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Title: Venti anni dopo
Author: Dumas, Alexandre
Language: Italian
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                            VENTI ANNI DOPO


                                   DI

                           _Alessandro Dumas_


                    =Seguito dei tre Moschettieri.=

                        PRIMA VERSIONE ITALIANA.



                                 ITALIA
                                  1848



I.

_La larva di Richelieu._


In una stanza del così detto palazzo _Cardinal_, a noi già noto,
accanto a un tavolino intarsiato su gli angoli d’argento dorato ed
ingombro di fogli e libri, sedeva un uomo, posatasi su le due mani la
testa.

E dietro ad esso era un largo caminetto, ben acceso e rosso, dove i
tizzi infiammati si consumavano sopra alari indorati. La luce di quel
fuoco rischiarava a tergo il magnifico vestimento di quel cogitabondo,
a cui dava lume davanti un candelabro carico di ceri.

Al mirar l’abito superbo, i merletti sfarzosi, la fronte scolorita
incurvata a tanta meditazione, e la solitudine del gabinetto; all’udire
il silenzio che regnava nelle anticamere, ed i passi misurati delle
guardie sul pianerottolo, avresti creduto esser l’ombra di Richelieu
tuttora nella sua camera.

Ahimè! di fatti, era l’ombra, e non altro, del grand’uomo. La Francia
indebolita, l’autorità del re disconosciuta, i grandi infiacchitisi
di bel nuovo e turbolenti, il nemico ritornato in qua dalle frontiere,
tutto attestava non esser più colà Richelieu.

Ma ciò che meglio di tutto questo dava prova come non si trattasse
più del vecchio ministro, egli era quello isolamento, il quale
sembrava, siccome dicemmo, più proprio di una larva che di un vivo, e
le gallerie vuote di cortigiani, ed i cortili pieni di guardie; e il
sentimento di scherno che ascendeva dalla contrada e penetrava tra i
vetri della camera sconquassata mediante il soffio di un’intera città
postasi in lega contro al ministro; ed infine, lo strepito confuso
ed incessantemente rinnovato di spari, fatti per buona sorte senza
scopo nè resultato, ma solamente per far vedere alle guardie, agli
svizzeri, ai moschettieri ed ai soldati che attorniavano il Palazzo
Reale (conciossiachè il palazzo pure avea mutato nome) come il popolo
possedesse delle armi.

La larva di Richelieu, era Mazzarino.

E Mazzarino stava là solo, e si sentiva debole.

«Straniero! borbottava, Italiano! ecco scagliata la loro grande parola!
con questa assassinarono, impiccarono, divorarono il Concini, e s’io
li lasciassi fare assassinerebbero, impiccherebbero, divorerebbero me
come lui, quantunque io non abbia fatto ad essi mai altro male che di
spremerli un pochetto. Imbecilli! non capiscono che il loro nemico non
è già questo Italiano, il quale parla malamente francese, ma piuttosto
quelli che hanno l’abilità di dir loro belle parole con tanta buona e
pura pronunzia parigina.

«Sì sì, continuava il ministro con l’accorto sorriso, che in tale
circostanza sembrava stranissimo su le sue labbra smorte; sì, me lo
dicono codesti vostri clamori: è precaria la sorte dei favoriti. Ma
voi, se sapete questo, dovete anche sapere ch’io non sono un favorito
ordinario! Il conte d’Essex aveva un anello di lusso adorno di diamanti
datogli dalla regale sua amante; io non ho che un semplice cerchietto
con una cifra e una data: ma questo cerchietto pure fu benedetto nella
cappella del Palazzo Reale[1]; e per questo, non mi annienteranno, a
seconda delle loro intenzioni. Non si accorgono che col loro grido
sempiterno: — Abbasso il Mazzarino! — io li fo urlare, ora, evviva
Beaufort! ora, evviva il principe! ora, evviva il parlamento! Ebbene!
Beaufort è a Vincennes, il principe andrà a raggiungerlo un giorno o
l’altro, e il parlamento....»

Qui il venerabile personaggio assunse nel sorriso una certa espressione
d’odio di cui, pareva il suo volto non suscettibile.

«E il parlamento.... veh! il parlamento.... si vedrà un poco che ne
faremo del parlamento. Abbiamo Orleans e Montargis... Oh! c’impiegherò
il tempo occorrente, ma quelli che avranno cominciato da strillare:
abbasso Mazzarino! finiranno con strillare: abbasso tutta quella
gente!.... A ognuno la sua!

«Richelieu, che odiavano quando era vivo, e di cui parlano sempre
dacchè è morto, è andato più giù di me, giacchè è stato scacciato
più d’una volta e più ancora ha avuto paura di esserlo. In quanto a
me, la regina non mi discaccerà mai, e se io sono costretto a cedere
al popolo, ella gli cederà meco; se fuggo, ella fuggirà.... e allora
vedremo che faranno i ribelli senza della loro regina e del loro
re?....

«Ah! se pur non fossi straniero! ah, se pur fossi francese!.... ah, se
pur fossi gentiluomo!»

E piombò di bel nuovo nelle sue meditazioni.

Infatti, era scabrosa la situazione, e complicata l’aveva maggiormente
la giornata trascorsa. Mazzarino, ognora stimolato dalla sordida
sua avarizia, opprimeva di tasse il popolo; ed il popolo, a cui non
restava che l’anima, conforme diceva il procurator regio Talon, ed anco
perchè l’anima sua non si potea vendere all’incanto; il popolo, cui si
procurava di far prendere pazienza mediante lo strepito delle vittorie
che si ottenevano, ma a senso del quale gli allori non erano tal carne
che valesse a cibarlo[2], il popolo già da lunga pezza avea cominciato
a mormorare.

Nè ciò bastava e imperocchè quando mormora il popolo soltanto,
la corte, separata com’è da esso per mezzo del ceto borghese e
dei gentiluomini, la corte non lo ode; ma Mazzarino aveva usata
l’imprudenza di dare addosso ai magistrati! avea venduti dodici
brevetti da referendarj, e siccome gli ufficiali pagavano assai care
le loro cariche, e l’accrescimento di quei dodici nuovi colleghi dovea
farne ribassare il prezzo, così essi si erano riuniti, aveano giurato
sui santi Vangeli di non sopportare codesto aumento, e di opporsi
a tutte le persecuzioni della corte, promettendosi scambievolmente
che qualora uno di loro per causa di siffatta ribellione perdesse
la propria carica, si tasserebbero ciascuno di un tanto onde
rimborsargliene il prezzo.

Ed ecco ciò ch’era accaduto da ambe le parti.

Nel dì 7 gennajo, sette o ottocento mercatanti di Parigi si erano
radunati e sollevati a motivo di una nuova imposta a cui si volevano
assoggettare i proprietari delle case, ed aveano deputati dieci
di essi a parlare in loro nome al duca d’Orleans, che, secondo il
suo solito, si manteneva popolarissimo. Il duca d’Orleans li aveva
ricevuti, ed essi gli avevano dichiarato qualmente erano decisi di non
pagare la nuova imposta, quando anche avessero da difendersi armata
mano contro i funzionari del re che venissero a riscuoterla. Il duca
d’Orleans li aveva ascoltati con molta compiacenza, avea fatto sperare
qualche mitigamento, e promesso di tenerne proposito colla regina, e
licenziatili con le parole consuete: Si vedrà.

Nel dì 9 i referendarj dal canto loro erano stati a trovare il
ministro, ed uno di costoro, che parlava per tutti, gli aveva favellato
con tanta fermezza e tanto ardire ch’egli n’era rimasto attonito, e
quindi li avea licenziati, dicendo come il duca d’Orleans: Si vedrà.

Allora, _per vedere_, si era adunato il consiglio, e mandato a chiamare
il soprintendente delle finanze d’Emery.

Questo d’Emery era sommamente odiato dal popolo, prima perchè era
soprintendente delle finanze, e qualunque soprintendente delle finanze
dev’essere aborrito, e poi, convien dirlo, perchè meritava un pochino
di esserlo.

Era figlio di un banchiere di Lione, per nome Particelli, e che per
un cambiamento di nome fatto in seguito del suo fallimento si faceva
chiamare d’Emery[3]. Richelieu, avendo in esso riconosciuto un gran
merito in materia finanziaria, lo aveva presentato al re Luigi XIII
sotto nome del signor d’Emery, e volea farlo nominare intendente di
finanze, e ne faceva grandi elogi.

«Ah! tanto meglio, aveva risposto il re, ho caro che mi parliate del
d’Emery per questo impiego che richiede un onest’uomo. Mi era stato
detto che appoggiavate quel furfante di Particelli, e temevo che mi
obbligaste a riprenderlo.

«Ah! sire, fece il ministro, Vostra Maestà stia pur quieta, il
Particelli, di cui Ella fa menzione, è stato appiccato.

«Ah! tanto meglio, ripetè il sovrano, non mi hanno dunque chiamato per
nulla Luigi il Giusto».

E firmò la nomina di d’Emery.

Quello stesso d’Emery era diventato soprintendente alle finanze.

Dal consiglio erasi mandato per esso, ed egli accorreva pallido
e sbigottito, dicendo ch’era mancato poco che suo figlio fosse
assassinato in quel medesimo giorno in piazza del _Palazzo_: la folla,
incontratolo, lo aveva rampognato sul lusso della sua moglie, la quale
teneva un appartamento parato di velluto rosso con la trina d’oro. Era
questa la figlia di Niccola Lecamus, segretario del re nel 1617, che
venuto a Parigi con venti lire, e riserbandosi bensì quarantamila lire
di rendita, aveva diviso in ultimo nove milioni tra i suoi figliuoli.

Il figlio di d’Emery era stato in procinto di essere soffocato, avendo
uno degli attruppati proposto di strozzarlo sinchè vomitasse l’oro che
si divorava. Il consiglio in quel dì non aveva deciso niente, sendochè
il soprintendente era troppo occupato di quell’avvenimento per aver
libero il capo.

All’indomani il primo presidente Matteo Molè, il di cui coraggio in
tutte quelle faccende (dice il cardinale di Retz) fu pari a quello
del duca di Beaufort e del principe di Condé, cioè i due uomini che
passassero per i più valorosi in tutta la Francia, il presidente,
dunque, era stato egli pure assalito: il popolo lo minacciava di
fare scontare a lui i mali che volevasi fargli; ma egli, con la sua
calma usuale, senza agitarsi nè maravigliarsi, avea risposto che se i
perturbatori non obbedivano ai voleri del re, farebbe subito piantare
delle forche su le piazze acciò sull’atto si appiccassero i più
facinorosi fra essi.... Al che costoro avevano soggiunto che avrebbero
anzi piacere di veder piantare le forche, le quali servirebbero ad
appiccare i tristi giudici che compravano il favore della corte a costo
della miseria del popolo.

E vi fu dell’altro: Nel dì 11 la regina, andando alla messa a
Nostra-Donna, secondo soleva regolarmente ogni sabato, era stata
seguitata da duecento e più donne che urlavano e domandavano
giustizia. Esse però non avevano cattive intenzioni, e solo volevano
inginocchiarsi a lei davanti e muoverla a pietà; ma le guardie
impedirono che facessero ciò, e la regina passò altera e superba senza
dar ascolto a’ loro clamori.

Nel dopopranzo v’era stato nuovamente consiglio, ed in questo erasi
risoluto di mantenere l’autorità del re; ed in conseguenza fu convocato
il parlamento per la domane, cioè per il 12.

In questo giorno, quello nella serata del quale or da noi si apre
la presente storia, il re, in età allora di dieci anni, e che aveva
avuto di recente il vajuolo, col pretesto di andare a ringraziare
Nostra-Donna della sua guarigione, metteva su le sue guardie, gli
svizzeri e i moschettieri, li poneva in fila attorno al Palazzo
Reale, su gli scali e sul Ponte Nuovo, e dopo udita messa si recava al
parlamento: dove sopra un letto di giustizia fatto espressamente, non
solo manteneva i suoi passati editti, ma ancora ne pronunziava altri
cinque o sei (dice il cardinale di Retz) più rovinosi uno dell’altro; a
segno che il primo presidente, che, secondo si è potuto scorgere, era
giorni innanzi a favore della corte, aveva però arditamente declamato
contro quella maniera di condurre il re al palazzo per sorprendere e
violentare la libertà de’ suffragi.

Ma quelli che in ispecie inveirono contro alle nuove gravezze furono il
presidente Blancmesnil ed il consigliere Broussel.

Proferiti quegli editti, il re tornò al Palazzo Reale; lungo la
strada era grande la moltitudine, ma siccome si sapeva venir egli dal
parlamento, e s’ignorava se vi fosse andato per rendere giustizia al
popolo o per opprimerlo un’altra volta, così niun grido di giubilo
s’intese a congratularlo della ricuperata salute. All’incontro tutti
erano in sembiante inquieto, adirato, e taluni persino minacciosi.

Ad onta del suo ritorno, le truppe rimasero al posto; si era temuta
qualche sollevazione quando si conoscesse il resultato della seduta
del parlamento; e di fatti non sì tosto fu sparsa per le vie la voce
che invece di scemare le tasse il sovrano le aveva accresciute, si
formarono gruppi di gente, e risuonarono grandi clamori strillando:
Abbasso Mazzarino! evviva Broussel! evviva Blancmesnil! imperocchè il
popolo avea saputo che Blancmesnil e Broussel aveano parlato a pro suo,
e sebbene fosse sortita vana la di loro eloquenza, ei ne serbava ad
essi gratitudine.

Si era tentato di dissipare quei capannelli, e cercato d’impor silenzio
alle grida, e conforme avviene in casi simili, si aumentavano i
capannelli e le grida si raddoppiavano. Era dato l’ordine alle guardie
del re ed alle guardie svizzere, non solamente di star salde, ma anche
di far pattuglie nelle strade di San Dionigi e San Martino, dove le
riunioni sembravano più numerose e riscaldate; ed ecco annunziarsi al
Palazzo Reale il prevosto dei mercanti.

Fu subito introdotto: veniva ad avvertire che se all’istante non si
cessava dalle ostili dimostrazioni, fra un’ora tutta Parigi sarebbe
sotto le armi.

Mentre si discuteva su ciò che avea da farsi, tornò Comminges
luogotenente delle guardie, laceri i panni e insanguinato il volto. Al
vederlo comparire la regina diè un urlo di sorpresa, e addimandò che
mai fosse.

Era che, all’aspetto delle guardie, secondo avea presagito il prevosto
dei mercanti, gli spiriti si erano inaspriti. S’era preso possesso
delle campane e suonato a stormo. Comminges aveva retto benissimo, ed
arrestato un uomo che sembrava uno de’ principali agitatori, e per dare
un esempio, comandato ch’ei fosse appeso alla croce del Trahoir. In
conseguenza i soldati aveano trascinato colui onde eseguir l’ordine; ma
sui mercati questi erano stati assaliti a sassate e colpi di alabarda;
il ribelle avea côlto il momento per fuggire, presa la via Tiquetonne,
e si era cacciato in una casa di cui immediatamente erano state
sfondate le porte.

Inutile era sortito quell’atto di violenza, nè si aveva saputo
ritrovare il reo. Comminges avea lasciato un corpo di guardia nella
strada, e col resto del suo distaccamento era tornato al Palazzo
Reale a render conto alla regina di quanto accadeva. Giù pel cammino
lo inseguivano grida e minacce; parecchi de’ suoi uomini erano stati
feriti di lancia e di alabarda, ed egli stesso côlto da una palla che
gli aveva spaccato un ciglio.

Il racconto di Comminges consolidava l’opinione del prevosto dei
mercatanti. Non si era in grado di far fronte ad una grave sommossa.
Il ministro fece sparger voce che le truppe non eransi schierate su
gli scali e il Ponte Nuovo se non per l’opportunità della cerimonia
e immantinente si ritirerebbero. Realmente, intorno alle quattro
ore di sera, si concentrarono tutte verso il Palazzo Reale; fu messo
un corpo di guardia alla barriera dei Sergenti, un altro ai Ciechi
(_Quinze-Vingts_), e il terzo finalmente sul poggetto di San Rocco. Si
empierono i cortili ed i pian terreni di svizzeri e moschettieri, e si
aspettò.

Ecco a qual punto stavano le cose quando noi introducemmo i nostri
leggitori nel gabinetto di Mazzarino, stato in addietro del Richelieu;
da noi si vide in quale situazione di mente egli ascoltava il mormorio
del popolo che giungeva sino a lui e l’eco delle schioppettate che si
udiva puranco nella sua camera.

Ad un tratto egli alzò il capo, mezzo aggrottate le ciglia siccome
uno che ormai sia deciso, fissò gli occhi sovra un enorme orologio a
pendolo ch’era prossimo a suonare le sei, e prendendo un fischio di
argento indorato, collocato sul tavolino a portata della sua mano,
diede due fischiate.

Una porta nascosta dal parato si aperse senza alcun rumore, e si
avanzò in silenzio un uomo vestito a nero, e stette ritto dietro alla
poltrona.

«Bernouin, disse il ministro senza nemmeno voltarsi, perocchè, avendo
dati due fischi, sapeva che doveva esser là il suo cameriere, quali
sono i moschettieri di guardia al Palazzo?

«Monsignore, i moschettieri neri.

«Qual compagnia?

«Compagnia Tréville.

«V’è in anticamera qualche ufficiale di essa?

«Il luogotenente d’Artagnan.

«Un de’ buoni, mi pare?

«Sì, monsignore.

«Datemi un abito da moschettiere, ed ajutatemi a vestirmi».

Il cameriere uscì nel medesimo silenzio con che era entrato, e indi a
un momento ricomparve col vestimento richiestogli.

Allora il ministro, cheto e pensoso, incominciò a sbarazzarsi dal
costume di cerimonia che aveva indossato per assistere alla seduta del
parlamento, e a mettersi la casacca militare, che portava con una certa
disinvoltura per grazia delle antiche sue campagne d’Italia; poi quando
fu bene in arnese, disse:

«Andatemi a cercare d’Artagnan».

E il servo se ne andò questa volta dall’usciale di mezzo, ma sempre
mutolo. Lo avresti preso per un’ombra.

Mazzarino, rimasto solo, si guardò con una tal quale soddisfazione allo
specchio: era ancor giovane, avendo appena quarantasei anni, di statura
elegante e un poco al disotto della media, di colorito bello e vivace,
sguardo pieno di fuoco, naso grande ma ben proporzionato, fronte ampia
e maestosa, capelli castagni un tantino cresputi, barba più nera e ben
pettinata col ferro, il che le dava molto garbo. S’infilò il budriere,
si osservò con somma compiacenza le mani che avea bellissime e per le
quali davasi molta cura; dopo di che, buttati via i grossi guanti di
pelle che si era posti e ch’erano da uniforme, si mise semplici guanti
di seta.

In quel punto fu riaperta la porta.

«Il signor d’Artagnan», disse il cameriere.

Entrò un ufficiale.

Era un uomo di trentanove o quaranta anni, piccolo ma ben tagliato, di
occhio vispo e spiritoso, barba nera e capelli sul grigio, come avvien
sempre a chi abbia avuta la vita troppo buona o troppo cattiva, e
specialmente a chi sia assai bruno.

D’Artagnan mosse quattro passi nel gabinetto, cui riconosceva per
esservi venuto una volta a tempo di Richelieu, e veggendo non esser
altri colà che un moschettiere della sua compagnia fissò le pupille su
cotestui, sotto ai panni del quale ebbe presto ravvisato il ministro.

Restò in piedi in attitudine rispettosa ma sostenuta, e qual conviensi
a un individuo d’alta condizione che spesso in vita sua abbia avuto
occasione di trovarsi con dei signoroni.

Mazzarino gli cacciò addosso un’occhiata più scaltra che profonda, lo
esaminò attentissimo, e dopo alcuni minuti secondi di silenzio domandò:

«Siete voi il signor d’Artagnan?

«Per l’appunto, monsignore», quegli rispose.

Il ministro considerò ancora un poco quella testa piena di
intelligenza, e quel volto di cui l’eccessiva variabilità era frenata
oramai dagli anni e dall’esperienza; ma d’Artagnan sostenne l’ispezione
come uno che in addietro era stato guatato da occhi assai più
penetranti di quelli di cui in allora sopportava le indagini.

«Signore, fece Mazzarino, ora verrete meco, o piuttosto verrò io con
voi.

«Ai vostri comandi, monsignore.

«Vorrei visitare da per me i corpi di guardia che circondano il Palazzo
Reale: credete che vi sia pericolo?

«Pericolo! e quale?

«Dicono che il popolo sia in grande sollevazione.

«Monsignore, l’uniforme dei moschettieri del re è molto rispettata, ed
ove nol fosse, io con altri tre m’impegno di fare scappare un centinajo
di que’ villani.

«Eppure avete visto ciò ch’è accaduto a Comminges.

«Il signor di Comminges è nelle guardie, e non nei moschettieri,
replicò d’Artagnan.

«Lo che significa, soggiunse il ministro sorridendo, che i moschettieri
sono soldati migliori che le guardie.

«Ognuno ha l’amor proprio della sua uniforme.

«Fuori che io, ribattè con lo stesso sorriso il ministro, giacchè
vedete che ho deposta la mia per indossare la vostra.

«Capperi! fece d’Artagnan, codesta è tutta modestia: per me dichiaro
che se avessi quella di Vostra Eccellenza, me ne contenterei.

«Sì, ma per uscire stasera, forse non sarebbe stata sicura. Bernouin,
il mio cappello».

Il servo venne, recando un cappelle da uniforme a tese larghe.
Mazzarino se lo pose alla testa, e giratosi verso d’Artagnan:

«Avete nelle scuderie dei cavalli con la sella bella e messa, non è
così?

«Sì, monsignore.

«Dunque andiamo.

«Quanti uomini vuole Vostra Eccellenza?

«Avete detto ch’essendo in quattro, v’impegnereste di fare scappare
cento villani: siccome se ne potrebbero incontrare dugento, pigliatene
otto.

«Monsignore, quando vi piaccia.

«Vi seguo... o anzi no, si riprese Mazzarino, di qua, di qua.... Facci
lume, Bernouin.»

Il cameriere diè di mano a una candela, il ministro prese di su lo
scrittojo una chiave bucata, ed aperto l’usciale di una scala segreta,
in un attimo si trovò nel cortile del Palazzo Reale.



II.

_Ronda notturna._


Dopo due minuti la piccola comitiva usciva dalla via dei
_Bons-Enfants_, dietro al teatro costruito da Richelieu per farvi
rappresentare _Mirame_, e dove Mazzarino, più amatore di musica che di
letteratura, avea fatto dare di recente le prime opere che siensi mai
esposte al pubblico in Francia.

L’aspetto della città offeriva tutti i caratteri di somma agitazione;
numerose combriccole percorrevano le strade, e checchè avesse detto
d’Artagnan, si fermavano a veder passare i militari, con un’aria di
dileggio minacciosa, la quale indicava avere i borghesi messa da un
canto l’ordinaria loro mansuetudine per intenzioni più bellicose.
Tratto tratto sorgevano dei rumori dal quartiere dei mercati;
scoppiettavano fucilate dalla parte di via San Dionigi, ed a volte,
tutto in un subito, senza che si sapesse il perchè, cominciavano a
suonare varie campane scosse dal capriccio popolare.

D’Artagnan seguitava pel suo viaggio con la noncuranza di uno su cui
simili sciocchezze non abbiano veruna influenza. Quando un mucchio
di persone ingombrava il mezzo della strada, ei gli spingeva contro
il suo cavallo senza neppur dire: Badate! e quasi che, o rivoltosi o
no, coloro che lo componevano sapessero con chi si avevano da fare,
si separavano e facevano largo alla pattuglia. Il ministro invidiava
tanta calma, che attribuiva all’assuefazione al pericolo; ma concepiva
per l’ufficiale, sotto i di cui ordini si era posto momentaneamente,
quella specie di considerazione che anco la prudenza concede al freddo
coraggio.

Avvicinandosi al posto militare della barriera de’ Sergenti, la
sentinella gridò: Chi va là? D’Artagnan rispose, e domandata al
ministro la parola d’ordine si avanzò. La parola d’ordine era _Luigi_ e
_Rocroy_.

Ricambiati quei segni di riconoscimento, d’Artagnan richiese se
comandava il posto il signor di Comminges. Allora la sentinella gli
additò un ufficiale, che, a piedi, discorreva, con la mano posata sul
collo al cavallo del suo interlocutore. Era quel tale di cui egli aveva
ricercato.

«Ecco, il signor di Comminges», disse d’Artagnan tornato appresso a
Mazzarino.

Questi diresse il proprio cavallo inverso loro, mentre d’Artagnan
per prudenza facevasi indietro; bensì dal modo con cui l’uffiziale a
piedi e quello a cavallo si levarono il cappello, ei si accorse che lo
avevano ravvisato.

«Bravo Guitaut! disse il ministro al cavalcante, vedo che ad onta
de’ vostri sessantaquattro anni siete sempre lo stesso, svelto ed
affezionato. Che dite voi a quel giovane?

«Monsignore, rispose Guitaut, gli dicevo che vivevamo in un’epoca
singolare, e che la giornata d’oggi somigliava di molto ad una di
quelle della lega che vidi nella mia gioventù. Sapete che nelle strade
di San Dionigi e San Martino non si discorre di meno che di fare delle
barricate?

«E che vi replicava Comminges, caro Guitaut?

«Monsignore, soggiunse Comminges, rispondevo che per fare una lega
mancava loro soltanto una cosa, la quale mi sembrava essenziale, cioè
un duca di Guise; d’altronde non si fa due volte la medesima cosa.

«No, ripicchiò Guitaut, ma faranno una _Fronda_, come e’ la chiamano.

«Ch’è mai una Fronda? domandò Mazzarino.

«È il nome che danno al loro partito.

«E d’onde viene codesto nome?

«Pare che giorni sono il consigliere Bachaumont dicesse in Palazzo che
tutti i facitori di sommosse somigliavano agli scolari, che sparlavano
nei fossi di Parigi, e si disperdevano al vedere il luogotenente
civile, per riunirsi da capo dopo ch’esso era passato. Allora hanno
preso al balzo il termine _fronder_ (sparlare) conforme fecero i
_gueux_ a Brusselles, e si sono chiamati _Frondeurs_. Ieri e oggi tutto
era ad uso _Fronde_: panni, cappelli, guanti, manicotti, ventagli.... e
poi, sentite:»

Realmente, in quell’istante fu aperta una finestra, e vi si affacciò un
uomo che principiò a cantare:

      Un vent de Fronde
    S’est levé ce matin;
    Je crois qu’il gronde
    Contre le Mazarin.
      Un vent de Fronde
    S’est levé ce matin[4].

«Insolente! mormorò Guitaut.

«Monsignore, disse Comminges, messo di mal umore dalla sua ferita, e
che perciò non desiderava che di riscattarsi, volete che io mandi a
quel briccone una palla per insegnargli a cantare stuonando?»

E posò la mano su gli arcioni del cavallo di suo zio.

«No no! esclamò il ministro, che diavolo! mio caro, guastereste ogni
cosa; al contrario, tutto va a meraviglia. Conosco i vostri Francesi
come se gli avessi fatti io dal primo all’ultimo: cantano, pagheranno.
Durante la lega di che parlava testè Guitaut si cantava soltanto la
messa. Vieni Guitaut, andiamo a vedere s’è fatta buona guardia ai
Quinze-Vingts come alla barriera dei Sergenti».

E salutando con un cenno della mano Comminges, raggiunse d’Artagnan,
che si ripose alla testa della sua piccola brigata, seguito
immediatamente da Guitaut e dal ministro, ai quali veniva dopo il
rimanente della scorta.

«È giusto, borbottò Comminges guardandolo allontanarsi, mi scordavo che
purchè si paghi, a lui non occorre altro».

Si battè di nuovo la via Sant’Onorato, scomponendo sempre capannelli;
in essi non si ragionava che degli editti della giornata, si
compiangeva il giovine re che rovinava così il popolo senza saperlo, si
buttava tutta la colpa a Mazzarino, si progettava di rivolgersi al duca
d’Orleans ed al signor principe, si esaltavano Blancmesnil e Broussel.

D’Artagnan transitava fra mezzo a quelle comitive con la massima
noncuranza, come se egli ed il suo cavallo fossero di ferro; Mazzarino
e Guitaut discorrevano piano, i moschettieri, riconosciuto ormai il
ministro, il seguitavano tacendo.

Arrivarono alla contrada San Tomaso del Louvre dov’era il posto
militare dei Quinze-Vingts. Guitaut chiamò un ufficiale subalterno, che
venne a render conto.

«Ebbene?» gli domandò Guitaut.

«Ah! mio capitano, da questa parte tutto va bene, se non che credo
succeda qualche cosa in quel palazzo».

E additava un casamento magnifico situato precisamente sul luogo ove fu
dipoi il teatro del Vaudeville.

«Là dentro? fece Guitaut, ma è il palazzo Rambouillet.

«Non so se sia Rambouillet, ma quel che so è che ci ho visto entrare
molte genti di trista cera.

«Via! disse Guitaut con una risata, sono poeti.

«Ohe, Guitaut! disse Mazzarino, ti compiaceresti di non parlare con sì
poco rispetto di quei signori? non sai che da giovane io fui poeta, e
facevo dei versi sul genere di quelli del signor di Benserade?

«Voi, monsignore?

«Sì, io: vuoi che te ne reciti?

«Non serve, non capisco l’italiano.

«Sì, ma capisci il francese, è vero, mio buono e bravo Guitaut?
continuò Mazzarino posandogli amichevolmente la mano su la spalla, e
qualunque ordine ti sia dato in questa lingua, lo adempirai?

«Senza dubbio, come ho già praticato, purchè mi venga dalla regina.

«Ah! sì, rispose il ministro mordendosi il labbro, so che sei dedito a
lei.

«Sono capitano delle sue guardie da più di venti anni.

«Andiamo via, signor d’Artagnan; soggiunse il ministro, da questa parte
tutto va benone».

D’Artagnan tornò alla testa della sua colonna senza più far motto,
e con l’obbedienza passiva che costituisce il carattere del vecchio
soldato.

Si camminava verso il poggetto di San Rocco dov’era il terzo posto
militare, passando dalle strade Richelieu e Villedo. Quello era il più
isolato, giacchè dava quasi sui bastioni, e da quel lato la città era
poco popolata.

«Chi comanda questo posto? chiese Mazzarino.

«Villequier, rispose Guitaut.

«Diamine! replicò il ministro, parlategli voi solo; vi è noto che
siamo corrucciati dacchè voi foste incaricato di arrestare il duca di
Beaufort: pretendeva che a lui come capitano delle guardie si spettasse
un tale onore.

«Lo so, e gli ho detto cento volte che aveva torto: il re non poteva
dargli quell’ordine, giacchè in quell’epoca aveva appena quattro anni.

«Sì, ma io glielo potevo dare, Guitaut, e preferii che toccasse a voi».

Guitaut, senza rispondere, spinse innanzi il cavallo, e fattosi
riconoscere dalle sentinelle, fece chiamare il signor di Villequier.

Questi uscì subito.

«Ah! siete voi, Guitaut? disse col tuono di mal umore in lui consueto,
che diavolo venite a far qua?

«Vengo a domandarvi se da questa parte v’è qualcosa di nuovo.

«Che diavolo volete che vi sia? è gridato: Viva il re! e abbasso
Mazzarino! questa non è novità, è anche un bel pezzo che siamo avvezzi
a simili grida!

«E voi vi fate il coro! ribattè ridendo Guitaut.

«Affè, alle volte ne avrei voglia, e trovo che hanno ragione; darei di
buon grado cinque annate della mia paga, che non mi vien pagata, perchè
il re avesse cinque anni di più.

«Davvero? e che accadrebbe se avesse cinque anni di più?

«Accadrebbe il momento che il re sarebbe in età maggiore, che il re
darebbe i suoi ordini da per sè, e v’è più soddisfazione a obbedire
al nepote di Enrico IV che al figlio di Pietro Mazzarino. Per il re,
cospettone! mi farei ammazzare con piacere, ma se fossi ammazzato
per il Mazzarino, conforme è stato in procinto di esserlo oggi vostro
nepote, non me ne consolerei nemmeno nel mondo di là.

«Bene, bene, signor di Villequier, disse Mazzarino, non dubitate,
informerò il re della vostra devozione».

Poi giratosi verso la scorta:

«Animo, signori, torniamo indietro, tutto va ottimamente.

«Veh! disse Villequier, era là il Mazzarino! meglio così: da gran tempo
bramavo dirgli in faccia quel che pensavo di lui; voi me ne avete data
l’occasione, Guitaut, e quantunque la vostra intenzione non sia forse
per me delle più favorevoli, pure ve ne ringrazio».

E voltando le calcagna rientrò in corpo di guardia, fischiando
un’arietta di _Fronda_.

Frattanto Mazzarino se ne tornava pensieroso: quanto aveva inteso da
Comminges, da Guitaut e da Villequier lo confermava nell’idea che in
caso di avvenimenti gravi ei non avrebbe nessuno per sè, eccettuata la
regina, ed anche la regina aveva abbandonati sì sovente i suoi amici,
che il di lei appoggio gli sembrava, ad onta delle precauzioni da esso
prese, molto incerto e precario.

In tutto il tempo della durata di quella gita notturna, cioè per un’ora
circa, il ministro, benchè studiasse a vicenda Comminges, Guitaut
e Villequier, aveva esaminato un uomo. Quest’uomo, ch’era rimasto
impassibile davanti alla minaccia popolare, che non si era accigliato
di più agli scherzi detti da Mazzarino che agli altri diretti contro
di lui, gli pareva un essere a parte, e adatto per avvenimenti della
specie di quelli in cui si era allora, e soprattutto di quelli in che
presto si doveva trovarsi.

D’altronde, il nome di d’Artagnan non gli era totalmente ignoto, e
sebbene egli non fosse venuto in Francia se non verso il 1634 o 1635,
vale a dire sette o otto anni dopo gli eventi da noi narrati in una
precedente storia, pure al ministro sembrava aver udito a proferire tal
nome come appartenente ad un soggetto che in una circostanza non più
presente alla sua mente si era distinto qual modello di coraggio, di
destrezza e di devozione.

Questa idea s’impossessò cotanto del suo spirito, ch’ei risolse di
schiarirla senza indugio; ma le notizie che desiderava sopra d’Artagnan
non già allo stesso d’Artagnan bisognava richiederle. Dalle poche
parole pronunciate dal tenente dei moschettieri, Mazzarino aveva potuto
discernere l’origine guascona, e Italiani e Guasconi si conoscono
troppo, e troppo si somigliano per rapportarsi gli uni agli altri
di ciò che posson dire di sè stessi. Quindi, arrivato alle mura, che
facevano recinto al giardino del Palazzo Reale, il ministro bussò ad
una porticella situata a un dipresso dov’è adesso il caffè di Foy, e
dopo ringraziato d’Artagnan e invitatolo ad attenderlo nel cortile del
Palazzo Reale, accennò a Guitaut che andasse seco. Ambedue smontarono
da cavallo, consegnarono le redini al lacchè, che aveva loro aperto, e
disparvero nel giardino.

«Mio caro Guitaut, disse Mazzarino appoggiandosi al braccio del vecchio
capitano delle guardie, mi dicevate poc’anzi che sono quasi venti anni
dacchè siete al servizio della regina.

«Sì, è la verità, rispose Guitaut.

«Ora, mio caro, io ho osservato che oltre al vostro coraggio, ch’è
incontrastabile, e la vostra fedeltà, ch’è ad ogni prova, avevate
un’ottima memoria.

«Avete notato questo, monsignore? diavolo! peggio per me.

«E perchè?....

«Di certo: una delle prime qualità del cortigiano è di saper
dimenticare.

«Ma voi, Guitaut, non siete un cortigiano, siete un prode soldato,
un di quei capitani come ne restano tuttavia alcuni del tempo del re
Enrico IV, ma come pur troppo in breve non ne resteranno più.

«Capperi! ma, monsignore, mi avete fatto venire con voi per predirmi la
sorte?

«No no.... per domandarvi se avevate osservato il nostro tenente de’
moschettieri.

«Il signor d’Artagnan?

«Appunto.

«Non ne ho avuto bisogno, lo conosco da molto tempo.

«Dunque che uomo è egli?

«Eh! fece Guitaut, sorpreso dall’interrogazione, è un Guascone.

«Sì, lo so, ma volevo ricercarvi se era un uomo in cui si potesse aver
fiducia.

«Il signor di Tréville lo ha in grande stima, e il signor di Tréville,
non lo ignorate, è amicissimo della regina.

«Desideravo sapere s’era uno che avesse date prove di sè?

«Se intendete come valoroso soldato, credo potervi rispondere di sì:
all’assedio di La Rochelle, al passo di Susa, a Perpignano, ho inteso
dire che avesse fatto più del suo dovere.

«Ma, lo sapete pure, noi altri poveri ministri spesso abbiamo bisogno
di altri uomini che di quei valorosi; ci abbisognano genti accorte.
D’Artagnan non si trovò immischiato al tempo del signor di Richelieu in
qualche intrigo dal quale la pubblica voce vorrebbe che si fosse cavato
fuori abilissimamente?

«Monsignore, sotto questo rapporto, disse Guitaut, il quale vide
che il ministro intendeva a farlo ciarlare, sono costretto a dire a
V. Eccellenza che non so altro se non quello che la voce pubblica
ha recato a cognizione di lei stessa. Non mi sono mai ingerito in
intrighi per mio conto, e se talvolta ho ricevuta qualche confidenza
in proposito d’intrighi altrui, il segreto, non essendo mio, troverete
opportuno ch’io lo serbi a quelli che me lo affidarono».

Mazzarino tentennò il capo.

«Ah! sospirò; in parola, vi sono dei ministri ben fortunati, e che
sanno tutto quanto vogliono sapere.

«Monsignore, egli è perchè quelli non pesano tutti gli uomini nella
medesima bilancia, e sanno rivolgersi agli uomini di guerra per
la guerra e agli intriganti per gl’intrighi. Rivolgetevi ad alcun
intrigante dell’epoca di cui discorrete, e ne ricaverete ciò che
bramate, già s’intende pagando.

«Eh cospetto! soggiunse Mazzarino, facendo una certa smorfia che
gli era usuale quando con lui si toccava la questione di danaro nel
senso in cui lo avea fatto Guitaut, si pagherà se non vi sarà da fare
altrimenti.

«E monsignore mi domanda sul serio d’indicargli un soggetto che sia
stato immischiato in tutti i raggiri di quell’epoca?

«Per Bacco! riprese Mazzarino che cominciava a perdere la pazienta, da
un’ora non vi ricerco altro, testa di ferro che voi siete!

«Ve n’è uno, per il quale vi garantisco su questo particolare, se però
vuol parlare.

«Cotesto è pensier mio.

«Ah, monsignore! non sempre è facile di far dire alle persone quel che
non vogliono dire.

«Oibò! con la pazienza ci si viene. Ebbene, colui?

«È il conte di Rochefort!

«Il conte di Rochefort!

«Disgraziatamente è sparito da quattro o cinque anni, e non so più che
ne sia stato.

«Lo saprò io, Guitaut.

«E allora, di che si lagnava vostra Eccellenza, di non saper niente?

«E credete, seguitò Mazzarino, che Rochefort?....

«Era l’anima dannata del ministro.... ma vi prevengo, monsignore, che
vi costerà caro; il ministro era prodigo con quella sua creatura.

«Sì, sì...., replicò Mazzarino, era un grand’uomo, ma aveva questo
difetto.... Grazie, Guitaut, mi approfitterò del vostro consiglio, e
questa sera subito».

Ed essendo i due interlocutori giunti appunto al cortile del Palazzo
Reale, il ministro fece con la mano un saluto a Guitaut, e veduto un
ufficiale che passeggiava su e giù, gli si accostò.

Era d’Artagnan, che lo aspettava secondo il suo comando.

«Venite, d’Artagnan, disse Mazzarino con la sua voce più dolce, ho da
darvi un’incombenza».

L’altro fe’ un inchino, andò seco per la scala segreta, e dopo poco si
ritrovò nel gabinetto d’onde si era partito.

Il ministro sedè a tavolino, e preso un foglio vi scrisse alcuni versi.

D’Artagnan, in piedi, impassibile, attese senza impazienza nè
curiosità. Era diventato un automa militare, che agisse o piuttosto
obbedisse mercè una molla.

Mazzarino piegò la lettera, e vi appose il suo sigillo.

«Signor d’Artagnan, porterete questo dispaccio alla Bastiglia, e
condurrete qua la persona a cui concerne; prenderete una carrozza, una
scorta, e farete buona guardia al prigioniero».

D’Artagnan pigliò il foglio, si toccò il cappello, girò sulle calcagna
come avrebbe potuto fare il più abile sergente istruttore, ed uscì;
indi a un momento si udì che comandava con la sua voce monotona:

«Quattro uomini di scorta, una carrozza e il mio cavallo».

Di lì a cinque minuti si udiva il rumore delle ruote del legno e dei
ferri de’ cavalli sulle lastre del cortile.



III.

_Due antichi nemici._


Suonavano le otto e mezza, quando d’Artagnan giungeva alla Bastiglia.

Si fece annunziare al governatore, il quale appena intese ch’ei veniva
da parte e con un ordine di monsignore, gli andò incontro fin sulla
scalinata.

Governatore della Bastiglia era in allora il signor de Tremblay
fratello del famoso Joseph, quel terribile favorito di Richelieu
sopracchiamato l’Eminenza grigia.

Allorchè il maresciallo di Bassompierre era nella Bastiglia, dove
stette dodici anni interi, ed i suoi compagni nei loro sogni di libertà
dicevano un coll’altro: Io uscirò nel tal tempo, io in tale epoca,
Bassompierre rispondeva: «Signori, ed io uscirò quando uscirà il signor
de Tremblay»; lo che significava, che alla morte del ministro non
poteva mancare che de Tremblay perdesse il suo posto alla Bastiglia e
Bassompierre ripigliasse il suo in corte.

Realmente fu vicina a compiersi la sua predizione, ma in altro modo
da quel ch’egli aveva immaginato, imperocchè, morto Richelieu, contro
ogni aspettativa, le cose continuarono a andare come per lo passato; de
Tremblay non venne fuori, e Bassompierre stette in procinto a non venir
più fuori.

Sicchè il signor de Tremblay era tuttavia governatore della Bastiglia,
quando vi si presentò d’Artagnan per eseguire i cenni di Mazzarino; lo
accolse con la maggior cortesia, ed essendo precisamente per mettersi a
tavola, lo invitò a cena seco.

«Lo farei con tutto il piacere, disse d’Artagnan, ma se non isbaglio
sulla sopraccarta è scritto: di premura.

«Sì sì, confermò de Tremblay, olà, maggiore! fate scendere il numero
256».

Chi entrava nella Bastiglia cessava d’esser uomo e diventava numero.

D’Artagnan si sentì i brividi udendo stridere le chiavi, e perciò
rimase a cavallo senza volere smontare, guardando le inferriate, le
finestre affondate, i muri enormi che non aveva mai veduti se non dal
lato opposto del fosso, e che una ventina d’anni addietro gli aveano
fatta tanta paura.

Fu dato un tocco di campana.

«Vi lascio, gli disse de Tremblay, mi chiamano per sottoscrivere il
permesso di uscita del prigioniero. A rivederci, signor d’Artagnan.

«Dio mi punisca se ti rendo il tuo augurio! bucinò d’Artagnan,
accompagnando l’imprecazione con un sorriso gentilissimo; per essere
stato cinque soli minuti nel cortile mi sento di già male. Animo,
mi accorgo che ho ancora più genio a morire sulla paglia, lo che
probabilmente mi succederà, che a porre insieme dieci mila lire di
rendita con essere governatore della Bastiglia».

Appena terminava questo monologo comparve il carcerato. Al mirarlo
d’Artagnan fece un atto di stupore, ma tosto lo represse. Quegli salì
in carrozza senza mostrare di aver ravvisato d’Artagnan.

«Signori, disse quest’ultimo ai quattro moschettieri, mi è stata
raccomandata la massima sorveglianza sul prigioniero; e siccome la
vettura non ha serratura agli sportelli, io ci salgo accanto a lui.
Signor di Lillebonne, abbiate la compiacenza di condurre scosso il mio
cavallo.

«Volentieri, mio tenente, rispose Lillebonne».

D’Artagnan scese a terra, diede la briglia del suo animale al
moschettiere, entrò nel legno, e si mise al fianco del detenuto, e con
voce nella quale non si poteva distinguere la minima emozione disse
poi:

«Al Palazzo Reale, e di trotto».

La vettura si partì, ed egli, profittando dell’oscurità che regnava
sotto la volta da traversarsi, si gettò al collo al prigioniero.

«Rochefort! esclamò, voi! siete voi! non m’inganno?

«D’Artagnan! esclamò ugualmente Rochefort attonito.

«Ah, povero amico mio! continuò d’Artagnan, non avendovi rivisto da
quattro o cinque anni, vi credevo morto.

«Eh! fece l’altro, mi pare non vi sia gran differenza tra un morto e un
sepolto, ed io sono sepolto, o poco meno.

«E per qual delitto siete nella Bastiglia?

«Volete ch’io vi dica la verità?

«Sì.

«Ebbene, non lo so.

«Diffidenza con me!

«No, da gentiluomo, mentre è impossibile ch’io vi sia per la causa di
che sono imputato.

«Che causa?

«Come ladro notturno.

«Voi ladro notturno, Rochefort! oh burlate!

«Capisco, qui ci vuole spiegazione, non è così?

«Lo confesso.

«Or bene, ecco come fu. Una sera, dopo una gozzoviglia da Reinard
alle Tuilerie con il duca d’Harcourt, Fontrailles, de Rieux ed
altri, il duca d’Harcourt propose di andare a rubare i pastrani sul
Ponte-Nuovo.... lo sapete, è un divertimento messo in gran moda dal
signor duca d’Orleans.

«Eravate pazzo, Rochefort? alla vostra età!

«No, era ubriaco; eppure siccome il divertimento mi sembrava mediocre,
progettai al cavaliere de Rieux d’essere spettatori invece che attori,
e per vedere la scena dal prim’ordine salire sul cavallo di bronzo.
Detto e fatto. Mediante gli sproni che ci servivano di staffe, in un
attimo fummo in groppa. Stavamo a meraviglia, vedevamo egregiamente.
Erano già stati portati via quattro o cinque ferraiuoli con destrezza
impareggiabile e senza che gli spogliati osassero nemmeno fiatare, ed
ecco che non so quale imbecille, meno sofferente degli altri, si mette
a gridare: pattuglia! e ci richiama a ridosso una brigata di arcieri.
Il duca d’Harcourt, Fontrailles e gli altri scappano. De Rieux vuol
fare lo stesso. Io lo trattengo, assicurandolo che nessuno verrà a
scovarci dove siamo. Egli non mi dà retta e pone il piede sullo sprone
per scendere, questo si rompe, egli cade, si rompe una gamba, e invece
di stare zitto piglia ad urlare come un indiavolato. Tento di saltare
anch’io. Era però troppo tardi, e salto nelle braccia degli arcieri,
i quali mi conducono al Castelletto, e là mi addormento ben e meglio
certissimo di uscirne all’indomani. Passa l’indomani, il posdomani e
otto giorni. Scrivo al ministro. Nel giorno stesso vengono a prendermi,
e mi portano alla Bastiglia. Ci sono da cinque anni. Supponete che sia
per aver commesso il sacrilegio di montare in groppa dietro ad Enrico
IV?

«No, avete ragione, mio caro Rochefort, non può essere per questo, ma
ora probabilmente siete prossimo a sapere il perchè.

«Ah sì! giusto, mi dimenticavo di domandarvelo; dove mi conducete?

«Dal ministro.

«Che vuol egli da me?

«Non lo so, poichè ignoravo persino di venire a cercar voi.

«È impossibile! voi, un favorito!

«Io favorito? ah! mio povero conte, sono più cadetto di Guascogna che
quando vi vidi a Meung, vi ricorderete, ohimè! più di venti anni fa».

Ed un grosso sospiro terminò la frase di d’Artagnan.

«Per altro, venite qui con un ordine.

«Perchè mi trovavo a caso nell’anticamera e Sua Eccellenza si è
diretta a me come avrebbe fatto ad un altro; ma sono sempre tenente nei
moschettieri, e se fo bene i conti, sono oramai da circa ventun’anno.

«In somma non vi sono succedute disgrazie, ed è molto.

«E che disgrazia volevate mi accadesse? come dice non so quel verso
latino, che non mi rammento più, o piuttosto che non seppi mai bene, il
fulmine non batte nelle valli, ed io sono una valle, Rochefort mio, e
delle più basse che vi siano.

«Dunque il Mazzarino è sempre Mazzarino?

«Più che mai! lo dicono maritato alla regina.

«Maritato!

«Se non le è marito, sarà forse suo amante.

«Resistere a un Buckingham, e dare ascolto ad un Mazzarino!

«Ecco come sono le donne, disse filosoficamente d’Artagnan.

«Le donne sì, ma le regine!

«Eh, Dio Santo! su questo particolare sarei per dire che le regine sono
donne due volte.

«E il signor di Beaufort è ancora carcerato?

«Sempre: perchè?

«Ah! gli è che siccome mi voleva bene, avrebbe potuto levarmi di guai.

«Voi siete forse più vicino di esso ad esser libero, e leverete lui di
guai.

«Allora la guerra?

«L’avremo quanto prima.

«Con lo Spagnuolo?

«No, con Parigi.

«Che intendete mai dire?

«Udite voi queste schioppettate?

«Sì, e poi?

«E poi, sono i borghesi che palleggiano aspettando partita.

«E che pensate forse che vi sarebbe da fare qualche cosa dei borghesi?

«Eh sì; promettono, e se avessero un capo che di tutte le comitive
formasse un attruppamento....

«Peccato di non esser libero!

«Oh! Dio buono, non vi disperate. Se il Mazzarino vi fa chiamare, è che
ha bisogno di voi; e se ne ha bisogno, affè! me ne congratulo con voi.
Da molti anni nessuno ha più necessità di me, e perciò vedete a che
punto sono.

«Lagnatevi, sì! ve lo consiglio!

«Ascoltatemi, Rochefort.... una convenzione....

«E quale?

«Sapete che siamo buoni amici....

«Gnaffe! e porto i segni della nostra amicizia, tre stoccate!...

«Or via, se ritornate in credito, in favore, non vi scordate di me.

«Da Rochefort che sono: ma a cosa reciproca.

«Fissato: ecco la mano. Sicchè alla prima occasione che incontrate di
parlare di me....

«Ne parlo; e voi?

«Lo stesso.

«A proposito, e i vostri amici, s’ha da parlare anche di loro?

«Che amici?

«Athos, Porthos e Aramis; li avete obliati?

«Quasi.

«Cosa è stato di loro?

«Non lo so.

«Davvero!

«Oh sì.... ci siamo lasciati come vi è noto; vivono, questo è quanto
posso dire; tratto tratto ne ho notizie indirette, ma in che luogo del
mondo siano, diavol mi porti se lo so.... no, in parola d’onore! non ho
più altro amico che voi, Rochefort.

«E l’illustre.... come chiamavate quel ragazzo ch’io feci sergente nel
reggimento di Piemonte?

«Planchet.

«Bravo! e dell’illustre Planchet che ne fu?

«Ha sposata una bottega da confettiere in via dei Lombardi. È un
giovane ch’è stato sempre propenso per le dolcezze, talchè è borghese
di Parigi, e secondo ogni probabilità adesso susurra. Vedrete che quel
briccone sarà scabbino prima ch’io sia capitano.

«Animo, caro d’Artagnan, un po’ di coraggio; quando appunto uno è sul
più basso della ruota, la ruota gira e vi rialza. Forse stassera subito
si cambierà la vostra sorte.

«Amen! disse d’Artagnan, facendo fermare la carrozza.

«Che fate? domandò Rochefort.

«Fo, che siamo arrivati, e non voglio esser visto a uscire dal vostro
legno: noi non ci conosciamo.

«Avete ragione: addio.

«A rivederci; rammentatevi la vostra promessa».

D’Artagnan rimontò a cavallo, e si rimise alla testa della scorta.

Dopo cinque minuti entravano tutti nel cortile del Palazzo Reale.

D’Artagnan guidò il prigioniero per la scala grande e gli fece
traversare l’anticamera e la galleria. Giunto all’usciale del gabinetto
di Mazzarino, si disponeva a farsi annunziare, ma Rochefort gli mise la
mano su la spalla.

«D’Artagnan, gli disse sorridendo, volete ch’io vi confessi una cosa
a cui ho pensato in tutto il viaggio mirando i gruppi di borghesi che
guardavano voi e i vostri quattro uomini con occhi infuocati?

«Dite pure.

«Che mi sarebbe bastato di gridare ajuto, per farvi fare in pezzi voi e
la vostra scorta, ed allora ero libero.

«Perchè non lo faceste?

«Oh via! e l’amistà giurata?... se fosse stato un altro fuor di voi che
mi avesse condotto, non direi....»

D’Artagnan chinò il capo, dicendo:

«Che Rochefort sia diventato migliore di me?»

E fe’ dar avviso al ministro d’esser egli colà.

«Passi il signor di Rochefort, disse Mazzarino impaziente quando
ebbe inteso profferire i due nomi, e pregate il signor d’Artagnan di
aspettare; non ho ancora terminato con lui».

A queste parole d’Artagnan si rallegrò. Secondo aveva osservato, da
molto tempo nessuno aveva avuto bisogno di lui, e l’insistenza del
ministro a suo riguardo gli parve di buon augurio.

A Rochefort essa non produsse altro effetto se non di porlo in maggior
cautela. Egli entrò nel gabinetto, e trovò Mazzarino seduto a tavolino
col suo vestimento consueto.

Furono chiuse le porte. Rochefort sbirciò da un canto Mazzarino, e
sorprese un’occhiata del ministro che incrociavasi colla sua.

Il ministro era sempre lo stesso, ben pettinato, acconciato, pien
d’odori, e mercè questa sua eleganza non mostrava l’età che aveva.
Di Rochefort il caso era diverso, ed i cinque anni passati in carcere
avevano invecchiato d’assai questo degno amico di Richelieu; i capelli
neri gli erano diventati bianchi, al colore bronzino della carnagione
subentrava una pallidezza che sembrava una specie di sfinimento. Al
vederlo Mazzarino scosse un poco la testa con un atto ch’esprimeva:

«Ecco un uomo che non mi pare più buono a gran cosa!»

Dopo un silenzio, che in realtà fu molto lungo, e che a Rochefort parve
un secolo, Mazzarino cavò da un fascio di fogli una lettera aperta, e
mostrandola al gentiluomo, gli disse:

«Signor de Rochefort, ho trovato una lettera con la quale reclamate la
vostra libertà. Siete dunque in prigione?»

L’altro balzò a tal domanda.

«Ma!... mi sembrava che Vostra Eccellenza lo sapesse meglio di chiunque.

«Io? niente affatto. V’è tuttora nella Bastiglia una quantità di
detenuti che vi stanno sino dal tempo del signor di Richelieu e di cui
neppure so i nomi.

«Oh! ma di me gli è tutt’altro, monsignore, e il mio vi è noto, giacchè
per un ordine di Vostra Eccellenza fui trasportato dal Castelletto alla
Bastiglia.

«Credete?

«Ne son certo.

«Sì.... mi pare di ricordarmene.... Non ricusaste in addietro di fare
un viaggio per la regina a Brusselles?

«Ah ah! ecco dunque la vera causa! da cinque anni la ricercavo, e
sciocco che sono! non la rinvenivo.

«Non vi dico già che quella sia la causa del vostro arresto,
intendiamoci; vi fo soltanto questa interrogazione: non negaste di
andare a Brusselles per servizio della regina, mentre avevate aderito a
andarvi per servizio del defunto Richelieu?

«Appunto perchè mi ci ero recato per il defunto ministro, non potevo
tornarci per la regina. Ero stato a Brusselles in una terribile
circostanza. Fu all’epoca della congiura di Chalais. V’ero andato per
sorprendere la corrispondenza di Chalais con l’arciduca, e già allora
quando fui riconosciuto ebbi ad esser fatto in pezzi[5]. Come volevate
che vi tornassi? compromettevo la sovrana, anzi che giovarle.

«Or bene, capite? ecco come sono male interpretate le migliori
intenzioni, mio caro signor di Rochefort. La sovrana vide nel vostro
rifiuto un rifiuto puro e semplice; aveva avuto da dolersi moltissimo
di voi sotto il fu ministro, Sua Maestà la regina!»

Il gentiluomo sorrise con disprezzo.

«Precisamente perchè avevo servito bene il signor di Richelieu contro
la regina, morto lui, dovevate comprendere, monsignore, che vi servirei
bene contro a tutti.

«In verità, signor di Rochefort, io non sono come il signor di
Richelieu che mirava all’onnipotenza; io sono un semplice ministro
che non ho bisogno di servi, essendo io servo della regina. Orsù, Sua
Maestà è puntigliosa, avrà saputa la vostra ripulsa, l’avrà presa per
una dichiarazione di guerra, e conoscendo quanto siete uomo superiore,
e in conseguenza pericoloso, mi avrà comandato, mio caro signor di
Rochefort, di assicurarmi di voi.... Ed ecco in che modo vi trovate
alla Bastiglia.

«Ebbene, monsignore, mi pare che se mi ci trovo per un abbaglio....

«Sì sì, tutto questo può aggiustarsi.... Voi siete capace di capire
certi affari, e una volta capiti, mandarli innanzi per bene.

«Tale era l’opinione del signor di Richelieu, e la mia ammirazione per
quel grande uomo maggiormente si accresce dacchè vi compiacete dirmi
ch’è pure la vostra.

«È vero, soggiunse Mazzarino, il defunto ministro aveva molta politica:
questa costituiva la sua superiorità su di me, che sono un uomo
semplice e senza secondi fini; è quello il mio danno, di avere una
franchezza addirittura francese».

Rochefort ai morse il labbro per non ridere.

«Sicchè, vengo alla sostanza: ho bisogno di buoni amici, di servi
fedeli; quando dico: ho bisogno, voglio dire: ne ha bisogno la regina.
Io non fo nulla se non per comando della regina, intendete? non sono
come il signor di Richelieu che faceva tutto a suo capriccio. E perciò
non sarò mai un grand’uomo a pari suo, ma invece sono un uomo buono,
signor di Rochefort, e spero di provarvelo».

Rochefort conosceva quella voce melata in cui entrava tratto tratto un
fischio simile a quel della vipera.

«Sono prontissimo a creder tutto, monsignore, ei rispose, quantunque
dal canto mio abbia avuto poche prove di quella _bontà_ di cui parla
Vostra Eccellenza. Non vi dimenticate (seguitò veggendo l’impressione
che cercava di occultare il ministro) che da cinque anni io sono nella
Bastiglia, e non v’è niente che guasti tanto le idee come il guardare
le cose dalle inferriate di un carcere.

«Ah! signor di Rochefort, vi ho di già dichiarato che non ci avevo che
fare, nella vostra carcerazione.... La regina.... collera di donna e di
principessa, che volete? ma passa da sè com’è venuta, e poi non ci si
pensa più....

«L’intendo, monsignore, che non vi pensi più, essa che ha passati quei
cinque anni nel Palazzo Reale tra le feste ed in mezzo ai cortigiani;
io però che gli ho consumati in prigione....

«Ma Dio buono! caro di Rochefort, vi figurate che il Palazzo Reale sia
un soggiorno molto allegro? no no: anche noi, vi assicuro, vi abbiamo
avuti grandi tormenti. Ma basta, non discorriamo più di questo. Io
giuoco a giuoco scoperto, al mio solito: orsù, siete dei nostri?

«Monsignore, dovete capire che non bramo di meglio; bensì, non sono
più a giorno di nulla. Alla Bastiglia non si chiacchiera di politica se
non con i soldati e i carcerieri, e non avete idea quanto quelle genti
siano poco istruite di quel che succede. Io sono ancora al signor di
Bassompierre.... È sempre uno dei diciassette signori?

«È morto, e questa è una gran perdita. Era uomo zelante per la regina,
e gli uomini zelanti sono rari!

«Per Diana! lo credo, fece Rochefort, quando ne avete li mandate alla
Bastiglia!

«Ma infatti, disse Mazzarino, che cosa prova la devozione, lo zelo?

«L’azione, replicò Rochefort.

«Ah! sì, l’azione, ripetè il ministro riflettendo, ma dove trovarli gli
uomini da azione?»

Rochefort tentennò il capo.

«Non ne mancano mai: egli è soltanto, monsignore, che voi cercate male.

«Come, male? che volete dire, mio caro?... Dovete aver imparato di
molto nell’intima vostra relazione col defunto ministro.... Ah! era un
uomo sì grande!

«Vostra Eccellenza si sdegnerà se moralizzo un pochino?

«Io? mai; sapete che a me si può dir tutto; procuro di farmi amare, e
non temere.

«Or bene, monsignore, nella mia prigione è un proverbio scritto sul
muro colla punta di un chiodo.

«E che proverbio?

«Eccolo: _Tal padrone_.....

«Lo conosco: _tal servo_.

«No: _tal servitore_; egli è un piccolo cambiamento che gli zelanti
di cui vi parlavo pocanzi vi hanno introdotto per loro particolare
soddisfazione.

«E che significa il dettato?

«Che il signor di Richelieu seppe trovare dei servitori zelanti, e a
dozzine.

«Egli! egli, punto di mira di tutti i pugnali! egli che passò tutta la
vita a parare i colpi che gli si vibravano!

«Ma tanto li parò, eppure erano scagliati fortemente. E che se aveva
dei buoni nemici, aveva anche buoni amici.

«Ma questo è quanto io chiedo.

«Ho conosciute delle genti, continuò Rochefort stimando giunto il
momento di mantener la parola a d’Artagnan, che con l’arte loro
delusero cento volte la penetrazione del ministro; genti, che senza
danaro, senza appoggio, senza credito, conservarono una corona ad una
testa coronata e fecero domandar grazia al ministro.

«Ma coloro che voi menzionate, soggiunse Mazzarino sorridendo fra sè
perchè Rochefort arrivava dov’egli bramava condurlo, coloro non erano
devoti al ministro, mentre contrastavano contro di lui.

«No, giacchè sarebbero stati ricompensati meglio; ma avevano la
disgrazia di esser devoti a quella stessa regina per la quale testè
domandavate dei servitori.

«Ma come potete sapere tutto questo?

«Lo so, perchè coloro erano in quell’epoca miei nemici, perchè
lottavano contro di me, perchè ad essi io feci quanto male potei,
perchè me lo resero meglio che poterono, perchè uno di loro con cui
avevo avuto che fare più particolarmente mi diede una stoccata saranno
ora sette anni: era la terza che ricevevo dalla medesima mano.... la
fine di un vecchio conto....

«Ah! disse Mazzarino con somma bonarietà, se conoscessi simili
soggetti!...

«Eh, monsignore! ne avete uno alla vostra porta da sei anni, e che da
sei anni non avete giudicato buono a nulla.

«E chi?

«D’Artagnan.

«Quel Guascone! esclamò Mazzarino fingendosi egregiamente sorpreso.

«Quel Guascone salvò una sovrana, e fece confessare al Richelieu che
in materia di abilità, d’arte e di politica, egli era uno scolare e non
più.

«Davvero?

«Tal quale ho l’onore di riferire a Vostra Eccellenza.

«Raccontatemi un po’ tutto ciò, caro signor di Rochefort.

«È difficilissimo, monsignore, fece sorridendo il gentiluomo.

«Dunque, me lo racconterà da sè.

«Ne dubito.

«E perchè?

«Perchè non è un segreto suo proprio, perchè, come vi dissi, è il
segreto di una grande regina.

«Ed era solo per compiere una simile impresa?

«No; aveva tre uomini, tre prodi che lo secondavano; prodi, come voi,
monsignore, pocanzi ne cercavate.

«E quei quattro uomini erano uniti, voi dite?

«Come se fossero stati uno solo, come se i quattro cuori avessero
balzato in un petto stesso.... E perciò, che non fecero quei quattro!

«Mio caro Rochefort, voi stimolate la mia curiosità ad un tal segno che
non ve lo so esprimere. E non potreste narrarmi quella storia?

«No; ma posso dirvi una novella, una vera novella da fate, vi assicuro,
monsignore.

«Oh! ditemela, signor di Rochefort, mi piacciono assai le novelle.

«Volete voi, monsignore? disse Rochefort procurando di discernere
un’intenzione su quel viso accortissimo e scaltro.

«Sì, sì....

«Or bene, ascoltate. V’era una volta una regina.... regina potente,
regina di uno dei più grandi regni del mondo, a cui un gran ministro
voleva molto male per averle voluto prima molto bene.... Oh! non
istate a cercare, non indovinereste chi era: tutto ciò accadde molti
anni avanti che voi veniste nel reame dove regnava quella regina. Or
dunque, venne alla corte un ambasciatore sì valoroso, sì ricco e sì
elegante, che tutte le donne ne andavano pazze, e la regina stessa,
senza dubbio per ricordo della maniera colla quale esso aveva trattati
gli affari dello Stato, ebbe l’imprudenza di dargli un certo finimento
di gioje tanto rimarchevole che non gli si poteva sostituirgliene alcun
altro. Siccome il finimento veniva dal re, il ministro indusse questo
ad esigere dalla principessa che le dette gioje figurassero addosso
a lei alla prossima festa da ballo. È inutile dirvi, monsignore,
che il ministro sapeva da fonte sicura che le gioje erano andate
coll’ambasciatore, il quale era lontano lontano di là dai mari. La
gran regina era rovinata, rovinata quanto l’infima delle sue suddite,
giacchè decadeva da tutta la sua grandezza.

«Davvero! fece Mazzarino.

«Ebbene! quattro uomini decisero di salvarla. Questi non erano
principi, non duchi, non soggetti potenti, neppur ricchi, ma quattro
soldati, che avevano cuor grande, braccio buono, franca spada.
Partirono. L’Eccellenza era informata della loro partenza, ed aveva
impostati dei servi sulla strada per impedire ch’essi giungessero
alla loro meta. Tre furono ridotti in grado da non più combattere dai
numerosi assalitori; ma uno solo arrivò in porto, ferì od uccise quei
che volevano arrestarlo, varcò il mare, e riportò il finimento alla
grande regina, che potè ornarsene il giorno stabilito.... per cui il
ministro fu lì lì per dannarsi. Che dite di quest’azione, monsignore?

«Magnifica! disse Mazzarino fattosi pensieroso.

«Or bene, io ne so dieci consimili».

Mazzarino non parlava più, rifletteva.

Scorsero cinque o sei minuti.

«Non avete più niente da domandarmi, monsignore? fece Rochefort.

«Anzi, sì.... E il signor d’Artagnan era uno di quei quattro?

«Fu esso che diresse tutta l’impresa.

«E gli altri, chi erano?

«Permettetemi di lasciare a d’Artagnan la cura di nominarveli. Erano
amici suoi e non miei; egli solo avrebbe su di loro qualche influenza,
ed io nemmeno li conosco pei loro veri nomi.

«Diffidate di me, signor Rochefort! Ebbene, io sarò schietto sino
all’ultimo: ho bisogno di voi, di lui, di tutti.

«Cominciamo da me, Eccellenza, poichè mi avete mandato a chiamare e
sono qui; poi passerete a loro. Non vi sorprenderà la mia curiosità:
quando uno è in prigione non gl’incresce di sapere dove si voglia
mandarlo.

«Voi, mio caro signor di Rochefort, avrete il posto di confidenza;
andrete a Vincennes, dov’è prigioniero il signor di Beaufort.... Eh!
che avete?...

«Ho, che mi proponete una cosa impossibile, rispose Rochefort muovendo
la testa con sommo dispiacere.

«Come, impossibile! e perchè è impossibile?

«Perchè il signor di Beaufort è amico mio, o piuttosto io sono amico
suo.... vi dimenticate che fu egli che garantì per me alla regina?

«Da quel tempo in poi, è nemico dello Stato.

«Sì, può darsi; ma siccome io non sono nè re, nè regina, nè ministro,
non è nemico a me, e non posso accettare la vostra offerta.

«È questa quella che chiamavate devozione? me ne congratulo con voi! la
vostra non vi obbliga a molto, no!

«E poi, monsignore, comprenderete che uscire dalla Bastiglia per
entrare a Vincennes non è altro che mutar carcere.

«Dite subito che siete del partito di Beaufort, e userete più
schiettezza.

«Sono stato rinchiuso tanto tempo che son di un sol partito, cioè
di quello dell’aria aperta. Impiegatemi a tutt’altro, speditemi con
qualche missione, occupatemi attivamente, ma sulle strade maestre se si
può!

«Caro signor di Rochefort, seguitò Mazzarino in atto beffardo, il
vostro zelo vi trasporta; vi tenete tuttora per giovinotto perchè il
cuore c’è sempre, ma vi mancherebbero le forze. Date retta a me, quel
che adesso vi abbisogna è il riposo.... Olà! qualcuno!

«Non decidete dunque nulla, monsignore?

«Al contrario, ho deciso».

Venne Bernouin.

«Chiamate un usciere, disse il ministro, e restate vicino a me»,
continuò più adagio.

Entrò l’usciere. Mazzarino scrisse poche parole e gliele consegnò. Indi
fece col capo un saluto, dicendo:

«Addio, signor di Rochefort».

Rochefort fe’ un inchino rispettoso.

«Vedo, monsignore, che mi devono ricondurre alla Bastiglia.

«Avete una grande intelligenza!

«Io ci torno; ma ve lo ripeto, avete torto di non volere impiegarmi.

«Voi! l’amico de’ miei nemici!

«Che volete? dovevate farmi nemico dei vostri nemici.

«Credete che non vi siano altri che voi? statene persuaso, ne troverò
che vagliano da quanto voi.

«Ve lo auguro, monsignore.

«Va bene; andate, andate.... Appunto, è inutile che mi scriviate più,
signor di Rochefort, le vostre lettere sarebbero lettere perdute.

«Ho cavato i marroni di sul fuoco! brontolò ritirandosi il gentiluomo,
e se d’Artagnan non è contento di me quando or ora gli racconterò
l’elogio che di lui ho fatto, bisogna che sia molto difficile.... Ma
dove diamine mi conducono?»

Egli è che Rochefort veniva guidato per la scala piccola anzi che
passare nell’anticamera ove lo attendeva d’Artagnan. Nel cortile trovò
la sua carrozza e i suoi quattro uomini di scorta, ma invano cercò
dell’amico.

«Ah ah! disse fra sè, ecco un gran cambiamento di cose, e se v’è sempre
egual quantità di plebe per le vie, procureremo di provare al Mazzarino
che siamo tuttora buoni ad altro, grazie a Dio, che a custodire un
prigioniero».

E Rochefort saltò in carrozza, leggiero e svelto come se avesse avuto
venticinque anni.



IV.

_La regina Anna sui quarantasei anni._


Mazzarino rimasto solo con Bernouin, stette un momento pensoso. Sapeva
molto, eppure non peranche abbastanza. Egli rubacchiava al giuoco
(questo è un dettato conservatoci da Brienne), e chiamava ciò: fare il
suo vantaggio. Risolse di non intavolare la partita con d’Artagnan se
non quando conoscesse bene tutte le carte dell’avversario.

«Vostra Eccellenza non mi comanda? chiese Bernouin.

«Sì sì, rispose il ministro, fammi lume, vo dalla regina».

Quegli prese un candelliere e andò avanti.

V’era un passaggio segreto che dagli appartamenti e dal gabinetto
di Mazzarino metteva alle stanze della regina; da quella galleria
transitava il ministro per recarsi presso alla regina a qualunque ora.

Arrivato nella camera da letto, dove dava quella specie di corridojo,
Bernouin incontrò madama Beauvais. Madama Beauvais e Bernouin erano
gl’intimi confidenti di quei rancidi amori, e la Beauvais s’incaricò di
annunziare la venuta del ministro alla regina Anna, che stava nel suo
oratorio col giovanetto re Luigi XIV.

La regina, seduta su di un gran seggiolone, con il gomito appoggiato
sopra un tavolino e la testa sulla mano, guardava il regio fanciullo,
che sdrajato sul tappeto sfogliava un gran libro di battaglie. Anna
era la regina che meglio di tutte quante sapesse annojarsi con maestà;
si tratteneva talvolta ore intere così ritirata nella sua camera o
nell’oratorio, senza leggere nè pregare.

Il libro con cui si trastullava il re era un Quinto Curzio, arricchito
d’incisioni che rappresentavano le alte gesta di Alessandro.

La Beauvais comparve sull’uscio, ed annunziò il ministro.

Il fanciullo si rizzò sur un ginocchio, inarcando le ciglia e guardando
la madre.

«E perchè, disse, entra egli così senza far chiedere udienza?»

Anna arrossì un pochino.

«È importante, rispose, che nei tempi in cui siamo un ministro possa a
tutte le ore venire a render conto di quanto accade alla regina senza
aver da eccitare la curiosità od i commenti di tutta la corte.

«Ma mi pare che il signor di Richelieu non entrasse a questo modo.

«Come, vi ricordate ciò che faceva il signor di Richelieu? non potevate
saperlo, eravate troppo piccolo.

«Non me lo ricordo: l’ho domandato, e mi è stato detto.

«E chi ve lo ho detto? ribattè la regina Anna con mal celata stizza.

«So che non devo mai nominare le persone che rispondono alle
interrogazioni da me fatte, altrimenti non saprei più niente», replicò
il giovinetto.

Nel momento si avanzò Mazzarino. Allora il re si alzò affatto, prese
il volume, lo piegò, e andò a portarlo sul tavolino, accanto al quale
stette in piedi onde obbligare Mazzarino a stare in piedi esso pure.

Il ministro con occhio intelligente sorvegliava tutta quella scena, da
cui pareva aspettasse la spiegazione di quella che l’avea preceduta.

Fece un inchino rispettoso alla regina e una profonda riverenza al re,
il quale gli rese con la testa un saluto molto sbrigativo. Però uno
sguardo della madre rimproverò a questo di abbandonarsi ai sentimenti
d’odio che sino dall’infanzia Luigi XIV nudriva pel ministro, ed allora
egli accolse con un sorriso sul labbro il complimento di quest’ultimo.

La regina Anna tentava indovinare dal sembiante di Mazzarino la cagione
dell’imprevista visita, perocchè egli non soleva venir da lei se non
quando tutti se ne fossero andati.

Mazzarino avendo fatto col capo un cenno quasi impercettibile, la
sovrana disse a madama Beauvais:

«È tempo che il re vada a letto; chiamate Laporte».

Essa aveva già detto al giovane principe due o tre volte di ritirarsi,
e questi avea sempre insistito teneramente per trattenersi. Questa
volta ei non fece osservazioni; si morse però le labbra, e impallidì.

Dopo un momento venne Laporte.

Il fanciullo gli andava incontro senza abbracciare la madre.

«Ebbene, Luigi, disse Anna, perchè non mi abbracciate?

«Credevo che foste adirata meco, signora, mi scacciate.

«Non vi scaccio, ma avete avuto ora appunto il vajuolo, siete ancora
incomodato, e temo che a vegliare vi stanchiate di troppo.

«Non avete avuto lo stesso timore quando oggi mi avete fatto andare
al palazzo a dare quei brutti editti che hanno fatto mormorar tanto il
popolo.

«Sire, disse Laporte per fare un diversivo, a chi vuole Vostra Maestà
ch’io dia il candelliere?

«A chi tu vuoi, Laporte, rispose il re, purchè (aggiunse a voce alta)
non sia il signor Mancini».

Mancini era un nepote del ministro, cui questi aveva posto presso al
re come garzoncello d’onore, e su cui Luigi XIV riportava una porzione
dell’odio che aveva per lo zio di lui.

Ed il piccolo re se ne andò senza dare un bacio alla genitrice nè
salutare Mazzarino.

«Alla buon’ora! disse il ministro, ho caro di vedere che si educhi Sua
Maestà nell’orrore contro la dissimulazione.

«Perchè? domandò la sovrana in tuono quasi timido.

«Eh! mi pare che la maniera di andarsene del re non abbisogni di
commenti.... già Sua Maestà non si prende l’incomodo di occultare il
poco affetto che ha per me, lo che bensì non m’impedisce di essere
tutto dedito a servirla come a servire la Maestà Vostra.

«Vi chiedo scusa per lui, fece Anna, è un bambino, e non può ancora
sapere tutti gli obblighi che ha verso di voi».

Mazzarino sorrise.

«Ma, continuò la regina, eravate venuto senza dubbio per qualche
oggetto importante: che v’è egli?»

Ed il ministro sedè, o meglio si buttò giù in una larga sedia, ed in
atto malinconico disse:

«V’è, che secondo ogni probabilità, saremo costretti a lasciarci tra
poco, ammenochè la vostra premura per me non v’induca a seguirmi in
Italia.

«E perchè?

«Perchè, come dice l’opera di THISBÈ

    _Le monde entier conspire à diviser nos feux._

«Voi scherzate, signore? rispose Anna tentando riassumere alquanto
della sua antica sostenutezza.

«Ahimè! no, signora, non ischerzo. Piuttosto piangerei, vi prego di
crederlo, e v’è motivo: giacchè osserverete che ho detto: _Le monde
entier_, e siccome voi pure formate parte del mondo intero, voglio dire
che anche voi mi abbandonate.

«Come!

«Mio Dio! non vi vidi l’altro giorno sorridere graziosissimamente al
signor duca d’Orleans, o meglio alle sue parole?

«E che parole erano?

«Vi diceva: Tutto l’inciampo è il vostro Mazzarino; parta costui, ed
ogni cosa andrà bene.

«Che volevate che facessi?

«Oh, signora! voi siete la regina, mi pare!

«Bella dignità reale! a discrezione del primo scarabocchiatore di
fogliacci del Palazzo Reale, o del primo _gentilomuccio_ del regno!

«Bensì siete abbastanza forte per allontanare le genti che vi
spiacciono.

«Cioè, che spiacciono a voi, ribattè Anna.

«A me!

«Di certo! Chi mandò via madama di Chevreuse, che per dodici anni era
stata perseguitata sotto l’altro regno?

«Una raggiratrice, che voleva proseguire contro di me gl’intrighi
cominciati contro al signor di Richelieu!

«Chi mandò via madama di Hautefort, amica così ottima, che aveva
ricusata la grazia del re per rimanere in grazia mia?

«Una bacchettona, che ogni sera nello spogliarvi vi diceva che amandomi
vi dannavate l’anima!

«Chi fece arrestare il signor di Beaufort?

«Un imbroglione, che parlava niente meno che di assassinarmi!

«Vedete dunque che i vostri nemici sono anche i miei.

«Non basta: bisognerebbe che inoltre gli amici vostri fossero miei
puranco.

«Amici! (e la regina tentennava il capo) ahimè! non ne ho più.

«Come! non ne avete più nella prosperità, quando nell’avversità ne
avevate?

«Perchè nella prosperità ho dimenticato quegli amici; perchè ho fatto
quanto la regina Maria de’ Medici, che al ritorno dal suo primo esiglio
sprezzò tutti coloro che avevano sofferto per lei, e proscritta per la
seconda volta morì a Colonia abbandonata dal mondo intero, e persino da
suo figlio, dacchè tutti oramai la disprezzavano.

«Or bene, vediamo un poco, disse Mazzarino, non sarebbe tempo di
riparare il male? cercate fra i vostri amici più antichi.

«Che vorreste dire?

«Niente altro che quel che dico: cercate.

«Ah! invano mi guardo intorno, non ho influenza su veruno: _Monsieur_
al suo solito si lascia guidare dal suo favorito: jeri era Choisy,
oggi è la Rivière, domani sarà un altro. Il signor Principe è diretto
da madama di Longueville, la quale poi si fa dirigere dal principe di
Marsillac suo amante; il signor di Conti è condotto dal coadjutore, che
si lascia condurre da madama di Guemenée.

«E perciò, io non vi esorto a guardare fra i vostri amici della
giornata, ma fra quelli del passato.

«Del passato?

«Sì, del passato; fra coloro che vi ajutarono a lottare col duca di
Richelieu, ed anche a vincerlo.

«A che punto vorrà egli portarmi? fece Anna, considerando inquieta il
Mazzarino.

«Sì, questi continuò, in certe circostanze, con la mente potentissima
e accorta ch’è caratteristica della Maestà Vostra, sapeste, mercè il
concorso dei vostri amici, respingere gli attacchi di quell’avversario.

«Io? fece la regina, io soffersi, e non altro.

«Sì, ripicchiò Mazzarino, come soffrono le donne, vendicandosi.... or
via, andiamo alla sostanza: conoscete il signor di Rochefort?

«Rochefort non era mio amico, ma ben anzi uno de’ nemici miei più
accaniti, uno dei più fidi al ministro. Mi figuravo che lo sapeste.

«Lo so talmente, che lo facemmo porre nella Bastiglia.

«N’è uscito? chiese la sovrana.

«No; state quieta, v’è sempre: non vi discorro di lui se non per
arrivare ad un altro: conoscete il signor d’Artagnan?»

E Mazzarino fissava attentamente in volto la regina.

Anna ricevè la botta nel cuore.

«Che il Guascone avesse parlato?» bucinò fra sè.

Poi disse forte:

«D’Artagnan?... aspettate, veh!.... sì, gli è un nome a me familiare,
un moschettiere che era invaghito di una delle mie donne, povera
meschinella che morì avvelenata per cagion mia.

«Non v’è altro che questo?» domandò Mazzarino.

La regina lo guatò attonita.

«Oh! disse, mi sembra che mi sottoponiate ad un esame.

«A cui rispondete a capriccio, ribattè il ministro con il suo sogghigno
sempiterno e la voce sdolcinata.

«Signore, esponete chiaro i vostri desiderj, e risponderò nello stesso
modo, disse Anna come indispettita.

«Or bene, signora, seguitò Mazzarino inchinandosi alquanto, bramo
mi diate parte dei vostri amici, conforme io ve l’ho data della poca
industria e del talento che mi concesse il cielo. Le circostanze sono
gravi, e siam vicini a dover agire con energia.

«Da capo! soggiunse la regina, mi figurava che si fosse finita col
signor di Beaufort.

«Sì, voi vedeste soltanto il torrente che voleva sconvolgere ogni cosa,
e non badaste all’acqua stagnante. Eppure in Francia v’è un proverbio
su le acque morte.

«Concludete! fece Anna.

«Ebbene! ripigliò Mazzarino, io tutti i giorni soffro gli affronti
che mi fanno i vostri principi e i vostri servitori titolati, tutti
automi, i quali non veggono che io li tengo per il loro spago, e che
sotto la mia paziente gravità non hanno discoperto il sorriso dell’uomo
crucciato che ha giurato fra sè di esser poi una volta il più forte.
Facemmo arrestare, è vero, il signor di Beaufort, ma egli era il meno
pericoloso di tutti, v’è ancora il signor Principe.

«Il vincitore di Rocroi? pensereste a lui?

«Sì, sì, ci penso spesso.... ma pazienza! come diciamo noi Italiani.
Poi, dopo il signor di Condé, v’è il signor duca d’Orleans....

«Che dite mai? il primo principe del sangue, lo zio del re!

«Non già il primo principe del sangue, non lo zio del re, ma il
vile cospiratore, che sotto l’altro regno, spinto dal suo carattere
capriccioso e fantastico, tormentato da pensieri meschini, consumato
da sciocca ambizione, astioso di chiunque lo superasse per lealtà e
coraggio, sdegnato di essere un nulla, mercè la sua nullità appunto
si fece l’eco di tutte le voci maligne, si fece la molla di tutti
i raggiri, accennò di andare innanzi a tutte le brave persone che
furono assai stolide per dar fede alle parole di un uomo del sangue
regio, e le rinnegò allorchè esse salirono sul patibolo! Non il primo
principe del sangue, non lo zio del re, lo ripeto, ma l’assassino di
Chalais, di Montmorency e di Cinq-Mars, che oggi si prova a giuocare al
giuoco medesimo, e s’immagina di vincere la partita perchè ha cambiato
avversario, e perchè invece di aver di fronte un che minacci ha uno
che sorride. Ma s’inganna, avrà perduto un tanto nel perdere Richelieu,
ed io non ho interesse a lasciare vicino alla regina quel fermento di
discordie con cui il defunto ministro fece bollire per venti anni la
bile del re!»

Anna arrossì e si celò fra le mani la testa.

«Io non voglio umiliare Vostra Maestà, riprese Mazzarino in tuono di
più calma ma di singolare fermezza, voglio che si rispetti la regina, e
si rispetti il suo ministro, poichè di faccia a tutti io non sono altro
che questo. Vostra Maestà sa ch’io non sono, conforme dicono molti, un
burattino venuto d’Italia, e bisogna che tutti lo sappiano al pari di
voi, o regina!

«Orsù, che devo fare? domandò Anna, curvatasi sotto quella voce che la
dominava.

«Dovete ricercare nella vostra memoria i nomi di quegli uomini fidi e
devoti che passarono il mare ad onta di Richelieu, lasciando ovunque
tracce del proprio sangue per riportare a Vostra Maestà un certo
finimento di gioje ch’Ella aveva donato al signor di Buckingham».

Anna si alzò maestosamente ed irritata, quasi l’avesse fatta
balzare una molla di acciajo, e guardando Mazzarino con la dignità
e l’alterezza che tanto la rendevano possente in gioventù, ella gli
disse:

«Signore! voi m’insultate!

«Voglio infine, egli continuò terminando il suo concetto sospeso dal
movimento di lei, voglio che oggi per vostro marito facciate ciò che in
addietro faceste pel vostro amante.

«Anche questa calunnia! esclamò la regina, eppure io la credeva estinta
e soffocata, poichè sinora me l’avevate risparmiata. Ed ecco che me ne
parlate. Ebbene, meglio così! ne sarà discorso fra noi questa volta, e
tutto sarà finito: m’intendete?

«Ma signora, fece Mazzarino meravigliandosi di quel ritorno di energia,
non chiedo già che mi diciate tutto.

«Ed io tutto vuo’ dirvi, rispose la regina Anna. Dunque ascoltatemi:
vuo’ dirvi che di fatti in quell’epoca v’erano quattro cuori zelanti,
quattro anime leali, quattro spade fedeli, che mi salvarono più che la
vita, mi salvarono l’onore.

«Ah! lo confessate!

«E forse dei colpevoli soltanto è esposto l’onore? e forse non si può
disonorare qualcuno, ed in ispecie una donna, con le apparenze? Sì, le
apparenze mi stavano contro, ed io era in procinto di esser disonorata;
eppure, lo giuro, non ero colpevole: lo giuro....»

La regina cercò una cosa sacra su cui potesse giurare, e tolto da un
armadio nascosto dal parato un cassettino di legno di rosa intarsiato
d’argento, e posatolo sull’altare, seguitò:

«Lo giuro su queste sacre reliquie! amavo il signor di Buckingham, ma
esso non era mio amante.

«E che reliquie sono codeste sulle quali giurate? disse il ministro
sorridendo; ve lo avverto, nella mia qualità di Romano io sono
incredulo, e vi sono reliquie e reliquie».

La regina si levò di collo una piccola chiave e glie la porse.

«Aprite, gli disse e vedrete da per voi».

Mazzarino, stupefatto, prese la chiave ed aprì il cassetto, in cui
non trovò se non un coltello guastato dalla ruggine e due lettere, una
delle quali macchiata di sangue.

«Ch’è mai questo? domandò.

«Che cos’è? replicò Anna con gesto da sovrana, e stendendo sul bauletto
schiuso un braccio rimasto bellissimo ad onta degli anni, ora ve lo
dico: queste due lettere sono le sole ch’io abbia mai scritte; il
coltello è quello con cui Felton lo trafisse.... Leggete, signore, e
vedrete s’io mentisco».

Non ostante il permesso datogli, Mazzarino, per un sentimento naturale,
invece di scorrere i due fogli, pigliò il coltello che Buckingham
moribondo si era tolto dalla ferita ed aveva mandato alla regina per
mezzo di Laporte. La lama era guastata, essendo il sangue diventato
ruggine. Dopo un momento di esame, durante il quale Anna era diventata
bianca in viso quanto la tela che ricuopriva l’altare su cui essa
appoggiavasi, ei lo rimise nel bauletto con un fremito involontario.

«Basta, signora, ed io sto al vostro giuramento.

«No, no, leggete, ripetè Anna aggrottando le ciglia, leggete: voglio
così, così v’impongo, acciò conforme ho deciso si finisca tutto in
questa volta e non ritorniamo più su tale argomento. Credete voi
(aggiunse con un sorriso terribile) ch’io sia disposta a riaprire
questa cassetta a ciascuna delle vostre venture accuse?»

Il ministro soggiogato da tanta energia obbedì quasi macchinalmente,
e lesse le due lettere. Con una, la regina richiedeva indietro gli
astucci a Buckingham: quella che portata da d’Artagnan era giunta in
tempo; con l’altra essa lo preveniva che sarebbe assassinato: questa
consegnata al duca da Laporte era arrivata troppo tardi.

«Basta, signora disse Mazzarino, a ciò non v’è che rispondere.

«Signor sì, continuò la regina Anna richiudendo il piccolo mobile ed
appoggiandovi sopra la destra, sì, v’è da rispondere qualche cosa:
è che io fui sempre ingrata verso quegli uomini che mi salvarono e
fecero quanto poterono per salvar lui; è che nulla io diedi al prode
d’Artagnan di cui poc’anzi voi parlavate, se non la mia mano al bacio e
questo diamante».

La regina, presentando la bella mano al ministro, gli mostrava una
pietra superba che le scintillava in dito.

«Egli lo vendè, per quanto pare, seguitò a dire, in un momento di
ristrettezza: lo vendè per salvarmi la seconda volta, giacchè fu
per ispedire al duca un messaggero ad avvertirlo che doveva essere
assassinato.

«Sicchè d’Artagnan lo sapeva?

«Sapeva tutto. Come faceva mai? Lo ignoro. Ma in somma lo vendè a Des
Essarts, in dito al quale io lo vidi e da cui lo ricomprai. Per altro
questo diamante gli appartiene, e quindi voi, signore, restituiteglielo
a nome mio, e poichè avete la sorte di aver presso di voi un uomo tale,
procurate di rendervelo utile.

«Grazie, disse Mazzarino, profitterò del consiglio.

«E adesso, fece la regina come abbattuta dalla soverchia emozione,
avete altro da domandarmi?

«Nulla, signora, disse il ministro col tuono il più carezzevole, se non
che supplicarvi di perdonarmi i miei ingiusti sospetti; ma vi amo tanto
che non è meraviglia se sono geloso, anche del passato».

Passò sul labbro alla sovrana un sorriso di espressione impossibile a
definirsi.

«Or bene, se non avete altro da chiedermi, lasciatemi: dovete
comprendere che dopo una scena simile ho d’uopo di esser sola».

Mazzarino s’inchinò.

«Io mi ritiro, signora.... mi permettete di tornare?

«Sì, ma domani; non sarà troppo questo tempo per rimettermi in quiete».

Il ministro prese la destra della regina, la baciò con galanteria, e se
ne andò.

Appena fu uscito, la regina passò nell’appartamento di suo figlio,
e domandò a Laporte se il re era coricato. Laporte le additò il
fanciullo, che dormiva.

Anna salì i gradini del letto, appressò le labbra alla fronte alquanto
rugata del figliuolo, e vi diè sopra un bacio. Indi si ritirò in
silenzio come era venuta, limitandosi a dire al cameriere:

«Procurate, caro Laporte, che il re faccia più buon viso al ministro, a
cui esso ed io abbiamo sì grandi obblighi».



V.

_Guascone e Italiano._


Nel frattempo il ministro era tornato al suo gabinetto, alla porta del
quale sorvegliava Bernouin, e richiese a costui se nulla fosse accaduto
di nuovo, e se fosse venuta alcuna notizia di fuori. Dietro la sua
risposta negativa, gli fe’ cenno di ritirarsi.

Rimasto solo, andò ad aprir l’uscio della galleria, poi quello
dell’anticamera. D’Artagnan, stanco, dormiva sopra uno sgabello.

«Signor d’Artagnan!» gli disse con voce dolcissima.

Quegli non si mosse.

«Signor d’Artagnan!» ripetè più forte.

L’altro seguitò il suo sonno.

Il ministro gli si avvicinò e gli toccò la spalla con la punta del dito.

Allora d’Artagnan si scosse, si destò, e destandosi si trovò in piedi
come un soldato sotto le armi.

«Eccomi, disse, chi mi chiama?

«Son’io, fece Mazzarino nel modo più gentile che potesse.

«Chiedo scusa a Vostra Eccellenza... ma ero così stanco...

«Non mi chiedete scusa, giacchè vi siete affaticato per servir me».

D’Artagnan ammirava l’aspetto graziosissimo del ministro.

«Oh! borbottò fra’ denti, è vero il proverbio francese, che dormendo
vien la fortuna?

«Seguitemi, signore, soggiunse Mazzarino.

«Animo, mormorò d’Artagnan, Rochefort mi ha mantenuta la parola; ma
egli, di dove diamine è passato?»

Ed esaminò fino alle ultime cantonate della stanza, ma Rochefort non
v’era più.

«Signor d’Artagnan, disse il ministro adagiandosi sur una poltrona, mi
siete sembrato sempre un brav’uomo.

«Sarà! pensò il tenente, ma è stato un pezzo a dirmelo».

Ciononostante riverì curvandosi sino a terra per rispondere al
complimento.

«Or bene, continuò Mazzarino, è arrivato il momento di porre a profitto
i vostri talenti ed il vostro valore».

All’ufficiale uscì dagli occhi un lampo di allegrezza, che però
subito si estinse dacchè ei non sapeva a che punto volesse venire
l’Eccellenza.

«Comandate, monsignore, sono pronto ad obbedirvi.

«Voi, riprese Mazzarino, sotto l’ultimo regno compieste certe,
imprese....

«È troppa bontà dell’Eccellenza Vostra il rammentarsele; è vero, feci
la guerra con molto buon successo....

«Non parlo delle vostre imprese guerresche, mentre queste, quantunque
abbiano fatto chiasso, sono state superate dalle altre.»

D’Artagnan si mostrò attonito.

«Ebbene, non rispondete?

«Aspetto, monsignore, che mi diciate di quai fatti intendete di
discorrere.

«Dell’avventura.... eh! sapete ottimamente di che ragiono.

«Ahimè no! rispose d’Artagnan sorpreso.

«Siete segreto, tanto meglio! dico di quell’avventura della regina,
degli astucci, del vostro viaggio con tre vostri amici...

«Ehi! pensò il Guascone, fosse questo un agguato? stiamo saldi!»

Ed assunse nel volto un’aria di stupefazione che invidiata gli
avrebbero Mondori e Bellerose, i due migliori comici dell’epoca.

«Benone! aggiunse Mazzarino ridendo, bravo! me lo avevano detto
ch’eravate l’uomo che mi abbisogna... Orsù, che fareste per me?

«Tutto ciò che mi ordinerà Vostra Eccellenza.

«Fareste per me quel che operaste in addietro per una regina?

«Assolutamente, mugolò fra sè d’Artagnan, e’ vogliono farmi ciarlare.
Stiamo a vedere: capperi! non è mica più accorto di Richelieu.... Per
una regina, monsignore? non capisco.

«Non capite che ho bisogno di voi e dei tre vostri amici?

«Di che amici?

«Dei tre vostri di tempo fa.

«Tempo fa non ne avevo tre, ma cinquanta: a’ venti anni si chiaman
tutti amici.

«Bene bene, signor ufficiale; la segretezza è una bella cosa, ma oggi
potreste pentirvi di averne usata di troppo.

«Monsignore, Pittagora faceva stare in silenzio cinque anni i suoi
discepoli per insegnar loro a tacere.

«E voi ci siete stato venti anni, signor mio; sono quindici anni di più
che un filosofo pittagorico, e mi paiono assai. Oggi dunque parlate,
poichè la regina stessa vi scioglie dal vostro giuramento.

«La regina! esclamò il Guascone con istupore non più finto.

«Sì; e per prova che vi discorro in nome suo, v’è che mi ha detto
di mostrarvi questo diamante, cui assicura che conoscete, e che ha
ricomprato da Des Essarts».

Mazzarino stendeva la mano verso l’ufficiale, il quale sospirò nel
vedere il brillante ch’era stato proprietà della sovrana.

«È vero, disse questo, riconosco il diamante ch’era della regina.

«Dunque vedete che vi parlo da parte sua; e allora rispondetemi senza
far più commedie. Ve l’ho detto, e ve lo ripeto, da ciò dipende la
vostra fortuna.

«Oh! affè, io ho grande necessità di far fortuna. Vostra Eccellenza mi
ha dimenticato per tanto tempo!

«Bastano otto giorni per ripararvi. Animo, eccovi qua, voi; ma i vostri
amici dove sono?

«Non lo so.

«Come, non lo sapete?

«No; da un pezzo ci siamo separati, giacchè tutti tre hanno abbandonato
il servigio.

«Ma dove li ritroverete?

«Dovunque siano: a questo penso io.

«Ottimamente. Le vostre condizioni?

«Danaro, monsignore, finchè ne esigano le nostre intraprese. Troppo mi
ricordo quanto fummo trattenuti dalla mancanza di soldi, e senza quel
brillante che fui costretto a vendere saremmo rimasti per la via.

«Diavolo! danari, e molti.... come tirate giù, signor ufficiale! sapete
che non ve n’è danaro, nei cassoni del re?

«Allora, Eccellenza, fate come feci io, vendete le gioje della Corona;
datemi retta, non istiamo a stiracchiare; si fanno male le cose grandi
con mezzi piccoli.

«Ebbene.... si vedrà di soddisfarvi.

«Richelieu (pensò d’Artagnan) mi avrebbe già dato cinque cento doppie
di caparra.

«Sarete dunque mio?

«Sì, se così vogliono i miei amici.

«Ma in caso di loro rifiuto, potrei contare su di voi?

«Solo non feci mai niente di buono, replicò d’Artagnan muovendo il capo.

«Andate a trovarli, dunque.

«Che dirò ad essi per indurli a servire Vostra Eccellenza?

«Li conoscete meglio di me; secondo il loro carattere, promettete.

«Che prometterò?

«Che servano me come la regina, e somma sarà la mia riconoscenza.

«Che faremo?

«Tutto, giacchè pare che tutto sappiate fare.

«Monsignore, quando s’ha fiducia nelle persone e si vuole ch’esse
ne abbiano in noi, s’informano meglio di quel che pratica Vostra
Eccellenza.

«State quieto, allorchè venga il momento di agire saprete tutta la mia
idea.

«E sino allora?

«Aspettate, e cercate i vostri fidi.

«Eh! forse non saranno a Parigi; è anzi probabilissimo; bisognerà
viaggiare, io sono un tenente di moschettieri molto povero, e i viaggi
costano caro.

«Non è mia intenzione che figuriate con gran treno; i miei progetti
hanno d’uopo di mistero, e patirebbero per troppo grande montatura.

«E di più, monsignore, io non posso viaggiare con la mia paga, mentre
ella mi è arretrata di tre mesi; e non posso neppure con quel che ho
messo insieme, mentre in ventidue anni che servo non ho messo insieme
altro che debiti».

Mazzarino stette alquanto pensoso, come se in lui sorgesse grandissimo
contrasto; andò poi ad un armadio chiuso con tre serrature, ne levò
un sacco, e pesandolo fra le mani due o tre volte innanzi di darlo a
d’Artagnan gli disse con un sospiro:

«Pigliate questo, e sia per la gita.

«Se sono doppie di Spagna, o anche scudi d’oro, fece fra sè d’Artagnan,
potremo ancora far negozi tra noi».

Salutò il ministro, e si cacciò il sacco nella larga tasca.

«Or via, dunque è conchiuso, disse Mazzarino, vi porrete in viaggio.

«Sì, monsignore.

«Scrivetemi ogni giorno per darmi contezza delle vostre trattative.

«Non mancherò.

«Benissimo.... A proposito, i nomi dei vostri amici?

«I nomi? ripetè il tenente con un avanzo d’inquietudine.

«Sì; frattanto che voi dal canto vostro cercherete, io dal mio
m’informerò, e forse saprò qualcosa.

«Il signor conte de la Fère, detto altrimenti Athos; il signor Du
Vallon, detto altrimenti Porthos; e il signor cavaliere d’Herblay, oggi
abate d’Herblay, detto altrimenti Aramis».

Il ministro sorrideva.

«Cadetti, diss’egli, che si erano arruolati ne’ moschettieri sotto nomi
falsi per non comprometter quelli delle loro famiglie; spadacce lunghe,
ma borse leggere.... si sa, si sa.

«Se Dio vuole che quelle spadacce passino al servizio di Vostra
Eccellenza, ardisco esprimere un mio desiderio, cioè che poi la vostra
borsa, monsignore, diventi leggera e la loro pesante, perchè con quei
tre uomini l’Eccellenza Vostra metterà in moto tutta la Francia, ed
anche tutta l’Europa se le fa comodo.

«Questi Guasconi, replicò ridendo Mazzarino, sono quanto gl’Italiani
per le smargiassate.

«In ogni caso, ribattè d’Artagnan imitando la risatina del ministro, e’
sono da meglio per le stoccate».

Ed uscì, dopo aver chiesto un congedo, che gli fu subito accordato e
firmato da Mazzarino.

Appena fu fuori, si accostò ad un lampione del cortile e guardò in
fretta nel sacco.

«Scudi d’argento! fece con disprezzo, me lo figuravo! Ah Mazzarino,
Mazzarino! non hai fiducia in me? peggio per te! questa sarà la tua
disgrazia!»

Frattanto il ministro si stropicciava le mani.

«Cento doppie, brontolava, cento doppie! per cento doppie ho avuto
un segreto che Richelieu avrebbe pagato venti mila scudi; senza
contare questo brillante.... seguitò, volgendo amorosamente gli occhi
sull’anello che erasi ritenuto invece di darlo a d’Artagnan, che vale
almeno dieci mila lire».

E tornò nella sua camera, contentissimo della serata cui aveva fatto un
sì bel guadagno, mise l’anello in uno scrignetto fornito di diamanti
d’ogni sorta, giacchè aveva genio per le gioje, e chiamò Bernouin
acciò lo spogliasse, senza più occuparsi dei clamori che continuavano
a venire tratto tratto a scuotere i vetri, e delle schioppettate che
ancor si udivano per Parigi, benchè fossero più delle undici ore di
notte.

Nel frattempo d’Artagnan s’incamminava verso la via Tiquetonne, dove
abitava all’albergo della _Chevrette_.

Ora, diciamo un po’ in qual modo si fosse indotto a prescegliersi
quell’abitazione.



VI.

_D’Artagnan sui quarant’anni._


Ohimè! dopo l’epoca in cui, nel nostro romanzo dei _Tre Moschettieri_,
lasciammo d’Artagnan in via dei _Fossoyeurs_ (dei beccamorti), al N.
12, erano passate molte cose, e soprattutto molti anni.

D’Artagnan non aveva fallito alle circostanze, ma sibbene le
circostanze a lui. Finchè aveva avuti attorno gli amici era rimasto
nella sua gioventù e nella sua poesia: era una di quelle indoli
ingegnose e fini che facilmente s’immedesimano con le qualità altrui:
Athos gli dava della sua grandezza, Porthos del suo estro, Aramis
della sua eleganza. S’egli avesse seguitato a vivere con quei tre
sarebbe divenuto un uomo superiore. Fu il primo Athos a lasciarlo,
per ritirarsi nella piccola tenuta che aveva ereditata dalla parte
di Blois; il secondo Porthos, per isposare la sua _procuratrice_; il
terzo, Aramis, per farsi abate. Da quel punto d’Artagnan, che sembrava
avesse confuso il suo avvenire con quello de’ suoi tre colleghi, si
trovò isolato e debole, senza coraggio per seguitare una carriera in
cui capiva di non poter divenire qualche cosa se non a patto che ognuno
dei compagni gli cedesse (qualora ciò possa dirsi) una parte del fluido
elettrico rispettivamente ricevuto in dono.

E quindi, abbenchè fatto tenente dei moschettieri, ei si trovò nello
stesso isolamento. Non era di nascita assai elevata, come Athos, per
essere accolto nelle grandissime case; non borioso come Porthos, per
far credere che frequentasse l’alta società; non abbastanza gentiluomo,
come Aramis, per mantenersi nella nativa sua eleganza, questa traendo
da sè medesimo. Per qualche tempo la grata ricordanza di madama
Bonacieux aveva impressa nello spirito del nostro tenente una tal quale
poesia; ma questa ricordanza, distruttibile al pari di quella delle
cose tutte di questo mondo, erasi dileguata. La vita di guarnigione
è funesta anco alle organizzazioni aristocratiche. Delle due nature
opposte componenti l’individualità di d’Artagnan la natura materiale a
poco a poco avea vinto, ed egli pian piano, senza nemmeno accorgersene,
sempre in campo, sempre a cavallo, era diventato (non so come si
chiamasse in quell’epoca) quel che ai giorni nostri si dice un vero
soldataccio (_un véritable troupier_).

Non è che per questo egli avesse perduta la sua primitiva scaltrezza.
Oh no! anzi codesta scaltrezza erasi pure accresciuta, o pareva almeno
doppiamente rimarchevole sotto una più rozza apparenza, ma egli l’aveva
applicata alle piccole e non alle grandi cose della vita, al ben essere
materiale, al ben essere quale lo intendono i soldati, cioè ad aver
buona tavola, buon alloggio, buona locandiera.

E tutto questo, ei lo aveva trovato da sei anni in via Tiquetonne,
all’insegna della _Chevrette_, o sia del Granchio.

Nei primi tempi di sua permanenza in quell’albergo, la padrona di
casa, bella e fresca Fiamminga di venticinque a ventisei anni, erasi
invaghita di lui fuor di modo; dopo certi amoretti, inceppati da
un importuno marito, al quale dieci volte d’Artagnan fece finta di
passare la spada a traverso al corpo, il detto marito una mattina
sparì, disertando per sempre, dopo aver venduto di soppiatto alcuni
barili di vino e portatosi via le gioje e i denari. Fu creduto morto.
La moglie specialmente lusingandosi nella dolce idea di esser vedova,
sosteneva arditamente ch’era estinto. Alla perfine, a capo a tre
anni di una relazione che d’Artagnan non aveva per certo cercato
di troncare, trovando ogni anno più di suo genio l’alloggio e la
padrona, conciossiachè questa dava quello a credenza, la donna ebbe la
stravagante pretensione di diventar moglie, e gli propose di sposarlo.

«Oibò! disse d’Artagnan, bigamia! ma vi pare, mia cara?

«È morto, ne sono sicurissima.

«Era tanto dispettoso che tornerà per farci impiccare.

«Veh! se torna lo ammazzerete; siete sì abile e coraggioso!

«Gnaffe! un altro mezzo per andare sulla forca!

«Dunque rigettate la mia domanda?

«E come! e con tutta fermezza!»

La bella albergatrice si disperò: avrebbe fatto di d’Artagnan non solo
il suo consorte, ma anche il suo nume! era un uomo tanto bello! aveva
baffi superbi!...

Verso il quarto anno di quella relazione venne la spedizione di
Franche-Comté. D’Artagnan fu destinato a farne parte, e si accinse
alla partenza. Furono grandi dolori, lagrime interminabili, promesse
di restar fedele, tutto, già s’intende, dal lato della locandiera:
d’Artagnan era troppo signorone per prometter nulla, e perciò promise
soltanto di far ciò che potrebbe onde accrescere vieppiù la gloria del
suo nome.

Su questo particolare, noi conosciamo il suo coraggio; si dedicò
egregiamente e con la propria persona, e caricando alla testa della
sua compagnia ricevè a traverso al petto una palla che lo distese per
il lungo sul campo di battaglia. Fu visto cadere da cavallo, nessuno
lo vide rialzarsi; lo crederono morto, e tutti coloro che speravano
di succedergli nel suo grado dissero ad ogni evento che lo era. Di
leggieri si crede ciò che si brama; e all’armata, dai generali di
divisione che bramano la morte del generale in capo, sino ai soldati
che bramano quella dei caporali, tutti desiderano di qualcuno la morte.

D’Artagnan però non era uomo da lasciarsi ammazzare così.

Rimasto, durante i calori della giornata svenuto sul campo, lo fe’
tornare in sè il fresco della notte; corse ad un villaggio; andò a
bussare alla più bella casa, fu ricevuto come lo sono dappertutto e
sempre i Francesi ancorchè feriti, fu accarezzato, curato, guarito,
e più sano che mai, una mattina s’avviò di nuovo inverso Francia; una
volta in Francia si diresse a Parigi, ed a Parigi s’incamminò in via
Tiquetonne.

Ma trovò la sua camera occupata da un cappellinajo pieno d’arredi da
uomo, meno la spada, appoggiata al muro.

«Sarà tornato; disse fra sè, peggio così; e meglio così!»

Già si capisce che d’Artagnan pensava al marito.

Egli s’informò. Garzoni nuovi, nuova serva; la padrona era ita a spasso.

«Sola? fece d’Artagnan.

«Col padrone.

«Sicchè il padrone è tornato?

«Di certo, rispose semplicemente la fantesca.

«Se avessi soldi, egli disse fra sè, me ne andrei, ma non ne ho:
bisogna restar qui, e appigliarsi al consiglio della mia locandiera
coll’impedire i conjugali progetti di quello spettro importuno».

Terminava questo monologo (lo che prova che nelle circostanze gravi
il monologo è naturalissimo) quando la serva, che faceva la posta
sull’uscio, esclamò ad un tratto:

«Oh! ecco appunto la padrona che viene col padrone».

D’Artagnan, lanciato uno sguardo sul canto della strada Montmartre,
vide la locandiera che se ne veniva sospesa al braccio di un enorme
Svizzero, il quale si tentennava camminando con tali maniere che a lui
rammentarono gradevolmente l’antico amico Porthos.

«È quello il padrone? disse fra sè d’Artagnan, oh! mi pare cresciuto di
molto».

E sedè in sala in un luogo bene in vista.

La donna, nell’entrare, lo adocchiò subito, e diede un piccol grido.

Dietro al quale, il tenente, supponendosi riconosciuto, si alzò, le
corse incontro, e l’abbracciò teneramente.

Lo Svizzero guardava stupefatto l’albergatrice, che impallidiva.

«Ah! siete voi?... che volete? essa chiese nella massima agitazione.

«Il signore è vostro cugino? il signore è vostro fratello? disse
d’Artagnan».

E senza sconcertarsi nella parte che rappresentava, nè attendere
ch’ella rispondesse, si gettò al collo all’Elvetico.

Questi si lasciò fare con tutta freddezza.

«Chi è costui? domandò poi».

La donna soffocava, non aveva più fiato.

«Chi è questo Svizzero? la interrogò il tenente.

«Deve sposarmi,.... fece l’ostessa fra due spasimi.

«Dunque vostro marito finalmente è morto?

«Che _inderesse_ voi? disse lo Svizzero.

«_Inderesse_ molto, ribattè d’Artagnan, sendochè non potete sposarla
senza mio consenso, e che io....

«E _ghe_?... cominciò l’altro.

«E _ghe_, io non lo do, terminò il moschettiere».

L’Elvetico diventò rosso come un fringuello; aveva la bella uniforme
indorata. D’Artagnan indossava una specie di pastrano bigio; l’Elvetico
era alto sei piedi, d’Artagnan appena cinque: l’Elvetico si reputava in
casa sua, d’Artagnan gli pareva un intruso.

«_Folete_ uscire di qua? urlò il forestiere, picchiando forte col piede
come uno che principii a andare davvero per le furie.

«Io? niente affatto!

«Eh! basta andare a cercare man-forte, suggerì un cameriere, il quale
non si poteva capacitare che quell’uomiciattolo contrastasse il posto a
quell’omone.

«Tu, urlò d’Artagnan oramai più incollerito, afferrando per le
orecchie il garzone, tu comincerai da star qui; e non ti muovere, o
che ti strappo quel che ti ho già preso. Voi, illustre discendente di
Guglielmo Tell, farete un fagotto dei vostri abiti, che sono nella mia
stanza e mi danno impaccio, e partirete subito a procurarvi un altro
albergo».

Lo Svizzero si mise a ridere fortemente.

«Io _pardire! e perghè?_

«Ah! va bene, disse d’Artagnan; allora, venite meco a fare un giro, e
vi spiegherò il resto».

La locandiera, che conosceva d’Artagnan per lama fina, si diede a
piangere, e a svellersi i capelli.

Questi si volse dalla parte della bella piangente.

«Dunque, mandatelo via, signora!

«_Oipò!_ replicò lo Svizzero, a cui era bisognato un dato tempo per
comprendere la proposizione fattagli dal moschettiere, oipò! prime, chi
siete per proborre un gire con voi?

«Sono tenente dei moschettieri di Sua Maestà, e in conseguenza vostro
superiore in tutto; solamente, siccome qua non si tratta di grado, ma
di biglietto di alloggio, voi conoscete l’usanza: venite a procacciarvi
il vostro; il primo che qui torni riprenderà la sua camera».

D’Artagnan condusse fuori lo Svizzero, ad onta delle lamentazioni della
locandiere, la quale in fondo si sentiva propendere il cuore all’antico
amore, ma non avrebbe sgradito di dare una lezione all’orgoglioso
moschettiere che le avea fatto l’affronto di ricusare la sua mano.

I due avversari se ne andarono direttamente ai fossi Montmartre.
Annottava quando vi giunsero. D’Artagnan pregò civilmente l’Elvetico di
cedergli la stanza e non farsi più vedere: questi rifiutò con un moto
della testa, e sguainò la spada.

«Allora dormirete qui; disse d’Artagnan, è un brutto alloggio, ma io
non ci ho colpa, voi lo avete voluto».

E levò il ferro esso pure, e lo incrociò con quello del nemico.

Avea che fare con un pugno duro, ma la sua agilità superava qualunque
forza.

La draghinassa del Tedesco non incontrava mai quella di d’Artagnan.
Lo Svizzero ricevè due stoccate innanzi di accorgersene a motivo del
freddo. Però ad un tratto la perdita del sangue e la debolezza da
questa prodottagli lo obbligarono a sedersi.

«Là! gridò d’Artagnan, ve lo avevo detto? ci avete guadagnato di molto!
ostinataccio!... Fortunatamente per voi, sarà il male tutto al più di
una quindicina di giorni. State costì, e vi manderò subito i vostri
panni per mezzo del cameriere.... A rivederci.... Oh! appunto, pigliate
alloggio in via di Montorgueil al _Gatto che passeggia_; ci si ha buona
tavola, se è sempre la medesima ostessa. Addio».

E se la ribattè allegro e svelto a casa; inviò le sue robe allo
Svizzero, che il garzone trovò nello stesso posto ov’ei lo aveva
lasciato, tuttavia dolente della fermezza riscontrata nel suo
avversario.

Il cameriere, la locandiera, tutti in somma, ebbero per d’Artagnan i
riguardi che si avrebbero per Ercole s’egli ricomparisse sulla terra a
ricominciare le sue dodici fatiche.

Ma egli, quando fu solo con l’albergatrice, le disse:

«Ormai, bella Maddalena, sapete che distanza corre da uno Svizzero a
un gentiluomo. Voi vi siete contenuta da vera locandiera. Peggio per
voi, giacchè mediante questa condotta perdete la mia stima e la mia
ricorrenza. Ho scacciato quel Tedesco per umiliarvi, ma non istarò più
qui: non tengo dimora là dove ho disprezzo.... Ohi, giovanotto, portate
la mia valigia al _Moggio di Amore_ in via dei Bordonesi. Signora,
addio».

E bisogna credere che pronunciando tali parole D’Artagnan fosse ad
un tempo e maestoso e commovente. La donna gli si buttò ai piedi,
gli chiese scusa, e lo trattenne, ahimè! con dolcissima violenza. Che
diremo di più? scorreva il girarrosto, friggeva la padella, Maddalena
lacrimava; d’Artagnan sentì la fame, il freddo e l’amore tornargli
tutti insieme; perdonò, e perdonando rimase là.

Ed ecco il come egli dimorasse nella strada Tiquetonne all’albergo del
Granchio, o _de la Chevrette_.



VII.

_D’Artagnan è nell’imbarazzo, e lo viene a soccorrere un antico
conoscente._


Or dunque, d’Artagnan se ne veniva indietro, pensoso, contento di
portar seco il sacco di Mazzarino, e riflettendo al bel brillante stato
già suo, e che per un momento avea veduto luccicare in dito al primo
ministro. E diceva:

«Se mai quel diamante mi cadesse di nuovo fra le mani, ne farei subito
danari, comprerei qualche effetto attorno alla villa di mio padre, ch’è
una bella abitazione, ma non ha altre dependenze se non se un giardino
grande a mala pena quanto il cimitero degli Innocenti; e là, nella
mia maestosità attenderei che qualche erede incantata dalla mia buona
cera mi venisse a sposare; poi avrei tre figli maschi; farei il primo
un signorone come Athos, il secondo un bel soldato come Porthos ed il
terzo un grazioso abate come Aramis. Per Diana! sarebbe meglio mille
volte che la vita ch’i’ vo facendo.... Ma pur troppo messer Mazzarino è
un certo tomo che non si spossederà del diamante a favor mio».

Che avrebbe detto d’Artagnan, ove avesse saputo esser quella pietra
affidata dalla regina a Mazzarino per renderla a lui?

Entrato nella via Tiquetonne, vide che v’era gran susurro; attorno alla
sua dimora stava un attruppamento non piccolo.

«Oh oh! fece allora, avesse preso fuoco l’albergo del Granchio, o fosse
tornato sul serio il consorte di Maddalena?»

Nè uno nè l’altro: avvicinandosi si accorse qualmente la riunione
avea luogo non davanti alla sua locanda, ma al casamento contiguo. Si
udivano grida, correva gente con delle fiaccole, ed al lume di queste
ei distinse delle uniformi.

Domandò che fosse stato.

Gli fu risposto, come un borghese con circa venti suoi amici aveva
assalita una carrozza scortata dalle guardie del ministro, ma
sopraggiunto un rinforzo erano essi fuggiti, il capo della riunione
erasi ricovrato nella casa vicina all’albergo, e là si facevano
ricerche.

D’Artagnan in gioventù si sarebbe slanciato là dove vedeva uniformi e
avrebbe dato manforte a’ soldati contro i borghesi; però quei bollori
di testa gli erano passati, e inoltre aveva nelle saccocce le cento
doppie di Mazzarino, nè voleva arrischiarsi in una sommossa.

Entrò in locanda senza far altre richieste.

Prima voleva sempre sapere, allora sapeva sempre abbastanza.

Trovò Maddalena, che non lo attendeva, supponendo, secondo le aveva
detto, che pernottasse al Louvre; essa gli fece molte feste per
l’imprevisto ritorno, il quale le facea comodo tanto più ch’ella aveva
paura di ciò che accadeva sulle strade e non aveva alcuno Svizzero a
farle guardia.

Essa dunque voleva intavolar seco conversazione e raccontargli quanto
era successo; ma d’Artagnan rifletteva, e in conseguenza non era in
vena da chiacchierare; essa gli mostrò la cena che fumava, ed egli le
ordinò la mandasse nella sua camera e vi aggiungesse una bottiglia di
Borgogna del vecchio.

La bella Maddalena era avvezzata a obbedire militarmente, cioè ad un
cenno; questa volta d’Artagnan si era degnato di parlare, e quindi fu
obbedito con doppia lestezza.

Egli prese la chiave e la candela, e salì in camera. Per non recar
pregiudizio all’appigionamento, si era contentato di una stanza al
quarto piano. Il nostro rispetto per la verità ci obbliga a dire
inoltre che la stanza si trovava per l’appunto sotto la grondaja e
sopra al tetto.

Era quella la sua tenda di Achille. Ei vi si rinchiudeva quando
intendeva colla sua assenza castigare Maddalena.

Prima sua cura fu di andare a riporre in un vecchio scrigno, che aveva
la serratura nuova, il sacchetto cui non ebbe tampoco necessità di
riscontrare per sapere qual somma contenesse; indi, essendogli dopo un
momento apparecchiato, licenziò il garzone, chiuse l’uscio e si mise a
tavola.

Non era già per riflettere, conforme taluno potrebbe credere: ma
d’Artagnan pensava che le cose non si fanno bene se non una dopo
l’altra; aveva fame, cenò; e dopo andò a letto.

D’Artagnan non era nemmeno di coloro che opinano che la notte dia
consiglio: la notte dormiva. La mattina, all’incontro, fresco, lucido,
trovava le migliori inspirazioni. Da gran tempo non aveva avuto
occasione di pensare la mattina, ma aveva dormito sempre nella nottata.

Si destò all’alba, balzò dal letto con risolutezza veramente militare,
e passeggiò per la camera ruminando fra sè:

«Nel 43 (diceva), circa sei mesi dopo la morte del defunto ministro,
ricevei una lettera di Athos.... dove? dove?.... ah! me ne ricordo,
all’assedio di Besanzone: ero nella trincea.... Che mi diceva egli?....
Che abitava una piccola tenuta.... sì, piccola tenuta.... ma dove?
arrivato a quel punto della lettera, il vento me la portò via.... altra
volta sarei ito a cercarla, benchè il vento l’avesse condotta in un
luogo molto scoperto.... Ma la gioventù è un gran difetto.... quando,
non si è più giovani.... Lasciai andare il foglio a portar l’indirizzo
di Athos agli Spagnuoli, i quali non sanno che farsene e che dovrebbero
rimandarmelo.... Dunque ad Athos non va pensato. Animo.... Porthos....
Ebbi una lettera sua; m’invitava a una gran caccia nelle sue terre
per il settembre 1646. Disgraziatamente, essendo io in quell’epoca
nel Bearn a motivo della morte di mio padre, la missiva venne colà
dietro di me; ed io era partito quando essa vi giunse.... mi seguitò,
e toccò Montmedy pochi giorni dopo ch’io aveva abbandonata anco questa
città.... Mi capitò in aprile finalmente, ma nell’aprile 47, e poichè
l’invito era per settembre del 46 non ne potei profittare.... Su, si
cerchi la missiva; dev’essere con i miei documenti di proprietà....»

D’Artagnan aprì una cassetta che giaceva in un canto, piena di
pergamene relative alla tenuta di d’Artagnan, la quale da due
cento anni era uscita affatto dalla sua famiglia, e diede un grido
dall’allegrezza: aveva riconosciuto il grosso carattere di Porthos,
e sotto, alcuni versi di scritte piccole piccole fatti dalla mano
secchissima della degna di lui sposa.

Non si lambiccò il cervello a rileggere la lettera: ne sapeva digià il
contenuto; andò all’indirizzo.

Questo era al castello du Vallon.

Porthos aveva dimenticato qualunque altro schiarimento. Nel suo
orgoglio ei si credeva che tutti dovessero conoscere il castello a cui
egli avea dato il proprio nome.

«Maledetto superbo! fece d’Artagnan, sempre lo stesso!.... Eppure mi
tornava conto di cominciare da lui, attesochè non deve aver bisogno di
danari, avendo ereditate le otto cento mila lire di M. Coquenard....
Eh! ora mi manca il migliore; Athos era diventato melenso a forza di
bere; Aramis sarà immerso ne’ suoi esercizi di divozione».

D’Artagnan diede un’altra occhiata al foglio di Porthos. V’era un
_poscritto_, e conteneva questa frase:

— Scrivo con questo stesso corriere al nostro degno Aramis al suo
convento. —

«Al suo convento, sì, ma a che convento? ve ne sono due cento in
Parigi, e tremila in Francia. E poi, forse nel mettercisi avrà mutato
nome per la terza volta.... Ah! se fossi dotto in teologia, e mi
ricordassi almeno il soggetto delle sue tesi, ch’ei discuteva tanto
bene a Crevecoeur col curato di Montdidier, vedrei a qual dottrina
è più propenso e ne dedurrei di qual Santo possa esser divoto a
preferenza.... Eh! se me ne andassi dal ministro, e gli chiedessi un
salvocondotto per entrare in tutti i chiostri possibili, sarebbe una
buona idea, e probabilmente lo rinverrei colà come Achille.... Sì, ma
questo è un confessare da bel principio la mia impotenza e perdermi di
botto nel concetto del ministro. I grandi non ci hanno gratitudine se
non quando si fa per loro l’impossibile. — Se fosse stato possibile (ci
dicono) lo avrei fatto da me.... — E hanno ragione.... Ma aspettiamo
un poco.... Ebbi una lettera anche da lui, dal caro amico, e per segno
mi chiedeva un piccolo favore e glielo feci.... Ah! sì, ma adesso, dove
diavolo l’ho messa?»

D’Artagnan riflettè un momento, e si avanzò verso il cappellinajo
dov’erano appesi i suoi abiti vecchi; vi cercò il suo giubbetto del
1648; e siccome egli era un giovane che teneva le cose a sesto, lo
ritrovò attaccato a un chiodo. Frugò nella saccoccia e ne levò un
foglio: era precisamente il dispaccio di Aramis.

  «Signor d’Artagnan (ei gli diceva), sapete che ho avuto una contesa
  con un certo gentiluomo che mi ha fissato convegno per questa
  sera in Piazza Reale; siccome sono ecclesiastico e la faccenda mi
  potrebbe nuocere se ne dessi parte ad altri che a voi, vi scrivo
  perchè mi serviate da secondo. Entrerete dalla via S. Caterina;
  sotto il secondo lampione a man diritta sarà il vostro avversario.
  Io sarò col mio sotto il terzo.

                                                      Vostro aff.mo

                                                           Aramis».

Questa volta non v’erano neppure addio e saluti. D’Artagnan procurò
di raccogliere le sue rimembranze. Egli era andato all’appuntamento,
ivi incontrato l’avversario indicato, di cui non avea mai saputo il
nome, gli aveva favorita una bella stoccata nel braccio, e poi si era
avvicinato ad Aramis, che dal canto suo gli veniva incontro, avendo
anch’esso terminata la sua bisogna.

«È finita, gli avea detto Aramis, credo di aver ucciso quell’insolente.
Ma, amico caro, se avete bisogno di me, sapete che son tutto vostro».

Ed Aramis, datagli una stretta di mano, era sparito sotto gli archi.

D’Artagnan non sapeva dove fosse Aramis niente più che Athos e Porthos,
e cresceva il suo imbarazzo. Però gli parve udir romore di un vetro che
si rompesse nella stanza. Pensò subito al sacco ch’era nello scrigno,
e corse fuori. Non si era ingannato: mentre egli entrava dall’uscio
entrava un uomo dalla finestra.

«Ah, birbante! urlò d’Artagnan prendendo colui per un ladro e ponendo
mano alla spada.

«Signore! esclamò l’altro, non sono un ladro, oh no! sono un onesto
borghese in buono stato, che ho delle case al sole, e mi chiamo.... Ah!
non fo sbaglio, siete il signor d’Artagnan!

«E tu, Planchet! gridò il tenente.

«Ai vostri comandi, fece Planchet, se potessi ancora esservi utile.

«Forse sì: ma che diamine fai a correr su per i tetti la mattina alle
sette nel mese di gennajo?

«Signore, avete a sapere.... ma no.... anzi, forse non dovete
saperlo....

«Che mai? che mai?.... Prima di tutto, metti un tovagliuolo davanti al
vetro e chiudi la portiera».

Planchet obbedì.

«Ebbene? domandò il tenente.

«Innanzi a tutto, chiese il prudente Planchet, come state col signor de
Rochefort?

«Ottimamente! Rochefort! ma sai che adesso è uno dei miei più grandi
amici?

«Ah! meglio così.

«E che ha che vedere Rochefort con la tua maniera d’entrare in camera
mia?

«Eccoci; v’ho da dire in primo luogo che il signor Rochefort è....»

Planchet titubava alquanto.

«Cappio! fece d’Artagnan, lo so, è alla Bastiglia.

«Cioè, vi era, ribattè Planchet.

«Come, vi era? esclamò d’Artagnan, ha avuto la fortuna di scappare?

«Ah! signore, se la chiamate fortuna, andrà tutto bene.... vi ho
da dire, dunque, che jeri era stato mandato a prendere il signor di
Rochefort dalla Bastiglia.

«Eh, cospetto! lo so, poichè andai io a pigliarlo.

«Ma non foste voi che lo riconduceste, per sua buona sorte, giacchè se
vi avessi riconosciuto fra la scorta, credete pure che ho sempre per
voi troppo rispetto....

«Finisci, bestia! orsù, che è egli accadute?

«È accaduto che in mezzo alla strada della Ferronnerie, mentre la
carrozza del signor di Rochefort traversava fra un mucchio di gente e
quelli della scorta strapazzavano i borghesi, vi fu gran susurro. Il
prigioniero stimò bellissima l’occasione, disse il suo nome e gridò:
ajuto! Io ero là, ravvisai il conte, mi risovvenni ch’ei mi avea
fatto sergente nel reggimento di Piemonte, e dissi forte ch’era un
detenuto amico del duca di Beaufort. Si radunò il popolo, si fermarono
i cavalli, si rispinse la scorta. Intanto io aprii lo sportello, ed il
signor di Rochefort saltò in terra e sparì tra la folla. Per disdetta
passava una pattuglia; si riunì alle guardie, e ci attaccò. Io battei
la ritirata dalla parte di via Tiquetonne; ero incalzato fortemente. Mi
rifugiai nella casa accanto a questa; la fu contornata, perquisita, ma
inutilmente, chè al quinto piano avevo trovata una persona caritatevole
che mi avea rimpiattato fra due materasse. Sono restato in quel
nascondiglio, o poco meno, fino a giorno, e nell’idea che forse a sera
riprincipierebbero le visite e le indagini, mi sono avventurato su per
le grondaje, cercando prima un’entratura e poi un’uscita in uno stabile
qualunque che non fosse guardato a vista. Eccovi la mia storia, e in
parola d’onore mi dorrebbe al sommo ch’ella vi spiacesse.

«No, tutt’altro; disse d’Artagnan, e ho caro davvero che Rochefort sia
in libertà. Ma sai una cosa? gli è che se caschi in mano alle genti del
re, sarai appiccato senza misericordia.

«Per dinci, se lo so! e questo è che mi dà tormento, ed ecco perchè
sono tanto contento di avervi ritrovato, giacchè se volete nascondermi
nessuno lo può meglio di voi.

«Sì, volentierissimo, quantunque io arrischi nè più nè meno che il mio
grado ove fosse noto aver io dato asilo ad un ribelle.

«Ah signore! sapete ch’io arrischierei la vita per voi.

«Potresti anche aggiungere che l’azzardasti, Planchet. Io non
dimentico se non le cose che vuo’ dimenticare, e di questa voglio
anzi ricordarmi. Dunque siedi qua, e mangia con tutta pace, poichè
mi accorgo che guardi gli avanzi della mia cena con occhiate molto
espressive.

«Signor sì, perchè la credenza della vicina era malissimo provveduta di
cibi delicati; da jeri a mezzo giorno, non ho mandato giù che una fetta
di pane colla conserva. Sebbene io non disprezzi le robe dolci quando
vengono a tempo e luogo opportuno, la cena mi è sembrata leggerina.

«Poveraccio! or via, riaccomodati lo stomaco.

«Ah! mi salvate due volte la vita!»

Planchet si assise, e cominciò a divorare come nei lieti giorni
della via dei Fossoyeurs. D’Artagnan continuava a camminare su e giù:
cercava nel suo cervello qual partito potrebbe ricavare da colui nelle
circostanze in cui era. Intanto colui lavorava a riparare meglio che
potesse il tempo perduto.

Alla fine mandò quel sospiro di soddisfazione dell’uomo affamato, il
quale è indizio che avendo preso un primo e solido acconto ei voglia
fare un piccolo riposo.

«Animo, fece d’Artagnan, figurandosi giunto l’istante da dar mano
all’interrogatorio, andiamo per ordine: sai tu dove sia Athos?

«Signor no.

«Diamine! sai dov’è Porthos?

«Nemmeno.

«Diamine! diamine! E Aramis?

«Neppure.

«Diamine! diamine! diamine!

«Ma, disse Planchet con aria maliziosa, so dov’è Bazin.

«Come, dov’è Bazin!

«Sicuro.

«E dov’è?

«A Nostra Signora.

«E che ci fa egli?

«È bidello.

«Bazin bidello a Nostra Signora? ne sei certo?

«Certissimo: l’ho visto, gli ho parlato.

«Deve conoscere ove sia il suo padrone?

«Senza dubbio».

D’Artagnan riflettè; poi prese il ferrajuolo e la spada, e si dispose
ad uscire.

«Signore, seguitò Planchet in tuono lamentevole, mi abbandonereste
così? Pensate che ho speranza in voi solo!

«Non verranno mica qui a cercarti.

«In somma, se ci venissero, disse il prudente Planchet, badate che per
la gente di casa che non mi ha visto entrare sono un ladro.

«Va benone, fece d’Artagnan, su via, parlate un dialetto qualunque?

«Parlo anche di meglio, replicò Planchet, parlo una lingua, parlo
fiammingo.

«E dove diavolo l’hai tu imparata?

«Nell’Artois, dove guerreggiai per due anni: Goeden Morgen, mynheer,
ich ben begeerig te weeten uwer gerondheyds omstand.

«E vuol dire?

«Buon dì, signor mio, mi sollecito a richieder notizie della vostra
salute.

«E codesta, la chiami una lingua! ma non importa, cade bene in
acconcio».

Il tenente andò sino all’uscio, chiamò un cameriere, e gli ordinò
dicesse alla bella Maddalena di salire.

«Che fate? disse Planchet, affidereste il nostro segreto a una donna?

«Sta quieto, non aprirà bocca».

Venne Maddalena; era accorsa tutta contenta, credendo di trovare
d’Artagnan solo; al vedere Planchet retrocedè meravigliata.

«Cara locandiera, le disse d’Artagnan, vi presento il vostro signor
fratello arrivato ora di Fiandra, che prendo al mio servizio per alcuni
giorni.

«Mio fratello! fece l’ostessa più attonita che mai.

«Master Peter, date il buon dì a vostra sorella.

«Welkom, zuster, disse Planchet.

«Goeden dag, broer, rispose la donna.

«Eccovi tutta la faccenda; seguitò il tenente, questi è vostro
fratello, che voi forse non conoscete, ma io sì; è venuto da Amsterdam.
Voi nella mia assenza lo vestite; al mio ritorno, cioè fra un’ora, me
lo presentate, e in grazia della vostra raccomandazione, benchè egli
non sappia una parola di francese, pure nulla potendo io ricusarvi, lo
prendo al mio servizio: capite?

«Cioè, indovino quel che desiderate.

«Siete una donna preziosa e rara, mia bella Maddalena, e mi fido a voi».

E d’Artagnan, fatto un cenno d’intelligenza a Planchet, uscì per
trasferirsi a Nostra Signora.



VIII.

_Influenze diverse che può avere una mezza doppia sopra un bidello e
sopra un piccolo cantore._


D’Artagnan prese dal Ponte Nuovo, rallegrandosi di aver ritrovato
Planchet; giacchè per quanto sembrasse ch’ei facesse un favore al degno
giovanotto, in realtà questi lo faceva a lui. Sicuramente, in quel
momento nulla poteva giovargli di più che un lacchè capace ed accorto.
È vero che secondo ogni probabilità Planchet non doveva rimanere
lungo tempo addetto a d’Artagnan; ma riprendendo poi la sua posizione
sociale nella contrada dei Lombardi, resterebbe sempre obbligato al
tenente dei moschettieri, il quale, nascondendolo nella propria casa,
gli aveva salvato la vita o poco meno; ed il tenente aveva caro di
avere delle relazioni nel ceto dei borghesi, nella circostanza che
questo si accingeva a muover guerra alla corte. Era un posseder delle
intelligenze nel campo nemico, e, per un uomo scaltro come d’Artagnan,
le piccole cose potevano condurre alle grandi.

In tale disposizione di mente adunque, e soddisfattissimo della
casualità e di sè stesso, d’Artagnan giunse a Nostra Signora. Salì la
gradinata, entrò in chiesa, e voltosi ad un sagrestano che scopava una
cappella gli domandò se conosceva il signor Bazin.

«Il signor Bazin, il bidello? disse il sagrestano.

«Appunto.

«Eccolo laggiù, che serve la messa alla cappella della Vergine».

D’Artagnan balzò dal piacere: non ostante ciò che gli aveva detto
Planchet non isperava di trovare Bazin; ormai dacchè aveva acchiappata
una cima del filo, stava certo di arrivare all’altra.

Andò ad inginocchiarsi di faccia alla cappella per non perdere di vista
chi voleva. Per buona sorte la messa era vicina a finire. Egli, che si
era scordato le sue orazioni, impiegò il tempo ad esaminare Bazin.

Bazin, ci è d’uopo dirlo, portava l’abito con tanta maestosità quanta
contentezza. Si comprendeva ch’egli era pervenuto all’apice della sua
ambizione, e che la mazza di balena guarnita d’argento cui teneva in
mano gli sembrava onorifica al pari del bastone di comando che Condè
gettò o non gettò nelle file nemiche alla battaglia di Friburgo. In lui
il fisico aveva subito un cambiamento analogo a quello del vestiario.
Era ingrassato in tutto il corpo; non si vedevano più sul viso le parti
tanto sporgenti; aveva sempre il solito naso, ma le guance, fattesi
più rotonde, ne tiravano a sè ciascuna una porzione; il mento scappava
sotto la gola; aveva gli occhi mezzo rinchiusi fra la carne abbondante;
e i capelli, tagliati in quadro, gli cuoprivano la fronte sino a tre
linee di sopracciglio. Si avverta d’altronde che anche nei tempi in
cui era più scoperta, quella fronte non era stata mai larga più di un
pollice e mezzo.

Il prete terminava la messa quando d’Artagnan terminava il suo esame;
pronunciò le parole sacramentali, e si ritirò, dopo aver data, con
grande stupore di d’Artagnan, la sua benedizione che tutti riceverono
genuflessi. Ma in d’Artagnan cessò la meraviglia quando riconobbe nel
celebrante il coadjutore, cioè il famoso Giovan-Francesco de Gondi, il
quale in quell’epoca, presagendo la parte che dovrebbe fare, cominciava
a forza di elemosine a rendersi assai popolare, e, per rendersi tale
sempre maggiormente, diceva tratto tratto di quelle messe della mattina
a cui suole assistere soltanto il volgo.

D’Artagnan s’inginocchiò come gli altri, ricevè la benedizione, si fece
il segno della croce; ma nel punto che Bazin passava con gli occhi
alzati al cielo e camminando umilmente ultimo a tutti, ei lo afferrò
per un lembo della sottana.

Bazin abbassò gli occhi, e fece un salto all’indietro quasi avesse
veduto un serpente.

«Signor d’Artagnan! esclamò, _vade retro.... Satanas!_

«Oh! mio caro Bazin, disse ridendo l’uffiziale, così accogliete un
antico amico?

«Signore, i veri amici sono quelli che ci ajutano a salvarci l’anima, e
non quelli che ce ne distolgono.

«Non vi capisco, nè so come io possa essere di ostacolo alla vostra
salute.

«Vi dimenticate che foste prossimo a distruggere quella del mio povero
padrone, e che per cagion vostra egli era in procinto di dannarsi
l’anima restando moschettiere, mentre la sua vocazione lo traeva verso
la chiesa?

«Caro Bazin, dal luogo dove m’incontrate dovete comprendere che in
tutto io mi sono cambiato di molto. L’età porta seco il senno, e
siccome non dubito che il vostro padrone sia sulla via che assicura la
sua salute, vengo a domandarvi dov’è, acciò co’ suoi consigli mi ajuti
a fare io pure la mia.

«Dite piuttosto per ricondurlo con voi verso la società. Fortunatamente
ignoro dove sia, giacchè essendo noi in un luogo santo non oserei dir
bugia.

«Come! esclamò d’Artagnan nel massimo disappunto, ignorate dov’è Aramis!

«Prima di tutto, soggiunse Bazin, Aramis era il suo nome di perdizione;
in Aramis si trova Simara, ch’è nome di demone, ed egli per sua buona
sorte lo ha lasciato per sempre.

«E per questo, replicò d’Artagnan deciso ad usar pazienza sino alla
fine, io non cercava Aramis, ma bensì l’abate d’Herblay. Su, caro
Bazin, ditemi dov’è.

«Non avete inteso che vi ho risposto che lo ignoravo?

«Sì, ma a questo io vi rispondo che non può essere.

«Eppure è vero, è pura verità».

Il tenente vide che da Bazin v’era da ricavar nulla; si scorgeva chiaro
ch’esso mentiva, ma lo faceva con tale fermezza da non aspettare che si
disdicesse.

«Va bene, fece d’Artagnan, poichè non sapete ove sia, non ne parliamo
più, lasciamoci da buoni amici, e prendete questa doppia per bere alla
mia salute.

«Non bevo, signor mio, disse Bazin respingendo maestosamente la mano
all’ufficiale: codeste sono cose che si dicono a’ laici!

«Incorruttibile! brontolò il tenente; che disdetta è la mia!»

D’Artagnan, distratto dalle sue riflessioni, non reggeva più per la
sottana Bazin, e questi profittò della libertà per batter presto la
ritirata verso la sagrestia, dove non si tenne sicuro se non dopo
averne chiusa la porta.

Il moschettiere rimaneva immobile, pensoso, e fisse le pupille su
la porta che lo separava dal bidello.... quando ecco sentì toccarsi
leggermente la spalla con un dito.

Si girò, ed era per mandare un’esclamazione di sorpresa: ma quegli che
lo avea tocco con la punta del dito si mise questo sulle labbra per
accennargli il silenzio.

«Voi qui, caro Rochefort! disse allora sottovoce.

«Zitto! fece Rochefort, sapevate ch’ero libero?

«L’ho saputo di prima mano.

«E da chi?

«Da Planchet.

«Come, Planchet?

«Eh sì! fu egli che vi salvò.

«Realmente.... mi era sembrato di riconoscerlo. E questo prova che un
benefizio non è mai perduto.

«Che venite a far qui?

«Vengo a ringraziare Iddio della mia fortunatissima salvazione, disse
Rochefort.

«E poi, per che altro? giacchè mi figuro che codesto non sia il tutto.

«E a prendere gli ordini del coadjutore per vedere se si potesse far un
poco arrabbiare Mazzarino.

«Testaccia! vi farete cacciar di nuovo nella Bastiglia!

«Oh! a quello ci baderò, vi assicuro. È tanto buona l’aria aperta!
E perciò (continuava Rochefort respirando forte), vo a fare una
passeggiata in campagna, un giro in provincia.

«Veh! ed io pure.

«E si può senza essere indiscreto domandarvi dove andiate?

«In cerca de’ miei amici.

«Di quali amici?

«Di coloro di cui jeri mi richiedeste notizie.

«Di Athos, Porthos ed Aramis? li cercate?

«Sì.

«In parola d’onore?

«Che v’è di sorprendente?

«Nulla.... è bizzarra. E da parte di chi ne siete in traccia?

«Non ve lo figurate?

«Oh sì!

«Disgraziatamente non so dove siano.

«E non avete alcun mezzo di averne contezza? aspettate otto giorni e ve
ne darò io.

«Otto son troppi; bisogna che prima di tre giorni io li abbia trovati.

«Tre son pochi, e la Francia è grande.

«Non serve; voi conoscete il vocabolo bisogna: con questo si fanno
molte cose.

«E quando vi ponete in traccia di loro?

«Ci sono digià.

«Buona fortuna!

«E a voi buon viaggio!

«Forse c’incontreremo in cammino.

«Non è probabile.

«Chi sa? il caso è tanto capriccioso!

«Addio.

«Addio. Appunto, se il Mazzarino vi parla di me, ditegli che vi ho
incaricato di fargli sapere che in breve vedrebbe se io sono, conforme
ei dice, troppo vecchio per agire».

E Rochefort si allontanò, con uno dei sorrisi diabolici che in
addietro avevano fatto tanto imbrividire d’Artagnan; ma questa volta
d’Artagnan lo guardò senza angustiarsene e sogghignando anch’esso con
un’espressione di malinconia, che forse codesta ricordanza soltanto
poteva dare al suo sembiante.

«Va, demone! egli disse, e fa quel che tu vuoi, poco m’importa: non v’è
al mondo una seconda Costanza!»

Nel voltarsi vide Bazin, che, deposti gli abiti da ecclesiastico,
discorreva col sagrestano a cui d’Artagnan aveva già parlato al suo
ingresso là in chiesa. Bazin pareva animatissimo, e con le braccia
corte e grosse gestiva fuor di modo. D’Artagnan comprese che, secondo
ogni probabilità gli raccomandasse la maggior segretezza relativamente
a lui.

Il nostro tenente profittò dell’occupazione in cui erano i due
ecclesiastici per uscire dalla cattedrale ed impostarsi sul canto della
strada delle Canettez. Bazin non potrebbe più andarsene senza essere da
lui veduto dal posto ove si appiattava.

Dopo cinque minuti, e mentre d’Artagnan se ne stava al suo posto, il
bidello comparve sul loggiato; guardò per ogni lato onde accertarsi di
non essere osservato, ma non distingueva l’ufficiale di cui la testa
sola passava l’angolo di un casamento distante cinquanta passi. Così
acquietato, si avventurò in via di Nostra Signora. D’Artagnan scappò
dal suo nascondiglio, ed arrivò a tempo per vederlo girare dalla via
della Juiverie ed entrare in quella della Calandre in una casa di
decente apparenza: talchè il nostro tenente non ebbe alcun dubbio che
ivi dimorasse il degno bidello.

Ma egli non voleva già andare a prendere informazioni in quello
stabile: se v’era guardaportone, doveva questo essere bell’e prevenuto;
se non v’era, a chi rivolgersi?

Si recò in una piccola osteria sul canto delle due strade di
Sant’Eligio e della Calandre, e chiese una tazza d’hypocras. A
preparare tal bibita occorreva una mezz’ora; egli aveva tempo di far la
posta a Bazin senza eccitare sospetti.

Adocchiò colà un ragazzo di dodici a quindici anni, vispo alla cera,
che gli sembrò di riconoscere per averlo veduto venti minuti prima
vestito da cantore di chiesa. Lo interrogò, e siccome quegli non aveva
verun interesse a dissimulare, egli intese da esso qualmente la mattina
dalle sei alle nove faceva da cantore, e dalle nove sino a mezzanotte
da cameriere di osteria.

Frattanto che d’Artagnan discorreva seco, fu condotto al portone di
casa di Bazin un cavallo sellato e con la briglia. Dopo un momento
scese Bazin.

«Veh! disse il giovanetto, ecco il nostro bidello che si mette in
viaggio.

«E dove va? domandò d’Artagnan.

«Uh! non lo so.

«Mezza doppia, se ti riesce di saperlo.

«Per me? se posso sapere dove va il signor Bazin? non è difficile....
ma non mi burlate?

«No, da uffiziale che sono; tieni, eccoti la mezza doppia».

Ed il tenente mostrava, ma senza darla, la moneta corruttrice.

«Glielo vo a domandar subito.

«In questo modo non sapresti nulla; attendi che sia partito, e poi,
cospetto! ricerca, interroga, informati.... ci hai da pensar tu, la
moneta è qua».

E d’Artagnan se la ripose in saccoccia.

«Capisco, disse il ragazzo con quel sorrisetto di motteggio ch’è
proprio dei biricchini di Parigi; ebbene, aspetterò».

L’aspettativa non fu lunga. A capo a cinque minuti Bazin se ne andò con
un trottarello rinforzato a suon di ombrellate addosso al cavallo.

Egli aveva per uso di portare un ombrello a guisa di frustino.

Appena ebbe girato dall’angolo di via della Juiverie, il giovanetto si
slanciò fuori come un can da caccia.

D’Artagnan si rimise a tavola, dov’erasi seduto avanti, sicurissimo di
conoscere fra dieci minuti quanto bramava.

Infatti, innanzi che questi fossero passati tornava il fanciullo.

«Ebbene?

«Ebbene, si sa tutto.

«Dov’è andato?

«È sempre mia la mezza doppia?

«Senza dubbio: rispondi.

«La vorrei vedere; imprestatemela, ch’io guardi se non è falsa.

«Eccola.

«Ehi padrone! disse il ragazzo, questo signore vuol barattare in tanti
piccioli».

Il padrone era al banco, pigliò la moneta e diede i piccioli.

Il ragazzo si cacciò questi in tasca.

«E ora, dov’è ito? chiese d’Artagnan che lo era stato ad osservare
ridendo.

«A Noisy.

«Come lo sai?

«Eh, per Diana! non c’è voluta grande astuzia. Aveva riconosciuto il
cavallo ch’è del macellajo, che tratto tratto lo dà a nolo al signor
Bazin; ho pensato che il macellajo non glielo dava senza domandare
dove lo conducesse, quantunque non creda il signor Bazin capace di
rubarglielo.

«E ti ha risposto....

«Che va a Noisy. E poi, pare che così sia solito; ci va due o tre volte
la settimana.

«E tu conosci Noisy?

«Senti! ci sta la mia balia.

«V’è un convento?

«Altro! convento di minori osservanti.

«Bene! non v’è più dubbio.

«Dunque siete contento?

«Sì.... come ti chiami?

«Friquet»

D’Artagnan scrisse sul suo taccuino il nome del fanciullo e il numero
della bettola.

«Ohe! signor ufficiale, ci sono da guadagnare altre mezze doppie?

«Forse sì».

E il tenente istruito ormai di quel che desiderava, pagò l’_hypocras_
che non aveva bevuto, e sollecitamente s’incamminò di nuovo in via
Tiquetonne.



IX.

_Come d’Artagnan cercando ben lontano Aramis, si accorse ch’era in
groppa dietro a Planchet._


D’Artagnan tornato a casa vide un uomo seduto accanto al fuoco. Era
Planchet, ma Planchet tanto bene cambiato mercè i panni lasciati
dal marito nel fuggire, ch’egli stesso stentava a ravvisarlo.
Maddalena glielo presentò davanti a tutti i camerieri. Planchet disse
all’ufficiale una bella frase in fiammingo; questi gli rispose con
alcune parole che non erano di veruna lingua, e fu concluso il negozio:
il fratello di Maddalena entrava al servizio di d’Artagnan.

Il tenente aveva stabilito bene il suo piano: non voleva arrivare di
giorno a Noisy, per tema di essere riconosciuto. Sicchè aveva ancora
tempo, essendo Noisy distante soltanto di tre o quattro leghe da Parigi
sulla strada di Meaux.

Cominciò da fare una copiosa colazione, lo che sarà forse un cattivo
principio quando si vuol agire con la testa, ma è un’ottima precauzione
volendo agire col corpo; indi mutò vestimento per paura che quello
da tenente de’ moschettieri inspirasse diffidenza; poi prese la più
forte e solida delle sue tre spade, che teneva unicamente nelle grandi
occasioni; poscia verso le due ore fece mettere la sella sui due
cavalli, e seguìto da Planchet uscì dalla barriera di La Villette.
Nella casa vicina all’albergo del Granchio si continuavano attivamente
le perquisizioni per ritrovare Planchet.

Una lega e mezza lontano dalla capitale, d’Artagnan accorgendosi che
per causa della sua impazienza era partito troppo presto, si fermò a
far respirare i cavalli. La locanda era piena di genti che parevano sul
punto di tentare qualche intrapresa notturna. Comparve sulla porta un
uomo inferrajuolato, ma nel mirare un forestiero fece un cenno colla
mano, e due che bevevano vennero fuori a discorrere con lui.

D’Artagnan si avvicinò con indifferenza alla padrona di bottega,
lodò il suo vino, ch’era però un pessimo Montreuil, le fece qualche
interrogazione relativamente a Noisy, ed intese come nel villaggio non
v’erano che due case di grande apparenza, una appartenente a Monsignore
Arcivescovo di Parigi ed in cui si trovava in quel momento la sua
nepote la duchessa di Longueville, l’altra un convento dei Gesuiti e
proprietà dei medesimi.

Alle quattro ore d’Artagnan si rimise in viaggio, andando di passo,
mentre non voleva giungere se non a bujo. E quando si va di passo, a
cavallo, in una giornata d’inverno, all’aria fosca, in mezzo ad una
campagna non variata, non v’è da far di meglio che ciò che fa (come
dice la Fontaine) una lepre nella sua buca: pensare. Dunque d’Artagnan
pensava, e così anche Planchet; se non che conforme ora vedremo, le
loro riflessioni erano diverse.

Una parola della locandiera aveva data una direzione particolare alle
idee di d’Artagnan: il nome, cioè, di madama di Longueville.

Infatti, la signora di Longueville aveva quanto abbisognava per far
pensare: era una delle più grandi dame del reame, una delle più belle
donne della corte. Maritata al vecchio duca di Longueville, per cui
non sentiva amore, era stata riguardata prima come amante di Coligny,
il quale per lei si era fatto ammazzare dal duca di Guise in un duello
sulla Piazza Reale; poi si era chiaccherato di un affetto troppo
tenero da essa avuto per il principe di Condé che scandalizzava le
anime timorose della corte; finalmente si diceva fosse subentrato a
codesto affetto un odio vero e profondo, e si seguitava a dire che la
duchessa di Longueville avesse delle relazioni politiche col principe
di Marsillac, figlio maggiore del vecchio duca di La Rochefoucauld, cui
cercava di render nemico al principe di Condé.

D’Artagnan pensava a tutto questo; pensava che quando era al Louvre
si era veduto spesso a passare d’innanzi allegra e brillante la bella
Longueville; e pensava ad Aramis, che senza essere da più di lui, era
stato un tempo amante di madama Chevreuse, la quale stava nell’altra
corte come madama di Longueville in questa. E domandava fra sè perchè
nel mondo vi sono persone che giungono a tutto quello che bramano, chi
in ambizione, chi in amore, mentre vi si hanno delle altre che, o sia
caso, o contrarietà di sorte, o impedimento posto in loro dalla natura,
rimangono a mezza via in tutte le proprie speranze.

Ed era costretto a confessare che ad onta del suo spirito e della sua
accortezza, egli era e resterebbe probabilmente nel novero di questi
ultimi.... quando Planchet gli si accostò dicendo:

«Scommetto, signore, che voi ed io pensiamo alla medesima cosa.

«Ne dubito, fece sorridendo d’Artagnan, ma tu, a che pensi? sentiamo.

«Io? a quegli uomini di trista cera che bevevano nell’albergo ove ci
siamo fermati.

«Sempre prudente, Planchet!

«Gli è istinto, signor mio.

«Orsù, che ti dice il tuo istinto in questa circostanza?

«E’ mi diceva che coloro erano riuniti nell’albergo per un cattivo
progetto, e mentre in un cantone bujo della stalla io rifletteva a
questo suggerimento del mio istinto, entrò nella stessa stalla un uomo
inferrajuolato, cui seguitarono altri due.

«Ah! Ah! fece d’Artagnan, imperocchè il racconto di Planchet
corrispondeva con le sue precedenti osservazioni, ebbene?

«Un di quei due diceva:

«Dev’essere di certo a Noisy o venirci stasera, poichè ho riconosciuto
il suo servitore.

«Ne sei sicuro? domandò l’uomo col pastrano.

«Sì, mio principe....

«Mio principe? interruppe d’Artagnan.

«Ma ascoltate!

«E se v’è, vediamo assolutamente che s’ha da fare, continuò l’altro
bevitore.

«Quel che si ha da fare? ripetè il principe.

«Sì, non è uomo da lasciarsi prendere bonariamente, adoprerà la spada.

«Or bene, bisognerà fare altrettanto, e non ostante procurare di averlo
in mano vivo. Avete delle corde per legarlo e una sbarra da mettergli
in bocca?

«Abbiamo ogni cosa.

«Badate che secondo ogni probabilità sarà travestito da cavalcante.

«Oh! sì, monsignore, non dubitate.

«E poi, ci sarò io e vi guiderò.

«E garantite che la giustizia?....

«Garantisco tutto.

«Va bene, faremo il meglio che si potrà».

E uscirono dalla stalla.

«E che ci riguarda codesto? disse d’Artagnan, questa è qualcuna di
quelle intraprese che si fanno giornalmente.

«E siete certo che non sia diretta contro a noi?

«Contro a noi! e perchè?

«Eh! riepilogate le loro parole: ho riconosciuto il suo servitore, ha
detto uno, il che potrebbe riferirsi a me.

«E poi?

«Dev’essere a Noisy o venirci stasera, ha aggiunto l’altro, il che
potrebbe riferirsi a voi.

«E dopo?

«Dopo? il principe ha avvertito: sarà travestito da cavalcante; lo che
mi sembra non lasci più dubbio, giacchè voi siete in questo arnese e
non in quello da tenente dei moschettieri. Ehi! che ne dite?

«Ohimè! caro Planchet, rispose d’Artagnan con un sospiro, io pur troppo
non sono più nei tempi che i principi volevano farmi assassinare.
Quelli erano bei tempi!.... Sicchè sta quieto, coloro non l’hanno con
noi.

«Ne siete sicuro?

«Lo garantisco.

«Allora sta bene, non se ne parli più».

E Planchet riprese il suo posto dietro a d’Artagnan, con la sublime
confidenza che avea sempre avuta nel suo padrone e non alterata da una
separazione di quindici anni.

Così fecero appresso a poco una lega.

Dopo di che Planchet tornò ad avvicinarsi a d’Artagnan.

«Signore!

«Ebbene?

«A voi, guardate da quella parte; non vi pare fra ’l bujo di veder
passare come delle ombre? sentite, mi sembra udire passi di cavalli.

«È impossibile, la terra è molle di pioggia.... però, come tu dici, mi
pare di veder qualche cosa».

E il tenente si soffermò a guardare e ascoltare.

«Se non si sentono i passi dei cavalli, si ode almeno il loro nitrito».

In fatti, traversando lo spazio e l’oscurità, venne il nitrito di uno
di quegli animali sino alle orecchie di d’Artagnan.

«Sono coloro che vanno in giro, ma a noi non interessa, seguitiamo pel
nostro viaggio».

E si avviarono di nuovo.

Mezz’ora dopo giungevano alle prime case di Noisy; potevano essere le
otto e mezza o le nove di sera.

Secondo l’usanza di campagna tutti erano a letto; in tutto il villaggio
non brillava un lume.

D’Artagnan e Planchet continuarono a camminare. A mano destra e a
sinistra, fra il grigio cupo del cielo risaltava il contorno anche
più oscuro dei tetti delle abitazioni, tratto tratto un cane destatosi
abbajava dietro una porta, o un gatto impaurito scappava di mezzo alla
strada per appiattarsi in un mucchio di fascine, ove si scorgevano
rilucere come carbonchi i suoi occhi spaventati. Quelli erano i soli
esseri viventi che pareva esistessero nel villaggio.

Verso la metà del borgo, e sovrastando alla piazza principale,
sorgeva una mole cupa, isolata fra due straduzze, e sulla di cui
facciata enormi tigli stendevano i bracci scarni. D’Artagnan esaminò
attentamente quel fabbricato.

«Questo, disse, dev’essere il palazzo dell’Arcivescovo, la dimora della
bella Longueville, ma il convento dov’è?

«Il convento? fece Planchet, è laggiù in fondo, lo conosco.

«Or via! dà una corsa di galoppo fin là, intanto che io stringo la
cinghia al mio cavallo, e torna a dirmi se dai Frati v’è qualche
finestra che abbia lume».

Planchet obbedì, si allontanò al bujo, mentre d’Artagnan, smontato,
ristringeva la cinghia al suo cavallo.

Indi a cinque minuti ei venne via dicendo:

«Signore, v’è una sola finestra illuminata dalla parte che dà sopra i
campi.

«Uhm! disse d’Artagnan, se fossi della Fronda busserei qua e sarei
certo di avere buon alloggio; se fossi frate busserei là e sarei certo
di aver buona cena; laddove può essere all’incontro che fra il palazzo
e il convento dormiamo sulla strada morti di fame e di sete.

«Sì, aggiunse Planchet, come il famoso somaro di Buridan. Intanto
volete ch’io picchi?

«Zitto! s’è aperta l’unica finestra dov’era luce.

«Sentite, signor mio?

«Che rumore è mai?»

Il rumore non era dissimile da quello di un turbine vicino; nel momento
due brigate, ciascuna di una dozzina d’uomini a cavallo, sboccarono da
ognuna delle due viottole rasenti alla casa, e chiudendo ogni uscita
circondarono d’Artagnan e Planchet.

«Ohè! fece il tenente levando fuori la spada e ricovrandosi dietro al
suo cavallo, mentre il servo eseguiva la stessa manovra, che tu avessi
pensato bene, e che l’avessero con noi?

«Eccolo! è nostro! gridarono i sopraggiunti.

«Badate che non vi sfugga! urlò una voce fortissima.

«No, monsignore, non dubitate».

Il tenente credè arrivato il momento di prender parte alla
conversazione, e con la sua pronunzia guascona disse:

«Olà, signore! che volete? che cercate?

«Ora lo saprai! strillarono gli altri in coro.

«Fermatevi! fermatevi! gridò quello che avevano chiamato monsignore,
fermate! per la vostra testa! non è la sua voce.

«Ma, signori, fece d’Artagnan, forse a Noisy hanno tutti la rabbia
addosso? Badate però, ve lo avviso, il primo che si avvicina alla
lunghezza della mia spada, la quale è ben lunga, io lo sventro».

Si accostò il capo.

«Che fate costì? domandò alteramente e come uno avvezzo al comando.

«E voi? gli chiese d’Artagnan.

«Usate civiltà, o che avrete una buona stregghiatura, perchè sebbene
uno non voglia dare il suo nome, si desidera esser rispettati a seconda
del rango.

«Non volete dare il vostro nome perchè dirigete un’insidia, un
tranello, ribattè d’Artagnan, ma io che viaggio tranquillamente col mio
domestico, non ho le stesse ragioni che voi di tacere il mio.

«Basta! basta! come vi chiamate?

«Ve lo dico, acciò sappiate dove ritrovarmi, signore, monsignore, o
mio principe, come vi piaccia esser chiamato, disse il nostro Guascone
che non intendeva mostrare di cedere alla minaccia, conoscete il signor
d’Artagnan?

«Tenente nei moschettieri del re?

«Appunto.

«Sicuramente!

«Or bene, continuò il guascone, dovete aver inteso dire che ha il pugno
solido e la lama fine?

«Siete il signor d’Artagnan?

«Son io.

«Dunque venite qui per difenderlo?

«_Chi, come?_

«Quello che noi cerchiamo.

«Ah! fece d’Artagnan, pare che credendo di venire a Noisy io abbia
approdato senza figurarmelo nel regno degli enigmi!

«Animo, rispondete! riprese la stessa voce altera, lo attendete sotto
questa finestra? venite a Noisy per difenderlo?

«Non attendo veruno, replicò d’Artagnan che cominciava a perdere la
pazienza, non ho idea di difendere altro che me, e questo _me_, lo
difenderò con vigore, ve lo avverto.

«Benissimo; levatevi di qua, e lasciateci il posto.

«Levarmi di qua? fece il tenente a’ di cui progetti quest’ordine si
opponeva di troppo, non è facile, sendochè sono stanco morto, e così
pure il mio cavallo, ammenochè siate disposto ad offrirmi da cena e da
dormire nelle vicinanze.

«Furfante!

«Ehi! disse d’Artagnan, misurate le vostre parole, perchè se ne
proferiste delle altre simili a questa, quando anche foste marchese,
duca, principe o re, ve le farei rientrare in corpo, capite?

«Via via, non v’è da sbagliare, soggiunse il capo della brigata, è un
Guascone quello che parla, e in conseguenza non è quel che cerchiamo.
Per questa sera il nostro colpo è andato a vuoto; ritiriamoci. Vi
ritroveremo messer d’Artagnan! continuò alzando la voce.

«Sì, ma non mai cogli stessi vantaggi, rispose burlando il tenente,
giacchè quando mi ritroverete forse sarete solo, e sarà giorno.

«Bene, bene! andiamo, signori!»

E la comitiva brontolando e mormorando disparve fra le tenebre per
ritornare dalla parte di Parigi.

D’Artagnan e Planchet stettero ancora un istante in atto di difesa, ma
allontanandosi poi il rumore rimisero le spade nel fodero.

«Vedi, imbecille, disse tranquillamente d’Artagnan, che non l’avevano
con noi.

«Ma dunque, con chi? domandò Planchet.

«Oh! non lo so, e poco mi preme. Ciò che m’importa è di entrare nel
convento. E per questo, presto in sella e andiamo a bussare colà: sarà
quel che sarà, non ci mangeranno mica».

D’Artagnan saltò in sella.

Planchet fece altrettanto, ma cadde un peso inaspettato sul di dietro
del suo cavallo, il quale piegò le zampe.

«Ah signore! urlò Planchet, ho in groppa un uomo!»

D’Artagnan si volse, e realmente distinse due forme umane sulla bestia
di Planchet.

«È dunque il diavolo che ci perseguita! esclamò levando fuori la spada
onde avventarsi sul sopraggiunto.

«No, mio caro d’Artagnan, disse questi, non è il diavolo; son io,
Aramis. Di galoppo, Planchet, e in fondo al villaggio piglia a
sinistra».

E Planchet portandosi in groppa Aramis si partì velocissimo, seguito
dal tenente, che principiava a credere di essersi fatto qualche sogno
bizzarro ed incoerente.



X.

_L’Abate d’Herblay._


In fondo al villaggio Planchet pigliò a sinistra conforme gli era
ordinato, e si fermò sotto la finestra illuminata. Aramis balzò a
terra, e diede tre colpi. Tosto fu aperta la porta.

«Carissimo, disse Aramis, se volete salire, vi riceverò con tutto il
piacere.

«Ma da voi si entra anco di notte? domandò d’Artagnan.

«Cappio! ho quanti permessi desidero; ma la regola del convento è
severissima.

«Scusate, osservò d’Artagnan, mi pare che abbiate detto _cappio_?

«Sì? fece ridendo Aramis, sarà, l’è un’antica abitudine. Ma non salite?

«Andate avanti, vi seguo.

«Giusto! come diceva il defunto ministro al defunto re: — Per farvi
strada, o sire. — »

Aramis avanzò prestamente.

D’Artagnan gli andò appresso, ma più adagio: si scorgeva non esser egli
assuefatto a camminare in luoghi simili.

«Compatite, gli disse Aramis in ischerzo osservando la sua difficoltà,
se avessi saputo di avere il bene della vostra visita vi avrei fatto
preparare delle torce.

«Signor mio, disse Planchet quando vide d’Artagnan avviarsi, va bene
per il signor Aramis, può stare anche per voi, a tutto rigore starebbe
pure per me, ma i due cavalli non possono passare, dentro al chiostro.

«Conduceteli sotto la tettoja, replicò Aramis accennando una specie di
fabbricato sulla pianura, vi troverete per loro paglia e biada.

«E per me? fece Planchet.

«Tornerete qua fuori, darete tre colpi e vi faremo calare della roba da
mangiare; state quieto, qui non si muore di fame!»

Ed Aramis si chiuse per dentro.

D’Artagnan esaminava la stanza.

Non avea mai veduto un appartamento al tempo stesso più guerresco e
galante. Ad ogni angolo erano trofei d’armi e spade di ogni specie, e
quattro grandi quadri rappresentavano nel loro costume da battaglia
il cardinale di Lorraine, Richelieu, La Vallette e l’arcivescovo di
Bordeaux; i parati erano di damasco, i tappeti venuti da Alençon, il
letto guernito di trine col posapiedi ricamato.

«Guardate il mio tugurio? fece Aramis, sono alloggiato assai bene....
Che cercate cogli occhi?

«Cerco chi vi abbia aperto, non vedo alcuno, eppure...

«Oh! è stato Bazin.

«Ah ah!

«Ma il mio Bazin è bene avvezzo, ed osservando ch’io non tornava solo
si sarà ritirato per prudenza. Sedete, mio caro, e discorriamo».

Ed Aramis spinse il tenente in un ampio seggiolone, sul quale questi si
distese e posò le gomita.

«Già, cenerete con me, non è così?

«Sì, se non vi rincresce; e anzi, io ne avrò piacere, ve lo confesso;
il viaggio mi ha dato un appetito diabolico.

«Ah! povero amico mio, troverete un magro pasto, non eravate aspettato.

«Forse mi minacciate della frittata di Crevacoeur e dei _Tehobromes_?
non chiamavate così in addietro gli spinaci?

«Eh! bisogna sperare che con l’ajuto di Dio e di Bazin rinverremo
qualche cosa di meglio in credenza.... Bazin! Bazin! venite qua!»

Si schiuse l’uscio e comparve Bazin; ma nel distinguere d’Artagnan
diede in una esclamazione che somigliava a un grido di disperazione.

«Caro Bazin, disse il tenente, ho gusto di conoscere con quanta
fermezza voi mentite.

«Signore, fece quegli, è lecito di mentire quando si fa con buona
intenzione.

«Animo, disse Aramis, d’Artagnan muore di fame, ed io pure; portateci
da cena quanto di meglio potete, e specialmente del buon vino».

Bazin s’inchinò in segno di obbedienza, sospirò, e se ne andò.

«Ora che siamo soli, Aramis, cominciò d’Artagnan riportando gli occhi
dall’appartamento al proprietario, e terminando dagli abiti l’esame
principiato dai mobili, ditemi di dove diamine venivate quando siete
caduto in groppa dietro a Planchet!

«Eh, lasciamo stare da parte codeste domande!

«Che sì che me lo figuro? che sì che la vostra gita stuzzicava un poco
il principe di Marsillac?

«Già, siete sempre allegro, voi! fece Aramis, sempre col solito buon
umore da Guascone! ma non vi aveste a credere che fossi innamorato di
madama di Longueville!

«Oh! Dio me ne guardi! ripicchiò d’Artagnan, dopo essere stato sì gran
tempo in relazione colla signora di Chevreuse, non avreste rivolto il
cuore alla sua nemica più acerrima.

«Sì, è vero, rispose Aramis, quella povera duchessa, l’amai di molto in
passato, e bisogna renderle giustizia, ci fu utilissima; ma che volete?
le toccò abbandonare la Francia.... era un uomo duro quel maladetto
ministro! (e dava un’occhiata ad uno dei ritratti) egli avea dato
l’ordine di arrestarla e condurla al castello di Loches; le avrebbe
fatto tagliare la testa come a Chalais, a Montmorency e a Cinq-Mars;
ella fuggì travestita da uomo con la Ketty sua cameriera.... Di più,
per quanto ho inteso, le accadde una singolare avventura, non so in
qual villaggio, con un curato a cui chiedeva ospitalità, e che avendo
una camera sola e prendendo lei per un uomo, le offerse di star seco
nella medesima stanza.... È che portava il vestimento maschile in una
tal maniera, la cara Maria!.... E perciò erano stati fatti su di lei
que’ versi:

    «_Laboissière, dis moi.... ec._

Li sapete?

«No, cantateli».

Ed Aramis intuonò:

      Laboissière, dis moi,
    Suis-je pas bien en homme?
    — Vous chevauchez, ma foi,
    Mieux que tant que nous sommes.
      Elle est,
    Parmi les hallebardes.
    Au régiment des gardes,
      Comme un cadet[6].

«Bravo! disse d’Artagnan, cantate sempre a meraviglia.

«Basta, torniamo all’infelice duchessa.

«A quale? la duchessa di Chevreuse, o di Longueville?

«Vi ho già detto che non v’è nulla fra me e la Longueville; qualche
scherzetto e non altro. No, vi parlo della Chevreuse: l’avete vista?

«Sì, ed era ancora molto bella.

«Certo, seguitò Aramis; in quell’epoca la vidi qualche volta; le
avevo dato ottimi consigli, de’ quali non approfittò; mi affaticai
a dirle che Mazzarino era amante della regina: non mi volle credere,
sostenendo che conosceva appieno Anna, e ch’essa era troppo superba
per contraccambiare un villano simile. Poi intanto la s’intricò nel
complotto del duca di Beaufort, e il villano fece arrestare il signor
di Beaufort ed esiliò madama di Chevreuse.

«Sapete, continuò il tenente, ch’essa ha ottenuto il permesso di
tornare?

«Sì; e anche ch’è tornata. Farà qualche altro sproposito.

«Oh! forse questa volta si atterrà a’ vostri consigli.

«Ah! questa volta, fece Aramis, non l’ho veduta. È andata molto male.

«Non fa come voi, carissimo, che siete sempre lo stesso, con i vostri
bei capelli neri, la vita elegante, le mani da donna.

«È vero, mi tengo con molta cura.... sapete che invecchio? fra poco
avrò trentasette anni.

«Sentite, mio caro, disse d’Artagnan con un sorrisetto, giacchè
ci combiniamo qui insieme, andiamo d’accordo dell’età ch’avremo in
avvenire.

«Come?

«Sì; prima ero io minore a voi di due o tre anni, e se non isbaglio ne
ho quaranta ben sonati.

«Davvero! allora son io che m’inganno, mentre voi foste sempre
un egregio matematico. Dunque, secondo il vostro conto, ne avrei
quarantatrè. Diavolo! non lo aveste a dire al palazzo Rambouillet! mi
fareste danno.

«Non dubitate, non ci vado.

«Ma che diamine fa Bazin? disse Aramis. Bazin! bricconaccio!
sbrighiamoci; qui si crepa di fame e di sete!»

Bazin, entrato appunto nel momento, alzò al cielo le mani cariche di
una bottiglia ciascuna.

«Insomma, siamo lesti? animo! gridò Aramis.

«Sì, signore, subito, fece l’altro, ma bisognava il tempo da portare su
tutte le....

«Perchè vi occupate di continuo delle cose della chiesa e non delle
mie, cospettone!»

Bazin, scandalizzato si fece il segno della croce.

D’Artagnan, sorpreso dalle maniere dell’abate d’Herblay, che
contrastavano cotanto con quelle del moschettiere Aramis, spalancava
gli occhi davanti all’amico.

Bazin coprì sollecitamente la tavola con una tovaglia damascata e vi
dispose tante cose ghiotte, indorate, profumate, che il tenente ne
rimase attonito.

«Dunque, aspettavate gente? questi domandò.

«Oibò! mi tengo sempre pronto per i casi possibili; e poi sapevo che mi
cercavate.

«Da chi?

«Da messer Bazin, che vi ha preso per il diavolo ed è corso ad
avvisarmi del pericolo che sovrastava all’anima mia se rivedevo una sì
trista compagnia com’è quella di un ufficiale dei moschettieri.

«Oh signore! disse Bazin a mani giunte e in atto supplichevole.

«Orsù, bando all’ipocrisia! sapete ch’io non ne voglio. Farete
meglio ad aprire la finestra, e calare un pane, un po’ di pollo e una
bottiglia di vino al vostro amico Planchet che da un’ora si strapazza a
picchiare».

Infatti Planchet, dopo aver dato alle bestie e paglia e biada, era
venuto lì sotto e ripeteva il segnale.

Bazin obbedì, legò ad una cima di fune i tre oggetti accennati e li
calò a Planchet, il quale non volendo altro se ne andò sotto alla
tettoja.

«Adesso ceniamo, disse Aramis».

I due amici sederono a mensa, ed Aramis cominciò a tagliare pollastre,
pernici e prosciutti.

«Cospetto! fece d’Artagnan, come vi mantenete!

«Sì, sì, ottimamente.... ho per cuoco l’ex-cuciniere di Lafollone, ve
ne ricordate? l’antico amico del ministro, quel ghiottone famoso che
dopo pranzo pregava dicendo: Dio mio, concedetemi la grazia di ben
digerire quel che ho mangiato così bene!

«E non ostante morì d’indigestione, soggiunse ridendo d’Artagnan.

«Che volete? ribattè Aramis in aria di rassegnazione, non si può
schivare il proprio destino.

«Ma scusate la domanda che sono per farvi, riprese il tenente.

«Fate pure; fra noi non v’è indiscretezza.

«Siete dunque arricchito?

«Oh no! mi raduno da dodici mila lire all’anno, senza contare un
piccolo benefizio di un migliajo di scudi che mi fece avere il signor
principe.

«E con che vi radunate le dodici mila lire? co’ vostri poemi?

«No; ho rinunziato alla poesia, non fo altro che prediche.

«Come, prediche?

«Ma bellissime! almeno per quanto pare.

«E le recitate?

«Oibò! le vendo.

«A chi?

«A’ miei colleghi che ambiscono ad esser grandi oratori.

«Veh! e non vi ha tentato la gloria per voi stesso?

«Sì, ma la natura vi si oppone. Sono astratto, la minima cosa serve per
distogliermi dall’argomento. Una volta un cavaliere mi rise in faccia,
sospesi il mio discorso per dirgli, che era uno sguajato; il popolo
uscì a raccogliere delle pietre.... nel frattempo mi ricomposi...:
cercai di calmarlo.... ed infatti fu lui che in mia vece venne
lapidato. All’indomani però il cavalierino capitò da me.

«E che resultò dalla sua visita?

«Che ci fissammo il convegno sulla Piazza Reale. Eh per diana! voi lo
sapete.

«Forse fu contro a quell’impertinente che vi feci da padrino?

«Appunto: vedeste come lo aggiustai.

«Morì?»

«Non lo so.... che m’importa?»

Bazin fece un atto di malcontento all’udir parlare in tal modo.

«Bazin, carino mio, voi non pensate che vi veggo in quello specchio, e
che una volta per sempre vi ho proibito qualunque segno di approvazione
o disapprovazione. Favorite darci del vino di Spagna e ritirarvi.
D’altronde il mio amico d’Artagnan ha da dirmi qualche cosa segreta.
Non è così d’Artagnan?»

Il tenente fe’ cenno di sì col capo, e Bazin se n’andò dopo aver recata
la bottiglia richiesta.

I due antichi compagni rimasti soli stettero alquanto cheti; Aramis
come aspettasse una buona digestione, d’Artagnan come se preparasse il
suo esordio.

Ciascuno di essi davasi un’occhiata alla sfuggita quando l’altro non lo
guardava.

Fu Aramis il primo a troncare il silenzio.



XI.

_I due volponi._


«A che pensate, richiese Aramis a d’Artagnan, e qual idea vi fa
sorridere?

«Penso che quando eravate moschettiere propendevate ad uno stato tutto
pace, ed oggi che vivete in tutta pace mi sembra propendiate di molto
al moschettiere.

«Così è: vi è pur noto, mio caro, l’uomo è un animale stranissimo,
tutto composto di contrasti. Io sogno di continuo battaglie.

«E’ si vede dall’addobbo della vostra abitazione: avete là delle spade
di tutte le forme e da contentare tutti i gusti. Tirate sempre bene?

«Tiro come facevate voi in addietro, e forse anco meglio; mi ci
esercito indefessamente.

«E con chi?

«Con un ottimo maestro di scherma.

«Sicchè avreste ucciso il signor di Marsillac, se vi avesse assalito
solo invece che alla testa di venti uomini?

«Certamente; e alla testa pure di coloro, se avessi potuto sguainare la
spada senza esser riconosciuto.

«Dio mi perdoni! (fece tra sè d’Artagnan) avrebbe ad essere diventato
più guascone di me? Orsù, caro Aramis, seguitò più forte, mi
domandavate perchè vi cercassi?

«No, non ve lo domandavo, rispose Aramis con la solita sua aria
scaltra, ma aspettavo che voi me lo diceste.

«Or bene, era per offerirvi a dirittura un mezzo di uccidere il signor
di Marsillac quando vogliate, quantunque egli sia principe.

«Sentite, mo! codesta è un’idea!

«Di cui v’invito ad approfittarvi. Animo, con la vostra entrata di
mille scudi e le dodici mila lire che vi guadagnate, siete ricco?
rispondetemi schiettamente.

«Io? son povero come Giobbe, e se frugaste saccoccie e cassa credo non
trovereste cento doppie.

«Capperi! cento doppie, disse fra sè d’Artagnan, e questo ei chiama
esser povero come Giobbe! io, se le avessi sempre al mio comando, mi
stimerei ricco quanto un Creso... Siete ambizioso? soggiunse.

«Come Encelado!

«Ed io vi reco l’occorrente per esser ricco, potente e libero di fare
ciò che vogliate».

Sulla fronte di Aramis passò un nuvolo rapido al pari di quello che
in agosto scorre su le biade, ma per quanto fosse celere d’Artagnan lo
notò.

«Parlate, disse Aramis.

«Prima, un’altra interrogazione. Vi occupate di politica?»

Negli occhi di Aramis passò un lampo rapido come il nuvolo comparsogli
su la fronte, ma non tanto celere che d’Artagnan mancasse di vederlo.

«No, egli replicò.

«Allora ogni proposizione vi piacerà, poichè pel momento non avete
altro padrone che Dio.

«Può darsi che mi piaccia: sentiamo.

«Avete pensato qualche volta a que’ bei giorni di nostra gioventù, che
trascorrevamo ridendo, e bevendo, e battendoci?

«Sì, e più volte me li ricordai con rammarico.... tempi felici!
_Delectabile tempus!_

«Que’ bei giorni possono rinascere, può tornare quel tempo felice.
Io ho avuto l’incarico di andare a trovare i miei compagni, e ho
cominciato da voi, ch’eravate l’anima della nostra associazione».

Aramis s’inchinò in modo più civile che affettuoso.

«Rimettermi nella politica? disse con voce fiacca e buttandosi giù
sulla poltrona, ah! caro d’Artagnan, vedete come vivo regolarmente
e con tutti i comodi: noi esperimentammo pure la ingratitudine dei
grandi, lo sapete!

«È vero, ma forse i grandi si pentono di essere stati ingrati.

«Allora sarebbe tutt’altro.... sentiamo: ad ogni peccato
misericordia.... E poi, avete ragione sur un punto, ed è che se ci
ripigliasse la volontà d’immischiarci negli affari di Stato, secondo me
ne sarebbe giunto il momento.

«Come lo sapete, non occupandovi di politica?

«Eh mio Dio! senza ingerirmene personalmente, vivo in relazione con
persone che se ne ingeriscono. Benchè coltivando la poesia, mi sono
posto in corrispondenza con Sarrasin ch’è tutto del signor Conti, con
Voiture ch’è del coadjutore e con Bois-Robert che da quando non è più
di Richelieu non è di nessuno o è di tutti come meglio vi piace: sicchè
il movimento politico non mi è sfuggito interamente.

«Me lo immaginavo, fece d’Artagnan.

«Del resto, non avete a prendere ciò ch’io sono per dirvi se non per
parole da cenobita, da uomo che parla puramente e semplicemente per
quel che ha inteso a dire. Io ho inteso che in questo punto Mazzarino
sia molto inquieto sull’andamento delle cose: pare che per i suoi
ordini non si abbia lo stesso rispetto che in addietro si aveva per
quelli del nostro antico spauracchio, defunto ministro, di cui vedete
qua il ritratto, giacchè, se ne sia pur detto quanto si è voluto,
bisogna convenire ch’era un grand’uomo.

«Su questo proposito non vi contraddirò, caro Aramis: esso fu che mi
fece tenente.

«La mia prima opinione era stata tutta a favore del ministro; avevo
considerato che un ministro non è mai amato, ma che col genio che tutti
attribuiscono a questo e’ finirebbe con trionfare dei suoi nemici e
farsi temere, lo che è forse meglio che farsi amare».

D’Artagnan fece con la testa un cenno che esprimeva la piena sua
approvazione di questa massima alquanto dubbia.

«Ecco, seguitò Aramis, quale era la mia opinione prima, ma siccome sono
molto ignorante in questa sorta di materie, e il tenore di vita che
ho scelto m’induce naturalmente a non rapportarmi qualche volta al mio
proprio giudizio, così mi sono informato. Ebbene, amico mio....»

Aramis fece una pausa.

«E che? domandò d’Artagnan.

«Ebbene, mi è d’uopo mortificare il mio orgoglio, mi è d’uopo
confessare che mi ero ingannato.

«Davvero?

«Sì, m’informai, ed ecco quel che mi risposero parecchie persone tutte
diverse di gusto e d’ambizione: il ministro Mazzarino non è un uomo di
genio qual io lo credeva.

«Veh! fece d’Artagnan.

«È un uomo da nulla, stato già servitore del Bentivoglio, e che si è
tirato innanzi mediante i raggiri; un nuovo ricco, un soggetto senza
nome che in Francia batterà soltanto la strada da partigiano; ammasserà
molti scudi, dilapiderà le rendite del re, pagherà a sè stesso tutte
le pensioni che il defunto Richelieu pagava a tutti gli altri, ma
non governerà mai col diritto del più forte, del più grande e del più
onorato. Inoltre sembra non sia gentiluomo per cuore e per maniere,
ma piuttosto una specie di buffone, un Pantalone, un Pulcinella. Lo
conoscete voi? io no.

«Eh! borbottò il tenente, in codesto che voi dite v’è un poco di verità.

«Ah! mi fate insuperbire, mio caro, se mercè una tal quale penetrazione
volgare di cui sono dotato, ho potuto combinarmi con un uomo come siete
voi che vivete in corte.

«Ma mi avete parlato di lui personalmente, e non del suo partito.

«È vero; ha per sè la regina.

«Ed è qualcosa, mi pare.

«Ma non ha per sè il re

«Un bambino?

«Bambino, che fra quattro anni sarà in età maggiore.

«È il presente.

«Sì, ma non è l’avvenire; ed anche nel presente non ha a suo favore nè
il parlamento, nè il popolo, cioè il danaro; non ha a suo favore nè la
nobiltà, nè i principi, cioè la spada».

D’Artagnan si grattò l’orecchio: era costretto a convenire esser quello
un pensare giustissimo.

«Vedete, povero amico mio, se sono tuttora dotato della mia solita
perspicacia. Vi dirò che ho forse torto di parlarvi così apertamente,
giacchè voi mi sembrate inclinato per il Mazzarino.

«Io! esclamò il tenente de’ moschettieri, nemmeno per ombra!

«Discorrevate di un incarico...

«Ho discorso di un incarico?.... Allora ho sbagliato.... No, ho detto
fra me come voi: ecco che gli affari s’imbrogliano; gettiamo la penna
al vento, andiamo dalla parte dove il vento la porterà, e riprendiamo
la vita di ventura. Eravamo quattro prodi cavalieri, quattro cuori
uniti teneramente; si uniscano di nuovo, non già i nostri cuori non
mai separatisi, ma le nostre fortune e il nostro coraggio. È buona
l’occasione per riacquistare qualche cosa da più che un brillante.

«Avete ragione, e ragione sempre, continuò Aramis, la prova si è che
io avevo la stessa idea che voi; se non che, a me che non ho la vostra
feconda immaginazione, il vostro estro, la mi era stata suggerita;
oggidì tutti hanno bisogno di appoggio, mi sono state fatte delle
proposizioni, è trapelato un certo che delle nostre famose prodezze
di tempo addietro, e vi confesserò francamente che il coadjutore mi ha
fatto parlare.

«Il signor di Gondi, il nemico del ministro! esclamò d’Artagnan.

«No, l’amico del re, fece Aramis, m’intendete? Or via, si tratterebbe
di servire il re, lo che è obbligo di un gentiluomo.

«Ma, mio caro, il re è con Mazzarino.

«Di fatto, ma non di volontà; d’apparenza, e non di cuore; ed ecco
appunto il laccio che i nemici del re tendono al povero fanciullo.

«Oh! ma codesta che mi proponete, Aramis, è addirittura la guerra
civile.

«La guerra per il re.

«Ma il re sarà alla testa dell’armata ove sarà Mazzarino.

«Sarà però col cuore nell’armata cui comanderà il signor di Beaufort.

«Beaufort! è a Vincennes.

«Ho detto Beaufort? seguitò Aramis, il signor di Beaufort o un altro;
Beaufort o il signor Principe.

«Ma il signor Principe parte per l’armata, è tutto del ministro.

«Eh eh! disse Aramis, hanno appunto in questo momento fra loro qualche
discussione. D’altronde, se non è il signor Principe, il signor di
Conti....

«Di Conti sarà in breve cardinale; è domandato per lui il cappello.

«E non vi sono cardinali capaci per la guerra? Vedete, ne avete intorno
quattro che alla testa dell’esercito erano da pari di Guebriant e di
Gassion.

«Oh! un generale gobbo!

«Sotto la corazza la gobba non si vedrà. E poi, ricordatevi che
Alessandro zoppicava ed Annibale era guercio.

«Scorgete grandi vantaggi in quel partito? domandò d’Artagnan.

«Vi scorgo la protezione di principi potenti.

«Con la proscrizione del governo.

«Annullata dai parlamenti e dalle sommosse.

«Tutto ciò potrebbe succedere conforme voi dite, se si arrivasse a
separare il re da sua madre.

«Forse vi si giungerà.

«Mai! no, mai! gridò il tenente ritornato nella sua convinzione.
Aramis, mi appello a voi, che conoscete al pari di me Anna: credete
ch’essa possa dimenticare che il suo figlio è la sua sicurezza, il suo
palladio, il pegno della considerazione, della ricchezza e della vita
di lei! Bisognerebbe ch’ella passasse con lui dalla parte dei principi
abbandonando Mazzarino, ma sapete meglio di chiunque come vi siano
forti ragioni perchè non lo abbandoni.

«Potreste non isbagliarla, soggiunse Aramis pensieroso, e per questo io
non m’impegnerò.

«Con loro, fece d’Artagnan, ma con me?

«Con nessuno. Vivo a me, e non ho che vedere con la politica; per
me tutto va bene senza ingerirmene, ed assolutamente non mi ci
immischierò.

«Ebbene, mio carissimo, continuò d’Artagnan, la vostra filosofia mi
persuade, in parola d’onore, e non so che diamine d’ambizione mi aveva
pizzicato; ho una specie di carica che mi alimenta, posso alla morte
del de Tréville, che ormai invecchia assai, diventar capitano; è un
bel bastone da maresciallo per un cadetto di Guascogna, e sento che
mi riaffeziono alle delizie del pane limitato ma quotidiano, invece
di correre incontro alle avventure. Or via! accetterò gl’inviti di
Porthos, andrò a caccia nelle sue tenute. Vi è noto che Porthos ha
delle tenute?

«Eh altro! Io credo dieci leghe di boschi, di paduli e di valli, è
signor dal monte e dal piano, e litica per diritti feudali contro non
so qual grande da Noyon.

«Ottimamente, disse fra sè d’Artagnan, ecco quel che volevo sapere:
Porthos è in Piccardia».

Indi ad alta voce:

«Ed ha ripreso il suo antico nome di du Vallon?

«Aggiungendovi quello di Bracieux, un certo possesso che fu baronia.

«Sicchè lo vedremo barone?

«Io non ne dubito; e specialmente sarà stupenda la baronessa Porthos!»

I due amici diedero in una risata.

«Dunque, ricominciò d’Artagnan, non volete passare dal Mazzarino?

«Nè voi dai principi?

«No; non passiamo da alcuno, e restiamo amici; non siamo nè del
ministro nè della Fronda.

«Giusto! siamo moschettieri, fece Aramis.

«Anche dopo lo stato che avete abbracciato? disse d’Artagnan.

«Anche dopo.

«Dunque, addio.

«Non vi trattengo, sendochè non saprei dove farvi dormire, nè posso
decentemente offerirvi metà della tettoja di Planchet.

«E poi, sono appena distante di tre leghe da Parigi, i cavalli son
riposati, sarò a casa in meno di un’ora».

E d’Artagnan mescendosi l’ultimo bicchier di vino.

«Alla salute del nostro tempo antico!

«Sì, rispose Aramis, pur troppo è un tempo passato! _Fugit irreparabile
tempus._

«Oibò! forse tornerà. In ogni caso, se avete bisogno di me, via
Tiquetonne, albergo del Granchio.

«E per me nel convento fra le sei della mattina e le otto di sera;
e fra le otto di sera e le sei della mattina, s’intende bene, con
superiore permesso.

«Addio, mio caro.

«Oh! non vi lascio così, aspettate ch’io vi accompagni».

Aramis prese la spada e il ferrajuolo.

«E’ vuole assicurarsi che io parta! pensò d’Artagnan».

Aramis fischiò per chiamare Bazin, ma Bazin dormiva in anticamera
accanto agli avanzi della sua cena, e bisognò per destarlo che Aramis
lo tirasse per l’orecchio.

Quegli distese le braccia, si stropicciò gli occhi, e cercò di
riaddormentarsi.

«Su, dormiglione, presto, fa lume.

«Ma disse Bazin, sbadigliando in maniera da rovinarsi le mascelle, un
momento....»

D’Artagnan stava per accertare Aramis che ci vedrebbe abbastanza, ma
gli venne un’idea.

L’idea fece sì che si tacesse.

Bazin diede un grosso sospiro, e andò di là, indi a un momento
ritornava con una candela accesa.

«Oh! disse d’Artagnan, adesso va anche meglio, ma però....
affrettiamoci a partire».

Parve che un’occhiata penetrante di Aramis corresse a ricercare il
pensiero del suo amico nel più profondo del di lui cuore; d’Artagnan
sostenne l’occhiata in atto di ammirabile semplicità e indifferenza.

D’altronde in quel punto poneva il piede sul primo gradino della scala
che conduceva alla porta.

Fu abbasso in un attimo.

Bazin rimase affacciato alla finestra.

«Resta costì, gli aveva ordinato Aramis, ora vengo».

I due si avviarono verso la tettoja; avvicinati che si furono, uscì di
là Planchet reggendo i due cavalli scossi.

«Manco male! fece Aramis, questo è un servitore attivo e vigilante;
non è come quell’infingardo di Bazin che non è più buono a nulla....
Veniteci dietro, Planchet, noi andiamo discorrendo sino in fondo al
villaggio».

Realmente traversarono tutto il villaggio parlando di cose
indifferenti. Poi arrivati alle ultime abitazioni, Aramis disse:

«Andate, amico carissimo, seguitate la vostra carriera; la fortuna vi
arride, non ve la lasciate fuggire; rammentatevi ch’è una cortigiana,
e trattatela come tale; io per me rimango nella mia umiltà e nella mia
pigrizia.

«Sicchè è propriamente deciso? domandò il tenente, ciò che vi ho
offerto non vi gradisce?

«Mi gradirebbe molto, al contrario, se fossi un uomo come gli altri;
ma, ve lo ripeto, in verità sono un impasto di contrasti; quel che oggi
odio, domani lo adorerò, e viceversa. Vedete che non posso impegnarmi,
per esempio, come voi che avete delle idee ben ferme.

«Tu menti, malizioso! fece tra sè d’Artagnan, anzi, sei tu il solo che
sappi sceglierti una meta ed a quella camminare all’oscuro.

«Addio, continuò Aramis, e grazie delle vostre eccellenti intenzioni,
e soprattutto delle buone rimembranze che in me ha ridestate la vostra
presenza».

Si abbracciarono. Planchet era di già a cavallo, d’Artagnan saltò in
sella.

Indi si strinsero ai nuovo la mano.

I cavalcanti diedero di sprone e si diressero dalla parte di Parigi.

Aramis restò in piedi ed immobile in mezzo alla strada sinchè gli ebbe
perduti di vista.

Ma dopo duecento passi d’Artagnan si fermò in tronco, smontò, gettò
la briglia sul braccio a Planchet, prese le pistole e se le mise nella
cintola.

«Che avete, signore? chiese Planchet sgomento.

«Ho, che per quanto ei sia accorto non sarà detto che m’infinocchi; sta
qua e non ti muovere, mettiti sull’orlo della via ed aspettami».

E d’Artagnan si slanciò dall’altro lato del fosso, e corse a traverso
alla pianura in modo da passar per dietro il villaggio. Aveva osservato
tra la dimora d’Aramis e la casa dove abitava madama di Longueville uno
spazio vuoto chiuso soltanto da una siepe.

Forse un’ora prima avrebbe durato fatica a ritrovare quella siepe,
ma ormai era comparsa la luna, e sebbene tratto tratto i nuvoli la
coprissero, ci si vedeva abbastanza per rinvenire la strada.

D’Artagnan arrivò alla chiudenda, e dietro a questa si nascose.

Transitando dinanzi alla casa dov’era accaduta la scena da noi narrata,
aveva badato che dalla stessa finestra traspariva da capo il lume, ed
era convinto che Aramis non fosse ancora tornato alla propria dimora.

In fatti, dopo un momento udì rumore di passi e come di voci sommesse.

Poi gli uni si ristettero e le altre si tacquero.

Egli posò in terra il ginocchio, cercando il più fitto della siepe onde
appiattarvisi.

Nell’istante comparvero due uomini, lo che molto lo sorprese; però, in
breve cessò in lui lo stupore dacchè intese una voce dolcissima: per
cui si avvide che uno dei due uomini era una donna travestita.

«State quieto, caro Réné, diceva la vocina soave, non succederà più
la stessa cosa: ho scoperto una specie di sotterraneo che va per sotto
la strada, e d’ora innanzi ci basterà alzare una delle lastre che sono
davanti alla porta per darvi comodo ad entrare ed uscire.

«Oh! disse l’altro che d’Artagnan riconobbe essere Aramis, vi giuro,
principessa, che se non dipendesse da tali precauzioni la vostra
reputazione, e s’io arrischiassi solamente la mia vita....

«Sì, sì, so che siete coraggioso e ardito al pari di chiunque, ma voi
non siete soltanto mio, siete di tutto il nostro partito.... Sicchè
abbiate prudenza!

«Obbedisco sempre, signora, quando si sa comandarmi così graziosamente».

Ed Aramis baciò la mano al _signorino_.

«Ah! esclamò questo.

«Ch’è stato?

«Non vedete che il vento mi ha portato via il cappello?»

Aramis corse appresso al cappello da uomo ch’era scappato.

D’Artagnan profittò della circostanza per mettersi in un posto meno
folto, d’onde il suo sguardo potesse andare liberamente su l’uomo
problematico. Nell’istante appunto, la luna, forse curiosa come il
nostro ufficiale, sbucava di sotto a un nuvolo, e mediante il suo
chiarore d’Artagnan riconobbe gli occhi grandi e turchini, i capelli
color d’oro, e la nobile testa della duchessa di Longueville.

Aramis tornò ridendo con un cappello in capo ed uno in mano, ed
entrambi continuarono a camminare nella direzione già presa.

«Bene! fece d’Artagnan rialzatosi a spazzolarsi il ginocchio, adesso
ti ho nelle mie mani: sei della Fronda e in relazione con la signora di
Longueville!



XII.

_Il signor Porthos Du Vallon de Bracieux di Pierrefonds._


Mercè le informazioni attinte presso Aramis, d’Artagnan, al quale era
noto che Porthos dal suo casato chiamavasi du Vallon, aveva saputo come
per il nome delle sue terre si chiamava de Bracieux, ed a motivo di
quel suo possesso era in litigio col vescovo di Noyon.

Quindi, nelle vicinanze di Noyon doveva egli andare a cercare quelle
terre, cioè sulla frontiera dell’Isola di Francia e della Piccardia.

Ebbe presto fissato il suo itinerario: andrebbe sino a Dammartin,
dove s’inforcano le due strade, che una porta a Soissons e l’altra
a Compiegne, là domanderebbe della tenuta de Bracieux, e secondo la
risposta seguiterebbe a diritto o volterebbe a sinistra.

Planchet, non ancora ben tranquillo in quanto alla sua scappata,
dichiarò che accompagnerebbe d’Artagnan sino alla fine del mondo, o
pigliasse a diritta o a man sinistra. Se non che propose all’antico suo
padrone di partire la sera, offrendo l’oscurità una maggiore garanzia.

D’Artagnan allora gli propose di avvertire la sua moglie, onde almeno
non fosse inquieta per la di lui sorte, ma Planchet sagacemente rispose
ch’era certissimo che la sua moglie non sarebbe sgomenta per non sapere
dove fosse, mentre egli al contrario conoscendo la sfrenatezza della di
lei lingua sarebbe più che sgomento qualora essa lo sapesse.

Le quali ragioni sembrarono tanto buone a d’Artagnan, ch’egli non
insistè ulteriormente, e verso le otto di sera quando principiava a
farsi bujo, mosse dall’albergo delle _Chevrette_ o del Granchio, e
seguito da Planchet, uscì dalla capitale per la porta S. Dionigi.

A mezzanotte i due viaggiatori erano a Dammartin.

Era troppo tardi per pigliare informazioni. L’oste del _Cigno della
Croce_ era a letto. D’Artagnan rimise la faccenda all’indomani.

All’indomani chiamò l’oste. Era questi uno di quelli scaltri Normanni
che non dicono nè sì nè no, e credono sempre di compromettersi
rispondendo direttamente alle domande che lor vengono fatte; pur
nonostante, essendo sembrato a d’Artagnan di capire di aver a andare
in dirittura, si rimise in cammino dietro quella indicazione alquanto
equivoca. La mattina a nove ore era a Nanteuil, ed ivi si fermò a
colazione.

Qui il locandiere era un Piccardo buono e schietto, il quale,
riconosciuto Planchet per suo concittadino, non fece difficoltà a
dargli i bramati schiarimenti. La tenuta di Bracieux stava distante
poche leghe da Villers-Cotterets.

D’Artagnan era cognito di Villers-Cotterets, per esservi andato due
o tre volte al seguito della corte, imperciocchè in quell’epoca era
quella una residenza regia. Si avviò dunque alla suddetta città, e
smontò al suo albergo consueto, al _Delfino d’Oro_.

Là i dettagli furono soddisfacentissimi; intese essere la possessione
di Bracieux situata quattro leghe lontano, ma non doversi in essa
cercare Porthos. Porthos di fatti aveva avuto delle questioni col
vescovo di Noyon in proposito della tenuta di Pierrefonds che confinava
colla sua, ed infastidito da tali dispute giudiciarie di cui non
intendeva un’ette, aveva, per finirla, acquistato Pierrefonds, e in
conseguenza aggiunto questo nuovo nome agli altri suoi. Si chiamava,
ormai du Vallon de Bracieux di Pierrefonds, e dimorava nel nuovo suo
podere. In mancanza di altre illustrazioni, si vede che Porthos ambiva
quella del _Marchese di Carabas_.

Bisognò aspettare ancora al dì vegnente: i cavalli, fatte dieci
leghe nella giornata, erano stanchi. È vero che si poteva prenderne
degli altri, ma v’era da traversare una grandissima macchia, e noi ci
rammentiamo che di notte Planchet non aveva punto a genio le macchie.

V’era una cosa di più che non gli andava a genio, cioè di porsi in
viaggio a digiuno. Talchè d’Artagnan nel destarsi trovò allestita la
colazione. Di una simile attenzione non v’era da lagnarsi, ed egli sedè
a tavola. Ci s’intende che Planchet riassunte le sue antiche funzioni,
riassumeva l’antica umiltà, e non si vergognava di mangiare gli avanzi
del tenente più che non si vergognassero madama di Motteville e madama
di Fargis di mangiar quelli della regina Anna.

Sicchè non fu possibile partire sino verso le otto. Non v’era da
sbagliare, bisognava prender la strada che conduce da Villers-Cotterets
a Compiegne, ed uscendo dal bosco pigliare a mano destra.

Faceva una bella mattinata di primavera, gli uccelli cantavano su gli
alti alberi, larghi raggi di sole passavano nelle parti meno folte
e parevano tante cortine di velo indorato; in altri luoghi la luce
penetrava tra la fitta volta delle foglie, e i piedi delle vecchie
quercie (cui correvano precipitosamente nel vedere i viandanti gli
agili scojattoli) stavano immersi nell’ombra; da tutta quella natura
scaturiva una fragranza di erbe, di fiori e di fogliame che rallegrava
il cuore. D’Artagnan annojato dalla puzza di Parigi, diceva fra sè, che
quando si portavano tre nomi di possessioni infilati uno nell’altro si
doveva trovarsi contentissimi in un tal paradiso; poi scuoteva il capo
dicendo:

«Se io fossi Porthos, e venisse d’Artagnan a farmi la proposizione
ch’io vo a fare a Porthos, so ben io come gli risponderei!»

Planchet dal canto suo a nulla pensava, digeriva.

Sull’orlo del bosco il tenente adocchiò il sentiero indicato, ed alla
fine di quello le torri di un immenso castello feudale.

«Oh oh! borbottò, mi pareva che il castello appartenesse all’antico
ramo d’Orleans. Che Porthos ne avesse trattato col duca di Longueville?

«Affè, disse Planchet, sono terreni ben mantenuti, e se sono proprietà
del signor Porthos me ne congratulerò con lui.

«Cappita! fece d’Artagnan, non lo chiamare Porthos, nè anche du Vallon,
chiamalo de Bracieux o di Pierrefonds. Faresti andare a monte tutta la
mia ambasceria».

D’Artagnan, quanto più si avvicinava al castello che prima aveva
fermati i suoi sguardi, capiva tanto maggiormente che colà non poteva
dimorare il suo amico: le torri, comunque solide, e che parevano
fabbricate di fresco, erano aperte e come sconquassate. Avreste detto
che qualche gigante le avesse sfondate a suon di scure.

Giunto all’estremità della via, d’Artagnan si trovò a sovrastare ad
una valle amena, in fondo alla quale si vedevano giacere al piè di
un bel lago alcune case sparse qua e là, che umili, e coperte quali
di tegoli e quali di stoppie, sembrava riconoscessero per dominante
(_seigneur suzerain_) un bel castello costrutto verso il principio
del regno di Enrico IV, cui stavano di sopra banderuole signoresche.
Allora poi d’Artagnan non pose il menomo dubbio di essere alle viste
dell’abitazione di Porthos.

La strada metteva direttamente all’elegante castello, che era a petto
al suo nonno, il castello della montagna, come uno zerbinotto del
partito del duca di Enghien è a petto ad un cavaliere in armatura di
ferro del tempo di Carlo VII. D’Artagnan mise il cavallo al trotto e
seguitò giù pel sentiero; Planchet regolò la andatura della sua bestia
su quella del padrone.

A capo a dieci minuti il tenente fu all’estremità di un viale in cui
erano regolarmente piantati bellissimi pioppi, e che terminava ad un
cancello di ferro di cui le lance e le striscie trasversali erano
indorate. In mezzo stava una specie di signore vestito di verde, e
indorato come il cancello, sopra un grosso e robusto cavallo. Aveva a
destra e a manca due servitori ingallonati su tutte le cuciture; molti
villani radunati gli porgevano ossequiosissimi omaggi.

«Ah! fece tra sè d’Artagnan, fosse quegli il signore du Vallon de
Bracieux di Pierrefonds? com’è raggrinzato dacchè non si chiama più
Porthos!

«Non può esser lui, disse Planchet rispondendo a ciò che il tenente
discorreva fra sè stesso, il signor Porthos era alto quasi di sei
piedi, e quello ne ha appena cinque.

«Eppure, continuò d’Artagnan, lo riveriscono molto profondamente!»

E diè di sprone verso il cavallo grosso, l’uomo rispettabile ed i
servi, ed a misura che si avvicinava gli pareva di ravvisar meglio il
personaggio.

«Gesù Dio! esclamò Planchet che credeva esso pure di riconoscerlo,
possibile che fosse _lui_!»

Al qual grido l’uomo ch’era in sella si voltò lento e nobilmente, e i
due viaggiatori videro brillare in tutto il loro fulgore gli occhioni,
il muso rosso e bernoccoluto, ed il sorriso espressivo di Mousqueton.

Ed era proprio Mousqueton, Mousqueton grasso e paffuto, traboccante di
salute, gobbo e zeppo dal bene stare, il quale riconoscendo d’Artagnan
ben al contrario dell’ipocrita Bazin, si calò giù dal destriero sino a
terra, e si accostò col cappello in mano all’uffiziale, in guisa che
gli omaggi dell’adunanza fecero mezzo giro verso quel nuovo sole che
ecclissava il vecchio.

«Signor d’Artagnan! signor d’Artagnan! ripeteva per dentro alle gote
enormi Mousqueton sudante per l’allegrezza, signor d’Artagnan! oh che
piacere sarà per il mio signore e padrone, signor du Vallon de Bracieux
di Pierrefonds!

«Che caro Mousqueton! è egli qua il tuo padrone?

«Siete sui suoi possessi.

«Ma come sei bello, ma come sei grasso, ma come sei in fiore! badava
a dire il tenente de’ moschettieri instancabile nell’accennare i
cambiamenti recati dalla buona fortuna nell’antico affamato.

«Eh! sì, grazie a Dio, sto assai bene.

«E non dici nulla al tuo amico Planchet?

«Al mio amico Planchet! Planchet, sei tu davvero? urlò Mousqueton a
braccia aperte e con tanto di lacrime negli occhi.

«Io, sì, fece Planchet sempre prudente, ma volevo vedere se avevi messo
superbia.

«Superbia con un vecchio amico? mai, Planchet, no, mai! e tu non lo
puoi nemmeno aver pensato, o tu non conosci Mousqueton.

«Manco male! disse Planchet smontando da cavallo e porgendogli le
braccia, non è come quella canaglia di Bazin che mi piantò due ore
sotto una tettoja senza neppur mostrare di ricordarsi di me».

E Planchet e Mousqueton si abbracciarono con un trasporto che commosse
al vivo gli astanti, e ad essi fece credere che Planchet fosse qualche
gran signore travestito, tanto in alto apprezzavano la posizione di
Mousqueton.

«E adesso, signor mio, disse questi sbarazzatosi dagli amplessi di
Planchet che invano avea tentato di unirgli insieme dietro alla schiena
le sue due mani, adesso permettetemi di lasciarvi, mentre non voglio
che il mio padrone sappia la nuova del vostro arrivo da altri che da
me: non mi perdonerebbe di essermi fatto precedere da un terzo.

«Quel caro amico, replicò d’Artagnan evitando di dare a Porthos nè
l’antico nè il novello suo nome, dunque non si è scordato di me?

«Scordato! anzi, avete a dire che non passa giorno che non ci
aspettiamo di sentirvi nominato maresciallo o invece del signor di
Gassion, o invece del signor di Bassompierre».

Il tenente si lasciò comparire sulle labbra uno di quei rari sorrisi
malinconici che avevano sopravvissuto nel profondo del suo cuore alle
perdute illusioni degli anni giovanili.

«E voi, villani, seguitò Mousqueton, state appresso al signor conte
d’Artagnan, e fategli onore meglio che potete, frattanto ch’io vo ad
avvertire monsignore della sua venuta».

E rimontando, con l’ajuto di due anime caritatevoli, sul suo robusto
cavallo, mentre Planchet più svelto saltava sopra il suo da per sè,
prese sull’erbetta del viale un mezzo galoppo il quale dava anche
migliore opinione de’ fianchi che delle gambe del palafreno.

«Ah! qui le cose si dispongono bene, disse d’Artagnan: non misteri,
non ferrajuoli, non politica; si ride a scroscio, si piange di giubilo,
non vedo se non faccie larghe un braccio; in coscienza, mi pare che la
natura stessa sia in festa, che gli alberi in cambio di foglie e fiori
siano coperti di fettucce verdi e color di rosa.

«Ed a me, aggiunse Planchet, mi par di sentire di qui il più delizioso
odore d’arrosto, e di vedere tanti guatteri schierati in fila a
guardarci a passare. Ah! che cuoco deve avere il signor di Pierrefonds,
che già amava tanto di mangiar bene quando si chiamava solamente signor
Porthos!

«Alto là! disse d’Artagnan, tu mi fai paura. Se la realtà corrisponde
alle apparenze, io sono perduto. Un uomo sì felice non abbandonerà la
propria felicità, ed io perderò il mio tempo con lui come ho fatto con
Aramis».



XIII.

_Come d’Artagnan, nel ritrovare Porthos, si accorgesse che non sempre
le ricchezze formano la felicità._


D’Artagnan passò il cancello e si trovò di faccia al castello. Quando
poneva piedi a terra comparve sul verone una specie di gigante. Si
renda giustizia a d’Artagnan: a parte da ogni sentimento di egoismo,
gli balzò il cuore di gioja all’aspetto di quell’alto personale e di
quel volto marziale che gli rammentavano un uomo buono e prode.

Corse incontro a Porthos e si gettò nelle sue braccia. Tutta la
servitù disposta in circolo, a distanza rispettosa, guardava con umile
curiosità. Mousqueton in prima fila si asciugò gli occhi; il povero
giovinotto non aveva cessato di piangere per l’allegrezza dacchè aveva
riconosciuti d’Artagnan e Planchet.

Porthos prese a braccetto d’Artagnan, esclamando con voce che dal
baritono era passata al basso:

«Ah! che piacere di rivedervi! dunque voi non mi avete obliato?

«Obliarvi! oh, caro du Vallon! e si dimenticano i più bei giorni della
nostra gioventù, e gli amici affezionati, ed i pericoli affrontati
insieme? e nel rivedervi, tutti i momenti dell’antica nostra esistenza
si riproducono al mio pensiero.

«Sì, sì, seguitò Porthos procurando di dare alle basette quella piega
elegante che avevano perduta nella solitudine, sì, al tempo nostro
ne facemmo delle belle, e si diede da sudare ben bene a quel povero
ministro!»

E cacciò fuori un sospiro.

D’Artagnan lo guardò fisso.

Ma egli continuò in tuono languido:

«Basta, siate il ben venuto; mi ajuterete a ritrovare la sparita mia
gioja; domani rincorreremo la lepre nella mia pianura ch’è bellissima,
o il capriuolo ne’ miei boschi che sono superbi; ho quattro levrieri
che son tenuti per i più leggieri di tutta la provincia, e una muta che
non ha l’eguale di qui a venti leghe».

E Porthos mandò un altro sospiro.

«Ohe! fece tra sè d’Artagnan, che fosse meno felice di quello che pare?»

Indi rispose:

«Però, prima di tutto mi presenterete a madama du Vallon, giacchè
mi rammento di una certa lettera di cortese invito che vi piacque
scrivermi, ed in fondo alla quale essa favorì mettere alcuni versi».

Terzo sospiro di Porthos.

«Da due anni ho perduta madama du Vallon, egli disse, e ne sono
tuttavia afflittissimo; perciò lasciai il mio castello du Vallon,
vicino a Corbeil, per venire ad abitare nella mia tenuta di Bracieux,
cambiamento che mi ha indotto a comprar questa. Povera madama du
Vallon! (seguitò con una smorfia di rammarico) non era una donna di
carattere molto costante e eguale, ma aveva terminato coll’avvezzarsi
alle mie maniere e adattarsi a’ miei capriccetti.

«Sicchè siete ricco e libero? domandò il tenente.

«Ahimè! son vedovo, ed ho quarantamila lire di rendita. Andiamo a far
colazione: volete?

«Certamente; l’aria della mattina mi ha dato appetito.

«Sì, fece Porthos, la mia aria è ottima».

Entrarono nel palazzo; da cima a fondo erano tutte indorature; dorati i
cornicioni, dorati i finimenti, dorato il legno delle seggiole.

Stava pronta una tavola apparecchiata.

«Vedete, disse Porthos, questo è il mio ordinario.

«Caspita! me ne congratulo con voi; il re non lo ha consimile.

«Sì; ho inteso dire che Mazzarino lo tratta male a cibo.... Assaggiate
questa costoletta, caro d’Artagnan, è de’ miei montoni.

«Avete de’ montoni molto teneri, e di nuovo vi fo i miei complimenti.

«Sì, sono mantenuti nelle mie praterie, che sono stupende.

«Datemene un’altra.

«No; piuttosto, pigliate di questa lepre, che ammazzai jeri in una
delle mie conigliere.

«Per bacco, che sapore!... ma dunque le nutrite a forza di sermollino
le vostre lepri?

«E che vi pare del mio vino? è grato, non è vero?

«È delizioso.

«Eppure è del paese.

«Propriamente!

«Di un piccolo terreno lassù sulla mia montagna; mi fornisce da venti
botti.

«Ma l’è addirittura una vendemmia!»

Porthos sospirò per la quinta volta. D’Artagnan aveva contati i suoi
sospiri.

«Orsù, disse questi, curioso d’investigare il problema, sembra che
siate angustiato da qualche cosa; state male forse? la salute....

«Ottima, migliore che non fosse mai; ammazzerei un bove con un pugno.

«Allora, dispiaceri di famiglia.

«Di famiglia? per buona sorte non ho al mondo altri che me.

«E dunque, di che avete da sospirare?

«Ah! sarò schietto con voi.... non sono felice.

«Voi, non felice! voi che avete palazzo, praterie, montagne; voi che
avete quaranta mila lire di rendita, non siete felice!

«È vero, possiedo tutto questo, e fra tutto questo, son solo.

«Eh! capisco, siete circondato da villani, che non potete frequentare
senza derogare in certo modo....»

Porthos impallidì alquanto, e vuotò un enorme bicchiere di vino.

«No, disse, all’incontro: figuratevi che son tutti gentiluomini di
campagna, i quali hanno un qualche titolo, e pretendono di risalire
a Faramondo, a Carlomagno, o almeno ad Ugo Capeto. Sul principio
io era l’ultimo venuto, e in conseguenza dovevo essere il primo a
usare le cortesie; lo feci, ma sapete bene, d’Artagnan, che madama du
Vallon....»

Parve che nel dir questo Porthos inghiottisse a stento la sciliva.

«Madama du Vallon, continuò, era di una nobiltà assai dubbia; di primo
letto (non credo raccontarvi cose nuove) aveva sposato un procuratore.
Qui trovarono che questo era nauseante.... sì, dissero nauseante....
capite? è una parola da far uccidere trentamila uomini; io ne uccisi
due, lo che fece tacere gli altri, ma non me li rese amici. Sicchè non
ho più compagnia, vivo solo, mi annojo, mi struggo».

D’Artagnan sorrise; vedeva la mancanza di usbergo, e preparava la botta.

«Ma insomma, disse, siete nobile di per voi, e la vostra moglie non vi
può disfare.

«Sì; ma intendete, non essendo di nobiltà storica come i Coucy che si
contentavano di esser Signori (_sires_), ed i Rohan che non volevano
esser duchi, tutti coloro che sono visconti o conti, passano avanti
a me, in chiesa, nelle cerimonie, dappertutto, ed io non ci posso
ridire.... Ah! se fossi soltanto....

«Barone, non è così? fece d’Artagnan terminando la frase.

«Oh! esclamò Porthos, se fossi barone!

«Bene! pensò il tenente, qui riuscirò».

E rispose:

«Or bene, amico mio, quel titolo che bramate, oggi vengo a portarvelo».

Porthos fece un balzo che scosse tutta la stanza; due o tre bottiglie
perderono l’equilibrio e ruzzolando in terra si ruppero. Al romore
accorse Mousqueton, e si vide in prospettiva Planchet con la bocca
piena e il tovagliuolo in mano.

«Monsignore mi ha chiamato? domandò Mousqueton».

A cui il padrone ammiccò di raccattare i pezzi delle bottiglie.

«Veggo con piacere, disse d’Artagnan, che avete sempre questa bravo
giovine.

«È mio maggiordomo.... (ed alzando la voce): ha fatto il fatto suo, il
briccone! e si conosce subito... Ma (seguitò piano) mi è affezionato, e
non mi lascerebbe per qualunque cosa.

«E lo chiama monsignore! pensò d’Artagnan.

«Uscite, Mouston, disse Porthos.

«Avete detto Mouston?... ah sì! per abbreviazione: Mousqueton era
troppo lungo a pronunziarsi.

«Sì, replico Porthos, poi puzzava di sergente maggiore da una lega
lontano.... Noi però discorrevamo di affari; quando è capitato quel
birbante.

«Appunto, fece d’Artagnan, per altro, si rimetta la conversazione a
più tardi; i vostri servi potrebbero sospettare di qualcosa; vi possono
essere delle spie nel paese; comprendete che si tratta di oggetti serj.

«Diamine! or via, per far la digestione, passeggiamo nel mio parco.

«Volentieri».

E perchè entrambi avevano fatta una colazione abbastanza copiosa,
cominciarono a fare il giro di un giardino magnifico; viali di castagni
e di tigli racchiudevano uno spazio di trenta jugeri per lo meno; alla
fine di ciascuno di essi, e nel più folto di alberi e arboscelli, si
vedevano correre i conigli, e sollazzarsi fra l’erbe le più alte.

«Affè, disse d’Artagnan, il parco corrisponde a tutto il rimanente, e
se nel vostro stagno vi sono tanti pesci quanti conigli v’hanno nelle
conigliaje, siete un uomo fortunatissimo, caro Porthos; purchè abbiate
conservato il genio per la caccia ed acquistato quello della pesca.

«Amico mio, rispose Porthos, io lascio la pesca a Mousqueton: gli è
un piacere da plebei; ma a volte vado a caccia, cioè quando mi annoio,
seggo sopra uno di quei sedili di marmo, mi fo portare il mio schioppo;
mi fo condurre il mio cane prediletto, e tiro a’ conigli.

«Ma è un gran divertimento! fece d’Artagnan.

«Sì, ripetè Porthos con un sospiro, è un gran divertimento!»

D’Artagnan aveva smesso di contarli.

«Poi, aggiunse Porthos, Gredinet va a cercarli, e li porta da sè al
cuoco: c’è benissimo avvezzato.

«Oh, che cara bestiuolina!

«Ma lasciamo stare Gredinet, che vi darò, se ne avete voglia, perchè
principio a infastidirmene, e torniamo a’ nostri affari.

«Volentieri: soltanto vi avverto, acciò non diciate ch’io v’abbia preso
a tradimento, che vi toccherà cambiar vita.

«Come mai?

«Indossare da capo l’armatura, cinger la spada, andare incontro alle
avventure, lasciare come in passato qualche brano di carne per la
via.... Sapete, alla maniera di prima....

«Oh diavolo!

«L’intendo; siete mal avvezzo, avete fatto pancia, ed il pugno non ha
più quella elasticità di cui ebbero tante prove le guardie del signor
ministro.

«Ah! il pugno è ancora buono, vi giuro, seguitò Porthos stendendo una
mano non dissimile da una spalla di montone.

«Meglio così!

«Sicchè si ha da fare la guerra?

«Eh sì, Dio buono!

«E contro a chi?

«Siete stato a giorno di politica?

«Io? neppure per ombra.

«E siete per il Mazzarino, o per i principi?

«Io? son per nessuno.

«Vale a dire che siete per noi; bene, bene! questa è la vera posizione
per fare i fatti suoi. Orsù, mio caro, io vi dirò che vengo da parte
del ministro».

Queste parole produssero effetto sopra Porthos come se fossero stati
sempre nel 1640.

«Oh oh! egli disse, che vuol da me sua Eccellenza?

«Avervi al suo servizio.

«E chi le ha parlato di me?

«Rochefort; vi ricordate?

«Sì, cospetto! quello che tempo addietro ci diede tanto tormento, e ci
fece correr tanto; lo stesso a cui voi somministraste una dopo l’altra
tre stoccate, che per lui non erano rubate, in sostanza!

«Ma sapete ch’è diventato amico nostro?

«No, non lo sapevo.... Ah! non serba rancore?

«V’ingannate, Porthos; son’io che non lo serbo a lui».

Porthos non capì appieno: ma già noi ci ricordiamo che il suo forte non
era la facilità di comprensiva.

«Sicchè, continuò, il conte di Rochefort è quello che ha discorso di me
al ministro?

«Sì, e poi la regina.

«Come, la regina?

«Per ispirarci fiducia, essa gli ha perfino consegnato il famoso
diamante, vi sovviene? che io aveva venduto al signor des Essarts, e
che non so come è tornato in suo possesso.

«Ma mi pare, osservò Porthos col suo solito giudizio un po’ rozzo, che
avrebbe fatto meglio di darlo a voi.

«Così penso anch’io, replicò d’Artagnan; ma che volete? i re e le
regine hanno talvolta singolari capricci. In conclusione, siccome sono
essi che tengono le ricchezze e gli onori, che distribuiscono danaro e
titoli, tutti son dediti a loro.

«Sì, gli si è dediti.... E allora, voi siete dedito in questo
momento?...

«Al re, alla regina e al ministro; e di più, ho garantito della vostra
divozione.

«E dite che avete stabilite per me certe condizioni?

«Stupende, caro mio, stupende! Prima di tutto, avete danaro, non è
vero? quaranta mila lire di rendita, me lo avete detto».

Porthos entrò in diffidenza.

«Eh! ribattè, danari, non se ne ha mai di troppo. Madama du Vallon
lasciò un patrimonio imbrogliatissimo; io poi non sono un signorone,
dimodochè vivo a giorno per giorno.

«Ha paura ch’io sia qui per chiedergli de’ soldi in prestito, pensò il
tenente dei moschettieri.

«Oh! rispose forte, meglio, meglio, se siete in ristrettezze!

«Come, meglio? fece Porthos.

«Sì, perchè sua Eccellenza darà tutto quel che si voglia, terre,
numerario e titoli.

«Ah! ah! ah! esclamò Porthos, e spalancava gli occhi.

«Sotto l’altro ministro, proseguì d’Artagnan, non sapemmo profittare
della fortuna; e sì, gli era il caso, veh! non lo dico per voi che
avevate in vista le vostre quaranta mila lire di entrata e mi parevate
l’uomo più avventurato di questo mondo».

Nuovo sospiro del signor de Bracieux di Pierrefonds.

«Bensì, tirò innanzi il tenente, non ostante le vostre quaranta mila
lire, e forse anche per ragione di queste, ho idea che una piccola
corona farebbe ottima comparsa sulla vostra carrozza.... eh?

«Ma sì, ripicchiò Porthos.

«Or bene, guadagnatevela. Ella sta su la punta della vostra spada. Noi
non ci nuoceremo. Il vostro scopo è un titolo; il mio è danaro. Che io
ne guadagni a sufficienza per far ricostruire Artagnan (lasciato andare
in rovina da’ miei antenati impoveriti mediante le crociate), e per
comprare intorno a questo una trentina di jugeri, non mi occorre altro:
mi vi ritiro, e là muojo tranquillo.

«Ed io, disse Porthos, voglio esser barone.

«Lo sarete.

«E non avete pensato pure agli altri nostri amici?

«Sì, ho veduto Aramis.

«Ed egli che desidera? innalzarsi, ci s’intende.

«Aramis, fece d’Artagnan il quale non voleva far perdere a Porthos le
sue illusioni, Aramis, figuratevi, vive come un orso, rinunzia a tutto,
non pensa che alla salute dell’anima; le mie esibizioni non valsero a
deciderlo.

«Male! disse Porthos, aveva tanto spirito! E Athos?

«Non l’ho ancor visto, ma andrò da lui quando vi lascio. Sapete dove lo
troverò?

«Vicino a Blois, in una piccola tenuta ereditata non so da qual parente.

«E che si chiama?

«Bragelonne. Capite questa, mio caro? Athos, ch’era nobile come
l’imperatore e ha per eredità una tenuta la quale ha nome di contea! e
che ne farà egli, di tutte quelle contee? contea di La Fère, contea di
Bragelonne?

«Di più che non ha figliuoli, aggiunse d’Artagnan.

«Uhm! mugolò Porthos, ho inteso dire che avesse adottato un giovinetto
che nel volto gli somiglia.

«Athos, ch’era virtuoso come Scipione, lo avete riveduto?

«No.

«Domani, dunque, andrò à dargli le vostre nuove. Temo, a dirla fra noi,
che la sua inclinazione per il vino lo abbia invecchiato assai.

«Sì, è vero, beveva molto.

«E poi, era maggiore a tutti noi, osservò d’Artagnan.

«Di pochi anni, riprese Porthos; l’aspetto suo grave lo faceva parere
più vecchio che non fosse.

«Così è. Sicchè, se abbiamo Athos sarà tanto meglio; se non lo abbiamo,
ne faremo di meno: siamo buoni per dodici, noi due.

«Sì, disse Porthos sorridendo alla rimembranza delle ultime sue
imprese, ma noi quattro saremmo stati buoni per trentasei.... e di più,
che, secondo dite, il mestiere sarà scabroso.

«Scabroso per reclute, ma per noi no.

«Sarà lungo?

«Eh! può durare tre o quattro anni.

«Vi sarà da battersi di molto?

«Spererei.

«Bene, alla fine dei conti, benone! esclamò Porthos, non avete idea,
mio caro, quanto mi sento scricchiolare le ossa dacchè sono qui. Alle
volte, la domenica, all’uscire dalla messa vo a cavallo per i campi
e sulle terre dei vicini, onde incontrare qualche piccola disputa,
giacchè sento che ne ho bisogno; ma nulla! o mi rispettano o mi temono,
lo che è più probabile, mi lasciano calpestare il trifoglio insieme co’
miei cani, passare addosso a tutti, e torno indietro più annojato che
mai.... Almeno, ditemi un poco, a Parigi v’è più facilità di battersi?

«Per cotesto, amico mio, gli è un gusto: non più editti, non guardie
del ministro, non Jussac nè altri bracchi. Mio Dio! vedete, sotto un
lampione, in una locanda, da per tutto, siate del Mazzarino, siate
della Fronda, fuori la spada e basta. Il signor di Guise ha ucciso il
signor di Coligny sulla Piazza Reale, e non è successo niente.

«Ah! va ottimamente, disse Porthos.

«E poi, tra poco, seguitò d’Artagnan, avremo battaglie ordinate,
cannone, incendi; sarà una faccenda variata.

«Dunque mi ci decido.

«Mi date la vostra parola?

«Sì, è finita. Tirerò di stocco e di taglio per il Mazzarino.... ma....

«Ma?

«Mi fa barone?

«Ehi perdinci! è cosa stabilita prima; ve l’ho detto e ve lo ripeto, vi
garantisco la baronia».

Dietro questa promessa, Porthos che non aveva mai dubitato della parola
del suo amico si avviò nuovamente al palazzo.



XIV.

_Ove si dimostra qualmente se Porthos era scontento del proprio stato,
Mousqueton però era soddisfattissimo del suo._


Tornando verso il palazzo, mentre Porthos nuotava ne’ suoi sogni di
baronia, d’Artagnan rifletteva alla miseria della povera natura umana
sempre scontenta di quel che ha, e bramosa di quel che non ha. Egli,
nei piedi di Porthos, si sarebbe considerato per l’uomo più avventurato
dell’universo, ed a Porthos per esser tale che mai mancava? sei lettere
da porre innanzi a tutti i suoi nomi, ed una piccola corona da far
dipingere su gli sportelli della sua carrozza.

«E dunque, diceva tra se d’Artagnan, starò tutta la vita guardando a
destra e a sinistra senza veder mai la faccia di un uomo completamente
felice?»

Quando faceva questa filosofica riflessione, parve che la Provvidenza
gli volesse dare una mentita. Appena Porthos lo aveva lasciato per dar
degli ordini al suo cuoco, ei si vide avvicinare Mousqueton. Il viso
del buon giovanotto, salvo una certa confusione che alla guisa di un
nuvolo d’estate velava anzi che oscurare la di lui fisionomia, sembrava
quello di un uomo pago al maggior segno.

«Ecco quel che cercavo, disse fra sè il tenente dei moschettieri, ma
ohimè! il poveretto non sa perchè io sia venuto qui».

Mousqueton se ne stava alquanto distante. Egli si mise sopra un sedile
e gli accennò si accostasse.

«Signore, disse colui profittando del permesso, ho da chiedervi una
grazia.

«Parla, mio caro, rispose d’Artagnan.

«È che non ardisco, ho paura che pensiate che la mia grande prosperità
mi abbia guastato.

«Sicchè sei soddisfatto?

«Soddisfatto quanto si possa, eppure potete esser cagione ch’io lo sia
anco di più.

«Di’ su, e s’è cosa che dipenda da me è conclusa.

«Oh! non dipende che da voi.

«Aspetto.

«Signore, la grazia che ho da domandarvi è di non più chiamarmi
Mousqueton, ma bensì Mouston. Dacchè ho l’onore di esser maggiordomo
di monsignore, ho preso quest’ultimo nome, ch’è più decoroso e vale a
farmi rispettare da’ miei subalterni... e sapete quanto è necessaria la
subordinazione alla servitù».

D’Artagnan sorrise: Porthos allungava i suoi nomi, e Mousqueton
scorciava il suo.

«Ebbene, signore? fece il buon domestico tremando.

«Oh! sì, mio caro Mouston, sta quieto, non dimenticherò la tua
richiesta, e se lo gradisci non ti darò nemmeno più del tu.

«Ah! se mi faceste un tale onore ne sarei riconoscente per tutta la
vita; ma forse sarebbe domandar troppo.

«Ohimè! disse fra sè d’Artagnan, è ben poco in cambio delle inattese
tribolazioni che reco a questo diavolaccio il quale mi ha accolto tanto
bene.

«E vossignoria si trattiene dimolto con noi? domandò Mousqueton a cui
il volto restituitosi in tutta la sua serenità diventava rosso come un
fringuello.

«Parto domani, mio caro.

«Ah! eravate venuto soltanto per cagionarci un rincrescimento?

«Ho paura di sì, fece d’Artagnan».

Ma tanto piano, che Mousqueton il quale si ritirava salutando non potè
udirlo.

Passava un rimorso in mente a d’Artagnan, sebbene gli si fosse
allargato il cuore: non gli spiaceva d’impegnare Porthos in una
carriera in cui sarebbero compromesse la di lui vita e le fortune,
giacchè Porthos arrischiava volentieri tutto questo pel titolo di
barone che desiderava da quindici anni; ma Mousqueton che bramava
solamente di esser chiamato Mouston, non era crudeltà il toglierlo
dalla vita deliziosa del suo granajo di abbondanza? Mentre quest’idea
lo confondeva, ricomparve Porthos.

«A tavola! disse questi.

«Come a tavola? domandò d’Artagnan, e che ore sono?

«È passata l’un’ora.

«La vostra abitazione è un paradiso, Porthos! uno vi dimentica il
tempo. Vi seguo, ma non ho fame.

«Venite; se non sempre si può mangiare, si può bere però; l’è una delle
massime del povero Athos di cui ho riconosciuta la solidità dacchè
m’infastidisco».

D’Artagnan, renduto ognora assai sobrio dal suo naturale guascone,
non sembrava convinto al pari del suo amico della verità dell’assioma
di Athos; nulladimeno fece quanto potè per mantenersi a petto del suo
accoglitore.

Frattanto, stando a veder mangiare Porthos, e bevendo egli benone, gli
tornava in capo l’idea di Mousqueton, e ciò con tanto più di forza
in quanto che quest’ultimo, senza servire a tavola (lo che sarebbe
stato al disotto della nuova sua posizione), compariva tratto tratto
sull’uscio, e dimostrava la sua gratitudine per il nostro tenente
mediante la qualità e la vecchiezza dei vini che faceva imbandire.

E quindi, allorchè alle frutta, Porthos dietro un cenno di d’Artagnan
ebbe mandati via i suoi domestici; e i due amici si trovarono soli,
d’Artagnan disse:

«Porthos, e chi vi accompagnerà nelle vostre campagne?

«Eh! Mousqueton, mi figuro, rispose Porthos con tutta naturalezza».

Codesto fu un colpo per d’Artagnan; già vedeva cambiarsi in ismorfie di
dolore, il benevolo sorriso del maggiordomo.

«Peraltro, replicò il tenente, Mouston non è più giovanissimo; inoltre
è ingrassato assai, ed avrà forse perduta l’abitudine ad un servizio
attivo.

«Lo so, ma mi sono assuefatto a lui; e poi, non vorrebbe lasciarmi, mi
è troppo affezionato.

«Oh, cieco amor proprio! pensò d’Artagnan.

«D’altronde, domandò Porthos, voi stesso non avete sempre al
vostro servizio il medesimo vostro lacchè, quel buono, bravo e
intelligente.... come lo chiamate?

«Planchet.... sì, l’ho ritrovato ma non è più lacchè.

«E ch’è egli?

«Con le mille sei cento lire, che voi sapete guadagnò all’assedio di La
Rochelle portando la lettera a lord de Winter, ha messo su una piccola
bottega in via dei Lombardi; ed è confettiere.

«Ah! è confettiere in via de’ Lombardi! ma come vi serve?

«Ha fatto qualche scappata, e teme di esser molestato.

«Ebbene! fece allora Porthos, se vi avessero detto che un giorno
Planchet farebbe scappare Rochefort, e che per questo voi lo
nasconderete?

«Non lo avrei creduto; ma che volete? gli avvenimenti cambiano gli
uomini.

«Non v’è cosa più vera; bensì quel che non cambia, o cambia soltanto
per megliorarsi, è il vino. Assaggiate di questo; è d’una qualità di
Spagna che il nostro amico Athos teneva in grande stima, è Xères».

Nel momento venne il maestro di casa a consultare il padrone sulla
disposizione di tavola dell’indomani ed anche sulla gita a caccia
progettata.

«Dimmi, Mouston, chiese Porthos, le mie armi sono in buono stato?»

D’Artagnan cominciò a battere il tempo sulla mensa onde celare il suo
imbarazzo.

«Le vostre armi, monsignore? rispose Mouston, e quali?

«Eh, per brio! la mia armatura.

«Che armatura?

«Da guerra.

«Ah!... sì!... almeno, credo.

«Domani te ne assicurerai, e le farai pulire se ne hanno bisogno. Qual
è il mio miglior cavallo da corsa?

«Vulcano.

«E per fatica?

«Bajardo.

«A te, quale piace?

«A me piace Rustaud; è una buona bestia e mi c’intendo a meraviglia.

«È robusto, non è così?

«Normanno, deciso Mecklembourg; andrebbe via di giorno e di notte.

«Ecco quanto ci bisogna. Farai mettere a sesto i tre animali, netterai
o farai nettare le mie armi; e di più, pistole per te ed un coltello da
caccia.

«Sicchè viaggeremo, monsignore? domandò Mousqueton digià sgomento».

D’Artagnan che sino allora aveva fatto qualche accordo vago, battè una
marcia.

«Anco di meglio! rispose Porthos.

«Si fa forse una spedizione? seguitò il maestro di casa, in cui le rose
delle guance principiavano a convertirsi in gigli.

«Si torna al servizio, replicò il padrone, procurando sempre di rendere
alle basette la perduta loro piega marziale».

Erano appena pronunciate quelle parole, che assalse Mousqueton un
tremito tale da scuotergli le gote impallidite. Esso guardò il tenente
dei moschettieri in atto indicibile, di tenera rampogna, cui d’Artagnan
non potè sopportare senza sentirsi commuovere; poi vacillò, e disse con
voce soffocata:

«Servizio? servizio nelle armate del re?

«Forse sì e forse no. Andiamo a rifar campagna, a cercare ogni sorta di
avventure, a riprendere finalmente la vita di tempo addietro».

L’ultima frase cadde addosso a Mousqueton come un fulmine.

Era quel _tempo addietro_ sì terribile che faceva l’adesso tanto dolce.

«Mio Dio! che sento? esclamò egli con uno sguardo anco più supplice del
primo diretto a d’Artagnan.

«Che volete, Mouston mio? fece questi, la fatalità....»

Ad onta della precauzione usata dal tenente di non dargli del tu e
scorciare il suo nome nel modo ch’egli ambiva, la botta fu tremenda per
Mousqueton, ed esso se ne andò tutto sconvolto dimenticando per fino di
chiuder l’uscio.

«Che caro Mouston! non cape nella pelle dal contento! disse
Porthos, nella medesima guisa in cui è da credere che don Chisciotte
incoraggisse il suo Sancho a por la sella al suo somaro per l’ultima
campagna».

I due amici rimasti soli si misero a discorrere dell’avvenire ed a
far mille castelli in aria. Il buon vino faceva vedere a d’Artagnan
una prospettiva tutta rilucente di doppie e dobloni, ed a Porthos il
cordone turchino ed il manto ducale. La sostanza si è che dormivano
sulla tavola quando venne la servitù ad invitarli ad andare a letto.

Nel dì seguente però Mousqueton fu alquanto riconfortato da d’Artagnan,
il quale gli annunziò come probabilmente la guerra avrebbe sempre luogo
nel cuor di Parigi, ed a portata del castello di Vallon ch’era vicino
a Corbeil, di Bracieux ch’era prossimo a Melun, e di Pierrefonds ch’era
tra Compiegne e Villers-Cotterets.

«Ma mi pare che in passato.... fece timidamente il buon servo.

«Oh! rispose il tenente, non si guerreggia più nella maniera che
si usava in passato: oggidì sono faccende diplomatiche; domandalo a
Planchet».

Mousqueton andò a ricercare quegli schiarimenti dall’antico suo
amico, che confermò appieno ciò che avea detto d’Artagnan, e soltanto
aggiunse:

«In questa guerra i prigionieri vanno a rischio di essere impiccati.

«Capperi! disse Mousqueton, credo che avrei più a caro l’assedio di la
Rochelle».

In quanto a Porthos, dopo aver fatto dal suo ospite ammazzare un
capriolo, dopo averlo condotto da’ suoi boschi alla sua montagna, e
da questa a’ suoi stagni, dopo avergli mostrato i suoi levrieri e la
muta, e Gredinet, insomma tutto quel che possedeva, e fattogli rifare
tre altri pasti de’ più lauti, chiese le sue istruzioni definitive a
d’Artagnan costretto a lasciarlo per continuare il suo viaggio.

«Ecco, amico carissimo, gli disse il messaggiero; mi occorrono quattro
giorni per andare di qui a Blois, uno per trattenermici, tre o quattro
per tornare a Parigi; sicchè, partite fra una settimana col vostro
equipaggio, smonterete in via Tiquetonne all’albergo della _Chevrette_,
e mi attenderete.

«Sta bene, rispose Porthos.

«Io vo a fare un giro senza speranza da Athos, seguitò d’Artagnan,
ma benchè io lo creda diventato inabile conviene osservare la creanza
cogli amici.

«Se vi andassi con voi, propose Porthos, ciò mi servirebbe di qualche
distrazione.

«Può essere, ed anche a me; ma non avreste più tempo da terminare i
vostri preparativi.

«È vero.... Dunque partite, disse Porthos, e coraggio. Per me sono
tutto ardore.

«A meraviglia! fece il tenente».

E si separarono sui limiti della tenuta di Pierrefonds, sino
all’estremità della quale Porthos volle accompagnare l’amico.

«Almeno non sarò solo, ruminava fra sè d’Artagnan. Quel diavolaccio
di Porthos è ancora in tutto il vigore. Se viene Athos saremo tre a
farci beffe di Aramis, quell’uomo tutto riserbatezza e pien di raggiri
amorosi».

Da Villers-Cotterets egli scrisse al ministro:

      «Monsignore,

  «Ne ho di già uno da offrire a Vostra Eccellenza, e quello vale per
  venti uomini. Io parto per Blois, perchè il conte di La Fère abita
  nel castello di Bragelonne nelle vicinanze di questa città».

E s’incamminò verso Blois, chiaccherando con Planchet, che nel
lunghissimo viaggio gli giovava assai a distrarsi.



XV.

_Due teste da angioli._


Si trattava di un lungo cammino, ma d’Artagnan non se ne prendeva
pensiero; sapeva che i suoi cavalli si erano rinfrescati alle ben
fornite mangiatoie del signore de Bracieux. Si avventurò quindi con
tutta confidenza alle quattro o cinque giornate di viaggio che aveva da
fare, seguito dal fido Planchet.

Siccome già dicemmo, quei due uomini, per iscacciare la noja del
tragitto, andavano uno accosto all’altro e ciarlavano sempre insieme.
D’Artagnan a poco a poco si era spogliato della qualità di padrone, e
Planchet aveva deposta affatto la pelle da servitore. Era un accorto
volpone, che dopo l’improvvisa sua dignità borghese spesso aveva
ricordati con rammarico i bei pasti di sulle strade maestre, non meno
che la conversazione e la brillante compagnia dei gentiluomini, e
che sentendo di avere un certo valore personale, pativa nel vedersi
deprezzare dal perpetuo contatto di genti d’idee sciocchissime.

S’inalzò pertanto in breve tempo, verso di quello che tuttavia chiamava
suo padrone, al rango di confidente. D’Artagnan da molti anni non aveva
sfogato il proprio cuore. Accadde che ritrovandosi, que’ due soggetti
si aggiustarono fra di loro egregiamente.

E d’altronde Planchet non era un compagno di avventure del tutto
volgare: era uomo di buon consiglio; benchè non cercasse il pericolo,
non retrocedeva in faccia ai colpi, secondo spesso d’Artagnan aveva
avuto occasione di accorgersene; finalmente era stato soldato, e
le armi nobilitavano; e poi, a di più di tutto questo, se Planchet
aveva d’uopo di d’Artagnan, neppure era egli a lui inutile. Talchè
all’incirca sul tenore di due buoni amici giungevano essi nel Blaisois.

Cammin facendo, d’Artagnan, scuotendo il capo, e reduce ognora a quel
pensiero che incessantemente l’occupava, diceva:

«So che il mio tentativo presso Athos è inutile ed assurdo, ma debbo
questo atto di convenienza al mio antico amico, uomo che aveva in sè
quanto abbisogna al più nobile e generoso di tutti gli uomini.

«Oh! il signor Athos era un famoso gentiluomo! disse Planchet.

«Non è così? riprese d’Artagnan.

«Da lui piovevano danari, come dal cielo la grandine, tirò innanzi
Planchet ponendo mano alla spada con atto veramente regale. Vi
rammentate, signor mio, del duello cogli Inglesi nel recinto dei
_Carmelitani_? Ah! com’era bello e magnifico il signor Athos quando
disse all’avversario: — Voleste ch’io dicessi il mio nome; peggio per
voi, mentre ora sarò costretto ad uccidervi! — Io gli stava vicino e lo
intesi: sono precisamente le sue parole. E quello sguardo quando toccò
l’avversario conforme aveva avvisato, e questo cascò giù senza nemmeno
dire _hoi!_ Lo ripeto, sì, sì, era un famoso gentiluomo!

«Va bene, fece d’Artagnan, codesto è vero, è Vangelo, ma egli avrà
perduti tutti i suoi pregi per un solo difetto.

«Me ne ricordo, gli piaceva bere.... o piuttosto beveva.... ma non come
gli altri, no! I suoi occhi non esprimevano niente quando si avvicinava
il gotto alle labbra. In coscienza, non vi fu mai silenzio tanto
parlante. Per me, mi pare di udirlo a balbettare: — Liquore, entra e
discaccia il mio dolore! — E come vi riduceva in pezzi il piede di un
bicchierino o il collo di un fiasco! per codesto non aveva l’eguale.

«Or bene, soggiunse d’Artagnan, oggi ecco il tristo spettacolo che si
appresta. Quel nobile gentiluomo d’occhio sì fiero, quel bel cavaliere
sì brillante sotto le armi che tutti si meravigliavano come in mano
tenesse una semplice spada anzichè il bastone del comando, si sarà
trasformato in un vecchio curvo, con il naso arrossato e il ciglio
piagnoloso. Lo troveremo disteso sull’erba, d’onde ci guarderà con
le pupille fosche, e forse non ci ravviserà. Iddio mi è testimone,
Planchet, che sfuggirei così triste spettacolo se non m’importasse di
provare il mio rispetto a quell’ombra illustre del conte di La Fère che
tanto a noi fu caro».

Planchet tentennò la testa e non fiatò; di leggieri acorgevasi com’egli
si associasse ai timori del suo padrone.

«E poi, ripigliò a dire il tenente, la decrepitezza, giacchè ormai
Athos è vecchio; forse la miseria, giacchè avrà trascurato le poche
sostanze che aveva; il sordido Grimaud più muto che mai e più ubbriaco
del suo superiore.... Planchet, son cose che mi spezzano il cuore!

«E’ mi par di esserci, e di vederlo là, balbuziente e vacillante....,
fece Planchet in tuono dolentissimo.

«Lo confesso, replicò d’Artagnan, l’unica mia paura si è che Athos
accetti le mie proposizioni in un momento di ebbrezza bellicosa. Per me
e per Porthos sarebbe grande disgrazia, e specialmente sommo imbarazzo;
ma sul primo del suo trasporto lo lasceremo, e basta; tornando in sè
stesso capirà.

«In ogni caso, soggiunse Planchet, non tarderemo a venire in chiaro di
tutto, giacchè io credo che quelle mura tanto alte che si arrossano al
sole sul tramonto siano appunto di Blois.

«È probabile, e quei campanili appuntati e scolpiti che si scorgono
laggiù a sinistra nel bosco somigliano a quanto io ho inteso dire di
Chambord.

«Entreremo in città? domandò Planchet.

«Senza dubbio, per prendere informazioni.

« Signore, se v’entriamo, vi consiglio di assaggiare certi vasetti di
crema de’ quali ho udito discorrere di molto, ma che disgraziatamente
non si possono far venire a Parigi, e bisogna mangiarli là sul luogo.

«Ne mangeremo, sta quieto».

Nel momento uno di quei gravi carri tirati da’ buoi che portano la
legna tagliata nelle belle macchie del paese sino ai porti della
Loira, sboccò da un sentiero pieno di buche sulla strada che battevano
i nostri due cavalcanti. Lo accompagnava un uomo, che con una lunga
pertica avente in cima un chiodo pungolava i lenti animali.

«Ehi, galantuomo! gridò a questo d’Artagnan.

«Che posso fare per servirvi?» disse il villico con la purezza del
linguaggio particolare alle genti di quella contrada, e che farebbe
vergognare cittadini puristi della piazza della Sorbona e della via
dell’Università.

«Cerchiamo la casa del signor conte di la Fère: conoscete questo nome
tra quelli dei signori delle vicinanze?»

Il contadino, udendo tal nome, si levò il cappello.

«Signori, questa legna ch’io trasporto è sua; l’ho tagliata nel suo
bosco, e la conduco al castello».

D’Artagnan non volle interrogare colui: temeva forse di sentir ripetere
da un altro ciò ch’egli stesso aveva detto a Planchet.

«Il _castello!_ fece tra sè, capisco: Athos non ha pazienza, ed avrà
obbligato come Porthos i suoi contadini a chiamar lui monsignore
e castello la sua bicocca; aveva la mano pesante, il caro Athos,
specialmente dopo aver bevuto».

I manzi andavano adagio. D’Artagnan e Planchet camminavano dietro al
carro; presto s’infastidirono.

«Sicchè, è questa la strada? chiese il tenente al bifolco, e possiamo
seguirla senza rischio di smarrirci?

«Oh! signor sì; e potete inoltrarvici invece di annojarvi a venire
appresso a bestie così lente. Avete a far soltanto mezza lega, e
distinguerete un castello a man destra; di qua non si vede a motivo
di una fila di pioppi che lo nasconde. Quello non è Bragelonne, è la
Vallière. Passerete più avanti, ma a tre tiri di schioppo più in là v’è
una gran casa bianca, col tetto di lavagne, fabbricata sopra un poggio
adombrato da enormi sicomori, è quella del signor conte di la Fère.

«E la mezza lega è alla lunga? chè nel nostro bel paese di Francia vi
sono leghe e leghe!

«Dieci minuti di cammino, signore, per le zampe sottili del vostro
cavallo».

D’Artagnan ringraziò il boaro e diede di sprone. Indi, turbato a suo
malgrado dall’idea di rivedere quell’uomo singolare che tanto lo aveva
amato, che tanto aveva contribuito coi consigli e con l’esempio alla
sua educazione di gentiluomo, rallentò un poco il passo, e continuò ad
avanzarsi, china la testa a modo di un gran pensatore.

Planchet pure aveva trovato nell’incontro e nell’attitudine di quel
villico materia a gravi riflessioni. Giammai, nè in Normandia, nè
nella Franche-Comté, nè in Artois, nè in Piccardia, contrade da esso
particolarmente abitate, non aveva veduto presso i campagnuoli quel
contegno disinvolto, l’aspetto civile, la favella purissima. Era quasi
tentato di credere di essersi imbattuto in qualche gentiluomo al pari
di lui della _Fronda_, che per causa politica fosse costretto a pari
suo a travestirsi.

In breve, alla svolta, apparve agli occhi de’ nostri viandanti,
e secondo aveva avvertito il bifolco, il castello di La Vallière,
e poscia ad un quarto di lega circa la casa bianca contornata da’
sicomori si mostrò sul campo di un folto gruppo di alberi che la
primavera impolverava con una neve di fiori.

A tal vista d’Artagnan, il quale per solito poco si comuoveva, sentiva
uno strano dubbio penetrargli nel cuore, tanto potenti sono in tutto
il corso della vita quelle rimembranze di gioventù. Planchet, che non
aveva gli stessi motivi d’impressione, sbigottito dal mirare il suo
padrone così agitato, guardava a vicenda e l’abitazione e il tenente.

Quest’ultimo mosse ancora alcuni passi innanzi, e si trovò di faccia ad
un cancello lavorato con tutto il gusto di quell’epoca.

Dal cancello si scorgevano degli orti mantenuti con la massima cura, un
cortile assai spazioso in cui battevano i piedi impazienti varj cavalli
scossi, retti da servi con diverse livree, ed una carrozza alla quale
erano attaccati due cavalli.

«O facciamo sbaglio, o colui ci ha ingannati, disse d’Artagnan; non
può essere che colà abiti Athos. Dio mio! fosse morto? il podere
appartenesse a qualcuno del suo nome? Smonta, Planchet, e va ad
informarti; per me confesso che non ne ho coraggio».

Planchet smontò.

«E aggiungerai, che un gentiluomo passando di qui brama aver l’onore di
riverire il signor conte di la Fère, e se sei contento dei dettagli che
ottieni, allora dà pure il mio nome».

Planchet, trascinando per la briglia il suo cavallo, si avvicinò alla
porta, fece suonare il campanello, e tosto si presentò a riceverlo un
uomo di servizio, con i capelli bianchi e il personale diritto ad onta
dell’età.

«Dimora qui il signor conte di la Fère? domandò Planchet.

«Sì, signore, gli rispose il domestico, poichè Planchet non indossava
la livrea.

«È un signore ritiratosi dal servizio militare, non è vero?

«Precisamente.

«E che aveva un lacchè chiamato Grimaud, seguitò Planchet, che con la
sua abituale prudenza non credeva mai troppe le informazioni.

«Il signor Grimaud è per adesso assente dal castello, replicò l’altro
cominciando a squadrarlo da capo a piedi, essendo poco avvezzo a simili
interrogazioni.

«Allora! esclamò Planchet tutto allegro, capisco ch’è proprio il conte
di la Fère che si cerca. Dunque favorite aprirmi, giacchè desidererei
annunziare al signor conte che il mio padrone, gentiluomo suo amico, è
qua e vorrebbe salutarlo.

«Perchè non lo dicevate prima? fece il domestico schiudendo il
cancello; ma il vostro padrone dov’è?

«È dietro a me, mi viene appresso».

Il servitore, avendo aperto, precedè Planchet, e questi fe’ cenno a
d’Artagnan, che palpitando più che mai entrò a cavallo nel cortile.

E Planchet, quando fu sul verone, udì una voce che usciva da una sala a
terreno dicendo:

«Ebbene! dov’è quel gentiluomo, e perchè non lo conducete qua?»

La voce, arrivando sino a d’Artagnan, ridestò nel suo cuore mille
sentimenti, mille ricordanze già dileguatesi. Esso saltò giù da
cavallo, mentre il suo compagno di viaggio col sorriso sul labbro si
avanzava verso il proprietario della casa.

«Ma lo conosco io quel giovanotto! disse Athos comparso sulla soglia.

«Oh! sì, signor conte, mi conoscete, e vi conosco anch’io. Sono
Planchet, Planchet, sapete pure....»

Ma l’onesto servo non potè dir altro, tanto gli aveva fatto specie
l’inatteso aspetto di quel gentiluomo.

«Come, Planchet! esclamò Athos, è forse qui d’Artagnan?

«Eccomi, amico, eccomi, Athos! gridò d’Artagnan balbettando e quasi
barcollando».

A tali parole apparve un’emozione visibilissima sopra il bel volto e
i quieti lineamenti di Athos. Ei fece sollecito due passi verso il
tenente senza lasciarlo d’occhio, e se lo strinse teneramente fra
le braccia. Questi, calmatosi alquanto, premè lui al seno con una
cordialità che gli brillava in lacrime nel ciglio.

Athos lo prese per mano e lo guidò in sala, dov’erano riunite parecchie
persone. Tutti si alzarono.

«Vi presento, disse Athos, il signor cavalier d’Artagnan, tenente nei
moschettieri di Sua Maestà, amico affezionato, ed uno dei più prodi ed
amabili gentiluomini ch’io abbia mai conosciuti».

D’Artagnan, secondò l’uso, ricevè i complimenti degli astanti, li
restituì come meglio potè, prese posto nel circolo, e mentre la
conversazione, interrotta un momento, diventava di nuovo generale, si
mise ad esaminar Athos.

Cosa strana! Athos era appena invecchiato. I suoi begli occhi, liberi
da quel cerchio paonazzo che segnano le vigilie e le orgie, sembravano
più grandi e di un fluido più puro che mai: il viso un poco allungato
aveva acquistato in maestosità ciò che perduto aveva in agitazione
febbrile; la mano, sempre di mirabile modello e nerboruta, non
ostante la sottigliezza delle carni, rispondeva sotto i manichini di
merletti, come certe mani del Tiziano e di Van Dyck; era più svelto
che non fosse in passato; le spalle ben distese e larghe dinotavano
vigore non comune; i lunghi capelli neri, frammischiati da pochissimi
grigi, gli cadevano elegantemente sull’omero ondulandosi come per una
piega naturale; la voce era sempre fresca quasi che avesse avuto soli
venticinque anni; e i denti superbi conservatisi bianchi ed intatti
davano un indicibile incanto al suo sorriso.

Frattanto gli ospiti del conte, accortisi dalla impercettiblle
freddezza della conversazione che i due amici erano ansiosi di trovarsi
soli, cominciarono a preparare con l’arte e la cortesia dei tempi
antichi la loro partenza, quell’affare gravissimo delle genti d’alta
società, quando vi erano genti di alta società; ma allora echeggiò nel
cortile grande susurro di cani che abbajavano, e varie persone dissero
insieme:

«Ecco Raolo che ritorna!»

Al nome di Raolo, Athos guardò d’Artagnan, e sembrò che aspettasse di
discernere i segni di curiosità che questo nome doveva fargli nascere
sul volto. D’Artagnan però non capiva ancor nulla; era malamente
rinvenuto dal suo primo bagliore. Sicchè si girò quasi macchinalmente,
quando entrò nella stanza un bel giovane di quindici anni, vestito
con semplicità, ma con un gusto squisito, alzando con molta grazia il
cappello adorno di lunghe penne rosse.

Eppure quel nuovo personaggio del tutto inaspettato lo sorprese. Un
mondo d’idee novelle gli corse alla mente, spiegandogli con tutte le
risorse del suo intendimento il cambiamento di Athos che sino allora
gli era sembrato incomprensibile. Una singolare somiglianza tra il
gentiluomo e il garzoncello gli schiariva il mistero di quella vita
rigenerata. Aspettò guardando attento e stando in ascolto.

«Eccovi di ritorno, Raolo! disse il conte.

«Sì, signore, rispose rispettosamente il giovane; ho disimpegnata
l’incombenza da voi datami.

«Ma che avete, Raolo? fece Athos con premura; siete pallido, mi parete
scomposto.

«Gli è, replicò il sopraggiunto, ch’è accaduta una disgrazia alla
nostra piccola vicina.

«Madamigella di La Vallière? gridò con impeto Athos.

«Che cosa? che cosa? domandarono parecchi.

«Ella passeggiava con la sua Marcellina nel recinto dove i taglialegne
troncano gli alberi, ed io, passando a cavallo, l’ho veduta e mi sono
fermato. Essa pure mi ha visto, e nel volere saltar giù da un monte di
legne dov’era salita, poverina! le è mancato il piede.... non ha potuto
alzarsi; io credo si sia rotta la noce del piede.

«Oh mio Dio! disse Athos, e madama di S. Remy, sua madre, è stata
avvisata?

«No, signore; madama di S. Remy è a Blois presso la signora duchessa
d’Orleans. Io ho avuto paura che i primi soccorsi fossero stati
apprestati con poca abilità, e correvo a domandarvi consiglio.

«Mandate presto a Blois; o meglio, pigliate il vostro cavallo e
andateci da per voi».

Raolo s’inchinò.

«Ma dov’è Luigia? continuò il conte.

«L’ho portata sin qui, e l’ho posta dalla moglie di Charlot, che
frattanto le ha fatto mettere i piedi nell’acqua ghiacciata».

Dopo questa spiegazione, la quale aveva dato un pretesto per alzarsi,
gli ospiti di Athos da esso si accomiatarono. Il vecchio duca di Barbò
soltanto, che trattava familiarmente in forza di un’amicizia di venti
anni con la casa di La Vallière, andò a veder la Luigetta che piangeva,
e che nel mirare Raolo terse i begli occhi e subito sorrise.

Egli propose di condur seco nella sua carrozza la piccola Luigia.

«Avete ragione, disse Athos, così sarà più presto presso a sua madre.
In quanto a voi, Raolo, sono persuaso che avete agito da scappato e ne
avete un po’ di colpa.

«Oh! no, no! ve l’assicuro»; esclamò la ragazzina, mentre il ragazzo
impallidiva al concetto di poter essere causa di quella disgrazia.

«Ah! vi assicuro....» questi balbuziò.

«Ma tanto andrete a Blois, soggiunse il conte, presenterete a madama di
S. Remy le vostre scuse e le mie, e poi verrete indietro».

Sulle guancie del giovanetto ricomparvero i bei colori; consultato con
uno sguardo il signor di la Fère, riprese nelle robuste sue braccia la
fanciullina che posava su le di lui spalle la testa indolenzita eppur
sorridente, l’adagiò bene e meglio in carrozza, indi saltato a cavallo
con l’eleganza e l’agilità di un esperto cavallerizzo, e salutati Athos
e d’Artagnan, si allontanò velocemente, andando a lato allo sportello
del legno, nell’interno del quale rimasero fissi costantemente i di lui
occhi.



XVI.

_Il castello di Bragelonne._


D’Artagnan durante quella scena era restato con gli occhi stralunati
e la bocca aperta; aveva riscontrate le cose sì poco conformi alle sue
previdenze, che la meraviglia lo aveva istupidito.

Athos lo prese per un braccio e lo condusse in giardino.

«Mentre ci si allestisce la cena, disse sorridendo, non vi increscerà,
mi figuro, di dilucidare questo mistero che vi dà da pensare?

«Così è, signor conte», rispose d’Artagnan, il quale a grado a grado
aveva sentito riassumersi da Athos l’immensa superiorità su di lui
avuta sempre.

Athos lo guatò dolcemente.

«Prima di tutto, caro d’Artagnan, ei replicò, qui non v’è signor conte.
Se vi ho chiamato cavaliere, è stato per presentarvi ai miei commensali
e onde sapessero chi siete; ma per voi sono, lo spero, sempre Athos,
vostro compagno ed amico. Preferite forse il tuono cerimonioso perchè
mi siete meno affezionato?

«Oh, Dio me ne liberi! fece il Guascone con uno di quei lieti slanci di
gioventù che di rado ritrovansi nell’età matura.

«Dunque torniamo alle nostre abitudini, e per cominciare siamo
schietti, principiò il conte. Qui tutto vi sorprende?

«Al maggior segno.

«Ma più di tutto, seguitò Athos sogghignando, io stesso: confessatelo.

«Ve lo confesso.

«Sono ancor giovane, non è vero, nonostante i miei quarantanove anni?
sono tuttavia in grado da riconoscermi.

«All’incontro! gridò il tenente pronto a portare all’eccesso la
raccomandazione di Athos di trattare con franchezza, non lo siete per
niente!

«Ah! intendo, fece Athos, ed arrossiva alquanto, tutto ha il suo fine,
la follìa come tutt’altro.

«E poi, mi pare sia accaduto un cambiamento nel vostro stato di
fortuna; avete un’ottima abitazione; questa casa, mi figuro, è vostra.

«Sì, è il piccolo podere che vi dissi aver ereditato quando lasciai il
militare.

«Avete parco, cavalli, equipaggi....»

Athos sorrise.

«Mio caro, il parco è di una ventina di jugeri, dei quali prendono
porzione gli orti e i fabbricati; i cavalli sono due, s’intende che
non conto il cortaldo del mio servitore; gli equipaggi si riducono a
quattro cani da macchia, due levrieri e un cane da guardia.... Ed anche
tutta questa muta di lusso non è per me.

«Sì, comprendo, è per il giovanetto, per Raolo, fece d’Artagnan
guardando sott’occhi Athos.

«Avete indovinato, amico mio, disse questo.

«E quegli è forse vostro commensale, vostro figlioccio, vostro
parente... Oh! come siete variato, Athos mio!

«È un orfanello, abbandonato da sua madre presso un povero curato di
campagna; io l’ho mantenuto, allevato.

«E dev’esservi attaccato assai?

«Credo che mi ami come se fossi suo padre.

«È specialmente molto grato?

«Oh! la gratitudine poi è scambievole, disse Athos, io gli debbo quanto
egli deve a me, e se a lui non lo dico, lo dico però a voi, son io
quello che abbia più obbligazioni.

«E come mai? fece il moschettiere attonito.

«Eh sì! egli fu che in me cagionò la variazione che osservate: mi
risecchivo come un povero albero isolato che a nulla abbia rapporto
sulla terra; non v’era se non se un affetto profondo che potesse farmi
rimettere radice nella vita: un’amante? ero troppo vecchio; amici? non
vi avevo più meco. Ebbene! quel fanciullo mi fece ritrovare tutto ciò
che avevo perduto. Non mi sentivo più il coraggio di campare per me,
campai per lui. Per un fanciullo le lezioni son molto, l’esempio val di
più. Io gli ho dato l’esempio. Dei vizi che avevo, mi sono corretto;
le virtù che non possedevo, ho finto di possederle. Sicchè non credo
illudermi, d’Artagnan, ma Raolo è destinato ad essere un gentiluomo
compito quando sia ancora al nostro secolo impoverito concesso di
darne».

D’Artagnan guardava Athos con sempre maggiore ammirazione.

Passeggiavano insieme sotto un viale fresco e ombroso, ove entravano
obliquamente alcuni raggi di sole sul tramonto. Uno di questi raggi
dorati illuminava il volto di Athos, e sembrava che i suoi occhi
a vicenda rendessero quel fuoco tepido e quieto della sera che
ricevevano.

Venne a presentarsi allo spirito di d’Artagnan l’idea di milady.

«E siete felice?» domandò all’amico.

Le pupille penetranti di Athos si volsero in fondo al cuore a
d’Artagnan, e parve vi leggessero il suo concetto.

«Felice per quanto sia dato ad una creatura di Dio di esserlo in questo
mondo... ma terminate di esprimere il vostro pensiero, non me lo avete
detto tutto.

«Siete terribile, Athos! nulla si può occultarvi. Or bene, sì, volevo
domandarvi se avete talvolta qualche improvviso impulso di terrore che
somigli....

«A rimorsi? continuò Athos, finisco io la vostra frase. Forse sì, forse
no. Non ho rimorsi, perchè quella donna, io credo, meritava la pena
che ha subita; non ho rimorsi, perchè se l’avessimo lasciata vivere
ella avrebbe indubitatamente proseguita l’opera sua di distruzione; ma
ciò non vuol dire ch’io sia convinto che avessimo diritto di far ciò
che facemmo. Forse qualunque sangue versato vuole un’espiazione. Ella
compiè la sua; chi sa che a noi non rimanga da compiere la nostra?

«Io pure con voi lo pensai alcune volte, replicò il tenente.

«Aveva un figlio, colei?

«Sì.

«Ne udiste parlare?

«Giammai.

«Deve avere ventitrè anni, borbottò Athos, io penso spesso a quel
giovane.

«È singolare! io lo aveva dimenticato».

Athos fece un sorrisetto malinconico.

«E di lord de Winter ne aveste notizia?

«So ch’era in gran favore presso il re Carlo I.

«Avrà seguitata la di lui sorte, che in questo momento è cattiva. Ecco,
d’Artagnan, con questo si torna a quel ch’io vi diceva poc’anzi; egli
lasciò scorrere il sangue di Strafford; il sangue chiama sangue. E la
regina?

«Qual regina?

«Enrichetta d’Inghilterra, figlia di Enrico IV.

«È al Louvre, come sapete.

«Sì, e sprovvista di tutto, non è vero? Dicono che nei forti freddi
di quest’inverno la sua figliuola ammalata abbia dovuto restarsene a
letto per mancanza di legna. Capite un po’! (e Athos si stringeva nelle
spalle) la figlia di Enrico IV a tremare per non avere due fascine
da accendere! Perchè non venne a chiedere ospitalità al primo di noi,
invece di domandarla a Mazzarino? nulla le sarebbe mancato.

«La conoscete voi, dunque, Athos?

«No, ma mia madre la vide bambina. Vi ho detto mai che mia madre era
stata dama d’onore di Maria de’ Medici?

«No, mai; voi non le dite codeste cose.

«Oh! anzi sì, vedete pure.... ma bisogna che ne capiti l’occasione.

«Porthos non l’aspetterebbe con tanta pazienza, fece d’Artagnan
sorridendo.

«Ognuno ha il suo naturale, mio caro. Porthos, non ostante un poco di
vanità, ha qualità eccellenti. Lo avete rivisto?

«L’ho lasciato cinque giorni sono», rispose d’Artagnan.

E raccontò con tutta la vivacità dell’indole sua da Guascone le
magnificenze di Porthos nel suo castello di Pierrefonds, e mentre
lacerava l’amico mandò due o tre botte all’ottimo signor Mouston.

«Ammiro, replicò Athos sogghignando a quel brio che gli ricordava i
loro giorni felici, ammiro che in addietro noi abbiamo formato a caso
una società d’uomini ancora tanto ben collegati uno con l’altro a
malgrado di venti anni di separazione. L’amicizia pone delle radici
molto profonde nei cuori onesti, d’Artagnan; credete a me, i malvagi
soli negano l’amicizia, perchè non la comprendono. Ed Aramis?

«Ho visto anco lui, ma mi è sembrato freddo.

«Ah! avete veduto Aramis? riprese Athos fissando sul tenente un
occhio indagatore; ma fate a dirittura un pellegrinaggio al tempio
dell’Amistà, come direbbero i poeti.

«Eh! sì...., fece d’Artagnan imbarazzato.

«Aramis, vi è già noto, continuò Athos, è naturalmente freddo; e poi, è
sempre confuso negl’intrighi di donne.

«Credo che ne abbia nel momento uno complicatissimo» disse il tenente.

L’altro non rispose.

Non solo Athos non rispose, ma anche cambiò conversazione, ed
accennando all’amico ch’eran tornati vicini al palazzo dopo un’ora di
passeggio:

«Ecco, disse, abbiamo già fatto il giro de’ miei dominj.

«In essi tutto è bello, e specialmente dimostra il gentiluomo», replicò
d’Artagnan.

Nel momento si udì camminare un cavallo.

«È Raolo che ritorna, disse Athos, avremo notizie della povera
fanciulla».

Realmente comparve al cancello il giovanetto, e rientrò nel cortile
tutto coperto di polvere; indi smontando dal cavallo, e consegnando
questo ad una specie di palafreniere, venne a salutare il conte ed il
tenente con rispettosa civiltà.

«Questo signore, fece Athos volto a Raolo, e posando la mano sulla
spalla a d’Artagnan, è il cavaliere d’Artagnan di cui mi avete inteso
spesso a discorrere».

E Raolo direttosi al tenente, e riveritolo più profondamente, soggiunse:

«Il signor conte ha pronunziato davanti a me il vostro nome come un
esempio ogni volta che gli è occorso di citare un gentiluomo generoso
ed intrepido».

Il piccolo complimento scese dolcissimo al cuore di d’Artagnan. Questi
porse la mano a Raolo rispondendogli:

«Giovane amico mio, tutti gli elogi che di me si fanno devono ritornare
al signor conte, giacchè egli formò la mia educazione in tutte le cose,
e non è sua colpa se l’allievo abbia profittato poco o punto; ma egli
si rifarà sopra di voi, ne sono certo. Mi piace il vostro aspetto,
Raolo, ed ho gradita la vostra cortesia».

Athos fu più contento che non sapremmo esprimere; mirò in viso
d’Artagnan con riconoscenza: poi volse sopra Raolo uno di quegli
stranissimi sorrisi di che i ragazzi vanno tanto gloriosi.

«Adesso, ripigliò il tenente a cui non era sfuggito quel giuoco alla
mutola, adesso ne sono più che sicuro.

«Ebbene? domandò Athos, spero che lo inconveniente accaduto non abbia
avuto conseguenze?

«Non si sa ancora niente: il medico nulla ha potuto dire a motivo
dell’enfiagione; teme però che abbia sofferto qualche nervo.

«E non vi siete trattenuto sino a più tardi, presso madama di S. Remy?

«Avrei dubitato di non esser qui all’ora vostra di pranzo e di farvi
aspettare», rispose Raolo.

In quel punto un ragazzetto mezzo contadino e mezzo lacchè venne ad
avvisare che la cena era in tavola.

Athos condusse il suo commensale nel salotto da mangiare,
semplicissimo, ma avente le finestre che da un lato davano sul giardino
e dall’altro sopra una stufa ove crescevano fiori magnifici.

D’Artagnan diede un’occhiata al servito; il vasellame era superbo;
ben si scorgeva esser tutta vecchia argenteria di famiglia. Sopra una
credenza stava un bellissimo mesciroba dello stesso metallo. Ei si
fermò a contemplarlo.

«Oh! questo è fatto egregiamente! disse poi.

«Sì, fece Athos, è un capolavoro di un sommo artista fiorentino
chiamato Benvenuto Cellini.

«E la battaglia che rappresenta?

«È quella di Marignano; è il momento in cui uno de’ miei antenati dà
la sua spada a Francesco I che aveva rotta la sua. Si fu in quella
circostanza che Enguerrando di La Fère, mio avo, venne fatto cavaliere
di S. Michele. Inoltre, dopo quindici anni, il re, che non si era
dimenticato di aver combattuto ancor tre ore col brando dell’amico
Enguerrando senza che questo si rompesse, gli donò quel mesciroba ed
una spada che forse avrete vista in addietro da me e ch’è ugualmente un
bellissimo capo di oreficeria. Quello era il tempo dei giganti, seguitò
Athos, noi siamo tanti nani a petto a quegli uomini.... Sediamo,
d’Artagnan, e ceniamo. Oh! (avvertì quindi al piccolo lacchè che aveva
messa in tavola la zuppa) chiamate Carletto».

Il ragazzo uscì, e indi a un momento venne il domestico a cui i due
viaggiatori si erano diretti al loro arrivo.

«Caro Carletto, gli disse Athos, vi raccomando particolarmente, per
tutto il tempo che resterò qui, Planchet, servo del signor d’Artagnan.
Gli piace il vino buono, voi avete la chiave della cantina; egli ha
dormito per un pezzo malamente, e non gli deve increscere di aver un
buon letto: procurateglielo, ve ne fo premura».

Carletto fece un inchino e se ne andò.

«Anch’esso è un brav’uomo, disse il conte, mi serve oramai da diciotto
anni.

«Voi pensate a tutto, replicò d’Artagnan, e vi ringrazio per Planchet,
mio caro Athos».

A questo nome Raolo spalancò gli occhi, come per assicurarsi che il
tenente parlasse propriamente al conte.

«Raolo, gli disse Athos sorridendo, questo nome vi sembra bizzarro?
Era il mio da guerra, quando il signor d’Artagnan, due valorosi amici,
ed io, facevamo prodezze a la Rochelle sotto il defunto ministro, e
sotto Bassompierre ch’è morto esso pure. Il signor d’Artagnan si degna
conservarmi codesto nome di amicizia, e ad ogni volta che l’odo il mio
cuore ne esulta.

«Quel nome era celebre, seguitò il tenente de’ moschettieri, e ottenne
un giorno gli onori del trionfo.

«Che intendete dir mai? domandò Raolo con curiosità.

«Davvero non lo so» fece Athos.

«Che? vi siete scordato del bastione S. Gervasio, e del tovagliolo
di cui tre palle fecero una bandiera? Io ho la memoria migliore della
vostra, me ne sovvengo, ed ora, giovanotto, vi racconterò la faccenda».

E d’Artagnan narrò a Raolo tutta la storia del bastione, siccome Athos
aveva narrata a lui quella del suo avolo.

A tal relazione parve al giovanetto di udire il racconto di uno dei
fatti descritti dal Tasso, o dall’Ariosto, spettanti ai prestigiosi
tempi della cavalleria.

«Ma ciò che non vi dice d’Artagnan, soggiunse Athos, si è ch’egli era
uno de’ migliori combattenti dell’epoca; garretto di ferro, pugno
d’acciajo, colpo d’occhio sicuro, sguardo di fuoco, ecco quanto
offeriva all’avversario; aveva diciotto anni, tre anni più di voi,
Raolo, la prima volta ch’io lo vidi all’opra e contro ad uomini
sperimentati.

«Ed il signor d’Artagnan fu vincitore? domandò Raolo, a cui brillavano
le pupille durante quella conversazione e sembrava implorassero
ulteriori dettagli.

«Ne uccisi uno, se non isbaglio, disse il tenente interrogando Athos
collo sguardo, l’altro lo disarmai, o lo ferii, non mi ricordo....

«Sì, lo feriste.... Ah, eravate un fiero atleta!

«Ed ancora non ho perduto di troppo; contento, riprese d’Artagnan con
la risatina da Guascone, ed ultimamente pure....»

Athos lo fissò in viso in maniera che gli chiuse la bocca, e disse a
Raolo:

«Vuo’ che sappiate voi, mio caro, che vi credete spada fina, e
nella vostra vanità potreste un giorno soffrirne qualche spiacevole
disinganno, vuo’ che sappiate quanto è pericoloso l’uomo che congiunge
il sangue freddo all’agilità, giacchè non potrei mai ritrovarne un più
chiaro esempio: pregate domani il signor d’Artagnan, qualora non sia
troppo stanco, di darvi una lezione.

«Diamine! ripicchiò d’Artagnan, voi, Athos, siete pure buon maestro,
soprattutto per le qualità che di me vantate. Anche oggi Planchet
mi parlava del famoso duello del recinto dei Carmelitani con lord
de Winter ed i suoi compagni.... Giovanetto! ei proseguiva, qui
dev’esservi in qualche luogo una spada, che spesse fiate io chiamai la
prima del reame.

«Oh, avrò guastata la mia mano con quel fanciullo! fece Athos.

«Mio caro, vi sono mani tali che non si guastano, ma che sciupano le
altre» disse il tenente.

Raolo avrebbe voluto si prolungasse tutta la notte il colloquio; ma
il conte gli fece osservare come l’ospite loro doveva essere stanco e
aver d’uopo di riposo. D’Artagnan si difese con molta cortesia. Athos
insistè perchè ei pigliasse possesso della sua camera. Raolo condusse
a quella il forestiero, ed Athos figurandosi che si tratterrebbe più
tardi che potesse onde fargli riepilogare tutte le prodezze dei tempi
giovanili, venne a prenderlo dopo un momento, e chiuse quella buona
serata con una stretta di mano cordialissima, augurando la felice notte
al moschettiere.



XVII.

_Diplomazia di Athos._


D’Artagnan erasi coricato, non tanto per dormire, quanto per esser solo
e ripensare a tutto ciò che aveva udito e veduto in quella sera.

Essendo egli di ottimo naturale, e avendo avuto per Athos sino da
principio una spontanea propensione, la quale aveva terminato col
diventare sincera amicizia, gli fu grato il trovare un uomo che
brillasse d’intendimento e di vigore anzichè l’abbietto ubriaco
cui si attendeva di rivedere sdrajato sul letame a digerire il vino
tracannato; si rassegnò pure senza difficoltà alla costante superiorità
di Athos sopra di lui, ed invece di risentire il disappunto e l’astio
che avrebbero attristato un animo men del suo generoso, non provò in
sostanza che uno schietto e onesto giubilo il quale gli fe’ concepire
per le sue attrattive le più favorevoli speranze.

Bensì parevagli di non ritrovare Athos chiaro e franco sovra tutti i
punti. Che giovanetto era quello, ch’egli diceva di aver adottato,
e che tanto gli somigliava? d’onde il ritorno alla vita di società
e l’esagerata sobrietà da lui notata nel medesimo a mensa? Ed una
cosa, in apparenza inconcludente, cioè l’assenza di Grimaud, da cui
in addietro Athos non poteva separarsi, e del quale neppur si era
proferito il nome non ostante che si fosse cercato di entrare su
quel proposito, inquietava d’Artagnan. Dunque egli non possedeva
più la fiducia dell’amico, ovvero Athos era legato da qualche catena
invisibile, o anche anticipatamente prevenuto contro la visita ch’ei
gli faceva?

Non potè a meno di riflettere a Rochefort ed a ciò ch’esso gli aveva
detto nella chiesa di Nostra Signora. Che Rochefort lo avesse preceduto
recandosi presso del conte?

D’Artagnan non aveva avuto tempo da perdere in lunghe congetture.
E quindi risolse venirne l’indomani ad una spiegazione. Le scarse
fortune di Athos abilmente occultate indicavano desiderio di figurare,
e manifestavano un resto di ambizione facile a risvegliarsi. La
robustezza di mente e la lucidezza d’idee rendevano Athos più sollecito
di un altro ad agitarsi. Egli entrerebbe nei progetti del ministro con
tanto maggior calore, in quanto che l’attività sua naturale raddoppiata
sarebbe da una dose di necessità.

Queste idee mantenevano desto d’Artagnan ad onta della sofferta fatica;
ei preparava il suo piano di attacco, e benchè sapesse essere Athos
un avversario terribile, fissò di agire subito al dì vegnente dopo la
colazione.

Però, da un altro lato fra sè diceva, che sopra un terreno così nuovo
facea mestieri inoltrarsi con prudenza, studiare più giorni le aderenze
di Athos, abbadare alle sue novelle abitudini e farsene un giusto
concetto; procurar di trarre dall’ingenuo giovane, o battendosi seco di
scherma o rincorrendo qualche animale a caccia, le notizie intermedie
che gli mancavano per riunire l’Athos di prima all’Athos attuale: e ciò
doveva riuscire agevole, imperocchè il precettore avrebbe sicuramente
comunicato qualcosa del suo al cuore ed allo spirito dell’alunno. Ma
d’Artagnan stesso, ch’era accorto abbastanza, comprese tosto quali armi
fornirebbe contro di sè in caso che un’imprudenza o una inavvertenza
qualunque discoprisse i suoi raggiri all’occhio esperto di Athos.

E poi, sarà egli d’uopo di dirlo? d’Artagnan pronto a far uso di
astuzie contro la scaltrezza di Aramis o la vanità di Porthos, si
vergognava ad andare per vie indirette con Athos, uomo schietto, animo
leale. Gli sembrava che riconoscendolo per lor maestro in diplomazia,
Aramis e Porthos lo stimerebbero vieppiù, laddove Athos all’opposto lo
avrebbe in minor stima.

«Ah! perchè non è qui, egli diceva, Grimaud, il taciturno Grimaud?
Molte sono le cose che dal suo silenzio io avrei capite. Era tanto
eloquente il silenzio di Grimaud!»

Frattanto era cessato in casa ogni rumore; egli aveva udito chiudere
usci ed imposte: indi i cani, dopo essersi scambievolmente risposto per
la campagna, si erano pure chetati; finalmente un usignolo solo in un
gruppo d’alberi aveva gorgheggiato alquanto le sue note armoniose e si
era addormentato. Nel castello non succedeva se non se un movimento di
passi uguali e monotoni di sotto alla sua camera. Ed ei suppose fosse
quella la stanza di Athos.

«Passeggia e riflette! fece d’Artagnan, e per che fare? Ecco quel ch’è
impossibile di sapere. Il resto si poteva indovinare, questo no».

In ultimo Athos certamente si mise in letto, poichè si estinse anco
quel rumore.

Stanchezza e silenzio insieme uniti vinsero d’Artagnan, ei chiuse gli
occhi e lo prese il sonno.

Non era solito a dormir molto. Appena l’alba ebbe indorate le sue
cortine si levò ed aprì la finestra. Allora gli parve di distinguere
dalla persiana qualcuno che ronzasse pel cortile scansando di farsi
sentire. Seguendo la sua usanza di non lasciar passare cosa a lui
vicina senza assicurarsi di ciò che si fosse, guardò attento e senza
far chiasso, e riconobbe il giustacuore color di granato ed i capelli
scuri di Raolo.

Il garzoncello (chè era desso) schiuse la porta della stalla, ne tolse
il cavallo bajo di che si era servito il giorno avanti, gli mise da
sè la sella e la briglia con la prontezza e la destrezza del più abile
cavallerizzo, poi trasse fuori l’animale pel viale diritto dell’orto,
aperse un uscio laterale che dava sopra una strada, lo riserrò; ed
allora d’Artagnan di cima al muro lo vide scappare come un dardo
chinandosi sotto i rami pendenti e fioriti degli aceri e degli acacia.

Nella sera precedente d’Artagnan aveva osservato che quel sentiero
doveva condurre a Blois.

«Eh, eh! disse il Guascone, ecco un bricconcello che già ne fa di
belle, e che non mi sembra odiare il bel sesso come Athos. Non va a
caccia, poichè non ha nè armi nè cani; non va per un’incombenza, poichè
parte di soppiatto.... Di soppiatto da chi? da me, o da suo padre? chè,
ne sono certissimo, il conte è suo padre.... Cospetto! questo poi lo
saprò, ne parlerò alla libera ad Athos».

Si faceva sempre più giorno; si risvegliavano i clamori cessati la
sera innanzi; l’uccello fra i rami, il cane nella stalla, i montoni
nei campi; anche le barche legate sulla Loira distaccandosi dalla riva
si lasciavano trascinare dal moto delle acque. D’Artagnan rimase alla
finestra per non destare alcuno; indi, quando ebbe inteso spalancarsi
usciali e imposte del palazzo, si accomodò i capelli, si allisciò i
baffi, per abitudine si spazzolò le tese del cappello con la manica del
giubbetto e andò abbasso.

Ed aveva appena saltato l’ultimo gradino del verone, che vide Athos
chinato verso terra come un uomo che cerchi uno scudo tra la rena.

«Oh! buon giorno, mio caro albergatore», disse d’Artagnan.

«Buon giorno, amico: la nottata è andata bene?

«A meraviglia; tutto è andato benone, come il vostro letto, come la
vostra cena che doveva condurmi al sonno, come la vostra accoglienza.
Ma che guardavate costì con tanta attenzione? siete forse diventato
amatore di tulipani?

«Ah! non per questo dovreste burlarmi: in campagna variano di molto i
gusti, e si arriva ad amare senza accorgersene tutte quelle belle cose
che lo sguardo di Dio fa scaturire dal più profondo della terra e per
cui nelle città si ha disprezzo sì grande. Io osservava semplicemente
alcuni iridi che avevo messi vicino a quella conserva d’acqua, e che
stamane sono stati schiacciati. Quei giardinieri sono pure sbadati!
nel menare indietro il cavallo che ha tirata la noria, lo avranno fatto
camminare sulle cassette».

D’Artagnan sorrise dicendo:

«Uhm?... credete così?»

E condusse Athos giù pel viale, dov’erano impressi molti passi simili a
quelli che avevano schiacciati l’iridi.

«Eccone degli altri, mi pare, disse con indifferenza.

«Eh si! fece Athos, e passi recenti!

«Recentissimi!

«Chi sarà uscito stamane? domandò Athos come fra sè ed inquieto; fosse
fuggito un cavallo dalla stalla?

«Non è probabile, ribattè d’Artagnan, perchè le orme sono eguali e ben
solcate.

«Dov’è Raolo? esclamò Athos, e come va ch’io non lo abbia veduto?

«Zitto! rispose il tenente mettendosi un dito sulla bocca.

«Che c’è?» chiese l’altro.

D’Artagnan raccontò ciò che aveva visto, ma esaminando bene la cera di
Athos.

Questi replicò facendo un piccolo moto delle spalle.

«Ah, ah! ora capisco; il povero ragazzo sarà andato a Blois.

«A che fare?

«Mio Dio! per aver notizie della piccola La Vallière.... sapete pure,
della fanciulletta che jeri si stravolse un piede.

«Ne siete persuaso? seguitò d’Artagnan incredulo.

«Non solo persuaso, ma sicurissimo, disse Athos; non avete osservato
che Raolo è innamorato?

«Eh via! di chi mai? di quella bambina di sette anni?

«Caro mio, alla sua età il cuore è così pieno ch’è necessario
riversarlo sopra qualche cosa, o sogno o realtà.... E l’amore di lui è
metà dell’uno e metà dell’altra.

«Via scherzate! come! quella bimba?....

«Non l’avete forse guardata? è la più bella creaturina che sia al
mondo: capelli biondi e lucidi, occhi azzurri, digià maliziosetti e
languidi ad un tempo....

«Ma che ne dite di codesta fiamma?

«Io non dico niente; me la rido, e mi fo beffe di Raolo. Peraltro,
quei primi bisogni del cuore sono sì imperiosi, questi sfoghi della
malinconia amorosa ne’ giovanetti sono tanto dolci ed insieme amari,
che spesso, mostrano tutti i caratteri della passione. Io mi ricordo
che alla di lui età mi ero invaghito di una statua greca data dal buon
Enrico IV a mio padre, ed ebbi ad impazzire quando mi fu detto che
l’istoria di Pigmalione era soltanto una favola.

«È tutto effetto d’ozio; voi non date a Raolo occupazione bastante, ed
esso cerca dal canto suo di occuparsi.

«Non v’è altro; e perciò penso ad allontanarlo di qua.

«E farete bene.

«Senza dubbio; ma sarà uno straziargli il cuore, ed egli ne soffrirà
quanto per un vero amore. Da tre o quattro anni indietro, ed allora
esso pure era bambino, si è preso diletto ad abbellire ed ammirare
quell’idoletto, che un giorno poi finirebbe con adorare se rimanesse
qui. I due fanciulli stanno insieme giornate intere a riflettere e
discorrere su molte cose serie come veri amanti di venti anni. Insomma
per un pezzo i parenti della piccola La Vallière ne ridevano, ma adesso
credo che comincino a far cipiglio.

«Ragazzate! bensì Raolo ha d’uopo di distrarsi: levatelo di qui presto,
o per Bacco! non ne farete mai un uomo.

«Ho idea, disse Athos, di mandarlo a Parigi.

«Ah!» fece il tenente de’ moschettieri.

E stimò giunto il momento delle ostilità.

«Se volete, rispose, possiamo fargli uno stato a quel giovinetto.

«Ah! ripetè a vicenda Athos.

«Anzi, vorrei consultarvi sopra una cosa passatami per il capo.

«Dite pure.

«Credete che sia tempo da porsi nel servizio militare?

«E non ci siete sempre, voi, d’Artagnan?

«M’intendo da me.... servizio attivo.... L’antica nostra vita non ha
più nulla che vi dia tentazione, e se vi fossero riserbati dei vantaggi
reali, non gradireste di ricominciare in compagnia mia e del nostro
amico Porthos le imprese di nostra gioventù?

«Dunque mi fate una proposizione? domandò Athos.

«Chiara e schietta.

«Per tornare in campagna?

«Si.

«Dalla parte di chi, e contro a chi? chiese subito Athos fissando
l’occhio lucido e benevolo sopra al Guascone.

«Cospetto! come siete pressante!

«E specialmente preciso. Sentitemi, d’Artagpan: non v’è più altro che
una persona, o piuttosto una causa, a cui un uomo par mio possa esser
utile: quella del re.

«Per l’appunto.

«Sì; ma intendiamoci: se per la causa del re ponete quella del signor
Mazzarino, non ci capiremo più.

«Non dico a dirittura...» rispose imbarazzato il Guascone.

«Animo d’Artagnan, non facciamo gara di astuzia. La vostra titubanza, i
vostri ripieghi, mi manifestano da parte di chi venite. Quella causa,
infatti, non si osa dichiararla apertamente, e chi va reclutando per
lei lo fa a testa bassa e con voce balbuziente.

«Ah, caro Athos!....

«D’Artagnan, sapete bene che non parlo per voi, che siete la perla
degli uomini valorosi e audaci; vi discorro di quell’Italiano
imbroglione e meschino, di quel mascalzone che procura di porsi in capo
una corona che ha rubata sotto un capezzale; di quel villano che chiama
il suo partito, partito del re, e si diverte a far porre in carcere i
principi del sangue perchè non ardisce ucciderli come faceva il nostro
gran ministro; uno spilorcio che pesa i suoi scudi d’oro e serba i
più tosati per paura di perderli al giuoco dove ruba di soppiatto; un
birbante, insomma, che per quanto si accerta strapazza la regina....
peggio per lei, già s’intende! e che fra tre mesi ci susciterà una
guerra civile per conservarsi le sue pensioni.... È quello il padrone
che mi proponete? grazie mille!

«Dio mi perdoni! disse d’Artagnan, siete più focoso di prima, e gli
anni vi hanno riscaldato il sangue invece di raffreddarlo. E chi vi
dice ch’egli sia il mio padrone, e che io voglia darlo a voi?»

Il Guascone aveva borbottato fra sè: «Diamine! non si confidino i
nostri segreti ad un uomo sì mal disposto!»

«E allora, amico mio, soggiunse Athos, che proposte sono codeste?

«Eh! è naturale: voi campate ne’ vostri feudi, e sembra che siate
felice nella vostra aurea mediocrità; Porthos ha cinquanta o sessanta
mila lire di rendita; Aramis ha sempre quindici duchesse che fanno a
gara a possederlo come quando era moschettiere: è tuttavia il cucco
della sorte: ma io che fo in questo mondo? porto la corazza e la pelle
di bufalo da venti anni, inchiodato a questo grado insufficiente, senza
avanzare, senza retrocedere, senza vivere. In conclusione, sono morto!
E quando per me si tratta di risuscitarmi un tantino, venite tutti
a esclamarmi: È un villano, è un briccone, è un pessimo padrone! Oh
cappio! sono anch’io del vostro parere, ma trovatemene uno migliore, o
assegnatemi una buona pensione».

Athos riflettè per tre minuti secondi, ed in questo piccolo intervallo
comprese l’astuzia di d’Artagnan, il quale per essersi avanzato di
troppo sulle prime parava onde nascondere il suo giuoco. Vide chiaro
che i progetti fattigli erano reali e si sarebbero appalesati in tutto
il loro sviluppo qualora egli ci avesse prestato orecchio.

«Bene, bene! disse tra sè, d’Artagnan è Mazzarino».

E da tal momento si tenne estremamente guardingo.

D’Artagnan dal lato suo fece giuoco anco più stretto.

«Ma in sostanza, avete un’idea? continuò Athos.

«Di certo: bramavo prender consiglio da voi tutti, e pensare ai mezzi
di far qualche cosa, giacchè uno senza l’altro saremo sempre scompleti.

«È giusto. Mi parlavate di Porthos: lo avete dunque indotto a cercar
fortuna? ma le fortune, le ha digià.

«Sì, le ha; ma l’uomo è fatto così, che desidera sempre.

«Ed egli che desidera?

«D’esser barone.

«Ah! è vero, me lo scordavo, disse Athos ridendo.

«È vero! bucinò fra sè il tenente. E di dove lo sa egli? che sia in
corrispondenza con Aramis? Oh! se sapessi questo, saprei tutto».

Terminò là il colloquio, perchè appunto capitò Raolo. Athos voleva
dolcemente rimproverarlo; pure nel mirarlo afflitto non n’ebbe
coraggio, ed anzi sospese il discorso per domandargli che cosa avesse.

«Forse la vostra vicina sta di peggio?» chiese d’Artagnan.

«Ah, signore! replicò Raolo quasi soffocato dall’affanno, la caduta è
grave, e benchè senza apparente difformità, il medico teme che zoppichi
sinchè vive.

«Oh, sarebbe terribile! fece Athos».

D’Artagnan aveva una facezia in cima alla lingua, ma visto l’interesse
che prendeva Athos a quel caso, ei si frenò.

«Quel che più mi fa disperare, continuò Raolo sospirando, è che di
questa disgrazia son io la cagione.

«Voi! come? l’interrogò Athos.

«Eh sì! non fu per correre incontro a me che saltò giù da quel fascio
di legna?

«Mio caro, soggiunse d’Artagnan, vi rimane un solo compenso, cioè di
sposarla per espiazione.

«Signore! replicò il giovanetto, voi scherzate sopra un dolore verace,
reale.... è mal fatto!»

E perchè aveva bisogno di star solo per piangere in libertà, se ne andò
in camera sua, e non ne uscì che all’ora di colazione.

La buona intelligenza de’ due amici non era stata minimamente alterata
dalla scaramuccia della mattina; sicchè fecero colazione con ottimo
appetito, guardando tratto tratto il povero ragazzo, che con gli occhi
bagnati e il cuore gonfio poteva appena mangiare.

Alla fin del pasto arrivarono due lettere. Athos le lesse con somma
attenzione, e non seppe astenersi da scuotersi più volte.

D’Artagnan, che aveva la vista acuta e l’osservava da una estremità
all’altra della tavola, giurò che riconosceva incontrastabilmente il
carattere minuto di Aramis; l’altro foglio era d’uno scritto da donna
lungo e imbrogliato. Ed accorgendosi che Athos bramava di rimaner
solo o per rispondere alle missive o per riflettervi sopra, ei disse a
Raolo:

«Andiamo a far un giro alla sala d’armi: vi distrarrete un poco».

Il ragazzo diede un’occhiata ad Athos, il quale fe’ un cenno di assenso.

Passarono entrambi in un salotto a terreno, dov’erano appesi fioretti,
maschere, guanti, piastroni e tutti gli accessorj della scherma.

«Ebbene? chiese Athos arrivato colà dopo un quarto d’ora.

«Ha digià la vostra mano, Athos mio, rispose il tenente, e se ha il
vostro sangue freddo, non avrò che da congratularmene con lui».

Il giovane si peritava alquanto. Per una o due volte che aveva toccato
d’Artagnan o sul braccio o sulla coscia, questo gli aveva dato di
bottone venti fiate a mezzo al corpo.

Venne Carletto a recare un biglietto di gran premura per d’Artagnan
portato da un messaggiero.

Toccò ad Athos a guardare con la coda dell’occhio.

Il tenente lesse senza mostrare veruna commozione, e indi tentennando
un poco il capo, disse:

«Vedete, amico mio, che cos’è il servizio militare; e affè, avete
ragione di non volerlo riprendere: il signor di Tréville è ammalato,
ed ecco che la compagnia non può far a meno di me: talchè si trova
troncata la mia licenza.

«Tornate a Parigi? domandò Athos con impeto.

«Eh sì.... ma non vi venite anche voi?»

Athos arrossì un poco, e rispose:

«Se vi andassi, avrei il massimo piacere nel rivedervici.

«Olà, Planchet! gridò sull’uscio il tenente, si parte fra dieci minuti;
date la biada ai cavalli».

Poi, voltosi ad Athos:

«Mi pare che qui mi manchi qualcosa, e mi duole davvero di lasciarvi
senza aver rivisto il buon Grimaud.

«Grimaud?.... ah! sì.... mi stupivo che non me ne ricercaste notizie.
L’ho imprestato ad un mio amico.

«Che capirà i suoi cenni? fece d’Artagnan.

«Spero di sì».

D’Artagnan ed Athos si abbracciarono cordialmente. Quegli strinse
la mano a Raolo, si fe’ promettere da Athos di fargli visita qualora
andasse a Parigi, o di scrivergli in caso contrario, e saltò a cavallo.
Planchet era già in sella.

«Non venite con me? disse ridendo a Raolo, io passo da Blois».

Il giovane si girò verso Athos, il quale lo trattenne con un gesto
impercettibile, e perciò rispose:

«No, signore, resto col signor conte.

«Dunque addio a tutti e due, miei buoni amici, seguitò il tenente
premendo loro di nuovo la destra, e Iddio vi conservi! come dicevamo
ogni volta che ci lasciavamo a tempo del defunto ministro».

Athos gli fece un cenno colla mano, Raolo un inchino, e d’Artagnan e
Planchet partirono.

Il conte li seguitò cogli occhi, posando la destra sulla spalla del
ragazzo ch’era digià alto quasi al pari di lui; ma tosto che coloro
furono spariti dietro al muro, ei disse:

«Raolo, questa sera partiremo per Parigi.

«Come! esclamò questi, e impallidiva.

«Potete andare a dir addio per voi e per me a madama di S. Remy; vi
aspetterò qui alle sette ore».

Raolo s’inchinò con espressione di rincrescimento misto a gratitudine,
e si ritirò per andare a por la sella al suo cavallo.

D’Artagnan poi, appena trovatosi fuori di luogo da esser visto, si era
tratto di saccoccia il biglietto e lo aveva riletto

  «Tornate sul momento a Parigi».

                                                            «G. M.»

«È secca, questa lettera, brontolò, e se non ci fosse per fortuna un
poscritto non l’avrei capita».

E diede una scorsa al poscritto, che gli faceva passar sopra al
laconismo della missiva:

  P. S. «Passate dal tesoriere del re a Blois, dategli il vostro
  nome, e mostrategli la presente, e riscuoterete duecento doppie».

«Ecco! fece il tenente, mi piace questa prosa, e il ministro scrive
meglio che non mi credevo. Planchet, si vada a far visita al signor
tesoriere, e poi di galoppo.

«Per Parigi?

«Per Parigi.»

E mossero intanto tutti due di trotto steso.



XVIII.

_Il signor di Beaufort._


Ed ora, ecco ciò ch’era successo, e quali cause rendevano necessario il
ritorno di d’Artagnan alla capitale.

Mazzarino recandosi una sera, secondo la sua abitudine, dalla regina,
dopo che tutti si erano ritirati, nel passare accanto al salone delle
guardie di cui un usciale dava sulle sue anticamere, udì parlar forte
in quella stanza, e volle sapere di che discorrevano i soldati; si
avvicinò chiotto chiotto al suo solito, spinse la porta, e cacciò il
capo nella mezza apertura.

Tra le guardie era grande discussione.

«E io vi garantisco, diceva una di esse, che se Coysel ha prognosticata
questa cosa, l’è certa come se fosse accaduta. Io non lo conosco, ma ho
inteso dire ch’è non solo astrologo, ma anche mago.

«Capperi! mio caro, s’è tuo amico, badaci! gli fai un brutto servizio!

«Perchè?

«Perchè potrebbe esser messo sotto processo.

«Eh via! oggidì non si abbruciano più gli stregoni.

«No? eppure, mi pare non sia gran tempo dacchè il defunto ministro fece
abbruciare Urbano Grandier. Lo so ben io! ero di guardia al rogo, e lo
vidi arrostire.

«Caro mio, Urbano Grandier non era uno stregone, ma un sapiente, lo che
è tutt’altro. Grandier non prediceva l’avvenire, sapeva il passato, il
che alle volte è anco di peggio».

Mazzarino scosse la testa per assenso; però bramando conoscere il
prognostico su cui si discuteva restò allo stesso posto.

«Io non ti dico, soggiunse il militare, che Coysel non sia stregone,
ma che se pubblica la sua predizione, è la maniera da far che non si
compia.

«Perchè?

«Senza dubbio. Se ci battiamo fra noi, ti avverto: «Ora ti darò una
botta diritta, o una in seconda» naturalmente la parerai. E se Coysel
dice ad alta voce tanto che il ministro lo senta: «Prima del tal giorno
scapperà il tal prigioniero» è chiaro che il ministro piglierà tante
precauzioni che il prigioniero non iscappi.

«Ohimè! seguitò un altro che sembrava dormisse disteso sopra una
panca e non ostante quel sonno figurato non perdeva una parola della
conversazione, ohimè! v’immaginate che gli uomini possano sottrarsi al
loro destino? Se lassù sta scritto che il duca di Beaufort si abbia a
salvare, il signor di Beaufort si salverà, e tutte le precauzioni del
ministro uon gli faranno un’acca».

Mazzarino palpitò. Era italiano, cioè superstizioso. Si avanzò
sollecito framezzo alle guardie, che nel mirarlo troncarono la
conferenza.

«Che dicevate, signori miei? domandò con l’aria sua carezzevole, che il
signor di Beaufort è fuggito, se non isbaglio?

«Oh! no, monsignore, fece il soldato incredulo, per adesso non ci pensa
mica; soltanto si diceva che dovesse fuggire.

«E chi lo ha detto?

«Animo, Saint Laurent, ripetete la vostra storia, disse il militare al
narratore.

«Monsignore, replicò questi, raccontavo pura e semplicemente a questi
signori quel che ho inteso del prognostico di un certo Coysel, il quale
pretende che per quanto sia ben custodito Beaufort, si salverà innanzi
alla Pentecoste.

«E quel Coysel è un sognatore, un pazzo? riprese Mazzarino sempre
ridendo.

«No no, ribattè il soldato tenacissimo nella sua credulità, ha
presagito molte cose che sono successe: come per esempio, che la regina
darebbe alla luce un figliuol maschio, che il signor di Coligny sarebbe
ucciso nel suo duello col duca di Guise, e finalmente che il Coadiutore
sarebbe nominato cardinale. Or bene, la regina ha partorito non solo
un primo figlio, ma dopo due anni un altro, ed il signor di Coligny è
stato ammazzato.

«Sì, disse Mazzarino, ma il Coadiutore non è per anche cardinale.

«No, monsignore, però lo sarà».

Mazzarino fece una boccaccia che significava: «Non ha ancora il
cappello».

Indi aggiunse:

«Sicchè, mio caro, la vostra opinione è che Beaufort debba scappare?

«È tanto la mia opinione, che se Vostra Eccellenza mi offerisse adesso
il posto del signor di Chavigny, vale a dire quello di governatore del
castello di Vincennes, io non lo accetterei. Oh! all’indomani dalla
Pentecoste sarebbe un’altra faccenda».

Nulla v’è che convinca meglio di un’intima convinzione: questa
influisce persino sugl’increduli, e Mazzarino, lungi da esser tale, era
superstizioso. Quindi si ritirò pensieroso.

«Spilorcio! fece la guardia che teneva il gomito posato al muro, finge
di non aver fede nel vostro mago, Saint-Laurent, per non avere da darvi
un soldo, ma appena sia nel suo appartamento si approfitterà del vostro
presagio».

Infatti, Mazzarino, invece di continuare a camminare verso la camera
della regina, entrò nel proprio gabinetto, e chiamato Bernouin, ordinò
che all’indomani all’alba si andasse a cercare il birro che aveva messo
appresso al signor di Beaufort, e si venisse a destar lui appena quegli
capitasse.

Il soldato senza immaginarselo aveva toccato col dito la piaga più
aperta del ministro. Da cinque anni che Beaufort era in carcere
non passava giorno in cui Mazzarino non pensasse che in un momento
o nell’altro ei ne uscirebbe. Non si poteva tenere tutta la vita
prigioniero un nepote di Enrico IV, in ispecie quando questo nepote di
Enrico aveva appena trent’anni. Ma in qualunque maniera se ne traesse
fuori, quant’odio doveva nella sua carcerazione aver raccolto nel
petto contro quello a cui egli era debitore della medesima! che lo
aveva preso, ricco, valoroso, glorioso, caro alle donne, temuto dagli
uomini, per togliere alla sua vita gli anni più belli, imperocchè non
è esistere il vivere in prigione! Intanto Mazzarino accresceva la sua
sorveglianza contro a de Beaufort. Soltanto egli era simile all’avaro
della favola, il quale non potea dormire accanto al suo tesoro. Spesse
fiate di notte si destava trasalendo e sognandosi che alcuno gli avesse
rubato il Beaufort. E allora ricercava di lui, e ad ogni informazione
che prendeva aveva il dispiacere di sentire che il detenuto giuocava,
beveva e cantava a più non posso, ma giuocando, cantando e bevendo,
sospendeva queste sue operazioni per giurare che Mazzarino gli
pagherebbe a caro prezzo i divertimenti cui l’obbligava a procurarsi a
Vincennes.

Codesta idea diede grande molestia al ministro durante i suoi sonni,
talchè alla mattina alle sette, quando Bernouin entrò in camera per
isvegliarlo, furono le prime sue parole:

«Ebbene, che c’è? Beaufort è forse scappato da Vincennes?

«Non crederei, monsignore; rispose Bernouin costante nella sua calma
officiale, ma in ogni caso ora ne avrete le nuove, giacchè il birro la
Ramée mandato a chiamare a Vincennes è di là ad aspettar gli ordini di
Vostra Eccellenza.

«Aprite qui, e fatelo passare, fece Mazzarino, accomodandosi i
guanciali in modo da poter riceverlo stando seduto sul letto».

Entrò l’uffiziale. Era un uomo grande e grosso, paffuto e di buona
cera. Aveva un’aria di tranquillità, che inquietò il ministro.

«Quel briccone mi pare un imbecille, questi borbottò».

L’altro rimaneva in piedi accanto all’uscio.

«Venite qua, disse Mazzarino».

Ed il birro obbedì.

«Sapete quel che qui si dice? fece il ministro.

«No, Eccellenza.

«Che il signor di Beaufort fuggirà da Vincennes, se non lo ha digià
fatto».

Sul viso dell’agente si vide grande stupore. Aprì esso ad un tempo
e i piccoli occhi e la larga bocca per godersi meglio la facezia che
l’Eccellenza gli faceva l’onore d’indirizzargli; poi non potendo più
mantenersi serio a tale supposizione, diede in uno scroscio di risa,
ma sì forte che dall’ilarità gli si scuotevano tutte le membra come per
effetto di febbre.

A Mazzarino fu grato quello sfogo, poco però rispettoso; non cessò
peraltro di conservare il suo più grave aspetto.

La Ramée, quando ebbe riso ben bene, e si fu asciugati gli occhi,
reputò al fine opportuno di parlare e scusare la sconvenienza di
cotanto suo brio.

«Fuggire, monsignore! fuggire? egli disse, ma dunque, Vostra Eccellenza
non sa dove è il signor di Beaufort.

«Signor sì, so ch’è nella torre di Vincennes.

«Sì, Eccellenza: in una stanza dove le mura sono grosse di sei piedi
francesi, e le finestre con inferriate a graticola, di che ogni ferro è
grosso quanto il mio braccio.

«Eh! fece Mazzarino con la pazienza si forano i muri, con una molla da
oriuolo si sega una spranga.

«Ma allora Vostra Eccellenza non sa che ha presso di sè otto guardie,
quattro nell’anticamera e quattro in camera, e queste non lo lasciano
mai?

«Egli però esce dalla sua stanza, giuoca alla palla e al pallamaglio.

«Sono i divertimenti permessi ai prigionieri; pure se Vostra Eccellenza
vuole, gli si leveranno.

«No no (rispose il Mazzarino il quale temeva che privandolo di quei
piaceri, il detenuto uscisse di Vincennes, quando mai ciò accadesse,
più esacerbato contro di lui) domando soltanto con chi giuoca.

«Monsignore, con l’uffiziale di guardia, o con me, o cogli altri
prigionieri.

«Ma allora non si avvicina alle muraglie?

«E le muraglie, dunque Vostra Eccellenza non le conosce? sono alte
sessanta piedi, e non credo che il signor di Beaufort sia ancora tanto
stanco di vivere da arrischiarsi a rompersi il collo saltando di lassù.

«Uhm! fece il ministro che cominciava ad acquietarsi, sicchè voi dite,
caro la Ramée....

«Che a meno che il Beaufort trovi modo di diventare un uccellino, io
garantisco per lui.

«Badate! vi avanzate di molto. Beaufort disse alle guardie le quali
lo conducevano a Vincennes che spesso aveva pensato al caso di essere
carcerato, e per quel caso avea raccapezzate quaranta maniere di
scappare.

«Monsignore, date retta a me, se fra le quaranta maniere ve ne fosse
stata una buona, egli sarebbe fuori da un bel pezzo.

«Via via, non è tanto sciocco come mi figuravo, mormorò il ministro.

«E poi, Vostra Eccellenza si dimentica che il signor di Chavigny
è governatore di Vincennes, e che non è punto amico del signor di
Beaufort.

«Sì, ma Chavigny si assenta qualche volta.

«Quando si assenta ci son io.

«Ma quando voi vi assentate?

«Quando mi assento ho in mia vece un tocco d’uomo che aspira a
diventar birro di Sua Maestà, e che ve lo accerto, monsignore, gli fa
buonissima guardia. Da tre settimane l’ho al mio servizio, e non ho da
rimproverargli se non una cosa: di esser troppo duro per il detenuto.

«E chi è quel cerbero?

«Un certo signor Grimaud.

«E che faceva innanzi di stare presso di voi a Vincennes?

«Era in provincia, secondo mi disse quello che me lo raccomandò; v’ebbe
non so quale affaraccio a motivo della sua testa calda, e credo non
gl’increscerebbe di trovare la sua impunità sotto l’uniforme del re.

«Chi ve lo ha raccomandato?

«Il maggiordomo del signor duca di Grammont.

«Allora, a parer vostro, v’è da fidarsene?

«Quanto di me stesso, monsignore.

«Non è un ciarlone?

«Gesù mio! per molto tempo ebbi idea che fosse mutolo; non parla, e non
risponde che a forza di cenni: pare che il suo antico padrone lo abbia
avvezzato così.

«Or bene, mio caro La Ramée, ditegli che se ci fa buona e fedel
guardia, si chiuderà un occhio sulle sue imprudenze di provincia,
gli si metterà addosso un’uniforme che lo faccia rispettare, e nelle
saccoccie di questa alcune doppie per bere alla salute del re».

Mazzarino era largo di promesse; era tutto al contrario del bravo
Grimaud, tanto vantato da La Ramée, che parlava poco ed agiva molto.

Il ministro fece a La Ramée una quantità di altre domande sopra al
prigioniero, ed al modo in cui esso era stato alloggiato e cibato,
ed alle quali costui rispose in guisa sì soddisfacente, ch’egli lo
licenziò quasi tranquillo.

Poi essendo le nove ore, si alzò, si profumò, si vestì e passò dalla
regina a darle parte dei motivi che lo avevano trattenuto nel proprio
appartamento.

La regina che temeva di Beaufort quanto ne temeva il ministro, ed era
superstiziosa poco meno di lui, gli fe’ ripetere esattamente tutte le
promesse del birro e gli elogi ch’esso prodigava al suo ajutante, e
dopo che Mazzarino ebbe finito ella disse sotto voce:

«Ahimè! avessimo un Grimaud al fianco ad ogni principe!

«Pazienza! fece Mazzarino col suo sorrisetto all’italiana, forse un
giorno ci si verrà, ma frattanto....

«Frattanto?

«Io voglio prendere le mie precauzioni, ribattè il ministro».

Dietro di che scrisse a d’Artagnan di sollecitarsi a tornare.



XIX.

_Ricreazioni del duca di Beaufort nella torre di Vincennes._


Il prigioniero che incuteva tanta paura al ministro, e i di cui
quaranta mezzi di fuga turbavano il riposo di tutta la corte, non
s’immaginava lo spavento che per cagion sua risentivasi nel palazzo
reale.

Si vedeva sì ben custodito che aveva riconosciuta l’inutilità di ogni
suo tentativo; tutta la sua vendetta consisteva nel mandare un diluvio
d’imprecazioni ed ingiurie contro al Mazzarino. Si era pure provato a
comporre qualche strofetta, e poi ci aveva rinunziato subito. Infatti
il signor di Beaufort non ricevè dal cielo il dono di tesser versi,
ed anche in prosa si esprimeva difficilmente: per lo che di lui diceva
Blot, canzoniere dell’epoca:

    Beaufort, de grande renommée,
      Qui sut ravitailler Paris,
      Doit toujours tirer son epée
      Sans jamais dire son avis.

    S’il veut servir toute la France,
      Qu’il n’approche pas du barreau!
      Qu’il rengaine son éloquence
      Et tire son fer du fourreau.

    Dans un combat, il brille, il tonne,
      On le redoute avec raison;
      Mais de la façon qu’il raisonne,
      On le prendrait pour un oisou.

    Gaston, pour faire une harangue,
      Eprouve bien moins d’embarras;
      Pourquoi Beaufort n’a-t-il la langue?
      Pourquoi Gaston n’a-t-il le bras?[7].

Premesso questo, è da capirsi che il detenuto si limitasse ad ingiurie
e imprecazioni.

Era il duca di Beaufort nepote di Enrico IV e di Gabriella d’Estrée,
tanto buono, valoroso e fiero, e specialmente tanto guascone, quanto
il suo avolo, ma molto meno letterato. Dopo essere stato per qualche
tempo, alla morte del re Luigi XIII, favorito, uomo di confidenza,
insomma il primo in corte, avea dovuto un giorno cedere il posto a
Mazzarino e trovarsi secondo, e all’indomani avendo avuto il poco
giudizio di crucciarsi per tale trasposizione e l’imprudenza di dirlo,
la regina lo avea fatto arrestare e condurre a Vincennes da quello
stesso Guitaut che noi vedemmo comparire sul principio di questa
storia, e che avremo occasione d’incontrare di nuovo. Ben intesi la
_regina_ vuol dire _Mazzarino_. Non solo si erano sbarazzati così della
sua persona e delle sue pretensioni, ma anche non si facevano più conti
con lui, benchè fosse principe popolare, e da cinque anni egli abitava
in una stanza pochissimo regia nella torre di Vincennes.

Codesto spazio di tempo, che avrebbe maturate le idee di qualunque
altro, sul cervello del signor di Beaufort non produsse effetto
alcuno. Infatti, un altro avrebbe riflettuto e qualmente s’ei non
si fosse piccato ad urtare il ministro, a sprezzare i principi, ad
andarsene solo senza altri seguaci (come dice il cardinale di Retz)
che pochi malinconici con faccie da tristi cogitabondi, in cinque
anni avrebbe ottenuto o la sua libertà o dei difensori. Probabilmente
queste considerazioni non si presentarono tampoco alla mente del duca;
la lunga sua detenzione non fece che consolidarlo maggiormente nello
spirito di dispettosa ribellione, ed ogni giorno il ministro riceveva
di lui tali notizie ch’erano a Sua Eccellenza oltremodo spiacevoli.

Il signor di Beaufort, dopo aver fatto _fiasco_ in poesia, si era
provato alla pittura. Disegnava col carbone la figura del ministro,
e siccome la sua abilità men che mediocre nell’arte suddetta non gli
permetteva di arrivare ad una grande somiglianza, così non volendo
che rimanessero dubbi in quanto all’originale, egli scriveva sotto in
italiano: _Ritratto dell’illustrissimo facchino Mazzarino_.

Il signor di Chavigny si recò a fare una vista al duca, e lo pregò
di applicarsi ad altri passatempi, o almeno far ritratti senza la
leggenda. Il giorno dopo la camera era piena di leggende e di ritratti.
Il signor di Beaufort, secondo avviene però di tutti i prigionieri,
faceva come i bambini che più si ostinano nelle cose più a loro
proibite.

Il signor di Chavigny fu avvertito di questa nuova quantità di profili.
Beaufort non abbastanza sicuro di sè per arrischiarsi alla testa di
faccia, ne aveva provvista la sua stanza come una sala da esposizione.
Questa volta il governatore non disse nulla, ma un giorno mentre il
duca giuocava alla palla ci fece passare una spugna su tutti i disegni
e dipingere la camera a guazzo.

Il signor di Beaufort ringraziò il Chavigny, che avea tanta bontà da
ripulire e ridurre a nuovo i suoi cartoni, ed allora divise la camera
in più compartimenti, dei quali dedicò ciascuno ad un tratto della vita
del signor Mazzarino.

Il primo doveva rappresentare l’illustrissimo Mazzarino ricevendo un
fiacco di bastonate dal Bentivogli di cui era stato servitore;

Il secondo, l’illustrissimo stesso, facendo la parte d’Ignazio nella
tragedia del medesimo nome o titolo;

Il terzo, l’illustrissimo rubando il portafogli da primo ministro al
signor di Chavigny che già si credeva di possederlo;

E finalmente il quarto, l’illustrissimo negando le lenzuola a Laporte
cameriere di Luigi XIV, con dirgli che per un re di Francia era
abbastanza mutare le lenzuola ad ogni trimestre.

Queste erano grandi composizioni, che di certo oltrepassavano la
misura del talento del carcerato; ed infatti egli si era contentato di
tracciare i quadri e porvi le iscrizioni.

Per altro le iscrizioni ed i quadri furono sufficienti a risvegliare
gli scrupoli del signor di Chavigny, il quale fe’ prevenire il signor
di Beaufort che se non rinunziava ai progettati ritratti ei gli
toglierebbe tutti i mezzi di eseguirli. Il Beaufort rispose che poichè
gli si levava il modo di acquistarsi rinomanza nelle armi voleva
acquistarsela nella pittura, e non potendo essere un Bojardo o un
Trivulzio intendeva diventare un Michelangiolo o un Raffaello.

Una mattina che il duca passeggiava nel cortile, gli fu tolto il fuoco,
e col fuoco i carboni, e coi carboni la cenere, talchè quando tornò non
trovò il più piccolo oggetto di cui servirsi a guisa di matita.

Il Beaufort gridò, strillò, bestemmiò, disse che si voleva farlo morire
di freddo e di umidità come erano morti Puylaurens, il maresciallo
Ornano e il gran priore di Vendome; al che gli fu risposto dal
governatore, che qualora desse parola di abbandonare il disegno, o
promettesse di non far pitture storiche, gli si renderebbe la legna e
l’occorrente per accenderla. Egli non volle dare la parola, e rimase
senza fuoco tutto il resto dell’inverno.

E di più, in un momento che il prigioniero era fuori furono raspate le
iscrizioni, e la camera si ritrovò bianca e nuda senza il menomo segno
dei di lui lavori.

Allora il signor di Beaufort comprò da uno de’ suoi guardiani un cane
chiamato Pistacchio, dappoichè non v’era difficoltà che i carcerati
avessero un cane. Il signor di Chavigny dette la sua autorizzazione per
che il quadrupede cambiasse padrone. Il signor di Beaufort se ne stava
delle ore intiere con quella bestia. Ognuno si figurava che in tali ore
il detenuto attendesse all’educazione di Pistacchio, ma non si sapeva
qual direzione a questa egli desse. Una volta, essendo ormai Pistacchio
assai bene avvezzato, il Beaufort invitò il Chavigny e gli uffiziali
di Vincennes ad una grande rappresentazione nella sua camera. Giunsero
gl’invitati. La stanza era illuminata con quanti moccoli aveva il duca
potuto procurarsi. Cominciarono gli esercizi.

Il signor di Beaufort, con un pezzo di gesso staccato dal muro,
aveva segnata in mezzo all’appartamento una lunga riga bianca che
rappresentava una corda. Pistacchio al primo comando si mise su quella
linea, e si rizzò sulle zampe di dietro, e fra le zampe davanti tenendo
uno scudiscio da sbattere gli abiti, principiò ad andare su per la riga
con tutte le contorsioni che fanno i saltatori, poi restituita la mazza
al padrone, ricominciò le medesime mosse senza equilibrio.

Grandi applausi si prodigarono all’intelligentissimo animale.

Dividevasi lo spettacolo in tre parti. Finita la prima, si passò alla
seconda.

Bisognava innanzi a tutto dir quante ore erano.

Il signor di Chavigny mostrò il suo oriuolo a Pistacchio. Erano le sei
e mezza.

Pistacchio alzò ed abbassò la zampa sei volte, ed alla settima restò
con la zampa per aria. Non si poteva esser più chiari; un quadrante
solare non avrebbe risposto di meglio: come ognuno sa il quadrante
solare ha l’inconveniente di non accennare le ore se non se fino a
tanto che risplende il sole.

Poi si doveva riconoscere fra tutta la comitiva quale fosse il miglior
carceriere di tutte le prigioni di Francia.

Il cane fece tre volte il giro della stanza, e andò ad accucciarsi
rispettosamente ai piedi del signor di Chavigny.

Il signor di Chavigny fece mostra di trovare graziosissima la celia,
e ne rise un pochettino. Poi, finito ch’ebbe di ridere, si morse le
labbra ed aggrottò le ciglia.

In ultimo il signor di Beaufort propose al cane la questione
difficilissima, cioè, chi fosse il più gran ladro del mondo conosciuto.

Pistacchio andò attorno attorno, non si fermò vicino a nessuno, e corso
all’uscio si mise a raspare brontolando.

«Vedete signori, disse il principe, l’interessante animale non trovando
qui quei che io gli domando va fuori a cercarlo; ma non dubitate, non
per questo sarete privi di risposta.»

E continuò:

«Pistacchio, qua!»

La bestia obbedì.

«Il più gran ladro del mondo conosciuto, fece il duca, è egli il
segretario del re Le Camus, che venuto a Parigi con sei lire possiede
adesso sei milioni?»

Il cane mosse la testa in atto negativo.

«È forse, proseguì il signor di Beaufort, il soprintendente d’Emery,
che ha dato a suo figlio signor Thorè, nel dargli moglie, trecento
mila lire di rendite, ed un palazzo a petto al quale le Tuileries è un
tugurio, e il Louvre un bugigattolo?»

E il suddetto cane mosse la testa in atto negativo.

«Non è neppur quello? fece il principe, cerchiamo a modo: sarebbe egli
per caso l’illustrissimo facchino Mazzarino di Piscina?»

Pistacchio ammiccò disperatamente di sì, rizzando ed abbassando la
zucca otto o dieci volte di seguito.

«Signori! capite, disse il Beaufort agli astanti, che questa volta
nemmeno osavano ridere un pochettino, l’illustrissimo facchino
Mazzarino di Piscina è il più gran ladro del mondo conosciuto. Così
almeno dice Pistacchio. Si passi ad un altro esercizio.»

E il duca di Beaufort profittando del silenzio onde produrre il
programma della parte terza della serata, disse:

«Signori, tutti quanti vi rammenterete che il signor duca di Guise
aveva insegnato a tutti i cani di Parigi a saltare per madamigella
de Pons da lui proclamata la bella fra le belle; ebbene! quello era
un nulla, giacchè quegli animali obbedivano macchinalmente, e non
sapendo fare dissidenza (il Beaufort intendeva dire _differenza_) tra
coloro per cui dovevano saltare e coloro per i quali no. Pistacchio vi
mostrerà, egualmente che al signor governatore, com’egli sia superiore
a’ suoi colleghi. Signor di Chavigny, abbiate la bontà d’imprestarmi la
vostra canna d’India».

Il signor di Chavigny porse la canna richiestagli.

Il Beaufort la colloco orizzontalmente all’altezza di mezzo braccio.

«Pistacchio caro, disse poi, fatemi il piacere di saltare per madama di
Montbazon».

Tutti dettero in uno scroscio di risa: era noto come nel punto in cui
fu arrestato il Beaufort era amante palese della Montbazon.

E l’animale non fece difficoltà alcuna, e scavalcò allegramente di
sopra alla mazza.

«Eh! osservò il Chavigny, mi pare che Pistacchio faccia per l’appunto
quel che facevano i suoi colleghi quando balzavano per la de Pons.

«Aspettate! rispose il principe, Pistacchio, carino mio, saltate per la
regina».

E alzò il bastone di cinque o sei polzate.

Il quadrupede balzò rispettosamente di sul bastone.

«Pistacchio, amor mio, continuò il duca tirando su la mazza di altri
sei pollici, saltate per il re».

La bestia si slanciò, e ad onta dell’altezza schizzò sveltamente.

«E adesso, attenti! fece il duca abbassando il giunco sino a terra,
Pistacchio, mio bello, salta per l’illustrissimo facchino Mazzarino».

Il cane voltò il preterito al giunco.

«Oh! che azioni sono codeste? gridò il Beaufort segnando un semicircolo
dalla testa alla coda dell’animale, e presentandogli da capo la mazza,
salta su, Pistacchio!»

Ma Pistacchio, come prima, girò in tondo e volse alla mazza il
preterito.

Beaufort ripetè il movimento e la frase. Il cane impazientito si
avventò addosso alla canna d’india, la levò di mano al principe e la
ruppe coi denti.

Il signor di Beaufort gli tolse di bocca i due pezzi, e con tutta
serietà li rese al signore di Chavigny, chiedendogli mille scuse, e
dicendogli che il trattenimento era terminato, ma che se fra tre mesi
si compiacesse intervenire ad una seduta consimile, Pistacchio avrebbe
in allora imparato nuovi giuochi.

Dopo tre giorni Pistacchio era avvelenato.

Si cercò il reo, ma il reo (com’è da credere) rimase ignoto.

Il signor di Beaufort fece erigere una tomba col seguente epitaffio:

                _Qui giace Pistacchio, uno dei cani più
                   intelligenti che mai esisterono._

Su questo elogio non v’era che ridire, nè il signor di Chavigny potè
proibirlo.

Ma allora il duca disse ben altamente che sul suo cane si era fatta la
prova delle droghe che si dovevano adoprare per lui, e un giorno dopo
pranzo si mise a letto gridando che aveva i dolori di corpo e che il
Mazzarino lo aveva fatto avvelenare.

Questa burletta arrivò alle orecchie del ministro e gli mise gran
paura. La torre di Vincennes era reputata malsana, e madama di
Rambouillet aveva detto qualmente la stanza in cui erano morti
Puylaurens, il maresciallo Ornano e il gran priore di Vendome valeva
tanto arsenico quanto pesava, e codesto detto aveva fatto molto
incontro. Ordinò quindi che il prigioniero non mangiasse più cosa
alcuna senza farsi prima il saggio del vino e delle vivande, ed allora
fu che il birro La Ramée gli fu posto vicino come assaggiatore.

Frattanto il signor di Chavigny non aveva perdonate al duca le
impertinenze scontate dall’innocente Pistacchio. Era una creatura del
defunto ministro, si diceva perfino che fosse suo figlio, e dunque
doveva intendersi un bricciolino di tirannia. Si piccò a rendere i
suoi tormenti al signor di Beaufort, gli levò quanti coltelli di ferro
e forchette di argento gli erano stati lasciati per lo innanzi, e
gli fece dare coltelli di argento e forchette di legno. Il Beaufort
si lagnò, ma il Chavigny gli mandò a rispondere come aveva inteso
appunto che il ministro avendo detto a madama di Vendome che suo figlio
starebbe tutta la vita nella torre di Vincennes, aveva temuto che il
prigioniero a sì trista notizia si portasse a qualche tentativo di
suicidio. Dopo due settimane il signor di Beaufort trovò due file di
alberi grossi quanto un dito mignolo schierati sulla via che conduce
al giuoco del pallone, domandò che cosa fosse, e gli fu risposto
ch’erano là per dargli dell’ombra in un certo giorno. Finalmente, una
mattina venne da lui il giardiniere, e in apparenza di voler dargli
nel genio gli annunziò che gli si pianterebbero degli sparagi. Come
tutti sanno, gli sparagi che ora stanno quattro anni per nascere ne
richiedevano cinque in quell’epoca in cui era meno perfezionata l’arte
dell’ortaggio. E tale alto di gentilezza fece andare sulle furie il
duca di Beaufort.

Quindi pensò esso esser tempo di ricorrere ad uno dei suoi quaranta
mezzi, e cominciò dal più semplice, ch’era di corrompere la Ramée:
ma la Ramée aveva comprata la sua carica per mille cinquecento scudi,
e bramava di conservarsela; sicchè invece di secondare le vedute del
detenuto andò correndo ad avvertire il signor di Chavigny, il quale
mise tosto otto uomini nella camera stessa del duca, raddoppiò le
sentinelle e triplicò i posti di guardia. Da quel momento il principe
cominciò a camminare, come i re da teatro, con quattro uomini davanti e
quattro dietro, senza contare quei che andavano in fila.

Sul principio il signor di Beaufort se la rise di molto di questa
severità, che per lui diventava una distrazione. Ripetè quanto poteva,
«la mi diverte, la mi _svaria_,» voleva dire _mi svaga_, ma secondo ci
è noto e’ non diceva sempre ciò che avrebbe voluto. Poi aggiungeva: «E
d’altronde, quando avrò idea di sottrarmi alle onoranze che mi fate, ho
altri trentanove mezzi».

A lungo andare però la distrazione si convertì in noja. Per millanteria
il signor di Beaufort la resse per sei mesi, alla fine dei quali,
vedendo sempre otto uomini che sedevano quando egli sedeva, si alzavano
quando egli si alzava, si fermavano quando ei si fermava, cominciò a
far cipiglio ed a contare i giorni.

Questa nuova persecuzione cagionò un incremento all’odio contro al
Mazzarino. Il principe bestemmiava da mattina a sera, e non parlava che
di fare un ammorsellato di orecchie del ministro. Era cosa da fremere;
il ministro informato di quanto succedeva a Vincennes, si calcava senza
volere la berretta fin sul collo.

Un giorno il signor di Beaufort, radunò i guardiani, e ad onta della
sua difficoltà di elocuzione passata già in proverbio, fece ad essi il
seguente discorso, apparecchiato, ben è vero anticipatamente:

«Signori, e soffrirete che un nepote del buon re Enrico IV sia oppresso
d’oltraggi e d’ignobilia? (intendeva dire ignominia) cappeterina! come
diceva mio nonno, io ho quasi regnato in Parigi, sapete? per un’intera
giornata ho avuto in custodia il re e _monsieur_. Allora la regina
mi accarezzava e mi chiamava il più onest’uomo del regno. Signori
borghesi, adesso mettetemi fuori, andrò diritto al Louvre, torcerò il
collo al Mazzarino, voi sarete le mie guardie del corpo, vi farò tutti
uffiziali e con buone pensioni. Cappiterina! avanti, marcia!»

Ma comunque si fosse patetica, l’eloquenza del nepote di Enrico IV,
non commosse quei cuori di macigno; nessuno fece motto. E visto ciò,
il signor di Beaufort disse loro ch’erano tutta canaglia, e se li fece
nemici acerrimi.

Alcune fiate, quando il signor di Chavigny si portava a trovarlo, al
che non mancava mai due o tre volte per settimana, il duca profittava
del momento per minacciarlo.

«Che fareste, gli diceva, se un bel giorno vedeste comparire un’armata
di Parigini ricoperti di ferro e carichi di schioppi venuti a
liberarmi?

«Monsignore, rispondeva Chavigny al principe con una profonda
riverenza, io ho sulle mura venti pezzi di artiglieria, e nelle
casematte l’occorrente per tirar trentamila colpi di cannone, e ci
lavorerei meglio che mi potessi.

«Sì, ma dopo che aveste fatti i trentamila spari, quelli piglierebbero
la torre, ed io poi sarei costretto a lasciar che v’impiccassero, del
che, per certo, sarei dolentissimo!»

Ed il principe salutava esso pure Chavigny con estrema cortesia.

«Ma io, monsignore, soggiungeva il Chavigny, al primo ribelle che
passasse fuori dalle mie porte o ponesse i piedi sui miei bastioni,
sarei obbligato con mio sommo rincrescimento ad ammazzarvi di mia
propria mano, attesochè siete affidato a me in particolare e devo
restituirvi o vivo o morto».

E riveriva di nuovo Sua Altezza.

«Sì, ribatteva il duca, ma siccome quelle brave genti non verrebbero
qui che dopo aver data una buona impiccatura al signor Giulio
Mazzarino, vi guardereste bene dal pormi addosso le mani, e mi
lascereste vivere per paura di essere tirato da quattro cavalli, dai
Parigini, lo che è più tristo ancora d’essere appiccato, non dubitate!»

Questi scherzi agrodolci andavano innanzi, dieci minuti, quindici, o
venti al più, ma finivano sempre che Chavigny verso la porta gridava:

«Olà! la Ramée!»

Ed il chiamato accorreva.

«Ehi! gli diceva il signor di Chavigny, vi raccomando in particolar
modo il signor di Beaufort, trattatelo con tutti i riguardi dovuti al
suo nome ed al suo rango, e a tale effetto non lo perdete un momento di
vista».

E poscia si ritirava, salutando il Beaufort con una cortesia cotanto
ironica che faceva venire a questo la mosca al naso.

La Ramée, adunque, era diventato il commensale obbligato del principe,
il suo sempiterno guardiano, l’ombra del di lui corpo; ma noi dobbiamo
pur dirlo, la compagnia di la Ramée, buon gaudente, schietto camerata
a tavola, bevitore riconosciuto, gran giuocatore, in sostanza buona
creatura, e non avente per Beaufort se non un solo difetto, quello
cioè di essere incorruttibile, si era cambiata pel duca da molestia in
distrazione.

Pur troppo non succedeva altrettanto di la Ramée, e quantunque
ei valutasse sino a un certo segno l’onore di star rinchiuso con
un prigioniero di sì alta importanza, pure il piacere di vivere
familiarmente col nepote di Enrico IV, non gli compensava quello che
avrebbe provato ad andare di quando in quando a fare una visita alla
sua famiglia. Uno può essere ottimo birro del re, e nel tempo stesso
buon padre e buon marito.

E messer la Ramée adorava la moglie e i figliuoli, che ormai vedeva a
mala pena di cima alla muraglia quando essi per procacciargli quella
contentezza paterna e conjugale se ne venivano a passeggiare dall’altra
parte dei fossi, ed assolutamente per lui questo era poco, ed egli
capiva che il suo umore allegro, da lui considerato qual cagione della
sua buona salute — non calcolando che probabilmente ne era ben anzi il
risultato — non reggerebbe lungo tempo ad un simile metodo di vita.

E siffatta persuasione maggiormente si accrebbe nella sua mente
allorchè poco a poco Beaufort e Chavigny sempre più inaspritisi,
cessarono totalmente di frequentarsi. Allora la Ramée sentì più forte
aggravarsi sul suo capo la responsabilità; e siccome giustamente, per
le ragioni da noi quivi spiegate, ei cercava qualche sollievo, accolse
premurosamente la proposizione fattagli dal suo amico l’intendente
del maresciallo di Grammont di dargli un compagno, e tenutone subito
proposito col signor di Chavigny, gli era stato da questo risposto non
opporvisi in veruna maniera, con patto che peraltro il soggetto fosse
di suo genio.

A noi sembra inutilissimo il dare ai nostri leggitori il ritratto
fisico o morale di Grimaud: se essi, come noi speriamo, non hanno
dimenticata del tutto la prima parte della presente opera[8] debbono
aver serbato assai chiara ricordanza di quello stimabile individuo, in
cui non era avvenuto altro cambiamento se non se di avere venti anni di
più, il quale acquisto non aveva fatto che renderlo più taciturno che
mai, ancorchè Athos dopo la variazione in lui succeduta gli avesse resa
piena licenza di parlare.

Ma in quell’epoca Grimaud aveva già da dodici o quindici anni adottata
l’abitudine di tacersi, ed un’abitudine di dodici o quindici anni è
diventata una seconda natura.



XX.

_Entra in funzioni Grimaud._


Sicchè Grimaud si presentò alla torre di Vincennes con l’esteriore
suo favorevole. Il signor di Chavigny si piccava d’aver l’occhio
infallibile, lo che potrebbe indurci ad opinare che realmente fosse
figliuolo di Richelieu che aveva in eterno codesta pretensione: quindi
esaminò attentamente il postulante, e congetturò che i sopraccigli
accosti, le labbra sottili, il naso ricurvo e i grossi pomelli di
Grimaud fossero indizi perfetti. Gli disse soltanto dodici parole, e
Grimaud ne rispose quattro.

«Ecco, fece Chavigny, un giovanotto come si deve; andate a farvi
accettare da la Ramée, dicendogli che fate ottimamente al caso mio».

Grimaud voltò le calcagna, e andò a passare sotto l’inspezione assai
più rigorosa di la Ramée. Ciò che rendeva costui più difficile si era
che Chavigny sapeva di potersi riposare su di lui, ed egli voleva poter
riposarsi sopra Grimaud.

Aveva Grimaud per l’appunto le qualità capaci di dare nel genio
ad un birro il qual desideri un sottobirro; dimodochè dopo mille
interrogazioni che ottennero appena un quarto di risposta, la Ramée
affascinato da quella sobrietà di parole si stropicciò le mani ed
arruolò il Grimaud.

«Gli ordini? chiese quest’ultimo.

«Eccoli. Non lasciar mai solo il detenuto, levargli qualunque arnese
pungente e tagliente, impedirgli di far de’ cenni alle genti di fuori e
troppe ciarle co’ suoi guardiani.

«Non v’è altro?

«Niente altro pel momento. Nuove circostanze, se ve ne saranno, daranno
luogo a nuove istruzioni.

«Bene» fece Grimaud.

Ed entrò dal duca di Beaufort.

Questi stava occupato a pettinarsi la barba. La barba, ei se la
lasciava crescere, ugualmente che i capelli, per far dispetto a
Mazzarino mostrando la sua miseria e alterando la sua trista figura.
Però, essendogli sembrato, pochi giorni innanzi, di su dalla torre,
di riconoscere in fondo ad una carrozza la bella Montbazon, la di cui
memoria gli era tuttavia cara, non voleva essere per lei qual era per
Mazzarino, e nella speranza di rivederla aveva chiesto un pettine di
piombo, che gli era stato concesso.

Il Beaufort aveva domandato il pettine di piombo, perchè alla guisa
di tutti i biondi egli era di pelo un po’ rossiccio, e pettinandoselo
veniva a tingerlo più cupo.

Grimaud capitato colà adocchiò il suddetto pettine posato dal principe
sul tavolino, e lo prese facendo una riverenza.

Il duca guardò attonito quella figura singolare.

La figura si mise in tasca il pettine.

«Ehi! olà! che roba è questa? gridò il duca, e chi è quel birbante?»

Grimaud non fiatò, ma fe’ un altro saluto.

«Sei tu mutolo?» esclamò il duca.

L’altro ammiccò di no.

«Dunque, chi sei? rispondi, te lo comando! disse il Beaufort.

«Guardiano, pronunziò Grimaud.

«Guardiano? strillò il principe, oh bene! non mancava altro alla mia
raccolta che questo muso da forca!... Ehi! la Ramée! qua, qua gente!»

Venne la Ramée. Disgraziatamente pel duca, questo fidandosi di Grimaud
stava in procinto di trasferirsi a Parigi; era già nel cortile, e tornò
su malcontento.

«Che v’è egli, mio principe? domandò.

«Che mascalzone è quello che mi piglia il pettine e se lo mette nella
sua saccoccia sporca?

«È una delle vostre guardie, monsignore, un giovane pien di merito, e
che, ne sono certo, apprezzerete come facciamo il signor di Chavigny ed
io.

«Perchè mi prende il pettine?

«Ma davvero, poi, disse la Ramée, perchè prendete il pettine di
monsignore?»

Grimaud si cavò di tasca il pettine, ci passò sopra il dito, e
guardando, e mostrando la zanna si limitò a profferire questa parola:

«Pungente.

«È vero! fece la Ramée.

«Che dice quella bestia? chiese il duca.

«Monsignore, dice che dal re vi è proibito qualunque arnese pungente.

«Ah! ribattè Beaufort, siete forse impazzito, la Ramée? se me lo deste
voi stesso!

«E feci male, perchè nel darvelo, Altezza, contravvenni agli ordini».

Il principe guatò con collera Grimaud, che aveva restituito a la Ramée
l’oggetto della questione, e borbottò:

«Prevedo che quel furfante mi darà noja assai!»

Infatti, in carcere non v’hanno sentimenti intermedj: uomini e cose,
tutto vi è amico o nemico; s’ama e si odia qualche volta con ragione,
ma più ancora per istinto. Ora, pel motivo semplicissimo che alla prima
occhiata Grimaud era piaciuto a Chavigny e la Ramée, per questo, i suoi
pregi di faccia al governatore ed al birro diventando difetti in faccia
al prigioniero, ei dovea subito spiacere a Beaufort.

Bensì Grimaud non volle tosto al primo giorno romperla col detenuto:
egli aveva bisogno non di una repugnanza repentina, ma di un odio bello
e buono e tenace. Per lo che si ritirò, cedendo il posto a quattro
custodi, i quali avendo fatto colazione potevano riassumere il loro
servizio appresso al principe.

Il signor di Beaufort dal canto suo aveva da preparare una burla di
cui faceva gran caso: aveva chiesto dei gamberi per la colazione
dell’indomani, e divisava di occuparsi tutta la giornata a metter
su una piccola forca, onde appiccare il più bello di tutti in mezzo
alla stanza. Il color rosso che doveva dargli la cottura aumenterebbe
l’illusione, e così egli godrebbe della soddisfazione d’impiccare
Mazzarino in effigie, aspettando che fosse impiccato in realtà, senza
però che alcuno potesse a lui rimproverare di aver giustiziato altro
che un gambero.

Lavorò assiduo all’apparecchio dell’esecuzione. In carcere si
rimbambisce, e il signor di Beaufort era di tal carattere da subire
più di chiunque questo inconveniente. Andò a passeggiare al solito,
strappò due o tre ramoscelli destinati ad aver parte nella sua scena
buffonesca, dopo aver cercato di molto trovò un pezzo di bicchiere
rotto (del che si mostrò contentissimo), e tornato in camera sfilacciò
un fazzoletto.

Nessuno di questi atti sfuggì all’attenzione di Grimaud.

La mattina dipoi la forca fu pronta; e per poterla piantare in mezzo
alla stanza il signor di Beaufort ne affilava una delle punte col suo
pezzo di vetro.

La Ramée lo guardava con la curiosità di un padre che pensi di scoprire
tra poco un nuovo balocco da dare a’ suoi figliuoli, ed i quattro
custodi con quell’aria d’indolenza che formava in allora, come oggi
pure, il carattere principale della fisonomia del soldato.

Quando entrò Grimaud, il duca aveva posato il pezzo di bicchiere;
sebbene non avesse ancora terminato di assottigliare il piede del
patibolo, aveva sospesa l’operazione per legare il refe alla punta
opposta.

Il principe diede a Grimaud un’occhiata che manifestava qualche resto
del mal umore della sera precedente, ma siccome gioiva anticipatamente
del risultato che avrebbe la sua invenzione, così non gli badò più
altrimenti.

Se non che quando ebbe finito di fare un nodo fisso ad una cima del
filo ed all’altra un nodo scorridojo, quando ebbe dato uno sguardo
al piatto di gamberi e scelto il più maestoso, si girò per andare a
pigliare l’avanzo di bicchiere, e questo era sparito.

«Chi mi ha preso il vetro?» domandò il duca aggrottando le ciglia.

Grimaud ammiccò esser egli stesso.

«Come! tu? e perchè?

«Ma davvero, chiese la Ramée, perchè avete preso il vetro di Sua
Altezza?»

Grimaud che aveva in mano il nuovo oggetto di contesa ci passò sopra il
dito, e disse:

«Tagliente.

«È giusto, monsignore! fece la Ramée, capperi! che prezioso custode
abbiamo acquistato!

«Signor Grimaud, disse Beaufort, per vostro bene vi scongiuro a badare
di non trovarvi mai a portata della mia mano».

Grimaud fece una riverenza e si ritirò in fondo alla camera.

«Zitto, zitto, monsignore! seguitò la Ramée, datemi codesto palo, e ve
lo affilerò col mio coltello.

«Voi? domandò il duca ridendo.

«Io, sì: non era questo che volevate?

«Certo... veh! così sarà più ridicola!... a voi, mio caro la Ramée».

Il birro, che non aveva capita l’esclamazione del principe, assottigliò
con tutto garbo il piede del palo.

«Bravo! fece il Beaufort, adesso fatemi un buco in terra, intanto ch’io
vo a prendere il paziente».

L’altro posò un ginocchio al suolo e fece la buca.

Frattanto il duca attaccò il gambero al refe.

Poi fissò il patibolo nel pavimento, dando in uno scroscio di risa.

Rise anche la Ramée, ma senza sapere di che; e le guardie vi si unirono
in coro.

Grimaud fu il solo che non ridesse. Si avvicinò a la Ramée, e
additandogli l’animaletto che girava in cima al filo, gli disse:

«Ministro.

«Appiccato da Sua Altezza duca di Beaufort! continuò il principe
smascellandosi dalle risa, e da messer Jacopo Crisostomo la Ramée birro
del re».

Il qual birro inorridito cacciò un urlo, si scagliò verso il palo,
lo levò di terra, e lo ridusse a pezzetti, e questi buttò via dalla
finestra. Ed altrettanto stava per fare del gambero, mentre era fuori
di sè, ma Grimaud glielo prese di mano.

«Buono da mangiare», esso disse.

E se lo ripose in saccoccia.

Questa volta il duca si era divertito tanto che quasi perdonò a
Grimaud la parte da lui fatta. Però, nel corso della giornata riflettè
all’intenzione avutasi dal guardiano, e questa in fondo gli parve
pessima, e sentì accrescersi in petto l’odio contro di lui.

Frattanto, con sommo dolore di la Ramée, la storia del gambero fece
molto strepito nell’interno della torre ed anche fuori. Il signor
di Chavigny, che in cuore aborriva il ministro, si diè premura di
confidare l’aneddoto a due o tre amici, che subito lo divulgarono.

E ciò tenne allegro per due o tre giorni il signor di Beaufort.

Il duca aveva osservato fra’ suoi custodi un uomo di buon aspetto, e
lo accarezzava tanto più quanto ad ogni istante aveva maggior rancore
contro Grimaud. Una mattina, che aveva preso in disparte quell’uomo, ed
era riuscito a parlargli qualche tempo da solo a solo, capitò Grimaud,
esaminò quel che là succedeva, ed accostatosi rispettosamente ai due
interlocutori pigliò per un braccio il guardiano.

«Che volete?» gli domandò brutalmente il duca.

Grimaud accompagnò il custode quattro passi in là, e gli disse:

«Andate».

Quegli obbedì.

«Oh! esclamò il principe, mi siete insopportabile, vi castigherò».

Grimaud s’inchinò ossequiosamente.

«Vi romperò le ossa!» gridò il principe esacerbato.

Grimaud ossequiosamente s’inchinò.

«Signore spione, continuò il duca, vi strozzerò con le mie mani!»

Grimaud salutò camminando all’indietro.

«E questo, non più tardi di adesso!» soggiunse il signor di Beaufort,
che pensava esser meglio finirla subito.

E stese i due pugni verso Grimaud.

Grimaud si contentò di spinger fuori il guardiano e chiuder l’uscio.

Al tempo stesso sentì le mani del signor di Beaufort che gli si
abbassavano sulle spalle come due tanaglie di ferro, ma in vece di
chiamare o difendersi si limitò a portarsi lentamente l’indice a
pari altezza delle labbra, ed a profferire a mezza voce sotto un
graziosissimo sorriso:

«Zitto!»

Erano cose sì rare in Grimaud un gesto, un sorrisetto e una parola,
che Sua Altezza si fermò in tronco, giunta al massimo grado di
stupefazione.

Grimaud approfittò del momento per cavarsi dalla fodera della casacca
un bel bigliettino con sigillo signoresco, a cui la lunga permanenza
ne’ suoi abiti non aveva fatto perdere del tutto il buon odore, e senza
pronunziare un accento lo porse al signor duca.

Il quale, vieppiù maravigliato, lasciò libero Grimaud, pigliò il
biglietto, e riconosciutone il carattere, esclamò:

«Madama di Montbazon!»

Grimaud col capo ammiccò di sì.

Il principe lacerò sollecito la sopraccarta, si passò una mano sugli
occhi, tant’era il bagliore che provava, e lesse quanto segue:

      «Mio caro duca

  «Potete fidarvi totalmente al bravo uomo che vi consegnerà il
  presente, essendo egli il domestico di un gentiluomo ch’è tutto
  nostro, e ce lo ha garantito come esperimentato mediante venti anni
  di costante fedeltà. Ha aderito ad entrare al servizio del vostro
  birro e rinchiudersi con voi a Vincennes, onde disporre e secondare
  la vostra fuga, della quale noi ci andiamo occupando.

  «Si avvicina il momento della liberazione. Abbiate pazienza
  e coraggio, pensando che non ostante il tempo e la lontananza
  tutti gli amici vostri vi serbano ancora i sentimenti che per voi
  nudrivano.

                                            Vostra affezionatissima

                                                MARIA DE MONTBAZON.

  P. S. Firmo per intiero, giacchè sarebbe troppa vanità il supporre
  che dopo cinque anni di assenza riconosceste le mie iniziali».

Per un poco il duca restò sbalordito. Quel che cercava da un
quinquennio senza aver mai potuto trovarlo, cioè un servo, un ajuto,
un amico, gli cadeva giù dal cielo in un botto allorchè meno se lo
aspettava. Guardò Grimaud con istupore, e tornò a leggere da cima a
fondo la lettera.

«Oh cara Maria!» balbettò dopo ch’ebbe finito, «dunque era dessa che
avevo veduta in carrozza! come! pensa ancora a me dopo cinque anni di
separazione! Questa, cospetto! è una costanza che non si vede se non
nell’_Astrea_!»

Indi volgendosi a Grimaud:

«E tu, brav’uomo, gli domandò, acconsenti ad ajutarci?»

Quegli fe’ segno di sì.

«E venisti qui espressamente per questo?»

Ripetuto il medesimo cenno.

«Ed io che ti voleva strozzare!» esclamò il signor di Beaufort.

Grimaud sogghignava.

«Ma aspetta!» disse il principe.

E si frugò nel taschino.

«Aspetta! continuò, e rinnuovava la prova riuscita inutile la prima
volta, non sarà detto che rimanga non premiato tanto zelo per un nepote
di Enrico IV!».

I movimenti del duca di Beaufort indicavano le migliori intenzioni del
mondo, ma una delle precauzioni prese a Vincennes erasi quella di non
lasciargli danari.

Per lo che Grimaud ch’ebbe visto il rincrescimento del duca, si levò
dalla saccoccia una borsa piena d’oro e la presentò a lui.

«Ecco, disse, quel che voi cercate».

Beaufort aprì la borsa per vuotarla nelle mani di Grimaud, ma questi
scosse la testa e indietreggiando un poco, disse:

«Grazie, monsignore, sono pagato».

Passava il duca da una ad altra sorpresa. Porse la mano a Grimaud,
costui gliela baciò rispettosamente. Grimaud aveva preso alquanto delle
maniere alla grande di Athos.

«E adesso, domandò di Beaufort, che faremo?

«Monsignore, sono le undici antimeridiane; alle due chiedete di fare
una partita alla palla con la Ramée e mandate due o tre palle per
disopra ai bastioni.

«Ebbene? e poi?

«E poi, vi aggrapperete al muro, e griderete a un uomo che lavora nei
fossi di rimandarvele.

«Capisco», rispose il principe.

Apparve somma soddisfazione in viso a Grimaud; il poco uso ch’ei faceva
della favella gli rendeva difficile il conversare.

Egli fece un atto come per andarsene.

«Ma, seguitò il duca, non vuoi accettar nulla?

«Vorrei che Vostra Altezza mi facesse una promessa.

«E quale? di’ pure.

«Che quando scapperemo, io passi sempre e dappertutto il primo; giacchè
se ripigliano Vostra Altezza, il maggior rischio per lei è di esser
rimessa nella sua prigione, mentre a me, se mi acchiappano, il meno che
possa succedere è di essere impiccato.

«È giusto, replicò il duca, e da gentiluomo sarà fatto come tu richiedi.

«Ora, proseguì Grimaud, non ho da domandarvi più altro che una cosa,
monsignore, ed è di farmi l’onore di aborrirmi quanto prima.

«Procurerò», disse il duca.

Fu bussato.

Il principe si mise in tasca biglietto e borsa, e si gettò sul letto.
Si sapeva esser quello il suo compenso nei momenti di noja. Grimaud
andò ad aprire. Era la Ramée che veniva dalle stanze del ministro
dov’era accaduta la scena già da noi narrata.

La Ramée diede intorno uno sguardo indagatore, e veduti sempre i
medesimi sintomi di antipatia fra il prigioniero e il custode sorrise
d’interna soddisfazione.

E poi disse a Grimaud:

«Bene, mio caro, benone. È stato parlato di voi dianzi in buon luogo, e
spero che abbiate presto delle notizie che non vi spiaceranno».

Grimaud salutò in un modo che cercò di rendere grazioso, e si ritirò
conforme soleva quando giungeva il suo superiore.

«Ebbene, monsignore! disse la Ramée con la sua risata grossolana, fate
sempre muso al povero giovanotto?

«Ah! siete voi, la Ramée? rispose il duca, affè gli era tempo che
veniste. Mi ero buttato sul letto, ed avevo voltato il viso verso
il muro per non cedere alla tentazione di mantener la promessa con
istrangolare quello scellerato di Grimaud.

«Dubito però assai, ribattè il birro, spiritosamente alludendo alla
mutolezza del suo subalterno, che abbia dette a Vostra Altezza cose
spiacevoli.

«Lo credo, per Diana! un mutolo d’Oriente! vi giuro ch’era tempo che
veniste, ed avevo premura di rivedervi.

«Troppa bontà, monsignore, seguitò la Ramée sensibile al complimento.

«Sì, in coscienza, continuò il principe, oggi mi sento sì poco agile
che non vi divertireste a guardarmi.

«Dunque faremo una partita alla palla, propose macchinalmente la Ramée.

«Se non v’incresce.

«Sono ai comandi di Vostra Altezza.

«Gli è, caro mio, che siete molto garbato, e vorrei rimanere
eternamente a Vincennes per avere la soddisfazione di passare la mia
vita con voi.

«Monsignore, io credo che non sarà colpa del ministro se non si
compiono le vostre brame.

«Come, come? lo avete visto da poco in qua?

«Mi ha mandato a chiamare stamane.

«Davvero! per parlarvi di me?

«E di chi volete che mi parli? se siete propriamente il suo tormento,
il suo incubo, monsignore!»

Il duca sogghignò amaramente.

«Ah! disse, se accettaste le mie offerte!

«Eh via! Altezza, si torna a discorrere di questo? ma ecco, non siete
ragionevole!

«La Ramée, vi ho detto e vi ripeto, che farei la vostra fortuna.

«E con che cosa? appena usciate di carcere saranno confiscati i vostri
beni.

«Appena io esca di carcere sarò padrone di Parigi.

«Zitto là! zitto! posso sentire cose simili, io? Bella conversazione da
tenersi a un ufficiale regio! Comprendo, monsignore, che mi toccherà a
cercare un secondo Grimaud!

«Animo, non ne parliamo più. Sicchè, fra te e il ministro si è tenuto
proposito di me? La Ramée, un giorno ch’ei ti mandi a chiamare,
dovresti indossare le mie vesti, io andrei in vece tua, lo strozzerei,
e da gentiluomo! se tu esigessi questo patto, tornerei in prigione.

«Monsignore, mi accorgo che mi toccherà far venir qui Grimaud!

«Orsù, ho torto.... E che ti ha detto l’assassino?

«Monsignore, vi meno buona questa parola perchè fa rima con
Mazzarino.... Che mi ha detto? di sorvegliarvi.

«E perchè sorvegliarmi? richiese inquieto il duca.

«Perchè un astrologo ha prognosticato che scappereste.

«Ah! un astrologo lo ha prognosticato! ripetè Beaufort quasi tremando.

«Eh sì, Dio buono! in parola d’onore, non sanno che diamine ideare per
tormentare le genti come quegl’imbecilli di stregoni.

«E che hai risposto all’illustrissimo?

«Che se l’astrologo faceva del lunarj, lo consigliavo a non comprarli.

«Perchè?

«Perchè, per fuggire bisognava diventare un fringuello o uno scricciolo.

«E hai ragione pur troppo!... Andiamo a giuocare alla palla, la Ramée.

«Domando scusa a Vostra Altezza, ma occorre che mi conceda una mezz’ora.

«E perchè?

«Perchè il signor Mazzarino ha più superbia di voi, quantunque non sia
di nascita tanto buona, e si è scordato d’invitarmi a colazione.

«Or bene, vuoi ch’io ti faccia portar da mangiare qui?

«No, no; avete da sapere che il pasticciere che stava dirimpetto al
castello, e si chiamava maestro Marteau....

«Ebbene?

«Otto giorni sono vendè il suo negozio a un pasticciere di Parigi, al
quale pare che i medici abbiano ordinata l’aria di campagna.

«E che m’importa?

«Un momento! talchè questo maledetto pasticciere ha davanti alla
bottega un mucchio di robe che fanno venire l’acquolina alla bocca.

«Ghiottone!

«Eh! non siamo mica ghiottoni, rispose la Ramée, perchè si ha caro
di mangiar bene. Sta nella natura dell’uomo di cercare la perfezione
tanto nelle sfogliate come nelle altre cose. Ora quel manigoldo,
quando mi ha visto fermare dinanzi la sua mostra, mi è venuto incontro
con la lingua tutta infarinata, dicendo: — Signor la Ramée, mi avete
da procurare per avventori i prigionieri della torre; ho comprato lo
stabilimento dal mio predecessore, perchè mi assicurava che provvedeva
il castello, eppure, sul mio onore, da otto giorni che son qua,
il signor di Chavigny non ha fatto prendere da me un biscottino. —
Ma, gli ho risposto, forse il signor di Chavigny avrà paura che le
vostre paste non siano buone. — Che non sian buone! ecco, signor la
Ramée, voglio farvene giudice, e ora subito. — Non posso, devo andare
assolutamente alla torre. — Andate pei fatti vostri, giacchè avete
premura, ma tornerete fra mezz’ora. — Fra mezz’ora? — Sì: avete fatto
colazione? — No davvero. — Dunque, ecco un pasticcio che vi aspetterà,
con una bottiglia di Borgogna vecchio.... — Sicchè, monsignore, capite
ch’essendo a digiuno, bramerei con licenza di Vostra Altezza....»

E la Ramée fece un inchino.

«Va pure, imbecille! disse il duca, ma bada che ti do una sola mezz’ora.

«Posso promettere al Marteau che sarete suo avventore?

«Sì, purchè non cacci de’ funghi nei pasticci: tu sai che i funghi del
bosco di Vincennes sono micidiali alla nostra famiglia».

La Ramée uscì senza por mente all’allusione, e dopo cinque minuti
l’ufficiale di guardia entrò col pretesto di far onore al principe
tenendogli compagnia, ma in realtà per eseguire gli ordini del
ministro, il quale conforme ci è noto, raccomandava di non perdere di
vista il prigioniero.

Ma il duca, nei cinque minuti ch’era stato solo, aveva avuto agio di
rileggere il biglietto di madama di Montbazon, da cui gli rimaneva
provato che gli amici non lo dimenticavano ed anzi si occupavano
della sua liberazione; egli ignorava con qual modo, ma si proponeva di
finire con far parlare Grimaud, in cui aveva tanto maggior fiducia, in
quanto che ormai comprendeva tutta la sua condotta, e capiva non aver
esso inventate le sue piccole persecuzioni contro di lui, se non per
togliere a’ guardiani ogni sospetto d’intelligenza seco.

Tale astuzia diede al signor di Beaufort una ottima idea del giudizio
di Grimaud, ed egli risolse di fidarsene interamente.



XXI.

_Ciò che contenevasi ne’ pasticci del successore di maestro Marteau._


Mezz’ora dopo tornò la Ramée, svelto ed allegro come uno che abbia
mangiato bene, e specialmente ben bevuto. Aveva trovato il pasticcio
stupendo: e il vino delizioso.

Era bel tempo e da permettere la partita progettata. Il giuoco di
palla di Vincennes era situato all’aria aperta, talchè al duca rimaneva
facilissimo di eseguire quel che gli aveva raccomandato Grimaud, cioè
di mandare le palle nei fossi.

Bensì fin che non furono le due il signor di Beaufort non cadde in
questa svista, perchè quella era l’ora prefissa. E non ostante perdè
sempre, e così gli fu dato d’incollerirsi, e fare, secondo succede in
casi simili, uno sbaglio sull’altro.

Al tocco delle due le palle cominciarono a pigliar la via dei fossi,
con grande soddisfazione di la Ramée, il quale segnava un quindici ad
ogni fallo che faceva il principe.

Ed i falli furono tanti che presto mancarono le pillotte. La Ramée
propose d’inviare qualcuno a ripescarle. Il duca giudiziosamente fece
osservare che sarebbe tempo perduto, ed avvicinatosi al muro del
bastione, che in quel punto, siccome diceva il birro, era alto per
lo meno cinquanta piedi; vide un uomo che lavorava in uno dei molti
giardinetti coltivati dai contadini sul di dietro del fossone.

«Ehi, galantuomo!» disse il duca.

Quegli alzò il capo, ed il principe ebbe a dare un urlo dalla sorpresa.
L’uomo, il contadino, il giardiniere, era Rochefort, che il principe
credeva alla Bastiglia.

«Eh! che c’è egli costassù? domandò Rochefort.

«Favorite rigettarci le nostre palle».

Il coltivatore fe’ un cenno con la testa e si mise a buttar le
pillotte. La Ramée e le guardie le coglievano da terra. Una ne cadde
ai piedi del duca. Esso che capì essere a lui destinata, se la pose in
saccoccia.

E fatto un segno di ringraziamento al contadino, ritornò alla partita.

Ma il duca era assolutamente in una giornataccia, continuava a far
falli anzichè mantenersi nei limiti; due o tre palle balzarono di
nuovo giù, e rimasero perdute dacchè non v’era più il giardiniere che
lo rinviasse. Poi il signor di Beaufort dichiarò che aveva persino
vergogna del suo poco garbo e non voleva seguitare.

La Ramée era contentissimo di aver battuto così un principe del sangue.

Questi se n’andò in camera e si pose a letto. Vi stava quasi tutte le
giornate intere dacchè gli si erano tolti i libri.

La Ramée prese i panni di Sua Altezza, col pretesto che erano carichi
di polvere e li farebbe spazzolare, ma in realtà per esser certo che
Sua Altezza non si movesse. Era un uomo cauto la Ramée!

Per buona sorte il signor di Beaufort aveva avuto tempo di rimpiattare
la palla sotto il capezzale.

Ne strappò coi denti l’invoglia, perocchè non gli lasciavano alcun
arnese tagliente: mangiava coi coltelli a lama d’argento flessibili, e
che non tagliavano.

Sotto l’invoglia trovò una lettera ove erano scritte le seguenti parole:

      «Monsignore

  «I vostri amici invigilano, e si appressa l’ora della vostra
  liberazione. Domani l’altro chiedete di mangiare un pasticcio fatto
  dal nuovo pasticciere che ha acquistato il negozio dell’antico, e
  che è Noirmont in persona, il vostro maestro di casa; non lo aprite
  se non quando siete solo, e spero che sarete contento di ciò che vi
  è dentro.

  «Servitore sempre devoto di Vostra Altezza alla Bastiglia come
  altrove.

                                              «Conte di Rochefort».

  PS. ««Vostra Altezza può fidarsi in tutto e per tutto di Grimaud; è
  pieno di intendimento, ed è tutto nostro».

Il duca di Beaufort, a cui era stato restituito il fuoco dacchè egli
aveva rinunziato alla pittura, abbruciò la lettera conforme avea fatto
con maggior rincrescimento di quella della Montbazon, e si disponeva ad
abbruciare ancor la pillotta; ma riflettè che questa potrebbe essergli
utilissima, per far pervenire a Rochefort la sua risposta.

Egli era ben custodito, giacchè al movimento ch’ei fece capitò
immediatamente la Ramée.

«Monsignore, domandò questi, vi occorre qualche cosa?

«Avevo freddo, rispose il duca, ed attizzavo la fiamma per aver un
po’ di caldo. Sapete pure che le stanze della torre di Vincennes
sono rinomate assai per la freschezza. Vi si potrebbe conservare
il ghiaccio, e vi si fa raccolta di salnitro. Quelle dove morirono
Puylaurens, il maresciallo d’Ornano e il gran priore mio zio, valevano
per codesto verso, secondo diceva madama di Rambouillet, tanto arsenico
quanto pesavano».

Il signor di Beaufort tornò a coricarsi. La Ramée sorrise un
pocolino. In fondo era un buon uomo, che aveva preso grande affetto al
prigioniero e si sarebbe disperato se gli fosse avvenuta una disgrazia.
E le disgrazie avvenute ai tre soggetti menzionati dal principe non
ammettevano contrasto.

«Monsignore, ei rispose, non v’avete da abbandonare a queste idee; son
queste che ammazzano, e non il salnitro.

«Eh mio caro! siete curioso! soggiunse il principe, se potessi come
voi andare a mangiare i pasticcini e bere la Borgogna dal successore di
Marteau, mi distrarrei.

«Fatto si è, replicò la Ramée, che la roba di quel negozio è ottima.

«In ogni caso, seguitò il duca, non ci vuol molto perchè la sua cucina
e la sua cantina siano da meglio di quelle del signor di Chavigny.

«Eh! monsignore, fece l’altro, cadendo nel laccio, chi vi impedisce di
assaggiarle? e poi, gli ho promesso di farvi essere suo ricorrente.

«Hai ragione: se debbo restar qui in perpetuo, conforme ha avuto la
bontà di far intendere messer Mazzarino, bisogna ch’io mi crei una
distrazione per la vecchiaja, conviene che mi faccia ghiottone.

«Date retta a un buon consiglio: per questo, non aspettate ad esser
vecchio.

«Bene! borbottò da sè il signor di Beaufort, qualunque uomo, per poco
che attentamente si consideri, sembra, Dio mi perdoni, avere a compagno
uno dei sette peccati capitali, se non ne ha due, e par che quello di
messer la Ramée sia la gola. Ne profitteremo».

Indi continuò:

«Ebbene, caro la Ramée, domani l’altro è festa.

«Sì, Altezza, è Pentecoste.

«Volete in quel giorno darmi una lezione?

«Di che?

«Di ghiottoneria.

«Volentieri.

«Ma lezione da solo a solo. Manderemo a desinare le guardie alla cucina
del signor di Chavigny, e noi faremo qui una colazione di cui lascio la
direzione a voi.

«Uhm!» mugolò la Ramée.

L’offerta era seducente; ma il nostro birro, per quanto avesse potuto
pensar di lui svantaggiosamente il ministro, era un volpone che
conosceva tutte le reti che può tendere un prigioniero: il signor di
Beaufort, per quel che diceva, aveva preparati quaranta mezzi di uscir
di carcere: quella colazione non celava qualche agguato?

Riflettè un momento; il resultato fu però che ordinerebbe egli stesso
le vivande e il vino, ed in conseguenza a quelle nessuna polvere ed
a questo nessun liquore sarebbe mescolato. Di ubbriacarlo poi il duca
non poteva aver l’intenzione; anzi ei si mise a ridere all’immaginarlo:
dopo di che gli venne un’idea atta a conciliar tutto.

Il signor di Beaufort aveva osservato il monologo interno di la Ramée
con inquietudine, a misura che questa appariva anco dalla di lui
fisonomia. Alla fine si rasserenò il viso del birro.

«Ebbene? domandò il principe, sta egli così?

«Sì, monsignore, con un patto.

«Cioè?

«Che Grimaud ci serva a tavola».

Non v’era cosa che meglio accomodasse al duca. Eppure ebbe tal capacità
da assumere nel volto una grossa tinta di mal umore.

«Eh! al diavolo il vostro Grimaud! esclamò, mi guasterà la festa.

«Gli comanderò di starsene dietro a Vostra Altezza, e siccome ei non
fiata nemmeno, Vostra Altezza non lo vedrà e non lo udrà, e, volendo,
potrà figurarsi che sia lontano da lei le mille miglia.

«Caro mio, ribattè il principe, sapete che ci veggo chiaro, in tutto
questo? che non vi fidate di me.

«Monsignore, doman l’altra è Pentecoste?

«E che m’importa della Pentecoste? ha da succedere un miracolo per
ispalancarmi le porte della carcere?

«No, ma vi ho raccontato ciò che aveva predetto il maledetto stregone.

«E che mai?

«Che non passerebbe il giorno di Pentecoste senza che Vostra Altezza
fosse fuori di prigione.

«Stupido! e credi agli stregoni?

«Io, me ne curo tanto come di questo! disse la Ramée, e fece schioccare
insieme le dita, ma il signor Giulio se ne cura, e in qualità
d’Italiano è superstizioso».

Il duca si strinse nelle spalle.

«Or via, rispose, fingendo la massima bonarietà, accetto Grimaud,
perchè se no non si finirebbe più, ma non voglio altri che lui; voi
v’incaricherete di tutto, voi disporrete il pasto a vostro talento.
L’unico piatto che chiedo io si è uno dei pasticci de’ quali mi avete
parlato. L’ordinerete per me, acciocchè il successore di maestro
Marteau faccia portenti, e gli prometterete che mi avrà per avventore,
non solo in tutto il tempo che ho da star in prigione, ma anche dal
momento che ne sarò uscito.

«Dunque credete sempre di uscirne?

«Diamine! quando non fosse che alla morte del Mazzarino. Io ho quindici
anni meno di lui.... È vero (aggiunse il principe sogghignando) che a
Vincennes la vita va sollecita.

«Monsignore! monsignore!

«O sia che vi si muore più presto.... lo che in sostanza è lo stesso.

«Altezza, vado a ordinare la colazione.

«E vi pensate di fare qualche cosa del vostro discepolo?

«Spererei.

«Se vi dà tempo! borbottò di Beaufort.

«Che dice Vostra Altezza?

«La mia Altezza dice che non facciate risparmio con la borsa del signor
ministro, il quale si è compiaciuto incaricarsi della nostra pensione».

La Ramée si fermò sulla porta.

«Monsignore, chi volete ch’io vi mandi?

«Chi vi pare, eccetto Grimaud.

«Dunque l’ufficiale delle guardie.

«Col suo giuoco di scacchi.

«Sì».

La Ramée se n’andò.

Indi a cinque minuti entrava l’uffiziale, e il duca sembrava assorto
profondamente nei calcoli sublimi dello scaccomatto.

È cosa pur singolare il pensiero, e i cambiamenti che vi recano un
cenno, una parola, una speranza! Da cinque anni il principe era in
prigione, ed uno sguardo datosi all’indietro gli faceva parere quegli
anni tanti, passati però ben lungamente, più brevi che i due giorni,
le quarantott’ore, che ancor lo separavano dall’istante prefisso alla
fuga.

Ed inoltre, quel che terribilmente l’occupava, era il modo onde si
effettuerebbe la fuga. Gli si era data lusinga del resultato, ma
celati i dettagli di quanto contener doveva il pasticcio misterioso.
Quali amici lo attendevano? dopo un quinquennio di carcerazione
aveva tuttavia degli amici? In tal caso era un principe veramente
privilegiato.

Egli obliava che fra’ suoi amici (e codesto era anco più straordinario)
una donna si era di lui ricordata. È vero che essa forse non gli era
stata molto fedele, ma non lo aveva dimenticato, lo che era digià
molto.

In tutto ciò esisteva materia più del bisogno a far riflettere il duca;
e quindi accadde agli scacchi come alla palla, il signor di Beaufort
fece uno sbaglio sull’altro, e l’ufficiale lo battè la sera conforme la
mattina lo avea battuto la Ramée.

Però, le continue sconfitte aveano avuto il vantaggio di condurre il
principe sino alle otto ore; erano tre ore acquistate, poi verrebbe la
notte, e con essa il sonno.

Così almeno ei s’immaginava. Ma il sonno è una divinità assai
capricciosa, ed appunto allorchè uno la invoca si fa aspettare. Il duca
l’aspettò sino a mezzanotte voltandosi di qua e di là sulle materasse.
Alla fine si addormentò.

Ma a giorno si destò. Si era fatti dei sogni stravaganti: gli erano
cresciute le ali; allora naturalmente avea tentato involarsi; sul
principio le ali lo sostenevano benone; arrivato bensì ad una certa
altezza, quel singolare appoggio gli era mancato, si rompevano i vanni,
ed a lui sembrava di ruzzolare in un abisso senza fondo. E così si
destava con la fronte bagnata di sudore, e tutto tronco quasi avesse
fatta realmente una caduta aerea.

Si riaddormentava per andar nuovamente errando in un labirinto di
sogni uno più stolto dell’altro. Appena aveva chiusi gli occhi, la sua
mente, intenta ad una sola meta, alla fuga, ricominciava a tentare la
fuga. E allora era tutt’altro: si trovava un passaggio sotterraneo che
doveva condurlo fuori di Vincennes; egli vi s’inoltrava, e Grimaud
camminava innanzi a lui con una lanterna in mano; a poco a poco
il passo diventava più stretto, eppure il duca continuava a andare
avanti; poi il sotterraneo si faceva sì angusto ch’ei procurava invano
d’ire più oltre; le muraglie si ristringevano, si assestavano una
all’altra, egli faceva sforzi tremendi per proseguire, e non poteva....
E frattanto vedeva da lontano Grimaud colla lanterna che badava a
camminare; voleva chiamarlo acciò lo ajutasse a togliersi da quel
luogo ove si sentiva soffocare, e nemmeno gli riusciva di proferire
un accento. Ed ecco all’estremità opposta a quella da cui era venuto,
udiva correre quei che lo inseguivano, essi si avvicinavano, egli era
scoperto, non gli rimaneva più speranza di scampo. Pareva che il muro
fosse d’accordo coi suoi nemici, e lo incalzasse quanto più d’uopo egli
aveva di scappare.... Indi udiva la voce di la Ramée.... lo vedeva in
persona. La Ramée stendeva la mano, e questa mano gliela posava sulla
spalla dando uno scroscio di risa.... Ed egli era ripreso, e menato
nella stanza bassa ed a vôlta dov’erano morti il maresciallo Ornano,
Puylaurens e suo zio. Stavano là le loro tre tombe, là sul terreno, ed
era aperta una quarta fossa che attendeva un cadavere.

Sicchè il duca, quando si svegliò, fece tanti sforzi per mantenersi
desto quanti ne aveva fatti per addormentarsi, e la Ramée,
nell’entrare, lo trovò sì pallido e affaticato che gli domandò se era
ammalato.

«Difatti, disse uno dei guardiani, il quale era rimasto in camera
e non avea potuto riposare a motivo di un mal di denti prodottogli
dall’umidità. Sua Altezza ha avuto una nottata agitatissima, e due o
tre volte sognando ha chiamato ajuto.

«Che cos’ha Vostra Altezza? chiese la Ramée.

«Eh scimunito! sei tu, che con le tue cianciafruscole di fuga, jeri
mi rompesti il capo, e sei causa ch’io abbia sognato che scappavo, e
scappando mi rompevo il collo».

La Ramée rise come un matto.

«Vedete, monsignore, rispose, questo è un avvertimento del cielo;
sicchè spero che non commetterete mai simili imprudenze altro che in
sogno.

«E avete ragione, mio caro, disse il duca asciugandosi il sudore che
tuttavia gli colava dalla fronte, non voglio più pensare che a mangiare
e bere....

«Zitto!» fece la Ramée.

Ed allontanò uno ad uno i guardiani con frivoli pretesti.

«Ebbene? domandò il principe quando furono soli.

«È ordinato il pasto.

«Ah! e di che si compone? sentiamo, mio signor maggiordomo.

«Monsignore, avete promesso di rapportarvi a me.

«E vi sarà il pasticcio?

«Lo credo! e grosso come una torre.

«Fatto dal successore di mastro Marteau?

«Per l’appunto.

«Gli hai detto ch’è per me?

«Glie l’ho detto.

«E ha risposto?....

«Che farà meglio che potrà per contentare Vostra Altezza.

«Alla buon’ora! esclamò il duca stropicciandosi le mani.

«Corbezzole! seguitò la Ramée, come vi principiate a far ghiotto,
monsignore! non vi ho mai veduto in viso tanto allegro da cinque anni
in qua».

Il principe comprese non aver saputo frenarsi abbastanza. Ma, nel
momento, come se egli avesse ascoltato alla porta e conosciuta urgente
una distrazione alle idee di la Ramée, capitò Grimaud ed accennò a
quest’ultimo che avea da dirgli qualcosa.

La Ramée si accostò a Grimaud, il quale gli parlò pian piano.

Intanto il signor di Beaufort si rimise a sesto.

«Ho già proibito a costui, egli disse, di presentarsi qui senza mia
licenza!

«Altezza, convien perdonarglielo, giacchè son’io che l’ho fatto
chiamare.

«E perchè, mentre sapete che mi spiace?

«Rammentatevi, monsignore, quel che si è fissato, che deve servirci al
famoso pasto; Vostra Altezza si è scordata del pasto?

«No, ma mi ero scordato di Grimaud.

«Sapete pure, monsignore, che senza di lui non si va a tavola.

«Ebbene, fate a modo vostro.

«Avvicinatevi, giovanotto, disse la Ramée, e state a sentire quel che
vi dico».

Grimaud si appressò con la cera più burbera che potesse.

L’altro continuò:

«Monsignore mi fa l’onore d’invitarmi a cena per domani da solo a solo».

Grimaud fece un atto che significava non capire egli in che lo
risguardasse una tal cosa.

«Sicuro, sicuro; anzi vi riguarda, poichè avrete l’onore di servirci,
senza contare che per quanto abbiamo buon appetito e gran sete, resterà
un po’ di roba in fondo ai piatti e alle bottiglie, e quella sarà per
voi».

Grimaud s’inchinò in segno di ringraziamento.

«E adesso, monsignore, proseguì la Ramée, chiedo licenza a Vostra
Altezza: pare che il signor di Chavigny debba assentarsi per alcuni
giorni, e avanti di partire mi avvisa che ha da darmi degli ordini».

Il duca procurò di ricambiare uno sguardo con Grimaud, ma l’occhio di
questo era senza sguardo.

«Andate, rispose il principe al birro; e tornate al più presto.

«Monsignore, volete forse la rivincita della partita di jeri alla
palla?»

Grimaud fece col capo un cenno impercettibile di su a giù.

«Sì; replicò il signor di Beaufort, ma badate, la Ramée, non tutte le
giornate sono eguali, ed oggi io son deciso di battervi ben bene».

La Ramée uscì. Grimaud lo seguì cogli occhi senza che il rimanente del
suo corpo scartasse di una linea. Quando vide chiusa la porta si levò
sollecito di tasca un lapis e un pezzo di carta, e disse:

«Monsignore, scrivete.

«E che ho da scrivere?»

Grimaud fece un segno col dito, e poi dettò:

  «Tutto è pronto per domani sera; state in guardia dalle sette alle
  nove ore; abbiate allestiti due cavalli; scenderemo dalla prima
  finestra della galleria».

«E poi? domandò il duca.

«E poi? riprese Grimaud attonito, firmate.

«Niente altro?

«E che volete di più, Altezza?» ribattè Grimaud partigiano del più
rigido laconismo.

Il principe firmò.

«Adesso, soggiunse l’altro, monsignore, avete perduta la palla?

«E quale?

«Quella che conteneva la lettera.

«No; ho pensato che ci potrebbe essere utile: eccola».

Difatti di Beaufort, togliendola di sotto al capezzale, la porgeva a
Grimaud.

Questi sorrise nel modo più grazioso che stesse in lui.

«E ora? chiese il duca.

«Ora ricucirò il foglio nella pillotta, e voi, giuocando, mandate
questa nel fosso.

«Ma forse si perderà!

«Non dubitate, vi sarà qualcuno a raccoglierla.

«Un giardiniere?»

Grimaud ammiccò di sì.

«Lo stesso di jeri?»

Uguale specie di affermazione.

«Dunque il conte di Rochefort?»

Tre atti di Grimaud esprimenti di sì.

«Orsù, almeno dammi qualche dettaglio sulla maniera in cui dobbiamo
fuggire.

«Mi è proibito prima del momento dell’esecuzione.

«Chi sono quelli che mi attenderanno dall’altra parte del fosso?

«Non lo so.

«Ma dimmi almeno che cosa conterrà il famoso pasticcio, se non vuoi
ch’io impazzisca.

«Conterrà due pugnali, una fune annodata, e una _pera d’angoscia_[9].

«Bene! capisco.

«Vostra Altezza vede che ve ne sarà per tutti.

«Prenderemo per noi i pugnali e la fune, aggiunse il principe.

«E faremo mangiar la pera a la Ramée, rispose Grimaud.

«Mio caro Grimaud, replicò il signor di Beaufort, tu non parli spesso,
ma quando parli, convien renderti giustizia, dici parole d’oro!»



XXII.

_Un’avventura di Maria Pichon._


Verso la stessa epoca in cui si tramavano quei progetti di fuga infra
’l duca di Beaufort e Grimaud, due uomini a cavallo, seguìti a poca
distanza da un lacchè, entravano in Parigi pella via del sobborgo San
Marcello. Erano il conte di la Fère ed il visconte di Bragelonne.

Era quella la prima volta che il giovinetto veniva a Parigi, ed Athos
non aveva fatto figurare di molto la capitale, sua antica amica,
mostrandogliela da quella parte: che di certo l’infimo villaggio della
Touraine era più gradito alla vista che non fosse Parigi preso dal lato
per cui dà inverso Blois. E quindi n’è duopo il dirlo, a vergogna della
tanto vantata città, essa non produsse sul garzoncello che un effetto
mediocre.

Athos si manteneva nel suo aspetto sereno e non curante.

Arrivato a San Medard, egli, che nel grande laberinto faceva da guida
al suo compagno di viaggio, pigliò dalla strada delle poste, indi da
quella delle Estrapade, e dopo dai fossi di San Michele, e in seguito
di Vaugirard. Giunti nella via Feron, entrambi vi s’inoltrarono. Verso
la metà di questa, Athos, alzando gli occhi sorridendo, ed accennando
al ragazzo una casa di media apparenza, gli disse:

«Ecco una casa, o Raolo, dove ho passati i sette anni più dolci eppur
più crudi della mia vita».

Raolo sorrise anch’esso e salutò la dimora. La di lui pietà pel suo
protettore si manifestava in qualunque atto della sua esistenza.

In quanto ad Athos, conforme già avvertimmo, Raolo era per lui,
non solamente il centro, ma anche (meno le vecchie rimembranze del
reggimento) l’unico oggetto d’ogni suo affetto, e ciascuno comprende
in qual modo e tenero e profondo poteva amare questa volta il cuore di
Athos.

I due viaggiatori si fermarono in via del Vecchio Colombajo,
all’insegna della _Volpe verde_. Athos conosceva da lunga pezza quella
taverna; v’era stato cento volte con gli amici, ma da venti anni erano
accaduti molti cambiamenti nell’albergo, principiando dalla padrona.

I forestieri consegnarono i palafreni ai garzoni, e siccome quegli
erano animali di razza nobile, raccomandarono di averne somma cura, e
che ad essi non si desse altro che paglia e avena, e si lavasse loro il
petto e le gambe con del vino tepido. Avevano fatte venti leghe nella
giornata! Indi, occupatisi in primo luogo dei corsieri, come debbono
fare i veri cavalieri, chiesero eglino per sè due camere.

«Ora vi vestirete meglio, Raolo, disse Athos; vi presenterò a qualcuno.

«Oggi! fece il giovanetto.

«Tra mezz’ora».

Raolo s’inchinò.

Forse meno instancabile di Athos, il qual pareva di ferro, egli avrebbe
preferito un bagno in quel fiume Senna, di cui aveva inteso a parlar
tanto, e ch’era persuaso di trovare inferiore alla Loira ed al suo
letto; ma il conte de la Fère aveva favellato, ed egli non pensò che ad
obbedire.

«Appunto, disse Athos, adornatevi bene; vuo’ che vi trovino bello.

«Signore, rispose il ragazzo, spero che non si tratti già di
matrimonio; conoscete gli impegni miei con Luigia.

«No, no, benchè io vi voglia presentare ad una donna.

«A una donna?

«Sì, ed anche desidero che la amiate».

Raolo guardò il conte con una tal quale inquietudine, ma visto ch’esso
sorrideva si fu presto acquietato.

«E quanti anni ha ella? richiese il visconte di Bragelonne.

«Caro mio, replicò Athos, sappiate una volta per sempre che codesta è
una domanda da non farsi mai; quando potete scorgere sul viso di una
donna la sua età è inutile ricercargliela; quando non potete più, è
imprudenza.

«Ed è bella?

«Sedici anni fa passava non solo per la più leggiadra, ma anco per la
più graziosa che fosse in tutta la Francia».

Questa risposta tranquillizzò il visconte. Athos non doveva avere
progetto alcuno su di lui e sopra una femmina reputata la più leggiadra
e graziosa della Francia un anno prima ch’ei venisse al mondo.

Si ritirò dunque nella sua camera, e con quella vanità che si addice
alla gioventù, si applicò a seguire le istruzioni di Athos, cioè a
farsi più bello che potesse. E ciò ben gli era facile con quanto aveva
già a tal effetto disposto la natura.

Allorchè ei ricomparve, Athos lo accolse con quel sorriso paterno col
quale in addietro aveva ricevuto d’Artagnan, ma che per Raolo portava
in sè una maggior tenerezza.

Volse lo sguardo a’ suoi piedi, alle sue mani e a’ suoi capelli, tre
segni che indicavano la razza. I capelli neri erano scompartiti come
usavano in quell’epoca e ricadevano inanellati a contornargli il volto
piuttosto pallidetto; guanti di pelle grigia, e che combinavano col
colore del cappello, mostravano la vaga forma della mano sottile ed
elegante, mentre gli stivali del color medesimo che i guanti ed il
cappello stringevano due piedi che parevano di un fanciullo di dieci
anni.

«Eh via! disse Athos, se non va superba di lui, conviene che sia pur
difficile»

Erano le tre pomeridiane, cioè l’ora opportuna per le visite. I due
s’incamminarono dalla via di Grenelle, presero da quella de’ Rosaj,
entrarono nell’altra di San Domenico, e si fermarono davanti ad un
magnifico palazzo, situato dirimpetto ai Giacobini avente in cima le
armi di Luynes.

«È qui» disse Athos.

Entrò nel palazzo col portamento deciso che accenna al guarda-portone
come quegli che arriva abbia diritto di agire così. Salì la gradinata,
e domandò ad un lacchè, che aspettava in gran livrea, se la signora
duchessa di Chevreuse era visibile e poteva ricevere il conte di la
Fère.

Indi a un momento il servo ritornò dicendo che quantunque la duchessa
di Chevreuse non avesse l’onore di conoscere il signor conte pur lo
pregava di passare.

Athos andò col domestico, e questo gli fece traversare una lunga fila
di stanze, e si ristette al fine dinanzi ad un usciale chiuso. Athos
accennò al visconte che si trattenesse là fuori nel salotto.

Il lacchè avendo aperto annunziò il signor conte di La Fère. Madama
di Chevreuse, di cui fu parlato sovente nella storia dei _Tre
moschettieri_ senza però che mai si desse occasione di poterla
conoscere, era tuttora reputata una bellissima donna.

Difatti, benchè in quel tempo avesse digià quarantaquattro o
quarantacinque anni, ne mostrava appena trentotto o trentanove;
possedeva tuttavia i bei capelli biondi, gli occhi grandi e vivaci che
tanto spesso aveva aperti il raggiro e socchiusi l’amore e il personale
da ninfa, il quale faceva sì che a mirarla per dietro paresse ancora
la stessa fanciulletta che insieme con Anna saltava di sul famoso fosso
delle Tuilerie che nel 1623 privò d’un erede la corona di Francia.

Del rimanente, ell’era sempre la medesima pazza creatura che diede
a’ suoi amori un tal carattere di originalità da far che questi
diventassero una sorta d’illustrazione pella sua famiglia.

Stava in un piccolo gabinetto che dava con la finestra sul giardino.
Secondo la moda messa su da madama di Rambouillet nel fabbricare il suo
palazzo, il parato era tutto di una specie di damasco cilestro a fiori
color di rosa e foglie d’oro. Grande atto di civetteria era pure in una
femmina dell’età della Chevreuse lo starsene in un simil gabinetto,
e soprattutto nella positura in cui si teneva in quel momento, cioè
distesa in un seggiolone bislungo, con la testa appoggiata alla
tappezzeria.

Aveva in mano un libro mezz’aperto, e poi un cuscino per reggere il
braccio che sosteneva il libro.

All’annunzio del lacchè sollevò un poco il capo e lo avanzò curiosetta.

Comparve Athos.

Era vestito di velluto violetto con guarnizione di passamani consimili;
gli aghetti erano di argento ben brunito, sul suo manto non vi era
alcun ricamo d’oro, ed una semplice piuma paonazza gli avvolgeva il
cappello nero.

Ai piedi aveva gli stivali di cuojo nero, e al cinturino inverniciato
gli pendeva quella spada dalla magnifica impugnatura che tante
volte Porthos ammirò in via di Feron, ma che Athos non volle mai
imprestargli. Di superbe trine si formava il collo della camicia, e
trine eguali ricadevano sulle rivolte degli stivali.

Nell’individuo annunziato a madama di Chevreuse sotto nome al tutto
ignoto esisteva un tale aspetto di gran gentiluomo, ch’essa si alzò
un pocolino sulla vita ad accennargli graziosamente che prendesse una
sedia a lei vicina.

Athos s’inchinò ed obbedì. Il lacchè andava per ritirarsi, ed egli con
un segno lo trattenne.

«Signora, disse alla duchessa, ho avuto l’audacia di presentarmi nel
vostro palazzo senza essere da voi conosciuto; ben mi è riuscito,
poichè vi degnaste ricevermi, e ardisco poi domandarvi una mezz’ora di
colloquio.

«Ve lo concedo, signore, rispose la duchessa col più gentile dei suoi
sorrisi.

«Ma ciò non basta, madama. Oh! sono un grande ambizioso! lo so;
chiedo un colloquio a testa a testa, e bramerei caldamente non essere
interrotto.

«Andate, ordinò al servo la signora, io non ci sono per alcuno».

E il domestico uscì.

Fuvvi breve silenzio, durante il quale quei due soggetti che
scambievolmente si riconoscevano per personaggi di altissima schiatta,
si esaminarono senza provare confusione veruna.

Fu la prima a parlare la duchessa.

«Ebbene, signore, disse con sommo garbo, non vedete che attendo con
impazienza?

«Ed io, madama, rispose Athos, guardo con ammirazione.

«Dovete scusarmi, soggiunse la signora, se sono ansiosa di sapere con
chi discorro. Voi siete un uomo di alto rango, non v’ha dubbio, eppure
mai non vi vidi in corte. Venite forse dalla Bastiglia?

«No, replicò il conte sogghignando, ma forse sono sulla via che ivi
conduce.

«In tal caso ditemi presto chi siete, e poi andatevene, soggiunse la
dama con quel modo brioso che aveva in lei tanto pregio.

«Chi sono, signora? vi fu detto il mio nome: conte di la Fère. Questo
nome non vi fu noto giammai. In passato io ne aveva un altro, che
probabilmente sapeste, ma che di certo avete obbliato.

«Ditelo pure, non ostante.

«Prima io mi chiamava Athos».

La signora di Chevreuse, maravigliando, spalancò gli occhi. Era
evidente, secondo le diceva il conte, che quel nome non fosse del tutto
cancellato dalla sua memoria, ancorchè vi stesse confuso fra altre
ricordanze.

«Athos?... ella fece...., aspettate....»

E si pose ambe le mani su la fronte, come per ritenere le mille idee
fugaci che vi stavano rinchiuse a fissarsi un momento onde lasciarle
discernere chiaro nella lor turba brillantissima.

«Volete ch’io vi ajuti, madama? seguitò Athos sorridendo.

«Oh! disse la duchessa digià stanca di cercare, mi farete piacere.

«Quell’Athos era in istretta relazione con tre giovani moschettieri che
si chiamavano d’Artagnan, Porthos ed....

«Ed Aramis! finì con impeto la signora, perocchè Athos si era
soffermato.

«Aramis appunto, questi confermò: non vi siete dunque dimenticata
affatto di quel nome?

«No, no.... povero Aramis! era un amabile gentiluomo, elegante,
prudente, e che faceva dei bei versi; credo che non abbia fatto buon
fine.

«Si fece abate.

«Ohimè! peccato! ribattè la Chevreuse muovendo con indolenza il
ventaglio. Davvero, signor mio, vi ringrazio.

«Di che, madama?

«D’avermi riprodotta quella rimembranza, ch’è una delle più piacevoli
di mia gioventù.

«E allora, mi permettete di rendervene presente anche un’altra?

«Che a quella va congiunta?

«Forse sì, forse no.

«Oh! dite pure. Con un uomo come voi, mi arrischio a tutto».

Athos s’inchinò.

«Aramis, esso proseguì, era in istretti rapporti con una giovane
merciaja di Tours.

«Merciaja di Tours?

«Sì, sua cugina, che si chiamava Maria Michon.

«Ah! la conosco! esclamò la duchessa, è quella a cui egli scriveva
dall’assedio di la Rochelle onde avvertirla di un complotto che si
tramava contro al povero Buckingham.

«Precisamente. Mi concedete di favellarvi di lei?»

La dama fissò in volto Athos.

«Sì, rispose, purchè non ne diciate molto male.

«Sarei un ingrato, ed io considero l’ingratitudine, non come difetto o
delitto, ma come vizio, lo che è di peggio.

«Voi ingrato verso Maria Michon? domandò la signora di Chevreuse,
procurando di leggere negli occhi di Athos. E come mai potrebbe essere?
non la conosceste già personalmente.

«Chi sa, madama! v’è un proverbio popolare il quale dice che solo
le montagne non s’incontrano; e i proverbi popolari sono talvolta
estremamente giusti.

«Oh! continuate, signore! fece con calore la duchessa, non vi potete
figurare quanto mi diverta questa conversazione.

«Voi m’incoraggite, ed io seguiterò. Quella cugina di Aramis, Maria
Michon, la merciaja, ad onta della sua volgare condizione, aveva le più
elevate conoscenze; chiamava sue amiche le primarie dame della corte, e
la regina, benchè superba, diceva a lei sorella.

«Ahimè! interruppe la Chevreuse con un leggierissimo sospiro e col
piccolo moto del ciglio che era proprio di lei sola, da quel tempo le
cose sono cambiate di molto!

«E la regina aveva ragione, tirò innanzi Athos, giacchè essa le era al
sommo affezionata e devota; devota a segno da servirle di mediatrice
col suo fratello re di Spagna.

«Il che, ripigliò la duchessa, oggi le si ascrive a gran delitto.

«A tal punto, rispose Athos, che il ministro, il vero ministro,
l’altro, una mattina risolse di far arrestare la misera Maria Michon
e condurla al castello di Loches. Per fortuna ciò non potè eseguirsi
tanto segretamente che non ne traspirasse qualcosa; il caso era
preveduto: se a Maria sovrastasse qualche pericolo, la regina dovea
farle pervenire un libro di orazioni rilegato di velluto verde.

«Giusto così! siete bene informato.

«Una mattina arrivò il libro verde recato dal principe di Marsillac.
Non v’era tempo da perdere. Per buona sorte Maria Michon ed una
sua serva, una certa Ketty, portavano egregiamente il vestimento da
uomo. Il principe procacciò a Maria un abito da cavaliere, a Ketty
uno da lacchè, diede loro due ottimi cavalli, e le due fuggiasche
abbandonarono prestamente Tours, avviandosi inverso Spagna, tremando al
minimo rumore, pigliando strade indirette perchè non osavano battere le
strade maestre, e chiedendo ospitalità quando non trovavano alberghi.

«Ma davvero, fu propriamente a questo modo! gridò la Chevreuse battendo
le mani, sarebbe curiosa....»

E si tacque di botto.

«Ch’io seguitassi le due raminghe sino al termine del loro viaggio?
disse Athos. No, madama, non abuserò in tal guisa del vostro tempo,
e noi non le accompagneremo se non se ad un piccolo villaggio
del Limosino situato fra Tulle e Angouleme, e che ha nome di
Roche-l’Abeille».

La duchessa diede un grido di sorpresa, e mirò in faccia Athos in cotal
atto di stupore che fece sorridere l’antico moschettiere.

«Aspettate, signora, questi continuò, giacchè ciò che ho da dirvi è
assai più strano di quel che vi ho detto.

«Eh! replicò la Chevreuse, ormai vi tengo per uno stregone, e da voi mi
attendo a tutto.... ma basta.... andate pure innanzi.

«La giornata era stata lunga e faticosa; faceva freddo, era il dì 11
ottobre. Il villaggio non presentava nè locanda, nè palazzo, le case
dei contadini erano povere e sporche. Maria Michon era una persona
molto aristocratica; come la regina sua sorella, era essa avvezza
a odori delicati e biancheria fine.... sicchè si decise a dimandare
ospitalità al presbiterio».

Athos fece una breve pausa.

«Ah! seguitate, disse la duchessa, vi ho prevenuto che mi aspettavo a
qualunque cosa.

«I due viaggiatori bussarono alla porta. Era tardi; il prete,
coricato[10], gridò loro ch’entrassero, ed entrarono mentre la porta
non era chiusa. Nelle campagne esiste grandissima fiducia. Stava accesa
una lucerna nella camera. Maria Michon, che pareva il più grazioso
cavaliere del mondo, spinse l’usciale, avanzò la testa, e chiese
ospitalità.

« — Volentieri, mio giovane signore, rispose il padrone del luogo,
se volete adattarvi agli avanzi della mia cena ed a metà della mia
camera.... —

«Le due viaggiatrici si consultarono un momento; quegli udì che
ridevano forte, e indi il padrone, o anzi la padrona, replicò:

« — Grazie, signore, accetto.

« — Dunque cenate, questo soggiunse, e fate meno chiasso che potete,
perchè ancor io ho camminato tutto il giorno e non m’increscerebbe di
riposare stanotte».

Madama di Chevreuse passava da sorpresa a meraviglia, e da meraviglia a
stupefazione; osservava Athos in un modo che non sapremmo definire: si
scorgeva che avrebbe bramato di parlare, eppur si taceva per timore di
perdere una parola del suo interlocutore.

«E poi? essa disse.

«E poi? fece Athos, ah! qui sta il difficile!

«Dite, dite, dite! a me si può dir tutto.... e d’altronde io non ci ho
che fare, è cosa che riguarda Maria Michon.

«Oh! questo è giusto; seguitò Athos. Or bene, Maria Michon mangiò
insieme con la sua serva, e dopo, secondo il permesso datole tornò
nella stanza dove riposava il suo albergatore, intanto che Kelly si
sdrajava sopra una poltrona nell’altra dov’erasi fatto il loro piccolo
pasto.

«In coscienza, riprese la duchessa, ammenochè voi siate il demonio in
persona, non so come possiate conoscere tutti codesti dettagli.

«Era una cara donnetta, la Maria Michon, continuò Athos, una di quelle
pazzarelle a cui passano sempre per la mente le idee le più singolari,
uno di quegli esseri nati espressamente per mandarci in dannazione
quanti siamo. E pensando che quegli che a lei dava ricovero era un
abate, saltò in capo alla bricconcella che sarebbe stata una delle più
allegre memorie per la sua vecchiaja (ella ne aveva digià parecchie
altre) di fare anche a lui una burla.

«Conte! interruppe la signora di Chevreuse, in parola d’onore, voi mi
spaventate.

«Ahimè! disse Athos, il povero galantuomo non era un Sant’Ambrogio, e
lo ripeto, Maria Michon era una creatura adorabile.

«Signore! esclamò la duchessa afferrandogli ambe le mani, spiegatemi
subito come sapete tutto questo, o che fo venire dal convento dei
vecchi Agostini uno che vi esorcizzi».

Athos si mise a ridere.

«Madama, non v’è niente di più facile. Un cavaliere incaricato
d’importante incombenza era venuto un’ora prima di voi a domandare
ospitalità al presbiterio, nel momento appunto che il curato chiamato
presso ad un moribondo si assentava non solo da casa sua ma anche dal
villaggio per tutta la notte; l’uomo di Dio, pien di fiducia nel suo
ospite, il quale d’altronde era gentiluomo, aveva ad esso abbandonato
e casa e cena e camera. Quindi all’ospite del prete, e non al prete,
Maria Michon chiedeva ricovero.

«E il cavaliere, il gentiluomo, l’ospite giunto innanzi a lei?

«Era io, conte di la Fère», disse Athos alzatosi a salutare
rispettosamente la signora di Chevreuse.

Questa per un istante rimase stupefatta, poi ad un tratto dando una
forte risata:

«Affè! disse, il caso è curiosissimo; e la pazza Maria Michon si trovò
meglio che non isperasse. Sedete, conte, e ripigliate il filo della
vostra narrazione.

«Adesso, o madama, mi resta da incolpare me stesso. Io viaggiava, come
vi ho detto, per affari di premura. All’alba uscii dalla camera senza
far rumore, lasciando dormire il mio amabile compagno di alloggio.
Nella prima stanza dormiva pure con la testa adagiata sulla poltrona
la serva, degna in tutto e per tutto della padrona. Il suo vago volto
mi fece sensazione, me le accostai, e riconobbi la piccola Ketty che
presso di lei avea posta il nostro Aramis. E così fu ch’io seppi che la
bella viaggiatrice era....

«Maria Michon, interruppe con impeto la duchessa.

«Maria Michon, confermò Athos. Me ne andai di casa, passai nella
stalla, trovai il mio cavallo con la sella addosso e il lacchè pronto,
e partimmo.

«Nè più capitaste in quel villaggio? domandò con calore la signora.

«Un anno dopo.

«Ebbene?

«Ebbene! volli rivedere il buon curato. Era inquieto per un avvenimento
che non comprendeva. Otto giorni avanti aveva ricevuto in una culla
un grazioso bambinello di tre mesi, con una borsa piena d’oro ed
un biglietto contenente queste semplici parole: 11 OTTOBRE 1633....
Egli, poveretto, nella notte di quella data era stato al fianco a un
moribondo, e Maria si era partita dal presbiterio innanzi il di lui
ritorno.

«Signore, vi è noto che Maria Michon, reduce in Francia nel 1643,
ricercò tosto notizie di quel fanciullo; mentre fuggiasca non poteva
tenerlo seco, ma recatasi di nuovo nella capitale voleva presso di sè
farlo educare.

«E che le disse l’abate? chiese Athos.

«Che un signore da lui non conosciuto erasi compiaciuto
d’incaricarsene, si era fatto garante del suo stato avvenire, e lo
aveva condotto via.

«Era vero.

«Ah! allora capisco: quel signore eravate voi.... suo padre!

«Zitto! non parlate tanto forte, madama! egli è qui.

«È qui! esclamò la duchessa di Chevreuse rizzatasi in piedi, mio
figlio! il figlio di Maria Michon è qui! voglio vederlo subito!

«Badate, signora, ch’ei non conosce nè suo padre nè sua madre, la
interruppe Athos.

«Voi serbaste il segreto, e me lo conducete così, persuaso di farmi
lieta, oh! lietissima! Grazie! grazie! seguitò la dama prendendogli la
mano e procurando portarsela sulle labbra, grazie! Che cuor nobile è il
vostro!

«Ve lo conduco, madama, replicò Athos ritirando la destra, acciò voi
pure facciate per esso qualche cosa. Sinora io solo invigilai alla sua
educazione, e credo averne fatto un compito gentiluomo; ma è giunto il
momento in cui mi trovo da capo costretto a riprender la vita errante
e perigliosa dell’uomo di parte. Domani mi slancierò in un affare
azzardoso nel quale posso essere ucciso: allora ei non avrà altri che
voi per avanzarlo nel mondo ov’è chiamato ad occupare un posto.

«Non dubitate! gridò la Chevreuse, disgraziatamente, ho attualmente
poco credito, ma quel tanto che me ne rimane è per lui. Quanto alle sue
fortune ed al suo titolo....

«Di ciò non vi pigliate pensiero, signora: io gli ho trasferita in
sostituzione la tenuta di Bragelonne, che possiedo per eredità, e che
gli dà il titolo di visconte e dieci mila lire di rendita.

«Sull’anima mia, siete un vero gentiluomo.... Ma io sono ansiosa di
vederlo! dov’è?

«È di là nel salotto; lo fo venire se lo gradite».

Athos fece un movimento verso la porta. La signora di Chevreuse lo
trattenne, domandandogli:

«È bello?»

Il conte sorrise, e le rispose:

«Somiglia a sua madre».

Ed aperto l’usciale, fece un cenno al giovanetto, il quale tosto
comparve sulla soglia.

La donna non potè frenare un grido di giubilo mirando un sì gentil
cavaliere, che oltrepassava quante speranze avesse mai concepite il suo
cuore.

«Avvicinatevi, visconte, disse Athos, la signora duchessa di Chevreuse
vi permette di baciarle la mano».

Quegli si appressò, coll’amabile suo sorriso, a testa scoperta, e messo
in terra un ginocchio baciò la destra a madama di Chevreuse.

«Signor conte, ei richiese volgendosi ad Athos, forse per usar riguardo
alla mia timidezza mi dite esser questa la duchessa di Chevreuse, e non
è ella piuttosto la regina?

«No, visconte, rispose la signora pigliandolo per la mano, facendolo
sedere al suo fianco, ed osservandolo con occhi che brillavano dal
contento, no, pur troppo non sono la regina.... chè se lo fossi, farei
tosto per voi tutto ciò che meritate; ma orsù, tal quale io sono (e si
tratteneva a stento da posare il labbro su la di lui purissima fronte)
orsù, qual carriera bramate di seguire?»

Athos in piedi li considerava entrambi con espressione di letizia
indicibile.

«Signora, disse il garzoncello con voce dolce ad un tempo e sonora,
mi sembra che per un gentiluomo siavi una sola carriera, quella delle
armi. Il signor conte mi educava, da quanto io credo, con intenzione
di farmi soldato, e mi dava lusinga di presentarmi in Parigi a persona
atta a raccomandarmi al signor Principe.

«Sì, capisco: si conviene ad un giovane soldato par vostro di servire
sotto un giovane generale suo pari.... ma aspettate.... io nel mio
particolare sto piuttosto male con esso a motivo delle contese di
madama di Montbazon mia suocera con la signora di Longueville.... però
in quanto al principe di Marsillac.... Eh, signor conte, appunto così:
il principe di Marsillac è mio vecchio amico; raccomanderà il signorino
a madama di Longueville, la quale gli darà una lettera per suo fratello
il signor Principe, e questo ama lei troppo teneramente per non fare a
pro di esso quanto ella gli chiegga.

«Va a meraviglia, rispose il conte, soltanto oserò pregarvi della
maggiore sollecitudine! ho delle ragioni per desiderare che domani a
sera il visconte non sia più in Parigi.

«Gradite che si sappia che v’interessate per lui?

«Sarebbe forse meglio pel suo stato avvenire che s’ignorasse avermi
egli neppur mai conosciuto.

«Oh signore! esclamò il giovanetto.

«Bragelonne, gli replicò Athos, sapete che nulla io fo giammai senza
ragione.

«Sì, so che in voi è la suprema saggezza, e vi obbedirò com’è mio
costume.

«Or bene, conte, soggiunse la duchessa, lasciate fare a me; mando a
chiamare il principe di Marsillac, che per fortuna è adesso in Parigi,
e non mi divido da lui sinchè la cosa non sia terminata.

«Ottimamente, signora duchessa; mille e mille grazie. Io pure ho per
oggi da far diverse gite, e al mio ritorno, cioè sulle sei ore di sera,
attenderò all’albergo il visconte.

«Che farete questa sera?

«Andremo dall’abate Scarron, per cui ho una lettera, e dal quale devo
incontrare un amico mio.

«Benone; ci passerò ancor io per un momento; sicchè non vi partite
dalle sue sale finchè non mi abbiate veduta».

Athos salutò madama di Chevreuse e si dispose ad uscire.

«Eh via, signor conte, disse ridendo la duchessa, e si lasciano con
tanta cerimonia gli antichi amici?

«Ah! balbettò Athos baciandole la mano, se avessi saputo che Maria
Michon era una creatura tanto amabile!...»

E se ne andò sospirando.



XXIII.

_L’abate Scarron._


Nella via _des Tournelles_ v’era una casa nota a tutti i conduttori di
portantine e lacchè della capitale; eppure, essa non era nè di un gran
signore nè di un finanziere; non vi si mangiava, non vi si giuocava
mai, nè vi si ballava.

E contuttociò era il punto di riunione della gentil società, e v’andava
tutta Parigi.

Io parlo dell’abitazione dell’abate Scarron.

Dallo spiritosissimo abate si rideva tanto, si spacciavano
tante novità, e sì presto si commentavano, si sminuzzavano, e si
trasformavano o in novellette o in epigrammi, che ciascuno voleva
andare a passar un’ora col piccolo Scarron, udir ciò ch’ei diceva, e
questo riferir poi altrove. Molti ancora avevano smania di lanciarvi
le loro parolette, e se queste erano graziose, quei tali rimanevano ben
accolti ed accetti.

L’abate Scarron, il quale era abate soltanto perchè possedeva
un’abbazia, e non già perchè fosse negli ordini, era stato in addietro
uno dei più eleganti canonici della città del Mans ove dimorava. Un
giorno di carnevale gli saltò in capo di tenere allegra quella buona
città di cui egli era propriamente l’anima; si fece ungere tutto
di miele dal suo cameriere, e poi aperto un letto pien di piume e
rotolatosi dentro a questo, diventò il più ridicolo volatile che si
potesse vedere. Allora cominciò a far visite agli amici ed alle amiche
in codesto arnese grottesco. Si principiò col seguitarlo attoniti, indi
colle fischiate, poscia i facchini lo insultarono, dopo i ragazzi gli
tirarono dei sassi, ed alla fine fu costretto a scappare per iscansare
i projettili. Fuggito che fu, tutti gli corsero dietro, lo incalzarono,
lo circuirono. Egli non trovò altro mezzo ond’evitare la scorta che
di gettarsi nel fiume. Nuotava come un pesce, ma l’acqua era ghiaccia.
Scarron era sudante, lo prese il freddo, ed arrivato all’opposta riva
era attrappito.

Allora si procurò con ogni mezzo conosciuto di rendergli l’uso delle
membra. Tanto lo fecero soffrire nella cura, ch’ei licenziò tutti i
medici, dichiarando che preferiva starsene ammalato. Tornò a Parigi,
dov’era già fissata la sua fama d’uomo di grande spirito. Là si
fece fare una sedia o portantina di sua invenzione; ed una volta che
trascinato su quella andò a far visita alla regina Anna, questa che lo
teneva in gran pregio gli addimandò se desiderasse qualche titolo.

«Sì, Maestà, rispose Scarron, ne ambisco uno.

«E quale?

«Quello di vostro infermo» ei replicò.

E Scarron fu nominato _infermo della regina_, con mille cinquecento
lire di pensione.

Da quel momento, non più inquieto per lo avvenire, condusse
allegrissima vita, mangiandosi il capitale e la rendita.

Bensì un giorno un emissario del ministro gli fece capire che aveva
torto di ricever da lui il signor Coadjutore.

«E perchè? egli richiese, non è uomo di alta nascita?

«Sì, cospetto!

«Amabile?

«Senza dubbio.

«Spiritoso?

«Pur troppo!

«E allora, perchè volete ch’io cessi di frequentar un soggetto simile?

«Perchè pensa male.

«Davvero! e di chi?

«Del ministro.

«Come! continuò Scarron, io seguito a bazzicare il signor Gilles
Despréaux che pensa male di me, e pretendete che smetta di frequentare
il Coadjutore perchè pensa male di un altro? non è possibile!»

La conversazione finì là, e Scarron per picca si trovava più spesso che
mai col signor di Gondy.

Ora, la mattina appunto del giorno al quale noi siamo giunti, e ch’era
la scadenza del suo trimestre, Scarron secondo il solito mandò il suo
servitore con la ricevuta a riscuotere i tre mesi dalla Cassa delle
pensioni; ma gli fu risposto:

«Che lo Stato non aveva più danari pel signor abate Scarron».

Quando il lacchè recò a lui questa risposta egli aveva presso di sè
il duca di Longueville, che si offerse ad assegnargli una pensione del
doppio di quella toltagli dal Mazzarino; ma lo accortissimo gottoso non
l’accettò, e fece tanto che alle quattro ore pomeridiane tutta la città
era istrutta del rifiuto del ministro. Precisamente era giovedì, giorno
di ricevimento in casa dell’abate; la gente v’intervenne in folla, e
per tutta Parigi fu uno sparlare e un susurro indiavolato.

Nella contrada di Sant’Onorato, Athos incontrò due gentiluomini a lui
ignoti, a cavallo come era egli pure, seguiti anch’essi da un lacchè,
e che seco facevano il medesimo cammino. Un di coloro togliendosi il
cappello, gli disse:

«Crederete, signore, che quel furfante di Mazzarino ha soppressa la
pensione al povero Scarron?

«È stravagante! replicò Athos salutando i cavalieri.

«Si vede che voi siete un onest’uomo, soggiunse lo stesso che aveva già
parlato, e che il Mazzarino è propriamente un flagello.

«Ohimè! fece Athos, e a chi lo dite!»

E si separarono dopo molti scambievoli atti di cortesia.

«Cade bene in acconcio, disse poi Athos al visconte, giacchè dovevamo
andarci, presenteremo le nostre condoglianze a quel povero uomo.

«E chi è quello Scarron, che così mette a soqquadro Parigi? domandò
Raolo, forse qualche ministro in disgrazia?

«Oh! no, mio caro, è semplicemente un piccolo gentiluomo, di grande
spirito, che sarà in disgrazia del ministro per aver fatta qualche
quartina contra di lui.

«I gentiluomini compongono versi? richiese Raolo ingenuamente; credevo
che questo fosse un derogare.

«Sì, visconte, replicò Athos ridendo, così è quando e’ si fanno
cattivi, ma se si fan buoni illustrano anche di più. Vi sia d’esempio
il signor di Rotrou. Ciò non ostante (continuò col tuono in cui uno
darebbe un buon consiglio) io penso che sia meglio il non farne.

«Sicchè quel signore Scarron è poeta?

«Sì; ormai siete avvertito, e in quella casa state guardingo, non
parlate che a gesti, o piuttosto ascoltate soltanto.

«Sì signore.

«Mi vedrete a discorrere molto con un mio amico: sarà l’abate
d’Herblay, del quale spesso mi udiste a ragionare.

«Me ne rammento.

«Avvicinatevi a noi qualche volta come per parlarci, ma non dite nulla;
non ascoltate tampoco: codesto lavorìo gioverà perchè gli importuni non
ci disturbino».

Athos andò a far due visite. Alle sette ore s’incamminarono verso
la via des Tournelles. Ingombravano la strada portantine, cavalli e
servitori. Athos si fece largo ed entrò insieme col giovanetto. La
prima persona che osservò fu Aramis, piantatosi accanto ad un largo
seggiolone con le ruotine, avente sopra una cupola di drappo, sotto
la quale si agitava, avvolta in una coperta di broccato, una figura
piccola, giovane ancora e allegra, ma di quando in quando più pallida,
di cui gli occhi però esprimevano sempre un sentimento o vivace o
grazioso. Era l’abate Scarron, ognora ridente, che burlava, faceva
complimenti, e soffriva, e si grattava con una bacchetta.

Attorno a quella sorta di tenda mobile si affollavano molte dame
e gentiluomini. La stanza era pulitissima e bene addobbata. Grandi
cortine di seta lavorate a fiori state già di colori accesi, ma ormai
alquanto smorti cadevano giù dalle ampie finestre. Il parato non era di
lusso ma di ottimo gusto. Due domestici assai civili ed accostumati a
trattare con decenza facevano delicatamente il loro servizio.

Aramis non sì tosto ebbe visto Athos gli venne incontro, e presolo per
la mano lo presentò a Scarron, che dimostrò al nuovo ospite piacere e
rispetto, e fece al visconte un complimento gentilissimo. Raolo restò
sbigottito, perocchè non si era preparato alla maestosità del bello
spirito, ma salutò con tutto garbo. Indi Athos ricevè le più cortesi
espressioni di due o tre signori a cui lo presentò Aramis, e cessato
a poco a poco il tumulto cagionato dal suo arrivo, la conversazione
diventò generale.

Passati quattro o cinque minuti, che bastarono a Raolo per mettersi a
sesto e pigliar cognizione topografica dell’adunanza, fu aperto l’uscio
ed annunziata da un lacchè madamigella Paulet.

Athos con una mano toccò sulla spalla il visconte.

«Raolo, gli disse, guardate quella donna, poichè è un personaggio
storico; da lei si recava il re Enrico IV allorchè fu assassinato».

Raolo si scosse; da alcuni giorni si alzava ad ogni istante per lui
qualche portiera a discoprirgli un aspetto eroico: la femmina ancor
giovine e bella allora capitata colà, aveva conosciuto Enrico IV e gli
aveva parlato!

Ciascuno si appressò premuroso alla sopraggiunta, secondochè essa era
tuttavia in gran voga. Era alta, di statura svelta, con un bosco di
capelli color d’oro, come piacevano tanto a Raffaello e come ne diede
il Tiziano alle sue Maddalene. E quel color rossiccio, o forse pare la
superiorità quasi regale da lei acquistata su le altre donne, le aveva
procacciato il soprannome di Leonessa (la Lionne).

Quindi le nostre leggiadre signore d’oggi giorno che ambiscono a questo
titolo di moda, sapranno che proviene non già dall’Inghilterra, secondo
probabilmente si credevano, ma dalla vaga e spiritosa lor concittadina
madamigella Paulet.

La Paulet se ne andò direttamente fino a Scarron tra mezzo al bisbiglio
che surse da ogni lato al di lei ingresso.

«Ebbene, mio caro abate, disse con voce tranquilla, eccovi povero; lo
abbiamo saputo oggi; ce lo ha detto il signor di Grasse.

«Sì, disse Scarron, ma adesso lo Stato è ricco; bisogna sapersi
sacrificare al proprio paese.

«Il signor ministro si comprerà da mille cinquecento lire più di
pomate e profumerie all’anno, aggiunse un tale, cui Athos riconobbe pel
gentiluomo che aveva incontrato in via Sant’Onorato.

«Ma che dirà la musa? continuò Aramis con voce sdolcinata, la musa che
ha bisogno dell’aurea mediocrità? giacchè in sostanza:

    Si Virgilio puer aut tolerabile desit,
    Hospitium, caderent omnes a crinibus Hydri.

«Bene, seguitò Scarron porgendo la destra alla Paulet, ma se non ho più
la mia idea, mi resta almeno la mia lionessa».

In quella sera tutti i detti di Scarron parevano egregi: tale è il
privilegio della persecuzione. Il signor Menage saltava e balzava
dall’entusiasmo.

Madamigella Paulet andò al suo solito posto; ma innanzi di sedersi
volse da cima a fondo e da tutta la sua grandezza uno sguardo da
regina, sulla riunione, ed i suoi occhi si fermarono sovra Raolo.

Athos sorrise.

«Visconte, ei disse, madamigella Paulet vi ha osservato; andate a
riverirla; datevi per quello che siete, per un franco provinciale, ma
non vi venisse in testa di discorrerle di Enrico IV».

Raolo si avvicinò alla Lionessa facendosi rosso, e in breve si trovò
confuso tra i signori che circondavano la sua sedia.

Questi formavano digià due comitive assai distinte, quella che
attorniava Menage e l’altra che attorniava la Paulet.

Scarron correva dall’una all’altra, manovrando con la sua poltrona a
ruotine in fra tanta gente colla medesima destrezza che adoprerebbe un
esperto piloto con una barca in mezzo a un mare ingombro di scogli.

«Quando ciarleremo un poco? domandò Athos ad Aramis.

«Or ora, questi rispose, non v’è ancora abbastanza gente, e saremmo
presi di mira».

Nel momento fu aperta la porta ed annunziato il signor Coadjutore.

Tutti si girarono a quel nome che digià principiava a divenir celebre.

Athos seguì l’esempio; egli non conosceva se non di nome l’abate di
Gondy.

Vide entrare un uomo piccolo, nero, mal fatto, miope, sgarbato in ogni
movimento delle mani, tranne nel tirare di spada e di pistola, che andò
ad inciampare sur un tavolino ed ebbe a buttarlo in terra, ma che ciò
non ostante aveva nella ciera qualche cosa di elevato e di fiero.

Scarron si volse dalla sua parte e gli si fece incontro col suo
seggiolone. La Paulet dal proprio posto fece un saluto colla mano.

«Ebbene! disse il Coadjutore quando ebbe visto Scarron, cioè quando gli
fu addosso, siete dunque in disgrazia?»

Cotesta era la frase sacramentale; era stata profferita cento volte
nella serata, e cento detti arguti si erano già pronunziati sullo
stesso soggetto da Scarron; in conseguenza questi fu in procinto di
restar in tronco, ma si salvò con uno sforzo disperato.

«Il signor ministro Mazzarino, egli disse, si è compiaciuto di pensare
a me.

«Oh bene! oh bellissima! esclamò Menage.

«Ma come farete per continuare a riceverci? seguitò il Coadjutore. Se
vi scemano le entrate, mi toccherà farvi nominare canonico di Nostra
Donna.

«Oh no! disse Scarron, vi comprometterei di troppo.

«Dunque avete dei mezzi che noi non conosciamo?

«Prenderò a prestito dalla regina.

«Ma la regina non ha niente del suo, fece Aramis, non vive ella sotto
il sistema della comunione?»

Il signor di Gondy si volse sorridendo ad Aramis, facendogli un piccol
segno amichevole colla punta del dito.

«Scusate, caro abate (così gli parlò poi), siete tuttora indietro, e
bisogna ch’io vi faccia un regalo.

«E di che? domandò Aramis».

Tutti si girarono verso il Coadjutore, che si levò di tasca un cordone
di seta di forma singolare.

«Oh! esclamò Scarron, ma codesta è una _fronda_!

«Precisamente, rispose il Coadjutore, adesso si fa tutto a uso
_fronda_. Madamigella Paulet, tengo per voi un ventaglio a fronda.
D’Herblay, vi manderò il mio guantajo, che fa i guanti a fronda. E a
voi Scarron, il mio fornajo con un credito senza limite; impasta dei
pani a fronda che sono eccellenti».

Aramis prese il cordone e se lo cinse al cappello.

Nel momento fu schiuso l’uscio, ed il lacchè gridò forte:

«La signora duchessa di Chevreuse!»

A quel nome ciascuno si alzò. Scarron avviò prestamente la poltrona
dal lato della porta. Raolo arrossì. Athos fece un cenno ad Aramis, che
andò a rannicchiarsi nel vano di una finestra.

Fra mezzo ai rispettosi complimenti che la accoglievano ben si scorgeva
che la duchessa cercasse qualcuno o qualche cosa.

Alfine adocchiò Raolo, e le brillarono le pupille; adocchiò Athos, e si
fece pensierosa; adocchiò Aramis nel suo cantone, e dietro al ventaglio
fe’ un atto quasi impercettibile di stupore.

«A proposito, disse come per iscacciare le idee che l’assalivano a suo
malgrado, come va il povero Voiture? lo sapete, Scarron?

«Che! il signor Voiture è ammalato? chiese il signore che aveva
discorso con Athos in via Sant’Onorato, e che altro ha egli fatto?

«Ha giuocato senza badare a far preparare dal servitore le camicie
per cambiarsi, disse il Coadjutore, talmente che ha acchiappata una
costipazione e se ne muore lesto lesto.

«Dove?

«Dio buono! in casa mia. Figuratevi che Voiture avea fatto voto
solenne di non giuocar più. A capo a tre giorni non può più reggere,
e s’incammina all’arcivescovado perchè io lo sciolga dal voto.
Disgraziatamente, in quel momento ero in affari serj col buon
consigliere Broussel in fondo al mio appartamento, quando Voiture
vede il marchese di Luynes a un tavolino ad aspettare un giuocatore.
Il marchese lo chiama e lo invita a porsi a tavolino. Egli risponde
che non può toccare le carte se io non lo libero dall’impegno. Luynes
si obbliga in nome mio, si assume il peccato. Voiture si mette alla
partita e perde quattrocento scudi, nell’uscire piglia freddo, e va a
letto per non più alzarsi.

«E sta proprio tanto male, il caro Voiture? domandò Aramis, mezzo
nascosto dietro alla portiera.

«Oimè! rispose il signor Menage, sta malissimo, e il grand’uomo è forse
sul punto di lasciarci, _deseret orbem_.

«E sì! obiettò aspramente la Paulet, vi par che muoja? non ci pensa
neppure! ha attorno tante sultane quante ne potrebbe avere un Turco.
Madama di Saintot è corsa a dargli dei brodi, la Benadaut gli scalda le
lenzuola, e persino la nostra amica marchesa di Rambouillet gli manda i
decotti.

«Ecco, voi non gli volete bene, mia diletta Partenia? disse scherzando
Scarron.

«Uh! che ingiustizia, mio caro infermo! gli ho anzi tanto poco odio che
volentieri farei dire delle messe pel riposo dell’anima sua.

«Non v’hanno mica chiamata per nulla la Lionessa, amor mio! gridò dal
suo posto la Chevreuse! e mordete ben bene!

«Madama, azzardò Raolo, mi pare che maltrattiate di molto un gran poeta.

«Un gran poeta? eh via! si vede che venite dalla provincia, conforme
dicevate pocanzi, e che non lo avete mai conosciuto. Egli, gran
poeta!... oh! s’è alto appena di cinque piedi!

«Brava, brava! strillò un tale, lungo, secco e nero, con i mostacci da
smargiasso e lo spadone enorme al fianco, brava, bella Paulet! è tempo
una volta di rimettere quel Voiture al suo posto. Io dichiaro altamente
che credo d’intendermi di poesia, e che ho trovata sempre pessima la
sua.

«Chi è quel bravaccio? domandò Raolo ad Athos.

«Il signor di Scudery.

«L’autore della _Clelia_ e del _Gran Ciro_?

«Che lo compose in conto a metà con sua sorella, la quale adesso
discorre con quella bella signorina laggiù, vicino al signore Scarron».

Raolo volgendosi vide infatti due faccie nuove capitate d’allora: una
gentile, gracile, mesta, contornata da bei capelli neri, occhi soavi
come quei vaghi fiori di viole sotto a cui brilla un calice d’oro;
l’altra pareva tenesse colei sotto la sua tutela, ed era fredda, secca
e gialla, vero viso da matrona.

Raolo fece conto di non muoversi di sala senza aver favellato
alla leggiadra giovanetta dagli occhietti dolcissimi, che per uno
stranissimo giuoco del pensiero, e sebbene senza alcuna somiglianza,
gli rammentava la sua misera Luigia da lui lasciata ammalata nel
castello di La Vallière, e che fra mezzo a tanta moltitudine aveva egli
per un momento obbliata.

Nell’intervallo Aramis si era avvicinato al Coadjutore, che con ciera
assai gioviale gli aveva insinuata qualche paroletta all’orecchio.
Aramis, ad onta del dominio che aveva sopra sè stesso, non seppe
frenare un piccolo movimento.

«Sì! ridete! gli disse il signor di Retz, e’ ci guardano».

E lo piantò per andar a ciarlare con madama di Chevreuse, che aveva
intorno numerosissimo crocchio.

Aramis finse di ridere per disviare l’attenzione di parecchi uditori
curiosi, ed accortosi che Athos alla sua volta era ito a cacciarsi nel
vano della finestra dov’egli era rimasto non poco tempo, se ne andò a
raggiungerlo senza far mostra di nulla dopo aver lanciate alcune parole
da una parte e dall’altra.

E costoro appena riunitisi intavolarono una conversazione, accompagnata
da moltissimi gesti.

Raolo si appressò ad essi, conforme avevagli raccomandato Athos.

«Il signor abate, disse Athos, mi ripete un _rondeau_ di Voiture, che a
me sembra impareggiabile».

Il visconte si trattenne alcuni istanti vicino a loro, indi si mischiò
alla comitiva di madama di Chevreuse, a cui si erano accostate da un
lato la Paulet e dall’altro la Scudery.

«Ebbene! fece il Coadjutore, io mi farò lecito di non essere per
l’appunto del parere del signore Scudery; io trovo all’incontro
che Voiture è un poeta, ma puro poeta. Gli mancano affatto le idee
politiche.

«Sicchè? domandò Athos.

«Domani, rispose precipitosamente Aramis

«A che ora?

«Alle sei.

«Dove?

«A San-Mandé.

«Chi ve lo ha detto?

«Il conte di Rochefort!»

Si appressava qualcuno.

«E le idee filosofiche erano quelle che mancavano all’infelice Voiture.
Io cedo alla opinione del signor Coadjutore: puro poeta.

«Sì, di certo, soggiunse Menage, per poesia egli era stupendo,
portentoso, eppure la posterità per quanto lo ammiri gli darà una
taccia, cioè di aver messo nella fattura de’ suoi versi una soverchia
licenza; egli ha uccisa la poesia senza saperlo.

«Uccisa! così va detto, confermò Scudery.

«Ma che capolavori sono le sue lettere! obiettò la Chevreuse.

«Oh! sotto quell’aspetto, continuò madamigella di Scudery, è
assolutamente illustre.

«È vero, replicò la Paulet, ma fino a tanto che scherza; giacchè nel
genere epistolare serio è insoffribile, e se non dice le cose con molta
durezza, converrete bensì che le dice malissimo.

«Andrete d’accordo però che nella facezia non ha chi sappia imitarlo.

«Sì, sì, rispose Scudery arricciandosi le basette, trovo soltanto che
in lui la comica è forzata e la facezia troppo familiare. Guardate un
po’ la sua lettera del _Carpione al laccio_.

«Senza notare, appoggiò Menage, che le migliori inspirazioni gli
venivano dal palazzo Rambouillet. Vedi _Zelida_ e _Alcidolea_.

«In quanto a me, disse Aramis appressandosi al circolo e salutando
ossequiosamente madama di Chevreuse, la quale gli rispose con un
grazioso sorriso, lo taccerò inoltre di essere stato troppo libero con
i grandi. Ha mancato talvolta di riguardo alla signora principessa,
al signor maresciallo d’Albret, al signor di Schonberg, e persino alla
regina.

«Come, alla regina? domandò Scudery cacciando avanti la gamba diritta
quasi volesse porsi in guardia, cospettone! questa non la sapevo. E in
che modo, in che modo ha egli mancato a Sua Maestà?

«Non conoscete la sua operetta: _Je pensais_?

«No, disse madama di Chevreuse.

«No, ripetè madamigella di Scudery.

«No, fece pure la Paulet.

«In sostanza, io credo che la sovrana l’abbia comunicata a poche
persone; ma io l’ho avuta da fonte sicura.

«E la sapete?

«Me la ricorderò, mi pare.

«Sentiamo! sentiamo! gridarono tutti.

«Ecco in quale occasione la fu fatta, disse Aramis. Voiture era nella
carrozza della regina, che andava a spasso sola con lui nella foresta
di Fontainebleau. Ei fece mostra di pensare, acciò la sovrana gli
richiedesse a che pensasse, e tanto avvenne.

«A che pensate, signor Voiture?» lo interrogò Sua Maestà.

Egli sorrise, finse di riflettere per alcuni minuti secondi onde si
credesse che improvvisasse, e poi rispose:

    Je pensais que le destinée,
      Après tant d’injustes malheurs,
      Vous a justement couronnée
      De gloire, d’éclat et d’honneurs;
      Mais que vous étiez plus heureuse
      Lorsque vous étiez autrefois,
      Je ne dirai pas amoureuse....
      La rime le veut toutefois....[11]

Scudery, Menage e madamigella Paulet si strinsero nelle spalle.

«Aspettate! disse Aramis, sono tre le strofe.

«Oh! fece la Scudery, dite tre stanze; se è tutto al più una canzone!»

Aramis ricominciò:

    Je pensais que le pauvre Amour,
      Qui toujours vous prête ses armes,
      Est banni loin de votre cour,
      Sans ses traits, son arc et ses charmes;
      Et de quoi je pois profiter
      En passant près de vous, Marie,
      Si vous pouvez si maltraiter
      Ceux qui vous ont si bien servie?[12]

«Oh! osservò madama di Chevreuse, quanto a questo ultimo tratto, non
so se stia nelle regole poetiche, ma chiedo grazia a suo favore come
verità, e la signora di Hautefort, e la signora di Senacey si uniranno
meco se occorre senza contare il signor di Beaufort.

«Tirate pure innanzi, disse Scarron, non son cose che mi riguardino
più; da stamane in qua io non sono più il suo infermo.

«E l’ultima stanza? disse madamigella di Scudery, sentiamola!

«Eccola, ribattè Aramis, questa ha il vantaggio che va avanti coi nomi
propri, dimodochè non v’è da prendere abbaglio.

    Je pensais, nous autres poëtes,
      Nous pensons extravagamment,
      Ce qui dans l’humeur où vous êtes
      Vous feriez, si dans ce moment
      Vous avisiez en cette place
      Venir le duc de Buckingham,
      El lequel serait en disgrace,
      Du duc ou du père Vincent[13].

A questa terza strofa, si levò un grido generale sull’impertinenza di
Voiture.

«Ma, disse pianino la signorina dagli occhietti soavissimi, io ho però
la sfortuna di trovarli stupendi quei versi!»

E tale era pure l’idea di Raolo, che avvicinatosi a Scarron, lo pregò
timidamente:

«Signore Scarron, fatemi l’onore di dirmi chi è quella damina che è
sola della sua opinione contro tutta l’illustre comitiva.

«Ah ah! visconte mio, quegli rispose, se non m’inganno avete voglia di
proporle un’alleanza offensiva e difensiva».

Raolo diventò più rosso di prima, e replicò:

«Confesso che quei versi mi sembrano graziosissimi.

«E realmente lo sono, soggiunse Scarron, ma zitto! tra poeti queste
cose non si dicono.

«Io però, riprese il visconte, non ho il bene di esser poeta, e vi
domandavo....

«Sicuro, chi era quella giovane dama? È la bella Indiana.

«Scusatemi, continuò Raolo più vermiglio che mai, ma ne so quanto
prima. Ohimè! sono provinciale.

«Lo che significa, che capite poco il guazzabuglio che qui scorre da
tutte le bocche. Meglio! giovanotto mio, meglio così! non cercate di
comprenderlo, ci perdereste il vostro tempo, e quando lo intenderete
bisogna sperare che non sia più in uso il parlarlo.

«Sinchè mi compatite, signore, insistè il visconte, e vi degnerete
dirmi chi è colei, che chiamate la bella Indiana.

«Sì, certo: è una delle più amabili persone ch’esistano: madamigella
Francesca d’Aubigné.

«È forse della famiglia del famoso Agrippa amico del re Enrico IV?

«È sua nepote. Viene dalla Martinica, ed ecco perchè la chiamo la bella
Indiana».

Raolo aprì tanto d’occhi, e gli occhi suoi si incontrarono in quelli
della signorina, la quale sorrise.

Si seguitava frattanto, a discorrere di Voiture.

«Signore, richiese madamigella d’Aubigné a Scarron come per entrare
nella conversazione ch’esso aveva col visconte, non ammirate gli amici
del povero Voiture? ma udite un po’ come lo spennano nel tempo che
lo lodano! Uno gli toglie il buon senso, l’altro la poesia, questo
l’originalità, quello il gusto comico, uno l’indipendenza, un altro....
Dio buono! e che gli lasceranno, all’_assolutamente illustre_, come ha
detto madamigella di Scudery?»

Scarron si mise a ridere, e Raolo pure. La bella Indiana sorpresa
dell’effetto da lei prodotto abbassò il ciglio e ritornò nell’ingenuo
suo aspetto.

«È molto spiritosa!» disse Raolo.

Athos sempre nel vano della finestra osservava tutta la scena con un
sorriso di disprezzo sul labbro.

«Chiamate un poco il conte de la Fère, disse madama di Chevreuse al
Coadjutore, ho bisogno di parlargli.

«Ed io, rispose il Coadjutore, ho bisogno che tutti credano che non gli
parlo. Lo amo e lo ammiro, giacchè conosco le sue antiche avventure,
almeno parecchie, ma non ho idea di salutarlo che doman l’altro la
mattina.

«E perchè doman l’altro?

«Lo saprete domani sera, replicò ridendo il signor di Gondy.

«Ma, in coscienza, voi discorrete a suon di geroglifici. Signor
d’Herblay, aggiunse volgendosi ad Aramis, favorite anche una volta
esser mio servente questa sera?

«E come, duchessa! disse Aramis, questa sera, domani, sempre!

«Or bene, andate a chiamarmi il conte di la Fère».

Aramis si accostò ad Athos e ritornò indietro seco.

«Signor conte, fece la duchessa consegnando ad Athos una lettera, ecco
ciò che vi avevo promesso; il nostro protetto sarà benissimo ricevuto.

«Madame, egli è ben fortunato di esservi debitore di qualche cosa.

«In quanto a questo voi non avete invidia, di certo, giacchè io debbo a
voi l’averlo conosciuto».

La maliziosa donna diede una tal risposta con un sorrisetto che ad
Athos rammentò Maria Michon.

E indi si alzò e chiese la carrozza.

Madamigella Paulet era già partita; madamigella di Scudery se ne andava.

«Visconte, ordinò Athos a Raolo, seguitate la duchessa di Chevreuse;
pregatela di accettare la vostra mano per scendere, e andando giù con
lei ringraziatela».

La bella Indiana si appressò a Scarron per prender da esso commiato.

«Ve n’andate digià? domandò Scarron.

«Vo via una delle ultime, come vedete. Se avete notizie del signor
Voiture, e specialmente se son buone, fatemi grazia di mandarmele
domani.

«Oh! oramai può morire.

«Come!

«Senza dubbio: è bell’e fatto il suo panegirico».

E si separarono ridendo, la giovanetta girandosi a guardare il povero
paralitico con premura, il paralitico seguendola con occhi amorosi.

A poco a poco si diradavano i crocchi. Scarron non fece mostra di
vedere che taluni si erano parlato misteriosamente, che per diversi
erano giunte delle lettere, e che il suo trattenimento serale pareva
avesse avuto uno scopo occulto lontanissimo dalla letteratura di cui
però si era trattato con tanto calore. Ma a Scarron che importava di
ciò? ormai in casa sua si poteva _sparlare_ (_fronder_) a bell’agio:
dalla mattina in poi, conforme aveva detto, egli non era più l’infermo
della regina.

Raolo accompagnò difatti la duchessa sino alla carrozza, in cui essa
salì dandogli a baciare la mano; poi per uno di quei capriccetti che
la rendevano sì adorabile, e soprattutto sì pericolosa, lo afferrò
improvvisamente per la testa e lo baciò in fronte, dicendogli:

«Visconte, deh! i miei voti e questo bacio vi portino fortuna».

Indi lo rispinse, e ordinò al cocchiere di trottare sino al palazzo di
Luynes.

La carrozza era corsa via; la signora di Chevreuse aveva fatto dallo
sportello un piccolo cenno a Raolo, e questi rimaneva là confuso.

Athos comprese quanto era avvenuto.

«Venite, visconte, egli disse; è tempo che vi ritiriate: domani
partirete per l’armata del signor Principe; dormite bene per l’ultima
vostra notte di cittadino.

«Sarò dunque soldato? oh, grazie, grazie di cuore.

«Addio, conte, disse l’abate d’Herblay, me ne torno in convento.

«Addio, abate, fece il Coadjutore, domani predicherò, e questa sera ho
da consultare una ventina di testi.

«Addio, signori, aggiunse Athos, io vo a dormire per ventiquattro ore
di seguito; non mi reggo dalla stanchezza».

I tre si salutarono, ed uscirono dopo aver ricambiato un ultimo sguardo.

Scarron li seguitava con la coda dell’occhio attraverso alle portiere
del suo salone.

«Nessun di loro farà quel che dice, borbottò col suo sogghigno da
scimmia, ma vadano pure, bravi gentiluomini! chi sa se non lavorano a
farmi restituire la mia pensione? essi possono muovere le braccia, e
questo è molto; io ahimè! non ho altro che la lingua, ma procurerò di
provare ch’è pure qualcosa. Ehi, Champenois! venite a trascinarmi verso
il mio letto.... In verità, è molto amabile la signorina d’Aubigné!»

E il povero paralitico disparve nella sua camera dormitoria, fu chiuso
l’uscio, ed i lumi si spensero l’un dopo l’altro nel salone della via
des Tournelles.



XXIV.

_San Dionigi._


Principiava ad esser giorno quando Athos si alzò e si fece vestire.
Dalla sua pallidezza maggiore del consueto, e dai segni che lascia sul
volto la veglia, si scorgeva che doveva aver passata quasi tutta la
notte senza dormire. Contro l’abitudine di quest’uomo tanto fermo e
deciso, esisteva in quella mattina in tutta la sua persona qualche cosa
di lento e d’irresoluto.

Egli è che si occupava ai preparativi di partenza di Raolo e cercava di
acquistar tempo. Prima forbì da sè una spada che trasse da un astuccio
di cuojo profumato, esaminò se la impugnatura era ben in guardia, e se
la lama reggeva a questa assai solidamente.

Dipoi gettò in fondo ad una valigia destinata al giovanetto un
sacchetto pieno di luigi, chiamò Olivain (il lacchè che lo aveva
accompagnato da Blois), e gli fece fare davanti a sè i fagotti,
invigilando che vi fossero tutti gli oggetti necessarj ad uno che si
mette in campagna.

Ed avendo impiegato un’ora circa in tali diligenze, aprì l’usciale che
conduceva in camera del visconte e vi entrò leggermente.

Il sole digià brillante penetrava nella stanza dalla larga finestra di
cui Raolo, tornato tardi, aveva trascurato di chiudere le portiere la
sera precedente. Dormiva esso ancora, con la testa graziosamente posata
sul braccio. I lunghi capelli neri gli cuoprivano per metà la bella
fronte umida tuttavia di quel vapore che scorre in placide perle giù
per la guancia dello stanco fanciullo.

Athos si avvicinò, e chinatosi in atto ricolmo di tenera malinconia,
stette lunga pezza a considerare il giovanetto dal labbro sorridente,
dalle palpebre quasi chiuse, di cui i sogni dovevano essere dolcissimi
e lieve il sonno, tanto era l’affetto e la sollecitudine che poneva
l’angiolo suo protettore nella tacita sua custodia. A grado a grado
Athos si lasciò trasportare dall’incanto della sua meditazione al
cospetto di quella gioventù sì ricca e pura, e a lui ricomparve la
gioventù sua propria, seco recando tutte le sue soavi rimembranze,
le quali sono piuttosto fragranze che pensieri. Da quel passato al
presente correva un abisso. Ma l’immaginazione ha il volo dell’angiolo
e del lampo; varca i mari ove noi fummo presso a naufragare, le
tenebre in cui si perderono le nostre illusioni, i pregiudizj in cui
si sommerse la nostra felicità. Ei riflettè che la prima parte della
sua vita era stata distrutta da una donna; riflettè atterrito a quanta
influenza aver possa l’amore sovra ad una organizzazione sì delicata e
vigorosa a un tempo stesso.

Ricordandosi tutto ciò ch’egli aveva sofferto, previde ciò che
soffrir poteva Raolo, e l’espressione della profonda e tenera pietà
penetratagli in cuore si risvegliò nell’umido sguardo che ei tenne
fisso sul fanciullo.

Nel momento Raolo si destò, con quel risveglio scevro da nuvoli, da
tenebre e da fatiche che caratterizza certi naturali delicati al pari
di quello degli augelli. I suoi occhi si fermarono su quelli di Athos,
ed egli senza dubbio comprese quanto passava nell’interno dell’uomo che
attendeva il suo destarsi nella guisa in cui un amante attende quello
della sua bella, giacchè gli corse nello sguardo l’espressione di un
amore infinito.

«Eravate costì, signore! disse in tuono del massimo rispetto.

«Sì, Raolo, era qua, rispose il conte.

«E non mi svegliavate!

«Volevo lasciarvi ancor qualche momento del vostro buon sonno; dovete
essere stanco della giornata di jeri prolungatasi tanto tardi.

«Oh! quanto siete buono!

«Come vi sentite?

«Benissimo, e quieto e in forze.

«Egli è che crescete tuttora; continuò Athos con interesse paterno e da
uomo già maturo, e le fatiche all’età vostra son doppie.

«Ah! vi chiedo scusa, signore, disse Raolo confuso da tanta premura, ma
fra un momento sarò vestito».

Athos chiamò Olivain, e dopo dieci minuti, il suo pupillo con la
puntualità che gli era stata trasfusa da lui già avvezzo al servizio
militare, si trovò bell’e pronto.

«Adesso, disse il visconte al domestico, occupatevi del mio bagaglio.

«Il vostro bagaglio vi aspetta, gli rispose Athos; io ho fatto fare la
valigia sotto i miei occhi, e nulla vi mancherà. Dev’essere digià posta
addosso ai cavalli, ugualmente che la sacca del servitore, se il mio
comando si è eseguito esattamente.

«Con ogni precisione e secondo la vostra volontà, signor conte, avvertì
Olivain, e i cavalli attendono.

«Ed io stava a dormire! esclamò Raolo, mentre voi avevate la bontà
di provvedere a tutte queste cose! ma davvero mi colmate di tratti
d’immensa bontà!

«Sicchè mi amate un poco, almeno io lo spero, replicò Athos con molta
commozione.

«Oh! signore, disse Raolo, che per non manifestare tutta la sua
tenerezza faceva sforzi onde pativa oltremodo; mi è testimone Iddio che
vi amo e vi venero!

«Badate di non dimenticar roba alcuna, fece Athos figurando di cercarsi
attorno per celare la sua agitazione.

«No, no.... signore».

Il lacchè, accostatosi allora ad Athos con un tal qual titubanza, gli
disse piano:

«Il signor visconte non ha spada, perchè jeri sera vossignoria mi fece
portar via quella ch’ei si era levata.

«Va bene, ci penso io», rispose il padrone.

Raolo non mostrò accorgersi del breve dialogo. Scese guardando ad ogni
poco il conte per conoscere se era giunto l’istante dell’addio; ma
Athos non faceva moto.

Arrivato sul verone, il giovine vide tre corsieri.

«Oh! esclamò esultante, dunque mi accompagnate?

«Voglio condurvi un poco in là, disse il conte».

E negli occhi al garzoncello brillò sommo giubilo, e saltò egli svelto
a cavallo.

Athos si pose lentamente sul suo dopo aver dette poche parole sotto
voce al servo, il quale invece di andar subito appresso, salì di
nuovo a casa. Raolo, contentissimo di essere insieme col conte, non si
accorse di niente, o di niente parve almeno si accorgesse.

I due gentiluomini presero dal Ponte Nuovo, continuarono su per gli
scali, o piuttosto da quel che si chiamava inallora l’_Abreuvoir
Pépin_, e rasente alle mura del _Gran Castelletto_. Quando entravano
nella contrada di San Dionigi li raggiunse il lacchè.

Fecero il tragitto in silenzio. Il giovanetto capiva che si
approssimava il momento della separazione: la sera innanzi il conte
aveva date diverse istruzioni per cose che lo riguardavano nel corso
della giornata. D’altronde i suoi sguardi divenivano ognora più
affettuosi, e così pure le poche parole ch’ei si lasciava sfuggire.
Tratto tratto gli usciva di bocca una riflessione o un consiglio, e la
sua favella dava indizio di estrema premura.

Oltrepassata la porta San Dionigi, e mentre erano arrivati all’altura
dei Certosini, Athos diede un’occhiata al palafreno di Raolo.

«Badate, disse al giovane, avete la mano grave; ve l’ho detto più
volte, e non dovreste dimenticarlo, giacchè è un gran difetto in un
cavallerizzo. Vedete! il vostro cavallo è digià stanco e butta la
spuma, intanto che il mio sembra uscito or dianzi dalla scuderia.
Gl’indurite la bocca stringendogli di troppo il morso, e non potete più
farlo agire colla prontezza necessaria. La salvezza di un cavalcante
dipende talora dalla sollecita obbedienza dell’animale ch’egli ha
sotto. E fra otto giorni, rifletteteci, non avrete da manovrare alla
cavallerizza, ma sibbene sul campo di battaglia».

In un subito però, e per non dare soverchia importanza alla sua
osservazione, ei soggiunse:

«Guardate, Raolo, che bella pianura per inseguire le pernici!»

Il fanciullo approfittava della lezione, ed ammirava la delicatezza con
cui venivagli data.

«L’altro giorno notai anche un’altra cosa, riprese Athos, cioè che
nello sparare la pistola tenevate il braccio troppo steso. Con questo
la botta va meno sicura, e realmente mancaste il bersaglio tre volte su
dodici.

«E voi lo coglieste tutte e dodici, rispose sorridendo Raolo.

«Perchè piegavo il pugno, e riposavo così la mano sul gomito. Mi capite
bene, mio caro?

«Oh sì; dipoi ho tirato da me solo, attenendomi a questo suggerimento,
ed ho avuto buonissimo esito.

«Ecco, ricominciò Athos, anco battendovi di scherma incalzate di
soverchio l’avversario. È difetto proprio dell’età vostra, lo so, ma il
movimento del corpo in ciò troppo frequente scompone sempre la spada
dalla linea, e se aveste che fare con un uomo di sangue freddo, vi
fermerebbe al primo vostro passo con una semplice svolta del ferro, o
pure con una botta diritta.

«Sì, sì, conforme voi faceste spessissimo, ma non tutti hanno la vostra
destrezza ed il vostro coraggio.

«Che vento fresco!... è un ricordo dell’inverno.... Appunto, se andate
al fuoco, e vi andrete perchè siete raccomandato ad un generale assai
portato pella polvere, sovvenitevi in un impegno da solo a solo,
secondo accade sovente a noi altri di cavalleria, di non essere mai il
primo a tirare: chi tira primo tocca di rado l’altro, perchè va col
timore di essere disarmato davanti ad un nemico armato; indi quando
quegli vibra il colpo, fate che il vostro cavallo s’impenni: è questa
una manovra che due o tre fiate mi ha salvata la vita.

«Ed io l’adoprerò, quando non fosse che per gratitudine.

«Oh! fece Athos, non sono cacciatori di contrabbando coloro che son
laggiù arrestati?... Ma un altro avviso importante: se siete ferito,
se cadete di sella e vi rimane ancora un po’ di forza, toglietevi
dalla linea che ha seguitata il vostro reggimento; diversamente esso
può esser ricondotto indietro e voi calpestato dai cavalli. In ogni
caso, qualora siate ferito, scrivetemi sul momento o fatemi scrivere;
c’intendiamo di ferite, noi altri!»

E il conte così dicendo sospirava.

«Grazie, rispose Raolo commosso.

«Eccoci a San Dionigi», balbettò Athos.

Erano appunto alla porta della città custodita da due sentinelle. Una
di esse disse all’altra:

«Ecco ancora un giovine gentiluomo che mi ha la cera di andare
all’armata».

Athos si volse: tutti quei che si occupavano anche in modo indiretto di
Raolo prendevano tosto per lui il maggiore interesse.

«Da che ve ne avvedete? domandò al soldato.

«Dal suo aspetto, colui rispose, e poi egli è dell’età voluta; per oggi
è il secondo.

«È già passato stamane uno simile a me? richiese Raolo.

«Sì signore, di nobil figura e in bellissimo equipaggio; mi è sembrato
figliuolo di qualche gran signore.

«Sarà per me un compagno di viaggio, disse il giovanetto ad Athos, ma
ohimè! non mi farà obliare quello che io perdo.

«Non credo che lo raggiungiate, replicò il conte, perchè io ho da
parlarvi qua, e ciò che ho da dirvi esigerà forse tanto tempo che quel
gentiluomo vi preceda di molto.

«Come vi piace, signore».

Così favellando i due traversavano le strade che erano piene di gente
a motivo della solennità della festa, ed arrivavano di faccia alla
basilica ove dicevasi una prima Messa.

«Smontiamo, fece Athos, e voi Olivain, custodite i cavalli e date a me
la spada».

E presa la spada che il servo gli porgeva entrò assieme col visconte.

Athos offerse l’acqua benedetta a Raolo. In certi cuori di padri v’è un
poco di quel premuroso amore che ha per l’amante sua l’innamorato.

Il giovinetto toccò al conte la destra, salutò, e si fece il segno
della croce.

Athos disse poche parole ad uno dei custodi, il quale dopo un inchino
si avviò verso i sotterranei.

«Venite, Raolo, disse Athos, e seguitiamo quell’uomo».

Il guardiano aprì il cancello delle tombe regie, e stette sul gradino
più alto, mentre i due forestieri discendevano. Le profondità della
scala sepolcrale erano rischiarate da una lampada d’argento posta
sull’ultimo gradino, e precisamente sotto quel lume stava avvolto in
un ampio manto di velluto paonazzo con umili gigli d’oro, un catafalco
sorretto da cavalletti di ebano.

Raolo, preparato a quella situazione dallo stato del proprio cuore
ricolmo di mestizia, dalla maestà dei tempio che aveva tutto percorso,
era sceso con passo lento e solenne; e si teneva in piedi e nuda
la testa dinanzi a quella spoglia mortale dell’ultimo re, la quale
non doveva andare a raggiungere gli avi suoi se non quando il suo
successore verrebbe a raggiungere lui stesso, e che pareva restasse
colà per dire all’umano orgoglio, facile tanto ad esaltarsi sul trono:
«Polve terrestre, ti aspetto».

Fuvvi un momento di silenzio.

Dopo di che Athos alzando la mano, e additato il sepolcro, disse:

«Questa incerta sepoltura è quella di un uomo debole e senza alcuna
grandezza, e che pur non ostante ebbe un regno pieno di avvenimenti....
perchè al disopra di questo re vegliava lo spirito di un altro uomo,
come la lampada che qui mirate veglia sopra alla bara e le dà la
luce. Quegli era re vero; l’altro non era che una larva in cui egli
poneva l’anima sua. E bensì, tanto è possente presso di noi la maestà
monarchica, che quell’uomo non ebbe tampoco l’onore di una tomba ai
piedi di colui per la cui gloria adoprò la sua vita, imperocchè, e di
ciò vi sovvenga, o Raolo, s’ei fece piccolo il re, fe’ ben grande la
regale dignità. Codesto regno passò; il ministro temuto, terribile,
odiato dal suo padrone, calò nella tomba, traendovi seco il re, cui
non voleva lasciar viver solo, per tema al certo che distruggesse
l’opera sua, dacchè un re non erige, non edifica, se non quando abbia
seco o Dio, o lo spirito di Dio. Allora però, tutti considerarono la
morte di Richelieu come una salvezza, ed io pure, tanto sono ciechi i
contemporanei! spesso mi opposi ai disegni del gran uomo che teneva
nelle sue mani la Francia, e che secondo queste apriva o stringeva,
la soffocava o le dava aria a suo talento. Se non ci annientò me e gli
amici miei, nella tremenda ira sua, fu di sicuro onde oggi io potessi
dirvi: Raolo, sappiate sempre rispettare il re e la regale dignità.
Raolo, ei mi sembra di vedere il vostro avvenire come traverso ad un
nuvolo. Esso è, per quanto io creda, migliore del nostro. All’opposto
da noi, che avemmo un ministro senza re, voi avrete un re senza
ministro. Quindi potrete servire, amare e rispettare il sovrano. Se il
sovrano divien mai un tiranno, imperciocchè il sommo potere ha tali
vertigini che lo spingono talvolta alla tirannide, servite, amate e
rispettate in lui la dignità regale, quella scintilla che fa la polve
tanto grande e santa, che noi, pur gentiluomini d’alto grado, siamo
sì poco davanti a quel corpo steso sull’ultimo gradino di questa scala
com’è il corpo medesimo dinanzi al trono del Signore.

«Adorerò Iddio, disse Raolo, rispetterò la regia potestà, e se muojo
procurerò di morire pel re, pella potestà regia e per Dio. Vi intesi io
bene, o signore?»

Athos sorrise.

«Siete d’indole nobilissima, rispose, ed eccovi la vostra spada».

Raolo pose in terra un ginocchio, ed il conte seguitò:

«La portò mio padre, leale gentiluomo; io la portai, e qualche volta
le feci onore quando in mia mano era l’elsa e mi pendeva al fianco il
fodero. Se la vostra destra è ancor debole per maneggiare questa spada,
meglio così! avrete maggior tempo onde imparare a non isguainarla se
non quando essa debba mostrarsi.

«Signore, replicò il giovanetto, tutto io vi devo, ma questo brando è
il più prezioso di tutti i vostri doni; lo terrò, ve lo giuro, come si
spetta ad un uomo riconoscente».

E accostate all’impugnatura le labbra la baciò rispettoso.

«Alzatevi, visconte, ed abbracciamoci», disse Athos.

Raolo si gettò con trasporto nelle sue braccia.

«Addio, balbettò il conte che si sentiva venir meno il cuore, addio, e
pensate a me.

«Oh sempre! oh, in eterno! sì, lo giuro, e se mi avvenga qualche
sciagura, il vostro nome sarà l’ultima mia parola, e la memoria di voi
l’ultimo mio pensiero».

Athos risalì in fretta onde celare la sua emozione, diede una moneta
d’oro al custode delle tombe, s’inchinò davanti all’altare, e corse al
loggiato della chiesa, fuori del quale Olivain attendeva con gli altri
due cavalli.

«Olivain, gli disse, additando il budriere di Raolo, stringete
la fibbia di questa spada ch’è troppo lenta. Bene.... Adesso
accompagnerete il signor visconte fintanto che Grimaud vi abbia
raggiunto, ed allora lo lascerete seco. Intendete, Raolo? Grimaud è un
vecchio servo pieno di coraggio e di prudenza, egli vi seguirà.

«Come vi piaccia, mio signore.

«Animo, a cavallo, ch’io vi vegga partire».

Raolo obbedì.

«Addio Raolo, addio, figlio caro!

«Addio, signore, addio, mio benefattore!

Athos fe’ un cenno colla mano, chè non osava parlare, e Raolo si
allontanò tenendo nella destra il cappello.

Athos rimase immobile a guardarlo sinchè ei disparve alla svolta di una
strada. Allora gettata ad un villico la briglia del suo corsiero, salì
piano i gradini, rientrò in chiesa, andò ad inginocchiarsi nel luogo
più oscuro, ed ivi pregò.



XXV.

_Uno dei quaranta mezzi di fuga del sig. di Beaufort._


Frattanto passava il tempo per il prigioniero come per quelli che
occupavansi della sua fuga; se non che per lui trascorreva più
lentamente. Al contrario degli altri uomini, i quali prendono con
calore una risoluzione pericolosa e si raffreddano a misura che
avvicinasi il momento di eseguirla, il duca di Beaufort, il di cui
coraggio era ormai passato per proverbio ed incatenato da una inazione
di cinque anni, sembrava spingesse innanzi il tempo e co’ suoi voti
chiamasse l’ora di agire. Esisteva nella sua fuga, indipendentemente
dai progetti che faceva per l’avvenire, e, confessiamolo, molto vaghi
ed incerti, un principio di vendetta che gli consolava il cuore. In
primo luogo la sua clandestina partenza era un imbroglio pel signor
di Chavigny, ch’egli aveva preso ad abborrire a motivo delle piccole
persecuzioni in cui lo aveva assoggettato; poi un grave imbarazzo per
Mazzarino che detestava ed esecrava a cagione dei grandi rimproveri che
avea da fargli. Come ognun vede si manteneva l’opportuna proporzione
tra i sentimenti del signor di Beaufort verso il governatore ed il
ministro, il subalterno ed il padrone.

Di più il duca, che conosceva tanto bene lo interno del palazzo reale,
e non ignorava le relazioni della regina col ministro, metteva in scena
dalla sua carcere tutto quel movimento drammatico che succederebbe
allorchè dal gabinetto di Mazzarino alla camera di Anna echeggiasse
il grido «È scappato di Beaufort!» E ripensando a tutto questo, se
la rideva fra sè, e gli pareva già di esser fuori a respirar l’aria
delle pianure e delle selve, dando di sprone a un robusto corsiero, ed
esclamando ben forte: «Son libero!»

È vero che ritornato poi in sè stesso si trovava tra quattro mura,
vedeva dieci passi distante la Ramée che rigirava un dito pollice
sull’altro, e nell’anticamera le otto guardie che scherzavano o
bevevano.

L’unica cosa che lo riposava da quadro sì odioso, tanto è grande
l’instabilità della mente umana, era la faccia arcigna di Grimaud,
quella faccia che in sul principio egli aveva presa ad odiare e che
indi era diventata tutta la sua speranza. Grimaud gli sembrava bello a
pari d’un Antinoo.

È superfluo il dire che tutto questo era un giuoco dell’immaginazione
riscaldata del nostro detenuto. Grimaud era sempre lo stesso; e quindi
si conservava l’intera fiducia del suo superiore. La Ramée che ormai
avrebbe contato più su di lui che sopra sè medesimo, giacchè, come
accennammo, la Ramée provava in fondo al cuore una tal qual debolezza a
favore del sig. di Beaufort.

E perciò il buon la Ramée godeva anticipatamente della cena da fare
da solo a solo col prigioniero. Ei non aveva che un difetto, la gola;
aveva trovate squisite le robe del successore di Marteau, e questi gli
aveva promesso un pasticcio ripieno di fagiani anzi che di galletti,
e del vino di Chambertin invece del Macon. Lo che abbellito dalla
presenza dell’ottimo principe, che inventava sì graziose burlette
contro il Chavigny, e lepidissimi scherzi addosso al Mazzarino, formava
della bella Pentecoste vicinissima una delle più brillanti feste per
messer la Ramée.

Sicchè esso attendeva le sei ore di sera con impazienza uguale a quella
del duca.

Sino dalla mattina si era occupato di tutti i dettagli, e non fidandosi
di alcuno avea fatta in persona una visita al successore di mastro
Marteau. Costui aveva operato portenti: gli mostrò un vero pasticcio
_mostro_, adorno sul coperchio con le armi del signor di Beaufort; era
vuoto, ma accanto si vedevano un fagiano e due pernici lardellate e
tonde che parevano tre torsellini da spilli.

Per maggior fortuna, noi già lo avvertimmo, il signor di Chavigny
riposandosi su la Ramée era andato a fare un piccolo viaggio, e
partitosi la mattina stessa avea lasciato lui come si direbbe,
sotto-governatore del castello.

Grimaud poi sembrava in viso più arcigno che mai.

Nel giorno il signor di Beaufort aveva giuocato alla palla con la
Ramée; un cenno di Grimaud gli avea dato a capire che dovesse badar
bene a tutto.

Grimaud andando avanti insegnava la strada che doveva farsi la sera.
Il giuoco della palla era in quello che chiamava il recinto del
piccolo cortile del castello; luogo assai deserto ove non si ponevano
sentinelle se non nel momento in cui il duca faceva la partita, ed
anco a motivo dell’altezza del muro pareva codesta una precauzione
superflua.

V’erano da aprire tre porte innanzi d’arrivare a quel recinto. Ad
ognuna serviva una chiave diversa. La Ramée teneva tutte e tre le
chiavi.

Giunto al locale predetto, Grimaud andò come alla spensierata a sedersi
vicino ad una feritoja, con le gambe penzoloni fuor della muraglia.
Diveniva chiaro che in quel punto sarebbe fissata la scala di corde.

Questa manovra, facile a comprendersi pel signor di Beaufort, era però,
secondo ciascuno lo riconosce, impossibile a intendersi per la Ramée.

S’incominciò la partita. Questa volta il duca era in vena, e v’era
quasi da dire che posasse colle dita le pillotte dove voleva ch’elle
andassero. La Ramée fu battuto compiutamente.

Quattro dei guardiani del signor di Beaufort lo avevano accompagnato
e raccoglievano le palle. Terminato il giuoco, egli burlando la Ramée
pella sua poca abilità, offerse ai guardiani due luigi acciò andassero
a bere alla sua salute con gli altri quattro loro camerati.

Coloro chiesero l’autorizzazione a la Ramée, il quale la concesse, ma
soltanto per la sera. Sino allora egli aveva da occuparsi di faccende
importanti, e dovendo far varie gite desiderava che in assenza sua il
prigioniero non si perdesse di vista.

Qualora il signor di Beaufort avesse disposte le cose di per sè,
probabilmente le avrebbe fatte meno a sua convenienza di quello che le
accomodasse il suo custode.

Finalmente suonarono le sei! sebbene non s’avesse da porsi a tavola
sino a sette ore, il pasto era pronto e apparecchiato. Sopra una
credenza stava il pasticcio colossale con le armi del duca, che pareva
cotto appuntino, da quanto si poteva giudicare al color dorato della
crosta.

E tutto il rimanente era sul medesimo genere.

Tutti avevano grande impazienza, le guardie d’ire a bere, la Ramée dì
mettersi a mensa, e il signor di Beaufort di scappare.

Il solo Grimaud se ne stava impassibile. Avreste detto che Athos lo
avesse educato nella previdenza di quella grande circostanza.

In certi momenti il duca guardandolo domandava fra sè se pur sognava,
e se quella figura di marmo era realmente al suo servizio, e se si
animerebbe arrivato l’istante opportuno.

La Ramée licenziò le guardie, ad esse raccomandando di bere alla salute
del principe, e indi partite ch’esse si furono serrò le porte, si mise
in tasca le chiavi, e additò la tavola al duca in modo che significava:

«Quando vorrà monsignore».

Il principe guardò Grimaud, Grimaud guardò l’orologio a pendolo; erano
appena sei ore e un quarto; la fuga era fissata per le sette, talchè
restava da aspettare tre quarti d’ora.

Il signor di Beaufort per acquistare uno di quei tre quarti, addusse a
mo’ di pretesto una certa sua lettura e chiese di finire il capitolo.
La Ramée si accostò, allumò di su la spalla che libro fosse quello
avente tanta influenza sopra Sua Altezza da impedirle di sedersi a
mensa imbandita la cena.

Erano i Commentarj di Cesare, ch’egli stesso ad onta delle istruzioni
del signor di Chavigny, procacciati gli aveva tre giorni innanzi.

E la Ramée si propose fermamente di non più porsi in contravvenzione
coi regolamenti della torre.

Intanto sturò le bottiglie, e andò ad annusare un tantino il pasticcio.

Alle sei e mezza il duca si alzò dicendo in aria grave:

«Assolutamente Cesare era l’uomo più grande dell’antichità.

«Vi par proprio così, monsignore? fece la Ramée.

«Sì.

«Ebbene, io ho più caro Annibale.

«E perchè, messer la Ramée?

«Perchè non ha lasciato commentarj», replicò il birro col suo solito
sorriso assai comune.

Il signor di Beaufort capì l’allusione, e si mise a tavola ammiccando a
la Ramée si situasse dirimpetto.

E il birro non se lo fece mica dire due volte.

Non v’è faccia tanto espressiva come quella di un vero ghiottone che
stia davanti a lauta mensa; e la faccia di la Ramée, mentre dalle
mani di Grimaud ei riceveva la sua scodella di minestra, offeriva il
sentimento della vera beatitudine.

Il duca lo guatò sogghignando.

«Per bacco! egli disse, ma sapete che se qualcuno mi asserisse esservi
al mondo un uomo più felice di voi, io non lo crederei?

«E in coscienza avreste ragione, monsignore. Per me confesso che quando
ho fame non conosco veduta più piacevole che una tavola bene imbandita;
e se aggiungete che quegli che tratta è il nepote d’Enrico il Grande,
comprenderete che l’onore che si riceve raddoppia il diletto che si
gode».

Il principe s’inchinò colla vita, ed apparve un sorriso impercettibile
sul volto di Grimaud che stava dietro a la Ramée.

«Mio caro la Ramée, disse il signor di Beaufort, non v’è uno eguale a
voi per far un complimento.

«No, monsignore, rispose l’altro nel calore dell’animo suo, no davvero,
dico quello che penso, e in questo che vi dico non c’è complimento.

«Dunque mi siete affezionato?

«Cioè, non mi consolerei più se Vostra Altezza uscisse da Vincennes.

«Stranissima maniera di dimostrarmi la vostra _afficione_ (il principe
voleva dire: la vostra affezione).

«Ma, Altezza, soggiunse la Ramée, fuori di qui che fareste? qualche
pazzia che vi metterebbe in dissapori con la corte e vi farebbe
piantare alla Bastiglia invece di Vincennes. Il signor di Chavigny non
è garbato, ne convengo (seguitò trincando un bicchierino di Madera), ma
il signor du Tremblay è anco di peggio!

«Veramente? fece il duca, il quale aveva genio all’andamento che
prendeva il colloquio, e tratto tratto osservava l’orologio la di cui
lancetta progrediva con tal lentezza da farlo disperare.

«Che volete aspettarvi dal fratello di uno ch’è avvezzato alla scuola
del Richelieu? Ah! Altezza, date retta a me, l’è una gran sorte che la
regina, che per quanto ho inteso dire vi ha voluto sempre bene, abbia
avuta l’idea di mandarvi qui, dove abbiamo passeggio, giuoco di palla,
buoni pasti ed aria ottima.

«Sicchè a sentir voi, continuò il principe, sono molto ingrato per aver
concepito un sol momento il pensiero d’uscir di qua?

«È il colmo dell’ingratitudine! ma Vostra Altezza non vi ha mai pensato
sul serio.

«Sì, anzi, ribattè il Beaufort, e debbo confessarlo, sarà follia, non
dico di no, ma di quando in quando ci penso tuttora.

«Sempre, con uno dei vostri quaranta mezzi, monsignore?

«Eh sì!

«Ecco, via, giacchè siamo a sfogarci, ditemi una delle quaranta maniere
inventate da Vostra Altezza.

«Volentieri, rispose il duca, Grimaud, datemi il pasticcio.

«Sto ad ascoltare», disse la Ramée, e buttandosi giù sulla seggiola,
alzava il bicchiere, e faceva occhiolino per guardare il sole al
tramonto a traverso al liquore color di rubino che in quello si
conteneva.

Il signor di Beaufort diede un’occhiata all’orologio: tra dieci minuti
sonerebbe le sette.

Grimaud recò il pasticcio davanti al principe. Questi pigliò il suo
coltello con la lama d’argento per togliere il coperchio; ma la Ramée
per timore che accadesse uno sconcerto a quella bella vivanda, gli
porse il suo coltello che avea la lama di ferro.

«Grazie, la Ramée, disse il duca prendendolo.

«Ebbene? domandò il birro, quel bellissimo mezzo?

«V’ho io da dire quello su cui facevo maggior conto, e che avevo deciso
d’impiegare prima d’ogni altro?

«Sì, giusto.

«Or bene! seguitò il signor di Beaufort, con una mano bucando il
pasticcio e coll’altra segnando dei circoli col coltello, innanzi a
tutto speravo di avere per guardiano una buona creatura come voi, la
Ramée.

«Benissimo! l’avete; e poi?

«E me ne congratulo».

La Ramée fece una riverenza.

«E fra me dicevo: se una volta fo tanto d’avere presso di me un buon
figliuolo come la Ramée, procurerò di fargli raccomandare da qualche
suo amico, del quale gli siano ignote le relazioni meco, un uomo che mi
sia dedito affatto e con cui io possa intendermi onde disporre la mia
fuga.

«Via, via! fece la Ramée, non era immaginato male!

«Non è così? per esempio, il servitore di qualche bravo gentiluomo,
nemico del Mazzarino, come dev’essere ogni gentiluomo...

«Zitto, monsignore! non discorriamo di politica!

«Quando avrò quel tale vicino a me, purchè sia un poco accorto ed abbia
saputo inspirar fiducia al mio guardiano, questo si riposerà su di lui,
e allora avrò notizie di fuori.

«Ah sì! ma come, notizie di fuori?

«Oh! è facilissimo; per esempio, giuocando alla palla.

«Giuocando? domandò la Ramée, e cominciava a prestare la massima
attenzione alle parole del duca.

«Sicuramente! ecco, io mando una palla nel fosso; v’è un uomo che la
raccoglie; dentro v’e una lettera; invece di rimandare quella pillotta
che gli ho chiesta di su dalle mura, me ne manda un’altra; questa
racchiude una lettera. Così abbiamo ricambiate le nostre idee, e
nessuno ha veduto un ette.

«Diamine! rispose la Ramée grattandosi l’orecchio, fate bene a dirmi
codesto, monsignore! invigilerò su coloro che raccolgono le pillotte».

Il duca sorrise.

«Ma, riprese la Ramée, alla fin dei conti questo non è che un mezzo di
corrispondenza.

«È molto, mi pare.

«Non basta.

«Domando scusa. Mettiamo il caso; dico agli amici miei: trovatevi il
tal giorno, alla tal’ora, dall’altra parte del fosso con due cavalli
scossi.

«Ebbene? e poi? fece la Ramée, a meno che i cavalli abbiano le ali per
salire sul bastione e venirvi a prendere!

«Eh mio Dio! non si tratta ch’essi abbiano le ali per salire, ma ch’io
abbia un mezzo per scendere.

«E quale?

«Una scala di corde.

«Sì, ripigliò il guardiano procurando di ridere, però una scala simile
non si manda come un biglietto dentro una palla.

«No, ma si trasmette in qualche altra cosa.

«Altra cosa! altra cosa! e in che?

«Per esempio, in un pasticcio.

«In un pasticcio?

«Sì: supponete.... là! che il mio maestro di casa Noirmont abbia
trattato l’acquisto della bottega di maestro Marteau....

«Ebbene? chiese la Ramée tremando.

«Ebbene, la Ramée ch’è un ghiottone, vede i suoi pasticci, gli sembrano
migliori di quelli de’ suoi antecessori, e mi esibisce di farmeli
assaggiare; io accetto, col patto ch’egli li provi insieme con me; la
Ramée per esser più libero allontana i guardiani e non trattiene se
non Grimaud per servirci; Grimaud è l’uomo datomi da un mio amico, il
servo col quale io m’intendo e pronto a secondarmi in tutto; il momento
della mia fuga è stabilito per sette ore. Ed io a sette ore meno pochi
minuti....

«A sette ore meno pochi minuti? ripetè la Ramée, a cui cominciava a
bagnarsi di sudore la fronte.

«A quel punto, ripigliò a dire il duca unendo l’atto alle parole, tolgo
via la crosta al pasticcio; vi trovo due pugnali, una scala di corde
e una sbarra; metto uno dei pugnali sul petto a la Ramée, e gli dico:
Caro mio, me ne dispiace, ma se tu fai un gesto, se dai un grido, sei
morto!»

Come indicavamo or dianzi, il signor di Beaufort univa l’azione alla
favella; stava in piedi accanto a la Ramée, e gli posava la punta
dell’arme sul seno con tale accento che non permetteva a costui di aver
il menomo dubbio in quanto alle sue intenzioni.

Frattanto Grimaud, sempre mutolo, levava dal pasticcio l’altra arme, la
scala e la _pera di angoscia_.

La Ramée aveva osservato ognuno di quegli oggetti con il più fiero
terrore.

«Oh monsignore! esclamò guardando il duca in atto di tanta stupefazione
che lo avrebbe fatto scoppiare dalle risa in qualunque altra
circostanza, non avrete cuore di uccidermi!

«No, se non ti opponi alla mia fuga.

«Ma, se vi lascio scappare, sono un uomo rovinato!

«Ti rimborserò il prezzo della tua carica.

«E siete propriamente deciso ad abbandonare il castello?

«Per bacco!

«Quanto potessi dirvi non muterebbe la vostra risoluzione?

«Questa sera voglio esser libero.

«E se mi difendo, se chiamo, se strillo?

«Ti ammazzo, da gentiluomo ch’io sono».

L’orologio suonò.

«Sette, disse Grimaud che non aveva ancora proferita una parola.

«Le sette! disse il signor di Beaufort, vedi, è tardi oramai».

La Ramée fece un movimento come per isgravio di coscienza.

Il duca inarcò le ciglia, ed il birro sentì la lama che dopo forati i
suoi panni era in procinto di bucarli il petto.

«Bene, monsignore, balbettò, basta così, non mi muovo.

«Sbrighiamoci, rispose il principe.

«Altezza, un’ultima grazia!

«E quale? di’ su, presto!

«Legatemi stretto.

«Legarti, perchè?

«Perchè non si creda ch’io sia vostro complice.

«Le mani, pronunciò Grimaud.

«Non mica davanti, di dietro, di dietro!

«Ma con che? domandò il signor di Beaufort.

«Colla vostra cintura», replicò la Ramée.

Il duca si levò la cintura e la diede a Grimaud, il quale avvinse il
birro in maniera da contentarlo.

«I piedi» disse Grimaud.

La Ramée porse le gambe, ed egli preso un tovagliuolo e fattone tante
striscie lo legò con esse bene e meglio.

«Adesso la mia spada, soggiunse la Ramée, fermate l’impugnatura».

Il duca toltosi un nastro dai calzoni adempiè il desiderio del
guardiano.

«Ora, continuò il poveretto, la pera di angoscia; ve la domando;
se no, sarei processato per non aver urlato. Cacciatela ben dentro,
monsignore».

Grimaud si accinse ad appagare le brame del custode. Questi ammiccò che
aveva da dire qualche altra cosa.

«Parlate, fece il principe.

«Monsignore, se per cagion vostra mi succedono de’ guaj, non vi
scordate che ho moglie e quattro figliuoli.

«Sta pur quieto. Caccia dentro, Grimaud!»

In un attimo fu messa la sbarra a la Ramée; si gettarono in terra due
o tre sedie per dare indizio di lotta accanita; Grimaud prese dalle
saccoccie del birro tutte le chiavi che contenevano, aprì subito
l’usciale della stanza ove si trovavano, ed essendone usciti egli e
il duca si avviarono solleciti alla galleria che conduceva al piccolo
recinto; le tre porte furono aperte una dopo l’altra con lestezza che
faceva onore all’abilità di Grimaud; i due arrivarono al giuoco della
palla; questo era deserto, non sentinelle, nessuno alle finestre.

Il principe corse al muro di bastione, e adocchiò dal lato opposto dei
fossi tre uomini con tre cavalli scossi; ricambiò con essi un cenno;
stavano colà assolutamente per lui.

Frattanto Grimaud fissava il filo conduttore. Non era già una scala
di fune, ma un gomitolo di seta, con un bastone che doveva passarsi
tra le gambe e dipanarsi da sè mediante il peso che stesse disopra a
cavalcioni.

«Va, ordinò il duca.

«Primo io? domandò Grimaud.

«Certo; se mi agguantano, arrischio soltanto la carcere; se ti
agguantano sei tosto impiccato.

«È giusto».

E Grimaud postosi cavalcioni sul bastone principiò la scesa perigliosa.
Il duca lo seguitava cogli occhi in un involontario timore. Giunto ai
tre quarti del muro, si ruppe la corda. Grimaud cascò precipitato nel
fosso.

Il signor di Beaufort mandò un grido. Grimaud non mandò tampoco un
lamento, eppure doveva essersi ferito gravemente, poichè restava
disteso nel luogo ov’era caduto.

Subito uno degli uomini che attendevano si calò nel fossone, legò
sotto alle spalle di Grimaud la cima di una fune, e gli altri due che
reggevano la cima opposta tirarono su il disgraziato.

«Scendete, monsignore! disse quegli che era andato abbasso, non v’è di
distanza che una quindicina di piedi, e l’erbetta è morbida».

Il duca era digià all’opra. Per lui la faccenda riusciva più difficile,
non avendo più bastone a cui sostenersi, e dovendo calarsi a forza di
pugno da un’altezza di venticinque braccia. Ma era svelto, robusto
e pieno di sangue freddo, e in meno di cinque minuti fu in fondo al
cordone: lasciò l’appoggio che lo reggeva sino allora, e cadde ritto
senza farsi male.

Tosto si arrampicò alla scarpa del fosso, ed arrivato sopra trovò
Rochefort. Gli altri due gentiluomini gli erano ignoti. Grimaud,
svenuto, stava legato sur un cavallo.

«Signori, disse il duca di Beaufort, vi ringrazierò poi: adesso non v’è
da perdere un momento, via, presto! chi mi vuol bene mi segua!»

Saltò a cavallo, si partì di galoppo, respirando comodamente, e
gridando con espressione di giubilo indescrivibile:

«Libero!.... libero!.... libero!....»



XXVI.

_D’Artagnan giunge opportuno._


D’Artagnan riscosse a Blois la somma che Mazzarino, bramoso di riaverlo
presso di sè, si era deciso a dargli pe’ suoi futuri servigi.

Da Blois a Parigi v’erano quattro giornate di cammino per un cavalcante
ordinario. Al terzo giorno verso le ore quattro pomeridiane d’Artagnan
giunse alla barriera di S. Dionigi. Noi già vedemmo come Athos, partito
tre ore dopo di lui, v’era arrivato ventiquattr’ore innanzi.

Planchet aveva perduto l’uso di quelle passeggiate forzate; d’Artagnan
lo rimproverò della sua inerzia.

«Eh signor mio! quaranta leghe in tre giorni.... e’ mi pare un bel fare
per un venditore di confetti!

«Sei realmente diventato mercante, Planchet? e adesso che ci siamo
ritrovati, ti proponi sul serio di vegetare nella tua botteguccia?

«Oh! in verità, voi solo siete nato per la vita attiva. Guardate un
po’ il signor Athos, chi direbbe che fosse l’azzardoso cercatore di
avventure già da noi conosciuto? vive oggidì da signorone campagnuolo,
da fattore gentiluomo.... Sentite veh! non v’è di meglio che
un’esistenza quieta.

«Ipocrita! disse d’Artagnan, ben si vede che ti avvicini a Parigi, e
che a Parigi v’è una corda e una forca che ti aspettano!»

Mentre così conversavano, i due viaggiatori giunsero alla barriera.
Planchet si calava giù il cappello pensando che passerebbe da
strade dov’era molto conosciuto, e d’Artagnan si arricciava i baffi
rammentandosi che Porthos doveva attenderlo in via Tiquetonne, e
ruminava il modo di fargli dimenticare la sua signoria di Bracieux e le
omeriche cucine di Pierrefonds.

Voltato il canto della strada Montmartre vide, ad una finestra
dell’albergo del Granchio, Porthos vestito con uno splendido giubbetto
celeste tutto ricamato d’argento, che sbadigliava in maniera da
sganasciarsi, a segno che i viandanti contemplavano con una certa
ammirazione rispettosa quel signorone così bello e ricco, il quale
sembrava tanto infastidito della sua grandezza e opulenza.

Ed appena che d’Artagnan e Planchet girarono da quell’angolo, Porthos
gli ebbe ravvisati ed esclamò:

«D’Artagnan! sia ringraziato Iddio! siete voi?

«Buon dì! buon dì, caro amico!» rispose il tenente dei moschettieri.

In breve si radunò un mucchio di scioperati attorno ai cavalli che già
i camerieri dell’albergo tenevano per la briglia, ed ai gentiluomini
che si parlavano di su a giù; ma un brutto cipiglio di d’Artagnan e due
o tre tristi gesti di Planchet benissimo compresi diradarono la folla
che tanto più si era accresciuta quanto meno sapeva ella stessa perchè
là raccoglievasi.

Porthos era digià sceso al portone della locanda.

«Ah! mio caro, egli disse, come stanno male qui i miei cavalli!

«Davvero? fece d’Artagnan, me ne duole assai per quei nobili animali.

«Anch’io stavo maluccio, seguitò Porthos tentennandosi col suo solito
aspetto d’uomo contento di sè, e se non fosse la locandiera, ch’è
graziosetta e regge gli scherzi, avrei cercato altro alloggio».

La bella Maddalena, che durante il dialogo si era avvicinata, diventò
pallida come una morta e mosse un passo indietro udendo le parole di
Porthos, giacchè temè si rinnovasse la scena dello Svizzero; ma con suo
grande stupore d’Artagnan non si accigliò, ed anzi sorridendo rispose
all’amico:

«Sì, sì, capisco, l’aria della via Tiquetonne non è pari a quella
della valle di Pierrefonds; ma non dubitate, io ve ne farò prendere una
migliore.

«E quando?

«Oh! prestissimo, io spero.

«Ah, meglio così!»

All’esclamazione di Porthos succedè un gemito lungo e sommesso che si
partiva dall’angolo di una porta. D’Artagnan ch’era appunto smontato
vide comparire l’enorme pancia di Mousqueton, dalla mesta bocca del
quale uscivano dolorosi lamenti.

«E voi pure, povero signor Mouston, vi trovate scomodo in questo
meschino albergo? domandò d’Artagnan con un tuono comico che poteva
essere tanto di compassione come di dileggio.

«Trova pessima la cucina, rispose Porthos.

«E perchè non la fa egli da sè come a Chantilly?

«Oh, signore! replicò Mousqueton, qui non avevo come laggiù i paduli
del signor principe dove pescare i bei carpioni, e le macchie di Sua
Altezza per pigliarvi le ottime pernici; la cantina poi l’ho visitata
minutamente, e in verità è cosa di poco.

«Messer Mouston, ribattè d’Artagnan, in coscienza vi compiangerei, se
nel momento non avessi a far cose di maggior premura».

E preso in disparte Porthos, continuò:

«Mio caro du Vallon, siete bell’e vestito, e si combina a proposito,
mentre vi conduco subito dal ministro.

«Veh! propriamente?

«Sì, amico mio.

«Una presentazione!

«E che, vi fa paura?

«No, ma mi agita.

«State quieto; non avete più che fare con l’altro ministro, e questo
non vi opprimerà colla sua maestosità.

«Non importa.... capite d’Artagnan, la corte!

«Eh! non vi è più corte.

«La regina!

«Ero là per dire: non c’è più regina.... ma no no, non dubitate non la
vedremo.

«E dite che si va sul momento al palazzo reale?

«Sul momento. Soltanto per non tardare, vi tolgo a prestito uno de’
vostri cavalli.

«Servitevi: son tutti e quattro a vostra disposizione.

«Oh! uno mi basta per adesso.

«Non verranno con noi i nostri domestici?

«Sì; prendete Mousqueton, non vi sarà male. Planchet ha delle ragioni
per non recarsi alla corte.

«È perchè?

«Eh! sta poco bene con Sua Eccellenza.

«Mouston, ordinò Porthos, mettete la sella a Vulcano e a Bojardo.

«Ed io, signore, ho da pigliare Rustaud?

«No, un altro di lusso, o Febo o Superbo, si va in cerimonia.

«Ah! respirò Mousqueton, non si tratta che di una visita?

«Sì, Mouston, questo solo.... non ostante, ad ogni evento, ponete nelle
tasche le pistole; troverete sulla mia sella le mie belle e cariche».

Mouston diede un sospiro, capiva poco le visite di cerimonia con armi
addosso da capo a piedi.

«Realmente, soggiunse Porthos guardando con compiacenza allontanarsi
il famiglio, avete ragione d’Artagnan, Mouston ci batterà; fa un’ottima
figura».

Il tenente sorrise.

«E voi, domandò Porthos, non vi vestite meglio?

«No, resto come sono.

«Ma siete molle di sudore e carico di polvere, e avete il fango agli
stivali.

«Lo stato da viaggio mostrerà la mia premura di correre ai comandi del
ministro».

Tornò Mousqueton coi tre palafreni. D’Artagnan si rimise in sella come
se fosse in riposo da una settimana.

«Oh! disse a Planchet, la mia spada lunga.

«Io, disse Porthos, facendo vedere una piccola spada con l’impugnatura
indorata, io ho la mia da corte.

«Prendete la grande, amico mio.

«E perchè?

«Non so, ma fate a mio modo.

«Ehi Mouston! la grande, ordinò Porthos.

«Ma signore! fece questi, codesto è un apparecchio da guerra! dunque
si va a far campagna? Allora ditemelo subito, e piglierò le mie
precauzioni secondo la circostanza.

«Lo sapete pure, gli rispose d’Artagnan, con noi altri le precauzioni
sono sempre buone. O non avete gran memoria, o vi siete scordato che
non siamo soliti passar le nottate tra feste da ballo e serenate.

«Ohimè, gli è vero, disse Mousqueton armandosi benissimo, ma lo avevo
dimenticato».

Partirono velocemente, ed arrivarono al palazzo verso le sette ore
e un quarto. Nelle strade era gran folla, essendo il giorno della
Pentecoste, e si osservava con meraviglia passare quei due cavalieri,
che uno sembrava fresco uscito da uno scatolino, e l’altro sì polveroso
che potevasi credere proveniente da un campo di battaglia.

Anche Mousqueton richiamava gli sguardi degli scioperati, e siccome il
romanzo di Don Chisciotte era allora nella massima sua voga, alcuni
dicevano esser quegli Sancio, il quale perduto un padrone ne aveva
ritrovati due.

Entrato nell’anticamera d’Artagnan si vide fra’ conoscenti. V’erano
dei moschettieri della sua compagnia che precisamente erano di
guardia. Fece chiamare l’usciere, e gli mostrò la lettera del ministro
che gl’ingiungeva di ritornare senza perdita di un minuto secondo.
L’usciere s’inchinò e passò da Sua Eccellenza.

D’Artagnan si volse a Porthos, e gli parve osservare che lo agitasse un
lieve tremore. Laonde, accostatosi, gli disse all’orecchio:

«Coraggio, mio prode amico! non vi sgomentate: state su di me, l’occhio
dell’aquila è chiuso, e non abbiamo più da fare che con un semplice
avvoltojo. Tenetevi ritto e impettito come nel giorno del bastione
di S. Gervasio, e non v’inchinate di troppo a quell’italiano, chè ne
avrebbe mal concetto di voi.

«Bene, bene! rispose Porthos».

Ricomparve l’usciere.

«Entrate, signori, egli disse, Sua Eccellenza vi aspetta».

Di fatti Mazzarino era seduto nel suo gabinetto, affaticato a
cancellare più nomi che potesse da una nota di pensioni e benefizj.
Vide con la coda dell’occhio entrare d’Artagnan e Porthos, e quantunque
si fosse consolato all’annunzio del messo, non figurò di cambiarsi
minimamente.

«Ah! siete voi, signor tenente? disse, avete fatto alla lesta,
ottimamente! siate il ben venuto.

«Grazie, monsignore; eccomi ai comandi di Vostra Eccellenza, ugualmente
che il signor du Vallon, quello fra i miei antichi amici che celava la
sua nobiltà sotto il nome di Porthos».

Porthos riverì il ministro.

«Bellissimo cavaliero! fece Mazzarino».

Porthos girò la testa a mano diritta e sinistra, e fece moti di spalle
pieni di dignità.

«La migliore spada del regno, disse d’Artagnan, e lo sanno molti che
nol dicono e che non possono dirlo».

Porthos salutò d’Artagnan.

Mazzarino aveva forse tanto genio per i bei soldati quanto n’ebbe in
appresso Federico di Prussia. Si applicò ad ammirare le mani nerborute,
le ampie spalle e l’occhio fisso di Porthos. Gli parve avere dinanzi
la salvezza del suo ministero e del regno tagliata in carne e in ossa.
E questo gli ricordò come l’antica associazione dei moschettieri si
formava di quattro individui.

«E gli altri due vostri amici?» domandò Mazzarino.

Porthos apriva bocca credendo fosse momento da dire il fatto suo.
D’Artagnan gli ammiccò un pocolino coll’occhio.

«Gli altri nostri amici per ora sono impediti; ci raggiungeranno dipoi».

Mazzarino ebbe un tantino di tosse.

«E il signore, più libero di loro, seguitò, tornerà volentieri al
servizio?

«Sì, Eccellenza, e soltanto per zelo, giacchè il signor di Bracieux è
ricco.

«Ricco? fece Mazzarino, a cui quel vocabolo per vero privilegio
inspirava per solito somma considerazione.

«Cinquantamila lire di rendita», ribattè Porthos.

Erano le prime parole che avesse pronunziate.

«Soltanto per zelo? ripetè il ministro col suo scaltro sorrisetto.

«Dunque Vostra Eccellenza non crede in quella parola? chiese d’Artagnan.

«E voi, signor Guascone? fece Mazzarino appoggiando ambe le gomita
sullo scrittojo, ed il mento sulle due mani.

«Io, disse d’Artagnan, credo in codesta specie di devozione come in un
nome che dev’essere accompagnato da un casato appartenente a qualche
tenuta. Certo, si è per naturale più o meno devoti, ma bisogna che in
fondo a tal divozione vi sia poi qualche cosa.

«E, per esempio, in fondo alla sua che bramerebbe il vostro amico?

«Monsignore, egli ha tre tenute magnifiche: quella del Vallon, a
Corbeil; quella di Bracieux nel Soissonese, e quella di Pierrefonds nel
Valois.... E desidererebbe che di una di esse si facesse una baronìa.

«Non v’è altro che questo? rispose Mazzarino a cui brillavano di
allegrezza le pupille nel vedere che potrebbe premiare le premure di
Porthos senza por mano alla borsa, non vi è altro? Si potrà combinare.

«Sarò barone! esclamò Porthos muovendo un passo avanti.

«Ve lo avevo detto, ripigliò d’Artagnan trattenendolo con una mano, e
monsignore ve lo ripete.

«E voi, d’Artagnan, che bramate?

«Eccellenza, saranno per lo meno venti anni a settembre che il signor
ministro di Richelieu mi fece tenente.

«Sì; e vorreste che il ministro Mazzarino vi facesse capitano?»

D’Artagnan fece una riverenza.

«Ebbene, tutto questo non è già impossibile. Si vedrà, signori miei,
si vedrà.... E adesso, signor du Vallon, qual servizio preferite? di
città, di campagna?»

Porthos schiuse le labbra per rispondere.

«Monsignore, disse d’Artagnan, il signor du Vallon è come son io, gli
piace il servizio straordinario, cioè le imprese che vengono reputate
stolte e impossibili».

La frase di Guascone non dispiacque al Mazzarino, il quale si diede a
riflettere.

«Bensì vi confesso che vi avevo fatto venire per darvi un impiego....
ho certi motivi d’inquietudini.... Eh! che roba è questa?»

Si udiva grande strepito nell’anticamera, e quasi nello stesso tempo
fu aperto l’usciale del gabinetto ed entrò in fretta un uomo tutto
polveroso gridando:

«Il signor ministro? dov’è il signor ministro?»

Mazzarino si pensò che volessero assassinarlo, e indietreggiò traendo
seco la sua poltrona. D’Artagnan e Porthos eseguirono un movimento che
li situò tra lui e il sopraggiunto.

«Ehi, gridò il ministro, che c’è egli, perchè entriate qui come si
farebbe al mercato?

«Monsignore, rispose l’ufficiale a cui era diretto il rimbrotto, due
paroline sole, ma vorrei dirvele presto e segretamente. Io sono de
Poins, ufficiale delle guardie di servizio alla torre di Vincennes».

Colui era tanto pallido e sbigottito, che Mazzarino, persuaso dover
egli essere latore d’importante notizia, accennò a d’Artagnan e a
Porthos di dar posto al messaggiero.

E quelli si ritirarono in un canto del gabinetto.

«Parlate, e subito! fece il ministro, che v’è egli?

«V’è, che il signor di Beaufort è scappato dalla prigione di Vincennes».

Il Mazzarino cacciò un urlo, e diventò più smorto in viso di quello che
gli recava la nuova. Ricascò sul seggiolone quasi annichilito.

«Scappato! esclamò, scappato di Beaufort!

«Eccellenza, l’ho veduto fuggire di su dalla terrazza.

«E non gli avete fatto sparare addosso?

«Era fuori di tiro.

«Ma il signor di Chavigny che cosa faceva?

«Era assente.

«Ma la Ramée?

«Si è trovato legato in camera del prigioniero, con la sbarra in bocca
e uno stiletto accanto.

«E l’uomo che gli si era posto appresso per ajuto?

«Complice del duca, e fuggito con lui.»

Mazzarino diè fuori un gemito doloroso.

«Eccellenza.... disse d’Artagnan appressandosi.

«Che c’è?

«Mi pare, monsignore, che perdiate un tempo prezioso.

«In che modo?

«Se l’Eccellenza Vostra ordinasse di correre dietro al prigioniere,
forse vi sarebbe ancor da raggiungerlo. La Francia è grande, e la
frontiera più prossima è distante di qua sessanta leghe.

«E chi gli andrebbe appresso? gridò Mazzarino.

«Io, cospettaccio!

«E lo arrestereste?

«Perchè no?

«Come! il duca di Beaufort, armato da battaglia?

«Monsignore, se mi comandaste di arrestare il diavolo, lo piglierei per
le corna e ve lo porterei.

«Anch’io, confermò Porthos.

«Anco voi? domandò Mazzarino considerando attonito quei due; ma il duca
non si arrenderà senza accanito combattimento.

«Or bene! replicò d’Artagnan a cui prendevano fuoco gli occhi,
battaglia! da lunga pezza non ci siamo battuti, non è così, Porthos?

«Battaglia! ripetè Porthos.

«E credete di arrivarlo?

«Di certo, se siamo in miglior equipaggio di lui.

«Dunque pigliate quante guardie trovate qui, e correte.

«Tale è il vostro ordine, monsignore?

«E ve lo firmo», rispose Mazzarino.

E tolto un foglio vi scrisse alcuni versi.

«Eccellenza, aggiungete costà, che potremo prender tutti i cavalli che
incontriamo per istrada.

«Sicuramente!... servizio regio.... prendete e trottate!

«Ottimamente!

«Signor du Vallon, seguitò il ministro, la vostra baronia sia in groppa
dietro al Beaufort; non v’è altro che agguantarla. A voi, mio caro
d’Artagnan, nulla prometto, ma se lo riportate vivo o morto, chiederete
quel che vi pare.

«A cavallo, Porthos! disse il tenente afferrata la mano all’amico.

«Eccomi», replicò Porthos col sublime suo sangue freddo.

E scesero la scala grande, seco traendo le guardie che scontravano per
via, e gridando:

«A cavallo! a cavallo!»

Si trovarono riuniti circa dieci uomini.

D’Artagnan e Porthos saltarono uno su Vulcano e l’altro su Bojardo.
Mousqueton si mise addosso a Febo.

«Seguitemi! urlò d’Artagnan.

«In cammino! strillò Porthos».

E cacciarono gli sproni ne’ fianchi ai loro nobili destrieri, i quali
si partirono per la contrada di S. Onorato colla rapidità di un lampo.

«Ebbene, signor barone, diceva d’Artagnan, vi avevo promesso di porvi
in esercizio; vedete che vi mantengo la parola.

«Sì, capitano», rispose Porthos.

Si volsero indietro. Mousqueton, più sudante che la bestia che
cavalcava, stava a doverosa distanza. A tergo a lui galoppavano le
dieci guardie.

I borghesi storditi comparivano sulla soglia delle case, e i cani
istizziti correvano appresso ai cavalli abbajando.

Sul canto del cimitero S. Giovanni, d’Artagnan buttò in terra un uomo,
ma era un avvenimento troppo piccolo per trattenere genti che avevano
tanta fretta; sicchè la comitiva continuò pel suo viaggio come se i
corsieri avessero avuto le ali.

Ahimè! avvenimenti piccoli non vi sono in questo mondo, e noi vedremo
che quello fu in procinto di rovinare la monarchia.



XXVII.

_La strada maestra._


Andarono in tal guisa quanto era lungo il sobborgo S. Antonio e la via
di Vincennes; in breve furono fuori di città, presto nella macchia, e
dopo poco alle viste di un villaggio.

Sembrava che i cavalli ad ogni passo si animassero maggiormente, e le
loro nari principiavano ad arrossarsi come ardenti fornaci. D’Artagnan
ficcando gli sproni nel ventre al suo, precedeva Porthos di un braccio
circa. Mousqueton li seguitava, e poi le guardie a varie distanze
secondo la bontà dei loro animali.

Di cima ad un’eminenza d’Artagnan vide una riunione di persone ferme
dall’altro lato della torre che dà sopra S. Mauro. Comprese che di
là fosse fuggito il prigioniero, e che ivi potrebbe egli ottenere
schiarimento. In cinque minuti arrivò sino a quel punto e le guardie là
pure lo raggiunsero.

Occupatissimi erano tutti coloro così radunatisi; guardavano la corda
tuttora pendente dalla feritoja e rottasi dieci braccia più su di
terra, misuravano cogli occhi l’altezza, e facevano un diluvio di
congetture. Sulla sommità del bastione andavano e venivano sentinelle
affaccendate.

Un posto militare comandato da un sergente allontanava la gente dal
luogo dove il duca era montato a cavallo.

D’Artagnan corse fino al sergente.

«Mio uffiziale, disse questi, qui non è permesso fermarsi.

«Codesti ordini non sono per me, rispose d’Artagnan. Sono stati
inseguiti i fuggiaschi?

«Sì, ma pur troppo hanno buone bestie.

«E quanti sono?

«Quattro validi ed un ferito.

«Quattro! fece d’Artagnan osservando Porthos, hai inteso, barone? sono
quattro soltanto!»

Sul labbro a Porthos apparve un allegro sorriso.

«E quanto sono innanzi?

«Due ore e un quarto, mio uffiziale.

«Due ore e un quarto è nulla; noi abbiamo buoni cavalli, non è vero,
Porthos?»

Porthos diede un sospiro pensando a quel che si preparava pei poveri
animali.

«Benissimo, continuò d’Artagnan, e da che parte sono andati via?

«Questo poi è proibito di dirlo».

D’Artagnan si levò di tasca un foglio e disse:

«Ordine regio.

«Allora, parlate al governatore.

«E dov’è egli?

«In campagna».

Salì la collera sul volto a d’Artagnan, gli si rugò in fronte, gli si
colorirono le tempie.

«Ah birbante! gridò al sergente, mi pare che tu mi burli!... aspetta,
aspetta».

Con una mano gli presentò la carta spiegata e coll’altra prese dalle
saccoccie una pistola e la caricò.

«Ordine regio, ti dico! leggi e rispondi, o che ti brucio le cervella!
Che direzione hanno presa?»

Il sergente si accorse che d’Artagnan diceva davvero.

«La strada del Vendomese, rispose.

«E da qual porta sono usciti?

«Da quella di S. Mauro.

«Furfante! se m’inganni, domani sarai impiccato.

«E voi, se li raggiungete, non tornerete indietro a farmi impiccare»,
brontolò il soldato.

Il tenente si strinse nelle spalle, fece un cenno alla scorta e tirò
innanzi.

«Di qua, signori, di qua!» disse avviandosi verso la porta del parco
indicatagli.

Ma ormai che il duca era scappato, il custode aveva stimato opportuno
di chiudere la porta a due mandate. Bisognò obbligarlo ad aprirla, e si
perdettero altri dieci minuti.

Superato quest’ultimo ostacolo, la compagnia si rimise alla corsa
velocissima.

Ma non tutti i cavalli seguitarono col medesimo ardore; alcuni non
poterono reggere lungamente a quell’andatura sfrenata; tre si fermarono
dopo aver camminato un’ora, ed uno cascò.

D’Artagnan, che non si voltava, neppur se ne accorse. Porthos
tranquillamente glielo disse.

«Purchè arriviamo in due, rispose d’Artagnan, gli è quanto basta,
giacchè son quattro soli.

«È vero, sì», confermò Porthos.

E diede di sprone ben forte.

A capo a due ore i cavalli aveano fatte dodici leghe senza ristarsi
un momento; cominciavano a piegarsi loro le gambe, e la spuma che
gettavano marezzava i giubbetti de’ padroni, mentre il sudore bagnava
ad essi le brache.

«Riposiamoci un poco a far ripigliar fiato a queste disgraziate bestie,
propose Porthos.

«Anzi, ammazziamole, ma si arrivi! rispose d’Artagnan, veggo delle orme
recenti; devono esser passati di qua da un quarto d’ora e non più».

Realmente agli ultimi raggi diurni si distinguevano le tracce delle
pedate.

Ripartirono; ma dopo un pajo di leghe cascò il palafreno di Mousqueton.

«Bene! fece Porthos, ecco Febo sciupato!

«Il ministro ve lo pagherà mille doppie.

«Oh! sono superiore a queste cose, lo!

«Dunque si vada di galoppo!

«Sì, se pure potremo».

Il cavallo di d’Artagnan ricusava però di andar più oltre; non
respirava più, ed un’ultima bucatura degli sproni, invece di farlo
avanzare, lo fe’ cadere.

«Oh diamine! disse Porthos, ecco Vulcano attrappato!

«Cospettone! gridò d’Artagnan, strappandosi i capelli, e bisogna dunque
fermarsi? Porthos, datemi il vostro.... Ehi, che diavolo fate?

«Eh diavolo!... vo giù...., fece Porthos, o piuttosto è Bojardo che va
in terra».

D’Artagnan tentò di far rialzare l’animale, intanto che Porthos si
levava alla meglio di sulle staffe, ma si avvide che dalle nari gli
colava il sangue.

«E tre! esclamò, ora tutto è finito!»

In quell’istante si udì un nitrito.

«Zitto! disse d’Artagnan.

«Che v’è egli?

«Un cavallo!

«Sarà di qualcuno de’ nostri compagni che ci raggiunge.

«No, no.... è avanti.

«Allora è tutt’altro».

Ed anche Porthos si mise ad ascoltare verso la parte accennatagli
dall’amico.

«Signore, disse Mousqueton, che lasciata la sua bestia sulla strada
maestra se ne veniva correndo a piedi, Febo non ha potuto resistere,
e...

«Silenzio! gli ordinò Porthos».

Chè passava un secondo nitrito trasportato dal venticello notturno.

«È cinquecento passi più innanzi di noi, osservò d’Artagnan.

«Difatti, a codesta distanza, disse Mousqueton, v’è una casetta da
caccia.

«Mousqueton, le tue pistole!

«Le ho in mano.

«Porthos, pigliate le vostre!

«Le ho qua.

«Bene! seguitò d’Artagnan, mi capite, Porthos?

«Non molto.

«Noi corriamo pel servizio del re.

«Ebbene?

«Pel regio servizio vogliamo quei cavalli.

«Giustissimo!

«Allora, non più parole, e all’opra!»

Tutti e tre s’inoltrarono, fra ’l bujo e taciti come tante larve. Ad
una svolta videro brillare un lume in mezzo agli alberi.

«Ecco la casa, avvertì piano d’Artagnan, lasciatemi fare, e fate come
fo io».

Arrivarono a venti passi lontano dall’abitazione senza esser visti.
Lì, mercè un lampione appeso sotto una tettoja distinsero quattro bei
corridori. Li puliva un servitore: accanto a questi erano le selle e le
briglie.

D’Artagnan si avvicinò con impeto, accennando ai compagni si
trattenessero indietro.

«Ti compro i tuoi cavalli, disse al domestico».

Colui si volse attonito, ma senza parlare.

«Non mi hai inteso, mascalzone?

«Sicuro!

«E perchè non rispondi?

«Perchè e’ non sono da vendersi.

«Dunque io li prendo».

E d’Artagnan mise la mano su quello che aveva più prossimo. All’istante
comparvero i due camerati e fecero lo stesso.

«Ma, signori! gridò il lacchè, hanno fatto una tirata di sei leghe, e
non è mezz’ora che son fermi.

«Mezz’ora di riposo basta, replicò d’Artagnan, e anzi così saranno più
vivaci».

Il palafreniere chiamò ajuto. Uscì una specie di maggiordomo, mentre
appunto d’Artagnan ed i compagni mettevano le selle addosso ai
destrieri.

Il maggiordomo voleva far da bravo.

«Amicone, gli urlò d’Artagnan, se dite una parola, v’abbrucio le
cervella».

E gli mostrò la canna d’una pistola, che tosto si pose poi sotto il
braccio onde continuare la sua bisogna.

«Ma, signore, disse l’intendente, sapete che questi animali
appartengono al signor di Montbazon?

«Tanto meglio! devono esser buone bestie.

«Ehi! rispose il poveretto camminando all’indietro per procurar di
arrivare sino alla porta, vi prevengo che chiamerò i miei uomini.

«Ed io pure i miei. Sono tenente de’ moschettieri del re, ho dieci
guardie che mi seguono, e a voi! le sentite galoppare? ora vedremo».

Non si udiva nulla, ma al maggiordomo impaurito sembrò di aver inteso.

«Ci siete, Porthos? domandò d’Artagnan.

«Ho terminato.

«E voi, Mouston?

«Anch’io.

«Dunque si parta!»

Tutti e tre saltarono su i cavalli.

«Qua i servi! qua le carabine! strillò l’intendente.

«Via presto! fece d’Artagnan, vi saranno delle fucilate».

E i nostri tre scapparono come il vento.

«Qua! qua! urlava colui, mentre il palafreniere correva alla casa
vicina.

«Badate di non ammazzare le vostre bestie! gli gridò d’Artagnan con uno
scroscio di risa.

«Fuoco! ordinò il maggiordomo».

Un chiarore simile a quello del lampo illuminò la strada; poi i
cavalcanti udirono lo scoppio e il fischio delle palle che si perderono
per l’aria.

«Tirano come tanti lacchè, disse d’Artagnan, oh! si sparava meglio
a tempo di Richelieu. Vi ricordate della strada di Crevecoeur,
Mousqueton?

«Ah! signor mio! mi duol sempre la natica diritta!

«Siete sicuro che siamo sull’orme di coloro, d’Artagnan? domandò
Porthos.

«Per bacco! non avete inteso?

«Che cosa?

«Che questi animali sono di Montbazon.

«Ebbene?

«Montbazon è marito di madama di Montbazon....

«E poi?....

«E madama di Montbazon è _amica_ del signor di Beaufort.

«Ah! comprendo, essa aveva disposte le cambiature.

«Precisamente.

«E noi andiamo appresso al duca con i cavalli da lui lasciati?

«Caro Porthos, avete un giudizio straordinario! disse d’Artagnan col
suo solito tuono, come suol dirsi, mezzo uva e mezzo fico.

«Eh! io sono così, replicò Porthos».

Corsero un’ora a quel modo.

«Ohe! che vedo laggiù? fece d’Artagnan ad un tratto.

«Buon per voi se vedete qualcosa a questo bujo!

«Delle faville!

«Le ho viste ancor io! seguitò Mousqueton.

«Ah! gli abbiamo forse raggiunti?

«Ohimè! un cavallo morto! gridò d’Artagnan, rialzando il suo corsiero
da un movimento di paura che questo aveva fatto, pare ch’essi pure non
ne possano più.

«Sembra udir rumore di una brigata di cavalieri! osservò Porthos,
chinatosi sulla criniera.

«Non può essere.

«Sono molti.

«Allora è tutt’altro.

«Un altro cavallo! fece d’Artagnan.

«Morto?

«No, moribondo.

«Con la sella, o senza?

«Con la sella.

«Allora son essi.

«Coraggio! son nostri.

«Ma se son molti non saran nostri, e noi saremo di loro, obiettò
Mousqueton.

«Oibò! rispose d’Artagnan, ci crederanno più forti di loro stessi,
poichè l’inseguiamo, e sbigottiti si disperderanno.

«È sicuro! approvò Porthos.

«Ah, vedete! esclamò d’Artagnan.

«Sì, nuove faville! questa volta le ho viste anch’io, disse Porthos.

«Avanti! avanti! ordinò d’Artagnan colla sua voce stridula, e fra
cinque minuti rideremo».

E tornarono a slanciarsi. I cavalli infuriati dal dolore e dalla
gara volavano sull’oscura via, in mezzo alla quale si cominciava
a distinguere una mole più compatta e negra che il rimanente
dell’orizzonte.



XXVIII.

_L’incontro._


Continuossi la corsa per anco dieci minuti su quel fare medesimo.

D’improvviso dalla mole che noi menzionavamo, i punti neri si
avanzarono e crebbero, e crescendo furono due uomini a cavallo.

«Oh oh! disse d’Artagnan, vengono verso di noi.

«Peggio per loro! disse Porthos.

«Chi va là?» gridò una voce rauca.

I tre cavalcanti che avean già preso lo slancio non si ristettero nè
risposero. Ma si udì il rumore delle spade che uscivano dal fodero e il
battito del grilletto delle pistole che caricavano i due spettri neri.

«All’arme! fece d’Artagnan; le briglie sui denti!»

Porthos comprese, ed esso e d’Artagnan messo mano ciascuno ad una
pistola caricarono pure.

«Chi va là? fu ripetuto, non fate un passo di più, o siete morti!

«Oibò! replicò Porthos quasi strangolato dalla polvere e masticando
la briglia come il suo corsiero si masticava il morso, oibò! ne abbiam
vedute di più belle!»

A tali detti le ombre chiusero il passo, e alla luce delle stelle si
vide abbassata la canna delle pistole.

«Indietro! strillò d’Artagnan, o siete morti voi altri!»

Dopo la minaccia vi furono due pistolettate, ma i due assalitori
venivano con tanta velocità che in un attimo furono addosso agli
avversarj. Al terzo sparo di d’Artagnan cadde il suo nemico. Porthos
poi urtò il suo con tal violenza, che lo mandò a ruzzolare dieci passi
più là del suo destriero.

«Rifiniscilo, Mousqueton! urlò Porthos».

E si scagliò al fianco all’amico che aveva principiato ad agire.

«Ebbene? chiese Porthos.

«Gli ho fracassata la testa, rispose d’Artagnan, e voi?

«L’ho soltanto gittato in terra, ma ecco!»

Si udì un colpo di carabina. Era Mousqueton, che così di volo adempieva
al comando del padrone.

«Addosso! addosso! continuò d’Artagnan, va bene, e abbiamo la prima
mano.

«Ah ah! esclamò Porthos, ecco altri due giuocatori!»

Realmente comparivano due nuovi cavalcanti distaccatisi dal gruppo
principale, e venivano innanzi rapidissimamente per ingombrare da capo
la via.

Questa volta d’Artagnan non aspettò nemmeno che gli fosse parlato.

«Largo! largo! gridò.

«Che volete? domandò una voce.

«Il duca!» strepitarono insieme d’Artagnan e Porthos.

Rispose loro una risata; ma ella finì con un gemito: d’Artagnan aveva
trapassato da parte a parte colla spada colui che rideva.

Nel tempo stesso due spari fecero un sol colpo: erano Porthos ed il suo
avversario che tiravano uno sull’altro.

D’Artagnan, volgendosi, si vide vicino Porthos.

«Bravo! gli disse, lo avete ucciso, mi pare?

«Credo di non aver toccato che il cavallo.

«Che volete, mio caro? non si fanno mica subito le cinque carte allo
stesso seme.... Oh! cospettaccio che ha egli il mio ronzino?

«Che cos’ha? non può più reggere, e cade», disse Porthos, trattenendo
il suo.

Veramente il cavallo di d’Artagnan inciampava, e andava giù sulle
ginocchia; diede un rantolo e si stese.

Aveva ricevuta nel petto la prima palla dell’emulo di d’Artagnan.

Il quale mandò una tal bestemmia da fare inorridire.

«Signore, volete un cavallo?» chiese Mousqueton.

«Capperi! se lo voglio!

«Ecco.

«E come diavolo hai tu queste bestie scosse? interrogò d’Artagnan
saltando sopra ad uno.

«I lor padroni sono morti, io ho pensato che potessero esserci utili, e
le ho prese».

Frattanto Porthos aveva ricaricato le armi.

«Attenti! disse d’Artagnan, eccone altri due!

«Ma per Diana! ne avremo così fino a domani? mormorò Porthos».

Infatti si avanzavano due cavalcanti.

«Ohi! signore, avvertì Mousqueton, quello che avete atterrato si rialza.

«Perchè non facesti a lui come al primo.

«Ero imbarazzato, reggevo i cavalli».

Fuvvi uno sparo. Mousqueton cacciò un urlo dal dolore:

«Ah signore! nell’altra natica! là, per l’appunto.... questa botta sarà
di pendente a quella della strada di Amiens!»

Porthos si volse alla guisa di un leone, piombò sul nemico; questi
tentò di sguainare la spada, ma avanti che l’avesse tolta dal fodero,
Porthos, col pomo della sua, gli aveva data sulla testa una percossa sì
terribile ch’egli era caduto come un bue sotto la mazzuola del beccajo.

Mousqueton, lagnandosi e sospirando, si era calato giù di sella adagio
adagio, chè la ferita non gli permetteva di restarvi.

D’Artagnan, nel mirare i sopraggiunti si era fermato a ricaricare la
pistola; inoltre il suo nuovo cavallo aveva agli arcioni una carabina.

«Eccomi! gli disse Porthos, si aspetta, o si tira?

«Tiriamo! fece d’Artagnan.

«Tiriamo! ripetè l’altro».

E cogli sproni bucavano la pancia ai poveri quadrupedi che avevano
sotto.

Gli avversarj erano ormai distanti di soli venti passi.

«In nome del re! esclamò d’Artagnan, lasciateci passare!

«Qui il re non ha che vedere, rispose una voce sonora e acuta, che
sembrava scaturisse fuori da un nuvolo, imperciocchè chi la mandava
arrivava tutto coperto da un turbine di polvere.

«Va benone! ora vedremo se il re non passa da per tutto.

«Vedete!» fece la medesima voce.

Ed in un botto vi furono due spari di pistola, uno da d’Artagnan ed
uno dall’antagonista di Porthos. La palla di d’Artagnan portò via il
cappello al nemico; quella di lui entrò in gola al cavallo di Porthos
che cascò intirizzito.

«Per l’ultima volta, dove andate? domandò la stessa voce.

«A casa al diavolo! replicò adirato d’Artagnan.

«Oh! allora, non dubitate, ci arriverete».

D’Artagnan vide abbassarsi in verso lui la canna di un fucile. Non
aveva tempo di frugare nelle saccoccie; si ricordò di un consiglio
datoli in addietro da Athos, e fece che il suo corsiero s’impennasse.

«Ehi! gridò il solito uomo in tuono di dileggio, ma noi facciamo così
un macello di puledri e non un combattimento tra persone. Di spada,
signor mio, di spada!»

E smontò in un attimo.

In un balzo d’Artagnan fu sopra all’avversario, e sentì sopra al suo il
di lui ferro. Egli, con la sua consueta destrezza, aveva messa la spada
in terza, sua posizione prediletta.

In quell’intervallo, Porthos, inginocchiato dietro al suo palafreno,
che tremava nelle convulsioni dell’agonia, reggeva in ogni mano una
pistola.

Ed intanto era principiata la battaglia fra d’Artagnan ed il suo
avversario. D’Artagnan aveva assalito quello fieramente conforme alla
sua usanza, ma questa volta aveva incontrato un pugno ed un tal giuoco
che gli diedero da pensare. Rimesso due volte in quarta, fece un passo
addietro; l’altro non si mosse; egli tornò a impegnare la spada in
terza posizione.

Vi furono due o tre botte da ambo i lati senza risultato veruno;
scaturivano faville dai ferri in gran copia.

Alla fine il nostro tenente stimò opportuno di cavar partito dalla
finta sua favorita, la diresse abilmente, la eseguì con la rapidità del
baleno, e scagliò il colpo con un vigore a cui credeva non si potesse
resistere.

Ma a questo fu parato.

«Cappiterina!» ei gridò nel suo linguaggio guascone.

Ed a codesta esclamazione il suo avversario fece un salto all’indietro,
e, chinando la testa scoperta, si sforzò di distinguere fra le tenebre
il volto di d’Artagnan.

Il quale, per timore di un’altra finta, si teneva sulla difesa.

«Badate! disse Porthos al suo emulo, ho ancora due pistole cariche.

«Ragion di più perchè dobbiate essere il primo a tirare» colui rispose.

Porthos sparò; un lampo illuminò il campo di battaglia.

A quella luce gli altri due combattenti diedero ognuno un grido:

«Athos! fu quello di d’Artagnan.

«D’Artagnan! quel di Athos».

Quest’ultimo alzò il brando, l’altro lo abbassò.

«Aramis! urlò Athos, non tirate!

«Ah ah! Aramis, siete voi?» fece Porthos.

E buttò via l’arme.

Aramis ripose la sua pistola, e mise nel fodero la draghinassa.

«Figlio mio!» disse Athos porgendo la destra a d’Artagnan.

Così lo chiamava ne’ tempi trascorsi ne’ momenti di maggior tenerezza.

«Athos! disse d’Artagnan, e si torceva le mani, voi dunque lo
difendete? ed io aveva giurato di riportarlo o vivo o morto! ah, sono
disonorato!

«Uccidete me, Athos rispose scuoprendosi il petto, se all’onor vostro è
d’uopo della mia morte.

«Guai a me! guai! un uomo solo eravi al mondo che potesse trattenermi,
e la fatalità mi pose dinanzi quest’uomo! Oh! che dirò io al ministro?

«Gli direte, signore, replicò una voce che dominava sul campo di
battaglia, ch’egli aveva inviati contro a me i due soli uomini capaci
di atterrarne quattro, di pugnare da soli a soli senza svantaggio
contro al conte di la Fère e al cavaliere d’Herblay, e di non
arrendersi che a cinquanta uomini.

«Il principe! esclamarono a un tempo Athos ed Aramis facendo un
movimento per discuoprire il duca di Beaufort, mentre d’Artagnan e
Porthos retrocedevano di un passo.

«Cinquanta cavalieri! mormorarono questi due ultimi.

«Guardatevi attorno, signori, se ne avete dubbio» seguitò il duca.

Eglino si mirarono attorno; realmente li circuiva una truppa a cavallo.

«Allo strepito della vostra lotta, continuò il signor di Beaufort,
io ho creduto che foste venti, e sono ritornato con quelli che mi
circondavano, stanco di fuggir sempre, e bramoso di sguainare io pure
la spada: ed eravate due e non più!

«Sì, monsignore, disse Athos, ma conforme diceste, che vagliono per
venti.

«Orsù, signori, le vostre spade! riprese il duca.

«Oh mai! no, mai! esclamò d’Artagnan tornato in sè stesso ed alzando la
testa.

«No, mai!» confermò Porthos.

Alcuni uomini fecero un movimento.

«Un momento, monsignore! gridò Athos, due parole!»

E si accostò al principe, che si chinò verso di lui, ed al quale disse
piano qualche cosa.

«Conte, come vorrete, gli rispose il signor di Beaufort. Vi ho troppi
obblighi per negarvi la vostra prima richiesta. Allontanatevi, signori
(ordinò a quei della sua scorta); signori d’Artagnan e du Vallon, siete
liberi».

Fu eseguito il comando, e d’Artagnan e Porthos si trovarono a formare
il centro di un ampio circolo.

«Adesso, voi d’Herblay, fece Athos, scendete da cavallo e venite».

Aramis, essendo smontato, si avvicinò a Porthos, frattanto che Athos si
appressava a d’Artagnan. E tutti quattro si videro riuniti.

«Amico, domandò Athos, vi duole ancora di non aver versato il nostro
sangue?

«No, replicò d’Artagnan, duolmi di veder noi uno contro all’altro
dopo essere stati tanto bene uniti; duolmi d’incontrarci in due campi
opposti. Ah! a nulla più riusciremo.

«Oh no, è finita! aggiunse Porthos.

«Or bene, allora siate de’ nostri, progettò Aramis.

«Silenzio, d’Herblay! gridò Athos, non si fanno tali proposizioni a
soggetti simili a questi. S’essi sono entrati nel partito di Mazzarino,
è perchè ivi gli ha spinti la lor coscienza, come la nostra ci spinse a
quello dei principi.

«Ed intanto eccoci nemici! disse Porthos, cospetto! chi lo avrebbe mai
creduto!»

D’Artagnan non parlò, ma diede un sospiro.

Athos prese ad entrambi la mano, dicendo:

«Signori, l’affare è gravissimo, ed il mio cuore ne soffre come se
trafitto lo aveste da parte a parte. Sì, noi siamo separati, ecco la
grande, la trista verità, ma non peranco ci dichiarammo guerra; forse
abbiamo da stabilire le nostre condizioni, ed è indispensabile un
supremo colloquio.

«Io lo reclamo, fece Aramis.

«Io lo accetto», aggiunse alteramente d’Artagnan.

Porthos abbassò il capo in segno di assenso.

«Sicchè si fissi il luogo del convegno adattato a noi tutti, proseguì
Athos, ed in un’ultima conferenza regoliamo definitivamente la nostra
situazione reciproca e la condotta che scambievolmente dovremo tenere.

«Bene! approvarono gli altri tre.

«Siete dunque del mio parere?

«Intieramente!

«Or bene, il luogo?

«La Piazza Reale vi accomoda? domandò d’Artagnan.

«A Parigi?

«Sì».

Athos ed Aramis si guardarono. Questo colla testa accennò di sì.

«Sia pure la Piazza Reale! affermò Athos.

«E quando?

«Domani sera, se vi aggrada.

«Sarete di ritorno?

«Certo.

«A che ora?

«Alle dieci: vi conviene?

«A meraviglia.

«Di là, disse Athos, uscirà la pace o la guerra, ma almeno, amici, sarà
salvo l’onor nostro.

«Ahimè, mormorò d’Artagnan, il nostro onore di soldati è perduto.

«D’Artagnan, gli rispose gravemente Athos, vi giuro che mi fate male
pensando a codesto, quando io non penso se non ad una cosa, cioè che
abbiamo testè incrociato il ferro uno contro all’altro.... Sì, sì, voi
lo diceste, sta su noi la sventura. Aramis, venite.

«E noi, Porthos, fece d’Artagnan, ritorniamo a portare la nostra
vergogna al ministro.

«E soprattutto gli direte, gridò una voce, ch’io non sono ancora troppo
vecchio per non essere un uomo da azione».

D’Artagnan riconobbe a quelle parole Rochefort.

«Poss’io fare qualche cosa per voi, signori? chiese il principe.

«Dar testimonianza come facemmo quanto per noi si poteva, monsignore.

«Non dubitate, io la darò. Addio, tra qualche tempo ci rivedremo, io
spero, sotto Parigi, e forse pure in Parigi, ed allora potrete avere la
vostra rivincita».

Il duca fe’ con la mano un saluto, rimise al galoppo il cavallo e
disparve seguito dalla sua scorta, di cui andò a perdersi la vista
nell’oscurità: ed il rumore nello spazio.

D’Artagnan e Porthos si trovarono soli su la strada maestra con un uomo
che reggeva due cavalli scossi.

Crederono che fosse Mousqueton, e gli si avvicinarono.

«Che vedo! esclamò d’Artagnan, sei tu, Grimaud?

«Grimaud!» disse Porthos.

Quegli fece segno ai due amici che non s’ingannavano.

«I corsieri di chi sono? domandò d’Artagnan.

«Chi ce li dà? interrogò Porthos.

«Il signor conte di la Fère.

«Athos, Athos, balbettò d’Artagnan, voi pensate a tutto, e siete
veramente un gentiluomo.

«Manco male, bucinò Porthos, avevo paura di far la tappa a piedi».

E si pose in sella. D’Artagnan vi era digià salito.

«Ebbene, Grimaud, dove vai? chiese questo, lasci forse il tuo padrone?

«Sì, per ordine suo vado a raggiungere il signor visconte di Bragelonne
all’armata di Fiandra».

Mossero allora alcuni passi in silenzio sulla via maestra venendo verso
Parigi, ma ad un tratto udirono un lamento che sembrava scaturisse da
un fosso.

«Ch’è mai questo? fece d’Artagnan.

«È Mousqueton, disse Porthos.

«Eh! sì signore, son io», seguitò una voce querula, mentre sorgeva una
specie d’ombra dal basso della strada.

Porthos corse appresso al suo maggiordomo, a cui era realmente
affezionato.

«Sei ferito gravemente, Mouston?

«Mouston! ripetè Grimaud, spalancando gli occhi con istupore.

«No signore, non credo, ma lo sono in maniera che mi dà molto fastidio.

«Dunque non puoi montare a cavallo?

«Ah! che mai mi proponete!

«Puoi tu andare a piedi?

«Procurerò, sino alla prima casa.

«Come si fa? disse d’Artagnan, bisogna pure che ritorniamo alla
capitale.

«Penserò io a Mousqueton, fece Grimaud.

«Grazie, mio buon Grimaud, rispose Porthos».

Grimaud smontò e andò a dar braccio al suo antico amico, il quale lo
accolse colle lagrime agli occhi, senza ch’ei potesse però sapere se
cagione di quel pianto fosse il piacere di rivederlo o il dolor della
ferita.

D’Artagnan e Porthos continuarono in silenzio il lor viaggio verso la
capitale.

A capo a tre ore furono oltrepassati da una specie di corriere tutto
carico di polvere: era un uomo mandato dal duca, che recava al ministro
una lettera nella quale il principe a tenore della sua promessa
attestava quanto avevano fatto Porthos e d’Artagnan.

Mazzarino aveva passata una nottata pessima, quando ricevè quel
dispaccio, in cui il duca di Beaufort gli annunziava di per sè stesso
qualmente era libero, e farebbe a lui guerra accanita.

Il ministro lo lesse due o tre volte, indi piegandolo e riponendolo
nella saccoccia, disse:

«Quel che mi consola, giacchè d’Artagnan non lo ha potuto cogliere, si
è che almeno correndo dietro a lui ha ammazzato Broussel. Il Guascone è
assolutamente un uomo prezioso, e mi giova anche quando la sbaglia».

Mazzarino alludeva a quel tale che d’Artagnan avea buttato in terra sul
canto del cimitero San Giovanni in Parigi, e ch’era per l’appunto il
consigliere Broussel.



XXIX.

_Il buon uomo Broussel._


Ma disgraziatamente pel signor Mazzarino, che in quel momento aveva
proprio disdetta, il buon uomo Broussel non era stato ammazzato.

Diffatti, esso traversava tranquillamente la via sant’Onorato, quando
il focosissimo cavallo di d’Artagnan lo percosse sulla spalla e lo
gittò fra la mota. Secondo noi avvertimmo, il nostro tenente dei
moschettieri non pose mente a così piccolo avvenimento. D’altronde egli
nutriva la stessa profonda e sprezzante indifferenza che la nobiltà,
e particolarmente la nobiltà militare, in quell’epoca professava pel
ceto borghese. Era dunque rimasto più che insensibile alla disgrazia
accaduta all’omiciattolo nero (quantunque fosse sua colpa) ed anche
avanti che il povero Broussel avesse tempo di dare un grido era
transitata tutta la tempesta dei corridori armati. Ed allora soltanto
il ferito potè essere inteso e rialzato.

Si affollò gente, si vide quel meschinello che gemeva, gli si richiese
il suo nome, la dimora, il titolo, ed appena ebbe detto chiamarsi
Broussel, esser consigliere al Parlamento, ed abitare in via di San
Landry, sorse un grido tra la moltitudine, sì minaccioso e terribile,
che fece gran paura al caduto quanto l’uragano passatogli sul corpo.

«Broussel! Broussel! tutti esclamavano, nostro padre! quello che
difende i nostri diritti contro al Mazzarino! Broussel, l’amico del
popolo! ucciso, calpestato dagli scellerati seguaci del ministro!
soccorso! all’armi! a morte! a morte!»

In un attimo la folla diventò immensa; fu arrestata una carrozza per
mettervi dentro il piccolo Broussel: ma avendo uno del volgo fatto
osservare che nello stato in cui esso era il moto del legno potrebbe
peggiorare il suo male, vari fanatici proposero di portarlo a braccia,
lo che fu accolto con entusiasmo, ed accettato a voti unanimi. Detto
e fatto. Il popolo lo sollevò di peso, in aspetto insieme docile
e minaccioso, e lo trasportò, simile a quel gigante delle novelle
fantastiche che mugghia accarezzando e cullando fra le braccia un nano.

Broussel si figurava digià tanta affezione dei Parigini per la
sua persona. Non aveva durante tre anni seminata l’opposizione
senza un’occulta speranza di raccogliere la popolarità. Codesta
dimostrazione, capitata appuntino, gli fu dunque gratissima e lo fe’
insuperbire, imperocchè gli dava un’idea esatta del suo potere. Ma da
un altro lato v’era qualche inquietezza che turbava un tal trionfo.
Oltre alle contusioni che lo facevano soffrire di molto, temeva ad
ogni angolo di strada di vedere sboccare uno squadrone di guardie e
di moschettieri per dare addosso a quella moltitudine, ed allora nel
parapiglia che succederebbe al trionfatore?

Aveva egli sempre dinanzi agli occhi il turbine d’uomini, quell’uragano
dal piè di ferro da cui era stato atterrato con un soffio.

E perciò ripeteva con voce languidissima:

«Facciamo presto, figliuoli, chè in verità patisco assai!»

Ed a ciascuno di questi suoi lamenti si accrescevano a lui d’intorno ed
i gemiti e le maledizioni.

Si giunse non senza fatica fino alla casa di Broussel. La calca che
già ingombrava la via richiamava a’ balconi e su le porte tutta la
gente del quartiere. Alla finestra di una casa a cui dava ingresso una
porta strettissima si vedeva agitarsi una vecchia serva la quale urlava
con quanta forza si avesse, ed una donna pure attempata che piangeva.
Quelle due femmine, con un’inquietudine visibile abbenchè espressa in
modo diverso interrogavano il popolo, il quale mandava loro per unica
risposta urli confusi impossibili ad intendersi.

Ma quando il consigliere, portato da otto uomini, comparve pallido e
guardando con occhio da moribondo la sua abitazione, la sua moglie e
la sua serva, la buona signora Broussel svenne, e la serva, levando
al cielo le mani, si slanciò sulla scala per farsi incontro al padrone
strillando: «Dio mio! Dio mio! se almeno ci fosse Friquet per andar a
chiamare un cerusico!»

E v’era Friquet. Dove non è egli, il biricchino di Parigi?

Friquet aveva profittato naturalmente della giornata di Pentecoste
per chiedere vacanza al padrone dell’osteria, la qual vacanza non gli
si poteva negare sendochè stava ne’ suoi patti di esser libero alle
quattro feste principali dell’anno.

Era egli alla testa del corteggio. Gli era venuta, sì, l’idea di correr
per un medico, ma in sostanza gli pareva più divertevole lo strillar
fuor di modo: «Hanno ammazzato il signor Broussel padre del popolo!
evviva il signor di Broussel!» che girare da mille straduzze e dir
semplicemente ad un uomo nero: «Venite, signor dottore, il consigliere
Broussel ha bisogno di voi».

Per sua sfortuna, Friquet che nell’accompagnamento faceva una parte
importante, ebbe l’imprudenza di aggrapparsi all’inferriata della
finestra a pian terreno per sovrastare alla folla. Quest’ambizione lo
rovinò: sua madre lo vide e lo mandò pel chirurgo.

Poi pigliò essa in collo il brav’uomo e voleva metterlo così fino al
primo piano; però in fondo alla scala il consigliere si rimise un poco
in gambe e dichiarò sentirsi assai forte per salire da sè. Inoltre ei
pregava la Gervasia (così aveva nome la fantesca) di procurare che la
gente si ritirasse, ma la Gervasia non gli dava retta.

«Oh povero padrone! oh il mio caro padrone! ella badava a gridare.

«Sì, cara, sì Gervasia, balbettava Broussel onde calmarla, sta quieta,
non sarà nulla.

«Ch’io stia quieta, quando siete sciupato, rotto, troncato!

«Ma no, ma no! non è niente, o quasi niente!

«Niente! e siete tutto carico di mota! niente, e avete sangue sui
capelli!.... mio Dio! misero mio padrone!

«Zitto! faceva Broussel, zitto!

«Sangue! santo Dio, sangue! ripeteva la vecchia.

«Un medico! un chirurgo! un dottore! strepitava il popolo, il
consiglier Broussel è vicino a morire! i Mazzarini l’hanno ammazzato.

«Dio buono! si smaniava Broussel, quei disgraziati faranno dar fuoco al
casamento!

«Signore! consigliò la Gervasia, affacciatevi alla finestra, che vi
veggano.

«Fossi gonzo! rispose il tribolato, è cosa buona per il re di farsi
vedere a quel modo.... Gervasia, di’ loro che sto meglio, di’ loro che
mi metterò, non mica al balcone, ma in letto, e che se ne ne vadano.

«Ma perchè se n’hanno da andare? E’ vi fa onore, che stiano là!

«Oh! non l’intendi, che mi faranno arrestare, mi faranno impiccare?
esclamava il vecchietto fuor di sè, ah! ecco che mia moglie è svenuta!

«Broussel! seguitavano di sotto, evviva Broussel! un chirurgo per
Broussel!»

Fecero tanto schiamazzo che accadde ciò che avea previsto il
consigliere; un mucchio di guardie scacciò a calciate di fucile quella
turba, bensì del tutto innocua. Ma alle prime strida di: «soldati!
pattuglia!» Broussel tremando lo avessero a prendere per istigatore del
tumulto, si rimpiattò bell’e vestito nel letto.

Mercè lo sgombro fatto dalle guardie, la Gervasia per comando reiterato
tre volte dall’ammalato, riuscì a chiudere il portone. Ma non sì
tosto l’ebbe serrato e fu salita presso all’infermo, che venne bussato
fortemente.

La signora Broussel tornata in sè levava le calze al marito tremando
come una foglia.

«Guardate chi picchia, disse il consigliere, e non aprite che dopo
schiarimento».

La Gervasia guardò, e rispose:

«È il signor presidente Blancmesnil.

«Allora aprite, non v’è inconveniente.

«Ebbene! fece nell’entrare il presidente, che v’hanno fatto, mio caro
Broussel? sento dire che foste in procinto d’essere assassinato!

«Fatto sta, che secondo è probabile, si è tramato qualche cosa contro
la mia vita, replicò il consigliere con una fermezza che pareva stoica.

«Amico mio, sì, hanno voluto cominciare da voi; però toccherà a noi,
ciascuno a sua volta, e non potendoci vincere in massa cercheranno di
distruggerci un dopo l’altro.

«Se la scapolo, disse Broussel, li vuo’ schiacciare sotto il peso della
mia parola.

«Sì, sì, guarirete, e per far che paghino cara la loro aggressione».

Madama Broussel piangeva dirottamente; Gervasia si tapinava.

«Ch’è stato? esclamò un bello e robusto giovine entrando in camera, mio
padre ferito!

«Vedete qua una vittima della tirannia, giovanotto! ribattè il signor
Blancmesnil da vero Spartano.

«Oh padre mio! guai a coloro che vi hanno toccato!»

E il signorino si volgeva verso l’uscio.

«Giacomo, disse il genitore trattenendolo, va piuttosto a cercare un
medico, mio caro.

«Sento grandi clamori del popolo; avvertì la vecchia, sarà Friquet che
ce lo conduce.... ma no, è una carrozza».

Blancmesnil si affacciò alla finestra.

«Il signor coadjutore! egli disse.

«Il signor coadjutore! ripetè Broussel, aspettate ch’io vada ad
incontrarlo!»

E dimentico de’ suoi dolori si avviava verso il signor di Retz, se non
lo avesse fermato Blancmesnil.

«Ebbene, caro Broussel, disse il coadjutore colà giunto, che c’è?
che c’è? si discorre di agguati, d’assassinio!... Buon giorno, signor
Blancmesnil.... Nel passare ho preso meco il mio dottore, e ve l’ho
condotto.

«Ah! fece Broussel, quanto vi sono obbligato! è vero che sono stato
crudelmente buttato in terra e calpestato dai moschettieri del re....

«Avete a dire del Mazzarino, ripicchiò il signor di Retz, avete a dire
del ministro.... Ma gliela faremo pagare, non dubitate.... Non è così,
signor di Blancmesnil?»

Il presidente s’inchinava, ed ecco spalancarsi ad un tratto l’uscio
spinto da un corriere. Lo seguiva un lacchè in gran livrea che annunziò
ad alta voce:

«Il signor duca di Longueville!

«Come! esclamò Broussel! è qui il signor duca? che onore è questo per
me!... ah, monsignore!...

«Vengo a condolermi, rispose il duca, della sorte del nostro prode
difensore.... siete ferito, consigliere carissimo?

«Se lo fossi, la vostra visita mi risanerebbe, monsignore.

«Soffrite però?

«Molto.

«Ho qui con me il mio dottore; permettete che passi?

«E come!» fece Broussel.

Il signor di Longueville fe’ un cenno al suo lacchè, il quale
introdusse un uomo nero.

«Io aveva avuta la stessa idea che voi, mio principe», disse il
coadjutore.

I due professori si guardarono.

«Oh! siete voi, signor coadjutore? continuò il duca. Gli amici del
popolo s’incontrano sul loro vero terreno.

«Il tumulto mi aveva spaventato e sono accorso; ma parmi che il più
urgente sarebbe che i cerusici visitassero il nostro buon consigliere.

«Davanti a voi, signori? domandò timidamente Broussel.

«E perchè no? vi giuro che siamo ansiosi di sapere come vada.

«Ohimè, Dio santo! disse madama Broussel, che cos’è questo nuovo
schiamazzo?

«Sembrano applausi, rispose Blancmesnil andando al balcone.

«Come! che altro v’è egli? chiese il consigliere pallido, morto.

«La livrea del signor principe di Conti! urlò Blancmesnil, il principe
in persona!»

Il coadjutore e Longueville avevano la gran voglia di ridere.

I professori si accingevano ad alzare la coperta a Broussel; l’ammalato
li trattenne.

Capitò il principe di Conti.

«Ah! signori, disse al vedere il signor di Retz, voi mi avete
prevenuto; ma caro Broussel, non dovete già esser meco sdegnato; quando
ho intesa la vostra disgrazia, ho pensato che vi mancasse un dottore
e sono ito a prendere il mio.... Come state, e che assassinio è questo
del quale si parla?»

Broussel voleva discorrere, ma non ebbe parole, l’oppressero i tanti
onori che riceveva.

«Orsù, dottore, vedete, disse il principe di Conti a un uomo nero che
lo accompagnava.

«Oh oh! fece uno dei medici, allora gli è un consulto.

«Sarà quel che volete, ma ponetemi in quiete sulla salute del bravo
consigliere».

I tre professori si accostarono al letto. Broussel tirava a sè con
tutta forza la coperta. Ad onta della sua opposizione fu spogliato ed
esaminato.

V’era soltanto una contusione al braccio ed una alla coscia.

I dottori si guardarono in viso, mal comprendendo come si fossero
riuniti tre soggetti fra i più dotti della Facoltà di Parigi per una
simile inezia.

«Ebbene? domandò il coadjutore.

«Ebbene? il duca.

«Ebbene? il principe.

«Speriamo che l’accidente non abbia conseguenze; disse uno dei seguaci
d’Esculapio; ci ritireremo nella stanza vicina per concertare le
ricette.

«Broussel! notizie di Broussel! strillava la folla, come sta Broussel?»

Il coadjutore corse alla finestra. Al suo aspetto la turba fe’ silenzio.

«Amici, ei disse, riconfortatevi, egli è fuor di pericolo; ma la ferita
è grave e abbisogna riposo».

Subito echeggiarono sulla strada altri urli:

«Viva Broussel! viva il coadjutore!»

Longueville per astio si affacciò esso pure.

«Viva il signor di Longueville! fu gridato al momento.

«Amici, ei disse facendo un saluto con la mano, ritiratevi in pace, e
non date ai nemici nostri il piacere del disordine.

«Bravo, signor duca! approvò dal letto Broussel, codesto è parlare da
buon Francese.

«Sì, signori Parigini, seguitò il principe di Conti andato ugualmente
alla finestra onde avere la sua parte degli applausi. E poi il signor
Broussel ve ne prega, ha necessità di quiete, ed il chiasso potrebbe
dargli incomodo.

«Viva il principe di Conti!» esclamò la gente di sotto.

E il principe salutò.

Allora tutti tre si accomiatarono dal consigliere, e ad essi fece
scorta la moltitudine che licenziata avevano a nome di Broussel.

La vecchia serva stupefatta osservava il padrone con ammirazione.

Per lei il consigliere era cresciuto di un palmo.

«Ecco che cos’è servire il proprio paese secondo la sua coscienza»,
disse Broussel con soddisfazione.

I medici uscirono dopo un’ora di consulto, e ordinarono si lavassero le
contusioni con acqua e sale.

In tutta la giornata fu processione di carrozze. Tutti quei della
_fronda_ si fecero scrivere per visita in casa Broussel.

«Che bel trionfo, padre mio!» disse il giovine, il quale non
comprendendo il vero motivo che traeva tutti coloro nella sua
abitazione, pigliava sul serio le dimostrazioni dei grandi, dei
principi e degli amici.

«Ohimè! Giacomo mio, gli rispose il genitore, ho paura di pagarlo caro
questo trionfo; e o m’inganno, o a quest’ora il signor di Mazzarino mi
apparecchia il conto degli affanni ch’io gli cagiono».

Friquet tornò a casa a mezza notte. Non aveva potuto trovar medici.



XXX.

_Quattro antichi amici si dispongono a rivedersi._


«Ebbene! disse Porthos, seduto nel cortile dell’albergo del Granchio, a
d’Artagnan che di mal umore, accigliato, tornava dal Palazzo Reale, vi
ha ricevuto male, mio buon d’Artagnan?

«Oh sì, è assolutamente una brutta bestia, colui.... che mangiate
costì, Porthos?

«Vedete, inzuppo un biscotto in un bicchiere di vin di Spagna: fate lo
stesso anche voi.

«Dite benissimo. Gimblou, un bicchiere!»

Il cameriere chiamato con quel nome armonioso, recò ciò ch’eragli
chiesto, e d’Artagnan si assise accanto all’amico.

«Come è andata?

«Eh! comprenderete che non v’erano due modi di dir le cose; sono
entrato, mi ha guardato bieco, mi sono stretto nelle spalle, e gli ho
detto: Monsignore, in conclusione non siamo stati noi i più forti.

«Sì, so tutto questo, ma raccontatemi i dettagli.

«Intendete, Porthos, che non potevo raccontare i dettagli senza
nominare i nostri amici, e il nominarli era comprometterli.

«Per Diana!

— Monsignore, ho soggiunto, essi erano cinquanta, e noi due.

— Sì, mi ha risposto, ma ciò non toglie che si siano ricambiate delle
pistolettate, per quanto ho inteso.

— Realmente sono state abbruciate alcune cariche di polvere e da una
parte e dall’altra.

— E le spade han veduta la luce?

— Cioè le tenebre, Eccellenza.

— Ah ah! ha soggiunto il ministro, vi credevo Guascone, mio caro?

— Non son Guascone se non quando riesco.

— La mia replica gli è piaciuta, giacchè si è messo a ridere.

— Da questo imparerò, ha continuato, a far dare migliori cavalli alle
mie guardie, mentre s’esse avessero potuto seguitarvi ed avessero fatto
ciascuna quanto voi e il vostro amico, avreste mantenuta la vostra
parola e condottolo a me morto o vivo.

«Eh! disse Porthos, mi pare che non vi sia male.

«No, ma tutto sta nella maniera di dirlo.... Non è da credere quanto
vino prendono questi biscotti! sono assolutamente spugne. Gimblou,
un’altra bottiglia».

Fu eseguito il comando con tal prontezza da provare l’alta
considerazione di che godeva d’Artagnan nella locanda. Ed esso
continuò:

«Mi ritiravo, ed egli mi chiamò indietro.

— Aveste tre cavalli fra morti e attrappati? mi domandò.

— Sì, monsignore.

— Quanto valevano?

«Eh! interruppe Porthos, mi sembra questa una buona idea.

— Mille doppie, io risposi.

«Mille doppie! fece Porthos.... è molto! e se s’intende di cavalli,
deve aver tirato di prezzo.

«Ne aveva voglia, lo spilorcio, poichè ha fatto un balzo terribile e mi
ha guardato fisso. Lo guardai io pure, e allora comprese tutto e pigliò
da un armadio dei biglietti sulla banca di Lione.

«Per mille doppie?

«Appunto, l’usurajo! nemmeno una di più!

«E le avete?

«Eccole.

«Affè, trovo ch’è agire benissimo.

«Benissimo? con persone che non solo hanno arrischiata la vita, ma che
gli hanno reso un gran servigio!

«E quale?

«Veh! per quanto pare gli ho ammazzato un consigliere del Parlamento.

«Come! quel piccolo uomo nero che gettaste in terra sull’angolo del
cimitero San Giovanni?

«Precisamente. Ei gli dava gran fastidio; ma disgraziatamente non l’ho
propriamente ucciso; sembra che abbia a guarire e tornare a dargli
molestia.

«Oh vedete! disse Porthos, ed io sviai il mio corsiero che gli andava
veramente addosso! Sarà per un’altra volta.

«Avaraccio! avrebbe dovuto pagarmi il consigliere.

«Eh! se non è ucciso affatto.

«Il signor di Richelieu avrebbe detto subito: cinquecento scudi per il
consigliere.... Basta, non ne parliamo più. Quanto vi costano le vostre
bestie, Porthos?

«Ah! se fosse qui il povero Mousqueton, ve lo direbbe a lira, soldo e
danaro.

«Non serve! all’incirca?

«Vulcano e Bajardo mi costavano intorno a duecento doppie per uno, e
mettendo Febo a cento cinquanta siamo vicini al conto.

«Rimangono dunque quattrocento cinquanta, azzardò contentissimo
d’Artagnan.

«Sì, ma vi sono i finimenti.

«Capperi! è vero.... e per quanto?

«Calcolando cento doppie di tutti e tre....

«Sia pure.... allora restano trecento cinquanta».

Porthos abbassò il capo in atto di adesione.

«Diamo le cinquanta alla locandiera per tutta la nostra spesa, propose
d’Artagnan, e dividiamoci le altre trecento.

«Dividiamocele, approvò Porthos.

«Meschino negozio! borbottò d’Artagnan riponendo i biglietti.

«Uh tant’è, disse Porthos, ma ditemi....

«Che?

«Non vi parlò in alcun modo di me?

«Ah sì! esclamò d’Artagnan, perocchè temeva di scoraggire il camerata
manifestandogli che il ministro non gli aveva aperto bocca su di lui,
sì, mi ha detto....

«Che cosa?

«Aspettate.... mi preme ricordarmi le sue proprie parole: ha detto....
In quanto al vostro amico, annunziategli che può dormire su due
guanciali.

«Bene! osservò Porthos, prova chiarissima che ha sempre idea di farmi
barone».

Nel momento suonarono nove ore alla chiesa vicina. D’Artagnan si scosse.

«Ah! è vero, fece Porthos, ecco che suonano le nove, e alle dieci, come
vi rammentate, abbiamo appuntamento alla Piazza Reale.

«Ah tacete! gridò d’Artagnan con impazienza, non mi ricordate codesto;
è ciò che da jeri mi tiene di mal umore. Non ci andrò.

«E perchè?

«Perchè mi è doloroso il rivedere quei due uomini che fecero andare a
vuoto la nostra impresa.

«Eppure, ribattè Porthos, nè uno nè l’altro ne hanno avuto il
vantaggio. Io aveva ancora una pistola carica, e voi eravate l’uno in
faccia all’altro con la spada in mano.

«Sì, rispose d’Artagnan, però se in quel convegno è celata qualche cosa?

«Ah! voi non lo credete, disse Porthos».

Ed aveva ragione: d’Artagnan non supponeva Athos capace d’impiegare
l’astuzia, ma cercava un pretesto per non recarsi all’appuntamento.

«Bisogna andarvi, continuò l’altero signor di Bracieux; si penserebbero
che avessimo avuto paura.... Eh! mio caro, abbiamo affrontati cinquanta
nemici su la strada maestra; affronteremo pure due amici sulla Piazza
Reale.

«Sì, sì, replicò d’Artagnan, lo so; ma hanno abbracciato il partito
dei principi senza prevenircene; ma Athos ed Aramis hanno fatto meco
un giuoco che mi spaventa. Jeri scoprimmo la verità. A che giova andar
oggi a saper qualche altra cosa!

«Realmente siete in diffidenza? domandò Porthos.

«Di Aramis sì, dacchè è abate. Non potete figurarvi com’è diventato;
egli par che siamo contrarj al suo avanzamento, e forse non gli
increscerebbe di levarci di mezzo.

«Ah! per Aramis è tutt’altro, confermò Porthos, e non mi sorprenderebbe.

«Il signor di Beaufort può tentare alla sua volta di far arrestar noi.

«Oibò! subito che ci aveva nelle mani e ci ha lasciati liberi! E poi
mettiamoci in guardia, e conduciamo Planchet colla sua carabina.

«Planchet è della _Fronda_.

«Maledette le guerre civili! non si può più far conto nè su gli amici
nè su’ propri servi. Ah! se fosse qua il misero Mousqueton! Quegli non
mi abbandonerà mai!

«Finchè sarete ricco! eh! non sono le guerre civili che ci disuniscono;
è che non abbiamo più venti anni ciascuno, è che i leali impulsi della
gioventù sono spariti per dar luogo al mormorio degli interessi, al
soffio delle ambizioni, ai consigli dell’egoismo. Sì, avete ragione,
Porthos: andiamoci, ma ben armati. Se no, direbbero che abbiam timore.
Olà, Planchet!»

Planchet accorse alla chiamata di d’Artagnan.

«Fate porre la sella ai cavalli, e pigliate la vostra carabina.

«Ma, signore, prima di tutto, contro a chi si va?

«Non si va contro ad alcuno, disse d’Artagnan, è una semplice misura di
precauzione per il caso che fossimo assaliti.

«Sapete, signore, ch’è stato tentato di uccidere il consigliere
Broussel, il padre del popolo?

«Eh! davvero?

«Sì, ma è stato ben vendicato, poichè il popolo lo ha riportato a casa
a braccia. Da jeri in qua la sua abitazione è sempre piena. Ha ricevuto
visita dal coadjutore, dal signor di Longueville e dal principe di
Conti. Le signore di Chevreuse e di Vendome si son fatte dare in nota
alla porta, e adesso quando vorrà....

«Ebbene, quando vorrà?...»

Planchet si diede a cantarellare:

      Un vent de Fronde
    S’est levé ce matin;
      Je crois qu’il gronde
      Contre le Mazarin.
        Un vent de fronde
      S’est levé ce matin.

«Non mi sorprende più, osservò sotto voce d’Artagnan a Porthos, che il
Mazzarino avesse avuto più caro ch’io avessi distrutto affatto il suo
consigliere.

«Comprendete dunque, soggiunse Planchet, che se mi ordinate di pigliare
la mia carabina per qualche intrapresa simile a quella tramata contro
il signor Broussel....

«No, no, sta quieto.... Ma da chi avesti tutti questi dettagli?

«Oh da fonte buona! gli ho avuti da Friquet.

«Da Friquet? fece d’Artagnan, codesto nome mi è noto.

«È il figliuolo della serva del signor Broussel, un certo tomo che, vi
assicuro, in una sommossa non rimarrà indietro.

«Non è egli cantore a Nostra Signora?

«Sì, appunto: è protetto da Bazin.

«Ah! lo so.... e poi cameriere all’osteria della Calanda?

«Precisamente.

«Che v’interessa di quel ragazzaccio? domandò Porthos.

«Eh! mi ha dato digià de’ buoni schiarimenti, e all’occorrenza potrebbe
somministrarmene degli altri.

«A voi, che foste vicino ad ammazzare il suo padrone?

«E chi glie lo dirà?

«È vero».

Nel momento stesso entravano in Parigi Athos ed Aramis dal sobborgo
sant’Antonio. Si erano rinfrescati per la strada, e si affrettavano
onde non mancare al convegno. Li accompagnava il solo Bazin. Grimaud,
conforme ci rammentiamo, era restato per assistere Mousqueton, e doveva
raggiungere direttamente il giovine visconte di Bragelonne che si
recava all’armata di Fiandra.

«Adesso, disse Athos, ci conviene entrare in qualche albergo per
vestirci da città, posare le pistole e le spade, e disarmare il nostro
servo.

«Nulla, nulla, caro conte, ed in questo mi permetterete, non solo di
non essere del vostro parere, ma anche di procurare di condurvi al mio.

«E perchè?

«Perchè andiamo ad un convegno di guerra.

«Aramis, che volete mai dire?

«Che la Piazza Reale è un seguito della strada maestra del Vendomese e
non altro.

«Come! i nostri amici?...

«Sono diventati i nostri nemici più pericolosi; Athos, credete a me;
diffidiamo, e diffidate voi specialmente.

«Oh! mio caro d’Herblay!

«Chi vi dice che d’Artagnan non abbia gettata addosso a noi la sua
sconfitta e prevenuto il ministro? chi vi dice che il ministro non
profitti di questo appuntamento per farci arrestare?

«E che! v’immaginate che d’Artagnan e Porthos diano mano ad una tale
iniquità?

«Tra amici, dite benissimo, sarebbe iniquità; fra nemici, ch’è astuzia».

Athos incrociate le braccia calò la testa sul petto.

«Che volete? seguitò Aramis, gli uomini son fatti così, e non son
sempre in età di venti anni. Noi abbiamo offeso crudelmente, voi
lo sapete, quell’amor proprio che guida ciecamente le azioni di
d’Artagnan. Egli è stato vinto. Non lo udiste forse disperarsi sulla
strada? In quanto a Porthos, la sua baronia dipendeva probabilmente
dal di lui buon esito in questo affare. Ebbene! esso ha incontrati noi
come intoppi, e neppur questa volta sarà barone. Chi vi assicura che la
famosa Baronia non vada collegata col nostro abboccamento di stassera?
Athos, prendiamo le nostre precauzioni.

«Ma se essi venissero senz’armi, Aramis, che vergogna per noi!

«Non dubitate, vi garantisco che ciò non succederà. D’altronde noi
abbiamo una scusa: arriviamo da un viaggio, e siamo ribelli.

«Scuse! ci tocca prevedere il caso in cui avessimo bisogno di scuse
dirimpetto a d’Artagnan, a Porthos! Oh, Aramis! (continuava Athos
scuotendo mestamente il capo) sull’anima mia, voi mi rendete il più
disgraziato di tutti gli uomini! togliete ogni dolce illusione ad un
cuore che non era morto affatto all’amicizia! Ecco, preferirei, ve lo
giuro, che uno me lo strappasse dal petto. Andateci come vi piace, io
vi andrò inerme.

«Ed io non lascerò che veniate così. Non più un uomo, non più Athos,
nemmeno più il conte di la Fère, tradireste con tal debolezza, ma un
intero partito a cui appartenete e che conta su di voi.

«Sia fatto come voi dite» riprese Athos addolorato.

E proseguirono il loro cammino.

Appena arrivavano dalla via del Passo della Mula ai cancelli della
piazza deserta, videro sotto l’arcata e sullo sbocco della contrada di
santa Caterina tre uomini a cavallo.

Erano d’Artagnan e Porthos avvolti nei ferrajuoli, che tenevano in alto
le spade, e dietro ad essi Planchet col moschetto sulla coscia.

Athos ed Aramis scesero da cavallo scorgendo d’Artagnan e Porthos.
Questi fecero lo stesso. D’Artagnan osservò che i tre corsieri invece
di esser retti da Bazin erano legati agli anelli del loggiato, e ordinò
a Planchet di far come faceva Bazin.

Allora a due per due, seguiti dai rispettivi servi, si avanzarono, e
salutaronsi scambievolmente con molta cortesia.

«Signori, dove gradite che discorriamo?» domandò Athos.

Egli si era accorto che parecchie persone si fermavano a guardarli
come si trattasse di uno di quei famosi duelli tuttavia viventi nella
memoria dei Parigini, e soprattutto di coloro che abitavano sulla
Piazza Reale.

«Il cancello è chiuso, disse Aramis, ma se questi signori amano il
fresco sotto gli alberi ed una solitudine inviolabile, piglierò la
chiave al palazzo di Rohan e staremo egregiamente».

D’Artagnan cacciò lo sguardo fra l’oscurità della piazza, e Porthos
arrischiò la testa fra due regoli per iscandagliare quelle tenebre.

«Se preferite un altro luogo, seguitò Athos con la sua maniera nobile e
insinuante, scegliete pure.

«Io credo che codesto posto, qualora il signor d’Herblay possa
procurarsene la chiave, sarà il migliore di ogni altro».

Aramis si discostò subito, avvertendo Athos di non restar solo
così vicino a d’Artagnan e Porthos; ma quegli a cui veniva dato tal
consiglio sorrise in atto sprezzante, e mosse un passo verso i suoi
antichi amici.

Realmente Aramis era andato a bussare al palazzo di Rohan, e in breve
ricomparve con un uomo che gli diceva:

«Me lo giurate, signore?

«A voi, fece Aramis dandogli un luigi.

«Ah! mio gentiluomo, non volete giurare? disse il custode di mal umore.

«E si può giurare di nulla?... vi asserisco soltanto che adesso quei
signori sono amici nostri.

«Sì, certamente» confermarono freddamente Athos, d’Artagnan e Porthos.

D’Artagnan aveva udito il dialogo, e capito ogni cosa.

«Vedete? domandò a Porthos.

«Che ho da vedere?

«Che non ha voluto giurare.

«Giurare di che?

«Quell’uomo intendeva che Aramis gli giurasse che non andavamo sulla
Piazza Reale per batterci.

«Ed egli vi si è ricusato?

«Sì.

«Dunque attenti!»

Athos non perdeva di vista i due interlocutori. Aramis aprì la porta
e si trasse da parte acciò potessero entrare d’Artagnan e Porthos. Il
primo di questi due nel passare impegnò la impugnatura della sua spada
nei ferri del cancello, e fu costretto a disvolgersi dal ferrajuolo,
lo che facendo, discoperse il calcio rilucente delle pistole su cui si
rifletteva un raggio di luna.

«Vedete? disse Aramis, con una mano toccando Athos sulla spalla e con
l’altra additandogli l’arsenale che portava d’Artagnan alla cintola.

«Ohimè, si!» rispose Athos con un sospiro.

E passò avanti per terzo. Aramis entrò ultimo, e si chiuse dietro
il cancello. I due domestici rimasero fuori, ma quasi che essi pure
diffidassero un dell’altro si trattennero a qualche distanza.



XXXI.

_La Piazza Reale._


Camminarono in silenzio sino al centro della piazza, ma siccome in
quel momento era uscita la luna di sotto un nuvolo, rifletterono che in
luogo tanto scoperto sarebbero veduti, e si diressero verso i tigli ove
l’ombra era più folta.

Stavano distribuiti a varj spazj dei sedili. I quattro gentiluomini si
fermarono dinanzi ad uno, Athos fe’ un cenno, d’Artagnan e Porthos si
assisero; Athos ed Aramis rimasero in piedi davanti ad essi.

Indi a breve pausa, durante la quale ciascuno sentiva la difficoltà
d’incominciare la spiegazione, Athos disse:

«Signori, una prova del potere dell’antica nostra amicizia si è la
nostra comparsa al convegno; nessuno v’ha mancato, sicchè nessuno aveva
da farsi rimproveri.

«Ascoltate, signor conte, rispose d’Artagnan, invece di farci dei
complimenti che forse non meritiamo, spieghiamoci da uomini di cuore.

«Non bramo di meglio. Vi conosco schietto; parlate con tutta
franchezza: avete qualche cosa di cui far rampogna a me od al signor
abate d’Herblay?

«Sì; disse d’Artagnan, quando ebbi l’onore di vedervi al castello di
Bragelonne, vi recavo delle proposizioni che voi comprendeste; in luogo
di rispondermi come a un amico, mi burlaste come un bambino, e l’amistà
che tanto vantate non fu troncata jeri dall’urto delle nostre spade, ma
dalla vostra dissimulazione nella vostra propria dimora.

«D’Artagnan! fece Athos in dolcissimo tuono di lagnanza.

«Mi chiedete franchezza, ed eccola; domandate che cosa io pensi, e ve
lo dico; ed ora ho altrettanto per voi, signor abate d’Herblay; con voi
ho agito egualmente, e parimente m’ingannaste.

«In verità, siete singolare! disse Aramis, veniste per farmi delle
proposizioni: ma me le faceste? signor no; mi scandagliaste, e niente
altro. Che vi dissi? che Mazzarino era un mascalzone e che non servirei
Mazzarino. Ma non più di così. Vi dichiarai forse che non avrei servito
un altro? Al contrario, mi pare che vi feci intendere ch’ero tutto dei
principi. Anzi, se non m’inganno, scherzammo piacevolmente sul caso
probabilissimo in cui riceveste dal ministro l’incarico di arrestarmi.
Siete uomo di parte? sì, senza alcun dubbio. Or bene, e perchè noi non
dobbiamo essere uomini di parte? Voi avete il vostro segreto come noi
abbiamo il nostro; non ce li siamo ricambiati, meglio così! è prova che
sappiamo custodire i nostri segreti.

«Di nulla vi fo rimprovero, signore; ribattè d’Artagnan, solo perchè il
signor conte di la Fère parlava di amistà, sono passato ad esaminare il
vostro contegno.

«E in questo che trovate?» domandò con alterigia Aramis.

Corse il sangue alle tempie a d’Artagnan, ed egli si alzò dicendo:

«Trovo ch’è quello di un ipocrita».

Porthos ancora si era levato in piedi; talchè i quattro signori stavano
diritti e minacciosi uno di faccia all’altro.

Alla risposta di d’Artagnan, Aramis fece un movimento come per metter
mano alla spada.

Athos lo trattenne.

«D’Artagnan, esso disse, voi qui venite questa sera, tuttavia furibondo
per la nostra avventura di jeri. Io vi stimava di cuore assai grande
perchè in voi un’amicizia di venti anni resistesse ad una disfatta di
amor proprio di un quarto d’ora. Orsù, ditelo a me: vi sembra di avere
di che incolparmi? Se sono in fallo, io lo riconoscerò».

La voce grave ed armoniosa di Athos aveva sempre sovra d’Artagnan
l’usata influenza, laddove quella di Aramis diventata aspra e stridula
ne’ suoi momenti di mal umore lo irritava. Quindi ci replicò al primo:

«Mi pare, signor conte, che voi avevate da farmi una confidenza nel
castello di Bragelonne, e che questo signore (ed accennava Aramis)
aveva da farmene una nel suo convento; io allora non mi sarei slanciato
in un’avventura in cui dovevate chiudermi la strada. Bensì perchè sono
stato prudente, non avete già a prendermi per uno stolido. Se avessi
voluto esaminare a fondo la condotta che tiene il signor d’Herblay, lo
avrei costretto a parlare.

«Di che cosa v’ingerite? esclamò Aramis pallido dalla collera
sicuramente pel dubbio che gli nacque che d’Artagnan lo avesse veduto
con madama di Longueville.

«M’ingerisco di ciò che mi riguarda, e so far mostra di non aver
visto quel che non mi riguarda; ma aborrisco gl’ipocriti, ed in questa
categoria pongo i moschettieri che fanno da abati e gli abati che fanno
da moschettieri, ed il signore qui presente (seguitò volgendosi verso
Porthos) è della mia opinione».

Porthos che non aveva ancor parlato, non rispose se non con una parola
ed un gesto.

Disse sì, e diè mano alla spada.

Aramis fece un salto all’indietro e sguainò la sua. D’Artagnan
s’incurvò, pronto ad attaccare o a difendersi.

Allora Athos stese la destra con quell’atto di supremo comando tutto
proprio di lui, cavò lentamente e ferro e fodero insieme, spezzò nel
fodero il ferro battendoselo sul ginocchio, e gettò i due pezzi a man
dritta.

Indi voltosi ad Aramis gli disse:

«Aramis, troncate la vostra spada».

Questi però titubava.

«Così bisogna» soggiunse Athos.

E poi con voce più bassa e dolce:

«Così voglio».

Aramis, ancor più pallido, ma soggiogato da quel gesto, dominato da
quella voce, ruppe la lama pieghevole, incrociò le braccia, ed aspettò
bollendo di rabbia.

Questo movimento fece retrocedere d’Artagnan e Porthos; il primo non
cavò fuori il brando, l’altro ripose il suo.

«Giammai, disse Athos alzando verso il cielo la destra, giammai, lo
giuro innanzi a Dio che ne vede e ne ascolta, durante la solennità
di questa nottata, l’arme mia non toccherà le vostre; giammai il mio
occhio non avrà per voi uno sguardo d’ira, nè il mio cuore un sol
palpito d’odio. Noi vivemmo insieme, insieme odiammo ed insieme amammo;
tra noi si sparse il nostro sangue, e si confuse, e forse aggiungerò
pure, fra noi v’ha un vincolo più possente di quello dell’amistà,
forse v’ha il contratto e l’unione del delitto; imperciocchè tutti
e quattro abbiamo condannato, giudicato, giustiziato un essere umano
che non avevamo probabilmente diritto di torre da questo mondo, per
quanto, meglio che a questo mondo sembrasse appartenere all’inferno.
D’Artagnan, io sempre vi amai come un mio figlio; Porthos, per dieci
anni dormimmo uno a fianco dell’altro; Aramis è vostro fratello come
mio, giacchè vi ha amati come io vi amo e vi amerò sempre. Che può
essere Mazzarino, per noi, che sapemmo forzare la mano e il cuore di un
uomo qual era Richelieu? Ch’è egli questo o quel principe, per noi che
abbiamo consolidata la corona sul capo ad una regina? D’Artagnan, io
vi domando perdono di aver incrociato il ferro con voi; altrettanto fa
Aramis per Porthos. E adesso, aborritemi, se potete, ma io vi giuro che
ad onta dell’odio vostro, non avrò per voi se non stima ed amicizia....
Aramis, ripetete le mie parole, e indi, s’essi il vogliono e voi pure
il volete, si abbandonino per sempre gli antichi nostri amici».

Fuvvi un istante di silenzio solenne. Così lo troncò poscia Aramis:

«Io giuro (e favellava con la fronte serena e sguardo leale, ma con tal
voce in cui sentivasi un ultimo tremito di agitazione) giuro che non ho
più verun odio contro a coloro che furono miei amici; giuro che provo
rammarico, o Porthos, di aver toccato la vostra spada; giuro alfine,
che non solo la mia non sarà più rivolta al vostro petto, ma anche
nelle più arcane profondità del mio pensiero non rimarrà nell’avvenire
tampoco apparenza di sentimenti ostili contro di voi. Venite, Athos».

Athos fece un moto per ritirarsi.

«Oh no, no! non ve ne andate! esclamò d’Artagnan trasportato da uno di
quegli impulsi irresistibili che discuoprivano il calore del suo sangue
e l’ingenua rettitudine dell’animo suo, non ve ne andate! chè anch’io
ho da fare un giuramento. Giuro che darei fino all’ultima goccia del
mio sangue, sino all’ultimo brano delle mie carni, per conservare la
stima di un uomo simile a voi, Athos, l’amicizia di un par vostro,
Aramis».

E si gettò nelle braccia di Athos.

«Figlio mio! disse Athos premendoselo al seno.

«Ed io, fece Porthos, non giuro niente, ma scoppio, cospettone! Se
dovessi battermi con voi, credo che mi lascerei infilzare da parte a
parte, giacchè non ho voluto bene al mondo altro che a voi».

Ed il buon Porthos proruppe in pianto buttandosi fra le braccia di
Aramis.

«Amici miei, disse Athos, ecco ciò che speravo, ecco ciò che attendevo
da due cuori come i vostri. Sì, l’ho detto e lo ripeto, i nostri
destini sono irrevocabilmente congiunti, abbenchè noi seguiamo un
sentiero diverso. Io rispetto la vostra opinione, d’Artagnan; rispetto
la vostra convinzione, Porthos; ma quantunque combattiamo per cause
opposte, manteniamoci amici; i ministri, i principi, i re, passeranno
come un torrente, la guerra civile a modo di una fiamma, ma noi
rimarremo, oh sì! ne ho un presentimento.

«Sì, approvò d’Artagnan, siamo pur sempre moschettieri, e serbiamo per
unica bandiera quel famoso tovagliuolo del bastione di San Gervasio
dove il gran ministro aveva fatto ricamare tre gigli.

«Sì! esclamò Aramis, o del ministro o della Fronda, a noi che monta?
Ritroviamo i nostri buoni padrini pei duelli, gli amici zelanti per gli
affari, i lieti compagni pei piaceri!

«Ed ogni volta, seguitò Athos, che c’incontreremo nella mischia,
alle sole parole di: _Piazza Reale!_ trasportiamo le spade alla mano
sinistra, e ci porgiamo la diritta, quando anche fossimo in mezzo alle
più orribili carneficine.

«Voi parlate divinamente, disse Porthos.

«Siete il più grande fra gli uomini! seguitò d’Artagnan, e ci superate
almeno di dieci cubiti».

Athos sorrise di gioja ineffabile.

«Sicchè, egli disse, è concluso? Animo, signori, la mano. Siete un
pochino cristiani?

«E come! rispose d’Artagnan.

«Lo saremo in questa occasione per mantenerci fedeli al nostro
giuramento, fece Aramis.

«Ah! continuò Porthos, per me sono pronto a giurare. Il diavolo mi
porti se sono stato mai contento come in questo istante.»

Ed il buonissimo uomo si asciugava gli occhi.

«V’è uno di voi altri che abbia una croce?» domandò Athos.

Porthos e d’Artagnan si guardarono tentennando il capo come gente presa
alla sprovvista.

Aramis, sorridendo, si trasse di seno una croce di diamanti che teneva
sospesa al collo con un filo di perle.

«Eccone una, egli disse.

«Or bene, riprese Athos, giuriamo su questa croce di essere uniti
sempre e a qualunque costo, e possa questo giuramento vincolare non
solo noi, ma anco i nostri discendenti. Questo giuro vi accomoda?

«Traditore! mormorò piano d’Artagnan chinatosi all’orecchio ad Aramis,
ci avete fatto giurare sul crocifisso di una della Fronda!»



XXXII.

_La barca dell’Oise._


Noi speriamo che il leggitore non abbia dimenticato del tutto il
giovane viaggiatore che lasciammo su la strada di Fiandra.

Raolo, perduto di vista il suo protettore che era rimasto attento
a seguirlo cogli occhi di faccia alla basilica reale, spronò il suo
cavallo, prima per sottrarsi agli angosciosi suoi pensieri, e indi per
occultare ad Olivain la commozione che gli alterava il sembiante.

Un’ora di rapido cammino ebbe presto dissipati tutti i cupi vapori
che attristata avevano l’immaginazione tanto ricca del giovanetto. Il
piacere ignoto di esser libero, piacere ch’è dolce per sino a quelli
che mai non soffersero la dipendenza, al cospetto di Raolo indorò terra
e cielo, e soprattutto il lontano ed azzurro orizzonte della vita che
appellasi _avvenire_.

Bensì, dopo varie tentate conferenze con Olivain, ei si accorse che
molte giornate trascorse in cotal guisa riuscirebbero triste, e gli
tornò alla memoria la favella del conte, sì persuadente e interessante,
in proposito delle città che si percorrevano, e sulle quali nessuno
poteva più dargli le preziose notizie che avrebbe ricavate da Athos, la
più dotta e divertevole di quante guide vi fossero.

Ed un’altra rimembranza pure affliggeva Raolo: al suo giungere a
Louvres, aveva egli veduta, perduto dietro ad un gruppo di pioppi,
una piccola villa o castello, la quale gli aveva talmente rammentata
quella di La Vallière, ch’ei si era fermato per dieci minuti a
contemplarla, ed aveva ricominciato il suo viaggio sospirando, senza
nemmeno rispondere ad Olivain che rispettosamente lo aveva interrogato
su la causa di tanta sua attenzione. L’aspetto degli oggetti esteriori
è un conduttore misterioso che corrisponde alle fibre della memoria
e talvolta va a risvegliarle a nostro malgrado; ridestato quel
filo alla guisa di quello di Arianna, e’ conduce in un labirinto di
pensieri dove uno si smarrisce seguitando l’ombra del passato che
nomasi _rimembranza_. E l’aspetto di quel castello avea respinto Raolo
lontano cinquanta leghe dal lato d’occidente, e fatta risalire la sua
vita al momento in cui egli avea tolto commiato dalla piccola Luigia
sino a quello in che l’avea veduta pella prima volta, ed ogni gruppo
di querce, ogni banderuola distinta in cima ad un tetto di lavagne,
gli ricordava qualmente, anzi che riedere verso gli amici di sua
fanciullezza, se ne allontanava ad ogni momento di più, e forse ancora
abbandonati li aveva per sempre.

Gonfio il cuore, grave la testa, ordinò a Olivain di menare i cavalli
sino a un piccolo albergo che scorgeva sulla strada a mezzo tiro di
schioppo circa più innanzi del luogo dove erano giunti. Egli smontò,
soffermossi sotto un bel gruppo di castagni in fiore intorno a’ quali
ronzavano le api, e domandò ad Olivain di fargli recare dall’oste
carta da lettere e inchiostro sopra un tavolino che ivi pareva bello e
apparecchiato per iscrivere.

Olivain obbedì e continuò il suo viaggio, intanto che Raolo sedeva
appoggiando il gomito sul tavolino, ed i suoi sguardi si perdevano
confusi sull’ameno paesetto cosparso di verdi campi e gruppi d’alberi,
e tratto tratto facendosi cadere dai suoi capelli quei fiori che
scendevano sopra di lui come fiocchi di neve.

Raolo stava colà da quasi dieci minuti, e da cinque circa si smarriva
nelle sue meditazioni, allorchè nel circolo che abbracciavano i suoi
sguardi distratti vide muovere una figura rossa, la quale, con un
tovagliuolo attorno alla vita ed uno sul braccio, ed in testa un
berretto bianco, gli si avvicinava, tenendo in mano carta inchiostro e
penna.

«Ah, ah! disse la figura così apparsa, si vede che tutti i gentiluomini
hanno idee consimili, poichè non è un quarto d’ora che un giovane
signore a cavallo come voi, di nobile aspetto pari vostro, e a un
dipresso della stessa età, si è fermato in questo posto, ci ha fatto
portare codesta tavola e la seggiola, e vi ha pranzato insieme a
un vecchio che sembrava un ajo, con un pasticcio senza lasciarne un
pezzetto, e una bottiglia di Macon senza scordarsene una goccia. Ma
per fortuna abbiamo ancora della roba eguale, e se vossignoria mi
comanda.....

«No, mio caro, rispose sorridendo Raolo, vi ringrazio; per adesso
non ho bisogno che delle cose che vi ho fatto chiedere; solamente mi
sarebbe grato che l’inchiostro fosse nero e la penna buona, e a questo
patto pagherei quello a prezzo di pasticcio e questa a prezzo di vino.

«Ebbene, soggiunse l’oste, darò la pietanza e la bottiglia al vostro
domestico, e così avrete per di più l’occorrente per iscrivere.

«Fate come vi pare», replicò il giovane.

Ei cominciava allora ad aver relazione con quella classe assolutamente
particolare della società, che quando v’erano dei ladri sulle strade
era con essi associata, e da quando non ve ne son più li rimpiazza.

L’oste, quieto oramai pel suo introito, posò il foglio e il calamajo, e
Raolo principiò la sua lettera.

Il locandiere era rimasto davanti a lui, e considerava con una sorta
di ammirazione quel bel volto insieme serio e dolcissimo. La bellezza è
stata sempre e sarà sempre regina.

«Questo non è un commensale come quello di poc’anzi; disse l’oste ad
Olivain che tornava presso al visconte per vedere se avesse bisogno di
nulla; il vostro padrone non ha appetito.

«Tre giorni addietro ne aveva, ma che volete? lo ha perduto da jeri
l’altro in qua».

Ed Olivain e il taverniere s’incamminarono verso la locanda, e quegli a
questo raccontava, siccome è uso dei lacchè contenti del loro impiego,
quanto credeva di poter dire relativamente al giovanetto.

Frattanto Raolo scriveva:

      «Signore,

  «Dopo quattro ore di viaggio mi fermo per iscrivervi, giacchè ad
  ogni momento sento di più la vostra assenza, e sono sempre pronto
  a girar il capo come per rispondere quando voi mi parlavate. Mi
  ha tanto stordito ed afflitto la vostra partenza e la nostra
  separazione, che debolmente vi espressi la tenerezza e la
  riconoscenza che provavo per voi. Ma mi scuserete, mentre il vostro
  cuore è assai generoso per comprendere ciò che passava nel mio.
  Scrivetemi, signore, ve ne prego, perchè i vostri consigli sono
  una parte della mia esistenza: e d’altronde, io oso dirvelo, sono
  inquieto; mi è sembrato che voi stesso vi accingeste a qualche
  gita perigliosa, su cui non vi ho interrogato una volta che non ne
  discorrevate. Sicchè ho grandissima necessità di ricevere vostre
  nuove. Dacchè non vi ho più vicino, ad ogni istante ho paura di
  mancare; voi mi sostenevate potentemente, ed oggi, ve lo giuro, mi
  trovo pur solo!

  «Vi compiacerete, se aveste notizie di Blois, di dirmi qualche
  parola sulla mia piccola amica madamigella de La Vallière, la di
  cui salute, quando noi partimmo, era in grado di dar pensiero!
  Capirete, signore, e mio caro protettore, quanto preziose,
  indispensabili mi siano le rimembranze del tempo che passai al
  vostro fianco. Spero che alcune volte penserete anche a me, e se in
  certe ore vi fo mancanza, se risentite un piccolo rincrescimento
  della mia assenza, mi ricolmerà di gioja l’idea che abbiate
  compreso il mio affetto e la mia premura per voi, e ch’io abbia
  avuta la sorte di persuadervene, mentre avevo la fortuna di vivere
  presso di voi».

Terminata la lettera, Raolo si sentì più in calma; badò attentamente
che il servo e l’oste non l’osservassero, e diede un bacio a quel
foglio, tacita e commuovente carezza cui il cuore di Athos era capace
d’immaginare nello schiudere la lettera.

Nell’intervallo Olivain avea mangiato e bevuto; anco i cavalli si erano
rinfrescati. Raolo chiamò a sè con un cenno il taverniere, gittò uno
scudo sul tavolino, saltò a cavallo, ed a Senlis mise alla posta la
carta.

Il riposo, preso ormai dagli uomini e da’ corsieri, permetteva loro
di proseguire il cammino senza trattenersi a Verberie. Raolo impose ad
Olivain di raccor notizie del giovine gentiluomo che lo precedeva. Era
esso stato veduto a passare tre quarti d’ora prima, e montato sur un
buon destriero se n’andava alla lesta.

«Procuriamo di raggiungere quel gentiluomo, disse Raolo ad Olivain, va
come noi all’armata, e ci sarà di gradevole comitiva».

Erano le quattro pomeridiane allorchè Raolo arrivò a Compiegne; vi
pranzò con ottimo appetito, e nuovamente s’informò del signore che gli
era avanti. Erasi desso fermato egualmente che Raolo all’albergo della
Campana e della Bottiglia, ch’era il migliore di Compiegne, ed aveva
proseguito il tragitto dicendo che voleva andare a pernottare a Noyon.

«Si vada a pernottare a Noyon, fece Raolo.

«Signore, rispose rispettosamente Olivain, permettetemi di farvi
osservare che questa mattina abbiamo digià stancato di molto i cavalli.
Sarebbe bene, secondo me, di dormir qui e ripartire domattina presto.
Bastano diciotto leghe per una prima tappa.

«Il signor conte di la Fère desidera ch’io mi solleciti, disse Raolo,
e che io abbia raggiunto il signor Principe nella mattinata del quarto
giorno; affrettiamoci dunque sino a Noyon, sarà una tappa simile
a quella che abbiamo fatta andando da Blois a Parigi. Arriveremo
alle otto ore. Le nostre bestie avranno la nottata per riposarsi, e
domattina alle cinque ci rimetteremo in viaggio».

Olivain non osò opporsi a questa determinazione, ma lo seguitò
brontolando.

«Andate, andate! diceva fra’ denti, sparate tutto il vostro fuoco alla
prima giornata; domani invece di venti leghe ne farete dieci; domani
l’altro cinque, e al dì successivo sarete a letto. E là vi toccherà pur
riposarvi. Tutti i giovanotti sono veri millantatori!»

Dal che si rileva come Olivain non fosse educato alla scuola dei
Planchet e dei Grimaud.

Raolo infatti si sentiva stanco; ma bramava esperimentare le proprie
forze, e pasciuto delle massime d’Athos, sicuro di averlo inteso mille
fiate a discorrere di tappe di venticinque ore, non voleva restare
inferiore al suo modello. D’Artagnan, quell’uomo ferreo che sembrava
tutto costrutto di nervi e di muscoli, gli cagionava somma ammirazione.

Andava dunque innanzi, affrettando ognor più il suo destriero non
ostante le osservazioni di Olivain, e seguitando per un bel sentiero
che conduceva a una barca ed abbreviava di una lega la strada, secondo
eragli stato assicurato, quando ecco giungendo in cima ad un colle si
vide davanti il fiume. Una piccola comitiva di uomini a cavallo ferma
sulla sponda stava pronta ad imbarcarsi. Raolo si figurò che fossero
il gentiluomo e la sua scorta; diede un grido di chiamata, ma era ancor
troppo lontano per farsi udire; allora, per quanto fosse affaticato il
suo corsiero, ei lo mise al galoppo; ma un’ondulazione di terreno tolse
in breve a’ suoi sguardi i viaggiatori, e quando egli pervenne sopra
una nuova altura, la barca aveva abbandonata la riva e remigava verso
il lido opposto.

Raolo, accortosi che non potrebbe arrivare a tempo per passare la
chiatta nel medesimo momento che i forestieri, si ristette ad attendere
Olivain.

In quel punto s’intese un urlo che sembrava si partisse dal fiume.
Raolo si volse dalla parte onde questo veniva, e, mettendosi la mano
sugli occhi abbagliati dal sole sul tramonto, esclamò:

«Olivain, che veggo laggiù?»

Fuvvi un secondo grido più penetrante del primo.

«Eh! fece il servo, la corda della barca si è rotta, e la chiatta
va alla deriva.... Ma, oh Dio! che v’è mai nell’acqua, che tanto si
dibatte?

«Oh sì! disse Raolo guardando verso un dato punto del fiume illuminato
oltremodo da’ raggi solari, un cavallo, un cavaliero!....

«Affondano! sommergono!» strillò Olivain.

Ed era vero, ed anche Raolo si accertava che fosse accaduta una
disgrazia e che uno si annegasse. Allentò la briglia al suo destriero,
gli cacciò gli sproni nella pancia, e l’animale, tormentato dal dolore
e sentitosi aperto il varco, balzò di sopra a una specie di parapetto
che contornava lo scalo, e cadde nell’acqua, mandando in lontananza
grossi flutti di spuma.

«Ah signore! urlò Olivain, che fate mai, Signore Iddio!»

Raolo guidava il suo cavallo verso il disgraziato in pericolo. Era
quello però un esercizio a cui egli era già avvezzo. Allevato sulle
rive della Loira, era stato per così dire cullato fra le sue onde;
cento volte l’aveva tragittata cavalcando, e mille a nuoto: chè
Athos, prevedendo l’epoca in cui sarebbe soldato il visconte, lo aveva
accostumato a tutte quelle imprese.

«Oh mio Dio! continuava Olivain disperato, che direbbe il signor conte
se fosse qui!

«Avrebbe fatto come fo io! rispose Raolo spingendo innanzi
vigorosamente la sua bestia.

«Ma io, ma io! strepitava Olivain pallido e dolente agitandosi sulla
riva, io come passerò?

«Salta, vigliacco!» replicò Raolo nuotando sempre.

Poi rivoltosi al viaggiatore, che si dibatteva a venti passi di
distanza da lui, gli disse:

«Coraggio, signore! coraggio! eccovi ajuto!»

Olivain avanzò, rinculò, fece impennare l’animale che aveva sotto,
e indi, punto nel cuore da vergogna, si slanciò come avea fatto il
padrone, ma ripetendo:

«Sono morto, siamo perduti!»

Frattanto la chiatta andava rapidamente, trasportata dalla corrente, e
si udivano le strida di quei ch’erano sopra.

Un uomo coi capelli grigi si era buttato giù dalla barca, e andava a
nuoto assai vigorosamente incontro a quello che affogava; ma avanzava
di poco, dovendo muover contro la corrente.

Raolo proseguiva il suo corso ed acquistava assai, ma il cavallo e
l’uomo, cui non lasciava mai d’occhio, affondavano! Il destriero non
aveva più altro che le nari fuori dell’acqua, ed il padrone, allentate
del tutto le redini, stendeva le braccia e mandava indietro la testa.
Un minuto di più, e sarebbero spariti amendue.

«Coraggio! fece Raolo, coraggio!

«Troppo tardi! balbettò il giovane, troppo tardi!»

Gli passava l’acqua di sul capo e gli estinse la voce in bocca.

Raolo si slanciò dal cavallo, a cui lasciò il pensiero di salvarsi da
sè, ed in tre o quattro bracciate fu vicino al gentiluomo. Afferrò
tosto l’animale pel barbazzale, e sollevò la testa fuor dell’acqua;
quello allora respirò più liberamente, e quasi avesse compreso che
si veniva a dargli ajuto accrebbe oltre misura i suoi sforzi. Nel
medesimo tempo Raolo pigliava una mano al giovinotto e la riportava
sulla criniera, alla quale essa si aggrappò con la tenacità del misero
ch’è presso ad annegarsi. E poi, Raolo, sicuro che il cavaliero non
lascerebbe più libera la bestia, si occupò di questa e la diresse verso
il lido.

Ad un tratto il palafreno inciampò in un basso fondo e si fermò
sull’arena.

«Salvo! gridò colui dai capelli grigi ristandosi egli pure.

«Salvo!» ripetè macchinalmente il gentiluomo, togliendo la destra di
sulla criniera e di sopra la sella calandosi fra le braccia di Raolo.

Raolo era lontano due passi e non più dalla sponda; vi portò il
viaggiatore svenuto, lo distese sull’erba, gli sciolse i cordoni del
collare e gli sfibbiò il giubbetto.

Dopo un minuto, quel tale dalla chioma bigia stavagli accanto.

Olivain, dopo essersi fatto più volte il segno della croce, era alfine
approdato, e le genti della chiatta si avviavano meglio che potessero
alla riva, ajutandosi con una pertica che per casualità si trovava
nella barca.

A poco a poco, mercè l’assistenza di Raolo e di colui che accompagnava
il giovine cavalcante, ritornò a mostrarsi la vita sulle pallide
guancie del moribondo, il quale aprì gli occhi in principio erranti e
smarriti, ma che ben presto si fissarono su colui che lo aveva salvato.

«Ah signore! esclamò, di voi cercavo! senza di voi ero morto!

«Ma si risuscita, come vedete, rispose Raolo, e tutto il male sarà di
aver fatto un bagno.

«Oh quanta gratitudine! disse l’uomo dai capelli grigi.

«Eh! siete voi, mio buon d’Arminges! vi ho fatto molta paura, non è
così? ma è colpa vostra: eravate mio precettore, perchè non mi faceste
imparare a nuotar meglio?

«Signor conte, fece il vecchio, se vi fosse accaduta una disgrazia, non
avrei osato giammai presentarmi al maresciallo.

«Ma come fu? domandò Raolo.

«Nel modo il più semplice, replicò quegli a cui erasi dato il titolo
di conte; eravamo a circa un terzo del fiume, quando si ruppe la fune.
Agli urli e ai movimenti dei barcaruoli il mio cavallo si è spaventato
ed è saltato giù. Io nuoto male e non ho ardito slanciarmi. In vece di
secondare i moti del povero animale li rendevo inutili, l’impedivo, ed
ero in procinto di affogare graziosamente, quando voi siete capitato a
puntino per trarmi fuori. Sicchè, signore, ove vogliate, fra noi da ora
innanzi sarà amicizia costante sino alla morte.

«Sono in tutto e per tutto vostro servo, ve lo accerto, disse Raolo.

«Io ho nome conte di Guiche, continuò l’altro, mio padre è il
maresciallo di Grammont. E adesso che sapete chi sono, mi accorderete
l’onore di dirmi chi voi siete?

«Io sono il visconte di Bragelonne, riprese Raolo, ed arrossiva di non
poter nominare suo padre conforme aveva fatto il signor di Guiche.

«Visconte, il vostro aspetto, la bontà vostra e il vostro coraggio
mi attraggono verso di voi; digià vi avete tutta la mia riconoscenza.
Abbracciamoci, vi chieggo la vostra amicizia.

«Signore, soggiunse Raolo rendendo al conte l’amplesso, vi amo già di
tutto cuore; quindi, fate conto su di me come sopra un amico zelante.

«Dove andate, visconte?

«All’armata del signor Principe.

«E anch’io! esclamò il gentiluomo esultante; meglio, meglio, faremo
insieme il primo sparo di pistola!

«Ottimamente, ottimamente! disse l’ajo, vogliatevi bene; giovani
tutti due, non avete di certo che una medesima stella, e dovevate
incontrarvi».

I due signorini sorrisero con la fiducia degli anni giovanili.

«Ora, seguitò l’ajo, vi conviene mutar panni; i vostri domestici, ai
quali ho dati degli ordini appena sono usciti dalla chiatta, debbono
essere digià arrivati alla locanda; e si saranno messi a scaldare
biancheria e vino. Venite».

I bei gentiluomini non avevano obiezioni da allacciare alla proposta ed
anzi la trovarono buonissima. Saltarono subito a cavallo, guardandosi e
ammirandosi scambievolmente. Erano in fatti due eleganti cavalieri, di
personale snello e alto, e volti nobili, fronte aperta, sguardo dolce
eppur altero, sorriso gentile e accorto. De Guiche poteva aver diciotto
anni, ma era poco più grande di Raolo, il quale ne aveva quindici. Si
porsero la destra con un moto spontaneo, e dando di sprone fecero l’uno
accanto all’altro il tragitto dal fiume all’albergo, quegli, stimando
buona e lieta la vita ch’era stato in procinto di perdere, questi,
ringraziando Iddio di aver vissuto già abbastanza per aver fatto
qualche cosa ch’esser dovesse gradita al suo protettore.

Olivain poi era il solo non molto soddisfatto della bellissima azione
del suo padrone. Si torceva le maniche e le falde del giustacuore,
pensando che una fermata a Compiegne gli avrebbe risparmiato non
soltanto l’accidente dal quale era egli scapolato, ma anco il mal di
petto ed i reumatismi che naturalmente dovevano resultarne.



XXXIII.

_Scaramuccia._


Fu breve la permanenza a Noyon, ed ivi tutti dormirono di sonno
profondo. Raolo aveva raccomandato che lo destassero se giungeva
Grimaud, ma Grimaud non giunse.

I cavalli dal canto loro apprezzarono senza dubbio le ott’ore di
assoluto riposo e lo strame abbondante che furon loro concessi. Il
conte di Guiche fu destato la mattina alle cinque da Raolo che venne
ad augurargli il buon giorno. Fecero colazione prestissimo, ed alle sei
avevano già fatto un pajo di leghe.

Il conversare del giovane conte era molto interessante per Raolo.
Perciò questi ascoltava attento, e quegli raccontava sempre. Di
Guiche, educato in Parigi, dove Raolo non era stato che una volta,
in corte, che Raolo non avea mai veduta, le sue scappataggini da
paggio, due duelli che avea saputo procurarsi a dispetto degli editti
e particolarmente del suo ajo, erano cose curiosissime pel visconte di
Bragelonne. Raolo non era stato se non in casa di Scarron, e nominò
a Guiche le persone da lui viste colà. Guiche le conosceva tutte, la
Neuillan, la d’Aubigné, la Scudery, la Paulet, la Chevreuse; le burlò
quasi tutte col massimo spirito, e Raolo temeva che burlasse anche
madama di Chevreuse, per cui egli nudriva vera e profonda simpatia; ma,
o fosse per istinto, o per affetto verso la duchessa, ei ne disse molto
bene, e da cotali elogi si accrebbe per lui l’amicizia di Raolo.

Venne poi il capitolo delle galanterie e degli amori. Su questo
rapporto pure Bragelonne aveva assai più da ascoltare che da
discorrere, e così fece, e fra tre o quattro avventure, che diremmo un
po’ trasparenti, gli sembrò di distinguere che il conte avesse in cuore
a pari di lui un’occulta passione.

Di Guiche, secondo noi accennammo, era stato allevato in corte, e di
questa conosceva tutti gli intrighi. Era la corte di cui Raolo aveva
inteso a parlare dal conte di la Fère, se non che aveva mutato faccia
moltissimo dall’epoca stessa in cui Athos l’aveva veduta. Talchè tutta
la narrazione di Guiche fu cosa nuova pel suo compagno di viaggio.
Il contino, spiritoso e maldicente, passò in rivista tutti quanti;
dettagliò gli antichi amori di madama di Longueville con Coligny, il
duello di questo sulla Piazza Reale, che gli fu sì funesto, e che la
Longueville contemplava di dietro alle persiane; e i di lei nuovi amori
col principe di Marsillac, che, a quanto dicevasi, era tanto geloso
da voler far ammazzare una quantità di gente, ed anco il d’Herblay;
gli amori del signor principe di Galles con Madamigella, la quale in
appresso fu chiamata la Grande Madamigella, tanto celebre dappoi pel
suo matrimonio segreto con Lauzun; neppur fu risparmiata la regina, e
toccò la sua parte anche al ministro Mazzarino.

La giornata passò rapida come un’ora. L’ajo del conte, uomo di mondo,
alla buona, sapientissimo fino ai denti (conforme diceva l’alunno),
rammentò varie volte a Raolo la somma erudizione e le graziose e
pungenti ironie di Athos; ma per la delicatezza e la nobiltà delle
maniere nessuno poteva stare a confronto col signor di la Fère.

I cavalli, strapazzati meno del dì precedente, si fermarono vergo le
quattro pomeridiane ad Arras. Si avvicinavano al teatro della guerra, e
fu risoluto di trattenersi in quella città sino all’indomani, perocchè
alcune brigate di Spagnuoli profittavano spesse fiate della notte per
far delle corse sino nei dintorni di Arras.

L’armata francese occupava da Pont-à-Marc sino a Valenciennes
ritornando sopra Douai. Si diceva che il signor Principe fosse in
persona a Bethune.

L’armata nemica si estendeva da Cassel a Courtray; e siccome commetteva
ogni sorta di violenze e di saccheggio, le povere genti delle frontiere
abbandonarono le proprie abitazioni isolate venendo a rifugiarsi
nelle città forti che promettevano loro un asilo. Arras era piena di
fuggiaschi.

Si parlava di una prossima battaglia, la quale esser doveva
decisiva, avendo il signor Principe manovrato fino allora soltanto
nell’aspettativa dei rinforzi che alla fine erano giunti. I nostri
giovanotti si rallegravano di esser capitati così a puntino.

Cenarono insieme e dormirono nella stessa camera. Erano nell’età delle
pronte amicizie, e a lor pareva di conoscersi sin dalla nascita e di
non potersi lasciare mai più.

S’impiegò la serata a discorrere di guerra; i servidori forbirono le
armi; i padroni caricarono le pistole pel caso di qualche scaramuccia,
e alla domane si destarono smaniosi perchè ambedue si erano sognati che
arrivavano troppo tardi per prender parte alla battaglia.

Nella mattina si sparse la voce che il principe di Condé avesse
evacuata Bethune per ritirarsi a Carvin, lasciando però guarnigione
nella prima di queste città; ma siccome codesta notizia nulla
presentava di positivo, i due giovani risolsero di continuare il loro
cammino verso Bethune, salvo a voltare a diritta viaggio facendo e
dirigersi poi a Carvin.

L’ajo del conte di Guiche conosceva perfettamente il paese; in
conseguenza ei propose di pigliare una scorciatoia ch’era in mezzo fra
la via di Lens e quella di Bethune. Ad Ablain si ricercherebbero le
informazioni opportune. Per Grimaud fu lasciato un itinerario.

La partenza ebbe luogo intorno alle sette della mattina.

Guiche, piuttosto caldo, diceva a Raolo:

«Eccoci in tre padroni e tre servi; i nostri servi sono ben armati, ed
il vostro mi sembra deciso.

«Non l’ho mai veduto all’opra, rispose Raolo, ma è Bretone, e ciò
promette assai.

«Sì, sì, e son certo che all’occasione tirerebbe la sua schioppettata.
Io per me ho due uomini sicuri che hanno guerreggiato con mio padre;
talchè insieme rappresentiamo sei combattenti. Se trovassimo una
piccola truppa di partigiani uguale per numero alla nostra ed anco
superiore, forse non faremmo una scarica?

«Sì, signore, rispose il visconte.

«Olà, giovanotti! disse l’ajo immischiandosi nella conversazione,
cospetto! come andate alla lesta! e le mie istruzioni, signor conte? vi
dimenticate che ho l’ordine di condurvi sano e salvo presso al signor
Principe? Una volta che sarete all’armata, fatevi ammazzare se così
vi piace, ma di qua a là vi prevengo che nella mia qualità di generale
d’esercito comando la ritirata e volto le spalle al primo spennacchio
che vedo».

Di Guiche e Bragelonne si guardarono sott’occhi e sorridendo. Tratto
tratto s’incontravano piccole comitive che si ritiravano mandando
avanti i loro bestiami, e trascinando nelle carrette o portando a
braccia le lor robe più preziose.

Si giunse senza disgrazie sino ad Ablain. Ivi si cercarono notizie, e
si seppe che il signor Principe aveva realmente abbandonato Bethune
e se ne stava fra Cambrin e la Venthie. Allora si riprese, sempre
lasciando a Grimaud la sua carta, una scorciatoja che in mezz’ora
mise la piccola compagnia sulla sponda di un ruscelletto il quale va a
gettarsi nella Lys.

Era un’amena contrada, troncata da belle valli verdi al pari dello
smeraldo. Di quando in quando si trovavano piccoli boschi traversati
dal sentiero su cui si andava. Ad ognuno di que’ boschi, in previsione
di qualche imboscata l’ajo faceva ire innanzi i lacchè del conte
che così formavano la vanguardia. L’ajo stesso e i due signorini
rappresentavano il corpo d’armata, ed Olivain con la carabina sul
ginocchio e gli occhi attenti invigilava da tergo.

Da un poco di tempo si scorgeva all’orizzonte una folta macchia.
Il signor d’Arminges, pervenuto che fu a distanza di cento passi
da quella, prese le sue precauzioni consuete, e mandò avanti i due
domestici di Guiche.

Costoro dunque erano spariti sotto gli alberi; i due amici e il
precettore, ciarlando e scherzando, li seguitavano da un centinaio
di passi indietro. Olivain si manteneva a tergo ad ugual lontananza,
quando ecco in un subito udirsi cinque o sei spari di moschetto. L’ajo
gridò di far alto; i gentiluomini obbedirono e fermarono i cavalli. E
nel medesimo momento si videro tornare indietro i due servi.

Guiche e Raolo, impazienti di conoscere la causa di quella fucilata,
diedero di sprone per andar verso i domestici. D’Arminges correva
appresso.

«Siete stati arrestati? domandarono con impeto il contino e il visconte.

«No, risposero i lacchè, è anzi probabile che nessuno ci abbia visti;
gli spari hanno avuto luogo da cento passi più innanzi di noi, nel più
folto della macchia, e siamo venuti in qua per domandar consiglio.

«Il mio consiglio, ed in caso di bisogno la mia volontà, fece il signor
d’Arminges, si è di batter la ritirata; in questo bosco può celarsi un
agguato.

«Dunque nulla avete veduto? chiese il conte ai suoi famigli.

«Mi è sembrato, rispose uno di costoro, di scorgere due cavalieri
vestiti di giallo che scorrevano giù nel letto del ruscello.

«Così è! disse l’ajo, siamo caduti in una banda di Spagnuoli. Indietro,
signori!»

I due giovani si consultarono con uno sguardo furtivo, e nell’istante
si udì una pistolettata e tre o quattro grida che chiamavano ajuto.

Guiche e Bragelonne con un’altra occhiata fra loro ricambiata si
accertarono che ognun di loro fosse nell’intenzione di non retrocedere,
e siccome l’ajo aveva già fatto voltare il suo cavallo, si slanciarono
avanti, urlando, Raolo: «Qua, Olivain, a me!» e il conte di Guiche:
«Qua a me, Urbano e Blanchet!»

E prima che il precettore si fosse calmato dall’estremo stupore, erano
già spariti nella selva.

Nell’atto che cacciavano gli sproni nel ventre ai palafreni impugnavano
le pistole.

A capo a cinque minuti furono sul sito d’onde pareva fosse venuto il
rumore. Allora cominciarono ad inoltrarsi più adagio e cautamente.

«Zitto! disse di Guiche, gente a cavallo!

«Sì, tre a cavallo, e tre smontati.

«Che fanno? lo vedete?

«Sì, direi che frugassero addosso ad un morto o ferito.

«Qualche vile assassinio!

«Eppure son soldati, fece Bragelonne.

«Ma partigiani, cioè ladroni.

«Tiriamo! disse Raolo.

«Tiriamo! ripetè di Guiche.

«Signori! esclamò l’ajo, in nome del cielo!....»

Ma quelli non gli davano retta; si erano già mossi a gara, e gli urli
di d’Arminges non ebbero altro resultato che di far mettere all’erta
gli Spagnuoli.

Tosto i tre cavalcanti si scagliarono ad incontrare i due nostri
gentiluomini, mentre gli altri tre a piedi terminavano di spogliare i
due viaggiatori.

Che in vece di un corpo disteso in terra ve n’erano due.

A distanza, di Guiche sparò pel primo, ma non colse l’uomo a cui
mirava. Lo Spagnuolo che facevasi innanzi a Raolo sparò esso pure, e
Raolo si sentì al braccio sinistro un dolore simile a quello di una
frustata. Mandò egli la botta, e lo Spagnuolo, preso in mezzo al petto,
stese le braccia e cadde supino sulla groppa del suo destriero, che,
vinta la mano, girò da una parte e lo trasportò via.

Nel momento Raolo vide come a traverso a un nuvolo la canna di
un moschetto che su di lui dirigevasi. Gli tornò in mente la
raccomandazione di Athos, e con un moto rapido quanto il baleno fece
impennare il suo animale e scoccò la botta.

Il cavallo fece un balzo, mancò dalle quattro zampe, e cascò
imbarazzando sotto di sè la gamba di Raolo.

Lo Spagnuolo si slanciò afferrando lo schioppo dalla canna onde rompere
col calcio la testa a Bragelonne.

Disgraziatamente, Raolo, nella sua situazione, non poteva levare la
spada dal fodero, nè la pistola dalle saccoccie della sella; vide il
calcio del fucile che gli stava più su del capo, e a suo malgrado era
per chiuder gli occhi, ma di Guiche arrivò in un balzo addosso allo
Spagnuolo e gli mise la pistola alla gola.

«Arrendetevi! gli disse, o siete morto!»

Al soldato scivolò di mano il moschetto, ed ei si arrese.

Guiche, chiamato uno dei suoi domestici, gli affidò la custodia del
prigioniero, con ordine di abbruciargli il cervello se facesse il
minimo atto onde fuggire; smontò sollecito e si accostò a Raolo.

«Affè, signor mio, gli disse Raolo ridendo, benchè nella sua pallidezza
s’appalesasse la commozione inevitabile di un primo fatto; voi pagate
prestissimo i vostri debiti, e non avete voluto restarmi obbligato
per un pezzo. Senza di voi ero morto! aggiunse ripetendo le parole del
conte.

«Il mio nemico, fuggendo, replicò di Guiche, mi ha data ogni facilità
di venirvi a soccorrere. Siete ferito gravemente? vi veggo tutto
insanguinato!

«Credo, rispose Raolo, di avere al braccio come uno sgraffio. Ajutatemi
dunque a cavarmi di sotto al cavallo, e spero, che non vi sarà
impedimento a che si continui il nostro viaggio».

Il signor d’Arminges ed Olivain erano digià a terra, e sollevavano il
corsiero, il quale si dibatteva nell’agonia. Raolo riuscì a trarre il
piede dalla staffa e la gamba di sotto all’animale, ed in un attimo si
trovò ritto.

«Nulla di rotto? chiese di Guiche.

«No, grazie al cielo.... Ma che n’è stato dei disgraziati che quei
manigoldi assassinavano?

«Siamo arrivati troppo tardi, gli hanno uccisi, secondo me, e sono
scappati portando seco il loro bottino; i miei due servi sono accanto
ai cadaveri.

«Andiamo a vedere se sono veramente morti o se si potesse dar loro
assistenza, disse Raolo; Olivain, abbiamo ereditato due cavalli, ma io
ho perduto il mio; prendete il migliore dei due per voi, e date a me
l’altro».

E si appressarono al luogo ove giacevano le due vittime.



XXXIV.

_Il supposto monaco._


Stavano stesi due uomini, uno immobile, in terra bocconi, trafitto da
tre palle, in un botro di sangue. Quegli era morto.

L’altro appoggiato al tronco di un albero dai due lacchè, levando gli
occhi al cielo e a mani giunte, faceva una caldissima preghiera. Da una
palla eragli stata rotta la parte superiore della coscia.

I giovani avvicinatisi prima all’estinto, si guardarono attoniti.

«È un prete; disse Bragelonne. Oh! maladetti! che portano le mani sui
ministri di Dio!

«Venite qui, signore, disse Urbano, vecchio soldato che aveva fatte
tutte le campagne col duca, venite qui; con quello nulla v’è da far
più, mentre si può forse tuttora salvar questo».

Il ferito diede un mesto sorriso.

«Salvarmi!.... fece, oh no! ma ajutarmi a morire sì.

«Siete prete? domandò Raolo.

«No, signore.

«Ma il vostro infelice compagno mi è sembrato un ecclesiastico.

«È il curato di Bethune; recava in luogo sicuro i vasi sacri della
sua chiesa e il tesoro del capitolo, perchè jeri il signor Principe
abbandonò la nostra città e domani probabilmente vi sarà lo Spagnuolo.
E siccome si sapeva che delle brigate nemiche percorrevano la campagna,
e la gita era pericolosa, nessuno ha voluto accompagnarlo, e mi sono
offerto io.

«E gli sciagurati vi hanno assaliti! e hanno tirato ad un sacerdote!

«Signori, seguitò il meschino osservandosi attorno, soffro di molto,
eppure bramerei essere trasportato in qualche casa....

«Ove possiate aver assistenza, lo interruppe di Guiche.

«No, ma ove possa confessarmi.

«Ma v’è caso, soggiunse Raolo, che non siate in sì gran rischio quanto
credete.

«Eh! date retta a me, non v’è tempo da perdere; la palla ha rotto
l’osso della coscia e penetrato sino agl’intestini.

«Siete medico? domandò il conte.

«No, ma m’intendo un poco di ferite, e la mia è mortale, procurate
perciò di trasportarmi in luogo ove mi sia dato di trovare un prete, o
pigliatevi l’incomodo di condurmene uno qui, e Dio vi premierà per così
santa azione; bisogna salvarmi l’anima, chè il corpo è perduto.

«Oh! morire facendo un’opera buona, non può essere: Iddio vi assisterà.

«Signori, in nome del cielo, disse l’infelice raccogliendo tutte le
sue forze come per alzarsi, non ispendiamo tempo in parole inutili; o
ajutatemi ad arrivar al prossimo villaggio, o giuratemi sulla salute
dell’anima vostra che mi manderete qui il primo monaco, il primo
curato, il primo prete che incontrate.... Ma (continuava nel massimo
tuono di disperazione) forse nessuno oserà venire, perchè si dice che
gli Spagnuoli girano per la campagna, ed io morrò senza assoluzione....
Mio Dio! mio Dio!.... non permetterete questo, non è vero? sarebbe
troppo terribile!»

L’accento di terrore con cui quell’uomo mandava quest’ultima
esclamazione fece raccapricciare i due giovanetti.

«Quietatevi, disse di Guiche, io vi giuro che avrete fra poco la
consolazione da voi domandata. Diteci soltanto dov’è una abitazione in
cui possiamo chiedere soccorso, ed un villaggio ove si possa andar in
cerca di un ecclesiastico.

«Grazie, e Iddio vi ricompensi! v’è una locanda distante di qui mezza
lega prendendo giù per questa strada, e una lega circa dopo la locanda
è il villaggio di Grency. Andate dal curato; s’esso non è in casa,
entrate nel convento degli Agostiniani, che è l’ultimo stabile a man
diritta, e inviatemi uno, frate o prete, purchè abbia ricevuta dalla
nostra Santa Chiesa la facoltà di assolvere in _articulo mortis_.

«Signor d’Arminges, disse di Guiche, trattenetevi presso questo
sventurato e fate che sia trasportato adagio adagio; formate una
barella con dei rami d’albero; metteteci tutti i nostri ferrajuoli;
due dei nostri lacchè la sosterranno ed uno starà pronto a subentrare a
quello che primo sia stanco. Il visconte ed io andiamo in traccia di un
sacerdote.

«Andate, rispose l’ajo, ma per carità, non vi esponete!

«Non dubitate. E poi, per oggi siamo salvi: conoscete pure l’assioma:
_Non bis in eodem_.

«Coraggio, signore! disse Bragelonne al ferito, si va ad eseguire la
vostra brama.

«Dio vi benedica, signori! fece l’infermo con espressione indicibile di
gratitudine».

E i due gentiluomini si partirono di galoppo nella direzione indicata,
frattanto che il precettore del conte di Guiche presiedeva alla
formazione della bara.

In dieci minuti i giovanetti distinsero l’albergo.

Raolo, senza scendere da cavallo, chiamò l’oste, lo avvertì che sarebbe
condotto là a momenti un ferito, e lo pregò di apparecchiare quanto
poteva abbisognare alla medicatura, cioè il letto, le fascie, le
fila, invitandolo inoltre, qualora conoscesse nelle vicinanze qualche
dottore o chirurgo, a mandarlo a cercare, assumendo egli di pagare il
messaggiero.

Il locandiere che vide due signori vestiti con isfarzo, promise tutto
ciò che gli chiesero, e i nostri due cavalieri, dopo aver assistito ai
preparativi del ricevimento se ne andarono da capo solleciti inverso
Grency.

Avevano fatto più di una lega e scorgevano già le prime abitazioni
del villaggio, i di cui tetti coperti da tegoli rossicci spiccavano
fortemente in fra i verdi alberi che le circondavano, quando ecco
venire incontro a loro sopra una mula un povero monaco, che dal
cappellone largo e dalla giubba di lana bigia si ebbero tosto per un
fratello Agostiniano. E questa volta pareva che il caso mandasse ad
essi ciò che volevano.

Si appressarono al religioso.

Era un tale da venti a ventitrè anni, ma dalle pratiche ascetiche in
apparenza invecchiato. Era pallido, non già di quel colore smorto che
è anco una bellezza, ma di un giallo bilioso; i suoi capelli corti
oltrepassando appena il cerchio che il cappello gli segnava attorno
alla fronte, erano di un biondo chiaro, e le pupille di un lievissimo
color cilestro sembravano prive dello sguardo.

«Signore, disse Raolo con la consueta cortesia, siete ecclesiastico?

«Perchè questa domanda? fece l’altro con indifferenza poco men che
incivile.

«Per saperlo, ribattè con alterigia de Guiche».

Lo straniero picchiò col calcagno la mula e continuò pel suo viaggio.

Di Guiche in un salto gli fu davanti a impedirgli il passo.

«Rispondete! siete stato interrogato pulitamente, e a qualunque domanda
conviensi una risposta.

«Suppongo di esser libero di dire o no chi io mi sia alle due prime
persone che mi capitano col ghiribizzo d’interrogarmi».

Di Guiche stentò a frenarsi dall’estrema volontà venutagli di romper le
ossa a colui; e procurando vincere sè stesso, gli disse:

«Già noi non siamo _le prime persone che capitino_; questo mio amico è
il visconte di Bragelonne, ed io sono il conte Guiche. Poi, non è per
_ghiribizzo_ che vi facciamo la nostra richiesta, poichè là v’è un uomo
ferito, moribondo, che reclama i soccorsi della Chiesa. Siete prete?
in nome dell’umanità, io v’intimo di venir meco in soccorso a quel
tale; non lo siete? Oh! allora è tutt’altro, ed in nome della cortesia,
che tanto mi pare a voi ignota, vi avverto che saprò gastigarvi della
vostra insolenza».

Il monaco diventò in viso paonazzo, e sorrise in modo così strano, che
Raolo, il quale non lo perdeva di vista, sentì quel sorriso premergli
il cuore alla guisa di un insulto.

«Dev’essere qualche spione spagnuolo o fiammingo, e’ disse ponendo mano
alle pistole».

A Raolo rispose uno sguardo minaccioso e simile a un baleno.

«Ebbene? fece di Guiche, rispondete sì o no?

«Sono prete, replicò l’altro».

E nel volto assunse di nuovo la solita sua calma.

«Allora, o padre, soggiunse Bragelonne, rimesse le pistole nelle
tasche e data alla sua favella un accento rispettoso, che però non
veniva dal cuore, allora, troverete adesso, se siete prete, secondo
vi ha accennato il mio amico, la occasione di esercitare la vostra
professione; viene verso noi un infelice ferito e deve fermarsi alla
vicina locanda; domanda l’assistenza di un ministro di Dio, e lo
accompagnano i nostri servi.

«Vado sull’atto, disse il monaco».

E coi tacchi delle scarpe picchiava la mula.

«Se mai non vi andaste, gli replicò di Guiche, state pure persuaso
che abbiamo cavalli capaci di raggiungervi, tanto credito da farvi
arrestare dovunque siate, e presto sarà deciso il processo: da per
tutto si trovano un albero ed una corda».

Il monaco ripetè.

«Vado sull’atto».

E s’incamminò.

«Seguitiamolo, propose di Guiche, saremo più sicuri.

«Volevo suggerirvelo, disse Bragelonne».

Ed entrambi si avviarono seguitando il frate a un tiro di pistola.

Indi a cinque minuti quegli si volse a guardare se lo seguivano.

«Che vi pare? fece Raolo, abbiamo fatto bene.

«Che brutta faccia ha egli mai! disse il contino.

«Orribile! e specialmente la fisonomia!.... i capelli, gli occhi
foschi, le labbra che si contraggono alle minime sue parole.

«Sì, sì, replicò di Guiche, il quale era stato meno a badare a quelle
circostanze poichè egli chiaccherava mentre Raolo durava ad osservare,
sì, è una figura stranissima; ma questi frati sono soggetti a tali
pratiche, a tali digiuni, a tai colpi di disciplina, che a forza di
piangere i beni della vita per loro perduti e di cui noi godiamo, e’ si
guastano gli occhi.

«In conclusione, seguitò Raolo, questo pover’uomo avrà il prete, ma in
verità il penitente mi ha miglior aspetto che il confessore.

«Ah! disse di Guiche, non capite che questo è uno di quei fratelli
mendicanti che girano in qua o in là? sono forestieri, la maggior parte
Scozzesi, Danesi, Irlandesi. Ne ho visti parecchi!

«Così macilenti?

«No, ma all’incirca.

«E il misero ferito morrà fra le mani di quest’uomo?

«Mio caro, l’assoluzione viene da Dio stesso.... oh! in quanto a colui
vi vedevo bene toccare il pomo della pistola quasi aveste voglia di
spaccargli il cranio.

«È vero, conte; è singolare, e vi sorprenderà, ma all’aspetto di
quell’uomo ho provato un tale orrore da non potersi definire. Vi è
accaduto per la via di far muovere un serpente?

«Mai, fece Guiche.

«Ebbene, a me codesto è successo nelle nostre macchie del Blaisois, e
mi ricordo che all’aspetto del primo che mi guardava con occhio fosco,
ripiegatosi sopra di sè, scuotendo il capo ed agitando la lingua,
rimasi pallido e fermo, e come esanime sino al punto in cui il conte di
la Fère....

«Vostro padre? domandò di Guiche.

«No, il mio tutore, rispose Raolo».

Ed arrossiva.

«Benone!

«Sino al punto in cui il conte di la Fère mi disse: — Animo,
Bragelonne, sguainate! — Allora poi corsi contro al rettile, e lo
troncai in due pezzi mentre si rizzava sulla coda per venirmi egli
stesso dinanzi. Ecco, vi giuro, che provai la medesima sensazione al
mirare quell’uomo quando pronunziò: — E perchè tal domanda? — e mi
osservò fisso in volto.

«Sicchè vi duole di non averlo ridotto in due brani come il serpe?

«Direi quasi di sì, confermò Bragelonne».

La comitiva arrivava alle viste della piccola locanda, e dall’altro
lato si scorgeva l’accompagnamento del ferito che s’inoltrava guidato
dal signor d’Arminges. Due uomini portavano il moribondo, e conducevano
a mano i cavalli.

I giovanetti diedero di sprone.

«Ecco il ferito, disse di Guiche passando accanto al creduto frate
Agostiniano, abbiate la bontà di sollecitarvi».

Allora i due amici precederono il monaco anzi che essergli dietro. Si
accostarono all’infermo ad annunziargli sì buona notizia. Questi si
sollevò alquanto a guardare nella direzione indicatagli, e adocchiato
quei che supponeva un religioso, e che veniva, ricadde supino con un
raggio di allegrezza nel sembiante.

«Adesso, dissero i due gentiluomini, abbiamo fatto per voi tutto quel
che potevamo, e siccome abbiamo premura di riunirci all’armata del
signor Principe, proseguiremo il nostro viaggio; ci scuserete signore?
si dice che vi debba essere una battaglia, e non vorremmo arrivare un
giorno dopo.

«Andate signori, replicò l’ammalato e siate benedetti tutti due di
tanta vostra pietà; realmente, e come dite, per me faceste quanto era
in vostro potere; io non posso altro che dirvi anco una volta: Dio vi
conservi, e voi e quelli che vi son cari!

«Signor d’Arminges, avvertì il conte di Guiche, noi andiamo innanzi; ci
raggiungerete sulla strada di Cambrin».

L’oste stava sul portone, ed aveva apparecchiato tutto, e letto e
fascie e fila; ed un palafreniere era ito per un medico a Lens, città
la più prossima.

«Non ci pensate, disse il locandiere, sarà eseguito il vostro
desiderio; ma voi signore, non vi trattenete a far curare la vostra
ferita?

«Oh! la mia è un nulla, rispose il visconte, ed avrò tempo di
occuparmene alla prima fermata. Soltanto favorite se vedete passare
un cavalcante, e se questo vi domanda di un giovane che va sopra
un cavallo sauro accompagnato da un lacchè, dirgli che mi avete
veduto, che ho continuato il mio cammino, e mi propongo di pranzare a
Mazingarbe e pernottare a Chambrin; quegli è un mio servitore.

«Non sarebbe meglio e per maggior sicurezza, fece l’oste, che io gli
domandassi il suo nome e gli dicessi il vostro?

«Non v’è male ad usar troppe precauzioni: mi chiamo visconte di
Bragelonne, ed egli Grimaud».

Nel momento arrivavano da una parte l’infermo e dall’altra il monaco.
I due giovani si trassero indietro a lasciar passare la barella. Colui
smontava dalla mula e ordinava la si portasse alla stalla senza levarle
la sella.

«Padre, disse Guiche, vi raccomandiamo quel buon uomo, e in quanto alla
vostra spesa qui alla locanda è tutta pagata.

«Grazie, signore, ribattè il religioso con un altro di quei sorrisi che
aveano fatto raccapricciare Bragelonne.

«Venite, conte, seguitò Raolo che pareva per istinto non potesse
sopportare la presenza del frate, qui non mi sento bene.

«Grazie! ripetè il ferito, e non vi scordate di me nelle vostre
orazioni.

«Contateci pure», promise Guiche avviandosi appresso a Bragelonne, che
era avanti di una ventina di passi.

In quell’istante entrava in casa la barella recata dai due domestici.
L’oste e la moglie, accorsi subito, stavano ritti sui gradini della
scala. Il ferito mostrava patire doglie atroci, e non avere bensì altro
pensiero che di sapere se il sacerdote lo seguiva.

Adocchiato quell’uomo pallido e insanguinato, la donna afferrò con
impeto pel braccio il marito:

«Che c’è? chiese costui, ti senti male, per combinazione?

«No, ma guarda!»

E la locandiera accennava l’ammalato al consorte.

«Veh, fece questo, e’ mi pare aggravato.

«Non è questo, riprese la moglie tremando, ti domando se lo riconosci.

«Lui?.... ma aspetta un po!....

«Ah! capisco che lo riconosci, poichè anche tu diventi giallo.

«Davvero! esclamò l’oste, guai alla nostra casa! guai! gli è l’antico
boja di Bethune!

«L’antico boja di Bethune! borbottò il fraticello retrocedendo alquanto
e dando indizio alla faccia della ripugnanza che gli ispirava il suo
penitente.

D’Arminges che rimaneva accanto all’uscio si accorse della sua
titubanza.

«Signore, disse, benchè sia, o sia stato carnefice, per questo non
cessa d’essere un uomo. Rendetegli l’ultimo ufficio che da voi reclama,
e l’opera vostra sarà anco più meritoria».

Il religioso non parlò, ma andò in silenzio verso la camera a terreno
dove i due servi aveano messo il moribondo sur un letto.

I lacchè, vedendo appressarsi il ministro, uscirono e chiusero la porta.

D’Arminges ed Olivain gli attendevano; saltarono a cavallo, e tutti
quattro corsero via di trotto per la medesima strada alla fine della
quale erano spariti Raolo ed il suo compagno.

Nel punto in cui se ne andavano l’ajo e la sua scorta, si fermò un
nuovo viaggiatore all’ingresso dell’albergo.

«Che comanda il signore? domandò l’oste tuttavia pallido e sconcertato
per la scoperta da lui fatta.

Il forestiero fece il cenno di uno che beva, e smontato ammiccò il suo
cavallo facendo il cenno di uno che striglia.

«Oh diamine! disse il locandiere fra sè, pare che questo sia mutolo! E
dove volete bere! lo richiese.

«Qui, disse lo straniero indicando una tavola.

«Avevo sbagliato, si riprese l’oste, non è muto del tutto».

E fe’ una riverenza, e andò a pigliare una bottiglia di vino e dei
biscotti, e li mise davanti all’ospite suo taciturno.

«Vossignoria non comanda altro?

«Sì.

«Che cosa?

«Sapere se avete veduto passare un giovane gentiluomo di quindici anni
sopra un caval sauro, seguito da un lacchè.

«Il visconte di Bragelonne?

«Per l’appunto.

«Dunque siete voi il signor Grimaud?»

Il forestiero ammiccò di sì.

«Ebbene! il vostro padroncino era qui un quarto d’ora fa; pranzerà a
Mazingarde, e pernotterà a Cambrin.

«Quanto c’è da qui a Mazingarde?

«Due leghe e mezza.

«Grazie».

Grimaud, sicuro d’incontrare verso sera il suo padrone, parve più
quieto, si asciugò la fronte mescendosi un bicchier di vino che trincò
senza fiatare.

Aveva posato il bicchiere sul tavolino e si disponeva a riempirlo,
quando si partì un grido terribile dalla camera ov’erano il monaco e il
moribondo.

Grimaud si alzò in un istante.

«Che roba è? di dove viene quest’urlo?

«Dalla stanza del ferito, disse l’oste.

«Che ferito? domandò Grimaud.

«L’antico boia di Bethune, ch’è stato assassinato da alcuni partigiani
spagnuoli e portato qui, e adesso si confessa.... sembra che patisca di
molto.

«Boia di Bethune! fece Grimaud procurando di ricordarsi, un uomo di
cinquantacinque o sessant’anni, alto, robusto, bruno, di capelli e
barba nera?

«Giusto! salvo che la barba dà sul bigio e i capelli son diventati
bianchi. Lo conoscete?

«L’ho visto una volta».

Ed a Grimaud si aggrinzò la fronte pel quadro che gli presentava una
tale reminiscenza.

La donna era corsa tremando.

«Hai inteso? disse al marito.

«Sì», rispose questi, osservando dalla parte dell’uscio.

Tosto si udì un grido meno forte del primo, ma succeduto da un lungo
gemito.

I tre si guardarono rabbrividiti.

«Bisogna vedere che cosa v’è, disse Grimaud.

«Pare un urlo di qualcuno che si ammazzi! borbottò l’oste.

«Gesù!» fece la moglie, e si faceva il segno della croce.

Noi sappiamo che Grimaud, se parlava poco, agiva assai. Si slanciò
verso la porta e la scosse con violenza; ma ella era chiusa per di
dentro con un chiavistello.

«Aprite! strillò il locandiere, signor monaco, aprite subito!»

Nessuno rispose.

«Aprite, o che sfondo!» strepitò Grimaud.

Uguale silenzio.

Grimaud girò gli occhi attorno, e scorse un palo di ferro che per
casualità si trovava in un canto; l’afferrò, e prima che l’albergatore
avesse potuto opporsi al suo disegno, la porta era rotta.

La camera era inondata dal sangue che passava tra le materasse. Il
ferito non parlava, ma mandava un tristo rantolo. Il frate non v’era
più.

«Il monaco? gridò il taverniere, dov’è? dov’è?»

Grimaud si affacciò ad una finestra che dava sul cortile ed esclamò:

«Sarà scappato di là!

«Credete? così fece l’oste spaventato. Cameriere, mirate se almeno la
mula è nella stalla.

«Niente mula!» urlò quello a cui era diretta la domanda.

Grimaud aggrottò le ciglia. Il locandiere, a mani giunte, volgeva
attorno gli occhi con sospetto. La consorte, non avendo osato
d’entrare, se ne stava zitta e sbigottita sulla soglia.

Grimaud si appressò al ferito, esaminando quelle fattezze grossolane e
marcate che gli riproducevano tremende ricordanze.

E dopo un momento di truce e tacita contemplazione egli disse:

«Non v’è più dubbio! è desso!

«E sempre vivo? chiese l’oste»

Grimaud, senza replicare, gli sfibbiò la sottoveste per tastargli
il cuore mentre il locandiere pure si avvicinava. Però ad un tratto
rinculavano ambedue, l’oste con un grido di paura, Grimaud impallidito.

La lama del pugnale era cacciata sino all’elsa dalla parte sinistra del
petto del carnefice.

«Correte a cercare ajuto! disse Grimaud, io resterò presso di lui».

L’oste uscì di camera fuori di sè. La moglie era giù scappata udendo
l’urlo dello sposo.



XXXV.

_Colloquio segreto._


Ecco ciò ch’era avvenuto.

Noi già vedemmo che non per sua volontà, ma anzi a mal in cuore, il
soggetto qualificatosi per monaco seguitava il ferito raccomandatogli
in modo tanto singolare; chi sa che non avesse tentato di fuggire ove
gli fosse riuscito possibile? Ma le minacce dei due gentiluomini,
la scorta rimasta indietro ad essi, e che di sicuro avea ricevute
loro istruzioni, e finalmente per dirle tutte, anco la riflessione,
lo aveano indotto a far sino all’ultimo, senza mostrare troppa
contrarietà, la parte da lui assunta di confessore, ed entrato oramai
in camera si accostò al letto dell’ammalato.

Il boia esaminò, con l’occhiata rapida ch’è particolare a quelli che
stanno per morire e in conseguenza non han tempo da perdere, la faccia
di colui ch’esser doveva il suo consolatore; fece un atto di sorpresa,
e disse, come avesse un presentimento:

«Padre, siete molto giovane.

«Non v’è età per le genti che indossano vesti simili alle mie,
aspramente rispose il frate.

«Ohimè! padre, parlatemi con più dolcezza, ho bisogno di un amico nelle
ore estreme.

«Patite di molto?

«Sì, ma assai più dell’anima che del corpo.

«Vi salveremo l’anima.... ma prima di entrare in confessione, ditemi:
siete realmente il carnefice di Bethune come dicevano quelli di fuori?

«Cioè, fece con impeto il ferito, il qual temeva che il titolo di
carnefice allontanasse da lui gli ultimi soccorsi che reclamava, cioè
lo fui, ma non lo sono più; da quindici anni ho ceduto il mio impiego.
Figuro sempre nelle esecuzioni, ma non do il colpo io, oh no!

«Sicchè, avete orrore del vostro mestiere?»

L’infermo diede un sospiro.

«Sino a tanto che non uccisi se non in nome della legge e della
giustizia, il mio mestiere mi lasciò dormir quieto, protetto com’ero
dalla giustizia e dalla legge; ma dalla terribil notte in cui servii
di stromento a una vendetta particolare e con odio levai la spada sopra
una creatura di Dio, da quel punto....»

Il boia si tacque muovendo il capo in atto di disperazione.

«Parlate, disse l’altro che si era assiso e cominciava a pigliare
interesse a un racconto che si annunziava in maniera così strana.

«Ah! esclamò il moribondo con lo slancio di un dolore per lungo tempo
frenato, e che termina con isfogarsi, eppure ho procurato di estinguere
questo rimorso mediante venti anni di opere buone; mi sono spogliato
della ferocia naturale a quelli che spargono il sangue; in tutte
le occasioni ho esposta la mia vita per salvarla a quei ch’erano in
pericolo, ed ho conservato alla terra delle esistenze umane in ricambio
delle altre che le avevo tolte. Nè questo basta: i beni acquistati
nell’esercizio della mia professione, gli ho distribuiti ai poveri,
sono diventato assiduo a frequentare le chiese, e le genti che mi
schivavano si sono assuefatte a vedermi. Tutti mi hanno perdonato,
taluni ancora mi hanno amato, e ora chiedo che Iddio mi perdoni,
giacchè mi perseguita la rimembranza di quell’esecuzione; ogni notte mi
pare di veder alzarsi davanti a me lo spettro di quella donna.

«Una donna! dunque assassinaste una donna!

«E anche voi fate uso di codesto vocabolo che mi rintrona alle
orecchie: — assassinata! — Dunque l’ho assassinata! e non giustiziata?
sicchè sono un assassino, e non un giustiziere?»

E l’infermo chiuse gli occhi mandando un gemito.

E bisogna che l’altro temesse ch’egli avesse a spirare senza dir di
più, poichè replicò in fretta:

«Continuate, non so nulla io, e finito che abbiate il vostro racconto,
penseremo al resto.

«Oh padre! proseguì il boia senza riaprir gli occhi come avesse
paura che gli si affacciasse qualche oggetto spaventoso, specialmente
quando si fa notte e passo qualche fiume, si raddoppia quel terrore
che non so vincere; allora mi sembra che mi si aggravi la mano quasi
che avesse ancora il peso del mio coltello, e che l’acqua si tinga
di colore di sangue, e tutte le voci della natura, romorìo di alberi,
mugghiar di vento, battito delle onde, si riuniscano a formare una voce
lamentevole, desolata, terribile, la quale mi gridi: — Lasciate passare
la giustizia di Dio!

«Delirio! balbettò colui che ascoltava».

Il carnefice schiuse i lumi, fece un moto per girarsi dalla parte del
giovine, e lo afferrò pel braccio.

«Delirio! ripetè, delirio, voi dite! Oh no, no! poichè fu di sera,
perchè io gettai il suo corpo nel fiume, perchè le parole che mi
van ripetendo i miei rimorsi, quelle parole, io nel mio orgoglio le
pronunciai, e dopo essere stato istromento di umana giustizia, mi
credevo divenuto quello della giustizia di Dio!

«Ma sentiamo.... come andò? spiegatevi....

«Era di sera; venne a cercarmi un tale, e mi mostrò un ordine.
Andai seco. Altri signori mi attendevano. Mi condussero con loro
immascherato. Io mi riserbava sempre a far resistenza ove mi paresse
ingiusto l’ufficio che da me richiedevasi. Facemmo cinque o sei leghe,
tristi, taciti e quasi senza ricambiare un accento. Al fine, dalle
finestre di una piccola capanna mi additarono una donna che posava le
gomita sopra una tavola, e mi dissero:

« — Ecco quella che si deve giustiziare.

«Orrore! e voi obbediste?

«Padre, quella femmina era un mostro; aveva, per quanto asserivasi,
avvelenato il suo secondo marito, tentato di assassinare il cognato che
si trovava fra coloro, avvelenata una giovane sua rivale, e innanzi
di abbandonare l’Inghilterra, anche questo si accertava, avea fatto
stilettare il favorito del re.

«Buckingham? esclamò il religioso.

«Sì, Buckingham.

«Talchè ella era inglese?

«No, francese, ma maritatasi in Inghilterra».

A tal risposta dell’ammalata, l’altro impallidì, si asciugò la
fronte, e andò a porre il catenaccio alla porta. Il boia credè che lo
abbandonasse e ricadde giù piangendo.

«No, no, eccomi, fece quegli riaccostandosi sollecito, seguitate, che
uomini erano?

«Uno era forestiere, Inglese, se non fo sbaglio; gli altri quattro
Francesi, e indossavano gli abiti da moschettieri.

«I loro nomi?

«Non li so; se non che i quattro chiamavan l’altro, ch’era Inglese:
_milord_.

«E la donna, era bella?

«Giovane e bella! Oh sì, bellissima! E’ mi pare ancor di vederla,
quando genuflessa a’ miei piedi, pregava, con la testa buttata
indietro.... Nè mai, in appresso, seppi comprendere come avessi potuto
atterrare quella testa sì bella e pallida!»

Quei che ascoltava tal racconto sembrava agitato da stranissima
commozione; tremava in tutte membra; si scorgeva ch’era ansioso di fare
una domanda e non ardiva.

Finalmente, dopo uno sforzo fierissimo, chiese:

«Il nome di colei?

«Lo ignoro. Come vi dico, si era maritata due volte per quanto pareva:
una in Francia ed una in Inghilterra.

«Era giovine? diceste!

«Di venticinque anni.

«Bella?

«Al sommo!

«Bionda?

«Sì.

«Chiome lunghe, è vero? che le scendevano fino sull’omero?

«Sì.

«Occhi espressivi al maggior grado?

«Quando voleva.... Oh sì! così è!

«Voce di rarissima dolcezza?

«E come lo sapete?»

Il carnefice posò il gomito sulle lenzuola, e fissò lo sguardo attento
sul suo interlocutore, che si fè smorto in faccia.

«E voi la uccideste! disse quest’ultimo, voi serviste di stromento a
quei vili che da sè stessi non osavano ucciderla! voi non aveste pietà
di tanta gioventù, di tanta beltà, di tanta debolezza! voi uccideste
quella donna!

«Ahimè! padre, ve l’ho pur detto, quella femmina sotto un’invoglia
celeste celava una mente infernale, e quando la vidi, quando mi
rammentai tutto il male che aveva fatto a me stesso, a me....

«A voi! e che poteva avervi fatto? sentiamo!

«Avea sedotto e rovinato mio fratello, ed era fuggita seco.

«Con tuo fratello?

«Sì! mio fratello era stato il suo primo amante; ella era stata cagione
della morte di mio fratello.... Oh padre! non mi guardate così! Ah!
sono molto colpevole?.... non mi confesserete, non mi concederete il
perdono?

«Sì, vi confesserò, sì, vi perdonerò, quando mi manifestiate prima in
questa segreta conferenza tutto ciò che vi concerne.

«Oh! gridò il boia, tutto! sì, tutto!

«Sicchè dite.... Se sedusse il vostro fratello.... dite che lo sedusse,
non è vero?

«Oh sì, pur troppo!

«Se cagionò la di lui morte.... diceste che cagionò la sua morte?

«Sì, sì.

«Allora, dovete sapere il suo nome da fanciulla.

«Mio Dio! mio Dio! fece il carnefice, mi par di morire! Oh, ricevete la
mia confessione!

«Dì il nome e la riceverò....

«Si chiamava.... Dio, Dio! abbiate pietà di me!»

Ed il boia cascò sul letto, pallido, tremante, simile ad uno che sia
prossimo a spirare.

«Il nome! replicò l’altro, chinandosi su di lui come per istrappargli
di bocca quel nome ch’ei non voleva ancor palesargli; il nome!...
parla, o non v’è scampo!»

Sembrò che il moribondo raccogliesse tutte le sue forze.

Al supposto monaco brillavano le pupille.

«Anna di Bueil! balbettò il ferito.

«Anna di Bueil! gridò quegli rizzandosi a un tratto, e levate al cielo
ambe le mani: Anna di Bueil! dicesti pure Anna di Bueil?

«Sì.... così si appellava.... ed ora ascoltatemi, che mi sento morire!

«Io? urlò il frate con un sorriso che fece rizzare in testa i capelli
dell’infermo, e posso forse ascoltare le tue colpe! io non son prete!

«Non siete prete! e dunque chi siete?

«Te lo dirò, sciagurato!

«Ah! signore! ah, mio Dio!

«Sono John Francis de Winter!

«Non vi conosco! strillò il boia.

«Aspetta, e mi conoscerai; sono John Francis de Winter.... e quella
donna....

«Quella donna?....

«Era mia madre».

Il carnefice mandò il grido che prima erasi udito.

«Oh! perdonatemi! seguitò, se non in nome di Dio, almeno in nome
vostro; se non come sacerdote, almeno come figlio!

«Perdonarti! strepitò il finto monaco; perdonarti! Dio forse lo farà,
ma io non mai!

«Per pietà! diceva il boia stendendo le braccia innanzi.

«Non v’è pietà per chi non ebbe pietà; muori impenitente, muori
disperato! muori, e sii dannato!»

E toltosi di sotto la giubba un pugnale, e immergendoglielo nel petto:

«Tieni! disse, ecco come io ti ricompenso!»

Allora fu che s’intese il secondo grido più debole dell’altro a cui
succedeva lunghissimo gemito.

Il carnefice, il quale si era sollevato alquanto, piombò di nuovo
supino. Il finto monaco, senza tôrre il pugnale dalla piaga, corse
al balcone, lo aperse, saltò sui fiori di un piccolo giardino, entrò
nella stalla, prese la sua mula, uscì da una porta di dietro, trottò
sino al prossimo bosco, vi gittò le sue vesti da ecclesiastico, trasse
dalla valigia un abbigliamento completo da cavaliere, e lo indossò,
ed a piedi arrivò alla prima posta, ed ivi, fattosi dare un cavallo,
continuò a spron battuto il suo viaggio verso Parigi.



XXXVI.

_Grimaud parla._


Grimaud era rimasto solo accanto al boia.

L’oste era ito a cercar soccorso; sua moglie pregava.

Dopo un momento l’ammalato schiuse gli occhi.

«Ajuto! balbettò! ajuto! Mio Dio, mio Dio! non troverò in questo mondo
un amico che mi ajuti a vivere o a morire?»

E si portò a stento la mano sul seno; e la sua mano incontrò il manico
del pugnale.

«Ah!» disse come uno a cui ritorni la memoria.

E lasciò andare giù il braccio.

«Fatevi coraggio, disse Grimaud, sono andati a cercare assistenza.

«Chi siete? domandò il ferito fissando su Grimaud gli occhi spalancati
fuor di misura.

«Un antico conoscente, questi rispose.

«Voi?»

L’infermo cercava ricordarsi le sembianze di lui che favellavagli in
tal guisa.

«In quali circostanze ci incontrammo? indi richiese.

«Venti anni sono, di notte. Il mio padrone vi aveva preso a Bethune e
vi condusse ad Armentières.

«Vi riconosco, fece il boia, siete uno dei quattro servitori.

«Per l’appunto.

«E d’onde venite?

«Passavo per la strada, mi sono fermato in questa locanda per far
rinfrescare il mio cavallo; mi raccontavano alcuni che il carnefice di
Bethune era qua ferito, quando avete cacciato due urli. Al primo siamo
accorsi subito, al secondo abbiamo sfondato l’uscio.

«E il frate? lo avete visto?

«Che frate?

«Quello ch’era rinchiuso meco.

«No, non v’era più: pare che sia fuggito dalla finestra. È desso che vi
ha trafitto?

«Ah sì!»

Grimaud si mosse come per partirsi.

«Che andate a fare? domandò il boia.

«Bisogna corrergli appresso!

«Guardatevene bene!

«E perchè?

«Si è vendicato, ed ha fatto benissimo. Adesso che Iddio mi perdoni,
giacchè v’è espiazione.

«Spiegatevi, disse Grimaud.

«Quella donna che i vostri padroni e voi mi faceste uccidere....

«Milady?

«Milady, sì, così la chiamavate....

«Che ha che fare milady col monaco?

«Era sua madre».

Grimaud vacillò e guatò il moribondo, attonito e come stupido.

«Sua madre! ripetè.

«Sì, sua madre.

«Ma dunque ei sa quel segreto?

«L’ho preso per un sacerdote, e glie l’ho confessato.

«Disgraziato! esclamò Grimaud e gli si bagnavano di sudore i capelli
all’idea delle conseguenze che potevano resultare da tale rivelazione;
disgraziato! ma spero che non abbiate nominato veruno?

«Non ho proferito alcun nome, giacchè nessuno ne conoscevo tranne
quello da zittella della sua genitrice, e da questo egli tutto ha
compreso; ma sa che suo zio era nel numero de’ suoi giudici».

Il meschino ricascò spossato. Grimaud voleva dargli soccorso e avanzava
la destra verso il manico dello stiletto.

«Non mi toccate! disse il carnefice, se si cavasse fuori questo ferro,
io morrei».

Grimaud rimase con la mano stesa; indi in un subito percuotendosi col
pugno la fronte:

«Ah! se mai colui viene in cognizione chi fossero gli altri, il mio
padrone è perduto!

«Sollecitatevi! gridò il carnefice, prevenitelo se vive ancora,
avvertite i suoi amici; la mia morte, oh! credetelo pure, non servirà
di scioglimento a questa terribile avventura.

«Dove andava? chiese Grimaud.

«Verso Parigi.

«Chi lo arrestò?

«Due giovani gentiluomini che si trasferivano all’armata, e dei quali
uno, io lo udii a nominare dal suo compagno, si chiamava il visconte di
Bragelonne.

«E desso fu che vi condusse il monaco?

«Eh sì!»

Grimaud levò lo sguardo al cielo.

«Dunque era questo il volere di Dio! disse poi.

«Senza dubbio! confermò il ferito.

«Oh terribile! oh caso spaventoso!.... e sì, quella femmina aveva
meritata la sorte che si ebbe.... non pensate in questo modo?

«Sul punto di morire, fece il boja, si veggono gli altrui delitti molto
piccoli a paragone dei nostri!»

E cadde giù abbattuto chiudendo il ciglio affannoso.

Grimaud stava perplesso fra la pietà che gli vietava di lasciar
quell’uomo privo di assistenza, ed il timore che gli imponeva di
partire immediatamente per recare quella notizia al conte di la Fère,
allorchè udì rumore nel corridojo e vide venir l’oste insieme col
chirurgo che finalmente erasi ritrovato.

Li seguivano parecchie persone, richiamate da curiosità; chè cominciava
a spargersi voce dello stranissimo evento.

Il professore si accostò al moribondo che sembrava in deliquio.

«Prima di tutto va estratto il ferro dal petto», disse in tuono
ch’esprimeva di molto.

Grimaud si ricordò il prognostico fatto dall’ammalato, e si girò da
parte.

Il cerusico tirò in là il giubbetto, lacerò la camicia e snodò il seno.

Il pugnale, conforme accennammo, era cacciato addentro sino
all’impugnatura.

Il chirurgo lo prese alla cima dell’elsa; a misura ch’ei lo tirava
fuori il ferito aprendo gli occhi li fissava in un modo spaventoso.
Quando la lama fu uscita interamente dalla piaga apparve sulla bocca
dell’infermo una spuma rossiccia; indi nel momento che respirò sgorgò
uno sprillo di sangue dall’orifizio della piaga stessa, ed egli diresse
lo sguardo sopra Grimaud con espressione singolarissima, mandò un
rantolo e spirò subito.

Grimaud raccolse da terra il pugnale insanguinato che metteva orrore a
tutti, accennò all’oste che andasse seco, pagò il conto con generosità
degna del suo padrone, e risalì a cavallo.

Esso aveva pensato sulle prime a tornare direttamente a Parigi; ma
riflettè all’inquietudine che prolungando la sua assenza cagionerebbe
a Raolo; si ricordò che Raolo era distante due leghe dal luogo ove si
trovava egli stesso, che in un quarto d’ora sarebbe a lui vicino, e
che fra la gita innanzi e indietro e la spiegazione insieme non gli
piglierebbero un’ora di tempo. Si avviò di galoppo, e dopo dieci minuti
smontava al _Mulo Incoronato_, unico albergo di Mazingarde.

Dalle prime parole ricambiate col locandiere acquistò certezza di aver
raggiunto quello che cercava.

Raolo era a tavola con il conte di Guiche ed il suo ajo, ma la trista
avventura della mattina lasciava sul sembiante de’ due giovani una tale
mestizia cui non riusciva a dileguare il brio del signor d’Arminges più
filosofo di loro per la sua grande assuefazione a consimili spettacoli.

Ad un tratto fu schiusa la porta e si presentò Grimaud pallido,
polveroso e macchiato dal sangue del disgraziato.

«Grimaud, mio buon Grimaud! esclamò Raolo, eccoti al fine! Scusate,
miei signori, questi non è già un servo, è un amico».

Ed alzatosi a farglisi incontro seguitò:

«Come sta il signor conte? gli duole alquanto della mia assenza? lo
hai veduto da che ci lasciammo? Rispondi, e poi io ho molte cose da
dirti.... Oh! da tre giorni ci sono succeduti tanti casi! Ma che hai?
sei smorto in viso.... E sangue! perchè questo sangue!

«Realmente v’è sangue! confermò di Guiche levandosi pur esso, siete
ferito, mio caro?

«No, disse Grimaud, questo sangue non è mio.

«E di chi? domandò il visconte.

«Dell’infelice che lasciaste all’albergo, e ch’è morto fra le mie
braccia».

«Fra le tue braccia! ma sai tu chi era?

«Sì.

«L’antico carnefice di Bethune!

«Lo so.

«E lo conoscevi?

«Lo conoscevo.

«Ed è morto?

«Sì».

I due signori si guardarono.

«Che volete? disse d’Arminges, tale è la legge comune, ed uno non
n’è mica esente per essere stato boja. Dal momento che ho veduta la
sua piaga ne ho avuta pessima idea, e ben vi è noto ch’era uguale
l’opinione di lui, poichè chiedeva un monaco».

Alla parola di monaco Grimaud si accigliò.

«Animo, a tavola! fece d’Arminges, il quale a guisa di tutti gli uomini
dell’età sua non ammetteva la sensibilità fra due portate.

«Sì, avete ragione, rispose Raolo; orsù, Grimaud, fatti dar
l’occorrente, ordina, comanda, e dopo che ti sarai riposato
discorreremo.

«No, no, replicò Grimaud, non posso trattenermi un istante, mi conviene
ripartire per Parigi.

«Come! oh, t’inganni.... è Olivain che parte, tu resterai qui.

«Anzi Olivain resta ed io vado. Sono venuto espressamente per
avvisarvelo.

«E perchè tal cambiamento?

«Non posso dirvelo.

«Spiegati.

«Non posso.

«Eh via! che scherzi son questi?

«Sapete, signor visconte, ch’io non ischerzo mai.

«Sì, ma so ancora che il signor conte di la Fère disse che rimarreste
presso di me ed Olivain andrebbe alla capitale. Io mi atterrò alle
disposizioni del conte.

«Non in questa circostanza, signore.

«Vorreste forse disobbedirmi?

«Sì, poichè così bisogna.

«Dunque persistete?

«E quindi me ne vo; siate felice, signor visconte».

Grimaud salutò e si volse verso l’uscio per andarsene. Raolo inquieto
ed anco furibondo corse a fermarlo per un braccio.

«Grimaud! esclamò, trattenetevi; così voglio.

«Sicchè, rispose Grimaud, volete ch’io lasci ammazzare il signor conte?»

E fatto un nuovo inchino si disponeva a partire.

«Grimaud, amico mio! disse Bragelonne, non ve ne andrete in tal modo,
non mi lascerete in una tale smania. Grimaud parla, deh parla in nome
del cielo!»

E Raolo barcollava, sinchè cadde sopra una sedia.

«Non posso dirvi se non se una cosa.... chè il segreto non è mio....
Incontraste uno che prendeste per un frate, è vero?

«Sì».

I due gentiluomini si osservavano atterriti.

«Lo guidaste vicino al ferito?

«Sì.

«Aveste allora tempo di vederlo?

«Sì.

«E forse lo ravvisereste se lo ritrovaste?

«Oh sì! lo giuro, disse Raolo.

«E anch’io, aggiunse di Guiche.

«Or bene, se mai lo ritrovate, in qualunque luogo si sia, sulla strada
maestra, per le vie, in una chiesa, dovunque egli sia, e dovunque voi
sarete, ponetegli addosso il piede e schiacciatelo senza pietà, senza
misericordia, come fareste ad una vipera, ad un serpente, ad un aspide;
schiacciatelo, e nol lasciate finchè sia morto; per me, tanto ch’ei
viva starà in dubbio la vita di cinque uomini».

E Grimaud senza dir altro profittò dello stupore e del terrore in cui
aveva immersi quelli che lo ascoltavano per islanciarsi fuori dallo
appartamento.

«Or bene, conte, disse Raolo a di Guiche, non dicevo bene che colui mi
pareva un serpente?»

A capo a due minuti si udì il galoppo di un cavallo. Raolo si affacciò
sollecito al balcone.

Era Grimaud che s’incamminava verso Parigi. Riverì Bragelonne agitando
in aria il cappello, e in breve disparve alla svolta della strada.

Ma viaggio facendo riflettè a due cose:

La prima, che di quel passo il suo animale non reggerebbe a far dieci
leghe;

La seconda, ch’ei non aveva danaro.

Egli aveva però l’immaginazione tanto più feconda quanto meno faceva
uso della favella.

Ed alla prima cambiatura vendè il cavallo, e col prodotto prese subito
la posta.



XXXVII.

_Alla vigilia della battaglia._


Raolo fu tratto dai tristi suoi pensieri dal locandiere, il quale
entrò precipitosamente nella stanza ov’era accaduto quanto poc’anzi
narravamo, gridando:

«Gli Spagnuoli! gli Spagnuoli!»

Era assai importante quel grido perchè ogni altra riflessione cedesse
a quelle ch’esso doveva cagionare. I giovanetti domandarono qualche
informazione, ed intesero che realmente si avanzava il nemico da
Houdain e Bethune.

Mentre il signor d’Arminges dava gli ordini acciò i cavalli che
si rinfrescavano fossero messi in istato di partenza, Raolo e di
Guiche salirono alle più alte finestre del casamento che dominava le
vicinanze, e videro spuntare dalla parte di Mersin e di Sains un corpo
considerevole d’infanteria e cavalleria. Questa volta non era più una
brigata errante di partigiani, ma un’intera armata.

Sicchè non rimaneva da far altro che seguire le savie istruzioni
d’Arminges e battere la ritirata.

Essi scesero rapidamente. D’Arminges era digià in sella. Olivain
reggeva a mano i due corsieri dei giovanetti, ed i servi del conte
di Guiche tenevano cautamente fra di loro il prigioniero spagnuolo,
fermo sopra un ronzino comprato espressamente per lui. E per maggior
precauzione questi aveva le mani legate.

La piccola comitiva prese di trotto la strada di Cambrai, ove credeva
di trovare il principe; ma egli dal giorno innanzi non v’era più, ed
erasi ritirato a la Bassée, avendo inteso per una falsa voce sparsa che
il nemico doveva transitare da Lys ad Estaire.

Effettivamente il principe, ingannato da tali avvisi, aveva ritirate
le sue truppe da Bethune, e concentrate tutte le sue forze fra
Vieille-Chapelle e la Venthie, ed egli stesso, dopo aver esplorata
tutta la linea col maresciallo di Grammont, era tornato indietro, e
postosi a tavola, interrogando gli uffiziali seduti a lui d’intorno
sopra gli schiarimenti che aveva incaricato ciascheduno di essi di
procurarsi. Niuno però aveva notizie positive.

L’armata nemica era sparita da quarantotto ore, e nulla più se ne
sapeva.

Ora, un esercito nemico non è mai tanto prossimo, e in conseguenza
minaccioso, come allorquando è affatto sparito. E perciò il principe
contro il suo solito se ne stava pensoso e di mal umore, quando venne
un ufficiale di servizio ad annunziare al maresciallo di Grammont
esservi alcuno che chiedeva di parlargli.

Il duca di Grammont con uno sguardo domandò licenza, ed uscì.

Il principe lo seguitò cogli occhi, e tenne questi fissi verso la
porta, mentre nessuno osava discorrere per tema di distrarlo dalle sue
meditazioni.

Ad un tratto si udì rumore. Il principe si alzò in fretta stendendo la
mano dal lato onde veniva lo strepito. — Lo strepito gli era ben noto:
era quello del cannone.

Tutti al pari di lui si erano levati in piedi.

Nel momento fu schiusa la stanza.

«Monsignore, disse allegro il maresciallo di Grammont, vuole Vostra
Altezza permettere che mio figlio, il conte di Guiche, e il suo
compagno di viaggio visconte di Bragelonne vengano a darle nuove del
nemico, che noi cerchiamo e che essi hanno trovato?

«Come, se lo permetto, anzi lo bramo! entrino pure».

Il maresciallo spinse avanti i due giovani, i quali furono così innanzi
a Sua Altezza.

Questi salutandoli disse:

«Parlate, signori, e poi faremo i complimenti d’uso; quel che per noi
urge più adesso, è di sapere dove sia il nemico o ciò ch’ei faccia».

Al conte di Guiche incombeva naturalmente di essere il primo a
favellare; non solo era maggiore di età, ma anche presentato dal
proprio genitore; inoltre conosceva da lunga pezza il principe, che
Raolo non aveva mai veduto.

Egli dunque raccontò ciò ch’entrambi avevano visto dall’albergo di
Mazingarde.

Frattanto Raolo osservava quel giovane generale digià sì famoso per le
battaglie di Rocroy, di Friburgo e di Nortlingen.

Luigi di Borbone, principe di Condé, che dalla morte di Enrico di
Borbone suo padre in poi veniva chiamato per abbreviazione e secondo
l’usanza il Signor Principe, aveva appena ventisei o ventisette anni,
sguardo da aquila, _occhi grifagni_, come disse Dante, naso ricurvo,
lunga chioma ondeggiante in belle anella, personale mediocre ma ben
fatto, e tutte le qualità di un grand’uomo di guerra, cioè colpo
d’occhio, rapidissima decisione, coraggio quasi favoloso; lo che
non toglieva che fosse al tempo stesso uomo di spirito e dotato di
eleganza; talmente che oltre la rivoluzione che faceva nella guerra
mediante i nuovi calcoli e prospetti che vi recava, aveva fatto altresì
rivoluzione in Parigi fra i giovani signori della corte, di cui era il
capo naturale, e che in opposizione agli eleganti dell’antica corte,
della quale i modelli erano stati Bassompierre, Bellegarde e il duca di
Angouleme, venivano nomati i damerini.

Ai primi detti di Guiche, ed alla direzione da che si partiva il
rumore del cannone, il prence aveva compreso tutto. L’inimico doveva
aver transitata la Lys a Saint-Venant, e marciava sopra Lens, senza
dubbio coll’intenzione d’impossessarsi di questa città e separare dalla
Francia l’armata francese. La cannonata che si udiva, e i di cui spari
dominavano tratto tratto gli altri, era di pezzi di grosso calibro che
rispondevano alla cannonata spagnuola e lorenese.

Ma di che forza era poi quella truppa? era un corpo destinato a
produrre un semplice diversivo? oppure l’esercito tutto intero?

In questo consisteva l’ultima domanda di Luigi di Borbone, ed a Guiche
riusciva impossibile di rispondervi.

Ed essendo poi la più importante, era quella a cui il principe avrebbe
desiderato una risposta esatta, precisa, positiva.

Allora Raolo sormontò il sentimento assai naturale di timidezza che
provava a suo malgrado in faccia al prence, ed avvicinandosi disse:

«Mi concederete, monsignore, di azzardare su questo argomento alcune
parole che forse faranno cessare la vostra perplessità?»

Luigi si volse, e parve che con un solo sguardo squadrasse da cima a
fondo il visconte; e sorrise nel riconoscere in esso un fanciullo di
appena quindici anni.

«Certamente, signore, parlate, gli disse mitigando la sua voce per
solito sonora e fiera, come se questa volta la indirizzasse ad una
dama.

«Vostra Altezza potrebbe interrogare il prigioniero spagnuolo, replicò
Raolo, ed arrossiva.

«Avete fatto un prigioniero spagnuolo!

«Sì, monsignore.

«Ah! è vero, riprese di Guiche, lo avevo obliato.

«È cosa semplicissima, conte, ribattè Raolo sorridendo, poichè foste
voi che lo faceste».

Il vecchio maresciallo si volse al visconte, grato a quell’elogio dato
a suo figlio, mentre Luigi di Borbone rispondeva:

«Il giovinetto ha ragione, sia qui condotto il prigioniero».

Frattanto il principe pigliò in disparte di Guiche, e lo interrogò sul
modo in cui era stato preso quell’uomo, e gli richiese chi fosse il
giovane.

«Signore, disse Luigi tornando a Raolo, so che avete una lettera
di mia sorella madama di Longueville, ma veggo che avete preferito
raccomandarvi da per voi col darmi un buon consiglio.

«Monsignore, replicò Bragelonne, e diventava più vermiglio di prima,
non ho voluto interrompere Vostra Altezza in una conversazione tanto
importante come quella da lei intavolata col signor conte; ma ecco la
lettera.

«Va bene, me la darete più tardi; ecco il prigioniero, pensiamo a ciò
ch’è più urgente».

Difatti veniva condotto il partigiano. Era uno di quei condottieri
di cui ne rimanevano ancora in quell’epoca, che vendendo il proprio
sangue a chi avesse a genio comprarlo era invecchiato nelle astuzie e
nelle ruberie. Dachè era stato preso non aveva pronunziato un accento,
talmente che coloro che lo avevano arrestato neppur sapevano di qual
nazione si fosse.

Il principe lo guatò con la massima diffidenza domandandogli:

«Di qual nazione sei?»

Quegli rispose alcune parole in lingua straniera.

«Ah ah! par che sia spagnuolo. Parlate, spagnuolo, Grammont?

«Oh! pochissimo, monsignore.

«Ed io nulla affatto; fece ridendo Luigi; signori (e si volgeva a quei
che gli stavano attorno) v’è qualcuno fra voi che parli lo spagnuolo e
voglia farmi da interprete?

«Io, monsignore, disse Raolo.

«Ah, voi parlate spagnuolo?

«Abbastanza, per quanto credo, onde eseguire in quest’occasione gli
ordini dell’Altezza Vostra».

In tutto quel tempo il prigioniero era rimasto impassibile e quasi non
avesse capito di che si trattasse.

«Monsignore vi ha fatto richiedere di che nazione siete, gli avvertì
Raolo in castigliano purissimo.

«Ich bin ein Deutscher, rispose egli.

«Che diavolo borbotta? fece il principe con una risata, e che gergo è
codesto?

«Dice ch’è tedesco, replicò il visconte, ma io ne dubito, perchè
l’accento è pessimo e la pronunzia viziosa.

«Dunque sapete anche il tedesco?

«Altezza sì.

«Tanto da potere interrogarlo in quell’idioma?

«Sì, monsignore.

«Allora interrogatelo».

Raolo cominciò, ma vennero i fatti in appoggio alla sua opinione. Colui
non intendeva, o fingeva non intendere, ciò che gli diceva Bragelonne,
e Bragelonne dal canto suo comprendeva poco le sue risposte mescolate
tra fiammingo ed alsaziano.

Nulladimeno in mezzo a tutti gli sforzi del forestiero per eludere un
esame regolare, Raolo aveva riconosciuta la sua naturale pronunzia.

«Non siete spagnuolo, gli disse, non tedesco, ma italiano».

Il forestiero si scosse e si morse le labbra.

«Ah! questo, lo capisco a meraviglia, seguitò il principe di Condè, e
poichè è italiano, continuerò io l’esame. Grazie, visconte (aggiunse
scherzando) da ora vi nomino mio interprete».

Ma l’arrestato non aveva più voglia di appagare le domande in italiano
che in altre lingue; unica sua premura era anzi lo schivarle. E così
nulla sapeva, nè il numero dei nemici, nè il nome di chi li comandava,
nè il piano di marcia stabilito.

«Ottimamente! disse Luigi immaginando appieno le cause di siffatta
ignoranza, costui è stato preso mentre rubava e assassinava, avrebbe
potuto riscattar la vita parlando, e non vuole; portatelo via, e sia
passato per le armi».

Il prigioniero impallidì. I due soldati che ivi lo avevano guidato
lo afferrarono ciascuno per un braccio e lo trassero verso la porta,
frattanto che il signor di Condé giratosi dalla parte di Grammont,
mostrava già aver dimenticato il comando da lui dato.

Ma il disgraziato arrivato sulla soglia, si soffermò; i soldati non
conoscendo altro che gli ordini volevano obbligarlo a proseguire il suo
cammino.

«Un momento! disse egli in francese, monsignore, sono pronto a parlare.

«Ah ah! esclamò il principe, sapevo bene che ci si verrebbe. Io ho un
segreto stupendo per sciogliere la lingua. Giovanotti, vi sia di norma
per quando toccherà a voi a comandare.

«Ma, seguitò il prigioniero, con patto che Vostra Altezza mi giuri
salva la vita.

«Sulla mia fede da gentiluomo, rispose Luigi di Condé.

«Allora, a voi, monsignore!

«Dove l’armata ha valicato la Lys?

«Tra Saint-Venant ed Aire.

«Chi la comanda?

«Il conte di Fuonsaldagna, il generale Beck e l’Arciduca in persona.

«E marcia?

«Incontro a Lens.

«Vedete, signori miei! gridò il principe in atto di trionfo al
maresciallo di Grammont ed agli altri uffiziali.

«Sì, replicò il maresciallo, vostra Altezza aveva indovinato quanto può
indovinare umano ingegno.

«Richiamate le Plessis, Belliève, Villequier e d’Erlac, richiamate
tutte le truppe che sono di qua dalla Lys; stiano pronte a marciare
questa notte, e domani secondo ogni probabilità noi attaccheremo il
nemico.

«Monsignore, obiettò Grammont, osservate però che riunendo quanti
uomini abbiamo disponibili arriveremo appena alla cifra di quindici
mila.

«Signor maresciallo, ripicchiò il prence con quello sguardo ammirabile
ch’era proprio di lui solo, con le piccole armate si vincono le grandi
battaglie».

Ed accennando il prigioniero:

«Sia condotto colui fuori di qui e guardato a vista. Dipende la sua
vita dalle informazioni che ci ha date; se queste sono vere, sarà
libero; se false, sia fucilato».

L’individuo a cui facevasi tal minaccia fu tratto subito altrove.

«Conte di Guiche, disse Luigi, da molto tempo non vedeste vostro padre,
rimanete presso di lui. Voi (e si volgeva a Raolo) se non siete troppo
stanco seguitemi.

«Sino alla fine del mondo, monsignore! gridò Raolo, provando un ignoto
entusiasmo per il giovane generale che tanto degno sembravagli della
sua rinomanza».

Il principe sorrise; disprezzava gli adulatori, ma stimava moltissimo
gli entusiasti.

«Orsù, continuò, siete buono al consiglio, ed ora lo abbiamo
esperimentato; vedrem domani qual siete nell’azione.

«Ed io che farò monsignore? chiese il maresciallo.

«Trattenetevi a ricevere le truppe; e tornerò da me a prenderle meco, o
vi manderò un corriere perchè a me la guidiate. Venti uomini con buoni
cavalli son quel che mi abbisogna pella mia scorta.

«È poco!

«È abbastanza; signor di Bragelonne, avete un buon cavallo?

«Il mio è rimasto ucciso stamane, e adesso provvisoriamente mi prevalgo
di quello del mio domestico.

«Chiedete, scegliete nelle mie scuderie, quello che vi convenga. Non
vi prendete soggezione; approfittatevi del corsiero che vi sembri il
migliore. Stassera forse ne avrete bisogno, e domani di certo».

Raolo non se lo fece dir due volte; sapeva che coi superiori, ed
in ispecie quando questi sono principi, la suprema civiltà consiste
nell’obbedire senza ragionamenti e senza indugi. Passò nelle scuderie
a scegliere un palafreno andalusiano di color sauro, gli pose di per
sè la sella e la briglia, perocchè Athos gli aveva suggerito pelle
circostanze di pericolo di non affidare di ciò la cura a veruno, e
venne a raggiungere il principe che appunto montava a cavallo.

«Adesso, disse questi a Raolo, volete consegnarmi la lettera di cui
siete latore?»

Ed egli la porse.

«Restate vicino a me», ordinò Luigi di Borbone.

Diede di sprone, fermò le redini al pomo della sella secondo soleva
fare quando voleva aver libere le mani, dissigillò il foglio della
signora di Longueville, e si avviò di galoppo sulla strada di Lens,
accompagnato da Raolo e seguitato dalla sua piccola scorta, mentre
i messaggieri che dovevano richiamare indietro le truppe, correvano
frettolosi per opposte direzioni.

E il principe nel tempo del cammino leggeva.

«Signore, disse indi a un momento, qui mi si dice molto bene di voi;
la sola cosa che posso significare si è che dal poco che ho visto ed
inteso, penso di voi anco meglio che non mi si decanta».

Raolo fece un inchino.

Intanto ad ogni passo che approssimava a Lens la piccola brigata,
risuonavano più vicine le cannonate. Luigi teneva lo sguardo fisso
a quel rumore come farebbe un uccel di rapina. Pareva che avesse il
potere di penetrare con gli occhi fra gli alberi folti che stendevansi
a lui davanti e servivano di confine all’orizzonte.

Di quando in quando si dilatavano a lui le narici, quasi fosse ansioso
di sentir l’odore della polvere, o sbuffava come il suo destriero.

Alfine si udirono gli spari tanto dappresso ch’era evidente trovarsi
tutto al più lontani di una lega dal campo di battaglia. In fatti alla
svolta del sentiero, si distinse il piccolo villaggio di Aunay.

I contadini erano in grandissima confusione; si era sparsa la voce
della crudeltà degli Spagnuoli, e questa a tutti incuteva spavento; le
donne erano di già scappate rifugiandosi inverso a Vitry; rimanevano
soli pochi uomini.

Essi al mirare il principe accorsero premurosi; uno di loro lo
riconobbe.

«Ah monsignore! disse, venite a discacciare quei furfanti di Spagnuoli
e quei ladroni di Lorenesi?

«Sì, se tu vuoi servirmi di guida.

«Volentieri: dove brama vostra Altezza che io la conduca?

«In qualche luogo elevato d’onde io possa scoprire Lens e i dintorni.

«So quanto bisogna.

«Posso fidarmi di te? Sei buon francese?

«Sono un vecchio soldato di Rocroy.

«Tieni! disse Luigi dando una borsa a colui, eccoti per Rocroy. Ed ora
vuoi un cavallo, o preferisci ire a piedi?

«A piedi! monsignore, a piedi; ho servito sempre nell’infanteria. E
poi, mi propongo di far passare Vostra Altezza per tali strade ove sarà
necessario ch’essa pure smonti.

«Vieni via, e non si perda tempo».

Il villico si mosse trottando innanzi al destriero del prence; indi a
distanza di un centinajo di passi dal villaggio passò da un piccolo
sentiero perduto in fondo a una bella valle. Per una mezza lega
camminarono così sotto una cupola di alberi; gli spari del cannone
rimbombavano a segno che sembrava ad ognuno di questi doversi udire a
fischiare le palle. Poscia, si trovò una strada che abbandonava quella
già battuta per attaccarsi al fianco della montagna. Il contadino vi si
inoltrò invitando Luigi di Borbone a seguirlo. Questi smontò, ordinò
ad uno de’ suoi ajutanti di campo ed a Raolo di fare lo stesso, ed
agli altri di attender le sue istruzioni mantenendosi in ogni maggior
cautela e vigilanza, e principiò a salire per la strada che accennammo.

A capo a dieci minuti, erano giunti alle ruine di un vecchio castello,
le quali facevano corona alla sommità di un colle d’onde si sovrastava
a tutti i luoghi circonvicini. Lontano appena un quarto di lega si
discopriva Lens ridotta agli estremi, e davanti a questa tutto quanto
l’esercito nemico.

Con una sola occhiata il principe abbracciò l’estensione che gli
appariva alla vista da Lens sino a Vismy. In un attimo gli si spiegò
alla mente tutto il piano della battaglia che alla domane doveva
salvare per la seconda volta la Francia da un’invasione. Prese un
lapis, distaccò una pagina del suo taccuino, e scrisse:

      «Mio caro maresciallo.

  ««Tra un’ora Lens sarà in potere del nemico. Io sarò a Vendin
  per fargli prendere la sua posizione. Domani lo avremo battuto e
  ripreso Lens».

Indi disse a Raolo:

«Andate, partite a spron battuto, e consegnate questo foglio al signor
di Grammont».

Raolo prese il foglio, scese velocemente la montagna, e saltato in
sella si avviò di galoppo.

Dopo un quarto d’ora era presso al maresciallo.

Era digià arrivata porzione delle truppe, e da un momento all’altro
attendevasi il rimanente. Il signor di Grammont si mise alla testa di
quanta infanteria e cavalleria si trovava disponibile, e s’incamminò
per Vendin, lasciando il duca di Chatillon ad aspettare e condurre il
resto.

Tutta l’artiglieria era in grado di partire all’istante, e si mise in
marcia.

La sera alle sette ore giunse il maresciallo al convegno. Era ivi ad
attenderlo il principe. Secondo avea preveduto, Lens era caduta in
potere del nemico quasi subito dopo la partenza di Raolo. D’altronde la
cessazione delle cannonate aveva annunziato questo avvenimento.

Si soprassedè fino a notte. A misura che si avanzavano le tenebre, i
militi chiamati dal principe arrivavano di seguito. V’era ordine che
non si battesse tamburo nè si sonassero le trombe.

A nove ore, ad onta che fosse tardi, un ultimo crepuscolo rischiarava
tuttavia la pianura. S’incamminarono in silenzio, mentre il principe
guidava la colonna.

L’armata essendo pervenuta di là da Aunay potè distinguere Lens: due o
tre case erano in fiamme, e fino ai soldati arrivava un tristo clamore
che indicava l’agonia di una città presa per assalto.

Il prence segnò a ciascuno il rispettivo posto: il maresciallo di
Grammont doveva essere all’estrema sinistra ed appoggiarsi a Mericourt;
il duca di Chatillon formerebbe il centro; il principe che formava
l’ala destra rimarrebbe davanti ad Aunay.

L’ordine di battaglia della domane sarebbe lo stesso che quello delle
posizioni prese nel dì precedente. Ognuno si troverebbe sul terreno ove
dovea manovrare.

Fu eseguito il movimento col massimo silenzio e con la maggior
precisione. Alle dieci cadauno era al suo posto; alle dieci e
mezza Luigi di Borbone visitò i posti di guardia e diede l’ordine
dell’indomani.

Oltre a tutte le cose, tre erano quelle raccomandate ai capi, i quali
invigilerebbero all’esatta osservanza delle medesime ingiunta ai
soldati:

La prima, che i diversi corpi si guarderebbero attentamente nella
marcia, onde cavalli e fanti stessero bene sulla medesima linea, ed
ognuno si mantenesse negli spazj opportuni;

La seconda di non andare alla carica se non di passo;

La terza, di lasciare che il nemico fosse il primo a tirare.

Il principe diede il conte di Guiche al di lui padre, e tenne per sè
Bragelonne. Ma i due giovani domandarono di passare insieme quella
notte, e ciò fu loro accordato.

Venne messa per essi una tenda vicina a quella del maresciallo. Benchè
molte fossero state le fatiche della giornata, nè l’uno nè l’altro
aveva bisogno di dormire.

D’altronde è cosa grave ed imponente anco pei vecchi militari la
vigilia di una battaglia, e tanto più per due giovanetti che pella
prima volta si accingevano a vedere un tale spettacolo.

Alla vigilia della battaglia si pensa a mille cose, che sino allora
obliate ritornano in mente; gl’indifferenti diventano amici, gli amici
diventano fratelli.

E ci s’intende, che se in fondo al cuore si abbia qualche sentimento
più tenero, questo arriva naturalmente al più alto grado di esaltazione
a cui possa mai giungere.

È d’uopo credere che ognuno dei due giovanetti provasse un sentimento
di codesta fatta, poichè a capo a un momento e questo e quello sederono
ad una opposta estremità della tenda e si diedero a scrivere sulle
ginocchia.

Le lettere furono lunghe, si copersero quattro pagine di carattere
minuto e ristretto. Tratto tratto il conte ed il visconte si guardavano
sorridendo. Si capivano senza dir nulla. Erano due indoli delicate e
simpatiche fatte per intendersi senza nemmeno parlarsi.

Terminate le lettere, ciascheduno serbò la sua in un doppio involto
di carta, ove nessuno poteva leggere il nome della persona a cui era
diretta se non che lacerando il primo invoglio. E poscia entrambi si
accostarono uno all’altro, e si ricambiarono quelle lettere con un
nuovo sorriso.

«Se mi accadessero dei guai! disse Bragelonne.

«Se restassi ucciso! disse di Guiche.

«Non dubitate, dissero tutt’e due».

E si abbracciarono come fratelli, e si avvolsero nei ferrajuoli, e si
addormentarono di quel sonno giovanile e grazioso con cui dormono gli
augelli, i fiori ed i fanciulli.



XXXVIII.

_Un pranzo del tempo addietro._


Il secondo abboccamento degli antichi moschettieri non era stato
pomposo e minaccioso come il primo. Athos, con il suo senno sempre
superiore, aveva giudicato che la tavola sarebbe il centro più rapido
e completo della riunione, e nell’istante che i suoi amici per riguardo
alla sua distinzione ed alla sobrietà sua non osavano favellare di uno
di quei buoni pranzi di tempo addietro goduti o al _Pomo del Pino_ o
al _Parpaillot_, propose egli stesso di ritrovarsi attorno a qualche
mensa bene inbandita, ed abbandonarsi senza riserva ognuno al proprio
carattere ed alle proprie maniere, tratto di semplicità che aveva
mantenuta la buona intelligenza per la quale in un’epoca anteriore
erano stati chiamati gl’inseparabili.

Fu a tutti accetta la proposta, e specialmente a d’Artagnan, ch’era
ansioso di ritrovare le gentilezze ed il brio delle conversazioni
di sua gioventù, conciossiachè da lunga pezza il suo spirito fino
e geniale non aveva incontrato che soddisfazioni insufficienti, e,
come diceva egli stesso, un vile pascolo. Porthos sul momento di
esser barone aveva sommo piacere di imbattersi in quella occasione
di studiare in Athos ed in Aramis i modi e il tuono della gente di
qualità. Aramis voleva sapere le notizie del Palazzo Reale per mezzo
di d’Artagnan e Porthos, e serbarsi per tutte le congiunture amici
tanto zelanti che in passato sostenevano le sue contese con ispade
prontissime e invincibili.

Athos poi era il solo che nulla avesse da aspettare o da ricevere
dagli altri, e che fosse mosso unicamente da un sentimento di semplice
grandezza e di pura amistà.

Fu quindi convenuto che ognuno darebbe il suo indirizzo ben positivo,
e che al bisogno di uno dei soci si convocherebbe la riunione da un
famoso trattore della via della Zecca all’insegna del _Romitorio_. Fu
fissato il primo appuntamento, pel successivo mercoledì ed alle otto
precise di sera.

Infatti nel giorno concordato giunsero puntualmente, ciascuno dal
lato suo, i quattro amici al momento destinato. Porthos aveva avuto
da provare un nuovo cavallo, d’Artagnan smontava la guardia al Louvre,
Aramis avea dovuto far visita ad una sua penitente in quella contrada,
ed Athos che avea preso domicilio in via Guènegaud ci si combinava
da per sè. Furono dunque assai sorpresi d’incontrarsi al portone del
_Romitorio_, Athos sboccando dal ponte Nuovo, Porthos dalla strada del
Roule, d’Artagnan da quella dei Fossi di S. Germano l’Auxerrois, ed
Aramis dall’altra di Bethisy.

Le prime parole ricambiate fra i quattro individui, appunto per
l’ostentazione che pose ognuno nelle proprie dimostrazioni, furono
alquanto forzate, ed il pasto cominciò con qualche freddezza. Si
vedeva che d’Artagnan faceva violenza a sè stesso per ridere, Athos per
bere, Aramis per raccontare, Porthos per tacersi. Athos accortosi di
tale imbarazzo, alfine di rimediarvi, ordinò che si recassero quattro
bottiglie di Sciampagna.

Al qual comando, da lui dato con la calma sua consueta, si schiarì un
poco il sembiante al Guascone, e si rasserenò quello di Porthos.

Aramis rimase attonito. Sapeva, non solo che Athos non beveva più, ma
anche che provava pel vino una tal quale ripugnanza.

E si accrebbe in esso la meraviglia quando ei lo vide mescersi in
abbondanza e bevere coll’entusiasmo di gran tempo addietro. D’Artagnan
empiè e vuotò subito un bicchiere. Porthos ed Aramis batterono i loro
un sull’altro. In un attimo furono vuote le quattro bottiglie. Pareva
che i commensali anelassero di far divorzio coi loro occulti pensieri.

E realmente, in men che nol diciamo, quell’ottimo specifico ebbe
dissipato sino al menomo nuvolo che rimaner potesse in fondo ai loro
cuori. Si misero a parlare più forte, senza aspettare che uno avesse
terminato perchè un altro principiasse, ed a prendere sulla tavola
ciascheduno la sua positura favorita. In breve, cosa enorme! Aramis
allentò due cordoni del suo giubbetto, e Porthos ciò osservando
disciolse subito tutti i suoi.

Le battaglie, le lunghe strade, le botte date e ricevute formarono il
primo argomento della conversazione. Indi si passò alla ascosa lotta
sostenuta contro colui che ormai chiamavasi il gran ministro.

«Affè! disse scherzando Aramis, bastano gli elogi dei morti, sparliamo
un poco dei vivi. Io vorrei dire un tantinello di Mazzarino: è
permesso?

«Sempre, sempre! rispose d’Artagnan con uno scroscio di risa; narrate
la vostra storiella, e vi applaudirò s’ella è buona.

«Un gran principe, seguitò Aramis, di cui il Mazzarino ricercava
l’alleanza, fu da questi invitato a mandargli la nota delle condizioni
mediante le quali volesse fargli l’onore di trattare con lui. Il
principe, che repugnava alquanto a aver che fare con un simile
gaglioffo, fece e inviò la nota a mal in cuore. Vi erano scritte tre
condizioni che spiacevano a Mazzarino, ed egli mandò ad offrire al
principe di rinunziarvi per dieci mila scudi.

«Ah! ah! esclamarono i tre amici, non era caro, ed ei non aveva da
temere d’esser preso alla parola. Che disse l’Altezza?

«L’Altezza spedì tosto cinquanta mila lire a Mazzarino, pregandolo a
non iscrivergli mai più, ed offrendogli venti mila lire se si obbligava
a non più parlargli.

«Che fece il Mazzarino?

«Si sdegnò? chiese Athos.

«Fe’ bastonare il messaggiero? domandò Athos.

«Accettò la somma? disse d’Artagnan.

«Voi, d’Artagnan, l’avete indovinata, replicò Aramis».

E tutti proruppero in sì clamorose risate che salì l’oste a domandare
se avevano bisogno di qualcosa.

Erasi supposto che si battessero.

Alla fine si calmò l’ilarità.

«Possiamo picchiare il signor di Beaufort? propose d’Artagnan. Ne avrei
la gran voglia!

«Fate pure, rispose Aramis, il quale conosceva a fondo quell’indole
guascona sì accorta e prode che non retrocedeva giammai su verun campo.

«E voi, Athos, che ne pensate? seguitò d’Artagnan.

«Io vi giuro da gentiluomo che rideremo se ci avete garbo.

«Dunque comincio, soggiunse d’Artagnan. Un giorno di Beaufort
discorrendo con un amico del signor Principe, gli disse che sulle prime
contese di Mazzarino e del Parlamento, ei si era trovato una volta
in disputa col signor di Chavigny, e che vedendolo attaccato al nuovo
ministro, lui che in tante maniere era collegato all’antico, lo aveva
ben bene percosso.

«L’amico, il quale conosceva di Beaufort per uomo di mano assai
leggiera, non istupì mica del fatto, e se n’andò correndo a riferirlo
al Principe. Si divulga la faccenda, ed ecco che ognuno volge le spalle
a Chavigny. Questi ricerca spiegazione della freddezza generale; si va
titubanti a manifestargliela; poi v’è persona che si azzarda a dirgli
come a tutti faccia sorpresa essersi egli lasciato _percuotere_ dal
signor di Beaufort abbenchè principe.

«E chi ha detto che il principe mi aveva percosso? fece il Chavigny.

«Il principe stesso, replica l’amico.

«Si va alla fonte chiara, e si trova la persona a cui il principe ha
tenuto codesto discorso, e che scongiurata sull’onore a palesare la
verità, lo ripete e lo afferma.

«Chavigny, dolentissimo di una tale infamia, di cui non capisce un
ette, dichiara che morrà piuttosto che sopportarla. In conseguenza
manda due patrini al principe, con l’incarico d’interrogarlo se
sussista aver egli detto di avere percosso il signor di Chavigny.

«L’ho detto e lo ripeto, fa il principe, giacchè così è.

«Monsignore, soggiunge uno dei patrini di Chavigny, permetteteci di
avvertire Vostra Altezza qualmente colpi dati a un gentiluomo degradano
tanto quello che li dà quanto quello che gli riceve. Il re Luigi XIII
non voleva aver camerieri gentiluomini, per aver diritto di picchiarli.

«Veh! continuò il signor di Beaufort, e chi parla di colpi? e chi
discorre di picchiare?

«Ma voi, monsignore, che pretendete per percosso....

«Chi?

«Il signor di Chavigny.

«Io?

«Non percuoteste il signor di Chavigny, almeno da quel che dite?

«Sì.

«Ebbene! egli vi smentisce.

«Oh! fece il principe, l’ho percosso così bene, che ecco le mie proprie
parole che lo gelarono (e il signor di Beaufort vi poneva tutta la sua
maestà a voi nota): « — signor di Chavigny, siete assai da biasimare
per aver dato soccorso a un birbante qual è il Mazzarino!»

«Ah! Altezza! esclamò il patrino, comprendo! volevate dire scosso.

«O _scosso_ o _percosso_, che importa? gridò il di Beaufort, non è egli
lo stesso? Davvero i vostri compositori di frasi sono pure pedanti!»

Furono grandi risate per questo errore filologico del signor di
Beaufort, i di cui abbagli su tal genere incominciavano a passare
in proverbio, e si pattuì, che essendo per sempre bandito da quelle
amichevoli riunioni lo spirito di parte, d’Artagnan e Porthos
potrebbero burlare i principi, con patto però che Athos ed Aramis
fossero in facoltà di _percuotere_ il Mazzarino.

«Affè, disse d’Artagnan a’ suoi due amici, avete ragione di volergli
male, a Mazzarino, giacchè egli dal canto suo, e ve lo giuro, non vi
vuol punto bene.

«Uh! propriamente? fece Athos. Se credessi che quel mascalzone mi
conoscesse di nome, mi farei sbattezzare per paura che si supponesse
ch’io conoscessi lui.

«Non vi conosce per nome ma per i fatti; sa che vi sono due
gentiluomini che più particolarmente hanno contribuito alla fuga di
Beaufort, e li fa cercare con grande premura, ve lo accerto.

«Da chi?

«Da me.

«Come, da voi?

«Sì, mi ha mandato a domandare anche stamane se avevo qualche notizia.

«Su quei due gentiluomini?

«Sì.

«E che gli avete risposto?

«Che non ne ho finora, ma che pranzavo con due soggetti i quali
potrebbero darmene.

«Gli avete detto così? fece Porthos con una grossa risata che gli
allegrava la grassa faccia. Bravo! e voi, Athos, non avete paura?

«No, disse Athos, non temo già le indagini di Mazzarino.

«Voi! soggiunse Aramis, oh! ditemi un po’ di che temete!

«Nulla, almeno nel presente.

«E nel passato? chiese Porthos.

«Ah! nel passato è tutt’altro, ribattè Athos con un sospiro, nel
passato e nel futuro.

«Paventate forse per il vostro Raolo? domandò Aramis.

«Eh! disse d’Artagnan, non si rimane mai uccisi nel primo fatto.

«Nè al secondo, ribattè Aramis.

«Nè al terzo, accrebbe Porthos. E poi, quando si è uccisi, si ritorna,
e la prova ne sia che eccoci qua.

«No, ripigliò Athos, non è tampoco Raolo che mi dia inquietudine,
mentre spero si conterrà da gentiluomo, e se resta ucciso, ebbene! lo
sarà valorosamente; ma ecco.... se gli accadesse tal disgrazia....»

Athos si passò la mano sulla fronte scolorita.

«Dite su.... lo spronò Aramis.

«Dico, che quella disgrazia sarebbe da me riguardata come un’espiazione.

«Ah ah! esclamò d’Artagnan, so io di che intendete.

«E anch’io, confermò Aramis, ma non bisogna pensarci, il passato è
passato.

«Non capisco, obiettò Porthos.

«L’affare di Armentières, bisbigliò piano d’Artagnan.

«D’Armentières?

«Milady....

«Ah sì, fece Porthos, l’avevo dimenticato».

Athos lo guatò con l’occhio suo penetrante, e disse:

«Dimenticato? voi, Porthos!

«Eh sì, è tanto tempo!

«Dunque non vi sta più sulla coscienza?

«Ma no! replicò Porthos.

«Ed a voi, Aramis?

«Ci penso qualche volta come ad uno di quei casi di coscienza che più
danno luogo a discussione.

«E a voi, d’Artagnan?

«Io confesso che quando la mia mente si ferma su quell’epoca terribile
non ha altre rimembranze che per il corpo gelido della povera signora
Bonacieux. Sì, sì...., mormorò, spesso provai de’ rammarici per la
vittima, non mai rimorsi pel di lei assassino.

«Riflettete, osservò Aramis, che ammessa la divina giustizia e la sua
partecipazione alle cose di questo mondo, quella donna fu punita per
volere di Dio. Noi fummo gli stromenti, e non altro.

«Ma il libero arbitrio?

«Che fa il giudice? ha esso pure il suo libero arbitrio, e condanna
senza paura. Che fa il carnefice? è padrone del proprio braccio, eppure
colpisce senza rimorso.

«Il carnefice.... borbottò Athos, e ben vedevasi che lo tratteneva una
qualche ricordanza.

«So ch’è cosa tremenda, proseguì d’Artagnan; ma quando penso che noi
uccidemmo Inglesi, Roccellesi, Spagnuoli, anco Francesi, i quali non ci
avevano fatto mai altro male che pigliarci di mira collo schioppo senza
coglierci, e non avevano avuto verso di noi altro torto che incrociare
il loro ferro col nostro e non arrivare a tempo a parare, mi scuso per
la mia parte nell’uccisione di quella femmina, in parola d’onore.

«Io, disse Porthos, adesso che me lo avete rimesso in mente, caro
Athos, rivedo la stessa scena come se ci fossi sempre. Milady era
costà, dove voi siete (Athos impallidì); io stava nel posto dov’è ora
d’Artagnan. Io avevo al fianco una spada che tagliava come una lama
di Damasco; ve ne rammentate, Aramis, che la chiamavate la Balizarda?
Or bene! vi giuro a tutti e tre, che se non vi fosse stato il boja di
Bethune.... È di Bethune?.... sì sì, di Bethune.... avrei troncato il
collo a quella scellerata, senza rimetterci le mani due volte, e anco
rimettendole.... l’era una donna iniqua!

«E poi, disse Aramis in tuono di non curante filosofia, a che giova
pensare a tutto questo? quel ch’è stato è stato. Ci confesseremo di
quest’azione nell’ora suprema, e Dio saprà meglio di noi se sia un
delitto, un fallo, o un’azione meritoria. Pentirmene, voi mi direte? oh
no, per Bacco! non me ne pento se non perchè era una donna.

«Ciò che è più atto a metterci in quiete, osservò d’Artagnan, egli è
che di tutto quel passato non rimane alcuna traccia.

«Aveva un figlio, notò Athos.

«Ah sì, lo so, disse d’Artagnan, e me ne avete parlato; ma chi sa
poi che ne sia stato di lui? morto il serpe, estinto il covo! credete
che di Winter suo zio abbia allevato quel serpentello? Di Winter avrà
condannato il figliuolo siccome condannò la madre.

«Allora, rilevò Athos, guai a di Winter, giacchè il bambino nulla aveva
fatto, nulla!

«Il bambino morì, o che il diavolo mi porti! seguitò Porthos. V’è tanta
nebbia in quel brutto paese, almeno a quel che dice d’Artagnan».

Nel punto in cui questa conclusione di Porthos era forse prossima a
riportare un certo brio su tutte quelle faccie più o meno accigliate,
si udì rumore di passi per la scala, e fu bussato all’uscio.

«Entrate! disse Athos.

«Signori, avvertì l’oste, v’è un giovanotto che con molta premura
chiede di parlare ad uno di voi altri.

«A quale? domandarono in quattro.

«A quello che si chiama conte de la Fère.

«Son io, rispose Athos. E che nome ha colui?

«Grimaud.

«Oh! fece Athos, e diveniva smorto in viso, digià tornato? E che mai
sarà accaduto a Bragelonne?

«Venga! ordinò d’Artagnan, venga pure!»

Ma Grimaud aveva già fatta tutta la scala ed attendeva sull’ultimo
gradino. Si slanciò nella stanza, e con un gesto licenziò il
locandiere.

Il locandiere richiuse l’usciale. I quattro gentiluomini rimasero in
ansietà. L’azione di Grimaud, pallido, sudante, tutto malconcio dalla
polvere che aveva addosso, annunziava esser egli messaggero di qualche
nuova interessante e tremenda.

«Signori, ei disse, quella donna aveva un bambino, il bambino è
diventato un uomo; la tigre aveva un figliuoletto, ora il tigre è
cresciuto, vi viene incontro, badate a voi!»

Athos guardò i compagni con un sorriso malinconico; Porthos si
cercava al fianco la spada che aveva appesa al muro, Aramis afferrò un
coltello; d’Artagnan si rizzò in piedi.

«Che vuoi tu dire, Grimaud? esclamò questi.

«Che il figlio di Milady ha abbandonato l’Inghilterra, è in Francia,
viene a Parigi, se a quest’ora non v’è.

«Diamine! disse Porthos, sei sicuro?

«Sicuro» confermò Grimaud.

Lungo silenzio accolse questa dichiarazione. Grimaud era sì stanco ed
ansante che cascò sopra una seggiola.

Athos avendo riempito un bicchiere di vino di Sciampagna glielo recava.

«Or bene, in sostanza, fece d’Artagnan, quando vivesse, quando venisse
a Parigi, ne abbiamo vedute di più belle! che venga!

«Sì, aggiunse Porthos esaminando con compiacenza il brando appeso alla
parete, lo aspettiamo, venga!

«E d’altronde, è un ragazzo!» rimarcò Aramis.

Grimaud si levò fieramente.

«Un ragazzo! gridò, sapete che cosa ha fatto quel ragazzo? Travestito
da monaco ha scoperto tutta la storia in un colloquio avuto col boja di
Bethune, il quale credendolo realmente tale, voleva confessarsi, e dopo
aver da lui saputo tutto, gli ha piantato nel cuore questo pugnale.
Ecco, esso è ancora rosso e bagnato, giacchè non sono più di trenta ore
ch’è tratto fuori dalla piaga».

E Grimaud gittò sulla tavola lo stiletto dimenticato dal finto frate
nella ferita del boja.

D’Artagnan, Porthos ed Aramis si alzarono con un movimento spontaneo, e
corsero ad impugnare le spade.

Athos solo restò seduto, quieto e pensoso.

«E dici tu, Grimaud, ch’è vestito da monaco?

«Sì.

«E che uomo è egli?

«Del mio personale, secondo mi riferì l’oste, magro, pallido, con occhi
turchini chiari e capelli biondi.

«E.... non ha veduto Raolo? domandò Athos.

«Anzi, si sono incontrati, ed il visconte stesso lo ha condotto presso
al letto del moribondo».

Athos senza fiatare si levò a distaccare dal muro il suo brando.

«Ehi, signori! disse d’Artagnan procurando di scherzare, ma sapete che
facciamo la figura di tante donnicciuole? Come! noi quattro uomini,
che senza far motto siamo stati a fronte a intere armate, ora tremiamo
davanti ad un fanciullo!

«Sì, replicò Athos, ma quel fanciullo viene in nome di Dio».

E tutti uscirono in fretta dall’albergo.



XXXIX.

_Lettera di Carlo I._


È d’uopo che adesso il leggitore passi con noi la Senna, e ci segua
sino al convento delle Carmelitane in via di San Jacopo.

Sono le undici della mattina, e le divote suore hanno fatto dire una
messa pel buon successo delle armi del re Carlo I. Uscite di chiesa,
una donna ed una giovinetta, vestite di nero, quella come una vedova e
questa come un’orfanella, sono rientrate nella lor cella.

La donna si è genuflessa sur un inginocchiatojo di legno tinto, e a
poca distanza da lei la giovane appoggiandosi ad una sedia rimane in
piedi e piange.

La donna dev’essere stata bella; ma si scorge che le lacrime le hanno
data l’apparenza di vecchia. La giovinetta è vaghissima, e le lacrime
l’abbelliscono vie più. La donna mostra aver quarant’anni, la giovane
ne ha quattordici.

«Mio Dio! diceva la supplice genuflessa, deh! conservate il mio sposo,
il mio figlio, e vi prendete questa mia vita tanto misera e trista.

«Mio Dio! diceva l’altra, deh! conservatemi mia madre!

«Vostra madre non può fare per voi più cosa alcuna in questo mondo,
Enrichetta; fece volgendosi l’afflitta che pregava, essa non ha più
trono, nè consorte, nè figlio, nè danari, nè amici; vostra madre è
abbandonata dall’universo».

E gittandosi nelle braccia della figliuola che si avanzava a
sostenerla, proruppe ella pure in singulti.

«Madre mia, fatevi coraggio! seguitò la fanciulla.

«Ah! quest’anno i re sono sfortunati, rispose la più attempata posando
la testa sulla di lei spalla, e nessuno in questo paese pensa a noi,
chè ognuno pensa ai propri affari. Sino a tanto che fu con noi vostro
fratello, ei mi sostenne, ma è partito, ed ora non può dar nuove di sè
nè a me nè a suo padre. Io ho impegnate le ultime mie gioje, venduti
i miei panni ed i vostri, onde pagare il salario a’ suoi servi, che
ricusavano di accompagnarlo se non avessi fatto un tale sacrifizio.
E noi siamo ridotte a vivere a spese delle figlie del Signore; siamo
poverelle soccorse da Dio.

«Ma perchè non vi rivolgete alla regina vostra sorella? domandò la
zittella.

«Ahimè! la regina mia sorella non è più regina, e un altro regna in
nome di lei. Un giorno potrete comprendere questo.

«Or bene, allora al re vostro nepote. Volete ch’io gli parli? Sapete
quanto mi ama!

«Ah! il re mio nepote non è ancor re, ed egli stesso, non lo ignorate,
e venti volte ce lo disse Laporte, egli stesso è sprovvisto di tutto.

«Dunque, volgiamoci a Dio» soggiunse la meschinella.

E s’inginocchiò accanto alla genitrice.

Le due donne così in orazione ad un medesimo inginocchiatojo erano la
figlia e la nepote di Enrico IV, la moglie e la figliuola di Carlo I.

Terminavano la duplice preghiera, quando una religiosa battè pian piano
all’uscio della cella.

«Entrate, sorella» disse la più attempata alzatasi ed asciugandosi gli
occhi.

La monaca schiuse la porta rispettosamente.

«Vostra Maestà si compiacerà scusarmi se la disturbo nelle sue
meditazioni, essa disse, ma v’è nel parlatorio un signore straniero
arrivato dall’Inghilterra, che domanda l’onore di presentarle una
lettera.

«Oh! una lettera! forse del re!... Notizie di vostro padre, al certo!
sentite, Enrichetta?

«Sì, l’odo, e lo spero.

«E chi è quel signore?

«Un gentiluomo di quaranta a quarantacinque anni.

«Il suo nome? ha detto il suo nome?

«Milord di Winter.

«Milord di Winter! l’amico del mio sposo! Ah, fatelo entrare!...»

E la regina corsa incontro al messaggiero, gli prese la mano con la
massima premura.

Lord di Winter s’inginocchiò e porse un foglio arrotolato dentro un
astuccio d’oro.

«Ah! disse la regina, voi ci recate tre cose che da gran tempo non
vedemmo: oro, un amico zelante, ed una lettera del nostro sposo e
signore».

Di Winter fece un altro saluto, ma non potè rispondere per la troppa
commozione.

«Milord, continuò la sovrana accennando la missiva, capite che ho
ansietà di sapere che contenga questo foglio.

«Signora, io mi ritiro.

«No, trattenetevi: leggeremo davanti a voi: non capite che ho da farvi
mille domande?»

Di Winter retrocedè di alcuni passi, e rimase in piedi e in silenzio.

Madre e figlia dal canto loro eransi ricovrate nel vano della finestra,
e scorrevano la seguente epistola:

      «Signora e cara sposa

  «Eccoci giunti al termine. Tutte le risorse che mi ha lasciate
  Iddio sono concentrate in questo campo di Naseby, d’onde vi scrivo
  in fretta. Qua aspetto l’armata de’ miei sudditi ribelli, e vo a
  contrastare con essi anco una volta. Vincitore, fo perpetuar la
  lotta; vinto, sono del tutto rovinato. In quest’ultimo caso (ahimè!
  quando si è nel grado a cui noi siamo, tutto si dee prevedere)
  voglio tentare di arrivare alle coste di Francia. Ma si potrà, si
  vorrà ivi accogliere un infelice re che rechi sì funesto esempio
  in un paese digià sollevato dalle civili discordie? Mi serviranno
  di guida la vostra saviezza e il vostro affetto. Il latore della
  presente vi dirà ciò ch’io non posso affidare a’ rischi di un
  incidente qualunque. Esso vi spiegherà quali diligenze mi aspetto
  da voi. Gli commetto puranco di recare la mia benedizione a’ miei
  figli, insieme colle espressioni più cordiali per voi, signora e
  diletta sposa».

La lettera era firmata, non già _Carlo re_, ma _Carlo ancora re_.

La trista lettura, di cui di Winter osservava tutte le impressioni sul
volto della regina, portò pur non ostante nelle di lei pupille un lampo
di speme.

«Che non sia pur re! ella esclamò, sia vinto, esule, proscritto, ma
viva!... Ah! il trono è oggi un posto troppo periglioso per ch’io
desideri ch’ei vi rimanga.... Ma ditemi, milord, non mi occultate
nulla, dov’è egli? la sua situazione è tanto disperata quanto egli si
crede?

«Più disperata ch’ei non lo pensi, o signora. Sua Maestà ha il cuore
sì buono che non comprende l’odio, sì leale che non si figura il
tradimento. L’Inghilterra è attaccata da uno spirito di vertigine,
ch’io temo non si estingua se non nel sangue.

«Ma lord Montrose? Io aveva udito a parlare di grandi e rapidi
successi, di battaglie guadagnate ad Inverlashy, ad Auldone, ad Alfort
e a Kilsyth. Avevo inteso dire marciasse alla frontiera per riunirsi al
suo re.

«Sì, ma alla frontiera ha incontrato Lesly. Egli aveva stancata la
vittoria a forza d’imprese sovrumane, e la vittoria lo ha abbandonato.
Montrose battuto a Phillippaugh è stato costretto a licenziare i resti
della sua armata ed a fuggire travestito da lacchè. Egli è a Bergen in
Norvegia.

«Dio lo salvi! disse la Regina. Almeno è una consolazione il sapere che
siano in sicuro quei che tante volte arrischiarono per noi la propria
vita. Ed ora che veggo la posizione del re quale essa è, cioè senza
scampo, ditemi ciò di che siete incaricato dal mio regio sposo.

«Or bene, rispose di Winter, il re brama che procuriate di penetrare le
disposizioni del re e della regina a suo riguardo.

«Ma lo sapete pure! il re è un bambinello, e la regina è una donna
anche ben debole: il signor di Mazzarino è tutto.

«Vorrebbe forse fare in Francia la parte che fa Cromvello in
Inghilterra?

«No no; è un Italiano scaltro e basso, che probabilmente sogna il
delitto, ma non oserà mai commetterlo; ed al contrario di Cromvello
che dispone di ambo le Camere a suo talento, Mazzarino non ha altro
appoggio che la regina nel suo conflitto col Parlamento.

«Allora, ragione di più perchè protegga un re contro il quale sono
accaniti i Parlamenti».

La regina scosse il capo, e disse con qualche amarezza:

«Milord, se ho da giudicare da me stessa, il ministro non farà cosa
alcuna, o forse anco sarà contro a noi. Già gli sono di peso la
presenza mia e quella di mia figlia in Francia: tanto più quella del
re. Milord! è cosa trista e quasi vergognosa a dirsi; ma noi abbiamo
passato l’inverno al Louvre, senza danaro, senza panni, quasi senza
pane, e spesso non alzandoci dal letto per mancanza di fuoco!

«Orrore! esclamò di Winter, la figlia di Enrico IV, la moglie del re
Carlo! E perchè non vi rivolgeste a qualunque di noi?

«Ecco l’ospitalità che dà ad una regina il ministro a cui vuole il re
ora richiederla.

«Io però aveva udito a discorrere di un matrimonio tra monsignore
principe di Galles e madamigella d’Orleans.

«Sì, lo sperai per un momento; essi si amavano, ma la regina che
sul principio avea secondato questo amore ha cangiato idee, ma il
duca d’Orleans, che aveva incoraggito il cominciamento della loro
familiarità, ha proibito alla figliuola di più pensare ad una tale
unione. Ah! (continuava la regina senza nemmeno badare a tergere le
lacrime) è meglio combattere come ha fatto il re, e morire come forse
ei morrà, che vivere mendicando come fo io.

«Coraggio, signora, coraggio! non disperate; gl’interessi della corona
di Francia in questo punto tanto compromessi, sono di combattere la
ribellione presso il popolo il più vicino. Mazzarino è uomo di Stato, e
comprenderà questa necessità.

«Ma siete sicuro, domandò la regina in atto di dubbio, di non essere
prevenuto?

«Da chi? fece di Winter.

«Dai Joyce, dai Priedge, dai Cromvello.

«Da un sartore! da un carrettiere! da un birrajo!... Oh! mi lusingo che
il ministro non entrerebbe in alleanza con simili uomini.

«Ed egli stesso che cos’è? seguitò Enrichetta.

«Ma per l’onore del re, per quello della regina....

«Animo, lusinghiamoci che faccia qualche cosa per questo onore; disse
Enrichetta. Milord, un amico possiede una sì buona eloquenza che voi mi
riconfortate. Sicchè datemi la mano, e andiamo dal ministro.

«Signora, replicò di Winter inchinandosi, tanto onore mi confonde.

«Però, alfine, se egli ricusasse, obiettò la regina, ed il re perdesse
la battaglia?

«Allora Sua Maestà si rifugierebbe in Olanda, dove ho inteso dire
ch’era monsignore principe di Galles.

«E Sua Maestà potrebbe per la sua fuga riposarsi sopra molti servi
eguali a voi?

«Ahimè! no; ma il caso è preveduto, ed io vengo a cercare in Francia
degli alleati.

«Alleati! ripetè la regina scuotendo il capo.

«Pur ch’io ritrovi antichi amici ch’ebbi in passato, ribattè di Winter,
e tutto garantisco.

«Si vada, milord, riprese Enrichetta colla dolorosa dubitanza delle
persone che furono per lungo tempo infelici, si vada, e Dio vi
ascolti!»

Ella salì in carrozza, e di Winter a cavallo, seguito da due domestici
l’accompagnò vicino allo sportello.



XL.

_Lettera di Cromvello._


Nel momento in cui Enrichetta lasciava il convento per recarsi al
Palazzo Reale, smontava da cavallo al portone di quella dimora un tale
che avvisava alle guardie aver cose importanti da dire al ministro.

Sebbene Mazzarino avesse sempre paura, siccome aveva però anche più
sovente bisogno d’informazioni e consigli, era molto accessibile. Non
alla prima porta si trovava la vera difficoltà, facilmente si passava
pure la seconda, ma alla terza invigilava oltre la guardia e gli
uscieri il fido Bernouin, cerbero cui non rimuoveva parola alcuna, cui
non incantava alcun ramo nemmeno se fosse stato d’oro.

E quindi alla terza che accenniamo dovea subire l’interrogatorio
formale quegli che chiedeva o reclamava un’udienza.

L’uomo arrivato allora avendo lasciato il suo palafreno legato alle
inferriate del cortile, salì la scala grande, e domandò alle guardie
nella prima sala:

«Il signor ministro?

«Passate» quelle risposero senza alzare gli occhi, chi di su le carte
e chi di su i dadi, e d’altronde contentissime di far capire che non
toccava a loro il far l’uffizio di servitori.

Il cavaliero entrò nella sala seconda. A questa stavano in custodia i
moschettieri e gli uscieri.

Ed egli ripetè la richiesta.

«Avete una lettera d’udienza? disse un usciere avanzandosi incontro a
lui.

«Ne ho una, ma non del ministro.

«Entrate, e fate ricerca del signor Bernouin».

Ciò detto, l’usciere aprì la porta della terza stanza.

Dietro a quella, o per caso o per abitudine, stava in piedi Bernouin,
ed aveva inteso tutto.

«Son io quello che cercate, egli disse; di chi è la lettera che recate
a Sua Eccellenza?

«Del generale Oliviero Cromvello; favorite dir questo nome a Sua
Eccellenza, e riferirmi se vuol ricevermi o no» disse il sopraggiunto.

E rimase là ritto nell’attitudine altera e triste, particolare ai
puritani.

Bernouin, dopo aver vôlto su tutta la persona del giovane uno sguardo
indagatore, passò di nuovo nel gabinetto del ministro, a cui trasmise
le parole del messaggiero.

«Un uomo latore di una lettera di Oliviero Cromvello? disse Mazzarino,
e che specie d’uomo?

«Un vero Inglese, monsignore; capelli biondi rossicci, piuttosto
rossicci che biondi; occhio grigio, turchino, piuttosto grigio che
turchino, e in quanto al resto orgoglio e faccia tosta.

«Dia il dispaccio.

«Monsignore chiede il dispaccio, disse Bernouin venendo fuori dal
gabinetto.

«Monsignore non vedrà il dispaccio senza il portatore; rispose il
giovane, ma per convincervi che realmente io l’ho, ecco, guardatelo».

Bernouin guardò il suggello, e visto che il plico veniva veramente dal
generale Oliviero Cromvello, si disponeva a tornare presso a Mazzarino.

«Aggiungete, disse il forestiero, ch’io sono, non un semplice
messaggiero, ma un inviato straordinario».

Bernouin passò da capo di là, ed indi a pochi minuti secondi
ricomparve, dicendo:

«Entrate».

E teneva l’uscio schiuso.

Mazzarino aveva avuto d’uopo di tutte quelle gite in su ed in giù
onde calmare l’emozione cagionatagli dall’annunzio di quel piego, ma
per quanta perspicacia si avesse, cercava invano qual motivo potesse
indurre Cromvello a porsi seco in comunicazione.

Lo straniero si mostrò sulla soglia del gabinetto; teneva in una mano
il cappello e nell’altra la lettera.

Mazzarino si alzò.

«Signore, disse, avete una lettera di raccomandazione per me?

«Eccola, Eccellenza» rispose il giovine.

Il ministro prese il foglio, lo dissigillò, e lesse:

  «Il signor Mordaunt, uno dei miei segretarj, consegnerà la
  presente lettera d’introduzione a Sua Eccellenza il signor ministro
  Mazzarino in Parigi; ed è latore puranco per Sua Eccellenza di una
  seconda lettera confidenziale».

                                              «Oliviero Cromvello».

«Benissimo, signor Mordaunt, disse il ministro, datemi la seconda, e
sedete».

Il giovanetto si levò di tasca l’altro foglio, e lo diede e si assise.

Intanto Mazzarino tutto assorto nelle sue riflessioni aveva presa
la missiva, e senza disigillarla se la girava tra le dita; ma per
confondere il messaggiero si mise ad interrogarlo al suo solito, e
convinto com’era dall’esperienza che pochi potevano occultargli qualche
cosa quando guatava fisso interrogando, disse a colui:

«Signor Mordaunt, siete molto giovane per questo scabroso mestiere di
ambasciatore; in cui male riescono talvolta i più vecchi diplomatici.

«Monsignore, ho ventitrè anni, ma Vostra Eccellenza fa sbaglio nel
dirmi che son giovane; ho maggiore età che l’Eccellenza Vostra, sebbene
non abbia la di lei saviezza.

«Come, come? replicò Mazzarino, non vi capisco.

«Dico che gli anni del soffrire contano per doppi, ed io soffro da
venti anni.

«Ah sì, v’intendo, mancanze di fortune; siete povero, è vero?»

Ed il ministro aggiunse fra sè:

«Questi rivoluzionarj inglesi sono tutti miserabili e villani.

«Monsignore, dovevo aver un giorno un patrimonio di sei milioni, ma mi
fu preso.

«Dunque non siete un uomo del volgo?

«Se portassi il mio titolo, sarei lord; se portassi il mio nome,
avreste udito uno dei nomi più illustri dell’Inghilterra

«Come vi chiamate?

«Mi chiamo Mordaunt, rispose il forestiero inchinandosi».

Mazzarino si accorse che l’inviato di Cromvello bramava mantenersi
incognito.

Si tacque per un momento, ma in quel momento l’osservò anche con più
attenzione di prima.

L’altro se ne stava impassibile.

«Maledetti questi puritani! brontolò piano il ministro, e’ son fatti di
marmo».

E poi ad alta voce:

«Ma vi rimangono dei parenti.

«Uno, monsignore.

«E allora, vi ajuta?

«Tre volte mi sono presentato per implorare il suo appoggio, ed
altrettante mi ha fatto cacciar via da’ suoi domestici.

«Oh mio Dio! caro signor Mordaunt, esclamò Mazzarino lusingandosi di
far cadere in qualche laccio il suo interlocutore mediante la sua finta
pietà, quanto m’interessa il vostro racconto! Sicchè non conoscete la
vostra nascita?

«Non la conosco se non da poco in qua.

«E sino al momento che ne aveste cognizione?...

«Mi consideravo come un fanciullo abbandonato.

«Dunque non vedeste mai vostra madre?

«Sì! quando ero bambino essa venne tre volte dalla mia balia;
dell’ultima mi ricordo come se fosse oggi.

«Avete buona memoria.

«Oh sì, monsignore! replicò il giovane con un accento tanto singolare
che il ministro si sentì un brivido nelle vene.

«E chi vi allevava? domandò questi.

«Una nutrice francese, la quale mi mandò via quando ebbi cinque anni,
perchè nessuno la pagava più, nominandomi quel parente di cui spesso le
aveva parlato mia madre.

«E che faceste?

«Mentre piangevo e mendicavo sulla strada maestra, un ministro di
Kingston mi ricovrò, m’istruì nella religione calvinista, mi trasfuse
tutta la scienza che aveva egli stesso, e mi ajutò nelle ricerche ch’io
feci della mia famiglia.

«E le ricerche?....

«Sortirono infruttuose: il caso fece tutto.

«Scopriste che ne fosse della vostra genitrice?

«Seppi ch’era stata assassinata da quel congiunto ajutato da quattro
amici suoi; ma già sapevo ch’ero stato degradato dalla nobiltà e
spogliato di tutti i miei beni da Carlo I.

«Ah! comprendo adesso perchè servite il signor Cromvello. Voi odiate il
re.

«Sì, monsignore, io l’odio».

Mazzarino stupì nel mirare l’espressione diabolica apparsa sul viso
al giovane mentre pronunciò queste parole; come i volti ordinarj si
colorano di sangue e si arrossano, così il suo colorandosi di fiele
diventò quasi livido.

«È terribile la vostra storia, signor Mordaunt, e m’interessa
oltremodo; ma per vostra buona sorte voi servite un padrone
potentissimo. Esso deve ajutarvi nelle vostre indagini. Abbiamo tante
maniere d’informazioni noi altri!

«Monsignore, a un buon cane da caccia basta mostrare il principio di
un’orma perchè arrivi di certo al fine della via.

«Ma al congiunto del quale mi discorrevate, volete voi ch’io gli parli?
domandò Mazzarino a cui premeva di farsi un amico presso a Cromvello.

«Grazie, Eccellenza, gli parlerò da per me.

«Ma non diceste che vi trattava male?

«Mi tratterà meglio alla prima volta che lo vedrò.

«Avete dunque un mezzo d’intenerirlo?

«Ho un mezzo di farmi temere».

Il ministro guardava il giovane che così favellavagli, ma al lampo
che gli uscì dagli occhi egli abbassò la fronte, ed imbarazzato per
continuare una tal conversazione, aperse la lettera di Cromvello.

A poco a poco si oscurarono di nuovo le pupille del messaggiero, ed
esso piombò in profonda meditazione. Mazzarino, dopo aver letti i primi
versi, si azzardò a guardare sott’occhi se Mordaunt stesse attento ai
cambiamenti della sua fisonomia, e vedutolo anzi indifferente, borbottò
stringendosi nelle spalle:

«Oh! andate a far fare le vostre faccende da genti che nello stesso
tempo fan le loro proprie! Orsù, vediamo che si vuole da me con questo
foglio».

Noi ne riproduciamo il tenore preciso:

  «A Sua Eccellenza il ministro signor Mazzarino.

      «Monsignore,

  «Io ho voluto conoscere le vostre intenzioni in proposito degli
  affari attuali dell’Inghilterra. Troppo sono vicini i due regni
  perchè la Francia non si occupi della nostra situazione, siccome
  noi ci occupiamo di quella di lei. Gl’Inglesi sono quasi tutti
  unanimi per combattere la tirannia del re Carlo e dei suoi
  partigiani. Io, posto dalla pubblica fiducia alla testa di
  questo movimento, ne apprezzo meglio di chiunque la natura e
  le conseguenze. Oggi io fo la guerra, vo a dare una battaglia
  decisiva al re Carlo. La vincerò, perocchè ho meco la speranza
  della nazione e lo spirito del Signore. Vinta questa battaglia,
  il re non ha più risorse in Inghilterra nè in Iscozia, e se non
  è preso od ucciso, tenterà di passare in Francia onde reclutare
  soldati e riprovvedersi di armi e danaro. La Francia ha digià
  ricevuta la regina Enrichetta, e, senza dubbio involontariamente ha
  mantenuto un fuoco inestinguibile di guerra civile nel mio paese;
  ma Enrichetta è figlia della Francia, e dalla Francia le era dovuta
  l’ospitalità. Per il re Carlo la questione cambia di aspetto:
  accogliendolo e soccorrendolo, la Francia disapproverebbe gli atti
  del popolo inglese, e nuocerebbe cotanto all’Inghilterra, ed in
  particolare ai procedimenti del governo ch’essa vuol seguire, che
  un tale stato sarebbe equivalente a ostilità manifeste.

A questo punto Mazzarino, inquietissimo per l’andamento che prendeva la
missiva, cessò da capo di leggere e osservò alla sfuggita il Mordaunt.

Questi stava tuttavia pensieroso, ond’egli seguitò:

  «È quindi urgente, monsignore, ch’io sappia quale idea farmi
  delle vedute della Francia. Gl’interessi di questo regno e quei
  dell’Inghilterra, sebbene diretti in senso inverso, sono fra loro
  più collegati che non possa credersi. L’Inghilterra ha bisogno
  di tranquillità interna per compiere l’espulsione del suo re; la
  Francia ha bisogno di questa tranquillità per consolidare il trono
  del suo giovane monarca. Voi avete d’uopo al pari di noi di quella
  pace interiore a cui noi siamo prossimi mercè l’energia del nostro
  governo.

  «Le vostre contese col parlamento, le clamorose vostre dissensioni
  coi principj che oggi combattono per voi e domani contro voi
  combatteranno, la tenacità popolare diretta dal coadjutore, dal
  presidente Blancmesnil e dal consigliere Broussel; finalmente
  tutto quel disordine che va percorrendo i diversi gradini dello
  stato, deve farvi considerare con inquietudine l’eventualità di una
  guerra estera, poichè allora l’Inghilterra agitata dall’entusiasmo
  delle idee nuove farebbe alleanza colla Spagna che digià brama
  questa unione. Io ho pensato adunque, monsignore, conoscendo la
  vostra prudenza e la situazione individuale in cui vi pongono
  oggi gli avvenimenti, che preferireste concentrare le vostre forze
  nell’interno del regno di Francia, ed abbandonare alle sue proprie
  il nuovo governo dell’Inghilterra. Questa neutralità consiste
  soltanto ad allontanare il re Carlo dal territorio di Francia, e
  non soccorrere nè con armi, nè con danari, nè con truppe, quel re
  affatto straniero al vostro paese.

  «Così la mia lettera è del tutto confidenziale, e perciò ve la
  spedisco per mezzo di un soggetto avente l’intima mia fiducia. Per
  un sentimento che Vostra Eccellenza apprezzerà, essa precederà le
  misure che io prenderò secondo le circostanze. Oliviero Cromvello
  ha stimato che fosse meglio far intendere la ragione ad una
  mente intelligente com’è quella di Mazzarino, che ad una regina,
  certamente ammirabile per la sua fermezza, ma troppo sottomessa ai
  vani pregiudizi della nascita e del regio diritto.

  «Addio, monsignore; se non ho risposta fra quindici giorni, terrò
  questa mia come non avvenuta.

                                              «Oliviero Cromvello».

«Signor Mordaunt, disse alzando la voce il ministro, quasi per destare
il gran meditatore, la mia risposta a questo dispaccio sarà tanto
più soddisfacente pel generale Cromvello quanto io sarò più sicuro
che non si sappia avergliela io data. Sicchè andate ad attenderla a
Boulogne-sur-mer, e promettetemi di partire domattina.

«Ve lo prometto, monsignore; ma quanti giorni Vostra Eccellenza me la
farà attendere?

«Se non l’avete ricevuta fra dieci giorni, potete partire».

Mordaunt fece un inchino.

«Questo non basta, continuò Mazzarino, le vostre particolari avventure
mi hanno interessato al sommo; inoltre il dispaccio del signor
Cromvello vi rende agli occhi miei importante come ambasciadore. Ditemi
pure, ve lo ripeto, che posso fare per voi?»

Il giovane riflettè un momento, e dopo una visibilissima titubanza era
per aprir bocca e parlare, ma entrò colà precipitosamente Bernouin, e
chinatosi all’orecchio al ministro gli discorse piano.

«Monsignore, gli disse, la regina Enrichetta accompagnata da un
gentiluomo inglese arriva in questo punto al palazzo reale».

Mazzarino fece un balzo sulla seggiola, e questo osservato da Mordaunt
gli trattenne sul labbro la confidenza che a fare si accingeva.

«Signore, disse il ministro, avete inteso, non è vero? io vi prefiggo
Boulogne, nell’idea che qualunque città di Francia vi sia indifferente;
se un’altra ne preferite, nominatela; ma comprenderete facilmente che
in mezzo a tante influenze alle quali non mi sottraggo se non a forza
di segretezza, desidero che non sia nota la vostra presenza in Parigi.

«Partirò, Eccellenza, rispose Mordaunt, muovendo alcuni passi verso
l’uscio da cui era entrato.

«Non di là, no! esclamò con impeto il Mazzarino, compiacetevi passare
da questa galleria da dove arriverete nell’atrio. Bramo che non siate
veduto ad uscire. Il nostro abboccamento deve rimaner segreto».

Mordaunt andò con Bernouin, che lo fece passare in un salotto contiguo
e lo consegnò ad un usciere indicandogli la porta d’onde avesse da
andarsene.

E Bernouin tornò in fretta dal suo padrone per introdurre presso di lui
la regina Enrichetta, che già traversava dalla galleria dei cristalli.



XLI.

_Mazzarino ed Enrichetta._


Il ministro si alzò e si fece sollecito a ricevere la regina
d’Inghilterra. La raggiunse in mezzo alla galleria che precedeva il
gabinetto.

Ei dimostrava tanto maggior rispetto a quella sovrana senza seguito
nè vestiario di lusso, in quanto che aveva da farsi qualche rimprovero
sulla sua avarizia e sul suo cattivo cuore.

Ma i supplicanti sanno forzare il proprio volto ad assumere qualunque
sembianza, e la figlia di Enrico IV sorrideva venendo dinanzi a colui
che abborriva e disprezzava.

«Ah! fece tra sè Mazzarino, che viso dolce! venisse mai a chiedermi
danaro a prestito?»

E diede un’occhiata di mal umore al suo forziere; tirò anche in
dentro il castone del magnifico diamante il di cui fulgore attraeva
gli sguardi sulla sua mano che d’altronde era bianca e ben fatta.
Disgraziatamente quell’anello non aveva la virtù di quello di Gygés che
rendeva il suo padrone invisibile quando faceva l’atto allora fatto da
Mazzarino.

Ora, il ministro avrebbe bramato assai di essere invisibile in
quell’istante, giacchè indovinava ch’Enrichetta si recasse da lui a
domandargli qualche cosa: tosto che una regina da esso trattata tanto
male compariva col sorriso sul labbro, invece che in tuono minaccioso,
arrivava di certo a supplicare e non altro.

«Signore, disse l’augusta visitante, sul primo avevo idea di ragionare
dell’affare che qui mi conduce colla regina mia sorella, ma ho
riflettuto che le faccende politiche riguardano innanzi a tutto gli
uomini.

«Vostra Maestà creda pure, rispose il ministro, che ella mi confonde
con questa lusinghiera distinzione.

«È assai grazioso, pensò la regina; che avesse capito tutto?»

Erano nel gabinetto. Mazzarino fece sedere Enrichetta, e poi le disse:

«Date gli ordini vostri al più rispettoso dei vostri servi.

«Ohimè! ella replicò, ho perduta l’abitudine di dar ordini, e ho preso
quella di far delle preghiere. Ed una vengo ad avanzare a voi, ben
fortunata se può essere esaudita.

«Vi ascolto, signora.

«Si tratta della guerra che il re mio consorte sostiene contro i suoi
sudditi ribelli. Forse ignorate che in Inghilterra v’hanno continui
combattimenti, ed altri ve ne avranno tra poco, molto più decisivi che
sinora non fossero?

«Lo ignoro del tutto. (Ed il ministro si stringeva nelle spalle nel
pronunziare queste parole) eh! le guerre nostre occupano abbastanza il
tempo e la mente di un povero ministro inetto ed infermo quale io sono.

«Or bene, io dunque vi dirò che Carlo I mio sposo è alla vigilia
d’impegnare un’azione decisiva. In caso di perdita (Mazzarino fece un
movimento).... bisogna preveder tutto.... in caso di perdita, desidera
ritirarsi in Francia e viver quivi da semplice suddito. Che dite di tal
progetto?»

Mazzarino aveva ascoltato senza che alcuna fibra del suo viso
manifestasse l’impressione ch’ei risentiva; intanto il suo sorriso si
manteneva al solito finto e carezzevole, ed allorchè Enrichetta ebbe
terminato, ei rispose con la voce più melliflua che potesse:

«E credete, signora, che la Francia agitata e bollente com’è per sè
stessa, sia un porto di salvezza per un re balzato dal soglio? La
corona sta digià poco solida sulla testa al re Luigi XIV, come potrebbe
egli sopportare un duplice peso?...

«Codesto peso non è stato molto grave in quanto concerne me, interruppe
Enrichetta, ed io non chiedo che pel mio consorte si faccia più di ciò
che per me fu fatto. Vedete che siamo re assai modesti!

«Oh! voi, signora, si affrettò a soggiungere Mazzarino onde troncare
le spiegazioni che vedeva prossime, per voi è tutt’altro; una figlia di
Enrico IV, una figlia di quel re, grande, sublime....

«Lo che non v’impedisce di ricusare ospitalità al suo genero, non
è così? Eppure dovreste ricordarvi che quel re, grande, sublime,
proscritto un giorno secondo ora sarà il mio marito, andò a chiedere
soccorso all’Inghilterra, e questa glielo diede: vero è però che la
regina Elisabetta non era sua nepote.

«Peccato! fece Mazzarino imbrogliato da quella logica sì semplice,
Vostra Maestà non mi capisce; giudica male le mie intenzioni, e senza
dubbio perchè mi spiego poco bene in francese.

«Parlate in italiano. La regina Maria dei Medici nostra madre ne
insegnò quell’idioma innanzi che Richelieu vostro predecessore la
mandasse a morire nell’esiglio. Se alcun che è pur rimasto di quel
grande e sublime re Enrico del quale testè faceste menzione, oh! deve
meravigliare al sommo di codesta ammirazione profonda per lui congiunta
a così poca pietà per la sua famiglia».

A Mazzarino colavano dalla fronte grosse goccie di sudore.

«Anzi, signora, ripigliò senza accettare l’offerta della sovrana di
esprimersi in altra lingua, questa ammirazione è tanto grande e verace,
che se il re Carlo I, che Iddio lo salvi da ogni disgrazia! venisse in
Francia, io gli esibirei la mia casa, sì, la mia; ma ohimè! sarebbe un
ricovero poco sicuro. Un giorno o l’altro il popolo incendierà questa
abitazione come fece con quella del maresciallo d’Ancre. Povero Concino
Concini! eppure ei voleva soltanto il bene della Francia.

«Sì, Eccellenza, come voi», fece ironicamente la regina.

Mazzarino finse di non capire il doppio senso della frase detta da lui
stesso, e continuò a commiserare la sorte di Concino Concini.

«Ma insomma, che mi rispondete? domandò Enrichetta impazientitasi.

«Ah signora! egli esclamò più intenerito che mai, Vostra Maestà
mi permetterebbe di darle un consiglio? bene inteso che innanzi di
prendermi tanto ardire, comincio dal pormi ai piedi della Maestà Vostra
per ciò che a lei piaccia.

«Dite pure; il consiglio di un uomo sì prudente come voi siete deve
essere indubitatamente buonissimo.

«Credete a me, signora, il re deve difendersi sino alla fine.

«Lo ha fatto, e quest’ultima battaglia che è per dare con mezzi di gran
lunga inferiori a quelli de’ suoi nemici, prova che non ha intenzione
di arrendersi senza aver pugnato; ma in conclusione, nel caso che fosse
vinto?...

«In tal caso, so che ardisco di troppo esternando a Vostra Maestà la
mia opinione, ma io penso che il re non deve abbandonare il suo regno;
si dimenticano presto i re assenti: s’ei passa in Francia, è perduta la
sua causa.

«Ma allora, se questo è il vostro parere, se veramente vi interessate
a lui, mandategli qualche soccorso in uomini e in danari, perchè io
nulla posso più fare a suo pro; per aiutarlo ho venduto sino all’ultimo
diamante che possedevo; nulla più mi rimane, e voi lo sapete meglio
di chiunque. Se mi fossero restate delle gioje, avrei col prodotto di
queste comperata la legna necessaria per riscaldar me e mia figlia in
questo inverno.

«Ah! replicò il ministro, Vostra Maestà, non sa qual domanda mi faccia!
Dal giorno in cui un soccorso di esteri entra al servizio di un re onde
porlo nuovamente sul trono, si viene a riconoscere ch’ei non abbia più
ajuto nell’amore dei suoi sudditi.

«Alla sostanza, signor Mazzarino, alla sostanza! disse la regina
infastidita di seguire quello spirito scaltrissimo nel laberinto di
parole fra cui si smarriva, rispondetemi o sì o no. Se il re persiste
a rimanere in Inghilterra, gli invierete dei soccorsi? se viene in
Francia, gli darete ospitalità?

«Signora, conchiuse il ministro ostentando la maggiore franchezza,
spero mostrare adesso a Vostra Maestà quanta sia la mia devozione
per lei, e quanto io brami di terminare un affare che tanto le sta a
cuore; dopo di che, mi figuro che ella non dubiterà più del mio zelo a
servirla».

Enrichetta si mordeva le labbra, e si agitava smaniosa sulla sedia
ov’era assisa.

«Ebbene, che farete? sentiamo, parlate!

«Vado immediatamente a consultare la regina su questa questione, e indi
rimetteremo subito la cosa al Parlamento.

«Col quale voi siete in guerra, non è così? Incaricherete come relatore
Broussel? Eh basta, basta, signor mio! Vi comprendo, ed ho agito male.
Andate infatti al Parlamento, poichè da quel Parlamento nemico del re
sono venuti alla figlia del grande, del sublime Enrico IV, che tanto
ammirate, i soli sussidj che le abbiano impedito di morir di fame e di
freddo in questo inverno!»

Ed Enrichetta si alzò in atto di maestosa indignazione.

Il ministro stese le mani giunte verso di lei.

«Ah signora! mio Dio, come poco mi conoscete!»

Ma la regina, senza nemmeno voltarsi dalla parte di quello che spargeva
finte lacrime, s’incamminò sino all’uscio del gabinetto, lo aperse, ed
in mezzo alle numerose guardie dell’Eccellenza, ai cortigiani assidui
a farle la corte, al lusso di una regina rivale, andò a prendere per
mano di Winter, rimasto solo, in piedi ed isolato.... povera sovrana
ormai decaduta davanti alla quale tutti s’inchinavano ancora per mera
etichetta, ma che infatti non aveva più che un braccio su cui potesse
appoggiarsi.

«Non importa, disse Mazzarino quando fu solo, mi ha dato non poco
tormento, e mi tocca una parte assai difficile.... Io però non ho detto
niente nè all’uno nè all’altra.... Uhm! il Cromvello è un terribile
cacciatore di re; compiango i suoi ministri, qualora arrivi mai a
prenderne.... Bernouin!»

Comparve Bernouin.

«Si veda subito se il giovane con il giubbetto nero e i capelli corti
che dianzi introduceste da me è tuttora in palazzo».

Bernouin uscì.

Mazzarino impiegò il tempo della sua assenza a girare di nuovo in fuori
il castone dell’anello, a stropicciare il brillante, ad ammirarne la
bellissima acqua, e siccome aveva ancora negli occhi una lagrima che
gli offuscava la vista, scosse il capo per farla cadere.

Tornò Bernouin con Comminges ch’era di guardia.

«Monsignore, disse quest’ultimo, mentre accompagnava il giovane di
cui Vostra Eccellenza fa ricerca, egli si è accostato alla porta coi
cristalli della galleria, ed ha guardato con meraviglia qualche cosa,
sicuramente il bel quadro di Raffaello che le sta dirimpetto: poi ha
pensato un poco, ed ha scesa la scala. Mi è sembrato di vederlo montare
sopra un cavallo grigio ed uscire dal cortile del palazzo. Ma Vostra
Eccellenza non va dalla regina?

«A che fare?

«Il signor di Guitaut, mio zio, mi ha detto adesso che Sua Maestà aveva
ricevuto notizie dall’armata.

«Va bene, vado subito».

Nell’istante capitò il signor di Villequier; veniva infatti a chiamare
il ministro a nome della regina.

Comminges avea veduto bene, e Mordaunt aveva agito precisamente
com’egli raccontava. Traversando la galleria paralella a quella co’
cristalli adocchiò di Winter, il quale attendeva ch’Enrichetta avesse
terminate le sue trattative.

A tal vista Mordaunt si fermò ritto, non già ad osservare il quadro
di Raffaello, ma come affascinato dall’aspetto di un oggetto tremendo;
gli si dilatarono le pupille, gli corse un brivido in tutte le membra,
pareva che volesse penetrare fra quell’argine di vetro che lo separava
dal suo nemico, imperocchè se Comminges avesse abbadato all’espressione
di odio con cui il giovane fissava il ciglio sopra di Winter, di
leggieri si sarebbe accorto che quel signore inglese era suo mortale
nemico.

Ma egli si fermò, e certamente per riflettere, poichè invece di
lasciarsi trasportare dal suo primo impulso, ch’era di andare
direttamente incontro a milord di Winter, scese lentamente la scala,
uscì dal palazzo a testa bassa, si pose in sella, si trasse col cavallo
sul canto della via Richelieu, ed ivi con gli occhi fissi sul cancello,
attese che dal cortile si partisse la carrozza della regina.

Nè fu lunga la sua aspettativa, mentre Enrichetta erasi trattenuta
da Mazzarino appena un quarto d’ora; ma il quarto d’ora parve un
secolo a lui che aspettava. Finalmente la grave macchina che in allora
chiamavasi carrozza venne fuori con gran rumore, e di Winter sempre a
cavallo si chinò di nuovo allo sportello per discorrere con Sua Maestà.

I cavalli si mossero di trotto, s’incamminarono al Louvre, ed ivi
entrarono. Innanzi di partirsi dal convento dei Carmelitani, Enrichetta
aveva detto alla sua figlia che venisse ad attenderla al palazzo, dove
aveva dimorato per molto tempo, e indi da lei abbandonato perchè la lor
miseria pareva ad esse più grave ancora nelle sue sale dorate.

Mordaunt seguitò il cocchio, e quando lo ebbe veduto entrare sotto
l’arcata oscura, andò col suo corsiero ad accostarsi ad un muro su
cui stendevasi l’ombra, e restò immobile in mezzo alle modanature di
Giovanni Goujon, non dissimili da un bassorilievo che rappresenti una
statua equestre.

Aspettava, conforme avea già fatto al palazzo reale.



XLII.

_Come gl’infelici confondono talvolta il caso con la Provvidenza._


«Ebbene, signora? domandò di Winter allorchè la regina ebbe licenziati
i servitori.

«Ebbene, milord, accadde quel che avevo preveduto.

«Ricusa?

«Non ve lo avevo detto prima?

«Il ministro ricusa di ricevere il re, la Francia ricusa ospitalità ad
un principe infelice? è questa la prima volta!

«Non dissi la Francia, milord, dissi il ministro, ed il ministro non è
tampoco francese.

«Ma la regina l’avete vista?

«È inutile, rispose Enrichetta scuotendo mestamente la testa, non
dirà di sì la regina quando Mazzarino ha detto di no. Non sapete che
quell’italiano guida tutto, e nell’interno e fuori? V’è di più, ed io
ritorno a quel che vi ho avvertito: non mi sorprenderebbe che fossimo
stati prevenuti da Cromvello. Nel parlarmi egli era in sommo imbarazzo,
e nulladimeno saldo nella volontà di negar tutto. E poi, avete
osservato la grande agitazione al palazzo reale, l’andare e venire
di tanta gente affaccendata? Che avessero ricevuta qualche notizia,
milord?

«Non certo d’Inghilterra, o signora; io ho operato con tal
sollecitudine da starmi sicuro di non essere stato prevenuto; sono
partito tre giorni fa, sono passato per miracolo in mezzo all’armata
puritana, ho presa la posta con Tony, mio lacchè, ed i cavalli che
abbiamo furono da noi comprati a Parigi. D’altronde son sicuro che
il re, avanti di arrischiar niente, attenderà la risposta di Vostra
Maestà.

«Milord, replicò disperata la regina, voi gli riferirete che nulla io
posso fare, che ho sofferto al pari di lui e più; costretta qual sono a
mangiare il pane dell’esigilo e chiedere l’ospitalità a falsi amici che
si ridono delle mie lacrime, e che in quanto alla sua regia persona,
sarà d’uopo che si sacrifichi generosamente e muoja da re. Ed io ne
andrò a morire al di lui fianco.

«Signora, signora! esclamò di Winter, Vostra Maestà si abbandona allo
scoraggiamento, e forse ancor ci rimane qualche lusinga.

«Non più amici, milord! non più amici nel mondo intero, fuori che
voi.... Mio Dio, mio Dio! gridò Enrichetta alzando le braccia verso
il cielo, ritraeste a voi tutti i cuori generosi ch’esistevano sulla
terra!

«Io spero di no...., seguitò di Winter pensoso, vi ho parlato di
quattro uomini.

«Che volete fare con quattro uomini?

«Quattro pieni di zelo, quattro pronti a morire, possono molto,
signora, e quelli di che io vi discorro fecero molto in un certo tempo.

«E dove son essi?

«Ah! questo è quello che non so. Da quasi venti anni gli ho perduti di
vista; eppure in tutte le occasioni in cui ho veduto il re in pericolo
ho ripensato a loro.

«Ed erano vostri amici?

«Uno di essi ebbe tra le sue mani la mia vita, e me la rese; ignoro se
sia rimasto mio amico, ma io almeno da quell’epoca sono restato amico
suo.

«E sono in Francia coloro?

«Così credo.

«Ditene i nomi! forse gli avrò intesi menzionare, e potrò ajutarvi
nelle vostre ricerche.

«Uno chiamavasi cavaliere d’Artagnan.

«Oh milord! se non m’inganno, quel cavaliere d’Artagnan è tenente delle
guardie.... ho udito, sì, nominarlo.... ma badate.... quegli mi fa
paura, è tutto del ministro.

«Allora poi, fece di Winter, sarebbe l’ultima sciagura, e comincierei a
credere che avessimo davvero la maledizione addosso.

«Ma gli altri, gli altri! continuò la regina che si afferrava a
quest’ultima speme come un naufrago ai rottami della nave, gli altri,
gli altri!

«Il secondo.... lo seppi per caso, giacchè innanzi di battersi contro a
noi i gentiluomini ci avevano dato i loro nomi, il secondo era il conte
di la Fère... Per i due rimanenti, l’abitudine che avevo a chiamarli
con nomi posticci mi fece dimenticare quelli veri.

«Ohimè! e sarebbe però urgente di ritrovarli, soggiunse la regina,
poichè stimate che quei degni gentiluomini possano essere tanto utili
al re!

«Oh sì, signora! perchè sono quegli stessi, ascoltatemi bene e
riproducetevi tutte le vostre rimembranze. Non vi fu narrato come la
regina Anna fosse in addietro salvata dal maggior periglio a cui mai si
esponesse una sovrana?

«Sì, a tempo de’ suoi amori con Buckingham, e non so per quale
scrignetto di gioje.

«Appunto, appunto.... coloro sono quegli stessi che la salvarono, ed
in me muove un sorriso di pietà il pensare che se i lor nomi noti non
sono a voi, o signora, egli è perchè Anna li dimenticò, mentre avrebbe
dovuto farli primi signori del suo reame.

«Or dunque, milord, è d’uopo rintracciarli; ma che potranno fare
quattro uomini, o piuttosto tre, poichè ve lo dico, non dobbiamo
contare sopra d’Artagnan.

«Sarebbe una buona spada di meno, non lo nego, ma ne resterebbero
sempre tre altre, senza far caso della mia; e quattro zelanti attorno
al re a guardarlo da’ suoi nemici, ad assisterlo in battaglia, ad
ajutarlo in consiglio, a scortarlo nella fuga, sarebbero bastanti, non
per rendere vincitore il re, ma per salvarlo se fosse vinto, per dargli
mano a tragittare il mare; e, per quanto ne dica Mazzarino, il vostro
regio sposo, giunto una volta sulle coste di Francia, vi troverebbe
asili e ricoveri quanti ne trova l’augello marino in tempo di procella.

«Milord, cercate, cercate quei gentiluomini, e se li rinvenite, e se
aderiscono a recarsi con voi in Inghilterra, io darò a ciascuno di
essi un Ducato nel giorno in cui ascenderemo nuovamente sul trono,
ed inoltre tant’oro quanto ne occorrerebbe a rifare il pavimento del
castello di White-Hall. Oh, cercate, milord! cercate! ve ne scongiuro.

«E lo farei, signora, e di sicuro li rinverrei, ma mi manca il tempo.
Si è forse scordata Vostra Maestà che il re attende, e nella massima
angoscia, la sua risposta?

«Allora siamo perduti! esclamò la regina in tutto lo sfogo di un cuore
squarciato».

Nel momento fu aperto l’uscio; comparve la giovane Enrichetta, e la
regina, con quella forza sublime che è tutto l’eroismo delle madri
si rimandò in fondo al petto le lacrime facendo cenno a di Winter di
cambiar discorso.

Quella variazione però, comunque fatta abilmente, non isfuggì alla
principessina; essa si fermò sulla soglia, e dando un sospiro, domandò:

«Madre mia, e perchè sempre piangete senza di me?»

La genitrice sorrise, e invece di risponderle disse:

«A voi, di Winter, almeno ad esser regina soltanto per metà ha
guadagnato qualche cosa, cioè che i miei figli mi chiamino _madre mia_
anzi che dirmi _signora_».

E voltasi alla fanciulla:

«Che volete, Enrichetta?

«Entra ora appunto al Louvre un cavaliero, e chiede di presentare
i suoi ossequj a Vostra Maestà; viene dall’armata, e dice avere una
lettera da consegnarvi, se non isbaglio, per parte del maresciallo di
Grammont.

«Ah! fece la regina indirizzandosi a di Winter, è uno dei miei fidi....
Ma non osservate, caro lord, che stiamo tanto meschinamente riguardo a
servitù, che la mia figliuola adempie le funzioni d’introduttrice?

«Signora! disse di Winter, abbiate pietà di me, voi mi straziate
l’anima!

«E chi è quel cavaliero, Enrichetta?

«L’ho veduto dal balcone; è un giovane che mostra avere appena sedici
anni, chiamato visconte di Bragelonne».

La regina fe’ un cenno col capo, la principessa riaprì la porta, e
presentossi Raolo.

Il quale mossi tre passi verso la sovrana, s’inginocchiò dicendo:

«Io reco a Vostra Maestà una lettera del mio amico signor conte di
Guiche, che mi ha detto aver l’onore di essere fra i vostri servi;
questa contiene una importante notizia e le proteste del suo rispetto».

Al nome del conte di Guiche si copersero di rossore le guancie della
giovinetta; la genitrice la guardò in atto alquanto severo.

«Ma Enrichetta, ella le disse, mi avete riferito essere la lettera del
maresciallo di Grammont.

«Così credevo, signora, quella balbettò.

«È mia la colpa, replicò Raolo, difatti io mi annunziai come venuto per
incarico del maresciallo; ma egli ferito nel braccio diritto, non fu in
grado di scrivere, ed il conte di Guiche gli fece da segretario.

«Vi è stata dunque battaglia? chiese la regina indicando a Bragelonne
con un gesto di alzarsi.

«Sì signora», costui rispose.

E diè il foglio a di Winter, che già avanzatosi a riceverlo lo
trasmetteva alla sovrana.

Alla nuova di un combattimento la giovane principessa schiuse il labbro
per fare una domanda che senza dubbio la interessava, ma non proferì un
accento, e le belle rose venutele dapprima sul volto a grado a grado si
dileguarono.

La regina osservò tutti quei moti, e convien dire che il materno suo
cuore li traducesse in parole, poichè interrogò così Raolo:

«E non è accaduto alcun danno al contino di Guiche? chè non solo è fra’
nostri servi, conforme vi disse, ma è ancora nostro amico.

«No signora, al contrario, si è acquistata in questa giornata
grandissima gloria, ed ha avuto l’onore di ricevere un solenne
abbraccio dal signor Principe sul campo di battaglia».

La principessina battè palma a palma, ma indi vergognandosi di essersi
portata a tale dimostrazione di allegrezza si girò verso un vaso di
fiori, e si chinò come a respirarne la fragranza.

«Si veda cosa ci partecipa il conte, disse la regina.

«Ho prevenuta Vostra Maestà ch’egli scriveva in nome di suo padre, fece
Raolo.

«È vero, ella replicò».

E disigillò il piego.

      «Mia signora e regina.

  «Non potendo aver l’onore di scrivervi da per me, per ragione di
  una ferita statami fatta al braccio destro, vi supplisco per mano
  di mio figlio, conte di Guiche, che voi conoscete esser vostro
  servo pari di me, onde annunziarvi che abbiamo vinta la battaglia
  di Lens, e che questa vittoria non potrà a meno di dar molto potere
  al ministro Mazzarino ed alla regina sugli affari dell’Europa.
  Vostra Maestà, adunque, ove le piaccia attenersi al mio consiglio,
  approfitti del momento per insistere in favore del suo augusto
  sposo presso al governo del re. Il signor di Bragelonne, che
  avrà l’onore di consegnarvi il presente dispaccio, è amico di mio
  figlio, a cui secondo ogni probabilità ha egli salvata la vita;
  è un gentiluomo, al quale la Maestà Vostra può totalmente fidarsi
  in caso che avesse da farmi pervenire qualche ordine verbale o in
  iscritto.

  «Mi rassegno rispettosamente, ec.

                                         «Maresciallo di Grammont».

Nel punto in cui si trattava del servigio renduto al conte, Raolo
non aveva potuto astenersi dal volgere la testa verso la giovane
principessa, e per sè stesso avea visto passare nei di lei occhi
un’espressione d’immensa gratitudine. Non v’era dunque più dubbio, la
figlia del re Carlo I amava l’amico di lui.

«Vinta la battaglia di Lens! disse la regina, son fortunati, qui;
vincono delle battaglie!... Sì, il maresciallo di Grammont ha ragione,
con ciò cangieranno aspetto i loro affari; ma io temo che non faccia
niente ai nostri, se pure non nuoce. Questa nuova è recente, vi sono
grata, signore, di avermela recata con tal sollecitudine; senza di voi,
senza la lettera, non l’avrei saputa che domani, domani l’altro, forse
l’ultima in tutta Parigi.

«Signora, rispose Raolo, il Louvre è il secondo palazzo ove sia giunta
la notizia; nessuno la conosce ancora, ed io aveva giurato al signor
conte di Guiche di consegnare il plico a Vostra Maestà anche innanzi di
avere abbracciato il mio tutore.

«Il vostro tutore è come voi un Bragelonne? domandò lord di Winter; io
conobbi in passato un Bragelonne: vive egli sempre?

«No signore, è morto, e da lui il mio tutore di cui era prossimo
parente, a quanto io creda, ha ereditata quella tenuta della quale
porto il nome.

«E il vostro tutore, interrogò la regina, non potendo a meno di
interessarsi a quel bel giovane, come si chiama?

«Conte di la Fère, replicò questi».

Di Winter fece un atto di sorpresa; la sovrana lo guardò, lieta oltre
ogni segno.

«Il conte di la Fère! essa esclamò, non diceste così?»

Di Winter non poteva dar fede a ciò che aveva udito.

«Il conte di la Fère! ripetè egli pure, ve ne prego, ditemi, il
conte di la Fère non è un signore ch’io conobbi bello e prode, che
fu moschettiere di Luigi XIII, e può avere adesso quarantasette o
quarantotto anni?

«Sì signore, precisamente.

«E che serviva sotto un nome da lui assunto....

«Sotto nome di Athos. Anche ultimamente intesi il suo amico signor
d’Artagnan a chiamarlo in tal guisa.

«Appunto, signora, appunto! seguitò il conte. Ah sia lodato Iddio!...
Ed è in Parigi? (richiese a Raolo).... Sperate, sperate ancora! (disse
ad Enrichetta) la Provvidenza si manifesta a favor nostro, poichè fa
ch’io ritrovi questo prode gentiluomo in modo tanto miracoloso. E dove
abita, signore? dove abita, di grazia?

«Il signor conte di la Fère è alloggiato in via Guénégaud, all’albergo
del gran re Carlomagno.

«Grazie.... Prevenite il mio degno amico acciò rimanga nelle sue
stanze.... tra poco andrò ad abbracciarlo.

«Obbedisco con sommo piacere, se Sua Maestà si degna licenziarmi.

«Andate, signor visconte di Bragelonne, disse la regina, e siate certo
di tutto il nostro affetto».

Raolo, riverite ossequiosamente le due principesse, salutò di Winter e
partì.

Questo e la regina continuarono a discorrere qualche tempo sotto voce
acciò la principessa non li udisse; ma la precauzione era superflua,
dacchè essa era tutta occupata dei propri pensieri.

Indi, mentre di Winter si accingeva a tor commiato, la regina gli disse:

«Milord, ascoltate: io aveva conservato questa croce di diamanti
venutami da mia madre, e questa placca di S. Michele avuta dal mio
sposo; valgono circa cinquanta mila lire. Avevo giurato di morir
di fame con questi preziosi ricordi prima che disfarmene; ma oggi
che possono esser utili a lui od a’ suoi difensori, tutto devesi
sacrificare a tale speranza. Prendeteli, e se bisogna danaro per la
vostra impresa, vendeteli liberamente; bensì, se trovate mezzo di
serbarli, pensate, milord, ch’io lo terrò come il servigio più grande
che render possa un gentiluomo ad una regina, e nei giorni di mia
prosperità quegli che mi riporti e la placca e la croce sarà benedetto
da me e da’ miei figli.

«Signora, soggiunse di Winter, Vostra Maestà sarà servita da un uomo a
lei devoto. Io corro a depositare in luogo sicuro questi due oggetti,
i quali non accetterei se ci restassero risorse delle antiche nostre
fortune; ma i nostri beni sono confiscati, esausto il contante, e
siamo arrivati noi pure a trar costrutto da tutto ciò che possediamo.
Fra un’ora vo dal conte di la Fère, e domani Vostra Maestà avrà una
risposta definitiva».

La regina porse la mano a di Winter, che la baciò rispettosamente, ed
accennando la figliuola, seguitò:

«Milord, eravate incaricato di consegnare a questa fanciulla qualche
cosa da parte di suo padre».

Di Winter rimase attonito: non sapeva che si volesse dirgli.

Allora la giovane Enrichetta si avanzò sorridendo, eppure arrossendo, e
porse la fronte al gentiluomo.

«Dite a mio padre che re o fuggiasco, vincitore o vinto, possente o
misero, proferì la principessina, ha in me la figlia più sommessa ed
amorosa.

«Lo so, lo so», rispose di Winter toccando con le labbra la fronte ad
Enrichetta.

Poi se ne andò senza che alcuno lo accompagnasse, traversando i vasti
appartamenti bui e deserti, ed asciugandosi le lacrime, che sebbene
divenuto indifferente mediante i cinquanta anni vissuti in corte, non
poteva a meno di spargere al mirare quel regio infortunio a un tempo
stesso sì profondo e dignitoso.



XLIII.

_Zio e nepote._


Lord di Winter era aspettato al portone dal lacchè e dal cavallo.
S’incamminò alla propria dimora, pensoso e guardandosi dietro tratto
tratto a contemplare la nera e silenziosa facciata del Louvre. Allora
fu che vide un cavaliere distaccarsi, per così dire, dal muro, e
seguitar lui a qualche distanza, e si rammentò di aver osservato
nell’uscir dal palazzo reale un’ombra a un dipresso consimile.

Il servo di lord Winter, ch’era a tergo a questo di pochi passi,
esaminava esso pure inquietissimo il cavaliero.

«Tony! chiamò il gentiluomo accennando al domestico di avvicinarsi.

«Eccomi, monsignore».

E il domestico si pose accanto al padrone.

«Avete badato a colui che ci seguita?

«Sì, milord.

«E chi è?

«Non lo so; ma viene appresso a Vostra Grazia sino dal Palazzo Reale,
si è fermato al Louvre per attendere ch’ella uscisse, ed al Louvre si è
mosso nuovamente con lei.

«Qualche spione del ministro! fece tra sè di Winter, fingiamo non
accorgerci della sua sorveglianza».

E dato di sprone s’inoltrò nel laberinto di strade che conducevano
al suo palazzo situato dalla parte del Marais; avendo abitato lungo
tempo sulla piazza Reale, era tornato naturalmente ad alloggiarsi in
prossimità dell’antica sua dimora.

L’incognito spinse al galoppo il suo cavallo.

Di Winter smontò all’albergo, e salì al suo quartiere, proponendosi
di far osservare quella spia con ogni premura. Ma intanto che posava
i guanti e il cappello sul tavolino, vide ad uno specchio che aveva
dinanzi una figura che compariva sulla soglia della camera.

Si volse: gli stava davanti Mordaunt.

Di Winter impallidì e restò immobile.

Mordaunt rimaneva sull’uscio, freddo, minaccioso, e simile alla statua
del Commendatore.

Fuvvi un momento di silenzio fra i due individui.

«Signore, disse poscia di Winter, credevo avervi digià fatto intendere
ch’ero stanco di codesta persecuzione. Ritiratevi, o chiamerò gente per
farvi cacciar via come a Londra. Non sono vostro zio, non vi conosco!

«Zio mio, rispose Mordaunt con la sua voce solita rauca e
dileggiatrice, v’ingannate; questa volta non mi farete scacciare come
a Londra; no, non vi ci ardirete. In quanto al negare ch’io sia vostro
nepote, ci penserete ben bene, or che ho sapute molte cose che ignoravo
un anno addietro.

«E che mi cale di ciò che avete saputo?

«Vi cale, vi cale assai, zio mio, ne son certo; e ora sarete del mio
parere (aggiunse il giovane con un sorriso che fece passare il brivido
nelle vene di quello a cui era diretto). Quando mi presentai da voi in
Londra la prima volta, era per domandarvi che fosse avvenuto de’ miei
beni; quando mi presentai la seconda, era per domandarvi da chi mai
fosse stato denigrato, avvilito il mio nome. Oggi vengo per farvi una
richiesta molto più terribile di tutte quelle, per dirvi, siccome disse
Iddio al primo omicida: — Caino, che facesti del fratel tuo Abele? —
Milord, che faceste di vostra sorella, di vostra sorella ch’era mia
madre?»

Di Winter retrocedè atterrito dal fuoco che brillava negli occhi del
giovane.

«Di vostra madre!

«Sì, di mia madre, milord.....»

E Mordaunt così rispondendo scuoteva la testa.

L’altro fece uno sforzo, e immergendosi nelle sue rimembranze come per
attingere in esse un odio nuovo esclamò:

«Cercate che fu di lei, e domandatene all’inferno; l’inferno forse vi
risponderà».

Mordaunt si avanzò nella stanza sino a trovarsi faccia a faccia con
lord di Winter, ed incrociate le braccia, in tuono truce, livido il
volto per ira ed affanno, gli disse:

«Io ne ho chiesto al boja di Bethune, e il boja mi ha risposto».

Di Winter cadde sopra una sedia come colpito da un fulmine, ed invano
tentò di parlare.

«Sì! non è vero? proseguì il giovane, con queste parole tutto si
spiega, con questa chiave si apre l’abisso. La mia genitrice aveva
ereditato dal suo consorte, e voi, la mia genitrice, assassinaste! Il
mio nome mi assicurava il patrimonio paterno, e voi del nome mio mi
degradaste. E poi mi spogliaste de’ miei beni. Ora non più stupisco che
non mi riconosciate, non più stupisco che ricusiate riconoscermi! Mal
si addice chiamar nepote, quando uno è ladro infame, l’uomo che si rese
povero, quando uno è omicida, l’uomo che si rese orfano!»

Questi detti produssero l’effetto contrario a quello atteso da
Mordaunt. Di Winter si ricordò qual mostro fosse milady. Surse quieto
e grave frenando quasi col suo sguardo severo lo sguardo infiammato del
figlio di milady.

«Volete, ei disse, penetrare questo orribile arcano? Or bene! sia
pure. Sappiate adunque qual’era la donna di cui oggi venite a chiedermi
ragione: essa, secondo ogni probabilità, aveva avvelenato mio fratello,
e per aversi la mia eredità si accingeva ad assassinar me. Io ne ho la
prova. A ciò che direte?

«Dirò ch’era mia madre!

«Ella fece trafiggere da un uomo, stato in prima giusto, buono, puro,
l’infelice duca di Buckingham. Che direte di questo delitto? io ne ho
la prova!

«Era mia madre!

«Reduce in Francia, avvelenò nel convento degli Agostiniani di
Bethune una giovane donna amata da un di lei nemico. Questo delitto vi
persuaderà che giusto fosse il gastigo? e di questo io ho la prova!

«Era mia madre! ripetè Mordaunt, che alle sue tre esclamazioni aveva
data una forza sempre progressiva.

«Finalmente sozza di uccisioni, di crapula, a tutti odiosa, minacciante
tuttavia come una pantera sitibonda di sangue, soccombè sotto i colpi
di uomini che avea ridotti alla disperazione e che mai non le avevano
recato il menomo danno; trovò dei giudici, che contro lei richiamarono
gli esecrandi suoi attentati; e quel carnefice che voi vedeste, quel
carnefice che tutto vi narrò, deve avervi pur detto ch’egli stesso
balzava di gioja nel vendicare su di lei il vituperio ed il suicidio
di suo fratello. Zitella corrotta, moglie adultera, sorella snaturata,
omicida, avvelenatrice, orribile a tutti quanti conosciuta l’avevano, a
tutte le nazioni che l’avevano accolta nel lor seno, morì maledetta dal
cielo e dalla terra.... Ecco, ecco qual’era quella donna!»

Un violento singulto più forte che la volontà di Mordaunt straziò a
questo la gola e gli rimandò il sangue sul pallido volto; strinse egli
le pugna, e con la guancia molle di sudore, e i capelli irti sulla
fronte come quelli di Amleto, ei gridò furibondo:

«Tacete! era mia madre! i suoi disordini non mi son noti; i suoi vizj
non mi son noti; i suoi delitti non mi son noti! Ma quel ch’io so, è
che avevo una madre, è che uomini uniti in lega contro una donna la
uccisero clandestinamente, crudelmente, da vili, da vili! quel ch’io
so, è che fra costoro eravate ancor voi, signore! voi, mio zio, e
che diceste al pari degli altri, e più forte degli altri: — È d’uopo
ch’ella muoja! — E quindi ve ne avverto, e date ascolto a queste
parole, e vi si scolpiscano nella memoria in guisa che giammai non le
obbliate: l’assassinio che tutto mi tolse, l’assassinio che mi privò
del mio nome, l’assassinio che m’impoverì, l’assassinio che mi rese
depravato, malvagio, implacabile, di questo assassinio vi chiederò
ragione, prima a voi, e poi a quelli che furon vostri complici, quando
io venga a conoscerli».

Con l’odio nelle pupille, la spuma sulla bocca, il pugno teso, Mordaunt
aveva mosso un passo di più, passo terribile, passo minaccioso incontro
a di Winter.

Questi diè mano alla spada, e disse col sogghigno proprio di un uomo
che da trent’anni già scherzi con la morte:

«Signore, volete assassinarmi? allora vi riconoscerò per mio nepote,
perocchè siete veramente figlio di vostra madre.

«No! ribattè Mordaunt, e sforzava a frenarsi e a tornare nel loro stato
naturale tutte le fibre del volto, tutti i muscoli del corpo, no! non
vi ucciderò, almeno pel momento, perchè senza di voi non iscuoprirei
gli altri; ma quando noti essi mi siano, oh tremate! io trafissi
col mio pugnale il boja di Bethune; senza pietà lo trafissi, senza
misericordia, ed egli fra tutti era il meno colpevole».

Ciò detto, il giovanetto uscì e scese la scala con calma bastante per
non essere osservato; indi sul pianerottolo d’abbasso passò davanti
a Tony, che chinato sulla branca non aspettava se non un grido del
padrone per correr su da lui.

Ma di Winter non chiamò; oppresso, abbattuto, restò in piedi, porgendo
l’orecchio.... e soltanto quando ebbe inteso allontanarsi il cavallo
cadde sopra una sedia dicendo:

«Mio Dio! vi ringrazio.... deh! non conosca egli mai altri che me!»



XLIV.

_Paternità._


Mentre aveva luogo presso lord di Winter la scena tremenda, Athos
assiso accanto alla finestra della sua camera, appoggiando il gomito
sul tavolino e sulla mano la testa, ascoltava, quasi diremmo con le
orecchie e cogli occhi, Raolo che gli narrava le avventure del suo
viaggio e i dettagli della battaglia.

Il bello e nobile viso del gentiluomo esprimeva indicibile contento al
racconto di quelle prime pure e fresche emozioni; traeva a sè fin anco
i suoni di quella voce giovanile che gli si appassionava pei sentimenti
elevati e grandiosi, siccome suolsi ad una musica armoniosissima.
Dimenticato egli aveva quanto di oscuro era nel passato e nuvoloso
nell’avvenire. Pareva che il ritorno di quel fanciullo prediletto
avesse persino convertiti i suoi timori in speranze. Athos era pago,
più pago che non fosse stato giammai.

«Ed assisteste, e prendeste parte alla grande battaglia, Bragelonne?
domandava l’antico moschettiere.

«Sì, signore.

«E fu terribile, mi dite?

«Il signor Principe caricò in persona undici volte.

«È un gran guerriero!

«È un eroe! non l’ho perduto un momento di vista... Bella cosa, o
signore, è il chiamarsi Condé e portar così un tal nome!

«Quieto e brillante, non è vero?

«Quieto come alla parata, brillante come in una festa. Quando andammo
incontro al nemico movevamo di passo; ci era vietato d’essere i primi
a tirare, e marciavamo col moschetto posato sulla coscia verso gli
Spagnuoli che stavano sopra un’altura. Arrivati a distanza da loro
di trenta passi, il principe si volse ai suoi soldati. «Figliuoli,
disse, avrete da soffrire una scarica terribile, ma poi, non dubitate,
vi rifarete facilmente su coloro». Era tale il silenzio, che amici e
nemici udivano quei di lui detti. Indi alzata la spada gridò: «Suonate,
trombe!»

«Bene! bene! all’occasione fareste altrettanto, eh, Raolo?

«Ah! ne dubito, perchè a me quei tratti parvero assolutamente
magnifici. Giunti a minor distanza forse di un terzo, mirammo tutti
i moschetti abbassarsi come una sola linea splendentissima, giacchè
il sole ne faceva rilucere le canne. Ed il principe disse: «Al passo,
figliuoli! ecco il momento.

«Raolo, aveste paura? chiese il conte.

«Sì signore, rispose ingenuamente il giovanetto, mi sentii come un gran
freddo al cuore, e alla parola: «Fuoco!» che eccheggiò in spagnuolo tra
le file nemiche, chiusi gli occhi e pensai a voi.

«Davvero? disse Athos stringendogli la destra.

«Oh sì! nell’istante medesimo furono tali spari che si sarebbe creduto
fosse il cielo per aprirsi, e quei che non restarono uccisi, oh!
sentirono il calore della fiamma. Io schiusi il ciglio, meravigliando
di non essere estinto o per lo meno ferito; un terzo dello squadrone
giaceva al suolo mutilato e insanguinato. In quel punto incontrai
le pupille del principe, e non badai che a una cosa, cioè ch’ei mi
guardava. Diedi di sprone, e mi trovai framezzo ai nemici.

«E Sua Altezza fu contenta di voi?

«Così almeno mi disse, quando m’incaricò di accompagnare a Parigi il
signor di Chatillon, ch’è venuto a dar questa notizia alla regina e
portare le bandiere grigie. «Andate, mi diceva il prence, il nemico
non si sarà riunito per una quindicina di giorni, e sino allora non
ho bisogno di voi; andate ad abbracciare quelli che vi amano, e dite a
mia sorella di Longueville che la ringrazio del regalo da lei fattomi
dandovi a me». Ed io (seguitava Raolo volgendo sul conte un sorriso
di amore profondo) sono venuto, nella certezza che a voi fosse caro di
rivedermi».

Athos si trasse vicino il garzoncello, e lo baciò in fronte siccome
avrebbe fatto ad una fanciulla.

«Sicchè, Raolo mio, eccovi digià slanciato; avete amici dei duchi,
compare un maresciallo di Francia, capitano un principe del sangue, in
una stessa giornata di ritorno siete stato ricevuto da due regine: è un
bel fare per un novizio!

«Ah! appunto, aggiunse Bragelonne ad un tratto, mi rammentate una cosa
di cui mi scordava: che presso Sua Maestà la regina d’Inghilterra si
trovava un gentiluomo, il quale quando io proferii il vostro nome mandò
un grido di sorpresa e di gioja; si diede per vostro amico, mi domandò
il vostro indirizzo, e tra poco verrà a vedervi.

«Come si chiama?

«Non ho osato ricercarglielo; ma quantunque si esprima con eleganza,
dalla pronunzia l’ho giudicato per inglese.

«Ah! disse Athos».

E chinò il capo quasi volesse riprodursi qualche rimembranza. Indi
allorchè lo alzò nuovamente lo sorprese la presenza di un uomo che
ritto davanti all’uscio mezz’aperto lo esaminava con molta commozione.

«Lord di Winter! esclamò il conte.

«Athos! mio caro Athos!»

E i due gentiluomini stettero alquanto abbracciati; dopo di che Athos
prese ambe le mani a di Winter, gli disse:

«Che avete milord? sembrate tanto afflitto quanto io sono lieto.

«Sì, amico, è vero; e dirò anche di più: che il vostro aspetto accresce
il mio timore».

Di Winter si osservava d’intorno, come per cercare la solitudine.
Bragelonne capì che i due avevano da discorrere, ed uscì senza mostrare
di mettervi importanza.

«Orsù, cominciò Athos, adesso che siam soli, parliamo di voi.

«Mentre siam soli, parliamo di noi, rispose di Winter. Egli è qui.

«Chi mai?

«Il figlio di milady».

Athos colpito anche una volta da quel nome che sembrava lo
perseguitasse come un eco funesto, esitò un poco, inarcò le ciglia, ed
in tuono di tutta calma pronunciò:

«Lo so.

«Lo sapete?

«Sì: Grimaud lo ha incontrato fra Bethune ed Arras, ed è corso a
briglia sciolta ad avvertirmi della sua venuta.

«Grimaud dunque lo conosceva?

«No, ma ha assistito al letto di morte uno che lo conosceva.

«Il carnefice di Bethune! gridò di Winter.

«Lo sapete? esclamò attonito Athos.

«Mi ha lasciato adesso, mi ha detto tutto.... ah, che scena orribile!
Perchè non annientammo con la madre il figliuolo!»

Athos al pari di tutte le indoli nobilissime non rendeva altrui le
spiacevoli impressioni che riceveva; ma all’incontro le assorbiva
sempre in sè stesso, ed invece di esse rimandava speranze e
consolazioni. Avreste detto che i suoi particolari affanni gli
uscissero dall’anima trasformati in contento per gli altri.

«Di che paventate? chiese poi superando mediante la ragione il terrore
d’istinto provato dapprima, non siamo qua per difenderci? Quel giovine
si è forse fatto assassino di mestiere, omicida a sangue freddo? Può
aver ucciso il boja di Bethune in un moto di rabbia, ma ormai è sazio
il suo furore».

Di Winter con un mesto sorriso scuoteva la testa.

«Voi dunque non conoscete più quel sangue?

«Oibò! replicò Athos procurando parer tranquillo, avrà perduta la
sua ferocia alla seconda generazione. D’altronde la Provvidenza ci ha
prevenuti onde siamo guardinghi. Null’altro possiam fare che attendere;
si attenda. Ma come poc’anzi io diceva, discorriamo di voi. Qual motivo
vi conduce a Parigi?

«Affari importanti di che in breve sarete sciente. Ma che mai ho inteso
da Sua Maestà la regina d’Inghilterra? D’Artagnan è del Mazzarino?
Perdonate la mia franchezza, io non odio nè amo il ministro, e le
vostre opinioni mi saranno sempre sacre. Sareste voi per caso dedito a
colui?

«D’Artagnan è al servizio, rispose Athos, è soldato, ed obbedisce al
potere costituito. D’Artagnan non è ricco, e per vivere ha d’uopo del
suo grado di tenente. Milord, in Francia sono rari i milionarj come
voi!

«Ahimè! replicò di Winter, oggi io sono tanto povero e più ancora che
lui... Ma torniamo a voi.

«Ebbene, volete sapere se io sono del Mazzarino? No, no, le mille
volte! Scusate voi pure o milord, la mia franchezza».

Di Winter si alzò e si strinse al seno l’amico.

«Oh! disse, grazie conte! grazie di sì fausta notizia. Eccomi,
mi vedete or contento e ringiovanito.... Non siete del Mazzarino?
benissimo. E poi, non poteva mai essere.... Ma compatite ancora; siete
libero?

«Che intendereste per libero?

«Domando se non siete ammogliato.

«Oh! per questo poi no».

Ed Athos sorrideva.

«È che quel giovanetto, sì bello, gentile, grazioso...

«È un fanciullo ch’io educo, e che neppur conosce suo padre.

«Ottimamente; siete sempre lo stesso, grande e generoso.

«Orsù, milord, che mi richiedete?

«Avete tuttora amici i signori Porthos ed Aramis?

«E aggiungete d’Artagnan. Siamo tutti e quattro affezionati
scambievolmente come in passato; ma quando si tratta di servire il
ministro o di batterlo, d’esser di Mazzarino o della Fronda, allora
siamo due soli.

«Aramis è con d’Artagnan?

«No, il signor Aramis mi fa l’onore di associarsi alle mie opinioni.

«Potete rimettermi in relazioni con quell’amico sì cortese e spiritoso?

«Certo, appena lo bramiate.

«Si è egli cambiato?

«Si è fatto abate, non v’è altro.

«Mi spaventate; il suo stato deve averlo indotto a rinunziare alle
grandi imprese.

«All’opposto: disse Athos scherzando, non è stato mai tanto
moschettiere com’è adesso, ed in lui troverete un vero Galaor. Volete
ch’io lo mandi a chiamare per mezzo di Raolo?

«No, conte; potrebbe darsi che a quest’ora non fosse reperibile; ma
poichè credete di poter garantire per lui....

«Quanto per me medesimo.

«Potete impegnarvi a condurmelo domani a dieci ore sul ponte del Louvre?

«Ah, ah! fece Athos, avete un duello?

«Sì, e bellissimo; duello, in cui spero sarete anche voi.

«Dove andremo, milord?

«Da Sua Maestà la regina d’Inghilterra, che mi ha incaricato di
presentarvi a lei.

«Sua Maestà dunque mi conosce?

«Io, vi conosco.

«Enigma; ma non serve, tosto che a voi è noto il motivo, non vi domando
di più. Mi farete l’onore di cenare con me, milord?

«Vi ringrazio, conte; ma confesso che la visita di quel giovane mi ha
tolto l’appetito, e probabilmente mi leverà il sonno. Che intrapresa
vuol egli compiere in Parigi? non per incontrar me vi è venuto, poichè
era ignaro del mio viaggio... Ah! egli mi spaventa, in lui v’è un
avvenire di sangue.

«Che fa esso in Inghilterra?

«È uno dei più caldi seguaci d’Oliviero Cromvello.

«E chi lo ha collegato a quella causa? Sua madre e suo padre, per
quanto io creda, erano cattolici.

«L’odio che nutre contro il re.

«Contro il re!

«Sì, il re lo dichiarò bastardo, lo spogliò de’ suoi beni, gli proibì
di portare il nome di Winter.

«Ed ora come si chiama?

«Mordaunt.

«Puritano e travestito da monaco, viaggiando solo per le strade della
Francia!

«Da monaco?

«Sì: non lo sapete?

«Non so se non ciò ch’ei mi ha detto.

«E come tale, e per caso, egli intese le spiegazioni del carnefice di
Bethune.

«Allora tutto comprendo: viene inviato da Cromvello.

«A chi?

«A Mazzarino; e la regina lo aveva indovinato, noi fummo prevenuti;
ormai tutto mi si fa chiaro. Conte, addio a domani.

«Ma è notte molto buja, disse Athos osservando di Winter più agitato
che non volesse apparire, e voi forse non avete servi?

«Ho Tony, buono e semplice ragazzo.

«Olà! Olivain, Grimaud, Blaisois, qualcuno prenda il moschetto e chiami
il signor visconte».

Blaisois era quel grazioso garzone, mezzo lacchè e mezzo contadino,
che noi vedemmo di volo nel castello di Bragelonne entrato ad avvisare
che il pranzo era pronto, e da Athos battezzato col nome della sua
provincia.

Cinque minuti dopo dato l’ordine, giunse Raolo.

«Visconte, scorterete milord sino al suo albergo e non lascerete che
alcuno gli si appressi.

«Ah conte! disse di Winter, e per chi mi prendete?

«Per un forestiero, che non conosce Parigi, ed a cui il visconte
insegnerà la strada».

Di Winter strinse ad Athos la mano.

«Grimaud! comandò quest’ultimo, mettiti alla testa della comitiva, e
bada al finto frate!»

Grimaud si scosse, indi fe’ un cenno col capo ed aspettò la partenza
toccando con tacita eloquenza il calcio del moschetto.

«Addio a domani, ripetè di Winter.

«Sì, milord».

La piccola brigata s’incamminò verso la via San Luigi, Olivain tremando
come Sosia ad ogni riflesso del lume un po’ dubbio, Blaisois assai
saldo perchè ignorava che vi fosse qualunque pericolo, Tony guardando a
destra e a manca, ma senza poter dire una parola attesochè non parlava
francese.

Di Winter e Raolo andavano uno accanto all’altro, e discorrevano
insieme.

Grimaud, che secondo eragli ingiunto da Athos precedeva il corteggio
con una torcia in una mano e nell’altra il moschetto, arrivò alla
locanda di di Winter, bussò col pugno alla porta, e quando venne gente
ad aprire salutò milord senza fiatare.

Lo stesso fu al ritorno. I di lui occhi nulla videro di sospetto,
tranne una specie d’ombra appiattatasi sul canto della via di Guénégaud
e dell’argine; gli sembrò di aver anche nel passare osservato colui che
stava in aspettativa. Si diresse incontro ad esso, ma innanzi che lo
avesse raggiunto l’ombra era sparita in una straduzza ove Grimaud non
giudicò prudente d’inoltrarsi.

Si rese conto ad Athos del successo della spedizione, ed essendo le
dieci ore di sera ciascuno si ritirò nel proprio appartamento.

All’indomani nel destarsi il conte si trovò Raolo vicino al letto.
Questi era bell’e vestito, e leggeva un libro nuovo di Chapelain.

«Digià alzato Raolo? disse il conte.

«Sì, rispose il giovanetto titubando, ho dormito male....

«Dormito male? voi! qualche pensiero vi occupava?

«Signore, direte che ho molta fretta di lasciarvi quando sono appena
arrivato, ma....

«Dunque la vostra licenza era per due soli giorni?

«Anzi, per dieci... e non bramerei già di andare al campo.

«E dove? fece Athos sorridendo, purchè non sia un segreto, visconte?
Siete quasi un uomo, poichè avete fatte le prime armi, ed avete
acquistato il diritto di andare ove vogliate senza dirmelo.

«Giammai, replicò Raolo, finchè avrò la sorte di avervi per mio
protettore, non crederò essere in diritto di sottrarmi ad una tutela
che tanto mi è cara.... Desidererei recarmi a passare un giorno e non
più a Blois.... mi guardate, vi riderete di me!

«No, rispose Athos reprimendo un sospiro, non rido, no... avete voglia
di riveder Blois, è naturale!

«Sicchè lo permettete? esclamò allegro Bragelonne.

«Certamente.

«In fondo al cuore, non ve n’incresce?

«Niente affatto: perchè deve increscermi ciò ch’è a voi di piacere?

«Oh quanto siete buono!»

Raolo era per saltare al collo ad Athos, ma lo trattenne il rispetto.

Athos gli aprì teneramente le braccia.

«E posso partir subito?

«Quando vi aggrada».

Il giovane mosse tre passi per uscire.

«Signore, disse poi, ho pensato ad una cosa, cioè che alla signora
duchessa di Chevreuse tanto buona per me, son debitore della mia
introduzione presso al signor Principe.

«E che dovete ringraziarla, non è vero?

«Mi sembrerebbe.... però a voi spetta il decidere.

«Passate dal palazzo di Luynes, Raolo, e fate domandare se la duchessa
può ricevervi. Mi piace rivelare che non dimentichiate le convenienze.
Prenderete con voi Grimaud e Olivain.

«Tutti due?» domandò Raolo attonito.

«Tutti due».

Il visconte salutò ed uscì.

Nel guardarlo chiudere la porta e udirlo a chiamare forte ed
allegramente Grimaud e Olivain, Athos sospirò.

«Mi abbandona pur presto! pensava, ma obbedisce alla legge comune.
La natura è così; essa guarda sempre innanzi. Oh! di sicuro egli ama
quella fanciulla; ma amerà me men di prima perchè ami altre persone?»

Il conte di la Fère confessava che non si era aspettato a sì sollecita
partenza, ma in lui dileguavasi ogni trista cura considerando che Raolo
era contento.

Alle dieci ore tutto era pronto per il viaggio. Mentre Athos guardava
Raolo montare a cavallo, venne un lacchè a riverirlo a nome della
signora di Chevreuse: era esso incaricato di dire al conte di la Fère
che avendo ella saputo il ritorno del suo giovine protetto e il suo
contegno nella recente battaglia, le sarebbe caro di fargliene le sue
congratulazioni.

«Direte a madama la duchessa, rispose Athos, che il visconte
s’incamminava appunto al palazzo di Luynes».

E dopo aver rinnovate le sue raccomandazioni a Grimaud, fe’ cenno a
Raolo che poteva partire.

D’altronde, riflettendo meglio, Athos pensava non esser male che in
quel momento Raolo si allontanasse da Parigi.



XLV.

_Un’altra regina che chiede soccorso._


Athos aveva mandato a prevenire Aramis sino dalla mattina, dando la
sua lettera a Blaisois, unico servitore che gli fosse rimasto. Blaisois
trovò Bazin che indossava la sua giubba da bidello; in quel giorno era
di servizio a Nostra Donna.

Athos aveva fatto premura a Blaisois, onde tentasse parlare ad
Aramis in persona. Blaisois, giovanotto grande e sempliciotto che
non conosceva altro che il comando, aveva quindi domandato dell’abate
d’Herblay, e non ostante che Bazin gli protestasse ch’ei non v’era,
aveva insistito in tal modo che Bazin si era adirato sul serio.
Blaisois vedendo Bazin in abito ecclesiastico non aveva curate le sue
negative, ma insistito ben anzi a andare avanti, supponendo colui con
il quale aveva che fare dotato di pazienza e cristiana carità.

Ma il Bazin, sempre servitore dei moschettieri quando gli andava il
sangue al capo, prese un bel manico di granata, e picchiò Blaisois
dicendogli:

«Avete insultata la Chiesa, caro mio, insultata la Chiesa!»

Nel momento, all’insolito frastuono, era comparso Aramis schiudendo con
cautela l’usciale della sua camera dormitoria.

Ed allora il suddetto Bazin avea posata rispettosamente la sua granata
in terra sur una delle punte, conforme gli era accaduto di veder
fare a Nostra Signora dallo Svizzero colla alabarda, e Blaisois con
un’occhiataccia di rampogna diretta al cerbero si era levata di tasca
la lettera e presentatala ad Aramis.

«Del conte di la Fère, disse Aramis, va bene».

E indi ritornò dentro senza tampoco richiedere la causa di tanto
subbuglio.

Blaisois se ne venne indietro malinconico all’albergo del Gran Re
Carlomagno. Athos gli domandò ragguaglio della sua commissione, ed egli
raccontò la sua avventura.

«Imbecille! fece Athos ridendo, e non dicesti ch’eri là da parte mia?

«Signor no.

«E che ha detto Bazin sapendo ch’eravate mio?

«Oh! mi ha fatto un diluvio di scuse, e mi ha obbligato a bere due
bicchieri di vin moscato eccellente, con inzupparvi tre o quattro
biscotti squisiti; ma che serve? è brutale fuor di maniera! un bidello!
oibò!

«Bene! pensò Athos, una volta che Aramis ha avuta la lettera, per
quanti impedimenti si abbia e’ verrà».

Alle dieci ore, Athos colla sua solita puntualità si trovava sul ponte
del Louvre. V’incontrò lord di Winter arrivato appunto allora.

Essi aspettarono circa dieci minuti.

Di Winter cominciava a temere che Aramis non capitasse.

«Pazienza! disse Athos che teneva gli occhi fissi nella direzione della
via del Bac, pazienza; ecco un abate che dà una spinta a un uomo e
saluta una donna, dev’essere Aramis».

Difatti era desso: un giovinotto che guardava per aria ed aveva
schizzato di mota Aramis era ito dieci passi più in là per un pugno
datogli da quest’ultimo, il quale, essendo passata allora una sua
penitente, l’aveva salutata col suo più grazioso sorrisetto.

Aramis fu dunque da loro in un momento.

E là, com’è da credere, grandissimi amplessi fra lui e di Winter.

«Dove andiamo? domandò Aramis, v’è forse da battersi? stamane non ho
spada, bisognerà che torni da me a pigliarla.

«No, rispose di Winter, si va a far visita a Sua Maestà la regina
d’Inghilterra.

«Ottimamente! (ed Aramis si chinava all’orecchio ad Athos) e in quale
scopo questa visita?

«Affè, forse qualche testimonianza che da noi si reclama.

«Non sarebbe per quel maledetto affare? In tal caso non avrei troppa
voglia di andarvi, perchè vi sarebbe da prendersi qualche bella
predica, e dacchè le fo agli altri, non ho caro di averle io.

«Se ciò fosse, non ci condurrebbe da sua Maestà milord di Winter,
mentre gliene toccherebbe la sua parte, essendo stato dei nostri.

«Ah sì! dite bene. Si vada».

Giunti al Louvre, di Winter passò il primo. D’altronde non istava al
portone che un solo custode. Alla luce del giorno, Athos, Aramis e
l’Inglese poterono osservare l’orribile miseria dell’abitazione che
un’avara carità concedeva all’infelice sovrana. Grandi sale spoglie
di mobili, mura sconquassate su cui rilucevano ad intervalli antiche
guarnizioni d’oro che aveano resistito all’incuria, finestre che non
si chiudevano più e mancanti di vetri; non tappeti, non guardie,
non famigli, ecco quanto colpì subito gli occhi ad Athos, e ch’ei
fece tacitamente notare al suo compagno spingendolo col gomito ed
accennandogli quell’estrema povertà.

«Mazzarino ha migliore alloggio, disse Aramis.

«Mazzarino è quasi re, rispose Athos, ed Enrichetta non è più regina.

«Se vi degnaste di mostrarvi spiritoso, fece Aramis, credo in coscienza
che lo sareste più che non lo era il disgraziato signor di Voiture».

Sembra che la regina attendesse con impazienza, poichè al primo
movimento che udì nel salone che precedeva la sua camera venne da sè
sulla soglia a ricevere i cortigiani del suo infortunio.

«Entrate e siate ben venuti, signori; essa disse».

I gentiluomini passarono, e sul principio rimasero in piedi, ma ad
un gesto della sovrana che l’invitava a sedersi Athos diede l’esempio
dell’obbedienza. Egli era tranquillo e grave, ma Aramis all’incontro
adiratissimo perchè esacerbato da quella regia miseria, di cui studiava
con lo sguardo ogni nuova traccia che gli si offriva alla vista.

«Esaminate il mio lusso? disse Enrichetta con la massima angustia.

«Chiedo scusa a Vostra Maestà, replico Aramis, ma non saprei nascondere
la mia indignazione mirando che alla corte di Francia si tratti così la
figlia di Enrico IV.

«Questo signore non è cavaliere? chiese la regina a lord di Winter.

«È l’abate d’Herblay, questi rispose».

Aramis arrossì.

«Signora, sono abate, ma a mio malgrado e contro mia vocazione, e sono
sempre pronto a diventar da capo moschettiere. Io dunque sarò l’uomo
che la Maestà Vostra troverà più zelante a servirla in qualunque cosa
voglia ordinarmi.

«Il signor cavaliere d’Herblay, soggiunse di Winter, è uno dei valorosi
moschettieri del re Luigi XIII di cui vi ho parlato, signora».

E volgendosi ad Athos seguitò:

«Questi è il nobile conte di la Fère, la di cui alta rinomanza è ben
nota a Vostra Maestà.

«Signori, disse la regina, alcuni anni sono io aveva d’intorno
gentiluomini, tesori, armate; tutti questi ad un mio cenno si
adopravano in servizio mio. Oggi, guardate qui a me vicino, forse ne
stupirete, ma per compiere un disegno che dee salvarmi la vita non ho
altro che lord di Winter, un amico da venti anni, e voi, o signori, che
veggo per la prima volta e conosco soltanto come miei concittadini.

«E basta, fece Athos con un profondo saluto, se la vita di tre uomini
può riscattare la vostra.

«Grazie, signori. Ma ascoltatemi: non solo io sono la più misera delle
regine, sono anche la più sventurata fra le madri, la più disperata
fra le mogli; i miei figli, due per lo meno, il duca d’York e la
principessa Carlotta, sono da me lontani, esposti ai colpi degli
ambiziosi e dei nemici; il re mio consorte conduce in Inghilterra
una sì dolorosa esistenza che poco io vi dico asserendovi che cerca
la morte come cosa per lui da bramarsi. Ecco la lettera che mi fece
pervenire per mezzo di milord di Winter: leggete».

Athos ed Aramis si scusavano.

«Leggete, ripetè la regina».

Athos lesse ad alta voce la missiva a noi nota, nella quale il re Carlo
domandava se in Francia gli sarebbe accordata l’ospitalità.

«Ebbene? fece poi Athos.

«Ebbene, ribattè Enrichetta, ha ricusato».

I due amici ricambiarono fra loro un sorriso di disprezzo.

«Ed ora che si dee fare? continuò il conte di la Fère.

«Sentite voi qualche compassione per tanta sventura?

«Ho avuto l’onore di domandarvi, Maestà, ciò che desiderate si faccia
per servirvi da me e dal signor d’Herblay: siamo pronti.

«Ah! avete infatti un cuor nobile! esclamò la regina con uno slancio
di gratitudine, mentre di Winter la guardava come dicesse: Non vi ero
forse rimasto garante per loro?

«E voi? domandò Enrichetta ad Aramis.

«Io, egli rispose, ovunque vada il signor conte, quando fosse anche a
morte, lo seguo senza ricercare il perchè; ma allorchè si tratta di un
comando di Vostra Maestà (aggiungeva fissandola in volto con tutta la
grazia di gioventù) io precedo il signor conte.

«Or bene, signori, poichè così è, poichè consentite ad adoprarvi a pro
di una povera principessa abbandonata dal mondo intero, ecco ciò che
per me occorre di fare. Il re è solo con alcuni gentiluomini, che ogni
giorno teme di perdere, in mezzo a Scozzesi dei quali diffida benchè
egli stesso sia Scozzese. Dacchè lord Winter lo ha lasciato, io più
non vivo. Ora, domando forse troppo, mentre per domandare non ho verun
titolo: trasferitevi in Inghilterra, raggiungete il re, siate suoi
amici, siate suoi custodi, marciate al di lui fianco nelle battaglie,
camminate presso di lui nell’interno della sua dimora, dove ogni dì
crescono inganni e insidie anco più perigliose che tutti i rischi della
guerra; ed in cambio di questo sacrifizio che mi farete, io vi prometto
non di ricompensarvi, credo che questa parola vi offenderebbe, ma di
amarvi come una sorella, e di preferirvi a chiunque, tranne al mio
sposo ed ai miei figli; lo giuro dinanzi a Dio!»

E la regina alzava in atto lento e solenne gli occhi al cielo.

«Maestà, fece Athos, quando convien che partiamo?

«Dunque acconsentite? esclamò con giubilo Enrichetta.

«Certamente. Soltanto la Maestà Vostra va troppo oltre, a parer mio,
impegnandosi a ricolmarci di un’affezione tanto superiore a’ nostri
meriti. Noi serviamo a Dio, servendo un principe sì sfortunato e una
regina tanto virtuosa.... Signora, siamo vostri in corpo e in anima.

«Ah! disse la regina commossa fino al pianto, ecco il primo momento di
gioja e di speranza che provo da cinque anni. Sì, voi servite a Dio, e
siccome il poter mio sarà troppo poco per riconoscere un tal servigio,
Egli vi premierà. Egli che legge nel mio cuore quanta v’ha gratitudine
e per Lui e per voi. Salvate il mio sposo, salvate il re, e sebbene non
siate sensibili al premio che può venirvi su questa terra per un’azione
così bella, lasciatemi la lusinga di rivedervi per ringraziarvene
io stessa. Frattanto io mi trattengo qui. Avete da farmi qualche
raccomandazione? Da ora io sono vostra amica, e giacchè voi fate i miei
affari io deggio occuparmi dei vostri.

«Signora, rispose Athos, non ho da chiedere alla Maestà Vostra altro
che le sue preci.

«Ed io, aggiunse Aramis, son solo al mondo, e non ho altro che Vostra
Maestà da servire».

La sovrana porse loro al bacio la destra, e disse piano a di Winter:

«Se vi mancano denari, non esitate, rompete le gioje che vi ho
date, staccatene i diamanti e vendeteli ad un usurajo; ne ricaverete
cinquanta o sessanta mila lire; spendetele s’è necessario, ma questi
gentiluomini siano trattati conforme si meritano, cioè come tanti re».

La regina aveva apparecchiate due lettere, scritte l’una da lei e
l’altra dalla principessa Enrichetta sua figlia. Entrambe erano dirette
al re Carlo. Una ne diede ad Athos ed una ad Aramis, onde se il caso
li separava, potessero dessi farsi riconoscere dal re. Indi eglino si
ritirarono.

In fondo alla scala di Winter si soffermò.

«Signori, disse, andiamo, voi dalla vostra parte ed io dalla mia,
acciocchè non risvegliamo sospetti, e questa sera alle nove troviamoci
alla porta San Dionigi. Dipoi andremo avanti co’ miei cavalli finchè
essi possano, e dopo prenderemo la posta. Grazie di nuovo, grazie in
nome mio, grazie in nome della regina».

I tre gentiluomini si strinsero la mano. Il conte di Winter si avviò
dalla contrada di Sant’Onorato, e Athos e Aramis rimasero insieme.

«Ebbene, disse allora Aramis, che vi pare di questo affare, mio caro
conte?

«Cattivo, rispose Athos, cattivissimo!

«Ma lo accoglieste con entusiasmo!

«Come accoglierò sempre la difesa di un gran principio, mio buon
d’Herblay. I re non possono esser forti che mediante la nobiltà, ma la
nobiltà non può esser grande se non mediante i re. Sosteniamo adunque
le monarchie, che così sosterremo noi stessi.

«Ci andiamo a fare assassinare laggiù, continuò Aramis; ho in odio
gl’Inglesi, sono grossolani come tutti quelli che bevono birra.

«Era forse meglio restar qui, e andare a fare un giro alla Bastiglia,
o alla torre di Vincennes, per aver favorita la fuga del signor
di Beaufort? Affè, credetemi, non v’è da aver alcun rammarico. Noi
scansiamo la prigione, e si agisce da eroi: è facile la scelta.

«È vero, ma in tutte le cose bisogna ritornare a questa prima domanda,
molto sciocca, lo so, ma assai necessaria: avete soldi?

«Un centinajo circa di doppie, che il mio fattore mi aveva spedite
il giorno innanzi alla mia partenza da Bragelonne; ma devo lasciarne
una cinquantina a Raolo; bisogna pure che un giovane si mantenga
decorosamente: sicchè ho a un dipresso cinquanta doppie. E voi?

«Io, son certo che a rivoltarmi le tasche ed aprire tutte le mie
cantere non troverò in casa mia dieci luigi. Fortunatamente lord di
Winter è ricco.

«De Winter per il momento è rovinato, poichè Cromvello riscuote le sue
rendite.

«Ecco dove sarebbe opportuno il barone Porthos, osservò Aramis.

«Ecco dove mi duole di non avere con noi d’Artagnan; fece Athos.

«Che borsa piena!

«Che spada pronta!

«Seduciamoli.

«Il segreto non è nostro; non poniamo veruno nella confidenza.
D’altronde con un tal passo sembrerebbe che dubitassimo di noi
medesimi.... Doliamoci pure fra noi, ma non si parli.

«Dite bene, che farete da adesso a stassera? Io sono costretto a
differire due cose.

«Sono da differirsi?

«Eh! bisognerà adattarvisi.

«E quali erano?

«La prima una bucata di spada al Coadjutore che jeri sera incontrai
nella società di madama di Rambouillet, e che mi parve usasse a mio
riguardo maniere singolari.

«Oibò! duello fra colleghi!

«Che volete? egli è traditore, e lo sono anch’io; egli frequenta
amabili signore, ed io pure. Talvolta mi sembra ch’ei sia Aramis ed
io il Coadjutore, tanta è l’analogia ch’esiste fra noi. È una specie
di Sosia, che mi annoja e mi dà ombra. Di più è un imbroglione che
comprometterà il nostro partito. Sono persuaso che se gli dessi uno
schiaffo, come ho fatto a quel particolare che mi aveva schizzato di
mota, gli affari muterebbero aspetto.

«Ed in quanto a me, replicò tranquillamente Athos, penso che non
si muterebbe se non l’aspetto del signor di Retz. Sicchè datemi
retta, lasciamo le cose come stanno. E poi non appartenete più l’uno
all’altro: voi siete della regina d’Inghilterra, ed esso della Fronda.
Dunque se la seconda faccenda che v’incresce di non potere eseguire non
è più importante della prima....

«Oh! quella era importantissima.

«Allora fatela subito.

«Pur troppo non sono libero di effettuarla nell’ora che voglio... Era
di sera, assolutamente di sera.

«Capisco, disse Athos sorridendo, a mezza notte.

«All’incirca.

«Che volete, caro mio? quelle sono faccende che si rimettono ad un
altro tempo, e così farete voi, soprattutto avendo una tale scusa da
dare al vostro ritorno.

«Sì, se torno.

«Se non tornate chi v’interessa? Siate un po’ ragionevole; animo,
Aramis, non siete più un giovanotto di venti anni.

«Pur troppo, cospettaccio! oh se lo fossi!

«Sì sì, secondo me fareste delle belle pazzie. Ma convien che ci
lasciamo: io ho da fare una visita o due e da scrivere una lettera;
venite dunque a prendermi alle otto ore, o piuttosto gradite ch’io vi
aspetti a cena alle sette?

«Benone; rispose Aramis, io ho da far venti visite e da scrivere
altrettante lettere».

E gli amici si separarono. Athos andò a riverire madama di Vendome,
lasciò il suo nome da madama di Chevreuse, e scrisse questo biglietto
diretto a d’Artagnan.

      «Amico carissimo.

  «Parto con Aramis per affare di premura. Vorrei dirvi addio, ma mi
  manca il tempo. Non vi scordate che vi scrivo per ripetervi quanto
  vi sono affezionato.

  «Raolo è andato a Blois, e non è istrutto della mia partenza.
  Invigilate su di esso nella mia assenza meglio che possiate, e se
  per caso di qui a tre mesi non aveste mie notizie ditegli che apra
  un piego sigillato ed al suo indirizzo che troverà a Blois nel mio
  cassettino di bronzo di cui vi mando la chiave.

  «Abbracciate Porthos per Aramis e per me. A rivederci, e forse
  addio».

Athos fece recare il biglietto da Blaisois.

Giunse Aramis all’ora stabilita: era vestito da cavaliere, ed aveva al
fianco l’antica spada che tanto spesso aveva sguainata ed a sguainare
la quale era più pronto che mai.

«Orsù, disse, mi pare che facciamo male ad andarcene così senza
lasciare due versi di addio a Porthos e d’Artagnan.

«Ci ho pensato io, rispose Athos, ed ho mandato a tutti due un amplesso
per voi e per me.

«Siete un uomo ammirabile! pensate a tutto.

«Ebbene, vi siete deciso per questo viaggio?

«Sicuramente, e adesso che ci ho riflettuto ho piacere di abbandonar
Parigi in questo momento.

«Lo stesso succede a me, replicò Athos, se non che mi duole di non
aver abbracciato d’Artagnan; ma è un demonio sì scaltro che avrebbe
indovinati i nostri progetti».

Alla fine della cena venne Blaisois, dicendo:

«Signore, ecco la risposta del signor d’Artagnan.

«Scimunito! non ti avevo mica detto che vi dovesse esser risposta.

«E me m’ero andato senza aspettarla; mi ha fatto richiamare indietro, e
mi ha dato questo, ribattè Blaisois».

E parse ad Athos un sacchetto di pelle ben rotondetto e sonante.

Questi lo aperse, e principiò da levarne un bigliettino concepito in
questi termini:

      «Caro conte.

  «Quando si viaggia, ed in ispecie per tre mesi, non si ha mai
  denaro bastante: io mi rammento dei nostri tempi di penuria, e vi
  spedisco metà della mia borsa. Sono soldi che mi è riuscito di far
  sudare al Mazzarino. Vi prego di non farne cattivo uso.

  «In quanto a non più rivedervi, io non ci credo; col vostro cuore e
  colla vostra spada, si passa dappertutto. E perciò _a rivederci_, e
  non _addio_.

  «Già s’intende che dal primo giorno che conobbi Raolo lo amai come
  mio figlio; siate però persuaso che chiedo sinceramente a Dio di
  non diventar suo padre, benchè andrei superbo di un figlio simile.

                                                         «Il vostro

                                                      «D’Artagnan».

  «P. S. Ben intesi, i cinquanta luigi che vi invio sono vostri come
  di Aramis, e di Aramis come vostri».

Ad Athos oscurò le pupille una lagrima. D’Artagnan, da lui sempre amato
teneramente, lo amava dunque ognora ancorchè datosi a Mazzarino!

«Ecco davvero le cinquanta monete d’oro, disse Aramis vuotando il
sacchetto sul tavolino, tutte con l’effigie del re Luigi XIII. Or bene,
conte, che ne fate? le tenete o le rimandate?

«Le ritengo, e le riterrei quando anche non ne avessi bisogno; ciò ch’è
offerto con gran cuore deve pure con cuor grande accettarsi. Prendetene
venticinque, e date a me le altre.

«Manco male; son contento di trovarvi della stessa mia opinione. Ora,
si parte?

«Quando vorrete. Ma non avete servitori?

«No, quell’imbecille di Bazin, essendosi fatto bidello, non può
muoversi da Nostra Donna.

«Bene, piglierete Blaisois, che mi è inutile poichè io ho digià Grimaud.

«Volentieri, fece Aramis».

Comparve sulla soglia Grimaud.

«Pronti, disse col suo consueto laconismo.

«Si vada, soggiunse Athos».

I cavalli avevano addosso la sella. I due amici saltarono ciascuno sul
suo; e i due domestici l’imitarono.

Sul canto incontrarono Bazin che correva affannoso.

«Ah Signore! diss’egli, sia lodato Dio! arrivo a tempo.

«Che v’è mai?

«Il signor Porthos, uscito adesso di casa, ha lasciato per voi
questo, dichiarando ch’era cosa di premura da consegnarvisi avanti che
partiste.

«Oh! esclamò Aramis prendendo una borsa che Bazin gli porgeva, e che
sarà?

«Aspettate, signor abate, c’è una lettera.

«Sai che ti ho avvisato che se mai mi chiamavi altrimenti che cavaliere
ti romperei le ossa? Vediamo la lettera.

«Come farete a leggerla? domandò Athos, qui è bujo come in un forno.

«Ecco, ecco, disse Bazin».

E battuto l’acciarino, accese un moccolo che aveva sempre in saccoccia
pel suo servizio di chiesa.

Al lume del quale, Aramis lesse:

  «Mio caro d’Herblay.

  «Sento da d’Artagnan, il quale mi saluta da parte vostra e da
  quella del conte di la Fère, che partite per una spedizione da
  durar forse due o tre mesi, e siccome so che non vi va a genio di
  chiedere a’ vostri amici, io vi esibisco da per me. Ecco duecento
  doppie di cui potete disporre, e che mi renderete quando capiti
  l’occasione. Non temete di scomodarmi; se ho bisogno di numerario
  ne farò venire da una delle mie tenute; a Bracieux soltanto ho
  ventimila lire in oro. E così, se non vi spedisco di più, è per
  dubbio che non accettiate una somma troppo considerevole.

  «Mi rivolgo a voi, perchè secondo sapete, il conte di la Fère mi
  dà sempre a mio malgrado un po’ di soggezione, sebbene io lo ami
  di cuore; ma s’intende che quel che a voi offro è offerto nel tempo
  stesso a lui.

                           «Sono, come spero che terrete per sicuro
                                            Vostro Affezionatissimo
                               Duvallon de Bracieux di Pierrefonds.

«Eh! fece Aramis, che ne dite?

«Dico, d’Herblay mio, ch’è un sacrilegio di dubitare della Provvidenza,
soprattutto quando essa ci dà simili amici.

«Sicchè?

«Sicchè, dividiamoci le doppie di Porthos nella guisa medesima che i
luigi di D’Artagnan».

Fatta la divisione al lume del moccolino di Bazin, i due compagni
s’incamminarono di nuovo.

E dopo un quarto d’ora erano alla porta San Dionigi, ove gli attendeva
lord di Winter.



XLVI.

_Ove si prova che il primo impulso è sempre il migliore._


I nostri gentiluomini presero la strada della Piccardia, ad essi tanto
nota e che ad Athos ed Aramis riproduceva alcune fra le più pittoresche
rimembranze di loro gioventù.

«Se fosse con noi Mousqueton, disse Athos arrivando al luogo in cui
aveano avuto contesa con varj selciatori, oh come raccapriccerebbe nel
passar di qua! ve ne ricordate? qua gli venne quella palla famosa.

«Davvero, glielo menerei buono, fece Aramis, poichè mi sento
imbrividire nel rammentarmene.... ecco, più là dell’albero un posticino
ove credei di esser morto a dirittura».

Continuarono innanzi. In breve toccò a Grimaud a scendere col pensiero
nella propria memoria. Giunto di faccia all’albergo in cui esso ed
il suo padrone avevano fatta già tempo una sì enorme gozzoviglia, si
accostò ad Athos, ed accennandoli lo spiraglio della cantina pronunziò.

«Salsicciotti!»

Athos si mise a ridere, e quella follia degli anni suoi giovanili gli
sembrò divertevole come se taluno gliela narrasse avvenuta ad un altro.

Finalmente dopo due giorni e una notte arrivarono, verso sera e con
bellissimo tempo, a Boulogne, città in allora poco men che deserta,
costrutta affatto sull’altura; quella che chiamasi la città bassa non
esisteva. Boulogne stava in una posizione formidabile.

Quando furono alle porte, di Winter disse:

«Signori, facciamo qui come a Parigi: separiamoci per evitare i
sospetti; io ho una locanda poco frequentata, ma di cui il padrone è
tutto dedito a me, ed io ci vado, perchè là devono aspettarmi delle
lettere; voi, andate al primo albergo della città, per esempio alla
_Spada del grande Enrico_; rinfrescatevi, e tra due ore trovatevi sullo
scalo, vi sarà ad attenderci la nostra barca».

Così fu stabilito. Lord di Winter continuò lungo i bastioni esterni
onde entrare da un’altra porta, mentre i due amici entrarono da quella
davanti alla quale si trovavano. Dopo duecento passi s’imbatterono
nella locanda indicata.

Fecero rinfrescare i cavalli, ma senza toglier loro la sella; i servi
cenarono, giacchè cominciava ad esser tardi, ed i padroni, impazienti
d’imbarcarsi diedero ad essi il convegno sullo scalo, con ordine di non
barattar parole con chi si fosse. Ci s’intende che tale raccomandazione
riguardava unicamente Blaisois; per Grimaud da gran tempo era
superflua.

Athos ed Aramis scesero verso il porto.

Entrambi, per gli abiti polverosi che avevano addosso, e per quell’aria
disinvolta che sempre fa riconoscere un uomo assuefatto a viaggiare,
richiamarono l’attenzione di alcuni che erano colà a spasso.

Ed uno specialmente ne videro a cui il loro arrivo aveva prodotta una
certa impressione. Quest’uomo, ch’essi erano stati i primi ad osservare
pelle medesime cause che avevano fatto osservar loro dagli altri,
andava su e giù malinconico; appena gli ebbe adocchiati non cessò più
di esaminarli, e si mostrò bramosissimo di rivolger loro la parola.

Era giovane e pallido; aveva gli occhi di un color turchino tanto
dubbio che pareva variassero come quelli della tigre secondo i colori
che riflettevano; l’andatura, ancorchè lenta ed incerta, aveva un non
so che d’ardito; era vestito di nero, e portava con molto garbo la
spada.

Athos ed Aramis si fermarono a guardare una piccola lancia legata ad un
piuolo e come apparecchiata per attender gente.

«Sarà la nostra, disse Athos.

«Sì, rispose Aramis, e lo sloop che si mette laggiù alla vela sembra
sia quello che deve condurci al nostro destino... eh! almeno di Winter
non si facesse aspettare! non è punto piacevole lo star qui, non passa
neanche una donna.

«Zitto! fece Athos, v’è chi ci ascolta».

In fatti colui che accennammo, e che considerando attentamente i due
compagni era passato più volte dietro ad essi, s’era fermato di botto
udendo il nome di Winter; ma siccome non sembrava che questo nome
avesse in lui prodotta emozione alcuna, poteva darsi che per caso
soltanto ei sospendesse il suo cammino.

Però, salutando con somma civiltà, egli disse:

«Signori, compatite la mia curiosità, ma vedo che venite da Parigi, o
che almeno qui in Boulogne siete forestieri.

«Veniamo da Parigi, signor sì; rispose Athos con uguale cortesia, che
possiam fare per servirvi?

«Avreste la bontà di dirmi, continuò il giovanotto, s’è vero che il
signor Mazzarino non sia più ministro?

«Singolare domanda! fece Aramis.

«Lo è, e non lo è, replicò Athos, cioè la metà della Francia lo
scaccia, e dall’altra metà egli si fa sostenere a suon di raggiri e di
promesse.... e può durare un pezzo a questo modo, secondo intenderete.

«Ma in somma, non è nè fuggito nè in carcere?

«Oh no.... almeno per il momento.

«Vi ringrazio della vostra compiacenza».

E quegli si allontanò.

«Che vi pare di questo interrogatore? disse Aramis ad Athos.

«Ch’è qualche provinciale annojato o pure una spia.

«E gli avete parlato così?

«Non avevo diritto di parlargli diversamente: usava meco ogni
pulitezza, ed io l’ho usata con lui.

«Ma peraltro se fosse uno spione....

«Che vorreste che facesse? Non siamo più ai tempi di Richelieu, che al
minimo sospetto faceva chiudere i porti.

«Non serve, avete fatto male a rispondergli in quella guisa, insistè
Aramis seguitando a guardare il signorino che spariva a tergo alle
dune.

«E voi, disse Athos, non pensate che avete commesso ben altra
imprudenza, cioè di profferire il nome di lord di Winter; non
riflettete che allora soltanto colui si è fermato?

«Ragione di più, quando vi ha discorso, d’invitarlo a tirare innanzi
pel suo viaggio.

«Attaccar lite?....

«E da quando in qua vi mette paura una lite?

«Una disputa mi fa sempre paura, quando sono aspettato in qualche luogo
e la disputa può impedirmi di andarvi. E poi volete che vi confessi una
cosa? anch’io ero curioso di veder da vicino quel giovane.

«E perchè?

«Aramis, ora mi burlerete; direte che ripeto ognora lo stesso; mi
chiamerete il più timoroso di tutti i visionarj....

«E poi?

«A chi vi pare ch’ei somigli?

«In bello o in brutto? fece ridendo Aramis.

«In brutto, e per quanto un uomo possa somigliare a una donna.

«Oh per Diana! esclamò Aramis, adesso mi ci fate pensare. No, per
Diana! non siete visionario, e ora che ci rifletto, sì, sì, avete
ragione; quel bocchino ritirato, quegli occhi che sembrano al comando
della mente e non mai al comando del cuore.... è qualche bastardo di
milady.

«Voi ridete, Aramis?

«Per abitudine e non altro, giacchè vi giuro che non avrei più genio di
voi d’incontrarmi con quel serpentello!

«Ah! disse Athos, ecco di Winter.

«Bene; ora non mancherebbe che una cosa, che i nostri lacchè si
facessero attendere.

«No no, li veggo.... vengono, sono dietro a milord di una ventina di
passi. Riconosco Grimaud dalla testa dritta e le gambe lunghe, Tony
porta le nostre carabine.

«Dunque c’imbarcheremo di notte? chiese Aramis dando un’occhiata verso
ponente, ove il sole non lasciava più altro che un nuvolo indorato, il
qual pareva a poco a poco si estinguesse tuffandosi in mare.

«Può essere di sì.

«Diamine! mi piace poco il mare di giorno, ma di notte anco meno;
il rumore delle onde, lo strepito dei venti, il terribile moto del
bastimento.... oh! confesso che preferisco il convento di Noisy».

Athos sorrise mestamente, perchè ascoltando Aramis pensava però a
tutt’altro, e s’incamminò verso di Winter. Aramis gli andò appresso.

«Che cos’ha il nostro amico? disse quest’ultimo, somiglia ai dannati
del Dante a cui Satanno ha dislogato il collo e che si guardano le
calcagna. Che diavolo ha egli per guardarsi dietro a quel modo?»

Di Winter avendo visti i due compagni si sollecitò a venir loro
incontro, ma con rapidità veramente sorprendente.

«Che avete, milord? domandò Athos, perchè così affannoso?...

«Nulla, nulla.... bensì, nel passare vicino alle dune mi è
sembrato!...» rispose di Winter.

E si voltò di nuovo. Athos fissò in viso Aramis.

«Partiamo, continuò di Winter, il batello deve aspettarci, lo sloop è
là all’áncora.... lo vedete? vorrei esservi di già sopra!»

E ritornava a girarsi.

«Ehi! fece Aramis, vi siete forse scordata qualche cosa?

«No no.... è un’idea....

«Lo ha visto, avvertì piano Athos ad Aramis».

Erano giunti alla scala che conduceva alla barca: di Winter fe’
scendere prima i domestici che recavano le armi e i facchini che
portavano i bauli, e cominciò ad andar abbasso egli pure.

Nel momento Athos osservò un uomo che seguitava la riva del mare
paralella allo scalo, e che correva, come per esser presente dall’altra
parte del porto separata di appena venti passi, al loro imbarco.

Tra l’ombra che cominciava a calare credè di ravvisare il giovane che
lo aveva interrogato.

«Oh oh! disse fra sè, fosse realmente una spia, e intendesse di opporsi
alla nostra partenza?»

Ma siccome in caso che lo straniero avesse un tal progetto era digià
un po’ tardi per eseguirlo, Athos scese anch’esso la scala, quantunque
senza lasciar d’occhio il giovanotto.

Costui per finirla era comparso sopra una cateratta.

«Di certo è qui per noi, disse Athos; ma imbarchiamoci, e una volta che
saremo in mare venga, venga!»

E saltò nel battello, il quale subito si partì spinto da quattro
robusti remiganti.

Il forestiero però si diede a seguitare, o meglio a precedere la
lancia. Questa doveva passare fra la punta dello scalo a cui sovrastava
il fanale acceso appunto d’allora, ed uno scoglio ch’era da parte. Egli
fu veduto da lontano salire sullo scoglio onde sovrastare alla lancia
quando di là transitasse.

«Cospetto! disse Aramis ad Athos, quel ragazzo è assolutamente uno
spione.

«Qual ragazzo? domandò di Winter volgendosi.

«Quello che ci ha seguitati, che ci ha parlato, e che ci fa la posta
lassù. Guardatelo!»

Di Winter osservò nella direzione del dito di Aramis. Il fanale
spandeva grandissimo chiarore sopra lo stretto per dove si doveva
transitare e sulla roccia ove rimaneva il giovane, ritto, a testa
scoperta e colle braccia incrociate.

«È desso! gridò di Winter afferrando Athos per un braccio, è desso!
credevo pure di averlo ravvisato, non m’ingannavo.

«Chi mai? domandò Aramis.

«Il figlio di milady, rispose Athos.

«Il finto monaco! urlò Grimaud».

Il forestiero udì tali parole. Avreste detto volesse precipitarsi
abbasso, tanto era venuto sulla punta della rupe e chino verso il mare.

«Sì, son io, mio zio, il figlio di milady; io monaco, io segretario e
amico di Cromvello, e vi conosco voi ed i vostri compagni».

Nel battello erano tre uomini, valorosi al certo, e dei quali nessuno
avrebbe osato porre in dubbio il coraggio; ebbene! a quella voce,
a quell’accento, a quel gesto, si sentirono scorrere nelle vene un
brivido di terrore.

A Grimaud si erano drizzati in testa i capelli, e dalla fronte gli
colava il sudore.

«Ah! disse Aramis, è il nepote, è il finto frate, è il figliuol di
milady, come dice da sè!

«Ohimè, sì! borbottò di Winter.

«Dunque aspettate».

Ed Aramis, col terribile sangue freddo che aveva nelle occasioni
supreme, prese uno dei due moschetti che reggeva Tony, lo caricò,
e pigliò di mira quell’uomo che stava in piedi sullo scoglio
perseguitandolo con la mano e con lo sguardo come l’angiolo delle
maledizioni.

«Fuoco!» gridò Grimaud fuori di sè.

Athos si slanciò sulla canna della carabina ad impedire la botta.

«Il diavolo vi porti! esclamò Aramis, l’avevo tanto bene messo a punto,
gli avrei piantata la palla in mezzo al petto.

«Basta aver uccisa la madre, disse truce Athos.

«La madre era una scellerata che ci aveva colpiti in noi stessi o in
quelli che ci erano cari.

«Sì, ma il figlio nulla ci fece».

Grimaud che si era sollevato alquanto per mirare l’effetto della botta,
ricadde scoraggito battendo le mani.

Il giovinotto diede in uno scroscio di risa, ed urlò:

«Ah! siete voi, siete voi! ora vi riconosco».

Il suo riso stridulo e le parole sue minacciose passarono di sopra alla
lancia trasportata dal vento, e andarono a perdersi nella profondità
dell’orizzonte.

Aramis raccapricciò.

«Calma, calma! disse Athos, che diamine! non siamo più uomini?

«Noi, sì, riprese Aramis, ma egli è un demonio.... E a voi, domandate
allo zio se avevo torto a volerlo sbarazzare di un simile nepote».

Di Winter non replicò che con un sospiro.

«Tutto sarebbe finito, continuò Aramis. Athos! io temo che colla vostra
saviezza mi abbiate fatto fare una pazzia».

Athos prese per mano di Winter, e procurando disviare il discorso gli
domandò:

«Quando approderemo in Inghilterra?»

Ma il gentiluomo non lo intese nè fece motto.

«Ecco, proseguì Aramis, forse sarebbe ancora tempo; guardate, è là
nello stesso posto».

Athos si girò con dispiacere, l’aspetto di quel giovane eragli assai
penoso.

Chè realmente egli rimaneva in piedi sullo scoglio, ed il faro gli
mandava attorno come un’aureola di luce.

«Ma che fa egli a Boulogne? chiese Athos, il quale tutto senno, cercava
di ogni cosa la causa e poco curava l’effetto.

«Mi seguitava, mi seguitava, disse di Winter che questa volta aveva
udita la voce di Athos, voce che rispondeva ai suoi pensieri.

«Per ciò, amico mio, ribattè Athos, bisognava che sapesse la nostra
partenza; e d’altronde, secondo tutte le probabilità, egli ci aveva
anzi preceduti.

«Allora nulla comprendo, disse l’Inglese scuotendo la testa come
uno che rifletta essere inutile contrastare contro una forza
soprannaturale.

«Davvero, approvò Athos ad Aramis, credo di aver avuto torto non
lasciandovi fare.

«Ah state zitto! borbottò questi, mi fareste piangere se potessi!»

Grimaud mandò fuori un brontolio che somigliava quasi ad un ruggito.

Nel momento li chiamò una voce dal naviglio. Il piloto seduto al timone
le rispose, e il battello si accostò al bastimento.

In un attimo furono a bordo gentiluomini, servi e bagaglio. Il capitano
non attendeva se non loro; e tosto ch’ebbero messo piede sul ponte si
volse la prora in verso Hasting per dove era la destinazione.

Ed i tre amici, a lor malgrado, mandarono un ultimo sguardo dal lato
dello scoglio, su cui tuttora appariva visibile l’ombra minacciosa.

E minacciosa fu pure una voce che giunse fino ad essi gridando:

«Signori, a rivederci in Inghilterra!»



XLVII.

_Il Te Deum della vittoria di Lens._


Il movimento osservato da Enrichetta, e di cui invano ella ricercava il
motivo, era cagionato dall’annunzio della vittoria di Lens del quale
il signor Principe aveva fatto messaggiero il duca di Chatillon che
in essa aveva avuta nobilissima parte, e che inoltre avea l’incarico
di appendere alle vôlte di Nostra-Donna ventidue bandiere prese ai
Lorenesi ed agli Spagnuoli.

La notizia era decisiva: troncava il litigio intavolato col Parlamento
a favore della corte. Tutte le imposte sommariamente registrate ed
a cui faceva opposizione il Parlamento si motivavano sempre con la
necessità di sostenere l’onor della Francia e la speranza di battere
il nemico. E siccome, dopo Nordlingen non si erano avute che delle
sconfitte, restava campo al Parlamento onde interpellare Mazzarino su
le vittorie ognor promesse e differite. Ma questa volta era seguita
la pugna, v’era stato completo trionfo, e quindi ciascuno comprendeva
esservi pella corte doppia vittoria, cioè all’interno e all’esterno,
talmentechè persino il giovanetto re all’udire la nuova esclamava:

«Ah ah! signori del Parlamento, sentiremo ora che cosa direte!»

Per cui la regina si strinse al seno il regio fanciullo, i di lui
sentimenti alteri e indomiti tanto bene si combinavano co’ suoi.
E nella serata ebbe luogo un consiglio, chiamandosi a questo il
maresciallo di La Meilleraie e il signor di Willeroy perchè dediti al
Mazzarino, Chavigny e Seguier perchè odiavano il Parlamento, e Guitaut
e Comminges perchè divoti alla regina.

Nulla si penetrò di quanto fosse deciso in quel consiglio, e solo
si seppe che alla seguente domenica vi sarebbe _Te Deum_ cantato a
Nostra-Donna in onore della vittoria di Lens.

Nella domenica suddetta i Parigini si destarono in somma allegrezza. In
quell’epoca un _Te Deum_ era cosa grandissima; era molto accetta nel
pubblico tal cerimonia, ed essa produceva il dovuto effetto. Il sole,
come prendesse parte alla festa, sorgeva bello e splendido a indorare
le oscure torri della metropoli digià piena d’immensa quantità di
popolo, le strade le più buje della città-vecchia avevano una cert’aria
da festa, e lungo gli argini si vedevano lunghe file di borghesi,
artieri, donne e bambini, recarsi a Nostra-Donna, simili a un fiume che
risalisse verso la sua sorgente.

Le botteghe erano abbandonate, le case chiuse, ciascuno aveva voluto
mirare il giovine re con sua madre ed il famoso signor Mazzarino,
pel quale si aveva tant’odio che nessuno intendeva privarsi della sua
presenza.

Del resto fra l’immensa folla regnava la maggior libertà; tutte
le opinioni si esprimevano apertamente, e per dir così suonavano a
sommossa, conforme le mille campane di tutte le chiese suonavano a _Te
Deum_. La polizia della città essendo esercitata dalla città stessa,
nulla di minaccioso veniva a turbare il concerto dell’odio generale o a
gelare le parole su quelle labbra maldicenti.

Frattanto, sin dalla mattina alle otto, il reggimento delle guardie
della regina, comandato da Guitaut, e per secondo dal suo nepote
Comminges, era venuto, preceduto da tamburi e trombe, a schierarsi dal
Palazzo Reale fino a Nostra-Donna, la quale manovra i Parigini aveano
veduta tranquillissimamente, curiosi com’e’ sono di splendide uniformi
e di musica militare.

Friquet era in gran gala, e col pretesto di una flussione, che si era
procurata momentaneamente col cacciarsi una quantità di noccioli di
ciriegie da una parte della bocca, aveva ottenuto dal suo superiore
Bazin la vacanza per tutta la giornata. Sul principio Bazin gliel’aveva
ricusata, essendo di mal umore, prima per la partenza di Aramis ch’era
andato via senza dirgli dove andasse, e poi per dover assistere a una
messa detta in favore di una vittoria che non istava d’accordo colle
sue opinioni (Bazin, noi ce lo rammentiamo, era un della _Fronda_, e
se vi fosse stato caso che in tale solennità il bidello si assentasse
come un semplice cantore, egli avrebbe di sicuro avanzata al superiore
la stessa domanda che a lui si faceva); aveva ricusato, noi dicevamo,
la richiesta vacanza, ma alla sua presenza si accrebbe cotanto la
flussione di Friquet, che per l’onore del corpo dei cantori il quale
sarebbe stato compromesso da siffatta deformità, finì col cedere
benchè brontolando. Friquet arrivato sull’uscio aveva sputata la sua
flussione, e mandato dalla parte di Bazin uno di quei gesti che rendono
i monelli di Parigi superiori a tutti gli altri monelli dell’universo.
E dell’osteria poi si era disbrigato naturalmente col dire che doveva
servire la messa a Nostra-Donna.

Sicchè Friquet era libero, e conforme accennammo si era vestito col suo
maggior lusso; teneva specialmente, come ornamento rimarchevole della
sua persona una di quelle _buffe_ indescrivibili che stanno framezzo al
berretto del medio evo e al cappello dei tempi di Luigi XIII. La madre
gli aveva fabbricato quel curioso copri-zucca, e forse per ghiribizzo
o per mancanza di roba uniforme, si era mostrata poco premurosa di
assortire i colori, in guisa che quel capolavoro di berretteria del
secolo decimosettimo era da un lato giallo e verde, e dall’altro bianco
e rosso. Bensì Friquet, stato sempre propenso per la varietà dei tuoni,
se lo portava, ad onta di tutto questo, glorioso e trionfante.

Uscito d’appresso a Bazin, si mise a correre verso il Palazzo Reale;
vi arrivò nel momento che ne veniva fuori il reggimento delle guardie;
e siccome non era là per altro che per godere della vista di questo e
profittare della musica, si piantò alla testa della truppa, battendo
il tamburo con due pezzi di lavagne, e da tale esercizio passando a
quello della trombetta, che contraffaceva naturalmente con la bocca in
sì bella maniera da averne riscosso più di una volta grandi elogi per
parte degli amatori dell’armonia imitativa.

Cotesto divertimento durò dalla barriera dei Sergenti sino alla
piazza Nostra-Donna, e Friquet v’ebbe veramente piacere; ma quando
il reggimento si fermò, e le compagnie distendendosi penetrarono
fino nel cuore della città-vecchia, mettendosi in fila all’estremità
della via San Cristoforo, vicino alla strada Cocatrix dove abitava
Broussel, allora Friquet, ricordandosi di non aver fatto colazione,
cercò da che lato potrebbe volgere il passo onde adempiere a quell’atto
importantissimo della giornata, ed avendovi maturamente riflettuto
decise che dovesse toccare al consigliere Broussel di provvedere a quel
suo piccolo pasto.

In conseguenza prese lo slancio, giunse ansante e affannoso davanti al
portone del consigliere, e bussò forte.

Sua madre, vecchia serva di Broussel, venne subito ad aprire.

«Che vieni tu a far qui, biricchino? essa disse, e perchè non sei a
Nostra-Donna?

«C’ero, mamma mia, rispose Friquet, ma ho visto che succedevano cose
che andavano avvisate a messer Broussel, e col permesso del signor
Bazin, sapete pure, mamma, Bazin il bidello, son corso qua per parlare
al signor Broussel.

«E che gli vuoi dire, scimmiotto?

«Vuo’ discorrere proprio con lui.

«Non è possibile, è al lavoro.

«Dunque aspetterò».

E Friquet a cui questo tornava in acconcio, dacchè troverebbe modo
d’impiegare il tempo, salì alla lesta la scala, che la madre faceva
molto più adagio andandogli dietro.

«Ma insomma, domandò questa, che vuoi dal signor Broussel?

«Gli vuo’ dire, rispose Friquet urlando quanto più forte potesse, che
v’è tutto l’intero reggimento delle guardie che se ne viene per in qua;
e siccome ho sentito a dir dappertutto che in corte v’erano cattive
disposizioni contro di lui, lo voglio avvertire perchè stia ben cauto».

Broussel udì le grida di quel bricconcello, e, contentissimo del di lui
zelo, scese al primo piano, giacchè infatti lavorava nel suo gabinetto
del secondo.

«Eh! caro mio, gli disse, che c’importa del reggimento delle guardie?
sei matto a venire a far tanto chiasso? non sai che è uso di agire come
agiscono quei signori, e che il reggimento è solito a schierarsi ove
deve passare il re?»

Friquet s’infinse da nescio, e girandosi fra le dita la berretta nuova,
rispose:

«Non è miracolo che le sappiate voi, signor Broussel, che sapete ogni
cosa, ma io, in verità di Dio benedetto, non lo sapevo, e ho creduto di
darvi un buon avviso; non v’avete ad adirar con me, signor Broussel.

«Anzi, ragazzo mio, al contrario, mi piace la tua premura.... Ehi!
(ordinò alla serva) pigliate un po’ le albicocche che ci mandò jeri
da Noisy madama di Longueville, e datene una mezza dozzina al vostro
figliuolo con un pezzo di pan fresco.

«Ah! grazie grazie, signor Broussel! giusto! mi piaccion tanto le
albicocche!»

Il consigliere allora passò dalla moglie, e chiese la colazione. Erano
le nove e mezza.

Si affacciò alla finestra. La strada era deserta, ma da lontano si
udiva, come il rumore della marea, il susurrare delle onde popolari che
già già crescevano attorno a Nostra Donna.

E lo strepito si raddoppiò allorchè d’Artagnan capitò con una compagnia
di moschettieri ad impostarsi alle porte della chiesa per far della
medesima il servizio interno. Egli aveva detto a Porthos di profittare
dell’occasione per essere spettatore della cerimonia, e Porthos in gran
tenuta, si mise sul più bello de’ suoi cavalli, facendo da moschettiere
onorario, secondo in addietro spesso avea fatto d’Artagnan. Il sergente
della compagnia, vecchio soldato delle guerre di Spagna, aveva
riconosciuto Porthos suo antico compagno, ed informati prestamente
tutti quanti eran sotto ai suoi ordini delle alte gesta di quel
gigante, onore dei moschettieri di Tréville, e Porthos non solo era
stato bene accolto, ma anco considerato con ammirazione.

Alle dieci ore il cannone del Louvre annunziò l’uscire del re.

Un movimento, simile a quello di alberi, le cui cime sieno tormentate
e curvate da un vento burrascoso, corse in fra la moltitudine, che si
agitò di dietro ai fucili immobili delle guardie.

Comparve finalmente il re con la regina in una carrozza tutta dorata.
Lo seguivano altre dieci carrozze che racchiudevano le dame d’onore,
gli ufficiali del regio palazzo e tutta la corte.

«Viva il re!» fu gridato per ogni banda.

Il giovine sovrano mise gravemente il capo fuor dello sportello, fece
un cenno di riconoscenza, e salutò anco un tantino, lo che aumentò gli
urli della folla.

Il corteggio avanzò con lentezza, ed impiegò quasi mezz’ora per
passare lo spazio che separa il Louvre dalla piazza di Nostra-Donna;
ed ivi giunto, si recò a poco a poco sotto l’immensa vôlta dell’oscura
metropoli, e si diede principio al servizio divino.

Nel punto in cui la corte si poneva al suo posto, una carrozza con le
armi di Comminges abbandonò la fila di quelle della corte stessa, e
venne adagio a situarsi in fondo alla via di San Cristoforo del tutto
deserta. Colà arrivata, quattro guardie ed un birro, che la scortavano,
vi salirono dentro e ne serrarono le stuoje, e poi prevalendosi della
poca luce prudentemente riserbatasi, il birro si applicò a far la
posta su per la strada Cocatrix, quasi attendesse che avesse a capitare
qualcuno.

Tutti erano occupati della cerimonia, talmente che non si badò alla
vettura, nè alle precauzioni di coloro che in essa stavano.

Friquet, i di cui occhi sempre attenti erano i soli che potessero
accorgersene, era andato a godersi le albicocche sul cornicione di una
casa dell’atrio di Nostra Donna, e di là vedeva il re, la regina e il
signor Mazzarino, e sentiva la messa come l’aveva servita.

Verso il finir della funzione, la regina osservando che Comminges
in piedi vicino a lei attendeva la conferma dell’ordine da essa già
datogli avanti di partirsi dal Louvre, gli disse sotto voce:

«Andate, Comminges, e Dio vi assista».

E Comminges si mosse subito, uscì di chiesa, ed entrò nella via di San
Cristoforo.

Friquet, ch’ebbe adocchiato quel bell’offiziale a camminare così
seguito da due guardie, si divertì a andargli appresso, e ciò con tanto
più di allegria dacchè la cerimonia essendo appunto terminata il re
saliva di nuovo nel suo cocchio.

Il birro, appena vide apparire Comminges all’estremità della via
Cocatrix, disse due paroline al cocchiere, e questi, messa tosto in
moto la sua macchina, lo condusse dinanzi alla porta di Broussel.

Comminges bussava al portone precisamente nell’atto che vi si fermava
la vettura.

E Friquet, dietro a Comminges, attendeva che quello si aprisse.

«Che fai costà, sguajato? domandò Comminges.

«Aspetto per entrare da messer Broussel, signor uffiziale, disse
Friquet col tuono carezzevole che sanno assumere all’occorrenza i
ragazzacci di Parigi.

«Abita veramente qua?

«Signor sì.

«E che piano occupa?

«Tutto il casamento.... gli è tutto suo.

«Ma per solito dove sta?

«Per lavorare al secondo piano, ma per mangiare scende al primo; adesso
dev’essere a pranzo, giacchè è mezzogiorno.

«Bene, bene».

Nell’istante fu aperto. L’ufficiale interrogò il servitore, e seppe
che Broussel era in casa e realmente desinava. Egli salì appresso il
servitore, e Friquet salì appresso a lui.

Broussel era a tavola con la sua famiglia, avendo dirimpetto la moglie,
accanto le due figliuole, ed in fondo alla mensa suo figlio, Louvieres,
che noi già vedemmo nella circostanza della disgrazia accaduta per la
strada al consigliere, e da cui questi erasi già rimesso in salute....
E appunto perchè tornato in sanità, assaggiava le ottime frutta
mandategli da madama di Longueville.

Comminges, che aveva trattenuto il braccio al domestico mentre questo
voleva schiudere l’uscio per annunziarlo, lo schiuse da per sè e si
trovò davanti a quel quadro di famiglia.

All’aspetto dell’uffiziale Broussel si agitò alquanto, ma poichè esso
lo salutava cortesemente, si alzò e salutò egli pure. Ciò non ostante,
e ad onta delle scambievoli cortesie, in viso alle donne comparve
qualche inquietezza, Louvieres impallidì ed attese che l’uffiziale si
spiegasse.

«Signore, disse Comminges, io son latore di un ordine del re.

«Benissimo, rispose Broussel, che ordine è egli?»

E porgeva la mano.

«Ho l’incarico d’impossessarmi della vostra persona, continuò l’altro
col medesimo tuono e con la stessa gentilezza, e se date ascolto a me,
vi risparmierete l’incomodo di leggere questa lunga lettera e verrete
meco».

Una saetta che fosse caduta framezzo a quelle buone genti
tranquillamente radunate non avrebbe prodotto effetto più terribile.

Broussel retrocedè tremando. Era in quell’epoca cosa funestissima
l’essere carcerato per nimicizia del re. Louvieres fece un atto
come per afferrare la sua spada ch’era sopra una sedia in un canto
del salotto, ma un’occhiata del bravo consigliere, che fra tutto
quell’imbroglio non perdeva il giudizio, l’obbligò a trattenersi; la
signora Broussel, lontana dal marito soltanto di quanto era larga la
mensa, diede in dirotto pianto; le fanciulle si tenevano stretto il
padre fra le braccia.

«Orsù, disse Comminges, sollecitiamoci; bisogna obbedire al re.

«Signore, rispose Broussel, sono indisposto di salute, e non posso
costituirmi prigione in questo stato: domando tempo.

«Non è possibile, l’ordine è formale, e deve eseguirsi subito.

«Non è possibile! replicò Louvieres; signore, badate di non ridurci
alla disperazione!

«Non è possibile!» urlò una voce acuta di fondo alla stanza.

Comminges si girò, e vide la Gervasia con la granata in mano e gli
occhi infuocati dalla collera.

«Gervasia cara, siate quieta, ve ne prego! disse il consigliere.

«Star quieta, io, quando arrestano il mio padrone, il sostegno, il
liberatore, il padre del povero popolo!.... Oh sì, mi conoscete benino!
Volete andar via? gridò la serva a Comminges».

Questi sorrise.

«Animo, signore, disse a Broussel, fate tacere questa donna, e
seguitemi.

«Farmi tacere! me?.... ripicchiava Gervasia, oh, ci vuol altro che voi,
bell’uccello del re! ora vedrete».

E si slanciò alla finestra e la spalancò, e con voce sì penetrante da
udirsi fino nell’atrio di Nostra-Donna, strillò:

« Ajuto! arrestano il mio padrone! arrestano il consigliere Broussel!
ajuto!

«Signor mio, fece Comminges, dichiaratevi prontamente: obbedite, o
volete far ribellione al re?

«Obbedisco! obbedisco! esclamò Broussel: procurando liberarsi dagli
amplessi delle figliuole e con lo sguardo frenare il figlio sempre
pronto a sfuggirgli.

«Allora dunque imponete silenzio a questa vecchia.

«Ah! vecchia, vecchia! strepitò Gervasia».

Ed affacciatasi, e reggendosi alle sbarre della finestra, strillava più
che mai:

«Ajuto, ajuto! per messer Broussel! lo arrestano perchè ha difeso il
popolo! ajuto!»

Comminges prese la serva per la vita e pretendeva levarla dal suo
posto; ma nel momento si udì in guisa di falsetto da una sorta di
mezzanino scaturire le strida:

«Fuoco! assassini! ammazzano il signor Broussel! scannano il signor
Broussel!»

Era Friquet. E la Gervasia, sentendosi meglio sostenuta, rinforzò gli
urli e fece coro completo.

Già a’ balconi si mostravano visi curiosi; accorreva la plebe
richiamata alla fine della contrada; prima uomini, poi comitive, e
dopo la calca; si sentiva lo strepito, si vedeva una vettura, e nessuno
capiva. Friquet saltò dal mezzanino sull’imperiale del legno.

«Vogliono arrestare il signor Broussel! gridò; nella carrozza vi sono
le guardie, e l’uffiziale è lassù!»

La moltitudine, raccoltasi, mormorò, susurrò, e si accostò ai cavalli.
Le due guardie rimaste nell’andito salirono a dar soccorso a Comminges;
quelle ch’erano nel legno aprirono lo sportello ed incrociarono le
lancie.

«Li vedete! esclamava Friquet, li vedete? eccoli! eccoli!»

Il cocchiere, voltatosi, diede a Friquet una buona frustata che lo fece
urlare dal dolore.

«Ah! vetturino del diavolo! disse questo, ti ci mescoli anco tu!
aspetta, aspetta!»

E reduce nel mezzanino, scagliò sul degno auriga quanti projettili potè
ritrovare.

A malgrado delle ostili dimostrazioni delle guardie, e forse anzi a
motivo di tali dimostrazioni, la folla si diede a schiamazzare e si
appressò ai cavalli. Le guardie fecero indietreggiare i più facinorosi
a suon di lanciate.

E cresceva il tumulto; e la strada non era più capace a contenere gli
spettatori che pullulavano da ogni banda; e la calca ingombrava persino
lo spazio che fra loro e la carrozza formavano le terribili picche.
I soldati, respinti come da muraglie viventi, sarebbero a momenti
schiacciati: fra le assi delle ruote e li sportelli delle vetture.
Il grido: «In nome del re!» ripetuto ben venti fiate dal birro, a
nulla giovava contro quella tremenda moltitudine, ed al contrario
pareva vieppiù la esacerbasse; ed ecco udendo: «In nome del re!»
scagliarsi un cavaliero, ed al mirare uniformi maltrattate, avventarsi
fra la mischia, con la spada in mano, e recare alle guardie inattesa
assistenza.

Il cavaliere era un giovane di quindici a sedici anni, fatto pallido
dalla collera. Smontò al pari delle altre guardie, si appoggiò al
timone del legno, del suo cavallo si fece un baluardo, cavò dalle
saccoccie le pistole e se le pose alla cintura, e cominciò a dar di
spada come uno a cui fosse familiare il maneggiar codest’arme.

Per una diecina di minuti, esso solo e da sè, resse agli sforzi di
tutta la gente.

Allora fu visto arrivare Comminges che spingeva avanti Broussel.

«Facciamo in pezzi la carrozza! gridava il popolo.

«Ajuto! gridava la vecchia.

«Assassini! gridava Friquet, buttando addosso alle guardie quanto gli
capitava fra le mani.

«In nome del re! gridava Comminges.

«Il primo che si avanza è morto! gridò Raolo, il quale, veggendosi
incalzato, fe’ sentire la punta della sua spada ad una specie di
gigante ch’era in procinto di schiacciarlo, e che per la ferita
fattagli rinculò mugolando».

Imperciocchè era appunto Raolo, che tornando da Blois, conforme avea
promesso al conte di la Fère, dopo un’assenza di cinque giorni, avea
voluto godere del colpo d’occhio della cerimonia, ed aveva preso dalle
strade che più direttamente lo avrebbero condotto a Nostra-Donna.
Giunto nelle vicinanze della via Cocatrix, erasi trovato trascinato
dall’onda popolare, e al detto di: «In nome del re!» ricordandosi
quello di Athos: «servite al re», accorreva a combattere pel re di cui
si maltrattavano le guardie.

Comminges gettò per dir così Broussel nella carrozza e si slanciò
dietro a questi. Nel momento s’intese una archibugiata, una palla
attraversò da cima a fondo il cappello a Comminges e ruppe il braccio
ad une guardia. Comminges alzò il capo, e vide in mezzo alla finestra
la faccia minacciosa di Louvieres che lo guardava dal secondo piano.

«Ah ah! gli disse, va bene, sentirete parlare di me!

«E anche voi, rispose Louvieres, e si vedrà chi parlerà più forte».

Friquet e la Gervasia strillavano sempre; le grida, lo sparo, l’odore
della polvere, tanto atto ad eccitare, facevano effetto.

«A morte l’uffizlale! a morte! urlò la folla».

E vi fu grande agitazione.

«Un passo di più, esclamò Comminges calando le stuoje onde si
distinguesse bene dentro al legno ed appoggiando la spada sul petto
al consigliere; un passo di più e ammazzo il prigioniero. Ho ordine di
portarlo o vivo o morto, lo porterò morto e sarà finita».

Echeggiò un grido terribile. La moglie e le figlie di Broussel
stendevano in atto supplice le mani verso il popolo.

Il popolo comprese che l’uffiziale tanto pallido, ma che parea sì
risoluto, farebbe come aveva detto; seguitò a minacciare, ma si trasse
indietro.

Comminges fece salir seco nel legno la guardia ferita, e ordinò alle
altre di chiudere lo sportello.

«Di galoppo al palazzo!» ordinò poi al cocchiere mezzo morto.

Questo frustò, e gli animali si apersero ampio varco tra la calca.
Però, arrivati allo scalo, bisognò fermarsi. La vettura ribaltò, i
cavalli erano trasportati, pigliati, acciaccati dalla gente. Raolo
a piedi, non avendo avuto agio di montar di nuovo in sella, stanco
di menar colpi di piatto della spada, come le guardie di darne col
piatto delle lame, cominciavano a far uso della punta. Però questo
tremendo ed ultimo compenso non poteva far altro che inasprire la
moltitudine. Tratto tratto si principiava a veder anche a rilucere tra
questa o la canna di un moschetto o la lama di una sciabola; si udivano
delle schioppettate, che, quantunque tirate per aria, scuotevano il
cuore a tutti, e proseguivano a piovere dai balconi i projettili.
Si ascoltavano voci che si odono soltanto nei giorni di sommossa, si
miravano volti che solo si veggono nei giorni più sanguinolenti. Le
grida: a morte le guardie! nel fiume l’uffiziale! ricoprivano quel
tumulto ancorchè immenso. Raolo, con il cappello tutto guastato, il
viso insanguinato, sentiva che non solo le forze ma anco la ragione
cominciavano ad abbandonarlo; i suoi occhi si avvolgevano in densa
nebbia rossiccia, ed a traverso a questa scorgeva cento braccia
accanite stendersi incontro a lui pronte ad afferrarlo appena cadesse.
Comminges si strappava per la rabbia i capelli nella vettura ribaltata.
Le guardie non potevano dar ajuto a veruno, occupate ciascune alla
propria difesa. Era finita! il legno, cavalli, militi, satelliti e
prigioniero forse anche tutti, stavano sul punto di esser ridotti in
pezzi.... Ma ad un tratto suonò una voce a Raolo ben cognita, e brillò
per aria una larga spada, e nel medesimo istante la folla si diradò,
bucata, atterrata, schiacciata, e un ufficiale dei moschettieri,
battendo e tagliando a destra e a manca, corse inverso a Raolo, e lo
prese fra le sue braccia nel momento ch’esso era per cadere.

«Cospettone! esclamò l’ufficiale, lo hanno dunque assassinato! oh in
tal caso, guai a loro! guai!»

E si volse in atto sì spaventevole per forza e per collera, che i più
accaniti ribelli si buttarono uno sull’altro onde fuggire, e ve ne
furono taluni che rotolarono persino nella Senna.

«Signor d’Artagnan! balbettò Bragelonne.

«Sì, cospettone! io in persona, e, secondo pare, per vostra buona
sorte, amico mio.... Ehi! qua voi altri! urlò d’Artagnan, drizzatosi
sulle staffe ed alzando la spada, chiamando colla voce e col gesto i
moschettieri, che non aveano potuto seguirlo tanto era stata rapida
la sua corsa; Ehi! animo! sgombrate tutta questa gente! ai moschetti!
portate, armi! caricate, armi!»

A quei comando i monti di plebe si abbassarono sì improvvisamente che
d’Artagnan non potè frenarsi dal ridere.

«Grazie, d’Artagnan, disse Comminges, mostrandosi per metà dello
sportello della vettura andata giù, grazie, mio giovane gentiluomo....
Il vostro nome? acciò io lo riferisca alla regina».

Raolo si accingeva a rispondere. D’Artagnan gli si chinò all’orecchio.

«Tacete, gli disse, e lasciate che risponda io».

E girandosi a Comminges:

«Comminges, non perdete il tempo; uscite dal legno se potete, e fatene
avanzare un altro.

«Ma quale?

«Per Diana! il primo che passi sul Ponte-Nuovo; quei che vi saran
dentro si stimeranno fortunatissimi di prestare la loro carrozza pel
servizio del re.

«Ma non saprei.... fece Comminges.

«Andate, andate! o che fra cinque minuti torneranno tutti que’
villani con spade o fucili; vi ammazzeranno e libereranno il vostro
prigioniero.... Andate!.... Oh! appunto, ecco una vettura che viene di
laggiù».

Ed abbassatosi da capo, d’Artagnan avvertì Raolo all’orecchio:

«E soprattutto, non date il vostro nome!»

Bragelonne lo guardava attonito.

«Va benissimo, io corro, replicò Comminges, e se ritornano fate fuoco.

«No, no! si oppose d’Artagnan, anzi, nessuno si muova; uno sparo fatto
in questo momento si pagherebbe troppo caro domani».

Comminges prese seco le sue quattro guardie e altrettanti moschettieri,
e volò incontro alla vettura; ne fece smontare quei che l’occupavano e
li ricondusse vicino all’altra ribaltata.

Ma quando si dovè trasportare Broussel dal legno rotto nell’altro, il
popolo, al vedere colui che chiamava suo liberatore, diede urli da non
idearsi, e si avventò nuovamente addosso alla carrozza.

«Partite, disse d’Artagnan, ecco dieci moschettieri per accompagnarvi,
io ne ritengo venti per tenere a freno la gente; andate, non perdete un
istante! Dieci uomini pel signor di Comminges!»

E tanti uomini, quanti ei ne avea destinati, separatisi dalla truppa si
fecero attorno alla nuova vettura, e mossero di galoppo con essa.

Al partirsi della quale crebbero le strida; e più di diecimila uomini
si affollavano sull’argine, ingombrando il Ponte-Nuovo e le strade
adjacenti.

Vi furono alcune schioppettate, un moschettiere restò ferito.

«Avanti! avanti! gridò il nostro tenente arrabbiato e mordendosi i
baffi».

E co’ suoi venti soldati fece una scarica su tutto quel popolo, che
scappò spaventato.

Un solo uomo rimase al suo posto coll’archibugio in mano.

«Ah! disse, sei tu che già volevi assassinarlo! aspetta!»

Ed abbassò l’arme verso d’Artagnan, il quale gli correva incontro di
triplice galoppo.

D’Artagnan si chinò sul collo del proprio destriero. Il giovane fece
fuoco; la palla tagliò la penna del suo cappello.

Il corsiero, infuriato, urtò l’imprudente che credeva di poter
trattenere da solo una tempesta, e lo mandò a cadere a ridosso al muro.

D’Artagnan fermò in tronco il suo cavallo, e mentre i suoi moschettieri
continuavano a caricare, tornò, alzando la spada, su colui che aveva
atterrato.

«Ah signore! esclamò Raolo, ravvisando il giovane per averlo veduto
nella via Cocatrix, abbiategli riguardo, è suo figlio!»

D’Artagnan si frenò; aveva il braccio pronto a colpirlo.

«Ah! siete suo figlio? esso disse, allora è tutt’altro.

«Signore, mi arrendo, rispose Louvieres, porgendo all’ufficiale il suo
fucile scarico.

«Eh no, per Dio! non vi arrendete; anzi scappate e alla lesta; se vi
prendono, sarete impiccato».

Quegli non se lo fece dire due volte; passò sotto il collo del
destriero e disparve sul canto della via Guénégaud.

«Affè! disse d’Artagnan a Raolo, mi avete trattenuto a tempo; era un
uomo bell’e morto, e davvero, quando avessi saputo chi egli era, avrei
provato rammarico di averlo ucciso.

«Ah signore! replicò Bragelonne, permettete che dopo avervi ringraziato
per quel povero ragazzo io vi ringrazii per me; anch’io era in procinto
di morire quando siete capitato.

«Piano, piano, amico mio, disse d’Artagnan, non vi stancate a parlare».

E tolta dalla sacca della sella una boccia ricolma di vino di Spagna,
soggiunse:

«Bevete un sorso di questa roba».

Raolo bevve, e voleva rinovare i ringraziamenti.

«Mio caro, disse d’Artagnan, ne parleremo poi».

Ed accortosi che i moschettieri aveano sgombrato l’argine del
Ponte-Nuovo sino a quel di San Michele, e tornavano indietro, levò su
la spada acciò si sollecitassero.

Coloro arrivarono di trotto; nel medesimo tempo, dal lato opposto,
giungevano i dieci di scorta dati da d’Artagnan a Comminges.

«Olà, gridò d’Artagnan a costoro, v’è qualcosa di nuovo?

«Signore, rispose il sergente, la loro carrozza è ita in pezzi da capo;
l’è una vera maledizione!»

D’Artagnan si strinse nelle spalle.

«Non han giudizio, disse; quando si sceglie una vettura la deve esser
buona e forte; quella con cui si arresta un Broussel deve essere capace
a portare dieci mila uomini.

«Che ci comandate, tenente?

«Prendete il distaccamento, e conducetelo al quartiere.

«E voi, vi ritirate solo?

«Sicuro! non crederete mica che abbia bisogno di scorta!

«Ma per altro....

«Andate là!....»

I fucilieri si partirono, e d’Artagnan restò solo con Raolo.

«E adesso, soffrite? gli domandò.

«Si, ho la testa grave, e che mi piglia fuoco.

«E che avete su codesta testa?...»

D’Artagnan tirò su il cappello, e disse:

«Ah! ah! una contusione!

«Sì.... credo che mi sia stato gettato sul capo un vaso di fiori.

«Canaglia!.... Ma avete gli sproni!.... dunque eravate a cavallo?

«Sì, ma ero smontato per difendere il signor di Comminges, ed il
cavallo mi è stato tolto.... Oh! eccolo!....»

Difatti nel momento passava il corsiero di Raolo su cui era Friquet,
il quale, andando di galoppo, agitava per aria la berretta di quattro
colori, e gridava:

«Broussel! Broussel!

«Ehi, briccone! fermati! urlò d’Artagnan, e porta qua codesta
bestia!....»

Friquet udì benissimo, ma fece da sordo, e procurò di seguitare avanti.

Per un poco d’Artagnan ebbe voglia di andargli appresso; ma non gli
parve opportuno lasciar solo Raolo; e quindi si limitò a cavar fuori
una pistola e caricarla.

Friquet aveva l’occhio accorto e l’orecchio fino; vide il gesto del
tenente, udì il rumore del grilletto, fermò di botto il palafreno.

«Oh! siete voi, signor uffiziale, esclamò venendo inverso d’Artagnan!
davvero, ho caro d’incontrarvi».

Il tenente guardò attento Friquet, e ravvisò il ragazzaccio della via
della Calandra.

«Ah! disse, sei tu, briccone? vien qua.

«Sì, son io, signor militare, rispose lo sguajato con i suoi modi
sdolcinati.

«Dunque hai cambiato mestiere? dunque non sei più cantore di chiesa?
dunque non sei più garzone di osteria? dunque sei ladro di cavalli?

«Uh, signor uffiziale! e s’ha egli a dir codesto? s’ha egli a dire?
esclamò Friquet, cercavo il gentiluomo padrone di questo animale, bel
cavaliero veh! coraggioso come un Cesare. (E fingeva veder allora
Bragelonne per la prima volta) Ohi! non m’inganno, eccolo qua!....
Signore, non vi scorderete mica del garzone, eh?»

Raolo si mise la mano nel borsellino.

«Che volete fare? gli domandò d’Artagnan.

«Dar dieci lire a questo buon ragazzo, rispose Raolo».

E cavava fuori di tasca una doppia.

«Dieci pedate nella pancia! urlò d’Artagnan. Va via, monello! e
rammentati che so dove tu abiti».

Friquet, che non si aspettava di uscirne tanto bene, fece un salto solo
dall’argine alla via Delfina, e là sparì affatto.

Raolo montò a cavallo; d’Artagnan avea cura di lui come fosse suo
figlio, ed entrambi, andando di passo, s’incamminarono verso la Strada
Tiquetonne.

Durante il tragitto, vi furono e mormorio e minaccie da lontano, ma
all’aspetto di quell’ufficiale, di portamento tanto militare, al mirare
la terribile spada che gli pendeva dal pugno, tutti si discostarono, e
non fu fatto sul serio verun tentativo contro i due cavalcanti.

Talchè giunsero dessi, senza disgrazie, all’albergo del Granchio.

La bella Maddalena partecipò a d’Artagnan qualmente era tornato
Planchet conducendo con sè Mousqueton, che aveva sopportata eroicamente
l’estrazione della palla e stava bene per quanto lo comportava la sua
situazione.

Allora d’Artagnan ordinò si chiamasse Planchet; ma Planchet, benchè
chiamato, non comparve. Era sparito.

«Dunque si porti del vino, comandò d’Artagnan».

E il vino essendogli recato, ed egli rimasto solo con Raolo, domandò a
questo guatandolo sottocchi:

«Siete contento di voi stesso?

«Eh sì! rispose Bragelonne, e’ mi pare di aver fatto l’obbligo mio. Non
ho difeso il re?

«E chi vi ha detto di difendere il re?

«Oh! il signor conte di la Fère in persona.

«Sì, il re; ma oggi non avete difeso il re, ma bensì il Mazzarino, lo
che non è lo stesso.

«Però, signore....

«Giovanotto, avete fatto uno sproposito, vi siete ingerito in cose che
non vi riguardano.

«Eppure voi....

«Oh! per me gli è tutt’altro; io ho dovuto obbedire agli ordini del
mio capitano. Il capitano vostro è il signor Principe: lo capite? non
ne avete altri... Ma s’è visto mai (continuava il tenente) una testa
sventata simile, che è per farsi partigiano del Mazzarino e dà ajuto
ad arrestare Broussel?.... almeno non fate motto su questo imbroglio, o
che il conte di la Fère andrebbe sulle furie.

«Credete che il signor conte sarebbe meco adirato?

«Se lo credo! ne sono sicuro. Se no vi ringrazierei, giacchè in
sostanza avete lavorato per noi. E perciò vi rimprovero in luogo e vece
di lui, e statene persuaso, la tempesta sarà più mite. E poi, mio caro
giovanotto, io mi prevalgo del privilegio concessomi dal vostro tutore.

«Non v’intendo, disse Raolo».

D’Artagnan si alzò, e tolta dallo stipo una lettera, a lui la porse.

Tosto che Raolo v’ebbe data una scorsa gli si fe’ torvo lo sguardo.

«Oh mio Dio! (e volgeva sul tenente i begli occhi gonfi di pianto)
dunque il signor conte ha abbandonato Parigi senza vedermi!

«È partito da quattro giorni.

«Ma dalla sua lettera sembra si accenni ch’ei si espone a rischio
mortale?....

«Oh sì! rischio mortale a lui!.... non ci pensate: viaggia per
affari, e sarà reduce in breve.... spero che non abbiate ripugnanza ad
accettarmi come suo facente funzioni.

«Ah no, signor d’Artagnan! voi siete un sì prode gentiluomo! il conte
di la Fère vi ama tanto!

«Or bene, amatemi anche voi; non vi tormenterò, ma con patto che siate
addetto alla _Fronda_, e per bene addetto alla _Fronda_!

«Posso bensì seguitare a frequentare la signora di Chevreuse?

«Eh sì, per Bacco! e anche il Coadjutore, e anche madama di
Longueville; e se fosse qua il buon uomo Broussel, al di cui arresto
avete contribuito sconsideratamente, vi direi: Fate presto le vostre
scuse a messer Broussel e dategli un bacio sopra ognuna delle guancie.

«Allora, signor mio, vi obbedirò sebbene non vi capisca.

«È inutile che m’intendiate. A voi (disse d’Artagnan volgendosi verso
l’uscio apertosi nel momento), ecco il signor du Vallon che capita qui
con le vesti tutte lacere.

«Sì, fece Porthos, che grondava di sudore ed era carico di polvere, sì,
ma in compenso ho lacerata la pelle a molti.... Quei prepotenti non mi
volevano levare la spada? Capperi! che agitazione popolare! (proseguiva
il gigante con la sua calma usitata), ma io ne ho accoppata una ventina
e più col pomo di Balizarda.... D’Artagnan, qua un dito di vino.

«Oh! mi rapporto a voi; gli rispose il Guascone empiendogli il
bicchiere sino all’orlo, bensì dopo che avrete bevuto, ditemi la vostra
opinione».

Porthos inghiottì tutto in un sorso; e posato il bicchiere sulla
tavola, e succiatesi le basette, domandò:

«Su che cosa?

«Sentite, disse d’Artagnan: ecco il signor di Bragelonne che ad ogni
patto voleva dar mano all’arresto di Broussel, e che a stento io ho
potuto trattenere dal difendere Comminges.

«Perdinci! esclamò Porthos, e che avrebbe detto il tutore se lo avesse
saputo?....

«Vedete? interruppe d’Artagnan, amico mio, datevi alla _Fronda_, e
pensate che io sono subentrato al conte in tutto e per tutto».

E fece suonare la borsa.

Indi giratosi verso il compagno:

«Venite, Porthos, sì o no?

«Dove? chiese questi mescendosi un bicchier di vino.

«A presentare i nostri omaggi al ministro».

Porthos s’ingojò il secondo bicchiere con la medesima pace che il
primo, riprese il cappello che avea posato sopra una seggiola, e andò
con d’Artagnan.

Raolo restò là sbalordito da quanto aveva veduto, essendogli vietato
da d’Artagnan di muoversi dalla stanza prima che fosse calmata ogni
agitazione.



XLVIII.

_Il mendico di Sant’Eustachio._


D’Artagnan aveva calcolato ciò che faceva non recandosi immediatamente
al Palazzo Reale; aveva dato tempo a Comminges di trasferirvisi prima
di lui, e in conseguenza di dar parte al ministro degli eminenti
servigi ch’egli stesso, d’Artagnan ed il suo amico, avevano renduti
nella mattinata al partito della regina.

Quindi ambedue furono accolti egregiamente da Mazzarino, il quale fece
ad essi moltissimi complimenti, ed annunziò come ciascun di loro era
più che a mezza strada di quel che bramava, cioè a dire d’Artagnan del
capitanato, e Porthos della baronia.

D’Artagnan avrebbe preferito a tutto questo danari, perocchè sapeva
che il Mazzarino era facile a promettere e duro a mantenere, talchè
stimava le promesse di Sua Eccellenza come cibo di poca sostanza; ma
non ostante si mostrò soddisfatto davanti a Porthos cui bramava di non
far perdere il coraggio.

Intanto che i due amici erano presso al ministro, la regina li fe’
ricercare. Mazzarino pensò che sarebbe un mezzo di accrescere lo zelo
de’ suoi due difensori il procacciare ad essi i ringraziamenti della
sovrana in persona, e accennò loro che andassero seco. D’Artagnan
e Porthos gli mostrarono i loro abiti polverosi e laceri, ma il
Mazzarino, tentennando il capo, rispose:

«Codesto vestiario è da meglio di quello di quanti cortigiani troverete
dalla regina, poichè è vestiario da battaglia».

D’Artagnan e Porthos obbedirono.

La corte della regina Anna era allegra e clamorosa, conciossiachè, in
conclusione, dopo riportata una vittoria sullo Spagnuolo, un’altra
se n’era ottenuta sul popolo; Broussel era stato condotto fuori di
Parigi senza resistenza, ed oramai doveva essere nelle prigioni di San
Germano, e Blancmesnil, arrestato nel medesimo tempo, ma senza chiasso
nè difficoltà, era carcerato nel castello di Vincennes.

Comminges se ne stava al fianco alla regina, la quale lo interrogava
sui dettagli della sua impresa, e ciascuno ascoltava il suo racconto,
quando ecco gli venne fatto di vedere all’uscio, dietro al ministro
ch’entrava, d’Artagnan e Porthos.

«Ah signora! disse correndo inverso d’Artagnan, questo signore può
dirvi il tutto meglio di me, giacchè è il mio salvatore. Senza di lui,
forse in questo momento sarei acchiappato nelle reti di San Cloud,
giacchè non si discorreva di niente meno che di buttarmi nel fiume.
Parlate voi, d’Artagnan».

D’Artagnan, dacchè era tenente dei moschettieri, si era trovato forse
cento volte nel medesimo appartamento che la sovrana, ma questa mai nè
poi mai gli avea rivolto il discorso.

«Ebbene? disse Anna, dopo avermi renduto un tal servigio, voi tacete?

«Ah! egli rispose, nulla ho da dire se non che la mia vita è ai comandi
di Vostra Maestà, e non sarò pago se non nel giorno in cui per Lei io
la perda.

«Lo so, lo so, replicò la regina, e da un pezzo. E perciò mi è grato
potervi dare questa pubblica dimostrazione della mia stima e della mia
riconoscenza.

«Permettetemi, Maestà, soggiunse d’Artagnan, di cederne porzione al mio
amico, antico moschettiere della compagnia di Tréville, al pari di me
(e calcava su queste parole) e che fece prodigi.

«Il suo nome? chiese Anna.

«Ne’ moschettieri si chiamava Porthos....»

La regina si scosse.

«Ma il suo vero nome, terminava d’Artagnan, si è cavaliere du Vallon.

«Di Bracieux di Pierrefonds, aumentò Porthos.

«Sono troppi nomi perch’io me li ricordi tutti, e non vuo’ rammentarmi
che del primo, ribattè graziosamente la regina».

Porthos s’inchinò.

D’Artagnan mosse due passi indietro.

Nel momento fu annunziata la venuta del Coadjutore.

Nella regia comitiva fuvvi un grido di sorpresa. Benchè il Coadjutore
avesse predicato la mattina, tutti sapevano ch’ei propendeva per la
_Fronda_, e Mazzarino invitando l’arcivescovo di Parigi a far predicare
suo nepote, aveva avuto di sicuro l’intenzione di dare al signor di
Retz una di quelle botte all’italiana che tanto lo divertivano.

Realmente, all’uscire da Nostra-Donna il Coadjutore aveva saputo il
fatto. Sebbene fosse impegnato coi principali soggetti della _Fronda_,
non lo era tanto da non poter battere la ritirata se la corte gli
offeriva i vantaggi da lui ambiti ed ai quali la dignità di Coadjutore
non era che un semplice avviamento. Il signor di Retz voleva essere
arcivescovo e rimpiazzare suo zio, e quindi cardinale. Il partito
popolare difficilmente poteva accordargli questi favori assolutamente
regali. Egli dunque si recava al palazzo per fare i suoi complimenti
alla regina sopra la battaglia di Lens, determinato anticipatamente
ad agire a pro o contro la corte secondo che il suo complimento fosse
ricevuto o bene o male.

Fu annunziato, entrò; ed al suo aspetto, in tutta la corte trionfante
si accrebbe la curiosità onde udire le sue parole.

Il Coadjutore aveva di per sè solo tanto spirito quanto tutti coloro
che stavano là riuniti per burlarlo. E quindi mise tale abilità nel suo
discorso, che gli astanti vogliosi di ridere non ne trovavano modo nè
motivo. Egli finì col dire che poneva il debole suo potere al servizio
di Sua Maestà.

La regina mostrò gustare assai l’arringa del Coadjutore sin che questa
durò; ma terminata che fu con quella frase, l’unica che diè campo a
molte facezie, Anna si volse, ed una occhiata che lanciò verso i suoi
favoriti, indicò ad essi qualmente ella abbandonava in balìa di loro
il Coadjutore. Tosto i più giovani individui della corte si scagliarono
nelle burle e nell’ironia.

Nogent-Beautin, buffone del palazzo, esclamò che la regina era molto
fortunata di trovare i soccorsi del Coadjutore in simile momento.

Vi fu una grandissima risata generale.

Il duca di Villeroy disse che non sapeva come mai si fosse avuto
timore, mentre per difendere Parigi contro il parlamento e i borghesi,
si aveva là il signor Coadjutore, che con un cenno poteva mettere su
un’armata di svizzeri e di bidelli.

Il maresciallo di la Meilleraye aggiunse, che dato il caso di venire
alle mani e di dovere il signor Coadjutore far egli pure una scarica,
era peccato ch’ei non potesse esser riconosciuto nella mischia da un
cappello rosso, come era stato Enrico IV dal pennacchio bianco alla
battaglia d’Ivry.

Gondy, al cospetto di tale tempesta, che avrebbe potuto rendere funesta
a quei che lo schernivano, rimase quieto e severo. Allora la regina gli
domandò se avesse qualche cosa da aggiungere al bel discorso che già le
aveva fatto.

«Sì, Maestà, egli le rispose, ho da pregarvi di pensarci ben bene prima
di mettere nel regno la guerra civile».

La sovrana gli voltò le spalle, e tutti ricominciarono a ridere.

Il Coadjutore se n’andò, dando però a Mazzarino che l’osservava uno
di quegli sguardi che si comprendono fra acerrimi nemici. Lo sguardo
fu sì acuto che penetrò sino in fondo al cuore del ministro, il quale
sentendo ch’era una dichiarazione di guerra, afferrò per un braccio
d’Artagnan e gli disse:

«All’occorrenza, riconoscereste quell’uomo ch’è uscito dianzi, non è
vero?

«Sì, monsignore, rispose questi».

E voltatosi verso Porthos continuò:

«Ohimè! la faccenda s’imbroglia.... non mi piacciono le contese fra
persone di tal fatta».

Gondy si ritirò spargendo benedizioni dovunque passava e procurandosi
maliziosamente il piacere di far inginocchiare ai suoi piedi ancora i
servi de’ suoi nemici.

«Oh! mormorò quando fu alla porta del palazzo, corte ingrata, corte
perfida, corte vile! domani t’insegnerò a ridere, ma in ben altra
maniera!»

Però, mentre al Palazzo Reale si facevano stravaganze di allegrezza
per aumentare il buon umore della sovrana, Mazzarino, uomo di senno,
e che d’altronde aveva tutta la previdenza della paura, non perdeva
già il tempo in ischerzi vani e pericolosi; era uscito subito dopo al
Coadjutore, chiudeva i suoi conti, serbava il suo oro, e da operaj di
confidenza faceva fare dei nascondigli nelle pareti.

Il Coadjutore, tornato alla propria dimora, intese che un giovane colà
venuto, dopo ch’ei si era partito, lo attendeva tuttavia. Domandò il
nome di colui, e balzò di giubilo all’udire che si chiamava Louvieres.

Corse tosto nel suo gabinetto. Difatto era là il figlio di Broussel,
ancor furibondo e disperato pel contrasto avuto con le genti del re.
L’unica precauzione che avesse presa per venire all’arcivescovado era
stata di lasciare l’archibugio in casa di un amico.

Il Coadjutore gli si fe’ incontro e gli porse la mano. Il giovanetto lo
guatò come se avesse voluto leggergli nel cuore.

«Caro Louvieres, disse Gondy, siate persuaso che prendo molto interesse
alla vostra disgrazia.

«Davvero? parlate sul serio?

«Con tutta l’anima.

«In tal caso, monsignore, è passato il tempo delle parole, e siamo
nell’ora di agire; purchè il vogliate, mio padre fra tre giorni sarà
fuori del carcere, e voi fra tre mesi sarete cardinale».

Di Gondy si scosse.

«Oh! seguitò Louvieres, parliamoci schietto, giuochiamo a carte
scoperte. Non si seminano trentamila scudi di elemosine conforme voi
avete fatto per mera carità cristiana; sarebbe azione troppo bella. Voi
siete ambizioso, e questo è naturale; siete uomo d’ingegno, e sapete
quanto valete. Io aborro la corte, e in questo punto non ho che un sol
desiderio, quello della vendetta. Dateci i vostri seguaci e il popolo
di cui disponete; io vi do il ceto borghese e il parlamento; con questi
quattro elementi, fra otto giorni Parigi è nostra, e credetemi pure, la
corte concederà per paura quel che non accorderebbe per amorevolezza».

Il Coadjutore fissò sopra Louvieres l’occhio penetrante.

«Ma sapete che codesto che mi proponete è a dirittura la guerra civile?

«Voi, monsignore, la preparate assai da lungo tempo perchè noi
l’accogliamo bene.

«Non serve, capirete che questo esige qualche riflessione.

«E quante ore chiedete a riflettere?

«Dodici.... sono forse troppe?

«È mezzogiorno, sarò da voi a mezzanotte.

«S’io non vi fossi, attendetemi.

«Ottimamente: a mezzanotte, monsignore.

«A mezzanotte, Louvieres carissimo».

Il Coadjutore, rimasto solo, chiamò a sè tutti i sottoposti con cui
aveva più stretta relazione. A capo a due ore ne ne aveva radunati
trenta addetti alle parrocchie più popolose di Parigi.

Raccontò ad essi l’insulto fattogli nel Palazzo Reale, e riferì
le celie di Beautin, del duca di Villeroy e del maresciallo di la
Meilleraye. E coloro gli domandarono che si avesse da fare.

«La cosa è semplice, ei disse, buttate giù quel miserabile pregiudizio
del timore e del rispetto pei re; rendete noto che la regina ci
tiranneggia; ripetete forte, in guisa che ciascuno lo sappia, che le
sciagure della Francia provengono tutte dal Mazzarino suo amante e
corruttore; principiate l’opera vostra, oggi, subito, e fra tre dì
vi aspetto al resultato. Inoltre, se qualcuno di voi ha da darmi un
consiglio si trattenga e lo ascolterò con piacere».

Rimasero tre dei convocati: quelli di S. Mery, di S. Sulpizio e di S.
Eustachio.

Gli altri si ritirarono.

«Voi dunque opinate di potermi ajutare anco più efficacemente che i
vostri colleghi? disse di Gondy.

«Lo speriamo.

«Animo, voi da S. Mery, cominciate.

«Monsignore, nella mia contrada ho un tale che potrebbe esservi
utilissimo.

«E chi è?

«Un mercatante della via dei Lombardi, avente grande influenza sui
piccoli negozianti del suo quartiere.

«Come lo chiamate?

«È un certo Planchet; circa sei settimane sono produsse da sè solo una
sollevazione, ma in seguito di questa lo cercavano per impiccarlo ed è
sparito.

«E lo ritroverete?

«Me ne lusingo.... Non credo che sia stato arrestato, e se sua moglie
sa dov’è potrò farmelo dire.

«Bene, cercatelo, e se lo rinvenite conducetelo da me.

«A che ora?

«Alle sei: vi fa comodo?

«Alle sei ore, monsignore, saremo da voi.

«Andate, e Dio vi assista».

Quello di S. Mery se ne andò.

«E voi? disse Gondy all’altro di S. Sulpizio.

«Io, conosco un uomo che ha fatto grandi servigi a un principe molto
popolare, e sarebbe un ottimo capo di ribellione, e posso porlo a
disposizione vostra, monsignore.

«Come si chiama?

«Conte di Rochefort.

«Lo conosco anch’io; disgraziatamente non è a Parigi.

«Eh sì! sta in via Cassette.

«Da quando in qua?

«Da tre giorni.

«E perchè non è venuto a vedermi?

«Gli hanno detto.... monsignore, mi perdonerete....

«Sì, sì, dite pure....

«Ch’eravate in trattative colla corte».

Gondy si morse il labbro.

«L’hanno ingannato; menatelo da me alle otto, e Dio vi benedica».

Dopo un inchino, quello di S. Sulpizio uscì.

«Ora a voi; disse il Coadjutore all’ultimo rimasto, avete pure da
offerirmi tanto bene come quei signori di poc’anzi?

«Di meglio.

«Diamine! badate che vi assumete un grave impegno: uno mi ha esibito un
mercante e l’altro un conte; voi dunque mi offrirete un principe?

«Un mendico, e nulla più, monsignore.

«Ah ah! fece di Gondy riflettendo, avete ragione: uno che sollevasse
tutta quella legione di poveri che ingombrano i chiassuoli della
capitale, e sapesse far loro gridare a voce abbastanza sonora per
che la Francia intera lo sentisse, che Mazzarino è quello che gli ha
ridotti alla miseria....

«Precisamente: ho quel che vi occorre.

«Bravo! e chi è colui?

«Un semplice accattone, come vi dicevo; che chiede la carità e dà
l’acqua benedetta sui gradini della chiesa di Sant’Eustachio da circa
sei anni.

«E dite che ha molta influenza sopra i suoi simili?

«È la mendicità un corpo organizzato, una specie di associazione di
quei che non possiedono contro quei che possiedono, una compagnia nella
quale ciascuno porta la sua tangente, e che dipende da un capo!

«Sì, codesto l’ho già inteso dire.

«Or bene, l’individuo che vi propongo è sindaco generale.

«E di lui che sapete?

«Nulla, se non che mi sembra straziato da qualche rimorso.

«Da che ve lo figurate?

«Al dì 28 di ogni mese fa dire una messa pel riposo di una persona
morta di morte improvvisa.

«E ha nome?

«Maillard, ma m’immagino non sia il suo vero nome.

«E vi pensate che adesso lo troviamo al suo posto?

«Oh! di sicuro.

«Andiamo a vedere il vostro mendico, e se è qual me lo dipingete, avete
ragione, voi siete quello che ha raccapezzato il vero tesoro».

Gondy si vestì da cavaliero, si mise un cappellone largo con la penna
rossa, e alla cintola una lunga spada, e gli sproni agli stivali, ed
avvoltosi in un ampio ferrajuolo andò col suo subalterno.

Il Coadjutore ed il compagno traversarono tutte le strade che separano
l’arcivescovado dalla chiesa di Sant’Eustachio, esaminando attentamente
lo spirito e le disposizioni del popolo. Il popolo era agitato, ma
simile ad uno sciame di api aizzate, pareva non sapesse su qual luogo
piombare, ed era evidente che se non gli si trovavano dei capi tutto
sarebbe finito con un vano ronzio.

Arrivati in via des Prouvaires, quegli che andava col coadjutore stese
la mano verso l’atrio della chiesa, e disse:

«Eccolo.... è al suo posto».

Gondy guardò dalla parte indicatagli, e vide un povero seduto sopra una
seggiola ed appoggiato a uno dei cornicioni; aveva desso una piccola
secchia, e teneva in mano un aspersorio.

«Sta egli là per privilegio? chiese Gondy.

«No, monsignore: si è combinato col suo predecessore per l’incarico di
dar l’acqua benedetta.

«Combinato?

«Sì, sono incumbenze che qui si affidano a questa classe di persone,
tra le quali avvi alcuno talvolta che se la passa benone.

«Dunque è forse anche ricco il briccone?

«Taluni di costoro muojono lasciando alle volte venti mila, venticinque
e trenta mila lire, e anco più!

«Uhm! disse ridendo Gondy, non credevo d’impiegare tanto bene le mie
limosine».

Frattanto si avanzavano; nel punto che i due ponevano il piede sul
primo gradino, il mendico si alzò a porgere l’aspersorio.

Era un uomo di sessantasei o sessantotto anni, piccolo, grosso, di
capelli grigi, occhi scuri. Sul suo sembiante appariva il conflitto di
due opposti principj: un cattivo naturale, forse domo dalla volontà,
forse dal pentimento.

Vedendo il cavaliero insieme col compagno, si scosse alquanto e lo
considerò attonito.

Entrambi allora si fecero il segno della croce; uno di essi gettò una
moneta nel cappello che stava in terra.

«Maillard, disse il Curato, questo signore ed io siam venuti per
discorrere un momento con voi.

«Con me! fece il mendico, è un grande onore codesto».

Nella voce dell’accattone esisteva un che di ironia ch’ei non seppe
nascondere, e che fece meraviglia al signor di Gondy.

«Sì, continuò il Curato che sembrava avvezzo a quel tuono suo ironico,
abbiamo voluto sapere che pensiate degli avvenimenti di quest’oggi,
e che abbiate inteso dire dalle persone che entrano in chiesa o che
n’escono».

Il mendico scosse la testa.

«Sono tristi avvenimenti, rispose, e che al solito ricadono addosso al
povero. Che si dice? tutti sono malcontenti e si lagnano; ma chi dice
tutti è come dicesse nessuno.

«Spiegatevi, mio caro, soggiunse il Coadjutore.

«Dico che tutte quelle grida, quei lamenti, quelle maledizioni non
produrranno altro se non burrasca e baleni; ma la saetta non cascherà
che quando vi sia un capo a dirigerla.

«Voi mi sembrate un uomo abile, replicò di Gondy; sareste disposto
a mescolarvi in una piccola guerra civile in caso che l’abbiamo, e
mettere a disposizione di quel capo, se lo troviamo, il vostro potere
individuale e l’influenza che avete acquistata sui vostri camerati?

«Sì signore, purchè questa guerra fosse approvata dalla Chiesa, e in
conseguenza mi conducesse allo scopo ch’io bramo di raggiungere, cioè
alla remissione de’ miei peccati.

«Sarà più che approvata, in quanto alla remissione dei peccati, il
signor Arcivescovo di Parigi tiene grandi poteri dalla Corte di Roma,
il signor Coadjutore ancora possiede delle indulgenze particolari, e
noi vi raccomanderemmo ad esso.

«Riflettete, Maillard, seguitò l’ecclesiastico, che da me siete stato
raccomandato a questo potentissimo signore ch’è qui meco, e che mi sono
fatto per voi garante.

«So, rispose il mendico, che aveste sempre per me molta bontà, e perciò
dal canto mio sono pronto a secondarvi.

«E credete la vostra influenza sui vostri colleghi così di peso come
dianzi mi si accertava?

«Credo che mi abbiano una qualche stima, ribattè non senza orgoglio
l’accattone, e che non solo faranno quanto loro io comandi, ma anche mi
seguiranno dovunque io vada.

«E potete assicurarmi di cinquanta uomini ben risoluti, anime buone
e calorose, capaci di far cadere le mura del Palazzo Reale gridando;
Abbasso il Mazzarino! come avvenne in passato di quelle di Gerico?

«Io ritengo esser tale da potermisi dare degli incarichi assai più
difficili e importanti.

«Ah ah! vi assumereste dunque in una notte di fare una diecina di
barricate?

«Di farne cinquanta, e, giunto il giorno, difenderle.

«Per Bacco! disse Gondy, parlate con tal fiducia che mi fa piacere, e
poichè il signor Curato mi garantisce per voi....

«Oh! lo garantisco, fece l’altro.

«Ecco un sacco di cento cinquanta doppie in oro; fate tutti i vostri
preparativi, e ditemi dove vi troverò questa sera alle dieci.

«Bisognerebbe che fosse in un luogo alto, di dove un segnale che si
facesse fosse da vedersi in tutti i quartieri della città.

«Volete ch’io vi dia due versi pel vicario di Sant’Jacques-La
Boucherie? egli v’introdurrà in una stanza della torre, disse il
Curato.

«Ottimamente! approvò il povero.

«Sicchè, continuò il Coadjutore, a dieci ore; e se sono contento di
voi, vi sarà un altro sacco di cinquecento doppie».

Al mendico brillarono gli occhi per la cupidigia, ma si frenò, e disse
soltanto:

«Signore, tutto sarà pronto».

Riposta in chiesa la sua sedia, accanto vi pose la secchia e
l’aspersorio, andò alla pila a pigliare l’acqua benedetta, ed uscì dal
tempio.



XLIX.

_La torre di Saint-Jacques-la-Boucherie._


Alle cinque ore e tre quarti, il signor di Gondy eseguite tutte le sue
gite, era tornato all’arcivescovado.

Alle sei fu annunziato il Curato di S. Mery.

Il Coadjutore guardò con impeto dietro ad esso, e vide che appresso gli
veniva un altro uomo.

«Fate passare», ordinò.

Fu introdotto il prete, e seco pure Planchet.

«Monsignore, ecco l’individuo del quale ho avuto l’onore di parlarvi».

Planchet salutò colle maniere di uno che abbia frequentato case di
riguardo.

«Siete disposto a servire alla causa del popolo? domandò Gondy.

«Lo credo! sono della _Fronda_ in corpo e in anima. Così come mi
vedete, monsignore, sono condannato ad essere impiccato.

«E perchè?

«Ho levato di mano ad uno dei sergenti di Mazzarino un nobile signore
che riconducevano alla bastiglia, dov’era stato digià cinque anni.

«E lo chiamate?

«Oh monsignore! lo conoscete: è il conte di Rochefort.

«Ah sì... ne avevo inteso discorrere; metteste a soqquadro tutta la
contrada, mi fu detto.

«Eh! all’incirca, disse Planchet contento di sè stesso.

«E di mestiere, voi siete?...

«Confettiere, in via dei Lombardi.

«Spiegatemi come va ch’esercitando una professione sì pacifica abbiate
inclinazioni tanto bellicose.

«E come Vostra signoria, appartenendo alla Chiesa, ora mi riceve in
abito da cavaliero, con la spada al fianco e gli stivali cogli sproni?

«Non è brutta risposta in coscienza; replicò ridendo Gondy; ma lo
sapete, che ho avuto sempre delle tendenze guerresche.

«Ed io, prima d’esser confettiere, stetti tre anni sergente nel
reggimento di Piemonte, e avanti di essere per tre anni sergente in
quel reggimento fui diciotto mesi servitore del signor d’Artagnan.

«Del tenente dei moschettieri? chiese Gondy.

«Per l’appunto.

«Ma dicesi che sia accanito partigiano di Mazzarino.

«Uhm!... fece Planchet.

«Che volete dire?

«Nulla: il signor d’Artagnan è al servizio, e fa il suo mestiere a
difendere Mazzarino che ci assassina.

«Siete un giovane di giudizio, mio caro: si può contare su di voi?

«Credevo, monsignore, che vi fosse stata garantita la mia premura.

«Sì, di sicuro, ma mi è grato sentirmelo confermare da voi.

«Monsignore, potete far caso su di me, purchè si tratti di fare uno
sconvolgimento per la città.

«E di questo precisamente siamo in discorso. Quanti uomini sperate
mettere assieme nella nottata?

«Duecento moschetti e cinquecento alabarde.

«Che vi sia uno per quartiere che faccia altrettanto, e domani
formeremo un’armata considerevole.

«Oh sì.

«Inclinereste ad obbedire al conte di Rochefort?

«Lo seguirei sino all’inferno, e con questo non dico poco, giacchè lo
reputo capace di scendervi.

«Bravo!

«Da qual segno si distingueranno domani gli amici dai nemici?

«Ognuno che sia della _Fronda_ può porsi un fiocco di paglia al
cappello.

«Benissimo: date gli ordini.

«Abbisognate di danaro?

«Il danaro non fa mai male. Se non se ne ha, si farà a meno; avendone,
le cose andranno meglio e più presto».

Gondy avvicinatosi ad un forziere ne levò fuori un sacchetto.

«Ecco, disse, ecco cinquecento doppie, e se il fatto riesce bene,
tenetevi per certa domani egual somma.

«Io renderò conto fedelmente a vostra signoria di questi danari, disse
Planchet ponendosi la borsa sotto il braccio.

«Va bene, vi raccomando il ministro.

«Non dubitate, è in buone mani».

Planchet sorrise; il prete restò un poco indietro.

«Siete contento, monsignore? ei domandò.

«Sì, colui mi pare un soggettaccio risoluto.

«Veh! farà più di quel che ha promesso.

«Allora è un prodigio».

Il Curato andò a ritrovare Planchet, che lo attendeva sulla scala. Di
là a dieci minuti fu annunziato quello di San Sulpizio.

Appena fu aperta la bussola del gabinetto di Gondy, vi si scagliò un
uomo: era il conte di Rochefort.

«Siete voi, carissimo conte! disse Gondy porgendogli la mano.

«In somma, monsignore, siete deciso? fece Rochefort.

«Lo fui sempre.

«Non se ne parli più; lo dite, ed io lo credo: ora daremo da sospirare
al Mazzarino.

«Lo spero anch’io.

«E quando si principia il ballo?

«Gl’inviti sono per questa notte, mormorò il Coadjutore; ma i violini
principieranno a suonare domattina.

«Potete far conto su di me e su cinquanta soldati promessimi dal
cavaliere d’Humieres qualora mi abbisognino.

«Cinquanta soldati?

«Sì, egli fa delle reclute e me le impresta; finita la festa, se glie
ne mancano, io vi rimpiazzerò.

«Bene, mio caro Rochefort, ma ciò non basta.

«E che altro v’è egli? domandò sorridendo Rochefort.

«Del signor di Beaufort, che ne avete fatto?

«È nel Vendomese, dove attende ch’io gli scriva di tornare a Parigi.

«Scrivetegli, è già tempo.

«Sicchè siete sicuro del fatto vostro?

«Sì, ma conviene che si solleciti, giacchè appena il popolo di Parigi
si ribelli avremo dieci principi, anzi che uno, che vorranno porsi alla
testa di esso: se tarda, troverà posto preso.

«Posso dargli l’avviso a nome vostro?

«Sì, chiaramente.

«Posso dirgli che deve contare su di voi?

«A meraviglia.

«E gli lascerete ogni facoltà?

«Per la guerra sì; in quanto alla politica....

«Sapete che quello non è il suo forte.

«Mi lascerà trattare a modo mio pel mio cappello da Cardinale.

«Vi preme di molto?

«Di molto.

«Ognuno ha il suo genio; mi fo responsabile di ottenervi il suo
consenso.

«Gli scrivete stassera?

«Fo di meglio, gl’invio un messaggiero.

«Fra quanti giorni può esser qui?

«Fra cinque.

«Venga, e ci troverà dei cambiamenti.

«Lo desidero.

«Ve lo accerto.

«Dunque?...

«Andate a radunare i vostri cinquanta uomini, e state pronto.

«A che?

«A tutto.

«V’è un segno di riunione?

«Un fiocco di paglia al cappello.

«Va bene. Addio, monsignore.

«Addio, mio caro Rochefort.

«Oh, messer Mazzarino! messer Mazzarino! disse Rochefort strascinando
via il Curato che non aveva trovato modo di mettere una parola in quel
dialogo, vedrete se sono troppo vecchio per essere un uomo d’azione!»

Erano le nove e mezza; ci voleva una mezz’ora al Coadjutore
per trasferirsi dall’arcivescovado alla torre di
Saint-Jacques-la-Boucherie.

Di Gondy osservò esservi lume alle finestre più alte della torre.

«Bene! disse fra sè, il nostro sindaco è al suo posto!»

Bussò, e gli fu aperto. Il vicario lo attendeva e lo guidò facendogli
lume sino in cima alla torre; là gli additò una porticella, posò la
candela in un angolo del muro, e discese.

Benchè fosse la chiave all’uscio, il Coadjutore picchiò.

«Entrate!» disse una voce ch’ei riconobbe esser quella del mendico.

Di Gondy passò innanzi. Era realmente il poverello di Sant’Eustachio.
Aspettava disteso sopra un lettuccio.

Al veder comparire il coadjutore egli si alzò.

Suonarono le dieci.

«Ebbene, domandò Gondy, mi hai mantenuta la parola?

«Non del tutto, disse il mendico.

«Come mai?

«Mi avevate richiesti cinquecento uomini, non è vero?

«Sì; e poi?

«E poi ne avrò due mila.

«Non esageri?

«Ne bramate una prova?

«Sì».

Erano accese tre candele, ciascuna davanti ad una finestra, che davano,
questa su la Città-Vecchia, quella sul Palazzo Reale, l’altra sopra la
contrada San Dionigi.

Colui in silenzio andò sino ad ognuno dei tre moccoli, e li spense un
dopo l’altro.

Il Coadjutore si trovò al bujo, alla stanza non dava più chiarore se
non se il dubbio raggio della luna, perdutasi sotto a grossi nuvoli
negri di cui poneva su gli orli una frangia argentea.

«Che hai tu fatto? disse Gondy.

«Ho dato il segnale.

«E quale?

«Quello delle barricate.

«Ah ah!

«Quando uscirete di qui, vedrete i miei uomini all’opra. Soltanto
badate a non rompervi le gambe inciampando in qualche catena o cadendo
in qualche buca.

«Orsù, ecco la somma, uguale a quella che già ricevesti. Adesso
rammentati che sei un capo, e non andarteli a bere.

«Da venti anni non ho bevuto altro che acqua».

L’uomo prese la borsa dalle mani del Coadjutore, il quale udì il rumore
che facevano le dita frugando addentro e tasteggiando le monete d’oro.

«Ah ah! disse di Gondy, sei avaro bricconaccio?»

L’accattone diede un sospiro e gittò via il sacchetto.

«E sarò sempre lo stesso? mormorò, e non perverrò giammai a spogliarmi
del vecchio esser mio? Oh miseria! oh vanità!

«Ma tanto lo prendi!

«Sì, ma fo voto d’innanzi a voi d’impiegare in opere pie quel che mi
avanzerà».

Aveva la faccia pallida e in contrazione come quella di uno che di
recente abbia sofferto internamente grandissimo contrasto.

«Che uomo singolare! pensò Gondy».

E prese il cappello per andarsene, ma nel girarsi vide il mendico fra
sè e la porta.

Prima sua idea si fu che colui gli avesse rancore.

Ma, al contrario, lo vide unire insieme le mani e inginocchiarsi.

«Monsignore! disse il povero, avanti di lasciarvi, deh! ve ne prego, la
vostra benedizione!

«Monsignore! esclamò Gondy, ma mio caro, tu mi prendi per un altro.

«No no, vi piglio per quello che siete, cioè pel signor coadjutore; vi
ho riconosciuto alle prime».

Gondy sorrise.

«E vuoi la mia benedizione? diss’egli.

«Ah sì!... ne ho bisogno».

Il mendico proferì queste parole in tuono di sì grande umiltà e di
sì profondo pentimento, che Gondy stese la mano per dargli la sua
benedizione.

«Ora, soggiunse il Coadjutore, fra noi v’è una certa relazione....
Orsù, dimmi, hai commesso qualche delitto a cui stia contro l’umana
giustizia e da cui io possa garantirti?»

L’accattone tentennò il capo.

«Monsignore, il delitto da me commesso, non è soggetto alla giustizia
umana, e voi non potete liberarmene se non che col benedirmi spesso
come ora faceste.

«Animo, via, sii schietto, fece il Coadjutore, non hai fatto tutta la
vita il mestiere che fai?

«No, monsignore, lo fo soltanto da sei anni.

«E prima, dov’eri?

«Alla Bastiglia.

«E innanzi di essere alla Bastiglia?

«Ve lo dirò a suo tempo.

«Basta così. A qualunque ora mi troverai pronto ad ascoltarti.

«Grazie, monsignore; disse il mendico in tuono truce, ma non è ancora
il tempo.

«Addio.

«Addio», ripetè il poverello inchinandosi.

Il Coadjutore prese la candela, e scese, e se ne andò tutto assorto ne’
suoi pensieri.



L.

_La sommossa._


Erano all’incirca le undici di notte.

Gondy ebbe fatti appena cento passi nelle vie di Parigi, che si accorse
del singolare cambiamento avvenuto.

Pareva che tutta la città fosse abitata da esseri fantastici; si
vedevano tacite e squallide ombre che smovevano il selciato delle
strade, altre che trascinavano e buttavano giù delle carrette, e
parecchie che scavavano fosse capaci a seppellire intere compagnie di
cavalcanti. Tutte quelle persone tanto attive andavano, e venivano,
e correvano, alla guisa di tanti demoni che compissero qualche opra
loro a tutti incognita: erano gli accattoni del cortile dei Miracoli,
erano gli agenti del dispensatore d’acqua benedetta dell’atrio di
Sant’Eustachio, i quali apparecchiavano le barricate per l’indomani.

Gondy considerava quegli uomini delle tenebre, quegli operai notturni,
con un tal quale spavento: in fra sè domandava se dopo aver fatto
uscire dalle loro tane tutte quelle immonde creature, avrebbe tanto
potere da farvele tornare. Quando alcuno di quegli esseri gli si
avvicinava, stava lì lì per farsi il segno di croce.

Arrivò in via Sant’Onorato, e seguitò lunghessa fino verso quella della
Ferronnerie. Ivi cangiò l’aspetto: vi erano mercatanti che correvano da
una bottega all’altra; le porte sembravano chiuse come li sportelli,
ma erano soltanto accoste, in guisa che si aprivano e si rinserravano
subito per dare accesso ad uomini che pareva temessero di lasciar
vedere ciò che recavano... e cotesti erano i bottegai, i quali avendo
delle armi ne imprestavano a coloro che non ne avevano.

Un tale correva da un uscio all’altro, cedendo sotto al peso delle
spade, degli archibugi, de’ moschetti, e d’armi d’ogni genere, che di
mano in mano andava posando. E al lume di un lampione il Coadjutore
ebbe in esso ravvisato Planchet.

Il signor di Gondy giunse sull’argine della strada della Zecca;
colà comitive di borghesi co’ ferrajuoli neri o bigi, secondo che
appartenevano al ceto alto o basso dei cittadini, se ne stavano
immobili, mentre diversi uomini soli e isolati si trasferivano da una
combriccola all’altra. Tutti quei pastrani neri e bigi erano tirati
in su di dietro dalla punta di una spada, e davanti dalla canna di un
archibugio o di un moschetto.

Arrivato sul Ponte Nuovo, il Coadjutore trovò un uomo che vi stava di
guardia.

Il quale gli si appressò dicendo:

«Chi siete? io non vi riconosco per uno dei nostri.

«Perchè non riconoscete i vostri amici, mio caro signor Louvieres»,
disse il sig. di Gondy levandosi il cappello.

Louvieres allora ravvisatolo fece un inchino.

Gondy continuò la sua ispezione, e scese fino alla torre di Nesle.
Là vide una lunga fila di gente che andava rasente alle muraglie.
L’avreste detta una processione di fantasime, perocchè erano tutti
avvolti in manti bianchi. Pervenuti a un certo punto, tutti quegli
uomini sembravano annientarsi un dopo l’altro quasi che fosse loro
mancato il terreno sotto i piedi. Gondy posatosi colle gomita sur un
angolo della strada, li osservò sparire dal primo sino al penultimo.
L’ultimo alzò gli occhi, senza dubbio per accertarsi che non si facesse
la posta a lui ed ai compagni, e ad onta dell’oscurità potè distinguere
Gondy. S’incamminò direttamente verso a lui, e gli piantò la pistola
alla gola.

«Olà, signor di Rochefort! disse ridendo il Coadjutore, non burliamo
con le armi da fuoco».

Rochefort riconobbe la voce.

«Ah! disse, siete voi, monsignore!

«Io, sì... ma che genti conducete così nelle viscere della terra?

«Le mie cinquanta reclute del cavaliere di Humieres, destinate ad
entrare nei cavalleggeri, e che hanno per unica montura ricevuti i
pastrani bianchi.

«E andate?...

«Da uno scultore mio amico.... ma scendiamo da una botola per dove
introduce i suoi lavori di marmo.

«Benissimo!» disse Gondy.

E diede una stretta di mano a Rochefort, il quale andò d’abbasso e si
chiuse dietro la botola.

Il Coadjutore se ne tornò alla sua dimora. Era l’un’ora dopo
mezzanotte. Aprì la finestra e si chinò ad ascoltare.

In tutta la città era un susurro straordinario, inaudito, sconosciuto.
Si comprendeva che in quelle oscure strade, oscure come tanti abissi,
succedevano cose terribili ed insolite. Tratto tratto si udiva un
fragore simile a quello della procella che si viene ammucchiando, o
dell’onde che ascendono, ma nulla di chiaro, di distinto, da spiegarsi,
da comprendersi, si affacciava alla mente; sembravano quei rumori
misteriosi e sotterranei che precedono i tremuoti.

Così durò tutta la notte l’apparecchio della sollevazione.

Alla domane sembrava che Parigi destatasi si spaventasse del suo
proprio aspetto. Pareva una città assediata. Uomini armati stavano
sulle barricate, con l’occhio minaccioso e lo schioppo in spalla.

Parole d’ordine, pattuglie, arresti, ed anche esecuzioni, erano quanto
ad ogni passo incontrasse il viandante; si arrestavano coloro che
avevano il cappello colle penne o la spada indorata, per obbligarli a
gridare: viva Broussel! abbasso il Mazzarino! e chiunque vi si ricusava
era fischiato, tormentato e talora percosso. Non si uccideva per anco,
ma si vedeva che non ne mancava la voglia.

Le barricate eransi portate sino in prossimità del Palazzo Reale.
Dalla strada des Bon-Enfans a quella della Ferronnerie, dalla via San
Tommaso del Louvre al Ponte Nuovo, dalla contrada Richelieu alla porta
Sant’Onorato, v’erano più di dieci mila uomini armati, i più avanzati
dei quali sfidavano urlando le sentinelle impassibili del reggimento
delle guardie impostate attorno attorno al Palazzo Reale, i di cui
cancelli erano chiusi dietro di loro, lo che rendeva molto precaria
la loro situazione. In mezzo a tutto questo circolavano in comitive di
cinquanta, di cento, di centocinquanta, e di due cento, uomini pallidi,
abbronzati, cenciosi, portando certe sorte di bandiere ov’era scritto:
«_Vedete la miseria del popolo!_» Dovunque e’ passavano si udivano
grida frenetiche, ed erano tante le comitive di questo genere che
dappertutto le grida si spargevano.

Fu grande lo stupore della regina Anna e di Mazzarino, allorchè
alzatisi dal letto si venne ad annunziare ad essi, qualmente la città,
da loro lasciata quieta la sera innanzi, ormai si destava agitata e
in istato di febbre, e quindi nè l’uno nè l’altra volevano credere a
ciò che loro veniva riferito, e dicevano che non darebbero fede se non
se a’ propri occhi ed alle proprie orecchie. Fu dunque spalancato un
balcone, videro, intesero, e restarono convinti.

Mazzarino si strinse nelle spalle, e fece mostra di sprezzare
moltissimo quella plebe, ma in sostanza impallidì fuor di modo, e corse
tremando nel suo gabinetto a rinchiudere nelle cassette il suo oro e le
sue gioje, ed infilarsi alle dita i più begli anelli di brillanti. La
regina, poi, furibonda e abbandonata alla sua volontà, chiamo a sè il
maresciallo di La Meilleraye, gli ordinò di prendere quanti uomini gli
piacesse e andare a vedere che _burla_ era quella.

Il maresciallo era per solito azzardoso, e di nulla avea paura, avendo
per il volgo l’altissimo disprezzo che per esso professavano le _genti
di spada_; pigliò centocinquanta uomini, e divisò di uscire dal ponte
del Louvre; ma là incontrò Rochefort e i suoi cinquanta cavalleggieri
accompagnati da più di mille cinquecento persone. Non v’era modo
di forzare una simile barriera; il maresciallo neppur vi si provò e
ritornò su per l’argine.

Però al Ponte Nuovo trovò Louvieres ed i suoi borghesi. Questa volta
tentò una scarica, ma fu ricevuto a suon di schioppettate, mentre da
tutte le finestre venivano giù pietre come grandine. Ei vi lasciò tre
de’ suoi.

Battè la ritirata verso il quartiere dei mercanti; e là s’intoppò in
Planchet e nei di lui alabardieri. Le alabarde si distesero minacciose
dalla sua parte; voleva passare addosso a tutti quei cappotti bigi,
ma i cappotti bigi stettero saldi, ed il maresciallo retrocedè verso
la strada Sant’Onorato, lasciando sul campo quattro delle sue guardie
ch’erano state ammazzate pian pianino coll’arme bianca.

Allora si avviò nella contrada Sant’Onorato. Ivi scontrò le barricate
del mendico di S. Eustachio. Erano queste custodite non solo da uomini
armati, ma anche da donne e ragazzi. Messer Friquet possessore di una
pistola e di una spada dategli da Louvieres aveva ordinata una truppa
di monelli simili a lui, e faceva un susurro da sbalordire.

Il maresciallo reputò quel punto guardato meno bene degli altri, e
fissò di forzarlo. Fece smontare venti uomini per aprire e sfondare
la barricata, mentre egli e il resto della sua truppa a cavallo
proteggerebbero gli assalitori. I venti camminarono direttamente verso
l’ostacolo, ma là, di dietro ai travi, di fra le ruote dei barrocci, di
su dalle pietre, si partì una fucilata terribile, ed allo strepito di
questa gli alabardieri di Planchet comparvero sul canto del cimitero
degli Innocenti, ed i borghesi di Louvieres sul canto della via della
Zecca.

Il maresciallo di La Meilleraye era sorpreso in fra due fuochi.

Era coraggioso, e in conseguenza decise di morire là dove si trovava.
Rese botte per botte, e tra la folla cominciarono ad eccheggiar
urli di dolore. Le guardie, meglio esperte, tiravano più a segno; i
borghesi, però, più numerosi le opprimevano con una vera burrasca di
ferro. Attorno a lui cadevano gli uomini conforme avrebbero potuto
fare a Rocroy od a Lerida. A Fontrailles, suo ajutante di campo, era
stato rotto un braccio; il cavallo di questo aveva ricevuto una palla
nel collo, ed egli stentava a frenarlo, dacchè la doglia lo faceva
diventare quasi matto. Insomma egli era in quel momento supremo in
cui il più prode si sente il brivido nelle vene e il sudore della
fronte, quando ecco ad un tratto diradarsi la folla sulla parte di via
dell’Albero secco esclamando: «Viva il Coadjutore!» e comparve Gondy,
tranquillo in mezzo alle schioppettate, distribuendo a diritta e a
sinistra le sue benedizioni colla stessa calma che se conducesse la
processione del _Corpus Domini_.

Tutti s’inginocchiarono.

Il maresciallo, riconosciutolo, gli corse incontro.

«In nome del cielo! gli disse, levatemi di qua, o ci lascio la pelle
insieme con tutti i miei».

Era tale tumulto che non avrebbe dato campo a sentire tuoni e saette.
Gondy alzò la mano e reclamò il silenzio: ognuno si tacque.

«Figliuoli, ei disse, ecco il signor maresciallo di La Meilleraye,
sulle di cui intenzioni voi vi siete ingannati, e che s’impegna al suo
ritorno al Louvre di chiedere in nome vostro alla regina la libertà del
nostro Broussel. Vi c’impegnate, maresciallo? continuò rivolgendosi a
La Meilleraye.

«Capperi! Io credo, che mi ci obbligo! esclamò questi, non isperavo di
scapolarla con tanto poco!

«E vi dà la sua parola da gentiluomo, disse Gondy».

Il maresciallo alzò la mano in segno di assenso.

«Evviva il Coadjutore!» urlò la moltitudine.

Alcune voci aggiunsero pure:

«Evviva il maresciallo!»

Ma tutte fecero in coro:

«Abbasso il Mazzarino!»

Si diradò la calca; la più breve via era per la strada di Sant’Onorato.
Si aprirono le barricate, e il maresciallo ed il resto della sua truppa
si ritirarono, preceduti da Friquet e da’ suoi compagni bricconi, che
alcuni facevano finzione di battere il tamburo, ed altri imitavano il
suono delle trombette.

Fu quasi una marcia trionfale, se non che dietro alle guardie si
chiudevano da capo le barricate, e il maresciallo si mordeva le pugna.

Frattanto, secondo noi accennammo, Mazzarino nel suo gabinetto poneva a
sesto i propri affaretti. Avea fatto ricercare d’Artagnan, ma fra tutto
quello schiamazzo non isperava vederlo, non essendo egli di servizio.
Dopo dieci minuti arrivò sulla soglia il tenente, seguito dal suo
inseparabile Porthos.

«Ah! venite, signor d’Artagnan! gridò il ministro, e siate il
benvenuto, ugualmente che il vostro amico. Ma che succede mai in questa
maladetta Parigi?

«Che vi succede, monsignore? nulla di buono, disse d’Artagnan scuotendo
il capo; la città è in completa sommossa, e poc’anzi, mentre io
traversavo la via di Montorgueil, col signor du Vallon vostro servo qui
presente, non ostante la mia uniforme, e chi sa? forse per cagione di
essa, ci volevano far gridare: «Evviva Broussel!» E poi, ho da dire che
cosa ci volevano far gridare di più?

«Dite, dite...

«Abbasso il Mazzarino!.... Oh per Bacco! è detta».

Mazzarino fece un sorrisetto, ma diventò giallo.

«E avete urlato? domandò.

«No davvero, non ero in voce: e nemmeno il signor du Vallon ch’è
infreddato.... E allora, monsignore....

«Allora che?....

«Guardatevi il cappello e il ferrajuolo!»

D’Artagnan mostrò quattro buchi di palle sul ferrajuolo e due sul
cappello. Porthos aveva l’abito lacerato sul fianco da un colpo di
alabarda, e lo spennacchio scorciato da una pistolettata.

«Diavolo! io avrei strillato! disse il ministro pensieroso e guardando
i due amici con ingenua ammirazione».

Nel momento si udì più vicino il tumulto.

Mazzarino si asciugò la fronte osservandosi d’intorno. Aveva voglia di
affacciarsi alla finestra, e non si ardiva.

«Vedete un po’ che cosa c’è», ordinò a d’Artagnan.

Questi andò al balcone con la sua consueta noncuranza.

«Oh oh! fece poi, che roba è questa? il Maresciallo di la Meilleraye
che torna senza cappello, Fontrailles col braccio legato al collo,
guardie ferite, cavalli insanguinati.... Ehi! che diavolo fanno le
sentinelle? vogliono tirare!....

«Hanno ordine di tirare sul popolo, disse il Mazzarino, se questo si
accosta al Palazzo Reale.

«Ma se fanno fuoco, tutto è rovinato! esclamò il tenente.

«Noi abbiamo i cancelli.

«I cancelli? son buoni per cinque minuti; i cancelli? saranno torti,
staccati, spezzati!.... Non tirate, cospettone! urlò d’Artagnan
spalancando la finestra».

Ad onta della sua raccomandazione che fra il grande susurro non poteva
essere intesa, si udirono tre o quattro spari di moschetto; poi succedè
una fucilata terribile; si sentivano battere le palle su la facciata
del Palazzo Reale; una di esse passò sotto al braccio a d’Artagnan, ed
andò a rompere uno specchio in cui si guardava Porthos con la massima
compiacenza.

«Ohimè! brontolò il ministro, uno specchio di Venezia!

«Ah monsignore! disse d’Artagnan chiudendo tranquillamente le imposte,
non piangete ancora, non merita il conto, giacchè è probabile che
in tutto il Palazzo Reale fra un’ora non ne resti più uno de’ vostri
specchi, o siano di Venezia o di Parigi.

«Ma allora di che parere sareste? chiese tremando Mazzarino.

«Per Diana! di render loro Broussel, poichè ve lo domandano. Che
diavolo volete farvi di un consigliere del parlamento? e’ non è buono a
nulla!

«E voi, signor du Vallon, di che opinione siete? che fareste?

«Restituirei Broussel, rispose Porthos.

«Venite, venite!.... ne vuo’ parlar subito alla regina».

Mazzarino giunto in fondo alla galleria si fermò.

«Signori, disse, posso contare su di voi?

«Noi non ci diamo due volte, replicò d’Artagnan; ci siamo dati a voi,
comandate e obbediremo.

«Or bene! soggiunse il ministro, entrate in quel gabinetto ed
aspettate».

Ed egli entrò in sala da un altro uscio.



LI.

_La sommossa diventa ribellione._


Il gabinetto in cui erano stati mandati d’Artagnan e Porthos era
separato dal salone ove trovavasi la regina, soltanto da cortine
di drappo di tappezzeria; sicchè la poca grossezza della divisione
permetteva di udir tutto, e l’apertura esistente fra le due portiere
concedeva di vedere ogni cosa.

La sovrana stava in piedi, pallida per la collera; eppure aveva tanto
potere sopra sè stessa che avremmo detto non provasse emozione veruna.
Dietro di lei erano Comminges, Villequier e Guitaut, e dietro agli
uomini le donne.

Davanti alla regina, il cancelliere Seguier, quello stesso che
venti anni prima l’aveva perseguitata tanto, raccontava che la sua
carrozza era stata fatta in pezzi, ch’egli era stato inseguito, che
si era ricovrato nel palazzo d’O...., che il palazzo erasi tosto
ingombrato, devastato, saccheggiato; egli per fortuna aveva avuto
tempo di cacciarsi in uno stanzino celato dai parati, dove una vecchia
lo aveva rinchiuso insieme col suo fratello vescovo di Meaux. Là il
pericolo era divenuto sì terribile, e i forsennati si avvicinavano
allo stanzino con tali minacce, che il cancelliere avea creduta giunta
per lui l’ultim’ora, e si era confessato a suo fratello onde esser
pronto a morire qualora fosse scoperto. Per buona sorte ciò non era
accaduto; il popolo, supponendolo fuggito da qualche porta di dietro,
ritirandosi gli aveva lasciato la libertà di andarsene. Allora egli si
era travestito con gli abiti del marchese d’O...., ed era uscito dal
palazzo, saltando sulla pancia ad un suo birro e a due guardie rimaste
uccise nel voler difendere il portone di strada.

Durante codesto racconto, Mazzarino entrato senza far rumore, si
accostava alla sovrana ed ascoltava.

«Ebbene? domandò Anna quando il cancelliere ebbe terminato, che pensate
di tutto questo?

«Ch’è un affare gravissimo.

«Che consiglio mi proponete?

«Ne proporrei uno a Vostra Maestà, ma non ardisco.

«Ardite, ardite, signore, disse la regina con un amaro sorriso; vi
ardiste pure a ben altro!»

Seguier arrossì e balbettò alcune parole.

«Non si tratta del passato, ma del presente, replicò Anna; diceste che
avevate un consiglio a darmi: qual è?

«Signora, fece titubando Seguier, sarebbe di liberare Broussel».

La regina digià pallida lo divenne maggiormente.

«Liberar Broussel! essa rispose, no, mai!»

Nell’istante si udì camminare nella sala contigua, e senza essere
annunziato comparve sulla soglia il maresciallo di la Meilleraye.

«Ah! maresciallo, siete qua! esclamò Anna lietissima; spero che abbiate
ridotta alla ragione tutta quella canaglia?

«Signora, ho lasciati tre uomini al Ponte-Nuovo, quattro ai mercati,
sei sul canto di via dell’Albero secco e due alla porta del vostro
palazzo, quindici in tutto; riconduco meco dieci o dodici feriti; il
mio cappello è rimasto non so dove portato via da una palla, e secondo
ogni probabilità sarei restato senza ferrajuolo se non fosse venuto il
signor Coadjutore a darmi ajuto e levarmi dall’impaccio.

«Già! fece la regina, mi avrebbe fatto meraviglia di non vedere quel
cagnuolo colle gambe torte intricato in questa faccenda!

«Maestà, soggiunse ridendo la Meilleraye, non ne dite molto male
davanti a me, giacchè il servizio che mi ha renduto è ancora caldo
caldo.

«Va bene, siategli grato quanto volete, ma io non sono obbligata a
niente; siete sano e salvo, ed ecco quel che bramavo; siate dunque non
solo ben venuto, ma anche ben tornato.

«Sì, ma ben tornato con un patto, cioè di trasmettere alla Maestà
Vostra i voleri del popolo.

«Voleri! disse Anna inarcando le ciglia. Oh! signor maresciallo,
bisogna che vi siate trovato in grandissimo rischio per incaricarvi di
sì strana ambasciata!»

Tali parole furono pronunziate con un tuono d’ironia, di che ben si
accorse la Meilleraye.

«Perdonate, signora, ei rispose, io non sono avvocato, son uomo di
guerra, e in conseguenza forse comprendo malamente il valore delle
parole: _desiderio_, e non _volere_, del popolo, avrei dovuto dire. In
quanto a ciò che mi fate l’onore di rispondermi, credo intendiate dirmi
che ho avuto paura».

La regina sorrise.

«Ebbene! sì, ho avuto paura; è questa la terza volta in vita mia che
tanto mi accade; eppure mi sono trovato a dodici grandi battaglie e non
so quanti fra combattimenti e scaramucce; sì, ho avuto timore, e mi è
più caro esser davanti a Vostra Maestà, sebbene sia molto minaccioso
il suo sorriso, che davanti a quei demoni dell’inferno che mi hanno
accompagnato sin qua e che scaturivano neppur so di dove.

«Bravo! disse sotto voce d’Artagnan a Porthos, bella risposta!

«Orsù, seguitò la regina mordendosi le labbra frattanto che i
cortigiani si guardavano attoniti, che desiderio è quello del mio
popolo?

«Che gli si renda Broussel, fece il maresciallo.

«No, mai! no, mai.

«Vostra Maestà è la padrona».

La Meilleraye s’inchinava e muoveva un passo indietro.

«Dove andate, Maresciallo?

«Vo a dar la risposta di Vostra Maestà a quei che l’attendono.

«Trattenetevi: io non voglio mostrare di trattare con dei ribelli.

«Signora, ho data la mia parola.

«Come sarebbe a dire?....

«Che se voi non mi fate arrestare, io sono in obbligo di scendere».

Dalle pupille di Anna schizzaron fuori due lampi.

«Oh! non v’è difficoltà, signor mio; ne ho fatti arrestare più grandi
di voi.... Guitaut!»

Mazzarino si slanciò.

«Signora! ei disse, se osassi io adesso darvi un consiglio?

«E parimente di restituire Broussel? in tal caso, potete dispensarvene.

«No, fece Mazzarino, quantunque sarebbe da stare a petto a qualche
altro.

«E qual è, dunque?

«Di chiamare il Coadjutore.

«Il Coadjutore! ripetè la sovrana, quel tremendo imbroglione! egli è
che ha fatta tutta la sommossa.

«Ragion di più: se l’ha fatta, può disfarla....

«Oh, Maestà! interruppe Comminges che guardava da una finestra; ecco,
l’occasione è ottima; appunto dà la benedizione sulla piazza del
Palazzo Reale».

La regina corse al balcone.

«È vero! esclamò, messer ipocrita! guardate là!

«Vedo, disse Mazzarino, che dinanzi a lui tutti s’inginocchiano benchè
non sia altro che Coadjutore, mentre s’io fossi nelle sue veci mi
farebbero a pezzi. Quindi persisto nel mio _desiderio_ (e il ministro
calcava su questo vocabolo) che Vostra Maestà riceva il Coadjutore.

«Perchè non dite anche voi nel vostro _volere_? replicò piano la
regina».

Mazzarino s’inchinò.

Anna stette alquanto pensosa. Indi alzando la testa:

«Maresciallo, andate a chiamare il Coadjutore, e a me conducetelo.

«E che dirò al popolo? domandò La Meilleraye.

«Che abbia pazienza; ne ho tanta io!»

Nel tuono della superba Spagnuola eravi un che d’imperioso a tal segno,
che il maresciallo uscì senza far veruna osservazione.

D’Artagnan si volse così a Porthos:

«Come finirà?

«Lo vedremo» ribattè Porthos tranquillamente.

Intanto Anna avvicinatasi a Comminges gli favellava sommesso.

Mazzarino inquieto guatava alla parte dov’erano d’Artagnan e Porthos.

Gli altri individui là presenti ricambiavano qualche discorso.

Fu riaperta la porta; venne il maresciallo, e lo seguiva Gondy.

La sovrana mosse quattro passi a incontrarlo e si fermò, fredda,
severa, immobile e sporgendo sprezzantemente il labbro inferiore.

Gondy fece una rispettosa riverenza.

«Ebbene, gli chiese la regina, che dite di questa sommossa?

«Maestà, che non è più semplice sommossa, ma bensì ribellione.

«La ribellione sta in coloro che pensano che il mio popolo possa
ribellarsi! gridò Anna incapace di dissimulare davanti al Coadjutore,
cui considerava, e forse con ragione, come promotore di tutta
l’agitazione. Ribellione! ecco come quei che la bramano chiamano il
movimento cagionato da loro stessi; ma aspettate! vi porrà buon ordine
l’autorità del re.

«Per dirmi forse codesto, rispose freddamente Gondy, Vostra Maestà mi
ha ammesso all’onore della sua presenza?

«No, caro Coadjutore, riprese Mazzarino; era per domandarvi il vostro
parere nella spiacevole circostanza in cui siamo.

«È vero, seguitò di Gondy fingendosi maravigliato, che Sua Maestà mi
abbia chiamato per domandarmi consiglio?

«Sì, replicò la regina, così hanno voluto».

Il Coadjutore s’inchinò.

«Sua Maestà dunque desidera?...

«Che le diciate ciò che fareste ne’ suoi piedi» sollecitossi a
terminare Mazzarino.

Di Gondy fissò in volto la sovrana, la quale fe’ un cenno affermativo.

«Nei piedi di Sua Maestà, non esiterei punto, e renderei Broussel.

«E se non lo rendo, gridò ella, che credete che succeda?

«Io credo, disse il maresciallo, che domani in Parigi non vi sarà una
pietra sull’altra.

«Non interrogo voi, ripicchiò Anna aspramente e senza tampoco girarsi,
ma il signor di Gondy.

«Se Sua Maestà interroga me, rispose con tutta calma il Coadjutore,
dichiarerò essere appieno del sentimento del signor maresciallo».

Salì il rossore sul volto alla regina; i begli occhi turchini
sembravano sul punto di uscirle dal posto, le labbra di corallo, di cui
i poeti dell’epoca fecero sì magnifiche comparazioni, si scolorirono
tremando di rabbia: ella mise persino spavento a Mazzarino, che però
era avvezzo ai furori domestici di quella casa tanto tormentata.

«Render Broussel! ella esclamò finalmente con un sorriso da far paura;
bel consiglio, davvero! degno di chi osa avanzarlo!»

Gondy stette saldo; pareva che le ingiurie del giorno scorressero
leggiere su di lui come i sarcasmi del dì precedente, ma l’odio e la
vendetta si accumulavano in fondo al suo cuore nel silenzio e a stilla
a stilla. Guardò freddamente la sovrana, la quale spingeva Mazzarino
per far sì che dicesse egli pure qualche cosa.

Il ministro, al suo solito, pensava molto e parlava poco.

«Eh eh! disse, buon consiglio, da amico.... Anch’io lo restituirei,
quel caro Broussel, o vivo o morto, e sarebbe finito tutto.

«Se lo rendeste morto, sarebbe finito tutto come voi dite, monsignore;
ma diversamente da quel che voi intendete.

«Ho detto morto o vivo? riprese Mazzarino, è un modo di parlare;
sapete che io capisco malamente il francese, che voi signor Coadjutore
comprendete e scrivete tanto bene.

«Ecco un consiglio di Stato, osservò d’Artagnan a Porthos; ma noi li
tenevamo migliori a La Rochelle con Athos ed Aramis.

«Al bastione San Gervasio, continuò Porthos.

«E là ed altrove».

Il Coadjutore lasciò passare il diluvio, e indi soggiunse con la
medesima flemma:

«Se Vostra Maestà non gusta l’opinione che io le sottopongo, è di certo
perchè ne ha qualcuna di meglio a cui attenersi; io conosco troppo la
saviezza della regina e de’ suoi consiglieri per immaginarmi che si
lasci molto tempo la città capitale in un’agitazione che può portare
alla rivoluzione.

«Sicchè, secondo voi altri, seguitò la Spagnuola stringendo le labbra
per l’ira estrema, la sommossa di jeri, che oggi è ribellione, può
diventar rivoluzione domani?

«Sì, Maestà, rispose gravemente di Gondy.

«Ma a sentir voi, i popoli sarebbero dimentichi d’ogni freno?

«È una cattiva annata per i re! disse Gondy tentennando la testa;
guardate un po’ in Inghilterra, signora.

«Sì, rispose la regina; ma per buona sorte in Francia non abbiamo un
Oliviero Cromvello.

«Chi sa?... gli uomini sono simili al fulmine: non si conoscono se non
quando colpiscono».

Ciascuno rabbrividì, e fuvvi un momento di silenzio.

Frattanto Anna si teneva ambo le mani sul petto; si scorgeva che
tentava reprimere i palpiti precipitosi del cuore.

«Porthos, mormorò d’Artagnan, mirate attento il Coadjutore.

«Lo vedo.... ebbene?

«Ebbene! è un uomo».

Porthos meravigliato fissò gli occhi sul tenente dei moschettieri; era
evidente che non lo capiva.

«Vostra Maestà, continuò senza pietà di Gondy, prenderà dunque le
misure opportune; ma io le preveggo terribili e tali da irritare
maggiormente i rivoltosi.

«Or bene; allora, voi signor Coadjutore che avete un sì gran potere
su di loro, e siete nostro amico, disse ironicamente la sovrana, li
calmerete dando ad essi le vostre benedizioni.

«Sarà forse troppo tardi, disse Gondy sempre di ghiaccio, ed è
probabile che abbia perduta io pure ogni influenza: laddove restituendo
Broussel, la Maestà Vostra tronca la radice a qualunque sedizione,
ed acquista il diritto di punire crudelmente ogni nuovo principio di
ribellione.

«E non l’ho, questo diritto? esclamò Anna.

«Se lo avete, prevaletevene, fece Gondy.

«Capperi! disse d’Artagnan a Porthos, ecco uno di quei caratteri come
piacciono a me. Perchè non è ministro, e perchè non son io il suo
d’Artagnan invece di esser di quel furfante di Mazzarino? Per Bacco!
che bei colpi faremmo insieme!

«Sì» rispose Porthos.

La regina con un cenno licenziò la corte, eccettuato Mazzarino.

Gondy inchinandosi era per ritirarsi al pari degli altri.

«Trattenetevi! gli ordinò Anna.

«Bene! pensò di Gondy, ora cede.

«Ora lo fa ammazzare, disse d’Artagnan a Porthos, ma in ogni caso non
sarà mai per mio mezzo. Giuro, anzi, sopra a Dio! che se alcuno gli va
addosso, io piombo addosso agli assalitori.

«Anch’io, confermò Porthos.

«Bene! bucinò Mazzarino prendendo una sedia, ne vedremo delle nuove».

La regina seguiva con gli occhi le persone che uscivano. Quando
l’ultima di esse ebbe chiusa la porla, ella si voltò. Si scorgeva
che si sforzava all’eccesso onde frenare lo sdegno: si faceva vento,
annasava ghiandine odorose, andava in su ed in giù. Mazzarino restava
assiso mostrando riflettere. Gondy, che principiava a sgomentarsi,
scandagliava collo sguardo tutti i parati, palpeggiava l’usbergo che
teneva sotto la toga, e tratto tratto si cercava in seno il manico di
un buon pugnale spagnuolo che si teneva nascosto a portata della mano.

«Animo, signor Coadjutore, disse la regina, animo, or che siamo soli,
ripetete il vostro suggerimento.

«Eccolo, Maestà; fingere di averci pensato meglio, convenire
pubblicamente di un abbaglio, nel che sta la forza dei governi forti;
fare uscire Broussel dal suo carcere e renderlo al popolo.

«Oh! esclamò Anna, umiliarmi in tal guisa! Sono io, sì o no, la regina?
tutta quella canaglia che strepita è ella, sì o no, una turba di miei
sudditi? ho io amici, ho io guardie? Ah per Nostra Donna! come diceva
la regina Caterina, piuttosto che dar loro l’infame Broussel, lo
scannerei colle mie mani!»

E si scagliò chiudendo il pugno verso Gondy, cui in quel momento
aborriva di certo almeno quanto Broussel.

Gondy non si mosse; non agì verun muscolo del suo volto: se non che il
gelido suo sguardo s’incrociò come un brando collo sguardo furibondo
della sovrana.

«Questo è un uomo bell’e morto, disse il Guascone, se in corte v’è
ancora qualche Vitry e il Vitry capita adesso, ma io, prima che tocchi
quel buon Coadjutore, ammazzo il Vitry!... messer Mazzarino me ne sarà
grato al sommo.

«Zitto! disse Porthos, state a sentire.

«Signora, esclamò il ministro afferrando pel braccio la regina e
tirandola indietro, signora, che fate mai?»

Poscia soggiunse in ispagnuolo:

«Anna, siete pazza? fate qui dispute da particolari, da borghesi,
voi una regina! e non vedete che avete dinanzi, nella persona
del Coadjutore, tutto il popolo di Parigi che in questo punto è
pericolosissimo lo insultare, e che se il Coadjutore vuol così, fra
un’ora non avrete più corona? Animo, animo! in appresso, in altra
occasione starete ferma, ma oggi non è il momento; oggi accarezzate e
lusingate, o che siete soltanto una donna volgare».

Dalle prime parole di questo discorso, d’Artagnan aveva preso per un
braccio Porthos e glielo andava vieppiù stringendo; indi, quando il
ministro si tacque, egli disse piano:

«Porthos, non dite mai davanti a Mazzarino ch’io intendo lo spagnuolo,
o che sono un uomo rovinato e voi pure.

«Bene» fece Porthos.

Quella forte ramanzina, ornata di una certa eloquenza, che
caratterizzava Mazzarino quando ei parlava italiano o spagnuolo, e
che perdeva affatto quando parlava in francese, fu pronunziata con un
aspetto impenetrabile, il quale non diede sospetto a Gondy, quantunque
abilissimo fisionomista, d’altro che di un mero avvertimento ad esser
più moderata.

La regina così strapazzata, dal canto suo si fe’ più mite; lasciò,
diremmo, cadersi dagli occhi il fuoco, e dalle guancie il sangue,
e dalle labbra la collera loquace: si assise, e con voce molle dal
pianto, buttando giù le braccia, disse tosto:

«Perdonatemi, signor Coadjutore, e attribuite l’impeto mio a quel che
soffro. Donna, e in conseguenza soggetta alle debolezze del mio sesso,
mi sbigottisco della guerra civile; regina ed assuefatta ad essere
obbedita, mi adiro alla prima resistenza.

«Vostra Maestà s’inganna, rispose dolcemente di Gondy, qualificando
come resistenza il mio sincero suggerimento. Vostra Maestà non ha se
non sudditi rispettosi e sottomessi. Il popolo non ha rancore contro la
regina, chiama Broussel, e non altro, fortunatissimo di vivere sotto
le leggi della Maestà Vostra.... ove però Ella gli renda Broussel»
aggiungeva sorridendo Gondy.

Mazzarino all’udire _il popolo non ha rancore contro la regina_
aveva già drizzate le orecchie, credendo che il Coadjutore fosse per
discorrere delle grida: _abbasso il Mazzarino!_ egli fu anzi grato
della soppressione fatta, e con la ciera sua più sdolcinata e gentile
disse:

«Signora, date ascolto al Coadjutore ch’è uno dei più abili politici
che abbiamo; il primo cappello di cardinale vacante sembra fatto per la
nobile sua testa.

«Ah briccone! tu hai bisogno di me! disse fra sè di Gondy.

«E che cosa prometterà a noi, disse d’Artagnan, il giorno in cui
vorranno ucciderlo? Per Diana! se dà a questo modo dei cappelli,
prepariamoci, Porthos, e chiediamo ciascuno un reggimento domani
subito.... Cospettone! duri soltanto un anno la guerra civile, e fo
indorare a nuovo per me la spada di connestabile!

«Ed io? domandò Porthos.

«A te? ti farò dare il bastone di maresciallo del signor di La
Meilleraye, che in questo punto non mi par molto in favore.

«Dunque, riprese la sovrana, voi temete sul serio l’agitazione popolare?

«Sul serio, replicò Gondy meravigliato di non esser avanzato di più;
temo, allorchè il torrente ha rotto l’argine, che cagioni gravissimi
danni.

«Ed io, replicò Anna, stimo che in questo caso gli si debbano opporre
argini nuovi».

Gondy guardò attonito il Mazzarino; il Mazzarino si accostò alla
sovrana onde discorrerle; all’istante si udì orribile tumulto sulla
piazza del Palazzo Reale.

Gondy sorrise, alla regina s’infiammarono le pupille, a Mazzarino
impallidì la faccia.

«Che altro v’è egli? chiese quest’ultimo».

Entrò in sala precipitosamente Comminges.

«Perdonate, Maestà, esso disse; ma il popolo ha pestate le sentinelle a
ridosso ai cancelli, ed ora forza le porte: che ordinate?

«Ascoltate!» disse Gondy alla regina.

Il mugghiare delle onde, lo strepito del fulmine, il fragore di un
vulcano infiammato, non sono da paragonarsi alla tempesta di grida che
sorse in tal momento.

«Quel che ordino? disse Anna.

«Sì, il tempo stringe.

«Quanti uomini all’incirca avete al Palazzo Reale?

«Seicento.

«Ponetene cento attorno al re, e col rimanente sgombrate quella
plebaglia.

«Ah signora! che fate? osservava Mazzarino.

«Andate!» comandò Anna.

Comminges uscì con l’obbedienza passiva del soldato.

S’intese un rumore spaventevole; cominciava una porta a cadere.

«Oh Maestà! urlò il ministro, ci perderete tutti, il re, voi e me!»

A quel grido partitosi dall’anima del ministro sgomentato ebbe paura
ancor la regina; richiamò indietro Comminges.

«È troppo tardi! disse Mazzarino strappandosi i capelli, è troppo
tardi!»

La porta cessò di resistere. Si udirono urli di allegrezza della plebe.
D’Artagnan mise mano alla spada, ed accennò a Porthos d’imitarlo.

«Salvate la regina! strillò Mazzarino al Coadjutore».

Gondy corse al balcone e lo aprì; riconobbe Louvieres alla testa di una
truppa di forse tre o quattro mila uomini.

«Non muovete un passo di più! egli disse, la regina sottoscrive.

«Che dite? domandò Anna.

«La verità, rispose il ministro porgendole carta e penna; così fa
d’uopo....»

Ed aggiunse:

«Anna, firmate, ve ne prego, voglio così!»

La sovrana cadde sopra una sedia, e firmò.

Il popolo frenato da Louvieres non avea fatto un passo di più, ma
sempre continuava il tremendo mormorio che dà indizio dello sdegno
della moltitudine.

La regina scrisse:

«Il custode della prigione di San Germano porrà in libertà il
consigliere Broussel».

Ed appose il suo nome.

Il Coadjutore, che cogli occhi si divorava ogni menomo suo movimento,
prese subito il foglio, tornò alla finestra, ed agitandolo con la mano,
esclamò:

«Ecco l’ordine!»

Parve che tutta Parigi desse unanime un gran grido di gioja; indi si
udì:

«Evviva Broussel! evviva il Coadjutore!

«Evviva la regina! disse il Coadjutore».

Alcune voci ripeterono questo, ma rade e fiacche. Forse di Gondy aveva
dato quell’urlo unicamente per far sentire ad Anna quanto ella fosse
debole.

«E adesso, essa disse, che avete ciò che voleste, andate, signor di
Gondy.

«Quando la regina avrà bisogno di me, rispose inchinandosi il
Coadjutore, Sua Maestà sa che sono a’ suoi cenni».

Mazzarino le si avvicinava.

«Lasciatemi! ella strillò, voi non siete un uomo».

Ed uscì.

«Voi, non siete una donna! brontolò il ministro».

Indi, avendo pensato un poco ei si rammentò che d’Artagnan e Porthos
dovevano esser colà e in conseguenza aver visto ed inteso tutto.
Aggrottò le ciglia, andò prontamente verso il parato e lo sollevò: il
gabinetto era vuoto.

Alle ultime parole della regina, d’Artagnan preso per mano Porthos, lo
trascinava verso la galleria.

Mazzarino, pure entrò nella galleria e trovò i due amici che
passeggiavano.

«Perchè vi siete partiti dal gabinetto? chiese il ministro.

«Perchè, rispose d’Artagnan, Sua Maestà ha ordinato a tutti di
andarsene, ed io ho pensato che l’ordine fosse per noi come per gli
altri.

«Talchè siete qui da....

«Da un quarto d’ora circa, replicò il tenente accennando a Porthos non
ismentirlo».

Mazzarino si accorse del segno fatto, si convinse che il Guascone
avesse veduto e udito ogni cosa, ma gli fu grato della bugia.

Laonde gli disse:

«Signor d’Artagnan, siete assolutamente l’uomo ch’io cercava, e potete
ugualmente, che il vostro amico, contare sopra di me».

E salutatili entrambi col suo più grazioso sorriso, se ne tornò più
quieto nel proprio gabinetto, sendochè alla partenza di Gondy era
cessato come per incanto lo schiamazzo.



LII.

_Con le disgrazie viene la memoria._


Anna era entrata furibonda nel suo oratorio.

«Come! esclamò torcendosi le bellissime braccia, come il popolo vide il
sig. di Condé, il primo principe del sangue arrestato dalla mia suocera
Maria de’ Medici; vide la mia suocera sua antica reggente, discacciata
dal ministro; vide il signor di Vendome, cioè il figlio di Enrico IV,
prigioniero a Vincennes, e nulla disse, nulla, mentre s’insultavano,
si carceravano, si minacciavano que’ grandi personaggi; e per un
Broussel!... Gesù! ch’è mai diventata la dignità regale?»

Anna senza pensarvi toccava la questione caldissima del momento. Nulla
aveva detto il popolo per i principi, e si sollevava per Broussel:
perchè si trattava di un plebeo, ed esso difendendolo sentiva per un
certo istinto che difendeva sè medesimo.

Frattanto Mazzarino camminava su e giù nel gabinetto, guardando tratto
tratto il suo bello specchio di Venezia tutto rotto.

«Eh! diceva, è trista faccenda, lo so, esser costretti a cedere in tal
modo; ma via! ci piglieremo la rivincita: che importa di Broussel? gli
è un nome, e non una cosa».

Quantunque fosse abile politico, questa volta il ministro la sbagliava:
Broussel era una cosa, e non un nome.

E perciò alla mattina vegnente, allorchè Broussel fece il suo ingresso
in Parigi in una grande carrozza, avendo accanto Louvieres suo figlio,
e Friquet dietro al legno, tutta la folla armata si scagliò dove
passava; da ogni banda echeggiavano le grida: evviva Broussel! evviva
il nostro padre! e portavano la morte alle orecchie di Mazzarino;
per ogni parte gli spioni del ministro e della sovrana riferivano
spiacevoli notizie, le quali trovavano quello agitatissimo e questa
assai quieta. Sembrava che Anna maturasse nel suo cervello una grande
risoluzione, lo che appunto accresceva le smanie di Mazzarino: chè
egli conosceva l’orgogliosa donna, e delle sue risoluzioni paventava di
molto.

Il Coadjutore era tornato al Parlamento, più re che non lo fossero il
re, la regina e il ministro tutti insieme. Dietro un suo consiglio,
un editto del Parlamento aveva invitati i borghesi a deporre le armi
e demolire le barricate; costoro ormai sapevano che bastava un’ora per
riprendere le armi, ed una notte per rifare le barricate.

Planchet si era rimesso nella sua bottega: la vittoria porta amnistia:
sicchè egli non avea più paura di essere appiccato, e si persuadea che
se alcuno mostrasse soltanto voler arrestarlo il popolo si solleverebbe
per lui conforme aveva fatto per Broussel.

Rochefort aveva restituiti i suoi cavalleggieri al cavalier d’Humieres;
ne mancavano due all’appello, ma il cavaliere tutto della _Fronda_ in
anima e in corpo non aveva voluto sentir discorrere di risarcimento.

Il mendico avea ripreso il suo posto nell’atrio di Sant’Eustachio,
dando sempre l’acqua benedetta con una mano, coll’altra chiedendo
elemosina; e nessuno s’immaginava quelle due mani aver prestato ajuto
onde cavare dal sociale edifizio la pietra fondamentale della regia
dignità.

Louvieres era contento e superbo: si era vendicato del Mazzarino, ed
aveva contribuito molto a fare scarcerare il proprio genitore; il suo
nome erasi ripetuto con terrore nel Palazzo Reale, ed egli ridendo
diceva al consigliere restituito alla famiglia:

«Credete, padre mio, che se adesso io chiedessi alla regina il comando
di una compagnia, ella me lo concederebbe?»

D’Artagnan aveva profittato del momento di calma per rimandar indietro
Raolo, cui a stento avea tenuto rinchiuso durante la sommossa, e che
intendeva assolutamente sguainare la spada o per l’uno o per l’altro
— Raolo sul principio fece qualche obbiezione, d’Artagnah gli parlò
in nome del conte di la Fère, ed egli, dopo essere andato a fare una
visita alla signora di Chevreuse, partì per raggiungere l’armata.

Rochefort solo trovava le cose terminate malissimo; scrisse al
signor duca di Beaufort di venire; il duca arriverebbe quanto prima e
troverebbe Parigi tranquillo.

Andò dal Coadjutore per domandargli se si dovesse dare avviso al
principe di fermarsi per la via; ma Gondy riflettè un poco e gli disse:

«Lasciatelo continuare il suo viaggio.

«Ma dunque non è finita? disse Rochefort.

«Eh vi pare! caro conte, siamo ancora al principio.

«Da che lo arguite?

«Dalla cognizione che ho del cuore della regina: non vorrà rimaner
battuta.

«Apparecchia ella forse qualche cosa?

«Spero di sì.

«Animo, là, che sapete?

«So che ha scritto al signor Principe di tornare sollecitamente
dall’armata.

«Ah, ah! disse Rochefort, avete ragione; bisogna lasciar venire il
signor di Beaufort.»

La sera stessa di quella conversazione si sparse voce esser giunto il
Principe.

Era codesta una notizia semplicissima, naturale, eppure fece uno
strepito immenso; si diceva essere stata commessa qualche imprudenza di
parole da madama di Longueville, a cui aveva fatte delle confidenze il
signor Principe, il quale tutti accertavano nutrisse per la sorella una
tenerezza anche più grande che l’affetto fraterno, e queste confidenze
svelavano tristi progetti per parte della regina.

La sera stessa dell’arrivo del signor Principe molti borghesi più
avanzati degli altri, scabbini, capitani di quartiere, se ne andavano
dai loro conoscenti dicendo:

«E perchè non dobbiamo prendere il re e metterlo nel palazzo della
comunità?.... È mal fatto lasciarlo educare dai nostri nemici che gli
danno cattivi consigli, mentre se fosse diretto dal signor Coadjutore
succhierebbe massime nazionali ed amerebbe il popolo.»

La notte passò in una sorda agitazione; all’indomani si rividero i
pastrani bigi e neri, le pattuglie di mercanti armati e le truppe di
accattoni.

La regina era stata tutta la nottata a conferenza col signor Principe,
che introdotto a mezzanotte nel di lei oratorio non l’aveva lasciata
sino alle cinque ore.

Alle cinque Anna si recò nel gabinetto di Mazzarino; s’ella non si era
ancor coricata, egli però era digià alzato.

Ei redigeva una risposta per Cromvello: erano già trascorsi sei giorni
dei dieci che aveva presi di tempo da Mordaunt.

«Eh! diceva, l’avrò fatto aspettare un poco; ma il signor Cromvello sa
troppo bene che cosa sono le rivoluzioni perchè non abbia a scusarmi.»

E rileggeva con tutta compiacenza il primo paragrafo del suo scritto,
quando fu toccato pianino l’usciale che comunicava agli appartamenti
della regina. Di là non potea venire altri che Anna. Il ministro si
alzò e si fece ad aprire.

La sovrana era vestita in succinto, ma questo le stava sempre bene,
giacchè al pari di Diana di Poitiers e di Ninon, Anna conservò il
privilegio di rimanere ognora bella; e quella mattina era più bella
del solito, avendo negli occhi tutto il fulgore che dà allo sguardo
l’interna allegrezza.

«Che avete, signora? disse inquieto Mazzarino, mi parete superba.

«Sì, Giulio, superba e contenta, che ho trovato il mezzo di soffocare
quell’idra.

«Siete una grande politica, regina mia; sentiamo il mezzo.»

E Mazzarino nascose la lettera incominciata sotto un foglio bianco.

«Vogliono prendermi il re, come sapete, principiò la sovrana.

«Ohimè sì! e impiccar me.

«Non avranno il re.

«E non m’impiccheranno. Benone!

«Ascoltate: voglio portar via ad essi mio figlio e me stessa, e voi
meco. Voglio che questo fatto, il quale da un giorno all’altro cambierà
l’aspetto delle cose, abbia luogo senza che altri lo sappiano fuor che
voi ed io ed una terza persona.

«E chi è la terza persona?

«Il signor Principe.

«Dunque è giunto, come mi avevano detto?

«Jeri a sera.

«Lo avete veduto?

«L’ho lasciato dianzi.

«E dà mano a questo progetto?

«È suo consiglio.

«E Parigi?

«Lo riduce alla fame, e lo costringe a rendersi a discrezione.

«V’è del grandioso in codesto piano, ma non ci vedo che un ostacolo.

«E quale?

«L’impossibilità.

«Parola vuota di senso. Nulla v’è d’impossibile.

«Per progetto.

«Per esecuzione. Abbiamo danaro?

«Un poco, disse Mazzarino, temendo che Anna chiedesse di attingere alla
sua borsa.

«Abbiamo truppe?

«Cinque o sei mila uomini.

«Abbiamo coraggio?

«Molto.

«Allora la cosa è fatta. Oh comprendete voi, Giulio? Parigi, l’odioso
Parigi, destarsi una mattina senza regina e senza re, circuito,
assediato, affamato, non avendo altra risorsa che il suo stupido
Parlamento, e il magro Coadjutore colle gambe torte?

«Bello, bello! comprendo l’effetto, ma non vedo il modo di giungervi.

«Lo troverò io!

«Sapete ch’è guerra, guerra civile, ardente, accanita, implacabile?

«Oh sì, sì, la guerra, rispose la sovrana; sì, voglio ridurre in cenere
questa città ribelle; voglio estinguere il fuoco nel sangue; voglio
che da un esempio spaventoso si eterni la memoria del delitto e del
castigo; Parigi, io l’odio! lo aborro!

«Piano piano, Anna, eccovi digià sanguinaria! badate, non siam mica al
tempo di Malatesta e dei Castruccio Castracani; vi farete decapitare,
mia bella regina, e sarebbe peccato!

«Ridete!

«Rido pochissimo, io; la guerra è pericolosa contro un intero popolo;
vedete vostro fratello Carlo I, sta male, male assai.

«Noi siamo in Francia, ed io sono spagnuola.

«Peggio, per Bacco! peggio! avrei più caro che voi foste Francese, ed
io pure: saremmo meno odiati ambedue.

«Non ostante approvate?

«Sì, se scorgo possibile la faccenda.

«Lo è, ve lo dico io; fate i vostri preparativi per la partenza.

«Io, sono sempre pronto a partire; solamente, lo sapete, non parto
mai... e probabilmente, questa volta niente più delle altre.

«Ma se io parto, partirete?

«Mi proverò.

«Giulio, mi fate morire d’impazienza coi vostri timori; ma di che avete
paura?

«Di molte cose.

«Di quali?»

A Mazzarino si fece trista la cera, stata fino allora ironica, ed egli
disse:

«Anna, voi non siete altro che una donna, e come donna potete insultare
liberamente gli uomini, sicura dell’impunità. Mi accusate di aver
timore: non ne ho tanto quanto ne avete voi, poichè non fuggo. Contro
chi gridano coloro? contro di voi o di me? Di chi si vuol la rovina? la
vostra o la mia? Eppure, faccio fronte alla burrasca, io che incolpate
di paura: non già da bravaccio, chè quella non è la mia maniera, ma
mi reggo. Imitatemi: non tanta apparenza, e più effetto. Voi gridate
forte, e nulla concludete. Parlate di fuggire!...»

E Mazzarino fece un moto delle spalle, prese per mano la regina, e la
condusse alla finestra dicendole.

«Guardate!

«Ebbene? fece Anna acciecata dalla sua ostinazione.

«Che vedete da questa finestra? Sono, se io non isbaglio, borghesi con
la corazza, con l’elmo e con buoni moschetti come a tempo della lega,
e che guardano tanto bene a questo balcone come li guardate voi, che
tra un momento sarete vista se scuotete sì forte la cortina. Adesso,
venite a quest’altra. Che mirate? genti del volgo con alabarde in mano
a custodia delle vostre porte. Ad ogni apertura del palazzo dov’io vi
guidassi scorgereste altrettanto: son custodite le porte, custoditi
anco gli spiragli delle cantine, e vi dirò come diceva a me il caro
la Ramée del sig. di Beaufort: se non diventate uccello o topo, non
uscirete.

«Egli però uscì!

«Fareste conto di andarvene nella medesima guisa?

«Dunque sono prigioniera?

«Perdinci! è un’ora che ve lo provo!»

E Mazzarino riprese tranquillamente il dispaccio incominciato, al punto
ove lo aveva sospeso.

Anna tremante di collera, rossa d’umiliazione, si partì dal gabinetto
spingendosi dietro con impeto l’usciale.

Mazzarino non voltò tampoco il capo.

La regina entrata nel proprio appartamento si gettò sur un seggiolone,
e si mise a piangere.

Poi, ad un tratto, ad un idea improvvisa, alzandosi disse:

«Sono salva!.... Oh! sì, sì, conosco un uomo che saprà trarmi fuori di
Parigi, un uomo che troppo a lungo dimenticai».

E pensosa, benchè con un sentimento di gioja, seguitò:

«Ingrata! per venti anni ho obliato quel soggetto che avrei dovuto fare
maresciallo di Francia. La mia suocera prodigò oro, dignità e lusinghe
a Concini che la perdè; il re fece Vitry maresciallo di Francia per
un assassinio, ed io lascio nell’oblìo, nella miseria, quel nobile
d’Artagnan che mi salvò!»

E corse a un tavolino su cui erano carta ed inchiostro, e si mise a
scrivere.



LIII.

_Abboccamento._


D’Artagnan in quella mattina era a letto in camera di Porthos. Tale era
l’abitudine presa dai due amici dopo le insorte turbolenze; tenevano
sotto il capezzale la spada, e sul tavolino, vicinissimo alla mano, le
pistole.

D’Artagnan dormiva tuttavia, e si sognava che il cielo si cuoprisse di
un gran nuvolo giallo, e dal quel nuvolo cadesse una pioggia d’oro, e
ch’egli porgesse il cappello sotto una grondaja.

Porthos dal canto suo si sognava che lo sportello della sua carrozza
non fosse abbastanza largo per contenere le armi e gli stemmi che ei vi
faceva dipingere.

Gli destò entrambi a sett’ore un servo senza livrea che recava una
lettera a d’Artagnan.

«Da parte di chi? domandò il Guascone.

«Della regina, rispose colui.

«Eh? fece Porthos sollevandosi sulle lenzuola, che cosa dice?»

D’Artagnan invitò il servo a passare in una stanza contigua, e chiusa
che quegli ebbe la bussola, ei saltò dal letto, e lesse prestamente,
intanto che Porthos lo guardava cogli occhi spalancati senza osare
interrogarlo.

«Porthos, disse d’Artagnan dandogli il foglio, questa volta ecco il
tuo titolo di barone e il mio brevetto di capitano. Tieni, leggi, e
giudica».

L’altro stese la mano, pigliò la carta, e pronunziò tremando queste
parole in essa contenute:

— «La regina vuol parlare al signor d’Artagnan; esso segua il
latore. —

«Ebbene! fece Porthos, in ciò non vedo che una cosa ordinaria.

«Io all’opposto, ce ne veggo di molte straordinarie. Se mi chiamano, è
segno che gli affari sono assai imbrogliati! Pensa un po’ che disordine
dev’essere accaduto nella mente della regina, perchè dopo venti anni vi
ritorni a galla la memoria di me.

«È vero, confermò Porthos.

«Barone, affila la spada, carica le pistole, dà la biada ai cavalli; ti
garantisco che prima di domani vi saranno delle novità, e zitto!

«Ehi! non fosse poi un laccio teso per isbarazzarsi di noi? obiettò
Porthos, pensando sempre alla soggezione che dovrebbe dare altrui la
sua futura grandezza.

«S’è un laccio, io lo fiuterò; sta pur quieto. Se Mazzarino è italiano,
io son guascone», riprese d’Artagnan.

E si vestì in un attimo.

Mentre Porthos tuttora in letto gli affibbiava il ferrajuolo, fu
bussato per la seconda volta.

«Passate! disse d’Artagnan».

Entrò un altro domestico, dicendo:

«Da parte di Sua Eccellenza il ministro Mazzarino».

D’Artagnan guardò Porthos.

«L’affare si va complicando! mormorò questo, di dove principieremo?

«Cade benissimo in acconcio; rispose il tenente, Sua Eccellenza mi dà
l’appuntamento fra mezz’ora.

«Bene.

«Dite a Sua Eccellenza che fra mezz’ora sarò a’ suoi comandi, disse
d’Artagnan al servitore».

Colui salutò e andò via.

«Fortuna che non abbia veduto l’altro! osservò il tenente.

«Credi dunque che non ti mandino a cercare tutti due per lo stesso
oggetto?

«Non lo credo, ne son sicuro.

«Animo, animo, fa presto! pensa che la sovrana ti attende; dopo di lei
il ministro, e dopo il ministro io».

D’Artagnan chiamò indietro il servo della regina.

«Eccomi, disse, conducetemi».

Quegli lo guidò dalla via des Petits-Champs, e voltando a sinistra
lo fece entrare dalla porticella del giardino che dava sulla
strada Richelieu; poi salita una scala segreta, ei fu introdotto
nell’oratorio.

Al nostro tenente faceva balzare il cuore una certa emozione che
non sapeva spiegarsi. Egli non aveva più la fiducia della gioventù,
e coll’esperienza aveva imparata tutta la gravità dei passati
avvenimenti.

Sapeva ormai che si fossero la nobiltà dei principi e la nobiltà
dei re; si era assuefatto a classare la propria mediocrità dopo le
illustrazioni della fortuna e della nascita. In addietro si sarebbe
fatto innanzi ad Anna come un giovane che saluta una donna; allora era
tutt’altro, e si recava da lei come un umile soldato presso un capo
illustre.

Un lieve rumore turbò il silenzio dell’oratorio. D’Artagnan si scosse,
e vide una bianca mano sollevare il parato, e dalla forma, dalla
bianchezza, dalla beltà di quella riconobbe la regia mano che un giorno
eragli stata data a baciare.

Entrò la regina.

«Siete voi, signor d’Artagnan? disse fissando sull’ufficiale uno
sguardo ricolmo di affettuosa malinconia, siete voi, e bene io vi
ravviso. Guardatemi pur voi, io sono la regina: mi riconoscete?

«No, mia signora, rispose d’Artagnan.

«Ma non vi ricordate, continuò Anna con delizioso accento che dar
sapeva alla sua voce quando voleva, che in passato la regina ebbe
bisogno di un giovane cavaliero prode e zelante, e lo trovò, e che
sebbene questi potesse indi credersi da lei dimenticato ella gli serbò
un posto in fondo al suo cuore?

«No mia signora, questo m’è ignoto, disse il moschettiere.

«Tanto peggio! fece Anna, almeno tanto peggio per la regina, poichè
essa ha d’uopo ancor oggi di quello stesso coraggio, di quel medesimo
zelo.

«E che! replicò d’Artagnan, la regina, circondata com’è da servitori
sì devoti, da sì saggi consiglieri, da uomini infine tanto grandi per
merito o per situazione, si degna volgere gli occhi sopra un oscuro
soldato?»

Anna comprese il velato rimprovero, e ne fu commossa più che irritata.
Cotanto disinteresse ed annegazione nel gentiluomo Guascone l’avevano
parecchie volte umiliata; ella si era lasciata superare in generosità.

«Tutto ciò che mi dite di quelli che ho d’intorno, signor d’Artagnan,
essa soggiunse, sarà forse vero, ma io non ho fiducia che in voi. So
che siete del signor ministro, ma siate altresì mio, ed io mi assumo
di far la vostra fortuna. Orsù, fareste oggi per me ciò che fece in
addietro per la regina il gentiluomo a voi ignoto?

«Farò quanto mi sia imposto da Vostra Maestà».

La sovrana riflettè un momento, ed osservando la circospezione in cui
tenevasi il moschettiere domandò:

«Forse vi piace il riposo?

«Non so, poichè mai mi sono riposato.

«Avete amici?

«Ne avevo tre: due abbandonarono Parigi, nè so dove siano andati.
Uno me ne rimane; ma è, a creder mio, uno di coloro che conoscono il
cavaliere di cui Vostra Maestà mi faceva testè l’onore di parlarmi.

«Va bene: voi ed il vostro amico valete per un’intera armata.

«Che debbo fare, signora?

«Tornate alle cinque ore, e ve lo dirò; ma non discorrete a chicchessia
del convegno ch’io vi fisso.

«No.

«Giuratelo sul Cristo.

«Non ho mai mancato alla mia parola; quando dico no, è no».

La sovrana, comunque meravigliasse di un tal linguaggio a cui non
l’avevano accostumata i suoi cortigiani, ne trasse buon presagio per
l’impegno col quale d’Artagnan la servirebbe nell’effettuazione del suo
progetto. Era uno degli artifizi del nostro Guascone il celare talora
la sua somma accortezza sotto le apparenze di una leale brutalità.

«La regina, ei richiese, non ha altro da comandarmi per adesso?

«No signore, e potete ritirarvi sino al momento che vi ho indicato».

Il tenente s’inchinò ed uscì.

«Diamine! borbottò quando fu alla porta, pare che qui abbiano gran
bisogno di me!»

Ed essendo passata la mezz’ora, traversò la galleria e andò a bussare
dal ministro.

Lo introdusse Bernouin.

«Sono qui ai vostri cenni, monsignore, egli disse».

E secondo il suo solito d’Artagnan si diede attorno una rapida
occhiata, ed osservò che Mazzarino aveva dinanzi una lettera
sigillata.... questa però era posata sul tavolino dalla parte dello
scritto, talchè non si poteva distinguere a chi fosse diretta.

«Venite d’appresso alla regina? domandò Mazzarino guardando fisso
d’Artagnan.

«Io, monsignore? chi ve lo ha detto?

«Nessuno, ma lo so.

«Mi duole assai di dire a Vostra Eccellenza che prende un abbaglio,
rispose sfacciatamente il Guascone, forte per la promessa data alla
sovrana.

«Io stesso ho aperto l’anticamera, e vi ho visto venire di fondo alla
galleria.

«Perchè sono stato introdotto dalla scala segreta.

«E come mai?

«Lo ignoro; vi sarà stato un mal inteso».

Mazzarino sapeva non esser facile di far dire al tenente ciò ch’ei
voleva occultare, e quindi renunziò a dilucidare per allora il mistero
che gli veniva da esso fatto.

«Parliamo degli affari miei, seguitò, giacchè non gradite discorrere
dei vostri».

D’Artagnan s’inchinò.

«Vi piacciono i viaggi?

«Ho passata tutta la vita sulle strade maestre.

«V’è alcuna cosa che vi trattenga in Parigi?

«Nulla mi ci tratterrebbe se non se un ordine superiore.

«Bene. Ecco una lettera da consegnare al suo indirizzo.

«Monsignore, l’indirizzo non v’è».

Realmente la parte opposta era intatta da qualunque carattere.

«Vale a dire, replicò Mazzarino, che v’è doppia sopraccarta.

«Intendo; e devo lacerare la prima, arrivato in un luogo determinato.

«Ottimamente. Prendete qua, e partite. Avete un amico, il signor du
Vallon ch’io amo assai, lo condurrete con voi.

«Diavolo! fece fra sè d’Artagnan, sa che abbiamo udito la sua
conversazione di jeri, e vuole allontanarci da Parigi.

«Titubate, forse?

«No, Eccellenza, e parto subito.... soltanto bramerei una cosa.

«E quale?

«Che l’Eccellenza Vostra passasse dalla regina.

«Quando?

«Sul momento.

«A che fare?

«A dirle solamente così: Io mando in un luogo d’Artagnan, lo fo partire
immediatamente.

«Ecco dunque che avete veduta la regina?

«Monsignore, ho avuto l’onore di dirvi che vi poteva essere stato un
mal inteso.

«Che significa codesto?

«Oserò rinnuovare il mio priego a Vostra Eccellenza?

«Va bene; io ci vado: attendetemi qui».

Mazzarino guardò attentamente di non essersi scordata veruna chiave
sugli armadj, e sparì.

Per dieci minuti d’Artagnan tentò invano di leggere a traverso alla
seconda sopraccarta le parole vergate sulla prima.

Tornò il ministro, pallido ed accigliato; andò a sedere a tavolino.

D’Artagnan lo esaminava come avanti avea fatto alla lettera, ma la
sopraccarta del suo viso era quasi impenetrabile quanto quella del
dispaccio.

«Eh eh! fece il Guascone, pare adirato: che lo sia contro di me?
Medita: fosse mai per mandarmi alla Bastiglia! Bel bello, monsignore!
alla prima parola che ne dite vi scanno e mi do tutto alla _Fronda_;
sarò portato in trionfo come Broussel, ed Athos mi proclamerà il Bruto
francese.... Oh sarebbe pur curiosa!»

Il Guascone con la sua immaginazione sempre avviata al galoppo
distingueva digià tutto il partito che poteva trarre dalla situazione.

Ma il ministro non diede verun ordine di questo genere, e anzi si mise
ad allisciare il tenente:

«Avete ragione, caro signor d’Artagnan, non potete peranco partire.

«Ah ah!

«Sicchè, di grazia rendetemi il dispaccio».

D’Artagnan obbedì. Mazzarino si assicurò che il suggello fosse intatto.

«Avrò bisogno di voi questa sera; tornate fra due ore.

«Monsignore, fra due ore ho un appuntamento a cui non posso mancare.

«Non ve ne pigliate briga, è tutt’uno, disse il ministro.

«Buono! me le figuravo, pensò il moschettiere.

«Dunque, venite alle cinque, e conducetemi quel caro signor du Vallon;
lasciatelo però in anticamera; voglio parlare con voi solo».

D’Artagnan fece una riverenza. Ed intanto diceva tra sè:

«Tutti due lo stesso ordine, tutti due la stessa ora, tutti due al
Palazzo Reale. Oh! la indovino. Ecco un segreto che il signor di Gondy
avrebbe pagato cento mila lire!

«Riflettete? domandò inquieto Mazzarino.

«Sì, pensavo se dovessimo o no essere armati.

«Armati da capo ai piedi.

«Va benissimo, Eccellenza: lo saremo».

E d’Artagnan corse a ripetere le lusinghiere promesse del ministro a
Porthos, il quale ne provò un’allegrezza inesprimibile.



LIV.

_Fuga._


Ad onta dei segni di agitazione che dava la città, il Palazzo Reale
presentava il suo più lieto aspetto verso le cinque ore quando vi
si recò d’Artagnan. Nè v’era da meravigliarsene: la regina aveva
restituito al popolo Broussel e Blancmesnil, e quindi quello nulla
aveva da richiedere. L’emozione della sovrana era soltanto un resto di
turbamento a cui era d’uopo dar tempo a calmarsi, conforme abbisognano
talora dopo una tempesta più giornate perchè cali la marea.

Eravi stato gran banchetto, al quale serviva di pretesto il ritorno del
vincitore di Lens. V’erano invitati i principi e le principesse, e le
loro carrozze ingombravano da mezzogiorno in poi il cortile. Dopo il
pranzo vi sarebbe giuoco dalla regina.

Anna brillava di grazia e di spirito; nessuno l’aveva mai veduta di
umore più allegro. La vendetta sul fiore le sfolgorava negli occhi e le
schiudeva il bel labbro.

Al momento che tutti si alzarono da mensa, Mazzarino sparì.

D’Artagnan stava digià in anticamera ad attenderlo. Mazzarino vi si
presentò in aria sorridente, lo prese per mano, e lo introdusse nel suo
gabinetto.

«Carissimo signor d’Artagnan, gli disse, essendosi seduto, vi darò
adesso la maggior prova di fiducia che possa dare un ministro ad un
ufficiale.

«Spero, fece d’Artagnan, che monsignore me la dia senza secondo fine, e
con intima convinzione ch’io ne sia degno.

«Degno più di chiunque, amico mio, giacchè a voi mi rivolgo.

«Or bene, Eccellenza! ve lo confesso, da molto tempo aspetto una simile
occasione. E perciò ditemi presto quel che avete da dirmi.

«Signor d’Artagnan mio caro, questa sera avrete nelle vostre mani la
salvezza dello Stato».

E là il ministro si tacque.

«Monsignore, spiegatevi; io aspetto.

«La regina ha risoluto di fare col re un viaggetto a San Germano.

«Ah ah! vuol dire che la regina intende abbandonar Parigi!

«Capite, capricci di donne!

«Sì, intendo benone.

«Per questo vi aveva fatto venire stamane, e vi ha richiesto di tornare
alle cinque.

«Meritava il conto di farmi giurare che non parlerei ad alcuno di
quell’appuntamento! bucinò d’Artagnan. Oh donne, donne! siano anco
regine, le son sempre donne!

«Disapprovereste questo piccolo viaggio, carissimo signor d’Artagnan?
domandò il Mazzarino nelle smanie.

«Io, monsignore! e perchè?

«Vedo che crollate le spalle!

«L’è una maniera che ho presa di discorrere fra me.

«Dunque, la gita l’approvate?

«Nè approvo nè disapprovo, monsignore; aspetto i vostri cenni.

«Or bene: sopra di voi ho messo gli occhi per portare il re e la regina
a San Germano.

«Briccone ipocrita! fece tra sè stesso il tenente.

«Vedete, soggiunse il ministro notando la flemma di quest’ultimo, che
secondo avvertivo, la salvezza dello Stato riposerà nelle vostre mani.

«Sì, Eccellenza, e sento tutta la responsabilità di un tal peso.

«Ma però, accettate?

«Accetto sempre.

«Credete che sia possibile?

«Tutto è possibile.

«Sarete assalito per la via?

«È probabile.

«Ma in tal caso come farete?

«Passerò tramezzo a coloro che mi assalgono.

«E se non ci passate?

«Peggio per loro; passerò ad essi addosso.

«E metterete il re e la regina sani e salvi a San Germano?

«Sì.

«Sulla vostra vita?

«Sulla mia vita.

«Siete un eroe!» disse Mazzarino guardando incantato il moschettiere.

Questi sorrise.

«Ed io?... ripigliò il ministro dopo breve pausa guatandolo fisso.

«Come, Eccellenza, voi?

«Io, se volessi partire?

«Oh! sarà più difficile.

«In che modo?

«L’Eccellenza Vostra può essere riconosciuta.

«Anche così travestito?» disse Mazzarino.

Ed alzò una coperta di sulla poltrona, e sotto la quale era un
completo vestimento da cavaliere grigio perlato e color di granato, coi
passamani d’argento.

«Se Vostra Eccellenza si traveste e’ diventa più facile.

«Ah! respirò il Mazzarino.

«Ma bisognerà fare ciò che l’altro giorno dicevate, monsignore, che
avreste fatto nelle nostre veci.

«E che mai?

«Gridare: abbasso Mazzarino!

«Griderò.

«In francese, pretto francese, veh! badate alla pronunzia; ci furono
uccisi seimila angiovini in Sicilia perchè pronunziavano malamente
l’italiano; badate che i Francesi non si abbiano a pigliar su di voi la
rivincita del vespro siciliano!

«Farò meglio che possa.

«Vi sono molte persone armate nelle strade, continuò d’Artagnan, siete
certo che nessuno conosca il progetto della regina?»

Il ministro riflettè.

«Monsignore, sarebbe un buon affare per un traditore cotesto che mi
proponete; i rischi di un assalto scuserebbero tutto».

Mazzarino raccapricciò; ma pensò che uno che avesse intenzione di
tradire non ne darebbe avviso.

«E perciò, disse con impeto, non mi fido mica di tutti, e la prova si è
che ho scelto voi per essermi di scorta.

«Non andate colla regina?

«No, fece Mazzarino.

«Dunque, dopo di lei?

«No, egli ripetè.

«Ah! disse d’Artagnan che principiava ad intendere.

«Sì, prosegui il ministro, ho fatto i miei calcoli: con la regina,
accresco per lei le probabilità sfavorevoli; dopo di essa aumento le
mie; e poi, salvata la corte, posso esser posto in oblìo: i grandi sono
ingrati.

«È vero» confermò il tenente volgendo a suo malgrado le pupille sul
brillante della sovrana che aveva in dito il ministro.

Mazzarino seguitò la direzione di quello sguardo, e adagio adagio girò
in dentro il castone.

«E voglio dunque, terminò Mazzarino col suo scaltro sorriso, impedire
che siano meco ingrati.

«È carità cristiana, borbottò d’Artagnan, il non indurre il suo
prossimo alla tentazione.

«E appunto per questo, finì Mazzarino, vuo’ partire prima di loro».

D’Artagnan sorrise: era uomo da capire egregiamente quell’astuzia
italiana.

Il ministro che vide quell’atto, profittò del momento.

«Dunque comincerete da farmi uscire di Parigi, carissimo signor
d’Artagnan?

«Difficile incombenza, monsignore! rispose il moschettiere rimessosi in
serietà.

«Ma, fece l’Eccellenza osservandolo attento, acciò non gli sfuggisse la
menoma espressione della fisonomia, non faceste tutte queste obbiezioni
pel re e per la regina.

«Il re e la regina sono la mia regina ed il mio re: la mia vita è di
loro, ad essi io la debbo. Me la richiedono, io non ho che ripetere.

«Va d’incanto, mormorò pian piano Mazzarino, ma siccome la tua vita non
è mia, bisogna che io la compri, non è così?»

E con un grosso sospiro, ritirò infuori il castone dell’anello.

D’Artagnan sogghignava.

Quei due si combinavano da un punto, da quel dell’astuzia. Se
ugualmente si fossero combinati pel coraggio, l’uno avrebbe fatto
eseguire all’altro cose grandi.

«Ma anche, soggiunse Mazzarino, intendete che se vi domando questo
servigio è coll’intenzione di esserne riconoscente.

«Vostra Eccellenza, chiese d’Artagnan, è ancora soltanto all’intenzione?

«Ecco, fece il ministro levandosi dal dito il cerchietto, ecco, mio
caro signor d’Artagnan, un brillante che tempo addietro fu vostro, ed è
giusto che ritorni a voi: prendetelo, ve ne supplico».

D’Artagnan non diede campo al Mazzarino d’insistere; lo pigliò, mirò
ben bene se la pietra fosse la stessa, ed accertatosi dell’acqua pura e
identica, se lo infilò al dito con soddisfazione indicibile.

«Mi premeva di molto, disse Mazzarino accompagnandolo con un ultimo
sguardo, ma non serve, ve lo do con gran piacere.

«Ed io, monsignore, lo ricevo come mi è dato.... Orsù, ragioniamo dei
vostri affaretti: bramate partire prima di tutti?

«Sì, lo desidero.

«A che ora?

«Alle dieci.

«E la regina, a che ora se ne va?

«A mezza notte.

«Allora può essere; io vi fo uscire da Parigi, vi lascio fuori della
barriera, e torno a prender lei.

«Ottimamente! ma come mi conducete fuor di Parigi?

«Oh! per questo bisogna lasciarmi agire.

«Vi do piene facoltà: pigliate una scorta considerevole quanto vi pare».

D’Artagnan tentennò il capo.

«Eppure mi sembra che sia il mezzo più sicuro, seguitò Mazzarino.

«Sì, Eccellenza, per voi: ma non per la regina».

Il ministro si morse le labbra.

«E allora, disse, come operiamo?

«Conviene lasciar fare a me, monsignore.

«Uhm!

«E darmi l’intera direzione dell’intrapresa....

«Peraltro....

«O cercare un altro, finì d’Artagnan, volgendo le spalle.

«Ohi! fece piano Mazzarino, non se ne avesse da andar via col diamante!»

E lo richiamò indietro con modo carezzevole.

«Signor d’Artagnan! mio caro signor d’Artagnan!

«Eccellenza?

«Mi garantite di tutto?

«Garantisco di nulla, io; farò meglio che possa.

«Meglio che possiate?

«Sì.

«Ebbene, mi affido a voi.

«E anche assai! disse fra sè il tenente.

«Dunque sarete qui alle nove e mezza?

«E troverò pronta Vostra Eccellenza?

«Prontissima.

«Sicchè siamo d’accordo. Adesso, monsignore, volete farmi vedere la
regina?

«A che giova?

«Bramerei ricevere gli ordini di Sua Maestà dal suo proprio labbro.

«Ha incaricato me di darveli.

«Potrebbe aver dimenticato qualche cosa.

«V’importa di vederla?

«È indispensabile».

Mazzarino stette alquanto perplesso, e d’Artagnan fermo e impassibile
nella sua volontà.

«Or via, disse il ministro, vi ci condurrò, ma non fate parola del
nostro dialogo.

«Ciò che fra noi è stato detto riguarda noi soltanto, monsignore.

«Mi giurate di star mutolo?

«Non giuro mai; dico sì e no, e siccome son gentiluomo mantengo la mia
parola.

«Animo, veggo che mi tocca fidarmi di voi senza restrizioni.

«Eccellenza, questa è la miglior via.

«Venite» disse Mazzarino.

E fatto entrare d’Artagnan nell’oratorio, gli prescrisse di aspettare.

Ma d’Artagnan non aspettò molto. Dopo cinque minuti capitò la regina
nella massima gala. Così adorna mostrava appena trentacinque anni, ed
era sempre bella.

«Siete voi, signor d’Artagnan? disse graziosamente sorridendo; vi
ringrazio di avere insistito per vedermi.

«Chiedo perdono a Vostra Maestà, ma ho voluto ricevere di bocca sua i
di lei comandi.

«Sapete di che si tratta?

«Sì, mia signora.

«Accettate l’incarico che vi affido?

«Con riconoscenza.

«Dunque, siate qua a mezzanotte.

«Vi sarò.

«Troppo mi è noto il vostro disinteresse per parlarvi in tal momento
della mia gratitudine; ma vi giuro che non dimenticherò questo secondo
servizio come dimenticai il primo.

«Vostra Maestà è padrona di ricordarsi e di obliare, nè so che intenda
dirmi.

«Andate, replicò Anna con tutta gentilezza, e tornate a mezzanotte».

Fece con la mano un gesto d’addio al tenente, ed esso si ritirò; ma
nell’uscire volse il ciglio verso la cortina per dove era entrata
la sovrana, e in fondo a quella distinse la punta di una scarpa di
velluto.

«Bene! disse fra sè, il Mazzarino stava in ascolto per iscuoprire se
io lo tradivo.... davvero, quel burattino d’Italia non merita di essere
servito da un onest’uomo».

Ciò non ostante il nostro moschettiere fu puntuale: alle nove e mezza
era nell’anticamera.

Lo attendeva e lo introdusse Bernouin.

Egli trovò il ministro vestito da cavaliero. Questi aveva un bellissimo
aspetto sotto quell’abbigliamento, che come già avvertimmo, portava con
molta eleganza; soltanto era assai pallido e tremava un pochino.

«Solo? fece Mazzarino.

«Sì, monsignore.

«E il bravo signor du Vallon? non godremo della sua compagnia?

«Oh sì! attende nella sua carrozza.

«E dove?

«Alla porta del giardino del Palazzo Reale.

«Sicchè partiamo nella sua carrozza?

«Eccellenza sì.

«Senza altra scorta che voi due?

«E non basta? sarebbe sufficiente uno solo di noi.

«In verità, caro signor d’Artagnan, mi fate paura col vostro sangue
freddo.

«Credevo anzi che dovesse darvi fiducia.

«E Bernouin, non verrà meco?

«Non v’è posto per lui; verrà a raggiungere Vostra Eccellenza.

«Si vada, disse il ministro, giacchè in tutto bisogna operare a modo
vostro.

«Monsignore, rispose il tenente, v’è ancora tempo a pentirsi, e siete
affatto libero.

«No no, andiamo pure».

Scesero entrambi dalla scala segreta, Mazzarino appoggiando il braccio
su quello di d’Artagnan, ma con un tremore continuo.

Traversarono i cortili del Palazzo Reale ove stavano tuttavia ferme le
carrozze di parecchi commensali trattenutisi più degli altri, passarono
nel giardino, ed arrivarono alla porticella.

Mazzarino si provò ad aprirla con una chiave trattasi di tasca; ma tale
era il tremito della mano, che non trovò il buco della serratura.

«Date qua» disse d’Artagnan.

Da Mazzarino gli fu data la chiave; egli schiuse, e si rimise quella in
saccoccia, perocchè divisava ritornar dentro da quella via.

Era calato il montatojo, spalancato lo sportello, e accanto a questo
Mousqueton e Porthos in fondo al legno.

«Salite, monsignore» disse il tenente.

Mazzarino non se lo fece dir due volte e si slanciò nel cocchio.

D’Artagnan vi salì dopo di lui; Mousqueton serrò lo sportello, e con
sospiri e gemiti si arrampicò dietro alla vettura. Aveva esso opposta
qualche obbiezione alla partenza, ma d’Artagnan gli aveva parlato così:

«Caro signor Mouston, restate qua se volete, ma vi prevengo che
stanotte sarà incendiato Parigi».

Dopo di che Mousqueton senza ricercar altro dichiarava esser pronto a
seguitare il suo padrone e il signor tenente sino alla fin del mondo.

Il legno si mosse a un trotto discreto, tale da non indicare
minimamente che contenesse persone che avean fretta. Il ministro si
asciugò la fronte col fazzoletto, e si guardò attorno.

Vide a sinistra Porthos, e a destra d’Artagnan; ciascuno d’essi stava a
far guardia da una parte, ognuno di loro gli serviva di baluardo.

Dirimpetto, sul sedile davanti, due paja di pistole, uno dinanzi a
Porthos ed uno dinanzi a d’Artagnan, che avevano inoltre ambedue la
spada al fianco.

Alla distanza di cento passi dal Palazzo Reale una pattuglia fermò la
carrozza.

«Chi va là? disse il capo.

«Mazzarino!» rispose d’Artagnan con uno scroscio di risa.

Il ministro si sentì drizzare in testa i capelli.

Lo scherzo sembrò bellissimo ai borghesi, che mirando un legno
senz’armi nè scorta, non avrebbero creduta mai una simile imprudenza.

«Buon viaggio!» gridarono.

E li lasciaron passare.

«Eh! fece il tenente, che pensa Vostra Eccellenza di questa mia
risposta?

«Uomo di spirito! esclamò Mazzarino.

«Realmente, seguitò Porthos, comprendo....»

Verso la metà della via des Petits-Champs una seconda pattuglia fermò
il cocchio.

«Chi va là? urlò il capo.

«Tiratevi da parte, monsignore!» raccomandò d’Artagnan.

E Mazzarino si cacciò talmente fra i due amici, che sparì del tutto da
essi nascosto.

«Chi va là?» ripetè la voce impazientita.

E d’Artagnan sentì correr gente dalla parte della testa dei cavalli.

Allora si trasse a mezzo corpo fuori dal legno.

«Ehi Planchet!» disse tosto.

Il capo si avvicinò: era infatti Planchet: il tenente avea riconosciuta
la voce del suo antico lacchè.

«Come, signore! siete voi? disse questi.

«Eh sì, amico mio; questo caro Porthos ha ricevuta una stoccata, e lo
accompagno alla sua villa di San Cloud.

«Oh! davvero?

«Porthos, mio carissimo, seguitò d’Artagnan, se ancor potete, parlate,
dite una parola al nostro buon Planchet.

«Planchet, amico, fece Porthos in tuono dolente, sto molto male, e se
tu incontri un medico, mi farai piacere a mandarmelo.

«Gran Dio! continuò Planchet, che disgrazia! e com’è avvenuto?

«Te lo racconterò io» disse Mousqueton.

Porthos cacciò fuori un gemito.

«Ah Planchet! disse piano d’Artagnan, facci far largo, o ch’ei non
arriverà vivo, è attaccato il polmone....»

Planchet tentennò la testa come uno che borbotti: «allora è un brutto
impaccio!»

E voltosi ai suoi uomini ordinò:

«Lasciate passare, sono amici».

La vettura riprese il suo cammino, e Mazzarino che avea tenuto a sè il
fiato si azzardò a respirare.

«Bricconi» brontolò.

Pochi passi avanti alla porta sant’Onorato si incontrò un’altra truppa;
questa componevasi di genti di tristo aspetto, che somigliavano più ad
assassini che ad altro: erano gli uomini del mendico di sant’Eustachio.

«Attento, Porthos!» disse d’Artagnan.

Porthos allungò la mano verso le pistole.

«Che c’è? domandò Mazzarino.

«Monsignore, credo che siamo in pessima compagnia».

Si avanzò un tale allo sportello tenendo in mano una specie di falce.

«Chi va là? urlò costui.

«Eh furfante! disse d’Artagnan, non riconoscete la carrozza del signor
Principe?

«Principe o no, aprite! siamo a far guardia alla porta, nessuno la
oltrepasserà fin che non sappiamo chi sia.

«Che s’ha da fare? chiese Porthos.

«Oh bella, passare! rispose d’Artagnan.

«Ma come? fece Mazzarino.

«O fra mezzo, o addosso. Cocchiere, di galoppo!»

Il cocchiere alzò la frusta.

«Non fate un passo di più, gridò quegli che pareva il capo, o che
tronco i garretti a’ vostri cavalli.

«Per dinci! disse Porthos, sarebbe peccato, bestie che mi costano cento
doppie l’una.

«Io ve le pagherò due cento, disse Mazzarino.

«Sì, ma tagliate i garretti a loro taglieranno a noi il collo.

«Ne viene uno da uno parte, fece Porthos, l’ho da ammazzare?

«Sì, con un pugno se potete; non facciam fuoco sino all’ultime
estremità.

«Posso, rispose Porthos.

«Dunque venite ad aprire» disse d’Artagnan all’uomo della falce,
pigliando una pistola dalla canna accingendosi a percuotere col calcio.

Quegli si accostò.

A misura che ei si accostava, d’Artagnan, per essere più libero di
muoversi, usciva mezzo fuor dallo sportello; si fissarono i suoi occhi
su quelli del mendico a cui dava la fiaccola di un lampione.

Di certo colui ravvisò il moschettiere, poichè impallidì; di certo
il moschettiere lo ravvisò, poichè gli si drizzarono sulla testa i
capelli.

«Signor d’Artagnan! egli esclamò rinculando alquanto, lasciatelo
passare!...»

E d’Artagnan si preparava forse a rispondere; ma s’intese un colpo
simile a quel di una mazzuola che cada sul capo ad un bue: Porthos
aveva accoppato quello che gli si appressava.

D’Artagnan voltatosi vide il disgraziato disteso in terra.

«Adesso trotta a rolla di collo!» gridò al vetturino.

Il quale scagliò in largo una frustata ai suoi nobili animali. Questi
balzarono via. Si udirono urli come d’uomini gettati sul suolo. Poi si
sentì una doppia scossa: due ruote erano passate sopra un corpo rotondo
e flessibile.

Vi fu breve silenzio. La carrozza varcò la porta.

«Al Corso-la-Regina!» strillò d’Artagnan al cocchiere.

E girandosi verso Mazzarino:

«Ora, monsignore, potete dire cinque Pater e cinque Ave per ringraziare
Iddio della vostra liberazione; siete salvo! siete libero!»

Mazzarino non rispose che con una specie di gemito; non sapeva credere
a tanto miracolo.

Dopo cinque minuti la vettura si fermò: era giunta al Corso la Regina.

«Monsignore, siete contento della vostra scorta? domandò il
moschettiere.

«Contentissimo, replicò il ministro; adesso fate altrettanto per la
regina.

«Sarà meno difficile, disse d’Artagnan. Signor du Vallon, vi raccomando
Sua Eccellenza.

«Non dubitate» fece Porthos stendendo la mano.

D’Artagnan presa la mano a Porthos gliela scosse con forza.

«Ahi!» strillò questi.

Ma egli lo guardò attonito, domandandogli:

«Che avete?

«Mi par di avere un pugno rotto.

«Eh diamine! se picchiate come un cieco!

«Per necessità; quel birbante era per darmi una pistolettata; ma voi,
in che modo vi siete distrigato del vostro?

«Oh! il mio, disse d’Artagnan, non era un uomo.

«E ch’era mai?

«Uno spettro.

«E voi...?

«L’ho scongiurato».

D’Artagnan senza ulteriore spiegazione prese le pistole ch’erano sul
sedile davanti, se le infilò alla cintola, si avvolse nel ferrajuolo,
e non volendo tornare dalla stessa barriera d’onde era uscito,
s’incamminò verso la porta Richelieu.



LV.

_La carrozza del Coadjutore._


In vece di rientrare dalla porta sant’Onorato, d’Artagnan avendo ancor
tempo fece il giro, e venne da quella di Richelieu. Tutti accorsero
a riconoscerlo, e quando dal cappello colle penne e dal ferrajuolo,
o piuttosto dal manto ingallonato si vide esser egli uffiziale dei
moschettieri, ognuno gli si fece attorno con intenzione di obbligarlo
a gridare: abbasso Mazzarino! Cominciò ad inquietarsi di tale
dimostrazione, ma allorchè seppe di che si trattava, urlò con sì bella
voce da soddisfare anche i più esigenti.

Andava lungo la strada di Richelieu, ripensando alla maniera di
portarsi via pure la regina, giacchè condurla in una carrozza colle
armi di Francia era impossibile, quando ad un tratto vide un bellissimo
legno al portone del palazzo di madama di Guemenée.

Lo illuminò un’idea subitanea, e disse:

«Per Diana! questa sarebbe azione di buona guerra».

Si avvicinò alla carrettella, osservò le armi ch’erano su gli sportelli
e la livrea del cocchiere seduto a cassetta.

E l’esame gli fu tanto più facile dacchè il cocchiere se ne dormiva
colle pugna chiuse.

«È propriamente la carrozza del signor Coadjutore, continuò; in parola,
principio a credere che la Providenza sia a favor nostro».

Salì piano dentro al legno, e tirando il cordone di seta corrispondente
al dito mignolo del vetturino ordinò:

«Al Palazzo Reale».

Quegli, destatosi ad un tratto, si diresse verso il luogo indicatogli,
senza figurarsi che il comando fosse dato da un altro che dal suo
padrone.

Lo svizzero si accingeva a serrare i cancelli, ma visto il magnifico
cocchio, si persuase fosse una visita importante, e lasciò passare la
carrettella, la quale si fermò sotto il loggiato.

Ivi soltanto il cocchiere si accorse che dietro al legno non erano i
servitori.

S’immaginò che il Coadjutore avesse di essi disposto; saltò giù senza
abbandonare le guide, e venne ad aprire.

D’Artagnan balzò a terra, e nel momento che il vetturino spaventato per
non aver in lui riconosciuto il signor di Gondy retrocedeva un poco,
egli lo afferrò pel collo con la mano sinistra, e con la diritta gli
mise sul petto una pistola.

«Se ti provi a dire una parola, sei morto!» gli gridò.

L’altro dalla faccia di quello che gli parlava capì di esser caduto in
un agguato, e restò con gli occhi aperti e la bocca spalancata.

Passeggiavano nel cortile due moschettieri; d’Artagnan li chiamò per
nome.

«Signor di Belliere, disse ad uno, fatemi il piacere di prendere le
redini da quel buon uomo, salire a cassetta, condurre la carrozza alla
porta della scala segreta, e là aspettarmi; è per affare di premura, e
relativo al regio servizio».

Il moschettiere, che sapeva essere il suo tenente incapace di scherzare
in proposito di servizio, obbedì senza fiatare, abbenchè l’ordine gli
sembrasse singolarissimo.

E d’Artagnan al collega di questo:

«Signor du Verger, ajutatemi a porre in sicuro quest’uomo».

Il du Verger credè che il tenente avesse arrestato qualche principe
travestito, s’inchinò, e sguainata la spada accennò che era pronto.

D’Artagnan salì la scala, seguito dal suo prigioniero, e con a tergo il
moschettiere, traversò l’atrio ed entrò nell’anticamera di Mazzarino.

Bernouin attendeva impaziente notizia del suo signore.

«Ebbene? domandò.

«Tutto va a maraviglia, caro Bernouin; ma ecco un uomo che va messo in
sicuro.

«Dove?

«Dove volete, purchè il luogo che presceglierete abbia imposte da
chiudersi a chiavistello ed una porta da serrarsi a chiave.

«Abbiamo l’occorrente, rispose Bernouin».

E fu menato il povero cocchiere in uno stanzino che aveva le finestre
coll’inferriata, e somigliava di molto a una prigione.

«Ora, mio caro, disse a costui d’Artagnan, v’invito a disfarvi in favor
mio del cappello e del pastrano».

Secondo ognuno intende, il cocchiere non fece opposizione; d’altronde,
era così attonito che barcollava e balbettava come un ubbriaco.
D’Artagnan mise ogni cosa sotto il braccio al cameriere. E poi
soggiunse:

«Signor du Verger, rinchiudetevi con quest’uomo sinchè il signor
Bernouin venga ad aprirvi; la guardia sarà piuttosto lunga e poco
divertevole, lo so; ma capite, servizio regio.

«Ai vostri comandi, tenente, replicò il moschettiere vedendo che si
trattava di affari serj.

«A proposito, terminò d’Artagnan, se colui procurasse fuggire o
gridare, passategli la spada a traverso la pancia».

Il sottoposto fe’ un moto della testa che indicava che obbedirebbe
puntualmente alle istruzioni.

Il tenente se ne andò con Bernouin.

Suonava la mezzanotte.

«Conducetemi nell’oratorio della regina, esso disse, avvertitela che io
ci sono, e andate a piantare questo fagotto con un moschetto ben carico
sul sedile della carrozza che attende appiè della scala segreta».

Bernouin introdusse nell’oratorio d’Artagnan, il quale vi si assise
pensieroso.

Nel Palazzo Reale tutto era ito secondo il consueto: a dieci ore,
conforme notammo, i commensali eransi ritirati; quelli che dovevano
fuggire colla corte ebbero la parola d’ordine, e ciascuno fu avvisato
di trovarsi fra mezzanotte e l’un’ora al Corso-la-Regina.

Alle dieci Anna si recò nelle stanze del re; _Monsieur_ era stato
appunto posto al letto, ed il giovine Luigi, rimasto ultimo, si
divertiva a schierare in battaglia dei soldatini di piombo, esercizio
che lo svagava di molto. Seco si trastullavano due _fanciulli d’onore_.

«Laporte, disse la regina, sarebbe tempo di far coricare il re».

Il re chiese di restar alzato, giacchè non aveva voglia di dormire.

Ma la regina insistè:

«Luigi, non dovete andare domattina alle sei a bagnarvi a Conflans? voi
stesso lo avete domandato, mi pare.

«Avete ragione, signora, rispose Luigi e sono pronto a ritirarmi
nella mia camera quando vi sarà piaciuto di baciarmi. Laporte, date il
candeliere al cavaliere di Coislin».

La madre posò le labbra su la fronte bianca e liscia che l’augusto
bambino le porgeva con una gravità che già sapeva alquanto di
etichetta.

«Addormentatevi presto, ella disse, perchè sarete destato di buon’ora.

«Farò meglio che possa per obbedirvi, signora; ma non ho la minima
volontà di dormire.

«Laporte, ordinò piano la sovrana, cercate qualche libro nojoso da
leggere a Sua Maestà, ma non vi spogliate».

Il re uscì accompagnato dal cavaliere di Coislin, che gli portava il
lume. L’altro fanciullo d’onore fu ricondotto al suo appartamento.

Allora la regina entrò nelle proprie stanze. Le sue donne, cioè la
di Bregy, la di Beaumont, la di Motteville e Socratina sua sorella,
chiamata così a motivo della sua saggezza, le avevano recato nella
guardaroba alcuni avanzi del pranzo, che usualmente le servivano di
cena.

Anna diede i suoi ordini, parlò di un gran pasto offertole per il
posdomani dal marchese di Villequier, indicò le persone che ella
ammetteva all’onore di prendervi parte, annunziò per l’indomani pure
una visita alla Val-de-Grace, dove aveva intenzione di far le sue
devozioni, e diede a Beringhen, suo primo cameriere, le istruzioni
acciò ve l’accompagnasse.

Terminata la cena delle dame, Anna finse di esser molto stanca e
passò nella sua camera. La Motteville, che quella sera era di servizio
particolare, vi andò pur seco e l’ajutò a spogliarsi. La regina si mise
a letto, le discorse affettuosamente qualche minuto, e la licenziò.

In quel punto d’Artagnan giungeva nel cortile del Palazzo Reale con la
carrettella del Coadjutore.

Dopo un momento ne uscivano le carrozze delle dame d’onore, e si
chiudevano i cancelli.

Suonava mezzanotte.

Indi a cinque minuti, Bernouin bussava alla camera della regina,
venendo dal passaggio segreto del ministro.

Anna andò ad aprire da sè.

Era digià vestita, cioè, si era rimesse le calze ed avvolta in una
lunga mantellina.

«Siete voi, Bernouin? ella disse, v’è il signor d’Artagnan?

«Maestà, è nel vostro oratorio, ed attende che siate pronta.

«Sono pronta. Dite a Laporte che desti e vesta il re; poi andate dal
maresciallo di Villeroy ed avvertitelo da parte mia».

Bernouin, fatta una riverenza, uscì subito.

La regina passò nell’oratorio, a cui dava lume una semplice lampada di
cristalli di Venezia. Vide d’Artagnan in piedi ad aspettarla.

«Siete voi? ella disse.

«Sì signora.

«Siete all’ordine?

«Ma sì!

«E il ministro?

«È andato via senza disgrazie; attende la Maestà Vostra al
Corso-la-Regina.

«Ma con qual legno si parte?

«Ho preveduto tutto, v’è giù una carrozza ad aspettare la Maestà Vostra.

«Andiamo dal re».

D’Artagnan seguitò la regina.

Il giovinetto Luigi era digià vestito, meno che le scarpe e il
giubbetto; si lasciava accomodare, là, stupefatto, caricando di domande
Laporte, il quale non gli rispose se non con queste parole:

«Sire, per comando della regina».

Il letto era aperto, e si scorgevano le lenzuola del re talmente
logore, che in alcuni luoghi v’erano dei buchi.

Uno degli effetti della lesina di Mazzarino.

La regina entrò, e d’Artagnan stette sulla soglia. Il fanciulletto, al
vedere la sovrana, scappò di mano a Laporte e corse verso di lei.

Anna ammiccò a d’Artagnan di accostarsi.

E tanto esso fece.

«Figlio mio, disse Anna additando al re il moschettiere, quieto, in
piedi, e scoperta la testa, ecco il signor d’Artagnan, prode quanto
quei prodi antichi di cui tanto vi è grato che le mie ancelle vi
narrino la storia. Ricordatevi il suo nome e guardatelo bene, per non
dimenticarvi le sue sembianze, giacchè in questa sera ci renderà un
grandissimo servigio».

Il giovanetto guatò superbamente l’ufficiale e ripetè:

«Signor d’Artagnan.

«Per l’appunto, figlio mio».

Il re alzò lentamente la manina e la porse al moschettiere, il quale
gliela baciò posto in terra un ginocchio.

«D’Artagnan, ripetè Luigi, va bene, signora».

Nell’istante si udì avvicinarsi gran clamore.

«Ch’è mai? chiese Anna.

«Oh oh! fece d’Artagnan prestando a un tempo l’orecchio attento e
l’occhio intelligente, è susurro del popolo sollevato.

«Bisogna fuggire, disse la regina.

«Vostra Maestà ha data a me la direzione di tutto: bisogna trattenersi
e sapere ciò che voglia.

«Signor d’Artagnan!

«Di tutto io resto responsabile».

Non v’è cosa che si comunichi presto quanto la confidenza.

Anna, piena di forza e di coraggio sentiva al più alto grado queste due
virtù negli altri.

«Fate pure, ella replicò, io mi rapporto a voi.

«Vostra Maestà mi permette in tutto questo affare, di dare degli ordini
in nome suo?

«Ordinate.

«Che altro vuole quel popolo? domandò il re.

«Sire, tra poco lo sapremo, rispose d’Artagnan».

E si partì sollecito dalla stanza.

Andava crescendo il tumulto, e pareva avvolgesse tutto quanto il
Palazzo Reale. Dall’interno si udivano grida di cui non si poteva
comprendere il senso: erano però evidenti clamori a sedizione.

Il re mezzo vestito, la regina e Laporte, rimasero ciascuno nello stato
e quasi nel posto in cui erano, ad ascoltare ed attendere.

Comminges, il quale in quella sera era di guardia al Palazzo Reale,
accorse subito; aveva circa duecento uomini nei cortili e nelle
scuderie, e li poneva a disposizione della sovrana.

«Ebbene? chiese Anna vedendo comparir di nuovo d’Artagnan, che v’è egli?

«Signora, ecco ciò che v’è: si è sparsa voce che la regina avesse
abbandonato il Palazzo Reale conducendo via il re, ed il popolo domanda
di aver la prova del contrario, e minaccia di demolire il palazzo.

«Oh! questa volta è troppo, ed io proverò loro che non sono partita».

Dalla cera della sovrana il tenente si accorse ch’era per dare qualche
comando violentissimo, e le disse sotto voce:

«Vostra Maestà ha sempre fiducia in me?»

Ella si scosse.

«Sì, piena fiducia: dite pure.

«Vostra Maestà si degnerà regolarsi dietro i miei suggerimenti?

«Dite.

«Si compiaccia licenziare il signor di Comminges, imponendogli
di rinchiudersi non meno che i suoi nel corpo di guardia e nelle
scuderie».

Comminges diede a d’Artagnan una di quelle occhiate invidiose che vibra
qualunque cortigiano veggendo spuntare una nuova fortuna.

«Udiste, Comminges? fece la regina».

D’Artagnan si appressò a lui: colla sua consueta sagacia aveva
riconosciuto lo sguardo inquieto, onde gli disse:

«Signor di Comminges, perdonatemi: noi siamo ambedue servitori della
regina, non è così? adesso tocca a me ad esserle utile, non m’invidiate
adunque questa sorte».

L’altro fece un inchino ed uscì.

«Or via! pensò d’Artagnan, eccomi con un nemico di più!

«Ed ora, disse Anna a questo, che si dee fare? lo sentite, in vece di
calmarsi raddoppia lo strepito.

«Signora, il popolo vuol vedere il re, è d’uopo che lo vegga.

«Come, che lo vegga? e dove? sul balcone?

«No, ma qui nel suo letto, addormentato.

«Ah Maestà! esclamò Laporte, il signor d’Artagnan ha molta ragione».

La regina riflettè e sorrise, da donna in cui non sia nuova la finzione.

«Di fatti.... balbettò.

«Signor Laporte, disse d’Artagnan, andate a traverso ai cancelli del
Palazzo Reale ad annunziare al popolo che a momenti sarà soddisfatto;
che fra cinque minuti non solo vedrà il re, ma lo vedrà nel suo letto;
aggiungete che il re dorme, e la regina prega si faccia silenzio onde
non destarlo.

«Ma non già tutti, una deputazione di due o quattro persone....

«Tutti, Maestà.

«Ma pensate che ci terranno qua sino a giorno!

«Ne avremo per un quarto d’ora. Io tutto garantisco, signora; credete
a me, conosco il popolo, è un gran fanciullo, e basta accarezzarlo;
dinanzi al re dormiente sarà muto, docile e timido come un agnello.

«Andate, Laporte, disse Anna».

Il giovinetto re si accostò alla madre.

«E perchè fare mi domandano quelle genti?

«Così bisogna, figlio mio.

«Oh! allora, se mi si dice: _bisogna_, dunque non sono più re?»

La regina rimase ammutolita.

«Sire, replicò d’Artagnan, vostra Maestà mi permetterà di farle una
domanda?»

Luigi XIV si volse, sorpreso che alcuno osasse dirigergli la parola. La
madre gli strinse la mano, ed ei rispose:

«Signor sì.

«La Maestà Vostra si rammenta di aver veduto, mentre scherzava nel
parco di Fontainebleau o nei cortili del palazzo di Versailles, ad un
tratto oscurarsi il cielo, e udito scoppiare i tuoni?

«Sì, senza dubbio.

«Or bene, quello scoppio del tuono, per quanta volontà avesse Vostra
Maestà di continuare a scherzare, le diceva: Sire, tornate dentro, così
bisogna.

«Sì, ma anche mi fu detto che il fragore del tuono era la voce di Dio.

«Ebbene, sire, ascoltate il fragore del popolo che ha pure la sua
forza».

Nel momento appunto passava uno strepito terribile come trasportato dal
vento notturno.

E cessò d’improvviso.

«Ecco, sire, disse il tenente, è stato detto al popolo che voi dormite:
vedete bene che siete sempre re».

La regina considerava con meraviglia quell’uomo singolare, che pel
luminoso suo coraggio facevasi uguale ai più prodi, che per lo spirito
accorto si faceva uguale a tutti.

Tornò Laporte.

«Che v’è? disse Anna.

«Signora, rispose Laporte, si è compiuta la predizione del signor
d’Artagnan, e si sono calmati come per magia. Si apriranno loro le
porte, e fra cinque minuti saranno qui.

«Laporte, continuò la regina, se metteste uno de’ vostri figli nel
posto del re? frattanto noi partiremmo.

«Se sua Maestà lo comanda, i miei figli sono al pari di me al servizio
della regina.

«No, disse d’Artagnan, chè se uno di loro conoscesse Sua Maestà e si
accorgesse del sotterfugio, tutto sarebbe perduto.

«Avete ragione, ragione sempre, replicò Anna. Laporte, mettete a letto
il re».

Laporte vi pose in fatti il re, vestito com’era, e lo cuoprì sino alle
spalle col lenzuolo.

La madre si chinò su di lui e lo baciò in fronte.

«Luigi, fingete di dormire, essa gli disse.

«Sì, rispose Luigi XIV, ma non voglio esser toccato neppur da uno di
quegli uomini.

«Sire, sono qua io, fece d’Artagnan, e vi accerto che se uno solo a
tanto si ardisse pagherebbe l’ardire con la sua vita.

«Adesso che si ha da fare? li sento! chiese la regina.

«Signor Laporte, andate loro incontro, e raccomandate di nuovo il
silenzio. Signora, attendete là, alla porta. Io sto a capo del letto
del re pronto a morire per lui».

Laporte uscì; la regina stette accanto al parato, d’Artagnan si cacciò
dietro al cortinaggio.

Poi si udì il camminare contenuto di grande moltitudine. La regina
sollevò ella stessa la portiera ponendosi un dito sul labbro.

Al vederla, gli uomini si fermarono in attitudine rispettosa.

«Entrate, entrate, signori, disse Anna».

Fuvvi allora fra tutta quella gente un movimento di titubanza che
somigliava a vergogna; essa si aspettava a opposizione, a resistenza;
si figurava di dovere sforzare i cancelli e atterrare le guardie; i
cancelli erano tutti aperti, ed il re, almeno ostensibilmente, non
aveva vicino al suo letto altra guardia che la madre.

Quelli ch’erano alla testa della turba balbettarono e cominciavano a
retrocedere.

«Passate, signori, disse Laporte, poichè la regina lo permette».

Uno de’ più arditi passò la soglia e si avanzò in punta di piedi;
tutti lo imitarono, e la camera si empiè col maggiore silenzio, quasi
che tutti coloro fossero stati i cortigiani più umili e devoti. Molto
indietro alla porta si vedevano le teste di quelli che non avendo
potuto introdursi si rizzavano in punta di piede.

D’Artagnan osservava tutto da un’apertura che aveva fatta al
cortinaggio. Nel primo entrato riconobbe Planchet.

«Signore, disse la sovrana a questo che comprese essere il capo della
turba; voi bramaste di vedere il re, ed io volli mostrarvelo da me
stessa. Appressatevi, guardatelo, e dite se vi sembriamo persone
intenzionale a fuggire.

«No certo, rispose Planchet alquanto sorpreso dell’inatteso onore che
riceveva.

«Riferite dunque a’ miei buoni e fedeli Parigini, continuava Anna con
un sorriso di cui d’Artagnan capiva appieno il senso, che avete visto
il re addormentato, e la regina sul punto di coricarsi.

«Lo riferirò, signora, e lo diranno pure quei che sono meco, ma....

«Ma che? domandò la sovrana.

«Vostra Maestà mi perdoni, ma è veramente il re quello disteso nel
letto?»

Anna rabbrividì.

«Se fra voi v’è alcuno che conosca il re, ella rispose, si accosti e
dica se è sua Maestà».

Un uomo avvolto in un ferrajuolo col quale si cuopriva anche il viso,
si avvicinò, si chinò sul letto e guardò.

Per un momento d’Artagnan credè che colui avesse qualche
tristo progetto, e mise mano alla spada; ma ad un moto che fece
l’inferrajuolato nell’abbassarsi scuoprendosi parte della faccia,
d’Artagnan ebbe presto ravvisato il Coadjutore.

«È di fatti il re, disse quegli rialzandosi, Dio benedica Sua Maestà».

E tutti quanti, entrati furibondi, e passati da ira a pietà, benedirono
un dopo l’altro il regio fanciullo.

«Adesso, amici, disse Planchet, ringraziamo la regina e ritiriamoci».

Tutti s’inchinarono ed uscirono a poco a poco senza far rumore, siccome
erano venuti. Planchet capitato il primo, se ne andava l’ultimo.

Anna lo trattenne.

«Come vi chiamate?» gli disse.

Planchet si voltò attonito alla domanda.

«Sì, continuò la sovrana, mi tengo a onore di avervi qui ricevuto
quanto se foste un principe, e bramo sapere il vostro nome.

«Oh sì! pensò Planchet, per trattarmi come un principe... grazie,
grazie».

D’Artagnan temè che Planchet, allettato alla maniera del corvo della
favola, dicesse il proprio nome, e che nell’udir questo la regina
sapesse pure che Planchet era stato a lui addetto.

«Maestà, rispose costui rispettosamente, mi chiamo Dulaurier; a’ vostri
comandi.

«Bene, signor Dulaurier; e che cosa fate?

«Sono mercante di panni, in via dei Bordonesi.

«Ecco quanto volevo conoscere.... obbligatissima, signor Dulaurier; vi
sarà parlato di me.

«Animo, borbottò d’Artagnan toltosi di dietro alle cortine,
assolutamente messer Planchet non è uno sciocco, e si vede che ha
imparato ad una buona scuola».

I diversi attori di quella stranissima scena stettero un momento uno
davanti all’altro senza dir più parola, la regina in piedi accanto
alla porta, d’Artagnan mezzo fuori del suo nascondiglio, il re
appoggiato sul gomito e pronto a sdrajarsi di nuovo al menomo chiasso
che indicasse il ritorno di tutta la folla; ma il chiasso invece di
avvicinarsi si allontanò, e poi si estinse.

Anna sospirò: d’Artagnan si asciugò la fronte: Luigi si calò giù dal
letto dicendo:

«Partiamo».

Ricomparve Laporte.

«Ebbene! fece la sovrana.

«Li ho seguitati sino ai cancelli, rispose il cameriere, hanno
annunziato ai compagni che avevano veduto il re, e la regina aveva a
loro parlato, talchè se ne vanno gloriosi e trionfanti.

«Miserabili! mormorò la regina; pagheranno ben caro il loro ardire, io
lo prometto».

Indi volgendosi a d’Artagnan:

«Signore, in questa sera voi mi avete dati i migliori consigli che mai
ricevessi in vita mia. Continuate: adesso che dobbiam fare?

«Signor Laporte, disse il tenente, terminate di vestire Sua Maestà.

«Allora possiamo partire? chiese la regina.

«Quando vuole Vostra Maestà; scenda pure dalla scala segreta, e mi
troverà alla porta.

«Andate, replicò Anna, io vi seguo».

D’Artagnan scese; la carrozza era al suo posto; il moschettiere a
cassetta.

D’Artagnan prese il fagotto che aveva incaricato Bernouin di porre a’
piedi del moschettiere. Questo conteneva, come ben ci rammentiamo, il
cappello ed il pastrano del cocchiere del signor di Gondy.

Si mise sulle spalle il pastrano, ed in testa il cappello.

Il moschettiere smontò.

«Voi, gli ordinò d’Artagnan, andate a rendere la libertà al vostro
camerata che fa guardia al cocchiere; monterete tutt’e due a cavallo,
anderete in via Tiquetonne all’albergo del Granchio a prendere il
mio cavallo e quello del signor du Vallon, porrete loro la sella e i
fornimenti da guerra, poi uscirete da Parigi conducendoli a mano, e vi
recherete al Corso-la-Regina. Se colà non trovaste alcuno, proseguirete
sino a San Germano. Servizio regio».

Il soldato salutò, e partì per adempiere agli ordini ricevuti.

D’Artagnan salì in serpa.

Aveva un pajo di pistole alla cintola, un moschetto sotto i piedi, la
spada nuda dietro.

Venne la regina; e appresso ad essa il re e il signor duca d’Angiò suo
fratello.

«La carozza del Coadjutore! ella esclamò muovendo indietro un passo.

«Sì, rispose d’Artagnan, ma entratevi liberamente; la guiderò io».

Anna diede un grido di sorpresa ed entrò nella carrettella. Il re e
_Monsieur_ fecero lo stesso e sederono accanto a lei.

«Venite Laporte, disse la regina.

«Come! fece il cameriere, nella medesima carrozza che le Maestà Vostre!

«Questa sera non si tratta di regia etichetta, ma della salvezza del
re. Salite Laporte».

E quegli obbedì.

«Chiudete le stuoje, disse d’Artagnan.

«Ma con ciò, fece Anna, non si darà qualche sospetto?

«Vostra Maestà stia pur quieta, io ho pronta la risposta».

Si serrarono le stuoje, e si andò di galoppo dalla via Richelieu.

Arrivati alla porta, si avanzò il capo della guardia con una dozzina
d’uomini, e tenendo in mano una lanterna.

D’Artagnan gli accennò di avvicinarsi.

«Riconoscete la carrettella? disse al sergente.

«No.

«Guardate le armi».

Il sergente accostò il lanternino.

«Del signor Coadjutore!

«Zitto! egli è dentro a testa a testa con madama di Guemenée».

Il capo della guardia si mise a ridere.

«Aprite la porta, ordinò agli altri, so che roba è».

Ed appressatosi alla stuoja calata:

«Buon pro faccia, monsignore!

«Imprudente! gridò d’Artagnan, mi farete licenziare».

La barriera girò stridendo sui cardini, e d’Artagnan vedendosi far
largo frustò i cavalli, i quali si mossero di trotto steso.

Dopo cinque minuti aveano raggiunto la carrozza del ministro.

«Mousqueton! gridò d’Artagnan, alzate le stuoje del legno di Sua Maestà!

«È desso! fece Porthos.

«Vestito da vetturino! esclamò Mazzarino.

«E col legno del Coadjutore! disse la regina.

«Per Bacco! signor d’Artagnan, terminò Mazzarino, valete tant’oro
quanto pesate».



LVI.

_Come a vendere della paglia, d’Artagnan e Porthos guadagnassero, uno
duecentodiciannove luigi e l’altro duecentoquindici._


Mazzarino voleva sul momento avviarsi a San Germano, ma Anna dichiarò
che attenderebbe le persone a cui avea fissato l’appuntamento.
Soltanto essa esibì il posto di Laporte al ministro, il quale, avendolo
accettato, passò dall’uno nell’altro legno.

Non senza ragione erasi sparsa voce che il re dovesse nella nottata
abbandonar Parigi: dalle sei ore di sera erano messi alla confidenza
dieci o dodici individui, e per quanta segretezza avessero usata,
non aveano questi potuto dar gli ordini per la partenza senza che
traspirasse qualche cosa. D’altronde ciascuna di tali persone ne aveva
una o due altre a cui s’interessava, e siccome si teneva per certo che
la regina lascerebbe Parigi con dei progetti di vendetta, così ognuno
aveva avvertito gli amici o i parenti, e quindi la voce della fuga
corse come un fumo di polvere per tutte le strade della capitale.

La prima carrozza arrivata, dopo quella della regina, fu quella del
signor Principe; conteneva il signor di Condé, la signora Principessa
e la Principessa vedova. Queste due erano state destate nella notte, e
nemmeno sapevano di che si trattasse.

La seconda racchiudeva il duca d’Orleans, la duchessa, la grande
_Madamigella_, e l’abate di la Rivière favorito inseparabile ed intimo
consigliere del Principe.

Nella terza stavano il signor di Longueville e il principe di
Conti fratello e cognato del signor Principe. Essi smontarono, si
avvicinarono al legno del re e della regina, e presentarono a Sua
Maestà i loro omaggi.

Anna cacciò lo sguardo sino in fondo alla carrozza di cui era rimasto
aperto lo sportello e vide ch’era vuota.

«Ma dov’è mai madama di Longueville? domandò.

«Appunto, dov’è mia sorella? fece il Principe.

«Madama di Longueville è indisposta, rispose il duca, e mi ha
incombenzato di scusarla presso Vostra Maestà».

Anna lanciò una rapida occhiata a Mazzarino, il quale rispose con un
cenno impercettibile della testa.

«Che ne dite? chiese a questo la regina.

«Dico ch’ella è un ostaggio per i Parigini, ribattè il ministro.

«Perchè non è venuta? interrogò pianino il signor Principe a suo
fratello.

«Zitto! disse questo, ha di certo le sue ragioni.

«Ci rovina! mormorò il Principe.

«Ci salva», ripicchiò Conti.

Giungevano in folla le vetture; vennero in fila il maresciallo di La
Meilleraye, il maresciallo di Villeroy, Guitaut, Villequier, Comminges;
capitarono pure i due moschettieri conducendo a mano i cavalli di
d’Artagnan e di Porthos. Porthos e d’Artagnan saltarono in sella. Al
secondo di questi subentrò il cocchiere di Porthos a cassetta del regio
cocchio. Mousqueton pigliò il posto del cocchiere guidando in piedi,
per ragioni a lui cognite, e simile all’antico Automedonte.

La regina, benchè occupandosi di mille cosarelle, cercava cogli occhi
d’Artagnan; ma il Guascone, colla sua consueta prudenza, si era di già
cacciato fra la moltitudine.

«Facciamo da vanguardia, esso disse a Porthos, e procuriamoci buoni
alloggi a San Germano, poichè nessuno penserà a noi. Mi sento stanco
all’eccesso.

«Ed io casco dal sonno, rispose Porthos. E a dire che non abbiamo avuto
il minimo combattimento! assolutamente i Parigini sono molto sciocchi!

«Non è forse piuttosto perchè noi siamo molto abili?

«Forse sì.

«E il vostro pugno come va?

«Meglio. Ma credete che questa volta li abbiamo?

«Che cosa?

«Voi il vostro grado, ed io il mio titolo?

«Oh! sì; quasi ci scommetterei. E poi, se non si rammentano, li farò
rammentar io.

«Sento la voce della regina, disse Porthos; mi pare che chieda di
montare a cavallo.

«Oh! ella vorrebbe, ma....

«Ma che?

«Ma il ministro non vuole, disse d’Artagnan».

E poi a’ due moschettieri:

«Signori, accompagnate la carrozza della regina, non ve ne scostate;
noi andiamo a far apparecchiare i locali».

Dopo di che il tenente e Porthos diedero di sprone per recarsi a San
Germano.

«Partiamo», fece la sovrana.

Ed il suo cocchio si avviò, con appresso molti altri e da cinquanta o
più cavalcanti.

Giunsero a San Germano; ivi scesa dal montatoio, Anna trovò il signor
Principe che attendeva in piedi e a testa scoperta per offrirle la
mano.

«Come resteranno destandosi i Parigini! disse lietissima la regina.

«È guerra, rispose il prence.

«Or bene, guerra sia pure. Non abbiamo con noi il vincitore di Rocroy,
di Nordlingen e di Lens?»

Il principe fece un inchino in segno di ringraziamento.

Erano le tre dopo mezzanotte. La regina entrò la prima nel castello;
tutti la seguirono; circa duecento persone erano seco fuggite.

«Signori, disse Anna scherzando, alloggiatevi nel castello; è vasto,
e nulla vi ci mancherà, ma siccome non si aveva idea di venirci sono
avvertita che vi sono soltanto tre letti: uno pel re, uno per me....

«Ed uno per Mazzarino, terminò sotto voce il signor Principe.

«Ed io dunque dormirò in terra? domandò Gastone d’Orleans sorridendo ma
di mala voglia.

«No, monsignore, rispose Mazzarino, giacchè il terzo letto è destinato
a vostra Altezza.

«Ma voi?

«Io non mi coricherò; ho da lavorare».

Gastone si fece indicare la sua camera, senza curarsi del modo in cui
starebbero sua moglie e la figlia.

«Io sì, mi coricherò, disse d’Artagnan; Porthos, venite con me».

Porthos andò appresso all’amico con quella somma fiducia che aveva nel
di lui senno.

Camminavano l’uno accanto all’altro sulla piazza del castello, Porthos
guardando attonito d’Artagnan, che contava colle dita:

«Quattrocento, a una doppia, fanno quattrocento doppie.

«Sì, diceva Porthos, ma chi è che fa quattrocento doppie?

«Una doppia non basta; vale un luigi.

«Che cosa vale un luigi?

«Quattrocento a un luigi, formano quattrocento luigi.

«Quattrocento? fece Porthos.

«Sì; sono duecento, e ce ne vogliono almeno due per ciascuno. Sicchè si
viene a quattrocento.

«Ma che quattrocento?

«Sentite», disse d’Artagnan.

E siccome v’erano d’ogni sorta di persone, che meravigliate osservavano
l’arrivo della corte, egli terminò la frase all’orecchio.

«Capisco benissimo, rispose Porthos, duecento luigi ognuno, va
ottimamente, ma che diranno poi?

«Diranno quel che vogliono. E d’altronde, si saprà forse che siamo noi?

«Ma chi s’incaricherà della distribuzione?

«Non v’è Mousqueton?

«E la mia livrea! esclamò Porthos, riconosceranno la mia livrea.

«Si rivolterà l’abito.

«Avete sempre ragione, mio caro d’Artagnan; ma dove diavolo scavate
tutte le idee che avete?»

D’Artagnan sorrise.

I due amici presero dalla prima strada che incontrarono. Porthos bussò
alla casa a mano destra, mentre d’Artagnan faceva lo stesso a quella a
sinistra.

«Paglia! essi dissero.

«Signore, non ne abbiamo, risposero quei che vennero ad aprire, ma
rivolgetevi al mercante di foraggi.

«E dov’è colui?

«L’ultimo portone in questa via.

«A diritta o a manca?

«A manca.

«E vi sono altri a San Germano da chi si possa procurarsene?

«V’è il locandiere del Montone Coronato, e il fattore Gros-Luis.

«Dove abitano?

«In via delle Orsoline.

«Tutt’e due?

«Sì.

«Benone».

I due gentiluomini si fecero spiegare il secondo ed il terzo indirizzo
esattamente quanto il primo; indi d’Artagnan andò dal mercante di
foraggi, e trattò seco per cinquanta fasci di paglia che possedeva, il
tutto per tre doppie; di là passò dal locandiere, ove trovò Porthos
che aveva combinato per duecento fasci per una somma quasi eguale;
finalmente ottanta ne mise a loro disposizione il fattore Gros-Luis.

Totale quattrocento trenta.

In San Germano non ve n’erano di più.

In tutta la radunata non impiegarono più di mezz’ora. Mousqueton,
debitamente ammaestrato, fu posto alla direzione di quel traffico
improvviso; gli fu raccomandato di non lasciarsi uscire di mano un filo
di paglia al disotto di un luigi per ogni fascio.

Gli veniva affidata tanta paglia per il valore di luigi quattrocento e
trenta.

Mousqueton tentennava il capo, e non intendeva un ette di quella
speculazione.

D’Artagnan, portando tre fasci, ritornò al castello, dove tutti
tremavano di freddo e cascando dal sonno guardavano con astio il re, la
regina e _Monsieur_ sui loro letti da campo.

All’entrare di d’Artagnan nel gran salone fu uno scroscio di risa
generale; ma esso non mostrò tampoco di accorgersi d’esser l’oggetto
dell’attenzione degli astanti, e si mise a disporre con tanta destrezza
e buon umore il suo lettuccio di paglia, che faceva venire l’acquolina
in bocca ai poveri insonniti, che non poteano dormire.

«Paglia! gridarono costoro; paglia! dove si trova un po’ di paglia?

«Ora vi ci conduco, disse Porthos».

E guidò gli avventori da Mousqueton, il quale dispensava generosamente
i suoi fasci a un luigi l’uno. Questi pensarono essere un po’ caro,
ma quando si ha molta volontà di dormire, chi non pagherebbe due o tre
luigi qualche ora di un buon sonno?

D’Artagnan cedeva ad ognuno il suo letto, e quindi se lo rifece per sè
dieci volte consecutive, e siccome si supponeva ch’egli avesse pagato
da quanto gli altri il suo pacco di paglia, si cacciò in tasca così una
trentina di luigi in meno di mezz’ora. Alle cinque ore della mattina
la paglia valeva ottanta lire il pacco, ed anche non se ne raccapezzava
più.

D’Artagnan aveva avuto cura di serbarsi da parte quattro fasci per sè;
prese la chiave dello stanzino ove gli aveva nascosti, ed insieme con
Porthos se ne andò a fare i conti con Mousqueton, il quale candidamente
e da degno maggiordomo com’era, consegnò loro quattrocentotrenta luigi
e se ne ritenne altri cento.

Mousqueton, che nulla sapeva di quanto era accaduto nel palazzo, non
comprendeva come non fosse a lui venuta più presto l’idea di vender la
paglia.

D’Artagnan si pose l’oro nel cappello, e tornando indietro, faceva
i conti con Porthos. Spettavano ad ognuno di essi duecento quindici
luigi.

Allora soltanto Porthos si avvide di non aver paglia per suo uso.

Andò da Mousqueton. Questo avea venduto sino all’ultimo filo, non
serbandosi niente per sè stesso.

Porthos si recò presso a d’Artagnan, il quale, mediante i suoi quattro
fasci era occupato a prepararsi, godendone anticipatamente la vista
deliziosa, un letto così morbido, grosso da capo, coperte da’ piedi,
che avrebbe fatto invidia anche al re, se il re non avesse riposato
egregiamente nel suo.

D’Artagnan a nessun costo volle guastarlo, ma essendogli contati da
Porthos quattro luigi, acconsentì che questi vi si adagiasse con lui.

Accomodò la spada da capo, si posò le pistole accanto, si distese
a’ piedi il ferrajuolo, su questo mise il cappello e si sdrajò
maestosamente sopra la paglia che cedeva e scricchiolava. Si pasceva
digià dei dolci sogni che genera il possesso di duecento diciannove
luigi guadagnati in un quarto d’ora, quando lo fece scuotere una voce
alla porta della sala.

«Signor d’Artagnan! questa gridava, signor d’Artagnan!

«Qui, disse Porthos, qui!»

Porthos intendeva che se d’Artagnan se ne andava, il letto resterebbe a
lui solo.

Si avvicinò un ufficiale.

D’Artagnan si sollevò sul gomito.

«Siete voi il signor d’Artagnan? quegli domandò.

«Sì, signore: che volete da me?

«Vengo a chiamarvi.

«Da parte di chi?

«Di Sua Eccellenza.

«Dite a monsignore che voglio dormire, e lo consiglio da amico a fare
altrettanto.

«Sua Eccellenza non si è coricata, e non si coricherà, e vi vuole sul
momento.

«Sia maledetto il Mazzarino, che non sa dormire quando bisogna!
brontolò d’Artagnan, ma che vuole! È forse per farmi capitano? in tal
caso glielo perdono».

E si alzò mormorando, pigliò la spada, il cappello, le pistole e il
ferrajuolo, e andò coll’uffiziale, mentre Porthos, rimasto solo ed
unico possessore del letto, si provava ad imitare le belle disposizioni
dell’amico.

Mazzarino, vedendosi avvicinare colui che avea mandato a ricercare in
momento sì inopportuno, gli disse:

«Signor d’Artagnan, non mi sono dimenticato con quanto zelo voi mi
serviste, ed ora ve ne darò una prova.

«Buono! pensò il tenente, si comincia bene!»

Il ministro, che l’osservava, notò la sua contentezza.

«Ah, monsignore!

«Signor d’Artagnan, avete molto desiderio di esser capitano?

«Sì, Eccellenza.

«E il vostro amico brama sempre di esser barone?

«Monsignore, in questo istante si sogna di esserlo digià.

«Dunque, fece Mazzarino, togliendo da un portafogli la lettera già
mostrata al nostro moschettiere, prendete questo dispaccio e portatelo
in Inghilterra».

D’Artagnan guardò: non v’era indirizzo.

«Non posso sapere a chi debbo consegnarlo?

«Lo saprete giunto che siate a Londra; in Londra solamente lacererete
la doppia sopraccarta.

«E quali saranno le mie istruzioni?

«D’obbedire in tutto e per tutto a quello a cui va questo plico».

D’Artagnan era per fare altre domande; il ministro soggiunse:

«Voi partite per Boulogne, troverete alle Armi d’Inghilterra un giovane
gentiluomo chiamato Mordaunt.

«Sì, e di lui che devo farmi?

«Seguitarlo sin dove vi condurrà».

D’Artagnan guardava attonito il ministro.

«Eccovi istruito, disse questo, andate!

«Andate si dice presto, rispose il tenente, ma per andare bisognano
danari, ed io non ne ho....

«Ah! fece Mazzarino grattandosi l’orecchio, dite di non aver danari?

«No, monsignore.

«Ma il diamante che vi diedi jeri sera?

«Bramo di conservarlo come un ricordo di Vostra Eccellenza».

Mazzarino sospirò.

«Monsignore, in Inghilterra il vivere costa caro, e specialmente in
qualità d’inviato straordinario.

«Oibó! è un paese molto sobrio, e che campa di semplicità dalla
rivoluzione in poi, ma non importa».

E Mazzarino, aperto un cassettino, ne cavò una borsa.

«Che dite di questi mille scudi?»

D’Artagnan sporse in fuori smisuratamente il labbro inferiore.

«Dico che son pochi, poichè di certo non partirò solo.

«Sicuro! replicò il ministro, sarà con voi il signor du Vallon,
degno gentiluomo.... chè dopo di voi, caro signor d’Artagnan, egli è
positivamente l’uomo che in Francia io ami e stimi più d’ogni altro.

«Allora, monsignore, fece d’Artagnan, accennando il sacchetto non ancor
datogli da Mazzarino; se tanto lo amate e lo stimate, capirete....

«Là, a riguardo suo, aggiungerò duecento scudi.

«Spilorcio!» bucinò il tenente.

E domandò poi ad alta voce:

«Ma almeno, al nostro ritorno, potremo contare il signor Porthos sulla
sua baronia, ed io sul mio grado, non è così?

«Sì, da Mazzarino che sono.

«Avrei più caro un altro giuramento, disse fra sè il Guascone».

E indi più forte:

«Non posso presentare i miei ossequi a Sua Maestà la regina?

«Sua Maestà dorme, rispose con impeto l’Eccellenza, e occorre che
partiate senza indugio; orsù, andate!

«Monsignore, due altre parole: se là dove io vado e’ si battono, mi
batterò anch’io?

«Farete quanto vi ordini la persona a cui vi dirigo.

«Va bene, seguitò d’Artagnan allungando la mano per pigliare il
sacchetto, e vi presento i miei rispetti».

E postasi lentamente la borsa in tasca, disse all’ufficiale:

«Favorireste passare a destar pure il signor du Vallon e dirgli che lo
attendo nelle scuderie?»

L’uffiziale si mosse tosto con una premura nella quale sembrò al nostro
tenente vi fosse qualche cosa d’interessato.

Porthos si era appena sdrajato, e cominciava a russare armoniosamente
secondo il suo consueto, ed eccolo sentirsi battere sulla spalla.

Credè che fosse d’Artagnan, e non si mosse.

«Da parte del ministro, disse l’uffiziale.

«Eh? che dite? domandò Porthos aprendo tanto d’occhi.

«Che Sua Eccellenza vi manda in Inghilterra, e il signor d’Artagnan vi
aspetta nelle scuderie».

Porthos diede un sospiro, si alzò, prese il cappello, le pistole,
la spada e il ferrajuolo, ed uscì mandando uno sguardo pien di
rincrescimento al letto in cui si era proposto di riposare tanto bene.

Appena avea volte le spalle vi si era disteso sopra l’ufficiale; e non
aveva egli passata la soglia, che il suo successore russava in modo da
sbalordire. E ciò era naturale, dappoichè in quella riunione era egli
il solo, oltre al re, alla regina e a Gastone d’Orleans, che dormisse
gratis.



LVII.

_Vengono notizie d’Athos e d’Aramis._


D’Artagnan s’era recato a dirittura alle scuderie; si faceva giorno;
riconobbe il suo cavallo e quello di Porthos legati alla mangiatoja, ma
mangiatoja vuota; ebbe pietà delle povere bestie, e s’incamminò verso
un cantone ove distingueva un po’ di paglia senza dubbio sottrattasi
alla _razzia_ notturna. Ma nel radunare col piede la paglia, la punta
del suo stivale incontrò un corpo rotondo, il quale, tocco di certo
in un luogo sensibile, diede un grido e si rizzò sulle ginocchia
stropicciandosi gli occhi.

Era Mousqueton, che non avendo più paglia per sè si era giovato di
quella dei cavalli.

«Mousqueton! disse d’Artagnan, animo, in viaggio!»

Colui, riconosciuta la voce dell’amico del suo padrone, si alzò
precipitosamente, e con quell’atto si lasciò cadere alcuni dei luigi
guadagnati illecitamente nella notte scorsa.

«Oh oh! fece d’Artagnan annasando un luigi raccattato, ecco dell’oro
che ha un odore singolare, puzza di paglia».

Mousqueton arrossì tanto onestamente, e parve sì confuso, che il
guascone si mise a ridere, e seguitò:

«Mio caro Mouston, Porthos andrebbe in collera, ma io vi perdono;
soltanto ricordiamoci che codest’oro dee servire di farmaco per la
nostra ferita, e stiamo allegri, su via!»

Il domestico assunse subito un aspetto gioviale, pose con grande
attività la sella al palafreno del suo signore, e si piantò sul suo
proprio senza far boccaccia.

Frattanto capitò Porthos con viso burbero, e si maravigliò non poco di
trovare d’Artagnan e Mousqueton quasi che in brio.

«Ehi! domandò, abbiamo dunque, voi il grado ed io la baronia?

«Andiamo a cercarne i brevetti, rispose d’Artagnan, ed al nostro
ritorno Mazzarino li firmerà.

«E dove si va?

«Prima a Parigi; voglio regolare colà alcune faccende.

«A Parigi sia pure».

Ed entrambi partirono pella capitale.

Giunti alle porte, stupirono nel mirare l’attitudine minacciosa della
città. Attorno ad una carrozza rotta in pezzi, il popolo mandava
imprecazioni, mentre le persone che aveano tentato di fuggire erano
prigioniere, cioè un uomo e due donne.

Quando al contrario d’Artagnan e Porthos chiesero l’accesso, furono
ricevuti con mille carezze; erano stati presi per disertori del partito
realista, e si voleva affezionarseli.

«Che fa il re? fu loro domandato.

«Dorme.

«E la Spagnuola?

«Si sogna.

«E quel maladetto Italiano?

«Sta desto. E perciò mantenetevi saldi; perchè se sono partiti, è di
sicuro per qualche fine. Ma siccome in sostanza voi siete i più forti,
continuò d’Artagnan, non vi accanite addosso a donne e a vecchi;
lasciate andare quelle signore, e attaccatevi alle vere cause».

Il popolo udì con piacere tal discorso, e liberò le signore, le quali
con un’occhiata eloquente ringraziarono il tenente.

«Ora avanti! disse questo».

E proseguirono il lor cammino, traversando le barricate, saltando di
sopra alle catene, spingendo o spinti, interrogati o interrogando.

Nella piazza del Palazzo Reale, d’Artagnan adocchiò un sergente che
facea fare l’esercizio a cinque o sei cento borghesi: era Planchet,
il quale metteva in opra a vantaggio della milizia urbana le sue
rimembranze del reggimento di Piemonte.

Esso, nel passare davanti a d’Artagnan, ravvisò il suo antico padrone.

«Buon dì, signor d’Artagnan, disse Planchet con sussiego.

«Buon dì, signor Delaurier, rispose il tenente dei moschettieri».

Planchet si fermò di botto fissando sopra d’Artagnan gli occhi
attoniti; la prima fila, vedendo fermare il suo capo, si fermò
parimente, e così di seguito sino all’ultima.

«Son pur ridicoli quei borghesi! disse d’Artagnan a Porthos».

E andarono innanzi.

Dopo cinque minuti smontavano all’albergo del Granchio.

La bella Maddalena corse incontro a d’Artagnan.

«Cara signora Turquaine (così costui le parlò), se avete soldi,
nascondeteli presto; se avete gioje, rimpiattatele prontamente; se
avete crediti, fatevi pagare; se avete debiti, non li pagate.

«E perchè? chiese Maddalena.

«Perchè Parigi sarà ridotta in cenere nè più nè meno che Babilonia, di
cui sicuramente avrete inteso a discorrere.

«E mi lasciate in un momento simile?

«Sull’atto.

«E dove andate?

«Ah! se voi potete dirmelo, mi renderete un vero servizio.

«Mio Dio! mio Dio!

«Avete lettere per me? domandò d’Artagnan facendo cenno colla mano
all’ostessa che si risparmiasse le lamentazioni attesochè sarebbero
superflue.

«Ve n’è una arrivata appunto adesso».

Ed ella gliela porse.

«D’Athos! esclamò il tenente osservando lo scritto lungo e fermo
dell’amico.

«Ah! fece Porthos, vediamo un po’ che ci dice».

D’Artagnan aprì il foglio e lesse:

      «Caro d’Artagnan, caro Du Vallon.

  «Miei buoni amici, voi forse ricevete mie notizie per l’ultima
  volta. Aramis ed io siam molto infelici, ma Iddio, il nostro
  coraggio e la memoria della nostra amistà ci sostengono. Pensate
  bene a Raolo. Vi raccomando le carte che sono a Blois, e fra
  due mesi e mezzo se non avete mie nuove, prendetene cognizione.
  Abbracciate di tutto cuore il visconte pel vostro affezionatissimo

                                                            ATHOS».

«Lo credo, per bacco! che lo abbraccerò; disse d’Artagnan, è digià
sul nostro stesso sentiero, e se ha la disgrazia di perdere il nostro
povero Athos, da quel giorno diventa mio figlio.

«Ed io, aggiunse Porthos, lo fo mio legatario universale.

«Vediamo che altro dice egli, Athos?»

  «Se per la strada incontrate un tale Mordaunt, non ve ne fidate.
  Non posso colla presente spiegarmi di più».

«Mordaunt! fece con sorpresa d’Artagnan.

«Mordaunt, va bene, seguitò Porthos, ce ne ricorderemo.... Ma guardate
là, v’è una poscritta di Aramis.

«Sì sì», rispose il tenente.

E lesse:

  «Amici cari, vi teniamo celato il luogo di nostra permanenza,
  conoscendo il vostro affetto fraterno, e ben sapendo che verreste a
  morire con noi».

«Corpo di una bomba! interruppe Porthos con un impeto di collera che
fe’ balzare Mousqueton all’altra estremità della stanza; che siano in
pericolo di morte?»

D’Artagnan tirò innanzi:

  «Athos vi lascia per eredità Raolo, ed io per eredità vi lascio
  una vendetta. Se per buona sorte mettete le mani sopra un certo
  Mordaunt, dite a Porthos che se lo porti in un canto e gli torca il
  collo. In una lettera non oso dirvi di più.

                                                           ARAMIS».

«Se non v’è altro, disse Porthos, è cosa facile a farsi.

«Anzi, rispose accigliato d’Artagnan, è impossibile».

«E perchè?

«Perchè è appunto quel Mordaunt che noi andiamo a raggiungere a
Boulogne, e passiamo seco in Inghilterra.

«Ebbene! se invece di quel signor Mordaunt ci portassimo a raggiungere
i nostri amici? esclamò Porthos con un gesto capace di spaventar
un’armata.

«Ci ho pensato, replicò d’Artagnan, ma la lettera non ha data nè bollo.

«È vero», approvò Porthos.

E si mise a correre per la camera come un uomo fuori di sè, gestendo e
ad ogni poco levando la spada sino a due terzi fuori del fodero.

D’Artagnan rimaneva in piedi come chi sia nella massima costernazione e
sul viso gli appariva somma angoscia.

«Ah! va male, ei diceva, Athos ci insulta; vuol morir solo, va male».

Mousqueton vedendo quelle due grandi disperazioni, piangeva in un
cantone.

«Orsù, fece d’Artagnan, tutto questo non giova a nulla; partiamo,
si vada ad abbracciar Raolo, come abbiamo detto, ed egli forse avrà
ricevuto notizie di Athos.

«Veh! codesta è un’idea, rispose Porthos; in verità, caro d’Artagnan,
non so come facciate, ma siete pieno d’idee. Si vada a dare un amplesso
a Raolo.

«Guai a colui che in questo momento guardasse bieco il mio padrone!
disse Mousqueton, non gli darei un danaro della sua pelle».

Montarono a cavallo e si avviarono. Alla porta S. Dionigi, i due amici
trovarono gran concorso di popolo. Arrivava il signor di Beaufort
dal Vendomese, ed il Coadjutore lo mostrava ai Parigini stupefatti
ed esultanti, che con il detto di Beaufort si reputavano oramai
invincibili!

I due compagni presero da una piccola strada onde non incontrare il
principe, e furono alla barriera S. Dionigi.

«È vero, domandarono ad essi le guardie, che il signor di Beaufort sia
giunto in Parigi?

«Verissimo, replicò d’Artagnan, e la prova si è che ci manda incontro
al signor di Vendome suo padre, il quale deve pur capitare quanto
prima.

«Evviva il signor di Beaufort!» gridarono le guardie.

E si trassero da parte rispettose a lasciar passare gl’inviati del gran
principe.

Una volta fuor dalla barriera, si divorarono la strada coloro che non
conoscevano nè stanchezza nè scoraggimento; i loro cavalli volavano, ed
eglino non cessavano dal parlare di Athos e d’Aramis.

Mousqueton soffriva ogni tormento immaginabile, ma l’ottimo servo
si consolava nel pensare che i suoi due padroni pativano ben altre
pene.... conciossiachè era già al punto di considerare d’Artagnan qual
suo secondo padrone, e gli obbediva anche più pronto ed esattamente che
a Porthos.

Il campo era fra Saint Omer e Lambe. I due compagni fecero un mezzo
giro sino al campo, e parteciparono minutamente all’armata la fuga del
re e della regina pervenuta colà confusamente. Trovarono Raolo vicino
alla sua tenda disteso sur un fascio di fieno di cui il suo cavallo
tirava a sè di soppiatto alcuni fili. Il giovanetto aveva gli occhi
rossi e sembrava abbattuto; ch’essendo tornati a Parigi il maresciallo
di Grammont ed il conte di Guiche, egli poveretto! rimaneva isolato.

Indi a un momento Raolo alzando gli occhi vide i due cavalieri che lo
esaminavano, e corse ad essi a braccia aperte.

«Oh! siete voi, cari amici? venite a prendermi? mi conducete via con
voi? mi recate notizie del mio tutore?

«Non ne avete forse ricevute? gli domandò d’Artagnan.

«No, ahimè! e non so che sia di lui.... e ne sento un’inquietudine che
mi fa piangere».

Realmente, sulle guancie imbrunite del visconte di Bragelonne
scorrevano due grosse lacrime.

Porthos si volse da parte per non dimostrare dall’ottima faccia quel
che provava nel cuore.

«Diamine! disse d’Artagnan più commosso che nol fosse stato da gran
tempo, non vi disperate.... se non avete lettere del conte.... ne
abbiamo noi.... una....

«Ah! davvero?

«E anche da tranquillarvi, aggiunse il tenente, visto il giubilo che
dava a Raolo il suo annunzio....

«L’avete?

«Cioè, l’avevo.... (e d’Artagnan fingeva di cercare) aspettate, deve
esser qui.... nella saccoccia.... mi parla del suo ritorno, non è così,
Porthos?»

Per quanto fosse Guascone, d’Artagnan non voleva assumersi solo tutto
il carico di quella menzogna.

«Sì, disse Porthos con un poco di tosse.

«Ah, datemela!

«Uhm!... la leggevo dianzi, che l’avessi perduta?... oh che
miracoli!... ho la tasca rotta!...

«Oh sì, signor Raolo.... confermò Mousqueton, la lettera era
consolantissima; questi signori me l’hanno letta, ed ho pianto
dall’allegrezza.

«Ma almeno, signor d’Artagnan, sapete dove sia? domandò Raolo mezzo
rasserenato.

«Ah! ecco....: certo lo so, cospetto! ma è un mistero.

«Non già per me, spererei?

«No, per voi no.... e perciò ora ve lo dico....»

Porthos guardava l’amico con istupore.

«Dove diavolo dirò che è, perchè egli non tenti di andare a ritrovarlo?
borbottava il tenente.

«Or bene, dov’è? chiese Raolo con voce dolce e carezzevole.

«È a Costantinopoli.

«Presso i Turchi, oh Dio, che mi dite mai!

«Veh! avete forse paura? Ohibò! che cosa sono i Turchi per uomini
simili al conte di la Fère e all’abate d’Herblay?

«Ah! il suo amico è con lui?... ciò mi quieta alcun poco....

«Che spirito ha questo demonio di d’Artagnan! diceva Porthos incantato
dall’astuzia del camerata.

«Adesso, fece d’Artagnan che desiderava cambiar soggetto di
conversazione, ecco cinquanta doppie che col medesimo corriere vi
mandava il conte. Mi figuro che non abbiate più danari, e ch’esse vi
vengano opportune.

«Ho tuttavia venti doppie.

«Pigliatele ciò non ostante, così saranno settanta.

«E se ne bramate di più.... offeriva Porthos ponendo mano al borsellino.

«Grazie.... mille grazie....» rispose Raolo, ed arrossiva.

In quel punto comparve all’orizzonte Olivain.

«A proposito, chiese d’Artagnan in maniera che il lacchè lo udisse,
siete contento di Olivain?

«Sì.... così così...»

Olivain finse di non aver inteso ed entrò nella tenda.

«Di che lo tacciate, quel briccone?

«È un ghiottone, replicò Raolo.

«Oh signore! disse Olivain, che a tale accusa si mostrò subito.

«È un po’ ladro.

«Oh signore! oh!

«E specialmente è molto codardo.

«Oh, oh, oh, signore! voi mi disonorate.

«Capperi! esclamò d’Artagnan, sappiate, messer Olivain, che genti
come noi non si fanno servire da codardi. Rubate al vostro padrone,
mangiategli le conserve e bevetegli il vino, ma per Diana! non siate
codardo, o che vi taglio le orecchie. Guardate Mouston, pregatelo di
mostrarvi le onorevoli ferite che ha ricevute, e vedete qual dignità
gli ha posta sul sembiante il suo coraggio».

Mousqueton era al terzo cielo, e se avesse osato avrebbe dato un bacio
a d’Artagnan, e frattanto si proponeva di farsi ammazzare per esso se
mai si presentasse l’occasione.

«Licenziate quel furfante, disse d’Artagnan a Raolo, poichè s’è
vigliacco, un giorno o l’altro si disonorerà.

«Il padrone mi tiene per vigliacco, gridò il servitore, perchè l’altro
giorno volle battersi con un alfiere del reggimento di Grammont ed io
ricusai di accompagnarlo.

«Signor Olivain, un lacchè non deve mai disobbedire; rispose il tenente
con severità».

Poi traendolo in disparte:

«Facesti benissimo, se il tuo padrone aveva torto, ed eccoti uno scudo
per te; ma se una volta egli è insultato e tu non ti fai fare a pezzi
al suo fianco, ti taglio la lingua e te la batto sul muso. Tienlo a
mente per bene!»

Il domestico s’inchinò e si pose in tasca la moneta.

«Ora, amico Raolo, disse d’Artagnan, il signor du Vallon ed io partiamo
come ambasciadori; non posso dirvi con che scopo, non lo so nemmen io:
ma se avete bisogno di qualche cosa, scrivete alla signora Maddalena
Turquaine, al Granchio, in via Tiquetonne, e traete su quella cassa
come su quella di un banchiere.... pianino però, giacchè vi avverto che
non è provvista quanto quella del d’Emery».

E dato un amplesso al suo pupillo _provvisorio_, lo passò fra le
robuste braccia di Porthos, le quali sollevandolo da terra lo tennero
sospeso un momento sul nobil petto del terribile gigante.

«Si vada» disse d’Artagnan.

E ripartirono per Boulogne, dove fermarono verso sera i loro cavalli
bagnati di sudore e bianchi di spuma.

Dieci passi distante dal luogo ove si riposavano avanti di entrare in
città, stava un giovane vestito a nero che pareva attendesse qualcuno,
e che da quando gli avea veduti a comparire non cessava di guardarli
fisso.

D’Artagnan gli si accostò, e poichè quegli non finiva di osservarlo,
gli disse:

«Ehi, amico! non mi piace essere squadrato così da capo ai piedi.

«Signore, fece l’altro senza rispondere alla interpellazione, di
grazia, non venite da Parigi?»

Il tenente si pensò fosse colui un curioso che desiderasse aver nuove
della capitale.

«Signor sì, replicò in tuono più mite.

«Non dovete alloggiarvi alle Armi d’Inghilterra?

«Sì.

«Non avete un’incombenza di Sua Eccellenza il ministro Mazzarino?

«Sì sì....

«Dunque avete da far con me: son io Mordaunt».

D’Artagnan disse piano:

«Ah ah! quello di cui Athos mi raccomanda di non fidarmi!

«Oh! mugolò Porthos, quello a cui Aramis vuole ch’io tiri il collo!»

Ambedue considerarono con attenzione il giovanotto.

Questi s’illuse sul motivo delle loro occhiate.

«Dubitate della mia parola? domandò, in tal caso sono pronto a darvene
qualunque prova.

«No signore, rispose d’Artagnan, e siamo a vostra disposizione.

«Dunque, signori, partiremo senza indugio, perchè oggi è l’ultimo
giorno del termine richiestomi dal ministro. Il mio bastimento è
all’ordine, e se non foste venuti mi preparavo ad andarmene senza
di voi, mentre il generale Oliviero Cromvello deve attendermi con
impazienza.

«Ah! fece d’Artagnan, siamo dunque spediti al generale Oliviero
Cromvello?

«Non avete per esso una lettera?

«Ho una lettera da non lacerarne il doppio inviluppo se non a Londra;
ma poichè mi dite a chi è diretta è inutile ch’io aspetti fino allora».

E d’Artagnan lacerò il foglio disopra al dispaccio.

Difatti v’era scritto:

  — Al signor Oliviero Cromvello, generale delle truppe della nazione
  inglese —.

«Singolare incarico! fece il tenente.

«Chi è questo Cromvello? gli domandò sotto voce Porthos.

«Un antico birraio.

«Che il Mazzarino voglia fare una speculazione sulla birra come noi
l’abbiam fatta sulla paglia?

«Andiamo, signori! pregava Mordaunt impaziente.

«Oh! senza cena? disse Porthos, messer Cromvello non può aspettare un
pochino?

«Sì, ma io? rispose Mordaunt.

«Ebbene, voi? e poi?

«Io, ho fretta.

«Ah! s’è per voi soltanto, soggiunse Porthos, è cosa che non mi
riguarda, e cenerò col vostro permesso o senza».

Al giovanotto si accesero gli occhi e parve vicino ad uscirne un lampo;
ma egli si frenò.

«Signore, continuò d’Artagnan, bisogna compatire dei viaggiatori
affamati; d’altronde il nostro pasto non vi tratterrà molto. Noi
corriamo di trotto alla locanda; andate a piedi sino al porto,
mangieremo un boccone e ci saremo nello stesso tempo che voi.

«Come vi piace, purchè si vada, replicò Mordaunt.

«Manco male! bucinò Porthos.

«Il nome del naviglio? chiese d’Artagnan.

«Lo _Standard_.

«Ottimamente: fra mezz’ora saremo a bordo».

E tutti e due dato di sprone ai cavalli si avviarono all’albergo delle
_Armi d’Inghilterra_.

«Che dite di quel giovane? domandava correndo d’Artagnan.

«Dico che non mi piace punto, rispose Porthos, e che mi sentivo un gran
prurito di seguire il consiglio di Aramis.

«Guardatevene bene, mio caro Porthos! è un inviato del generale
Cromvello, e sarebbe la maniera di farci ricevere malamente, secondo
me, l’annunziargli di avere strozzato il suo confidente.

«Non serve: ho sempre osservato che Aramis era uomo di buon consiglio.

«Sentite, quando sarà terminata la nostra ambasceria....

«E poi?

«S’egli ci riaccompagna in Francia....

«Ebbene?

«Allora vedremo».

Con questo i due gentiluomini arrivarono all’albergo; vi cenarono con
molto appetito, e tosto si trasferirono sul porto. Era pronto a salpare
un brigantino, e sul ponte riconobbero Mordaunt che camminava su e giù
infastidito.

«È incredibile, diceva d’Artagnan mentre la lancia lo portava sino allo
_Standard_, come quel ragazzo somiglia a un tale che ho conosciuto, ma
non so dire a chi».

Giunsero alla scala, e in un momento s’imbarcarono.

L’imbarco dei cavalli fu più lungo che quel degli uomini, e il
brigantino non potè levar l’áncora che la sera alle otto.

Il Mordaunt batteva i piedi impaziente e comandava si sciogliessero le
vele.

Porthos, spossato da tre notti senza sonno e da un tragitto di settanta
leghe a cavallo, erasi ritirato nel camerino e dormiva.

D’Artagnan, superando la sua repugnanza per Mordaunt, passeggiava seco
sul ponte e inventava cento fandonie per obbligarlo a parlare.

Mousqueton pativa del mal di mare.



LVIII.

_Lo Scozzese spergiuro alla fè, Un danajo vendette il suo re._


È d’uopo adesso che i nostri leggitori lascino navigare tranquillamente
lo _Standard_, non però verso Londra dove si credevano di andare
d’Artagnan e Porthos, ma inverso Durham, ove da certe lettere ricevute
d’Inghilterra nella sua permanenza a Boulogne era venuto a Mordaunt
l’ordine di trasferirsi, e che indi ci seguano sino al campo realista
di qua dalla Tyne presso alla città di Newcastle.

Colà, situate in fra due fiumi, su la frontiera di Scozia, ma sul suolo
d’Inghilterra, sono le tende di una picciola armata. È mezza notte.
Uomini riconoscibili per tanti _highlanders_ dalle gambe ignude, dai
gonnellini corti, dai pastrani a righe e dalla penna che hanno sulla
berretta, se ne stanno vegliando nella massima indolenza. La luna, che
penetra fra grossi nuvoli, rischiara ad ogni spazio che trova sulla
strada i moschetti delle sentinelle e fa risaltare le mura, i tetti e
i campanili della città che Carlo I rendeva poc’anzi alle truppe del
Parlamento, egualmente che Oxford e Newark, le quali si sostenevano
tuttavia per la parte di lui nella lusinga di un accomodamento.

Ad una delle estremità di quel campo, vicino ad una vastissima tenda,
piena di uffiziali Scozzesi, i quali tengono una specie di consiglio
sotto la presidenza del loro capo vecchio conte di Lewen, dorme disteso
sull’erba un uomo vestito da cavaliere, ferma la mano sulla spada.

Cinquanta passi più in là, un altro, abbigliato pure da cavaliere,
va discorrendo con una sentinella scozzese; e mercè l’abitudine che
par ch’egli abbi dell’idioma inglese, comunque straniero, giunge a
comprendere le risposte che a lui dà il suo interlocutore in dialetto
della contea di Perth.

Mentre suonava l’un’ora a Newcastle il dormiente si destò, e dopo
aver fatti tutti quanti i gesti di uno che apra gli occhi al finir di
lunghissimo sonno, si guardò attorno attentissimo, e vistosi solo, si
alzò e andò a passare accanto a colui che ragionava colla sentinella.
Questo di certo aveva terminato le sue interrogazioni, poichè di là a
un momento si accommiatò da quell’uomo, e senza affettazione seguì la
stessa strada che il primo cavaliere di cui noi femmo menzione.

L’altro aspettava all’ombra di una tenda situata su quella strada.

«Ebbene, mio caro amico? gli disse in francese, ma del più pretto che
mai siasi usato da Roano a Tours.

«Ebbene, non v’è tempo da perdere, e bisogna prevenire il re.

«Ma che mai succede?

«Sarebbe lungo il raccontarvelo. E poi fra poco lo udrete. Inoltre la
minima parola pronunciata qui può rovinare ogni cosa. Si vada a trovare
milord di Winter».

Ed entrambi s’incamminarono all’estremità opposta del campo; ma siccome
questo non prendeva di più che una superficie di cinquecento passi
quadrati, così ben presto giunsero alla tenda di colui che cercavano.

«Tomby, il vostro padrone dorme? domandò in inglese uno dei due
cavalieri a un domestico coricato in un primo compartimento che serviva
d’anticamera.

«No, signor conte, rispose il servo, non credo; oppure, sarebbe da poco
in qua, giacchè ha camminato più di due ore dopo aver lasciato il re,
e sono appena dieci minuti che è cessato il rumore de’ suoi passi.... E
poi (aggiunse alzando la portiera) potete vedere».

Realmente di Winter stava seduto davanti ad un’apertura fatta a foggia
di finestra, da cui penetrava l’aria notturna, e a traverso alla quale
osservava malinconicamente la luna, perdutasi, come poc’anzi dicemmo,
fra grossi nuvoli neri.

I due amici si appressavano a di Winter che guardava il cielo tenendosi
la testa appoggiata sulla mano; ei non gl’intese arrivare, e restò
nella stessa positura sino al momento che sentì toccarsi la spalla.

Allora si girò, ravvisò Athos ed Aramis, e porse ad essi la destra.

«Avete badato, ei disse loro, come questa sera la luna è di color
sanguigno?

«No, rispose Athos, e mi è sembrata secondo il suo solito.

«Guardate, cavaliere, seguitò di Winter.

«Vi confesso, replicò Aramis, che io sono come il conte di la Fère, e
non ci veggo niente di particolare.

«Conte, soggiunse Athos, in una situazione precaria qual è la nostra,
bisogna esaminare la terra e non il cielo. Avete studiati i nostri
Scozzesi e ne siete sicuro?

«Gli Scozzesi, domandò di Winter, che Scozzesi?

«I nostri, poffare! quelli a cui si è affidato il re; gli Scozzesi del
conte di Lewen.

«No, rispose di Winter».

E indi a poco:

«Sicchè, ditemi, non iscorgete al pari di me quella tinta rossiccia che
ricopre il cielo?

«Nulla affatto, fecero insieme Athos ed Aramis.

«Ma, continuava l’altro sempre occupato dalla medesima idea, non è in
Francia una tradizione, che Enrico IV il giorno innanzi a quello in cui
fu assassinato, e mentre giuocava a scacchi col signor di Bassompierre,
vide delle macchie di sangue sullo scacchiere?

«Sì, approvò Athos, e il maresciallo lo raccontò varie volte a me in
persona.

«Appunto, e all’indomani Enrico IV fu ucciso.

«Ma, chiese Aramis, che rapporto ha con voi codesta visione del re
Enrico?

«Nessuno, ed io sono pur pazzo a discorrervi di tali cose, quando la
vostra venuta in questa tenda mi è indizio che siate latori di qualche
importante notizia.

«Sì milord, disse Athos, vorrei parlare al re.

«Al re? egli dorme.

«Ho da manifestargli cose di gran peso.

«E non si possono differire a domani?

«Bisogna ch’ei le sappia subito, ed è forse digià tardi.

«Entriamo dunque, signori».

La tenda di di Winter era posta accanto a quella regia; dall’una
all’altra comunicava una sorta di corridojo. Questo corridojo era
custodito non da una sentinella ma da un domestico di confidenza di
Carlo I, acciò in caso urgente il re potesse nel momento abboccarsi col
suo servo fedele.

«Questi signori sono con me», disse di Winter.

Il domestico, fatto un inchino, lasciò libero il passo.

Il re Carlo, cedendo ad un irresistibile bisogno di sonno, erasi
addormentato sopra un letto da campo, vestito col suo giubbetto
nero, con gli stivali lunghi, allentata la cintola, e con accanto il
cappello. I tre uomini si avanzarono, ed Athos, che andava primo a
tutti, considerò per un momento in silenzio quel nobile volto tanto
pallido, contornato dalla lunga chioma nera, cui gli appiccicava
alle tempie il sudore, e segnata da grosse vene turchine, le quali
sembravano gonfie di lacrime sotto gli occhi affaticati.

Athos diede un sospiro; il sospiro destò il re, tanto era lieve il suo
sonno.

Esso aprì gli occhi.

«Ah! disse sollevandosi sul gomito, siete voi, conte di la Fère?

«Sì, sire.

«Vegliate intanto ch’io riposo, e venite a recarmi qualche nuova?

«Ahimè! rispose Athos, Vostra Maestà ha indovinato.

«Dunque è cattiva nuova? seguitò il re con un melanconico sorriso.

«Sì, o sire.

«Non serve, il messaggiero sia pur ben venuto, ed entrando da me mi
fate sempre piacere, voi che pel vostro zelo non conoscete nè patria nè
sventura; voi che mi siete inviato da Enrichetta; e così qualunque sia
la notizia che mi portate, parlate senza esitare.

«Sire, il signor Cromvello è giunto questa notte a Newcastle.

«Ah! fece Carlo, per combattermi?

«No, Maestà, per comprarvi!

«Che dite!

«Dico, che all’armata scozzese sono dovute quattrocento mila lire
sterline.

«Per paga arretrata, sì, lo so. Da quasi un anno i miei prodi e fidi
Scozzesi si battono per l’onore».

Athos sorrise.

«Or bene, sire, sebben l’onore sia una bella cosa, e’ si sono stancati
di battersi per esso, e questa notte vi hanno venduto per duecento mila
lire, cioè per la metà di quel che loro si doveva.

«Impossibile! e qual è il Giuda che ha fatto quest’infame contratto?

«Il conte di Lewen.

«Ne siete certo?

«L’ho inteso colle mie proprie orecchie».

Il re diede un profondo sospiro come gli si spezzasse il cuore, e si
lasciò cadere la testa fra le mani.

«Oh, gli Scozzesi che chiamavo i miei fedeli! gli Scozzesi a cui
mi ero affidato quando potevo fuggire ad Oxford! gli Scozzesi, miei
compatriotti, gli Scozzesi miei fratelli! Ma ne siete sicuro?

«Coricato dietro alla tenda del conte di Lewen, di cui avevo sollevata
la cortina, tutto ho veduto, ho udito tutto.

«E quando deve consumarsi l’orribile negoziato?

«Oggi nella mattina. E come vede Vostra Maestà, non v’è tempo da
perdere.

«Per che fare, se dite che sono venduto?

«Per traversare la Tyne, per trasferirvi in Iscozia, per raggiungere
lord Montrose, che non vi venderà, no!

«Ed in Iscozia che farei? una guerra di partigiani: una tal guerra è
indegna di un re.

«Vi assolverà, o sire, l’esempio di Roberto Bruce.

«No no! da troppo tempo io contrasto; se mi venderono, mi consegnino: e
su di loro ricada l’eterna vergogna del lor tradimento.

«Maestà, disse Athos; forse così deve agire un re, ma non così uno
sposo ed un padre. Io qui venni in nome della vostra consorte e di
vostra figlia, e in nome di esse e degli altri due figli che ancora
avete in Londra vi dico: Vivete, o sire! Iddio vuole che viviate».

Carlo I si alzò, si strinse la cintola, cinse la spada, ed asciugandosi
la fronte molle di sudore, domandò:

«Ebbene, che si ha da fare?

«Vostra Maestà ha ella in tutta l’armata un reggimento sul quale possa
contare?

«Di Winter, chiese il re, credete fedele il vostro?

«Sire, son uomini, e gli uomini son diventati o molto deboli o molto
perversi. Io credo nella lor fedeltà, ma non la garantisco; affiderei
ad essi la mia vita, ma esito ad affidar loro quella di Vostra Maestà.

«Or via, seguitò Athos, in mancanza di un reggimento, noi siamo tre
uomini devoti, zelanti, e basteremo noi soli. La Maestà Vostra salga
pure a cavallo, si ponga in mezzo a noi, traversiamo la Tyne, andiamo
in Iscozia e siamo salvi.

«È tale la vostra opinione? domandò il re a di Winter.

«Appunto.

«E la vostra, signor d’Herblay?

«Parimente.

«Dunque si faccia come volete. Di Winter, date gli ordini opportuni».

Di Winter uscì. Frattanto il re terminò di vestirsi. Mentre
cominciavano a penetrare i primi raggi del giorno dalle aperture della
tenda, ritornò di Winter, e disse:

«Sire, tutto è pronto.

«E noi? fece Athos.

«Grimaud e Blaison reggono i vostri cavalli con la sella addosso.

«Allora non si perda un momento e si parta.

«Si parta, ripetè il re.

«Sire, soggiunse Aramis, non prevenite i vostri amici?

«I miei amici! replicò Carlo I scuotendo afflitto il capo, non ne
ho più altri che voi tre. Un amico da venti anni che di me non si
dimenticò giammai; due da otto giorni, ch’io mai non dimenticherò.
Venite, signori».

Il re uscì dalla tenda, e trovò pronto il suo palafreno: era un caval
sauro che cavalcava da tre anni, e che gli era assai caro.

Il quale nel vederlo nitrì dal contento.

«Ah! disse Carlo, ero ingiusto, ed ecco ancora, se non un amico, almeno
un essere che mi ama. Tu, Arturo, mi sarai fedele, non è vero?»

E il corsiero, quasi comprendesse quelle parole, avvicinò le nari
fumanti al volto del padrone, alzando le labbra e lietamente mostrando
le zanne bianchissime.

«Sì sì, continuò il re toccandolo come per accarezzarlo, sì, Arturo, va
bene, sono contento di te».

E con quella leggerezza che lo rendeva uno dei migliori cavalcanti
d’Europa, Carlo si pose in sella, e volgendosi ad Athos, Aramis e di
Winter, disse loro:

«Signori, vi aspetto».

Ma Athos stava in piedi, immobile, con gli occhi fissi e la mano stesa
verso una linea nera, che seguitando lungo la riva della Tyne andava
sino ad uno spazio doppio a quello del campo.

«Che linea è quella? jeri non la vidi! disse Athos a cui le ultime
tenebre della notte a conflitto coi primi raggi del giorno non anco
permettevano di ben distinguere.

«Sarà la nebbia che sorge dal fiume, rispose il re.

«Sire, è oggetto più compatto che un vapore.

«Difatti, scorgo come un argine rossastro! osservò di Winter.

«È il nemico ch’esce da Newcastle e ci circuisce! esclamò Athos.

«Il nemico! ripetè Carlo.

«Sì, è troppo tardi!... Mirate! sotto quel raggio di sole, là, dalla
parte della città, vedete rilucere le _coste di ferro_?»

Così chiamavansi i corazzieri di cui Cromvello aveva fatte le sue
guardie.

«Ah! disse il re, ora sapremo s’è vero che gli Scozzesi mi tradiscono.

«Che fate, o sire? gridò Athos.

«Do a loro l’ordine di caricare, e passo con essi addosso a quei
disgraziati ribelli».

Ed il re, dato di sprone al destriero, si slanciò verso la tenda del
conte di Lewen.

«Seguitiamolo, fece Athos.

«Si vada, confermò Aramis.

«È forse ferito il re? chiese di Winter, veggo in terra delle macchie
di sangue».

E si scagliò appresso ai due amici.

Athos lo trattenne dicendogli:

«Andate a raccogliere il vostro reggimento, io presagisco che fra poco
ne avremo bisogno».

Di Winter voltò la briglia, e i due amici continuarono il loro cammino.
In due minuti secondi Carlo I arrivava alla tenda del generale in capo
dell’armata scozzese; smontò ed entrò immediatamente.

Stavano allora d’intorno al generale i primarj capi.

«Il re!» esclamarono alzandosi e guardandosi stupefatti.

Carlo, ritto dinanzi a loro, col cappello in testa, aggrottava le
ciglia e si batteva lo stivale col frustino.

«Sì, egli disse; il re in persona; il re, che viene a chiedervi conto
di quanto accade.

«Che v’è mai, sire? domandò il conte di Lewen.

«V’è, rispose il re lasciandosi trasportare dallo sdegno, che il
generale Cromvello è giunto in questa notte a Newcastle, che voi
lo sapevate ed io non sono avvertito; v’è, che il nemico esce dalla
città e ci chiude il passaggio della Tyne, che le vostre sentinelle
debbono aver veduto questo movimento ed io non sono avvertito; v’è, che
mediante un infame contratto, voi mi avete venduto per duecentomila
lire al Parlamento, ma che almeno di questo contratto io sono
avvertito. Ecco, signori, quel che v’è; rispondetemi e discolpatevi,
poichè io vi accuso.

«Sire...., balbettò il conte di Lewen, Vostra Maestà sarà stata
ingannata da qualche falso rapporto.

«Ho veduto coi miei occhi l’armata nemica distendersi fra me e la
Scozia, rispose Carlo, e posso quasi dire di aver udito colle mie
proprie orecchie discutere le clausole del contratto».

I capi Scozzesi si guardavano inarcando essi pure le ciglia.

«Sire, fece il conte di Lewen oppresso dalla vergogna, siam pronti a
darvi qualunque prova.

«Ne chiedo una sola; ponete l’esercito in battaglia, e marciamo contro
al nemico.

«Vostra Maestà sa che v’è tregua fra noi e l’armata inglese.

«Se v’è tregua, l’armata inglese l’ha rotta uscendo dalla città contro
le convenzioni che la tenevano ivi rinchiusa; ora, io vel dico, è
d’uopo passar meco a traverso quell’armata e rientrare in Iscozia, e se
non lo fate, or bene! scegliete fra i due nomi che pongono gli uomini
in disprezzo e in esecrazione agli altri uomini: o siete vili, o siete
traditori!»

Dagli occhi degli Scozzesi scaturivano delle fiamme, e secondo sovente
avviene in simili occasioni, essi passarono dall’estrema vergogna
all’estrema impudenza, e due capi di clans avanzandosi a ciascun lato
del re, dissero:

«Or bene, sì, noi promettemmo di liberare la Scozia e l’Inghilterra
da colui che da venticinque anni succhia il sangue e l’oro
dell’Inghilterra e della Scozia; promettemmo e mantenevamo l’impegno.
Re Carlo Stuart, voi siete nostro prigioniero».

Entrambi stesero nel medesimo tempo la mano onde afferrare il re; ma
avanti che con la punta del dito toccassero la sua persona, entrambi
eran caduti, uno svenuto e l’altro morto.

Chè uno era sbalordito da un colpo di pomo di pistola di Athos, ed
all’altro Aramis avea passata la spada a mezzo il corpo.

Indi, mentre il conte di Lewen e gli altri capi retrocedevano atterriti
da quell’inatteso soccorso che pareva scendesse dal cielo a lui che già
credevano lor prigioniero, Athos ed Aramis trascinarono il re fuori
dalla tenda inospitale, ove imprudentemente egli si era avventurato,
e saltando sui cavalli che i lacchè tenevano preparati, tutti e tre si
avviarono alla tenda reale.

Correndo videro venir di Winter alla testa del suo reggimento, ed il re
gli accennò di accompagnargli.



LIX.

_Il vendicatore._


Entrarono tutti e quattro. Nessun piano si era ancor fatto e bisognava
combinarne uno.

Il re si lasciò cadere sopra una sedia dicendo:

«Sono perduto!

«No sire, rispose Athos, siete soltanto tradito».

Carlo sospirò.

«Tradito dagli Scozzesi, fra’ quali io nacqui, che sempre preferii agli
Inglesi, oh sciagurati!

«Sire, riprese Athos, non è momento da rampogne, ma da mostrare che
siete re e gentiluomo. Sorgete, sire! qui almeno avete tre uomini
che non vi tradiranno, tenetelo per certo.... Ah se fossimo solamente
cinque! mormorava Athos pensando a d’Artagnan ed a Porthos.

«Che dite mai? domandò Carlo alzandosi.

«Dico che non v’è più altro che un mezzo. Milord di Winter garantisce
pel suo reggimento o poco meno; non stiamo a sofisticare sui termini;
egli si pone alla testa de’ suoi uomini; noi ci mettiamo al fianco di
Sua Maestà; facciamo un vacuo nell’armata di Cromvello, ed arriviamo in
Scozia.

«Vi sarebbe anche un altro mezzo, propose Aramis, cioè che uno di
noi prendesse e il vestimento e il cavallo del re; intanto che si
accanissero addosso a quel tale, forse il re passerebbe.

«Buono è il suggerimento, fece Athos, e ove Sua Maestà voglia concedere
a uno di noi quest’onore gliene saremo grati.

«Che pensate di questo consiglio, di Winter? chiese Carlo guardando
con ammirazione quei due uomini che di null’altro occupavansi se non di
trarre sopra sè stessi i pericoli che a lui sovrastavano.

«Penso che se v’è un modo per salvare Vostra Maestà è quello proposto
dal signor d’Herblay. Supplico dunque umilmente la Maestà Vostra di far
prontamente la scelta, poichè non abbiam tempo da perdere.

«Ma se accetto, è morte, o almeno prigionia sicura per quello che
prenda il mio posto.

«E l’onore di aver salvato il suo re!» esclamò di Winter.

Carlo considerava il suo vecchio amico con le lacrime agli occhi; si
tolse il cordone dello Spirito-Santo che portava onde far onore ai
due Francesi che lo accompagnavano, e lo infilò al collo a di Winter,
il quale ricevè genuflesso questo tremendo contrassegno dell’amistà e
della fiducia del suo sovrano.

«È giusto, disse Athos; egli lo serve da più tempo di noi».

Il re lo udì, e si volse ancor pieno il ciglio di lacrime.

«Signori, attendete un momento, ho ancora un cordone da dare ad ognuno
di voi».

Andò ad un armadio ove stavano rinchiusi i suoi propri ordini, e ne
levò due cordoni della Giarrettiera.

«Quegli ordini non possono essere per noi, disse Athos.

«E perchè? domando Carlo.

«Sono ordini quasi regi, e noi siam semplici gentiluomini.

«Ah! passate in rivista tutti i troni della terra, rispose il re, e
trovatemi cuori più grandi dei vostri.... No, no, signori, voi non
rendete giustizia a voi stessi; ma a rendervela sono qua io. Conte,
inginocchiatevi».

Athos obbedì, il re gli passò il cordone da sinistra a diritta secondo
l’uso, e alzata la spada, invece della formula consueta: — Io vi fo
cavaliere, siate prode, fedele e leale, — gli disse: «Signor conte, voi
siete prode, fedele e leale, io vi fo cavaliero».

Indi ad Aramis.

«Adesso a voi, signor cavaliere».

E la medesima cerimonia ricominciò colle parole medesime, mentre di
Winter, ajutato dagli scudieri, si scioglieva la corazza di rame per
esser meglio preso per il re.

Poi, quando Carlo ebbe terminato con Aramis come con Athos, li
abbracciò amendue.

«Sire, disse di Winter, che al cospetto di tanta divozione aveva
riacquistata tutta la sua forza e il suo coraggio, noi siamo pronti».

Il re guatò i tre gentiluomini.

«Sicchè, disse, è d’uopo fuggire?

«Maestà, rispose Athos, fuggire a traverso a un’armata, in tutti i
paesi del mondo si chiama combattere.

«Dunque morrò con la spada in pugno. Signor conte, signor cavaliere, se
mai io sono re....

«Sire, già ci onoraste ben più che non si spettasse a semplici
gentiluomini: quindi dal lato nostro è la gratitudine. Ma non si perda
più tempo, chè troppo n’è perduto».

Carlo prese a tutti tre per l’ultima volta la mano, cambiò il suo
cappello con quello di di Winter, ed uscì.

Il reggimento di di Winter stava schierato sur una piattaforma che
sovrastava al campo; il re seguito dai tre amici, in verso a quella si
diresse.

Pareva alfine che il campo scozzese si fosse risvegliato; gli uomini
venuti fuori dalle tende aveano preso il loro rango come per ordine di
battaglia.

«Vedete, disse il re, forse si pentono e sono pronti a marciare!

«Se si pentono, sire, Athos rispose, ci verranno appresso.

«Bene! disse Carlo I, che facciamo?

«Esaminiamo l’esercito nemico».

Tosto si fissarono gli sguardi della piccola comitiva su quella
linea che all’alba era stata creduta effetto della nebbia, e che
i primi raggi solari ormai indicavano come un’armata disposta pel
combattimento. L’aria era pura e limpida siccome suole in quell’ora del
mattino; si distinguevano benissimo reggimenti, bandiere, e persino il
colore delle uniformi e de’ corsieri.

Videsi allora sovra un piccolo colle, un poco innanzi alla fronte
nemica, apparire un uomo basso, grasso e pesante. Aveva intorno
parecchi officiali; e diresse l’occhialetto su la riunione in cui era
anche il re.

«Quello là, domandò Aramis, conosce personalmente la Maestà Vostra?»

Carlo sorrise.

«Quello là, rispose, è Cromvello.

«Dunque, sire, calate giù il cappello, che non si accorga della
sostituzione.

«Ah! fece Athos, quanto tempo abbiamo sprecato!

«Se così è, disse il re, l’ordine, e si parta!

«Lo date voi, o sire? domandò Athos.

«No; vi nomino mio luogotenente generale.

«E allora, seguitò Athos, milord di Winter ascoltate; sire, ve ne
prego, allontanatevi; ciò che siamo per dire non concerne Vostra
Maestà».

Il re, sorridendo mosse tre passi indietro.

«Ecco quel ch’io propongo, tirò innanzi il conte di la Fère; noi
dividiamo il vostro reggimento in due squadroni: voi vi ponete alla
direzione del primo; Sua Maestà e noi a quella del secondo; se non
viene alcuno ad ingombrarci il passo, carichiamo tutti insieme per
forzare la linea avversaria e scagliarci nella Tyne, che varchiamo
anche occorrendo a nuoto; se al contrario ne vien mandato sul nostro
cammino qualche ostacolo, voi ed i vostri vi fate uccidere sino
all’ultimo; noi ed il re continuiamo per la nostra via; giunti una
volta in riva al fiume, fossero anche tutti di tre file, qualora il
vostro squadrone faccia l’obbligo suo, pensiamo noi al rimanente.

«A cavallo! disse di Winter.

«A cavallo! ripetè Athos, tutto è già preveduto e deciso.

«Dunque, signori, avanti! fece il re, e riuniamoci all’antico grido
di Francia: Montjoie e S. Dionigi! il grido dell’Inghilterra è omai
ripetuto da troppi traditori».

Tutti montarono a cavallo, il re su quello di di Winter, di Winter su
quel del re; poi di Winter si mise alla prima fila del primo squadrone,
e il re, avendo a man destra Athos ed a manca Aramis, alle prime file
del secondo.

L’armata scozzese osservava codesti preparativi nella immobilità e nel
silenzio della vergogna.

E furon visti alcuni capi uscire dai ranghi e spezzare le spade.

«Animo, fece Carlo, questo mi riconforta; non sono tutti traditori».

Echeggiò in quell’istante la voce di di Winter, che gridava:

«Innanzi! innanzi!»

Si mosse il primo squadrone, il secondo gli fu appresso e scese dalla
piattaforma. Un reggimento di corazzieri all’incirca eguale pel numero
si estendeva a tergo alla collina e gli veniva incontro rapidissimo.

Carlo additò ad Athos ed Aramis quanto ivi accadeva.

«Sire, disse Athos, è preveduto il caso, e se gli uomini di di Winter
fanno il loro dovere, questo avvenimento ci salva invece di rovinarci».

Nel momento s’intese dominare su tutto il rumore dei cavalli che
galoppando nitrivano, il grido di di Winter:

«In mano la sciabola!»

Al qual comando tutte le sciabole levate dal fodero rilucevano come
baleni.

«Orsù, signori, urlò il re inebriato e dalla vista e dallo strepito,
orsù, in mano la sciabola!»

Ma al comando, di che il re diè l’esempio, obbedirono soli Athos ed
Aramis.

«Siamo traditi, balbettò pian piano Carlo.

«Aspettiamo ancora un poco, disse Athos; può darsi che non abbiano
riconosciuta la voce di Vostra Maestà, e che attendano il cenno del
loro capo di squadrone.

«E non hanno udito quello del loro colonnello? fece Carlo, ma vedete,
vedete!»

E fermò il suo palafreno con tal impeto che gli fece piegare il
garretto, ed afferrava la briglia di quello di Athos.

«Ah vili! ah sciagurati! ah iniqui!» strillava di Winter intanto che i
suoi, abbandonate le file, si sperdevano sulla pianura.

Quindici uomini appena gli stavano ragunati attorno ed attendevano
l’assalto dei corazzieri di Cromvello.

«Si vada a morte con loro! disse il re.

«Si vada a morire! fecero Athos ed Aramis.

«Qua a me i cuori fidi! gridò di Winter».

Quella voce giunse fino ai due amici, i quali si partirono di galoppo.

«Non v’è quartiere!» urlò in francese e rispondendo a di Winter
qualcuno che li fece scuotere.

Di Winter a quel suono rimase pallido e come impietrito.

Era un cavaliero sopra un bellissimo corsiero nero, che accorreva alla
testa del reggimento inglese, e nell’estremo ardore lo precedeva di
dieci passi.

«È desso! mormorò di Winter con le pupille fisse e lasciandosi pendere
al fianco la spada.

«Il re! il re! strillarono parecchi illusi dal cordone turchino e dal
cavallo sauro di di Winter, prendetelo vivo!

«No! non è il re! esclamò il cavalcante, non v’illudete!... non è vero,
milord di Winter, che voi non siete il re! non è vero che siete mio
zio?»

E Mordaunt, che era egli stesso, diresse verso di di Winter la pistola.
Scoccò la botta, la palla trapassò il petto al vecchio gentiluomo, il
quale balzando sulla sella ricadde fra le braccia di Athos balbettando:

«Il vendicatore!...

«Rammentati mia madre! urlò Mordaunt continuando a correre di galoppo
con tutta la forza del cavallo che aveva sotto.

«Sciagurato!» strillò Aramis.

E gli tirò una pistolettata, quando appunto gli passava accanto; ma non
lo colse.

All’istante l’intero reggimento piombò addosso ai pochi che aveano
resistito, e i due Francesi furono circondati, avviluppati, incalzati.

Athos, assicuratosi che di Winter era morto, lasciò andare il cadavere,
e sguainato il ferro disse:

«Orsù, Aramis, per l’onore della Francia!»

E i due inglesi che si trovavano più prossimi ai due gentiluomini
caddero ferriti mortalmente.

Nel medesimo punto echeggiò un susurro terribile, e brillarono trenta
lame più su delle loro teste.

Ad un tratto un uomo si scaglia di fra gli Inglesi, e gli atterra, e
si avventa sopra Athos, e lo stringe colle sue braccia nerborute, e
toltogli il brando, gli dice all’orecchio:

«Silenzio! arrendetevi; arrendendovi a me, non vi arrendete».

Un gigante ha afferrati i due pugni ad Aramis, che invano tenta
sottrarsi alla stretta formidabile.

«Arrendetevi! colui gli dice guardandolo fisso».

Aramis alza il capo, Athos si volge.

«D’Art!...»

Così esclama Athos, che il Guascone con una mano gli chiude la bocca.

«Mi arrendo! fa Aramis porgendo l’arme a Porthos.

«Fuoco! fuoco! gridava Mordaunt tornando addosso alla comitiva
dov’erano i due amici.

«E perchè fuoco? disse il colonnello, tutti si sono arresi.

«È il figlio di milady! avvertì Athos a d’Artagnan.

«Sì, l’ho riconosciuto.

«È il finto monaco, avvertì Porthos ad Aramis.

«Lo so, lo so».

Cominciarono a diradarsi le file. D’Artagnan reggeva per la briglia
il cavallo di Athos, e Porthos quello di Aramis. Ciascuno di essi
procurava di trarre il suo prigioniero lungi dal campo di battaglia.

Quel movimento discoperse il luogo ov’era caduto il corpo di di Winter.
Coll’istinto dell’odio, Mordaunt lo aveva ritrovato, e lo considerava,
chinato sul suo destriero con un orribile sorriso.

Athos, per quanto fosse di carattere quieto, pose mano alle saccoccie
ancor provviste di pistole.

«Che fate? domandò d’Artagnan.

«Lasciate ch’io lo uccida!

«Non fate un gesto che dia da credere che lo conoscete, o siamo perduti
tutti e quattro».

E poscia volgendosi al giovanotto.

«Buona presa! esclamò, buona presa, amico Mordaunt! abbiamo ognuno il
nostro, il signor du Vallon ed io: cavalieri della Giarrettiera, niente
altro, no!

«Ma, gridò Mordaunt mirando Athos ed Aramis con occhi rossi dal sangue,
ma sono Francesi, mi pare?

«Non lo so io!... Siete francese? domandò ad Athos.

«Sì, sono francese.

«Ebbene, mio caro, eccovi prigioniero di un vostro concittadino.

«Ma il re? ma il re?» chiese con somma angoscia Athos.

D’Artagnan strinse con forza la mano del prigioniere e gli disse:

«Eh! il re è in nostro potere.

«Sì, disse Aramis, per un infame tradimento».

Porthos, premendo il pugno all’amico, fece sorridendo:

«Eh! signor mio, la guerra si fa tanto con la forza che con l’arte:
guardate».

Infatti, si scorgeva in tal momento lo squadrone che doveva proteggere
la ritirata di Carlo avanzarsi ad incontrare il reggimento inglese,
avvolgendo il re, che camminava solo e a piedi in un grande spazio
vuoto. Il principe era in apparenza tranquillo, ma si discerneva bene
quanto dovesse patire per sembrar tale; gli colava il sudore dalla
fronte, e si asciugava le tempie e le labbra con un fazzoletto, che ad
ogni volta gli si scostava dalla bocca macchiato di sangue.

«Ecco Nabucodonosor! strillò uno dei corazzieri di Cromvello, vecchio
puritano a cui s’infiammarono le pupille all’aspetto di colui che
veniva chiamato il tiranno.

«Che dite mai, Nabucodonosor? fece Mordaunt con uno spaventoso
sogghigno. No! è il re Carlo I, il buon re Carlo, che spoglia i suoi
sudditi per farsi loro erede!»

Carlo alzò il ciglio verso l’insolente che favellava in tal guisa, ma
nol riconobbe.

Eppure la serena e religiosa maestà del suo volto fece abbassare lo
sguardo a Mordaunt.

«Buon dì, signori, disse Carlo ai due gentiluomini che vide uno nelle
mani di d’Artagnan e l’altro in quelle di Porthos; la giornata è stata
infausta, ma non è vostra colpa, lode al cielo! Dov’è il mio vecchio di
Winter?»

I due gentiluomini si girarono da parte e stettero cheti.

«Cerca dove sia Strafford! urlò la voce stridula di Mordaunt».

Il re palpitò, il demone avea colpito nel segno: Strafford era il suo
rimorso eterno, l’ombra dei giorni suoi, lo spettro delle sue notti.

Si guardò vicino, vide a’ suoi piedi un cadavere.

Il cadavere di di Winter.

Non diede un grido, non versò una lacrima; soltanto gli si cosparse
sulla guancia un pallore più livido, pose in terra un ginocchio,
sollevò la testa di di Winter e lo baciò sulla fronte, e ripreso
il cordone dello Spirito Santo che passato gli aveva al collo,
religiosamente se lo mise sul petto.

«Dunque di Winter fu ucciso? domandò d’Artagnan affiggendo sul morto le
pupille.

«Sì, disse Athos, e dal suo nepote.

«Or via! borbottò d’Artagnan, è il primo di noi altri che se ne va,
riposi in pace, era un prode.

«Carlo Stuart, disse allora il colonnello del reggimento inglese
facendosi innanzi al re che aveva riprese le regie divise, vi rendete
voi nostro prigioniero?

«Colonnello Thomlinson, rispose Carlo, il re non si rende; l’uomo cede
alla forza, e non v’è altro.

«La vostra spada».

Il re levò fuori la spada e la ruppe sul suo ginocchio.

In quell’istante un cavallo senza cavalcante, grondante di schiuma,
l’occhio infuocato, aperte le nari, che veniva correndo, riconosciuto
il padrone, gli si fermava accanto: era Arturo.

Il re sorrise, lo accarezzò colla mano, e leggermente si pose sulla
sella.

«Animo, signori! gli disse, guidatemi dove vi aggrada.»

Ma voltosi con impeto, soggiunse:

«Eh! aspettate! mi pare di aver veduto muovere di Winter: se ancora
vive, deh! per quanto vi avete di più sacro, non abbandonate questo
nobile gentiluomo!

«Oh! non dubitate, re Carlo, fece Mordaunt, la palla ha trapassato il
cuore!

«Ahi! disse d’Artagnan ad Athos e ad Aramis, non proferite un accento,
non azzardate uno sguardo per me nè per Porthos, giacchè milady non è
morta, e vive l’anima sua nel corpo di quel demone!»

Il distaccamento si avviò alla città conducendo seco la regale
sua preda; ma a mezza strada un ajutante di campo del generale
Cromvello recò l’ordine al colonnello Thomlinson di condurre il re a
Holdenby-Castle.

Nello stesso tempo partivano corrieri per ogni parte, onde annunziare
all’Inghilterra e a tutta Europa come il re Carlo Stuart era
prigioniero del generale Oliviero Cromvello.

E gli Scozzesi stavano ad osservare, col fucile al piede, e la
_claymore_ nel fodero.



LX.

_Oliviero Cromvello._


«Venite voi dal generale? disse Mordaunt a d’Artagnan e Porthos; sapete
che vi ha fatti chiamare per dopo l’azione.

«Prima di tutto andiamo a porre in luogo sicuro i nostri prigionieri,
rispose d’Artagnan; sapete, signor mio, che quei gentiluomini vagliono
mille cinquecento doppie ciascuno!

«Oh! non dubitate, replicò Mordaunt guardandoli con certi occhi di
cui invano tentava nascondere la ferocia, i miei uomini a cavallo li
custodiranno, e anche bene, ve lo garantisco!

«Io li custodirò anco meglio, ribattè il tenente dei moschettieri;
e poi, che ci bisogna? una buona stanza con delle sentinelle, o
la semplice loro parola che non cercheranno di fuggire. Io vado a
provvedere a tutto questo, dopo di che avremo l’onore di presentarci
dal generale e chiedergli i suoi comandi per Sua Eccellenza.

«Vi proponete dunque di partir presto?

«Il nostro incarico è terminato, e non altro ci ritiene in Inghilterra,
che la volontà del grand’uomo presso il quale fummo inviati».

Il giovanotto si morse le labbra, si chinò all’orecchio al sergente, e
gli disse:

«Seguiterete questi uomini, non li perderete di vista, e quando saprete
ove siano alloggiati tornerete ad attendermi alla porta di città».

Il sergente accennò che obbedirebbe.

Allora Mordaunt, invece di andar dietro ai prigionieri che venivano
ricondotti in città, si incamminò verso la collina da cui Cromvello
aveva osservata la battaglia, e dove aveva fatto erigere una tenda.

Cromvello aveva proibito che si lasciasse penetrare alcuno presso
di lui: ma la sentinella conoscendo Mordaunt per uno dei più intimi
confidenti del generale, pensò che il divieto non lo risguardasse.

Sicchè Mordaunt schiuse un poco la tela, e vide Cromvello seduto
davanti a un tavolino, con la testa nascosta fra le mani, e che a lui
volgeva le spalle.

E questi, o udisse o no il rumore da lui fatto nell’entrare, non si
girò nemmeno.

Il giovane rimase in piedi accanto all’uscio.

Dopo un momento Cromvello alzò la fronte, e come avesse sentito per
istinto che ivi fosse qualcuno, volse il capo lentamente.

«Avevo detto che volevo esser solo! esclamò.

«Non si è creduto che la proibizione concernesse me; disse Mordaunt,
non ostante, se l’ordinate, sono pronto a ritirarmi.

«Ah! siete voi, Mordaunt! e il generale diradava come per la forza
della sua volontà il velo che gli ricuopriva le pupille; poichè siete
qui, va bene, trattenetevi.

«Vi porto le mie congratulazioni.

«Congratulazioni! e di che?

«Della presa di Carlo Stuart. Ormai voi siete padrone dell’Inghilterra.

«Lo ero anche meglio due ore addietro.

«Come mai, generale?

«L’Inghilterra aveva d’uopo di me per prendere il tiranno: adesso il
tiranno è preso. Lo avete veduto?

«Sì signore.

«Qual è la sua attitudine?»

Mordaunt esitò, ma parve che la verità gli uscisse per forza dal labbro.

«Quieta e decorosa, ei rispose.

«Che ha egli detto?

«Poche parole d’addio a’ suoi amici.

«A’ suoi amici! borbottò Cromvello, dunque ha degli amici!»

E indi più forte:

«Si è difeso?

«No, è stato abbandonato da tutti, eccetto da tre o quattro uomini;
sicchè non v’era modo di difendersi.

«A chi ha consegnata la sua spade?

«Non l’ha consegnata, l’ha rotta.

«Ha fatto bene; ma invece di spezzarla, avrebbe operato meglio
servendosene più utilmente».

Vi fu breve silenzio. Poscia Cromvello, osservando fisso Mordaunt,
domandò:

«Se non isbaglio, il colonnello del reggimento che faceva scorta al re
Carlo è stato ucciso?

«Sì signore.

«Da chi?

«Da me.

«Come si chiamava?

«Lord Winter.

«Vostro zio! gridò Cromvello.

«Mio zio? i traditori all’Inghilterra non sono di mia famiglia».

Cromvello stette alquanto pensieroso considerando il giovanetto; e poi
colla profonda malinconia che tanto bene è dipinta da Shakspeare, gli
disse:

«Mordaunt, voi siete un terribile servo!

«Quando il Signore ordina, l’altro rispose, non si sta titubanti.
Abramo alzò il coltello sopra ad Isacco, eppur questi era suo figlio.

«Sì, ma il Signore non lasciò che si compiesse il sagrifizio.

«Io mi guardai intorno, e non vidi tra i cespugli della pianura verun
capro che fosse fermo, replicò Mordaunt.

«Siete forte tra i forti, soggiunse Cromvello. E i Francesi, come si
sono contenuti?

«Da gente di gran cuore.

«Sì sì, mormorò Cromvello, i Francesi si battono; e di fatto, se il mio
cannocchiale è buono, mi pare di averli visti alla prima fila.

«V’erano realmente.

«Ma dopo di voi.

«Per colpa dei lor cavalli, e non di loro».

Vi fu una nuova pausa.

«E gli Scozzesi? chiese il generale.

«Hanno mantenuta la parola, e non si sono mossi.

«Sciagurati!

«Signore, i loro ufficiali domandano di vedervi.

«Non ho tempo. Sono stati pagati?

«Questa notte.

«Dunque partano, ritornino nei loro monti, celino colà la loro
vergogna, se i monti sono per ciò atti abbastanza; io non ho più che
fare con essi, nè essi con me. Andate, Mordaunt.

«Innanzi di andarmene, signore, ho da farvi qualche interrogazione....
ed anche una richiesta, mio padrone.

«A me?»

Mordaunt s’inchinò:

«Vengo da voi, mio eroe, mio protettore, mio padre, e vi dico: Padrone,
siete contento di me?»

Cromvello guatò fisso Mordaunt.

Questi restò impassibile.

«Sì, dacchè vi conosco, faceste non solo il vostro dovere, ma anche di
più: foste amico fedele, accorto negoziatore e buon soldato.

«Vi sovviene, mio signore, ch’io fui il primo ad aver l’idea di
trattare cogli Scozzesi per la consegna del loro re?

«Sì, fu vostro il pensiero: io non portava ancora sino a tal punto il
disprezzo degli uomini.

«Fui buon ambasciadore in Francia?

«Sì, ed otteneste da Mazzarino ciò ch’io bramava.

«Combattei sempre con calore per la vostra gloria ed i vostri interessi?

«Forse con troppo calore, e di questo appunto io poc’anzi vi faceva
rimprovero. Ma a che volete arrivare con tante interrogazioni?

«Milord, a dirvi ch’è giunto il momento in cui potete con una sola
parola ricompensare tutti i miei servigi.

«Ah! fece Oliviero con un piccol moto di sdegno, è vero; dimenticavo
che ogni servigio merita premio, che voi mi serviste nè ancor foste
premiato.

«Posso esserlo adesso, subito, ed oltre ad ogni mio desiderio.

«E come?

«Ho vicino alla mano il premio, quasi lo tocco.

«E qual è? vi è stato offerto dell’oro? bramate un grado? bramate un
governo?

«Signore, mi accorderete la mia domanda?

«Sentiamo prima qual è.

«Quando mi diceste: Eseguirete un mio ordine, vi risposi io mai:
sentiamo l’ordine?

«Ma se il vostro desiderio fosse impossibile a realizzarsi?

«Quando aveste un desiderio e m’incaricaste di compierlo, vi risposi
mai: è impossibile?

«Però una richiesta preparata con tanto esordio....

«State pur quieto, signore! disse Mordaunt con un’espressione truce,
non vi rovinerà.

«Ebbene, vi prometto di aderire alla vostra domanda per quanto sia in
mia facoltà; esponetela.

«Questa mane furono fatti due prigionieri: questi io vi chieggo.

«Dunque hanno offerto un riscatto considerevole?

«Al contrario, li credo poveri.

«Ma allora, sono vostri amici?

«Sì, signore! esclamò Mordaunt, amici miei, carissimi amici, e darei
per la lor vita la mia.

«Bene! disse Cromvello riprendendo con qualche gioja migliore opinione
del giovanetto, io le li dono; neppur voglio sapere chi siano, fanne
quel che a te piace.

«Oh grazie! grazie! da ora innanzi la mia vita è vostra, e anche
perdendola, vi sarò sempre debitore; grazie, voi date un premio
magnifico alla mia servitù».

Mordaunt si gettò ai ginocchi di Cromvello, e ad onta di ogni sforzo
del generale puritano, il quale non voleva o fingeva non volere,
lasciarsi rendere quell’omaggio quasi regale, gli prese la destra e la
baciò.

«Come! disse Cromvello fermandolo mentre egli si alzava, non altra
ricompensa! non oro! non gradi!

«Milord, voi mi deste quanto potevate darmi, ed io da questo giorno, vi
sciolgo da ogni debito».

E Mordaunt balzò fuori dalla tenda con un giubilo che gli straboccava
dal cuore e gli brillava nelle pupille.

Il generale lo seguitò con gli occhi.

«Ha ucciso suo zio! balbettò, ahimè! che servi sono i miei! Forse
questo che nulla reclama, o nulla par che reclami, ha domandato di più
dinanzi a Dio che quelli che verranno a chieder l’oro delle provincie
e il pane degl’infelici; nessuno mi serve per niente. Carlo ch’è mio
prigioniero, ha forse ancora degli amici, ed io non ne ho!»

E sospirando tornò nelle meditazioni che aveva sospese l’arrivo di
Mordaunt.



LXI.

_I gentiluomini._


Mentre Mordaunt s’incamminava alla tenda di Cromvello, d’Artagnan e
Porthos riconducevano i lor prigionieri nella casa a loro assegnata per
alloggio in Newcastle.

Non era già sfuggita al Guascone la raccomandazione fatta da Mordaunt
al sergente, e quindi esso con un cenno raccomandò ad Athos ed Aramis
la massima prudenza. In conseguenza, questi andarono in silenzio
accanto ai loro vincitori, nè ciò riusciva loro difficile, imperciocchè
ciascuno aveva da fare abbastanza a rispondere a’ suoi propri pensieri.

Se mai vi fu un uomo attonito, si fu Mousqueton, quando di sulla
soglia vide avanzare i quattro amici accompagnati dal sergente e
da una diecina d’uomini. Si stropicciò gli occhi, non potendosi
decidere a riconoscere Athos ed Aramis; ma alla fine gli toccò cedere
all’evidenza; ed era per dar fuori in grandi esclamazioni, se Porthos
non gli avesse chiusa la bocca con uno di quegli sguardi che non danno
campo a discutere.

Mousqueton rimase piantato accanto alla porta attendendo la spiegazione
di cosa tanto singolare; e quel che più lo confondeva si era che i
quattro amici mostravano perfino di non più riconoscersi fra loro.

La casa in cui d’Artagnan e Porthos condussero Athos ed Aramis era
quella dove abitavano dal giorno innanzi e a loro data dal generale
Cromvello; formava l’angolo di una strada, ed aveva una specie di
giardino e le scuderie che giravano sulla via attigua.

Le finestre del pian terreno, secondo accade spesso nelle piccole città
di provincia, avevano le inferriate, talchè somigliavano di molto a
quelle di una carcere.

I due amici fecero entrare avanti i prigionieri, e si stettero
sull’ingresso, dopo avere ordinato a Mousqueton di menare alla stalla i
quattro cavalli.

«Perchè non entriamo con loro? domandò Porthos.

«Perchè prima, rispose d’Artagnan, convien vedere che cosa vogliono da
noi quel sergente e gli otto o dieci uomini che sono seco».

Il sergente e que’ suoi sottoposti si piantarono nel piccolo giardino.

D’Artagnan li richiese di che cosa bramassero e perchè stessero colà.

«Abbiamo ordine, disse il sergente, di ajutarvi a custodire i vostri
prigionieri».

Su ciò non v’era da ripetere, ed anzi era un’attenzione assai gentile
di cui bisognava mostrarsi grati. D’Artagnan ringraziò il militare, e
gli diede una _corona_ per bere alla salute del general Cromvello.

Colui rispose che i puritani non bevevano, e si mise in tasca la moneta.

«Ah, caro d’Artagnan! fece Porthos, che trista giornata!

«Che dite mai, Porthos! chiamate trista la giornata in cui abbiamo
ritrovati i nostri amici!

«Sì, ma in qual circostanza?

«È vero che la situazione è scabrosa, replicò d’Artagnan; ma non
importa, entriamo e procuriamo di veder chiaro nelle nostre faccende.

«Sono imbrogliatissimo, e adesso capisco perchè Aramis mi raccomandava
tanto di strozzare l’orribile Mordaunt.

«Zitto! non pronunziate quel nome.

«E che fa, se io parlo francese ed essi sono Inglesi?»

D’Artagnan fissò in viso Porthos con quell’aria di ammirazione che un
uomo ragionevole non può negare agli spropositi di qualunque genere
siano.

E mentre Porthos fissava lui pure senza comprendere il suo stupore, ei
lo spinse dicendogli:

«Entriamo».

Porthos fu il primo a passare, e d’Artagnan secondo. Questi chiuse bene
la porta, e si strinse un dopo l’altro al seno i due amici.

Athos era mesto all’eccesso, Aramis guardava i due sopraggiunti senza
parlare, ma con tanta espressione che d’Artagnan lo capì.

«Volete sapere com’è che siamo qui? è facilissimo l’indovinarselo:
Mazzarino ci ha incaricati di recare una lettera al generale Cromvello.

«Ma in che modo vi trovate accanto a Mordaunt, fece Athos, del quale vi
avevo raccomandato di diffidare?

«E che io vi pregai di scannare, continuò Aramis.

«Sempre per Mazzarino. Cromvello lo aveva inviato a Mazzarino;
Mazzarino ha inviati noi a Cromvello: in tutto questo v’è una fatalità.

«Sì, avete ragione, d’Artagnan, una fatalità che ci divide e ci rovina.
Sicchè mio caro Aramis, non ne discorriamo più, e apparecchiamoci a
subire la nostra sorte.

«Cospetto! al contrario, discorriamone, giacchè una volta per tutte è
convenuto che siamo sempre insieme benchè in cause opposte.

«Ah sì! molto opposte, seguitò sorridendo Athos, giacchè qui, ve lo
domando, a qual causa servite? D’Artagnan, vedete a che v’impiega
quel miserabile Mazzarino. Capite di qual delitto oggi vi rendeste
colpevole? dell’arresto del re, della sua morte.

«Oh oh! fece Porthos, lo credete davvero?

«Esagerate, disse d’Artagnan, non siamo ancora a tanto.

«Eh, anzi ci avviciniamo, per Bacco! Perchè si arresta un re? Quando
si vuole rispettarlo come padrone non si compra come uno schiavo. Vi
pensate che per porlo sul trono, Cromvello lo abbia pagato duecento
mila lire sterline? Lo uccideranno, siatene certi, ed anche è questo il
minimo delitto che possono commettere.

«Non dico di no, e in sostanza potrebbe darsi, rispose d’Artagnan, ma a
noi che interessa? Io sono qui perchè sono soldato, perchè servo i miei
padroni, cioè quelli che mi pagano il mio soldo. Ho giurato di obbedire
e obbedisco; ma voi che non faceste giuramenti, a qual causa servite, e
perchè siete qua?

«La causa la più sacra che esista al mondo, disse Athos, quella della
sventura, della regale dignità e della religione. Un amico, una sposa,
una figlia ci fecero l’onore di chiamar noi in loro ajuto; noi li
secondammo a tenore dei nostri deboli mezzi, e Dio ci terrà conto della
volontà in difetto del potere. Voi siete libero di pensare altrimenti,
d’Artagnan, di considerare le cose in altra guisa; io non vuo’
dissuadervene, ma vi biasimo.

«Oh! oh! replicò d’Artagnan, e che mi fa in conclusione che il signor
Cromvello, che è Inglese, si ribelli contro il suo re ch’è Scozzese?
Io sono Francese, e tutte queste cose non mi riguardano: perchè me ne
vorreste render responsabile?

«Realmente!.... aggiunse Porthos.

«Perchè tutti i gentiluomini son fratelli, perchè voi siete gentiluomo,
perchè i re di tutti i paesi sono primi fra i gentiluomini; perchè
la plebe cieca, ingrata, ignorante, si prende sempre piacere ad
abbassare ciò ch’è a lei superiore, e siete voi, voi, d’Artagnan, uomo
della vecchia signoria, uomo di bel nome, uomo di buona spada, che
contribuiste a dare un re in balia a birraj, a sartori, a carrettaj!
Ah! d’Artagnan, come soldato forse faceste l’obbligo vostro, ma come
gentiluomo siete reo: io ve lo dico!»

D’Artagnan masticava il gambo di un fiore, non rispondeva, e si sentiva
conturbato, poichè quando distoglieva lo sguardo da quello di Athos
incontrava quello di Aramis.

«E voi, Porthos, continuò il conte quasi avesse pietà dell’imbarazzo
di d’Artagnan, voi il miglior cuore, il miglior amico, il soldato
migliore ch’io conosca; voi che l’anima vostra faceva degno di nascere
sui gradini di un soglio, e che presto o tardi sarete premiato da un
sovrano intelligente; voi, caro Porthos, gentiluomo pei costumi, per le
inclinazioni e pel coraggio, siete reo al pari di d’Artagnan».

Porthos arrossì, ma di piacere anzi che di confusione, e chinando la
testa come se fosse molto umiliato, rispose:

«Sì, conte, sì, credo che abbiate ragione».

Athos si alzò.

«Orsù, disse appressandosi a d’Artagnan e porgendogli la destra, non vi
adirate, figliuol mio; quanto vi ho detto ve l’ho detto se non colla
voce, col cuore almeno di un padre. Ben mi sarebbe stato più facile,
siatene pur persuaso, di ringraziarvi per avermi salvata la vita e non
pronunziare una parola de’ miei sentimenti.

«Senza dubbio, replicò d’Artagnan premendo anche esso la mano ad Athos;
ma egli è che avete certi benedetti sentimenti che non da tutti possono
aversi. Chi si va ad immaginare che un uomo di giudizio abbandoni
la sua casa, la Francia, il suo pupillo, amabile giovanetto (chè lo
vedemmo al campo) per correre dove? in ajuto ad una regia autorità
vacillante e tarlata, la quale una di queste mattine crollerà come
una vecchia baracca? Il sentimento che voi dite è bello sicuramente, e
tanto bello ch’è sovrumano.

«Qualunque sia, rispose Athos, senza incappare nel laccio che con arte
da Guascone il suo amico stendeva al paterno suo affetto per Raolo,
voi in fondo al cuore sapete ch’egli è giusto.... Ma io ho torto di
discutere col mio padrone. D’Artagnan, io sono vostro prigioniero, e
come tale trattatemi.

«Per Diana! sapete pure che non lo sarete per molto tempo, disse il
tenente dei moschettieri.

«No, no, ripicchiò Aramis, perchè si farà a noi come a quei prigionieri
presi a Philipphaus.

«E che fu fatto a coloro? domandò d’Artagnan.

«Eh! la metà impiccata, e l’altra metà fucilata.

«Ed io vi garantisco, soggiunse d’Artagnan, che sinchè mi rimanga nelle
vene una stilla di sangue non sarete fucilati nè appiccati. Vengano,
vengano, cospettone! E poi, Athos, vedete quella porta?

«Ebbene?

«Da quella voi passerete quando vogliate, giacchè da questo punto voi
ed Aramis siete liberi come l’aria.

«Qui ben riconosco l’indole vostra, mio prode d’Artagnan, fece Athos,
ma non siete più padrone di noi; la porta è custodita, vi è pur noto.

«Or bene, la sforzerete; seguitò Porthos, chi v’è egli? tutto al più
dieci uomini.

«Sarebbero nulla per noi quattro, sono troppi per noi due. No, no,
sentite; come siamo, ci è forza perire. Vedete l’esempio fatale: su
la strada del Vendomese, voi d’Artagnan, sì coraggioso, voi Porthos sì
valoroso, foste battuti; oggi lo siamo Aramis ed io, tocca a noi. E ciò
non ci avvenne giammai quando eravamo tutti e quattro riuniti; si muoja
dunque conforme è morto Winter: per me, lo dichiaro, non acconsento a
fuggire se non tutti e quattro insieme.

«È impossibile, disse d’Artagnan, noi siamo sotto gli ordini di
Mazzarino.

«Lo so, e non vi pungo maggiormente; i miei ragionamenti nulla hanno
prodotto; bisogna che siano stati cattivi se non hanno avuto alcun
dominio sopra intelletti tanto giusti come i vostri.

«D’altronde, continuò Aramis, quando anche avessero fatto effetto,
la migliore si è di non compromettere due ottimi amici quali sono
d’Artagnan e Porthos. Non dubitate, signori, noi morendo vi faremo
onore. In quanto a me, mi sento superbo di andare incontro alle palle
ed anco alla corda con voi, Athos, giacchè mai non mi sembraste sì
grande come quest’oggi».

D’Artagnan non diceva niente, ma dopo aver rosicato il gambo del fiore
si rosicava le dita.

«Vi figurate forse, riprese alfine, che si voglia uccidervi? e perchè
fare? che interesse si ha alla vostra morte? E d’altronde siete nostri
prigionieri.

«Pazzo, pazzo! rispose Aramis, non conosci dunque Mordaunt? Ebbene,
io ho ricambiata con lui una sola occhiata, ed in quella sua ho visto
ch’eravamo condannati.

«Fatto sta che mi rincresce di non averlo strangolato secondo mi
suggeriste, replicò Porthos ad Aramis.

«Eh, m’importa assai di Mordaunt! esclamò d’Artagnan, cospetto! se
mi stuzzica un po’ troppo, lo schiaccierò io, quell’insetto! Non
iscappate, è inutile, mentre, ve lo giuro, siete qui in sicuro quanto
lo eravate venti anni addietro, Athos, voi in via di Feron, Aramis, voi
nella via di Vaugirard.

«Oh! disse Athos stendendo la mano verso una delle due finestre colle
inferriate che davano luce alla stanza, tra poco saprete che pensare,
giacchè eccolo che corre in qua.

«E chi?

«Mordaunt».

Diffatti, seguendo la direzione accennata da Athos, d’Artagnan vide un
cavaliero che veniva di galoppo.

Era realmente Mordaunt.

D’Artagnan si scagliò fuori dalla camera.

E perchè Porthos voleva irgli appresso, ei gli disse:

«Restate costì, e non venite se non quando mi udrete battere il tamburo
colle dita sulla porta».



LXII.

_Gesù Signore!_


Allorchè Mordaunt arrivò di faccia alla casa, distinse d’Artagnan sulla
soglia e i soldati distesi qua e là con le loro armi sopra l’erbetta
del giardino.

«Olà! gridò con voce soffocata dalla precipitazione della corsa, i
prigionieri sono sempre costà?

«Sì, signore, disse il sergente».

E si drizzò subito, ugualmente che i suoi uomini, e si toccò come essi
il cappello.

«Bene. Quattro uomini per prenderli e condurli sul momento al mio
alloggio».

Si apparecchiarono i quattro richiesti.

«Che c’è? fece d’Artagnan con quell’aria beffarda che i nostri
leggitori debbono aver in lui riscontrata molte volte dacchè lo
conoscono, che c’è, di grazia?

«V’è, signor mio, rispose Mordaunt, che ordino a quattro soldati di
pigliare i prigionieri da noi fatti stamani a menarli al mio alloggio.

«E perchè mo’? domandò d’Artagnan. Scusate la curiosità, ma capite che
bramo essere schiarito su quest’oggetto.

«Perchè adesso i prigionieri sono miei, fece con alterigia Mordaunt, ed
io ne dispongo a mio capriccio.

«Con permesso, mio giovane signorino, e’ mi pare che sbagliate; questi
per solito sono di quelli che gli hanno presi, e non di coloro che sono
stati a vederli prendere. Voi potevate prendere milord Winter, che per
quanto si dice era vostro zio, ed avete preferito ucciderlo: va benone;
il signor du Vallon ed io potevamo uccidere quei due gentiluomini, ed
abbiamo preferito prenderli: ciascuno ha il suo gusto».

A Mordaunt diventarono bianche le labbra.

D’Artagnan capì che le cose non tarderebbero a guastarsi, e si mise a
suonare sull’usciale la marcia delle guardie.

Al primo tempo battuto uscì Porthos, e si pose dall’altra parte della
porta, di cui toccava coi piedi la soglia e col capo la cima.

Nè Mordaunt mancò già di accorgersene, onde disse, principiando a
mostrare la collera che lo rodeva:

«Signore, fareste una resistenza inutile: i prigionieri mi sono stati
donati in questo punto dal generale in capo mio illustre proiettore,
dal signor Oliviero Cromvello».

Queste parole colpirono d’Artagnan alla guisa di un fulmine. Gli salì
il sangue alle tempie, gli passò una nube avanti agli occhi, comprese
la feroce speranza del giovanotto, e la sua mano scese per un moto
naturale sull’impugnatura della sua spada.

Porthos poi lo osservava onde sapere ciò che avesse da fare e regolare
i propri atti a tenore de’ suoi.

Gli sguardi di Porthos diedero più timore che quiete a d’Artagnan, il
quale principiò a dolersi di aver richiamata la forza brutale del suo
compagno in un affare che gli sembrava specialmente andasse maneggiato
coll’astuzia.

«La violenza, ei diceva fra sè, ci rovinerebbe tutti. D’Artagnan, prova
a quel serpentello che sei non solo più forte, ma anche più scaltro di
lui.... Ah ah! signor Mordaunt (disse poscia con un profondo saluto),
come! venite da parte del signor Oliviero Cromvello, il più illustre
capitano di questi tempi?

«L’ho lasciato poc’anzi, rispose Mordaunt mettendo piedi a terra e
dando a reggere il suo cavallo ad uno de’ suoi soldati.

«E perchè non lo dicevate subito, mio caro? tutta l’Inghilterra è del
signor Cromvello, e poichè mi chiedete in suo nome i prigionieri, io
m’inchino, signor mio, sono vostri, pigliateli».

Mordaunt si avanzò tutto allegro, e Porthos guardando d’Artagnan col
massimo stupore apriva bocca per parlare.

Ma quest’ultimo montò sullo stivale a Porthos, il quale allora conobbe
che l’amico faceva da burla.

Mordaunt mise il piede sul primo gradino accanto alla porta, e col
cappello in mano si accinse a passare fra i due camerati, accennando a’
suoi quattro uomini che lo seguissero.

«Per altro scusate, disse il tenente con un grazioso sorriso e posando
la mano sulla spalla al giovane, se l’illustre generale Oliviero
Cromvello ha disposto in favor vostro di quegli individui, vi avrà
fatta di certo cotesta donazione per iscritto».

L’altro si fermò di botto.

«Vi ha dato qualche letterina per me, un fogliaccio qualunque,
in somma che attesti qualmente siete qui in nome suo? Favorite
consegnarmelo, acciò almeno io scusi con un pretesto l’abbandono de’
miei compatriotti. Diversamente, intendete, quantunque io sia sicuro
che il generale Oliviero Cromvello non possa volere ad essi alcun male,
ciò farebbe un pessimo effetto».

Mordaunt retrocedè, e sentendo la botta diede un’occhiata terribile
a d’Artagnan; questi però vi rispose con la ciera più garbata e
amichevole che potesse immaginarsi.

«Quando vi dico una cosa, fece Mordaunt, mi fate l’ingiuria di
dubitarne?

«Io! io dubitare di ciò che voi dite? Dio me ne liberi, mio caro! anzi
vi tengo per degno e perfetto gentiluomo, secondo le apparenze.... E
poi, volete che vi parli schietto?

«Parlate.

«Il signor du Vallon qui presente è ricco, ha quarantamila lire di
entrata, ed in conseguenza non tira ai denari; sicchè non discorro per
lui, ma per me.

«E poi?

«Ebbene, io non sono ricco; in Guascogna questo non fa disonore, non
v’è alcuno che lo sia, ed Enrico IV di gloriosa memoria, ch’era il
re delle Guascogne, siccome Sua Maestà Filippo IV è il re di tutte le
Spagne, non aveva mai un soldo in tasca.

«Terminate, vedo a che punto bramate arrivare, e se vi trattiene quel
ch’io suppongo, sarà una difficoltà da togliersi di mezzo.

«Ah! lo sapevo, disse d’Artagnan, ch’eravate un ragazzo di spirito.
Orsù, ecco la sostanza, ecco dove il dente duole. Sono ufficiale
di fortuna, e non altro. Non ho se non quel che mi frutta la mia
spada, cioè più busse che biglietti di banca. Ora, stamani prendendo
due Francesi che mi pajono d’alta nascita, due cavalieri della
Giarrettiera, dicevo fra di me: È fatta la mia fortuna. Dico due,
perchè in simile circostanza, il signor du Vallon ch’è facoltoso, cede
sempre a me i suoi prigionieri».

Mordaunt, illuso appieno dalla loquace bonarietà del suo interlocutore,
sorrise da uomo che intende benissimo le ragioni addottegli, e con
dolcezza rispose:

«Fra un momento avrò l’ordine firmato, ed insieme con questo duemila
doppie; ma intanto lasciatemi condurre via i due Francesi.

«No no; che v’importa di un indugio di mezz’ora? sono molto assestato
io, facciamo le cose in regola.

«Eppure, soggiunse Mordaunt, potrei forzarvi, qui comando io.

«Oh! signore, fece d’Artagnan gentilmente, si vede che sebbene il
signor du Vallon ed io abbiamo avuto l’onore di viaggiare in vostra
compagnia, non ci conoscete. Siamo gentiluomini, siamo Francesi, siamo
capaci fra noi due soli di uccidere voi ed i vostri otto sottoposti.
Signor Mordaunt, non fate da caparbio, perchè quando uno si ostina
mi ostino io pure, e sono un caparbio feroce.... ed ecco questo
signore ch’è più caparbio ancora di me.... senza contare che siamo
inviati dal signor ministro Mazzarino, il quale rappresenta il re di
Francia: ne resulta che in questo istante noi rappresentiamo il re ed
il ministro, il che fa sì che nella nostra qualità di ambasciadori
siamo inviolabili, cosa ch’è in grado di capire egregiamente il
signor Cromvello, grande politico al pari che gran generale. Quindi
richiedetegli l’ordine scritto. Che cosa vi costa, caro signor
Mordaunt?

«Sì, l’ordine scritto, seguitò Porthos che cominciava a capire
l’intenzione di d’Artagnan, non vi si ricerca altro».

Per quanta voglia avesse Mordaunt di ricorrere alla violenza, era
uomo da riconoscere per buone le ragioni addottegli da d’Artagnan.
D’altronde la di lui fama gl’imponeva, e aggiungendosi a quella ciò che
gli aveva veduto operare la mattina, vi riflettè seriamente. Di più,
ignaro totalmente delle relazioni d’intrinseca amicizia esistenti fra
i quattro Francesi, eransi dileguate tutte le sue inquietezze di faccia
al motivo assai plausibile del loro riscatto.

Decise adunque di andare non soltanto a prendere il mandato, ma anche
le duemila doppie per cui aveva egli stesso valutati i due prigionieri.

E così montò a cavallo, raccomandò al sergente di far buona guardia, e
sparì.

«Bene! fece d’Artagnan, un quarto d’ora per andare alla tenda, per
tornare indietro mezz’ora, è più che non ci bisogni».

E venutosene inverso Porthos senza dare indizio al sembiante di verun
cambiamento, in modo che quei che lo consideravano attenti potessero
credere ch’ei continuasse la medesima conversazione, e mirandolo ben
fisso, gli disse:

«Amico Porthos, statemi a sentire. Prima di tutto, nemmeno una parola
ai nostri amici di ciò che avete udito testè: è inutile che sappiano
qual servizio ad essi noi rendiamo.

«Bene, capisco.

«Andate alla scuderia, vi troverete Mousqueton, porrete la sella ai
cavalli e le pistole nelle sacche, e li condurrete nella strada di giù
affinchè non vi sia più da salir sopra; al resto penserò io».

Porthos non fece obbiezioni, ed obbedì con la sublime fiducia che aveva
sempre nell’ex-collega.

«Vado subito, rispose; ma, dico, ho da entrare nella stanza dove sono
quei signori?

«Eh no! non giova a niente.

«Dunque, fatemi il piacere di pigliare la mia borsa che ho lasciata sul
caminetto.

«State pur tranquillo».

Porthos si avviò con la sua flemma consueta alla scuderia, e passò
framezzo ai soldati, i quali, comunque ei fosse Francese, non poterono
astenersi dall’ammirare di lui l’alta statura e le membra robuste.

Sul canto incontrò Mousqueton, e lo menò via seco.

Allora d’Artagnan tornò dentro, fischiando un’arietta che aveva
incominciata alla partenza di Porthos.

«Carissimo Athos, ho riflettuto ai vostri ragionamenti, ed essi mi
hanno persuaso; m’incresce assolutamente di essermi trovato in questo
affare. Voi lo diceste; Mazzarino è un furfante; sicchè io sono
risoluto a fuggire con voi. Non fate calcoli, ma state pronti; le
vostre due spade sono in un cantone, non le dimenticate, sono tali
arnesi che nelle circostanze nostre possono essere utilissimi....
appunto questo mi fa ricordare della borsa di Porthos: eccola!»

D’Artagnan si ripose in tasca la borsa. Gli altri due lo stavano a
guardare stupefatti.

«Ebbene, che v’è di sorprendente? disse il Guascone, lo domando a voi.
Ero cieco, e Athos mi ha fatto veder chiaro: non v’è altro; venite
qua».

I due gli si avvicinarono.

«Vedete questa strada? ei seguitò, là saranno i cavalli; uscirete dalla
porta, girerete a sinistra, balzerete in sella, e sarà bell’e finita:
non vi date pensiero d’altro se non se di ascoltar bene il segnale. E
il segnale sarà quando io griderò: «Gesù Signore!»

«Ma voi, disse Athos, dateci parola che verrete.

«Ve lo giuro sopra Iddio, rispose d’Artagnan.

«Basta così! esclamò Aramis, al grido «Gesù Signore!» si vien fuori, si
atterra tutto quanto ci si oppone, si va incontro ai nostri palafreni,
si cavalcano, e si dà di sprone! va bene?

«A meraviglia!

«Ma se ve lo dico sempre, Aramis! fece Athos, d’Artagnan è il migliore
di quanti siamo.

«Ahi! mormorò il tenente, complimenti? scappo subito: addio.

«E fuggite con noi, non è così?

«Di certo. Non vi scordate del segnale».

D’Artagnan se n’andò col medesimo passo con che era venuto riprendendo
l’arietta che fischiava al punto stesso a cui l’aveva sospesa.

I soldati giocavano o dormivano; due stuonavano in un angolo il salmo:
_Super flumina_.

Il Guascone chiamò il sergente.

«Caro mio, gli disse, il generale Cromvello ha fatto ricercare di me
dal signor Mordaunt; ve ne prego, invigilate a modo sui prigionieri».

Quegli ammiccò che non intendeva il francese.

Ed egli allora tentò fargli capire co’ gesti ciò che non aveva potuto
colla favella.

E il sergente accennò di sì.

D’Artagnan scese versò la stalla: trovò i cinque corsieri
apparecchiati, il suo siccome gli altri.

«Prendetene uno a mano per ciascheduno, suggerì a Porthos e a
Mousqueton, e voltate a manca in guisa che Athos ed Aramis vi scorgano
dalla finestra.

«E allora verranno? domandò Porthos.

«In un attimo.

«Non vi siete dimenticata la mia borsa?

«No, non dubitate.

«Benissimo».

Porthos e Mousqueton, guidando a mano un destriero per uno, si
trasferirono al loro posto.

D’Artagnan rimasto solo battè l’acciarino, accese un pezzo d’esca
grande per due volte quanto una lente, saltò in sella, e venne a
fermarsi davanti ai soldati dirimpetto alla porta.

Là, accarezzando con la mano la sua bestia, le introdusse un
bricciolino d’esca infuocata nell’orecchio.

Bisognava essere buon cavallerizzo com’egli era per avventurare un tal
mezzo, perocchè appena l’animale ebbe sentita la scottatura cacciò un
urlo dal dolore, s’impennò e balzò quasi fosse ammattito.

I soldati, che pareva volesse schiacciare, si allontanarono
precipitevolmente.

«Qua! qua! strillava il tenente de’ moschettieri, fermate! il mio
cavallo ha un giracapo!»

E di fatti in un momento sembrò gli schizzasse il sangue dagli occhi e
diventò tutto bianco di spuma.

«Qua! qua! gridava sempre d’Artagnan senza che i soldati si
arrischiassero a dargli ajuto, mi lascerete ammazzare? Gesù Signore!»

Non sì tosto ebbe egli profferita questa esclamazione, si aperse la
porta, e si scagliarono con la spada in pugno Athos ed Aramis.

E mercè l’astuzia di d’Artagnan era libero il varco.

«I prigionieri che scappano! gridò il sergente.

«Ferma! ferma! gridò d’Artagnan allentando la briglia al suo corsiero,
il quale si slanciò buttando in terra due o tre uomini.

«_Stop! stop!_» urlarono i militari correndo a prender le armi.

Ma i due detenuti erano già in sella, e non perderono tempo avviandosi
verso la porta più prossima.

A mezza strada videro Grimaud e Blaisois che tornavano in cerca di loro.

Athos con un cenno fece comprendere ogni cosa a Grimaud, il quale si
mise a seguitare la piccola comitiva che andava via come un turbine, e
che d’Artagnan correndole dietro stimolava vieppiù con la voce.

Passarono sotto la porta come ombre senza che i guardiani pensassero
tampoco ad arrestarli, e furono in aperta campagna.

Frattanto i soldati badavano a gridare:

«_Stop! stop!_»

Ed il sergente cominciando ad accorgersi di essere stato gabbato, si
strappava i capelli.

Ed ecco giungere uno a cavallo con un foglio in mano.

Mordaunt che se ne veniva coll’ordine del generale.

«I prigionieri?» strillò smontando sollecito.

Il sergente non ebbe fiato da rispondergli: gli additò la porta
spalancata e la stanza vuota.

Mordaunt salì qualche scalino, comprese tutto, diede un urlo quasi gli
avessero squarciate le viscere, e cadde svenuto sulla pietra.



LXIII.

_In cui si prova qualmente nelle più scabrose situazioni i cuori grandi
non perdono mai il coraggio, nè gli stomachi buoni l’appetito._


La piccola comitiva, senza ricambiare una parola, senza guardarsi a
tergo, andò così di galoppo, traversando un fiumicello di cui nessuno
sapeva il nome, e lasciandosi a sinistra una città che Athos ebbe in
idea fosse Durham. Vide al fine un picciol bosco, e diè l’ultimo colpo
di sprone a quella parte.

Quando i compagni furono dietro ad una stesa di verdura abbastanza
folta per nasconderli a chi poteva inseguirli, si ristettero alquanto
onde tener consiglio, dettero a reggere le bestie a due lacchè acciò si
riposassero senza spogliarli della sella e delle briglie, e misero in
sentinella Grimaud.

«Prima di tutto venite qua, ch’io vi abbracci, amico mio, disse Athos
a d’Artagnan; voi nostro salvatore, voi che fra di noi tutti siete il
vero eroe.

«Athos ha ragione, ed io vi ammiro, continuò Aramis dandogli pure
un amplesso. A che mai non dovreste pretendere, con un padrone
intelligente, voi occhio infallibile, braccio di ferro, mente
vincitrice!

«Adesso, rispose il Guascone, tutto ciò va bene; accetto tutto per me
e per Porthos, abbracciamenti e ringraziamenti; oh abbiamo tempo da
perdere, non dubitate!»

I due, richiamati da d’Artagnan a ciò che dovevano ancora a Porthos,
strinsero ad esso pure la destra.

«Ormai, osservò Athos, bisognerebbe non più andare a caso e come tanti
pazzi, ma stabilire un piano. Che faremo?

«Che faremo, caspita! non è mica difficile a dirsi.

«Or dunque, dite, d’Artagnan.

«Eccoci: arrivare al porto di mare più vicino, riunire tutte le nostre
tenui risorse, noleggiare un bastimento e recarci in Francia. Per me,
c’impiegherò sino all’ultimo mio soldo. Il primo tesoro è la vita, e la
nostra, è forza dichiararlo, sta attaccata ad un filo.

«Du Vallon, che ve ne pare? domandò Athos.

«Io sono del medesimo parere che d’Artagnan; egli è un triste paese,
l’Inghilterra!

«Sicchè siete assolutamente deciso ad abbandonarla? chiese Athos al
Guascone.

«Per diana! fece questi, non so che cosa mi ci possa trattenere».

Athos ricambiò uno sguardo con Aramis.

«Dunque andate, amici miei! disse quindi, e sospirò.

«Come, andate! replicò d’Artagnan, andiamo, mi pare.

«No, mio caro, disse Athos, è d’uopo che ci lasciamo.

«Lasciarci! ripetè il tenente attonito.

«Eh via! seguitò Porthos, e perchè mai, una volta che siamo insieme?

«Perchè il vostro incarico è adempiuto, e potete, anzi dovete,
ritornare in Francia; ma il nostro non lo è già.

«Il vostro no? fece d’Artagnan vieppiù stupefatto.

«No, amico, replicò Athos con la sua voce per solito sì dolce eppur
salda. Noi qui venimmo a difendere il re Carlo, lo difendemmo male, e
ci rimane di salvarlo.

«Salvare il re!» esclamò il tenente.

E guatò Aramis.

Questi si limitò ad un cenno colla testa.

Sul volto a d’Artagnan comparve un che di compassione profonda; ei
principiava a credere di aver da fare con due insensati.

«Athos, egli disse, non può essere che parliate da senno. Il re è in
mezzo ad un’armata che lo conduce a Londra. Questa è comandata da un
macellajo, o figlio di macellajo, poco importa, il colonnello Harrison.
A Sua Maestà sarà fatto il processo appena giunto a Londra, io ve lo
accerto; ho inteso abbastanza dalla bocca del generale Cromvello per
sapere a che aspettarmi».

Athos ed Aramis ricambiarono un’altra occhiata.

«E fatto il processo, continuò d’Artagnan, non tarderà ad eseguirsi
la sentenza. Oh sono genti che si disbrigano presto, quei signori
puritani!

«Ed a qual pena supponete che il re sia condannato? chiese Athos.

«Temo assai che sia a morte. Troppo fece contro di lui per ch’egli li
perdoni, ed a loro non rimane che un mezzo, cioè di ucciderlo. Non vi
è forse noto quel detto di Oliviero Cromvello allorchè venne a Parigi
e gli fu mostrata la torre di Vincennes dov’era rinchiuso il signor di
Vendome?

«Sì, che mi è noto quel detto tremendo, e mel rammento pur troppo, fece
Athos.

«E credete che non ponga in esecuzione la sua massima, or che tiene il
re nelle mani?

«Sì, anzi ne sono sicuro; ma è una ragione di più per non abbandonare
l’augusta testa minacciata.

«Athos, voi impazzite!

«No, amico; rispose dolcemente il gentiluomo, ma Winter è venuto a
cercarci in Francia, e ci ha condotti presso Enrichetta. Sua Maestà ne
ha fatto l’onore, a d’Herblay ed a me, di richiederci il nostro ajuto
a pro del suo sposo; noi abbiamo impegnato con essa la nostra parola:
la nostra parola racchiudeva tutto; a lei vincolavamo la nostra forza,
il nostro intelletto, la nostra vita, e dobbiamo mantenere l’impegno.
Pensate voi così, d’Herblay?

«Sì, disse Aramis, abbiamo promesso.

«E poi, seguitò Athos, v’è un’altra ragione, ed eccola: ascoltatemi. In
questo momento tutto in Francia è meschino e povero; abbiamo un re di
dieci anni, che ancor non sa che si voglia — una regina acciecata da
una tarda passione — un ministro, che amministra la Francia conforme
farebbe di una vasta fattoria, cioè non curandosi se non dell’oro che
può cavarvi, coltivandone il terreno con astuzia e raggiro italiano
— principi che sostengono un’opposizione tutta loro individuale ed
egoistica, e non giungeranno ad altro che ad estorcere da Mazzarino
qualche gruppo d’oro, qualche avanzo di potere. Io gli ho serviti,
non per entusiasmo (Dio sa che gli stimo per quel che vagliono), ma
per principio. Oggi la cosa è diversa: m’incontro dinanzi un altro
infortunio, un regio infortunio, un infortunio europeo, ed a questo io
mi lego. Se perveniamo a salvare il re, sarà un bel tratto; e grande
sarà se per esso moriamo.

«Dunque sapete anticipatamente di potervi perire? disse d’Artagnan.

«Lo temiamo, e l’unico nostro dolore è di morire lungi da voi.

«Che farete in un paese estero, nemico?

«Da giovane io viaggiai in Inghilterra; parlo l’inglese come un
Inglese, ed Aramis pure ha qualche cognizione di quella lingua. Ah se
avessimo anche voi, amici miei! Con voi, d’Artagnan e Porthos, tutti e
quattro, e riuniti per la prima volta dopo venti anni, faremmo fronte
non solo all’Inghilterra ma ai tre regni!

«E prometteste a quella regina, riprese d’Artagnan di mal umore,
di forzare la torre di Londra, di uccidere centomila soldati, di
contrastare vittoriosamente contro il voto di una nazione e l’ambizione
di un uomo, quando quest’uomo si chiama Cromvello! Voi nol vedeste,
quest’uomo, Athos! nè voi, Aramis! Egli è un uomo di genio che assai
mi ha rammentato il nostro ministro, l’altro, il grande! sapete pure,
Richelieu. Or dunque non vi fate un’idea esagerata dei vostri obblighi.
Athos, in nome del cielo, non vi date ad un inutile zelo. Quando vi
guardo, in verità mi pare di vedere un soggetto ragionevole; quando
mi rispondete, mi sembra di aver che fare con un pazzo. Orsù, Porthos,
unitevi a me: che pensate di tutto questo? ditelo schiettamente.

«Nulla di buono, rispose Porthos.

«Animo, continuò d’Artagnan impaziente dacchè Athos invece di
ascoltarlo mostrava quasi ascoltare una voce interna che gli parlasse,
non vi trovaste giammai scontento de’ miei consigli. Ebbene! credetemi,
Athos, la vostra missione è terminata, e nobilmente; tornate in Francia
con noi.

«Amico, replicò Athos, la nostra risoluzione è immutabile.

«Ma avrete allora altri motivi a noi ignoti?»

Athos sorrise.

D’Artagnan si battè con collera sulla coscia, e balbettò le ragioni più
convincenti che potè rinvenire; ma l’altro rispondeva a tutte con un
quieto e dolce sorriso, come Aramis con semplici cenni della testa.

«Or via, esclamò alfine il Guascone furibondo, or via, giacchè così
volete, si lascino le nostre ossa in questo triste paese dove fa
sempre freddo, ed il bel tempo è nebbia, la nebbia, pioggia, la pioggia
diluvio, e dove il sole somiglia alla luna, e la luna ad una forma di
cacio.... Realmente, morir qua o in altro luogo, poichè si deve morire,
poco ci cale!

«Bensì, pensateci, mio caro, disse Athos, egli è morire più presto.

«Eh! un po’ più presto o un poco più tardi, non merita il conto di
sofisticare.

«Se di alcuna cosa io stupisco, aggiunse sentenziosamente Porthos, è
che non si sia digià fatto.

«Oh! si farà, non dubitate! rispose d’Artagnan».

Indi seguitò:

«Sicchè tutto è stabilito, e se Porthos non vi si oppone....

«Io, interruppe Porthos, farò ciò che vogliate. D’altronde trovo
bellissimo ciò che ha detto poc’anzi il conte de la Fère.

«Ma il vostro avvenire, d’Artagnan? la vostra ambizione, Porthos?

«Il nostro avvenire, la nostra ambizione! ribattè il Guascone con una
celerità di favella quasi febbrile, e abbiam bisogno di occuparcene,
poichè salviamo il re? Salvato il re, raduniamo i suoi amici, battiamo
i puritani, riconquistiamo l’Inghilterra, rientriamo seco in Londra, e
lo rimettiamo comodamente sul suo trono.

«Ed egli ci fa duchi e pari, terminò Porthos, a cui brillavano gli
occhi di allegrezza anco vedendo quel tempo futuro a traverso a una
favola.

«O si scorda di noi, disse d’Artagnan.

«Oh! fece Porthos.

«Eh! se ne son visti dei casi, caro mio, e mi sembra che in addietro
rendemmo alla regina Anna un servigio non molto inferiore a quello che
or vogliamo rendere a Carlo I, lo che non tolse che Anna ci obliasse
per quasi venti anni.

«Ma ciò non ostante, domandò Athos, vi rincresce forse di averglielo
reso?

«No davvero; ed anzi, confesso che nei momenti di mia maggior mestizia
ho trovato un conforto in quella rimembranza.

«Vedete, d’Artagnan, che quei principi ci furono ingrati, ma Iddio non
lo è mai.

«Sentite, Athos, io credo che se incontraste il diavolo sulla terra,
fareste tanto che ve lo portereste, starei per dire, con voi su in
cielo.

«Sicchè...., disse Athos porgendo la destra a d’Artagnan.

«Sicchè è finita; l’Inghilterra mi pare un paese delizioso, e vi
rimango, ma con un patto.

«E quale?...

«Di non essere obbligato ad imparare l’inglese.

«Or bene, adesso, soggiunse Athos trionfante, ve lo giuro, per quel
Dio che ci ode, pel nome mio che reputo scevro da ogni macchia, son
d’opinione che vi sia una potenza la quale invigili su di noi, ed ho
speranza che tutti e quattro rivediamo la Francia.

«Sarà, replicò d’Artagnan, ma confesso che son persuaso del contrario.

«Questo caro d’Artagnan, disse Aramis, in mezzo a noi rappresenta
l’opposizione dei Parlamenti, che dicon sempre di no e fanno sempre sì.

«Sì, ma che intanto salvano la patria, ripicchiò Athos.

«Ora che tutto è fissato, propose Porthos stropicciandosi le mani, se
pensassimo a desinare? mi pare che nelle più critiche circostanze di
nostra vita abbiamo sempre pranzato.

«Oh sì! discorrete di pranzo in un paese ove per gran banchetto non si
mangia se non del castrato cotto nell’acqua, e per gran trattamento non
si beve che birra! Come diavolo veniste in un luogo simile, Athos?...
Ah, scusate (aggiunse d’Artagnan sorridendo), mi dimenticavo che non
siete più Athos.... Basta, sentiamo il vostro piano per desinare,
Porthos.

«Il mio piano?

«Sì, lo avete?

«Io no; ho fame, e non altro.

«Per Bacco! s’è tutto questo, anch’io ho fame; ma ciò non basta,
bisogna trovare da mangiare, e ammenochè andiamo a pascolar l’erba come
i nostri cavalli....

«Ah! osservò Aramis, il quale non aveva fatto un tanto distacco dalle
cose terrestri come Athos, quando eravamo al Parpaillot, vi ricordate
che belle ostriche c’ingoiavamo?

«E quei cosciotti di montoni delle paludi saline! fece Porthos
strisciando la lingua sulle labbra.

«Ma, disse d’Artagnan, non abbiamo il nostro Mousqueton che ci faceva
campare tanto bene a Chantilly?

«Giusto! fece Porthos, abbiamo Mousqueton; ma dacchè è maggiordomo è
rimminchionito.... che serve? si chiami».

E per esser sicuro che colui rispondesse volentieri, gridò:

«Ehi, Mouston!»

Questi comparve; aveva la cera mesta, afflitta.

«Che avete, caro signor Mouston? gli domandò il Guascone, vi sentile
forse male?

«Ho fame....

«E appunto per questo v’invitiamo a venir qua. Non potreste procurarvi
a lacciuolo qualcuno di quei bei conigli, o qualcheduna di quelle
care pernici con cui facevamo lo stufato e il _salmì_.... alla locanda
di.... perdinci, non mi sovviene più il nome della locanda.

«All’albergo di.... fece Porthos, affè neppur io me ne ricordo....

«Non importa.... e di soppiatto qualche bottiglia di quel vin vecchio
di Borgogna che tanto spesso guariva il vostro padrone?

«Ahimè! sospirò Mousqueton, ho paura che le robe che voi ricercate
siano molto rare in questo brutto paese, e che faremmo meglio andando a
chiedere ospitalità al padrone di una casuccia che si scorge dall’orlo
del bosco.

«Che! v’è una casa nelle vicinanze? disse d’Artagnan.

«Signor sì.

«Or bene, secondo voi suggerite, si vada là a domandare da pranzo.
Che ne pensate, signori? il consiglio di messer Mouston non vi sembra
giudiziosissimo?

«Eh eh! obbiettò Aramis, e se il padrone è puritano?

«Meglio così, caspita! s’è puritano gli annunzieremo la presa del re, e
in onore di tal notizia ci darà di belle galline di penne bianche.

«Ma s’è cavaliere? bucinò Porthos.

«Allora, ci porremo in aria da lutto e gli spenneremo i polli neri.

«Avete la gran sorte voi, rispose Athos sorridendo della scappata del
Guascone, poichè vedete tutto in bell’aspetto.

«Che volete? replicò d’Artagnan, io sono di una terra ove non si
distingue sul cielo un nuvolo.

«Non è come in questa! disse Porthos».

E stendeva la mano onde accertarsi che una certa freschezza da lui
sentita sulla guancia fosse propriamente prodotta da una goccia di
pioggia.

«Andiamo, andiamo! seguitò d’Artagnan, ragione di più per avviarci....
Olà, Grimaud!»

Grimaud si presentò.

«Ehi? chiese d’Artagnan, avete veduto qualche cosa?

«Nulla, Grimaud rispose.

«Imbecilli! fece Porthos, nemmeno ci hanno inseguiti.... Oh! se fossimo
stati noi ne’ loro piedi!

«Han fatto male, tirò innanzi d’Artagnan, ed io direi volentieri due
paroline a Mordaunt in questa Tebaide. Mirate qua, che bel posto per
distendere un uomo in terra a modo e a verso!

«Io per me stimo, osservò Aramis, che il figliuolo non sia della stessa
forza che la madre.

«Oh! mio caro, disse Athos, aspettate! sono due ore sole che lo abbiamo
lasciato; non sa ancora da che parte ci dirigiamo, ignora persino dove
siamo. Lo diremo men forte di sua madre quando porremo il piede sulla
terra di Francia, se di qui a lì non siamo nè uccisi, nè avvelenati.

«Ma frattanto pranziamo, propose Porthos.

«Oh sì, cospetto! approvò Athos, chè ho un grande appetito.

«Ed io pure, confermò d’Artagnan.

«Guai a’ polli neri!» fece Aramis.

E i quattro amici guidati da Mousqueton si incamminarono all’abitazione
indicata, già ritornati alla lor prima noncuranza; conciossiachè si
trovavano ormai, come aveva detto Athos, tutti quanti riuniti e di
comune accordo.



LXIV.

_Salve alla decaduta Maestà._


I nostri fuggiaschi, a misura che si appressavano alla casa,
vedevano guasto il terreno, quasi che preceduti gli avesse una turba
considerevole d’uomini a cavallo; davanti al portone erano ancor più
visibili le orme: dunque la turba, qualunque si fosse, ivi si era
fermata.

«Per diana! disse d’Artagnan, è chiaro che qui son passati il re e la
sua scorta.

«Oh diavolo! mormorò Athos, allora avranno divorato ogni cosa.

«Eh via! avranno lasciato almeno una gallina!»

E d’Artagnan smontò e bussò, ma nessuno gli rispose.

Spinse la porta, che non era chiusa, e si accorse la prima stanza esser
vuota e abbandonata.

«Ebbene? domandò Porthos.

«Non vedo alcuno.... ah ah!

«Che mai?

«Sangue!»

A tal parola gli altri tre balzarono giù da cavallo ed entrarono.

Ma d’Artagnan aveva di già passato l’uscio della seconda camera, e
dall’alterazione del suo sembiante si discerneva esser ivi qualche cosa
di straordinario.

E avvicinatisi tutti videro un uomo ancor giovane disteso al suolo in
un botro di sangue. Era chiaro che avesse tentato di arrivare sino al
suo letto, e mancatagli la forza fosse prima caduto.

Athos fu il primo ad appressarsi al disgraziato; gli pareva che avesse
fatto un moto.

«Ebbene? domandò d’Artagnan.

«Eh! disse Athos, se è morto, lo è da poco tempo, giacchè è ancora
caldo... Ma no, gli batte il cuore... ohi, amico!»

Il ferito diede un sospiro. D’Artagnan presa dell’acqua sulla palma
della mano glie la gettò sul viso.

Quegli riaperse gli occhi, fece un atto come per alzare il capo e
ricascò di nuovo.

Athos si provò a trarselo sulle ginocchia; però conobbe che la ferita
era un poco più su del cervello e gli spaccava il cranio; ne usciva il
sangue in abbondanza.

Aramis bagnò un tovagliuolo nell’acqua, e l’applicò su la piaga; il
fresco richiamò in sè l’infermo; esso riaperse per la seconda volta gli
occhi.

Guatò attonito coloro, che parea lo compiangessero, e per quanto
potevano cercavano assisterlo.

«Siete con degli amici, gli disse Athos in inglese; dunque state pur
quieto, e se avete forza raccontateci che vi è successo.

«Il re, balbettò l’ammalato, il re è prigioniero.

«Lo avete visto? domandò Aramis nel medesimo idioma».

Colui non fiatò.

«Non dubitate, soggiunse Athos, siamo servi fedeli di Sua Maestà.

«È vero ciò che mi dite?

«Sul nostro onore da gentiluomini.

«Dunque posso dirvi tutto.

«Parlate.

«Io son fratello di Parry, cameriere di Sua Maestà».

Athos ed Aramis si rimembrarono che con quel nome Winter aveva chiamato
il lacchè da loro trovato nel corridojo della regia tenda.

«Lo conosciamo, disse Athos, non lasciava mai il re.

«Appunto. Or bene, vedendo che il re era preso, pensò a me. Passavano
davanti alla casa, ed egli in nome del re domandò di fermarvisi. Questo
fu accordato. Si diceva che il re aveva fame; lo fecero entrare nella
camera dove son io acciò si cibasse, e misero delle sentinelle alle
porte e alle finestre.

«Parry conosceva questa stanza, giacchè più volte mentre Sua Maestà era
a Newcastle, era venuto a vedermi; sapeva che v’era una botola la quale
conduceva in cantina, e di là si poteva andar nell’orto.

«Mi fece un cenno. Io lo capii. Ma di certo i guardiani del re se
ne accorsero ed entrarono in diffidenza. Io, ignorando che avessero
qualche sospetto, non ebbi più altro desiderio che di salvare Sua
Maestà. Finsi dunque di uscire per andare a prendere della legna,
pensando non esserci tempo da perdere. M’introdussi nel passaggio
sotterraneo che metteva alla cantina alla quale corrispondeva la
botola, con la testa sollevai la tavola, e intanto che Parry spingeva
piano il chiavistello dell’uscio, ammiccai al re che mi seguisse.
Ahimè! non voleva; pareva che gli repugnasse quella fuga. Ma Parry lo
supplicò a mani giunte, e anch’io lo implorai onde non lasciasse una
tale occasione. Alla fine si decise a venire appresso a me. Per buona
sorte io camminai avanti, e quando il re mi era dietro di poco, ecco ad
un tratto che nel passaggio sotterraneo vidi dirizzarsi come una grande
ombra. Volevo gridare per avvertire Sua Maestà, ma non ebbi tempo.
Sentii un colpo come se mi crollasse sul capo il casamento, e caddi
svenuto.

«Buono e leale Inglese! servo fedele!» disse Athos.

«Quando ritornai in me ero disteso nel medesimo posto. Mi trascinai
sino al cortile. Il re e la scorta erano partiti. Impiegai forse un’ora
a venire dal cortile a qui, ma poi mi mancarono le forze ed ebbi un
nuovo deliquio.

«E adesso come vi sentite?

«Molto male.

«Possiamo giovarvi a qualche cosa? domandò Athos.

«Ajutatemi a mettermi sul letto; mi pare che ci troverò un po’ di
sollievo.

«Avete alcuno che vi assista?

«Mia moglie è a Durham, e tornerà a momenti.... Ma voi, signori, non
avete bisogno di niente? non bramate niente?

«Eravamo venuti con intenzione di chiedervi da mangiare.

«Ohimè! hanno preso tutto, non ci resta un tozzo di pane.

«Capite, d’Artagnan? disse Athos, conviene andar a cercarci altrove il
pranzo.

«Non m’importa oramai, rispose d’Artagnan, non ho più fame.

«In verità, neppur io» rispose Porthos.

E trasportarono l’uomo sul suo letto. Fu chiamato Grimaud, il quale gli
curò la ferita. Grimaud al servizio dei quattro camerati aveva avuto
tante volte occasione di far fila e piumacciuoli, che aveva acquistata
una certa tinta di chirurgia.

Frattanto i nostri fuggiaschi tornati nella prima stanza tenevano
consiglio.

«Adesso, cominciò Aramis, sappiamo come va; il re e la sua scorta sono
quelli passati di qui: è d’uopo prendere dalla parte opposta. Siete di
quest’opinione?»

Athos, al quale ei dirigeva l’interrogazione, rifletteva, e non rispose.

«Sì, disse Porthos, si pigli dal lato opposto. Se seguitiamo la scorta,
troveremo tutto divorato e finiremo con morir di fame. Che maladetto
paese è questa Inghilterra! sarà la prima volta ch’io sia rimasto senza
desinare; e per me il desinare è il miglior pasto.

«Che pensate, d’Artagnan? domandò Athos, siete del parere di Aramis?

«No; sono anzi del parer contrario.

«Come! volete andare appresso a loro!

«No, ma a fare la medesima strada».

Ad Athos brillarono di gioja le pupille.

«La stessa strada che la scorta! esclamò Aramis.

«Lasciate parlare d’Artagnan, disse Athos, sapete pure ch’è uomo di
buon consiglio.

«Sicuramente, rispose d’Artagnan, bisogna andare dove non saremo
cercati; si guarderanno bene dal cercarci fra i puritani, dunque si
vada fra questi.

«Benissimo, amico! ottimo suggerimento! fece Athos, ero io per darlo,
quando mi avete prevenuto.

«Siete dunque di questo sentimento? chiese Aramis.

«Sì. Crederanno che vogliamo abbandonare l’Inghilterra, e ci
cercheranno nei porti; nel frattempo arriviamo a Londra col re; una
volta là, non siamo più reperibili: in mezzo a un milione d’individui
non è difficile il nascondersi.... senza contare (continuava Athos
dando uno sguardo ad Aramis) le eventualità che ci offre un tal
viaggio.

«Sì, disse Aramis, v’intendo.

«Io non intendo, disse Porthos, ma non serve; giacchè è l’opinione di
d’Artagnan e di Athos insieme, dev’essere la migliore.

«Ma, obbiettò Aramis, non sembreremo sospetti al colonnello Harrison?

«Eh cospettone! esclamò d’Artagnan, io conto appunto sopra di lui:
il colonnello Harrison è nostro amico; lo abbiam veduto due volte dal
generale Cromvello; sa che gli fummo inviati di Francia da Mazzarino,
e ci riguarderà come fratelli. E d’altronde, non è figlio di un
macellajo? sì, non è così? or bene, Porthos gl’insegnerà come con un
pugno si ammazzi un bue, ed io come si atterri un toro afferrandolo per
le corna, e con ciò ci cattiveremo la sua fiducia».

Athos sorrise, e porgendo la mano al Guascone gli disse:

«Siete il miglior compagno ch’io conosca, e sono pur contento di avervi
ritrovato, figlio mio».

Codesto, conforme ci è noto, era il nome che Athos soleva dargli ne’
suoi momenti di cordiale sfogo.

Nell’istante uscì dalla camera Grimaud. Il ferito medicato stava
alquanto meglio.

I quattro amici tolsero da lui commiato, domandandogli se avesse da
incombenzargli di alcuna cosa per suo fratello.

«Ditegli, ei rispose, che faccia sapere al re che non mi hanno
ammazzato del tutto; per poco ch’io mi sia, sono certo che a Sua Maestà
duole di non avermi e che a sè stessa fa rimprovero della mia morte.

«State quieto, disse d’Artagnan, lo saprà innanzi sera».

La comitiva si rimise in viaggio; non v’era da sbagliar la strada:
quella per cui voleva incamminarsi era tracciata visibilmente sulla
pianura.

Dopo un tragitto di due ore in silenzio, d’Artagnan ch’era il primo
avanti si ristette alla svolta di una via.

«Ah ah! esclamò, ecco i nostri».

Diffatti alla distanza di circa mezza lega compariva una considerevole
turba di uomini a cavallo.

«Amici cari, disse d’Artagnan, date le vostre spade a Mousqueton, che
ve le consegnerà a tempo e luogo, e non vi dimenticate che siete nostri
prigionieri».

Indi si regolarono al trotto i cavalli che cominciavano ad essere
stanchi, ed in breve si fu raggiunta la scorta.

Il re, alla testa di questa, circondato da porzione del reggimento del
colonnello Harrison, se n’andava impassibile, sostenuto, con una specie
di buona volontà.

Scorgendo Athos ed Aramis ai quali neppur gli si era dato campo di
dire addio, e leggendo ne’ loro sguardi come ei si avesse tuttora degli
amici poco lontani, sebben credesse quegli amici prigionieri, venne un
rossore di soddisfazione sulle pallide guancie del sovrano.

D’Artagnan passò sino alla testa della colonna, e lasciati i suoi amici
in custodia a Porthos, si appressò ad Harrison, il quale lo riconobbe
per averlo visto da Cromvello, e lo accolse civilmente conforme
convenivasi ad un uomo di quella condizione e di quel carattere.
Accadde ciò che aveva preveduto d’Artagnan: il colonnello non aveva nè
aver poteva alcun sospetto.

Fu fatto alto. A quella fermata doveva pranzare il re. Soltanto questa
volta furono prese delle precauzioni onde non tentasse di fuggire.
Nella gran sala dell’albergo s’apparecchiò un tavolino per lui ed una
tavola grande per gli ufficiali.

«State a pranzo con me? domandò Harrison a d’Artagnan.

«Diamine! disse questi, ne avrei sommo piacere, ma ho il mio compagno
signor du Vallon, e i miei due prigionieri, che non posso lasciare
e che ingombrerebbero la vostra mensa. Però facciamo meglio; fatemi
preparare in un canto una tavola, e mandateci dalla vostra ciò che vi
parrà, giacchè diversamente andiamo a rischio di morir di fame. Sarà
sempre desinare insieme, poichè saremo nella stessa stanza.

«Va bene» fece Harrison.

Le cose si accomodarono a norma del desiderio del nostro tenente, e
quando esso tornò appresso al colonnello trovò il re già seduto al suo
posto e servito da Parry, Harrison ed i suoi ufficiali tutti uniti, e
da parte i posti riserbati per lui ed i suoi compagni.

La tavola a cui stavano gli ufficiali era rotonda, ed o fosse per caso,
o per apposita villania, Harrison volgeva le spalle al re.

Il re vide entrare i quattro gentiluomini, ma non mostrò di badare ad
essi minimamente.

Questi andarono a porsi attorno al desco a loro destinato, e si
situarono in guisa da non voltar la schiena a nessuno. Avevano di
faccia il desco degli uffiziali e quello del re.

Harrison, per onorare i suoi commensali, mandava ad essi i migliori
piatti. Disgraziatamente pei quattro camerati, mancava il vino. Ciò
sembrava indifferentissimo ad Athos, ma d’Artagnan, Porthos ed Aramis
facevano boccaccie ogni qualvolta toccava loro di bere la birra, quella
bibita puritana.

«Affè, colonnello, disse d’Artagnan, vi siamo assai grati del vostro
gentile invito, giacchè se non eravate voi andavamo a rischio di stare
senza pranzo, come siamo rimasti senza colazione, ed ecco il mio amico
signor du Vallon che si associa alla mia riconoscenza, mentre aveva un
famosissimo appetito.

«E l’ho tuttavia, disse Porthos salutando il colonnello Harrison.

«E in che modo vi è successo quel gravissimo evento di restare senza
colazione? domandò ridendo Harrison.

«Per una ragione molto semplice, rispose d’Artagnan. Avevo fretta di
raggiungervi, e per riuscirvi, avevo presa la stessa strada che voi, lo
che non avrebbe dovuto fare un vecchio foriere par mio, il quale ha da
sapere che dov’è passato un buono e prode reggimento come il vostro,
nulla rimane da spigolare. E quindi figuratevi il nostro disappunto,
quando arrivati ad una bella casetta situata sull’orlo del bosco, e
che da lontano coi tetti rossi e con le imposte verdi aveva un’aria da
festa che dava piacere, invece di trovarvi i polli che ci proponevamo
di arrostire ed i prosciutti che volevamo mettere sulla gratella, non
vedemmo che un povero diavolo tutto bagnato.... Caspita! colonnello,
fate i miei complimenti a quello fra’ vostri uffiziali che ha data
quella botta; l’ha assegnata bene, e tanto ch’è stata ammirata dal mio
signor du Vallon, che mena colpi a modo egli pure.

«Sì, fece Harrison ridendo e accennando cogli occhi un officiale che
aveva vicino, quando Groslow s’incarica di tali faccende, non v’è
bisogno di rimetterci le mani dopo di lui.

«Ah! è questo signore? disse d’Artagnan salutando il soggetto
indicatogli, mi rincresce che non parli francese per presentargli le
mie congratulazioni.

«Sono pronto a riceverle e a rendervele, signore, rispose colui in buon
francese, giacchè ho dimorato tre anni a Parigi.

«Or bene, continuò il tenente, mi fo premura di dirvi che applicaste sì
egregiamente il colpo da aver quasi ucciso quell’uomo.

«Credevo averlo ucciso affatto, ribattè Groslow.

«No: è vero che v’è mancato poco, ma non è morto».

Così dicendo d’Artagnan vibrò uno sguardo verso Parry, che stava in
piedi davanti al re, col pallore di morte sulla fronte, per accennargli
che quella notizia era diretta a lui.

Il re aveva ascoltato il dialogo col cuore oppresso da inesprimibile
angoscia, mentre ignorava che fosse per concludere il militare
francese, e lo irritavano quei dettagli celati sotto l’apparenza di
assoluta non curanza.

Solamente respirò libero alle ultime parole da questo profferite.

«Ah diamine! disse Groslow, mi pensavo di esser riuscito meglio. Se non
fosse tanto lontana di qui la casa di quel miserabile, ci tornerei a
rifinirlo.

«E fareste benone, se avete paura ch’ei la scapoli, rispose d’Artagnan;
giacchè sapete che quando le ferite in testa non ammazzano sull’atto,
dopo otto giorni sono bell’e risanate».

E d’Artagnan lanciò una nuova occhiata a Parry, sul volto del quale
appariva tanta gioja che Carlo gli porse la mano sorridendo.

Parry chinatosi sulla mano del suo padrone, gliela baciava
rispettosamente.

«In verità, disse Athos a d’Artagnan, siete un uomo di parole e di
spirito. Ma del re, che ne dite?

«Mi va a genio la sua fisonomia: ha l’aspetto al tempo stesso buono e
nobile.

«Sì, ma si lascia prendere, seguitò Porthos, e questo è mal fatto.

«Ho voglia di bere alla salute del re, disse Athos.

«Dunque permettete ch’io faccia il brindisi, propose d’Artagnan.

«Fate pure» approvò Aramis.

Porthos guardava d’Artagnan maravigliando delle incessanti risorse che
gli forniva il suo spirito da Guascone.

Questi prese il bicchiere, ed avendolo empiuto si alzò.

«Signori, disse ai compagni, beviamo, se così vi piace, alla salute di
quello che presiede al pasto, del nostro colonnello, ed esso sappia che
siamo a’ suoi comandi sino a Londra e più oltre».

Siccome pronunziando questo, d’Artagnan fissava in viso Harrison,
Harrison s’immaginò che per lui fosse il brindisi, e riverì i quattro
amici, i quali ferme le pupille sul re Carlo, trincarono insieme,
frattanto che Harrison dal canto suo vuotava il suo gotto senza alcuna
diffidenza.

Carlo porse il bicchiere a Parry, che vi versò qualche goccia di birra,
giacchè il re stava alla regola di tutti gli altri, e portatoselo
alle labbra osservando a vicenda i quattro gentiluomini, bevve con un
sorriso ricolmo di nobiltà e di gratitudine.

«Orsù! esclamò Harrison posando il gotto e senza il minimo riguardo per
l’illustre prigioniero che conduceva, in viaggio!

«Dove si pernotta, colonnello?

«A Tyrsk.

«Parry, disse il re alzatosi pure e voltosi al suo cameriere, il mio
cavallo; voglio andare a Tyrsk.

«Affè, disse d’Artagnan ad Athos, il vostro re mi ha propriamente
sedotto, ed io sono totalmente a sua disposizione.

«Se codesto che mi dite è sincero, rispose Athos, non arriverà sino a
Londra.

«Come mai?

«Sì, perchè prima di quel momento lo avremo portato via.

«Oh! questa volta poi, in parola d’onore, siete pazzo, fece d’Artagnan.

«Dunque avete già stabilito qualche progetto? domandò Aramis.

«Eh! disse Porthos, non sarebbe impossibile se si avesse un buon
progetto.

«Io non l’ho, replicò Athos, ma d’Artagnan ne troverà uno».

Il tenente si strinse nelle spalle, e tutti si partirono.



LXV.

_D’Artagnan trova un progetto._


Athos conosceva d’Artagnan forse meglio che questi non conoscesse sè
stesso. Sapeva che in una mente avventurosa come la sua basta lasciar
cadere un pensiero, alla guisa medesima che in un terreno vigoroso e
ubertoso basta lasciar cadere un grano. Non si era quindi curato che il
Guascone si fosse stretto nelle spalle, ed aveva continuato a camminare
favellandogli di Raolo, argomento che in un’altra circostanza, e noi ce
ne ricordiamo, aveva ben anzi schivato.

A notte giunsero a Tyrsk. I quattro amici si mostrarono totalmente
estranei e indifferenti alle misure di precauzione che si prendevano
per assicurarsi della persona del re. Si ritirarono in una casa
particolare, ed avendo da un momento all’altro da temere per sè stessi,
si stabilirono in una sola stanza, riserbandosi la uscita per il caso
di attacco. I servi furono distribuiti in varj luoghi. Grimaud si
coricò sur un fascio di paglia traverso all’uscio.

D’Artagnan era pensieroso, ed a momenti pareva che avesse perduta la
sua loquacità consueta. Non diceva una parola, e fischiava, andando dal
letto alla finestra. Porthos, il quale non osservava altro mai che le
cose esterne, gli discorreva secondo il consueto. D’Artagnan rispondeva
con dei monosillabi. Athos ed Aramis si guatavano sorridendo.

La giornata era stata faticosa, eppure, tranne Porthos che aveva il
sonno inflessibile quanto l’appetito, gli amici dormirono malamente.

Alla mattina dipoi, il primo in piedi fu d’Artagnan. Era sceso alle
scuderie, avea visitati i cavalli e date le istruzioni necessarie, ed
Athos ed Aramis non erano peranco alzati, e Porthos russava ancora.

La mattina alle otto si misero in cammino nello stesso ordine che la
sera innanzi. Soltanto d’Artagnan lasciò avviarsi gli amici dal loro
lato, e andò a rinnovare con mastro Groslow la relazione intavolata.

Questi, dolcemente accarezzato in cuore dai suoi elogi, lo accolse con
un sorriso graziosissimo.

«Davvero, gli disse d’Artagnan, mi stimo fortunato di trovare qualcuno
che voglia parlare la mia povera lingua. Il signor du Vallon mio amico
è di carattere molto malinconico, talchè non gli si possono cavar di
bocca quattro parole al giorno; i nostri due prigionieri, poi, capirete
che hanno poca volontà di far conversazione.

«Sono realisti nell’anima, disse Groslow.

«Ragione di più perchè ci serbino rancore di aver preso lo Stuart, al
quale spero che farete adesso un processo bello e buono.

«Eh! fece Groslow, lo conduciamo per questo appunto a Londra.

«E non lo perdete di vista, mi figuro.

«Capperi! lo credo, io! Lo vedete, aggiunse ridendo l’ufficiale, ha una
scorta veramente regia!

«Oh! di giorno non v’è pericolo che vi sfugga, ma di notte....

«Di notte si raddoppiano le cautele.

«E qual metodo di sorveglianza adoprate?

«Restano costantemente otto uomini nella sua camera.

«Diamine! fece d’Artagnan, è custodito per bene. Ma fra quegli otto,
voi mettete senza dubbio una guardia fuori? non sono mai troppe le
precauzioni contro un simile prigioniero.

«Oh no! figuratevi: che volete che facciano due senz’armi contro otto
uomini armati?

«Come, due?

«Sì, il re ed il suo cameriere.

«Dunque è stato permesso ai camerieri di non abbandonarlo?

«Sì; Stuart ha chiesto gli si concedesse questa grazia, ed il
colonnello Harrison vi ha aderito. Col pretesto ch’è re, pare non possa
vestirsi nè spogliarsi da sè solo....

«In verità, capitano, disse d’Artagnan deciso a continuare verso
l’ufficiale inglese il sistema di lodi riuscitogli tanto bene, più
vi ascolto, e più stupisco della facilità ed eleganza con cui parlate
francese. Siete stato in Parigi tre anni, va ottimamente, ma io potrei
stare a Londra tutta la vita, e di certo non arriverei al grado al
quale voi siete.... E che facevate in Parigi?

«Mio padre, ch’è negoziante, mi aveva impiegato dal suo corrispondente,
e questi dal canto suo aveva mandato il suo figliuolo dal mio genitore:
è uso fra commercianti di far simili cambi.

«E Parigi vi piacque, signor mio?

«Sì, ma avreste gran bisogno di una rivoluzione sul genere della
nostra: non contro il vostro re, ch’è un ragazzo, ma contro l’Italiano
spilorcio ch’è amante della vostra regina.

«Ah! sono anch’io del vostro sentimento, e si farebbe presto se
avessimo solamente dodici uffiziali come voi, senza pregiudizi,
vigilanti; eh, eh! ci si verrebbe a capo del Mazzarino, e gli si
farebbe un bel processetto sul gusto di quello che voi siete per fare
al vostro re.

«Ma, disse l’Inglese, avevo nell’idea che foste al suo servizio, e
ch’egli appunto vi avesse inviato al generale Cromvello?

«Cioè io sono al servizio del re, e sapendo ch’ei doveva spedire
qualcuno in Inghilterra, ho procurato di esser io quello, tanto era
grande in me il desiderio di conoscere l’uomo di genio che attualmente
comanda ai tre regni. E così, quando ha proposto al signor du Vallon
ed a me di sguainare la spada in onore della vecchia Inghilterra, avete
veduto come abbiamo accettato.

«Sì, so che caricaste al fianco al signor Mordaunt.

«Alla sua destra, e alla sua sinistra. Per Diana! che buono e bravo
giovane è anco quello! come ha sdrucito il suo signore zio! avete
visto?

«Lo conoscete? domandò l’ufficiale.

«Moltissimo; anzi posso dire che siamo in istretta relazione. Il signor
du Vallon ed io siam venuti di Francia con lui.

«Sembra pure che lo abbiate fatto aspettare un pezzo a Boulogne.

«Che volete! disse d’Artagnan, ero come voi; avevo da far guardia ad un
re.

«Ah ah! fece Groslow, e qual re?

«Il nostro, per bacco! il piccolo _King_ Luigi decimoquarto».

D’Artagnan si levò il cappello; l’Inglese per civiltà fece altrettanto.

«E quanto tempo lo aveste in guardia?

«Tre notti, e affè me le rammenterò sempre con piacere.

«Dunque il giovane re è molto amabile?

«Dormiva colle pugna chiuse.

«E allora che mai volete dire?

«Voglio dire che i miei amici ufficiali delle guardie dei moschettieri
venivano a tenermi compagnia, e passavamo le nottate a bere e giuocare.

«Ah sì! sospirò Groslow, siete allegri compagni, voi altri Francesi.

«Non giuocate forse anche voi quando siete di guardia?

«No, mai.

«In tal caso dovete annojarvi assai, e vi compiango, disse d’Artagnan.

«Fatto sta, soggiunse Groslow, che mi sbigottisce il vedere arrivare il
mio turno: è lunga una notte intera a vegliare.

«Sì, quando si veglia soli o con stupidi soldati; ma essendo con
un allegro compagno di giuoco, facendo correre l’oro e i dadi sul
tavolino, passano le ore come un sogno. Non vi piace il giuoco?

«Anzi!

«Per esempio, la zecchinetta?

«Ci vado matto; in Francia mi ci divertivo tutte la sere.

«E dacchè siete in Inghilterra?

«Non ho toccato una carta nè un bossolo.

«Vi compatisco! disse d’Artagnan in atto di profonda pietà.

«Sentite, seguitò l’inglese, fate una cosa.

«Cioè?

«Domani io sono di guardia.

«Presso a Stuart?

«Sì: venite a far nottata con me.

«È impossibile.

«Impossibile?

«Impossibilissimo.

«Come mai?

«Ogni notte fo la partita col signor du Vallon.... Qualche volta non
ci mettiamo neppure a letto.... ecco, stamani a giorno stavamo sempre
giuocando.

«Ebbene?

«Ebbene, s’infastidirebbe se lo lasciassi solo.

«Regge forte a tavolino?

«L’ho veduto perdere sino a duemila doppie ridendo come un pazzo.

«Dunque conducetelo con voi.

«Come volete? e i nostri prigionieri?

«Oh diamine! è vero, rispose Groslow; ma fateli custodire dai vostri
lacchè.

«Sì, per che scappino! non mi ci arrischio!

«Ma sono uomini d’alta condizione, poichè vi premono tanto?

«Capperi! uno è un ricco signore della Turrena; l’altro un cavaliere di
Malta di casa grandissima. Abbiamo trattato del riscatto di ciascuno
a due mila lire sterline arrivando in Francia. Sicchè non vogliamo
abbandonare un momento soggetti che i nostri servitori sanno esser
milionarj. Nel prenderli gli abbiamo frugati un poco, e vi confesserò
di più che ogni notte du Vallon ed io mungiamo alquanto la loro borsa,
ma possono averci nascosto qualche pietra preziosa, qualche diamante
di valore, talchè noi siamo simili agli avari che non lasciano il loro
tesoro; ci siamo costituiti guardiani permanenti di coloro, e quando io
dormo, du Vallon sta desto.

«Ah ah! fece l’Inglese.

«Adesso capite ciò che mi obbliga al ricusare la vostra garbatezza,
alla quale però sono tanto più sensibile dacchè nulla v’ha di più
nojoso che il giuocar sempre con la stessa persona: si compensano di
continuo in eterno le sorti favorevoli e contrarie, e a capo a un mese
si trova di non aver fatto nè mal nè bene.

«Ah! disse Groslow sospirando, v’è una cosa ancor più nojosa, ed è di
non giuocare affatto.

«Lo comprendo! disse d’Artagnan.

«Ma vediamo un po’, seguitò l’altro, son uomini pericolosi quei vostri?

«In quanto a che?

«Son capaci di tentare un colpo di mano?»

D’Artagnan diede in uno scroscio di risa.

«Gesù Dio! esclamò, uno batte la febbre, non potendo assuefarsi al bel
paese da voi abitato; l’altro è un cavaliere di Malta, timido al pari
di una fanciulla; e per maggior sicurezza abbiamo tolto loro anche i
coltelli piegatoj e le cesoje da tasca.

«Or bene, propose Groslow, conducete anco loro.

«Come volete?...

«Ma si, io ho ott’uomini.

«Ebbene?

«Quattro faran guardia ed essi, e quattro al re.

«In sostanza, disse d’Artagnan, si potrebbe aggiustar così, benchè vi
do un grande incomodo.

«Eh via! venite, e vedrete come sistemerò tutto.

«Oh! io non ci penso, rispose il nostro tenente, con un uomo della
vostra fatta, vado a occhi chiusi».

Quest’ultimo tratto di adulazione cavò dall’uffiziale uno di quei
sorrisi di soddisfazione che rendono le persone amiche a quello che li
provoca, essendo un’evaporazione della vanità accarezzata.

«Ma, disse d’Artagnan, ora che ci penso, e che ostacolo vi sarebbe a
cominciare stassera?

«Che cosa?

«La nostra partita.

«Nessuno, replicò Groslow.

«Or dunque, stassera venite da noi, e domani vi renderemo la visita.
Se nei nostri uomini, che secondo sapete sono realisti accaniti, v’è
qualcosa che vi dia inquietudine, non sarà fatto niente, e avremo
sempre passata una buona nottata.

«A meraviglia! questa notte da voi, domani da Stuart, doman l’altro da
me.

«E gli altri giorni a Londra. Eh caspita! vedete che si può far vita
allegra da per tutto!

«Sì, quando s’incontrano dei Francesi, e Francesi come voi, disse
Groslow.

«E come du Vallon; vedrete che pezzo è quello! della _Fronda_ in carne
e in ossa, un uomo ch’è stato in procinto di ammazzare fra uscio e muro
il Mazzarino. E’ lo impiegano perchè ne hanno paura.

«Sì, confermò Groslow; ha buona ciera, e senza ch’io lo conosca mi va
veramente a genio.

«E sarà ben altro quando lo conosciate.... Oh! ecco che mi chiama.
Perdonatemi, siamo in sì stretta relazione che non può star senza di
me.... mi scusate?

«Eh diamine!

«Addio a questa sera.

«Da voi?

«Da me».

L’Inglese ed il Francese si salutarono, e quest’ultimo ritornò presso i
suoi camerati.

«Che diavolo avevate da discorrere con quel cane _bouledogue_? domandò
Porthos.

«Mio caro, disse d’Artagnan, non parlate così del signor Groslow, è
amico mio intrinseco.

«Vostro amico, quell’ammazzatore di contadini!

«Zitto, Porthos, zitto! è vero, sì, il Groslow è un po’ troppo vivo,
ma in fondo io ho scoperte in lui delle buone qualità: è sciocco e
orgoglioso».

Porthos stupefatto spalancava gli occhi; Athos ed Aramis si guardavano
sorridendo: conoscevano d’Artagnan, e sapevano ch’ei nulla faceva senza
uno scopo.

«E poi, continuò questi, lo apprezzerete da voi medesimo.

«In qual modo?

«Stassera ve le presento, viene a giuocare con noi.

«Oh oh! disse Porthos a cui si accesero gli occhi, ed è ricco?

«È figliuolo di uno dei più facoltosi negozianti di Londra.

«E sa la zecchinetta?

«È la sua passione.

«La bassetta?

«È la sua smania.

«Il biribisso?

«C’è famoso,

«Bene! fece Porthos, passeremo una piacevole nottata.

«Piacevole tanto più che ce ne prometterà una migliore.

«Come mai?

«Noi lo riceviamo a giuocare stassera; egli riceve noi domani.

«E dove?

«Ve lo dirò. Adesso non ci occupiamo che d’una cosa: di corrispondere
degnamente all’onore che ci comparte il signor Groslow. Stassera ci
fermeremo a Derby; Mousqueton vada avanti, e se v’è una sola bottiglia
di vino in tutta la città, ce la compri. Neppur sarebbe male che
preparasse una buona cena a cui non prenderete parte, voi Athos, perchè
avete la febbre, e voi Aramis, perchè siete cavaliere di Malta, e i
discorsi di beoni pari nostri vi spiacciono e vi fanno arrossire.... mi
sentite?

«Sì, disse Porthos, ma il diavolo mi porti se vi capisco.

«Porthos, mio caro, voi sapete che io discendo dagli indovini per la
parte di mio padre, e dalle sibille per quella di mia madre, e non
parlo se non a enigmi e parabole; coloro che hanno orecchie ascoltino,
coloro che hanno occhi guardino, per il momento non posso dir altro.

«Fate pure, amico mio, rispose Athos, seno certo che quel che voi fate
sta bene.

«E voi, Aramis, siete della stessa opinione?

«Interamente, caro d’Artagnan.

«Alla buon’ora! disse d’Artagnan, questi son veri credenti, e per loro
v’è gusto a tentare dei miracoli; non è come l’incredulo Porthos, che
vuol sempre vedere e toccare per credere.

«Realmente, fece Porthos maliziosamente, io sono molto incredulo».

D’Artagnan gli diede un colpetto sulla spalla, e siccome erano giunti
alla fermata della colazione, fu troncata là ogni ciarla.

Verso le cinque ore di sera, a tenore del convenuto, si fece partire
avanti Mousqueton. Mousqueton non parlava inglese, ma dacchè era in
Inghilterra aveva osservata una cosa, ciò che Grimaud con l’abitudine
del gesto aveva questo sostituito pienamente alla favella; sicchè si
era applicato a studiare il gesto con Grimaud, ed in poche lezioni,
mercè la superiorità del maestro, era giunto ad una certa forza:
Blaisois lo accompagnò.

I quattro amici traversando la strada principale di Derby adocchiarono
Blaisois ritto all’ingresso di un casamento di bellissima apparenza:
ivi era apparecchiato il loro alloggio.

In tutta la giornata non si erano accostati al re per tema di dar
sospetto, ed invece di pranzare alla tavola del colonnello Harrison,
conforme aveano fatto il giorno innanzi, avevano desinato fra di loro.

All’ora stabilita, venne Groslow. D’Artagnan lo accolse siccome
avrebbe accolto un che gli fosse stato amico da venti anni. Porthos lo
squadrò da cima a fondo, e sorrise osservando che non ostante il colpo
rimarchevolissimo da lui dato al fratello di Parry non era di forza
eguale alla sua. Athos ed Aramis fecero quanto poterono onde occultare
il disgusto che loro inspirava quell’indole grossolana e brutale.

In conclusione Groslow si mostrò pago del ricevimento.

Athos ed Aramis si mantennero nel loro carattere. A mezzanotte
si ritirarono nella loro camera, della quale, col pretesto di
sorveglianza, era stato aperto l’uscio. Inoltre d’Artagnan ve li
accompagnò, lasciando Porthos alle prese con Groslow.

Porthos guadagnò cinquanta doppie a Groslow, e nell’andarsene lo ebbe
per miglior compagno che non lo avesse giudicato dapprima.

Groslow, poi, si propose di rifarsi alla domane a pregiudizio di
d’Artagnan della sconfitta subita con Porthos, e lasciò il Guascone
rammentandogli il convegno fissato per la sera.

Diciamo la _sera_, imperciocchè i giuocatori si separarono alle quattro
ore del mattino.

Trascorse la giornata al solito; d’Artagnan andava dal capitano Groslow
al colonnello Harrison, e da questo a’ suoi amici. Per uno che non lo
avesse conosciuto e’ pareva nel suo stato ordinario; pe’ suoi amici,
vale a dire per Athos ed Aramis, il suo brio era tutto febbre.

«Che può egli macchinare? diceva Aramis.

«Aspettiamo, rispondeva Athos».

Porthos non fiatava; ma contava una dopo l’altra nel borsellino con
aria di soddisfazione ostensibile le cinquanta doppie vinte al Groslow.

La sera arrivato a Ryston, d’Artagnan radunò gli amici. Gli si era
dileguata dal volto quella maschera di noncurante giovialità che vi
aveva tenuto sino allora.

Athos strinse la mano ad Aramis, dicendogli:

«Si avvicina il momento.

«Sì, disse d’Artagnan che lo aveva udito, si avvicina, signori; questa
notte salveremo il re».

Athos palpitò, gli brillarono le pupille; e dubitando dopo che aveva
sperato, domandò:

«D’Artagnan, non è già questo uno scherzo? oh! mi farebbe troppo male.

«Siete pur singolare, rispose il tenente dei moschettieri, se così di
me dubitate! Dove e quando mai mi vedeste a scherzare col cuore di un
amico e colla vita di un re? Vi ho detto, e vi ripeto che questa notte
salveremo Carlo I. Vi siete rapportati a me per trovare il mezzo, e
questo è trovato».

Porthos guardava d’Artagnan con ammirazione. Aramis sorrideva come
chi molto si lusinghi. Athos pallido come un morto tremava in tutte le
membra.

«Parlate, disse Athos».

Porthos aprì tanto d’occhi; Aramis, quasi diremmo, si sospese alle
labbra del Guascone.

«Siamo invitati a far nottata da Groslow; lo sapete?

«Sì, rispose Porthos, ci ha fatto promettere di dargli la rivincita.

«Bene; ma vi è noto dove gliela daremo?

«No.

«Dal re.

«Eh! esclamò Athos.

«Sì, dal re. Questa sera mastro Groslow è di guardia presso Sua Maestà,
e per distrarsi nel far sentinella, ci chiama a fargli compagnia.

«Tutti e quattro? domandò Athos.

«Sì! di certo, tutti: e che forse noi abbandoniamo i nostri prigionieri?

«Ah ah! fece Aramis.

«Sentiamo, disse Athos palpitando.

«Sicchè, si va da Groslow, noi colle nostre spade, voi con dei pugnali;
e in quattro che siamo c’impossessiamo di quegli otto imbecilli e dello
stupido loro comandante. Che ne dite, messer Porthos?

«Dico ch’è facile.

«Vestiamo il re da Groslow; Mousqueton, Grimaud e Blaisois ci tengon
pronti dei cavalli con la sella addosso; alla svolta della prima strada
ci saltiamo sopra, e innanzi giorno siamo distanti di qui venti leghe.
Eh? è combinato bene, Athos?»

Athos posate le mani sulle spalle a d’Artagnan, l’osservava con la sua
calma e il suo dolce sorriso consueto.

«Amico, disse, io dichiaro che non vi è sotto il cielo creatura che vi
pareggi in nobiltà e coraggio: mentre vi supponevamo indifferente alle
nostre pene, alle quali senza punto mancare potevate non associarvi,
fra noi tutti voi solo rinvenite ciò che noi andiamo invano cercando.
Dunque, te lo ripeto d’Artagnan, tu sei fra noi il migliore, ed io ti
benedico ed amo, carissimo figlio.

«E a dire ch’io non l’avevo raccapezzato! fece Porthos percuotendosi la
fronte; è tanto semplice!

«Ma, osservò Aramis, se ho inteso bene, ammazzeremo tutti, non è così?»

Athos impallidì, e rabbrividiva.

«Caspita! gridò d’Artagnan, e’ bisognerà che sia a questo modo! ho
rintracciato per molto tempo se v’era maniera di scansare la faccenda,
ma non l’ho trovata.

«Orsù, riprese Aramis, qui non si tratta di sofisticare con la nostra
posizione; come si procede?

«Ho fatto un duplice piano, rispose il Guascone.

«Sentiamo il primo.

«Se siamo tutti e quattro riuniti al mio segnale, e il segnale sarà
la parola _finalmente_, voi immergete ciascheduno un pugnale nel
cuore del soldato che avete più vicino; noi dal canto nostro facciamo
altrettanto; ecco subito quattro uomini morti; dunque la partita
diventa pari, giacchè siamo quattro contro cinque; quei cinque si
arrendono, e si mette loro la sbarra in bocca; o si difendono, e gli
uccidiamo. Se per caso il nostro ospite cambia parere, e non riceve
a giuocare con lui altro che Porthos e me, cospettone! bisognerà
ricorrere a gravi compensi picchiando a doppio: la cosa sarà più lunga
e clamorosa, ma voi altri starete fuori con buone spade, e udendo il
chiasso accorrerete.

«E se trafiggessero voi? domandò Athos.

«Non è possibile: rispose d’Artagnan, quei bevitori di birra sono
troppo pesanti e sgarbati. E di più, Porthos, voi tirerete sulla gola:
con ciò si ammazza più presto, e s’impedisce anco di urlare.

«Benone! fece Porthos, sarà un graziosissimo scannamento.

«Orribile! orribile! mormorò Athos.

«E via, signor sensibile! disse d’Artagnan, fareste ben di peggio in
una battaglia. D’altronde, amico, se vi pare che la vita del re non
vaglia ciò che deve costare, sia il tutto per non detto, ed io fo
avvisare al signor Groslow che sono ammalato.

«No no, ho torto.... e voi avete ragione; perdonatemi, replicò Athos».

Nel momento fu aperto l’uscio, e venne un soldato dicendo malamente in
francese:

«Il signor capitano Groslow previene i signori d’Artagnan e du Vallon
che gli aspetta.

«Dove? domandò il tenente.

«Nella camera del Nabucodonosor inglese, fece il soldato, puritano per
la vita.

«Va ottimamente, rispose in buon inglese Athos a cui andava il sangue
al capo udendo quell’insulto fatto alla regia Maestà, dite al capitano
Groslow che ci andiamo subito».

Poi, uscito il puritano, era dato l’ordine ai lacchè di por la sella
ad otto cavalli, e ire ad attendere, senza separarsi uno dall’altro,
nè metter piede a terra, sul canto di una contrada situata all’incirca
venti passi lontano dalla casa dove il re era alloggiato.



LXVI.

_La partita a zecchinetta._


Erano nove ore di sera; si era cambiata la guardia alle otto, e da
un’ora questa toccava a Groslow.

D’Artagnan e Porthos con le loro spade, ed Athos ed Aramis con un
pugnale ciascuno nascosto in seno, si avanzarono verso la casa che
in quella sera serviva di prigione a Carlo Stuart. Questi due ultimi
seguivano i loro vincitori, umili e inermi in apparenza come due
detenuti.

«Affè, disse Groslow quando li vide, non vi aspettavo più».

D’Artagnan gli si accostò, e gli disse piano:

«Diffatti, du Vallon ed io abbiamo esitato un pochino a venire.

«E perchè?»

Il tenente accennò con l’occhio Athos ed Aramis.

«Ah ah! fece il capitano inglese, a motivo delle opinioni? poco
importa! anzi (aggiunse ridendo), se vogliono vedere il loro Stuart lo
vedranno.

«Si passa la nottata in camera del re? chiese d’Artagnan.

«No, ma in quella contigua, e siccome l’usciale resterà aperto, sarà
precisamente come se fossimo nella stanza medesima. Vi siete provvisti
di denari? Vi dichiaro ch’io conto di fare un giuoco precipitoso.

«Sentite mo’? disse d’Artagnan facendosi suonar l’oro nelle saccoccie.

«_Very good!_ fece Groslow».

E schiuse la porta.

«Per insegnarvi la strada, aggiunse».

Ed entrò prima a tutti.

D’Artagnan si girò verso i camerati: Porthos se ne stava noncurante
quasi si trattasse di una partita ordinaria; Athos pallido, ma
risoluto; Aramis col fazzoletto si asciugava la fronte bagnata da un
lieve sudore.

Le otto guardie erano al loro posto: quattro nella camera del re,
due all’uscio di comunicazione, due a quello d’onde s’introducevano
i quattro amici. Al mirare le spade nude Athos sorrise: dunque non
sarebbe più un macello, ma bensì un combattimento.

E da quel punto sembrò ritornasse in tutto il suo buon umore.

Carlo, che ben si scorgeva dalla bussola aperta, stava sul letto bell’e
vestito: senonchè si era buttato addosso una coperta di lana. A capo al
suo letto era seduto Parry, che leggeva sotto voce, ma forte abbastanza
per che lo udisse Carlo il qual l’ascoltava a occhi chiusi, un certo
rosario in una Bibbia cattolica.

Una brutta candela di sego, posta sur una tavola nera, rischiarava la
faccia rassegnata del monarca, e il viso assai meno tranquillo del fido
suo servo.

Tratto tratto Parry s’interrompeva credendo che il sovrano dormisse
daddovero: allora questi alzava le ciglia e sorridendo dicevagli:

«Mio buon Parry, continua pure, ti sento».

S’inoltrò Groslow fin sulla soglia della camera del re, si rimise
in testa con ostentazione il cappello che avea tenuto in mano per
accogliere gli ospiti, considerò un momento con disprezzo quel quadro
semplice e commovente d’un vecchio domestico intento a leggere la
Bibbia al suo re prigioniero, si assicurò che ogni uomo fosse per
l’appunto nel luogo da lui assegnatogli, e voltosi a d’Artagnan lo
guardò in atto di trionfo come mendicando da esso un elogio della sua
tattica.

«A meraviglia! fece il Guascone, caspita! vo’ sarete un generale di
qualche distinzione.

«Ehi! vi credete, domandò l’Inglese, che mentre io sia di guardia
presso di lui, lo Stuart se la fugga?

«No di sicuro, rispose d’Artagnan, ammenochè dal cielo gli piovano
degli amici».

Sulle guance a Groslow appariva un vero giubilo.

Siccome Carlo Stuart durante quella scena era stato costantemente
a occhi serrati, non v’è da decidere se si fosse accorto o no della
tracotanza del puritano. Ma a suo malgrado, udito ch’ebbe il suono
della voce di d’Artagnan le sue palpebre non istettero più basse.

E anche Parry si scosse e sospese la lettura.

«Perchè ti fermi? disse il re, tira innanzi, Parry mio.... se però non
sei troppo stanco.

«No, sire, fece il cameriere».

E ricominciò.

Nella prima stanza era preparato un tavolino coperto da un tappeto; e
su questo due moccoli accesi, e due bossoli e i dadi.

«Signori (così parlò Groslow), di grazia, accomodatevi: io, dirimpetto
a Stuart, che tanto mi è caro di vedere, soprattutto dov’è adesso; voi,
signor d’Artagnan, di faccia a me».

Athos si fece rosso di collera. D’Artagnan lo fissò inarcando le ciglia.

«Così è; rispose quest’ultimo, voi, signor conte di la Fère, a man
diritta al signor Groslow; voi, cavaliere d’Herblay, a sinistra;
voi, du Vallon, accanto a me. Voi scommettete dalla mia parte, e quei
signori da quella di master Groslow».

Così d’Artagnan li teneva, Porthos a manca, e gli parlava col
ginocchio, Athos ed Aramis dirimpetto, e caricava su di essi il suo
sguardo.

Al nome del conte di la Fère e del cavaliere d’Herblay, Carlo riaperse
gli occhi, e ad onta sua sollevando la nobile testa, esaminava tutti
gli attori della scena.

Nel momento Parry voltò alcune pagine della Bibbia, e lesse ad alta
voce questo verso di Geremia:

«Disse Iddio, ascoltate le parole de’ profeti, o miei servi, che io
premurosamente vi mandai e inverso a voi condussi».

I quattro compagni ricambiarono un’occhiata. I termini di che si era
servito Parry ad essi dinotavano qualmente il re ascrivesse la di loro
presenza al suo vero movente.

D’Artagnan esultava.

«Poc’anzi mi domandavate, ei disse, se stava bene a soldi».

E posava sulla tavola una ventina di doppie.

«Sì, disse Groslow.

«Or bene; adesso io dico a voi: tenetevi bene stretto il vostro
tesoro, carissimo signor Groslow, perchè non esciremo di qui se non
portandovelo via.

«Ma non già senza ch’io l’abbia difeso, ribattè l’Inglese.

«Meglio così! battaglia, capitano mio! battaglia! Sapete o non sapete,
che questa è quella che vogliamo?

«Ah ah! lo so, fece Groslow con una goffa risata, non cercate altro che
lividi e piaghe voi altri Francesi».

Carlo infatti aveva udito e capito tutto. Gli ascese sul volto un lieve
rossore; i soldati che l’osservavano lo videro a poco distendere le
stanche membra, e col pretesto di un caldo eccessivo provocato dalla
stufa, scostare la coperta sotto la quale conforme già avvertivamo egli
si stava coricato ma vestito.

Athos ed Aramis si rallegrarono nel riconoscere che il re non fosse
nudo.

Incominciò la partita. La sorte si era girata ed era tutta per Groslow;
egli reggeva ad ogni posta, e vinceva sempre. Così passarono da un
tavolino all’altro un centinajo di doppie. Il puritano andava matto dal
contento.

Porthos, il quale aveva riperdute le cinquanta doppie guadagnate la
sera precedente, ed inoltre una trentina del suo, era molto burbero,
e col ginocchio interrogava d’Artagnan, quasi per domandargli se fosse
tempo di cambiar giuoco. Athos ed Aramis lo consideravano attentissimi,
ma d’Artagnan rimaneva impassibile.

Suonarono le dieci. Si udì a passare la pattuglia.

«Quante pattuglie fate voi a questo modo? richiese d’Artagnan levandosi
di tasca altre monete.

«Cinque, disse Groslow, una ad ogni due ore.

«Benone! rispose il tenente, è misura prudentissima».

E allora toccò a lui fissare in viso Athos ed Aramis.

S’intesero i passi della ronda che si allontanava.

D’Artagnan rispose per la prima volta alle ginocchiate di Porthos con
un altro consimile.

Frattanto, attratti dall’allettamento del giuoco e dalla vista
dell’oro, tanto possente su tutti gli uomini, i soldati, che
avevano ordine di rimanere nella stanza del re, si erano lemme lemme
avvicinati all’uscio, e là drizzandosi in punta di piedi, guardavano
di sopra alla spalla di d’Artagnan e di Porthos; quelli della porta
si erano pure appressati, secondando per cotal guisa le brame dei
quattro amici, che preferivano averli tutti così alla mano anzi che
dover correre a cercarli da un canto all’altro della camera. Le due
sentinelle sull’ingresso avevano tuttavia la spada nuda, se non che si
appoggiavano sulla punta ed abbadavano ai giuocatori.

Sembrava che Athos si calmasse a misura che si avvicinava il momento;
le sue due mani bianche e signorili scherzavano coi luigi che torceva
e riaddrizzava con tanta facilità come se l’oro fosse stato stagno;
Aramis, meno padrone di sè, si frugava di continuo sul petto; Porthos,
infastidito del perder sempre, dava di ginocchio a più non posso.

D’Artagnan voltosi macchinalmente indietro, vide fra due soldati
Parry in piedi, e Carlo posando il gomito, ma a mani giunte come in
atto di dirigere a Dio una fervida preghiera. Il tenente capì ch’era
arrivato l’istante opportuno, che ognuno era al suo posto, e che non
si attendeva più altro che la parola; «Finalmente!» la quale, noi ce le
rammentiamo, dovea servire di segnale.

Lanciò uno sguardo preparatorio ad Athos e Aramis, e questi due
trassero indietro piano piano le loro sedie per aver libertà di
muoversi.

Dette di nuovo nel ginocchio a Porthos, il quale si rizzò, quasi per
isciogliersi le gambe intorpidite: però nel levarsi si accertò che la
sua spada potesse uscire dal fodero facilmente.

«Corpo di Bacco! disse d’Artagnan, altri venti doppie perdute! Ma,
capitano Groslow, avete troppa fortuna; non può durare così!»

E mise fuori altre venti monete.

«Capitano, un tiro solo; queste venti doppie in un botto, sull’ultimo.

«Sia pure, apprestò l’Inglese».

E voltò due carte, conforme è l’uso, un re per d’Artagnan, un asso per
sè.

«Re! fece il tenente, è buon augurio.... Ehi! messer Groslow, aggiunse,
badate al re!»

E non ostante il potere che aveva sovra sè stesso, lasciò trapelare
dall’accento qualche cosa di straordinario che fece scuotere il suo
avversario.

Groslow principiò a voltare le carte una dopo l’altra; se voltava prima
un asso aveva vinto, se un re, avea perduto. Voltò un re.

«Ah! finalmente!» esclamò d’Artagnan.

Tosto si alzarono Athos ed Aramis; Porthos fè un passo indietro. Erano
prossimi a splendere spade e pugnali. Ma ad un tratto fu aperta la
porta, e si mostrò sulla soglia Harrison, accompagnato da un uomo
involto in un ferrajuolo.

A tergo a costui si vedevano rilucere i moschetti di cinque o sei
soldati.

Groslow si rizzò con impeto, vergognandosi di esser còlto fra mezzo
alle bottiglie, ai dadi e alle carte. Harrison non pose mente a lui, ed
entrato nella stanza del re con quello che lo seguiva, disse:

«Carlo Stuart, ci giunge l’ordine di condurvi a Londra senza fermarsi
nè di notte nè di giorno: apparecchiatevi a partire sull’atto.

«E da parte di chi viene l’ordine? domandò Carlo.

«Dal generale Oliviero Cromvello».

Ed Harrison continuò:

«Ecco il signor Mordaunt, che n’è il latore e incaricato di farlo
eseguire.

«Mordaunt!...» esclamarono i quattro camerati guatandosi
scambievolmente.

D’Artagnan tolse di sul tavolino tutto il danaro perduto da lui e da
Porthos e se lo cacciò nell’ampia saccoccia. Athos ed Aramis gli si
posero a tergo. A quel movimento Mordaunt si voltò e li riconobbe, e
diede un’esclamazione di gioja selvaggia.

«Ho idea che siamo presi, disse sommessamente d’Artagnan agli amici.

«Non per anco, fece Porthos.

«Colonnello! colonnello! gridò Mordaunt, fate che si circondi
questa stanza, siete tradito. Questi quattro Francesi sono fuggiti
da Newcastle, e vogliono sicuramente portar via il re! siano tosto
arrestati!

«Oh giovanotto! disse d’Artagnan sguainando la spada, codesto è ordine
più facile a darsi che ad eseguirsi».

E segnandosi attorno un tratto terribile di molinello:

«Amici! ritirata! ritirata!»

Nel medesimo tempo si avventò sulla porta, ed atterrò due soldati che
la custodivano prima che avessero campo di caricare i moschetti; Athos
ed Aramis gli furono appresso; Porthos fece da retroguardia, e innanzi
che soldati, uffiziali e colonnello avessero agio a prender fiato,
erano tutti e quattro in istrada.

«Fuoco! gridò Mordaunt, fuoco su coloro!»

Di fatti vi furono due o tre spari di fucile, ma non sortirono altro
effetto se non di mostrare i quattro fuggiaschi che sani e salvi
giravano dall’angolo della contrada.

I cavalli erano al luogo prefisso, i servi ebbero soltanto da gettar le
briglie ai padroni, i quali si trovarono in sella con la leggerezza di
esperti cavallerizzi.

«Innanzi! disse d’Artagnan, e forte di sprone!»

E tutti seguendo lui corsero ripigliando la stessa via fatta nel
giorno, cioè dirigendosi in verso Scozia. Il borgo non aveva porta nè
mura, e quindi essi ne uscirono senza difficoltà.

A distanza di cinquanta passi dall’ultima casa d’Artagnan si soffermò e
disse agli altri:

«Alto!

«Come alto! esclamò Porthos, anzi di galoppo, volete dire.

«Niente affatto! Questa volta vorranno inseguirci; lasciamoli venir
fuori dal borgo e correrci appresso sulla strada di Scozia, e quando
gli avremo visti a passare volando, noi prenderemo il cammino opposto».

A breve spazio di là era un ruscello, e su questo un ponte; d’Artagnan
menò il suo destriero sotto l’arco dei ponte, gli amici pure vi
andarono seco.

Dopo dieci minuti appena che stavano colà udirono avvicinarsi di
galoppo una turba d’uomini a cavallo. E indi a cinque minuti questa
transitava di sopra alle loro teste, senza figurarsi che quelli di
cui andava in cerca non erano da lei separati se non che dalla sola
grossezza della vôlta del ponte.



LXVII.

_Londra._


Perduto che si fu in lontananza lo strepito del camminare dei
destrieri, d’Artagnan tornò sulla riva del fiumicello, e si mise a
battere la pianura, orizzontandosi quanto fosse possibile inverso
Londra. I tre amici lo seguitarono in silenzio sino a che mediante un
mezzo giro si fossero lasciata molto indietro la città.

«Per questa volta, disse il nostro tenente, allorchè si stimò assai
lungi dal punto della partenza per mutare in trotto il galoppo già
preso, credo assolutamente che tutto è perduto, e che quanto di meglio
possiamo fare si è di recarci in Francia. Athos, che vi pare di questa
proposizione? non la trovate ragionevole?

«Sì, rispose Athos, ma l’altro giorno voi pronunziaste un detto nobile
e generoso: e fu — Morremo qui! — or io ve lo rammento.

«Oh! soggiunse Porthos, la morte è nulla; non già la morte deve
inquietarci, poichè non sappiamo ciò ch’ella sia, ma mi tormenta la
idea di una sconfitta. Dal modo in cui principiano le cose, vedo che ci
converrà dar battaglia a Londra, alle provincie, a tutta l’Inghilterra,
e per verità non può mancare che alla fine siamo battuti.

«Dobbiamo assistere sino all’ultimo a quella grande tragedia, disse
Athos, e non abbandoneremo l’Inghilterra se non dopo lo scioglimento
qualunque esso sia. Siete della mia opinione, Aramis?

«Interamente, caro conte. D’altronde vi confesso che non
m’increscerebbe di ritrovare il Mordaunt; mi sembra che abbiamo un
conto da regolar seco, e che non siamo usi a lasciare i paesi senza
pagare queste sorte di debiti.

«Oh! questo è tutt’altro, fece d’Artagnan, ed ecco una ragione che mi
par plausibile. In quanto a me dichiaro che per rinvenire il Mordaunt
che voi dite resterò in Londra, occorrendo, anche un anno. Bensì
procuriamoci l’alloggio presso ad una persona sicura, ed in maniera di
non destare sospetti, giacchè a quest’ora messer Cromvello deve farci
cercare, e da quel che ho potuto giudicarne e’ non è uomo che scherzi.
Athos, conoscete in tutta la città una locanda dove si abbiano lenzuola
pulite, biscotto passabile e vino che non sia fatto con luppolo e
ginepro?

«Credo di aver quanto bramate, rispose Athos. Di Winter ci condusse
da un tale che diceva fosse un antico Spagnuolo naturalizzato inglese
mercè le ghinee dei suoi nuovi concittadini. Che ne pensate, Aramis?

«Eh! il progetto di fermarci dal signor Perez mi sembra
convenientissimo, sicchè per me io lo adotto. Invocheremo la
rimembranza del povero di Winter, per cui dimostrava grande
venerazione; gli diremo che veniamo come amatori per vedere quel che
succede; spenderemo da lui una ghinea per ciascuno al giorno, e credo
che con tali precauzioni potremo stare assai quieti.

«Di una però vi dimenticate, Aramis, ed anche importante.

«E quale?

«Di cambiar vestimento.

«Oibò! disse Porthos, perchè cambiarli? ci stiamo tanto comodamente!

«Per non essere riconosciuti, replicò d’Artagnan; i nostri abiti sono
di un taglio e quasi di un colore tutto eguale che accusa a prima
vista il _Frenchman_; ed io non sono così attaccato alla forma del
mio giubbetto o alla tinta delle brache, per arrischiarmi per amor di
questi ad essere appiccato a Tyburn o andare a fare una passeggiata
nell’Indie. Mi comprerò subito un abito color marrone: ho osservato che
tutti quegli imbecilli di puritani ne vanno matti fanatici.

«Ma ritroverete colui? domandò Aramis.

«Oh! di certo; abitava in Green-Hall-street, _Bedford’s tavern_; e poi
nella Città-Vecchia io andrei a chius’occhi, rispose Athos.

«Vorrei digià esservi, disse d’Artagnan, e il mio sentimento sarebbe
d’arrivare a Londra innanzi giorno, qualora pure dovessimo fare
scoppiare le nostre bestie.

«Andiamo, andiamo, fece Athos, giacchè se non m’inganno ne’ miei
calcoli, non dobbiamo esserne lontani più di otto o dieci leghe».

Tutti si sollecitarono, e giunsero di fatti la mattina intorno
alle cinque. Alla porta da cui si presentarono li fermò un corpo di
guardia, ed Athos rispose in buonissimo inglese esser eglino inviati
dal colonnello Harrison a prevenire il suo collega master Pridge del
prossimo arrivo del re. Questa risposta trasse ad alcune interrogazioni
sopra la presa del re, ed Athos diede ragguagli sì precisi e positivi,
che se pure i guardiani avevano qualche sospetto lo perderono del
tutto. E quindi fu dato libero il passo a’ quattro camerati con ogni
specie di congratulazioni puritane.

Athos aveva detto il vero, andò direttamente a _Bedford’s tavern_, e si
fe’ riconoscere dall’oste, il quale contentissimo di vederlo tornare in
compagnia sì numerosa e bella, ordinò si allestissero tosto le migliori
stanze.

Benchè non fosse per anco giorno, i nostri quattro viaggiatori avevano
trovata tutta Londra sossopra. Erasi sparsa fin dalla sera innanzi la
voce che il re, condotto dal colonnello Harrison, s’incamminasse verso
la capitale, e molti non si erano coricati per tema che lo Stuart,
conforme lo chiamavano, arrivasse di notte, ond’eglino avessero a
perdere lo spettacolo del di lui ingresso.

Noi ci ricordiamo che il progetto di mutar panni si era adottato a voti
unanimi, meno la lievissima opposizione di Porthos. Si passò dunque
a porlo in esecuzione. Il locandiere fece portare abiti di tutte le
sorta, come se intendesse rimettere a nuovo la sua guardaroba. Athos ne
pigliò uno nero, che gli dava tutta l’aria di un onesto particolare;
Aramis, non volendo lasciar la spada, lo scelse verde cupo di taglio
alla militare; Porthos si sentì allettato da un giubbetto rosso co’
calzoni verdi; d’Artagnan, che aveva digià fissato anticipatamente il
colore, non ebbe più da badare che alla gradazione di questo, e sotto
il vestito marrone che tanto desiderava, rappresentava al naturale un
negoziante di zuccheri ritiratosi dal commercio.

Grimaud e Mousqueton, che non portavano livrea, si trovarono bell’e
immascherati. D’altronde, Grimaud offeriva il tipo quieto, magro e
sostenuto dell’Inglese circospetto; e Mousqueton quello dell’Inglese
grasso, panciuto e scioperato.

«Adesso, disse d’Artagnan, si passi all’essenziale: tagliamoci i
capelli, onde non essere insultati dalla plebaglia. Non essendo più
gentiluomini mediante la spada, siamo puritani pell’acconciatura. È
questo, come sapete, il punto importante che separa il _covenantaire_
dal cavaliero.

Su questo _punto importante_ d’Artagnan trovò indocilissimo Aramis:
esso voleva ad ogni modo conservarsi la chioma che aveva bella e di
cui aveva grandissima cura, e fu d’uopo che Athos, al quale erano
indifferenti tutte le quistioni, gli desse l’esempio. Porthos porse
senza difficoltà la testa a Mousqueton, che recise a larghe forbiciate
la folta e dura capigliatura. D’Artagnan si accomodò di per sè un
capo di capriccio che somigliava un poco a una medaglia dei tempi di
Francesco I e di Carlo IX.

«Siamo pur brutti! disse Athos.

«Mi pare che puzziamo di puritani da far paura! disse Aramis.

«Sento freddo alla zucca, disse Porthos.

«Ed io, disse d’Artagnan, ho voglia di predicare.

«Ora, soggiunse Athos, che neppur da per noi ci riconosciamo, e in
conseguenza non abbiamo timore che gli altri ci ravvisino, si vada a
veder entrare il re: se ha camminato tutta la notte, non deve essere
lontano da Londra».

Infatti non passarono due ore dacchè i quattro camerati si erano
mischiati tra la folla, che un gran movimento annunziò la venuta di
Carlo. Gli era stata mandata incontro una carrozza, e il gigantesco
Porthos che colla sua testa sorpassava tutte le altre avvertì qualmente
il regio cocchio si avvicinava; d’Artagnan si drizzò in punta di
piedi, mentre Athos ed Aramis stavano in ascolto onde procurare di
farsi un’idea dell’opinione generale. Frattanto la carrozza passò
e d’Artagnan riconobbe Harrison e Mordaunt, ciascuno accanto a uno
sportello.

Il popolo poi, di cui Athos ed Aramis studiavano le impressioni,
mandava un precipizio d’imprecazioni contro a Carlo.

Athos ritornò dentro disperato.

«Eh! gli diceva d’Artagnan, vi ostinate inutilmente, ed io vi protesto
che la situazione è pessima. In quanto a me, non mi ci associo se non
per cagion vostra, e per un tal quale interesse di artista in politica
a uso moschettiere, e stimo che sarebbe una bella cosa sottrarre a quei
clamorosi la lor preda e farci beffe di loro. Ci rifletterò».

All’indomani Athos, affacciatosi al balcone che dava sui quartieri più
popolosi della Città-Vecchia, udì gridare il _bill_ del parlamento che
traduceva alla sbarra l’ex-re Carlo I, reo presunto di tradimento e
abuso di potere.

D’Artagnan gli stava vicino, Aramis esaminava una carta, Porthos era
assorto nell’ultime delizie di una colazione squisita.

«Il parlamento? esclamò Athos, non può essere che il parlamento abbia
dato un simile _bill_.

«Ascoltate, fece d’Artagnan; io intendo poco l’inglese, ma siccome
l’inglese non è altro che un francese mal pronunziato, ecco quel che
odo: _Parliament’s bill_, lo che significa _bill_ del parlamento, o Dio
mi danni! come dicono qua».

Nell’istante entrava l’oste; Athos gli accennò di accostarsi e gli
domandò in inglese:

«Il parlamento ha dato quel _bill_?

«Si, milord, il parlamento puro.

«Come, il parlamento puro? vi sono dunque due parlamenti?

«Amico, interruppe d’Artagnan, siccome io non capisco l’inglese, ma
noi tutti intendiamo lo spagnuolo, fateci il piacere di discorrerci in
questa lingua, ch’è la vostra, e che in conseguenza dovete aver genio a
parlare quando ne trovate l’occasione.

«Benissimo!» soggiunse Aramis.

Di Porthos, già lo avvertimmo, tutta l’attenzione era concentrata
sull’osso di una costoletta che si occupava a spogliare della polputa
sua invoglia.

«Sicchè mi domandavate? riprese il locandiere in ispagnuolo.

«Domandavo, rispose Athos nello stesso idioma, se v’erano due
parlamenti, uno puro ed uno impuro?

«Oh questa è bizzarra! disse Porthos alzando il capo lentamente e
guardando meravigliato i compagni; dunque adesso capisco l’inglese,
intendo ciò che voi dite.

«Perchè parliamo spagnuolo, mio caro, gli replicò Athos col suo solito
sangue freddo.

«Ah diascolo! me ne dispiace, sarebbe stata per me una lingua di più.

«Quando dico il parlamento puro, _señor_, ribattè l’oste, discorro di
quello appurato dal signor colonnello Pridge.

«Ah! davvero, fece d’Artagnan, queste genti sono molto ingegnose;
bisognerà che al mio ritorno in Francia io insegni questo mezzo al
Mazzarino e al Coadjutore: uno appurerà in nome della corte, l’altro in
nome del popolo, talmentechè non vi sarà affatto più parlamento.

«Chi è il colonnello Pridge? chiese Aramis, e in che maniera si è
regolato per appurare il parlamento?

«Il colonnello Pridge, rispose lo Spagnuolo, è un antico carrettajo,
uomo di molto spirito, il quale guidando il suo barroccio aveva
osservata una cosa, cioè: che quando si trovava davanti per la via una
pietra, era più breve levar la pietra che provarsi a farci passar sopra
le ruote. Ora in duecento e cinquantun membro di cui si componeva il
parlamento, cento novantuno gli davano noja ed avrebbero potuto far
ribaltare la sua carretta politica; li prese come in addietro pigliava
i sassi, e li gettò fuori dalla camera.

«Bellissima! disse d’Artagnan, che come uomo di spirito stimava assai
lo spirito dovunque lo incontrava.

«E tutti quegli espulsi erano Stuartisti? chiese Athos.

«Senza dubbio, _señor_, e comprenderete che avrebbero salvato il re.

«Perdinci! disse maestosamente Porthos, formavano la maggiorità.

«E voi pensate, continuò Aramis, che egli consentirà a comparire
dinanzi a un tal tribunale?

«Necessariamente, rispose lo Spagnuolo; se tentasse un rifiuto, il
popolo ve lo costringerebbe.

«Grazie, maestro Perez, fece Athos; ormai sono chiarito abbastanza.

«Principiate voi a credere, Athos, seguitò d’Artagnan, che ell’è
una causa perduta, e che con gli Harrison, i Joyce, i Pridge ed i
Cromvelli, non saremo mai in grado di metterci a pari?

«Il re sarà consegnato ai tribunali, ripicchiò Athos; lo stesso
silenzio de’ suoi partigiani dà indizio di un complotto».

D’Artagnan si strinse nelle spalle.

«Ma, disse Aramis, se osano sentenziare il loro re, lo condanneranno
all’esiglio o alla carcere, e questo è tutto».

Il nostro tenente guascone fischiettò la sua arietta di incredulità.

«Lo vedremo, fece Athos, giacchè mi figuro che andremo alle sedute.

«Non avrete mica da aspettar di molto, disse l’oste, perchè lo
incominciano domani.

«Orsù, soggiunse Porthos, ma dunque era istrutto il processo avanti che
fosse preso il re?

«Di certo! ribattè d’Artagnan, lo principiarono nel giorno ch’ei fu
comprato.

«Sapete, proseguì Aramis, che il nostro amico Mordaunt fu quello che
fece, se non il negozio, almeno le prime proposizioni.

«E voi sapete, rispose d’Artagnan, che dovunque mi cada fra le mani, io
lo ammazzo, il signor Mordaunt!

«Oibò! fece Athos, uno sciagurato simile!

«Appunto perchè è uno sciagurato, lo uccido. Ah! mio caro, io secondo
bastantemente le vostre volontà, per che siate indulgente alle mie. E
poi, per questa volta, vi piaccia o no, vi dichiaro che il Mordaunt non
sarà ammazzato se non da me.

«E da me, aggiunse Porthos.

«E da me, crebbe anco Aramis.

«Commoventissima unione unanime! esclamò d’Artagnan, che ben si
conviene a buoni cittadini quali noi siamo. Andiamo a far un giro per
la città; Mordaunt non ci riconoscerà a quattro passi di distanza con
la nebbia che v’è. Si vada a bere un po’ di nebbia.

«Sì, disse Porthos, sarà un cambiamento dalla birra».

E i quattro amici uscirono, per pigliare, secondo suol dirsi, un po’
d’aria del paese.



LXVIII.

_Il processo._


Al dì seguente numerosa guardia condusse Carlo I. innanzi l’alta corte
che dovea giudicarlo.

Grandissima folla ingombrava le strade e le case vicine al palazzo; e
perciò, mossi appena pochi passi, i quattro camerati furono trattenuti
dall’ostacolo quasi non superabile di quel muro vivente; parecchi del
volgo, robusti e sdegnati, respinsero persino Aramis sì malamente,
che Porthos alzò il formidabile pugno e lo lasciò ricadere sul muso
infarinato di un fornajo, il quale tosto variato il colore si cosparse
di sangue, acciaccato qual era a modo di un grappolo d’uva matura.
La faccenda mosse a gran susurro; tre uomini andarono per avventarsi
addosso a Porthos; Athos ne discostò uno, d’Artagnan il secondo, e
Porthos si fece balzare il terzo di sopra al capo. Parecchi Inglesi
dilettanti di pugilato, apprezzarono la maniera veloce e facile con
cui si era eseguita la manovra, e batterono le mani. E mancò poco
allora, che invece di essere accoppati, conforme cominciavano a temere,
Porthos e i suoi compagni fossero portati in trionfo; ma i nostri
quattro viaggiatori che avevano paura di tutto quanto potesse farli
troppo comparire, arrivarono a sottrarsi alla ovazione. Non ostante
guadagnarono una cosa in quella erculea dimostrazione, e fu che la
folla si diradò davanti a loro, e pervennero al resultato apparso prima
impossibile, cioè di arrivare al palazzo.

Affollavasi tutta Londra alle porte delle tribune; e così allorchè i
quattro amici poterono penetrare da una di queste, trovarono occupati
i tre primi sedili. Era poco male per genti che bramavano di non
essere riconosciute; sicchè presero i loro posti, soddisfattissimi di
esser giunti a quel punto, tranne Porthos che desiderava mostrare il
giubbetto rosso e i calzoni verdi, e a cui incresceva di non essere
alla prima fila.

Le panche stavano disposte a guisa di anfiteatro, e i quattro colleghi
dal loro luogo dominavano su tutta l’adunanza. Il caso appunto aveva
fatto sì che fossero entrati nella tribuna di mezzo e si trovassero di
faccia al seggiolone apparecchiato per Carlo I.

Verso le undici ore antimeridiane comparve il re sulla soglia del
salone. Passò, circondato da guardie, ma col cappello in testa, e
tranquillo all’aspetto, e volse per ogni dove lo sguardo sostenuto,
quasi venisse a presiedere a una assemblea di sudditi sottomessi, e non
a rispondere alle accuse di una corte ribelle.

I giudici, superbi di aver da umiliare un re, si accingevano, per
quanto scorgevasi, a prevalersi di questo diritto arrogatosi. In
conseguenza, capitò un usciere a dire a Carlo I qualmente era d’uso che
l’incolpato stesse nuda la testa davanti a’ suoi giudici.

Carlo, senza risponder parola, si cacciò più innanzi che mai il
cappello, e volse il capo da altro lato: e allontanatosi l’usciere,
sedè sulla sedia preparata di faccia al presidente, sferzandosi gli
stivali con un giunchetto che teneva in mano.

Parry, il quale lo accompagnava, stette ritto dietro a lui.

D’Artagnan, ben anzi che badare a tutto quel cerimoniale, guardava
Athos, sul cui sembiante si riflettevano tutte le emozioni che il
re pel gran dominio che avea sopra sè stesso sbandiva dal suo. E
lo spaventò l’agitazione di Athos, comunemente cotanto freddo e
tranquillo.

«Io spero, gli disse all’orecchio, che prendiate esempio da Sua Maestà,
e non vi facciate scioccamente uccidere in questa gabbia.

«Non dubitate, fece Athos.

«Ah ah! continuò d’Artagnan, pare che si tema di qualche cosa, giacchè
ecco che si raddoppiano le guardie; non avevamo che partigiane, e ora
vi sono moschetti; ormai ve n’è per tutti; le partigiane concernono gli
auditori del magistrato, i moschetti sono per noi.

«Trenta, quaranta, cinquanta, settanta uomini, disse Porthos contando i
sopraggiunti.

«Eh! fece Aramis, vi scordate dell’uffiziale; e sì, mi sembra meriti di
essere tenuto a calcolo.

«Sì sì! disse d’Artagnan».

E impallidì dalla collera, perocchè aveva riconosciuto Mordaunt, che
con la spada sguainata conduceva i moschettieri dietro al re, vale a
dire rimpetto alle tribune.

«Ci avesse egli mai riconosciuti? mormorò il tenente, in tal caso
batterei pulitamente la ritirata. Non ho gusto che mi si imponga un
modo determinato di morte, e desidero di morire a genio mio..... e non
mi garba di essere fucilato in una spelonca.

«No, risposo Aramis, non ci ha visti. Egli non vede altro che il
re. Cospettaccio! con che occhi lo guarda, l’insolente! Avesse mai
tant’odio per Sua Maestà quanto ne ha contro di noi?

«Caspita! soggiunse Athos, noi non gli abbiamo tolto che la madre, e il
sovrano lo spogliò del suo nome e del suo patrimonio.

«È vero, confermò Aramis, ma silenzio! ecco il presidente che parla al
re».

Infatti il presidente Bradshaw interpellava l’augusto imputato.

«Stuart, ei disse, ascoltate l’appello nominale de’ vostri giudici, e
avanzate le osservazioni che avete da fargli».

Carlo, quasi l’invito non fosse a lui diretto, si girò da altra parte.

Bradshaw aspettò, e non venendo veruna risposta fu un momento di pausa.

In cento sessantatrè membri indicati, settantatrè soltanto potevano
rispondere, perocchè gli altri atterriti dalla complicità di un tale
atto si erano astenuti.

«Procedo all’appello, disse Bradshaw senza mostrare di por mente alla
mancanza di tre quinti dell’assemblea».

E cominciò a nominare un dopo l’altro i membri presenti ed assenti....
si facevano sentire con voce forte o debole, secondochè aveano o no
coraggio da sostenere la loro opinione; alla chiamata degli assenti due
volte ripetuta succedeva breve silenzio.

Venne il nome del colonnello Fairfax, e dopo questo silenzio, corto sì,
ma solenne, di quelli che manifestavano l’assenza dei membri i quali
non aveano voluto prender parte personalmente al giudizio.

«Il colonnello Fairfax! ripetè Bradshaw.

«Fairfax? disse in modo di scherno una voce che dal suono si riconobbe
esser di donna, oh! ha troppo buon senso per esser qui».

Un grande scroscio di risa accolse queste parole, profferite con
l’audacia che le donne traggono appunto dalla lor debolezza, la quale
però le sottrae a qualunque vendetta.

«È voce di femmina! esclamò Aramis, ah! quanto darei per che fosse
bella e giovane!»

E salì sul gradino onde procurar di vedere nella tribuna da cui si
erano partite quelle parole.

«Oh! sull’anima mia è pure avvenente! fece Aramis stesso, mirate
un po’, d’Artagnan, tutti la osservano, e non ostante lo sguardo di
Bradshaw non è impallidita.

«È lady Fairfax in persona, rispose d’Artagnan, Porthos, ve ne
rammentate? la vedemmo col suo marito dal generale Cromvello».

Indi a poco si ristabilì la calma turbata da questo episodio, e
ricominciò la chiamata.

«Quei bricconi scioglieranno la seduta quando si accorgeranno di non
essere in numero sufficiente, disse il conte di la Fère.

«Athos, voi non li conoscete: badate al sorriso di Mordaunt, vedete
come guarda il re. È quello lo sguardo di uno che tema che gli fugga
la sua vittima? no no! è il sogghigno dell’odio soddisfatto, della
vendetta prossima ad esser paga. Ah, maledetto basilisco! bel giorno
sarà per me quello in cui teco incrocierò ben altro che un’occhiata!

«Il re è veramente bello! disse Porthos, e poi notate, ancorchè
prigioniero, quanto è ben vestito. La penna che ha al cappello vale per
lo meno cinquanta doppie; osservatela, Aramis».

Terminato l’appello, il presidente diede ordine di passare alla lettura
dell’atto di accusa.

Athos si fece smorto: era deluso anco una volta nella sua aspettativa.
Sebbene i giudici fossero in numero non bastevole s’intavolerebbe il
processo; il re era condannato anticipatamente.

«Ve lo aveva detto, Athos! fece d’Artagnan con un moto delle spalle,
ma voi dubitate sempre. Ora dunque prendetevi a due mani il vostro
coraggio, ed ascoltate senza farvi troppo cattivo sangue, ve ne prego,
gli orrori che quel signorino abbigliato di nero dirà del suo re, con
licenza e privilegio».

Diffatti non mai peranche incolpazione più brutale, più vili ingiurie,
più sanguinosa requisitoria, abbassata avevano la regia maestà. Fino
allora la gente si era contentata di assassinare i re, ma almeno non si
erano prodigati gl’insulti se non se a’ loro cadaveri.

Carlo I ascoltava i discorsi dell’accusatore con attenzione
particolare, lasciando passare le ingiurie, contenendo ogni lagnanza,
e quando l’odio straboccava di soverchio, quando lo accusatore si
faceva boja innanzi tempo, ei rispondeva con un sorriso sprezzante. In
conclusione, era un’opra grande e terribile quella in cui l’infelice re
ritrovava tutte le sue imprudenze cambiate in insidie, e i suoi errori
trasformati in delitti.

D’Artagnan, il quale lasciava scorrere quel torrente di oltraggi con
tutto il disprezzo che meritavano, fermò bensì la sua mente giudiziosa
sopra alcune delle incolpazioni.

«Fatto sta, egli disse, che se si punisce per imprudenza e leggerezza,
questo povero re è degno di punizione; ma a me sembra che quella che
attualmente ei subisce sia troppo cruda.

«In ogni caso, rispose Aramis, il castigo non potrebbe cogliere il re,
ma soltanto i suoi ministri, poichè la prima legge della costituzione
inglese si è: _Il re non può fallare_.

«Per me, pensava Porthos mentre guardava Mordaunt e non si occupava se
non di lui, se non fosse turbare la maestà della circostanza salterei
giù dalla tribuna, in due balzi mi avventerei sopra il Mordaunt e lo
strangolerei, e presolo per i piedi picchierei col suo corpo tutti
questi moschettieri che fanno la parodia ai moschettieri di Francia;
nel frattempo d’Artagnan pieno di spirito e di prontezza forse
troverebbe un mezzo di salvare il re. Bisognerà ch’io glie ne parli».

Athos, poi, col fuoco sulla faccia, chiuse le pugna, insanguinatesi
le labbra a forza di mordersele, buttava spuma dalla bocca, furibondo
per quel lunghissimo insulto parlamentare e per la costante pazienza
regale; ed in lui il braccio inflessibile e l’irremovibile cuore si
erano cangiati in mani tremanti e corpo assalito da’ brividi.

Nel momento l’accusatore terminava il suo ufficio con questi detti:

«La presente accusa si produce da noi in nome del popolo inglese».

A tali parole fuvvi un bisbiglio sulle tribune, e dietro a d’Artagnan
tuonò una voce, non voce di donna, ma d’uomo, voce sonora e fierissima,
la quale esclamò:

«Tu menti! e i nove decimi del popolo inglese hanno orrore di ciò che
tu dici».

Era Athos, che fuori di sè, ritto, col braccio teso, così interpellava
il pubblico accusatore.

A siffatta apostrofe, re, giudici, spettatori, tutti si volsero verso
la tribuna dov’erano i quattro amici. Mordaunt fece altrettanto, e
ravvisò il gentiluomo attorno a cui si erano alzati gli altri due
Francesi, scolorita la faccia e minacciosi. Gli brillarono gli occhi
per la gioja, chè ritrovava al fine coloro alla ricerca e alla morte
dei quali aveva consacrata la propria vita. Con un moto furibondo
chiamò a sè venti de’ suoi moschettieri, e additando la tribuna dove
stavano i suoi nemici, gridò:

«Fuoco su quella tribuna!»

Però allora, rapidi al pari del pensiero, d’Artagnan afferrando a
mezzo al corpo Athos, Porthos portando seco Aramis, balzarono giù dai
gradini, si slanciarono nei corridoj, scesero velocemente le scale, e
si perderono tra la folla, mentre nell’interno della sala i moschetti
abbassati minacciavano tremila spettatori, che con le lor grida, col
loro spavento, trattennero lo slancio già dato alla strage.

Carlo pure aveva riconosciuti i quattro francesi, e si era posta una
mano sul cuore onde frenarne i palpiti, e l’altra sugli occhi per non
vedere uccidere i suoi amici.

Mordaunt, bianco e tremante dalla rabbia, si precipitò fuori dalla
sala, nuda in pugno la spada, con dieci alabardieri, indagando tra la
moltitudine, e interrogando, e poi ritornò indietro senza aver trovato
nulla.

Finalmente si ristabilì la calma.

«Che avete voi da dire per vostra difesa? domandò Bradshaw al re.

«Innanzi d’interrogarmi, disse Carlo, rispondetemi. Io era libero
in Newcastle, ed avevo colà conchiuso un trattato con le due camere.
In vece di eseguire per parte vostra il trattato ch’io dal mio lato
adempieva, mi compraste dagli Scozzesi, non a caro prezzo, lo so, e
ciò fa onore all’economia del vostro governo; ma perchè mi pagate al
prezzo di uno schiavo, sperate forse ch’io abbia cessato di essere il
vostro re? No no! Io dunque non vi risponderò se non quando mi avrete
giustificati i vostri diritti ad interrogarmi: il rispondervi sarebbe
come riconoscervi per giudici miei, ed io non vi riconosco che per miei
carnefici».

E in mezzo a un silenzio di morte, Carlo, tranquillo, altero, e sempre
coperta la testa, nuovamente si assise.

«Ah! perchè non sono là, i miei Francesi? mormorò poscia con orgoglio e
volgendo il ciglio verso la tribuna ove essi erano comparsi dapprima,
vedrebbero che il loro amico, vivo, è degno di esser difeso, e morto,
di esser pianto».

Invano però ricercava tra la folla, e in certo modo chiedeva a Dio la
loro dolce e consolante presenza; non vide altro che fisonomie stupide
ed impaurite, e si sentì alle prese con l’odio e la ferocia.

«Ebbene, disse il presidente dacchè Carlo mantenevasi deciso a tacersi,
noi vi giudicheremo ad onta del vostro silenzio. Siete accusato di
tradimento, abuso di potere, ed assassinio. Faranno fede i testimoni.
Andate, ed una prossima seduta compirà ciò che negate di fare in
questa».

Carlo si alzò, e voltosi a Parry, cui vedeva pallido e bagnate le
tempie di sudore, gli domandò:

«Che hai tu, mio buon Parry? e di che tanto ti agiti?

«Oh sire! questi rispose con le lacrime agli occhi e in tuono supplice,
sire, all’uscire dalla sala non guardate a sinistra!

«E perchè?

«Non guardate, ve ne scongiuro, mio re!

«Ma che v’è mai?.... parla! continuò il re procurando distinguere tra
la fila di guardie che stavagli a tergo.

«V’è.... ma, sire, non guarderete, è vero? v’è che sopra una tavola
hanno fatto portare la scure con la quale si giustiziano i rei. È
orribil vista! non guardate, sire, io ve ne supplico!

«Stupidi! fece Carlo, dunque mi credono vile al pari di loro?....
Grazie, Parry, facesti bene ad avvertirmi».

Ed essendo il momento di ritirarsi, uscì seguendo i suoi custodi.

In fatti, a sinistra dalla porta brillava di un tristo riflesso, cioè
di quello del tappeto rosso su cui era posata, la bianca scure col
lungo manico forbito del carnefice.

Carlo giunto a questa di faccia si soffermò.

«Ah ah! disse ridendo, la mannaja! spauracchio ingegnosissimo
e degno di coloro i quali non sanno che siasi un gentiluomo; tu
non mi fai paura, scure del boja, aggiunse sferzandola col giunco
sottile e pieghevole che aveva in mano, ed io ti percuoto aspettando
cristianamente e con pazienza che tu a me faccia altrettanto».

Ed in atto di sommo disprezzo proseguì il suo cammino, e lasciò
attoniti quelli che si erano affollati attorno alla tavola onde vedere
che ciera avrebbe il re nel mirar la bipenne che separar doveva dal suo
corpo la testa.

«In verità, Parry, disse il re mentre si allontanavano, quelle genti,
Dio mi perdoni, mi prendono per un mercante di cotone delle Indie, e
non per un gentiluomo uso a veder brillare il ferro. Si pensano forse
ch’io non valga quanto un macellajo?»

Intanto che profferiva queste parole, arrivava alla porta. Era accorsa
lunga fila di popolo, che non avendo potuto trovar posto nelle tribune
voleva almeno godere della fine dello spettacolo di cui aveva perduta
la parte più interessante. Quella innumerevole moltitudine, fra la
quale abbondavano minacciose fisonomie, fece mandare al re un piccolo
sospiro.

«Quanta gente, ei pensò, e non un amico zelante!»

E mentre pronunziava fra sè questi accenti di dubbio, di coraggimento,
una voce a lui vicina disse rispondendo:

«Salve alla decaduta Maestà!»

Il re si volse con impeto; aveva al cuore ed agli occhi le lacrime.

Quegli che sì parlava era un vecchio soldato delle sue guardie, che non
voleva vedersi a passare dinanzi il suo re prigioniero senza rendergli
quest’ultimo omaggio.

Ma all’istante medesimo, l’infelice fu quasi ucciso a colpi di pomo di
spada.

Fra quei che lo accoppavano, il re ravvisò il capitano Groslow.

«Ahimè! disse Carlo, che castigo terribile per fallo sì lieve!»

Ed angustiato continuò ad andare avanti.

Ma non aveva fatto cento passi, che un furibondo, chinandosi fra mezzo
a due soldati schierati, sputò sul viso al re.

Echeggiarono insieme e risate e tristissimo mormorio; la calca si
diradò, si riavvicinò, ondulando come un mar burrascoso, ed a Carlo
sembrò di veder rilucere fra quell’onda vivente gli occhi infuocati di
Athos.

Carlo si asciugò la guancia, e disse con un mesto sorriso:

«Sciagurato! per mezza lira farebbe altrettanto a suo padre!»

Il sovrano non si era ingannato; avea distinto effettivamente Athos ed
i suoi amici, che, mescolatisi di nuovo alla turba, scortavano con un
ultimo sguardo il re martire.

Quando il soldato salutò Carlo, balzò ad Athos il petto dal giubilo,
e quel misero, allorchè fu in sè rinvenuto, si trovò nella saccoccia
dieci ghinee depostevi furtivamente dal gentiluomo francese; ma quando
il vile oltraggiatore sputò sulla faccia al re prigioniero, Athos mise
mano al pugnale.

Lo trattenne però d’Artagnan, dicendogli con voce rauca:

«Aspetta!»

D’Artagnan non aveva mai dato del _tu_ nè ad Athos nè al conte di la
Fère.

Athos si ristette.

D’Artagnan si appoggiò su di lui, accennò a Porthos e ad Aramis di
non allontanarsi, e venne a collocarsi dietro all’uomo, che colle
braccia ignude rideva tuttavia dell’infame suo scherzo e riceveva le
congratulazioni di parecchi altri furibondi.

Colui s’incamminò verso la Città-Vecchia. Il nostro tenente Guascone,
sempre reggendosi ad Athos, lo seguitò, facendo segno ad Aramis e a
Porthos di andargli appresso.

L’uomo dalle braccia scoperte, che pareva un garzone di macellajo,
discese con due compagni da una straduzza ripida ed isolata che dava
sul fiume. D’Artagnan, scioltosi dal braccio dell’amico, andava a tergo
all’oltraggiatore.

Quei tre, giunti vicini alla riva, si accorsero di esser seguìti: si
fermarono, e guatando con insolenza i Francesi ricambiarono fra loro
alcuni lazzi.

«Io non so l’inglese, disse d’Artagnan ad Athos, ma voi lo sapete, e mi
farete da interprete».

Raddoppiarono il passo, e superarono nel cammino gl’Inglesi. Ma
d’Artagnan, giratosi ad un tratto, andò incontro al macellajo, il
quale si ristette, e toccatolo sul petto con la cima dell’indice, disse
all’amico:

«Athos, ripetetegli questo: — sei stato un vile, hai insultato un uomo
privo di difesa, hai lordata la faccia del tuo re, ora morrai!.... — »

Athos, pallido come una larva, ed a cui d’Artagnan teneva stretto
il pugno, tradusse quelle strane parole al disgraziato, che, visti i
fieri preparativi e l’occhio terribile di d’Artagnan, voleva tentare di
difendersi. A questo moto Aramis mise mano alla spada.

«No no! il ferro no! gridò d’Artagnan, il ferro è pei gentiluomini!»

Ed afferrato pel collo il beccajo, soggiunse:

«Porthos! voi con un pugno ammazzatemi questo scellerato!»

Porthos alzò il braccio tremendo, lo fece sibilare per aria come una
frombola, e la pesantissima mole cadde con gran fracasso sul cranio del
vile e glielo infranse.

L’uomo cascò come farebbe un bue sotto la mazzuola.

I suoi camerati volevano gridare, fuggire, ma nella bocca mancò ad essi
la voce, e sotto a loro si piegarono le gambe.

«Athos, continuò d’Artagnan, dite a costoro anche questo: — Così
morranno tutti quelli che dimenticano che un uomo avvinto fra catene è
una testa sacra, che un re prigioniero è due volte rappresentante del
Signore — ».

Athos ripetè esattamente.

I due uomini, ammutoliti, irti i capelli, osservavano il corpo del
compagno che sguazzava in una pozza di sangue nero; indi, ritrovando
insieme e voce e forze, scapparono strillando a mani giunte.

«È fatta giustizia! disse Porthos asciugandosi la fronte.

«E adesso, disse d’Artagnan ad Athos, non dubitate di me e state
quieto, assumo io su di me tutto quanto interessa il re Carlo».



LXIX.

_Whitehall._


Il Parlamento condannò a morte Carlo Stuart, secondo era agevole
prevedersi. I giudizj politici sono quasi sempre vane formalità,
conciossiachè le medesime passioni che fanno accusare fanno condannare
pur anco. Tale è la terribile logica delle rivoluzioni.

Abbenchè i nostri amici si attendessero quella sentenza, ne provarono
sommo dolore. D’Artagnan, la di cui mente nei momenti estremi aveva
maggiori risorse che mai, giurò di nuovo che tutto tenterebbe onde
impedire lo scioglimento della sanguinosa tragedia. Ma con che mezzi?
ecco ciò che tuttavia egli vedeva vagamente. Tutto dipenderebbe
dall’indole delle circostanze. Intanto che si potesse fissare un piano
completo, era d’uopo ad ogni costo per acquistar tempo porre ostacolo a
che l’esecuzione avesse luogo all’indomani conforme avevano i giudici
deciso. L’unico modo era di fare sparire da Londra il carnefice:
sparito il carnefice, non poteva eseguirsi la sentenza. Certo, sarebbe
mandato a chiamare quello della città più vicina, ma con questo si
guadagnerebbe almeno un giorno, e un giorno in casi simili è forse la
salvezza! D’Artagnan si assunse questa impresa più che difficile.

Era poi cosa non meno essenziale il prevenire Carlo Stuart che si
procurerebbe di salvarlo, affinchè egli secondasse quanto fosse
possibile i suoi difensori, o almeno non agisse in senso opposto a
loro. Ed Aramis s’incaricò di codesta rischiosissima diligenza. Carlo
aveva richiesto che si permettesse al vescovo Juxon di visitarlo
nella sua prigione di Whitehall. Mordaunt era venuto in quella stessa
sera dal vescovo onde fargli noto il desiderio religioso espresso dal
re, ugualmente che l’autorizzazione di Cromvello. Aramis risolse di
ottenere dal vescovo, o col terrore o con la persuasione, di lasciar
lui penetrare in sua vece e rivestito delle sue insegne sacerdotali nel
palazzo di Whitehall.

Finalmente Athos si addossò di preparare ad ogni evento i mezzi di
abbandonare l’Inghilterra tanto in caso di riuscita che nell’ipotesi
contraria.

Fattasi notte, si fissarono l’appuntamento all’albergo per le undici
ore, e ciascuno si avviò ad eseguire la sua perigliosa incombenza.

Il palazzo di Whitehall era custodito da tre reggimenti di cavalleria,
ed in ispecie (se così è lecito dire) dall’incessante inquietezza di
Cromvello, che andava e veniva, e mandava i suoi generali o i suoi
agenti.

Solo e nella solita sua camera, rischiarata da due candele, il monarca,
condannato a morte, guardava mestamente il lusso delle sue passate
grandezze, come si vede nell’ora estrema la immagine della vita più
brillante e soave che mai.

Parry non erasi discostato dal suo padrone, e dacchè questi era stato
condannato, non aveva più terminato di piangere.

Carlo Stuart, posate le gomita sovra un tavolino, contemplava un
medaglione su cui stavano accanto uno all’altro i ritratti della moglie
e della figlia. Attendeva prima Juxon, e dopo Juxon il martirio.

Fermava talora il suo pensiero su quei prodi gentiluomini che già gli
parevano lontani le mille leghe, favolosi, chimerici, e simili a quelle
figure che si scorgono in sogno e si dileguano al destarsi.

Perocchè alcune volte Carlo fra sè domandava se tutto quanto gli era
avvenuto fosse propriamente un sogno, o per lo meno il delirio della
febbre.

E a questa idea si alzava, moveva pochi passi quasi per uscire dal suo
torpore, e andava sino alla finestra: ma tosto sotto a questa vedeva
risplendere i moschetti delle guardie; e allora gli faceva d’uopo
convenire ch’era desto e ch’era pur vero il suo sogno sanguinoso.

Ei ritornava in silenzio sul suo seggiolone, rimetteva le gomita sopra
la tavola, lasciava ricadersi la testa sulla mano, e rifletteva.

«Ahimè! tra sè diceva, se almeno avessi per confessore uno di quei
luminari della Chiesa la di cui anima ha scandagliati tutti i misteri
della vita, tutte le piccolezze della grandezza, forse la sua voce
soffocherebbe quella che va querelandosi nell’anima mia! ma avrò un
prete di mente non elevata, e di cui mediante il mio infortunio ho
troncata la carriera e la fortuna. Esso mi parlerà di Dio e della morte
secondo ne ha parlato ad altri moribondi, senza comprendere che questo
moribondo regio lascia un trono all’usurpatore, mentre i figli suoi non
hanno più pane».

Indi, appressandosi alle labbra il ritratto, balbettava a vicenda il
nome di ciascuno dei suoi figli.

Era, conforme dicemmo, notte oscura e nebbiosa. Suonava lenta l’ora
all’orologio della chiesa vicina. I pallidi barlumi delle due candele
spandevano nell’ampia ed alta stanza delle fantasme rischiarate da
stranissimi riflessi. Le fantasme, le larve, erano gli avi del re
Carlo, che risaltavano nelle loro cornici d’oro; i riflessi erano gli
ultimi splendori azzurri del fuoco di carbone che si estingueva.

S’impossessò di Carlo summa tristizia. Ei nascose il capo in fra le due
mani, pensò al mondo tanto bello quando noi lo lasciamo, o piuttosto
quando egli ci lascia; agli amplessi de’ nostri pargoletti sì dolci
e soavi specialmente quando ne siam divisi per non più rivederli, e
poi alla consorte, nobile e coraggiosa donna, che sostenuto lo aveva
sino all’ultimo momento. Si trasse di seno la croce di diamanti e la
placca della Giarrettiera da lei inviategli per mezzo di quegli animosi
Francesi, e le baciò. Poscia, all’idea ch’ella non rivedrebbe questi
oggetti se non dopo ch’ei giacesse freddo e mutilato in una tomba, si
sentì nell’interno scorrere uno di quei brividi gelidi che la morte ci
getta addosso come primo suo manto.

Allora, in quella camera che a lui riproduceva tante regali
rimembranze, dov’erano passati tanti cortigiani e tante adulazioni,
solo con un afflittissimo servo il di cui animo debole non poteva
essere sostegno all’animo suo, il re lasciò cadere il proprio coraggio
a pari a quelle debolezze, a quelle tenebre, a quel gelo invernale; e,
dovremo noi dirlo? questo re, che morì sì grande e sublime, col sorriso
della rassegnazione sul labbro, asciugò all’ombra una lacrima ch’era
scesa sul tavolino e tremolava sopra il tappeto ricamato di oro.

Si udì improvvisamente camminare nelle gallerie, fu aperta la porta,
varie torcie empierono la stanza con la lor luce, ed un ecclesiastico,
indossando vesti vescovili, entrò seguito da due guardiani ai quali
Carlo fe’ con la mano un gesto imperioso.

I due guardiani si ritirarono: fu nuovamente oscurità profonda.

«Juxon! esclamò Carlo! Juxon! grazie, ultimo amico mio, voi giungete
opportuno».

Il vescovo diede un’occhiata inquieta e bieca all’uomo che singhiozzava
all’angolo del camminetto.

«Orsù, Parry, disse il re, non pianger più, ecco che a noi viene Iddio.

«Se è Parry, disse il supposto vescovo, non ho più di che temere; e
così, o sire, permettetemi di riverire Vostra Maestà e di dirle chi
sono e perchè qui vengo».

A tal vista, a tal voce, Carlo era certamente per dare una forte
esclamazione; Aramis, postosi un dito sul labbro, salutò umilmente il
re d’Inghilterra.

«Il cavaliere! balbettò Carlo.

«Sì, sire, fece Aramis alzando la voce, sì, il vescovo Juxon, fedel
cavaliere di Cristo, e che si presta al desiderio di Vostra Maestà».

Il re unì insieme le mani; aveva riconosciuto d’Herblay; rimase
stupefatto, annichilito, dinanzi a quegli uomini, che, stranieri e
senza altro movente che un dovere imposto dalla lor propria coscienza,
si ponevano così a contrasto con il volere di un popolo e il destino di
un re!

«Voi! disse, voi! e come poteste arrivare sin qua? Dio! Dio! se vi
riconoscessero, sareste perduti!»

Parry stava in piedi, ed in tutta la sua persona esprimevasi il
sentimento di somma ed ingenua ammirazione.

«Sire, non pensate a me, rispose Aramis sempre coi gesti raccomandando
a Carlo il silenzio, pensate a voi soltanto; i vostri invigilano, ben
lo vedete; che faremo, ancora non lo so, ma quattro uomini risoluti
ponno far molto. Frattanto non chiudete occhio in tutta la notte, non
vi stupite di cosa alcuna, ed a tutto attendetevi».

Carlo scosse la lesta.

«Amico, replicò, vi è pur noto che non avete tempo d’avanzo, e se
volete agire vi è d’uopo sollecitarvi. Sapete che domattina a dieci ore
io debbo morire?

«Sire, di qui a quel tempo accadrà qualche cosa che renderà impossibile
l’esecuzione».

Il re guardò Aramis con meraviglia.

Nel momento fuvvi sotto alla finestra un rumore singolare, e come lo
produrrebbe il discarico di una carrettata di legna.

«Udite?» disse Carlo.

Poi s’intese un grido di dolore.

«Ascolto, fece Aramis, ma non comprendo che sia il rumore, e
specialmente quel grido....

«Del grido, ignoro chi lo abbia mandato, rispose il re, ma il rumore,
tosto ve lo spiego. Sapete che debbo essere giustiziato fuori da questa
finestra?»

E Carlo stendeva la mano verso la piazza buja e deserta, ove non erano
altro che soldati e sentinelle.

«Lo so, disse Aramis.

«Or bene, la legna che si arreca sono i travi e l’intavolato con che
vuol costruirsi il mio patibolo. Scaricandola, qualche operajo si sarà
fatto male».

Aramis rabbrividì.

«Vedete dunque, continuò Carlo, che è inutile ostinarvi più a lungo;
sono condannato, lasciatemi subire la mia sorte.

«Sire, replicò Aramis, riacquistate la quiete turbata per un istante;
possono innalzare un patibolo, ma non troveranno un carnefice.

«Che intendete mai dire?

«Dico che a quest’ora il carnefice è portato altrove o comprato; domani
sarà pronto il palco, ma mancherà il boja, e quindi l’esecuzione verrà
differita a domani l’altro.

«Ebbene?

«Ebbene, domani, nella notte, noi vi conduciamo fuori di qui.

«Come mai? chiese il re a cui rischiarò la faccia un lampo di gioja.

«Oh signore! balbettò Parry, siate benedetti, e voi ed i vostri!

«Ma come? ripetè Carlo, occorre che io lo sappia, acciò vi secondi se
bisogna.

«Sire, neppur io lo so, fece Aramis; ma il più valoroso, il più zelante
di noi quattro mi lasciò dicendomi: — Cavaliere, dite al re che domani
sera a dieci ore lo condurremo via. — E se lo ha detto, oh! lo farà.

«Palesatemi il nome di quel generoso amico, onde io gli serbi eterna
gratitudine, o riesca o no il suo progetto.

«D’Artagnan, quello stesso ch’era in procinto di salvarvi, quando sì
male a proposito capitò il colonnello Harrison.

«In verità, siete uomini meravigliosi! seguitò il re, e se tali cose mi
si fossero narrate io non le avrei credute.

«Adesso, sire, ascoltatemi. Non vi dimenticate che noi vegliamo pella
vostra salvezza: il minimo gesto, il minimo canto, il minimo cenno di
coloro che vi si appresseranno sia da voi osservato, udito, commentato.

«Oh cavaliere! soggiunse il re, che posso dirvi? Niuna parola, quando
sorgesse dal più profondo del mio cuore, varrebbe a esprimere la mia
riconoscenza. Se riuscite, non vi dirò che salvate un re: no, vista
come io la veggo dal patibolo, la regia autorità è pur cosa da poco,
ve lo giuro; ma conserverete un marito alla moglie, un padre a’ suoi
figli. Cavaliere, toccate questa mano, la mano di un amico che vi amerà
sino all’ultimo respiro».

Aramis voleva baciare la destra di Carlo, ma Carlo, presa a lui la sua,
se la strinse al petto.

Nel momento entrò un uomo senza tampoco bussare all’uscio. Aramis
andava per ritirare la mano, il re lo trattenne.

Colui che entrava era uno di quei puritani mezzo preti e mezzo soldati
che tanto abbondavano presso a Cromvello.

«Che volete? domandò il re.

«Desidero sapere s’è terminata la confessione di Carlo Stuart.

«Che v’importa? disse Carlo, noi non siamo della stessa religione.

«Tutti gli uomini son fratelli, rispose il puritano; un mio fratello è
per morire, ed io vengo ad esortarlo alla morte.

«Andate! gridò Parry, il re non sa che farsi delle vostre esortazioni.

«Sire, avvertì piano Aramis, abbiategli riguardo, è certamente uno
spione.

«Signore, disse a colui il re, dopo il reverendo dottor vescovo, vi
udrò con piacere».

L’individuo, di sguardo bieco, se ne andò, non senza avere osservato
Juxon con tale attenzione di cui Carlo si accorse.

«Cavaliere, disse il re dopo che la porta fu chiusa, credo che avevate
ragione, e che quell’uomo era venuto qui con triste intenzioni; siate
cauto nel ritirarvi, badate che non vi accadano disgrazie.

«Sire, replicò Aramis, io ringrazio Vostra Maestà; ma Ella stia pur
quieta, sotto a questa veste ho il giacco di maglia ed il pugnale.

«Andate dunque, e Dio vi tenga nella sua santa guardia, come dicevo al
tempo ch’ero re».

Aramis uscì. Carlo lo accompagnò fin sulla soglia.

Aramis sparse la sua benedizione, la quale fece inchinare i custodi,
passò maestosamente per le anticamere piene di soldati, salì nella sua
carrozza ove lo seguirono i suoi due guardiani, e si fe’ condurre al
vescovado dov’essi lo lasciarono.

Juxon attendeva ansioso.

«Ebbene? domandò vedendo Aramis.

«Ebbene, disse questi, tutto è riuscito a seconda delle mie brame:
spioni, guardie, satelliti, mi hanno preso per voi, ed il re vi
benedice aspettando che voi lo benediciate.

«Dio vi protegge, figlio mio, ed il vostro esempio mi ha dato insieme
speranza e coraggio».

Aramis si rimise i suoi abiti e il ferrajuolo, e partì, avvertendo
Juxon che ricorrerebbe a lui un’altra volta ancora.

Appena ebbe fatto dieci passi in istrada si accorse che lo seguiva un
tale impastranato; mise mano al pugnale e si fermò.

Quel tale era Porthos.

«Caro amico! disse Aramis, e gli porse la destra.

«Ecco, rispose Porthos, ciascuno di noi aveva il suo incarico; il mio
si era di far guardia a voi, e così feci. Vedeste il re?

«Sì, e tutto va bene. Ed ora i nostri amici dove sono?

«Abbiamo il convegno per le undici ore all’albergo.

«Dunque non v’è tempo da perdere».

Infatti suonavano le dieci e mezzo alla chiesa di San Paolo.

Bensì i due colleghi essendosi sollecitati arrivarono i primi.

Dopo di loro entrò Athos.

«Tutto va ottimamente, annunziò avanti d’essere interrogato.

«Che faceste? gli chiese Aramis.

«Ho preso a nolo una piccola filuca, stretta come una piroga, leggera
come una rondine; questa ci attende a Greenwich di faccia all’isola
dei Cani; ha un capitano e quattro marinaj, che mediante cinquanta lire
sterline staranno a nostra disposizione per tre notti consecutive. Una
volta che siamo a bordo col re, profittiamo della marea, scendiamo
giù pel Tamigi, e in due ore siamo in alto mare. Allora, da veri
pirati, rasentiamo le coste, ci rimpiattiamo verso le spiagge, o se
il mare è libero volgiamo la prua sopra Boulogne. Se mai io restassi
ucciso, sappiate che il padrone si chiama capitano Roger e la barca
_Il Lampo_. Con questo avviso ritroverete questa e quello. Il segno di
riconoscimento è un fazzoletto con quattro nodi uno per cantonata».

A capo a poco giunse pure d’Artagnan.

«Vuotatevi le tasche, esso disse, sino a concorrenza di cento lire
sterline, perchè le mie (e le rivoltava) son vuote affatto».

In un minuto secondo fu messa a parte la somma. D’Artagnan uscì, e
ritornò indi a un momento.

«Oh! disse, è finita.... uf! non senza fatica però!

«Il boja è partito da Londra? domandò Athos.

«Eh sì! in ciò non v’era sicurezza bastante; poteva uscire da una porta
e rientrare dall’altra.

«E dov’è?

«In cantina.

«In qual cantina?

«In quella del nostro locandiere; Mousqueton sta seduto sulla porta, ed
ecco la chiave.

«Bravo! fece Aramis, ma come lo avete indotto a sparire?

«Come s’inducono tutti in questo mondo, col danaro; mi è costato caro,
ma vi ha acconsentito.

«E quanto vi è costato? ricercò Athos, giacchè capite, amico, che
adesso che non siamo più a dirittura poveri moschettieri senza casa nè
tetto; tutte le nostre spese devono essere in comune.

«Dodici mila lire, rispose d’Artagnan.

«E dove le avete trovate? possedevate forse una tal somma?

«E il famoso diamante della regina?

«Ah! è vero, disse Aramis, ve lo avevo riconosciuto in dito.

«Dunque lo avete ricomprato da Des Essarts? disse Porthos.

«Eh sì, mio Dio! replicò d’Artagnan, ma lassù sta scritto ch’io non
possa conservarlo. Che volete? i diamanti, per quanto è da credere,
hanno le loro antipatie o simpatie come gli uomini, e sembra che quello
mi aborrisca.

«Ma, osservò Athos, codesto va bene in quanto al boja; pur troppo ogni
boja ha il suo ajuto, il suo servo, che so io?

«Anche quello lo aveva; noi però siamo fortunati.

«Come mai?

«Nel momento che credevo di aver da trattare di un secondo negozio,
hanno portato colui con una coscia rotta. Per eccesso di zelo egli ha
accompagnata fin sotto alle finestre del re la carretta che conteneva i
travi e gl’intavolati; un di quei travi gli è caduto sulla gamba e glie
l’ha fracassata.

«Ah! disse Aramis, era suo l’urlo che io intesi dalla camera del re?

«Può essere, rispose d’Artagnan; ma, essendo un uomo che pensa bene,
ha promesso nel ritirarsi di mandare in suo luogo e vece quattro operaj
abili ed esperti per ajutare quei che sono già al lavoro; e tornando a
casa del suo padrone, benchè fosse ferito, ha scritto subito a maestro
Tom Lowe, garzone di falegname suo amico, di recarsi a Whitehall ad
eseguire la sua promessa. Ecco la lettera che egli spediva con un
espresso, il quale doveva portarla per dieci pence e l’ha venduta a me
per un luigi.

«E che diamine volete farvi di codesta lettera? fece Athos.

«Non ve lo indovinate? disse d’Artagnan con gli occhi che brillavano di
accortezza.

«No, sull’anima mia!

«Or bene, caro Athos, voi che parlate inglese come John Bull in
persona, siete maestro Tom Lowe e noi siamo i vostri tre compagni.
Adesso capite?»

Athos diede un grido di giubilo e di ammirazione, corse in uno
stanzino, ne trasse degli abiti da operaj con cui si rivestirono subito
i quattro amici; dopo di che essi uscirono dall’albergo, Athos portando
una sega, Porthos un palo di ferro, Aramis una piccozza, e d’Artagnan
un martello e dei chiodi.

La lettera del servo del carnefice faceva fede qualmente eglino fossero
quelli ch’erano aspettati.



LXX.

_Gli operaj._


Verso la metà della notte Carlo udì grande strepito sotto la finestra:
erano colpi di martello e di piccozza, puntate di palo, e stridere di
sega.

Essendosi egli coricato tutto vestito, e cominciando appunto ad
addormentarsi, si destò trasalito a tal fracasso, e perchè questo oltre
al suono materiale aveva anche un eco morale e terribile nell’animo
suo, tornarono ad assalirlo gli orribili pensieri della sera. Solo,
nell’isolamento e fra le tenebre, non ebbe forza di reggere a quella
nuova tortura non compresa nel programma del suo supplizio, e mandò
Parry a dire alla sentinella che pregasse gli operaj di picchiar meno
forte e aver pietà dell’ultimo sonno di lui ch’era stato loro re.

La sentinella non volle abbandonare il suo posto, ma lasciò passare
Parry.

Il quale, giunto vicino alla finestra, dopo fatto il giro del palazzo,
vide a livello col davanzale del quale si era staccata l’inferriata un
largo palco non peranco terminato, ma su cui cominciavasi ad inchiodare
un parato di serge nera.

Il palco, a pari altezza della finestra, cioè di circa venti piedi,
aveva due piani interni.

Parry, per quanto odiosa gli fosse quella vista, cercò in fra otto
o dieci lavoranti che costruivano la trista macchina, coloro che
col rumore che facevano doveano dare al re maggior molestia, e sul
secondo intavolato scôrse due uomini che con un palo staccavano le
ultime aste del balcone di ferro; uno di essi, vero colosso, faceva
l’uffizio dell’ariete antico incaricato di atterrare le muraglie; ad
ogni botta del suo arnese volava in pezzi la pietra; l’altro, stando
inginocchiato, traeva a sè le pietre rimosse.

Era evidente esser quelli che facevano lo strepito di cui lagnavasi
Carlo.

Parry salì su la scala di legno e venne da loro.

«Amici, disse, vorreste lavorare un poco più piano? ve ne prego: il re
dorme, e ha bisogno di sonno».

L’individuo che batteva col palo si fermò e si volse alquanto; però,
siccome stava in piedi, Parry non potè distinguere il suo viso perduto
nelle tenebre che si rendevano sempre più dense. Quello ginocchioni,
si girò esso pure, e perchè essendo più basso che il compagno, il
lanternino gli rischiarava la faccia, Parry potè vederlo.

Quegli guardò lui molto fisso e si portò un dito alla bocca.

Parry retrocedè stupefatto.

«Va bene, disse l’operajo in ottimo inglese, torna a dire al re che se
dorme male questa notte dormirà meglio la notte prossima».

Queste acerbe parole, che, prese alla lettera, avevano un senso sì
terribile, furono accolte dagli artigiani che travagliavano dalle parti
ed al palco inferiore con atti di atroce gioia.

Parry si ritirò credendo di sognare.

Carlo lo attendeva impaziente.

Nel momento ch’ei tornò dentro, la sentinella della porta passò con
curiosità la testa dall’apertura onde vedere che cosa facesse il re.

Il re stava con le gomita posate sul letto.

Parry chiuse l’uscio, ed appressandosi a Carlo con la cera più allegra
del mondo gli disse sommessamente:

«Sire, sapete che operaj sono quelli che fanno tanto chiasso?

«No, rispose il sovrano scuotendo mestamente il capo, come vuol tu
ch’io lo sappia? conosco io forse coloro?

«Sire, soggiunse Parry anche più sottovoce e chinandosi verso il suo
padrone; è il conte di La Fère e il suo compagno.

«Che mi costruiscono il patibolo! disse attonito il re.

«Sì, e costruendolo fanno un foro al muro.

«Zitto! fece Carlo guardandosi attorno atterrito, gli hai veduti?

«Ho loro parlato».

Il re, a mani giunte, alzò gli occhi al cielo; indi, dopo breve ma
fervida preghiera, balzò dal letto, andò alla finestra, e scostò
le portiere; v’erano sempre le sentinelle, e più là del balcone
estendevasi un’oscura piattaforma su cui passavano come specie di
ombre.

Carlo non potè discernere cosa alcuna, ma si sentì sotto i piedi la
scossa dei colpi che menavano i suoi amici; e ognuno di quei colpi
ormai corrispondeva a lui nel cuore.

Parry non si era ingannato credendo di ravvisare Athos: questo
realmente, ajutato da Porthos, faceva una buca su cui doveva posare una
delle assi trasversali.

Il buco comunicava ad una sorta di tamburo formato sotto il pavimento
della camera regia; una volta pervenuti in quel tamburo, che somigliava
ad un mezzanino assai basso, si poteva con un ferro e buone spalle
(ed a ciò toccava a pensare a Porthos) far saltare una lastra del
pavimento; allora il re si calava giù da codesta apertura, insieme co’
suoi liberatori arrivava ad uno dei compartimenti del palco totalmente
coperto di panno nero, s’imbacuccava esso pure con un abito da operajo
già apparecchiatogli, e senza ostentazione nè timore scendeva coi
quattro compagni.

Le sentinelle, scevre d’ogni sospetto, mirando degli artieri che
avevano lavorato al palco li lasciavano passare.

E secondo noi dicemmo, la filuca era all’ordine.

Questo piano era grande, semplice e facile, come tutte le cose che
nascono da un’ardimentosa risoluzione.

Athos adunque si squarciava le belle mani tanto bianche e sottili
levando le pietre che Porthos aveva svelte dalla loro base; poteva
digià introdurre la testa sotto gli ornamenti di che era guarnito
il parapetto del balcone. Innanzi giorno il foro sarebbe finito e
sparirebbe alla vista mercè una tenda interna che porrebbe d’Artagnan.
D’Artagnan erasi spacciato per operajo francese e metteva i chiodi con
la regolarità del più abile tappezziere. Aramis tagliava l’eccedenza
della serge che pendeva sino a terra e dietro alla quale sorgeva
l’intavolato del patibolo.

Comparve la luce del giorno sulla cima delle case; gran fuoco di zolle
e di carbone aveva ajutato i lavoranti a passare la fredda nottata
dal 29 al 30 gennajo; ad ogni momento i più attenti alla lor bisogna
la sospendevano per andare a scaldarsi. Soltanto Athos e Porthos
non avevano lasciate le loro faccende. E quindi all’alba la buca era
terminata. Athos vi entrò, portando seco le vesti destinate pel re
avvolte in un ritaglio di saja nera; Porthos gli fece avere là dentro
il palo; e d’Artagnan (lusso grandissimo ma utile) inchiodò un parato
interno di lana da cui restarono celati e il foro e quello al quale
questo serviva di nascondiglio.

Ad Athos non mancavano più che un pajo d’ore di lavoro onde poter
comunicare col re, e secondo i calcoli dei quattro amici, essi
avrebbero per sè tutta la giornata, poichè non essendovi il carnefice
occorrerebbe andar a chiamare quello di Bristol.

D’Artagnan tornò a riprendere il suo abito color marrone, e Porthos il
giubbetto rosso; Aramis si trasferì da Juxon ad oggetto di penetrare se
pur fosse possibile insieme con esso presso a Carlo.

Tutti e tre si erano dati l’appuntamento pel mezzodì sulla piazza di
Whitehall per vedere ciò che ivi accaderebbe.

Avanti di muoversi dal palco, Aramis si era avvicinato all’apertura
dove stava Athos nascosto, onde annunziargli che andrebbe a procurare
di rivedere il re.

«Sicchè addio e coraggio! disse Athos, riferite al re a che punto
ormai sono le cose; ditegli che appena sarà solo picchi sul pavimento,
acciocchè io possa continuare con sicurezza le mie faccende. Se
Parry fosse in grado di giovarmi, staccando anticipatamente la lastra
inferiore del caminetto, che è senza dubbio di marmo, sarebbe un tanto
acquistato. Voi, Aramis, cercate di non lasciare il re. Parlate forte
e di molto, giacchè staranno alla porta ad ascoltarvi. Se v’è una
sentinella per dentro all’appartamento, uccidetela senza cerimonie; se
ve ne son due, Parry ne uccida una e voi l’altra; se son tre, fatevi
ammazzare, ma salvate il sovrano.

«Non dubitate, rispose Aramis, piglierò due pugnali per darne uno a
Parry. Basta così?

«Sì, andate. Ma raccomandate al re di non usare una inopportuna
generosità. Mentre voi vi batterete, ove ciò avvenga, egli fugga;
una volta rimessa a segno la lastra, e voi su questa o morto o vivo,
bisogneranno almeno dieci minuti a ritrovare il buco da cui egli sarà
scappato. In quei dieci minuti noi avremo fatto cammino, e Carlo sarà
libero.

«Sarà eseguito quanto accennate, Athos. Qua la mano, chè forse non ci
rivedremo più».

Athos abbracciò Aramis.

«Ecco per voi, egli disse; ora, se muojo, dite a d’Artagnan che lo amo
come mio figlio, ed abbracciatelo per me.... ed un amplesso ancora date
al buono e prode Porthos. Addio.

«Addio, rispose Aramis. Io son adesso tanto sicuro che il re si
salverà, quanto lo sono di stringere in questo punto la mano più leale
ch’esista al mondo».

Aramis si divise da Athos, e andò all’albergo, fischiarellando l’aria
di una canzone in lode di Cromvello. Trovò i due amici a tavola,
accanto al fuoco, che bevevano una bottiglia di Porto-Porto e si
divoravano un pollo freddo; Porthos mangiava mandando mille ingiurie
contro gli infami parlamentari: d’Artagnan mangiava in silenzio, ma
formando nel suo cervello i più audaci pensieri.

Aramis gli raccontò tutto quel ch’era convenuto; d’Artagnan approvò col
capo, e Porthos con la voce.

«Bravo! disse questi; d’altronde noi saremo là al momento della fuga;
si è benissimo celati sotto quel palco, e noi possiamo rimanervi. Tra
d’Artagnan, me, Grimaud e Mousqueton, ne ammazzeremo bene otto; non
parlo di Blaisois, buono soltanto a badare ai cavalli. A due minuti per
uomo, sono quattro minuti; Mousqueton ne perderà uno e fanno cinque, ed
in quei cinque voi potete aver fatto un quarto di lega».

Aramis s’ingojò prestamente un boccone e un bicchier di vino, e cambiò
vestimento.

«Ora, ei disse, me ne vo da Sua Grandezza; voi, Porthos, incaricatevi
di preparar le armi; d’Artagnan, sorvegliate a modo il boja.

«State quieto; Grimaud è subentrato a Mousqueton, e tiene il piede
sopra.

«Non serve, raddoppiate la vigilanza, e non restate inoperoso un
momento.

«Inoperoso? mio caro, domandate a Porthos: non vivo, son sempre ritto e
in moto, fo la figura di un ballerino.... Caspita! come amo la Francia
in questo punto! e bella cosa ell’è pure l’avere una patria di suo,
quando si sta tanto male in quella degli altri!»

Aramis li lasciò come Athos, cioè abbracciandoli, e si recò dal
vescovo Juxon, al quale avanzò la sua richiesta. Juxon aderì tanto più
facilmente a condurre Aramis in quanto che aveva di già avvertito che
avrebbe d’uopo di un prete in caso che il re volesse aver la comunione,
e specialmente nel caso probabile che bramasse udire una messa.

Il vescovo, coi panni che il dì precedente indossava d’Herblay,
montò in carrozza; accanto ad esso salì Aramis più mascherato ancora
dalla sua pallidezza e dalla sua mestizia che dall’abbigliamento da
diacono. Il legno si fermò al portone di Whitehall. Erano circa nove
ore del mattino. Non si scorgeva verun cambiamento; le anticamere e le
gallerie come il giorno innanzi erano piene di guardie. Due sentinelle
si mantenevano alla porta del re, altre due passeggiavano davanti al
balcone sulla piattaforma del patibolo ov’era già posato il ceppo.

Il re era ricolmo di speranza: la speranza si convertì in allegrezza,
visto ch’egli ebbe Aramis. Strinse a questi la mano, ed abbracciò
Juxon. Il vescovo affettò di parlar forte a Carlo, e dinanzi a tutti,
del loro colloquio del giorno prima. Carlo gli rispose che le parole da
lui dettegli allora aveano avuto buon effetto, e ch’ei desiderava un
altro colloquio consimile. Juxon volgendosi agli astanti gli pregò di
lasciarlo solo col re.

Ognuno si ritirò. Chiuso l’uscio, Aramis disse con la massima prontezza:

«Sire, voi siete salvo! il carnefice di Londra è sparito; il suo ajuto
si ruppe jeri una coscia sotto le finestre di Vostra Maestà. Era suo il
grido che udimmo. Certamente a quest’ora sarà noto che l’esecutore non
v’è, ma non v’ha un boja che a Bristol, e vi vuol tempo per andare a
chiamarlo; talchè abbiamo per lo meno sino a domani.

«Ma il conte di la Fère? domandò Carlo.

«È distante da voi di un braccio al più: prendete il _poker_ del
braciere e date tre colpi, e lo sentirete rispondervi».

Il re con mano tremante eseguì quanto gli si accennava, tosto di sotto
al pavimento altri colpi dati con cautela risposero al segnale.

«Sicchè.... quegli che batte da basso?....

«È il conte di la Fère, o sire. Dispone la via per cui potrà fuggire
Vostra Maestà. Parry solleverà la lastra di marmo, e sarà aperto il
varco.

«Ma, disse Parry io non ho alcun arnese.

«Prendete questo pugnale; solamente badate di non ispuntarlo, perchè
può essere che ne abbiate bisogno per bucare tutt’altro che la pietra.

«O Juxon! disse Carlo premendo al vescovo ambe le mani, ritenetevi la
preghiera di quello che fu vostro re.

«Che lo è tuttora e lo sarà sempre, replicò Juxon baciando la destra al
principe.

«Pregate sin che avrete vita per questo gentiluomo che vedete, per
l’altro che udite qua sotto, e per altri due pure, che ovunque siano si
adoprano, ne son sicuro, per la mia salvezza.

«Sire, sarete obbedito: fin tanto ch’io viva vi sarà ogni giorno
un’orazione offerta a Dio per quei fidi amici della Maestà Vostra».

Fu continuato ancora, un poco di lavoro da abbasso, che via via
si sentiva più vicino. Ad un tratto s’intese un romore inaspettato
nella galleria. Aramis afferrando il _poker_ diede il segnale della
interruzione.

Il romore si faceva ognor più prossimo: era come, di un certo numero di
passi eguali e regolari. I quattro uomini rimasero immobili; fissarono
gli occhi sulla porta, la quale fu aperta lentamente e con una sorta di
solennità.

Erano schierate delle guardie nella stanza che precedeva quella del re.
Un commissario del Parlamento, vestito a nero e pieno di gravità di mal
augurio, entrò, salutò il sovrano, e spiegata una pergamena gli lesse
la sua sentenza secondo suol farsi ai condannati che denno andare al
patibolo.

«Che significa codesto? domando Aramis a Juxon».

Questo fe’ un cenno ch’esprimeva non saperne egli niente più di lui.

«Dunque è per oggi? chiese il re con emozione, ch’era visibile
unicamente a Juxon e ad Aramis.

«Sire, non eravate prevenuto ch’era per questa mattina? disse l’uomo
vestito di nero.

«E debbo io morire, seguitava Carlo, come un colpevole volgare, per
mano del carnefice di Londra?

«Il carnefice di Londra è sparito, sire; rispose il commissario del
Parlamento, ma si è esibito un tale in sua vece. E così l’esecuzione
non sarà ritardata se non del tempo che chiederete per dar sesto alle
cose vostre temporali e spirituali».

Un lieve sudore che apparve alla radici dei capelli di Carlo fu l’unico
indizio di emozione ch’egli desse all’udire tal notizia.

Aramis però diventò livido in volto; non gli batteva più il cuore;
chiuse gli occhi, ed appoggiò una mano sulla tavola. E Carlo
all’aspetto del suo duolo profondo parve obliasse quello che opprimeva
lui stesso.

Gli si accostò, gli prese la destra e lo abbracciò.

«Orsù, amico! disse con dolce eppur triste sorriso, coraggio!»

E voltosi al commissario:

«Signore, io sono pronto. Vedete, non bramo se non due cose, le quali
non vi recheranno grande indugio: la prima, la comunione; la seconda
un amplesso a’ miei figli dicendo ad essi addio per l’ultima volta. Mi
sarà ciò permesso?

«Sì, o Sire, fece l’uomo in abito nero».

Ed uscì.

Aramis tornato in sè, si cacciava le unghie nelle carni; dal petto gli
esciva un gemito continuo.

«Oh monsignore! esclamò afferrando le mani di Juxon. Dov’è Dio? dov’è
Dio?

«Figlio, rispose con fermezza il vescovo, voi nol vedete perchè lo
ascondono le passioni terrestri.

«Figliuol mio, disse il re ad Aramis, non disperarti in tal modo. Tu
domandi che fa Iddio? Iddio vede il tuo zelo e il mio martirio, e credi
a me, entrambi avranno il loro premio: sicchè di quanto avviene devi
dolertene contro gli uomini e non contro a Dio; gli uomini mi fanno
morire, gli uomini ti fanno piangere.

«Sì, avete ragione, replicò Aramis, dagli uomini debbo volerne ragione,
e da loro io la vorrò!

«Sedete, Juxon, proseguì Carlo inginocchiandosi, chè ancor rimane a voi
da udirmi, a me da confessarmi. Trattenetevi pure, disse ad Aramis che
si accingeva a ritirarsi, trattenetevi, Parry; nulla ho da dire, anche
nel segreto della penitenza, che dire non possa al cospetto di tutti;
trattenetevi, e soltanto mi dolgo che il mondo intero non possa udirmi
come voi e con voi».

Juxon si assise, ed il re genuflesso a lui dinanzi come il più umile
dei fedeli, incominciò la sua confessione.



LXXI.

_Remember._


Terminata la confessione, Carlo I. comunicò, e poi chiese di vedere i
suoi figli. Suonavano le dieci ore, talchè conforme egli aveva detto
non era lungo il ritardo.

Non ostante, il popolo era già pronto: sapeva che per le dieci era
fissata l’esecuzione, si affollava nelle strade adjacenti al palazzo,
ed il re cominciava a distinguere quel fragore lontano che producono
la moltitudine e il mare quando sono agitati, quella dalle passioni e
questo dalle tempeste.

Giunsero i figli del re: prima la principessa Carlotta, indi il duca
di Glocester, cioè una fanciulletta bella bionda, e molle il ciglio di
lacrime, e un fanciullo di otto o nove anni, in cui l’occhio asciutto e
il labbro rialzato disdegnosamente già indicavano la nascente fierezza.
Il ragazzo aveva pianto tutta la notte, ma davanti a tutta quella gente
non piangeva più.

Carlo si sentì struggere il cuore all’aspetto di quelle due creature,
che viste non aveva da più di due anni, e che rivedeva soltanto sul
punto di morire. Gli corse al ciglio una lacrima, e si volse per
asciugarla, imperocchè voleva mantenersi forte dinanzi a coloro a’
quali lasciava un sì pesante retaggio di pene e di sventura.

Parlò prima alla bambina, e traendola a sè, le raccomandò la pietà,
la rassegnazione e lo amor figliale; poscia prese il giovane duca di
Glocester, e fattolo sedere sulle sue ginocchia onde potere a un tempo
stesso stringerlo al cuore e baciarlo in volto, gli disse:

«Figliuol mio, voi vedeste per le strade e nelle anticamere molte genti
che venivano qui. Quelle genti troncheranno la testa a vostro padre.
Non lo dimenticate giammai. Forse un giorno, mirandovi presso di loro
ed avendovi in loro potere, diviseranno farvi re con esclusione del
principe di Galles o del duca d’York vostri fratelli maggiori, che sono
l’uno in Francia e l’altro io non so dove; ma voi non siete il re,
nè tale potete divenire se non mediante la morte di essi. Giuratemi
adunque di non lasciarvi porre la corona sinchè a questa non abbiate
legittimo diritto.... chè un giorno, ascoltatemi bene, figlio mio, se
ciò faceste, un giorno, eglino atterrerebbero tutto, capo e corona,
ed allora voi non potreste morire quieto e senza rimorsi siccome io
muojo.... Giurate».

Il ragazzo stese la piccola sua mano fra quelle del genitore, e rispose:

«Sire, giuro a Vostra Maestà....»

Carlo lo interruppe.

«Enrico, disse, chiamami tuo padre.

«Padre mio, vi giuro che mi uccideranno prima che farmi re.

«Bene Enrico.... Adesso abbracciatemi, ed anche voi Carlotta, e di me
non vi scordate.

«Oh no! mai! mai! esclamarono i due giovanetti cingendo il collo a
Carlo con le loro braccia.

«Addio.... addio, figli miei, disse il re, Juxon, guidateli altrove; il
loro pianto mi torrebbe il coraggio di morire».

Juxon levò i poveri bambini dalle braccia del loro padre, li consegnò a
quelli che ivi gli aveano condotti.

Al loro uscire si apersero le porte, ed ebbe accesso tutta la gente.

Il re vedendosi solo fra mezzo alla turba di guardie e di curiosi che
cominciavano a riempire la camera, si rammentò che il conte di la Fère
era lì vicinissimo sotto il pavimento della stanza, non potendo vederlo
e forse sempre sperando.

Tremava che il minimo rumore sembrasse ad Athos un segnale, e che
questo rimettendosi al lavoro si scuoprisse da per sè. Procurò quindi
di stare immobile, e col suo esempio fece rimanere in riposo gli
astanti.

Il re non s’ingannava: Athos era veramente sotto a’ suoi piedi;
ascoltava, s’inquietava di non udire il segnale; a volte nella sua
impazienza riprincipiava a rompere la pietra, ma per timore di essere
inteso si fermava subito.

Durò due ore sì terribile inazione. Regnava nella regia camera silenzio
di morte.

Athos allora si decise a ricercare la causa della mesta e tetra
tranquillità che sola turbava l’immenso strepito della folla. Schiuse
un poco il parato che nascondeva il loro fatto, e scese sul primo
piano nel palco. Più su della sua testa appena quattro pollici era
l’intavolato che si estendeva al livello della piattaforma e che faceva
il patibolo.

Il rumore che fino a quel punto aveva udito confusamente, ormai
giungendogli cupo e minaccioso, lo fe’ balzare di spavento. Andò fin
sull’orlo del palco, scostò il panno nero alla altezza dell’occhio,
e vide vari cavalieri raccolti sulla terribile macchina; più là di
questa, una fila di partigianieri, dopo moschettieri, poi le prime file
del popolo, che simile ad un oceano agitato mugghiava e ribolliva.

«Che sarà accaduto? disse fra sè Athos più tremante che il panno di
cui stropicciava le pieghe, il popolo accorre, i soldati sono sotto
le armi, e fra gli spettatori che tutti tengono fissi gli occhi alla
finestra, io vedo d’Artagnan! che attende mai? che guarda? Gran Dio!
che abbiano lasciato fuggir via il boja?»

Ad un tratto fuvvi sulla piazza il rullo funebre del tamburo. Di
sopra al suo capo si sentivano passi gravi e prolungati. Gli sembrò
che qualche riunione simile ad una processione immensa calpestasse
i pavimenti di Whitehall. Di lì a poco udì scricchiolare la tavola
del palco. Diede un ultimo sguardo su la piazza, e l’attitudine
degli spettatori gli palesò ciò che tuttora impedivagli d’indovinare
un’ultima speranza in fondo al cuore rimastagli.

Era cessato il bisbiglio esterno. Tutti tenevano attente le ciglia
verso la finestra di Whitehall; labbra schiuse, respiri trattenuti,
indicavano l’aspettativa di un tremendo spettacolo.

Lo strepito dei passi, che Athos si era sentito sopra alla testa dal
luogo ch’egli occupava sotto l’appartamento del re, si riprodusse sul
palco, il quale cedè al peso in tal modo che le tavole toccarono quasi
il capo al misero gentiluomo. Erano evidentemente due file di soldati
che si collocavano al loro posto.

Nel medesimo istante una voce al gentiluomo ben nota, nobile voce, di
sopra a lui pronunciò queste parole:

«Signor colonnello, io bramo di parlare al popolo».

Athos raccapricciò: era il re sul patibolo quel che così favellava.

In fatti, Carlo, bevute alcune goccie di vino ed assaggiato un pane,
stanco di attendere la morte, si era deciso improvvisamente a andarle
incontro, ed avea dato il segnale della marcia.

Allora era stata aperta del tutto la finestra che dava sulla piazza,
e di fondo alla vasta stanza il popolo avea potuto vedere avanzarsi
tacitamente prima un uomo immascherato che dalla scure che aveva in
mano egli aveva riconosciuto pel carnefice; questi, appressatosi al
ceppo, vi posava la mannaja.

E tale era il primo rumore inteso da Athos.

Poi, dietro a quell’uomo, pallido sì, ma tranquillo, e che camminava
con tutta fermezza, Carlo Stuart, il quale s’inoltrava fra mezzo a
due preti, e seguitato da parecchi ufficiali superiori, incaricati di
presiedere all’esecuzione, e scortato da due file di partigianieri che
si schierarono su’ due lati del palco.

L’aspetto dell’immascherato provocò lungo bisbiglio. Ciascuno era
curioso di saper chi fosse quel carnefice incognito presentatosi così
appuntino perchè potesse aver luogo il terribile spettacolo promesso
al popolo, mentre questo credeva che lo spettacolo fosse differito
all’indomani; sicchè ognuno se lo era divorato con gli occhi, ma tutto
quanto avean potuto vedere si era esser egli un uomo di media statura,
vestito interamente a nero, il qual pareva di già alquanto attempato,
perocchè l’estremità della barba un po’ grigia gli oltrepassava la
maschera che cuoprivagli il volto.

Però alla vista del re, sì giusto, sì nobile, tosto ripristinavasi il
silenzio, in guisa che da tutti fu udito il desiderio ch’ei manifestava
di favellare al popolo.

E di certo a questa domanda l’individuo a cui ell’era diretta aveva
risposto con un cenno affermativo, poichè con voce salda e sonora che
andò in fondo al cuore ad Athos, il re incominciò la sua parlata.

Spiegava desso alla gente ivi adunata la propria condotta, e le dava
de’ consigli pel bene dell’Inghilterra.

«Oh! fra sè diceva Athos, è mai possibile ch’io oda ciò che odo, e
vegga ciò che veggo? è mai possibile che Dio abbia abbandonato il
suo rappresentante sulla terra a tal segno da lasciarlo morire tanto
miseramente? Ed io che non l’ho visto! ed io che non gli ho detto un
addio!»

S’intese un rumore simile a quello che avrebbe prodotto l’istrumento di
morte rimosso sopra al ceppo.

Il re sospese il discorso.

«Non toccate la scure! disse egli».

E riprincipiò l’arringa d’onde l’aveva interrotta.

Terminata questa, fu di sopra alla testa del conte un gelido silenzio.
Ei si teneva sulla fronte la mano, e tra la mano e la fronte cadevano
goccie di sudore abbenchè l’aria fosse diacciata.

Quel silenzio dava indizio degli estremi preparativi.

Il re, dopo finito di parlare, avea volto su la moltitudine uno sguardo
pien di misericordia, e staccato l’ordine che portava, e ch’era la
stessa placca di diamanti inviatagli dalla regina, lo consegnò al
prete che accompagnava Juxon. Indi si levò di seno una piccola croce
parimente di diamanti, che pure gli proveniva da Enrichetta.

«Signore, disse al sacerdote ch’era insieme con Juxon, io terrò in mano
questa croce sino all’ultimo mio momento; voi me la torrete allorchè io
sarò morto.

«Sì, sire, rispose una voce, presto riconosciuta da Athos per quella di
Aramis».

Allora Carlo, che sino a quel punto era stato a testa coperta, si levò
il cappello e lo gittò vicino a sè; poscia si sciolse uno per uno tutti
i bottoni del giubbetto, se ne spogliò e lo buttò accanto al cappello.
E perchè faceva freddo, chiese la vesta da camera, la quale gli venne
data.

Tutti questi preparativi eransi fatti con una calma che incuteva
terrore. Avreste detto che il re fosse per distendersi nel suo letto e
non già in una bara.

Alfine tirandosi in su i capelli con la mano, domandò al boja:

«Vi daranno forse impaccio? in tal caso si potrebbero fermare con una
cordellina».

Carlo accompagnò queste parole con un’occhiata che pareva volesse
penetrare sotto il volto posticcio dell’incognito.... e l’occhiata
secura e nobile costrinse colui a girarsi da parte.... Ma esso a tergo
allo sguardo profondo del re trovò quello ardentissimo di Aramis.

Carlo osservando ch’ei non rispondeva, ripetè la richiesta.

«Basterà, disse l’uomo con voce burbera, che li tiriate da un lato sul
collo».

Il re con ambe le mani si spartì i capelli, e considerato attentamente
il ceppo disse:

«Quel ceppo è molto basso; non ve ne sarebbe uno più alto?

«È il solito, replicò l’immascherato.

«Credete tagliarmi la testa con un sol colpo? fece il re.

«Spero di sì, rispose l’esecutore».

Nello _spero di sì_ eravi una tale intonazione che fe’ rabbrividire
tutti quanti tranne il sovrano.

«Va bene, questi soggiunse, ed ora, tu, o boja, ascolta».

Il travestito mosse un passo verso il re, e si appoggiò sulla scure.

«Non voglio che tu mi sorprenda; continuò Carlo, io m’inginocchierò per
pregare; sicchè non dar peranche il colpo.

«E quando lo darò?

«Allorchè io poserò il collo e stenderò le braccia dicendo: _Remember_
(_rammentatevi_) allora dà pure liberamente».

Il travestito fece un piccolo inchino.

«Ecco il momento di abbandonare il mondo, disse il re a quei che gli
erano attorno, signori, io vi lascio in mezzo alla procella, e vi
precedo in quella patria che non conosce procelle: addio».

Guatò Aramis, e gli fe’ col capo un cenno particolare.

«Adesso, seguitò, allontanatevi e lasciatemi far sommessamente la
preghiera. Fatti da parte tu pure (disse all’immascherato); è per un
sol momento, e so che sono cosa tua, ma rammentati di non percuotere se
non dopo il segnale».

Carlo s’inginocchiò, si fece il segno della croce, accostò la bocca ai
tavoloni quasi avesse voluto baciare la piattaforma; indi appoggiandosi
da una mano al pavimento e dall’altra al ceppo disse in francese:

«Conte di la Fère, siete voi costì, e posso parlare?»

Quegli accenti corsero direttamente al cuore di Athos e lo punsero come
un ferro freddissimo.

«Sì, Maestà, egli rispose tremando.

«Amico fedele, cuor generoso, soggiunse Carlo, non potei essere da te
salvato, non dovevo esserlo. Ora, quando anche dovessi commettere un
sacrilegio, io ti dirò: Sì, ho parlato agli uomini, ho parlato a Dio,
parlo a te per l’ultimo. Per sostenere una causa che ho creduta sacra,
ho perduto il trono dei padri miei e distrutto il patrimonio de’ miei
figli. Mi resta un milione in oro, l’ho sotterrato nelle cantine del
castello di Newcastle al momento di lasciare quella città. Quel danaro,
tu solo sai ch’esiste; fanne uso quando crederai che sia tempo pel
maggior bene del figliuol mio primogenito. E adesso, conte di la Fère,
ditemi addio.

«Addio, Maestà santa e martire, balbettò Athos gelando di terrore».

Vi fu breve silenzio, durante il quale parve ad Athos che il re si
alzasse e cambiasse posizione.

Poi con voce piena e sonora, in maniera da essere udito non solo sul
palco ma ben anco su la piazza, il re disse:

«_Remember_».

Appena aveva terminato di profferire questa parola un colpo terribile
scosse il pavimento del palco; la polvere uscita dal panno acciecò
il misero gentiluomo. Mentre questi per un moto macchinale alzava
gli occhi e la testa, gli cadde sulla faccia una goccia calda. Athos
retrocedè inorridito e nel medesimo istante le goccie si convertirono
in uno scroscio nero che sprillò sul pavimento.

Athos cascato ginocchioni rimase alquanto come colpito da impotenza
e demenza. In breve dal romorìo che scemava, ei comprese che si
allontanava la folla: stette ancora un momento fermo, mutolo, in
costernazione. Indi volgendosi, andò ad attuffare la cima del suo
fazzoletto nel sangue del re martire: poscia, siccome la moltitudine
si allontanava sempre più, egli scese, ruppe il panno, si cacciò fra
mezzo a due cavalli, si mischiò fra il volgo del quale indossava il
vestimento, e fu il primo ad arrivare alla taverna.

Salito alla propria camera, si guardò allo specchio, vide che aveva
sulla fronte una larga macchia rossa, vi si portò la mano, e la ritolse
piena del sangue del re, e svenne.



LXXII.

_L’immascherato._


Quantunque fossero solamente le quattro ore pomeridiane, si faceva
digià bujo; cadeva fitta e ghiaccia la neve. Aramis essendo tornato
trovò Athos, se non privo dei sensi, però in sommo abbattimento.

Questi bensì alle prime parole dell’amico uscì dalla specie di letargo
in cui era piombato.

«Ebbene! disse Aramis, vinti dalla fatalità!

«Vinti! ripetè Athos, re nobile e infelice!

«Siete forse ferito?

«No, questo è sangue suo».

Ed Athos si asciugava la fronte.

«Ov’eravate? domandò Aramis.

«Dove voi mi avete lasciato: sotto il palco.

«E vedeste tutto?

«No, ma intesi: Dio mi liberi da un’altra ora simile a quella che ho
passata dianzi! non ho i capelli bianchi?

«Dunque sapete ch’io non l’ho abbandonato?

«Ho udita la vostra voce sino all’ultimo momento.

«Ecco la piastra che mi ha data, continuò Aramis, ecco la croce che ho
ritirata dalla sua destra; era sua brama che fossero consegnate alla
regina.

«Ed ecco un fazzoletto per avvolgerle dentro, soggiunse Athos».

E si cavava dalla saccoccia la pezzuola che aveva tuffata nel sangue
del re.

«Adesso, domandò Athos, che ne hanno fatto, del povero cadavere?

«Gli si renderanno per ordine di Cromwello i regi onori. Noi abbiam
posto il corpo in una bara di piombo; i medici sono occupati a
imbalsamare quel miseri avanzi, e terminata l’opra loro si metterà il
re in una cappella ardente.

«Derisione! mormorò Athos, regi onori a quello che hanno assassinato.

«Ciò prova, fece Aramis, che il re muore, ma non muore la dignità
regale.

«Ahimè! egli è forse l’ultimo re cavaliere che avrà il mondo.

«Orsù, non vi disperate, conte! disse una grossa voce di sulla scala
dove si udivano i gravi passi di Porthos, siamo tutti mortali, amici
miei.

«Siete arrivato tardi, caro Porthos, rispose il conte di la Fère.

«Sì, per la strada erano alcune genti che mi hanno fatto ritardare.
Ballavano, sciagurati! ne ho preso uno pel collo, e credo averlo un
poco strangolato. Appunto in quel momento è venuta una pattuglia.
Fortunatamente colui col quale avevo che fare particolarmente è rimasto
qualche minuto senza poter parlare. Ho profittato della circostanza per
cacciarmi in una straduzza. Questa mi ha condotto in un’altra anche più
piccola. Allora mi sono smarrito. Non conosco Londra, non so l’inglese,
non credevo di avervi a ritrovare mai più. Alla fine eccomi qua.

«Ma d’Artagnan, chiese Aramis, non lo avete veduto? che non gli sia
successo nulla?

«La folla ci ha separati, e per quanto io abbia fatto non ho potuto
raggiungerlo.

«Oh! riprese Athos con amarezza, io sì, lo vidi: era nelle prime file
di quella folla in ottima situazione per non perder niente; e siccome
in sostanza era curioso spettacolo, avrà voluto contemplarlo sino
all’ultimo.

«Oh! conte de la Fère, disse una voce tranquilla benchè fiacca pella
rapidità della corsa, e siete voi che calunniate gli assenti?»

Il rimprovero colpì nel cuore Athos. Per altro, siccome era profonda
l’impressione in lui prodotta dal mirare d’Artagnan confuso tra quel
popolo stupido e feroce, si contentò di rispondere:

«Non vi calunnio, amico mio. Qui si stava in pensiero per voi, e ho
detto dov’eravate. Voi non conoscevate il re Carlo, egli per voi non
era altro che uno straniero, e non avevate obbligo di amarlo».

Così favellando porse la mano a d’Artagnan.

Ma d’Artagnan finse di non badare al suo gesto e tenne la mano sotto al
ferrajuolo.

Athos lasciò cadersi al fianco la sua.

«Uf! sono stanco, disse il tenente; e si assise.

«Bevete un bicchiere di Porto-Porto, e questo vi calmerà, gli offerse
Aramis, presa dal tavolino la bottiglia ed empiuto un bicchiere.

«Sì, beviamo, soggiunse Athos, il quale sensibile al malcontento del
Guascone voleva toccar seco il bicchiere, e poi abbandoniamo questo
abbominevol paese. La filuca ci attende, lo sapete; si parta questa
sera, qui non abbiamo più che fare.

«Avete la gran fretta, signor conte, replicò d’Artagnan.

«Questo suolo insanguinato mi abbrucia i piedi, fece Athos.

«A me la neve non produce codesto effetto, ribattè tranquillamente il
Guascone.

«Ma che volete che qui facciamo? domandò Athos, adesso che il re è
morto?

«Sicchè, messer conte, seguitò con indolenza il tenente, non vedete
anzi che ci rimane da fare qualche cosa in Inghilterra?

«Nulla, nulla, rispose Athos, se non è dubitare della divina bontà e
sprezzare le mie proprie forze!

«Or bene, continuò d’Artagnan, io meschino, io scioperato e curioso
sanguinario, che sono andato a piantarmi distante trenta passi dal
patibolo per veder meglio cadere la testa di quel re che non conoscevo,
e che per quanto pare mi era indifferente, io penso diversamente dal
signor conte.... io mi trattengo».

Athos impallidì fuor di modo; ogni rampogna dell’amico gli andava in
fondo al cuore.

«Ah! restate a Londra? domandò Porthos a d’Artagnan.

«Sì, questi rispose, e voi?

«Eh!.... fece Porthos, un poco confuso dirimpetto ad Athos ed Aramis;
se voi rimanete, io che sono venuto con voi, con voi soltanto me ne
andrò; non vi lascerò solo in questo esecrabile paese.

«Grazie, ottimo amico mio. Allora ho da proporvi una piccola impresa,
che porremo insieme in esecuzione quando sia partito il signor conte,
e della quale mi è nata l’idea mentre osservavo lo spettacolo che voi
sapete.

«E quale? disse Porthos.

«Di sapere qual sia l’uomo immascherato che si offerse sì gentilmente
per troncare il collo al re.

«Un uomo immascherato! esclamò Athos, dunque non lasciaste fuggire il
carnefice?

«Il carnefice? replicò d’Artagnan, è sempre in cantina, e mi suppongo
che abbia detto due paroline alle bottiglie del nostro locandiere: ma
adesso mi ci fate pensare....»

E andò verso l’uscio.

«Mousqueton! chiamò.

«Signore? fu la risposta, che sembrava scaturisse dalle viscere della
terra.

«Liberate il vostro prigioniero; tutto è finito, ordinò il tenente.

«Ma, soggiunse Athos, e chi è lo sciagurato che portò le mani addosso
al suo re?

«Un boia dilettante, che però maneggiava la scure con facilità,
giacchè, secondo _sperava_, gli è bastato un sol colpo, disse Aramis.

«Non lo vedeste in viso? chiese Athos.

«Aveva la maschera, fece d’Artagnan.

«Ma voi, Aramis, che gli stavate vicino?

«Vidi una barba un po’ grigia che veniva fuori dal volto posticcio, e
non altro.

«Dunque è un uomo piuttosto attempato? seguitò Athos.

«Oh! disse d’Artagnan, ciò non significa niente; chi si mette la
maschera può mettersi anche la barba posticcia.

«Mi rincresce di non averlo seguitato, aggiunse Porthos.

«Ebbene, caro Porthos, ripigliò il Guascone, ecco appunto l’idea che a
me è nata».

Athos comprese tutto e si alzò dicendo:

«Perdonami, d’Artagnan; ho dubitato di Dio, potevo dubitare di te;
perdonami, amico.

«Or ora si vedrà, disse sorridendo il tenente.

«Or dunque? domandò Aramis.

«Or dunque, riprese d’Artagnan, frattanto che guardavo, non già il re,
come s’immagina il signor conte, poichè so che cos’è un uomo che sta
per morire, e quantunque dovessi essere assuefatto a questa specie di
faccende, esse mi fanno sempre male, ma bensì il boia immascherato,
mi venne l’idea, conforme vi ho detto, di sapere chi egli fosse. Ed
essendo che noi abbiamo per uso di completarci gli uni mediante gli
altri e chiamarci in ajuto nella guisa che si chiama la seconda mano
in soccorso alla prima, così mi guardai macchinalmente attorno per
vedere se per là v’era Porthos; giacchè, Aramis, io vi aveva ravvisato
presso al re, e di voi, conte, mi era noto che dovevate essere sotto
al palco.... lo che fa sì ch’io vi perdoni (e d’Artagnan porgeva ad
Athos la destra), chè dovete aver sofferto di molto!.... Ecco dunque
che alla mia diritta vidi una testa ch’era stata spaccata ed alla
meglio raggiustatasi con del drappo di seta nera. — Cospetto! dissi fra
me, codesta mi pare una cucitura fatta da me; sì, mi sembra di aver
ricucito quel cranio in qualche luogo. — Difatto era il disgraziato
Scozzese, il fratello di Parry, vi ricordate? quello sul quale
master Groslow si divertì a provare le sue forze, e che quando noi lo
incontrammo non aveva altro che mezza testa.

«Precisamente, fece Porthos, l’uomo delle galline nere.

«Per l’appunto; faceva dei cenni ad un altro che si trovava a mano
manca da me; mi voltai, e riconobbi l’onesto Grimaud, tutto occupato
al pari di me a divorarsi cogli occhi il travestito carnefice. — Oh! —
gli dissi. E siccome questa sillaba è l’abbreviazione di che si vale il
signor conte nei giorni che gli parla, Grimaud capì che si chiamava lui
e si voltò quasi mosso da una molla. Ei mi riconobbe pure, ed allora
allungando il dito verso l’immascherato, pronunziò: — Eh? — lo che
voleva esprimere: — Avete visto? — Per Diana! io risposi. — Ci eravamo
intesi a meraviglia. Mi volsi dalla parte del nostro Scozzese; anche
quello aveva occhiate parlanti. Alle corte, tutto terminò, già sapete
il come, in modo molto lugubre. A poco a poco si allontanò il popolo;
annottava; io m’era ritirato in un canto della piazza con Grimaud e lo
Scozzese, a cui avevo accennato di rimanere con noi, e di là osservavo
il boia che rientrato nella regia camera cambiava d’abito, avendo il
suo senza dubbio insanguinato; dopo di che esso si mise in testa un
cappello nero e addosso un ferrajuolo, e disparve. Indovinai che presto
uscirebbe, e corsi dirimpetto alla porta, e realmente in capo a cinque
minuti lo vedemmo scendere la scala.

«Lo seguitaste? esclamò Athos.

«Capperi! e come! disse d’Artagnan, ma non senza fatica, no! ad ogni
momento si voltava, e allora noi eravamo costretti a nasconderci o
assumere una cert’aria d’indifferenza. Gli sarei andato incontro e
lo avrei ucciso; ma io non sono egoista, ed era questo un piacere
che serbavo ad Aramis ed a voi, Athos, per consolarvi un poco.
Finalmente, dopo mezz’ora di cammino per le strade più tortuose della
Città-Vecchia, egli giunse ad una casetta isolata, dove nè rumore nè
lume di sorta alcuna davano indizio che vi fosse un uomo. Grimaud si
levò dalle ampie brache una pistola. — Eh? — fece mostrandomela. — No,
— io gli dissi. E gli trattenni il braccio.... Ve l’ho detto, avevo la
mia idea. L’uomo travestito si fermò davanti una porticella, e cavò
fuori una chiave, ma innanzi di metterla nella serratura si girò a
vedere se qualcuno lo seguiva. Io stava rannicchiato dietro un albero;
Grimaud dietro a un muricciuolo. Lo Scozzese, che non aveva con che
rimpiattarsi, si buttò in terra bocconi. E bisogna che quello che noi
inseguivamo si credesse solo, poichè intesi stridere la chiave, la
porta fu aperta ed esso sparì.

«Disgraziato! disse Aramis, intanto che voi siete tornato ci sarà
fuggito, e non lo ritroveremo.

«Eh via! disse d’Artagnan; ma per chi mi pigliate?

«Bensì, obiettò Athos, in assenza vostra....

«E in assenza mia, non avevo a rimpiazzarmi Grimaud e lo Scozzese?
Prima ch’egli avesse tempo di far dieci passi per dentro, io avevo
fatto il giro del casamento. Ad una delle porte, cioè quella donde
egli era entrato, misi il nostro Scozzese, ammiccandogli che se
usciva l’individuo dalla maschera nera era d’uopo tenergli dietro
dove andrebbe, mentre Grimaud andrebbe appresso a lui e verrebbe ad
attenderci dove eravamo; piantai Grimaud alla seconda uscita con uguale
raccomandazione; ed eccomi qui! La bestia è attorniata, e adesso chi
vuole vada a vedere».

Athos si precipitò nelle braccia di d’Artagnan, il quale si asciugava
la fronte.

«Amico, ei disse, davvero, siete stato buono a perdonarmi; ho torto, ho
mille torti; dovrei pure conoscervi, ma nel nostro interno v’è qualche
cosa di tristo che dubita sempre.

«Uhm! fece Porthos, e il boia non sarebbe forse per caso il signor
Cromvello, che per esser certo che la faccenda fosse fatta, avesse
voluto farla da sè stesso?

«Eh sì! Cromvello è grosso e corto, e colui alto e sottile, piuttosto
grande che piccolo.

«Qualche soldato condannato, a cui si sia offerta a quel patto la
grazia, disse Athos, come si praticò pel misero Chalais.

«No no, continuò d’Artagnan, non ha il camminare misurato di uno
d’infanteria; nemmeno il passo largo di uno di cavalleria; v’è una
gamba sottile, un’andatura elegante: o ch’io la sbaglio, o abbiamo che
fare con un gentiluomo.

«Un gentiluomo! gridò Athos, non è possibile; sarebbe un disonore per
tutta la signoria.

«Bella caccia! disse Porthos con una tal risata che fe’ tremare i
vetri, bella caccia, per Bacco!

«Siete sempre di partenza, Athos? domandò il Guascone.

«No, resto qui, rispose Athos con un gesto di minaccia che nulla di
buono prometteva a quello a cui era diretto.

«Dunque le spade! le spade! fece Aramis, e non si perda un momento».

I quattro amici indossarono prontamente le loro vesti da gentiluomini,
si cinsero le spade, fecero salire Mousqueton e Blaisois, a’ quali
ordinarono di aggiustare il conto col locandiere e tener tutto
allestito pella partenza, essendovi probabilità di abbandonar Londra in
quella notte medesima.

Era tempo vieppiù bujo, seguitava a cader la neve e somigliava ad un
ampio lenzuolo disteso sulla città regicida; erano circa le sette ore
di sera; si vedevano appena pochi viandanti per le strade, ciascuno
ragionava sommessamente in famiglia dei terribili eventi della giornata
trascorsa.

I quattro compagni inferrajuolati traversarono tutte le piazze e le vie
della Città-Vecchia, sì frequentate nel giorno, allora tanto deserte.
D’Artagnan li guidava, procurando tratto tratto di riconoscere delle
croci che col suo pugnale aveva fatte sui muri, ma era notte sì oscura
che si stentava a distinguere tali vestigia indicatrici. Egli però
si era fitto così bene in mente ogni muricciuolo, ogni fontana, ogni
insegna, che dopo aver camminato una mezz’ora giunse coi suoi tre
compagni alle viste dell’abitazione isolata.

Per un momento d’Artagnan credè che il fratello di Parry fosse
sparito, ma s’ingannava: il robusto Scozzese, avvezzo ai ghiacci
delle sue montagne, si era disteso in terra, e simile ad una statua
buttata giù dalla sua base si era lasciato cuoprir tutto di neve, ma
all’avvicinarsi dei quattro uomini egli si alzò.

«Animo, disse Athos, anche questo è un buon servitore. Vero Dio!
le brave genti non sono rare come si crede, e questa è cosa che dà
coraggio.

«Non ci affrettiamo di troppo ad intesser corone pel nostro Scozzese;
rispose d’Artagnan, secondo me, il briccone è qui per suo proprio
conto. Io ho inteso dire che quei signori che son nati dall’altra
parte della Tweed sogliono serbar molto rancore.... giudizio con messer
Groslow! potrebbe passare un tristo quarto d’ora se lo incontrasse».

E distaccatosi dagli amici, si appressò allo Scozzese e si fece
riconoscere; indi accennò agli altri che venissero.

«Ebbene? domandò Athos in inglese.

«Non è uscito alcuno, rispose il fratello di Parry.

«Bene; Porthos, restate con quest’uomo, e voi pure, Aramis. D’Artagnan
mi condurrà presso a Grimaud».

Grimaud, non meno immobile che lo Scozzese, stava come appiccicato a
un salice rotto, con una buca del quale si era fatto una specie di
casotto. Per un poco, conforme aveva temuto dell’altra sentinella,
d’Artagnan credè che l’immascherato fosse uscito e che Grimaud lo
avesse seguitato.

Ad un tratto comparve una testa e fece udire un piccolo fischio.

«Oh! disse Athos.

«Sì», disse Grimaud.

Si accostarono al salice.

«Orsù, domandò d’Artagnan, è partito qualcuno?

«No, ma qualcuno è entrato, fece Grimaud.

«Uomo o donna?

«Uomo.

«Ah ah! allora sono due.

«Vorrei che fossero quattro, replicò Athos, almeno la partita sarebbe
uguale.

«Saranno forse quattro, ribattè d’Artagnan.

«Come mai?

«E forse non potevano esser degli altri nella casa ad attenderli?

«Si può vedere, suggerì Grimaud additando una finestra dalle imposte
della quale trapelava qualche raggio di lume.

«Così è, approvò d’Artagnan, chiamiamo gli altri».

E girarono attorno all’abitazione per far segno di tornare indietro a
Porthos ed Aramis.

I quali accorsero con tutta premura.

«Avete veduto qualche cosa?

«No, ma ora sapremo», disse d’Artagnan.

E mostrava Grimaud, che aggrappandosi alle punte del muro, era già in
alto di cinque o sei piedi più su del suolo.

Tutti quattro si avvicinarono. Grimaud continuava a salire con
l’agilità di un gatto; finalmente gli riuscì di afferrare uno di
quei ganci che servono a tener ferme le imposte quando sono aperte;
nello stesso tempo incontrò col piede uno scavo che gli sembrò
gli presentasse un sufficiente punto d’appoggio, poichè accennò di
essere arrivato alla meta. E allora mise l’occhio alla fessura dello
sportello.

«Ebbene?» domandò d’Artagnan.

Grimaud mostrò la mano chiusa con due sole dita ritte.

«Parla, disse Athos, non si veggono i tuoi segni. Quanti sono?»

Grimaud fece uno sforzo inaudito, poichè rispose:

«Due: uno è dirimpetto a me, l’altro mi volge le spalle.

«Ottimamente. E qual è quello di faccia a te?

«L’uomo che ho visto passare.

«Lo conosci?

«Ho creduto di riconoscerlo, e non isbagliavo: grosso e corto.

«Chi è? richiesero insieme e a voce bassa i quattro amici.

«Il generale Oliviero Cromvello».

Eglino si guardarono.

«E l’altro? seguitò ad interrogare Athos.

«Alto e magro.

«È il boja, dissero uniti d’Artagnan ed Aramis.

«Non gli vedo se non la schiena, aggiunse Grimaud, ma aspettate, si
muove, si gira: si è levata la maschera, potrò distinguere.... Ah!»

Grimaud, quasi avesse avuta una botta al cuore, lasciò andare il gancio
di ferro e si gittò all’indietro urlando. Porthos lo trattenne fra le
sue braccia.

«Lo hai visto? dissero i quattro camerati.

«Sì, rispose Grimaud, irti i capelli e col sudore sulla fronte.

«Il grande e magro? fece d’Artagnan.

«Sì.

«Insomma, il boja? chiese Aramis.

«Sì.

«E chi è? disse Porthos.

«_Lui! lui!_ balbettò Grimaud, giallo come un morto, e con la sua mano
tremante premendo quella del padrone.

«Chi, _lui?_

«Mordaunt!»

D’Artagnan, Porthos ed Aramis diedero una esclamazione di giubilo.
Athos mosse un passo indietro, si mise la mano sulla fronte, e disse:

«Fatalità, fatalità!»



LXXIII.

_La casa di Cromvello._


Difatti era Mordaunt quello che d’Artagnan aveva seguitato senza
riconoscerlo.

Entrato nella casa si era tolta la maschera e staccata la barba
grigia postasi onde meglio cambiarsi, aveva salito la scala, aperto un
usciale, ed in una camera rischiarata da una lampada e parata di colore
molto oscuro, erasi trovato in faccia ad un uomo che scriveva seduto
davanti al tavolino.

Era questi Cromvello.

Cromvello aveva in Londra, come è noto, due o tre di quei ricoveri, che
non si sapevano tampoco da’ suoi amici, e di cui affidava il segreto
soltanto ai più intimi: e fra questi, noi ce ne rammentiamo, poteva
essere annoverato Mordaunt.

Quando esso entrò, Cromvello alzò il capo.

«Siete voi, Mordaunt? gli disse, siete venuto assai tardi.

«Generale, rispose il giovane, ho voluto veder la cerimonia sino alla
fine, e mi ha preso tempo.

«Ah! fece Cromvello, non vi credevo per solito tanto curioso.

«Sono sempre curioso di contemplare la caduta di un nemico di Vostro
Onore, e quello non era fra i minimi. Ma voi, generale, non eravate a
White-Hall?

«No» disse Cromvello.

E vi fu un momento di silenzio.

«Avete avuti dei dettagli? domandò Mordaunt.

«Nessuno. Sono qui da stamane: sapevo unicamente che v’era un complotto
per salvare il re.

«Ah! lo sapevate?

«Poco importa: quattro uomini travestiti da operaj dovevano trarre di
prigione il re e condurlo a Greenwich, dove lo attendeva una barca.

«E istrutto di tutto questo, Vostro Onore se ne stava qui, distante
dalla Città-Vecchia, quieto ed inoperoso?

«Quieto sì, disse Cromvello, ma chi vi dice inoperoso?

«Per altro, se riusciva la trama?

«Lo avrei bramato.

«Io pensava che Vostro Onore considerasse la morte di Carlo I come una
disgrazia necessaria al bene dell’Inghilterra.

«E tale è sempre la mia opinione; ma purchè morisse, non era d’uopo
d’altro; e forse sarebbe stato meglio che ciò non avvenisse sul
patibolo.

«Perchè mai?»

Cromvello sorrise.

«Perdonatemi, generale, vi è però noto che io sono apprendista
politico, e desidero in ogni circostanza approfittarmi delle lezioni
che si compiace darmi il mio maestro.

«Perchè si sarebbe detto ch’io lo avevo fatto condannare per giustizia
e lasciato fuggire per misericordia.

«Ma se fuggiva realmente?

«Impossibile.

«Impossibile?

«Erano prese le mie precauzioni.

«E Vostro Onore conosce i quattro che avevano intrapreso di salvare il
re?

«Sono Francesi: due mandati da Enrichetta a suo marito, e due da
Mazzarino a me.

«E credete, signore, che Mazzarino li abbia incaricati di far ciò che
hanno fatto?

«Può darsi, ma ora li biasimerà.

«Lo pensate?

«Ne son certo.

«Perchè?

«Perchè non hanno avuto buon esito.

«Vostro Onore mi aveva donati due di quei Francesi quando non erano
colpevoli se non di essersi armati a favore di Carlo I; adesso che sono
rei di complotto contro l’Inghilterra, vuol darmeli tutti quattro?

«Prendeteli» disse Cromvello.

Mordaunt s’inchinò con un sorriso di ferocia trionfante.

«Ma, soggiunse Oliviero, scorgendo che quegli si accingeva a
ringraziarlo, torniamo di grazia a quell’infelice Carlo. Fra il popolo
vi sono state delle grida?

«Poche, se non se: _evviva Cromvello!_

«Voi, dove eravate?»

Mordaunt guardò un momento il generale, per discernere da’ suoi occhi
se gli faceva una domanda inutile e sapeva già tutto.

Ma lo sguardo acuto di Mordaunt non potè penetrare nelle oscure
profondità di quello di Cromvello.

«Io era situato in maniera da vedere e udir tutto», rispose.

Allora toccò a Cromvello di fissar ben bene Mordaunt, ed a questo toccò
di rendersi impenetrabile. Dopo pochi minuti secondi di esame girò in
là il ciglio con indifferenza.

«Pare, soggiunse Oliviero, che il carnefice capitato d’improvviso abbia
fatto benone l’obbligo suo; almeno, da quanto mi fu riferito, il colpo
è stato vibrato con mano maestra».

Mordaunt si ricordò come Cromvello gli aveva detto non averne avuto
verun dettaglio, e quindi fu convinto che il generale fosse stato
presente all’esecuzione, benchè nascosto dietro ad una cortina o a
qualche persiana.

«Realmente, replicò Mordaunt con voce quieta e faccia impassibile, è
bastato un sol colpo.

«Sarà stato forse, osservò Cromvello, un uomo del mestiere.

«Credete così, signore?

«E perchè no?

«Non aveva però la cera di un boja.

«E chi altro che un boja, disse Cromvello, avrebbe voluto esercitare sì
orribili funzioni?

«Eh! fece Mordaunt, chi sa? un nemico particolare del re Carlo
che avesse fatto voto di vendetta e compiuto il suo voto; forse un
gentiluomo che avesse motivi d’odiare il re decaduto, e sapendo ch’esso
era per fuggire, e per sottrarglisi, si sia impiantato a lui dinanzi,
mascherato il viso ed in pugno la scure, non più come ajuto del
carnefice, ma qual mandatario della fatalità.

«Può essere, disse Cromvello.

«E se così fosse, Vostro Onore biasimerebbe la sua azione?

«A me non si spetta a giudicarlo: è un affare tra Dio e quel tale.

«Ma se Vostro Onore conoscesse il gentiluomo?

«Non lo conosco, signor mio, ribattè Cromvello, nè voglio conoscerlo.
Che importa a me che sia uno o l’altro? Dacchè Carlo era condannato,
non è un uomo che gli ha troncata la testa, è la mannaja.

«Eppure, aggiunse Mordaunt, senza colui, il re era salvo».

Cromvello sorrise.

«Ma di certo! voi stesso lo diceste, lo portavano via.

«Lo portavano sino a Greenwich. Là s’imbarcava sopra una filuca
co’ suoi quattro liberatori. Sulla filuca però erano quattro uomini
miei, e quattro botti di polvere della nazione. In mare i miei uomini
scendevano nella lancia.... e voi, Mordaunt, siete già troppo abile
politico perchè io vi spieghi il resto.

«Sì, in mare saltavano tutti per aria.

«Precisamente. L’esplosione operava ciò che non aveva voluto operare
la mannaja. Il re Carlo spariva annientato. Si diceva che sottratto
all’umana giustizia, la celeste vendetta lo aveva inseguito e
raggiunto: noi eravamo soltanto suoi giudici, Dio solo aveva voluta
la sua morte. Ecco quanto mi ha fatto perdere il vostro immascherato.
Vedete dunque che avevo ragione quando bramavo non conoscerlo; mentre,
davvero, ad onta delle sue eccellenti intenzioni, non potrei essergli
grato di ciò che ei fece.

«Signore, replicò Mordaunt, al solito io m’inchino e mi umilio a voi
dinanzi; voi siete un pensatore profondo, e (continuò) era sublime la
vostra idea della barca incendiata.

«Assurda, replicò Cromvello, assurda, poichè è diventata inutile.
In politica non v’è altra idea sublime fuor di quella che porta al
risultato; quelle che non l’ottengono sono stolide ed aride. Questa
sera dunque andrete a Greenwich (seguitava Oliviero alzandosi)
domanderete del padrone del _Lampo_, gli mostrerete un fazzoletto
bianco con un nodo a ciascuna delle quattro cocche: tale è il segno
convenuto; direte alla gente di riprender terra, e farete riportare la
polvere all’arsenale, ammenochè....

«Ammenochè.... ripetè il giovane a cui brillava il volto di allegrezza
selvaggia mentre parlava il generale.

«Ammenochè la filuca nello stato in cui è, non possa servire ai vostri
particolari progetti.

«Ah, milord, milord! Iddio facendovi suo eletto, vi diede anco il suo
sguardo a cui nulla può sfuggir mai!

«Mi pare che mi chiamiate milord! fece ridendo Cromvello. Va bene
perchè siamo qui fra noi, ma converrebbe badare che non vi scappasse
una parola simile davanti agli imbecilli nostri puritani.

«E non sarà Vostro Onore chiamato così fra poco?

«Almeno lo spero, ma non è ancora tempo».

Cromvello si levò e prese il ferrajuolo.

«Partite, mio signore? domandò Mordaunt.

«Sì; ho dormito qui jeri l’altro e jeri, e sapete che non è mio costume
dormire tre volte nello stesso letto.

«Dunque, Vostro Onore, mi concede piena libertà per tutta la nottata?

«Ed anche per la giornata di domani, se occorre. Da jeri sera
(aggiungeva Cromvello sogghignando) faceste abbastanza pel mio
servizio, e se avete qualche affare vostro proprio da regolare è giusto
che io vi dia il tempo a ciò opportuno.

«Grazie, signore, e mi lusingo che sarà bene impiegato».

Cromvello fece a Mordaunt un cenno col capo; indi volgendosi gli
domandò:

«Siete armato?

«Ho la mia spada.

«E nessuno che vi attenda alla porta?

«Nessuno.

«Allora dovreste venir meco, signor Mordaunt.

«Grazie, signore: il giro che vi convien fare passando dal sotterraneo
mi toglierebbe tempo, e da quanto mi avete detto ne ho perduto digià
troppo. Uscirò dall’altra porta.

«Andate» disse Cromvello.

E posando la mano sopra un bottoncino celato, fece aprire un usciale
sì ben nascosto dal parato ch’era impossibile all’occhio più pratico il
riconoscerlo.

E questo mosso da una molla di acciajo, si chiuse dietro di lui.

Era uno di quegli sbocchi segreti che l’istoria ci riferisce
esistessero in tutte le case misteriose dove abitava Cromvello.

Passava sotto una strada che andava a dare in fondo ad una grotta, nel
giardino di un’altra casa situata distante cento passi da quella onde
si era partito il futuro protettore.

Da ciò si spiega come Grimaud non aveva potuto vedere escire alcuno, e
come nulladimeno fosse escito Cromvello.

Durante codesta ultima parte della scena, dall’apertura che lasciava un
lembo della cortina mal tirata Grimaud aveva distinti i due uomini, e
successivamente ravvisati Cromvello e Mordaunt.

Noi già sappiamo l’effetto che produsse questa nuova sui quattro amici.

Fu il primo d’Artagnan a riacquistare per intiero le sue facoltà
intellettuali.

«Mordaunt! esclamò, ah, Iddio ce lo manda!

«Sì, disse Porthos, si sfondi la porta, ed avventiamoci addosso a lui.

«Anzi, non isfondiamo, non facciamo chiasso. Il rumore richiama gente,
giacchè se egli è, conforme asserisce Grimaud, col suo degno padrone,
deve essere nascosto a qualche cinquantina di passi qua lontano un
corpo di guardia di _coste di ferro_. Olà Grimaud! venite qui, e
procurate star ritto sulle gambe».

Grimaud si avvicinò. Col sentimento gli era tornato il furore, ma stava
saldo.

«Bene, fece d’Artagnan, adesso salite di nuovo a quel balcone, e diteci
se il Mordaunt è tuttora in compagnia, se si dispone ad andarsene o a
coricarsi; s’è in compagnia, attenderemo che sia solo; se va fuori, lo
prenderemo all’uscire; se si trattiene, romperemo la finestra. È sempre
meno difficile e rumoroso che una porta».

Grimaud cominciò ad arrampicarsi cheto cheto.

«Athos ed Aramis, custodite l’altro sbocco; Porthos ed io restiamo qua».

I due camerati obbedirono.

«Ebbene? domandò d’Artagnan.

«È solo, rispose Grimaud.

«Ne sei certo?

«Sì.

«Non abbiam visto partirsi l’altro.

«Sarà andato dal secondo usciale.

«Che fa egli?

«Si avvolge nel ferrajuolo e si mette i guanti.

«A noi!» disse d’Artagnan.

Porthos mise mano al pugnale, e macchinalmente lo trasse dal fodero.

«Riponi, amico Porthos, avvertì il tenente; non si deve tirar subito.
Lo abbiamo in nostro potere, si proceda con ordine. Abbiamo da
richiederci qualche scambievole spiegazione, e questa è una copia
della scena di Armentières: se non che speriamo che costui non abbia
progenie, e schiacciato lui sia tutto schiacciato.

«Zitto! fece Grimaud, ecco che si apparecchia ad andarsene. Si accosta
al lume. Lo smorza. Non veggo più niente.

«Dunque in terra, in terra!»

Grimaud saltò all’indietro e cadde in piedi. La neve attutiva il
rumore; nulla si intese.

«Va a prevenire Athos ed Aramis; si pongano uno per ogni lato della
porta, come faremo Porthos ed io; battano le mani se lo acchiappano, e
noi eseguiremo altrettanto se egli è nostro».

Grimaud disparve.

«Porthos! raccomandava il Guascone, tirate meglio indietro le larghe
spalle; è necessario ch’esca senza scorgere cosa alcuna.

«Purchè venga di qua!

«Silenzio!»

Porthos si pigiò al muro quasi volesse entrarvi dentro; lo stesso fece
d’Artagnan.

Allora si udì camminare Mordaunt per la scala. Scorse stridendo uno
sportello non visto nell’intelajatura. Mordaunt guardò, e mercè le
precauzioni prese dai due amici nulla distinse. Introdusse la chiave
nella serratura, aprì, e si mostrò su la soglia.

E nel punto medesimo si trovò faccia a faccia con d’Artagnan.

Voleva respingere la porta, ma Porthos slanciandosi ad afferrare il
bottoncino la spalancò affatto.

Porthos battè tre volte le mani, ed accorsero Athos ed Aramis.

Mordaunt diventò paonazzo, ma non diede un grido, non chiamò ajuto.

D’Artagnan andò direttamente addosso a Mordaunt, e spingendolo per
così dire col petto gli fece risalire a passi indietro tutta la scala,
rischiarata da una lampada che permetteva al Guascone di non perdere
di vista le mani di Mordaunt. Ma questi comprese che anche ucciso
d’Artagnan, gli resterebbe da disfarsi degli altri tre nemici: sicchè
non fece un movimento di difesa, non un gesto di minaccia. Mordaunt,
arrivato all’uscio, si sentì su questo incalzato, e di certo credè che
là fosse per finir tutto: s’ingannava però, chè il tenente stese la
mano ed aprì, ed esso e Mordaunt si trovarono nella stanza ove dieci
minuti prima il giovane se ne stava a discorrere con Cromvello.

Dopo di lui entrò Porthos; aveva disteso il braccio e staccata la
lampada dal palco, e con questa ne accese un’altra.

Comparvero Athos ed Aramis, e chiusero a chiave.

«Favorite accomodarvi», disse d’Artagnan a Mordaunt porgendogli una
sedia.

Quegli prese la seggiola e si mise pallido e tranquillo. A tre passi
di distanza Aramis ne recò altre tre, per sè, per d’Artagnan e per
Porthos.

Athos andò ad assidersi in un canto, nel luogo più appartato della
camera, sembrando deciso di rimanere immobile spettatore di quanto
accadrebbe.

Porthos si situò a mano sinistra, ed Aramis alla destra del Guascone.

Athos pareva abbattuto. Porthos si stropicciava le palme delle mani con
impazienza febbrile.

Aramis, sogghignando, si mordeva le labbra sino a spremerne il sangue.

D’Artagnan era il solo che si moderasse, almeno in apparenza.

«Signor Mordaunt, esso disse, giacchè dopo tante giornate perdute
a correrci appresso uno coll’altro, alla fine il caso ci riunisce,
discorriamola un poco, se non vi dispiace».



LXXIV.

_Conversazione._


Mordaunt era stato sorpreso tanto all’improvviso, ed aveva salito
i gradini agitato da un sentimento tuttavia sì confuso, che le sue
riflessioni non avevano potuto esser chiare; in realtà, quel primo
sentimento era stato tutto di emozione, di stupore e d’insormontabile
terrore, quale lo prova qualunque individuo a cui un nemico acerrimo
e superiore di forza stringe il braccio nel momento preciso ch’ei lo
crede in altro luogo ed occupato ad altre cure.

Però una volta che si fu seduto e si accorse che gli si accordava
una dilazione, un respiro, con qualsivoglia intenzione ciò pur fosse,
concentrò tutte le proprie idee ed a sè richiamò tutte le sue forze. Il
fuoco dello sguardo di d’Artagnan, anzi che impaurirlo, quasi diremmo
lo elettrizzò: conciossiachè quello sguardo, comunque su di lui si
fissasse bollente di minaccia, era schietto nel suo odio e nel suo
sdegno. Mordaunt, pronto a cogliere ogni occasione che se gli offerisse
di trarsi dall’impaccio o col vigore o con l’astuzia, si raggruppò
sopra sè stesso come fa l’orso incalzato nella tana che con occhio
apparentemente immobile bensì osserva tutti i gesti del cacciatore da
cui fu inseguito.

Frattanto quell’occhio, con moto rapidissimo, si portò su la spada
lunga e solida che gli batteva sull’anca; egli, senza affettazione posò
la mano sinistra sull’elsa, la ricondusse a portata della man diritta,
e si assise secondo ne era pregato dal tenente dei moschettieri
francesi.

Questi di sicuro attendeva qualche parola aggressiva onde intavolare
una di quelle conversazioni dileggiatrici o terribili come ben sapeva
sostenerne.

Aramis borbottava:

«Sentiremo ciarle volgari».

Porthos si mordeva i baffi mormorando:

«Cospetto! quante cerimonie per ischiacciare questo serpentello!»

Athos si appiattava nell’angolo della stanza, immobile e pallido quanto
un bassorilievo di marmo, e non ostante con la fronte molle di sudore.

Mordaunt nulla diceva; e soltanto quando si stimò certo di aver sempre
a sua disposizione la spada, incrociò imperturbabile le gambe ed
aspettò.

Non poteva un tal silenzio prolungarsi di più senza dare nel ridicolo.
D’Artagnan lo comprese, ed avendo egli invitato l’altro ad _accomodarsi
per discorrere_, pensò che a lui toccava di dar principio al dialogo.

«Mi pare, signor mio, disse con la sua micidiale civiltà, che voi
mutiate abito quasi con la medesima prontezza ch’io lo vidi fare agli
istrioni italiani che il signor Mazzarino fece venir da Bergamo, e che
senza dubbio vi condusse a vedere in occasione del vostro viaggio in
Francia».

Mordaunt non rispose.

«Poc’anzi, continuò il Guascone, eravate travestito, anzi volevo dire
vestito, da assassino, e adesso....

«E adesso, al contrario, sembro vestito come un uomo vicino ad essere
assassinato, non è così? fece Mordaunt con la calma sua solita.

«Oh! soggiunse d’Artagnan, come potete dire cose simili quando siete in
compagnia di gentiluomini, e avete al fianco una sì buona spada?

«Non v’è spada assai buona da valere contro quattro spade e quattro
pugnali, senza contare le spade e i pugnali de’ vostri accoliti che vi
attendono alla porta.

«Scusate, signore, voi fate sbaglio: quelli che ci attendono da basso
non sono nostri accoliti, ma nostri lacchè. A me preme di ristabilire
le cose nella loro più scrupolosa verità».

Mordaunt fece un sorriso ironico che gl’increspò le labbra.

«Ma non si tratta di questo, riprese d’Artagnan, ed io ritorno alla
mia richiesta. Avevo avuto l’onore di domandarvi perchè avete cambiato
d’esteriore. La maschera, per quanto mi sembra, vi stava assai comoda;
la barba grigia vi andava a meraviglia; e in quanto alla scure con la
quale deste un colpo sì illustre, io credo ch’ella non vi starebbe male
nemmeno in guesto momento. Dunque perchè l’avete abbandonata?

«Perchè, ricordandomi la scena d’Armentières, ho pensato che troverei
quattro scuri contro una, dacchè ero per trovarmi fra quattro
carnefici.

«Signore, replicò d’Artagnan con tutta calma, sebbene un piccolo
movimento delle ciglia dinotasse esser prossimo a riscaldarsi;
quantunque profondamente vizioso e corrotto, voi siete eccessivamente
giovane, per lo che io non mi fermerò ai vostri frivoli discorsi....
Sì, frivoli, mentre ciò che ora dite in proposito d’Armentières non ha
il minimo rapporto con l’attuale circostanza. Infatti, noi non potevamo
offerire una spada alla vostra signora madre e pregarla di battersi di
scherma con noi; ma a voi, signorino, ad un cavaliere che maneggia il
pugnale e la pistola come vi abbiamo visto fare, e che porta al fianco
una spada di questa lunghezza, chiunque ha diritto di chiedere il
favore di battersi seco.

«Ah, ah! disse Mordaunt, volete dunque un duello?»

E si alzò, con l’occhio infuocato quasi fosse disposto a rispondere
nell’istante alla provocazione.

Si rizzò pure Porthos, pronto, secondo il consueto, a tali sorte di
avventure.

«Scusate, scusate, disse d’Artagnan con lo stesso sangue freddo, non ci
diamo tanta fretta, giacchè ognuno di noi deve desiderare che le cose
succedano in tutta regola. Sicchè, caro Porthos, sedete, e voi, signor
Mordaunt, favorite star fermo. Stimeremo alla meglio questa faccenda,
ed io sarò con voi schiettissimo. Confessate, signor Mordaunt, che
avete la gran voglia di ammazzarci, o gli uni o gli altri?

«E gli uni e gli altri», replicò Mordaunt.

D’Artagnan si volse così ad Aramis:

«Caro Aramis, convenitene meco, è una grande fortuna che messer
Mordaunt conosca tanto bene le sottigliezze della lingua francese:
almeno fra di noi non vi saranno male intesi, ed ora regoleremo il
tutto egregiamente».

E indi disse all’altro:

«Caro signor Mordaunt, vi dirò che questi signori contraccambiano i
vostri buoni sentimenti a lor riguardo, e anch’essi avrebbero a genio
di ammazzarvi. Dirò di più: che probabilmente vi ammazzeranno.... ma da
leali gentiluomini, e la miglior prova ch’io possa darne eccola qua».

E d’Artagnan gittò il cappello sul tappeto, rinculò la sua seggiola al
muro, accennò agli amici che facessero altrettanto, e salutato Mordaunt
con una grazia assolutamente francese, continuò:

«Signore, ai vostri comandi; poichè se non avete che ridire sull’onore
ch’io reclamo, comincerò io con vostra licenza. La mia spada è più
corta della vostra, è vero, ma basta! spero che il braccio supplisca al
ferro.

«Alto là! gridò Porthos avanzandosi, son io che principio, e senza
tanta rettorica.

«Permettete, Porthos», fece Aramis.

Athos non si mosse; pareva una statua: sembrava che gli si fosse
fermato anco il respiro.

«Signori, signori, disse d’Artagnan, state buoni, toccherà poi a voi
altri. Guardate gli occhi di questo signore e leggete in essi l’odio
bellissimo che noi gl’inspiriamo; vedete con che abilità ha sguainato
il brando; ammirate con quanta circospezione si cerca d’intorno se vi
sia qualche ostacolo che gl’impedisca di distendersi. Or bene, tutto
questo forse non vi prova che il signor Mordaunt è un’ottima lama, e
che voi mi subentrerete fra poco se io lo lascio fare? Dunque statevene
al vostro posto quieti come Athos, del quale vi raccomando la calma, e
lasciate a me l’iniziativa che ho digià presa. E poi (continuò levando
fuori il ferro con un gesto terribile) ho che fare in particolare con
questo signore, e comincerò; lo bramo, lo voglio!»

Era la prima volta che d’Artagnan profferiva questa parola parlando ai
suoi amici. Sino allora si era limitato a pensarla.

Porthos indietreggiò, Aramis si cacciò la spada sotto il braccio, Athos
rimase fermo nel cantone, non quieto, conforme diceva d’Artagnan, ma
ansante, smanioso.

«Cavaliere, disse d’Artagnan ad Aramis, rimettete l’arme nel fodero,
questo signore potrebbe supporre delle intenzioni che voi non avete».

E volgendosi a Mordaunt:

«Signore, vi attendo.

«Ed io vi ammiro tutti quanti; discutete fra voi chi debba cominciare
a battersi meco, e non consultate me, a cui mi sembra che ciò riguardi
alcun poco. Vi odio tutti, è vero, ma in diversi gradi. Spero tutti
uccidervi, ma ho più probabilità di uccidere il primo che il secondo,
il secondo che il terzo, il terzo che l’ultimo. Reclamo quindi
di scegliere io il mio avversario. Se mi negate questo diritto,
ammazzatemi, non mi batterò».

I quattro colleghi si guardarono.

«È giusto» dissero Porthos ed Aramis, lusingandosi di essere i
prescelti.

Athos e d’Artagnan non parlarono, ma lo stesso loro silenzio era un
assenso.

«Or bene, fece Mordaunt fra il profondo e solenne silenzio che regnava
nella misteriosa abitazione, io mi eleggo per primo avversario quello
di voi, che non credendosi più degno di nominarsi conte di la Fère, si
è fatto chiamare Athos».

Athos si rizzò dalla sedia come se lo avesse fatto balzare in piedi una
molla; ma con somma sorpresa dei compagni, dopo un momento d’immobilità
taciturna, disse scuotendo il capo:

«Signor Mordaunt, tra di noi è impossibile qualunque duello: fate a
qualcun altro l’onore che a me destinavate».

E tornò a sedersi.

«Ah!! disse Mordaunt, eccone uno di già che ha paura!

«Corpo di una bomba! esclamò d’Artagnan scagliatosi verso di lui, e chi
ha detto qui che Athos aveva paura?

«Lasciatelo dire, fece Athos con un sorriso pieno di mestizia e
disprezzo.

«Siete deciso così, Athos? domandò il Guascone.

«Immutabilmente.

«Va bene, non se ne parli più.... Signor Mordaunt, avete inteso che il
conte di la Fère non vuol farvi l’onore di battersi con voi. Scegliete
fra noi uno che lo rimpiazzi.

«Subito che non mi batto con lui, poco m’importa con chi che sia.
Ponete i vostri nomi in un cappello, e trarrò a sorte.

«Buona idea! approvò d’Artagnan.

«Realmente con questo mezzo si concilia tutto, confermò Aramis.

«Io non ci avrei pensato, disse Porthos, eppure era tanto semplice!

«Orsù, Aramis, continuò d’Artagnan, scriveteci un po’ codesto col bel
carattere con cui scrivevate a Maria Michon per avvertirla che la madre
del signorino voleva far assassinare milord Brougham».

Mordaunt sopportò questo nuovo attacco senza far motto: stava in piedi,
colle braccia incrociate, e pareva tranquillo quanto può esserlo un
uomo in tale circostanza. Se non era in lui coraggio, era per lo meno
orgoglio, lo che assai gli somiglia.

Aramis si accostò al tavolino di Cromvello, tagliò tre pezzi di carta
di grandezza eguale, segnò sul primo il suo proprio nome e sopra gli
altri due quelli de’ suoi camerati, li presentò aperti a Mordaunt,
il quale senza leggerli fe’ con la testa un cenno che esprimeva
rapportarsi egli a lui pienamente, e ripiegatili li mise in un cappello
che porse al giovanotto.

Questi cacciò dentro la mano, ne levò uno dei tre fogli, e senza
leggerlo lo lasciò sprezzantemente ricadere sul tavolino.

«Ah! serpentello, mormorò d’Artagnan, darei tutte le mie speranze al
grado di capitano dei moschettieri perchè il mio nome fosse su quel
bigliettino».

Aramis sciolse il foglietto, ma per quanta calma o freddezza
ostentasse, si scorgeva che gli tremava la voce d’odio e di desiderio.

«D’Artagnan!» disse forte.

Il tenente guascone diede un grido di giubilo.

«Ah! esclamò, dunque v’è in cielo giustizia!»

E direttosi a Mordaunt:

«Spero, signore, che non abbiate da affacciare obbiezioni?

«Nessuna» quegli rispose.

E cavata fuori la spada ne appoggiava la punta sullo stivale.

Tosto che d’Artagnan fu sicuro ch’era esaudita la sua brama e che
l’uomo non gli sfuggirebbe, ritornò in tutta la sua quiete, la sua
flemma, ed anche la lentezza che aveva costume di usare nei preparativi
della grave faccenda che chiamasi duello. Si arricciò le basette,
stropicciò la suola del piè destro in terra, e ciò non tolse che
osservasse come per la seconda volta Mordaunt si mandava attorno lo
sguardo singolare del quale altra fiata ei si era accorto.

«Siete pronto? domandò poi.

«Anzi, sono io che aspetto; replicò Mordaunt sollevando il capo e
fissando su d’Artagnan un’occhiata che non sapremmo descrivere.

«Dunque badate a voi, fece il Guascone, perchè tiro bene di spada.

«E anch’io.

«Meglio! così ho più quieta la coscienza: in guardia!

«Un momento, disse Mordaunt: signori, datemi la vostra parola di non
attaccarmi se non se uno dopo l’altro.

«Forse ci domandi codesto per aver il piacere d’insultarci, piccolo
serpente? rimbrottò Porthos.

«No: per avere, come diceva testè questo signore, la coscienza quieta.

«Dev’essere per qualche altro fine, bucinò d’Artagnan tentennando la
testa e osservandosi d’appresso con dubbiezza.

«Sulla fede di gentiluomo! risposero insieme Aramis e Porthos.

«Se così è, signori, soggiunse Mordaunt, ritiratevi in un canto come ha
fatto il signor conte di la Fère, il quale se non vuol battersi mostra
almeno esser cognito delle regole del combattimento, e dateci libero lo
spazio: ne avremo bisogno.

«Sia pure, fece Aramis.

«Uh! quante ciancie! mugolò Porthos.

«Da parte, signori! da parte! seguitò d’Artagnan, non va lasciato al
signorino il menomo pretesto di contenersi malamente, del che, salvo il
rispetto che gli debbo, mi pare che abbia la gran voglia».

Questo nuovo dileggio andò ad estinguersi sulla faccia impassibile di
Mordaunt.

Porthos ed Aramis si trassero nell’angolo opposto a quello dov’era
Athos, talmentechè i due campioni si trovarono ad occupare il posto
di mezzo della stanza, cioè erano situati in piena luce, stando sul
tavolino di Cromvello le due lampade che rischiaravano la scena.
Già s’intende che la luce diventava più fiacca a misura che uno si
discostava dal centro ov’ella splendeva.

«Orsù, disse d’Artagnan, siete all’ordine alfine?

«Sono all’ordine» rispose Mordaunt.

Amendue fecero nello stesso tempo un passo innanzi, e mercè quest’unico
e medesimo movimento s’incrociarono i ferri.

D’Artagnan era troppo abile schermidore per trastullarsi, conforme si
dice in termini di sala, a tasteggiare l’avversario. Fece una bella e
rapida finta; e questa fu parata da Mordaunt.

«Ah ah!» disse questo con un sorriso di soddisfazione.

E senza perder tempo, credendo di vedere un’apertura, allungò una botta
diritta, celere, e fiammeggiante come il lampo.

Mordaunt parò una contro di quarta così stretta che non sarebbe uscito
il ferro dall’anello di una fanciulla.

«Principio a credere che ci divertiremo, disse d’Artagnan.

«Sì, ripicchiò Aramis, ma divertendovi, incalzate a modo.

«Perdinci! amico, state avveduto!» aggiunse Porthos.

Allora Mordaunt si diede a sogghignare.

«Uh! signor mio, gli disse d’Artagnan, che brutto sorriso avete mai!
gli è il diavolo che vi ha insegnato a sorridere così, non è vero?»

Mordaunt non rispose se non cercando di imbracciare il ferro di
d’Artagnan con un vigore che questi non s’immaginava di trovare in
quel corpo in apparenza sì debole; ma mediante una parata non meno ben
eseguita che quella dell’emulo incontrò a tempo la lama di Mordaunt,
che sdrucciolò lungo la sua senza toccargli il petto.

Il giovanotto retrocedè sollecito di un passo.

«Ah! vi stendete? disse il Guascone, ah! vi girate? a vostro genio sia
pure, io ci guadagno anzi qualche cosa: che non vedo più il vostro
volto maligno. Eccomi del tutto all’ombra: tanto meglio. Non potete
figurarvi che tristo sguardo è il vostro, in ispecie quando avete
paura. Guardate un poco i miei occhi, e vedrete una cosa che il vostro
specchio non vi mostrerà mai, cioè uno sguardo franco e leale».

A cotesta abbondanza di parole, forse non gentili, ma abituali in
d’Artagnan che aveva per massima di tener distratto l’avversario,
Mordaunt non replicò nemmeno; ma sempre stendendosi e girando pervenne
a cambiar posto col tenente.

E vieppiù sorrideva. E il suo sorriso cominciò a dar noja al Guascone.

«Eh via! va finita, disse questi; il birbante ha i garretti di ferro.
Avanti le botte maestre!»

Ed incalzò Mordaunt, il quale continuò a distendersi, ma evidentemente
per semplice tattica, senza fare un fallo di cui il tenente potesse
approfittarsi, senza che la sua spada scartasse un momento dalla linea.
Peraltro siccome il combattimento avea luogo in una stanza ed era
scarso lo spazio, in breve il piede di Mordaunt toccò il muro, ed esso
vi appoggiò la mano sinistra.

«Ah! fece d’Artagnan, mio bell’amico, questa volta non vi allargherete
più! signori (seguitò stringendo le labbra e aggrottate le ciglia)
avete mai visto uno scorpione appiccicato a una muraglia? No?
benissimo, ora lo vedrete».

In un minuto secondo d’Artagnan diè tre colpi tremendi a Mordaunt. Lo
toccarono tutti, ma leggerissimamente. Il Guascone non ci capiva più
nulla. I tre amici guardavano ansiosi, con la fronte bagnata di sudore.

Finalmente d’Artagnan, stretto troppo da vicino, fece egli pure
un passo indietro onde preparare un quarto colpo, o piuttosto per
eseguirlo: imperciocchè per esso le armi siccome gli scacchi erano
un vasto calcolo di cui tutti i dettagli andavano concatenati l’uno
all’altro; ma nel punto che più accanito che mai, si scagliava sul
nemico, nel punto che dopo una finta celere e forte si avventava ratto
come un baleno, parve si aprisse il muro; Mordaunt sparì da un vacuo,
e la spada del tenente inceppata fra due sporti si ruppe quasi fosse di
vetro.

Egli rinculò alquanto. La parete tornò a chiudersi.

Mordaunt, mentre si difendeva, avea manovrato in tal guisa da venire
a ridosso alla porta segreta dalla quale noi già vedemmo uscire
Cromvello. Giunto colà, con la manca cercò e spinse il bottoncino. Poi
disparve come in teatro spariscono i genj malefici che hanno il dono di
passare a traverso ai muri.

Il Guascone mandò un’imprecazione furibonda, a cui dal lato opposto
rispose una risata selvaggia, funebre, la quale fece passare i brividi
sino nelle vene allo scettico Aramis.

«Qua con me, miei signori! gridò d’Artagnan, si sfondi la porta!

«È il demonio in persona! disse Aramis accorrendo.

«Ci scappa, sangue del diavolo! ci scappa! urlò Porthos posando le
larghe spalle sul tramezzo, che trattenuto da qualche molla interna non
si mosse.

«Meglio! mormorò truce Athos.

«Me lo figuravo, caspita! disse d’Artagnan tentando inutili sforzi, me
lo figuravo quando lo sciagurato girava per la stanza attorno attorno;
prevedevo qualche infame manovra, indovinavo che tramava qualchecosa;
chi poteva immaginarsi mai questa?

«È una disgrazia terribile mandataci dal diavolo suo amico! esclamò
Aramis.

«È una fortuna manifesta inviataci da Dio! ribattè Athos con la massima
allegrezza.

«In verità, rispose d’Artagnan stringendosi nelle spalle, e
abbandonando la porta che assolutamente non voleva aprirsi, andate un
poco giù, Athos! come potete dire cose simili a genti quali noi siamo?
Caspita! ma dunque non comprendete la situazione?

«Che cose? che situazione? domandò Porthos.

«A quel giuoco chi non uccide è ucciso. Sentiamo, mio caro, sta forse
nei vostri treni espiatorii che Mordaunt ci sacrifichi alla sua pietà
figliale? Se tale è la vostra opinione, ditelo francamente.

«Oh d’Artagnan! amico mio!

«È propriamente vergogna considerare le cose sotto questo aspetto. Il
furfante ci manderà cento coste di ferro che ci pesteranno come tanto
grano in questo mortajo di messer Cromvello. Animo, animo! si vada! se
stiamo qui cinque minuti, per noi è finita!

«Sì, avete ragione, si vada! ripeterono Athos ed Aramis.

«E dove si andrà? domandò Porthos.

«All’albergo, a prendere le nostre robe e i nostri cavalli; e di là,
se piace a Dio, in Francia, dove almeno io conosco l’architettura
dei casamenti. Il battello ci aspetta; affeddiddio! è anche una gran
sorte!»

E d’Artagnan, unendo l’esempio al precetto, rimise nel fodero il suo
pezzo di spada, ripigliò il cappello, schiuse l’uscio di sulla scala, e
scese velocemente seguito dai tre compagni.

Al portone i fuggiaschi ritrovarono i loro lacchè, e domandarono ad
essi contezza di Mordaunt, ma eglino non avevano veduto a partirsi
veruno.



LXXV.

_La filuca. Il Lampo._


D’Artagnan non si era ingannato: Mordaunt non aveva tempo da perdere, e
non lo aveva perduto; conosceva la prontezza nel decidere e nell’agire
de’ suoi nemici, e risolse di operare in conseguenza. Questa volta i
moschettieri avevano trovato un avversario degno di loro.

Mordaunt, chiusasi bene la porta dietro, si cacciò nel sotterraneo, e
riponendo nel fodero il brando inutile, e recandosi alla casa contigua,
si ristette alquanto per tastarsi e riprender fiato.

«Buono, buono! disse, quasi nulla; qualche sgraffio e non altro....
due al braccio, uno al petto.... Le ferite che fo io sono migliori!...
Lo domandino pure al boja di Bethune, a mio zio di Winter e al re
Carlo!... Adesso non si perda un minuto secondo, chè anche questo può
salvarli; bisogna che muojano tutti quattro insieme, d’un sol colpo,
divorati dalla folgore degli uomini poichè nol sono da quella celeste;
bisogna che spariscano, rotti, dispersi, annientati.... Si corra dunque
sino a tanto che le gambe non mi possano più reggere, sino a tanto che
in seno mi si gonfi il cuore; ma si giunga prima di loro».

E Mordaunt si mise a camminare sollecitamente verso la prima caserma di
cavalleria distante circa un quarto di lega; e il quarto di lega fu da
lui fatto in quattro o cinque minuti.

Arrivato alla caserma si diede a conoscere, prese il miglior cavallo
della stalla, vi saltò sopra, e pigliò la strada maestra. Dopo un
quarto d’ora era a Greenwich.

«Ecco il porto, borbottava, quel punto oscuro laggiù è l’isola dei
Cani.... Bene! sono avanti a loro di una mezz’oretta.... forse di
un’ora.... fui pure sciocco! ho avuto da asfissiarmi per la stolida
mia precipitazione.... E adesso (aggiunse drizzandosi sulle staffe a
guardare più lontano fra tutti i cordami, fra tutti gli alberi di navi)
il _Lampo_? dov’è il _Lampo_?»

Nel momento che pronunziava mentalmente queste parole, come per
rispondere al suo proprio pensiero, si alzò un uomo ch’era sdrajato
sopra un rotolo di gomene, e mosse alcuni passi incontro a lui.

Mordaunt si levò di saccoccia il fazzoletto, e lo sventolò per aria.

L’uomo sembrò attentissimo, ma non si mosse più nè innanzi, nè indietro.

Mordaunt fece un nodo a ciascuna delle quattro cantonate della
pezzuola; e allora quegli gli si avvicinò. Tale era, conforme noi ci
ricordammo, il segnale convenuto. Il marinajo aveva addosso un largo
cappotto di lana che gli nascondeva il personale e gli cuopriva la
faccia.

«Il signore (disse colui) non viene forse di Londra per fare una
passeggiatina in mare?

«Precisamente, rispose Mordaunt, e dalla parte dell’isola dei Cani.

«Appunto. E senza dubbio vossignoria ha una preferenza? avrebbe più
caro un bastimento che un altro? vorrebbe un bastimento buon veliero,
un bastimento veloce....

«Come il lampo, replicò Mordaunt.

«Ottimamente; dunque è il mio quello che cerca vossignoria; io sono il
capitano che le abbisogna.

«Comincio a crederlo, soprattutto se non avete dimenticato un certo
segno di riconoscimento.

«Eccolo, ribattè il marinaro togliendo dalla tasca del cappotto una
pezzuola col nodo alle quattro cocche.

«Benissimo! esclamò Mordaunt; e balzò giù da cavallo. Ora non v’è
da perder tempo: fate condurre il mio cavallo al primo albergo, e
portatemi qua la vostra barca.

«Ma i vostri compagni? domandò il marinajo, credeva che foste in
quattro, senza contare i lacchè.

«Sentite, gli disse Mordaunt accostandosi di più; io non son quello
che aspettate, come voi non siete quello ch’essi sperano di trovare.
Voi avete preso il posto del capitano Rogers, non è vero? siete qui per
ordine del generale Cromvello, ed io vengo da parte sua.

«Diffatti vi riconosco: siete il capitano Mordaunt».

Il giovane si scosse.

«Oh! non temete di nulla, fece il padrone discuoprendosi la testa, sono
un amico.

«Il capitano Groslow!

«Per l’appunto! Il generale si è rammentato che in addietro ero stato
uffiziale di marina, e mi ha incaricato di questa spedizione. V’è forse
qualche cambiamento?

«No, niente; anzi, tutto rimane nel medesimo stato.

«Per un poco avevo pensato che la morte del re....

«La morte del re non ha fatto altro che sollecitare la loro fuga; tra
un quarto d’ora, forse fra dieci minuti, saranno qui.

«E dunque, che venite a fare?

«A imbarcarmi con voi.

«Ah ah! il generale dubita del mio zelo?

«No; ma voglio assistere da me alla mia vendetta. Non avete qualcuno
che possa sbarazzarmi del mio cavallo?»

Groslow fischiò, e comparve un marinajo.

«Patrick, gli comandò Groslow, menate il cavallo alla stalla del
più prossimo albergo. Se vi domandano di chi è, dite d’un signore
irlandese».

Patrick se ne andò senza far veruna osservazione.

«Adesso, disse Mordaunt, non avete paura che vi ravvisino?

«Non v’è pericolo, con questo vestimento avvolto nel cappotto, in una
nottata così buja. E poi, voi non mi avevate ravvisato, e tanto più
deve succedere di loro.

«È vero; d’altra parte saranno ben lontani dal pensare a voi. Tutto è
pronto, non è così!

«Sì.

«Il carico è imbarcato?

«Sì.

«Cinque botti piene?

«E cinquanta vuote.

«Giusto.

«Portiamo ad Anversa del vino di Porto Porto.

«A meraviglia. Conducetemi a bordo, e tornate qui al vostro posto, chè
non tarderanno molto a capitare.

«Sono all’ordine.

«Interessa assai che nessuno de’ vostri uomini mi vegga entrare.

«Ne ho uno solo sul bastimento, e sono sicuro di lui quanto di me
stesso. Inoltre e’ non vi conosce, ed al pari de’ suoi compagni è
pronto ad obbedire ai nostri ordini, ma all’oscuro di tutto.

«Va bene; andiamo».

Scesero verso il Tamigi. Era legata una piccola lancia alla riva con
una catena di ferro fissata ad un palo. Groslow tirò a sè la barca,
l’assicurò mentre Mordaunt vi si calava, indi vi saltò dentro esso
pure, e quasi subito dato di mano ai remi si mise a vogare in maniera
da provare a Mordaunt la verità di ciò che aveva asserito, cioè di non
essersi scordato il suo mestiere d’uomo di mare.

In cinque minuti furono districati da quella quantità di navigli, che
già in quell’epoca ingombravano le vicinanze di Londra, e Mordaunt
potè distinguere come un punto oscuro la piccola filuca che si muoveva
sull’áncora non lontana dall’isola dei Cani.

Appressandosi al _Lampo_, Groslow fischiò in un dato modo, e si vide la
testa di un uomo apparire di sopra al muro.

«Siete voi, capitano? colui domandò.

«Sì, butta giù la scala».

E Groslow passando leggiero e rapido sotto al bompresso venne a
mettersi accosto a lui.

«Salite» disse poi a Mordaunt.

Mordaunt, senza rispondere, afferrò la fune e si arrampicò su pei
fianchi del bastimento con abilità e fermezza non comune alle genti di
terra; è che in esso il desío di vendetta faceva le veci dell’abitudine
ed a tutto lo rendeva adattato.

Secondo avea preveduto Groslow, il marinajo di guardia sul _Lampo_ non
mostrò tampoco di accorgersi che il padrone tornasse accompagnato.

Mordaunt e Groslow si avanzarono verso la camera del capitano. Era uno
stanzino provvisorio formato di tavole sul ponte. L’appartamento di
gala era stato ceduto ai passeggieri.

«Ed essi, dove stanno? chiese Mordaunt.

«All’altra estremità della filuca, rispose Groslow.

«E non hanno da far niente per qui?

«Nulla assolutamente.

«A meraviglia! io me ne sto nascosto nel vostro camerino. Andate a
Greenwich e conduceteli subito. Avete una lancia?

«Questa in cui siamo venuti noi.

«Mi è sembrata leggera e di buon taglio.

«Una vera piroga.

«Legatela a poppa con un canapo, metteteci i remi perchè ci segua
direttamente e non vi sia altro che da troncare la corda. Provvedetela
di rum e di biscotto. Se per caso fosse mare grosso, ai vostri uomini
non increscerebbe di aver alla mano con che ristorarsi lo stomaco.

«Tanto sarà fatto. Volete visitare la Santa-Barbara?

«No, al vostro ritorno. Voglio porre la miccia da per me onde esser
certo che non faccia molto fuoco. Specialmente celatevi bene il viso,
chè non vi riconoscano.

«Non dubitate.

«Andate, suonano le dieci ore a Greenwich».

Realmente i tocchi di una campana ripetuti dieci volte traversarono
lugubremente l’aria carica di grossi nuvoli che scorrevano in cielo
come tante onde tacite e ognor succedentisi.

Groslow spinse l’usciale, che da Mordaunt fu chiuso per di dentro,
e dato al marinajo di guardia l’ordine d’invigilare colla massima
attenzione, discese nella barca, e questa si allontanò solcando i
flutti con il doppio suo remo.

Era vento freddo, e la spiaggia deserta quando Groslow approdava a
Greenwich. Erano partite varie barche. Nel momento ch’ei mise piede a
terra udì come il galoppo di cavalli sulla strada cosparsa di ghiaja.

«Oh oh! disse, Mordaunt aveva ragione di farmi premura: non v’era tempo
d’avanzo, eccoli».

Erano difatti i nostri amici, o piuttosto la loro vanguardia composta
di d’Artagnan e di Athos. Giunti rimpetto al luogo ove stava Groslow
si fermarono, quasi indovinassero esser là quello con cui avevano
da trattare. Athos smontò, sciolse tranquillamente un fazzoletto del
quale erano annodate le quattro punte, e lo fece sventolare per aria,
intanto che d’Artagnan, sempre prudente, rimaneva mezzo chinato sul suo
cavallo, con una mano nella sacca delle pistole.

Groslow, che nel dubbio che i cavalieri fossero o no quei che
attendeva, si manteneva accosciato dietro ad uno di quei ferri
conficcati nel terreno che servono ad arrotolare i cavi, si alzò visto
il segnale stabilito, e si avviò incontro a loro. Aveva sì basso il
cappuccio del pastrano che non era possibile di distinguergli il volto.
E di più tale precauzione era superflua con la grande oscurità della
nottata.

Eppure l’occhio penetrante di Athos, non ostante il bujo, si accorse
non esser quegli Rogers.

«Che volete da me? disse a Groslow facendo un passo indietro.

«Milord, voglio dirvi, rispose Groslow affettando la pronunzia
irlandese, che cercate inutilmente il capitano Rogers.

«E come mai?

«Perchè stamane è caduto da un albero di gabbia e s’è rotta la gamba.
Ma io sono suo cugino; mi ha raccontata tutta la faccenda, e mi ha
incaricato di riconoscere per lui e condurre in sua vece dovunque
bramassero i gentiluomini che mi porterebbero una pezzola con un gruppo
ad ogni cocca come quello che voi avete in mano e questo ch’io ho in
tasca».

E si traeva dalla saccoccia il fazzoletto di già mostrato a Mordaunt.

«Non c’è altro? domandò Athos.

«Oh, sì, milord: vi sono anche settantacinque lire promessemi s’io vi
sbarco sani e salvi a Boulogne o su tutt’altro punto della Francia che
m’indicherete.

«Che ne dite, d’Artagnan? chiese Athos in francese.

«Prima di tutto, che dice costui?

«Ah sì, mi scordavo che non capite l’inglese».

E Athos ripetè a d’Artagnan il dialogo avuto col padrone.

«Mi par verosimile, disse il Guascone.

«E anche a me.

«E poi, se quest’uomo c’inganna, seguitò il tenente, potremo sempre
fargli saltar il cervello.

«E chi ci condurrà?

«Voi, Athos: sapete tante cose che non dubito saprete anche guidare un
bastimento.

«Affè, replicò Athos sorridendo, benchè scherziate, avete dato nel
segno: ero destinato da mio padre a servire nella marina, ed ho qualche
nozione del pilotaggio.

«Oh vedete! esclamò d’Artagnan.

«Sicchè, mio caro, andate a cercare i nostri amici e tornate; sono le
undici, non abbiam tempo di soprappiù».

D’Artagnan si avanzò verso due cavalieri, che colla pistola in pugno
stavano in sentinella alle prime case della città, aspettando e
sorvegliando; sulla parte opposta della strada, e ritiratisi a ridosso
di una specie di tettoja, altri tre facevano la posta e parevano pure
in aspettativa.

Le due sentinelle di mezzo erano Porthos ed Aramis. I tre della
tettoja, Mousqueton, Blaisois e Grimaud: se non che quest’ultimo, a
osservarlo bene, era doppio, poichè aveva in groppa Parry, il quale
doveva ricondurre a Londra i cavalli dei gentiluomini e dei loro
domestici venduti al locandiere per la spesa che da lui avevano fatta.
Mediante questo colpo di commercio, i quattro amici avevano potuto
portar con sè una somma, se non ragguardevole, almeno bastante per far
fronte ai ritardi ed alle eventualità.

D’Artagnan invitò Porthos ed Aramis a seguirlo, e questi accennarono ai
servi che scendessero da cavallo e sciogliessero le loro valigie.

Parry si separò, non senza rincrescimento, dai suoi amici; gli era
stato proposto di venire in Francia, ma aveva ricusato ostinatamente.

«È naturale, diceva Mousqueton, ha le sue idee relativamente a Groslow».

Noi ci rammentiamo che il capitano Groslow gli aveva spaccata la testa.

La piccola comitiva raggiunse Athos. Ma d’Artagnan aveva ripresa la sua
consueta diffidenza; trovava lo scalo troppo deserto, la notte troppo
buja, il padrone troppo buono e corrente.

Aveva raccontato ad Aramis l’incidente da noi riferito, ed Aramis
non meno di lui diffidente, contribuiva di molto ad accrescere i suoi
sospetti.

Un lieve batter della lingua sui denti palesò ad Athos le inquietezze
del Guascone.

«Non abbiamo tempo da metterci in sospetto, disse Athos, la barca ci
attende, entriamoci.

«E d’altronde, fece Aramis, chi c’impedisce di sospettare ed entrar non
ostante? Si sorveglierà il capitano.

«E se non tira diritto, lo accoppo, ed è finita, continuò Porthos.

«Bene! rispose d’Artagnan, dunque si vada. Passa tu, Mousqueton».

Ma d’Artagnan tratteneva i suoi camerati, facendo che i servi
precedessero, onde provare il tavolone che portava dalla spiaggia alla
lancia.

I tre domestici passarono senza disgrazie.

Athos gli seguitò, poi Porthos, indi Aramis. Il tenente fu l’ultimo, e
non cessava di muover la testa.

«Che diavolo avete, mio caro? gli chiese Porthos, in verità, fareste
paura a un Cesare.

«Ho, che non veggo su questo porto nè sentinella, nè ispettore, nè
doganiere.

«Oh sì, lagnatevi! rispose Porthos, tutto va come sui fiori o foglie.

«Tutto va troppo bene! Basta, alla grazia di Dio!»

Tosto fu levata la tavola, il padrone sedè al timone, e fece un cenno
ad un marinajo, il quale armatosi di un grosso gancio, principiò a
manovrare per uscire dal laberinto di navigli fra cui era impacciata la
barca.

L’altro marinaro stava già col remo in mano.

Quando ei potè adoprarlo, il suo compagno si unì a lui, e lo schifo
cominciò ad andare più lestamente.

«Alla fine si parte! disse Porthos.

«Ahimè! rispose il conte di la Fère, partiamo soli!

«Sì, ma noi quattro insieme, e senza un graffio: è una consolazione.

«Non siamo ancora arrivati, fece d’Artagnan, guai agli incontri!

«Eh! disse Porthos, siete come i corvi, voi! cantate sempre a
disgrazia! chi può incontrarci in questa notte oscurissima, che non si
vede a distanza di venti passi?

«Sì, ma domattina?

«Domattina saremo a Boulogne.

«Lo desidero di cuore, soggiunse il Guascone, e confesso la mia
debolezza: ecco, Athos, adesso riderete, ma sinchè siamo stati a
tiro di schioppo dallo scalo o dai bastimenti che v’erano attorno, mi
attendevo qualche terribile fucilata che ci distruggesse tutti.

«Ma, osservò Porthos col suo giudizio un po’ materiale, era
impossibile, poichè avrebbero ucciso nello stesso tempo e padrone e
marinai.

«Veh! grande affare per messer Mordaunt! credete che badi a così poco?

«Insomma, disse Porthos, ho piacere che d’Artagnan convenga di aver
avuto paura.

«Non solo ne convengo, ma me ne vanto: non sono mica un rinoceronte
come voi.... Ehi! che roba è questa?

«Il _Lampo_, disse il capitano.

«Dunque siamo arrivati? domandò Athos in inglese.

«Si arriva».

E dopo tre colpi di remo, erano accanto al piccolo bastimento.
Il marinaro aspettava, la scala era apparecchiata, chè egli aveva
riconosciuta la barca.

Athos salì per il primo con abilità da uomo di mare; Aramis con una
certa abitudine che aveva ai mezzi ingegnosi di traversare spazi
proibiti; d’Artagnan come un cacciatore di camosci; Porthos con la
forza che in lui suppliva a tutto.

In quanto ai servitori l’operazione fu più difficile, non per Grimaud,
ch’era una specie di gatto magro e sfilato, e trovava sempre modo
di cacciarsi in qualunque luogo, ma per Mousqueton e Blaisois, che i
marinaj dovettero sollevare in braccio sino a portata di Porthos, il
quale afferratili pel collare della casacca li piantò ritti sul ponte.

Il capitano guidò i passeggieri alla stanza ad essi apparecchiata e
in cui dovevano rimanere tutti insieme, e poi cercava di andarsene col
pretesto di dare degli ordini.

«Un momento, disse d’Artagnan; padrone, quanti uomini avete a bordo?

«Non capisco, rispose quello in inglese.

«Athos, domandateglielo nella sua lingua».

Athos fece l’interrogazione.

«Tre, disse Groslow, ben inteso senza contar me».

D’Artagnan comprese, perchè il capitano così replicando aveva alzate
tre dita.

«Oh! egli aggiunse, tre: comincio ad esser più quieto. Ma non serve,
intanto che voi altri vi accomodate qui, io vo a fare un giro per il
bastimento.

«Ed io, continuò Porthos, mi occuperò della cena.

«È bello e generoso il vostro progetto, Porthos! ponetelo in
esecuzione. Voi, Athos, imprestatemi Grimaud che dalla compagnia del
suo caro Parry ha imparato a borbottare un po’ d’inglese, e mi farà da
interprete.

«Andate, Grimaud», disse Athos.

V’era sul ponte una lanterna, d’Artagnan l’alzò con una mano,
nell’altra prese una pistola, e disse al padrone:

«_Come_[14]».

Che unito a _goddam_ era quanto ei sapesse dell’idioma britannico.

Il Guascone pigliò dal boccaporto e scese nella stiva.

La quale stiva dividevasi in tre compartimenti: quello in cui passava
d’Artagnan, e che poteva estendersi dal terzo alberetto all’estremità
da poppa, e che in conseguenza era ricoperto dal pavimento della camera
dove Athos, Porthos ed Aramis si disponevano a pernottare; il secondo,
che occupava il mezzo del naviglio, e destinato ai domestici; il terzo
di sotto alla prora, vale a dire sotto al camerino fatto di nuovo in
cui stava nascosto Mordaunt.

«Oh oh! fece d’Artagnan scendendo la scaletta del boccaporto e
facendosi precedere dal lampione che teneva steso di tutta la lunghezza
del braccio, quante botti! pare la caverna di Alì-Baba».

(In quell’epoca appunto erano state tradotte per la prima volta ed
erano in gran voga le _Mille e una Notte_.)

«Che dite?» domandò in inglese il capitano.

Il tenente capì dall’intuonazione della voce, e rispose:

«Desidero sapere che cosa v’è in quelle botti?»

E posò sopra ad una di queste la lanterna.

Il padrone fece un atto come per ritornar su, ma poi si fermò e disse:

«Porto.

«Ah! vino di Porto Porto! anche questa è una consolazione, non morremo
di sete», fece d’Artagnan.

E girandosi verso Groslow che si asciugava sulla fronte grosse gocce di
sudore, lo richiese:

«E sono piene?»

Grimaud tradusse la interrogazione.

«Alcune piene, altre vuote», disse Groslow con tal voce che ad onta
d’ogni sforzo manifestava grande inquietudine.

D’Artagnan picchiò col dito sui fusti, e riconobbe esserne cinque pieni
e gli altri vuoti; dipoi introdusse con vie maggiore sbigottimento di
Groslow, il lume che aveva in mano negli intervalli lasciati fra le
botti, e visto che quelli erano vacui:

«Animo, andiamo avanti, disse, e s’inoltrava verso l’usciale che dava
sulla seconda divisione.

«Aspettate, lo avvertì l’Inglese rimasto indietro, sempre nella
maggiore agitazione; aspettate, ho io la chiave di costì».

Allora, passando innanzi al Guascone e a Grimaud, mise con mano
tremante la chiave nella serratura, e così furono nel secondo
compartimento, dove Mousqueton e Blaisois si preparavano a cenare.

In quello evidentemente non trovavasi cosa da cercare o da osservare;
si scorgeva ogni posto, ogni angolo, mediante una lampada che avevano i
due degni compagni.

Sicchè, senza fermarsi, andarono a visitare il terzo locale.

Quello era la camera dei marinaj.

Tre o quattro cuccette sospese al palco, una tavola sostenuta da una
fune doppia passata a ciascuna delle sue estremità, due panche marce
e zoppe, ne formavano tutta la mobilia. D’Artagnan andò a sollevare
due o tre vecchie vele che pendevano dalle pareti, e nulla vedendo di
sospetto, ritornò dal boccaporto sul ponte.

«E questo camerino?» domandò d’Artagnan.

Grimaud fece all’Inglese la versione delle parole del moschettiere.

«È il camerino mio, rispose il padrone; ci volete entrare?

«Aprite», seguitò d’Artagnan.

Groslow obbedì. Il Guascone allungò il braccio munito del lampione,
cacciò dentro il capo dall’usciale socchiuso, ed osservato che si
trattava a dirittura di un buco, disse:

«Bene, bene: se a bordo v’è un’armata, di certo la non sarà rimpiattata
qui. Si vada a sapere se Porthos ha trovato da cena».

E ringraziato con un moto della testa il capitano, si recò nuovamente
nella stanza dove erano i suoi amici.

Porthos, per quanto pare, non aveva trovato cosa alcuna, e pure la
stanchezza aveva vinta la fame, e sdraiatosi sul suo ferrajuolo dormiva
profondamente quando entrò d’Artagnan.

Athos ed Aramis, cedendo ai dolci movimenti cagionati dai primi flutti
del mare principiavano a chiuder gli occhi: li riapersero al rumore
fatto dal tenente.

«Ebbene? chiese Aramis.

«Tutto va ottimamente, disse d’Artagnan, e possiamo dormire tranquilli».

Dietro di che Aramis si lasciò nuovamente andar giù la testa; Athos
colla sua fe’ un cenno affettuoso a d’Artagnan, il quale al pari di
Porthos aveva più bisogno di sonno che di cibo, licenziò Grimaud e si
coricò sul suo pastrano, con la spada nuda, in modo tale che col suo
corpo ingombrava il passo, e che nessuno potrebbe entrare nella camera
senza urtare addosso a lui.



LXXVI.

_Il vino di Porto Porto._


Dopo dieci minuti i padroni dormivano, ma non così i servitori
affamati, e specialmente assetati.

Blaisois e Mousqueton si accingevano ad apparecchiarsi il letto,
consistente in un tavolone ed una valigia, mentre sopra una tavola
sospesa come quella della stanza contigua si tentennavano al moto del
mare un pane, un boccale di birra e tre bicchieri.

«Maledetto scuotimento! diceva Blaisois, sento che mi ritorna il male
come quando si arrivò.

«E per combattere questa nausea, rispondeva Mousqueton, non avere altro
che pane d’orzo e vino di luppoli.... buff!....

«E la vostra fiaschetta di giunchi, signor Mouston, l’avete perduta?
domandò Blaisois che aveva terminato il suo preparativo e barcollando
si accostava alla tavola, davanti alla quale Mousqueton era già seduto
e dove riuscì anche a lui di sedersi.

«No; disse Mousqueton, ma Parry se l’è ritenuta. Quei maledetti
Scozzesi hanno sempre sete!.... E voi, Grimaud?.... disse poi al
camerata che appunto capitava dopo aver accompagnato d’Artagnan nel suo
giro, e voi, avete sete?

«Quanto uno Scozzese, fece Grimaud laconicamente».

E si assise accanto agli altri due, si cavò di tasca un libretto, e si
mise a fare i conti della società, di cui era l’economo.

«Ohimè, ohimè!.... disse Blaisois, mi si rimescola lo stomaco!

«Se così è, consigliò Mousqueton in tuono da dottore, pigliate un po’
di cibo.

«E codesto, lo chiamate cibo? replicò Blaisois con cera dolente e
sprezzante accennando col dito il pan d’orzo e la birra.

«Blaisois, riprese Mousqueton, rammentatevi che il pane è il vero
nutrimento del Francese, e anche il Francese non ne ha sempre:
domandatelo a Grimaud.

«Sì, ma la birra, gridò Blaisois con una prontezza che faceva onore al
suo spirito vivace, ma la birra è ella forse la sua vera bevanda?

«Per questo poi, rispose Mousqueton acchiappato dal dilemma e
imbrogliatissimo per rispondere, devo confessare di no, ed anzi
aggiungerò ch’ella gli è tanto antipatica quanto è il vino agli
Inglesi.

«Come, signor Mouston? seguitò Blaisois, che questa volta dubitava
delle profonde cognizioni di Mousqueton, per le quali nelle circostanze
ordinarie della vita aveva però la massima ammirazione, come, agli
Inglesi non piace il vino?

«Lo abborriscono.

«Eppure, glie l’ho visto bere, io.

«Per penitenza; e la prova, continuò Mouston impettito, si è, che un
giorno un principe inglese morì per essere stato dentro a una botte di
malvagia. Io l’ho inteso raccontare dal signor d’Herblay.

«Imbecillone! fece Blaisois, vorrei esser io nel suo posto.

«Lo puoi far benissimo, disse Grimaud mentre accomodava i suoi numeri
in fila.

«E in che modo?

«Sì sì, confermò Grimaud, e teneva a mente quattro per riportarlo alla
somma della colonna seguente.

«Posso farlo? spiegatevi, signor Grimaud».

Durante le interrogazioni di Blaisois Mousqueton stava in silenzio,
ma facilmente si scorgeva dal suo viso non esser questo per effetto
d’indifferenza.

Grimaud continuò il suo conteggio e stabilì il totale.

«Porto Porto, disse allora stendendo la mano nella direzione del
primo compartimento visitato da lui e da d’Artagnan in compagnia del
capitano.

«Come! quelle botti che ho adocchiate dall’usciale socchiuso....

«Porto, ripetè Grimaud, e ricominciò una nuova operazione di aritmetica.

«Ho inteso dire, seguitò Blaisois volgendosi a Mousqueton, che il Porto
Porto è un vino eccellente di Spagna.

«Eccellente, rispose Mousqueton strisciandosi sulle labbra con la
lingua, ce n’è nella cantina del signor barone di Bracieux.

«Se pregassimo questi Inglesi di vendercene una bottiglia? progettò
l’onesto Blaisois.

«Vendere! obbiettò Mousqueton tornando all’antico suo istinto di
ruberia; ben si capisce, giovanotto, che non avete ancora l’esperienza
delle cose della vita. Perchè comprare quando si può prendere?

«Prendere! desiderare il bene del prossimo! è proibito, mi pare!

«Dove?

«Nei comandamenti di Dio.... o della Chiesa.... non so.... ma so che
v’è. _E non desiderare i beni del prossimo tuo, nè la sua sposa_....

«Chiacchere! chiacchere! dove avete mai trovato che gli Inglesi siano
nostro prossimo?

«In nessun luogo, è vero.... almeno non me ne ricordo.

«Bambinate! bambinate! seguitò Mousqueton. Se aveste guerreggiato dieci
anni come io e Grimaud, caro Blaisois, sapreste fare la differenza che
v’è tra il bene del prossimo e il bene del nemico: ora un Inglese è
nemico, e il vino appartiene agl’Inglesi; dunque appartiene a noi, che
siamo Francesi....»

Questa facondia, appoggiata da tutta l’autorità che Mousqueton traeva
dalla sua lunga pratica, incantò Blaisois. Costui chinò il capo come
per riflettere, e ad un tratto rialzandolo alla maniera di un uomo
armatosi di un argomento irresistibile, disse:

«Signor Mousqueton, e i padroni saranno della vostra opinione?»

Mousqueton sogghignò con disprezzo.

«Dovrei forse, rispose, andare a disturbare nel sonno quegli illustri
signori per dir loro: «Signori, il vostro servo Mousqueton ha sete, gli
permettete di bere?» Ma che importa al signor di Bracieux, ch’io abbia
sete o no?

«È vino che costa caro! osservò Blaisois scuotendo la testa.

«Fosse anche oro, messer Blaisois, i nostri padroni non se ne
priverebbero. Sappiate che il signor barone di Bracieux è da sè solo
assai ricco per bere una botte di Porto Porto, anco dovesse pagarlo
una doppia ogni goccia. E io non veggo, continuava Mousqueton nel suo
magnifico orgoglio, giacchè i padroni non so lo farebbero mancare, il
perchè abbiano a lasciarselo mancare i domestici».

Indi essendosi alzato, pigliò il boccale della birra, lo vuotò da uno
sportello di bordo sino all’ultima stilla, e si avanzò maestosamente
verso l’usciale che dava sulla divisione.

«Ah ah! disse, è chiuso. Quei bricconi d’Inglesi, come sono diffidenti!

«Chiuso! fece Blaisois non meno dolente, peccato, in verità! di più che
mi sento travagliare lo stomaco peggio di prima!....»

Mousqueton si girò verso Blaisois con ciera così mesta che si conosceva
a quale alto grado si associasse al di lui rincrescimento.

«Chiuso! ripetè.

«Ma, azzardò Blaisois, io vi ho sentito raccontare, signor Mousqueton,
che una volta nella vostra gioventù, a Chantilly se non isbaglio,
manteneste il vostro padrone e voi stesso prendendo delle pernici colla
rete, dei carpioni colla lenza, e delle bottiglie col lacciuolo....

«Positivamente, questo è esattissimo; ed ecco Grimaud che ve lo
può attestare; ma alla cantina v’era uno spiraglio, e il vino era
imbottigliato. Non posso gettare il lacciuolo a traverso a questo
tramezzo, nè tirare con uno spago un fusto che pesa forse duecento
cantara.

«No, ma dal tramezzo potreste levare due o tre tavoloni, ed a un fusto
fare un buco colla verrina».

Mousqueton spalancò smisuratamente gli occhi, e guardando Blaisois da
uomo che stupisce di riscontrare in un altro una capacità di cui non lo
giudicava suscettibile, replicò:

«È vero, si può; ma lo scalpello per fare saltare le tavole, e la
verrina per forare la botte?

«L’astuccio, fece Grimaud bilanciando il dare e avere del suo conto.

«Ah sì! l’astuccio, disse Mousqueton, ed io che non ci pensavo!»

Realmente Grimaud era non soltanto economo della compagnia ma anche
suo armajuolo: oltre al registro aveva l’astuccio. Ed essendo egli uomo
di grandissime precauzioni, l’astuccio ben ripiegato nella valigia era
fornito di tutti gli arnesi di prima necessità, e quindi conteneva una
verrina di grossezza ragionevole.

Mousqueton se ne impossessò.

Per lo scalpello non lo dovè cercare lontano, chè il pugnale che
portava alla cintura era in grado di essergli sostituito utilmente.

Mousqueton trovò agevolmente un canto ove le tavole fossero disgiunte,
e si mise subito all’opra.

Blaisois lo stava ad osservare con ammirazione mista ad impazienza,
tratto tratto avventurando sul modo di staccare un chiodo, o di pigiar
meglio, delle riflessioni piene di abilità e di chiarezza.

A capo a un momento Mousqueton aveva fatto schizzar via tre tavoloni.

«Là! disse Blaisois».

Mousqueton era tutto all’opposto della rana della favola, che si
credeva più grossa di quel che la si fosse. Sfortunatamente, se era
pervenuto a scemare di un terzo il proprio nome, non gli era riuscito
lo stesso pel suo ventre. Tentò di passare dall’apertura formata, e
vide con sommo duolo che bisognerebbe togliere altre due o tre tavole
perchè quella gli bastasse.

Sospirò, e si ritirò per riaccingersi al lavoro.

Ma Grimaud che aveva terminato il conteggio, si era alzato, e col
massimo interesse per l’operazione che colà si eseguiva si era
avvicinato a’ suoi due compagni, e scorgeva gli inutili sforzi di
Mousqueton per arrivare alla terra promessa.

«Io, disse Grimaud».

Questa parola sola valeva quanto un sonetto, che come ognuno sa vale
quanto un poema.

Mousqueton si voltò domandando:

«Che cosa, voi?

«Io passerò.

«Oh sì, rispose Mousqueton dando un’occhiata al personale lungo e secco
dell’amico, voi sì, e facilmente.

«Va bene, seguitò Blaisois, e conosce le botti piene, poichè è già
stato in cantina col signor cavaliere d’Artagnan. Signor Mousqueton,
lasciate che s’introduca messer Grimaud.

«Mi ci sarei introdotto io pure egualmente che Grimaud, disse
Mousqueton un po’ sdegnato.

«Sì, ma ci vorrebbe più tempo, ed io ho molta sete.... sento che mi si
rimescola sempre più lo stomaco.

«Andate dunque, Grimaud, ordinò Mousqueton dando a quello che si recava
a tentare l’impresa in sua vece il boccale da birra e la verrina.

«Netta i bicchieri, disse Grimaud».

Poi fece un gesto amichevole a Mousqueton, acciò questi gli perdonasse
di compiere una spedizione cominciata in maniera tanto brillante da un
altro, ed alla guisa di un serpente si cacciò dentro dall’apertura e
disparve.

Blaisois sembrava in estasi. Di tutte le imprese fatte dopo il loro
arrivo in Inghilterra dagli uomini straordinari a’ quali aveva la sorte
di essere addetto, quella di certo gli sembrava la più miracolosa.

«Ora vedrete, disse allora Mousqueton fissando in viso Blaisois con una
superiorità a cui questi non cercava tampoco di sottrarsi, ora vedrete,
Blaisois, come beviamo noi altri soldati quando abbiamo sete.

«Il pastrano, fece Grimaud di fondo alla cantina.

«Ah sì! è giusto, disse Mousqueton.

«Che cosa vuole? domandò Blaisois.

«Che si tappi l’ingresso con un pastrano.

«Per che fare?

«Innocentino! e se entrasse qualcuno?

«Ah! è vero! esclamò Blaisois con sempre maggiore ammirazione, ma sarà
al bujo, non ci vedrà.

«Grimaud ci vede sempre, di notte come di giorno.

«È fortunato! io quando non ho lume non posso far due passi senza dare
qualche urtonata!

«Perchè voi non siete stato al servizio; replicò Mousqueton a Blaisois,
se no, avreste imparato a raccattare un ago dentro a un forno.... Oh
silenzio! vien gente, se non isbaglio».

Mousqueton diede un piccolo fischio d’allarme già familiare ai lacchè
nei tempi di loro giovinezza, ripigliò il suo posto a tavola, ed
ammiccò a Blaisois di fare altrettanto.

Questi obbedì.

Fu schiuso l’uscio, comparvero due uomini inferrajuolati.

«Oh oh! disse uno di essi, alle undici e un quarto, non per anche a
letto? è contro le regole. Fra un quarto d’ora tutto sia al bujo e
tutti russino».

I due s’incamminarono verso la porticella del compartimento in cui
si era cacciato Grimaud, e l’apersero, ed entrarono, e dietro se la
serrarono di nuovo.

«Ah! fece Blaisois raccapricciando, egli è perduto!

«Grimaud è volpe vecchia! bucinò Mousqueton».

Ed attesero, postisi in orecchio e trattenendo il fiato.

Scorsero dieci minuti, nei quali non si udì alcun rumore da dar
sospetto che Grimaud fosse stato scoperto.

Passato quell’intervallo, Mousqueton e Blaisois videro riaprirsi la
porta, ne uscirono i due intabarrati, tornarono a chiudere con la
medesima precauzione di prima, e si allontanarono ripetendo l’ordine di
coricarsi e spegnere i lumi.

«Si ha da obbedire? domandò Blaisois, tutto questo mi par brutto.

«Hanno detto un quarto d’ora, ci restano cinque minuti, rispose
Mousqueton.

«Se avvertissimo i padroni?

«Aspettiamo Grimaud.

«Ma se lo hanno ammazzato?

«Eh! avrebbe urlato.

«Sapete pure ch’è quasi mutolo.

«Si sarebbe inteso il colpo.

«Ma, se non viene più?

«Eccolo!»

Diffatti nello stesso momento Grimaud discostava il pastrano che celava
il foro, e da questo metteva fuori una faccia livida, di cui gli occhi
spalancati e rotondi per lo spavento lasciavano distinguere una piccola
pupilla in un largo cerchio bianco. Teneva in mano il vaso di birra,
pieno di una sostanza qualunque, l’avvicinò al raggio di luce che
tramandava la lampada fumosa, e balbettò il semplice monosillabo _Oh!_
con espressione di sì fiero terrore, che Mousqueton rinculò sbigottito
e Blaisois fu in procinto di svenire.

Entrambi però diedero un’occhiata al boccale da birra: era pieno di
polvere.

Grimaud appena convinto essere il bastimento carico di polvere, anzi
che di vino, si slanciò al boccaporto, ed in un salto fu alla camera
ove dormivano i quattro amici. Giunto là, spinse piano l’usciale, col
che destò immediatamente d’Artagnan coricato dietro a questo.

Non sì tosto d’Artagnan ebbe veduta la faccia sconvolta di Grimaud,
comprese esservi qualchecosa straordinaria, e andava per gridare; il
domestico però con un gesto più rapido che la parola, si mise un dito
sulle labbra, e con un soffio di cui nessuno avrebbe avuto idea in un
corpo sì gracile, estinse il lumicino da tre passi distante.

D’Artagnan si sollevò sul gomito; Grimaud posò in terra un ginocchio,
e divi, a collo steso, con un’agitazione tremenda, gli bisbigliò
all’orecchio un racconto, che a tutto rigore era abbastanza drammatico
per rendere superfluo il gesto e i movimenti della fisonomia.

Durante quella relazione, Athos, Porthos ed Aramis dormivano come
uomini che non abbiano dormito da otto notti, e nella stiva Mousqueton
per precauzione si legava gli aghetti, mentre Blaisois inorridito e coi
capelli ritti in testa si provava a far lo stesso.

Ecco ciò che era accaduto.

Subito che Grimaud fu sparito dal foro e si trovò nel primo
compartimento, si diede a cercare, ed incontrò una botte; vi picchiò
sopra: ell’era vuota. Andò ad un’altra: vuota egualmente. Ma la
terza su cui ripetè l’esperimento diede un tal suono che non v’era da
ingannarsi, ed egli riconobbe ch’era piena.

Si fermò a questa, cercò un luogo adattato per bucarla con la verrina,
e nel far ciò posò la mano sur una chiavetta o robinetto.

«Bene! disse fra sè, risparmio di fatica!»

Appressò il vaso di birra, girò la chiavetta, e sentì il contenuto
passare adagio dall’uno all’altro recipiente.

Grimaud, usata la cautela di richiudere il robinetto, si accingeva ad
accostarsi alla bocca il vaso suddetto, essendo egli uomo di troppa
coscienza per recare ai compagni un liquido del quale non potesse
garantir loro la qualità, quando ecco intese il segnale d’allarme
datogli da Mousqueton; ebbe sospetto di qualche ronda notturna, si
cacciò nello spazio esistente tra due fusti, e si rimpiattò dietro ad
uno di questi.

Realmente, di lì a poco fu aperta la porta e indi richiusa, dopo
esserne venuti fuori i due individui col ferrajuolo che noi già
vedemmo andar su e giù dinanzi a Blaisois e Mousqueton col dare ad essi
l’ordine di smorzare le candele.

Uno dei due teneva una lanterna guarnita di vetri, ben serrata, e tanto
alta che la fiamma non poteva arrivare sino alla cima; inoltre i vetri
erano ricoperti da un foglio bianco che mitigava o piuttosto assorbiva
e la luce e il calore.

Colui era Groslow.

L’altro reggeva una qualche cosa pieghevole e arrotolata come una corda
bianchiccia. Gli cuopriva il viso un cappello a tese larghe.

Grimaud supponendoli là per lo stesso sentimento per cui egli vi era,
e credendo che al pari di lui venissero a fare una visita al vino di
Porto Porto, si rannicchiò sempre più a tergo alla botte, calcolando
inoltre che qualora fosse scoperto il delitto non era poi molto grave.

I due sopraggiunti, quando furono al fusto dietro al quale appiattavasi
Grimaud, si fermarono.

«Avete la miccia? domandò in inglese quello del lampione.

«Eccola, disse l’altro».

Alla voce dell’ultimo, Grimaud si scosse e si sentì un brivido sino nel
midollo delle ossa; si rizzò lentamente sino a tanto che colla testa
sorpassasse il cerchio di legno, e sotto l’ampio cappellone riconobbe
il pallido volto di Mordaunt.

«Quanto può durare questa miccia? costui richiese.

«Eh! circa cinque minuti, gli rispose il padrone».

Neppur quella voce era ignota a Grimaud. Egli mandò lo sguardo dal
primo al secondo, e dopo Mordaunt ravvisò Groslow.

«Dunque, continuò Mordaunt, avvertirete i vostri uomini di star pronti,
senza dir loro a che. La lancia seguita il bastimento?

«Come un cane seguita il padrone reggendosi a una fune di canapa.

«Allora quando l’orologio toccherà il quarto dopo mezzanotte, riunirete
i vostri uomini, e scenderete senza far rumore nella lancia.

«Dopo aver dato fuoco alla miccia?

«A questo penso io: voglio esser sicuro della mia vendetta. I remi sono
nella barca?

«Tutto è apparecchiato.

«Bene.

«Siamo intesi».

Mordaunt s’inginocchiò e fissò una cima della miccia alla chiavetta,
per non aver più da far altro che dar fuoco all’estremità opposta.

E terminata tale operazione, cavò fuori l’oriuolo.

«Avete inteso? un quarto dopo mezza notte; disse alzandosi, cioè fra
venti minuti.

«Ottimamente, signore, rispose Groslow. Soltanto, devo farvi
osservare per l’ultima volta che v’è qualche pericolo nell’incarico
riserbatovi, e che sarebbe meglio incombenzare un dei nostri subalterni
nell’accensione.

«Mio caro Groslow, replicò Mordaunt, sapete pure il proverbio: _Chi fa
da sè fa per tre_, ed io lo metterò in pratica».

Grimaud aveva ascoltato tutto, se tutto non aveva inteso: ma in lui la
vista suppliva alla mancanza di piena intelligenza dell’idioma; avea
veduto e riconosciuto i due acerrimi nemici dei moschettieri; avea
visto Mordaunt preparare la miccia; aveva udito il proverbio detto in
francese da Mordaunt; finalmente tastava e ritastava il contenuto del
boccale, ed invece del liquido che attendevano Mousqueton e Blaisois,
scricchiolavano sotto le sue dita i grani di una grossa polvere da
botta.

Mordaunt si avviò col capitano; sull’uscio si fermò in ascolto,

«Sentite come dormono? disse».

Difatti si udiva russare Porthos a traverso al palco.

«Iddio li mette in mano vostra! fece Groslow.

«E questa volta, soggiunse Mordaunt, il diavolo non li salverebbe».

Ed uscirono insieme.

Grimaud aspettò sino ad aver inteso stridere la stanghetta della porta,
e quando fu certo di esser solo si alzò adagio rasente al muro.

«Ah! disse asciugandosi colla manica le grosse goccie di sudore che gli
correvano sulla fronte, che fortuna che Mousqueton abbia avuto sete!»

Si sollecitò a ripassare dal buco, credendo tuttavia di sognare, ma la
vista della polvere nel vaso da birra gli provò come quel sogno era un
incubo mortale.

D’Artagnan, secondo è da pensarsi, ascoltò tutti quei particolari
col massimo interesse, e senza attendere che Grimaud avesse terminato
si rizzò senza impeto alcuno, ed accostata la bocca alle orecchie di
Aramis che dormiva dalla sua parte sinistra, e toccandogli la spalla
onde impedire qualunque movimento repentino, gli disse:

«Alzatevi! cavaliere, e non fate chiasso».

Aramis si destò. D’Artagnan ripetè l’invito stringendogli la mano, ed
egli obbedì.

«Accanto a voi è Athos, seguitò a dirgli, prevenitelo come io ho fatto
a voi».

Aramis svegliò facilmente Athos, che aveva il sonno leggiero conforme
sogliono tutti i naturali delicati e nervosi. Ma si durò maggior
fatica a svegliare Porthos. Questi si accingeva a domandare le cause
e le ragioni di quella interruzione dei suoi sonni, che gli pareva
spiacevolissima, ma d’Artagnan per unica spiegazione gli piantò una
mano sulla bocca.

Allora il nostro Guascone, allungate le braccia e ricondottole a sè,
rinchiuse nel cerchio di esse le tre teste degli amici in maniera che
per dir così si toccassero.

«Miei cari, avvertì, lasceremo subito questa barca, o che siamo tutti
morti.

«Veh! da capo? fece Athos.

«Sapete chi e il capitano?

«No.

«Il colonnello Groslow».

Una scossa dei tre moschettieri manifestò a d’Artagnan che il suo
discorso cominciava a far loro qualche impressione.

«Groslow! disse Aramis, oh diavolo!

«Che roba è questo Groslow? domandò Porthos, non me ne rammento più.

«Quello che ruppe la testa a Parry, e in questo momento si dispone a
romperla a noi.

«Oh oh!

«E il suo luogotenente, sapete chi è?

«Luogotenente? fece Athos, non se ne hanno in una filuca di quattro
uomini d’equipaggio.

«Sì, ma messer Groslow non è già un capitano come gli altri. Egli lo
ha, e nella persona del signor Mordaunt».

Questa volta non bastò ai moschettieri una scossa, vi fu anche
un grido. Quegli uomini invincibili erano soggetti all’influenza
misteriosa e fatale che su di loro esercitava quel nome, e sentivano
terrore al solo udirlo a pronunziare.

«Che si fa? disse Athos.

«Impossessarci della feluca, progettò Aramis.

«E ucciderlo, aggiunse Porthos.

«Nella feluca è fatta una mina, disse d’Artagnan; le botti che ho prese
per fusti pieni di Porto Porto sono botti di polvere. Quando Mordaunt
si vegga scoperto farà saltar per aria tutti, amici e nemici, e affè!
egli è un signorino di troppo trista società perch’io abbia voglia di
presentarmi con lui nè in cielo nè all’inferno.

«Dunque avete già un piano? richiese Athos.

«Sì.

«E quale?

«Avete fiducia in me?

«Ordinate, risposero i tre moschettieri.

«Or bene, venite qua».

D’Artagnan andò ad un finestrino bassissimo, ma che bastava perchè un
uomo vi passasse, e lo fece scorrere sulla cerniera.

«Ecco la strada, disse allora.

«Diavolo! fece Aramis, caro mio, fa un gran freddo!

«Restate qui se volete, ma vi avviso che tra poco ci farà troppo caldo.

«Ma non possiamo mica arrivare a nuoto a prender terra!

«La lancia ci seguita legata a un cavo; arriveremo alla lancia, e
taglieremo il cavo: non v’è altro. Andiamo, signori.

«Un momento.... disse Athos, e i servitori?

«Eccoci, risposero Mousqueton e Blaisois».

Perocchè Grimaud era stato a chiamarli, onde concentrare tutte le forze
nel camerino, ed essi dal boccaporto quasi attiguo alla porta erano
entrati senza esser veduti.

Frattanto i tre amici rimanevano immobili dinanzi al terribile
spettacolo a loro scoperto da d’Artagnan sollevando l’imposta, e che
osservavano da quella stretta apertura.

Infatti chiunque abbia veduto una volta tale spettacolo, sa che non
v’ha cosa la quale faccia maggior sensazione che il mare agitato che
manda i neri suoi flutti con un cupo rumore allo scarso chiarore della
luna d’inverno.

«Per bacco! disse d’Artagnan, siamo titubanti, mi pare! e se noi lo
siamo, che faranno i nostri lacchè?

«Io non esito punto, disse Grimaud.

«Signore, soggiunse Blaisois, io ve lo avverto, non so nuotare se non
nei fiumi.

«Ed io non so nuotare per niente, seguitò Mousqueton».

In quel frattempo d’Artagnan si era messo già fuori dal finestrino.

«Siete dunque deciso? domandò Athos.

«Sì, rispose il Guascone. Animo, Athos! voi che siete l’uomo perfetto,
ordinate allo spirito di dominare la materia; voi, Aramis, date il
comando ai servi; voi, Porthos, uccidete quanti ci diano ostacolo».

E d’Artagnan, avendo stretta la mano ad Athos, colse il momento che per
un moto di ondeggiamento il naviglio si sommergeva da poppa, talchè non
ebbe da far altro che lasciarsi calare nell’acqua che lo avvolgeva di
già sino alla cintura.

Athos gli andò appresso anche prima che la feluca fosse rialzata;
questa si trasse in su, e si vide scaturir dal mare il cavo a cui era
legata la scialuppa.

D’Artagnan nuotò verso quella corda e la raggiunse.

Poi alla svolta del bastimento si distinsero due teste: quelle di
Aramis e di Grimaud.

«Blaisois mi dà da pensare, disse Athos; non avete inteso, d’Artagnan,
che ci ha detto non saper nuotare se non nei fiumi?

«Quando si sa nuotare, si nuota da per tutto, rispose il tenente, al
bargio! al bargio!

«Ma Porthos? non lo veggo!

«Verrà tra poco, non dubitate; nuota come un leviathan».

Realmente Porthos non compariva, perchè fra esso e Mousqueton e
Blaisois, aveva luogo una scena buffonesca e mezzo drammatica.

Questi due, spaventati dal rumore dell’acqua, e dal fischiar del
vento, e dall’aspetto dell’onda nera e gorgogliante in un vortice,
retrocedevano anzi che avanzarsi.

«Animo, giù! in mare! disse Porthos.

«Ma, signore, non so nuotare, rispondeva Mousqueton; lasciatemi qui.

«E anco me! pregava Blaisois.

«Vi assicuro che vi darò più impaccio che altro in quella barchetta,
soggiunse Mousqueton.

«Ed io mi annegherò prima di arrivarvi, continuava Blaisois.

«Eh! vi strangolo tutti due se non uscite! fece Porthos afferrandoli
pel collo; innanzi, Blaisois!»

Questi non diede altra risposta che un gemito soffocato dalla ferrea
mano di Porthos, perocchè il gigante, tenendolo per la gola e pei
piedi, lo fe’ sdrucciolare come una tavola dal finestrino e lo mandò
capovolto nell’acqua.

«Adesso, Mouston, disse Porthos, mi lusingo che non abbandoniate il
vostro padrone.

«Ah, signore! sospirò colle lacrime agli occhi Mousqueton, perchè
vi siete rimesso al servizio? stavamo tanto bene nel castello di
Pierrefonds!»

E senza altra rampogna, diventato obbediente e passivo, o per vero
zelo, o per l’esempio dato a proposito da Blaisois, Mousqueton si tuffò
a capo all’ingiù.... atto in ogni caso, sublime, dappoichè ei si teneva
per morto.

Ma Porthos non era uomo da lasciar così il fedele compagno. Il padrone
seguitò tanto da vicino il servitore, che la caduta dei due corpi fece
un solo e medesimo tonfo, talmentechè quando Mousqueton ritornò a galla
affatto cieco si trovò sorretto dalla larga mano di Porthos, e senza
aver bisogno di far alcun moto, potè avanzarsi verso la fune, con tutta
la maestà di un Dio marino.

Nell’istante, Porthos vide scuotersi qualche cosa prossima al suo
braccio: la qualche cosa era Blaisois, ed egli lo afferrò pei capelli.

Athos gli si faceva di già incontro, ma Porthos disse a questo:

«Andate, conte, andate, non ho necessità di voi».

E veramente con un robusto colpo dei garretti, Porthos si rizzò come
il gigante Adamastor al di sopra dei flutti, ed in tre slanci ebbe
raggiunti i camerati.

D’Artagnan, Aramis e Grimaud aiutarono Mousqueton e Blaisois a salire;
indi toccò a Porthos, il quale scavalcando di su lo sportello del bordo
ebbe a far travirare il piccolo schifo.

«E Athos? domandò d’Artagnan.

«Eccomi! disse Athos, che alla guisa di un generale che sostenga la
ritirata non avea voluto andar su se non da ultimo, e stava accanto
agli orli della barca, siete tutti riuniti?

«Tutti, rispose d’Artagnan. E voi, Athos, avete il pugnale?

«Sì.

«Dunque, tagliate il cavo, e venite».

Athos si levò dalla cintola un pugnale appuntato; la feluca si
allontanò, la lancia restò ferma senz’altro movimento che quello che le
davano le onde.

«Venite, Athos» ripetè d’Artagnan.

E porse la mano al conte di la Fère, che si accomodò pure nel battello.

«Era tempo! disse il Guascone, e ora vedrete qualche cosa di curioso!»



LXXVII.

_Fatality._


E realmente aveva appena d’Artagnan profferite quelle parole, che sul
naviglio risuonò un fischio.

«Capite bene, disse il Guascone, che questo significa qualcosa».

E si distinse un lampioncino sul ponte trasparire dall’ombra della
poppa.

Ad un tratto traversò lo spazio un grido terribile, grido di
disperazione; e quasi avesse questo discacciati i nuvoli, si diradò il
velo che nascondeva la luna, e si mostrarono sul cielo inargentato da
squallida luce il velame grigio e il cordame nero del bastimento.

Correvano ombre smarrite su pel naviglio, ed urli lamentevoli le
accompagnavano nell’aggirarsi che follemente facevano.

E frattanto si mirò sulla sommità della poppa Mordaunt, con una torcia
in mano.

Le ombre che andavano come perdute sulla feluca erano Groslow ed i suoi
uomini, i quali, all’ora da Mordaunt indicata erano stati radunati,
mentre costui, dopo essere stato a sentire sull’usciale del camerino se
i moschettieri dormivano sempre, era disceso alla stiva, riconfortato
dal loro silenzio.

E diffatto, chi avrebbe potuto sospettare ciò ch’era accaduto?

Mordaunt in conseguenza aveva aperta la porta ed era corso alla miccia;
impetuoso come chi abbia sete di vendetta, e sicuro di sè come quelli
che accieca la passione, aveva dato fuoco allo zolfo.

Nel frattempo Groslow ed i suoi marinaj si erano riuniti a poppa.

«Allate la gomena! disse Groslow, e tirate a noi il bargio».

Uno dei marinaj scavalcò la parete del bastimento, afferrò il cavo e
tirò: la corda venne verso di lui senza far resistenza.

«Il cavo è tagliato! esclamò colui, non v’è più lancia!

«Come! non più lancia? fece Groslow scagliandosi sulla impagliatura, è
impossibile!

«Eppure è così! guardate.... nulla in tutto il solco, e poi ecco la
cima della fune».

E allora fu che Groslow cacciò il gemito udito dai moschettieri.

«Che c’è egli? esclamò Mordaunt uscito dal boccaporto con in mano la
torcia.

«C’è che i nemici ci scappano; c’è che hanno tagliato il canapo e
fuggono con la scialuppa».

Mordaunt fu in un salto sino al camerino e lo sfondò con una pedata.

«Vuoto! strillò, oh demonj!

«Gl’inseguiremo, disse Groslow, non possono esser lontani, e li
caleremo a fondo passando loro addosso.

«Sì, ma il fuoco! rispose Mordaunt, ho appiccato il fuoco!

«A che?

«Alla miccia!

«Corpo di una saetta! urlò Groslow verso il boccaporto. È forse ancor
tempo!»

Mordaunt non rispose che con una terribile risata, e scomposto il
sembiante dall’odio ancor più che dal terrore, cercando cogli occhi
il cielo come volesse mandar fuori un’ultima bestemmia, buttò prima la
torcia e indi sè stesso in mare.

Nel medesimo punto, e mentre Groslow poneva il piede sulla scala del
boccaporto, il naviglio si aperse come il cratere di un vulcano, sorse
in alto una vampa di fuoco con iscoppio non dissimile da quello di
cento cannoni che sparassero insieme; l’aria s’incendiò tutta segnata e
ripercossa da rottami ugualmente incendiati, poscia disparve l’orribile
lampo, i pezzi infranti ricaddero uno dopo l’altro mugghiando
nell’abisso in cui si estinguevano, ed eccettuato un certo rimbombo
rimasto per l’aere, di lì a poco avreste creduto nulla fosse avvenuto.

Se non che la feluca era scomparsa dalla superficie del mare, e
distrutti, annientati Groslow ed i suoi tre sottoposti.

I quattro amici avevano veduto tutto, non era loro sfuggita veruna
circostanza di quel tremendo dramma. Innondati per un momento da quel
lume risplendentissimo che avea rischiarato il mare alla distanza di
più di una lega, rimanevano ciascuno in diversa attitudine, esprimendo
lo spavento da cui non potevano astenersi ad onta dei loro cuori di
bronzo. In breve ricadde intorno a loro la pioggia di fiamme, ed alla
fine il vulcano si estinse conforme dianzi noi narravamo, e tutto
ritornò nelle tenebre; barca galleggiante ed oceano agitato.

Eglino stettero per un istante taciti ed abbattuti. Porthos ed Aramis,
avendo preso un remo per ciascheduno, lo reggevano macchinalmente
più su dell’acqua, aggrappandovisi sopra con tutto il corpo, e lo
stringevano con le mani irrigidite.

«Affè, disse Aramis, il primo a troncare quel silenzio di morte, questa
volta credo che tutto sia finito!

«Qua a me _milords!_ soccorso! ajuto!» gridò una voce lamentevole, i di
cui accenti giunsero sino ai moschettieri, simile a quella di qualche
spirito del mare.

Tutti si guardarono; anche Athos palpitò.

«È desso! disse, è la sua voce!»

E tutti avendola di fatti riconosciuta ugualmente che Athos, restarono
cheti; soltanto le loro pupille si volsero nella direzione onde
era sparito il bastimento, tentando ad ogni moto di penetrare fra
l’oscurità.

Di là ad un momento si cominciò a distinguere un uomo.

Nuotava vigorosamente, e si avvicinava.

Athos stese lentamente un braccio dalla sua parte onde additarlo ai
suoi camerati.

«Sì, sì, disse d’Artagnan, lo veggo.

«Esso da capo! fece Porthos respirando come un mantice, oh! ma dunque è
di ferro?

«Mio Dio! mio Dio! balbettò Athos».

Aramis e d’Artagnan si parlavano all’orecchio.

Mordaunt fece alcune altre bracciate, e levata in segno di abbandono
una mano più su del mare:

«Pietà, signore! in nome dei cielo, pietà! sento mancarmi le forze! mi
muojo!...»

Era così sonora la voce che implorava ajuto che andò a risvegliare la
compassione in fondo al cuore di Athos.

«Infelice! questi mormorò.

«Bravo! disse d’Artagnan, non mancherebbe altro che lo compiangeste!...
In verità, mi pare che venga verso di noi.... Si crede forse che lo
prendiamo? vogate, Porthos, vogate».

E per dar l’esempio ei tuffò il remo, e in due colpi lo schifo si
allontanò di venti braccia.

«Oh! non mi abbandonerete! non mi lascerete perire! non sarete senza
pietà! esclamò Mordaunt.

«Ah ah! gli rispose Porthos, se non isbaglio siete nostro finalmente,
bel signorino, e per salvarvi di qui non avete altra porta che
l’inferno.

«Oh Porthos! brontolò il conte di la Fère.

«Eh! lasciatemi quieto, Athos; in coscienza, diventate ridicolo con la
vostra sempiterna generosità! prima di tutto, vi dichiaro che se viene
dieci passi vicino alla lancia gli spacco la testa col mio remo.

«Di grazia!... signori non mi sfuggite!... di grazia, abbiatemi
pietà!...» gridava il giovanotto.

E talvolta, quando col capo andava sotto all’onde, il suo respiro
affannoso faceva gorgogliare l’acqua ghiaccia.

D’Artagnan, che attendendo cogli occhi ad ogni movimento di Mordaunt,
aveva terminato il suo colloquio con Aramis, si alzò.

«Signor mio, disse a Mordaunt, compiacetevi allontanarvi. Il vostro
pentimento è di troppo fresca data perchè noi vi abbiamo grande
fiducia. Badate che il barco nel quale volevate arrostirci fuma ancora
sott’acqua, e che la situazione in cui voi siete è un letto di rose
a paragone di quella in che intendevate di metter noi, e nella quale
avete piantato messer Groslow ed i suoi compagni.

«Signori, replicò Mordaunt in tuono vieppiù disperato, vi giuro ch’è
verace il mio pentimento; signori, sono tanto giovane, ho appena
ventitrè anni! signori, sono stato trasportato da un risentimento
naturale; bramavo di vendicare mia madre, e voi avreste fatto quel
ch’io feci.

«Eh via! secondo....» fece d’Artagnan che vedeva Athos sempre più
intenerirsi.

Mordaunt era già molto prossimo alla lancia, perocchè la paura di
morire quasi gli dava un vigore soprannaturale.

«Ahimè! soggiunse, dunque dovrò morire! dunque ucciderete il figlio
come uccideste la madre! Eppure, io non era colpevole. Secondo tutte le
leggi un figlio deve vendicare sua madre.... E poi (seguitava unendo
ambe le mani) s’è delitto, giacchè me ne pento, giacchè ne chiedo
perdono, devo essere perdonato».

E come se gli mancassero le forze, sembrò non si potesse sostenere più
a galla, e un’ondata che gli passò sul capo gli estinse la voce.

«Oh mi fa pur male!» disse Athos.

Mordaunt tornò a mostrarsi.

«Ed io, rispose d’Artagnan, dico che va finita. Signor assassino del
vostro signor zio, signor boja del re Carlo, signor incendiario, vi
esorto a lasciarvi calare a fondo, o se vi accostate un tantino di più
alla scialuppa, vi rompo la testa col mio remo».

Mordaunt, in atto di disperazione, fece una bracciata. D’Artagnan
pigliò il remo colle due mani.

Athos si alzò.

«D’Artagnan! esclamò esso, d’Artagnan, figliuol mio! ve ne supplico! Il
disgraziato è per morire, ed è orribile lasciar morire un uomo senza
stendergli la mano quando ciò basta per salvarlo. Oh! il mio cuore mi
vieta una simile azione! Non posso resistere; bisogna ch’egli viva.

«Caspita! replicò d’Artagnan, e perchè non ci consegnate subito,
legandoci i piedi e le braccia, a questo sciagurato? La terminereste
più alla lesta.... Ah! conte di la Fère, voi volete perire per mezzo
suo; ebbene io, figliuol vostro, conforme mi chiamate, non voglio!»

Era la prima volta che d’Artagnan si opponesse a un priego fattogli da
Athos con quel titolo affettuoso.

Aramis sguainò freddamente la spada, che, nuotando, si era portata fra
i denti.

«Se mette la mano sul legname del bordo, egli disse, gliela taglio come
a un regicida ch’egli è.

«Ed io, fece Porthos, aspettate!

«Che farete? domandò Athos.

«Mi butto in mare e lo strangolo.

«Oh signori! urlò Athos con un sentimento irresistibile, siamo uomini,
siamo cristiani!»

D’Artagnan cacciò un sospiro che pareva un gemito, Aramis abbassò il
ferro, Porthos si rimise a sedere.

«Vedete, continuava Athos, la morte gli sta dipinta sul volto, sono
esauste le sue forze.... un minuto di più, e precipita nell’abisso....
Ah! non mi date un sì fiero rimorso; non mi astringete a morire poi
io di vergogna, amici miei, concedetemi la vita di questo infelice, vi
benedirò, vi....

«Muojo!.... balbettava Mordaunt, qua a me!.... a me!....

«Acquistiamoci un minuto!» disse Aramis chinandosi a sinistra a parlare
a d’Artagnan.

E poi calatosi a destra verso Porthos:

«Una buona remata!»

D’Artagnan non rispose nè col gesto nè colla parola; principiava
ad essere commosso un poco dalle suppliche di Athos, un poco dallo
spettacolo che aveva dinanzi. Porthos solo diede un colpo col remo, e
siccome questo non aveva contrappeso, la barca girò soltanto in tondo,
e quel moto non fece che avvicinare Athos al moribondo.

«Signor conte di la Fère, esclamò Mordaunt, signor conte di là
Fère!.... a voi mi rivolgo! voi prego e scongiuro! abbiatemi pietà!....
Oh!.... siete voi, signor conte di la Fère?.... Non ci vedo più....
muojo.... ajuto a me!.... ajuto!....

«Eccomi, disse Athos chinandosi a porgere il braccio a Mordaunt con gli
atti di dignità e di nobiltà ch’erano in lui usuali; eccomi, prendete
la mia mano, ed entrate nella nostra lancia.

«Avrei più caro di non guardare, disse d’Artagnan; tanta debolezza mi
ripugna».

E si volse ai due amici, i quali si rannicchiarono in fondo alla
barca quasi temessero di toccare colui a cui Athos solo porgeva senza
ribrezzo la destra.

Mordaunt fece uno sforzo supremo, si sollevò, afferrò la mano, che
verso di lui era stesa, e vi si aggrappò con l’impeto dell’ultima
disperazione.

«Bene! disse Athos, mettete qui l’altra mano».

E gli offerse la sua spalla per secondo punto d’appoggio, talchè la sua
testa toccava quasi la testa di Mordaunt, e i due acerrimi nemici se ne
stavano abbracciati come due fratelli.

Mordaunt, colle dita irrigidite, stringeva il collare ad Athos.

«Bene! continuò il conte, ora siete salvo, calmatevi.

«Ah madre mia! gridò Mordaunt con lo sguardo infuocato ed un accento
d’odio impossibile a descriversi; non posso offrirti che una vittima,
ma almeno sarà quella che tu stessa ti saresti prescelta!....»

E mentre d’Artagnan dava un urlo, Porthos alzava il remo, Aramis
cercava in che luogo ferire Mordaunt, una terribile scossa data allo
schifo trascinò Athos nell’acqua, ed intanto Mordaunt, dato un grido di
trionfo, stringeva la gola alla vittima, e per impedirle ogni movimento
avvolgeva le sue gambe con le proprie gambe, siccome avrebbe potuto
fare col suo corpo un serpente.

Per un momento, senza strillare, senza chiamare ajuto, Athos procurò
mantenersi a galla, ma il peso lo trasse al basso, e a poco a poco ei
disparve; in breve non si vide più altro che i suoi lunghi capelli;
poscia tutto sparì in una larga ondata, che, presto calatasi, lasciò il
segno soltanto del luogo ove ambedue si erano sommersi.

I tre amici, ammutoliti dall’orrore ed immobili per lo spavento, erano
rimasti a bocca aperta, con gli occhi stralunati, le braccia distese;
sembravano tante statue; ma pur si udivano i battiti dei loro cuori.

Porthos fu il primo a tornare in sè, e strappandosi i capelli, proruppe
con tali singulti che straziavano l’anima, specialmente venendo da un
uomo della sua fatta:

«Oh Athos! Athos! cuor nobile!.... guai! guai a noi che ti lasciammo
morire!

«Sì, guai! ripetè d’Artagnan.

«Guai! mormorò Aramis».

Nel momento, in mezzo al vasto cerchio illuminato dai raggi della
luna, a distanza di quattro o cinque braccia dalla barca, lo stesso
gorgogliare dell’acqua che già aveva dato annunzio della sommersione
venne a rinovarsi, e si videro apparire, prima una chioma, poi un
volto squallido con gli occhi aperti ma smorti, indi un corpo, che
dopo essersi rizzato sino ai fianchi sopra al mare, ricadde supino
secondando il capriccioso andamento dei flutti.

Nel petto del cadavere era piantato un pugnale di cui risplendeva il
pomo d’oro.

«Mordaunt! Mordaunt! Mordaunt! gridarono i tre amici.

«È Mordaunt! ripeterono.

«Ma Athos?» disse d’Artagnan.

Ad un tratto la lancia pendè a sinistra sotto un nuovo peso
inaspettato, e Grimaud diede un urlo di allegrezza; tutti si volsero
e videro Athos pallido, con l’occhio estinto e la mano tremante,
riposarsi appoggiandosi sull’orlo dello schifo. Otto braccia nerborute
lo alzarono tosto e lo adagiarono nel battello, ove in pochissimo tempo
Athos si sentì rianimato, rinascendo fra gli amplessi e le premure
degli amici ebbri tutti di gioja.

«Ma almeno, non siete ferito? domandò d’Artagnan.

«No, rispose Athos, e colui?

«Colui, questa volta, grazie a Dio, è morto davvero! A voi!....»

E d’Artagnan, obbligando Athos a guardare nella direzione che gli
accennava, gli mostrò il corpo di Mordaunt tuttavia galleggiante
sull’onde, e che ora abbassandosi ed ora risorgendo, pareva peranco
perseguitasse i quattro moschettieri con isguardi ricolmi d’insulto e
di odio acerrimo.

Alla fine si inabissò.

Athos lo aveva osservato con occhio pietoso e afflitto.

«Bravo Athos! fece Aramis con uno slancio in lui molto raro.

«Bellissimo colpo! aggiunse Porthos.

«Avevo un figlio, rispose Athos, e volli vivere.

«Al fine, disse d’Artagnan, Dio ha parlato!

«Non fui io che lo uccisi, balbettò Athos, fu il destino!»



LXXVIII.

_Nel quale Mousqueton, stato in procinto d’essere arrostito, andò a
rischio di esser mangiato._


Vi fu nella lancia lungo silenzio dopo la terribile scena da noi
raccontata. La luna, mostratasi per un momento, come se Dio avesse
voluto che nessun dettaglio di quell’avvenimento restasse celato agli
spettatori, scomparve a tergo alle nuvole; tutto tornò nell’oscurità,
spaventosa in tutti i deserti, e specialmente sul liquido deserto
chiamato l’oceano, e non s’intese più altro che il sibilo dei venti
sulla cima dei flutti.

Porthos fu il primo a parlare, e disse:

«Molte cose io vidi, ma niuna mi commosse quanto quella veduta
poc’anzi. Eppure, benchè turbato, vi dichiaro che mi sento contento: ho
sul petto cento libbre di meno, e alfine respiro libero».

E di fatti Porthos respirò con tal fracasso che diè prova vantaggiosa
della forza dei suoi polmoni.

«Per me, rispose Aramis, non dirò come voi; sono ancora atterrito,
a segno che non do fede a’ miei proprj occhi; dubito di quel che
ho visto, cerco attorno alla barca, e mi aspetto ogni minuto che
comparisca di nuovo quello sciagurato tenendo in mano il pugnale che
aveva fitto nel cuore.

«Oh! io sto quieto, seguitò Porthos, il colpo è stato vibrato verso
la sesta costola e cacciato sino all’elsa.... Athos, non ve ne fo
rimprovero; al contrario quando uno percuote, così deve percuotere. E
perciò adesso io vivo, respiro, sono lieto.

«Non vi affrettate a cantar vittoria, soggiunse d’Artagnan, mai non
fummo in maggior rischio che in quest’ora, giacchè un uomo riesce
contro un uomo, ma non contro un elemento, e noi siamo in mare, di
notte, senza guida, in una fragile barca: se un colpo di vento fa
rovesciare la lancia, siamo belli e perduti!»

Mousqueton mandò fuori un sospiro.

«D’Artagnan, voi siete ingrato, replicò Athos, sì, ingrato, nel
dubitare della Provvidenza nel punto in cui ci ha salvati tutti in
modo tanto miracoloso. Credete forse ch’ella ci abbia fatti passare
guidandoci per mano fra tanti perigli per quindi abbandonarci? No no.
Siamo partiti con vento da ponente, e questo soffia sempre».

Athos si fissava verso la stella polare.

«Ecco l’Orsa minore, e in conseguenza là è la Francia. Lasciamoci
portare dal vento, e sino che non cambia ci spingerà verso le coste
di Calais o di Boulogne. Se la barca si rovescia, siamo assai forti e
buoni nuotatori, almeno noi cinque, per rivoltarla, o per aggrapparci
ad essa ove l’impresa sia superiore al nostro vigore. Ora, noi ci
troviamo sul cammino medesimo di tutte le navi che vanno da Douvres a
Calais e da Portsmouth a Boulogne; se l’acqua conservasse le traccie,
quelle del loro passaggio avrebbero fatto un solco nel luogo appunto
ove noi siamo. Sicchè è impossibile che a giorno non incontriamo
qualche barca da pescatori che ci dia ricovero.

«Ma se per esempio non ne incontrassimo, e il tempo girasse a
tramontana?

«Allora è tutt’altro, fece Athos; non troveremmo la terra se non
dall’altra parte dell’Atlantico.

«Lo che vuol dire che si morrebbe di fame, osservò Aramis.

«Questo è più che probabile, disse il conte di la Fère».

Mousqueton mandò un sospiro più affannoso del primo.

«Animo, Mouston, domandò Porthos, di che avete da gemere così? è cosa
fastidiosa?

«È che ho freddo, signore.

«Non può essere!

«Non può essere?

«Di certo. Voi avete il corpo ricoperto di uno strato di grasso che
lo rende impenetrabile all’aria; v’è qualche altra cosa, parlate
schiettamente.

«Or bene, signor sì; e precisamente quel grasso che mi vantate è quello
che mi sgomenta.

«E perchè, Mouston? dite liberamente: questi signori ve lo permettono.

«Perchè mi ricordavo che nella biblioteca del castello di Bracieux,
v’è una quantità di libri di viaggi, e tra questi, quelli di Giovanni
Mouquet, il famoso viaggiatore del re Enrico IV....

«E poi?

«Or bene, in quei libri si discorre di molto di avventure marittime, e
di avvenimenti simili a quello di che noi siamo adesso minacciati.

«Continuate, Mouston, disse Porthos, codesta analogia è assai
interessante.

«Or dunque, in tali casi, i viaggiatori affamati, dice Giovanni
Mouquet, hanno l’orribile usanza di mangiarsi uno coll’altro e di
cominciare dal....

«Dal più grasso! esclamò d’Artagnan, non potendo far a meno di ridere
ad onta della scabrosa situazione.

«Signor sì, replicò Mousqueton un po’ stordito da questa sua ilarità, e
permettetemi di dirvi che non vedo che cosa vi sia da ridere.

«Questo caro Mouston è lo zelo in persona, la divozione in carne e in
ossa! fece Porthos. Scommettiamo che ti pareva di esser già tagliato a
pezzi e mangiato dal tuo padrone?

«Sì, signore, benchè confesso che il contento che mi supponete non
sia senza un qualche miscuglio di tristezza; non ostante non mi
rincrescerebbe troppo di me stesso, se morendo avessi la certezza di
esservi ancora utile.

«Mouston! seguitò Porthos intenerito, se mai rivediamo il mio
castello di Pierrefonds, avrete in assoluta proprietà per voi e vostri
discendenti il vigneto che sovrasta al podere.

«E gli porrete nome: _Vigneto della fedeltà_, aggiunse Aramis, onde
trasmettere all’età venture la memoria del vostro sacrifizio.

«Cavaliere, disse ridendo d’Artagnan, non è vero che vi sareste
mangiato un po’ del Mouston senza grande ripugnanza, in ispecie dopo
due o tre giorni di dieta?

«No, per Bacco, rispose Aramis, avrei preferito Blaisois; è minor tempo
che lo conosciamo».

È da comprendersi che durante questo scambio di facezie avente per
principale scopo di levar di mente ad Athos la scena recente avvenuta,
i servi (eccetto Grimaud il quale sapeva che in qualunque caso il
pericolo non toccherebbe a lui) i servi, noi diciamo, non erano punto
quieti.

Sicchè Grimaud senza prender parte alla conversazione, e mutolo al suo
solito, si adoprava meglio che potesse con un remo in ogni mano.

«E tu voghi? gli disse Athos».

Grimaud ammiccò di sì.

«E perchè?

«Per aver caldo».

Infatti, mentre gli altri naufraghi tremavano dal freddo, il tacito
Grimaud sudava a goccioloni.

Ad un tratto Mousqueton diede un grido di allegrezza, alzandosi di
sopra al capo la mano armata di una bottiglia.

«Oh, signore, oh! disse porgendo questa a Porthos, siamo salvi! la
lancia è carica di viveri!»

E frugando sollecito sotto la panca da cui aveva già levato il prezioso
campione, portò su una dopo l’altra dodici bottiglie consimili, e del
pane ed un pezzo di bove salato.

È superfluo il dire che questa roba trovata rese a tutti il buon umore,
meno che ad Athos.

«Per Diana! disse Porthos, il quale ci rammentiamo aveva fame sino da
quando poneva il piede sulla feluca; non è credibile quanto le emozioni
indeboliscono lo stomaco!»

E s’inghiottì il contenuto di una bottiglia, divorandosi da sè solo un
terzo del pane e della carne.

«Adesso, signori, disse Athos, dormite, o procurate di dormire, io
veglierò».

Per altri uomini che i nostri ardimentosi avventurieri, una tale
proposizione sarebbe stata derisoria. Realmente erano bagnati sino alle
ossa, soffiava un vento diacciato, e le commozioni provate dovevano
impedir loro di chiudere occhio; ma a quei naturali straordinari, a
quei ferrei temperamenti, a que’ corpi avvezzi a tutti gli strapazzi,
il sonno arrivava all’ora fissa senza mai mancare alla chiamata.

E quindi di là ad un momento, ciascheduno pien di fiducia nel piloto,
ebbe posate le gomita a suo modo, e procurato di profittare del
consiglio dato da Athos, il quale, seduto al timone e con gli occhi
vôlti costantemente al cielo, ove di certo ei cercava non solo il
cammino per la Francia, ma anche la faccia di Dio, rimase solo,
conforme aveva promesso, desto e pensoso, dirigendo nella via da
seguirsi la piccola barca.

Dopo alcune ore di sonno, Athos svegliò i viaggiatori.

I primi barlumi del giorno imbiancavano il mare azzurro, e a dieci tiri
di schioppo circa verso la prora si scorgeva una mole nera, al di sopra
della quale estendevasi una vela triangolare lunga e sottile come l’ala
di una rondine.

«Una barca!» dissero in una voce i tre amici.

E i domestici dal canto loro esprimevano il giubilo in tuoni fra lor
differenti.

Era un bastimento da trasporto di Dunkerque, che faceva vela per
Boulogne.

I quattro padroni, Blaisois e Mousqueton mandarono insieme un grido che
echeggiò sulla superficie delle onde, mentre Grimaud senza dir nulla,
metteva il suo cappello in cima al remo per richiamare gli sguardi di
coloro a cui il grido doveva giungere.

Dopo un quarto d’ora la lancia di quel bastimento li rimorchiava; essi
ponevano il piede sul _trasporto_; Grimaud offeriva venti ghinee al
capitano a nome del suo padrone; e la mattina a nove ore con buonissimo
vento i nostri francesi sbarcavano sul suolo della patria.

«Cospettone! come si è forti qua sopra! disse Porthos affondando i
larghi piedi nell’arena; vengano ora a darmi molestia, a guardarmi
bieco, a stuzzicarmi, e vedranno con chi avranno che fare! Per Bacco!
sfiderei un regno intero!

«Ed io, avvertì d’Artagnan, vi esorto a non proferire tanto forte
questa sfida, giacchè mi pare che qui ci guardino di molto.

«Eh diamine! ci ammirano.

«Ed io, caro Porthos, non ci metto punto amor proprio, ve lo giuro.
Vedo soltanto degli uomini colla giubba nera, e confesso che nella
nostra situazione tali genti mi spaventano.

«Sono i _cancellieri_ delle mercanzie del porto, rispose Aramis.

«Sotto l’altro ministro, osservò Athos, sotto il grande, avrebbero
badato più a noi che alle mercanzie; ma ora non dubitate, baderanno più
alle merci che a noi.

«Non me ne fido, replicò d’Artagnan, e vo subito su per le dune.

«Perchè non dalla città? fece Porthos; avrei più caro un buon albergo
che quei tristi deserti di rena creati da Dio solamente per i conigli.
E poi, ho fame, io.

«Fate come volete, Porthos, soggiunse il Guascone; ma per me, sono
persuaso che la più sicura per persone nel nostro stato è la campagna
aperta».

E certo di aver per sè la maggioranza dei voti, d’Artagnan s’inoltrò
nelle dune senza attender risposta.

Tutti lo seguirono, ed in breve disparvero seco dietro ai monticelli
di sabbia, non senza però aver richiamato sopra sè medesimi la pubblica
attenzione.

«Adesso discorriamo, propose Aramis dopo ch’ebbero fatto circa un
quarto di lega.

«No no, disse d’Artagnan, scappiamo; siamo fuggiti a Cromvello, a
Mordaunt, al mare; tre abissi ci volevano ingojare, non isfuggiremo al
signor Mazzarino.

«Avete ragione, approvò Aramis, e la mia opinione è che per più
sicurezza ci separiamo.

«Sì sì, fece d’Artagnan, separiamoci».

Porthos voleva parlare per opporsi a questa risoluzione; ma il nostro
Guascone gli fe’ capire, stringendogli la mano, che doveva star cheto.
Porthos era molto obbediente, e a quei cenni del suo compagno di cui
riconosceva la superiorità intellettuale, si rimandò addietro le parole
che gli stavano per uscire dalla bocca.

«Ma perchè dividerci? domandò Athos.

«Perchè, rispose d’Artagnan, fummo mandati da Mazzarino a Cromvello,
Porthos ed io, ed invece di servire Cromvello servimmo il re Carlo
I, lo che non è mica lo stesso. Tornando con i signori di la Fère
e d’Herblay, il nostro delitto è provato; tornando soli, il nostro
delitto rimane in istato di dubbio, e col dubbio si va molto
innanzi.... E io ne vuo’ far vedere delle belle al signor di Mazzarino.

«Che! disse Porthos, è vero!

«Voi, osservò Athos, vi scordate che siamo vostri prigionieri, che non
ci riguardiamo come sciolti dalla nostra parola verso di voi, e che
riconducendoci prigionieri a Parigi....

«Athos, interruppe d’Artagnan, mi duole che un uomo di spirito quale
voi siete dica sempre delle meschinità di cui si vergognerebbero
scolaretti di terza classe. Cavaliere (e si volgeva ad Aramis, che
superbamente appoggiato sulla sua spada, ed ancorchè avesse prima
esternata un’opinione contraria, sembrava essersi presto riunito a
quella del suo collega), cavaliere, intendete che qui come al solito il
mio carattere diffidente esagera le cose. Porthos ed io in conclusione
nulla arrischiamo. Ma bensì, se per caso si tentasse di arrestarci
davanti a voi, ebbene! non si arresteranno mica sette uomini come
si farebbe a tre; le spade vedrebbero il sole; e la faccenda trista
per tutti lo sarebbe maggiormente per noi e ci rovinerebbe tutti
quattro. D’altronde, se accade qualche disgrazia a due di noi, non
è forse meglio che gli altri due siano in libertà per levar quelli
dall’impaccio, strisciare, spezzare, congiurare, in somma liberarli?
E poi, chi sa che non otteniamo separatamente, voi dalla regina e noi
da Mazzarino, il perdono che insieme ci verrebbe negato? Orsù, Athos
ed Aramis pigliate a diritta; voi, Porthos, venite meco a sinistra;
lasciate che quei signori se ne vadano in Normandia, e noi dalla strada
più corta andiamocene a Parigi.

«Ma se per viaggio siamo presi, come potremo darci reciproco avviso di
questa catastrofe? domandò Aramis.

«Nulla v’è di più facile. Stabiliamo un itinerario da cui non ci
dipartiremo. Andate a Saint-Valery, poi a Dieppe, dopo prendete la via
retta da Dieppe a Parigi; noi piglieremo da Abbeville, Amiens, Peronne,
Compiegne e Senlis, ed in ogni locanda, in ogni casa dove ci fermeremo,
scriveremo sul muro colla punta di un coltello, o sui vetri col
taglio di un diamante, uno schiarimento che possa essere di guida alle
ricerche di quelli che fossero liberi.

«Ah! amico mio come ammirerei le risorse della vostra testa, se non mi
fermassi a quelle del vostro cuore per adorarle!»

E porgeva la destra a d’Artagnan.

«E forse la volpe ha ella dell’ingegno? rispose questi scrollando le
spalle; no, sa rubare le galline, sviare i cacciatori e ritrovare la
sua strada di giorno come di notte, nient’altro. Or bene, è combinato?

«È combinato.

«Dunque dividiamoci il danaro, continuò d’Artagnan; debbono rimanere
circa duecento doppie. Quanto resta, Grimaud?

«Cento ottanta mezzi luigi, signore.

«Appunto. Evviva! ecco il sole. Buon giorno, sole amico; sebbene tu non
sia lo stesso che quello della Guascogna, ti riconosco o m’imagino di
riconoscerti.... Era un pezzo che non ti vedevo!

«Animo, animo d’Artagnan, disse Athos, non fate da spirito forte, avete
le lacrime agli occhi. Siamo sempre schietti fra noi, quando anche
questa schiettezza dovesse fare scorgere le nostre buone qualità.

«Oh! mio caro, credete si lascino a sangue freddo e in un momento non
esente da pericoli due amici come voi ed Aramis?

«No! e per questo, venite fra le mie braccia, figliuol mio!

«Perdinci! fece singhiozzando Porthos, piango, se non isbaglio: uh che
sciocchezza!»

Ed i quattro camerati formarono un sol gruppo gettandosi l’uno al seno
dell’altro. In tale istante, quei quattro uomini riuniti dall’amplesso
fraterno non ebbero per certo che una sola anima.

Blaisois e Grimaud dovevano andar con Athos ed Aramis; a Porthos e
d’Artagnan bastava Mousqueton.

Si ripartirono, siccome avevano fatto sempre, il danaro con una
regolarità da fratelli; e strettasi scambievolmente la mano, e
ripetutesi le proteste di eterna amistà, i gentiluomini si separarono
per avviarsi ciascuno nella direzione convenuta, non senza voltarsi,
non senza mandarsi ancora affettuose parole, cui ridiceva tosto l’eco
delle dune.

Alfine si perderono di vista.

«Corpo di Bacco! esclamò Porthos, questa, d’Artagnan mio, bisogna
ch’io ve la dica subito, giacchè non posso tener sul cuore qualche cosa
contro di voi: in questa circostanza non vi ho riconosciuto.

«Perchè? domandò d’Artagnan col suo sorrisetto malizioso.

«Perchè, se conforme assicurate, Athos ed Aramis son veramente esposti
ad un rischio, non è momento da abbandonarli. Io vi confesso ch’ero
pronto ad accompagnarli, e lo sono tuttavia a raggiungerli, non ostante
tutti i Mazzarini dell’universo.

«Ah! avreste ragione, Porthos, se così fosse; ma sappiate una
cosarella, che, quantunque piccola, varierà il corso alle vostre idee:
ell’è che il maggior rischio non è per quei signori, ma bensì per noi;
è che li lasciamo, non per abbandonarli, ma per non comprometterli.

«Davvero! fece Porthos spalancando gli occhi.

«Eh! senza dubbio: se sono arrestati, per loro v’è la Bastiglia
semplicemente; per noi, se lo siamo, v’è la piazza di Grève.

«Oh oh! disse Porthos, c’è differenza da questo alla corona da barone
che mi promettevate!

«Non tanto forse, oibò! voi sapete il proverbio francese: _Tout chemin
mène à Rome_.

«Ma perchè corriamo maggiori pericoli che Athos ed Aramis?

«Perchè essi non hanno fatto altro che attenersi all’incarico
ricevuto dalla regina Enrichetta, e noi abbiamo tradito quello datoci
da Mazzarino; perchè partiti come messaggieri presso a Cromvello,
siamo diventati partigiani del re Carlo; perchè invece di dar mano
a far cadere la regia sua testa condannata da quei furfanti chiamati
Mazzarino, Cromvello, Joyce, Pridge, Farfaix, ec., ec., siamo stati in
procinto di salvarla.

«È vero, rispose Porthos; però, mio caro, come volete che in mezzo alle
sue grandi occupazioni di mente il generale Cromvello abbia avuto tempo
da pensare?....

«Pensa a tutto, ha tempo per tutto; e noi, datemi retta, non perdiamo
il nostro, ch’è prezioso. Non saremo in sicuro se non dopo aver visto
Mazzarino, ed anche....

«Diamine! e che gli diremo?

«Lasciate fare a me, ho io il mio piano preparato: Cromvello è forte,
Mazzarino è scaltro, ma ho più gusto di trattare in diplomazia contro
di essi che contro il defunto messer Mordaunt.

«Ecco! fece Porthos, eppure v’è piacere a dire: _defunto messer
Mordaunt_!

«Sì sì, replicò d’Artagnan, ma in viaggio subito».

Ed ambedue senza perdere un momento si diressero verso la strada di
Parigi, seguiti da Mousqueton, che dopo aver avuto freddo tutta la
notte, aveva digià troppo caldo a capo a un quarto d’ora.



LXXIX.

_Ritorno._


Athos ed Aramis avevano preso l’itinerario indicato da d’Artagnan, e
camminato quanto più presto potevano; ad essi sembrava che fosse per
loro più vantaggioso l’essere arrestati vicino a Parigi che lontano.

Ogni sera, nella tema che questo caso avvenisse loro di notte,
tracciavano o sul muro o sui vetri il pattuito segno di riconoscimento,
ma ogni mattina con sommo stupore al destarsi si trovavano liberi.

A misura che s’inoltravano verso la capitale, i grandi eventi dei
quali erano stati spettatori, e che sconvolta avevano l’Inghilterra, si
andavano dileguando come tanti nuvoli, mentre all’opposto venivano loro
incontro quelli che avevano scosso Parigi e la provincia.

In quelle sei settimane d’assenza erano succedute in Francia tante
cose piccole da formare quasi insieme un grandissimo caso. I Parigini,
svegliatisi la mattina senza regina nè re, furono molto dolenti di
siffatto abbandono, e l’assenza di Mazzarino sì caldamente bramata non
compensò il rincrescimento di quella dei due augusti fuggiaschi.

Il primo sentimento che agitasse Parigi, allorchè intese la fuga per
San Germano, a cui noi già facemmo assistere i nostri leggitori, fu
dunque quella specie di spavento che assale i bambini quando e’ si
destano di notte o nella solitudine. Il parlamento si mise in moto,
e fu deciso che una deputazione si trasferisse presso la sovrana
a pregarla di non privare più a lungo la capitale della sua regia
presenza.

Ma la regina era tuttavia sotto la duplice impressione del trionfo di
Lens e dell’orgoglio della sua scappata eseguita tanto felicemente. I
deputati non solo non ebbero l’onore di esser da lei ricevuti, ma anche
si fecero aspettare sulla scala grande, dove il cancelliere (lo stesso
Seguier che noi vedemmo nella prima parte di quest’opera insistere
ostinatamente per una lettera ripostasi perfino in seno dalla regina),
il cancelliere, dicevamo, venne a dare loro l’_ultimatum_ della corte,
il quale portava che se il Parlamento non si umiliava dinanzi alla
regale maestà, passando sopra senz’altro a tutte le questioni che
avevano cagionata la contesa che li divideva, Parigi sarebbe assediata
all’indomani; che digià, pure, nella previdenza di codesto assedio, il
duca d’Orleans occupava il ponte di San Cloud, e il signor Principe,
ancora risplendente della sua vittoria di Lens, stava in possesso di
Charenton e San Dionigi.

Disgraziatamente per la corte, a cui una risposta moderata avrebbe
forse restituito un buon numero di partigiani, questa cotanto
minacciosa produsse un effetto contrario a quel che si attendeva;
urtò l’orgoglio del Parlamento, che sentendosi robustamente appoggiato
dal ceto borghese, a cui la grazia di Broussel aveva dato un concetto
della propria forza, replicò alle lettere patenti, dichiarando che il
ministro Mazzarino era notoriamente l’autore di tutti i disordini, e
quindi lo dichiarava nemico del re e dello Stato, e gl’ingiungeva di
ritirarsi dalla corte nel medesimo giorno, e dalla Francia negli otto
giorni di tempo, spirato il qual termine, ove non obbedisse, comandava
a tutti i sudditi del re di scagliarglisi contro.

Questa energica replica, che la corte non si aspettava, metteva Parigi
e Mazzarino fuor della legge. Rimaneva solamente da sapersi chi la
vincerebbe, o il parlamento o la corte.

Allora la corte fece i suoi preparativi di attacco, e Parigi quelli
di difesa. I borghesi adunque erano occupati all’opera consueta dei
borghesi in tempo di sommossa, cioè a stendere delle catene e tôrre
il lastrico dalle strade, quando videro arrivare e dar loro ajuto, e
condotti dal Coadiutore, il principe di Conti, fratello del principe di
Condé, e il duca di Longueville suo cognato. E tosto si riconfortarono,
perocchè avevano dalla loro due principi del sangue, e di più il
vantaggio dal numero.

Nel dì 10 gennajo giungeva a’ Parigini questo non sperato soccorso.

Dopo una burrascosa discussione, il principe di Conti fu nominato
a generalissimo delle armate del re fuori di Parigi con i duchi di
Elboeuf e di Bouillon, e il maresciallo La-Mothe per luogotenenti
generali; il duca di Longueville senza carica, nè titolo, si contentava
di assistere il cognato.

In quanto al signor di Beaufort, era tornato dal Vendomese, portando
(dice la cronaca) la sua bella cera, capelli belli e lunghi, e quella
popolarità che gli procacciò la sovranità delle piazze da mercato.

L’armata parigina erasi allora ordinata con la prontezza con la quale
i cittadini si travestono da soldati quando a questa trasformazione li
spinga un sentimento qualunque. Al dì 19, l’esercito, raccoltosi, aveva
tentata una sortita, piuttosto per assicurare sè medesimo e gli altri
della propria esistenza che per avventurare qualche cosa di serio,
facendosi sventolare più su del capo una bandiera su cui leggevasi
questa singolare divisa: _Cerchiamo il nostro re_.

I giorni seguenti furono impiegati ad alcune piccole operazioni
parziali, che non ebbero altro risultato se non la preda di varj
armenti, e l’incendio di due o tre case.

Così si giunse ai primi di febbrajo, e nel primo assolutamente di quel
mese i nostri quattro camerati approdavano a Boulogne e si avviavano
solleciti a Parigi, ognuno dalla sua parte.

Verso la fine del quarto giorno di cammino scansarono cautamente
Nanterre onde non cadere in qualche turba del partito della regina.

Athos pigliava a malincuore simili precauzioni, ma Aramis gli aveva
fatto giudiziosamente osservare come non aveano diritto di essere
imprudenti, ed erano incaricati dal re Carlo di una missione suprema
e sacra, la quale ricevuta appiè del patibolo non si compirebbe che a’
piedi della regina.

E quindi Athos cedè.

Nei sobborghi i nostri viaggiatori trovarono buona guardia. Tutta
Parigi era armata. La sentinella ricusò di lasciar passare i due
gentiluomini, e chiamò il suo sergente.

Il sergente venne subito fuori, ed assumendo tutta l’importanza che
sogliono assumere i borghesi quando hanno la fortuna di esser rivestiti
di una dignità militare, domandò:

«Chi siete, signori?

«Due gentiluomini, rispose Athos.

«Di dove venite!

«Da Londra.

«Che venite a fare a Parigi?

«Adempiere ad un incarico presso Sua Maestà la regina d’Inghilterra.

«Ehi dico! ma oggi vanno tutti dalla regina d’Inghilterra! replicò il
sergente. Abbiamo di già al posto di guardia tre gentiluomini di cui si
visitano i fogli, e che vanno da Sua Maestà. I vostri fogli dove sono?

«Non ne abbiamo.

«Come! non ne avete?

«No, arriviamo dall’Inghilterra, secondo vi abbiamo detto; ignoriamo
totalmente a che punto siano gli affari politici, essendo partiti da
Parigi prima del re.

«Ah! disse il sergente in aria da scaltro, siete tanti _mazzarini_, che
vorreste entrare da noi per farci la spia!

«Caro amico! replicò Athos, che sino allora aveva lasciato ad Aramis la
cura di rispondere; se fossimo mazzarini avremmo anzi tutte le carte
possibili. Nella situazione in cui siete, diffidatevi prima di tutto,
credete a me, di coloro che sono in piena regola.

«Entrate al corpo di guardia, esporrete le vostre ragioni al superiore».

Il sergente fe’ un cenno alla sentinella; questa si trasse da parte a
lasciarlo passare, mentre i due gentiluomini lo seguivano.

Il corpo di guardia era interamente occupato da borghesi ed uomini del
volgo; chi giuocava, chi beveva, chi discorreva.

In un canto, e quasi custoditi a vista, erano i tre gentiluomini primi
arrivati, e di cui l’ufficiale esaminava i ricapiti. L’ufficiale stava
nella stanza contigua, perchè l’importanza del suo grado gli concedeva
l’onore di un alloggio particolare.

Il primo movimento dei primi e degli ultimi giunti, fu dalle due
estremità del locale di darsi scambievolmente un’occhiata rapida e
indagatrice. Quelli capitati avanti erano coperti, e ben celati da
lunghi ferrajuoli. Uno di essi, meno grande che i compagni, si stava
indietro ed all’ombra.

All’annunzio dato all’entrare dal sergente, che, secondo ogni
probabilità, conduceva due innanzi, i tre gentiluomini drizzarono le
orecchie e si fecero attentissimi. Il più piccolo, che aveva mossi due
passi, ne fece uno all’indietro, e si ritrovò all’ombra.

All’avviso che i nuovi venuti non avevano carte di passo, fu unanime
parere del corpo di guardia ch’essi non entrassero.

«Anzi, signori, disse Athos, è probabilissimo ch’entriamo, giacchè
ci sembra di aver che fare con genti ragionevoli. E la maniera sarà
semplicissima: basterà far trasmettere i nostri nomi a Sua Maestà la
regina d’Inghilterra, e s’ella si fa per noi responsabile, spero che
non vedrete più inconveniente a darci libero ingresso».

A tali parole l’attenzione di quello che era nascosto all’ombra
diventò anco maggiore, e fu pure accompagnata da un moto di stupore sì
improvviso, che gli cadde il cappello spinto dal ferrajuolo nel quale
si avviluppava più che mai; egli si chinò prestamente a raccoglierlo.

«Oh mio Dio! disse Aramis dando di gomito ad Athos, avete visto?

«Che cosa? domandò Athos.

«Il più basso di quei tre?

«No.

«È che mi pareva.... ma già non è possibile!»

In quel punto il sergente, ch’era andato nella stanza particolare
a prender gli ordini dall’uffiziale, uscì, ed accennando i tre
gentiluomini a cui consegnò un foglio, disse:

«Le carte sono in regola; lasciate passare questi tre signori».

I tre signori fecero un segno colla testa, e si affrettarono a
profittare del permesso e della strada, che, per comando del sergente,
veniva lor fatta libera.

Aramis li seguitò cogli occhi, e nell’atto che il più piccolo gli
passava davanti, strinse la mano ad Athos.

«Che avete, mio caro? chiese questi.

«Ho.... di certo, è una visione....»

Ed Aramis domandò al sergente:

«Ditemi, conoscete i tre gentiluomini usciti adesso di qua?

«Li conosco per i loro fogli: sono i signori di Flamarens, di Chatillon
e di Bruy, tre della _Fronda_, che vanno a raggiungere il signor duca
di Longueville.

«È singolare! disse Aramis rispondendo piuttosto al suo proprio
pensiero che al militare, mi era sembrato di ravvisare il Mazzarino in
persona».

Il militare diede una grossa risata.

«_Lui!_ disse, arrischiarsi così da noi per esser impiccato! non è
tanto babbeo!

«Uhm!... potrei essermi ingannato; non ho mica l’occhio infallibile di
d’Artagnan.

«Chi è che parla di d’Artagnan? fece l’uffiziale, che appunto comparve
sulla soglia della sua camera.

«Oh! urlò Grimaud spalancando gli occhi.

«Che? domandarono insieme Aramis ed Athos.

«Planchet! rispose Grimaud, Planchet col gorgerino!

«I signori di la Fère e d’Herblay di ritorno a Parigi! esclamò
l’uffiziale. Oh che allegrezza è questa per me! chè di sicuro, venite a
unirvi ai signori principi.

«Precisamente, mio caro Planchet, replicò Aramis, mentre Athos
sorrideva veggendo il grado considerevole che occupava nella milizia
cittadina l’antico camerata di Mousqueton, di Bazin e di Grimaud.

«E il signor d’Artagnan, del quale discorrevate poc’anzi, signor
d’Herblay? oserò ricercarvi se ne avete notizia?

«L’abbiamo lasciato, or sono quattro giorni, e tutto ci induce a
credere che ci avesse preceduti in Parigi.

«No, signore, io ho certezza che non è rientrato nella capitale; in
sostanza, può essere che sia rimasto a San Germano.

«Non lo credo: abbiamo l’appuntamento al _Granchio_.

«Io ci sono stato oggi appunto.

«E la bella Maddalena non ne aveva nuove? fece sogghignando Aramis.

«No, e anzi non vi nascondo che pareva assai inquieta.

«In conclusione, disse Aramis, non abbiamo ancora perduto tempo, e
si è fatto alla lesta. Sicchè, permettete, caro Athos, senza che io
m’informi di più del nostro amico, che faccia i miei complimenti a
messer Planchet.

«Ah! signor cavaliere, disse Planchet con un inchino.

«Tenente! esclamò Aramis.

«Tenente sì, e con promessa d’esser capitano.

«Bellissima cosa! rispose Aramis, e come sono venuti a voi tutti questi
onori?

«Già, prima sapete, signori, che fui io che feci scappare il signor di
Rochefort?

«Sì, cospetto! egli ce lo ha raccontato.

«Ma in quella circostanza stetti in procinto di essere impiccato dal
Mazzarino, lo che naturalmente mi rese più popolare che nol fossi per
lo avanti.

«E mercè codesta popolarità?...

«No, mercè qualcosa di meglio. Inoltre vi è noto che ho servito nel
reggimento di Piemonte, dove avevo l’onore di essere sergente?

«Sicuro.

«Or bene! un giorno che nessuno poteva mettere in fila una quantità di
paesani armati che si partivano chi col piè sinistro e chi col diritto,
io riuscii a farli muovere tutti con lo stesso piede, e fui fatto
tenente sul campo.... delle manovre.

«Ecco la spiegazione, fece Aramis.

«Dimodochè, soggiunse Athos, avete con voi un diluvio di nobiltà?

«Certissimo; in primo luogo abbiamo, conforme saprete senza dubbio, il
principe di Conti, il duca di Longueville, il duca di Beaufort, il duca
d’Elboeuf, il duca di Chevreuse, il signor di Brissac, il maresciallo
di la Mothe, il signor di Luynes, il marchese di Vitry, il principe di
Marillac, il marchese di Noirmontier, il conte di Fiesques, il marchese
di Laigues, il conte di Montresor, il marchese di Sevigné, e che so io,
quanti mai?

«E il signor Raolo di Bragelonne? chiese Athos con qualche agitazione,
d’Artagnan mi disse avervelo raccomandato nel partire, mio buon
Planchet.

«Sì, signor conte, e come fosse stato suo figliuolo, e debbo dichiarare
che non l’ho perduto di vista un momento.

«Dunque sta bene? seguitò Athos con voce alterata dal contento; non gli
è accaduta alcuna disgrazia?

«Nessuna.

«E abita?...

«Sempre al _Gran Carlomagno_.

«E passa le giornate?...

«Ora dalla regina d’Inghilterra, ora da madama di Chevreuse. Esso e il
conte di Guiche non si lasciano un istante.

«Grazie, Planchet, grazie».

E Athos gli porgeva la destra.

«Oh! signor conte, fece Planchet toccando quella mano con la punta
delle dita.

«Conte, ebbene? che fate? ad un antico lacchè! osservò Aramis.

«Amico, mi dà notizie di Raolo.

«E adesso, continuò Planchet il quale non aveva udita l’osservazione di
Aramis, che avete idea di fare?

«Rientrare in Parigi, se pure voi ci date il permesso, caro signor
Planchet.

«Come! se vi do il permesso? mi burlate, non sono altro che il vostro
servo».

E Planchet fece una riverenza.

Poi voltosi a’ suoi uomini:

«Lasciate passare questi signori; li conosco, sono amici del signor di
Beaufort.

«Evviva il signor di Beaufort! gridò tutto il corpo di guardia facendo
largo ad Athos ed Aramis».

Il sergente solo si accostò a Planchet.

«Chè? borbottò, senza passaporto?

«Senza passaporto.

«Badate, capitano, ribattè il sergente dando anticipatamente a Planchet
il titolo promessogli; badate che uno dei tre uomini usciti poco fa mi
ha detto pianino di non fidarmi di loro.

«Ed io, ripigliò Planchet maestosamente, li conosco e rispondo per
essi».

E strinse la mano a Grimaud, il quale parve molto onorato da tale
distinzione.

«Dunque a rivederci capitano, soggiunse Aramis in tuono beffardo, se ci
accadesse qualche cosa chiameremmo voi in appoggio.

«Signor mio, disse Planchet, in questo come in tutt’altro, sono vostro
servitore umilissimo.

«Ha spirito e di molto, il briccone! esclamò Aramis montando a cavallo.

«E come non deve averne? fece Athos ponendosi in sella, dopo avere per
tanto tempo spazzolati i cappelli del suo padrone?»



LXXX.

_Gli ambasciadori._


I due amici si avviarono tosto scendendo il ripido pendio del sobborgo.
Però, giunti appiè di quello, videro con istupore che le strade di
Parigi si erano cambiate in fiumi e le piazze in tanti laghi: in
conseguenza delle forti pioggie del mese di gennajo, la Senna aveva
dato di fuori, e colle sue acque ingombrava metà della capitale.

Athos ed Aramis entrarono animosamente con i loro cavalli in quella
inondazione; ma in breve i poveri animali vi affondarono sino al
petto, e bisognò che i due gentiluomini si decidessero a lasciarli ed a
prendere una barca, dopo avere raccomandato ai loro domestici di andare
ad attenderli ai mercati.

In conseguenza arrivarono in barchetta al Louvre. Era notte già
fatta, e Parigi vista così al lume di alcuni lampioni tremolanti fra
tutti quei paduli, co’ suoi battelli carichi di pattuglie con armi
risplendenti, con le grida di vigilia che di notte si ricambiano fra
i posti di guardia, Parigi insomma presentava un aspetto che abbagliò
Aramis, l’uomo più accessibile che mai potesse incontrarsi a sentimenti
bellicosi. Giunsero dalla regina; però fu d’uopo far anticamera,
sendochè nel momento Sua Maestà dava udienza a gentiluomini che
recavano notizie d’Inghilterra.

«E anche noi, disse Athos al servo che gli dava questa risposta, non
solo portiamo notizie d’Inghilterra, ma veniamo pure di là.

«Come vi chiamate?

«Il signor conte di la Fère e il signor cavaliere d’Herblay, replicò
Aramis.

«Oh! allora, signori, fece il servitore udendo quei nomi dalla regina
proferiti tante volte nella sua speranza, allora è tutt’altro, e
credo che Sua Maestà non mi perdonerebbe di avervi fatto aspettare un
momento. Seguitemi, di grazia».

E camminò avanti, precedendo i due forestieri.

Poi quando fu nella stanza ove stava la sovrana fece ad essi cenno di
attendere, ed aperta la porta, disse:

«Signora, spero che Vostra Maestà mi perdoni di aver disobbedito ai
di lei ordini, quando saprà che coloro cui vengo ad annunziarle sono i
signori conte di la Fère e cavaliere d’Herblay».

La regina diè un grido di giubilo, che dai gentiluomini fu inteso dal
luogo ove si erano trattenuti.

«Povera regina! borbottò Athos.

«Oh, passino, passino! esclamò pure la giovane principessa slanciatasi
verso l’uscio».

La meschinella non si divideva mai dalla madre, e procurava farle
obliare mediante le sue premure e la filiale sua tenerezza l’assenza
dei due fratelli e della sorella.

«Entrate, signori, entrate», disse e terminava da sè di schiudere la
porta.

Si presentarono Athos ed Aramis. La regina stava seduta sopra una
poltrona, e a lei dinanzi erano in piedi due dei tre gentiluomini da
loro incontrati nel corpo di guardia.

Erano questi i signori di Flamarens e Gasparo di Coligny, duca di
Chantillon, fratello di quello che fu ucciso sette od otto anni prima
in un duello ch’ebbe luogo a motivo di madama di Longueville.

All’annunziarsi dei due amici costoro indietreggiarono alquanto, e
sotto voce ricambiarono alcune parole.

«Ebbene, signori! disse la regina, visti ch’ebbe Athos ed Aramis,
eccovi alfine, fidi amici, ma i corrieri di Stato sono venuti anco
più presto di voi. La corte è stata istrutta degli affari di Londra
nel momento che voi arrivavate alle porte di Parigi, ed ecco i signori
di Flamarens e di Chatillon che mi portano da parte di Sua Maestà la
regina Anna le più recenti informazioni».

Aramis ed Athos si guardarono; la tranquillità, l’allegrezza persino
che traluceva in volto alla sovrana, li faceva stupire.

«Favorite continuare, essa disse a Chatillon ed a Flamarens; dicevate
adunque che Sua Maestà Carlo I, mio augusto signore, era stato
condannato a morte non ostante il voto della maggioranza dei sudditi
inglesi....

«Sì signora», balbettò Chatillon.

Athos ed Aramis si fissavano in viso un coll’altro vieppiù attoniti.

«E che, condotto al patibolo, ella proseguiva, al patibolo! o
mio signore, o mio re!... era stato salvato dal popolo pieno
d’indignazione.

«Sì signora», rispose Chatillon con voce tanto bassa che a mala
pena poterono i due gentiluomini, comunque attentissimi, udir questa
affermazione.

La regina giunse insieme le mani con generosa riconoscenza, mentre la
figlia le cingeva il collo con un braccio e la stringeva al seno, molle
il ciglio di pianto.

«Ora, non altro ci rimane che presentare a Vostra Maestà l’umile nostro
ossequio, disse Chatillon a cui pareva fosse di peso la parte che
faceva, e che arrossiva sempre più sotto lo sguardo fisso e penetrante
di Athos.

«Ancora un momento, signori, seguitò la regina trattenendoli con un
cenno, un momento, di grazia! giacchè ecco i signori di la Fère e
d’Herblay, che secondo avrete inteso vengono da Londra, e vi daranno
forse come testimoni oculari dettagli a voi ignoti. Tali dettagli li
recherete alla regina mia buona madre. Parlate, signori, vi ascolto;
nulla mi nascondete, non abbiate alcun ritegno: subito che Sua Maestà
vive, ed è salvo il regio onore, io sono indifferente a tutto il
resto».

Athos impallidì e si posò una mano sul cuore.

«Ebbene! fece la sovrana che si accorse del pallore e del movimento;
parlate, giacchè io ve ne prego.

«Perdonate, madama, rispose Athos, ma io nulla voglio aggiungere al
racconto di questi signori innanzi ch’essi abbiano riconosciuto da per
sè che forse si sono ingannati.

«Ingannati? esclamò Enrichetta poco meno che soffocando, ingannati!...
e che v’è egli? mio Dio!

«Signori, disse di Flamarens ad Athos, se abbiamo sbagliato, l’errore
proviene dalla regina, e voi non avrete, suppongo, intenzione di
rettificarlo, poichè sarebbe lo stesso che dare una mentita a Sua
Maestà.

«Dalla regina? gridò Athos con voce quieta ma sonora.

«Sì», balbettò Flamarens, e chinava le pupille.

Athos mandò un doloroso sospiro.

«E non piuttosto da quello che vi accompagnava, e che abbiamo veduto
con voi al corpo di guardia del Roule, proviene tale errore? disse
Aramis con la sua insultante cortesia, giacchè se il conte di la Fère
ed io non abbiam preso abbaglio, eravate in tre all’entrare in Parigi».

Chatillon e Flamarens si scossero.

«Ma spiegatevi, conte! esclamò la regina in angoscia sempre più fiera;
sulla vostra fronte io leggo la disperazione, il vostro labbro esita
ad annunziarmi qualche nuova terribile, vi tremano le mani.... Dio mio!
Dio mio! ch’è accaduto?

«Signore! disse la principessina inginocchiandosi accanto alla madre,
abbiate pietà di noi!

«Signore, fece Chatillon, se siete latore di una funesta notizia,
operate da uomo crudele quando la date alla regina».

Aramis si accostò a Chatillon sino quasi a toccarlo, e con le labbra
strette dalla rabbia e lo sguardo infuocato, gli rispose:

«Ehi! mi figuro che non abbiate già idea di insegnare al conte di la
Fère ed a me ciò che qui dobbiamo dire».

Durante quel breve alterco, Athos sempre con la mano sul cuore e la
testa china, appressatosi alla sovrana, le disse con somma commozione:

«Signora, i principi, che per la loro natura sono al disopra degli
uomini, riceverono dal cielo un cuore atto a sopportare infortunj più
grandi che quelli del volgo, imperocchè il cuore in essi partecipa alla
loro superiorità; perciò mi sembra non si debba operare con una grande
regina qual’è Vostra Maestà nel modo stesso che con una donna del
nostro ceto. Regina, destinata a tutti i martirj su questa terra, ecco
il risultato della missione di cui ci onoraste».

Ed Athos, inginocchiatosi dinanzi alla infelice che gelava e palpitava,
si levò di seno, chiusi in una medesima scatola, l’ordine di diamanti
che la regina aveva consegnato a lord Winter prima di partire, e
l’anello nuziale che prima di morire Carlo aveva consegnato ad Aramis.
Athos non si era mai tolto d’indosso quei due oggetti dacchè gli avea
ricevuti. Egli aprì il cassettino che li conteneva, e con tacito e
profondo dolore li porse alla regina.

Questa avanzò la mano, prese l’anello, se lo trasse in atto convulso
fino sulle labbra, e senza poter dare un sospiro, nè mandare un
singulto, stese le braccia, impallidì, e cadde priva di sensi fra
quelle della figlia e delle sue donne.

Athos baciò il lembo della veste della sventurata vedova, e rialzandosi
con tal maestà che produsse sugli astanti la maggiore impressione,
parlò così:

«Io, conte di la Fère, gentiluomo che non mentii giammai, giuro prima
innanzi a Dio e quindi innanzi a questa povera regina, che tutto quanto
poteva farsi per salvare il re fu da noi fatto sul suolo d’Inghilterra.
Ed ora (e si volgeva a d’Herblay) cavaliere, si parta, l’obbligo nostro
è compiuto.

«Non per anche, fece Aramis, ci rimangono da dire due parole a questi
signori».

E giratosi verso Chatillon:

«Signor mio, gli disse, vi compiacereste di venir fuori, anche per un
momento, per sentire le poche parole che non posso dirvi davanti alla
regina?»

Chatillon senza rispondere s’inchinò in segno di assenso.

Athos ed Aramis passarono per i primi; a loro dopo andarono Chatillon
e Flamarens; traversarono senza far motto il vestibolo: ma giunti ad
una terrazza ch’era a livello d’una finestra, Aramis si diresse alla
terrazza in cui non trovavasi veruno, si fermò però alla finestra e
disse al duca di Chatillon:

«Poc’anzi, mi pare, vi siete fatto lecito di trattarci molto alla
libera. Ciò non era conveniente in alcun caso, ma assai meno poi in
persone che venivano a recare alla regina il messaggio di un mentitore.

«Signore! gridò Chatillon.

«Che avete mai fatto del signor di Bruy? domandò ironicamente Aramis.
Fosse egli andato per combinazione a cambiarsi la faccia che somiglia
di troppo a quella del signor di Mazzarino? È noto che al palazzo reale
vi sono molte maschere italiane da muta, da quella di Arlecchino sino a
quella di Pantalone.

«Ma voi ci provocate, io credo! disse Flamarens.

«Ah! lo credete soltanto?

«Cavaliere! cavaliere! disse Athos.

«Eh! lasciatemi fare; rispose con stizza Aramis, sapete pure che a me
non piacciono le cose a mezza via.

«Finitele dunque! ribattè Chatillon con non minor alterigia che
d’Herblay».

Questi fece un inchino, e replicò.

«Signori, un altro fuori di me o del conte di la Fère vi farebbe
arrestare, giacchè abbiamo in Parigi alcuni amici; ma noi vi offriamo
un mezzo di partire senza esser molestati. Venite a discorrere con noi
cinque minuti colla spada in pugno su quel terrazzo abbandonato.

«Volentieri, rispose Chatillon.

«Un momento! esclamò Flamarens, so che la proposta è tale da tentarci,
ma adesso ci è impossibile accettarla.

«E perchè? domandò Aramis in tuono di scherno, la vicinanza del signor
Mazzarino è forse quella che vi rende sì prudenti?

«Ah, Flamarens, lo udite? disse Chatillon, non rispondere sarebbe una
macchia al mio nome e all’onor mio.

«Così la penso io pure, disse freddamente Aramis.

«Voi però non risponderete, e questi signori fra poco saranno, io
spero, della mia opinione».

Aramis scosse il capo con un gesto di estrema insolenza.

Chatillon vide il gesto, e pose mano alla spada.

«Duca, disse Flamarens, vi dimenticate che per domani avete il comando
di una spedizione della massima importanza, e che indicato dal signor
Principe, accettato dalla regina, sino a domani sera non siete padrone
di voi?

«Benissimo! dunque per domani l’altro mattina, fece Aramis.

«A doman l’altro, osservò Chatillon, è troppo lungo l’indugio!

«E non sono già io, riprese d’Herblay, che fisso questo termine
o chiedo dilazione, tanto più (aggiunse), che mi sembra, potremmo
trovarci a quella spedizione.

«Signor sì, avete ragione, esclamò il duca, e con molto piacere, se
volete pigliarvi l’incomodo di venire sino alle porte di Charenton.

«E come, signor mio! per aver l’onore di incontrarvi andrei a capo al
mondo; tanto maggiormente farò per ciò una lega o due.

«Dunque a domani.

«Io ci conto. Andate pure a raggiungere il vostro Mazzarino; ma prima,
giurate sul vostro onore che non lo avvertirete del nostro ritorno.

«Condizione?

«E perchè no?

«Perchè queste si spetta ai vincitori il farle, e voi non siete tali.

«E allora, si sguaini subito il ferro. Ciò poco importa a noi che non
comandiamo l’impresa di domani».

Chatillon e Flamarens si guardarono; v’era cotanta ironia nel gesto e
nelle parole di Aramis, che Chatillon specialmente stentava a tener a
freno la collera. Ma a un detto di Flamarens si fermò.

«Or bene, disse, il nostro compagno, chiunque sia, nulla saprà di quel
ch’è accaduto. Ma voi mi promettete di esser domani a Charenton, non è
vero?

«Ah signori! non dubitate! rispose Aramis».

I quattro gentiluomini si salutarono, ma questa volta Chatillon e
Flamarens uscirono primi dal Louvre, ed Athos e Aramis li seguirono.

«Ma con chi l’avete, con tanta furia? domandò Athos.

«Cospetto! con quelli co’ quali me la rifò!

«Che mai v’hanno fatto?

«Non avete veduto?

«Io no.

«Si sono messi a sogghignare quando voi giuravate che avevamo fatto
l’obbligo nostro in Inghilterra. Ora, o lo hanno creduto o no: se lo
credono, sogghignavano per insultarci, se non lo credono, c’insultavano
parimente, ed è urgente di provare a costoro che siamo buoni a qualche
cosa. Del rimanente, non m’incresce che abbiano rimessa la faccenda
a domani: penso che per questa sera abbiam da fare di meglio che
sguajnare la spada.

«E che abbiam da fare?

«Per Bacco! far prendere il Mazzarino».

Athos fe’ con le labbra un moto di disprezzo.

«Aramis, lo sapete, tali intraprese non mi piacciono.

«Perchè?

«Perchè pajono piuttosto sorprese.

«In verità, Athos, sareste un generale di armata singolare: non
vi battereste che a chiarissima luce, fareste prevenire il vostro
avversario dell’ora in cui avreste divisato di attaccarlo, e vi
asterreste da tentar nulla a suo danno di notte, per timore che vi
tacciasse di aver profittato dell’oscurità».

Athos sorrise.

«Sapete, disse, che nessuno può cambiare il proprio naturale; e poi,
avete forse in idea a qual punto siamo, e se l’arresto di Mazzarino non
sarebbe più mal che bene, più impaccio che trionfo?

«Dite dunque, Athos, che disapprovate la mia proposta.

«No; al contrario, la stimo di buona guerra, ma....

«Ma che?

«Penso che non avreste dovuto farvi giurare da quei signori di non dir
nulla al ministro, giacchè esigendo tal giuramento, avete quasi assunto
l’impegno di non far niente.

«Non ho assunto impegno veruno, io, e così mi riguardo come affatto....
Andiamo, Athos! andiamo!

«Dove?

«Dal signor di Beaufort o dal signor di Bouillon, e ad essi diremo
com’ella va.

«Sì, ma con un patto, cioè che cominceremo dal Coadjutore, a cui, dotto
com’è sui casi di coscienza, esporremo il nostro.

«Oh! disse Aramis, guasterà tutto, si approprierà ogni cosa; terminiamo
con lui, invece di principiare».

Athos se la rideva sotto i baffi, come chi in fondo al cuore abbia un
pensiero che non vuol esprimere.

«Ebbene, sia pur così, rispose, da quale si comincia?

«Dal signor di Bouillon, se non vi spiace; è il primo che si presenta
nel nostro cammino.

«Adesso, mi permetterete una cosa, non è vero?

«Ed è?

«Ch’io passi dall’albergo del _Gran Carlomagno_ ad abbracciar Raolo.

«Ma ci vengo con voi! lo abbraccieremo insieme».

Tutti e due avevano ripresa la barca che gli aveva condotti e si
erano fatti portare ai mercati. Ivi ritrovarono Grimaud e Blaisois
che custodivano i loro cavalli e tutti quattro si avviarono verso la
contrada Guénégaud.

Raolo però non era alla locanda del _Gran Carlomagno_; ricevuto nella
giornata un messaggio dal signor Principe, era partito subito dopo con
Olivain.



LXXXI.

_I tre luogotenenti del generalissimo._


Secondo era stabilito, e nell’ordine fra di loro convenuto, Athos ed
Aramis usciti dal _Gran Carlomagno_ s’incamminarono verso il palazzo
del duca di Bouillon.

Era notte oscurissima, e quantunque inoltrata nelle ore di maggior
silenzio e solitudine, cominciavano ad echeggiare quei clamori che
destano trasalita una città assediata. Ad ogni passo s’incontravano
barricate, a tutte le svolte delle strade catene stese, in ciascun
vicolo dei bivacchi; s’incrociavano le pattuglie ricambiandosi la
parola d’ordine, i messaggeri spediti dai vari capi traversavano
le piazze; e finalmente si facevano dialoghi animatissimi, e che
indicavano l’agitazione degli spiriti, fra i pacifici abitanti, i
quali se ne stavano affacciati alle finestre e i loro concittadini
più bellicosi che correvano per le vie con la partigiana in spalla o
l’archibugio al braccio.

Athos ed Aramis non aveano fatto cento passi senza essere trattenuti
dalle sentinelle messe alle barricate, che lor chiedevano la parola
d’ordine; ma rispondevano che andavano dal signor di Bouillon per
dargli una notizia importante, ed allora quelle si erano contentate
di dare ad essi una guida, la quale col pretesto di accompagnarli e
agevolar loro il passo era incaricata di sorvegliarli. E la guida si
era mossa precedendoli e cantarellando:

    Ce brave monsieur de Bouillon
    Est incommodé de la goutte....

nuovissimo componimento del genere dei _triolets_ francesi, non so di
quante stanze in cui ciascuno aveva la sua parte.

Giunti nelle vicinanze della casa di Bouillon, s’imbatterono in
una piccola comitiva di tre a cavallo, che avevano tutte le parole
possibili, poichè andavano senza scorta, e quando arrivavano alle
barricate non avevano da far altro che ricambiare con coloro che ne
stavano a guardia certi detti bastanti a far sì che si lasciassero
tirare innanzi con tutta la deferenza senza dubbio dovuta al loro
rango.

All’aspetto di quei tali, Athos ed Aramis si fermarono.

«Oh oh! vedete, conte? disse Aramis.

«Sì, rispose Athos.

«Che vi pare di quei tre cavalieri?

«E a voi?

«Che siano i nostri.

«Non v’ingannate, ho riconosciuto benone di Flamarens.

«Ed io, di Chatillon.

«In quanto all’altro col ferrajuolo scuro....

«Era il ministro.

«In persona.

«Come diamine si azzardano così, nei dintorni del palazzo di Bouillon?
fece Aramis».

Athos sorrise senza rispondere.

Di là a cinque minuti bussavano al portone del principe.

Al portone faceva guardia una sentinella, come si costuma per i
soggetti rivestiti di gradi superiori; nel cortile era pure un piccol
corpo di guardia pronto ad obbedire agli ordini del luogotenente del
principe di Conti.

A forma di quel che diceva la canzone il duca di Bouillon aveva la
gotta e stava a letto; non ostante questa grave malattia, che da un
mese gl’impediva di cavalcare, cioè da quando era assediata Parigi,
fece dire, però, ch’era disposto a ricevere i signori conte di la Fère
e cavaliere d’Herblay.

I quali furono tosto introdotti. L’ammalato era nella sua camera,
coricato, ma circondato dall’apparecchio più militare che potesse
immaginarsi: da per tutto, sospesi alle muraglie, spade, pistole,
usberghi e archibugi, e agevolmente si scorgeva che il signor
di Bouillon, appena non avesse più la podagra, darebbe non poca
briga e molestia ai nemici del Parlamento. Intanto con sommo suo
rincrescimento, conforme ei diceva, gli toccava starsene in letto.

«Ah! signori, esclamò visti ch’ebbe i due visitanti e tentando per
sollevarsi un tantino uno sforzo che gli fe’ fare una boccaccia
pel dolore terribile, siete fortunati, voi altri! potete montare a
cavallo, andare e venire, combattere, per la causa del popolo. Ma io,
vedete pure, sono confitto su queste lenzuola!.... Uh maledetta gotta!
aggiunse con una nuova smorfia, maledettissima gotta!

«Monsignore, disse Athos, veniamo d’Inghilterra e toccando Parigi è
stata nostra prima cura di portarci a domandar notizie della vostra
salute.

«Grazie, grazie mille!.... la salute? cattiva, come osserverete....
maledetta gotta!.... Ah! siete arrivati d’Inghilterra? e il re Carlo
sta bene, per quanto ho inteso poco fa.

«È morto, monsignore, disse Aramis.

«Veh! fece attonito il duca.

«Morto sopra il patibolo, condannato dal Parlamento.

«È impossibile!

«E giustiziato alla nostra presenza.

«Ma dunque che mi diceva di Flamarens?

«Di Flamarens! esclamò Aramis.

«Sì, è uscito adesso di qua.

«Con due compagni? domandò Athos sogghignando.

«Sì, con due compagni, rispose il duca».

Indi con qualche inquietudine seguitò:

«Gli avete forse incontrati?

«Ma sì.... mi pare, per la strada, replicò Athos».

E guardò sorridendo Aramis, che dal canto suo osservò lui pure alquanto
meravigliato.

«Maledettissima gotta! ripetè il signor di Bouillon che pativa assai.

«Monsignore, continuò Athos, in verità ci vuol tutta la vostra
divozione alla causa parigina per rimanere, incomodato come siete,
alla testa delle armate; tanta perseveranza produce in noi sincera
ammirazione.

«Che volete, signori miei? bisogna pure (e voi due ne siete un
esempio, voi sì prodi e zelanti, a cui il mio caro collega duca di
Beaufort è debitore della libertà e fors’anco della vita) bisogna
pure sacrificarsi alle pubbliche faccende. E perciò, lo vedete, io mi
sacrifico. Bensì vi confesso che ho esaurita tutta la mia forza. Il
cuore è buono, buona è la testa, ma questa podagra briccona mi ammazza,
e non vi nego che se la corte rendesse paghe le mie domande, d’altronde
giustissime, poichè non chiedo se non una indennizzazione promessami
dall’antico ministro stesso quando mi fu tolto il mio principato di
Sedan, se mi si dessero dominj del medesimo valore; se mi si risarcisse
del non godimento di quella mia proprietà dacchè mi fu tolta, cioè da
diciotto anni, se a quelli della mia casa si accordasse il titolo di
principi; se il mio fratello di Turenne fosse rimesso in possesso del
suo comando; mi ritirerei immediatamente nelle mie terre, e lascerei la
corte ed il Parlamento aggiustarsi fra loro come meglio potessero.

«Ed avreste ragione, monsignore, rispose Athos.

«Voi pensate così; non è vero, signor conte di la Fère?

«Assolutamente.

«E anche voi, signor cavaliere d’Herblay.

«Pienissimamente.

«Or bene, vi confesso, che secondo ogni probabilità, mi appiglierò a
questo partito. Nel momento appunto la corte mi fa alcune proposte, e
da me solo dipende l’accettarle. Le avevo rigettate finora, ma poichè
uomini della vostra fatta mi dicono che ho torto, e specialmente
giacchè questa maladetta gotta mi mette nell’impossibilità di giovare
alla causa parigina, affè! ho voglia di seguitare il vostro consiglio e
accogliere la proposta avanzatami dal signor di Chatillon.

«Accettatela, principe, disse Aramis.

«Oh sì! anzi mi dispiace di averla quasi sprezzata questa sera.... ma
domani v’è conferenza e vedremo».

I due amici riverirono il duca.

«Andate, signori, questi continuò, dovete essere stanchi dal viaggio.
Povero re Carlo! ma in sostanza egli ne ha un po’ di colpa, e ciò che
deve consolarci si è che la Francia non ha da farsi alcun rimprovero in
questa occasione, ed ha fatto tutto quanto ella poteva per salvarlo.

«Oh! di questo siamo noi testimoni, replicò Aramis, particolarmente il
signor di Mazzarino!....

«Ecco, io ho caro che gli facciate una tale testimonianza; in fondo ha
del buono, il ministro, e se non fosse forestiero, gli si renderebbe
giustizia.... Ahi! gotta maladettissima!»

Athos ed Aramis uscirono, ma le grida del signor di Bouillon li
accompagnarono sino nell’anticamera; era evidente ch’ei soffriva come
un dannato.

Aramis arrivato al portone domandò:

«Ebbene, Athos, che ne pensate?

«Di che?

«Per diana! del signor di Bouillon.

«Caro mio, quel che ne pensa il _triolet_ della nostra guida:

    Ce pauvre monsieur de Bouillon
    Est incommodé de le goutte....

«E perciò, fece Aramis, vedete che non gli ho aperto bocca sull’oggetto
che qui ci conduceva.

«E avete operato con prudenza; gli avreste mosso un nuovo attacco di
podagra. Si vada dal signor di Beaufort».

E i due amici si avviarono al palazzo di Vendome.

Suonavano le dieci quando essi vi giungevano.

Il palazzo di Vendome era custodito non meno, e presentava un aspetto
non meno guerresco di quello di Bouillon. V’erano sentinelle, corpo di
guardie nel cortile, armi e fasci, cavalli sellati legati agli anelli.
Due cavalieri, ch’escivano allorchè Athos ed Aramis entravano dovettero
far fare un passo indietro ai loro palafreni acciò questi passassero.

«Ah ah! signori, disse Aramis, ma l’è assolutamente la nottata
degl’incontri, e dichiaro che avremmo grande sfortuna se dopo
di esserci incontrati così spesso, stassera, non pervenissimo ad
incontrarci domani.

«Oh! in quanto a codesto, rispose Chatillon (ch’era egli insieme con
Flamarens partito allora da casa di Beaufort) potete star quieto; se
c’incontriamo di notte senza cercarci, tanto più c’incontreremo di
giorno cercandoci.

«Lo spero, fece Aramis.

«Ed io ne son sicuro, ribattè il duca».

Di Flamarens e di Chatillon proseguirono la lor via, e Athos ed Aramis
anzi smontarono.

Avevano appena infilate le briglie dei loro cavalli alle braccia dei
lacchè, e si erano sbarazzati dei ferrajuoli, che a loro avvicinossi
un tale, e guardatili un momento al dubbio lume di un lanternino appeso
in mezzo al cortile diè un grido di sorpresa, e corse a gettarsi fra le
loro braccia.

«Conte di la Fère! urlò colui, cavaliere d’Herblay! come mai siete in
Parigi?

«Rochefort! dissero insieme ambedue.

«Sì, di certo! Siamo giunti dal Vendomese or sono quattro o cinque
giorni, e ci accingiamo a dar da fare ben bene al Mazzarino. Siete
sempre dei nostri, mi figuro?

«Più che mai. E il duca?

«È indemoniato contro il ministro. Vi sono noti i successi del
nostro caro duca? È il vero re di Parigi; non può andar fuori senza
arrischiare di esser soffocato.

«Ah! tanto meglio; disse Aramis, ma ditemi, non sono i signori di
Flamarens e di Chatillon quelli usciti poc’anzi di qui?

«Giusto! hanno avuto udienza dal duca; vengono da parte del Mazzarino,
senza dubbio, ma avranno trovato a chi parlare, ve lo garantisco.

«Manco male, rispose Athos; e non si potrebbe aver l’onore di vedere
Sua Altezza?

«E perchè no? subito! sapete che per voi è sempre visibile. Venite con
me, io reclamo il bene di presentarvi».

Rochefort andò avanti. Furono aperte tutte le porte: a lui ed ai
due amici. Trovarono essi il signor di Beaufort sul punto di porsi
a tavola. Le mille occupazioni della giornata avevano ritardata sino
allora la sua cena; ma per quanto fosse grave la circostanza, il duca
ebbe appena uditi i nomi annunziatigli da Rochefort, che si alzò dalla
sedia che precisamente accostava alla mensa, ed avanzatosi con impeto
incontro ai due colleghi disse loro:

«Ah per bacco! ben venuti, signori miei. Siete qua a prender parte
alla mia cena, non è così? Boisjoli, avvertite Noirmont che ho due
commensali. Lo conoscete, Noirmont, eh signori? è il mio maestro di
casa, il successore di Mastro Marteau, che fa gli ottimi pasticci a voi
noti. Boisjoli, di’ che ne mandi uno fatto da lui, ma non del genere di
quello che aveva preparato per la Ramée.... Grazie a Dio! non abbiamo
più bisogno di scale, di funi o di pugnali.

«Monsignore, rispose Athos, non istate a disturbare per noi il vostro
illustre maggiordomo, del quale ci sono cogniti i molti e svariati
talenti. Questa sera, con licenza di Vostra Altezza, avremo soltanto
l’onore di domandarle nuove di sua salute e ricevere i di lei comandi.

«Oh! per la salute, ottima. Una salute che ha resistito a cinque annate
di Bastiglia con la compagnia obbligata di messer di Chavigny, è capace
di tutto. Per comandi, cospetto! vi confesso che sarei in un grande
impiccio per conferirveli, sendo che ciascuno dà i suoi dal canto suo,
e se si va avanti così io finirò con non darne più affatto.

«Davvero? disse Athos, eppure credevo che il Parlamento contasse sopra
la vostra unione.

«Oh sì! la nostra unione è bella, veh! Con il duca di Bouillon, tanto
tanto.... ha la podagra e non si leva dal letto, v’è da intendersi;
ma col signor d’Elboeuf e i suoi figliuoli che son tanti elefanti....
Signori miei, sapete il componimento (_triolet_) sopra il duca
d’Elboeuf?

«No monsignore.

«Propriamente?»

Il duca si mise a cantare:

    Monsieur d’Elboeuf et ses enfants
    Faut rage à la place Royale.
    Il vont tous quatre piaffants,
    Monsieur d’Elboeuf et ses enfants.
    Mai sitot qui il faut battre aux champs,
    Adieu leur humeur martiale,
    Monsieur d’Elboeuf et ses enfants
    Font rage à la place Royale.

«Ma, soggiunse Athos, spero non sia così del Coadjutore.

«Eh sì! con il Coadjutore è anche peggio. Invece di starsene fermo
a cantare i _Te Deum_ per le vittorie che noi non riportiamo, o per
quelle in cui siamo sconfitti, sapete che cosa fa?

«No.

«Mette su un reggimento al quale dà il suo nome: il reggimento di
Corinto. Fa luogotenenti e capitani nè più nè meno che un maresciallo
di Francia, e colonnelli quanti ne fa il re.

«Sì, replicò Aramis, ma quando bisogna battersi mi lusingo che stia
attaccato al suo arcivescovado?

«Niente affatto! Ecco dove sbagliate, mio caro d’Herblay. Allorchè è
d’uopo battersi, si batte, talmentechè siccome la morte di suo zio gli
ha dato un seggio nel Parlamento, adesso ce lo troviamo di continuo
fra’ piedi, al Parlamento, al consiglio e nelle battaglie. Il principe
di Conti è generale in pittura.... e che pittura! un principe gobbo,
gli è come dire un sacco di noci. Ah! vanno male le faccende, signori
miei, vanno male!

«Sicchè, monsignore, Vostra Altezza è scontenta? fece Athos e barattava
un’occhiata con Aramis.

«Scontenta? Dite pure, conte, che la mia Altezza è per le furie, a
segno che io dico a voi, ad altri non lo manifesterei, a segno che
se la regina riconoscesse i torti che ha meco, se richiamasse mia
madre esule, se mi desse in sopravvivenza l’ammiragliato ch’è del mio
signor padre e che mi è promesso per l’epoca della sua morte, ebbene!
non sarei lontano da avvezzare dei cani a cui insegnerei ad accennare
che vi sono ancora in Francia ladroni più grandi che il signor di
Mazzarino».

Non più uno sguardo solo, ma sguardo e sorriso, si ricambiarono Athos
et Aramis, ed ancorchè non gli avessero incontrati avrebbero indovinato
essere stata colà di Chatillon e di Flamarens. E quindi non fecero
motto della presenza in Parigi di Mazzarino.

«Monsignore, disse Athos, noi siamo soddisfatti. Venendo a quest’ora da
Vostra Altezza, non avevamo altro scopo se non se di dar prova della
nostra devozione e dichiararle che stavamo a sua disposizione come i
suoi servitori più fedeli.

«Come i miei più fidi amici, signori cari; me lo avete già dimostrato,
e se mai mi riconcilio con la corte, spero provarvi ch’io pure
sono rimasto amico vostro come di quei signori.... come diavolo li
chiamate?.... d’Artagnan e Porthos.

«D’Artagnan e Porthos?

«Ah! sì.... appunto così.... Dunque m’intendete, conte di la Fère,
m’intendete, cavaliere d’Herblay: tutto e per sempre vostro».

Athos ed Aramis fecero una riverenza e se ne andarono.

«Caro Athos, disse Aramis, credo, Dio mi perdoni, che abbiate aderito
ad accompagnarmi solamente per darmi una lezione.

«Aspettate, rispose l’altro, sarete a tempo ad accorgervene quando
usciremo dal Coadjutore.

«Dunque andiamo all’arcivescovado».

E si diressero verso la Città-Vecchia.

Partendo di là trovarono le strade allagate, e dovettero prendere
una barchetta. Erano più dell’undici ore, ma si sapeva non esservi
ora prefissa per presentarsi dal Coadjutore, la di cui somma attività
faceva all’occorrenza di giorno notte, e di notte giorno.

Il palazzo arcivescovile sorgeva di fondo all’acqua, e dal numero di
battelli legati intorno a questo, vi sareste creduti, non in Parigi
ma a Venezia. Quei battelli andavano su e giù, incrociandosi in
ogni senso, inoltrandosi nel labirinto delle vie di Città-Vecchia,
o allontanandosi nella direzione dell’arsenale o dell’argine di S.
Vittorio, ed allora nuotavano come in un lago. Alcuni erano misteriosi
e tenuti in gran silenzio, altri illuminati e clamorosi. I due camerati
si cacciarono tra quella quantità di schifi ed approdarono essi pure.

Tutto il pian terreno dell’arcivescovado era inondato, ma si erano
adattate ai muri certe specie di scale, e tutto il cambiamento
resultato dall’allagamento si riduceva ad entrare dalle finestre
anzichè dalle porte.

Ed in tal guisa Athos ed Aramis penetrarono nell’anticamera, la quale
era piena di lacchè, perchè una dozzina di signori stavano ad aspettare
nella sala d’ingresso,

«Ehi! fece Aramis, ma vedete un poco, Athos: questo sciocco Coadjutore
vuol egli aver il piacere dì farci fare anticamera?

«Amico mio, rispose Athos, le genti vanno prese con tutti
gl’inconvenienti della loro situazione. Oggi egli è uno dei sette o
otto re che regnano in Parigi, ed ha una corte.

«Sì, ma noi non siam mica cortigiani.

«E perciò gli faremo dare i nostri nomi, e se nel riceverli non dà una
risposta convenevole, lo lasceremo occupato negli affari della Francia
e ne’ suoi. Non v’è altro che chiamare un servitore e mettergli in mano
mezza doppia.

«Oh! appunto.... esclamò Aramis.... non m’inganno.... sì.... no.... ma
certo!.... Bazin, venite qua, furfante!»

Bazin, che precisamente passava in aria maestosa, si voltò inarcando
le ciglia a guardare chi fosse l’impertinente che lo chiamava in
simil maniera. Ma non sì tosto ebbe ravvisato Aramis, il tigre diventò
agnello, ed accostatosi ai due gentiluomini disse:

«Che! siete voi, signor cavaliere! voi, signor conte! tutti due qui
nel momento ch’eravamo tanto inquieti per voi!.... Oh! ho pur caro di
rivedervi!

«Va bene, messer Bazin, disse Aramis, da banda i complimenti. Veniamo
per parlare al signor Coadjutore, ma abbiamo tal fretta che ci
necessita parlargli subito.

«E come! subito, davvero.... non si fanno già attendere signori della
vostra specie.... ma soltanto adesso gli è in conferenza segreta con un
certo signor di Bruy.

«Di Bruy! gridarono insieme i due colleghi.

«Sì, l’ho annunziato io stesso, e mi ricordo esattamente il suo nome.
Lo conoscete? soggiungeva Bazin interrogando Aramis.

«Mi pare di conoscerlo.

«Io non posso dire altrettanto, giacchè era sì bene inviluppato nel
ferrajuolo, che per quanto io mi sia ostinato non ho potuto scorgergli
la minima parte del viso. Ma ora entrerò per annunziarvi, e forse
questa volta sarò più fortunato.

«È inutile, disse Aramis; per questa sera rinunziamo a vedere il signor
Coadjutore: non è vero, Athos?

«Come volete, rispose il conte.

«Sì sì, ha da trattare di affari troppo grandi col signor di Bruy.

«E lo devo avvisare che le signorie vostre erano venute?

«Non occorre, no, fece Aramis; Athos andiamo».

I due amici, passando in mezzo alla turba di servidori, si partirono
dal palazzo seguiti da Bazin che dava indizio della loro importanza
mediante i suoi ossequiosi saluti.

«Or bene, chiese Athos ad Aramis quando furono entrambi nella barca,
cominciate a credere che avremmo fatta una trista burla a tutti coloro
arrestando Mazzarino?

«Athos mio, siete la saggezza in carne ed ossa», replicò Aramis.

Ciò che maggiormente avea prodotto impressione ne’ due camerati,
sì era il poco peso che davasi nella corte di Francia ai terribili
avvenimenti, i quali aveano avuto luogo in Inghilterra, e che a loro
sembravano meritevoli di occupare l’attenzione di tutta Europa.

Di fatti, tranne una misera vedova ed una regia orfanella, che
piangevano in un canto del Louvre, pareva che nessuno sapesse come
fosse estinto un re, Carlo I, e questo re fosso morto di recente sul
patibolo.

I due compagni si erano fissato l’appuntamento per la mattina seguente
a dieci ore, giacchè quantunque fosse notte molto avanzata quando
giungevano alla porta del palazzo, Aramis, adducendo aver da fare
parecchie visite, aveva lasciato Athos solo.

Al tocco delle dieci della domane si erano riuniti. Athos era fuori
anch’esso fino dalle sei.

«Avete avuta qualche notizia? domandò Athos.

«Nessuna; d’Artagnan non si è visto in verun luogo, e Porthos non è
ancora comparso. E da voi?

«Niente.

«Diamine!

«Realmente, continuò Athos, questo ritardo non è naturale; hanno presa
la strada più diretta, e in conseguenza avrebbero dovuto arrivare prima
di noi.

«Aggiungete, osservò Aramis, che d’Artagnan ci è ben noto per la
prontezza del suo operare, e non è uomo da aver perduto un’ora sapendo
che lo attendiamo.

«Se ve ne rammentate, si proponeva di esser qui al 5 di questo mese.

«E siamo al 9. Scade stasera il termine stabilito.

«Che avete idea di fare? chiese Athos, se questa sera non abbiamo nuove?

«Per Bacco! darci a cercarlo.

«Bene!

«Ma Raolo?...» seguitò Aramis.

Sulla fronte del conte passò un piccolo nuvolo.

«Raolo, egli disse, mi dà molta inquietudine; jeri ricevè un messaggio
dal signor Principe, andò a trovarlo a Saint-Cloud, e non è tornato.

«Non avete veduta madama di Chevreuse?

«Non era in casa. E voi, Aramis, se non isbaglio, dovevate recarvi
dalla signora di Longueville.

«Ci sono stato.

«Ebbene?

«Nemmeno essa era in casa, ma almeno aveva lasciato l’indirizzo della
sua nuova dimora.

«Dov’era?

«Indovinate, ve lo do fra mille.

«Come ho da indovinare dov’è a mezzanotte, perchè mi figuro che nel
dividervi da me vi siate presentato alla sua abitazione, dov’è a
mezzanotte la più bella ed attiva di tutte le dame della Fronda?

«Al palazzo comunitativo, caro mio!

«Che! è ella forse nominata a prevosto dei mercanti?

«No, ma si è fatta regina provvisoria di Parigi, e non avendo ardito di
primo botto andare a stabilirsi al Palazzo Reale o alle Tuileries, si è
accomodata al Palazzo dalla Comunità, dove darà quanto prima un erede o
maschio o femmina al carissimo duca.

«Non mi avevate dato parte di questa circostanza, disse Athos.

«Davvero! sarà stata mia dimenticanza: scusatemi.

«Adesso, chiese Athos, che faremo di qui a stasera? siamo in ozio, se
non m’inganno.

«Vi scordate che abbiamo la bisogna bell’e pronta?

«Dove?

«Dalla parte di Charenton, cospettaccio! ho speranza, dietro la
promessa avutane, d’incontrare colà un certo di Chatillon che aborrisco
da gran tempo.

«E perchè?

«Perchè è fratello di un tal signore di Coligny.

«Ah sì? non ci pensavo.... il quale pretese l’onore di essere vostro
rivale. Fu assai crudelmente punito di tanta audacia, mio caro, e
dovrebbe già bastarvi.

«Sarà, ma che volete? a me non basta.... son uno di quelli che serbano
rancore.... Del resto, intendete che non siete minimamente obbligato a
tenermi compagnia.

«Eh via! fece Athos, voi scherzate!

«Allora poi, se siete deciso ad accompagnarmi, non v’è tempo da
perdere. È battuto il tamburo, ho incontrato i cannoni che partivano,
ho veduto i borghesi schierarsi in battaglia sulla piazza della
Comunità; di certo fra poco vi sarà combattimento verso Charenton,
conforme jeri ci disse il duca di Chatillon.

«Avrei creduto, seguitò Athos, che le conferenze della scorsa notte
avessero variato d’alquanto codeste bellicose intenzioni.

«Sì, ma non ostante vi sarà zuffa, quando appunto non fosse che per
meglio mascherare le conferenze stesse.

«Povere genti, che vanno a farsi ammazzare perchè sia restituito
Sedan a Bouillon, perchè si dia in sopravvivenza l’ammiragliato a di
Beaufort, e perchè il Coadjutore sia cardinale!

«Animo, animo, Athos! convenite che non sareste tanto filosofo, se non
dovesse trovarsi mischiato Raolo a tutto quel parapiglia.

«Può essere che abbiate detto il vero, rispose Athos.

«Or dunque, si vada dov’è battaglia, continuò Aramis, è il mezzo certo
di ritrovare d’Artagnan, Porthos, e chi sa? anco Raolo.

«Ahimè!

«Amico mio, disse Aramis, adesso che siamo a Parigi, credete a me, vi
convien perdere codesta abitudine di sospirar sempre. Alla guerra!
cospettone, alla guerra! Non siete più uomo da spada?... eh eh!
guardate que’ bei borghesi che passano! è roba da dar animo, per Diana!
E quel capitano, vedete mo’, ha un portamento quasi militare!

«Escono dalla via del Montone.

«Preceduti da’ tamburi, come veri soldati.... Oh! osservate quel
briccone! come si tentenna e si archeggia sui fianchi!

«Uh! fece Grimaud.

«Che c’è, domandò Athos.

«Planchet, signor mio!

«Jeri tenente, disse Aramis, oggi capitano, domani senza dubbio
colonnello, fra otto giorni il manigoldo sarà generale di Francia.

«Domandiamogli qualche notizia», propose Athos.

E i due amici si appressarono a Planchet, il quale più superbo che mai
di esser veduto in funzione, si degnò di spiegare ai due gentiluomini
qualmente aveva ordine di prendere posizione sulla Piazza Reale con
duecento uomini formanti la retroguardia dell’esercito parigino, e di
là avviarsi inverso Charenton quando occorresse.

Siccome Athos ed Aramis andavano dalla stessa parte, così fecero scorta
a Planchet sino al suo posto.

Planchet fe’ manovrare abilmente i suoi uomini sulla Piazza Reale, e
li schierò dietro una lunga fila di borghesi situata nella strada e nel
sobborgo di Sant’Antonio, attendendo il segnale della pugna.

«Sarà calda la giornata! disse Planchet in tuono guerriero.

«Sì, fece Aramis, ma è lontano di qua il nemico.

«Signore, si abbrevierà la distanza, rispose un capodieci».

Aramis lo salutò, e voltosi ad Athos lo avvertì:

«Non ho genio ad accamparmi in Piazza Reale con tutte quelle genti.
Volete che andiamo avanti? vedremo meglio le cose.

«E poi qui non verrebbe già a cercarvi il signor di Chatillon, non è
così? Dunque si vada innanzi, mio caro.

«Non avete dal canto vostro da dire due paroline al signor di Flamarens?

«Amico, replicò Athos, io ho presa una risoluzione, cioè di non più
sguainare il brando se non ci sono assolutamente costretto.

«E da quando in qua?

«Da che levai fuori il pugnale.

«Oh bella! un altra rimembranza di messer Mordaunt? Eh, mio caro, non
vi mancherebbe più altro che di provar rimorso di aver ucciso colui!

«Zitto! disse Athos ponendosi un dito sulla bocca con quel mesto
sorriso ch’era proprio di lui solo, non discorriamo più di Mordaunt, ci
porterebbe disgrazia».

E diè di sprone verso Charenton, rasentando il sobborgo, e poi la valle
di Fécamp tutta piena di borghesi armati.

Già s’intende che Aramis lo seguitava a mezza lunghezza del cavallo.



LXXXII.

_Combattimento di Charenton._


A misura che Athos ed Aramis si avanzavano, e con ciò oltrepassavano
i diversi corpi schierati sulla strada, vedevano usberghi forbiti e
risplendenti succedere alle armi rugginose, e moschetti ben lucidi alle
variopinte partigiane.

«Mi pare che sia qui il vero campo di battaglia; disse Aramis, vedete
quel corpo di cavalleria che sta davanti al ponte con le pistole in
pugno? Ehi, badate! ecco che arrivano i cannoni.

«Ma, mio caro, rispose Athos, dove ci avete condotti? mi sembra di
vedere intorno a noi figure di uffiziali dell’armata reale. Non è il
signor di Chatillon in persona quello che viene innanzi co’ suoi due
brigadieri?»

Così parlando, mise mano alla spada, mentre l’amico, credendo infatti
di avere oltrepassati i limiti del campo parigino, dava di piglio alla
sacchetta delle pistole.

«Buon giorno, signori, disse il duca avvicinatosi, mi accorgo che nulla
intendete di quanto succede, ma in due parole io ve lo spiegherò. Per
il momento siamo in tregua, v’è conferenza; il signor Principe, il
signor di Retz, il signor di Beaufort e il signor di Bouillon, stanno
attualmente conversando di politica. Ora dunque, una delle due: o
le faccende non si aggiusteranno, e noi, cavaliere, ci ritroveremo:
o si aggiustano, e siccome io sarò disbrigato dal mio comando, ci
ritroveremo anche allora.

«Signor mio, rispose Aramis, voi discorrete a meraviglia. Sicchè,
permettetemi di farvi una domanda.

«Fate pure.

«Dove sono i plenipotenziarj?

«A Charenton stesso, nella seconda casa a man dritta venendo dalla
parte di Parigi.

«E la conferenza non era preveduta?

«No: par che sia il resultato di nuove proposte fatte jer sera dal
signor di Mazzarino ai Parigini».

Athos ed Aramis si guardarono ridendo: sapevano meglio di chiunque
quali fossero quelle proposte, a chi erano state avanzate, e da chi.

«E la casa dove sono i plenipotenziarj, chiese Athos, appartiene?...

«Al signor di Chanleu, che comanda le vostre truppe a Charenton. Dico
vostre truppe, perchè mi figuro che voi, signori, siate della _Fronda_.

«Eh! all’incirca, disse Aramis.

«Come, all’incirca?

«Eh! voi lo sapete meglio di chicchessia: in questo tempo non si può
dire precisamente che cosa uno è.

«Noi siamo per il re e pei signori principi, conchiuse Athos.

«Bisogna però che c’intendiamo: soggiunse Chatillon, il re è con noi,
ed ha per generalissimi i signori d’Orleans e di Condé.

«Sì, replicò Athos, ma il suo posto è nelle nostre file con i signori
di Conti, di Beaufort, d’Elboeuf e di Bouillon.

«Può darsi, ribattè Chatillon, ed è noto che per conto mio ho
pochissima simpatia pel signor di Mazzarino: anzi i miei interessi sono
in Parigi: ho colà una lite da cui dipende tutta la mia fortuna, e come
mi vedete esco da consultare il mio avvocato.

«A Parigi?

«No, a Charenton: messer Viole, che voi conoscete di nome; un uomo
eccellente, un po’ ostinato, ma non è mica del Parlamento per nulla.
Avevo idea d’incontrarlo jeri sera, ed il nostro incontro m’impedì
di occuparmi de’ miei affari, e siccome gli affari in sostanza vanno
fatti, ho profittato della tregua, ed ecco in che modo mi trovo in
mezzo a voi altri.

«Dunque messer Viole dà udienza e pareri all’aria aperta? fece ridendo
Aramis.

«Signor sì, ed anche a cavallo. Per oggi comanda cinquecento
pistolieri, ed io per onorarlo gli ho fatto visita accompagnato da
questi due pezzi di cannone, alla testa dei quali mi siete sembrati
tanto attoniti di vedermi. Sul principio, lo confesso, non lo
ravvisavo; ha una lunga spada sulla toga e le pistole alla cintola, il
che gli dà un’aria formidabile, che vi divertirebbe se aveste la sorte
d’incontrarlo.

«Se è tanto curioso di aspetto, si può prendersi l’incomodo di cercarlo
espressamente, disse Aramis.

«Converrebbe che vi sollecitaste, perchè le conferenze non possono
durar più molto.

«E se si sciolgono senza alcun resultato, domandò Athos, tenterete di
prendere Charenton?

«Tale è l’ordine che ho ricevuto; ho il comando delle truppe di
attacco, e farò meglio che possa onde riuscire.

«Signore, seguitò Athos, poichè comandate la cavalleria....

«Con licenza, la comando in capo.

«Anco meglio! dovete conoscere tutti i vostri uffiziali; intendo già
quelli di distinzione.

«Eh sì, a un di presso.

«Abbiate allora la bontà di dirmi se avete sotto i vostri ordini il
signor cavaliere d’Artagnan, tenente nei moschettieri.

«Signor no, non è con noi; da sei settimane ha abbandonato Parigi, e
dicesi che sia per una missione in Inghilterra.

«Lo sapevo, ma lo credevo tornato.

«No, e non so che alcuno lo abbia riveduto. Io posso tanto più
rispondervi su questo proposito in quanto che i moschettieri sono dei
nostri, ed il signor di Cambon tiene provvisoriamente il posto del
signor d’Artagnan».

I due amici si guardarono.

«Vedete? disse Athos.

«È singolare! fece Aramis.

«Bisogna che sia loro accaduta qualche disgrazia per viaggio!

«Oggi ne abbiamo 9 del mese, e questa sera spira il termine fissato. Se
stassera non ne abbiamo notizie, domattina partiremo».

Athos fe’ con la testa un cenno affermativo, e indi continuò:

«E il signor di Bragelonne, un giovinetto di quindici anni, addetto
al signor Principe... (e provava il massimo imbarazzo dimostrando così
allo scettico Aramis le sue paterne inquietezze).... ha egli l’onore di
esservi noto, signor duca?

«Sicuramente, replicò Chatillon, ci è giunto questa mane col signor
Principe. Amabilissimo giovane! È vostro amico, signor conte?

«Sì signore, rispose Athos dolcemente commosso, a tal segno che avrei
desiderio di vederlo. Sarebbe ciò possibile?

«Possibilissimo: favorite meco, e vi guiderò al quartier generale.

«Olà! gridò volgendosi Aramis, dietro di noi è grande strepito, se non
isbaglio.

«Realmente ci viene incontro un corpo di uomini a cavallo.

«Riconosco il Coadjutore dal suo cappello a uso _Fronda_.

«Ed io il signor di Beaufort dalle penne bianche.

«Corrono di galoppo. È con loro il signor Principe.... Oh! ecco che li
lascia.

«È battuta la chiamata! esclamò Chatillon, la sentite? bisogna
informarci».

Veramente si scorgevano i soldati correre alle armi, i cavalieri
ch’erano in piedi saltar di nuovo in sella, suonavano le trombe,
battevano i tamburi. Il signor di Beaufort cavò fuori la spada.

Il signor Principe dal canto suo fece un segno di riunione, e tutti gli
ufficiali dell’esercito reale mescolatisi momentaneamente alle truppe
parigine corsero verso di lui.

«Signori, disse Chatillon, è evidente ch’è rotta la tregua; è per
cominciare la battaglia; dunque rientrate in Charenton, perchè io tra
poco darò l’attacco. Ecco il segnale che mi dà il signor Principe».

Diffatti un alfiero alzava in aria per tre volte la bandiera del
principe.

«A rivederci, signor cavaliere! gridò Chatillon».

E si partì di galoppo a raggiungere la sua scorta.

Athos ed Aramis voltarono la briglia e si fecero a riverire il
Coadjutore e il signor di Beaufort. In quanto a di Bouillon, esso aveva
avuto verso la fine della conferenza un attacco di podagra sì terribile
che fu riportato a Parigi in una lettiga.

Al contrario, il duca d’Elboeuf circondato dai suoi quattro figli come
da uno stato maggiore, percorreva le file dell’armata parigina.

In quel frattempo, fra Charenton e l’esercito reale si formava un lungo
spazio bianco che sembrava si preparasse a servire di ultimo letto ai
cadaveri.

«Quel Mazzarino è una vera vergogna per la Francia! disse il Coadjutore
stringendosi il cinturino della spada, che portava alla moda degli
antichi prelati militari sulla zimarra arcivescovile, è un gaglioffo
che vorrebbe governare la Francia come una fattoria; e perciò la
Francia non può sperare tranquillità se non quando egli ne sia uscito.

«Pare che non sieno andati d’accordo sul colore dal cappello, borbottò
Aramis».

Nel momento il signor di Beaufort alzò in aria la spada.

«Signori, ei disse; abbiamo messa in moto una diplomazia inutile;
volevamo sbarazzarci di quel gaglioffo di Mazzarino, ma la regina che
n’è incapriccita intende assolutamente conservarselo per ministro:
talchè non ci resta più che una risorsa, cioè di batterlo in modo
congruo e adattato.

«Bene! fece il Coadjutore, ecco la solita eloquenza del signor di
Beaufort!

«Fortunatamente, soggiunse Aramis, corregge gli errori di lingua ed i
pleonasmi con la punta della spada.

«Uhm! replicò il Coadjutore con disprezzo, vi giuro che in tutta questa
guerra è molto meschino».

E sguainò anch’esso il ferro, dicendo:

«Signori, ecco il nemico che ci viene incontro; spero gli risparmieremo
mezza strada».

E si partì senza curarsi di essere o no seguitato. Il suo reggimento,
che portava il nome di reggimento di Corinto, dal nome del suo
arcivescovado, si mosse dietro di lui, e incominciò la zuffa.

Di Beaufort dal canto suo lanciava la sua cavalleria sotto la direzione
del signor di Noirmoutiers, inverso Estampes, ove doveva trovare
un convoglio di vettovaglie aspettato con ansietà dai Parigini. Di
Beaufort si accingeva a sostenerlo.

Di Chanleu che comandava la piazza se ne stava col più forte delle sue
truppe, pronto a resistere all’assalto, ed anche in caso che il nemico
fosse respinto, a tentare una sortita.

A capo a mezz’ora era principiato il combattimento su tutti i punti.

Il Coadjutore, inasprito dalla fama di coraggioso di che godeva di
Beaufort, si era scagliato innanzi e faceva in persona prodigi di
valore. La sua vocazione, conforme sappiamo, era per la spada, ed
egli andava contento ogni qual volta poteva trarla dal fodero, senza
badare al perchè. Ma in quella circostanza, se aveva adempiuto bene al
suo mestiere di soldato, aveva fatto malamente quello di colonnello.
Con sette o otto cento uomini era ito ad urtarne tremila, i quali
poi messi tutti in un mucchio riconducevano indietro i soldati del
Coadjutore che giunsero alle mura nel massimo scompiglio. Però il fuoco
dell’artiglieria di Chanleu fermò di botto l’armata reale, che per un
istante sembrò avvilita. Ciò per altro fu di poca durata, ed essa andò
a formarsi di nuovo a tergo a un gruppo di case ed a un picciol bosco.

Chanleu stimò giunto il momento; corse alla testa di due reggimenti
per inseguire il regio esercito. Questo, bensì, come accennammo, si era
ricomposto e riedeva alla carica, guidato dal signore di Chatillon. Fu
così aspra e ben diretta la carica, che Chanleu ed i suoi si trovarono
pressochè attorniati. Chanleu ordinò la ritirata, la quale principiò ad
effettuarsi. Per disgrazia egli cadde ferito mortalmente.

Di Chatillon lo vide piombare a terra, ed annunziò ad alta voce quella
morte, che accrebbe il coraggio della regia armata e demoralizzò
appieno i due reggimenti con cui Chanleu aveva fatta la sortita. In
conseguenza ciascuno pensò alla propria salvezza, e più non si occupò
di altro che di arrivare ai trinceramenti appiè dei quali il Coadjutore
tentava di rimettere a sesto il suo reggimento sconquassato.

Ad un tratto uno squadrone di cavalleria venne ad incontrare i
vincitori, ch’entravano confusi e misti coi fuggiaschi nelle trincee.
Athos ed Aramis agirono, quegli col brando nel fodero e la pistola
nelle saccoccie, e questi con la pistola e il brando in pugno. Athos
era quieto e freddo come alla parata, se non che il bello e nobile
suo sguardo si attristava nel vedere uccidersi scambievolmente tanti
uomini sacrificati per un lato dalla regia ostinazione e per l’altro
dal rancore dei principi; Aramis all’opposto ammazzava, e s’inebbriava
poco a poco secondo la sua abitudine; gli occhi vivaci gli diventavano
infuocati; la bocca di un taglio sì delicato sorrideva in modo tetro;
le narici mezzo aperte traevano a sè l’odore del sangue; ogni suo colpo
coglieva a segno, ed il pomo della sua pistola accoppava e rifiniva il
ferito che avesso sperato di rialzarsi.

Dall’altra parte, e nelle file dell’esercito reale, due cavalieri, uno
con l’usbergo dorato, l’altro con una semplice pelle di bufalo da cui
uscivano le maniche di un giustacuore di velluto turchino, tiravano nel
primo rango. Colui dall’usbergo indorato venne ad urtare Aramis e gli
diè una stoccata, che da questo fu parata con la sua ordinaria abilità.

«Ah! siete voi, signor di Chatillon! fece il sopraggiunto; siate ben
venuto, vi attendevo.

«Spero non avervi fatto aspettare di troppo, rispose il duca; in tutti
i casi, eccomi qua.

«Signor di Chatillon, disse Aramis cavando fuori una seconda pistola
riserbatasi per quella occasione, credo che se la vostra arme è
scarica, siete bell’e morto.

«Grazie a Dio, non è così!»

E il dura levata in su l’arme, l’assegnò e fece fuoco. Però Aramis
abbassò la testa nell’atto in cui vide Chatillon pigiare il dito sui
grilletto, e la palla gli passò di sopra senza toccarlo.

«Oh! avete fallito! gridò Aramis, ma io giuro a Dio di non fallire.

«Se vi do tempo! urlò il signor di Chatillon dando di sprone e
balzandogli addosso, alto il ferro».

Aramis lo attendeva con quel sorriso terribile che di lui era proprio
in simili occasioni; e Athos che mirava il duca avanzarsi verso
d’Herblay con la prontezza del lampo apriva bocca onde strillare:
«Tirate! tirate!» quando partì la botta, e Chatillon slargate le
braccia, si gittò supino sulla groppa del cavallo.

Gli era entrata la palla nel petto dallo scavo della corazza.

«Sono morto! balbettò il duca».

E sdrucciolò di sul cavallo al suolo.

«Signore, ve lo avevo detto, e ora mi duole di aver tanto bene
mantenuta la mia parola. Posso esservi utile in qualche cosa?»

Chatillon fe’ un gesto con la mano, ed Aramis si apprestava a smontare,
ma ad un tratto ricevè un colpo fortissimo in un fianco.

Era una stoccata; l’usbergo però bastò a pararla.

Egli si volse con impeto, afferrò col pugno quel nuovo antagonista...
ed ecco due grida mandate in un momento medesimo, uno da lui, uno da
Athos:

«Raolo!

«Raolo!»

Il giovinetto riconobbe ad un tempo e il volto del cavaliere d’Herblay
e la voce di suo padre, e lasciò andarsi il ferro di mano.

Parecchi cavalieri dell’armata parigina si slanciavano sopra Raolo:
Aramis lo coperse col suo brando.

«Prigioniero mio! esclamò, passate al largo!»

Athos frattanto prendeva per la briglia il palafreno di suo figlio e lo
traeva fuor della mischia.

In quell’atto, il signor Principe, il quale sosteneva Chatillon in
seconda linea, comparve in mezzo alla zuffa: fu visto a folgoreggiare
il suo occhio da aquila, fu riconosciuto dalle botte che dava.

Al suo aspetto, il reggimento dell’arcivescovo di Corinto, cui il
Coadjutore per quanti sforzi tentasse non era valso a riordinare, si
scagliò fra le truppe parigine, atterrò tutto, e rientrò fuggendo in
Charenton, e lo percorse per intero senza mai fermarsi. Il Coadjutore
da quello trascinato ripassò presso al gruppo formato da Athos, Aramis
e Raolo.

«Ah ah! disse Aramis, che nella sua gelosia non poteva a meno di
rallegrarsi dello scacco provato dal Coadjutore, monsignore, voi dovete
conoscere quel che si legge....

«E che ha da fare quel che si legge.... con quel che ora mi avviene?

«Che oggi il signor Principe vi tratta molto bene, per quanto veggo.

«Animo, animo! fece Athos, ma non bisogna aspettar qua le cerimonie.
Avanti! avanti!.... o piuttosto indietro! giacchè la battaglia mi pare
perduta per quei della _Fronda_.

«Poco m’importa! rispose Aramis, io non ero venuto se non per
incontrare il signor di Chatillon; l’ho trovato, e sono contento. Un
duello con un Chatillon! è cosa che fa onore!

«E di più un prigioniero! soggiunse Athos additando Raolo».

E i tre a cavallo seguitarono il viaggio di galoppo.

Il giovanetto aveva palpitato di gioja ritrovando suo padre. Andavano
l’uno accanto dell’altro, con la mano sinistra di Raolo nella destra di
Athos.

Allorchè furono lontani dal campo di battaglia, il conte di la Fère
domandò al garzoncello:

«Che andavate a fare, mio caro, tanto innanzi nella mischia? Non era
quello il vostro posto, mi sembra, non essendo armato di meglio per il
combattimento.

«E realmente non dovevo battermi in quest’oggi. Ero incaricato di una
missione per il ministro, e partivo per Rueil, quando vedendo il signor
di Chatillon che caricava, mi è venuto voglia d’imitarlo ponendomi
al di lui fianco. Allora ei mi disse che due cavalieri dell’armata
parigina mi cercavano, e mi nominò il conte di la Fère.

«Come! sapevate che eravamo qua, e vi disponevate ad uccidere il vostro
amico, il cavaliere?

«Non lo avevo ravvisato sotto l’armatura, replicò Raolo ed arrossiva, e
sì, avrei dovuto riconoscerlo dalla sua destrezza e dal sangue freddo.

«Grazie del complimento, mio giovane amico, disse Aramis, e ben si
distingue da chi riceveste lezione di cortesia.... Ma dicevate che
andate a Rueil?

«Sì.

«Dal ministro?

«Certo: ho un dispaccio del signor Principe per Sua Eccellenza.

«Bisogna portarlo, fece Athos.

«Oh! per questo, un momento; non si usino generosità inopportune, conte
mio. Che diamine! la nostra sorte, e forse quella dei nostri amici, sta
riposta in quel dispaccio.

«Ma Raolo non deve mancare all’obbligo suo, obbiettò Athos.

«In primo luogo egli è prigioniero, ve ne scordate? Dunque ciò che noi
facciamo sta nel diritto di buona guerra. E poi i vinti non debbono
essere schizzinosi su la scelta dei mezzi. Date qua il plico, Raolo».

Raolo esitava guardando Athos come per cercare nei di lui occhi una
norma alla sua condotta.

«Date il piego; confermò Athos, voi siete prigioniero del cavaliere
d’Herblay».

Il giovanetto cedè con ripugnanza. Aramis però, meno scrupoloso che
il conte di la Fère, pigliò premurosamente il dispaccio, lo lesse, e
restituendolo ad Athos gli disse:

«Voi che siete buon credente, leggete e vedrete, riflettendovi, in
questa lettera qualche cosa che dalla Provvidenza si giudica importante
di porre a nostra cognizione».

Athos pigliò la lettera inarcando le ciglia; ma l’idea che in essa si
trattasse di d’Artagnan lo ajutò a superare il disgusto che provava a
percorrerla.

Ed ecco quel che v’era scritto:

      «Monsignore.

  «Io manderò questa sera a Vostra Eccellenza, ad oggetto di
  rinforzare le truppe del signor di Comminges, i dieci uomini
  ch’ella mi richiede. Sono buoni soldati, atti a tenere a dovere i
  due fieri avversari di cui Vostra Eccellenza teme l’abilità e la
  risolutezza».

«Oh oh! disse Athos.

«Eh? domando Aramis, che ve ne pare di due avversarj, per custodire i
quali bisognano dieci buoni soldati, oltre la truppa di Comminges? Non
somigliano per l’appunto a d’Artagnan e Porthos?

«Batteremo Parigi tutto il giorno, rispose Athos, e se stassera non
abbiamo notizie, riprenderemo il nostro cammino per la Piccardia, ed
io, mercè l’immaginazione di d’Artagnan, garantisco che non tarderemo a
trovare qualche indicazione da toglierci tutti i nostri dubbi.

«Si ricerchi dunque per tutta Parigi, ed informiamoci specialmente da
Planchet se abbia udito a parlare del suo antico padrone.

«Povero Planchet! dite presto, voi! senza dubbio oramai è trucidato;
saranno usciti tutti quei bellicosi borghesi, e ne sarà stato fatto un
macello».

Essendo ciò assai probabile, fu grande l’inquietezza con la quale i
due amici rientrarono in Parigi dalla porta del tempio, e si diressero
verso la piazza reale, ove speravano aver nuove di quei poveri
borghesi; ma fu anche maggiore il loro stupore quando li ritrovarono
occupati a bere e celiare, essi ed il loro capitano, sempre accampati
in piazza reale, e pianti certamente dalle rispettive famiglie che
udivano lo strepito del cannone di Charenton e li supponevano in mezzo
al fuoco.

Athos ed Aramis domandarono da capo a Planchet; questi però nulla aveva
saputo di d’Artagnan. Volevano condurlo via seco, ed egli dichiarò non
poter lasciare il suo posto senza ordine superiore.

Soltanto alle cinque ore tornarono a casa dicendo che venivano dalla
battaglia; non avevano perduto di vista il cavallo di bronzo di Luigi
XIII.

«Corpo di una bomba! disse Planchet rientrando nella sua bottega
della via dei Lombardi; siamo stati sconfitti addirittura! non me ne
consolerò mai!...»



LXXXIII.

_La strada della Piccardia._


Athos ed Aramis, in piena sicurezza a Parigi, non nascondevano già a sè
stessi che appena mettessero il piede fuori andrebbero esposti ai più
gravi pericoli; ma noi sappiamo che cosa sia la questione del periglio,
per simili soggetti. D’altronde essi sentivano che si avvicinava lo
scioglimento di quella seconda Odissea, e non v’era da darvi, come suol
dirsi, altro che l’ultima mano.

Del rimanente, Parigi non era mica quieto; cominciavano a mancare
i viveri, e secondo che qualcuno dei generali del signor Principe
di Conti aveva d’uopo di riassumere la sua influenza, sollevava una
piccola sommossa, la quale egli stesso indi veniva a calmare, e che per
un momento gli dava la superiorità sui suoi colleghi.

In una di quelle sommosse il signor di Beaufort aveva fatto porre a
sacco la casa e la biblioteca del signor di Mazzarino, onde dare, così
egli diceva, qualche cosa da rosicare al povero popolo.

Athos ed Aramis abbandonarono la capitale dopo quel colpo di Stato, che
aveva avuto luogo alla sera del giorno medesimo in cui i Parigini erano
stati battuti a Charenton.

Ambedue lasciavano Parigi nella miseria, e vicinissimo alla fame, ed
agitato dal timore e straziato dalle fazioni. Parigini e Frondisti si
aspettavano di trovare ugual miseria, pari paure, consimili intrighi,
nel campo nemico. Furono dunque molto sorpresi allorchè nei passare
a San Dionigi seppero che a San Germano tutti ridevano, cantavano e
campavano allegramente.

I due gentiluomini si avviarono per strade indirette, prima di tutto
per non cadere nelle mani dei _Mazzarini_ sparsi nell’isola di Francia,
indi per isfuggire ai _Frondisti_ che ingombravano la Normandia, e che
non avrebbero mancato di condurli dal signor Longueville acciò questi
li riconoscesse come amici o come nemici. Sottratti che si furono a
quei due rischi, ripigliarono la strada di Boulogne ad Abbeville e la
seguitarono passo a passo tutta quanta.

Stettero però un poco indecisi; due o tre locande si erano visitate, ed
altrettanti locandieri interrogati, senza che verun indizio schiarisse
i loro dubbi o guidasse le loro indagini, quando però a Montreuil
Athos sentì sulla tavola qualche cosa di rozzo al tatto delle sue
dita delicate. Alzò la tovaglia e lesse sul legno questi geroglifici
intagliati profondamente con la lama di un coltello:

                      Port... d’Art... 2 febbrajo.

«Ottimamente, disse Athos mostrando l’iscrizione ad Aramis; volevamo
pernottar qui, ma gli è inutile, si vada più oltre».

Montarono a cavallo ed arrivarono ad Abbeville.

Ivi si fermarono assai perplessi a motivo della grande quantità di
alberghi; a tutti non si poteva andare, e come indovinare in quale
fossero stati alloggiati coloro che si cercavano?

«Date retta a me, Athos, suggerì Aramis, non pensiamo a trovar nulla in
Abbeville. Se noi siamo nell’imbarazzo, vi sono stati anche i nostri
amici. Se fosse stato solo Porthos, sarebbe ito ad alloggiare nella
più magnifica locanda, e noi facendocela indicare saremmo sicuri di
rinvenire le traccie del suo passaggio; ma d’Artagnan non ha tali
debolezze: invano Porthos gli avrà fatto osservare che moriva di fame,
egli avrà proseguito il cammino, inesorabile quanto il destino, e noi
dobbiamo ricercarlo altrove».

Continuarono adunque il viaggio, ma nulla si presentò; era impresa
delle più ardue, e specialmente fastidiosa, quella assuntasi da Athos
ed Aramis, e senza il triplice movente dell’onore, dell’amicizia e
della riconoscenza, fisso nell’animo loro, essi avrebbero rinunziato
mille volte a frugare tra l’arena, a interrogare i viandanti, a
commentare i segni, ad osservare i volti.

Andarono così fino a Peronne.

Athos principiava a disperare. Quest’uomo nobile e interessante, faceva
a sè rimprovero dell’oscurità in che si trovavano egli ed Aramis: o
non avevano cercato bene, o non avevano usata insistenza abbastanza
nel domandare, o sufficiente accortezza nello investigare. Erano
pronti a tornarsene indietro; ed ecco che traversando il sobborgo
che guidava alle porte della città, sopra un muro bianco, formante
l’angolo di una strada che girava attorno al bastione, venne fatto ad
Athos di adocchiare un disegno eseguito con la pietra nera, il quale
rappresentava con la semplicità delle prime prove di un fanciulletto
che adopri la matita, due cavalieri correndo come frenetici, ed uno di
questi tenendo in mano un cartellone ove era scritto in ispagnuolo:

                           _Siamo seguitati._

«Oh oh! disse Athos, questa è chiara: d’Artagnan, quantunque inseguito,
si sarà fermato qua cinque minuti; d’altronde ciò prova che non era
inseguito molto da vicino, e forse gli sarà riuscito di fuggire».

Aramis tentennava il capo:

«Se fosse fuggito, lo avremmo riveduto, o almeno inteso discorrere di
lui.

«Avete ragione, replicò Athos, continuiamo».

Sarebbe impossibile esprimere l’inquietudine e l’impazienza dei due
gentiluomini: l’inquietudine era pel cuore tenero ed amichevole di
Athos, l’impazienza per la mente facile a sconcertarsi di Aramis.
Sicchè entrambi galopparono per tre o quattro ore, tanto da frenetici
quanto i due cavalieri dipinti sul muro. Ad un tratto, in una gola
ristretta fra la scarpa di due muraglie, videro la strada mezzo chiusa
da una pietra enorme; era accennato di questa il posto primitivo
sur un lato della scarpa, e il vuoto che vi aveva lasciato mediante
l’estrazione, provava che non poteva esser caduta di per sè sola,
mentre il suo peso dimostrava che a farla muovere era abbisognato il
braccio di un Encelado o di un Briareo.

Aramis si ristette a guardare la pietra.

«Oh! disse, qui v’è dell’Ajace di Telamone o del Porthos. Scendiamo,
conte, e si esamini questo masso».

Andarono tutti e due abbasso. La pietra era stata portata col
chiarissimo scopo di chiudere la strada ai cavalieri; dunque era stata
collocata da prima per traverso; poscia avendo incontrato in essa un
ostacolo, erano smontati e l’avevano tolta dal posto.

I due amici esaminarono il sasso da tutti i lati esposti alla luce;
esso non offeriva niente di straordinario. Chiamarono Blaisois e
Grimaud, e tutti e quattro insieme pervennero a rivoltare il masso: sul
lato che toccava a terra era scritto:

  «C’inseguono otto cavalleggieri. Se arriviamo sino a Compiegne, ci
  tratterremo al _Pavone coronato_; l’oste è amico nostro».

«Ecco qualcosa di positivo, disse Athos, ed in un caso o nell’altro
sapremo come regolarci; andiamo al _Pavone_.

«Sì, ribattè Aramis, ma se vogliamo giungere sin là, diamo un po’ di
riposo ai nostri cavalli; in verità, sono quasi attrappati».

Ed Aramis non diceva mica bugia. Si fermarono alla prima frasca; fecero
inghiottire ad ogni palafreno doppia dose di avena bagnata nel vino;
dettero a questi tre ore di quiete, e si avviarono da capo. Anche gli
uomini erano oppressi da stanchezza, ma li reggeva la speranza.

Sei ore dopo, Athos ed Aramis entravano in Compiegne, e ricercavano del
_Pavone Coronato_. Fu loro additata un’insegna che rappresentava il dio
Pane con una corona in testa[15].

I due gentiluomini scesero di sella, senza punto por mente alla
pretensione letteraria della mostra, che in tutt’altro tempo Aramis
avrebbe criticata rigorosamente. Trovarono un locandiere bonaccio,
calvo e panciuto come un idolo chinese, a cui domandarono se avesse
dato alloggio per più o meno spazio di tempo a due gentiluomini
inseguiti dai cavalleggieri. L’oste, senza rispondere, andò a pigliare
da un baule una mezza lama di draghinassa, e disse:

«Conoscete questa roba?»

Athos non fece altro che dare un’occhiata alla lama.

E disse:

«È la spada di d’Artagnan.

«Del grande o del piccolo? chiese il trattore.

«Del piccolo.

«Ora vedo che siete loro amico.

«Ebbene! ad essi ch’è accaduto?

«Che sono entrati nel mio cortile coi cavalli attrappati, e avanti che
avessero tempo di richiudere il portone, sono capitati dopo di loro
otto cavalleggieri che gl’inseguivano.

«Otto! fece Aramis, ma mi maraviglio che d’Artagnan e Porthos, due
prodi di quella fatta, si siano lasciati arrestare da otto uomini.

«Certamente, mio signore, e coloro non vi sarebbero riusciti, se
non avessero raccolto per la città una ventina di soldati del reale
italiano in guarnigione in questa piazza, talmente che i vostri due
amici sono stati, come si può dire alla lettera, oppressi dal numero.

«Arrestati! fece Athos, e si sa egli perchè?

«No signore; sono stati condotti via subito, e non hanno avuto campo a
dirmi nulla; soltanto, quando sono partiti, io ho trovato questo pezzo
di spada sul campo di battaglia nell’ajutare a levar di terra due morti
e cinque o sei feriti.

«E a loro, domandò Aramis, non è avvenuto niente?

«No, non crederei.

«Orsù! è sempre una consolazione, seguitò Aramis.

«E sapete dove siano stati condotti? chiese Athos.

«Dalla parte di Louvres.

«Lasciamo qui Blaisois e Grimaud, propose Athos, torneranno domani
a Parigi coi cavalli che oggi ci lascerebbero a mezza via, e noi
prendiamo la posta.

«Prendiamo la posta», approvò Aramis.

Si mandarono a cercare i cavalli. In quel frattempo i due amici
pranzarono in fretta; volevano, qualora rinvenissero a Louvres qualche
schiarimento, poter continuare il loro viaggio.

Giunsero a Louvres. Non v’era un albergo. Vi si beveva un liquore che
ha conservato anche ai nostri giorni la sua riputazione, e che già vi
si faceva in quell’epoca.

«Smontiamo qui, disse Athos, d’Artagnan non avrà perduta questa
occasione, non di bere un bicchierino, ma di prepararci qualche
indizio».

Entrarono in una bottega e chiesero due bicchierini di rosolio, sul
banco, ritti, come dovevano aver fatto d’Artagnan e Porthos. Il banco
era coperto da una piastra di stagno. Su questa era scritto con la
punta di un grosso spillo:

                               Rueil, D.

«Sono a Rueil! esclamò Aramis, vista ch’ebbe l’iscrizione.

«Andiamoci! disse Athos.

«È quanto correre in bocca al lupo.

«Se fossi stato amico di Giona, come lo sono di d’Artagnan, rispose
Athos, sarei ito con lui anco nel ventre della balena; e voi, Aramis,
fareste lo stesso.

«In coscienza, caro conte, credo che mi supponiate migliore di quel
ch’io sono. Se fossi solo, non so se andrei così a Rueil senza grandi
precauzioni; ma con voi ci vado».

Ed ambedue partirono insieme.

Athos, senza immaginarselo, aveva dato ad Aramis il miglior consiglio
possibile. I deputati del Parlamento erano appena giunti a Rueil per
le famose conferenze che dovevano durare tre settimane e portare
a quella pace zoppa, in seguito della quale il signor Principe fu
arrestato. Rueil trovavasi piena per parte de’ Parigini, di avvocati,
presidenti, consiglieri, togati d’ogni sorta; e per parte della
corte, di gentiluomini, uffiziali e guardie: quindi era facile fra
tanta confusione restare incogniti quanto si bramasse. D’altronde le
conferenze avevano recata una tregua, ed arrestare in quel momento due
gentiluomini, ancorchè addetti alla _Fronda_, era portare offesa al
diritto delle genti.

I due amici credevano che tutti fossero occupati dal pensiero che
tormentava loro. Si mischiarono fra le comitive ed i capannelli, nella
speranza di sentir dire qualche cosa di d’Artagnan e di Porthos, ma
ciascuno discorreva soltanto di articoli e _ammendamenti_.

Athos opinava di andare direttamente dal ministro.

«Mio caro, obbiettò Aramis, voi dite benissimo, ma badate! la nostra
sicurezza proviene dalla nostra oscurità. Se ci facciamo conoscere in
un modo o nell’altro, andremo immediatamente a raggiungere i nostri
amici in qualche carbonaja, d’onde non ci caverà nè anche il diavolo.
Procuriamo di non ritrovarli per combinazione, ma bensì a volontà
nostra. Arrestati a Compiegne, sono stati condotti a Rueil, conforme
ce ne siamo accertati a Louvres; condotti a Rueil sono stati esaminati
dal ministro, che dopo l’interrogatorio li ha ritenuti presso di sè
o mandati a San Germano. Alla Bastiglia essi non sono positivamente,
poichè la Bastiglia è dei _frondisti_, e vi comanda il figlio di
Broussel; non sono morti, perchè la morte di d’Artagnan farebbe
strepito. Porthos, io lo credo eterno. Non disperiamo, aspettiamo e
rimaniamo a Rueil, mentre io sono convinto che vi siano. Ma che avete,
impallidite?

«Ho, rispose Athos, e gli tremava la voce, che mi ricordo che nel
castello di Rueil il signor Richelieu aveva fatto fabbricare una famosa
prigione perpetua!...

«Ah! state quieto, disse Aramis, il signor di Richelieu era un
gentiluomo uguale a tutti noi per nascita e superiore per situazione;
poteva, come un re, toccare i più grandi di noi sulla testa, e
toccandoci farci vacillare la testa sulle spalle. Ma il signor di
Mazzarino è un birbante, che può tutto al più pigliarci per il collo
alla guisa di un birro. State tranquillo, amico mio; io insisto a
sostenere che d’Artagnan e Porthos sono a Rueil vivi vivissimi.

«Non serve! replicò Athos, ci sarebbe necessario ottenere dal
Coadjutore di prender parte alle conferenze, e così entreremmo in
Rueil.

«Con tutti quei brutti togati! Vi pare, mio caro? e vi pensate che
vi si discuta nemmeno su la libertà o la prigionia di d’Artagnan e
Porthos? No, io sono di sentimento che cerchiamo qualche altro mezzo.

«Ebbene! riprese Athos, io ritorno al mio primo pensiero; non conosco
miglior mezzo che operare franco e lealmente. Andrò a trovare, non
Mazzarino, ma la regina, e le dirò: Signora, restituiteci i vostri due
servi, nostri amici!»

Aramis scosse il capo e rispose:

«È l’ultima risorsa, di cui sarete sempre in facoltà di far uso;
ma date retta a me; non ve ne prevalete se non agli estremi; sarà
sempre tempo di ridurci a quel punto. Intanto si proseguano le nostre
indagini».

E le continuarono e pigliarono tante informazioni, e con mille
ingegnosi pretesti fecero parlare tante persone, che terminarono col
trovare uno dei cavalleggieri, il quale confessò loro essere stato
della scorta che aveva condotti d’Artagnan e Porthos da Compiegne
a Rueil. Senza i cavalleggieri neppure si sarebbe saputo ch’erano
entrati.

Athos tornava in sempiterno alla sua idea di vedere la regina.

«Per veder la regina, diceva Aramis, bisogna vedere il ministro, ed
appena avrem veduto il ministro, ricordatevi di quel che vi dico,
saremo riuniti ai nostri amici, ma non nel modo che intendiamo noi. E
quel modo, ve lo dichiaro, mi va poco a genio. Si operi in libertà per
operare bene e presto.

«Voglio parlare alla regina, ripetè Athos.

«Ebbene! se siete deciso a far questa pazzia, avvertitemi un giorno
innanzi, ve ne prego.

«E perchè?

«Perchè profitterò della circostanza per andare a fare una visita a
Parigi.

«A chi?

«E che so io? forse anche a madama di Longueville. Essa è colà
onnipotente e mi ajuterà. Soltanto fatemi avvisare da qualcuno se siete
arrestato, in tal caso io mi rigirerò alla meglio.

«Perchè non vi arrischiate meco all’arresto, Aramis?

«No, grazie!

«Arrestati in quattro e riuniti, credo che nulla più avventuriamo. A
capo a ventiquattro ore siamo tutti fuori.

«Mio caro, dacchè ho ucciso Chatillon, l’idolo delle dame di S.
Germano, ho troppo splendore attorno per non temere doppiamente la
prigione. La regina sarebbe capace di seguitare i consigli di Mazzarino
in quest’occasione, ed il consiglio ch’ei le darebbe sarebbe di
mettermi sotto processo.

«Ma vi pensate, Aramis, ch’ella ami quell’italiano a tal segno come
tutti dicono?

«Amava pure un inglese!

«Eh amico mio! è donna!

«No, Athos, è regina!

«Basta! io mi sacrifico, e vo a chiedere udienza ad Anna.

«Addio, Athos, io vado a mettere su una armata.

«Per che fare?

«Per ritornare ad assediar Rueil.

«Dove ci ritroveremo?

«Appiè della forca del ministro».

I due amici si separarono, Aramis per trasferirsi di nuovo a Parigi,
Athos per aprirsi mediante qualche tentativo preparatorio la via sino
presso alla regina.



LXXXIV.

_La riconoscenza della regina Anna._


Athos incontrò minor difficoltà che non si credesse a penetrare presso
ad Anna; anzi, al primo passo tentato tutto riuscì semplicissimo,
e l’udienza che bramava gli fu accordata per l’indomani dopo il
ricevimento della mattina a cui gli dava diritto di assistere la sua
nascita.

Riempieva gli appartamenti di San Germano grandissima moltitudine: Anna
non aveva mai avuto al Louvre, o al Palazzo Reale, un maggior numero
di cortigiani. Soltanto erasi fatto un movimento tra quella folla che
apparteneva alla nobiltà secondaria, mentre tutti i primi gentiluomini
di Francia stavano attorno al signor di Conti, al signor di Beaufort ed
al Coadjutore.

Del resto regnava un gran brio in quella corte. Il carattere
particolare di quella guerra si fu che v’ebbero più strofette composte
che cannonate tirate. La corte metteva in canzone i Parigini, i quali
mettevano lei pure in canzone, e le ferite, sebbene non mortali, erano
assai dolorose, fatte come erano con l’arme del ridicolo.

Però, in mezzo alla generale ilarità ed alla frivolezza apparente,
tra tutti quei pensieri esisteva una seria preoccupazione. Mazzarino
rimarrebbe poi ministro o favorito, oppure Mazzarino venuto dal
mezzogiorno come un nuvolo, se ne andrebbe trasportato dal vento che
portato lo aveva? Ognuno lo sperava, ognuno lo desiderava, talmente
che il ministro sentiva che tutti gli omaggi, tutte le lusinghe
cortigianesche ricoprivano una gran dose di odio mal celata sotto il
timore e l’interesse; ei si trovava imbarazzato, senza sapere su chi
far conto nè su chi appoggiarsi.

Il signor Principe stesso che combatteva per lui non si lasciava
mai fuggire un’occasione o di schernirlo o di umiliarlo; ed avendo
voluto Mazzarino per due o tre volte davanti al vincitore di Rocroy
esternare qualche sua volontà imperiosa, questi lo aveva guardato in
maniera da dargli a comprendere che se lo difendeva ciò non era già per
convinzione nè per entusiasmo.

Allora il ministro si rivolgeva verso la regina, unico suo sostegno; ma
due o tre volte gli era sembrato sentirsi vacillare quel sostegno sotto
la mano.

Arrivata l’ora dell’udienza fu annunziato al conte di la Fère che
questa avrebbe luogo, ma gli conveniva attendere alquanto, avendo la
sovrana da tener consiglio col ministro.

E ciò era vero. Parigi aveva mandata appunto una nuova deputazione, la
quale doveva procurare di dar finalmente un certo giro agli affari,
ed Anna si consultava con Mazzarino sulla accoglienza da farsi ai
deputati.

Grande occupazione di mente avevano tutti gli alti personaggi dello
Stato. Athos non poteva quindi scegliere peggior momento per parlare
de’ suoi amici, poveri atomi perduti in quel turbine scatenatosi.

Athos però era un uomo inflessibile, che non si ritraeva da una
decisione presa allorchè questa gli pareva emanata dalla sua coscienza
e dettata dal suo dovere. Insistè onde essere introdotto, dicendo
che quantunque non fosse deputato, nè di Conti, nè di Beaufort, nè
di Bouillon, nè di d’Elboeuf, nè del Coadjutore, nè di madama di
Longueville, nè del signor Broussel, nè del Parlamento, e venisse per
suo proprio conto, aveva pur non ostante le cose più importanti da dire
a Sua Maestà.

Finita la conferenza, la regina lo fece chiamare nel suo gabinetto.

Athos fu introdotto e diede il suo nome. Era un nome che troppe volte
aveva risuonato alle orecchie di Sua Maestà, ed anche nel suo cuore,
perchè ella non lo riconoscesse; bensì essa rimase impassibile,
contentandosi di guardare il gentiluomo in quel modo fisso, che non è
lecito se non se alle donne regine o per bellezza o per rango.

«Sicchè vi offrite a renderci un servigio, conte, domandò Anna dopo
breve silenzio.

«Sì signora, un altro servigio», rispose Athos un poco urtato che la
sovrana non mostrasse ricordarsi di lui.

Athos aveva un cuor grande, e quindi era un meschino cortigiano.

La regina inarcò le ciglia. Mazzarino che, seduto davanti a un tavolino
sfogliava alcune carte come avrebbe potuto fare un semplice segretario
di Stato, alzò il capo.

«Parlate», disse Anna.

Mazzarino si rimise a scartabellare i fogli.

«Signora, rispose Athos, due amici nostri, due dei più intrepidi
servi di Vostra Maestà, i signori d’Artagnan e du Vallon, mandati in
Inghilterra dal signor ministro, sono spariti tutto ad un tratto nel
punto in cui ponevano il piede sul suolo di Francia, nè si sa che sia
di loro.

«Ebbene?

«Ebbene; io mi rivolgo alla benevoglienza di Vostra Maestà per sapere
che sia, dei due gentiluomini, riservandomi, ove poi faccia d’uopo, di
ricorrere alla di lei giustizia.

«Signore, disse Anna con quell’alterezza che dirimpetto a certi uomini
diventava impertinenza, e per questo ci disturbate fra i gravi pensieri
che ci agitano? per un affare di polizia! Eh! vi è noto, o noto vi
dev’essere, che non abbiamo più polizia dacchè non siamo più a Parigi.

«Io credo, replicò Athos inchinandosi rispettosamente, che Vostra
Maestà non avrebbe bisogno di informarsi dalla polizia per conoscere
ciò che sia stato di d’Artagnan e du Vallon; e che se si compiacesse
interrogare il signor ministro, esso potrebbe risponderle su tal
proposito senza consultare altro che le proprie rimembranze.

«Ma Dio mi perdoni! disse Anna con quello sdegnoso moto delle labbra
che era a lei particolare, mi pare che interroghiate voi stesso!

«Sì signora, e quasi ne ho diritto, poichè si tratta di d’Artagnan; di
d’Artagnan, m’intendete?»

E ciò proferiva Athos in tal guisa da curvare sotto le ricordanze della
donna la fronte della regina.

Mazzarino capì esser tempo di ajutare la sovrana.

«Signor conte, egli disse, consentirò io a parteciparvi una cosa
ignota a Sua Maestà, cioè quel che fu fatto dei due gentiluomini. Hanno
disobbedito, e sono in arresto.

«Supplico adunque la Maestà Vostra, soggiunse Athos sempre impassibile
e senza replicare a Mazzarino, di sciogliere l’arresto dei signori
d’Artagnan e du Vallon.

«Quel che mi domandate è affare di disciplina, e non si spetta a me,
fece la regina.

«Non rispose mai così d’Artagnan quando si trattò di servire Vostra
Maestà».

E Athos avendo dette queste parole, salutò sostenuto, e mosse due passi
indietro per avvicinarsi alla porta.

Mazzarino lo trattenne.

«Venite anche voi d’Inghilterra, signor mio, gli disse facendo un cenno
ad Anna, la quale impallidiva e si accingeva a dare un ordine rigoroso.

«Ed ho assistito agli ultimi momenti del re Carlo I, ribattè
Athos; povero re! colpevole tutto al più di debolezza, e punito ben
severamente dai suoi sudditi, giacchè ormai sono fiacchi i troni, e
punto non giova ai cuori zelanti il servire agl’interessi dei principi.
Era la seconda volta che d’Artagnan si recava in Inghilterra: la prima
fu per l’onore di una grande regina; l’ultima per la vita di un gran
re.

«Signore, così parlò Anna a Mazzarino con un accento da cui tutta
la sua abitudine a dissimulare non aveva potuto sbandire la vera
espressione; vedete se si potesse far nulla per i due gentiluomini.

«Farò tutto quanto piaccia a Vostra Maestà, rispose il ministro.

«Fate quel che richiede il signor conte di la Fére.... non vi chiamate
così, signore?

«Ho anche un altro nome: mi chiamo Athos.

«Maestà, fece Mazzarino con un sorriso che dimostrava con qual facilità
comprendeva da una mezza parola, potete star quieta, saranno adempiti i
vostri desiderj.

«Avete inteso, signore? disse la regina.

«Sì, e non mi aspettavo di meno dalla giustizia di Vostra Maestà....
Sicchè rivedrò tosto i miei amici, non è vero? è questo quel che
intende Vostra Maestà?

«Li rivedrete, sì.... Ma a proposito, siete della _Fronda_, voi?

«Signora, servo il re.

«Sì, a modo vostro.

«Il mio modo è quello di tutti i veri gentiluomini, ed io non ne
conosco due, proferì Athos alteramente.

«Andate, replicò la sovrana licenziandolo con un gesto; avete ottenuto
ciò che bramavate, e noi sappiamo quel che desideravamo di sapere».

E quando Athos fu partito e calata la portiera, si volse così a
Mazzarino:

«Fate arrestare quell’insolente gentiluomo innanzi ch’esca dal cortile.

«Ci avevo pensato, fece Mazzarino, e mi è grato che Vostra Maestà mi
dia un ordine ch’ero appunto per richiederle. Questi smargiassi che
portano nell’epoca nostra le tradizioni dell’altro regno ci danno sommo
impaccio, e poichè ve ne sono digià due presi, aggiungiamoci il terzo».

Athos non si era lasciato totalmente illudere dalla sovrana. Nella
di lei pronunzia esisteva qualche cosa che gli aveva prodotta molta
impressione, e che gli sembrava minacciasse mentre prometteva. Ma
egli non era uomo da allontanarsi per un mero sospetto, ed in ispecie
quando gli si era detto chiaro che in breve rivedrebbe gli amici. E
perciò attese in una delle stanze attigue al gabinetto dove aveva avuto
udienza che si conducessero a lui d’Artagnan e Porthos, o si venisse a
prenderlo per guidarlo da loro.

In tale aspettativa si era accostato alla finestra, e macchinalmente
guardava nel cortile. Vide entrarvi la deputazione dei Parigini, che
veniva a regolare il luogo definitivo delle conferenze e a riverire la
regina. V’erano consiglieri al Parlamento, presidenti, avvocati, fra i
quali tratto tratto qualche uomo d’arme. Li attendeva fuor dei cancelli
una scorta imponente.

Athos osservava con maggiore attenzione, imperocchè fra mezzo alla
moltitudine gli era sembrato di ravvisare qualcuno; ed eccolo sentirsi
a toccar lieve lieve la spalla.

Si volse e disse:

«Ah, signor di Comminges!

«Sì, signor conte, son io, e incaricato di un’incombenza per la quale
vi prego di accettare le mie scuse.

«E quale?

«Conte, favorite consegnarmi la vostra spada».

Athos sorrise.

Aperse la finestra e gridò:

«Aramis!»

Si girò un gentiluomo; era quello che ad Athos era sembrato di
ravvisare. Salutò il conte amichevolmente.

«Aramis! disse Athos, sono arrestato.

«Bene, rispose con flemma Aramis.

«Signore, seguitò Athos presentando civilmente il suo brando a
Comminges, ecco la mia spada: piacciavi custodirla bene onde rendermela
quando uscirò di prigione. Mi preme assai: fu data dal re Francesco
I al mio avolo. Nel tempo suo si armavano i gentiluomini, non si
disarmavano. Ed ora dove mi guidate?

«Prima di tutto nella mia camera, fece Comminges, dipoi la regina
fisserà il luogo dell’ulteriore vostro domicilio».

Athos andò appresso a Comminges senza aggiungere parola.



LXXXV.

_Regia autorità di Mazzarino._


L’arresto di Athos non aveva fatto strepito, non cagionata pubblicità,
ed anche era restato quasi ignoto. Così non aveva in verun modo
incagliato il corso degli avvenimenti, e la deputazione mandata dalla
città di Parigi fu avvertita solennemente che tosto comparirebbe
davanti alla sovrana.

E la regina la ricevè, tacita e superba al suo solito; ascoltò le
lagnanze e le suppliche dei deputati, ma quando essi ebbero terminati i
loro discorsi, nessuno avrebbe potuto asserire ch’essa li avesse uditi,
tanto si manteneva al sembiante indifferente.

In compenso di ciò, Mazzarino, presente all’udienza, capiva ottimamente
ciò che da loro chiedevasi: ed era la dimissione, il licenziamento di
lui in termini chiari e precisi, puramente e semplicemente.

Ed ultimati i discorsi, e la sovrana mantenendosi mutola, Mazzarino
disse:

«Signori, mi unirò a voi per pregare la regina di porre un termine ai
mali de’ suoi sudditi. Io ho fatto quanto ho potuto onde mitigarli,
eppure è pubblica credenza, secondo voi dite, che quelli provengano
da me, povero straniero a cui non è riuscito di dar nel genio ai
Francesi! Ahimè! non sono stato compreso, ed era naturale: succedevo
all’uomo il più sublime che ancora avesse sostenuto lo scettro dei
re di Francia. Le ricordanze del signor di Richelieu mi annientano.
Invano contrasterei con esse qualora fossi ambizioso; ma tale non
sono e voglio darne una prova. Mi do per vinto; farò ciò che chiede il
popolo. Se i Parigini hanno qualche torto, e chi v’è che non ne abbia?
Parigi è punita abbastanza; è stato sparso sangue assai, miseria assai
opprime una città privata del suo re e della giustizia. Non tocca a me,
semplice particolare, lo assumere tanta importanza da metter divisioni
fra una regina e il suo reame. Poichè esigete ch’io mi ritiri, or bene,
mi ritirerò.

«Allora, disse Aramis all’orecchio al suo vicino, la pace è fatta e le
conferenze sono inutili. Non v’è altro che mandare sotto buona guardia
il signor Mazzarino alla frontiera più lontana, e sorvegliare acciò non
ritorni dentro nè da quella nè da altre.

«Un momento, un momento! fece il togato al quale si era rivolto Aramis.
Capperi! come fate alla lesta! si vede che voi altri siete uomini
d’armi. V’è da mettere in pulito il capitolo delle ricompense e delle
indennizzazioni.

«Signor cancelliere, disse la regina a quello stesso Seguier nostro
vecchio conoscente, voi aprirete le conferenze; queste avranno luogo
a Rueil. Il signor ministro ha dette cose che mi hanno commossa
moltissimo. Ecco perchè non vi rispondo più a lungo. Per quel che sia
di rimanere o partirsi, io ho troppa gratitudine pel ministro per non
lasciarlo su qualunque punto libero della sua volontà. Farà quel che
gli piaccia».

Un momentaneo pallore tinse l’accorta faccia del primo ministro. Egli
guatò inquieto la regina. Ma la di lei faccia era tanto impassibile
ch’ei non poteva meglio degli altri discernervi i sensi che le si
racchiudevano in petto.

«Ma, seguitò Anna, signor di Mazzarino, mentre si attende la decisione,
di grazia non si ragioni che del re».

I deputati, fatto un inchino, se ne andarono.

«E che! disse la sovrana quando tutti si furono tolti dalla stanza,
cedereste a quei togati, a quegli avvocati?

«Per il bene di Vostra Maestà, rispose Mazzarino fissandola in viso
attentissimo, non v’è sacrifizio ch’io non sia pronto ad impormi».

Anna abbassò la testa, e cadde in una di quelle meditazioni che le
erano tanto usuali. Le tornò in mente la ricordanza di Athos. Lo ardito
contegno del gentiluomo, la favella ferma e insieme dignitosa, le larve
che aveva invocate in una sola parola, le riproducevano allo spirito
un passato ricolmo di deliziosa poesia; la giovinezza, la beltà,
la vivacità degli amori di venti anni e i fieri contrasti de’ suoi
sostegni, e la sanguinosa fine di Buckingham, l’unico uomo che mai ella
avesse realmente amato, e l’eroismo degli oscuri suoi difensori che
salvata l’avevano dal duplice odio di Richelieu e del re.

Mazzarino la guardava, ed ormai ch’ella si credeva sola e non aveva
più una folla di nemici intenta ad osservarla, ei seguitava ogni suo
pensamento sul suo volto, siccome veggonsi nei laghi trasparenti a
passare i nuvoli, riflessi del cielo ugualmente che i pensieri.

«Sicchè, borbottava Anna, bisognerebbe cedere alla procella, comprar la
pace, ed attendere con pazienza e religiosamente migliori tempi?»

Mazzarino sorrise amaramente a questa frase, che annunziava aver ella
presa sul serio la proposta del ministro.

Anna teneva china la testa e non vide il sorriso; però dacchè non si
dava replica alla sua domanda, alzò la fronte e soggiunse:

«Ebbene, non mi rispondete; che idea è la vostra?

«La mia idea, signora, si è che l’insolente gentiluomo che abbiam
fatto arrestare da Comminges alludeva a Buckingham, cui lasciaste
assassinare, alla Chevreuse cui lasciaste esiliare, a Beaufort cui
faceste imprigionare; ma se alludeva a me, è perchè non sa ciò ch’io
sono per voi».

Anna si scosse conforme soleva ogni qualvolta alcuno la batteva nel suo
orgoglio; arrossì, e per non rispondere, si cacciò le unghie appuntate
nelle bellissime mani.

«È uomo di buon consiglio, d’onore e di spirito, senza contare ch’è
anche risoluto. Maestà, voi lo sapete, non è così? Io dunque voglio
dirgli, e in ciò gli fo particolarmente una grazia, in qual punto
l’abbia sbagliata a riguardo mio: ed è che veramente quella che mi vien
proposta è quasi un’abdicazione, ed un’abdicazione merita che vi si
rifletta.

«Abdicazione! disse la regina, io mi credeva, signor mio, che i re
soltanto abdicassero.

«Ebbene! e non son io quasi re, e re di Francia? Vi assicuro, signora,
che di notte la mia zimarra da ministro appiè di un regio letto
somiglia molto al manto di un re».

Era questa una di quelle umiliazioni che Mazzarino faceva subire ad
Anna assai sovente, ed alle quali essa curvava il capo. Non vi furono
altre che Elisabetta e Caterina II, che restassero ad un tempo amanti e
regine pei loro amatori.

Anna adunque considerò con una specie di terrore la fisonomia
minacciosa del ministro, che in tai momenti non era mancante di una
certa grandiosità.

«Signore, ella replicò, non dissi io, e voi non udiste che io diceva a
coloro, che voi fareste ciò che vi piacerebbe?

«In questo caso, mi pare che deve piacermi di restare: in ciò v’ha non
solo il vostro interesse, ma oso asserire anche la vostra salvezza.

«Dunque restate, io non bramo altro; allora però, non mi lasciate
insultare.

«Volete parlare delle pretensioni dei rivoltosi e del tuono con cui le
esprimono? pazienza! Hanno scelto un terreno sul quale io sono generale
più abile di loro, quello delle conferenze. Basterà a noi temporeggiare
per vincerli. Hanno digià fame, e peggio sarà fra otto giorni.

«Eh mio Dio, lo so bene che finiremo così; ma non si tratta unicamente
di loro; non sono essi che mi dirigono le ingiurie per me più
offensive.

»Ah! vi capisco; voi intendete accennare alle reminiscenze che vanno
eternamente richiamando quei tre o quattro gentiluomini. Noi per altro
li abbiamo prigionieri, e sono per l’appunto abbastanza rei perchè li
lasciamo detenuti quanto tempo ci convenga. Uno solo è ancora fuori del
nostro potere, e ci schernisce: ma che diavolo! arriveremo ad unirlo
a’ suoi compagni. Mi sembra che abbiamo fatte cose ben più difficili.
Prima di tutto, per precauzione, io ho fatto rinchiudere a Rueil, cioè
vicino a me, sotto a’ miei occhi, a portata della mia mano i due più
intrattabili. Ed oggi subito ve li raggiungerà il terzo.

«Finchè saranno prigionieri, disse Anna, andrà benissimo, ma un giorno
usciranno.

«Sì, qualora la Maestà Vostra li ponga in libertà.

«Ah! continuò Anna rispondendo al proprio pensiero, qui si ha rammarico
di non essere a Parigi!

«E perchè?

«Per la Bastiglia, eh! è tanto forte e segreta.

«Signora, con le conferenze abbiamo la pace, con la pace abbiamo
Parigi, con Parigi abbiamo la Bastiglia! e i quattro gradassi vi
marciranno».

La regina aggrottò alquanto le ciglia, mentre Mazzarino le baciava la
mano per prendere da lei commiato.

Il ministro uscì dopo questo atto mezzo umile e mezzo galante. Anna
lo seguitò cogli occhi, ed a misura ch’egli si allontanava si scorgeva
apparirle sul labbro un sorriso sdegnoso.

«Ho disprezzato, mormorò essa, l’amore di un ministro che non diceva
mai — farò — ma bensì — ho fatto —. Quegli conosceva ricoveri più
sicuri che Rueil, più oscuri e silenziosi ancora che la Bastiglia....
Oh, come degenera il mondo!...»



LXXXVI.

_Precauzioni._


Mazzarino, lasciata ch’ebbe la regina, si avviò a Rueil dov’era la sua
casa. Egli andava accompagnato, in quei tempi di turbolenze, e spesso
pure travestito. In abito da uomo da spada, noi già lo dicemmo, egli
era un bel gentiluomo.

Nel cortile del vecchio castello salì in carrozza, e prese lungo
la Senna a Chatou. Il signor Principe gli aveva forniti cinquanta
cavalleggieri di scorta, non tanto per fargli guardia, come per
mostrare ai deputati quanto i generali della regina facilmente
disponevano delle lor truppe, e potevano spargerle qua e là a loro
capriccio.

Athos, guardato a vista da Comminges, a cavallo e senza spada, seguiva
il ministro senza dir parola. Grimaud, lasciato dal padrone alla
porta del castello, aveva udito la nuova del suo arresto, quando Athos
l’aveva detta forte ad Aramis, e dietro a un cenno del conte era ito,
non proferendo un accento, a situarsi accanto ad Aramis quasi nulla
fosse accaduto.

Vero si è che Grimaud da ventidue anni che serviva Athos, aveva veduto
questo cavarsi fuori da tante avventure, che di nulla si prendeva più
pensiero.

I deputati, subito dopo la loro udienza, si erano nuovamente avviati
verso Parigi, il che è quanto dire che precedevano il ministro di un
cinquecento passi. Sicchè Athos poteva, guardandosi innanzi, veder di
schiena Aramis, di cui il cinturino indorato e il superbo portamento
richiamavano la sua attenzione in fra quella moltitudine al pari che
la lusinga di liberazione che in lui avevano riposta l’abitudine, la
frequentazione, e la specie di attrazioni risultanti, da qualunque
amicizia.

Per lo contrario, Aramis non mostrava punto curarsi di essere o no
seguitato da Athos. Si girò una volta sola: vero egli è che ciò fu
all’arrivare al castello. Supponeva che Mazzarino lascierebbe forse là
il suo nuovo prigioniero nel piccolo forte, posto che faceva guardia
al ponte e governato da un capitano per la regina. Ma non fu così, ed
Athos passò Chatou egualmente che il ministro.

Sulla crocevia della strada che va da Parigi a Rudi, Aramis si volse
indietro. Questa volta le sue previsioni non lo avevano ingannato:
Mazzarino pigliò a man destra, onde Aramis potè distinguere il
prigioniero sparire a tergo gli alberi. Nel medesimo istante,
Athos, mosso dallo stesso pensiero, girò pure il capo. I due amici
ricambiarono fra di loro un semplice cenno della testa, ed Aramis si
portò il dito al cappello come per salutare. Athos solo comprese che
l’amico gli accennava qualmente aveva un’idea.

Dopo dieci minuti Mazzarino col suo sèguito entrava nel cortile del
castello che il ministro suo predecessore avevagli fatto apparecchiare
a Rueil.

Nel momento in cui poneva piede a terra in fondo alla gradinata, gli si
appressò Comminges domandando:

«Monsignore, dove piacerebbe a Vostra Eccellenza che dessimo alloggio
al signor di la Fère?

«Nel padiglione degli agrumi, dirimpetto a quello dov’è il posto di
guardia. Voglio che gli si faccia ogni onore, benchè sia prigioniero di
Sua Maestà.

«Monsignore, azzardò Comminges, e’ chiede l’onore di esser condotto
vicino al signor d’Artagnan, che secondo ordinò Vostra Eccellenza,
occupa il padiglione da caccia rimpetto a quel degli agrumi».

Mazzarino riflettè alquanto.

Comminges si accorse che titubava, e soggiunse:

«È un posto assai forte; quaranta uomini sicuri, soldati esperimentati,
quasi tutti Tedeschi, e in conseguenza non aventi relazione veruna coi
Frondisti nè interesse nella _Fronda_.

«Signor di Comminges, disse Mazzarino, se mettessimo quei tre soggetti
insieme ci toccherebbe raddoppiare il corpo di guardia, e non siamo
tanto ricchi in materia di difensori per esser così prodighi».

Comminges sorrise. Mazzarino osservò il sorriso e lo capì.

«Voi non li conoscete, signor di Comminges, ma io sì, prima per loro
stessi e poi per tradizione. Li avevo incaricati di recar soccorso al
re Carlo, e fecero cose miracolose; bisognò che così volesse il destino
perchè quel caro re Carlo non sia a quest’ora in sicuro fra noi.

«Ma se hanno servita bene Vostra Eccellenza, perchè dunque li tiene
ella in carcere?

«In carcere! e da quando in qua Rueil è un carcere?

«Dacchè vi sono dei prigionieri, rispose Comminges.

«Quei signori non sono miei prigionieri, replicò Mazzarino col suo
sogghigno malizioso, sono ospiti miei, ospiti tanto preziosi che ho
fatto mettere le inferriate alle finestre e i catenacci alle porte
dei loro appartamenti, tale è il timore che ho che si stanchino di
tenermi compagnia! Ma fatto sta che per quanto a prima vista sembrino
prigionieri, io li stimo moltissimo, e la prova ne sia che bramo fare
una visita al signor di la Fère per conversar seco a tu per tu. E
perchè nessuno ci disturbi dal colloquio, conducetelo come vi ho già
detto nel padiglione degli agrumi. Voi sapete ch’è il luogo consueto
delle mie passeggiate, e passeggiando entrerò da lui e discorreremo.
Ancorchè si pretenda essere egli mio nemico, ho per esso della
simpatia, e se è ragionevole faremo forse qualche cosa».

Comminges fece un inchino, e tornò da Athos, che attendeva con
apparente calma, ma con reale inquietudine, l’esito della conferenza.

«Ebbene? domandò questi al luogotenente delle guardie.

«Signore, rispose Comminges, pare che sia impossibile.

«Signor di Comminges, io sono stato soldato tutta la vita, e quindi so
che cos’è la consegna, potreste rendermi un servigio.

«Con tutto il cuore! dacchè so chi siete e quali servigi voi rendeste
in addietro a Sua Maestà; dacchè so quanto vi interessi quel giovane
che venne sì valorosamente in mio soccorso nel giorno dell’arresto di
quel vecchiaccio di Broussel, mi dichiaro tutto vostro, salva però la
consegna.

«Mille grazie, ed io non desidero altro, e sto per chiedervi cosa che
in nessun modo potrà compromettervi.

«Ancorchè comprometta un pocolino, disse sorridendo Comminges,
chiedetela pure; non sono molto più propenso di voi pel signor
Mazzarino; servo la regina, il che naturalmente mi porta a servire il
ministro, ma per quella agisco con piacere e per questo contro voglia.
Dunque parlate, aspetto e vi ascolto.

«Poichè non v’è inconveniente, fece Athos, ch’io sappia che d’Artagnan
è qui, non ve ne sarà alcuno, mi suppongo, che a lui sia noto che ci
sono ancor io?

«Su di ciò non ho ricevuti ordini.

«Or bene, favoritemi dunque di presentargli i miei distinti saluti ed
avvisarlo che siamo vicini; nello stesso tempo gli annunzierete ciò
che annunziavate a me poc’anzi, vale a dire che il signor di Mazzarino
mi ha messo nel padiglione degli agrumi per poter farmi una visita, ed
aggiungete che profitterò di quest’onore ch’ei vuole concedermi onde
ottenere che sia resa più mite la nostra prigionia....

«La quale non può durare, interruppe Comminges; il signor ministro me
lo diceva testè; qui non v’è carcere.

«Vi sono le _perpetue_, rispose sorridendo Athos.

«Oh! codesto è tutt’altro. Sì, so che esistono certe tradizioni su tal
proposito, ma un uomo di bassa nascita com’è il ministro, un Italiano
venuto in Francia a cercare fortuna, non oserebbe portarsi a simili
eccessi verso uomini della nostra fatta: sarebbe cosa enorme! Andava
bene a tempo dell’altro ministro che era un gran signore; ma con messer
Mazzarino, oibò! Le _perpetue_ sono vendette regie e non adattate per
un villano par suo. Si sa il vostro arresto, presto si saprà quello dei
vostri amici, e tutta la nobiltà di Francia gli domanderebbe ragione
dell’essere voi spariti. No no, state quieto; da dieci anni in qua le
carceri perpetue di Rueil sono novelle ad uso dei bambini. Su questo
punto non abbiate il minimo pensiero. Io dal canto mio avvertirò il
signor d’Artagnan del vostro arrivo. Chi sa che fra quindici giorni voi
non facciate a me un favore del medesimo genere?

«Io?

«Sicuramente! non potrei essere poi io prigioniero del signor
Coadjutore?

«Siate persuaso che in tal caso mi sforzerei a giovarvi, disse Athos.

«Mi farete l’onore di cenare con me, signor conte? disse Comminges.

«Grazie, sono di umore pessimo, e vi farei passar la serata in
malinconia! grazie mille!»

Comminges guidò il conte in una stanza del terreno del padiglione
che era in seguito a quello degli agrumi e a livello col medesimo. Al
padiglione si giungeva da un cortile pieno di soldati e cortigiani. Il
cortile a forma di ferro di cavallo, aveva nel centro gli appartamenti
abitati da Mazzarino e a ciascuna delle ale il padiglione da caccia ove
stava d’Artagnan, e quello degli agrumi in cui era entrato ultimamente
Athos. Dietro l’estremità delle due ale il parco.

Athos, arrivando nella camera assegnatagli, vide dalla finestra ben
guarnita d’inferriate, e mura e tetti.

«Che fabbricato è quello? richiese.

«È il di dietro del padiglione da caccia ove son detenuti i vostri
amici, disse Comminges. Disgraziatamente le finestre che danno da
quel lato furono murate a tempo dell’altro ministro, perchè più volte
i due fabbricati servirono di carcere, ed il signor di Mazzarino
rinchiudendovi non fa se non renderle alla loro prima destinazione:
se le finestre non fossero murate, avreste la consolazione di
corrispondere per mezzo di cenni co’ vostri amici.

«E siete certo, signor di Comminges, che il ministro mi onorerà di sua
visita?

«Almeno me lo ha assicurato».

Athos sospirò guardando le grate.

«Eh sì! fece Comminges, è vero, l’è quasi una prigione; nulla vi manca,
neppure le spranghe.... Ma anche che singolare idea vi saltò in testa,
a voi che siete un fior di nobiltà, di andare a guastare il vostro
valore e la vostra lealtà fra tutti quei funghi della _Fronda_! In
coscienza, conte, se mai avessi creduto di aver qualche amico nelle
file dell’armata reale, avrei pensato a voi. Voi, frondista! il conte
di la Fère, nel partito di un Broussel, di un Blancmesnil, di un Viole!

«Mio caro, rispose Athos, affè, bisognava essere o Mazzarino o
Frondista. Ho fatto suonare un pezzo alle mie orecchie questi due
nomi, e mi sono determinato pel secondo: almeno gli è nome francese.
E poi, io sono tale, non già con Broussel, Blancmesnil e Viole, ma col
signor di Beaufort, col signor di Bouillon, col signor d’Elboeuf, con
principi, e non mica con presidenti, consiglieri e togati. D’altronde,
bel resultato a servire il signor ministro! Guardate quel muro senza
finestre, e vi spiegherà a modo la riconoscenza mazzarinesca.

«Sì, disse sorridendo Comminges, e me la spiegherà anco meglio
se ripeto le maledizioni che da otto giorni manda a lui il signor
d’Artagnan.

«Povero d’Artagnan! sospirò Athos con quell’amabile malinconia ch’era
una delle parti più distinte del suo carattere, un uomo sì prode, sì
buono, sì terribile per coloro che non amano quei ch’egli ama! ah!
signor di Comminges, avete due fieri prigionieri, e vi compiango se
sono posti sotto la vostra responsabilità quei due uomini impossibili a
domarsi!

«Eh eh! disse Comminges, ma, signor mio, vorreste mettermi paura!
Nel primo giorno di sua carcerazione il signor d’Artagnan provocò
tutti i soldati e tutti i bassi ufficiali, senza dubbio affine di
avere una spada; la faccenda durò all’indomani, e si estese per sino
al posdomani; ma dappoi egli è diventato quieto e docile come un
agnellino. Adesso canta canzoni guascone che ci fanno morir dalle risa.

«E il signor du Vallon? domandò Athos.

«Ah! quello è tutt’altro: confesso ch’è un gentiluomo da fare spavento.
Il primo giorno con un colpo della spalla sfondò tutti gli usci, e mi
aspettavo di vederlo uscire da Rueil conforme uscì Sansone da Gaza; ma
il suo umore ha preso lo stesso andamento di quello del suo compagno
d’Artagnan. Ed ora, non solamente si avvezza alla sua detenzione, ma
anco ci scherza sopra.

«Meglio così! disse Athos, meglio così!

«Vi figuravate diversamente? domandò Comminges, che combinando quel che
aveva detto Mazzarino de’ suoi prigionieri con quello che ne diceva il
conte di la Fère, cominciava ad avere qualche inquietezza».

Athos dal canto suo rifletteva che per sicuro quel miglioramento
nel morale de’ suoi camerati nasceva da qualche piano formato da
d’Artagnan. Quindi non volle ad essi nuocere coll’esaltarli di
soverchio.

«Di loro? rispose, sono due teste infiammabili; uno è di Guascogna, e
l’altro di Piccardia; entrambi sono facili ad accendersi, ma presto si
estinguono. Ne avete avuta la prova, e ciò che ora mi narrate fa fede
di quanto io vi asserisco».

Tale era pure l’opinione di Comminges, per cui egli si ritirò più
tranquillo, ed Athos restò solo nella vasta stanza, ove secondo gli
ordini del ministro fu trattato con gli onori dovuti a un gentiluomo.

D’altronde per farsi un’idea precisa della propria situazione,
attendeva la famosa visita promessa da Mazzarino.



LXXXVII.

_La mente e il braccio._


Ed ora, passiamo dal padiglione degli agrumi a quello di caccia.

In fondo al cortile ove mediante un loggiato formato di colonne joniche
si scuoprivano i canili, sorgeva un fabbricato bislungo, che pareva si
estendesse a guisa di un braccio davanti all’altro braccio, lo stanzone
da agrumi, semicircolo che racchiudeva il cortile d’onore.

In quel padiglione, a pian terreno, erano rinserrati Porthos e
d’Artagnan, ripartendosi le lunghe ore di detenzione antipatica pei due
temperamenti.

D’Artagnan andava su e giù come un tigre, con l’occhio fisso, e
ruggendo talora sulle inferriate di una larga finestra che dava sul
cortile di servizio.

Porthos digeriva in silenzio un ottimo pranzo di cui erano stati levati
allora di tavola i rilievi.

Uno pareva privo di ragione, e meditava; l’altro pareva meditasse
profondamente, e dormiva; se non che il suo sonno era una continua
agitazione, lo che poteva indovinarsi dal modo interrotto ed incoerente
con cui russava.

«Ecco che si fa oscuro, disse d’Artagnan, devono esser vicine le
quattro. Fra poco saranno ottantatrè ore che siamo qui dentro.

«Uhm! fece Porthos, tanto per mostrar di rispondere.

«M’intendete, dormiglione sempiterno? disse d’Artagnan impazientito che
un altro potesse abbandonarsi al sonno di giorno, mentre egli stentava
a riposare di notte.

«Che? domandò Porthos.

«Quel che dico.

«E che dite?

«Che a momenti saranno ottantatrè ore dacchè siamo qua.

«Colpa vostra.

«Come, colpa mia?

«Sì; vi avevo offerto di andarcene.

«Staccando i ferri o sfondando le porte?

«Senza dubbio.

«Porthos, genti nostra pari non se ne vanno puramente e semplicemente.

«Oh! io poi, me la batterei con quella purezza e semplicità che mi
sembra disprezziate un po’ troppo».

D’Artagnan scrollò le spalle, e replicò:

«D’altronde, non istà già il tutto nell’uscire da questa camera.

«E perchè?

«Perchè non avendo nè armi nè parola d’ordine, non faremmo cinquanta
passi abbasso senza inciampare in una sentinella.

«Ebbene! fece Porthos, accopperemo la sentinella e le torremo le armi.

«Sì, ma prima di esser affatto accoppata (e uno Svizzero è duro a
morire, durissimo) darà un urlo, o per lo meno un lamento che farà
venir fuori il corpo di guardia; saremo circuiti e presi come tante
volpi, noi che siamo leoni, e ci getteranno in qualche carbonaja, dove
non avremo tampoco la consolazione di vedere quel brutto cielo grigio
di Rueil, che somiglia al cielo di Tarbes quanto somiglia la luna
al sole. Caspita! se fuori avessimo qualcuno che potesse darci delle
informazioni su la topografia morale e fisica di questo castello, su
ciò che Cesare chiamava _luoghi e costumi_... almeno a quel che mi fu
detto... Eh! a pensare che in venti anni, ne’ quali non sapevo che
farmi, non ho avuta l’idea di occupare una di quelle ore a venire a
studiare Rueil!

«Che importa? soggiunse Porthos, si vada via ciò non ostante.

«Mio caro, ribattè d’Artagnan, sapete perchè i pasticcieri non lavorano
mai di propria mano?

«No, ma avrei genio a saperlo.

«Perchè davanti ai loro allievi temerebbero di fare qualche pasta
troppo abbrustolita o una crema col latte rappreso.

«E poi?

«E poi sarebbero burlati, e burlati non devono essere i maestri
pasticcieri.

«E che rapporto hanno costoro con noi?

«Che noi in materia di avventure non dobbiamo mai avere uno scacco o
far ridere gli altri. In Inghilterra ultimamente abbiamo fatto fiasco,
siamo stati battuti, e l’è una macchia per la nostra riputazione.

«E da chi battuti?

«Da Mordaunt.

«Sì, ma femmo annegare messer Mordaunt.

«Lo so, e questo ci rimetterà un poco nel concetto dei posteri,
se pure i posteri penseranno a noi. Ma sentitemi, Porthos: benchè
messer Mordaunt non fosse da sprezzarsi, messer Mazzarino mi sembra
ben altrimenti forte, e non lo faremmo affogare con ugual facilità.
Badiamo dunque a noi, e stiamo accorti, perchè (aggiunse il guascone
sospirando) noi due vagliamo forse per otto altri, ma non pei quattro
che sapete.

«È vero, confermò Porthos corrispondendo con un sospiro a quello già
mandato da d’Artagnan.

«Or bene, fate come fo io, passeggiate su e giù, sinchè ci arrivi una
buona nuova dei nostri amici, o ci venga una buona idea; ma non dormite
sempre come finora: non v’è cosa che intorpidisca la mente quanto il
sonno. Quel che ci sovrasta sarà forse men grave che non ci figuriamo;
non credo che Mazzarino abbia intenzione di farci tagliar la testa,
perchè la testa non si taglierebbe senza il processo, il processo
cagionerebbe gran fracasso, il fracasso richiamerebbe i nostri amici, e
allora essi non lascerebbero operare il signor di Mazzarino.

«Ragionate pur bene! disse Porthos con ammirazione.

«Sì, non c’è male.... E poi, capite, se non ci fanno processo, se
non ci mozzano la testa, bisogna che ci tengano qui o ci trasportino
altrove.

«Oh! necessariamente.

«Or dunque, è impossibile che messer Aramis, quel braccio finissimo,
e che Athos, il saggio gentiluomo, non iscuoprano il nostro ritiro. E
allora, affè saremo a tempo.

«Sì, tanto più che qua non si sta assolutamente male.... ad eccezione
di una cosa, però....

«E quale?

«D’Artagnan, avete osservato che per tre giorni di seguito ci hanno
dato del castrato arrosto?

«No, ma se ce lo presentano la quarta volta, mi lagnerò, non dubitate.

«E inoltre di quando in quando mi vien in mente la mia casa; è un pezzo
che non ho visitate le mie ville.

«Eh via! dimenticatele momentaneamente; le ritroveremo ammenochè il
signor di Mazzarino le abbia fatte demolire.

«Credete che si sia fatta lecita una tal tirannia? domandò inquieto
Porthos.

«No: eran buone per l’altro ministro simili risoluzioni; il nostro è
troppo meschino per arrischiarle.

«Mi riconfortate, d’Artagnan.

«Or dunque fate buon viso come fo io: scherziamo coi custodi,
interessiamo i soldati, poichè non si possono corrompere; accarezzateli
di più che sinora, quando verranno sotto le nostre grate. Sino adesso
siete stato sempre a mostrar loro il pugno, e più il vostro pugno è
rispettabile meno è seducente.... Ah! quanto darei per aver soltanto
cinquecento luigi!

«E anch’io, rispose Porthos che non voleva passare per meno generoso di
d’Artagnan, darei volentieri.... cento doppie».

I due prigionieri stavano a questo punto del loro dialogo, quando entrò
Comminges, preceduto da un sergente e da due uomini, i quali recavano
la cena in un paniere pieno di piatti e vassoj.

«Bene! fece Porthos, da capo il castrato!

«Caro signor di Comminges, disse il Guascone, avete da sapere che
il mio amico signor du Vallon è deciso a portarsi alle più crude
estremità, se il signor di Mazzarino si ostina a mantenerlo con questa
sorta di carne.

«E io dichiaro di più, accrebbe Porthos, che non mangio più altro, se
non me la tolgono davanti.

«Togliete via quel montone, disse Comminges, voglio che il signor du
Vallon ceni con piacere, tanto più che ho da annunziargli una notizia,
che di certo gli darà appetito.

«È forse morto il signor Mazzarino? domandò Porthos.

«No, anzi devo con rincrescimento avvisarvi che sta benissimo.

«Male! fece Porthos.

«E che notizia è mai? chiese d’Artagnan, una notizia in prigione, è
frutto così raro, che spero scuserete la mia impazienza, non è vero,
signor di Comminges? Maggiormente dacchè ci avete dato a intendere
ch’era buona la nuova.

«Gradireste sapere che il signor conte di la Fère sta bene?» fece
Comminges.

Gli occhi per solito piccoli di d’Artagnan, si apersero a dismisura.

«Se lo gradirei.... ma ne sarei contento, beato!

«Ed io sono incaricato da lui stesso di presentarvi i suoi complimenti,
e dirvi che gode di ottima salute».

D’Artagnan ebbe a svenirsi dall’allegrezza. Una rapida occhiata fu
interprete a Porthos del di lui concetto. Lo sguardo diceva: se Athos
sa dove siamo, se ci fa parlare, in breve agirà.

Porthos non aveva molta abilità per comprendere le occhiate; ma questa
volta la intese, perocchè al nome di Athos aveva provata la stessa
impressione che d’Artagnan.

«Ma, domandò timidamente il Guascone, voi dite che il conte di la Fère
vi ha incaricato di fare i suoi complimenti al signor di Vallon ed a
me?

«Signor sì.

«Dunque lo avete veduto?

«Di certo!

«E dove, senza essere indiscreto?

«Qui vicino, fece Comminges sorridendo.

«Qui vicino? ripetè d’Artagnan, a cui brillarono le pupille.

«Tanto prossimo, che se le finestre che danno sul capannone degli
agrumi non fossero otturate, potreste vederlo dal posto ove siete.

«Di sicuro, ronza nei dintorni del castello!» pensò d’Artagnan.

E poi disse forte:

«Lo avete incontrato alla caccia, forse nel parco?

«No, più prossimo.... anche più.... ecco, dietro a questo muro, seguitò
Comminges, e percuoteva la muraglia.

«Dietro?... e che v’è egli qui dietro?... Sono stato condotto qui di
sera, in modo che il diavolo mi trascini se so dove io mi sia!

«Orsù, continuò Comminges, supponete una cosa.

«Supporrò tutto quel che vogliate.

«Là! che a questa muraglia vi sia una finestra.

«Ebbene?

«Da quella, scorgereste alla sua, il signor di la Fère.

«Sicchè il signor di la Fère è alloggiato nel castello?

«Sì.

«E per qual ragione?

«Per la stessa che voi.

«Athos è prigioniero?

«Vi è pur noto, disse Comminges ridendo, che non vi sono prigionieri a
Rueil, poichè non v’è prigione.

«Non ischerziamo sulle parole, signore. Athos è stato arrestato?

«Jeri, a S. Germano, all’uscire dalle stanze della regina».

A d’Artagnan caddero giù le braccia inerti sul fianco. Pareva
fulminato. Il pallore gli corse come un nuvolo bianco su la bruna
carnagione, ma quasi subito si dileguò.

«Prigioniero! egli ripetè.

«Prigioniero! tornò a dire dopo di lui Porthos oppresso».

Ad un tratto d’Artagnan alzò il capo, e ne’ suoi occhi si vide brillare
un lampo impercettibile anco per Porthos. Poscia lo stesso abbattimento
che lo aveva preceduto seguì quel baleno fugace.

«Orsù, disse Comminges, il quale nudriva un vero affetto per d’Artagnan
dopo il segnalato servigio da questo resogli nel dì dell’arresto di
Broussel, togliendolo dalle mani ai Parigini, orsù non vi angustiate;
non pretendevo già darvi una mala nuova, oh! tutt’altro. Con la guerra
attuale siamo tutti esseri incerti. Dunque ridete della combinazione
che riavvicina il vostro amico a voi ed al signor du Vallon, anzi che
addolorarvene».

Quell’invito però non influì minimamente su d’Artagnan, che si mantenne
in aspetto lugubre.

«E che cera faceva? domandò Porthos, che accortosi come d’Artagnan
lasciava estinguersi il dialogo, se ne prevalse per metter fuori due
paroline di suo.

«Ottima cera, rispose Comminges; sul primo era sembrato come voi
disperatissimo, ma quando ha saputo che il ministro doveva fargli
visita stasera....

«Ah! fece d’Artagnan, il ministro deve fare una visita al conte di la
Fère?

«Sì, lo ha fatto avvertire, e il signor conte, nell’udir ciò, mi ha
incaricato di dirvi, che profitterebbe del favore che gli concedeva Sua
Eccellenza per patrocinare la vostra e la sua causa.

«Ah che caro conte! disse il Guascone.

«Bell’affare! mugolò Porthos, gran favore, cospettone! il conte di la
Fère, la di cui famiglia s’imparentò coi Montmorency e coi Rohan, val
pure quanto il signor Mazzarino.

«Non serve, replicò d’Artagnan nel modo suo più docile, a rifletterci
bene, mio caro du Vallon, è un grande onore pel signor conte, e dà
luogo a concepire grandi speranze.... una visita!... ma è tale onore
per un prigioniero, ch’io mi penso per sino che il signor di Comminges
prenda abbaglio.

«Come? prendo abbaglio!...

«Non sarà il signor di Mazzarino che andrà a trovare la Fère, ma la
Fère sarà chiamato dal signor di Mazzarino.

«No, no, no! disse Comminges a cui premeva di precisare le cose; io ho
inteso benissimo ciò che mi ha detto il ministro: egli andrà a trovare
il conte».

D’Artagnan procurò di cogliere uno sguardo di Porthos onde discernere
se questi capiva l’importanza di quella visita, ma Porthos non badava
nemmeno dalla sua parte.

«Sicchè pel signor ministro è abitudine di passeggiare nel locale degli
agrumi? domandò il tenente dei moschettieri.

«Ci si rinchiude ogni sera, fece Comminges, pare che colà vada
meditando su gli affari dello Stato.

«Allora comincio a credere che Sua Eccellenza vada dal signor di la
Fère; d’altronde, naturalmente si farà accompagnare?

«Sì, da due soldati.

«E discorrerà così di affari davanti a due estranei?

«I soldati sono Svizzeri dei piccoli cantoni, e non parlano se non
tedesco. E poi, secondo ogni probabilità, aspetteranno alla porta».

D’Artagnan si cacciava le unghie nelle palme delle mani, onde il suo
volto non esprimesse altro che ciò ch’egli gli permetteva di esprimere.

«Badi bene il signor Mazzarino ad entrar solo dal conte di la Fère!
soggiunse, giacchè il conte dev’essere sulle furie».

Comminges si mise a ridere.

«Eh! par che siate tanti antropofagi! il signor di la Fère è pien
di cortesia, e di più non ha armi. Al primo grido di Sua Eccellenza,
accorrerebbero subito i due soldati che l’accompagnano.

«Due soldati...., disse d’Artagnan quasi raccogliesse le sue
rimembranze, due soldati.... sì.... per questo dunque odo chiamare
due uomini ogni sera, e li vedo passeggiare una mezz’ora sotto la mia
finestra.

«Appunto; attendono il ministro, o piuttosto Bernouin viene a chiamarli
quando il ministro esce.

«Begli uomini, affè!

«È il reggimento ch’era a Lens, e che il signor Principe diede a Sua
Eccellenza per farle più onoranza.

«Ah signore! fece d’Artagnan come per riepilogare in poche parole
tutta quella lunga conversazione, almeno sia Sua Eccellenza più mite, e
conceda al signor di la Fère la nostra libertà!

«Lo desidero di tutto cuore.

«Sicchè, se si dimenticasse la visita, non trovereste inconveniente a
rammentargliela?

«Nessuno; al contrario!

«Ah! questo mi consola alquanto».

L’abile cambiamento di conversazione sarebbe sembrato una manovra
sublime a chiunque avesse potuto leggere nell’animo del Guascone.

«E adesso, egli continuò, ve ne prego, mio caro signor di Comminges,
un’altra ed ultima grazia.

«Tutto ai vostri comandi.

«Rivedrete il conte di la Fère?

«Domattina.

«Favorireste dargli il buon dì a nome mio, e pregarlo di richiedere per
me la stessa grazia che per sè avrà ottenuta?

«Desiderate che venga qui il signor ministro?

«No; conosco me stesso, e non sono sì esigente. Sua Eccellenza mi
faccia l’onore di ascoltarmi, questo è quanto bramo.

«Oh! mormorò Porthos scuotendo il capo, non avrei mai creduto questo da
lui; come abbatte gli uomini la sventura!

«Così sarà fatto, rispose Comminges.

«Assicurate ancora il signor conte ch’io sto benissimo, e che mi avete
visto afflitto, ma rassegnato.

«Voi mi date nel genio parlando in tal guisa.

«Altrettanto direte pel signore du Vallon.

«Per me? mainò! esclamò Porthos, non sono niente rassegnato, io!

«Ma vi rassegnerete, amico mio.

«Giammai!

«Si rassegnerà, signor di Comminges. Io lo conosco meglio che non si
conosca egli stesso, e so che ha mille eccellenti qualità che neppur si
figura. Tacete, signor du Vallon, e rassegnatevi.

«Addio, signori, disse Comminges; buona notte.

«Procureremo che sia tale».

Comminges salutò ed uscì. D’Artagnan lo seguì cogli occhi nella
medesima attitudine di dolcezza ed umiltà; ma appena fu chiusa la
porta si slanciò verso Porthos, e se lo strinse fra le braccia con
espressione di giubilo che non lasciava alcun dubbio.

«Oh oh! che c’è? disse Porthos, ma che, impazzite, povero amico?

«C’è che siamo salvi!

«Non ne vedo nemmeno l’ombra; anzi veggo che siamo presi tutti,
eccettuato Aramis, e che scemano per noi la probabilità di andarcene
dacchè è entrato uno di più nella trappola del signor di Mazzarino.

«Nulla, nulla; la trappola bastava per due, e diventa troppo debole per
tre.

«Non capisco, fece Porthos.

«È inutile, replicò d’Artagnan, mettiamoci a tavola e ripigliamo forza,
chè ne avremo d’uopo per la nottata.

«E che faremo sta notte?

«Probabilmente viaggeremo.

«Ma....

«A tavola, mio caro! mangiando vengono delle idee; e dopo cena, quando
le mie saranno ben complete ve le comunicherò».

Per quanto Porthos bramasse d’essere istruito del progetto di
d’Artagnan, conoscendo però il modo di agire di questo, si assise a
mensa senza insistere di più, e mangiò con un appetito che faceva onore
alla fiducia ch’ei riponeva sempre nell’immaginativa di d’Artagnan.



LXXXVIII.

_Il braccio e la mente._


Ebbe luogo la cena in silenzio, ma non in malinconia, perocchè tratto
tratto rasserenava la faccia a d’Artagnan uno di quei sorrisetti
maliziosi che gli erano usuali ne’ momenti di buon umore. E di questi
Porthos non ne perdeva neppur uno, ed anzi ad ognuno che osservava dava
qualche esclamazione, la quale indicava al suo amico com’egli, anche
non comprendendolo, facesse gran caso del pensiero che gli bolliva nel
cervello.

Alle frutta d’Artagnan appoggiò la schiena alla spalliera della
seggiola, incrociò le gambe una sull’altra, e si tentennò in aria di
uno che sia veramente contento di sè.

Porthos pose il mento sulle due mani, e i due gomiti sulla tavola, e
guardò d’Artagnan in quel modo pien di fiducia che dava a quel colosso
una certa cera di somma bonarietà.

«Ebbene? fece il Guascone dopo un momento.

«Ebbene? ripetè Porthos.

«Dicevate dunque, mio caro?...

«Io? non diceva nulla.

«Sì, sì.... che avevate voglia di andarvene di qua.

«Ah! questo sì, non è la voglia quella che mi manca.

«Ed aggiungevate che perciò bastava staccare una porta e rompere un
muro.

«È vero, così ho detto, ed anco lo ridico.

«Ed io, Porthos, vi rispondevo esser codesto un tristo compenso, e che
non faremmo cento passi senza essere ripresi ed accoppati, ammenochè
avessimo abiti da travestirci ed armi da difenderci.

«Certo, ci occorrerebbero abiti ed armi.

«Or bene, ne abbiamo! disse d’Artagnan alzatosi, e di più qualche cosa
di meglio.

«Veh! fece Porthos guardandosi attorno.

«Non istate a cercare, sarebbe inutile; tutto ci verrà all’istante
opportuno. A che ora all’incirca vedemmo jeri passeggiare le guardie
svizzere?

«Se non isbaglio, un’ora dopo fattasi notte.

«Se escono stassera come jeri, dunque non istaremo un quarto d’ora ad
attendere il piacere di vederli.

«Fatto sta che resteremo tutto al più quel quarto d’ora.

«Avete sempre il braccio assai buono, non è così?»

Porthos si sbottonò la manica, si tirò in su la camicia, si osservò
con compiacenza le braccia robuste, grosse come la coscia di un uomo di
statura ordinaria.

«Eh sì.... rispose, assai buono.

«Talchè fareste, senza disturbarvi di troppo, un cerchio di queste
mollette, e di questa paletta una specie di rampino?

«Di sicuro!

«Vediamo un po’».

Il gigante prese i due oggetti indicati, ed operò con la maggior
facilità e senza sforzo apparente, le due metamorfosi richieste dal
compagno.

«Ecco, disse poi.

«Stupendo! e siete in buonissimo stato, Porthos!

«Io intesi a parlare, disse questi, di un certo Milone da Crotona che
faceva cose straordinarissime, come stringersi la fronte con una fune
e farla andar in pezzi, ammazzare un bue con un pugno e portarlo a casa
sulle spalle, fermare un cavallo dalle zampe di dietro, ec.; mi sentii
raccontare tutte queste prodezze a Pierrefonds, e feci quanto esso
faceva, meno che rompere la fune col gonfiarmi le tempie.

«Egli è che la vostra forza non istà nella testa, rispose d’Artagnan.

«No, è nelle braccia e nelle spalle, replicò semplicemente Porthos.

«Ebbene, accostiamoci alla finestra, e valetevi della vostra forza per
distaccarne un ferro. Aspettate ch’io spenga il lume».

Porthos si avvicinò alla finestra, prese colle due mani uno dei ferri,
e vi si aggrappò, lo tirò a sè, e lo fe’ piegare come un arco, a
segno che le due cime uscirono dall’alveola di pietra dove le teneva
conficcate da trent’anni la calcina.

«Ecco ciò che non sarebbe riuscito al ministro, disse d’Artagnan,
benchè sia un uomo di genio.

«Ne ho da levar degli altri? domandò Porthos.

«No; questo è sufficiente: ormai può passarvi un uomo».

Porthos provò e mise fuori tutto il busto.

«Sì, disse allora.

«Realmente, è una bella apertura. Adesso infilate il braccio.

«Di dove?

«Da quell’apertura.

«Per che fare?

«Lo saprete tra poco.... infilatelo».

Porthos obbedì, docile come un soldato, e cacciò il braccio tra i ferri.

«Ottimamente! fece d’Artagnan.

«Par che si vada avanti bene?

«A meraviglia, mio caro.

«Meglio! Ed ora che ho da fare?

«Nulla.

«Dunque è finito tutto?

«Ancora no.

«Per altro avrei gusto di capire qualche cosa.

«Sentitemi, e in due parole saprete tutto, si apre la porta del corpo
di guardia, come vedete.

«Sì, veggo.

«Si manderanno subito nel nostro cortile, che traversa il signor
Mazzarino per recarsi allo stanzone degli agrumi, le due guardie che lo
accompagnano.

«Appunto escono.

«Basta che rinchiudano la loro porta!... Ah bene! la serrano.

«E poi?

«Silenzio! ci potrebbero udire.

«Allora non saprò niente.

«Sì, a misura che andrete eseguendo comprenderete.

«Io però avrei preferito....

«Godrete del piacere della sorpresa.

«Oh si! è vero, fece Porthos.

«Zitto!»

Porthos rimase muto ed immobile.

I due soldati si avanzavano dalla parte della finestra stropicciandosi
le mani, perocchè, secondo avvertimmo, era di febbrajo e tempo freddo.

Nel momento fu riaperta la porta del corpo di guardia e chiamato
indietro un dei due militari.

Questi lasciò il camerata e tornò dentro.

«Va sempre bene? chiese Porthos.

«Meglio che mai, rispose d’Artagnan. Adesso, ascoltatemi. Io chiamerò
quel soldato e mi metterò a discorrer seco come feci jeri con uno de’
suoi compagni, ve ne ricordate?

«Sì, ma non intesi una parola di quel che diceva.

«Veramente aveva una pronunzia un po’ marcata. Ma, Porthos, non perdete
una parola di ciò che io sono per dirvi: il tutto sta nell’esecuzione.

«Eh! per l’esecuzione io non burlo.

«Lo so, cospetto! e per questo conto sopra di voi.

«Dite su.

«Chiamo il militare e discorro con lui....

«Lo avete detto.

«Mi volgerò a sinistra in maniera ch’egli sia a man destra nel punto
che salirà sul muricciolo.

«Ma se non ci sale?

«Ci salirà, non dubitate. Nell’atto ch’ei vien sul muricciolo,
voi allungherete il formidabile braccio e lo piglierete pel collo.
Poi alzandolo di peso, come Tobia alzò il pesce dalle orecchie, lo
introdurrete nella nostra camera, avendo cura di stringerlo sì forte
che non possa urlare.

«Sì.... ma se lo strangolo?

«Prima di tutto, sarà il male di uno Svizzero di meno, ma spero che non
lo strangolerete. Lo poserete qui pian piano, e noi gli tapperemo la
bocca e lo legheremo in qualche posto, poco importa il dove. Con ciò
avremo intanto un’uniforme ed una spada.

«Oh bellissima! disse Porthos con ammirazione.

«Eh? fece d’Artagnan.

«Sì, ma una uniforme ed una spada non sono assai per noi due.

«Ebbene! e non ha il suo camerata?

«Sicuro!

«Dunque, quando io tossirò allungate il braccio, e sarà tempo.

«Benone!».

I due amici si misero ciascuno nel luogo indicato. Porthos, situato
com’era, stava nascosto del tutto nell’angolo della finestra.

«Buona sera, camerata, disse d’Artagnan colla sua voce più moderata e
gentile.

«Pone sere, rispose il soldato.

«Non fa caldo a passeggiare, disse d’Artagnan.

«Brrrummm! fece il soldato.

«E credo che non vi spiacerebbe un bicchiere di vino?

«Picchiere di fine sarebbe ben fenute.

«Ci viene il pesciolino! bucinò il tenente a Porthos.

«Capisco, fece questi.

«Ne ho una bottiglia pronta.

«Pottiglia!

«Sì.

«Piena?

«Pienissima, ed è vostra se la volete bere alla mia salute.

«Folentieri! seguitò lo Svizzero avvicinandosi.

«Su, caro, venite a pigliarla, disse il Guascone.

«Perchè no? me pare c’è muricciolo.

«Veh! sembra messo là espressamente, saliteci.... là.... così...
amicone».

E d’Artagnan tossì.

Nel medesimo istante piombò giù il braccio di Porthos, il suo pugno
d’acciajo rapido come il baleno e saldo come una tenaglia strinse il
collo al militare, lo alzò soffocandolo, lo trasse a sè dalla apertura
a rischio di strozzarlo nel passare, e lo posò in terra, ove d’Artagnan
lasciandogli a puntino il tempo di riprender fiato gli coperse la
bocca con la sua ciarpa, e poi subito si accinse a spogliarlo con la
sollecitudine e la destrezza di chi ha imparato il mestiere sul campo
di battaglia.

Poscia lo Svizzero legato e manettato fu portato sul camino, di cui i
nostri amici avevano prima spenta la fiamma.

«Tanto, ecco una spada e un abito, disse Porthos.

«Io li prendo, rispose d’Artagnan; se voi pure volete altrettanto,
bisogna ricominciare la faccenda. Attenti! veggo appunto l’altro
soldato ch’esce dal corpo di guardia e viene in qua.

«A me pare, obbiettò Porthos, che sarebbe imprudenza il principiare
la stessa manovra. Si accerta che non si ottiene buon esito due volte
col medesimo mezzo. Se mi mancasse, sarebbe perduto tutto. Scenderò,
lo afferrerò nel momento che non ha sospetto, e ve lo porgerò bell’e
legato.

«Sarà anche meglio, disse il Guascone.

«State pronto».

Porthos si calò abbasso dall’apertura; le cose andarono com’ei le aveva
promesse. Il gigante si rimpiattò ove doveva transitare lo Svizzero, e
quando questi gli fu davanti lo prese per il collo, gli turò la bocca,
lo spinse a modo di una mummia a traverso ai ferri slargati della
finestra, e rientrò dietro a lui.

Fu spogliato il secondo prigioniero ugualmente che il primo, e disteso
sul letto, e fermato con delle cinghie, ed essendo il letto di quercia
e le cinghie foderate si rimase tranquillissimi per questo al pari che
pel precedente.

«Va ottimamente, disse d’Artagnan; ora datemi il vestito di quel
briccone. Dubito che vi stia bene, Porthos, ma se vi è troppo stretto
non abbiate paura, vi basterà il budriere, e specialmente il cappello
con le penne rosse».

Si combinò per caso che l’ultimo dei due soldati era uno Svizzero
gigantesco, talmente che eccetto pochi punti delle cuciture che si
ruppero, il resto andò egregiamente.

Per qualche tempo non si udì se non lo stropiccio del panno, mentre
Porthos e d’Artagnan si abbigliavano in fretta.

«È finita, dissero poi insieme. A voi altri, compagni (avvertirono ai
due militari), nulla succederà se state buoni, ma se vi movete siete
morti».

Coloro rimasero chiotti; dal pugno di Porthos comprendevano che la
faccenda era seria, e che non esisteva ombra di scherzo.

«Adesso, disse d’Artagnan, voi, Porthos, avreste caro d’intendere?

«E sì, piuttosto.

«Or dunque, noi scendiamo nel cortile.

«Sì.

«Pigliamo il posto di quei manigoldi.

«Bene.

«Passeggiamo su e giù.

«E sarà un bel vedere, sendochè non fa caldo.

«Fra un momento il cameriere chiama come jeri quei di servizio.

«E rispondiamo?

«No, anzi, non rispondiamo.

«Come vi pare, per me non me ne curo.

«Soltanto ci cacciamo in testa il cappello, e scortiamo Sua Eccellenza.

«Dove?

«Dove va, da Athos. Vi pensate che gl’incresca di vederci?

«Oh! capisco! esclamò Porthos.

«Aspettate un poco ad esclamare, giacchè, in parola, non siete ancora
al più bello, fece il Guascone con dileggio.

«E che ha da accadere?»

«Venite meco, e vedremo».

D’Artagnan passando dall’apertura si calò leggermente nel cortile.

Porthos fece la stessa strada, ma meno presto e con più stento.

Si sentivano tremare di paura i due Svizzeri manettati in camera.

Appena d’Artagnan e Porthos ebbero toccato terra, fu schiuso un uscio,
e il cameriere gridò:

«Il servizio!»

Si spalancò anche il posto di guardia, e una voce comandò:

«La Bruyere e du Barthois, andate!

«Pare che io abbia nome la Bruyere, mugolò d’Artagnan.

«Ed io du Barthois, aggiunse Porthos.

«Dove siete? domandò il domestico, che con gli occhi abbagliati dal
lume, non poteva distinguere fra l’oscurità i nostri due eroi.

«Eccoci» fece d’Artagnan.

E voltosi a Porthos:

«Che ne dite, signor du Vallon?

«Perdinci! pur che la duri, dico che va benone.



LXXXIX.

_Le carceri perpetue del signor di Mazzarino._


I due nuovi soldati camminarono con tutta gravità dietro al cameriere;
questi aprì ad essi una porta del vestibolo, poi un’altra che pareva di
una sala d’ingresso, e additando loro due sgabelli, disse:

«La consegna è semplicissima; non lasciate entrar qui che una persona,
una sola, avete inteso! niente più! e a quella persona obbedite in
tutto. In quanto al ritorno, non vi è da sbagliare, aspettate che io vi
dia la muta».

D’Artagnan era noto assai al suddetto cameriere, ch’era precisamente
Bernouin, il quale da sei o otto mesi a questa parte lo aveva
introdotto una decina di volte presso al ministro; onde egli invece
di rispondere si limitò a brontolare _jà_ nel modo meno guascone e più
tedesco che potesse.

In quanto a Porthos, lo aveva obbligato a promettere di non parlare
in verun caso. Se mal fosse ridotto agli estremi gli era concesso di
proferire soltanto il _tarteifle_ proverbiale e solenne.

Bernouin chiuse, si allontanò.

«Oh oh! disse Porthos udendo la chiave nella serratura, si vede che qui
è di moda rinchiudere la gente. Secondo me, non abbiamo fatto altro che
barattar carcere; senonchè invece di esser carcerati laggiù, lo siamo
nel capannone degli agrumi. Non so se ci abbiamo guadagnato.

«Amico mio, fece piano d’Artagnan, non dubitate della Provvidenza, e
lasciatemi riflettere e meditare.

«Riflettete e meditate, brontolò Porthos istizzito nel mirare che le
cose pigliavano quell’aspetto anzi che un altro.

«Abbiamo fatto ottanta passi.... saliti sei gradini; qui, dunque, come
ha detto testè il mio illustre amico di Comminges, è l’altro padiglione
in linea paralella al nostro accennato per padiglione degli agrumi;
sicchè il conte di la Fère non dev’essere lontano; solamente le porte
sono chiuse.

«Bella difficoltà! ribattè Porthos, con una spinta delle spalle....

«Per Bacco! tenetevi in riserva codeste vostre forze, o all’occorrenza
non avranno più il valore che si meritano. Non avete inteso che qui dee
venire qualcuno?

«Sì.

«Il qualcuno ci aprirà.

«Ma, mio caro, se il qualcuno ci riconosce, e ciò fatto si mette
ad urlare, siamo perduti.... perchè, in conclusione, m’immagino non
abbiate idea di farmi accoppare o strangolare quell’uomo! e sarebbero
maniere buone con Inglesi o Tedeschi, ma....

«Dio me ne liberi, ed anco voi! il giovanetto forse ce ne sarebbe
alquanto grato, ma la regina non ce lo perdonerebbe, e a lei fa d’uopo
usar riguardo. D’altronde, sangue inutile, mai! mai! mai! Il mio piano
è stabilito, e quindi lasciatemi agire, e rideremo.

«Meglio così! disse Porthos, ne sento il bisogno.

«Zitto! fece d’Artagnan, ecco la persona annunziata».

Allora si udì nella stanza precedente, cioè nel vestibolo, un camminare
leggerissimo. Gli arpioni della porta stridevano, e comparve un uomo
vestito da cavaliere, avvolto in un mantello scuro, con un cappellone
calato su gli occhi, e in mano una lanterna.

Porthos si trasse accosto al muro, ma non potè farsi talmente
invisibile che nol vedesse l’inferrajuolato: quello gli presentò il
lampioncino, dicendogli:

«Accendete la lampada del soffitto».

E poi a d’Artagnan:

«Sapete pure la consegna.

«_Jà_, replicò il Guascone, deciso a limitarsi a questo piccolo
campione di lingua tedesca.

«_Tedesco!_ disse in italiano il cavaliere, _va bene_».

Ed avanzatosi verso la porta situata di faccia a quella d’onde era
venuto, l’aperse e la richiuse poichè fu sparito per dentro.

«Ed ora, domandò Porthos, che faremo?

«Ora, amico Porthos, ci prevarremo di codesta spalla se la porta è
serrata. Ogni cosa a suo tempo, e tutto viene a punto a chi sappia
aspettare. Ma avanti si spranghi e impedisca l’uscio in modo opportuno,
e indi terremo appresso a quel forestiero».

I due compagni si accinsero tosto all’opra, ed ingombrarono l’ingresso
con quanti mobili trovarono nella sala, lo che rendeva l’adito più
impraticabile dacchè la bussola si apriva di dentro.

«Oh! disse d’Artagnan, ora siamo sicuri di non essere sorpresi da
tergo. Andiamo innanzi».

Arrivarono alla porta da cui era sparito Mazzarino; questa era chiusa;
invano d’Artagnan tentò aprirla.

«Ecco, egli disse, dov’è bisogno di dare un colpo delle vostre spalle;
spingete, Porthos, ma adagio e senza far rumore, non isfondate,
staccate gli sporti, e tanto basta».

Porthos appoggiò la robusta spalla ad uno degli sporti, il quale cedè,
e d’Artagnan introdusse la punta della spada fra la stanghetta e la
bocchetta della serratura; la stanghetta tagliata a ugnatura non resse,
e si spalancò l’usciale.

«Ma se ve lo dicevo, Porthos, che si ottien tutto dalle donne o dalle
porte con la dolcezza.

«Fatto sta, rispose Porthos, che siete un gran moralista!

«Entriamo».

Entrarono. Dietro ad una invetriata, al lume del lanternino del
ministro posato in terra in mezzo alla galleria, si scorgevano i
melaranci e i melagrani del castello di Rueil, collocati in lunghe file
facenti un gran viale e due altri laterali più piccoli.

«Niente ministro, fece d’Artagnan, ma soltanto la sua lucerna; e dunque
dove diamine sarà?».

E mentre esplorava una delle ali laterali, dopo aver fatto cenno ai
Porthos di esplorare l’altra, adocchiò ad un tratto alla sua mano manca
una cassa discostata dalla sua linea, e sul posto di quella una larga
buca. Dieci uomini avrebbero durato fatica a muovere la cassa, ma per
un meccanismo qualunque si fosse, essa aveva girato con la lastra che
la sosteneva.

D’Artagnan, secondo noi avvertimmo, trovò ivi una buca, ed in questa i
gradini di una scala a chiocciola.

Chiamò Porthos con un gesto e gli additò il vacuo e gli scalini.

Entrambi si guatarono confusi, perplessi.

«Se non volessimo altro che oro, disse sommessamente il Guascone,
avremmo trovato il nostro bisognevole, e saremmo ricchi in eterno.

«E come?.

«Non intendete, Porthos, che in fondo a questa scala, secondo ogni
probabilità, è il famoso tesoro di Mazzarino di cui tanto si parla, e
che a noi basterebbe scendere, vuotare una cassa, rinchiudervi dentro
il ministro, andarcene portando via quant’oro potessimo tirar con noi,
rimettere al posto quel melarancio, e nessuno al mondo ci domanderebbe
donde ci viene la nostra ricchezza, nemmeno il ministro?

«Sarebbe un bel colpo per dei villani, disse Porthos, ma mi pare
indegno di due gentiluomini.

«Così penso io pure, e perciò vi ho detto: se non volessimo altro che
oro, ma noi abbiamo altro in mira».

Nell’istante, e quando d’Artagnan si chinava verso il sotterraneo per
ascoltare, gli colpì l’orecchio un suono metallico e duro come di un
sacco d’oro che sia mosso. Egli si scosse. Tosto fu chiusa una porta, e
sulla scala comparvero i primi riflessi di un lume.

Mazzarino aveva lasciata la sua lampada nel locale degli agrumi, per
far credere che passeggiasse, ma aveva una candela di cera per visitare
il misterioso suo forziere.

«Eh eh! diceva in italiano intanto che saliva lentamente, esaminando
un sacco ben rotondo di reali, eh eh! ecco con che pagare cinque
consiglieri al Parlamento, e due generali di Parigi. Ancor io sono un
gran capitano; soltanto fo la guerra alla mia maniera».

D’Artagnan e Porthos si erano rannicchiati ciascuno in un viale
laterale, dietro una cassa, ed attendevano.

Mazzarino venne a distanza di tre passi dal Guascone, a spingere
una molla celata dal muro. La lastra girò, e il melarancio ch’essa
sosteneva tornò al suo posto.

Allora il ministro spense la candela e se lo rimise in tasca, e ripresa
la lampada, disse:

«Si vada a veder il signor di la Fère.

«Bene! pensò d’Artagnan, è la stessa strada che facciamo noi, andremo
insieme!»

Tutti tre si avviarono, Mazzarino pel viale di mezzo, e Porthos
e d’Artagnan per quelli dalle parti. Questi due ultimi scansavano
attentamente le lunghe linee luminose che fra le casse andava segnando
la lanterna.

Il ministro arrivò ad una seconda porta coi vetri senza accorgersi
di essere seguitato, perocchè l’arena molle attutiva il rumore che
facevano gli altri camminando.

Indi voltò a sinistra, prese da un corridojo a cui i due amici non
avevano ancor badato; ma sul punto di aprirne l’usciale si ristette
pensoso.

«Ah diavolo! proferì, mi scordavo la raccomandazione di Comminges:
bisogna che io pigli i soldati e li ponga qui fuori, onde non mettermi
a discrezione di quel demonio sfrenato».

E con un atto d’impazienza, si girò per tornare indietro.

«Non vi state ad incomodare, monsignore, disse d’Artagnan piantato
avanti il piede, col cappello in mano, con graziosissima ciera, abbiamo
seguitato sempre Vostra Eccellenza; e siamo qua.

«Sì, siamo qua, confermò Porthos».

E fe’ lo stesso gesto di garbato saluto.

Mazzarino fece correr gli occhi spaventati dall’uno all’altro, li
ravvisò ambedue, e si lasciò cadere la lanterna, dando un gemito di
paura.

D’Artagnan raccolse questa da terra; per buona sorte nel cascare non si
era smorzata.

«Oh! disse egli, monsignore, che imprudenza! non conviene andar senza
lume; Vostra Eccellenza potrebbe urtare in una cassa o ruzzolare in una
buca.

«Signor d’Artagnan! balbettò Mazzarino attonito.

«Sì, monsignore, son io che ho l’onore di presentarvi il signor du
Vallon, l’ottimo mio amico, a cui l’Eccellenza Vostra ebbe in addietro
la bontà d’interessarsi cotanto?»

E d’Artagnan diresse la luce della lampada verso la faccia allegra
di Porthos, che cominciava a comprendere ed era contentissimo. Di poi
continuò:

«Andavate dal signor di la Fère, monsignore; non vi pigliate soggezione
di noi; anzi, insegnateci la strada, e vi verremo appresso».

Mazzarino a poco a poco ripigliava fiato.

«Signori, è un pezzo che siete nel locale degli agrumi?» domandò con
voce tremula pensando alla visita che avea fatta allora al suo tesoro.

Porthos aprì bocca per rispondere, d’Artagnan gli fe’ un cenno, e la
bocca ammutolitasi, gradatamente si richiuse.

«Siamo giunti adesso» rispose il Guascone.

Il ministro respirò: non temeva più pel tesoro, ma solo per sè stesso.
Sulle labbra gli corse una specie di sorriso.

«Animo, replicò, mi avete preso nella rete, e mi do per vinto. Volete
chiedermi la libertà, non è vero? ve la concedo.

«Oh Eccellenza! siete troppo buono, ma la libertà noi l’abbiamo, e
avremmo più caro di domandarvi tutt’altro.

«Avete la libertà! disse sbigottito il ministro.

«Senza dubbio, ed all’incontro, voi, monsignore, l’avete perduta; e
adesso, che vuole ella, Eccellenza? tale è la legge della guerra, si
tratta di ricomprarsela».

Mazzarino si sentì rabbrividire in fondo al cuore. Fissò lo sguardo
penetrante, ma invano, sul volto beffardo del Guascone e su quello
impassibile del gigante. Entrambi stavano nascosti all’ombra, e nulla
vi avrebbe potuto leggere tampoco la Sibilla di Cuma.

«Ricomprare la mia libertà!

«Sì, monsignore.

«E quanto mi costerebbe, signor d’Artagnan?

«Eh.... non lo so ancora; lo domanderemo a momenti al conte di la Fère,
se Vostra Eccellenza lo permette; sicchè ella si degni aprire la porta
che guida da lui, e fra dieci minuti saprà l’occorrente».

Il ministro si scosse.

L’altro proseguì:

«L’Eccellenza Vostra vede con quanti riguardi la trattiamo; siamo però
costretti ad avvertirla che non abbiamo tempo da sprecare; dunque,
monsignore; aprite di grazia, e favorite ricordarvi una volta per
sempre, che al minimo movimento che faceste per fuggire, al minimo
grido che deste, essendo noi in una situazione eccezionale, non
dovreste avervi a male se ci portassimo a qualche estremità.

«Non dubitate, signori, disse Mazzarino, non farò alcun tentativo, vi
do la mia parola d’onore».

D’Artagnan ammiccò a Porthos che usasse maggiore sorveglianza, e
rispose:

«E adesso, monsignore, entriamo, se non vi spiace».



XC.

_Conferenze._


Mazzarino mosse il chiavistello di una doppia porta, e sulla soglia
si trovò Athos pronto a ricevere l’illustre visitante, a tenore dello
avviso dategli da Comminges.

E visto ch’ebbe il ministro, gli fece un inchino, dicendo:

«Vostra Eccellenza poteva dispensarsi da farsi accompagnare: l’onore
che mi concede, è troppo grande per ch’io me ne dimentichi.

«E perciò, caro, conte, disse d’Artagnan, Sua Eccellenza non ci
voleva assolutamente; du Vallon ed io abbiamo insistito, forse in modo
disdicente, tanto era nostro desiderio di vedervi».

Alla voce, all’accento motteggiatore, al gesto ben noto ch’era compagno
all’accento e alla voce, Athos balzò stupefatto esclamando:

«D’Artagnan! Porthos!

«In carne e in ossa, amico.

«E che vuol dir codesto? domandò il conte.

«Vuol dire, rispose Mazzarino tentando, conforme già aveva tentato di
sorridere, e sorridendo mordendosi le labbra, che si sono cambiate le
parti, e che invece di esser questi signori miei prigionieri, io sono
prigioniero di loro, talchè mi vedete costretto a ricever qui la legge
in luogo di dettarla. Ma ve lo avverto, ammenochè mi ammazziate, sarà
di poca durata la vostra vittoria; toccherà poi a me, e verrà....

«Monsignore! interruppe d’Artagnan, non minacciate, gli è cattivo
esempio. Noi siamo tanto docili e gentili con l’Eccellenza Vostra!
Orsù, bando al mal umore, bando ai rancori, e discorriamola
garbatamente.

«Per me non voglio altro, disse Mazzarino, ma sul punto di discutere
pel mio riscatto, non vuo’ che stimiate la vostra situazione per
migliore di quel ch’ella sia. Cogliendo me nel lacciuolo, vi ci siete
colti anco voi. Come uscirete di qua? Guardate le grate, guardate
le porte, guardate, o piuttosto figuratevi le sentinelle che sono a
invigilare dietro di esse, e i soldati che ingombrano i cortili, e
transigiamo. Ecco, io vi mostrerò che son leale.

«Ahi pensò d’Artagnan, giudizio, ci vuol fare qualche burla!

«Vi esibivo la libertà, continuò il ministro, e tuttora ve la esibisco.
La volete? Fra men di un’ora sarete scoperti, arrestati, e obbligati
ad uccidermi, lo che sarebbe delitto orribile e indegno totalmente di
integri gentiluomini pari vostri.

«Ha ragione!» fece Athos internamente.

E come ogni ragione che passava nell’animo suo, il quale non aveva se
non se nobili pensamenti, il suo concetto gli apparve negli occhi.

«E perciò, rispose d’Artagnan onde correggere la speranza che la tacita
adesione di Athos aveva data a Mazzarino, non ci ridurremo a tale atto
di violenza che agli ultimi estremi.

«Se al contrario, proseguì Mazzarino, mi lasciate andare, accettando la
vostra libertà....

«E come mai, gli troncò la parola così il Guascone, come mai
intendereste che accettassimo la nostra libertà, poichè potete
ritorcela voi stesso cinque minuti dopo avercela data?... E tal quale
vi conosco, monsignore, ce la ritogliereste!

«No, da ministro che sono! non mi credete?

«Non siete più ministro, monsignore, ma prigioniero.

«Dunque, da Mazzarino! Mazzarino sono, e sarò sempre, lo spero.

«Uhm! borbottò il tenente dei moschettieri, io ho inteso a parlare di
un Mazzarino poco mantenitore dei giuramenti, ed ho paura che fosse uno
degli antenati di Vostra Eccellenza.

«Signor d’Artagnan, avete molto spirito, e mi rincresce di essermi
messo in dissapori con voi.

«Monsignore, riconciliamoci, non chiedo di meglio.

«Or bene, se vi pongo in sicuro, in modo evidente, palpabile?

«Ah! è tutt’altro, fece Porthos.

«Sentiamo, seguitò Athos.

«Si senta, aggiunse d’Artagnan.

«Ma prima di tutto, accettate?

«Spiegateci il vostro piano, monsignore, e si vedrà.

«Badate che siete bell’e presi, e rinserrati.

«Sapete pure che ci riman sempre un’ultima risorsa, ribattè il Guascone.

«E quale?

«Quella di morire insieme».

Mazzarino ebbe addosso un brivido.

«Ecco, egli disse, in fondo al corridojo è una porta, di cui io ho la
chiave, e che dà sul parco. Andatevene con questa chiave. Siete svelti,
robusti, armati. A distanza di cento passi, voltando a sinistra,
incontrerete il muro del parco; lo passerete, e in tre salti sarete
sulla via maestra e liberi.... Ed io vi conosco abbastanza per esser
certo che se alcuno vi assalisce, questo non sarà già di ostacolo alla
vostra fuga.

«Ah cospettone! fece d’Artagnan, manco male! questo si chiama parlare.
Dov’è la chiave che favorite offerirci?

«Eccola.

«Ma.... Vostra Eccellenza ci condurrà ella stessa sino a quella porta?

«Volentieri, se questo abbisogna per mettervi in quiete».

Mazzarino che non si lusingava di uscirne con sì poco, si avviò allegro
verso il corridojo ed aprì.

La porta dava sul parco, ed i fuggiaschi se ne accorsero dal vento
notturno che fece volar loro la neve fin sul viso.

«Diamine! brontolò d’Artagnan, monsignore, è una nottata orribile! non
conosciamo le località, e non potremo ritrovare la via. Poichè Vostra
Eccellenza ha fatto tanto di venire fin qua, qualche altro passo, di
grazia, e ci guidi sino al muro.

«Va bene, disse il ministro».

E prendendo in retta linea, camminò sollecito verso il muro, appiè del
quale furono in breve tutti quattro.

«Siete contenti, signori? domandò Mazzarino.

«Lo credo, io! bisognerebbe esser troppo difficili! capperi! che tocco
d’onore! tre poveri gentiluomini scortati da un tal principone!....
Appunto, Vostra Eccellenza diceva dianzi che eravamo prodi, svelti ed
armati?

«Sì.

«Ella s’ingannava: armati siamo soltanto io ed il signor du Vallon; il
conte non lo è, e se c’imbattessimo in qualche pattuglia, bisogna che
ci possiamo difendere.

«È troppo giusto.

«Ma dove avremo una spada? chiese Porthos.

«Monsignore, disse d’Artagnan, presterà all’occorrenza la sua, che gli
è inutile.

«Volentieri, rispose il ministro, ed anzi pregherò il signor conte di
ritenerla per un mio ricordo.

«Questa è galanteria! fece il Guascone giratosi ad Athos.

«E perciò, questi replicò, io prometto a Sua Eccellenza di non mai
togliermela dal fianco.

«Benone, esclamò d’Artagnan, scambio di cortesie.... che cosa
commovente! Porthos, e non vi vengono le lacrime agli occhi?

«Sì, rispose Porthos, ma non so se sia tenerezza oppure il vento che mi
faccia piangere.... Ho idea che sia il vento.

«Ed ora, seguitò d’Artagnan, Athos, salite, e sbrigatevi».

Athos, ajutato da Porthos, che lo sollevò come una penna, arrivò sulla
gradinata.

«Adesso saltate».

Athos saltò, e sparì dall’altro lato del muro.

«Siete a terra? domandò il tenente.

«Sì.

«Senza disgrazie?

«Sano e salvo.

«Porthos, state ad osservare il signor ministro, intanto che io
salgo. No, non ho necessità di voi, salirò da per me: badate al signor
ministro, e tanto basta.

«Bado.... disse Porthos. Ebbene?

«Avete ragione, è più difficile di quel che m’immaginavo. Porgetemi la
schiena, ma senza lasciare andare monsignor ministro.

«Non lo lascio».

Porthos porse la schiena al Guascone, il quale mercè quell’appoggio fu
presto cavalcioni sul cornicione.

Mazzarino fingeva di ridere.

«Ci siete? domandò Porthos.

«Sì.... ed ora....

«Ora, che?

«Datemi su il signor ministro, e se grida, strozzatelo».

Mazzarino voleva esclamare, ma Porthos lo strinse con ambe le mani, e
lo alzò sino a d’Artagnan, che lo pigliò pel collare dell’abito, e se
lo mise a sedere accanto, e indi strillò minaccioso:

«Signore, balzate subito abbasso vicino al signor di la Fère, o da
gentiluomo, vi uccido!

«Oh! urlò il Mazzarino, mancate alla fede promessa!

«Io? vi ho promesso forse qualche cosa?»

Il ministro cacciò un sospiro, e rispose:

«Siete libero per dato e fatto mio; la vostra libertà era il mio
riscatto.

«Sarà; ma il riscatto dell’immenso tesoro nascosto nella galleria, ed a
cui si scende spingendo una molla celata nella muraglia, che fa girare
una cassa, la quale poi scuopre una scala, ehi! non si ha da discorrere
un pochetto anche di quello?

«Gesù! fece Mazzarino quasi soffocando e a mani giunte, Gesù, mio Dio!
sono un uomo perduto!»

D’Artagnan, però, senza dar mente a’ suoi lamenti, lo afferrò di sotto
il braccio e lo fe’ scivolare pian piano nelle mani di Athos che era
rimasto giù fermo.

E voltosi a Porthos, d’Artagnan continuò:

«Pigliatemi per la mano; io mi reggo al muro.»

Porthos fece uno sforzo che scosse il muro, ed a vicenda arrivò in cima.

«Non avevo capito del tutto, esso disse, ma ora capisco: è curiosissima!

«Vi pare così? replicò il Guascone, tanto meglio! ma perchè sia curiosa
sino all’ultimo, non isprechiamo il tempo».

E balzò abbasso.

E Porthos lo imitò.

«Signori, seguitò d’Artagnan, accompagnate il signor ministro; io
scandaglio il terreno».

Il tenente cavò fuori la spada, e marciò alla vanguardia.

«Monsignore, domandò, d’onde si deve girare per giungere alla
strada maestra? Riflettete bene innanzi di rispondere, poichè se
Vostra Eccellenza prendesse abbaglio, ne potrebbero resultare gravi
conseguenze, non solo per noi, ma anche per lei.

«Rasentate la muraglia, rispose Mazzarino, e non arrischierete di
smarrirvi».

I tre amici si sollecitarono, ma indi a poco dovettero rallentare il
passo, chè ad onta di tutta la buona volontà il ministro non poteva
tener loro appresso.

Ad un tratto d’Artagnan inciampicò in qualche cosa tepida, la quale si
mosse.

«Veh! disse egli, un cavallo; signori, ho trovato un cavallo.

«Ed anch’io, aggiunse Athos.

«Io pure, confermò Porthos, che puntuale alla consegna teneva sempre
Mazzarino per il braccio.

«Questa è sorte, monsignore! fece d’Artagnan, appunto nel momento che
Vostra Eccellenza si lagnava di dover ire a piedi....»

Però nell’atto che profferiva queste parole, gli si calò sul petto la
canna di una pistola, ed egli udì a pronunziare gravemente:

«Non toccate!

«Grimaud, esclamò allora, Grimaud, che fai tu costì? Il cielo ti ha
mandato.

«Signor no, rispose l’onesto domestico, è il signor Aramis che mi ha
ordinato di badare ai cavalli.

«Dunque Aramis è qui?

«Sì, fino da jeri.

«E che fate?

«Facciamo la posta.

«Come, è qui Aramis? ripetè Athos.

«Alla piccola porta del castello: era là il suo posto.

«Sicchè siete in molti?

«Siamo sessanta.

«Fallo avvertire.

«Subito».

Grimaud, pensando che nessuno eseguirebbe meglio di lui l’incombenza,
si partì a gambe, mentre i tre amici contenti di essere finalmente
riuniti rimanevano ad attendere.

Fra tutta la comitiva non v’era altro di mal umore che il signor di
Mazzarino.



XCI.

_Ove si comincia a credere che alla fine Porthos sarà barone e
d’Artagnan capitano._


A capo a dieci minuti arrivò Aramis, accompagnato da Grimaud e da otto
o dieci gentiluomini. Era esultante, e si gittò al collo agli antichi
colleghi.

«Fratelli! dunque siete liberi? liberi senza mio ajuto! e nulla avrò
potuto io fare a pro vostro, non ostante i miei sforzi?

«Non vi disperate, mio caro: il differito non è perduto; ciò che non
poteste fare, lo farete.

«Eppure avevo prese bene le mie misure, rispose Aramis, ho ottenuto dal
Coadjutore sessanta uomini: venti custodiscono le mura del parco, venti
la strada da Rueil a San Germano, venti sono sparsi per la macchia;
così, e mediante queste disposizioni di strategia, ho intercettato due
corrieri di Mazzarino per la regina».

Mazzarino drizzò le orecchie.

«Ma, disse d’Artagnan, mi figuro che gli avrete garbatamente rimandati
al signor ministro?

«Oh sì! con lui, giusto, mi picchierò di simili delicatezze! In uno
di quei dispacci Mazzarino dichiara alla sovrana che i forzieri sono
vuoti e che Sua Maestà non ha più danari; nell’altro annunzia che farà
trasportare i suoi prigionieri a Melun, non sembrandogli Rueil assai
sicuro. Capite che quest’ultima lettera mi ha date delle speranze;
mi sono imboscato co’ miei sessanta, ho attorniato il castello, ho
fatto preparare dei cavalli scossi, e li ho affidati all’intelligente
Grimaud, ed ho aspettato che usciste; non me ne lusingavo sino a
domattina, e non speravo di liberarvi senza una scaramuccia. Siete
liberi questa sera, liberi, senza battaglia, meglio così! Come avete
fatto per isfuggire a quel gaglioffo di Mazzarino? dovete aver avuto da
lagnarvene di molto!

«Non troppo, fece d’Artagnan.

«Davvero?

«Dirò anzi di più: abbiamo avuto da lodarcene.

«È impossibile!

«Sì; in verità: per grazia sua siamo liberi.

«Per grazia sua!

«Certo: ci ha fatti condurre nel locale degli agrumi dal signor
Bernouin suo cameriere, e di là lo abbiamo seguitato fino dal conte
di la Fère. Allora ci ha offerto di renderci la libertà; abbiamo
accettato, ed egli ha portata la compiacenza sino a insegnarci la
strada e guidarci alla muraglia del parco, la quale avevamo scalata con
buonissimo esito quando abbiamo incontrato Grimaud.

«Oh bene! continuò Aramis, questo mi rappattuma con lui, e vorrei che
fosse qui per dirgli che non lo supponevo capace di una azione tanto
bella.

«Monsignore, disse d’Artagnan che non poteva più frenarsi, permettetemi
di presentarvi il signor cavaliere d’Herblay, che desidera fare,
secondo avrete udito, le sue rispettose congratulazioni a Vostra
Eccellenza».

E si ritirò discuoprendo Mazzarino confuso agli sguardi sbigottiti di
Aramis.

«Ah ah! gridò questi, il ministro! bella presa! olà, amici! presto! i
cavalli!»

Accorsero parecchi cavalieri.

«Cospetto! ei continuò, sarò stato utile a qualcosa. Monsignore,
l’Eccellenza Vostra si degni di ricevere il mio omaggio!.... scommetto
che è quel Porthos che ha fatto questo buon colpo!.... a proposito, mi
scordavo....»

E diede sotto voce qualche ordine ad uno de’ suoi.

«Mi pare che sarebbe prudenza andarcene, osservò d’Artagnan.

«Sì, ma io attendo uno.... un amico di Athos....

«Un amico? domandò il conte.

«Ah! eccolo, che viene di galoppo fra i cespugli.

«Signor conte! signor conte! gridò una voce giovanile che fece
palpitare Athos.

«Raolo! Raolo! esclamò il signor di la Fère».

Per un momento il giovanetto dimenticò il rispetto suo consueto, e si
gittò al collo a suo padre.

«Vedete, signor ministro, non sarebbe stato peccato di separare persone
che si amano come noi?.... Signori (disse poscia Aramis ai cavalieri
che giungevano in numero sempre maggiore), circondate Sua Eccellenza
onde farle onore; si compiace accordarci il favore della sua compagnia,
e non dubito che voi gliene sarete grati. Porthos, non perdete di vista
monsignore».

Ed Aramis, riunitosi a d’Artagnan ed Athos che parlavano, conferì
insieme con essi.

«Animo, in cammino! fece quindi d’Artagnan.

«E dove si va? chiese Porthos.

«Da voi, mio caro, a Pierrefonds; la vostra bella villa è degna
di offrire la sua signorile ospitalità a Sua Eccellenza; e di più
benissimo situata, nè troppo vicina, nè troppo lontana da Parigi; di
là si potranno stabilire facili comunicazioni colla capitale. Venite,
monsignore, ci starete da principe come siete.

«Principe decaduto, ribattè in tuono dolente Mazzarino.

«La guerra ha le sue eventualità, replicò Athos, ma siate certo che non
ne faremo abuso.

«No, ma ne faremo uso», terminò d’Artagnan.

In tutto il resto della nottata, i rapitori corsero con la instancabile
rapidità dei tempi passati; Mazzarino, cupo e pensoso, si lasciava
trascinare in mezzo a quel cammino da fantasme.

All’alba avevano fatte dodici leghe in una tirata; la metà della scorta
era spossata, caddero varj cavalli.

«I cavalli d’oggidì, disse Porthos, non sono come quelli che si avevano
in addietro; tutto va degenerando.

«Ho mandato Grimaud a Dammatin, rispose Aramis, deve portarci
cinque palafreni riposati, uno per Sua Eccellenza e quattro per noi.
L’essenziale si è di non abbandonare monsignore; il rimanente della
scorta ci seguirà più tardi: una volta che siasi oltrepassato San
Dionigi, di nulla abbiamo più da temere».

Realmente Grimaud condusse cinque corsieri; il signore, a cui si
era egli rivolto, essendo amico di Porthos, erasi affrettato, non a
venderli, conforme gli si proponeva, ma bensì a regalarli. Dopo dieci
minuti la scorta si fermava ad Ermenonville, ma i quattro camerati
trottavano con maggiore impegno, facendo guardia al signor ministro.

E a mezzogiorno succedeva l’ingresso nel viale della villa di Porthos.

«Ah! fece Mousqueton, che era accanto a d’Artagnan e non aveva cacciata
fuori una parola in tutto il tragitto; mi avete a credere se vi pare,
signor mio, ma questa è la prima volta che respiro da dopo che sono
partito da Pierrefonds».

E spronò al galoppo per annunziare agli altri servi l’arrivo di du
Vallon e de’ suoi amici.

«Siamo quattro, disse d’Artagnan ai colleghi, faremo la muta per essere
di guardia a monsignore, e ciascuno di noi veglierà per tre ore. Athos
va a visitare il palazzo, che convien rendere inespugnabile in caso di
assedio; Porthos baderà alle vettovaglie, ed Aramis all’entrata delle
guarnigioni, lo che vuol dire che Athos sarà ingegnere principale,
Porthos generale provveditore, ed Aramis governatore della piazza».

Frattanto misero il Mazzarino nel più bell’appartamento.

«Signori, ei disse quando fu ivi stabilito, m’immagino che non abbiate
idea di tenermi qui gran tempo incognito?

«No, monsignore, rispose d’Artagnan, al contrario, divisiamo annunziare
prestissimo che vi abbiamo nelle mani.

«E sarete assediati!

«L’abbiam per sicuro.

«E che farete?

«Ci difenderemo. Se fosse vivo il fu ministro signor di Richelieu,
vi racconterebbe una storia di sul bastione San Gervasio, dove noi
quattro, con altrettanti nostri lacchè e dodici morti, reggemmo forte
contro un’intera armata.

«Codeste prodezze si fanno una volta, e non si rinovano.

«E perciò, in quest’oggi non avremo bisogno di tanto eroismo. Domani
l’armata parigina sarà prevenuta: posdomani la sarà qui. La battaglia,
anzichè darsi a San Dionigi o a Charenton, si darà dunque verso
Compiegne o Villers-Cotterets.

«Il signor principe vi batterà come ha fatto sempre.

«Può essere; ma prima del combattimento faremo sgambettare Vostra
Eccellenza in un’altra tenuta del nostro du Vallon, ed esso ne ha tre
simili a questa. Non vogliamo esporre l’Eccellenza Vostra ai cimenti
della guerra.

«Orsù, disse Mazzarino, vedo che converrà capitolare.

«Avanti l’assedio?

«Sì; forse saranno migliori le condizioni.

«Oh! per quanto alle condizioni, osserverete, monsignore, quanto siamo
ragionevoli.

«Animo, che condizioni sono le vostre?

«Prima, monsignore, riposatevi; e noi ci rifletteremo.

«Non ho necessità di riposo, ma di sapere se sono in mani amiche o
nemiche.

«Amiche, amiche, Eccellenza!

«Or dunque, ditemi subito ciò che volete, onde io conosca se è
possibile fra noi un aggiustamento. Parlate, signor conte di la Fère.

«Monsignore, replicò Athos, per me nulla ho da chiedere, e troppo
per la Francia; quindi mi astengo, e cedo la parola al cavaliere
d’Herblay».

Ed inchinatosi, mosse un passo all’indietro, e rimase in piedi
appoggiato al caminetto, come semplice spettatore.

«Dite su, riprese il ministro, che bramate? non vi siano ambiguità, non
finezze; siate breve, succinto e preciso.

«Io, monsignore, giuocherò a carte scoperte.

«Dunque, fuori il vostro giuoco!

«Ho in saccoccia, disse Aramis, il programma dei patti che venne ad
imporvi jeri l’altro a San Germano la deputazione nella quale facevo
parte ancor io. Rispettiamo in primo luogo i diritti antichi: le
domande inserite nel programma saranno concesse.

«Su quelle, rispose Mazzarino, eravamo quasi d’accordo: si passi perciò
ai patti particolari.

«Credete dunque che ve n’abbiano da essere? fece Aramis sogghignando.

«Credo che non tutti avrete un disinteresse eguale a quello del signor
di la Fère, ripicchiò Mazzarino volgendosi a salutare Athos.

«Ah! monsignore, avete ragione, disse Aramis, e sono lieto di scorgere
che finalmente rendete giustizia al conte: il signor di la Fère è
una mente superiore, che sorvola sui desiderj volgari e sulle umane
passioni, è un’anima all’antica ed altera. Il signor conte è un uomo
diverso dagli altri. Dite bene, monsignore, noi non siamo da suo pari,
e siamo i primi a confessarlo con voi.

«Aramis! domandò Athos, forse burlate?

«No, caro conte, no.... dico quel che pensiamo e noi e tutti coloro
che ci conoscono.... ma avete ragione: non si tratta di voi, e bensì di
monsignore, e dell’indegno suo servo cavaliere d’Herblay.

«Ebbene! che desiderate oltre i patti generali sui quali torneremo a
discorrere?

«Desidero, Eccellenza, che si dia la Normandia alla signora di
Longueville, con piena e intera assoluzione, e cinquecento mila lire;
che Sua Maestà il re si degni esser compare del figliuolo ch’ella ha
dato alla luce di recente; e che monsignore, dopo avere assistito al
battesimo, vada a presentare i suoi omaggi al sommo Pontefice.

«Cioè, volete ch’io mi dimetta dalle mie funzioni di ministro, che
abbandoni la Francia, che me ne vada esule? E voi, signorino? domandò
Mazzarino a d’Artagnan.

«Io, rispose il Guascone, sono precisamente dell’opinione del cavaliere
d’Herblay, eccetto che sull’ultimo punto; invece di bramare che
monsignore lasci la Francia, bramo che resti in Parigi, ed in sostanza
che rimanga primo ministro, perocchè egli è un gran politico. Procurerò
ancora, per quanto da me dipenda, ch’egli abbia la preponderanza su
tutta la _Fronda_, ma a patto che si rammenti alcun poco dei fidi
servitori del re, e dia la prima compagnia di moschettieri ad uno il
quale sarà da me accennato. E voi, du Vallon?

«Sì, tocca a voi, fece Mazzarino, parlate.

«Io, replicò Porthos, vorrei che il signor ministro, per onorare la mia
casa che gli ha dato asilo, in memoria di quest’avventura, favorisse
erigere le mia tenuta in baronia, con promessa dell’ordine per uno de’
miei amici alla prima promozione che farà Sua Maestà.

«Sapete pure, signor mio, che per ricever l’ordine bisogna fare delle
prove.

«E l’amico le farà. D’altronde, se occorresse assolutamente, monsignore
gli direbbe come si scansa questa formalità».

Mazzarino si morse le labbra; il colpo era diretto, ed egli riprese
aspramente:

«Tutte queste cose, a parer mio, si combinano malamente, poichè se
soddisfo alcuni, forzatamente disgusto gli altri. Se sto a Parigi, non
posso andare a Roma; se ci vado, non posso rimaner ministro, e se non
lo sono, non posso far capitano messer d’Artagnan e barone messer du
Vallon.

«È vero, confermò Aramis, e perciò, siccome io formo minorità, ritiro
la mia proposizione in quel che si spetta alla gita a Roma ed alla
dimissione di Sua Eccellenza.

«Dunque resto ministro? domandò Mazzarino.

«Ci s’intende! disse d’Artagnan, la Francia ha d’uopo di voi.

«Ed io desisto dalle mie pretese, e Sua Eccellenza rimarrà primo
ministro, ed anche favorito di Sua Maestà, se vuol concedere a me ed
agli amici miei ciò che chiediamo per la Francia e per noi.

«Badate a voi, signori, e lasciate che la Francia si accomodi meco come
intendo, brontolò Mazzarino.

«Signor no! signor no! gridò Aramis, abbisogna ai _Frondisti_ un
trattato, e l’Eccellenza Vostra si compiacerà redigerlo e firmarlo
davanti a noi, obbligandosi con quello ad ottenerne la ratifica dalla
regina.

«Non posso guarentire se non per me, non posso guarentire per la
regina: e se Sua Maestà ricusa....

«Oh! interruppe il Guascone, voi sapete, monsignore, che nulla può
ricusarvi la sovrana.

«Ecco, continuò Aramis, ecco il trattato proposto dalla deputazione dei
Frondisti: si degni Vostra Eccellenza leggerlo ed esaminarlo.

«Lo conosco, disse Mazzarino.

«Dunque sottoscrivetelo.

«Riflettete, signori, che una firma apposta nelle circostanze in cui
siamo potrebbe considerarsi come carpita con violenza!....

«E Vostra Eccellenza sarà là pronta a dichiarare di averla data
volontariamente.

«Ma, in conclusione, se io do un rifiuto?

«Ah! fece d’Artagnan, Vostra Eccellenza avrà a dolersi con sè sola
delle conseguenze del rifiuto.

«Osereste alzar la mano sul ministro!

«Osaste pure alzarla voi sui moschettieri di Sua Maestà.

«La regina mi vendicherà.

«Non lo credo.... benchè la reputi a ciò dispostissima; ma noi andremo
a Parigi con Vostra Eccellenza, e i Parigini sono gente da difenderci.

«In che inquietudine debbono essere in questo momento a Rueil e a San
Germano! disse Aramis, come devono domandare ove sia il ministro, ove
sia passato il favorito! come devono cercarlo da per tutto! quanti
commenti si debbono fare, e come deve trionfare la _Fronda_ se sa che
sia sparito monsignore!

«È terribile! mormorò Mazzarino.

«Dunque sottoscrivete il trattato, disse Aramis.

«Ma se io lo firmo, e Sua Maestà nega la sua ratifica?

«Mi assumo io di andare da Sua Maestà e di ottenerla, ribattè il
Guascone.

«Badate, fece Mazzarino, di non ricevere a San Germano l’accoglienza a
cui vi credete aver diritto.

«Eh via! mi regolerò in modo da esser colà benvenuto; so bene un mezzo.

«E quale?

«Recherò alla regina la lettera con cui Vostra Eccellenza le annunzia
totalmente esauste le finanze.

«E poi? disse il ministro fattosi più pallido.

«E poi quando vedrò Sua Maestà nel massimo imbarazzo, la ricondurrò
a Rueil, la farò entrare nel locale degli agrumi, e le indicherò una
certa molla che fa muovere una cassa.

«Basta, signore! basta! brontolò il ministro, dov’è il trattato?

«Eccolo, rispose Aramis.

«Vedete che siamo generosi, soggiunse d’Artagnan, poichè molte cose
potevamo fare con un simil segreto.

«Orsù, firmate, proseguì Aramis porgendo la penna».

Mazzarino si alzò, passeggiò un poco, più pensieroso che abbattuto;
indi fermatosi ad un tratto:

«Signori, e quando avrò sottoscritto, qual sarà la mia garanzia?

«La mia parola d’onore, proferì Athos».

Mazzarino si scosse, si volse verso il conte di la Fère, esaminò per un
istante quel volto leale e nobile, e presa la penna, disse:

«Questa mi basta, signor conte».

E firmò.

«Adesso, signor d’Artagnan, soggiunse poi, preparatevi a partire per
San Germano, ed a portare alla regina una mia lettera».



XCII.

_Qualmente con una penna e una minaccia si fa meglio e più presto che
con la spada e lo zelo._


D’Artagnan era istrutto in mitologia; sapeva che l’occasione ha un
solo ciuffo di capegli, da cui si possa afferrarla, e non era uomo
da lasciarla passare senza fermarla dal toppè. Organizzò un metodo
di viaggio pronto e sicuro, mandando anticipatamente dei cavalli da
muta a Chantilly, in guisa ch’ei potrebbe essere a Parigi in cinque o
sei ore. Ma innanzi di partire riflettè che per un giovane di spirito
e d’esperienza, era una posizione singolare quella di camminare
all’incerto, e dietro di sè andar lasciando codesta incertezza.

«Infatti, diceva fra sè stesso sul punto di salire a cavallo per
adempiere al periglioso suo incarico, Athos è un eroe da romanzo per
la generosità; Porthos, un’indole ottima, ma soggetto alle altrui
influenze; Aramis, un viso geroglifico, cioè impossibile sempre a
leggersi. Che produrranno questi tre elementi, quando io non sarò
più là a ricongiungerli insieme? Forse la liberazione del ministro!
e questa è la rovina delle nostre speranze, e le speranze nostre sono
finora l’unica ricompensa di venti anni di fatiche a confronto delle
quali quelle di Ercole sono opere da pigmei».

D’Artagnan se n’andò da Aramis.

«Voi, caro cavaliere d’Herblay, gli disse, siete la _Fronda_ incarnata;
diffidatevi adunque di Athos, che non vuol fare gli affari di veruno,
e tampoco i suoi propri; diffidatevi specialmente di Porthos, che per
dare nel genio al conte, cui considera come una Divinità sulla terra,
lo ajuterà a far fuggire Mazzarino, se questi ha tanto giudizio da
piangere un pochino o da mostrar sentimenti cavallereschi».

Aramis mosse il suo solito sorrisetto scaltro e risoluto.

«Non temete, rispose, ho da stabilire le mie condizioni. Io non lavoro
per me, ma per gli altri, e bisogna che la mia piccola ambizione tenda
a profitto di chi si spetta.

«Bene! pensò d’Artagnan, per questo lato sto quieto».

Strinse la mano ad Aramis, e se n’andò da Porthos.

«Amico, gli disse, voi avete lavorato tanto con me per costruire
l’edifizio della nostra fortuna, che nel momento in cui siamo a
procinto di cogliere il frutto delle nostre fatiche sarebbe una
ridicola baggianata se vi lasciaste dominare da Aramis, del quale vi
è nota la scaltrezza (diciamolo pure fra noi) non sempre scevra da
egoismo, o da Athos, uomo nobile e disinteressato, ma anche stuccato e
indifferente, che nulla più bramando per sè stesso, non comprende che
gli altri bramino qualche cosa. Che direste se uno o l’altro di quei
nostri amici vi proponesse di lasciar andare Mazzarino?

«Oh! direi che abbiamo stentato troppo a pigliarlo, per levarcelo di
mano così!

«Bravo, Porthos! ed avreste ragione, mio caro; perchè insieme con lui
vi levereste di mano la baronia che avete bell’e pronta, senza contare
che Mazzarino appena fosse fuori di qui vi farebbe appiccare.

«Veramente? lo credete?

«Ne sono sicuro.

«Allora, piuttosto lo ammazzerei che lasciarlo scappare.

«Ed agireste benone. Capite che quando abbiamo pensato di fare i fatti
nostri, non ci dobbiamo ridurre ad aver travagliato per i Frondisti, i
quali d’altronde non intendono le quistioni politiche come noi vecchi
soldati.

«Non abbiate paura, disse Porthos, sto alla finestra a vedervi saltare
a cavallo, vi seguo con gli occhi sino a che siate sparito, poi torno a
piantarmi alla porta del ministro, ad un usciale coi vetri che dà sulla
camera; di là osserverò ogni cosa, ed al minimo gesto sospetto fo un
esterminio.

«Ottimamente! pensò d’Artagnan, spero che da questo lato il ministro
sarà custodito a dovere».

E stretta la destra al signor di Pierrefonds, andò da Athos.

«Mio caro Athos, disse allora, io parto; non ho da darvi che un avviso:
voi conoscete la regina Anna; la detenzione del signor di Mazzarino è
l’unica mia guarentigia; se ve lo lasciate scivolare, io son morto.

«Non ci voleva meno di questa considerazione, d’Artagnan mio, per
indurmi a fare il mestiere del carceriere; vi do parola che ritroverete
il ministro dove ora lo sapete.

«Questo mi pone in quiete meglio che tutte le regie firme, pensò
il tenente dei moschettieri; ora che ho la promessa di Athos, posso
partire».

E realmente si avviò, solo, senz’altra scorta che la propria spada,
e con un semplice passavanti di Mazzarino onde pervenire presso alla
sovrana. Sei ore dopo essersi mosso da Pierrefonds era a San Germano.

Vi s’ignorava tuttavia che fosse scomparso Mazzarino; lo sapeva
soltanto Anna, la quale occultava il suo dispiacere anche alle persone
di sua maggiore intimità. Nella stanza di d’Artagnan e di Porthos
eransi rinvenuti i due soldati legati e manettati; a questi si era reso
immediatamente l’uso delle membra e della favella, ma non avevano da
dire altro se non ciò che stava a lor cognizione, cioè, come fossero
stati tirati su, avvinti e spogliati; però di quel che avessero fatto
Porthos e d’Artagnan essendo usciti dalla porta onde eglino erano
entrati, i meschinelli si rimanevano all’oscuro al pari di tutti gli
altri abitanti del castello.

Bernouin soltanto era un po’ più informato. Non vedendo ritornare
il suo padrone, e udita suonare la mezzanotte, si era azzardato a
penetrare nel locale degli agrumi; la porta chiusa mediante i mobili
postivi a ridosso gli aveva dato qualche sospetto; bensì egli non
avea voluto di questi dare comunicazione a veruno, e con pazienza
erasi aperto il varco sgombrando tutta quella roba. Poi giunto nel
corridojo lo trovava spalancato da ogni lato; così pure succedeva
della porta della camera di Athos e di quella del parco. Arrivato
colà, gli fu facile di seguitare i passi impressi sulla neve; vide che
questi finivano al muro. Dalla parte opposta scorse la stessa traccia,
e indi zampate di cavalli, e poscia le orme di una intera compagnia
di cavalleria allontanatasi nella direzione di Enghien. Allora non
gli restò più dubbio che il ministro fosse stato portato via dai tre
prigionieri, dacchè questi insieme con lui erano spariti, e di tutto
ciò Bernouin correva a dar avviso alla regina a San Germano.

Anna gli raccomandò il silenzio, ed egli lo serbò rigorosamente. Se non
che ella fece venire a sè il signor Principe, al quale raccontò tutto,
e che tosto mise in moto cinque o seicento uomini a cavallo, con ordine
di visitare i contorni, e ricondurre a San Germano qualunque truppa
sospetta che movesse da Rueil per qual si fosse direzione.

Ed ora, siccome d’Artagnan non formava una truppa, giacchè era solo,
giacchè non si allontanava da Rueil, giacchè andava a San Germano, così
niuno gli badò, nè fuvvi il menomo ostacolo al suo viaggio.

La prima persona che il nostro ambasciadore ebbe veduta, all’entrare
nel cortile del vecchio palazzo fu propriamente messer Bernouin, che,
ritto sulla soglia, attendeva notizie del padrone.

Bernouin, scorgendo d’Artagnan che passava a cavallo nel cortile
d’onore, si fregò gli occhi e credè avere sbagliato. Ma d’Artagnan
col capo gli fece un piccol cenno amichevole, e smontò, e gettata la
briglia del palafreno sul braccio di un lacchè, si avanzò col sorriso
sul labbro incontro al gran cameriere.

Il quale alla guisa di uno che preso quasi da incubo parli di notte
dormendo, esclamò:

«Il signor d’Artagnan!

«Per l’appunto, signor Bernouin.

«E a che venite?

«A recar nuove del signor di Mazzarino, ed anche freschissime.

«Ah! e che n’è stato di lui?

«Sta precisamente come voi ed io.

«Non gli è dunque avvenuta alcuna disgrazia?

«Nessuna assolutamente. Ha provato soltanto il bisogno di fare una gita
nell’Isola di Francia, e ci ha pregati di accompagnarlo, il conte di
la Fère, du Vallon e me. Eravamo talmente suoi servi da non potergli
ricusare una simile domanda. Partimmo jeri sera, ed eccomi qua.

«Eccovi qua!

«Sua Eccellenza aveva da far dire a Sua Maestà qualche cosa, di
particolare, di segreto, un’ambasciata de non affidarsi che ad un
soggetto sicuro, e perciò mi ha inviato a San Germano. Sicchè, mio
caro signor Bernouin, se volete far cosa gradita al vostro padrone,
avvertite Sua Maestà del mio arrivo e partecipategliene lo scopo».

O parlasse sul serio, o il suo discorso fosse un mero scherzo, essendo
però evidente che nelle attuali circostanze d’Artagnan era l’unico
individuo in grado di trarre dall’inquietudine la regina Anna, Bernouin
non ebbe difficoltà ad andare a riportarle quel singolare messaggio, e
secondo aveva egli preveduto, la sovrana gli diede ordine d’introdurre
sul momento il signor d’Artagnan.

D’Artagnan si appressò alla regina con dimostrazioni di profondo
rispetto. Arrivato a tre passi di distanza da lei, mise a terra un
ginocchio e le porse il dispaccio.

Era, conforme accennammo, una semplice lettera, mezza d’introduzione e
mezza di credito. La regina la lesse, riconobbe benissimo il carattere
del ministro, benchè fosse scritto un po’ tremolante, e siccome il
foglio non le spiegava niente di quanto era accaduto, ne addimandò dei
dettagli.

Il Guascone le raccontò ogni cosa con le maniere ingenue che sapeva
assumere a meraviglia in certe circostanze.

A misura ch’ei favellava Anna lo guardava con maggiore stupore; non
comprendeva come un uomo osasse immaginare una tale impresa, ed anche
meno che avesse l’audacia di narrarla a lei, di cui era interesse e
quasi dovere di punirla.

«Come! ella esclamò quando egli ebbe terminato, come! ardite
confessarmi il vostro delitto! informarmi così del vostro tradimento!»

E si faceva rossa per la somma indignazione.

«Perdonate, signora, ma mi sembra che o mi sono spiegato male o Vostra
Maestà non mi ha inteso bene. Non v’è in ciò delitto nè tradimento.
Il signor di Mazzarino teneva carcerati du Vallon e me, perchè non
avevamo potuto credere ch’ei ci avesse spediti in Inghilterra onde
veder tranquillamente tagliar la testa al re Carlo I, cognato del
defunto re vostro consorte, sposo di Enrichetta vostra sorella, e
ospite vostra, e che abbiam fatto quanto per noi si poteva onde salvare
la vita al regio martire. Eravamo dunque convinti, il mio amico ed io,
che vi fosse sotto qualche errore di cui noi stessi fossimo vittime, e
ch’esistesse la necessità di una spiegazione nostra con Sua Eccellenza.
Ora, acciò una spiegazione dia il suo frutto è d’uopo che si faccia
tranquillamente, lungi da strepiti e da importuni. In conseguenza,
abbiamo condotto il signor ministro nel castello del mio amico, e là
si è proceduto agli schiarimenti. Or bene, quel che avevamo preveduto
era vero, v’era un abbaglio. Il signor di Mazzarino aveva pensato che
avessimo servito il generale Cromvello invece che il re Carlo: la quale
sarebbe stata una vergogna che ridonderebbe da noi a lui e da lui a
Vostra Maestà; una viltà che macchiata avrebbe sul suo primo ceppo la
regia autorità dell’illustre vostro figlio. E noi gli demmo la prova
del contrario, e questa prova siamo pronti a darla a Vostra Maestà,
appellandoci all’augusta vedova che piange in quel Louvre dove le ha
dato alloggio la vostra regale munificenza. E la prova lo ha appagato
a tal segno, che in attestato della sua soddisfazione mi ha mandato,
secondo vede la Maestà Vostra, a ragionare con essolei del risarcimento
naturalmente dovuto a gentiluomini male apprezzati e perseguitati a
torto.

«Vi ascolto e vi ammiro! disse Anna. In verità, rade volte ho veduto un
eguale eccesso d’impudenza!

«Oh! fece d’Artagnan, ecco che adesso anche Vostra Maestà s’inganna
in proposito delle nostre intenzioni, come era avvenuto al signor di
Mazzarino.

«Siete in errore, signore, ribattè la regina, e tanto è vero che non
m’inganno, che fra dieci minuti voi sarete arrestato, e fra un’ora
io partirò alla testa della mia armata per andar a liberare il mio
ministro.

«Sono certo che Vostra Maestà non commetterà una tale imprudenza,
rispose il Guascone, prima perchè sarebbe inutile, e poi perchè
trarrebbe a risultati gravissimi. Innanzi di esser liberato il signor
ministro sarebbe morto, e Sua Eccellenza è sì ben persuasa della realtà
di ciò ch’io asserisco, che mi ha pregato, pel caso ch’io vedessi
la Maestà Vostra in queste disposizioni, di fare il possibile onde
ottenere che muti progetto.

«Or bene, dunque mi contenterò di farvi arrestare.

«Neppur questo, signora, perocchè il caso del mio arresto è preveduto
non meno che quello della liberazione del ministro. Se domani ad un’ora
fissa io non sono tornato, doman l’altro mattina il signor ministro
sarà condotto a Parigi.

«Signor mio, ben si vede, che per ragione della vostra situazione
vivete lungi dagli uomini e dalle faccende; chè diversamente sapreste
qualmente il ministro è stato cinque o sei volte a Parigi, da quando
noi ne siamo usciti, e colà ha veduto il signor di Bouillon, il signor
Coadjutore, il signor d’Elboeuf, e neppur uno di essi ha avuta l’idea
di farlo arrestare.

«Chiedo scusa, Maestà; tutto ciò mi è noto: e per questo, nè da
Beaufort, nè da Bouillon, nè dal Coadjutore, i miei amici condurranno
il ministro, attesochè quei signori fanno la guerra per loro proprio
conto, ed il signor Mazzarino con accordare ad essi quel che desiderano
presto si sbrigherebbe, ma bensì al Parlamento, che individualmente,
in dettaglio, certamente si può comprare, ma per comprarlo in blocco,
neppure il signor Mazzarino è ricco abbastanza.

«Mi pare, disse Anna fissando uno sguardo che sdegnoso in una donna,
diventava terribile in una regina, mi pare che minacciate la madre del
vostro re?

«Minaccio, perchè vi sono costretto. M’ingrandisco, perchè ho d’uopo
di pormi all’altezza degli eventi e delle persone. Per altro, signora,
credete una cosa, vera quanto è vero che v’è in questo petto tuttora un
cuore che balza per voi: credete che voi foste l’idolo costante della
nostra vita, che arrischiammo, e già il sapete, mio Dio! venti volte
per la Maestà Vostra.... Or dunque, Vostra Maestà non avrà pietà de’
suoi servi, che da venti anni hanno vegetato nell’ombra senza lasciarsi
fuggire in un solo sospiro i segreti sacri e solenni che aveano avuto
la sorte di dividersi insieme con voi? Miratemi, signora, me che vi
discorro, me che incolpate di alzar la voce e di assumere un tuono
minaccioso. Che sono io? un povero ufficiale senza fortune, senza
rifugio, senza avvenire, se lo sguardo della mia regina, che tanto
tempo io ricercai, non si ferma su di me un momento. Mirate il conte di
la Fère, tipo di nobiltà, fiore di cavalleria; egli ha preso partito
contro la sua regina, o no, piuttosto contro il di lei ministro: e
quegli non ha esigenze, mi sembra. Mirate finalmente du Vallon, animo
fido, braccio di ferro; sono venti anni che attende dal vostro labbro
una parola, la quale mercè il blasone lo faccia quel ch’egli è pel
sentimento e pel valore. Mirate il vostro popolo, che è qualche cosa,
poi, per una regina; il vostro popolo, che vi ama, eppur soffre; che
voi amate, che pure ha fame; che non vorrebbe di meglio che benedirvi,
e che voi però.... No no, ho torto; il vostro popolo non vi maledirà
giammai.... Or bene, proferite un accento, e tutto è finito, e la pace
succede alla guerra, la gioja al pianto, la felicità alle calamità».

Anna considerò con qualche meraviglia la faccia marziale di d’Artagnan,
su cui poteva scorgersi una singolare espressione di commozione
interna.

«Perchè non diceste tutto questo prima di agire? domandò.

«Perchè si trattava di provare alla Maestà Vostra un fatto di cui mi
pare ch’ella dubitava: cioè che abbiamo tuttavia qualche valore, ed è
giusto che di noi si faccia alcun caso.

«E codesto valore, per quanto io veggo, da nulla sarebbe trattenuto?
disse Anna.

«Da nulla fu trattenuto in passato; perchè dovrebbe far meno
all’avvenire?

«E codesto valore, in caso di rifiuto, e in conseguenza di lotta,
andrebbe sino a portarmi via di mezzo alla mia corte per consegnarmi
alla _Fronda_ come volete consegnarle il mio ministro?

«Non ci abbiamo mai pensato, rispose d’Artagnan con la smargiassata da
Guascone che in lui era solo ingenuità, ma se tanto si fosse risoluto
fra noi quattro, di sicuro lo faremmo.

«Dovevo saperlo! mormorò la sovrana, sono uomini di ferro.

«Ahimè! replicò d’Artagnan, ciò mi prova che da oggi soltanto Vostra
Maestà ha di noi una giusta idea.

«Bene, ma questa idea, se l’ho finalmente....

«La Maestà Vostra ci renderà giustizia; rendendoci giustizia, non ne
tratterà più come uomini volgari. Vedrà in me un ambasciadore degno
degli alti interessi ch’è incaricato di discuter seco.

«Dov’è il trattato?

«Eccolo».

Anna volse gli occhi sul trattato che le porgeva il tenente.

«Non ci veggo, disse, se non che le condizioni generali; vi sono
fissati gl’interessi dei signori di Conti, di Beaufort, di Bouillon, di
d’Elboeuf e del signor Coadjutore: ma i vostri?

«Noi ci rendiamo giustizia, signora, mentre ci poniamo all’altezza che
a noi si conviene. Abbiamo pensato non essere i nostri nomi degni di
figurare accanto a quei nomi grandiosi.

«Ma voi, m’immagino, non avrete rinunziato ad espormi le vostre pretese?

«Io stimo che voi siate una grande possente regina, e che indegno
sarebbe della grandezza e possanza vostra il non premiare in modo
congruo i prodi che ricondurranno Sua Eccellenza a San Germano.

«Tale è la mia intenzione, parlate pure.

«Quegli che ha trattato l’affare (perdonate se incomincio da me, ma è
d’uopo che io dia a me medesimo l’importanza, non già che ho assunta,
ma che mi è stata data), quegli che ha trattato l’affare del riscatto
del signor ministro, a senso mio, acciò il premio non sia al disotto
della Maestà Vostra, dev’esser fatto capo delle guardie, come diremmo
colonnello dei moschettieri.

«Così mi chiedete il posto del signor di Tréville!

«Il posto è vacante, e da un anno che fu lasciato dal signor di
Tréville, questi non è rimpiazzato.

«Ma è una delle prime cariche militari della casa del re!

«Di Tréville era, al pari di me, un semplice cadetto di Guascogna; ebbe
la carica pel corso di venti anni.

«Trovate risposta a tutto, signore! disse Anna».

E preso di sul tavolino un brevetto, lo riempiè e lo firmò.

«Certo, Maestà, fece d’Artagnan pigliando il brevetto ed inchinandosi,
è questa una bella e nobile ricompensa: ma le cose di questo mondo sono
soggette a grande instabilità, ed un uomo che incorresse in disgrazia
presso Vostra Maestà, perderebbe domani la carica.

«E allora che volete? esclamò la regina, vergognandosi di essere
scoperta da quello spirito non meno accorto del suo.

«Cento mila scudi per quel povero capitano dei moschettieri, pagabili
nel giorno in cui i suoi servigi non fossero più graditi dalla Maestà
Vostra».

Anna rimase perplessa.

«E a dire, seguitò d’Artagnan, che i Parigini offerivano giorni sono,
per decreto del Parlamento, seicento mila lire a chi consegnasse loro
il ministro o vivo o morto! vivo per appiccarlo, morto per trascinarlo
in un letamajo!

«Animo! disse la sovrana, siete ragionevole, poichè non domandate ad
una regina che il sesto di ciò che proponeva il Parlamento».

E sottoscrisse una promessa di cento mila scudi.

«E poi?.... continuò.

«Signora, il mio amico du Vallon è ricco, e in conseguenza nulla ha da
bramare dal lato delle fortune; parmi però aver memoria che fra lui e
il signor di Mazzarino fosse stato discorso di erigere la sua tenuta a
baronìa.... anzi, per quanto posso sovvenirmi, è cosa promessa.

«Un villano! disse Anna, la gente ne riderà.

«Sarà! ma io son sicuro che quei che ne ridano davanti a lui non
rideranno due volte.

«Sia pure la baronìa, rispose la regina».

E firmò.

«Adesso resta il cavaliere o l’abate d’Herblay come vorrà la Maestà
Vostra.

«Vuol esser vescovo?

«No, brama una cosa più facile.

«E quale?

«Che il re si degni esser compare del figlio di madama di Longueville».

Anna sorrise.

«Maestà, fece d’Artagnan, il signor di Longueville è nato da stirpe
reale.

«Sì, ma il figliuolo!

«Il figliuolo, dev’esserlo, poichè lo è il marito di sua madre.

«E il vostro amico non ha niente da chiedere di più per madama di
Longueville?

«No.... poichè s’immagina che Sua Maestà il re degnandosi esser compare
del suo bambino non può fare alla madre un regalo da meno di cinque
cento mila lire, ben intesi mantenendo al padre il governo della
Normandia.

«Quanto al governo della Normandia, ribattè la regina, io credo di
poter impegnarmi, ma per le cinquecento mila lire il ministro non cessa
di ripetermi che non v’è più danaro nelle casse dello Stato.

«Ne cercheremo insieme, Maestà, s’ella lo permette, e ne troveremo.

«E poi?

«E poi?

«Sì.

«Non v’è altro.

«Non avete il quarto compagno?

«Certo: il conte di la Fère.

«Che chiede?

«Nulla.

«Nulla?

«No.

«E v’è al mondo un uomo che potendo chiedere non chieda?

«V’è il conte di la Fère: il conte di la Fère non è un uomo.

«E che è egli mai?

«È un semidio.

«Non ha un figlio, un giovinetto, un parente, un nepote, di cui di
Comminges mi tenne proposito come di un bravo ragazzo, e che riportò
col signor di Chatillon le bandiere di Lens?

«Secondo accenna Vostra Maestà ha un pupillo chiamato il visconte di
Bragelonne.

«Se gli dessi un reggimento, che direbbe il tutore?

«Forse accetterebbe.

«Forse?

«Sì, qualora Vostra Maestà in persona lo pregasse di accettare.

«Diceste bene, è un uomo singolare. Basta, rifletteremo, e può darsi
che lo preghiamo. Siete contento?

«Sì, Maestà; ma v’è una cosa non sottoscritta dalla regina.

«Ed è?

«La più importante.

«L’adesione al trattato?

«Appunto.

«Che serve? firmo il trattato domani.

«Credo poter avanzare alla Maestà Vostra un’asserzione: che s’Ella non
firma oggi quel consenso, non troverà tempo da firmarlo dipoi. Vogliate
dunque, ve ne supplico, scrivere in piè del programma disteso tutto di
pugno di Mazzarino come vedete: «acconsento a ratificare il trattato
proposto dai Parigini».

Anna era presa al laccio; non poteva trarsi indietro e sottoscrisse. Ma
poi di subito, l’orgoglio irruppe in essa alla guisa di una tempesta,
ed ella si mise a piangere.

D’Artagnan si scosse al vedere quelle lacrime. Sin da quel tempo le
regine piangevano come semplici donne.

Egli scosse il capo: pareva che tali lacrime gli abbruciassero il cuore.

«Signora! inginocchiato soggiunse, guardate l’infelice gentiluomo ch’è
a’ vostri piedi; ei vi prega di credere che ad un cenno di Vostra
Maestà tutto gli sarebbe possibile. Ha fede in sè, ha fede negli
amici suoi, vuole aver fede puranco nella sua regina; e la prova
che di nulla paventa, che su nulla specula, si è che ricondurrà il
signor di Mazzarino presso la Maestà Vostra senza condizioni. A voi,
signora, ecco le sacre firme di Vostra Maestà; se crederete dovermele
restituire, lo farete. Ma da questo momento, più a nulla esse vi
obbligano».

E d’Artagnan sempre genuflesso, con occhio fiammeggiante di orgoglio e
maschile intrepidezza, consegnò ad Anna quelle carte che tolte aveale
di mano con tanta fatica.

V’hanno dei momenti, avvegnachè in questo mondo non è tutto cattivo,
e non tutto è buono, v’hanno dei momenti in cui ne’ cuori più aridi e
freddi va germogliando, irrigato dalle lacrime di estrema emozione, un
sentimento generoso, che dal calcolo e dalla superbia vien soffocato
se un altro cuore non lo afferra sul nascere. Anna era in uno di quei
dati istanti. D’Artagnan, cedendo alla propria commozione, in armonia
con quella della sovrana, avea compiuta l’opera di una profonda
diplomazia; e quindi fu immediatamente premiato dell’arte sua o del suo
disinteresse, secondo che vorremo dar onore al suo spirito od al cuor
suo della ragione che lo fece agire.

«Dite bene, signore, replicò Anna; non avevo saputo conoscervi.
Ecco gli atti firmati, che liberamente io vi rendo; ed al più presto
riconducete a me il ministro.

«Signora, disse d’Artagnan, sono già venti anni, ho buona la memoria,
ch’ebbi l’onore, dietro a un parato del palazzo comunitativo, di
baciare una di codeste bellissime mani.

«Ed ecco l’altra, fece la regina, ed acciò la sinistra non sia men
liberale che la destra (e si trasse dal dito un diamante consimile
all’incirca al primo) prendete e conservate questo anello per mio
ricordo.

«Regina, disse d’Artagnan alzandosi, non ho che un solo desiderio, che
la prima cosa che a me richiedete sia la mia vita».

E con quel bel portamento ch’era tutto suo, levatosi in piedi, si
ritirò.

«Non ho conosciuti costoro, pensò Anna mentre d’Artagnan si
allontanava, ed ora è tardi per ch’io ne cavi profitto: fra un anno il
re sarà in maggiorità».

Di là a quindici ore, d’Artagnan e Porthos accompagnavano Mazzarino
presso alla regina, e ricevevano, uno il brevetto da luogo-tenente
capitano dei moschettieri, l’altro il diploma da barone.

«Siete contenti? domandò loro Anna».

D’Artagnan fece un inchino; Porthos si girava tra le dita il diploma
osservando Mazzarino.

«Che altro v’è egli? chiese il ministro.

«Monsignore, v’è che s’era parlato di una promessa di cavaliere
dell’Ordine alla prima promozione.

«Ma sapete, signor barone, che non si può esser cavaliere dell’Ordine,
senza aver dato prova di sè.

«Oh! fece Porthos, non già per me richieggo il cordone turchino.

«E per chi? interrogò il ministro.

«Pel mio amico signor conte di la Fère.

«Oh! rispose la sovrana, è tutt’altro! quegli ha date le prove
necessarie.

«Lo avrà egli?

«Lo ha».

Nel medesimo giorno era sottoscritto il trattato di Parigi, e
dappertutto si proclamava che il ministro si fosse rinchiuso nelle sue
stanze onde redigerlo con maggiore attenzione.

Ed ecco ciò che vi guadagnava ciascuno:

Il signor di Conti si aveva Damvilliers, ed avendo fatto mostra di
sè come generale, otteneva di restare uomo d’arme e non diventare
cardinale. Di più, erano state lanciate alcune parolette di
matrimonio con una nepote di Mazzarino, le quali poi eransi raccolte
favorevolmente dal principe, a cui poco premeva chi si fosse la moglie,
pur che moglie gli si desse.

Il duca di Beaufort rientrava in corte, con tutte le soddisfazioni
dovutegli per le fattegli offese, e con gli onori a cui aveva diritto
pel suo rango. Gli si concedeva la piena e intera grazia di quelli che
lo avevano ajutato nella fuga, la sopravvivenza all’ammiragliato che
teneva il duca di Vendome suo padre, ed una indennizzazione per le case
e ville di suo che il Parlamento di Brettagna avea fatto demolire.

Il duca di Bouillon riceveva delle proprietà di valore eguale al suo
principato di Sedan, una indennizzazione per le otto annate di non
godimento del suddetto principato, e il titolo di principe accordato a
lui ed a quelli di sua casa.

Il duca di Longueville aveva il governo del Ponte-dell’Arca,
cinquecento mila lire per la sua consorte, e l’onore di vedere il suo
figlio tenuto a battesimo dal giovane re e dalla giovane Enrichetta
d’Inghilterra.

Aramis stipulò che Bazin officiasse a quella solennità, e che Planchet
avesse a vendere i confetti.

Il duca d’Elboeuf ottenne il pagamento di certe somme dovute a sua
moglie, cento mila lire pel maggiore de’ suoi figli, e venticinque mila
per ognuno degli altri.

Il Coadjutore soltanto non ebbe nulla; gli fu promesso di trattare
pel bramato cappello, ma egli sapeva quanto si potesse contare su tali
promesse di Anna e di Mazzarino; ed all’opposto dal signor di Conti,
non potendo essere cardinale, gli toccava rimanere uomo di guerra.

E così, quando tutta Parigi si rallegrava del ritorno del re fissato
al posdomani, Gondi, solo in mezzo alla generale esultanza, era tanto
di mal umore, che mandò tosto a chiamare due individui cui voleva
ricercare quando era in pari disposizione di spirito.

Un di costoro era il conte di Rochefort, e l’altro il mendico da
Sant’Eustachio.

Vennero con la consueta puntualità, e il Coadjutore stette con essi
porzione della nottata.



XCIII.

_Nel quale si prova come talvolta sia ai re più difficile lo rientrare
nella capitale del loro reame, che lo uscirne._


Mentre d’Artagnan e Porthos erano andati ad accompagnare il ministro
a San Germano, Athos ed Aramis avendogli lasciati a San Dionigi eran
tornati a Parigi.

Ciascuno di essi aveva da fare la sua visita.

Aramis appena toltisi gli stivali da viaggio corse al palazzo
comunitativo dov’era madama di Longueville. Alla prima notizia avuta
della pace, la bella duchessa strillò ed inveì: la guerra la faceva
regina, la pace produceva la sua abdicazione; dichiarò che non
apporrebbe mai la firma al trattato e che voleva guerra eterna.

Ma allorchè Aramis le ebbe presentata quella pace sotto il vero suo
aspetto, cioè con tutti i suoi vantaggi; allorchè le ebbe mostrato,
in iscambio della sua sovranità precaria e contrastata in Parigi, la
dignità di vice-regina al Ponte-dell’Arca, vale a dire dell’intera
Normandia; allorchè ebbe fatto suonare alle orecchie le cinquecento
mila lire promesse dal ministro; allorchè le ebbe fatto brillare
davanti agli occhi l’onore che le concederebbe il re tenendo il suo
figliuolo sul fonte battesimale: madama di Longueville non disputò più
altro che per l’abitudine che hanno di disputare le belle donne, e non
più si difese se non se per arrendersi.

Aramis s’infinse di dar fede alla sua opposizione, e non volle di
faccia a sè stesso privarsi del merito di averla persuasa.

«Signora, le disse, voi avete voluto battere una volta il signor
principe vostro fratello, il più grande capitano dell’epoca attuale,
e quando le donne di genio hanno fissa un’idea vi riescono sempre.
Voi ci siete dunque riuscita. Il principe è sconfitto, dacchè non può
più far guerra. Adesso, traetelo nel nostro partito. Distaccatelo
pian piano dalla regina, ch’ei non ama, e dal signor di Mazzarino,
ch’ei disprezza. La _Fronda_ è una commedia della quale non abbiamo
peranche rappresentato se non il primo atto. Aspettiamo Mazzarino allo
scioglimento, cioè al giorno in cui il principe, vostra mercè, si sarà
volto contro alla corte».

La Longueville restò convinta. Avea tanta fiducia nel potere de’ suoi
begli occhi, la duchessa Frondista, che punto non dubitò della loro
influenza, anche sopra il signor di Condé, e la cronaca di que’ tempi
diceva che non aveva presunto di troppo.

Athos, lasciando Aramis sulla Piazza Reale, si era recato dalla
signora di Chevreuse. Essa pure era una Frondista da persuadere, ma
più difficile che la sua rivale: in favor suo non erasi stipulata
condizione veruna. Il signor di Chevreuse non era nominato governatore
di alcuna provincia, e se la regina acconsentiva ad esser comare, non
poteva ciò essere che del suo nepotino o della nepotina.

E quindi, alle prime parole della pace, madama di Chevreuse inarcò le
ciglia, e non ostante tutta la logica di Athos per mostrarle essere
impossibile una guerra più lunga, insistè per le ostilità.

«Bella amica, disse Athos, permettetemi di dirvi che tutti sono stanchi
della guerra; che eccettuato voi, e forse il signor Coadjutore, tutti
bramano la pace. Vi farete esigliare come a tempo del re Luigi XIII.
Credete a me, abbiamo passata l’età dei buoni successi nell’intrigo, e
i vostri occhi vaghissimi non sono destinati ad estinguersi piangendo
Parigi, dove saranno ognora due regine sinchè voi vi sarete.

«Oh! disse la duchessa, se non posso far la guerra da me sola, posso
però vendicarmi di quella ingrata regina e dell’ambizioso favorito....
e mi vendicherò!

«Signora, rispose Athos, non apprestate un tristo avvenire al signor
di Bragelonne; oramai è slanciato, il signor Principe lo ha preso a
benvolere, è giovane, lasciamo che si stabilisca un giovinetto re....
Ahimè! scusate la mia debolezza: viene il momento in cui l’uomo rivive
e ringiovanisce ne’ suoi figli».

La Longueville sorrise, un po’ teneramente e un po’ con ironia.

«Conte, essa replicò, temo che siate già devoluto al partito della
corte. Non avreste per caso in saccoccia qualche cordone turchino?

«Sì signora, ripicchiò Athos, ho quello della Giarrettiera datomi dal
re Carlo I pochi giorni innanzi la sua morte».

Ei diceva il vero: ignorava la domanda di Porthos, e non sapeva di
averne altri fuor di quello.

«Animo! bisogna diventar vecchia, sospirò la duchessa pensierosa».

Athos le prese e le baciò la mano. Ella guardandolo diè un altro
sospiro e soggiunse:

«Conte, dev’essere un’amena dimora Bragelonne; voi siete uomo di buon
gusto: dovete avervi acqua, boschi, fiori....»

Sospirò di nuovo, ed appoggiò la leggiadrissima testa sulla mano
graziosamente ricurvata e sempre egregia per la forma e la bianchezza.

«Madama, rispose il conte, che dicevate poc’anzi? io non vi vidi mai
più giovane, mai non vi vidi più bella».

La signora scosse alquanto il capo.

«Il signor di Bragelonne rimane in Parigi? domandò poi.

«Che ne pensate? chiese a lei Athos.

«Lasciatemelo, conte.

«No signora. Se voi vi siete scordata la storia di Edippo, io me la
rammento.

«In verità, siete amabilissimo.... e mi piacerebbe vivere un mese a
Bragelonne.

«Non avete timore di suscitarmi molti invidiosi, duchessa? disse con
tutta galanteria Athos.

«No, ci andrò incognita, sotto nome di Maria Michon.

«Madama, siete adorabile!

«Ma Raolo, non lo lasciate presso di voi.

«E perchè?

«Perchè è innamorato.

«Egli! un fanciullo!....

«E diffatti, ama da fanciullo».

Il conte si diede a pensare.

«Duchessa, avete ragione, quell’amore singolare per una bambinella di
sette anni può renderlo un dì molto infelice. Deve esservi battaglia in
Fiandra, egli vi andrà.

«E al suo ritorno lo manderete a me, io gli farò un usbergo contro
l’amore.

«Ohimè! oggidì l’amore è come la guerra, e l’usbergo gli è divenuto
inutile».

Nel momento entrava Raolo; veniva ad annunciare come il conte di Guiche
suo amico lo aveva allora avvertito che alla domane avrebbe luogo
l’ingresso solenne del re, della regina e del ministro.

E in fatti, alla domane all’alba la corte fece tutti i suoi preparativi
onde abbandonare San Germano.

Sin dalla sera avanti la regina aveva chiamato a sè d’Artagnan.

«Signore, gli aveva detto, mi assicurano che Parigi non è quieta; temo
per il re: ponetevi accanto allo sportello a destra.

«Vostra Maestà stia pur tranquilla, disse d’Artagnan, rispondo io per
il re».

E salutata la sovrana, uscì.

In quel punto Bernouin si fece ad avvisarlo che il ministro lo
attendeva per oggetti importanti.

Egli si recò tosto dal ministro.

Il quale gli parlò così:

«Si discorre di sommosse in Parigi; io starò alla parte sinistra presso
al re, e siccome sarò principalmente minacciato, voi tenetevi allo
sportello da sinistra.

«Vostra Eccellenza non dubiti, replicò d’Artagnan: al re nessuno
toccherà un sol capello».

Quando fu nell’anticamera borbottò:

«Diamine! come farò a cavarmene fuori? Non posso mica trovarmi al tempo
stesso a diritta ed a manca.... Eh sì! io farò guardia al re, e Porthos
farà guardia a Mazzarino».

Questo compenso fu di genio di tutti, lo che avviene ben di rado: la
regina fidava nel coraggio di d’Artagnan a lei noto, ed il ministro
nella forza di Porthos ch’egli aveva provata.

Il corteggio si avviò pella capitale nell’ordine prestabilito; Guitaut
e Comminges alla testa delle guardie, andavano per i primi; indi la
regia carrozza, avendo da un lato d’Artagnan e dall’altro Porthos; poi
i moschettieri i vecchi amici di d’Artagnan da ventidue anni, che da
venti anni era loro tenente, e dal dì innanzi loro capitano.

Giunta alla barriera, la carrozza fu salutata dalle grida di «Evviva il
re! evviva la regina!»

Vi si mischiarono alcuni: «Evviva Mazzarino!» ma non ebbero eco.

Si dirigevano a Nostra Donna, ove doveva cantarsi il _Te Deum_.

Tutto il popolo di Parigi era per le strade. Si erano schierati gli
Svizzeri in tutta la lunghezza della via, ma sendo questa assai lunga
stavano un dall’altro distante di sei o otto passi e all’altezza di
un sol uomo. Sicchè il baluardo era insufficiente, e tratto tratto
quell’argine rotto da un’ondata di gente stentava di molto a tornare a
formarsi.

Ad ognuna di codeste rotture, fatta però con buona intenzione,
provenendo dal desiderio che avevano i Parigini di rivedere il lor re
e la loro regina, dei quali erano privi da un anno, la sovrana guardava
inquieta d’Artagnan, e questi con un sorriso la riconfortava.

Mazzarino, che aveva speso un migliajo di scudi per fare strillare:
«Evviva Mazzarino!» e non valutava gli strilli uditi a una ventina
di doppie, adocchiava pur inquieto Porthos; ma la gigantesca guardia
del corpo rispondeva all’occhiatina con una voce tanto sonora: «State
tranquillo monsignore» che monsignore cominciava a tranquillarsi.

Arrivati al Palazzo Reale, trovarono anche maggior folla; essa era
accorsa sulla piazza di tutte le strade adjacenti, e si vedeva alla
guisa di un largo fiume agitato, tutta quella calca che veniva incontro
al cocchio, e tumultuosamente traboccava nella via sant’Onorato.

Quando e’ furono sulla piazza echeggiarono grida clamorosissime
di «Viva le Loro Maestà!» Mazzarino si chinò un poco in fuori da’
cristalli; salutarono la sua comparsa due o tre gridi di «Viva
il ministro!» ma quasi subito una scarica di fischiate le soffocò
spietatamente. Mazzarino impallidito si cacciò dentro colla massima
fretta.

«Birbanti!» borbottò Porthos.

D’Artagnan non disse nulla, ma si arricciò i baffi con un gesto
particolare, il qual significava che gli si cominciava a riscaldare la
bile da Guascone.

Anna si chinò verso il giovanetto re, e gli disse all’orecchio:

«Figliuolo, fate un gesto grazioso e dite qualche parolina al signor
d’Artagnan».

Onde il re abbassatosi allo sportello:

«Signor d’Artagnan, non vi ho ancora dato il buon giorno, eppure vi ho
riconosciuto benissimo; siete voi ch’eravate dietro alle cortine del
mio letto in quella notte che i Parigini vollero vedermi dormire.

«E se il re lo permette, rispose il capitano, io gli starò al fianco
ogni qualvolta vi sia per lui alcun rischio.

«Signore, domandò Mazzarino a Porthos, che fareste se tutto il popolo
si avventasse addosso a noi?

«Ne ammazzerei più che potessi, monsignore.

«Uhm! per quanto siate robusto e animoso, non potreste ammazzarlo tutto.

«È vero, ribattè Porthos rizzandosi sulle staffe a meglio scuoprire
l’immensa folla, è vero, e’ son di molti!

«Quasi quasi, avrei più caro quell’altro» mugolò Mazzarino, e si buttò
in fondo alla carrozza.

La regina e il suo ministro avevano ragione di star in pensiero, e
quest’ultimo specialmente. La moltitudine, benchè serbasse le apparenze
di rispetto ed anche di affetto per il re e la reggente, principiava ad
agitarsi in tumulto. Si udivano correre quei tristi rumori, che mentre
vanno rasentando le onde danno indizio di tempesta, e mentre danno su
la turba presagiscono sommossa.

D’Artagnan si volse ai moschettieri, e facendo occhiolino venne a far
un cenno, per la calca impercettibile, ma per quel corpo scelto e prode
assai chiaro a comprendersi.

Si ristrinsero le file dei cavalli, fra gli uomini fu bisbiglio.

Alla barriera dei Sergenti bisognò fermarsi; Comminges si tolse dalla
testa della scorta, e si appressò al cocchio della regina.

La sovrana con uno sguardo interrogò d’Artagnan, il quale le rispose
con lo stesso linguaggio.

«Andate avanti» disse allora Anna.

Comminges ritornò al suo posto. Fu fatto uno sforzo, e si aperse con
impeto la barriera vivente.

Sorse qualche mormorìo tra la folla, e questa volta diretto ugualmente
al re che al ministro.

«Avanti! urlò d’Artagnan.

«Avanti! ripetè Porthos».

Ma come se la moltitudine non avesse atteso altro che questa
dimostrazione per infuriare, si manifestarono insieme tutti i
sentimenti ostili ch’essa racchiudeva, e da ogni parte gridavasi:
«Abbasso il Mazzarino! morte al ministro!»

Nello stesso tempo, dalle strade del Gallo e di Grenelle sant’Onorato
si scagliò un’ondata di popolo che ruppe la debole fila delle
guardie svizzere e venne romoreggiando sino alle zampe dei cavalli di
d’Artagnan e di Porthos.

Questa nuova irruzione era più pericolosa delle altre, perocchè
componevasi di gente armata, e armata meglio che non suol essere in
simili casi la plebe. Si scorgeva che quest’ultimo movimento non era
effetto del caso che avesse riunito un dato numero di malcontenti sul
medesimo punto, ma bensì calcolo di uno spirito ostile che ordinato
avesse un attacco.

Le due masse erano condotte ciascheduna da un capo, dei quali uno
sembrava appartenesse non al volgo, ma anzi alla onorevole corporazione
degli accattoni, e l’altro, ancorchè affettasse d’imitare le maniere
della plebe, facilmente riconoscevasi essere un gentiluomo.

Agivano ambedue, ed evidentemente pel medesimo impulso.

Fuvvi una forte scossa, che si sentì per sino dentro al regio cocchio;
di poi migliaja di strida fecero udire immenso clamore, a cui si
aggiunsero due o tre spari.

«A me i moschettieri!» chiamò d’Artagnan.

La scorta si divise in due file; una passò a man destra dalla carrozza
e l’altra a sinistra; una in ajuto a d’Artagnan e l’altra a Porthos.

Allora s’impegnò una zuffa tanto più terribile in quanto che era senza
scopo, tanto più funesto in quanto che nessuno sapeva perchè, e per chi
si battesse.

Come tutti i movimenti del popolaccio, l’urto di quella folla fu
tremendo; i moschettieri in piccol numero, male ordinati, non potendo
framezzo alla turba far circolare i loro cavalli, cominciarono a
soffrire d’assai.

D’Artagnan aveva ordinato si calassero le stuoje del legno; il
giovanetto re però stendendo il braccio avea detto:

«No no, signor d’Artagnan, voglio vedere.

«Vostra Maestà vuol vedere? fece d’Artagnan, ebbene, guardi pure!»

E d’Artagnan voltosi con quella furia che lo rendeva terribile, balzò
verso il capo dei sollevati che con in mano una pistola e nell’altra la
spada procurava aprirsi il passo, sino allo sportello contrastando con
due moschettieri.

«Largo, corpo di Diana! egli urlò, largo! largo!»

A quella voce, l’uomo della pistola e della spada alzò la testa; ma era
già tardi, chè d’Artagnan avea data la botta, e la sua draghinassa gli
aveva già attraversato il petto.

«Ah, caspita! esclamò d’Artagnan, tentando, ma non più a tempo, di
trattenere il colpo, conte, e che diavolo venivate a fare qua?

«A compiere il mio destino, rispose Rochefort cadendo con un ginocchio
in terra, son già scapolato da tre colpi della vostra spada, ma non
così mi riuscirà dal quarto.

«Conte, disse d’Artagnan con una qualche emozione, ho percosso
senza sapere che foste voi; mi dorrebbe, se morite, che moriste con
sentimento d’odio per me».

Rochefort gli porse la destra; voleva parlare, ed il sangue corsogli
alla bocca gli tolse la parola; s’irrigidì in una convulsione, e spirò.

«Indietro, canaglia! urlò il Guascone, il vostro capo è morto, e qui
voi altri non avete più che fare».

E realmente, come se il conte di Rochefort fosse stata l’anima
dell’attacco che rivolgevasi dalla parte della carrozza del re, tutta
la folla che lo avea seguitato e che gli obbediva si diede alla fuga
al mirar la sua caduta. D’Artagnan mandò una carica con una ventina
di moschettieri nella contrada del Gallo, e quella porzione d’insorti
si dileguò come un fumo disperdendosi su la piazza di San Germano
l’Auxerrois, e poi scappando giù pei ponti.

D’Artagnan tornò addietro per dar soccorso a Porthos ove ne
abbisognasse; ma Porthos dal lato suo aveva lavorato con minor
coscienza di lui. Il lato sinistro della vettura era sgombrato a pari
del destro, e si rialzava la stuoja dello sporto, che Mazzarino non
tanto bellicoso quanto il re avea fatto calare.

Porthos sembrava malinconico.

«Che brutta cera fate mai? disse d’Artagnan, che aspetto singolare
avete così per un uom vittorioso!

«Ma anche voi mi parete agitato!

«E ne ho ben d’onde, caspita! ho ucciso un antico amico.

«Davvero! e chi?

«Il povero conte di Rochefort!...

«Veh! com’è accaduto a me: ho ucciso un tale di cui non mi è ignota la
faccia; disgraziatamente l’ho percosso sul capo, e in un momento gli si
è cosparso di sangue tutto il volto.

«E nel cadere non ha detto nulla?

«Anzi sì.... ha detto: uf!

«Capisco, rispose d’Artagnan senza poter frenare le risa, che se non ha
pronunziato altro, ciò non vi deve avere schiarito molto.

«Ebbene? domandò la regina.

«Maestà, replicò d’Artagnan, la strada è libera; la Maestà Vostra può
proseguire il tragitto».

Tutto il seguito arrivò senz’altri inconvenienti a Nostra Donna, ove
sotto al loggiato della porta maggiore, il clero intero, col Coadjutore
alla testa, attendeva il re, la regina ed il ministro, pel beato
ritorno di cui dovevasi cantare il _Te Deum_.

Durante il servigio religioso, e verso l’istante che questo si
avvicinava alla fine, entrò un biricchino in chiesa, tutto ansante,
corse alla sagrestia, si vestì presto presto da cantore, e mercè la
rispettabile uniforme indossata, passando fra mezzo alla calca che
riempieva il tempio, si accostò a Bazin, il quale colla sua cappa
turchina, e con la mazza di balena guernita di argento in mano, stava
gravemente impettito di faccia allo svizzero all’ingresso del coro.

Bazin si sentì tirare per la manica. Abbassò verso il suolo gli occhi
divotamente alzati al cielo, e riconobbe Friquet.

«Ebbene, sguajato! disse il bidello, che v’è egli per osar disturbarmi
nell’esercizio delle mie funzioni?

«Signor Bazin, e’ v’è che il signor Maillard.... sapete pure, quello
che dava l’acqua benedetta in sant’Eustachio....»

«Sì.... e poi?...

«Gua’! nella barabuffa ha avuto una botta di spada.... e gliel’ha data
quel gigantone là, che voi vedete tutto ricami sulle cuciture.

«Sì sì.... oh! allora, deve star male davvero!

«Tanto male, ch’è per morire, e avanti di morire vorrebbe confessarsi
al signor Coadjutore, che dicono abbia potere di assolvere dai peccati
grossi.

«E si figura che il signor Coadjutore si scomodi per lui?

«Eh! sì, perchè pare glielo abbia promesso.

«Chi te lo ha detto?

«Il signor Maillard.

«Dunque lo hai veduto?

«Di sicuro; quando è cascato in terra.

«E che facevi laggiù?

«Senti! strillavo: «Abbasso il Mazzarino! a morte il ministro! alla
forca l’Italiano!» non mi avevate detto di urlare così?

«Vuoi stare zitto, briccone? disse Bazin guardandosi attorno.

«Sicchè, il povero Maillard mi ha detto: «Friquet, va a chiamarmi
il Coadjutore, e se me lo conduci ti fo mio erede». Ehi, padre
Bazin? erede del signor Maillard, che dava l’acqua benedetta in
sant’Eustachio! non avrei più bisogno di far nulla.... Basta, avrei
caro di fargli questo servizio, che ne dite?

«Vo ad avvertire il signor Coadjutore» rispose Bazin.

E si accostò rispettosamente e lentamente al prelato, e gli pronunziò
all’orecchio qualche parola, a cui quegli diede in replica un cenno
affermativo; laonde ritornato col passo medesimo col quale era ito,
ordinò a Friquet:

«Vattene a dire al moribondo che abbia pazienza, e fra un’ora sarà da
lui monsignore.

«Bene! fece il ragazzo, ecco fatta la mia fortuna.

«Appunto, domandò il bidello, dov’è stato portato?

«Alla torre San Jacopo la Boucherie».

E Friquet contentissimo della sua ambasciata uscì dalla basilica, e si
avviò con tutta la lestezza di che era capace alla torre indicata.

Terminato il _Te Deum_, il Coadjutore, conforme avea promesso, e senza
togliersi neppure le vesti sacerdotali, s’incamminò alla vecchia torre
a lui ben cognita. Arrivava a tempo: benchè ogni momento peggiorasse,
il ferito non era ancor morto.

Gli fu aperto l’uscio della stanza ove il mendico stavasi agonizzante.

Indi a poco venne fuori Friquet tenendo in mano un grosso sacco di
cuojo, e lo sciolse appena partitosi dalla camera, e con sommo stupore
lo trovò pieno d’oro.

L’accattone gli aveva mantenuta la parola facendolo erede.

«Ah! mamma mia! ah mamma Biagia!» esclamò Friquet.

Non potè profferire altro, ma la forza mancatagli per parlare gli
rimase per agire. Si diede verso la strada a una corsa disperata, e
come il Greco di Maratona che cadeva sulla piazza di Atene con l’alloro
in mano, egli arrivò sulla soglia del consigliere Broussel, ed arrivato
cadde sul pavimento, spargendo su questo i luigi che straboccavano dal
sacco.

La Biagia cominciò dal tirar su le monete, e poi tirò su il figliuolo.

Frattanto il corteggio entrava nel Palazzo Reale.

«È un uomo molto prode, madre mia, quel signor d’Artagnan, disse il
giovine re.

«Sì, figlio mio, e rese grandi servigi a vostro padre: sicchè
all’avvenire abbiategli riguardo.

«Signor capitano, disse smontando il piccolo re a d’Artagnan, la regina
m’incarica d’invitarvi a pranzo per oggi, voi ed il vostro amico barone
du Vallon».

Era questo un grande onore pei due gentiluomini, e quindi Porthos ne
fu soddisfattissimo; ma non ostante, in tutta la durata del pasto si
mostrò assai pensieroso.

«Che cosa avevate, barone? gli domandò d’Artagnan scendendo le scale
del Palazzo Reale, a tavola, avevate la cera pensierosa.

«Cercavo, rispose Porthos, di ricordarmi dove avessi visto quel mendico
che debbo aver ucciso.

«E non vi riesce?

«No no.

«Or bene, cercate, e quando avrete trovato me lo direte, non è così?

«Eh cospetto! fece Porthos.



CONCLUSIONE.


I due amici, trasferitisi alla loro abitazione, trovarono una lettera
di Athos che fissava loro l’appuntamento al _Gran Carlomagno_ per la
mattina seguente.

Ambedue si coricarono a buon’ora, ma non dormirono. Non si giunge già
alla meta di tutte le nostre brame, senza che la meta una volta toccata
influisca a discacciare il sonno, almeno per la prima notte.

All’indomani all’ora stabilita si recarono da Athos. Trovarono il conte
ed Aramis vestiti da viaggio.

«Veh! disse Porthos, dunque si parte tutti? anch’io ho fatto il mio
fardello.

«Eh sì, rispose Aramis, a Parigi nulla vi è da far più tosto che non
v’ha più _Fronda_. Madama di Longueville mi ha invitato a andar a
passare alcuni giorni in Normandia, ed intanto che si battezzi il suo
figliuolo mi ha incaricato di andare a farle apparecchiare la casa a
Rouen. Vo ad eseguire questa incombenza; di poi, se non v’è niente di
nuovo, tornerò a seppellirmi nel convento di Noisy-le-Sec.

«Ed io, fece Athos, me ne vo da capo a Bragelonne. Lo sapete pure, caro
d’Artagnan, oramai non son altro che un bravo e buon campagnuolo; Raolo
non ha altro patrimonio che il mio; poveretto! e di questo bisogna
ch’io abbia cura, poichè in certo modo sono soltanto un prestanome.

«E di Raolo, che ne fate?

«Ve lo lascio, amico mio. Va a farsi la guerra in Fiandra, voi lo
condurrete: temo che il soggiorno di Blois sia pernicioso alla giovane
sua testa. Guidatelo, ed insegnategli ad esser prode e leale come voi.

«Io dunque, disse d’Artagnan, non vi avrò più meco, Athos, ma almeno
avrò quella cara testina bionda; e sebbene sia solamente un fanciullo,
siccome in lui rivive intera l’anima vostra, crederò sempre di avervi
vicino, ad accompagnarmi e a sostenermi».

I quattro amici si abbracciarono con le lacrime agli occhi, e si
separarono senza sapere se mai si rivedrebbero.

D’Artagnan tornò in via Tiquetonne, con Porthos sempre pensoso e
intento a ricercare chi fosse colui ch’egli aveva ucciso. Arrivati
davanti all’albergo del _Granchio_, videro pronte le carrozze del
barone, e Mousqueton in sella.

«A voi, d’Artagnan, disse Porthos, lasciate via la spada, e venite
meco a Pierrefonds, a Bracieux o a du Vallon: invecchieremo insieme
favellando dei nostri camerati.

«No, disse d’Artagnan, sta per aprirsi la campagna, ed io voglio
esservi; spero di guadagnarci qualche cosa!

«E che sperate di diventare?

«Capperi! maresciallo di Francia.

«Ah ah! fece Porthos guardando d’Artagnan, alle di cui guasconate non
aveva mai potuto interamente avvezzarsi.

«Venite con me, Porthos, soggiunse d’Artagnan, vi farò duca.

«No no, Mouston non vuol più guerreggiare; e poi è stata preparata
un’entratura solenne in casa mia, che farà crepar d’astio tutti i miei
vicini.

«A ciò non ho che rispondere, riprese il capitano che conosceva la
vanità del nuovo barone. Sicchè, amico, a rivederci.

«A rivederci, caro capitano. Sapete che quando vorrete venire a
trovarmi sarete sempre gradito nella mia baronia.

«Sì, al ritorno dalla campagna.

«Le carrozze del signor barone sono all’ordine» avvertì Mousqueton.

E i due antichi colleghi si separarono dopo essersi stretta la mano.
D’Artagnan restò sul portone, seguitando con occhio malinconico Porthos
che si allontanava.

Ma dopo venti passi questi si fermò di botto, si picchiò la fronte e
retrocedè dicendo:

«Mi rammento!

«Che cosa? domandò d’Artagnan.

«Del mendico che ho ammazzato.

«Davvero! e chi è?

«Quel furfante di Bonacieux».

E Porthos contentissimo di aver la mente libera raggiunse Mouston, e
seco disparve dal canto della strada.

D’Artagnan stette un istante immobile e a riflettere; poscia volgendosi
vide la bella Maddalena, che dolente delle nuove grandezze di lui
rimaneva su la soglia senza muoversi.

«Maddalena, le disse il Guascone, datemi l’appartamento dei primo
piano; sono costretto a figurare ora che sono capitano delle guardie.
Ma tenetemi sempre a disposizione la camera del quinto piano, chè non
si sa quel che possa succedere».


FINE.



INDICE


         I.  La larva di Richielieu                          Pag. 5
        II.  Ronda notturna                                      14
       III.  Due antichi nemici                                  21
        IV.  La regina Anna sui quarantasei anni                 34
         V.  Guascone e Italiano                                 43
        VI.  D’Artagnan sui quarant’anni                         47
       VII.  D’Artagnan è nell’imbarazzo, e lo viene a
               soccorrere un antico conoscente                   53
      VIII.  Influenze diverse che può avere una mezza doppia
               sopra un bidello e sopra un piccolo cantore       60
        IX.  Come d’Artagnan cercando ben lontano Aramis, si
               accorse ch’era in groppa dietro a Planchet        67
         X.  L’Abate d’Herblay                                   74
        XI.  I due volponi                                       79
       XII.  Il signor Porthos Du Vallon de Bracieux di
               Pierrefonds                                       88
      XIII.  Come d’Artagnan, nel ritrovare Porthos, si
               accorgesse che non sempre le ricchezze formano
               la felicità                                       93
       XIV.  Ove si dimostra qualmente se Porthos era
               scontento del proprio stato, Mousqueton però
               era soddisfattissimo del suo                     101
        XV.  Due teste da angioli                               106
       XVI.  Il castello di Bragelonne                          114
      XVII.  Diplomazia di Athos                                121
     XVIII.  Il signor di Beaufort                              130
       XIX.  Ricreazioni del duca di Beaufort nella torre di
               Vincennes                                        136
        XX.  Entra in funzioni Grimaud                          145
       XXI.  Ciò che contenevasi ne’ pasticci del successore
               di maestro Marteau                               156
      XXII.  Un’avventura di Maria Pichon                       165
     XXIII.  L’abate Scarron                                    176
      XXIV.  San Dionigi                                        190
       XXV.  Uno dei quaranta mezzi di fuga del sig. di
               Beaufort                                         198
      XXVI.  D’Artagnan giunge opportuno                        207
     XXVII.  La strada maestra                                  215
    XXVIII.  L’incontro                                         221
      XXIX.  Il buon uomo Broussel                              229
       XXX.  Quattro antichi amici si dispongono a rivedersi    235
      XXXI.  La Piazza Reale                                    243
     XXXII.  La barca dell’Oise                                 247
    XXXIII.  Scaramuccia                                        255
     XXXIV.  Il supposto monaco                                 261
      XXXV.  Colloquio segreto                                  270
     XXXVI.  Grimaud parla                                      275
    XXXVII.  Alla vigilia della battaglia                       281
   XXXVIII.  Un pranzo del tempo addietro                       291
     XXXIX.  Lettera di Carlo I                                 299
        XL.  Lettera di Cromvello                               304
       XLI.  Mazzarino ed Enrichetta                            311
      XLII.  Come gl’infelici confondono talvolta il caso
               con la Provvidenza                               316
     XLIII.  Zio e nepote                                       323
      XLIV.  Paternità                                          327
       XLV.  Un’altra regina che chiede soccorso                334
      XLVI.  Ove si prova che il primo impulso è sempre il
               migliore                                         344
     XLVII.  Il Te Deum della vittoria di Lens                  351
    XLVIII.  Il mendico di Sant’Eustachio                       367
      XLIX.  La torre di Saint-Jacques-la-Boucherie             376
         L.  La sommossa                                        381
        LI.  La sommossa diventa ribellione                     388
       LII.  Con le disgrazie viene la memoria                  398
      LIII.  Abboccamento                                       404
       LIV.  Fuga                                               410
        LV.  La carrozza del Coadjutore                         420
       LVI.  Come a vendere della paglia, d’Artagnan e Porthos
               guadagnassero, uno duecentodiciannove luigi e
               l’altro duecentoquindici                         432
      LVII.  Vengono notizie d’Athos e d’Aramis                 440
     LVIII.  Lo Scozzese spergiuro alla fè
               Un danajo vendette il suo re                     449
       LIX.  Il vendicatore                                     457
        LX.  Oliviero Cromvello                                 464
       LXI.  I gentiluomini                                     469
      LXII.  Gesù Signore!                                      474
     LXIII.  In cui si prova qualmente nelle più scabros
               situazioni i cuori grandi non perdono mai
               il coraggio, nè gli stomachi buoni l’appetito    481
      LXIV.  Salve alla decaduta Maestà                         487
       LXV.  D’Artagnan trova un progetto                       495
      LXVI.  La partita a zecchinetta                           506
     LXVII.  Londra                                             512
    LXVIII.  Il processo                                        518
      LXIX.  Whitehall                                          527
       LXX.  Gli operaj                                         535
      LXXI.  Remember                                           542
     LXXII.  L’immascherato                                     548
    LXXIII.  La casa di Cromvello                               556
     LXXIV.  Conversazione                                      563
      LXXV.  La filuca. Il _Lampo_                              572
     LXXVI.  Il vino di Porto Porto                             582
    LXXVII.  Fatality                                           595
   LXXVIII.  Nel quale Mousqueton, stato in procinto d’essere
               arrostito, andò a rischio di esser mangiato      601
     LXXIX.  Ritorno                                            609
      LXXX.  Gli ambasciadori                                   617
     LXXXI.  I tre luogotenenti del generalissimo               624
    LXXXII.  Combattimento di Charenton                         636
   LXXXIII.  La strada della Piccardia                          645
    LXXXIV.  La riconoscenza della regina Anna                  652
     LXXXV.  Regia autorità di Mazzarino                        657
    LXXXVI.  Precauzioni                                        661
   LXXXVII.  La mente e il braccio                              666
  LXXXVIII.  Il braccio e la mente                              674
    LXXXIX.  Le carceri perpetue del signor di Mazzarino        680
        XC.  Conferenze                                         686
       XCI.  Ove si comincia a credere che alla fine Porthos
               sarà barone e d’Artagnan capitano                691
      XCII.  Qualmente con una penna e una minaccia si fa
               meglio e più presto che con la spada e lo zel    698
     XCIII.  Nel quale si prova come talvolta sia ai re più
               difficile lo rientrare nella capitale del
               loro reame, che lo uscirne                       711
  Conclusione                                                   721



NOTE:


[1] È noto che Mazzarino, non avendo ricevuto alcuno degli ordini
che vietano il matrimonio, aveva sposata la regina Anna. (Vedansi le
memorie di Laporte e quelle della principessa Palatina).

[2] Madama di Motteville.

[3] Ciò non ostante il regio procuratore Omer Talon lo chiamava sempre
signor _Particelle_, seguendo l’abitudine dell’epoca d’infrancesare i
nomi forestieri.

[4] Questa mane si è alzato un vento di _Fronda_, e credo che vada
fischiando contro a Mazzarino.

[5] Vedasi _Luigi XIV e il suo secolo_, congiura di Chalais.

[6] Dimmi su, Laboissière, non istò bene da uomo? Affè, voi cavalcate
meglio che quanti siamo. Ella sta fra le alabarde, nel reggimento delle
guardie, alla guisa di un cadetto.

[7] Beaufort, di eccelsa fama, che seppe vettovagliar Parigi, deve
sempre sguajnare la spada ma non dir mai la sua opinione. — Se vuol
servire la Francia non si accosti alla tribuna: si mandi addietro
la sua eloquenza, e il brando suo cavi dal fodero. — Ei brilla e
tuona in battaglia, ed ivi ognuno giustamente lo teme; ma all’udirlo
ragionare ognuno lo prenderebbe per istupido. — Gastone è men di lui
nell’imbarazzo quando abbia da pronunziar un’arringa. Ah! perchè a
Beaufort manca la lingua? Ah! perchè a Gastone manca il braccio?

[8] Qui l’Autore intende riportarsi al suo romanzo _I Tre
Moschettieri_, di cui il presente romanzo è soltanto un seguito. (Il
T.)

[9] _Poire d’angoise._ Era una sbarra perfezionata; aveva la forma
di una pera, si cacciava dentro alla bocca, e mediante una molla si
dilatava in guisa da distendere le mascelle nella maggior larghezza
possibile.

[10] Fu per equivoco creduto dalle due fuggiasche che l’uomo coricato
fosse un prete; si riscontra il contrario dal seguito del racconto.

[11] Io pensava che il destino dopo tante ingiuste sventure,
giustamente v’incoronò di gloria, onori e splendori; ma ch’eravate più
felice essendo in passato.... non dirò io innamorata.... ma la rima
vuol però così.

[12] Io pensava che il povero amore, il qual vi presta sempre le sue
armi, è sbandito dalla vostra corte senza gli strali e la faretra; e
di che poss’io prevalermi, o Maria, passando presso di voi, se tanto
maltrattate quei che sì bene vi servirono?

[13] Io pensava, noi poeti pensiamo con bizzarrìa, a ciò che fareste
nell’umore in cui vi trovate, se quivi in questo momento vedeste venire
il duca di Buckingham; e qual dei due sarebbe in disgrazia, o il duca o
il padre Vincenzo (Padre Vincenzo era il confessore della regina).

[14] In Inglese: _venite_.

[15] I nostri leggitori sanno certamente che _Pan_ Pane (nume
mitologico) e _Paon_ pavone (uccello) hanno la stessa pronunzia; quindi
l’equivoco, che ha un significato in francese, ma non in italiano.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



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