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Title: La sesta crociata: ovvero l'istoria della santa vita e delle grandi cavallerie di re Luigi IX di Francia
Author: Joinville, Jean de
Language: Italian
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                                   LA
                             SESTA CROCIATA

                                 OVVERO

                               L’ISTORIA
               DELLA SANTA VITA E DELLE GRANDI CAVALLERIE
                       DI RE LUIGI IX DI FRANCIA


                              SCRITTA GIÀ
                     DA GIOVANNI SIRE DI GIONVILLE
                        Siniscalco di Sciampagna

                                 ED ORA

         RECATA FEDELMENTE DAL VOLGARE D’OIL NEL VOLGARE DI SÌ
                              PER ESEMPIO
              DELLA CONFORMITÀ DEI DUE ANTICHI LINGUAGGI.



                                BOLOGNA,
                       PRESSO GAETANO ROMAGNOLI.
                                   —
                                 1872.
                         Proprietà letteraria.



                  IMOLA. — TIP. D’I. GALEATI E FIGLIO

                           Via del Corso, 35.



L’EDITORE GAETANO ROMAGNOLI

AL LETTORE BENEVOLO.


Il ch. Conte Giovanni Galvani pubblicava nel 1843 entro il Periodico
Modenese, intitolato _Continuazione delle Memorie di Religione,
Morale e Letteratura_, una sua Lezione Accademica sulla utilità che
si può ricavare dall’antica Lingua Francese per l’istoria dei Volgari
Italiani, e la faceva seguire da un saggio di traduzione della Vita di
Luigi IX, il Re Santo di Francia scritta da Giovanni Sire di Gionville.
Due anni dopo, dando fuori il volgarizzamento di quel tratto delle
Istorie di Gioffredo di Villarduino, in cui si narra il conquisto di
Costantinopoli fatto dai Francesi e dai Viniziani nel 1203, lasciava
esso intendere di aver compita la traslazione di tutto il racconto del
buon Siniscalco di Sciampagna.

Le letterali traduzioni dalle lingue di _oc_ e d’_oil_ in lingua di
_si_ contemporanea eseguite dal suddetto Filologo Modenese, e delle
quali offerse nel 1845 un più largo sperimento sulle intere Croniche
di Maestro Martino da Canale (V. Archivio Storico Italiano Tomo VIII),
non hanno, siccome è noto agli studiosi, soltanto uno scopo letterario,
ma ne hanno un altro più importante storico linguistico dallo stesso
filologo svolto ampiamente ne’ suoi _Dubbi sulla verità delle Dottrine
Perticariane nel fatto storico della lingua_ (Milano Turati 1846) dalla
faccia 80 innanzi. Vi si intende cioè a dimostrare come la lingua d’oil
(di cui Dante scrisse: _quicquid redactum sive inventum est ad vulgare
prosaicum, suum est_,) fosse spesso la falsa riga dei nostri primi
prosatori, e valesse a far credere comuni un tempo a tutta l’Italia
quelle eleganze che poi ci rimasero speciali di talune province.

Egli è per ciò che, dopo aver io l’anno scorso messo in luce il
_Novellino Provenzale_ d’esso Conte Galvani, con cui si trasportano
nella lingua di Messer Francesco da Barberino le Vite originali
Limosine dei Trovatori di Provenza, m’invogliai di conoscere
dall’Autore medesimo cosa fosse accaduto del suo Gionville reso
italiano. Ne ebbi in riscontro ch’esso Gionville era inedito
tuttavia, ed a mia intera disposizione: per che, avendo io accolta
la cortesissima offerta, dopo aver pregato l’Autore a dividere la
continuità della narrazione originale in brevi Capitoli per renderne
la lettura più agevole e meglio ispartita la materia, lo rendo ora di
ragion pubblica facendolo precedere da quella Lezione che l’annunciò,
e che a parer mio, introdurrà al presente a tutta l’opera assai
acconciamente.

Piaccia al Lettore benevolo di incoraggiare la mia piccola impresa, e
viva lieto e felice.



LEZIONE PRELIMINARE.



                           DI ALCUNE UTILITÀ
                         CHE SI PONNO RICAVARE
                        DALL’ANTICA LINGUA D’OIL
                                  PER
                L’ISTORIA DELLE LINGUE VOLGARI ITALIANE

                                LEZIONE.


È stato detto per altri, ed io credo di aver già alquante volte
bastevolmente dimostrato, come le lingue neolatine si continuino
alle latine parlate senza alcuna interruzione, e come negli odierni
linguaggi d’Italia, Francia, Spagna e Dacia non si debba ravvisare
che un’ultima età di quel primitivo idioma di Roma armata, il quale,
corrotto e corruttore ad un tempo, fu piuttosto tiranno che re delle
favelle da lui soggiogate. Ma se tutto ciò è facile ad essere inteso e
provato intertenendosi sulle generali, riesce poi per contrario assai
difficile a dichiararsi ne’ particolari, qualora il fedele istorico
di esse lingue voglia rendere patenti le ragioni di ogni più minuta
vicenda in quelle introdotta. E veramente le neolatine moderne, siccome
lingue parlate, sono antichissime, siccome scritte non oltrepassano
quasi mai il mille con indubbii ed abbastanza lunghi monumenti. Da
questo termine ascendendo noi troviamo un latino scritto, il quale, per
quanto sia barbaro confrontato col simigliante del secolo d’Augusto,
è bene però altra cosa dalle favelle che ne riuscirono: la mancanza
dunque di monumenti, che di età in età ci facciano conoscere la lingua
di transizione tra esso latino scritto, ed i neolatini parlati intorno
il mille, forma la vera disperazione dei filologi, e presenta quel
campo sterile ed abbuiato, sul quale, appunto per la incerta luce
che lo rischiara, molti hanno segnato vie diversissime; molti hanno
collocato mostri e fantasime; molti in fine, non potendo conseguire
l’aperto vero, hanno disposto una certa loro catena di verosimiglianze,
alla quale attenendosi, credettero di traversare a salvamento il
deserto, e di congiungere con felicità i due estremi opposti.

Si è diviso il latino, in latino vero, in latino romanzo, ed in
neolatino: si è assegnato il primo largamente alla dominazione di
Roma armata e vittoriosa; il secondo alla dominazione di Roma invasa
e prevalente soltanto come la sede dell’Apostolo; il terzo alla
dominazione Romana stabilmente conquistata dai Nordici, ossia ai
nuovi Regni stabili a’ quali è necessità una lingua nuova. Divisione
opportuna, ma che giova ai fatti non agl’idiomi, a cui un nome novello
non dà chiarezza, e solo può dar distinzione. Che questa lingua infatti
di transizione si dicesse Romanza o Romana o altrimenti, e non più
Latina, ciò poco montava per conoscerla; e quando poi i dotti a noi più
vicini vollero mostrarcela intera nel Provenzale, ossia nella lingua
d’_oc_, questi, valga la verità, commisero allora un poco perdonabile
errore, dandoci una fra le lingue neolatine, ossia della terza età,
per quella madre supposta comune che si cercava, ossia per quella
lingua di mezzo, donde poi dovevano nascere varie, secondo la varietà
degli elementi che le componevano, le neolatine Italiche, le neolatine
Galliche, le Ispane e le Daco-Romane.

Dovevano invece questi dotti medesimi, secondo il mio rimesso modo
di intendere, cercare almeno nelle due lingue neolatine che ci
presentano sinora monumenti più antichi, cioè in quelle di _oc_ e di
_oil_, sole quelle parti, le quali poscia col ripolirsi di esse lingue
si vennero disperdendo, per vedere se sopra queste, con pazienti e
regolari induzioni, si potesse ricostrurre il latino romanzo, e non
già con generici indovinamenti, o con fatti troppo posteriori. Doveano
sorprendere, in tal qual modo, in quei resti la fuggente memoria
di una loquela instabile di sua natura, perchè lasciata al volgo ed
all’urto di tante lingue nemiche quante venian piombando di que’ tempi
sull’Imperio lacerato: ed alla guisa di quegli abili architettori,
i quali dalle fondamenta tuttavia durevoli e da alquanti ruderi al
tempo avanzati, si ardiscono, insistendo sulle certe regole dell’arte,
rappresentarci di nuovo come fu veramente tutto un tempio, un teatro,
un ippodromo, doveano, dico, dall’arcaico delle neolatine ricostruire
il più vetusto Romanzo che si ignorava, e con questo venire, come colla
face di altrettante cagioni, illuminando le lingue nostre moderne,
divenute allora così quasi effetti necessarii e conseguenti di quelle.

Difficile impresa, ed alla quale si converrebbe bene che si facesse
buon viso, qualora, assunta da un erudito, fosse condotta a termine
colla possibile felicità; ma impresa, lo ripeterò pure, più forte assai
di quello che possa stimare chi in così fatti studii sia nuovo, o,
peggio ancora, chi d’essi sia soltanto mezzanamente istruito. Frattanto
io pago all’averla accennata ad altri di me più valente e fornito
di più beate comodità, ed inteso come sono da gran tempo a raccor
materiali per l’istoria dei Volgari Italiani, verrò cercando nella più
vecchia lingua d’oil alcune antichità per vedere se da queste si possa
aver fumo almeno di quell’italico sequiore che fu mezzano tra il latino
e il volgare odierno, e se per esse o con esse si possano render chiari
ed istoricamente definibili alcuni fatti presenti, de’ quali io non
so che altri abbia mai reso ragione o probabile od autorevole, ossia
attinta alle più intime e naturali cagioni, e, per così dire, alle
viscere istoriche della lingua.

Molti hanno cercato dottamente le fondamenta dell’alto Franzese; ma in
questi nostri tempi[1] sono a mia notizia tra i migliori M. Orell nella
sua Grammatica; M. Raynouard nelle Osservazioni sul Romanzo _de Rou_,
e nella Grammatica comparata delle lingue dell’Europa latina; l’Abate
de la Rue ne’ suoi Saggi istorici sui bardi, giullari, e troverri;
il Roquefort nel Glossario della Lingua Romana; Gustavo Fallot nelle
Ricerche sulle forme grammaticali della Lingua Francese e de’ suoi
dialetti nel XIII Secolo, e Mary-Lafon in varie opere di consentaneo
argomento. Giovandomi pertanto degli studii di questi illustri, e di
quelli ch’io stesso ho fatto lungamente sulle due antiche lingue di
Francia, verrò disponendo qui sotto un saggio delle mie osservazioni,
premettendovi però un breve cenno sovra essa lingua d’oil e suoi
principali dialetti, siccome di cosa non comune fra noi, e la cui
notizia potrà tornarci utile in seguito per aggiudicare appunto a
questa avvertita varietà de’ dialetti la varia enunciazione di una
medesima voce.

Dalla prima occupazione delle Narbonesi sino a Clodoveo erano già corsi
sei secoli, e più di cinque da che tutte le Gallie erano divenute
Romane. Nella lunghezza di tanti anni la lingua Celtica, ossia la
lingua dei vinti, avea ceduto in faccia alla lingua dei dominatori, e
questa medesima potea essere detta per tutte quante le Gallie quasi
naturale ed indigena, dopo che Roma, non ponendo più altro confine
alle proprie mura fuor quello che avrebbe segnato il Dio Termine
custode ai limiti dell’Impero, avea empito di coloni non solo, ma
di cittadini e di senatori le sue conquiste. I Provinciali e gli
Aquitani prevalevano in vero nella Romanità, ma non per ciò meno erano
Romani i Galli oltre il Ligeri, ed anzi pareva ch’essi lo divenissero
viemaggiormente, quanto meno invece si facea attuosa la forza vitale
del combattuto e derelitto centro della signoria degli Augusti. Il
Gallo-Romano regnava dunque solo dalle Alpi al Reno, quando i Franchi
varcavano quest’ultimo, e, dopo alquante fortunose vicende, facendo
prevalere finalmente l’affilata loro _francisca_ allo spuntato _pilo_
dei degeneri legionarii, stanziavano nelle Gallie settentrionali per
intere nazioni, e vi mescevano al primitivo linguaggio il naturale lor
teotisco.

Da quel tempo cominciò a comporsi nelle Gallie una lingua parlata in
parte novella, seguitò a durarvene un’antica, se non in quanto si dovea
poi modificare per altri barbari che avrebbero tentato di scombuiarla.
La prima, in memoria della sua origine, si disse anche in seguito
_Romanza_, o dal modo di affermare si nominò lingua d’_oil_, o d’_oilz_
o _Lingua Oytana_, la seconda perseverò ad appellarsi _Romana_, e poi
Limosina e Provenzale, ovvero, sempre dalla particella affermativa, si
indicò per _Lingua d’oc_, od _Occitana_ o _Occitanica_. Quella tenne le
province che i Franchi nelle successive loro conquiste coprirono d’orde
Germaniche tra i fiumi del Reno e della Loira: questa le rimanenti
meridionali, che o nol furono, o furono solo di passaggio o per minor
tempo.

Restringendoci pertanto a dire di quelle prime noi osserveremo, per
conseguenza al preposto, che se per tutte le Gallie settentrionali,
dalla identità della mescolanza, cioè del Gallo Romano dei soggetti
col Teotisco, o meglio ancora col dialetto dell’alto o vecchio Tedesco
dei conquistatori, ne dovea nascere un linguaggio solo e uniforme;
non è perciò meno vero che dalle varie condizioni d’ambi gli elementi
di che essa miscèla si componeva, questo poteva qua e colà variamente
alterarsi, donde poi ne potrebbero nascere in esso linguaggio medesimo
le possibili sottovarietà dialettali.

E già la principale influenza Franca non dovea esercitarsi sul
meccanismo, e direi quasi sull’ossatura della più ampia e diffusa
loquela de’ soggiogati, ma contenta all’aggiugnere alquante parole
designanti cose ed usanze novelle, doveva esercitarsi massimamente
sulla sua enunciazione, o vogliam dire sulla pronuncia. Per essa
dunque ne verrebbero modificati i corpi e le desinenze delle voci
gallo-romane, per essa si accrescerebbero gl’incerti suoni dei
dittonghi, frutti per lo più o di lingue mescolate o di alfabeti
ascitizii ed improprii, per essa finalmente ne riuscirebbe poscia
inferma e variabile la scrittura, quando sarebbe posta al duro
sperimento di raggiugnere con segni latini la diversità dei suoni
dialettali, e l’oscura mistione o di più vocali o di mal discernibili
consonanti.

Verso il Nord ci dice l’istoria che i Franchi s’accamparono e stettero
in maggior numero, e però le Fiandre, l’Artesia e la Piccardia noi
le troviamo con i suoni più aspirati e più aspri. La Borgogna, il
Nivernese, il Berrì e le province vogliam dette o più meridionali o
centrali, addolciscono per contrario la profferenza, e s’allargano
nelle vocali; ed in queste sappiamo che abbondarono i conquistati,
siccome in quelle che dovettero accogliere, non solo i possessori
antichi, ma quei Gallo-Romani che primieri dal Reno rifuggirono innanzi
le prime invasioni dei Franchi. Per differenza da questi sopra discorsi
noi troveremo invece uscire più mingherlino o più smilzo il dialetto
di Normandia, perchè i terzi abitatori sopravvenutivi dal Norte vi
portarono nella pronuncia la stretta e speciale secchezza delle lingue
Scandinave. Si potranno dunque largamente dividere, secondo l’opinione
del Fallot, i dialetti principali della lingua Oytana in normanno, in
piccardo o fiammingo, ed in borgognone, rimanendo poi il dialetto della
mezzana Sciampagna misto così del primo come del terzo.

Si parlerà dunque esso primo in Normandia, Bretagna alta, Maine,
Perche, Angiò, Poitù e Santongia; il secondo in Piccardia, Artois,
Fiandra, Hainaut, Basso Maine, Thierache, Rèthelois e Sciampagna
settentrionale; il terzo in Borgogna, Nivernese, Berrì, Orleanese,
Turenna, Basso Borbonnese, Isola di Francia, Sciampagna meridionale,
Lorena e Franca Contea. Dal che ne conseguirà finalmente essere il
dialetto normanno, il dialetto gallo-romano-franco-normanno della
lingua d’oil, ed occupare l’ovest della vera Francia: il piccardo o
fiammingo essere il dialetto gallo-romano-franco della lingua d’oil,
e tenerne le parti settentrionali: il Borgognone finalmente essere il
dialetto gallo-romano-franco-burgundio di essa lingua, e spandersi non
tanto all’est, quanto per mezzo il centro e il cuore della Francia, e
per ciò stesso doversi ritenere fra gli altri pel principale non solo,
ma per quello ancora che servì quasi di base all’odierno Francese,
contemperandosi cogli altri due dialetti che il premevano da ambi i
lati, e venendosi con essi a fondere o nell’Isola di Francia, od entro
le mura della regale Orleano.

La Lega Armorica, la vicina Aquitania, i possessi Normanni che
oltrepassavano la Loira davano al dialetto Normanno una maggiore
somiglianza colle lingue Occitaniche, e per ciò stesso, minorandone
i dittonghi, e riducendolo per lo più a suoni meno pingui e decisi,
lo venivano accostando insieme a ricordare l’italiano. Il Piccardo al
contrario dovendo segnare con latino alfabeto gl’incerti suoi suoni,
le aspirazioni e le gutturali che il mostravano meglio informato di
una settentrionale pronuncia, sostituiva il _ch_ al _k_, sovrabbondava
di lettere, e specialmente di vocali connesse per rendere il commisto
suono de’ suoi dittonghi e trittonghi. Il Borgognone per fine che amava
un non so quale lezioso strascico di enunciazione, inseriva quasi in
ogni parola una sua vocale caratteristica, ed amminicolando così le
_a_ come le _e_ di _i_ sovraggiunti, veniva a farsi vasto e pieno, e
per conseguenza talvolta lento e abbiosciato. Così alla futura Lingua
Francese che dall’unione avvertita indi ne nascerebbe, il Normanno
avrebbe dato la spigliatezza, il Piccardo lo spirito, la sonorità il
Borgognone.

Volendo cercar dunque per questi antichi dialetti, ossia per l’antica
lingua d’oil in essi stessi spartita, alcune forme sue proprie e
dismesse dappoi, le quali valgano però a dimostrarci o la nativa
simiglianza ch’essa teneva colla nostra volgare, o che ci rendano
ragione di alcuni oscuri accidenti della medesima, noi, per farci pure
un principio, cominceremo dall’articolo, e ne toccheremo in breve come
seguirà.

Le lingue su cui il latino era venuto imperiando avevano i nomi o
monoptoti o diptoti, distinguevano cioè tutto al più il soggetto
dall’oggetto della proposizione, ossia il nominativo agente
dall’accusativo paziente; quello che si dice dei nomi, ripetasi dei
pronomi, e quindi nel pronome articolare _ille_ esse dovevano cercare
_li_ e _lo_, ed in _illa_ _li_ e _la_ senza più. Ci è poi noto da
Prisciano l. v. _De Casu_ che i Barbari supplivano alle desinenze
casuali, ossia agli articoli pospostivi de’ Latini, con diversi
articoli prepositivi _pro varietate significationis_, ed ottenevano
altrettanto unendo all’articolare prepositivo _ille_ le preposizioni
di moto da luogo od a luogo, ossia le particelle _de_ ed _ad_[2].
Dipendentemente da quanto sopra, le antiche forme Normanne di questo
nuovo articolo erano appunto _li, del, al, lo: la, de la, a la, la_, e
così pure in Piccardo; se non che quest’ultimo dialetto non mostrando
avere articolo speciale pel femminino, accadeva ancora che la sola
forma maschile servisse per tutti i due generi. Si dovevano invece
alla Borgogna le forme più lonze _dou, ou_ od _au, lou_ ecc., e tutti
quegli _i_ aggiunti al fine dell’articolo femminile, che lo venivano
rimpinzando per rispetto agli altri dialetti. Era dunque l’articolo
prepositivo nelle due parti delle tre che formavano la lingua
d’_oil_ affatto somigliante a quello della lingua di _sì_, e tale può
riscontrarsi infatti nei migliori testi di Villehardouin. È però qui da
ripetere come in tutti gl’idiomi ad articoli preposti e non suffissi
essendo di massima importanza che il nominativo venga sempre distinto
dall’accusativo, acciocchè nel discorso non s’ingenerino stranissime
confusioni (e ciò tanto più qualora esse lingue formino transizione
tra una anteriore che abbia avuto i nomi pentaptoti o esaptoti, ed
una avvenire che li avrà monoptoti) così fu ancora che nei testi più
antichi in lingua d’oil, anteriori cioè al 1200, si scrisse quasi
sempre il nominativo femminile _li_ e non _la_, perchè questo appunto
non potesse confondersi col _la_ somigliante, ma accusativo.

Una cosa sembra a prima fronte singolare dell’antico francese, ed
ingenerare nel costrutto una non so quale perturbazione, ed è che
qualora un sostantivo o proprio o generico ne reggesse un altro
qualificativo del primo, poteva quest’ultimo lasciare la preposizione
_de_, e star contento all’articolo accusativo _lo_ o _le_; dicendosi
per ciò in quella lingua: _Chi infrange la pace lo re_, per: _dello
re_; _Alla corona lo re_, similmente per: _dello re_; _Allora venne
nell’oste un Barone lo Marchese Bonifacio in messaggio_ per: _del
Marchese Bonifacio_. Ma qualora si ricordino i due accusativi che
potevano in latino seguitare un verbo, e per ciò i Ciceroniani:
_itaque te hoc obsecrat_, per: _de hoc, illud te ad axtremum et oro et
hortor_, per: _de illo_ ecc.; e qualora si richiamino le nostre frasi:
_la Dio mercè, per la Dio grazia_, e meglio poi le antiche Fiorentine
_uscite di casa il padre, nelle case i Buondelmonti_, e simili, si
troverà ancora nei poco difformi accidenti le ragioni di una pari
discendenza da una non diversa lingua intermediaria, nella quale forse
un susseguente sostantivo retto e pronunciato appunto come regime non
come soggetto, prendeva qualità di aggettivo dell’anteriore sostantivo
reggente.

Per dichiarare pure coi confronti certi usi volgari dell’articolo, i
quali ricordano la sua origine dal pronome _ille, illa, illud_, tornerà
ancora opportuno lo scegliere fra gli altri questo esempio tratto da
Gerardo di Viane v. 2892-96, ove si può vedere chiaramente usato _la_
per _quella_:

    _Sire Rollan, dist li quens Olivier,_
    _Est ceu Joiouse, la Kallon a vis fier,_
    _Don vos saviez si riches colz paier?_
    _Nenil, biau Sire, dist Rollan li guerrier._
    _C’est Durandart, m’espée à poig d’ormier._

cioè:

    Sire Orlando, disse il Conte Oliviero,
    È questa Gioiosa, _quella_ di Carlo al viso fiero[3]
    Donde voi sapete sì ricchi colpi pagare?
    Mainò, bel Sire, disse Orlando il guerriero,
    È Durlindana, _la_ mia spada dal pugno d’oro[4].

Ma se da un lato ciò farà ricordarci gli usi del trecento, secondo i
quali l’articolo _la_ era anche presso noi pronome tanto nominativo
quanto accusativo, dall’altro seguiteremo osservando che, quasi a
compenso del suo eventuale difetto, esso articolo veniva in taluni casi
a sovrabbondare anteponendosi persino al pronome dimostrativo per modo
di inculcamento o ripetizione, e lasciava che si scrivesse _les ceux,
les celles_ pei semplici _ceux_ e _celles_, confrontando coll’_ille
is_ de’ latini, e dando al dimostrativo il trattamento istesso del
relativo. Inoltre, convenendo sempre più col nostro volgare, l’articolo
si prefiggeva ai pronomi possessivi accompagnati dal loro sostantivo, e
però la lingua Oytana ammettendo per buone le frasi che io scelgo fra
le moltissime o di Villarduino o di Girardo di Viana: _a la soe gent
— Les vos armes[5] — Li siens peire — Per la toie merci — En la moie
bailie — Un suen chevalier — Un siens fils_ — seguitava sempre meglio
a mostrarci la somiglianza maggiore che conservano insieme le sorelle
neolatine quanto più esse si confrontino nei tempi loro meno vicini ai
presenti.

Ora dall’articolo volendo passare ad alcune più lunghe osservazioni
sui nomi, mi si affaccia per prima quella regola famosa, detta della
_s_ caratteristica, della quale facendone onore a M.r Raynouard[6] si
potè dire di lui, che con solo il trovamento di questa norma perduta
egli avesse dissepolta e tornata a vita la vera intelligenza delle
due lingue d’_oc_ e d’_oil_. Stabilì dunque questa regola stupenda che
nelle due lingue Oytana e Occitana la s finale dei nomi non servisse
soltanto a distinguerne il plurale, siccome accadde dopo il XIV secolo,
ma valesse anzi a distinguere colla sua presenza in essi nomi il
soggetto o nominativo singolare, ed i regimi, ossiano i casi obliqui,
in plurale; e colla sua assenza per contrario i regimi, ossiano i casi
obliqui del singolare, ed il soggetto o vogliam dire il nominativo
del plurale. Ne uscì per quella il nome del Segretario dell’Accademia
Francese in chiarissima fama, ed essa stessa fu quasi la scintilla cui
secondò poi tanto incendio, quanto fu veramente l’amore che molti indi
posero al coltivamento delle Lingue Romanze.

Ed il nome del Letterato Francese fu certamente a me carissimo,
e, secondo poterono le mie forze, cercai sempre all’opportunità
d’innalzarlo, e l’ebbi, per sin ch’e’ visse, tra quelli de’ miei più
amici del cuore: ma poichè i meriti suoi sono tali che il toglierne la
novità di uno solo non è che picciolo fatto, e d’altra parte la verità
dee andar sopra a qualunque affezione; io dovrò dire che tutta la lode
di questa regola è da levarsi ai moderni, ed è invece da attribuirsi ad
un antico Trovatore che scrisse un breve Trattato grammaticale della
propria lingua nativa, ciò è Limosina, nel medesimo suo volgare, e
che, conservatosi manoscritto nella Libreria Fiorentina a San Lorenzo,
da poco tempo è venuto in copia alle mie mani per singolare cortesia
di quegli eruditissimi Bibliotecarii. Questo Trattato che il Renuardo
conobbe, fu anche detto da lui senza metodo, e scritto in termini
che mal si potrebbero comprendere senza l’aiuto degli esempii (_Gram.
compar. Discours prélim._ facc. I, e II); ma con tutto ciò valse, in
mano di un intendente quale egli era, a scovrire tutte le norme delle
desinenze dei nomi romanzi, ed a Raimondo Vidale che lo dettò, e non
ad altri, è perciò dovuta quasi intera la nostra gratitudine. La quale
ancora, acciocchè gli sia attribuita da tutti con cognizione, e per
sempre meglio diffondere una regola che si può dire la fondamentale di
questi studii, pubblicherò per la prima volta[7] tutto quel tratto di
Raimondo che può tornare opportuno al presente bisogno, e lo recherò
in nostra lingua, non tanto per servire alla generale intelligenza,
quant’anche per non anticiparmi in parte la edizione di tutto il testo,
che io spero, permettendolo Iddio, di dar fuori quanto prima corretto
degli innumerevoli errori di che è deturpato nel manoscritto[8].

«Oggimai dovete sapere che tutte le parole del mondo mascoline che
s’attengono al nome, e quelle che l’uomo dice nell’intendimento del
mascolino sostantive e aggiuntive si allungano in sei casi, ciò è
a sapere nel nominativo e nel vocativo singolari, e nel genitivo,
e dativo, e accusativo ed ablativo plurali: e s’abbreviano in sei
casi, ciò è a sapere nel genitivo, e dativo, e accusativo ed ablativo
singolari, e nel nominativo e vocativo plurali.»

«Allungare appello io quando l’uomo dice _cavalier-s, caval-s_,
non _cavalier, caval_; ed altresì di tutte le altre parole del
mondo: e però s’uomo dicesse: _lo cavalier es vengut_, o: _mal me
fetz lo caval_, o: _bon me sap l’escut_, male sarebbe detto perchè
il nominativo singolare si dee allungare, e così si dee dire: _lo
cavaliers es vengutz_, o: _mal mi fetz lo cavals_, o: _bon me saup
l’escutz_.»

«Ed il nominativo plurale deve l’uomo abbreviare, non allungare,
tuttochè si vada dicendo secondo mala usanza: _vengutz son los
cavaliers_, o: _mal mi feron los cavals_, o: _bon mi sabon los escutz_.
Altresì di tutte le parole mascoline s’abbreviano tutti li vocativi
plurali come li nominativi, mentre li vocativi singolari s’allungano
altresì come i nominativi.»

«Udito avete come l’uomo deve menare le parole mascoline in
abbreviamento ed in allungamento: ora vi parlerò delle femminine, e di
tutte quelle che l’uomo dice in intendimento di femminino. Saper dovete
che le parole femminine sono di tre maniere, le une che finiscono
in _a_, in così come _dompna, bella_ ecc., e molte altre parole
che finiscono in _or_, in così come _amor, lauzor, color_, ed altre
ne ha che finiscono in _on_, in così come _chanson, sazon, faizon,
ochaison_.»

«Saper dovete che tutte quelle che finiscono in _a_ aggiuntive e
sostantive, in così come _bella_ e _dompna_ si abbreviano ne’ sei casi
singolari, e s’allungano nelli sei casi plurali. Le altre che finiscono
in _or_, in così come _amor, color, lauzor_, e quelle che finiscono in
_on_, in così come _chanson, sazon, ochaison_ s’allungano in otto casi,
ciò è a sapere nel nominativo e nel vocativo singolari, ed in tutti li
sei casi plurali; ed abbreviansi solamente nel genitivo, nel dativo,
nell’accusativo e nell’ablativo singolari.»

«Ancora vi voglio dire che parole ci ha che si allungano in tutti li
casi singolari e plurali, in così come: _delechos, joios, volontos,
ris, gris, vils, cors, ors, las, nas, gras, pres, temps, fals, reclus,
ars, spars_ ecc., e nomi proprii d’uomini e di terre, in così come:
_Paris, Pois, Ponz_, e molte altre che ce n’ha che rimangono al
trovamento d’uomini sottili.»

«Ancora voglio che sappiate che nel nominativo e nel vocativo singolari
l’uomo dice _totz_, ed in tutti gli altri casi singolari dice _tot_;
e nel nominativo e nel vocativo plurali l’uomo dice _tut_, ed in tutti
gli altri casi plurali dice anche _totz_.»

«Saper dovete che parole ci ha del verbo che l’uomo dice in così come
del nome, ciò è a sapere gl’infinitivi, così come chi voglia dire: _Mal
m’es l’anars_, e: _Bon me sap lo venirs_: e queste altresì s’allungano
e si abbreviano come è detto delli nomi mascolini.»

«Le parole sostantive comuni, quando l’uomo le dice per mascoline,
s’allungano e s’abbreviano in così come le mascoline, e quando le dice
per femminine, s’allungano e s’abbreviano così come le femminine che
non finiscono in _a_.»

«In vostro cuore dovete sapere che tutti gli aggiuntivi comuni, ciò è a
sapere _fortz, vils, sotils, plazenz, soffrenz_, di qualunque parte che
siano o nome o participio, s’allungano nel nominativo e nel vocativo
singolari, siano o mascolini o femminini; così come chi volesse dire:
_fortz es lo cavals_, o _fortz es la dompna_, ed in tutti gli altri
casi s’allungano e s’abbreviano così come li sostantivi.»

«Sappiate che _uns_ s’allunga nel nominativo singolare, e per tutti gli
altri casi dice l’uomo _un_. E nel nominativo e nel vocativo plurali
l’uomo dice _dui, trei_, ed in tutti gli altri casi _dos, tres_; ed in
tutti gli altri numeri sino a _cento_ l’uomo dice per tutti d’una sol
guisa.»

E qui potrei io finire il mio estratto dalla operetta importantissima
di Raimondo; ma seguitando egli a parlare di altri più veri
allungamenti ed abbreviamenti nei nomi, i quali costituiscono
propriamente le declinazioni imparissillabe, e che fra poco avremo
occasione di rilevare anche nell’antico Francese, per indi trarne poi
deduzioni novelle, e forse non ispregevoli, per l’istoria del volgar
nostro, così gioverà ed ai confronti ed al cumulo delle autorità il
proseguire a recarne qui anche qualche altro tratto, traducendo sempre
il testo con fedeltà in italiano.

«Parlato vi ho delle parole mascoline e femminine come s’allunghino di
una _s_, e s’abbreviino della medesima in ciascun caso, restando però
sempre d’un sembiante: ora vi parlerò di quelle che sono d’un sembiante
nel nominativo e nel vocativo singolari, e di un altro in tutti gli
altri casi.»

«Primieramente vi dirò le femminine. Nel nominativo e nel vocativo
singolari dice uomo: _Madompna, sor, necza, Gasca, garsa_; ed in tutti
gli altri casi singolari dice uomo: _Midons, seror, boda_ (o _neboda_),
_Gascona, garsona_; ed in tutti li casi plurali dice uomo: _dompnas,
serors, bodas, Gasconas, garsonas_.»

«Delli mascolini potete udire oggimai che nel nominativo e nel vocativo
singolari dice uomo: _compainhs, peires, Bous, bars, bailes, ’N Ebles,
laires, Bretes, Gascs, gars, Carles, Ucs, Guis, Miles, Gaines, Folques,
Pons, Berniers, paus_; ed in tutti gli altri casi singolari, e nel
nominativo e nel vocativo plurali dice uomo: _compaignon, peiron,
Bozon, baron, bailon, ’N Eblon, lairon, Breton, Gascon, garson, Carlon,
Ugon, Guion, Milon, Ganellon, Folcon, Ponson, Bernison, paon_; e nel
genitivo e nel dativo e nell’accusativo e nell’ablativo plurali dice
uomo: _compaignons, peirons, Bretons, lairons, Gascons, garsons, paons_
ecc. E per ciò quando troverete una parola detta in due guise, dovete
cercarne tutti i casi, ed in questi ne troverete la ragione.»

«Similmente per tutte le seguenti dovete sapere che nel nominativo
e nel vocativo singolari dice l’uomo: _senhers, Coms, Vescoms,
enfes, homs, neps, abas, paistre_; e nel genitivo e nel dativo e
nell’accusativo e nell’ablativo singolari, e nel nominativo e nel
vocativo plurali l’uomo dice: senhor, Comte, Vescomte, enfant, home,
nebot, abat, pastor; e nel genitivo e nel dativo e nell’accusativo e
nell’ablativo plurali l’uomo dice: _senhors, Comtes, Vescomtes, enfanz,
homes, neboz, abaz, pastors_. Ed altresì se trovate di altre parole a
sembiante di queste, voi dovete pensare ed isguardare che in così le
deve uomo dire.»

«Delli nomi verbali ci ha di tre maniere, in così come: _Emperaires,
chantaires, violaires_; ed in così come: _jauzires_, e _grazires_; ed
in così come: _entendeires, valeires_ e _devineires_. Questi e tutti
gli altri di tale maniera, che ce n’ha molti, e che l’uomo dice così
nel nominativo e nel vocativo singolari, d’altro sembiante li dice nel
genitivo e nel dativo e nell’accusativo e nell’ablativo singolari, e
nel nominativo e nel vocativo plurali, ciò è a sapere: _Imperador,
chantador, violador_; e _jauzidor, grazidor_; e _entendedor,
validor, devinador_: e nel genitivo e nel dativo e nell’accusativo e
nell’ablativo plurali dice uomo: _emperadors, jauzidors, entendedors_
ecc. così come li mascolini.»

«Il somigliante è degli aggiuntivi comuni comparativi, i quali variano
nel nominativo e nel vocativo singolari dagli altri casi. Per ciò
nel nominativo e nel vocativo singolari dice l’uomo, con qualunque
sostantivo sia mascolino o femminino: _maires, meures, mielhers,
bellazers, gensers, sordiers, priers_; ed in tutti gli altri casi dice
l’uomo: _maior, menar, melhor, bellazor, gensor, sordeior, prior_ brevi
e lunghi in così come li sostantivi mascolini, de’ quali si è ragionato
di sopra.»

Riducendoci ora finalmente da questo, siccome spero, non inutile
trascorso sulle condizioni del nome in Lingua Limosina, alle consimili
affatto ch’esso aveva in Lingua Oytana, potremo anche dire di questo
modo.

Essere mestieri il qui replicare di nuovo l’osservazione fatta
superiormente, ossia che per le lingue neolatine, la cosa da prima
più importante nei nomi (sia per tradizione da più antichi linguaggi,
sia perchè gli articoli prepositivi ancora incerti non bastavano
alla piena chiarezza del discorso) doveva essere stata quella di
ben distinguere dal soggetto i regimi, così in singolare come in
plurale, e però di dare al medesimo tale desinenza, che, aiutando già
l’articolo ed il senso a determinare il numero, per essa poi si potesse
prontamente o dall’udire o dal vedere sceverare il detto nominativo
dagli altri casi. Riferendomi perciò ai miei Studi sul Latino arcaico,
dirò come io creda d’avere in essi bastevolmente dimostrato che le
desinenze della prima declinazione parissillaba latina dipendono dalla
suffissione al nome radicale, cioè al nome spoglio di flessioni,
dell’antico pronome articolare pospositivo _us_ od _is_, divenuto
poscia per rovesciamento il casco prepositivo _su_ o _si_. Intorno al
quale se i Glossografi ne deducono la preesistenza dai conservatici
_sim_ per _eum_, e _ses_ per _eos_, la Lingua Sarda poi s’incarica di
ravvivarcelo col suo prediletto articolo prepositivo _su, sa_, che vi
tien luogo costantemente del nostro dimostrativo _ille, illa. Domin-us_
era dunque quanto _su-domin_ (_il domino o signore_), e se aveva nel
nominativo singolare per finale la _s_, l’aveva di conformità alle
pari declinazioni Indiane, Greche e Gotiche. Al contrario il nominativo
plurale _Domin-i_ era quanto _Domin-ii_, ossia _Ii domini_ (_i domini
od i Signori_). Inoltre questa _s_ non si mostrava nei regimi singolari
_domin-i, domin-o, domin-um_, ed usciva invece nei regimi plurali
_domin-is, domin-os_, ad eccezione del genitivo che terminava in _orum_
per quella apparente anomalia che tuttavolta trova nelle Grammatiche
comparate gli opportuni ed autorevoli antecedenti. Dunque anche dietro
questo cotale materno inducimento poterono le lingue Romanze colla
presenza od assenza della s fare avvertiti i loro soggetti o regimi
così singolari come plurali; e, non ammettendo eccezioni per l’avvisato
genitivo plurale, stabilire una regola, la quale se apparentemente
non dava molta ragione di sè medesima, noi anzi al presente vediamo
averla avuta ne’ più antichi primordii della lingua laziare, e forse di
parecchie altre, che se piacerà a Dio, dichiareremo a suo luogo.

Ora questa avvisata regola non dovendo essere considerata da noi
soltanto come regola ortografica, ma bensì come opportuna distinzione
ortofonica, cioè non essendo stata solamente trovata per chiaramente
scrivere, ma perchè parlando si distinguessero udibilmente i casi
retti dagli obliqui, e però dovendo, non solo essere scritta, ma
ancora pronunciata con distinzione la s desinente, ne conseguirono,
specialmente ne’ nominativi singolari, anche per maggior distinzione
dai casi obliqui del plurale, alquante speciali contrazioni od uscite,
le quali fecero poi che una sola parola potesse sembrarne due, e
poscia tale divenir realmente, o nella istessa lingua quando questa non
conserverà più le primitive avvertenze, o nelle lingue affini che si
porranno ad imitar quella prima senza troppo voler render ragione a sè
medesime della isvariata mozione delle parole nella varietà de’ loro
casi.

E queste sono veramente quelle istoriche antichità degl’idiomi
neolatini, alle quali non curarono sin qui di accostarsi gl’Italiani
Grammatici, e che io cerco ora di additare agli studiosi, perchè in
esse si provino ad indagare le cagioni di tanti effetti nella lingua
del _sì_, per ispiegare i quali furono soliti i nostri antecessori
ricorrere ai voti nomi di _proprietà, vezzo, frase_ e simiglianti, e
non mai alla genesi intima dei linguaggi. Sia dunque che le poche cose
ch’io verrò qui sopponendo levino in altri frutto di indagini accurate,
di istorici confronti e di conseguenze dedotte da chiari e comprovati
antecedenti linguistici.

Il volgare nostro _messaggio_, il quale tratto con desinenza romanza
dal latino _missus_, sembra dover essere voce sola delle lingue
neolatine francesi, non è così appunto, ma in vece si mostrò ne’
più antichi monumenti della lingua d’oil, _meisages_ in nominativo
singolare, e _mesaigier_ ne’ casi rimanenti. Di qui dunque ne
vennero presso noi con pari significazione le due voci _messaggero_
e _messaggio_, delle quali veramente la seconda non è che la forma
antica speciale del nominativo singolare, e la prima la forma più
allungata de’ casi obliqui singolari, e del nominativo plurale della
lingua Oytana, e forse della lingua antica comune di transizione.
Parimente in essa loquela, nominativo singolare contratto era _li
glous_, o _li gloz_, e voce intera di tutti gli altri casi _glouton_;
donde possiamo intendere che a noi venivano privi di differenza, quanto
a significazione, le due voci _ghiotto_ e _ghiottone_, non valendo
cioè dappoi più a distinguere il soggetto dai suoi regimi, senza che
perciò si debba conchiudere che nol potessero fare dapprima anche nel
volgar nostro, movendo tale distinzione dalla terza imparissillaba de’
latini, comune a tutte le lingue figlie, e la quale, se nel nominativo
faceva _gluto_, in tutti gli altri casi si aumentava facendo _glutonis,
glutoni_ ecc. Per la qual cosa si dovrà ancora, al mio vedere, sbandire
quind’innanzi dai nostri Dizionarii la differenza posta tra queste
due voci, dicendovisi la seconda accrescitiva della prima, mentre
invece significano puntualmente la cosa stessa, e la desinenza lungi
dall’accrescervi, indica invece ai casi; siccome nel significato della
voce _sermo_ nulla s’accresce, qualora esca in _sermonem_, valendovi
solo l’aumento ad indicare accusativo quello che prima era nominativo.

Così era pure di quasi tutte le voci che risolvendosi uscivano in
_on_, le quali cioè, foggiandosi sull’avvertita terza declinazione
imparissillaba, contraevano, appunto come vedemmo avvertito dal
nostro Raimondo Vidale, il nominativo loro singolare. E però _barone_,
meglio confrontando col latino _vir_, (poi _viro-vironis, il forte_)
faceva nel soggetto _li bers_ o _li bars_, non _li baron_, ma _baron_
bensì in tutti gli altri casi: e _garzone_, se pure si mostrava
_garson_ o _garçon_ in tutti i regimi, era _guars_ o _gars_ nel
soggetto, e da questo soggetto appunto il Beato Jacopo da Todi traeva
il suo _garzolino_ per _garzoncello_. A somiglianza di ciò i nomi
proprii degli uomini, i quali per la nordica loro origine erano per
lo più corti ed aspri di consonanti, quando si volevano declinare
in qualche modo alla Romana, si aumentavano in _on_, non già per
vezzo nè per accrescimento, non per forma insomma di ipocorismo o
di magnificazione, ma per solo e semplice indizio ch’essi non erano
più nominativi singolari. Perciò, siccome vedemmo in Limosino, così
in antico Francese, il nome _Guè_ o _Guenels_, declinandosi faceva
_Guenelon_, donde i nostri _Gano_ e _Ganellone_ applicati ad un sol
uomo senza che si potesse render ragione di tale varietà d’uscita,
ignorandosi dai nostri Grammatici la regolare distinzione casuale
ammessa dalle lingue d’oc e d’oil, e però gli scrittori succeduti
coll’usanza indifferente mostrando apertamente di disconoscerla.
Così per modo simigliante _Bueves_ soggetto diveniva _Buevon_ regime;
_Naymes_ diveniva _Naymon; Othes, Othon; Guis, Guion; Karles o Charles,
Karlon o Charlon; Odes, Odon; Rauls, Rollon; Pieres, Pieron e Perron;
Phelippes, Phelippon; Marsile, Marsilion; Laizre, Lazaron_, dandoci
ancora ragione grammaticale ed istorica, non solo della varia uscita
de’ nomi medesimi, ma sibbene di quei molti _re Carlone, re Marsilione,
re Namone_ e simili, che durarono ne’ poeti nostri romanzieri del
ciclo di Carlo Magno sino al Boiardo ed al Cieco di Ferrara, e che
noi credevamo sinora avere scritto così o per istracurataggine o
per induzione sgraziata della rima, e non mai pensando che essi
traducevano letteralmente dai Romanzi Francesi anche quelle cotali
apparentemente grandiose desinenze, senza però avvertirne le sottili
grammaticali distinzioni, le quali avrebbero voluto ch’essi dicessero
_Carlo, Marsilio_ e _Namo_ quando questi erano nominativi, _Carlone,
Marsilione_ e _Namone_ soltanto qualora questi medesimi erano regimi.
Così nei nostri _Bosoni, Guittoni, Jacoponi_ non era in origine
accrescimento o dispregio, ma solamente una forma di regime, e però
si doveva dire: Messer _Buoso_ da Gubbio scrisse alquante rime, Fra
_Guido_ o _Guitto_ da Arezzo molte Epistole, ed il Beato _Jacopo_
da Todi moltissimi cantici; e per contrario: Rime di Messer _Bosone_
da Gubbio, Epistole di Frate _Guittone_ da Arezzo, Cantici del Beato
_Jacopone_ da Todi.

E già da questa forma medesima noi avremo la chiave ad aprire con
probabilità uno de’ piccoli segreti di nostra lingua, che altrimenti
ci resterebbe forse chiuso per l’avvenire siccome è stato, a mia
notizia, sino al presente; cioè per quale istorica cagione la maggior
parte delle forme avverbiali amino questa desinenza in _one_, non
tanto nella lingua scritta, quante più nei linguaggi viventi, cioè
ne’ diversi dialetti della Penisola, dicendovisi avverbialmente _in
ginocchione_ piuttostochè _in ginocchio, a tastone_ più volentieri
che _a tasto_, e così: _gatton gattone, grollon grollone, penzolone,
ciondolone_ ed altri simiglianti a gran numero. E la ragione di tale
desinenza è patente solo che da prima si consideri il modo col quale
latinamente gli aggiuntivi si facevano avverbii, che era o ponendo in
ablativo la voce da cui si formavano, gravando per lo più sulla sua
vocale desinente, od allungandola di una sillabica, la quale serviva
egualmente di più larga base ritmica all’arsi radicale, o passando
la detta voce a caso obliquo sotto il regime di una qualsivoglia
preposizione o sottintesa od espressa; e se da poi si considera che la
nuova lingua, avendo adottato per segno de’ suoi regimi aumentabili
questo accrescimento in _one_, doveva trovare in esso la via più
naturale alla formazione degli avverbii, ogniqualvolta questi non
dovessero presentare forme di soggetto. E però le due lingue di
Francia, e la loro sorella neolatina, che poco dissimilmente si venìa
formando in Italia, adottavano di comune accordo una tale maniera,
di cui, perdendosene poscia le ragioni sufficenti, se ne alterava
l’usanza, e se ne ismarriva l’origine e il procedimento.

Seguitando le nostre indagini avremo ragione della voce _Sire_
pensando che in lingua d’_oil Sires_ fu nominativo contratto della
voce _signor_, e che però vi si diceva _il sire, del signor, al
signor_ ecc. talchè il dire _del sire, al sire_ ecc. è confusione
posteriore fatta dopo che si scordarono le vere cagioni delle varie
desinenze, e si crearono due voci di quella che prima era una sola.
Similmente sapremo perchè si trovi scritto _sarto_ e _sartore_, solo
che osserviamo come in lingua d’oc nel nominativo si dicesse _sartre_
(sarto), e nei casi obliqui _sartor_ (sartore), talchè la voce vi si
declinava: _il sarto, del sartore, al sartore_ ecc. Nè diversamente
dal latino _latro, latronis_ ne uscirono due parole secondo che si
ricalcarono o sul soggetto o sui regimi, le quali poi furono, colla
ferma adozione degli articoli prepositivi, confuse in seguito: infatti
come _li lerres_ per gli Oytani, ed _el laire_ per gli Occitani erano
soltanto nominativi, e _larron_ o _lairon_ erano unicamente regimi,
così per noi _ladro_ avrebbe dovuto essere pure soggetto, e _ladrone_
avrebbe dovuto indistintamente servire per gli altri casi. Altrettanto
dicasi di _compagno_ che solo nei casi obliqui facea _compagnone_; e
di _sabbione_, il quale non è un accrescitivo del femminino positivo
_sabbia_, ma è _sablon_ regime del soggetto maschile oytano _li
sables_, od _il sabbio_.

E per tali minute avvertenze possiamo noi solamente risalire alla vera
origine delle differenti uscite della parola medesima, e però vedervi
nelle variate desinenze un ricordo tuttavia di quelle fogge latine, che
rendevano, singolarmente nella terza declinazione imparissillaba, tanto
diverso il caso retto dagli obliqui. Seguitando le quali ecco che noi
riscontreremo nella lingua d’oil come, in ispezialtà pei nomi che nei
regimi avevano _or_ a desinenza caratteristica, il nominativo (non più
solamente per dare indizio dell’antica contrazione, ma per opportuno
scompagnamento) usciva invece in _eres_ od _ers_, e perciò vi si diceva
nel soggetto _li emperers_, o _li empereres_, e negli altri casi _de
l’empereor, a l’empereor_ ecc. Onde poi avremo ragione di quell’antica
uscita di questa voce che noi troviamo ne’ vecchi testi di nostra
lingua, cioè _imperiero_, la quale poteva ben prendersi dalle lingue di
Francia o dalla comune di transizione, ma non doveva poi trasportarsi
da forma puramente nominativa, a forma invece capace di tutti i casi.

E da una tale avvertenza vedremo ancora come prendano lume di origine
tante nostre parole terminate in _iero_ o _iere_, le quali partitesi
da nominativi oytani, o stettero sempre contente a quella forma,
oppure da quella medesima deducendosi, si debbono ancora con essa
interpretare: talchè _cavalliere_ è desinenza nominativa di quella
lingua per differenza dai casi obliqui dimenticati che avrebbon fatto
_cavallatore_; _consigliere_ nominativo di quei regimi che avrebbon
dato _consigliatore, lusinghiere_ similmente di _lusingatore; parliere_
di _parlatore_, e così va dicendo. _Messere_ infatti non avrebbe
potuto essere che nominativo o vocativo singolare, e negli altri
casi sarebbe stato regolare il dire _Monsignore_ o _Messignore_; così
_giocoliere_ e _troviere_ mostravano le loro forme soggettive, e quelle
invece dei regimi _giocolatore_ e _trovatore_, senza ch’io stanchi
l’avvisato lettore con esempi più numerosi: stando invece contento alla
conchiusione inculcata che queste diverse uscite non formavano già
due voci, ma sì non erano che la voce medesima a varie desinenze per
iscompagnare appunto con esse il nominativo dai casi obliqui; servendo
così a mostrare, dalla lingua latina scritta o dotta che indicava i
casi cogli articoli suffissi, alla latina orale o rustica che si giovò
dei medesimi antefissi, un trapasso ed una condizione quasi mezzana in
tale differenza di terminazione in quel caso appunto a cui era meno
consueto il pronome articolare dimostrativo, ed al quale poi non si
conveniva l’aggiunta di alcuna preposizione che valesse a prefiggerne,
o segnalarne la direzione.

Ancora la regola di dover sempre posporre al soggetto singolare una _s_
faceva sì che quei nomi i quali sarebbero radicalmente finiti in _m_,
per non ammettere il poco pronunciabile _ms_, mutavano la _m_ nella _n_
facendo _ns_. Però soggetto di _fum_ era _funs_ non _fums_; di _flum,
fluns_ non _flums_; di _nom, nons_; di _raim, rains_; di _faim, fains_;
e per conseguente di _hom_ od _om, hons_, od _ons_ da cui può prendere
maggior chiarezza l’_on_ de’ Francesi odierni, a persuadere viemmeglio
che il loro _on dit_, non sia che l’antico _hons_ od _ons dit_, cioè,
_uomo dice_.

È pure osservabile che certi sostantivi participiali, o vogliam dire
certi participii divenuti sostantivi, mantenevano nel soggetto la
forma originaria de’ participii latini: e perciò _infante_, che era
_enfant_ negli altri casi, era anzi _enfes_ od _anfes_ nel nominativo,
ricordando l’_infans_ della madre, e per simiglianza _diamante,
aimant_, era _aimas_ nel soggetto ritraendo dall’_adamas_ donde si
originava.

Nel Poemetto sopra Cristo Salvatore attribuito al Boccaccio, si legge:

    _Essendo in croce la eterna Maésta_
    _Abbandonata da ogni persona,_
    _Il Sole, chiuso in ambra dalla sesta_
    _Ora_, ecc.

Il Boccaccio poi certamente nel Decamerone, siccome avvertiva il
Bembo nel III delle Prose, aveva scritto: _Giudice della Podésta di
Forlimpopoli_, e Dante nel VI dell’Inferno al v. 96.

    _Quando verrà la nemica podésta:_

e dura tuttavia viva e verde questa voce ne’ nostri dialetti ne’ quali:
_essere_ o _non essere in podésta di fare una cosa_, vale: _avere_
o _non avere podestà di farla_. Ora in ciò non è da credere un cieco
arbitrio degli scrittori o de’ parlatori, ma è da vedere piuttosto in
queste voci le due differenti uscite che nella formazione delle lingue
volgari diversificano dal soggetto singolare i regimi. Dai nominativi
infatti materni _potestas_ e _majestas_, non avvertita la _s_ finale
dal romanzo Italico, rimanevano in esso le vedute _podésta_ e _maésta_;
ed avvertita la _s_ dal romanzo Oytano, vi si trovavano _poosteis_
e _majesteis_. All’incontro dagli obliqui materni _potestatem,
majestatem_ prendevano corso nel primo romanzo, spentasi la _m,
potestate_, o _podestade_, e _maestate_ o _maestade_, e, per iscorcio
compensato dall’accento, _podestà_ e _maestà_; e nel secondo romanzo
uscivano prima _poosteitz_ e _majesteitz_, e poi _pooisté_ e _majesté_.
Finalmente, riducendosi onninamente agli articoli, per distinzione di
tutti i casi, tutte le lingue neolatine, e per ciò le forme contratte
dei nominativi, che prima valevano a scompagnarli, divenendo un inutile
ingombro, cominciarono esse ad essere abbandonate o si trovarono invece
accomunate e confuse nel gran corpo della lingua senza indizio di loro
ufficio, e non dando più alcuna ragione della differente lor desinenza;
sino a tanto che poi, risalendo per entro la formazione dei linguaggi
neolatini, non si fossero con pazienti ricerche trovate quelle
filiazioni, a cui dirittamente ed istoricamente s’attengono le varie e
distinte forme esteriori delle parole[9].

La voce latina _dominus_ era dalla lingua d’_oil_ variamente mutata
in _damres_ o _dambres_ o _dams_, ed in _doms_. Da quest’ultimo
correttamente pronunciato per _dons_ nel soggetto (stante l’avvertita
regola di pronuncia che lasciò a noi, agli Spagnuoli ed ai Provenzali
lo scorciato _Don_[10]) usciva _donzelz_, mentre dai primi derivavasi
_damoiselz_ o _damoisaus_. Ed è qui opportuno di avvertire che gli
allungamenti i quali andavano nella nuova lingua accadendo in fin
delle voci, o si formavano, come per lo più, sul tema dei regimi,
o si formavano come pure talvolta, sul tema del soggetto. Se nel
primo caso, allora non si lasciava sentire la _s_ caratteristica pel
nominativo, se nel secondo, allora invece questa _s_ medesima non
solo si lasciava intendere distintamente, ma per ciò stesso doveva
sprolungare maggiormente e modificare l’accrescimento della parola.
Ed ecco, premessa questa notizia importantissima per la formazione
de’ nostri diminutivi, accrescitivi, vezzeggiativi e simili, che
scegliendo ad esempio la voce _damesels_ o _damsels_, noi dalla sua
forma in cui appare internamente la _s_ caratteristica, indovineremo
anche prestamente essersi dessa svolta non dal regime _dame_ o _dam_,
ma dal soggetto _dames_ o _dams_; e però quell’italico _damigello_,
di cui difficilmente avremmo potuto rendere ragione genealogica
abbastanza appurata, venirci ora chiarissimo per la toscana pronuncia,
la quale muta la _s_ interiore in _g_ per acconcio migliore ad
orecchie italiane. Similmente, secondo prima vedemmo, _donzello_ viene
dal nominativo _dons_, non dall’obliquo _don_; e così _jovencels_
anticamente _jovensels_, viene dal soggetto _jovens_, e dal solito
aumento minorativo _els_, e non mai dal regime _joven_, da cui esce per
contrario _jovenet_; talchè il nostro _giovincello_, che ha rimutato la
_s_ in _c_ per l’avvertita proprietà loquelare toscana di prediligere
un più distinto scolpimento di profferenza, ci riescirà definibile
assai chiaramente in tutti i suoi elementi di formazione insieme alle
voci simili, che saprà, dietro questo poco d’invio, trovare da sè ogni
intendente di nostra lingua.

Abbandonando dunque un tale argomento alle altrui più lunghe
disquisizioni, dopo che avrò detto come, per confronto al nostro
_Catalina_, si trovi scritto in francese antico tanto _Catherine_
quanto _Catheline_, e come il dialetto Piccardo dica coi Toscani
_Rousignol_ quello che il Borgognone scrive _Rossegnol_ e _Russinol_
il Normanno, passeremo ad alcune più brevi avvertenze sopra i nomi di
numero.

E cominceremo dal riferire che il dialetto Borgognone scrive _ambedoi_
e _andoi_, ed il Normanno _ambedui, amdui_ e _andui_, quella voce
stessa che da noi si trova scritta ora _ambeduoi_, ora _ambedui_
e _ambedue_, ed _amendue_ ed _ammendue_, ed altrimenti ancora, a
mostrarci appunto colla varietà della sua scrittura, la varietà delle
forme dialettali alle quali appartiene. Ma sulla voce medesima non è da
preterire che, tanto in lingua d’oil, quanto nella nostra, vuole essa,
accompagnandosi con un sostantivo, l’articolo dopo e non mai prima di
sè. Così nel solo Gerardo de Viane:

    En l’ile furent _ambedui li_ guerrier....
    Lai se combatent _ambedui li_ bairon....
    De la ville issent _amdui li_ chevalier....

di che volendo averne un’istorica ragione, e di tutte insieme le forme
ed i valori di questo pronome numerale, ecco cosa mi pare si potesse
dire.

In latino _bis_ era _duis_, sicchè _ambo_ od _am-duo_, valse piuttosto
_l’uno e l’altro_, ossia _tutti i due_, o vogliam dire _insieme i
due_ che _due_ solamente. Dal Greco ἁμφὶ erano un’antica preposizione
_ambe_ ed una loquelare _am_ che valevano _intorno, tutto in giro_,
e ciò che è tale, essendo ancora tale da ogni parte, ne conseguiva
necessariamente che ed _ambe_ ed _am_ davano atto di compimento alle
voci alle quali si anteponevano[11]. Prefissosi infatti questo _am_
a _plus_, e declinatosi, se ne fece l’aggiuntivo _amplo_, che valse
conseguentemente _più d’ogni intorno, eccedente per ogni parte_, ossia
_tutto più_: aggiuntosi _am_ od _ambe_ a _duo_, se ne fece in lingua
d’oil _amdui_ ed _ambedui_, i quali dovettero significare _insieme i
due, tutti i due_, levando per modo il numero _due_ dalla sua sede
nella serie numerica indefinita, dandogli invece in sè medesimo
compimento, e coll’avvincerne le due unità di che si compone, od
attribuirgli riferimento agli antecedenti, o costituirne una precedenza
di unione pei susseguenti ch’esso reggerebbe.

Ecco pertanto come nell’italiano vennero _ambedue_ ed _amendue_ con
pari significazione, e come ne’ due Romanzi l’articolo dovette sempre
susseguirli, non precederli mai, a quello stesso modo che si dee dire
_tuttadue i cavalieri_ non _i tuttadue cavalieri_; ed ecco come in
antico si disse _ambedue_, e per simigliante _amendue_ ed _ammendue_,
non _ambidue_; perchè cioè il nostro pronome numerale non si formava
da _ambo_, _ambae_, _ambo_ e da _duo_, il che avrebbe fatto una
duplicazione, ma bensì dalle preposizioni _ambe_ od _am_ unite ad
esso _duo_. Fu solamente da poi, quando ai volgari si volle por opera
di osservazione, che certe flessioni figlie di voci già antiquate e
ossolète si vennero a nuove guise modificando, e si credette che sul
pronome _ambo_ e non più sulla preposizione indeclinabile dimenticata
si dovesse foggiare il pronome composto della lingua nuova, e si
scrisse accordandosi per generi: _ambidue i cavalieri, ambedue le
dame._ Que’ vecchi poi che si lasciarono scrivere _amenduni_ parve che
introducessero nella voce la epentesi facendo _amenduni_ da _amendui_,
se pur non mirarono a gittare il pronome entro le note forme donde
erano usciti i _taluni_, i _certuni_, i _qualcuni_, e così di’, non
pur troppo curandosi di contenere sempre una tal quale loro propria
discorrevolezza di pronuncia entro i cancelli fissati dalla germana
istoria delle parole.

Ancora la lingua d’oil non poteva restar contenta alla voce _prims_
da _primus_ per numero ordinale, giacchè avendola tratta a significare
_fino_ e _sottile_, ne nascevano per conseguenza non poche dubbiezze:
ricorse essa perciò alla desinenza sua prediletta, e seppe trovare
l’altra _primiers_ o _primers_ (forse soggetto di _primarius_, o
_primaio_) alla quale, volendo fare indicati i generi, per un certo
inducimento latino, aggiunse il notissimo finimento in _anus_, e
ne ottenne _primerain_ e _primeraine_, donde poi taluni fra’ nostri
vecchi trassero le voci _primerano_ e _primerana_. E parimente come da
_primarius_ aveva fatto _primiers_, da _quartarius_ fece _quartiers_ a
valere la _quarta parte_, da cui si derivò in nostra lingua, non solo
la frase blasonica _scudo partito a quartieri_ per dire in _quattro
parti_, e che fu, tra gli altri, comune all’Ariosto; ma si dedusse
ancora la voce dell’uso _quartiere_ per _appartamento_, a significare
quella delle quattro parti, in che si solevano dividere per lo più le
case de’ nobili, che era abitata dalla persona a cui o su cui si dirige
l’intesa del ragionamento[12].

Da ultimo su questi nomi numerali qui mi gioverà ricordare che
puntualmente come noi da _primus_ e da _ver_ femmo _primavera_ ed
i francesi da _primus_ e da _tempus, printemps_; così questi stessi
dissero _primsoir_ perciò che noi pure diciamo prima sera nelle frasi:
_ci vedremo in_ od _a prima sera_ ecc. e _prinson_ perciò che, essendo
ai Latini _prima vigilia_, è pure per noi _primo sonno_[13].

Passando ora ai pronomi personali di possesso, diremo (toccandone
leggermente com’è nostr’uso alcune particolarità per notizia opportuna
o convenienti confronti coll’italiano) come erano non solo nell’antico
francese le sottili forme di regime _mi, ti, si, li_, somiglianti alle
nostre, invece delle più vaste _moi, toi, soi, lui_ che invalsero
dappoi; ma come, singolarmente nel dialetto Borgognone era una
distinzione, la quale merita d’essere pazientemente rilevata da chi fa
soggetto de’ proprii studii tali minute osservazioni linguistiche, e da
chi ha appreso dalle Grammatiche comparate che la desinenza casuale del
possessivo o genitivo soleva essere in us o nel suo assottigliamento
_is_, ed in _i_ quella del dativo e del locativo. Vi si diceva cioè me
il regime diretto ed il regime proprio de’ verbi, vi si diceva _mi_ il
regime indiretto e quello proprio delle preposizioni[14].

Vi si scriveva per ciò _glorifie me_; non _mi_, ossia _glorifica me_,
non _glorificami_; _fai me salf, fà me salvo_, non _fammi; c’un me
mat davant, ch’uno me uccida prima_, non _mi uccida_: al contrario
si scriveva _por mi, a mi, de mi, dedenz mi_. E da ciò si dee trarre
per conseguenza come nel ritoccare l’antica lezione de’ nostri stessi
testi più antichi, ne’ quali può essere pure un ricordo di queste tali
avvertenze (forse più comuni di quello si creda, perchè dipendenti
dalla lingua di transizione, la quale s’atteneva più al romano parlato
che allo scritto) si debba andar riguardoso per non affliggerli di
forme posteriori, e per non lasciarvi smarrire quelle tenui memorie di
artifizii opportunissimi ai tempi, e che giova sempre all’istoria della
lingua il porre in nota. Per differenza dal Borgognone il dialetto
Piccardo che non conosceva queste e radicali, mutava il _me_ sempre in
_mi_ da principio, poscia nella forma che gli si fece prediletta _moi_;
forma poi di regime che passò da ultimo a valergli ancora per soggetto,
seguendo un andazzo popolare dopo che i temi della avvertita lingua
di transizione _jo, je, jeu, ju, jou_, dovuti solo al latino scritto,
scaddero dalla loro esclusiva e privilegiata significazione nominativa.

Quello che si è detto delle distinzioni tra _me_ e _mi_, poi divenuto
_moi_, si ripeta tra _te_ e _ti_, poi divenuto _toi_, ossia che la
prima guisa era quella dell’accusativo, e che per lo più s’accompagnava
coi verbi che il richiedevano; l’altra era dei regimi indiretti, e
che, salvo pochi casi eccezionali, venìa sempre accompagnandosi alle
preposizioni.

In antico Francese vedemmo che _li_ valeva lui, invalse che _li_
divenisse regime indiretto dei verbi (aferesi del dativo latino _illi_)
e _lui_ regime delle preposizioni; e però Maria di Francia N. Fav. 36.
scrisse:

    _Que de sa keuve li prestat_
    _Se li pleust._

cioè — Che di sua coda _gli_ prestasse se _gli_ piacesse. — E
Villarduino: _E por reprover lou servise que il li avoient fait_,
ossia: che _gli_ avevano fatto. E questo _li_ fu puntualmente il nostro
_gli_ che ebbe gli stessi servigi; e se pure qualche maestro scrisse.
_Io dissi lui, Risposi lui_, dando ai verbi quello che era delle
preposizioni, mostrò ancora come l’usanza si rendea licenziosa, e come,
piuttostochè dell’antico modo, egli si sovvenisse del più moderno uso
delle lingue di Francia[15].

Nè mi sembrano da trascurarsi dall’istorico delle lingue queste tali
distinzioni sebbene minute e fuggevoli, giacchè per esse si può render
conto istorico di talune apparenti anomalie. E per esempio _lor,
lour, lur_ furono regimi dei verbi, mentre regimi delle proposizioni
furono pel mascolino plurale _ols_ od _els_, che poi si fece _eus_ e
finalmente _eux_; e pel femminino altresì plurale _eles_. Ora ecco
come, ricalcando quest’uso, Dante potè dire: _e suon di man con
elle_; giacchè se al seguito dei verbi si scriveva: _Lors lor vint
une novelle; lour aivons donneit; mes peres lour vendi_; d’altra
parte invece, al seguito delle preposizioni si scriveva: _une d’eles,
avec eles_, ossia _una d’elle, con elle_, non _una di loro_, o _con
loro_[16].

Inoltre non vorrò scordarmi di aggiungere come quello che si è detto
di _me, mi_, poi _moi_; di _te, ti_, poi _toi_, si dee ripetere del
pronome personale riflessivo, _se, si_, poi _soi_; ossia che la prima
forma era dell’accusativo ed accompagnatoria dei verbi, e che la
seconda era dei regimi indiretti ed accompagnatoria delle preposizioni,
e come nell’antico francese, questi istessi pronomi facendovi l’ufficio
da prima quasi esclusivo di possessivi, dovesse accadere che _di me_ o
_a me_ valessero _mio_; _di te_ o _a te_ valessero _tuo_; _di sè_ o _a
sè_ valessero _suo_: perchè poi in seguito, allorquando per rispondere
ai latini _meus, tuus, suus_, o meglio per riprodurre le arcaiche
desinenze genitive _mis, tis, sis_, si vollero allungate le prime
forme; da _mi_ uscì _mis_; da _ti, tis_; e da _si, sis_; e però, a
dire _mio signore_, o _signore di me_, si scrisse con Maria di Francia
_Mis Sire_, e poscia _messire_, da cui venne quel nostro _messere_,
che ora forse solamente ci rende una ragione men dubbia della sua _s_
duplicata.

Volendo ancora dire per ultimo alcune altre poche cose de’ rimanenti
pronomi, seguiremo aggiungendo come, sempre dal bisogno di distinguere
il nominativo dagli altri casi (e ciò tanto più ne’ pronomi
dimostrativi che non potevano ammettere l’articolo) venne nel nostro
volgare la convenienza dello scrivere _questi_ nel soggetto, e di
lasciar _questo_ per gli altri casi, e così nel nominativo singolare
_quelli_, e _quello_ nei regimi, facendo per tal modo simili fra loro
i nominativi dei due numeri singolare e plurale. Infatti parimente
i Francesi dicevano nel nominativo singolare _cil_, e ne’ regimi pur
singolari _cel_; _cil_ di nuovo nel nominativo plurale, e _cels_ ne’
regimi plurali. Ma, la regola della _s_ caratteristica prevalendo,
anche _cil_ nominativo singolare assunse una _s_ e divenne _cils_, e
noi pure, invece di _quelli_, potemmo, con ischiacciamento della doppia
_l_, scrivere _quegli_, nè diversamente dicevano _cist_ tanto nel
nominativo singolare quanto nel plurale, e _cest_ ne’ regimi singolari,
e _ces_ o _cez_ ne’ regimi plurali.

Sui quali pronomi insistendo, mi pare possibile che essi _cil_ e
_cist_ non siano dimostrativi semplici e radicali, siccome opinano i
Grammatici Francesi da me veduti, ma sieno invece composti, se pure si
vorrà aver ragione di quel _c_ che vi si trova prefisso all’_ille_ ed
all’_iste_ latini. E veramente, solo che un poco si torni addietro per
la popolare latinità, e che non si voglia ricorrere al rovesciamento
della sillabica finale _ce_[17], si incontreranno ne’ comici
quelli _eccilla, ecciste_ (da _ecce illa, ecce iste_ per dimostrare
presenzialmente la persona indicata) dai quali ci parrà facilmente che
una spontanea aferesi, voluta dalla velocità del dialogo, avrà fatto
uscire _cilla_ e _ciste_ per _quella appunto_ e _questi appunto_. Di
qui dunque vennero le vedute forme Borgognone _cil_ e _cist_; di qui le
Piccarde _chil_ e _chist_; di qui il _chilla_ e _chisto_ dei così detti
regnicoli; di qui finalmente il _quella_ e _questi_ più schiacciato
della maggior parte d’Italia: mentre per avventura il nostro neutro
_ciò_, che in Normandia e Borgogna era _ceo_ o _co_, e _chou_ o _cho_
in Piccardia, avrà preso origine per rovesciamento dal latino _ho-c_ od
_ho-cce_.

È pure osservabile come i Borgognoni e i Piccardi amavano di sostituire
alla acuta desinenza Normanna in _i_ la più chiusa e vasta _ui_:
pertanto essendosi introdotto l’uso di scrivere e di pronunciare
_celi_ (puntualmente il nostro _quelli_) in luogo di _cil_; e _cesti_
(il nostro _questi_) in luogo di _cist_, questi cotali popoli, per
induzione dell’etnica loro pronuncia, dissero e scrissero invece
_cestui_ e _celui_ venendo così, non solo a confrontare coi nostri
_costui_ e _colui_, ma insieme a svegliare il sovvenimento sia delle
chiuse profferenze _istus_ ed _illus_, dai regimi delle quali potevano
muovere queste forme anche latinamente, sia della insigne varietà di
genti che qui presero antichissima stanza e poterono quindi anche fra
noi provocare i medesimi fonetici risultamenti.

Così nei pronomi relativi può essere soggetto di brevi parole che in
lingua d’oil _ki_ o _qui_, conservando il valore del _qui_ latino,
fu sempre significativo il solo soggetto maschile; e _ke_ o _que_,
recente dal _quae_ materno, valse unicamente il soggetto femminile,
e che soltanto dopo il milledugento cominciò quella mescolanza la
quale attribuendo tutto a tutto indistintamente, lasciò poi a noi
Italiani il _che_ a far tanti servigi, quanto lunga opera sarebbe il
solo ricordarli distintamente. Ma inoltre in esso Franzese è notevole
che regime diretto di questo pronome era _cui_ o _cuy_ (_quem,
quam, quod_), e regime indiretto comune era _dont_, a valere cioè
_di cui_ (_cujus_), _a cui_ (_cui_), _da cui_ (_a quo, qua, quo_),
così singolarmente come pluralmente, e così per l’un genere come per
l’altro; dal qual modo prendendo lume di fratellanza i vecchi usi
simili del nostro _don_ o _donde_, mi pare ancora che si possa fissare
il paradigma di questo pronome presso noi in antico come segue:

  SINGOLARE E PLURALE.

  Soggetto           _chi_ e _che_
  Regime indiretto   _donde_, o _di cui_ o _che,
                       a cui_ o _che, da cui_
                       o _che_
  Regime diretto     _cui_ o _che_

E non è anche da preterire come questo _donde_, prediligendo forse per
la preposizione anteposta, il caso genitivo, venisse spesso a farsi,
nelle lingue neolatine, _istrumentale_, o ciò che altrimenti direbbesi
_causativo_: di che poi ne uscirono tanti usi tenuti per eleganti
presso noi, ai quali non è più chiaro il valore pronominale di questo
avverbio, ma che erano però naturalissimi in quel tempo in cui si
trovavano volgari tutte le sue nozioni, e nei quali può essere tradotto
in _di che_ o _di cui_ più comunemente.

Era pure nell’antico francese una voce, la quale prima fu _alkes_ od
_alques_, e valse (secondo opina M.r Fallot, che io seguito più da
presso) _qualche cosa_, poi significò _qualche poco di cosa, alcun
che_, da ultimo variamente od _un poco_, od _assai_. Per origine una
tal voce fu un pronome indeterminato, dappoi si impiegò avverbialmente
applicandola per lo più all’aggiuntivo, al modo che diciamo: _assai
largo, molto bene, ben vasto_. Sembrò dunque al ripetuto ch. Fallot
che questo _alkes_ si derivasse da _aliquid_; e però se, applicato
a quantità od a misura di cose, valse quanto si è detto, applicato a
tempo significò qualche tempo antecedente o susseguente secondo poi
portava il discorso. Per quella quasi generale modificazione che nella
Lingua Oytana subirono le sillabe desinenti in _l_, le voci _alkes_
od _alques_ divennero in seguito _aukes_ od _auques_, e poi, secondo
i dialetti, _aques, acque, aike, aikes, aiques, auques, aulques_ ecc.
Vediamone alcuni esempii: — ju ki ne sai aissi cum niant, et ki aikes
cuyde savoir. — (_Serm. di S. Bernardo_), cioè: — io che ne so così
come niente, e che _qualche cosa_ penso sapere. — Non sarà però, a
quanto io stimo, che il lettore non desideri nella mia traduzione un
non so che di più preciso, dovendogli sembrare che l’_aikes_ sia meglio
indeterminato ed assoluto che non sia il qualche cosa, il quale viene
forse a minorar troppo la presumente ed oltraggiosa baldanza del nostro
amor proprio. Potrà egli dunque in suo capo prestamente supplire colla
voce _anche_, e tradurre; _e che anche penso sapere_. Così nella nuova
Race, di Fabl. et Cont. l. 37, si legge:

    _A tant une plainne a veue,_
    _Si est auques aseurez._

ossia — allora una pianura ha visto, si è alquanto assicurato, — dove
pure _auques_ è bensì per _aliquid_ od _alcun che_, ma dove ancora è
patente la possibilità di tradurre così: _si è assicurato anche_. E più
innanzi:

    _Mout ot la dame bon talent_
    _De lui faire auques de ses biens,_

cioè: — Molto ebbe la dama buon talento di fargli alquanto de’ suoi
beni, — oppure: _di fargli anche de’ suoi beni_, che è similmente reso
con fedeltà e concisione. Da tutto ciò mi pare potersi dedurre senza
violenza che quanto da noi si disse della voce _alkes_ oytana possa
essere ripetuto altresì della italica _anche_, cioè che questa potrebbe
venir considerata come un residuo di antico pronome indeterminato,
il quale, dal volgare _alquis_[18] per _aliquis_, era forse _alchi_
od _alco_ e che poi divenne, allungandosi e componendosi, _alcuno_:
da _aliqua_ od _alqua_ era per avventura _alca_, divenuto poscia pel
modo anzidetto _alcuna_; da _aliquid_ finalmente fu _alche_, ed indi
(ricordando quel di Donato a Terenzio — habet enim _n_ littera cum _l_
communionem) si fece _anche_ tenendo una neutrale significazione, e per
questa passando prontamente a far gli ufficii di avverbio. Nè è perciò
appunto che di tale sua primigenia nozione non ne conservi qua e colà
apparenti gl’indizii, giacchè quando Dante scrisse:

    _Mettetel sotto ch’io torno per anche...._
    _Io direi anche, ma io temo ch’ello_
    _Non s’apparecchi a grattarmi la tigna...._
    _. . . . . . . . . . io sono Oreste,_
    _Passò gridando, ed anche non s’affisse._

lasciò, a quanto mi sembra, intravedere nell’_anche_ l’_aliquid_ dal
quale usciva, riferito a quantità, a numero od a tempo. E quando
Giovanni Villani pose _e con anche genti venne da Lucca_, parve
trasponesse la voce a disegno perchè ne trasparissero i primitivi
servigi: e quando finalmente Matteo Villani, insistendo sulla frase
Dantesca, disse: _e avendo i primi mandò per anche_, non fece che
autorizzare sempre meglio in _anche_ la possibilità dell’accennata
derivazione[19].

E poichè siamo su tali pronomi non mancherò di far osservare due cose.
La prima che _altrui_, e poi _autrui_, non era nell’antico linguaggio
di oil altro che regime indiretto del soggetto _altres_, giacchè
derivatosi dal latino _alterius_ per mezzo di quella facile metatesi
che, da _alter_ facendo altre, da _alterius_ faceva _altreius_ ed
_altruius_, non poteva avere significazione diversa dalla genitiva. Di
più, essendo ristretto così a questo solo servigio, non abbisognava
di segnacaso o di articolo, poichè la speciale sua desinenza non lo
lasciava confondere cogli altri casi. E da ciò pure si deriva che
parimente presso noi non ne abbisogni, dicendosi: _le cose altrui, la
donna altrui_, per dire: _le cose_ o _la donna d’altri_; e che poi,
come già vedemmo di _mio, tuo, suo, loro_, passasse spontaneamente a
divenire, sulla forma stessa genitiva del pronome discretivo _alter_,
un vero aggettivo possessivo di persona indeterminata, cosicchè
_l’altrui_ fu lo stesso che lo _d’altri_, ossia _quello d’altri_[20].
La seconda che da alius essa lingua d’oil, cui erano prediletti gli
scorti nella pronuncia, fece pure in antico _al_ ed _el_ nel puntuale
significato di _altro_; dalla quale semplice forma radicale ne vennero
similmente fra noi le composte _alsì_ per _altresì_, _altanto_ per
_altrettanto_ e simili, da ricercarsi ad agio dagli archeofili,
a’ quali mi basta colla presente lezione di aver almeno svegliato
l’appetito delle ricerche.

Finalmente aggiungerò come il nostro pronome coálito _ciascheduno_,
si componga evidentemente di _ciasche_, della _d_ epitettica o
intercalare, e del complemento individuante da noi prediletto ne’
pronomi, cioè _uno_. Dal che poi chiaramente s’induce come noi pure
Italiani dal _quisque_ latino femmo da prima _ciasche_, siccome fecero
_kaske_ o _casque_ gli Oytani, e come indi _ciascuno_ non fosse
per conseguente che una forma composta di quello che potè essere
radicalmente soltanto _ciasco_ e _ciasca_ e _ciasche_, strignendo
così sempre meglio i legami che unirono strettamente da prima, e che
uniscono tuttavia abbastanza le due più vicine fra le lingue sorelle
dell’Europa latina.

Parecchie altre antiche particolarità del linguaggio oytano potrei
venire io qui raccogliendo, le quali non tornerebbero per avventura
inutili alla storia della lingua nostra volgare e de’ suoi principali
dialetti; come sarebbe la formazione dei futuri nel dialetto
Borgognone, e l’altra dissimile nel dialetto Normanno, l’uso nei
verbi elegante dell’infinito invece dell’imperativo[21], e l’arcaica
scrittura di tante parole, dalla quale dipendendo appunto la germana
loro nozione, dipende ancor quella di molte nostre voci tuttavia
controverse nella origine, e per conseguenza nella rispettiva loro
più vera significazione. Ma stimando di essermi per ora adoperato
bastevolmente intorno la utilità di codeste indagini grammaticali
ed istoriche, per invogliar pure i miei connazionali allo studio
dell’antico francese, tenterò ancora un altro modo, e poi con esso
imporrò fine alla mia lezione.

Vorrei cioè persuader loro coll’inducevole argomento degli esempii che
questo istesso francese antico, non solo può giovare agli etnografi
ed ai filologi, ma può aprire a tutti i nostri scrittori una miniera
inesausta di bellezze italiane, le quali essendo da prima comuni alle
lingue cognate, ora si sono andate od intralasciando o rimutando così
da non aver più libero corso in ammendue le favelle. Vorrei insomma
ch’essi stimassero come quella fortuna istessa degl’idiomi, la quale li
scompagnò in seguito e li mandò per vie diverse alla gloria, così che
lo imitarsi al presente scambievole sarebbe in loro un voler perdere la
bellezza individuale acquistata; com’io diceva quell’istessa Fortuna,
considerata nel buio del Medio-Evo, ci durò invece ad autorevole
testimonio che tanti popoli antichi quanti erano intorno al mille dalle
correnti del Reno al flutto che flagella Calpe e Pachimo poteano ben
dirsi fratelli, stretti siccom’erano dal potente vincolo del neolatino,
elargito loro da Roma, perchè prima v’imparassero a riverire il temuto
nome degli Augusti, poscia vi apprendessero ad amare a comune il santo
nome di Gesù Cristo.

Ma come potrei io qui far conoscere a’ miei italiani, anche solo per
cenno, una parte almeno di quei moltissimi autori, i quali scrivendo:

    _Versi d’amore e prose di Romanzi_

in lingua d’oil, sono pure tanto istruttivi per noi, quanto certo
qualsivoglia di quella onorata schiera di Siculi, a’ quali i Toscani
non lasciarono forse altro onore che quello d’essere stati tra i
primi trovatori in lingua di sì? Certo che un’opera così lunga non
può essere nè del tempo presente, nè del luogo: per la qual cosa
non volendo pure ch’essa sia interamente desiderata dall’argomento,
cercherò ora di supplirvi in qualche modo collo estrarre dalla Vita che
di Luigi IX il Re Santo di Francia scrisse il Signore di Gioinville
suo contemporaneo, alcuni fatticelli, i quali possano trovare in sè
medesimi compimento, e traducendoli fedelmente, colla giunta di solo
quanto basti ad integrarli, rendere per guisa tale ricalcata in nostra
lingua l’immagine dell’antica lingua francese.

Se da questo mio fatto ne sorgerà poi nei lettori il giudizio che pure
la stretta mia traduzione ricordi la prosa del buon secolo della nostra
favella, sia allora finalmente che la lingua d’oil abbia l’amore di
molti italiani, e sia che il volgarizzamento, di cui io appena esibisco
un indizio, venga condotto a termine da qualcuno, il quale conoscendo
intimamente la natura dei due linguaggi, sappia, col rendere fedelmente
quello del buon Siniscalco di Sciampagna, dare ancora al suo libro quel
nativo colore di italica antichità che possa farlo pienamente gradevole
agl’intendenti.

  Questo stampava io nel 1843, e ponea al seguito della Lezione
  sei brevi racconti, a maniera di novelle, che furono poscia
  riprodotti a parte per occasione di nozze. Le suddette Novelline
  non dispiacquero, e fui eccitato da alcuni amici a compiere la
  traduzione di tutta la prosa originale del pio e valoroso Barone di
  Francia. La impresi svogliato, e poi, fattomi innanzi nel lavoro,
  l’ultimai di buona voglia, ed essa è quella appunto che seguirà qui
  tutto appresso.



LA SESTA CROCIATA.



PROLOGO

DELL’ISTORIA.


In nome della santissima e sovranissima Trinità, io Giovanni Sire di
Gionville, Gran Siniscalco di Sciampagna, vuo’ scrivere e redigere
in memoria la vita e’ fatti e’ detti di Monsignor San Luigi che
fu Re di Francia, ciò è quanto io ne vidi ed udii nel tempo ed
ispazio di sei anni intieri[22] istando in sua compagnia nel santo
viaggio e pellegrinaggio d’oltremare, e di poi appresso che ne fummo
rivenuti[23]. E questo Libro è divisato in due parti. La prima parte
parla ed insegna siccome il detto Signore Re San Luigi si resse
e governò secondo Dio e nostra Madre Santa Chiesa, al profitto e
utilitade di suo Reame. La seconda parte parla di sue grandi cavallerie
e fatti d’arme, a fine di ritrarre l’una appresso l’altra, e così
ischiarare e scaltrire lo intendimento di coloro che le leggeranno o
udiranno. Per le quali cose si potrà vedere e conoscere chiaramente che
giammai null’uomo di suo tempo vivente, dal cominciamento di suo regno
insino alla fine, non ha vissuto sì santa e giustamente come egli fece.
Pertanto mi sembra ch’uomo non gli ha mica sin qui fatto a bastanza,
non essendo stato messo nel novero de’ Martiri per le grandi pene
ch’elli sofferì nel pellegrinaggio della Croce[24], perchè in così come
Nostro Signore Iddio è morto per lo umano lignaggio in sulla Croce,
a simigliante morì crociato a Tunisi lo buon re San Luigi. E perciò
che nullo bene è a preferire all’anima ragionevole, per tale cagione
comincerò io dalla prima parte che parla de’ suoi buoni insegnamenti e
sante parole indiritte allo nutricamento dell’anima.



PARTE PRIMA

DELL’ISTORIA.


CAPITOLO I.

Di alcune sante parole che il buon Re disse a me e ad altri.

Quel santo uomo che fu Re San Luigi tutta sua vita amò e ridottò Dio
di tutto suo podere, siccome bene apparve nelle opere sue, poi che,
siccome Dio è morto per lo suo popolo, altresì ha messo il buon Re
più volte suo corpo in dannaggio ed avventura di morte per lo popolo
di suo reame come sarà tocco qui appresso. E come il buon Signore Re
amasse il suo popolo di fino amore bene apparve in ciò che, istando una
fiata in grande malattia che avealo sorpreso in Fonte-bell’-acqua, che
l’uomo dice Fontanabelò, disse a Monsignor Luigi suo figliuolo primo
nato[25]: «Bel figliuolo, io ti priego che tu ti faccia amare al popolo
di tuo reame, perchè veramente io amerei meglio che uno Scozzese venuto
d’Iscozia[26] o qualunque altro lontano straniero governasse il popolo
del Reame bene e lealmente, che tu ti reggessi sprovvedutamente e a
rimprovero.»

Il santo Re amò tanto verità che ai Saracini ed infedeli proprii
non volle elli giammai mentire, nè disdirsi di cosa che loro avesse
promessa, non ostante ch’e’ fussono suoi nimici, come toccato sarà
qui appresso. Di sua bocca fu egli molto sobrio e casto; chè anche in
giorno di mia vita, non gli udii divisare od appetire nulla vivanda,
nè grande apparecchio di cose deliziose in bere ed in mangiare, come
fanno molti ricchi uomini, anzi mangiava e prendeva pazientemente,
ciò che gli si apprestava e metteva dinanzi. In sue parole fu egli sì
appensato che giammai non gli udii dire malvagia parola d’alcuno, nè
anche gli udii nomare il diavolo, tuttocchè tal nome sia bene isparso,
ed al presente molto comune per lo mondo, ciò ch’io credo fermamente
non essere punto aggradevole a Dio, ma anzi molto spiacente[27]. Suo
vino attemperava per misura, secondo la forza e virtù che avea il
vino, e ch’e’ poteva portar acqua. Di che una fiata mi domandò egli
in Cipri perchè io non mettea acqua in mio vino. Ed io gli risposi
che ciò faceva per li medici e cerusici, i quali mi dicevano che io
aveva una grossa testa ed una fredda forcella[28] si ch’io non avrei
podere d’indurarla. E il buon Re mi disse ch’essi m’ingannavano, e mi
consigliò di attemprarlo, e che se io non apprendeva a temperarnelo
in giovinezza, e che poi il volessi fare in vecchiezza, le gotte e
le malattie ch’io aveva nella forcella mi crescerebbono più forte,
ovvero s’io bevessi vin puro in vecchiezza, che ad ogni otta me ne
inebrierei, ciò poi che a valentuomo riesce in cosa troppo laida. Il
buon Signore Re mi domandò una fiata s’io voleva essere onorato in
questo mondo presente, e nella fine di me avere il Paradiso. A che io
risposi che sì, e ch’io li vorría bene così appunto. Allora mi disse
egli: guardatevi dunque bene che voi non facciate nè diciate alcuna
villana cosa a scienza vostra, ma sì vi reggiate che, se tutto il
mondo sapesse e conoscesse vostro fatto o vostro motto, voi non aveste
onta e vergogna di dire: io ho ciò fatto, io ho ciò detto. E mi disse
parimente ch’io giammai non ismentissi nè disdicessi nulla di ciò
ch’elli direbbe davanti a me, se pur così fosse ch’io per ciò non ne
avessi a sofferire onta, dannaggio o peccato: e aggiungeva che soventi
volte del disdire alcuno surgono dure parole e rudi, donde spesse fiate
gli uomini s’intraferiscono e diffamano sino a restarne molti morti e
disfatti.

Egli diceva altresì che l’uomo si dovea portare, vestire ed adornare
secondo suo stato e condizione, e tuttavia di mezzana maniera, affinchè
li prodi uomini ed antichi di questo mondo non potessono dire nè
proverbiare a lui: _tu fai troppo_; e così che li giovani non potessero
dire: _tu fai poco, nè fai punto d’onore al tuo stato_. E per ciò mi
rimembro io che, toccando una fiata a monsignor lo Re di presente,
del buon Signore Re che fu suo padre, intorno alla pompa e burbanza
d’abbigliamenti e di cotte ricamate che or comunalmente si portano
sull’arme, io gli diceva ch’unque mai, nella via d’oltremare, ov’io fui
con suo padre e sua oste, non vidi una sola cotta ricamata, nè quella
del Re, nè quella d’altri. Al che mi rispose che a torto egli le avea
ricamate di sue armi, e che le eran costate otto lire di parisini;
ed io gli dissi che meglio le arebbe impiegate donandole per Dio, e
facendo sue cotte di buon zendado rinforzato battuto all’armi sue come
lo Re suo padre faceva.


CAPITOLO II.

Di due questioni che ’l buon Santo Re m’indirizzò.

Il buon Re m’appellò una fiata aggiugnendo ch’e’ voleva parlarmi per
lo sottil senno ch’elli diceva conoscermi; ed in presenza di molti
mi disse: io ho chiamati questi Fratelli che qui sono, e vi fo una
questione e dimanda di cosa che tocca Dio; e la domanda fu tale:
Siniscalco, che è Dio? ed io gli risposi: Sire, egli è sì buona e
sovrana cosa che migliore non può essere. Veramente, disse egli,
ciò è molto bene risposto, perchè questa vostra risposta è scritta
in questo libretto che tengo in mia mano. Ora altra domanda vi fo
io, cioè: lo quale vi amereste meglio, essere misello e lazzero[29],
od aver commesso e commettere uno peccato mortale? Ed io, che anche
non gli voleva mentire, gli risposi, che io amerei meglio aver fatto
trenta peccati mortali che essere misello. E quando li Fratelli si
furo dipartiti di là, egli mi richiamò tutto solo, e mi fece sedere a’
suoi piedi e mi disse: Come avete osato voi dire ciò che avete detto?
Ed io gli risposi che ancora io lo diceva: perchè così elli mi parlò:
Ah folle musardo, musardo, voi vi siete ingannato, perchè voi sapete
che nulla sì laida miselleria non è, come d’essere in peccato mortale,
e l’anima la quale vi è, è simigliante allo avversario dello ’nferno;
per che nulla sì laida miselleria non può essere. E ben è ciò vero,
proseguì egli, perchè quando l’uomo è morto egli è sano e guarito di
sua lebbra corporale; ma quando l’uomo, che ha fatto peccato mortale,
muore, elli non sa punto, nè è certano d’avere avuto a sua vita un
tale ripentimento che Dio gli voglia abbandonare il perdono. Per che
grande paura deve elli avere che quella lebbra di peccato gli duri
lungamente, e tanto quanto Dio sarà in Paradiso[30]. Per tutto ciò vi
prego, seguitò egli, che, innanzi per lo amore di Dio, e poi per lo
amore di me, vi ritornate questo mal detto in vostro cuore, e che voi
amiate molto meglio che lebbra ed altri mali ed iscapiti vi venissero
al corpo, che commettere in vostra anima un sol peccato mortale, che è
lebbra e ladronaia sì infame[31].

Così in quella m’inchiese s’io lavava i piedi ai poveri il giorno del
Giovedì santo: ed io gli risposi: bah! alla malora! già li piedi di
que’ villani non laverò io mica. Veramente, diss’egli, ciò è detto
oltre male, perchè voi non dovete mica avere in disdegno ciò che Dio
fece per nostro insegnamento: chè elli, il quale era il Maestro e ’l
Signore, lavò nel detto giorno li piedi agli Apostoli, e loro disse che
in così com’egli, che era Maestro, loro avea fatto, che similmente essi
facessono gli uni agli altri. A tanto dunque vi prego che per l’amore
di lui e di me lo vogliate accostumar di fare quind’innanzi. E già egli
amò tanto tutte genti che temevano ed amavano Dio perfettamente, che
per la grande noméa ch’elli udì sonare di mio fratello Sir Egidio il
Bruno, il quale pur non era di Francia, di temere e amar Dio altresì
com’elli facea, sì gli donò la Connestabilía di essa Francia.


CAPITOLO III.

Qui conta di Maestro Roberto di Sorbona.

Avvenne un’altra fiata che per lo grande rinômo ch’elli udì di Maestro
Roberto di Sorbona d’esser prod’uomo, egli lo fece venire a lui e bere
e mangiare a sua tavola[32]. Ora eravamo un tal dì egli ed io beendo
e mangiando alla tavola del detto Signore Re, e parlavamo consiglio
a cheto l’uno all’altro[33]. Il che vedendo il buon Re ci riprese in
dicendo: Voi fate male di consigliarvi qui, parlate alto affinchè i
vostri compagni non dubitino che voi parliate d’essi in male; se in
mangiando di compagnia voi avete a parlare alcuna cosa che sia piacente
a dirsi, sì allora parlate alto che ciascuno vi intenda, o se non,
tacetevi.

Quando il buon Re era in gioia, elli mi faceva questioni, presente
Maestro Roberto, talchè e’ mi domandò una fiata: Siniscalco, or mi
dite la ragione per la quale avviene che prode uomo val meglio che
giovane uomo[34]. Allora cominciò briga e disputazione in tra Maestro
Roberto e me. E quando noi avemmo lungamente dibattuta e disputata
la questione, il buon Re rendette la sentenza, e disse così: Maestro
Roberto, io vorrei bene avere il nome di produomo, ma ch’e’ fusse buon
produomo, ed il rimanente vi dimorasse, perchè produomo o probuomo è sì
gran cosa e sì buona, che anche solo nel motto riempie tutta la bocca.
Ed al contrario diceva il buon Signore Re che mala cosa era l’altrui
prendere, poichè il _rendere_ era sì grieve che solamente a nomarlo
scortecciava la bocca, e ciò pe’ due _r-r_ che vi sono, li quali vi
stanno a significanza delli rastri dello avversario, lo quale tuttodì
attira a sè ed arronciglia coloro che vorrebbono rendere lo avere od
il mobile altrui; ed in così elli seduce usurieri e rapitori, e li
ismuove di donare in fin di vita alla Chiesa loro usure e rapine per
Dio, ciò ch’e’ dovrebbono invece non donare ma rendere, e ben sanno
a cui. Ed istando sovra questo proposito, comandò che io dicessi di
sua parte allo re Tebaldo di Navarra suo genero, ch’elli si prendesse
guardia di ciò ch’e’ faceva, e ch’elli non ingombrasse sua anima,
credendo poi esserne quieto pe’ gran danari ch’elli donava e lasciava
al Munistero de’ Fratelli Predicatori di Provino; con ciò sia che
il saggio uomo intanto ch’e’ vive, deggia fare tutto in così che far
dee buon esecutore di testamento, ciò è primieramente e avanti altra
ovra restituire e ristabilire i torti e’ gravami fatti ad altrui
dal trapassato, e solo del residuo avere proprio di quel morto fare
le elemosine ai poverelli di Dio: così come il Diritto scritto lo
insegna[35].

Il santo Re fu un giorno di Pentecoste a Corbello accompagnato da
ben trecento cavalieri, ove noi eravamo Maestro Roberto da Sorbona ed
io. Ed il re appresso desinare si discese alla rinchiostra lasciando
la cappella, e andò parlare al Conte di Brettagna, di chi Dio abbia
l’anima, padre del Duca che è al presente. E davanti tutti gli altri
mi prese il detto Maestro Roberto al mantello, e mi domandò, alla
presenza del Re e di tutta la nobile compagnia: Ditemi, per vostro
senno, se il Re si sedesse in questo chiostro, e voi andaste sedere
in suo banco più alto di lui, sarestene voi a biasmare? Al che io
risposi che: sì veramente. Or dunque, riprese egli, siete voi bene a
biasmare, quando voi siete più riccamente vestito di mantello che ’l
Re nostro Signore. Per che di tratto io gli dissi; Maestro Roberto,
Maestro Roberto, io non son mica a biasmare, salvo l’onore del Re e
di voi; poi che l’abito ch’io porto, tale che lo vedete, me l’hanno
lasciato mio padre e mia madre, e non l’ho io punto fatto fare di mia
autorità. Ma il contrario, è di voi, donde siete ben forte a biasimare
e riprendere, dacchè voi, che siete figliuolo di villano e di villana,
avete lasciato l’abito di vostro padre e di vostra madre, e vi siete
vestito di più fino cammellino[36] che ’l Re non è. Ed allora io presi
il panno del suo sorcotto e di quello del Re, e giuntili l’uno presso
l’altro, seguitai: or riguardate s’io ho detto il vero. Ed allora il
buon Re imprese a difendere Maestro Roberto di parole, ed a covrirgli
suo onore di tutto suo podere in mostrando la grande umiltà che era
in lui e com’egli era pietoso a ciascuno. Appresso queste cose il Re
si trasse, ed appellò Monsignor Filippo padre del Re vivente, ed il Re
Tebaldo suoi figliuoli[37] ed assisosi all’uscio della Cappella, mise
la mano a terra e disse ai suddetti figliuoli: Sedetevi qui presso di
me ch’uomo non vi vegga. Ah! Sire, dissono quelli, perdonateci, se vi
piace, ma egli non ci appartiene di sedere sì presso di voi. Ed egli
allora, rivolto a me: Siniscalco, sedetevi qui. Ed io tosto il feci
così da presso che la mia robba toccava la sua. Ciò fatto, li fece
assidere accanto a me, e allora soggiunse: Gran male avete fatto,
quando voi che siete miei figliuoli, non avete fatto da prima ciò ch’io
vi ho comandato: or guardatevi che giammai egli non vi avvenga. Ed
essi risposero, che non più. Ed elli allora mi va a dire che ci aveva
appellati per confessarsi di ciò che a torto aveva difeso e mantenuto
Maestro Roberto contro di me; ma diss’egli, io lo feci perchè il vidi
così isbaito che aveva assai mestieri di chi ’l soccorresse ed atasse:
essere bensì vero che si dee vestire onestamente ad esserne o meglio
amato da sua donna, o più pregiato dai minori, ma non così che ’l
vestirsi e il portarsi ecceda misura di proprio stato: doversi insomma
l’uomo mostrar fuora di tal maniera che vecchiezza non dica: tu troppo
fai, nè giovinezza: fai poco, siccome fu avvertito d’innanzi.


CAPITOLO IV.

Di due insegnamenti che ’l Re mi diede.

Qui appresso udirete uno insegnamento che il buon Re mi diede a
conoscere. Era il tempo in che si rivenìa d’oltremare e si stava tutto
dinanzi l’isola di Cipri, quando per uno vento, che l’uomo appella
Garbino, il quale non è punto l’uno dei quattro venti maestri regnanti
in mare, ecco che la nostra nave urtò e donò un gran colpo ad uno
rocco talmente che li marinai ne furono tutti perduti, e disperati,
stracciandone loro robbe e loro barbe. Di che il buon Re salì fuori
del letto tutto scalzato, non avendo più che una cotta, e si andò
a gittar in croce davanti il Corpo prezioso di Nostro Signore, come
colui che non ne attendea che la morte. E tantosto appresso s’appaciò
il fortunale, e la nave surse disimpedita e rigallò come in giolito.
Alla dimane mi appellò ’l Re e mi disse: Siniscalco, sappiate che Dio
ieri ci ha mostro una parte di suo gran podere, poichè uno di que’
venti piccolini, che a pena gli sa uomo nominare, ha pensato annegare
il Re di Francia, sua donna, suoi figliuoli e famiglia. E dice Santo
Anselmo che ciò è una minaccia di Nostro Signore, altresì come s’egli
volesse dirci: Ora vediate e conosciate che, s’io l’avessi voluto
permettere, ne sareste stati tutti sommersi. Al che è da rispondere:
Sire Iddio, e perchè ne minacci tu? se la minaccia che tu ne fai non è
punto per tuo prode nè per tuo vantaggio; poichè, se tu ne avessi tutti
perduti, tu non ne saresti già più povero, ed in così non più ricco se
tutti salvati? Certo dunque il tuo minacciare è per nostro profitto,
non per tuo, quando noi il sappiamo conoscere e intendere. Or bene
dunque Siniscalco, seguitò il Re, di queste tali minacce noi dobbiamo
intendere che se ci ha in noi cosa a Dio dispiacente, che noi la
debbiamo rattamente levare e così per simigliante vi debbiamo riporre
ciò che sappiamo essergli in piacere che sia fatto. E se così faremo
Nostro Signore ci donerà più di bene in questo mondo e nell’altro
che non ne sapremmo divisare, e se faremo altrimente, egli farà di
noi ciò che il Signore fa del malvagio sergente, il quale, se per la
minaccia non si corregge, ed il Signore lo fiere nel corpo, ne’ beni e
sino a la morte, e a peggio se possibile è anche. Dunque in così farà
Nostro Signore al peccatore malvagio che per sua minaccia non si vuole
ammendare, e lo colpirà in sè e nelle cose sue crudelmente.

Il buon sant’uomo Re si sforzò di tutto suo podere a farmi credere
fermamente la Legge Cristiana che Dio ci ha donato, così come voi
udirete qui appresso. Dicevami dunque che noi dobbiamo sì fermamente
credere gli articoli della Fede, che per nullo iscapito che ce ne
possa venire al corpo non ci lasciam trascorrere a fare nè dire il
contrario. E inoltre diceva che lo inimico dell’umana natura che è il
diavolo, è sì sottile, che, quando le genti muoiono, egli si travaglia
di tutto suo podere a farle morire in alcun dubbio degli articoli della
Fede: chè egli vede e conosce bene ch’e’ non può togliere all’uomo
le buone opere ch’esso ha fatto, e che ne ha perduto l’anima s’elli
muore in secura credenza della fede cattolica. Per ciò dee l’uomo
prendersi guardia di questo affare, ed averci tale securtà di credenza
ch’e’ possa dire all’inimico quando gli dà tale tentazione: Vattene
nimico di nostra natura, tu non mi getterai già fuori di ciò che credo
fermarmente, cioè delli articoli della mia Fede, anzi meglio amerei
che tu mi facessi tutte le membra dilaccare; poichè io voglio vivere e
morire puntualmente in questa credenza. E chi così fa vince lo inimico
di quell’arma istessa, donde esso nimico voleva ucciderlo.

Pertanto diceva il buon Re che la Fede e credenza di Dio era tal cosa
a che noi avremmo dovuto accomodarci senza dubbio alcuno, anche se
non ne fossimo noi certificati soltanto che per lo udir dire. E su
questo punto mi fece il buon Signore una domanda, cioè: Comente mio
padre avea nome. Ed io gli risposi ch’elli avea in nome Simone. Or
per qual modo il sapete voi? diss’egli: ed io gli dissi che ben n’era
certo e lo credea fermamente per ciò che mia madre lo mi avea detto
molte volte. Adunque soggiunse egli, dovete voi credere perfettamente
gli articoli della Fede per ciò che gli Apostoli di Nostro Signore ve
lo testimoniano, in così come voi udite cantare al _Credo_ tutte le
Domeniche. E su tale proposito mi disse egli che uno Vescovo di Parigi,
nomato in suo dritto nome Guglielmo, gli contò un giorno che uno gran
Maestro in Divinità gli era venuto innanzi per parlare e consigliare
se medesimo a lui. Ma che, come e’ fu per dire suo caso, si prese
a piagnere molto forte e duramente. Per che il Vescovo cominciò ad
ammonirlo dicendo: Maestro, non piangete punto e non vi togliete di
conforto, perchè sappiate veramente che nullo non può essere peccatore
sì grande che Dio non sia più possente di perdonargli. Ah! disse il
maestro, Monsignor lo Vescovo, che io non ne posso altro che piagnere,
poichè mi dubito di essere miscredente ad uno punto, e questo è ch’io
non posso essere asseverato in cuore del santo Sagramento dello Altare
in così come Santa Chiesa lo insegna e comanda a credere; e veggio bene
che ciò mi viene di tentazione dello inimico. Maestro, disse allora il
Vescovo, or mi dite, quando l’inimico vi invia tale tentazione, e vi
dispone per a tale errore, v’è egli in piacere? Rispose il Maestro:
certamente non mai, ma al contrario mi dispiace e m’annoia tanto che
più non potrebb’essere. Or bene, disse il Vescovo, io vi domando se
voi prendereste oro nè argento nè alcuno bene mondano per rinegare di
vostra bocca niente che toccasse al Santo Sagramento dello Altare nè
ad alcuno de’ Sagramenti della Chiesa? Veramente, rispose il Maestro,
siate certo che nulla cosa terrena non è, di che io ne volessi aver
preso, e che anzi amerei meglio mi distroncassero tutto vivo a membro
a membro, che aver rinegato il minimo dei detti Santi Sagramenti.
Adunque il Vescovo gli mostrò per esempio il grande merito ch’egli
acquistava nella pena ch’e’ sofferiva della tentazione, e gli disse
così: — Maestro, voi sapete che ’l Re di Francia guerreggia contro
’l Re d’Inghilterra, e sapete che il castello ch’è il più presso
della marca[38] de’ detti due Re si è la Roccella in Poitù; dunque
rispondetemi: Se lo Re di Francia vi avesse dato balìa di guardargli il
castello della Roccella che è si presso della marca, ed a me l’avesse
data sopra il castello di Montelery che è nel fino cuore di Francia; a
quale dovrebbe il Re, nel termine di sua guerra, saper miglior grado,
a voi od a me di aver guardati di perdita i suoi castelli? — Certo,
Monsignore, disse il Maestro, io credo che ciò sarebbe a me che gli
avrei bene guardata la Roccella, la quale è in luogo più dubitoso, e
ci è la ragione assai buona. — Maestro, disse allora il Vescovo, io
vi certifico che mio cuore, gli è tutto simigliente al castello di
Montelery, perchè io del Santo Sagramento dell’Altare, e così degli
altri, ne sono così asseverato che non me ne viene dubbio neuno. Per
tanto vi dico come per uno grado che Dio nostro Creatore mi sa di
ciò ch’io li creda securamente ed in pace, che bene a doppio ve ne sa
egli grado di ciò che voi gli guardiate vostro cuore in perplessità e
tribolazione: donde io vi dico che molto meglio gli piace in questo
caso il vostro stato che non il mio, e sònovene di ciò ben gioioso,
e vi prego l’abbiate in sovvenenza, ed egli vi soccorrerà certo al
bisogno. Quando il Maestro ebbe tutto ciò inteso e col cuore ascoltato,
s’agginocchiò innanzi ’l Vescovo, e si tenne di lui molto contento e
ben pago.


CAPITOLO V.

Anche della istessa materia e del governo della sua vita.

Un’altra fiata il santo Re mi contò che ad un’otta in Albigese le
genti del paese mossero all’incontra del Conte di Monforte, che allora
guardava per lo Re la terra di Albigese, e gli dissono venisse a
vedere il Corpo di Nostro Signore, lo quale era divenuto in carne ed
in sangue entro le mani del Prete offerente, donde essi erano al tutto
meravigliati. Ed il Conte rispuose loro: Andatevi voi altri che ne
dubitate, perchè, quanto a me, io credo perfettamente e senza dubbio
il Santo Sagramento dello Altare, siccome nostra madre santa Chiesa ne
lo testimonia ed insegna; talchè io spero, in credendolo così, averne
corona in Paradiso più che gli Angioli, i quali creder lo deggiono
poichè il vedono a faccia a faccia.

Ancora mi contava il buon santo Re, che una volta avvenne che nel
Munistero di Cluny ebbevi grande disputazione di Cherici e di Giudei;
e che là si trovò un Cavaliero vecchio ed antico, lo quale richiese
finalmente allo Abbate di quel Munistero, ch’elli pure avesse un poco
d’udienza e congedo di parlare; il che per Messer lo Abbate, il quale
non sospicava a dove volesse uscire, gli fu a gran pena ottriato. E
allora il buon Cavaliero si lieva ritto di sopra la gruccia ch’egli
portava a sostegno, e dice che gli si faccia venire appresso il
più gran Maestro di que’ Giudei. E come questo gli fu assentito, il
Cavaliero gli va fare questa dimanda: Maestro, rispondete; credete
voi nella Vergine Maria che portò il nostro Salvatore Gesù Cristo nel
fianco suo e poscia nelle sue braccia, e credete voi ch’ella l’abbia
Vergine partorito, e sia madre di Dio? A che il Giudeo rispose che
di tutto ciò egli non credeva neente. E il Cavaliero gli disse: Molto
follemente avete risposto, e siete pazzamente ardito quando voi, che
non lo credete, siete entrato per negarla in suo Munistero ed in sua
magione; e che ciò sia veramente voi di presente lo apparerete; ed in
così dicendo, egli leva sua gruccia, e fiere il Giudeo bene stretto
sopra l’orecchio, tanto ch’egli lo stende a terra del colpo. E ciò
veggendo gli altri Giudei, lievano il lor Maestro, e se ne fuggono
così che ne dimora finita la disputazione de’ Cherici e de’ Giudei.
Allora venne lo Abbate turbato in viso a quel Cavaliero, e gli disse:
Sir Cavaliero, voi avete fatto strana follía di ciò che avete colpito e
non argomentato. E il Cavaliero gli rispose: Ma voi avete fatto ancora
più grande follía dello avere così assembrata e sofferta una tale e sì
lunga disputazione di errori; perchè qui entro ci avea gran quantità di
Cristiani buoni ma grossi, i quali se ne sarebbono andati miscredenti
e torbi per lo argomentoso gergo delli Giudei. — E così vi dico io,
soggiunsemi di suo il Re, che nullo, se non è gran Cherco e Teologante
perfetto, non dee disputare con Giudei; ma si dee l’uomo laico, quando
elli ode male dire della Fede Cristiana, difendere la cosa non già
solamente di parole, ma a buona spada pugnante e tagliante, non a
vincere l’errore dello intelletto, ma ad attutire lo scandolezzo della
bocca.

Il governamento della vita ebbe tale, che tutti li giorni udiva le ore
canoniche in nota, ed una Messa bassa di _requiem_, e poi l’officio del
giorno di Santo o Santa. Appresso desinare sempre in letto si riposava,
e poi, quando n’era surto, dicea le preci de’ morti con uno de’ suoi
cappellani, e poi Vespro, indi tutte le sere udía la Compieta.


CAPITOLO VI.

Di un insegnamento che un buon Cordigliere diede al Re, e come ’l Re
non l’obbliasse punto.

Un giorno fu che uno buon Cordigliere venne tutto dinanzi il Re al
castello di Yeres, ove noi discendemmo di mare, e gli disse per maniera
d’insegnamento, ch’elli avea letta la Bibbia ed altri buoni libri
parlanti de’ Principi miscredenti, ma che giammai elli non trovò che
Reame si perdesse, foss’egli in tra credenti o scredenti, fuorchè per
diffalta di dirittura. Si prenda or dunque, disse il Cordigliere, ben
guardia il Re ch’io qui veggio e che se ne va in Francia, sicchè faccia
amministrare buona giustizia e drittura diligentemente al suo popolo,
a ciò che Nostro Signore gli soffra e permetta gioire di suo Reame e
tenerlo in pace e tranquillitade tutto il corso della sua vita. Ed egli
si dice che questo buono e pro’ Cordigliere, il quale insegnò il Re
sì adrittamente, giace a Marsiglia là ove Nostro Signore fece per lui
molti buoni miracoli. E ben sappiate ch’esso buon Cordigliere non volle
anche dimorare col Re, per preghiera e richiesta ch’e’ gliene facesse,
più che una sola giornata!

Il buon Re non obbliò punto l’insegnamento del Cordigliere, anzi ha
governato suo Reame bene e lealmente secondo Dio, ed ha sempre voluto
che Giustizia sia fatta ed amministrata, come voi udirete. Perchè di
costume, dopo che il Sire di Neelle, e il buon Signore di Soissone, io,
ed altri de’ suoi prossimani, eravamo stati a la Messa, egli bisognava
che noi andassimo udire li _Piati de la Porta_, ciò che di presente
suol dirsi _Le richieste del Palazzo_ a Parigi. E, quando il buon
Re era al mattino venuto della Chiesa, elli ci inviava cherére, e ci
domandava com’era ita nostra faccenda, e s’egli ci avea alcuna cosa
che non si potesse spacciare senza di lui. E quando alcuna ne avea, noi
gliel dicevamo, ed egli allora mandava le parti innanzi a sè, e chiedea
loro a che si tenea che non avessero a grato l’arbitrio offerto da’
suoi savi, e, come ne avea contezza, tantosto li contentava e metteva
in ragione e drittura; e sempre di buon costume così seguitò a fare il
sant’uomo Re.

Molte volte ho veduto ch’esso buon Re, appresso aver udito Messa in
Estate, se ne andava a solazzo al bosco di Vincenne, e si sedeva al piè
d’una quercia, e ci facea seder tutti accanto a lui, e tutti quelli
che si pensavano aver affare con esso Re, veniano a parlargli, senza
che alcuno Usciere o Valetto desse loro impedimento. E domandava alto
di sua bocca s’egli ci avea nullo che si credesse a mal partito; e
quando più ce n’avea, egli dicea loro: Amici, sostate e vi si spaccerà
l’uno appresso l’altro. Poi di sovente appellava Monsignor Pietro di
Fontana, e Monsignor Goffredo di Villetta, e dicea: scioglietemi questi
partiti. E quando avvisava qualche cosa ad ammendare nella parola di
que’ che avvocavano la causa altrui, elli medesimo tutto graziosamente
di sua bocca li riprendea. Così molte fiate ho veduto che al detto
tempo d’Istate, il buon Re veniva nel Giardino di Parigi vestito
d’una cotta di camellino, di un sorcotto di bucherame senza maniche,
e di un mantello sovraposto di zendado nero, e faceva là stendere de’
tappeti perchè vi ci assidessimo accanto a lui, e là pure spacciava
diligentemente il suo popolo, com’io v’ho detto innanzi del Bosco di
Vincenne.


CAPITOLO VII.

Come ’l buon Re sapesse all’uopo difendere i laici da oltraggio, e come
fosse leale e fino guardatore di giustizia e di pace.

Io vidi una giornata che tutti li Prelati di Francia si trovarono
a Parigi per parlare al buon San Luigi, e fargli una richiesta, e
quando egli lo seppe, si rese al Palazzo per là udirli di ciò che essi
volevan dire. E quando tutti furono assembrati, si fu il Vescovo Guido
d’Auserre, che fu figliuolo di Monsignor Guglielmo di Melot, il quale
cominciò a dire al Re per lo congedo e commune assentimento di tutti
gli altri Prelati: — Sire, sappiate che tutti questi Prelati, i quali
qui sono in vostra presenza, mi fanno dire che voi lasciate perdere
tutta la Cristianità, e ch’ella si perde entro vostre mani. — Allora
il buon Re si segnò della Croce, e disse: Vescovo, or mi dichiarate
come egli si fa e per quale ragione. — Sire, seguitò il Vescovo, egli
è per ciò che l’uomo non tiene più conto delle scommuniche: perchè
oggidì un uomo amerebbe meglio morire tutto iscommunicato, che di
farsi assolvere, nè vuol nullamente dare soddisfazione alla Chiesa.
Pertanto, Sire, elli vi richiedono tutti a una voce, per Dio e perchè
così dovete farlo, ch’egli vi piaccia commandare a tutti i vostri
Bailivi, Prevosti ed altri amministratori di giustizia, che, ove egli
sia trovato alcuno in vostro Reame, il quale sarà stato un anno e uno
giorno continuamente iscommunicato, ch’essi il costringano a farsi
assolvere col mezzo dell’apprensione de’ beni. E il Sant’uomo rispose
che molto volentieri il commanderebbe fare di coloro che si trovassono
essere tortosi ed iniqui verso la Chiesa ed il prossimo. A che il
Vescovo, soggiunse ch’e’ non apparteneva a’ laici a conoscere di loro
causa. Ma a ciò rispose il Re ch’egli non farebbe altramente; e diceva
che ciò sarebbe contro Dio e Ragione ch’egli facesse costrignere a
farsi assolvere coloro, a chi i Cherici per avventura facessero torto,
sì che non potessero essere uditi in loro buon diritto. E di ciò loro
donò esempio del Conte di Brettagna, il quale per sette anni ha piatito
contro i Prelati di Brettagna, tuttochè scommunicato, e finalmente
ha sì ben condotto e menato sua causa, che il nostro Santo Padre il
Papa li ha condannati inverso il medesimo Conte. Per che, seguitava
dicendo, se dal primo anno io avessi voluto costringere esso Conte a
farsi assolvere, avrebbe egli dovuto lasciare a que’ Prelati contro
ragione ciò ch’essi gli domandavano oltre suo volere; il che facendo
avrei io grandemente misfatto in verso Dio ed in verso il detto Conte
di Brettagna. Appresso le quali cose udite per tutti que’ Prelati, loro
convenne satisfarsi della buona risposta del Re, sicchè non udii più
anche che ne fosse parlato o dimandato pel tempo avvenire.

La pace ch’egli fece col Re d’Inghilterra fu contra la volontà di
tutto suo Consiglio, il quale dicevagli: — Sire, egli ci sembra che
voi facciate un gran male al vostro Reame de la terra che voi donate
e lasciate a questo Re, e ben ci sembra ch’egli non ci ha alcun
diritto per ciò che suo padre la perdè per appensato giudicamento. —
A che rispose il buon Re ch’egli sapeva bene come ’l Re d’Inghilterra
non ci avesse nessun diritto, ma, diceva egli, che a buona causa
egli bene doveva donargliela, poichè soggiungeva: Noi due abbiamo
ciascuno l’una delle due sorelle a donna, donde i nostri figliuoli ne
sono cugini germani: egli si conviene dunque che tra noi sia pace ed
unione: ed egli anche m’è grato di aver fatto in così la pace col Re
d’Inghilterra, per ciò ch’egli è al presente mio uomo ligio, ciò che
non era punto davante.

Finalmente la grande lealtà del Re fu assai conosciuta nel fatto di
Monsignor Rinaldo di Tria, il quale apportò a quel sant’uomo talune
lettere patenti, per le quali dicevasi ch’elli avea donato agli eredi
della Contessa di Bologna (la quale non ha guari tempo era morta)
la Contea di Dammartino. Ora su tali lettere il suggello del Re
ch’altra fiata c’era stato, era tutto rotto ed infranto, sicchè di
detto suggello non ci avea più che la metà delle gambe della imagine
del Re e lo sgabello sul quale essa imagine tenea li piedi. Ora il
Re mostrò le dette lettere a noi che eravamo di suo consiglio, per
consigliarlo sopra ciò. E tutti fummo d’opinione che ’l Re non era
tenuto a mettere in esecuzione quelle lettere esautorate, e che per ciò
gli eredi non doveano gioire di quel Contado. Ma egli, pur dubitando,
appellò tantosto Giovanni Saracino suo Ciambellano, e gli disse che gli
apportasse una lettera patente che innanzi gli avea commandato fare. E
quando egli ebbe la lettera veduta, riguardò attentamente al suggello
che vi era ed al rimanente del suggello delle lettere del detto
Rinaldo, e ci disse: — Signori, vedete qui il suggello del quale io
usava innanzi la partenza pel mio viaggio d’oltremare, e vedrete anche
che questa rimanenza di suggello rassomiglia a punto all’impressione
del suggello intero, per che non oserò io, secondo Dio e Ragione,
ritenere la suddetta Contea di Dammartino. Ed allora appellò il
nominato Monsignor Rinaldo di Tria, e gli disse: Bel Sire, io vi rendo
la Contea che voi dimandate.



PARTE SECONDA

DELL’ISTORIA.


CAPITOLO I.

Della nascita e coronazione del buon Re, e come portò arme primamente.

Qui comincia la seconda parte del presente libro, nella quale come ho
detto dinanzi, voi potrete udire li grandi fatti e le Cavallerie del
buon Re. Questi, secondo quanto più volte udii dire, fu nato il giorno
e festa di Monsignore San Marco Apostolo ed Evangelista[39]. Quel
giorno portavansi le croci a processione in molti luoghi di Francia,
e vi eran dette le croci nere[40] il che accennò quasi profeticamente
alle genti che in gran moltitudine morirono crocesignate durante li
santi viaggi d’oltremare in Egitto ed in Cartagine; donde molto gran
duolo ne è stato fatto e menato in questo mondo, ed ora se ne mena gran
gioia in paradiso di coloro che, a gloria della Croce, hanno saputo
acquistarlo.

Egli fu coronato la prima domenica di Avvento[41] della cui Domenica
la Messa si comincia a queste parole: _Ad te levavi animam meam_, il
che vale a dire: Bel Sire Iddio, io ho levato mia anima e mio cuore
in verso te, e in te mi fido. Nelle quali parole aveva il buon Re gran
fidanza, in dicendole di sè, e ciò per lo carico grande ch’elli veniva
a prendere. Egli ebbe in Dio molto gran fidanza dall’infanzia sua
sino alla morte; perchè alla fine de’ suoi ultimi dì sempre invocava
Dio i suoi Santi e Sante, e specialmente aveva egli per intercessori
Monsignore San Iacopo, e Madama Santa Genevieva. Per le quali cose fu
elli guardato da Dio, dalla sua infanzia sino allo ultimo punto, quanto
all’anima sua. E così per li buoni insegnamenti di sua Madre, la quale
ben l’insegnò a Dio credere, temere, ed amare in giovinezza, egli ha
dippoi bene e santamente vissuto secondo Dio. Sua Madre gli attrasse
tutte genti di religione e gli faceva udire nelle Domeniche e Feste,
Sermoni riferenti la santa parola di Dio. Donde più volte rammentò
che sua Madre gli aveva spesso ripetuto che ella amerebbe meglio ch’e’
fusse morto ch’egli avesse commesso un sol peccato mortale.

E ben gli fu bisogno che di sua giovine età Dio l’aiutasse, perchè
sua madre era d’Ispagna, paese istrano talchè dimorò senza nullo
parente nè amico nel Reame di Francia[42]. E perciò che li Baroni di
Francia videro lui e Sua Madre come stranieri senza sopporto fuorchè
di Dio, essi fecero del Conte di Bologna, che era zio del Re suo
padre ultimamente trapassato, il loro capitano, e lo teneano come
per loro Signore e Maestro. Onde avvenne che, appresso che il buon
Re fu coronato giovincello, per cominciamento di guerra, alcuni dei
detti Baroni di Francia richiesero a sua Madre, ch’ella loro volesse
donare certa gran quantità di terre nel reame. E per ciò ch’ella nol
volle, non appartenendole di diminuire il Reame oltre il volere dil
figliuol suo ch’era già Re coronato, quei Baroni si assembrarono tutti
a Corbello. E mi contò il santo Re ch’egli e sua Madre, i quali erano a
Montelery, non ne osarono andare sino a Parigi, tanto che quelli della
Villa li vennero cercare in arme in molto gran quantità. E mi disse
anche che da Montelery sino a Parigi il cammino era pieno ed allistato
di genti d’arme e di popolo, che a Nostro Signore gridavano tutti ad
alta voce, che gli donasse vita e vittoria guardandolo e mantenendolo
contra tutti i nemici suoi; il che veramente Dio fece in alquanti
luoghi e passaggi, come voi udirete qui appresso.

Avvenne che i Baroni di Francia si assembraro a Corbello, e
macchinarono intra loro di comune assentimento ch’e’ farebbono si che
’l conte di Brettagna si leverebbe contra il Re. E puosero tra loro per
gran tradigione, che se il Re li volesse inviare contra esso Conte,
andrebbono bensì al comandamento, ma non vi menerebbero con loro che
due Cavallieri ciascuno, affinchè più agiatamente il Conte potesse
vincere il buon Re Luigi e sua Madre che era donna di strania nazione
come avete udito. Ed in così che que’ Baroni promisero al detto Conte
di Brettagna, e così fecero: ed ho udito dire a molti che il Conte
avrebbe distrutto e soggiogato il Re e sua Madre, se non fusse stata
l’aìta di Dio che giammai non gli fallì. Perchè, come per permissione
divina, al grande bisogno ed alla grande strettezza del buon Re, il
Conte Tebaldo di Sciampagna si sentì ismosso a voler soccorrerlo[43],
e di fatto si partì con ben trecento Cavallieri molto bene in punto di
battaglia, ed arrivarono a buon ora colla grazia di Dio. Sicchè per lo
soccorso di quel Conte di Sciampagna convenne al Conte di Brettagna
rendersi al suo Signore ed a lui gridare mercè. Ed il buon Re, che
nullamente ne appetiva vendetta, considerò che la vittoria avutane era
stata per la possanza e bontà di Dio ch’avea promosso il valente Conte
di Sciampagna a venirlo vedere, e ricevve quello di Brettagna a mercè,
ed allora andò il Re securamente per le sue terre.

E qui è a dire siccome talvolta insorgano in alcune materie delle
incidenze, le quali pur si deggiono isporre per servir meglio il
proposito, tuttocchè vi si mostri di lasciar per poco il principale
dell’istoria. E qui è appunto l’occasione di recitarvi alcune cose che
in mestieri tornano a poter bene intendere il trattato nostro. Perchè
diremo tutto per lo vero così. Il buon Conte Errico di Sciampagna,
detto il Largo, ebbe dalla Contessa Maria sua donna, che era sorella
del Re di Francia e della fidanzata di re Riccardo d’Inghilterra, due
figliuoli, de’ quali il primogenito ebbe nome altresì Errico, e l’altro
Tebaldo. Errico se n’andò crociato in Terra Santa col Re Filippo
Augusto di Francia e col Re Riccardo d’Inghilterra, li quali tre
assediarono la città di Acri e la presero. E tantosto che ella fu presa
lo re Filippo se ne rivenne in Francia, donde elli fu molto biasmato.
Dimorò il Re Riccardo in Terra Santa e là fece grandissimi fatti d’arme
sui miscredenti, e Saracini; tanto che il ridottarono sì forte, ch’egli
è scritto ne’ Libri del Viaggio della Santa Terra che, quando i piccoli
fanciulli de’ Saracini gridavano, le madri dicevan loro:_ Vè qua Re
Riccardo che ti vien caendo_, e tantosto, della paura che que’ piccini
traevano dal solo udirlo nomare, essi cagliavano e ammutolivano. E a
simiglianti quando Saracini e Turchi erano al campo, e ch’e’ cavalli
loro, aombrando, barberavano e si gittavan per paura in sinistro,
dicevan loro frizzandoli: _che? credi forse che sia costà Re Riccardo?_
Il che tutto sta chiaramente a dimostrare ch’egli facea su loro di gran
fatti d’arme, e ch’egli n’era a dismisura temuto. Ora quel Re Riccardo
tanto procacciò per sue prodezze e bontadi ch’egli fece dare in donna
al Conte Errico di Sciampagna, ch’era dimorato con lui, Isabella reina
di Gerusalemme. E questo Errico, innanzi sua morte, ebbe dalla detta
Reina sua moglie due figliuole Alice e Filippa, delle quali la prima fu
reina di Cipri, e l’altra andò in donna a Messer Airardo di Brienne,
donde grande lignaggio è uscito, siccome appare in Francia e in
Sciampagna. Ma di Filippa di Brienne non vi dirò io nulla al presente,
anzi vi parlerò della Reina di Cipri, per ciò ch’egli licitamente si
conviene a continuare mia istoria, e dirovvene appunto così.


CAPITOLO II.

Qui conta come seguitò la guerra de’ Baroni di Francia, e come ’l Re la
menò a suo prode, e ne seguì pace.

Appresso che il buon Re ebbe soggiogato e vinto il Conte Piero di
Brettagna all’aiuto del Conte Tebaldo di Sciampagna, i Baroni di
Francia furono molto indignati contra quest’ultimo, ed entrarono in
opinione di diseredarlo, come quegli ch’era figliuolo del secondo
genito Tebaldo, chiamando a ciò la Reina di Cipri, ch’era invece
prima figliuola d’Errico stato il primogenito di Sciampagna. La
qual cosa, se loro apparve moltissimo profittevole, non fu a tutti
parimente in grado, per che alcuni di quei Baroni, e per non trovarvi
pronto guadagno, e per non iscovrirsi commettitori di male, si fecero
intraprenditori di far la pace tra li duo Conti e fu la cosa tanto
menata in trattato d’una e d’altra parte, che, per lo appuntamento
d’essa pace, il Conte Tebaldo di Sciampagna promise prendere a donna
la figliuola del Conte Piero di Brettagna. E fu la giornata assegnata
a ciò fare, e che si devesse la damigella ammenare per le sponsalizie
ad una Badia de’ Fratelli Predicatori che è presso Casteltierry, in
una villa che l’uomo dice Valserra. Ed, in così com’io intesi dire,
il Conte Piero di Brettagna coi Baroni di Francia, che gli erano quasi
tutti consorti, si partirono insieme per voler la damigella ammenare al
Munistero di Valserra; e mandarono dicendo al Conte Tebaldo, che era a
Casteltierry, che venisse a impalmar la donzella secondo la promessa.
Ed egli bene il volea fare, quand’ecco arrivare a lui Messer Goffredo
de la Cappella, che gli presenta lettere da parte il Re, per le quali
gli scriveva così: — Sire Tebaldo di Sciampagna, io ho inteso che voi
avete pattuito e promesso di prendere a donna la figliuola del Conte
Piero di Brettagna. Pertanto vi mando che, sì caro come avete tutto
quanto amate nel Reame di Francia, sì nol facciate punto. Lo ’mperchè
di ciò voi ben vel sapete, poichè non ho io trovato giammai chi m’abbia
voluto peggior male di lui. — E quando il Conte Tebaldo ebbe ciò
inteso, tuttocchè si fosse mosso per andare a sposare la damigella di
Brettagna, nullameno se ne ritornò a cheto in Casteltierry donde s’era
partito.

Or come il Conte Piero di Brettagna, e li Baroni di Francia contrari
al buon Re, i quali erano in attesa a Valserra seppero e videro che
il Conte Tebaldo li aveva ingannati e delusi, per subito dispetto ed
ira grandissima ch’e’ concepirono contra il detto Conte di Sciampagna,
mandarono prestamente alla reina di Cipri; e questa venne a loro
senza tardanza, e sì tosto ch’ella fu venuta, tutti d’uno comune
assentimento, dopo aver fatto loro posture e conventi, inviarono
cercare, ciascuno da sua parte, tanto di genti d’arme come ne poterono
avere, e partironsi la bisogna intra loro per entrare di verso Francia
nel paese del detto Conte, e così in Bria come in Sciampagna. E così
menarono loro intelligenza col Duca di Borgogna, che aveva in donna la
figliuola del Conte Roberto di Dreues, che da sua parte egli entrerebbe
nella Contea di Sciampagna. Ed alla giornata assegnata ch’essi si
dovevano tutti trovar insieme davanti la città di Troye per prenderla,
il buon Re Luigi lo seppe, il quale parimente mandò tutte sue genti
d’armi per andare al soccorso del Conte Tebaldo di Sciampagna. E di
fatto li Baroni ardevano e bruciavano da loro parte tutto il paese
per ove essi passavano, ed altresì faceva il Duca di Borgogna dal
canto suo che s’intendeva con loro. Or quando il buon Conte Tebaldo
si vide così fortemente assalito d’una parte e d’altra, bruciò elli
medesimo e distrusse alquante ville di suo paese, e per ispeciale
Esparné, Vertù e Sezanna, affinchè li Baroni e il Duca di Borgogna non
le trovassono assai fornite come l’altre ville e cittadi, e così gli
tornassono a nocumento. Or quando li borghesi di Troye videro ch’essi
avean perduto il soggiorno del loro buon maestro e signore Conte di
Sciampagna, di subito mandarono a Simone signore di Gionville, padre di
quel Sire di Gionville che al presente è, e di cui è questo dittato,
perchè li venisse soccorrere. Nè il buon Signore mancò all’invito,
che anzi fu egli sì prestamente dinanzi la cittade a tutte sue genti,
e sì vi fece d’arme a meraviglia che li Baroni fallirono a prendere
la buona cittade, e fu lor forza passar oltre e andar a tendere gli
alloggiamenti alla scoverta insieme col Duca di Borgogna. Or quando
il buon Re di Francia seppe ch’essi furono là, egli con sue genti
mosse dritto verso loro per combatterli. Il che veggendo i Baroni, gli
mandarono per preghiera e richiesta che suo piacer fosse di tirare
indietro suo corpo, ch’essi allora andrebbono combattere contra il
Conte di Sciampagna e il Duca di Lorena e tutte lor genti d’arme, con
trecento Cavalieri meno di quelli che il Conte e ’l Duca non avrebbono.
E il Re loro rispose, che nullamente essi si combatterebbono alle sue
genti, s’egli pure non vi fusse di sua persona. Il che udendo i Baroni,
incontanente presso che confusi gli mandarono che assai volontieri
farebbono intendere la Reina di Cipri a far pace col Conte Tebaldo di
Sciampagna. Ma il buon Re mandò loro che a nulla pace non intenderebbe
nè soffrirebbe che vi intendesse il Conte di Sciampagna, sino a che
essi si tenessero armati nella Contea di Sciampagna. Perchè, dopo la
risposta udita, se ne partirono di là, e senz’arrestarsi presero loro
alloggiamenti sotto July. Ed il Re s’andò alloggiare ad Ylles donde
elli li avea cacciati. Quando li Baroni videro che il Re li perseguiva
così da presso, isloggiarono essi da July, e s’arrestarono a Langres
che era nella Contea di Nevers, la quale parteggiava con loro. E così
il buon Re San Luigi, dopo avere isgombra la Sciampagna accordò la pace
tra quel Conte e la Reina di Cipri oltre il grado e il consiglio de’
Baroni. E la pace fu fatta tra loro in tal maniera che per partaggio e
diritto di successione, il Conte donò alla Reina in tutto duo mila lire
di terre e rendite, oltre a quaranta mila lire che il Re pagò a una
sol data pel Conte di Sciampagna, per gli dispendii della detta Reina.
Per le quali quaranta mila lire il Conte vendette al Re li feudi e
signorie seguenti, cioè il fio del Conte di Blois, quello della Contea
di Chartres, e della Contea di Sanserre, e ’l fio del Viscontado di
Castelduno. E sebbene in quell’ora alcuni dicessero che il Re teneva li
detti feudi in solo gaggio, pur ciò non è verità, perch’io il dimandai
al buon Re, istando con lui oltremare, ed e’ mi rispose, che ciò era
stato per piano accatto.


CAPITOLO III.

Ove per inframmessa si tocca del Conte Errico di Sciampagna, e di
Artaldo di Nogente il ricco borghese.

La terra, che il Conte Tebaldo donò alla Reina di Cipri, tiene al
presente il Conte di Brienne che ora ci vive, ed il Conte di Ioingny,
per ciò che l’avola del Conte di Brienne fu figliuola della Reina
di Cipri e donna del gran Conte Gualtieri di Brienne. Ed affinchè
sappiate donde vennero li feudi che il Signore di Sciampagna vendette
al Re, di cui qui innanzi v’ho fatto menzione, io vi fo assapere che
’l gran Conte Tebaldo, il quale giace a Legny, ebbe tre figliuoli,
di cui il primo ebbe in nome Errico, il secondo Tebaldo, e Stefano
il terzo. Or quello Errico, che era il primo nato fu dappoi Conte di
Sciampagna e di Bria, e fu appellato il Largo Conte Errico, perchè
largo ed abbandonato fu egli tanto inverso Dio che inverso il mondo.
Inverso Dio fu egli largo ed abbandonato com’egli appare alla Chiesa di
Santo Stefano di Troix ed all’altre Chiese ch’elli fondò, ed ai gran
doni ch’e’ vi faceva ogni giorno, come assai enne di memoria in tutta
Sciampagna. In verso il mondo fu elli largo come bene apparve al fatto
d’Artaldo di Nogente, ed in molte altre occasioni che troppo lungo
sarebbe il voler raccontare. Ma del fatto del detto Artaldo farò ben
io qui menzione. — Quell’Artaldo era il borghese in chi di quel tempo
il detto Conte Errico credeva il più; e fu il detto Artaldo sì ricco
uomo che di sua moneta fe’ far di levata tutto il castello di Nogente.
Ora si avvenne che ’l Conte Errico volle un giorno discendere del suo
palazzo di Troix per andare udir messa a Santo Stefano il giorno d’una
Pentecoste. Ed a piè delle gradora della Chiesa si trovò a ginocchi un
povero Cavaliere, il quale ad alta voce gridò e disse: Sir Conte, io vi
richiedo al nome di Dio ch’egli vi piaccia donarmi di che maritare le
mie due figliuole che qui vedete, perch’io son diserto e sì non ho di
che farlo per me. — E Artaldo di Nogente, ch’era di drieto il Conte,
disse a quel Cavaliere: Sir Cavaliere, voi fate male di domandare a
Monsignore che vi doni, poi ch’egli ha tanto donato che non ha più di
che. E quando il Conte ebbe ciò udito, egli si tornò verso Artaldo e
gli disse: Ser Villano, voi non dite mica vero dicendo ch’io non ho più
che donare, perchè ho io anche voi medesimo, ed ecco ch’io vi dono a
lui: tenete, Cavaliere, io lo vi dono, e bene ve lo saprò guarentire.
Di ciò il povero Cavaliero non fu punto isbaìto, ma impugnò subito il
ricco borghese per sua cappa bene strettamente, e gli disse ch’egli nol
lascerebbe partire insino a che non gli avesse finito di suo riscatto.
E così fu veramente, che, se volle uscirne, convennegli pagare sino a
cinquecento lire di moneta, e renderne in questo modo servite le due
figliuole del Cavaliere, il che lasciando, seguiterò dicendovi che
il secondo fratello di quell’Errico il Largo fu Tibaldo, il quale fu
Conte di Blois, ed il terzo fu Stefano, il quale fu Conte di Sanserre.
E questi due fratelli tennero loro Contee e Signorie dal loro fratello
primo nato Errico il Largo, e appresso lui dagli eredi suoi che
tenevano il paese di Sciampagna sino a che il Conte Tebaldo, di che
femmo menzione, le vendette a Re San Luigi, come detto è qui davanti.


CAPITOLO IV.

Della gran Corte che ’l Re bandì a Salinaro, poi della fellonia del
Conte della Marca, e come questi ne fu punito.

Ora ritorneremo a nostro proposito e materia, e diremo che, appresso
queste cose, il Re tenne una gran corte e magione aperta a Salmur in
Angiò, e ciò ch’io ne dirò sarà di tutta verità per ciò ch’io vi era.
E ben vi certifico che ciò fu la più impareggiabile cosa ch’io vedessi
anche, e la più adorna ed apprestata. Alla tavola del Re mangiavano
il Conte di Poitieri, cui egli avea fatto novellamente Cavaliere
il giorno di Santo Giovanni che non ha guari era passato, il Conte
Giovanni di Dreux ch’egli avea fatto altresì Cavaliere novello, il
Conte della Marca e il Conte Piero di Brettagna. E ad un’altra tavola
davanti il Re all’indiritto del Conte di Dreux, mangiava il Re di
Navarra che molto era parato ed adorno di drappi d’oro in cotta e
mantello, la cintura, il fermaglio e la corona d’oro fino, davanti il
quale io trinciava. Davanti il Re San Luigi servivano del mangiare
il Conte d’Artois e suo fratello, ed il buon Conte di Soissone, il
quale trinciava del coltello: e per la tavola del Re guardare erano
Messere Umberto di Belgioco, che poi fu Connestabile di Francia, e
Messer Onorato di Coucy, e Messer Arcimbaldo di Borbone. E ci avea
dietro questi tre Baroni ben trenta de’ loro Cavalieri in cotte di
drappo di seta per buona guardia, e dietro questi Cavalieri ci avea
gran quantità di Uscieri d’arme e di sala, che erano al Conte di
Poitieri e che portavano sue armi battute sopra zendado. Il re si era
abbigliato orrevolmente il più ch’egli avea saputo farlo, sicchè saria
cosa meravigliosa e lunga a raccontare; a tanto che udii dire a molti
della compagnia che giammai essi non avean veduto tanto di sorcotti
nè d’altri guarnimenti di drappo d’oro a una festa, com’egli ci avea a
quella là.

Appresso quella Festa il Re condusse il Conte di Poitieri sino al
detto loco di Poitieri per riprendere suoi feudi e signorie; ma
uno inconveniente arrivò allora al Re dal Signore della Marca, che
pure avea mangiato alla sua tavola a Salmur. Perchè assembrò egli
segretamente gran genti d’arme tanto quanto potè incontra il Re, e le
rattenne a Lesignano presso Poitieri. Il buon Re avrebbe ben voluto
essere a Parigi; e gli fu forza di soggiornare a Poitieri quindici
giorni senza ch’egli ne osasse sortire. E si diceva che il Re e ’l
Conte di Poitieri aveano fatto malvagia pace col Conte della Marca.
Perchè egli convenne che ’l Re, per accordarsi, andasse parlare al
Conte della Marca ed alla Reina d’Inghilterra sua donna, la quale era
madre dello Re d’Inghilterra.

E tantosto appresso che ’l Re se ne fu ritornato di Poitieri a Parigi,
non tardò guari che il Re d’Inghilterra e il Conte della Marca si
allearono insieme a guerreggiare contro il buon Re San Luigi colla più
gran compagnia di guerra ch’essi poterono ammassare e soldare; e si
recaro di Guascogna davanti il castello di Taglieborgo, che è assiso
sopra una molto maschia riviera che ha in nome Carenta, sulla quale
non avea là presso che uno piccolo ponte di pietra assai stretto per
ove si potesse passare. E quando il Re lo seppe, mosse e s’addirizzò
verso loro a Taglieborgo. E sì tosto come le nostre genti appercepiro
quelle dell’oste nimica che aveano dal loro lato il detto castello di
Taglieborgo, incontanente molto perigliosamente si presero a passare
gli uni per di sovra il ponte, gli altri per battelli, e cominciaro a
correr sovra gli Inghilesi, ed a donare ed a ricevere grandi colpi. Il
che veggendo il buon Re, se ne va egli in gran periglio a mettersi per
mezzo gli altri. E bene ci avea il periglio molto grande perchè, per un
uomo che ’l Re aveva quando e’ fu passato, gl’Inghilesi ne aveano ben
cento. Ma ciò non ostante quando essi Inghilesi videro il Re passato si
cominciaro ad isbigottire così come Dio volle, e se n’entraro di dentro
la città di Saintes. Ed egli avvenne che nella mislea ci ebbe alquanti
di nostre genti per mezzo gl’Inghilesi che entraro con essi nella
cittade e vi furono presi.

Donde poi ho udito dire ad alcuno di loro che in quella nottolata
il Re d’Inghilterra e il Conte della Marca ebbero grande discordia
l’uno all’altro nella detta cittade di Saintes, secondo che poterono
intendere. E dicea lo Re d’Inghilterra che il Conte della Marca lo avea
inviato chiedere dietro promessa ch’e’ troverebbe in Francia grande
favore e soccorso; il che non essendo, e facendone dibattimento, si
mosse il Re d’Inghilterra della città di Saintes, e se ne andò in
Guascogna d’onde s’era partito; sicchè vedendo il conte della Marca
ch’egli era solo dimorato, e conoscendo ch’e’ non poteva ammendare
il mal fatto, si rese prigioniero del Re con sua donna e figliuoli.
Donde poi avvenne che ’l Re n’ebbe gran quantità di terre dal Conte
donandogli pace, ma io non so bene appunto chente e quali, per ciò
ch’io non c’era presente, giacchè non avea allora vestito anche
usbergo[44], e solo ho per udita che insieme alle terre il Conte quetò
al Re ben diecimila lire di parigini di rendita che ciascun anno esso
riceveva da lui.


CAPITOLO V.

Perchè e come il buon Re si crociò, e come con esso presi io anche la
Croce.

Appresso queste cose avvenne che ’l Re cadde in una molto grande
malattia istando a Parigi, e funne talmente al basso, siccome poscia
gli udii raccontare, che l’una delle Dame che lo guardava in sua
malattia, credendo ch’e’ fusse trapassato, gli volle coprire il viso
di uno lenzuolo, dicendo ch’egli era morto. E dell’altra parte del
letto, in così come a Dio piacque, ci ebbe un’altra Dama, la quale non
volle soffrire che gli fosse coverto il viso, e se gli desse sepoltura,
ma sempre diceva che ancora gli bastava la vita. Sul che, durando il
discordio di quelle Dame, di tratto il Signore operò in lui e gli donò
la parola. E questa fu per dimandare che gli si apportasse la Croce,
il che fu fatto. Or quando la buona Dama sua Madre seppe ch’egli avea
ricovrato la parola, ella n’ebbe gioia sì grande che più non potea
essere, ma quando, accorsa, il vide crociato, ne venne a meno così come
s’ella l’avesse veduto morto[45].

E in quel tanto che ’l buon Re si crociò, si crociarono anche Roberto
Conte d’Artois, Alfonso Conte di Poitieri, Carlo Conte d’Angiò che fu
dappoi Re di Cicilia, i quali tutti tre erano fratelli del Re, ed Ugo
Duca di Borgogna, Guglielmo Conte di Fiandra, suo fratello Guidone
che poi non ha guari morì a Compiègne; il valente Conte Ugo di San
Polo, Messer Gualtieri suo nipote, lo quale molto bene si portò oltre
mare, ed avrebbe molto valuto, se avesse vissuto lungamente. Altresì
fecero il Conte della Marca, di cui non ha guari parlammo, e Messere
Ugo il Bruno e suo figliuolo il Conte di Salebruche, Messer Gualberto
d’Aspromonte e’ suoi fratelli. Nella compagnia del quale io Giovanni
di Gionville, per ciò che eravamo cugini, passai il mare in una piccola
nave che noi allogammo. Noi eravamo in tutto venti Cavalieri, de’ quali
di sua parte egli era il decimo, ed io il decimo di mia parte, e fu
ciò appresso Pasqua l’anno di grazia 1248. Ma avanti la mia partenza
io mandai a’ miei uomini e suggetti di Gionville che venissero tutto
dinanzi a me la vigilia della detta Pasqua, che fu il giorno in che
nacque Giovanni mio figliuolo Signore di Ancarville, che fu della
prima mia donna, sorella del Conte di Gran Prato[46]. Io fui tutta la
settimana a fare feste e banchetti con mio fratello Gioffredo Sire di
Valcolore, e tutti li ricchi uomini del paese che là erano, ed appresso
che avevamo bevuto e mangiato, dicevamo canzoni gli uni dopo gli altri,
e dimenavamo gran gioia ciascuno di sua parte. Ma quando venne il
Venerdì io dissi loro: Signori, sappiate ch’io me ne vo oltre mare, e
sì non so s’io ritornerò giammai o no. Pertanto se ci ha nullo tra voi
a chi per avventura abbia fatto alcun torto, e che si voglia lagnare
di me, si tragga avanti, perch’io lo voglio ammendare qualmente ho in
costume di fare a coloro che si dolgono di me o di mie genti, siccome a
voi tutti è noto. Ed affinchè non avessi appoggio o vantaggio alcuno,
durante il loro consiglio, mi tirai in disparte, e ne volli credere
tutto ciò ch’essi me ne rapporterebbono senza nulla contraddizione[47].
E sì il faceva per ciò ch’io non voleva importare a torto un solo
danaio: talchè per fornire il mio caso ingaggiai agli amici gran
quantità di mia terra, tanto ch’egli non mi dimorò punto più di mille
dugento lire in rendita di terre, perchè Madama mia Madre[48] viveva
ancora, la quale teneva la più parte delle mie cose in suo dotamento.
Così partii io decimo de’ Cavalieri miei, come vi ho detto dinanzi, con
tre bandiere: e questo vi ho raccontato io, per ciò che se non fosse
stato l’aiuto ed il soccorso di Dio, che giammai non mi obbliò, io non
avrei saputo portare tal fascio quale fu il mio per lo tempo di sei
anni in che fui per la Terra Santa in pellegrinaggio.

Quando fui presto di partire, e tutto in quella ch’io voleva movere,
Giovanni Sire d’Aspromonte e il Conte di Salebruche inviarono verso
me a sapere s’io voleva che noi andassimo insieme, da che essi erano
tutto pronti coi Cavalieri loro. Ciò ch’io avendo consentito molto
volontieri, femmo, come ho predetto, allogare una nave a Marsiglia, che
ci portò e condusse tutti insieme arnesi e cavalli.

E ben sappiate che avanti il partire il Re mandò a Parigi tutti
li Baroni di Francia, e loro fece fare fede ed omaggio e giurare
che lealtà essi porterebbono a’ figliuoli suoi se alcuna mala cosa
avvenisse di sua persona nel santo viaggio d’oltre mare. E similmente
mandò egli a me; ma io che punto non era suggetto immediatamente a lui,
ma rilevava dal Conte di Sciampagna, non volli fare alcun sagramento.
E quando io volli partire e mettermi alla via, inviai cercare l’Abbate
di Cheminone, che di quel tempo era tenuto il più produomo che fusse in
tutto l’Ordine bianco[49] per riconcigliarmi a lui. Ed egli, poi che
m’ebbe ascoltato, mi diè e cinse la mia scarsella, e mi mise il mio
bordone alle mani. E tantosto io me ne partii di Gionville, senza che
rientrassi unqua poi nel castello sino al ritorno del viaggio d’oltre
mare; e me ne andai primamente a santi peregrinaggi che erano lì
presso, cioè a Blecorte, a Sant’Urbano, ed in altri santi luoghi tutto
a piè, scalzato e in pannucci. Ed in quella che, andando da Blecorte a
Sant’Urbano, mi convenne ripassare d’appresso al castello di Gionville,
io non osai anche tornar la faccia verso di quello per troppa paura
d’averne siffatto cordoglio che il cuore mi s’intenerisse di ciò ch’io
lasciava i miei due figliuoli e il mio bel castello dove era tutto
de’ miei e di me. Ma subito tirai oltre col Conte di Salebruche e con
nostre genti e Cavalieri, e andammo desinare a Fontana-l’Arcivescovo
davanti a Dongiò. E là lo Abbate di Sant’Urbano, a chi Dio faccia
perdono, donò a me ed a’ miei Cavalieri de’ bei gioielli.[50] E poi
prendemmo congedo da lui, e ce n’andammo dritto ad Ausonne, e colà
mettemmo noi e nostri arnesi in battello sulla Saonna sino a Lione, e
nostri cavalli e destrieri ammenavansi a mano costeggiando la riviera.
E quando fummo a Lione noi là entrammo nella riviera del Rodano per
andare in Arles il Bianco. Ed ho ben sovvenenza che, di lungo la via
sovra il Rodano, trovammo uno castello che l’uomo appellava Rocca
vischiosa, lo qual castello il Re avea fatto abbattere, per ciò che
il Sire di quello, che avea in nome Roggero, tenea malvagio rinòmo di
rubare e spogliare tutti li mercadanti e pellegrini che passavano per
colà.


CAPITOLO VI.

Come prendemmo il mare a Marsiglia, e come si navicò sino a Cipri.

Noi entrammo nel mese d’Agosto di quell’anno nella nave alla Roccia
di Marsiglia, e quella nave era detta Uscieri, sicchè ne fu aperto
l’uscio per farvi entrare i nostri cavalli che dovevamo menare oltre
mare. E quando tutti furono entrati, l’uscio fu rinchiuso e istoppato
e impeciato, così come si vorrebbe fare ad una botte da vino, per ciò
che quando la nave è in alto mare, tutto quell’uscio è nell’acqua. E
tantosto il Maestro della nave si gridò a sue genti ch’erano al becco
della nave[51]: Vostra bisogna ènne presta, e siam noi al punto? Ed
essi rispuosero, che sì veramente. E quando li Preti e Cherci furo
entrati, egli li fece tutti montare nel cassero della nave, e li pregò
cantassero e lodassero il nome di Dio sì che ci volesse tutti condurre
a bene. E tutti ad alta voce cominciare a cantare quel bell’inno _Veni
Creator Spiritus_ di motto in motto; ed in cantando così li marinai
fecero vela da parte di Dio. E incontanente il vento s’imbottò nella
vela, di che la nave abrivando ci fè perder di vista la terra sì che
non vedemmo più che cielo e mare: e ciascun giorno ci allontanavamo più
del luogo donde noi eravamo partiti, e più cresceva il periglio. E per
ciò io voglio ben dire che colui è matto e folle, il quale sa avere
qualcosa dello altrui od alcun peccato mortale nell’anima sua, e si
butta in tale risicoso dannaggio, perchè, se l’uomo s’addorme a sera,
egli punto non sa se al mattino egli si troverà anche sulla nave, o
sotto tutte l’acque del mare.

Ora vi dirò la prima cosa meravigliosa che ci arrivò in mare. Ciò fu
una gran montagna tutta rotonda che noi trovammo davanti Barberia
intorno l’ora di Vespro, e quando noi l’avemmo passata, tirammo
oltre tutta quella notte. Quando venne il mattino noi pensavamo aver
fatto ben cinquanta leghe e più, ma che è che non è, noi ci trovammo
ancora davanti quella gran montagna. Chi funne isbaìto ne fummo noi,
e tantosto navigammo a gran forza siccome innanzi tutto quel giorno
e la notte seguente; ma ciò fu tutt’uno, perchè noi ci trovammo ancor
là. Allora ne fummo più di prima ismarriti, e temevamo esser tutti in
forte periglio di morte, perchè e’ marinai dicevano che tantosto li
Saracini di Barberìa ci verrebbono a correr sopra. In quella ci ebbe
un prod’uomo di Chiesa assai buono che venia detto il Decano di Maurù,
il quale ci disse: Signori, giammai in parrocchia alcuna io non vidi
persecuzione per forza o per diffalta d’acqua, o per altro bisogno
od inconveniente, che, quando lo si avesse fatto devotamente a Dio la
processione per tre volte in dì di Sabbato, che il buon Dio e la Santa
sua Madre non le deliverasse di male e non le rammenasse a ciò appunto
che domandavano. Or sappiate che quel dì era Sabbato, perchè tantosto
cominciammo a far processione allo ’ntorno degli alberi della Nave.
E ben mi sovviene ch’io stesso mi fei menare sorreggendomi sotto le
braccia per ciò ch’io era molto fievole per malattia. E incontanente
cominciammo a perdere la vista di quella montagna, e fummo in Cipri il
terzo Sabbato da che fu fatta nostra terza processione.


CAPITOLO VII.

Di ciò che avvenne nel nostro soggiorno in Cipri.

Quando fummo arrivati in Cipri, il buon Re San Luigi era già là, e
vi avea fatto fare provvisione di viveri a grande abbondanza. Perchè
voi avreste detto che quei cellieri, quand’uomo li vedeva da lunge,
fossero anzi grandi magioni, tanto s’ammontavano le une sulle altre le
botti e le carrate di vino che le sue genti aveano acquistate da due
anni innanzi, e che ora si levavano per mezzo i campi. E similmente
era dei granai di frumento, orzo ed altre biade che erano altresì
ammonticellati ne’ campi, i quali granai alla vista rendean sembianza
di poggi tanto n’eran larghe ed alte le biche. E saper dovete che
bene avreste creduto che fussero stati poggi, giacchè la pioggia, che
avea battute le biade da lungo tempo, le avea fatte germinare tutto
al di sopra, talmente che non ne parea che la verdezza dell’erba. Ed
egli avvenne che quando si volle levare il biado di là per menarlo
in Egitto ove andava tutta l’oste del Re, se ne abbattè al di sopra
la crosta erbosa, e si trovò il biado al di sotto sì bello e fresco
come se e’ non ha guari fusse stato trebbiato. Frattanto il buon Re
avea tal desiderio di andare in Egitto senza soggiornare che s’e’ non
fussono stati li Baroni, e gli altri suoi prossimani, che là gli fecero
attendere l’accolta di sue genti che erano tuttavia attardate, egli
sarebbesene partito solo od a ben poco di compagnia.

Mentre che ’l Re soggiornava in Cipri, il Gran Re di Tartarìa inviò
verso lui un’Ambasciata, e li Ambasciadori gli dissero di molte
buone parole, non ostante che per avventura non ne fusse l’intenzione
altresì dibonare. Tra le quali parole mandavagli il Re di Tartarìa
ch’egli era tutto presto ed al suo comando per atarlo a conquistare
la Terra Santa e deliberare Gerusalemme delle mani de’ Saracini e
de’ Pagani. Il Re ricevve benignamente tale Ambasciata, ed inviò
parimente di sue genti in Ambascieria verso quel Re di Tartarìa e
questi furono due anni avanti ch’e’ ritornassono. Ed inviò il Re al
Tartarino una tenda fatta alla guisa d’una Cappella, la quale era
molto ricca e ben fatta tutta di buono scarlatto fine. E ciò faceva
per vedere s’egli potesse attrarre esso Re e sue genti alla nostra
fede e credenza. Perchè e’ vi fece intagliare e ritrarre per imagine
l’Annunciazione della Vergine Madre di Dio con tutti gli altri punti
principali della Fede. E portarono la detta tenda duo Fratelli Minori
che intendevano il linguaggio Saracinesco, che furono scelti dal Re
perchè potessono confortarlo, ed insegnargli comente e’ doveva credere
la buona fede di Dio. E ben sappiate che quando finalmente li due
Fratelli Minori ritornarono di verso il Re, s’addirizzarono ad Acri
credendo trovarvelo, ma poi ch’egli era già a Cesarea, se ne rivennero
in Francia senz’altro. Ora il sapere siccome gli altri messaggeri, che
’l Re insieme coi detti Fratelli avea trammessi in Tartarìa, vi furono
ricevuti, sarebbe meraviglia a raccontare, in così come l’ho udito
narrare al Re, ed a quegli stessi dappoi molte volte secondo ch’io
li inchiedeva; ma non ne dirò qui niente, per tema d’interrompere il
principale della mia incominciata materia.

Voi dovete dunque sapere che del tempo che partii di Francia per venire
oltre mare, io non teneva allora punto più di mille dugento lire di
rendita, e sì mi caricai di nove Cavalieri, di cui io era il decimo,
con tre bandiere, come v’ho detto qui innanzi. E quando fui arrivato
in Cipri io non avea più che dugento quaranta lire tornesi che in oro
che in argento, dopo che n’ebbi pagato il naulo dell’Uscieri. Talmente
che alcuni de’ miei Cavalieri mi dissero ch’e’ mi abbandonerebbono se
non mi provvedessi di moneta. Allora fui qualche poco ismarrito in
mio coraggio, ma pur mantenni sempre fidanza in Dio. E n’ebbi pro,
perchè quando il buon Re San Luigi seppe la mia distretta, si inviò
cherendomi, e ritenutomi a lui, mi donò il buon Signore ottocento lire
tornesi, di che ringraziai Dio, perch’io avea già più moneta ch’egli
non me ne facesse bisogno.


CAPITOLO VIII.

Dove si parla per inframmessa dei Soldani d’Oltremare.

E a questo luogo, poich’egli sarà occorrenza in seguito di parlare
de’ Principi d’oltre mare, sì vi dirò io alcuna cosa di loro stato e
possanza, e primieramente del Soldano d’Iconio. Questo Soldano era il
più possente Re di Paganìa, e fece fare una cosa molto meravigliosa;
perch’egli fe’ fondere una parte di suo oro, e ne fe’ empire de’ gran
vaselli alla guisa di quegli orci di terra là ove si mette il vino
oltre mare; e poi appresso egli fe’ ispezzare detti vaselli che bene
avrebbon tenuto tre o quattro moggia di vino, e lasciò il tutto a
scoverto in un suo castello, sicchè ciascuno che vi entrava poteva
vedere e toccare le masse dell’oro sovrastare lo infrantume degli
orci. E si diceva ch’egli avea ben sei o sette di cotali grandi vaselli
d’oro. E di vero la sua molta ricchezza apparve bene in un padiglione
che ’l Re d’Armenia inviò al Re di Francia che allora era in Cipri. Il
padiglione era stimato valere cinquecento lire, e gli mandò dicendo il
Re d’Armenia che l’uno de’ Sergenti del Soldano d’Iconio glielo aveva
donato. E dovete sapere che questo Sergente era quello che avea in
guardia e governo li padiglioni del Soldano, e che avea il carico di
fargli rinettare ciascun dì le sue sale e magioni.

Ora quel Re d’Armenia, poichè era quasi in servaggio verso il Soldano
d’Iconio, se n’andò al Gran Re di Tartaria, e gli contò comente senza
posa quel Soldano d’Iconio gli faceva la guerra e lo teneva in grande
servaggio, ed il venne pregando che nel volesse soccorrere ed atare.
E qualora gli donasse balìa su grossa mano di sue genti d’arme, gli
disse ch’egli era contento d’essere suo uomo assoggettato. Ciò che ’l
Re di Tartaria volle fare assai volentieri, e gli cedè gran numero
di genti d’arme. Allora se n’andò il Re d’Armenia a tutte sue genti
combattere col Soldano d’Iconio e avevano assai possanza l’uno per
l’altro. Ma gli Armeniani ed i Tartarini disfecero a fondo l’oste del
Soldano, e talmente fece lo re d’Armenia, seguitando il corso della
vittoria, ch’egli si tolse quind’innanzi di sua servitù e suggezione. E
per la grande nomèa ch’era in Cipri di quella battaglia, ci ebbe molti
di nostre genti che passarono in Armenia per andare in quella guerra
a guadagnare e profittare, ma di coloro unqua più non se ne udiro
novelle.

Anche del Soldano di Babilonia vi dirò io. Egli si pensava che ’l Re
andasse guerreggiare il Soldano di Hamano, ch’era suo antico nimico;
e così attese sino al tempo novello per volersi giungere con lui
ad andare contra il detto Soldano di Hamano. Ma quando il Soldano
di Babilonia vide che ’l Re non veniva verso lui, si partì egli e
andò assediare l’altro Soldano davanti la città di Hamano medesima
ove elli era. E questi come si vide così assediato, egli non seppe
troppo bene di qual modo venirne a capo, perchè ben sapeva che se il
Soldano di Babilonia vi durasse lungamente, certo il conquisterebbe
e il confonderebbe. Ma egli fece tanto per doni e promesse ad uno de’
Valletti di Camera del detto Soldano di Babilonia, a chi egli parlò,
che il fece avvelenare. E la maniera del farlo fu che questo Valletto
di camera, il quale, secondo lor modo, era detto in tale officio il
Sergente, conoscendo come soventi fiate, appresso che il Soldano avea
giucato agli scacchi, egli s’andava a stendere sur una stuoia che era
al piè del suo letto, tanto si procacciò destramente che la invelenì
tutta di tossico. Ora avvenne che il Soldano tutto scalzato si mise su
quella stuoia attossicata, e stornossi sovr’una scalfittura malignosa
ch’egli avea ad una gamba, e incontanente il veleno gli entrò pel mal
scalfitto nel corpo talmente ch’egli divenne tutto attrappito di quel
lato del corpo a cui era la gamba offesa, e quando finalmente il veleno
lo punse al cuore egli era ben istato duo dì senza bere, senza mangiare
e senza dir motto. E per tal modo il Soldano di Hamano dimorò in pace,
e bisognò che il malescio Soldano di Babilonia fusse ammenato per sue
genti in Egitto.


CAPITOLO IX.

Come ci ismovemmo di Cipri, e venimmo in vista di Damiata in Egitto.

Tantosto che fummo al buon mese[52] egli fu gridato e fatto
comandamento, da parte il Re, che tutti i navigli fussero ricaricati
di viveri per esser presti a partire quando esso Re indicherebbelo. E
quando la cosa fue fatta e compiuta, il Re, la Reina e tutte sue genti,
si ritiraro ciascuno nella sua nave. Ed il proprio Venerdì innanzi
la Pentecoste di quell’anno, il Re fece gridare che tutti tirassono
appresso lui la dimane, e che si ferisse dritto in Egitto. E la dimane
appunto giorno di Sabbato tutte le navi si partirono e fecer vela, il
che era piacevole e insieme mirabil cosa a vedere, perch’egli sembrava
che tutto il mare, tanto che si poteva vedere, fusse coverto di tele
per la gran quantitade di vele ch’erano donate al vento, e ci avea ben
mille ottocento vascelli che grandi che piccoli.

Il Re arrivò il giorno di Pentecoste ad un promontorio che si appellava
la Punta di Limessone cogli altri vascelli dintorno a lui, e discesero
a terra ed udiro la Messa. Ma grande isconforto arrivò a quella volta,
perchè di ben duemila ottocento Cavalieri ch’erano partiti per andare
appresso il Re, non se ne trovaro con lui a terra che settecento,
e tutto il dimorante uno vento orribile, che a modo di scïone o
di remolino, venne di verso Egitto, li separò di loro via e della
compagnia del Re, e li gittò in Acri ed in altri strani paesi, e non li
rivide il Re da lungo tempo. Donde elli e sua compagnia furono tutta
quella giornata molto dolenti e isbaìti perchè li credevano o tutti
morti od in grande periglio.

La dimane dappoi la Pentecoste il mal vento era bastato e spirava a
grado, perchè il Re e noi tutti che eravamo con lui femmo vela da parte
di Dio per tirar sempre avanti. Ed egli avvenne che, in andando, noi
rincontrammo il Principe della Morea e il Duca di Borgogna insieme, li
quali aveano parimente soggiornato in un luogo della Morea. Ed arrivò
il Re e sua Compagnia a Damiata il lunedì appresso la Pentecoste, là
appunto ove ad attenderci era gran compagnia; perchè sulla riva del
mare noi trovammo tutta la possanza del Soldano che era molto bella
gente a riguardare.

Lo Almirante che comandavale portava armi di fino oro lucentissime
così che quando il Sole le colpiva, il ridonavano agli occhi tanto da
farlo parere un altro Sole, ed il tumulto che menavano con loro corni
e nacchere era una cosa molto spaventevole ad udire e molto strania a’
Franzesi.

Ciò veggendo il Re appellò tutti suoi Baroni e Consiglieri per sapere
ciò che si dovea fare, ed essi lo consigliarono che attendesse sue
genti a rivenire, per ciò che di sua oste non gli era rimasa la terza
parte per la fortuna del vento di che v’ho detto di sopra. Ma il Re non
volle di ciò niente udire nè credere, anzi diceva che pur ciò facendo
egli donerebbe coraggio a’ nemici suoi, ed avvertiva insieme come non
v’avesse colà alcun porto di mare al quale discendere per attendervi
sue genti a sigurtade, sicchè aggiugneva che bene una nuova rapina
di vento ci poteva sorprendere, e sbandarci e gettarci lunge qua e là
in istrani paesi, come egli era avvenuto de’ suoi Cavalieri l’ultima
Pentecoste. Sicchè fu accordato, al suo avviso e piacere, che il
venerdì innanzi la Trinità il Re scenderebbe, ed andrebbe combattere
contro a’ Saracini se pure ardissono di fronteggiarlo. E comandò il
Re a Monsignore Giovanni di Belmonte ch’e’ facesse dare a Monsignore
Airardo di Brienne, con chi io era, una galea per discendervi noi
e nostre genti d’arme, perciò che gli uscieri non potevano, per la
sottigliezza del mare, attingere alla terra. Ed in così come Dio volle
io mi lasciai della mia nave calare in una piccola galea che mi pensava
aver perduta, ove stavano otto de’ miei cavalli. La qual galeotta
m’avea donato Madama di Bairuth, la quale era cugina germana del Conte
di Montebelial: ed al venerdì Monsignore Airardo di Brienne ed io tutti
armati movemmo di verso il Re per domandargli la detta galea ch’egli
ci aveva innanzi ottriata. Ma Messer Giovanni di Belmonte ci rispose,
presente il Re, che noi non n’avremmo punto. Il che vi ho voluto dire
perchè sappiate che il buon Re aveva altrettanto affare a trattenere in
pace sue genti come egli n’avea a sopportare sue fortune e sue perdite.

Quando le nostre genti videro che noi non ammenavamo punto di galee,
essi si lasciarono cadere nella galeotta a gran forza, di che i marinai
veggendo ch’ella affonderebbe a poco a poco nel mare, si ritirarono
nella nave, e ci abbandonarono coi Cavalieri nella piccola barca.
Allora io m’isgridai e domandai al Maestro di quanto egli avea troppo
di gente nella galeotta, ed egli mi disse ch’egli ce n’avea troppo di
diciotto uomini d’arme. Perchè tantosto ne la scaricai d’altrettanti e
li misi nella nave ove erano i miei cavalli. Ed in quella ch’io facea
eseguire un tal tramenìo, un Cavaliero fu, che era a Monsignor Airarto
di Brienne, nomato Pluchetto, il quale per seguirci, volle al tutto
discendere della gran nave nella barca, ma la barca s’allontanava, ed
il Cavaliero cadde armato in mare e annegò.


CAPITOLO X.

Come si ferì alla terra contro lo sforzo de’ Saracini, e perchè questi
fuggironsi e ci lasciaron Damiata.

Allora noi cominciammo a navigare per di dietro la barca della gran
nave del Re e andammo alla terra. E tantosto che le genti del Re, le
quali ferivano alla terra come noi, videro che noi andavamo più tosto
ch’elli non facevano, ci gridarono di sostenere sì che arrivasse
l’insegna di San Dionigi; ma io non ne li volli credere, anzi ci
lasciammo correre davanti ad una grossa battaglia di Saracini e di
Turchi, là ove egli ci avea bene sei mila uomini a cavallo. Li quali,
sì tosto che ci videro ferire alla terra, toccarono degli sproni
diritto a noi. E noi ficcammo il calcio delle nostre lancie a terra
nella sabbia, e rivolgendo loro le punte e covrendoci degli scudi ne
attendemmo l’impeto: ma come essi videro ciò, e che noi prendevamo
terra tuttavia, tornarono di tratto le briglie e fuggirono.

Il buon produomo Messer Baldovino di Reims, tosto ch’e’ fu sceso a
terra, mi mandò dicendo per l’uno de’ suoi Scudieri ch’io l’attendessi;
ed io gli mandai pel suo messaggero medesimo che assai volentieri il
farei, e che un sì valente uomo quale egli era valeva bene d’essere
atteso: donde egli mi seppe grado tutta sua vita. E tantosto arrivò
egli in nostra compagnia con gran numero di Cavalieri. E ben sappiate
che per gl’inconvenienti ch’io vi ho messo in conto, quando fui a terra
non avea meco allora di tutte le genti che avea menato di mie terre,
nè pedone nè cavaliere: ma non perciò Dio m’ebbe sempre atato di sua
grazia, donde io ne lo lodo e ringrazio.

Alla nostra mano sinistra arrivò il Conte di Giaffa, il quale era
cugino germano del Conte di Monbelial e del lignaggio della Casa di
Gionville. Questo Conte di Giaffa arrivò molto nobilmente a terra,
perchè la sua galea era tutta pinta di dentro e di fuora agli scudi
dell’armi sue, le quali armi son d’oro ad una croce di rosso appastato.
Egli avea ben trecento marinai nella sua galea, de’ quali ciascuno
portava una targa a sue armi, ed a ciascuna targa ci avea su un
pennoncello de’ suoi colori, sicchè quando correva sul mare era bello
a vedere e ad intendere, a cagione dello sbattìto che menavano i
pennoncelli e così del bombo di nacchere taballi e corni saracineschi
ch’egli aveva in sulla galea. E sì tosto che questa ebbe ferito nella
sabbia il più avanti che vi potè essere impinta, egli e suoi cavalieri
e genti di guerra ne uscirono molto bene armati ed in punto, e vennero
ad arringarsi di costa a noi. E prestamente fece il Conte di Giaffa
tendere suoi padiglioni; perchè i Saracini, quando li videro tesi,
si assembraro in gran numero e rivennero correndo contro di noi a
gran battuta di sproni: ma come e’ conobbero che noi punto non ce ne
ispaventavamo, e che anzi li attendevamo di piè fermo e in silenzio, ed
essi da capo ci tornarono il dosso e se ne fuggirono a dreto.

Alla man destra arrivò allora la galea della riverita insegna di San
Dionigi, a bene una portata di ballestra da noi. Ed egli avvenne che,
siccome ella toccò terra, un Saracino si mosse a furia contro le genti
di quella galea, il facesse egli o per non potere suo bizzarro cavallo
arrestare, o perchè pensava aver soccorso da’ suoi: ma certo è bene
che il poveretto ne fu tantosto morto e ispezzato. Quando il buon Re
San Luigi seppe che la insegna di San Dionigi già era sulla terra,
egli sortì del suo vascello che era già presso della riva, e non si diè
tanto d’agio che il vascello ove egli era mordesse piaggia, anzi, oltre
il grado del Legato che era con lui[53], se ne gittò fuora nel mare;
e fu nell’acqua sino alle spalle, e montò all’incalzo suo scudo al
collo, suo elmo in testa e sua lancia in pugno. E quando ebbe aggiunte
sue genti, scorse dal suo lato una battaglia d’armati, e domandò chi
fussero, e poi che gli dissero ch’erano Turchi e Saracini, ed egli
pensò d’incorrer lor sopra tutto solo, ma le sue genti il fecero
dimorare sino a che tutti i suoi cavalieri fossero ai luoghi loro ed
apprestati alla mislèa.

Tantosto inviarono li Saracini verso il Soldano di Babilonia un loro
messaggero, per fargli assapere che il Re era arrivato. Per tre volte
ripeterono il messaggio, ma anche risposta non ne ebbero perchè il
Soldano era fieramente malato. Il che vedendo li Saracini, e pensando
che il loro Soldano fusse morto, abbandonaro la città di Damiata.
Quando il Re ne udì la novella egli inviò un suo Cavaliero per saperne
il vero sino a Damiata. E ben presto ritornò il Cavaliero di verso
il Re e gli rapportò ch’egli era il vero ch’e’ fusse morto, e che
se n’erano fuggiti li Saracini, e ch’egli era stato sin dentro loro
magioni. Allora il Re fece appellare il Legato, e tutti i Prelati
dell’oste e fece cantare _Te Deum laudamus_ tutto al lungo, e poi
montò a cavallo insieme con noi, e ce n’andammo ad alloggiare davanti
Damiata. I Turchi male avvertiti partirono troppo subitani, sicchè
non ci tagliaro i ponti delle navi ch’essi avean fatto, donde gran
dispiacere ci avrebbon recato; ma bene per altra via essi ci fecero
molto gran male e dannaggio, di ciò ch’essi buttaro il fuoco per tutti
i lati della _Fonda_, là ove tutte loro mercatanzie erano e il loro
avere di pregio, ch’essi fecero cautelosamente abbruciare, di paura
che noi ce ne fussimo in modo alcuno avanzati[54]. E fu una cosa stessa
come chi buttasse domani il fuoco nella ruga del Piccol Ponte a Parigi,
di che Dio ci guardi.


CAPITOLO XI.

Dell’obblio in che fu lasciata la grazia fattaci da Dio nel donarci
Damiata.

Ora diciamo in noi medesimi qual grazia ci fece Dio nostro Creatore
quand’egli ci difese di morte e di periglio allo arrivare che femmo,
allorchè noi tuttavia a piè, corremmo a gioia sovra i nostri nimici che
bene erano a cavallo? E qual altra più grande grazia ci fece il buon
Signor Nostro, quand’elli ci liverò[55] Damiata senza danno de’ nostri
corpi, la quale giammai non avremmo potuto avere, se non l’avessimo
ottenuta per affamare? Certo la grazia è molto grande, e bene il
possiamo dire e vedere tutto chiaramente.

Il Re Giovanni ben l’avea altra fiata presa per fame al tempo de’
nostri predecessori; ma nel fatto nostro io dubito che il buon
Signore Iddio possa altrettanto dire di noi come egli disse de’
figliuoli d’Israello, quando li ebbe condotti e menati nella Terra
di promissione, perchè elli rimproverò loro, dicendo: _et pro nihilo
habuerunt terram desiderabilem_, con ciò che segue. Ed e’ lo diceva
perciò ch’essi l’aveano obbliato, ed egli loro avea tanto fatto di
bene, poichè li aveva salvati e messi fuora della cattività di Faraone,
e donati della Terra promessa: ed altresì potrà egli aver detto di noi,
che tosto l’obbliammo come sarà detto qui appresso.

E comincerò nella persona stessa del Re, il quale fece convocare e
appellare tutti suoi Baroni, e Prelati ch’erano venuti con lui, e loro
domandò consiglio sul che dovea fare dei beni ch’avea trovati nella
città di Damiata, e com’essi si doveano dispartire. Un Patriarca, che
là era, parlò il primiero e gli disse[56]: Sire, e’ mi sembra ch’egli è
buono che voi riteniate tutto il frumento, orzo, riso ed altri viveri,
affinchè la cittade non ne dimori isguernita, e che voi facciate gridar
nell’oste che tutti gli altri mobili sieno apportati nella magione del
Legato sotto pena di scomunicazione. Al quale consiglio si accordaro
tutti li Baroni e gli altri: pel che fu fatto così. E ne furo trovati
valere li beni mobili apportati presso il Legato intorno a sei mila
lire. E quando tutto fu assembrato nella magione del detto Legato, il
Re ed i Baroni inviarono chiedere il buon produomo Messer Giovanni di
Valerì. E quand’elli fu venuto, il Re gli disse ciò ch’egli avea fatto,
e come gli era stato trovato pel suo Consilio che il Legato darebbegli
le sei mila lire che valevano i mobili apportati al medesimo, affinchè
egli le dispartisse là ove stimasse doversi ciò far per ragione,
e fussero il meglio impiegate. Sire, disse allora il prod’uomo, io
vi ringrazio molto umilmente dell’onore che mi fate: ma ciò non vi
spiaccia, chè l’offerta non prenderò io punto. Già se a Dio piace, non
disfarò io li buoni costumi antichi, e tali che li han tenuti i nostri
predecessori in Terra Santa. Perchè quando essi avean preso sugli
inimici alcuna cittade o guadagnato alcun grosso bottino, di tali beni
che si trovavano in tale città il Re non ne dovea avere che il terzo,
e le due parti ne doveano avere i pellegrini. E questa costuma tenne
molto bene lo Re Giovanni quando altra fiata elli prese Damiata[57]. Ed
in così ch’io ho udito dire a’ miei antenati, il Re di Gerusalemme che
fu davanti lo Re Giovanni tenne questa costuma altresì senza fallirvi
d’un punto. Ora avvisate; e se voi mi volete assegnare le due parti
del frumento, orzo, riso, e delle altre cose che avete ritenute, ed
io assai volentieri le dispenserò ai pellegrini per lo onore di Dio,
e per mantenenza dell’antica costuma. Il Re non ebbe per aggradevole
questo consiglio, e dimorò la cosa così, donde molte genti si tennero
assai mal contente del Re, di che egli avea rotte le buone antiche
costumanze.

Le genti del Re, quando furono a loro agio e bene alloggiate; esse,
che avrebbon dovuto intertenere dibonarmente li mercatanti e’ seguenti
l’oste con loro derrate e mercatanzie, allogarono invece e appaltaro
ai medesimi le stazzone e li fondachi per vendervi le mercatanzie loro
così care come fare il poteano. Donde avvenne che la nomèa di ciò si
sparse nelle istranie terre, e giunse a coloro che volean di lontani
paesi menar viveri all’oste, i quali perciò dimoraronsi del venire, il
che apportò un molto gran male e dannaggio.

Li Baroni, Cavalieri ed altri ch’avrebbon dovuto guardare
diligentemente il lor bene, e farne sparagno per soccorrersene in luogo
ed in tempo, si presero a far grandi banchetti gli uni agli altri in
abbondanza di deliziose vivande. Ed il comune popolo scapestrandosi si
prese a forzare e violare donne e donzelle, donde uscinne gran male.
Perchè egli bisognò che ’l Re ne donasse congedo a tutto spiano di sue
genti ed officiali, poichè, siccome esso buon Re mi disse, egli trovò
sino a uno gitto di pietra, presso e allo intorno del suo paviglione,
molti bordelli[58] che le sue genti teneanvi, ed altri mali assai più
che in oste egli avesse mai visto.


CAPITOLO XII.

Di ciò che avvenne sino a che stemmo a campo presso Damiata.

Ma or riveniamo al principale di nostra materia e diciamo così. Quando
noi fummo così stati in questa città di Damiata, il Soldano, con esso
uno grosso esercito, assalì nostr’oste di verso terra. E incontanente
lo Re e sue genti d’arme s’armaro e misono in punto. Ed a fine di
difendere che li Turchi non si mettessero negli alloggiamenti che
avevamo al campo, io andai verso il Re tutto armato, lo quale io
trovai parimente armato, e così tutti suoi Cavalieri che sedevano
appancati d’intorno a lui. E gli richiesi umilmente ch’e’ mi donasse
congedo d’andare colle mie genti sino fuora dell’oste a fedire sui
Saracini. Ma tantosto che Messer Giovanni di Belmonte ebbe udito la
mia richiesta, egli isgridò molto forte, e mi comandò da parte lo
Re, ch’io non fossi sì ardito d’uscire del mio alloggiamento sino a
che esso Re mel comandasse. E qui dovete sapere che col Re ci avea
otto buoni Cavalieri e valenti, i quali aveano avuto e guadagnato
molte fiate lo pregio dell’armi tanto di qua il mare che oltre mare,
e solevali l’uomo appellare li buoni Cavalieri. Dentro li quali eravi
Messer Gioffredo di Sargines, Messer Matteo di Marly, Messer Filippo
di Nantolio, e Messere Imberto di Belgioco Connestabile di Francia,
li quali non c’eran mica a quel giorno, ma erano al campo fuora
dell’oste, e così il Maestro de’ Balestrieri con gran quantitade di
genti d’arme per guardare così che li Turchi non s’approcciassero
di nostr’oste. — Ed egli avvenne che Messer Gualtieri d’Autreche si
fece armare di tutto punto e donare suo scudo e sua lancia e montò
a cavallo, e tantosto fece sostenere le cortine del suo paviglione,
ed uscitone, ferì degli sproni correndo contra li Turchi. Ed in così
ch’elli partì del paviglione tutto soletto, all’infuori d’un suo uomo
nomato Castillione, ecco il suo cavallo di battaglia provare il vento
colle nari, e sbuffare e barberare, e gittarlo a terra tutto disteso,
e fuggire a furia coverto di sue armi verso i nimici. E ben sappiate
come, sendo la più parte de’ Saracini montati sovra giumente, per ciò
fu che il cavallo guaragno fiutolle, e volle correre a quelle in caldo
ed in bizzarria. Ed udii dire a coloro che ciò avean visto che quattro
Turchi vennero al Signore d’Autreche che giaceva a terra stordito, ed
in passando e ripassando davanti a lui gli diedero sopra dei gran colpi
di mazza, di che talmente ne fu in periglio che là ne sarebbe stato
morto, se il Connestabile di Francia non lo fusse andato soccorrere con
alquanti delle genti del Re che avea alla sua guida. Fu egli rimenato
a braccia nel suo paviglione donde era partito pur dianzi, e talmente
era naverato e pesto de’ gran colpi di mazza che avea sofferto, ch’elli
non potea più parlare. Tantosto furongli addirizzati alquanti Medici
e Cirugiani[59], i quali, poi che non parve loro in fin di vita, gli
trasser sangue del braccio, donde male ne prese; perchè, quando venne
la sera, taluno mi pregò che noi l’andassimo vedere per ciò ch’egli
era uomo di gran rinòmo e valenza. Ciò ch’io feci assai volentieri e
andammo verso di lui. Ed entrando nel suo paviglione, l’uno de’ suoi
scudieri ci venne dire allo incontra che noi sostenessimo il piede di
paura di risvegliarlo. Ciò che noi femmo, ed appressandoci bellamente
il trovammo giacente sul suo covertoio di vaio minuto di cui era tutto
inviluppato, perchè allora noi tirammo tutto a cheto verso dove tenea
la faccia, ed affiatatolo, il trovammo morto. Di che noi e molti fummo
tutto dolenti di aver perduto un così produomo. E quando fu detto al
Re, egli rispose, che non ne vorrebbe mica avere alquanti che altresì
fussero caparbii e disobbedienti a’ suoi comandamenti come era stato
quel Signore d’Autreche, il quale per suo difetto medesimo s’era fatto
uccidere.

Ora sappiate che il Soldano donava di ciascuna testa di Cristiano, a
chi gliela portava, un bisante d’oro; donde codesti traditori Saracini
entravano la notte a furto nell’oste nostra, e là dove trovavano genti
che dormiano spartate tagliavan loro la testa: sicchè avvenne ch’e’
sorpresone ed uccisero la guaita o scolta del Signore di Corcenay, e
ne asportaro la testa e lasciarono il corpo giacente sovra una tavola.
E dovete anche sapere ch’essi conoscevano a punto l’andazzo dell’oste
nostra, perchè le varie battaglie di nostre genti per compagnie
agguatavano, ciascuna la sera sua, tutto intorno l’oste a cavallo
l’una appresso l’altra; ed i Saracini che conoscevano questo andazzo,
entravano nell’oste appresso che il guaraguato a cavallo era passato,
e facevano segretamente molti mali e molti micìdi. E quando il Re fu
di ciò avvertito, egli ordinò che da quell’ora innanzi, coloro che
solevano fare il guato a cavallo, sì il farebbono a piede: di che la
nostr’oste ne venne poi molto serrata e tenuta sì unita che ciascuno vi
s’intrattoccava senza che vi vaneggiasse uno spiazzo solo.

E fummo così lungamente a Damiata perchè il Re non trovava punto in
suo Consiglio ch’egli dovesse tirar oltre, sino a che fusse venuto
suo fratello il Conte di Poitieri, che il vento avea ammenato in Acri
come vi ho detto qui davanti, perciò ch’elli aveva con lui tutto il
retrobando di Francia. E di paura che li Turchi non si ferissero e
traforassero per mezzo l’oste coi cavalli loro, il Re fece chiudere
il parco dell’oste di grandi fossati, e sui terragli ci aveano
ballestrieri a forza ed altre genti che agguatavano la notte com’io vi
ho detto.

La festa di San Remigio fu passata avanti che alcune novelle
venissero del Conte di Poitieri e di sue genti; donde il Re e tutti
quelli dell’oste ne furono in gran misagio e sconforto, perciò che
dubitavansi, nol vedendo venire altrimenti, ch’ellino fusser morti
od in grave pericolo. Allora mi sovvenne del buon Decano di Maurù, e
raccontai al Legato come per tre processioni ch’egli ci avea fatto fare
sulla nave, noi fummo liberati del grande periglio in che eravamo. Il
Legato accolse il consiglio, e fe’ gridare tre processioni nell’oste
che si farebbono per tre Sabbati. La prima processione cominciò dalla
magione d’esso Legato e andarono al Tempio di Nostra Donna in Damiata,
ed era il Tempio nella Meschita de’ Turchi e Saracini, e l’avea quel
Legato fatta dedicare di novello nell’onore della Madre di Dio la
gloriosa Vergine Santa Maria. E così per due Sabbati fue fatto, ed in
ciascuno il Legato facea sermoni, ed appresso il sermone udito, dava
esso al Re ed agli altri gran Signori di larghi perdoni. Di dentro
il terzo Sabbato arrivò il buon Conte di Poitieri colle sue genti, e
bene gli fu mestieri di non esser venuto entro il tempo dei primi due
Sabbati, perchè io vi prometto che davante quel tempo, egli vi regnò
senza cessare sì gran tormenta nel mare davanti Damiata, ch’egli vi
ebbe più di dugento quaranta vascelli, che grandi che piccoli, tutti
ispezzati e perduti, e le genti che li guardavano sommerse: perchè se
il Conte di Poitieri fusse allora venuto, egli sarebbe stato in pronto
risico di morirvi di mala morte, e così al fermo sarebbe stato, se il
buon Dio non gli avesse fatto sua aita.


CAPITOLO XIII.

Come movemmo da Damiata per a Babilonia, secondo l’avviso malurioso del
Conte d’Artese.

Or quando esso Conte di Poitieri fratello del Re fu arrivato, grande
gioia s’ismosse in tutto lo esercito, ed il Re mandò cherendo suoi
Baroni più prossimani, e l’altre genti di suo Consiglio, e loro domandò
qual via egli doveva prendere o ad Alessandria o a Babilonia. Il Conte
Piero di Brettagna col più degli altri Baroni furono d’opinione che
’l Re movesse ad Alessandria, perciò che davanti la cittade avea porto
buono ad arrivarvi navi e battelli per vittovagliar l’oste. Ma a questa
opinione fu contrario il Conte d’Artese, e disse che già non andrebbe
egli ad Alessandria innanzi che non si fusse stati in Babilonia,
la quale era capo di tutto il Reame d’Egitto[60]. E diceva per sue
ragioni, che chi volea uccidere il serpente gli dovea schiacciar il
capo tutto primiero. Ed a questo consiglio si tenne il Re e lasciò
l’altra opinione.

All’entrata dell’Avvento[61] si partì dunque il Re e tutta sua oste
per andare a Babilonia, siccome il Conte d’Artese avea consigliato.
E nella via assai presso di Damiata trovammo uno fiume che usciva
della grande riviera, e fu avvisato che ’l Re soggiornerebbe là uno
giorno tanto che s’istopperebbe lo detto fiume a fine che si potesse
trapassare. E fue la cosa fatta assai agiatamente, perchè si rinturò
il detto fiume a raso a raso della grande riviera, per tal maniera
che l’acqua non alzando punto da nissun lato si potè passar oltre a
grand’agio. Or che fece il Soldano? Egli inviò inverso il Re, pensando
farlo a cautela, cinquecento dei suoi Cavalieri, de’ meglio montati
ch’e’ sapesse scerre, dicendo al Re ch’essi eran venuti per soccorrer
lui e tutta sua oste, ma ciò era solamente per dilazionare la nostra
venuta. Il giorno di San Nicolao il Re comandò che tutti montassero
a cavallo, e difese sotto pena di ribellione che nullo di sue genti
fusse tanto ardito che toccasse in male a l’uno di que’ Saracini che
il Soldano gli avea inviato incontra. Ora avvenne che, quando essi
Saracini videro che l’oste del Re fu ismossa a partire, e seppero
ch’esso Re avea fatto difendere che nullo non li osasse toccare,
imbaldanziro, e se ne vennero di gran coraggio tutti in frotta ai
Tempieri, i quali avevano la prima battaglia. E l’uno di questi Turchi
donò della propria mazza un sì gran colpo a l’uno de’ Cavalieri della
prima battaglia che lo abbattè innanzi il cavallo del fratello di
Rinaldo di Bichers che era allora Maliscalco dei Frieri del Tempio.
Il che veggendo esso Maliscalco non si rattenne, ma gridò a’ suoi prò
Cavalieri: Ora avanti, compagnoni, addosso dalla parte di Dio, chè
ciò non si potrebbe soffrire. Ed ecco e’ fiere il suo cavallo degli
sproni e si libera correndo sui Saracini, e con esso tutta la valente
Compagnia dei Tempieri sale romendo come groppo di vento alla guerra. E
ben sappiate che li cavalli de’ Turchi erano ismunti e travagliati, e
li nostri tutti riposati e freschi, donde male loro ne arrivò: perchè
io ho di poi assai udito dire che de’ Turchi non ne iscapò punto uno
tutto solo, che non ne fusse o tagliato o costretto di gittarsi in mare
e sommergersi.


CAPITOLO XIV.

Qui tocca il conto dello fiume meraviglioso d’Egitto che l’uomo dice
Nilo.

Qui si convien parlare del fiume meraviglioso che passa per lo paese
dell’Egitto, e che viene, secondo ch’uom dice, dal Paradiso terrestre.
Perchè queste cose uopo è sapere chi vuol intendere mia materia.
Codesto fiume è istrano e diverso da tutte l’altre riviere: perchè
quanto più in una grossa riviera ne cadono di minori, ed acque vi
convengono da ogni lato, tanto più la medesima si sparpaglia e prende
terreno, e vi si dirama entro in ruscelli; ma codesto fiume viene tutto
solitario ed unito, e quand’egli è in Egitto, da sè medesmo gitta sue
branche qua e là per mezzo il paese, e quando il tempo viene intorno
alla San Remigio, egli da sè si espande per le branche sue in sette
riviere, le quali cuoprono le terre piane; e poi quando l’acque si son
ritirate, i lavoratori del paese vengono a lavorarvi la terra intrisa
con aratri senza ruote, e vi sementano frumento, orzo, riso, comino;
e tutto vi prova sì bene che nulla v’ha di che ammendare. L’uomo non
sa donde venga quella crescita d’acque fuor che della santa grazia
di Dio: e se ella non fusse, egli non verrebbe nullo bene nel paese
d’Egitto per li grandi calori che vi regnano, sendo più presso al Sol
levante, e non piovendovi come punto, o solo di lungi a lunge. Ancora
sappiate che quel fiume è tutto torbato per lo scalpiccìo ed il viavai
delle genti del paese che vi accorrono verso la sera per trarne acqua a
bere, ma pur solo che in essa acqua e’ vi schiaccino quattro mandorle
o quattro fave, ed ecco la dimane l’acqua si è tanto buona a bere che
è meraviglia. Inoltre quando quel fiume entra in Egitto, egli vi ha
genti tutte sperte ed accostumate, (come a dir sarebbono li pescatori
delle nostre riviere) le quali a sera gittano loro reti incontro le
correnti d’essa riviera, ed al mattino sovente vi trovano e prendono
le spezierie che si vendono in queste parti di qua assai caramente,
ed a picciol peso; siccome cannella, gengiovo, rabarbaro, gherofani,
legno d’aloè ed altre buone e rare cose: e dicesi nel paese che cotali
cose vengono del Paradiso terrestre, e che il vento le abbatte di buoni
alberi che colà sono, in così appunto come il vento abbatte il seccume
nelle foreste de’ paesi nostri: perchè poi ciò che cade nel fiume, e
l’acqua ammena alla china, e’ mercatanti raccolgono come vi dissi a
gran reti per rivenderlo poscia ad oncia ad oncia nelle parti nostre.

E si diceva nel paese di Babilonia che molte volte il Soldano aveva
tentato di sapere donde il fiume veniva, per genti sperte che ne
seguissero il corso a ritroso, e portassono con loro per vivere del
pane, che vien detto biscotto, perciò ch’essi non ne avrebbono punto
trovato. E queste genti una fiata gli rapportarono ch’essi avevano
seguito quel fiume contramonte tanto che erano giunti sino ad una
serra di roccia tagliata a picco, sulla quale serra e roccia non era
possibile montare sì per l’ertezza scogliosa, e sì per l’acque del
fiume che, quasi da cateratta aperta, se ne versavano a piombo. E
loro era stato avviso che in sull’alto della montagna fossero alberi
a fusone, ed aggiugnevano che colassù avean visto gran quantità di
bestie selvatiche, e di molte strane fazioni, come lioni, serpenti,
elefanti ed altre paurose e diverse, che stavano a riguardarli, se pure
ardissono di montare; perchè le genti del Soldano, impauratesi, se ne
erano ritornate, senza osare di passar oltre.


CAPITOLO XV.

Come ci arrestammo davanti il fiume di Rosetta, e di ciò che ’l Re vi
dispose, e lo nuovo Almirante vi contrappose.

Or dunque a proseguire nostra materia, diciamo che quel fiume scende
in Egitto, e vi gitta sue branche per mezzo la pianura, com’io v’ho
già detto, delle quali branche l’una viene a Damiata, l’altra ad
Alessandria, la terza a Tanes, e la quarta a Rosetta. A quella branca
che s’addirizza a Rosetta andò il Re di Francia a tutta sua oste,
e pose gli alloggiamenti tra esso fiume e quello di Damiata. E là
trovammo tutto il podere del Soldano alloggiato sulla riva del fiume
di Rosetta per guardare e proibircene il passaggio. Ciò che loro era
cosa ben agevole a fare, poichè nullo di noi non avrebbe saputo passare
s’egli non si fusse messo a nuoto, non avendovi punto di guado. Il
Re ebbe consiglio in lui di far gittare un dicco per a traverso la
riviera per passare ai Saracini; e per mettere a salvaguardia quelli
che farebbono il dicco fe’ costrurre due grossi belfredi che si
appellano Gatti incastellati, perciò che ci avea due castelli davanti
i gatti e due casematte di dietro per tollerare lo stoscio de’ cantoni
che i Saracini gittavano con ingegni e difíci, e di questi ne aveano
ben sedici tutti a dritto, donde facevano meravigliosi trabocchi. Il
Re fece fare altresì diciotto ingegni, de’ quali fu mastro trovatore
e fattore un Giossellino di Curvante. Il fratello del Re agguatava i
gatti di giorno, e noi altri Cavalieri sì gli agguatavamo la notte.
E si fu la settimana innanzi Natale che i gatti incastellati furono
presti, e poi si cominciò a fare il dicco. Ma quanto se ne faceva,
li Saracini altanto ne disfacevano di lor parte. Perchè dal lor lato,
tutto di contro l’argine, facean seno della riva e vi scavavano larghi
fondacci; sicchè, come l’acqua per lo argine nostro s’arretrava, ed
ella tosto piegava a riempiere i fossati opposti; perchè avveniva che
ciò che noi ammontavamo a stento in tre settimane o in un mese, essi
mantenendo la larghezza del fiume, il frustravano agevolmente in un
giorno od in due, guastando tuttavia a grandi colpi di frecce e bolzoni
le nostre genti che portavano terra per avanzar la traversa.

I Turchi, quando il loro Soldano fue morto della malattia che gli prese
davanti Hamano, fecero lor Capitano di un Saracino che si appellava
Sceceduno figliuolo del Seicco[62] lo qual Capitano era stato armato
Cavaliere dallo Imperatore Federico. E tantosto quel Sceceduno inviò
una parte delle sue genti a passare di verso Damiata ad una piccola
città chiamata Surmesac, la quale è sul fiume di Rosetta, e vennero
a cadere da quel lato sulle nostre genti. E il proprio giorno di
Natale, in quel tanto ch’io era a desinare col mio compagno d’armi Pier
d’Avalone, e tutti i Cavalieri nostri, li Saracini entrarono nell’oste,
e vi uccisero alquanti poveri che se n’erano ai campi sbandati. E
incontanente noi montammo a cavallo per andare alla riscossa, donde
gran mestieri ne era a Monsignor Perrone nostr’ospite, che si trovava
fuora dell’accampamento, perchè avanti che fussimo là li Saracini
l’avean già preso, ed ammenavano lui e suo fratello il Signore di
Val. Allora noi piccammo degli sproni, e corremmo su i Saracini e
riscuotemmo que’ due buoni Cavalieri ch’avean già messi per terra a
gran forza di colpi, e li rammenammo nell’oste. I Tempieri ch’erano
all’erta fecero bene ed arditamente la retroguarda, ma con tutto ciò li
Turchi ci venivano sopra di gran coraggio da quel lato guerreggiandoci
forte e fermo, sino a che il nostro accampamento non si fu chiuso di
fossato di verso Damiata, da quel fiume là insino al fiume di Rosetta.

Quel Sceceduno Capitano de’ Turchi, di cui ho parlato qui davanti, era
tenuto il più valente e prode di tutta Paganìa. Egli portava nelle sue
bandiere le armi dello imperadore che l’avea fatto Cavaliere, ed era
la sua bandiera partita in banda, e nell’una banda e’ portava armi
parecchie a quella del Soldano d’Aleppo, e nell’altra le armi del
Soldanato di Babilonia. Suo nome era Sceceduno, com’io v’ho detto,
figliuolo del Seicco, che tanto vale a dire in lor lingua, come nella
nostra figliuolo del Veglio: ed un tal nome tenevano essi tra loro
a gran cosa, perciò che sono le genti che più onorino i vecchi ed
antichi, solo ch’essi si sieno guardati in giovinezza d’alcun malvagio
rimproccio. Ora codesto Capitano, così come fu rapportato al Re per
ispie, si vantò ch’e’ mangerebbe nella tenda del Re di Francia innanzi
il giorno di S. Sebastiano ch’era prossimano a venire[63].

Or quando il Re ciò intese, egli disse che se ne prenderebbe ben
guardia, e serrò sua oste e ne dette l’intesa alle sue genti d’arme.
Donde il Conte d’Artese suo fratello fu commesso a guardare i belfredi
e gl’ingegni; il Re ed il Conte d’Angiò, che dipoi fu Re di Sicilia,
furo stabiliti a guardare il campo verso Babilonia, e il Conte di
Poitieri ed io Siniscalco di Sciampagna a guardare il campo di verso
Damiata. Ora avvenne tantosto, che quel Capitano de’ Turchi, avanti
nominato, fece passare sue genti nell’isola che era tra lo fiume di
Damiata e lo fiume di Rosetta, ove erano i nostri alloggiamenti, e
fece arringare sue battaglie da l’un de’ fiumi sino all’altro. Il Conte
d’Angiò, ch’era in quella parte, corse sui detti Turchi e ne isconfisse
tanti da metterli in fuga, e molti ne furo annegati in ciascuno de’
detti fiumi. Ma tuttavia, egli ne dimorò gran parte, a chi nissuna
cavalleria osava di urtare per li diversi ingegni ch’elli avevan tra
loro, e de’ quali n’uscian per noi grandi mali. E a quella fiata che
il detto Conte di Angiò assalì li Turchi, il Conte Guido di Forestà
che era in sua compagnia, sdrucì a cavallo lui e suoi cavallieri per
tra la battaglia de’ Turchi, e tirò oltra sino a un’altra battaglia
di Saracini, e là fece maraviglie di sua persona. Ma ciò non ostante
fu egli gittato a terra e n’ebbe la gamba spezzata, ed a braccia nel
rimenarono due de’ suoi Cavalieri. E ben sappiate che a molto gran pena
si potè ritrarre il Conte d’Angiò di quella mislèa, ove egli molte
fiate fu in grande periglio, sicchè dappoi ne fu molto pregiato di
quella forte giornata. Al Conte di Poitieri ed a me accorse un’altra
gran battaglia dei detti Turchi. Ma siate certi che molto bene
furono ricevuti ed altrettanto serviti. E ben bisogno lor fu ch’e’
trovassono la via per ove essi erano baldamente venuti, poichè ne femmo
un’abbondosa tagliata, e ritornammo a salvezza negli alloggiamenti
senza avere come niente perduto di nostre genti.


CAPITOLO XVI.

Come la Petriera e gl’ingegni de’ Saracini, gittando il fuoco greco,
abbruciassono due fiate i nostri Gatti incastellati.

Una sera avvenne che i Turchi ammenarono un ingegno ch’essi appellavano
la Petriera, un terribile ingegno a mal fare, e lo misero a fronte a
fronte dei gatti incastellati, che Messer Gualtieri di Curello ed io
guardavamo in quella notte. Per lo quale ingegno essi ci gittavano
il fuoco greco ad abbondanza e a gran furia, e questo era la più
orribile cosa che unque mai io vedessi. Quando il buon Cavaliero
Messer Gualtieri, mio compagno di scolta, vide questo fuoco, egli si
gridò e ci disse: Signori, noi siamo perduti per sempre senza rimedio,
perchè se essi bruciano i nostri gatti incastellati, noi ne siamo
altresì arsi e bruciati; e se noi disertiamo nostra guardia, noi ne
siamo onìti vituperosamente. Perchè io concludo che nullo non è che di
questo periglio ci possa difendere, se non è Iddio il benedetto nostro
Creatore. Sì dunque vi consiglio a tutti, che tutte e quante le fiate
ch’essi ci gitteranno il fuoco greco, che ciascuno di noi cada sui
ginocchi e sui cubiti, e gridi mercè a Nostro Signore, in chi è tutta
possanza. E tantosto che i Turchi gittaro il primo colpo di fuoco, noi
ci mettemmo aggombitati e ginocchioni appunto così come il produomo
ci avea insegnato. E cadde il fuoco greco questa prima volta tra i
nostri due gatti incastellati in uno spiazzo che loro era davanti,
e che aveano fatto i nostri prolungando il dicco; ed incontanente
quel fuoco fu spento da un uomo che avevamo proprio a ciò fare. Or la
maniera del fuoco greco era tale ch’egli veniva ben davanti sì grosso
che una botte, e dietro lasciava una coda durante circa una mezza canna
di quattro palmi. Egli al suo venire di schianto facea tale bruìto da
sembrare la saetta folgore che cadesse dal cielo, e rendea figura d’uno
dragone volante per l’aere, e gittava sì gran chiarità e spereggio
ch’egli ci si vedea entro il vallo come di giorno, accendendovisi
la tenebra in vivo lume di fiamma. Tre fiate in quella nottata ci
gittarono il detto fuoco colla Petriera, e quattro con la ballestra
grossa a tornio[64]; e tutte le fiate che ’l nostro buon Re San Luigi
udiva che ci gittavano così questo fuoco, egli si ponea ginocchioni, e
tendendo le mani e levando la faccia al cielo, gridava ad alta voce a
nostro Signore e diceva in plorando a grandi lagrime: Bel Sire Dio Gesù
Cristo, guardate me e le mie genti! E poi che ’l fuoco c’era caduto
innanzi, e’ mandava un suo ciambellano per sapere in qual punto noi
eravamo, e se il fuoco ci aveva gravati. E ben credetemi che di sue
buone preci ed orazioni noi ne avevamo mestieri; poichè l’una delle
volte ch’e’ Turchi il gittarono, cadde il fuoco di costa al gatto
incastellato che guardavano le genti di Monsignore di Corcenay, e ferì
nella riva del fiume che era là davanti, e se ne venne dritto a loro
tutto divampante ed ardente: perchè tantosto ecco venire correndo verso
di me un Cavaliere di quella Compagnia, tuttavia gridando: Atateci,
Sire, atateci o noi siamo tutti arsi, vedete là orrenda stroscia di
fuoco greco che i Saracini ci han tratto, e che viene dritto al nostro
castello. Ratto corremmo là, donde il bisogno era grande, poichè
così come dicea il Cavaliere in così era, ed estinguemmo il fuoco a
grande affanno e disagio, perchè dall’altra parte i Turchi ci tiravano
attraverso il fiume dardi e verrettoni, di che tutto era pieno.

Il Conte d’Angiò fratello del Re guardava di giorno i gatti
incastellati, e tirava nell’oste de’ Saracini con ballestre. Ora aveva
comandato il Re che appresso che il Conte d’Angiò ci avea fatto il
guato durante il giorno, noi altri della mia compagnia il facessimo
durante la notte; donde eravamo a gran pena ed a grande sollicitudine,
perchè li Turchi aveano già rotte e fracassate nostre tende e nostri
ripari. Ora avvenne che codesti Turchi traditori ammenarono di giorno
la loro Petriera davanti le nostre parate, quando il Conte d’Angiò
le difendea. Ed aveano accoppiati tutti li loro ingegni, donde essi
gittavano senza rallento il fuoco greco sul nostro argine traversagno
tutto di faccia delle nostre bastite, sicchè nullo si osava mostrarsene
fuora e scovrirsi; perchè in allora i nostri due gatti incastellati
furo in un momento consumati e bruciati. Per la qual cosa il detto
Conte d’Angiò, che li dovea guardare quel giorno, ne uscì quasi fuori
del senno e si volea gittare di dentro il fuoco per estinguerlo o
morirvi. Su di che i miei Cavalieri ed io dovemmo render grazie a Dio,
perchè, se i Saracini avessero atteso a notte a far loro sforzo, noi ne
saremmo stati tutti arsi e bruciati.

Il che veggendo il Re, fece egli una richiesta a’ suoi Baroni che
gli donassono e trovassono modo di aver legname de’ vascelli ch’essi
avevano sopra mare, ciascuno di sua parte il più che potrebbe, perchè
non ci avea là intorno fusti o selve di che essi si fossero potuto
atare; e così loro rimostrò il Re, donde ciascuno gliene servì ciò
ch’egli potè. Ed avanti che il nuovo gatto incastellato fusse compito,
il legname che vi fu impiegato venne stimato valere dieci mila lire
e più, perchè potete conoscere che molti battelli ne furono perduti,
e che noi ne eravamo allora in grande difetto. Quando il gatto fu
all’intutto compiuto, il Re non volle punto ch’e’ fosse messo e
piantato sino a quel giorno che ’l Conte d’Angiò suo fratello doveva
farvi la guardia, e comandò che fosse rizzato nel proprio luogo ove li
due altri erano stati bruciati. E ciò faceva egli, a fine di ricovrar
l’onore del detto suo fratello, al guato del quale erano stati bruciati
gli altri due gatti incastellati. E siccome lo Re volle, così fu fatto.
Il che veggendo li Saracini da capo attirarono tutti i loro sedici
ingegni, e di modo li accoppiarono che tutti insieme lanciavano al
nostro gatto ch’era stato fatto di nuovo. E quando essi videro che
le nostre genti dottavano d’andare e venire al gatto pel fitto de’
cantoni e pietre grosse e canterute che essi traevano, drizzaro la
Petriera tutto di fronte al gatto incastellato, e lo arsero da capo col
fuoco greco. E seconda gran grazia fece Nostro Signore a me ed a mei
Cavalieri, perchè s’essi avessero atteso sino alla notte vegnente in
che noi dovevamo tener la guardia, ne saremmo stati arsi od oniti come
per simigliante vi dissi qui avanti.


CAPITOLO XVII.

Qui conta del passaggio a guado del fiume di Rosetta.

Ciò vedendo il Re a tutta sua gente ne venne molto turbato in cuore,
ed appellò tutti li suoi Baroni per consigliarlo sul che era a farsi. E
videro per tra loro che possibile non era di fare un dicco per passare
ai Turchi e Saracini, perchè le nostre genti non potevano tanto fare
da una parte che più essi non affondassono ed allargassero dall’altra.
Ed allora Messer Umberto di Belgioco Connestabile di Francia disse al
Re che un uomo Beduino era venuto a lui, e gli avea detto: che se gli
si volean donare cinquecento bisanti d’oro, ed egli ci insegnerebbe
un buon guado a passare il fiume agevolmente a cavallo. A che il Re
rispose che molto volontieri vi si accordava, ma ch’egli[65] tenesse
verità di sua parte. E non volle quell’uomo insegnare il guado se
primamente egli non ebbe i danari che gli eran stati promessi.

Per lo Re fu disposto che il duca di Borgogna e li Ricchi Uomini del
paese d’oltremare, i quali erano accordanti con lui, guarderebbero
l’oste e la manterebbono contra Saracini, e ch’elli e li suoi tre
fratelli, che erano li Conti di Poitieri, di Artese e di Angiò, il
qual ultimo fu poi Re di Sicilia, come ho detto davanti, colle loro
genti a cavallo andrebbero vedere ed assaggiare il guado che il Beduino
loro doveva mostrare: e ne fu messo giorno e fu assegnato a l’uno
de’ tre dì di Carnasciale. E quando venne quel giorno noi montammo a
cavallo, ed andammo al guado di quel Beduino tutti in punto di guerra.
Ed in cavalcando, taluni si tiravano a randa della riva del fiume, e
sendone la terra labile e intrisa, smucciavano ed avvallavano essi e
loro cavalli nell’acque, e vi si annegavano miseramente. Ed il Re se
n’avvide, e ne fece dimostranza agli altri, affine che tenendosi in
sodo si desson guardia di non cadere. E tra gli altri cadde ed annegò
Messer Giovanni d’Orleano il valente cavaliere Banneretto, che spiegava
bandiera nell’oste di suo. E quando noi fummo al guado vedemmo da
l’altra parte del fiume ben trecento Saracini tutti a cavallo, i quali
guardavano quel passaggio. Allora noi entrammo entro il fiume, e vi
trovarono i nostri cavalli assai buon guado e ferma terra, e tirammo
contramonte l’acqua con buona riva a passar oltra, tanto che la Dio
mercè noi passammo tutti senza dannaggio. E quando i Saracini ci videro
così passare di forza, essi se ne fuggirono a grande aire[66].


CAPITOLO XVIII.

Della battaglia che ne seguì oltre il fiume, ove fu morto il Conte
d’Artese.

Avanti che partire il Re aveva appuntato che i Tempieri farebbono
l’antiguarda, ed il Conte d’Artese suo fratello menerebbe la seconda
battaglia. Ma sì tosto che ’l Conte d’Artese ebbe passato il fiume
insieme a tutta sua gente d’arme, e ch’e’ videro i Saracini fuggire
loro davanti, essi piccano li cavalli delli speroni e cominciano a
correr sopra li Saracini. Donde la valente Milizia dell’antiguardo ne
levò parola di corruccio, ma il Conte d’Artese non le osava rispondere
o rattenersi per la paura di Messer Folcaldo del Melle che lo tenea
per lo freno del suo cavallo, e che, sendo sordo, non udìa cosa che i
Tempieri dicessono al Conte, ma gridava tuttavia a gola: or addosso,
or addosso. Quando i Tempieri videro ciò, essi si pensaro essere oniti
e diffamati se lasciavano andare il Conte d’Artese innanzi a loro,
perchè tutti d’un accordo ferirono degli sproni tanto ch’e’ poterono,
e perseguirono i Saracini fuggenti per mezzo la Città della Massora
sino al campo posto verso Babilonia. Or quando finalmente ristettono
e pensarono ritornare addietro, ecco li Turchi lanciar loro per a
traverso le strette rughe della cittade gran forza di fromboli e di
saettame, sicchè là fu morto il Conte d’Artese e il Sire di Coucy
che si nomava Raullo, e tanto d’altri Cavalieri sino al numero di
trecento, ed i Tempieri, in così come il loro Gran Maestro mi disse, vi
perdettono bene dugento ottanta de’ suoi[67].

E i miei Cavalieri, Genti d’arme ed io vedemmo a man sinistra gran
quantità di Turchi che s’armavano ancora, e incontanente corremmo
sovr’essi. Ed in quella che li cacciavamo per mezzo loro oste, io
scorsi un gran Saracino che montava sul suo cavallo, e gli teneva il
freno un suo cavaliero: e intanto che il Saracino levò le mani alla
sella per voler montare, io gli diedi della spada sotto le ditella
tanto come potei metterla avanti, e lo freddai di quel colpo. Quando
il Cavaliere vide il suo Sire morto, abbandonò egli signore e cavallo,
e m’ispiò al ritornare, e mi venne colpire di sua lancia un sì gran
colpo tra le spalle ch’elli mi gittò sul collo del mio cavallo, e
mi tenne così pressato ch’io non poteva sguainar la spada che aveva
cinta, ma mi bisognò tirare un’altra spada ch’io aveva alla sella
del cavallo, donde bene mestieri me ne fu; e quando egli vide ch’io
aveva la spada in pugno, elli ritirò di forza la lancia che io avea
afferrata, e s’arretrò da me. Ora avvenne ch’io e i miei Cavalieri
trovammo de’ Saracini fuora dell’oste, e ne vedemmo qua e là ben presso
a sei mila che si erano gittati alla campagna e aveano abbandonati
gli alloggiamenti: perchè quando essi ci ebber veduti così spartati,
ci vennero correr sopra di gran randone, e là uccisono Messer Ugo di
Tricciatello Signore d’Isconflano, il quale portava la bandiera della
nostra compagnia: e parimente presono Messer Raullo di Guanone della
detta nostra compagnia, lo quale essi avevano abbattuto a terra. E
in quella che l’ammenavano i miei Cavalieri e me il conoscemmo, e
lo andammo arditamente riscuotere e liberare dalle lor mani. Ed in
ritornando di quello affronto li Turchi mi donarono di sì gran colpi
che il mio cavallo s’agginocchiò del gran peso che gli toccò sentire,
e me gittarono oltre per di sopra le orecchie sue. Di che tantosto
mi raddrizzai mio scudo al collo e mia spada in pugno: ed allora si
tirò verso me Monsignor Erardo di Esmerè, che Dio assolva, lo quale a
somigliante essi avevano abbattuto a terra: e noi ci ritirammo insieme
verso una magione, che colà presso era stata guasta per attendervi il
Re che veniva, e trovar modo di ricovrare un cavallo. Ed in così che
noi ne andavamo a quella magione, ecco qua una gran bandiera di Turchi,
i quali venivano sovra noi correndo e passando oltre verso un’altra
compagnia di nostre genti che colà presso reggea la puntaglia. Ed in
passando essi mi gittano a terra di tal burina che lo scudo m’esce del
collo, e mi calpestano per morto, donde guari non ne falliva. E quando
furono passati, Messer Erardo mio compagnone mi venne a rilevar su,
e così potemmo andare sino ai muri di quella magione disfatta. Ed a
questi muri si resero a noi Messer Ugo di Iscossato, Messer Ferrante
di Loppel, Messer Ranaldo di Menoncorto, ed altri più. E là ci vennero
assalire li Turchi in maggior forza da tutte parti: e ne discese una
parte d’essi dentro il casalone ove noi eravamo, e lungamente furono
battagliando contra noi a la puntaglia e da presso. Allora i miei
Cavalieri mi donaro a guardare un cavallo, ch’essi tenevano per paura
ch’e’ si fuggisse, e si dettono a difendersi vigorosamente contra li
Turchi, ed in tal maniera che grandemente lodati ne furo da alquanti
produomini che li vedevano. Là fu ferito Messer Ugo di Iscossato di tre
grandi piaghe nel viso ed altrove. Messer Raullo e Messer Ferrante a
simigliante furono naverati alle spalle talmente che il sangue sortiva
di loro piaghe tutto così che d’una botte sorte il vino. Messere Erardo
d’Esmerè fu naverato per mezzo il viso d’una spada che gli trinciò
tutto il naso tanto che gli cadeva sulla bocca. Adunque in quella
distretta mi sovvenne di Monsignore San Jacopo, e gli dissi: Bel Sire
San Jacopo, io ti supplico aiutami e mi soccorri a questo bisogno. E
tantosto ch’io ebbi fatto mia preghiera Messer Erardo mi disse: Sire,
se voi non pensaste ch’io il facessi per fuggirmi ed abbandonarvi, io
v’andrei inchiedere Monsignore il Conte d’Angiò ch’io vedo là in quei
campi. Ed io gli risposi: Messer Erardo, voi mi fareste grande onore e
grande piacere se voi ci andaste chiedere aiuto per salvarci le vite,
giacchè la vostra è bene in grande avventura. E bene io ne dicea il
vero perchè elli ne morì poco stante di quella nàvera. E tutti furono
altresì d’opinione ch’elli ci andasse cercar soccorso. Allora gli
lasciai andare il cavallo suo ch’io tenea per lo freno, ed egli ratto
se ne corse al Conte d’Angiò richerendogli che ci venisse soccorrere
nel periglio ove noi eravamo. E là ci ebbe un gran Sire con lui che ne
lo voleva guardare, ma il buon Signore non ne volle niente credere,
anzi girò il suo cavallo, ed accorse con alquanto delle sue genti
piccando delli speroni. E quando li Saracini il videro venire essi ci
lasciarono, ma come e’ vennero in effetto, scorsero li Saracini i quali
tenevano Messer Raullo di Guanone e l’ammanavano tutto ferito, perchè
incontanente mossero a ricovrarlo, ma lo riebbero in ben pietoso e
miserevole punto.


CAPITOLO XIX.

Anche della battaglia, e delle grandi cavallerìe che vi fece Monsignore
lo Re.

Ed in quella io vidi apparire il Re e tutta sua gente, i quali
sorvenivano a una terribile tempesta di trombe, di chiarine e di corni.
Ed il Re s’arrestò sull’alto del cammino con tutte sue genti d’arme
per qualche cosa ch’egli aveva a dire: ed io vi prometto ch’unqua
sì bell’uomo armato non vidi mai: perch’egli pareva di sopra tutti
dalle spalle in a monte. Aveva sulla testa un elmo tutto inorato e
bellissimo, ed una spada di Lamagna in sua mano. E tantosto ch’elli si
fu arrestato, molti de’ suoi Cavalieri scorsero entro la battaglia dei
Turchi gran quantità d’altri Cavalieri e di genti del Re, ed essi senza
rattento si vanno tosto lanciare per tra la battaglia cogli altri.
E dovete sapere che a questa fiata furono fatti là i più bei fatti
d’arme che anche fussono fatti nel viaggio d’oltremare tanto d’una
parte che d’altra; perchè nullo non tirava d’arco, di ballestra, nè
d’altra artiglieria, ma erano li colpi che l’un si donava sull’altro
a belle mazze e spade e fusti di lance tutto mescolatamente l’uno per
mezzo l’altro. E di ciò ch’io vedeva, molto tardava ai miei Cavalieri
ed a me, tutto guasti come noi eravamo, che non fussimo di dentro
la battaglia cogli altri. Ed ecco qui tantosto venire a me un mio
Scudiere, che se n’era fuggito a un tratto con tutta la mia bandiera,
e mi ammena uno de’ miei destrieri fiammenghi; perchè fui prestamente
montato, e toccato degli sproni mi tirai a costa a costa del Re. Là
fu il buon produomo Messer Giovanni di Valerì, il quale vedeva bene
come il Re si volea andare a gittare nel forte della battaglia; e gli
consigliò che si tirasse a man destra di verso il fiume, affinchè, se
dannaggio ci avesse, potesse egli aver soccorso dal Duca di Borgogna e
dagli armati che guardavano l’oste che noi avevamo lassata, ed altresì
a ciò che le sue genti potessono rinfrescarsi ed aver a bere, poichè
il caldo s’era già molto elevato. Il Re mandò allora inchiedere e far
ritirare i suoi Baroni e Cavalieri ed altri di suo Consiglio ch’erano
nella battaglia de’ Turchi, ed a pena furo arrivati domandò loro
consiglio di ciò ch’elli era a fare. E i più risposono che il buon
Cavaliere Messer Giovanni di Valerì ch’elli avea con lui, molto bene
il consiglierebbe. Allora, secondo il primo consiglio di quel Valerì,
che i più accordaro esser buono, il Re piegò a man destra verso il
fiume: ed eccovi qui venire Messer Umberto di Belgioco Connestabile di
Francia, che disse al Re come suo fratello il Conte d’Artese era a gran
pressura in una magione presso la Massora e si difendea a meraviglia,
ma ciò non ostante ch’egli avea buon bisogno d’esser soccorso, e pregò
’l Re d’andarlo aitare. Ed il Re disse: Connestabile, piccate davanti,
ed io vi seguirò da presso: ed a somigliante io di Gionville dissi al
Connestabile ch’io sarei uno de’ suoi Cavalieri e ’l seguirei a tale
affare, donde egli me ne rese mercè di buon cuore. E tantosto ciascuno
di noi cominciò a ferir degli sproni dritto a quella Massora per mezzo
la battaglia dei Turchi; di che prestamente molti di nostra compagnia
furo discevrati e dipartiti de la presenza l’uno de l’altro entro la
forza dei Turchi e dei Saracini.

Ed un poco appresso ecco qui venire un Mazziere al Connestabile, con
chi io era, e gli dice che il Re era circondato di Turchi ed in gran
periglio di sua persona. Chi ne fu isbaìto fummo noi, e ne avemmo
grande spavento, perchè tra lo luogo ove era il Re coi Turchi e noi,
ci avea bene mille o mille dugento Saracini, e noi non eravamo che
sei di nostra parte. Allora io dissi al Connestabile: poi che noi non
abbiamo podere di traforare per quella pressa di nimici, ch’egli ci
valea meglio di andare a passare per a monte al disopra d’essi. E così
tutto subitamente lo femmo ancorchè ci fusse un gran fossalone pel
cammino che prendemmo tra noi e li Saracini. E sappiate per vero che
s’essi si fussono preso guardia di noi, e’ ci avrebbono di tratto tutti
soverchiati ed uccisi; ma essi intendevano al Re ed all’altre grosse
battaglie, e forse ch’elli istimavano che noi fossimo di loro genti.
Ed in quella che noi arrivavamo di verso il fiume tirando in basso
entro il rio suddetto e la riviera, noi vedemmo ch’ ’l Re s’era invece
ritirato all’alto d’esso fiume, e che li Turchi ne ammenavano le altre
schiere. Perchè s’assembraro tutte loro battaglie colle battaglie del
Re sulla grande riviera, e là ci ebbe una molto pietosa disconvenenza.
Perchè la più parte di nostre genti, le quali anche erano delle più
fievoli, credevano poter passare a salvamento di verso l’oste ove
era a guardia il Duca di Borgogna: ma egli non era possibile, perchè
i loro cavalli erano così lassi e travagliati, ed il calore era sì
estremo, che non ne potevano la fatica: ed in discendendo a valle il
fiume, noi vedevamo l’acqua tutta covrirsi di picche, lance, scudi, e
d’uomini e cavalli che miseramente vi perivano ed annegavano. Quando
noi vedemmo la fortuna e il pietoso stato che correva sulle nostre
genti io cominciai a dire al Connestabile, che dimorassimo di qua dal
fiume per guardare uno ponticello che era colà presso sul rio; perchè
se noi lo lasciamo, io diceva, essi verranno caricare sovra ’l Re per
di qua, e se le nostre genti sono assalite per due luoghi, noi potremmo
troppo averne del peggio. Ed in così dimorammo noi; e siate certani che
’l buon Re fece quella giornata de’ più gran fatti d’arme che giammai
io abbia veduto fare in tutte le battaglie ove io fui anche. E si
diceva che se non fusse stata la sua persona, noi saremmo stati tutti
perduti e distrutti. Ma ben io credo che la virtù e la possanza ch’egli
aveva gli si addoppiò allora di vantaggio per la onnipotenza di Dio,
perchè elli si buttava nel mezzo là ove vedeva sue genti in distretta,
e donava di mazza e di spada colpi sì grandi ch’elli era meraviglia a
vedere. E mi contarono un giorno il Sire di Corcenè, e Messer Giovanni
di Salenay che sei Turchi vennero al Re quel giorno, e lo presono al
freno del suo cavallo e lo ammenavano a forza, ma il valente Principe
fu così vertudioso di suo podere, e di sì gran coraggio donò e colpì
sovra questi sei Turchi, che a lui solo si diliberò e li confuse: così
che molti inveggendo ch’elli faceva sì grandi cavallerie, e si difendea
così valentemente, presono ardire in cuore ed abbandonarono i passi
ch’e’ guardavano, ed andarono di randone al soccorso del Re.


CAPITOLO XX. Come io, a buona compagnia, difendessi un ponticello
perchè il Re non ne venisse accerchiato dai Saracini.

Appresso un poco, ecco qui dritto a noi che guardavamo il ponticello a
ciò che i Turchi non passassero, muovere il Conte Piero di Brettagna,
il quale veniva di verso la Massora, là ove egli ci aveva avuto
un’altra terribile scaramuccia. Ed era tutto tagliato al viso, talmente
che il sangue gli usciva in pieno dalle labbra, come s’elli avesse
voluto vomitar dell’acqua che tenesse in bocca. Ed era il detto Conte
di Brettagna montato su un grosso cortaldo[68] basso ed assai ben
fornito, e tutte le brettine gli pendeano rotte dallo arcione della
sella, ed egli si tenea a due mani al collo del cavallo, di paura che
i Turchi i quali gli erano dietro, e che il perseguivan da presso,
nol facessero cadere a terra. Con tutto ciò e’ sembrava ch’elli non li
dottasse già grandemente, perchè sovente elli si volgeva verso loro,
e loro diceva parole in segno di beffa e di muccerìa. E nella fine
di questa battaglia vennero verso noi il Conte Giovanni di Soissone,
e Messer Piero di Noille, che l’uomo appellava Quaderno, i quali
assai aveano sofferto di colpi quella giornata essendo dimorati alla
retroguarda. E quando i Turchi li videro, pensarono ismuoversi e farsi
loro davanti, ma quando essi ci ebbero scorti guardando il ponte e
colle facce tornate contro di loro, lasciaronli passar oltre dubitando
che li saremmo andati soccorrere, in così come al fermo avremmo
fatto. Dopo di che io dissi al Conte di Soissone che era mio cugino
germano: Sire, io vi prego che voi dimoriate qui a difendere questo
ponticello, e voi farete bene; perchè se voi lo lasciate, que’ Turchi
che voi là vedete davanti noi se ne faranno via per colpirci, e così
il Re dimorerà assalito per didietro e per davanti. Ed egli mi domandò
ov’egli dimorasse, se io volessi altresì dimorare con lui: ed io gli
risposi che sì molto volontieri. Ed allora, quando il Connestabile udì
il nostro accordo, egli mi disse ch’io guardassi bene questo passaggio
senza partirmene, e ch’egli ci andava inchieder soccorso. Ed in così
ch’io era là sul mio ronzone dimorando al ponticello tra mio cugino il
Conte di Soissone a man destra, e Messere di Noille a la sinistra, ecco
qui un Turco, che veniva di verso l’esercito del Re, giungere dietro
il detto Messer Piero di Noille, e donargli d’una grossa mazza pesante
un così gran colpo che lo abbattè steso sul collo del suo cavallo, e
poi prese la corsa per a traverso del ponte, e si fuggì di verso sua
gente, pensando che il volessimo seguire, e che così, abbandonando
noi il ponte, essi il potessono guadagnare. Ma quando videro che
nullamente noi volevamo lasciare, essi si misero a passare il ruscello,
e si dimoraro tra quello e il fiume. E quando noi li vedemmo, ci
approcciammo d’essi in tale maniera che noi eravamo tutti presti di
correre loro sovra, s’e’ si fussono più avanzati del venire.

Davanti noi ci avea due Araldi del Re, donde l’uno avea in nome
Guiglielmo di Brono, e l’altro Giovanni di Gaimacio, verso i quali, li
Turchi che erano tra il rio e la riviera, come ho già detto, ammenarono
di piano de’ villani a piè, gente minuta del paese, i quali gittavan
loro zolloni e pietre puntagute a prova e forza di braccio, ed al
postutto ammenaronvi un’altra maladizione di Turco che loro gittò tre
volte il fuoco greco. Ed a l’una delle volte elli prese alla robba di
Guiglielmo di Brono, che lo ispense tantosto, donde assai bisogno gli
fu; perchè se vi fosse bastato tanto da focheggiare, ne saria venuto
tutto abbragiato. E noi eravamo tutti coverti di verrette e di dardi
che isfuggivan dai Turchi, i quali tiravano a codesti duo Araldi.
Ora mi avvenne ch’io trovai lici presso un farsettone di stoppaccio
ch’era stato ad un Saracino, ed apertolo per lo sparato me ne feci
scudo a mio grande uopo e vantaggio, perchè in così io non fui tocco
di lor verrette che in cinque luoghi, mentre il mio cavallo ne fu
in ben quindici. Ed in quella, tosto come Dio il volle, arrivò colà
uno de’ miei borghesi di Gionville, il quale mi apportò una bandiera
alle mie armi, ed una gran coltella da guerra, di che non ne avea
punto; perchè d’or innanzi, visto come quella pedonaglia di villani
faceva pressa agli Araldi, le incorremmo sopra, e coloro smucciarono
prestamente. E nel mentre che noi eravamo là guardando il ponticello,
il buon Conte di Soissone, quando fummo tornati dal correre appresso
que’ villani, si gabbava meco e dicevami: Siniscalco, lasciamo gridare
e braitare questa canaglia, e, _per la Dio creffa,_ siccome solea
scuratamente sagrare[69], ne parleremo ancora voi ed io di questa
giornata donneando in camera colle dame. Avvenne che sulla sera, prima
che ’l Sol cadesse, il Connestabile Messer Umberto di Belgioco ci menò
i ballestrieri del Re a piedi, i quali, prontando i tenieri di lor
ballestre, ci s’arringarono dinanzi; di che noi altri scendemmo di
cavallo dietro la parata de’ ballestrieri. Il che veggendo i Saracini
che colà erano, incontanente se ne fuggirono e ci lasciarono in pace.
Ed allora mi disse il Connestabile che noi bene avevamo fatto dell’aver
così guardato il ponticello, e soggiunse ch’io me n’andassi di verso
il Re arditamente, e che non lo abbandonassi sino a che elli fusse
disceso in suo padiglione. Ed in così me n’andai io di verso il Re,
e sì tosto come gli fui presso, arrivò a lui Messer Gianni di Valery
a fargli una richiesta che era, come il Sire di Castillione pregavalo
umilmente che gli donasse a menare la retroguarda. Ciò che il Re gli
ottriò molto volentieri, e poi si mise a cammino per ritirarsi ai
paviglioni, ed io gli levai di testa il morione e gli diedi il mio
cappello di ferro assai più leggieri, affinchè prendesse vento e se
ne sciorinasse le tempia. Ed in quella che noi camminavamo insieme,
venne a lui il Friere Errico Priore dello Spedale di Ronnay, il quale
avea passato la riviera, e gli venne baciar la mano tutto armato, e gli
domandò s’e’ sapeva novella alcuna di suo fratello il Conte d’Artese.
Ed il Re gli rispose, che sì bene, poichè sapea fermamente ch’elli era
in Paradiso. Di che il Priore, credendo riconfortarlo, gli disse: Sire,
unqua sì grande onore non avvenne a Re alcuno di Francia come a voi,
perchè di gran coraggio voi e tutte vostre genti avete passato a nuoto
una maestra riviera per andare a combattere i vostri nemici; e talmente
avete fatto che voi li avete cacciati, e guadagnatone il campo con esso
quegli ingegni che vi facevano sì mala guerra, e vi diportate tuttavia
in loro albergherie ed alloggiamenti. — Ed il buon Re rispose, che Dio
fusse adorato del come e del quanto che gli donava, ed in così dicendo
cominciaro a cadergliene sì grosse lagrime, che molti gran personaggi,
i quali videro ciò, furo molto oppressi d’angoscia e di compassione
veggendolo così plorare, e tuttavia lodare il nome di Dio del quanto
gli faceva sì miseramente indurare. — E quando noi fummo arrivati ai
nostri albergamenti vi trovammo gran numero di Saracini a piè, i quali
si tenevano alle corde di una tenda, cui essi ammainavano a forza
contro molti di nostra gente minuta che la stendevano. Ed il Maestro
del Tempio che facea l’antiguarda, ed io corremmo su quella canaglia e
la mettemmo a la fuga, sicchè quella tenda dimorò alla gente nostra. Ma
non per tanto ci ebbe grande battaglia, nella quale alquanti, ch’erano
in burbanza e rinómo, si diportarono molto ontosamente, li nomi de’
quali potrei io ben nomare. Nullameno me ne astengo assai di leggieri,
per ciò ch’essi son morti, e mal s’affà a chicchessia il maldire de’
trapassati. Di Messer Guidone Malvicino, vogliovi io invece ben dire,
perchè il Connestabile ed io lo rincontrammo in cammino, venendo de la
Massora, ben mantenendosi, e si era egli assai perseguito e pressato
da vicino. E già quanto li Turchi aveano da prima ributtato e cacciato
il Conte di Brettagna e sua battaglia, com’io vi dissi qui innanzi,
altanto nè più nè meno ributtavano e cacciavano essi Monsignor Guidone
e sue genti. Ma non meno per ciò ebbe egli grandi lodi di quella
giornata, perchè molto valentemente si portò egli con tutta la sua
battaglia. E ciò non era punto di meraviglia, perchè io da poi udii
dire a coloro che sapevano e conoscevano suo lignaggio e quasimente
tutte sue genti d’arme, ch’e’ non ne fallìa guari che tutti i suoi
Cavalieri non fussono o di suo lignaggio o suoi uomini di fede ed
omaggio ligio, perchè molto più gran cuore e volontà avean essi al lor
Capitano, e Maestro.

Appresso che noi èmmo disconfitti li Turchi e cacciati fuori delle
albergherie loro, li Beduini in frotto si ferirono per mezzo l’oste
ch’era stata ai Turchi e Saracini, e vi presero ed asportaro tutto
quanto essi vi poteron trovare di relitto; donde io fui forte
meravigliato, perchè essi Beduini sono soggetti e tributarii ai
Saracini. Ma unqua per ciò non udii dire ch’essi ne fussono al
peggio per cosa alcuna che loro avessono tolta o furtata. E dicevano
che lor costume era tale di sempre correr su ai fievoli, il che è
puntualmente la natura de’ cani; tra’ quali, quando uno n’abbia a chi
un altro incorra, ed uomo adizzi questo ed aiuti, ecco tutti gli altri
tracorrere sul primo e addentarlo.


CAPITOLO XXI.

Qui per inframmessa si conta de’ Beduini e di loro condizioni.

E poi ch’elli s’affà a mia materia io vorrò dirvi alcuna cosa
di costoro. Sappiate or dunque ch’e’ Beduini non credono mica in
Macometto, come fanno li Turchi, ma credono nella legge d’Alì, ch’essi
dicono essere stato zio di Macometto; e si tengono in montagne e
diserti. Ed hanno in credenza che quando l’un d’essi muore pel suo
Signore, o per qualch’altra buona intenzione, che l’anima sua va in
altro miglior corpo, ed ha più grand’agio che davanti: e per ciò non
fanno essi conto del morire per li comandamenti de’ loro antichi.
Codesti non dimorano nè in villaggi nè in città, ma giaciono tuttavia
ai campi e in ermi luoghi. E quando egli fa mal tempo, essi, loro donne
e figliuoli fissano in terra una maniera d’abituro, che è fatto di
doghe e di cerchi legati intorno a pertiche, siccome fanno le lavandaie
a seccare il bucato, e su questi cerchi e pertiche gittano le pelli
di grandi montoni ch’essi hanno, e ch’e’ nominano pelli di somacco,
perchè incroiate e conce in foglie di somacco e in allume. E li Beduini
medesimi hanno grandi pellicce, che sono a lungo pelo, e che loro
cuoprono e guardano tutto il corpo: e quando si vien la sera, e ch’egli
fa mal tempo, essi s’inchiudono ed incasano nelle pellicce loro, ed
hanno i loro cavalli, su cui codian le guerre, la notte pascolanti lì
intorno, ed altro non fan loro che tor le briglie e lasciarli pascere
alle stelle o alla pioggia: poi la dimane stendono essi lor pellicce al
sole, e le frottano e mantrugiano poi ch’e’ son secche, e non par punto
ch’elle sien state ammollate, tornando abili e manose come di prima.
Quelli che seguono le guerre non sono giammai armati, per ciò ch’essi
dicono e credono che nullo non può morire se non che al suo di posto.
E pertanto hanno in tra loro questa fazione che, quando maledicono
a’ figliuoli, soglion dire: maledetto sia tu come colui che s’arma
di paura di morte. In battaglia non portano essi che la spada lunata
a la maniera turchesca, e sono presso che tutti vestiti di giubbe
line simiglianti a cotte chericili. Laida gente sono ed ischifevole a
riguardare, perch’essi hanno tutti li capelli e le barbe lunghi, nere
ed irsute. Vivono dell’affluenza del latte di loro bestie, che hanno
a numero sì grande che nullo no le potrebbe istimare, ed haccene nel
Reame d’Egitto, ed in quello di Gerusalemme, e per tutte le terre
e reami de’ Saracini e scredenti, ai quali essi sono tributarii ed
assoggettiti.

Ed al proposito di cotestoro vi dirò io che ho veduto, dopo il mio
ritorno d’oltremare, alcuni portanti il nome di cristiano, che tengono
la legge de’ Beduini; perchè dicono che nullo non può morire che al
giorno determinato senza faglia alcuna. Il che è cosa fallace, poi
che tanto io stimo tale credenza, come s’elli volesson dire che Dio
non avesse punto di possanza di farci danno od aiuto, e di allungarci
od abbreviarci la vita, il che è cosa ereticale. Ma al contrario io
dico che in lui debbiamo noi credere, sicch’elli sia onnipossente di
tutte cose fare, e così di inviarci la morte tosto o tardi a suo buon
piacere; ciò che è drittamente contrario alla credenza de’ Beduini, i
quali mantengono loro giorno di morte essere senza faglia determinato
senza che sia possibile ch’egli possa essere allungato o abbreviato.


CAPITOLO XXII.

Di ciò che avvenne dopo che ci fummo riparati agli alloggiamenti.

Per rivenire a mia materia e quella perseguire, dirò come alla sera
istessa che fummo ritornati dalla pietosa battaglia di cui ho parlato
dinanzi, e che ci fummo alloggiati ne’ luoghi donde noi avevamo gittati
ed espulsi li Saracini, le mie genti m’apportaro dalla oste nostra
una tenda che il Maestro de’ Tempieri, il quale avea l’antiguarda,
m’avea donato, e la feci tendere a destra degli ingegni che avevamo
guadagnato sui Saracini. E ciascuno di noi bene si volea riposare, chè
ben mestieri n’avevamo per le piaghe e nàvere toccate dei colpi duri
e spessi di quella miserevol battaglia. Ma avanti la punta del giorno
si cominciò nell’oste a gridare: a l’armi, a l’armi; e tantosto io
feci levare il mio Ciambellano, che mi giacea presso, per andar vedere
che ciò era. E non tardò guari ch’egli non ritornasse tutto isbaìto,
gridandomi: Sire, or su, or su, perchè vedete qui i Saracini a piè ed
a cavallo che hanno già disconfitto le genti che ’l Re avea ordinato
a fare il guato, ed a guardare gl’ingegni dei Saracini che noi avevam
guadagnato: ed erano essi ingegni tutto davanti i padiglioni del Re e
di noi altri a lui più prossimani. Di che mi levai ratto sui piedi,
e mi gittai la corazza indosso e un cappello di ferro sulla testa,
ed appellando le nostre genti, che tutte erano magagnate, pur come ci
trovammo, ributammo i Saracini fuor della fronte degl’ingegni ch’essi
volevano riscuotere; e poscia il Re, per ciò che noi non potevamo
vestire nostri usberghi, ci inviò Messer Gualtieri di Castillione, il
quale si locò intra noi e li Turchi per essere al davanti degl’ingegni.

Quando il detto Messer Gualtieri ebbe ributtato li Saracini per più
fiate, i quali notturni volevano dirubarci ciò che ’l dì avevam
guadagnato, e che essi videro come non ci poteano niente fare nè
sorprendere, si ritiraro essi ad una forte battaglia di loro genti
a cavallo ch’erano arringati davanti nostr’oste tutto a randa a
randa delle proprie lizze, per guardare che alla volta nostra non
sorprendessimo per tempo di notte l’oste loro che avean dopo le spalle.
Ed in quella sei Capitani de’ Turchi scavalcarono, e molto bene armati
vennero fare una paratura di cantoni, affinchè i nostri balestrieri
no li potessono inaverare, ed essi standovi addopati, traeano a
vanvera per mezzo noi, e sovente colpivano alquanti di nostra gente.
E quando li miei Cavalieri ed io, che avevamo a guardare quel tratto,
vedemmo il loro paratìo di pietrami, prendemmo insieme consiglio, che,
riannottando, noi l’andremmo disfare e ne asporteremmo le pietre. Ora
aveva io uno Prete, ch’avea nome Messer Gianni di Vaysy, il quale,
udito il consiglio preso da noi, di fatto non attese altrimenti, ma si
dipartì tutto soletto ed a cheto di nostra compagnia, e andò verso i
Saracini, sua corazza in dosso, suo cappello di ferro sulla testa, e
sua spada sotto l’ascella, perch’ella non fusse appercepita. E quando
egli fu presso de’ Saracini, i quali non si pensavano nè dottavano
di lui in veggendolo tutto solo, egli loro corre sovra aspramente e
leva la spada e fiere su que’ sei Capitani Turchi senza che, per la
sorpresa, nullo d’essi avesse podere di difendersi, e forza loro fu
di prender la fuga. Di che furono molto isbaìti gli altri Turchi e
Saracini; e quando videro così i loro Signori fuggire, essi piccarono
degli sproni, e corsero sul mio Prete che si ritornava a piccol
passo verso nostr’oste: perchè ben cinquanta de’ nostri Cavalieri
si partirono movendo all’incontro de’ Turchi che il perseguivano a
cavallo. Ma i Turchi non vollero giungersi colle nostre genti d’arme,
anzi sbiecaron loro dinanzi per due o per tre fiate. Ed arrivò a l’una
delle fiate che l’uno de’ nostri Cavalieri gittò la sua daga a l’uno di
questi Turchi, e gli donò così tra le coste, che il ferito ne importò
la daga in suo corpo, e gli convenne morire. Quando gli altri Turchi
videro ciò, essi non osaro unqua più accorrere, e si sbandaro; perchè
adunque[70] le nostre genti ne asportaro tutte le pietre del paratìo,
e da quell’ora fu il mio valente Cappellano ben conosciuto nell’oste,
sicchè s’udìa dire quando il vedeano: ecco qua il Prete che a tutto
solo disconfisse li Saracini.


CAPITOLO XXIII.

Come i Saracini feciono un nuovo Capitano, e come questi li dispose ad
assaltare li nostri alloggiamenti.

Le cose sovradette avvennero il primiero giorno di Quaresima, e quel
giorno medesimo fecero i Saracini un Capitano novello di un travalente
Saracino in luogo e vece del lor Capitano nomato Sceceduno, donde
egli è davanti fatto menzione, il quale morì nella battaglia di
Carnasciale, là ove simigliantemente fu ucciso il buon Conte d’Artese
fratello del Re San Luigi. Ora quel Capitano novello in tra gli altri
morti trovò esso Conte d’Artese, che era stato molto valente e pro in
quella battaglia, ed era abbigliato riccamente, siccome apparteneva a
uno de’ Reali di Francia. E prese il detto Capitano la cotta d’arme
del mentovato Conte di Artese, e, per donar coraggio alli Turchi e
Saracini, la levò alta dinanzi ad essi, e dicea loro ch’era la cotta
d’arme dello Re nimico, il quale era morto nella mislèa. E pertanto,
Signori, parlava egli, ben vi dovete inardire e farvi più vertudiosi,
perchè, siccome corpo senza capo è niente, altresì esercito senza
maestro Capitano: e per ciò consiglio che noi li debbiamo duramente
assalire, e me ne dovete credere, che per tal maniera venerdì
prossimano li dobbiamo avere al fermo e prendere tutti, poichè così
è ch’elli hanno perduto lo Re loro. E tutti s’accordaro lietamente li
Saracini al consiglio del Capitano. Or dovete sapere che nell’oste de’
Saracini lo Re aveva di molte spie, le quali udivano e sapevano soventi
fiate loro imprese, e ciò ch’e’ volean fare. Donde egli se ne venne
tantosto alcuna di tali spie annunciare al Re le novelle e le imprese
de’ Saracini, e che essi il credean morto, e che per ciò le schiere
fussono senza capo. Adunque il Re fece venire tutti li Caporali dello
esercito, e loro comandò ch’e’ fessono armare tutte lor genti d’arme
ed essere in aguato e tutti presti alla mezzanotte, e che ciascuno si
mettesse fuor delle tende e paviglioni sino al davanti della lizza,
ch’era stata fatta a palanche a bastanza fitte per proibire l’ingresso
allo sforzo de’ Cavalieri, e a bastanza rade perchè e’ pedoni vi
traforassero; e tantosto fue fatto secondo il comandamento del Re.

E non dubitate che, siccome il Capo di quei Saracini aveva ordinato
e concluso, altresì parimente si mise egli in diligenza di eseguire
il fatto. Ed al mattino di quel venerdì detto, all’ora dirittamente
del Sol levante, eccolo qui venire a tutto quattro mila Cavalieri
bene montati ed armati, e li fece arringare per battaglie a fronte a
fronte di nostra oste che era di lungo il fiume, il quale, movendo da
Babilonia, passava presso di noi e tirava sino a una villa che l’uomo
dice Rosetta. E quando questo Capitano de’ Saracini ebbe in così fatto
arringare davanti le lizze i suoi quattro mila Cavalieri, tantosto
ci menò un’altra gran frotta di Saracini a piè in tal quantitade
ch’essi ci avironaro da l’altra parte per tutto il tenere del nostro
accampamento. Appresso queste duo grandi armate così attelate come vi
ho detto, egli fece aordinare, e mettere in disparte alle terga tutto
il podere del Soldanato di Babilonia per trarne soccorso ed aiuto se
bisogno ne fusse. Quando quel Capitano de’ Saracini ebbe così disposte
le sue battaglie, venne elli medesimo tutto solo su un ronzinello verso
nostr’oste per vedere ed avvisare le ordinanze e dipartimenti delle
battaglie del Re; e secondo che e’ conosceva che le nostre bandiere
erano in tal luogo più grosse e più forti, in altretale rafforzava esso
le proprie a l’incontra. Appresso ciò egli fece passare ben tremila
Beduini, de’ quali ho per innanzi parlato così del personaggio come
della natura loro, per di verso l’oste che il Duca di Borgogna guardava
a parte, la quale era intra li duo fiumi. E ciò fece egli pensando che
il Re avrebbe inviato di sue genti d’arme nell’oste d’esso Duca, e così
assottigliate quelle ch’erano con lui, divenendone più fievole, e che
i Beduini badaluccando impedirebbono che noi non avessimo soccorso dai
Borgognoni.


CAPITOLO XXIV.

Qui si conta lo assalto dato a tutte le nostre battaglie.

In queste cose fare e apprestare mise il Capitano de’ Saracini
intorno all’ora di mezzodì, e poi ciò fatto, fece sonare le nacchere
e’ tamburi traimpetuosamente allo modo dei Turchi, ch’era cosa molto
istrana e diversa ad udire per coloro che non l’aveano accostumata.
E si cominciaro ad ismuoversi da tutte parti a piè ed a cavallo. E vi
dirò io tutto primiero della battaglia del Conte d’Angiò, il quale fu
il primo assalito, perciò ch’egli loro era il più vicino dallo lato
verso Babilonia; e vennero a lui scaccati e inframmessi a maniera d’uno
scacchiero, perchè i pedoni a manipoli staccati incorrevano sulle sue
genti bruciandole del fuoco greco che gittavano con istromenti propizii
e da ciò, e’ cavalieri a piccole torme interposte le pressavano ed
opprimevano a meraviglia; talmente che tutti insieme isconfissero la
battaglia del Conte d’Angiò, la quale era a piè a grande misagio posta
in mezzo dai pochi suoi cavalieri. E quando la novella ne venne al Re,
e che si gli ebber detto il discapito ov’era suo fratello, non ebbe
elli alcuna temperanza di arrestarsi nè di nullo attendere, che anzi
subitamente ferì degli speroni, e si buttò per mezzo la riotta, la
spada in pugno, sino al miluogo ov’era il fratello, e molto aspramente
colpiva a dritta e a manca su quei Turchi, e più ove elli vedea più di
pressa. E là addurò egli molti colpi, e gli coversero li Saracini tutta
la gropponiera del suo cavallo di fuoco grechesco. Ed allora era ben a
credere che bene avesse il suo Dio in sovvenenza e desiderio, perchè a
la verità gli fu Nostro Signore a questo bisogno grande amico corale, e
talmente aiutollo, che per la puntaglia ch’esso Re fece, ne fu riscosso
il fratello, e ne furo insieme cacciati li Turchi fuori dell’oste e
della battaglia di lui.

Appresso il Conte d’Angiò erano Capitani dell’altra battaglia
prossimana, composta dei Baroni d’Oltremare, Messer Guido d’Ibelino, e
Messer Baldovino suo fratello, i quali s’aggiugnevano alla battaglia di
Messer Gualtieri di Castillione il produomo e valente, il quale aveva
gran novero d’uomini altresì prodi e di grande cavalleria. E feciono
talmente queste due battaglie insieme, che vigorosamente tennero contro
li Turchi senza ch’e’ fussero alcunamente nè ributtate nè vinte. Ma
ben poveramente prese a l’altra battaglia susseguente ch’avea il Friere
Guglielmo Sonnac Maestro del Tempio a tutto quel poco di genti d’arme
che gli era dimorato dal giorno di Martedì che era di Carnasciale, nel
quale vi ebbero pe’ Tempieri sì grossi abbattimenti e sì duri assalti.
Quel Maestro d’essi Tempieri, perciò ch’avea stremo d’uomini, fece fare
davanti di sua battaglia una difesa degl’ingegni che s’eran guadagnati
sui Saracini; ma ciò nonostante non gli valse neente, perchè i Tempieri
avendoli allacciati con tavolati di pino, i Saracini vi misono il
fuoco Greco, e tutto incontinente e di leggieri vi prese il fuoco.
Ed i Saracini, veggendo ch’egli avea poche genti, non attesero che lo
incendio statasse, nè ch’egli avesse tutto abbragiato, ma si buttarono
per mezzo i Tempieri aspramente e li isconfissero in poco d’ora.
E siate certani che dietro i Tempieri ci avea bene all’intorno una
bifolcata di terra ch’era sì coverta di verrettoni, di dardi e d’altre
arme da gitto, che non vi si vedea punto di terreno, tanto aveano
tratto e lanciato li Saracini contro i maluriosi Tempieri. Il Maestro
Capitano di quella battaglia avea perduto un occhio alla battaglia del
Martedì, ed in questa qui ci perdette egli l’altro e più, perchè ne fu
miseramente tagliato ed ucciso. Dio n’aggia l’anima.

De l’altra battaglia era Maestro e Capitano il produomo ed ardito
Messer Guido Malvicino, il quale fu forte inaverato in suo corpo.
E veggendo i Saracini la gran condotta ed arditezza ch’egli aveva e
donava nella sua battaglia, gli tirarono essi il fuoco Greco senza
fine; talmente che una fiata fu che a gran pena lo gli poterono
estinguere le sue genti a ora e tempo: ma non ostante ciò tenne elli
forte e fermo senz’essere potuto superare dai Saracini.

Dalla battaglia di Messer Guido Malvicino discendeva la lizza che
veniva a chiudere la parte d’oste ove io era al lungo del fiume per
bene la gittata d’una pietra leggera; e poi passava oltre per davanti
l’oste di Monsignore il Conte Guillelmo di Fiandra, la quale oste
mi era a costa a costa, e si stendea sino al fiume che discendeva in
lunata per al mare. Perchè, veggendo i Saracini che la battaglia di
Monsignore il Conte di Fiandra li prendeva per fianco, non osarono essi
venir a ferire nella nostra. Donde io lodai Dio grandemente, perchè nè
i miei Cavalieri ned io avevamo punto un arnese vestito per le ferite
che avevam tocco nella battaglia del dì di Carnasciale, sicchè non
c’era possibile vestir di piastra.

Monsignor Guillelmo e sua battaglia fecero in quell’ora meraviglie:
perchè agramente e vigorosamente corsero su a piè ed a cavallo contro
li Turchi, e fecero di gran fatti d’arme. E quando io vidi ciò,
comandai ai miei ballestrieri ch’e’ tirassono a fusone sopra li Turchi
che erano a cavallo nella mislèa. Perchè tantosto come si sentiron
feriti essi e i cavalli loro, cominciaro a fuggire, e ad abbandonare
la pedonaglia. E quando il Conte di Fiandra e le sue genti videro
ch’e’ Turchi fuggivano, passarono essi per tra la lizza e corsero su i
Saracini ch’erano a piè, e ne uccisono gran quantità, e guadagnarono
molte di loro targhe. E là intra gli altri si provò vigorosamente
Messer Gualtieri de la Horgna, il quale portava la bandiera a
Monsignore il Sire d’Aspromonte.

Appresso questa battaglia era quella di Monsignore il Conte di Poitieri
fratello del Re, la quale era tutta di genti a piè, e non ci avea
che ’l Conte solo a cavallo, donde male ne avvenne. Perchè li Turchi
disfecionla, e presero il Conte di Poitieri, e di fatto ammenavanlo;
se non fussono stati li beccai e tutti gli altri uomini e femmine che
vendevano le derrate e le profende nell’oste, li quali quando ebbero
udito che si ammenava prigione il fratello del Re, levarono il grido e
si ismossero tutti colle coltella e le manajuole, e talmente corsero
in groppo su i Saracini, tuttavia urlando e sbraitando, che il Conte
di Poitieri ne fu riscosso, e rincacciati li Turchi fuora a forza de
l’oste.

Appresso la battaglia del Conte di Poitieri ne era una piccolina e
la più fievole di tutta l’oste, donde n’era Capo e Maestro uno nomato
Messer Giosserando Branzone, ed aveala menata in Egitto lo detto Conte
di Poitieri. Era quella battaglia di Cavalieri a piè, e non ci avea
a cavallo ch’esso Messer Giosserando e Messer Errico suo figliuolo.
Quella povera battaglia disfacevano li Turchi a tutto costo; il che
veggendo quel pro Messer Giosserando e il figliuolo salivano per di
dietro contro li Turchi abbandonandosi a grandi colpi di spade, e
sì bene li pressavano alle spalle, che li Turchi erano astretti di
rivolgersi contro ad essi due, e di lasciare in tregua le genti loro.
Tuttavia al lungo andare, ciò non avrebbe lor valso guari, perchè li
troppi Turchi li avrebbon tutti isconfitti ed uccisi, se non fusse
stato Messer Errico di Cona, ch’era nell’oste del Duca di Borgogna,
saggio Cavaliere e pronto, il quale conosceva bene come la battaglia
di Monsignor di Branzone fusse troppo fievole. Sicchè tutte le fiate
ch’egli vedeva i Turchi correre su al detto Signor di Branzone, egli
faceva trarre i ballestrieri del Re contro i Turchi, e tanto fece e
tanto s’aoperò, che il Sire di Branzone iscapolò di disfatta quella
giornata, sebbene perdesse de’ venti Cavalieri che si dicea ch’egli
avesse, li dodici, senza l’altre sue genti d’arme. Ed egli medesimo
nella perfine, di gran colpi ch’egli ebbe, morì di quella dura giornata
al servizio di Dio, che bene ne lo avrà guiderdonato, come dobbiam
credere fermamente. Ora quel buon Signore era mio avoncolo, e gli
udii dire alla sua morte ch’elli era stato in suo tempo in trentasei
battaglie e giornate di guerra, delle quali soventi fiate egli avea
riportato il pregio dell’armi. E d’alcune ne ho io conoscenza, perchè
una fiata, istando egli nell’oste del Conte di Macone ch’era suo
cugino, se ne venne a me e a un mio fratello il giorno di un Venerdì
Santo in Quaresima, e ci disse: Miei nipoti, venite aiutarmi a tutte
vostre genti, ed a correr su gli Allemanni, i quali abbattono e rompono
il Mostieri di Macone. Di che tantosto fummo presti sui piedi, e
andammo correre contro i detti Allamanni, e a gran colpi e punte di
spada li scacciammo del Mostieri, e molti ne furono o morti o naverati.
E quando ciò fu fatto, il buon produomo s’agginocchiò davanti l’altare,
e gridò ad alta voce a Nostro Signore pregandolo che gli piacesse avere
pietà e mercè di sua anima, e che egli a una fiata morisse per lui e
in suo servigio acciò che nella fine gliene donasse il suo Paradiso. E
queste cose vi ho raccontate, affinchè conosciate com’io deggia avere
in fede e credere tuttavia che Dio gli ottriò ciò che avete udito qui
dinanzi di lui.

Dopo tutte le dette avventure il buon Re mandò cherendo tutti li suoi
Baroni, Cavalieri, ed altri grandi Signori; e quando essi furo venuti
davanti a lui, egli loro disse benignamente; Signori ed Amici, or voi
potete vedere e conoscere chiaramente le grazie grandi che Dio nostro
Creatore ci ha fatto pur non ha guari, e così per ciascun giorno, donde
grandi lodi gliene siamo tenuti rendere. Per ciò che Martedì diretano,
che era di Carnasciale, noi avemmo all’aiuto suo cacciati e ributtati i
nostri nimici di loro alloggiamenti ed albergherie, in che noi teniamo
stazio al presente. Così questo Venerdì che è passato noi ci siamo
difesi a piè, gli alcuni sendone non armati, contr’essi bene armati
a piè ed a cavallo e sovra i lor luoghi. E seguitando di tal maniera
molte altre belle parole argomentose loro diceva e rimostrava molto
dolcemente il buon Re, e ciò faceva per riconfortarli e donare tutto
giorno buon coraggio e fidanza in Dio.


CAPITOLO XXV.

Nel quale s’inframmette discorso delle varie genti d’arme del Soldano,
e de’ suoi Cavalieri della Halcqua.

Ma per ciò che, in perseguendo nostra materia, egli ci conviene
intralacciare alcune cose e ridurle a memoria, a fine d’intendere e
sapere la maniera che ’l Soldano teneva nella fazione di sue genti
d’arme, e donde esse venivano ordinariamente, così vi dirò io com’egli
sia vero che il più di sua cavalleria era fatta di genti istranie
che li mercatanti, andando e venendo sopra mare, vendevano, le
quali genti gli Egiziani da parte il Soldano accattavano. E venivano
queste d’Oriente, perchè quando uno Re d’Oriente avea disconfitto
e conquiso l’altro Re, quegli che avea avuto vittoria e le sue
milizie, prendevano le povere genti che poteano aver prigioniere, e
le vendevano a’ mercatanti, i quali le menavano rivendere in Egitto,
siccome io ho detto davanti. E di tali genti uscivano de’ figliuoli
che il Soldano facea nodrire e guardare. E quando essi cominciavano
a muover pelo, il Soldano lor facea apprendere a tirar de l’arco per
isbattimento e solazzo, e ciascun giorno, quando elli era dilibero,
li facea trarre. E quando si vedea ch’egli ne avea alcuni i quali
cominciavano d’inforzarsi, toglievansi loro gli archi fievoli e puerili
e se ne davano di più forti, secondo che ne mostrava balìa. E questi
giovincelli portavano l’armi del Soldano, e l’uomo appellavali li
_Bagherizzi_[71] del Soldano. E tutto incontanente che barba loro
veniva, ed il Soldano li facea Cavalieri, portando tuttavia sue armi,
le quali erano d’oro puro e fino, salvo che per differenza vi si mettea
o sbarre di vermiglio, o rose, od uccelli, o grifoni o qualche altra
pezza a loro piacere. E tali genti erano appellate le genti della
_Halcqua_, come voi direste gli arcieri della guardia del Re, ed erano
tutto giorno presso del Soldano e guardando il suo corpo. E quando esso
Soldano era in guerra, costoro eran sempre alloggiati presso di lui
come guardie del corpo suo.

Ed ancora più presso di lui aveva egli altre guardie, com’è a dire
Portieri e Ministrieri. E sonavano que’ Ministrieri a la punta del
giorno il levare del Soldano, ed a la sera la sua ritratta; e con
loro stormenti di più maniere facevano tale bruìto, che coloro i
quali erano colà presso non si potevano udire, non che intendere,
l’un l’altro, ma ben n’udiva chiaramente il bombo tutt’uomo per mezzo
l’oste. E ben sappiate che in fra ’l dì essi non sarebbono stati sì
arditi d’aver sonato, se non per lo espresso congedo del Maestro della
Halcqua. E quando il Soldano volea qualche cosa dallo esercito, o dare
qualche comandamento a sue genti d’arme, egli diceva ciò al Maestro
della Halcqua, lo quale facea tosto venire suoi Ministrieri, e questi
sonavano, e di loro corni saracineschi e nacchere e tamburi ordinavano
l’accolta. Perchè a questo suono assembravansi tutte le genti davanti
il Soldano, ed allora il Maestro della Halcqua dicea loro il buon
piacere del Signore, e queste incontanente il facevano a lor podere.
E quando il Soldano era colla persona in guerra combattendo, quegli
tra Cavalieri della Halcqua che meglio provavasi e facea d’arme si era
fatto da lui Almirante[72] o Capitano, od avea carico e condotta di
genti d’arme, secondo ciò ch’elli lo meritava. E chi più faceva, più
gli donava il Soldano, e per tutto ciò ciascun d’essi isforzavansi di
fare oltre il poder loro s’essi avessono potuto farlo.

La fazione e maniera di fare del Soldano era poi questa, che quando
alcuno de’ suoi Cavalieri della Halcqua per sue prodezze e cavallerie
avea guadagnato di bene tanto ch’elli non ne avea più soffratta, e
ch’e’ si poteva leggermente passare di lui; ed egli, di paura ch’avea
che colui non se gli rubellasse o l’uccidesse, sì il facea prendere
e morire in sue prigioni segretamente; e poi che non se ne sapean più
novelle, s’apprendea tutto il bene che aveano le sue donne e figliuoli.
E questa cosa bene fu provata durante che fummo nel paese delle parti
di là, perchè il Soldano fece prendere e imprigionare coloro ch’avean
catturato li Conti di Monforte e di Bar per loro valenza e arditezza,
poichè in odio ed invidia ch’elli ne ebbe contr’essi, e poi che li
dottava forte, sì li fece morire. Ed a simigliante fece egli dei
Bodendardi, i quali sono genti soggette al detto Soldano, per ciò
che, appresso ch’elli ebbero disconfitto lo Re d’Erminia[73], uno
giorno essi vennero per messaggi di verso il Soldano raccontargliene
la novella, e lo trovarono cacciando alle bestie selvagge, e tutti
discesero a piè per fargli la reverenza e donargli la salute si
credendo ben fare, ed essere remunerati da lui. Ed egli loro rispose
maliziosamente che mica non salutavali, e ch’essi gli avean fatto
ismarrire e perder sua caccia, e di fatto lor fece crudelmente tagliare
le teste.


CAPITOLO XXVI.

Come a Babilonia venne uno nuovo Soldano, e come entrò nell’oste nostra
una fiera pistolenza.

Or riveniamo a nostra materia e diciamo come il Soldano, il quale
diretanamente era morto, aveva un figliuolo d’età di venticinqu’anni,
molto savio, istrutto e già malizioso. E pertanto che ’l Soldano si
dottava ch’egli lo volesse diseredare, non l’avea punto voluto tenere
appresso di sè, ma gli avea donato un Reame ch’elli aveva in Oriente.
Ora tantosto che lo Soldano suo padre fue morto, gli Almiranti di
Babilonia l’inviaron cherère, e lo fecero loro Soldano. E quando
elli si vide Maestro e Signore, tolse di tratto ai Connestabili,
Maliscalchi, e Siniscalchi di suo padre le verghe dell’oro e gli
offici ch’essi ne aveano, e li donò a quelli che avea ammenato con
lui d’Oriente[74]. Di che tutti furono ismossi in loro coraggi, e
così coloro ch’erano stati del consiglio di suo padre ne ebbero gran
dispetto, e dottavano forte ch’elli volesse far d’essi, appresso ciò
ch’e’ gli avesse tolto i lor beni, come avea già fatto l’altro Soldano,
il quale avea morti coloro che avean presi li Conti di Monforte e di
Bar, di cui v’ho dinanzi parlato. E pertanto furono essi tutti d’un
comune assentimento di farlo morire, e trovaron modo che coloro i quali
eran detti della Halcqua, e che dovevano guardare il corpo del Soldano,
loro promisero ch’e’ lo uccidrebbono.

Appresso queste due battaglie, donde io vi ho davanti parlato, le quali
furono forti e grandi a meraviglia, l’una il Martedì di Carnasciale
o di Quaresima entrante, e l’altra il primiero Venerdì di Quaresima,
cominciò a venire nell’oste nostra una nuova misavventura. Per che,
a fine di nove o diece dì, le genti ch’erano state morte in quelle
battaglie sulla riva del fiume che correa intra le due osti nostre,
e che vi erano state dentro gittate, tutte rigallaro e vennero al
disopra; e si diceva che ciò era appressochè il fiele imporriva
loro e scoppiava. E discesono li detti corpi morti a valle del detto
fiume sino al ponticello gittato a traverso del medesimo per ove noi
passavamo da l’una parte a l’altra: e per ciò che l’acqua, la quale
era grande, attingeva a quel ponte, li corpi non potevano trapassare,
e ce n’avea tanti che la riviera ne era sì coverta da l’una riva
sino all’altra, che l’uomo non potea veder punto d’acqua bene il
gitto d’una pietruzza a contramonte del ponticello. Perchè allogò
il Re cento uomini di travaglio, i quali furo ben otto dia separare
li corpi de’ Saracini d’intra quelli de’ Cristiani che si poteano
a bastanza discernere. E faceano passare li Saracini a forza oltre
il ponte, e questi secondavano a valle sino al mare, e li Cristiani
faceano interrare gli uni sugli altri entro grandi fosse. Dio sa
qual putidore, e quale pietà insieme era il riconoscere per que’
sfatti cadaveri li gran personaggi e le tante genti da bene che vi
si trovavano a la mescolata! Io vidivi il Ciambellano di Monsignore
che fu il Conte d’Artese, il quale cercava il corpo del suo Signore,
e molti altri cherendo loro amici tra li morti. Ma unqua dappoi non
udii dire che di tutti coloro che erano là riguardando e indurando
l’infezione ed il sito di que’ cadaveri, ch’egli ne ritornasse uno
solo. E bene sappiate che tutta quella Quaresima noi non mangiammo
nullo pesce fuorchè di burbotte, che è uno pesce di tal ghiottornia
ch’e’ rendesi sempre ai corpi morti e li mangia. E di ciò anche che
nel paese di là non piovea nulla fiata una goccia d’acqua, venne una
grande persecuzione e malattia nell’oste; la quale tale era che la
carne delle gambe disseccavasi sino all’osso, e la pelle diveniva a un
color tanè lionato e nerastro, a simiglianza d’una vecchia uosa che sia
stata lungo tempo a immucidir dietro i cofani. Ed inoltre a noi altri
che avevamo quella malsania, sovveniva una nuova persecuzione nella
bocca, da ciò che avevamo mangiato di quel pesce, perchè c’imporriva la
carne tra le gengive, ed il fiato ne usciva orribilmente putiglioso. E
nella fine guari non ne iscapavano di quella malattia che tutti non ne
morissono. Ed il segno di morte, che l’uomo ci conoscea continuamente,
era quando egli si prendea a sanguinare del naso, poichè tantosto si
era bene asseverato d’esser morto di breve. E per meglio guerirci, da
ben quindici dì di là, li Turchi, li quali bene sapevano di nostre
malattie, ci affamaro nella fazione che vi dirò. Perchè coloro che
partivano di nostr’oste per andare su per lo fiume a Damiata, che n’era
di lunge allo intorno d’una grossa lega, per avere de’ viveri, que’
bordellieri ed infami Turchi prendevanli, e punto non ne ritornava uno
a noi, donde molti se ne isbaìvano e restavano dell’andata. D’altra
parte non ne osava venir pur uno da Damiata a noi apportar la vivanda,
poichè tanti ch’egli ne venivano, altanti ne dimoravano. E giammai non
ne potemmo saper nulla, se non che per una galea del Conte di Fiandra,
la quale isfuggì e traforò oltre lor grado ed a forza, e dissecene le
novelle, siccome le galee del Soldano erano in quell’acque aguatando
coloro che andavano e venivano, ed avean già guadagnato ottanta di
nostre galee, e ch’essi uccidevano le genti che v’eran dentro. E per
ciò avvenne nell’oste una sì tragrande carizia, che a pena la Pasqua fu
venuta, un bove era venduto ottanta lire, un montone trenta, trenta uno
porco, il moggio di vino dieci lire, ed un uovo dodici danari, e così
all’avvenante di tutte altre cose.


CAPITOLO XXVII.

Come per lo gran disagio della pistolenza il Re pose di torsi dalla via
di Babilonia, e di alcune mie particolari incidenze.

Quando il Re e suoi Baroni si videro addotti a tale stremo, e che nullo
rimedio non ci avea, tutti s’accordaro che il Re facesse passare sua
oste di verso la terra di Babilonia nell’oste del Duca di Borgogna,
il quale era da l’altra parte del fiume che andava a Damiata. E per
ritrarre le genti sue agiatamente il Re fece fare un barbacane davanti
il ponticello di che vi ho davanti parlato, ed era fatto di maniera
che vi si potea assai entrar dentro per due lati tutto a cavallo.
Quando quel barbacane fue fatto e apprestato tutte le genti dell’oste
s’armaro, e là ci ebbe un grande assalto de’ Turchi, i quali videro
bene che noi ne andavamo oltre nell’oste del Duca di Borgogna che
era dall’altra parte. E come s’entrava in quel barbacane, i Turchi
gettaronsi sulla nostra coda, e tanto fecero e tanto si penaro ch’essi
presero Messere Erardo di Vallery, il quale tantosto fu riscosso per
Messer Gianni suo fratello. Tuttavia il Re non si mosse nè le sue genti
sino a che tutto lo arnese, l’armadura e ’l saettamento non fussono
portati oltre. Ed allora passammo tutti appresso ’l Re, fuorchè Messer
Gualtieri di Castillione che faceva la retroguarda nel barbacane.
Quando tutta l’oste fu passata oltre, quelli della retroguarda furono
a gran misagio pe’ Turchi ch’erano a cavallo, perchè essi traevano
loro di fronte molto saettume non guardandoli a bastante l’altezza del
barbacane; e li Turchi a piè gittavano loro grosse pietre e zolloni
e ghiove indurate alle facce, sì che non se ne potevan difendere nè
durare al parapetto: e ne sarebbon stati tutti perduti e distrutti,
se non fusse stato il Conte d’Angiò fratello del Re, che andolli
aspramente riscuotere, e li ammenò a salvamento.

E qui, per dare alcuna inframessa, vi vorrò raccontare cosa ch’io
vidi il giorno davanti Quaresima-entrante. A punto in quel giorno
morì un travalente, pro ed ardito Cavaliere che avea nome Messer Ugo
di Landricorto, il quale era meco a bandiera e fu interrato nella mia
Cappella. Ed in così ch’io vi udiva la Messa, sei de’ miei Cavalieri
erano là appoggiati sovra de’ sacchi d’orzo, e parlavano alto l’uno
all’altro, e facean noia al Prete che cantava la Messa. Ed io mi levai
stante e loro andai dire ch’e’ si tacessono, e ch’egli era cosa villana
a gentiluomini di parlar così alto intanto che la messa si cantava.
Ed essi cominciarono a ridere, e mi dissero ch’e’ parlavano insieme
di rimaritare la donna di quel Messer Ugo ch’era steso là nella bara.
E di ciò anche li ripresi io duramente, e loro dissi che tali parole
non erano buone nè belle, e ch’essi avevano troppo tosto obbliato il
lor compagnone. Ora avenne egli che la dimane, in che fu la grande
battaglia di che vi ho parlato, essi vi morirono tutti di mala morte,
e ne furo anco tutti gittati a fiume. Sicchè alla sua volta ben altri
avrebbono potuto ridere di lor follia, anco veggendo come alla fine
sia convenuto alle donne loro rimaritarsi a tutte sei. Perchè egli è
da credere che Dio, non lasciando alcuna malefatta impunita, ne volesse
prendere vendicanza.

Quanto poi egli sia di me, io non avea punto peggio o meglio degli
altri: perchè io era naverato ed affranto grievemente della detta
giornata di Quaresima-entrante. E inoltre ciò aveva io il male delle
gambe e della bocca, donde ho parlato davanti, e la scesa di rema nella
testa, la quale mi filava a meraviglia per la bocca e per le narici.
E con ciò io aveva la febbre doppia, che l’uomo dice quartana, di
che Dio ci guardi. E di tutte queste malattie dimorava io obbligato
al letto fino intorno a mezza Quaresima e più a lungo. E se io era
bene malato, parimente lo era il mio povero Prete; sicchè un giorno
avvenne, in così ch’elli cantava messa davanti a me giacente in letto
malescio, che quando egli fu all’indritto del suo sagramento, io lo
scorsi così tramalato, che visibilmente lo vedea ispasimare. Perchè, a
far sì che non si lasciasse cadere in terra, mi gittai fuora del letto
tutto inmalìto com’io era, e, presa mia cotta, andai abbracciarlo per
didietro, e gli dissi ch’e’ facesse tutto a suo agio ed in pace, e
ch’e’ prendesse coraggio e fidanza in colui che dovea tener tra sue
mani. E adunque se ne rivenne un poco, e nol lasciai fino a che non
ebbe accapato il suo sagramento, ciò ch’egli fece. E così accapò egli
di celebrare sua messa a quella fiata, ma unque poi non cantolla, e
morì così santamente che Dio ne ha l’anima al fermo.


CAPITOLO XXVIII.

Qui conta del vano parlamento per pace fare tra ’l Re e ’l Soldano, e
della nostra ritratta verso Damiata.

Ora per rientrare in nostra materia vi dirò io ch’egli fu ben vero
ch’entro i Consigli del Re e del Soldano fu fatto alcun parlamento di
accordo e di pace fare tra loro, e a ciò fu messo ed assegnato giorno.
Ed era il trattato di loro accordo tale che ’l Re dovea rendere al
Soldano la città di Damiata, ed il Soldano dovea rendere al Re tutto
’l Reame di Gerusalemme, e simigliantemente gli dovea guardare tutti
i malati ch’erano dentro Damiata, e rendergli le carni salate che vi
erano, con ciò sia che li Turchi e Saracini non ne mangiassero punto,
ed altresì rendrebbono tutti gl’ingegni da guerra del Re, ed esso Re
potrebbe inviar cherère tutte le cose sue nel detto luogo di Damiata.
Ma di tal parlamento qual fatto uscì? Il Soldano fece inchiedere al
Re qual sicuranza darebbe egli del rendergli la Città di Damiata? E a
tale inchiesta seguì l’offerta ch’elli distenessero prigioniero l’uno
de’ fratelli del Re, o il Conte d’Angiò o ’l Conte di Poitieri. E di
tale offerenda i Turchi non ne vollero, anzi dimandaro in ostaggio
la persona stessa del Re. Ma a ciò rispose il buon Cavaliere Messer
Gioffredo di Sergines, che giammai non avrebbero li Turchi la persona
del Re, e ch’elli amava molto meglio ch’e’ Turchi li avessero tutti
appezzati, di quello ch’e’ fusse lor rimprocciato di avere concesso
in gaggio il Re Signor loro. E così dimorò il parlamento, e non levò
frutto. Tantosto la malattia, donde vi ho davanti parlato, cominciò
a rinforzare nell’oste talmente ch’e’ bisognava che i barbieri
strappassero e tagliassero ai colpiti di quella laida malattia de’
grossi carnicci che sormontavano sulle gengive in maniera che non si
poteva mangiare. Ed era la gran pietà di udir gridare e guaìre per
tutti i luoghi dell’oste coloro a chi si tagliava quella carne morta;
e ciò mi rendea simiglianza delle povere femmine allorchè travagliano
dello infantare, sì che me ne venìa al cuore grande scuriccio e
riprezzo.

Quando il buon Re San Luigi vedeva quella pietà, egli giugnea le mani,
levava la faccia al cielo, benedicendone a Nostro Signore di tutto ciò
che gli donava. Tuttavia pur vedendo ch’egli non poteva così lungamente
dimorare, senza che ne morisse egli e tutta sua gente, ordinò di
muovere di là il Martedì a sera, l’ottava di Pasqua, per ritornarsene
a Damiata. E fece comandare da parte sua a’ marinieri delle galee che
apprestassono lor vascelli, e ch’essi raccogliessero tutti i malati
per menarli a Damiata. Così comandò egli ad uno nomato Giosselino
di Curvante, e ad altri suoi Maestri d’opere ed Ingegnieri ch’essi
tagliassono le corde alle quali s’attenevano i ponti che fean la via
tra noi e i Saracini. Ma, come mali pontonai, niente non ne fecero
essi, donde poi gran danneggio ne avvenne. Quando io vidi che ciascuno
s’apprestava per andarsene a Damiata, mi ritirai nel mio vascello
con due de’ miei Cavalieri ch’io aveva anche solo di rimanente,
e coll’altra mia masnada. E sulla sera, allorch’egli cominciò ad
annerare, comandai al mio cómito ch’e’ levasse l’àncora, e che noi
ne andassimo a valle. Ma egli mi rispose che mica l’oserebbe perchè
intra noi e Damiata erano nel fiume le grandi galee del Soldano che ci
prenderebbono e ucciderebbono tutti. Li marinieri del Re aveano fatto
di grandi fuochi per raccogliere e riscaldare i poveri malati nelle
loro galee, ed erano li detti malati, attendendo i vascelli, accolti
sulla riva del fiume. Ed in quella ch’io ammonestava li miei marinai
dello andarcene a poco a poco, scorsi i Saracini, alla chiarità de’
fuochi, che entravano pei ponti nell’oste nostra, ed uccidevano sulla
riva i malati. Perchè, mentre li miei tiravano l’àncora spaventati, e
che cominciammo un poco a voler discendere a valle, ecco qui venire li
marinieri che dovevan prendere i poveri malati, i quali scorgendo come
i Saracini li uccidevano, tagliarono rattamente le corde dell’àncore
delle loro grandi galee ed accorsero sul mio piccolo vascello da tutti
i lati, di che n’attendea l’ora ch’essi mi travolgessero nel profondo
dell’acqua. Quando, come piacque a Dio, fummo iscapati di quel periglio
ch’era ben grande, noi cominciammo a tirare a valle il fiume di frotto
e furia. Il che veggendo il Re, il quale aveva la malattia dell’oste e
la menagione come gli altri, e che, invece di guarentirsi nelle grandi
galee, amava meglio morire che abbandonare il suo popolo, cominciò
egli a bociare a noi ed a gridare che dimorassimo; e ci traeva di
buone quadretta per farci dimorare sino a che ci donasse egli congedo
di navigare: ma del rattenerci era niente, perchè in quello incalzo a
tutti si convenia poggiare a valle o affondare.


CAPITOLO XXIX.

Ove si mette per conto la fazione e maniera come fu preso il buon Santo
Re.

Ora vi lascierò qui del dire ciò che ho io veduto, e vi metterò
per conto la fazione e maniera come fu preso il Re, secondo ch’egli
medesimo mi disse. Io gli udii dunque dire ch’egli avea lasciato le sue
genti d’arme e la sua battaglia, e s’era messo Lui e Messer Gioffredo
di Sergines nella battaglia di Messer Gualtieri di Castillione che
faceva la retroguarda. Ed era il Re montato su un piccolo corsiero,
e vestiva un sajone di seta; e non gli dimorò, siccome gli ho di poi
udito dire, di tutte le sue genti d’arme, che il buon cavaliere Messer
Gioffredo di Sergines, il quale lo scorse sino ad una piccola villa
nomata Casel, là ove il Re fu preso[75]. Ma a tanto che i Turchi il
potessono avere, gli udii contare che Messer Gioffredo di Sargines
lo difendeva nella fazione che ’l buon sergente difende dalle mosche
il nappo del suo Signore. Perchè tutte le fiate ch’e’ Saracini
l’approcciavano, e Messer Gioffredo lo difendea a gran colpi di taglio
e di punta, e ben sembrava che sua forza e suo pro ed ardito cuore gli
si fussono addoppiati in corpo, sicchè a tutti li colpi li rincacciava
dal venir sopra il Re. E così l’ammenò egli sino al luogo di Casel,
e là fu disceso in grembo di una borghese ch’era di Parigi, e là pure
pensavano vederlo passare il passo della morte, e non isperavano punto
che giammai elli potesse valicare quel giorno senza morire.

Appresso poco arrivò verso il Re Messer Filippo di Monforte, e gli
disse ch’egli veniva dal veder lo Ammiraglio del Soldano, a chi
avea altre volte parlato della tregua, e che se ciò era suo buon
piacere, egli ancora di ricapo gliene andrebbe parlare. E il Re lo
pregò di farlo, e ch’egli voleala tenere e fare nella maniera ch’essi
la vorrebbero. Adunque partì Monsignore di Monforte, e se ne andò
verso i Saracini, li quali, cessando dalla caccia, avean già levate
le tovaglie[76] dalle lor teste. E consegnò il Sire di Monforte lo
anello suo, ch’elli tirò del dito, allo Ammiraglio de’ Saracini,
in assecuranza di tenere le tregue; e ciò sin che ne farebbono
l’appuntamento tale ch’essi l’aveano domandato altra fiata, siccome
è stato tocco qui sopra. Ora avvenne che appresso questo fatto, un
traditore malvagio Usciere nomato Marcello, cominciò a gridare alle
nostre genti ad alta voce: Signori Cavalieri, arrendetevi tutti, il Re
lo vi manda per me, e non lo fate punto uccidere. A questi motti furono
tutti atterrati e pensarono che ’l Re loro avesse così mandato, di che
ciascuno, per la salvanza del Re, rese ai Saracini sue armi ed arnese.
Quando l’Ammiraglio vide ch’e’ Saracini ammenavano le genti del Re,
disse a Messer Filippo di Monforte, ch’egli non gli assicurava mica la
tregua, poichè e’ potea ben vedere che tutte le genti sue erano prese
dai Saracini. Il che veggendo in fatto Messer Filippo, e pensandosi
che ’l Re fusse trapassato, fu molto isbaìto, perch’egli sapea bene,
non ostante ch’egli fusse messaggiere di dimandar la tregua, che
tantosto egli sarebbe preso altresì, e non sapeva a chi aver ricorso.
Conciossiachè in Pagania ci ha una costuma molto malvagia, che
quando in tra ’l Soldano ed alcuno dei Re di quel paese inviansi loro
messaggeri l’uno a l’altro per avere o dimandar tregue, e l’uno de’ duo
Principi si muore, il messaggere, s’egli è trovato, e che le tregue non
sian donate, elli sarà fatto prigioniero da qualche parte che ciò sia,
sia elli cioè messaggere del Re o del Soldano.


CAPITOLO XXX.

Come io fossi preso, e condotto in fine di vita, e poi guerito per un
beveraggio datomi da un buon Saracino.

Ma, lasciando per ora questa materia, e rivenendo a me, ben dovete
sapere che noi altri i quali eravamo in acqua sui nostri vascelli
istimando scappare sino a Damiata, non fummo punto più abili o
benagurosi di coloro ch’erano rimasi a terra, perchè noi fummo
presi altresì come udirete qui appresso. Il vero è che, istando noi
sull’acqua, si levò un terribile vento contro noi, che veniva di
verso Damiata, il quale ci tolse il corso dell’acqua per modo che,
non bastando ad appoderarlo, ci convenne tornare a dietro verso
li Saracini. Il Re avea ben lasciato ed ordinato molti Cavalieri a
guardare i malati sulla riva del fiume, ma ciò non ci servì di niente
per tirarci ad essi, da che se n’eran tutti fuggiti. Or quando venne
verso la punta del giorno, bassò il vento, e noi calammo sino al
passaggio nel quale erano le galee del Soldano che guardavano il fiume
sì che alcun vivere non fusse ammenato da Damiata all’oste, donde è
stato toccato qui davanti. E quando essi ci ebbero scorto, levarono un
gran bruìto e cominciarono a trarre su noi, e sovra gli altri nostri
Cavalieri ch’erano da l’altro lato della riva, verrette ardenti di
fuoco greco a fusone, tanto che sembrava che le stelle cadessono di
cielo. Ed in quella che i miei marinieri avean guadagnato il ratto
della corrente per passar oltre, e che potevam vedere i Cavalieri
lasciati a guardia de’ malati speronare verso Damiata, ecco il
ventavolo che si va a rilevare più forte che davante e ci getta dalla
correntia in costa a l’una delle rive del fiume. Ed all’altra riva ci
avea sì grande quantità di vascelli delle nostre genti che i Saracini
avean preso e guadagnato, che noi non osammo avvicinarli. Ed istando
così senza smuoverci noi vedevam bene che essi uccidevano le genti che
vi eran dentro e gittavanle nell’acqua; e li vedevamo simigliantemente
trar fuora delle navi li cofani e li arnesi ch’essi avean guadagnato.
E per ciò che non volevamo andare ai Saracini, che ci minacciavano,
essi ci tiravano gran forza di saettame. Ed allora io mi feci vestir
l’usbergo affinchè i dardi che cadevano nel nostro vascello non mi
impiagassero. Ora a capo del vascello ci avea delle mie genti, le
quali cominciano gridarmi: Sire, Sire, il nostro nocchiere per ciò
che i Saracini il minacciano ci vuol menare a terra là ove noi saremmo
tantosto ancisi e morti. Adunque io mi feci sorreggere, sendo malato, e
presi la mia spada tutta nuda, e dissi ai marinieri ch’io li taglierei
se si argomentavano più avanti di menarmi a terra tra Saracini. Ed
essi mi vanno rispondere, che non per ciò mi farebbono passar oltre,
e per tanto ch’io avvisassi lo quale amava il meglio, o ch’essi mi
menassero a riva, o ch’essi mi ancorassero nella riviera. Ed io amai
meglio, donde poi ben mi prese in così come voi udirete, che essi mi
ancorassero nel fiume, di quello che mi menassero a riva dove io vedeva
tagliare le nostre genti; e così mi credettono, e così fu fatto. Ma non
tardò guari che tantosto ecco qui venire verso noi quattro delle galee
del Soldano, nelle quali avea forse due mila uomini. Allora io appellai
li miei Cavalieri, e richiesi ch’essi mi consigliassono di ciò ch’era
a fare, o di renderci alle galee del Soldano che s’approssimavano, o
d’andare a renderci a coloro ch’erano a terra. Fummo tutti d’un accordo
ch’egli valeva meglio renderci a quelli delle galee, per ciò ch’essi
ci terrebbero tutti insieme, che di renderci a quelli di terra, i
quali ci avrebbono tutti separati gli uni dagli altri, ed avrebbonci
per avventura venduti ai Beduini di cui vi ho parlato davanti. A
questo consiglio non volle mica consentire un mio Cherco ch’io aveva,
ma diceva che tutti ci dovevamo lasciar uccidere a fine di andare in
Paradiso. Ciò che noi non volemmo credere, perchè la paura della morte
ci pressava troppo forte.

Quando io vidi ch’egli era forza di rendermi, io presi un piccolo
cofanetto ch’avea tutto presso, ove erano i miei gioielli e le mie
reliquie, e gittai tutto didentro il fiume. In quella mi disse l’uno
de’ miei marinieri che s’io non gli lasciava dire ai Saracini ch’io era
cugino del Re, ch’essi ci taglierebbono tutti; ed io gli risposi ch’e’
dicesse ciò che e’ volesse. E adunque ecco arrivare a noi la primiera
delle quattro galee che venia di traverso e gittar l’ancora tutto
presso il nostro vascello. Allora m’inviò Dio, e in così ben credo
che venisse da lui, un Saracino che era della terra dello Imperadore
Federigo[77], il quale avea vestito soltanto una brachessa di tela
cruda, e venne nuotando per mezzo l’acque diritto al mio vascello, e
salitovi sovra m’abbracciò per gli fianchi, e mi disse: Sire, se voi
non mi credete, voi siete perduto, perch’egli vi conviene per salvarvi
mettervi fuori della vostra nave e gittarvi nell’acqua, ed essi non vi
vedranno mica, per ciò ch’elli s’attenderanno al guadagno del vascello.
Detto questo mi fe’ gittare una corda dalla loro galea sulla tolda
della mia nave, e con quella mi collai nell’acqua, e il Saracino a
pruovo; donde gran bisogno mi fu per sostenermi e condurmi nella galea,
perchè io era sì fievole di malattia che andava tutto vagellando e
sarei caduto al fondo del fiume.

Io fui tirato sin dentro la galea, nella quale avea ben ancora ottanta
uomini oltre quelli ch’erano entrati nel mio vascello, e quel povero
Saracino mi teneva tuttavia abbracciato. E tantosto fui portato a
terra, e mi corsero su per volermi tagliar la gola, ebbene mi ci
attendea, e colui che m’avrebbe scannato pensava tenerselo a molto
onore. Ma quel Saracino che m’avea tolto fuori del mio vascello, non
mi voleva lasciare, anzi gridava loro: Il cugino del Re, il cugino
del Re. Ed allora io che m’era già sentito il coltello tutto presso
la gola, e che m’era già messo in terra ginocchione, mi vidi liberato
di quel periglio all’aìta di Dio e di quel povero Saracino, il quale
mi menò sino al castello là ove erano li Caporali de’ Saracini. E
quando io fui con loro, essi mi levarono l’usbergo, e di pietà che
ebbero di me, veggendomi così malato, mi gittarono indosso una mia
coperta d’iscarlatto foderata di vajo minuto che Madama mia Madre
m’avea donato; ed un altro d’essi m’apportò una coreggia bianca di che
mi cignessi per disopra il mio copertoio, e sì un altro de’ Cavalieri
Saracini mi diè un capperoncello ch’io misi sulla mia testa. Dopo di
che cominciai a tremare ed a incocciar li denti, sì della grande paura
ch’io aveva, e sì ancora della malattia. Domandai allora a bere, e mi
si andò cherère dell’acqua in un pozzo, e si tosto ch’io ne ebbi messo
in bocca per avallarla, essa mi salse invece per le narici. Dio solo
sa in qual pietoso punto era allora, perchè sperava molto più la morte
che la vita, avendo l’apostema alla gorga. E quando le mie genti mi
videro così sortir l’acqua per le narici, essi cominciarono a plorare,
ed a menar grande duolo; e il Saracino che m’avea salvato domandò loro
perchè ploravano, ed essi gli fecero intendere ch’io era pressochè
morto, e ch’io aveva alla strozza l’apostema, la quale mi strangolava.
E quel buon Saracino, che sempre aveva avuto pietà di me, lo va a
dire ad uno de’ suoi Cavalieri, e questi risposegli: mi confortasse a
sicuro, chè egli mi donerebbe qualche cosa a bere, donde sarei guarito
entro due dì, ed in così fece; e veramente ne fui guerito all’aiuto di
Dio e di quel beveraggio che mi diede il Cavaliere Saracino.


CAPITOLO XXXI.

Di quello avvenne dopo la mia guarigione, e come fui menato là dove
erano le genti del Re.

Tantosto appresso la mia guarigione lo Ammiraglio delle galee del
Soldano mi mandò che fossi davanti a lui per sapere s’io era cugino
del Re come si sonava: Ed io gli risposi, che no, e gli contai comente
ciò era stato fatto, nè perchè; e che era stato il cómito che lo mi
avea consigliato di paura che i Saracini delle galee, che ci venivano
sopra, ci ammazzassono tutti. E lo Ammiraglio soggiunse che molto
bene era stato consigliato, perchè altramente noi saremmo stati uccisi
senza faglia e gittati entro il fiume. Di ricapo mi domandò il detto
Ammiraglio s’io aveva alcuna conoscenza dello Imperadore Federigo
d’Allemagna che allor viveva, e s’io era mica di suo lignaggio. Ed
io gli risposi la verità di avere inteso come Madama mia Madre era
sua cugina nata di germano. E lo Ammiraglio mi rispose ch’egli me ne
amava di tanto meglio. E così, in quella che noi eravamo là mangiando
e beendo, egli m’avea fatto venire davanti un borghese di Parigi: e
quando il borghese mi vide mangiare, egli mi va dire: Ah! Sire, che
fate voi? Che io fo? dissi io. Ed il borghese mi va avvertire dalla
parte di Dio ch’io mangiava nel giorno di venerdì. E subito io lanciai
addietro la scodella ove mangiava. Il che vedendo lo Ammiraglio,
domandò al Saracino che m’avea salvato e che era sempre con me, perchè
io avea lasciato a mangiare. Ed egli dissegli per ciò ch’egli era
venerdì ed io non ci pensava punto. E lo Ammiraglio rispose che già Dio
non l’avrebbe a dispiacere poi ch’io non lo aveva fatto saputamente.
E sappiate come il Legato ch’era venuto col Re, mi tenzonava di che io
digiunassi, e perch’io era malato, e perchè non ci avea più col Re uomo
di Stato fuor di me, e pertanto diceva ch’io facea male a digiunare;
ma, non meno per ciò ch’io fussi prigioniero, punto non lasciai a
digiunare tutti li venerdì in pane ed acqua.

La domenica d’appresso ch’io fui preso, lo Ammiraglio fece discendere
del castello a valle il fiume sulla riva tutti quelli ch’erano stati
presi sull’acqua. E quando io fui là, Messer Gianni mio Cappellano fu
tratto dalla sentina della galea, e quando e’ vide e provò l’aria,
ispasimò, e incontanente ucciserlo i Saracini davanti a me e lo
gittarono a fiume, ed al suo cherco, il quale altresì non ne poteva
più della malattia dell’oste ch’egli aveva, lanciarono un mortaio
sulla testa, e così infranto lo gittarono a fiume appresso il Maestro.
E similmente facevano essi degli altri prigionieri, perchè in così
che traevanli della sentina ove erano stati stivati, egli ci avea de’
Saracini propizi, i quali da che essi ne vedeano uno male disposto
o fievole, sì lo uccidevano e lo gittavano nell’acqua, e così erano
trattati tutti li poveri malati. Ed in riguardando quella tirannia,
io loro feci dire pel mio Saracino, ch’essi facevano gran male, e che
ciò era contro il comandamento di Saladino il pagano, il quale diceva
che non si doveva uccidere nè far morire uomo poi che gli si era dato
a mangiare del suo pane e del suo sale. Ma essi mi fecero rispondere
che coloro non erano più uomini d’alcuna valuta, e ch’essi non potevano
omai più fare alcun’ovra, poi che erano troppo malati. E appresso
queste cose elli mi fecero venir dinanzi tutti i miei marinieri,
narrandomi che tutti erano rinegati. Ed io dissi loro che non ci
avessono per ciò fidanza, e che ciò era solamente di paura che uomo li
uccidesse, ma che come tosto sarebbonsi essi trovati in buon luogo od
in lor paese, incontanente ritornerebbono alla prima fede. Ed a ciò
mi rispose lo Ammiraglio, ch’egli me ne credeva bene, e che Saladino
diceva come giammai non si vide di un Cristiano un buon Saracino, e
così di un Saracino un buon Cristiano. Dopo di che lo Ammiraglio mi
fece montare su un palafreno, e cavalcavamo l’uno accosto l’altro.
Ed in così menommi passare a uno ponte, e di là sino al luogo dove
era il santo Re e le genti sue prigionieri. Ed all’entrata d’un gran
paviglione trovammo lo Scrivano che scriveva li nomi de’ prigionieri
da parte il Soldano. Or là mi convenne nomare il mio nome, che non loro
volli celare, e fu scritto come gli altri. Anche all’entrata del detto
paviglione quel Saracino, che sempre mi aveva seguito ed accompagnato,
e che mi avea salvato nella galea, mi disse: Sire, io non vi posso
più seguitare e perdonatemene, ma bene vi raccomando questo giovine
infante che avete con voi, e vi prego che lo teniate sempre per lo
pugno, o altrimenti io so che i Saracini lo uccideranno. L’infante avea
nome Bartolomeo di Monfalcone figliuolo del Signore di Monfalcone di
Bari. Tantosto che il mio nome fue iscritto, l’Ammiraglio ci menò, il
giovine figliuolo ed io, didentro il paviglione, ove erano li Baroni di
Francia, e più migliaia di persone con loro. E quando io fui didentro
entrato, tutti cominciaro a menare sì gran gioia dii vedermi, che non
vi si potea niente udire per lo bruìto della gioia ch’essi ne facevano,
perchè mi pensavano aver perduto.

Ora in quella che noi stavamo insembre sperando l’aìta di Dio, noi non
dimorammo guari che un gran ricco uomo[78] Saracino ci menò tutti più
avanti in un altro paviglione dove avevamo una cera assai miserevole.
Assai d’altri Cavalieri e d’altri di nostre genti erano altresì
prigionieri, ma chiusi in una gran corte attorneata di muraglie di
terra. E quelli là facevano trar fuora li prigionieri l’uno appresso
l’altro, e loro domandavano se si volevano rinegare, e quelli che
dicevano si, e che si rinegavano, erano messi a parte, e quelli che nol
volean fare, tutto incontanente avean mozzo il capo.


CAPITOLO XXXII.

Come fu menato il Trattato per la diliveranza del Re e nostra.

Poco appresso c’inviò il Soldano il suo Consiglio a parlarci, e
questi dimandò a quale di noi egli direbbe il messaggio del Soldano.
E tutti ci accordammo che ciò fusse al Conte Piero di Bretagna per uno
turcimanno che avevano i Saracini, il quale parlava l’uno e l’altro dei
linguaggi, Francesco e Saracinesco. E furono tali le parole: Signori,
il Soldano c’invia di verso voi per sapere se vorreste punto essere
diliveri, e chè vorrestegli dare o fare per la vostra diliveranza
ottenere? E a questa dimanda rispose il Conte Piero di Bretagna, che
molto volentieri vorremmo esser diliveri delle mani del Soldano, e aver
già fatto e indurato ciò che ne fosse possibile per ragione. Ed allora
il Consiglio del Soldano domandò al Conte di Bretagna se noi vorremmo
punto donare per nostra diliveranza alcuno de’ castelli o piazze forti
appartenenti ai Baroni d’Oltremare? Ed il Conte rispose che ciò non
potevamo noi fare, per ciò che li detti castelli e piazze erano tenuti
dallo Imperadore d’Allemagna che allor ci vivea, e che giammai egli
non consentirebbe che il Soldano tenesse cosa sotto di lui. Di ricapo
domandò il Consiglio del Soldano, se noi vorremmo rendere nullo de’
Castelli del Tempio o dello Spedale di Rodi per nostra diliveranza.
Ed il Conte rispose similmente ch’egli non si poteva fare perchè ciò
sarebbe contro il saramento accostumato, il quale è che quando si mette
li Castellani e Guardie dei detti luoghi, essi giurano a Dio che per
la diliveranza di corpo d’uomo essi non renderanno nullo dei detti
Castelli. Allora li Saracini insembre rispuosono ch’egli sembrava bene
che noi non avessimo nullo talento nè inveggia d’essere diliverati,
e ch’essi ci andrebbono inviare li giucatori di spade, li quali ci
farebbono come agli altri. E sovra ciò se n’andaro. E tantosto appresso
che il Consiglio del Soldano se ne fu andato, ecco qui venire a noi un
Saracino molto vecchio e di grande apparenza, il quale aveva con lui
una frotta di giovani Saracini, i quali tenevano ciascuno una larga
spada a lato, donde fummo tutti molto ismarriti. E ci fece dimandare
quell’antico Saracino per uno turcimanno, il quale intendeva e parlava
la nostra lingua, s’egli era vero che noi credessimo in un solo Dio,
che era nato per noi, crocefisso e morto per noi, ed al terzo giorno
appresso sua morte risuscitato anche per noi. E noi rispondemmo,
che sì veramente. Ed allora egli ci rispuose che poi così era, noi
non ci dovevamo disconfortare d’avere sofferto nè di sofferire tali
persecuzioni per lui, dacchè ancora non avevamo noi punto indurato la
morte per lui, com’egli avea per noi fatto, e che s’egli avea avuto
podere di sè risuscitare, che certamente egli ci dilivrerebbe tra
breve. E allora se ne andò quel Saracino con tutti li suoi garzoni,
senza farci altra cosa. Donde io fui molto gioioso e ringagliardito,
perchè m’era inteso ch’essi fussono venuti per mozzarci il capo a
tutti; e già non tardò appresso guari di tempo che noi avemmo novelle
della nostra diliveranza.

Appresso queste cose di sovra dette il Consiglio del Soldano rivenne
a noi, e ci disse che ’l Re avea tanto fatto ch’egli avea procacciato
le nostre diliveranze, e che gli inviassimo quattro tra di noi per
udire e sapere tutta la maniera del trattato. Ed a ciò fare gl’inviammo
Monsignor Giovanni di Valery, Monsignor Filippo di Monforte, Monsignor
Baldovino d’Ebelino Siniscalco di Cipri, e Monsignor Guidone d’Ebelino
suo fratello Connestabile di Cipri, che era l’uno dei belli e dei
ben condizionati Cavalieri ch’unqua io conoscessi, e che molto amava
le genti di quel paese. Li quali quattro Cavalieri di su nomati ci
rapportarono tantosto la fazione e maniera della nostra diliveranza.
Sappiate dunque che per assaggiare il Re, il Consiglio del Soldano gli
fece tali o somiglianti dimande ch’egli ci avea fatte qui innanzi,
ed in così che piacque a Nostro Signore, il buon Re San Luigi loro
rispose altrettale o somigliante risposta a ciascuna delle due domande
come noi avevamo fatto per la bocca del Conte Piero di Bertagna.
Di che i Saracini, veggendo che ’l Re non voleva ottemperare alle
inchieste loro, il minacciarono di metterlo in ceppi, o come l’uom
dice in bernoccoli, che è il più greve tormento ch’essi possano fare a
chicchessia. E sono due gran ceppi di legno che s’intertengono a l’un
de’ capi, e quando essi vogliono mettervi dentro alcuno, sollevano un
ceppo ed all’uomo stratato in terra attraversano le gambe di grosse
caviglie, poi su vi abbassano l’altro ceppo sospeso, e fannovi assedere
un uomo sovra. Donde elli avviene ch’e’ non dimora a colui che vi
ha le gambe insertate un mezzo piede d’osso che non ne sia rotto o
schiacciato. E per peggio fargli, a capo di tre dì gli rimettono le
gambe, che sono grosse ed enfiate, di dentro que’ bernoccoli, e le
ritriturano di ricapo, il che è cosa orribilmente crudele solo allo
intendere, non che al provare. E ben sappiate che essi anco legano il
martoriato a grossi nervi di bue per la testa, di paura ch’elli di là
entro non si rimuova. Ma di tutte quelle minacce non fece conto il buon
Re, anzi disse loro ch’egli era prigioniero, e ch’essi potevano fare di
suo corpo a lor volere.

Quando i Saracini videro ch’e’ non potrebbono vincere la costanza del
Re per minacce, ritornarono a lui e gli domandarono quanto vorrebbe
donar di finanza al Soldano oltra Damiata ch’egli renderebbe loro.
Ed il Re rispose che se il Soldano voleva prendere prezzo e riscatto
ragionevole, manderebbe egli a la Reina, ch’ella il pagasse per la
redenzione di sue genti. E i Saracini gli domandarono perchè voleva
egli mandare a la Reina; ed egli rispuose loro che ben a ragione doveva
ciò fare perch’ella era sua Dama e Compagna. Adunque il Consiglio si
tornò al Soldano per sapere quanto esso domanderebbe al Re, e saputolo,
si ritornò ad esso Re, e gli dissero che se la Reina voleva pagare un
milione di bisanti d’oro, che allora valevano cinquecento mila lire,
ch’ella libererebbe il Re, ciò facendo. Ed il Re domandò loro per
saramento se il Soldano consentirebbe la diliveranza, ove la Reina
pagasse loro le cinquecento mila lire. Perchè essi ritornaro al Soldano
per sapere s’egli lo voleva così fare e promettere, e ne rapportarono
ch’e’ lo volea bene e gliene fecero il saramento. E sì tosto che li
Saracini gli ebbono giurato e promesso in lor fede di così fare e
di così liberare, il Re promise ch’egli pagherebbe volentieri per la
redenzione e diliveranza di sue genti cinque cento mila lire, e pel suo
corpo ch’egli renderebbe Damiata al Soldano, poich’elli non era punto
tale ch’e’ volesse redimersi, nè volesse avere per alcuna finanza di
danaio la diliveranza del corpo suo. Quando il Soldano intese la buona
volontà del Re, uscì dicendo: Fe’ di Macometto! franco e liberale è
il Francesco, il quale non ha voluto bargagnare sovra sì gran somma di
danaio, ma ha ottriato fare e pagare ciò che l’uomo gli ha dimandato:
or gli andate dire, fece il Soldano, che io gli dono sul riscatto cento
mila lire, e non ne pagherà più che quattro cento milia.


CAPITOLO XXXIII.

Come appresso il Trattato si approdò alla nuova Albergheria del
Soldano, e come gli Almiranti si giuraro contra di lui.

Adunque il Soldano fe’ tosto mettere in quattro galee sul fiume le
genti più grandi e più nobili che ’l Re avesse per menarle a Damiata.
Ed erano nella galea ove fui messo, il buon Conte Piero di Bertagna,
Guiglielmo Conte di Fiandra, Giovanni il buon Conte di Soissone,
Messere Umberto di Belgioco Connestabile, e li due buoni Cavalieri
Messer Baldovino d’Ebelino e Guido suo fratello. E quelli della galea
ci fecero approdare davanti una gran magione che il Soldano avea fatto
levare sovra il fiume. Ed era così fatta questa albergheria ch’egli vi
avea una bella torre fatta di abetelle e tutta chiusa allo ’ntorno di
una tela intinta. Ed all’entrata della porta ci avea un gran paviglione
teso, e là lasciavano gli Almiranti del Soldano loro spade e loro
verghe quando volevano ire a parlargli. Appresso a quel paviglione
ci aveva un’altra bella gran porta, e per quella s’entrava in una
sala ispaziosa che era quella del Soldano; appo la quale rizzavasi
un’altra torre fatta tutto come la primiera, e per questa montavasi
alla camera del Soldano. Nel mezzo di quell’albergheria si apriva
un pratello, ed in quello si drizzava una terza torre più grande che
l’altre tutte, e sovr’essa il Soldano montava per prospettare tutto
il paese di là intorno, e l’oste d’una parte e dell’altra. Anche in
quel pratello era uno viale tirante verso il fiume, ed a capo il viale
avea il Soldano fatto tendere un padiglioncello tutto sugli orlicci
del fiume per andarvisi bagnare. Ed era quello alloggiamento tutto
coverto, per disovra il fusto di legname, di traliccio, e per di
sovra il traliccio parato di tela d’India, affinchè di fuora non si
potesse trasvedere di dentro, ed anco tutte le torri erano similmente
intelajate. Davanti questa albergheria arrivammo il giovedì innanzi la
festa dell’Ascensione di Nostro Signore, e colà presso fu disceso il Re
in un paviglione per parlare al Soldano, ed accordargli che il sabbato
appresso gli renderebbe Damiata.

E così come si era sulla partenza e il voler venire a Damiata per
renderla al Soldano, lo Ammiraglio, che tale era stato al tempo del
padre del giovine Soldano attuale, ebbe in lui alcun rimorso del
dispiacere che esso giovine Signore gli avea fatto: perchè al suo
avvenimento, dopo che quell’Ammiraglio l’ebbe inviato cherère per
succedere al padre che morì a Damiata, esso invece per provvedere le
genti sue ch’avea seco ammenato di stranie terre, lo disappuntò d’ogni
onore, e parimente li Connestabili, Maliscalchi e Siniscalchi del padre
suo. E per questa cagione li disappuntati presero tra loro consiglio,
e si dissero l’uno all’altro: Signori, voi vedete il disonore che
’l Soldano ci ha fatto, poichè egli ci ha ismossi delle preminenze e
governi in che il Soldano suo padre ci aveva messi. Per la qual cosa
noi debbiamo esser certani, che s’elli rientra una fiata di dentro le
fortezze di Damiata, egli ci farà poco appresso tutti prendere e morire
in sue prigioni, di paura che per successione di tempo non prendessimo
vendicanza di lui, in così come fece il suo anticessore dello
Ammiraglio e degli altri che presero li Conti di Bari e di Monforte. E
pertanto vale egli meglio che noi il facciamo uccidere avanti ch’egli
sfugga delle nostre mani. Ed a ciò si consentirono tutti, e di fatto se
n’andarono parlare a quelli della Halcqua di cui ho dinanzi toccato,
che son coloro ch’hanno la guardia del corpo del Soldano; e a questi
fecero somiglievoli rimostranze come essi avean avuto tra loro, e li
richiesero che uccidessono il Soldano, e così loro il promisero quelli
della Halcqua.


CAPITOLO XXXIV.

Come i Cavalieri della Halcqua uccisono il Soldano di Babilonia.

Pertanto come un giorno il Soldano convitò a desinare i suoi Cavalieri
della Halcqua, egli avvenne che, appresso le tavole levate, si volle
ritirare nella sua camera: e dopo ch’egli ebbe preso congedo da
suoi Almiranti, uno dei Cavalieri della Halcqua, il quale portava la
spada del Soldano, lo ferì d’essa sulla mano, sicchè glie la fesse
sin presso il braccio tra le quattro dita. Perchè allora il Soldano
s’arretrò verso i suoi Almiranti che aveano conchiuso il fatto, e loro
disse: Signori, io mi lagno a voi di quelli della Halcqua che m’hanno
voluto uccidere siccome ben potete vedere alla mia mano. Ed essi gli
rispuosono tutti a una voce, ch’egli loro valeva assai meglio ch’essi
lo uccidessono, di quello che egli li facesse morire, siccome voleva
farlo, se una fiata fusse rientrato nelle fortezze di Damiata. E
sappiate che cautelosamente operarono ciò gli Almiranti, perchè essi
fecero sonare le trombe e le nacchere del Soldano, e poichè tutta
l’oste de’ Saracini fu assembrata per sapere il volere del Signore,
gli Almiranti, loro complici ed alleati, dissero allo esercito che
Damiata era presa, e che il Soldano se ne era ito a quella volta, ed
aveva lasciato per comando che tutti andassono in arme appresso lui. Di
che tutti subito armaronsi e se n’andaro piccando degli speroni verso
Damiata; d’onde noi altri fummo a grande misagio, perchè credevamo che
di vero Damiata fusse presa.

Il che veggendo il Soldano, e non potendo stornare la malizia ch’era
stata cospirata contro la sua persona, se ne fuggì nell’alta torre
ch’elli aveva presso della sua camera, di cui vi ho davanti parlato.
Ed allora le sue genti medesime della Halcqua abbatterono tutti li
paviglioni, ed intornearono quella torre ove egli se n’era fuggito. E
di dentro la torre stessa egli ci aveva tre de’ suoi gran Maestri di
Religione, i quali aveano mangiato con lui, che gli gridarono ch’e’
discendesse. Al che rispose che volontieri discenderebbe laddove
essi lo assecurassero. Ed essi spietatamente soggiunsero che bene il
farebbono discendere per forza ed a mal suo grado, e ch’e’ pensasse
come non fusse anche a Damiata. E tantosto vanno a gittare il fuoco
greco di dentro quella torre, ch’era solamente di abetelle e di tela
com’io ho detto davanti. Ed incontanente fu abbragiata la torre, e vi
prometto che giammai non vidi falò più bello nè più subitano. Quando il
Soldano sentì pressarsi dal fuoco, egli discese per la via del pratello
su ricordato, e s’infuggì verso il fiume. E tutto in fuggendo l’uno de’
Cavalieri della Halcqua lo ferì d’una coltella per mezzo le costole, ed
egli si gittò con essa la coltella di dentro il fiume. E appresso lui
si gittarono intorno a nove Cavalieri, i quali lo finirono in quelle
acque assai vicino alla nostra galea. Or quando il Soldano fue morto
l’uno de’ detti Cavalieri, che avea in nome Faracataico, fesselo per
lo mezzo e gli trasse il cuore dello interame; e così fieramente se
ne venne al Re colle mani sanguinenti, e gli domandò: Che mi donerai
tu, poi ch’ho io ucciso il tuo nimico che t’arebbe fatto morire s’egli
avesse vissuto? Ma a questa villana dimanda, nè levò il viso, nè
rispose un sol motto il buon Re San Luigi.


CAPITOLO XXXV.

Del male che ci avvenne dopo che ’l Soldano fue ucciso, e delle nuove
convenenze giurate cogli Almiranti.

Quando costoro ebbono compiuto il misfatto, egli ne entrò ben trenta
nella nostra galea con loro spade tutte nude in mano ed al collo loro
azze d’armi. Ed io domandai a Monsignor Baldovino d’Ebelino, il quale
intendeva bene Saracinesco, che era ciò che quelle genti dicevano, ed
egli mi rispose ch’e’ dicevano come ci volessero mozzare ’l capo. Di
che vistamente vidi un troppello di nostre genti che là erano, ire a
confessarsi ad un Religioso della Trinità, il quale era con Monsignor
Guglielmo Conte di Fiandra. Ma quant’a me non mi sovvenne allora
di male nè di peccato ch’unqua avessi fatto, e non pensai se non a
ricevere il colpo della morte, e m’agginocchiai a’ piedi de l’un d’essi
tendendogli il collo, e dicendo queste parole nel fare il segno della
Croce: Così morì Sant’Agnese. Accosto a me agginocchiossi Messer Guido
d’Ebelino Connestabile di Cipri, e si confessò a me, ed io gli donai
tale assoluzione come Dio me ne dava il podere: ma poi di cosa ch’egli
mi avesse detto, quand’io fui levato, unqua non ne ricordai pure un
motto.

Noi fummo allora messi nella sentina della galea tutti a disteso e
stivati, ed argomentavamo molto di noi che non osassero assalirci
tutti a un tratto, ma che indi ci volessero poi trarre l’uno appresso
l’altro ed ucciderci; e fummo a tale miscapito tutta la notte, istando
così strettamente sfratati ch’io aveva i miei piedi a dritta del viso
di Monsignore il Conte Piero di Bertagna, e così li suoi piedi erano
all’indritto del viso mio. Ora avvenne che la dimane noi fummo tratti
fuora di quella sentina, e ci inviarono dire gli Almiranti, che noi
loro andassimo rinovellare le convenenze che avevamo fatte al Soldano.
Quelli ci andarono che poterono andarvi, ma il Conte di Brettagna,
e lo Connestabile di Cipri, ed io, che eravamo grievemente malati,
dimorammo.

Quelli che andarono parlare agli Almiranti, ciò furono il Conte di
Fiandra, il Conte di Soissone, e gli altri cui bastarono le forze,
raccontarono le convenzioni della nostra diliveranza. Per le quali gli
Almiranti promisero che, sì tosto come fusse loro dilivera Damiata,
essi altresì dilivrerebbono il Re e gli altri gran personaggi che erano
prigionieri. E disser loro che se il Soldano fusse vissuto, ch’egli
avrebbe fatto mozzare le teste al Re e a tutti loro; e che già contro
le convenenze fatte e giurate al Re, elli avea fatto ammenare verso
Babilonia alquanti de’ nostri grandi Baroni, e fattiveli uccidere;
e ch’essi l’aveano tratto a morte, per ciò che bene sapevano, che
sì tosto ch’egli arebbe avuto la signoria di Damiata, li farebbe
similmente uccidere tutti o morire di mala morte nelle sue prigioni.
Per questa convenenza il Re doveva giurare in oltre di far loro
satisfazione di due cento mila lire avanti ch’elli partisse del fiume,
e le due altre cento milia, elli le trammetterebbe loro da Acri, e
ch’essi terrebbono per sigurtà di pagamento li malati ch’erano in
Damiata, colle ballestre, lo armamento, gl’ingegni, il carrìno e le
carni salate sino a che il Re, inviando a cherère tutto ciò, inviasse
loro tutto insieme le diretane due cento milia lire dette di sovra.
Il sacramento che doveva esser fatto tra il Re e gli Almiranti fu
divisato. E tale fu quello degli Almiranti che nel caso ch’elli non
tenessono al Re loro convenzioni e promesse, ch’ellino stessi volevano
essere in così onìti e disonorati come quelli che per suo peccato
andavano in pellegrinaggio a Macometto la testa tutta nuda, e come
colui che, lassata la donna sua, la riprendeva appresso. Ed in questo
secondo caso, nullo non poteva, secondo la legge di Macometto, lasciare
la donna sua e poi riprenderla, avanti che elli avesse veduto alcun
altro a giacersi con lei. Finalmente il terzo saramento era ch’ellino
fussero disonorati e disonestati come il Saracino che mangiasse la
carne del porco. E ricevve il Re li saramenti detti di sovra per ciò
che Maestro Nicola d’Acri, che ben sapeva di lor fazioni, gli disse che
più grandi saramenti non potevano essi fare.

Quando gli Almiranti ebbero giurato, elli fecero scrivere e diedero al
Re il saramento ch’e’ volevano che facesse, il quale fue tale per lo
consiglio di alcun cristiano rinegato ch’essi avevano. Che nel caso che
il Re non tenesse loro sue promesse e le convenzioni poste intra loro,
ch’elli fusse separato dalla compagnia di Dio e della sua degna Madre,
dei dodici Apostoli, e di tutti gli altri Santi e Sante del Paradiso.
Ed a quel saramento si accordò il Re. L’altro era che nel caso che lo
Re non tenesse le dette cose, ch’elli fusse riputato ispergiuro come
il Cristiano che ha rinegato Dio, e suo battesimo e sua legge, e che
in dispetto di Dio sputa sulla Croce, ed ischiacciala sotto i piedi.
Quando il Re ebbe udito quel saramento, disse che già nol farebbe egli.

Or quando gli Almiranti seppero che il Re non aveva voluto giurare,
nè fare suo saramento in così a punto come ellino il richerevano,
inviarono essi di verso lui il detto Maestro Nicola d’Acri, a dirgli
ch’essi erano molto malcontenti di lui, e che avevano a gran dispetto
lo aver giurato tutto ciò che ’l Re avea voluto, e che al presente
egli non volea giurare ciò ch’essi gli richerevano. E il detto Maestro
Nicola disse al Re ch’elli avesse ben per certano che s’elli non
giurava a punto così come quelli volevano, ch’essi farebbono tagliar
la testa a lui ed a tutte sue genti. A che il Re rispose che essi ne
potevano fare a loro volontà, ma ch’elli amava troppo meglio morir buon
cristiano che di vivere in corruccio di Dio, di sua Madre e de’ Santi
suoi.

Egli ci avea un Patriarca col Re, che era di Gerusalemme, dell’età di
ottant’anni o intorno; il qual Patriarca aveva altra fiata procacciato
lo assicuramento dei Saracini inverso il Re, ed era venuto appo
esso Re per aiutarlo a sua volta ad avere sua diliveranza inverso
li Saracini. Ora era la costuma intra Pagani e Cristiani, che quando
alcuni Principi erano in guerra l’uno coll’altro, e l’uno si moriva
domentre ch’eglino avessero mandato ambasciadori in messaggio l’uno
all’altro, quegli ambasciadori dimoravano in quel caso prigionieri
ed ischiavi, fosse ciò in Pagania od in Cristianità. E per ciò che il
Soldano, che avea dato sigurtà a quel Patriarca, di cui noi parliamo,
era stato morto, per questa causa dimorò esso prigioniero dei Saracini
altresì bene come noi. E veggendo gli Almiranti che il re non aveva
nulla temenza di loro minacce, l’uno d’essi disse agli altri ch’egli
era il Patriarca che così consigliava il Re: perchè seguitò dicendo,
che se gli volevan credere, ch’elli farebbe bene giurarlo, tagliando
la testa del Patriarca, e facendola volare nel grembo d’esso Re. Di
che avvenne che sebbene gli altri Almiranti non gli tenesser credenza,
pur tuttavia presero il buon uomo del Patriarca, e lo legarono davanti
al Re ad un colonnino le mani dietro il dosso sì strettamente, che
queste gli enfiarono in poco di tempo grosse come la testa, tanto che
il sangue ne isprizzava in più luoghi. E del male ch’egli addurava,
venìa gridando al Re: Ah! Sire, Sire, giurate arditamente, perchè io
ne prendo il peccato sovra me e sovra mia anima, poichè egli è così che
voi avete il desiderio e la volontà di accompire le vostre promesse ed
il giuramento. Or io non so bene se a la fine il giuramento fue fatto;
ma checchè ne sia, gli Almiranti si tennero al postutto contenti de’
giuramenti che il Re e gli altri Signori che là erano fecer loro.


CAPITOLO XXXVI.

Come fummo fatti scendere a valle sino a Damiata, e come questa fue
resa ai Saracini.

Ora dovete sapere che quando i Cavalieri della Halcqua ebbero ucciso
il loro Soldano, gli Almiranti fecero sonare loro trombe e loro
nacchere a gran forza davanti il paviglione del Re. E gli fue detto
che gli Almiranti stessi aveano avuto gran voglia in loro consiglio
di farlo Soldano di Babilonia. Su di che esso Re mi domandò un giorno
s’io pensava punto ch’elli avrebbe accettato il Reame di Babilonia
se glielo avessono offerto. Ed io gli risposi, che non sarebbe
stato sì folle, visto ch’essi avevano così tradito ed ucciso il loro
Signore. Ma non ostante ciò, il Re mi disse ch’elli non l’arebbe mica
rifiutato. E sappiate ch’egli non tenne se non a che gli Almiranti
dissero tra loro che il Re era il più fiero Cristiano ch’essi avessero
giammai conosciuto: e dicevano ciò perchè, quando partiva del suo
alloggiamento, segnava esso innanzi a sè il terreno del santo segno
della Croce, e poi ne segnava altresì tutto suo corpo. E dicevano li
Saracini che se il loro Macometto avesse loro altanto lasciato soffrire
di miscapito, quanto Dio aveva lasciato addurare al Re, che giammai
essi nè l’avrebbon adorato, nè avrebbono creduto in lui. Tantosto
appresso che entro il Re e gli Almiranti furono fatte, accordate e
giurate le convenzioni, fu appuntato tra loro che a l’indimane della
festa dell’Ascensione di nostro Signore, Damiata sarebbe renduta agli
Almiranti, e che li corpi del Re e di tutti noi altri prigionieri
sarebbono diliverati. E furono ancorate le nostre quattro galee davanti
il ponte di Damiata, e là fecero tendere al Re un paviglione perchè vi
potesse discendere ed albergare.

Quando venne il giorno posto, intorno l’ora di Sol levante, Messer
Gioffredo di Sergines andò nella Città di Damiata per farla rendere
agli Almiranti: e tantosto sulla muraglia d’essa Città levaronsi al
vento le armi del Soldano, e v’entrarono dentro li Cavalieri Saracini,
e cominciarono a bere de’ vini che vi trovarono, talmente che molti tra
loro s’inebriaro. E intra gli altri ne venne uno nella nostra galea,
il quale tirò sua spada tutta sanguinente, e ci disse ch’egli ne aveva
ucciso sei di nostre genti: il che era una cosa villana a dirsi da un
Cavaliere non che da altri. E sappiate che la Reina, avanti che render
Damiata, fu ritirata nelle nostre navi con tutte nostre genti, allo
infuori de’ poveri malati ch’e’ Saracini dovean guardare, e renderli
al Re, quando desse loro le dugento mila lire, donde è fatto sovra
menzione: e così l’avevano promesso e giurato li Saracini: e similmente
ci dovevano rendere gl’ingegni, lo arnese e le carni salate di cui essi
punto non mangiano. Ma al contrario la traditrice canaglia uccise tutti
li poveri malati, spezzarono gl’ingegni e l’altre cose che dovevano
guardar salve, e rendere in tempo e luogo, e di tutto feciono una
catasta e vi misero il fuoco, che fu sì grande ch’elli vi bastò tutti i
giorni del venerdì, del sabbato, e della domenica seguenti.


CAPITOLO XXXVII.

Come dopo lunga disputazione fummo finalmente diliverati di prigionia.

Ed appresso ch’elli ebbero così ucciso o spezzato tutto, noi altri che
dovevamo essere diliverati a Sole levante, fummo sino a Sole cadente
senza bere nè mangiare, nè il Re, nè alcuno di noi. E furono gli
Almiranti in disputazione gli uni contro gli altri, e tutti macchinando
nostra morte. L’uno degli Almiranti diceva agli altri: — Signori, se
voi e tutte queste genti che qui siete meco, mi volete credere, noi
uccideremo il Re e tutti questi grandi personaggi che sono con lui.
Perchè allora di qui a quarant’anni noi non n’avremo a guardarcene,
perciò che e’ loro figliuoli sono ancora minorelli, e noi abbiamo
Damiata, sicchè il possiam fare sicuramente. Un altro Saracino che
l’uomo appellava Scebrecy, il quale nativo era di Mauritania, diceva
al contrario e rimostrava agli altri che se essi uccidevano il Re
appresso lo aver ucciso il loro Soldano, sonerebbe per lo mondo che gli
Egiziani erano le genti più malvage e più disleali. E quello Almirante,
che ci voleva fare morire, diceva allo incontro per altre palliate
rimostranze, che veramente s’erano essi mispresi dell’aver ucciso il
loro Soldano, e che ciò era contro il comandamento di Macometto, che
diceva in suo dittato doversi guardare il Signore come la pupilla
dell’occhio; e ne mostrava il comandamento in uno libro che teneva
in sua mano. Ma, aggiungeva egli: ora ascoltate, Signori, l’altro
comandamento, e voltava adunque il foglio del libro, ammonendoli che
Macometto comanda che, ad asseveranza della sua fede, si debba uccidere
lo inimico della Legge. E poi diceva per rivenire alla sua intenza: Or
riguardate il male che noi abbiam fatto d’aver ucciso il nostro Soldano
contra ’l comandamento di Macometto, ed ancora il più gran male che
noi faremmo se noi lasciassimo andare il Re, e non lo uccidessimo, sien
qualsivogliano le sicuranze ch’egli abbia avuto da noi; perchè egli è
desso lo più grande inimico della Legge di Paganìa. Ed a queste parole
a poco presso fu che la nostra morte non venisse accordata. E da ciò
avvenne che l’uno di quegli Almiranti che ci era contrario, pensando
in suo cuore che ci devessono tutti far morire, venne sulla riva del
fiume, e cominciò a gridare in saracinesco a quelli che ci conducevano
nella galea, e colla tovaglia, ch’e’ si levò di testa, loro per di più
accennava, e diceva ch’essi ci rimenassero verso Babilonia. E di fatto
fummo disancorati e risospinti addietro contra monte; donde per entro
noi fu menato un duolo tragrande, e molte lagrime ne uscirono degli
occhi, perchè c’indovinavamo tutti che ci adducessero a mala morte.

Ma così come Dio volle, il quale giammai non obblia i suoi servidori,
egli fu accordato, intorno a Sol cadente, in tra gli Almiranti che
noi saremmo diliberati, e ci fecero rivenire verso Damiata, e furon
messe le nostre quattro galee tutto presso il rivaggio del fiume.
Adunque ci femmo a richierere d’essere messi a terra. Ma i Saracini nol
vollero punto fare sino a che noi avessimo mangiato. E dicevano, che
ciò farebbe onta agli Almiranti di lasciarci uscire di lor prigioni
tutto digiuni. E tantosto ci ferono venire alcune vivande dall’oste,
e ciò furono de’ bitorzoli di formaggio rincotti al sole, affinchè
i vermini non vi incogliessero, e dell’ova dure lessate da quattro o
cinque giorni; e questi, per l’onore di nostre persone, li aveano fatti
alluminare sulle coccia in diversi colori.

E appresso che ci ebbero così pasciuti, ci sposero a terra, e noi ne
andammo di verso il Re, che i Saracini ammenavano del paviglione ove
lo avean tenuto, in contro l’acqua del fiume, e ce n’avea ben venti
mila a piè colle spade cinte. Ora avvenne che nel fiume davanti il Re
si trovò una galea di Genovesi, nella quale non appariva sovra coperta
che un uomo solo; il quale, quando vide che il Re fu a dirimpetto
della sua galea, cominciò egli a fistiare. E tantosto ecco qui sortire
del soppalco della galea bene ottanta ballestrieri bene arnesati, le
loro ballestre tese, e le frecce suvvi. Il che come videro i Saracini,
cominciaro a fuggire a modo di berbici spaurate, nè anche col Re ne
dimoraro più di due o tre. Li Genovesi allora gittarono a terra una
panchetta, e raccolsero il Re, il Conte d’Angiò suo fratello che di
poi fu Re di Cicilia, Monsignor Gioffredo di Sergines, Messere Filippo
di Nemursio, il Maliscalco di Francia, il Maestro della Trinità, e me:
e dimorò prigioniero, a guardia de’ Saracini, il Conte di Poitieri,
sino a che il Re avesse loro pagato le dugento mila lire ch’e’ doveva
sborsare avanti di partire del fiume.


CAPITOLO XXXVIII.

Qui conta come fu lealmente pagato il tanto del riscatto pattuito, e
come femmo vela per Acri di Soria.

Il sabbato d’appresso l’Ascensione, che fu l’indimane che noi eravamo
stati liberati, vennero prendere congedo dal Re, il Conte di Fiandra,
il Conte di Soissone e più altri grandi Signori. Ai quali pregò il Re
ch’e’ volesseno attendere sino a che il Conte di Poitieri suo fratello
fusse diliverato. Ma essi gli risposero ch’egli non era loro possibile,
per ciò che le loro galee erano preste ed apparecchiate a partire.
Ed allora andarono montare nelle galee ed abbrivarono per venire in
Francia. Ed era con essi il Conte Piero di Bertagna, il quale era
grievemente malato, e non visse più che tre settimane, e morì sopra
mare.

Il Re non volle mica lasciare suo fratello il Conte di Poitieri, ma
di presenza volle fare il pagamento delle dugento milia lire; e si
dispose a fare il detto pagamento il sabbato, e tutta la giornata
della domenica. E davansi li danari al peso della bilancia, e valeva
ciascuna bilancia dieci mila lire. Quando venne la domenica a sera le
genti del Re, che facevano il pagamento, gli mandarono che lor falliva
ben ancora trenta mila lire. E col Re non ci avea che suo fratello il
Conte d’Angiò, il Maliscalco di Francia, il Maestro della Trinità, e
me, e tutti gli altri erano a fare il pagamento. Allora io dissi al
Re ch’e’ gli valeva meglio pregare al Comandatore ed al Maliscalco del
Tempio ch’essi gli prestassero le dette trenta mila lire per diliverare
suo fratello. Ma del consiglio ch’io donava al Re mi riprese il Friere
Stefano d’Otricorto che era Comandatore del Tempio, e mi disse: Sire
di Gionville, il consiglio che voi date al Re non vale neente, nè si
è ragionevole; perchè voi sapete bene che noi ricevemo le Comandigie a
giuramento, e così senza che ne possiamo dare le entrate fuor a quelli
che ci hanno fatto giurare. E il Maliscalco del Tempio, pensando di
satisfare il Re, gli diceva: Sire, lasciate in pace le brighe e le
tenzoni del Sire di Gionville e del nostro Comandatore, perchè non
possiamo stornare le entrate nostre senza farci spergiuri. E sappiate
che il Siniscalco vi dice male del consigliarvi, che se noi non ve le
diamo, sì voi le prendiate: ma ciò non ostante voi ne farete a volontà
vostra, perchè, se ’l farete, noi ce ne rivarremo sul vostro che avete
in Acri. E quando io intesi la minaccia ch’essi facevano al Re, io
gli dissi, che io ne andrei bene cherendo s’egli il voleva. Ed egli
mi comandò di così fare; perchè tantosto me ne andai a l’una delle
galee del Tempio, e venni ad un forziere di cui non mi si voleva dare
le chiavi, ed io con una scure che vi trovai feci atto di aprirlo in
nome del Re: il che vedendo il Maliscalco del Tempio, mi fece dar balìa
delle chiavi, ed io aprii il forziere e ne presi la bastanza dello
argento, e lo apportai al Re che molto fu gioioso della mia venuta.
E sì fue fatto ed accompito il pagamento delle dugento milia lire per
la diliveranza del Conte di Poitieri. E avanti che accompire il detto
pagamento alcuni consigliavano al Re ch’elli non fesse del tutto pagare
li Saracini, prima ch’essi gli avessero diliverato il corpo di suo
fratello: ma egli rispondeva, poichè in così avea promesso, ch’egli
loro darebbe tutto il danaro avanti che partire del fiume. E sopra
questa parola Messer Filippo di Monforte disse al Re come avean frodato
li Saracini di una bilancia che valeva dieci mila lire. Donde esso Re
si corrucciò aspramente, e comandò al detto Messer Filippo, sulla fede
che gli doveva come suo uomo ligio, ch’elli facesse tosto pagare le
dette diece mila lire ai Saracini, se essi ne erano in resto, poichè
diceva ch’egli già non si partirebbe sin che non fosse accompito il
sodamento fatto agli Almiranti. Molti delle genti vedendo che ’l Re
era sempre in pericolo da Saracini, lo pregavano sovente ch’elli si
volesse ritirare in una galea che lo attendea in mare, e tanto fecero
che pure in fine vi si trasse, sulla certezza ch’egli d’ogni giuramento
s’era lealmente acchetato. E adunque cominciammo a navigare sul mare
per tempo di notte e vi andammo bene una lega ardita senza poter nulla
dire l’uno a l’altro, del misagio che noi avevamo di aver lasciato
il Conte di Poitieri nella prigione. E non tardò guari che ecco qui
Messer Filippo di Monforte, che era dimorato a fare il pagamento, il
quale gridò al Re: Sire, Sire, ora attendete vostro fratello il Conte
di Poitieri che se ne viene a voi in quell’altra galea. Di che il Re
cominciò a dire alle sue genti che colà erano: Or lume, or lume. E
tantosto ci ebbe gran gioia tra noi tutti della venuta del fratello
del Re: e ci ebbe un povero pescatore che andò dire alla Contessa di
Poitieri, ch’esso avea liberato il Conte delle mani de’ Saracini, ed
ella gli fece donare venti lire di parisini. Ed allora ciascuno montò
in galea e prese il vento.


CAPITOLO XXXIX.

Qui si fa incidenza per contare alquanti fatti che ci avvennero in
Egitto, e che erano stati intralasciati.

Prima di passar oltre non voglio obbliare alcune bisogne che arrivarono
in Egitto immentre che noi ci eravamo. E primieramente vi dirò di
Monsignore Messer Gualtiero di Castillione, del quale udii parlare ad
un Cavaliere che lo avea veduto in una ruga presso Kasel, là ove il Re
fu preso; e si diceva ch’elli aveva sua spada tutta nuda in pugno, e
quando e’ vedeva li Turchi passare per quella ruga, ed elli correa loro
sopra e li cacciava a grandi colpi davanti a lui; perchè avveniva che
in questa caccia li Saracini, traendogli così davanti come di dietro,
lo covrivano tutto di verrettoni. E mi diceva quel Cavaliero che,
quando Messer Gualtiero li aveva così cacciati, ch’elli si disferrava
delle verrette che lo mordevano, e si armava di ricapo. E fu là lungo
tempo così combattendo, e lo vide più volte sollevarsi sulle staffe
gridando: A Castillione, Cavalieri! e: Ove sono i miei prodi? Ma non
vi se ne trovava pur uno. Ed uno giorno appresso, come io era collo
Ammiraglio delle galee, m’inchiesi a tutte sue genti d’arme, s’egli
ci avea nullo che ne sapesse dire alcune novelle. Ma io non ne potei
giammai savere neente, fuori a una volta ch’io trovai un Cavaliere
che avea nome Messer Giovanni Frumonte, il quale mi disse che, quando
ammenavanlo prigioniere, elli vide un Turco montato sul cavallo di
Messer Gualtieri di Castillione, e che il cavallo avea la colliera
tutta sanguinente; ed egli gli domandò cosa fosse divenuto il Cavaliere
a chi era il cavallo. E il Turco gli rispose ch’esso gli avea tagliata
la gorgia tutto di sopra ’l suo cavallo, di che esso cavallo era in
così sanguinoso, e imbruttito.

Vi dirò anche ch’elli ci avea un molto valente uomo in nostra oste, che
avea in nome Messer Giacomo del Castello Vescovo di Soissone, il quale
quando vide che noi ne rivenivamo verso Damiata, e che ciascuno se ne
volea ritornare in Francia, amò meglio nel suo gran cuore di rimanere a
dimorare con Dio, che rivedere il luogo dove era nato; e s’andò soletto
a gittare didentro i Turchi, come s’egli li avesse voluti combattere
tutto solo: ma tantosto l’inviarono a Dio, e lo misero nella compagnia
de’ Martiri, perch’essi lo uccisono in poco d’ora.

Un’altra cosa vidi, in quella che ’l Re attendeva sul fiume il
pagamento ch’elli facea fare per riavere suo fratello il Conte
di Poitieri; e questa fu che venne al Re un Saracino molto bene
abbigliato, e molto bell’uomo a riguardare. E presentò al Re del lardo
strutto in orciuoli, e dei fiori di diverse maniere, i quali erano
molto odoranti, e gli disse: ch’egli erano i figliuoli di Nazac Soldano
di Babilonia ch’era stato ucciso, che gli facevano il presente. Quando
il Re udì quel Saracino parlar francesco, gli domandò chi glielo aveva
sì bene appreso. Ed egli rispose che esso era Cristiano rinegato. E
incontinente il Re gli disse, ch’e’ si tirasse a parte e al tutto fuori
di sua presenza, poichè non gli sonerebbe più motto. Allora, trattolo
disparte, lo inchiesi come egli avea rinegato, e donde era. E quel
Saracino mi disse ch’egli era nato di Provino, e venuto in Egitto col
fu Re Giovanni, ch’era maritato in Egitto e che vi avea di molti beni.
Ed io gli soggiunsi: E non sapete voi a bastanza che, se moriste in tal
punto, voi discenderete tutto dritto in inferno, e vi sarete dannato
per sempre? Ed egli mi rispose: che certo sì, e che sapea bene com’egli
non ci fosse legge migliore di quella de’ Cristiani; ma, parlò egli:
io temo, se riedessi verso voi, la povertà ove sarei, e gl’infami
rimprocci che l’uomo mi darebbe tutto il lungo della mia vita,
appellandomi Rinegato, Rinegato. Pertanto io amo meglio vivere a mio
agio e ricco, che divenire in tal punto. Ed io gli rimostrai ch’egli
valeva troppo meglio temere l’onta di Dio e quella di tutto il mondo,
quando, al finale Giudicamento, tutti misfatti saranno manifestati a
ciascuno, e poi appresso essere dannati senza ritorno. Ma tutto ciò
non mi servì di niente, ed anzi se ne partì da me, ed unqua più non lo
vidi.


CAPITOLO XXXX.

Di ciò che avvenne in Damiata alla buona Dama Madonna la Reina.

Qui davanti avete udito le grandi persecuzioni e miserie che ’l buon
Re San Luigi e tutti noi abbiamo sofferte ed addurate oltre mare.
Ora anche sappiate che la Reina, la buona Dama, non ne iscapolò punto
senza averne la parte sua, e ben aspra al cuore, siccome udirete qui
appresso. Perchè tre giorni avanti ch’ella partorisse, le vennero le
amare novelle che ’l Re suo buon barone era preso. Delle quali novelle
ella ne fu così turbata in suo corpo, ed a sì grande misagio, che
senza posa in suo dormire le sembrava che tutta la camera fusse piena
di Saracini venuti per ucciderla, e senza fine gridava: a l’aiuto
a l’aiuto, là dove anche non c’era anima. E di grande paura che il
frutto ch’ella portava non ne perisse, faceva durare tutta notte un
Cavaliero al piede del suo letto senza dormire. Il qual Cavaliero era
provato ed antico di ottant’anni e più: ed a ciascuna fiata ch’ella
isgridava, ed egli la tenea per mezzo le mani, e le diceva: Madonna la
Reina, state, io sono con voi, non aggiate paura. E avanti che la buona
Dama, infantando, si dovesse giacere, ella fece vuotar la camera de’
personaggi che vi erano, fuor che di quel vecchio Cavaliere, e quando
fu sola con lui, gli si gittò innanzi a ginocchi, e lo richiese che
le donasse un dono. E il Cavaliere glielo ottriò per suo sagramento.
E la Reina gli va dire: Sir Cavaliere, io vi richieggo sulla fede
che voi m’avete donata, e per la fede che dovete al Re mio e vostro
Signore, che se i Saracini prendessono Damiata, durante il tempo di
mio giacere, che voi mi tagliate il capo avanti ch’essi possano toccare
al mio corpo. E il Cavaliere con sereno viso le rispose, ch’egli molto
volentieri il farebbe, e che già avea avuto in pensiero di così fare se
il caso fosse accaduto.

Nè tardò guari che la Reina isgravossi nel detto luogo di Damiata d’un
figliuolo ch’ebbe in nome Giovanni, ed in suo sovranome Tristano, per
ciò ch’egli era nato in tristezza ed in povertà. E il proprio giorno
ch’ella isgravossi, fulle detto che tutti quelli di Pisa e di Genova,
e tutta la povera Comune che era nella Città, se ne volevano fuggire
e lassare il Re. E la Reina li fece venire davanti il suo letto e
loro domandò e disse: Signori, per la Dio mercè vi supplico ch’egli
vi piaccia non abbandonar mica questa Città, perchè voi sapete bene
che Monsignore lo Re, e tutti coloro che sono con lui sarebbono tutti
perduti: e tuttavia s’egli non vi viene a piacere di così fare, almeno
aggiate pietà di questa povera cattiva Dama che costì giace, e vogliate
tanto attendere ch’ella sia rilevata. E coloro le rispuosono, ch’egli
non era possibile, e ch’essi morrebbono tutti di fame in così fatta
cittade. Ed ella loro rispose ch’e’ già non vi morrebbon di fame, e
ch’ella farebbe accattare tutta la vittovaglia che si potrebbe trovare
nella cittade, e ch’ella li terrebbe oggimai alle spese del Re. E
così le convenne fare, e fece comprare di vittovaglia ciò ch’uomo
ne potè trovare, ed in poco di tempo, avanti il suo rilevamento le
costò trecensessanta mila lire e più per nodrire quelle genti; e ciò
non ostante convenne alla buona Dama levarsi avanti il suo termine, e
ch’ella andasse ad attendere nella Città d’Acri, per ciò che bisognava
rilasciare Damiata ai Turchi ed ai Saracini.


CAPITOLO XXXXI.

Qui dice il conto come ’l Re sofferse disagio in nave, e come io ebbi
in Acri molte tribolazioni.

Dovete anche sapere che sebbene il Re avesse sofferto molto di male,
ancora quand’egli entrò nella sua nave, le genti sue non gli avevano
niente apparecchiato, come di robbe, letto, sdraio, nè altro bene
o conforto alcuno; ma gli convenne giacere per sei giorni sulle
materassa, sino a ciò che fussimo in Acri. E non aveva il Re nullo
abbigliamento che due robbe che il Soldano gli avea fatto tagliare,
le quali erano di sciamito nero foderate di vajo e di piccol grigio,
con bottoni d’oro a fusone. Immentre che noi fummo sovra mare e che
andavamo in Acri, io mi sedeva sempre appresso il Re, perciò che era
malato. Ed allora mi contò elli come era stato preso, e come avea
poscia procacciato la sua redenzione e la nostra per lo aiuto di Dio.
E similmente gli venni io contando come era stato preso sull’acqua, e
come un Saracino m’avea salvato la vita: sul che il Re mi diceva che
grandemente era tenuto a Nostro Signore, quando elli mi avea stratto di
così greve pericolo. Ed intra l’altre cose il buon santo Re lamentava
a meraviglia la morte del Conte d’Artese suo fratello, perchè un
giorno domandò che facesse l’altro suo fratello il Conte d’Angiò, e si
dolse ch’egli non gli tenesse mai altrimenti compagnia, tuttocchè elli
fussono insieme in una galea. Rapportarono allora al Re ch’egli giucava
alle tavole con Messer Gualtiero di Nemorso. E quand’ebbe ciò inteso,
si levò egli, e, vagellando per la grande fievolezza di malattia,
cominciò ad andare, e quando fu sopra loro, prese i dadi e le tavole,
e tutto gittò in mare, e si corrucciò fortemente al fratello di ciò
ch’egli s’era sì tosto preso a giucare ai dadi, e che altrimenti non
gli sovvenìa più della morte di suo fratello il Conte d’Artese, nè de’
perigli da’ quali Nostro Signore graziosamente li aveva diliberati. Ma
Messer Gualtiero di Nemorso ne fu il meglio pagato, perchè il Re gittò
tutti i danari suoi ch’egli vide sul tavolieri, appresso i dadi e le
tavole, in mare.

E qui diritta voglio io ben raccontare alcune grandi persecuzioni e
tribolazioni che mi sovvennero in Acri, delle quali i due, in chi aveva
perfetta fidanza, mi diliverarono; ciò furo Nostro Signore Iddio e la
benedetta Vergine Maria. E ciò dico io a fine d’ismuovere coloro che
l’intenderanno ad avere altresì perfetta fidanza in Dio, e pazienza
nelle loro avversità e tribolazioni, ed elli âterà loro così come ha
fatto a me molte fiate. Or dunque diciamo, siccome allora che ’l Re
giunse in Acri quelli della cittade lo vennero ricevere sino alla riva
del mare con loro processioni a gioia e passa gioia. E ben tosto il Re
m’inviò cherère, e mi comandò espressamente, su quel tanto ch’io avea
caro suo amore, ch’io dimorassi a mangiare con lui sera e mattina, sin
ch’egli avesse avvisato se noi ne anderemmo in Francia, o dimoreremmo
colà. Io fui alloggiato presso il Curato di Acri, là ove il Vescovo di
detto luogo m’avea statuito lo alloggiamento, e là io caddi grievemente
malato: e di tutte mie genti non mi rimase un valletto solo, chè
tutti dimoraro al letto malati come me. E non ci avea anima che mi
riconfortasse d’una sol volta a bere; e per meglio allegrarmi tutti i
giorni io vedeva per una finestra ch’era nella mia camera, apportare
ben venti corpi morti alla Chiesa per interrarli: e quando io ne udia
cantare _Libera me_, mi prendea a plorare a calde lagrime, in gridando
a Dio mercè, e che suo piacer fosse il guardar me e le mie genti di
quella fiera pistolenza che vi regnava; e così graziosamente Egli fece.


CAPITOLO XXXXII.

Come ’l Re tenne consiglio del ritornare in Francia o del rimanere in
Terra Santa, e come s’attenne al rimanere.

Tantosto appresso il Re fece appellare i suoi fratelli e ’l Conte di
Fiandra, e tutti gli altri gran personaggi che avea con lui a certo
giorno di domenica. E quando tutti furono presenti, egli loro disse:
Signori, io v’ho fatto cherère per dire a voi delle novelle di Francia.
Egli è vero che Madama la Reina mia madre mi ha mandato ch’io me ne
venga frettolosamente, che ’l mio Reame è in grande periglio, perchè
non ho pace nè tregua col Re d’Inghilterra. Ed egli è vero altresì che
le genti di questa terra mi vogliono guardare dello andarmene, dicendo
che s’io me ne vo, adunque la loro terra sarà perduta e distrutta,
e ch’essi se ne verranno tutti appresso me. Pertanto vi prego che ci
vogliate propensare, e che dentro otto giorni me ne rendiate risposta.

La domenica seguente tutti ci presentammo davanti ’l Re per donargli
risposta di ciò ch’elli ci avea incaricato dirgli, intorno la sua
andata, o la sua dimorata. E portò per tutti la parola Monsignore
Messer Guido Malvicino, e disse così: Sire, i Monsignori vostri
fratelli, e gli altri personaggi che qui sono, hanno riguardo al vostro
Stato, ed hanno conoscenza che voi non avete punto podere di dimorare
in questo paese all’onore di Voi ed al profitto del Reame vostro.
Perchè in primiero luogo di tutti vostri Cavalieri che ammenaste
in Cipri, di due mila ottocento, egli non ve ne è anche dimorato
un centinaio. Per altra parte Voi non avete punto di abitazione in
questa terra, ed altresì vostre genti non hanno punto nullo danaio.
Perchè tutto considerato e propensato, tutti insieme vi consigliamo
che Voi andiate in Francia a procacciare genti d’arme e danari, perchè
rifornitovene possiate sollicitamente rivenire in questo paese per
vendicanza prendervi degl’inimici di Dio e di sua Legge.

Quando il Re ebbe udito il consiglio di Messer Guido, egli non fu punto
contento di ciò, anzi dimandò in particolare a ciascuno ciò che ben
gli sembrava di questa materia, e primieramente al Conte d’Angiò, al
Conte di Poitieri, al Conte di Fiandra, e agli altri gran personaggi,
i quali erano davanti a lui, li quali tutti risposero ch’essi erano
dell’opinione di Messer Guido Malvicino. Ma ben fu costretto il Conte
di Giaffa, che aveva delle castella oltre mare di dire la sua opinione
in questo affare; il quale, appresso il comandamento del Re, disse che
la sua opinione era che, se il Re poteva tenere alloggiamento in campo,
sarebbe stato di suo grande onore il dimorare, più che il ritornarsene
così a maniera di vinto. Ed io ch’era a punto il quattordicesimo là
assistente, risposi alla mia volta, che teneva l’opinione del Conte di
Giaffa. E dissi per mia ragione, correr voce che ’l Re non aveva ancor
messo nè impiegato alcun danaro di suo tesoro, ma che avea solamente
dispeso quello de’ Maestri Cherci delle sue finanze; e che per ciò
esso Re doveva inviare a cherère nei paesi della Morea e d’oltre
mare, Cavalieri e genti d’armi a buon numero, e che quando s’udrà dire
ch’egli largheggia di gaggi, avrà tantosto ricovrato genti da tutte
parti, perchè potrà esso Re diliverare tanti poveri prigionieri, che
sono stati presi al servigio di Dio e suo, che giammai non usciranno
di lor prigioni s’egli se ne va senz’altro così. E sappiate che della
mia opinione non fui io mica ripreso, ma molti si presero a piangere,
perchè non ci avea guari colui, il quale non avesse alcuno de’ suoi
parenti cattivo nelle prigioni de’ Saracini. Appresso me, Monsignor
Guglielmo di Belmonte disse che la mia opinione era assai buona, e
ch’e’ s’accordava a ciò ch’io avea detto. Appresso queste cose, e che
ciascuno ebbe ordinatamente risposto, il Re fu tutto turbato per la
diversità delle opinioni di suo Consiglio, e prese termine d’altri
otto giorni per dichiarare ciò ch’elli ne vorrebbe fare. Ma ben dovete
sapere, che quando noi fummo fuori della presenza del Re, ciascuno de’
Signori mi cominciò ad assalire, e mi diceva per dispetto ed invidia:
Ah! certo il Re è folle, s’egli non crede a voi, Sire di Gionville, per
disopra tutto il Consiglio del Reame di Francia. Ed io me ne tacqui, e
stetti chiotto e pacioso.

Tantosto le tavole furono messe per andare a mangiare. Aveva sempre il
Re in costume di farmi sedere alla sua tavola, se i fratelli suoi non
vi fussono, ed anche usava in mangiando dirmi sempre alcuna cosa. Ma
in quell’ora unqua motto non mi sonò, nè volse il viso verso di me.
Allora mi pensai ch’elli fusse mal contento di me, perciò che aveva
detto ch’e’ non avea ancora dispeso di suo tesoro, e che ne dovea
dispendere largamente. Ed in così, com’elli ebbe reso grazie a Dio
appresso suo desinare, io m’era ritirato ad una finestra ferrata ch’era
presso il capezzale del letto del Re, e teneva le braccia passate
per le barricelle dell’inferrata tutto pensivo: e diceva in mio cuore
ch’ove il Re se n’andasse a questa fiata in Francia, che io men’andrei
verso il Principe d’Antiochia, il quale era di mio parentado. Ed in
così com’io era in tale pensiero, il buon Re si venne ad appoggiare
sulle mie spalle, e mi tenea la testa per di dietro alle sue due mani.
Ed io feci stima che fusse Monsignor Filippo di Nemorso che m’avea
fatto troppo di noia quella giornata per lo consiglio ch’io avea
donato; e cominciai a dirgli: Lasciatemi in pace Messer Filippo, in
mala avventura che vi colga. E tornai il viso, ed il Re mi vi passò
sovra le mani, e tantosto io seppi bene ch’elle erano le mani del Re
ad uno smeraldo che aveva al dito, e me ne ismossi confuso come colui
ch’avea mal parlato. E il Re mi fece dimorare tutto chiotto e poi
mi va a dire: Venite qua, Sire di Gionville, come siete voi stato sì
ardito di consigliarmi, contro tutto il Consiglio dei grandi personaggi
di Francia, voi che siete giovine uomo, che io deggia dimorare in
questa terra? Ed io gli risposi, che s’io lo aveva ben consigliato,
ed egli credesse al mio consiglio; se male, non vi credesse punto e
lo rifiutasse. Allora elli mi domandò, s’egli dimorasse, s’io vorrei
dimorare con esso lui: Ed io risposi, che sì certamente, fosse ciò a
mio spendio o all’altrui. Ed allora il Re mi disse che buon grado mi
sapeva di ciò ch’io gli avea consigliato la dimoranza, ma che non lo
dicessi a nessuno. Donde per tutta quella settimana io fui sì gioioso
di ciò che m’avea detto, che nullo male più mi gravava, e mi difendeva
arditamente contro gli altri Signori che me ne assalivano. E sappiate
che l’uomo appella i paesani di quella terra _Pullani_[79], e fu
avvertito Messer Piero d’Avallone, che era mio cugino, che mi si dava
per istrazio un siffatto appellativo, perch’io aveva consigliato al Re
la sua dimora coi Pullani. Perchè esso mi mandò ch’io me ne difendessi
contro i linguardi, e dicessi loro ch’io amava meglio esser Pullano che
Cavalier ricreduto com’essi erano.

Passata la settimana e venuta l’altra domenica, tutti ritornammo di
verso il Re, e quando noi fummo presenti, egli cominciò a segnarsi
del segno della Croce, soggiugnendo che ciò era lo insegnamento di sua
Madre, la quale gli aveva appreso che qualora volesse qualche parola
dire ch’egli così facesse, ed invocasse lo aiuto di Dio e dello Spirito
Santo; e tali furono le parole del Re: Signori, io ringrazio voi che
mi avete consigliato d’andarmene in Francia, e parimente ringrazio voi
che mi consigliaste ch’io dimorassi in questo paese. Ma mi sono dappoi
avvisato che, quando io dimorassi, non per ciò il mio Reame ne sarebbe
in maggior periglio, perchè Madama la Reina mia Madre ha assai genti
per difenderlo; ed ho altresì avuto riguardo al detto dei Cavalieri di
questo paese, i quali affermano, che s’io mi metto in via, il Reame di
Gerusalemme sarà perduto, perciocchè non vi dimorerà nullo appresso
la mia partenza. Pertanto ho io fatto stima che son qui venuto per
guardare esso Reame di Gerusalemme dall’essere interamente conquiso, e
non punto per lasciarlo perdere, talchè, Signori, io vi dico, che se
v’ha tra voi tutti chi voglia dimorar meco, si dichiari arditamente,
ed a questi io prometto che donerò tanto, che la coppa sarà loro non
mia[80], ed altresì facciano quelli che non vorranno dimorare, e dalla
parte di Dio possano essi compiere il lor volere. Appresso queste
parole, molti ce n’ebbe d’isbaìti, e che cominciarono a piangere a
calde lagrime.


CAPITOLO XXXXIII.

Come ’l Re tenne a suo spendio me e la mia bandiera sino al tempo di
Pasqua a venire.

Dopo che ’l Re ebbe dichiarato la sua volontà, e che sua intenzione
era di dimorar là, elli ne lasciò venire in Francia i suoi fratelli. Ma
io non so punto bene se ciò fu a loro richiesta, o per la volontà del
Re, e fu al tempo intorno alla San Giovanni Battista.[81] E tantosto
appresso che i suoi fratelli furono partiti da lui per venirne in
Francia, il Re volle sapere come le genti, ch’erano dimorate con lui,
aveano fatto diligenza di ricovrar genti d’arme. E il giorno della
festa di Monsignor Santo Jacopo, di cui io era stato pellegrino per
lo gran bene ch’e’ m’avea fatto, dopo che ’l Re, la messa udita, s’era
ritratto in sua camera, appellò de’ suoi principali di consiglio, ciò
furono Messer Piero Ciambellano, che fu il più leale uomo e il più
dritturiere ch’io vedessi unqua nella magione del Re, Messer Gioffredo
di Sergines il buon Cavaliero, Messer Gille il Bruno il buon produomo,
e le altre genti di suo Consiglio, colle quali era altresì il buon
produomo a chi il Re avea donato la Connestabilìa di Francia appresso
la morte di Messer Imberto di Belgioco. E loro domandò ’l Re quali
genti e qual numero essi avevano ammassato per rimetter su il suo
esercito, e siccome scorrucciato diceva loro: Voi ben sapete ch’egli
ha un mese, o intorno, ch’io vi dichiarai che la mia volontà era di
rimanere, e non ho ancora udito alcune novelle che voi abbiate fatto
arma di Cavalieri nè d’altre genti: così fu che gli rispose Messer
Piero Ciambellano per tutti gli altri: Sire, se noi non abbiamo ancora
fatto niente di ciò, egli è per non potere; poichè senza falta ciascuno
si fa sì caro, e vuol guadagnare sì gran prezzo di gaggi, che noi non
oseremmo prometter loro di dare ciò ch’essi dimandano. E il Re volle
savere a chi essi aveano parlato, ed anche chi erano coloro i quali
domandavano sì grossi gaggi. E tutti risposero che era io, e che non
voleva star contento alla mezzolanità. Ed io udiva tutte queste cose
istando nella camera del Re, e ben sappiate che gli dicevano tali
parole di me le genti sunnominate di suo Consiglio, per ciò che gli
avea consigliato, contro la loro opinione, ch’elli dimorasse, e che del
ritornare in Francia non fosse niente. Allora mi fece appellare il Re,
e tantosto andai a lui, e me gli gittai davanti a ginocchi; ed elli mi
fece levare e sedere; e quando fui assiso, mi va a dire: Siniscalco,
voi sapete bene ch’io ho sempre avuto fidanza in voi, e vi ho tanto
amato, e tuttavolta le mie genti m’han rapportato che voi siete sì duro
ch’essi non vi possono contentare di ciò che vi prometton di gaggi, or
come è ciò? Ed io gli risposi: Sire, io non so a punto ciò ch’essi vi
rapportino, ma quanto è di me, s’io dimando buon salario, non ne posso
altro; perchè voi sapete bene che quando fui preso sull’acqua, allora
io perdei quanto che avea, senza che mi dimorasse nulla dal corpo in
fuori, e per ciò non potrei io intertenere mie genti a poco di cosa.
E ’l Re mi domandò quanto io voleva avere per la mia compagnia sino
al tempo di Pasqua a venire[82], che erano li due terzi dell’annata.
Ed io gli dimandai due mila lire. Or mi dite, parlò il Re, avete
qualche Cavaliero con voi? Ed io gli risposi: Sire, ho fatto dimorare
Messer Piero di Pontemolano ed altri due Banneretti, che mi costano
quattrocento lire ciascuno. E allora contò il Re sulle sue dita, e
mi disse: Sono dunque milla e dugento lire che vi costeranno i vostri
Cavalieri e lor genti d’arme. Al che soggiunsi: Or riguardate pertanto,
Sire, s’egli non farà d’uopo di ben ottocento lire per montarmi di
arnesi e cavalli, e per dare a mangiare ai miei Cavalieri sino al tempo
di Pasqua? Allora il Re disse alle genti di suo Consiglio ch’egli non
vedeva punto in me d’oltraggio nè di dismisura, e mi va a dire, ch’elli
mi riteneva a suo spendio.


CAPITOLO XXXXIV.

Di tre Imbasciate che vennero al Re in Acri.

Tantosto appresso non tardò guari che lo Imperatore Federigo di Lamagna
inviò un’Ambasciata di verso il Re, e per sue lettere di credenza
diceva commente elli andava a scrivere al Soldano di Babilonia, di
cui mostrava ignorare la morte, sì ch’elli credesse alle genti sue che
inviava verso di lui, e, che ad ogni modo liberasse il Re, e’ Crociati
di cattivitade. E molto bene mi sovviene come alquanti dissero che
punto non avrebbon voluto che l’Ambasciata di quello Imperador Federigo
li avesse trovati tuttavia prigionieri; perchè essi si dubitavano
che ciò facesse quell’Imperadore per farci sostenere più strettamente
e per meglio ingombrarci. Ma quando essi ci ebbero trovati diliveri
ritornarono prestamente verso il loro Signore.

Parimente appresso quell’Ambasciata, venne al Re l’Ambasciata del
Soldano di Damasco sino in Acri, e per quella esso Soldano si lagnava
degli Almiranti di Egitto ch’aveano ucciso il Soldano di Babilonia,
il quale era suo cugino; e gli prometteva che se il volea soccorrere
contro di loro, che elli gli rilascierebbe il Reame di Gerusalemme
ch’esso tenea. Il Re rispose alle genti del Soldano, si ritirassono
ai loro alloggiamenti, ed esso di breve farebbe risposta a ciò che il
Soldano gli mandava; e così se ne andarono a prendere stanza. E subito
appresso ch’essi furono alloggiati, il Re trovò in suo Consiglio,
ch’egli invierebbe la risposta al Soldano di Damasco per mezzo di un
proprio messaggere, e trametterebbe con essi un Religioso, che avea
nome Frate Ivo il Bretone, il quale era dell’Ordine de’ Fratelli
Predicatori. E tantosto fue fatto venire Frate Ivone, e il Re inviollo
verso gli Ambasciadori del Soldano a dire che ’l Re voleva ch’e’ se
n’andasse con loro a Damasco per rendere la risposta ch’esso Re inviava
al Soldano, e ciò perch’egli intendeva e parlava il saracinesco. E così
puntualmente fece il detto Fra’ Ivo. Ma ben voglio qui raccontare una
cosa che udii dire al medesimo Frate, la quale è che, andandosene dalla
magione del Re allo alloggiamento degli Ambasciadori del Soldano, trovò
per mezzo la ruga una femmina molto antica, la quale portava nella
sua mano destra una scodella piena di fuoco, e nella mano sinistra una
fiala piena d’acqua. E Frate Ivo le domandò: Femmina, che vuoi tu fare
di questo fuoco e di quella acqua che tu porti? Ed ella gli rispose che
del fuoco volea bruciare il paradiso, e dell’acqua voleva stutare lo
inferno, affinchè giammai non ne fusse più nè dell’uno nè dell’altro.
E ’l Religioso le domandò, perchè ella diceva tali parole. E colei
gli rispose: Per ciò ch’io non voglio mica che nullo faccia giammai
bene in questo mondo per averne il Paradiso in guiderdone, nè così che
nullo si guardi di peccare per iscuriccio del fuoco infernale. Ma ben
lo dee uom fare per lo intiero e perfetto amore che noi debbiamo avere
al nostro creatore Sire Iddio, il quale è lo bene sovrano, e che ci ha
amato tanto ch’elli s’è sottomesso a morte per nostra redenzione, e per
detergere lo peccato del nostro archiparente Adamo, e così menarci a
salvezza.

Infrattanto come lo Re soggiornò in Acri vennero di verso lui li
Messaggeri del Principe de’ Beduini, che si appellava il Vecchio della
Montagna. E quando il Re ebbe udito sua messa al mattino, elli volle
udire ciò che li detti messaggeri avevano in loro mandato, ed essi
venuti davanti il Re, furono fatti assedere per dire il messaggio; e
cominciò un Almirante che là era di domandare al Re s’elli conosceva
punto Messere il Principe della Montagna. E lo Re gli rispose, che
no, perchè, non l’aveva visto giammai, ma bene aveva udito parlare
di lui. E lo Almirante disse al Re: Sire, poi che voi avete udito
parlare di Monsignore, io mi meraviglio molto che voi non gli abbiate
inviato tanto del vostro che voi ne aggiate fatto un vostro amico, in
così che fanno lo Imperadore di Lamagna, il Re d’Ungheria, il Soldano
di Babilonia, e più altri Re e Principi grandi, tutti gli anni, per
ciò ch’essi conoscono bene che senza lui essi non porriano durare nè
vivere, se non tanto ch’elli piacerebbe a Monsignore; e per ciò ci ha
inviati elli di verso voi, per dire ed avvertirvi che ne vogliate fare
così, o per lo meno che lo facciate tener quieto del tributo ch’elli
deve ciascun anno al Gran Maestro del Tempio, ed allo Spedale, e ciò
facendo egli si terrà a pagato da voi. Ben dice Monsignore che s’elli
facesse uccidere il Maestro del Tempio o dello Spedale, che tantosto
e’ ce n’arebbe un altro altresì buono, e per ciò non vuole elli mica
mettere sue genti in avventura di periglio, ed in luogo dove non vi
saprebbe niente guadagnare. Il Re loro rispose ch’e’ si consiglierebbe,
e ch’essi rivenissero sulla sera di verso lui, ed allora ne renderebbe
risposta.

Quando si venne al vespro, e ch’elli furono rivenuti davanti il
Re, essi trovarono con lui il Maestro del Tempio da una parte, e il
Maestro dello Spedale dall’altra. Allora il Re disse loro che di ricapo
dicessero il loro caso e il dimando che avean fatto al mattino. Ed essi
rispuosono ch’e’ non erano punto consigliati di dirli ancora una fiata,
fuorchè davanti quelli stessi ch’erano presenti al mattino. E allora li
Maestri del Tempio e dello Spedale loro comandarono fieramente ch’essi
li dicessero ancora una fiata. E lo Almirante obbedì ripetendo ciò
ch’avea detto al mattino davanti ’l Re tutto così com’è contenuto di
sopra. Appresso la qual cosa li Maestri disser loro in saracinesco che
venissero al mattino a parlare con essi, e che n’avrebbono tutt’insieme
la risposta del Re. Perchè al mattino quando furono davanti li gran
Maestri suddetti, questi loro dissero, che molto follemente e troppo
arditamente il loro Sire avea mandato al Re di Francia tali cose e
tanto dure parole, e che se non era per l’onore del Re, e per ciò
ch’elli erano venuti davanti a lui come messaggeri, li farebbono essi
tutti annegare e gittar nel cupo del mare d’Acri in dispetto del loro
Signore. Perchè vi comandiamo, soggiunsero li Gran Maestri, che voi
ve ne ritorniate verso il vostro Signore, e che dentro quindici giorni
apportiate al Re lettere del vostro Principe, per le quali esso Re sia
contento di lui e di voi. E veramente entro la prescritta quindicina
li messaggeri di quel Principe della Montagna rivennero di verso il
Re e gli dissero: Sire, noi siamo rivenuti a voi da parte del nostro
Sire, il quale vi manda che tutto siccome la camicia è lo abbigliamento
il più presso del nostro corpo, così similmente vi invia egli la sua
camicia che qui vedete, donde elli vi fa un presente, in significanza
che voi siete quel Re, cui egli ama a più avere in amore, e ad
intertenere. E per più grande assicuranza di ciò, vedete qui il suo
annello ch’elli v’invia, che è di fino oro, e nel quale è inscritto il
suo nome: e di questo annello vi disposa il nostro Sire, e intende che
da oggi mai siate con lui tutto a uno come le dita della mano. E intra
l’altre cose inviò quel Vecchio della Montagna al Re uno elefante di
cristallo, e figure d’uomini di diverse fazioni in cristallo, e tavole
e scacchi altresì, il tutto fatto a rifioriture d’ambra rilegate sul
cristallo a belle roselline e giràli di oro puro. E sappiate che sì
tosto che i messaggeri ebbero aperto l’astuccio ove erano gli donativi,
tutta la camera fu incontanente imbalsamata del grande e soave olore
che sentivano quelle cose.


CAPITOLO XXXXV.

Nel quale si ritrae ciò che Frate Ivo il Bretone raccontò del Veglio
della Montagna.

Il Re, che voleva guiderdonare il presente che gli avea fatto il
Vecchio Prenze della Montagna, gl’inviò per suoi messaggeri e per
Frate Ivone il Bretone, che intendeva il saracinesco, gran quantità
di vestimenta di scarlatto, coppe d’oro ed altro vasellame d’ariento.
E quando Frate Ivo fu di verso il Prenze de’ Beduini, parlò con lui,
e lo inchiese di sua legge. Ma, siccome rapportò al Re, trovò ch’elli
non credeva punto in Macometto, e ch’e’ credeva nella legge d’Haly,
ch’egli diceva essere stato avoncolo di Macometto. E contava che quello
Haly mise Macometto nell’onore in che fu in questo mondo, e che quando
Macometto ebbe bene conquiso la signoria e preminenza del popolo, elli
si dispettò e s’allontanò da Haly suo avoncolo. Perchè, quando Haly
vide la fellonia di Macometto, e ch’e’ cominciava forte a soppiantarlo,
tirò a sè del popolo quanto ne potè avere, e lo menò abitare a parte
ne’ deserti delle montagne d’Egitto, e là cominciò loro a fare e a
donare un’altra legge che quella di Macometto non era; sicchè quelli
là, i quali di presente tengono la legge d’Haly, dicono tra loro
che quelli i quali tengono la legge di Macometto sono miscredenti;
e simigliantemente al contrario dicono li Maomettani che li Beduini
sono miscredenti, e ciascun d’essi dice il vero, perchè l’uno inverso
l’altro miscrede.

L’uno de’ punti e comandamenti della legge d’Haly si è tale: che quando
alcun uomo si fa uccidere per accompire la volontà del suo Signore,
l’anima di lui, che così è morto, va in un altro corpo più agiato, più
bello e più forte ch’elli non era il primiero, e perciò non tengono
conto li Beduini della Montagna del farsi uccidere per far lo volere
del lor Signore, credendo al fermo che la lor anima si torni in altro
corpo là ove è più a suo agio che davanti. L’altro comandamento di sua
legge si è che null’uomo non può morire che sino al giorno che gli è
determinato, ed in così il credono li Beduini ch’essi non si vogliono
armare quando vanno in guerra, e, se il facessono, penserebbero
fare contro il suddetto comandamento; perchè, ove maledicano a’ lor
figliuoli, dicon loro: maledetto sia tu come l’uomo che s’arma per
paura di morte. La qual cosa essi tengono a grande onta; ed è grande
errore, perchè sembrerebbe che Iddio non avesse podere di allungarci od
abbreviarci la vita, e ch’e’ non fusse onnipossente, ciò che è falso,
perchè la tutta possanza è in Lui solo.

E sappiate che quando Frate Ivo il Bretone fu inverso il Veglio della
Montagna, là ove il Re l’aveva inviato, trovò egli al capezzale del
letto di quel Principe un libretto, nel quale ci aveano per iscritto
molte belle parole che nostro Signore altra fiata aveva dette a
Monsignore San Pietro, durante ch’elli era in terra ed innanzi la sua
passione. E quando Frate Ivo le ebbe lette, egli disse: Olà, Sire,
molto fareste bene se voi leggeste sovente questo picciolo libro,
perchè egli ci ha di assai buone scritture. E il Vecchio della Montagna
gli rispose: che sì faceva egli, e che avea molto gran fidanza in
Monsignore San Pietro. E diceva che al cominciamento del mondo l’anima
di Abele, allorchè suo fratello Caino l’ebbe morto, entrò nel corpo
di Noè, e che l’anima di Noè, appresso la morte sua, rivenne nel
corpo d’Abramo, e che di poi l’anima di Abramo è venuta nel corpo di
Monsignore San Pietro, il quale ecci in terra tuttavia. Quando Frate
Ivo lo udì parlare così, gli rimostrò che sua credenza non valeva
niente, e gl’insegnò molti detti belli e veritevoli, toccanti le
comandamenta d’Iddio, ma unqua non ci volle credere. E diceva Frate
Ivo, siccome gli udii contare al Re, che quando quel Prenze de’ Beduini
cavalcava ai campi, elli avea un uomo davanti a lui che portava la
sua azza d’arme, la quale aveva il manico coverto d’argento e tutto
intorniato di coltelli trincianti. E colui che portava l’azza, gridava
in suo linguaggio ad alta voce: Tornatevi addietro, fuggitevi dinanzi
Colui che porta la morte dei Re entro sue mani.


CAPITOLO XXXXVI.

Come il buon Re ponesse condizioni di tregua ed alleanza cogli
Almiranti d’Egitto contro ’l Soldano di Damasco, e come gli Almiranti
sapessero non menarle a conchiusione.

Ritornando alla prima materia, io vi avea lasciato a dire la risposta
che ’l Re mandò al Soldano di Damasco, la quale fu tale, cioè che ’l Re
invierebbe agli Almiranti d’Egitto per sapere s’essi il rileverebbono,
e gli renderebbono la tregua che gli avevan bensì promessa, ma cui
avevan già rotta come è detto davanti; e che, se essi ne mantenessero
il rifiuto, assai volentieri il Re lo aiterebbe a vendicare la morte di
suo cugino il Soldano di Babilonia ch’essi avevano morto.

Perchè, appresso ciò, il Re, durante ch’elli era in Acri, inviò Messer
Giovanni di Vallanza in Egitto verso gli Almiranti per inchiedere
che essi satisfacessero gli oltraggi e violenze fatti al Re, tanto
ch’e’ ne fusse contento. Ciò che gli Almiranti gli promisero fare
purchè il Re si volesse alleare ad essi, ed aiutarlo allo ’ncontro
del Soldano di Damasco dianzi nomato. E per ammollire il cuore del
Re, appresso le grandi rimostranze che Messer Giovanni di Vallanza il
buon produomo lor fece, biasimandoli e vituperandoli così dei torti
commessi come delle tregue e convenenze rotte, inviarono essi al Re
e liberarono di lor prigioni tutti i Cavalieri che distenevano in
cattività. E così gl’inviarono l’ossa del Conte Gualtieri di Brienne,
il quale era morto captivo, affinchè e’ fusse sepolturato in terra
santa. Ed ammenonne Messer Giovanni duecento Cavalieri, ed altra gran
quantità di popolo minuto che tutti erano prigionieri dei Saracini. E
quando elli fu venuto in Acri, Madama di Saetta, ch’era cugina germana
del detto Messer Gualtieri di Brienne, prese l’ossa del detto suo
cugino e le fece sepolturare nella Chiesa dello Spedale d’Acri bene e
onorabilmente, e vi fece fare un servigio grande a meraviglia, in tal
maniera che ciascun Cavaliero offrì un cero ed un danaio d’argento;
ed il Re offrì un torcetto con un bisante alla moneta di Madama di
Saetta: donde ciascuno si meravigliò, perchè giammai non se gli era
veduto offrire danaio alcuno che non fusse di sua moneta, ma il Re sì
il volle fare per sua cortesia. Tra i Cavalieri che Messer Giovanni
di Vallanza rammenò d’Egitto io ne conobbi ben quaranta della Corte
di Sciampagna, i quali erano tutti diserti e male attornati; e tutti
questi quaranta io feci abbigliare e vestire a’ miei danari di cotte e
sorcotti di verde, e li menai davanti il Re pregandolo che li volesse
tutti ritenere in suo servigio. E quando il Re ebbe udito la richiesta
egli non mi disse un motto qualunque. E fuvvi uno delle genti di suo
Consiglio che là era, il quale mi riprese dicendo ch’io facea molto
male quando apportava al Re tali novella, poichè nello stato suo ci
avea già eccesso di spendio di più che sette mila lire. Ed io gli
risposi che la mala ventura il faceva così parlare, poichè in tra noi
di Sciampagna avevamo ben perduto in servigio del Re trentacinque
Cavalieri tutti portanti bandiera; e dissi altamente che ’l Re non
facea punto bene se non li ritenea, visto il bisogno ch’elli aveva
di Cavalieri; e ciò dicendo, per pietà della mia contrada, cominciai
a plorare. Allora il Re m’appaciò, e m’ottriò quello che gli avea
domandato, e ritenne tutti quei Cavalieri, e me li mise nella mia
battaglia.

Quando ’l Re ebbe udito parlare li messaggeri degli Almiranti d’Egitto
che erano venuti con Messer Giovanni di Vallanza, e ch’essi se ne
vollero ritornare, il Re disse loro ch’e’ non farebbe con essi nissuna
tregua prima che gli avesser rendute tutte le teste de’ Cristiani
morti che pendevano sulle mura del Cairo sino dal tempo che i Conti di
Bari e di Monforte furono presi, e ch’essi gl’inviassero altresì tutti
i fanciulli che, cattivati in poca età, essi aveano fatto rinegare
e credere alla lor legge. Inoltre voleva esser tenuto quieto delle
dugento mila lire che loro doveva anche. E per tutto ciò rinviò con
essi il detto Messer Giovanni, attesa la grande saggezza e valenza
che era in lui, per annunciare da parte sua un tale messaggio agli
Almiranti.

Durante queste cose il Re si partì d’Acri e se n’andò a Cesarea con
tutto ciò ch’elli avea di genti, e vi fece rifare le mura e le bastite
che i Saracini avevano rotte e abbattute, ed era a ben dodici leghe
d’Acri tirando verso Gerusalemme. E ben vi dico ch’io non so come e’ vi
potesse fare tutto ciò che fecevi, se non per la benedetta volontà di
Dio; perchè unqua durante l’annata e il tempo che ’l Re fu a Cesarea,
non ci ebbe mai nullo che ci facesse alcun male, nè in Acri similmente,
là ove noi non eravamo guari di gente[83].


CAPITOLO XXXXVII.

Dove si fa incidenza per porre in conto ciò che i nostri Messaggeri
ritrassono dei Tartarini e del loro Gran Re.

Per di verso il Re erano venuti, com’io ho già detto davanti, li
Messaggeri del Gran Re di Tartaria durante che noi eravamo in Cipri.
E dissono al Re ch’elli erano venuti per aiutarlo a conquistare il
Reame di Gerusalemme sovra i Saracini. Il Re li rinviò, e con essi due
notabili Frati Predicatori che tutti a due erano Preti. E gli inviò una
Tenda-Cappella d’iscarlatto nella quale egli fece tirare all’ago tutta
nostra credenza, l’Annunciazione dell’Agnolo Gabriello, la Natività,
il Battesimo, la Passione, l’Ascensione, e lo Avvenimento del Santo
Spirito: e con essa donò calici, libri, ornamenti, e tutto ciò che
fa bisogno a cantare la messa. Ora qui vi ritrarrò io quello che di
poi udii dire al Re di ciò che gli avevano riportato li detti Frati
Predicatori che aveva inviati. Li messaggeri mossero sopra mare da
Cipri e andarono a prender riva al porto di Antiochia. E dicevano che
dal porto di Antiochia sino al luogo dov’era il Gran Re di Tartaria,
essi misero bene un anno di tempo, e facevano dieci leghe per giorno.
E trovarono tutta la terra ch’essi cavalcarono suggetta ai Tartarini.
Ed in passando per lo paese scontravano in molti luoghi, ed in cittadi
ed in ville, grandi tumuli di ossame di genti morte. Li messaggeri del
Re s’inchiesero, come essi erano venuti in sì grande autoritade, e come
avean potuto soggiogare tanto di paese, e distrurre e confondere tante
genti come si pareva ai monticelli dell’ossa. E i Tartarini loro ne
dissero la maniera, e primamente ritrassero di lor nascenza. Dicevano
dunque ch’essi erano venuti, nati e concreati d’una gran landa di
sabbione, là ov’egli non crescea nullo bene. E cominciava quella landa
di sabbia ad una roccia, la quale era sì grande e sì meravigliosamente
alta, che nullo uomo vivente non la poteva giammai passare, e si
levava di verso Oriente. E loro dissero li Tartarini che intra quella
roccia ed altre rocce, che si lievano più là verso la fine del mondo,
erano inchiusi li popoli di Gog e Magog, i quali dovevano uscirne sul
finire del secolo con l’Anticristo, quando elli verrebbe per tutto
distruggere. E di quella erma landa venivano i popoli de’ Tartarini,
i quali erano suggetti al Prete Janni d’una parte, ed allo Imperadore
di Persia dall’altra; ed erano ancora tra più altri miscredenti, a’
quali, per venir sofferti, essi rendevano grandi tributi e tollette
ciascun anno, anche per lo pasturaggio di loro bestie, donde essi
solo vivono e fan proveccio. E dicevano li Tartarini che quello Prete
Janni, lo Imperadore di Persia e gli altri Re a chi dovevano li detti
tributi, li avevano in sì grande orrore e despitto, che quando portavan
loro le rendite ed i fii, essi non li volevan ricevere di cospetto, ma
loro tornavano il dosso per vilipendio e ischifanza. Donde avvenne che
una fiata intra l’altra, un savio uomo di lor nazione cercò tutte le
lande, e andò parlare qua e là agli uomini de’ luoghi, e loro rimostrò
il vile servaggio in che essi erano verso molti Signori, pregandoneli
che volessero, per qualche consiglio, trovar maniera ch’e’ potessero
sortire del miscapito in che giacevano.

Ed in effetto fece tanto quel saggio uomo ch’egli assembrolli a
certo giorno a capo di quella landa di sabbia alla indritta della
terra del Prete Janni, e appresso molte rimostranze che quel savio
uomo loro ebbe fatte, essi s’accordarono a fare tutto quanto elli
vorrebbe, richerendolo che divisasse ciò che buono gli sembrava
per venire al fine di ciò che diceva loro. Ed egli allora rispose
ch’essi non potrebbono niente fare se non avevano un Re che ne fusse
Maestro e Signore, e cui essi obbedissero e credessero a fare ciò
ch’egli loro comanderebbe. E la maniera di fare il Re fu tale: che
di cinquantadue generazioni ch’essi erano di Tartarini, egli fece
che ciascuna di quelle generazioni gli apporterebbe una saetta, la
quale sarebbe segnata del segno e nome della sua generazione. E fu
accordato per tutto il popolo che così si farebbe, e così fue fatto.
Poi le cinquantadue saette furono messe davanti un fanciullo di
cinque anni, e della generazione della quale sarebbe la saetta che il
fanciullo leverebbe, fu stabilito sarebbe fatto il loro Re. Quando
il fanciullo ebbe levato l’una delle cinquantadue saette, che sortì
quella della generazione donde era quel savio uomo, questi fece tirare
e mettere addietro tutte le altre generazioni. E poi appresso, di
quella generazione donde era stata la saetta che il fanciullo aveva
levata, fece eleggere, con esso lui, cinquanta due uomini de’ più savii
e valenti che fussono in essa. E quando furono così eletti, diede a
ciascuno a parte la sua saetta, e la segnò del nome di ciascuno; poi
fattone il fascio, ne fece di nuovo levare una a quel fanciullino di
cinque anni, statuendo che colui a chi sarebbe la saetta levata dal
fanciullo, quegli sarebbe loro Re e loro Signore. E per sorte avvenne
che il fanciullo levò la saetta di quel saggio uomo il quale così li
aveva insegnati; donde tutto il popolo fue molto gioioso; e ne menò
gioia e passa gioia. Ed allora egli li fece tacere, e disse loro:
Se voi volete ch’io sia vostro Signore sì giurerete per Colui che
ha fatto il cielo e la terra, che voi terrete ed osserverete i miei
comandamenti: ed essi tutti il giurarono.

Appresso queste cose egli loro donò ed istabilì degli insegnamenti
che furono molto buoni per conservare il popolo in pace gli uni cogli
altri. L’uno degli stabilimenti ch’egli loro donò fu tale: che nullo
non prenderebbe il bene altrui oltre suo grado o ad inganno. L’altro
fu tale: Che l’uno non colpirebbe l’altro s’elli non volesse perderne
il pugno. L’altro fu tale: Che nullo per violenza non arebbe compagnia
della donna o della figliuola d’altri s’e’ non volesse perderne la
vita. E più altri belli insegnamenti e comandamenti loro donò per aver
pace insieme ed amore.

E quando egli li ebbe così insegnati ed aordinati, cominciò a rimostrar
loro come il più antico nimico ch’elli avessono fusse il Prete Janni,
e come li aveva egli in grande odio e despitto da lungo tempo. E
perciò, disse egli, io vi comando a tutti che dimane siate presti
ed apparecchiati per corrergli sopra. E s’egli avviene ch’egli ci
disconfigga, donde Dio ci guardi, ciascuno faccia del meglio ch’e’
potrà; e se noi lo disconfiggiamo, io vi comando che l’incalzo duri
sino alla fine, e fusse anche sino a tre giorni e a tre notti, senza
che nullo non sia sì ardito di mettere la mano a nullo guadagno, non
intendendo ma che a gente tagliare e mettere a morte: perchè appresso
che noi aremo avuto piena vittoria de’ nostri antichi nimici, io vi
dipartirò il guadagno sì bene e lealmente che ciascuno se ne terrà a
pagato e contento. E tutti s’accordaro a ciò fare molto volentieri.

La dimane venuta, siccome essi avean deliberato di fare, così fecero,
e incorsero strettamente sui loro nimici, ed anche, siccome Iddio
volle che è onnipossente, essi li menarono a disconfittura, e quanti
ne trovarono in arme, tanti ne uccisero: ma quelli che trovarono
portanti abiti di Religione, ed i Preti, non uccisero punto; sicchè
tutto l’altro popolo delle terre del Prete Janni che non era stato
in battaglia, si arrese ad essi chiedendo mercè, e si mise in lor
suggezione.

Una meravigliosa cosa avvenne appresso quella conquista; ciò fu che
l’uno de’ Gran Maestri d’una delle generazioni dinanzi nomate, fu
perduto ed assente dal popolo dei Tartarini per tre giorni senza che
se ne avesse od udisse alcuna novella. E quando e’ fu rivenuto, a capo
de’ tre giorni, rapportò al popolo ch’egli non pensava aver dimorato
più che una sera, e che non aveva indurato sete nè fame. E raccontava
ch’elli era salito su un monte il quale era alto a meraviglia, e
che sovra quel monte egli avea trovato gran quantità delle più belle
genti che avesse giammai vedute, e le meglio vestite e aornate; e nel
mezzo del monte ci aveva uno Re assiso, il quale era il più bello a
riguardare di tutti gli altri, ed il meglio parato, ed era in un trono
rilucente a meraviglia, il quale era tutto d’oro. Alla sua destra aveva
sei Re coronati e parati di pietre preziose, ed aitanti ce n’avea
alla sua sinistra. Presso di lui alla destra mano ci avea una Reina
agginocchiata, che gli diceva e pregava ch’e’ pensasse del popol suo.
Alla mano sinistra era agginocchiato altresì un bellissimo damigello,
il quale aveva due ali così risplendenti come il Sole; e tutt’intorno
a quel Re erano belle genti alate a fusone. Ed il Re appellò quel
savio uomo, e gli disse: Tu sei venuto dell’oste de’ Tartarini? Sire,
sì, diss’egli, io ne son uno. Ebbene tu vi tornerai, e dirai al Re
di Tartaria che tu hai veduto me che sono Signore del Cielo e della
Terra, e ch’io gli mando ch’egli mi renda grazie e lodi della vittoria
ch’io gli ho donato sul Prete Janni e sopra sua gente: e gli dirai di
mia parte ch’io gli do possanza di mettere in sua suggezione tutta la
terra. Sire, disse quel Gran Maestro de’ Tartarini, come me ne crederà
egli il Re di Tartaria? Tu gli dirai ch’egli ti creda a tali insegne,
che tu ti anderai combattere allo Imperadore di Persia con trecento
uomini di tue genti, e che da parte mia tu vincerai lo detto Imperatore
che si combatterà a te con trecento mila Cavalieri, ed uomini d’arme,
e più. E avanti che tu vada combattere lo Imperadore di Persia, tu
chiederai al Re di Tartaria ch’egli ti doni tutti li Preti, ed uomini
di Religione, che sono dimorati tra quelli là ch’esso ha preso in
mercè dopo la battaglia del Prete Janni, e ciò ch’essi ti diranno e
testimonieranno, tu il crederai; perciocch’essi sono delle mie genti
e servitori. Sire, disse quel savio uomo, io non me ne saprei andare,
se tu non mi fai far la condotta. E allora il Re si tornò ed appellò
una delle sue belle creature alate, e gli disse: Vien qua, Giorgio, fa
di condurre quest’uomo sino alla sua albergheria, e rendivelo tosto e
a salvezza. E tantosto fu trasportato quel saggio uomo de’ Tartarini
nell’oste loro. Quando elli vi fu reso, e che tutto il popolo e le
genti dell’oste lo videro, ne fecero grande allegrezza, ed egli senza
dimora domandò al Re di Tartaria che gli donasse li Preti ed uomini
di Religione come gli aveva insegnato il Re che trovò nell’alto del
monte. Ciò che gli fu ottriato. E dibonaremente ricevve quel Gran
Maestro dei Tartarini e tutte le genti sue l’insegnamento di coloro
che gli eran stati donati, e tutti si fecero battezzare. E quando
tutti furono battezzati, egli prese solamente trecento de’ suoi uomini
d’arme, e li fece confessare ed apparecchiare. E di là se n’andò egli
assalire lo Imperadore di Persia, e lo convinse e discacciollo fuori
dell’Impero suo e di sua terra, sicchè se n’andò fuggendo sino al Reame
di Gerusalemme. E fu colui che dipoi disconfisse le nostre genti, e
prese il Conte Gualtieri di Brienne così come udirete qui appresso. Il
popolo di questo Principe Cristiano si moltiplicò talmente e venne a
sì gran numero, siccome poscia udii dire ai messaggeri che il Re aveva
inviato in Tartaria, ch’essi aveano contato nell’oste sua ben ottocento
Cappelle tutto levate sui carri.


CAPITOLO XXXXVIII.

Di alcuni Cavalieri stranii che vennero al Re a Cesarea, e di ciò ch’e’
feciono e raccontarono.

Or rivenendo dopo il trascorso a nostra materia, diremo così. Domentre
che il Re faceva asserragliare Cesarea, di cui vi ho parlato davanti,
venne ad esso Re un Cavaliero che si nomava Messer Elinardo di
Seningaan, il quale diceva ch’egli era partito del Reame di Norone[84],
e là montato sovra mare, era venuto passando ed accerchiando tutta la
Spagna e intromettendosi per lo stretto di Marocco, e che a molto greve
periglio e dannaggio egli avea passato tutto ciò, e soffertovi molto
di male avanti ch’elli potesse venire sino a noi. Il Re ritenne quel
Cavaliere con altri nove alla sua bandiera, ed io gli udii dire che le
notti nella terra del Reame di Norone erano sì corte nella State, che
egli non ce n’avea alcuna, nella quale, anco nel suo più fitto, il lume
del giorno non bruzzolasse. Or quando quel Cavaliero si fu adusato al
paese si prese colle sue genti a cacciare al Lione; e molti ne presero
perigliosamente ed in gran risico di loro corpi. Ed il modo, con che
essi menavano la detta caccia, era ch’essi correvano su ai lioni a
cavallo, e trovatone alcuno, il colpivano d’arco o di balestra, di che
il Lione ferito correva alla sua volta su il primo ch’esso vedeva, e
questi se ne fuggiva piccando degli speroni, e lasciando cadere a terra
alcuna coverta, od una pezza di qualche vecchio drappo, ed il superbo
animale apprendevala ed isquarciavala, credendo in essa tener l’uomo
che l’avea colpito. Ed in quella che il lione s’arrestava a sdrucire
la vecchia schiavina, gli altri uomini gli tiravano nuove frecciate,
perchè la fiera lasciava lo sdrucio del pannuccio e correva su ’l suo
nuovo uomo, il quale s’infuggiva altresì, ed altresì lasciava cadere
un altro vecchio drappo, cui il lione similmente isquattrava; e così
facendo soventi fiate, essi uccidevano finalmente la bestia di loro
frecce. Un altro Cavaliere molto nobile venne al Re, durante che era
a Cesarea, il quale si diceva essere di quelli di Toucy. E diceva
il Re che quel Cavaliere era suo cugino, perciò ch’era disceso d’una
delle sorelle di Re Filippo, che lo Imperadore di Costantinopoli ebbe
a donna. Lo qual Cavaliere il Re ritenne per un anno con altri nove
Cavalieri alla sua bandiera; ed appresso l’anno passato, egli se ne
ritornò in Costantinopoli donde era venuto. Ed a quel Cavaliere udii
dire e ritrarre al Re che lo Imperatore latino di Costantinopoli e le
sue genti si allearono una fiata ad un Re, che l’uomo appellava il Re
de’ Commani, per avere l’aita loro a conquidere lo Imperadore di Grecia
ch’avea in nome Vatacio. E diceva quel Cavaliere che il Re del popolo
dei Commani, per avere sigurtà e fidanza fraterna dell’Imperadore
di Costantinopoli, e per l’uno l’altro soccorrersi, volle ch’essi,
e ciascuno delle lor genti d’una parte ed altra, si facessero punger
le vene e che si dessero a vicenda a bere del sangue loro in segno di
fratellanza, dicendo ch’essi erano così d’uno sangue e fratelli. E così
convenne egli fare tra le nostre genti e le genti di quel Cavaliere, e
mescolarono del sangue loro con vino, e propinandolo l’uno all’altro,
dissero allora che eran fatti fratelli d’un sangue solo. Ed ancora
fecero essi un’altra cosa, cioè feciono passare un cane tra essi e le
genti nostre, drittamente spartite, e poscia ispezzarono tutto il cane
di loro spade pronunciando a gran voce: così sieno ispezzati quelli che
falliranno gli uni agli altri.

Un’altra grande e meravigliosa cosa contò al Re quel Cavaliere di
Toucy; e diceva che nel paese del Re dei Commani era morto un gran
ricco tenitore di terre e Principe, al quale, quando e’ fue morto, fu
fatta in terra una gran fossa molto larga e molto cupa, e fu assiso
quel morto in una cadiera molto nobilmente parata ed ornata. E con esso
lui fu disceso in quella fossa ed il miglior cavallo ch’elli avesse e
l’uno de’ suoi sergenti, tutti vivi l’uomo e ’l cavallo. Ed aggiungeva
che ’l sergente, avanti che entrar nella fossa, prese congedo dal Re
e dagli altri gran personaggi che là erano, e che ’l Re gli diede oro
e argento a fusone addogandoglielo al collo, e facendogli promettere
che, quando sarebbe nell’altro mondo, gliel renderebbe, il che il pro
sergente gli promise. Ed appresso il Re gli diede lettere indiritte al
primiero Re che fu de’ Commani, mandandogli per le stesse, che quel
produomo aveva molto bene vissuto e bene lo avea servito, pel che
pregavalo che bene altresì il volesse guiderdonare. Dopo di che essi
covrirono la fossa sull’uomo morto, e sul sergente e cavallo tutti
vivi, di grosse tavole incavigliate, ed innanzi il dormire, in memoria
e rimembranza di coloro ch’essi aveano interrato, levarono sul tavolato
della fossa una gran montagna di pietre e di terra.


CAPITOLO XXXXIX.

Delle nuove convenenze ch’io feci col Re appresso la Pasqua venuta, e
della Giustizia ch’io vidi fare a Cesarea.

Quando venne il tempo che noi fummo presso di Pasqua, io mi partii
da Acri, e andai a vedere il Re a Cesarea ch’e’ facea rimurare ed
asserragliare. E quando fui verso lui, lo trovai nella sua camera
parlando col Legato ch’era sempre stato seco oltremare. E quando egli
mi vide, lasciò il Legato, e venendo verso di me, mi va a dire: Sire di
Gionville, egli è ben vero ch’io non vi ho ritenuto che sino a Pasqua
vegnente, e ciò pertanto vi prego mi diciate quanto io vi donerò da
Pasqua sino a un anno prossimo a venire. Ed io gli risposi che già non
era mica venuto di verso lui per tal cosa mercatantare, e che de’ suoi
danari non ne voleva io più, purch’egli mi facesse altro mercato ed
altra convenzione: cioè ch’elli non si corruccerebbe di cosa ch’io gli
domandassi, il che faceva sovente, ed io all’incontro gli prometteva,
che di ciò ch’egli mi rifiuterebbe, alla mia volta non mi corruccerei
punto. Quando egli ebbe udito la mia domanda, si cominciò a ridere, e
mi disse ch’e’ mi teneva a tal convenente e patto. E mi prese allora
per la mano, e mi menò davanti il Legato e ’l suo Consiglio, e loro
recitò la convenzione di lui e di me, e ciascuno fu gioioso ch’io
dimorassi.

Qui appresso udirete le giustizie e’ giudicamenti ch’io vidi fare a
Cesarea, immentre che il Re vi soggiornò. La prima giustizia fu d’un
Cavaliere, il quale venne preso al bordello, ed a cui si partì un
giuoco: o che la ribalda, colla quale era stato trovato, menerebbelo
per mezzo l’oste in camicia, una corda legata alle sue vergogne, della
qual corda la ribalda terrebbe l’un de’ capi; o, s’egli non volesse
tale cosa soffrire, ch’egli perderebbe suo cavallo, sue armi ed arnese,
e sarebbe iscacciato e fuorbandito dell’oste del Re. Il Cavaliere
elesse che amava meglio perdere il cavallo e le armadure, e se ne partì
in farsetto dell’oste. Quando io vidi che ’l cavallo fu confiscato al
Re, glielo richiesi per uno de’ miei Cavalieri povero gentiluomo. Ma
il Re mi rispose che la mia inchiesta non era punto ragionevole per
ciò che il cavallo valeva bene da ottanta a cento lire, il che non era
piccola somma: ed io gli dissi: Sire, voi avete rotte le convenenze
d’intra voi e me, quando vi corrucciate di ciò ch’io v’ho richiesto.
E ’l Re si prese a ridere, e mi disse: Sire di Gionville, voi direte
tutto quanto vorrete, ma non per ciò riuscirete a farmi salire in
corruccio: e così messa la cosa in badalucco, io non ebbi punto il
cavallo pel povero gentiluomo.

La seconda giustizia ch’io vidi fu d’alcuni miei Cavalieri, i quali per
un tal dì andarono cacciare ad una bestia che l’uomo appella Gazella, e
che è del sembiante di un cavriuolo; ed i Frieri dello Spedale andarono
all’incontro de’ miei Cavalieri, e sì combatterono ad essi talmente
che fecer loro grandi oltraggi. Per li quali oltraggi io me n’andai
querelare al Maestro dello Spedale, e menai con me i Cavalieri ch’erano
stati oltraggiati. E quando il Maestro ebbe udito la mia querela, mi
promise di farmene la ragione secondo il dritto e l’usaggio di Terra
Santa, che tale era, ch’elli farebbe mangiare i Frieri ch’avean fatto
l’oltraggio, sovra i loro mantelli, e quelli a chi l’oltraggio era
stato fatto, vi si troverebbono, e leverebbono i mantelli de’ Frieri.
Avvenne che il Maestro dello Spedale fece mangiare i Frieri ch’avean
fatto l’oltraggio sovra i loro mantelli; ed io mi trovai là presente
coi Cavalieri, e richiedemmo al Maestro ch’e’ facesse levare i Frieri
di su i mantelli, ciò ch’egli pensò rifiutare; ma nella fine forza fu
che così facesse, perchè noi ci assidemmo coi Frieri per mangiare con
loro, ed essi nol vollero sofferire, e bisognò ch’essi si levassero
di con noi per andare a mangiare cogli altri Frieri alla tavola, e ci
lasciarono i lor mantelli.

L’altra giustizia fu per uno dei Sergenti del Re, che aveva in nome il
Golato, il quale mise la mano sovr’uno de’ miei Cavalieri e lo scrollò
rudemente. Io me n’andai querelare al Re, il quale mi disse che di ciò
io me ne poteva ben diportare, visto che ’l Sergente non avea fatto
ma che iscrollare il mio Cavaliere. Ed io gli risposi, che non me ne
diporterei già, ma piuttosto gli lascierei suo servigio s’egli non mi
faceva giustizia, poichè non apparteneva a sergente di metter mano nei
cavalieri. Il che avendo il Re udito, mi fece tosto diritto, il quale
fu tale, che, secondo l’usanza del Paese, il Sergente venne al mio
albergo tutto scalzato e in camicia ed aveva una spada in suo pugno;
e vennesi agginocchiare davanti il Cavaliere che avea oltraggiato, e
gli tese la spada pel pomello, e gli disse: Sir Cavaliere, io vi grido
mercè di ciò ch’io ho messo le mani in voi, e vi ho apportata questa
spada, ch’io vi presento, affinchè voi me ne tagliate il pugno, s’egli
farlo vi piace. Allora io pregai il Cavaliere che gli perdonasse suo
maltalento, ed egli il fece. E più altri diversi giudicamenti vi vidi
fare secondo i dritti e gli usaggi di Terra Santa.


CAPITOLO L.

Delle tregue ed alleanze cogli Almiranti d’Egitto contro ’l Soldano
di Damasco, le quali tuttavia non approdaro a compimento, e di ciò che
avvenne sotto Giaffa.

Voi avete davanti udito come il Re avea mandato agli Almiranti d’Egitto
che s’essi nol satisfacessero degli oltraggi e delle violenze che gli
avean fatte, ch’elli non loro terrebbe alcuna tregua: ora sappiate che
in quella vennero diverso lui li messaggeri d’Egitto, e gli apportaro
per lettere che gli Almiranti gli volevano fare tutto ciò ch’egli avea
loro mandato, siccome è detto davanti. Perchè il Re ed essi messaggeri
presero giornata di trovarsi insieme a Giaffa; e là dovevano giurare
gli Almiranti e promettere al Re ch’essi gli renderebbono il Reame
di Gerusalemme: e così ’l Re e suoi più grandi personaggi dovevano
giurare e promettere da lor parte ch’essi aiuterebbero agli Almiranti
all’incontro del Soldano di Damasco. Ora avvenne che quando il Soldano
di Damasco seppe che noi eravamo alleati con quelli d’Egitto, e seppe
la giornata ch’era stata presa di trovarsi a Giaffa, inviò egli ben
venti mila Turchi per guardare il passaggio. Ma non pertanto non lasciò
punto il Re ch’e’ non si movesse per andare a Giaffa. E quando il Conte
di Giaffa vide che ’l Re veniva, assortì egli e mise il suo castello in
tal punto ch’e’ bene rassomigliava una buona città difendevole, perchè,
tra ciascun merlo interposti, ci avea bene cinquecento uomini che su vi
parevano con una targa ciascuno ed un pennoncello a sue armi, il che
donava una fiera e bellissima vista: perchè le sue armi erano di fino
oro a una croce di rosso appastato, e fatte molto riccamente. Noi ci
alloggiammo ai campi tutto allo ’ntorno di quel castello di Giaffa, che
sedeva lato lato il mare e in una penisola. E fece cominciare il Re a
far asserragliare ed edificare un borgo allo ’ntorno del castello sì
che il serraglio toccava il mare dai due lati; ed agli operai diceva ’l
Re per aggiugnere cuore: Or sù, or sù, ch’ho pur io molte fiate portato
la gerla per guadagnare il perdono. Gli Almiranti d’Egitto non osarono
venire di paura delle genti che il Soldano di Damasco aveva messo alla
guardia de’ lor passaggi, ma ciò non ostante inviarono al Re tutte le
teste de’ Cristiani ch’essi avevano appese sulle mura del Cairo siccome
il Re gli domandava, ed il Re fecele sepolturare in terra benedetta;
e gl’inviarono tutti i fanciulli ch’essi avevano ritenuto, e che avean
già fatto rinegare la santa legge di Dio, e, similmente inviarongli un
Elefante che fu poscia in Francia frammesso.

Così come il Re a tutta sua oste soggiornava a Giaffa per
fortificarvisi contro coloro che potessero assalirlo al castello,
vennergli novelle che di già le genti del Soldano di Damasco erano sui
campi in aguato, e che l’uno degli Almiranti del Soldano era venuto
falciare e guastare le biada d’una rinchiostra colà presso, e distante
solo intorno a tre leghe dall’oste sua. Perchè esso Re prestamente ci
inviò vedere, ed andovvi in persona; ma sì tosto che quel Almirante
ci sentì venire, egli cominciò a prender la fuga. Taluni di nostre
genti corsero loro appresso a briglie abbattute, e ci fu un giovine
Gentiluomo che li raggiunse, e mise per terra due Turchi a bella
punta di lancia e senza ispezzarla. E quando lo Almirante vide che
non ci avea ancora che quel Gentiluomo, egli si tornò verso lui, ed il
Gentiluomo tuttavia in corsa gli diede un sì gran colpo di lancia che
ferillo aspramente dentro suo corpo, e poi se ne ritornò a noi sano e
balioso.

Quando gli Almiranti d’Egitto seppero che il Re e tutta sua oste
erano a Giaffa, essi inviarono verso lui per aver di ricapo un’altra
assegnazione del giorno in ch’essi potessero convenirlo senza falta
veruna. E il Re loro assegnò ancora una giornata nella quale essi
promisero di venire di verso lui per conchiudere le cose che erano a
farsi d’una e d’altra parte. Durante quel tempo che noi attendevamo
a venire la suddetta giornata, il Conte d’Eu venne di verso il Re
ed ammenò con lui il buon Cavaliere Arnoldo di Guynes e i suoi due
fratelli con altri otto Cavalieri, che il Re ritenne al suo servigio;
e là esso Re fece il Conte d’Eu Cavaliere, il quale era tuttavia un
giovine damigello.

Similmente vennero diverso il Re il Principe d’Antiochia e sua Madre.
Ai quali il Re fece grande onore e liete accoglienze, e fece Cavaliere
il detto Principe, il quale non era che dell’età di sedici anni, ma con
tutto ciò io non vidi unqua sì saggio in età parecchia: perchè quando
fu Cavaliere, egli richiese al Re di parlargli intorno qualche cosa
ch’ei voleva sporre in presenza di sua Madre: ciò che gli fu ottriato.
E tale fu la sua dimanda: Sire, egli è ben vero che Madama mia Madre,
la quale è qui presente, mi tiene in sua balìa, e mi vi terrà ancora
sino a quattro anni a venire, dacchè ella gode di tutte le cose mie, ed
io non ho possanza ancora di nulla fare. Tuttavolta m’è avviso ch’ella
non debba mica lasciar perdere nè decadere la mia terra e città, perchè
la mia città di Antiochia si perde entro sue mani: pertanto, Sire,
io vi supplico umilmente che gliele vogliate rimostrare, e far tanto
ch’ella mi dia denari e genti, affinchè io vada a soccorrere il mio
popolo che è didentro la mia città, siccome ella lo doveva ben fare.
Appresso che il Re ebbe inteso la domanda che il Principe gli moveva,
fece egli e procacciò tanto a sua Madre ch’ella gli donò in effetto
molti danari. Di che poi se n’andò il giovine Principe d’Antiochia
alla sua città, là ove egli fece meraviglie. E da allora, per l’onore
del Re inquartò egli le sue armi, che sono di vermiglio, colle armi di
Francia.


CAPITOLO LI.

Ove si conta per inframmessa del buon Conte di Giaffa Messer Gualtieri
di Brienne, delle sue cavallerie, e della sua pietosa morte.

Ma poichè buona cosa è a raccontare ed a ridurre a memoria li fatti e
virtudi d’alcuno eccellente Principe, pertanto qui parleremo ora del
buon Conte di Giaffa, Messer Gualtieri di Brienne, il quale in suo
vivente, a gran forza di fatti d’arme e di cavalleria, tenne la Contea
di Giaffa per più anni, lui essendo assalito dagli Egiziani, e senza
ch’e’ gioisce d’alcuna rendita, ma solamente di ciò ch’elli poteva
guadagnar nelle corse ch’e’ faceva sui Saracini e nimici della Fede
Cristiana. Ed avvenne una fiata ch’egli disconfisse una gran quantità
di Saracini che menavano un grosso carico di drappi di seta di diverse
sorte, li quali tutti guadagnò egli ed apportò in suo Castello: e
quando vi giunse, li dipartì anche tutti a’ suoi Cavalieri senza che
gliene dimorasse neente. Ed avea tale maniera di fare, che la sera,
quando s’era dipartito da’ suoi Cavalieri, entrava in una sua Cappella,
e là era lungamente a rendere grazie e lodi a Dio, e poi se ne veniva
giacere colla Donna sua, che molto buona Dama era, ed era sorella del
Re di Cipri.

Ora avete udito qui innanzi commente l’uno de’ Principi dei Tartarini
aveva espulso e ributtato, a soli trecento Cavalieri, l’Imperadore
di Persia a tutto trecento mila Cavalieri, per l’aita di Dio, fuori
del suo Reame ed Imperio; al presente sapremo noi la via che tenne
quello Imperadore di Persia ch’avea nome Barba Can. Quel Barba Can
se ne venne nel Reame di Gerusalemme, e fece alla sua venuta molto
di male, perch’egli prese il castello di Tabaria, che apparteneva
a Messer Eude di Monbeliero, ed uccise tante di nostre genti quante
potè trovarne fuori del Castel Pellegrino, fuori d’Acri, e fuori di
Giaffa. Quando ebbe fatto tutto il male che potea fare, si tirò egli
verso Babilonia affine d’aver soccorso da quel Soldano, che doveva
venire a lui per correre su le nostre genti. Ed in questo periglio
i Baroni del Paese, ed i Patriarchi avvisarono ch’essi andrebbono
combattersi all’Imperatore avanti ch’egli avesse soccorso dal Soldano
di Babilonia. Ed inviarono, cherendo soccorso, al Soldano d’Emessa,
che l’uomo dicevan della Cammella, il quale era l’uno dei migliori
Cavalieri e dei più leali che fusse in tutta Paganìa. Il quale venne
ad essi, e fu ricevuto a grandissimo onore in Acri, e poscia appresso
tutti insieme si partirono d’Acri e vennero a Giaffa. Quando tutti vi
furono raccolti, le nostre genti pregarono il Conte Gualtieri ch’e’
volesse venir con loro contra l’Imperadore di Persia; ed il produomo
rispose che molto volentieri verrebbevi solo che il Patriarca d’Acri
lo assolvesse, il quale da alquanto tempo lo aveva iscomunicato, per
ciò ch’e’ non voleva rendere una torre, ch’era nel suo castello di
Giaffa, e che si appellava la torre del Patriarca. Ma il Patriarca non
volle unqua di ciò fare niente, e pur nulla meno non lasciò il Conte
Gualtieri per suo gran cuore di venire coi nostri in battaglia. E
furono fatte tre battaglie, delle quali Messer Gualtieri ebbe la prima,
il Soldano della Cammella l’altra, e il Patriarca coi Baroni del Paese
la terza; e colla battaglia di Messer Gualtieri erano i Cavalieri dello
Spedale.

Quando queste tre battaglie furo arredate, tutte si mossero e piccarono
senza rattento. E tantosto vennero loro all’occhio i nemici, i quali
sapendo la venuta delle nostre genti s’arrestarono e dispartironsi
parimente in tre battaglie. E quando il Conte Gualtieri di Brienne vide
che i suoi nimici s’ordinavano, si gridò: Signori, che facciam noi?
noi diam loro podere di mettere arredo ed ordine nelle battaglie, e
così cresciam loro il cuore quando ci vedono qui soggiornare: sicchè
vi prego per Dio che noi loro andiam correr sopra. Ma unqua non ci
ebbe alcuno che gliene volesse credere. Ed elli vedendo che anima non
se ne volea muovere, si tirò verso il Patriarca per domandargli la sua
assoluzione, e questi anche non ne volle far niente. In quella col
Conte si trovò un Cherco molto notabile, che era Vescovo di Raima,
e che avea condotti molti bei fatti di cavalleria nella compagnia
del Conte Gualtieri; il quale Vescovo disse al Conte: Non vi turbate
mica in vostra coscienza della iscomunicazione del Patriarca, perchè
ha egli ora gran torto, ed io di mia possanza vi assolvo al nome del
Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen. E poi aggiunse: Sa,
su, andiamo, e corriamo sovra loro. Ed allora ferirono degli speroni,
e si assembrarono alla battaglia dell’Imperatore di Persia, la quale
era la diretana, e nella quale avea troppo gran pieno di gente per
la poca possanza del Conte Gualtieri e della sua schiera. E là ci
ebbe d’una parte e d’altra gran quantità di gente uccisa; ma ciò
non ostante fu preso il Conte Gualtieri, perchè tutte sue genti si
dettero svergognatamente alla fuga, e molti per troppa disperanza
e rammaricchio s’andarono a gittare in mare[85]. E la causa dello
sperpero e della disperazione, fu per ciò che l’una delle battaglie
dello Imperadore di Persia si venne con tanto isforzo di gente a
combattere col Soldano della Cammella, che, sebbene egli si difendesse
a gran colpi ed a grandissimi fatti d’arme, pur tuttavia, avendo troppo
fievole possanza al contrasto, di due mila Turchi che seco aveva, non
gliene rimasero più di ottanta, e forza gli fu ritrarsi al suo castello
della Cammella.

E vedendo lo Imperadore di Persia ch’egli avea avuto vittoria, prese
in suo consiglio ch’egli andrebbe assediare il Soldano sino nel suo
Castello della Cammella, ciò che a suo tempo volle fare. Ma sappiate
che male gliene prese, perchè quel Soldano, come bene avvisato e
consigliato, appellò le sue genti, e loro rimostrò, e disse: Signori,
se noi ci lasciamo assediare, noi siamo perduti: pertanto egli val
meglio che noi andiamo correre loro sopra per arte di guerra. E di
fatto egli inviò delle sue genti quelle che erano male armate per
di dietro una valle coverta, e insegnò loro colpissero improvvisi
alle spalle l’oste dell’Imperadore: ciò ch’essi effettuaro, e fatto
tempestosamente impeto nel carriaggio, si presero ad uccidere donne e
fanciulli. Or quando lo Imperadore, che cavalcava molto davanti, udì il
clamore dell’oste, si tornò indietro per al soccorso: ma appena ebbe
volto il dosso, ecco il Soldano della Cammella, con ciò ch’egli aveva
di buone genti d’armi, gittarsi sovra di lui. Per che egli avvenne che
da due lati l’Imperadore fu sì duramente ed impensatamente assalito
che di ben venticinquemila uomini ch’egli aveva, non gli dimorò uomo
nè donna nè piccolo infante che tutti non fussono tagliati e messi alla
morte.

Ora voi dovete sapere che lo Imperadore di Persia avanti ch’elli si
partisse per andare all’assedio della Cammella, aveva menato il buon
Conte di Giaffa Messer Gualtieri di Brienne davanti la sua città, e
là lo fece impendere per le braccia alle forche veggenti quelli che
erano nel castello di Giaffa, e facea bociar loro che giammai non
farebbe dispendere il loro Conte sino a che non gli fusse reso il detto
Castello. Ed in così che il povero Conte pendeva, egli gridava ad alta
voce alle sue genti che, per nulla cosa ch’essi vedessero fargli, non
rendessero mai il Castello, giacchè se ’l facessero lo Imperadore li
farebbe tutti mettere a morte. E quando esso Imperadore vide ch’e’
non ci poteva altra cosa fare, inviò ’l Conte Gualtieri al Soldano di
Babilonia, e gliene fece un presente, insieme al Maestro dello Spedale,
e a più altri gran personaggi che aveva presi. Ed ebberci a condurre
il Conte e gli altri prigionieri sino in Babilonia, ben trecento
Cavalieri, ai quali prese troppo bene, perchè essi non si trovarono
punto alla mortalità che fu fatta, davanti il castello della Cammella,
dello Imperadore di Persia e di sue genti, donde è stato parlato pur
dianzi.

Quando i Mercatanti di Babilonia seppero che ’l Soldano aveva in sue
prigioni il Conte Gualtieri, assembraronsi, e tutti andarono fare un
clamore al Soldano ch’egli fesse loro diritto del Conte di Giaffa, il
quale li aveva strutti e spogliati parecchie fiate, e fatti loro grandi
dannaggi. E così, ottemperando alla richiesta, il Soldano abbandonò
loro il corpo del Conte Gualtieri perchè vi si potessero vendicare di
lui. E questi cani traditori entrarono nella prigione là ove era il
valente produomo, e là lo ispezzarono e lo misero a brani dopo avergli
fatto più martirii soffrire, donde noi debbiam credere che l’anima sua
ne sia gloriosa in Paradiso.


CAPITOLO LII.

Come si fu pace tra ’l Soldano di Damasco e gli Almiranti d’Egitto, e
come noi non avemmo più con nissun di loro nè triegua nè pace.

Ora riveniamo al Soldano di Damasco, il quale ritirò le sue genti
che aveva a Gadres, ed entrò in Egitto, e là venne ad assalirvi gli
Almiranti. E qui dovete sapere che, per fortuna di guerra, l’una
battaglia del Soldano di Damasco disconfisse l’una delle battaglie
degli Almiranti, e l’altra battaglia d’essi Almiranti vinse l’altra
delle battaglie del Soldano; e per ciò se ne rivenne addietro a Gadres
questo Soldano di Damasco ben naverato e ferito nella testa ed in altri
luoghi. E durante ch’elli si tenne a Gadres gli Almiranti inviarono
in ambasciata di verso lui, e là fecero pace ed accordo intra loro;
e perciò dimorammo scherniti d’una e d’altra parte, perchè d’allora
in avanti noi non avemmo nè pace nè tregua nè col Soldano nè cogli
Almiranti. E sappiate che noi non eravamo nulla fiata in nostro oste di
genti d’arme, che mille quattrocento incirca capaci di far difesa. Sì
tosto come il Soldano di Damasco fu appaciato cogli Almiranti d’Egitto,
fece egli ammassare tutte le sue genti che aveva a Gadres, e si partì
e venne passare presso di nostr’oste con ben ventimila Saracini e
diecimila Beduini a forse due sole leghe di distanza, ma unqua non ci
osarono assalire: e fummo in aguato, il Re e il Maestro Ballistriere,
bene tre giorni, di paura che essi si ferissero nell’oste nostra
segretamente.

Il giorno della San Giovanni che segue a Pasqua, durante che ’l Re
udiva il suo Sermone, egli venne una delle genti di detto Maestro
alle macchine da gitto, il quale entrò tutto armato nella cappella
del Re, e gli disse ch’e’ Saracini avevano accerchiata l’antiguarda
de’ balestrieri. Allora io richiesi il Re che mi donasse congedo
d’andarvi, ed egli il fece, e mi diede a balire sino a cinquecento
uomini d’arme ch’egli nomò. E sì tosto come noi fummo fuori dell’oste,
e che i Saracini, che tenevano in pressa i balestrieri, ci videro,
si ritirarono di verso un Almirante che era su un colle davanti a
noi a ben mille uomini d’arme. Allora si cominciò la battaglia intra
i Saracini e la compagnia de’ balestrieri; e come quello Almirante
vedeva che le sue genti erano pressate, incontanente le rinforzava; ed
altrettanto faceva il Maestro dei balestrieri quando vedeva che le sue
genti eran più fievoli. E durante che noi eravamo così combattendo,
il Legato ed i Baroni dissero al Re che gran follia era ch’egli
m’avesse lasciato così scoverto ne’ campi, ed egli comandò loro che mi
venissero cherendo ed altresì il Maestro de’ Ballestrieri. Ed allora si
dipartirono i Turchi, e noi ci ritraemmo dietro le parate dell’oste.
E molte genti meravigliaronsi che i Turchi ci avessero lasciato in
riposo, se non che taluno diceva che ciò era stato perchè e’ lor
cavalli erano tutti lassi e affamati sendo stati sostenuti a disagio
entro a Gadres bene uno anno intiero.


CAPITOLO LIII.

Come i Turchi di Damasco vennero davanti Acri, e poi partitisine
assalirono Saetta e la misero a distruzione.

Gli altri Turchi ch’erano partiti da innanzi Giaffa se ne vennero
davanti Acri, e mandarono al Signore d’Assur, che era Connestabile del
Reame di Gerusalemme, ch’egli loro inviasse cinquanta mila bisanti,
o ch’essi distruggerebbono i giardini della città. Ed il Signore
d’Assur mandò loro all’incontro che non invierebbe neente. Allora essi
arringarono le loro battaglie, e se ne vennero lungo le sabbie d’Acri
sì presso della Città che si sarebbe ben tirato fino entro la medesima
con un ballestrone da tornio. E adunque sortì fuora della Città
il Signore d’Assur, e s’andò a mettere loro a monte, là ove era il
cemeterio di San Nicolao, per difendere li giardini. E quando li Turchi
approcciaro, alquanti de’ nostri sergenti a piè uscirono anche d’Acri,
i quali cominciarono a tirar loro sopra d’archi e ballestre a gran
forza. E di paura ch’essi si mettessero in periglio, il Signore d’Assur
li fece ritrarre alla muraglia per un giovine Cavaliere, che era di
Genova.

Ed in quella che il giovine Cavaliere Genovese ritraeva que’ pedoni,
un Saracino venne a lui mostrandosi spaurato ed ismosso in coraggio,
il quale in suo saracinesco, gli disse ch’egli giostrerebbe a lui, se
il volesse. E il Cavaliere gli rispose fieramente che molto volentieri
il riceverebbe; ma quando volle incorrere su quel Saracino, appercepì
egli colà presso ed alla sua mano sinistra altri otto Saracini che
mostravano dimorar là per vedere chi guadagnerebbe di quella giostra:
perchè allora il Cavaliero lasciò di correre al Saracino con chi aveva
a giostrare, e prese la sua corsa al troppello degli otto agguatatoli,
e ne ferì uno per mezzo il corpo, e traforandolo d’oltre in oltre colla
sua lancia lo freddò sul colpo; e poi se ne ritornò a nostre genti. E
gli altri Saracini gli corsero tutti sovra, ed uno ce n’ebbe che gli
donò un gran colpo di mazza sul piastrone, ed il Cavaliere, al ritorno
ch’e’ fece, diede al Saracino, che lo avea colpito, un tal colpo di
spada sulla testa che gli fece balzar le tovaglie che ricoprivanla
sino a terra. E sappiate che su quelle tovaglie essi ricevono sicuri
di grandi colpi, e perciò le portano essi quando vanno in battaglia, e
sono intortigliate l’una sull’altra molto dura ed artatamente. Allora
un altro Saracino pensò calare un gran fendente di sua spada turchesca
sul Cavaliere, ma questi seppe tanto ischiancirsi che il colpo non lo
attaccò mica; ed in vece al ritorno che fece il Saracino, il Cavaliero
gli abbandonò di forza un manrovescio della sua grossa spada per mezzo
il braccio, che gli fece volare a terra la scimitarra, e così potè egli
finalmente ammenare la sua gente da piè. Questi tre bei colpi fece
il Cavalier Genovese davanti il Signore d’Assur, e davanti li grandi
personaggi d’Acri, i quali erano montati sulle mura per vedere quelle
genti. Dopo ciò si partirono li Saracini dinanzi ad Acri, e perciò che
essi udirono che il Re faceva asserragliare Saetta, e ch’elli avea
seco poco di buona gente d’arme, tirarono a quella parte. E quando
il Re seppene la novella, per ciò ch’elli non avea mica la possanza
di resistere contro di loro, si ritirò col Maestro degli Ingegnieri,
e il più di gente che potè capirvi dentro il girone del castello di
Saetta, il quale era bene affortito e ben chiuso. Ma guari non ci entrò
di gente perchè il mastio incastellato era troppo picciolo e stretto,
sicchè molti rimasero nelle borgora aperte. E tantosto li Saracini
arrivarono ed entrarono in quelle borgora là dove non trovarono
nulla difesa, perchè le non erano ancora accompite di chiudersi, e vi
uccisero ben due mila sergenti e bagaglioni dell’oste nostra, e poi
quand’ebbero ciò fatto e messo il caseggiato in preda e ruina se ne
andarono a Damasco.

Quando il Re vide che i Saracini aveano tutta abbattuta e disertata
Saetta ne fu molto dolente, ma egli non lo poteva ammendare: ed i
Baroni del paese allo ’ncontro ne furono ben gioiosi. E la ragione
era per ciò che ’l Re voleva appresso ciò, andare ad asserragliare un
colle là ove di già ci solea avere un castello del tempo de’ Macabei.
E sedeva quel vecchio castellare in sulla via che da Giaffa mena in
Gerusalemme, e per ciò ch’egli era bene a cinque leghe lungi dal mare,
i Baroni si discordavano a che egli fusse rimurato e chiuso, per ciò
ch’essi dicevano, e dicevano bene il vero, che giammai non l’avrebbono
potuto vittovagliare, senza che i Saracini ne togliessero a forza la
vittuaria, per ciò che essi erano i più forti entro terra. E per ciò
rimostrarono i Baroni al Re, che gli valeva molto meglio e più gli era
a onore, il rifare ed acchiudere Saetta che lo andare ad imprendere un
novello edifizio sì lungi dal mare: ed a ciò s’accordò il Re, tuttocchè
di mal cuore.


CAPITOLO LIV.

Come il buon Re s’astenesse dello andare a Gerusalemme in maniera di
pellegrino.

Durante il tempo che ’l Re era a Giaffa gli fu detto che il Soldano
di Damasco gli soffrirebbe la sua andata a Gerusalemme, e ciò per
buono assicuramento. E molto volentieri l’avrebbe il Re voluto fare,
ma n’ebbe su ciò il suo Gran Consiglio, il quale ne lo stornò. E
gliene fecero rimostranza per uno esempio che fu tale. Che quando lo
Re Filippo l’Augusto si partì da innanzi Acri per andare in Francia,
lasciò egli molte sue genti nell’oste del Duca Ugone di Borgogna, il
quale avolo era del Duca diretanamente morto. Ora in quello tempo, e
durante che esso Ugo Duca, e lo Re Riccardo d’Inghilterra soggiornavano
in Acri, furon loro apportate novelle ch’essi prenderebbon bene
Gerusalemme la di mane quando il volessero, per ciò che il grande
sforzo dei Cavalieri d’Egitto se n’era ito col Soldano di Damasco ad
una guerra ch’egli aveva a Nessa contro ’l Soldano di detto luogo.
Perchè tantosto s’accordaro il Duca di Borgogna e il Re Riccardo
di levare il campo per andare verso Gerusalemme. E divisarono le
lor battaglie, donde lo Re d’Inghilterra volle menar la primiera,
e il Duca ebbe l’altra d’appresso colle genti del Re di Francia che
erano dimorate alla sua bailìa. Ed in quella ch’e’ furono presso di
Gerusalemme, e così presso di prendere la santa città, egli fu mandato
dalla battaglia del Duca di Borgogna al Re d’Inghilterra ch’esso Duca
se ne ritornava addietro solamente affinchè l’uomo non potesse dire
che gl’Inghilesi, i quali il precedevano in gara, avessero essi preso
Gerusalemme. Ed in quella che erano in tali dolorose parole, ci fu
l’uno dell’antiguarda del Re d’Inghilterra, che gli gridò: Sire, Sire,
venite sin qui, ed io vi mostrerò Gerusalemme che pare laggiù. Ma
egli stette, e si levò davanti gli occhi la sua cotta d’arme tuttavia
plorando e dicendo a Nostro Signore ad alta voce: Ah! buon Sire Iddio,
te ne priego, fa ch’io mica non veda la tua santa città di Gerusalemme;
poichè così va ch’io non la posso diliberare dalle mani de’ tuoi
nemici! — Questo assempro fu mostrato a Re San Luigi per ciò ch’egli
era il più gran Re de’ Cristiani, dicendogli che s’egli faceva il suo
pellegrinaggio in Gerusalemme senza liberarla dalle mani dei nimici di
Dio, tutti gli altri Re, che verrebbero al detto viaggio, si terrebbero
appagati altresì di fare il pellegrinaggio loro senza più, siccome
arebbe fatto lo Re di Francia.

Del buon Re Riccardo d’Inghilterra ch’ebbe in nome Cuor di Lione, vi
dissi altrove in questo libro, ora vi dirò io del Duca di Borgogna.
Sappiate dunque ch’elli fu molto buon Cavaliero di sua mano e molto
cavalleresco, ma unqua non fu egli tenuto per saggio nè verso Dio nè
verso il mondo. E bene ciò parve ne’ suoi fatti detti davanti: e di lui
disse il Gran Re Filippo quando seppe che il Conte Giovanni di Chalons
suo genero avea avuto un figliuolo, cui avevano rinominato Ugo; Dio lo
voglia fare produomo e probuomo, perchè gran differenza diceva essere
intra l’uno e l’altro, e che molti Cavalieri ci avea, così Cristiani
come Saracini, i quali erano bensì assai prodi uomini, ma non erano
punto uomini probi, poich’essi non temono nè amano Dio alcunamente. E
diceva che grande grazia faceva Dio a un Cavaliero quando egli avea
questo bene che per suoi fatti era chiamato produomo e probuomo: ma
colui di chi abbiam detto qui davanti, poteva bene essere appellato
produomo perch’egli era prò ed ardito di suo corpo, ma non già
dell’anima sua, poich’elli non temeva punto a peccare nè a misprendersi
inverso Dio.


CAPITOLO LV.

Delle munizioni e difese che ’l Re fece a Giaffa ed a Saetta, e di ciò
che avvenne nel frattempo.

Dei gran danari che il Re mise a chiudere Giaffa, non mi conviene mica
il parlarne per ciò ch’essi furono senza numero. In fatti ne affortì
egli e chiuse il borgo da l’uno de’ mari sino all’altro, e ci avea bene
ventiquattro torri che grandi che piccole, e fosse a prode rinette e
fatte di dentro e di fuora: e ci avea tre grandi porte, donde il Legato
avea avuto commissione di farne fare una delle tre, e della muraglia
tanto quanto correva da quella porta sino all’altra. Ed a conoscere per
estimativa ciò che la cosa poteva costare al Re, egli è verità che una
fiata mi domandò il Legato quanto io stimassi ciò che gli fosse costato
la porta ed il tratto di muro ch’egli avea fatto fare. Ed io stimai che
la porta gli era ben costata cinquecento lire, e la muraglia trecento.
Ed allora il Legato, scotendo il capo, mi disse che io era ben lungi
dal computo, e che, così l’âtasse Iddio, come la porta e il muro gli
erano ben costati trentamila lire. Per la qual cosa può ben l’uomo
pensare in suo cuore la massa grande d’argento che tutto quel cassero
sarà costato al buon Santo Re.

Quando il Re ebbe accompito di munire e di chiudere Giaffa, gli prese
volontà di fare a Saetta com’egli avea fatto a Giaffa, e di ridurla
asserragliata e accasata così com’ell’era avanti che i Saracini
l’avessono abbattuta: e s’ismosse per andarvi lui e sua oste il dì
della festa de’ Monsignori Santo Pietro e Santo Paolo Apostoli. E
quando ’l Re fu davanti il castello di Assur a tutto suo oste, sulla
sera appellò egli le genti del suo Consiglio, e domandò loro d’una
cosa ch’elli aveva volontà di fare, cioè ch’elli pensava prendere
una città de’ Saracini, che l’uomo appella Napoli, e che si nomina
nelle Scritture della Bibbia e dello antico Testamento, Samaria.
Allora i Signori del Tempio, i Baroni e gli Ammiragli del Paese gli
consigliarono ch’elli lo devesse fare, ma che non ci dovea punto essere
di persona, per essere impresa troppo risicosa, dicendo che se per
malastro vi fosse preso od ucciso, tutta la Santa Terra ne andrebbe
perduta. Ed egli loro rispose che non lascerebbe già andare sue genti
là dove non potesse essere corporalmente con loro. E per tale discordo
dimorò l’impresa, e non ne fu più niente. Allora noi ci partimmo e
venimmo sino alla sabbia d’Acri, e là si loggiò il Re e tutta sua oste
quella nottata. E alla dimane venne a me una gran quantità di popolo
della grande Erminia, il quale andava in pellegrinaggio a Gerusalemme.
E mi venne supplicare quel popolo, per un turcimanno latino ch’essi
avevano, avendo udito dire di me ch’io era il prossimano del Re, ch’io
volessi mostrar loro il buon Re San Luigi. Ed allora io me n’andai
di verso il Re, e gli dissi che una gran turba di genti della grande
Erminia che andavano in Gerusalemme lo voleano vedere. Ed egli si prese
a ridere, e mi disse che le facessi venire davanti a lui. E tantosto
gli ammenai quel popolo che videlo molto volentieri, e molto lo
onorarono negli atti loro; e poi quando l’ebbono lungamente ammirato,
lo accomandarono a Dio in loro linguaggio, ed egli gli accommiatò
in Dio similmente. La domane il Re e sua oste si partì ed andammo
alloggiare in un luogo che l’uomo appella Passa-pullano, ov’egli ci
avea di molte belle acque fontanili, di che nel paese s’irrigano le
canne donde viene lo zuccaro. E quando io fui loggiato, l’uno de’ miei
Cavalieri che s’era dato la fatica dell’apprestamento, mi disse: Sire,
or v’ho io alloggiato molto meglio che ieri non eravate. E l’altro
de’ miei Cavalieri che m’avea alloggiato quel giorno innanzi, gli va a
dire: Voi siete troppo folle ed ardito quando a Monsignore voi andate a
biasmare cosa ch’io ho fatto: e quando ebbe ciò detto, gli salì sopra
e lo prese pei capelli. Or quando io scorsi l’oltracotanza di quel
Cavaliere che davanti a me avea osato di prendere a capelli un altro
mio Cavaliere, andaigli correre sopra, e gli donai un gran colpo di
pugno tra le spalle. Lasciò egli allora tosto l’acciuffato, ed io dissi
cruccioso all’acciuffatore ch’egli uscisse tosto del mio alloggiamento,
e che giammai, così m’aiutasse Dio, egli non ne sarebbe di mia magione.
Allora se ne uscì fuora quel Cavaliero menando gran duolo, e se n’andò
verso Messer Gillio il Bruno, che era allora Connestabile di Francia,
il quale se ne venne tantosto a me pregandomi ch’io volessi riprendere
quel mio Cavaliero, e che grande ripentenza aveva egli di sua follia.
Ed io gli dissi che non fareine già niente prima che il Legato m’avesse
donato assoluzione del saramento ch’io ne avea fatto. E il Connestabile
se n’andò diverso il Legato, gli contò tutto il caso, e gli richiese
che mi volesse assolvere del giuramento isfuggitomi. E il Legato gli
rispose ch’e’ non aveva podere d’assolvermene, visto che a buon diritto
io aveva fatto il saramento, e ch’esso era ragionevole, per ciò che il
Cavaliere l’aveva grandemente disservito. E questa cosa ho io voluto
scrivere ne’ fatti di questo mio Libro, a fine di donare in esempio
a ciascuno ch’e’ non voglia giammai saramentare se non gli avviene di
farlo per ragione, perchè il Saggio dice, che:

    Chi volentieri e a vanvera si giura
    Avvien che spesse volte si pergiura.


CAPITOLO LVI.

Come assalimmo la Città di Belinas, e del pericolo nel quale fui
capitanando la prima battaglia del Re.

L’altro giorno inseguente il Re e sua oste se n’andò davanti la città
di Sur, che è appellata Tiro nella Bibbia; e là fu il Re parimente
intalentato d’andare a prendere una città ch’era colà presso, e che
aveva in nome Belinas. E gli consigliarono le sue genti che il devesse
fare, ma ch’egli non ci dovesse punto essere, ed a ciò s’accordò
finalmente a gran pena. E fu appuntato che il Conte d’Angiò andrebbe,
e Messer Filippo di Monforte, il Sire di Sur Messer Gillio il Bruno
Connestabile di Francia, Messer Piero il Ciambellano, ed i Maestri
del Tempio e dello Spedale colle loro genti d’arme. E poi sulla notte
noi ci armammo, e venimmo un poco appresso la punta del giorno in una
pianura ch’era davanti la città di Belinas appellata nelle antiche
Scritture Cesarea di Filippo. Ed è sedente quella città sovra una bella
fontana che l’uomo appella Gior; e ne’ piani che sono davanti quella
città ci ha un’altra molto bella sorgente, che ha in suo diritto nome
Dan; e s’intrammischiano insieme i ruscelli di quelle due fontane
alquanto lunge dalla città, ed il fiume che se ne fa è appellato
unitamente Giordano là ove Gesù Cristo nostro Signore fu battezzato.

Per lo consiglio del Conte d’Angiò, de’ Maestri del Tempio e dello
Spedale, e de’ Baroni del Paese fu avvisato che la battaglia del Re,
ove io era per allora co’ miei Cavalieri, e coi quaranta Cavalieri
Sciampagnesi che il Re mi aveva di già dato a bailire, andremmo ad
interporci tra la città ed il castello; Messer Gioffredo di Sergines
ed i produomini del Paese che erano con noi tenterebbono la città a
man sinistra; gli Spedalieri a man destra; ed il Maestro del Tempio
e sua compagnia, insisterebbono sulla via che noi altri della prima
battaglia avremmo battuto. E adunque ciascuno s’ismosse a partire e
noi approcciammo sino incontra la città per di dietro, e trovammo là
alquanti di nostre genti morti, che i Saracini, dopo ch’e’ si erano
traforati nella città, avevano uccisi e fuorgittati. E dovete sapere
che la costa per ove noi dovevamo salire era assai perigliosa; perchè
in primo luogo ci avevamo tre muri a sorpassare, e poi il dirupo era
così infranto e smottato che nullamente vi si poteva tenere a cavallo:
e nell’alto del colle ci avea gran quantità di Turchi a cavallo là
veramente ov’egli ci conveniva montare. E in quella io vidi che taluno
de’ nostri a un cotal luogo rompevano le mura della città, ed io mi
volli tirare ad essi cavalcando. Un Cavaliero de’ miei pensò allora
varcare in salto il muro, ma il cavallo gli cadde sovra rovescione; per
che quando vidi ciò, mi discesi a piè, e presi il mio cavallo per lo
freno, e la spada in pugno montammo arditamente contramonte quel colle.
E allorchè li Turchi, ch’erano in sull’alto, ci videro andare ad essi
sì fieramente, così come volle Iddio, se ne fuggirono e ci lasciarono
lo spiazzo franco. E in quello spiazzo ci avea un sentieruzzo tagliato
nella roccia che discendeva nella città: perchè quando noi fummo
colassù donde erano fuggiti i Saracini indirizzandosi al castello,
gli altri Saracini ch’erano nella città non osarono venire a noi, e
si fuggirono anzi per temenza del sovracapo, fuora della città, e la
lasciarono all’altre nostre genti senza nullo dibattimento di guerra.
E ben sappiate che durante ch’io era in sull’alto di quel colle il
Maresciallo del Tempio udì dire ch’io era in gran periglio, e se ne
venne a monte sino a me. Ora vi dirò ch’io aveva con me li Cavalieri
Teutoni, i quali quando videro che i Turchi a cavallo si fuggirono
dritto al Castello ch’era assai dilungato dalla città, ismossersi tutti
per correre loro sovra malgrado mio, e non ostante ch’io loro dicessi
ch’e’ facean male, perchè noi avevamo accapata la nostra impresa, e
fatto ciò che ci era stato comandato di fare. Il Castello era tutto al
di sopra della città ed avea in nome Subberbe, ed è intorno a mezza
lega in su l’alto della montagna che l’uomo appella Libano, e ci
hanno a passare molte rocce stagliate e repenti sino al Castello. Or
quando i Teutoni videro che follemente essi perseguivano coloro che
montavano per al castello, i quali sapevano troppo bene i tragitti e
rigiri di quelle rocce, pensarono di riferire addietro. Il che vedendo
li Saracini incalzati, stettero, e poi messo piede a terra, incorsero
loro sopra a ma’ passi, balzando pei noti scorci, e donando loro di
gran colpi di mazze, e così ributtandoli aspramente sin verso il luogo
ov’io era. E quando le genti ch’erano con me videro la iattura e il
discapito in che i Cavalieri Teutoni erano condotti al discendere, e
come i Saracini li perseguivano tuttavia, cominciarono a sbigottirsene
e ad aver paura. Ed io loro dissi che se per avventura fuggissero, li
farei tutti cassare e metter per sempre fuori dei gaggi del Re. Ed essi
mi risposero: Sire di Gionville, noi abbiamo il peggio assai più che
voi, perchè voi siete a cavallo per ismucciarvela quando vorrete, e
noi altri siamo a piè, sicchè siamo a gran risico d’essere uccisi se i
Saracini calassero sino a qui. Ed allora io mi discesi con essi a piede
per dar loro buon coraggio, e inviai il mio cavallo nella battaglia
de’ Tempieri, ch’era bene a una gran portata di ballestra da noi. E
così come i Saracini cacciavano i Teutoni, là con loro si trovò un mio
Cavaliere ch’un Saracino ferì di quadrello per mezzo la gola, e cadde,
veggenti noi, tutto morto; ed allora mi disse un Cavaliero, ch’avea
nome Messer Ugo d’Iscossato, avoncolo del mio Cavaliero morto, ch’io
gli andassi âtare a portare suo nepote a valle per farlo interrare.
Ma io non ne volli far niente, perchè il Cavaliero era andato correre
lassù coi Teutoni oltre il mio grado, e dissi: or dunque se mal glien’è
preso, io non ne posso altro. Così eravamo noi quando Messer Giovanni
di Valencienne udì dire che noi eravamo in gran disarredo, ed in gran
periglio di nostra vita, di che se n’andò verso Messer Oliviero di
Termes ed a’ suoi altri Capitani di Linguadoco, e disse loro: Signori,
io per me vi prego, e vi comando da parte il Re, che mi veniate âtare
a riavere il Siniscalco di Sciampagna. Ed un Cavaliero ch’avea in
nome Messer Guillelmo di Belmonte s’en venne a lui e gli disse ch’io
era morto. Ma non ostante non s’ispargnò mica il buon Messer Oliviero
di Termes, e volle sapere o di mia morte o di mia vita per dirne al
Re sicure novelle; e venne contramonte montando sino all’alto della
montagna là ove noi eravamo.

Quando Messer Oliviero fu montato e vide che noi eravamo in troppo
grande periglio, e che non avremmo potuto discendere per ove eravamo
montati, egli ci donò un buon consiglio: perchè ci fece discendere
per un versante ch’era in quella montagna, come se noi avessimo voluto
andare a Damasco: e diceva che i Saracini si ritrarrebbono al Castello
pensando che noi li volessimo andare a sorprendere per didietro. E poi
quando noi fummo discesi sino alla pianura, ci fece mettere il fuoco
in tutte le biche del formento ch’era ne’ campi, e così ritraendoci
dietro quella parata di fumo tanto femmo che venimmo a salvezza pel
buon consiglio di Messer Oliviero, e la dimane ci rendemmo a Saetta là
ov’era il Re. E trovammo che il buon sant’uomo avea fatto interrare
li corpi de’ cristiani ch’erano stati uccisi, ed egli stesso aiutava
a portarli in terra. E sappiate che ce n’avea alcuni, i quali erano
isfatti e putenti tanto che coloro che li portavano se ne istoppavan
le nari, ma il buon Re noi faceva mica. E quando noi fummo arrivati
di verso lui, egli ci avea di già fatto fare le trabacche nostre e gli
alloggiamenti.


CAPITOLO LVII.

Del pellegrinaggio a Nostra Donna di Tortosa, e come avvenne che la
Reina s’agginocchiasse davanti i miei camelotti.

Durante queste cose, un giorno essendo io davanti l’Re gli domandai
congedo d’andare in pellegrinaggio a Nostra Donna di Tortosa, ch’era
allora molto in noméa, e ci aveva gran quantità di pellegrini per
ciascun giorno, conciossiachè si diceva ch’egli fosse il primiero
altare ch’unqua si facesse nell’onore della gran Madre di Dio. E faceva
Nostra Donna de’ miracoli grandi a meraviglia; intra li quali ella
ne fece uno d’un pover uomo ch’era fuori di suo senno ed indemoniato,
perch’egli aveva il maligno spirito entro suo corpo. Ed avvenne per un
giorno, ch’egli fu ammenato a quell’altare di Nostra Donna di Tortosa;
ed in così che gli amici suoi, i quali aveanlo ammenato là, pregavano
a Nostra Donna ch’ella gli volesse ricovrare sanità e guerigione, il
diavolo che la povera creatura aveva in corpo, parlò e disse: Nostra
Donna non è punto qui; ella è in Egitto per aiutare al Re di Francia ed
ai Cristiani che oggi arrivano in Terra Santa contro tutta Pagania che
li attende sulla piaggia a cavallo. E fu messo in iscritto il giorno
in che il diavolo profetò questi motti, e fu lo scritto apportato
al Legato che era col Re di Francia, il quale mi disse dappoi che a
quel giorno appunto noi eravamo arrivati in terra d’Egitto. Ed io son
certano che della buona Dama Santa Maria ci ebbe colà per noi gran
bisogno.

Il Re molto volentieri mi diè congedo di andare a quel pellegrinaggio,
e m’incaricò ch’io gli comprassi per cento lire di camelotti di
diversi colori ch’egli voleva donare ai Cordiglieri quando noi saremmo
ritornati in Francia: e allora io pensai in mio core ch’egli non
dimorerebbe più guari lungamente a rivenirsene di qua mare. E quando
io fui a Tripoli, là ov’era il luogo del mio pellegrinaggio, vi feci
la mia oblazione a Dio e a Nostra Donna di Tortosa, e poi appresso vi
comperai li camelotti che il Re m’avea comandato d’incettarvi. Il che
veggendo i miei Cavalieri mi domandarono che voleva farne? ed io lor
diedi a credere che ne faceva incetta per mio guadagno.

Appresso che noi fummo là arrivati, il Principe di quella terra, il
quale seppe ch’io era partito dall’oste del Re di Francia, venne al
davanti di noi, e ci fece molto grande onore, e ci offrì de’ grandi
doni; donde umilmente lo ringraziammo, e non volemmo niente prendere,
fuor che di reliquie, ch’io apportai al Re co’ suoi camelotti. E
sappiate che la Reina aveva bene udito novelle ch’io era stato in
pellegrinaggio, e che aveva apportate delle reliquie. Ora io le inviai
per uno de’ miei Cavalieri quattro pezze di camelotto di quelle che
avea comperate, e quando il Cavaliere entrò verso lei in sua camera,
ella si cominciò ad agginocchiare davanti i camelotti che erano
inviluppati in un drappo; di che il Cavaliere meravigliandosi che la
Reina s’agginocchiasse davanti a lui, e non sapendo perchè, si va
altresì a gittare sui ginocchi. E adunque la Reina gli disse: Sir
Cavaliere, voi non vi dovete mica agginocchiare quando voi portate
delle sante reliquie. Allora il mio Cavaliere rizzandosi le disse
che le non erano punto reliquie, ma che erano camelotti ch’io le
presentava. Quando la Reina e le sue Damigelle intesero che là non
erano punto reliquie, elleno si presero forte a ridere, e la Reina
disse: Sir Cavaliere, mal giorno sia donato al vostro Signore, quando
elli m’ha fatto agginocchiare davanti i suoi camelotti.


CAPITOLO LVIII.

Come il buon Re, saputo la morte di Madama sua Madre, accogliesse il
pensiero di ritornare in Francia.

Tantosto appresso, il Re essendo a Saetta ebbe novelle che Madama
sua Madre era morta. Donde elli menò si gran duolo ch’egli fu per due
giorni in sua camera senza ch’uomo potesse parlargli. Ed appresso i due
giorni passati, egli m’inviò cherére per uno dei Valetti di camera,
e quando gli fui davanti, gridò e, stendendomi le braccia, cominciò
a dire: Ah! Siniscalco, io ho perduto la mia buona Madre! ed io lo
interruppi soggiugnendo: Sire, io non me ne isbaisco punto, poichè
tutti sappiamo ch’ella, sendo nata, aveva pure una fiata a morire. Ma
ben io mi meraviglio del grande ed oltraggioso duolo che voi ne menate,
voi, dico, che siete a dritto tenuto tanto savio Principe. E voi ben
sapete, seguitai io, che il Saggio dice, come il misagio che il valente
uomo ha in suo cuore, non gli deggia apparire al viso, sicchè altri il
conosca: perchè colui, che lo fa apparire, dona gran gioia a’ nimici
suoi, ed agli amici pena e iscorruccio. E così di parole in parole il
venni un poco appaciando: ed allora egli fece fare oltre mare molti bei
servigi per l’anima della fu buona Dama sua Madre, e similmente inviò
in Francia un gran forziere caricato di gioielli e pietre preziose alle
Chiese di Francia con lettere missive, nelle quali invitava i prelati
ch’e’ volessono pregare a Dio per lui e per la detta Dama sua Madre.

Ben tosto appresso il Re volle dar ordine alle sue bisogne, e sapere
s’egli doveva ritornarsene in Francia, od ancora dimorare colà. E
in così ch’egli era su questo proposito, tuttavia istando a Saetta,
ch’egli avea pressochè asserragliata interamente, appellò il Legato
ch’era con lui, e gli fece fare alquante processioni, richerendone a
Dio che gli desse a conoscere lo quale farebbe meglio di suo piacere,
o dello andarsene in Francia o del dimorare colà. Un poco appresso
che le processioni furono fatte, io era andato un cotal dì coi Ricchi
Uomini del paese a diportarmi in un pratello; quando il Re mi fece
appellare, ed era il Legato con lui; ed allora mi va a dire esso Legato
alla presenza del Re: Siniscalco, il Re si loda grandemente dei buoni
ed aggradevoli servigi che voi gli avete fatto, e forte desidera il
vostro pro e il vostro onore, e mi fa dirvi, affinchè ne prendiate in
vostro cuore alcun solazzo di gioia, che sua intenzione è d’andarsene
in Francia di dentro Pasqua che viene. E adunque io gli risposi che
Nostro Signore Iddio il lasciasse fare alla sua buona volontà. Dopo
queste parole il Legato si partì d’insieme il Re, e mi pregò ch’io gli
facessi compagnia sino al suo alloggiamento: ciò ch’io feci volentieri.
E là mi fece entrare nella sua guardaroba, e poi cominciò a lagrimare,
e presomi per le mani, mi disse: Siniscalco, io son ben gioioso, e
rendone grazie a Dio di che abbiate così isfuggito tanti e sì grandi
pericoli, da poi che voi siete stato in questa terra; ma d’altra parte
io sono molto tristo e dolente di cuore ch’elli mi convenga lasciare
le vostre buone e sante compagnie per ritornarmene in Corte di Roma,
intra gente così disleale come ci ha[86]. Ma io vi dirò, mia intenzione
è di dimorare ancora un anno appresso voi in Acri, per dispendervi
tutti li miei danari a farvi acchiudere ed accerchiare il sobborgo,
affinchè, quando ne sarò così tutto scusso, non mi possa venir uomo a
impugnare di rimbrotti, e di accuse, quasi n’abbia fatto civanzo. Ed
io, dipartendomi, il confortai che mettesse adunque ad effetto la sua
intenzione.

Quando io fui ritornato di verso il Re la dimane comandò che mi
armassi co’ miei Cavalieri, e quando fummo tutti armati venni a lui
chiedendogli che gli piaceva ch’io facessi; ed egli allora mi disse
ch’io menassi la Reina e’ figliuoli suoi sino a Sur, là per ove ci
avea ben sette leghe: e di ciò non lo volli punto disdire non ostante
che gran periglio ci fusse a passare, perchè non avevamo noi allora
notte e giorno nè tregua nè pace, nè cogli Egiziani nè con quelli di
Damasco. Con tutto ciò noi partimmo e venimmo la mercè di Dio tutto in
pace e senza alcuno impedimento in Sur anzi l’otta del sonno. Tantosto
appresso il Patriarca ed i Baroni del Paese, i quali lungamente avevano
accompagnato il Re, veggendo ch’elli aveva accerchiata Saetta di
grandi mura, e fatte fare grosse torri, e fosse iscavare di dentro e di
fuora, se ne vennero a lui, e gli resero umilmente grazie e lodi dei
grandi beni, onori, e piaceri che loro avea fatti nella Santa Terra;
perchè egli vi avea fatto rimurar di nuovo oltre Saetta, Cesarea e
Giaffa, ed avea rafforzata la Città d’Acri di grandi muraglie altresì
e di grosse torri. E gli dissero: Sire, noi vediamo ben chiaramente,
che la vostra dimora con noi più non ci appartiene, e ch’ella non
può durare più oltre, così che ne venga oggimai maggior profitto al
Reame di Gerusalemme; per ciò noi vi consigliamo tutti insieme che ve
n’andiate in Acri, e là cominciate a far mettere su e ad appuntare il
vostro passaggio allo ’ntorno di questa Quaresima, perchè voi possiate
ritornare in Francia securamente. E così per tale consiglio il Re si
partì da Saetta tranquillo in suo cuore, e se ne venne a Sur, là ove
noi avevamo ammenato la Reina e figliuoli; ed all’entrata di Quaresima
venimmo in Acri tutti insieme.


CAPITOLO LIX.

Come col Re femmo vela per ritornare in Francia, e delle malenanze che
ci incolsero presso Cipri.

Tutta la Quaresima il Re fece apprestare il naviglio per rivenirne
in Francia, donde egli ci avea quattordici che navi che galee: e la
vigilia della festa di San Marco appresso Pasqua, il Re e la Reina si
raccolsero nella lor nave, e tutto il navile uscendo di stallo cominciò
con buono e secondevole vento a prender l’abbrivo sul mare[87]. E mi
disse il Re ch’egli era nato nel proprio giorno di San Marco; ed io gli
soggiunsi, ch’elli poteva bandire che se allora c’era nato, ora c’era
rinato, poichè in tal dì iscapolava di quella perigliosa terra ove noi
eravamo dimorati sì lungamente.

Il Sabbato inseguente arrivammo sull’Isola di Cipri, e ci aveva una
montagna appresso l’Isola che l’uomo appellava la montagna della Croce,
alla quale montagna si potea conoscere da lunge che si approssimava
alla detta Isola di Cipri. E sappiate che quello Sabbato sul vesperare
si levò un grande nebbione, il quale della terra discese sul mare, e
lo abbuiò talmente che i marinieri pensarono essere assai più lunge
dall’Isola ch’essi non erano veramente: di che perderono la montagna
di vista, la quale si stinse entro la tenebra del caligato. Ed in così
avvenne che, nello intento di arrivare di buon otta all’Isola, i nostri
marinai s’isforzarono di navigare a gran vigore di braccia, perchè
sprovvedutamente andammo ad abbordare su una coda di sabbia ch’era poco
sotto mare; e se per avventura non ci fossimo così arrenati, saremmo
andati ad urtare a di grandi rocce canterute ch’erano colà presso
nascose, e vi saremmo stati tutti pericolati e sommersi. Con tutto ciò
fummo noi a grande disagio là ove eravamo atterrati, perchè ciascuno si
pensò d’essere annegato e perduto e che la galea si fendesse. Il Piloto
gittò allora suo piombino in mare, e trovò che la nave non era punto
arrenata e che l’acqua bastava a rigallarla, di che ciascuno cominciò
a rallegrarsi ed a renderne grazie a Dio. E ce n’avea molti prostesi
dinanzi il Sacrosanto Corpo di Nostro Signore ch’era in vista sulla
nave, gridando perdono a Dio poichè ciascuno s’attendeva alla morte.
E tantosto ch’elli fu giorno noi vedemmo gli scogli, ai quali noi
avremmo urtato senza fallo se non fusse stato la fortuna del piaggione
di sabbia che c’impigliò. Come venne il mattino il Re inviò cherère
i Maestri Piloti delle navi, e questi ammenarono con loro quattro
palombari o mergoni, i quali son genti che vanno a nuoto al fondo
dell’acqua come e’ pesci. Li quali quattro palombari furono dai Maestri
suddetti fatti scendere in mare là indiritta dove la nave toccò fondo.
E costoro capolevarono, e poi passarono per di sotto la nave ov’era
il Re con noi altri. E quand’essi risortirono dell’acqua furono uditi
tutti quattro spartitamente per sapere ciò ch’essi vi avean trovato. Ma
ciascuno d’essi rapportò che al luogo ove s’era urtata la nostra nave,
la sabbia avea ischeggiato per ben tre tese ed amminuito la carena su
che era la nave fondata. E quando si furo uditi rapportare così, il Re
e tutti noi ne rimanemmo alquanto ismarriti e pensosi: perchè il Re
domandò ai Maestri quale consiglio donerebbono essi di quella cosa:
ed i Maestri nocchieri gli dissero: Sire, per tutto consiglio, se ci
volete credere, voi discenderete di questa nave in un’altra; perchè
noi bene intendiamo come, poi che il suo fondamento ha sofferto tale
urto quale avete udito, ne debbano essere stati altresì iscommessi gli
armamenti delle costole, e per ciò dubitiamo grandemente che, quando
verrà in mare alto, non possa la nave durare il colpo dei flutti
senza ch’ella perisca. Perchè tale esempio ne abbiamo noi veduto,
quando voi partiste di Francia, d’un’altra nave che aveva similmente
urtato e sofferto un tale stroscio come ha questa qui; e quando essa
fu in alto mare non potè bastarvi contro i colpi delle onde, e ne fu
isconfitta e spezzata, e ne annegarono quelli che v’eran dentro, senza
che altri ne iscampasse fuorchè una giovine donna col suo fantino che
tenea in collo, li quali d’avventura dimorarono su l’uno dei tavoloni
della nave, che l’acqua poi menò a riva. E quando il Re ebbe udito
ciò ch’e’ Piloti gli avevano consigliato e dato in esempio, io stesso
testimoniai ch’essi dicevano il vero; perchè io avea veduti la donna
e il fanciullino che erano arrivati davanti la Città di Bafa, e li
vidi nella magione del Conte di Gioigny, il quale ve li faceva nodrire
per lo amore di Dio. Allora il Re appellò le genti di suo Consiglio
per sapere ciò che era da farsi: e tutti gli consigliammo di fare
ciò a punto che gli uomini sperti di mare gli avevano consigliato.
Allora chiamò il Re i Piloti di nuovo e domandò loro, sopra la fede e
lealtà ch’essi gli dovevano, se la nave fusse loro, e fusse piena di
mercatanzie, s’essi ne discenderebbono o no. Ed essi risposero tutti
insieme che mai no, e che in tal caso amerebbero meglio di mettere
loro corpi in avventura di morte che di lasciar perdere una tal nave,
che sarebbe ai medesimi costata ben quaranta o cinquanta mila lire. E
perchè, soggiunse il Re, mi consigliate voi dunque ch’io ne discenda?
E quegli risposero: Sire, voi e noi non è già tutt’uno, nè pari è la
posta, perchè oro nè argento non potrebbe esser sì tanto ch’elli fusse
pregiato nè estimato come il corpo di voi, di madama la Reina vostra
sposa e de’ vostri tre figliuoli che avete qui, e pertanto non vi
consiglieremmo giammai che vi metteste in tale risico ed avventura. Or
vi dirò io, soggiunse il Re, il mio consiglio ed avviso. Se io discendo
di questa nave, egli ci ha qui dentro cinque o seicento persone, le
quali dimoreranno nell’isola di Cipri per la paura del periglio della
nave ove sono i loro corpi; chè non ci ha alcuno che non ami altanto
suo corpo com’io fo il mio; e, se una fiata vi discendono, giammai
non avranno speranze di ritornare in loro paese non bastando a pagarne
il nàvolo; pertanto vi dico ch’io amo meglio mettere me, la Reina e’
figliuoli nelle mani e nella santa guardia di Dio, che di apportare un
tanto dannaggio a sì gran popolo come egli ha qui dentro.

Ed il gran male e dannaggio che ’l Re arebbe fatto s’elli fusse disceso
bene ci apparve in Messer Oliviero di Termes il possente Cavaliero, il
quale era in quella nave dov’era il Re; il quale Messer Oliviero era
l’uno de’ più valenti e de’ più arditi uomini ch’unqua io conoscessi
in Terra Santa. Tuttavolta non osò egli dimorare, e si discese
nell’Isola: ed allora avvenne che, sebbene fusse un grande e notabile
personaggio e molto ricco d’avere, egli vi trovò tanto d’impedimenti
e di disturbanze, ch’e’ fu più di un anno e mezzo avanti che potesse
rivenire di verso il Re. Ora intendete dunque che mai arebbono potuto
fare tanti piccoli personaggi, i quali non aveano di che pagare
nè finire ai tributi, visto che sì gran ricco uomo ci avea dovuto
interporre sì lungo soprastamento.

Appresso che Dio ci ebbe stratti di quel periglio, ove noi eravamo così
stati davanti l’Isola di Cipri, noi entrammo in un altro non minore.
Perchè si levò egli in mare un vento sì terribile e maraviglioso, che
a forza e malgrado nostro ci rigettava tuttavia sull’Isola di Cipri
che noi avevamo già trapassata. Gittarono perciò i marinieri quattro
delle loro àncore in mare, ma unqua non seppero arrestare la nostra
nave sino a che la quinta di soccorso non ci fu gittata. E ben sappiate
ch’egli ci convenne abbattere i paretelli della camera dove si teneva
il Re, ed era tale il tifone che in essa nissuno osava tenersi ritto di
paura che le folate sferratole nol rapissero in mare. Perchè la Reina
montò a quella camera dove ella credeva trovare il Re, e non vi trovò
che Messer Gillio il Bruno Connestabile di Francia, e me, che vi ci
tenevamo bocconi. E quando io la vidi, le domandai che volesse; ed Ella
rispose che domandava il Re per pregarlo ch’e’ volesse fare qualche
voto a Dio od a’ suoi Santi, affinchè noi potessimo essere liberati
della tormenta, da che i marinai le avevano detto che noi eravamo
in gran pericolo di annegare. Ed io le dissi: Madama, promettete di
fare il viaggio a Monsignore San Nicolao di Varengavilla, ed io mi
fo forte che Dio ci renderà in Francia a salvezza. Allora Ella mi
rispose: Ah! Siniscalco, io arei paura che ’l Re non volesse ch’io
facessi il viaggio, e che per ciò nol potessi accompire. Almeno,
Madama, promettetegli che, se Dio vi renda in Francia salvamente,
voi gli donerete una nave di cinque marchi d’argento per lo Re, per
voi, e pe’ vostri figliuoli: e se in così il fate, io vi prometto ed
assevero che alla preghiera di San Nicolao Dio vi renderà in Francia a
salvamento: ed io prometto quanto a me, che ove ritorni a Gionville, ne
l’anderò vedere sino al luogo suo a piè e tutto scalzato. Allora ella
promise a San Nicolao di offerirgli la nave d’argento, e mi richiese
ch’io gliene entrassi mallevadore siccome feci. E poco stante Ella
ritornò a noi, e ci venne dire che Dio, alla supplicazione di San
Nicolao, ci avea guarentiti di quel periglio. E qui sappiate che la
Reina, quando fu ritornata in Francia, fece fare la nave ch’ella aveva
promessa a Monsignore San Nicolao, e ci fe’ rilevare il Re, lei, ed i
tre figliuoli, i marinai, l’albero, i cordaggi, ed i governali tutti
d’argento, od acconci a fila d’argento. La qual nave ella m’inviò,
mandandomi ch’io la recassi offerere a Monsignore Santo Nicolao, e
così feci; ed ancora dopo lungo tempo ve l’ho io vista, allorchè sono
stato della comitiva che ha menata la sorella dello Re attuale al Re di
Lamagna[88].

Or riveniamo al proposito là ove noi eravamo nel mare, e diciamo che
quando il Re vide che noi eravamo sfuggiti da que’ due grandi pericoli,
egli si levò sul palco della nave, ed essendo io là presente e tuttavia
a lui dinanzi mi va a dire: Or riguardate, Siniscalco, se Dio non ci
ha ben mostrata sua gran possanza, quando per uno vento piccolino e
che non è pure de’ quattro venti maestri in mare, il Re di Francia, la
Reina, e’ figliuoli suoi e tanti altri grandi personaggi hanno pensato
esserne tutti insieme sommersi. Con tutto ciò io ne lo lodo, e so che
grandi grazie gliene debbiamo ben rendere. E già sappiate, Siniscalco,
che quando tali tribolazioni avvengono alle genti, od altre miserevoli
fortune di malattie, elleno sono, per buono avviso dei Santi, le
minacce del male e le sommosse al bene di Nostro Signore. E per ciò io
vi dico, seguitava il buon Santo Re, che li risichi là ove noi siamo
stati, sono altresì minacce di Iddio, il quale per essi mostra dirci:
Or vedete voi bene che, s’io avessi voluto, vi sareste tutti pericolati
nell’acque e annegati. Di che è a trarne documento di guardare bene
e finamente s’egli ci abbia in noi cosa dispiacente a Dio Creatore, e
s’ella v’è, sì appercepita l’abbiamo, e sì tosto la dobbiamo rigettare
ed espellere. E se così faremo egli ce ne amerà e ci guarderà tuttavia
da sciagure; e se faremo il contradio, appresso ch’egli ci avrà
misericordevolmente minacciati, invierà sovra noi qualche gran male o
di morte, o di dannaggio nel corpo, ovvero ci lascierà nello ’nferno
discendere perdurevolmente in eterno. Ed anche seguitava il buon Re
San Luigi: Siniscalco, il sant’uomo Job diceva a Dio: Sire Iddio, e
perchè ci minacci tu? se la minaccia che tu ne fai non è punto per
tuo prode e per tuo vantaggio? poichè, se tu ne avessi tutti perduti,
tu non ne saresti già più povero, ed in così non più ricco se tutti
salvati? Certo dunque il tuo minacciare è per nostro profitto, non per
tuo, quando noi il sappiamo conoscere e intendere. Donde dobbiamo anche
una volta vedere che le minacce non la percossa della sciagura esce
dallo amore di Dio benedetto per noi, il quale ci vuole così per via di
penitenza ammenare a gloria e a salvezza. Per tanto dunque, Siniscalco,
pentiamoci di nostre colpe, e ristoriamo i demeriti, e saremo saggi.


CAPITOLO LX.

Di ciò che vedemmo nell’Isola di Lampadusa, e di un bello miracolo di
Nostra Donna di Valverde.

Di là in avanti, e appresso che noi avemmo preso nell’Isola di Cipri
acqua fresca, ed altre piccole nostre necessitadi, e che la tormenta
fu cessata, noi partimmo di là, e venimmo a un’altra Isola, che l’uomo
appella Isola di Lampadusa. E là discendemmo a terra, e prendemmo gran
quantità di conigli, e là pure trovammo un eremitaggio iscavato entro
le rocce, ed un bel giardino, il quale era impiantato d’olivi, e fichi,
e ceppi di vite, e più altri alberi fruttiferosi: e ci avea una bella
fontana d’acqua dolce, il cui rivolo defluiva fresco fresco per mezzo
il giardino del romitaggio. Il Re e la sua compagnia andarono sino al
capo di quel giardino, e lo cercarono attentamente, e così insieme vi
trovammo uno oratorio, di cui la prima vôlta era bianca di calce, e
sopravi una bella croce di terra vermiglia; ed in un’altra vôlta più
avanti trovammo due corpi morti, i quali avevano le mani incrociate
sul petto, e dell’ossa loro non ci avea più che le costole le quali
s’intertenessero. Ed erano quegli scheletri volti verso Oriente così
com’egli è costume disporre gli altri morti fuggiti in terra. E quando
noi avemmo ben veduto per tutto, il Re e la sua compagnia ritiraronsi
nella nave. Or sappiate che quando noi vi fummo rientrati, ci fallì
l’uno de’ marinai; donde il Comito si pensò in lui, ch’elli sapeva
bene lo quale era, e com’egli volesse dimorare colà per essere e vivere
quindi innanzi penitente e romito. E per ciò il Re a l’avventura fece
lasciare tre sacca piene di biscotto sulla riva di quell’isola erma,
affinchè il marinaio, che eravi dimorato, li trovasse e ne vivesse
per alcun tempo. Poco appresso arrivò un’avventura in mare nella nave
di Messer d’Argones, il quale era l’uno dei più possenti Signori
di Provenza: ciò è ch’essendo egli una mattinata in suo letto, il
Sole colpivalo sovra ’l viso per un pertugio. Allora il detto Messer
d’Argonne appellò uno de’ suoi scudieri, e gli disse che andasse a
stoppare il pertugio per ove traforava il Sole: e lo scudiero, veggendo
ch’e’ non poteva istopparlo di dentro, uscì della nave, e si mise
all’opera nel di fuori, e così andando tentone, gli fuggì un piede, ed
egli cadde nell’acqua. Tantosto ch’e’ fu caduto, la nave si allontanò,
e non ci avea punto di picciole barche accostate con che poterlo
soccorrere. Noi lo vedemmo da lunge stando sul cassero della galea del
Re, la quale veniva appresso ben mezza lega lontano dalla nave donde
elli era caduto. Tuttavolta pensavamo che ciò fusse stato qualche cosa
caduta in mare, perchè quello scudiero non si moveva nè si âtava in
nissuna guisa. E quando noi l’avemmo appercepito di presso, l’uno de’
navicelli del Re lo raccolse, e lo frammise nella nostra nave, nella
quale dopo d’essere stato raccolto, ci contò egli come era caduto. E
noi gli domandammo, come era ciò ch’egli non s’âtasse altrimenti nè a
nuotare, nè a gridare o a far cenno alle genti della nave. Ed egli ci
disse che non avea nullo bisogno di farlo, perchè, in cadendo, egli
s’era gridato: _Ah! Nostra Donna di Valverde!_ di che la buona Santa
Madre Maria lo sostenne per le spalle, e lo sorresse sino a tanto
che la galea del Re fu arrivata a lui. E nell’onore della benedetta e
miracolosa Vergine e Madre, io ho fatto pingere di ritratto nella mia
Cappella a Gionville il detto miracolo, ed anche nelle vetrate della
Chiesa di Blecorto ècci alluminato per memoria.


CAPITOLO LXI.

Come finalmente scendemmo al porto di Yeres in terra di Provenza, e di
ciò che ivi avvenne.

Alla fine di dieci settimane, in che noi fummo in mare navigando,
arrivammo al porto di Yeres, davanti il castello che era al Conte di
Provenza, il quale fu dappoi Re di Sicilia. E la Reina, e tutto il
Consiglio del Re lo pregarono ch’ei là discendesse poi ch’egli era
nella terra di suo fratello. Ma il Re disse ch’elli non discenderebbe
punto, sin tanto ch’e’ non fusse in Acquemorte che era sua terra. E
sovra questo disparere ci tenne il Re il mercoledì e il giovedì, senza
che nullo lo potesse fare accordare a discendervi. E il venerdì, come
il Re era assiso su l’uno de’ seggi della nave, egli mi appellò, e mi
domandò consiglio s’egli si doveva discendere, o no. Ed io gli dissi:
Sire, e’ mi sembra che voi deggiate discendere senza fallo, perchè
una fiata Madama di Borbone salita in questo porto medesimo non si
volle discendere, anzi si rimise sopramare per andare ad Acquemorte:
ma ella a suo gran disagio dimorò ben sette e più settimane sul mare
per lo tempo che vi durò contradioso. E adunque il Re a mio consiglio
s’accordò di discendere a Yeres, donde la Reina e la Compagnia furono
molto paghi e gioiosi.

Nel Castello di Yeres soggiornammo il Re, la Reina, i figliuoli loro
e noi tutti domentre che si procacciavano de’ cavalli per venircene in
Francia. L’Abbate di Cluny, che fu dappoi Vescovo d’Oliva, inviò al Re
due palafreni, l’uno per lui, l’altro per la Reina; e dicevasi allora
ch’e’ valevano bene ciascuno cinquecento lire. Or quando il Re ebbe
accettati que’ due bei cavalli, Messer lo Abbate richiesegli ch’elli
potesse parlare con lui la dimane toccante li suoi affari. Ed il Re
glielo ottriò. E quando venne il domani, lo Abbate parlò al Re, il
quale lo ascoltò lungamente ed a gran piacere. E quando quello Abbate
se ne fu partito, io domandai al Re s’egli soffrirebbe ch’io volessi
conoscere da lui qualche cosa; ed egli mi rispose che sì. Adunque
io gli domandai: Sire, non è egli forse vero che voi avete ascoltato
Messer lo Abbate così lungamente per lo dono dei suoi due cavalli? E
il Re da capo mi rispose: che sì certamente. Ed io allora gli dissi
ch’io m’era ardito d’indirizzargli tale domanda affinch’egli difendesse
alle genti di suo Consiglio giurato, che quand’essi arriverebbero in
Francia, non prendessero niente da quelli che avessero per bisogne
a venir loro davanti: perchè siate certano, Sire, dissi io, che, se
essi prendono, ne ascolteranno più diligentemente e più lungamente i
donatori così come voi avete fatto dello Abbate di Cluny. Allora il Re
appellò tutto suo Consiglio, e loro contò in ridendo la domanda ch’io
gli avea fatta, e la ragione d’essa domanda; ma non meno per ciò gli
rispuosono i Consiglieri ch’io gli aveva dato un savio e bontadioso
consiglio.

Ora sappiate che a Yeres correan novelle di un Cordigliere molto
valente, il quale andava predicando per mezzo il paese, e si appellava
Fra Ugo. Perchè il Re s’ismosse nel volerlo vedere ed udir parlare.
E il giorno istesso ch’elli arrivò a Yeres noi andammo davanti il
suo cammino, e vedemmo che una gran quantità d’uomini e di femmine
lo andavano accompagnando e codiavanlo tutti a piè. Quando ci fummo
accontati, il Re lo fece predicare, ed il primo Sermone ch’egli fece fu
sulle genti di religione ch’e’ cominciò a biasmare, per ciò che nella
compagnia del Re ce n’era a gran numero: e diceva ch’essi non erano
punto in istato di salvarsi, ove non mentissero le Sante Scritture,
il che non poteva esser vero: perchè le Sante Scritture dicono che
un Religioso non può vivere fuor del suo chiostro senza cadere in
più peccati mortali, niente più che il pesce non saprebbe vivere fuor
dell’acqua senza morire. E la ragione era perchè i Religiosi, i quali
seguono le Corti dei Re, bevono e mangiano più fiate diversi vini e
vivande di quel che farebbono s’egli fussero nel loro chiostro. Donde
avviene che l’agio ch’essi ne prendono li invita a peccare meglio che
s’essi menassero austerità di vita. Appresso cominciò egli a parlare al
Re, e gli donò a tenere per insegnamento che s’elli voleva lungamente
vivere in pace ed a grado del suo popolo, ch’elli fosse dritturiere:
e diceva che avea letto la Bibbia e gli altri Libri della Scrittura
Santa, ma che giammai non avea trovato (fusse ciò tra Principi ed
uomini Cristiani o tra miscredenti) che nulla terra o signoria fusse
stata trasferita nè mutata per forza da uno ad altro Signore, fuorchè
per falta di far giustizia e drittura. Per ciò, disse il Cordigliere,
si guardi bene il Re qui presente ch’egli faccia bene amministrar
giustizia a ciascuno in suo Reame di Francia, affinch’e’ possa sino
a’ suoi ultimi di vivere in buona pace e tranquillità, e Dio non gli
tolga il reame a suo danno e vergogna. Il Re per alquante fiate lo
fece pregare ch’e’ dimorasse con lui almeno sin ch’e’ soggiornasse in
Provenza, ma sempre gli fece rispondere ch’egli punto non dimorerebbe
nella compagnia dei Re. Pertanto quel Cordigliere non fu che un giorno
con noi, e la dimane se ne andò contramonte. Ed ho poi udito dire,
ch’egli giace a Marsiglia, là ove Dio gli permette fare di molti bei
miracoli.


CAPITOLO LXII.

Nel quale si ritrae come io mi scompagnassi dal buon Re, e come ponessi
opera al maritaggio del Re di Navarra.

Appresso queste cose il Re si partì di Yeres, e se ne venne nella Città
d’Aix in Provenza per l’onore della benedetta Maddalena che vi giace
presso ad una piccola giornata di cammino: e fummo al luogo detto della
Caverna in una roccia molto alta ed erta là ove l’uomo diceva che la
Santa Maddalena avea vissuto in romita lungo spazio di tempo. Poi di
là venimmo passare il Rodano a Belcaro. E quando io vidi che il Re
era entrato in sua terra ed in suo podere, presi congedo da lui, e me
ne venni alla Delfina del Viennese ch’era mia nipote; e di là passai
verso il Conte di Chalons mio Zio, e poi verso il Conte di Borgogna
suo figliuolo, ed arrivai finalmente a Gionville. Nel qual caro luogo
quando io ebbi soggiornato alcun poco, me ne ritornai verso il Re,
lo quale trovai io a Soissone. E quando fui davanti a lui, egli mi
fece sì grande gioia che tutti se ne meravigliarono. Là io trovai il
Conte Giovanni di Bretagna e la Contessa sua donna, e la figliuola del
Re Tebaldo. E per la dissensione che era intra il Re di Navarra e la
figlia di Sciampagna, per alcun diritto che lo Re di Navarra pretendeva
sul paese di Sciampagna, il Re li fece tutti venire a Parigi in
parlamento per udire le parti e per far loro diritto.

A questo Parlamento domandò il Re Tebaldo di Navarra ad avere
in maritaggio Isabella figliuola del Re, e m’avea esso tratto di
Sciampagna per profferire le parole di domanda di quel maritaggio, per
ciò che gli era nota la ciera grande che il Re m’avea fatta a Soissone:
perchè men venni io deliberamente al Re a parlargli di quel parentado.
Ed egli mi disse: Siniscalco, andate prima ad accordarvi ed a fare
le paci vostre col Conte di Bertagna, e poi, ciò fatto, il maritaggio
s’accompirà. Ed io gli dissi: Sire, è mio avviso che voi non attardiate
li fatti vostri per veder acconci quelli degli altri. Ed egli mi
rispose che per nulla cosa egli non mariterebbe sua figlia oltra il
grado de’ suoi Baroni, e sino a che non fusse fatta la pace col Conte
di Bertagna.

Allora me ne tornai tosto verso la Reina Margherita di Navarra, ed il
Re suo figliuolo ed il loro Consiglio, ed esposi la volontà ferma del
Re; la quale udita, incontanente e con diligenza se n’andarono far
loro pace col conte di Bertagna. E quando la pace fu fatta il Re donò
Isabella sua figlia a Re Tebaldo di Navarra; e furono le nozze fatte
a Meluno grandi e plenarie. E poi da Meluno ammenò il Re Tebaldo la
Reina novella a Provino, là ove essi furono ricevuti a grande onore dai
Baroni ed a grandi spendii.


CAPITOLO LXIII.

Come ’l buon Re si reggesse dopo ’l suo ritorno di Terra Santa, e come
fusse troppo grande amadore di pace.

Ora vi dirò io dello stato del Re, e come egli si mantenne d’ora in
avanti ch’e’ fu venuto d’oltremare. Sappiate dunque che dappoi non
volle unqua portare ne’ suoi abiti nè vaio minuto, nè picciol grigio,
nè iscarlatto, nè staffe e speroni dorati. Le sue robbe erano di
cammelino o di perso, e le pellicce e i soppanni delle sue mantelline
erano di coniglio o di lepre. Nella bocca sua fu assai sobrio nè
divisò giammai che gli si apprestassero vivande deliziose e diverse,
ma prendeva paciosamente ciò che gli venia messo dinanzi. Il suo vino
attemperava d’acqua secondo la forza d’esso vino, e beveva in calice di
cristallo. Comunemente quando e’ mangiava aveva dietro di sè i poveri,
che facea pascere del suo servito, e poi appresso donare di suo danaro.
Levate le tavole, aveva i suoi Preti che gli rendevano le grazie a
Dio. E quando qualche gran personaggio istrano mangiava con lui, egli
era loro di molto buona ed amorevole compagnia. Della saggezza sua
poi vi dirò io ch’elli era tenuto pel più savio uomo di tutto suo
Consiglio; e che quando gli arrivasse cosa a che bisognasse rispondere
necessariamente senza rattento, giammai non attendeva egli il Consiglio
suo, ma rispondeva di tratto allorchè erano richieste celeritade e
drittura. Appresso il buon Re San Luigi procacciò tanto ch’egli fece
venire a lui in Francia il Re d’Inghilterra, colla Reina e’ figliuoli
per far pace ed accordo intra loro. Alla qual pace fare, erano assai
contrarie le genti di suo Consiglio, e gli dicevano: Sire, noi siamo
grandemente meravigliati comente voi vogliate consentire a bailire e
lasciare al Re d’Inghilterra sì gran parte di vostre terre, che voi e’
predecessori vostri avete acquistate sovra di lui per li suoi misfatti:
donde egli ci sembra che non ne siate punto bene avvertito, e che grado
nè grazia non ve ne saprà egli. A ciò il Re rispondeva, ch’egli sapeva
bene che il Re d’Inghilterra ed il suo predecessore avevano giustamente
ed a buon diritto perdute le terre ch’egli teneva, e che non intendeva
render loro alcuna cosa al che fare fosse egli tenuto; ma facevalo
solamente per amore, pace ed unione avere, nodrire ed intertenere intra
essi, e’ figliuoli loro che erano insieme cugini germani. E soggiungeva
il Re: io penso che, ciò facendo, farò ovra molto buona e prosperosa,
perchè in primo luogo ne acquisterò ferma pace, ed in appresso io ne
lo farò mio uomo ligio e di fede, visto che sin qui non è egli ancora
entrato in mio omaggio. E già il Re San Luigi fu l’uomo del mondo che
più si travagliò a fare e mettere pace e concordia tra’ suoi soggetti,
e per ispeciale intra li Principi e Signori di suo Reame e dei vicini,
siccome fu intra il Conte di Chalone mio zio ed il Conte di Borgogna
suo figliuolo che avevano guerra insieme, allorchè fummo al ritorno
d’oltre mare. E per la pace fare intra il padre e ’l figliuolo inviò
egli alquante genti di suo Consiglio sino in Borgogna al suo proprio
costo, e finalmente tanto fece, che per suo mezzo la pace dei due
personaggi fu ferma. Similmente per suo procaccio fu fatta pace intra
il secondo Re Tebaldo di Navarra ed i Conti di Chalone e di Borgogna
che avevano dura guerra insiememente l’uno contro gli altri, e vi
inviò del pari delle genti di suo Consiglio che ne fecero lo accordo e
appaciaronli.

Appresso quella pace cominciò un’altra gran guerra tra il Conte
Tebaldo di Bar ed il Conte Errico di Lucemburgo, il quale aveva la
sorella di lui a donna. E questi si combatterono l’un l’altro a mano
a mano disotto Pigny. Ed il Conte di Bar prese quello di Lucemburgo,
ed appresso guadagnò il castello di Ligny che è ad esso Conte di
Lucemburgo a cagione della moglie. Per la qual guerra condurre a pace
il Re c’inviò Monsignor Perrone il Ciambellano, che era l’uomo del
mondo in chi ’l Re credeva il più, e ciò alle sue spese; e tanto ci
si travagliò il Re che la pace loro fu fatta. Le genti del suo gran
Consiglio lo riprendevano alcuna fiata per ciò ch’egli prendeva così
gran pena ad appaciare gli strani, e rappresentavangli ch’e’ facea
male quando non li lasciava guerreggiare, perchè egli ne sarebbe più
ridottato, e gli appuntamenti si farebbero meglio appresso. A ciò loro
rispondeva il Re e diceva: ch’essi bene nol consigliavano, perchè,
soggiungeva, se i Principi e i gran Signori che son vicini del mio
Reame, vedessero ch’io li lasciassi guerreggiare gli uni agli altri,
potrebbono dire tra loro che ’l Re di Francia per sua malizia ed
ingratitudine li lascia così consumare, e quindi contrarne odio, e così
far giura insieme d’incorrermi sopra; donde io ne potrei soffrir male e
danno nel mio Reame, e di vantaggio incontrare l’ira di Dio, il quale
dice: benedetto sia colui che s’isforza di mettere unione e concordia
tra i discordanti. E bene sappiate che per la bontà che i Borgognoni
ed i Lorenesi vedevano nella persona del Re, e per la gran pena
ch’elli avea preso in metterli ad unione, essi l’amavano tanto e così
l’obbedivano ch’e’ furono tutti contenti di venir piatire davanti a lui
intorno le discordie ch’essi avevano gli uni in verso gli altri. Ed io
li vidi venire più volte per ciò a Parigi, a Reims, a Meluno ed ovunque
là ove fosse il buon Re.


CAPITOLO LXIV.

Come amasse lo onore di Dio e de’ Santi e d’altre sue sante costume.

Il buon Re amò tanto Dio e la sua benedetta Madre, e sì li volle
riveriti e onorati che tutti coloro ch’e’ poteva convincere d’aver
fatto alcun villano saramento o detto qualch’altra villana e disonesta
cosa mettendo mala bocca in cielo, egli li faceva grievemente punire.
Ed io vidi una fiata a Cesarea oltre mare, ch’elli fece per ciò
mettere in gogna sulla scala un orafo in sole brache e camicia molto
villanamente ed a suo gran disonore. E così udii dire che (dopo ch’egli
fu ritornato d’oltre mare e durante ch’io era andato a Gionville)
avea fatto marcare a ferro caldo le nari e le labbra d’un borghese di
Parigi per un blasfemo ch’elli avea fatto. Ed udii anche dire al Re
di sua propria bocca, ch’egli stesso avrebbe voluto esser segnato d’un
ferro ardente, se avesse potuto tanto fare ch’egli avesse tolto tutti
i blasfemi e tutte le male giurazioni di suo Reame. In sua compagnia
sono io bene stato per lo spazio di ventidue anni: ma unqua in mia
vita, per qualunque corruccio ch’egli avesse, non l’ho udito giurare
o blasfemare Dio, nè la sua degna Madre, nè alcun Santo, nè Santa.
E quando egli voleva affermare alcuna cosa, solea dire: _veramente
egli è così,_ o: _veramente non va mica così._ E bene apparve che per
nulla cosa egli non avrebbe voluto rinnegare o giurare Dio, quando il
Soldano e gli Almiranti d’Egitto vollero che per maniera di sacramento
esso ammettesse, rinnegherebbe Dio nel caso ch’e’ non tenesse
l’appuntamento della pace da essi voluta: giacchè il Santo Re, quando
gli fu rapportato che i Turchi volevano ch’elli fesse tale saramento,
giammai non lo volle fare, anzi piuttosto arebbo amato morire, com’egli
è messo in conto davanti. Giammai non gli udii nomare nè appellare il
diavolo, se non fusse stato leggendo in alcun libro là ove bisognasse
nomarlo per esempio. Ed è una vergognosa cosa nel Reame di Francia
ed ai Principi mal sedente quella di sofferire ch’e’ sia così soventi
fiate mentovato: perchè voi vedrete che l’uno non dirà punto all’altro
tre motti per occasione di male, ch’egli non dica: _Vattene al
diavolo. Fatti da parte il diavolo_, od in altre maniere lascibili di
linguaggio. Ancora dirò che il Santo Re mi dimandò una fiata, se io
lavava i piedi ai poveri il giorno del giovedì ultimo di Quaresima;
ed io gli risposi che no, e ch’ella non mi sembrava mica essere cosa
orrevole e onesta. Adunque il buon Re mi disse: Ah! Sire di Gionville,
voi non dovete punto avere in disdegno e dispetto ciò che Dio ha fatto
per nostro esempio, che lavolli a’ suoi Apostoli, lui, lui, che era
loro Maestro e Signore: sicchè credo bene che voi a stento fareste ciò
che fa il presente Re d’Inghilterra, il quale a quel giorno del Giovedì
Santo lava i piedi, non ai poveri, ma sibbene ai miselli e lebbrosi, e
poi li bacia.

Avanti che ’l buon Signore Re si ponesse in letto egli aveva sovente in
costume di far venire i suoi figliuoli davanti a lui, e loro ricordava
i bei fatti e’ detti dei Re e Principi antichi, e dicea loro che bene
li dovevano sapere e ritenere per prendervi buono esempio. E parimente
loro rimostrava i fatti dei malvagi uomini, i quali per lussuria,
rapine, avarizie ed orgogli avevano perdute loro terre e loro signorie,
e ne era loro malvagiamente avvenuto; e dette queste cose, soggiungeva
il Re, guardatevene dunque di fare così com’essi hanno fatto,
affinchè Dio non ne prenda corruccio contro di voi. Egli facea loro a
simigliante apprendere l’officio di Nostra Donna, e facea in ciascun
giorno udire e dire in presenza le Ore del giorno secondo i tempi,
affine di accostumarli a così farlo quando essi sarebbero in occasione
di tenere le terre loro. Ancora era un assai largo limosiniere, e
per tutto ov’egli andava in suo Reame, visitava le povere Chiese, i
Lazzaretti e gli Spedali; e s’inchereva de’ poveri gentiluomini, delle
povere femmine vedove, delle povere figliuole a maritare: e per tutti
i luoghi ove egli sapeva avervi necessità, od essere soffrattosi, egli
faceva loro largamente donare di sua moneta. Ed ai poveri mendicanti
facea dare a bere e a mangiare, ed io ho visto più fiate lui medesimo
tagliar loro il pane, e donare a bere. In suo tempo egli ha fatto fare
ed edificare più Chiese, Monasterii e Badie, ciò sono Realmonte, la
Badia di Sant’Antonio allato Parigi, la Badia del Giglio, la Badia di
Malboissone, ed alquante altre per le religioni de’ Predicatori e dei
Cordiglieri. Fece egli similmente la Casa di Dio di Pontosia, quella
di Vernone, la Casa de’ Trecento in Parigi, e la Badia dei Cordiglieri
di San Clù, che Madama Isabella sua sorella fondò a la richiesta di
lui. Quanto a li benefici delle Chiese che iscadevano in sua donagione,
avanti ch’e’ ne volesse provvedere alcuno, s’andava incherendo a
buone e sante persone dello stato e della condizione di coloro che
glieli domandavano, e volea sapere s’essi erano cherci e litterati:
e non voleva giammai che quelli a chi donasse i beneficii altri ne
tenessero più che al loro stato non appartenesse: e sempre come dissi
rilasciavali per grandi ed appensati consigli di genti dabbene.

Or qui appresso vedrete comente egli corresse i suoi Balivi,
Giustizieri, ed altri Officiali, ed i belli e nuovi Stabilimenti
ch’egli fece ed aordinò ad essere guardati per tutto il suo Reame di
Francia, i quali sono i seguenti.


CAPITOLO LXV.

De’ buoni Stabilimenti ch’e’ fece, e del pro ritrattone dal Reame.

«Noi Luigi, per la grazia di Dio Re di Francia, stabiliamo che tutti
i Balivi, Preposti, Maestri, Giudici, Ricevitori, ed altri in qualche
officio essi sieno, non che ciascun d’essi, deggiano d’ora in avanti
far giuramento che, domentre e’ saranno nei detti offici, faranno
dritto e giustizia a chicchessia senza avere alcuna eccezione di
persone, tanto a poveri quanto a ricchi, così agli strani come ai
privati e dimestici, e guarderanno gli usi e’ costumi che sono buoni
e approvati. E se per alcuno d’essi sarà fatto al contradio del loro
giuramento, noi vogliamo ed espressamente ingiungiamo ch’essi ne sieno
puniti nei beni e nel corpo secondo la richiesta dei casi. La punizione
de’ quali nostri Balivi, Preposti, Giustizieri ed altri Officiali
riserviamo a noi ed alla conoscenza nostra, e la attribuiamo a loro
stessi quanto alle malefatte degli inferiori e soggetti ai medesimi.
I nostri Tesorieri, Ricevitori, Preposti ed Uditori dei Conti e gli
altri Officiali ed Intramettitori delle nostre finanze giureranno che
bene e lealmente guarderanno le nostre rendite e dominii con tutti
e ciascuno i nostri dritti, libertà e preminenze senza permettere e
soffrire che ne sia niente sottratto, levato, o diminuito. Ed inoltre,
non prenderanno essi, nè lascieranno prendere a loro genti e commessi,
dono nè presente alcuno che si voglia far loro, od alle loro donne,
o figliuoli, nè ad altri qualsivoglia pur che torni in loro favore: e
se alcun dono ne fusse mai ricevuto, sì il faranno essi incontanente e
senza detrazione rendere e restituire al donatore. E simigliantemente
non faranno essi alcun dono o presente a nulla persona di cui sieno
soggetti per qualsivoglia favore, abbuono o discarico. Ancora essi
giureranno che, laddove essi sapessero o conoscessero alcun Officiale,
sergente od altri che sia rapinatore od abusatore nel proprio officio,
sicchè debba egli perdere e il detto officio e il servizio nostro, nol
sosterranno essi nè celeranno per doni, favori, promesse o altrimenti,
anzi li puniranno e correggeranno, secondo richiederà il caso, in
buona fede ed equità, e senza alcun odio e rancore. Vogliamo inoltre,
tuttochè i detti giuramenti siano presi davanti a noi, che ciò non
ostante sieno essi pubblicati davanti i Cherci, Cavalieri, Signori, e
Buoni Uomini tutti del Comune, affinchè meglio e più fermamente sieno
tenuti e guardati, e che i giuratori abbino paura d’incorrere nel
vizio di spergiurio, non già soltanto per lo timore della punizione
di nostre mani, o della onta del mondo; ma ben anche per lo timore
della punizione di Dio. In appresso noi difendiamo e proibiamo a
tutti li detti nostri Balivi, Preposti, Maestri, Giudici ed altri
nostri Officiali, ch’essi non giurino nè blasfemino il nome di Dio,
della sua degna Madre, e dei benedetti Santi e Sante del Paradiso: ed
a simigliante ch’essi non sieno giucatori di dadi, nè frequentatori
di taverne o bordelli, sotto pena di privazione del loro officio,
e di quella tal punizione che apparterrà al caso. Noi vogliamo del
pari che tutte le femmine folli di loro corpo e communi, sieno messe
fuori delle magioni de’ privati e così separate dalle altre persone,
e che non verrà loro allogata nè data a fitto qualsivoglia casa ed
abitazione per intertenervi il loro vizio e peccato di lussuria.
Appresso ancora noi proibiamo e difendiamo che nullo de’ nostri Balivi,
Preposti, Giudici ed altri Officiali amministratori della Giustizia
non siano tanto arditi da acquistare o comperare per essi o per altri
alcuna terra o possessione ne’ luoghi dov’essi avranno in mano la
giustizia, senza nostro congedo, licenza e permissione, e prima che
noi siamo bene certificati della cosa. Che se essi contrafacessero,
noi vogliamo e intendiamo che le dette terre e possessioni siano e
rimangano confiscate in nostre mani. Ed a simigliante non vogliamo
punto che i suddetti nostri Officiali Superiori, tanto ch’essi saranno
nel servigio nostro, maritino alcuni de’ loro figli, figlie od altri
parenti ch’essi abbiano, a persone che sieno del loro baliaggio o
giustizierato, senza il nostro congedo espresso ed ispeciale. E tutto
ciò, dei detti acquisti e maritaggi proibiti, non intendiamo punto
abbia luogo in tra gli altri Giudici ed Officiali inferiori, nè intra
gli altri minori d’officio. Noi difendiamo altresì ch’e’ Balivi,
Prevosti e simili tengano troppo gran numero di Sergenti, o di Bidelli
in guisa che il comun popolo ne sia gravato. Difendiamo parimente
che nullo de’ nostri soggetti sia preso al corpo od imprigionato per
proprii debiti personali fuor per quelli che ci ragguardano, e che non
sia levata ammenda sovra nullo de’ nostri soggetti per lo suo debito.
Inoltre stabiliamo che coloro i quali terranno le Bailie, Preposture,
Visconterie, od altri nostri Offici, non li possano vendere nè
trasportare ad altra persona senza nostro congedo. E quando più saranno
compartefici in un officio, noi vogliamo che uno lo eserciti per tutti.
Difendiamo altresì ch’essi non ispossessino alcuno di possesso ch’e’
tenga senza conoscenza di causa, o senza nostro speciale comandamento.
Ancora non vogliamo che sia levata alcuna esazione, balzello, tolta,
o costume novello. Finalmente vogliamo che i nostri Balivi, Preposti,
Maestri, Visconti ed altri nostri Officiali, i quali per alcun caso
saranno messi fuori degli offici loro e del servizio nostro, siano,
appresso ch’e’ saranno così deposti, per quaranta giorni residenti
nel paese ove esercitavano gli offici stessi, o nelle persone loro o
per procuratore speciale, affinchè essi rispondano ai nuovi entrati
negli offici medesimi, intorno a ciò ch’essi vorranno domandar loro,
relativamente a qualsivoglia malefatta o richiamo.»

Per li quali suddetti stabilimenti il Re ammendò grandemente suo Reame,
e talmente che ciascuno viveva in pace e tranquillità. E sappiate che
nel tempo passato l’Offizio della Prevosteria di Parigi si vendeva
al più offerente. Donde egli avveniva che molte ruberie, e molti
malefizii se ne facevano, e la giustizia ne era totalmente corrotta
per favore d’amici, e per doni, e per promesse; sicchè l’uom comunale
non osava abitare nelle terre del Reame, ma vi si teneva per entro
quasi erratico e vagabondo. E soventi volte non ci aveva ai piati
della detta Prevosteria, quando il Preposto tenea sue Assisie, che
diece persone al più, tante erano le ingiustizie ed abusioni che vi si
facevano. Pertanto non volle egli più che la Prepostura fusse venduta,
anzi era Officio che Egli dava a qualche gran saggio uomo, e che di
sua saggezza e bontà presentasse buoni e grandi gaggi. E fece abolire
tutte le malvage costume donde il povero popolo era per lo innanzi
gravato. E fece ricercare per tutto il paese laddove potesse trovare
qualche savio, il quale fosse buon giustiziere e punisse strettamente
i malfattori senza avere isguardo al ricco più che al povero; e gli
fu ammenato uno, che si nomava Stefano Bevilacqua, al quale egli donò
l’officio di Preposto di Parigi. E questi dappoi fece tali meraviglie
nel mantenersi in detto officio che ormai più non ci avea ladrone,
micidiale nè altro malfattore che osasse dimorare in Parigi, ch’elli
tantosto non ne avesse conoscenza, e presolo, nol facesse impendere,
o punire a rigor di giustizia secondo la qualità e quantità del
mal fatto. E non ci avea favore di parentado nè d’amici, nè oro, nè
argento che ne lo avesse potuto mai guarentire così che buona e pronta
giustizia non ne fusse fatta. E finalmente nello lasso del tempo,
il Reame di Francia si moltiplicò talmente per la dirittura che vi
regnava, che i dominii, censi, rendite ed entrate vi crebbero d’anno in
anno, sicchè se ne ammendò molto tutto il suddetto Reame.


CAPITOLO LXVI.

Come fusse largo ed allegro elemosiniere.

Sino dal tempo della sua più giovine età fu egli pietoso dei poveri
e dei soffrattosi, e talmente ci si accostumò, che, quanto egli bastò
a regnare, ebbe sempre comunalmente centoventi poveri, i quali erano
pasciuti ciascun giorno nella sua magione, in qualsivoglia parte
egli fusse. Ed in Quaresima il numero dei poveri cresceva, e soventi
fiate li ho visti servire da lui medesimo, e donare delle sue proprie
vivande. E quando ciò avveniva nelle feste annuali, i giorni delle
vigilie, avanti ch’elli bevesse o mangiasse, e’ li serviva a sue mani:
e quando erano pasciuti, asportavano tutti ancora una certa somma di
moneta. E a dir breve, faceva il Re San Luigi tanto di limosine, e
di sì grandi, che a pena le si potrebbono tutte dire e dichiarare.
Donde ci ebbero alcuni de’ suoi famigliari, i quali mormoravano di ciò
ch’elli faceva sì grandi doni e limosine, e dicevano ch’e’ troppo vi
dispendea. Ma rispondeva il buon Re ch’egli amava meglio fare grandi
ispese in limosine, che in vanità ed in burbanze. Nè già per qualunque
grandi limosine ch’e’ facesse, non lasciava a fare grande spendio e
larghezza nella sua magione così intertenendola come apparteneva a tal
Principe, e ben mostrandosi, quale egli era, splendido e liberale.
Durante i Parlamenti e gli Stati ch’e’ tenne per fare i suoi nuovi
Stabilimenti, faceva tutti servire a Corte i Signori, i Cavalieri e
gli altri in più grande abbondanza e più altamente che giammai non
avesser fatto i suoi predecessori. Amava molto tutte maniere di genti
che si mettevano al servizio di Dio, e per ciò fondò egli e fece
assai di belli Monasteri e Case di Religione per tutto il suo Reame; e
medesimamente accerchiò tutta la città di Parigi di genti di religione,
ch’egli vi ordinò, alloggiò, e fondò a suoi danari.


CAPITOLO LXVII.

Come ’l Santo Re riprendesse la Croce maluriosamente, e come fosse
condotto in fin di vita appresso Tunisi.

Appresso tutte le suddette cose, il Re mandò tutti i Baroni di suo
Reame per andare a lui in Parigi in un tempo di Quaresima[89] e
similmente m’inviò egli a cherère a Gionville, di che io mi pensai a
bastanza scusato del venire per una febbre quartana che io aveva: ma
egli mi mandò che aveva assai genti che sapevano dar guarigione della
quartana, e che per tutto l’amore ch’io gli portava, andassi a Parigi,
ciò che io feci a mio gran disagio. E quando fui là, unqua non potei
sapere perchè avesse così mandati tutti li gran Signori di suo Reame.
Allora avvenne che il giorno della festa di Nostra Donna in marzo io
m’addormentai a mattutino: e nel mio dormire mi fu avviso ch’io vedeva
il Re a ginocchi davanti uno altare, e ch’egli ci avea molti Prelati
che il rivestivano di una pianeta rossa, la quale era di sargia rensa.
E tantosto ch’io fui isveglio raccontai la visione a un mio Cappellano,
ch’era uomo molto savio, il quale mi disse che ’l Re si crocerebbe la
dimane. Ed io gli domandai come egli lo sapeva? ed egli mi rispose che
per lo mio sogno ed avviso, e che la pianeta rossa, ch’io gli aveva
veduto mettere su, significava la Croce di Nostro Signore Gesù Cristo,
la quale fu rossa del prezioso suo sangue ch’elli isparse per noi, e
similmente che la pianeta, sendo di sargia rensa, ne accadrebbe che la
Crociata non sarebbe punto gloriosa e di gesta grande.

Ora egli avvenne veramente che la dimane il Re e li tre suoi figliuoli
si crociarono, e fu la Crociata di poco uscimento tutto così come il
mio Cappellano m’avea recitato il giorno innanzi, per che io credo
ch’egli allora avesse spirito profetale. Ciò fatto il Re di Francia
e ’l Re di Navarra, mi pressarono forte di crociarmi, e d’imprender
di nuovo con essi il santo pellegrinaggio della Croce, ma io loro
risposi che in quel tanto ch’io era stato oltre mare al servizio di
Dio, le genti ed officiali del Re di Francia avevano troppo gravati ed
oppressi i miei sudditi, sicchè ne erano essi appoveriti talmente che
giammai non sarebbe ch’essi e me non ce ne risentissimo dolorosamente.
Pertanto vedeva aperto che s’io mi mettessi da capo al pellegrinaggio
della Croce ciò sarebbe la totale distruzione dei suddetti miei poveri
sudditi: il che per diritto non doveva soffrire. Poscia udii dire a
molti che quegli che gli consigliarono la intrapresa della Croce fecero
un molto gran male e peccarono mortalmente. Perchè, mentre ch’egli
fu nel Reame di Francia, tutto il Reame stesso viveva in pace, e vi
regnava giustizia; e incontanente ch’egli ne fu fuora, tutto cominciò
a declinare ed a volgere in peggio. Per altra via fecero essi un gran
male, perchè il buon Signore era così fievole e debilitato di sua
persona ch’egli non poteva soffrire nè portare alcun arnese sopra il
suo corpo, nè durare all’essere lungamente a cavallo: e mi convenne
una fiata portarlo tra le mie braccia dalla magione del Conte di
Alserra sino ai Cordiglieri, quando mettemmo piede a terra al nostro
rivenir d’oltre mare. Del cammino ch’e’ prese per andar sino a Tunisi
io non ne scriverò niente, perciò ch’io non vi fui punto, e non voglio
mettere per iscritto in questo libro alcuna cosa della quale io non sia
affatto certificato. Ma noi diremo brievemente del buon Re San Luigi
che, quando egli fu a Tunisi davanti il Castello di Cartagine, una
malattia di flusso di ventre lo prese. E parimente a Monsignor Filippo
suo figlio primo nato prese la detta menagione colle febbri quartane.
Il buon Re dovette darsi al letto, e ben conobbe ch’egli doveva
decedere di questo mondo nell’altro. Allora appellò i suoi figliuoli,
e quando furono davanti a lui, egli addirizzò la parola al suo figlio
primo-nato e diedegli degl’insegnamenti che gli comandò guardare come
per testamento, e come sua reda principale. Li quali insegnamenti io
ho udito dire che il buon Re medesimo li scrisse di sua propria mano, e
son tali.


CAPITOLO LXVIII.

Dei santi ed ultimi ammaestramenti ch’esso diede al figliuolo.

«Bel figlio, la primiera cosa che t’insegno e ti comando a guardare
si è che di tutto tuo cuore, e sovra tutte cose tu ami Dio, perchè
senza ciò null’uomo non può esser salvato; e guardati bene di far cosa
che a lui dispiaccia, cioè guardati di peccato: giacchè tu dovresti
piuttosto desiderar di soffrire tutte maniere di tormenti, che di
peccare mortalmente. Se Iddio t’invia avversità ricevila benignamente,
e rendigliene grazie, e pensa che tu l’hai ben meritata, e che il
tutto ti ritornerà a prò. S’Egli ti dona prosperità sì ringrazianelo
umilmente, e guarda che per ciò tu non ne impeggiori per orgoglio
o altrimenti: poichè non si dee mica muover guerra a Dio coi doni
ch’egli ci ha fatto. Confessati sovente ed eleggi Confessore idoneo
che produomo sia, e che ti possa securamente insegnare a fare le cose
che sono necessarie per la salute dell’anima tua, ed altresì quelle
da cui tu devi guardarti; e fa d’esser tale che i Confessori tuoi,
i tuoi parenti e famigliari ti possano così arditamente riprendere
del male che tu arai fatto, siccome apprenderti il bene ch’era da
farsi. Ascolta il servigio di Dio e di Nostra Madre Santa Chiesa
devotamente e di cuore e di bocca (e per ispeciale alla Messa dappoi
che la consecrazione del Santo Corpo di Nostro Signore sarà fatta)
senza celiare od ammiccare con altrui. Abbi il cuor dolce e pietoso ai
poveri, e li conforta ed aiuta in ciò che potrai. Mantieni le buone
Costume del tuo Reame, ed abbassa e correggi le malvage. Guardati
della troppo gran cupidigia, e non buttar su al tuo popolo troppo
grandi taglie e sussidii, se ciò non fusse per invincibile nicissità
e pel tuo Reame difendere. Se tu hai alcun misagio in tuo cuore, dillo
incontanente al tuo Confessore, o ad alcuna buona persona che non sia
punto piena di villane parole, ma le abbia soavi e amorevoli, e così
leggermente porrai portare il tuo male, per lo riconforto che l’uomo
savio ed ammisurato ti donerà. Prenditi ben guardia che tu aggia in
tua compagnia genti probe e leali, le quali non siano punto piene
di cupidigia, sieno esse religiose, secolari o altrimente. Fuggi la
compagnia dei malvagi, ed isforzati d’ascoltare le parole di Dio, e
le ritieni in tuo cuore. Procaccia continuamente preghiere, orazioni
e perdoni. Ama il tuo onore. Guardati dal soffrire colui che sia sì
ardito di dire davanti à te parola alcuna, la quale sia cominciamento
d’ismuovere chicchessia a peccato, o che maledica d’altrui assente o
presente per detrazione. Non soffrire che alcuna villana cosa sia detta
di Dio, della sua degna Madre, o dei Santi o Sante. Sovente ringrazia
Dio dei beni e della prosperità ch’egli sarà per donarti. Fa drittura
e giustizia a ciascuno tanto al povero come al ricco. A tuoi servitori
sii leale, e munifico, ma fermo e non voltabile di parola, acciò
ch’essi ti temano ed amino come loro Signore. Se controversia nasce, od
azione alcuna viene intentata, fanne inquisizione fino a raggiugnere
la verità, sia che questa ti favorisca o ti contrarii. Se tu sei
avvertito di avere alcuna cosa d’altri, sia per fatto tuo, sia de’
tuoi predecessori, qualora ne venga certificato, rendila incontanente.
Riguarda con tutta diligenza se le genti a te soggette vivono in
pace ed in drittura, e specialmente nelle buone ville e cittadi.
Mantieni loro le franchigie e libertà, nelle quali i tuoi antenati
le hanno mantenute e guardate, e tienile in favore ed amore: giacchè
per la ricchezza e possanza delle tue buone cittadi i tuoi nemici ed
avversarii si dotteranno d’assalirti e di misprendere inverso di te, e
per ispeciale i tuoi Pari, i tuoi Baroni, ed altri simiglianti. Ama ed
onora tutte le genti di Chiesa e di Religione, e guarda bene che non
loro togliessi li redditi, i doni, e le elemosine che i tuoi antenati
e predecessori hanno lasciato o donato alle medesime. Si racconta del
Re Filippo mio avo che una fiata l’uno de’ suoi Consiglieri gli disse
che le genti di Chiesa gli facevano perdere ed amminuire i diritti, le
libertà, non che le giustizie sue, e che era gran meraviglia ch’egli
il sofferisse così. E il Re mio Avo gli rispose ch’egli il credeva bene
altresì, ma che Dio gli avea fatti tanti beni e tante gratuità donate,
ch’egli amava meglio perdere alcun poco di suo podere che piatire
e contendere colle genti di Chiesa Santa. A tuo Padre e a tua Madre
porta onore e reverenza, e guardati dal corrucciarli per disobbedienza
de’ loro buoni comandamenti. Dona i beneficii che ti apparterranno a
persone buone e di netta vita, e sì fallo per lo consiglio di uomini
probi e savi. Guardati dallo ismuover guerra Contra Cristiani senza
grande consilio, e solo allorchè altrimenti tu non ci possa ovviare:
e se guerra ci avrai, risparmiane le genti di Chiesa, e coloro che in
niente non ti avranno misfatto. Se guerra o dibattimento insorga tra i
tuoi soggetti, pacificali al più tosto che tu potrai. Prendi guardia
sovente a’ tuoi Balivi, Preposti, ed altri Officiali, ed inchiedili
di lor governo, affinchè se cosa v’ha in essi a riprendere che tu lo
faccia. Pon mente gelosa che qualche villano peccato non s’immetta
nel tuo Reame, e principalmente blasfemo e resìa, e s’alcuno ve ne
rampolla fallo togliere e strappar via. Tien modo che tu faccia nella
tua Magione spendio ragionevole ed ammisurato. Supplico poi io a te,
figliuol mio, che dopo il mio fine aggia sovvenenza di me e della
povera anima mia, sicchè ne la voglia soccorrere per messe, orazioni,
preghiere, limosine e buoni fatti in tutto il Reame, e mettimi in parte
e porzione di tutti li beneficii e sante opere che tu farai: ed io dono
a te tutta la benedizione che giammai Padre può donare a figliuolo,
pregando umilmente alla Santissima Trinità del Paradiso al Padre, al
Figliuolo e allo Spirito Santo, sicchè ti guardi e difenda da tutti
i mali, e per ispeciale dal morire in peccato mortale; acciò che noi
possiamo una fiata, appresso questa breve vita mortale, essere insieme
davanti a Dio, a rendergli grazie e lodi senza fine nel suo vero e non
perituro Reame del Paradiso. Amen.»


CAPITOLO LXIX.

Della santa morte del Santo Re, e come fu poscia annoverato tra
Confessori della Fede.

Quando il buon Re San Luigi ebbe così insegnato ed indottrinato
Monsignor Filippo suo primogenito, ed in lui tutti gli altri figliuoli
suoi, la malattia che il premeva cominciò tosto a crescere duramente.
Ed allora domandò i Sagramenti di Santa Chiesa, che gli furono
amministrati in sua piena conoscenza, buon senno e ferma memoria.
E bene ciò apparve perchè, quando lo misero in estrema unzione, e
dissero i sette Salmi di penitenza, egli medesimo rispondeva i versetti
dei detti Salmi insieme cogli altri che accompagnavano il Prete in
quell’ultimo pietoso officio. E udii poscia dire a Monsignore il Conte
d’Alansone suo figliuolo, che sentendosi il buon Re approssimare alla
morte s’isforzava d’appellare i Santi e Sante del Paradiso perchè il
venissero âtare e soccorrere a quel trapasso: e per ispeciale evocava
egli Monsignore San Jacopo, in dicendo la sua orazione che comincia:
_Esto, Domine_. Anche Monsignor San Dionigi appellò egli, recitando la
sua orazione, la quale in sentenza dice così: Sire Iddio, donaci grazia
di poter disprezzare e mettere in obblìo le proprietà di questo mondo,
sicchè incontriamo senza dottanza qualsivoglia avversitade. Finalmente,
dopo aver richiamato anche Madama Santa Geneviefa, si fece istendere
sovra un letto coverto di ceneri, fece croce sul petto delle sue
braccia; e così, riguardando tuttavia verso il cielo, rese in un suave
sospiro la benedetta anima al suo Creatore, a tale ora medesima in
che Nostro Signore Gesù Cristo rese lo Spirito al Padre in su l’albero
della Croce per la salute di tutti i popoli.[90]

Pietosa cosa è veramente e degna di largo pianto il trapassamento
di questo Santo Principe, il quale sì santamente ha vissuto, e bene
ha guardato suo Reame, e che tanto di buone ovre ha fatto in verso
Dio. Perchè, così come il dittatore vuole alluminato il suo Libro
in oro smagliante ed in colori gai per farlo più bello e onorato,
simigliantemente il buon Santo Re ebbe alluminato e fregiato la vita
sua ed il suo regno per le grandi limosine, e pei Monasterii e Chiese
ch’egli ha fatto e fondato in suo vivente, ove Dio è al dì d’oggi
lodato ed onorato notte e giorno. La domane della festa di Santo
Bartolomeo Apostolo trapassò egli di questo secolo nell’altro, e ne fu
poscia apportato il corpo in Francia a San Dionigi, e là fu soppellito
nel luogo ove egli avea già da tempo eletta la sua sepoltura: al qual
luogo Dio misericordioso, per le preghiere di lui, ha permesso sien
fatti molti e belli miracoli.

Tosto appresso per lo comandamento del Santo Padre di Roma venne un
Prelato a Parigi che fu lo Arcivescovo di Roano, ed uno altro Vescovo
con lui, e se ne andarono a San Dionigi, al qual luogo essi furono
lungo tempo per inchiedervisi della vita, delle opere e dei miracoli
del buon Re San Luigi. E mi mandarono che venissi a loro, e là fui per
due giorni per ch’io loro isponessi tutto ciò che sapeva. E quand’essi
si furono per tutto bene e diligentemente inchiesti d’esso buon Re,
ne riportarono in Corte di Roma tutto l’inchierimento. Lo quale bene
veduto, ed a buon diritto esaminato, funne il nostro buon Re per
solenne dicreto messo nel novero dei Confessori della Fede[91]. Donde
gran gioia fu e dovè essere per tutto il Reame di Francia, e molto
grande onore ne venne a tutto il suo lignaggio, e sì veramente a coloro
che lo vorranno imitare, mentre sarà a gran disonore di quelli di
suo lignaggio che non imitandolo, saranno mostri col dito, e si dirà
di loro: che giammai il buon Sant’Uomo arebbe fatta tale malvagità o
villanìa.

Appresso che queste buone novelle furono venute di Roma, il Re donò
ed assegnò giornata per levare il Santo Corpo. L’Arcivescovo che fu di
Reims, e Messer Errico di Villiere che altresì fu Arcivescovo di Lione
lo portarono primi, e più altri Arcivescovi e Vescovi il portarono
dappoi, de’ quali io non so i nomi. Appresso ch’e’ fu levato Frate
Giovanni di Semuro lo predicò davanti il popolo, e tra gli altri suoi
buoni fatti rammentò sovente una cosa ch’io gli avea detto del buon
Re: cioè la grande sua lealtà, perchè, com’io ho mentovato davanti,
quando egli avea alcuna cosa promessa della sua sola e semplice parola
ai Saracini nel viaggio d’oltremare, non ci avea rimedio che non la
tenesse loro a qualunque costo, od a perdita qualsivoglia. Predicò
similmente il detto Frate Giovanni tutte le parti della sua vita
com’elleno per me sono state già scritte. E tantosto che il Sermone
fu finito, il Re novello ed i fratelli suoi riportarono il corpo del
Re loro padre nella detta Chiesa di San Dionigi con l’aita del loro
lignaggio, per onorare così quel corpo che tanto onore apporta loro, ed
apporterà per lo avvenire se per essi non farà difetto il proposito di
seguitarne i precetti.


CAPITOLO LXX.

Un’ultima parola sul caro e santo mio Re.

E qui finirebbe il conto s’io non volessi anche aggiungere qualche
cosa in onore del mio buon Re San Luigi. Sappiate dunque che, sendo io
nella mia Cappella a Gionville, egli mi fu avviso ad un cotal dì, nel
quale era tutto insonnolito, ch’e’ mi venisse davanti molto gioioso, e
ch’io parimente fossi assai lieto di vederlo nel mio castello, e che
poi gli dicessi: Sire, quando voi vi partirete di qui, io vi menerò
alloggiare in un altro mio maniere che io ho a Cheviglione: ed anche
m’era tuttavia avviso ch’egli mi rispondesse in ridendo: Sire di
Gionville, per la fe’ che vi deggio, già non mi partirò io sì tosto di
qui, poi che vi sono a mio agio. Quando io mi svegliai pensai allora
in me, che certo era il piacere di Dio e di Lui ch’io lo albergassi
nella mia Cappella; perchè senza più vi ho fatto fare un altare altresì
in onore di Dio e di Lui, e vi ho stabilito, e bene fondato una Messa
perpetua per ciascun giorno dell’anno. E queste cose ho io rammentate a
Monsignor Luigi suo figliuolo[92] affinchè, facendo il grado di Dio, io
possa avere qualche parte delle reliquie del vero Corpo di Monsignore
che fu mio buon Re, per tenerla nella mia Cappella a Gionville, sicchè
quelli che vi vedranno il suo altare possano avere insieme a quel caro
e buon Santo una maggior divozione.

E qui finendo veramente faccio assapere a tutti i lettori di questo
Libro che le cose, ch’io dico aver vedute e sapute di lui, sono al
tutto veraci e fermamente le deggiono credere. E le altre cose, ch’io
non testimonio se non per udita, prendanle in buon senso, se a loro
piace. E qui pure prego a Dio che per la inframmessa di Monsignore
San Luigi, gli piaccia donarci ciò ch’elli sa esserci necessario alla
salute del corpo, e più assai alla salute dell’anima nostra. Amen.



INDICE


  L’Editore Gaetano Romagnoli al Lettore benevolo        _a facce_ V
  Lezione Preliminare                                             IX

  Prologo                                                          1

  PARTE PRIMA.

  Capitoli.
  I. Di alcune sante parole che ’l buon Re disse a me e ad
    altri                                                          3
  II. Di due questioni che ’l buon santo Re m’indirizzò            6
  III. Qui conta di Maestro Roberto di Sorbona                     9
  IV. Di due insegnamenti che ’l Re mi diede                      13
  V. Anche della stessa materia e del governo della sua vita      18
  VI. Di un insegnamento che un buon Cordigliere diede al Re,
    e come ’l Re non l’obbliasse punto                            20
  VII. Come ’l buon Re sapesse all’uopo difendere i laici da
    oltraggio, e come fusse leale e fino guardatore di
    giustizia e di pace                                           22

  PARTE SECONDA.

  I. Della nascita e coronazione del buon Re, e quando portò
    arme primamente                                               27
  II. Qui conta come seguitò la guerra dei Baroni di Francia
    e come ’l Re la menò a suo prode e ne seguì pace              32
  III. Ove per inframmessa si tocca del Conte Errico di
    Sciampagna e di Artaldo di Nogente il ricco borghese          36
  IV. Della gran Corte che ’l Re bandì a Salmuro, poi della
    fellonia del Conte della Marca, e come questi ne fu
    punito                                                        39
  V. Perchè e come il buon Re si crociò, e come con esso
    presi io anche la Croce                                       42
  VI. Come prendemmo il mare a Marsilia, e come si navicò
    sino a Cipri                                                  47
  VII. Di ciò che avvenne nel nostro soggiorno in Cipri           49
  VIII. Dove si parla per inframmessa dei Soldani d’Oltremare     52
  IX. Come ci ismovemmo di Cipri e venimmo in vista di Damiata
    in Egitto                                                     55
  X. Come si ferì alla terra contro lo sforzo de’ Saracini, e
    perchè questi fuggironsi e ci lasciarono Damiata              58
  XI. Dell’obblio in che fu lasciata la grazia fattaci da Dio
    nel donarci Damiata                                           62
  XII. Di ciò che avvenne sino a che stemmo a campo presso
    Damiata                                                       66
  XIII. Come movemmo da Damiata per a Babilonia secondo
    l’avviso malarioso del Conte d’Artese                         70
  XIV. Qui tocca il conto dello fiume meraviglioso d’Egitto
    che l’uomo dice Nilo                                          73
  XV. Come ci arrestammo davanti il fiume di Rosetta, e
    di ciò che ’l Re vi dispose, e lo nuovo Almirante
    vi contrappose                                                75
  XVI. Come la Petriera e gl’ingegni de’ Saracini, gittando
    il fuoco greco, abbruciassono due fiate i nostri
    Gatti incastellati                                            79
  XVII. Qui conta del passaggio a guado del fiume di Rosetta      84
  XVIII. Della battaglia che ne seguì oltre ’l fiume, ove fue
    morto il Conte d’Artese                                       85
  XIX. Anche della battaglia e delle grandi cavallerie che
    vi fece Monsignore lo Re                                      90
  XX. Come io, a buona compagnia, difendessi un ponticello
    perchè ’l Re non ne venisse accerchiato dai Saracini          94
  XXI. Qui per inframmessa si conta de’ Beduini e di loro
    condizioni                                                   100
  XXII. Di ciò che avvenne dopo che ci fummo riparati agli
    alloggiamenti                                                102
  XXIII. Come i Saracini fecero un nuovo Capitano, e come
    questi li dispose ad assaltare i nostri alloggiamenti        105
  XXIV. Qui si conta lo assalto dato a tutte le nostre
    battaglie                                                    108
  XXV. Nel quale s’inframmette discorso delle varie genti
    d’arme del Soldano, e de’ suoi Cavalieri della Halcqua       114
  XXVI. Come a Babilonia venne uno nuovo Soldano, e come
    entrò nell’oste nostra una fiera pistolenza                  118
  XXVII. Come per lo gran disagio della pistolenza il Re pose
    di torsi dalla via di Babilonia, e di alcune mie
    speciali incidenze                                           121
  XXVIII. Qui conta del vano parlamento per pace fare tra ’l
    Re e ’l Soldano, e della nostra ritratta verso Damiata       121
  XXIX. Ove si mette per conto la fazione e maniera come
    fu preso il buon santo Re                                    127
  XXX. Come io fussi preso e condotto in fine di vita, e poi
    guarito per un beveraggio datomi da un buon Saracino         130
  XXXI. Di quello avvenne dopo la mia guarigione, e come fui
    menato là dove erano le genti del Re                         135
  XXXII. Come fu menato il Trattato per la diliveranza del Re
    e nostra                                                     138
  XXXIII. Come appresso il Trattato si approdò alla nuova
    Albergheria del Soldano, e come gli Almiranti si
    giuraro contra di lui                                        143
  XXXIV. Come i Cavalieri della Halcqua uccisono il Soldano
    di Babilonia                                                 146
  XXXV. Del male che ci avvenne dopo che ’l Soldano fue ucciso,
    e delle nuove convenenze giurate cogli Almiranti             148
  XXXVI. Come fummo fatti scendere a valle sino a Damiata,
    e come questa fue resa ai Saracini                           153
  XXXVII. Come dopo lunga disputazione fummo finalmente
    diliverati di prigionia                                      155
  XXXVIII. Qui conta come fu lealmente pagato il tanto del
    riscatto pattuito, e come femmo vela per Acri di Soria       158
  XXXIX. Ove si fa incidenza per contare alquanti fatti che ci
    avvennero in Egitto e ch’erano stati intralasciati           161
  XXXX. Di ciò che avvenne in Damiata alla buona Dama Madonna
    la Reina                                                     164
  XXXXI. Qui dice il conto come ’l Re sofferse disagio in nave,
    e come io ebbi in Acri molte tribolazioni                    166
  XXXXII. Come ’l Re tenne consiglio del ritornare in Francia,
    o del rimanere in Terra Santa, e come s’attenne
    al rimanere                                                  168
  XXXXIII. Come ’l Re tenne a suo spendio me e la mia bandiera
    sino al tempo di Pasqua a venire                             174
  XXXXIV. Di tre Imbasciate che vennero al Re in Acri            177
  XXXXV. Nel quale si ritrae ciò che Frate Ivo il Bretone
    raccontò del Veglio della Montagna                           181
  XXXXVI. Come ’l buon Re ponesse condizioni di tregua ed
    alleanza cogli Almiranti contro il Soldano di Damasco,
    e come gli Almiranti sapessero non menarle
    a conchiusione                                               184
  XXXXVII. Dove si fa incidenza per porre in conto ciò che i
    nostri Messaggeri ritrassono dei Tartarini e del loro
    Gran Re                                                      187
  XXXXVIII. Di alcuni Cavalieri stranii che vennero al Re a
    Cesarea, e di ciò ch’e’ feciono e di ciò ch’e’
    raccontarono                                                 195
  XXXXIX. Delle nuove convenenze ch’io feci col Re appresso
    la Pasqua venuta, e delle Giustizie che vidi
    fare a Cesarea                                               198
  L. Delle tregue ed alleanze cogli Almiranti d’Egitto
    contro il Soldano di Damasco, le quali tuttavia
    non approdaro a compimento, e di ciò che avvenne
    sotto Giaffa                                                 201
  LI. Ove si conta per inframmessa del buon Conte di
    Giaffa Messer Gualtieri di Brienne, delle sue cavallerie,
    e della sua pietosa morte                                    205
  LII. Come si fu pace tra ’l Soldano di Damasco e gli
    Almiranti d’Egitto, e come noi non avemmo più con
    nissun di loro nè triegua, nè pace                           210
  LIII. Come i Turchi di Damasco vennero davanti Acri,
    e poi, partitisine, assalirono Saetta e la misero
    a distruzione                                                212
  LIV. Come ’l buon Re s’astenesse dello andare a Gerusalemme
    a maniera di pellegrino                                      215
  LV. Delle munizioni e difese che ’l Re fece a Giaffa ed
    a Saetta, e di ciò che avvenne nel frattempo                 218
  LVI. Come assalimmo la città di Belinas, e del pericolo nel
    quale fui capitanando la prima battaglia del Re              221
  LVII. Del pellegrinaggio a Nostra Donna di Tortosa, e come
    avvenne che la Reina s’agginocchiasse davanti
    i miei camelotti                                             226
  LVIII. Come ’l buon Re, saputa la morte di Madama sua Madre,
    accogliesse il pensiero di ritornare in Francia              229
  LIX. Come col Re femmo vela per ritornare in Francia, e
    delle malenanze che c’incolsero presso Cipri                 232
  LX. Di ciò che vedemmo nell’Isola di Lampadusa, e di un
    bello miracolo di Nostra Donna di Valverde                   240
  LXI. Come finalmente scendemmo a porto di Yeres in terra
    di Provenza, e di ciò che ivi avvenne                        242
  LXII. Nel quale si ritrae come io mi scompagnassi dal buon
    Re, e come ponessi opera al maritaggio del Re di
    Navarra                                                      246
  LXIII. Come ’l buon Re si reggesse dopo ’l suo ritorno di
    Terra Santa, e come fusse troppo grande amadore
    di pace                                                      247
  LXIV. Come amasse lo onore di Dio e de’ Santi, e di altre
    sue sante costume                                            251
  LXV. De’ buoni Stabilimenti ch’e’ fece, e del prò ritrattone
    dal Reame                                                    254
  LXVI. Come fusse largo ed allegro elemosiniere                 259
  LXVII. Come ’l Santo Re riprendesse la Croce maluriosamente,
    e come fusse condotto in fin di vita appresso Tunisi         261
  LXVIII. De’ santi ed ultimi ammaestramenti ch’esso diede
    al figliuolo                                                 263
  LXIX. Della santa morte del Santo Re, e come fu poscia
    annoverato tra’ Confessori della Fede                        267
  LXX. Un’ultima parola sul caro e Santo mio Re                  271



NOTE:


[1] Questa Lezione fu recitata dall’A. in una tornata Accademica nel
1840 circa, e poi stampata nel 1843.

[2] Queste cose furono da me in seguito più ampiamente sviluppate nel
discorso premesso al Glossario Etimologico Modenese.

[3] Alla lettera: _la Carlone a viso fiero_, ossia, compiendo la frase:
_la spada di Carlo dal viso fiero_.

[4] _All’impugnatura d’oro_, o com’altri vogliono, _d’oro puro_.

[5] Cioè: _le vostre arme_, alla siciliana per _anime_.

[6] Vedi _Journal des Savans. Octobre_ 1816, p. 88 ecc. _Grammaire
Romane_ ch. II, p. 26.

[7] Effettivamente nello stesso anno 1843 io pubblicava il testo
rammendato del Vidale, e nel titoletto iniziale aggiungeva di
pubblicarlo per la prima volta su una copia estratta da un Codice
Laurenziano. Questa malaugurata frase _per la prima volta_ eccitava
l’ira di M. F. Guessard, il quale aveva tre anni prima dato fuori
la Grammatichetta di Raimondo nella allora recente ed a me ignota
Collezione intitolata _Bibliothèque de l’École des Chartes_,
togliendola da un Ms. Parigino della Mazzarina. Questi mi accusava di
plagio, un Giornale Italiano aggravava le accuse, e così finalmente mi
vedeva costretto a dar fuori quella _Difesa_, che è uscita in Modena
in 4 Capitoli nei Tomi III e IV del Giornale intitolato _Opuscoli
Religiosi, Letterarii e Morali_.

[8] L’esatta traduzione di questi tratti del Vidale è da vedersi nella
succitata _Difesa_, di cui il volgarizzamento della nostra Grammatica
Limosina forma appunto il 4. Capitolo.

[9] Ed a questo tratto è luogo di dire come in lingua d’oil, _poote_,
non _poole_, era contrazione di _poosteiz_; per cui _hons de poote_ si
chiamavano gli uomini liberi, _sui juris_, cioè che avevano podestà
di sè medesimi. Ecco pertanto come la voce _Potta_, pel Magistrato
che era detto _Potestas_, non era poi così singolare a noi modenesi
quanto taluni han voluto far credere, ed ecco ancora come essa sarà
stata contrazione, non di _podestà_ ma di _podèsta_. Per accertarsi poi
come anche sotto i Cesari i Magistrati delle minori Città si dicessero
_Podestà_, si vedano Giuvenale al v. 100 della Satira X, Svetonio in
Claudio al cap. 23 e Plinio al cap. 8 del lib. IX.

[10] Si legge nella Preghiera alla Vergine. Rayn. T. 2 facc. 136.

      E c’el non la ’n crees,
    E don frut no manjes,
    Ja no murira hom
    Chi ames Nostre Don.

cioè — E s’egli (Adamo) non ne la credesse, e del frutto non mangiasse,
già non morrebbe uomo che amasse Nostro Signore. — Da questo _Don_
vocalizzato avemmo _Donno_, per riscontro a _Donna_ quando, vale
_Domina_, non _fœmina_. Così nell’antico poema su Boezio:

    _Dona fo Boecis; corpo og bo e pro_,

— Signore, cioè Patrizio, fu Boezio, corpo ebbe buono e prò — Da questo
_donz_ uscì poi col solito aumento quel _dongione_ che, applicato a
torre, valse torre maestra, o _dominicale_, nella quale cioè si teneva
il _Donno_ od il Castellano.

[11] In Occitanico _am_ tutto solo fece l’officio di _ambo_: perciò,
_tug silh d’ams los regnatz_, significò tutti quelli d’ambi i regni.

[12] Perchè ciò sia chiaro a ciascuno, bisognerà ch’esso rimonti col
pensiero a que’ tempi poveri, ne’ quali l’uso non ancora rinovatosi
dei cortili o cavedii lasciava i manieri dei liberi privi di vuoti
nel mezzo e senza palchi sovrapposti. Una lunga e spaziosa camminata
li attraversava, e quattro porte aperte in essa a riscontro, due per
ogni lato, menavano appunto alle quattro parti in che si divideva tutta
l’abitazione; rassomigliando così senza molta differenza alla maggior
parte dei presenti nostri _Casini di campagna_. V. il Dialogo del Tasso
intitolato: _Il Padre di famiglia._

[13] Il discorso delle voci numerali mi fa sovvenire, e porre qui per
_fuor d’opera_, come Virgilio scrivesse nel X dell’Eneide _quam quisque
secat spem_, per _sequat_; dalla quale antica scrittura del verbo
vennero poi _sectores_ e _secta_ per _sequitores_ et _sequuta_; che
però, stante lo scambio avvertito, il _sequior_ latino sarà lo stesso
di quel _sector_ comparativo di cui non si conosce il positivo, il
quale forse potrebbe essere stato non dissimile dal _sezzo_ de’ Toscani
per _ultimo_, cioè per cosa al seguito e non mai principale.

[14] L’antico Romano aveva avuto _mu_ o _mi_ per _ego_: ora avvertendo,
come fu già indicato superiormente, che la desinenza casuale del
possessivo o genitivo era in us od is (_ejus, hujus, illius, istius,
ipsius, cujus_) ne consegue che il pronome primitivo di persona prima
poteva lasciarsi intendere così: N. _mu_ o _mi_: G. _mius_ o _mis_:
D. _mii_ (_mihi_): A. _me_. Siccome poi i pronomi possessivi di forma
aggiuntiva sogliono derivarsi appunto dal caso possessivo del relativo
pronome personale primitivo, così è che dal genitivo _mius_ o _mis_,
usciva _mius_ o _meus, mea, meum_, che tanto vale quanto _di me_ od
_a me_. Dicasi il simigliante di _Tu_ o _Ti_, che avrà fatto: N. _Tu_
o _Ti_: G. _Tuus_ o _Tius_ o _Tis_: D. _Tii_ (_Tibi_): A. _Te_, e di
_Su_ o _Si_ che si sarà svolto in N. _Su_ o _Si_: G. _Suus_ o _Sius_
o _Sis_: Dat. _Sii_ (_Sibi_): A. _Se_. Dai casi genitivi de’ quali
avevamo poi _Tius_, o _Tuus, tua, tuum_ (di Te o a Te) e _Sius_ o
_Suus, sua, suum_, (_di sè_ o _a sè_). Una prova poi che i possessivi
personali escono dai genitivi dei loro pronomi primitivi, l’abbiamo dal
rustico _cuius, cuia, cuium_, conservatoci da Virgilio nelle Ecloghe, e
che esce evidentemente dal genitivo _cujus_, di _qui, quae, quod_.

[15] Quest’uso trova però le sue ragioni nelle voci _lui_ o _lei_, che
regolarmente avrebbero dovuto designare soltanto i regimi indiretti di
_egli_ e di _ella_, sebbene poi in fatto, massime ne’ dialetti nostri,
servissero e servano per tutti i casi, movendo allora per aferesi
non dalla forma comune _eille_ od _ille_ ma dalla composta _eillus_
(od _eille-is_) _eilla_ (_eille-ea_) _eillud_ (od _eille-id_). _Lui_
e _lei_ si trovano anche in altri romanzi dopo i verbi come forme
speciali del caso attributivo, e quindi non bisognose di segnacaso,
giacchè il dativo comune a tutti i generi _illi_ od _illii_ sembra
che nel volgare, per distinzione e per ricordo del genitivo _illius_
si pronunciasse più chiusamente _illui_ nel maschile, rimanendo
_illei_, (da _ille-ei_) pel femminile. Leggiamo infatti in lingua d’oc:
(Adelaide di Porcairague.)

    _Vas Narbona portats lai_
    _Ma chanson ab la fenida_
    _Lei cui jois e jovens guida._

cioè — Verso Narbona portate là la mia Canzone, colla Licenza, a lei
cui gioia e giovinezza guida.

                                              (PONZIO DI CAPODOGLIO:)

    _Mas liey non cal si m peri, per qu’ieu no m duolh._

cioè — Ma a lei non cale se mi perde, per che io non me ne dolgo.

                                              (IL MONACO DI FOSSANO:)

    _Cais que non tanh selui chan mi trobars_
    _Cui ten estreg vera religios._

cioè — quasichè non convenga _a colui_ canto nè trovare cui tiene
istretto vera religione.

Così presso i nostri ducentisti, e specialmente presso Guittone
d’Arezzo, fu della forma _vo-i_, dall’antico _vois_ (_vobis_) che valse
senz’altro _a voi_; e di _no-i_ che anche in Dante non provenne da
_nos_, ma da _nois_ (_nobis_.)

    Per grazia fa _noi_ grazia che disvele
    A lui la bocca tua....
    Non è l’affezion mia tanto profonda
    Che basti a render _voi_ grazia per grazia.

[16] Come _lui_, che può anche considerarsi metatesi di _illius_, e
che doveva rappresentare soltanto i regimi d’_egli_, passò, secondo
si disse, nei nostri dialetti a far insieme gli uffici di soggetto,
così fu di _loro_, che uscito dall’_illorum_ latino reso comune a
tutti i generi, valse prima _d’elli_ e _d’elle_, poi _ad elli_ e _ad
elle_, e finalmente _eglino_ ed _elleno_ senza bisogno di segnacasi:
talchè sembrò mutarsi in una forma di pronome possessivo proprio della
persona terza determinata, ma non presente, completando le relazioni di
possesso significate da _mio, tuo_ e _suo_. Questa proprietà fe’ sì che
Dante, il quale avea creato _immiarsi_ e _intuarsi_, potè creare anche
_inluiarsi_.

[17] La legge del rovesciamento era spontanea nelle lingue ad
antefissi succedenti a lingue a suffissi. Io ho discorso su ciò
altrove ampiamente: basterò quindi l’accennare che il latino _inter-im_
diventa il volgare _mentre_, l’_inter-dum_ od _inter-dom_, _domentre_;
che l’_ipse-met_ prendendo forma superlativa in _ipsumus-met_, si fa
_metipsumus_, o _medesimo_, cioè _istessissimo_: che l’_unus-quisque_
diventa _quisquunus_ o _ciascuno_; _parum-per_ o _paucum-per_, _per
poco_: _postidea, dappoi_; e che l’_ul-tra_ e _ci-tra_ passa nel
dialetto patrio a _tra-là_ e _tra-chè_.

[18] V. il Vol. I delle mie _Lez. Accad_. a facc. 221, 222.

[19] Non ommetto però di avvertire come la voce an-co venga originata
per altri da ἄν e da _hoc_ quasi che, riferendosi a quantità, misura
ecc. valga quanto _ad hoc_, e riferendosi a tempo quanto _ad huc.
Unquanco_ sarebbe _adhuc unquam_, ed ancora, _ad hanc horam_.

[20] Ed ecco, in questa frase italiana l’altrui, chiaramente l’articolo
venire dal pronome di cui conserva il valore stesso.

[21] Ciò accade similmente presso noi, in ispezialtà quando l’atto
comandativo viene preceduto da una negazione, la quale minorando
la rattezza del comando, o lo oscura, o lascia incerta l’intenzion
personale della proposizione. Diciamo perciò, _ama la gloria, temi la
vergogna_, e: _non amare la gloria, non temer la vergogna_.

[22] Partì da Gionville per l’Egitto dopo la Pasqua del 1248. Partì
da Acri per la Francia dopo la Pasqua del 1255, e così stette assente
sette anni. I _sei interi_ si riferiscono dunque, non alla assenza, ma
alla _compagnia_ col Re. Entrò esso al soldo del Re solo in Cipri.

[23] Dirà altrove che la sua compagnia col Re è durata 22 anni: e così
dal 1248 al 1270, anno in che il Re santo morì.

[24] Fu posto tra i Santi, e non tra i Martiri, da Papa Bonifacio VIII
nel 1297.

[25] Questi nacque nel 1244, e morì di sedici anni nel 1260.

[26] Al tempo del buon Re la Scozia, affatto indipendente
dall’Inghilterra, era sottoposta alla discendenza de’ suoi antichi
Re, e gli Scozzesi si aveano per più rozzi di quello non fossero gli
Anglo-Normanni.

[27] Gli antichi Cristiani chiamavanlo il _Malo_ o l’_Avversario_;
_Maufez_, o il _Facimale_, gli antichi Francesi; i moderni
_Diantre_ per non dire _Diable_: noi per lo stesso motivo _Diacine_;
_Avversiere_.

[28] _La bocca dello stomaco_ per tutto lo _stomaco_, sicchè _fredda
forcella_ è quanto _stomaco debole_.

[29] I lebbrosi si dicevano _miselli_, o miserabili, per antonomasia, e
_misellarie_ i lazzaretti, o spedali spartati che li accoglievano.

[30] Il nostro Guitto d’Arezzo fece sua questa parità nelle Rime, II, 7.

[31] _Ladre_ in antico francese risponde anche a _mesel_ o _mezeau_,
cioè a _mizello_; e però nel nostro volgare _cosa ladra_, o _ladronaja_
può valere cosa bruttissima e ributtante.

[32] Questo Maestro Roberto, che morì intorno il 1270, fondò in Parigi
il Collegio che dal suo nome venne detto _di Sorbona_.

[33] _Parlar consiglio_ od _a consiglio_, vale in credenza, ed a modo
di chi consiglia segretamente.

[34] Qui _prode uomo_, non vale soltanto uomo prode o valente di sua
persona, ma uomo religioso, prudente e valente di suo intendimento,
insomma _probo-uomo; probus vir_. V. du Cange alla voce _Probi
homines_.

[35] «Non probatur largitas, si quod alteri largitur, alteri
extorqueat, si injuste quaerat, et juste dispensandum putet.» S.
Ambrogio, l. I. de Offic. cap. 30.

[36] Stoffa fatta di pelo di cammello, e che più grossolana dicevasi
_cammellotto_.

[37] Al Re Santo successe il figliuolo Filippo l’ardito, a questi
Filippo il Bello, a cui Luigi il Caparbio. In quanto a Re Tebaldo di
Navarra, esso era genero, non figliuolo di San Luigi, avendone sposato
la figliuola Isabella.

[38] Cioè: della linea di confine.

[39] Il 25 Aprile 1215.

[40] Accenna alle processioni istituite in tal giorno da S. Gregorio
Magno per occasione della fiera pestilenza, che desolò Roma, le quali
sono anche volgarmente dette _Cruces nigrae_, quoniam in signum mœroris
ex tanta hominum strage, et in signum pœnitentiæ, homines nigris
vestibus induebantur, et Cruces et altaria nigris pannis velabantur.

[41] Il primo giorno di Decembre del 1226, non avendo anche compito 12
anni, e ciò per la morte avvenuta in quell’anno di suo padre Luigi VIII
figlio di Filippo l’Augusto.

[42] La non men famosa che bella Bianca di Castiglia.

[43] Questi è quel Conte Tebaldo di Sciampagna che, al dire di taluno,
in Bianca di Castiglia riverì la Regina ed amò la Dama, sicchè potè
lasciarne scritto un cronista:

    Malates paroles en dist on
    Comme d’Isot et de Tristan.

[44] Questa pace fu fermata nel 1242. 1 possessori di _feudo
d’usbergo_, lo vestivano a 21 anni, cioè quando avevan raggiunta la
maggiore età; dunque il n. a. sarà nato intorno il 1222.

[45] La malattia del Re vien riferita all’anno 1243. I preparativi
della Crociata durarono poi per più anni.

[46] Il n. a. s’era sposato giovinetto nel 1340 ad Alice sorella
d’Errico Conte di Gran Prato, e ne avea avuto due figliuoli prima del
suo passaggio per la Guerra Santa.

[47] Si veda il Serventese di Guglielmo di Muro. Ray. Choix ec. T. V.
f. 803 ove tra l’altre cose si dice ai Crocesignati:

      Però ciascuno guardi come v’andrà guarnito,
    Perchè Dio non vuole che coll’altrui guernimento,
    Di che altri a torto sia stato spossessato,
    Là passi null’uomo senza farne innanti soddisfazione.
    Perch’io non credo che a tal uomo prometta
    Dio suo regno nè che suo amor gli doni,
    Sebbene là vada con arco e con saette
    Perchè il soldo che prende supera il suo guiderdone.

      Non credo già da Dio bene accolto,
    Quel ricco che passi con li altrui doni,
    Nè quegli che a torto ha li suoi spogliati,
    O fa rubare per quell’occasione.
    Perchè Dio sa tutto che porta nella sua bisaccia,
    E se con torti va, travagliasi in vano,
    Chè Dio vuol cuor fino con volontà netta
    E che l’uomo passi per Lui, non per doni.

[48] Beatrice figlia di Stefano Conte di Borgogna e di Auxonne.

[49] L’Ordine Cisterciense.

[50] _Gioiello_ è piccolo e caro dono.

[51] Al rostro, od a prua.

[52] Nell’Aprile del 1249.

[53] Odone Vescovo di Tusculo.

[54] Se _Funda_ si trova usato per _Borsa_ dai neolatini, donde la
_fonda_ de’ nostri antichi per _crumena_ (ora ristretta a denotare
la custodia delle pistole), è certo altresì che presso i Saracini
_Alfondiga_ valse ciò che presso noi il _Mercato_, o la _Borsa dei
Mercanti_. Di qui il nostro _Fondaco_, il franzese _fondics_, così
spiegato nell’Itinerario Turcico — Les Fondics sont Magazins ou se
serrent les marchandises qui sont apportées des Indes et de Perse par
la voie d’Alep..... les Marchands y logent aussi — Il _fondachiere_ od
il _fondacaio_ de’ nostri trecentisti risponde dunque al _fundicarius_
od al _fundegarius_ delle Carte anteriori Siciliane o Marsigliesi.

[55] _Liverare_ per _abbandonare_, usato nel Volgarizzamento delle
Decadi di Livio ed altrove.

[56] Guido di Puglia Patriarca di Gerusalemme.

[57] Giovanni di Brienne Re di Gerusalemme prese Damiata nel Novembre
del 1219.

[58] Il Signore di du Cange scrive a questo luogo — Le mot de _Bordel_,
pour designer un lieu infame, _lupanar_, vient de ce qu’ordinairement
les garces et autres gens de cette farine habitoient les petites
maisons, qu’en vieux langage François on nommoit _bordels_, du
diminutif de _Borde_, qui signifie _maison_; et probablement a
esté emprunté du _Bord_ des Saxons-Anglois, ou ce mot a la même
signification. —

[59] Così per _Cerusici_ ha Ser Zucchero Bencivenni nel suo
Volgarizzamento di Rasis.

[60] Si legge nell’Itinerario Gerosolimitano: — Haec Babilonia non est
illa quae fuit secus fluvium Chobar, sed dicitur Babylonia Ægypti, quae
parvo dividitur intervallo a Chayro. Itaque non duas faciunt civitates,
sed unam cujus pars altera dicitur Chayrum, altera Babilonia, et ipsa
tota, nomine composito, Chayrum — Babilonia appellatur. — Et creditur
quod olim fuerit nuncupata Memphis, deinde Babilonia, et tandem
Chayrum.

[61] Nel Decembre del 1849.

[62] Altri: Facradino, o Farcardino.

[63] Il 20 Gennaio 1250.

[64] Cioè: che si carica girando una manivella.

[65] _Ma che_ pur che, soltanto che: e qui: pur ch’egli dicesse il vero.

[66] Il testo ha _à grant erre_, cioè: a grande anda od a grand’andare.
Si poteva anche tradurre: a grande aìna, od agina.

[67] Il dì 8 Febbraio 1250.

[68] Cavallo cui sien mozzate le orecchie e la coda.

[69] Muta croce in _creffa_, siccome noi sogliam mutare Dio, Cristo,
Madonna ecc. in Bio, Crispo, Madosca ecc. per reverenza de’ sacri nomi.

[70] Allora.

[71] Il testo ha _Bahairiz_, o forse era da tradurre _Giannizzeri_. Il
Sire di Vi’lerval parlando di loro, li chiama _les Esclaves du Soudan_.
Di qui uscì la tremenda Milizia de’ Mamalucchi.

[72] Almirante od Ammiraglio, rende, secondo Guglielmo di Tiro, il
Saracinesco _Al-Emir_, che vuol dire: _Il Signore_.

[73] Armenia, donde _ermellino_ pel piccol sorcio d’Armenia.

[74] Tali verghe erano insegna di Magistratura eminente, e di Officio
Palatino anche presso gl’Imperatori d’Oriente.

[75] Il 5 Aprile 1250.

[76] I Turbanti.

[77] Federico II, che era stato coronato Re di Gerusalemme, e teneva
alquante piazze forti di quel Reame.

[78] _Ricco uomo_ è quanto Barone.

[79] _Pullani_ erano detti i nati da padre Siriano e da donna Franca, o
viceversa, quasi _pullati_, e non aventi puro sangue, ma misto.

[80] Ciò è a dire: ch’io farò passare alle mani loro tutto il mio
tesoro.

[81] 24 giugno 1250.

[82] Cioè a quella del 1251.

[83] I Cristiani di Terra Santa potevano temere principalmente dagli
Emiri d’Egitto, e dal Soldano di Damasco. Ora ciascuna di queste due
parti ne sollecitava l’alleanza per opprimere l’altra. Per tutto il
lungo tempo speso nel doppio negoziato, era quindi nell’interesse de’
Saracini di lasciare in pace il Re Luigi, ed i Baroni d’Oltremare. Da
ciò, meglio che dalle stremate forze de’ Cristiani d’Oriente, dipese
ch’esso Re potè compirvi le opere di difesa che qui in seguito si
descriveranno.

[84] Norvegia?

[85] Ciò accadde intorno al 1244.

[86] Si possono vedere le Poesie del Beato Iacopone da Todi, e
segnatamente le così dette _Satire_.

[87] Aprile 1255.

[88] Bianca figlia di Re Filippo l’Ardito e sorella di Re Filippo il
Bello, sposatasi a Rodolfo Duca d’Austria, e poi Re di Boemia figlio
primogenito dello Imperatore Alberto I. Il maritaggio accadde correndo
l’anno 1300.

L’Autore morì a quanto pare nel 1317 o nel 1318 avendo poco meno di
cent’anni, ed ultimò la Storia presente nei primi anni del Secolo XIV.

[89] Nel 1268.

[90] Il 25 Agosto 1270 a ora di nona.

[91] Fu santificato da Papa Bonifacio VIII nel 1297.

[92] Se quì è parola di Luigi _Utino_ (che tanto può valere
_Pervicace_, quanto _Altero_) questa voce _figliuolo_ dovrà intendersi
usata per discendente; giacchè esso era invece pronipote di San Luigi,
e fu detto Re di Navarra nel 1307, e Re di Francia dopo la morte del
padre suo Filippo il Bello, avvenuta l’anno 1314.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



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