra i denti. Di pinocchiato, di savonia, e di
marzapane sono le ciancie che voi date a qualunche si crede che voi
siate una baja»[359]. E il Calmo scriveva nel suo vispo dialetto a una
madonna Vienna Rizzi, che da Venezia s’era tramutata in Roma: «el me
par da vederve tutta aierosa, maistra de motizari, astuta de resposte,
cativeta de dar canate, lenguina piena de acenti toscani, e baldanzosa
con chi ha del mobele del re Mida»[360]. Della famosa Isabella de
Luna, spagnuola, che aveva viaggiato mezzo mondo, era stata a Tunisi
e alla Goletta, e aveva un tempo seguitata la corte dell’imperatore in
Germania e in Fiandra, dice il Bandello che in Roma era tenuta «per la
più avveduta e scaltrita femina che stata ci sia già mai». E soggiunge:
«Ella è di grandissimo intertenimento in una compagnia, siano gli
uomini di che grado si vogliano; perciocchè con tutti si sa accomodare
e dar la sua a ciascuno. È piacevolissima, affabile, arguta, e in dare
a’ tempi suoi le risposte a ciò che si ragiona, prontissima. Parla
molto bene italiano; e se è punta, non crediate che si sgomenti, e che
le manchino parole a punger chi la tocca; perchè è mordace di lingua,
e non guarda in viso a nessuno, ma dà con le sue pungenti parole
mazzate da orbo»[361]. Messer Matteo reca qui e altrove[362] le prove
di ciò che asserisce. Non meno arguta, nè meno _mordace di lingua_ era
la Giulia Ferrarese, madre di Tullia d’Aragona. Narra il Domenichi:
«Fu fatta la strada del popolo in Roma, lastricata da i tributi che
le puttane pagavano: nella quale scontrando la Giulia Ferrarese una
gentildonna, l’urtò un poco. Allora la gentildonna alterata cominciò
a dirle villania. Rispose la Giulia: Madonna, perdonatemi, che io so
bene, che voi avete più ragione in questa via che non ho io»[363]. Non
è dunque da stupire se la conversazione delle lor pari era desiderata
e cercata, e se esse s’ingegnavano di trar profitto anche di quella.
Il Montaigne, ch’ebbe a farne la prova, assicura che esse (almeno in
Venezia) facevansi pagare i semplici colloquii quanto la _négociation
entière_[364].

Che le cortigiane dovessero avere in tutto o in parte le _virtù_ testè
enumerate non parrà certo strano a chi ripensi i caratteri di quella
civiltà, le usanze e i gusti degli uomini di quel tempo; ma che quelle
stesse _virtù_ s’avessero a trovare in qualche misura anche negli
agenti di esse cortigiane, e procuratori d’amore in genere, ossia,
per parlar più chiaro, nei mezzani, parrà strano a più d’uno. E pure
era così. Quel bell’umore di Tommaso Garzoni narra della coltura del
mezzano cose veramente miracolose e incredibili. «Imita il grammatico
nel scriver le lettere amorose tanto ben messe, e tanto bene apuntate,
che rendono stupore, nel dettar politamente, nel spiegar galantemente,
nell’isprimer secretamente il suo pensiero..... Appare un poeta nel
descrivere i casi acerbi con pietà di parole, i fatti allegri con
giubilo di core..... Porta seco i sonetti del Petrarca, le rime del
Cieco d’Adria, l’_Arcadia_ del Sannazaro, i madrigali del Parabosco,
il _Furioso_, l’_Amadigi_, l’Anguillara, il Dolce, il Tasso, e sopra
tutto i strambotti d’Olimpo da Sassoferrato, come più facili, sono i
suoi divoti per ogni occasione..... Si reca dietro qualche sonetto in
seno, un madrigale in mano, una sestina galante, una canzone polita,
con un verso sonoro, con uno stil grave, con parlar facondo, con tropi
eleganti, con figure eloquenti, con parole terse, con un dir limato,
che par che il Bembo, o il Caro, o il Veniero, o il Gosellini l’abbiano
fatto allora allora; e si mostra alla diva con lettere d’oro, con
caratteri preziosi; si legge con dolcezza, si pronunzia con soavità, si
dichiara con modo, si scopre l’intenzione, si manifesta il senso, e si
palesa il fine del poeta..... Con la musica diletta sovente le orecchie
delle giovani, mollifica l’animo d’ogni lascivia, ruina i costumi,
disperde la onestà, infiamma l’alme di cocente amore, incende i spiriti
di concupiscenza carnale; mentre si cantan lamenti, disperazioni,
frottole, stanze e terzetti, canzoni, villanelle, barzellette, e si
tocca la cetra, o il lauto, a una battaglia amorosa, a una bergamasca
gentile, a una fiorentina garbata, a una gagliarda polita, a una
moresca graziosa, e pian piano s’invita ai balli ed alle danze, dove i
tatti vanno in volta, i baci si fanno avanti le parole secrete, _ecc.
ecc._»[365].

C’erano molti, gli è vero, ai quali queste ed altrettali virtù
riuscivano sospette nelle cortigiane medesime. Pietro Aretino, il
quale credeva che nelle donne, in generale, la coltura fosse stimolo
al mal costume[366], e diceva «i suoni, i canti e le lettre che sanno
le femmine» essere «le chiavi che aprono le porte della pudicizia
loro»[367]; Pietro Aretino, dottissimo in questa parte, affermava non
essere altro le virtù delle cortigiane, se non panie e lacciuoli tesi
agli amanti[368]; e di tali virtuose diceva il Garzoni: «Onde pensi
che nascano i canti, i suoni, i balli, i giuochi, le feste, le vegghie,
i conviti, i diporti loro, se non da quell’intento d’aver l’applauso,
il commercio, il concorso della turba infelice di questi amanti, che
rapiti da quelle voci angeliche e soprane, attratti da quei suoni
divini di arpicordi e lauti, impazziti in quei moti, e in quei giri
loro tanto attrattivi, consumati in quei giuochi spassevoli, dileguati
in quelle feste giulive, addormentati in quelle vegghie pellegrine,
immersi in quei conviti di Venere e di Bacco, morti nel mezzo di quei
soavi diporti, restino prigioni e servi del lor fallace ed insidioso
amore?»[369]. Ma poichè, contrariamente alla opinione dei pochi, la
opinione dei molti era che donna bella ed onesta non potesse avere,
oltre alla bellezza e all’onestà, più degno ornamento di quello che
viene dall’ingegno e dalla coltura, così non era possibile che i molti
biasimassero nelle cortigiane ciò che nelle donne oneste lodavano, e
temessero in quelle ciò che cercano in queste. Certo, vivendo in mezzo
a una società in cui tutti eran colti, e in cui l’ingegno e la coltura
erano tenuti sommamente in pregio, anche le cortigiane, se volevano
aver seguito, bisognava si ponessero in grado di soddisfare al gusto
comune, e perciò si può dire che l’esercizio e l’accorta ostentazione
di quelle varie virtù che abbiam vedute facevano parte del loro
mestiere, erano tra l’arti loro di richiamo più attrattive ed efficaci.
Ma ciò non vuol già dire che esse non potessero compiacersi in
quell’esercizio anche pel piacere che ci trovavano, indipendentemente
dal guadagno che ne poteva venir loro. Erano anch’esse figlie del
Rinascimento, e potevano, al pari di tante gentildonne onorate, i
cui nomi la storia ricorda, legger libri, compor versi, coltivare
la musica, per ragion di gusto naturale, e, ancora, per acquistar
fama. Una prova di ciò si ha nel fatto che le cortigiane cercavano la
compagnia e la famigliarità dei letterati assai più che l’utile loro
non sembrasse richiedere. I letterati potevano, è vero, aiutarle in
più di una occorrenza, potevano anche adoperarsi a metterle in vista;
ma avevano, ad ogni modo, un ben grave difetto, quello, cioè, d’essere
assai più ricchi di fama che di quattrini. Gli è che le cortigiane, se
non tutte, almen le migliori, si compiacevano anch’esse in quelle cose
in cui tutti si compiacevano; gli è che l’estro poetico poteva pungere
parecchie tra esse come pungeva altri infiniti, e che la gloria, la
quale assetava di sè tante anime, poteva destare un po’ d’ardore anche
nelle anime loro.

Come non trascuravano le doti e gli ornamenti dello spirito, così pure
non trascuravano le cortigiane, ed è naturale, le doti e gli ornamenti
del corpo, e, generalmente parlando, nessuno di quei sussidii onde
la loro professione poteva in qualche maniera avvantaggiarsi. Uno dei
primi accorgimenti loro, non dimenticato ai dì nostri, era di cambiare
il nome, spesso troppo umile e volgare, ricevuto col battesimo, in un
nome sonoro e peregrino, il quale era come un suggello poetico impresso
nella persona, chiamandosi Ginevra, Virginia, Isabella, Olimpia, Elena,
Diana, Lidia, Vittoria, Laura, Domizia, Lavinia, Lucrezia, Stella,
Delia, Flora[370]. A cotal nome, esse medesime, o altri, solevano
aggiungere quello della città natale, o della nazione, dicendo Camilla
da Pisa, Giulia Ferrarese, Beatrice Spagnuola, Angiola Greca e simili;
anche i soprannomi erano frequenti, e alle volte assai strani. Il
nome d’Imperia valeva quasi da sè solo un titolo di nobiltà[371]; ma
Lucrezia _Madrema non vuole_ si sottoscriveva Lucrezia Porzia, Patrizia
Romana[372]. Tullia d’Aragona gloriavasi, e sembra a buon diritto, di
aver nelle vene sangue, non pur cardinalizio, ma reale[373]. Angela
Zaffetta si vantava figliuola del Procuratore Grimani, e Lucrezia
Squarcia pretendeva a non so quale _antiqua e gran genealogia_. Il
Giraldi Cinzio narra di certa Linda, la quale essendo nata di sangue
assai gentile, si diede a fare la cortigiana, per inclinazione[374].
Altre, che non avevano le stesse ragioni della Tullia e della Linda,
cercavano egualmente di passar per nobili, della qual cosa molto si
lagna lo Zoppino nel già citato Ragionamento di messer Pietro[375].

Che le cortigiane attendessero con ogni studio a farsi belle
e piacenti, non fa bisogno dirlo. Rinfrescavano la carnagione,
imbianchivano e rassodavano le carni con varie maniere di belletti e
di lisci, votando, come dice il Garzoni, le spezierie di biacca, di
sublimato, di più maniere di allumi, di borrace, di adraganti, di acque
distillate, di aceti lambiccati, e non rifuggendo neanche dall’uso
di certe sudicerie stomacose, alcune delle quali sono ricordate dallo
Zoppino[376]. Tingevano in biondo i capelli con acque medicate di cui
son pervenute sino a noi le numerose ricette, e assoggettandosi a tal
uopo a pratiche lunghe e penose. Nei loro spogliatoi era un barbaglio e
un arruffio di specchi, di ampolle, di bossoli, di pettini, di forbici,
di giojelli[377], e l’aria affogava con l’alito acuto dell’acque rose,
dell’acque nanfe, dell’acque muschiate, dei zibetti, degli ambracani,
dei mirabolani, del bengiuì e di mille sorta di polveri, di pasticche,
di saponi. Anzi afferma il Garzoni che tutta la casa olezzava di
profumi. Nè si deve di ciò dar troppo biasimo alle cortigiane, le
quali non facevano veramente se non seguitare l’usanza comune. Ercole
Bentivoglio, parlando delle donne del tempo suo, dice _ben rare_ quelle
che non adoperassero il liscio[378], e quanto all’uso d’imbiondirsi i
capelli, era uso di tutte le donne italiane, ma più particolarmente
delle veneziane[379]. Il Tansillo comincia una terzina di certo suo
capitolo col verso

    Donne che a farvi i capei d’or siete use;

e lodando le donne di Francia e di Germania, che non avevano, come le
italiane, quella fantasia, dice:

    Nessuna se ne ammala o se n’ammazza
      Per disio di portar le chiome gialle[380].

Vero è che quella fantasia l’avevano già avuta le donne romane[381].

Nel vestire, le cortigiane ostentavano somma eleganza e lusso
eccessivo. Usavano biancherie finissime e profumate, vesti di seta, di
velluto, di drappo d’oro ricchissime, acconciature pompose, pellicce
delle più rare, guanti preparati con la concia di gelsomini di Spagna,
o di garofani, trine e pizzi preziosi di Venezia, e abbagliavano con lo
scintillio delle anella, delle maniglie, delle collane, dei pendenti,
dei diademi. Erano sempre le prime a seguitare le nuove fogge, le quali
mutavano spesso[382]. Di tanto in tanto andava una legge, o un bando,
che tentava por misura a tali pompe, vietando i panni più ricchi, gli
ori e le gemme; ma leggi e bandi facevano poco pro, e coloro stessi che
li avevano mandati fuori li lasciavan cadere. Le cortigiane non ricche
toglievano, per comparir fuori di casa, vesti e ornamenti a nolo[383].

Se eccessivo era il lusso del vestire, non minore era quello delle
abitazioni, degne spesse di principesse, nonchè di cortigiane. Palazzi
sontuosi ospitarono sovente le Olimpie, le Diane, le Ortensie più
facoltose. Una Salterella pagava in Roma ottanta scudi d’oro di
pigione; Isabella di Luna ne pagava cento, somma più che cospicua
pel tempo. Angela Zaffetta avrebbe voluto in fitto il palazzo dei
Loredano, in Venezia[384]. Le stanze erano non di rado tappezzate
di arazzi preziosi, di broccati, di drappi d’oro, di cuoi dorati,
oppure mostravano le pareti e le volte dipinte da mano maestra.
In terra, su per le tavole, vedevansi tappeti turcheschi. I letti
avevano lenzuola di renza finissima, padiglioni di raso, coltri di
seta, cuscini ricamati, e ai letti facevano degna accompagnatura
seggioloni di cremisino, di velluto listato d’oro, scranne scolpite,
specchi riccamente incorniciati, spalliere pompose, cofani e stipi
leggiadramente intagliati e intarsiati. Nelle credenze scintillavano
le argenterie, le maioliche di Faenza, di Cafaggiolo, di Urbino, i
vetri di Venezia; e raccolti in artificioso assetto, o sparsi in vago
scompiglio, vedevansi per le stanze quadri, statue, vasi preziosi,
armi eleganti, liuti e mandòle, libri sfarzosamente legati, ninnoli
d’ogni sorta, e persino anticaglie, sebbene il Calmo raccomandasse
alla signora Vienna di non accettarne in dono, se non quando tenessero
poco luogo e valessero molti denari. Cagnuoli da tenere in grembo,
gattini lindi e coi fronzoli, pappagalli loquaci, scimie ghiribizzose,
e altri animali piacevoli o rari, empievano la casa dei giuochi e
delle voci loro, e facevano festa alla padrona[385]. Negli atrii,
nelle logge, nelle anticamere, era uno sfoggio ridente di fiori
e di piante peregrine. Ancelle garbate vestivano e servivano la
signora, accoglievano premurosamente le pratiche; un vario e numeroso
servidorame attendeva agli altri servigi di casa. Camilla da Pisa
aveva a’ suoi stipendi anche un cantiniere e un fattore. E la casa era
provveduta d’ogni ben di Dio. Nelle cantine invecchiavano i vini più
generosi, nelle dispense le più ghiotte leccornie s’accumulavano, così
che a ogni ora del giorno, al primo apparire di un ospite gradito, era
facile ammannire una colazion saporita, o una stuzzicante cenetta[386].
In tali case, in mezzo a così fatto lusso, accoglievano le cortigiane
gli amici e ammiratori loro, e com’erano esse di tutti i ritrovi
eleganti, così tenevano ritrovi elegantissimi, a’ quali non mancavano
ambasciatori e prelati, cavalieri e letterati, musici e ogni altra
maniera d’artisti. Tullia d’Aragona, dovunque andasse, si formava
intorno la sua piccola corte. Di certa Lucia Trevisan, morta in Venezia
nell’ottobre del 1514, diceva il Sanudo: «cantava per eccelenzia, era
dona di tempo, tutta cortesana, e molto nominata apresso musici, dove a
casa sua se reduceva tutte le virtù»[387].

Questo s’intende naturalmente delle cortigiane maggiori, le quali, se
erano così magnifiche in casa, possiam figurarci quali si mostrassero
fuori. Uscivano in pompa magna, molte in isplendidi cocchi[388], o
cavalcando ginnetti baliosi, e mule ingualdrappate e impennacchiate,
con seguito da duchesse. _Madrema non vuole_ si tirava dietro
ordinariamente dieci fantesche, altrettanti paggi e altrettante
ancelle[389]. Un’altra cortigiana, di cui non ci è detto il nome,
andava per Venezia _in lunga processione, col maggiordomo inanzi,
col paggio... e con quanti fanti e massare_ poteva _accattar per
tutta la vicinanza_[390]. Così si recavano a diporto, alle feste, ai
conviti, ai bagni pubblici, o stufe, come si chiamavano allora[391],
alle chiese, le quali erano diventate luogo di ritrovo per esse e per
quanti le praticavano, e la gente lasciava la messa per farsi loro
d’attorno[392]. Gli amici andavano a levarle in casa e le accompagnavan
per via, ingrossando la lor brigata di quanti nuovi ammiratori
incontravano cammin facendo, e nel numeroso seguito non mancavano
bravacci di professione, pronti a tirar l’arme in difesa delle
padrone[393]. Le quali, se andavano a piedi, procedevano a guisa di
tante duchesse, con passi misurati, con andatura maestosa, appoggiando
la mano famigliarmente sulla spalla di tale de’ loro accompagnatori,
agitando con l’altra, se di state, la ventola dorata e dipinta, fatta
a modo di banderuola, favellando con garbo, pompeggiandosi con grazia.
Perciò aveva ragione quel buon tedesco, che parlando delle cortigiane
di Roma, diceva che a vederle in istrada si sarebbero prese per donne
dabbene[394]; e non aveva torto l’Antonia, quando esortava la Nanna a
non dare altro stato alla figliuola, e le diceva: «facendola cortigiana
di subito la fai una signora, e con quello che tu hai, e con ciò che
ella si guadagnerà diventerà una reina»[395]. E i guadagni potevano
veramente essere assai lauti. Molte cortigiane, anche non bellissime,
arricchivano, comperavano case, e le appigionavano. Dice il Coppetta
nel capitolo che ho ricordato pur ora:

    ... ne sono molte (e ciascun lodi)
      Che non son belle, e pur han fabbricato,
      Ch’io non so immaginar le vie, nè i modi.

Figuriamoci dunque che cosa potessero fare le belle. La Imperia morì
ricca e in casa propria; la Ortensia si fabbricò in Roma una casa
da regina. Una Lombarda, ricordata nella _Tariffa_, s’era arricchita
_d’oro e di terreni_. Di certa Martinella, che figura nella commedia
del Contile _La Pescara_, dice il servo Marcello: «ella è nobile, ha
denari, gioje, vesti e possessioni a Viterbo»[396]. Non è a stupire
se le cortigiane insuperbivano e si vantavano de’ loro trionfi[397]. I
guadagni, come ben s’intende variavano assai, come variavano i prezzi.
Quel matto del Doni, descrivendo certa casa con grandissimo dispendio
costruita, arredata, ordinata da un _signore ricco e potente_, e
abitata dalle più belle donne che si potessero avere, indica quale
massimo il prezzo di venticinque scudi[398]; ma nel _Catalogo di
tutte le principal et più honorate Cortigiane di Venetia_[399] si
trova registrata una signora Paulina, _Fila canevo_, che ne prendeva
trenta, e nella _Tariffa_ è ricordata una Cornelia Griffa, che ne
chiedeva quaranta e più. Tullia d’Aragona riuscì ad avere in Roma,
da un tedesco, sino a cento scudi per notte[400]. Le pratiche, anche
se pari di fortuna e di grado, non largheggiavano tutte ad un modo,
e la liberalità loro ricevava misura non solo dall’umore proprio
di ciascuna, ma ancora dall’indole e dal costume nazionale. A tale
riguardo avevano pessimo nome nel mondo delle cortigiane gli spagnuoli,
molto migliore i tedeschi, ottimo i francesi. Fra gl’italiani erano
in fama di più generosi i veneziani, di più taccagni i napoletani,
troppo inclinati, dicevasi, a pagar di moine e di sospiri. Del resto
la liberalità dei signori non aveva limiti, quando era stimolata dal
capriccio o dalla passione, e in un curioso libro spagnuolo, rarissimo
anche dopo la ristampa fattane or son pochi anni, la _Lozana Andalusa_,
è detto che le cortigiane di Roma ereditavano talvolta dagli amanti
loro somme cospicue[401]. In qual modo Angelo Dal Bufalo, _uomo della
persona valente, umano gentile e ricchissimo_, tenesse per più anni
l’Imperia, dice il Bandello[402]; nè meno pomposamente di certo l’avrà
tenuta Agostino Chigi, il famoso e magnifico banchiere, del quale pure
fu amica[403]. Che, da altra banda, le cortigiane, anche se belle e
di gran recapito, potessero alle volte trovarsi a disagio, non parrà
strano a nessuno: a corto di quattrini, importunate dai creditori, esse
impegnavano le robe loro agli ebrei, o vendevano a furia arredi, vesti,
giojelli, quanto avevano lucrato e raccattato in molti anni[404].

Le cortigiane erano anzitutto cortigiane, il che vuol dire che ponevano
ogni studio in render proficuo, quanto più era possibile, il loro
tristo mestiere. Un così fatto esercizio, si sa, non comporta troppi
scrupoli, nè troppe delicature, e non è in chi v’attende che si
debbono ir cercando la nobiltà dell’animo, la sincerità delle parole, e
l’onestà delle azioni. Le cortigiane del Cinquecento non differiscon in
ciò da quelle di altri tempi. Troviamo in esse, generalmente parlando,
le solite arti e le consuete frodi del meretricio; nè si può dire che,
per questa parte, da allora a oggi, ci sia stato mutamento, se non
quanto le piccole e le grandi ribalderie del mestiere erano allora, più
che ora non sieno, condite di piacevolezza e azzimate di galanteria.
Finti ardori e finte lagrime, finti sdegni e finte paci, accorte
ritrosie e opportuni incitamenti, lettere artificiosamente tessute,
versi ingegnosamente composti, acconci e graziosi doni, blandizie soavi
alternate con misurati rigori, erano gli accorgimenti e l’arti di cui
esse giovavansi per invescare, trattenere, richiamare, piumare gli
amanti. Gli scrittori del tempo abbondano di racconti, di ammonizioni,
di avvisi, circa le beffe, le truffe, i tradimenti e l’altre infinite
poltronerie che esse usavan di fare. Le accuse e i biasimi vengono
da tutte le parti, prendono tutte le forme, ricordano quelle a cui in
antico erano andate soggette le etère famose. Degna d’andarne alla pari
con la greca Cirene e con la greca Elefantide ci si mostra Isabella
de Luna[405]. Di una che fu ladra, tace il nome, ma narra il furto il
Doni[406]. Di un’altra, invescata in laidissimo amore, fa menzione
Pietro Nelli in una delle sue _Satire alla Carlona_[407]. In un suo
capitolo il Coppetta copre di vituperi quella medesima Ortensia Greca
che in altro capitolo aveva levato a cielo, e chiama lei, e la madre di
lei e la fantesca

    Arpie crudeli, infide, inique e ladre.

Lorenzo Veniero svergognava Elena Ballerina e Angela Zaffetta[408],
vituperate entrambe anche nella _Tariffa_; l’Aretino, il Franco e altri
svergognavano Tullia d’Aragona. Andrea Alciato, Fausto Andrelini,
Ludovico Bigi, scagliavano contro le cortigiane velenosi epigrammi
latini; Teofilo Folengo le sferzava a colpi di versi maccheronici;
Sperone Speroni componeva contro di esse una virulenta orazione. Le
malcapitate erano inoltre vituperate e derise in novelle, in commedie,
in epistole, in trattati, in sonetti, in ragionamenti, in tariffe, in
altri componimenti di vario genere, popolari e non popolari, per nulla
dir delle prediche. In Firenze, nelle feste del carnevale, brigate
d’uomini che si fingevano ridotti a povertà dalle cortigiane, andavano
in giro, cantando l’infamia delle spogliatrici. Agli 11 di febbraio
del 1525 un anonimo scriveva da Roma a Paolo Vettori in Civitavecchia:
«Jeri m.º Andrea dipintore fece un carro dove erano tutte le cortigiane
vecchie di Roma fatte di carta, ciascuna con il nome suo, e tutte
le buttò in fiume avanti al papa; mandò all’Orsolina il sonetto e
la canzona che si cantava. Domane le cortigiane, per vendicarsi,
frustano detto m.º Andrea per tutta Roma»[409]. In Roma poesie contro
le cortigiane si affiggevano alla statua di Pasquino, in Venezia alla
statua del Gobbo di Rialto[410].

Ma non tutte le cortigiane erano poi così ribalde, di così abietto
animo e di così sozzo costume com’eran le più. Francesco Maria Molza
credeva che ancor esse potessero amare davvero, e ferventemente, e il
Bandello, che prima era stato d’altra opinione, tenne poi la opinione
del Molza[411]. Camilla Pisana pare abbia amato sinceramente Filippo
Strozzi, e Tullia d’Aragona fu più d’una volta presa ai lacci d’amore,
e quando amava, così ella stessa assicura, la gelosia l’uccideva.
Innamorata del Brocardo pare sia stata veramente quella Manetta
Mirtilla, che della morte di lui, avvenuta nel 1531, consolavano
con sonetti Bernardo Tasso e l’Aretino. Il Giraldi Cinzio narra di
una cortigiana veneziana, la quale _riccamente e con riputazione a
lei convenevole esercitava la sua disonesta arte_, una storia assai
notabile, perchè documento, non solo dell’affetto che poteva alle
volte entrar nel cuore di tali creature, ma ancora del buon ricordo e
della gratitudine che ne serbavano gli amati[412]. Una signora Medea
si accorò tanto della morte di Ludovico Dall’Armi, suo amante, che
l’Aretino le scrisse una lettera, chiedendole scusa di avere detto e
scritto che amore di cortigiana non fu mai vero, e che le cortigiane
non cercavano se non il guadagno. Ella consumò la roba e sè stessa per
lui, e lui morto, faceva grandissime elemosine in suffragio dell’anima
sua[413]. Il Giraldi Cinzio narra la storia di una cortigiana di
Rimini, che innamorata di un siciliano, perdette con lui ogni suo
avere[414]. Del resto, se le sciagurate creature che vivono facendo
copia di sè si mostrarono, in ogni tempo, capaci d’amore, più dovevano
essere nel Cinquecento, quando sottili ed intricate dottrine amorose
velavano molti contrasti, mitigavano molte ripugnanze, e di molte
cose alteravano, quant’era d’uopo, il significato e il carattere.
Nè tutte le cortigiane erano d’umore di concedersi a tutti. La fine
coltura, e il frequente conversare con uomini gentili, dovevano pure
destare nelle migliori tra esse una delicatezza di giudizio, e una
schifiltà di sensi sufficienti a preservarle, quando il bisogno non
le premeva, da contatti o vili, o incresciosi. Parecchie affermano di
non si concedere se non a chi piaccia loro, e di ciò molto le lodano
gli amici più fortunati, mentre altri si lagnano d’ingiusti rigori
e di repulse spietate. Tullia d’Aragona, essendo in Ferrara, fece
talmente disperare, con gli ostinati rifiuti, un giovane gentiluomo,
ricco e dabbene, che il poveretto, nella stessa casa di lei, tentò
d’ammazzarsi[415]; nè mi pare ci sia buona ragione di credere fosse
tutta astuzia e commedia di cortigiana. L’Aretino, che vituperò
le cortigiane com’egli sapeva e usava vituperare, lodava per donna
schietta e dabbene, anzi per _la più bella, la più dolce e la più
costumata madonna che abbia Cupido in sua corte_, e per _divina
giovane_, la signora Angela Zaffetta[416]; la quale non per altro
provocò l’ira di Lorenzo Veniero, che le scrisse contro quel suo
obbrobrioso poemetto intitolato appunto _La Zaffetta_, se non perchè
rifiutò una volta di aprirgli la porta[417]. Lo stesso Aretino scriveva
alla signora Basciadonna: «Io che aveva preso la penna per farvi una
lunga istoria de i semplici andamenti della signora Marina vostra
figliuola, riduco la somma del tutto con dirvi che l’altre sue pari
ingannano ognuno con le tristizie, ed ella inganna solo sè stessa con
la bontà; onde saria stata meglio monaca che cortegiana»[418]. Lorenzo
Veniero che tanto male dice della Zaffetta e della Ballerina, loda per
bella, buona e cara una Giacoma Ferrarese. Di una cortigiana sontuosa,
magnifica, non illetterata, faceta ed arguta, liberale e modesta, la
qual fu un tempo in Perugia, fa ricordo Marc’Antonio Bonciario[419].
La Basciadonna fece della figliuola una cortigiana; ma l’Imperia una
ne lasciò che, quasi nuova Lucrezia, tentò di togliersi la vita per
sottrarsi alle disoneste voglie del cardinale Petrucci[420].

Se frequenti, come abbiam veduto, erano i biasimi che toccavano alle
cortigiane, non meno frequenti erano le lodi; e quanto quelli eran
crudi e violenti, tanto eran queste amorevoli e smaccate. Sperone
Speroni scrisse contro alle cortigiane una orazione; ma, prima di lui,
ne aveva scritta una in lode Antonio Brocardo, lo sfortunato avversario
del Bembo. E il Molza celebrava e consolava in eleganti versi latini la
Beatrice Spagnuola, altrimenti detta da Ferrara, quella Beatrice di cui
tante ragioni egli avrebbe avuto di dolersi, e in commendazion della
quale non isdegnò di scrivere un sonetto la stessa Vittoria Colonna; il
Muzio, Bernardo Tasso, il Varchi, altri, esaltavano Tullia d’Aragona;
Niccolò Martelli levava a cielo la sua _divina e onoratissima_ madonna
Maddalena Salterella[421]; Michelangelo Buonarroti lodava Faustina
Mancina[422]; mentre durava ancor viva e gloriosa la memoria di quella
Imperia che dieci poeti avevano glorificata nei loro versi, e di cui
uno dei più infervorati ebbe a dire in un epigramma latino, che due
numi avevano fatto a Roma due grandi doni, Marte l’impero, Venere la
Imperia[423]. E non è tra le cose meno strane di quel singolarissimo
secolo il veder celebrate le cortigiane coi medesimi concetti poetici e
le medesime forme d’arte con le quali il Petrarca aveva fatto immortale
il nome di Laura[424].

Il Calmo, che molte sue facetissime lettere indirizzò a cortigiane,
scriveva a una signora Fontana: «Non è maraveja si ’l se fa istoria
di fatti vostri, se i poeti sta vigilanti in far composizion in laude
vostra, se i musici ve mete intei so canti fegurai, e se i sonadori fa
saltareli su la vostra lezadria, e breviter infina i avocati a fagando
le so renghe, ve introduse a qualche so poposito segondo i passi. Se
vien forestieri i ve vuol gustar, si vien imbassadori i ve vuol sentir,
si ’l vien signori i ve vuol parlar, e breviter la più parte di corieri
ve vuol praticar»[425]. Nel dialogo di Scipione Ammirato, intitolato
_Il Maremonte_, uno degli interlocutori dice a chi l’ascolta: «Io credo
che voi abbiate udito nominar la Panta e l’Angela, amendue famosissime
meretrici, quella in Roma, e questa in Napoli, e le riverenze, e
gl’inchini, e i corteggiamenti che lor si fanno da cavalieri tutto dì,
e con quanta magnificenza e grandezza si stieno nelle lor case»[426].
Ad Angela Del Moro facevano pubblicamente di berretta i gentiluomini
anche quando aveva passata l’età sinodale, ed era divenuta _decana
delle cortigiane_ di Roma[427]. E delle famose cortigiane di Roma
appunto, ricordate dallo Zoppino e da Lodovico nel Ragionamento di
messer Pietro, ciascuna aveva il suo particolar seguito: la Lorenzina,
la Beatrice e la Greca di gentiluomini, la Beatricica di prelati, la
Tullia di giovinetti, la Nicolosa di Spagnuoli, la Laurona di mercanti,
l’Ortega di avvocati e procuratori, _Madrema non vuole_ di duchi, di
marchesi e di ambasciatori[428].

Nè si creda che esagerino i due buoni compari. Cardinali e
segretarii pontifici non si vergognavano di viaggiare in compagnia
di cortigiane[429], e di banchettare con esse. La sera del 10 agosto
1513, il marchesino Federico Gonzaga, in età di soli dodici anni,
cenò in casa del cardinal di Mantova, suo zio, avendo commensali
il cardinale d’Aragona, il cardinale Sauli, il cardinale Cornaro,
parecchi vescovi e gentiluomini e la cortigiana Albina; il giovedì
prima egli era stato in casa del cardinale d’Arborea, dove si era
recitata, in ispagnuolo, una commedia di Juan de la Enzina, e dove
erano capitate _più putane spagnuole che omini italiani_[430]. Un
Marco Bracci, descrivendo a Ugolino Grifoni, segretario di Cosimo I,
le grandezze in mezzo a cui viveva la _magnifica_ signora Salterella
(non la Maddalena, un’altra) dice che le facevano _afa i vescovi_, e
che una sera cenò con cinque cardinali[431]. Vincenzo Fedeli racconta
nelle sue _Memorie di Perugia_ che nel novembre del 1557 giunsero in
quella città il cardinale Caraffa, nipote di Paolo IV, e il cardinale
Vitello. Il cardinale Caraffa, «dopo cena, publicamente, fece andare
in palazzo tutte le putane, che a quelli tempi se trovaveno in Perugia,
quale furono in tutto 14; e presene per sè una, e una per el cardinale
Vitello; el resto acomodoli a la sua famiglia»[432]. Nella _Cortegiana_
dell’Aretino, l’Alvigia ricorda i suoi bei tempi, quando la
frequentavano _signori e monsignori ed ambasciadori a josa_, e accenna
a un vescovo, cui tolse un giorno la mitra per porla in capo a una sua
fantesca[433]. Di una gran cortigiana, non nominata, dice il Mauro che
la sera andava in casa di lei

                   qualche ambasciadore
    E qualche conte e qualche chierca rasa[434].

Afferma il Calmo, in una lettera alla signora Ardelia, che le
cortigiane trovavano onorate e festevoli accoglienze anche nei conventi
di frati[435]. Il Bandello narra a tale proposito una edificante
novella[436], e Lorenzo Priuli, Oratore della Repubblica veneta,
scriveva da Roma alla Signoria il 30 di novembre del 1585: «Ho inteso
per buona strada, che il Pontefice è stato informato da diversi,
che molti delli monasterii di monache di Venezia e della diocesi
di Torcello sono in mal stato, e ridotti alcuni di loro a pubblici
postriboli»[437]. Se così pochi scrupoli avevano gli ecclesiastici e
i religiosi, i laici potevano averne anche meno. Non solo cavalieri
e letterati non celavano gli amori loro con le cortigiane più note,
ma li predicavano, se ne facevano belli, e ciascuno s’ingegnava di
soverchiare i rivali. Giovanni de’ Medici, il famoso capitano, faceva
togliere per forza, quasi fosse un’altra Elena, a Giovanni Della
Stufa Lucrezia _Madrema non vuole_, che costui menava seco alla fiera
di Recanati; nel 1531 si trovarono in Firenze sei cavalieri pronti
a sostenere con l’armi in mano, contro chi si fosse, che non era al
mondo donna di più gran pregio e virtù di Tullia d’Aragona. Quando le
Aspasie più illustri si movevano, gli era come se si movessero tante
regine. Ambasciatori davano notizia di loro partenze e di loro arrivi,
e il popolo dei cortigiani entrava in subbuglio. Marco Bracci, dando
conto al Grifoni della entrata in Roma della signora Salterella testè
ricordata, dice ch’ell’era entrata _magna comitante caterva_, con tanti
cavalli e servitori e armi e moltitudine di gente ch’era andata ad
incontrarla, da parere _l’entrata di Marfisa nel campo moresco_[438].
L’Aretino mandava sua ambasciatrice alla regina di Francia la Zufolina,
per chiedere non so che, e molto ripromettendosi de’ suoi buoni
offici; in Firenze Tullia d’Aragona, per la cui partenza da Roma s’era
commosso, anni innanzi, persino Pasquino[439], entrava nelle buone
grazie della duchessa, a cui dedicava il suo volume di rime. Abbiamo
veduto Veronica Franco felicitata dai favori di un re; così alta
ventura non toccò a lei solamente[440]. Qual meraviglia dunque se le
cortigiane di maggior conto stavano in contegno, e davansi aria di
principesse? Era usanza di quella Ortensia lodata prima e vituperata
poi dal Coppetta

    Star sur un goffo puttanil decoro,
      E far la donzelletta, e persuadersi
      Di pisciar acqua nanfa e cacar oro.
    Sopra l’uso mortal bella tenersi.
      Quasi nuova dal ciel discesa luce,
      Il che fa rider altri, altri dolersi[441].

Il Giraldi Cinzio racconta di una cortigiana napoletana, «la quale,
ancora che si fosse data alla disonesta arte..., se ne stava però
così in contegno, che pareva ch’ella fosse Lucrezia Romana, e prima
ch’uno le potesse parlare, stava almeno per lo spazio di due mesi, e
bisognavavi usare un centinajo di mezzi, ed aver poi di grazia ch’ella
volesse udire dieci parole, e se proverbiosamente rispondeva, bisognava
esserle tenuto, come se avesse dato cortesissima risposta»[442]. In uno
dei _Ragionamenti_ dell’Aretino la Nanna parla «d’alcuna, che recatasi
in suso i matarazzi di seta, faceva stare in ginocchioni chi le
favellava»[443]. Della cortigiana non nominata, di cui ho fatto cenno
pur ora, dice il Mauro:

    Ella sta bene come una duchessa,
      E ne comanda come una reina,
      Ne dà tratti di corda e ne confessa.
    . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Com’ella sia bizzarra e pazza e schiva,
      E di strano cervello, e disdegnosa,
      So che il sapete voi senza ch’io ’l scriva[444].

Ogni po’, gli è vero, quando in uno e quando in un altro luogo,
principi e magistrati si avvedevano che le cortigiane prosperavano
troppo, imbaldanzivano troppo, facevano troppa gazzarra, e allora,
in fretta e in furia, mandavano fuori, a reprimere gli abusi, nuove
leggi e nuovi regolamenti, o rinnovavano gli antichi e disusati; ma
cotali rigori duravano poco, e non colpivano, di solito, le cortigiane
d’alto paraggio, le cortigiane _oneste_, o se pur le colpivano,
non mancavano protettori possenti, e intercessori zelanti, che le
toglievan fuori di quelle pressure e guadagnavano loro immunità e
privilegi[445]. Un canto carnascialesco di Guglielmo detto il Giuggiola
ci mostra le minori cortigiane di Firenze assai indispettite, perchè
offese nelle persone e negli interessi da rigori e da vessazioni cui
non sottostavan le ricche[446]. Pio V, pontefice santo, dopo avere
afflitte le cortigiane di Roma con varii provvedimenti assai rigorosi,
volle da ultimo sfrattassero in tutto dalla città: le poverette
diedero principio all’esodo doloroso; ma allora, scrive l’Orator Paolo
Tiepolo, quelli «del governo della città dubitando, che ella in gran
parte non si disabitasse, chiamorno marti il conseglio del populo,
e dopo aver discorso sopra questa materia elessero forse quaranta di
loro, che andassero a parlarne a Sua Santità per rimoverla da questo
pensiero», come lo rimossero poi veramente, almeno in parte. Dice Paolo
Tiepolo che secondo il computo fatto, tra per le cortigiane, tra per
coloro che le avrebbero seguitate, la città sarebbesi votata di ben
25000 persone[447]. Molti anni dopo, nel 1614, quando le condizioni
della vita italiana erano già profondamente mutate, le monache delle
Convertite in Firenze non si facevan riguardo d’intercedere presso il
duca Cosimo II perchè lasciasse abitare in qual parte della città fosse
loro più a grado le cortigiane ricche, le quali pagavano al convento
una tassa cospicua[448].

Persino le leggi penali usavano talvolta alle cortigiane (intendasi
sempre le maggiori, le _onorate_) insolita clemenza. Bisognò che
Isabella de Luna passasse tutti i termini della tracotanza, e facesse
al maggior magistrato di Roma, cioè al Governatore, uno sfregio
sanguinoso, perchè questi si decidesse a punirla con cinquanta
staffilate, datele in pubblico, sulle carni nude. Tuttavia, pensando
egli, il Governatore, ch’era monsignor de’ Rossi, vescovo di Pavia,
«la delinquente essere femina e meretrice pubblica, non volle in
tutto usare quella rigidezza e severità che il caso ricercava»[449].
La onesta Cursetta, di cui, come ho detto, Giovanni Burchard narra la
istoria, fu, per una colpa che non istarò a ricordare, menata in giro
per la città, vestita di velluto nero, e con le membra interamente
libere, mentre il suo complice, un disgraziato moro in vesti femminili,
fu menato in processione coi panni alzati e con le braccia legate, fu
messo in carcere, fu strozzato, dopo alcun giorno in Campo di Fiore,
e finalmente arso, ma solo in parte, perchè di arderlo tutto non
permise una gran pioggia che sopravvenne[450]. E qui vuol anche essere
ricordato come vigesse l’uso per quasi tutta Italia di donar la vita a
quei condannati che fossero domandati per marito da meretrici.

Ciò nondimeno non era tutta rose la vita delle cortigiane. Lasciando
stare il tedio, la sazietà, il disgusto, che non si potevano scompagnar
dal mestiere, c’erano i soprusi degli amatori prepotenti, c’erano
gl’inganni dei truffatori, c’erano infermità vituperose[451], e mille
altri pericoli che in quella vita rimescolata potevano sorgere a
ogni ora. Quante non si videro improvvisamente spogliate d’ogni loro
ricchezza, come quella signora Aquilina Veneziana che il Lasca tentò
consolar co’ suoi versi![452]. Quante non furono percosse, ferite,
uccise! Le più, dopo avere sguazzato un tempo, cadevano in povertà,
e finivano miseramente la vita, all’ospedale, o tramutandosi di
cortigiane in mezzane[453], in locandiere, in lavandaie, o a dirittura
elemosinando alla porta delle chiese[454]. La Salterella, che pagava
ottanta scudi di pigione quand’era in voga, non ne pagava più che
sedici nel 1549. La gloriosa Tullia d’Aragona moriva, non povera
affatto, ma troppo scaduta dall’antica grandezza, in casa di Matteo
Moretti da Parma, oste in Trastevere[455]. La Giulia, che aveva in vita
guadagnato tesori, non ha, morta, un quattrino da pagar Caronte[456].
Tante miserie potevano porgere, e porsero in fatto, soggetto acconcio
a una specie di componimento che ebbe gran voga in quel secolo, il
Lamento[457]. Nel _Dialogo di Amore_ dello Speroni Tullia d’Aragona si
lagna forte dei mali ond’è afflitta la vita delle cortigiane, e lagni
simili ai suoi udremo dalla bocca di Veronica Franco. Molte, dopo aver
battagliato assai cercavano, come la Tullia appunto, rifugio e pace nel
matrimonio, e parecchie seguitavano, dopo maritate, a fare la vita di
prima[458].

Alcune, come la Imperia, la Fiammetta, la Sgarrettona e Camilla da
Fano, ricordate dall’Aretino[459], finirono bene, ricche, in casa
propria, lasciando di sè onorata memoria. La Imperia fu seppellita
con gran pompa nella cappella di Santa Gregoria in Roma, e sulla sua
tomba fu posto questo epitafio, strano un po’ per una chiesa: IMPERIA
CORTISANA ROMANA QUAE DIGNA TANTO NOMINE, RARAE INTER MORTALES FORMAE
SPECIMEN DEDIT. VIXIT A. XXVI. D. XII. OBIIT MDXI, DIE XV AUG.[460].
Nella chiesa di Sant’Agostino si ammirava la cappella della Fiammetta.
Nella biblioteca reale di Monaco si conserva un manoscritto dei tempi
di Alessandro VI, intitolato _Epitaphia clarissimarum mulierum quae
virtute, arte aliqua nota claruerunt_: insieme con parecchi epitafii
di sante, parecchi ce ne sono di cortigiane illustri[461]. Morta, in
età ancor giovane, Maddalena Salterella, Niccolò Martelli, scriveva a
messer Albizzo Del Bene: «Io non pensava già, Mag.º M. Albizzo, d’aver
così tosto a cangiare stile, avendovi pochi dì fa scritto per le mani
del nostro gentilissimo M. Lucantonio Ridolfi e con essa mandatovi
una parte delle lodi alla sfortunatissima Sig.ª Maddalena Salterella;
della quale nel mezzo di certi umor maligni e cattivi entrò morte nel
bel corpo e in pochi giorni ne trionfò allegramente senza una pietà al
mondo. L’anima benedetta della quale si gode ora in pace lieta l’eterno
bene; e nel vero è stata perdita non piccola, che ogni un dì non si
vede un albergo di sì onorati costumi, nè si gusta un trattenimento
sì reale accompagniato da mille onesti passatempi pieni di virtuosi
effetti, e a me ella è doluta assai, e così come la penna mia le
acquistò lodi vivendo, così ora ne ho fatto per memoria quattordici
versi, i quali in un sonetto li vi mando. Che ’l Signor Iddio le abbia
dato quel riposo che meritavan le sue ottime qualitadi e a noi presti
della sua infinita grazia»[462].

Abbiam veduto qual fosse la cortigiana del Cinquecento; è egli vero
che ricompare in lei l’etèra greca dei tempi di Pericle e di Alcibiade?
Molti dissero risolutamente che sì; taluno negò o dubitò[463]; il vero
si è che tra la cortigiana e l’etèra c’è molta conformità, ma c’è pure
qualche disformità. La cosa vuol essere esaminata con discrezione,
tenendo ben presente che nessun fatto storico, nessuna storica
apparizione può mai riprodursi in tutto simile a sè medesima. Se noi
paragoniamo la vita delle Imperie, delle Tullie, delle Lucrezie, delle
Isabelle, delle Camille del Cinquecento con quella delle Aspasie,
delle Frini, delle Mirrine, delle Taidi, delle Glicere antiche, ci
accorgiamo subito di molte e notabili somiglianze. Queste son colte,
e quelle son colte; queste sono corteggiate da politici, da filosofi,
da poeti, e quelle son corteggiate da ogni sorta di letterati e di
gentil uomini; parecchie etère furono scrittrici, e scrittrici furono
parecchie cortigiane. La somiglianza si stende più oltre e abbraccia
certi abiti mentali, certi sentimenti, i costumi, gli artifizii, le
azioni. Come le cortigiane, le etère furono glorificate e vituperate. E
l’ambiente sociale in cui sorgono e si educano le etère ha ancor esso
incontestabilmente molta somiglianza con l’ambiente sociale in cui
sorgono e si educano le cortigiane; anzi questo è, in certe parti, e
in più vorrebbe essere, la riproduzione di quello. Una matura civiltà è
la civiltà greca del quinto secolo avanti Cristo, e una matura civiltà
è la civiltà italiana del Cinquecento; ad entrambe tien dietro la
decadenza. Parecchie delle condizioni che favorirono l’apparir della
etèra si ritrovano nel Cinquecento in Italia, e portano i medesimi
effetti. I contemporanei di Pericle e di Alcibiade erano assetati
d’ogni bellezza. Ora, la bellezza muliebre, fra tutte la più cara agli
uomini, non può essere liberamente e interamente goduta, se non nella
etèra, ed è perciò che ad Aspasia incinta e minacciata nella scultoria
formosità del suo corpo, l’Areopago ingiunge o permette di scongiurare
con una provvida caduta il pericolo. Gli Italiani del Cinquecento sono
anch’essi assetati di bellezza, e ci rimangono di quel secolo libri
senza numero in cui la bellezza muliebre è descritta, analizzata,
ricercata amorosamente nelle sue ragioni e nelle sue leggi. Ai tempi
di Pericle e di Alcibiade il matrimonio in Grecia comincia a cadere
in discredito; nel Cinquecento in Italia moltissimi lo detestano,
moltissimi lo deridono, e i letterati son quasi tutti dell’avviso
dell’Aretino, il quale dice la moglie esser peso da lasciare alle
spalle d’Atlante. Ora, se il celibato, in genere, tende a suscitare
la prostituta, il celibato delle persone colte, dei letterati e degli
artisti, tende a suscitare l’etèra e la cortigiana[464].

Ma altre condizioni erano in tutto diverse, e favorivano o più l’etèra
o più la cortigiana. La preoccupazione del peccato di carnalità non
turbò mai la coscienza dei Greci, e le loro credenze religiose, non
solo non contrastavano al meretricio, ma tendevano anzi a promuoverlo,
a consacrarlo, come avvertirono molte volte biasimando acremente gli
apologeti cristiani dei primi secoli. Da tempo antico in Corinto le
prostitute erano in istretta relazione col culto, e una specie di sacra
prostituzione si praticava anche in molte altre città della Grecia e
dell’Asia Minore. Solone eresse in Atene un tempio a Venere Pandemia.
A Lamia e Leena, amiche entrambe di Demetrio Poliorcete, Atene e
Tebe consacravano templi sotto la invocazione di Afrodite Lamia e di
Afrodite Leena. La etèra, dunque, non offendeva la morale religiosa
del tempo suo; per contro la cortigiana offende nel modo più grave la
morale religiosa del proprio. Di qui una particolar ragione di biasimo
contro di lei, e in lei una particolar ragione d’indegnità. Alle
cortigiane era rigorosamente vietato l’esercizio del mestiere nelle
feste e nelle vigilie solenni dell’anno. Sapendo di vivere in peccato,
esse medesime cercavano, con pratiche religiose, di riscattar l’anima
dalle mani del demonio[465]. In Venezia, e certo anche altrove, le
cortigiane non si potevano in certa ora del giorno visitare, perchè
andavano a udir vespero[466]. Per tutto usavano di confessarsi a
Pasqua, e in quella occasione sempre qualcuna se ne convertiva, e ce
n’eran di quelle che rinunziavano al mondo e si facevan monache[467].
Fra le lettere dell’Aretino ve n’ha una a certa Angela di Danzica,
la quale si ritraeva dalla vita disonesta per maritarsi, disposta
piuttosto a servire che a riprendere il tristo mestiere. Paolo IV
e Pio V forzavano cortigiane e meretrici volgari ad andare alla
predica[468]. Per questo rispetto dunque le etère godevano, dirò così,
di una legittimità di cui non potevano godere le cortigiane; ma queste
si rifacevano del danno in altro modo, prendendo, cioè, la parte
loro di quel culto che il Cinquecento tributò così largamente alla
donna. Lodando il canto della Tullia dice il Muzio, in un sonetto, che
l’anima, al suono della voce di lei,

    Ad ogni uman disio tutta si toglie
    E con tutti i pensieri al cielo aspira;

ed Ercole Bentivoglio in un altro sonetto affermava che la presenza
della Tullia in Ferrara aveva spento ogni basso pensiero negli eleganti
frequentatori di quella corte. Di nessuna etèra dell’antichità fu mai
detto altrettanto.


III.

E ora raccostiamoci alla signora Veronica; ma senza occuparci subito
dei fatti suoi. Raccostiamoci a lei, entrando in quella Venezia ov’ella
nacque, visse e morì, e vediamo un po’ come ci stessero le sue pari.

Dice Niccolò Franco che le meretrici al tempo suo erano a milioni, e
Ortensio Lando afferma che a volerle annoverare sarebbe stato «come
volere annoverare le stelle del cielo»[469]. Le cortigiane _oneste_
erano certo in numero molto minore; ma ciò non toglie che fossero
anch’esse innumerevoli, e come se non bastassero le italiane, ce
n’erano di spagnuole, di francesi, di tedesche, di fiamminghe, di
greche e d’altre nazioni. In tutta Italia le cortigiane se la facevano
bene; ma le città dove più prosperavano erano Roma e Venezia; dopo
queste veniva Napoli. L’Aretino chiamò Roma _terra da donne_, e non a
torto. «Dura e mostruosa cosa mi parve», dice il Lando, «che in Roma
santa si comportassero tante meretrici, e in tanta stima fussero, e
a tante facultà pervenessero, che pajono reine»[470]. Nel dialogo del
Pontano intitolato _Antonius_, uno degli interlocutori, il Suppazio,
narra che a stento potè salvarsi in Roma dalle mani delle meretrici.
Ciò non deve recar meraviglia. Nel 1488 Innocenzo VIII aveva bensì
vietato ai preti di tenere macellerie, taverne, bische e lupanari,
e di farsi, per denaro, mezzani di meretrici[471]; ma non perciò era
scemato il numero di queste. Stando a ciò che dice Stefano Infessura
nel suo _Diario_, le meretrici in Roma raggiungevano, circa il 1490,
il numero di 6800, _exceptis illis quae in concubinatu sunt et illis
quae non sunt publice sed secreto_[472]. La tracotanza e sfacciataggine
loro passava ogni termine. Il Burchard ricorda che il giorno 28 di
agosto del 1497, ricorrendo la festa di Sant’Agostino, e celebrandosi
per ciò nella chiesa che da lui prende il nome una messa solenne,
pubbliche meretrici ed altre vili persone ingombrarono tutto il luogo
fra i cardinali e l’altare, il che sturbò molto le sante funzioni. Ai
tempi di Leone X cortigiane abitavano in case appartenenti a chiese
e conventi; in altre erano uscio a uscio con chierici e persino con
vescovi. I cardinali cui Paolo III commise di proporre le riforme che
conveniva introdurre nella Chiesa in generale, e in quella di Roma in
particolare, lamentavano che nella eterna città le donne di mala vita
alloggiassero con pompa eccessiva, e passeggiassero per le strade sopra
magnifiche mule, accompagnate dai famigli dei cardinali e da chierici.
Abbiamo già veduto che effetto sortissero i rigori di Pio V: gli è che
le cortigiane formavano una delle principali attrattive della corte di
Roma. Un anonimo, pentito d’averla lasciata, quella corte, diceva in un
capitolo al Como[473]:

    Onde v’esorto, quant’i’ posso, a starvi
      Altri vinticinqu’anni, e più ancora,
      Se più potete e volete restarvi.
    Ch’egli è un bel piacer in men d’un’ora
      Trarsi di testa mille volte, e fare
      Per Banchi il Giorgio in groppa alla Signora;

e lo lodava d’essersi scelto due _stelle_, Angela del Moro e la
Flaminia, che veramente sono tra quelle più spesso ricordate dai
contemporanei[474].

Son poche le cortigiane famose le quali non abbiano fatto in Roma più
o men lungo soggiorno, il che prova quanto quella stanza tornasse loro
gradita; ma se in Roma stavano bene, non istavano men bene in Venezia,
anzi stavano meglio.

Già Venezia era di tutte le città d’Italia quella dove si viveva più
agiatamente, più allegramente e più liberamente. Pietro Aretino,
che se ne intendeva, la chiamava il Paradiso terrestre. Non solo
i patrizii, ma moltissimi altri cittadini v’erano ricchissimi, e
spendevano volentieri e largamente, tanto che il Lando rimproverava
loro la ridicola magnificenza e la pazza vanagloria. A Rialto e in
Merceria erano panni e suppellettili, ninnoli e gemme d’ogni qualità
e paese, e se si toglie Roma, nessun’altra città aveva tanta frequenza
di forestieri. I palazzi erano i più suntuosi del mondo; nell’isola di
Murano ridevano al sole giardini meravigliosi, e i ricchi possedevano
nel Padovano, nel Bassanese, nella Marca Trivigiana, sui colli
del Friuli, ville d’impareggiato splendore. Le feste erano molto
frequenti, e a quella sola dell’Ascensione accorrevano di fuori oltre
a centomila persone: in nessuna città erano trattenimenti più varii e
più lieti; in nessuna si mangiava e si beveva meglio. A dispetto delle
leggi suntuarie il lusso era sfoggiato. I belli spiriti convenivano
d’ogni banda nella città delle lagune, e vi trovavano le più oneste
accoglienze, l’ospitalità più generosa e più affabile. Ciò spiega
il numero stragrande di meretrici di cui la città andava, non dirò
orgogliosa, ma allegra: in sul principiar del secolo esse erano,
secondo afferma Marin Sanudo, 11654 sopra una popolazione di 300,000
abitanti[475]. Alcuni anni dopo, Lorenzo Veniero le assommava _a tre
legioni o quattro_,

    Parte in gran case e parte in carampane;

e Pasquino, a modo suo, assegnava la ragione di tanta copia:

    Urbe tot in Veneta scortorum millia cur sunt?
    In promptu causa est: est Venus orta mari[476].

Non so quante fossero in questa turba magna le cortigiane nobili; ma
sul declinare del secolo, il Montaigne ne contava ancora centocinquanta
circa, le quali spendevano assai e scialavano da principesse.

Bisogna anche dire che la Serenissima le trattava con molta indulgenza
e liberalità. Più e più volte il Consiglio dei Dieci tentò di mettere
un qualche freno ai loro trasmodamenti, costringendole ad abitare
in luoghi determinati, e a portare un segno per cui facilmente
potessero essere riconosciute; vietando loro il soverchio lusso delle
suppellettili e delle vesti, e ponendo all’esercizio del loro mestiere
altre condizioni e restrizioni a tutela della pubblica moralità. Ma
tali rigori giovarono sempre assai poco, e il frequente rinnovamento
delle medesime leggi prova la inefficacia loro e il poco conto in cui
erano tenute. Si può dire che durante tutto il secolo XVI in Venezia,
le cortigiane, così le maggiori, come le minori, abitano dove vogliono,
vestono come lor piace. Del resto il Consiglio dei Dieci aveva
molte volte provveduto, con leggi non men savie che umane, a che le
meretrici fossero libere, non potessero essere impegnate, nè frodate,
nè maltrattate da faccendieri e da strozzini ingordi; e se non è vero
che esso le abbia mai chiamate in atto pubblico _le nostre benemerite
meretrici_, gli è più che probabile che se ne sia qualche volta servito
negli intricati maneggi della sua terribile polizia. Giordano Bruno
dice che _per magnanimità e liberalità de la illustrissima repubblica_,
le cortigiane erano _esenti da ogni aggravio e manco soggette a leggi
che gli altri_[477].

Se si aggiunge, oltre tutte le ragioni indicate, che le donne oneste,
e soprattutto le patrizie, vivevano in Venezia assai ritirate, di rado
si lasciavano vedere in pubblico e poco o nulla partecipavano alla
vita colta ed elegante, si comprenderà anche meglio come la città
delle lagune dovesse essere la Terra Promessa delle cortigiane, e
come molte di quelle che lasciarono Roma al tempo dei rigori di Pio
V, vi riparassero assai volentieri[478]. Per contro Ippolito Salviano
lascia intendere, in certa sua commedia, che quelle le quali lasciavano
Venezia per andarsene a stare in Roma non facevano il guadagno che si
credevano[479].

Il Calmo, esortando una signora Romana a venirsene in Venezia,
ricordate molte cose notabili che erano nella città, dice: «si vu
gustassè, anema mia, i spassi de andar al fresco in barca, in cochio
per tera ferma, i bancheti secreti, le festine, i solazzi incogniti, el
ve parerave d’esser deventà una rezina, un’Ancroja, e una Pantasilea...
el ve sarà fatto segondo i tempi soto le fenestre musiche de canto,
de soni, de bufoni, e de mille missianze de dolcezze, e de vertue,
che ve anderà i polmoni in bruo d’allegrezza; e tutti a onor de la
signora, a nome de la so belezza, con el bon pro de la so reverenzia.
El magnifico tal, el signor qual, missier, lu istesso, certi zoveni
a refuso ve fa sta matinada»[480]. Il Calmo si dimentica di ricordare
un’altra comodità di cui le cortigiane potevano, nonostante il divieto
della legge, godere in Venezia (come del resto ne godevano in Roma):
quella di girare per la città travestite[481]. Un’altra notizia curiosa
della vita delle cortigiane in Venezia ci dà il Bandello, in una delle
sue novelle: «Quivi intesi», dic’egli, «esser una usanza, che in altro
luogo esser non udii già mai, che è tale: ci sarà una cortigiana,
la quale avrà ordinariamente sei o sette gentiluomini veneziani per
suoi innamorati, e ciascuno di loro ha una notte della settimana, che
va a cena e a giacersi con lei. Il giorno è della donna, libero per
ispenderlo a servigio di chi va e di chi viene, acciò che il molino
mai non istia indarno, e qualche volta non irrugginisse per istare in
ozio. E se talora avviene che qualche straniero, che abbia ben serrata
la borsa, voglia la notte dormire con la donna, ella l’accetta; ma fa
prima intender a colui, di chi quella notte è, che se vuol macinare,
macini di giorno, perciocchè la notte è data via ad altri; e questi
così fatti amanti pagano tanto il mese, e si mette espressamente
nei patti, che la donna possa ricevere ed albergare la notte i
forestieri»[482]. In così fatta usanza, e in alcuno errore involontario
cagionato da essa, sarebbe forse da ricercare la origine prima dei
furori del Veniero e delle contumelie della _Zaffetta_.

Insomma non era città in Italia dove le cortigiane stessero meglio
che in Venezia. Il Brantôme narra di una nobile dama o damigella di
Francia, la quale, udito del lieto vivere delle cortigiane di Venezia,
disse a una sua amica: _Hélas! si nous eussions fait porter tout nostre
vaillant en ce lieu là par lettre de banque, et que nous y fussions
pour faire cette vie courtisanesque, plaisante et heureuse, à laquelle
toute autre ne sçauroit approcher, quand bien serions emperières de
tout le monde_. Il Brantôme, che di questa materia s’intendeva assai,
soggiunge: _et de fait, je croy que celles qui veulent faire cette vie,
ne peuvent estre mieux que là_[483].

Marin Sanudo dà copia ne’ suoi Diarii di una lettera che Francesco
Mazardo scriveva da Gand, ai 22 d’aprile del 1531, a Tommaso Tiepolo
a Venezia. Il Mazardo vi parla, tra l’altro, di un banchetto, al quale
il legato Campeggio, in Anversa, aveva invitato molti signori, e molti
mercanti italiani, e dice come essendo venuto in discorso se Anversa
fosse città da potersi paragonare a Venezia, monsignor De la Morette,
che in quest’ultima città aveva soggiornato quale ambasciatore del re
di Francia, «volendo favorir la università di le merze di Venezia,
disse: Io non voglio credere che di una sorte di merze, ch’io ho
trattato a Venezia, ne sia qua quella copia e perfezione ch’io ho
trovato a Venezia; e cominciò a nominare Madona Cornelia Griffo, Julia
Lombarda, Bianca Saraton, le Balarine ed alcune altre»[484].

Le cortigiane di Venezia godevano di grande riputazione. Il Malespini,
in una delle sue novelle[485], ci mostra due gentiluomini, i quali
vanno a Venezia appositamente «per godere della bella e soave
conversazione delle leggiadre giovanette che vi sono in copia
grandissima». Tali leggiadre giovanette erano dai Veneziani, con nome
non meno di esse leggiadro, chiamate mamole. Michele Montaigne, quando
capitò a Venezia, fece come i due gentiluomini del Malespini e come
tutti i forestieri facevano; visitò le mamole, e fra l’altre Veronica
Franco, a cui noi pure vogliamo ora far visita, intrattenendoci con lei
e di lei.



PARTE SECONDA


I.

Quando ebbe la ventura di accogliere in casa sua il giovane re di
Francia, la Veronica, nata in Venezia nel 1546, era nel fiore della
gioventù e della bellezza[486]. Ella stessa, più e più volte ne’ suoi
scritti, nomina, e con molto affetto, la patria, chiamandola suo bello
e dolce nido, ricetto amico e fedele, paradiso in terra, miracolo unico
in natura. Ad uno degli ammiratori suoi, dal quale era stata troppo
lodata, diceva:

    Questa dominatrice alta del mare
      Regal Vergine, pura, inviolata.
      Nel mondo senza essempio, e senza pare;
    Questa da voi deveva esser lodata.
      Vostra patria gentile in cui nasceste,
      E dov’anch’io la Dio mercè son nata.

La famiglia ond’ella usciva era, non già plebea, come fu detto, ma
cittadinesca, di condizione mezzana cioè, tra la plebe e la nobiltà,
e aveva il suo stemma[487]. Quali, peraltro, fossero le condizioni
di essa, quali le vicende per cui era passata in quegli anni che
precedettero e che seguirono la nascita della Veronica, nè sappiamo,
nè possiamo congetturare. Questo bensì sappiamo che il padre di costei
si chiamava Francesco e Paola la madre, e che ella ebbe tre fratelli,
per nome Girolamo, Orazio e Serafino, e una zia, la quale era monaca e
viveva fuori di Venezia.

Quale fu l’infanzia della Veronica, quale l’adolescenza? Ella nol dice.
Si può credere tuttavia che la educazione di lei non fosse trascurata
dai genitori, e che per tempo anzi il suo ingegno fosse da buoni
maestri esercitato in quegli studii e in quell’arti che dovevano,
più tardi, porla in grado d’illeggiadrire con gli ornamenti delle
virtù il mestier sciagurato, e di accoppiare al nome di cortigiana il
nome di poetessa. E si può credere anche di più; cioè che i genitori
l’abbiano educata e cresciuta con l’intendimento appunto di fare
di lei una cortigiana compita. Nè proverebbe nulla in contrario il
fatto che, giovanissima ancora, la Veronica si maritò, sposando un
Paolo Panizza, medico, del quale non sappiamo altro, se non che nel
1582 era già morto. Abbiam veduto che matrimonii di cortigiane con
uomini di condizione anche onorevole non erano punto infrequenti, e
che molte di esse, dopo maritate, seguitavano a far la vita di prima,
consenzienti di solito i mariti, cui allettavano i facili guadagni e il
grasso vivere. Io non credo di fare una congettura troppo arrischiata
se dico che assai probabilmente, prima ancora di andare a marito, la
Veronica aveva trovato, in quella Venezia giocosa e opulenta, a far
buon traffico della sua bellezza e della sua gioventù, mettendo così
insieme la dote che doveva agevolarle il matrimonio. Comunque sia,
certo è che nel testamento da lei fatto il 10 agosto del 1564, quando
toccava appena i diciott’anni, la Veronica, essendo prossima al parto,
dichiara di credersi incinta per opera d’un messer Jacopo de’ Baballi,
lega a costui un diamante, gli affida la tutela della creatura che
stava per nascere, e, insieme, l’amministrazione di quanto ad essa
lasciava, e raccomanda alla madre di farsi restituire dal marito
medico la dote[488]. E altrettanto certo si è che la Veronica non
ebbe a guastarsi, per ragion del mestiere che faceva, nè col padre,
nè con la madre, nè coi fratelli. Molti anni dopo questo testamento,
la vediamo maneggiarsi in un negozio che non sappiamo qual fosse, ma
in cui era interessato il padre di lei[489]; e quanto alla madre,
il _Catalogo di tutte le principal et più honorate Cortigiane di
Venetia_, già da me ricordato, ce la mostra pieza, cioè mallevadrice
della propria figliuola[490]. Anzi la Veronica non si guastò nemmeno
con la buona zia monaca; in certa sua lettera parla del proposito
d’andarla a visitare[491]. Un’ultima congettura non parrà forse al
tutto irragionevole, cioè che la buona mamma fosse stata a’ suoi
tempi cortigiana ancor essa e, prima che mallevadrice, maestra della
figliuola.

Ad ogni modo la figliuola poteva competere per bellezza, per grazia,
per ingegno e per coltura con quante erano cortigiane più reputate in
Venezia, e, fors’anche, vincerle tutte. Della bellezza di lei si fanno
lodi passionate e fiorite. Un ignoto adoratore, parlando in versi di
quella così gran bellezza a lei data dal cielo, glorifica le _chiome
bionde_, anzi _l’oro de’ bei crini, i celesti e graziosi lumi, i begli
occhi che fanno invidia al sole_, la

    Di viva neve man candida e pura.

Chiama colei che va adorna di tanti pregi _Donna di vera ed unica
beltade, beltà d’ogni essempio altro divisa_, e levato dall’entusiasmo,
e invasato dall’ardore, anzi dal furore del desiderio, prorompe in
parole che non mi arrischio ripetere. Poniamo che l’_oro de’ bei crini_
la Veronica lo dovesse, come tant’altre, alle acque medicate e alle
lunghe ore passate a capo scoperto in sulle altane, sotto la sferza
del sole; poniamo che nelle parole dell’incognito adoratore ci sia
qualche esagerazione; non perciò è da dubitare di una bellezza più che
ragguardevole, comprovata del resto dai ritratti. Uno di questi, il
più sincero forse, figura veramente un’assai bella donna, con volto
ovale, grandi occhi espressivi, ciglia arcate, bel naso diritto, bocca
piccola e graziosa, collo e spalle d’irreprensibile modellamento, una
espressione di viso aperta, intelligente e gentile, che innamora e
che rallegra. Sul capo è una corona gemmata, di sotto alla quale esce
un ramoscello d’alloro; intorno al collo un gran vezzo di perle[492].
Un altro ritratto, dipinto nientemeno che dal Tintoretto, non si sa
dove sia andato a finire. La Veronica conosceva la propria bellezza
e del pregio della bellezza femminile in genere aveva assai congruo
e ragionevole concetto. A un nemico delle donne, che le aveva scritto
contro una canzone, ella dice in uno de’ suoi capitoli:

    Certo d’un gran piacer voi sete privo,
      A non gustar di noi la gran dolcezza;
      Ed al mal uso in ciò la colpa ascrivo.
    Data è dal Ciel la feminil bellezza,
      Perch’ella sia felicitate in terra
      Di qualunque uom conosce gentilezza[493].

Un altro adoratore di lei, o forse quello stesso a cui si devono le
lodi riferite poc’anzi, parla, alludendo appunto alla Veronica, cui
egli chiama col nome di Madonna non altrimenti che se fosse Beatrice o
Laura, di una forza _insuperabile, infinita_ della bellezza, che è, non
pure un _privilegio_, ma cosa venuta di cielo[494]. Tale linguaggio,
usato con una cortigiana, sarebbe più che ridicolo, non fosse il
carattere speciale, starei per dire la dignità, che la cortigiana
acquista in quel tempo, fatta quasi sacerdotessa, non di una persona
divina, ma di ideali semidivini di bellezza, di grazia e di piacere.

La Veronica doveva avere assai buona coltura; i suoi scritti lo
attestano, i suoi adoratori lo affermano. Apollo, dice un di essi a lei
stessa, inspira benignamente in voi tutto il suo sapere.

    E mentre questo in gran copia v’infonde,
      Move la chiara voce al dolce canto,
      Ch’a’ bei pensier de l’anima risponde.
    La penna e ’l foglio in man prendete intanto,
      E scrivete soavi e grati rime
      Ch’ai poeti maggior tolgono il vanto.

Ella è donna

    E di costumi adorna, e di virtude,
      Con senil senno in giovenil etade[495].

Dopo quanto abbiam veduto nelle pagine precedenti, quella lode data ai
costumi e quel riconoscimento di virtù non ci debbono far meraviglia.

Un altro adoratore molto acceso, o forse, come ho accennato già, quello
stesso di ora, assevera che, in iscienza e in virtù, Minerva sta molto
sotto alle Veronica, la quale, _con leggiadri e candidi costumi_,
dilettò il mondo in guisa che tutti ardono e si consumano per lei.

    Gran pregio, in sè tener unitamente
      Rara del corpo e singolar beltate,
      Con la virtù perfetta de la mente!
    Di così doppio ardor l’alme infiammate,
      Senton lor foco di tal gioja pieno,
      Che, quanto egli è maggior più son beate[496].

Notevoli versi, che chiariscono più di quanto potrebbesi fare con lungo
discorso, l’indole della coltura in quel secolo, e spiegano il fascino
che le cortigiane simili alla Veronica esercitavano sugli uomini che di
quella coltura eran partecipi.

La Veronica doveva conoscere più lingue, e della italiana doveva
conoscere parecchi di quelli che allora, con impropria denominazione,
addimandavansi stili. In una lettera si dice pronta a rispondere altrui
in qual lingua si voglia[497], e rimbeccando quel tale che in una
canzone l’aveva biasimata, grida bravamente:

    La spada, che ’n man vostra rade e fora
      De la lingua volgar veneziana,
      S’a voi piace d’usar, piace a me ancora:
    E, se volete entrar ne la toscana,
      Scegliete voi la seria, o la burlesca,
      Chè l’una e l’altra è a me facile e piana,
    Io ho veduto in lingua selvaghesca
      Certa fattura vostra molto bella,
      Simile a la maniera pedantesca.
    Se voi volete usar o questa o quella,
      Ed aventar come ne l’altre fate
      Di queste in biasmo nostro le quadrella;
    Qual di lor più vi piace, e voi pigliate,
      Chè di tutte ad un modo io mi contento,
      Avendole perciò tutte imparate.
    Per contrastar con voi con ardimento
      In tutte queste ho molta industria speso;
      Se bene, o male, io stessa mi contento.
    . . . . . . . . . . . . . . . .
    O la favella giornalmente usata,
      O qual vi piace idioma prendete
      Chè ’n tutti quanti sono esercitata[498].

Sapeva la Veronica di latino? Direi di no, perchè ella non se ne
vanta, e perchè appena si trova nelle sue lettere un pajo di frasi
latine[499]; ma giova notare che in quel secolo, in cui la lingua di
Roma era il fondamento degli studii, e moltissimi riuscivano a parlarla
e scriverla correttamente, un pochino se ne appiccicava anche a chi
non l’aveva studiata. Tale sarà stato il caso della nostra Veronica,
la quale non ignorava punto del resto, e le lettere sue ne fan fede,
le storie e le favole dell’antichità, i nomi e i libri degli antichi
scrittori, come non ignorava la corrente filosofia de’ suoi tempi. E
allo studio sembra portasse passione sincera. Scrivendo a un signor
N., che ella dice di amare con affezione infinita, si dice lieta che
l’amore, sebbene le procacci molti e aspri tormenti, le dia modo di
esercitarsi negli _studii umani_ con spesso scrivere a lui, _che n’è
tanto assiduo, ed intendente_[500]. Amando, ella coltiva la poesia e
gli altri studii leggiadri:

    Lassa! la notte e ’l dì far prose e versi
      Non cesso in varia forma e in vario stile,
      Sempre a un oggetto co i pensier conversi[501].

Una delle sue lettere, la XVII, è il più curioso documento che
immaginar si possa del gran concetto in che ella ha lo studio e
la coltura, e, insieme, dello spirito di quella età singolare. Un
giovane, innamoratosi perdutamente di lei, la preme con istanze
importune, e nulla ottenendo, dà in ismanie, e vuol partirsi di
Venezia. La Veronica molto saviamente lo avverte che s’egli l’ama
davvero, poco gli gioverà il partirsi, anzi aumenterà le sue pene,
e che, da altra banda, con quell’_andar vagando e strepitando giorno
e notte nell’importuno assedio della sua servitù_, farà poco frutto,
attesochè ella ne lo terrà _giovane ozioso e vano, inclinato alla ruina
dell’appetito più che alla edificazione della ragione_. Se vuole avere
qualche ragionevole speranza dell’amor di lei, tenga altro modo, viva
_vita riposata nella tranquillità dello studio_, e le faccia vedere
spesso il profitto ottenuto _nell’essercizio dell’oneste dottrine_,
chè nessun’altra cosa le può esser più grata di questa. «Voi sapete
benissimo, che tra tutti coloro, che pretendono di poter insinuarsi
nel mio amore, a me sono estremamente cari quei, che s’affatican
nell’essercizio delle discipline, e dell’arti ingenue delle quali (se
ben donna di poco sapere, rispetto massimamente alla mia inclinazione,
ed al mio desiderio) io sono tanto vaga, e con tanto mio diletto
converso con coloro che sanno, per aver occasione ancora d’imparare,
che, se la mia fortuna il comportasse, io farei tutta la mia vita,
e spenderei tutto ’l mio tempo dolcemente nell’Academie degli uomini
virtuosi». Strane meretrici davvero, e non meno strani spasimanti, che
dovevano fare un apposito corso di studii e dar con profitto gli esami
prima di poter entrar loro in grazia! Le Diotime e le Aspasie del tempo
antico non credo chiedessero tanto.

La Veronica aveva, non solo coltura letteraria, ma anche artistica.
In un tempo in cui erano così largamente diffusi il senso e il gusto
dell’arte, e quando il perfetto cortigiano doveva _saper disegnare,
ed aver cognizion dell’arte propria del dipingere_[502] e dell’altre
arti ancora, la perfetta cortigiana doveva ella pure intendersene
alquanto e saperne ragionare a proposito. In Venezia, dove erano
tante mirabili opere di architettura, di pittura e di scoltura, e
tanti sommi artefici, non mancava certo occasione di affinar l’occhio
e il giudizio. Nella lettera XXI, la Veronica, che contava tra’
suoi amici il Tintoretto[503], nega risolutamente che gli antichi
pittori e scultori sieno stati da più dei moderni. «Io ho sentito
dire a galantuomini non poco versati nell’antichità, e di quest’arte
intendentissimi, che sono stati ne’ nostri tempi, e sono oggidì
pittori e scultori, i quali non solo pareggiare, ma anco preporre si
deono agli antichi». Ch’ella poi s’intendesse di musica non occorre
quasi avvertire; cantava con molta soavità, e sonava più strumenti.
Un ammiratore sconosciuto, di cui non sappiamo altro se non che si
chiamava Lorenzo, diceva in un capitolo in dialetto veneziano, inedito
e sconosciuto, dopo aver lodato le meravigliose bellezze di lei:

    Co dè per solfezar la vose al son,
      Co nasce dall’ut re mi fa sol là,
      Vu fe mazor miracoli d’Anfion[504].

La Veronica sapeva d’avere ingegno. Ad uomo di grande pregio amato da
lei, ma di cui ci è ignoto il nome, scriveva:

    Non è d’ingegno indizio oscuro e incerto,
      C’ha gusto de le cose più eccellenti.
      Conoscer, e stimar il vostro merto[505].

Le lodi assai le piacevano, e gliene venivano d’ogni banda, e non
pare le stimasse disdicevoli alla sua condizione, sebbene dicesse
talvolta di crederle troppo maggiori del suo merito. A un amico, che
le aveva mandato quattro sonetti laudatorii, scriveva ricordando _la
sodisfazione, che prende ogni cuor veramente nobile del far cortesia,
massimamente alle donne_[506]. Godeva d’udirsi chiamare _d’Adria ninfa
gentile_, e di veder celebrati, insieme con la bellezza sua, i suoi
versi, il suo ingegno, le sue alte maniere; e se a un poeta vinto dal
furore ascreo veniva in fantasia di chiamarla

    Vera, unica al mondo eccelsa Dea,

ella lo lasciava sfogare a suo senno. Era anzi riconoscentissima a
chi la lodava e assai di buon grado lodava a sua volta i lodatori. A
uno di questi promette di voler ornare e innalzare (son sue parole) la
propria lingua col celebramento delle virtù di lui, e fregiarsi l’animo
col ricchissimo concetto de’ suoi gran meriti[507]. Abbiam veduto che
le lodi erano tutt’altro che parsimoniose e tutt’altro che timide; ma
non sappiamo ancora sin dove potessero giungere e che forme sfoggiate
potessero prendere. Per saperlo ci giova udir quelle che fa rimbombar
all’aria l’autore dei due capitoli IX e XI; saranno esse come la chiusa
o il finale strepitoso di un pezzo concertato, o, se meglio piace, come
la sparata che termina un fuoco artifiziale. Angelico è il sembiante
della Veronica; leggiadre e sante sono le _luci_ che splendono in quel
volto di _unica bellezza_, anzi nel _sole_ di quel volto, cui allieta
il _tranquillo seren del vago riso._

    Ma l’intelletto, che sì chiaro dielle
      Il celeste motor a sua sembianza,
      Unito in lei con l’altre cose belle,
    Quegli altri pregi in modo sopravanza,
      Che l’uman veder nostro non perviene
      A mirar tal virtute in tal distanza.
    A pena l’occhio corporal sostiene
      Lo splendor de la fronte, in cui mirando
      Abbagliato e confuso ne diviene.

_Bellezze eterne, splendor celeste,_

    Che d’ir al Cielo insegnano il viaggio!

_Terrena Dea, alto e novo miracolo, luce impressa del raggio della
divinità, paradiso!_

    L’aura soave, e ’l prezioso odore,
      Che da le rose de la bocca spira
      Questa figlia di Pallade e d’Amore,
    Nutrimento vital per tutto inspira,
      Sì ch’a quel refrigerio in un momento
      Tutto risorge, e rinasce, e respira.

Queste lodi parvero eccessive alla stessa Veronica, la quale non
si dimenticava poi mica d’esser una cortigiana, come pare se ne
dimenticasse talvolta quella smancerosa di Tullia d’Aragona. Non solo
non se ne dimenticava, ma anzi, a tempo opportuno, se ne teneva. In un
capitolo di risposta all’acceso e querimonioso amatore che compose il
capitolo I, ella vanta, con molta schiettezza e con pari precision di
linguaggio, attitudini e perizie che non son quelle propriamente del
compor versi e del sonare il liuto, e afferma d’aver appreso da Apollo
altre arti che quelle non sieno da lui solitamente insegnate:

    Febo, che serve a l’amorosa Dea,
      E in dolce guiderdon da lei ottiene
      Quel che via più che l’esser Dio il bea,
    A rivelar nel mio pensier ne viene
      Quei modi che con lui Venere adopra
      Mentre in soavi abbracciamenti il tiene.
    Ond’io instrutta a questi so dar opra
      Sì ben nel letto, che d’Apollo all’arte
      Questa ne va d’assai spazio di sopra;
    E ’l mio cantar, e ’l mio scrivere in carte
      S’oblia da chi mi prova in quella guisa,
      Ch’a’ suoi seguaci Venere comparte.

E poc’anzi aveva detto:

    Così dolce e gustevole divento,
      Quando mi trovo con persona in letto
      Da cui amata e gradita mi sento,
    Che quel mio piacer vince ogni diletto,
      Sì che quel che strettissimo parea
      Nodo dell’altrui amor divien più stretto.

Se noi consideriamo tutte queste cose; se riflettiamo le lodi
iperboliche; se ricordiamo la visita di un giovane re; se poniam mente
alle nobili amicizie di cui la Veronica andava lieta e orgogliosa, e
delle quali ho ancora a parlare, ci parrà troppo tenue senza dubbio
il prezzo di due scudi che il già più volte citato _Catalogo_ assegna
ai favori di lei, mentre per altre altri prezzi registra, ben più
cospicui. Che la Veronica Franco del Catalogo sia, non la nostra, ma
un’altra, mi sembra poco probabile; molto più probabile invece, o che
sia corso errore nella indicazione del prezzo, o che l’anonimo autore
abbia voluto, di deliberato proposito, fare ingiuria a colei con cui
aveva forse alcuna ruggine, o che gli premeva di avvilire in cospetto
di una rivale. Ricordiamo che il _Catalogo_ è dedicato _alla molto
magnifica et cortese signora Livia Azalina Principessa di tutte le
Cortegiane Venetiane_, la quale è registrata a suo luogo col prezzo di
scudi venticinque[508]. Nè dell’errore, o della menzogna del _Catalogo_
ci mancano prove, e chi ce le dà è quel signor Lorenzo, di cui ho
ricordato testè un capitolo in dialetto veneziano, capitolo curioso,
che mi duole di non poter trascrivere intero, tanto è sconcio. Ne darò
un’idea. Il signor Lorenzo spasima da un mese per la signora Veronica,
la quale è tanto

                          bella e pulia
    Cara, dolce, zentile e custumà.

Spasima per lei, perchè tutta la sua dolcezza e il suo piacere è sol
colà

    Dov’è virtù, dov’è lascivitae,

dove l’amore è condito dalla gentilezza, dalla grazia, e da _quel certo
che se chiama umor_. Ma egli non osa farsi innanzi, perchè sa che la
Veronica è un _carigolo boccon_; sa che non concede un bacio per meno
di cinque o sei scudi, e almeno cinquanta ne vuole per quella che il
Montaigne avrebbe chiamato la _négociation entière_. Ora, egli ha letto
nell’Aretino

    Che ’l servir e ’l pagar è un latin falso.
    Che no l’accorderave el Calepin.

Egli l’ama e l’adora; ma appunto perchè l’ama e l’adora non vuol pagare.

    So che no ghe xe lege, no gh’è ghiosa
      Che vogia che l’amante dieba dar
      Altro ch’el proprio cuor alla morosa.

Sia dunque liberale; usi a lui quella cortesia che usata nulla toglie a
lei di pregio, e si ricatti coi vagheggini di professione, coi vecchi
sfreddati, coi frati, che araffano alle badie le migliaja di ducati,
co’ monsignori, che vanno dietro a ogni cosa disonesta.


II.

La Veronica ebbe, come parrà naturale ad ognuno, moltissimi amori,
anzi direi, tra piccoli e grandi, tra finti e sinceri, tra quelli che
durarono un giorno e quelli che durarono forse più anni, innumerevoli.
Dei più s’è certo perduta ogni traccia; ma di parecchi la traccia è
rimasta, e qualche cosa più che la traccia.

I capitoli che compongono il libro di versi della cortigiana veneziana
non sono, come ho già accennato, tutti suoi; sopra venticinque, sette
appartengono a incerto autore, secondo è detto nella intitolazione,
e tutti e sette sono documenti di un amore del quale la Veronica è
l’obbietto. Dico di un amore, e dovrei forse dire di più amori, perchè
non si sa se tutti quei capitoli sieno opera di uno spasimante solo,
o di parecchi. Io, confrontandoli tra loro, e con le risposte che ad
essi fa la donna, inclinerei a crederli opera di parecchi, per lo meno
di due. Ma chi erano costoro? Di uno forse si può avere notizia. In
una copia delle _Terze rime_ già posseduta dalla Biblioteca Marciana,
e passata poi in quella del conte Leopoldo Ferri, Padovano, il primo
capitolo recava in testa il nome di quel Marco Veniero di cui si
leggono alcuni sonetti nella Raccolta dell’Atanagi e di cui altre rime
giacciono inedite. Marco Foscarini, in una sua _Bibliografia veneziana_
tuttora manoscritta, fa questa congettura: che i primi fogli del libro
fossero tirati sotto il nome di Marco Veniero; che questi, patrizio
dei più reputati di Venezia, saputa la cosa, non volesse pubblicata
al mondo un’amicizia che gli faceva poco onore; che perciò il nome suo
fu tolto da tutte le copie che già non erano state distribuite, e non
soltanto il suo, ma quello ancora degli autori degli altri capitoli,
che, anche secondo la opinione del Foscarini, furono parecchi. Questa
congettura è, se si vuole, molto onesta, ma altrettanto improbabile;
e a dimostrarla tale basta ricordare che nessuno in quel secolo si
vergognava di avere amicizia con cortigiane, e di tessere e pubblicare
versi in lor lode; e che essendo il libro delle _Terze rime_ dedicato
con tanto di lettera al serenissimo signor Duca di Mantova e di
Monferrato, il quale era allora Guglielmo, figlio di Federico Gonzaga e
di Margherita Paleologa, il patrizio Marco, e gli altri patrizii o non
patrizii autori dei capitoli, non potevano ragionevolmente vergognarsi
di vederci stampati dentro i nomi loro dopo quello del serenissimo
signor Duca.

Le ragioni della soppressione del nome, o dei nomi, saranno state
altre, che ora ci sfuggono, e che poco del resto c’importa d’andar
rintracciando, dacchè gli è pur certo che il primo amatore che
compare nel libro (nel libro, s’intenda bene) è Marco Veniero. Basterà
rammentare, così di passata, che in cotesto mondo cortigianesco le
bizze e i dispetti erano molto frequenti, e che gli amici sfegatati di
oggi potevano essere i nemici o gli indifferenti di domani[509].

Ora, nel capitolo I, messer Marco Veniero si mostra fortemente
innamorato della bella Veronica, manifesta un caldissimo desiderio
di possederla, si lagna molto dell’asprezza, rigidezza e fierezza di
lei. La bella Veronica risponde con un altro capitolo, e il linguaggio
ch’ell’usa è in molte parti così perplesso e sibillino che non si
capisce a che conclusione la voglia venire. Se ella potesse assicurarsi
del cuore di colui che affetto così smisurato le dimostra a parole,
non farebbe già tanto la spietata e la schiva. Ma come assicurarsene?
Non vorrebbe apparir troppo semplice e sciocca, dando fede a sospiri e
a promesse che dissipa il vento. Perchè, se innamorato davvero, non si
discopre egli _con effetti_? Ella vuole certezza dell’amor di lui con
_altro che con lodi_; vuole meno lodi e più fatti, vuole i frutti e non
le fronde. Pensa egli forse ch’ella sia avida? Si tolga questa opinion
dalla testa. Cauta ella vuol essere, se non casta. Non chiede oro nè
argento.

    Perchè si disconvien troppo al decoro
      Di chi non sia più che venal, far patto
      Con uom gentil per trarne anche un tesoro.
    Di mia profession non è tal atto;
      Ma ben fuor di parole io ’l dico chiaro
      Voglio veder il vostro amor nel fatto.

Egli sa che cosa è a lei più cara; però non le neghi l’opera sua,
chè ella delle virtù s’innamora. Ciò ch’ella chiede costa a lui poca
fatica, e se ricusa, ciò prova che il suo amore è bugiardo. Se invece
acconsente,

    Dal merto la mercè non fia discosta;

ella amerà lui quant’egli lei, giacchè

        chi si sente amato da dovero
    Convien l’amante suo ridamar poi.

Ella gli darà tal premio che pareggi la speranza col desiderio:

    Certe proprietadi in me nascose
      Vi scovrirò d’infinita dolcezza,
      Che prosa o verso altrui mai non espose[510].

Se il povero messer Marco riuscì a capire che diamine di negozio fosse
il fatto che tanto premeva alla Veronica fu bravo davvero; a me, dico
schietto, non riesce di capirlo, e temo che i miei lettori non lo
capiranno meglio di me.

Ma non si creda che la Veronica parlasse di solito un linguaggio così
incerto ed oscuro, chè anzi usava di parlar schietto e chiaro. Il
capitolo III è scritto da lei, assente allora da Venezia, a un altro
incognito amante, rimasto colà a sospirarla. Tutta questa poesia è
assai garbata e disinvolta, e spira affetto delicato e sincero. Non
voglio già dire con questo che tale affetto fosse veramente nell’animo
dell’autrice. La quale scrive al suo _dolce, gentile e valoroso
amante_, che il vivere senza di lui le è crudel morte, e che non
divisi con lui le son tormenti i piaceri. Si sente struggere e morire;
rimpiange il _fortunato nido_, e mentre la gelosia le serpeggia per
l’ossa e la va consumando a poco a poco, ella non vive se non della
speranza di presto rivederlo nel _dolce loco_. Affretta col desiderio
il giorno beato che riunirà l’una all’altro:

    Subito giunta a la bramata stanza,
      M’inchinerò con le ginocchia in terra
      Al mio Apollo in scienzia ed in sembianza:
    E da lui vinta in amorosa guerra,
      Seguirol di timor con alma cassa,
      Per la via del valor, ond’ei non erra.
    Quest’è l’amante mio, ch’ogni altro passa,
      In sopportar gli affanni, e in fedeltate
      Ogni altro più fedel dietro si lassa.
    Ben vi ristorerò de le passate
      Noje, Signor, per quanto è ’l poter mio,
      Giungendo a voi piacer, a me bontate.
    Troncando a me ’l martir, a voi ’l desio.

Tutto ciò, non può negarsi, è detto ingegnosamente e con retto senso
della misura; nella stessa sensualità non celata, nulla può notarsi
di eccessivo, nulla di volgare. Dico che la poesia è disinvolta e
garbata e spira affetto delicato e sincero, sebbene non vi manchino le
gale, gli orpelli, gli sdilinquimenti che il gusto de’ tempi portava
e voleva; l’eco, che mossa a pietà risponde ai dolorosi lai, il sole
che si ferma a mezzo il cielo, intento alle amorose querele, Progne
e Filomela che si lamentano, le tigri che piangono, le fresche rose
i candidi gigli e l’umili viole che inaridiscono al vento dei cocenti
sospiri, le pietre stesse che lacrimano, ecc. ecc.

L’amante adorato, l’_Apollo in iscienza e in sembianza_, risponde nel
capitolo IV. Egli afferma, non solo che l’amor suo è molto maggiore
dell’amor di lei, il che è di buono stile amoroso, e, direi, di
prammatica; ma ancora che il valore suo proprio è poca cosa rispetto
al valore di lei, di lei _cui ’l Ciel tant’ama e ’l mondo onora_. Le
rimprovera, ciò nondimeno, la dipartita, e l’assenza all’amor suo
troppo lunga. Egli pregò e pianse perchè rimanesse, ma invano: più
che il suo, valse l’altrui rispetto, ed ella si partì, lasciandolo
solo _in solitario tetto_. Se ora è pentita, egli del pentimento ha
consolazione. Torni quanto più presto può, chè egli altro non brama e
non chiede che esserle vicino, e voglia Amore misericordioso adeguare
la grande diseguaglianza che è tra lei e lui. Così, nel secolo XVI, si
scriveva alle cortigiane illustri.

Noi non intenderemmo gran che di quei rispetti, di quei rimproveri e
di quei pentimenti, se la Veronica stessa non si fosse data cura di
chiarire il mistero nel capitolo seguente, che è il quinto, capitolo
che sarebbe difficile accordare in ogni sua parte col terzo, quando
pure volessimo prenderci cotal briga, e dove son cose che non ci
saremmo aspettate.

La Veronica dice al suo fedele innamorato:

    Signor, la virtù vostra, e ’l gran valore,
      E l’eloquenzia fu di tal potere,
      Che d’altrui man m’ha liberato il core.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Quel ch’amai più, più mi torna in dispetto,
      Nè stimo più beltà caduca e frale,
      E mi pento che già n’ebbi diletto.

Anzi che amare quell’altro, _ombra mortale_, ella avrebbe dovuto amar
lui, solamente lui,

    Pien di virtù infinita ed immortale.

Confessa il suo fallo, e promette solennemente di mandare in avvenire
_per la virtù la beltà in bando_. Conchiude dicendo:

    Per la vostra virtù languisco e pero,
      Disciolto ’l cor da quell’empia catena,
      Onde mi avvolse il Dio picciolo arciero:
    Già seguii ’l senso, or la ragion mi mena.

Da tutto ciò si ricava che la Veronica aveva in Venezia un amante fisso
(non dico già che non ne avesse anche altri di fissi) col quale forse
coabitava, se, partita lei, egli rimaneva _solo in solitario tetto_.
Si ricava inoltre che la Veronica ebbe un bel giorno un amorazzo, o
un capriccio, e che trascinata dalla subita passione (se pur non era
interesse) piantò lì l’amante consueto, e se ne andò col nuovo fuori
di Venezia; che l’amante nuovo era bello; che il vecchio non era bello
(o perchè allora lo chiama _Apollo in sembianza_?) ma virtuoso, anzi
_pieno di virtù infinita_; che la Veronica presto si stancò dell’amor
nuovo, o non ci trovò quello che contava trovarci, e, pentita, tornò
all’antico. Di che sorta fossero le virtù dell’amante vecchio non dice;
ma non si esclude che potesse avere molti quattrini e li spendesse
volentieri. L’ultimo verso:

    Già seguii ’l senso, or la ragion mi mena,

getta un po’ d’incertezza sulla natura dell’amore della Veronica, e
poco s’accorda coi versi appassionati di cui abbonda il capitolo terzo;
ma l’amante, che esso doveva consolare e rassicurare, era, come si
può intendere, una buona pasta d’uomo. Rispondendo a sua volta, egli
lodava l’amica dell’onesto e saggio proposito, si confessava spoglio di
quelle virtù che veramente avrebbero potuto meritargli l’amor di lei,
ma affermava indirettamente d’essere uomo _che ’l falso aborre, segue
il vero_. Se non avesse avuto altro, bisognerebbe ammirare, più che la
sua, la virtù della buona Veronica.

Questo amore non avrà acceso nel cuor di lei grandi vampe; ma avremmo
torto noi se, per ciò solo che molte volte l’amor suo fu mentito,
la credessimo incapace di amore, e dicessimo ch’ella non amò mai.
Se badassimo anzi alle sue parole dovremmo credere ch’ell’era sempre
innamorata, e qualche volta a suo dispetto. Non è vero che ella viva,
come altri pretende,

                        d’amor libera e franca
    Non colta al laccio, o punta a i dardi suoi:

solo, dice, vorrei

    Che innamorar convenendomi pure
    Fosse ’l farlo secondo i pensier miei.
    Chè, se libere in ciò fosser mie cure
      Tal odierei ch’adoro; e tal ch’io sdegno.
      Con voglie seguirei salde e mature[511].

Afferma d’innamorarsi facilmente, e con ciò viene a confessare di
non essere troppo costante. Tra gli amori di cui ella ragiona, sia
nei capitoli, sia nelle lettere, alcuno ve n’ha degno di particolare
ricordo. Tale è quello che ella diceva di portare _ad uom gentile a
maraviglia_, amore che _le confondeva la vita e le toglieva il core_.
L’amante se n’era andato fuor di Venezia a passar le feste di Pasqua,
e sebbene le scrivesse spesso e affettuosamente, ella viveva in tanto
cruccio, e con tanto martello, che non poteva aver bene di sè. La
descrizione di queste pene amorose è fatta con molta vivezza, e, salvo
le esagerazioni di rigore, non senza accento di verità[512]. Tale è
l’altro, di cui fu presa per uomo di gentil sangue e di chiara fama,
un qualche patrizio veneto forse. Ella è ancora ne’ suoi _verdi anni_;
l’amor che la soggioga appassionato, prepotente. Di giorno e di notte,
sotto la pioggia e il sereno, ella si va aggirando intorno alla casa
di lui, molto discosta dalla casa di lei, volge gli occhi ai balconi,
_i preghi a l’ostinate porte_, bacia la fredda soglia, e ode dirsi
dal portinajo, cui i cani hanno svegliato, che il signore non dorme
in casa, ma passa con altra donna le notti. Scongiura il crudele di
muoversi a pietà di lei, che si strugge in pianto, ormai più morta
che viva; lo scongiura, non tanto per alcun merito che sia in lei,
quanto per l’amore sviscerato ch’ella gli porta, e più ancora per la
gentilezza che è in lui, e perchè altri non lo accusi di averla col suo
disprezzo uccisa ingiustamente. L’alta virtù che è in voi, ella dice,

    L’animo di piegarvi abbia possanza.
      Sì che in tanto penar mi concediate
      Alcun sostegno di gentil speranza.

Un po’ d’amore, chè molto non chiede, offuschi agli occhi suoi e celi
quelle parti che ella ha in sè meno degne di lui;

    Nè anch’io d’orsa, che ’n cieco antro si chiuda
      Nacqui, nè l’erbe stesa mi nudriro,
      Come vil bestia in su la terra ignuda;
    Ma tai del mio buon seme effetti usciro
      Ch’alcun non ha da recarsi ad oltraggio,
      Se del suo amor io lagrimo e sospiro.

La strazia la gelosia; il pensiero che un’altra donna fruisca di
ciò che ella disperatamente brama, e si rida di lei, la uccide[513].
Sperando di vincere la furiosa passione, o di trovare almeno alcun
refrigerio a’ suoi mali, ella si allontana da Venezia, e si ritrae in
luogo campestre, dove con le valli _apriche, d’aura e d’odor piene_,
alternano colline ridenti, e selve ombrose, rallegrate le une e le
altre da fonti fresche e cristalline, da dilettoso canto di uccelli,
da quanto seppero comporre insieme la natura e l’arte. Ma quei luoghi
amenissimi sono a lei, lontana dalla sua Venezia e da colui che adora,
_deserti alpestri e strani_. L’amor suo focoso non si ammorza in quella
solitudine, anzi divampa più violento. Come già l’errabondo Petrarca
vedeva Laura nei sassi e nei tronchi, così ella ora il suo amante.
Tutto in quella vita dei campi la fa risovvenire dell’amor suo. Se vede
due uccelletti posarsi cantando sul medesimo ramo,

    Con quel desio ch’amor dolce al cor preme;

se vede uscir da un antro, accompagnate insieme, due _damme snelle_,
sente più acuto nelle carni e nell’animo lo strazio del desiderio non
soddisfatto, dell’amore non corrisposto. Oh, umana stoltezza, ella
esclama, che ai desiderii d’amor fai

    Così continua, abominosa guerra,

mentre l’amore è liberamente largito dalla Natura agli esseri tutti!
Stolti ritegni, e dolorosi contrasti, più che agli uomini, dannosi alle
donne, la cui tenera indole può meno resistere ai furibondi assalti
d’amore!

    Picciol aura conturba la tranquilla
      Feminil mente, e di tepido foco
      L’alma semplice nostra arde e sfavilla.
    E quanto avem di libertà più poco,
      Tanto ’l cieco desir che ne desvia,
      Di penetrarne al cor ritrova loco;
    Sì che ne muor la donna, o fuor di via
      Esce de la comun nostra strettezza,
      E per picciolo error forte travia[514].

Ma di un altro amore è ricordo in quei versi, più notabile, più strano
di questo. La Veronica, non sappiamo quando, s’innamorò di un uomo
di molta prestanza e di chiara virtù, il quale, per quanto se ne può
intendere, doveva essere ecclesiastico e predicatore di grido.

    Di molta gente nel comun concorso
      Quante volte vi vidi, e v’ascoltai,
      E dal bel vostro sguardo ebbi soccorso!
    E se ben il mio amor non vi mostrai,
      O che ’l faceste a caso, o per qual sia
      Altra ragion, benigno vi trovai.
    Per ch’ora in una, ed ora in altra via
      Di devoto parlar con atto umano
      Volgeste a me la fronte umile e pia;
    E nel contar il ben del ciel sovrano
      V’affisaste a guardarmi, e mi stendeste
      Or larghe, or giunte, l’una e l’altra mano.

Ma il bell’incognito lasciò Venezia, e se n’andò, forse missionario,
forse vescovo, in remoto paese, fra genti straniere, e il tempo e
la lontananza guarirono lei. Passati molt’anni, egli torna, ed ella
lo rivede, ma assai mutato da quel di prima. Non trova più in lui il
_divino angelico sembiante_, che innamorava i cuori più duri; egli è
incanutito e _quasi vecchio_, sebbene ancora _in viril robusta etate_.
L’amor della donna, che mai non fu appagato, si muta in dolce e forte
amicizia. Egli sta per assentarsi di bel nuovo da Venezia: non isdegni
la sincera e affettuosa devozione di lei, non la dimentichi; le scriva
talvolta, le mandi alcuna opera sua: ella gli scriverà molto spesso:

    Il vostro ajuto di lontan sospiro
      Con occhi lagrimosi e fronte bassa.

Egli, che è salito tant’alto, le porga la mano, ajuti a salire anche
lei[515]. Respira e sospira in tutto il capitolo un’anima bisognosa
di guida e di conforto: la Veronica non doveva essere più ormai troppo
giovine, e s’accostava passo passo al ravvedimento.

Negli altri capitoli, e nelle lettere, sono altri amori, quando
narrati, quando accennati soltanto, gli uni felici, gli altri infelici,
per gli spasimanti, o per lei. Un gentiluomo s’innamora perdutamente,
vedutala appena. Saputo ciò, ella si dichiara disposta a dargli _in
ogni maniera a lei possibile ciascun segno di benevola corrispondenza_,
e gli manda intanto copia di una sua raccolta di sonetti[516]. Ella
ha lette a sua volta le _rare_ ed _eccellenti_ opere di un altro
adoratore[517]. Con un gentiluomo, che la sollecitava mediante una
_fedele e diligentissima messaggiera_, si scusa di non poter appagare
i suoi voti, non essendo _padrona_ del proprio _arbitrio_[518], e
respinge un amator tracotante, che vuol _violentare_ il cuore di lei.
Per sottrarsi alla importunità di un altro, o, com’ella dice, per
non mostrarsi ingrata all’amore che le si portava, lascia Venezia
a mezzo il verno e se ne va a Verona[519]. Offesa da un amante, si
pente del proprio amore e lo sbandisce dall’animo[520]. Fa morir più
d’uno di gelosia, ma anch’ella sente il morso della velenosa passione:
rimprovera a un infedele di _limar versi_ in lode di altra donna[521],
e contro questa, o contro altra rivale, compone una _elegia_, che, per
rispetto di un protettor di colei, non vuol far pubblica[522]. Accusata
da un amante, lo accusa a sua volta, e lo sfida a qual gara gli piaccia
meglio, o di armi, o d’amore[523].

Certo, gli è impossibile sceverare in tutto ciò il vero dal falso e la
finzione interessata dalla finzione meramente poetica. In quel secolo
uomini e donne dovevano, per legge comune di cortigianesca eleganza,
spasimare, o fingere di spasimare d’amore. Ma i numerosi amori in cui
la Veronica si dice invescata, o in cui mostra invescati gli altri,
sono, nella varietà dell’indole loro e del grado, tutti verosimili, e
parecchi sono più che probabili. E se i più non si lasciarono dietro
se non rime querule e sospirose, alcuni lasciarono ben altro. La
Veronica stessa ebbe a confessare nel 1580, davanti al Tribunale del
Sant’Uffizio (vedremo or ora in quale occasione) d’aver partorito
sei volte, e nel 1580 ella non aveva più di trentaquattro anni. Sin
dal 1564, come s’è visto, un messer Jacopo de’ Baballi l’aveva resa
madre, a quanto ella credeva, senza però potersene tenere in tutto
sicura[524]. Un altro figliuolo ebbe con Andrea Tron, gentiluomo[525],
e un terzo con Guido Antonio Pizzamano, uomo ammogliato, che teneva
l’officio di Ragionato degli Avvogadori Fiscali, e che fu processato
nel 1572 dal Sant’Uffizio, perchè, d’accordo con la moglie, teneva
in casa per concubina una monaca, Camilla Rota, fuggita dal monastero
dello Spirito Santo. Degli altri tre figliuoli, e dei possibili padri
loro, non sappiamo nulla, e forse, per quanto spetta ai padri, non ne
sapeva nulla nemmeno la Veronica[526]. Dice pure di lei uno dei soliti
ammiratori che

      dovunque saettando colse
    Col doppio sol di quei celesti lumi,
    A sè gran copia d’amadori accolse[527].

Alcun altro di questi innumerevoli ci capiterà quanto prima dinanzi.


III.

La Veronica aveva, in Venezia e fuori di Venezia, molti amici, e
sapeva tenerseli cari. Scriveva loro frequenti lettere, e di quelle che
riceveva da loro mostrava grande allegrezza, lagnandosi, s’erano troppo
rade, o troppo brevi. Lodava chi le pareva meritevole di lode[528],
rimproverava chi le pareva avesse meritato rimprovero[529]; confortava
con buone parole gli ammalati e gli afflitti[530]; chiedeva ajuto e
favore nei bisogni proprii o di altri[531], ma si offeriva pure assai
volentieri per quanto era da lei; anzi si doleva di chi non si prendeva
con lei quella sicurtà che l’amicizia consente[532]. In una di quelle
sue lettere ringrazia un amico d’aver beneficato, dietro raccomandazion
sua, un pover uomo che aveva moglie e _tre creaturine_[533]. Mandava
agli amici i suoi componimenti, e riceveva i loro[534]. Assicurava
molti dell’amor suo; diceva di ricordarsi sempre di loro, e così
li pregava di volersi ricordare di lei: se lontani, diceva di nulla
desiderare così vivamente come di rivederli.

Tra gli amici sembra contasse anche qualche amica, e non certo della
sua condizione. La lettera terza è a una _signora illustre_, la quale,
potendo _comandare_ alla Veronica, l’aveva pregata di non sappiamo qual
servigio o favore. La XVI è scritta a una gentildonna, i cui _grandi
avoli_ avevano acquistato fama con _atti egregi_. La Veronica si
congratula con lei che felicemente ha partorito un bel maschio, e alla
madre, al padre, al bambino fa gli augurii più lieti.

Gli amici, generalmente parlando, le si addimostravano affezionati
e premurosi: la consolavano nelle sue afflizioni, l’ajutavano nei
bisogni, la invitavano ad andarli a trovare in villa[535], e le
scrivevano lettere cortesi ed amorevoli, di cui ella ringraziava con
effusione[536]. Bartolomeo Zacco, padovano, chiedeva in un sonetto
alla Veronica, _Donna cortese_, di onorare col suo dire una figliuola
ch’egli aveva perduta, e la Veronica gli rispondeva con un sonetto
per le rime. Ma non tutti erano così garbati con lei, e la lettera
dodicesima lo prova. Saputo che le frequenti e lunghe sue lettere erano
_di molestia più tosto che di ricreazione_ a un amico, ella, confusa
ed afflitta, scrive: «di niun altro contrario, e nojoso accidente non
avrei di lungo spazio sentito il dolor, ch’io provo nel vedermi così
improvvisamente abbandonata dalla vostra grazia: pur m’acqueterò, per
non dispiacervi, al voler vostro, e cercherò d’emendar il non prima
conosciuto errore dell’aver scritto spesso e lungo, con l’esser breve
e rara in questo officio, sì come nell’opra della riverenza, e della
grata memoria sarò profonda ed infinita». E in questa cosa della
grata memoria forse diceva vero, perchè anche di altri amici ebbe a
ricordarsi a lungo e con affetto.

Tra i molti ch’ella aveva ce n’erano alcuni di gran nome e di gran
recapito, i quali meglio che amici si direbbero protettori: tali erano
il Duca di Mantova, Guglielmo, e il cardinal d’Este, Luigi, figlio
d’Ercole II e di Renata di Francia, fratello di Alfonso II, di Lucrezia
e d’Eleonora. La Veronica dedicò, siccome abbiam veduto, le sue _Terze
Rime_ al serenissimo signor Duca. Non sappiamo qual fosse, o qual
fosse stata in passato, la relazione tra lui e lei: qualche plausibile
congettura in proposito si potrebbe fare, ma senza gran pro. Nella
dedicatoria la Veronica è assai riservata: dice di non essersi potuta
astenere dal mandargli i suoi versi, per dare al _discreto giudizio_
di esso signor Duca _alcun leggier gusto della bassa musa_ di lei,
e, insieme, un picciol pegno della _sviscerata osservanza_ e della
_umilissima servitù_ ond’ella è a lui legata _di perpetuo indissolubil
nodo_. La sua pochezza le sia scusa se ella non ardisce _por bocca nel
cielo dell’inestimabil valore_ del serenissimo signor Duca. Il libro
gli manda per mezzo di un suo _ancor fanciullo figliuolo, il quale
nel volto, e negli atti, e in ogni guisa d’inchinevole riverenza_,
esprimerà il _medesimo core_ di lei nella _serenissima presenza_ di
lui. Certamente il Duca ebbe ad accogliere assai graziosamente il dono
e chi gliel recava[537].

Al cardinale d’Este son dedicate le lettere. La Veronica fa
dell’eminentissimo cardinale sperticatissime lodi, magnifica il
_lume_ di quella _gloriosa virtù_, esalta la _incredibile cortesia_
e la _sopra umana gentilezza_, s’inginocchia davanti alla _divinità
del cospetto_ e alla _divina umanità_ di sì _celebrato_ ministro del
cielo. Ella, _nel concorso di molti uomini famosi di dottrina, che
del continuo indrizzano a lui opere maravigliose di scienzia e di
elegantissimi studii_, non dubita, sebbene _donna inesperta delle
discipline, e povera d’invenzione e di lingua_, di dedicargli un
volume di _lettere giovenili_, serbando _a tempo di maggior occasione,
e di più prospera fortuna, e di più essercitato stile_, di dargli
altra _recognizione_ d’osservanza e d’animo devoto. Mi duole di non
sapere che cosa rispondesse l’eminentissimo cardinale a lettera così
ossequiosa ed amabile.

La Veronica bramava assai e si rallegrava di poter godere del
_colloquio soavissimo_ de’ suoi amici migliori[538], i quali erano
letterati la più parte, e volentieri bazzicavano con le muse. Uno dei
maggiori era Domenico Veniero, i cui versi a noi ora non pajono più
gran cosa, ma che a’ suoi tempi fu tenuto universalmente un miracolo
d’ingegno, un oracolo di sapere, un modello insuperabile di eleganza.
Colpito, in età ancor giovine, da una crudele infermità che gli tolse
per sempre l’uso delle gambe, l’unica sua consolazione trovava nei
libri, nel comporre, e nella conversazione degli uomini dotti. Il suo
palazzo diventò albergo di genialissimi ritrovi, ai quali accorrevano,
non solo quanti erano letterati e uomini cospiqui in Venezia, ma
quanti ancora, di qualche riputazione, ne venivan di fuori. Tra gli
infiniti che li frequentarono si ricordano Federigo Badoaro, Girolamo
Molino, Jacopo Zane, Giorgio Gradenigo, Celio Magno, Bernardo Tasso,
Dionigi Atanagi, Sperone Speroni, Girolamo Ruscelli, Girolamo Muzio,
Anton Giacomo Corso, Giovan Battista Amalteo, e Paolo Manuzio, e
Girolamo Parabosco, e altri e altri[539]. Ora, a questi ritrovi, nei
quali si ragionava di poesia, di filosofia e di ogni cosa che potesse
dar grato pascolo a nobili intelletti, e ai quali crescevano diletto
frequenti accademie musicali e sollazzi di più maniere, ebbe ad esser
presente assai volte la Veronica. Due capitoli, il XV e il XVIII, e
parecchie lettere di lei, sono indubitabilmente indirizzati a Domenico
Veniero, come si ricava da alcuni significantissimi accenni, e sebbene
non rechino nome alcuno. Nella lettera XLV, ella, che con un _ago
da treccia_ s’era ferita malamente un ginocchio, gli chiede _una di
quelle sue sedie da stroppiato_. Nella XLIX lo dice _il più bello,
ed il più risplendente lume, che tra molte scienzie oggi dì si vegga
nella professione delle lettere gentili_. Nel capitolo XV accenna a un
_ridutto_, a una _scola_, a un

                     celebre concorso
    D’uomini dotti, e di giudicio eletto,

e si scusa d’aver lasciato passar molti giorni senza andare a far
riverenza a colui che, _infermo in letto_, aveva intorno a sè quel
celebre concorso. Perdutamente innamorata, divisa da colui che ama,
scoraggita e mesta, ella non aveva ardito mostrarsi; ma promette di
lasciare alla prima occasione ogni altra cura per riparare al suo
mancamento.

La Veronica approfittava della benevolenza del Veniero per farsi
rivedere da lui, e all’occorrenza correggere, le prose e i versi[540].
Nella lettera XL dice: «subito ch’io sia spedita dalle composizioni
ch’io faccio, verrò alla censura, ed al giudizio di lei, e continuerò,
senza interrompimento di cosa che succeda, a servirla presenzialmente».
Un po’ più oltre parla della _deliziosa compagnia_ e della _beata
contemplazione_ ond’ella gode: molte volte, senza dubbio, il patrizio
avrà corrette le prose e le rime della cortigiana sotto gli occhi
stessi di lei, e discutendo con lei le ragioni e le regole dell’arte.

Nè della correzione la Veronica aveva da vergognarsi. Era usanza dei
letterati in quel secolo sottoporre le proprie scritture, prima di
farle pubbliche, al giudizio di uomini famosi per dottrina e buon
gusto, ricercare di costoro i consigli, non isdegnare le correzioni.
Il desiderio di toccare la perfezione, ch’era vivissimo in molti,
e lo spirito di adulazione, ch’era vivissimo in più, persuadevano
tale usanza. Per non ricordare altri esempii, chè innumerevoli se
ne potrebbero ricordare, allo stesso Domenico Veniero sottoposero i
loro versi Girolamo Fenaruolo, Jacopo Zane, Bernardino Rota, Luigi
Grato, Giuliano Goselini ed altri assai. Persino Torquato Tasso ebbe a
giovarsi de’ suoi consigli e de’ suoi suggerimenti. Domenico Veniero
non era, del resto, il solo consigliere letterario della Veronica:
tale officio avevano anche altri, e fra questi altri troviamo un
ecclesiastico. A lui è scritta la lettera sesta. La Veronica gli manda
stampata una di quelle _operine di che_, ella dice, _V. S. mi fece il
favore ch’ella sa_, e promette di dargli altre cose sue da leggere.
Questa lettera è curiosa anche per altre cose che vi son dette. La
Veronica si loda molto d’aver conosciuto un uomo di tanta dottrina e
virtù, e parla della _interna edificazione_ onde l’ha riempiuta il
suo esempio. Le duole che il suo vivere, _intricato negli errori,
e macchiato nel fango mondano_, gli sia cagion di molestia e di
rincrescimento; ma nota che i peccati di lei possono essere occasione
all’esercizio delle virtù di lui. Lo prega d’intercedere per lei, e di
ottenere perdono dal cielo ai suoi _tanti e così indegni falli_.

La Veronica era, in Venezia, almeno, in buon concetto di letterata, e
trattava i letterati da pari a pari. Volentieri si faceva conoscere
a quelli che venivan di fuori, e volentieri, a richiesta altrui,
prestava l’opera sua letteraria. Al Montaigne, capitato in Venezia
nel 1580, ella mandò a regalare una copia delle sue lettere, ed egli
diede al latore due scudi di mancia. Venuta fuori la _Semiramide_,
tragedia di Muzio Manfredi, ella assai la lodò in un sonetto, che fece
recapitare all’autore. Il Manfredi era allora in Francia, ai servigi
di una duchessa di Brunswick, e rispose con la seguente lettera,
scritta da Nancy il 30 di ottobre del 1591, quando la povera Veronica
era già morta da più di tre mesi: «Il bellissimo sonetto, che V. S.
mi ha mandato in laude della mia _Semiramis_ tragedia, mostra con la
sua rarità, la divinità dell’ingegno vostro, e la forza dell’amore
che sempre ho conosciuto in voi verso me, poi che in esso tanto
mi onorate, e con tale spirito di sapere, e d’arte, che io ne sono
rimaso, non pure pieno di maraviglia, ma di stupore. Poi l’avere V. S.
trovato modo di mandarlomi fin qua, mi ha chiarito ch’ella in essere
cortese ha pochi pari. La ringrazio ora con questa mia quanto più
posso; ma fra poco le darò in altro stile, tal segno di gratitudine,
che in tutto non rimarrò vinto di cortesia, e le priego sanità ed
ozio da dar l’ultima mano al suo poema epico»[541]. Come ho già detto
innanzi, Bartolomeo Zacco pregava la Veronica di voler _onorare_ con
alcuno scritto suo la figliuola ch’egli aveva perduta. Morto nel 1575
e nel fior degli anni Estor Martinengo, conte di Malpaga, il quale
nel 1572 era stato capitano di fanti al servigio della Repubblica,
il colonnello Francesco, fratello di lui, richiese la Veronica di
volere onorare la memoria dell’estinto con una raccolta di versi suoi
e di altri, come allora si usava. La Veronica si accinse all’opera,
e sollecitò i letterati amici suoi, pregandoli di sollecitare a lor
volta i letterati amici loro. Con la lettera XXXIX eccitava un amico
a _impiegar l’opra de’ suoi delicatissimi studii_ in alcuni sonetti.
Diceva d’essere richiesta, da persona che le poteva comandare, di
comporre sopra quella materia, e far comporre tutti gli _amici e
signori_ suoi. Con la lettera XXII ne pregava un altro di volere
scrivere e di fare scrivere a quei suoi Academici. La lettera XL tratta
dello stesso argomento. Finalmente la raccolta venne fuori, composta di
ventisei sonetti, preceduti da una lettera della Veronica al colonnello
Francesco[542]. Gli autori dei sonetti sono, oltre alla Veronica, che
ce ne mise nove, un chiarissimo signor D. V. (Domenico Veniero, senza
dubbio), Marco Veniero, Orsato Giustiniani, Bartolomeo Zacco, Celio
Magno, Andrea Menichini, Marco Stecchini, Orazio Toscanella, Giovanni
Scrittore, Antonio Cavassico. La Veronica dava anche versi a raccolte
fatte da altri: un suo sonetto si legge fra varie composizioni poetiche
pubblicate in Padova, nel 1575, da Giovanni Fratta, gentiluomo veronese
ed Accademico Anonimo, per celebrare il felice dottorato dell’_illustre
ed eccelentissimo_ signor Giuseppe Spinelli.

Abbiam veduto che gli amici assenti da Venezia invitavano la Veronica
ad andarli a trovare in villa: ella talvolta si scusava di non
potervi andare; tal altra vi andava, e passava alcuni giorni in loro
compagnia. Così fu che, non sappiamo in qual anno, si recò a Fumane,
presso Verona, nella principesca villa del conte Marc’Antonio della
Torre, e vi fece breve soggiorno. Il conte Marc’Antonio, della illustre
famiglia che aveva un tempo signoreggiata Verona, era, sino dal 1563,
preposto della cattedrale di quella città, e aveva inoltre l’officio
di Referendario dell’una e dell’altra segnatura. Più volte, e in più
luoghi, il papa l’aveva mandato suo commissario, e la Veronica afferma
ch’egli era

    Degno di mille mitre e mille imperi,

seguita, o preceduta in così fatto giudizio da Adriano Valermi,
oscuro poeta veronese, il quale, traendo da quel nome di Della Torre
argomento (come a lui sembrava) d’ingegnoso e felice bisticcio, diceva
all’illustrissimo signor preposto ch’egli era tanto amico e caro a
Dio quanto già era stata nemica e odiosa la torre di Babele. La villa
di Fumane, di cui qualche avanzo sussiste ancora, era, a dir del
Panvinio[543], la più magnifica di quante se ne vedessero nell’agro
veronese, e certo una delle più famose d’Italia, degna senza dubbio
d’essere commendata e ammirata da un Leon Battista Alberti, da un
Sebastiano Serlio, e da quanti scrittori ed artisti del Rinascimento
diedero ammaestramenti e norme circa il costruire e ordinar ville. La
Veronica v’andò, tratta, così ella dice, dal desiderio di vedere quel
_Signor cortese e saggio_,

    Che regge ’l mio voler con le sue ciglia,

e tanto contenta rimase delle accoglienze avute e della incomparabile
bellezza del luogo, che ne tolse argomento a un capitolo fervido di
entusiasmo, e di quanti ne compose il più lungo[544]. V’andò senza mai
interrompere il viaggio, sebbene la via fosse pessima, ed ella avesse,
partendo da Venezia, l’anima conturbata da non sappiamo quali molestie.

    Al fin pur giunsi a la bramata stanza,
      Nè potrei giamai dir sì come io fossi
      Raccolta con gratissima sembianza.
    A sì dolce spettacolo rimossi
      Tutti i miei gravi e torbidi pensieri,
      Che venner meco allor che d’Adria mossi.
    E tra mille dolcissimi piaceri
      Ristoro presi, e mi riconfortai,
      Qual fa chi il suo ben gode e ’l meglio speri.

E la Veronica ci descrive in versi pieni di ammirazione, e spesso
felici, il luogo incantevole, di cui ebbe tanto a lodarsi: in prima
le ubertose colline che fan corona alla valle rotonda; un bosco di
cipressi e di pini,

    Pien d’ombre amiche al dì lungo e fervente;

le acque cristalline che zampillano e corrono per ogni banda; il
giardino meraviglioso, dove l’arte gareggia con la natura; poi il
palazzo principesco, il quale sorge _alquanto rilevato_, e adorno di
tanta bellezza e tanta magnificenza, che non ha l’eguale, se non quello
del Sole, celebrato dai poeti; il palazzo signorile del Rinascimento,
a cui tutte le arti hanno dato l’opera loro e i loro splendori, pieno
d’ogni ricchezza e d’ogni eleganza.

    I fini marmi e i porfidi lucenti,
      Cornici, archi, colonne, intagli e fregi.
      Figure, prospettive, ori ed argenti,
    Quivi son di tal sorte e di tai pregi,
      Ch’a tal grado non giungono i palagi
      Che fer gli antichi imperadori e regi.
    Ma le comodità di dentro e gli agi
      Son così molli che gli altrui diletti
      Al par di questi sembrano disagi.
    Per li celati d’or vaghi ricetti,
      Sul pavimento che qual gemma splende,
      Stan sopra aurati piè candidi letti.
    Di sopra da ciascun d’intorno pende
      Di varia seta e d’or porpora intesta,
      Che ’l contegno de’ letti abbraccia e prende.
    Di coltre ricamata, o d’altra vesta,
      Di ricca tela ognun s’adorna e copre,
      Sì ch’a fornirla ben nulla gli resta.

Poi _diversi disegni e diverse opre_ su cortine, su tappeti, su arazzi,
_in tutti i lati_. Un’arte miracolosa ha chiamato a nuova vita su
quelle pareti, su quelle vôlte, le antiche divinità innamorate, ha
rievocato le più leggiadre tra le fantasie elleniche: Giove che in
pioggia d’oro scende nel grembo a Danae, Io trasformata in giovenca,
l’aquila che rapisce Ganimede. Altre pitture, da altro pensiero
inspirate, mostrano i ritratti di tutti i pontefici, e d’infiniti
cardinali e prelati che

                   in noi pensieri
    Destano de le cose più eccellenti.

Nel beato soggiorno è ogni diletto, e liberamente attende ogni persona
a quello spasso che più gli va a genio: chi va a caccia, chi bada a
pescare, chi si sta senza far nulla, sedendo al rezzo.

Nel capitolo XI è cenno di una andata della nostra poetessa a Verona,
a mezzo il verno, e di un _ricetto_ che ella bea di sua presenza, _per
destin felice d’un altro amante_: non è improbabile che quest’altro
amante fosse lo stesso Marc’Antonio della Torre[545].

Ma per quanto liete ed affettuose fossero le accoglienze degli amici,
per quanto amene e sontuose le ville loro, la Veronica preferiva ad
ogni altro soggiorno quello della sua Venezia. Quando,

    Per fortuna nojosa e violenta,

ella n’era da alcun tempo lontana, non aveva pace e contava l’ore che
mancavano ancora al ritorno. Rivedeva, nell’accesa fantasia, i palazzi
marmorei, ricchi di fregi più simili a lavoro d’ago che di scalpello,
specchiarsi nei mille canali con cui la laguna sembra che allacci a sè

                        l’alma cittade
    Del mar reina, in mezzo ’l mar assisa;

la città ricca di quanta ricchezza e di quanti beni il mondo produce,

    Sì ch’eterna abondanzia la circonda,
      E di tutti i paesi fruttuosi
      Più ricca è d’Adria l’arenosa sponda.

Ed in qual parte del mondo s’ama come s’ama in Venezia?

    Il mar e ’l lito quivi arde e sfavilla
      D’amor, che tra nereidi e semidei,
      Quell’acque salse di dolcezza instilla.
    Venere in cerchio ancor de gli altri dei
      Scende dal ciel su questa bella riva,
      Con l’alme grazie in compagnia di lei.

Il ricordo di Venezia, della patria sua _celebre e magna_, le faceva
odiare i campi[546]. Non contenta d’innalzar ella Venezia sopra le
città tutte, voleva che anche gli amanti suoi la lodassero[547]; era
lieta che altri desse l’opera sua alla città regina[548], e consolando
un tale di non so che avversità, gli ricordava avere egli avuta la
grandissima ventura di nascere in Venezia[549].

E in Venezia aveva la Veronica tutti i suoi piaceri e tutti i suoi
comodi. Non solo frequentava i ritrovi degli amici, ma ne teneva ella
pure in sua casa, e quali spassi vi usassero e come ci si spendessero
l’ore, in parte sappiamo da lei medesima, in parte possiamo immaginare.
La musica vi teneva grande luogo. Con la lettera nona la Veronica
chiede in prestito a un amico uno strumento a corda, e lui stesso prega
di voler venire il giorno seguente in casa sua, alle _venti ore, in
occasione_, dice, _ch’io faccio musica_[550]. Il repertorio musicale
era allora assai copioso: i madrigali, le villanelle, le mattinate, le
disperate, gli strambotti, le napolitane, le siciliane, intonate da
maestri valenti, fioccavano, più che altrove, in Venezia, e le nuove
e belle acquistavano gran voga e si ripetevano da tutti[551]. Molte
di certo ne avrà conosciute la Veronica, e quando, lasciati in riposo
gli strumenti musicali, si dava corso ai ragionamenti e al novellare,
possiam credere che tanto ella, quanto gli amici suoi, recassero
volentieri in mezzo certi indovinelli, certi passerotti un po’ liberi,
come piacevano al secolo, certe poesie allegre, e certe storie e
fanfaluche da far ridere, come _el lamento de Cosin,_ e la _Vita de
l’omo pizinin_, la fiaba dei Buraneli, quella di Comare Oca, quella
dell’Uccel Bel Verde, e altre ricordate dal Calmo, alternandole con
varii giuochi, ch’erano allora in uso[552], e con le danze più in voga.
La Veronica conosceva inoltre, e giustamente apprezzava il piacere che
si prova a stare a tavola, in compagnia di amici alla buona, senza
soggezione, entro una camera ben chiusa e ben calda, quando fuori
imperversa l’inverno. Invitando un amico, e pregandolo di condurne seco
un altro, ella dice: Il tempo è piovoso, e _invita ogni buona persona
a provedersi di dolce trattenimento al coperto ed al fuoco, almeno
fino a sera_. Il desinare sarà _sine fuco et ceremoniis, more majorum;
e se vorrete,_ dice, _aggiungervi un fiaschino di quella vostra buona
malvasia, di tanto mi contento, e di più non vi condanno_[553]. Altri
spassi non mancavano fuori di casa, secondo i tempi, come l’andare in
gondola a diporto, pescare e uccellare in laguna, visitare i giardini,
assistere alla rappresentazione delle commedie e ai giuochi varii che
si facevano continuamente in città[554].

Della casa sua, e della masserizia che aveva, la Veronica non
parla. Solo una volta la udiamo chiedere, a pigione senza dubbio,
a un grazioso, gentile e molto onorato signore, una casa, _per
forma, e per sito, e per adornamenti comoda, e godevole, e piena de
ricreazione_[555]. Se la chiedeva, doveva anche avere di che arredarla
convenientemente, e possiamo credere che in casa sua non mancasse quel
lusso che, come abbiam veduto era solito nelle case delle cortigiane
illustri. Se non ricca, la Veronica fu certamente agiata, almeno in
un tempo di sua vita; giacchè, se quando, nel 1582, ella presentò ai
Dieci Savii sopra le decime la nota de’ suoi beni, questi sembra si
riducessero a poca cosa, sappiamo da altra banda da lei stessa che
ella aveva perduto buona parte del suo nel contagio del 1575 e del
1576[556]; in qual modo, non dice. I suoi due testamenti del 1564 e
del 1570 la mostrano in possesso di un patrimonio che non è valutato,
ma che sembra abbastanza cospicuo[557], e nel 1580 essa doveva vivere
lautamente, se poteva tenersi in casa un precettore pel figliuolo
Achilletto, e servitori e fantesche.


IV.

Quella perdita mostra già che la vita della Veronica non sempre
corse tranquilla e gioconda; ma non è essa il solo fatto spiacevole
che gliel abbia turbata. Se gli amici le si mostrarono di solito
affezionati e devoti, non mancarono nemici che a più riprese le diedero
noja e s’ingegnarono di nuocerle. Uno di essi, lo dice ella stessa,
tentò con calunnie di contaminare l’_onor_ di lei, levando un grande
scandalo[558]; un altro le scrisse contro una canzone infamatoria,
chiamandola meretrice[559], e non fu questa la sola poesia composta in
suo biasimo. Fra cotesti denigratori pare ce ne fosse qualcuno che con
la satira e con la maldicenza si vendicava di rifiuti sofferti[560];
e non è improbabile che alcuno di essi sia autore di certo testamento
apocrifo di Lodovico Ramberti, il quale si legge in un codice
miscellaneo del Museo Correr in Venezia. In questa scrittura, non molto
arguta a dir vero, il Ramberti, che dice d’essere _con qualche pericolo
del corpo_, sì per l’età, sì per i molti _disordini_ uso a fare con
la sua dilettissima madonna Veronica e col soavissimo suo messer Zuane
Bragadin, dispone in modo burlesco delle cose sue. Alla Veronica lascia
il suo buon letto di piume, _con patto che la nol possa nè vender, nè
impegnar, nè dar a zudii_, e le fa altri lasciti ridicoli. Vuole che
sulla sua tomba s’incidano alcuni versi, fattura, è detto, della stessa
Veronica[561]. Costei, o non curava tali assalti, o con garbo se ne
schermiva, mostrando che spesso l’altrui biasimo si converte in lode,
affermando che chi ingiuria non provocato ingiuria sè stesso,

    E ’l voler oscurar il vero espresso
      Con le torbide macchie de gli inchiostri
      In buona civiltà non è permesso;

rispondendo talvolta alle satire con le satire[562], e avvertendo
talaltra i calunniatori di tacere, se non volevano ch’ella cominciasse
a parlare a sua volta[563].

Di questi nemici, i quali del resto nè nocquero molto, nè molto
potevano nuocere, non ci son noti i nomi; ma ben ci son noti d’altri,
che tentarono di mettere la Veronica in un assai brutto imbroglio,
e per poco non ci riuscirono. Ciò avveniva nel 1580. Un Rodolfo
Vanitelli, precettore di Achilletto, sostenuto dalle testimonianze
di una donna Bortola e di un Giovanni Vendelino, tedesco, l’una e
l’altro ai servigi della Veronica, denunziarono costei al tribunale del
Sant’Uffizio. I misfatti di cui costoro, messi forse su, forse pagati
da qualche nemico maggiore rimasto nell’ombra, l’accusavano, erano
parecchi. Per ritrovare un pajo di forbici con la guaina d’argento, e
un uffiziolo dorato che le erano stati rubati, la Veronica aveva fatto
uso di sortilegi, e aveva invocato il diavolo, servendosi in quelle
detestabili pratiche di un anello benedetto, di olivo benedetto, di
acqua e di candele benedette, fatte prendere da Achilletto nella vicina
chiesa di San Giovanni Nuovo. Inoltre teneva in casa giuochi proibiti,
commettendo molte poltronerie, dando la mancia a coloro che avrebbero
potuto denunziarla, perchè tacessero. Non udiva mai messa; mangiava
di grasso nei giorni vietati, e s’era fatta ajutare dal diavolo a
innamorare certi tedeschi. L’accusavano ancora di aver simulato un
matrimonio, a solo fine di poter portare gli smanigli d’oro e l’altre
gioje che la legge non consentiva alle meretrici. Chiedevano da ultimo
che, senza riguardo ai molti protettori, si desse alla rea donna il
castigo che meritava[564].

Tali accuse, oggi, farebbero ridere; ma erano gravissime allora, e
portavano pericolo grande anche se insensate, anzi appunto perchè
insensate. Ventidue anni dopo, in Modena, fu fatto un processo ad
Alessandro Tassoni, che allora era in Ispagna, per esserglisi trovata
in casa una boccia di vetro con dentro uno di quei diavoli detti
diavoli di Cartesio[565]. Col Santo Uffizio c’era poco da scherzare, e
chi ci si lasciava cogliere il dito non era mai sicuro di non averci
a passare con tutta la persona, cioè a dire di non finire nel fondo
di una prigione perpetua, o sopra un rogo. Oltre a ciò le donne di
mala vita erano in fama di ricorrere volentieri alle fattuccherie, e
lo Zoppino fatto frate, nel già citato Ragionamento dell’Aretino, ne
ricorda parecchie, strane, orribili e disgustose, di cui quelle usavano
per trarsi in casa gli innamorati[566]. Le accuse mosse alla Veronica
dovevano dunque, ai giudici del Sant’Uffizio, sembrar tutt’altro che
inverosimili, e se costei riuscì a purgarsene, come fece, il merito è
senza dubbio, assai più suo che loro.

Non col solo tribunale ecclesiastico ebbe briga la Veronica; l’ebbe
anche coi tribunali civili. Le lettere di lei contengono accenni a
due diverse liti[567], di cui ignoriamo le ragioni. L’una, trattata
durante un’assenza della Veronica da Venezia, e vinta da lei, l’aveva
provocata un gentiluomo di mala fede, dalle cui promesse ella s’era,
_per bontà di natura_, lasciata ingannare. L’altra non sappiamo che
esito avesse; sappiamo solo che l’avvocato, a cui la Veronica aveva
affidato il patrocinio del proprio diritto, trascurava il suo officio e
non veniva a capo di nulla, tanto che costei gli chiese la restituzione
delle carte a lui affidate. Entrambe le avranno, senza dubbio,
procacciato noje parecchie, e a tali noje accenna ella forse, quando
parla di occupazioni che _a guisa d’idra_, più ella le tronca, più le
si vanno moltiplicando d’attorno[568]. Ma non furono queste, di certo,
le sole sue noje. In più e più luoghi delle rime e delle lettere ella
accenna a fastidii gravi, senza dir quali fossero: una volta giunge a
parlare dell’_empio stile della sua iniqua fortuna_[569]. E la salute
non l’ajutò sempre, anzi le si fece, sembra, assai cagionevole. In
una delle sue lettere dice: «mi sento per continuo uso sì fattamente
indisposta, che mal posso affaticar l’ingegno e la penna»[570]. E nel
costituto presentato al Sant’Uffizio, quando fu accusata dal Vanitelli,
dichiara: «In questo anno mi ho amalado assai volte, ed ha mo un anno
sono stata 4 mesi amalada che mai mi ho movesto di letto». Notisi che
la Veronica non aveva allora più di trentaquattro anni.

Può darsi, anzi è probabile, che il venirle meno della salute fosse
per lei come un avvertimento e un ammonizione d’avere a cambiar vita;
ma altre cagioni ancora debbono, in quel medesimo anno 1580, averla
disposta e avviata alla conversione, con cui, al par della Tullia e
di molte altre cortigiane famose chiuse la sua carriera. Il processo
fattole dal Santo Uffizio, il pericolo corso, e le molestie sofferte,
non avranno mancato di aggiungere sollecitazioni e stimoli al desiderio
che già forse l’era sorto nell’animo, infervorando in lei, per una
parte, il sentimento religioso, che, del resto, nelle lettere si
appalesa sempre assai vivo, e aumentando, per l’altra, la sazietà
e il disgusto della vita cortigianesca. Quella vita, di cui tanto
rammarichio fece sul tardi la Tullia, anche alla Veronica non andò
troppo a genio; se non negli anni suoi più verdi, il che mi parrebbe
temerario affermare, almeno in quelli alquanto più maturi. Di ciò è
documento una lettera con cui ella tentava dissuadere una madre dal
far cortigiana la propria figliuola. La Veronica s’era profferta di
far accettar la fanciulla nella così detta Casa delle zitelle, e di
ajutarla del suo; ma la madre, sorda ai buoni consigli, e noncurante
delle profferte, si ostinava nel tristo proposito. La Veronica allora
le fa intendere il suo risentimento, e le dipinge con assai foschi
colori la _profession_ delle cortigiane, «nella quale ha gran fatica di
riuscir chi sia bella, e abbia maniera e giudizio e conoscenza di molte
virtù». Non è vita più misera e più vile di quella delle cortigiane.
«Troppo infelice cosa, e troppo contraria al senso umano, è l’obbligar
il corpo e l’industria di una tal servitù, che spaventa solamente a
pensarne; darsi in preda di tanti, con rischio d’esser dispogliata,
d’esser rubata, d’esser uccisa; ch’un solo un dì ti toglia quanto con
molti in molto tempo hai acquistato, con tant’altri pericoli d’ingiurie
e d’infermità contagiose e spaventose». Credete a me, ella dice, tra
tutte le sciagure mondane questa è l’estrema; e gran mercè se non
fosse più oltre che mondana; ma le si aggiunge _certezza di dannazione
eterna_[571].

Un’altra ragione non vorrei togliere, o almeno non vorrei togliere
in tutto, alla conversione della Veronica; gli anni che la
sopraggiungevano. Nel 1580 quegli anni non erano ancora molti, ma
non erano nemmeno pochi per la professione di cortigiana, e d’una
cortigiana che aveva una riputazione da serbare, un nome famoso da
tener alto. Scorse ella alcun segno di scemato ardore negli amanti
suoi? conobbe minore la frequenza degli ammiratori intorno al suo
uscio? o vide ella stessa, nel suo volto, alcuna di quelle tracce
lasciate dalla mano villana del tempo inesorabile, che consigliavano
l’antica donna galante a dedicare a Venere lo specchio:

    Dico tibi Veneri speculum, quia cernere talem
      Qualis sum nolo, qualis eram nequeo?

Impossibile affermarlo; ma non improbabile certo; come improbabile
non è che il rinunziamento e la conversione non siensi compiuti senza
qualche combattimento e qualche angoscia. Il sonetto seguente pare ce
ne faccia testimonianza[572]:

    Ite, pensier fallaci, e vana spene,
      Ciechi, ingordi desir, acerbe voglie,
      Ite sospir ardenti, amare doglie,
      Compagni sempre alle mie eterne pene.
    Ite memorie dolci, aspre catene
      Al cor, che alfin da voi pur si discioglie,
      E ’l fren della ragion tutto raccoglie,
      Smarrito un tempo, e in libertà pur viene.
    E tu, pura alma, in tanti affanni involta,
      Slegati omai, e al tuo Signor divino
      Leggiadramente i tuoi pensier rivolta.
    Sforza animosamente il tuo destino,
      E i lacci rompi, e poi leggiadra e sciolta
      Drizza i tuoi passi a più sicur cammino.

Chi non sente in quelle _memorie dolci_, che si vogliono sbandire
per sempre dall’anima, tremare un sospiro? In un altro sonetto,
indirizzato a quel Bartolommeo Zacco di cui ho già fatto parola, la
Veronica accenna alla conversione ormai compiuta, a un alzarsi al
cielo dell’anima sua. E lo Zacco, che ricordava forse altri ardori, e
altri accenti dell’amica sua, rispondeva con un sonetto per le rime,
confortando e lodando[573].

Ma la prova più sicura della conversione non istà in questi sonetti;
sta nel disegno che ella formò, l’anno 1580 appunto, di fondare un
ricovero per le donne traviate che volessero lasciare il mal costume.
C’era allora, gli è vero, in Venezia, come altrove, un monastero delle
Convertite; ma di regola troppo stretta ed austera[574]. La Veronica
voleva, non un monastero, ma una casa, dove tali donne potessero
ricoverarsi anche coi loro figliuoli, qualora ne avessero. A tal fine
compose un memoriale da presentare al doge e alla Signoria[575]. In
esso offriva di adoperarsi ella stessa per la nuova fondazione, e
prometteva di mostrare, quando fosse accettata la sua proposta, come si
potesse provvedere alla spesa senza gravare in modo alcuno l’erario.
Confessava in pari tempo, esagerando senza dubbio un pochino, di
trovarsi in povero stato, insieme coi figliuoli suoi, e con alcuni
nipoti, figli di un fratello di lei, morto di peste alcuni anni
innanzi, e chiedeva, sulle somme che si raccoglierebbero seguendo i
suoi suggerimenti, cinquecento ducati annui, da devolvere poi agli
eredi. Non pare che cotesto memoriale sia stato mai presentato; ma la
Veronica dovette far conoscere egualmente il suo disegno e acquistargli
fautori. In fatti, in quel medesimo anno sorse, presso la chiesa di San
Niccolò da Tolentino, e sotto la protezione di San Giorgio, la Casa
detta del Soccorso, governata da nobili dame, aperta, non solamente
alle peccatrici ravvedute, ma anche alle mogli che fossero separate
dai mariti. La Veronica non vi si chiuse, nè, con tanta famiglia
intorno, avrebbe potuto farlo; ma vide l’ospizio preconizzato da lei
tramutarsi d’uno in un altro luogo, crescere e prosperare[576]. Che,
dopo fondato, la Veronica v’abbia avuto ingerenza non sembra; ma era
tradizione ancor viva nel secolo scorso tra le donne ricoverate, che
la figura principale di un quadro rappresentante appunto l’Opera
pia del Soccorso, e dipinto per la chiesa del medesimo nome da
Carletto Caliari, ritraesse la cortigiana pentita[577]. Una supplica
indirizzata, non so in quale anno, dai direttori del pio luogo al doge,
svela il segreto della Veronica, il modo cioè ch’ella aveva trovato
per far denari, accennato da lei nel memoriale, ma non chiarito: essi
chiedono che, conformemente al pensiero di lei, si concedano alla Casa
del Soccorso i beni delle meretrici domiciliate e morte in Venezia;
per intero, se morte senza figliuoli legittimi, o naturali, e senza
far testamento; per una metà soltanto se morte senza figliuoli, ma dopo
fatto testamento[578].

Riconciliata con Dio; dimenticata forse dagli antichi amici, ma
benedetta dalle sventurate cui aveva additata la via della salute, e
aperto un asilo di perdono e di pace, la povera Veronica morì in età
ancor fresca. Nei Necrologi del Magistrato alla Sanità si legge questo
laconico ricordo: _1591, 22 luglio. La Sig.ra Veronica Franco d’anni 45
da febre già giorni 20. S. Moisè_. E non se ne sa altro.


V.

Giunti a questo punto, prima di dare un ultimo, ma forse non dispettoso
addio alla cortigiana morta, torniamo col pensiero un istante alla
cortigiana viva.

Povera Veronica! Non so se una pietà che potrà sembrare male spesa a
parecchi mi faccia velo al giudizio, ma pare a me che costei fosse
assai migliore del mestier suo. Non cerchiamo in lei virtù che
non possono essere in cortigiana: cortigiana ella è; ma chi potrà
mostrarmene un’altra che sia più dabbene di lei? A molte cose che di sè
ella o dice, o lascia intendere nei capitoli e nelle lettere, possiamo
non credere; ma non possiamo non credere a tutte, perchè certe bugie,
subito conosciute da chi la frequentava, le avrebbero nociuto e non
giovato, e perciò ella non ci aveva interesse a dirle. Che l’animo suo
fosse naturalmente buono non credo si possa negare, e tutti sanno del
resto come una bontà schietta e nativa s’accordi in certe nature col
disordine e col mal costume. E nemmeno si può negare, credo, ch’ella
sentisse delicatamente, e fosse per natura inclina a gentilezza, come
le molte volte non sentono e non sono, salvo che in apparenza, donne
virtuosamente educate e, magari, virtuosamente vissute. Queste cose
non si possono provare con documenti autentici e con affermazioni
di testimoni; un pochino bisogna indovinarle. Nel memoriale testè
ricordato la Veronica, dolendosi di sua povertà, dice di dover pensare
al sostentamento e al collocamento di parecchi nipoti: ora, se amava
i figliuoli di suo fratello a segno di farsi loro madre, come potremmo
credere che non amasse i figliuoli suoi proprii? come negheremmo fede
alle sue parole, quando, scusandosi con un amico d’avere molto tardato
a scrivergli, narra commossa che due suoi figliuolini le si erano
ammalati di vajuolo ad un tempo, ond’ella fu _occupata e addolorata
fuor di misura_?[579]. Abbiam veduto che a una madre avida e malvagia
ella offriva di far accogliere la figliuola in un asilo, a proprie
spese. Il testamento del 1570 ci dice ch’ella aveva adottato _per fiol
di anema_ il figliuolo di una sua cameriera, chiamato Andrea. Queste
mi pajono prove notabili e non dubbie di bontà e di gentilezza; ma se
ne possono recare dell’altre. La Veronica fu certo capace di amicizia
sincera e operosa: ho già detto che agli amici si profferiva con molta
buona grazia per qualunque servizio ella fosse in grado di rendere
loro. Nel già citato capitolo XV, espressa la speranza che l’amante suo
assente abbia presto a tornare, accenna alla malattia del colonnello
Francesco Martinengo, uno, come s’è veduto, degli amici suoi, e dice:

    Mi resta un poco di malenconia,
      Ch’egro è ’l mio colonnello, ed io non posso
      Mancargli per amor e cortesia;
    Sì che gran parte d’altro affar rimosso,
      Attendo a governarlo in stato tale,
      Ch’ei fora senza me di vita scosso.

In un altro capitolo, il XXIV, ella riprende assai vivamente un tale
di cui le era stato detto come avesse offesa in mal modo una donna
innocente, anzi di lui innamorata, e percossala ancora, e minacciatala
di tagliarle il viso:

    Ma voi la minacciaste forte allora,
      E giuraste voler tagliarle il viso,
      Osservando del farlo il tempo e l’ora.
    Strano mi parve udir d’un uom diviso
      Dai fecciosi costumi del vil volgo
      Un cotal nuovo inaspettato avviso.

Come potè un uomo,

    De la virtute amico e de l’onesto,

giungere a tanto eccesso? ella gli ricorda che l’ingiuriar donne è cosa
assai disdicevole, e da cui

    La civiltà de l’uom gentile abborre.

Non sono questi tutti segni di bontà e di gentilezza? e ne mostrerò
un altro ancora, che sarà l’ultimo. Il servo di certo amico aveva
disobbedito alla Veronica, di che il padrone voleva castigarlo
aspramente. E la Veronica a scrivere a costui, e a cercare di
dissuaderlo da quel proposito, pregando, e, se occorre, comandando che
perdoni, come ella ha perdonato, e ricordandogli che «la paura e ’l
disprezzo nuocciono grandemente alla cura famigliare, la qual cerca
per suo fondamento il rispetto non diviso dall’amore», e che i castighi
troppo severi riescono al contrario di ciò che si spera[580].

Mi si dirà che, assai probabilmente, la Veronica faceva così, si
atteggiava a donna di gentili e magnanimi sensi, ad arte, e per ragione
di un ben inteso interesse. Non voglio dar troppa importanza a ciò che
la Veronica dice di sè, quando afferma di non essere donna ingorda e
venale[581]; ma rispondo che, più probabilmente ancora, la Veronica
sapeva conciliare, nelle parole e negli atti, l’interesse, ch’era una
triste necessità della sua condizione, con la bontà, ch’era una gentile
virtù del suo animo. E un’altra cosa mi sembra di poter dire. Per quel
tanto che noi sappiamo della sua vita; per quel tanto che dell’indole
sua ci rivelan gli scritti, ella doveva essere donna di un pensar
risoluto, di un sentir vivo, di un procedere franco, e di parole e di
modi, per quanto la professione gliel consentiva, semplici e schietti;
una natura gioconda, impulsiva, spontaneamente affettuosa. Per tutti
questi rispetti io non mi perito di porla molto sopra a quella leziosa,
a quella svenevole di Tullia d’Aragona, che, essendo cortigiana, si
dava aria di duchessa, di musa, di ninfa, tutta contegno, e tutta
schifiltà[582].

Se certe buone qualità morali sono nella Veronica più che probabili,
certissime sono certe qualità intellettuali, buone e non volgari. Tutti
gli scritti suoi ci mostrano in lei uno spirito vivo ed accorto, un
giudizio assennato, una fantasia colorita, un gusto spesso delicato.
Le opere sue, quelle cioè che giunsero sino a noi e furono date
alle stampe, ci son già passate dinanzi; ma non tutte quelle ch’ella
compose ci giunsero. Del poema epico accennato da Muzio Manfredi non
si conosce nemmeno il soggetto, nemmeno il titolo. Le poesie di lei,
secondo si ricava da certi cenni delle lettere, dovettero essere assai
più di quelle che noi conosciamo, e saranno state anche molto più
varie, per soggetti, per metri; e il simile dicasi delle lettere, che
ella scriveva con molta frequenza, a molti. Mancandoci tanta parte
dell’opera di lei, non possiamo formarci della letterata un concetto
esatto ed intero; ma di alcune qualità sue, e di alcuni difetti
possiamo darci conto tanto che basti.

La Veronica (e in ciò ha compagni in gran numero) riesce assai meglio
nel verso che nella prosa. Alcuni de’ suoi capitoli, sebbene non
possano gareggiare coi migliori di quel secolo, che tanti ne produsse,
sono scritti con molta schiettezza di pensiero e di forma, con calore,
con brio, in buona lingua, e con un far risoluto, in che sta forse
la maggior loro attrattiva. Si vede in essi che la Veronica rimava
con facilità e con piacere. Nei men buoni invece abbondano i luoghi
comuni, gli ornamenti e i colori poetici di cattiva lega. La prosa
delle lettere, la sola che conosciamo (per tacere del constituto e del
memoriale che non sono scritture letterarie, e non furono forse nemmeno
dettate da lei) è in generale artifiziata, ampollosa, affettata. La
Veronica sapeva bene che nelle lettere famigliari si deve attendere
più al vero affetto che alle molte parole[583]; ma in pratica non
seguitava poi sempre quel giusto precetto; e se, anzichè a persone
famigliari, doveva scrivere a persone troppo maggiori di lei, se ne
scordava affatto, montava in trampoli, lambiccava i concetti, gonfiava
le parole, e non trovava più il verso di finire i periodi. La lettera
al Duca di Mantova, più che mezzanamente lunga, è tutta in un solo
periodo, e ci si sente un miglio di lontano il Seicento, il Seicento
che vien oltre a gran giornate, anzi si può dire sia già venuto, in
ispirito. Essa comincia così: «Se ben lontanissima corrispondenza,
e quasi disproporzionata proporzione si trova tra le chiarissime
virtù dell’Altezza Vostra e ’l mio desiderio d’onorarla e degnamente
servirla, sì che tutto quello ch’io potessi fare in questa impresa,
sarebbe men che ombra a paragon del vero; nondimeno, in quello dove
mi son mancate le forze, e i convenevoli concetti di celebrarla, ed
esaltarla, m’è sopravanzato l’animo d’esprimerle questo mio virtuoso se
ben impossibile desiderio», _ecc. ecc. ecc._ Le lettere a Enrico III
e al cardinale d’Este sono sul medesimo tono; ma parecchie di quelle
scritte a uomini e non a semidei sono dettate con molta più naturalezza
e semplicità, e riescono di gran lunga migliori. E migliori anche
di queste possiamo credere fossero le molte di carattere veramente
famigliare e intimo ch’ella scriveva giorno per giorno, come la penna
gettava, e senza alcun pensiero di farle stampare. Queste, assai più
dell’altre, ci avrebbero fatto pro, e sono da noi desiderate.

Le _Terze rime_ e le _Lettere_ della cortigiana veneziana non si
ristamparono più mai, tanto che diventarono libri di meravigliosa
rarità, desiderio ardente e inappagato di bibliofili senza numero,
orgoglio di alcuni pochissimi più venturati. Ebbero onor di ristampe
invece il _Dialogo della infinità d’amore_ e il _Guerin Meschino_
in ottava rima della Signora Tullia; ma chi in questo fatto volesse
scorgere una prova di maggior merito, s’ingannerebbe a partito.
La sentenza dell’arguto poeta latino circa la fortuna dei libri si
conviene ai libri delle cortigiane, come a tutti gli altri.

Quando la Veronica venne a morte molt’altre cose morivano di cui ella
era stata spettatrice e parte non ultima. Moriva quel secolo turbolento
e fecondo, luminoso e corrotto, innovatore e carnascialesco; morivano
gli spiriti di quella prestigiosa coltura; moriva la prosperità di
Venezia; moriva, o s’assopiva in lungo torpore il genio d’Italia. Se
non fosse Ninon de Lenclos, Veronica Franco sarebbe l’ultima delle
cortigiane illustri, delle redivive etère, e in Italia è l’ultima
veramente. Dopo di lei le cortigiane ridiventano semplici meretrici,
spesso belle, spiritose, eleganti, garbate, ma senza gloria e senza
nome. I poeti si scostano da loro e si volgono a celebrare, tra
i laureti d’Arcadia, le Corille e le Clori, non sempre più delle
cortigiane virtuose, ma più leziose e più sciocche d’assai.


APPENDICI


APPENDICE A

IL VANTO E IL LAMENTO DELLA CORTIGIANA FERRARESE[584]

IL VANTO

    Venite, o cortegiani e lieti amanti,
      Ogni signore, principe e marchese,
      Sentir mia gloria e fama tutti quanti.
    Io son quella famosa Ferrarese,
      Che porto el vanto, lo scettro e l’onore
      Di beltà e pompa, gentile e cortese.
    Io sento tanto gaudio nel mio core,
      E ne la mente infinita dolcezza,
      Tra l’altre essendo di bellezza il fiore.
    Tanto in me regna amore e gentilezza,
      Con dolce e lieta faccia ed atti fieri,
      Ch’ogni signor per me ciascuna sprezza.
    Io ho duo occhi più che corbo neri,
      Che chi li guarda resta stupefatto,
      E prigion fassi a me ben volentieri.
    Il ciglio ho raro, ch’è sottile e tratto.
      Le labra di corallo e ’l dolce riso,
      D’onde resta ciascun preso e legato.
    La bella fronte, il rilevato viso,
      E ’l naso profilato infra due rose
      Hanno a molti signori el cor reciso.
    La lingua ho chiara in proferir le cose,
      D’avolio i denti, e l’alito suave,
      Che chi ne gusta fa mettersi in crose.
    La mia bocchina dolce è una chiave
      Ch’apre le borse e fa chiamar mercede,
      E rallegra chi fussi in doglie prave.
    La gola ho d’alabastro, a la qual cede
      La neve, e ’l petto, e l’acerbe pomelle.
      Che strugger fan ciascun che quelle vede.
    Le parti ho poi secrete più che belle:
      Come ognun pensa tal dolcezza hanno,
      Che muor di voglia chi ben pensa quelle.
    Le bianche mani que’ be’ lavor fanno;
      Mia leggiadra persona e ’l picciol piede
      Metton ciascun signor in doglia e affanno.
    Di quindici anni son, come si vede,
      Grassetta, morbidina e solazzosa,
      E la prova ne faccia chi nol crede.
    Benigna, saggia, accorta e graziosa,
      Domestica, piacevole e galante,
      Ch’ogn’altra presso a me par brutta cosa.
    D’oro, velluto, seta ho veste tante,
      Con fine pietre e perle lavorate;
      Assai n’ho più de l’altre tutte quante.
    D’oro e di seta camice increspate
      Di finissima rensa ho più di cento,
      Con calze e scarpe a più fogge tagliate.
    E per mostrar mia pompa e valimento
      Al collo una catena porto tale
      Che val ducati d’oro almen dugento.
    Un’altra non conosco a me eguale,
      C’habbi la casa come me fornita
      Di pane, legne, vino, olio e sale.
    Una credenza ho d’argento forbita.
      Le tavole, le mura, panche e casse
      Di tappeti e d’arazzi ognun vestita.
    Ho di panni di lino le gran masse,
      Più che candida neve delicati,
      Ch’ognun che quelle vede stupefasse;
    Tutti di fin profumo profumati;
      Zibetto e muschio in copia ho tuttavia,
      Che da più gran signor mi son donati.
    Non può dove son io esser moria,
      Tanta suavità e tanti odori
      Adosso porto per galanteria.
    Sempre son con gran principi e signori
      A feste, a comedie, a suoni e canti,
      Con molte mie fantesche e servidori.
    Beati son per me tutti gli amanti;
      Ognun servitor m’è ed io signora,
      Signora a dar la berta a tutti quanti.
    Ognun per me si distrugge e divora,
      Ciascun mi profferisce argento ed oro,
      L’alma e la vita offerendomi ancora.
    E per far noto a tutti il mio lavoro,
      Un sacco di danari ho in mia balia,
      Dove tengo per mio miglior ristoro.
    Una mensa da re ho tuttavia,
      Abbondante di quaglie e di capponi
      Con pernici e fagiani in compagnia.
    Pollastri, fegatei, torte e piccioni.
      Con savor bianchi e neri, e con guazzetti,
      Insieme con molti altri buon bocconi.
    Vin bianchi e ner delicati e perfetti,
      Trebbiani e malvagia e marzapani,
      Con più sorte infinite di confetti.
    Ogni vil ragazzin piene ha le mani.
      Ogni fantesca ed ogni servitore;
      Il dirò pur, ne mangian fino a’ cani.
    Ed ho infra gli altri mia un corridore,
      Che chi cercassi el mondo tutto quanto
      Non potrebbe trovarne un più migliore.
    Ed infra l’altre i’ mi glorio e vanto
      Da letto una coverta sì sfoggiata
      Che mai n’ebbe sì una el papa santo.
    Una carretta ’i ho d’oro intagliata
      Con arabici gruppi azzurri e bianchi,
      Ne la qual vo a solazzo alcuna fiata.
    Come Amore che tien saetta a’ fianchi,
      Così mentre guidata ci son io
      Da sei destrier via più che neve bianchi.
    E per veder el vago corpo mio
      Da usci e da balcon gente infinita
      Corre a veder con gaudio e con disio.
    Ed io con faccia angelica e gradita
      Del bosco uscir farei e dir mercede
      Ogni selvaggio ed antico eremita.
    Tiensi felice ciascun che mi vede,
      Beato è quel che tocca questo viso,
      E santo chi servir mi può con fede.
    Pensa poi chi con festa canto e riso
      Del mio giardin la libertà gli è dato:
      Esser non vorria già in paradiso,
    Nè qua giù con nessun cambiare stato.


IL LAMENTO

    Oimè, ahimè, deh Dio, ahi cieli, oh sorte!
      O martoro infernal, morbo francese,
      Che impaurita fai fuggir la morte!
    O gente più che ingrata e discortese,
      Non conoscete voi me poverina,
      Famosa cortigiana ferrarese?
    O _Matrema non vole_, o Lorenzina,
      O Angela, o Cecilia, o Beatrice[585],
      Sia vostro essempio omai questa meschina.
    Già fui [sì] favorita e sì felice!
      Vestiva d’oro anch’io; mo un sacco grosso:
      Le starne odiavo, or bramo una radice.
    Già preziosi odor portavo addosso;
      Or solfo, argento vivo, empiastro al male
      Tal che appena sofferir nol posso.
    Foglie di cavol son il bel trinzale[586],
      Le perle son le bolle, gomme e doglie,
      E vado mendicando a lo spedale.
    Già me cavai anch’io tutte mie voglie,
      Fe’ ammazzar tori e braveggiar corsieri;
      Or sangue, marcia son mie pompe e spoglie.
    Sempre era tra signori e cavalieri,
      A pasti, a comedie, a suoni e canti;
      Or staria in una stalla volontieri.
    Beati eran per me tutti gli amanti,
      Ognun servitor m’era ed io signora;
      Or mi mostrano a dito tutti quanti.
    Dormivo in seta, e ora al vento fuora,
      Sotto a le panche, e son cacciata via,
      E le camere d’or schifavo allora.
    Corsi, grechi, trebbiani e malvasia
      Non mi contentâr mai; ora m’avveggio
      Che de l’acqua d’un fosso ho carestia.
    Già de ciascuna fecemi motteggio;
      Ognuna or beffan me con dir: tu stai
      Male al possibil; tu starai ancor peggio.
    Così invecchiando alquanto dechinai,
      E die’ principio a camere locande,
      E ben dua anni in quel me sustentai.
    Oh Dio, ch’io moro! ahimè, che dolor grande!
      Trista me, contarò tutti i miei danni
      E le mie intollerabili vivande.
    Dico che non passò da dui altri anni
      Ch’io fallii alloggiando, e ritornai
      Ruffianando altrui, lavando e’ panni.
    Così mancando in van tormenti e guai,
      Crescemmi sempre questo mal crudele;
      Un tempo in le taverne cucinai.
    Ah Dio, che quest’è ancor più amaro fele,
      Che l’ultimo rimedio mi fu tolto,
      Chè i frati e non più noi vendon candele.
    Ma al dispetto di me non sarà molto
      Che seguita sarò ne la carretta,
      E al mio somigliarà qualche bel volto.
    E se non imparate la recetta
      Ch’io v’insegno, superbe cortigiane,
      Ponte Sisto e il spedal presto v’aspetta.
    Procacciatavi aver oggi, domane,
      Un grosso, un giulio, quel che voi potete,
      Altrimenti accattando andrete il pane.
    Sempre i signor non s’hanno, e voi ’l sapete,
      Che donino el tesor liberamente,
      Sì come spesso fa chi dà in la rete.
    Servite volentieri ad ogni gente,
      Contentate chi viene a solo a solo,
      Perchè meglio è qualcosa ch’aver niente.
    El mio rimedio non vi ponga duolo,
      Perchè ho provato che tal volta dona
      Quanto un gran ricco un povero acquaruolo.
    Sì che degnative d’ogni persona;
      Non fate la signora in gloria e in gioco
      Qual io, ch’or più per nulla non son bona.
    Questo felice tempo dura poco;
      Vien meno il carnevale e la stagione,
      E spesso in casa non v’è pan nè fuoco.
    Or parte la fantesca, ora il garzone;
      Or s’impegna la vesta, or le catene,
      Poi per tributo andar spesso in prigione.
    Ma i sbirri a voi aggiongon maggior pene:
      Del Populo la strada al sudor vostro[587]
      Pagarvi è forza, e stavvi molto bene.
    Io vi parlo el vangelo e ’l pater nostro:
      Raffrenate la gola e gale tante,
     Se non, qual io retornerete un mostro.
    Non li tappeti a le finestre avante;
      Lassate le gran case e gran palazzi,
      Chè le pigion vi mangian tutte quante.
    Ognun vol le fantesche, ognun ragazzi;
      Non si può vivere e sempre si stenta;
      Non son, come eran già, gli uomini pazzi.
    Chi di quello che può non si contenta,
      Gli è forza rovinar senza riparo,
      E ladra al fine, o mendica diventa.
    Il pelar cigli, el belletto sì caro,
      Le ribalde judee comprar vi fanno;
      Lasciatelo in malor, siavi discaro.
    L’acque, i zibetti e le mesture danno;
      Livida e grinza fan la bella faccia,
      Ch’è ’l principio del vostro longo affanno.
    Così non avesse io questa rognaccia
      Come gli è vero, e tanta carne guasta,
      Del che ognun dice: ch’el bon pro ti faccia.
    Non vo’ dir più, per mo questo vi basta.
      Ohimè le doglie, oh maledetta sorte!
      Che piaghe ho io che va un linzol per tasta!
    Può far il ciel che in tutta questa corte
      Non sia un sì vago del mio seno
      Che non m’ajuti a qualche strana morte?
    De limosina alcun non venga meno,
      Non già per sostentar più questa vita;
      Ma per comprar un bicchier di veneno,
    Acciò tanta miseria sia finita.

    QUI JACE UN CORPO MOLTO DELICATO,
      DI BELTÀ E DI POMPA UNICO IN VITA;
      OR NE L’INFERNO PURGA IL SUO PECCATO.


APPENDICE B

MATTINATA[588]

    E’ no vorave za, se mai podesse,
      Instizzarme con ti, Catte sorella,
      Perchè ti sa ben ti che me recresse
      Con donette par toe zuogar de mella;
      Ma despuo che le berte se sì spesse,
      L’è forza che te rompa la favella,
      L’è forza, a fede, che zuoga de tonfo,
      Zo che ti vedi che mi no son zonfo.
    Mi ghe n’ho sopportae pi de cinquanta
      Per no vegnir a le brutte del sacco,
      E ho ingiotio quella del quaranta,
      Quando ti andassi via con quel bubacco;
      No dissi gnente, quando che con tanta
      Descortesia ti me impegnassi el zacco;
      Sopporti quella che fu bastonao
      Per amor to da un bulo stroppiao.
    E’ ho ingiotio per ti pi strangojoni,
      Povero mi, che n’ho cavelli in cao;
      Per fina ti m’ha dà di mustazzoni,
      Che nianche Urlando me averia toccao.
      Potta de mi! quanti buli, e di boni;
      Quanti che fa el bravazzo in fina in cao,
      Me aciede, e sì se tira da una banda!
      E vu, fia, me tonfè! no seia granda?
    Mo adesso me ho messo in fantasia
      De no voler pi esser strapazzao.
      Sia che se voja, al sangue de culia,
      Tutti se varda, chè son instizzao.
      E ti, vacca, compissi la lissia,
      Lassa che ’l mio burichio sia sugao,
      Che te vojo cazar tal pe in la panza
      Che ghe anderà per tasta una naranza.
    Co cusì? una puttana che è nassua
      D’una lara dal Gallo e una falia,
      Che per do scalognette e un raspo d’ua
      Aidava in visinanza a far lissia,
      E a forza de sparagno se cressua
      In t’un puoco de grama massaria,
      E con un grandizar fuora del caso,
      Me fa bramar quattro carezze e un baso?
    No ste con mi su zonti e su novelle,
      Ch’u zughè al tristo a darme a mi la baja.
      Che ve cognosso infina in le buelle,
      E sì so chi che se fina una paja:
      Andè a sojar sti putti da cilelle,
      E no, speranza, fusti de sta taja;
      Se no po forsi i basi e le carezze
      Se porave voltar in straniezze.
    Co la me monta son un mal bigatto:
      Grami può in quella volta chi se catta!
      El se sa pur quante che ghe n’ho fatto;
      Però, anema mia, no siè sì matta,
      Che a un mio par, a un omo cusì fatto,
      Vojè mostrarve de sì mala schiatta:
      Felo per vostro mejo, e se per sorte
      Vu nol farè, sarè grama a la morte.
    No ve fondè con dir: Sia lauda Dio,
      E’ son ricca, e’ son bella, anema mia;
      Perchè un cervel gajardo, co se el mio,
      Puol farve in otto di grama e falia.
      Co vorò, chi sarà che per sto rio
      Ossa passar che ’l no abbia una feria?
      E co me salterà la moscaruola
      Te lasserò co una sarzetta sola.
    Dì che i to buli sì me vegna atorno!
      Dì che i citissa gnianche, mariola!
      Che ghe ne struppierò do pera al zorao,
      Che i te vegnirà a casa su una tola.
      No ghe sarà can curto in quel contorno
      Che ossa gnianche dirme una parola,
      E ti, che ti no meriti ferie,
      Tutto el to andarà in sbiacca e in dialtie.
    Za tempo, el fatto to jera un piaser;
      Ti eri tutta dolce e molesina;
      Ma adesso che ti ha casa in soler,
      E che ti ha do majoliche in cusina,
      E che ti fa comandar al forner,
      Te par esser, puttana, una rezina:
      Mo ste tante grandezze, alla fe fia,
      Le chiama l’Ospeal da mille mia.
    Spiero, puttana, ancora inanzi avril,
      (Chè te la metto longa la novella)
      De vederte su un ponte co un bacil,
      Stroppà con una cappa da donzella,
      Batter i denti e filar fil sottil,
      Con quattro bronze in t’una pignatella,
      E sotto vose, grama e poveretta,
      Dir: Signori, doneme una gazzetta.
    O veramente, cusì co se suol,
      Te vederò anca ti grama meschina,
      A i perdoni, destesa su un storuol,
      Aver per cavazal una fassina,
      Con mille bolettini onde te duol,
      E criar: Socorè sta poverina!
      E con un vecchio che te raccomanda,
      Ghe dirà a i putti: Feve da una banda.
    [E] se San Joppo per buona fortuna
      No te puol accettar in [la so] scuola,
      Te vederò l’inverno puo alla bruna
      Andar a comprar ojo, ah mariola,
      A trazer acqua al lume de la luna,
      E lavar drappi per meza ceola,
      E far servisi a tutta una contrà
      Per un mezo scuelotto de panà.
    Tutti i tocchi, le croste e le caie,
      Che avanzerà inti armeri di vesini,
      Ti magnerà co s’i fosse trezie:
      Queste sarà, puttana, i colombini,
      Queste, vacca, serà le golarie,
      Le to confezion de moscardini,
      E i fondachi po di caratei
      Te parerà perfetti muscatei.
    A vederte vestia sarà un gran spasso:
      Ti haverà una calza e l’altra no,
      Con do zoccoli vecchi, un alto e un basso,
      E una camisa comprà da Buzò:
      Ti haverà po indosso un sottocasso
      Con pi tacconi che n’ha peli un bo,
      E in pe de la to scuffia da festa
      Una verza te covrerà la testa.
    I putti te dirà: Mostra la mona!
      E ti la mostrerà per un sesin.
      Quanti se in la Mocina e in la Liona,
      Tuti te spazerà senza un quattrin;
      E cussì, solenissima poltrona,
      Spierò vederte a far le male fin,
      A onor e gloria de quante puttane
      Se pensa con arlassi a far sottane.
    Ghe ne visti una l’altro dì al perdon
      Che se sta delle prime della tera,
      Che per Dio la me fa compassion,
      De vederla a quel passo che l’iera,
      Stravaccà là per terra in un canton,
      Carga de mosche e pulisi a miera,
      Con tante taste e tanti bolettini
      Che no ha tanti tacconi sie fachini.
    Questa è la fin de vu altre puttane
      (Parlo de quelle che se tien a l’orza)
      Che al bordel, ospeal, o Carampane[589]
      Sconvegnì andar al trenta un per forza;
      Però infina che ve sentì sane
      No fe per niente che nigun ve sforza,
      Siè molesine con quanti ve vuol,
      Chè a sto partio scapolerè el storuol.



UN BUFFONE DI LEONE X


In una lettera più volte stampata, e ormai famosa, Alfonso Paolucci,
legato del duca di Ferrara in Roma, descrivendo e narrando, l’8 di
marzo del 1519 al suo signore, una rappresentazione dei _Suppositi_
dell’Ariosto, fatta la domenica precedente in Castel Sant’Angelo, alla
presenza di Leone X e di assai numerosa assemblea, dice, fra molte
altre cose degnissime di nota, che sulla tela, la quale nascondeva,
prima che cominciasse la recitazione, la scena dipinta di man di
Raffaello, vedevasi «pinto fra Mariano con alcuni diavoli, che
giugavano con esso da ogni lato de la tella (_sic_) e poi in mezo de
la tella v’era un breve che diceva: _Questi sono li capreci de fra
Mariano_»[590].

Ma chi era fra Mariano? e quali erano i _capreci_, o vogliam
dire capricci suoi? e qual merito faceva essi e lui degni di così
fatta pittura, opera anch’essa forse, come la scena, del pennello
dell’Urbinate? Il legato del duca Alfonso nol dice, e non aveva,
sembra, bisogno di dirlo. Al par di Leone, e come gli altri duemila
spettatori della facetissima commedia, il duca doveva avere piena
contezza di fra Mariano e de’ suoi fatti, quella contezza che manca a
noi, e che ci studieremo di acquistare almeno in parte. E non si dica
troppo frivolo l’oggetto delle nostre indagini; la storia dell’oscuro
frate sarà per alcun lato la storia del glorioso pontefice. A farlo
subito intendere basterà dire che fra Mariano fu un buffone di Leone X,
uno dei tanti.

Quel trincato di Pietro Aretino, cogliendo con le parole, come molte
volte sa fare, il vero e il vivo delle cose, dice del più gioviale
dei papi in una lettera al conte Manfredo di Collalto: «Certamente
Leone ebbe una natura da stremo a stremo, nè saria opra da ognuno il
giudicare chi più gli dilettasse, o le virtù de’ dotti, o le ciance de’
buffoni; e di ciò fa fede il suo aver dato a l’una ed a l’altra specie,
esaltando tanto questi quanto quegli»[591]. Senza voler risolvere in
tutto la difficil questione, se gli piacessero meglio le virtù dei
dotti o le ciance dei buffoni, si può con sicurezza affermare (e basta
al bisogno nostro) che i buffoni e le lor ciance gli piacquero assai,
più forse che l’ufficio di governare la Chiesa di Dio non chiedesse.
Lodovico Domenichi dice espressamente che il Serapica, _domestico
cameriere_ di Leone, «avea autorità d’introdurre d’ogni ora in camera
pazzi, buffoni e simil sorte di piacevoli», e racconta che volendo
il celebre Marco Musuro chiedere al papa il beneficio d’una badia, e
temendo di non esser introdotto a tempo, si annunziò come un secondo
Baraballo, vago di quei medesimi onori che aveva avuto il primo, e così
fu dal cameriere incontanente introdotto[592]. Questa ed altrettali
novelle non sono forse tutte vere, ma parranno certo verosimili a
chiunque conosca quel gaudioso pontefice, il quale, non solo gradiva e
premiava i pazzi che lo facevano ridere, ma s’ingegnava anche di far
diventar pazzo chi non era[593]; e più che verosimili parvero agli
uomini di quel secolo. Perciò non è da negare in tutto fede a certa
storiella raccolta e ripetuta dal Garzoni, ove si narra che Nicoletto
da Orvieto, con un solo bisticcio, s’acquistò _per tutti i tempi_ il
favore della giovialissima Santità[594].

Non di tutti coloro che, volendolo essi, o nol volendo, fecero ridere
Leone X ci è pervenuta notizia sufficiente, e di parecchi s’è perduta,
senza dubbio, ogni traccia. Si ricordano più spesso que’ poveri poeti
da burle e da legnate, Baraballo da Gaeta, Camillo Querno, Giovanni
Gazoldo, Girolamo Brittonio: poi si ricordano alcuni altri, de’ quali
poco più che il nome ci è noto: un Poggio, figliuolo degenere del
famoso Poggio Fiorentino, un Moro de’ Nobili, lurcone e pappatore
meraviglioso, tutto guasto dalla gotta, un cavalier Brandino, un Andrea
bastardo e matto, levato dall’ospizio di Siena, un frate Martino e il
nostro fra Mariano. Di tutti costoro dice il Giovio[595] che in certi
tempi dell’anno, quando si dà più libero sfogo all’umor solazzevole,
erano ammessi alla parte inferiore ed estrema della mensa papale, a
patto che sopportassero pazientemente i motti, le beffe e le burle dei
sopraintendenti al banchetto. Ma il Giovio, se pur dice il vero, non
dice tutto. La parte di questi compagnacci alle mense del pontefice
non sempre doveva essere così rimessa e passiva come al Giovio piacque
narrarla; e di alcuni di loro almeno si può dir con certezza che se
pativan le burle, spesso anche le facevano, e schernivano forse più che
non erano scherniti.

Ma per non parer troppo duri con Leone X bisogna dire che l’usanza di
tenersi i buffoni d’attorno era usanza comune dei principi, e osservata
anche da qualch’altro pontefice, e che la buffoneria era nel secolo
XVI, ed era stata anche prima, in grande credito[596]. Non è solo
l’Ariosto a dolersi che i buffoni, i cinedi, gli accusatori sieno nelle
corti

    Più grati assai che ’l virtuoso e ’l buono[597].

Odasi che cosa dice in proposito Tommaso Garzoni: «Or ne’ moderni tempi
la buffoneria è salita sì in pregio, che le tavole signorili son più
ingombrate di buffoni che di alcuna specie di virtuosi, e quella corte
par diminuta e scema dove non s’oda, o non si veda, un Carafulla, un
Gonnella, un Boccafresca in catedra, che dia trattenimento con favole,
con motti, con piacevolezze, con bagatelle, con mocche, all’onorata
audienza che gli siede intorno. Quivi il buffone recita i testamenti
villaneschi di barba Mangone e di Pedrazzo; adorna l’instrumento che
fa ser Cecco di parole più grosse che quelle del Cocai; narra le fuse
torte che fece la moglie del medico la notte di carnevale; racconta il
dialogo di mastro Agreste con la Togna di S. Germano; discorre di legge
come un Grazian da Bologna; parla di medicina come un mastro Grillo;
favella da pedante come un Fidenzio Glottocrisio; fa del Bergamasco
a spada tratta, come se fosse il primo della vallata; è Magnifico nel
sporgere, Spagnolo nel vestire, è Todesco nel caminare, è Fiorentino
nel gorgheggiare, è Napolitano nel fiorire, è Modenese in fare il
gonzo, è Piemontese nel languire, è la simia di tutto il mondo nel
parlare e nel vestire. Ora si vede il buffone con le ciglia de gli
occhi dentro ascose e gli occhi sbardellati, che par guerzo; ora con
le labbra torte, che pare un mascherone contrafatto, ora con un palmo
di lingua fuori, che par un cagnazzo morto dal caldo e dalla sete; ora
col collo teso, che pare un’impiccato; ora con le fauci ingrossate,
che fa mostra d’aver mille diavoli adosso; ora con le spalle ingobbate,
che pare il Babuino da Milano; ora con le braccia rivoltate, che pare
un Guido propriamente; ora con le mani e con le dita fa gesti tali,
che pare il bagatella dei trionfi. Col moversi finge il poltrone
eccellentemente; col passeggiare fa del fachino raramente; col volgersi
indietro contrafà un bravo stupendamente. Col suono della voce imita
l’asino per spasso, con le parole i balbi e i cocoglieri per trastullo,
col gesto le bertuccie per diletto, col riso fa crepar di riso ogn’uno
che lo vede. Queste son l’eccellenze e le grandezze de’ buffoni, che
vivono allegramente alle spalle de’ gentiluomini e Signori, e trionfano
a’ pasti de’ Prencipi, mentre il dotto poeta, il facondo oratore e
l’arguto filosofo fa la sua residenza nel vilissimo tinello»[598].

Ho voluto trascrivere per intero questo lungo passo anche per dare
un’idea adeguata delle piacevolezze onde i buffoni rallegravano l’aule
e le mense dei signori; tra’ quali ce ne saranno stati forse di quelli
che per gusto lor proprio non troppo le gradivano, ma tuttavia le
sopportavano per conformarsi al costume e per seguitare l’andazzo.
Baldassar Castiglione non si mostra troppo tenero dei buffoni; ma
pur dice che nelle corti _par che si richieggano_[599]. Agostino
Nifo, ricordati i buffoni di Ferdinando il Cattolico, di Carlo V, di
Francesco I e di altri principi e signori, dice che la mala usanza era
talmente cresciuta e fatta generale, che i principi nutrivan buffoni,
non solo per diletto che ne avevano, ma ancora per ambizione, e che in
poco pregio era tenuta quella corte dove non ne fossero alcuni[600].

Parecchi papi, prima di Leone X, accolsero e favorirono buffoni.
Eugenio IV fece un cardinale di quell’Angelotto romano di cui parla
ripetutamente il Poggio nelle sue _Facezie_[601]. Alessandro VI ebbe
caro un Gabrieletto, che accompagnandolo nel ritorno dalla pubblica
benedizione, solita darsi la domenica di Pasqua, fingeva di predicare
in latino ed in ispagnuolo[602]. Il terribile Giulio II permetteva al
Proto da Lucca di distrarlo talvolta dalle cure di quel suo bellicoso
pontificato; e di quali facezie usasse il Proto a tal fine si può
vedere in una novella del Bandello, il quale nella dedicatoria di
un’altra avverte che molti erano al tempo suo i buffoni famosi in
Italia, _e massimamente in Roma_[603]. I cardinali non mancavano
d’imitare l’esempio dei papi, e non poca celebrità ebbero Marc’Antonio
Sidonio, buffone di Ercole Gonzaga, cardinale di Mantova, Francesco del
Lago di Garda, buffone del cardinale Madruccio, il Cimarosto, buffone
del cardinal di Trento, il Bargiacca, stato col Rosso buffone del
cardinale Ippolito de’ Medici, il Carafulla ed altri parecchi[604].

Non parrà dunque troppo strano che Leone X avesse i suoi buffoni ancor
egli, e come grandissimo pontefice ch’egli era, ne avesse più dei
principi secolari e più di altri pontefici stati prima di lui; bensì
potrà parere alquanto strano che tra’ suoi buffoni egli accogliesse
dei frati, e potrà parere strano, non già perchè avrebbe dovuto,
egli capo della Chiesa, avere qualche maggior rispetto alle tonache
e alle cocolle, ma per una ragione in tutto diversa, anzi contraria a
dirittura. A bene intendere ciò è necessario un po’ di commento.

I bei tempi della frataglia erano passati per sempre; il Rinascimento
non era più stagione per essa. Quello che si chiama spirito del
Rinascimento è in contraddizione piena con lo spirito fratesco, e
dove l’uno si leva e vigoreggia è forza che l’altro cada e disvenga.
Nel Cinquecento i frati sono odiati e vilipesi, perchè tutto quanto
appartiene alla vita e ai costumi loro nega ed offende le inclinazioni,
le usanze, gl’ideali buoni o cattivi di quella età. Se divoti
sinceramente, spiace la seccagginosa devozione loro al secolo mezzo
incredulo, che non ha più il capo a quelle melanconie; se ipocriti,
spiace la stomacosa loro simulazione al secolo svergognato e sfrontato,
il quale liberamente ostenta i suoi vizii, e non vuole freni, non
vuole impacci al godere; spiace poi sempre ed in sommo grado, in
mezzo a quella tanta coltura e raffinatezza d’uomini e di cose, la
zoticaggine ed ignoranza loro. Quest’odio contro ai frati si vede già
negli umanisti del Quattrocento; al qual proposito basterà ricordare
le diatribe virulente e le rabbiose invettive di Leonardo Bruni, di
Francesco Filelfo e del Poggio. Angelo Poliziano in un suo prologo
preposto ai Menaechmi di Plauto, e recitato in Firenze ai 12 di maggio
del 1488, si scagliava furibondo contro i

    Cucullati, lignipedes, cincti funibus,
    Superciliosum, incurvicervicum pecus[605];

e non era lontano il grande Erasmo, che doveva fare dei frati la
pittura che tutti conoscono. Non parlo dei novellieri di quel secolo,
e delle molte commedie, e dei moltissimi capitoli, e dell’altre
scritture senza numero in cui i frati sono scherniti, ingiuriati,
vituperati. Nella stessa corte di Roma quel _pecus_ si odiava. Il
Bembo, uno dei segretarii, come ognuno sa, di Leone X, scrisse di
sè che si travagliava _molto mal volentieri in cose di frati, per
trovarvi sotto molte volte tutte le umane scelleratezze coperte di
diabolica ipocrisia_[606]. Bernardo Dovizi da Bibbiena, il _factotum_
dello stesso pontefice, e l’autore della _Calandria_, aveva ancor
egli una grandissima avversione pei frati, e nessuno spasso stimava
così piacevole come il prendersi giuoco di loro. Lo dice egli stesso
nel _Cortegiano_ di Baldassar Castiglione, dove narra certa burla
ch’egli s’era pensato di fare a un supposto frate, e che riuscì invece
in suo danno[607]. Cinzio de’ Fabrizii dedicò a Clemente VII il suo
libro della _Origine dei volgari proverbii_, riboccante di satira
e d’invettive contro i frati; ma un libro contro ai frati aveva già
dedicato a Niccolò V Timoteo Maffeo.

Del rispetto poi che portava alle tonache lo stesso Leone un bel
documento ci porge Alfonso Paolucci nella lettera sua testè citata,
documento che ci parrà meno strano se pensiamo che il glorioso papa
era figliuolo di quel Lorenzo de’ Medici che diceva da tre cose
doversi gli uomini guardare: dalla parte dinanzi de’ buoi, da quella
di dietro dei muli, e dall’una e dall’altra dei frati. Detto della
rappresentazione dei _Suppositi_, il buon Paolucci ricorda una commedia
di certo frate, recitata, come quella dell’Ariosto, alla presenza del
papa, e seguita con queste precise parole: «e per non essere successa
a molta satisfacione, il papa in cambio de moresca fece balciar questo
bom frate sopra una coltra, e dete una gran panciata sopra el tabulato
de la sena. Dipoi li fece tagliar tute le strenghe intorno e tirare le
calcie a li calcagni, ed il bom frate ne morsicò de quelli palafrenieri
tre o quattro de mala sorte, e fu necessitato tandem a montar cavalo,
e cum le mane li forno date tante sculacciate che, siccome mi è
referto, li sono bisognate molte ventose e su la schena e su le chiape,
e stassi in letto e non bene. _Dicesi che ’l Papa lo fece fare in
esempio de altri frati a ciò se levino de pensier de non farli veder
sue fraterie_». E se questo era il desiderio del papa, bisogna dire
ch’e’ non poteva tenere, per vederne il fine, un modo più spicciativo
e più efficace. Avrebbe anche potuto farli ferrare, come fece Bernabò
Visconti[608]; ma era azion villana e da tiranno, che troppo ripugnava
alla giocondità e umanità sua. A fra Mariano e a fra Martino bisognava
dunque, se volevano la grazia del vicario di Cristo, e salve dalle
spalmate le natiche, far dimenticare con le buone loro qualità di
buffone la pessima qualità di frate[609].

E buffone fra Mariano fu, sembra, in grado eccellente. Il Bibbiena fa
di lui onorata memoria e lo loda per gran maestro di burle, insieme con
un frate Serafino, che esercitava in Urbino la professione sua[610]. Di
dove fosse nativo non trovo, nè so quando propriamente vestisse l’abito
di laico domenicano, sotto il quale esercitò onoratamente le sue
buffonerie. Fetti era il nome della sua casata, e l’arte sua prima fu,
sembra, quella del barbiere, giacchè Pietro Aretino, il quale gli si
mostra (ma non sempre), assai benevolo, dice ch’egli era stato barbiere
di Lorenzo il Magnifico. E qui viene spontanea in mente una congettura;
che il barbiere, cioè, già caro per la sua piacevolezza a Lorenzo e
alla famiglia di lui, andasse a Roma in compagnia del giovane cardinale
Giovanni, e facesse fin da allora col cardinale l’officio che seguitò
a far dopo col papa. Comunque andasse la cosa, gli è un fatto che noi
troviamo in Roma il nostro Mariano, già frate, e già in fama d’uomo
assai sollazzevole, sino dai tempi di Giulio II. Eccone senz’altro le
prove.

Il 2 di luglio del 1512, il giovinetto Federico Gonzaga, che si
trovava in Roma, ostaggio alla corte di Giulio II, desinò e cenò in
una bellissima villa dell’Arcivescovo di Napoli, a Monte Cavallo, e
il Grossino, uno dei famigliari del principe, scriveva alla madre di
lui, la famosa Isabella, che il figliuolo era stato tutto quel giorno
_in grandissimo suo apiacer con una bella compagnia_, e che frate
Mariano, _con li soi caprizi_, aveva fatto ridere assai[611]. Il 10
gennajo del 1513, a proposito di altra cena, il Grossino scriveva alla
marchesa: «Frate Mariano, capo di mati, si portò per eccelenzia con li
soi capricci, e m. Bernardo da Bibiena li ajutava gagliardamente»; e al
marchese, marito d’Isabella, scriveva: «Frate Mariano, capo di tavola,
fece de le pacíe a suo modo in quantità; a mezo la zena a l’improviso
saltò in pede in su la tavola, corendo in fino di capo, menando di man
a Cardinali, a Vescovi; non sparamiava niuno»[612].

Questi documenti, e alcun altro che vedremo or ora, provano che la
reputazione di fra Mariano era già fatta negli ultimi due anni del
pontificato di Giulio II, ed è ragionevole il pensare ch’egli avesse
cominciato a farsela qualche anno innanzi, come è ragionevole credere
che non avesse mancato di far ridere alcuna volta il battagliero
pontefice. E far ridere un papa che bestemmiava come un turco, che con
le proprie mani caricava altrui di legnate, e che, ammalato, chiamava a
gran voce il diavolo, non doveva essere la più facile cosa del mondo.
Ma fra Mariano era certo uomo da riuscirci. In una lettera scritta
il 29 di gennajo del 1513 al Marchese di Mantova, egli si chiama da
sè stesso maestro di Bernardo da Bibbiena, di quel famoso Bibbiena
che fu (son parole del Giovio) maestro mirabile nell’arte di spingere
all’insania uomini gravi per età e professione; e dice come sia andato
a Firenze, sebbene già vecchio, chiamatovi dal suo padrone il cardinale
Giovanni, per ordinarvi durante quel carnevale, in compagnia del
Bibbiena appunto, trionfi, commedie e moresche, e ricorda _tutti li
capricci fatti_ in quella _magna città_[613]. Questa lettera non è sola
a provare che il lepido frate era entrato in grazia anche del Marchese;
un’altra ve n’ha scritta da quello a questo ai 10 di gennajo del 1519,
la qual prova il medesimo, e che dovrò citar novamente[614].

Fra Mariano fu frate piombatore, uno di quei frati, cioè, i quali
attendevano, per proprio officio, a munire della bolla di piombo i
diplomi che si spedivano dalla Cancelleria apostolica. Il mestiere non
era gran che gravoso e rendeva assai. Lo stesso fra Mariano confessava
al Gonzaga che del piombo faceva oro, e da quella sua _bottega_
(così la chiamava), diceva di trarre 800 ducati d’oro l’anno[615].
Di questa _bottega_ credo che egli andasse debitore a Leone X, perchè
nella prima lettera al Gonzaga, il frate non ne fa cenno, e dice che,
passato carnevale, se ne tornerà in Roma, nel suo convento di Monte
Cavallo; mentre nell’altra dice espressamente che egli ha residenza
in palazzo, _nelle stanze di Innocenzio, che si chiamano lo ofizio del
Piombo_, d’onde qualche volta si reca a visitare i suoi frati[616]. In
quell’officio egli succedette a Bramante, e lasciò poi a sua volta il
luogo a Sebastiano del Piombo. Paride de Grassi, cerimoniere di Leone
X, ricorda nel suo diario un frate Bernardo Piombatore, dandogli titolo
di mezzo buffone (_semiscurra_); ma gli è assai probabile che Bernardo
ci stia erroneamente per Mariano[617].

Che il buon frate non si lasciasse vedere alla mensa del papa solo
in certi tempi dell’anno, come vuole il Giovio, si ricava da un passo
di certa Relazione di Luigi Gradenigo, ambasciatore della Repubblica
di Venezia, passo in cui si legge: «il mercore e il sabbato mangiava
(Leone X) cose quadragesimali, stando tuttavia presenti alla mensa
fra Mariano e Brandino, ben conosciuto in questa terra»[618]. Tutti,
del resto, quegli strani commensali di un pontefice che, a detta del
Giovio, fu temperatissimo nel mangiare, ma che faceva andare per la
spesa della sola cucina la metà delle entrate che davano Spoleto, la
Romagna e le Marche, pare sieno stati golosi e mangioni di prim’ordine,
o per parlare più acconcio, fuori d’ogni ordine. Lo stesso Giovio
assicura che furono essi gl’inventori delle salsicce fatte con carne di
pavone; ma questa cosa rimane in dubbio, perchè non può essere altri
che Leone X il _saggio pontefice_ di cui è ricordo in certo Commento
del Grappa, e che faceva fare la salsiccia _di polpette di fagiani,
di pernici, di pavoni e di capponi, mescolandovi l’animelle di un
giovinetto vitello_[619]. Checchè sia di ciò, certo si è che la peggior
burla che Leone X potesse fare a quei suoi commensali si era d’imbandir
loro scimmie e corvi, come sembra abbia fatto talvolta[620].

Ma come per la piacevolezza, così ancora per la voracità doveva fra
Mariano vincere gli emuli suoi, e lo prova quella specie di leggenda
che si formò appunto intorno alla voracità sua, e non si formò intorno
a quella degli altri. Sigismondo Tizio, nella già citata sua Cronaca,
dice che fra Mariano inghiottiva in un boccone un piccioncino, vuoi
arrosto, vuoi lesso, divorava venti capponi, succiava quattrocento
uova[621]. Questo è non più fra Mariano, ma Gargantua, anzi l’Orco, e
gli si potrebbe dire col Dorat:

    Digérez-vous? voilà l’affaire:
    L’homme n’est rien s’il ne digère.

Nè ciò è ancora tutto. Lodovico Domenichi racconta di un signore
che fece mangiare a fra Mariano _un pezzo di canapo in cambio di un
rocchino di anguilla arrostita_[622], e Ortensio Lando assicura che
il nostro frate, una volta, _si mangiò una veste di ciambellotto per
esser unta e piena di sucidume_[623]. Beveva fra Mariano come mangiava?
Non saprei: gli storici non dicon nulla in proposito. Bevitore famoso
fu il Querno, e, sembra, anche il Moro de’ Nobili, il quale, dice il
Firenzuola, aveva gran rispetto ai baccelli,

    Che dan sete la notte insin nel letto[624].

Ma concediamo pure che il nostro fra Mariano mangiasse per quattro,
anzi per dieci; non è men vero che egli sapeva fare anche altro.
I _capricci_ di lui sembra sieno stati notissimi per tutta Italia,
tanto noti che un cenno bastava per ricordarli altrui, senza bisogno
di narrarli altrimenti. Bernardo da Bibbiena dice in un luogo del
_Cortegiano_: «io fui già converso in un fonte, non d’alcuno degli
antichi Dei, ma dal nostro fra Mariano, e da indi in qua mai non m’è
mancata l’acqua». E il Castiglione soggiunge: «Allor ognun cominciò a
ridere, perchè questa piacevolezza, di che messer Bernardo intendeva,
essendo intervenuta in Roma alla presenza di Galeotto cardinale di
san Pietro in Vincula, a tutti era notissima»[625]. Nello stesso libro
Cesare Gonzaga accenna alla dottrina di fra Mariano, secondo la quale
fare impazzire alcuno gli era guadagnar un’anima[626]. In una lettera
che Bernardino Boccarino, segretario del vescovo di Firenze, scriveva
all’Atanagi il 10 di marzo del 1536, passati più che cinque anni dalla
morte del frate, si tocca di non so che _frittata calda calda_ di fra
Mariano[627].

Ma di tali capricci chi ci dà più larga notizia è Pietro Aretino, il
quale parla del frate più che non faccia nessuno dei contemporanei.
Nella giornata I della parte II dei _Ragionamenti_[628] si ha solo
un accenno vago e fuggevole a un qualche motto, o altra piacevolezza
di fra Mariano; ma nella giornata III di quella parte medesima[629],
la comare, lodando l’orto della Nanna, dice che esso disgradava «il
giardino del Ghisi in Trastevere e quello di fra Mariano a Monte
Cavallo». Ora sembra che il giardino di fra Mariano non fosse manco
noto e manco famoso del palazzo e degli orti meravigliosi che aveva in
Trastevere Agostino Chigi, soprannominato il Magnifico. In una lettera
dei 15 di novembre del 1524, Giambattista Sanga, segretario allora di
monsignor Giberti, esortando Giambattista Montebuona in Roma a porre
in buono assetto i giardini del padrone, diceva: «Ricordatevi delle
spelonche d’edera di fra Mariano a Monte Cavallo»[630]. Che razza di
giardino fosse propriamente non so; ma lo stesso facetissimo frate
ne dà qualche contezza, dicendo nella seconda lettera al Marchese
di Mantova: «Non desidererei altra grazia in questo mondo se non
potervi convitare un dì all’orto qui di monte Cavalli nel laberinto,
dove vedresti boschetti ed ornamenti silvestri nel domestico cento,
100 varietà e 1000 capricci; una chiesina poi di avorio lavorata di
straforo, ed atorno profumata ed abellita con molte cose divote; una
sagrestia con paramenti profumati papali di broccato d’oro in oro, dove
in fra tanti paramenti è uno dorsale con una pianeta di velluto rosso,
le quali dicono furono già un palio»[631].

Di altri capricci parla più diffusamente l’Aretino nella parte I del
_Ragionamento delle Corti_. Interlocutori in questo ragionamento sono
il Dolce, il Piccardo e il Coccio. Il Piccardo, raccontata la storia
di certo monsignore avarissimo, che volendo frodare i suoi servidori,
fu in bel modo bastonato dal mastro di stalla, soggiunge: «Fra Mariano,
discreta ricordazione, fu per transire udendola».

  DOLCE. Buffone e piombatore.

  COCCIO. Non merita tale ingiuria di parole.

  PICCARDO. No certo, perchè egli fu così dolce, così affabile, così
  onorevole, così utile e così buono quanto persona che fusse mai
  in Corte, e i virtuosi trassero gran piacere e gran bene dal suo
  favore.

  DOLCE. Perchè si dice i capricci di fra Mariano?

  PICCARDO. Dirovvelo. Il suo animo, subietto de le piacevolezze, non
  finiva mai di trovar facezie astratte da le altre, per ispasso de’
  cortigiani, i fastidi de’ quali si consolano ne li intertenimenti
  di cotali.

  COCCIO. Contatene qualcuna.

  PICCARDO. Egli, che fu barbiere di Lorenzo, padre di papa Leone, e
  tra i divini suoi costumi allevato, avea _in minoribus_ due voglie
  spasimatissime: una era di far frittata rognosa di sè stesso in
  quelle ceste d’uova portate da Perugia e da Todi da’ pollajuoli di
  Campo di Fiore, nè se la potè mai cavare per non avere il modo di
  pagare il danno.

Qui il Piccardo entra a fare un grande elogio del cardinale di Ragona,
cioè d’Aragona, _prete ne l’abito, re ne l’animo, creatura superna,
splendore de la magnificenza_; poi seguita il racconto.

  PICCARDO. Ora, per dirvi, Ragona, inteso che fra Mariano era per
  farla segnata non adempiendo l’altra sua sbudellata volontà, gli
  dice: «Andatevene in Navona, e non ve ne partite fin che non udite
  altro». Egli va, e piantasi a sedere in cima della piazza che
  sbocca in Parione, patria di Maestro Pasquino, che, se non mi fugge
  dal capo, ne parlaremo; e stando attento ad ogni voce, passava
  l’ora de lo starvi più, quando, dal di sotto e dal di sopra, un
  tara tara e un tantara tantara scoppia fuori di due trombe, e
  moltiplicando il clangore con lo abbreviare de lo strepito(?),
  appariscono due uomini d’armi sopra due cavalli bardati, con
  le lance in su la coscia, e con gli elmi chiusi in foggia di
  battaglia; e correndo l’uno al contrario de l’altro, entrarono tra
  i piattelli, tra le pentole, tra le vettine, tra le conche, tra i
  boccali, tra le scudelle, tra gli scudellini, tra le pozzatoje, e
  tra ogni altro instrumento di terra cotta, con tanto fracasso, con
  tanto tuono, e con tanto spavento, che si credette che quel punto
  fosse fratel bastardo del dì del giudizio; talchè gli ebrei, i
  rigattieri, i cambiatori, col resto de la plebe, truccando per la
  calcosa, con le loro bagaglie addosso, simigliavano i fuggenti lo
  sbombardare del diluvio su l’Arca di Noè; ed il popolo, udendo le
  strida de’ padroni de le vasa, cridando serra serra, si credette
  che profondasse la Corte.

  DOLCE. Questa è de le belle ciance che io udissi mai.

  COCCIO. Così dico io.

  PICCARDO. Fra Mariano non fece il fine di Margutte perchè fu
  sfibbiato a ora. Sì che voi intendete di che sorta erano i suoi
  capricci. Dieci volte, sendo la tavola papale coperta d’argenti
  con le cose dentro, ha tomato sopra esse, giostrando con le facole
  accese a le barbe de’ Mori de’ Nobili, de’ Brandini e del frate
  che mangiava le berrette. Io sono stato per perdere tra le parole
  il più bel fatto che ci sia. Due uomini del Cardinale, tosto che
  la furia venne meno, soddisfecero i padroni de le robe volate al
  cielo, atto conveniente a simile prelato, e non a gli spilorci
  d’oggidì, salvo la pace di chi gli simiglia.

Qui sbuca fuori un nuovo buffone, di cui non trovo altra memoria: il
frate che mangiava le berrette. Non so chi possa essere, se pur non è
il fra Martino ricordato dal Tizio; ma certo era un degno emulo di fra
Mariano. Il quale, come si vede, non faceva propriamente alla mensa
del pontefice la parte che il Giovio assegna a lui e agli altri. Nè si
creda che l’Aretino esageri. Dei capricci, dirò così, conviviali di fra
Mariano s’è già veduto quanto scriveva il Grossino al Marchese e alla
Marchesa di Mantova: l’11 di gennajo del 1513 Stazio Gadio, descrivendo
al Marchese una cena fattasi la domenica innanzi in casa del Cardinale
di Mantova, cena a cui erano invitati, oltre il marchesino Federico,
anche i cardinali d’Aragona, Sauli, Cornaro, l’arcivescovo di Salerno,
l’arcivescovo di Spalatro, il vescovo di Tricarico, Bernardo da
Bibbiena, fra Mariano, la signora Albina, cortigiana romana, e più
altre persone, dice: «Nanti cena si fecero de le pacíe, che altramente
ove è frate Mariano non si po’ fare, dio ve lo dichi per me. Setati
a tavola, essendo in capo Albina e frate Mariano..... alla secunda
vivanda, li polastri volavano per la tavola caciati dal frate, poi da
li preti; con li sapori e minestre si dipingevano li volti e panni».
Stazio Gadio avrebbe avuto assai altre cose da dire; ma si contenta di
soggiungere (e ce ne rincresce) a mo’ di conclusione: «Doppo cena lasso
judicar a V. Ex. che si fece»[632]. E l’Eccellenza sua avrà certamente
giudicato con indulgenza, dolendosi forse di non essercisi trovato.

I capricci di fra Mariano, quelli almeno che conosciamo un po’ meglio,
non sempre sarebbero ora di gusto nostro, come indubitamente erano
di Leone e de’ suoi famigliari. Il papa e il frate se la dovevano
intendere tra di loro benissimo, giacchè professavano entrambi la
stessa filosofia della vita. Dice Andrea Calmo nel prologo della
_Rodiana_: «Certo la melodia del vivere è un bel che; ella è sì fatta,
che aggiunge quasi al piacere, che si gusta in _celi celorum_, e però
esclama fra Mariano dinanzi a Leone: Viviamo, babbo santo, che ogni
altra cosa è burla». Perciò non credo che il papa abbia voluto pagar
d’ingratitudine il frate, componendogli il seguente epitafio, che un
codice Marciano reca con la intitolazione: _Di Leone Xmo per frate
Mariano_. Anche i versi non pajono degni di sì fatto autore; ma se
pure il papa lo compose, ebbe a comporlo per celia. Eccolo ad ogni
modo[633].

    Un frate sotto bianco e sopra nero,
      In gola e in zazeria[634] molto eccellente,
      Di fuori porco e dentro puzzolente
      Mentre visse; ora ammorba un cimitero.
    Non acqua benedetta, non saltero
      Pigliarai, viator, ma solamente,
      Se vuoi far cosa grata a la sua mente,
      Buon vin ci spargi e ragiona del zero.
      L’altro perso saria, ch’ei credde poco,
        Ben che già simulò religione;
        Ma lo fe’ per fuggir più tristo gioco.
    Perchè tra frati più presto buffone
      Fu che compagno, ed aderì al coco
      Più che al sacrista, e scherzò col guttone.
                  E per conclusione
      L’alma al fuoco, la fama addusse al basso:
      Se non vuoi cader morto studia il passo.

L’epitafio, del resto, l’avrebbe potuto fare il frate al papa, perchè
non solo gli sopravvisse, ma, secondo una delle tante voci che corsero
allora, fu il solo che si trovò presente all’agonia di lui, e che,
vedendolo morire senza sacramenti, gli gridò: _Raccordatevi di Dio,
Santo Padre!_[635] come se il Padre Santo non se ne fosse mai ricordato
in vita sua. E non sembra mal fatto che il buffone, il quale tante
volte aveva esortato il papa a ben vivere, lo esortasse una volta
almeno a ben morire; e forse fu quella la prima e l’ultima volta che,
trovandosi insieme, il papa e il frate stettero serii.

Che fu del buon fra Mariano dopo la morte del magnanimo Leone? Che
cosa fece egli de’ suoi capricci e della ghiottoneria sua durante il
breve ma terribile pontificato di quell’Adriano VI, che spendeva per la
sua tavola un ducato il giorno e fece rincarare in Roma il merluzzo,
tanto l’aveva in pregio? di quell’Adriano per cui il Berni gridava,
esterrefatto come gli altri:

    Io per me fui vicino a spiritare
      Quando sentii gridar quella Tortosa?

Fec’egli come il ciarlatano, che, a fiera finita pone in un sacco le
sue carabattole, e aspetta nuovo tempo da ritrarle fuori? E fu nuovo
tempo per lui quel papato di Clemente VII,

              composto di rispetti,
    Di considerazioni e di discorsi;
    Di _più_, di _poi_, di _ma_, di _sì_, di _forsi_,
    Di _pur_, di assai parole senza effetti?[636].

Da certe parole che si leggeranno qui sotto parrebbe di no. Ciò che
v’ha di certo si è che egli campò altri dieci anni, che seguitò a
tenere tutto quel tempo l’officio suo di piombatore, e che quando fu
morto, tutti coloro ch’egli aveva fatto ridere con le sue piacevolezze
lo piansero amaramente. Addì 4 dicembre del 1531, Sebastiano Luciani,
diventato fra Sebastiano del Piombo, scrive all’Aretino, informandolo
d’essere succeduto nell’officio a fra Mariano[637]; ma già il 2 dello
stesso mese Girolamo Schio, vescovo di Vaison, e maestro di casa di
Clemente VII, aveva scritto a messer Pietro quanto segue: «Fu tanto
a tempo la novella vostra de la canella, che quella bonanima de fra
Mariano la intese, e ne fece tanta festa del mondo; e disse molte
accomodate ed onorevole parole di voi; ed ebbe per più la menzione
che feste de lui, che se una trinca de Re gli avesse scritto. Io son
rimasto essecutore del suo testamento, che fece molto prudentemente;
e son rimasto col secreto de li capricci suoi. Non sciò già se verrà
mai tempo che se possa slegare el sacco ed usarli. Lui morse da bono e
santo omo, con bona lingua e sentimento fino a l’ultimo fiato; e iij
ore avanti, ch’io lo lassai, mi chiese la benedizzione e licenzia,
dicendo che non si vedremo più se non di là. La sua morte ne seria
molto più doluta, se non ce interveniva el temperamento di aver posto
in suo loco el nostro Sebastiano da bene, che ha tante bone parte, che
satisfa alla tanta jattura che ci troviamo aver fatta di quello uomo; e
così andaremo vivendo sin che a Dio piacerà; ma più alegramente che si
potrà»[638].

Chi non direbbe questa lettera scritta in ricordo e deplorazione della
morte di un dottore della Chiesa, pronto ad essere canonizzato? Non
sappiamo in che consistesse propriamente quel secreto di capricci
a cui con tanta discrezione allude il buon vescovo; ma forse non
immaginerebbe il falso chi pensasse a rime giocose, a novelle
piacevoli, in una parola a capricci scritti, che il frate dabbene
avrebbe fatto alternare con quegli altri suoi capricci operati, di cui
abbiam veduto alcun saggio. Quelle due lettere sue che abbiam ricordate
mostrano come fossero in lui ingegno ed umore atti anche a ciò. E se
così fu veramente, noi dobbiamo dolerci che la storia del papato e la
storia della letteratura italiana sieno state defraudate ad un tempo di
così notabili documenti.

Monsignor vescovo di Vaison afferma che fra Mariano _morse da bono e
santo omo_, e noi gli crediamo volentieri; ma visse fra Mariano così
come _morse_? Ebbe egli altre virtù, oltre a quella di far ridere
Leone X e tanti cardinali e tanti principi e cortigiani? Pare di sì.
Ebbe egli tra’ suoi caprici qualch’altro vizio, oltre a quello della
voracità formidabile? È questo un gran dubbio. Di sè il frate non dice
se non bene, ed è giusto. In quella seconda lettera al Marchese di
Mantova così si dipinge: «Io mi trovo umano, mansueto, affabile, basso
ad uso di tartufo, overo pisciacane che nasce terra terra, in modo che
ognuno mi può calpestare e por piè». E séguita dicendo che degli 800
ducati d’oro che gli rendeva l’officio faceva tre parti: «una a Cristo,
da cui viene ogni bene; l’altra alli parenti, che ho tanta canaglia
che non empirebbe loro la gola tutta l’acqua d’intorno a Mantova; la
terza parte per me e mia famiglia, magnare e bere, e bestie e basti, in
modo che ogni anno fo debito trecento ducati». Come desse quei denari
a Cristo non so; e chi può dire in che termini stesse con Cristo il
buon frate? e chi può dire in che termini ci stesse papa Leone? Son
misteri troppo profondi. Ma ciò che è detto dei parenti sarà verissimo,
perchè chiunque avesse officio e grado e rendite in Roma a quel tempo
vedeva pullulare i parenti fuor di terra a mo’ di funghi, a cominciar
dal papa; e verissimo ancora ciò che è detto della famiglia, la quale
non era forse composta di soli servitori. Fra Sebastiano diventò padre
per da vero tra l’un piombo e l’altro. Ad ogni modo il nostro frate
doveva essere un buon pastricciano, se persin l’Aretino giunse, come
s’è veduto, a dir di lui che «egli fu così dolce, così affabile, così
onorevole, così utile e così buono quanto persona che fusse mai in
Corte».

Ma c’è quel maledetto sonetto, dove non solo si dice che fra Mariano
credette poco e simulò religione, ma si tocca in modo anche troppo
chiaro di un zero che non è quello dell’aritmetica. Sarà vero? sarà
falso? Ecco dove ci vorrebbero i documenti, e dove i documenti mancano.
Lodovico Dolce dice in una sua satira a Ercole Bentivoglio:

    Dal pergamo gridar grave e sdegnoso
      S’ode fra Mariano e i vizii danna;
      Ma in cella quando è moglie e quando è sposo;

e dice forse il vero: ma è del nostro fra Mariano o di un altro ch’egli
parla? Impossibile dirlo, impossibile di affermare o di negar nulla: il
dubbio

    Animum nunc huc, nunc dividit illuc.
In partesque rapit varias, perque omnia vertit.

Non so se fra Martin Lutero avesse, quando fu in Roma, occasione di
conoscere fra Mariano Fetti, o di udir parlare dei suoi capricci; ma
parmi che l’un frate spieghi, sino ad un certo segno, l’altro. Sono
tutt’e due come il diritto e il rovescio della stessa medaglia. E
questa medaglia fu Leone X a coniarla.



INDICE


  PETRARCHISMO ED ANTIPETRARCHISMO:
    Parte prima                                  Pag.  3
    Parte seconda                                 »   45
  UN PROCESSO A PIETRO ARETINO                    »   89
  I PEDANTI                                       »  171
  UNA CORTIGIANA FRA MILLE: VERONICA FRANCO:
    Parte prima                                   »  217
    Parte seconda                                 »  293
    Appendici                                     »  351
  UN BUFFONE DI LEONE X                           »  365



NOTE:


[1] Tre scritti conosco in cui di proposito si parla del petrarchismo,
tutti e tre assai insufficienti, e sono: _I petrarchisti_, di
LUIGI CARRER, inserito nel vol. II delle _Prose_, ediz. di Firenze,
1855, pp. 500-5; _I petrarchisti_, di LUIGI LA VISTA, in _Memorie e
scritti_, Firenze, 1863, pp. 359-63; _Del petrarchismo e de’ principali
petrarchisti veneti_, di GIOVANNI CRESPAN, nella raccolta _Petrarca a
Venezia_, Venezia, 1874, pp. 187-252.

[2] _Lezioni di letteratura italiana_, nona edizione, Napoli, 1883,
vol. II, p. 99.

[3] _Geschichte der italienischen Literatur_, Lipsia, 1844-7, parte II,
p. 624.

[4] _Opere_, ediz. di Venezia, 1740, t. II, p. 269.

[5] _Il Castellano, Opere_, ediz. di Verona, 1729, t. II, p. 232.

[6] A. BASCHET, _Documenti inediti su Pietro Aretino_, in _Archivio
storico italiano_, serie III, t. III, parte 2ª, p. 116.

[7] Cap. 22.

[8] Atto I, sc. 22.

[9] _Ragionamenti_, parte I, giornata III, Cosmopoli, 1660, p. 120.

[10] Antonio Magliabechi scrive in una sua lettera al canonico Lorenzo
Panciatichi: «Il Petrarchino non può essere mai più bello, essendo
infino di carta scelta, giacchè, se ne tasterà una pagina, sentirà
quanto sia più grossa dell’altra ordinaria. Il sommacco è di quello
grosso da durar cento anni, e credo, che sia legatura forestiera».

[11] _Il Furbo_, Venezia, 1584, atto II, sc. 1.

[12] Ediz. di Venezia, 1587, disc. CXVI, pp. 700-1.

[13] _Novelle_, parte II, nov. 46.

[14] _Il Cortegiano_, ediz. di Firenze, 1854, l. I, XIX.

[15] ARETINO, _Ragionamenti_, parte II, giornata I, p. 215.

[16] Capitolo _Del Letto_.

[17] Atto II, sc. 11.

[18] _Avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone_, l. II, c. 12.

[19] _Apologia in difesa della Gerusalemme liberata, Opere_, Pisa, 1820
sgg., vol. X, pp. 61-2.

[20] _Descrizione del suo viaggio al Parnaso._

[21] Una grande bugia diceva il buon Lodovico, quando diceva:

                     là veggo Pietro
    Bembo, che ’l puro e dolce idioma nostro,
    Levato fuor del volgare uso tetro
    _Quale esser dee_, ci ha col suo esempio mostro.

(_Orl. Fur._, c. XLVI, st. 15). Ma egli ne disse tant’altre in quel suo
poema.

[22] Atto II, sc. 6.

[23] _Ragionamento sopra la poesia giocosa_, Venezia, 1634, p. 8.

[24] _Dialogo d’amore_, in _Dialoghi_, Venezia, 1562, p. 38.

[25] _Lettere di molte ingegnose donne_, Venezia, 1549, f. 49. Se
queste lettere sieno autentiche, o meno, a noi non importa indagare,
bastando che sieno del Cinquecento, e faccian fede delle idee e dei
costumi del tempo.

[26] Le tagliature, o sparati, che si moltiplicavano fuor di misura
sugli abiti degli azzimati moscardini.

[27] Vedi, per un esempio, _Il libro della bella donna_ di FEDERICO
LUIGINI, Venezia, 1554.

[28] _La Zucca_, ediz. di Venezia, 1589, f. 192 v.

[29] Vedi più oltre lo studio: _Una cortigiana tra mille_.

[30] Atto II, sc. 2. Cfr. _Ragionamenti_, parte I, giorn. III, p. 141.

[31] Parte I, giornata II, p. 106.

[32] _Ragionamento fra il Zoppino fatto frate e Lodovico puttaniere_,
p. 442.

[33] _Lettere di cortigiane del secolo XVI_, Firenze, 1884.

[34] _Facetie, motti et burle di diversi signori et persone private_,
edizione di Venezia, 1599, p. 332.

[35] _Le lettere facete di messer_ ANDREA CALMO, riprodotte da VITTORIO
ROSSI, Torino, 1888, l. IV, lett. 22, pp. 301-2.

[36] Per esempio, in una lettera ad un’altra cortigiana, una certa
signora Frondosa, ricordate molte maniere di giuochi con cui solevano
spassarsi le allegre brigate, soggiunge: «e torna tutti a sentar
digando le pi stupende panzane, stampie e imaginative del mondo, de
_comar coca_, de _fraibolan_, de _osel bel verde_, de _statua de
legno_, del _bossolo da le fade_, di _porceleti_, de _l’aseno che
andete remito_, del _sorze che andete in pellegrinazo_, del _lovo che
se fese miedego_, e tante fanfalughe che no bisogna dir. Quei che ha
pi sal in zuca recita la istoria de _Ottinelo e Giulia_, e quella de
_Maria per Ravena_, el contrasto de la _Quaresema e de Carneval_,
_Guiscardo e Ghismonda_, de _Piramo e Tisbe_, _l’è fatto el beco a
l’oca_, e de _ponzè el matto cugnà_». Ediz. cit., l. IV; lett. 42, pp.
346-7. Vedi ivi stesso, pp. 349-50, le note del Rossi.

[37] Vedi ROSSI, _Le lettere del Calmo_, Appendice IV.

[38] _Ecatommiti_, nov. 6 dell’Introduzione.

[39] Capitolo _A M. Anselmi_.

[40] BANDELLO, _Novelle_, parte I, nov. 41, dedica.

[41] GROTO, _Lettere famigliari_, Venezia, 1606, f. 110 v.: lettera al
P. Pietromartire Locatelli.

[42] Ediz. di Venezia, 1543, f. XI v.: la prima ediz. è del 1539.

[43] DOMENICHI, _Ragionamento nel quale si parla d’imprese, d’armi e
d’amori_, in seguito al _Dialogo delle imprese_ del GIOVIO, Venezia,
1557, p. 99.

[44] _Opuscoli_, Firenze, 1640-2, vol. I, p. 401.

[45] SCIPIONE BARGAGLI, _I trattenimenti_, Venezia, 1587, parte I, p.
25.

[46] _Il Cortegiano_, l. I, XLVII.

[47] Vedi su questo argomento della musica nel sec. XVI BURCKHARDT,
_Die Cultur der Renaissance in Italien_, terza ediz., Lipsia, 1877-8,
vol. II, pp. 131 segg., e una bella memoria di PIETRO CANAL, _Della
musica in Mantova_, in _Memorie del Reale Istituto Veneto_, t. XXI,
parte III, pp. 655-774. L’importantissimo tema è, del resto, quasi
vergine ancora.

[48] _Novelle_, parte I, nov. 26.

[49] V. TRUCCHI, _Poesie inedite di dugento autori_, Prato, 1846, vol.
II, pp. 141-42; FANTONI, _Storia universale del canto_, Milano, 1873,
vol. II, p. 98.

[50] Maccheronea XX.

[51] Doveva essere allora assai vecchio, se è vero ch’ei nacque
verso il mezzo del secolo XV. L’Aretino fa dir di lui all’Istrione:
«Farei fare madrigali in sua laude (_intendi dell’innamorata_) e dal
Tromboncino componervi suso i canti».

[52] _Attavanta_, ediz. di Firenze, 1857, p. 59.

[53] _Orazioni_, Venezia, 1589, oraz. VIII.

[54] Lettera a Bartolomeo della Valle, _Opere_, Venezia, 1729, t. III,
p. 207, col. 2.

[55] _Sommario in difesa della casa del Petrarca, Opere_, ed. cit., t.
V, p. 558. Si tratta anche qui della casa di Padova.

[56] Terza impressione, Venezia, 1553, l. I, f. 19 r.

[57] Lib. II, f. 42 v.

[58] _De institutione foeminae Christianae, Opera_, Basilea, 1555, t.
II, p. 659.

[59] È curiosa, e merita d’essere riferita, la lista dei libri di cui
il Vives sconsiglia o proibisce la lettura. Ecco le sue stesse parole
tradotte di latino in italiano (pp. 657-8): «Libri pestiferi sono
in Ispagna i romanzi di _Amadigi_, di _Splandiano_, di _Florisando_,
di _Tirante il Bianco_, di _Tristano_; alle quali scempiaggini non è
misura nè fine, e tutti i giorni ne vengono fuori di nuove: aggiungasi
_Celestina_ mezzana, madre delle nequizie, ricettacolo degli amori. In
Francia ci abbiamo _Lancilotto del Lago_, _Paris e Vienna_, _Ponto e
Sidonia_, _Pietro di Provenza e la bella Maghelona_, _Melusina_, donna
inesorabile: nel Belgio, _Florio e Biancofiore_, _Leonella e Canamoro_,
_Curias e Floretta_, _Piramo e Tisbe_. Alcuni son tradotti di latino in
volgare, come le infacete _Facezie_ del Poggio, _Eurialo e Lucrezia_,
il _Cento novelle_ (_Centum fabulae_) del Boccaccio (!); i quali libri
tutti furono scritti da uomini oziosi, scioperati, dediti ai vizii e
all’immondizia, nè arrecherebbero diletto di sorta se non blandissero
i nostri mali istinti». Questi libri erano del resto sparsi per
tutta Europa e notissimi anche in Italia. La famosa tragicommedia di
_Celestina_ vi fu tradotta e molte volte stampata. Pare che il povero
Vives credesse il _Decamerone_ tradotto dal latino.

[60] _Novelle_, parte I, nov. 36, dedica.

[61] _La secchia rapita_, canto V, st. 26.

[62] _Ibid._, canto VIII, st. 32-3.

[63] Parte II, _Della stampa_, ed. Fanfani, Firenze, 1863, vol. I, p.
226.

[64] Per quanto spetta a quest’ultimo scrittore, vedi O. BACCI, _Le
«Considerazioni sopra le Rime del Petrarca di Alessandro Tassoni»_,
Firenze, 1887.

[65] Ediz. di Venezia, 1550, f. 19 v., 20 r.

[66] _Lettere facete_ raccolte dall’ATANAGI, Venezia, 1601, l. I, p.
232.

[67] _Le lettere_, ediz. cit., l. I, lett. 19, p. 46.

[68] Capitolo già citato e attribuito al Doni, al Sansovino,
all’Anguillara.

[69] Lettera a monsignor Leone Orsino, _Le pístole vulgari_, Venezia,
1532, f. 21 v.

[70] Altra lettera a monsignor Leone Orsino, _ibid._, f. 154 v.

[71] Lettera a re Francesco I, _ibid._, f. 48 r.

[72] Risposta della Lucerna, _ibid_., f. 193 v.

[73] Lettera a Gian Giacomo Lionardi, _ibid_., f. 61 v.

[74] Ediz. di Venezia, 1543, f. XII r.

[75] _Dialoghi_, ediz. di Venezia, 1541, dial. VIII. Questo Sannio vuol
essere lo stesso Franco, secondo si rileva da una lettera dell’Aretino
a Lodovico Dolce.

[76] _Opere_, ediz. cit., vol. I, pp. 223-4.

[77] _Le pístole vulgari_, f. 195 r.

[78] In altro di quei sonetti è introdotto Priapo che scaccia i
petrarchisti vituperosamente.

[79] Lettera citata a Gian Giacomo Lionardi, f. 61 v.

[80] Risposta della Lucerna, f. 193 v.

[81] _La piazza universale di tutte le professioni del mondo_, ediz.
cit., pp. 933-4.

[82] Lettera a Giovanni Pollastra, _Lettere_, vol. I, f. 141 v.

[83] _La dipintura di sè stesso_, a don Lorenzo Venturi.

[84] _Lettere_, t. V, f. 147 r.

[85] Ediz. cit., l. I, XXXVII.

[86] _Lettere famigliari_, Padova, 1739, vol. II, p. 268.

[87] _Lettere famigliari_, ediz. cit., f. 3 r.

[88] _Lettere_, t. V, f. 147 r.

[89] _Lettere_, t. I, f. 123 r.

[90] _Lettere di diversi eccellentissimi uomini_, raccolte da LODOVICO
DOLCE, Venezia, 1559, l. I, p. 45.

[91] Nella satira _A Giulio Doffi_. Ecco le sue parole:

    Non credo che si trovi canta in banco,
      Che non sappia compor qualche cosetta,
      Che volesse il Petrarca al lato manco:
    E ch’a ciascun non chieda la berretta,
      E che non vada gonfio e dritto in schiena;
      Ma il pan è poi quel che gli dà la stretta.

Più tardi ad Alessandro Allegri toccava ancora dire di certi poetastri:

    Crede la brigataccia ch’un sonetto,
      O dal Casa travolto, o dal Petrarca
      . . . . . . . . . . . . . . . . . .
      Faccia l’uom reverendo e ammirando.

[92] _L’Orlandino_, cap. VI, st. 1.

[93] Anche il Franco nella Risposta della Lucerna: «Veggo i lauri di
Parnaso, le querce di Dodona, le palme d’Iduna, i bussi di Citoro, le
canne di Menalo, Federe d’Ippocrene, i mirti d’Aganippe».

[94] _Lettere_, t. I, f. 123 r.

[95] _Lettere_, t. I, f. 248 r.

[96] _Lettere_, t. II, f. 77 v., 140, r. t. V, f. 131 r., 161 r.

[97] Questo capitolo fu pubblicato dietro il _Dialogo della infelicità
dei letterati_ di PIERIO VALERIANO, Milano, 1829.

[98] _Le satire alla berniesca_, Torino, 1549. _Dello stile berniesco._

[99] _Discorso intorno al comporre delle comedie e delle tragedie_,
edizione di Milano, 1864, p. 31. Luigi Tansillo, che lodò la galera,
l’aglio, la gelosia, solo per celia dice in uno dei capitoli dove la
galera appunto è celebrata:

    Non è il mio de’ capricci e de le vene
      Che corron sì per Roma oggi e tra preti,
      Di che, più che del mar nausea mi viene.
    Vorrei che i buon’ scrittori e i buon’ poeti
      Dicesson ben del bene e mal del male,
      Come appartiene agli uomini discreti.
    Chi celebra il pestel, chi l’orinale,
      Ed a suggetto spendono gl’inchiostri,
      Che a l’onor poco, a l’utile men vale.

_Capitoli giocosi e satirici di_ LUIGI TANSILLO _editi ed inediti_,
Napoli, 1870, p. 58.

[100] _Lettere_, t. I, f. 21 v.

[101] _Le pístole vulgari_, f. 239 r.

[102] _Lettere famigliari_, f. 3 v.

[103] _Discorso intorno al comporre dei romanzi_, ediz. di Milano,
1864, p. 89.

[104] _Scelta di curiosità letterarie_, disp. CLXXXIV, Bologna, 1881,
pp. 31-2.

[105] _Le pístole vulgari_, f. 191 r.

[106] Satira _A M. Alessandro Campesano_.

[107] Vedi una lettera del Bembo a lui, _Opere_, t. III, p. 247, col. 2.

[108] Ediz. cit., vol. II, p. 37. Cfr. DOMENICHI, _Facetie, motti_,
ecc., p. 312.

[109] _L’argute e facete lettere, di novo ristampate_, Pavia, 1567, f.
34 v.

[110] Notisi che quell’ultimo terzetto deve leggersi così, e non come
si ha guasto nelle edizioni castrate. Vedi _Rime, poesie latine_, eco.,
di F. BERNI, ordinate e annotate da A. VIRGILI, Firenze, 1885, p. 138.

[111] Sette libri de Cataloghi, ecc., Venezia, 1552, l. VI, p. 479.

[112] Libretto stampato nel 1545 e rarissimo. Vedi LUZIO-RENIER,
_Contributo alla storia del malfrancese ne’ costumi e nella letteratura
italiana del sec. XVI_, nel _Giornale storico della letteratura
italiana_, vol. V, p. 425.

[113] È un zibaldonaccio manoscritto di 317 fogli numerati, e più
altri non numerati, che si conserva nella Casanatense in Roma. Ne
diede notizia Guido Suster nella _Domenica Letteraria_ del 16 marzo
1884 (anno III, nº 11). L’autore ci avverte egli stesso che cominciò
a scrivere il suo libro ai 20 di gennajo del 1589 e lo condusse a
compimento gli 8 di giugno di quell’anno medesimo.

[114] L’autore è Giammaria Cecchi. Fu stampata nel 1582. Il sonetto è
del Berni.

[115] _Le lettere_, ediz. cit., l. III, lett. 2, p. 163.

[116] _I sonetti del Pistoia giusta l’apografo Trivulziano_, a cura di
RODOLFO RENIER, Torino, 1888, son. 3, p. 3.

[117] _Discorso intorno al comporre dei romanzi_, ediz. cit., p. 89.

[118] Vedi CIAN, _Un decennio della vita di M. Pietro Bembo_, Torino,
1885, pp. 46, 158.

[119] _Storia della letteratura italiana_, 3ª edizione, Napoli, 1879,
vol. II, p. 127.

[120] _Lezioni di letteratura italiana_, 9ª edizione, Napoli, 1883,
vol. II, p. 176.

[121] _Francesco Berni_, Firenze, 1881.

[122] _Saggio di uno studio su Pietro Aretino_, Roma, 1882.
Nell’_Avvertenza_ l’autore promette un più largo lavoro, che, sino ad
ora, non è comparso.

[123] _Lettere_, ediz. di Parigi, 1609, vol. I, ff. 76, 82 sg., 85, 99,
162, ecc.

[124] _Op. cit._, pp. 240-2, 259-60.

[125] _La vita di Pietro Aretino_, Padova, 1741, pp. 1 sgg.

[126] _Dell’istoria della volgar poesia_, Venezia, 1730, vol. IV, p. 44.

[127] _La famiglia di Pietro Aretino_, in _Giornale storico della
letteratura italiana_, vol. IV, pp. 361-88.

[128] _Lettere_, vol. IV, ff. 269-72.

[129] Atto I, sc. 4.

[130] BASCHET, _Documenti inediti su Pietro Aretino_, in _Archivio
storico italiano_, serie III, t. III, parte 2ª.

[131] Vedi CAMPORI, _Pietro Aretino ed Ercole II duca di Ferrara_, in
_Atti e memorie delle rr. deput. di storia patria per le prov. mod. e
parm._, vol. V, Modena, 1870, pp. 29-37.

[132] Vedi la Vita del Doni scritta dal BONGI, e preposta ai _Marmi_ di
esso DONI ripubblicati dal FANFANI, Firenze, 1863, vol. I, p. LVI.

[133] _Epistolarum seu sermonum libri VI_, Parigi, 1585, p. 305.

[134] ORESTE GAMURRINI, _Pietro Aretino e i suoi tempi_, estratto dal
giornale _Il Fanfani_, anno I, Firenze, 1882, pp. 12-3; SINIGAGLIA,
_Op. cit._, p. 338.

[135] _Le satire alla berniesca_, Torino, 1549. Capitolo _Della Corte_.

[136] _Rime_, Perugia, 1770, p. 295.

[137] _Rime di Francesco Coppetta ed altri poeti perugini, scelte da_
G. VINCIOLI, t. I, Perugia, 1720, p. 284.

[138] _La Piazza universale di tutte le professioni del mondo_,
Venezia, 1587, Discorso LXII, p. 530.

[139] _Dialoghi_, Venezia, 1562, p. 274.

[140] _Stanze_, 10.

[141] SANSOVINO, _Sette libri di satire_, Venezia, 1560, f. 188 v.

[142] Ha molta somiglianza con questa dell’Alamanni una satira di
Mathurin Regnier sullo stesso argomento. Non ho bisogno di avvertire
che biasimi delle corti e invettive contro le corti si trovano, sebbene
non in tanta copia come nell’italiana, anche in altre letterature.

[143] Satira _Al fratello Galasso_.

[144] Atto II, sc. 6.

[145] _Rime edite ed inedite_ per cura di A. CAPPELLI e S. FERRARI,
Livorno, 1884, p. 80. Veggasi inoltre sopra il tinello: BANDELLO,
_Novelle_, parte II, nov. 51; DOMENICHI, _Facetie_, ediz. di Venezia,
1599, pp. 222-3; FRANCESCO PRISCIANESE, _Del governo della corte d’un
signore in Roma_, Roma, 1543; ristampa fatta in Città di Castello,
1883, pp. 22, 26-7; CESARE EVITASCANDOLO, _Dialogo del maestro
di casa_, Roma, 1598, pp. 161 sgg. Le miserie del tinello diedero
argomento alla _Tinelaria_ dello spagnuolo TORRES NAHARRO, che fu
in Roma ai tempi di Leone X. A voler fare on elenco di tutti coloro
che nel secolo XVI scrissero in biasimo delle corti troppe pagine si
potrebbero riempiere.

[146] _Lettere_, vol. I, f. 17 v.

[147] _Lettere_, vol. I, f. 34 v.

[148] _Lettere_, vol. I, f. 199 r.

[149] _Lettere_, vol. I, f. 85 r. Vero è che molti anni dopo il Franco
scriveva in uno dei sonetti contro l’Aretino:

    Muojon di fame, e per l’Italia vanno
      Mille buon spirti miseri e dolenti,
      Ignudi e scalzi, dibattendo i denti,
      Per un ladro spedale che non hanno.

E chiamava quei buoni spiriti a raccolta, li invitava ad esser tutti di
un parere, e a levar alto la voce

    Contro l’infami e pessime brigate
    Che ne potrien volendo sostenere.

[150] _Lettere_, vol. I, f. 33 r.

[151] _Lettere_, vol. IV, f. 131 r.

[152] _Lettere_, vol. I, f. 264 r.

[153] _Lettere_, vol. III, f. 225 r.

[154] Capitolo _Della poesia_.

[155] _Opere_, ediz. di Venezia, 1740, vol. I, pp. 220-1.

[156] Vedi CAPPELLI, _Pietro Aretino e una sua lettera inedita a
Francesco I re di Francia, in Atti e mem. delle rr. Deput. di st.
patria per le prov. mod. e parm._, t. III, pp. 75-88.

[157] _Lettere di diversi eccellentissimi uomini_ raccolte dal DOLCE,
vol. I, Venezia, 1559, p. 227.

[158] Atto V, sc. 12.

[159] _La Scolastica_, atto III, sc. 4. Vedi anche ciò che l’Ariosto
dice agli spettatori nel Prologo dei _Suppositi_, e cfr. la sua satira
_A Pietro Bembo_.

[160] _Sul Genesi_, XIX, 4, 5.

[161] _Vita Leonis X_, l. IV.

[162] _Le rime burlesche edite e inedite di_ ANTONFRANCESCO GRAZZINI
_detto il_ LASCA, per cura di CARLO VERZONE, Firenze, 1882, pp. 336,
515. Vedi anche pp. 638, 639.

[163] _La Cortegiana_, atto I, sc. 22; _Il Marescalco_, atto II, sc. 4
e sc. 11. Vedi pure ciò che l’ARETINO dice della sorte che toccava ai
paggi, _Ragionamento delle corti_, Venezia, 1539, f. 7.

[164] _Les vies des dames galantes_, ediz. di Leida, 1722, vol. I, p.
216.

[165] _Op. cit._, disc. LXXIX, p. 622.

[166] _Vita_, l. II, c. 29.

[167] Vedi il capitolo _Sopra un garzone_.

[168] Vedi anche ciò che dice nel capitolo _Alli signori abati_. Cfr.
l’_Orlando innamorato_ rifatto da lui, l. III, c. 9.

[169] Vedi _Le rime di_ MICHELANGELO BUONARROTI, _cavate dagli
autografi e pubblicate da_ C. GUASTI, Firenze, 1863, pp. 5-21, 26, 162.

[170] Vedi SOLERTI, _Anche Torquato Tasso?_ nel _Giornale storico della
letteratura italiana_, vol. IX, pp. 431-40.

[171] Capitolo _Delle campane_.

[172] Veggasi pure nel rarissimo volume intitolato _Poesie da fuoco di
diversi autori_, Lucerna, 1651, una certa _Persuasiva efficace_, ecc.

[173] _Lo Ipocrito_, Prologo.

[174] GALLICCIOLI, _Delle memorie venete antiche, profane ed
ecclesiastiche_, Venezia, 1795, vol. I, p. 260; GAMBA, _Serie degli
scritti impressi in dialetto veneziano_, Venezia, 1832, p. 58.

[175] Molte notizie concernenti il vizio in Venezia si hanno nel volume
_Leggi e memorie venete sulla prostituzione sino alla caduta della
Repubblica_, a spese del conte di Orford, Venezia, 1870-2.

[176] MUTINELLI, _Storia arcana ed aneddottica d’Italia raccontata dai
veneti ambasciatori_, Venezia, 1855-8, vol. I, p. 50.

[177] MUTINELLI, _Op. cit._, p. 121. Vedi per altre notizie CORRADI,
_Nuovi documenti per la storia delle malattie veneree in Italia dalla
fine del Quattrocento alla metà del Cinquecento_, in _Annali universali
di medicina_, volume CCLXIX, 1884.

[178] _Novelle_, parte I, nov. 6 e nov. 30. Vedi pare la novella 13
delle _Porretane_ di SABADINO DEGLI ARIENTI.

[179] Il CANELLO, in quel suo ingegnoso capitolo sulla _Vita privata
del Cinquecento_, che è il secondo della _Storia della letteratura
italiana del secolo XVI_ (Milano, 1880), sostenne, tra l’altro (pp.
20-2), che il vizio decrebbe nel Cinquecento, anzi cessò pressochè
interamente. È questa una opinione in tutto erronea. Il vizio crebbe
anzi a dismisura, e una delle ragioni del suo crescere fu il propagarsi
della sifilide.

[180] _Lettere_, vol. I, f. 85 v.

[181] GIOVANNI BURCHARD descrive la seguente mascherata fatta in Roma
nel decembre del 1502 (_Diarium sive rerum urbanarum commentarii_,
ediz. di Parigi, 1883-5, t. III, p. 227): «Post prandium iverunt ad
plateam S. Petri triginta mascherati habentes nasos longos et grossos
in formam priaporum sive membrorum virilium in magna quantitate,
precedente valisia cardinalari habente scutum cum tribus taxillis,
quam sequebantur scutiferi et illos mallerii, post quos equitavit
unus in veste longa e capello antiquo cardinalari: etiam mallerii
equitabant asinos, et aliqui eorum tam parvos quod pedibus eorum terram
tangebant et simul cum asinis ambulabant, illis insidentes. Ascenderunt
ad plateolam inter portam palatii et audientiam ubi ostenderunt
se Pape qui erat in fenestra supra portam in logia Paulina; deinde
equitaverunt per totam Urbem». Di così bella mascherata, della quale
si sarà compiaciuto non poco il sollazzevole papa Alessandro, non fa
cenno l’ADEMOLLO nel libro suo _Alessandro VI, Giulio II e Leone X nel
carnevale di Roma_, Firenze, 1886.

[182] Bernardino Arelio parla di una _Puttana errante_ e la sua lettera
è del 17 d’ottobre del 1531. Il poema del Veniero venne fuori appunto
in quel torno di tempo; però è da creder senz’altro che ad esso alluda
l’Arelio.

[183] Qui mi bisogna intrattener di me, per un istante il lettore. Il
sig. CARLO DEJOB, nel suo recente libro _De l’influence du Concile
de Trente sur la littérature et le beaux-arts chez les peuples
catholiques_ (Parigi, 1884), attribuisce a me (cap. VI, pp. 275
sgg.) le stesse opinioni professate dal Canello circa la pretesa
rigenerazione morale d’Italia nel Cinquecento, e me le attribuisce in
grazia di uno scritto vecchio già d’una decina d’anni, e che io non
avrei mai immaginato dovesse procurarmi una così fatta sorpresa. (Vedi
ne’ miei _Studii drammatici_, Torino, 1878, lo studio intitolato _Tre
commedie italiane del Cinquecento_). Non so come il sig. Dejob abbia
lette quelle pagine; so che io non pensava allora della moralità del
Cinquecento diversamente da ora. Se poi egli non riesce a vedere la
satira morale nè nella _Mandragola_ del MACHIAVELLI, nè nel _Candelajo_
di GIORDANO BRUNO, la colpa veramente non è mia.

[184] Vedi un documento di vivo e delicato amor paterno nella lettera a
Sebastiano del Piombo, vol. I, f. 114 v.

[185] Vedi G. LAFENESTRE, _La vie et l’œuvre de Titien,_ Parigi,
(1886), pp. 124-6.

[186] _Lettere_, vol. IV, f. 184 v.

[187] _Lettere_, vol. I, f. 42 v.

[188] _Lettere_, vol. I, f. 56 v.

[189] _Lettere_, vol. II, f. 33 r.

[190] _Lettere scritte a Pietro Aretino_ emendate per cura di Teodorico
Landoni, Bologna, 1873-5, vol. I, parte I, p. 319.

[191] Vedi nella _Nuova Antologia_, serie II, t. LIII, uno scritto del
PANZACCHI dal titolo _Pietro Aretino innamorato_.

[192] _Lettere_, vol. I, f. 33 r.

[193] _Lettere_, vol. I, f. 81 r.

[194] _Lettere_, vol. I, f. 86 v.

[195] _Lettere_, vol. I, f. 145 r.

[196] _Lettere_, vol. I, f. 21 v.

[197] Ciò si rileva da una lettera inedita che è nell’archivio di
Mantova. SINIGAGLIA, Op. cit., p. 101.

[198] _Lettere_, vol. I, f. 204 r.

[199] _Lettere_, vol. III, f. 340 r.

[200] _Op. cit._, p. 127.

[201] _Op. cit._, vol. II, p. 127.

[202] _Études sur W. Shakspeare, Marie Stuart et l’Arétin_, Parigi,
1851, p. 387.

[203] Il Sinigaglia di questo ritratto non dice altro, se non che
appartenne già ad un signor Carovana di Firenze.

[204] _Lettere_, vol. I, f. 279 v., 280 r.

[205] _Lettere_, vol. II, f. 36 r.

[206] _Lettere_, vol. IV, f. 161 r.

[207] _Lettere_, vol. V, f. 299 r.

[208] _Lettere_, vol. V, f. 320 r.

[209] _Lettere_, vol. I, f. 136 r.

[210] _Lettere_, vol. I, f. 247 r.

[211] Vedi, per es., la lettera a Lodovico Dolce, vol. I, f. 122 r.

[212] _Lettere_, vol. V, f. 16 r.

[213] _Lettere_, vol. V, f. 1 r.

[214] _Lettere_, vol. II, f. 118 v.

[215] _Op. cit._, p. 132.

[216] _Lettere_, vol. II, f. 7 r.

[217] _Lettere_, vol. II, f. 43 v.

[218] _Lettere_, vol. I, f. 21 v.

[219] _Lettere_, vol. II, f. 122 r.

[220] _Lettere_, vol. I, f. 210 r.

[221] _Lettere_, vol. I, f. 226 v.

[222] Vedi in questo volume lo scritto che segue: _I pedanti_.

[223] _Lettere_, vol. III, f. 157 v.

[224] _Lettere_, vol. III, f. 72 r.

[225] _Lettere_, vol. I, f. 431 r.

[226] _Lettere_, vol. I, f. 431 r.

[227] _Lettere_, vol. III, f. 72 r.

[228] _Lettere_, vol. I, f. 99 r.

[229] _Lettere_, vol. II, f. 75 r.

[230] _Lettere_, vol. II, f. 52 r.

[231] _Lettere_, vol. I, f. 21 v.

[232] _Lettere_, vol. III, f. 288 r.

[233] _Lettere_, vol. I, f. 106 v.

[234] _Lettere_, vol. II, f. 121 v.

[235] _Lettere_, vol. I, f. 253 v.

[236] _Lettere_, vol. III, f. 48 v.

[237] _Lettere_, vol. II, f. 27 r.

[238] _Lettere_, vol. II, f. 82 v.

[239] _Lettere_, vol. I, f. 146 v.

[240] _Lettere_, vol. I, f. 193 v.

[241] _Lettere_, vol. I, f. 202 v.

[242] _Lettere_, vol. I, f. 169 v.

[243] _Lettere_, vol. I, f. 215 r.

[244] SANSOVINO, _Sette libri di satire_, f. 198 v.

[245] Venezia, 1550, f. 33 v.

[246] _Lettere_, vol. V, f. 284 v.

[247] _Lettere_, vol. VI, f. 5 r.

[248] _Lettere_, vol. V, f. 185 v.

[249] _Op. cit._, pp. 470-1.

[250] _Lettere_, vol. I, f. 226 v.

[251] Cap. I, st. 17 sgg.

[252] _Die Cultur der Renaissance in Italien_, 3ª ediz., Lipsia,
1877-8, vol. I, p. 191.

[253] _Menagiana_, vol. II, p. 109.

[254] _Lettere_, vol. V, f. 185 r.

[255] Ediz. di Firenze, 1570, p. 60.

[256] Vedi ciò che del vestire e dell’aspetto del pedante in genere
dicono: il CARO, nel Commento di ser Agresto, ecc.; Pietro Aretino,
_Ragionamenti_, parte I, giornata II, Cosmopoli, 1660, pp. 77-8; CESARE
CAPORALI, nella prima parte di quel suo capitolo che appunto s’intitola
_Il Pedante_, d’onde attinse MATHURIN RÉGNIER pel suo _Repas ridicule_;
TOMMASO GARZONI, nella _Piazza universale di tutte le professioni del
mondo_, ediz. di Venezia, 1587, p. 91.

[257] Parte X.

[258] _Loc. cit._

[259] Se ne può vedere qualche esempio nelle _Facezie_ del DOMENICHI,
ediz. di Venezia, 1599, pp. 63, 382; nella _Saggia pazzia_ di ANTONIO
MARIA SPELTA, Pavia, 1607, l. II, c. 4; nel _Diporto dei viandanti_
di CRISTOFORO ZABATA, Pavia, 1596, p. 120; nel _Fuggilozio_ di TOMMASO
COSTO, Venezia, 1601, p. 245.

[260] _I Marmi_, ediz. di Firenze, 1863, vol. I, p. 104.

[261] Cent. I, ragg. 77.

[262] _Le pistole vulgari, Risposta della Lucerna_, ediz. di Venezia,
1542, f. 192 v.

[263] _Ragguagli di Parnaso_, cent. I, ragg. 53.

[264] Nel dialogo intitolato _Antonius_.

[265] _Genialium dierum_, I, 21; III, 19. Il Pontano ed Alessandro
degli Alessandri parlano di grammatici latini; ma lo SPELTA si lagna
anche molto della pedanteria dei grammatici volgari, _Op. cit._, l. II,
c. 5.

[266] GARZONI, _loc. cit._

[267] FRANCO, _Dialogi piacevoli_, ediz. di Venezia, 1541, f. 70 r.

[268] Ediz. cit., dial. II.

[269] Tale epistola non si legge, se non erro, che nella prima edizione
delle _Pístole vulgari_, Venezia, 1539.

[270] _Op. cit._, p. 319.

[271] _Loc. cit._ Tali esempii sono riferiti anche dallo SPELTA, _Op.
cit._, pp. 29-30.

[272] _Essais_, c. XXIV.

[273] _Poesie di_ FRANCESCO RUSPOLI, Livorno, 1882, son. LXXV.

[274] Venezia, 1554, ricordo CXXIII.

[275] Vedi qui addietro pp. 125 sgg. Del resto diceva sin da’ suoi
tempi il Boccaccio che di quel vizio si credevano comunemente macchiati
i grammatici, _Commento della Divina Commedia_, ediz. di Firenze, 1863,
vol. II, p. 420.

[276] _Mondi celesti, terrestri et infernali_, Venezia, 1583, p. 250.

[277] Maccaronea II.

[278] _Le diece veglie_, Treviso, 1602, p. 264.

[279] _La vie de Gargantua et de Pantagruel_, l. I, cc. XIV, XV. I
varii libri ricordati dal Rabelais furono veramente tutti molto usati
nell’insegnamento.

[280] _De pueris statim ac liberaliter instituendis._

[281] _Loc. cit._

[282] Lettera al pedante Picard. _Oeuvres comiques, galantes et
littéraires_, Parigi, 1858, p. 154.

[283] _Li capitoli faceti editi ed inediti di mess._ AGNOLO ALLORI
_detto il_ BRONZINO, Venezia, 1822, capitolo _Del Bisogno_.

[284] Ediz. di Pavia, 1567, ff. 11 r. sgg.

[285] Maccaronea II.

[286] _Op. cit._, p. 28.

[287] Atto III, sc. 2.

[288] Parte I, giornata II.

[289] _Le satire alla berniesca_, Torino, 1549.

[290] _Le rime burlesche sopra varii et piacevoli soggetti_, Venezia,
1570, capitolo XLII.

[291] Dialogo IV, ediz. cit., f. 70 v.

[292] _Della famosissima compagnia della Lesina, Dialogo, Capitoli,
Ragionamenti_, ediz. di Venezia, 1664, p. 157.

[293] _Op. cit._

[294] Veggasi, per esempio, ciò che ne dice STEFANO GUAZZO nel suo
libro intitolato _La civil conversatione_, Venezia, 1575, p. 383.

[295] _Lettere_, ediz. di Venezia, 1545, lett. LI, al Giovio.

[296] Vedi FONTANINI, _Biblioteca dell’eloquenza italiana_ con note di
Apostolo Zeno, edizione di Venezia, 1753, vol. I, p. 35, e SABBADINI,
_Storia del ciceronianismo_, Torino, 1886, pp. 127 sgg.

[297] _Il Cortegiano_, l. I, c. 37, ediz. di Firenze, 1854.

[298] Dice Aonio Paleario in un dialogo intitolato _Il Grammatico
ovvero delle false esercitazioni delle scuole_: «Non è maggior
sciocchezza al mondo che voler essere volgar latino, o latino volgare.
Da questi errori sono nati gli stili falsi toscani del Polifilo, e gli
stili falsi latini, o moderni, di che è impestato il mondo». Seguita
dicendo che alle scuole dei grammatici si imparava a scrivere il latino
grammaticalmente, ma non latinamente; che usciti dopo molti anni di
scuola, i giovani non sapevano scrivere nè una epistola latina, nè una
epistola volgare, e che i grammatici imbastardivano così l’una come
l’altra lingua. Il dialogo fu stampato la prima volta in Milano, nel
1557, poi in Perugia nel 1717.

[299] Vedi GENTHE, _Geschichte der macaronischen Poesie_, Lipsia, 1836,
pp. 83-94.

[300] Il sonetto è curioso: eccolo.

    Fra gli Hetrusci gloriosi, et il collegio
      Di noi magistri, che la lingua vetere
      Sostenemo, e inalciamo fin all’aethere,
      È nobil lite, et un dissidio egregio.
    In contumelia nostra, et in dispregio,
      Allegan quei, che dal Donato flectere
      Non sapemo il sermon, nè men connectere
      Fabula alcuna senza l’Apulegio.
    Considerar devrian pur questi Tusculi,
      Che del Donato senza li principii
      L’antica lingua si potria dispergere.
    Così veggiamo di giustitia emergere
      Dal Donato Praetore i firmi initii:
      Dunque il Donato è sopra gli altri opusculi.

[301] L’_Itinerario_ del Tarsia è forse tutt’uno con un _Viaggio del
pedante_ che Niccolò Villani cita, senza nominarne l’autore, in un
luogo del suo _Ragionamento sopra la poesia giocosa_, Venezia, 1634. Si
ha pure un _Itinere di ser Poi Pedante a Livorno_, composto da AGOSTINO
COLTELLINI; ma essendo il Coltellini nato nel 1613, non è da credere
che al suo poema alluda il Villani. Bensì è da notare che lo stesso
Coltellini ricorda il _Mantovano Itiner di Fidenzio_; ma di questo non
ho notizia.

[302] Molta poesia pedantesca giace inedita e sconosciuta nelle
biblioteche, e moltissima n’ebbe a produrre il Cinquecento. Dice il
RUSCELLI nel suo trattato _Del modo di comporre_ (Venezia, 1563, pp.
74-5): «Molto vagamente pur in questi anni stessi hanno il mio Signor
Domenico Veniero, ed altri nobilissimi ingegni introdotto di scrivere
in versi sciolti, e di terze rime, alcuni soggetti piacevolissimi,
e principalmente volendo contrafar la pedanteria. I quali per certo
riescono con tanta vaghezza e con tanta grazia, che ogni altra sorte
che volesse farsi, sarebbe un levarle in tutto del vero esser loro; e
non so se questa, nè altra lingua, abbia sorte di componimento così
piacevole». Poesie pedantesche di Antonio Querenghi si conservano
manoscritte nella Marciana.

[303] Ciò non vuol già dire che anche fuori non siasi avuto qualche
saggio di lingua pedantesca: leggasi, per esempio, nel l. II, cap. 6,
della _Vie de Gargantua et de Pantagruel_ il discorso messo in bocca
allo studente limosino.

[304] Cena I, nov. 2.

[305] Cena II, nov. 7.

[306] Nov. 5.

[307] _Essais_, c. XXIV.

[308] Atto III, sc. 12.

[309] Atto III, sc. 10.

[310] Atto I, sc. 5.

[311] Atto II, sc. 4.

[312] Atto I, sc. 9.

[313] Atto I, sc. 1.

[314] Cfr. DOMENICHI, _Facetie_, ediz. cit., p. 362.

[315] ALESSANDRO ALLEGRI finse alcune _Lettere di ser Poi pedante_
al Petrarca, al Boccaccio ed al Bembo (Bologna, 1613; ristampate in
Venezia dal Gamba, s. a., e dal Mortara in Casalmaggiore, 1850). Ser
Poi si professa grande ammiratore di tutti e tre.

[316] Atto III, sc. 5.

[317] Atto III, sc. 2.

[318] MARZI, _La Fanciulla_, atto III, sc. 5.

[319] DOLCE, _Il Ragazzo_, atto I, sc. 4.

[320] Abbiamo già trovato un _Metafrasto_, nome reso poi celebre dal
Molière: nella _Olimpia_ di GIAMBATTISTA DELLA PORTA il pedante si
chiama Protodidascalo; nella _Fantesca_, dello stesso, Narticoforo;
Panthemio nei _Falsi Sospetti_ di BERNARDINO PINO; Felisippo nelle
_Querele amorose_ di GIAMBATTISTA RANUCCI, ecc., ecc.

[321] _I Torti amorosi_, atto I, sc. 7.

[322] Atto III, sc. 11. Nella _Bibliographie des ouvrages relatifs
à l’amour_, etc., Parigi, 1871-3, vol. V, p. 465, è registrata una
commedia manoscritta, _Il Pedante geloso_, dove un pedante amoreggia
col discepolo Ganimede.

[323] Atto I, sc. 5.

[324] Atto II, sc. 1.

[325] Atto III, sc. 5.

[326] Atto III, sc. 6.

[327] Atto III, sc. 10.

[328] Atto III, sc. 11.

[329] Atto III, sc. 12.

[330] Atto IV, sc. 11.

[331] Atto IV, sc. 14.

[332] Vedi BARTOLI, _Scenari inediti della commedia dell’arte_,
Firenze, 1880, pp. LI-LIII.

[333] S’ingannava certamente lo STOPPATO quando affermava la presenza
del pedante nella commedia popolare improvvisa prima ancora che nella
erudita. _La commedia popolare in Italia_, Padova, 1887, pp. 72-4.

[334] _Il Teatro delle favole rappresentative_, Venezia, 1611.

[335] Ecco un po’ di bibliografia pel Seicento; ma c’è ben altro.
_L’ardito amante_, di LODOVICO BARTOLAJA, Napoli, 1606; _La Clarice_,
del signor MESTO, accademico Filomato (Ubaldino Malavolti), Siena,
1611; _La Forza d’Amore_, di CAJO GNAVIO, Venezia, 1614; _Olinda
pedante finto_, di GEROLAMO MARTINENGO, Vicenza, 1615; _Le pazzie
giovanili_, di FRANCESCO GATTICI, Venezia, 1624; _La imbriachezza
d’amore_, di LORENZO GUIDOTTI, Roma, 1625; _Gli estinti furori_,
di LODOVICO MORO, Roma, 1628; _Il pedante impazzito_, di FRANCESCO
RIGHELLI, Bracciano, 1628; _Gli accidenti d’amore_, di FULVIO GENGA,
Venezia, 1635; _Gli infelici amori_, di ALFONSO LITTA, Macerata,
1648; _Il pedante staffilato_, Modena, 1651; _Desiderio e speranza
fantastichi, commedia tropologica_ di DESIDERIO CINI, Venezia, 1607;
_Il pedante di Tarsia_, dramma musicale rappresentato la prima volta in
Bologna nel 1680.

[336] Vedi FRANCESCO TORRACA, _Studi di storia letteraria napoletana_,
Livorno, 1884, pp. 100 sgg.

[337] Vedi MICHELE SCHERILLO, _Storia letteraria dell’opera buffa
napolitana_, Napoli, 1883, pp. 260 sgg.; e _Una fonte del Socrate
immaginario_, in _Giornale storico della letteratura italiana_, vol. V,
pp. 186 sgg.

[338] _Carmina ad Pasquillum Herculem obtruncantem Hydram referentem
posita M. D. X._ Roma, per Giacomo Mazochio, 1510.

[339] _Poesie_ di FRANCESCO RUSPOLI, ediz. cit., pp. 129, 185,
187, 189, 191, 193, 195. Per finirla mi contenterò di ricordare,
senz’altrimenti discorrerne, la _Paedagogomachia_ di MARCANTONIO
BONCIARIO, poema latino in otto libri, dove i pedanti sono assai
maltrattati. Con questo titolo, e intero, fu stampato il poema in
Perugia nel 1611; ma una parte n’era già stata pubblicata più anni
innanzi, sotto il titolo di _Oedipus_. Il BONCIARIO stesso dice le
ragioni che glielo fecero comporre nel dialogo intitolato _Estaticus,
site de ludicra poesi_, Perugia, 1616, pp. 95-101. Cfr. la sua _Pro
poemate ludicro apologia_.

[340] Vedi per questi cenni SANSOVINO, _Venetia città nobilissima et
singolare_, Venezia, 1581, l. X. Vedi ancora _Feste e trionfi fatti
dalla Signoria di Venetia nella venuta di Henrico III, discritte
da_ ROCCO BENEDETTI, 2ª ediz. accresciuta, Venezia, 1574; MARSILIO
DELLA CROCE, _Historia della pubblica et famosa entrata in Vinegia
del Serenissimo Enrico III re di Francia et Polonia_, Venezia, 1574;
NICCOLÒ LUCANGELI, _Successi del viaggio d’Enrico III dalla sua partita
di Cracovia fino all’arrivo in Torino_, Venezia, 1574; _Ordre de la
réception et entrée de Henry de Valois, roy de France et de Pologne, en
la riche et florissante ville de Venise_, Lione, 1574.

[341] Il lettore è avvertito che io non intendo delineare, nemmeno in
iscorcio, la storia della prostituzione in Italia, nel secolo XVI;
a far ciò sarebbe poco un volume. Il mio proposito è di ritrarre e
lumeggiare alquanto più compiutamente che non siasi fatto sinora la
figura della cortigiana, la quale da sè sola potrebbe dare tema più
che sufficiente ad un libro, quando fossero conosciuti i numerosi
documenti che la concernono, e che inesplorati ancora giacciono
nelle biblioteche. Io ho cercato di raccogliere in queste pagine
una certa copia di notizie, bastevoli al proposito mio, non senza
giovarmi dell’opera di alcuni gentili, quando si trattò di libri che
io non potei avere tra mani, o di notizie che non potei procacciarmi
direttamente. Onde è che porgo qui i miei più vivi ringraziamenti ai
professori Ariodante Fabretti, Alessandro d’Ancona, Adolfo Tobler,
Vittorio Cian, Cesare De Lollis, al dott. Alessandro Luzio, al signor
Pietro Sgulmero. Uno specialissimo ringraziamento poi debbo al mio
caro e valoroso Vittorio Rossi, il quale rincorso dalle mie insistenti
richieste da Firenze a Venezia, e da Venezia a Firenze, non lasciò di
mandarmi, con pazienza pari alla gentilezza, appunti, estratti e copie.

[342] _Opere_, Venezia, 1740, vol. III, p. 213.

[343] Il nome di cortigiana non avrebbe dovuto darsi mai a meretrice di
postribolo. Il CITOLINI nota espressamente nella _Tipocosmia_ (Venezia,
1561, p. 443): _la puttana, o di bordello, o cortigiana_. La differenza
si sente in questi stessi versi di Pasquino, che pur vorrebbero
negarla:

    Lassa andare le cortesane,
    Se non voi disfarte al tutto;
    Come l’altre son puttane;
    Ma più caro vendon lor frutto.

_Consigli utilissimi dello eccellente dottore maestro Pasquino a tutti
gli gentilhuomini, officiali, procuratori, notari, artisti, bravazzi,
et altri che vengono di novo a Roma_, ecc., Roma, s. a., cit. dal
CIAN, _Galanterie italiane del secolo XVI_, Torino, 1887 (estratto dal
giornale _La Letteratura_), p. 60.

[344] Tratto da un codice inedito dell’Archivio Vaticano e pubblicato
da M. ARMELLINI nel periodico _Gli studi in Italia_, Anno IV (1881),
vol. II; anno V (1882), vol. I.

[345] _Diarium sive rerum urbanarum commentarii_, edizione di Parigi,
1883-5, t. II, p. 443; t. III, p. 167. «In sero fecerunt cenam cum
duce Valentinense in camera sua, in palatio apostolico, quinquaginta
meretrices honeste, cortegiane nuncupate, que post cenam coreaverunt
cum servitoribus et aliis ibidem existentibus, primo in vestibus suis,
denique nude. Post cenam posita fuerunt candelabra communia mense
in candelis ardentibus per terram, et projecte ante candelabra per
terram castanee quas meretrices ipse super manibus et pedibus, nude,
candelabra pertranseuntes, colligebant, Papa, duce et D. Lucretia
sorore sua presentibus et aspicientibus. Tandem exposita dona ultima,
diploides de serico, paria caligarum, bireta, et alia pro illis qui
pluries dictas meretrices carnaliter agnoscerent; que fuerunt ibidem in
aula publice carnaliter tractate arbitrio presentium, dona distributa
victoribus».

[346] La storia delle cortigiane indubitamente si lega alla storia
dell’umanesimo; ma dove e in qual modo cominci nel Quattrocento a
delinearsi la figura della nuova etèra, non ci è noto. Gli è curioso,
per esempio, che nell’_Hermaphroditus_ del _Panormita_ (m. 1471) non
la si vegga per anche apparire, o se ne vegga come un’ombra soltanto.
Il Panormita ricorda in quei suoi epigrammi molte meritrici, ma sono,
la più parte, meretrici di un postribolo fiorentino. Vero è che egli
manda loro il suo libro; ma la cosa non si vuole intendere, così alla
lettera, nè prova in modo alcuno che in quelle donne fosse coltura.
Ciò nondimeno qualche cenno in quei versi non manca, che parrebbe
convenirsi meglio a cortigiana che a meretrice comune. Il seguente
epitafio è per una _puella ornatissima_:

    Hoc jacet ingenuae formae Catharina sepulcro,
      Grata fuit multis scita puella procis.
    Morte sua lugent cantus, lugentque choreae,
      Flet Venus et moesto corpore moeret Amor.

In un altro epitafio, _pro Nichina defuncta_, dice il poeta:

    Pieriae cantent circum tua busta puellae,
      Et Phoebus lyricis mulceat ossa sonis;

ma la stessa Nichina dice di sè:

                              lupanar
    Incolui, fulgor fornicis unus eram.

(_Quinque illustrium poetarum_, ANTONII PANORMITANI, etc. _lusus in
Venerem_, Parigi, 1791, pp. 15, 38). Le meretrici di cui fa parola
il POGGIO in alcune delle sue _Facetiae_ (XXV, LXIII, LXXVII, XCII,
CXIII, CLXXXVIII, CCXXXV, CCXLIII) nulla hanno della cortigiana. Così
pure nulla mostrano della cortigiana, e tutto della meretrice volgare,
le Silvie, le Lelie, le Lucie, le Tecle e le Orsole di GIANO PANNONIO
(1434-72), _Poemata_, Trajecti ad Rhenum, 1874, vol. I, pp. 505, 506,
522, 524, 550, 565, 577, 578, 583, 584, 592, 599, 600, 601, 616, 618,
619.

[347] G. CUGNONI, _Agostino Chigi il Magnifico_, in _Archivio della
Società Romana di storia patria_, vol. II (1879), p. 78.

[348] GALLIGO, _Circa ad alcuni antichi e singolari documenti
riguardanti la prostituzione tratti dall’Archivio centrale di Stato di
Firenze, in Giornale italiano delle malattie veneree_, ecc., anno IV
(1869), vol. I, pp. 186-92, 247-53.

[349] Atto III, sc. 10.

[350] _Ragionamento fra il Zoppino fatto frate e Ludovico puttaniere,
Ragionamenti_, Cosmopoli, 1660, p. 442.

[351] _Tariffa delle puttane, ouero ragionamento del forestiere e del
gentil huomo: nel quale si dinota il prezzo e la qualità di tutte le
cortigiane di Vinegia; col nome delle ruffiane; et alcune novelle
piacevoli da ridere fatte da alcune di queste famose signore a gli
suoi amorosi. Stampato nel nostro hemispero, l’anno 1535, del mese
di Agosto._ (Vedi PASSANO, _I novellieri italiani in verso indicati e
descritti_, Bologna, 1868, pp. 114 sgg.). Io cito dalla ristampa fatta
dal Liseux a Parigi, nel 1883. I due versi testè riferiti stanno a pag.
74: ad essi tengono dietro questi altri:

    Spesso disputa del parlar toscano,
      Di musica, e ’l cervel così le gira,
      Che pensa averne il grido di lontano.

[352] Lo stesso Aretino fa dire dalla Nanna alla Pippa, sua figliuola:
«smusica un versolino da te imparato per burla, trampella il monocordo,
stronca il liuto, fa vista di leggere il _Furioso_, il Petrarca, e il
_Cento_ (_il_ Centonovelle, _ossia_ il Decameron), che terrai sempre in
tavola». (_Ragionamenti_, parte II, giornata I, p. 253).

[353] _Lettere di cortigiane del secolo XVI_, pubblicate da L. A.
FERRAI, Firenze, 1884, pp. 31-2.

[354] Allude all’opinione di Pierfrancesco Giambullari che faceva
derivare la lingua italiana dall’aramea, opinione contraddetta dal
Varchi nell’_Ercolano_, e che diede luogo a dispute e a fazioni.

[355] Dice la comare alla balia in uno dei _Ragionamenti_ dell’ARETINO
(parte II, giornata III, p. 391): «Tu parli di construtto; nientedimeno
le gentilezze son gentilezze, ed erano già molto usate le canzoni, e
quella che non ne avesse saputo una frotta de le più belle e de le più
nuove se ne saria vergognata, e cotal piacere tanto era ne le puttane,
come ne le ruffiane». Di una cortigiana chiamata Sirena

    Per la dolce armonia che sì le piacque,

è ricordo nel _Trionfo della lussuria di maestro Pasquino_, curioso
componimento, di cui dirò or ora. Del canto di Nannina Zingera diceva
il LASCA in un suo capitolo:

    Non è nel ciel fra gli spirti contenti
      Soave tanto e sì dolce armonia,
      Da fare i monti andar, fermare i venti.

Nella _Lucerna_ di EURETA MISOSCOLO (FRANCESCO PONA), Parigi, s. a.,
dice una lucerna, che un tempo era stata cortigiana (p. 66): «Canto...
di sirena era il mio, perchè con sì fatta vivezza e spirito mi faceva
udire toccando un’arpa, un leuto, o una chitariglia, e cantando, che
avrei fatto languir d’amore un Senocrate, anzi il Disamore». La signora
Calandra, una delle amiche o vere o finte del Calmo, sonava il liuto e
cantava in modo soprammirabile. (_Le lettere di messer_ ANDREA CALMO,
riprodotte da VITTORIO ROSSI, Torino, 1888, l. IV, lett. 19, pp.
295-6). Di tale virtù non era stata priva una gran cortigiana romana,
cui GIOACHINO DU BELLAY fa raccontare la propria storia in uno de’ suoi
_Jeux rustiques_:

    J’avoy du luth moyennement appris,
    Et quelque peu entendoy la musique:
    Quant à la voix, je l’avois angélique,
    Et ne se fust nul autre peu vanter,
    De sçavoir mieux le Pétrarque chanter.

Il Du Bellay soggiornò alcun tempo a Roma circa il mezzo del secolo
XVI, e ciò dà molta importanza a quella sua poesia, che dovrò citare
più altre volte. Il _Trionfo della lussuria di maestro Pasquino_, testè
citato, e che dovrò citare ancora, è un poemetto di quattro capitoli in
terzine, stampato in Venezia (non so se ce ne sieno altre edizioni) nel
1537. È una specie di visione, in cui lo Zoppino prima, e poi maestro
Andrea dipintore (personaggio che ritroveremo più oltre) mostrano
all’autore varie genti, seguitatrici del carro della lussuria, tra le
quali sono meretrici in gran numero. Questo curioso componimento vedrà
di nuovo quanto prima la luce a cura del sig. G. Baccini.

[356] _Le rime burlesche edite e inedite di_ ANTONFRANCESCO GRAZZINI
_detto il_ LASCA per cura di CARLO VERZONE, Firenze, 1882, capitolo _In
lode della Nannina Zinzera cortigiana_, p. 571.

[357] _Capitolo alla Signora Ortensia Greca, Il secondo libro delle
opere burlesche di_ M. FRANCESCO BERNI _e di altri_, parte I, Leida
(Livorno), 1824, p. 62. Modello di cortigiana elegante e compita
può considerarsi quella Tortora della quale si parla nella _Puttana
errante_ in prosa, molto a torto attribuita all’Aretino. Di lei dice
la Maddalena alla Giulia: «Ella, come ho detto, essendo bellissima, di
corpo nettissima, sta sempre allegra con ogni persona: non che rida
forte e fuor di modo, mostrando [i] denti, soavemente sorride, ed è
sollazzevole con motti pronti, quali non dicono parole ingiuriose ad
alcuni, ma dilettano e muovono a riso. Sempre ella ragiona poi con
tutti moderatamente, ed ha cognizione di molte e varie cose, e sanne
bene ragionare. Conversa con ogniuno con gentilezza, non dice mai
bugie e non inganna, ma va da chi promette, e non chiede nulla avanti
tratto..... A cena beve e mangia moderatamente, nè se mostra avida di
cibi, quantunque al gusto suo fossero soavissimi; anzi quelli che gli
sono posti inanzi moderatamente piglia, e poco ne mangia, premendogli
con le punte de le dita, e mangiali a poco a poco, da un lato solo,
e poi ad agio, senza segno di avidità. Sta sempre con viso quasi
ridente, non parla in orecchi a persona, riguarda solo colui che l’ha
invitata, a cui fa vezzi; e s’egli è appresso, o teneramente gli preme
il piede, o gli tocca, che par a caso, la mano; con lui sorride, e
con lui parla, e sempre a lui s’accosta, e con ogni arte si mostra
accesa di lui, e di qualunque cosa ch’egli faccia». Cito, acconciando,
dalla spropositatissima stampa fatta dagli Elzevir per accompagnare i
_Ragionamenti_. Questa _Puttana errante_ altro non è se non il primo
dei _Dialoghi doi di Ginevra e Rosana_, stampati la prima volta nel
1584. Vuol esser notato che la Tortora, qual è descritta in questo
passo, appare in tutto simile alla etèra Lira descritta da LUCIANO,
_Dialoghi delle cortigiane_, VI.

[358] _Le due cortigiane_, atto III, sc. 1.

[359] _Lettere_, Parigi, 1609, vol. IV, f. 159 r. e v.

[360] _Le lettere_, ediz. cit., l. III, lett. 41, p. 248.

[361] _Novelle_, parte II, nov. 51.

[362] _Novelle_, parte IV, nov. 17.

[363] _Facetie, motti et burle di diversi signori et persone private_,
ediz. di Venezia, 1599, p. 21. Vedi anche pp. 234, 236 e 385.

[364] _Journal de voyage de_ M. DE MONTAIGNE _en Italie par la Suisse
et l’Allemagne en 1580 et 1581_, Roma (Parigi), 1774, vol. II, p. 165.

[365] _La piazza universale di tutte le professioni del mondo_,
Venezia, 1587, discorso LXXV, pp. 605-7. Prima del Garzoni, AGRIPPA
DI NETTESHEIM aveva detto nel libro suo _De vanitate omnium
scientiarum et artium_, cap. LXIV, _De lenonia_: «Oportet ergo
perfectum et consummatum lenonem lenamve omniscium esse, nec ad
unam solam disciplinam, velut ad arcticam stellam tantum respicere,
sed omnes amplecti, eam artem professus cui caeterae omnes serviunt
et famulantur». Il mezzano deve aver famigliari poesia, retorica,
dialettica, aritmetica, musica e le altre arti: deve sapere le storie
di Lancilotto, di Tristano, di Eurialo ed altre simili, avere a mano
gli autori. Di certa mezzana si dice nella _Lucerna_ del PONA (sera
quarta, pp. 191-2): «Ella sapea gli amori di Florio e Biancofiore, di
Paris e Vienna, di Amadigi e Oriana, di Genevra la bella e Isotta la
bionda, e in somma tutti quei ruffianesimi delle istorie di Grecia e
della Tavola Rotonda meglio che il suo nome».

[366] _Il Marescalco_, atto V, sc. 2.

[367] _Lettere_, vol. I, f. 105 r. Bartolomeo Taegio, in un suo
dialogo intitolato _La Villa_, (Milano, 1559), fa dire a uno degli
interlocutori che le donne letterate si hanno comunemente in sospetto,
perchè la malizia naturale, propria del loro sesso, rinforzano con
l’artificiale, che si apprende dalle dottrine (p. 120). Il Tansillo
scrisse due capitoli nei quali prova che non si deve amare donna
accorta e che sappia assai, e un terzo in cui sostiene tutto il
contrario. _Capitoli giocosi e satirici di_ LUIGI TANSILLO _editi ed
inediti_, Napoli, 1870, capitoli VIII, IX, X.

[368] _La Talanta_, atto II, sc. 2, e _Ragionamenti_, parte I, giornata
III, p. 141.

[369] _Op. cit._, discorso LXXIV, p. 597. Cfr. RAO, _Invettive,
orationi et discorsi_, Venezia, 1587, f. 21 v.

[370] GARZONI, _Op. cit._, disc. LXXIV, p. 597.

[371] Alla Imperia senza dubbio si vuole alludere nel _Trionfo della
lussuria_, là dove maestro Andrea dice all’autore:

    Vedi colei, che in la tua patria nacque,
      Poi per superbia a sè fe’ dire Imperia,
      Ch’ogni altra cosa appresso a sè li spiacque.

[372] Dice la Nanna in uno dei _Ragionamenti_ dell’ARETINO: «chi si
fa figliuola del Duca Valentino, chi del Cardinale Ascanio; e Madrema
si sottoscrive Lucrezia Porzia Patrizia Romana, e suggella le lettere
con un segno grande grande». Parte I, giornata III, p. 158. Nello
_Stufajuolo_ del DONI, uno sciocco innamorato, dà, in una sua lettera,
titolo di marchesana a certa cortigiana tedesca.

[373] Nel _Trionfo della lussuria di maestro Pasquino_ è cenno di
una cortigiana, non nominata, la quale in inferno, _di rabbia arde e
sospira_, sapendo di poter essere riconosciuta _pel sangue suo_ che
agogna a _grande onore_. Non può essere Tullia d’Aragona, la quale è
ricordata come viva, e molto _favorita_, poco più oltre. Il _Trionfo_
fu stampato nel 1537 e la Tullia visse fino al 1556.

[374] _Ecatommiti_, nov. 8 dell’Introduzione.

[375] Lo Zoppino parla dei vili natali di _Matrema non vuole_, di
Giulia dal Sole, della Beatrice, di Angela Greca, di Cecilia Veneziana,
di Tullia d’Aragona, di Lucrezia Padovana, della Angioletta, di Tina
Baroncella e di altre. _Ragionamento_ cit., pp. 442-7. Il VENIERO,
nella _Puttana errante_, assegna ad Elena Ballerina una assai
vituperosa genealogia.

[376] _Ragionamento_ cit., pp. 431-2.

[377] GARZONI, _Op. cit._, disc. LXXIV, p. 597.

[378] Satira _A M. Flaminio_.

[379] Vedi _Lea femmes blondes selon les peintres de l’école de
Vénise, par deux Vénitiens_ (ARMAND BASCHET et FEUILLET DE CONCHE),
Parigi, 1865, pp. 45-106, 271-309, dove è data notizia di parecchi
libri curiosi. Dell’arte d’imbiondire i capelli parla pure il Calmo in
parecchie delle sue lettere, ediz. cit., 1. IV, lett. 6, 31, 46. Vedi
anche, per questa e per altre pratiche d’arte cosmetica, PICCOLOMINI,
_La Raffaella, ovvero della bella creanza delle donne_ (1539), ristampa
di Milano, 1862, pp. 24-31; _Ricettario galante del secolo XVI_, edito
a cura di O. GUERRINI, Bologna, 1883, _Scelta di curiosità letterarie_,
disp. CXCV.

[380] _Op. cit._, capitoli VII, VIII.

[381] Di certo sapere più occulto, e di certe arti più recondite
delle cortigiane lascio di discorrere; ma non parrà strano che tali
donne fossero maestre di secreti, la conoscenza e l’uso dei quali non
disdicevano troppo, sembra, nemmeno alle donne maritate. Vedasi per un
esempio, ciò che dicono la signora Virginia, la signora Ardelia e la
signora Angioletta nella _Camilletta_ del GUTTERY, Parigi, 1586. Cfr.
ARETINO, _Cortegiana_, atto II, sc. 6, e _La vieille courtisane_ del DU
BELLAY.

[382] Pel vestire delle cortigiane in varie città d’Italia, vedi
l’opera di CESARE VECELLIO, _Habiti antichi et moderni di tutto il
mondo_, edizione di Venezia, 1598, ff. 25, 26, 107, 114, 203, e pel
vestire loro più particolarmente in Venezia quelle di GIACOMO FRANCO,
_Habiti d’huomini e donne venetiane_, ecc., Venezia (1610), e _Habiti
delle donne venetiane_, s. l. ed a.

[383]

    Stì le vedi po andar fuora de ca,
      Le par novizze al sangue de Sier Polo,
      Con scuffie d’oro e con veste instoccà,
      Annei in deo e caenelle al colo;
      E i poveri meschini che no sa
      Che tutte ste bagaje è tolte a nolo,
      I crede aver cattà qualche signora,
      E ’l mejo che l’ha in casa se una stuora.

_Le berte, le truffe, i arlassi, e le magnarie che usa le puttane
a i so bertoni, recitae da Nico Calafao da l’Arsenale. Delle rime
piasevoli de diversi auttori, nuovamente accolte da_ M. MODESTO PINO
_et intitolate La Caravana_, Venezia, 1576, f. 19 r. In una commedia
del CONTILE intitolata _La Cesarea Gonzaga_, è una cortigiana Marina,
che si fa prestare veste, collana, anello da un ebreo cui si concede
talvolta. In Venezia era vietato dar panni a nolo alle meretrici.
(_Leggi e memorie venete sulla prostituzione fino al cadere della
Repubblica_, Venezia, 1870-2, a spese del conte di Orford, p. 282).

[384] Questo, per altro, lo dice LORENZO VENIERO, _La Zaffetta_,
edizione di Parigi, 1861, p. 22.

[385] Il Calmo scriveva a una signora Alba, promettendole un gattino:
«E’ vojo al tutto darve anca un gatesin bianco a mo la neve, el pi
umele bestioleto che mai avè visto: vardè, el no ha tre mesi ch’el
salta, el tombola, el se rampega, e fa tante matierie co si l’avesse
intelletto...... e sì è può de razza da piar sorzi no ve posso dir; e
sì ha tanta descrezion che el no tocca ni carne, ni pesce, si no ghe ne
vien dao. Talmente che vojo, apresso el vostro papagà e faganelo, che
vu siè cusì ben servia de animali, quanto altra cortesana che viva».
Ediz. cit., l. IV, lett. 44, p. 353. Vedi inoltre la lettera che lo
stesso Calmo scriveva alla signora Brunella, p. 285. Della liberalità
delle pratiche fruivano naturalmente anche le bestiuole di casa.
L’Agnola, serva dell’Angelica, nel _Martello_ del CECCHI (atto III, sc.
5):

                      Quei che vengono
    Di nuovo fan per noi; i danar ballano;
    I presenti gagliardi ciascun cavane;
    Serve, cuochi; che insino allo scojattolo
    E al catellino e al mucino ne cavano
    Le sonagliere.

[386] Della ghiottornia delle cortigiane è fatto cenno assai spesso.
La Nanna dell’Aretino ricorda tra l’altro come non era _canova di
prelato niuno che non fosse sverginata per lei_. (_Ragionamenti_, parte
I, giornata III, p. 140). In certa invettiva in dialetto veneziano un
giovane dice all’antica sua druda:

    Ma pezo po che ti gha un altro vicio,
      Che se domanda el peccao della gola,
      Che mandarave un stato in precipicio.

(_Bandito in questo luoco solitario tramutato per un giovine che
haveva il mal francese, con un capitolo in lingua venetiana contro una
cortigiana, molto bello nè più stampato_, s. l. ed a.). Dice la Bettina
nei _Germini sopra quaranta meretrici della città di Fiorenza_:

    ... mangiai venzei tortole ad un tratto,
    E trenta dua piatti di gelatina,
    Perchè non ero ancor satolla affatto.

Il titolo intero di questo curioso poemetto è, nella stampa fiorentina
del 1553, appresso Bartolomeo di Michelangelo, dalla quale cito, il
seguente: _I Germini sopra quaranta meretrici della città di Fiorenza,
dove si conviene quattro ruffiane, le quali danno a ciascuna il
trionfo ch’è a loro conveniente dimostrando di ciascuna il suo essere.
Con una aggiunta nuovamente messa in questi. Opera piacevole._ Ce ne
furono anche altre edizioni. Questo poemetto sarà ancor esso, insieme
col _Trionfo della lussuria_, ripubblicato dal sig. G. Baccini. La
signora Brunella, a cui è scritta una delle lettere del Calmo, voleva
ogni sorta di _boconi licaizzi, paoni, galinazze, polastri de India,
gali salvadeghi, pernise, tordi, quaje, pernigoni,..... e da può cena
codognato, marzapan, e le so canele inzucarae, de vin e pan e formazi_.
(_Le lettere_, l. IV, lett. 16, p. 285). Di certa Orsa aveva già detto
il PANORMITA in uno degli epigrammi dell’_Hermaphroditus_:

    Si mihi sint epulae totidem, quot in alite plumae,
      Uno luxuriens edet has Ursa die.
    Si mihi sint totidem vegetes, quot in aequore pieces,
      Uno subsitiens ebibet Ursa die.

Le primizie, e i bocconi più ghiotti erano per le signore cortigiane:
gli adoratori non mancavano di farne loro presente. Parlando di
Ferrara, dove la uccellagione era, in parte, di prerogativa ducale,
dice Corbolo nella _Lena_ dell’ARIOSTO (atto II, sc. 3):

    Non ponno a nozze ed a conviti pubblici
    I fagiani apparir sopra le tavole,
    Chè le grida ci sono; e nelle camere
    Con puttane i bertoni se li mangiano.

Il FRANCO dava merito alle cortigiane, non solo d’aver fatto rifiorire
l’età dell’oro; ma ancora d’avere introdotte le squisitezze tutte e
le eleganze della tavola: «Nè solamente avete rivocata si fatta età,
ma postala anche ne la debita sua grandezza, e toltale la rustica
semplicità, ed ogni ruvidezza di vivere. Invece de le ghiande, de le
morole, e de le fragole, avete introdotte le suntuose vivande, e gli
apparecchi de i cibi delicatissimi sopra i mantili ed i ricchi tapeti».
_Le pístole vulgari_, Venezia, 1542, _Pístola a le puttane_, f. 223 v.

[387] _Diarii_, t. XIX, col. 138. E soggiungeva: «ozi 8 zorni si farà
per li musici una solenne messa a Santa Catarina, funebre, e altri
officii per l’anima sua».

[388] I cocchi, che vennero in uso dopo la carrette, offrivano, tra
l’altro, comodità _agli esercizii di Venere_, secondo avverte il MODIO,
_Il Convito, overo del peso della moglie_, Roma, 1554, p. 15. Cfr. _Les
heures perdues d’un Cavalier français_ (1616), _Le Carosse_. Intorno
ai cocchi vedi GOZZADINI, _Dell’origine e dell’uso dei cocchi, e di due
veronesi in particolare_, Bologna, 1864.

[389] _Ragionamento fra il Zoppino_, ecc., p. 429. Nella _Puttana
errante_ attribuita all’Aretino è già citata, dice la Maddalena (p.
5): «Hai tu veduto, o Giulia, come questa mattina la Tortera era
riccamente vestita? Certamente quand’ella entrò in Sant’Augustino io
non la conobbi, e stimai ch’ella fosse una baronessa, perciochè aveva
due famigli ed un paggio davanti e quattro serve dietro, ed un giovane
vestito di velluto che giva ragionando con essa lei».

[390] A costei è indirizzata una lettera, o, per dir meglio, una fiera
invettiva, fra le _Lettere di diversi autori raccolte per_ VENTURIN
RUFFINELLI, libro primo (ed unico), Mantova, 1547, ff. III r. a XIII
r. CIAN, _Op. cit._, p. 56. Di certa Fausta dice la serva Rosa nella
_Majana_ del CECCHI (atto II, sc. 6) che

      dovunque la va vuol seco l’ordine
    E i cariaggi come fanno i principi.

La cortigiana introdotta dal Firenzuola nella sua commedia i _Lucidi_
non vuol certo essere delle principali, ma ha nondimeno a’ suoi servigi
un cuoco, un’ancella, un ragazzo. Non è senza curiosità il vedere un
riflesso di tali costumi nella _Rappresentazione della conversione_
_di S. Maria Maddalena_ (D’ANCONA, _Sacre rappresentazioni dei secoli
XIV, XV, e XVI_, Firenze, 1872, vol. III). Maddalena va ad udire Gesù
accompagnata da quattro cameriere. Gesù entra nel Tempio, sale in
pergamo e comincia a predicare: notato ciò, la didascalia soggiunge
(p. 272): _Ora giunge Maddalena con la sua compagnia, e’ suoi donzelli
parano una sedia dinanzi al pergamo, e lei tutta pomposa vi si posa su,
guardando a suo piacere_ ecc.

[391] Le quali stufe servivano a parecchi usi, in Italia e fuori
d’Italia. Vedi GARZONI, _Piazza_, ecc., disc. CXXIV, p. 815; RABUTAUX,
_De la prostitution en Europe depuis l’antiquité jusqu’à la fin du XVIe
siècle,_ nuova ediz., Parigi, 1881, p. 73. Cfr. la commedia del DONI,
_Lo Stufajuolo_.

[392] Dice la Nanna alla figliuola Pippa: «accaderà che andrai al
Popolo (_Santa Maria del Popolo_), alla Consolazione, a San Pietro,
a Santo Janni, e per l’altre chiese principali ne’ dì solenni; onde
tutti i galanti signori, cortigiani, gentiluomini, saranno in ischiera
in quel luogo che gli sarà più comodo a veder le belle, dando la sua
a tutte quelle che passano, o pigliano de l’acqua benedetta con la
punta del dito, non senza qualche pizzicotto che cuoca. Usa in passare
oltre gentilezza, non rispondendo con arroganza puttanissima; ma o
taci, o di’ riverenza, o bella, o brutta: Eccomivi servitrice; che ciò
dicendo ti vendicherai con la modestia. Onde al ritornare indirieto ti
faranno largo, e ti si inchineranno fino in terra; ma volendo tu dargli
risposte brusche, gli spetezzamenti ti accompagnerieno per tutta la
chiesa, e non ne seria altro». _Ragionamenti_, parte II, giornata I,
p. 231. Dice Ludovico in altro Ragionamento già citato (p. 428), che
le cortigiane si traevano dietro le turbe nelle chiese, e che la gente
lasciava la messa per veder la Lorenzina. Con quale sfoggio poi di
vesti e di giojelli si recassero, in Roma stessa, alle chiese, si può
vedere da un passo del _Diarium parmense_ (ap. MURATORI, _Scriptores
_, t. XXII, coll. 342-3). Se lo sconcio era, come abbiam veduto, assai
grande in Roma, non doveva esser punto minore in Venezia, dove si
cercò ripetute volte, ma, sembra, con poco frutto, di toglierlo. Con
parte del 12 settembre 1539 ci si vietava alle _meretrice publice_ di
frequentare le chiese nell’ore stesse in cui le frequentavano le donne
oneste. Un’altra parte, mandata fuori quattro giorni dopo, recava un
altro divieto, e lo stendeva alle cortigiane: «... niuna meretrice,
over cortesana, sia de che condizione esser si voglia, non possi.....
andar in Chiesia alcuna il giorno della festa e solennità principal
di quella, acciò non siano causa de mal esempio con molti atti, parole
ed opere lascive a quelli, over a quelle, che vano a bon fine in ditte
Chiesie....». A far prova della sua inefficacia il divieto si rinnova
poi di tanto in tanto e sino nel secolo seguente. (Vedi _Leggi e
Memorie venete_ già citate, pp. 100, 101, 102, 119, 122, 125, 136). E
poi c’era sempre modo di deluder la legge, o di sottrarsi alla pena,
la quale era, del resto, assai mite. Nel maggio del 1543 è condannata
a lire tre di multa Giulia Ferro per essere stata in chiesa in giorni
proibiti; ma in quello stesso anno, in quel medesimo mese, una Lucietta
Padovana, rea dello stesso mancamento, si difende con dire d’essere,
non meretrice, ma cortigiana, e maritata, e i Provveditori alla Sanità,
_vista la legge, visis videndis, et consideratis considerandis_, non
volendo _tuor la fama a dita Lucieta Padovana_, ne la mandano assolta
(_Op. cit._, pp. 273-5).

[393] Ricordando i bei tempi della sua giovinezza e de’ suoi trionfi,
dice la cortigiana del Du Bellay:

    Un escadron j’avoy de tous costez
    De courtisans pompeusement montez
    M’accompagnant ainsi qu’une princesse,
    Fust au matin, quand j’allois à la messe,
    On fust au soir, alors qu’il me plaisoit
    De me trouver où le bal se faisoit.

Per i bravi vedi ARETINO, _Ragionamento fra il Zoppino_, ecc., in
principio, e _Ragionamenti_, parte I, giornata III, pp. 129, 133,
423; GIRALDI CINZIO, _Ecatommiti_, nov. 8 della Introduzione; GARZONI,
_Piazza_, ecc., p. 599. Il Brantôme dice che le cortigiane in Italia
avevano sempre un bravo _pour les défendre et maintenir_, vol. II, p.
321. Una Betta del Basadonna, ricordata nella _Tariffa_, fece bastonare
certo suo amante da quattro bravi. La cortigiana della _Lucerna_ del
PONA, favoriva un giovane assai valente, che più volte fece valere le
ragioni di lei con la spada. (Sera seconda, pp. 78-9). L’Angelica del
_Martello_ del CECCHI sposa Lanfranco bravo. Vedi anche STOPPATO, _La
commedia popolare in Italia_, Padova, 1887, pp. 121-7.

[394] JOST AMMAN’S _Frauen-Trachtenbuch_, Francoforte sul Meno,
1586; riproduzione di Lipsia, 1880. Una delle figure di questo volume
rappresenta una cortigiana romana. Il Grossino, uno dei famigliari
che accompagnarono a Roma nel 1510 il marchesino Federico Gonzaga,
dando ragguaglio di più cose alla madre di lui Isabella, diceva in una
lettera del gennajo del 1512, che a certa solennità, nella basilica
di S. Sebastiano, era accorsa tutta Roma, e _grandissima quantità_ di
cortigiane, con pompe assai, molte vestite da uomini, quali su mule,
quali su cavalli, e soggiungeva a Roma essere difficile _a conoser una
dona da bene da una cortesana_. LUZIO, _Federico Gonzaga ostaggio alla
corte di Giulio II_, estratto dall’_Arch. d. R. Soc. rom. di storia
patria_, vol. IX, 1887, p. 29-30.

[395] ARETINO, _Ragionamenti_, parte I, giornata I, p. 18.

[396] _La Pescara_, Milano, 1550, atto I, sc. 5.

[397] Vedi più oltre, appendice A, il _Vanto della cortigiana
ferrarese_.

[398] _Mondi celesti, terrestri et infernali_, Venezia, 1583, pp. 306-7.

[399] _Catalogo di tutte le principal et più honorate Cortigiane di
Venetia, il nome loro, et il nome delle loro pieze, et le stantie
ove loro habitano, et di più ancor vi narra la contrata ove sono
le loro stantie, et etiam il numero de li dinari che hanno da pagar
quelli Gentilhuomini, et al che desiderano entrar nella sua gratia._
Il _Catalogo_, compilato da un A. C., e da lui dedicato alla _molto
magnifica et cortese Signora Livia Azalina, Principessa di tutte le
Cortigiane venetiane_, fu riprodotto nel volume _Leggi e memorie
venete sulla prostituzione_, ecc., e in _Les courtisanes et la
police des mœurs à Venise_, 1886. Questo secondo lavoro è una povera
abboracciatura piena di spropositi; quel tanto di buono che ci si
trova è tolto dal volume precedente. Della _Tariffa_ in versi ho già
fatto cenno. Nel 1566, Gerolamo Calepino, stampatore in Venezia, fu
processato per avere stampato senza licenza quella o un’altra, e fu
condannato a pagare un ducato di multa per ogni copia impressa (_Leggi
e memorie_ ecc., p. 9). Tariffa e cataloghi così fatti non dovevano
mancare nelle principali città d’Italia. Nel _Vecchio geloso_, commedia
del _Riccioli_ (Viterbo, 1605), uno dei personaggi si fa dare _il
catalogo di tutte le puttane del bordello con il lor prezzo_.

[400] GIRALDI CINZIO, _Ecatommiti_, nov. 7 dell’Introduzione. I
guadagni variavano assai anche secondo la fortuna dei tempi. In anno di
carestia ERCOLE BENTIVOGLIO scriveva nella satira _A suo fratello_:

    Sper’io ch’uguanno a i piacer nostri aremo
      Queste più altere e nobili puttane,
      Se ’nvece d’un fiorino un pan daremo.

E c’era chi si spassava a predire alle cortigiane miseria grande e
malanni d’ogni sorta. _Vedi Pronostico alla villota sopra le putane,
composto per lo eccellente dottore_ M. SALVAOR, _cosa molto bellissima
et piacevole_, Venezia, 1558; riprodotto in _Leggi e memorie venete_,
ecc., pp. 295-8.

[401] _Les courtisanes et la police des mœurs à Venise_, p. 44.

[402] _Novelle_, parte III, nov. 42.

[403] Vedi intorno alla Imperia VALÉRY, _Curiosités et anecdotes
italiennes_, Parigi, 1842, pp. 234 sgg. Racconta il GIOVIO nel suo
libro _De piscibus romanis_, c. V, una graziosa storiella, che appunto
si lega all’amicizia del Chigi e dell’Imperia, e che qui giova riferire
in succinto. I venditori di pesce in Roma usavano, per consuetudine
antica, far presente ai Conservatori delle teste delle ombrine e
degli storioni, stimate boccone assai ghiotto. Era a quei tempi in
Roma un certo Tamisio, uomo assai lepido, ma golosissimo parassita,
il quale teneva appositamente sul mercato del pesce un servo, che lo
doveva far avvertito di quanto potesse importare alla sua gola. Saputo
una mattina che una grossissima testa d’ombrina era stata recata ai
Conservatori, monta sopra una sua mula e va in Campidoglio, con la
speranza di buscarvi un desinare. I Conservatori avevano già mandato
la testa in dono al cardinale Riario. Tamisio allora vola al palazzo
del cardinale; ma questi, imitando la generosità dei primi donatori,
manda la testa al cardinale Federico Sanseverino. Tamisio, biasimando
la inopportuna munificenza, si rimette in sella e trotta al palazzo del
magnifico Sanseverino. Ma il magnifico Sanseverino deve molti quattrini
al banchiere Chigi, e vuole usargli cortesia presentandogli la gloriosa
testa. Tamisio vola, sotto la sferza del sole, agli orti del Chigi
in Trastevere; ma giuntovi appena, tutto affannato e molle di sudore,
vede l’agognata testa, adorna di fiori, andarsene alla volta della casa
dell’Imperia. Pien di sdegno si rimette in via, e vola a Ponte Sisto,
dove finalmente gli è dato di desinare con la bellissima cortigiana.
Ponte Sisto un tempo era come dire il quartier generale delle
cortigiane in Roma, le quali da CELIO SECONDO CURIONE sono chiamate
_Vestales romanae, quae regionem pontis Sixti colunt_ (_Pasquillus
ecstaticus_, ediz. s. l. ed a., p. 163). Cfr. DOLCE, _Il Ragazzo_, atto
II, sc. I. L’Imperia, quand’ebbe l’amicizia di Angelo Dal Bufalo, abitò
in Banchi.

[404] MALESPINI, _Novelle_, parte I, nov. 31; ARETINO, _Ragionamenti_,
parte I, giornata III.

[405] BANDELLO, _Novelle_, parte II, nov. 51; BRANTÔME, _Les vies
des dames galantes_, Leida, 1722, t. I, p. 236. Vedi a questo stesso
proposito ciò che di una Cicilia Viniziana dice il FIRENZUOLA nel
_Dialogo delle bellezze delle donne, Opere_, Firenze, 1848, vol. I, p.
255, e cfr. coi _Dialoghi delle cortigiane_ di LUCIANO, V.

[406] _I Marmi_, ediz. di Firenze, 1863, vol. I, p. 106.

[407] _Al Capitano Flaminio Nelli_.

[408] La Zaffetta nella _Zaffetta_, e la Ballerina nella _Puttana
errante_. Che questo secondo poemetto sia stato pure composto dal
Veniero in vituperio dell’Angela, è erronea opinione di parecchi,
messa innanzi dall’HUBAUD in un opuscolo che appunto di tale argomento
trattava, e intitolato _Dissertation sur deux petits poèmes_,
Marsiglia, 1840. La _Puttana errante_ fu ristampata dal Liseux, in
Parigi, nel 1883.

[409] _Le carte strozziane del R. Archivio di Stato in Firenze,
Inventario pubblicato a cura della R. Sopraintendenza degli Archivi
toscani_, serie I, p. 409. Questo maestro Andrea è senza dubbio quel
medesimo di cui, come d’uomo assai piacevole, fa ricordo l’Aretino
nei _Ragionamenti_ e nella _Cortegiana_, e che compose un _Purgatorio
delle cortigiane_ più volte stampato. L’abbiamo già incontrato fra
i personaggi del _Trionfo della lussuria di maestro Pasquino_. Vedi
intorno ad esso ROSSI, _Le lettere del Calmo_, appendice I, pp. 385-92.

[410] VENIERO, _La puttana errante_, canto IV, ediz. cit., p. 118 (le
prodezze di Elena Ballerina sono _notate sopra ’l capo a Pasquino_);
_Le lettere del Calmo_, ediz. cit., p. 87, n. 7. Scritture contro le
cortigiane sono nel secolo XVI molto frequenti, e a parecchie porge
argomento il dispetto o la gelosia. Dice il GARZONI (_Op. cit._, pp.
599-600): «Già si comincia dare all’arma, i sdegni principiano, l’ire
si generano, le minacce vanno in volta, i dispetti non han fine, i
bravi si trovano, i pennacchini s’armano, i bertoni s’infuriano, le
bastonate s’apparecchiano, i sfrisi si preparano, le morti si tramano
da queste insidiose e maladette meretrici. Non si parla più di vezzi,
non si favella di carezze, non si ragiona d’aver commercio insieme,
cessano i messi, restano le polizze, mancano i presenti, vengon meno
i saluti e le riverenze, si richiedon indietro le fedi, si dimandano
i quadri, si rinvogliono i ritratti dell’imagini miniate dentro a’
scatolini, e con rabbia, con furore, con insania di mente, si rompe,
si spezza, si calpesta ogni cosa con gli piedi. Quindi si giura, si
scongiura, si sacramenta di non far mai pace. Marte e Bellona scorrono
da ogni banda; le faci si accendono ogni ora a più potere. Non più
sonetti, non più madrigali, non più canzoni, non più sestine da
innamorato spiran le muse graziose: Apollo asconde la lira, Euterpe
va a spasso, Cupido sfratta, Venere va in chiasso, Archiloco solo
si lascia vedere, e Pasquino trionfa in mezzo delle piazze. Ora si
scoprono gli altari da dovero, si contano gl’inganni, le malizie, i
tradimenti, le doppie de i bertoni, il tener su la stanga de’ ganimedi,
la trappola dei togati, le perfidie con questi, gli assassinamenti con
quell’altro, lo spender della robba, il perder della vita, l’arrischio
dell’onore, il consumar dell’anima, il vuotar della borsa, il cruccio,
il travaglio, il martire, il dispetto, la gelosia, l’inquietudine
grande che da lor procede. Pasquino si mette a narrar le superbie, nel
star sul grave, nel concorrer con le signore di vesti, di drappi, di
serve, di carrozze, e sopra tutto di voler essere d’ogn’ora cortigiane,
ecc.». Tali invettive e libelli erano, sembra, assai temuti dalle
cortigiane. Ammonendo la figliuola Pippa, dice la espertissima Nanna:
«non ti mancherebbe altro, se non che un tale ti facesse i libri
contra, e che per tutto si bandisse di quelle ladre cose che sanno dir
de le donne; e ti staria bene che fosse stampata la tua vita, come non
so chi scioperato ha stampata la mia». (ARETINO, _Ragionamenti_, parte
II, giornata I, p. 198). È ricordo di una Polinda Valenziana, che fece
ammazzare a furia di pugnalate uno spagnuolo, che co’ suoi versi, prima
l’aveva levata a cielo, e poi trascinata nel fango. (TOMMASO COSTO, _Il
Fuggilozio_, Venezia, 1601, pp. 344-5; G. F. ASTOLFI, _Della officina
istorica_, Venezia, 1605, p. 218). Agli scritti contro le cortigiane da
me ricordati in queste pagine, si aggiunga: _Bravata che fa uno giovane
innamorato d’una cortigiana, et lei dandogli la baglia_ (sic) _ma gli
volse aprir la porta; cosa da ridere_, s. l. ed a.; una canzonetta,
pure in dialetto veneziano, riportata dal ROSSI, _Le lettere del
Calmo,_ pp. 288-9; una invettiva in ottava rima e similmente in
dialetto veneziano, che il lettore troverà più oltre appendice B; A. DI
PALMA, _Opera nova dove si contiene le astutie delle cortigiane_, ecc.,
s. l. ed a. Francesco Scambrilla, vissuto in sul principio del sec.
XVI, compose in dispregio delle cortigiane due sonetti assai acerbi,
che si conservano in un codice Vaticano. (TRUCCHI, _Poesie inedite_,
eco., vol. III, p. 139). Il codice Marciano Ital. IX. 173 contiene un
gran numero di poesie in dialetto veneziano, molte delle quali contro
cortigiane. (Ci son vituperate, fra altre, una Paolina Gonzaga, una
Livia Verzotta, e la nostra Veronica). Di un capitolo da lui composto
contro una cortigiana, e in cui altre cortigiane illustri erano
nominate, fa cenno l’ARETINO nei _Ragionamenti_, parte I, giornata III,
p. 159. In molte commedie compajono cortigiane, ma non mai per farvi
buona figura. Vogliono ancora essere ricordati: _Avvertimenti a quelli
che amano le cortigiane, opera nuova e dilettevole_, Milano, 1600;
GARZONI, _Serraglio degli stupori del mondo_, Venezia, 1613 (stanza
settima, pp. 749-50), e GIOVANNI ANTONIO MASSINONI, _Il flagello delle
meretrici_, Venezia, 1599. La letteratura italiana non fu sola ad
avere così fatti componimenti nel sec. XVI, sebbene ne abbia avuti,
senza paragone, più d’ogni altra. Per citare un esempio, in un poema
intitolato _L’enfer de la mère Cardine_, ecc., stampato nel 1568, sono
vituperate tutte le cortigiane di Parigi.

[411] _Novelle_, parte I, nov. 50, dedicatoria.

[412] _Ecatommiti_, deca VI, nov. 7. Il buon LAFONTAINE racconta
(_Contes et nouvelles_, l. III, 6) la storia di una cortigiana romana,
altrettanto superba quanto bella, la quale disprezzando ognuno, e
solo facendo qualche conto dei cardinali, s’innamorò pazzamente di un
giovane gentiluomo, e fu da lui sposata.

[413] _Lettere_, t. V, f. 147 v. Altra lettera ivi stesso, f. 176.

[414] _Ecatommiti_, nov. 3 dell’Introduzione. A Nannina Zinzera,
innamorata di un bellissimo giovane, e godente l’amor suo, indirizzava
il LASCA uno dei suoi madrigoloni (_Opere burlesche_, edizione
cit., pp. 244-5). A un’altra cortigiana, giovane assai e bellissima,
Anna Raugea, che di Firenze si tramutava in Roma, lo stesso Lasca
raccomandava (_ibid._, p. 400):

    Dall’ira e dallo sdegno vi guardate,
    E sopratutto non v’innamorate.

La cortigiana del Du Bellay s’innamorò perdutamente di un giovane,
che l’abbandonò dopo averle mangiato, in men d’un anno, vigne, case e
denari.

[415] LUZIO, _Un’avventura della Tullia di Aragona_, in _Rivista
storica mantovana_, vol. I (1885), pp. 178-82. Di una Spagnuola, della
quale era innamorato Giovanni della Casa, e che aveva lui a noja più
che il mal de’ fianchi, fa cenno il MAURO nel capitolo _Delle donne di
montagna_.

[416] _Lettere_, vol. 1, f. 233 r.; vol. VI, f. 72 r. Lo stesso Aretino
compose per l’Angela il seguente madrigale, che leggesi nella parte II,
giornata III, dei _Ragionamenti_, p. 400:

    L’esser prive del cielo
      Non sono oggi i tormenti
      De le mal nate genti.
      Sapete voi che doglia
      L’alme dannate serra?
      Il non poter mirar l’Angela in terra.
      Sol la invidia e la doglia
      Ch’elle han del nostro bene,
      E ’l non aver mai di vederlo spene,
      Le affligge a tutte l’ore
      Ne l’eterno dolore;
      Ma se concesso a lor fosse il suo viso
      Fora lo inferno un nuovo paradiso.

Il TRUCCHI ripubblicò questo madrigale come inedito, _Poesie inedite_,
ecc., vol. III, p. 216.

[417] Ciò si rileva facilmente leggendo il poemetto, e basterebbero a
farne prova questi due versi che il Veniero dice in persona propria:

    Venni e subbiai per farvi riverenza,
    Ma dal balcon mi fu data licenza.

Il Veniero si duole assai dell’albagia della Zaffetta, che si crede
esser maggiore

    Che non è di San Marco il campanile.

Del resto il famoso trentuno, di cui nel poemetto si narra, non fu dato
davvero, e le parole stesse del poeta lo dicono.

[418] _Lettere_, vol. V, f. 27 r. L’Aretino fa pure gran lodi di una
Lucrezia Ruberta. Vedi anche il nobile atto di una cortigiana di Padova
narrato dal GIRALDI CINZIO negli _Ecatommiti_, Introduzione, nov. 10.

[419] _Pro poemate ludicro apologia_, Perugia, 1616, pp. 160-1.

[420] Vedi una lettera di Gerolamo Negri, scritta il 29 decembre 1522
da Grottaferrata a Marcantonio Micheli, _Lettere di principi_, ecc.,
Venezia, 1881, lib. I, f. 110 r.; COLOCCI, _Poesie italiane_, Jesi,
1772, p. 29 n. Il Negri dice: «Questo caso tanto più è degno d’esser
celebrato, e quasi preposto al fatto di Lucrezia, quanto che questa
donna fu figlia d’una pubblica e famosa meretrice, che fu l’Imperia,
cortigiana nobile in Roma, come sapete».

[421] Vedi CIAN, _Op. cit._, pp. 25-35.

[422] _Le rime di_ MICHELANGELO BUONARROTI _cavate dagli autografi e
pubblicate da_ CESARE GUASTI, Firenze, 1863, p. 165.

[423] CUGNONI, _Agostino Chigi il Magnifico_, pp. 78-9.

[424] La poesia in lode delle cortigiane fu certo assai copiosa,
e chi sa quanta ne giace incognita nelle nostre biblioteche. Essa
dovette vestir tutte le forme e prendere tutti i tuoni. Abbiamo già
veduto qualche capitolo: ecco qua ora un madrigale e un frammento di
canzone tratti dal cod. magliabechiano Cl. VIII, nº 16, assai graziosi
e di fattura di Alfonso de’ Pazzi. Il madrigale è indirizzato _Alla
Contadina Cortigiana_:

    Chi vuol beltà divina
      Vedere in cosa umana,
      Oggi venga in Toscana,
      E miri l’alma nostra Contadina,
      Che fatta è cittadina,
      E di sì bei costumi
      Che Arno re dei fiumi a lei s’inchina:
      Oh bella Contadina!

Il frammento di canzone è _Alla Porcellina cortigiana_:

    La Porcellina nuota
      Nell’amorosa fonte,
      La nuota sotto il ponte,
      Ell’esce e fa la ruota;
            La Porcellina nuota.
    La nuota come un pesce,
      Ell’entra sotto e esce,
      E non tocca la mota:
            La Porcellina nuota.

[425] _Le lettere_, l. IV, lett. 50, p. 364.

[426] La Panta qui ricordata è senza dubbio quella stessa che nel
1570, sotto Pio V, fu pubblicamente frustata in Roma. L’_Avviso_ che
dà notizia di tale frustatura, dice: «La Panta, famosa meretrice, così
per 300 mila scudi che ha speso qui, come per l’autorità ch’ha avuta
in altri tempi». Vedi BERTOLOTTI, _Repressioni straordinarie alla
prostituzione in Roma nel secolo XVI_, in _Rivista delle discipline
carcerarie_, anno XVI (1886), p. 516, docum. XVIII.

[427] DOMENICHI, _Facetie, motti_, ecc., p. 204.

[428] Pag. 429.

[429] BURCHARD, _Diarium_, ediz. cit., t. III, p. 290.

[430] Lettera di Stazio Gadio al marchese di Mantova, LUZIO, _Federico
Gonzaga_, ecc., p. 46-7. Detto della cena in casa del cardinale di
Mantova, il Gadio soggiunge: «Sonate le cinque ore ogniuno andò a casa
lor: da Cornaro credo che Albina fosse allogiata, perchè facevano assai
l’amor insieme». Il TRUCCHI (_Poesie inedite_, ecc., vol. III, p. 212)
fa cenno di un sonetto del cardinale Santa Croce in lode di Angiola
Greca. In una pasquinata venuta fuori subito dopo la morte di Clemente
VII, si ricorda il cardinale Grimaldi che innamorato pazzo della
Flaminia (probabilmente la famosa di cui parlano il Mauro e altri) fu
da lei cacciato. LAFON, _Pasquin et Marforio, histoire satirique des
papes_, Parigi, 1861, p. 107.

[431] CIAN, _Op. cit._, pp. 13, 18.

[432] FABRETTI, _La prostituzione in Perugia nei secoli XIV e XV_,
Torino, coi tipi privati dell’autore, 1885, edizione di 24 esemplari,
p. 46.

[433] Atto II, sc. 6.

[434] Capitolo _A messer Ruberto Strozzi_.

[435] _Le lettere_, l. IV, lett. 20, p. 298.

[436] _Novelle_, parte II, nov. 48.

[437] MUTINELLI, _Storia arcana ed aneddotica d’Italia raccontata dai
veneti ambasciatori_, Venezia, 1855-8, vol. I, p. 170.

[438] CIAN, _Op. cit._, p. 8.

[439] L’AFFÒ (_Dizionario precettivo, critico ed istorico della poesia
volgare, s. v. Pasquinata_) e il TIRABOSCHI (_St. d. lett it._, ediz.
dei Classici, vol. XII, p. 1725) fanno ricordo di una _Passione d’amor
de Mastro Pasquino per la partita della signora Tullia, et martello
grande delle povere Cortigiane de Roma con le allegrezze delle
Bolognese_. A me non è riuscito d’averne altra contezza.

[440] Un testimonio oculare della battaglia di Fornovo (1495) il medico
veronese ALESSANDRO BENEDETTI, racconta nei suoi _Diaria de bello
Carolino_ d’aver veduto il giorno dopo la battaglia, fra le spoglie
del re vinto e fuggiasco, un libro in cui erano dipinte immagini
di cortigiane, varie per età e per abito, libro che esso re portava
seco in memoria dei suoi facili amori. CIAN, _Op. cit._, p. 40. Certa
Susanna, che aveva portato un tempo il vanto della bellezza sopra tutte
le cortigiane di Firenze, si gloria nei _Germini_ d’essere stata in
Lione onorata dal Delfino:

    S’innamora ciascun che mi sta a canto:
    Fu’ in Lion dal Delfin onorata,
    Che quando mi partii fece gran pianto.

[441] Il Panormita, di certa Alda, nell’_Hermaphroditus_:

    Non mingit, veram si mingit, balsama mingit
    Non cacat, aut violas, si cacat, Alda cacat.

[442] _Ecatommiti_, nov. 5 della Introduzione.

[443] Parte I, giornata III, p. 158.

[444] Capitolo cit., _A messer Ruberto Strozzi_.

[445] Il 19 d’ottobre del 1546, Cosimo I, duca di Firenze, mandò fuori
un bando, il quale vietava, fra l’altro, alle cortigiane di _portar
vesti di drappo nè seta d’alcuna ragione_, e ingiungeva loro l’uso del
famoso segno giallo, che doveva distinguerle dalle donne oneste. Tullia
d’Aragona, che trovavasi allora in Firenze, con una corte d’adoratori
intorno, fece, consigliata da Don Pedro, nipote della duchessa
Eleonora, e con l’ajuto del Varchi, una supplica, che fu, probabilmente
a mezzo dello stesso Don Pedro, recapitata alla duchessa, e da
questa al duca. L’effetto fu che la Tullia ottenne il suo desiderio,
di vestir cioè come le piaceva, e di non portare il segno giallo,
grazia concessale, come dice il decreto, in riconoscimento della
_rara scienzia di poesia e di filosofia che, con piacere de’ pregiati
ingegni_, trovavasi in lei. Vedi BONGI, _Il velo giallo di Tullia
d’Aragona_, in _Rivista critica della letteratura italiana_, anno III
(1886), p. 90.

[446] _Tutti i Trionfi, Carri, Mascherate o Canti carnascialeschi
andati per Firenze dal tempo del Magnifico Lorenzo de’ Medici fino
all’anno 1559_, Cosmopoli, 1770, vol. II, p. 332.

[447] MUTINELLI, _Op. cit_., vol. I, pp. 53-4. Vedi per altre curiose
notizie in proposito lo scritto già citato del BERTOLOTTI, _Repressioni
straordinarie alla prostituzione in Roma nel secolo XVI_. Un codice
Marciano conserva di quel tempo il curioso Lamento di un anonimo, che
mostrando di disprezzare tutte l’altre donne, delibera, o di seguitare
le cortigiane esulanti, o di farsi frate. CIAN, _Op. cit_., pp. 61-2.

[448] GALLIGO, _Art. cit._, nel Giornale cit., anno IV, vol. I, pp.
127-28.

[449] BANDELLO, _Novelle_, parte IV, nov. 17.

[450] Non mancavano, al bisogno, protettori ed intercessori possenti.
In Venezia, ogni po’, si lamenta che il mal costume cresce, che la
tracotanza delle meretrici passa ogni termine. In una parte del 12
aprile 1543 si dice espressamente le leggi non potersi applicare
per «li tanti favori che hanno simil persone di mala e pessima
condizione», e in un’altra si ordina che nessun nobile possa in modo
alcuno intercedere per _persona infame_. (_Leggi e memorie venete_,
ecc., pp. 109, 110). Nel giugno del 1532, una certa Vienna, _famosa
Signora_, rea d’aver tolto dalla Pietà una bambina senza licenza,
e d’averla poi rimandata in capo di certo tempo, fu assolta dalla
Quarantia criminale con 33 voti favorevoli e 5 contrarii: «la qual
Viena», dice ingenuamente il buon Sanudo, «avia uno favor grandissimo
di nostri zentilomeni, nè meritava per questo esser condanada».
(_Leggi e mem_., ecc., p. 269). La Nora, nei _Germini_, confessa d’aver
rubate certe lenzuola, e dice che meritava d’essere scopata, ma che
per la raccomandazione di certi amici che aveva andò immune. Odasi la
cortigiana del Du Bellay:

    Je n’avois peur d’un governeur fascheux,
    D’un barisel, ny d’un sbirre outrageux,
    Ny qu’en prison l’on retint ma personne
    En court Savelle, on bien en tour de Nonne:
    N’ayant jamais faulte de la faveur,
    D’un Cardinal, ou autre grand seigneur,
    Dont on voyoit ma maison fréquentée:
    Ce qui faisoit que j’etois respectée,
    Et que chacun craignoit de me fascher,
    Voyant pour moy les plus grands s’empescher.

[451] Vedi più oltre, appendice A, il _Lamento della cortigiana
ferrarese_. Del secolo XVI è pure un opuscoletto intitolato:
_Grandissimi dolori, et gli insopportabili tormenti che patiscono le
povere cortigiane, e chi le seguita. Donde e’ si intende in quanti
modi sono tormentate dagli acerbi dolori del mal francese_. Vedi
_Catalogue de la bibliothèque de_ M. L[IBRI], Parigi, 1847, num. 1510,
p. 244. Nella commedia del CONTILE intitolata _La Cesarea Gonzaga_,
è una cortigiana infranciosata, per nome Masina, la quale ha dato il
male a molti. La cura Maestro Grillo, medico, e questi in certa scena
le dice (atto V, sc. 5): «Vengo da Caterina piemontese, da Polisena
da Lucca, da la Romana e da Francesca Ferrarese, che lavorano con
Francia, e guardono le ricette c’ho lor fatte». Il _Purgatorio delle
cortigiane_ di quel maestro ANDREA in cui ci siamo già imbattuti, non
è il purgatorio ordinario, ma l’ospedale di San Giacomo, detto degli
Incurabili, in Roma,

      In cui si vede paurosi mostri.
    Qui è di Franza il dilettevol male,
      E di San Lazer la lebbra gioconda,
      Cancheri e malattie universale.

Il tristo luogo

    È refugio a le belle cortigiane,
    Che in tanto bene e favor furon pria.

Quivi

    È tal che avea fattezze alte e divine
      Per l’incurabil mal venuta un mostro.

La cortigiana della _Lucerna_ del PONA muore agl’Incurabili, di mal
francese (sera seconda, p. 86).

[452] _Le rime burlesche_, ecc., ediz. cit., p. 396. Se le cortigiane
truffavano, erano, alle volte, anche solennemente truffate. Vedi
tutta la giornata II della parte II dei _Ragionamenti_ dell’ARETINO;
DOMENICHI, _Facetie, motti_, p. 312, ecc.

[453]

    Ste vacche se nassue in calessella,
      E in calessella le sconvien morir:
      Ne no ghe val a dir la tal se bella,
      La tal se ricca, la no puol perir,
      Chè in manco che non se frize una anguella
      Ghe n’ho viste de ricche a falir,
      Ghe n’ho visto de grasse e sontuose
      Vegnir in puochi dì magre e strazzose.

_Le berte, le truffe_, ecc., già citate, f. 19 v. Dice FRANCESCO
SANSOVINO nella satira _A Giulio Doffi_:

    I poeti somiglian le puttane,
      Di quegli è il fin andar a lo spedale,
      Di queste in capo a un tempo esser ruffiane.

_Sette libri di satire_, Venezia, 1560, f. 169 v.

[454] Invecchiata la cortigiana del Du Bellay, la quale aveva in
giovinezza guadagnato ciò che aveva voluto, campa filando, facendo
il bucato, trafficando stracci, preparando belletti e acque medicate,
vendendo, secondo le occasioni, frutta, erbe, ciambelle, e candeluzze
le feste. Per giunta ella soffre di renella, di gotta, di tosse e
di qualche altro male. Abita in una stanzetta d’osteria, e ha sulle
braccia una figlioletta, bambina ancora. Più d’una cortigiana finì
in una di quelle carriuole da rattrappiti, chiedendo l’elemosina per
l’amor di Dio. La Pierina dei _Germini_, che ci si è condotta, dice:

    A gran trionfo il lastrico m’aspetta:
      Braccio m’ha fatto far la cassettina
      Per pormi poi co’ poveri a l’offerta.

[455] A. CORVISIERI, _Il testamento di Tullia d’Aragona_, in _Fanfulla
della Domenica_, anno VIII (1886), num. 5.

[456] NICCOLÒ FRANCO, _Dialoghi piacevoli_, Venezia, 1541, dialogo IV,
f. 67 r.

[457] Tra le _Poesie da fuoco_ già citate è un _Lamento d’Ellena
Ballarina_: vedi più oltre, appendice A, il _Lamento della Cortigiana
ferrarese_.

[458] E così fece la Tullia, sul cui matrimonio non può ora cader
più dubbio. Ella sposò in Siena, nei 1553, un Silvestro Guicciardi
da Ferrara, di cui non si sa altro. In grazia principalmente di tal
matrimonio, dovette ella, l’anno di poi, esser tolta dal ruolo delle
meretrici. V. BONGI, _Documenti senesi su Tullia d’Aragona_, in
_Rivista critica d. lett. ital._, anno IV (1887), p. 187. Il Brantôme
afferma che in Italia era frequente il caso di uomini che sposavano
cortigiane, e racconta di certa Faustina, della quale s’innamorò la
prima volta che fu in Roma, e che rivide poi maritata _avec un homme
de Justice_ (_Op. cit._, vol. I, pp. 176-7). Di un capitano Concio
che sposò una cortigiana romana per nome Vincenza Capista, narra il
DOMENICHI, _Facetie, motti_, ecc., p. 234. Gian Francesco Ghiringhello,
ricco gentiluomo di Milano, sposò la bellissima Caterina da San
Celso, _virtuosa in sonare e cantare, bella recitatrice con castigata
pronunzia di versi volgari_ (BANDELLO, _Novelle_, parte IV, nov. 9,
dedicatoria). Pietro Aretino scagliò un arrabbiatissimo sonetto contro
il conte Ercole Rangone, ch’era in punto di sposare l’Angiola greca
(TRUCCHI, _Poesie inedite_, ecc., vol. III, p. 212). Nella _Trinozzia_
del CONTILE, due cortigiane ricche, Laide ed Ersilia, sposano due
servitori, ma perchè innamorate, non perchè non possano trovare miglior
partito.

[459] _Ragionamento fra il Zoppino_, ecc., p. 448.

[460] A un’altra Imperia, veneziana, fu fatto l’epitafio seguente:

    Imperia imperio cum res hominesque tenerem,
      Hoc volui juvenis condier in tumulo.

FRANCISCUS SWERTIUS, _Epitaphia joco-seria_, Colonia, 1645, p. 115.

[461] GREGOROVIUS, _Lucrezia Borgia_, 1ª ediz., Stoccarda, 1874-5, vol.
I, p. 89.

[462] CIAN, _Op. cit._, pp. 35-6.

[463] Lo negò, per esempio il CORRADI, _Nuovi documenti per la storia
delle malattie veneree in Italia dalla fine del Quattrocento alla metà
del Cinquecento_, negli _Annali universali di medicina e chirurgia_,
vol. 269 (1884), pp. 319-20.

[464] Sostenne il CANELLO che _l’aumentare delle prostitute, e il
loro affinarsi in signore e cortigiane_ nel Cinquecento, _accenna già
chiaramente al sentito bisogno di rispettare la donna altrui, di salvar
la famiglia_. (Vedi _Storia della letteratura italiana nel secolo
XVI_, Milano, 1880, pp. 23-5). Ma tale bisogno è esso veramente e
comunemente sentito in quel secolo? mi par dubbio assai; mi sembra che
le prove che il Canello credeva di scorgerne siano assai più apparenti
che reali. In nessun secolo si scrissero contro il matrimonio tanti
trattati, tanti discorsi, tanti altri componimenti di varia forma
quanti se ne scrissero nel Cinquecento. A volerne fare il catalogo si
potrebbero riempiere più quaderni agevolmente. Non considerò il Canello
che il cresciuto numero e le cresciute attrattive delle prostitute,
se giovavano, per un verso, alla famiglia, con far minore intorno alle
donne maritate la ressa degli insidiatori, per un altro verso nocevano,
stogliendo dal matrimonio molti più celibi, e porgendo agli ammogliati
molte più occasioni, e più gradite, di mancare alla fede conjugale.
Non considerò inoltre che secondo certi principii, ai quali pur
s’informava in quel secolo il culto della donna, lo stato matrimoniale
appariva a molti quasi macchiato di una nota d’indegnità. Dice Michele
Barozzi nel _Dialogo della dignità delle donne_ dello SPERONI (_Opere_,
edizione cit., vol. I, p. 51), che l’amore è quello che naturalmente
fa le donne signore degli uomini, e che le leggi civili, _creature
del vulgo_, «solamente avendo riguardo a’ figliuoli, che a beneficio
della repubblica le nostre donne ci partoriscono, quei dolci nomi
d’innamorato e d’innamorata derivati da amore, scioccamente in due
strane ed odiose parole, moglie e marito, di convertire deliberarono».
Del resto si tratta di sapere, non quanto la prostituzione elegante del
Cinquecento abbia giovato o nociuto alla famiglia, ma quali furono le
cause che la promossero. Ora, tra queste cause, che io mi sono studiato
d’indicare, confesso che non mi viene fatto di scoprire il _bisogno di
rispettare la donna altrui, di salvar la famiglia_.

[465] Si comprende facilmente a quali strane contraddizioni dovesse
dar luogo la devozione alle prese col meretricio. La già più volte
ricordata Nanna ammonisce a questo modo la figliuola: «Veniamo a le
divozioni utili al corpo ed a l’anima. Io voglio che tu digiuni, non
il sabbato, come le altre puttane, le quali vogliono essere da più del
Testamento Vecchio, ma tutte le vigilie, tutte le Quattro Tempora, e
tutti i venerdì di Marzo; e dà nome che in così sante notti non dormi
con persona. In tanto vendile nascosamente a chi più ne dà, guardando
che i tuoi amanti non ti colghino in frodo». (Aretino, Ragionamenti,
parte II, giornata I, p. 252). Una delle interlocutrici della Puttana
errante in prosa, accingendosi a dar conto di mille turpitudini
alla sua degna amica, avverte: «oggi è sabbato, nel quale dì, per
la riverenza della Madre del Salvadore, non mi lascio abbracciare da
alcuno». Nè si creda perciò che quella devozione non fosse sincera.
Beatrice da Ferrara, saputo che Lorenzo de’ Medici, duca d’Urbino, era
ferito in Ancona, gli scrisse una lettera, dove, con alternazione delle
più strane e, diciam pure, delle più comiche, con la più curiosa delle
promiscuità, parla di ogni sorta di sudicieria, e in pari tempo della
Settimana Santa, della sua confessione, delle preghiere fatte da lei a
Dio per la salute dell’ill.mo Signor Duca, del voto fatto di andare in
pellegrinaggio a Loreto, quando l’ill.mo Signor Duca fosse pienamente
guarito. (_Lettere di cortigiane del secolo XVI_, lettera XXXIV, pp.
81-5). Nella commedia del CONTILE intitolata _La Pescara_ (Milano,
1550), dice la Martinella cortigiana a Marcello servo (atto I, sc. 5):
«sai pur che non sono di quelle sfacciate. Odo la messa una volta il
mese, dico la corona, e perchè sono anch’io di buon sangue voglio diece
scudi di chi si vuol meco impacciare».

[466] FORTINI, _Novelle_, 2. Della Bice da Prato si dice nei _Germini_:

      è d’ogni peccato netta e monda
    Sempre il suo ufiziuol la porta allato.

[467] Vedi la già citata lettera di Beatrice da Ferrara a Lorenzo
de’ Medici, duca di Urbino, _Lettere di cortigiane_, ecc., p. 81. Di
una di tali monache novelle narra un lepido casetto il BRANTÔME, _Op.
cit._, vol. II, p. 190. A una signora Imperia scriveva il CALMO per
dissuaderla dal farsi monaca (_Le lettere_, l. IV, lett. 28, p. 314).
La cortigiana Lucrezia lascia la mala vita in uno dei Colloquii di
ERASMO DA ROTTERDAM (_Colloquium adolescenti et scorti_). Spesso la
conversione era solo apparente: vedi GIRALDI CINZIO, _Ecatommiti_,
nov. 1 dell’Introduzione. Nella _Tariffa_ è ricordata una certa
Filomena, che fattasi monaca, tornò poi a fare la cortigiana. La Nanna
dei _Ragionamenti_ dell’Aretino era stata monaca, e di una Paolina,
_monaca smantata_, è ricordo nel citato _Trionfo della lussuria_. Il
dare ad intendere di volersi far monaca, e l’assoggettarsi ad alcuna
pratica devota erano, alle volte, astuzie e spedienti del mestiere. La
cortigiana del Du Bellay dice, parlando degli amanti suoi:

    Conclusion, j’avois mille receptes,
    Pour leur tirer les quatrins de la main:
    Ores faignant de me faire nonnain,
    _Etc._

Anzi, un bel giorno, presa da subito pentimento, entrò nelle
Convertite; ma di lì a poco, pentita d’essersi pentita, tornò alla
usanza di prima. Il poeta francese Gillebert compose due carmi latini,
l’uno in nome di una cortigiana romana che lasciava il vizio e si
faceva monaca, l’altro in nome della stessa cortigiana, che disertava
il chiostro e tornava all’antica vita. La Nanna dell’Aretino, per
meglio pelare i suoi amici, diede voce d’essersi convertita, e si fece
murare in camposanto, e così pure adoperò l’Ordega, spagnuola (ARETINO,
_Cortegiana_, atto IV, sc. 2).

[468] Un _Avviso_ di Roma, spedito ai 28 di marzo del 1556, anno
secondo del pontificato di Paolo IV, contiene la seguente curiosa
notizia: «Predica a S. Apostolo maestro Franceschino da Ferrara, il
quale ha una grandissima audienza, e giovedì, correndo l’Evangelio che
correva, furono comandate tutte le cortigiane a voler andare a udir
la predica, nella quale per il mezo suo il Sig. Dio operò tanto che
82, parte volontariamente e con molte lagrime, e parte per esortazione
si presentarono dopo la predica al predicatore, e si feciono scrivere
per pentite della vita loro, e di voler andare chi in un monastero,
e chi voler maritarsi e viver da donne da bene. E fu bel vedere la
carità delle gentildonne Romane in riceverle in chiesa presso di loro,
accarezzarle, persuaderle, condurle dal predicatore, e menarsele a
casa per levarle dall’occasione del male. Il Sig. Dio doni lor grazia
di perseverare e confirmarsi in così buono proposito. Un altro giorno
se ne convertirono altrettante». (Pubblicato nel _Zibaldone: Notizie,
aneddoti, curiosità e documenti inediti o rari_, anno I, 1888, num.
1, pp. 4-5). Ma le signore cortigiane non sempre si mostrarono così
docili. In un altro Avviso di Roma, del 30 novembre 1566, si legge:
«Domenica passata furono intimate tutte le cortigiane che alle 20 ore
andassero alla predica in Santo Ambrogio. Lì predicò un trentino, che
salito in pulpito, cominciorono a romeggiare (_romoreggiare_?) fra
loro, ed a far ridere, di modo che ’l buon padre rise anch’egli un
pezzo: pur alla fine disse la buona mente di Sua Santità, solicitò
alla salute delle anime loro, e le esortava a lasciar il pecato, e se
si volevano maritare, e quelle non avevano il modo, le averia agiutate
a darli la dote. Li birri stetero alla porta della chiesa, acciò non
entrassero alcuno omo, ma ve n’erano da fuori da due mila». Il 15 marzo
1567, accennando ad altra predica, Giacomo Frangipane scriveva al Duca
di Mantova: «Mentre il predicatore che predicò in sant’Ambrogio alle
cortigiane, riprendeva la vita loro e le esortava al ben fare, una,
chiamata Nina da Prato, levatasi in piedi, cominciò a ribuffarlo, con
dire che l’uffizio suo era di declarare lo evangelio, e non biasimar
la vita loro: onde subito fu presa, e questa mattina è stata frustata».
(BERTOLOTTI, _Art. cit_., p. 513, docum. IX e X).

[469] FRANCO, _Le pístole vulgari_, Venezia, 1542, ff. 187 v. a 188 r.;
LANDO, _Sette libri de cataloghi_, ecc., Venezia, 1552, p. 23.

[470] _Commentario delle più notabili e mostruose cose d’Italia e di
altri luoghi_, Venezia, 1550, f. 76 r. Nel _Trionfo della lussuria_
maestro Andrea dice all’autore, additandogli una schiera di cortigiane:

    Vedi quelle che fur dette signore,
      Tanto superbe in la romana corte
      Che a pena a Dio se dava tanto onore.

[471] RAINALDI, _Annales ecclesiastici_, t. XXX, p. 152. L’usanza non
ebbe a cessar così presto, e non doveva essere molto lungi dal vero
AGRIPPA DI NETTESHEIM, quando affermava che i prelati in Roma avevano
tra gli altri benefizii, anche i redditi che traevano dai postriboli
(_De incert. et van. omn. scient._, cap. LXIV).

[472] Ap. ECCARD, _Corpus historicorum medii aevi_, t. II, p. 1997.

[473] Si trova nelle varie stampe del _Terzo libro dell’opere burlesche
di_ M. FRANCESCO BERNI _e di altri_. Sembra che le cortigiane di Roma
non lasciassero di far gazzarra nemmeno negli anni santi. Ai 7 di
febbrajo del 1525, anno di Giubileo, Francesco Gonzaga, ambasciatore
del Duca di Mantova a Roma, scriveva a Jacopo Calandra, segretario del
medesimo Duca: «Noi stemo qui menando vita veramente religiosa, però
che par un convento di frati, che vivesi in un’osservanzia mirabile;
eccetto che le cortigiane non mancano de l’officio loro, ancor che parà
che mal si convenga in questo anno santo; ma tanto seria possibile a
dar rimedio a questo, quanto ad levar la proprietà a le cose produtte
da la natura; sicchè è forza che il mondo vaddi in questa parte secondo
il solito». (A. BASCHET, _Documenti inediti su Pietro Aretino_, in
_Arch. stor. ital_., serie III, t. III, parte 2ª, p. 121). Se dunque
mancavano alla corte di Roma le nobili e colte dame, come lamentava
il BIBBIENA in una sua lettera a Giuliano de’ Medici (_Lettere di
principi_, Venezia, 1581, lib. I, f. 16 v.) tale mancamento non era in
tutto senza compenso.

[474] La Via dei Banchi era allora la principale di Roma, e perciò
la più frequentata dalle cortigiane. Delle cortigiane più famose che
vissero in Roma nella prima e nella seconda metà del Cinquecento,
si han notizie parecchie, e si potrebbe, volendo, farne l’elenco.
Di quelle che fiorirono ai tempi di Leone X reca i nomi il già
citato _Censimento_. Per gli anni che seguono ne ricordano molte il
_Ragionamento fra il Zoppino fatto frate_, ecc., il _Trionfo della
lussuria di maestro Pasquino_, dove assai terzine sono spese in farne
la enumerazione; l’introvabile libro intitolato _Angitia cortigiana,
De la natura del cortigiano_, Roma, 1540. (Alcuni estratti in _Œuvres
choisies de_ P. ARÉTIN, _traduites de l’italien pour la première fois
avec des notes par_ P. L. JACOB _bibliophile_, Parigi, 1845). Per la
seconda metà del secolo si hanno alcuni nomi in una lettera del CALMO,
_Alla Signora Romana, Le lettere_, I, IV, lett. 13, p. 279.

[475] _Diarii_, t. VIII, col. 414.

[476] _Pasquillorum tomi duo_, Basilea, 1544, t. I, p. 23. Più altri
tolsero da quei due nomi di Venezia e di Venere occasione di bisticcio.
Delle donne veneziane disse il francese GERMANO AUDEBERT, nel suo poema
_Venetiae_, l. I (ediz. di Venezia, 1583, p. 15):

            Veneres discrimine parvo
    Et Venetae distant.

Un altro francese, STEFANO PASQUIER, dice nel l. II delle sue _Icones_,
parlando _De Venetiarum urbe_:

    Hanc Venus at lepidam se transformavit in urbem;
      Viveret ut mediis fluctibus, orta salo.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Hinc Venus est omnem late diffusa per urbem,
    . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Sic Veneres Venetas licet appellare puellas.

Dello strabocchevole numero delle cortigiane veneziane molti fanno
ricordo. Parlando di Venezia appunto, dice il Gentiluomo nella Tariffa,

    Che quante rane ha in sè palustre fondo
      E la terra formiche, o fiori i prati,
      Quando l’Aprile è più vago e giocondo,
    Tante sono puttane in tutti i lati,
      De quai veggiam talor più folta schiera,
      Che di vacche e di buoi per li mercati.

Ciò che conferma il BANDELLO, dicendo essere in Venezia _un infinito
numero di puttane_ (_Novelle_, parte III, nov. 31), e conferma il
GIRALDI CINZIO, notando Venezia essere _abbondevole di quella sorte
di donne che cortigiane son dette_ (_Ecatommiti_, deca VI, nov. 7).
Le carampane erano case abitate da meretrici di bassa mano, a Rialto.
Per l’ordinamento che ci si osservava vedi GIROLAMO BARDI, _Delle
cose notabili di Venetia, libri II_, Venezia, 1587, p. 24. Vedi anche
GALLICCIOLLI, _Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche_,
Venezia, 1795, vol. VI, pp. 148-50; TASSINI, _Curiosità veneziane_, 4ª
edizione, Venezia, 1887, pp. 145-6, e _Cenni storici e leggi circa il
libertinaggio in Venezia, Venezia_, 1886, pp. 15-6, 25-8. Le cortigiane
si mantennero assai numerose nella città delle lagune anche nel secolo
XVII. In sul principio di esso il viaggiatore inglese Tommaso Coryate
riferiva una voce che faceva ascendere a 30000 il numero di quelle che
dimoravano nella città e luoghi circonvicini, e diceva che da tutte
le parti della cristianità accorrevano i forestieri desiderosi di
vederle e di praticarle. Senza dubbio in quel numero, dato pure che
non sia esagerato, erano comprese tutte le meretrici, d’ogni grado e
condizione. Sul finire del secolo, il francese Alessandro Toussaint
Limojon de Sainct-Didier affermava nessuna città poter gareggiare con
Venezia quanto a cortigiane. A mezzo il secolo XVIII Carlo De Brosses
trovava ancora in Venezia due volte più cortigiane che in Parigi, e
notava espressamente: _elles sont fori employées_.

[477] _Il Candelajo_, atto V, sc. 18. Non era così altrove. In Firenze,
per esempio, dovevano pagar la tassa ogni mese, puntualmente (CECCHI,
_Il Martello_, atto II, sc. 2). Nè in Venezia stessa andarono sempre
immuni da tasse. Nel 1514 fu loro imposto un balzello per riparare
all’interramento dell’Arsenale, e se ne ricavò grande quantità di
denari.

[478] CALMO, _Le lettere_, l. IV, lett. 13, p. 278.

[479] _La Ruffiana_, Venezia, 1568 (la prima stampa è del 1542), atto
I, scena 1.

[480] _Le lettere_, l. IV, lett. 13, p. 279.

[481] Fu vietato l’abuso il 14 luglio 1578, poi di nuovo il 16 marzo
1582 (_Leggi e memorie venete_, ecc., pp. 121-2, 125).

[482] _Novelle_, parte III, nov. 31. Un’usanza simile pare, per altro,
non fosse sconosciuta a Roma, secondo si ha da un luogo della _Vieille
courtisane_ del DU BELLAY.

[483] _Op. cit._, vol. II, pag. 31.

[484] _Leggi e memorie venete_, ecc., 268. Non mi fu possibile aver
notizia di un libro di N. GUTTERY, intitolato _La Priapeja, al magn.
sig. L. D. M. M. D. C._, s. l., ma probabilmente Parigi, 1586. Il
BRUNET, che lo registra (_Manuel du libraire_, ed. 5ª, vol. II,
col. 1832), dice che esso contiene _une conversation entre quatre
courtisanes vénitiennes, dans le goût des_ Ragionamenti _de l’Arétin_.
Ci si dovrebbero trovare notizie curiose e importanti sulla vita delle
cortigiane in Venezia. Dice AGRIPPA DI NETTHESHEIM nel già citato suo
libro _De incert. et vanit. omn. scient._, c. LXIII: «Vidi ego nuper
atque legi sub titulo _Cortesanae_ italica lingua editum et Venetiis
typis excusum de arte meretricia dialogum utriusque Veneris omnium
flagitiosissimum dignissimumque qui ipse cum autore ardeat». Non so a
quale composizione egli possa alludere, essendo stato stampato il suo
libro nel 1530.

[485] Parte I, nov. 4.

[486] Notizie copiose della Veronica diedero: il CICOGNA nei vol. V
e VI delle _Inscrizioni veneziane_, Venezia, 1824-53, e G. TASSINI,_
Veronica Franco celebre poetessa e cortigiana del secolo XVI_,
Venezia, 2ª edizione, 1888. Il Tassini corresse parecchi errori in
cui erano incorsi i biografi prima di lui; ma il suo lavoro è, per
altri rispetti, assai manchevole. Nè dalle pagine sue, del resto, nè
da quelle del Cicogna, si vede venir fuori la figura della cortigiana
letterata. Parlarono inoltre della Franco, ma assai fugacemente ed
inesattamente, il DELLA CHIESA, nel _Teatro delle donne letterate_;
GIOVANNI DEGLI AGOSTINI, nelle _Notizie istorico-critiche intorno la
vita e le opere degli scrittori viniziani_; il GAMBA, nei _Ritratti
di dodici illustri donne veneziane_; ENRICO LEVI CATTELANI, in uno
scritto intitolato _Venezia e le sue letterate nei secoli XV e XVI_,
Rivista europea, nuova serie, volume XV, e alcun altro che non giova
ricordare. Non ha valore di sorta un articoletto dal titolo _Véronique
Franco, Henri III et Montaigne_, nel _Bulletin du bibliophile et du
bibliothécaire_, 1886.

[487] Scudo con figurate in una fascia quattro stelle e tre monticelli
sotto.

[488] Vedi questo primo testamento della Veronica pubblicato dal
TASSINI, _Op. cit._, pp. 66-71.

[489] _Lettere familiari a diversi della S_. VERONICA FRANCA, senza
alcuna nota tipografica, lett. XXIX, pag. 58. Il padre è menzionato
anche in un secondo testamento, del 1570, pubblicato pure dal TASSINI,
_Op. cit._, pp. 72-80.

[490] Dal secondo testamento si ha che la madre era già morta nel 1570;
perciò è da porre prima di quell’anno la compilazione del _Catalogo_.

[491] Lettera VII, p. 12.

[492] Questo ritratto fu riprodotto dal GAMBA in _Alcuni ritratti di
donne illustri delle provincie veneziane_, dal MUTINELLI negli _Annali
urbani di Venezia nel secolo XVI_, e ultimamente dal TASSINI, _Op.
cit._

[493] _Terze rime di_ VERONICA FRANCA, s. l. ed a., ma in Venezia,
circa il 1575, come si rileva dall’epistola dedicatoria, di cui avrò a
dire più là. Capitolo XVI.

[494] Capitolo VII.

[495] Capitolo I.

[496] Capitolo VII.

[497] Lettera XLVIII, pp. 83-4.

[498] Capitolo XVI.

[499] Lettera XIII, p. 21; XIV, p. 21.

[500] Lettera XLIX, pp. 84-5.

[501] Capitolo XX.

[502] BALDESSAR CASTIGLIONE, _Il Cortegiano_, l. I, ediz. di Firenze,
1854, p. 64.

[503] Lo scritto di PIETRO SELVATICO, _Veronica Franco e il
Tintoretto_, nel volume _L’arte nella vita degli artisti_, Firenze,
1870, è tutto un romanzetto assai scipito.

[504] _Capitolo alla Franca_, nel cod. Marc. Ital. IX, 173, già citato,
f. 410 r.

[505] Capitolo XX.

[506] Lettera VII, p. 11.

[507] Lettere XXXV, pp. 63-4; XLVII, pp. 80-1; LI, pp. 86-7.

[508] Ultimamente il signor A. BORZELLI in un articoletto intitolato
_Per Veronica Franco_, e inserito nella _Polemica_ di Napoli, anno
I, numero 4, sostenne che la Veronica Franco del Catalogo non può
essere quella stessa delle terze rime e delle lettere; ma in sostener
ciò prese alcuni solennissimi granchi. Egli continua ad assegnare la
nascita della Veronica all’anno 1553 o 1554, mentre son degli anni
parecchi che fa dal Tassini provato che la Veronica nacque nel 1546.
Confondendo il _Catalogo_ con la _Tariffa_ in versi, egli assegna
a quello la data del 1535, che è la data della prima stampa di
questa. Trovando nel _Catalogo_ scritto Veronica Franca e non Franco,
insiste su questa diversità, mostrando di non sapere che si usava nel
Cinquecento dar desinenza femminile ai cognomi quando si parlava di
donna, dicendosi la Trivulzia, la Orsina, ecc. Finalmente egli sostiene
che cortigiane come Veronica Franco e Tullia d’Aragona _non venivano
messe in lista con la relativa tariffa per certi favori_: ora, a farlo
apposta, la Tullia è messa in lista nella _Tariffa_ col prezzo di scudi
sette. Del resto, prima del signor Borzelli altri cadde, in parte,
nei medesimi errori, e per ciò vedi ROSSI, _Le lettere del Calmo_,
Introduzione, p. CVI.

[509] Nel già citato codice Marciano si leggono (ff. 253 v. a 254
r.) una nota e un sonetto che possono forse avvalorare la congettura
di un disgusto sopravvenuto tra il Veniero e la Veronica, senza però
lasciarne intendere le ragioni. Trascrivo. _Sonetto dicesi del Venier.
Sopra el retratto e l’impresa de Veronica Franca, fatto l’anno del
giubileo in Roma. Vi era il ritratto in stampa di rame, e la sua
impresa che era una favella accesa col motto_: AGITATAQUE CRESCIT; _e
intorno al retratto vi era scritto_: ANNO AETATIS SUAE XXV.

              SONETTO.

    El retratto e la impresa è bona e bella:
      L’un perchè el le somegia in quanto brutto;
      L’altro che in le puttane Amor fa lutto
      Per Amor, e fa fuogo in la facella;
    Che l’arde solamente quanto ch’ella
      Dal moto e dal scorlar riceve agiuto;
      Così chi vuol da vaca aver construtto
      Diè strapazzarla in questa parte e in quella.
    Mi trovo in tel retratto un sol error,
      Ch’è de importanza assae, tanto pi quanto
      Non puol gnianche conzar el depentor.
    Ch’el tempo è, se no pi, do volte tanto:
      Pur ghe è via de salvarlo, e con so onor,
      De dir che l’è stampà l’altro anno santo.

La nota non dice per altro che quel Veniero fosse Marco, e se a
Domenico non è da pensare, potrebbe anche essere stato quel Maffeo
ch’ebbe a padre Lorenzo, autore della _Zaffetta_, e che fu poi vescovo
di Corfù. Molte poesie di lui, o a lui attribuite, contiene il codice
in discorso. L’ultima parte del sonetto ha qualche parte di vero
insieme con molta e maligna esagerazione. Nel 1575, anno di giubileo,
la Veronica non aveva più venticinque anni, ma non aveva ancora
oltrepassati i trenta. Il ritratto di cui qui si parla non può essere
tutt’uno con quello di cui dà una breve descrizione il DEGLI AGOSTINI
(_Op. cit._, vol. II, p. 616), e che recava, insieme con la fiaccola e
il motto, la scritta: VERONICA FRANCO ANN. XXIII. MDLXXVI; o se pure è
tutt’uno con esso, e se la diversità, solo apparente, nasce da errore
in quella indicazione di numeri, tale errore non può essere che dello
storico, mentre l’accenno al giubileo toglie che si possa imputare al
poeta. Del resto, nella nota che accompagna il sonetto, non s’intende
bene se quelle parole _fatto l’anno del giubileo in Roma_ vogliano dire
che il ritratto fu fatto in quell’anno in Roma, o che in Roma fu fatto
il sonetto, o che il ritratto o il sonetto fu fatto nell’anno che in
Roma si festeggiava il giubileo.

[510] Capitolo II.

[511] Capitolo VIII.

[512] Capitolo XV.

[513] Capitolo XX.

[514] Capitoli XXI e XXII.

[515] Capitolo XIX.

[516] Lettera XIX, pp. 35-6.

[517] Capitolo VIII.

[518] Lettera XX, pp. 37-8.

[519] Capitoli IX, X, XI, XII.

[520] Lettera XXXVI, p. 67.

[521] Capitolo XVII.

[522] Lettera XLIX, pp. 84-5.

[523] Capitoli XIII e XIV.

[524] Nel testamento del 1564 la Veronica diceva ingenuamente: «Lasso a
m. Jac.mo de’ Baballi el figliuolo, over figliuola che nasceranno de mi
come a suo padre; sia o non sia, Signor Dio scià il tutto». Nel secondo
testamento, fatto, come s’è veduto, sei anni dopo, il 1º novembre
1570, ella dice: «Achille mio fiol e di m. Jacomo Baballi Raguseo,
il qual, quanto a me, credo sii suo fiolo». Il dubbio ch’ella aveva
potevano avere anche altri, e in esso forse è da cercare la ragione di
certe disposizioni contenute nel testamento che nell’aprile di quel
medesimo anno aveva dettato Lodovico Ramberti, famoso nelle storie
veneziane per aver sottratto a morte atroce e infamante il proprio
fratello mediante un veleno somministratogli in carcere. Costui legava
ad Achilletto, _fio de mª Veronica Franco_ (senz’altro) parte della
sua sostanza, lasciandone usufruttuaria la madre sino a che il figlio
avesse raggiunto l’età maggiore, e provvedendo a che Achilletto potesse
avere un compenso, nel caso che la madre, testando, favorisse un altro
figliuolo più di lui. La Veronica poi indicava il Ramberti quale uno
de’ suoi esecutori testamentarii.

[525] Di questo secondo figliuolo, chiamato Enea, è ricordo nel secondo
testamento, ed è da notare che circa la paternità di Andrea Tron la
Veronica non mostra il dubbio che mostra per quella di Jacopo de’
Baballi.

[526] Non è peraltro da tacere che tra le male usanze delle cortigiane
c’era anche quella di simulare gravidanze e parti, e a qual fine
s’intende facilmente. La Nanna dell’Aretino poi così parla dell’uso
loro di prendere bambine negli ospedali: «e scelta la più bella
bambina, che ivi venga, se la allevano per figliuola; e la tolgono di
una età che appunto fiorisce ne lo sfiorire de la loro, e gli pongono
uno de’ più belli nomi che si trovino, il quale mutano tutto dì, nè
mai un forastiere può sapere qual sia il suo nome dritto: ora si fanno
chiamare Giulie, ora Laure, ora Lucrezie, or Cassandre, or Porzie,
or Virginie, or Pantaselee, or Prudenzie, e ora Cornelie; e per una
che abbia madre, come sono io de la Pippa, un migliajo sono tolte
da gli spedali». (_Ragionamenti_, parte I, giornata III, p. 151). La
cortigiana del Du Bellay, enumerando gl’inganni che usava agli amanti,
dice:

    Aucunefois je me faisois enceinte.

[527] Capitolo VIII.

[528] Lettera XXI, pp. 38-40, al Tintoretto.

[529] Lettere XXVIII, pp. 54-7; XXIX, pp. 57-9.

[530] Lettere XXXIII, pp. 63-4; VII bis, pp. 13-4.

[531] Lettere X, p. 17; XXIII, pp. 47-8; XXVI, pp. 50-2; XXXIV, pag. 65.

[532] Lettera XLVI, p. 79.

[533] Lettera XXIV, pp. 48-9.

[534] Lettere VII, p. 11; XLIX, p. 84.

[535] Lettera XXV, pp. 49-50.

[536] Lettere XXXVII, pp. 67-9; XXXVIII, pp. 69-70.

[537] Nell’Archivio Gonzaga, per altro, non si conserva documento
alcuno concernente la Veronica. Così mi assicura Alessandro Luzio.

[538] Lettera XLII, p. 75.

[539] Vedi SERASSI, _La Vita di Domenico Veniero_, preposta alla
edizione delle _Rime_, Bergamo, 1751, p. XIII.

[540] Vedi il capitolo XVIII, e le lettere XL, p. 73; XIX, p. 84.

[541] _Lettere brevissime di_ MUTIO MANFREDI, _il Fermo Academico
Olimpico_, ecc., _scritte tutte in un anno_, ecc., Venezia, 1606,
p. 249. Il sonetto della Veronica si legge nella edizione che della
_Semiramide_ fa fatta in Bergamo per Comin Ventura nel 1593.

[542] _Rime di diversi eccellentissimi auttori nella morte
dell’Illustre Sign. Estor Martinengo Conte di Malpaga. Raccolte, et
mandate all’illustre, et valoroso Colonnello il S. Francesco Martinengo
suo fratello, Conte di Malpaga. Dalla Signora_ VERONICA FRANCO. Senza
nessuna nota tipografica.

[543] _De antiquitate et viris illustribus Veronae_, Padova, 1647, l.
I, c. 20.

[544] È il XXV, cioè l’ultimo, e conta non meno di 565 versi.

[545] Molti altri amici nobili e illustri ebbe certamente la Veronica.
Nel secondo testamento ella designa quale uno de’ suoi esecutori
testamentarii il magnifico messer Lorenzo Morosini, e raccomanda i
figliuoli al chiarissimo messer Giambattista Bernardo.

[546] Capitolo XXII. Anche nel capitolo III deplora la Veronica
d’essersi allontanata da Venezia:

    E l’ora piango, e ’l dì ch’io fui rimossa
      Da la mia patria.

[547] Capitolo XII.

[548] Parlando, nel capitolo XV, del colonnello, fratello di Estor
Martinengo, diceva:

    E come donna in questa patria nata,
      Vorrei, ch’ov’ha di lui bisogno andasse,
      E ch’opra a lei prestasse utile e grata.

[549] Lettera V, pag. 6. Gerolamo Fenaruolo, volendo dissuadere Adriano
Willaert dal partirsi di Venezia, scriveva in un suo capitolo:

    Questa Venezia è una città d’assai,
      È un novo mondo, un novo Paradiso,
      E sarà così fatta sempre mai.
    Se voi guardate gli uomini nel viso,
      Qui vedrete più vecchi che non sono
      E stelle in cielo e gamberi a Treviso.
    E questo nasce perchè l’aere è buono,
      Perchè sempre si vive in allegrezza,
      Perchè quel che si mangia ci sa buono.
    L’infinita abbondanza e la ricchezza,
      I comodi, i diletti, ed i piaceri
      Fan veder vita eterna a la vecchiezza.
    E senza tante pinole e cristeri
      Tiran dal corpo al fondo del crivello
      La soma d’ogni sorte di pensieri.

SANSOVINO, _Sette libri di satire_, f. 193 r.

[550] Di trattenimenti musioali è pur cenno nella lettera XLVI, pag. 79.

[551] Parlando di certa canzone della Ghirometta, dice Scipione
Ammirato in un luogo de’ suoi _Opuscoli_: «Era uscita allor per Venezia
questa canzone in campagna, e cantavasi da piccoli, e da grandi di
giorno, e di notte per le piazze, e per le vie sì fattamente, che
ciascuno avea del continuo gli orecchi intronati dal tuono di questa
canzone». Cito da un opuscoletto per nozze, intitolato _Novelle_ di
SCIPIONE AMMIRATO, Bologna, 1856, p. 10.

[552] V. le lettere del Calmo ad Angiola Sara e alla signora Frondosa,
ediz. cit. l. III, lett. 39, l. IV, lett. 42, pp. 245, 346-7.

[553] Lettera XIII, p. 21.

[554] Nell’opera di GIACOMO FRANCO, _Habiti d’huomini et donne
venetiane_ ecc., sono due stampe che qui vogliono essere ricordate. La
prima rappresenta molte gondole con persone che vanno a diporto. In una
è una tavola imbandita con uomini e donne che mangiano; in altra una
donna che suona il clavicembalo, con altre donne e nomini che suonano
varii strumenti. Sotto vi è scritto: _In questa maniera la state ne’
grandi caldi si va ai freschi per li canali della Città la sera fino a
mezza notte, con musiche di voci e diversi istromenti con grandissimo
diletto, con le signore Cortigiane, e spesso anco si cena in barca con
mirabil piacere._ La seconda stampa mostra come si andasse l’inverno a
uccellare in barca sulla laguna.

[555] Lettera XLIV, pp. 76-8.

[556] Vedi per tali notizie TASSINI, _Op. cit._, p. 40.

[557] Nel testamento del 1570 è cenno di beni mobili e stabili, di
_un filo di perle nº 51 ballotte_, di piatti d’argento e di altra
argenteria con lo stemma della Veronica.

[558] Capitolo XXIII.

[559] Capitolo XVI.

[560] Lettera VIII, pp. 14-6.

[561] Vedi CICOGNA, _Op. cit._, t. VI, pp. 884-5 e TASSINI, _Op.
cit._, pp. 89-97. Il vero testamento del Ramberti è del 19 aprile 1570;
CICOGNA, _ibid._, p. 957; TASSINI, _ibid._, pp. 89-97.

[562] Lettera XLVIII, pp. 82-4.

[563] Lettera XXX, pp. 58-9. Il detrattore cui questa lettera è scritta
aveva commesso in casa della Veronica, a quanto costei afferma, un
_vilissimo mancamento_, non sappiam quale.

[564] Vedi TASSINI, _Op. cit._ pp. 23-5.

[565] SANDONNINI, _Alessandro Tassoni ed il Sant’Uffizio_, in _Giornale
storico della letteratura italiana_, vol. IX, pp. 345 sgg.

[566] Una delle più semplici consisteva in tracciar certi cuori nella
cenere calda, e in recitarvi su questi versi:

    Prima che ’l fuoco spenghi
      Fa che a mia porta venghi.
      Tal ti punga il mio amore
      Quale io fo questo cuore.

Vedi pp. 425-6. Cfr. _Ragionamenti_, parte II, giornata III, pp.
406-10. Delle malie che usavano le meretrici per trattenere gli amanti
è cenno in una poesia di VINCENZO BELANDO, intitolata _Scudo d’amanti
dove si scuopre gli assassinamenti, inganni, astutie, forfanterie e
truffarie che usano le puttane per ingannare i simplici giovani_, ecc.,
stampata insieme con le _Lettere facete e chiribizzose_, ecc. dello
stesso autore, Parigi, 1588. Uno stuolo di maliarde faceva comparire il
VENIERO nel trionfo di Elena Ballerina in Roma, _La Puttana errante_,
canto IV. Cfr. _La vieille courtisane_ del DU BELLAY e LUCIANO,
_Dialoghi delle cortigiane_, I, IV.

[567] Lettere XI, pp. 18-20; XXXI, pp. 60-2.

[568] Lettera XXXIX, p. 71.

[569] Lettera XXXVIII, p. 70.

[570] _Ibid._

[571] Lettera XXII, pp. 41-6.

[572] _Novelle letterarie_ per l’anno 1757, pag. 320; CICOGNA, _Op.
cit._, vol. VI, pag. 884; TASSINI, _Op. cit._, p. 65.

[573] Entrambi questi sonetti furono pubblicati dal CICOGNA, _Op.
cit._, t. V, pag. 424.

[574] TASSINI, _Op. cit._, p. 39.

[575] Lo pubblicò il CICOGNA, _Op. cit._, t. V, pp. 414-5.

[576] TASSINI, _Op. cit._, p. 43.

[577] CICOGNA, _Op. cit._, t. V, p. 412.

[578] Anche questo documento fu pubblicato dal CICOGNA, _Op. cit._, t.
V, pp. 416-7.

[579] Lettera XXXIX, p. 71. Della madre la Veronica non fa parola se
non nel suo secondo testamento, dove è detto: «It. lasso a suor Marina,
monaca nel mon. di S. Bernardin in Padova, duc. diese per una volta
tantum, i quali duc. diese ghe lasso per discargo dell’anima di mia
madre, perchè suo padre ghe li aveva lassati, quali gli siino dati
subito venduta la mia robba». Fu la madre forse quella che la spinse al
vizio, o che, semplicemente, la trasse al suo esempio? L’ho già detto:
potrebbe darsi. Nel suo Memoriale la Veronica dice che molte madri
meretrici, «ridutte in bisogno, vendono secretamente la verginità de
le proprie innocenti figliole, incaminandole per la medesima via del
peccato che esse hanno tenuto». Una di tali vendute fu probabilmente la
Veronica.

[580] Lettera XV, p. 23.

[581] Veggasi, per esempio, la lettera XVIII, p. 31.

[582] Vedi intorno a Tullia d’Aragona GUIDO BIAGI, _Un’etèra romana_,
in _Nuova Antologia_, serie 3ª, vol. IV (1836) pp. 654-711.

[583] Lettera XXXVIII, p. 70.

[584] L’edizione più antica di questi due curiosi poemetti credo sia la
seguente: _El vanto della cortigiana ferrarese qual narra la bellezza
sua. Con il lamento per esser redutta in la carretta per el mal
franzese et l’amonitorio che fa alle altre donne. Seguita l’epigramma
con el purgatorio delle cortigiane, per_ GIOV. BAPT. VERINI, Venezia,
1532. Molte altre edizioni se ne fecero, per le quali vedi la
_Bibliographie des ouvrages relatifs à l’amour_, etc., vol. V, p. 241,
vol. VI, p. 384, e ROSSI, _Le lettere del Calmo_, Appendice I, pp.
386-8. Il _Purgatorio_ è di maestro Andrea dipintore; che il _Vanto_
e il _Lamento_ sieno di Giambattista Verini, fiorentino, è probabile,
ma non è provato. Ad ogni modo la scena dei due poemetti è in Roma. Io
riproduco qui l’uno e l’altro secondo una stampa veneziana del 1538,
ritoccando solo la grafia e qualche verso che nel testo non torna,
acconciando alcuno errore. La medesima stampa contiene pure _Il lamento
e la morte de la cortigiana_, in undici terzine; ma è cosa che non
merita d’essere trascritta.

[585] Questi nomi li abbiemo già trovati, e provano che il poemetto
dovette essere composto verso il 1530.

[586] Forse _trinale_ da _trina?_ ma i vocabolarii non l’hanno.

[587] Vedi qui addietro pp. 234-5.

[588] Traggo questa poesia, che non ha altro titolo, dal raro volume
già citato, _Delle rime piacevoli di diversi autori. Nuovamente accolte
da_ M. MODESTO PINO, _et intitolato La Carovana_, parte prima, ff. 25
r. a 27 v.

[589] Vedi qui addietro p. 287.

[590] Vedi la lettera del Paolucci in _Lettere di_ LODOVICO ARIOSTO
raccolte da A. CAPPELLI, 3ª edizione, Milano, 1887, pp. CLXXI sgg.
Primo a pubblicarla fu il CAMPORI nelle sue _Notizie di Raffaello, Atti
e mem. delle rr. deput. di storia patria per le prov. mod. e parm._, t.
I, 1863.

[591] _Lettere_, ediz. di Parigi, 1606, vol. I, f. 26 r.

[592] _Facetie, motti et burle di diversi signori et persone private_,
edizione di Venezia, 1599, pp. 202-4. Lo stesso racconto si ha pure
nel _Democritus ridens_, Colonia, 1649, pp. 378-80. Il Serapica, o
Sarapica, è ricordato più volte anche dall’Aretino, e da altri.

[593] DOMENICHI, _Op. cit._, p. 201.

[594] _L’hospidale de’ pazzi incurabili_, Venezia, 1617, p. 49.

[595] _Vita Leonis X_, l. IV, ediz. di Firenze, 1551, p. 98. A dir
vero il Giovio nomina solamente il Poggio, il Moro, fra Mariano e
Brandino. Fra Martino è ricordato da SIGISMONDO TIZIO nella voluminosa
e manoscritta sua Cronaca di Siena (ap. FABRONI, _Leonis X Pontificis
Vita_, Pisa, 1797, pag. 295, n. 82), e lo stesso Tizio narra pure
con indignate parole come il cardinale Raffaele Petrucci mandasse il
bastardo Andrea al pontefice (V. l’intero passo, che merita d’esser
letto, riferito dal MAZZI, _La Congrega dei Rozzi di Siena nel secolo
XVI_, Firenze 1882, vol. I, p. 73). Ma ce n’erano anche degli altri.
Nella _Cortegiana_ dell’ARETINO (atto I, sc. 12) un pescatore dice
al Rosso, vendendogli certe lamprede: «L’altre l’ha tolte or ora lo
spenditore di fra Mariano per dar cena al Moro, a Brandino, al Proto,
a Troja, ed a tutti i ghiotti di palazzo». Troja era nientemeno che il
vescovo di Troja; del Proto vedremo or ora. Quanto al Rosso introdotto
dall’Aretino nella sua commedia, egli è probabilmente tutt’uno con un
Rosso buffone, ricordato dallo stesso ARETINO nel capitolo _Al principe
di Salerno_, nella giornata II della parte I dei _Ragionamenti_ e
nel _Ragionamento delle corti_, e poi anche dal MAURO nel capitolo ad
Ottaviano Salvi e dal TANSILLO nel capitolo a Cola Maria Rocco e in
quello al duca di Sessa. Dice di lui ORTENSIO LANDO: «Il Rosso buffone,
mentre servì Ippolito cardinale de’ Medici acquistò e facultà e fama
grande, e ne viverà immortalmente» (_Sette libri de cathaloghi a varie
cose appartenenti_, Venezia, 1552, l. VI, p. 501). Non è fuor del
probabile che anche il Rosso abbia frequentata la corte di Leone X.

[596] Vedi, per i secoli che precedono il XVI, un articolo di ADOLFO
BARTOLI, _Buffoni di corte_, nel _Fanfulla della Domenica_ del 1882, nº
11.

[597] _Orlando Furioso_, c. XXXV, 20.

[598] _La piazza universale di tutte le professioni del mondo_,
Venezia, 1587, disc. CXIX, p. 816. Cfr. GIULIO LANDI, _Attioni morali_,
Venezia, 1564, p. 402, sgg.

[599] _Il Cortegiano_, ediz. di Firenze, 1854, l. II, XLVI.

[600] _Opuscula moralia et politica_, Parigi, 1645, _De re aulica_, l.
1, c. 6.

[601] Non so donde il FLÖGEL abbia tratta la notizia che Paolo II
nutrì matti e buffoni (_Geschichte der Hofnarren_, Liegnitz e Lipsia,
1789, p. 434). Il Platina tanto avverso, e per buone ragioni, a quel
pontefice, non fa parola di ciò nella Vita che ne compose.

[602] BURCHARD, _Diarium sive rerum urbanarum commentarii_, edizione di
Parigi, 1883-5, vol. III, pp. 126-7.

[603] Novelle, parte I, nov. 30; parte IV, nov. 27.

[604] Marcantonio Sidonio, Francesco del Lago di Garda e il Cimarosto
sono ricordati da ORTENSIO LANDO, _Op. e l. cit._ Il Cimarosto era
di Brescia e se ne andò, come tanti altri suoi pari, a Roma per
cercarvi fortuna. E in Roma ebbe occasione, se s’ha a credere allo
STRAPAROLA, di far ridere sgangheratamente con certa sua burla Leone
X (Vedi _Le piacevoli notti_, notte VII, fav. 3. Veramente, per un
errore stranissimo ed inesplicabile, lo Straparola parla di un _sommo
pontefice Leone di nazione alemanno_; ma non è dubbio ch’egli intende
di Leone X. Alemanno fu Leone IX [1048-54]. Nelle edizioni espurgate
delle _Piacevoli notti_ Cimarosto rimane, ma Roma si muta in Firenze
e il papa in un senatore). Del Bargiacca narra certa novella TOMMASO
COSTO, _Il Fuggilozio_, Venezia, 1601, giornata V, p. 361. MARC’ANTONIO
MAJORAGGIO accenna, nella sua _Oratio de laudibus auri_, all’uso che
avevano i cardinali di nutrire buffoni. Aveva torto perciò il MAURO di
dire, parlando appunto dei buffoni, nel già citato capitolo a Ottaviano
Salvi:

    Non han però virtute in Cardinali,
      I quai non ridon così volentieri
      Come fan questi illustri temporali;

ma probabilmente diceva a quel modo per celia. Molti altri buffoni
famosi ebbe il Cinquecento. Ricorderò ancora lo Strascino da Siena, che
al mestier di poeta accoppiava quello di buffone, e fece ridere Leone X
con le commedie e coi lazzi suoi; il Bruschetto di Antibo, che dice il
LANDO (_Op. e l. cit._) si guadagnò con le buffonerie diecimila scudi,
e fu fatto maestro delle poste; il Moretto da Lucca, vincitore in molte
gare di buffoneria; un Berto, ricordato dal CASTIGLIONE (_Op. cit._,
l. II, L); un Lionello, ricordato dal GARZONI, (_Piazza_, disc. L, p.
479). Di alcuni buffoni assai noti in Venezia fa menzione ANDREA CALMO,
_Le lettere_ riprodotte da V. Rossi, Torino, 1888, l. II, lett. 34, p.
139.

[605] _Prose volgari inedite e poesie latine e greche edite ed inedite
di_ ANGELO AMBROGINI POLIZIANO, raccolte e illustrate da ISIDORO DEL
LUNGO, Firenze, 1867, p. 283.

[606] _Opere_, Venezia, 1729, t. III, p. 385.

[607] Ediz. cit., l. II, LXXXVII.

[608] _Ghiribizzi di Mess. Bernabò Visconti signore di Milano, scritti
da_ GIROLAMO ROFIA _da S. Miniato_, Modena, 1868, pp. 18-20.

[609] È cosa nota, del resto, che Leone X ebbe speciale avversione agli
ordini mendicanti. Cfr. su questo tema del disprezzo onde sono colpiti
i frati nel Cinquecento, BURCKHARDT, _Die Cultur der Renaissance in
Italien_, 3ª ediz. Lipsia, 1877-8, vol. II, pp. 230 sgg.

[610] _Il Cortegiano_, l. II, LXXXIX. Questo Serafino è pure tra
gl’interlocutori del _Cortegiano_, l. I, IX. Anche il Garzoni ricorda
fra Mariano e fra Serafino quali _burlieri eccellenti, Piazza_, disc.
L, p. 490.

[611] ALESSANDRO LUZIO, _Federico Gonzaga ostaggio alla corte di Giulio
II_, estratto dall’_Archivio della R. Società Romana di storia patria_,
vol. IX, 1887, p. 36. Stazio Gadio, un altro dei famigliari del
principe scriveva ad Isabella, informandola del medesimo fatto: «Stette
tutto il dì in gran piacer di soni e canti e giochi, poi cenò, e frate
Mariano de compagnia, qual fece qualche piacevoleza per far ridere,
benchè mal possa scherzare, perchè è mal sano». _Ibid._

[612] _Id., ibid._, p. 46.

[613] _Id., ibid._, pp. 47-9.

[614] _Id., ibid._, pp. 69-71.

[615] Lettera seconda citata, p. 70.

[616] Il cardinale _Hergenroether_ ha intrapresa, come è noto, la
pubblicazione dei _Regesta_ di Leone X. Non posso dire se nella parte
di essi pubblicata sin ora, e che si stende per i due anni 1513 e 1514,
compaja il nome di fra Mariano, perchè mancando ancora un indice dei
nomi, la ricerca vi è troppo malagevole.

[617] Accresce tale probabilità il fatto che il nome di fra Mariano
non s’incontra nel Diario, o almeno nel manoscritto che se ne conserva
nella Chigiana, secondo m’assicura il ch. professore Giuseppe Cugnoni,
che gentilmente volle torsi la briga di percorrerlo. La stampa
procurata dal DELICATI e dall’ARMELLINI (_Il Diario di Leone X: dai
volumi manoscritti degli Archivii Vaticani_, Roma, 1884), contiene solo
frammenti.

[618] _Relazioni venete_, serie II, vol. III, p. 70-1. Veramente la
stampa ha: _fra Mariano Ebrandino_, e l’editore nota che forse in luogo
di _Ebrandino_ è da leggere _e Martino_; ma un Brandino è ricordato,
oltre che dal Giovio, anche dall’Aretino, come vedremo.

[619] _Comento del_ GRAPPA _sopra la canzone in lode della salsiccia,
Scelta di cur. lett._, disp. 184, Bologna, 1881, pp. 77-8. Parlando
di certi tordi avuti dal conte Manfredo di Collalto, e mangiati in
compagnia del Tiziano, l’Aretino dice che gli erano molto piaciuti,
«come piacquero a fra Mariano, al Moro dei Nobili, al Proto da Lucca,
ed al Vescovo di Troja gli ortolani, i beccafichi, i fagiani, i pavoni
e le lamprede, di che si empierono il ventre con il consenso delle
lor anime cuoche delle stelle pazze e ladre, che le infusero in quei
corpacci, erarii della superfluità della crapula, anzi paradisi delle
vivande solenni...». _Lettere_, vol. I, f. 26 r. Del resto non erano
questi i soli gran ghiottoni. In altra delle sue lettere dice lo stesso
Aretino: «Io li vidi al tempo di Leone X quei cari Cardinali del buon
Dio! oh come le loro anime cuciniere riempivano voluttuosamente i
proprii corpacci!».

[620] GIOVIO, _Op. cit._, p. 98.

[621] Ap. FABRONI, _Op. e l. cit._

[622] _Op. cit._, p. 305.

[623] _Op. cit._, l. III, pp. 188-9. Il Lando ricorda ancora quali
_moderni strenui mangiatori_, un Catellaccio Fiorentino, un D.
Antonio da Lecce, e un Cola Caforzio, _che si mangiava una pezza di
lardo_. Alla voracità di fra Mariano allude senza dubbio anche ERCOLE
BENTIVOGLIO nella satira _A. M. Flaminio_, là dove dice:

    ... io non son Mariano nè il Rizzuolo,
      Che come son levati, immantinente
      Sen vanno a far la zuppa nel siruolo.

In quel passo del Tizio anche fra Martino è ricordato quale mangione
famoso: ma di lui non si hanno, che io sappia, più particolari notizie.

[624] Capitolo _In lode della sete_.

[625] L. II, XLIV.

[626] L. I, VIII.

[627] _Lettere facete et piacevoli di diversi huomini grandi, et
chiari, et begli ingegni, raccolte da_ DIONIGI ATANAGI, Venezia, 1601,
l. I, p. 310.

[628] Ediz. di Cosmopoli, 1606, p. 220.

[629] P. 413.

[630] _Lettere facete_ già citate, l. I, p. 167.

[631] LUZIO, _Op. cit._, p. 70.

[632] _Id._, _ibid._, p. 46-7.

[633] _Le lettere di_ A. CALMO, ediz. cit., pp. 64-5.

[634] Pazeria?

[635] Così racconta fra Callisto Piacentino, canonico Lateranense, in
una sua omelia. Il ROSCOE giudica apocrifo tale racconto (_The life
and pontificate of Leo the tenth_, cap. XXIII); ma esso è confermato
da una lettera da Roma, scritta il 21 dicembre del 1521, venti giorni
dopo la morte del pontefice, e riportata dal Sanudo. Vedi GREGOROVIUS,
_Geschicte der Stadt Rom im Mittelalter_, Stoccarda, 1859-73, vol.
VIII, p. 262.

[636] Il sonetto del Berni cui questi versi appartengono non fu
composto contro Adriano VI, come già si credette, ma contro Clemente
VII.

[637] _Lettere scritte a Pietro Aretino_, emendate per cura di T.
LANDONI, Bologna, 1873-5, vol. I, p.te I, p. 14-15. Fra Sebastiano
diede notizia della cosa anche a Michelangelo Buonarroti. Del succedere
di fra Sebastiano a fra Mariano nell’officio di piombatore fa cenno
anche il VASARI nella Vita di quello, _Opere_, ediz. del Sansoni,
Firenze, 1877 sgg., vol. V, p. 576.

[638] _Ibid._, pp. 102-3.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



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