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Title: Frammenti letterari e filosofici
Author: Leonardo, da Vinci
Language: Italian
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FILOSOFICI ***


   [Illustrazione: LEONARDO DA VINCI]


                           LEONARDO DA VINCI.


                               FRAMMENTI

                         LETTERARI E FILOSOFICI


                               TRASCELTI
                                  DAL
                           Dr. EDMONDO SOLMI.

                           FAVOLE — ALLEGORIE
                  PENSIERI — PAESI — FIGURE — PROFEZIE
                                FACEZIE.



                                FIRENZE,
                          G. BARBÈRA, EDITORE.
                                 1908.



               FIRENZE, 549-1907-8. — Tipografia Barbèra
                     ALFANI E VENTURI proprietari.

                         Proprietà letteraria.



PREFAZIONE.


I.

    O Lionardo, perchè tanto penate?
             _Codice Atlantico_, f. 71 r.

La biografia di Leonardo, nelle sue linee essenziali, è la storia
del nascere, dell’accrescere, dell’ingigantirsi e dell’espandersi
di un amore intellettuale verso la natura, intento a riprodurne le
forme e a conoscerne le leggi. Questo amore, nato in un’umile casa di
Anchiano poco dopo il 1452, si allarga con un progressivo svolgersi
ad abbracciare la natura nell’infinità dello spazio, del tempo e delle
forme.

Il primo ricordo, che il Vinci ci serba nei manoscritti, tra i
frammenti che risguardano la sua fanciullezza, sembra quasi una
profezia: _Nella prima ricordazione della mia infanzia_, scrive
egli rievocando una giovanile visione, _e’ mi parea che, essendo io
in culla, che un nibbio venisse a me, e mi aprisse la bocca colla
sua coda, e molte volte mi percotesse con tal coda dentro alle
labbra._ (_C. A._, 161 r.) Una tradizione ellenica narra, che le api
annunziarono al mondo in Demostene il più dolce e squisito oratore
politico; il nibbio non sembra qui preannunziare il più alto e
limpido descrittore della natura? Leonardo stesso è compreso da questo
superstizioso dubbio: la vita sua deve essere l’adempimento dell’arduo
compito di palesare agli uomini i segreti naturali. Egli segna, accanto
alle linee precedenti, questa espressione rivelatrice: _par che sia mio
destino._

All’aprirsi della sua vita d’artista, attorno al 1472, lo studio
del Vinci è di risuscitare nella propria fantasia la figura delle
cose esterne, «andare co’ la imaginativa ripetendo li lineamenti
superfiziali delle forme» (_Ash. I_, 26 r.); e, come la sua mente, il
piccolo libro di note, che porta sempre seco, è pieno di profili di
visi soavi e mostruosi, di disegni d’animali e di piante, di roccie e
di monti. (_C. A._, 27 r.) Questo studio, da prima subordinato alla
pratica, si cambia a poco a poco in un desiderio, indipendente da
ogni applicazione concreta, di comprendere il meccanismo dei fenomeni
naturali, nei suoi processi e nelle sue leggi: l’arte della pittura
diventa «una sottile invenzione, la quale con filosofica e sottile
speculazione considera tutte le qualità delle forme» (_Ash. I_, 20
r.); e il piccolo libro di note, che porta sempre seco, si riempie
di considerazioni e di principî prospettici e anatomici, zoologici e
botanici, meccanici e idraulici. (_R._, § 4.)

Penetrare colla mente nell’ignoto, indagare la natura nelle sue fibre
più riposte diventa la passione dominante in Leonardo: «E tirato dalla
mia bramosa voglia, vago di vedere la gran commistione delle varie e
strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto infra
gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi
alla quale — restando alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa —
piegato le mie rene in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio,
colla destra mi feci tenebra alle abbassate e chiuse ciglia. E spesso
piegandomi in qua e in là per vedere dentro vi discernessi alcuna cosa,
questo vietatomi per la grande oscurità, che là entro era, e stato
alquanto, subito si destarono in me due cose: paura e desiderio; paura
per la minacciosa oscura spelonca, desiderio per vedere se là entro
fusse alcuna miracolosa cosa.» (_R._, § 1339.) La natura è il grande
mistero che Leonardo cerca d’investigare.

Ma quanto la sua mente penetra più nella conoscenza delle cose,
tanto la coscienza superstiziosa e il pregiudizio dei suoi tempi si
sollevano contro di lui. Da prima sono i timidi amici di Dio, che
lo rimproverano di trascurare le pratiche esterne e la preghiera,
per l’amore entusiastico della natura. «Ma tacciano tali riprensori,
risponde Leonardo, chè questo è il modo di conoscere l’Operatore
di tante mirabili cose, e questo è ’l vero modo d’amare un tanto
inventore.» (_Lu._, § 77.) Poscia sono i suoi amici medesimi, che
rimpiangono quella lenta e progressiva diserzione dall’arte, che
portava inesorabilmente Leonardo a smarrirsi nel laberinto senza fine
della scienza. Il Verini lo celebrava allora massimo tra i migliori;

    et forsan superat Leonardus Vincius omnes.

Ma subito aggiungeva:

    tollere de tabula dextra sed nescit;

e cercava la causa di questa lentezza nella sua incontentabilità:

                              et instar
    Protogenis multis unam perficit annis.[1]

«Hebbe bellissime invenzioni, dirà poi l’Anonimo, ma non colorì molte
cose, perchè si dice mai a sè medesimo avere satisfatto.[2]» E il
Vasari, come un’eco di questi primi contrasti, ripeterà l’accusa e la
tramanderà ai posteri — giustificandola, come il Verini e l’Anonimo,
con il concetto di un’eccessiva incontentabilità di Leonardo.[3]

Intanto il cartone di _Adamo ed Eva nel paradiso terrestre_, la _Testa
della Medusa_, l’_Adorazione de’ Magi_ rimangono imperfetti «come quasi
intervenne in tutte le cose sue.»

Nel 1482 il Vinci abbandona Firenze. Il concorso aperto dal duca di
Milano per una statua equestre a Francesco Sforza non era stato che la
causa occasionale di questa partenza, frutto in realtà della propria
miseria e del disgusto suscitato negli altri per lavori assunti e non
condotti a termine.[4] Il calore col quale il Vinci palesò un’idea
grandiosa; il buon nome che godeva già in Lombardia per qualche sua
opera, forse non ignota; l’essere scolaro del Verrocchio, che la statua
al Colleoni rendeva allora famoso, lo fecero prescegliere in questa
fortunata occasione ad altri artisti. Si presentò dunque in Milano;
donò al duca una bellissima lira in forma di teschio di cavallo, forse
anche a nome di Lorenzo de’ Medici; e scrisse quella lettera famosa,
nella quale, manifestando le proprie molteplici attitudini pratiche,
veniva già, in modo celato, a rivelare i grandiosi progressi teorici
della sua mente.[5]

Ma anche in Milano la sua vita è una lenta ribellione ai suoi tempi.
Da prima egli dipinge con attività, compone e scompone modelli per
la statua equestre, fabbrica disegni di cupole per il duomo, si dà
alla costruzione di edifizî pubblici e privati, immagina strumenti
guerreschi e opere idrauliche: ma inesorabilmente il suo intelletto lo
porta alla investigazione scientifica. Per un lento progresso Leonardo
dal _Cenacolo_ è ricondotto a quel _Trattato di luce ed ombra_, a
cui aveva già dedicato le prime cure in Firenze; dal Monumento allo
Sforza al _Trattato sulla anatomia del cavallo e sui metodi della
fusione in bronzo_; dalle varie opere di architettura militare e
civile al _Trattato sui pesi e sui moti_ e a quello di _Idraulica_.[6]
L’aneddoto stesso, narrato dal Vasari a proposito del _Cenacolo_,
è un’eco dei contrasti che suscitava in questo tempo il suo modo di
vivere essenzialmente speculativo. Prima del 1499 nel Vinci è ormai
scomparso il pratico; egli deposita il pennello nelle mani dei suoi
discepoli; abbandonando la cerchia degli artisti, si pone nel bel mezzo
degli scienziati milanesi, ormai spinto da un solo scopo: risolvere
gli infiniti problemi che la natura gli presentava incessantemente. «La
natura è piena di infinite ragioni, che non furono mai in esperienza.»
(_I_, 18 r.)

Il secolo XV era ostile a questo passaggio: spinto dalla sete di
un rinnovamento domandava non di pensare, ma di fare. Leonardo era
invece nato per il travaglio del pensiero. La poesia, la pittura la
scultura, l’architettura, la musica, le invenzioni della stampa, della
polvere e di strumenti meccanici, le scoperte geografiche, nel loro
più meraviglioso fiore, era ciò che il Rinascimento vedeva e ammirava:
la legge astratta non veniva apprezzata nel suo giusto valore, quasi
non si intendeva la sua ragionevolezza. Leonardo invece passa, per
un prepotente bisogno, dal concreto all’astratto, dalla pratica alla
teorica, dall’arte alla scienza, portando a sviluppo quella stessa
tendenza degli spiriti che, nata intorno a lui, doveva pienamente
manifestarsi solo due secoli dopo.

Nel 1500 il carattere della vita del Vinci è ben definito: l’idea
dominante è svolgere e condurre a compimento le sue ricerche naturali;
il proposito fermo è fare al secolo le minori concessioni possibili.
Nel 1502 ingegnere militare di Cesare Borgia, sente che le angustie
della pratica gli tolgono le larghe visioni della teoria: si ritrae
allora in Firenze. Nel 1501 aveva avuto sollecitazioni da Isabella
d’Este, per mezzo del generale dei carmelitani Pietro da Nuvolaria
«perchè facesse uno quadretto de la Madonna devoto e dolce, come è
il suo naturale.» Il Vinci aveva promesso caldamente, e poi, smarrito
nelle indagini scientifiche, non ne aveva fatto nulla. «Per quanto me
occorre, aveva risposto il frate alla gentile marchesana di Mantova,
la vita di Leonardo è varia et indeterminata forte, sì che pare vivere
a giornata. Ha facto solo dopoi che è ad Firencie uno schizo d’uno
cartone, (dove) finge uno Christo bambino de età circa uno anno.
Altro non ha facto se non che dui suoi garzoni fano ritracti, et
lui alle volte in alcuno mette mano. DÀ OPRA FORTE ALLA GEOMETRIA,
IMPACIENTISSIMO AL PENNELLO.» Ora il 13 maggio 1504, dopo una vana
attesa, Isabella ritorna alla carica domandandogli per lettera «uno
Christo giovinetto, di età di anni circa duodici, che seria di quella
età che l’havea quando disputò nel tempio; et facto cum quella dolcezza
et suavità de aiere, che havete per arte peculiare in excellentia.» Il
27 maggio, quattordici giorni dopo, un incaricato, Angelo del Tovaglia,
le risponde: «Lui troppo me ha promesso di farlo ad certe hore et
tempi, che li sopravanzeranno ad una opera tolta a fare qui da questa
Signoria. Io non mancherò di solicitare et esso Leonardo et etiam lo
Perugino de quella altra; l’uno et l’altro mi promette bene, et pare
habbino desiderio grande di servire la S. V. Tamen me dubito forte
non habbino a fare insieme ad gara de tarditate: non so chi in questo
supererà l’altro: TENGHO PER CERTO LEONARDO HABBI A ESSERE VINCITORE.»
Pietro Perugino adempiva sollecitamente al suo impegno; Leonardo
intraprendeva allora il dipinto della _Battaglia d’Anghiari_, spinto
dal bisogno e dalle preghiere dei Fiorentini.

Nel 1506 Alessandro Amadori, zio del Vinci, prende a cuore il desiderio
della marchesa d’Este, e si fa promettere dal nipote il compimento di
un quadretto soave e dolce: «Et lui al tutto me ha promesso comincerà
in breve l’opera per satisfare al desiderio di V. S., alla cui gratia
assai si raccomanda.» Isabella risponde poche righe sfiduciate; poi
tacque per sempre. Passò il tempo, e Leonardo nulla fece, dimentico
della promessa e del pennello. Quasi a compenso delle durezze del
Vinci, il suo discepolo Salai, in questi giorni appunto, mostrava
«gran desiderio di fare qualche cosa galante per la Marchesa.» La sua
profferta non fu accettata.[7]

Intanto la _Battaglia di Anghiari_, cominciata a disegnare con ogni
cura e entusiasmo, fu abbandonata alle prime mosse, allo stesso
modo del cartone d’_Adamo ed Eva_, della _Testa della Medusa_,
dell’_Adorazione dei Magi_, «come quasi intervenne in tutte le cose
sue.»

Quale era la causa di questa insofferenza al dipingere? come mai
Leonardo non soddisfece alle istanze di una gentile principessa, nè
a quelle universali della sua città natale? Poche date risponderanno
luminosamente. Al 1504 risale il _Codice sul volo degli uccelli_
(_V. U._, 5 r.); al 1505 l’opera matematica intorno alle _sezioni
sferiche_. (_R._, § 1374.) Le ricerche di prospettiva, iniziate già
prima del 1482; quelle di anatomia, condotte sistematicamente fino dal
1489; quelle di meccanica, che lo tenevano intento prima del 1497,
sono continuate in Firenze dopo il 1500, insieme agli studi sulla
canalizzazione dell’Arno, che diedero germe e vita ai moderni principî
dell’idraulica e della dinamica terrestre. Il 22 maggio 1508, come a
coronamento di un lungo periodo di indefessa attività scientifica,
spunta nella mente di Leonardo l’idea di un provvisorio generale
riordinamento delle sue note manoscritte: «E questo fia un raccolto
sanza ordine, scrive egli iniziando il Codice del Museo Britannico,
tratto di molte carte, le quali io ho qui copiate, sperando poi
metterle per ordine alli lochi loro, secondo le materie di che esse
tratteranno.» (_R._, 4.)

Questa insofferenza all’arte produttrice, cominciata appena che alla
pratica empirica della pittura si sovrappose il concetto che per creare
bisogna conoscere le forme e le leggi dei fenomeni; divenuta nefasta
in Firenze dopo il 1472; dimenticata per un momento in Milano dopo
il 1482; riaffermatasi con maggiore violenza dopo il 1494; divenuta
un bisogno all’aprirsi del nuovo secolo XVI; continuata in mezzo
a contrasti ormai più deboli fino alla morte, sembrò un delitto ai
contemporanei. Essi non conoscevano altra forma d’attività che quella
pratica e artistica: la scienza s’era rifugiata nei chiostri, e si
chiamava _teologia_; s’era smarrita nei penetrali della cabala, e si
chiamava _magia_.

Leonardo da Vinci era trascinato dai tempi all’arte, e il suo genio lo
portava alla scienza; era spinto dai tempi alla costruzione meccanica,
e il suo genio lo portava alla costruzione matematica. Tutto ciò che
egli ha compiuto in pittura e in architettura, per quanto grandioso,
fu una concessione fatta al suo tempo, ma una violenza fatta al suo
carattere.

Egli si avvia col Perugino e col Credi, col Bramante e col Sangallo sul
fecondo cammino della pratica, e solitario si smarrisce nella scienza;
le necessità della vita e l’indole del tempo lo inducono a riafferrare
per un istante l’arte, ma l’intimo della sua mente lo trascina di nuovo
alla investigazione teorica e astratta; la storia della sua vita è il
ripetersi di questa perpetua vicenda, che infrange e rovina l’opera e
la potenza sua: non è la serena vita della tradizione, ma il naufragio
di tutto un essere, che anela a ciò che il suo secolo gli vieta, che
vuole ciò che il suo secolo gli toglie.

Veduto sotto questo aspetto Leonardo da Vinci compare nella sua
luce storica: il carattere «vario et indeterminato forte» della sua
esistenza si comprende nelle sue intime ragioni; l’incompiutezza della
sua opera artistica è rivelata nelle sue vere cause e cessa d’esser
l’opera del capriccio individuale; l’ignoranza dei contemporanei in
riguardo al Vinci scienziato è giustificata nel suo carattere.

Il giudizio del secolo XVI e dei successivi cade necessariamente.

«Condusse a termine pochissime opere, aveva detto Sabba da Castiglione,
spinto da naturale leggerezza e volubilità di talento;» perchè «quando
doveva attendere alla pittura, nella quale senza dubbio un nuovo Apelle
riuscito sarebbe, tutto si diede alla Geometria, alla Architettura e
Notomia.[8]» E il Vasari, raccogliendo poi dalle bocche dei pittori del
tempo suo il fallace giudizio, aveva scritto: «Egli si mise a imparare
molte cose, e cominciate poi l’abbandonava.[9]»

Noi dobbiamo capovolgere questo giudizio dei contemporanei. Essi
misurarono l’intero Leonardo dalle sue manifestazioni pratiche, e lo
definirono vario, instabile, mutabile; noi, contemplando la sua vasta
teoria, alla quale dedicò le forze di tutta la vita, dobbiamo definirlo
intento ad un solo proposito e fermo di fronte ad ogni contrasto. Dagli
anni primi della giovinezza fino alla morte egli infatti drizzò le sue
forze ad un unico intento: la conoscenza delle leggi dei fenomeni, la
descrizione delle forme naturali.

Quando Michelangelo rimprovera a Leonardo con un pungente motto,
sedendogli accanto sulla pancaccia di Geri degli Spini,[10] le opere
lasciate a mezzo; egli, come tutti i suoi contemporanei, non considera
che l’opera esterna, visibile, non l’interno, grandioso lavoro
affidato ai manoscritti, che doveva naufragare per quattro secoli
per approdare nel nostro. Quando il Vasari dice che il Vinci molto
più operò con le parole che co’ fatti; egli non sa che la scienza è
altrettanto importante dell’arte, e che il viso pieno di dolcezza e
di soavità della Gioconda non è un’opera meno potente della scoperta
di quelle leggi prospettiche e ottiche, che ci servono a vederlo.
Quando Leonardo, «a molti cittadini ingegnosi, che allora governavano
Firenze,» mostrava voler alzare il battistero di San Giovanni o rizzare
il corso dell’Arno, «con sì forti ragioni lo persuadeva, che pareva
possibile, quantunque ciascuno, poi che e’ si era partito, conoscesse
per sè medesimo l’impossibilità di cotanta impresa.[11]» Ma quale mai
di questi «ingegnosi cittadini», condannando il proposito pratico, si
sarà fatto a domandare al Vinci quali fossero i principî meccanici
o idraulici che lo inducevano a ritenerlo fattibile? S’egli non ha
sollevato il San Giovanni, nè incanalato l’Arno, questo non monta: la
sua opera vera sta nel _Trattato del moto locale e delle percussioni e
pesi e delle forze tutte_, dove precorre, e in qualche punto avanza,
i _Dialoghi delle nuove scienze_ del Galilei; in quello _Del moto e
misura delle acque_, dove è contenuto il meglio che poi diedero il
Castelli e il Guglielmini. Aristotile Fioravanti, qualche tempo prima
di Leonardo, sollevava una torre in Bologna, e la trasportava da un
luogo ad un altro;[12] Luca Fancelli, poco tempo prima di Leonardo,
dava i disegni per la canalizzazione dell’Arno, onde bonificare la
pianura d’Empoli e i dintorni;[13] ma nè l’uno nè l’altro precorrono
il Vinci nella teoria, nella quale egli resta gigante e insuperato nel
tempo suo e per un secolo ancora.

Noi dobbiamo giudicare Leonardo non dalla frammentarietà della
sua pratica, ma dalla pienezza della sua teorica. La _Battaglia di
Anghiari_ non doveva essere altro, se non l’applicazione di quei
principî, che Leonardo aveva meditati e svolti nel _Trattato della
pittura_; allo stesso modo che la macchina per volare, la quale,
dall’alto di Monte Ceceri presso Fiesole, nella Primavera del 1505,
doveva librarsi su Firenze, non sarebbe stata se non un’effettuazione
materiale e caduca delle grandiose leggi scoperte sulla elasticità
dell’aria, sulla struttura e sulle funzioni dei volatili. L’opera
teorica fu compiuta, l’applicazione pratica rimase imperfetta;
ma lo scopo della vita del Vinci furono le leggi prospettiche e
antropologiche, le leggi meccaniche e matematiche, fondandosi sulle
quali egli e i secoli venturi avrebbero colti i frutti più maturi
dell’arte e della scienza.

Vi è una espressione del Vasari che ci rivela la falsità del giudizio
comune diffuso su Leonardo: «_Ancora che il Vinci molto più operasse
con le parole che co’ fatti, per tante parti sue sì divine, il nome e
la fama sua non si spegneranno giammai._[14]» No, rispondiamo noi, è
appunto perchè egli ha operato più con le parole che co’ fatti, che il
nome e la fama sua non si spegneranno giammai. I soldati guasconi hanno
distrutto con l’archibugio il modello della statua a Francesco Sforza;
il tempo col suo incessante trasformare ha scolorito il _Cenacolo_; la
critica artistica annienta con l’acuto sguardo l’opera pittorica del
Vinci. Ciò che non l’archibugio dei soldati guasconi, nè il tempo, nè
la critica artistica potranno distruggere, è la gigantesca costruzione
della natura, che sorta nella mente di Leonardo sugli albori della
vita moderna, si compì in lui con quelle medesime forme, con le quali
doveva poi organizzarsi nei secoli che precedono il nostro e nel nostro
medesimo.

Nel 1513, quando Leonardo va a Roma con Giuliano de’ Medici, «_che
attendeva molto a cose filosofiche e massimamente all’Alchimia_,[15]»
l’artista era pressochè morto, e lo scienziato giganteggiava nella
piena coscienza del proprio valore. Prima di agire bisogna conoscere
e pensare. La fecondità della teoria è fondata sulla condizione che
la legge abbia a proprio fondamento il senso e l’esperienza, e a
propria espressione la matematica. Tutto ciò che eccede il senso e
l’esperienza, tutto ciò che non si può dimostrare «per nessuno esemplo
naturale,» siede nel regno della fantasia, e fluttua nel sogno. I
problemi sulla essenza delle cose, sul fine, sulla natura dell’anima e
di Dio, restano quindi nel campo delle infeconde discussioni.[16]

Questo momento dovette essere solenne nella vita del Vinci; infermo
per la intensità del travaglio, la gran somma dei suoi manoscritti,
messa insieme con un lavoro costante di ogni giorno, dovette apparirgli
l’opera più alta e solenne della sua vita. Una nota del _Codice
Atlantico_ ce lo mostra in Belvedere nello studio fattogli dal
Magnifico, assorto in notturne esercitazioni di matematica. Un’altra
nota ce lo presenta a Monte Mario tutto intento a ricercarvi i segni di
un passato antichissimo, quando il mare copriva ancora il terreno, sul
quale poi doveva sorgere Roma. La fossa di Castel Sant’Angelo gli dà
campo ad alcune osservazioni di acustica. I giardini del Vaticano gli
offrono materia d’investigazioni zoologiche e botaniche, di esperimenti
sul volo degli uccelli. L’Ospedale di Roma apre i suoi battenti a
Leonardo, onde le note anatomiche dei manoscritti diventino più piene e
numerose.

La passione per lo studio, il fare misterioso di Leonardo, che gli
avevano già attirato in Firenze il rimprovero di qualche timorato di
Dio, ora, verso il chiudersi della sua vita, destano nella società
romana, assorta negli splendori del rinascimento pagano, un certo
terrore misto a sospetto. Un Giovanni Tedesco, geloso delle simpatie
che Giuliano de’ Medici prodigava al Vinci, trova terreno favorevole
a seminare la maldicenza, tantochè uno screzio personale finisce
in una vera e propria persecuzione allo scienziato. Un giorno,
recandosi all’Ospedale per continuarvi quelle ricerche, che sembravano
profanazione alle menti ancora avvolte nelle nebbie medievali, Leonardo
trovò il divieto formale d’entrarvi, per ordine superiore.

Fu un momento straordinariamente triste, e il malanimo si diffuse
e divenne più cupo: «_Quest’altro_, dice Leonardo in uno di quei
frammenti pieni di sconforto che risalgono a questo tempo, _m’ha
impedito la Notomia, col Papa biasimandola e così all’Ospedale_.» (_C.
A._, 179 r.) In un’altra lettera, che sembra quasi un’autodifesa, egli
contrappone ai sospetti contro la sua persona, la propria vita tutta
intenta alla conoscenza del vero.(_R._, § 1358.) Giuliano de’ Medici lo
liberò dal peggio; ma quando il 9 di gennaio 1515 questi partì verso la
Savoia, tratto da amore di donna, Leonardo si affrettò ad abbandonare
Roma, dove il suo spirito nuovo trovava qualche contrasto.[17] Tale
è il motivo della partenza del Vinci da Roma, svisato da tutti i
biografi: il Vasari lo cerca nel prossimo arrivo di Michelangelo;[18]
l’Anonimo in un disaccordo con Leone X per una pittura.[19]

Con la tristezza nell’animo Leonardo, poco tempo dopo, nel 1516,
abbandonava l’Italia. Ad Amboise nel castello di Cloux, colpito ben
presto da paralisi nella mano destra, egli rivolge la lucida mente
alla canalizzazione della Francia e alla costruzione di un castello
per Francesco I. Il cardinale d’Aragona, come racconta il giornale di
Antonio de Beatis, recatosi nel 1517 a visitare il Vinci, lo trovò,
inabile del tutto alla pittura, in mezzo alle sue note anatomiche,
prospettiche, idrauliche, ancora sconosciute al mondo: «Infinità di
volumi et tutti in lingua vulgare, quali se vengono in luce saranno
profiqui et molto delectevoli.»[20] Uno sconforto profondo offusca
l’anima di Leonardo in questi ultimi giorni; la vita sua era stata
l’affannosa ricerca delle leggi naturali, ma il contrasto col tempo ne
aveva infranta la fibra, e condannata l’opera a rimanere incompiuta.
Circondato dai suoi discepoli e da uomini di chiesa, il Vinci cerca di
rinnovare nel proprio animo la fede ingenua della sua fanciullezza, ma
la morte lo coglie il 2 maggio 1519.

La prima cura del suo testamento era stata quella di lasciare a messer
Francesco Melzi, gentiluomo di Milano, «per remuneratione de’ servitii,
ad epso grati, a lui facti per il passato, tutti et ciaschaduno li
libri, che il dicto testatore ha de presente.» (_R._, § 1566.)


II.

Lodovico il Moro, tutto intento a innalzare la Corte milanese
all’altezza delle altre Corti italiane, si compiaceva di circondarsi
di artisti e di uomini di scienza, onde adornare la propria persona
dello splendore delle arti e degli studi. Leonardo non fu solo un
pittore, uno scultore, un architetto, un musico, nella società milanese
del secolo XV, ma fu uno squisito parlatore. Un «Prospectivo Melanese
dipinctore», nelle sue _Antiquarie prospetiche Romane_, assomiglia
Leonardo nel parlare all’antico Catone;[21] il Giovio lo celebra come
il più squisito dicitore del tempo;[22] l’Anonimo afferma che «fu nel
parlare eloquentissimo;[23]» e il Vasari raccogliendo la tradizione
giunta fino a lui dice, nella prima edizione delle sue _Vite_: «Con
ragioni naturali faceva tacere i dotti;» e nella seconda: «Ed era
in quell’ingegno infuso tanta grazia da Dio ed una demostrazione sì
terribile, accordata con l’intelletto e memoria che lo serviva; e col
disegno delle mani sapeva sì bene esprimere il suo concetto, che con
i ragionamenti vinceva, e con le ragioni confondeva ogni gagliardo
ingegno.» — «Era tanto piacevole nella conversazione, che tirava a
sè gli animi delle genti.» — «Con lo splendore dell’aria sua, chè
bellissimo era, rasserenava ogni animo mesto, e con le parole volgeva
al sì e al no ogni indurata intenzione.[24]»

Di questa potenza di ragionamento ci resta anche diretto ricordo
nell’opere dei contemporanei. Matteo Bandello ci riferisce che — quando
il cardinale Gurcense il Vecchio, scendendo una mattina d’estate
ad ammirare il _Cenacolo_, ancora incompiuto, in Santa Maria delle
Grazie, ebbe ad esprimere il suo stupore per le onoranze, che Lodovico
il Moro prodigava agli artisti — il Vinci gli rispose con elevate
parole. Poi, partito il cardinale, rivolto ai suoi discepoli e ai
gentiluomini, che lo circondavano, «narrò una bella historietta» di
Lippo Lippi fra i Turchi, per mostrare come in tutti i tempi siano
stati apprezzati gli artisti. Il racconto dell’aneddoto che il Bandello
raccolse dalle labbra stesse dell’artista fiorentino, conserva in sè
un po’ della freschezza primitiva e della potenza immaginosa propria di
Leonardo.[25]

Quando il Vasari vuol cercare la causa del favore, che il Vinci
godette alla corte dello Sforza, la trova nella sua arte di parlatore:
«Sentendo il Duca i ragionamenti tanto mirabili di Leonardo, talmente
s’innamorò delle sue virtù, che era cosa incredibile.[26]» Il
memorabile passo dei Manoscritti, che insegna il modo di entrare nelle
grazie altrui con l’accorto discorrere, mostra che il puerile racconto
ha nel suo fondo qualche cosa di vero. (_G_, 49 r.) Che che ne sia,
è certo che quella parte dei codici leonardiani che conserva qualche
sentenza arguta e gentile, che le novelle e le allegorie, le profezie
e le facezie, prima di assumere quella veste mirabilmente letteraria,
con la quale ci sono conservate, dilettarono le conversazioni piene di
cortesia della Corte milanese del secolo XV.

Leonardo fu elegante parlatore perchè sul labbro suo suonava il dolce
idioma toscano, lo fu anche per la natura dell’anima sua delicata e
ingenua, piena a volte di vivacità, di vaghezza, di grazia.

Il Vinci parlatore si rispecchia nel Vinci scrittore, con l’aggiunta
di quella potente riflessione, che, penetrando nel cuore dell’uomo
e nei segreti della natura esterna, coglieva le più profonde ragioni
del buono, del vero e del bello. L’idea che Leonardo sia uno scrittore
trasandato, nella spontaneità e rudezza del suo discorso, deve oggimai
cadere.

Lo scopo supremo di Leonardo è la massima chiarezza nella massima
concisione; quel modo di scrivere ridondante e numeroso, primo
nemico della purezza del pensiero, nato con le novelle boccaccesche,
e perpetuato nella prosa accademica fino ai nostri giorni, sembra
sia stato a lui sconosciuto. Una grande semplicità di mezzi, con la
maggiore intensità di espressione, non è soltanto la legge della
pittura e della scoltura del Vinci, ma è anche quella delle sue
dimostrazioni scientifiche, delle sue descrizioni e narrazioni. I
manoscritti sono pieni di cancellature, ed ogni cancellatura deterge
una lieve oscurità, che vela l’apprendimento del concetto: la lingua,
atteggiata nello stile, è il terso vetro al di là del quale si distende
limpido il pensiero. La definizione della Prospettiva è ripetuta da
Leonardo più di dieci volte con un incessante mutar di spoglie, onde
rivestirla della forma più evidente e più semplice (_A_, f. 3 r.
10 v.); una lettera a Giuliano de’ Medici è scritta e riscritta con
continui pentimenti, perchè il pensiero si adegui alla sua forma con
la maggiore identità di segno e di significato. (_C. A._, 278 r.) Allo
stesso modo che il Vinci cercava nelle figure esterne della natura la
più mirabile figura, onde esprimere in un quadro la propria eccelsa
immagine, così nel dolce idioma toscano, che possedeva tutto nella sua
varietà e nella sua vivezza, rintracciava le parole adatte all’alto
senso, che il suo spirito, interprete della natura, gli suggeriva.
Leonardo da Vinci è anche un artista del linguaggio: l’opera sua
letteraria paragonata alla prosa ridondante degli oziosi imitatori
dell’antico, fa lo stesso effetto di un raggio di sole sulla campagna
oppressa da un oscuro nembo, raggio preannunziatore di un novello
risveglio della vita.

La chiarezza si ottiene solo con la precisione dei termini, come la
concisione non è possibile se non con la precisione del pensiero.
La precisione del linguaggio è ricercata da Leonardo in una serie di
studi che i manoscritti ci conservano; la precisione del pensiero è un
effetto della sua stessa natura, nemica dell’indeterminato.

Nel _Codice Trivulziano_ vi sono lunghe enumerazioni di parole talora
raggruppate secondo l’affinità del loro senso, talora accompagnate da
una breve definizione. Questo catalogo di vocaboli, che ha suggerite le
più strane ipotesi agli studiosi del Vinci, fino a quella di ritenerlo
pedagogo del giovinetto principe Massimiliano, non è che lo sforzo
del fondatore della prosa scientifica italiana di precisare l’esatta
significazione dei termini. Leonardo aveva compreso che la scienza, a
differenza della poesia, esigeva d’essere poggiata sull’uso costante
e ben definito delle parole. Gli studî grammaticali e linguistici,
iniziati per il latino nel manoscritto _H_, continuati per il volgare
nel _Codice Trivulziano_, tolgono di mezzo quella leggenda che solo
all’ingenua spontaneità della propria lingua nativa, e non alla
riflessione, affidasse Leonardo l’espressione del proprio pensiero.
Quando nel _Codice Atlantico_ si trova questa nota, «Donato,» noi
dobbiamo pensare al DONATUS, _De octo partibus orationis latine
et italice_, Venezia, 1499 (_C. A._, 207 r.); quando troviamo la
frase «Retorica nova,» siamo portati al LAURENTIUS GUILELMUS DE
SAONA, _Rethorica Nova_, Sant’Albano, 1480 (_C. A._, 207 v.); allo
stesso modo che «Nonio Marcello, Festo Pompeo, Terenzio Varrone,» ci
suggeriscono la raccolta NONIJ MARCELLI, _De proprietate sermonum_;
FESTI POMPEIJ, _De verborum significatione_; M. T. VARRONIS, _De lingua
latina_, Milano, 1500. (_R._, § 1470). Nel manoscritto _F_ è ricordato
finalmente un «Vocabulista volgare e latino,» cioè, senza dubbio,
il _Vocabulista ecclesiastico latino e vulgare utile et necessario a
molti_, di fra GIO. BERNARDO, Milano, 1489. (_F_, cop. r.)

I codici vinciani per la varietà e l’altezza del loro contenuto, per
esser vergati al rovescio dell’uso comune, lasciati come dono prezioso
a Francesco Melzi, dispersi da prima nell’Italia, poi nell’Europa
intera, furono e sono ancora, per una gran parte, sconosciuti. La
inesatta trascrizione che un pittore milanese presentava al Vasari,
poco dopo il 1550, della parte di questi codici, che riguarda
strettamente la pittura, rimasta sepolta nella Vaticana, e diffusa
in modo tronco dall’intransigenza religiosa, è tutt’altro che adatta
a dare un’adeguata idea di Leonardo da Vinci come scrittore.[27]
Il _Trattato del moto e misura dell’acque_, che riproduce, con
poca fedeltà, una parte dei frammenti di Leonardo riguardanti
l’idraulica, è scarsamente diffuso, e per il carattere severamente
scientifico dell’opera, quasi impossibile a divulgarsi. La raccolta
del Richter, nitida nella forma, ma confusa e inesatta nel contenuto;
le pubblicazioni integrali, compiute dal Ravaisson, dal Beltrami,
dal Piumati, con successo e perfezione crescenti, sono pressochè
inaccessibili alla maggioranza dei lettori.[28] Leonardo da Vinci
è ancora sconosciuto ai più come scrittore, e sembrava ormai giunto
il momento perchè una modesta raccolta di frammenti ne divulgasse in
qualche modo la conoscenza.

Difficoltà molteplici si opponevano al compimento di un simile
lavoro. La inesatta trascrizione dei manoscritti esigeva un confronto
continuo con la riproduzione eliotipica dei codici o con gli originali
medesimi. L’assenza della naturale divisione delle parole e di ogni
segno ortografico rendeva necessaria una faticosa interpretazione
preliminare.

Non minori difficoltà presentava la scelta: il proposito d’eliminare
ogni frammento di indole schiettamente scientifica, per lasciar solo
il posto alle espressioni di idee larghe e facilmente intelligibili,
imponeva un continuo discernimento.

Nel disordine originario dei manoscritti, che rende necessario alla
mente del lettore il passaggio alle idee più disparate, era poi
impossibile trovare un filo conduttore, che desse una norma per
l’ordinamento della scelta. Fu quindi necessario indagare nel contenuto
stesso dei singoli frammenti il criterio dell’ordine, in modo che ogni
concetto si legasse all’altro con una specie di progressione logica,
onde ne derivasse un senso compiuto. Questo sopratutto per le parti che
riguardano i pensieri di Leonardo sulla _Conoscenza_, sulla _Natura_,
sulla _Morale_ e sull’_Arte_.

Le opere schiettamente letterarie, raccolte dalla loro originaria
dispersione, già per il loro carattere stesso distinguibili in alcuni
gruppi ben determinati, furono da me ordinate secondo quello che
presumibilmente sarebbe stato il concetto del Vinci. Le _Favole_
di Leonardo, preparate dalla secolare elaborazione del Medio Evo,
allargano la loro scena dal mondo animale a quello vegetale e
inorganico. Le _Allegorie_, che nel loro complesso formano un vero
e proprio _Bestiario_, sebbene per la maggior parte non originali,
conservano le traccie di un’elaborazione nuova e degna di essere
apprezzata. Le _Descrizioni e i Ritratti_, dove si manifesta lo scopo
letterario combinato a quello pittorico; le _Profezie e le Facezie_,
dove si palesa lo spirito arguto di un ricercatore combinato con
quello di un uomo di mondo, compiono il ciclo delle opere schiettamente
artistiche.

Un’ardua questione doveva essere trattata collateralmente allo
svolgersi della raccolta dei frammenti, ed è quella della loro
originalità. Le _Note_, che seguono passo per passo la scelta, e sono
da ritrovarsi alla fine del volume, indicano la fonte alla quale ha
attinto Leonardo questo o quello dei suoi frammenti; ma la questione
più generale della originalità della sua opera in ogni sua parte
è trattata da me in una monografia _Intorno alle fonti dell’opera
letteraria e scientifica di Leonardo da Vinci_, che verrà quanto prima
pubblicata.

Debbo avvertire da ultimo, che le noticine a piè di pagina non hanno
altro scopo, che di facilitare al lettore l’intelligenza del testo
leonardiano, e di togliere quei dubbî, che potessero offuscare il senso
delle espressioni.

I richiami alle opere, che hanno servito di base a questa raccolta,
sono stati fatti per ogni frammento nei SOMMARII E RIFERIMENTI, con
opportune sigle.



TAVOLA DELLE SIGLE.


_A._ — Les manuscrits de Léonard de Vinci.-Le manuscrit A de la
Bibliothèque de l’Institut (ed. Ravaisson. I). Parigi, 1880.

_Ash. I._ — Les manuscrits de Léonard de Vinci.-Les manuscrits H de la
Bibliothèque de l’Institut; 2038 (_Ash. I_) et 2037 (_Ash. II_) de la
Bibliothèque Nationale (ed. Ravaisson. VI). Parigi, 1891.

_Ash. II._ — Idem; ibi.

_Ash. III._ — Trattato di architettura civile e militare, con note di
Leonardo da Vinci. — Biblioteca Laurenziana. Codici Ashburnham, n. 361
(_inedito_).

_B._ — Les manuscrits de Léonard de Vinci. Les manuscrits _B_ et _D_ de
la Bibliothèque de l’Institut (ed. Ravaisson. II). Parigi, 1883.

_C._ — Les manuscrits de Léonard de Vinci. — Les manuscrits _C, E_
et _K_ de la Bibliothèque de l’Institut (ed. Ravaisson. III). Parigi,
1888.

_C. A._ — Il Codice Atlantico di Leonardo da Vinci nella Biblioteca
Ambrosiana di Milano. Roma-Milano, 1891-1899 (_in corso di stampa_).

_D._ — Si veda _B_.

_E._ — Si veda _C_.

_F._ — Les manuscrits de Léonard de Vinci. — Les manuscrits _F_ et _I_
de la Bibliothèque de l’Institut (ed. Ravaisson. IV). Parigi, 1893.

_G._ — Les manuscrits de Léonard de Vinci. — Les manuscrits G, L et M
de la Bibliothèque de l’Institut (ed. Ravaisson. V). Parigi, 1890.

_H._ — Si veda _Ash. I._

_I._ — Si veda _F_.

_L._ — Si veda _G_.

_Lu._ — Leonardo da Vinci. Das Buch vom Malerei herausgegeben v. II.
Ludwig. Berlino, 1882, 3 vol.

_M._ — Si veda _G_.

_R._ — The literary works of Leonardo da Vinci, compiled and edited
from the original manuscripts by J. P. Richter. Londra, 1883, 2 vol.

_T._ — Il codice di Leonardo da Vinci nella Biblioteca del principe
Trivulzio (ed. L. Beltrami). Milano, 1892.

_T. M. A._ — Del moto e misura dell’acqua di Leonardo da Vinci.
Bologna, 1828.

_V. U._ — Leonardo da Vinci. Il codice del volo degli uccelli ed altre
materie (ed. Sabachnikoff e Piumati). Parigi, 1893.

_W. An. A._ — I manoscritti di Leonardo da Vinci della reale Biblioteca
di Windsor. — Dell’Anatomia, fogli A (ed. Sabachnikoff e Piumati).
Parigi, 1898.

Del Ludwig e del Richter sono citati i paragrafi; per gli altri il
_recto_ o il _verso_ dei fogli.



LE FAVOLE.


I. — L’IRREQUIETEZZA.

Il torrente portò tanto di terra e pietre nel suo letto, che fu
costretto a mutar sito.


II. — LA CARTA E L’INCHIOSTRO.

Vedendosi la carta tutta macchiata dalla oscura negrezza
dell’inchiostro, di quello si duole; il quale mostra a essa, che per le
parole, che sono sopra lei composte, essere cagione della conservazione
di quella.


III. — L’ACQUA.

Trovandosi l’acqua nel superbo mare, suo elemento, le venne voglia di
montare sopra l’aria, e, confortata dal foco elemento, elevatasi in
sottile vapore, quasi parea della sottigliezza dell’aria. Montata in
alto, giunse infra l’aria più sottile e fredda, dove fu abbandonata
dal foco; e i piccoli granicoli, sendo restretti, già s’uniscono e
fannosi pesanti, ove, cadendo, la superbia si converte in fuga. E cade
dal cielo; onde poi fu bevuta dalla secca terra, dove, lungo tempo
incarcerata, fece penitenza del suo peccato.


IV. — LA FIAMMA E LA CANDELA.

Le fiamme, già uno mese durato nella fornace de’ bicchieri, e veduto
a sè avvicinarsi una candela, ’n un bello e lustrante candeliere,
con gran desiderio si forzavano accostarsi a quella. Infra le quali
una, lasciato il suo naturale corso, e tiratasi d’entro [Sidenote:
da entro] a uno vòto stizzo, dove si pasceva, e uscita da l’opposito
fori d’una piccola fessura, alla candela, che vicina l’era, si gittò,
e con somma golosità e ingordigia quella divorando, quasi al fine
condusse; e volendo riparare al prolungamento della sua vita, indarno
tentò tornare alla fornace, donde partita s’era, perchè fu costretta
morire e mancare, insieme colla candela; onde al fine, con pianti e
pentimenti, in fastidioso fumo si convertì, lasciando tutte le sorelle
in isplendevole e lunga vita e bellezza.


V. — QUELLI CHE S’UMILIANO, SONO ESALTATI.

Trovandosi alquanta poca neve appiccata alla sommità d’un sasso, il
quale era collocato sopra la strema altezza d’una altissima montagna, e
raccolto in sè l’imaginazione, cominciò con quella a considerare, e in
fra sè dire:

— Or non son io da essere giudicata altera e superba, avere me,
picciola dramma di neve, posto in sì alto loco, e sopportare che
tanta quantità di neve, quanto di qui per me essere veduta po’, stia
più bassa di me? Certo la mia poca quantità non merta quest’altezza,
chè bene posso, per testimonianza della mia piccola figura, conoscere
quello che ’l sole fece ieri alle mie compagne, le quali in poche ore
dal sole furono disfatte; e questo intervenne per essersi poste più
alto, che a loro non si richiedea. Io voglio fuggire l’ira del sole,
e abbassarmi, e trovare loco conveniente alla mia parva quantità. —
E gittatasi in basso, e cominciata a discendere, rotando dall’alte
spiagge su per l’altra neve, quanto più cercò loco basso, più crebbe
sua quantità, in modo che, terminato il suo corso, sopra uno colle si
trovò di non quasi minor grandezza, che ’l colle che essa sostenea;
e fu l’ultima che in quella state dal sole disfatta fusse. Detta per
quelli, che s’aumiliano son esaltati.


VI. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

La palla della neve, quanto più rotolando discese dalle montagne della
neve, tanto più multiplicò la sua magnitudine.


VII. — LA PIETRA.

Una pietra, novamente per l’acqua scoperta, di bella grandezza, si
stava sopra un certo loco rilevato, dove terminava un dilettevole
boschetto, sopra una sassosa strada, in compagnia d’erbe, di vari fiori
di diversi colori ornati; e vedea la gran somma delle pietre, che,
nella a sè sottoposta strada, collocate erano. Le venne desiderio di là
giù lasciarsi cadere, dicendo con seco:

— Che fo io qui con queste erbe? io voglio con queste mie sorelle in
compagnia abitare. — E, giù lasciatasi cadere, infra le desiderate
compagne finì suo volubile corso. E stata alquanto, cominciò a essere
dalle rote de’ carri, dai piè de’ ferrati cavalli e de’ viandanti a
essere in continuo travaglio; chi la volta, quale la pestava, alcuna
volta si levava alcuno pezzo, quando stava coperta da fango o sterco di
qualche animale, e invano riguardava il loco donde partita s’era, in
nel loco della soletaria e tranquilla paco. Così accade a quelli, che
dalla vita soletaria contemplativa vogliono venir abitare nella città,
infra i popoli pieni d’infiniti mali.


VIII. — IL RASOIO.

Uscendo un giorno il rasoio di quel manico, col quale si fa guaina a sè
medesimo, e postosi al sole, vide il sole specchiarsi nel suo corpo;
della qual cosa prese somma gloria, e rivolto col pensiero indirieto,
cominciò con seco medesimo a dire:

— Or tornerò io più a quella bottega, della quale novamente uscito
sono? certo no; non piaccia alli Dei, che sì splendida bellezza
caggia in tanta viltà d’animo! Che pazzia sarebbe quella, la qual
mi conducesse a radere le insaponate barbe de rustici villani e fare
meccaniche operazioni! È questo corpo da simili esercizi? Certo no.
Io mi voglio nascondere in qualche occulto loco, e lì con tranquillo
riposo passare mia vita. — E così, nascosto per alquanti mesi, un
giorno ritornato all’aria, e uscito fori della sua guaina, vide sè
essere fatto a similitudine d’una rugginente sega, e la sua superficie
non rispecchiare più lo splendente sole. Con vano pentimento indarno
pianse lo irreparabile danno, con seco dicendo: — Oh! quanto meglio era
esercitare col barbiere il mio perduto taglio di tanta sottilità! Dov’è
la lustrante superficie? certo la fastidiosa e brutta ruggine l’ha
consumata! — Questo medesimo accade nelli ingegni, che in scambio dello
esercizio si danno all’ozio; i quali, a similitudine del sopradetto
rasoio, perdono la tagliente sua sottilità, e la ruggine dell’ignoranza
guasta la sua forma.


IX. — IL GIGLIO.

Il giglio si pose sopra la ripa di Tesino, [Sidenote: Ticino] e la
corrente tirò la ripa insieme col giglio.


X. — IL NOCE.

Il noce, mostrando sopra una strada ai viandanti la ricchezza de’ sua
frutti, ogni omo lo lapidava.


XI. — IL FICO.

Il fico stando sanza frutti, nessuno lo riguardava; volendo, col fare
essi frutti, essere laudato da li omini, fu da quelli piegato e rotto.


XII. — LA PIANTA E IL PALO.

La pianta si dole del palo secco e vecchio, che se l’era posto a lato,
e de’ pali secchi che la circondano: l’un lo mantiene diritto, l’altro
lo guarda dalla triste compagnia.


XIII. — IL CEDRO E LE ALTRE PIANTE.

Il cedro, insuperbito della sua bellezza, dubita delle piante, che li
son d’intorno, e fattolesi torre dinanzi, il vento poi, non essendo
interrotto, lo gittò per terra diradicato.


XIV. — LA VITALBA.

La vitalba, non istando contenta nella sua siepe, cominciò a passare
co’ sua rami la comune strada, e appiccarsi all’opposita siepe; onde
da’ viandanti poi fu rotta.


XV. — LA CATTIVA COMPAGNIA TRASCINA I BUONI NELLA PROPRIA ROVINA.

La vite, invecchiata sopra l’albero vecchio, cade insieme colla ruina
d’esso albero; e fu, per la trista compagnia, a mancare insieme con
quella.


XVI. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Il salice, che, per li sua lunghi germinamenti, vol crescere da
superare ciascuna altra pianta, per avere fatto compagnia colla vite,
che ogni anno si pota, fu ancora lui sempre storpiato.


XVII. — IL CEDRO.

Avendo il cedro desiderio di fare uno bello e grande frutto in nella
sommità di se, lo mise a seguizione [Sidenote: compimento] con tutte
le forze del suo omore; il quale frutto cresciuto, fu cagione di fare
declinare la elevata e diritta cima.


XVIII. — IL PERSICO.

Il persico, avendo invidia alla gran quantità de’ frutti visti fare al
noce suo vicino, diliberato fare il simile, si caricò de’ sua in modo
tale, che ’l peso di detti frutti lo tirò diradicato e rotto alla piana
terra.


XIX. — L’OLMO E IL FICO.

Stando il fico vicino all’olmo, e riguardando i sua rami essere sanza
frutti, e avere ardimento di tenere il sole a’ sua acerbi fichi, con
rampogne gli disse: — O olmo, non hai tu vergogna a starmi dinanzi?
Ma aspetta che i mia figlioli sieno in matura età, e vedrai dove ti
troverai. — I quali figlioli poi maturati, capitandovi una squadra di
soldati, fu da quelli, per torre i sua fichi, tutto lacerato e diramato
e rotto. Il quale, stando poi così storpiato delle sue membra, l’olmo
lo dimandò dicendo: — O fico, quanto era il meglio a stare sanza
figlioli, che per quelli venire in sì miserabile stato! —


XX. — LE PIANTE E IL PERO.

Vedendo il lauro e mirto tagliare il pero, con alta voce gridarono: —
O pero! ove vai tu? ov’è la superbia, che avevi, quando avevi i tua
maturi frutti? Ora non ci farai tu ombra colle tue folte chiome! —
Allora il pero rispose: — Io ne vo coll’agricola, che mi taglia, e
mi porterà alla bottega d’ottimo scultore, il quale mi farà con su’
arte pigliare la forma di Giove Iddio, e sarò dedicato nel tempio, e
dagli omini adorato invece di Giove; e tu ti metti in punto a rimanere
ispesso storpiata e pelata de’ tua rami, i quali mi fieno da li omini,
per onorarmi, posti d’intorno.


XXI. — LA RETE.

La rete, che soleva pigliare li pesci, fu presa e portata via dal furor
de’ pesci.


XXII. — NASCE ROVINA DAL SEGUIRE IL FALSO SPLENDORE.

Non si contentando il vano e vagabondo parpaglione di potere
comodamente volare per l’aria, vinto dalla dilettevole fiamma della
candela, diliberò volare in quella, e ’l suo giocondo movimento, fu
cagione di subita tristizia. Imperocchè ’n detto lume si consumarono le
sottili ali, e ’l parpaglione misero, caduto tutto bruciato a’ piè del
candeliere, dopo molto pianto e pentimento, si rasciugò le lagrime dai
bagnati occhi, e levato il viso in alto, disse: — O falsa luce! quanti,
come me, debbi tu avere ne’ passati tempi miserabilmente ingannati!
Oh! s’i pure volevo vedere la luce, non dovev’io conoscere il sole dal
falso lume dello sporco sevo? —


XXIII. — IL CASTAGNO E IL FICO.

Vedendo il castagno l’omo sopra il fico, il quale piegava in verso sè
i sua rami, e di quelli ispiccava i maturi frutti — i quali metteva
nell’aperta bocca disfacendoli e disertandoli [Sidenote: dilacerandoli]
coi duri denti — crollando i lunghi rami, e con tumultuevole mormorio
disse: — O fico! Quanto se’ tu men di me obbligato alla natura! Vedi,
come in me ordinò serrati i mia dolci figlioli, prima vestiti di
sottile camicia, sopra la quale è posta la dura e foderata pelle; e,
non contentandosi di tanto beneficarmi, ch’ell’ha fatto loro la forte
abitazione, e sopra quella fondò acute e folte spine, a ciò che le mani
dell’omo non mi possino nuocere? — Allora il fico cominciò insieme co’
sua figlioli a ridere, e, ferme le risa, disse: — Conosci, l’omo essere
di tale ingegno, che lui ti sappi colle pertiche e pietre e sterpi,
trarti infra i tua rami, farti povero de’ tua frutti, e quelli caduti,
pesti co’ piedi e co’ sassi, in modo che’ frutti tua escino, stracciati
e storpiati, fora dell’armata casa; e io sono con diligenza tocco dalle
mani, e non, come te, da bastoni e da sassi. —


XXIV. — IL ROVISTICO E IL MERLO.

Il rovistrice, [Sidenote: rovistico: pianta, _ligustrum vulgare_]
sendo stimolato nelli sua sottili rami, ripieni di novelli frutti, dai
pungenti artigli e becco delle importune merle, si doleva con pietoso
rammarico inverso essa merla, pregando quella, che, poichè lei li
toglieva i sua diletti frutti, il meno non lo privassi de le foglie,
le quali lo difendevano dai cocenti raggi del sole, e che coll’acute
unghie non iscorticasse e disvestisse della sua tenera pelle. A la
quale la merla, con villane rampogne, rispose: — Oh! taci salvatico
sterpo! Non sai, che la natura t’ha fatti produrre questi frutti per
mio notrimento? Non vedi, che so’ al mondo per servirmi di tale cibo?
Non sai, villano, che tu sarai, nella prossima invernata notrimento e
cibo del foco? — Le quali parole ascoltate dall’albero pazientemente,
non sanza lacrime, infra poco tempo, — il merlo preso dalla ragna
[Sidenote: rete] e còlti de’ rami per fare gabbia, per incarcerare esso
merlo, — toccò, infra l’altri rami, al sottile rovistrice a fare le
vimini de la gabbia; le quali vedendo essere causa della persa libertà
del merlo, rallegratosi, mosse tali parole: — O merlo!, i’ son qui non
ancora consumato, come dicevi, dal foco; prima vederò te prigione, che
tu me bruciato! —


XXV. — LA NOCE E IL CAMPANILE.

Trovandosi la noce essere dalla cornacchia portata sopra un alto
campanile, e per una fessura, dove cadde, fu liberata dal mortale
suo becco; pregò esso muro, per quella grazia, che Dio li aveva dato
dell’essere tanto eminente e magno e ricco di sì belle campane e di
tanto onorevole suono, che la dovessi soccorrere; perchè, poichè la
non era potuta cadere sotto i verdi rami del suo vecchio padre, e
essere nella grassa terra ricoperta delle sue cadenti foglie, che non
la volessi lui abbandonare: imperò ch’ella trovandosi nel fiero becco
della fiera cornacchia, ch’ella si votò, che, scampando da essa, voleva
finire la vita sua ’n un picciolo buco. — Alle quali parole, il muro,
mosso a compassione, fu costretto ricettarla nel loco, ov’era caduta.
E in fra poco tempo, la noce cominciò aprirsi, e mettere le radici
infra le fessure delle pietre, e quelle allargare, e gittare i rami
fori della sua caverna; e quegli, in breve, levati sopra lo edifizio,
e ingrossate le ritorte radici, cominciò aprire i muri, e cacciare le
antiche pietre de’ loro vecchi lochi. Allora il muro tardi e indarno
pianse la cagione del suo danno, e, in brieve aperto, rovinò gran parte
delle sue membra.


XXVI. — IL SALICE E LA ZUCCA.

Il misero salice, trovandosi non potere fruire il piacere di vedere
i sua sottili rami fare over condurre alla desiderata grandezza, e
drizzarsi al cielo, per cagione della vite e di qualunque pianta li
era vicina, sempre egli era storpiato e diramato e guasto; e raccolti
in sè tutti li spiriti, e con quelli apre e spalanca le porte alla
imaginazione; e stando in continua cogitazione, e ricercando con
quella l’universo delle piante, con quale di quelle esso collegare si
potessi, che non avessi bisogno dell’aiuto de’ sua legami; e stando
alquanto in questa notritiva imaginazione, con subito assalimento
li corse nel pensiero la zucca; e crollato tutti i rami per grande
allegrezza, parendoli avere trovato compagnia al suo disiato proposito
— imperò che quella è più atta a legare altri, che essere legata. — E
fatta tal diliberazione, rizzò i sua rami inverso il cielo, attendea
aspettare qualche amichevole uccello, che li fusse a tal disiderio
mezzano. In fra’ quali, veduta a sè vicina la gazza, disse inver di
quella: — O gentile uccello, io ti priego, per quello soccorso, che a
questi giorni, da mattina, ne’ mia rami trovasti, quando l’affamato
falcone, crudele e rapace, te voleva divorare; e per quelli riposi,
che sopra me ispesso hai usati, quando l’ali tue a te riposo chiedeano;
e per quelli piaceri, che, infra detti mia rami, scherzando colle tue
compagne ne’ tua amori, già hai usato: io ti priego, che tu truovi la
zucca e impetri da quella alquante delle sue semenze, e di’ a quelle
che, nate ch’elle fieno, ch’io le tratterò non altrementi, che se del
mio corpo generate l’avessi; e similmente usa tutte quelle parole,
che di simile intenzione persuasive sieno, benchè a te, maestra de’
linguaggi, insegnare non bisogna. E se questo farai, io sono contenta
di ricevere il tuo nido sopra il nascimento de’ mia rami, insieme
colla tua famiglia, sanza pagamento d’alcun fitto. — Allora la gazza,
fatti e fermi alquanti capitoli [Sidenote: patti] di novo col salice,
e massime che biscie o faine sopra sè mai non accettassi; alzata
la coda e bassato la testa, e gittatasi dal ramo, rendè il suo peso
all’ali. E quelle battendo sopra la fuggitiva aria, ora qua, ora in là
curiosamente col timon della coda dirizzandosi, pervenne a una zucca,
e con bel saluto, e alquante bone parole, impetrò le dimandate semenze.
E condottele al salice, fu con lieta cera ricevuta; e raspato alquanto
co’ piè il terreno vicino al salice, col becco, in cerchio a esso,
essi grani piantò. Li quali, in brieve tempo, crescendo, cominciò,
collo accrescimento e aprimento de’ sua rami, a occupare tutti i rami
del salice, e colle sue gran foglie a torle la bellezza del sole e
del cielo. E, non bastando tanto male — seguendo [Sidenote: venute in
seguito, nate e cresciute] le zucche — cominciò, per disconcio peso,
a tirare le cime de’ teneri rami inver la terra, con istrane torture
e disagio di quelli. Allora scotendosi e indarno crollandosi, per
fare da sè esse zucche cadere, e indarno vaneggiando alquanti giorni
in simile inganno, perchè la bona e forte collegazione [Sidenote:
l’avviticchiarsi degli steli della zucca al salice] tal pensieri
negava, vedendo passare il vento, a quello raccomandandosi, e quello
soffiò forte. Allora s’aperse il vecchio e vòto gambo del salice in due
parti, insino alle sue radici, e, caduto in due parti, indarno pianse
sè medesimo, e conobbe, che era nato per non aver mai bene.


XXVII. — L’AQUILA.

Volendo l’aquila schernire il gufo, rimase coll’ali impaniate, e fu
dall’omo presa e morta.


XXVIII. — IL RAGNO.

Il ragno, volendo pigliare la mosca con sue false reti, fu sopra quelle
dal calabrone crudelmente morto.


XXIX. — IL GRANCHIO.

Il granchio, stando sotto il sasso per pigliar i pesci, che sotto a
quello entravano, venne la piena con rovinoso precipitamento di sassi,
e, col loro rotolare, si fracellò tal granchio


XXX. — L’ASINO E IL GHIACCIO.

Addormentatosi l’asino sopra il diaccio d’un profondo lago, il suo
calore dissolvè esso diaccio, e l’asino sott’acqua, a mal suo danno, si
destò, e subito annegò.


XXXI. — LA FORMICA E IL CHICCO DI GRANO.

La formica, trovato un grano di miglio, il grano, sentendosi preso da
quella, gridò: — Se mi fai tanto piacere di lasciarmi fruire il mio
desiderio del nascere, io ti renderò cento me medesimi. — E così fu
fatto.


XXXII. — L’OSTRICA, IL RATTO E LA GATTA.

Sendo l’ostrica, insieme colli altri pesci in casa del pescatore
scaricata vicino al mare, pregò il ratto, che al mare la conduca; e ’l
ratto, fatto disegno di mangiarla, la fa aprire; e mordendola, questa
li serra la testa e sì lo ferma: viene la gatta e l’uccide.


XXXIII. — IL FALCONE E L’ANITRA.

Il falcone, non potendo sopportare con pazienzia il nascondere che fa
l’anitra, fuggendosele dinanzi e entrando sotto acqua: volle, come
quella, sott’acqua seguitare, e, bagnatosi le ponne, rimase in essa
acqua: o l’anitra levatasi in aria, schernía il falcone, che annegava.


XXXIV. — L’OSTRICA E IL GRANCHIO.[29]

Ostrica. Questa, quando la luna è piena, s’apre tutta, e, quando il
granchio la vede, dentro le getta qualche sasso o festuca: e questa
non si può risserrare, ond’è cibo d’esso granchio. Così fa chi apre la
bocca a dire il suo segreto, che si fa preda dello indiscreto auditore.


XXXV. — I TORDI E LA CIVETTA.

I tordi si rallegrarono forte, vedendo che l’omo prese la civetta e
le tolse la libertà, quella legando con forti legami ai sua piedi. La
qual civetta fu poi, mediante il vischio, causa non di far perdere la
libertà ai tordi, ma la loro propria vita.

Detta per quelle terre, che si rallegran di vedere perdere la libertà
ai loro maggiori, mediante i quali poi perdano il soccorso e rimangono
legati in potenza del loro nemico, lasciando la libertà e spesse volte
la vita.


XXXVI. — LA SCIMMIA E L’UCCELLETTO.

Trovando la scimmia uno nido di piccioli uccelli, tutta allegra
appressatasi a quelli, i quali essendo già da volare, ne potè solo
pigliare il minore. Essendo piena d’allegrezza, con esso in mano se
n’andò al suo ricetto; e, cominciato a considerare questo uccelletto,
lo cominciò a baciare; e, per lo isviscerato amore, tanto lo baciò e
rivolse o strinse, ch’ella gli tolse la vita. È detta per quelli, che,
per non gastigare i figlioli, capitano male.


XXXVII. — IL CANE E LA PULCE.

Dormendo il cane sopra la pelle d’un castrone, una delle sue pulci,
sentendo l’odore della unta lana, giudicò quello dovessi essere loco di
miglior vita e più sicura da’ denti e unghia del cane, che pascersi del
cane; e sanza altri pensieri, abbandonò il cane. E, entrata infra la
folta lana, cominciò con somma fatica a volere trapassare alle radici
de’ peli: la quale impresa, dopo molto sudore, trovò esser vana, perchè
tali peli erano tanto spessi, che quasi si toccavano, e non v’era
spazio, dove la pulce potesse saggiare tal pelle. Onde, dopo lungo
travaglio e fatica, cominciò a volere ritornare al suo cane; il quale
essendo già partito, fu costretta, dopo lungo pentimento, amari pianti,
a morirsi di fame.


XXXVIII. — IL TOPO, LA DONNOLA E IL GATTO.

Stando il topo assediato in una piccola sua abitazione dalla donnola,
la quale con continua vigilanzia attendea alla sua disfazione,
[Sidenote: distruzione, morte] e, per uno piccolo spiraculo, riguardava
il suo gran periculo. — Infrattanto venne la gatta, e subito prese essa
donnola, e immediate l’ebbe divorata. Allora il ratto, fatto sagrificio
a Giove d’alquante sue nocciole, ringraziò sommamente la sua deità;
e uscito fori della sua buca a possedere la già persa libertà, de la
quale subito, insieme colla vita, fu, dalle feroci unghia e denti della
gatta, privato.


XXXIX. — IL RAGNO E IL GRAPPOLO D’UVA.

Il ragno, stando infra l’uve, pigliava le mosche, che in su tali uve si
pascevano: venne la vendemmia e fu pestato, il ragno insieme coll’uve.


XL. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Trovato il ragno uno grappolo d’uva, il quale per la sua dolcezza
era molto visitato da ape e diverse qualità di mosche, li parve
avere trovato loco molto comodo al suo inganno. E calatosi giù
per lo suo sottile filo, e entrato nella nova abitazione, lì ogni
giorno, facendosi alli spiraculi fatti dalli intervalli de’ grani
dell’uva, assaltava, come ladrone, i miseri animali, che da lui non
si guardavano. E passati alquanti giorni, il vendemmiatore, còlta essa
uva e messa con l’altre, insieme con quelle fu pigiato. E così l’uva fu
laccio e inganno dello ingannatore ragno, come delle ingannate mosche.


XLI. — TRACCIA.

Favola della lingua morsa dai denti.


XLII. — IL VILLANO E LA VITE.

Vedendo il villano la utilità, che resultava dalla vite, le dette
molti sostentaculi da sostenerla in alto; e, preso il frutto, levò le
pertiche, e quella lasciò cadere, facendo foco de’ sua sostentaculi.


XLIII. — LEGGENDA DEL VINO E DI MAOMETTO.[30]

Trovandosi il vino, il divino licore dell’uva, in una aurea e ricca
tazza, sopra la tavola di Maumetto, e montato in gloria di tanto
onore, subito fu assaltato da una contraria cogitazione, dicendo a
sè medesimo: — Che fo io? di che mi rallegro io? Non m’avvedo essere
vicino alla mia morte e lasciare l’aurea abitazione della tazza, e
entrare nelle brutte e fetide caverne del corpo umano, e lì trasmutarmi
di odorifero e suave licore in brutta e trista orina? E non bastando
tanto male, ch’io ancora debba sì lungamente giacere ne’ brutti
ricettacoli coll’altra fetida e corrotta materia uscita dalle umane
interiora? — Gridò inverso il cielo, chiedendo vendetta di tanto danno,
e che si ponesse ormai fine a tanto dispregio; che, poichè quello paese
producea le più belle e migliori uve di tutto l’altro mondo, che il
meno elle non fussino in vino condotte. Allora Giove fece che il vino
beuto da Maumetto elevò l’anima sua inverso il celebro, [Sidenote:
cerebro, cervello] che lo fece matto, e partorì tanti errori, che,
tornato in sè, fece legge che nessuno asiatico besse vino. E fu
lasciato poi libere le viti co’ sua frutti.

  (_in margine_)

  _Già il vino, entrato nello stomaco, comincia a bollire e
  sgonfiare; già l’anima di quello comincia abbandonare il corpo;
  già si volta inverso il cielo, trova il celebro, cagione della
  divisione dal suo corpo; già lo comincia a contaminare e farlo
  furiare a modo di matto; già fa irriparabili errori, ammazzando i
  sua amici._


XLIV. — TRACCIA.

Il vino, consumato da esso ubriaco, esso vino col bevitore si vendica.


XLV. — LE FIAMME E LA CALDAIA.

(Frammento.)

Un poco di foco, che, in un piccolo carbone, in fra la tiepida cenere
rimaso era, del poco omore, che in esso restava, carestiosamente e
poveramente sè medesimo notría. Quando, la ministra della cucina, per
usare con quello l’ordinario suo cibario offizio, quivi apparve, e,
poste le legne nel focolare — e, col solfanello già resuscitato d’esso,
già quasi per morto, una piccola fiammella e, infra le ordinate legne
quella appresa e, posta di sopra la caldaia — sanz’altro sospetto, di
lì sicuramente si parte.

Allora, rallegratosi il foco delle sopra sè poste secche legne,
comincia a elevarsi: cacciando l’aria delli intervalli d’esse legne, in
fra quelli con ischerzevole e giocoso transito, sè stesso tesseva.

Cominciato a spirare fori dell’intervalli delle legne, di quelli a sè
stesso dilettevoli finestre fatto avea; e, cacciate fori di rilucenti e
rutilanti fiammelle, subito discaccia le oscure tenebre della serrata
cucina; e con gaudio, le fiamme già cresciute, scherzavano coll’aria
d’esse circundatrice e con dolce mormorio cantando, creava soave
sonito....

Rallegrandosi il foco delle secche legne, che nel focolare trovato
avea, e in quelle appresosi, con quelle comincia a scherzare tessendole
in sue piccole fiammelle, e ora qua ora là, per li intervalli, che in
fra le legne si trova, traeva.

E, scorrendo in fra quelle con festevole, giocoso transito, cominciò a
spirare, e fra li intervalli delle superiori legne apparía, facendo di
quelli a sè dilettevoli finestre ora qua, ora là.

Vedutosi già fortemente essere sopra delle legne cresciuto e fatto
assai grande, cominciò a levare il mansueto e tranquillo animo in
gonfiata e insopportabile superbia, facendo quasi a sè credere tirare
tutto il superiore elemento [Sidenote: l’elemento del foco] sopra le
poche legne.

E cominciato a sbuffare, e, empiendo di scoppi e di scintillanti
sfavillamenti tutto il circostante focolare, già le fiamme, fatte
grosse, unitamente si drizzavano inverso l’aria.... quando le fiamme
più altere, percosser nel fondo della superiore caldara.


XLVI. — LO SPECCHIO E LA REGINA.

(Frammento.)

Lo specchio si gloria forte tenendo dentro a sè specchiata la regina, e
partita quella lo specchio rimase in le....



LE ALLEGORIE.


I. — AMORE DI VIRTÙ.[31]

Calendrino [Sidenote: La calandra] è uno uccello, il quale si dice,
che essendo esso portato dinanzi a uno infermo, che se ’l detto infermo
deve morire, questo uccello li volta lato, sta per lo contrario e mai
lo riguarda; e, se esso infermo deve iscampare, questo uccello mai
l’abbandona di vista, anzi è causa di levarli ogni malattia.

Similmente, l’amore di virtù non guarda mai cosa vile, nè trista,
anzi dimora sempre in cose oneste e virtuose, e ripatria sempre in
cor gentile, a similitudine degli uccelli nelle verdi selve sopra i
fioriti rami; esso dimostra più esso amore nelle avversità che nelle
prosperità, facendo come lume, che più risplende, dove trova più
tenebroso sito.


II. — INVIDIA.[32]

Del nibbio si legge che, quando esso vede i suoi figlioli nel nido
esser di troppa grassezza, che egli gli becca loro le coste, e tiengli
sanza mangiare.


III. — ALLEGREZZA.[33]

L’allegrezza è appropriata al gallo, che d’ogni piccola cosa si
rallegra, e canta, con vari e scherzanti movimenti.


IV. — TRISTEZZA.[34]

La tristezza s’assomiglia al corvo, il quale, quando vede i sua nati
figlioli essere bianchi, per lo grande dolore si parte, con tristo
rammarichío gli abbandona, e non gli pasce, insino che non gli vede
alquante poche penne nere.


V. — PACE.[35]

Del castoro si legge che, quando è perseguitato, conoscendo essere per
la virtù de’ sua medicinali testiculi, esso, non potendo più fuggire,
si ferma, e, per avere pace coi cacciatori, coi sua taglienti denti si
spicca i testiculi, e li lascia a’ sua nimici.


VI. — IRA.[36]

Dell’orso si dice che, quando va alle case delle ave [Sidenote: api,
come al n. XVI] per tôrre loro il mele, esse ave lo cominciano a
pungere, onde lui lascia il mele e corre alla vendetta; e, volendosi
con tutte quelle che lo mordano vendicare, con nessuna si vendica, in
modo che la sua vita si converte in rabbia, e gittatosi in terra, con
le mani e co’ piedi innaspando, indarno da quelle si difende.


VII. — MISERICORDIA OVER GRATITUDINE.[37]

La virtù della gratitudine si dice essere più nelli uccelli detti
upica, [Sidenote: úpupa] i quali, conoscendo il benefizio della
ricevuta vita e nutrimento dal padre e dalla lor madre, quando li
vedano vecchi, fanno loro uno nido, e li covano, e li nutriscano, e
cavan loro col becco le vecchie e triste penne, e con certe erbe li
rendano la vista, in modo che ritornano in prospertà.


VIII. — AVARIZIA.[38]

Il rospo si pasce di terra, e sempre sta macro, perchè non si sazia:
tanto è ’l timore, che essa terra non li manchi.


IX. — INGRATITUDINE.[39]

I colombi sono assomigliati alla ingratitudine; imperocchè, quando
sono in età che non abbino più bisogno d’essere cibati, cominciano
a combattere col padre, e non finisce essa pugna, infino a tanto
che caccia il padre, e tolli la mogliera [Sidenote: e gli toglie la
moglie], facendosela sua.


X. — CRUDELTÀ.[40]

Il basalisco [Sidenote: basilisco] è di tanta crudeltà che, quando con
la sua venenosa vista non po’ occidere li animali, si volta all’erbe e
le piante, e, fermato in quelle la sua vista, le fa seccare.


XI. — LIBERALITÀ.[41]

Dell’aquila si dice che non ha mai sì gran fame, che non lasci parte
della sua preda a quelli uccelli, che le son dintorno; i quali, non
potendosi per sè pascere, è necessario che sieno corteggiatori d’essa
aquila, perchè in tal modo si cibano.


XII. — CORREZIONE.[42]

Quando il lupo va assentito [Sidenote: va cautamente] a qualche stallo
di bestiame, e che, per caso, esso ponga il piede in fallo, in modo
facci strepito, egli si morde il piè, por correggere tale errore.


XIII. — LUSINGHE OVER SOIE [Sidenote: adulazioni].[43]

La serena sì dolcemente canta, che addormenta i marinari, e essa monta
sopra i navili, e occide li addormentati marinari.


XIV. — PRUDENZA.[44]

La formica, per naturale consiglio, provvede la state per lo verno,
uccidendo le raccolte semenza, perchè non rinascino; e di quelle al
tempo si pascono.


XV. — PAZZIA.[45]

Il bo’ [Sidenote: bove, toro] salvatico, avendo in odio il colore
rosso, i cacciatori vestan di rosso il pedal d’una pianta, e esso bo’
corre a quella, e con gran furia v’inchioda le corna, onde i cacciatori
l’occidano.


XVI. — GIUSTIZIA.[46]

E’ si può assimigliare la virtù de la justizia allo re delle ave; il
quale ordina e dispone ogni cosa con ragione: imperocchè alcune ave
sono ordinate andare per fiori, altre ordinate a lavorare, altre a
combattere colle vespe, altre a levare le sporcizie, altre a compagnare
e corteggiare lo re; e, quando è vecchio e sanza ali, esse lo portano,
e, se ivi una manca di suo offizio, sanza alcuna remissione è punita,


XVII. — VERITÀ.[47]

Benchè le pernici rubino l’ova l’una all’altra, non di meno i figlioli,
nati d’esse ova, sempre ritornano alla lor vera madre.


XVIII. — FEDELTÀ OVER LIALTÀ.[48]

Le gru son tanto fedeli e leali al loro re, che la notte, quando lui
dorme, alcune vanno dintorno al prato per guardare da lunga, altre ne
stanno da presso; e tengano uno sasso ciascuna in piè, acciò che, se
’l sonno le vincessi, essa pietra cadrebbe, e farebbe tal romore, che
si ridesterebbono; e altre vi sono, che ’nsieme intorno al re dormano,
e ciò fanno, ogni notte scambiandosi, a ciò che ’l loro re non venga
’mancare.


XIX. — FALSITÀ.[49]

La volpe, quando vede alcuna torma di gazze o taccole [Sidenote: specie
di cornacchia] o simili uccelli, subito si gitta in terra in modo, con
la bocca aperta, che par morta, e essi uccelli le voglian beccare la
lingua, e essa gli piglia la testa.


XX. — BUGIA.[50]

La talpa ha li occhi molto piccioli, e sempre sta sotto terra, e tanto
vive, quanto essa sta occulta, e, come viene alla luce, subito more,
perchè si fa nota così la bugía.


XXI. — TIMORE OVER VILTÀ.[51]

La lepre sempre teme, e le foglie, che caggiano dalle piante per
autunno, sempre la tengano in timore e, ’l più delle volte, in fuga.


XXII. — MAGNANIMITÀ.[52]

Il falcone non preda mai, se non l’uccelli grossi, e prima si
lascierebbe morire, che si cibassi de’ piccioli, e che mangiasse carne
fetida.


XXIII. — VANAGLORIA.[53]

In questo vizio, si legge del pagone esserli più che altro animale
sottoposto, perchè sempre contempla in nella bellezza della sua coda,
quella allargando in forma di rota, e col suo grido trae a sè la
vista de’ circustanti animali. E questo è l’ultimo vizio, che si possa
vincere.


XXIV. — CONSTANZA.[54]

Alla constanza s’assimiglia la fenice; la quale, intendendo per natura
la sua rennovazione, è costante a sostener le cocenti fiamme, le quali
la consumano, e poi di novo rinasce.


XXV. — INCONSTANZA.[55]

Il rondone si mette per la inconstanza; il quale sempre sta in moto,
per non sopportare alcuno minimo disagio.


XXVI. — TEMPERANZA.[56]

Il cammello è il più lussurioso animale che sia, e andrebbe mille
miglia dirieto a una cammella, e, se usassi continuo con la madre o
sorelle, mai le tocca, tanto si sa ben temperare.


XXVII. — INTEMPERANZA.[57]

L’alicorno overo unicorno, per la sua intemperanza a non sapersi
vincere, per lo diletto che ha delle donzelle, dimentica la sua
ferocità e salvatichezza; ponendo da canto ogni sospetto va alla
sedente donzella, e se le addormenta in grembo; e i cacciatori in tal
modo lo pigliano.


XXVIII. — UMILTÀ.[58]

Dell’umiltà si vede somma sperienza nello agnello; il quale si
sottomette a ogni animale, e, quando per cibo son dati alli ’ncarcerati
leoni, a quelli si sottomettono, come alla propria madre, in modo che,
spesse volte, s’è visto i leoni non li volere occidere.


XXIX. — SUPERBIA.[59]

Il falcone, per la sua alterigia e superbia, vole signoreggiare e
sopraffare tutti li altri uccelli, che son di rapina, e sen’ desidera
essere solo; e spesse volte s’è veduto il falcone assaltare l’aquila,
regina delli uccelli.


XXX. — ASTINENZA.[60]

Il salvatico asino, quando va alla fonte per bere e truova l’acqua
intorbidata, non arà mai sì gran sete, che non s’astenga di bere, e
aspetti ch’essa acqua si rischiari.


XXXI. — GOLA.[61]

Il voltore [Sidenote: l’avoltoio] è tanto sottoposto alla gola, che
andrebbe mille miglia per mangiare d’una carogna; e per questo seguita
(li eserciti).


XXXII. — CASTITÀ.[62]

La tortora non fa mai fallo al suo compagno, e, se l’uno more, l’altro
osserva perpetua castità, e non si posa mai su ramo verde, e non bee
mai acqua chiara.


XXXIII. — LUSSURIA.[63]

Il palpistrello [Sidenote: pipistrello, come al n. LXIII], per la
sua isfrenata lussuria, non osserva alcuno universale modo [Sidenote:
regolare modo, costante] di lussuria, anzi maschio con maschio, femmina
con femmina, sì come a caso si trovano, insieme usano il lor coito.


XXXIV. — MODERANZA.[64]

L’ermellino, per la sua moderanza, non mangia se non una sola volta il
dì, e prima si lascia pigliare a’ cacciatori che voler fuggire nella
infangata tana — per non maculare la sua gentilezza.


XXXV. — AQUILA.[65]

L’aquila, quando è vecchia, vola tanto in alto che abbrucia le sue
penne, e natura consente che si rinnovi in gioventù, cadendo nella
poca acqua. E, se i sua nati non po’ [Sidenote: possono] sostener la
vista del sole, non li pasce. Nessuno uccel, che non vole morire, non
s’accosti al suo nido! Gli animali che forte la temano! Ma essa a lor
non noce [Sidenote: Sott.: senza che sia provocata]: sempre lascia
rimanente della sua preda.


XXXVI. — LUMERPA [Sidenote: uccello favoloso]. FAMA.[66]

Questa nasce nell’Asia Maggiore, e splende sì forte che toglie le sue
ombre, e morendo non perde esso lume, e mai li cade più le penne, e la
penna, che si spicca, più non luce.


XXXVII. — PELLICANO.[67]

Questo porta grande amore a’ sua nati, e, trovando quelli nel nido
morti dal serpente, si punge a riscontro al core, e, col suo piovente
sangue bagnandoli, li torna in vita.


XXXVIII. — SALAMANDRA.[68]

La salamandra nel foco raffina la sua scorza. Per la virtù [Sidenote:
detto per la virtù, simbolo della virtù]: questa non ha membra passive
[Sidenote: non patisce, non soffre], e non si prende la cura d’altro
cibo che di foco, e spesso in quello rinnova la sua scorza.


XXXIX. — CAMALEON [Sidenote: camaleonte]. [69]

Questo vive d’aria, e in quella s’assubietta tutti li uccelli; e, per
istare più salvo, vola sopra le nube, e trova aria tanto sottile, che
non po’ sostenere uccello, che lo seguiti.

A questa altezza non va se non a chi da’ cieli è dato, cioè dove vola
il camaleone.


XL. — ALEPO PESCE.[70]

Alepo non vive fori dell’acqua.


XLI. — STRUZZO.[71]

Questo converte il ferro in suo nutrimento; cova l’ova colla vista. Per
l’arme [Sidenote: detto per l’armi, simbolo delle armi], nutrimento de’
capitani.


XLII. — CIGNO.[72]

Cigno è candido, sanza alcuna macchia e dolcemente canta nel morire; il
qual canto termina la vita.


XLIII. — CICOGNA.[73]

Questa, bevendo la salsa acqua, caccia da sè il male; se truova la
compagna in fallo, l’abbandona, e, quando è vecchia, i sua figlioli la
covano e pascano, in fin che more.


XLIV. — CICALA.[74]

Questa col suo canto fa tacere il cucco [Sidenote: cuculo]; more
nell’olio e rinasce nell’aceto; canta per li ardenti caldi.


XLV. — BASALISCO.[75]

Crudeltà. Questo è fuggito da tutti i serpenti, la donnola, per lo
mezzo della ruta, combatte con esso, e sì l’uccide.


XLVI. — L’ASPIDO, STA PER LA VIRTÙ.

Questo porta ne’ denti la subita morte, e, per non sentire l’incanti,
colla coda si stóppa li orecchi.


XLVII. — DRAGO.[76]

Questo lega le gambe al liofante, e quel li cade adosso, e l’uno e
l’altro more. E, morendo, fa sua vendetta.


XLVIII. — VIPERA.[77]

Quest’ha nel suo [Sidenote: ha di proprio, di particolare], ch’apre
bocca, e nel fine strigne’ denti, e ammazza il marito; poi i figlioli,
in corpo cresciuti, straccian il ventre, e occidano la madre.


XLIX. — SCORPIONE.[78]

La sciliva sputa a digiuno sopra dello scorpione, l’occide; a
similitudine dell’astinenza della gola, che tolle via e occide le
malattie, che da essa gola dipendano, e apre la strada alle virtù.


L. — COCODRILLO, IPOCRESIA.[79]

Questo animale piglia l’omo, e subito l’uccide. Poi che l’ha morto,
con lamentevole voce e molte lacrime, lo piange, e, finito il lamento,
crudelmente lo divora. Così fa l’ipocrito, che, per ogni più lieve
cosa, s’empie il viso di lagrime, mostrando un cor di tigre, e
rallegrasi in cor dell’altrui male, con pietoso volto.


LI. — BOTTA [Sidenote: rospo].[80]

La botta fugge la luce del sole, e, se pure per forza è tenuta, sgonfia
tanto che s’asconde la testa in basso, e privasi d’essi razzi. Così
fa chi è nimico della chiara e lucente virtù, che non po’, se non con
insgonfiato animo, forzatamente starle davanti.


LII. — BRUCO, DELLA VIRTÙ IN GENERALE.[81]

Il bruco [Sidenote: Sott.: simboleggia la virtù], che, mediante
l’esercitato studio di tessere con mirabile artifizio e sottile lavoro
intorno a sè la nova abitazione, esce poi fori di quella colle dipinte
e belle ali, con quelle lanciandosi in verso il cielo.


LIII. — RAGNO.[82]

Il ragno partorisce fori di sè l’artificiosa e maestrevole tela, la
quale gli rende, per benefizio, la presa preda.


LIV. — LEONE.[83]

Questo animale col suo tonante grido desta i sua figlioli, dopo il
terzo giorno nati, aprendo a quelli tutti l’indormentati sensi: e tutte
le fiere, che nella selva sono, fuggano.

Puossi assimigliare a’ figlioli della virtù, che, mediante il grido
delle laude, si svegliano, e crescano li studi onorevoli, che sempre
più gl’innalzan, e tutti i tristi a esso grido fuggano, cessandosi
[Sidenote: allontanandosi] dai virtuosi.

Ancora, il leone copre le sue pedate, perchè non s’intenda il suo
viaggio per i nimici. Questo sta bene ai capitani a celare i segreti
del suo animo, acciò che’ nimici non cognoscano i sua tratti [Sidenote:
le sue astuzie; i suoi disegni].


LV. — TARANTA [Sidenote: tarantola].[84]

Il morso della taranta mantiene l’omo nel suo proponimento, cioè in
quello che pensava, quando fu morso.


LVI. — DUCO O CIVETTA.[85]

Queste castigano i loro schermidori, privandoli di vita, che così ha
ordinato natura, perchè si cibino.


LVII. — LEOFANTE.[86]

Il grande elefante ha, per natura, quel che raro negli omini si truova,
cioè probità, prudenza, equità e osservanza in religione. Imperocchè,
quando la luna si rinnova, questi vanno ai fiumi e, quivi purgandosi,
solennemente si lavano, e così, salutato il pianeta, si ritornano alle
selve. E, quando sono ammalati, stando supini, gittano l’erbe verso il
cielo, quasi come se sacrificare volessino.

Sotterra li denti, quando per vecchiezza gli caggiano; de’ sua denti,
l’uno adopra a cavare le radici per cibarsi, all’altro conserva la
punta per combattere. Quando sono superati da’ cacciatori e che la
stanchezza gli vince, percotesi li denti l’elefante e, quelli trattosi,
con essi si ricomprano.

Sono clementi e conoscano i pericoli: e, se esso trova l’omo solo e
smarrito, piacevolmente lo rimette sulla perduta strada; se truova
le pedate dell’omo, prima che veda l’omo, esso teme tradimento, onde
si ferma e soffia, mostrandola all’altri elefanti, e fanno schiera, e
vanno assentitamente [Sidenote: cautamente].

Questi vanno sempre a schiere, e ’l più vecchio va innanzi, e ’l
secondo d’età resta l’ultimo, e così chiudono la schiera. Temano
vergogna: non usano il loro coito, se non di notte di nascosto, e
non tornano, dopo il coito, alli armenti, se prima non si lavano nel
fiume; non combattono ma’ femmine, come gli altri animali. È di tanto
clemente, che mal volentieri, per natura, non noce ai men possenti di
sè, e, scontrandosi nella mandria e greggi delle pecore, colla sua mano
le pone da parte per non le pestare co’ piedi, nè mai noce, se non sono
provocati. Quando son caduti nella fossa, gli altri con rami, terra e
sassi riempiano la fossa, in modo alzano il fondo, ch’esso facilmente
riman libero. Temano forte lo stridere de’ porci, e fuggan indirieto, e
non fa manco danno poi co’ piedi a’ sua che a’ nimici. Dilettansi de’
fiumi, e sempre vanno vagabondi intorno a quegli, e per lo gran peso
non possan notare; divorano le pietre, i tronchi degli alberi son loro
gratissimo cibo, hanno in odio i ratti; le mosche si dilettano del suo
odore e, posandosele adosso, quello arrappa [Sidenote: Qui: aggrinza,
increspa] la pelle e, fra le pieghe strette, l’uccide.

Quando passano i fiumi, mandano i figlioli diverso il calar dell’acqua,
e, stando loro inverso l’erta, rompono l’unito corso dell’acqua, a ciò
che ’l corso non li menasse via.

Il drago se li getta sotto il corpo, colla coda l’annoda le gambe, e
coll’ali e colle branche li cigne le coste, e co’ denti lo scanna, e ’l
liofante li cade adosso, e il drago schioppa e così, colla sua morte,
del nemico si vendica.


LVIII. — IL DRAGONE.[87]

Questi s’accompagnan insieme, e si tessano a uso di ratiti [Sidenote:
Plinio: _cratium modo_, a uso di graticci], e, colla testa levata,
passano i paduli, e notano, dove trovan migliore pastura, e, se così
non si unissin, annegherebbono. Così fa unione.


LIX. — SERPENTE.[88]

Il serpente, grandissimo animale, quando vede alcuno uccello per
l’aria, tira a sè sì forte il fiato, che si tira gli uccelli in bocca.
Marco Regulo, consulo dello esercito romano, fu col suo esercito da un
simile animale assalito e quasi rotto. Il quale animale, essendo morto
per una macchina murale, fu misurato 125 piedi, cioè 64 braccia e ½:
avanzava colla testa tutte le piante d’una selva.


LX. — BOA.[89]

Questa è gran biscia, la quale con sè medesima s’aggrappa alle gambe
della vacca, in modo non si mova, poi la tetta, in modo che quasi la
dissecca. Di questa spezie, a tempo di Claudio imperadore, sul monte
Vaticano ne fu morta una, che aveva un putto intero in corpo, il quale
avea tranghiottito.


LXI. — MACLI [Sidenote: Plinio: sorta di gran cervo (_cervus alces_)]
PEL SONNO È GIUNTA.[90]

Questa bestia nasce in Iscandinavia isola, ha forma di gran cavallo,
se non che la gran lunghezza dello collo e delli orecchi lo variano;
pasce l’erba allo ’ndirieto, perchè ha sì lungo il labbro di sopra
che, pascendo innanzi, coprirebbe l’erba. Ha le gambe d’un pezzo, per
questo, quando vol dormire, s’appoggia a uno albero, e i cacciatori,
intendendo il loco usato a dormire, segan quasi tutta la pianta, e,
quando questo poi vi s’appoggia nel dormire, per lo sonno cade; i
cacciatori così lo pigliano, e ogni altro modo di pigliarlo è vano,
perchè è d’incredibile velocità nel correre.


LXII. — BONASO [Sidenote: bisonte] NOCE COLLA FUGA.[91]

Questo nasce in Peonia, ha còllo con crini simile al cavallo, in tutte
l’altre parte è simile al toro, salvo che le sue corna sono in modo
piegate indentro che non po’ cozzare, e per questo non ha altro scampo
che la fuga, nella quale gitta sterco per ispazio di 400 braccia del
suo corso — il quale, dove tocca, abbrucia come foco.


LXIII. — PALPISTRELLO.[92]

Questo dov’è più luce, più si fa orbo, e, come più guarda il sole, più
s’accieca. Pel vizio, che non po’ stare dov’è la virtù.


LXIV. — PERNICE.[93]

Questa si trasmuta di femmina in maschio, e dimentica il primo sesso,
e fura [Sidenote: ruba, rapisce] per invidia l’ova all’altre, ma i nati
seguitano la vera madre.


LXV. — RONDINE.[94]

Questa co’ la celidonia [Sidenote: Sorta di pietra favolosa, che si
dice trovarsi in ventre alle rondini; come al n. LXXXVII] ’lumina i sua
ciechi nati.


LXVI. — ERMELLINO.[95]

Moderanza raffrena tutti i vizi. L’ermellino prima vol morire che
’mbrattarsi.


LXVII. — LEONI, PARDI, PANTERE, TIGRI.

Queste tengano l’unghie nella guaina, e mai le sfoderano, se non è
adosso alla preda o nemico.


LXVIII. — LEONESSA.[96]

Quando la leonessa difende i figlioli dalle man de’ cacciatori, per non
si spaventare dalli spiedi, abbassa li occhi a terra, a ciò che là, per
sua fuga, i figli non sieno prigioni.


LXIX. — LEONE.[97]

Questo sì terribile animale niente teme più che lo strepito delle vòte
carrette e simile il canto de’ galli; teme assai nel vederli e con
pauroso aspetto riguarda la sua cresta — e forte invilisce quando ha
coperto il volto.


LXX. — PANTERE IN AFRICA.[98]

Questa ha forma di leonessa, ma è più alta di gambe e più sottile
e lunga e tutta bianca e punteggiata di macchie nere, a modo di
rosette; di questa si dilectano tutti li animali di vedere, e sempre
le starebbon dintorno se non fussi la terribilità del suo viso: onde
essa, questo conoscendo, asconde il viso, e li animali circustanti
s’assicurano e fannosi vicini per meglio potere fruire [Sidenote:
godere] tanta bellezza, onde questa subito piglia il più vicino e
subito lo divora.


LXXI. — CAMMELLI.[99]

Quegli Battriani hanno due gobbi, gli Arabi uno; sono veloci in
battaglia e utilissimi a portare le some. Questo animale ha regola
e misura osservantissima, perchè non si move, se ha più carico che
l’usato, e, se fa più viaggio, fa il simile, subito si ferma, onde lì
bisogna a’ mercatanti alloggiare.


LXXII. — TIGRE.[100]

Questa nasce in Ircania, la quale è simile alquanto alla pantera
per le diverse macchie della sua pelle, ed è animale di spaventevole
velocità. Il cacciatore, quando truova i sua figli, li rapisce, subito
ponendo specchi nel loco donde li leva, e subito, sopra veloce cavallo,
si fugge. La pantera, tornando, trova li specchi fermi in terra, ne’
quali, vedendo sè, li pare vedere li sua figlioli, e, raspando colle
zampe, scopre lo ’nganno, onde, mediante l’odore de’ figli, seguita
il cacciatore, e quando esso cacciatore vede la tigre, lascia uno de’
figlioli, e questa lo piglia e portalo al nido, e subito rigiugne sul
cacciatore, e fa ’l simile insino a tanto ch’esso monta in barca.


LXXIII. — CATOPLEAS [Sidenote: Plinio: _catoblepas_, sorta di
serpente].[101]

Questa nasce in Etiopia, vicino al fonto Nigricapo, è animale non
troppo grande e pigro in tutte le membra, e ha ’l capo di tanta
grandezza che malagevolmente lo porta, in modo che sempre sta chinato
inverso la terra, altremente sarebbe di somma peste alli omini, perchè
qualunque è veduto da’ sua occhi subito more.


LXXIV. — BASILISCO.[102]

Questo nasce nella provincia Arenaica, e non è maggiore che 12 dita, e
ha in capo una macchia bianca a similitudine di diadema; col fischio
caccia ogni serpente, a similitudine di serpe, ma non si move con
torture, anzi ma ritto dal mezzo innanzi. Dicesi che uno di questi,
essendo morto con un aste da uno che era a cavallo, che ’l suo veneno
discorrendo su per l’aste, non che l’omo, ma il cavallo morì. Guasta le
biade, e, non solamente quelle che tocca, ma quelle dove soffia; secca
l’erbe, spezza i sassi.


LXXV. — DONNOLA OVER BELLOLA.[103]

Questa, trovando la tana del basilisco, coll’odore della sua sparsa
orina, l’occide: l’odore della quale orina ancora, spesse volte, essa
donnola occide.


LXXVI. — CERASTE [Sidenote: Plinio: Altra sorta di serpente].[104]

Queste hanno quattro piccioli corni mobili, onde, quando si vogliano
cibare, nascondano sotto le foglie tutta la persona, salvo esse
cornicina; le quali movendo, pare agli uccelli quelli essere piccioli
vermini, che scherzino, onde subito si calano per beccarli, e questa
subito s’avviluppa loro in cerchio, e sì li divora.


LXXVII. — AMFESIBENE.[105]

Questa ha due teste, l’una nel suo loco, l’altra nella coda, come se
non bastassi, che da un solo loco gittassi il veneno.


LXXVIII. — IACULO [Sidenote: Plinio: serpe velenoso].[106]

Questa sta sopra le piante, e si lancia come dardo, e passa attraverso
le fiere, e l’uccide.


LXXIX. — ASPIDO.[107]

Il morso di questo animale non ha rimedio, se non di subito tagliare
le parti morse. Questo sì pestifero animale ha tale affezione nella sua
compagna, che sempre vanno accompagnati; che, se per disgrazia l’uno di
loro è morto, l’altro, con incredibile velocità, seguita l’ucciditore;
ed è tanto attento e sollecito alla vendetta, che vince ogni
difficultà, passando ogni esercito. Solo il suo nemico cerca offendere,
e passa ogni spazio, e non si può schifarlo, se non col passare l’acque
o con velocissima fuga. Ha li occhi in dentro e grandi orecchi, e più
lo move l’audito che ’l vedere.


LXXX. — ICNEUMONE [Sidenote: Volg.: topo di Faraone].[108]

Questo animale è mortale nemico all’aspido nasce in Egitto, e,
quando vede presso al suo sito alcuno aspido, subito corre alla litta
[Sidenote: Minutissima arena, che si suol trovare vicino a’ fiumi o
torrenti; come al n. LXXXIII] over fango del Nilo, e con quello tutto
s’infanga, e poi, risecco dal sole, di novo di fango s’imbratta,
e, così seccando l’un dopo l’altro, si fa tre o quattro veste, a
similitudine di corazza; e di poi assalta l’aspido, e ben contrasta con
quello, in modo che, tolto il tempo, se li caccia in gola e l’ammazza.


LXXXI. — COCODRILLO.[109]

Questo nasce nel Nilo, ha quattro piedi, nuoce in terra e in acqua,
nè altro terrestre animale ai truova sanza lingua, che questo, e
solo morde movendo la mascella di sopra; cresce insino in 40 piedi, è
unghiato, armato d corame, atto a ogni colpo, e ’l dì sta in terra, e
la notte in acqua. Questo, cibato di pesci, s’addormenta sulla riva
del Nilo colla bocca aperta, e l’uccello detto trochilo [Sidenote:
_troglodites_ o reatino], piccolissimo uccello, subito li corre
alla bocca e, saltatoli fra i denti, dentro e fora li va beccando il
rimaso cibo, e, così stuzzicandolo con dilettevole voluttà, lo ’nvita
aprire tutta la bocca, e così s’addormenta. Questo veduto dal eumone
[Sidenote: icneumone, vedi n. LXXX], subito si li lancia in bocca e,
foratoli lo stomaco e le budella, finalmente l’uccide.


LXXXII. — DELFINO.[110]

La natura ha dato tal cognizione alli animali che, oltre al conoscere
la loro comodità, e’ conoscono la incomodità del nimico, onde intende
il delfino quanto vaglia il taglio dello sue pinne, posteli sulla
schiena, e quanto sia tenera la pancia dei cocodrillo, onde nel lor
combattere si li caccia sotto, e tagliali la pancia, e così l’uccide.

Il cocodrillo è terribile a chi fugge, e vilissimo a chi lo caccia.


LXXXIII. — HIPPOTAMO [Sidenote: ippopotamo].[111]

Questo, quando si sente aggravatola cercando le spine o, dove sia,
i rimanenti de’ tagliati canneti, e lì tanto frega una vena, che la
taglia e, cavato il sangue che li abbisogna, colla litta s’infanga e
risalda la piaga. Ha forma quasi come cavallo, l’unghia fessa, coda
torta e denti di cinghiale, còllo con crini, la pelle non si po’
passare se non si bagna, pascesi di biade; ne’ campi entravi allo
’ndirieto, acciò che pare ne sia uscito.


LXXXIV. — IBIS.[112]

Questo ha similitudine colla cicogna, e, quando si sente ammalato,
empie il gozzo d’acqua, e col becco si fa un cristero [Sidenote:
clistere].


LXXXV. — CERVI.[113]

Questo, quando si sente morso dal ragno detto falange, mangia de’
granchi, e si libera di tal veneno.


LXXXVI. — LUSERTE [Sidenote: lucertola].[114]

Questa, quando combatte colle serpe, mangia la cicerbita [Sidenote:
Linneo: _sonchus oleraceus_ (pianta)], e son libere.


LXXXVII. — RONDINE.[115]

Questa rende il vedere alli inorbiti figlioli col sugo della celidonia.


LXXXVIII. — BELLOLA.[116]

Questa, quando caccia ai ratti, mangia prima della ruta.


LXXXIX. — CINGHIALE.[117]

Questo medica i sua mali mangiando della edera.


XC. — SERPE.[118]

Questa, quando si vol rennovare, gitta il vecchio scoglio [Sidenote:
scoglia, la pelle che gitta ogni anno la serpe], comenciandosi dalla
testa; mutasi ’n un dì e una nocte.


XCI. — PANTERA.[119]

Questa, poi che le sono uscite le ’nteriora, ancora combatte coi cani e
cacciatori.


XCII. — CAMALEONE.[120]

Questo piglia sempre il colore della cosa, dove si posa, onde, insieme
colle frondi dove si posano, spesso dalli elefanti son divorati.


XCIII. — CORBO [Sidenote: corvo].[121]

Questo, quando ha ucciso il camaleone, si purga coll’alloro.


XCIV. — MAGNANIMITÀ.

Il falcone non piglia se non uccelli grossi, e prima more che mangiare
carne di non bono odore.


XCV. — GRU.

Le gru, acciò che ’l loro re non perisca per cattiva guardia, la notte
li stanno dintorno con pietre in piè.

Amor, timor e reverenza: questo scrivi in tre sassi di gru.


XCVI. — CARDELLINO.

Il calderugio [Sidenote: cardellino] dà il tortomalio [Sidenote:
titimalo, titimaglio, pianta del genere _euforbia_] a’ figlioli
ingabbiati. — Prima morte che perdere libertà!


XCVII. — DELL’ANTIVEDERE.

Il gallo non canta, se prima tre volte non batte l’ali; il papagallo,
nel mutarsi pe’ rami, non mette i piè, dove non ha prima messo il
becco.


XCVIII. — PER BEN FARE.

Per il ramo della noce, — che solo è percosso e battuto, quand’e’ ha
condotto a perfezione li sua frutti, — si dinota quelli, che, mediante
il fine delle loro famose opere, son percossi dalla invidia per diversi
modi.


XCIX. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Per lo spino, insiditoli [Sidenote: innestatogli] sopra boni frutti,
significa quello, che per se non era disposto a virtù, ma mediante
l’aiuto del precettore dà di sè utilissime virtù.


C. — DEL LINO.

Il lino è dedicato a morte e corruzione de’ mortali: a morte pe’
lacciuoli delli uccelli, animali e pesci; a corruzione per le tele line
dove s’involgano i morti, che si sotterrano, i quali si corrompono in
tali tele. E ancora esso lino non si spicca dal suo festuco, se esso
non comincia a macerarsi o corrompersi, e questo è quello col quale si
deve incoronare e ornare li uffizî funerali.


CI. — FRAMMENTO.

Per il pannolino, che si tien colla mano nel corso dell’acqua corrente,
nella quale acqua il panno lascia tutte le sue brutture, significa
questo ec.



I PENSIERI.



PENSIERI SULLA SCIENZA.


I. — LA TEORIA E LA PRATICA.

Bisognati descrivere la teorica e poi la pratica.


II. — DELL’ERROR DI QUELLI, CHE USANO LA PRATICA SANZA SCIENZA.

Quelli, che s’innamoran di pratica sanza scienza, son come ’l
nocchiere, ch’entra in navilio sanza timone o bussola, che mai ha
certezza dove si vada.

Sempre la pratica dev’esser edificata sopra la bona teorica; della
quale la _Prospettiva_ è guida e porta, e, sanza questa, nulla si fa
bene ne’ casi di pittura.


III. — PARAGONE DEL PRATICO.

Il pittore, che ritrae per pratica e giudizio d’occhio, sanza ragione,
è come lo specchio, che in sè imita tutte le a sè contrapposte cose,
sanza cognizione d’esse.


IV. — PRECEDENZA DELLA TEORICA ALLA PRATICA.

La scienza è il capitano, e la pratica sono i soldati.


V. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Studia prima la scienza, e poi seguita la pratica, nata da essa scienza.


VI. — CONSIGLIO AL PITTORE.

E tu, pittore, che desideri la grandissima pratica, hai da intendere,
che, se tu non la fai sopra bon fondamento delle cose naturali, tu
farai opere assai con poco onore e men guadagno; e se la farai buona,
l’opere tue saranno molte e bone, con grand’onor tuo e molta utilità.


VII. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Dice qui l’avversario, che non vuole tanta scienza, che gli basta la
pratica del ritrarre le cose naturali. Al quale si risponde, che di
nessuna cosa è, che più c’inganni, che fidarsi del nostro giudicio,
sanz’altra ragione, come prova sempre la sperienza, nemica degli
Alchimisti, Negromanti e altri semplici ingegni.


VIII. — SUL FATTO ANATOMICO DELLO SVILUPPO GRANDE DEL CRANIO NEL
FANCIULLO.

La natura ci compone prima la grandezza della casa dello intelletto
[Sidenote: il cranio, la testa], che quella delli spiriti vitali
[Sidenote: il petto].


IX. — DIVERSITÀ DELLA TEORICA DALLA PRATICA.

Dove la scienza de’ pesi è ingannata dalla pratica.

La scienza de’ pesi è ingannata dalla sua pratica, e, in molte parte,
essa [Sidenote: Sott.: pratica] non s’accorda con essa scienza, nè
è possibile accordarla; e questo nasce dalli poli delle bilancie,
mediante li quali di tali pesi si fa scienza, li quali poli, appresso
li antichi filosofi, furo li poli posti di natura di linia matematica,
e in alcun loco in punti matematici, li quali punti e linie sono
incorporei: e la pratica li pone corporei, perchè così comanda
necessità, volendo sostenere il peso d’esse bilancie, insieme colli
pesi [Sidenote: Sott.: che] sopra di lor si giudicano.

Ho trovato essi antichi essersi ingannati in esso giudizio de’ pesi,
e questo inganno è nato perchè in gran parte della loro scienza hanno
usati poli corporei, e in gran parte poli matematici, cioè mentali,
overo incorporei.[122]


X. — STERILITÀ DELLE SCIENZE SENZA APPLICAZIONE PRATICA.

Tutte le scienze, che finiscono in parole, hanno sì presto morte,
come vita, eccetto la sua parte manuale, cioè lo scrivere, ch’è parte
meccanica.


XI. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Fuggi quello studio, del quale la resultante opera muore insieme
coll’operante d’essa.


XII. — RICORDI DI LEONARDO.

Quando tu metti insieme la _Scienza de’ moti dell’acqua_, ricordati di
mettere, di sotto a ciascuna proposizione, li sua giovamenti, a ciò che
tale scienza non sia inutile.


XIII. — LA DISTRIBUZIONE DEI SUOI TRATTATI.

Da profondare un canale: fa questo nel libro _De’ giovamenti_, e, nel
provarli, allega le proposizioni provate; e questo è il vero ordine,
perchè, se tu volessi mostrare il giovamento a ogni proposizione, ti
bisognerebbe ancora fare novi strumenti per provar tale utilità, e
così confonderesti l’ordine de’ quaranta libri, e così l’ordine delle
figurazioni; cioè avresti a mischiare pratica con teorica, che sarebbe
cosa confusa e interrotta.


XIV. — VALORE INTRINSECO DEL SAPERE.

L’acquisto di qualunque cognizione è sempre utile allo intelletto,
perchè potrà scacciare da sè le cose inutili, e riservare le buone.
Perchè nessuna cosa si può amare nè odiare, se prima non si ha
cognizion di quella.


XV. — NATURALE ISTINTO DELL’UOMO AL SAPERE.

Naturalmente li omini boni desiderano sapere.


XVI. — PIACERE, CHE NASCE DALLA CONTEMPLAZIONE DELLA NATURA.

Alli ambiziosi, che non si contentano del benefizio della vita,
nè della bellezza del mondo, è dato per penitenza che lor medesimi
strazino essa vita, e che non posseggano la utilità e bellezza del
mondo.


XVII. — LEONARDO CONTRO GLI SPREZZATOSI DELLE SUE OPERE.[123]

So che molti diranno questa essere opra inutile, e questi fieno quelli,
de’ quali Deometro [Sidenote: Demetrio] disse, non faceva conto più
del vento, il quale nella lor bocca causava le parole, che del vento,
ch’usciva dalla parte di sotto; uomini quali hanno solamente desiderio
di corporal ricchezze, diletto, e interamente privati di quello della
sapienza, cibo e veramente sicura ricchezza dell’anima: perchè quant’è
più degna l’anima che ’l corpo, tanto più degne fien le ricchezze
dell’anima, che del corpo.

E spesso, quando vedo alcun di questi pigliare essa opera in mano,
dubito non sì, come la scimmia, se ’l mettino al naso, e che mi domandi
s’è cosa mangiativa.


XVIII. — CONTRO GLI SPREZZATORI DELLA SCIENZA.

Demetrio solea dire, non essere differenza dalle parole e voce
dell’imperiti ignoranti, che sia da soni o strepiti causati dal ventre,
ripieno di superfluo vento. E questo non sanza ragion dicea, imperocchè
lui non reputava esser differenza da qual parte costoro mandassino
fuora la voce, o da la parte inferiore o da la bocca, che l’una e
l’altra eran di pari valimento e sustanzia.


XIX. — RIFLESSIONE SULLA STRUTTURA DEL CORPO UMANO.

Non mi pare, che li omini grossi e di tristi costumi e di poco discorso
meritino sì bello strumento, nè tanta varietà di macchinamenti, quanto
li omini speculativi e di gran discorsi, ma solo un sacco dove si
riceva il cibo e donde esso esca; che, invero, altro che un transito
di cibo non son da essere giudicati, perchè niente mi pare che essi
partecipino di spece umana, altro che la voce e la figura; e tutto il
resto è assai manco che bestia.


XX. — CONTRO GLI UOMINI, CHE MIRANO SOLO ALLA VITA MATERIALE.

Ecci alcuni, che non altramenti che transito di cibo e aumentatori di
sterco e riempitori di destri [Sidenote: latrine] chiamarsi debbono;
perchè per loro non altro nel mondo, o pure alcuna virtù in opera si
mette, perchè di loro altro che pieni destri non resta.


XXI. — I DUE CAMPI DELLA CONOSCENZA.

La cognizion del tempo preterito e del sito della terra è ornamento e
cibo delle menti umane.


XXII. — IL SUPREMO BENE È IL SAPERE.[124]

Cornelio Celso: «Il sommo bene è la sapienza, il sommo male è ’l dolore
del corpo: imperò che, essendo noi composti di due cose, cioè d’anima e
di corpo, delle quali la prima è migliore, la peggiore è il corpo. La
sapienza è della miglior parte, il sommo male è della peggior parte e
pessima. Ottima cosa è nell’animo la sapienza, così è pessima cosa nel
corpo il dolore. Adunque, sì come il sommo male è ’l corporal doloro,
così la sapienza è dell’anima il sommo bene, cioè dell’uom saggio, e
niuna altra cosa è da a questa comparare.»


XXIII. — VALORE DEL SAPERE NELLA VITA.

Acquista cosa nella tua gioventù, che ristori il danno della tua
vecchiezza. E se tu intendi la vecchiezza aver per suo cibo la
sapienza, adoprati in tal modo in gioventù, che a tal vecchiezza non
manchi il nutrimento.


XXIV. — GLORIFICAZIONE DELLA SCIENZA.

.... Manca la fama del ricco ’nsieme co’ la sua vita, resta la fama del
tesoro e non del tesaurizzante: e molto maggior gloria è quella della
virtù de’ mortali, che quella delli loro tesori.

Quanti imperatori e quanti principi sono passati, che non ne resta
alcuna memoria! e solo cercarono li stati e ricchezze, per lassare fama
di loro.

Quanti furon quelli, che vissono in povertà di denari, per arricchire
di virtù! e tanto è più riuscito tal desiderio al virtuoso, ch’al
ricco, quanto la virtù eccede la ricchezza.

Non vedi tu, ch’il tesoro per sè non lauda il suo cumulatore, dopo la
sua vita, come fa la scienza? la quale sempre è testimonia e tromba
del suo creatore, perchè ella è figliola di chi la genera, e non
figliastra, come la pecunia.


XXV. — COME PER TUTTI ’VIAGGI SI PO’ IMPARARE.

Questa benigna natura ne provvede in modo, che per tutto il mondo tu
trovi dove imitare.


XXVI. — L’INERZIA GUASTA LA SOTTILITÀ DELL’INGEGNO.

Siccome il ferro s’arrugginisce sanza esercizio, e l’acqua si putrefà,
e nel freddo s’agghiaccia; così l’ingegno, sanza esercizio, si guasta.


XXVII. — LO STUDIO SENZA VOGLIA NON DÀ ALCUN FRUTTO.

Siccome mangiare sanza voglia si converte in fastidioso notrimento,
così lo studio sanza desiderio guasta la memoria, col non ritenere
cosa, ch’ella pigli.


XXVIII. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Siccome il mangiare sanza voglia fia dannoso alla salute, così lo
studio sanza desiderio guasta la memoria, e non ritien cosa, ch’ella
pigli.


XXLX. — PER GIUDICARE L’OPERA PROPRIA BISOGNA RIGUARDARLA DOPO LUNGO
INTERVALLO.

Sì come il corpo, con gran tardità fatta nella lunghezza del suo moto
contrario, torna con più via, dà poi maggior colpo, — e quello, che è
di continui e brievi moti, son di piccola valetudine; così lo studio su
una medesima materia, fatto con lunghi intervalli di tempo, il giudizio
s’è fatto più perfetto, e meglio giudica il suo errore. E ’l simile fa
l’occhio del pittore col discostarsi dalla sua pittura.


XXX. — ANTIQUITAS SÆCULI IUVENTUS MUNDI.

La verità sola fu figliola del tempo.


XXXI. — GLORIFICAZIONE DELLA VERITÀ.

Ed è di tanto vilipendio la bugia, che s’ella dicessi ben gran cose di
Dio, ella to’ [Sidenote: toglie] di grazia a sua deità; ed è di tanta
eccellenza la verità, che s’ella laudassi cose minime, elle si fanno
nobili.

Sanza dubbio, tal proporzione è dalla verità alla bugia, qual’è da
la luce alle tenebre; ed è essa verità in sè di tanta eccellenzia,
che ancora ch’ella s’astenda sopra umili e basse materie, sanza
comparazione ell’eccede le incertezze e bugie estese sopra li magni
e altissimi discorsi; perchè la mente nostra, ancora ch’ell’abbia la
bugia pe ’l quinto elemento, non resta però che la verità delle cose
non sia di sommo notrimento delli intelletti fini, ma non de’ vagabondi
ingegni. Ma tu che vivi di sogni, ti piace più le ragion sofistiche e
barerie de’ palari [Sidenote: frodi de’ giocatori di palla, sotterfugi]
nelle cose grandi e incerte, che delle certe naturali e non di tanta
altura!


XXXII. — CONSEGUENZA DELLE OPPOSIZIONI ALLA VERITÀ.

L’impedimenti della verità si convertono in penitenza.


XXXIII. — DEFINIZIONE DELLA SCIENZA.

Scienza è detto quel discorso mentale, il quale ha origine da’ suoi
ultimi principii, (oltre) de’ quali in natura null’altra cosa si può
trovare, che sia parte d’essa scienza: come nella quantità continua,
cioè la scienza di _Geometria_, la quale, cominciando dalla superfizie
de’ corpi, si trova avere origine nella linea, termine di essa
superfizie; e in questo non restiamo soddisfatti, perchè noi conosciamo
la linea aver termine nel punto, e il punto esser quello, del quale
null’altra cosa può essere minore.

Dunque il punto è il primo principio di _Geometria_, e niuna altra
cosa può essere nè in natura, nè in mente umana, che possa dar
principio al punto. Perchè se tu dirai, nel contatto fatto sopra una
superfizie da un’ultima acuità della punta de lo stile, quello essere
creazione del punto; questo non è vero, ma diremo, questo tale contatto
essere una superfizie, che circonda il suo mezzo, e in esso mezzo
è la residenza del punto. E tal punto non è della muteria di essa
superfizie, nè lui, nè tutti li punti dell’universo, [Sidenote: Sott.:
che] sono in potenza, ancorchè sieno uniti — dato che si potessero
unire — comporrebbono parte alcuna d’una superfizie. E dato, che tu ti
immaginassi, un tutto essere composto da mille punti, qui dividendo
alcuna parte da essa quantità de’ mille, si può dire molto bene, che
tal parte sia equale al suo tutto; e questo si prova col zero, ovver
nulla, cioè la decima figura de la _Aritmetica_, per la quale si figura
un 0 per esso nullo, il quale, posto dopo la unità, il farà dire dieci,
e, se porrai due dopo tale unità, dira’ cento, e così infinitamente
crescerà sempre dieci volte il numero, dove esso s’aggiunga; e lui
in sè non vale altro, che nulla, e tutti li nulli dell’universo sono
eguali a un sol nulla, in quanto alla loro sustanzia e valetudine.


XXXIV. — VALORE DELLE REGOLE DATE DA LEONARDO AL PITTORE.

Queste regole sono da usare solamente per ripruova delle figure:
imperocchè ogni omo, nella prima composizione, fa qualche errore, e
chi non li conosce non li racconcia; onde tu, per conoscere li errori,
riproverai l’opera tua, e, dove trovi detti errori, racconciali, e
tieni a mente di mai più ricaderci. Ma, se tu volessi adoperare le
regole nel comporre, non verresti mai a capo, e faresti confusione
nelle tue opere.

Queste regole fanno, che tu possiedi uno libero e bono giudizio;
imperochè ’l bono giudizio nasce dal bene intendere, e il bene
intendere diriva da ragione tratta da bone regole, e le bone regole
sono figliole della bona sperienza, comune madre di tutte le scienze e
arti.

Onde, avendo tu bene a monte i precetti delle mie regole, potrai,
solamente col racconcio giudizio, giudicare e conoscere ogni
sproporzionata opera, così in prospettiva, come in figure o altre cose.


XXXV. — LEGGE, CHE GOVERNA LO SVOLGIMENTO STORICO DELLA PITTURA E DELLE
SCIENZE.

Come la pittura va d’età in età declinando e perdendosi, quando i
pittori non hanno per autore, che la fatta pittura.

Il pittore avrà la sua pittura di poca eccellenza, se quello piglia per
autore l’altrui pitture, ma s’egli imparerà dalle cose naturali, farà
bono frutto: come vedemo in ne’ pittori dopo i Romani, i quali sempre
imitarono l’uno dall’altro, e di età in età sempre mandaro detta arte
in declinazione. Dopo questi venne Giotti, fiorentino, il quale, nato
in monti soletari, abitati solo da capre e simil bestie, questo, sendo
volto dalla natura a simile arte, cominciò a disegnare su per li sassi
li atti delle capre, de le quali lui era guardatore; e così cominciò a
fare tutti li animali, che nel paese trovava: in tal modo, che questo,
dopo molto studio, avanzò non che i maestri della sua età, ma tutti
quelli di molti secoli passati. Dopo questo l’arte ricade, perchè tutti
imitavano le fatte pitture, e così di secolo in secolo andò declinando,
insino a tanto che Tomaso fiorentino, scognominato Masaccio, mostrò
con opra perfetta, come quegli, che pigliavano per autore altro che la
natura, maestra de’ maestri, s’affaticavano invano.

Così voglio dire di queste cose matematiche, che quegli, che solamente
studiano li autori e non l’opre di natura, son per arte nipoti, non
figlioli d’essa natura, maestra de’ boni autori. — Odi somma stoltizia
di quelli, i quali biasimano coloro che ’mparano da la natura,
lasciando stare li autori, discepoli d’essa natura!


XXXVI. — CONTRO IL PRINCIPIO DI AUTORITÀ NELLA SCIENZA.

Molti mi crederanno ragionevolmente potere riprendere, allegando le
mie prove esser contro all’autorità d’alquanti omini di gran reverenza,
presso de’ loro inesperti judizî: non considerando le mie cose essere
nate sotto la semplice e mera sperienza, la quale è maestra vera.


XXXVII. — IL SEGUACE DELLA NATURA E IL SEGUACE DELLA AUTORITÀ DEGLI
SCRITTORI.

Se bene, come loro, non sapessi allegaro gli autori, molto maggiore
e più degna cosa a legger è, allegando la sperienza, maestra ai
loro maestri. Costoro vanno sgonfiati e pomposi, vestiti e ornati,
non delle loro, ma delle altrui fatiche, e le mie a me medesimo non
concedono; e se me inventore disprezzeranno, quanto maggiormente loro,
non inventori, ma trombetti e recitatori delle altrui opere, potranno
essere biasimati.


XXXVIII. — SUPERIORITÀ DEGLI SCOPRITORI DEL VERO SUI COMMENTATORI DELLE
OPERE ALTRUI.

È da essere giudicati, e non altrimenti stimati li omini inventori e
’nterpreti tra la natura e gli uomini, a comparazione de’ recitatori e
trombetti delle altrui opere, quant’è dall’obbietto fori dello specchio
alla similitudine d’esso obbietto apparente nello specchio, che l’uno
per sè è qualche cosa, e l’altro è niente. Gente poco obbligate alla
natura, perchè sono sol d’accidental [Sidenote: della parte caduca
dell’uomo, la figura esteriore] vestiti, e sanza il quale potrei
accompagnarli in fra li armenti delle bestie!


XXXIX. — CONTRO GLI UMANISTI.

So bene che per non essere io letterato, che alcuno prosuntuoso gli
parrà ragionevolmente potermi biasimare, coll’allegare io essere omo
sanza lettere. Gente stolta! Non sanno questi tali ch’io potrei, sì
come Mario rispose contro a’ patrizi romani, io sì rispondere, dicendo:
— quelli che dall’altrui fatiche sè medesimi fanno ornati, le mie a me
medesimo non vogliano concedere?

Diranno, che per non avere io lettere, non potere ben dire quello, di
che voglio trattare. Or non sanno questi che le mie cose son più da
esser tratte dalla sperienzia, che d’altrui parole, la quale fu maestra
di chi ben scrisse, e così per maestra la piglio, e quella in tutti i
casi allegherò.


XL. — REVERENZA DI LEONARDO PER GLI ANTICHI INVENTORI.

_De’ cinque corpi regolari_.[125] Contro alcuni commentatori, che
biasimano li antichi inventori, donde nasceron le grammatiche e le
scienze, e fansi cavalieri contro alli morti inventori, e, perchè essi
non han trovato da farsi inventori, per la pigrizia e comodità de’
libri, attendono al continuo, con falsi argumenti, a riprendere li lor
maestri.


XLI. — VALORE DELLA AUTORITÀ.

Chi disputa allegando l’autorità, non adopra lo ’ngegno, ma più tosto
la memoria.


XLII. — SPONTANEITÀ DELLA CREAZIONE ARTISTICA E SCIENTIFICA.

Le buone lettere so’ nate da un bono naturale; e perchè si de’ più
laudare la cagion che l’effetto, più lauderai un bon naturale sanza
lettere, che un bon litterato sanza naturale.


XLIII. — STUDIO DELL’ANTICHITÀ.

L’imitazione delle cose antiche è più laudabile, che le moderne.


XLIV. — NECESSITÀ DELLA ESPERIENZA E DELLA MATEMATICA NELLE SCIENZE.

Nessuna umana investigazione si po’ dimandare vera scienza, s’essa non
passa per le matematiche dimostrazioni.

E se tu dirai, che le scienze, che principiano e finiscono nella mente
abbino verità, questo non si concede, ma si nega, per molte ragioni,
e prima, che in tali discorsi mentali non accade esperienza, sanza la
quale nulla dà di sè certezza.


XLV. — LA ESPERIENZA.

La sapienza è figliola della sperienza.


XLVI. — LA SPERIENZA NON FALLA, MA SOL FALLANO I NOSTRI GIUDIZI,
PROMETTENDOSI DI LEI COSE, CHE NON SONO IN SUA POTESTÀ.

A torto si lamentan li omini della isperienza, la quale, con somme
rampogne, quella accusano esser fallace. Ma lascino stare essa
esperienza, e voltate tale lamentazione contro alla vostra ignoranza,
la quale vi fa transcorrere, co’ vostri vani e instolti desiderî, a
impromettervi di quella cose, che non sono in sua potenza, dicendo
quella esser fallace. A torto si lamentano li omini della innocente
esperienza, quella spesso accusando di fallacie e di bugiarde
dimostrazioni.


XLVII. — NECESSITÀ DELLA SUCCESSIONE DELL’EFFETTO ALLA CAUSA.

La sperienza non falla mai, ma sol fallano i vostri giudizi,
promettendosi di quella effetto tale, che ne’ nostri esperimenti
causati non sono. Perchè, dato un principio, è necessario che ciò, che
seguita di quello, è vera conseguenza di tal principio, se già non
fussi impedito; e se pur séguita alcuno impedimento, l’effetto, che
doveva seguire del predetto principio, partecipa tanto più o meno del
detto impedimento, quanto esso impedimento è più o meno potente del già
detto principio.


XLVIII. — LA CERTEZZA DELLE MATEMATICHE.

Chi biasima la somma certezza della matematica si pasce di confusione,
e mai porrà silenzio alle contraddizioni delle sofistiche scienze,
colle quali s’impara uno eterno gridore.


XLIX. — GENERALE APPLICABILITÀ DELLA MATEMATICA.

La proporzione non solamente nelli numeri e misure fia ritrovata, ma
etiam nelli suoni, pesi, tempi e siti, e ’n qualunque potenza si sia.


L. — DELLE SCIENZE.

Nessuna certezza è dove non si può applicare una delle scienze
matematiche, over che non sono unite con esse matematiche.


LI. — LEONARDO AL LETTORE.

Non mi legga chi non è matematico, nelli mia principî.


LII. — DELLA MECCANICA.

La _Meccanica_ è il paradiso delle scienze matematiche, perchè con
quella si viene al frutto matematico.


LIII. — LA MECCANICA E LA ESPERIENZA.

A ciascuno strumento si richiede esser fatto colla sperienza.


LIV. — ACCORDO FRA L’ESPERIENZA E LA RAGIONE.

La sperienza, interprete in fra l’artifiziosa natura e la umana spezie,
ne ’nsegna, ciò che essa natura in fra mortali adopra, da necessità
constretta, non altrimenti oprar si possa, che la ragione, suo timone,
oprare le ’nsegni.


LV. — LA DEDUZIONE.

Non è da biasimare lo mostrare, in fra l’ordine del processo della
scienza, alcuna regola generale, nata dall’antidetta conclusione.


LVI. — BISOGNA PASSARE DAL NOTO ALL’IGNOTO.

Per dare vera scienza del moto delli uccelli in fra l’aria, è
necessario dare prima la scienza de’ venti, la qual proverem mediante
li moti dell’acqua in sè medesima, e questa tale scienza sensibile farà
di sè scala per venire alla cognizione de’ volatili in fra l’aria e ’l
vento.


LVII. — LA LEGGE DI NATURA DOMINA I FATTI.

Nessuno effetto è in natura sanza ragione; intendi la ragione, e non ti
bisogna sperienza.


LVIII. — L’ESPERIENZA È IL FONDAMENTO DELLA SCIENZA.

Ricordati, quando commenti l’acque, d’allegar prima la sperienza e poi
la ragione.


LIX. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Io ti ricordo, che tu facci le tue proposizioni, e che tu alleghi
le soprascritte cose per esempli e non per proposizioni, chè sarebbe
troppo semplice; e dirai così: sperienza.


LX. — DALLA INVESTIGAZIONE DEGLI EFFETTI SI SCOPRONO LE CAUSE.

Ma prima farò alcuna esperienza avanti, ch’io più oltre proceda, perchè
mia intenzione è allegare prima l’esperienza, e poi colla ragione
dimostrare, perchè tale esperienza è costretta in tal modo ad operare.

E questa è la vera regola, come li speculatori delli effetti naturali
hanno a procedere, e ancora che la natura cominci dalla ragione e
termini nella sperienza, a noi bisogna seguitare in contrario, cioè
cominciando — come di sopra dissi — dalla sperienza, e con quella
investigare la ragione.


LXI. — BISOGNA RIPETERE LE ESPERIENZE E VARIARE LE CIRCOSTANZE.

Innanzi di fare di questo caso una regola generale, sperimentalo due o
tre volte, guardando se le sperienze producono gli stessi effetti.


LXII. — ESEMPIO DELLA PRECEDENTE REGOLA.

_Se molti corpi, d’egual peso e figura, saranno l’un dopo l’altro, con
egual tempo, lasciati cadere, li eccessi de’ loro intervalli saranno
infra loro eguali_.[126]

La sperienza della predetta conclusione di moto si debbe fare in questa
forma, cioè: tolgansi due ballotte d’egual peso e figura, e si faccino
lasciare cadere di grande altezza in modo che, nel lor principio di
moto, si tocchino l’una l’altra, e lo sperimentatore stia a terra a
vedere se ’l loro cadere l’ha ancora mantenute in contatto o no. E
questa esperienza si faccia più volte, acciò che qualche accidente
non impedissi o falsassi tale prova, che la sperienza fussi falsa, e
ch’ella ingannassi o no il suo speculatore.


LXIII. — BISOGNA LIMITARE LA RAGIONE ALLA ESPERIENZA, NON ESTENDERE LA
RAGIONE AL DI LÀ DELLA ESPERIENZA.

_Quanto più si diminuisce il mobile, il suo motore lo caccia più,
proporzionevolmente secondo la sua diminuzione in infinito, sempre
acquistando velocità di moto_.[127]

E’ seguiterebbe che un atomo sarebbe quasi veloce come la immaginazione
o l’occhio, che subito discorre alla altezza delle stelle, per
conseguente il suo viaggio sarebbe infinito, perchè la cosa, che
infinitamente si può diminuire, infinitamente si farebbe veloce,
e infinito cammin si moverebbe (perchè _ogni quantità continua è
divisibile in infinito_). La qual opinione è dannata dalla ragione e
per conseguente dalla sperienza.

Sicchè voi, speculatori, non vi fidate delli autori, che hanno sol co’
l’immaginazione voluto farsi interpreti fra la natura e l’omo, ma sol
di quelli, che non coi cenni della natura, ma co’ gli effetti delle
sue esperienze hanno esercitati i loro ingegni. E riconoscere come
l’esperienze ingannano chi non conosce loro natura; perchè quelle, che
spesse volte paiono una medesima, spesse volte son di grande varietà,
come qui si dimostra.


LXIV. — A COLORO CHE AFFERMANO L’ACQUA TROVARSI ALLA SOMMITÀ DEI MONTI,
PERCHÈ IL MARE È PIÙ ALTO, CHE LA TERRA.

Se l’acqua, che surge per l’alte cime de’ monti, viene dal mare, del
quale il suo peso la sospignie, per essere più alto d’essi monti;
perchè ha così licenza tal particula d’acqua a levarsi in tanta
altezza, e penetrare la terra con tanta difficultà e tempo; e non è
stato conceduto al resto dell’elemento dell’acqua fare il simile, il
quale confina coll’aria, la qual non è per resisterli, che ’l tutto non
si elevassi alla medesima altezza della predetta parte? E tu che tale
invenzione trovasti ritorna a riimparare naturale, che tu mancherai
di tali simili opinioni, del quale tu ha’ fatto grande ammunizione
[Sidenote: raccolta, somma] insieme col capitale del frutto, che tu
possiedi.[128]


LXV. — LA PROSPETTIVA E LA MATEMATICA.[129]

Intra li studî delle naturali cause e ragioni, la luce diletta più i
contemplanti; intra le cose grandi delle matematiche, la certezza della
dimostrazione innalza più preclaramente l’ingegno dell’investiganti.

La _Prospettiva_ adunque è da essere preposta a tutte le trattazioni e
discipline umane, nel campo della quale la linia radiosa è complicata
dai modi delle dimostrazioni, nella quale si truova la gloria non tanto
della _Matematica_, quanto della _Fisica_, ornata co’ fiori dell’una e
dell’altra.

Le sentenze delle quali, distese con gran circuizione [Sidenote:
analiticamente], io le ristrignierò in conclusiva brevità, intessendo,
secondo il modo della materia, naturali e matematiche dimostrazioni,
alcuna volta concludendo gli effetti per le cagioni e alcuna volta le
cagioni per li effetti; aggiugnendo ancora alle mie conclusioni alcuna,
che non sono in quelle, non di meno di quelle si traggono, come si
degnerà il Signore, luce di ogni cosa, illustrare me per trattare della
luce.


LXVI. — LA COGNIZIONE HA ORIGINE DAL SENSO.

Ogni nostra cognizione principia da’ sentimenti.


LXVII. — CONSEGUENZA DEL PREDETTO PRINCIPIO.

Come il senso serve all’anima e non l’anima al senso; e, dove manca il
senso offiziale dell’anima, all’anima manca in questa vita la totalità
dell’uffizio d’esso senso, come appare nel muto e nell’orbo nato.


LXVIII. — LA TESTIMONIANZA DEL SENSO È IL CRITERIO DEL VERO.

E se tu dirai, che ’l vedere impedisce la fissa e sottile cogitazione
mentale, co’ la quale si penetra nelle divine scienze, e tale
impedimento condusse un filosofo a privarsi del vedere; a questo
rispondo, che tal occhio, come signore de’ sensi, fa suo debito a dare
impedimento alli confusi e bugiardi, non scienze, ma discorsi, per
li quali sempre, con gran gridare e menare le mani, si disputa; e il
medesimo dovrebbe faro l’audito, il quale ne rimane più offeso, perchè
egli vorrebbe accordo, del quale tutti i sensi s’intricano [Sidenote:
s’incaricano, s’imbarazzano]. E se tal filosofo si trasse gli occhi
per levare l’impedimento alli suoi discorsi, or pensa, che tal atto fu
compagno del cervello e de’ discorsi, perchè ’l tutto fu pazzia. Or non
potea egli serrarsi gli occhi, quando esso entrava in tale frenesia, e
tanto tenerli serrati, che tal furore si consumasse? Ma pazzo fu l’omo,
e pazzo il discorso, e stoltissimo il trarsi gli occhi!


LXIX. — LE VERE SCIENZE SONO QUELLE CHE SI FONDANO SULLA TESTIMONIANZA
DEI SENSI.

Dicono quella cognizione esser _meccanica_, la quale è partorita
dall’esperienza, e quella esser _scientifica_, che nasce e finisce
nella mente, e quella esser _semimeccanica_, che nasce dalla scienza e
finisce nella operazione manuale.

Ma a me pare che quelle scienze sieno vane e piene di errori, le
quali non sono nate dall’esperienza, madre di ogni certezza, e che non
terminano in nota esperienza, cioè che la loro origine o mezzo o fine
non passa per nessuno de’ cinque sensi.

E se noi dubitiamo di ciascuna cosa, che passa per li sensi, quanto
maggiormente dobbiamo noi dubitare delle cose ribelli a essi sensi,
come dell’essenza di Dio e dell’anima e simili, per le quali sempre
si disputa e contende? E veramente accade, che sempre, dove manca la
ragione, supplisce le grida, la qual cosa non accade nelle cose certe.
Per questo diremo, che dove si grida non è vera scienza, perchè la
verità ha un sol termine, il quale, essendo pubblicato, il litigio
resta in eterno distrutto, e s’esso litigio risurge, è bugiarda e
confusa scienza e non certezza rinata.

Ma le vere scienze son quelle, che la sperienza ha fatto penetrare
per li sensi e posto silenzio alla lingua de’ litiganti, e che non
pasce di sogno li suoi investigatori, ma sempre sopra li primi veri e
noti principî procede successivamente e con vere seguenze insino al
fine; come si dinota nelle prime matematiche, cioè numero e misura,
dette _Aritmetica_ e _Geometria_, che trattano con somma verità della
quantità discontinua e continua.

Qui non si arguirà, che due tre facciano più o men che sei, nè che
un triangolo abbia li suoi angoli minori di due angoli retti, ma con
eterno silenzio resta distrutta ogni arguizione, e con pace sono finite
dalli loro devoti, il che far non possono le bugiarde scienze mentali.

E se tu dirai tali scienze vere e note essere di spezie di meccaniche,
imperocchè non si possono finire se non manualmente, io dirò il
medesimo di tutte le arti, che passano per le mani degli scultori, le
quali sono di spezie di disegno, membro della pittura; e l’_Astrologia_
e le altre passano per le manuali operazioni, ma prima sono mentali,
com’è la _Pittura_, la quale è prima nella mente del suo speculatore, e
non può pervenire alla sua perfezione sanza la manuale operazione.

Della qual _Pittura_, li sua scientifici e veri principî prima
ponendo, che cosa è corpo ombroso, e che cosa è ombra primitiva e
ombra derivativa, e che cosa è lume: cioè tenebre, luce, colore,
corpo, figura, sito, remozione, propinquità, moto e quiete, le quali
solo colla mente si comprendono sanza opere manuali. E questa fia la
_Scienza della Pittura_, che resta nella mente de’ suoi contemplanti,
della quale nasce poi l’operazione, assai più degna della predetta
contemplazione o scienza.


LXX. — INGANNO DELLA MENTE ABBANDONATA A SÈ STESSA.

Nissuna cosa è, che più c’inganni, che ’l nostro judizio.


LXXI. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Il massimo inganno delli omini è nelle loro opinioni.


LXXII. — CONTRO LA METAFISICA.

Fuggi i precetti di quelli speculatori, che le loro ragioni non son
confermate dalla isperienza.


LXXIII. — SUPERIORITÀ DEGLI ANIMALI SULL’UOMO.

L’uomo ha grande discorso, del quale la più parte è vano e falso;
li animali l’hanno piccolo, ma è utile e vero; e meglio è la piccola
certezza, che la gran bugia.


LXXIV. — DAL DIZIONARIO DI LEONARDO.

_Sillogismo:_ parlar dubbioso. _Sofismo:_ parlare confuso, il falso per
lo vero. _Teorica:_ scienza sanza pratica.


LXXV. — SUPERIORITÀ DELLA SCIENZA DELLA PITTURA SULLA FILOSOFIA.

La _Pittura_ s’estende nelle superfizie, colori e figure di qualunque
cosa creata dalla natura, e la _Filosofia_ penetra dentro alli medesimi
corpi, considerando in quelli le lor proprie virtù, ma non rimane
satisfatta con quella verità, che fa il pittore, che abbraccia in sè la
prima verità di tali corpi, perchè l’occhio meno s’inganna.


LXXVI. — NON SI CONOSCE L’ESSENZA DELLE COSE, MA I LORO EFFETTI.

Che cosa sia elemento. Nè la diffinizione di nessuna quiddità delli
elementi non è in podestà dell’omo, ma gran parte de’ loro effetti son
noti.[130]


LXXVII. — COME LA MASSA DELL’ACQUA, CHE CIRCONDA LA TERRA, HA FORMA
SFERICA.

Questa è difficile risposta; ma per questo non resterei di dirne il
mio parere. L’acqua, vestita dell’aria, naturalmente desidera stare
unita nella sua spera, perchè in tal sito essa si priva di gravità. La
qual gravità è dupla, cioè che ’l suo tutto ha gravità attesa al centro
delli elementi, la seconda gravità attende al centro d’essa spericità
d’acqua; il che se così non fussi, essa farebbe di sè solamente una
mezza spera, la qual è quella che sta dal centro in su.[131] Ma di
questo non veggo nello umano ingegno modo di darne scienza, ch’a dire,
come si dice della calamita che tira il ferro, cioè, che tal virtù è
occulta proprietà, delle quali n’è infinite in natura.


LXXVIII. — LA DIVISIBILITÀ ALL’INFINITO È UN’ASTRAZIONE MENTALE.

Ciò ch’è divisibile in atto è ancora divisibile in potenzia, ma non
tutte le quantità, che son divisibili in potenzia fieno divisibili in
atto.


LXXIX. — L’INFINITO NON SI PUÒ ABBRACCIARE COLLA RAGIONE.

Qual’è quella cosa, che non si dà e s’ella si dessi non sarebbe? Egli è
lo infinito, il quale, se si potesse dare, sarebbe limitato e finito,
perchè ciò, che si po’ dare ha termine colla cosa, che la circuisce
ne’ sua stremi, e ciò che non si po’ dare è quella cosa, che non ha
termini.


LXXX. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

_De anima._ Il moto della terra contro alla terra, ricalcando quella,
poco si move la parte percossa.

L’acqua percossa dall’acqua fa circuli dintorno al loco percosso;

Per lunga distanza la voce in fra l’aria;

Più lunga in fra ’l foco;

Più la mente in fra l’universo, ma perchè l’è finita non s’astende in
fra lo ’nfinito.


LXXXI. — LA FINALITÀ DELLE COSE TRASCENDE LA MENTE UMANA.

O speculatore delle cose, non ti laudare di conoscere le cose, che
ordinariamente, per sè medesima la natura, per sua ordini, naturalmente
conduce; ma rallegrati di conoscere il fine di quelle cose, che son
disegnate dalla mente tua!


LXXXII. — GLI ANTICHI SI SONO PROPOSTI DEI PROBLEMI INSOLUBILI.

Or guarda, o lettore, quello che noi potremo credere ai nostri
antichi, i quali hanno voluto definire che cosa sia anima e vita, cose
improvabili, quando quelle, che con isperienzia ognora si possono
chiaramente conoscere e provare, sono per tanti secoli ignorate e
falsamente credute! L’occhio, che così chiaramente fa sperienzia del
suo offizio, è insino ai mia tempi, per infiniti autori, stato difinito
in un modo; trovo per isperienzia essere ’n un altro.


LXXXIII. — LIMITI ALLA DEFINIZIONE DELL’ANIMA.

Ancora che lo ingegno umano faccia invenzioni varie, rispondendo con
vari strumenti a un medesimo fine, mai esso troverà invenzione più
bella, nè più facile, nè più breve della natura, perchè nelle sue
invenzioni nulla manca e nulla è superfluo; e non va con contrappesi,
quando essa fa le membra atte al moto nelli corpi delli animali, ma vi
mette dentro l’anima d’esso corpo componitore.

Questo discorso non va qui, ma si richiede nella composizion delli
corpi animati. E il resto della definizione dell’anima lascio nelle
menti de’ frati, padri de’ popoli, li quali per inspirazione sanno
tutti li segreti.

Lascio star le lettere incoronate [Sidenote: i libri ecclesiastici e i
dogmi], perchè son somma verità.


LXXXIV. — CONTRO GLI INGEGNI IMPAZIENTI.[132]

Gli abbreviatori delle opere fanno ingiuria alla cognizione e allo
amore, conciò sia che l’amore di qualunque cosa è figliolo d’essa
cognizione.

L’amore è tanto più fervente, quanto la cognizione è più certa, la qual
certezza nasce dalla cognizione integrale di tutte quelle parti, le
quali, essendo insieme unite, compongono il tutto di quelle cose, che
debbono essere amate.

Che vale a quel che per abbreviare le parti di quelle cose, che lui
fa professione di darne integral notizia, che lui lascia indietro la
maggior parte delle cose, di che il tutto è composto?

Gli è vero che la impazienza, madre della stoltizia, è quella che lauda
la brevità, come se questi tali non avessino tanto di vita, che li
servisse a potere avere una intera notizia d’un sol particolare, come
è un corpo umano! e poi vogliono abbracciare la mente di Dio, nella
quale s’include l’universo, caratando [Sidenote: pesandola a carati] e
minuzzando quella in infinite parti, come l’avessino a notomizzare.

O stoltizia umana! non t’avvedi tu che tu sei stato con teco tutta la
tua età, e non hai ancora notizia di quella cosa, che tu più possiedi,
cioè della tua pazzia? e vuoi poi, colla moltitudine dei sofistichi,
ingannare te e altri, sprezzando le matematiche scienze, nelle qual
si contiene la verità, notizia delle cose che in lor si contengono;
e vuoi poi scorrere ne’ miracoli e scrivere ch’hai notizia di quelle
cose, di che la mente umana non è capace, e non si possono dimostrare
per nessuno esemplo naturale; e ti pare avere fatto miraculi, quando tu
hai guastato una opera d’alcuno ingegno speculativo; e non t’avvedi,
che tu cadi nel medesimo errore che fa quello, che denuda la pianta
dell’ornamento de’ sua rami, pieni di fronde, miste con li odoriferi
fiori e frutti.

Come fece Giustino, abbreviatore delle _Storie_ scritto da Trogo
Pompeo, — il quale scrisse ornatamente tutti li eccellenti fatti
delli sua antichi, li quali eran pieni di mirabilissimi ornamenti;
— e’ compose una cosa ignuda, ma sol degna d’ingegni impazienti, li
quali pare lor perder tanto di tempo, quanto quello è, che è adoperato
utilmente, cioè nelli studi delle _opere di natura_ e delle _cose
umane_.

Ma stieno questi tali in compagnia delle bestie; nelli lor cortigiani,
sieno cani e altri animali pien di rapina e accompagnansi con loro
correndo sempre dietro! e seguitino l’innocenti animali, che, con la
fame, alli tempi delle gran nevi, ti vengono alle case, dimandandoti
limosina, come a lor tutore!


LXXXV. — DELLA VITA DEL PITTORE NEL SUO STUDIO.

Acciò che la prosperità del corpo non guasti quella dello ingegno, il
pittore overo disegnatore debbe essere solitario, e massime quando
è intento alle ispeculazioni e considerazioni, che, continuamente
apparendo dinanzi agli occhi, dànno materia alla memoria, d’esser bene
riservate.

E se tu sarai solo tu sarai tutto tuo, e se sarai accompagnato da un
solo compagno sarai mezzo tuo, e tanto meno, quanto sarà maggiore la
indescrizione della tua pratica; e se sarai con più caderai in più
simile inconveniente. E se tu volessi dire: — io farò a mio modo,
io mi tirerò in parte, per potere meglio speculare le forme delle
cose naturali —; dico questo potersi mal fare, perchè non potresti
fare, ch’assa’ [Sidenote: assai] spesso non prestassi orecchi alle
loro ciancie, e, non si potendo servire a due signori, tu faresti
male l’uffizio della compagnia e peggio l’effetto della speculazione
dell’arte; e se tu dirai: — io mi tirerò tanto in parte, che le loro
parole non perveniranno e non mi daranno impaccio —; io in questa
parte ti dico, che tu sarai tenuto matto; ma vedi che, così facendo, tu
saresti pur solo?


LXXXVI. — CONSIGLI AL PITTORE.

Lo ingegno del pittore vol essere a similitudine dello specchio,
il quale sempre si trasmuta nel colore di quella cosa, che ha per
obbietto, e di tante similitudini s’empie quante sono le cose, che li
sono contrapposte.

Adunque conoscendo tu, pittore, non poter essere bono se non se’
universale maestro di contraffare, colla tua arte, tutte le qualità
delle forme, che produce la natura, le quali non saprai fare se non le
vedi, e ritenerle nella mente; onde, andando tu per campagne, fa che ’l
tuo giudizio si volti a varî obbietti, e di mano in mano riguardare or
questa cosa ora quell’altra, facendo un fascio di varie cose elette e
scelte in fra le men bone.

E non fare come alcun pittore; i quali, stanchi con la lor fantasia,
dismettono l’opera e fanno esercizio coll’andare a solazzo,
riserbandosi una stanchezza nella mente, la quale non che vegghino
o ponghin mente varie cose, ma spesse volte, scontrando li amici o
parenti, essendo da quelli salutati, non che li vedino o sentino, non
altrementi sono conosciuti, come s’elli scontrassino altrettant’aria.


LXXXVII. — ALTRO CONSIGLIO.

Il pittore deve essere solitario e considerare ciò ch’esso vede, e
parlare con seco, eleggendo le parti più eccellenti delle spezie di
qualunque cosa lui vede, facendo a similitudine dello specchio, il
quale si trasmuta in tanti colori, quanti sono quelli delle cose, che
se li pongono dinanzi. E facendo così, lui parrà essere seconda Natura.


LXXXVIII. — CONSIGLIO.

La mente del pittore si deve al continuo trasmutare in tanti discorsi,
quante sono le figure delli obbietti notabili, che dinanzi gli
appariscano; e a quelle fermar il passo, e notarli, e fare sopra esse
regole, considerando il loco e le circostanze, e lumi e ombre.


LXXXIX. — VITA DEL PITTORE FILOSOFO NE’ PAESI.

Al pittore è necessario la matematica appartenente a essa pittura
e la privazione de’ compagni, che son alieni dalli loro studî, e
cervello mutabile secondo la varietà delli obbietti, che dinanzi se li
oppongono, e remoto da altre cure.

E s’è nella contemplazione e definizione d’un caso, come accade quando
l’obbietto muove il senso, allora di tali casi si deve giudicare quale
è di più faticosa definizione, e quello seguitare insino alla sua
ultima chiarezza, e poi seguitare la definizione dell’altro.

E sopra tutto essere di mente eguale a la superfizie dello specchio, la
quale si trasmuta in tanti varî colori, quanti sono li colori delli sua
obbietti; e le sue compagnìe abbino similitudine con lui in tali studî,
e, non le trovando, usi con sè medesimo nelle sue contemplazioni, che
infine non troverà più utile compagnia.


XC. — NECESSITÀ DELLA ANALISI.

Noi conosciamo chiaramente, che la vista è delle veloci operazioni
che sia, e in un punto vede infinite forme, nientedimeno non comprende
se non è una cosa per volta. Poniamo caso: tu, lettore, guarderai in
una occhiata tutta questa carta scritta, e subito giudicherai, questa
essere piena di varie lettere, ma non cognoscerai in questo tempo, che
lettere sieno, nè che voglian dire; onde ti bisogna fare a parola a
parola, verso per verso, a voler avere notizia d’esse lettere; ancora,
se vorrai montare a l’altezza d’un edifizio ti converrà salire a grado
a grado, altrementi fia impossibile pervenire alla sua altezza.

E così dico a te, il quale la Natura volge a quest’arte, se vogli avere
vera notizia delle forme delle cose, comincierai alle particule di
quelle, e non andare alla seconda, se prima non hai bene nella memoria
e nella pratica la prima; e se altro farai, getterai via il tempo e
veramente allungherai assai lo studio. E ricordoti ch’impari primo la
diligenza, che la prestezza.


XCI. — CARATTERE DELLE OPERE DI LEONARDO.

Cominciato in Firenze in casa Piero di Braccio Martelli[133] addì
22 di marzo 1508; e questo fia un raccolto sanza ordine, tratto di
molte carte, le quali io ho qui copiato, sperando poi metterle per
ordine alli lochi loro, secondo le materie di che esse tratteranno; e
credo che, avanti ch’io sia al fine di questo, io ci avrò a riplicare
una medesima cosa più volte; sì che, lettore, non mi biasimare,
perchè le cose son molte e la memoria non le può riservare e dire: —
questa non voglio scrivere, perchè dinanzi la scrissi —; e se io non
volessi cadere in tale errore, sarebbe necessario che, per ogni caso
ch’io volessi copiare, sicchè per non replicarlo, io avessi sempre a
rileggere tutto il passato, e massime stando co’ lunghi intervalli di
tempo allo scrivere da una volta all’altra.


XCII. — SUO DESIDERIO INSAZIABILE DI CONOSCERE.

Non fa sì gran mugghio il tempestoso mare, quando il settentrionale
aquilone lo ripercote, colle schiumose onde, fra Scilla e Cariddi; nè
Stromboli o Mongibello, quando le sulfuree fiamme, per forza rompendo
e aprende il gran monte, fulminano per l’aria pietre, terra, insieme
coll’uscita e vomitata fiamma; nè quando le infocate caverne di
Mongibello, rivomitando il male tenuto elemento [Sidenote: il foco],
spigniendolo alla sua regione, con furia cacciano innanzi qualunque
ostacolo s’interpone alla sua impetuosa furia.... E tirato dalla mia
bramosa voglia, vago di vedere la gran commistione delle varie e strane
forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto in fra
gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna, dinanzi
alla quale, — restando alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, —
piegato le mie rene in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio,
colla destra mi feci tenebra alle abbassate e chiuse ciglia. E spesso
piegandomi in qua e in là per vedere dentro vi discernessi alcuna cosa,
questo vietatomi per la grande oscurità, che là entro era, — e stato
alquanto, — subito si destarono in me due cose: paura e desiderio;
paura per la minacciosa oscura spelonca, desiderio per vedere se là
entro fussi alcuna miracolosa cosa.



PENSIERI SULLA NATURA.


I. — PROEMIO.

Vedendo io non potere pigliare materia di grande utilità o diletto,
perchè li omini, innanti a me nati, hanno preso per loro tutti l’utili
e necessari temi, farò come colui, il quale, per povertà, giugne
l’ultimo alla fiera, e, non potendo d’altro fornirsi, piglia tutte
cose già da altri viste, e non accettate, ma rifiutate per la loro poca
valetudine [Sidenote: valore, pregio].

Io questa disprezzata e rifiutata mercanzia, rimanente de’ molti
compratori, metterò sopra la mia debole soma, e con quella, non per
le grosse città, ma povere ville andrò distribuendo, e pigliando tal
premio, qual merita la cosa da me data.


II. — NATURA E SCIENZA.

La natura è piena d’infinite ragioni, che non furono mai in isperienza.


III. — LEGGI NECESSARIE DOMINANO I FATTI DELLA NATURA.

La necessità è maestra e tutrice della natura.

La necessità è tema e inventrice della natura, è freno e regola eterna.


IV. — LA RISPONDENZA DEGLI EFFETTI ALLA POTENZA DELLA LORO CAGIONE È
NECESSARIA.[134]

_Ogni corpo sperico di densa e resistente superfice, mosso da pari
potenza, farà tanto movimento con sua balzi, causati da duro e solido
smalto,_ [Sidenote: dal percuotere su un piano liscio e sodo] _quanto a
gettarlo libero per l’aria._

O mirabile giustizia di te, Primo motore, tu non hai voluto mancare a
nessuna potenza l’ordine e qualità de’ sua necessari effetti! Conciò
sia che una potenza deve cacciare 100 braccia una cosa vinta da lei,
e quella nel suo obbedire trova intoppo: hai ordinato, che la potenza
del colpo ricausi novo movimento, il quale, per diversi balzi, recuperi
la intera somma del suo debito viaggio. E se tu misurerai la via fatta
da detti balzi, tu troverai essere di tale lunghezza, qual sarebbe a
trarre, con la medesima forza, una simil cosa libera per l’aria.


V. — LE LEGGI DELLA NATURA SONO IMPRESCINDIBILI.

Natura non rompe sua legge.


VI. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

La natura è costretta dalla ragione della sua legge, che in lei
infusamente vive.


VII. — L’EFFETTO SUCCEDE ALLA CAUSA NECESSARIAMENTE.

Quando alcuna cosa, cagione dell’altra, induce per suo movimento alcuno
effetto, e’ bisogna che ’l movimento dell’effetto séguiti il movimento
della cagione.


VIII. — IL MIRACOLO STA NELLA RISPONDENZA DELL’EFFETTO ALLA SUA
CAUSA.[135]

(_Studiando la natura dell’occhio._)

Qui le figure, qui li colori, qui tutte le spezie delle parti
dell’universo son ridotte in un punto, e quel punto è di tanta
maraviglia!

O mirabile e stupenda necessità, tu costringi, colla tua legge, tutti
li effetti, per brevissima via, a partecipare delle lor cause!

Questi sono li miracoli!

Scrivi nella tua _Notomia_, come, in tanto minimo spazio, l’immagine
[Sidenote: visiva, che si forma nell’occhio] possa rinascere e
ricomporsi nella sua dilatazione.


IX. — OGNI COSA OBBEDISCE ALLA PROPRIA LEGGE.

Esempio della saetta fra’ nuvoli. — O potente e già animato strumento
dell’artifiziosa natura, a te non valendo le tue gran forze, ti
conviene abbandonare la tranquilla vita, e obbedire alla legge, che
Iddio e ’l Tempo diede alla genitrice natura!

Oh! quante volte furono vedute le impaurite schiere de’ delfini e de’
gran tonni fuggire dall’empia tua furia; e tu, che, col veloce tremor
dell’ali e colla forcelluta coda, fulminando, generavi nel mare subita
tempesta, con gran busse [Sidenote: urti] e sommersione di navili,
con grande ondamento, empiendo gli scoperti liti degli impauriti e
sbigottiti pesci!


X. — PASSIVITÀ E ATTIVITÀ.

Molte volte una medesima cosa è tirata da due violenze: necessità e
potenza. L’acqua piove, e la terra l’assorbisce per necessità d’omore;
il sole la svelle [Sidenote: fa evaporare] non per necessità, ma per
potenza.


XI. — PROVVIDENZA DELLA NATURA NELLA CONFORMAZIONE DEL CORPO UMANO.

Perche l’occhio è finestra dell’anima, ella è sempre con timore di
perderlo, in modo tale ch’essendoli mossa una cosa dinanzi, che dia
subito spavento all’omo, quello colle mani non soccorre il core, fonte
della vita, nè ’l capo, ricettaculo del signore de’ sensi, nè audito,
nè odorato o gusto, anzi subito lo spaventato senso: non bastando
chiudere li occhi con sua coperchi [Sidenote: le palpebre] serrati con
somma forza, che subito lo rivolge in contraria parte; non sicurando
ancora, vi pone la mano, e l’altra distende, facendo antiguardia contro
al sospetto suo.

Ancora, la natura ha ordinato, che l’occhio de l’omo per sè medesimo
col coperchio (si chiuda), acciò che, non sendo da esso dormiente
guardato, d’alcuna cosa non sia offeso.


XII. — PROVVIDENZIALITÀ DELLA DILATAZIONE E RESTRINGIMENTO DELLA
PUPILLA.

_La pupilla dell’occhio si muta in tante varie grandezze, quante son
le varietà delle chiarezze e oscurità delli obbietti, che dinanzi se le
rappresentano._

In questo caso la natura ha riparato alla virtù visiva, quando ella è
offesa dalla superchia luce, di ristrignere la pupilla dell’occhio,
e, quando è offesa dalle diverse oscurità, d’allargare essa luce, a
similitudine della bocca della borsa. E fa qui la natura, come quel
che ha troppo lume alla sua abitazione, che serra una mezza finestra,
e più o men, secondo la necessità; e quando viene la notte, esso apre
tutta essa finestra, per vedere meglio dentro a detta abitazione.
E usa qui la natura una continua equazione, col continuo temperare
e ragguagliare, col crescere la pupilla e diminuirla, a proporzione
delle predette oscurità o chiarezze, che dinanzi al continuo se le
rappresentano.


XIII. — CONTRO COLORO CHE SI ARROGANO DI CORREGGERE LA NATURA.

L’atto del tagliare la narice ai cavalli è cosa meritevole di riso.
E questi stolti osservan questa usanza, quasi come se credessino la
natura avere mancato ne’ necessarie cose, per le quali li omini abbiano
a essere sua correttori. Ell’ha fatti i due busi del naso, i quali,
ciascuno per sè, è per la metà della larghezza della canna de’ polmoni,
donde esala l’anelito, e, quando essi busi non fussino, la bocca
sarebbe abbastanza a esso abbondevole anelito. E se tu mi dicessi: —
perchè ha fatto questa natura le narici alli animali, se l’alitare per
la bocca è soffiziente? — io ti risponderei, che le narici sono fatte
per essere usate, quando la bocca è in esercizio di masticare il suo
cibo.


XIV. — SUL FENOMENO DELLA SPINTA DELLE RADICI.

L’albero in qualche parte scorticato, la natura, che a esso provvede,
vòlta a essa iscorticazione molto maggior somma di notritivo omore
la linfa, che in alcuno altro loco; in modo che, per lo primo detto
mancamento, li cresce molto più grossa la scorza, che in alcun altro
loco. Ed è tanto movente [Sidenote: impetuoso nel muoversi] ess’omore,
che, giunto al soccorso loco, si leva parte in alto, a uso di balzo
di palla, con diversi pullulamenti, o ver germugliamenti [Sidenote:
gorgoglio], non altrementi ch’una bollente acqua.


XV. — SULLA STRUTTURA DELLE ALI.

Li timoni, creati nelli omeri [Sidenote: formati dall’omero dell’ala]
che han l’ali delli uccelli, son trovati dalla ingegnosa natura per
un comodo piegamento del retto impeto, che spesso accade nel furioso
volare delli uccelli; perchè trovò esser molto più comodo, nel retto
furore, a piegare una minima parte dell’ala, che il loro tutto.


XVI. — SULLA DISPOSIZIONE DELLE FOGLIE NELLE PIANTE.

Ha messo la natura la foglia degli ultimi rami di molte piante, che
sempre la sesta foglia è sopra la prima, e così segue successivamente,
se la regola non è impedita.

E questo ha fatto per due utilità d’esse piante: la prima è perchè
nascendo il ramo e ’l frutto nell’anno seguente dalla gemella
dell’occhio [Sidenote: gemma o gemmula vegetale], ch’è sopra in
contatto dell’appiccatura della foglia; l’acqua, che bagna tal ramo,
possa discendere a nutrire tal gemella, col fermarsi la goccia nella
concavità del nascimento di essa foglia.

Ed il secondo giovamento è, che nascendo tali rami, l’anno seguente,
l’uno non cuopre l’altro, perchè nascono vòlti a cinque aspetti, li
cinque rami.


XVII. — LEGGE UNIVERSALE DELLE COSE.

Naturalmente ogni cosa desidera mantenersi in suo essere.


XVIII. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Universalmente tutte le cose desiderano mantenersi in sua natura, onde
il corso de l’acqua, che si move, cerca mantenere il suo corso, secondo
la potenza della sua cagione, e, se trova contrastante opposizione,
finisce la lunghezza del cominciato corso per movimento circulare e
retorto.


XIX. — LE COSE FUORI DEL LORO STATO NATURALE TENDONO A RITORNARVI.

Tutti li elementi, fori del loro naturale sito, desiderano a esso sito
ritornare, e massime foco, acqua e terra.


XX. — LEGGE DEL MINIMO SFORZO.

Ogni peso desidera cadere al centro per la via più breve.


XXI. — OGNI PARTE DESIDERA ESSERE NEL SUO TUTTO.

Ogni parte ha inclinazion di ricongiugnersi al suo tutto, per fuggire
dalla sua imperfezione: l’anima desidera stare col suo corpo, perchè,
sanza li strumenti organici di tal corpo, nulla può oprare, nè sentire.


XXII. — SUGGETTO COLLA FORMA.

Muovesi l’amato per la cos’amata, come il senso colla sensibile, e con
seco s’unisce, e fassi una cosa medesima.

L’opera è la prima cosa che nasce dall’unione. Se la cosa amata è vile,
l’amante si fa vile. Quando la cosa unita è conveniente al suo unitore,
lì séguita dilettazione e piacere e saddisfazione.

Quando l’amante è giunto all’amato, lì si riposa; quando il peso è
posato, lì si riposa.

La cosa conosciuta col nostro intelletto....


XXIII. — LEGGE DEL MINIMO SFORZO.

Ogni azione naturale è fatta per la via brevissima.


XXIV. — LA STESSA.

Ogni azione naturale è fatta da essa natura, nel più breve modo e tempo
che sia possibile.


XXV. — ANCORA LA STESSA.

Nessuna azion naturale si può abbreviare.

Ogni azion naturale è generata dalla natura nel più brieve modo, che
trovar si possa.


XXVI. — LA NATURA È VARIABILE IN INFINITO.

Ed è tanto dilettevole natura e copiosa nel variare, che infra li
alberi della medesima natura non si troverebbe una pianta, ch’appresso
somigliassi all’altra, e non che le piante, ma li rami o foglie, o
frutti di quelle, non si troverà uno, che precisamente somigli a un
altro.


XXVII. — CONTRO GLI ALCHIMISTI.

I bugiardi interpreti di natura affermano lo _argento vivo_ essere
comune semenza a tutti i metalli, non si ricordando che la natura varia
le semenze, secondo la diversità delle cose, che essa vuole produrre al
mondo.


XXVIII. — ANCORA SULLA VARIETÀ DELLA NATURA.

Se la natura avesse ferma [Sidenote: fatta, fissata] una sola regola
nella _qualità_ delle membra, tutti i visi delli omini sarebbono
somiglianti in tal modo, che l’uno dall’altro non si potrebbe
conoscere; ma ell’ha ’n tal modo variato i cinque membri del
volto, che, ben ch’ell’abbi fatto regola quasi universale alla loro
_grandezza_, lei non l’ha osservata nella _qualità_, in modo tale che
l’un dall’altro chiaramente conoscere si può.


XXIX. — PRECETTO AL PITTORE.

Dico: le misure universali si debbono osservare nelle lunghezze delle
figure, e non nelle grossezze, perchè delle laudabili e maravigliose
cose, ch’appariscono nelle opere della natura, è che nissuna opera, in
qualunque spezie per sè, l’un particulare con precisione si somiglia
l’un a l’altro: adunque, tu, imitatore di tal natura, guarda e attendi
alla varietà de’ lineamenti.


XXX. — PRECETTO.

Sommo difetto è ne’ maestri, li quali usano replicare li medesimi
moti nelle medesime storie [Sidenote: nel medesimo insieme di figure,
episodio], vicini l’uno all’altro, e similmente le bellezze de’ visi
essere sempre una medesima; le quali in natura mai si trova essere
replicate, in modo che, se tutte le bellezze d’eguale eccellenza
ritornassin vive, esse sarebbon maggior numero di popolo, che quello,
ch’al nostro secolo si trova; e, siccome in esso secolo nessuno
precisamente si somiglia, il medesimo interverrebbe nelle dette
bellezze.


XXXI. — VI È UNA OMOGENEITÀ DI STRUTTURA NEGLI ESSERI ANIMATI.

Facile cosa è, a chi sa l’omo, farsi poi universale; imperocchè tutti
li animali terrestri han similitudine di membra, cioè muscoli e ossa,
e nulla si variano, se non in lunghezza o in grossezza, come sarà
dimostro nella _Notomia_; ecci poi li animali d’acqua, che son di molte
varietà, de li quali non persuaderò il pictore che vi faccia regola,
perchè son quasi d’infinite varietà, e così li animali insetti.


XXXII. — CONCETTO DELL’ENERGIA.

Impeto è impressione di moto trasmutato dal motore nel mobile.

Ogni impressione attende alla permanenza over desidera permanenza.

Che ogni impressione desidera permanenza provasi nella impressione
fatta dal sole nell’occhio d’esso risguardatore, e nella impression del
sôno, fatto dal martello di tal campana percussore.

Ogni impressione desidera permanenza, come ci mostra il simulacro del
moto [Sidenote: l’impeto] impresso nel mobile.


XXXIII. — LEGGE UNIVERSALE.

Ogni azione bisogna che s’eserciti per moto.


XXXIV. — LA STESSA.

Il moto è causa d’ogni vita.


XXXV. — DEFINIZIONE DELLA FORZA.

Che cosa è la forza?

Forza dico essere una virtù spirituale, una potenza invisibile, la
quale, per accidentale esterna violenza, è causata dal moto e collocata
e infusa ne’ corpi, i quali sono dal loro naturale uso [Sidenote: la
quiete] ritratti, dando a quelli vita attiva di maravigliosa potenza.


XXXVI. — LA STESSA.

Che cosa è forza?

Forza dico essere una potenza spirituale, incorporea, invisibile,
la quale, con breve vita, si causa nei corpi, che per un’accidentale
violenza si trovano fuori del loro essere e riposo naturale.


XXXVII. — LA MATERIA È INERTE.

Nessuna cosa insensata [Sidenote: materiale, senza vita e senza
sensitività] per sè si move, ma il suo moto è fatto da altri.


XXXVIII. — LEGGE DELLA TRASMISSIONE DEL MOTO E DELLA SUA EQUIVALENZA.

L’impeto è una virtù creata dal moto e trasmutata dal motore al suo
mobile, il quale mobile ha tanto di moto, quanto l’impeto ha di vita.


XXXIX. — PRINCIPIO D’INERZIA.

Ogni moto naturale e continuo desidera conservare suo corso per la
linia del suo principio, cioè, in qualunque loco esso si varia, domando
[Sidenote: chiamo, denomino] principio.


XL. — ORIGINE DELLA FORZA.

La forza da carestia o dovizia [Sidenote: cioè: disequilibrio di
potenze] è generata, questa è figliola del moto materiale e nepote
del moto spirituale, e madre e origine del peso. E esso peso è finito
nell’elemento dell’acqua e terra, e essa forza è infinita, perchè con
essa infiniti mondi si moverebbero, se strumenti far si potessero, dove
essa forza generare si potesse.

La forza col moto materiale e ’l peso colla percussione son le quattro
accidentali potenze, colle quali tutte l’opere de’ mortali hanno loro
essere e lor morte.

La forza dal moto spirituale ha origine, il quale moto, scorrendo per
le membra degli animali sensibili, ingrossa i muscoli di quelli, onde,
ingrossati, essi muscoli si vengono a raccortare o trarsi dirieto i
nervi [Sidenote: nervi = tendini], che con essi son congiunti; e di qui
si causa la forza per le membra umane.

La qualità e quantità delle forze d’uno uomo potrà partorire altra
forza, la quale sarà proporzionevolmente tanto maggiore, quanto essa
sarà di più lungo moto l’una che l’altra.


XLI. — ASPETTI VARÎ DELLA FORZA.

La gravità, la forza, e ’l moto accidentale, insieme colla percussione,
son le quattro accidentali potenze colle quali tutte l’evidenti opere
de’ mortali hanno loro essere e loro morte.


XLII. — ANCORA DEL PRINCIPIO D’INERZIA.

Ogni moto attende al suo mantenimento, overo: ogni corpo mosso sempre
si move, in mentre che la impressione de la potenzia del suo motore in
lui si riserva.


XLIII. — ANCORA.

Ciascun con violenza mantiene suo essere. — E se possibile fussi dare
un diametro d’aria a questa spera della terra, a similitudine d’un
pozzo, che dall’una all’altra superfizie si mostrassi, e per esso pozzo
si lasciassi cadere un corpo grave; ancora che esso corpo si volessi
al centro fermare, l’impeto sarebbe quello, che per molti anni glielo
vieterebbe.


XLIV. — SULLA PITAGORICA ARMONIA DELLE SFERE CELESTI.[136]

_Della confregazione de’ cieli, s’ella fa sôno o no._

Ogni sôno si causa dall’aria ripercossa in corpo denso e, s’ella sarà
fatta da due corpi gravi infra loro, ell’è mediante l’aria, che li
circonda, e questa tal confregazione consuma li corpi confregati:
adunque seguiterebbe, che li cieli, nella lor confregazione, per non
avere aria infra loro, non generassino sôno. E se tale confregazione
pure avesse verità, essi, in tanti seculi che tali cieli son rivoltati,
si sarebbon consumati da tanta immensa velocità fatta in ogni
giornata; e se pur facessin sôno esso non si può spandere, perchè il
sôno della percussione fatta sotto l’acqua poco si sente, e meno o
niente si sentirebbe ne’ corpi densi; ancora: ne’ corpi politi la lor
confregazione fa non sôno, il che similmente accadrebbe non farsi sôno
nel contatto over confregazione de’ cieli; e, se tali cieli non sono
politi nel contatto delle lor confregazioni, sèguita essere globulosi
e ruvidi, adunque il lor contatto non è continuo, essendo così e’ si
genera il vacuo; il quale è concluso non darsi in natura.

Adunque è concluso che confregazione avrebbe consumati li termini
di ciascun cielo, e tanto quanto più esso è più veloce in mezzo che
inverso i poli, più si consumerebbe in mezzo che da’ poli; e poi
più non si confregherebbe, e ’l sono cesserebbe e i ballerini si
fermerebbono, salvo se i cieli l’un girassi a oriente e l’altro a
settentrione.


XLV. — SULLA LEGGE DI GRAVITÀ.

La terra è grave nella sua spera, ma tanto più, quanto essa sarà in
elemento più lieve.

Il foco è lieve nella sua spera, ma tanto più, quanto esso sarà in
elemento più grave.

Nessuno elemento semplice ha gravità o levità nella sua propria spera.


XLVI. — LA STESSA.

Il moto fatto da’ corpi gravi verso il comun centro, non è per
desiderio che esso corpo abbia in sè di trovare tal centro, nè non è
per attrazione, ch’esso centro faccia, come calamita, del tirare a sè
tal peso.


XLVII. — LA STESSA.

— Il peso perchè non resta nel suo sito?

— Non resta perchè non ha resistenza.

— E donde si moverà?

— Moverassi inverso il centro.

— E perchè non per altre linee?

— Perchè il peso, che non ha resistenzia, discenderà in basso per la
via più breve, e ’l più basso sito è il centro del mondo.

— E perchè lo sa così tal peso trovarlo con tanta brevità?

— Perchè non va — come insensibile [Sidenote: come cosa, che non ha
vita, nè moto proprio] — prima vagando per diverse linee.


XLVIII. — LAUDE DEL SOLE.

Se guarderai le stelle, sanza razzi [Sidenote: senza quelle false
irradiazioni, che provengon dall’occhio] (come si fa a vederle per
un piccolo foro fatto colla strema punta da la sottile agucchia, e
quel posto quasi a toccare l’occhio), tu vedrai esse stelle essere
tanto minime, che nulla cosa pare essere minore: e veramente la lunga
distanza dà loro ragionevole diminuzione, ancora che molte vi sono, che
son moltissime volte maggiori che la stella, ciò è la terra coll’acqua.

Ora pensa quel che parrebbe essa nostra stella in tanta distanza,
e considera poi quante stelle si metterebbe e per longitudine e
latitudine infra esse stelle, le quali sono seminate per esso spazio
tenebroso.

Mai non posso fare ch’io non biasimi molti di quelli antichi, li quali
dissono, che il sole non avea altra grandezza che quella, che mostra;
fra’ quali fu Epicuro, e credo che cavasse tale ragione da un lume
posto in questa nostra aria, equidistante al centro: chi lo vede, no ’l
vede mai diminuito di grandezza in nessuna distanza.


XLIX. — SEGUE LA LAUDE.

E le ragioni della sua grandezza e virtù le riservo nel quarto libro.
Ma ben mi meraviglio, che Socrate biasimassi questo tal corpo, e che
dicessi quello essere a similitudine di pietra infocata; e certo chi lo
punì di tal errore poco peccò.

Ma io vorrei avere vocaboli, che mi servissino a biasimare quelli, che
voglion laudare più lo adorare gli omini, che tal sole, non vedendo
nell’universo corpo di maggiore magnitudine e virtù di quello. E ’l suo
lume allumina tutti li corpi celesti, che per l’universo si compartono.
Tutte l’anime discendan da lui, perchè il caldo, ch’è nelli animali
vivi, vien dall’anime, e nessuno altro caldo, nè lume è nell’universo,
come mostrerò nel quarto libro. — E certo costoro, che han voluto
adorare li omini per Iddii come Giove, Saturno, Marte e simili han
fatto grandissimo errore, vedendo, che, ancora che l’omo fossi grande
quanto il nostro mondo, che parrebbe simile a una minima stella, la
qual pare un punto nell’universo; e ancora vedendo essi omini mortali e
putridi e corruttibili nelle loro sepolture.

La _Spera_ e Marullo laudan con molti altri esso sole.[137]


L. — SEGUE.

Forse Epicuro vide le ombre delle colonne ripercosse nelli antiposti
muri essere eguali al diametro della colonna, donde si partìa tale
ombra; essendo adunque il concorso dell’ombre parallelo dal suo
nascimento al suo fine, li parve da giudicare che il sole ancora
lui fosse fronte di tal parallelo, e per conseguenza non essere più
grosso il tal colonna, e non s’avvide che tal diminuzione d’ombra era
insensibile per la lunga distanza del sole.

Se ’l sole fussi minore della terra le stelle di gran parte del nostro
emisperio sarebbon sanza lume. (Contro a Epicuro, che dice: tanto è
grande il sole quanto e’ pare.)


LI. — SEGUE.

Dice Epicuro il sole essere tanto quanto esso si dimostra: adunque e’
pare essere un piè, e così l’abbiamo a tenere. Seguirebbe che la luna,
quand’ella fa oscurare il sole, il sole non l’avanzerebbe di grandezza
come e’ fa; onde, sendo la luna minor del sole, essa luna sarebbe men
d’un piede, e per conseguenza, quando il nostro mondo fa oscurare la
luna, sarebbe minore d’un dito del piede; con ciò sia, se ’l sole è
un piede e la nostra terra fa ombra piramidale inverso la luna, egli è
necessario che sia maggiore il luminoso causa della piramide ombrosa,
che l’opaco causa d’essa piramide.


LII. — SEGUE.

Misura quanti soli si metterebbe nel corso suo di ventiquattro ore!...
E qui si potrà vedere, se Epicuro disse, che ’l sole era tanto
grande quanto esso parea, che, — parendo il diametro del sole una
misura pedale, e che esso sole entrassi mille volte nel suo corso di
ventiquattro ore, — egli avrebbe corso mille piedi, cioè cinquecento
braccia, che è un sesto di miglio.

Ora è che ’l corso del sole, infra dì e notte, sarebbe camminato la
sesta parte d’un miglio, e questa venerabile lumaca del sole avrebbe
camminato venticinque braccia per ora!


LIII. — DELLA PROVA CHE ’L SOLE È CALDO PER NATURA E NON PER VIRTÙ.

Del sole. Dicano che ’l sole non è caldo, perchè non è di colore di
foco, ma è molto più bianco e più chiaro. E a questi si po’ rispondere,
che, quando il bronzo liquefatto è più caldo, elli e più simile al
color del sole, e, quand’è men caldo, ha più color di foco.


LIV. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Provasi il sole, in sua natura, essere caldo — e non freddo, come già
s’è detto. —

Lo specchio concavo, essendo freddo, nel ricevere li razzi del foco, li
rifrette più caldi, che esso foco.

La palla di vetro, piena d’acqua fredda, manda fori di sè li razzi,
presi dal foco, ancora più caldi d’esso foco.

Di queste due dette esperienze sèguita, che tal calore delli razzi,
avuti dello specchio o della palla d’acqua fredda, sien caldi per
virtù, e non perchè tale specchio o palla sia calda; e ’l simile in
questo caso accade del sole passato per essi corpi, che scalda per
virtù. E per questo hanno concluso il solo non esser caldo. — Il
che per le medesime allegate isperienze si prova esso sole essere
caldissimo, per la sperienza detta dello specchio e palla, che, essendo
freddi, pigliando i razzi della caldezza del foco, li rendan razzi
caldi, perchè la prima causa è calda: e il simile accade del sole,
che essendo lui caldo, passando per tali specchi freddi, refrette gran
calore.

Non lo splendore del sole scalda, ma il suo natural calore.


LV. — PROPAGAZIONE DEI RAGGI NELLO SPAZIO.

Passano li razzi solari per la fredda regione dell’aria e non mutan
natura, passan per vetri pieni d’acqua fredda e non mancano di lor
natura, e, per qualunque loco transparente essi passassino, è come
s’elli penetrassino altrettanta aria.


LVI. — SE LE STELLE HAN LUME DAL SOLE O DA SÈ.

Dicano [Sidenote: Sott.: gli scrittori, gli autori] di avere il lume
da sè, allegando, che se Venere e Mercurio non n’avessi il lume da
sè, quando esso s’interpone infra l’occhio nostro e ’l sole, esse
oscurerebbon tanto d’esso sole, quanto esse ne coprano all’occhio
nostro. — E quest’è falso, perch’è provato come l’ombroso, posto nel
luminoso, è cinto e coperto tutto da’ razzi laterali del rimanente
di tal luminoso e così resta invisibile. Come si dimostra, quando il
sole è veduto per la ramificazione delle piante sanza foglie in lunga
distanzia, essi rami non occupano parte alcuna d’esso sole alli occhi
nostri.

Il simile accade a’ predetti pianeti, li quali, ancora che da sè e’
sieno sanza luce, eglino non occupano, com’è detto, parte alcuna del
sole all’occhio nostro.

Seconda pruova. Dicano le stelle nella notte parere lucidissime quanto
più ci son superiori; e che s’elle non avessin lume da sè che l’ombra,
che fa la terra, che s’interpone infra loro e ’l sole, le verrebbe
a scurare, non vedendo esse, nè sendo vedute dal corpo solare. — Ma
questi non n’han considerato, che l’ombra piramidale della luna non
n’aggiugne [Sidenote: raggiunge, arriva] infra troppe stelle, quello
ch’ell’aggiugne, la piramide è tanto diminuita che poco occupa del
corpo della stella, e ’l rimanente è alluminato dal sole.


LVII. — LA TERRA È UNA STELLA.

Tu nel tuo discorso hai a concludere la terra essere una stella quasi
simile alla luna, e così proverai la nobiltà del nostro mondo!

E così farai un discorso delle grandezze di molte stelle, secondo li
autori.


LVIII. — ESSA RISPLENDE NELL’UNIVERSO.

Come la terra è una stella. La terra mediante la spera dell’acqua,
che in gran parte la veste, — la qual piglia il simulacro del sole e
risplende all’universo, sì come fan tutte l’altre stelle, — si dimostra
ancora lei essere stella.


LIX. — ORDINE DEL PROVARE LA TERRA ESSERE UNA STELLA.

In prima diffinisci l’occhio.

Poi mostra come il battere [Sidenote: il tremolio della luce, del
fulgore escitizio delle stelle] d’alcuna stella viene dall’occhio; e
perchè il batter d’esser stelle è più nell’una, che nell’altra; e come
li razzi delle stelle nascan dall’occhio. E di’ che, se ’l battere
delle stelle fussi, come pare, nelle stelle, che tal battimento mostra
d’essere di tanta dilatazione, quant’è il corpo di tale stella; essendo
adunque maggior della terra, che tal moto fatto in istante sare’ trovo
veloce a raddoppiare la grandezza di tale stella; di poi prova come
la superfizie dell’aria, ne’ confini del foco, e la superfizie del
foco, nel suo termine, è quella, nella qual penetrando, li razzi solari
portan tal similitudine di corpi celesti grandi nel lor levare e porre
[Sidenote: tramontare], e piccole essendo essi nel mezzo del cielo.


LX. — LA TERRA SEMBRA STELLA AI LONTANI.

Il libro mio s’astende a mostrare come l’Ocean, colli altri mari, fa,
mediante il sole, splendere il nostro mondo a modo di luna, e a’ più
remoti pare stella; e quest’è provo.


LXI. — LA TERRA NON È CENTRO DELL’UNIVERSO.

Come la terra non è nel mezzo del cerchio del sole, nè nel mezzo del
mondo, ma è ben nel mezzo de’ sua elementi, compagni e uniti con lei;
e chi stesse nella luna, quand’ella insieme col sole è sotto a noi,
questa nostra terra, coll’elemento dell’acqua, parrebbe e farebbe
offizio, tal qual fa la luna a noi.


LXII. — COME IN UN’ETÀ LONTANA LA TERRA AVEVA UN PIÙ VIVO SPLENDORE.

Come la terra, facendo offizio di luna, ha perduto assai del lume
antico nel nostro emisperio pel calare delle acque, com’è provato in
libro quarto: _De mundo e acque_.


LXIII. — QUESTIONI SULLA NATURA DELLA LUNA.

1. Nessun lievissimo è opaco.

2. Nessun più lieve sta sotto al men lieve.

3. Se la luna ha sito in mezzo ai sua elementi o no.

E s’ella non ha sito particulare, come la terra, nelli sua elementi,
perchè non cade al centro de’ nostri elementi?

E se la luna non è in mezzo alli sua elementi, e non discende, adunque
ella è più lieve che altro elemento.

E se la luna è più lieve che altro elemento, perchè è solida e non
traspare?


LXIV. — SULLA GRAVITÀ DELLA LUNA.

Nessun denso è più lieve che l’aria.

Avendo noi provato come la parte della luna, che risplende è acqua,
che specchia il corpo del sole, la quale ci riflette lo splendore da
lui ricevuto, e come, se tale acqua fusse sanza onde, ch’ella picciola
si dimostrerebbe, ma di splendore quasi simile al sole; al presente
bisogna provare, se essa luna è corpo grave o lieve; imperocchè se
fusse grave, confessando che dalla terra in su in ogni grado d’altezza
s’acquista gradi di levità, — conciò sia che l’acqua è più lieve che
la terra; e l’aria che l’acqua, e ’l foco che l’aria e così seguitando
successivamente, — e’ parrebbe che, se la luna avesse densità, com’ella
ha, ch’ella avesse gravità e, avendo gravità, che lo spazio, ove
essa si trova, non la potesse sostenere, e per conseguenza avesse _a
discendere inverso il centro dell’universo e congiugnersi colla terra_,
e se non lei almanco le sue acque avessino a cadere, e spogliarla di
sè, e cadere inverso il centro, e lasciar di sè la luna spogliata
e sanza lustro; onde, non seguitando quel che di lei la ragione ci
promette, egli è manifesto segno, che tal luna è vestita de’ sua
elementi, cioè acqua, aria e foco, e così in sè per sè si sostenga in
quello spazio, come fa la nostra terra coi sua elementi in quest’altro
spazio, e che tale offizio facciano le cose gravi ne’ sua elementi,
qual fanno l’altre cose gravi nelli elementi nostri.


LXV. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

La luna densa e grave come sta, la luna?


LXVI. — I MONDI GRAVITANO IN SENO AI PROPRI ELEMENTI.

Il rossume ovver tuorlo dell’ovo sta in mezzo al suo albume sanza
discendere d’alcuna parte, ed è più lieve o più grave o eguale d’esso
albume; e, s’egli è più lieve, egli dovrebbe sorgere sopra tutto
l’albume e fermarsi in contatto della scorza d’esso uovo e, s’elli è
più grave dovrebbe discender, e, s’elli è eguale, così potrebbe stare
nell’un delli stremi come in mezzo o di sotto.


LXVII. — IL CALORE COME PRINCIPIO DELLA VITA.

Il caldo è cagione del movimento dell’umido, e ’l freddo lo ferma, come
si vede la region fredda, che ferma i nuvoli nell’aria.

Dov’è vita è calore; dov’è calore vitale è movimento d’omore.


LXVIII. — LA TERRA È UN GRANDE VIVENTE.

Nessuna cosa nasce in loco, dove non sia vita sensitiva, vegetativa o
razionale: nascono le penne sopra li uccelli, e si mutano ogni anno;
nascono li peli sopra li animali e ogni anno si mutano, salvo alcuna
parte, come li peli delle barbe de’ lioni e gatti e simili; nascono
l’erbe sopra li prati e le foglie sopra li alberi, e ogni anno in
gran parte si rinnovano; adunque potremo dire, la terra avere anima
vegetativa, e che la sua carne sia la terra, li sua ossi sieno li
ordini delle collegazioni [Sidenote: aggregazioni] de’ sassi, di che
si compongono le montagne, il suo tenerume sono li tufi, il suo sangue
sono le vene delle acque, il lago del sangue, che sta dintorno al core,
è il mare oceano, il suo alitare e ’l crescere e discrescere del sangue
per li polsi, e così nella terra è il flusso e riflusso del mare, e ’l
caldo dell’anima del mondo è il fuoco, ch’è infuso per la terra, e la
residenza dell’anima vegetativa sono li fochi, che per diversi lochi
della terra spirano in bagni e in miniere di solfi e in vulcani, a Mon
Gibello di Sicilia e altri lochi assai.


LXIX. — PARAGONE DELL’UOMO E DEL MONDO. COMINCIAMENTO DEL TRATTATO DE
L’ACQUA.

L’omo è detto da li antiqui mondo minore, e certo la dizione d’esso
nome è bene collocata imperò che, sì come l’omo è composto di terra,
acqua, aria e foco, questo corpo della terra è il simigliante. Se l’omo
ha in sè ossa, sostenitori e armadura della carne, il mondo ha i sassi
sostenitori della terra; se l’omo ha in sè il lago del sangue, dove
cresce e discresce il polmone, nello alitare, il corpo della terra ha
il suo oceano mare, il quale, ancora lui, cresce e discresce ogni sei
ore per lo alitare del mondo; se dal detto lago di sangue dirivan vene,
che si vanno ramificando per lo corpo umano, similmente il mare oceano
empie il corpo de la terra d’infinite vene d’acqua. Manca al corpo
della terra i nervi, i quali non vi sono, perchè i nervi sono fatti al
proposito del movimento, e, il mondo sondo di perpetua stabilità, non
v’accade movimento, e, non v’accadendo movimento, i nervi non vi sono
necessari. Ma in tutte l’altre cose sono molto simili.


LXX. — L’ACQUA.

Il corpo della terra, a similitudine dei corpi delli animali, è tessuto
di ramificazione di vene, le quali son tutte insieme congiunte, e son
costituite a nutrimento e vivificazione d’essa terra e de’ sua creati.


LXXI. — L’ACQUA È IL SANGUE E LA LINEA DEL MONDO.

L’acqua, che surge ne’ monti è il sangue, che tien viva essa montagna,
o, forata in essa o per traverso essa vena, la natura, aiutatrice
de’ sua vivi, sendo abbondante nell’aumento di volere riparare il
mancamento del versato umore, quivi con curioso [Sidenote: sollecito]
soccorso abbonda; a similitudine del loco percosso nell’omo, e’ si
vede, per lo soccorso fatto, multiplicare il sangue sotto alla pelle,
in modo di sgonfiamento, per sopperire al loco infecto [Sidenote:
contuso, per la percussione]; similmente la vite, sendo tagliata
nell’alta stremità, manda la natura dall’infime radice all’altezza
somma del loco tagliato il suo umore, e quello, essendo versato, essa
non l’abbandona di vitale umore, insino al fine della sua vita.


LXXII. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

L’acqua è proprio quella, che per vitale umore di questa arida terra
è dedicata: e quella causa, che la move per le sue ramificate vene,
contro al natural corso delle cose gravi, è proprio quella, che move li
umori in tutte le spezie de’ corpi animali.


LXXIII. — L’ACQUA SUI MONTI.

L’acqua, vitale omore della terrestre macchina, mediante il suo natural
calore si move.


LXXIV. — TRASFORMAZIONI DOVUTE ALL’ACQUA.

L’acqua è ’l vetturale della natura.


LXXV. — DELLA VIBRAZION DELLA TERRA.

Li corsi subterranei delle acque, sì come quelli, che son fatti in fra
l’aria e la terra, son quelli, che al continuo consumano e profondano
li letti delli lor corsi.

La terra, levata dalli fiumi, si scarica nelle ultime parti delli lor
corsi, ovvero la terra, levata da li alti corsi de’ fiumi, si scarica
nell’ultime bassezze delli lor moti.

Dove l’acque dolci pullulano, nella superfice del mare, è manifesto
prodigio della creazione d’una isola, la qual si scoprirà tanto più
tardi o più presto, quanto la quantità dell’acqua, che surge, sarà di
minore o maggior quantità.

E questa tale isola si genera dalla quantità della terra o consumazion
de’ sassi, che fa il corso sotterraneo dell’acqua per li lochi,
dond’ella discorre.


LXXVI. — VASTE TRASFORMAZIONI NEL PASSATO E NELL’AVVENIRE.

Come le rive del mare al continuo acquistano terreno inverso il mezzo
del mare.

Come li scogli o promontori de’ mari al continuo ruinano, e si
consumano.

Come i mediterranei scopriranno i lor fondi all’aria, e sol
riserberanno il canale al maggior fiume, che dentro vi metta, il quale
correrà all’Oceano, e ivi verserà le sue acque, insieme con quelle di
tutti i fiumi, che con esso s’accompagnano.


LXXVII. — L’ACQUA NEI FIUMI.

In fra le potenti cagioni de’ terrestri danni a me pare, che i fiumi,
colle ruinose innondazioni, tengano il principato; e non è il foco,
come alcuni han voluto, imperocchè il foco termina sua voragine, dove
manca il nutrimento; il movimento dell’acqua, ch’è mantenuto dalle
inclinate valli, ancora lui termina e more insieme coll’ultima bassezza
della valle; ma il foco è causato dal nutrimento e ’l moto dell’acqua
dalla bassezza. Il nutrimento del foco è disunito, e disunito e
separato fia il danno, e il foco more, dove manca il nutrimento. La
declinazione delle valli è unita, e unito fia il danno, col ruinoso
corso del fiume, finchè, in compagnia delle sue valli, finirà nel mare,
universale bassezza e unico riposo delle peregrinanti acque dei fiumi.

Ma con quale lingua o con quale vocaboli potrò io esprimere e dire le
nefande ruine, li incredibili dirupamenti, le inesorabili rapacità,
fatte da’ diluvî de’ superbi fiumi? Come potrò io dire? — Certo io
non mi sento bastevole a tanta dimostrazione; ma pure con quell’aiuto,
che mi dà la sperienza, m’ingegnerò riferire il modo del dannificare,
contro ai quali diripanti fiumi non vale alcuno umano riparo.


LXXVIII. — SU UNA CONCHIGLIA FOSSILE.

O tempo, veloce predatore delle create cose, quanti re, quanti popoli
hai tu disfatti, e quante mutazioni di stati e varî casi sono seguìti,
dopochè la maravigliosa forma di questo pesce qui morì per le cavernose
o ritorte interiora [Sidenote: Sott.: del monte] .... Ora, disfatto dal
tempo, paziente giaci in questo chiuso loco; colle spolpate e ignude
ossa hai fatto armadura e sostegno al soprapposto monte!


LXXIX. — BASTA UN PICCOLO SEGNO PER RICOSTRUIRE L’INTERO PASSATO.

Perchè molto son più antiche le cose che le lettere, non è maraviglia
se alli nostri giorni non apparisce scrittura delli predetti mari
essere occupatori di tanti paesi; e se pure alcuna scrittura apparìa
le guerre, l’incendi, li diluvi dell’acque, le mutazioni delle lingue
e delle leggi hanno consumato ogni antichità: ma a noi bastano le
testimonianze delle cose nate nelle acque salse, ritrovarsi nelli alti
monti, lontani dalli mari d’allora.


LXXX. — DEL DILUVIO E DE’ NICCHI [Sidenote: le conchiglie fossili]
MARINI.[138]

Se tu dirai che li nicchi, che per li confini d’Italia lontano dalli
mari, in tanta altezza si veggono alli nostri tempi, siano stati per
causa del Diluvio, che lì li lasciò; io ti rispondo che, credendo tu
che tal Diluvio superasse il più alto monte 7 cubiti, — come scrisse
chi li misurò, — tali nicchi, che sempre stanno vicini ai liti del
mare, e’ dovriano restare sopra tali montagne, e non sì poco sopra le
radici de’ monti, per tutto a una medesima altezza, a suoli a suoli
[Sidenote: a strati, a strati].

E se tu dirai, che, essendo tali nicchi vaghi di stare vicini alli liti
marini, e che, crescendo in tanta altezza, che li nicchi si partirono
da esso lor primo sito, e seguitarono l’accrescimento delle acque
insino alla lor somma altezza; qui si risponde che, sendo il nicchio
animale di non più veloce moto che si sia la lumaca, fori dell’acqua,
— e qualche cosa più tarda, perchè non nuota, anzi si fa un solco ove
s’appoggia, — camminerà il dì dalle 3 alle 4 braccia. Adunque questo,
con tale moto, non sarà camminato dal mare Adriano insino in Monferrato
di Lombardia, chè v’è 250 miglia di distanza in 40 giorni — come disse
chi tenne conto d’esso tempo.

E se tu dici che l’onde ve li portarono, essi per la lor grossezza,
non si reggono, se non sopra il suo fondo; e se questo non mi concedi,
confessami almeno ch’elli aveano a rimanere nelle cime de’ più alti
monti e ne’ laghi, che infra li monti si serrano: come lago di Lario o
di Como e ’l Maggiore e di Fiesole e di Perugia e simili.

E se tu dirai che li nicchi son portati dall’onde, essendo voti
e morti, io dico che, dove andavano li morti, poco si rimovevano
da’ vivi, e in queste montagne sono trovati tutti i vivi, che si
cognoscono, che sono colli gusci appaiati, e sono in un filo dove
non è nessun de’ morti, e poco più alto è trovato, dove eran gettati
dall’onde tutti li morti colle loro scorze separate, appresso a
dove li fiumi cascavano in mare in gran profondità. E se li nicchi
fussero stati portati dal torbido Diluvio, essi si sarebbero misti
separatamente l’un dall’altro, infra ’l fango e non con ordinati gradi
a suoli, come alli nostri tempi si vede.


LXXXI. — DI QUELLI CHE DICONO, CHE I NICCHI SONO PER MOLTO SPAZIO E
NATI REMOTI DALLI MARI, PER LA NATURA DEL SITO E DE’ CIELI, CHE DISPONE
E INFLUISCE TAL LOCO A SIMILE CREAZIONE D’ANIMALI.

A costor si risponderà che s’è tale influenza [Sidenote: influsso
degli astri, atto a crear animali fossili] d’animali, non potrebbero
accadere in una sola linea se non animali di medesima sorte e età, e
non il vecchio col giovane, e non alcun col coperchio e l’altro essere
sanza sua copritura, e non l’uno esser rotto e l’altro intero, e non
l’uno ripieno di rena marina, e rottame minuto e grosso d’altri nicchi
dentro alli nicchi interi, che lì son rimasti aperti, e non le bocche
de’ granchi sanza il rimanente del suo tutto, e non li nicchi d’altre
specie appiccati con loro in forma d’animale, che sopra di quelli si
movesse, perchè ancora resta il vestigio del suo andamento sopra la
scorza, che lui già, a uso di tarlo, sopra il legname andò consumando;
non si troverebbero infra loro ossa e denti di pesce, li quali alcuni
dimandano saette e altri lingue di serpenti, e non si troverebbero
tanti membri di diversi animali insieme uniti, se lì da’ liti marini
gittati non fussino.

E ’l diluvio lì non li avrebbe portati, perchè le cose gravi più
dell’acqua, non stanno a galla sopra l’acqua, e le cose predette non
sarìano in tanta altezza, se già a nuoto ivi sopra dell’acque portate
non furono, la qual cosa è impossibile per la lor gravezza.

Dove le vallate non ricevono le acque salse del mare, quivi i nicchi
mai non si vedono, come manifesto si vede nella gran valle d’Arno
di sopra alla Gonfolina, sasso per antico unito con Monte Albano in
forma d’altissimo argine, il quale tenea ringorgato tal fiume in modo
che, prima che versasse nel mare, il quale era dopo ai piedi di tal
sasso, componea due grandi laghi, de’ quali il primo è, dove oggi
si vede fiorire la città di Fiorenze insieme con Prato e Pistoia,
e Monte Albano seguiva il resto dell’argine insin dove oggi è posto
Serravalle. Dal Val d’Arno di sopra insino Arezzo si creava un secondo
lago, il quale nell’antidetto lago versava le sue acque, chiuso circa
dove oggi si vede Girone, e occupava tutta la detta valle di sopra per
ispazio di quaranta miglia di lunghezza. Questa valle riceve sopra il
suo fondo tutta la terra portata dall’acqua da quella intorbidata, la
quale ancora si vede a’ piedi di Prato Magno restare altissima, dove li
fiumi non l’hanno consumata, e infra essa terra si vedono le profonde
segature de’ fiumi, che quivi son passati, li quali discendono dal gran
monte di Prato Magno, nelle quali segature non si vede vestigio alcuno
di nicchi o di terra marina. Questo lago si congiugnea col lago di
Perugia.

Gran somma di nicchi si vede, dove li fiumi versano in mare, benchè in
tali siti l’acque non sono tanto salse per la mistion dell’acque dolci,
che con quelle s’uniscono. E ’l segno di ciò si vede dove per antico
li Monti Appennini versavano li lor fiumi nel mare Adriano, li quali
in gran parte mostrano infra li monti gran somma di nicchi, insieme
coll’azzurrigno terreno di mare, e tutti li sassi, che di tal loco si
cavano, son pieni di nicchi.

Il medesimo si conosce avere fatto Arno, quando cadea dal sasso della
Gonfolina nel mare, che dopo quella non troppo basso si trovava, perchè
a quelli tempi superava l’altezza di San Miniato al Tedesco, perchè
nelle somme altezze di quello si vedono le ripe piene di nicchi e
ostriche dentro alle sue mura; non si distesero li nicchi inverso Val
di Nievole, perchè l’acque dolci d’Arno in là non si astendeano.

Come li nicchi non si partirono dal mare per Diluvio, perchè l’acque,
che diverso la terra venivano, ancora che essi tirassino il mare
inverso la terra, esse eran quelle, che percuoteano il suo fondo,
perchè l’acqua, che viene di verso la terra, ha più corso che quella
del mare, e per conseguenza è più potente, entra sotto l’altra acqua
del mare, e rimove il fondo, e accompagna con seco tutte le cose
mobili, che in quella trova, come son i predetti nicchi e altre simili
cose, e quanto l’acqua, che vien di terra, è più torbida che quella del
mare, tanto più si fa potente e grave che quella.

Adunque io non ci vedo modo di tirare i predetti nicchi tanto infra
terra, se quivi nati non fussino!

Se tu mi dicessi il fiume Era [Sidenote: Loira], che passa per la
Francia, nell’accrescimento del mare [Sidenote: nel flusso o alta
marea], si copre più di ottanta miglia di paese, perchè è loco di gran
pianura, e ’l mare s’alza circa braccia venti, e nicchi si vengono a
trovare in tal pianura, discosta dal mare esse ottanta miglia; qui si
risponde che ’l flusso e riflusso ne’ nostri mediterranei mari non
fanno tanta varietà, perchè in Genovese non varia nulla, a Venezia
poco, in Africa poco, e dove poco varia poco occupa di paese.


LXXXII. — CONFUTAZIONE CH’È CONTRO COLORO, CHE DICONO I NICCHI ESSER
PORTATI PER MOLTE GIORNATE DISTANTI DALLI MARI PER CAUSA DEL DILUVIO,
TANT’ALTO CHE SUPERASSE TALE ALTEZZA.

Dico, che il Diluvio non potè portare le cose nate dal mare alli monti,
se già il mare gonfiando non creasse innondazione insino alli lochi
sopradetti, la qual gonfiazione accadere non può, perchè si darebbe
vacuo.

E se tu dicessi: — l’aria quivi riempirebbe; — noi abbiamo concluso il
grave non si sostenere sopra il lieve, onde per necessità si conclude,
esso diluvio essere causato dall’acque piovane; e, se così è, tutte
esse acque corrono al mare, e non corre il mare alle montagne; e se
elle corrono al mare esse spingono li nicchi dal lito del mare, e non
li tirano a sè.

E se tu dicessi: — poichè ’l mare alzò per l’acque piovane, portò
essi nicchi a tale altezza; — già abbiamo detto, che le cose più gravi
dell’acqua non notan sopra di lei, ma stanno ne’ fondi, dalli quali non
si rimovono, se non per causa di percussion d’onda.

E se tu dirai, che l’onde le portassino in tali lochi alti, noi abbiamo
provato, che l’onde nella gran profondità tornano in contrario, nel
fondo, al moto di sopra, la qual cosa si manifesta per lo intorbidare
del mare dal terreno tolto vicino alli liti.

Muovesi la cosa più lieve che l’acqua insieme colla sua onda, ed è
lasciata nel più alto sito della riva dalla più alta onda. Muovesi la
cosa più grave che l’acqua sospinta dalla sua onda nella superfizie
ed al fondo suo. E per queste due conclusioni, che ai lochi sua saran
provati a pieno, noi concludiamo, che l’onda superfiziale non può
portare nicchi, per essere più grevi che l’acqua.

Quando il diluvio avesse avuto a portare li nicchi trecento e
quattrocento miglia distanti dalli mari, esso li avrebbe portati misti
con diverse nature, insieme ammontati: e noi vediamo in tal distanza
l’ostriche tutte insieme e le conchiglie, e li pesci calamai, e tutti
li altri nicchi, che stanno insieme a congregazione, essere trovati
tutti insieme morti; e li nicchi solitari trovarsi distanti l’uno
dall’altro, come nei liti marittimi tutto il giorno vediamo!

E se noi troviamo l’ostriche insieme apparentate grandissime, infra
le quali assai vedi quelle, che hanno ancora il coperchio congiunto, a
significare che qui furono lasciate dal mare che ancor viveano, quando
fu tagliato lo stretto di Gibilterra.

Vedesi in nelle montagne di Parma e Piacenza le moltitudini di nicchi
e coralli intarlati, ancora appiccati alli sassi, dei quali, quand’io
facevo il gran cavallo di Milano [Sidenote: la statua equestre a
Francesco Sforza], me ne fu portato un gran sacco nella mia fabbrica
da certi villani, che in tal loco furon trovati, fra li quali ve n’era
assai delli conservati nella prima bontà....

Trovansi sotto terra e sotto li profondi cavamenti de’ lastroni
[Sidenote: le profonde cave di macigno], li legnami delle travi
lavorati, fatti già neri, li quali furon trovati a mio tempo in quel di
Castel Fiorentino, e questi, in tal loco profondo, v’erano prima che
la litta [Sidenote: fango di fiume], gittata dall’Arno nel mare, che
quivi copriva, fusse abbandonata in tant’altezza, e che le pianure del
Casentino fussin tanto abbassate dal terren, che hanno al continuo di
lì sgomberato.

E se tu dicessi tali nicchi essere creati e creano a continuo in simili
lochi per la natura del sito e de’ cicli, che quivi influisce; questa
tale opinione non sta in cervelli di troppo discorso, perchè quivi
s’enumeran li anni del loro accrescimento sulla loro scorza, e se ne
vedono piccoli e grandi, i quali sanza cibo non crescerebbero, e non si
cibarebbero sanza moto, e quivi movere non si poteano.


LXXXIII. — I FOSSILI RISPECCHIANO NEL PASSATO UNA VITA ANALOGA A QUELLA
DEL PRESENTE.

Come nelle falde, infra l’una e l’altra, si trovano ancora li andamenti
delli lombrichi, che camminavano infra esse, quando non erano ancora
asciutte.

Come tutti li fanghi marini ritengono ancora de’ nicchi, ed è
petrificato il nicchio insieme col fango.

Della stoltizia e semplicità di quelli, che vogliono che tali animali
fussino, alli lochi distanti dai mari, portati dal Diluvio.

Come altra setta d’ignoranti affermano la natura o i cieli averli
in tali lochi creati per influssi celesti, come in quelli non si
trovassino l’ossa de’ pesci cresciuti con lunghezza di tempo, come
nelle scorze de’ nicchi e lumache non si potesse annumerare li anni o i
mesi della lor vita, come [Sidenote: allo stesso modo che] nelle corna
de’ buoi e de’ castroni, e nella ramificazione delle piante, che non
furono mai tagliate in alcuna parte!

E avendo con tali segni dimostrato la lunghezza della lor vita essere
manifesta, ecco bisogna confessare, che tali animali non vivino sanza
moto, per cercare il loro cibo, e in loro non si vede strumenti da
penetrare la terra e ’l sasso, ove si trovano rinchiusi.

Ma in che modo si potrebbe trovare in una gran lumaca i rottami e parte
di molt’altre sorte di nicchi di varia natura, se ad essa, sopra de’
liti marini già morta, non li fussino state gettate dalle onde del
mare, come dell’altre cose lievi, che esso getta a terra?

Perchè si trova tanti rottami e nicchi interi fra falda e falda di
pietra, se già quella sopra del lido non fusse stata ricoperta da una
terra rigettata dal mare, la qual poi si venne petrificando?

E se ’l diluvio predetto li avesse in tali siti dal mare portato, tu
troveresti essi nicchi in sul termine d’una sola falda e non al termine
di molte.

Devonsi poi annumerare le annate delli anni, che ’l mare multiplicava
le falde dell’arena e fango, portatoli da’ fiumi vicini, e ch’elli
scaricava in sui liti sua; e se tu volessi dire, che più diluvi fussino
stati a produrre tali falde e nicchi infra loro, e’ bisognerebbe, che
ancora tu affermassi ogni anno essere un tal diluvio accaduto.

E se tu vuoi dire, che tale diluvio fu quello, che portò tali nicchi
fuor de’ mari centinaia di miglia, questo non può accadere, essendo
stato esso diluvio per causa di pioggie: — perchè naturalmente le
pioggie spingono i fiumi, insieme colle cose da loro portate, inverso
il mare, e non tirano inverso de’ monti, le cose morte, da’ liti
marittimi.

E se tu dicessi che ’l diluvio poi s’alzò colle sue acque sopra de’
monti, il moto del mare fu sì tardo, col cammino suo contro al corso
de’ fiumi, che non avrebbe sopra di sè tenute a noto le cose più
gravi di lui, e, se pur l’avesse sostenute, esso nel calare l’avrebbe
lasciate in diversi lochi seminate.

Ma come accomoderemo noi li coralli, li quali inverso Monteferrato in
Lombardia essersi tutto dì trovati intarlati [Sidenote: corrosi dal
tempo e dalle varie vicende], appiccati alli scogli, scoperti dalla
corrente de’ fiumi?

E li detti scogli sono tutti coperti di parentadi e famiglie
d’ostriche, le quali noi sappiamo che non si movono, ma stan sempre
appiccate coll’un de’ gusci al sasso, e l’altro aprono per cibarsi
d’animaluzzi, che notan per l’acque, li quali, credendo trovar bona
pastura, diventano cibo del predetto nicchio.

Non si trova l’arena mista coll’aliga marina [Sidenote: l’alga marina]
essersi petrificata, poichè l’aliga, che la tramezzava, venne meno. E
di questa scopre tutto il giorno il Po nelle mine delle sue ripe.


LXXXIV. — DE’ NICCHI NE’ MONTI.

E se tu vorrai dire li nicchi esser prodotti dalla natura in essi monti
mediante le costellazioni, per qual via mostrerai tal costellazione
fare li nicchi di varie grandezze e di diverse età e di varie spezie ’n
un medesimo sito?

E come mi mostrerai la ghiara congelata a gradi [Sidenote: stratificata
e cementata in roccie] in diverse altezze delli monti, perchè quivi è
di diverse ragioni, ghiare portate di diversi paesi dal corso de’ fiumi
in tal sito; e la ghiara non è altro che pezzi di pietra, che han persi
li angoli per la lunga rivoluzione e le diverse percussioni e cadute,
ch’ell’ha avuto mediante li corsi delle acque, che in tal loco le
condusse?

Come proverai il grandissimo numero di varie spezie di foglie congelate
[Sidenote: fossilizzate e improntate] nelli alti sassi di tal monte,
e l’aliga, erba di mare, stante a diacere mista con nicchi e rena? E
così vedrai ogni cosa petrificata insieme con granchi marini, rotti in
pezzi, separati e tramezzati da essi nicchi.


LXXXV. — SULLA STRATIFICAZIONE GEOLOGICA E CONTRO IL DILUVIO.

Per le due linee de’ nicchi bisogna dire che la terra per sdegno
s’attuffasse sotto il mare a fare il primo suolo, poi il Diluvio fece
il secondo!


LXXXVI. — DUBITAZIONE.

Movesi qui un dubbio, e questo è se ’l diluvio venuto al tempo di
Noè fu universale o no, e qui parrà di no per le ragioni, che si
assegneranno. Noi nella Bibbia abbiam che il predetto diluvio fu
composto di 40 dì e 40 nocte di continua e universa pioggia, e che tal
pioggia alzò di sei gomiti sopra al più alto monte dell’universo; e se
così fu, che la pioggia fussi universale, ella vestì di sè la nostra
terra di figura sperica, e la superfizie sperica ha ogni sua parte
egualmente distante al centro della sua spera; onde la spera dell’acqua
trovandosi nel modo della detta condizione, elli è impossivile che
l’acqua sopra di lei si mova, perche l’acqua in sè non si move, s’ella
non discende; adunque l’acqua di tanto diluvio come si partì, se qui
è provato non aver moto? E s’ella si partì, come si mosse, se ella non
andava allo in su? E qui mancano le ragioni naturali, onde bisogna per
soccorso di tal dubitazione, chiamare il miracolo per aiuto, o dire che
tale acqua fu vaporata dal calor del sole.


LXXXVII. — QUALE SARÀ IL TERMINE DELLA VITA NEL MONDO.[139]

Riman lo elemento dell’acqua rinchiuso infra li cresciuti argini de’
fiumi, e si vede il mare infra la cresciuta terra; e la circundatrice
aria, avendo a fasciare e circonscrivere la mollificata macchina
della terra [Sidenote: il corpo sferico della Terra, rammollito per le
assorbite acque], la sua grossezza, che stava fra l’acqua e lo elemento
del foco, rimarrà molto ristretta e privata della bisognosa acqua. I
fiumi rimarranno senza le loro acque, la fertile terra non manderà più
leggere fronde, non fieno più i campi adornati dalle ricascanti piante;
tutti li animali non trovando da pascere le fresche erbe, morranno; e
mancherà il cibo ai rapaci lioni e lupi e altri animali, che vivono di
ratto; e agli omini, dopo molti ripari, converrà abbandonare la loro
vita, e mancherà la generazione umana.

A questo modo la fertile e fruttuosa terra, abbandonata, rimarrà arida
e sterile; e, pel rinchiuso omore dell’acqua (rinchiusa nel suo ventre)
e per la vivace natura, osserverà alquanto dello suo accrescimento
[Sidenote: continuerà a produrre vita e forme], tanto che, passata la
fredda e sottile aria, sia costretta a terminare collo elemento del
foco: allora la sua superfice rimarrà in riarsa cenere, e questo fia il
termine della terrestre natura.


LXXXVIII. — LA TERRA IMMERSA NELL’ACQUA PER LA LENTA CONSUMAZIONE DE’
MONTI.

Perpetui son li bassi lochi del fondo del mare, e il contrario son le
cime de’ monti, sèguita che la terra si farà sperica e tutta coperta
dall’acque, e sarà inabitabile.


LXXXIX. — LE LEGGI MECCANICHE DOMINANO I FENOMENI INORGANICI E ORGANICI.

La scienza strumentale, over macchinale, è nobilissima e sopra tutte
l’altre utilissima, conciò sia che mediante quella tutti li corpi
animati, che hanno moto fanno tutte loro operazioni; i quali moti
nascono dal centro della lor gravità, che è posto in mezzo a parti di
pesi diseguali, e ha questo carestia e dovizia di muscoli [Sidenote:
disequilibrio di forza nervosa] ed etiam lieva e contra lieva.


XC. — POSSIBILITÀ CHE HA L’UOMO D’IMITARE STRUMENTALMENTE L’UCCELLO
VOLANTE.

L’uccello è strumento oprante per legge matematica, il quale strumento
è in potestà dell’omo poterlo fare con tutti li sua moti, ma non con
tanta potenza; ma solo s’astende nella potenza del bilicarsi. Adunque
direm che tale strumento, composto per l’omo, non li manca se non
l’anima dello uccello, la quale anima bisogna, che sia contraffatta
dall’anima dell’omo.

L’anima alle membra delli uccelli, sanza dubbio, obbidirà meglio a’
bisogni di quelle, che a quelle non farebbe l’anima dell’omo, da esse
separato, e massimamente ne’ moti di quasi insensibili bilicazioni;
ma poi che alle molte sensibili varietà di moti noi vediamo l’uccello
provvedere, noi possiamo, per tale esperienza, giudicare, che le forte
sensibili potranno essere note alla cognizione dell’omo, e che esso
largamente potrà provvedere alla ruina di quello strumento, del quale
lui s’è fatto anima e guida.


XCI. — RICORDO, CHE RITORNA ALL’ANIMA DEL VINCI MENTRE SCRIVE SUL VOLO
DEL NIBBIO.

Questo scriver sì distintamente del nibbio par che sia mio destino,
perchè ne la prima ricordazione della mia infanzia e’ mi parea che,
essendo io in culla, che un nibbio venissi a me, e mi aprissi la bocca
colla sua coda, e molte volte mi percotessi con tal coda dentro alle
labbra.


XCII. — PERCHÈ LI PICCOLI UCCELLI NON VOLANO IN GRANDE ALTEZZA, NÈ LI
GRANDI UCCELLI SI DILETTANO VOLARE IN BASSO.

Nasce per causa che li piccoli uccelli, essendo sanza piume, non
reggano alla immensa freddezza della grande altura dell’aria, nella
quale [Sidenote: Sott.: vivono] li avvoltoi e le aquile e altri grossi
uccelli, ben piumosi e vestiti di molti gradi di penne.

Ancora li uccelli piccoli, con deboli e scempie [Sidenote: sottili]
ali, si sostengano in questa aria bassa, che è grossa, e non si
sosterrebbono nell’aria sottile, che poco resista.


XCIII. — FACCIAMO NOSTRA VITA COLL’ALTRUI MORTE.

In nella cosa morta riman vita dissensata, la quale, ricongiunta alli
stomachi dei vivi, ripiglia vita sensitiva e ’ntellettiva.


XCIV. — COME IL CORPO DELL’ANIMALE AL CONTINUO MORE E RINASCE.

Il corpo di qualunque cosa, la qual si nutrica, al continuo more e al
continuo rinasce, perchè entrare non po’ nutrimento, se non in quelli
lochi, dove il passato nutrimento è spirato; e s’elli è spirato, elli
più non ha vita; e se tu non li rendi nutrimento eguale al nutrimento
partito, allora la vita manca di sua valetudine; e se tu li levi
esso nutrimento, la vita in tutto resta distrutta. Ma se tu ne rendi
tanto quanto se ne distrugge alla giornata, allora tanto rinasce di
vita, quanto se ne consuma, a similitudine del lume della candela col
nutrimento datoli dall’omore d’essa candela: il quale lume ancora lui
al continuo con velocissimo soccorso restaura di sotto, quanto di sopra
se ne consuma morendo; e di splendida luce si converte, morendo, in
tenebroso fumo, la qual morte è continua, siccome è continuo esso fumo,
e la continuità di tal fumo è eguale al continuato nutrimento; e in
istante tutto il lume è morto e tutto rigenerato, insieme col moto del
nutrimento suo.


XCV. — CIRCOLAZIONE DELLA MATERIA.

L’omo e li animali sono proprio transito e condotto di cibo, sepoltura
di animali, albergo de’ morti, guaina di corruzione, facendo a sè vita
dell’altrui morte.


XCVI. — SULLO STESSO SOGGETTO.

Guarda il lume e considera la sua bellezza. Batti l’occhio e
riguardalo: ciò che di lui tu redi, prima non era e, ciò che di lui
era, più non è.

Chi è quel che lo rifa, se ’l fattore al continuo muore?


XCVII. — ANCORA SULLO STESSO SOGGETTO.[140]

Anassagora. Ogni cosa vien da ogni cosa, ed ogni cosa si fa ogni cosa,
e ogni cosa torna in ogni cosa, perchè ciò ch’è nelli elementi è fatto
da essi elementi.


XCVIII. — SULLA ESISTENZA DELLA MORTE E DEL DOLORE NEL MONDO.

La natura pare qui in molti o di molti animali stata più presto crudele
matrigna che madre, o d’alcuni non matrigna, ma pietosa madre.


XCIX. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Perchè la natura non ordinò, che l’uno animale non vivesse della morte
dell’altro?

La natura, essendo vaga e pigliando piacere del creare e fare continue
vite e forme, perchè conosce, che sono accrescimento della sua
terrestre materia, è volonterosa e più presta nel suo creare, che ’l
tempo col consumare, e però ha ordinato, che molti animali siano cibo
l’uno dell’altro: e, non soddisfacendo questo a simile desiderio,
spesso manda fuora certi avvelenati e pestilenti vapori, sopra le gran
moltiplicazioni e congregazioni d’animali e massime sopra gli omini,
che fanno grande accrescimento, perchè altri animali non si cibano di
loro; e tolte via le cagioni mancheranno li effetti.

Adunque, questa terra cerca di mancare di sua vita, desiderando la
continua moltiplicazione.

Per la tua assegnata e demonstrata ragione spesso li effetti somigliano
le loro cagioni: gli animali sono esemplo della vita mondiale.


C. — DESIDERIO DI DISFARSI NELLE COSE E NEGLI ESSERI.

Or vedi, la speranza e ’l desiderio del ripatriarsi e ritornare nel
primo caso [Sidenote: nello stato primitivo, anteriore alla nascita],
fa a similitudine della farfalla al lume, e l’uomo, che con continui
desideri sempre con festa aspetta la nuova primavera e sempre la nuova
state, sempre e nuovi mesi e nuovi anni, parendogli che le desiderate
cose, venendo, sieno troppo tarde, e’ non s’avvede, che desidera la sua
disfazione!...

Ma questo desiderio è la quintessenza, spirito degli elementi, che,
trovandosi rinchiusa per l’anima dello umano corpo, desidera sempre
ritornare al suo mandatario. E vo’ che sappi, che questo medesimo
desiderio è quella quintessenza, compagnia della natura, e l’uomo è
modello dello mondo.

E questo uomo ha una somma pazzia che sempre stenta per non stentare,
e la vita a lui fugge sotto speranza di godere i beni con somma fatica
acquistati.


CI. — COME I SENSI SONO OFFIZIALI DELL’ANIMA.

L’anima pare risiedere nella parte judiziale [Sidenote: parte judiziale
= intelletto (qui e altrove)]; e la parte judiziale pare essere nel
loco, dove concorrono tutti i sensi, il quale è detto senso comune
[Sidenote: senso comune = cervello], e non è tutta per tutto il corpo,
come molti hanno creduto; anzi tutta in nella parte, imperocchè, se
ella fusse tutta per tutto e tutta in ogni parte, non era necessario
li strumenti de’ sensi fare in fra loro uno medesimo concorso a uno
solo loco, anzi bastava che l’occhio operasse l’uffizio del sentimento
sulla sua superfizie e non mandare, per la via delli nervi ottici,
la similitudine delle cose vedute al senso, chè l’anima, alla sopra
detta ragione, le poteva comprendere in essa superfizie dell’occhio.
E similmente al senso dell’udito bastava solamente la voce risonasse
nelle concave porosità dell’osso petroso, che sta dentro all’orecchio,
e non fare da esso osso al senso comune altro transito, dove essa
s’abbocca, e abbia a discorrere al comune giudizio.

Il senso dell’odorato ancora lui si vede essere dalla necessità
costretto a concorrere a detto judizio; il tatto passa per le corde
forate [Sidenote: corde = nervi], ed è portato a esso senso, le quali
corde si vanno spargendo, con infinita ramificazione, in nella pelle,
che circonda le corporee membra e visceri.

Le corde perforate portano il comandamento e sentimento delli membri
offiziali [Sidenote: membri offiziali = muscoli], le quali corde e
nervi, infra i muscoli e le coste, comandano a quelli il movimento;
quelli ubbidiscono e tale obbedienza si mette in atto collo sgonfiare,
imperocchè ’l sgonfiare raccorta le loro lunghezze e tirasi dirieto i
nervi [Sidenote: nervi = tendini], i quali si tessono per le particule
de’ membri, essendo infusi nelli stremi de’ diti, portano al senso la
cagione del loro contatto.

I nervi coi loro muscoli servono alle corde, come i soldati a’
condottieri, e le corde servono al senso comune come i condottieri
al capitano; adunque la giuntura delli ossi obbedisce al nervo, e ’l
nervo al muscolo e ’l muscolo alla corda e la corda al senso comune, e
’l senso comune è sedia dell’anima, e la memoria è sua munizione e la
imprensiva è sua referendaria.


CII. — MECCANISMO DELLA SENSAZIONE.

Il senso comune è quello, che giudica le cose a lui date da li altri
sensi.

Il senso comune è mosso mediante le cose a lui date da li cinque sensi.

E essi sensi si movono mediante li obbietti, e questi obbietti,
mandando le lor similitudini a’ cinque sensi, da quelli son transferiti
alla imprensiva [Sidenote: imprensiva = sensitività e percezione] e
da quella al comune senso; e lì, sendo judicate, sono mandate alla
memoria, nella quale sono, mediante la loro potenza, più o meno
riservate.

I cinque sensi sono questi: vedere, udire, toccare, gustare, odorare.

Li antichi speculatori hanno concluso, che quella parte del giudizio,
che è data all’omo, sia causata da uno strumento, al quale riferiscano
li altri cinque, mediante la imprensiva, e a detto strumento hanno
posto nome senso comune, e dicano questo senso essere situato in mezzo
il capo. E questo nome di _senso comune_ dicano, solamente, perchè è
comune judice de li altri cinque sensi, cioè vedere, udire, toccare,
gustare e odorare. Il senso comune si move mediante la imprensiva, ch’è
posta in mezzo in fra lui e i sensi. La imprensiva si muove mediante
la similitudine delle cose a lei date da li strumenti superfiziali,
cioè i sensi, i quali sono posti in mezzo, infra le cose esteriori e
la imprensiva, e similmente i sensi si movano mediante li obbietti.
La similitudine delle circustanti cose mandano, le loro similitudine
a’ sensi, e’ sensi le trasferiscono alla imprensiva, la imprensiva la
manda al senso comune, e da quello sono stabilite nella memoria, e lì
sono più o meno ritenute, secondo la importanza o potenza della cosa
data.

Quello senso è più veloce nel suo offizio, il quale è più vicino alla
imprensiva; il qual è l’occhio, superiore e principe de li altri, del
quale solo tratteremo, e li altri lascieremo, per non ci allungare
dalla nostra materia.


CIII. — SUI MOVIMENTI AUTOMATICI.

La natura ha ordinati nell’omo i muscoli uffiziali, tiratori de’ nervi,
i quali possino movere le membra, secondo la volontà e desiderio del
comun senso, a similitudine delli uffiziali stribuiti da uno signore
per varie province e città, i quali in essi lochi rappresentano e
obbediscano alla volontà d’esso signore. E quello ufiziale, che più in
un solo caso abbi obbedito alle concessione fattoli di bocca dal suo
signore, farà poi per sè, nel medesimo caso, cosa, che non si partirà
dalla volontà d’esso signore.

Così si vede spesse volte fare alle dita, che imparando, con somma
obbedienza, la cosa sopra uno strumento, le quali li sieno comandate
dal giudizio, dopo esso imparare, le sonerà sanza ch’esso giudizio
v’attenda.

I muscoli, che movano le gambe, non fanno ancora l’offizio loro, sanza
che l’omo lo sappi?


CIV. — COME I NERVI OPERANO QUALCHE VOLTA PER LORO, SANZA COMANDAMENTO
DELLI ALTRI OFFIZIALI DELL’ANIMA.

Questo chiaramente apparisce, imperocchè tu vedrai movere ai paralitici
e a’ freddolosi e assiderati le loro tremanti membra, come testa e
mani, sanza licenza dell’anima, la quale anima, con tutte sue forze,
non potrà vietare a essi membri che non tremino. Questo medesimo accade
nel malcaduco e ne’ membra tagliati, come code di lucierte.


CV. — COME L’UOMO TENDE A RIPRODURRE SÈ STESSO NELLE PROPRIE OPERE.

Sommo difetto è de’ pittori replicare li medesimi moti, i medesimi
volti e maniere di panni in una medesima istoria, e fare la maggiore
parte de’ volti, che somigliano al loro maestro. La qual cosa m’ha
molte volte dato ammirazione, perchè n’ho conosciuto alcuno, che in
tutte le sue figure parea avervisi ritratto al naturale. E in quelle si
vede li atti e li modi del loro fattore.

E, s’egli è pronto nel parlare e ne’ modi, le sue figure sono il simile
in prontitudine, e, se ’l maestro è divoto, il simile paiano le figure
con lor colli torti, e, se ’l maestro è dappoco, le sue figure paiono
la pigrizia ritratta al naturale, e, se ’l maestro è sproporzionato,
le figure sue son simili, e, s’egli è pazzo, nelle sue istorie si
dimostra largamente, le quali sono nemiche di conclusione e non stanno
attente alla loro operazione, anzi chi guarda in qua e chi in là, come
se sognassino; e così segue ciascun accidente in pittura il proprio
accidente del pittore.

E avendo io più volte considerato la causa di tal difetto, mi pare, che
sia da giudicare, che quella anima, che regge e governa ciascun corpo,
si è quella che fa il nostro giudizio innanzi sia il proprio giudizio
nostro. Adunque ella ha condotto tutta la figura dell’omo, com’ella
ha giudicato quello stare bene, o col naso lungo o corto o camuso, e
così li ha fermo la sua altezza e figura, ed è di tanta potenza questo
tal giudizio ch’egli move le braccia al pittore, e fagli replicare se
medesimo, parendo a essa anima, che quello sia il vero modo di figurare
l’omo, e, chi non fa come lui, faccia errore. E, s’ella trova alcuno,
che simigli al suo corpo, ch’ell’ha composto, ella l’ama o s’innamora
di quello, e per questo molti s’innamorano e toglian moglie, che
simiglia a lui, e spesso li figlioli, che nascano di tali, simigliano
ai loro genitori.


CVI. — UN ISTINTO NATURALE DELL’UOMO LO GUIDA A CERCARE SÈ STESSO NELLE
COSE E NEGLI ESSERI.

Deve il pittore fare la sua figura sopra la regola d’un corpo naturale,
il quale comunemente sia di proporzione laudabile; oltre di questo
far misurare sè medesimo e vedere, in che parte la sua persona varia
assai o poco da quella antidetta laudabile, e, fatta questa notizia,
deve riparare con tutto il suo studio, di non incorrere ne’ medesimi
mancamenti, nelle figure da lui operate, che nella persona sua si
trova.

E sappi, che con questo vizio ti bisogna sommamente pugnare, conciò
sia ch’egli è mancamento, ch’è nato insieme col giudizio: perchè
l’anima maestra del tuo corpo è quella, ch’è il tuo proprio giudizio,
e volentieri si diletta nelle opere simili a quella, ch’ella operò nel
comporre del suo corpo. E di qui nasce, che non è si brutta figura di
femmina, che non trovi qualche amante — se già non fussi mostruosa.

Sì che ricordati intendere i mancamenti, che sono nella tua persona, e
da quelli ti guarda nelle figure, che da te si compongono.


CVII. — CONSIGLIO AL PITTORE.

Quel pittore, che arà goffe mani, le farà simili nelle sua opere, e
quel medesimo li ’nterverrà in qualunque membro, se ’l lungo studio
non glielo vieta. Adunque tu, pittore, guarda bene quella parte, che
hai più brutta nella tua persona, e ’n quella col tuo studio fa bono
riparo, imperò che, se sarai bestiale, le tue figure saranno il simile
e sanza ingegnio, e similmente ogni parte di bono e di tristo, che hai
in te, si dimostrerà in parte nelle tue figure.


CVIII. — SUGLI STESSI SOGGETTI.

Questo accade, chè il giudicio nostro è quello, che move la mano alla
creazione de’ lineamenti d’esse figure, per diversi aspetti, insino
a tanto ch’esso si satisfaccia; e perchè esso giudicio è una delle
potenze dell’anima nostra, con quella essa compose la forma del corpo,
dov’essa abita, secondo il suo volere. Onde avendo co’ le inani a
rifare un corpo umano volontieri rifà quel corpo, di ch’essa fu prima
inventrice, e di qui nasce che, chi s’innamora, volentieri s’innamorano
di cose a loro simiglianti.


CIX. — SULLA NATURA DEI SENSI.

Quattro sono le potenze: memoria e intelletto, lascibili e
concupiscibili [Sidenote: senso e desiderio].

Le due prime son ragionevoli e l’altre sensuali.

De’ cinque sensi: vedere, udire, odorato sono di poca proibizione,
tatto e gusto no.

L’odorato mena con seco il gusto nel cane e altri golosi animali.


CX. — PROBLEMA DEI SOGNI.

Perchè vede più certa la cosa l’occhio ne’ sogni, che colla
imaginazione stando desto?


CXI. — GIUDIZI INCONSCIENTI.

La pupilla dell’occhio, stante all’aria, in ogni grado di moti
fatti dal sole, muta gradi di magnitudine [Sidenote: si dilata o si
restringe].

E, in ogni grado di magnitudine, una medesima cosa veduta si dimostrerà
di diverse grandezze, benchè spesse volte il paragone delle cose
circostanti non lascino discernere tale mutazione d’una sola cosa, che
si risguardi.


CXII. — INGANNO DEI SENSI.

L’occhio, nelle debite distanze e debiti mezzi, meno s’inganna nel
suo uffizio, che nissun altro senso, perchè (non) vede se non per
linee rette, che compongono la piramide [Sidenote: formata dal raggi
luminosi], che si fa base dell’obbietto, e la conduce a esso occhio,
come intendo provare.

Ma l’orecchio forte s’inganna nelli siti e distanze delli suoi
obbietti, perchè non vengono le spezie [Sidenote: le onde sonore] a
lui per rette linee, come quelle dell’occhio, ma per linee tortuose e
riflesse, e molte sono le volte che le remote paiano più vicine, che le
propinque, mediante li transiti di tali spezie; benchè la voce di eco
sol per linee rette si riferisce a esso senso.

L’odorato meno si certifica del sito, donde si causa un’odore; ma il
gusto e il tatto, che toccano l’obbietto, han sola notizia di esso
tatto.


CXIII. — SUL TEMPO.

Benchè il tempo sia annumerato in fra le continue quantità, esso,
per essere invisibile e sanza corpo, non cade integralmente sotto la
geometrica potenza, la quale lo divide per figure e corpi d’infinita
varietà, come continuo nelle cose visibili e corporee far si vede; ma
sol co’ sua primi principî si conviene, cioè col punto e colla linia:
il punto nel tempo è da essere equiparato al suo istante, e la linea,
ha similitudine colla lunghezza d’una quantità d’un tempo, e, siccome i
punti son principio o fine della predetta linea, così li instanti son
termine e principio di qualunque dato spazio di tempo, e se la linea
è divisibile in infinito, lo spazio d’un tempo di tal divisione non è
alieno, e se le parti divise della linea sono proporzionabili infra sè,
ancora le parti del tempo saranno proporzionabili infra loro.


CXIV. — SUL CONCETTO DEL TEMPO.

Scrivi la qualità del tempo separata dalla geometrica.


CXV. — SUL CONCETTO DEL NULLA.

Il minore punto naturale è maggiore di tutti i punti matematici,
e questo si pruova perchè il punto naturale è quantità continua,
e ogni continuo è divisibile in infinito, e il punto matematico è
indivisibile, perchè non è quantità.

Ogni quantità continua intellettualmente è divisibile in infinito.

Infra le grandezze delle cose, che sono infra noi, l’essere del Nulla
tiene il principato, e ’l suo offizio s’estende infra le cose, che non
hanno l’essere, e la sua essenza risiede appresso del tempo, infra ’l
preterito e ’l futuro — e nulla possiede del presente.

Questo Nulla ha la sua parte eguale al tutto e ’l tutto alla parte e ’l
divisibile allo indivisibile, e tal somma produce nella sua partizione
come nella multiplicazione e nel suo sommare quanto nel sottrarre, come
si dimostra appresso delli aritmetici dello suo decimo carattere, che
rappresenta esso Nulla [Sidenote: lo zero]. E la podestà sua non si
estende infra le cose di natura.

[Quello che è detto Niente si ritrova solo nel tempo e nelle parole:
nel tempo si trova infra ’l preterito e ’l futuro, e nulla ritiene del
presente, e così, infra le parole, delle cose che si dicono, che non
sono o che sono impossibili.]

Appresso del tempo il Nulla risiede infra ’l preterito e ’l futuro,
e niente possiede del presente, e apresso di natura e’ s’accompagna
infra le cose impossibili. Onde per quel ch’è detto e’ non ha l’essere,
imperò che, dove fusse il nulla, sarebbe dato il vacuo.



PENSIERI SULLA MORALE.


I. — GLI STUDI DI LEONARDO.

Io scopro alli omini l’origine della prima o forse seconda cagione del
loro essere.


II. — PROEMIO DELLA SUA ANATOMIA.

E tu, che dici esser meglio il vedere fare l’anatomia, che vedere tali
disegni, diresti bene, se fusse possibile vedere tutte queste cose,
che in tali disegni si dimostrano, in una sola figura; nella quale,
con tutto il tuo ingegno, non vedrai e non avrai la notizia, se non
d’alquante poche vene; delle quali io, per averne vera e piena notizia,
ho disfatti più di dieci corpi umani, distruggendo ogni altri membri,
consumando con minutissime particule tutta la carne, che d’intorno
a esse vene si trovava, sanza insanguinarle, se non d’insensibile
insanguinamento delle vene capillari. E un sol corpo non bastava a
tanto tempo, che bisognava procedere di mano in mano in tanti corpi,
che si finisca la intera cognizione; la qual replicai due volte per
vedere le differenze.

E se tu avrai l’amore a tal cosa, tu sarai forse impedito dallo
stomaco; e se questo non ti impedisce, tu sarai forse impedito dalla
paura coll’abitare nelli tempi notturni in compagnia di tali morti
squadrati e scorticati, e spaventevoli a vederli; e se questo non
t’impedisce, forse ti mancherà il disegno bono, il quale s’appartiene a
tal figurazione.

E se tu avrai il disegno, e’ non sarà accompagnato dalla prospettiva;
e se sarà accompagnato, e’ ti mancherà l’ordine delle dimostrazion
geometriche e l’ordine delle calculazion delle forze e valimento de’
muscoli; e forse ti mancherà la pazienza, chè tu non sarai diligente.

Delle quali, se in me tutte queste cose sono stato o no, i centoventi
libri da me composti ne daran sentenza del sì o del no, nelli quali non
sono stato impedito nè d’avarizia o negligenza, ma sol dal tempo. Vale.


III. — PASSAGGIO DALLA ANATOMIA ALL’ETICA.

Adunque qui, con 12 figure intere, ti sarà mostro la Cosmografia del
minor mondo la struttura dell’uomo col medesimo ordine, che innanzi a
me fu fatto da Tolomeo nella sua _Cosmografia_. E così dividerò poi
quello in membra, come lui divise il tutto in provincie; e poi dirò
l’uffizio delle parti per ciascun verso, mettendoti dinanzi alli occhi
la notizia di tutta la figura e valitudine dell’omo, in quanto a moto
locale, mediante lo sue parti.

E così piacesse al Nostro Autore, che io potessi dimostrare la natura
delli omini e loro costumi, nel modo che io descrivo la sua figura.


IV. — CONSEGUENZE ETICHE CHE DISCENDONO DAGLI STUDI ANATOMICI.

E tu, o omo, che consideri in questa mia fatica l’opere mirabili della
natura, se giudicherai essere cosa nefanda il distruggerla, or pensa
essere cosa nefandissima il tôrre la vita all’omo; del quale, se questa
sua composizione ti pare di maraviglioso artifizio, pensa questa essere
nulla rispetto all’anima, che in tale architettura abita, e veramente,
quale essa si sia, ella è cosa divina: sicchè lasciala abitare nella
sua opera a suo beneplacito, o non volere che la tua ira o malignità
distrugga una tanta vita, chè veramente, chi non la stima, non la
merita.

Poichè così mal volentieri si parte dal corpo, e ben credo, che ’l suo
pianto e dolore non sia sanza cagione.


V. — IL METODO SPERIMENTALE E SUE CONSEGUENZE SULL’AGIRE UMANO.

Queste regole son cagione di farti conoscere il vero dal falso, la
qual cosa fa che li omini si promettano le cose possibili e con più
moderanza, e che tu non ti veli d’ignoranza, che farebbe, che, non
avendo effetto, tu t’abbi con disperazione a darti malinconia.


VI. — LIMITI IMPOSTI DA LEONARDO ALLA SCIENZA.

Come molti stiano con istrumento alquanto sotto l’acqua; come e perchè
io non scrivo il mio modo di star sotto l’acqua, quanto io posso star
sanza mangiare; e questo non pubblico o divolgo per le male nature
delli omini, li quali userebbono li assassinamenti ne’ fondi de’ mari,
col rompere i navili in fondo, e sommergerli, insieme colli omini,
che vi son dentro, e benchè io insegni delli altri, quelli non son di
pericolo, perchè di sopra all’acqua apparisce la bocca della canna,
onde alitano, posta sopra otri o sughero.


VII. — CONTRO LA NECROMANZIA.

Delli discorsi umani stoltissimo è da essere riputato quello, il qual
s’astende alla credulità della Negromanzia, sorella della Alchimia,
partoritrice delle cose semplici e naturali; ma è tanto più degna di
riprensione che l’Alchimia, quanto ella non partorisce alcuna cosa se
non simile a sè, cioè bugia.

Il che non interviene nella Alchimia, la quale è ministratrice de’
semplici prodotti della natura; il quale uffizio fatto esser non può
da essa natura, perchè in lei non sono strumenti organici, colli quali
essa possa operare quel che adopera l’uomo mediante le mani, che in
tale uffizio ha fatti i vetri ecc.

Ma essa Negromanzia, stendardo e vero bandiera volante mossa dal vento,
è guidatrice della stolta moltitudine, la quale al continuo testimonia,
collo abbaiamento, l’infiniti effetti di tale arte; e vanno empiuti
i libri, affermando che l’incanti e spiriti adoperino, e sanza lingua
parlino, e sanza strumenti organici, sanza i quali parlar non si può,
parlino, e portino gravissimi pesi, faccino tempestare e piovere, e che
li omini si convertino in gatti, lupi e altre bestie, benchè in bestia
prima entran quelli, che tal cosa affermano.

E certo se tale Negromanzia fusse in essere, come dalli bassi ingegni
è creduto, nessuna cosa è sopra la terra, che al danno e servizio
dell’omo fusse di tanta valetudine: perchè, se fusse vero che in tale
arte si avesse potenza di far turbare la tranquilla serenità dell’aria,
convertendo quella in notturno aspetto, e far le corruscazioni o venti,
con spaventevoli toni e folgori scorrenti infra le tenebre, e con
impetuosi venti ruinare li alti edifizi, e diradicare le selve, e con
quelle percuotere li eserciti, e quelli rompendo e atterrando, e oltr’a
questo le dannose tempeste privando li cultori del premio delle lor
fatiche: — o qual modo di guerra può essere, che con tanto danno possa
offendere il suo nemico di aver podestà di privarlo delle sue raccolte?
qual battaglia marittima può essere, che si assomigli a quella di
colui, che comanda alli venti, e fa le fortune rovinose e sommergitrici
di qualunque armata? Certo quel che comanda a tali impetuose potenze
sarà signore delli popoli, e nessuno umano ingegno potrà resistere
alle sue dannose forze. Li occulti tesori e gemme riposti nel corpo
della terra fieno a costui tutti manifesti. Questo si farà portare
per l’aria dall’oriente all’occidente e per tutti li oppositi aspetti
dell’universo....

Ma perchè mi voglio più oltre estendere? qual è quella cosa, che per
tale artifizio far non si possa? — quasi nessuna, eccetto il levarsi la
morte. — E s’ell’è vera, perchè non è restata infra li omini, che tanto
la desiderano, non avendo riguardo a nessuna deità?

E so che infiniti ce n’è, che, per soddisfare a un suo appetito,
ruinerebbero Iddio con tutto l’universo.

E, s’ella non è rimasta infra li omini, essendo a lui tanto necessaria,
essa non fu mai, nè mai è per dovere essere: per la deffinizion dello
spirito, il quale è invisibile in corpo; e dentro alli elementi non
sono cose incorporee, perchè dove non è corpo è vacuo, e ’l vacuo
non si dà dentro alli elementi, perchè subito sarebbe dall’elemento
riempiuto.


VIII. — DELLI SPIRITI.

Abbiamo insin qui dirieto a questa faccia detto, come la diffinizion
dello spirito è: — una potenza congiunta al corpo, perchè per sè
medesimo reggere non si può, nè pigliare alcuna sorte di moto locale.
— E se tu dirai che per sè si regga; questo essere non può, dentro
alli elementi, perchè, se lo spirito è quantità incorporea, questa tal
quantità è detta vacuo, e il vacuo non si dà in natura, e, dato che si
desse, sùbito sarebbe riempiuto dalla ruina di quell’elemento, nel qual
il vacuo si generasse.

Adunque, per la deffinizione del peso, che dice: — la gravità è
una potenza accidentale, creata d’alcuno elemento tirato o sospinto
nell’altro; — sèguita, che nessuno elemento non pesando nel medesimo
elemento, e’ pesa nell’elemento superiore, ch’è più lieve di lui, come
si vede: la parte dell’acqua non ha gravità o levità più che l’altra
acqua, ma se tu la tirerai nell’aria, allora ella acquisterà gravezza,
la qual gravezza per sè sostener non si può; onde li è necessario
la ruina, e così cade infra l’acqua in quel loco, ch’è vacuo d’essa
acqua. Tale accaderebbe nello spirito, stando infra li elementi, che al
continuo genererebbe vacuo in quel tale elemento, dove lui si trovasse,
per la qual cosa li sarebbe necessario la continua fuga inverso il
celo, insinchè uscito fusse di tali elementi.


IX. — SE LO SPIRITO TIENE CORPO INFRA LI ELEMENTI.

Abbiam provato, come lo spirito non può per sè stare infra li elementi,
sanza corpo, nè per sè si può movere, per moto volontario, se non è
allo in su. Ma al presente diremo, come, pigliando corpo d’aria tale
spirito, è necessario che s’infonda infra essa aria, perchè s’elli
stesse unito, e’ sarebbe separato, e caderebbe alla generazion del
vacuo, come di sopra è detto. Adunque è necessario che, a volere
restare infra l’aria, che esso s’infonda in una quantità d’aria, e,
se si mista [Sidenote: si mescola, si unisce] coll’aria, elli seguita
due inconvenienti, cioè, che elli levifica [Sidenote: rende leggera]
quella quantità dell’aria, dove esso si mista, per la qual cosa l’aria
levificata per sè vola in alto, e non resta infra l’aria più grossa
di lei; e oltre a questo tal virtù spirituale sparsa si disunisce, e
altera sua natura, per la qual cosa esso manca della prima virtù.

Aggiugnesi un terzo inconveniente, e questo è, che tal corpo d’aria,
preso dallo spirito, è sottoposto alla penetrazion dei venti, li quali
al continuo disuniscono e stracciano le parti unite dell’aria, quelle
rivolgendo e raggirando infra l’altra aria. Adunque lo spirito in tale
aria infuso, sarebbe smembrato, o vero sbranato e rotto, insieme collo
sbranamento dell’aria, nella qual s’infuse.


X. — SE LO SPIRITO, AVENDO PRESO CORPO D’ARIA, SI PUÒ PER SÈ MUOVERE O
NO.

Impossibile è che lo spirito, infuso a una quantità d’aria, possa
movere essa aria; e questo si manifesta per la passata, dove dice: — lo
spirito levifica quella quantità dell’aria, nella quale esso s’infonde.
— Adunque tale aria si leverà in alto sopra l’altra aria, e sarà moto
fatto dell’aria per la sua levità e non per moto volontario dello
spirito e, se tale aria si scontra nel vento, per la 3ª di questo, essa
aria sarà mossa dal vento e non dallo spirito, in lei infuso.


XI. — SE LO SPIRITO PUÒ PARLARE O NO.

Volendo mostrare, se lo spirito può parlare o no, è necessario in prima
definire che cosa è voce, e come si genera: e diremo in questo modo: —
_la voce è movimento d’aria confricata in corpo denso o ’l corpo denso
confricato nell’aria (che è il medesimo), la qual confricazione di
denso con raro condensa il raro, e fassi resistenza; e ancora il veloce
raro nel tardo raro si condensano l’uno e l’altro ne’ contatti, e fanno
suono e grandissimo strepito._ — È il suono, overo mormorio, fatto
dal raro che si muove nel raro, con mediocre movimento, come la gran
fiamma, generatrice di suoni infra l’aria; è il grandissimo strepito
fatto di raro con raro, quando il veloce raro penetra in mobile raro,
come la fiamma del foco uscita dalla bombarda e percossa infra l’aria,
e ancora la fiamma uscita dal nuvolo, (che) percuote l’aria nella
generazion delle saette.

Adunque diremo, che lo spirito non possa generar voce sanza movimento
d’aria, e aria in lui non è, nè la può cacciare da sè, se egli
non l’ha; e se vol movere quella, nella quale lui è infuso, egli è
necessario che lo spirito moltiplichi, e moltiplicar non può, se lui
non ha quantità, per la 4ª che dice: — nessuno raro si move, se non
ha loco stabile, donde lui pigli movimento, e massimamente avendosi
a movere lo elemento nello elemento, il quale non si move da sè, se
non per vaporazione [Sidenote: effusione] uniforme al centro della
cosa vaporata, come accade nella spugna ristretta nella mano, che sta
sotto l’acqua, dalla qual l’acqua fugge, per qualunque verso, con egual
movimento per le fessure interposte infra le dita della man, che dentro
a sè la strignie. —

Se lo spirito ha voce articulata, e se lo spirito può essere audito.

E che cosa è audire e vedere: l’onda della voce va per l’aria, come le
spezie delli obbietti vanno all’occhio.


XII. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

O matematici fate lume a tale errore!

Lo spirito non ha voce, perchè dov’è voce è corpo, e dove è corpo è
occupazion di loco, il quale impedisco all’occhio il vedere delle
cose poste dopo tale loco: adunque tal corpo empie di sè tutta
la circostante aria, cioè con le sua spezie [Sidenote: colle sue
immagini].


XIII. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

Non po’ essere voce, dove non è movimento o percussione d’aria, non po’
essere percussione d’essa aria, dove non è strumento, non po’ essere
strumento incorporeo. Essendo così, uno spirito non po’ avere nè voce,
nè forma, nè forza, e, se piglierà corpo, non potrà penetrare, nè
entrare, dove li usci sono serrati. E se alcuno dicessi: — per aria
congregata e ristretta insieme lo spirito piglia i corpi di varie
forme, e per quello strumento parla e move con forza; — a questa parte
dico, che, dove non è nervi e ossa, non po’ essere forza operata, in
nessuno movimento, fatto da gl’imaginati spiriti.


XIV. — STUDI SULLA FISONOMIA.

Della fallace Fisonomia e Chiromanzia non mi astenderò, perchè in loro
non è verità, e questo si manifesta, perchè tali chimere non hanno
fondamenti scientifici.

Ver è che li segni de’ volti mostrano in parte la natura degli uomini,
li lor vizi e complessioni [Sidenote: temperamenti], ma nel volto:

_a_) Li segni, che separano le guance da’ labbri della bocca, e le nari
del naso, e casse degli occhi, sono evidenti, se sono uomini allegri
e spesso ridenti; e quelli, che poco li segnano, sono uomini operatori
della cogitazione.

_b_) E quelli, ch’hanno le parti del viso di gran rilievo e profondità,
sono uomini bestiali e iracondi, con poca ragione.

_c_) E quelli, ch’hanno le linee interposte infra le ciglia forte
evidenti, sono iracondi.

_d_) E quelli, che hanno le linee trasversali della fronte forte
lineate, sono uomini copiosi di lamentazioni occulte o palesi. — E così
si po’ dire di molte parti. —

Ma della mano? Tu troverai grandissimi eserciti essere morti ’n una
medesima ora di coltello, che nessun segno della mano è simile l’uno
all’altro; e così in un naufragio.


XV. — CONTRO I RICERCATORI DEL MOTO PERPETUO.

L’acqua, che pel fiume si move, o ell’è chiamata, o ell’è cacciata, o
ella si move da sè; s’ella è chiamata, o vo’ dire addimandata, quale
è esso addimandatore? s’ella è cacciata, chi è quel che la caccia?
s’ella si move da sè, ella mostra d’avere discorso: il che nelli corpi
di continua mutazione di forma è impossibile avere discorso, perchè in
tali corpi non è giudizio [Sidenote: coscienza].


XVI. — SEGUE.

L’acqua da sè non ha fermezza, e da sè non si move, s’ella non discende.

L’acqua per sè non si ferma, s’ella non è contenuta.


XVII. — SUL MEDESIMO SOGGETTO.

O speculatori dello continuo moto quanti vani disegni, in simile cerca,
avete creato! accompagnatevi colli cercatori dell’oro.


XVIII. — AVVERTIMENTO.

Non si debbe desiderare lo impossibile.


XIX. — CONTRO LE SCIENZE OCCULTE.

Voglio far miracoli! Abbi men che li altri omini più quieti: e quelli,
che vogliono arricchirsi in un dì, vivon del lungo tempo in gran
povertà, come interviene e interverrà in eterno alli alchimisti,
cercatori di creare oro e argento, e all’ingegnieri, che vogliono che
l’acqua morta dia vita motiva a sè medesima con continuo moto, e al
sommo stolto negromante e incantatore.


XX. — CONTRO I MEDICI.

Omini son eletti per medici di malattie da loro non conosciute.


XXI. — ANCORA.

Ogni omo desidera far capitale per dare a’ medici, destruttori di vite.

Adunque devono esser ricchi.


XXII. — ANCORA.

E ingegnati di conservare la sanità, la qual cosa tanto più ti
riuscirà, quanto più da’ fisici [Sidenote: medici] ti guarderai, perchè
le sue composizioni son di specie d’Alchimia, della quale non è men
numero di libri, ch’esista di Medicina.


XXIII. — FUNZIONE DEL DOLORE NELLA VITA ANIMALE.

La natura ha posto, nel moto dell’omo, tutte quelle parti dinanzi, le
quali percotendo, l’orno abbia a sentire doglia; e questo si sente ne’
fusi delle gambe e nella fronte e naso: ed è fatto a conservazione
dell’omo, inperó che, se tale dolore non fussi preparato in essi
membri, certo le molte percussioni, in tali membra ricevute, sarebbero
causa della lor destruzione.


XXIV. — PERCHÈ LE PIANTE NON HANNO IL DOLORE.

Se la natura ha ordinato la doglia, nell’anime vegetative col moto
[Sidenote: gli animali], per conservazione delli strumenti, i quali
pel moto si potrebbono diminuire e guastare; l’anime vegetative sanza
moto [Sidenote: le piante] non hanno a percotere ne’ contra sè posti
obietti, onde la doglia non è necessaria nelle piante, onde rompendole
non sentono dolore, come quelle delli animali.


XXV. — FUNZIONE DELLE PASSIONI A CONSERVAZION DELLA VITA.

Lussuria è causa della generazione.

Gola è mantenimento della vita.

Paura over timore è prolungamento di vita.

Dolore è salvamento dello strumento.


XXVI. — ANIMOSITÀ E PAURA.

Sì come l’animosità è pericolo di vita, così la paura è sicurtà di
quella.


XXVII. — IL CORPO È SPECCHIO DELL’ANIMA.

Chi vole vedere come l’anima abita nel suo corpo, guardi come esso
corpo usa la sua cotidiana abitazione; cioè, se quella è sanza ordine e
confusa, disordinato e confuso fia il corpo tenuto dalla su’ anima.


XXVIII. — INDIPENDENZA DELL’ANIMA DALLA MATERIA CORPOREA.

L’anima mai si può corrompere nella corruzione del corpo, ma fa
a similitudine del vento, ch’è causa del sono dell’organo, che,
guastandosi una canna, non resultava per quella del vôto buono effetto.


XXIX. — LA MEMORIA.

Ogni danno lascia dispiacere nella ricordazione, salvo che ’l sommo
danno, cioè la morte, che uccide essa ricordazione insieme colla vita.


XXX. — LO SPIRITO È DOMINATORE.

Il corpo nostro è sottoposto al cielo, e lo cielo è sottoposto allo
spirito.


XXXI. — RAGIONE E SENSO.

I sensi sono terrestri, e la ragione sta fuori di quelli, quando
contempla.


XXXII. — SENTIMENTO E MARTIRIO.

Dov’è più sentimento, lì è più, ne’ martiri, gran martire.


XXXIII. — LA VIRTÙ È IL VERO BENE DELL’UOMO.

Non si dimanda ricchezza quella che si può perdere, la virtù è vero
nostro bene, ed è vero premio del suo possessore: lei non si può
perdere, lei non ci abbandona, se prima la vita non ci lascia; le robe
e le esterne dovizie sempre le tieni con timore, e ispesso lasciano con
iscorno e sbeffato il loro possessore, perdendo la possessione.


XXXIV. — LA BREVITÀ DEL TEMPO È UNA ILLUSIONE DELLA MENTE.

A torto si lamentan li omini della fuga del tempo, incolpando quello di
troppa velocità, non s’accorgendo quello esser di bastevole transito;
ma bona memoria, di che la natura ci ha dotati, ci fa che ogni cosa
lungamente passata ci pare esser presente.


XXXV. — ILLUSIONI DELLA MENTE E DEL SENSO.

Il giudizio nostro non giudica le cose, fatte in varie distanzie di
tempo, nelle debite e proprie lor distanzie, perchè molte cose passate
di molti anni parranno propinque e vicine al presente, e molte cose
vicine parranno antiche, insieme coll’antichità della nostra gioventù;
e così fa l’occhio infra le cose distanti, che, per essere alluminate
dal sole, paiano vicine all’occhio, e molte cose vicine paiano
distanti.


XXXVI. — IDEANDO UN OROLOGIO A PIOMBO.

Non ci manca modi, nè vie di compartire e misurare questi nostri miseri
giorni, i quali ci debba ancor piacere di non ispenderli e trapassargli
indarno e sanza alcuna loda, e sanza lasciare di sè alcuna memoria
nelle menti de’ mortali. Acciò che questo nostro misero corso non
trapassi indarno.


XXXVII. — LA VITA VIRTUOSA.

L’età, che vola, discorre [Sidenote: scorre] nascostamente, e inganna
altrui; e niuna cosa è più veloce che gli anni, e chi semina virtù fama
raccoglie.


XXXVIII. — EPIGRAMMA.

O dormiente, che cosa è sonno? Il sonno ha similitudine colla morte;
o perchè non fai adunque tale opra, che, dopo la morte, tu abbi
similitudine di perfetto vivo, che, vivendo, farti, col sonno, simile
ai tristi morti?


XXXIX. — L’ATTIMO È FUGGEVOLE.

L’acqua, che tocchi de’ fiumi, è l’ultima di quella che andò e la prima
di quella che viene: così il tempo presente.


XL. — NOBILTÀ DEL LAVORO.

La vita bene spesa lunga è.


XLI. — LA VITA LABORIOSA.

Sì come una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene
usata dà lieto morire.


XLII. — IL TEMPO DISTRUGGITORE.

O tempo, consumatore delle cose, e o invidiosa antichità, tu
distruggi tutte le cose! e consumate tutte le cose dai duri denti
della vecchiezza, a poco a poco, con lenta morte! Elena, quando
si specchiava, vedendo le vizze grinze del suo viso, fatte per la
vecchiezza, piagne e pensa seco, perchè fu rapita due volte.

O tempo consumatore delle cose, e o invidiosa antichità, per la quale
tutte le (cose) sono consumate!


XLIII. — DI QUELLI CHE BIASIMANO CHI DISEGNA ALLE FESTE E CHI ’NVESTIGA
L’OPERE DI DIO.

Sono infra ’l numero delli stolti una certa setta detti ipocriti,
ch’al continuo studiano d’ingannare sè e altri, ma più altri, che
sè: ma invero ingannano più loro stessi, che gli altri. E questi
son quelli, che riprendono li pittori, li quali studiano li giorni
delle feste, nelle cose appartenenti alla vera cognizione di tutte le
figure, ch’hanno le opere di Natura, e, con sollecitudine, s’ingegnano
d’acquistare la cognizione di quelle, quanto a loro sia possibile.

Ma tacciano tali reprensori, chè questo è ’l modo di conoscere
l’Operatore di tante mirabili cose, e quest’è ’l modo d’amare un tanto
Inventore! Che ’nvero il grande amore nasce dalla gran cognizione della
cosa, che si ama: e se tu non la conoscerai, poco o nulla la potrai
amare; e se tu l’ami per il bene, che t’aspetti da lei, e non per la
somma sua virtù, tu fai come ’l cane, che mena la coda, e fa festa,
alzandosi verso colui, che li po’ dare un osso. Ma se conoscesse la
virtù di tale omo, l’amarebbe assai più — se tal virtù fussi al suo
proposito.


XLIV. — PREGHIERA.

Io t’ubbidisco, Signore, prima per l’amore, che ragionevolmente portare
ti debbo, secondariamente, chè tu sai abbreviare o prolungare la vita
alli omini.


XLV. — ORAZIONE.

Tu, o Iddio, ci vendi tutti li beni per prezzo di fatica.


XLVI. — CONTRO I CATTIVI RELIGIOSI.

E molti fecen bottega, ingannando la stolta moltitudine, e, se nessun
si scoprìa conoscitore de’ loro inganni, essi gli puniano.


XLVII. — ANCORA.

Farisei frati santi vol dire.


XLVIII. — TUTTO È STATO DETTO.[141]

Nulla può essere scritto per nuovo ricercare.


XLIX. — COMPARAZIONE DELLA PAZIENZA.

La pazienza fa contra alle ingiurie non altrimenti che si faccino i
panni contra del freddo; imperò che, se ti multiplicherai di panni
secondo la multiplicazione del freddo, esso freddo nocere non ti potrà;
similmente alle grandi ingiurie cresci la pazienza, esse ingiurie
offendere non ti potranno la tua mente.


L. — CONSIGLI AL PARLATORE.

Sempre le parole, che non soddisfano all’orecchio dello auditore, li
danno tedio over rincrescimento: e ’l segno di ciò vedrai, spesse volte
tali auditori essere copiosi di sbadigli. Adunque tu, che parli dinanzi
a omini, di chi tu cerchi benivolenza, quando tu vedi tali prodigi
di rincrescimento, abbrevia il tuo parlare o tu muta ragionamento;
e se altramente farai, allora, in loco della desiderata grazia, tu
acquisterai odio e inimicizia.

E se vuoi vedere di quel che un si diletta, sanza udirlo parlare,
parla a lui mutando diversi ragionamenti, e quel dove tu lo vedi stare
intento, sanza sbadigliamenti o storcimenti di ciglia o altre varie
azioni, sta certo che quella cosa, di che si parla, è quella, di che
lui si diletta.


LI. — CONSIGLIO, MISERIA E GIUDIZIO.

Ecci una cosa, che, quanto più se n’ha bisogno, più si rifiuta; e
questo è il consiglio, mal volontieri ascoltato, da chi ha più bisogno,
cioè dagl’ignoranti.

Ecci una cosa, che, quanto più n’hai paura e più la fuggi, più te
l’avvicini; e questo è la miseria, che quanto più la fuggi, più ti
farai misero e sanza riposo.

Quando l’opera sia pari col giudizio, quello è tristo segno, in quel
giudizio; e quando l’opera supera il giudizio, questo è pessimo,
com’accade a chi si maraviglia d’avere sì ben operato; e quando il
giudizio supera l’opera, questo è perfetto segno; e se gli è giovane,
in tal disposizione, sanza dubbio questo fia eccellente operatore, ma
fia componitore di poche opere. Ma fieno di qualità, che fermeranno gli
uomini con admirazione, a contemplar le sue perfezioni.


LII. — SENTENZE, PROVERBI E SIMBOLI.

Nessuna cosa è da temere più che la sozza fama.

Questa sozza fama è nata da’ vizi.

Comparazione. Un vaso rotto crudo, rotto, si può riformare, ma il cotto
no.

Il vôto nasce, quando la speranza more.

Non è sempre bono quel ch’è bello.... E in questo errore sono i belli
parlatori, sanza alcuna sentenza.

Chi vuole essere ricco in un dì, è impiccato in un anno.

La memoria de’ beni fatti, appresso l’ingratitudine, è fragile.

Reprendi l’amico in segreto, e laudalo in palese.

Chi teme i pericoli, non perisce per quegli.

Tale è ’l mal, che non mi noce, quale è ’l ben, che non mi giova.

Chi altri offende, sé non sicura.

Non essere bugiardo del preterito.

La stoltizia è scudo della menzogna, come la improntitudine della
povertà.

Dov’è libertà, non è regola.

Ecci una cosa quanto più so n’ha di bisogno manco si stima, è il
consiglio.

Mal fai se laudi e peggio se riprendi la cosa, quando ben tu non la
intendi.

Ti ghiacciano le parole in bocca, e faresti gelatina in Mongibello.

Le minaccie solo sono arme dello imminacciato.

Dimanda consiglio a chi ben si corregge.

Giustizia vol potenza, intelligenza e volontà, e si assomiglia al re
delle ave.

Chi non punisce il male, comanda che si facci.

Chi piglia la biscia per la coda, quella poi lo morde.

Chi cava la fossa, quella gli ruina addosso.

Chi non raffrena la voluttà, con le bestie s’accompagni.

Non si po’ avere maggior nè minore signoria, che quella di sè medesimo.

Chi poco pensa, molto erra.

Più facilmente si contesta al principio, che al fine.

Nessuno consiglio è più leale, che quello che si dà dalle navi, che
sono in pericolo.

Aspetti danno quel, che si regge per giovane in consiglio.

Tu cresci in reputazione, come il pane in mano a’ putti.

Non po’ essere bellezza e utilità? come appare nelle fortezze e nelli
omini.

Chi non teme, spesso è pien di danni spesso si pente.

Se tu avessi il corpo secondo la virtù, tu non caperesti [Sidenote: non
saresti contenuto, non vivresti] in questo mondo.

Dov’entra la ventura, la ’nvidia vi pone lo assedio, e la combatte; e
dond’ella si parte, vi lascia il dolore e pentimento.

Le bellezze con le bruttezze paiono più potenti l’una per l’altra.

Raro cade chi ben cammina.

Oh miseria umana, di quante cose per danari ti fai servo!

Sommo danno è, quando l’opinione avanza l’opera.

Tanto è a dire ben d’un tristo, quanto a dire male d’un bono.

La verità fa qui, che la bugia affligga le lingue bugiarde.

Chi non stima la vita, non la merita.

Cosa bella mortal passa e non dura.

Fatica fugge, colla fama in braccio, quasi occultata.

L’oro in verghe, s’affinisce nel foco.

Spola: tanto mi moverò che la tela fia finita.

Ogni torto si dirizza.

Di lieve cosa nasciesi gran ruina.

Al cimento si conosce il fine oro.

Tal fia il getto, qual fia la stampa.

Chi scalza il muro, quello gli cade addosso.

Chi taglia la pianta, quella si vendica colla sua ruina.

L’edera è di lunga vita.

Al traditore la morte è vita, perchè, se usa gli altri, non gli è
creduto.

Quando fortuna viene, prendil’a man salva, dinanzi dico, perchè dirieto
è calva.

Constanzia: non chi comincia, ma quel che persevera.

Impedimento non mi piega.

Ogni impedimento è distrutto dal rigore.

Non si volta chi a stella è fisso.


LIII. — LA VERITÀ.

Il foco distrugge la bugia, cioè il sofistico, e rendo la verità,
scacciando le tenebre.

Il foco è da essere messo per consumatore d’ogni sofistico e scopritore
e dimostratore di verità, perchè lui è luce, scacciatore delle tenebre,
occultatrici d’ogni essenzia.

Il foco distrugge ogni sofistico, cioè lo inganno, e sol mantiene la
verità, cioè l’oro.

La verità al fine non si cela: non val simulazione.

Simulazione è frustrata, avanti a tanto giudice.

La bugìa mette maschera.

Nulla occulta sotto il sole.

Il foco è messo per la verità, perchè distrugge ogni sofistico e bugìa,
e la maschera per la falsità e bugìa, occultatrici del vero.


LIV. — IL BEN FARE.

Prima privato di moto che stanco di giovare, mancherà prima il moto che
’l giovamento.

Prima morte che stanchezza. Non mi sazio di servire. Non mi stanco nel
giovare.

Tutte le opere non son per istancarmi.

È motto da carnovale. _Sine lassitudine_.

Mani, nelle quali fioccan ducati e pietre preziose, queste mai si
stancano di servire, ma tal servizio è sol per sua utilità e non è al
nostro proposito. Natura così mi dispone, naturalmente.


LV. — LA INGRATITUDINE.

Sia fatto in mano alla ingratitudine.

Il legno notrica il foco che lo consuma.

Quando apparisce il sole che scaccia le tenebre in comune, tu spegni il
lume, che te le scacciava in particolare, a tua necessità e commodità.


LVI. — LA INVIDIA.

La ’nvidia offende colla fitta infamia cioè col detrarre, la qual cosa
spaventa la virtù.

Questa Invidia si figura colle fiche verso il cielo, perchè, se
potesse, userebbe le sue forze contro a Dio. Fassi colla maschera in
volto di bella dimostrazione. Fassi ch’ella è ferita nella vista da
palma e olivo, fassi ferito l’orecchio di lauro e mirto, a significare
che vittoria e verità l’offendono. Fassile uscire molte folgori a
significare il suo mal dire. Fassi magra e secca, perchè è sempre in
continuo struggimento, fassile il core roso da un serpente enfiante.
Fassile un turcasso, e le freccie lingue, perchè spesso con quella
offende. Fassile una pelle di liopardo, perchè quello per invidia
ammazza il leone, con inganno. Fassile un vaso in mano pien di
fiori, e sia quello pien di scorpioni e rospi e altri veneni. Fassile
cavalcare la Morte, perchè la Invidia, non morendo, mai languisce: a
signoreggiare; fassile la briglia carica di diverse armi, perchè tutti
strumenti della morte.

Subito che nasce la virtù quella partorisce contra sè la Invidia, e
prima fia il corpo sanza l’ombra, che la virtù sanza la Invidia.


LVII. — LA FAMA.

La Fama sola si leva al cielo, perchè le cose virtudiose sono amiche
a Dio; la Infamia sotto sopra figurare si debbe, perchè tutte sue
operazioni son contrarie a Dio, e inverso l’inferi si dirizzano.

Alla Fama si de’ dipignere tutta la persona piena di lingue, in
iscambio di penne, e ’n forma d’uccello.


LVIII. — PIACERE E DOLORE.

Questo si è il Piacere insieme col Dispiacere e figuransi binati
[Sidenote: nati sul medesimo tronco], perchè mai l’uno è spiccato
dall’altro; fannosi colle schiene voltate, perchè son contrarî l’uno
all’altro; fannosi fondati sopra un medesimo corpo, perchè hanno un
medesimo fondamento: imperocchè il fondamento del Piacere si è la
fatica col Dispiacere, il fondamento del Dispiacere si sono i varî e
lascivi piaceri. E però qui si figura colla canna nella man destra,
ch’è vana e sanza forza, e le punture fatte con quella son venenose.
Mettonsi (le canne) in Toscana al sostegno de’ letti, a significare
che quivi si fanno i vani sogni, e quivi si consuma gran parte della
vita, quivi si gitta di molto utile tempo, cioè quel della mattina,
chè la mente è sobria e riposata, e così il corpo atto a ripigliare
nove fatiche; ancora lì si pigliano molti vani piaceri e colla mente,
imaginando cose impossibili a sè, e col corpo, pigliando que’ piaceri,
che spesso son cagione di mancamento di vita; sicchè per questo si
tiene la canna per tali fondamenti.


LIX. — INFERIORITÀ FISIOLOGICA DELL’UOMO.

Ho trovato nella composizione del corpo umano, che, come in tutte le
composizioni delli animali, esso è di più ottusi e grossi sentimenti:
così è composto di strumento manco ingegnoso e di lochi manco capaci a
ricevere la virtù de’ sensi.

Ho veduto nella spezie leonina il senso dell’odorato avere parte della
sustanzia del celabro, e discendere le narici, capace riccettaculo
contro al senso dello odorato, il quale entra infra gran numero di
saccoli cartilaginosi, con assai vie, contro all’avvenimento del
predetto celabro. Li occhi della spezie leonina hanno gran parte
della lor testa per lor riccettacolo, e li nervi ottici immediate
congiugnersi col celabro; il che alli omini si vede in contrario,
perchè le casse delli occhi sono una piccola parte del capo, e li nervi
ottici sono sottili e lunghi e deboli, e, per debole operazione, si
vede poco il dì e peggio la notte, e li predetti animali vedono (più)
in nella notte che ’l giorno; e ’l segno se ne vede, perchè predano di
notte e dormono il giorno, come fanno ancora li uccelli notturni.


LX. — SUA INFERIORITÀ ETICA.[142]

Come tu hai descritto il Re delli animali — ma io meglio direi dicendo
Re delle bestie, essendo tu la maggiore, — perchè non li hai uccisi,
acciò che possino poi darti li lor figlioli in benefizio della tua
gola, colla quale tu hai tentato farti sepoltura di tutti li animali?

E più oltre direi se ’l dire il vero mi fusse integramente lecito. Ma
non usciamo delle cose umane, dicendo una somma scellerataggine, la
qual non accade nelli animali terrestri: imperocchè in quelli non si
trovano animali, che mangino della loro specie, se non per mancamento
di celabro [Sidenote: di cervello, di senno], (in poche infra loro e
de’ madri, come infra li omini, benchè non sieno in tanto numero),
e questo non accade se non nelli animali rapaci, come nella spezie
leonina, e pardi, pantere, cervieri, gatti e simili, li quali alcuna
volta si mangiano i figlioli....

Ma tu, oltre alli figlioli, ti mangi il padre, madre, fratello e
amici e non ti basta questi, che tu vai a caccia per le altrui isole,
pigliando li altri omini e questi, mezzo nudi li testiculi, fai
ingrassare e te li cacci giù per la gola. Or non produce la natura
tanti semplici [Sidenote: vegetali], che tu ti possa saziare? e, se
non ti contenti de’ semplici, non puoi tu con le mistion di quelli fare
infiniti composti, come scrisse il Platina e li altri autori di gola?


LXI. — CLASSIFICAZIONE DI LEONARDO.

UOMO — la descrizione dell’omo, nella qual si contengono quelli, che
son quasi di simile spezie, come babbuino, scimmia e simili, che son
molti.


LXII. — L’UOMO COME ANIMALE.

Dello andare dell’omo. L’andare dell’omo è sempre a uso dell’universale
andare delli animali di quattro piedi, imperocchè siccome essi movono i
loro piedi in croce a uso del trotto del cavallo, così l’omo in croce
si move le sue quattro membra, cioè se caccia innanzi il piè destro,
per camminare, egli caccia innanzi con quello il braccio sinistro, e
sempre così sèguita.


LXIII. — DAGLI ANIMALI ALL’UOMO VI È UN LENTO TRAPASSO.

Fa uno particulare trattato nella descrizione de’ movimenti delli
animali di quattro piedi, infra li quali è l’omo, che ancora lui nella
infanzia va con quattro piedi.


LXIV. — L’EVOLUZIONE DELLA MODA.

Alli miei giorni mi ricordo aver visto, nella mia puerizia, li omini
e piccoli e grandi avere tutti li stremi de’ vestimenti frappati in
tutte le parti sì da capo, come da piè e da lato; e ancora parve tanto
bella invenzione, a quell’età, che frappavano ancora le dette frappe, e
portavano li cappucci in simile modo e le scarpe e le creste frappate,
che uscivano dalle principali cuciture delli vestimenti, di varî
colori.

Di poi vidi le scarpe, berrette, scarselle, armi, — che si portano per
offendere, — i collari de’ vestimenti, li stremi de’ giubboni da piedi,
le code de’ vestimenti, e in effetto infino alle bocche, di chi volean
parer belli, erano appuntate di lunghe e acute punte.

Nell’altra età cominciorno a crescere le maniche e eran talmente
grandi, che ciascuna per se era maggiore della veste; poi cominciorno
a alzare li vestimenti intorno al collo tanto, ch’alla fine copersono
tutto il capo; poi cominciorno a spogliarlo in modo, che i panni non
potevano essere sostenuti dalle spalle, perchè non vi si posavan sopra.

Poi cominciorno a slungare sì li vestimenti, che al continuo gli uomini
avevano le braccia cariche di panni, per non li pestare co’ piedi; poi
vennero in tanta stremità, che vestivano solamente fino a’ fianchi e
alle gomita, e erano sì stretti, che da quelli pativano gran supplicio
e molti ne crepavano di sotto; e li piedi sì stretti, che le dita
d’essi si soprapponevano l’uno all’altro, e caricavansi di calli.


LXV. — UN DISCEPOLO DI LEONARDO: GIACOMO.[143]

A dì 23 d’aprile 1490 cominciai questo libro, e ricominciai il cavallo.

Jacomo venne a stare con meco il dì della Maddalena nel 1490, d’età
d’anni 10.

  ladro,
  bugiardo,
  ostinato,
  ghiotto.

Il secondo dì li feci tagliare due camice, uno paro di calze e un
giubbone, e, quando mi posi i dinari a lato per pagare dette cose,
lui mi rubò detti dinari della scarsella, e mai fu possibile farlielo
confessare, ben ch’io n’avessi vera certezza. — Lire 4.

Il dì seguente andai a cena con Jacomo Andrea, e detto Jacomo cenò per
due e fece male per quattro, imperocchè ruppe tre ampolle, versò il
vino e, dopo questo, venne a cena dove me.

Item, a dì 7 di settembre rubò uno graffio di valuta di 12 soldi
a Marco, che stava co’ meco, il quale era d’argento, e tolseglielo
dal suo studiolo e, poi che detto Marco n’ebbi assai cerco, lo trovò
nascosto in nella cassa di detto Jacomo — Lire 1 s. di L. [Sidenote:
soldi di Lira] 2.

Item, a dì 26 di gennaro seguente, essendo io in casa di Messer
Galeazzo da Sanseverino a ’rdinare la festa della sua giostra, e
spogliandosi certi staffieri, per provarsi alcune veste d’omini
salvatichi [Sidenote: rustici, del contado], ch’a detta festa
accadeano, Jacomo s’accostò alla scarsella d’uno di loro, la qual era
in sul letto con altri panni, e tolse quelli dinari, che dentro vi
trovò. — Lire 2 s. di L. 4.

Item, essendomi da maestro Agostino da Pavia, donato in detta casa una
pelle turchesca da fare uno paro di stivaletti, esso Jacomo, infra uno
mese, me la rubò e vendella a un acconciatore di scarpe per 20 soldi
de’ qua’ dinari, secondo che lui propio mi confessò, ne comprò anici,
confetti. Lire 2.

Item, ancora a dì 2 d’aprile, lasciando Gian Antonio uno graffio
d’argento sopra uno suo disegno, esso Jacomo glielo rubò, il quale era
di valuta di soldi 24. Lire 1 s. di L. 4.

Il primo anno un mantello: Lire 2; camice 6: Lire 4; 3 giubboni: Lire
6; 4 para di calze: Lire 7 s. di L. 8; vestito foderato: L. 5; 24 para
di scarpe: L. 6 s. d. L. 5; una berretta L. 1; in cinti, stringhe....
L. 1.


LXVI. — LEONARDO ANALIZZATORE DELL’UOMO.

Tutti i mali, che sono e che furono, essendo messi in opera da costui,
non saddisfarebbono al desiderio del suo iniquo animo. I’ non potrei,
con lunghezza di tempo, descrivervi la natura di costui.


LXVII. — FRAMMENTO DI LETTERA A GIULIANO DE’ MEDICI.[144]

Tanto mi son rallegrato, Illustrissimo mio Signore, del desiderato
acquisto di vostra sanità, che quasi il male mio da me s’è fuggito.
Ma assai mi rincresce il non avere io potuto satisfare alli desidèri
di Vostra Eccellenza, mediante la malignità di cotesto ingannatore
tedesco; per il quale non ho lasciato indirieto cosa alcuna, colla
quale io abbia creduto fargli piacere. E secondariamente invitarlo
ad abitare e vivere con meco, per la qual cosa io vedrei al continuo
l’opera, che lui facesse e con facilità ricorreggerei li errori, e
oltre di questo imparerebbe la lingua italiana, mediante la quale lui
con facilità potrebbe parlare sanza interprete; e li sua dinari li
furon sempre dati innanzi al tempo. Di poi, la richiesta di costui
fu di avere li modelli finiti di legname, com’ellino aveano a essere
di ferro, e’ quali volea portare nel suo paese. La qual cosa io li
negai dicendoli, ch’io li darei in disegno la larghezza, lunghezza e
grossezza e figura di ciò, ch’elli avesse a fare; e così restammo mal
volontieri.

La seconda cosa fu, che si fece un’altra bottega, e morse e strumenti,
dove dormiva e quivi lavorava per altri; dipoi andava a desinare co’
Svizzeri della guardia, dove sta gente sfaccendata, della qual cosa
lui tutti li vinceva. E ’l più delle volte se n’andavano due o tre di
loro, colli scoppietti, ammazzavano uccelli per le anticaglie, e questo
durava insino a sera.

E, se io mandavo Lorenzo a sollecitarli lavoro, lui si crucciava e
diceva, che non volea tanti maestri sopra capo, e che il lavorar suo
era per la guardaroba di Vostra Eccellenza. E passò due mesi, e così
seguitava, e indi trovando Gian Niccolò della guardaroba, domandailo
se ’l Tedesco avea finito l’opere del Magnifico, e lui mi disse non
esser vero, ma che solamente li avea dato a nettar dua scoppietti. Di
poi, facendolo io sollecitare, lui lasciò la bottega, e perdè assai
tempo nel fare un’altra morsa e lime e altri strumenti a vite, e quivi
lavorava mulinelli da torcere seta, li quali nascondeva, quando un de’
mia v’entrava, e con mille bestemmie e rimbrotti: in modo che nessun
de’ mia voleva più entrare.

Al fine ho trovato, come questo maestro Giovanni delli Specchi è
quello, che ha fatto il tutto per due cagioni: e la prima, perchè lui
ha avuto a dire, che la venuta mia qui li ha tolto la conversazione
di Vostra Signoria.... L’altra è che la stanza di quest’omini....
disse convenirsi a lui per lavorare li specchi, e di questo n’ha fatto
dimostrazione, chè, oltre al farmi costui nimico, li ha fatto vendere
ogni suo e lasciare a lui la sua bottega, nella quale lavora con molti
lavoranti assai specchi per mandare alle fiere.


LXVIII. — I MISERI STUDIOSI CON CHE SPERANZA E’ POSSONO ASPETTARE
PREMIO DI LOR VIRTÙ?

E in questo caso io so, che io ne acquisterò non pochi nemici, conciò
sia che nessun crederà, ch’io possa dire di lui; perchè pochi son
quelli a chi i sua vizi dispiacciano, anzi solamente a quegli uomini li
dispiacciono, che son di natura contrarî a tali vizi; e molti odiano
li padri, e guastan le amicizie de’ reprensori de’ sua vizi, e non
vogliono esempli contrari a essi, nè nessuno uman consiglio.

E, se alcuno se ne trova virtuoso e bono, non lo scacciate da voi,
fategli onore, acciò che non abbia a fuggirsi da voi e ridursi nelli
eremi o spelonche o altri lochi soletari, per fuggirsi dalle vostre
insidie; e, se alcun di questi tali si trova, fateli onore, perchè
questi sono li vostri Iddii terrestri, questi meritan da voi le statue
e li simulacri....

Ma ben vi ricordo, che li lor simulacri non sien da voi mangiati, come
ancora in alcuna regione dell’India[145], chè quando li simulacri
operano alcuno miraculo, secondo loro, li sacerdoti li tagliano in
pezzi (essendo di legno) e ne danno a tutti quelli del paese — non
sanza premio. — E ciascun raspa sottilmente la sua parte, e mette sopra
la prima vivanda che mangiano, e così tengono per fede aversi mangiato
il suo Santo, e credono che lui li guardi poi da tutti li pericoli.

Che ti pare omo qui della tua specie? sei tu così savio come tu ti
tieni? son queste cose da esser fatte da omini?


LXIX. — DIALOGO FRA IL CERVELLO E LO SPIRITO, CHE IN ESSO ABITAVA.

Il quale spirito ritrova il cerebro, donde partito s’era; con alta
voce, con tali parole mosse:

— O felice, o avventurato spirito, donde partisti! io ho questo uomo,
a male mio grado, ben conosciuto. Questo è riccetto di villania, questo
è proprio ammunizione [Sidenote: cumulo, somma] di somma ingratitudine,
in compagnia di tutti i vizi.

Ma che vo io con parole indarno affaticandomi? La somma de’ peccati
solo in lui trovati sono. E, se alcuno infra loro si trova, che
alcuna bontà possegga, non altrimenti, come che me, dalli altri uomini
trattati sono; e in effetto io ho questa conclusione, ch’è male s’elli
sono nimici, e peggio s’elli son amici.


LXX. — FRAMMENTO DI LETTERA.

Io ho uno, che, per aversi di me promesso cose assai men che debite,
essendo rimasto ingannato del suo prosuntuoso desiderio, ha tentato
di tormi tutti li amici; e perchè li ha trovati savi e non leggeri al
suo volere, mi ha minacciato, che trovate le annunziazioni [Sidenote:
accuse], che mi torrà i benefattori; onde io ho di questo informato
Vostra Signoria, acciò che, volendo questi seminare li usati scandali,
non trovi terreno atto a seminare i pensieri e li atti della sua mala
natura. — Che, tentando lui fare di Vostra Signoria strumento della sua
iniqua e malvagia natura, rimanga ingannato di suo desiderio.



PENSIERI SULL’ARTE.



DIFESA DELLA PITTURA CONTRO LE ARTI LIBERALI.


I. — PROEMIO.

Con debita lamentazione si dole la Pittura per essere lei scacciata dal
numero delle arti liberali, conciossiachè essa sia vera figliola della
natura e operata da più degno senso [Sidenote: l’occhio].

Ond’è a torto, o scrittori, l’avete lasciata fuori del numero di dette
arti liberali, conciossiachè questa, non che alle opere di natura, ma
ad infinite attende, che la natura mai le creò.


II. — PERCHÈ LA PITTURA NON È CONNUMERATA NELLE SCIENZE?

Perchè gli scrittori non hanno avuto notizia della scienza della
Pittura, non hanno possuto descriverne i gradi e parti di quella, e lei
medesima non si dimostra col suo fine [Sidenote: l’opera artistica]
nelle parole, essa è restata, mediante l’ignoranza, indietro alle
predette scienze non mancando per questo di sua divinità.

E veramente non sanza cagione non l’hanno nobilitata, perchè per sè
medesima si nobilita, sanza l’aiuto delle altrui lingue, non altrementi
che si facciano l’eccellenti opere di natura. E se i pittori non hanno
di lei descritto e ridottala in scienza, non è colpa della Pittura,
e ella non è per questo meno nobile, poscia che pochi pittori fanno
professione di lettere, perchè la lor vita non basta a intendere
quella.

Per questo, avremo noi a dire, che le virtù dell’erbe, pietre, piante
non sieno in essere, perchè li omini non le abbiano conosciute? — Certo
no; ma diremo esse erbe restarsi in sè nobili, sanza lo aiuto delle
lingue o lettere umane.


III. — LA PITTURA È SCIENZA UNIVERSALE.

Quella scienza è più utile, della quale il suo frutto è più
comunicabile [Sidenote: universalmente inteso], e così, per contrario,
è meno utile ch’è meno comunicabile.

La Pittura ha il suo fine comunicabile a tutte le generazioni
dell’universo, perchè il suo fine è subbietto della virtù visiva, e non
passa per l’orecchio al senso comune, col medesimo modo che vi passa
per il vedere.

Dunque questa non ha bisogno d’interpreti di diverse lingue, come hanno
le lettere, e sùbito ha saddisfatto all’umana spezie, non altrementi
che si facciano le cose prodotte dalla natura. E non che alla spezie
umana, ma agli altri animali: come si è manifestato in una pittura,
imitata da uno padre di famiglia, alla quale facean carezze li piccioli
figliuoli, che ancora erano nelle fasce, e similmente il cane e gatta
della medesima casa, ch’era cosa meravigliosa a considerare tale
spettacolo.


IV. — LA PITTURA NON SI PUÒ DIVULGARE.

Le scienze, che sono imitabili, sono in tal modo, che con quelle il
discepolo si fa eguale all’autore, e similmente fa il suo frutto.
Queste sono utili allo imitatore, ma non sono di tanta eccellenza,
quanto sono quelle, che non si possono lasciare per eredità, come
l’altre sustanze.

Infra le quali la Pittura è la prima. Questa non s’insegna a chi natura
no ’l concede, come fan le Matematiche, delle quali tanto ne piglia il
discepolo, quanto il maestro gli ne legge; questa non si copia, come
si fa le lettere, che tanto vale la copia, quanto l’origine; questa
non s’impronta, come si fa la Scultura, della quale tal è l’impressa,
qual è l’origine, in quanto alla virtù dell’opera; questa non fa
infiniti figliuoli, come fa li libri stampati. Questa sola si resta
nobile, questa sola onora il suo autore, o resta preziosa ed unica, e
non partorisce mai figlioli eguali a sè. E tal singolarità la fa più
eccellente che quelle, che per tutto sono pubblicate.

Or non vediamo noi li grandissimi re dell’Oriente andare velati e
coperti, credendo diminuire la fama loro col pubblicare e divulgare
le loro presenze? or non si vede le pitture, rappresentatrici delle
divine Deità, esser al continuo tenute coperte con copriture di
grandissimi prezzi? e quando si scoprano, prima si fa grandi solennità
ecclesiastiche di varî canti con diversi suoni; e, nello scoprire,
la gran moltitudine de’ popoli, che quivi concorrono, immediate si
gettano a terra, quelle adorando e pregando, per cui tale pittura è
figurata, dell’acquisto della perduta sanità e della eterna salute, non
altrementi, che se tale Idea fusse lì presente in vita?

Questo non accade in nessun’altra scienza od altra umana opera. E se
tu dirai, questa non esser virtù del pittore, ma propria virtù della
cosa imitata; si risponderà, che in questo caso la mente de li omini
po’ saddisfare, standosi nel letto, e non andare ne’ lochi faticosi e
pericolosi, ne’ pellegrinaggi, come al continuo far si vede.

Ma, se pure tal pellegrinaggi al continuo sono in essere, chi li move,
sanza necessità? Certo tu confesserai essere tale simulacro, il quale
far non po’ tutte le scritture, che figurar potessino in effigie ed in
virtù tal Idea. Dunque pare, ch’essa Idea ami tal pittura, ed ami chi
l’ama e riverisce, e si diletti d’essere adorata più in quella, che
in altra figura di lei imitata, e per quella faccia grazia e doni di
salute, — secondo il credere di quelli, che in tal loco concorrono.


V. — COME LA PITTURA AVANZA TUTTE L’OPERE UMANE PER SOTTILE
SPECULAZIONE APPARTENENTE A QUELLA.

L’occhio, che si dice finestra dell’anima, è la principale via, donde
il comune senso può più copiosamente e magnificamente considerare le
infinite opere di natura; e l’orecchio è il secondo, il quale si fa
nobile per le cose racconte, le quali ha veduto l’occhio.

Se voi, storiografi o poeti o altri matematici, non avessi coll’occhio
viste le cose, male le potreste riferire per le scritture; e se tu,
poeta, figurerai una storia colla pittura della penna, e ’l pittore
col pennello la farà di più facile saddisfazione, e men tediosa a
essere compresa. Se tu dimanderai la pittura muta poesia, ancora il
pittore potrà dire del poeta orba pittura. Or guarda: — quale è più
dannoso morso [Sidenote: danno] o cieco o muto? — Se ’l poeta è libero,
come ’l pittore, nelle invenzioni, le sue finzioni non sono di tanta
saddisfazione a li omini, quanto le pitture, perchè, se la Poesia
s’astende con le parole a figurare forme, atti e siti, il pittore
si move, colle proprie similitudine de le forme, a contraffare esse
forme. Or guarda: — qual’è più propinquo all’omo, ’l nome d’omo o la
similitudine [Sidenote: la figura] d’esso omo? — Il nome dell’omo si
varia in varî paesi, e la forma non è mutata se non da morte.

Se voi dicessi: — la Poesia è più eterna —; per questo io dirò essere
più eterne l’opere d’un calderaio, che il tempo più le conserva che le
vostre o nostre opere, nientedimeno è di poca fantasia, e la Pittura si
po’, dipignendo sopra rame con colori di vetro, fare molto più eterna.

Noi per arte possiamo essore detti nipoti a Dio. Se la Poesia s’astende
in filosofia morale e questa in filosofia naturale; se quella descrive
l’operazione della mente, che considera, questa colla mente opera
ne’ movimenti; se quella spaventa i popoli con le infernali finzioni,
questa colle medesime cose in atto fa il simile. Pongasi il poeta a
figurare una bellezza, una fierezza, una cosa nefanda e brutta, una
mostruosa, col pittore; faccia a suo modo, come vuole, tramutazione
di forme, che il pittore non saddisfassi più [Sidenote: in modo da
superare il pittore]. Non s’è egli viste pitture avere tanta conformità
colla cosa vera, ch’ell’ha ingannato omini e animali?


VI. — LA PITTURA CREA LA REALTÀ.

Tal proporzione è dall’immaginazione a l’effetto, qual’è dall’ombra al
corpo ombroso, e la medesima proporzione è dalla Poesia alla Pittura.
Perchè la Poesia pon le sue cose nell’imaginazione di lettere, e la
Pittura le dà realmente fori dell’occhio, dal quale occhio riceve le
similitudini non altrementi, che s’elle fussino naturali; e la Poesia
le dà sanza essa similitudine, e non passano all’imprensiva per la via
della virtù visiva, come la Pittura.


VII. — RAPPRESENTAZIONE E DESCRIZIONE.

La Pittura rappresenta al senso, con più verità e certezza, le
opere di natura, che non fanno le parole o le lettere, ma le lettere
rappresentano con più verità le parole, che non fa la Pittura. Ma
diremo essere più mirabile quella scienza, che rappresenta l’opere
di natura, che quella, che rappresenta l’opere dell’operature, cioè
l’opere degli uomini, che sono le parole, com’è la Poesia o simili, che
passano per la umana lingua.


VIII. — ECCELLENZA DELL’OCCHIO.

L’occhio, dal quale la bellezza dell’universo è specchiata dalli
contemplanti, è di tanta eccellenza, che chi consente alla sua perdita,
si priva della rappresentazione di tutte l’opere della natura, per la
veduta delle quali l’anima sta contenta nelle umane carceri [Sidenote:
il corpo], mediante gli occhi, per li quali essa anima si rappresenta
tutte le varie cose di natura; ma chi li perde, lascia essa anima in
una oscura prigione, dove si perde ogni speranza di riveder il sole,
luce di tutt’il mondo. E quanti son quelli, a chi le tenebre notturne
sono in somm’odio, ma ancora ch’elle sieno di breve vita! Oh! che
farebbono questi, quando tali tenebre fussino compagne della vita loro?

Certo, non è nissuno, che non volesse più tosto perdere l’audito
o l’odorato, che l’occhio, la perdita del quale audire consente la
perdita di tutte le scienze, ch’hanno termine nelle parole; e sol fa
questo per non perdere la bellezza del mondo, la quale consiste nella
superfizie de’ corpi, sì accidentali [Sidenote: prodotti dall’arte]
come naturali, li quali si riflettono nell’occhio umano.


IX. — IL PITTORE VA DIRETTAMENTE ALLA NATURA.

La Pittura serve a più degno senso, che la Poesia, e fa con più verità
le figure delle opere di natura, che il poeta; e sono molto più degne
l’opere di natura che le parole, che sono l’opere dell’omo, perchè tal
proporzione è dalle opere de li uomini a quello della natura, qual
è quella, ch’è da l’omo a Dio. Adunque è più degna cosa l’imitar le
cose di natura, che sono le vere similitudini in fatto, che con parole
imitare li fatti e parole de li omini.

E se tu, poeta, vuoi descrivere l’opere di natura co’ la tua semplice
professione, fingendo diversi siti e forme di varie cose, tu sei
superato dal pittore con infinita proporzione di potenza; ma se vuoi
vestirti de l’altrui scienze, separate da essa poesia, elle non sono
tue, come Astrologia, Rettorica, Teologia, Filosofia, Geometria,
Aritmetica e simili. Tu non sei allora più poeta, tu ti trasmuti, e
non sei più quello, di che qui si parla. Or non vedi tu, che se tu vuoi
andare alla natura, che tu vi vai con mezzi di scienze, fatte d’altrui
sopra li effetti di natura? E il pittore per sè, sanza aiuto di
scienziali [Sidenote: di cose pertinenti alle varie scienze] o d’altrui
mezzi, va immediate all’imitazione d’esse opere di natura.

Con questa si muovono li amanti verso li simulacri della cosa amata,
a parlare coll’imitate pitture; con questa si muovono popoli, con
infervorati voti, a ricercare li simulacri delli Iddii, e non a vedere
le opere de’ poeti, che con parole figurino li medesimi Iddii; con
questa si ingannano li animali. Già vid’io una pittura, che ingannava
il cane, mediante la similitudine del suo padrone, alla quale esso cane
faceva grandissima festa; e similmente ho visto i cani baiare e voler
mordere i cani dipinti; e una scimmia fare infinite pazzie contro ad
un’altra scimmia dipinta; ho veduto le rondini volare e posarsi sopra
li ferri dipinti, che sportano fuori delle finestre de li edifizi.


X. — POTENZA ESPRESSIVA DELLA PITTURA.

Non vede l’imaginazione cotal eccellenza, qual vede l’occhio, perchè
l’occhio riceve le spezie overo similitudini delli obbietti, e
dàlli alla imprensiva, e da essa imprensiva al senso comune, e lì è
giudicata. Ma la imaginazione non esce fuori da esso senso comune,
se non in quanto essa va alla memoria, e lì si ferma e muore, se
la cosa imaginata, non è di molta eccellenza. E in questo caso si
ritrova la Poesia nella mente overo imaginativa del poeta, il quale
finge le medesime cose del pittore, per le quali finzioni egli vuole
equipararsi a esso pittore, ma invero ei n’è molto rimoto, come di
sopra è dimostrato. Adunque in tal caso di finzione, diremo con verità
esser tal proporzione dalla scienza della Pittura alla Poesia, qual
è dal corpo alla sua ombra derivativa, e ancora maggior proporzione,
conciossiachè l’ombra di tal corpo almeno entra per l’occhio al senso
comune, ma la imaginazione di tal corpo non entra in esso senso, ma lì
nasce, nell’occhio tenebroso [Sidenote: il cervello o senso comune].
Oh! che differenza è a imaginare tal luce nell’occhio tenebroso, al
vederla in atto fuori delle tenebre!

Se tu, poeta, figurerai la sanguinosa battaglia, mista con la oscura e
tenebrosa aria, mediante il fumo delle spaventevoli e mortali macchine,
mista con la spessa polvere, intorbidatrice de l’aria, e la paurosa
fuga de li miseri spaventati dalla orribile morte; in questo caso il
pittore ti supera, perchè la tua penna fia consumata, innanzi che tu
descriva appieno quel, che immediate il pittore ti rappresenta co’
la sua scienza. E la tua lingua sarà impedita dalla sete e il corpo
dal sonno e fame, prima che tu con parole dimostri quello, che in un
istante il pittore ti dimostra. Nella qual pittura non manca altro,
che l’anima delle cose finte, e in ciascun corpo è l’integrità di
quella parte, che per un sol aspetto può dimostrarsi, il che lunga e
tediosissima cosa sarebbe alla poesia a ridire tutti li movimenti de
li operatori di tal guerra, e le parti delle membra e lor ornamenti,
delle quali cose la pittura finita, con gran brevità e verità, ti pone
innanzi; e a questa tal dimostrazione non manca, se non il romore delle
macchine, e le grida de li spaventanti vincitori, e le grida e pianti
de li spaventati, le quali cose ancora il poeta non può rappresentare
al senso dell’audito. Diremo adunque la Poesia essere scienza, che
sommamente opera nelli orbi, e la Pittura fare il medesimo nelli sordi.
Essa tanto resta più degna che la Poesia, quanto ella serve a miglior
senso.

Solo il vero uffizio del poeta è fingere parole di gente, che insieme
parlino, e sol queste rappresenta al senso dell’audito tanto come
naturali, perchè in sè sono naturali create dall’umana voce, e, in
tutte l’altre consequenzie, è superato dal pittore. Ma molto più sanza
comparazione son le varietà, in che s’astende la Pittura, che quelle,
in che s’astendono le parole, perchè infinite cose farà il pittore,
che le parole non le potrà nominare, per non aver vocaboli appropriati
a quelle. Or non vedi tu, che, se ’l pittore vol fingere animali
o diavoli nell’inferno, con quanta abbondanzia d’invenzione egli
trascorre?

E già intervenne a me fare una pittura, che rappresentava una cosa
divina, la quale comperata dall’amante di quella, volle levarne la
rappresentazione di tal deità, per poterla baciare sanza sospetto. Ma
infine la coscienza vinse li sospiri e la libidine, e fu forza, ch’ei
se la levasse di casa. Or va tu, poeta, descrivi una bellezza sanza
rappresentazioni di cosa viva, e desta li uomini con quella a tali
desiderî! Se tu dirai: — io ti descriverò l’inferno o ’l paradiso, e
altre delizie o spaventi —; il pittore ti supera, perchè ti metterà
innanzi cose, che, tacendo, diranno tali delizie, o ti spaventeranno,
e ti movono l’animo a fuggire. Move più presto li sensi la pittura,
che la poesia. E se tu dirai, che con le parole tu leverai un popolo
in pianto o in riso; io ti dirò, che non sei tu che muove, egli è
l’oratore, e è ’l riso. Uno pittore fece una pittura, che, chi la
vedeva, sùbito sbadigliava, e tanto replicava tale accidente, quanto
si teneva l’occhi alla pittura, la quale ancora lei era finta a
sbadigliare.

Altri hanno dipinto atti libidinosi e tanto lussuriosi, ch’hanno
incitati li risguardatori di quella alla medesima festa, il che non
farà la Poesia. E se tu scriverai la figura d’alcuni Dei, non sarà tale
scrittura nella medesima venerazione che la Idea dipinta, perchè a tale
pittura sarà fatto di continuo voti e diverse orazioni, e a quella
concorreranno varie generazioni di diverse provincie e per li mari
orientali. E da tali si dimanderà soccorso a tal pittura e non alla
scrittura.

Qual è colui, che non voglia prima perdere l’audito, l’odorato e ’l
tatto, che ’l vedere? Perchè, chi perde il vedere, è com’uno, ch’è
cacciato dal mondo, perchè egli più no ’l vede, nè nessuna cosa. E
questa vita è sorella della morte.


XI. — IMPORTANZA DELL’OCCHIO NELLA VITA ANIMALE.

Maggior danno ricevono li animali per la perdita del vedere, che
dell’audire, per più cagioni; e prima, che mediante il vedere il cibo
è ritrovato, donde si debbe nutrire, il quale è necessario a tutti gli
animali; e ’l secondo, che per il vedere si comprende il bello delle
cose create, massime delle cose, ch’inducono all’amore, nel quale il
cieco nato non può pigliare per lo audito, perchè mai non ebbe notizia,
che cosa fusse bellezza d’alcuna cosa. Restagli l’audito, per il quale
solo intende le voci e parlare umano, nel quale è i nomi di tutte le
cose, a chi è dato il suo nome. Sanza la saputa d’essi nomi ben si può
vivere lieto, come si vede nelli sordi nati, cioè li muti, che mediante
il disegno, il quale è più de’ muti, si dilettano.


XII. — LA PITTURA È UNA POESIA MUTA.

Qual poeta con parole ti metterà innanzi, o amante, la vera effigie
della tua idea con tanta verità, qual farà il pittore? Qual fia quello,
che ti dimostrerà siti de’ fiumi, boschi, valli e campagne, dove si
rappresenti li tuoi passati piaceri, con più verità del pittore?

E se tu dici: — la Pittura è una Poesia muta per sè, se non v’è chi
dica o parli per lei, quello ch’ella rappresenta —; or non vedi tu, che
’l tuo libro si trova in peggior grado? Perchè ancora ch’egli abbia
un uomo, che parli per lui, non si vede niente della cosa, di che si
parla, come si vederà di quello, che parla per le pitture; le quali
pitture, se saranno ben proporzionati li atti co’ li loro accidenti
mentali, saranno intese, come se parlassino.


XIII. — SEGUE DELLA PITTURA E POESIA.

La Pittura è una Poesia, che si vede e non si sente, e la Poesia è
una Pittura, che si sente e non si vede. Adunque queste due Poesie,
o vuoi dire due Pitture, hanno scambiati li sensi, per li quali esse
dovrebbono penetrare all’intelletto. Perchè, se l’una e l’altra è
Pittura, de’ passare al senso comune per il senso più nobile, cioè
l’occhio; e se l’una e l’altra è Poesia, esse hanno a passare per il
senso meno nobile, cioè l’audito.

Adunque daremo la Pittura al giudizio del sordo nato, e la Poesia
sarà giudicata dal cieco nato; e, se la Pittura sarà figurata con
li movimenti appropriati alli accidenti mentali delle figure, che
operano in qualunque caso, sanza dubbio il sordo nato intenderà
le operazioni e l’intenzioni degli operatori, ma il cieco nato non
intenderà mai cosa che dimostri il poeta, la qual faccia onore a essa
Poesia; conciossiachè delle nobili sue parti è il figurare li gesti e
li componimenti delle istorie e li siti ornati e dilettevoli, con le
trasparenti acque, per le quali si vede li verdeggianti fondi delli
suoi corsi, scherzare le onde sopra prati e minute ghiare, coll’erbe,
che con lor si mischiano, insieme con li sguizzanti pesci, e simili
descrizioni, le quali si potrebbono così dire ad un sasso, corno ad un
cieco nato; perchè mai vide nessuna cosa, di che si compone la bellezza
del mondo, cioè luce, tenebre, colore, corpo, figura, sito, remozione,
propinquità, moto e quiete, le quali son dieci ornamenti della natura.

Ma il sordo, avendo perso il senso meno nobile, ancora ch’egli abbia
insieme persa la loquela, perchè mai udì parlare, mai potè imparare
alcun linguaggio, ma questo intenderà bene ogni accidente, che sia
nelli corpi umani, meglio che un che parli e che abbia audito, e
similmente conoscerà le opere de’ pittori e quello, che in esse si
rappresenti, e a che tali figure siano appropriate.


XIV. — SEGUE.

La Pittura è una Poesia muta, e la Poesia è una Pittura cieca, e l’una
e l’altra va imitando la natura, quanto è possibile alle lor potenze,
e per l’una o per l’altra si può dimostrare molti morali costumi, come
fece Apelle colla sua _Calunnia_.

Ma della Pittura, perchè serve all’occhio, senso più nobile, ne
risulta una proporzione armonica; cioè che, siccome molte varie voci,
insieme aggiunte ad un medesimo tempo, ne risulta una proporzione
armonica, la quale contenta tanto il senso dell’udito, che li auditori
restano, con stupente ammirazione, quasi semivivi; ma molto più
farà le proporzionali bellezze d’un angelico viso, posto in pittura,
dalla quale proporzionalità ne risulta un’armonico concento, il quale
serve all’occhio in uno medesimo tempo, che si faccia dalla musica
all’orecchio. E se tale armonia delle bellezze sarà mostrato all’amante
di quella, di che tali bellezze sono imitate, sanza dubbio esso resterà
con istupenda ammirazione e gaudio incomparabile e superiore a tutti
l’altri sensi.

Ma della Poesia, — la quale s’abbia a stendere alla figurazione d’una
perfetta bellezza, con la figurazione particulare di ciascuna parte,
della quale si compone in pittura la predetta armonia, — non ne
risulta altra grazia, che si facessi a far sentir nella musica ciascuna
voce per sè sola in vari tempi, dello quali non si comporrebbe alcun
concento, come se volessimo mostrare un volto a parte a parte, sempre
ricoprendo quelle, che prima si mostrarno, delle quali dimostrazioni
l’oblivione [Sidenote: dimenticare] non lascia comporre alcuna
proporzionalità d’armonia, perchè l’occhio non le abbraccia co’ la sua
virtù visiva a un medesimo tempo.

Il simile accade nelle bellezze di qualunque cosa finta dal poeta,
de le quali, per essere le sue parti dette separatamente in separati
tempi, la memoria non riceve alcuna armonia.


XV. — LA PITTURA SI PRESENTA ALL’OCCHIO NEL SUO TUTTO IN ISTANTE.

La Pittura immediate ti si rappresenta con quella dimostrazione, per
la quale il suo fattore l’ha generata, e dà quel piacere al senso
massimo, qual dare possa alcuna cosa creata dalla natura. E in questo
caso, il poeta, che manda le medesime cose al comun senso per la via
dell’audito, minor senso, non dà all’occhio altro piacere, che se un
sentissi raccontar una cosa.

Or vedi, che differenza è dall’audir raccontare una cosa, che dà
piacere all’occhio con lunghezza di tempo, o vederla con quella
prestezza che si vedono le cose naturali. E ancorchè le cose de’ poeti
sieno con lungo intervallo di tempo lette, spesse sono le volte,
ch’elle non sono intese, e bisogna farli sopra diversi comenti,
de’ quali rarissime volte tali comentatori intendono qual fusse la
mente del poeta; e molte volte i lettori non leggono, se non piccola
parte delle loro opere, per disagio di tempo. Ma l’opera del pittore
immediate è compresa dalli suoi riguardatori.


XVI. — SEGUE.

La Pittura ti rappresenta in un sùbito la sua essenza nella virtù
visiva e per il proprio mezzo, donde la imprensiva riceve li obbietti
naturali, e ancora nel medesimo tempo, nel quale si compone l’armonica
proporzionalità delle parti, che compongono il tutto, che contenta il
senso; e la Poesia riferisce il medesimo, ma con mezzo meno degno de
l’occhio, il quale porta nell’imprensiva più confusamente e con più
tardità le figurazioni delle cose nominate, che non fa l’occhio, vero
mezzo intra l’obbietto e l’imprensiva, il quale immediate conferisce
con somma verità le vere superfizie e figure di quel, che dinanzi
se gli appresenta; delle quali ne nasce la proporzionalità detta
armonia, che con dolce concento contenta il senso, non altrementi,
che si facciano le proporzionalità di diverse voci al senso dello
udito, il quale ancora è men degno, che quello dell’occhio, perchè
tanto, quanto ne nasce, tanto ne more, e è sì veloce nel morire, come
nel nascere. Il che intervenire non può nel senso del vedere; perchè,
se tu rappresenterai all’occhio una bellezza umana, composta di
proporzionalità di belle membra, esse bellezze non sono sì mortali, nè
sì presto si struggono, come fa la musica, anzi, ha lunga permanenza,
e ti si lascia vedere e considerare; e non rinasce, come fa la musica
nel molto sonare, nè t’induce fastidio, anzi t’innamora, e è causa, che
tutti li sensi insieme con l’occhio, la vorrebbero possedere, e pare,
che a gara voglian combattere con l’occhio. Pare, che la bocca, s’è
la bocca, se la vorrebbe per sè in corpo; l’orecchio piglia piacere
d’audire le sue bellezze; il senso del tatto la vorrebbe penetrare
per tutti i suoi meati; il naso ancora vorrebbe ricevere l’aria, ch’al
continuo di lei spira.

Ma la bellezza di tale armonia il tempo in pochi anni la distrugge,
il che non accade in tal bellezza imitata dal pittore, perchè il
tempo lungamente la conserva; e l’occhio, inquanto al suo uffizio,
piglia il vero piacere di tal bellezza dipinta, qual si facessi della
bellezza viva; mancagli il tatto, il quale si fa maggior fratello
nel medesimo tempo, il quale, poichè avrà avuto il suo intento, non
impedisce la ragione del considerare la divina bellezza. E in questo
caso la pittura, imitata da quella, in gran parte supplisce: il che
supplire non potrà la descrizione del poeta, il quale in questo caso
si vole equiparare al pittore, ma non s’avvede, che le sue parole, nel
far menzione delle membra di tal bellezza, il tempo le divide l’una
dall’altra, v’inframmette l’oblivione, e divide le proporzioni, le
quali lui, sanza gran prolissità, non può nominare; e non potendole
nominare, esso non può comporne l’armonica proporzionalità, la quale
è composta di divine proporzioni. E per questo un medesimo tempo,
nel quale s’inchiude la speculazione d’una bellezza dipinta, non può
dare una bellezza descritta, e fa peccato contro natura quel, che si
de’ mettere per l’occhio, a volerlo mettere per l’orecchio. Lasciavi
entrare l’uffizio della Musica, e non vi mettere la scienza della
Pittura, vera imitatrice delle naturali figure di tutte le cose.

Chi ti move, o omo, ad abbandonare le proprie tue abitazioni della
città, e lasciare li parenti e amici, e andare in lochi campestri per
monti e valli, se non la naturale bellezza del mondo, la quale, se
ben consideri, sol col senso del vedere fruisci? e se il poeta vole
in tal caso chiamarsi anco lui pittore, perchè non pigliavi tali siti
descritti dal poeta, e startene in casa sanza sentire il superchio
calore del sole? oh! non t’era questo più utile e men fatica, perchè si
fa al fresco e sanza moto e pericolo di malattia? Ma l’anima non potea
fruire il benefizio de li occhi, finestre delle sue abitazioni, e non
potea ricevere le spezie de li allegri siti, non potea vedere l’ombrose
valli rigate dallo scherzare delli serpeggianti fiumi, non potea vedere
li varî fiori, che con loro colori fanno armonia all’occhio, e così
tutte le altre cose, che ad esso occhio rappresentare si possono. Ma se
il pittore, nelli freddi e rigidi tempi dell’inverno, ti pone innanzi
li medesimi paesi dipinti ed altri, ne’ quali tu abbi ricevuto li tuoi
piaceri; se appresso a qualche fonte, tu possi rivedere te, amante
con la tua amata, nelli fioriti prati, sotto le dolci ombre delle
verdeggianti piante, non riceverai tu altro piacere, che a udire tale
effetto descritto dal poeta?

Qui risponde il poeta, e cede alle sopra dette ragioni, ma dice,
che supera il pittore, perchè lui fa parlare e ragionare li omini
con diverse finzioni, nelle quali ei finge cose, che non sono; e che
commuoverà li omini a pigliare le armi; e che descriverà il cielo, le
stelle e la natura e le arti e ogni cosa. Al quale si risponde, che
nessuna di queste cose, di che egli parla, è sua professione propria,
ma che, s’ei vuol parlare e orare, è da persuadere che in questo
egli è vinto dall’oratore; e se parla di Astrologia, che lo ha rubato
all’astrologo; e di Filosofia al filosofo, e che in effetto la Poesia
non ha propria sedia, nè la merita altramente che di un merciaio
ragunatore di mercanzie, fatte da diversi artigiani.

Quando il poeta cessa del figurare colle parole quel che in natura è un
fatto, allora il poeta non si fa equale al pittore, perchè se il poeta,
lasciando tal figurazione, e’ descrive le parole ornate e persuasive
di colui a chi esso vole far parlare, allora egli si fa oratore, e
non è più poeta, nè è pittore; e se lui parla de’ cieli, egli si fa
astrologo; e filosofo e teologo parlando delle cose di natura e di Dio;
ma, se esso ritorna alla figurazione di qualunque cosa, e’ si farebbe
emulo al pittore, se potesse saddisfare all’occhio in parole come fa il
pittore.

Ma la deità della scienza della Pittura considera le opere, così
umane, come divine, le quali sono terminate dalle loro superfizie, cioè
linee de’ termini de’ corpi, con le quali ella comanda allo scultore
la perfezione delle sue statue. Questa col suo principio, cioè il
disegno, insegna all’architettore a fare, che il suo edifizio si renda
grato all’occhio; questa alli componitori di diversi vasi; questa alli
orefici, tessitori, recamatori; questa ha trovato li caratteri, con li
quali si esprimono li diversi linguaggi; questa ha dato li caratteri
alli aritmetici; questa ha insegnata la figurazione alla Geometria;
questa insegna alli prospettivi e astrolaghi e alli macchinatori e
ingegneri.


XVII. — COME LA SCIENZA DELL’ASTROLOGIA NASCE DALL’OCCHIO, PERCHÈ
MEDIANTE QUELLO È GENERATA.

Nessuna parte è nell’Astrologia, che non sia ufficio delle linee
visuali e della Prospettiva, figliuola della Pittura — perchè il
pittore è quello, che, per necessità della sua arte, ha partorite essa
Prospettiva, e non si può fare sanza linee, dentro alle quali linee
s’inchiudono tutte le varie figure de’ corpi, generate dalla natura,
sanza le quali l’arte del geometra è orba.

E se ’l geometra riduce ogni superfice, circondata da linee, alla
figura del quadrato e ogni corpo alla figura del cubo, e l’Aritmetica
fa il simile con le sue radici cube e quadrate; queste due scienze non
s’astendono, se non alla notizia della quantità continua e discontinua,
ma della qualità non si travagliano, la quale è bellezza delle opere di
natura e ornamento del mondo.


XVIII. — PARLA IL POETA COL PITTORE.

Dice il poeta, che la sua scienza è invenzione e misura, e questo
è il semplice corpo di poesia, invenzione di materia e misura nei
versi, che si riveste poi di tutte le scienze. Al quale risponde il
pittore, l’avere li medesimi obblighi nella scienza della Pittura, cioè
invenzione e misura; invenzione nella materia, che lui debbe fingere,
e misura nelle cose dipinte, acciocchè non sieno sproporzionate; ma
che ei non si veste di tali tre scienze, anzi che l’altre in gran
parte si vestono della Pittura, come l’Astrologia, che nulla fa sanza
la Prospettiva, la quale è principal membro d’essa Pittura, — cioè
l’Astrologia matematica, non dico della fallace giudiciale (perdonami,
chi, per mezzo delli sciocchi, no vive!)

Dice il poeta, che descrive una cosa, che ne rappresenta un’altra piena
di belle sentenze [Sidenote: l’allegoria]. Il pittore dice aver in
arbitrio di far il medesimo, e in questa parte anco egli è poeta. E se
’l poeta dice di far accendere li omini ad amaro, ch’è cosa principale
della spezie di tutti l’animali, il pittore ha potenza di fare il
medesimo, tanto più, che lui mette innanzi all’amante la propria
effigie della cosa amata, il quale spesso fa con quella, baciandola e
parlandole, quello, che non farebbe colle medesime bellezze, portate
innanzi dallo scrittore; e tanto più supera gl’ingegni de li omini, che
l’induce ad amare e innamorarsi di pittura, che non rappresenta alcuna
donna viva.

E se il poeta serve al senso per la via dell’orecchio, il pittore per
l’occhio più degno senso. Ma io non voglio da questi tali altro, se
non che uno bono pittore figuri il furore d’una battaglia, e che ’l
poeta ne scriva un altro, e che sieno messi in pubblico da compagnia
[Sidenote: daccanto]; vedrai i veditori dove più si fermeranno, dove
più considereranno, dove si darà più laude, e quale saddisferà meglio.
Certo la pittura, di gran lunga più utile e bella, più piacerà.
Poni iscritto il nome di Dio in uno loco, e ponevi la sua figura a
riscontro, vedrai quale fia più reverita. Se la Pittura abbraccia
in sè tutte le forme della natura, voi non avete se non è i nomi, i
quali non sono universali come le forme. Se voi avete li effetti delle
dimostrazioni, noi abbiamo le dimostrazioni delli effetti.

Tolgasi uno poeta, che descriva le bellezze d’una donna al suo
innamorato, togli uno pittore che la figuri, vedrai dove la natura
volterà più il giudicatore innamorato. Certo il cimento delle cose
dovrebbe lasciare dare la sentenza alla sperienza. Voi avete messa la
pittura infra l’arti meccaniche; certo, se i pittori fussino atti a
laudare collo scrivere l’opere loro, come voi, io dubito non diacerebbe
in sì vile cognome. Se voi la chiamate meccanica, perchè è per manuale
[Sidenote: per opera delle mani] che le mani figurano quel che trovano
nella fantasia, voi pittori disegnate con la penna manualmente quello
che nello ingegno vostro si trova. E se voi dicessi essere meccanica,
perchè si fa a prezzo; chi cade in questo errore, se errore si po’
chiamare, più di voi? Se voi leggete per li Studî, non andate voi a
chi più vi premia? Fate voi alcuna opera, sanza qualche premio? benchè
questo non dico per biasimare simili opinioni, perchè ogni fatica
aspetta premio, o potrà dire uno poeta: — io farò una finzione, che
significa cosa grande. — Questo medesimo farà il pittore, come fece
Apello la _Calunnia_.


XIX. — RISPOSTA DEL RE MATTIA AD UN POETA CHE GAREGGIAVA CON UN PITTORE.

Portando, il dì del natale del re Mattìa, un poeta un’opera fattagli
in laude del giorno, ch’esso re era nato, a beneficio del mondo, e un
pittore gli presentò un ritratto della sua innamorata; sùbito il Re
rinchiuse il libro del poeta, e voltossi alla pittura, e a quella fermò
la vista con grande ammirazione.

Allora il poeta, forte sdegnato, disse: — o re, leggi, leggi, e
sentirai cosa di maggior sustanzia, che una muta pittura! —

Allora il re, sentendosi riprendere del risguardar cose mute, disse:
«o poeta, taci, chè non sai ciò che ti dica; questa pittura serve a
miglior senso che la tua, la qual è da orbi. Dammi cosa che io la possa
vedere e toccare, e non che solamente la possa udire, e non biasimare
la mia elezione dell’avermi io messo la tua opera sotto il gomito,
e questa del pittore tengo con le due mani, dandola alli miei occhi,
perchè le mani da lor medesime hanno tolto a servire a più degno senso,
che non è l’audire. E io per me giudico, che tale proporzione sia della
scienza del pittore a quella del poeta, qual è dalli suoi sensi, de’
quali questi si fanno obbietti.

»Non sai tu che la nostra anima è composta d’armonia, e armonia non
s’ingenera se non in istanti [Sidenote: armonia esige contemporaneità
di parti], nei quali le proporzionalità delli obbietti si fan vedere o
udire? Non vedi, che nella tua scienza non è proporzionalità creata in
istante, anzi l’una parte nasce dall’altra successivamente, e non nasce
la succedente, se l’antecedente non muore?

»Per questo giudico la tua invenzione essere assai inferiore a quella
del pittore, solo perchè da quella non componesi proporzionalità
armonica. Essa non contenta la mente dell’auditore o veditore, come fa
la proporzionalità delle bellissime membra, componitrici delle divine
bellezze di questo viso, che m’è dinanzi, le quali in un medesimo
tempo tutte ’nsieme giunte, mi dànno tanto piacere colla divina loro
proporzione, che null’altra cosa giudico esser sopra la terra fatta
dall’uomo, che dar lo possa maggiore.»


XX. — ALTEZZA DEL MONDO VISIBILE.

Non è sì insensato giudizio che, se gli è proposto qual è più da
eleggere o stare in perpetue tenebre o voler perder l’audito, che
sùbito non dica voler più tosto perdere l’audito insieme con l’odorato,
prima che restar cieco.

Perchè chi perde il vedere, perde la bellezza del mondo con tutte le
forme delle cose create, e il sordo sol perde il suono fatto dal moto
dell’aria percossa, ch’è minima cosa nel mondo. Tu, che dici la scienza
essere tanto più nobile, quant’essa s’astende in più degno subbietto,
e per questo più vale una falsa immaginazione dell’essenza di Dio,
che una immaginazione d’una cosa men degna; e per questo diremo, la
Pittura, la quale solo s’astende nell’opere d’Iddio essere più degna
della Poesia, che solo si astende in bugiarde finzioni de l’opere
umane.


XXI. — ARGUIZIONE DEL POETA CONTRO ’L PITTORE.

— Tu dici, o pittore, che la tua arte è adorata, ma non imputare a te
tal virtù, ma alla cosa, di che tal pittura è rappresentatrice. —

Qui il pittore risponde: — o tu, poeta, che ti fai ancora tu imitatore,
perchè non rappresenti con le tue parole cose, che le lettere tue,
contenitrici d’esse parole, ancora loro sieno adorate? —

Ma la natura ha più favorito il pittore che ’l poeta, e meritamente
l’opere del favorito debbono essere più onorate, che di quello che non
è in favore.

Adunque, laudiamo quello che con le parole saddisfa all’audito, e quel
che con la pittura saddisfa al contento del vedere; ma tanto meno quel
delle parole, quanto elle sono accidentali e create da minor autore,
che l’opere di natura, di che ’l pittore è imitatore.

La qual natura è terminante dentro alle figure della lor superfizie.


XXII. — CONCLUSIONE INFRA ’L POETA E IL PITTORE.

Poi che noi abbiamo concluso, la Poesia esser in sommo grado di
comprensione alli ciechi, e che la Pittura fa il medesimo alli sordi,
noi diremo, tanto più valere la Pittura che la Poesia, quanto la
Pittura serve a miglior senso e più nobile, che la Poesia; la qual
nobiltà è provata esser tripla alla nobiltà di tre altri sensi, perchè
è stato eletto di volere piuttosto perdere l’audito e odorato e tatto,
che ’l senso del vedere.

Perchè, chi perde il vedere, perde la veduta e bellezza dell’universo,
e resta a similitudine di un che sia chiuso in vita in una sepoltura,
nella quale abbia moto e vita.

Or non vedi tu, che l’occhio abbraccia la bellezza di tutto il mondo?
Egli è capo dell’Astrologia; egli fa la Cosmografia; esso tutte le
umane arti consiglia e corregge; move l’omo a diverse parti del mondo;
questo è principe delle Matematiche; le sue scienze sono certissime;
questo ha misurato l’altezze e grandezze delle stelle; questo ha
trovato gli elementi e loro siti; questo ha fatto predire le cose
future, mediante il corso delle stelle; questo l’Architettura e
Prospettiva, questo la divina Pittura ha generata. O eccellentissimo
sopra tutte l’altre cose create da Dio! quali laudi fien quelle,
ch’esprimere possino la tua nobiltà? quali popoli, quali lingue saranno
quelle, che appieno possino descrivere la tua vera operazione?

Questa è finestra dell’umano corpo, per la quale l’anima specula e
fruisce la bellezza del mondo; per questo l’anima si contenta della
umana carcere, e, sanza questo, esso umano carcere è suo tormento; e
per questo l’industria umana ha trovato il fuoco, mediante il quale
l’occhio riacquista quello, che prima li tolsero le tenebre. Questo ha
ornato la natura coll’agricoltura e dilettevoli giardini.

Ma che bisogna, ch’io m’astenda in sì alto e lungo discorso? qual è
quella cosa, che per lui non si faccia? Ei move li omini dall’Oriente
all’Occidente; questo ha trovato la navigazione; e in questo supera
la natura, che li semplici naturali [Sidenote: le varietà minerali,
vegetali e animali] sono finiti, e l’opere, che l’occhio comanda alle
mani, sono infinite, come dimostra il pittore nelle finzioni d’infinite
forme d’animali e erbe, piante e siti.


XXIII. — COME LA MUSICA SI DEE CHIAMARE SORELLA E MINORE DELLA PITTURA.

La Musica non è da essere chiamata altro, che sorella della Pittura,
conciossiachè essa è subbietto dell’audito, secondo senso all’occhio,
e compone armonia con la congiunzione delle sue parti proporzionali,
operate nel medesimo tempo, costrette a nascere e morire in uno o
più tempi armonici; li quali tempi circondano la proporzionalità de’
membri, di che tale armonia si compone, non altrementi, che si faccia
la linea circonferenziale [Sidenote: il contorno] le membra, di che si
genera la bellezza umana.

Ma la Pittura eccelle e signoreggia la Musica, perchè essa non more
immediate dopo la sua creazione, come fa la sventurata Musica, anzi
resta in essere, e ti si dimostra in vita, quel che in fatto è, una
sola superfizie.

O maravigliosa scienza, tu riservi in vita le caduche bellezze de’
mortali, le quali hanno più permanenza, che le opere di natura, le
quali al continuo sono variate dal tempo, che le conduce alla debita
vecchiezza! e tale scienza ha tale proporzione con la divina natura,
quale hanno le sue opere con le opere di essa natura, e per questo è
adorata.


XXIV. — PITTURA E MUSICA.

Quella cosa è più degna, che saddisfa a miglior senso: adunque la
Pittura saddisfattrice al senso del vedere, è più nobile della Musica,
che solo saddisfa all’audito.

Quella cosa è più nobile, che ha più eternità; adunque la Musica, che
si va consumando, mentre ch’ella nasce, è men degna della Pittura, che
con vetri [Sidenote: Vedi sopra al n. V] si fa eterna.

Quella cosa, che contiene in se più universalità e varietà di cose,
quella fia detta di più eccellenza: adunque la Pittura è da essere
preposta a tutte le operazioni; perchè è contenitrice di tutte le
forme, che sono, e di quelle, che non sono in natura, è più da essere
magnificata e esaltata, che la musica, che solo attende alla voce.

Con questa si fa i simulacri alli Dii; dintorno a questa si fa il
culto divino, il quale è ornato con la Musica, a questa servente;
con questa si dà copia alli amanti della causa de’ loro amori; con
questa si riserva le bellezze, le quali il tempo e la genitrice natura
fa fuggitive; con questa noi riserviamo le similitudini degli omini
famosi. E se tu dicessi: — la Musica s’eterna con lo scriverla —; il
medesimo facciamo noi qui colle lettere.

Adunque, poichè tu hai messa la Musica infra le arti liberali, o tu vi
metti questa, o tu ne levi quella.

E se tu dicessi: — li omini vili l’adoprano —; e così è guasta la
Musica da chi non la sa.

Se tu dirai: — le scienze non meccaniche sono le mentali —; io dirò
che la pittura è mentale, e ch’ella, — siccome la Musica e Geometria
consideran le proporzioni delle quantità continue, e l’Aritmetica delle
discontinue, — questa considera tutte le quantità continue e le qualità
delle proporzioni d’ombre e lumi e distanze, nella sua Prospettiva.


XXV. — PARLA IL MUSICO COL PITTORE.

Dice il mimico, che la sua scienza è da essere equiparata a quella del
pittore, perchè essa compone un corpo di molte membra, del quale lo
speculatore contempla tutta la sua grazia, in tanti tempi armonici,
quanti sono li tempi nelli quali essa nasce e more; e con quelli
tempi trastulla con grazia l’anima, che risiede nel corpo del suo
contemplante.

Ma il pittore risponde e dice, che il corpo, composto delle umane
membra, non dà di sè piacere a’ tempi armonici, nelli quali essa
bellezza abbia a nascere e morire, ma lo fa permanente per moltissimi
anni, e è di tanta eccellenza, ch’ella riserva in vita quella armonia
delle proporzionate membra, le quali natura con tutte sue forze
conservar non potrebbe.

Quante pitture hanno conservato il simulacro di una divina bellezza,
che il tempo o morte in breve ha distrutto il suo naturale esempio; e è
restata più degna l’opera del pittore, che della natura sua maestra!

Se tu, o musico, dirai che la Pittura è meccanica per essere operata
coll’esercizio delle mani; e la Musica è operata con la bocca, ma non
pel conto del senso del gusto, come la mano (non pel) senso del tatto.

Meno degne sono ancora le parole che’ fatti. Ma tu scrittore delle
scienze, non copi tu con mano, scrivendo ciò che sta nella mente, come
fa il pittore?

E se tu dicessi, la Musica essere composta di proporzione; ho io, con
questa medesima, sèguito la Pittura, come mi vedrai.


XXVI. — CONCLUSIONE DEL POETA, PITTORE E MUSICO.

Tal differenza è in quanto alla figurazione delle cose corporee dal
pittore al poeta, quant’è dalli corpi smembrati alli uniti: perchè il
poeta, nel descrivere la bellezza o bruttezza di qualunque corpo, te
lo dimostra a membro a membro e in diversi tempi, e il pittore tel fa
vedere tutto in un tempo.

Il poeta non può porre colle parole la vera figura delle membra, di
che si compone un tutto, come il pittore, il quale tel pone innanzi con
quella verità, ch’è possibile in natura. E al poeta accade il medesimo,
come al musico, che canta solo un canto composto di quattro cantori;
e canta prima il canto [Sidenote: Oggi: soprano], poi il tenore, e
così sèguita il contralto e poi il basso: e di costui non risulta la
grazia della proporzionalità armonica, la quale si rinchiude in tempi
armonici. E fa esso poeta a similitudine di un bel volto, il quale ti
si mostra a membro a membro, che, così facendo, non rimarresti mai
saddisfatto della sua bellezza, la quale solo consiste nella divina
proporzionalità delle predette membra insieme composte, le quali
solo in un tempo compongono essa divina armonia, di esso congiunto
[Sidenote: insieme accordo] di membra, che spesso tolgono la libertà
posseduta a chi le vede.

E la Musica ancora fa, nel suo tempo armonico, le soavi melodie,
composte delle sue varie voci, dalle quali il poeta è privato della
loro discrezione [Sidenote: spartizione o divisione] armonica; e,
benchè la Poesia entri pel senso dell’audito alla sedia del giudizio,
siccome la Musica, esso poeta non può descrivere l’armonia della
Musica, perchè non ha podestà in un medesimo tempo di dire diverse
cose, come la proporzionalità armonica della Pittura, composta di
diverse membra in un medesimo tempo, la dolcezza delle quali sono
giudicate in un medesimo tempo, così in comune, come in particolare. In
comune in quanto allo intento del composto, in particolare, in quanto
allo intento de’ componenti, di che si compone esso tutto; e per questo
il poeta resta, in quanto alla figurazione delle cose corporee, molto
indietro al pittore, e delle cose invisibili rimane indietro al musico.

Ma, s’esso poeta toglie in prestito l’aiuto delle altre scienze, potrà
comparire alle fiere come gli altri mercanti, portatori di diverse
cose, fatte da più inventori: e fa questo il poeta, quando si impresta
l’altrui scienza, come dell’oratore, filosofo, astrologo, cosmografo
e simili, le quali scienze sono in tutto separate dal poeta. Adunque
questo è un sensale, che giunge insieme diverse persone a fare una
conclusione di un mercato; e, se tu vorrai trovare il proprio ufficio
del poeta, tu troverai non essere altro, che un ragunatore di cose
rubate a diverse scienze, colle quali egli fa un composto bugiardo,
o vuoi, con più onesto dire, un composto finto. — E in questa tal
finzione libera esso poeta s’è equiparato al pittore, ch’è la più
debole parte della pittura.


XXVII. — CAUSA DELLA INFERIORITÀ IN CUI È TENUTA LA PITTURA.

Per fingere le parole la Poesia supera la Pittura, e per fingere
fatti la Pittura supera la Poesia, e quella proporzione ch’è da’ fatti
alle parole, tal è dalla Pittura ad essa Poesia, perchè i fatti sono
subbietto dell’occhio, e le parole subbietto dell’orecchio; e così li
sensi hanno la medesima proporzione in fra loro, quali hanno li loro
obbietti infra sè medesimi, e per questo giudico la Pittura essere
superiore alla Poesia.

Ma per non sapere li suoi operatori dire la sua ragione è restata lungo
tempo sanza avvocati; perchè lei non parla, ma per sè si dimostra e
termina ne’ fatti, e la Poesia finisce in parole, con le quali, come
boriosa, sè stessa lauda.



IL PITTORE E LA PITTURA.


I. — VASTITÀ DEL CAMPO DELLA PITTURA.

Ciò ch’è visibile è connumerato nella scienza della pittura.


II. — ORIGINE DELLA PITTURA.

Come la prima pittura fu sol d’una linia, la quale circondava l’ombra
dell’omo, fatta dal sole ne’ muri.


III. — COME ’L PITTORE È SIGNORE D’OGNI SORTE DI GENTE E DI TUTTE LE
COSE.

Se ’l pittore vuol vedere bellezze, che lo innamorino, egli n’è Signore
di generarle; e se vuol vedere cose mostruose, che spaventino, o che
sieno buffonesche e risibili, o veramente compassionevoli, ei n’è
Signore e Dio; e se vuol generare siti e deserti, lochi ombrosi o
foschi, ne’ tempi caldi, esso li figura, e così lochi caldi, ne’ tempi
freddi. Se vuol valli, se vuole delle alte cime de’ monti scoprire
gran campagna, e se vuole, dopo quelle, vedere l’orizzonte del mare,
egli n’è Signore, e se delle basse valli vuol vedere gli alti monti
o de li alti monti le basse valli e spiaggie. E in effetto ciò ch’è
nell’universo per essenza, frequenza o immaginazione, esso lo ha prima
nella mente e poi nelle mani; e quelle sono di tanta eccellenza, che in
pari tempi generano una proporzionata armonia in un solo sguardo, qual
fanno le cose.


IV. — LA PITTURA È UNA SECONDA CREAZIONE.

Chi biasima la Pittura, biasima la natura, perchè l’opere del pittore
rappresentano l’opere d’essa natura, e per questo il detto biasimatore
ha carestia di sentimento.


V. — COME IL PITTORE NON È LAUDABILE SE QUELLO NON È UNIVERSALE.

Alcuni si po’ chiaramente dire che s’ingannano, i quali chiamano bono
maestro quello pittore, il quale sol fa bene una testa o una figura.
Certo e’ non è gran fatto che studiando una sola cosa tutt’il tempo
della sua vita, che non ne venga a qualche perfezione.

Ma conoscendo noi, che la pittura abbraccia e contiene in sè tutte le
cose, che produce la natura, e che conduce l’accidentale operazione
degli omini, e in ultimo ciò che si po’ comprendere con gli occhi, mi
paro uno tristo maestro quello, che solo una figura fa bene.

Or non vedi tu quanti e quali atti sieno fatti dalli omini? non vedi
quanti diversi animali e così alberi e erbe, fiori, varietà di siti
montuosi e piani, fonti, fiumi, città, edifizî pubblici e privati,
strumenti opportuni a l’uso umano, vari abiti e ornamenti e arti?

Tutte queste cose appartengano d’essere di pari operazione e bontà
usate da quello, che tu vogli chiamare bon pittore.


VI. — IL PITTORE E LA NATURA.

Il dipintore disputa e gareggia con la natura.


VII. — COME CHI SPREZZA LA PITTURA NON AMA LA FILOSOFIA DELLA NATURA.

Se tu sprezzerai la Pittura, la quale è sola imitatrice di tutte
l’opere evidenti di natura, per certo tu sprezzerai una sottile
invenzione, la quale con filosofica e sottile speculazione considera
tutte le qualità delle forme, arie [Sidenote: i fondi o campi delle
figure] e siti, piante, animali, erbe e fiori, le quali sono cinte
d’ombra e lume. E veramente questa è scienza e legittima figlia di
natura, perchè la Pittura è partorita da essa natura. Ma, per dire più
corretto, diremo nipote di natura, perchè tutte le cose evidenti sono
state partorite dalla natura, delle quali cose partorite è nata la
Pittura. Adunque rettamente la dimanderemo nipote di natura e parente
di Dio.


VIII. — COME NELL’OPERE D’IMPORTANZA L’OMO NON SI DE’ FIDARE TANTO
DELLA SUA MEMORIA, CHE NON DEGNI RITRARRE DI NATURALE.

Quel maestro, il quale si desse d’intendere di potere riservare in
sè tutte le forme e li effetti della natura, certo mi parrebbe questo
essere ornato di molta ignoranza, con ciò sia cosa che detti effetti
son infiniti, e la memoria nostra non è di tanta capacità, che basti.

Adunque tu, pittore, guarda che la cupidità del guadagno, non superi
in te l’onore dell’arte, che ’l guadagno dell’onore è molto maggiore,
che l’onore delle ricchezze. Sì che per queste e altre ragioni, che si
potrebbon dire, attenderai prima col disegno a dare con dimostrativa
forma all’occhio la intenzione e la invenzione fatta in prima
nella tua imaginativa; di poi va levando o ponendo tanto che tu ti
saddisfaccia; di poi fa acconciare omini vestiti o nudi, nel modo ch’in
sull’opera hai ordinato, e fa che per misura e grandezza, sottoposta
alla Prospettiva, che non passi niente de l’opera, che bene non sia
consigliata dalla ragione e dalli effetti naturali: e questa fia la via
a farti onorare della tua arte.


IX. — DEL GIUDICARE LA TUA PITTURA.

Noi sappiamo chiaro che li errori si conoscono più in altrui opere, che
nelle sue, e spesso, riprendendo li altrui piccioli errori, ignorerai
i tua grandi. E per fuggire simile ignoranza, fa che prima sia bono
prospettivo, di poi abbi intera notizia delle misure dell’omo e d’altri
animali, e ancora bono architetto, cioè in quanto s’appartiene alla
forma delli edifizî e dell’altre cose, che sono sopra la terra, che
sono infinite forme. Di quante più avrai notizia, più fia laudabile
la tua operazione, e in quelle che tu non hai pratica non recusare il
ritrarle di naturale.


X. — COME ’L PITTORE DEBB’ESSER VAGO D’AUDIRE, NEL FARE DELL’OPERA SUA,
IL GIUDIZIO D’OGN’OMO.

Certamente non è da recusare, in mentre che l’omo dipigne, il giudizio
di ciascuno; imperocchè noi conosciamo chiaro, che l’omo, benchè non
sia pittore, avrà notizia della forma dell’altro omo, e ben giudicherà
s’egli è gobbo, o ha una spalla alta o bassa, o s’egli ha gran bocca o
naso od altri mancamenti. — E se noi conosciamo alti omini potere con
verità giudicare l’opera della natura, quanto maggiormente ci converrà
confessare questi potere giudicare i nostri errori, chè sappiamo quanto
l’omo s’inganna nelle sue opere, e se non lo conosci in te, consideralo
in altrui, e farai profitto degli altrui errori.

Sì che sia vago con pazienza udire l’altrui opinioni; e considera bene
e pensa bene, se ’l biasimatore ha cagione o no di biasimarti: e se
trovi di sì, racconcia; e se trovi di no, fagli vista non l’aver inteso
o tu li dimostra per ragione, s’egli è omo che tu stimi, la ragione
come lui s’inganna.


XI. — DELLA TRISTA SCUSAZIONE FATTA DA QUELLI CHE FALSA — E
INDEGNAMENTE SI FANNO CHIAMARE PITTORI.

Ecci una certa generazione di pittori, i quali, per loro poco studio,
bisogna che vivano sotto la bellezza d’oro e d’azzurro, i quali, con
somma stoltizia, allegano non mettere in opera le bone cose per li
tristi pagamenti, che saprebbono ancora ben loro fare come un altro,
quando fussino bene pagati. Or vedi gente istolte! non sanno questi
tali tenère qualche opera bona, dicendo: — questa è da bon premio; e
questa è da mezzano; e questa è di sorte [Sidenote: di basso prezzo] —;
e mostrare d’avere opera da ogni premio.


XII. — COME LO SPECCHIO È ’L MAESTRO DE’ PITTORI.

Quando vuoi vedere, se la tua pittura tutta insieme ha conformità
con la cosa ritratta di naturale, abbi uno specchio, e favvi dentro
specchiare la cosa viva, e paragona la cosa specchiata con la
tua pittura, e considera bene, se ’l subbietto de l’una e l’altra
similitudine ha conformità insieme.

E sopra tutto lo specchio si de’ pigliare per suo maestro, cioè
lo specchio piano, imperocchè su la sua superfizie le cose hanno
similitudine con la pittura in molte parti.

Cioè, tu vedi la pittura fatta sopra un piano dimostrare cose, che
paiono rilevate, e lo specchio sopra uno piano fa quel medesimo; la
pittura è una sola superfizie, e lo specchio quel medesimo; la pittura
è impalpabile, in quanto che quello, che pare tondo e spiccato, non si
po’ circondare co’ le mani, e lo specchio fa il simile; lo specchio
e la pittura mostra la similitudine dello cose circondate da ombra e
lume; l’una e l’altra pare assai di là dalla sua superfizie.

E se tu conosci, che lo specchio, per mezzo de’ lineamenti e ombre e
lumi, ti fa parere le cose dispiccate, e avendo tu fra il tuoi colori
l’ombre e lumi più potenti che quelli dello specchio, certo, se tu li
saprai ben comporre insieme, la tua pittura parrà ancora lei una cosa
naturale, vista in uno grande specchio.


XIII. — PRECETTO AL PITTORE.

Ogni ramo e ogni frutto nasce sopra il nascimento della sua foglia, la
quale li scusa [Sidenote: gli fa le veci di madre] madre col porgergli
l’acqua delle pioggie e l’umidità della rugiada, che li cade la notte
di sopra, e molte volte li toglie li superchi calori delli raggi del
sole.

Adunque tu, pittore, che non hai tali regole, per fuggire il biasimo
delli intendenti, sii vago di ritrarre ogni tua cosa di naturale, e non
disprezzare lo studio, come fanno i guadagnatori.


XIV. — LA PITTURA È UN DISCORSO FIGURATO.

Li omini e le parole son fatti, e tu, pittore, non sapendo operare le
tue figure, tu se’ come l’oratore, che non sa adoperare le parole sue.


XV. — ORDINE DELLO STUDIO.

Il giovane debbe prima imparare Prospettiva; poi le misure d’ogni
cosa; poi di mano di bon maestro, per suefarsi a bone membra; poi di
naturale, per confermarsi le ragioni delle cose imparate; poi vedere
a uno tempo di mano di diversi maestri; poi fare abito al mettere in
pratica e operare l’arte.


XVI. — SULLO STESSO SOGGETTO.

Dico, che prima si debbe imparare le membra e sua travagliamenti, e
finita tal notizia si debbe seguitare li atti secondo li accidenti,
che accadano all’omo, e terzo comporre le storie, lo studio delle
quali sarà fatto dalli atti naturali, fatti a caso mediante li loro
accidenti; e porli mente per le strade, piazze e campagne, e notarli
con brieve descrizione di liniamenti: cioè che per una testa si faccia
uno O e per uno braccio una linia retta e piegata, e ’l simile si
faccia delle gambe e busto; e poi tornando alla casa fare tali ricordi
in perfetta forma.

Dice l’avversario, che per farsi pratico e fare opere assai, ch’elli
è meglio che ’l tempo primo dello studio sia messo in ritrarre vari
componimenti, fatti per carte o muri per diversi maestri, e in quelli
si fa pratica veloce e bono abito. Al quale si risponde, che questo
abito sarebbe bono, essendo fatto sopra opere di boni componimenti
e di studiosi maestri; e perchè questi tali maestri son sì rari, che
pochi se ne trova, è più sicuro andare alle cose naturali, che a quelle
d’esso naturale con gran peggioramento imitate, e fare triste abito,
perchè chi può andare alla fonte non vada al vaso.


XVII. — DEL MODO DELLO IMPARARE BENE A COMPORRE INSIEME LE FIGURE NELLE
STORIE.

Quando tu avrai imparato bene di Prospettiva, e avrai a mente tutte
le membra e corpi delle cose, sia vago ispesse volte, nel tuo andarti
a sollazzo, vedere e considerare i siti e li atti delli omini in nel
parlare, in nel contendere o ridere o zuffare insieme, che atti fieno
in loro, e che atti facciano i circostanti, i spartitori o veditori
d’esse cose; e quelli notare con brievi segni, in questa forma, su un
tuo picciolo libretto. Il quale tu debbi sempre portar con teco, e sia
di carte tinte, acciò non l’abbi a scancellare, ma mutare di vecchio
in un novo, chè queste non sono cose da essere scancellate, anzi con
grande diligenza riserbate, perchè gli è tante le infinite forme e atti
delle cose, che la memoria non è capace a ritenerle, onde queste ti
serberai come tuoi autori e maestri.


XVIII. — DELLO STUDIARE IN SINO QUANDO TI DESTI O INNANZI T’ADDORMENTI
NEL LETTO, ALLO SCURO.

Ho in me provato essere di non poca utilità, quando ti trovi allo
scuro nel letto, andare co’ la imaginativa, ripetendo li liniamenti
superfiziali delle forme per l’addietro studiate o altre cose notabili,
da sottile speculazione comprese; ed è questo proprio un atto laudabile
e utile a confermarsi le cose nella memoria.


XIX. — MODO D’AUMENTARE E DESTARE LO ’NGIEGNO A VARIE INVENZIONI.

Non resterò però di mettere infra questi precetti una nova invenzione
di speculazione, la quale, benchè paia piccola e quasi degna di
riso, non di meno è di grande utilità a destare lo ’ngegnio a varie
invenzioni: e questo è, se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di
varie macchie o pietre di varî misti [Sidenote: composte di diverse
sostanze], se avrai a invencionare [Sidenote: inventare, ideare]
qualche sito, potrai lì vedere similitudine di diversi paesi, ornati
di montagne, fiumi, sassi, alberi, pianure, grandi valli e colli
in diversi modi; ancora vi potrai vedere diverse battaglie e atti
pronti di figure, strane arie di volti [Sidenote: fisonomie] e abiti
e infinite cose, le quali tu potrai ridurre integra e bona forma. E
interviene in simili muri e misti come del sôn di campane, che ne’ loro
tocchi vi troverai ogni nome e vocabolo, che tu imaginerai.

Io ho già veduto nelli nuvoli e muri macchie, che mi hanno desto
a belle invenzioni di varie cose, le quali macchie, ancora che
integralmente fussino in sè private di perfezione di qualunque membro,
non mancavano di perfezione nelli loro movimenti o altre azioni.


XX. — LA STANZA DEL PITTORE.

Le stanze overo abitazioni piccole ravvian lo ’ngegno, e le grandi lo
sviano.


XXI. — L’IDEA E LA PRATICA DELL’ARTE.

Tristo è quel maestro, del quale l’opera avanza il giudizio suo,
e quello si dirizza alla perfezione dell’arte, del quale l’opera è
superata dal giudizio.


XXII. — PROGRESSO INDEFINITO DELL’ARTE.

Tristo è quel discepolo, che non avanza il suo maestro.


XXIII. — QUEL PITTORE, CHE NON DUBITA, POCO ACQUISTA.

Quando l’opera supera il giudizio de l’operatore, esso operante poco
acquista; e quando il giudizio supera l’opera, essa opera mai finisce
di migliorare, se l’avarizia non l’impedisce.


XXIV. — PRECETTI SULLA PITTURA.

E tu, pittore, studia di fare le tue opere ch’abbino a tirare a sè li
sua veditori, e quelli fermare con grande ammirazione e dilettazione;
e non tirarli e poi scacciarli, come fa l’aria a quel, che, nelli
tempi notturni, salta ignudo dal letto a contemplare la qualità d’essa
aria nubilosa o serena, che immediate, scacciato dal freddo di quella,
ritorna nel letto, donde prima si tolse. Ma fa le opere tue simili a
quell’aria, che, ne’ tempi caldi, tira gli omini de li lor letti, e
gli ritiene con dilettazione a prendere lo estivo fresco; e non voler
essere prima pratico che dotto, e che l’avarizia vinca la gloria, che
di tal arte meritamente s’acquista.

Non vedi tu che, infra le umane bellezze, il viso bellissimo ferma li
viandanti e non i loro ricchi ornamenti? E questo dico a te, che con
oro o altri ricchi fregi adorni le tue figure. Non vedi tu isplendenti
bellezze della gioventù diminuire di loro eccellenza per li eccessivi
e troppo culti ornamenti? Non hai tu visto le montanare, involte ne
gl’inculti e poveri panni, acquistare maggior bellezza, che quelle, che
sono ornate?

Non usare le affettate conciature o capellature di teste, dove,
appresso delli goffi cervelli, un sol capello posto più d’un lato che
dall’altro, colui che lo tiene, se ne promette grand’infamia, credendo
che li circostanti abbandonino ogni lor primo pensiero, e solo di quel
parlino, e solo quello riprendano. E questi tali han sempre per lor
consigliero lo specchio e il pettine, e il vento è loro capital nemico,
sconciatore delli azzimati capegli.

Fa tu dunque alle tue teste li capegli scherzare insieme col finto
vento, intorno alli giovanili volti e, con diverso revoltare,
graziosamente ornarli; e non far come quelli che gl’impiastrano
con colla, e fanno parere i visi, come se fussino invetriati....
Umane pazzie in aumentazione, delle quali non bastano li naviganti a
condurre dalle orientali parti le gomme arabiche, per riparare che ’l
vento non varî l’equalità delle sue chiome, chè di più vanno ancora
investigando!...



PARAGONE DELLA PITTURA COLLA SCULTURA.


I.

Adoperandomi io non meno in Scoltura, che in Pittura, e facendo l’una e
l’altra ’n un medesimo grado, mi pare, con picciola imputazione, potere
dare sentenza quale sia di maggiore ingegno e difficultà e perfezione
l’una, che l’altra. Prima, la Scoltura è sottoposta a certi lumi, cioè
di sopra, e la pittura porta per tutto con seco lume e ombra; e ’l
lume e l’ombra è la importanza adunque della Scoltura. Lo scultore in
questo caso è aiutato dalla natura del rilievo, che lo genera per sè,
e ’l pittore per accidentale arte lo fa ne’ lochi, dove ragionevolmente
lo farebbe la natura. Lo scultore non si può diversificare nelle varie
nature de’ colori delle cose; la Pittura non manca in parte alcuna. Le
prospettive delli scultori non paiono niente vere; quelle del pittore
paiono a centinaia di miglia di là dall’opera. La Prospettiva aerea
è lontana dalla loro opera, non possono figurare i corpi trasparenti,
non possano figurare i luminosi, non linee riflesse, non corpi lucidi
come specchi e simili cose lustranti, non nebbie, non tempi oscuri e
infinite cose, che non si dicono per non tediare.

Ciò ch’ell’ha è che la è più resistente al tempo, benchè ha simile
resistenza la pittura fatta sopra rame grosso coperto di smalto bianco,
e sopra quello dipinto con colori di smalto, e rimesso in fuoco, e
fatto cuocere. Questa per eternità avanza la scoltura. Potran dire
che dove fanno un errore non esserli facile il racconciare. Questo è
tristo argomento a voler provare, che una ismemorataggine irremediabile
faccia l’opera più degna. Ma vi dirò bene che lo ingegno del maestro
sia più difficile a racconciare, che fa simili errori, che non è
racconciare l’opera da quello guasta. Noi sappiamo bene, che quello,
che sarà pratico e bono, non farà simili errori, anzi con buone regole
andrà levando tanto poco per volta, che ben conducerà sua opera.
Ancora, lo scultore, se fa di terra o cera, può levare e porre, e
quand’è terminata, con facilità si getta di bronzo, e questa è l’ultima
operazione e la più permanente, ch’abbia la Scoltura, imperocchè
quella, ch’è sola di marmo, è sottoposta, alla rovina, che non la ’n
bronzo.

Adunque quella pittura fatta in rame che si può, con i metodi della
Pittura, levare e porre, è pari al bronzo, che quando facevi prima
l’opera di cera, ancor si poteva lei levare e porre. — Se questa
scoltura di bronzo è eterna, questa di rame o di vetro è eternissima;
se il bronzo rimane nero e brutto, questa è piena di varî e vaghi
colori e d’infinite varietà, delle quale come di sopra è, se tu volessi
dire solamente della pittura fatta in tavola, di questa son io contento
dare la sentenza con la Scoltura, dicendo così: — come la Pittura è più
bella e di più fantasia e più copiosa, e la Scoltura più durabile, e
altro non ha. —

La Scoltura con poca fatica mostri quel che ’n la pittura pare cosa
miracolosa a far parere palpabili le cose impalpabili, rilevate le
cose piane, lontane le cose vicine! In effetto la Pittura è ornata
d’infinite speculazioni, che la Scoltura non l’adopera.


II.

La Scoltura non è scienza, ma arte meccanicissima, perchè genera sudore
e fatica corporale al suo operatore, e solo bastano, a tale artista,
le semplici misure de’ membri e la natura delli movimenti e posate, e
così in sè finisce, dimostrando all’occhio quel, che quello è, e non dà
di sè alcuna ammirazione al suo contemplante, come fa la Pittura, che
in una piana superfizie, per forza di scienza, dimostra le grandissime
campagne co’ lontani orizzonti.


III.

Tra la Pittura e la Scoltura non trovo altra differenza, se non che
lo scultore conduce le sue opere con maggior fatica di corpo, che il
pittore, e il pittore conduce le opere sue con maggior fatica di mente.

Provasi così esser vero, conciossiachè lo scultore, nel fare la sua
opera, fa per forza di braccia e di percussione a consumare il marmo
o altra pietra soverchia, ch’eccede la figura, che dentro a quella si
rinchiude con esercizio meccanicissimo, accompagnato spesse volte da
gran sudore, composto di polvere e convertito in fango, con la faccia
impastata e tutto infarinato di polvere di marmo, che pare un fornaio,
e coperto di minute scaglie, che pare gli sia fioccato addosso, e
l’abitazione imbrattata e piena di scaglie e di polvere di pietre.

Il che tutto al contrario avviene al pittore, parlando di pittori
e scultori eccellenti. Imperocchè il pittore con grande agio siede
dinanzi alla sua opera, ben vestito, e muove il lievissimo pennello
con li vaghi colori. È ornato di vestimenti come a lui piace, e è
l’abitazione sua piena di vaghe pitture e pulita; e accompagnata spesse
volte di musiche o lettori di varie e belle opere, le quali — sanza
strepito di martelli o altro rumore misto — sono con gran piacere
udite.


IV.

Nessuna comparazione è dallo ingegno e artificio e discorso della
Pittura a quello della Scoltura, che non s’impaccia della Prospettiva,
causata dalla virtù della materia e non dall’artefice.

E se lo scultore dice non poter racconciare la materia levata di
soperchio alla sua opera, come può il pittore; qui si risponde che quel
che troppo leva, poco intende, e non è maestro. — Perchè se lui ha in
potestà le misure, egli non leverà quello che non deve; adunque diremo
tal difetto essere dell’operatore e non della materia.

Ma di questi non parlo, perchè non sono maestri, ma guastatori di marmi.

Li maestri non si fidano nel giudizio dell’occhio, perchè sempre
inganna, come prova, chi vol dividere una linea in due parti eguali,
a giudizio di occhio, che spesso la sperienza lo inganna; onde
per tale sospetto li buoni giudici sempre temono, il che non fanno
l’ignoranti, e per questo, colla notizia della misura di ciascuna
lunghezza, grossezza e larghezza de’ membri sempre si vanno al continuo
governando, e così facendo, non levano più del dovere.

Ma la Pittura è di maraviglioso artificio, tutta di sottilissime
speculazioni, delle quali in tutto la Scoltura n’è privata, per essere
di brevissimo discorso.

Rispondesi allo scultore, che dice, che la sua scienza è più permanente
che la Pittura, che tal permanenza è virtù della materia sculta e
non dello scultore, e in questa parte lo scultore non se lo debbe
attribuire a sua gloria, ma lasciarla alla natura, creatrice di tale
materia.


V.

La Pittura è di maggior discorso mentale e di maggiore artificio e
meraviglia che la Scoltura, perciocchè necessità costringe la mente
del pittore a trasmutarsi nella propria mente di natura, e che sia
interprete infra essa natura e l’arte, cementando con quella le cause
delle sue dimostrazioni, costrette dalla sua legge; e in che modo le
similitudini delli obbietti circostanti all’occhio concorrino colli
veri simulacri alla popilla dell’occhio; e infra li obbietti eguali in
grandezza quale si dimostrerà maggiore a esso occhio; e infra li colori
eguali qual si dimostrerà più o meno oscuro o più o meno chiaro; e
infra le cose di eguale bassezza quale si dimostrerà più o men bassa:
o di quelle, che sono poste in altezza eguale, quale si dimostrerà più
o meno alta; e delli obbietti eguali posti in varie distanze, perchè si
dimostreranno men noti l’un che l’altro.

E tale arte abbraccia e restringe in sè tutte le cose visibili, il che
far non può la povertà della Scoltura, cioè: li colori di tutte le cose
e loro diminuzioni; questa figura le cose trasparenti, e lo scultore
ti mostrerà le naturali, sanza suo artifizio; il pittore ti mostrerà
varie distanze con variamenti del colore, dall’aria interposta fra
li obbietti e l’occhio; egli le nebbie per le quali con difficoltade
penetrano le spezie dalli obbietti; egli le pioggia, che mostrano dopo
sè li nuvoli con monti e valli; egli la polvere, che mostrano in sè e
dopo sè li combattenti di essa motori; egli li fumi più o meno densi;
questo ti mostrerà li pesci scherzanti infra la superfizie delle acque
e il fondo suo; egli le pulite ghiare con varî colori posarsi sopra le
lavate arene del fondo de’ fiumi, circondati dalle ondeggianti erbe,
dentro alla superfizie dell’acqua; egli le stelle in diverse altezze
sopra di noi e così altri innumerabili effetti, alli quali la Scoltura
non aggiunge.


VI. — CONCLUSIONE.

Manca la Scoltura della bellezza de’ colori, manca della prospettiva
de’ colori, manca della prospettiva e confusione de’ termini delle
cose remote all’occhio, imperocchè così farà cognito li termini delle
cose propinque, come delle remote; non farà l’aria, interposta,
infra l’obbietto remoto e l’occhio, occupare più esso obbietto,
come le figure velate, che mostrano la nuda carne sott’i veli, a
quella anteposti; non farà la minuta ghiara di varî colori, sotto la
superfizie delle trasparenti acque.



I PAESI E LE FIGURE.



I PAESI.


I. — UN EFFETTO DI NUBI SUL LAGO MAGGIORE.

Io sono già stato a vedere tal multiplicazione di arie [Sidenote:
condensazione di nubi nell’atmosfera], e già sopra a Milano, inverso
lago Maggiore, vidi una nuvola in forma di grandissima montagna,
piena di scogli infocati, perchè li raggi del sole, che già era
all’orizzonte, che rosseggiava, la tigneano del suo colore. E questa
tal nuvola attraeva a sè tutti li nuvoli piccioli, che intorno le
stavano; e la nuvola grande non si movea di suo loco, anzi riservò
nella sua sommità il lume del sole insino a una ora e mezzo di notte,
tant’era la sua immensa grandezza; e infra due ore di notte generò sì
gran venti, che fu cosa stupenda e inaudita.


II. — UN’ASCENSIONE AL MONTE ROSA.[146]

Dico, l’azzurro, in che si mostra l’aria, non essere suo proprio
colore, ma è causato da umidità calda, vaporata in minutissimi e
insensibili atomi, la quale piglia dopo se la percussion de’ raggi
solari, e fassi luminosa sotto la oscurità delle immense tenebre della
regione del fuoco, che di sopra le fa coperchio.

E questo vedrà, come vid’io, chi andrà sopra Momboso [Sidenote: il
monte Rosa], giogo dell’Alpi che dividono la Francia dalla Italia, la
qual montagna ha la sua base che partorisce li quattro fiumi, che rigan
per quattro aspetti contrarî tutta l’Europa: e nessuna montagna ha la
sua base in simile altezza.

Questa si leva in tanta altura, che quasi passa tutti li nuvoli, e
raro volte vi cade neve, ma sol grandine di stato, quando li nuvoli
sono nella maggiore altezza; e questa grandine vi si conserva in modo,
che, se non fosse la rarità del cadervi e del montarvi nuvoli, che
non accade due volte in una età, egli vi sarebbe altissima quantità di
diaccio, innalzato dalli gradi della grandine. Il quale di mezzo Luglio
vi trovai grossissimo; e vidi l’aria sopra di me tenebrosa; e ’l sole,
che percotea la montagna, essere più luminoso quivi assai, che nelle
basse pianure, perchè minor grossezza d’aria s’interponea in fra la
cima d’esso monte e ’l sole.


III. — TRACCIA.

Descrivi i paesi con vento e con acqua, o con tramontare e levare del
sole.


IV. — ALTRA TRACCIA.

Descrivi uno vento terrestre e marittimo, descrivi una pioggia.


V. — VARIE COLORAZIONI DEL MARE.

Il mare ondeggiante non ha colore universale, ma chi lo vede di terra
ferma, è di colore oscuro, e tanto più oscuro, quant’egli è più vicino
all’orizzonte, e vedevi alcuni chiarori over lustri, che si movono
con tardità a uso di pecore bianche nelli armenti; e chi vede il mare
stando in alto mare lo vede azzurro. E questo nasce, che da terra il
mare pare oscuro, perchè tu vedi in lui l’onde, che specchiano la
oscurità della terra; e d’alto mare paiono azzurre, perchè tu vedi
nell’onde l’aria azzurra, da tali onde specchiata.


VI. — LA VEGETAZIONE DI UN COLLE.

Quell’erbe e piante saranno di color tanto più pallido, quanto il
terreno che le nutrisce è più magro e carestioso [Sidenote: scarso,
povero] d’umore: il terreno è più carestioso e magro sopra li sassi,
di che si compongono li monti. E li alberi saranno tanto minori e più
sottili, quanto essi si fanno più vicini alla sommità de’ monti: e il
terreno è tanto più magro, quanto s’avvicina più alle predette sommità
de’ monti; e tanto più abbondante il terreno è di grassezza, quanto
esso è più propinquo alle concavità delle valli.

Adunque tu, pittore, mostrerai nelle sommità de’ monti li sassi, di
che esso si compone, in gran parte scoperti di terreno, e l’erbe,
che vi nascono, minute e magre e in gran parte impallidite e secche,
per carestia d’umore, e l’arenosa e magra terra si veda transparire
infra le pallide erbe; e le minute piante, stentate e invecchiate in
minima grandezza, con corte e spesse ramificazioni e con poche foglie,
scoprendo in gran parte le rugginenti e aride radici, tessute con
le falde [Sidenote: gli strati delle roccie] e rotture [Sidenote: i
crepacci] delli rugginosi scogli, nate dalli ceppi, storpiati dalli
uomini e da’ venti; e in molte parti si vegga li scogli superare
li còlli de li alti monti, vestiti di sottile e pallida ruggine; e
in alcuna parte dimostrare li lor veri colori scoperti, mediante la
percussione delle folgori del cielo, il corso delle quali, non sanza
vendetta di tali scogli, spesso son impedite.

E quanto più discendi alle radici de’ monti, le piante saranno più
vigorose e spesse di rami e di foglie; e le lor verdure di tante
varietà, quanto sono le specie delle piante, di che tal selve si
compongono, delle quali la ramificazione è con diversi ordini e diverse
spessitudini [Sidenote: abbondanza di rami frondosi] di rami e di
foglie e diverse figure e altezze: e alcuni con istrette ramificazioni,
come il cipresso; e similmente degli altri con ramificazioni sparse
e dilatabili, com’è la quercia e il castagno e simili; alcuni con
minutissime foglie; altri con rare, com’è il ginepro e ’l platano e
simili; alcune quantità di piante, insieme nate, divise da diverse
grandezze di spazi e altre unite, sanza divisioni di parti o altri
spazi.


VII. — DEL MODO DEL FIGURARE UNA NOTTE.

Quella cosa ch’è privata interamente di luce è tutta tenebre. Essendo
la notte in simile condizione, e tu vi vogli figurare una storia,
farai che, sendovi ’l grande foco, che quella cosa ch’è più propinqua
di detto foco più si tinga nel suo colore, perchè quella cosa ch’è
più vicina all’obbietto, più partecipa della sua natura. E facendo il
foco pendere in colore rosso, farai tutte le cose alluminate da quello
ancora loro rosseggiare e quelle che sono più lontane a detto foco
più sien tinte del colore nero della notte. Le figure, che sono fra
te e ’l foco, appariscano scure nella oscurità della notte e non della
chiarezza del foco, e quelle che si trovano dai lati sieno mezze oscure
e mezze rosseggianti, e quelle che si possono vedere dopo i termini
delle fiamme saranno tutte alluminate di rosseggiante lume in campo
nero.

In quanto alli atti, farai quelli che li sono presso, farsi scudo colle
mani e con mantegli, a riparo del superchio calore, e, torto col volto
in contraria parte, mostrare fuggire da quelli più lontani; farai gran
parte di loro farsi colle mani riparo alli occhi offesi da superchio
splendore.


VIII. — COME SI DEE FIGURAR UNA FORTUNA [Sidenote: burrasca].

Se vuoi figurare bene una fortuna, considera e poni bene i sua effetti,
quando il vento, soffiando sopra la superfizie del mare e della
terra, rimove e porta con seco quelle cose, che non sono ferme, colla
universal marea.

E per ben figurare questa fortuna, farai in prima i nuvoli spezzati
e rotti dirizzarsi per lo corso del vento, accompagnati dall’arenosa
polvere, levata da’ liti marini, e rami e foglie levati per la potenza
del furore del vento, isparsi per l’aria, e in compagnia di quelle
molte altre leggere cose. Li alberi e l’erbe piegate a terra quasi
mostrarsi volere seguire il corso dei venti, coi rami storti fuor del
naturale corso e le scompigliate e racconciate foglie. Gli omini, che
lì si trovano, parte caduti e rivolti per li panni e per la polvere,
quasi sieno sconosciuti; e quelli, che restano ritti, sieno dopo
qualche albero abbracciati a quelli, perchè il vento non li strascini;
altri con le mani a li occhi per la polvere, chinati a terra, e i panni
e capegli diretti al corso del vento. Il mare turbato e tempestoso
sia pieno di retrosi [Sidenote: aggiramenti vorticosi dell’acqua], e
schiuma in fra le elevate onde, e ’l vento levare infra la combattuta
aria della schiuma più sottile a uso di spessa e avviluppata nebbia.
I navilî, che dentro vi sono, alcuni ve ne farai con la vela rotta,
e i brani d’essa ventilando infra l’aria in compagnia d’alcuna corda
rotta; alcuni alberi rotti, caduti, col navilio intraversato e rotto
infra le tempestose onde; certi omini gridanti abbracciare il rimanente
del navilio; farai i nuvoli cacciati dagl’impetuosi venti, battuti
nell’alte cime delle montagne, fare a quegli avviluppati retrosi, a
similitudine dell’onde percosse nelli scogli. L’aria spaventosa per le
oscure tenebre fatte nell’aria dalla polvere, nebbia e nuvoli folti.


IX. — MODO DI FIGURARE UNA BATTAGLIA.

Farai in prima il fumo dell’artiglieria, mischiato in fra l’aria,
insieme con la polvere, mossa dal movimento de’ cavalli e de’
combattitori. La quale mistione userai così: la polvere, perchè è cosa
terrestre e ponderosa, e ben che per la sua sottilità facilmente si
levi e mischi infra l’aria, niente di meno volentieri ritorna in basso,
e il suo sommo montare è fatto dalla parte più sottile, adunque il meno
fia veduta, e parrà quasi di colore d’aria; il fumo, che si mischia in
fra l’aria impolverata, quanto più s’alza a certa altezza, parrà oscura
nuvola, e vederassi ne le sommità più espeditamente il fumo, che la
polvere.

Il fumo penderà in colore alquanto azzurre, e la polvere terrà il
suo colore: dalla parte che viene il lume, parrà questa mistione
d’aria, fumo e polvere molto più lucida, che dalla opposita parte; i
combattitori quanto più fieno infra detta turbolenza, meno si vedranno
e meno differenza fia dai loro lumi alle loro ombre.

Farai rosseggiare i volti e le persone e l’aria e li scoppettieri
insieme co’ vicini, e detto rossore quanto più si parte dalla sua
cagione, più si perda; e le figure, che sono in fra te e ’l lume,
essendo lontane, parranno scure in campo chiaro, e le loro gambe,
quanto più s’apresseran alla terra, men fieno vedute, perchè la polvere
è lì più grossa e più spessa.

E se farai cavalli correnti fuori della turba, falli nuvoletti di
polvere distanti l’uno dall’altro, quanto po’ essere lo ’ntervallo de’
salti fatti dal cavallo, e quello nuvolo, ch’è più lontano da detto
cavallo, men si vegga, anzi sia alto, sparso e raro, e più presso sia
più evidente e minore e più denso.

L’aria sia piena di saettume di diverse ragioni: chi monti, chi
discenda, qual sia per linea piana; e le ballotte delli scoppietti
sieno accompagnate d’alquanto fumo dirieto al lor corso.

E le prime figure farai polverose, i capegli e ciglia e altri lochi
piani, atti a sostenere la polvere. Farai i vincitori correnti co’
capegli, e altre cose leggiere, sparse al vento: con le ciglia basse
e’ caccia i contrarî membri innanzi, cioè se mandera’ innanzi il
piè destro che ’l braccio stanco ancor lui venga innanzi. E se farai
alcuno caduto fara’ gli il segno dello sdrucciolare su per la polvere,
condotto [Sidenote: ridotto, trasmutato] in sanguinoso fango, e
dintorno alla mediocre liquidezza della terra farai vedere istampite
[Sidenote: impresse] le pedate degli omini e cavalli di lì passati.

Farai alcuno cavallo strascinare morto il suo signore, e dirieto a
quello lasciare per la polvere e fango il segno dello strascinato
corpo; farai li vinti e battuti pallidi colle ciglia alte nella lor
congiunzione, e la carne, che resta sopra loro, sia abbondante di
dolenti crespe. Le fauci del naso sieno con alquante grinze partite
in arco dalle narici e terminate nel principio dell’occhio; le narici
alte, cagion di dette pieghe; le labbra arcate scoprano i denti di
sopra. I denti spartiti in modo di gridare con lamento. L’una delle
mani faccia scudo ai paurosi occhi, voltando il dirieto inverso il
nimico, l’altra stia a terra a sostenere il levato busto. Altri farai
gridanti colla bocca isbarrata e fuggenti; fara’ molte sorte d’arme in
fra i piedi de’ combattitori come scudi rotti, lancie, spade rotte,
altre simili cose; farai omini morti, alcuni ricoperti mezzi dalla
polvere, altri tutta la polvere, che si mischia coll’uscito sangue,
convertirsi in rosso fango, e vedere il sangue del su’ colore correre
con torto corso dal corpo alla polvere; altri morendo strignere i
denti o travolgere gli occhi, strignere le pugna alla persona e le
gambe storte. Potrebbesi vedere alcuno disarmato e abbattuto dal nemico
volgersi al nemico, con morsi e graffi fare crudele e aspra vendetta;
potresti vedere alcuno cavallo leggero correre coi crini sparsi al
vento, correre in fra i nemici, e co’ piedi fare molto danno; vedresti
alcuno storpiato, caduto in terra farsi copritura col suo scudo, e ’l
nemico, chinato in basso, fare forza di dare morte a quello.

Potrebbesi vedere molti omini caduti in un gruppo sopra uno caval
morto. Vederai alcuni vincitori lasciare il combattere e uscire
dalla moltitudine nettandosi co le due mani li occhi e le guancia
ricoperte di fango, fatte da lagrimare degli occhi per l’amor della
polvere. Vederesti le squadre del soccorso stare pien di speranza e
sospetto, co’ le ciglia aguzze, facendo a quelle ombra con le mani, e
riguardare infra la folta e confusa caligine dell’essere attenti al
comandamento del capitano; e simile, il capitano col bastone levato
e corrente inverso il soccorso, mostrare a quelli la parte dove di
loro è carestìa; e alcun fiume dentro cavalli correnti riempiendo la
circustante acqua di turbolenza di onde di schiuma e d’acqua confusa,
saltante infra l’aria e tra le gambe e corpi de’ cavalli. E non fare
nessun loco piano, se non le pedate ripiene di sangue.


X. — FIGURAZIONE DEL DILUVIO.

L’aria era oscura per la spessa pioggia, la qual, con obbliqua discesa,
piegata dal trasversal corso de’ venti, faceva onde di sè per l’aria,
non altrementi che far si vegga alla polvere, ma sol si variava
perchè tale innondazione era traversata dalli liniamenti, che fanno
le gocciole dell’acqua, che discende. Ma il colore suo era dato dal
fuoco, generato dalle saette fenditrici e squarciatrici delli nuvoli, i
vampi delle quali percoteano e aprivano li gran pelaghi delle riempiute
valli, li quali aprimenti mostravano nelli lor vertici le piegate cime
delle piante. E Nettuno si vedea in mezzo alle acque col tridente, e
vedeasi Eolo colli sua venti ravvilluppare notanti piante diradicate,
miste colle immense onde.

L’orizzonte, con tutto lo emisperio, era turbo e focoso, per le
ricevute vampe delle continue saette. Vedevansi li omini e li uccelli,
che riempivan di sè li grandi alberi, scoperti dalle dilatate onde,
componitrici delli colli, circondatori delli gran baratri.


XI. — SEGUE.

Vedeasi la oscura e nebulosa aria essere combattuta dal corso di
diversi venti, e avviluppati dalla continua pioggia e misti colla
gragnuola, li quali or qua ora là portavano infinita ramificazione
delle stracciate piante, miste con infinite foglie. Dintorno vedeasi le
antiche piante diradicate e stracciate dal furor de’ venti. Vedevasi le
ruine de’ monti, già scalzati dal corso de’ lor fiumi, ruinare sopra
i medesimi fiumi e chiudere le loro valli; li quali fiumi ringorgati
allagavano, e sommergevano le moltissime terre, colli lor popoli.

Ancora avresti potuto vedere, nelle sommità di molti monti, essere
insieme ridotte molte varie spezie d’animali, spaventati e ridotti
al fin dimesticamente, in compagnia de’ fuggiti omini e donne colli
lor figlioli. E le campagne coperte d’acqua mostravan le sue onde in
gran parte coperte di tavole, lettiere, barche, altri vari strumenti,
fatti dalla necessità e paura della morte, sopra li quali eran donne,
omini colli lor figlioli misti, con diverse lamentazioni e pianti,
spaventati dal furor de’ venti, li quali con grandissima fortuna
rivolgevan l’acque sotto sopra insieme colli morti, da quella annegati.
E nessuna cosa più lieve che l’acqua era che non fussi coperta di
diversi animali, i quali, fatti tregua, stavano insieme con paurosa
collegazione [Sidenote: aggruppamento], infra’ quali eran lupi,
volpi, serpi e d’ogni sorte, fuggitori dalla morte. E tutte l’onde
percuotitrici de’ lor lidi, combattevan quelli, colle varie percussioni
di diversi corpi annegati, le percussioni de’ quali uccidevano quelli,
alli quali era restato vita.

Alcune congregazioni d’omini avresti potuti vedere, le quali con
armata mano difendevano li piccioli siti, che loro eran rimasti,
da lioni, lupi e animali rapaci, che quivi cercavan lor salute. Oh!
quanti romori spaventevoli si sentivan per l’aria scura, percossa dal
furore de’ tuoni e delle folgori, da quelli scacciate, — che per quella
ruinosamente scorrevano, percotendo ciò che s’opponea al suo corso!
Oh! quanti avresti veduti colle proprie mani chiudersi li orecchi per
schifare l’immensi romori, fatti per la tenebrosa aria dal furore de’
venti misti con pioggia, tuoni celesti e furore di saette!

Altri, non bastando loro il chiudere delli occhi, ma colle proprie mani
ponendo quelle l’una sopra dell’altra, più se li coprivano, per non
vedere il crudele strazio fatto della umana spezie dall’ira di Dio.
— Oh! quanti lamenti e quanti spaventati si gettavano dalli scogli!
Vedeasi le grandi ramificazioni delle gran quercie, cariche d’omini,
esser portate per l’aria dal furore delli impetuosi venti.

Quante eran le barche volte sotto sopra, e quelle intere e quelle in
pezzi esservi sopra gente, travagliandosi per loro scampo, con atti
e movimenti dolorosi, pronosticanti di spaventevole morte. Altri con
movimenti disperati si toglievano la vita, disperandosi di non potere
sopportare tal dolore: de’ quali alcuni si gittavano dalli alti scogli,
altri si stringevano la gola colle proprie mani, alcuni pigliavan li
propri figlioli, e con grande rapidità li sbattevan interi, alcuni
colle proprie sue armi si ferivano e uccidean sè medesimi, altri
gittandosi ginocchioni si raccomandavan a Dio. Oh! quante madri
piangevano i sua annegati figlioli, quelli tenendo sopra le ginocchia,
alzando le braccia aperte in verso il cielo, e con voci, composte
di diversi urlamenti, riprendevan l’ira delli Dei; altri, colle man
giunte e le dita insieme tessute, mordevano, e con sanguinosi morsi
quel divoravan, piegandosi col petto alle ginocchia per lo immenso e
insopportabile dolore.

Vedeansi li armenti delli animali, come cavalli, buoi, capre, pecore,
esser già attorniati dalle acque e essere restati in isola nell’alte
cime de’ monti, già restrigniersi insieme, e quelli del mezzo elevarsi
in alto, e camminare sopra delli altri, e fare infra loro gran zuffe,
de’ quali assai ne morivan per carestia di cibo.

E già li uccelli si posavan sopra li omini e altri animali, non
trovando più terra scoperta che non fusse occupata da’ viventi; già
la fame, ministra della morte, avea tolto la vita a gran parte delli
animali; quando li corpi morti già levificati si levavano dal fondo
delle profonde acque e surgevano in alto. E infra le combattenti onde,
sovra le quali si sbattevano l’un nell’altro, e, come balle piene di
vento, risaltavan indirieto dal sito della lor percussione, questi si
facevan base de’ predetti morti. E sopra queste maledizioni si vedea
l’aria coperta di oscuri nuvoli, divisi dalli serpeggianti moti dello
infuriate saette del cielo, alluminanti or qua or là infra la oscurità
delle tenebre.

Vedesi il moto dell’aria mediante il moto della polvere, mossa dal
corso del cavallo, il moto della quale è tanto veloce a riempiere il
vacuo, che di sè lascia nell’aria, che di sè lo vestiva, quanto è la
velocità di tal cavallo a fuggirsi dalla predetta aria.

E ti parrà forse potermi riprendere dell’avere io figurato le vie fatte
per l’aria dal moto del vento, conciò sia che ’l vento per sè non si
vede infra l’aria. A questa parte si risponde, che non il moto del
vento, ma il moto delle cose da lui portate è sol quel che per l’aria
si vede.

Tenebre, vento, fortuna di mare, diluvio d’acqua, selve infocate,
pioggia, saette del cielo, terremoti e ruina di monti, spianamenti di
città.

Venti revertiginosi [Sidenote: raggirantisi turbinosamente], che
portano acqua, rami di piante e omini infra l’aria.

Rami stracciati da’ venti, misti col corso de’ venti, con gente di
sopra.

Piante rotte, cariche di gente.

Navi rotte in pezzi, battute in iscogli.

Delli armenti, grandine, saette, venti revertiginosi.

Gente che sien sopra piante, che non si posson sostenere, alberi e
scogli, torri, còlli pien di gente, barche, tavole, madie e altri
strumenti da natare, còlli coperti d’uomini e donne e animali, e saette
da’ nuvoli, che alluminino le cose.

Sia imprima figurata la cima d’un aspro monte con alquanta valle
circustante alla sua base, e ne’ lati di questo si veda la scorza
del terreno levarsi insieme colle minute radici di piccoli sterpi, e
spogliar di sè gran parte delli circonstanti scogli; rovinosa discenda
di tal dirupamento; con turbolenza del corso vada percuotendo e
scalzando le ritorte e globulenti [Sidenote: piene di prominenze, di
bulbi] radici delle gran piante, e quelle ruinando sotto sopra. E le
montagne, denudandosi, scoprano le profonde fessure, fatte in quelle
dalli antichi terremoti; e li piedi delle montagne siano in gran
parte rincalzati e vestiti delle ruine delli arbusti precipitati da’
lati dell’alte cime de’ predetti monti, i quali sien misti con fango,
radici, rami d’alberi, con diverse foglie, infuse infra esso fango e
terra e sassi.

E le ruine d’alcuni monti sien discese nella profondità d’alcuna valle,
e facciansi argine della ringorgata acqua del suo fiume, la quale
argine, già rotta, scorra con grandissime onde, delle quali le massime
percuotino, e ruinino le mura delle città e ville di tal valle. E le
ruine degli alti edifizî delle predette città levino gran polvere,
l’acqua si levi in alto in forme di fumo, ed in ravviluppati, nuvoli si
movano contro alla discendente pioggia.

Ma la ringorgata acqua si vada raggirando pel pelago, che dentro a
sè la rinchiude, e con ritrosi revertiginosi in diversi obbietti,
percuotendo e risaltando in aria colla fangosa schiuma, poi ricadendo
e facendo riflettere in aria l’acqua percossa. E le onde circolari,
che si fuggono dal loco della percussione, camminando col suo impeto
in traverso, sopra del moto dell’altre onde circolari, che contra di
loro si muovono, e, dopo la fatta percussione, risalgano in aria, sanza
spiccarsi dalle lor basi.

E all’uscita, che l’acqua fa di tal pelago, si vede le disfatte onde
distendersi inverso la loro uscita, dopo la quale, cadendo over
discendendo infra l’aria, acquista peso e moto impetuoso, dopo il
quale, penetrando la percossa acqua, quella apre, e penetra con furore
alla percussione del fondo, dal quale poi riflettendo, risalta inverso
la superfizie del pelago, accompagnata dall’aria, che con lei si
sommerse, e questa resta nella uscita colla schiuma, mista con legnami
e altre cose più lievi che l’acqua, intorno alle quali si dà principio
all’onde, che tanto più crescono in circuito, quanto più acquistano
di moto: il qual moto le fa tanto più basse quanto ell’acquistano più
larga base, e per questo sono poco evidenti nel lor consumamento. Ma,
se l’onde ripercotono in varî obbietti, allora elle risaltano indirieto
sopra l’avvenimento dell’altre onde, osservando l’accrescimento della
medesima curvità, ch’ell’avrebbero acquistato nell’osservazione del già
principiato moto.

Ma la pioggia nel discendere de’ sua nuvoli è del medesimo color d’essi
nuvoli, cioè della sua parte ombrosa, se già li razzi solari non li
penetrassino: il che se così fusse, la pioggia si dimostrerebbe di
minore oscurità che esso nuvolo. E se li gran pesi delle massime ruine
delli gran monti o d’altri magni edifizî, in lor ruine, percuoteranno
li gran pelaghi dell’acque, allora risalterà gran quantità d’acqua
infra l’aria, il moto della quale sarà fatto per contrario aspetto a
quello che fece il moto del percussore dell’acque, cioè l’angolo della
riflession, e fia simile all’angolo della incidenza.

Delle cose portate dal corso delle acque, quella si discosterà più
dalle opposite rive, che fia più grave over di maggior quantità. Li
ritrosi delle acque nelle sue parti sono tanto più veloci, quanto elle
son più vicine al suo centro. La cima delle onde del mare discende
dinanzi alle lor basi, battendosi e confregandosi sopra le globulenze
della sua faccia: e tal confregazione, trita in minute particule della
discendente acqua, la qual, convertendosi in grossa nebbia, si mischia
nelli corsi de’ venti a modo di ravviluppato fumo e revoluzion di
nuvoli, e la leva al fine infra l’aria, e si converte in nuvoli. Ma la
pioggia, che discende infra l’aria, nell’essere combattuta e percossa
dal corso de’ venti, si fa rara o densa, secondo la rarità o densità
d’essi venti, e per questo si genera infra l’aria una innondazione di
trasparenti, fatti dalla discesa della pioggia che è vicina all’occhio,
che la vede. L’onde del mare, che percuotono l’obliquità de’ monti,
che con lui combinano, saranno schiumose, con velocità contro al dosso
de’ detti colli, e nel tornare indirieto si scontrano nell’avvenimento
della seconda onda, e dopo il gran loro strepito tornan, con grande
innondazione, al mare, donde si partirono. Gran quantità di popoli,
d’uomini e d’animali diversi si vedean scacciati dell’accrescimento del
diluvio inverso le cime de’ monti, vicini alle predette acque.

Onde del mare di Piombino, tutte d’acqua schiumosa.

Dell’acqua che risalta; de’ venti di Piombino; a Piombino ritrosi
di venti e di pioggia con rami e alberi misti coll’aria; votamenti
dell’acqua, che piove nelle barche.[147]


XII. — L’ISOLA DI CIPRO.

Dalli meridionali lidi di Cilicia si vede per australe la bell’isola di
Cipro, la qual fu regno della dea Venere, e molti, incitati dalla sua
bellezza, hanno rotte le loro navi e sartie infra li scogli, circondati
dalle vertiginose onde. Quivi la bellezza del dolce colle invita i
vagabondi naviganti a recrearsi infra le sue fiorite verdure, fra le
quali i venti raggirandosi empiono l’isola e ’l circostante mare di
soavi odori.... Oh! quante navi quivi già son sommerse! oh! quanti
navili rotti negli scogli! Quivi si potrebbero vedere innumerabili
navili, chi è rotto e mezzo coperto dall’arena, chi si mostra da poppa
e chi da prua, chi da carena e chi da costa, — e parrà a similitudine
d’un Giudizio, che voglia risuscitare navili morti, tant’è la somma
di quelli, che copre tutto il lito settentrionale. Quivi i venti
d’aquilone, resonando, fan varî e paurosi soniti.



IL VIAGGIO IN ORIENTE.


DIVISIONE DEL LIBRO.[148]

  _La predica e persuasione di fede._
  _La súbita innondazione insino al fine suo._
  _La ruina della città._
  _La morte del popolo e disperazione._
  _La caccia del predicatore e la sua liberazione e benivolenza._
  _Il danno ch’ella fece._
  _Ruine di neve._
  _Trovata del profeta._
  _La profezia sua._
  _Allagamento delle parti basse di Erminia [Sidenote: Armenia]
    occidentale, li scolamenti delle quali erano
    per la tagliata di monte Tauro._
  _Come il novo profeta (mostra) questa ruina
    è fatta al suo proposito._


LETTERA I.

DESCRIZIONE DEL MONTE TAURO E DEL FIUME EUFRATES.

_Al Diodario [Sidenote: Diodarro, devadâr o dervâdâr, specie di
Prefetto di palazzo] di Soria [Sidenote: Siria], locotenente del sacro
Soltano di Babilonia._

Il nuovo accidente, accaduto in queste nostre parti settentrionali,
il quale son certo, che non solamente a te, ma a tutto l’universo darà
terrore, (il quale) successivamente ti sarà detto per ordine, mostrando
prima l’effetto e poi la causa.

Ritrovandomi io in queste parti d’Erminia, a dare con amore e
sollecitudine opra a quello uffizio, pel quale tu mi mandasti, e
nel dare principio in quelle parti, che a me pareano essere più al
proposito nostro, entrai nella città di Calindra [Sidenote: È la
medievale Kelindreh], vicina ai nostri confini.

Questa città è posta nelle ispiagge di quella parte del monte Tauro,
che è divisa dall’Eufrates, e riguarda i corni del gran monte Tauro per
ponente.

Questi corni son di tanta altura, che par che tocchino il cielo,
chè nell’universo non è parte terrestre più alta della sua cima, e
sempre 4 ore innanzi dì è percossa dai razzi del sole in oriente; e
per l’essere lei di pietra bianchissima, essa forte risplende e fa
l’uffizio a questi Ermini, come farebbe un bel lume di luna nel mezzo
delle tenebre; e per la sua grande altura, essa passa le somme altezze
de’ nugoli per ispazio di 4 miglia a linia retta. Questa cima è veduta
di gran parte dell’occidente alluminata dal sole dopo il suo tramontare
insino alla terza parte della notte, ed è quella che appresso di voi
ne’ tempi sereni abbiam già giudicato essere una cometa, e pare a noi
nelle tenebre della notte mutarsi in varie figure, e quando dividersi
in due o in tre parti, e quando lunga, e quando corta; o questo nasce
per li nuvoli, che ne l’orizzonte del cielo s’interpongono in fra parte
d’esso monte e ’l sole; e, per tagliare loro essi razzi solari, il lume
del monte è interrotto con varî spazi di nugoli, e però è di figura
variabile nel suo splendore.


Perchè il monte risplende nella sua cima la metà o ’l terzo della
notte, e pare una cometa a quelli di ponente, dopo la sera, e innanzi
dì a quelli di levante.

Perchè essa cometa par di variabile figura in modo, che ora è tonda,
or lunga, e or divisa in due o in tre parti, e ora unita, e quando si
perde, e quando si rivede.


LETTERA II.

FIGURA DEL MONTE TAURO.

Non sono, o Diodario, da essere da te imputato di pigrizia, come le tue
rampogne par che accennino, ma lo isfrenato amore, il quale ha creato
il benefizio, ch’io posseggo da te, è quello che m’ha costretto con
somma sollecitudine a cercare e con diligenza a ’nvestigare la causa
di sì grande e stupendo effetto; la qual cosa non sanza tempo ha potuto
avere effetto. Ora, per farti ben soddisfatto della causa di sì grande
effetto, è necessario ch’io ti mostri la forma del sito, e poi verrò
allo effetto, col quale, credo, rimarrai soddisfatto.

Non ti dolere, o Diodario, del mio tardare a dar risposta alla tua
desiderosa richiesta, perchè queste cose, di che tu mi richiedesti, son
di natura, che non sanza processo di tempo si possono bene esprimere, e
massime perchè a voler mostrare la causa di sì grande effetto, bisogna
discrivere con bona forma la natura del sito, e mediante quella tu
potrai poi con facilità soddisfarti della predetta richiesta.

Io lascierò indirieto la descrizione della forma dell’Asia Minore,
e che mare o terre sien quelle, che terminino la figura della sua
quantità, perchè so che la diligenza e sollecitudine de’ tua studi non
t’hanno di tal notizia privato, e verrò a denotare la vera figura di
Taurus monte, il quale è quello ch’è causatore di sì stupenda e dannosa
maraviglia, il quale serve alla espedizione del nostro proposito.

Questo monte Tauro è quello che appresso di molti è detto essere il
giogo del monte Caucaso; ma avendo voluto ben chiarirmi, ho voluto
parlare con alquanti di quelli, che abitano sopra del mar Caspio, i
quali mostrano che, benchè i monti loro abbino il medesimo nome, questi
son di maggiore altura, e però confermano quello sia il vero monte
Caucaso, perchè Caucaso in lingua scitica vol dire somma altezza. E
invero non ci è notizia che l’Oriente nè l’Occidente, abbia monte di sì
grande altura, e la pruova che così sia è che li abitatori de’ paesi,
che li stanno per ponente, veggono i razzi del sole, che allumina
insino alla quarta parte della maggior notte parte della sua cima, e ’l
simile fa a quelli paesi, che li stanno per oriente.


QUALITÀ E QUANTITÀ DEL MONTE TAURO.

L’ombra di questo giogo del Tauro è di tanta altura, che quando di
mezzo Giugno il sole è a mezzogiorno, la sua ombra s’astende insino al
principio della Sarmazia [Sidenote: La regione che si estende all’E.,
dal Tanai sino al mar Caspio], che son giornate 12, e a mezzo Dicembre
s’astende insino ai monti Iperborei, che è viaggio d’un mese inverso
tramontana; e sempre la sua parte opposita al vento che soffia è piena
di nuvoli e nebbie, perchè il vento, che s’apre nella percussione del
sasso, dopo esso sasso si viene a richiudere, e in tal modo porta con
seco i nuvoli da ogni parte e lasciali nella lor percussione, e sempre
è priva di percussione di saette per la gran moltitudine di nugoli,
che lì son ricettati, onde il sasso è tutto fracassato e pien di gran
ruine.

Questa nelle sue radici è abitata da ricchissimi popoli, ed è piena
di bellissime fonti e fiumi e fertile e abbondante d’ogni bene, e
massime nelle parti che riguardano a mezzogiorno; ma quando se n’è
montata circa a 3 miglia, si comincia a trovare le selve de’ grandi
abeti, pini, faggi e altri simili alberi; dopo questi per ispazio di
altre 3 miglia, si truova praterie e grandissime pasture; e tutto il
resto, insino al nascimento del monte Tauro, sono nevi eterne, che mai
per alcun tempo si partono, che s’astendono all’altezza di circa 14
miglia in tutto. Da questo nascimento del Tauro, insino all’altezza
d’un miglio non passano mai i nuvoli, chè qui abbiamo 15 miglia, che
sono circa a 5 miglia d’altezza per linia retta, e altrettanto o circa,
troviamo essere la cima delli corni del Tauro, ne’ quali, dal mezzo
in su, si comincia a trovare aria, che riscalda, e non vi si sente
soffiamenti di venti, ma nessuna cosa ci può troppo vivere; quivi non
nasce cosa alcuna, salvo alcuni uccelli rapaci, che covano nell’alte
fessure del Tauro, e discendono poi sotto i nuvoli a fare le lor prede
sopra i monti erbosi. — Questo è tutto sasso semplice, cioè da’ nuvoli
in su, ed è sasso candidissimo, e in sulla alta cima non si po’ andare
per l’aspra e pericolosa sua salita.


LETTERA III.

Essendomi io più volte con lettere rallegrato teco della tua prospera
fortuna, al presente so che, come amico, ti contristerai con meco del
misero stato, nel quale mi trovo, e questo è che ne’ giorni passati
sono stato in tanti affanni, paure, pericoli e danno, insieme con
questi miseri paesani, che avevamo d’avere invidia ai morti: e certo
io non credo, che, poichè gli elementi con lor separazione disfeciono
il gran Caos, che essi riunissino lor forza, anzi rabbia, a fare tanto
nocimento alli omini, quanto al presente da noi s’è veduto e provato;
in modo ch’io non posso imaginare che cosa si possa più accrescere a
tanto male, il quale noi provammo in spazio di dieci ore.

In prima fummo assaliti e combattuti dall’impeto e furore de’ venti,
e a questo s’aggiunsero le ruine delli gran monti di neve, i quali
hanno ripieno tutte queste valli e conquassato gran parte della nostra
città. E, non si contentando di questo, la fortuna, con sùbiti diluvi
d’acque, ebbe a sommergere tutta la parte bassa di questa città; oltre
di questo s’aggiunse una sùbita pioggia, anzi ruinosa tempesta piena
d’acqua, sabbia, fango e pietre, insieme avviluppate con radici, sterpi
e ciocchi di varie piante, e ogni cosa scorrendo per l’aria, discendea
sopra di noi; e in ultimo uno incendio di fuoco parea condotto non
che da’ venti, ma da diecimila diavoli, che ’l portassino, il quale ha
abbruciato e disfatto tutto questo paese, e ancora non vi è cessato.

E que’ pochi, che siamo restati, siamo rimasti con tanto sbigottimento
e tanta paura che appena, come balordi, abbiamo ardire di parlare
l’uno coll’altro. Avendo abbandonato ogni nostra cura, ci stiamo
insieme uniti in certe ruine di chiese, insieme misti maschi e femmine,
piccoli e grandi, a modo di torme di capre. I vicini per pietà ci hanno
soccorso di vettovaglie, i quali eran prima nostri nimici, e se non
fusse soccorso di vettovaglia, tutti saremmo morti di fame.

Ora vedi come ci troviamo! E tutti questi mali son niente a
comparazione di quelli, che in breve tempo ne son promessi.

So che, come amico, ti contristerai del mio male, come già, con
lettere, ti mostrai con effetto rallegrarmi del tuo bene.


FRAMMENTO.

Vedevasi gente, che con gran sollecitudine apparecchiavan vettovaglia
sopra diverse sorta di navili, fatti brevissimi per la necessità.

Li lustri dell’onde non si dimostravano in que’ luoghi, dove le
tenebrose pioggia colli lor nuvoli refrettevano.

Ma dove le vampe generate dalle celesti saette refrettevano, si vedeva
tanti lustri fatti da’ simulacri de’ lor vampi, quant’eran l’onde che a
li occhi de’ circustanti potean refrettere.

Tanto crescevano il numero de’ simulacri fatti da vampi delle saette
sopra l’onde dell’acqua, quanto cresceva la distanzia delli occhi lor
risguardatori, — com’è provato nella descrizione dello splendore della
luna.

E così diminuiva tal numero di simulacri, quanto più si avvicinavano
agli occhi che li vedeano, — com’è provato nella definizione dello
splendore della luna, e del nostro orizzonte marittimo, quando il sole
vi refrette co’ sua razzi, e che l’occhio che riceve tal refressione
sia lontano dal predetto mare.



LE FIGURE.


I. — LA PITTURA ESPRESSIVA.

La pittura, over le figure dipinte, debbono essere fatte in modo tale,
che i riguardatori d’esse possano con facilità conoscere, mediante
le loro attitudini, il concetto dell’animo loro. E se tu hai a fare
parlare un omo dabbene, fare che li atti sua sieno compagni delle bone
parole; e similmente se tu hai a figurare uno omo bestiale, fallo co’
movimenti fieri, gittando le braccia contro all’auditore, e la testa
col petto, sportato fori de’ piedi, accompagnino le mani del parlatore:
a similitudine del muto che, vedendo due parlatori, benchè esso sia
privato dell’audito, niente di meno, mediante li effetti e li atti
d’essi parlatori, lui comprende il tema della loro disputa.

Io vidi già in Firenze uno sordo accidentale, il quale se tu li parlavi
forte, lui non ti intendea, e parlando piano, sanza suono di voce, lui
t’intendea solo per lo menar delle labbra. Or mi potresti dir: — non
mena le labbra uno, che parla forte, come piano? e menandole l’uno come
l’altro, non sarà inteso l’altro come l’uno? — A questa parte io lascio
dare la sentenza alla sperienza: fa parlare uno piano e poi forte, e
pon mente le labbra.


II. — AVVERTIMENTO AL PITTORE.

Poni mente per le strade, sul fare della sera, i volti d’omini e donne,
quando è cattivo tempo, quanta grazia e dolcezza si vede in loro!


III. — LA PITTURA DEVE MOSTRARE LA PASSIONE DELLA FIGURA DIPINTA.

Il bono pittore ha da dipingere due cose principali, cioè l’omo e il
concetto della mente sua. Il primo è facile, il secondo difficile,
perchè s’ha a figurare con gesti e movimenti delle membra, e questo
è da essere imparato dalli muti, che meglio ’l fanno, che alcun’altra
sorte di omini.


IV. — COME IL MUTO È MAESTRO DEL PITTORE.

Le figure delli omini abbiano atti proprî alla loro operazione in modo
che, vedendoli, tu intendi quello che per loro si pensa o dice; li
quali saranno bene imparati da ch’imiterà li moti delli muti, li quali
parlano con movimenti delle mani e degli occhi e ciglia e di tutta la
persona, nel voler esprimere il concetto dell’animo loro.

E non ti ridere di me, perchè io ti propongo un precettore sanza
lingua, il quale t’abbia a insegnare quell’arte, che lui non sa
fare, perchè meglio t’insegnerà co’ fatti, che tutti li altri con le
parole. E non sprezzare tal consiglio, perchè loro sono li maestri de’
movimenti, e intendono da lontano di quel che uno parla, quando egli
accomoda li moti delle mani con le parole.


V. — IL PREGIO DELLA PITTURA STA NELLA RISPONDENZA DEL SEGNO AL
SIGNIFICATO.

Farai le figure in tale atto, il quale sia soffiziente a dimostrare
quel che la figura ha nell’animo, altrimenti la tua arte non fia
laudabile.


VI. — SEGUE.

Come la figura non fia laudabile se in quella non apparisce atto,
ch’esprima la passione dell’anima.

Quella figura è più laudabile, che con l’atto meglio esprime la
passione del suo animo.


VII. — VARIETÀ INFINITA NELL’ESPRESSIONE DEI SENTIMENTI.

Tanti son varî li movimenti delli omini, quanto sono le varietà delli
accidenti, che discorrono per le loro menti; e ciascuno accidente
in sè move più o meno essi uomini, secondo che saranno di maggiore
o di minore potenza e secondo l’età, perch’altro moto farà, sopra un
medesimo caso, un giovane ch’un vecchio.


VIII. — LE ETÀ DELL’UOMO.

Come si deono figurare l’età dell’omo, cioè: infanzia, puerizia,
adolescenza, gioventù, vecchiezza, decrepitudine.

Come i vecchi devono essere fatti con pigri e lenti movimenti, e gambe
piegate ne le ginocchia, quando stanno fermi, e pie’ e pari, distanti
l’uno dall’altro, schiene declinanti in basso, la testa innanzi
inclinata, e le braccia non troppo distese.

Come le donne si deono figurare con atti vergognosi, gambe insieme
strette, braccia raccolte insieme, teste basse e piegate in traverso.

Come le vecchie si debbon figurare ardite e pronte a rabbiosi
movimenti, a uso di furie infernali, e i movimenti deono apparire più
pronti nelle braccia e teste, che nelle gambe.

I putti piccioli con atti pronti e storti, quando seggano, e, nello
stare ritti, atti timidi e paurosi.


IX. — DEL FIGURARE UNO CHE PARLI INFRA PIÙ PERSONE.

Usera’ fare quello, che tu vuoi che infra molte persone parli, di
considerare la materia di che lui ha a trattare, e d’accomodare ivi li
atti appartenenti a essa materia: cioè se l’è materia persuasiva, che
li atti siano al proposito, se l’è materia dichiarativa per diverse
ragioni, che quello che dice pigli colle sue due dita della mano destra
uno dito de la mano sinistra, avendone serrate le due minori, e col
viso rivolto verso il popolo, con la bocca alquanto aperta, che paia
che parli; e, so lui sedeva, che paia che si sollevi alquanto ritto e
innanzi con la testa; e se lo fai in piè fallo alquanto chinarsi col
petto e la testa inverso il popolo.

Il quale figurerai lì tacito e attento, tutti riguardare l’oratore
in volto con atti ammirativi, e fare le bocche d’alcuno vecchio, per
maraviglia delle audite sentenze, tenere la bocca con le sua streme
basi, tirarsi dirieto molte pieghe de le guancie, e con le ciglia alte
ne le giunture, le quali creino molte pieghe per la fronte; alcuni
sedenti colle dita della mano insieme tessute tenervi dentro lo stanco
ginocchio; altri con l’uno ginocchio sopra l’altro, sul quale tenga
la man, che dentro a sè riceva il gomito, del quale la sua mano vada a
sostenere il mento barbuto d’alcuno chinato vecchio.


X. — APPUNTI SULLA COMPOSIZIONE DEL CENACOLO.[149]

Uno, che beveva, lascia la zaina [Sidenote: la tazza] nel suo sito, e
volge la testa inverso il proponitore.

Un altro tesse le dita delle sue mani insieme, e con rigide ciglia
si volta al compagno; l’altro, colle mani aperte, mostra le palme
di quelle, e alza la spalla inverso li orecchi, e fa la bocca della
maraviglia.

Un altro parla nell’orecchio all’altro, e quello che l’ascolta si
torce inverso lui, e gli porge li orecchi, tenendo un coltello nell’una
mano e nell’altra il pane, mezzo diviso da tal coltello. L’altro, nel
voltarsi, tenendo un coltello in mano, versa con tal mano una zaina
sopra della tavola.

L’altro posa le mani sopra della tavola e guarda, l’altro soffia nel
boccone, l’altro si china per vedere il proponitore, e fassi ombra
colla mano alli occhi, l’altro si tira indirieto a quel che si china, e
vede il proponitore infra ’l muro e ’l chinato.


XI. — COME SI DEVE FARE UNA FIGURA IRATA.

Alla figura irata farai tenere uno per li capegli, e ’l capo storto a
terra, e con uno de’ ginocchi sul costato, e col braccio destro levare
il pugno in alto: questo abbia li capegli elevati, le ciglie basse e
strette, i denti stretti, e i due stremi d’accanto della bocca arcati;
il collo grosso e dinanzi, per lo chinarsi al nimico, sia pieno di
grinze.


XII. — COME SI FIGURA UNO DISPERATO.

Al disperato farai darsi d’un coltello, e colle mani aversi stracciato
i vestimenti, e sia una d’esse mani in opera a stracciarsi la ferita;
e farailo co’ piè distanti e le gambe alquanto piegate e la persona
similmente inverso terra, con capegli stracciati e sparsi.



UN GIGANTE FANTASTICO.[150]


LETTERA I.

La nera faccia, sul primo oggetto [Sidenote: incontro] è molto orribile
e spaventosa a riguardare, e massime l’ingrottati e rossi occhi, posti
sotto le paurose e scure ciglia, da fare rannuvolare il tempo e tremare
la terra.

E, credimi, che non è sì fiero omo che, dove voltava li infocati occhi,
che volontieri non mettesse ali per fuggire, chè Lucifero infernale
paría volto angelico a comparazione di quello. Il naso arricciato, con
l’ampie nari, de’ quali uscivan molte e grandi setole, sotto le quali
era l’arricciata bocca, colle grosse labbra, da le stremità de’ quali
era pelo a uso delle gatte e denti gialli. Avanza sopra i corpi de li
omini a cavallo dal dosso de’ piedi in sù.

E rincrescendole il molto (pazientare), volta l’ira in furore, cominciò
co’ piè, dimenati da la furia delle possenti gambe, a entrare fra
la turba, e con calci gettava li omini per l’aria, i quali cadeano
non altramente sopra gli altri omini, come se stata fussino una
spessa grandine. E molti furon quelli, che, morendo, dettò morte; e
questa crudeltà durò, finchè la polvere mossa da’ gran piedi, levata
nell’aria, costrinse questa furia infernale a ritirarsi indirieto. E
noi seguitammo la fuga.

Oh! quanti varî assalimenti furono usati contro a questa indiavolata,
a la quale ogni offesa era niente! Oh! misere genti, a voi non vale
le inespugnabili fortezze, a voi non l’alte mura de la città, a voi
non l’essere in moltitudine, non le case o palazzi, non v’è restato se
non le piccole buche e cave sotterranee, a modo di granchi o grilli o
simili animali: trovate salute e vostro scampo!

Oh quante infelici madri e padri furono private de’ lor figlioli! Oh
quante misere femmine private de la lor compagnia! Certo certo, caro
mio Benedetto, io non credo che, poi che ’l mondo fu creato, fusse mai
visto un lamento, un pianto pubblico esser fatto con tanto terrore.

Certo, in questo caso la spezie umana ha da invidiare ogni altra
generazione d’animali: imperocchè se l’aquila vince per potenza li
altri uccelli, il meno non sono vinti per velocità di volo, onde
le rondini, colla lor prestezza, scampano dalla rapina del merlo; i
delfini con lor veloce fuga scampano da la rapina de le balene e de’
gran capidogli; ma, noi miseri!, non ci vale alcuna fuga, imperocchè
questa, con lento passo, vince di gran lunga il corso d’ogni veloce
corsiero. Non so che mi dire o che mi fare, e’ mi pare tuttavia a
notare a capo chino per la gran gola, e rimanere con confusa morte
sepolto nel gran ventre.


LETTERA II.

_Caro Benedetto de’ Pertarti._

Caduto il fiero gigante, per la cagione della insanguinata e fangosa
terra, parve che cadesse una montagna, onde la campagna, squassata di
terremoto, è spavento a Plutone infernale. E, per la gran percossa,
ristette sulla piana terra alquanto stordito, e sùbito il popolo,
credendo fusse morto di qualche saetta — tornata la gran turba — a
guisa di formiche, che scorrono a furia, correndo per il corpo del
caduto robore — così questi scorrendo per l’ampie membra, laceravanle
con spesse ferite.

Onde risentito il gigante e sentendosi quasi coperto dalla moltitudine,
sùbito sentesi cuocere per le punture — mise un mugghio, che parve
fusse uno spaventoso tuono, e posto le sue mani in terra e levato
il pauroso volto, e postosi una delle mani in capo trovosselo pieno
d’uomini appiccati a’ capegli a similitudine de’ minuti animali,
che fra quegli sogliono nascere; onde, scuotendo il capo, gli omini
lancia non altramente per l’aria, che si faccia la grandine, quando
va con furor di venti, e trovossi molti di questi uomini esser morti,
da quegli, che gli stavano sopra ritti, coi piedi calpestando. — E
tenendosi a’ capegli e ingegnandosi nascondere fra quegli, facevano
a similitudine de’ marinai, quando è fortuna, che corrono su per le
corde, per abbassarle a poco vento. —


FRAMMENTO.

Nuove delle cose di Levante? Sappi come nel mese di Giugno è apparuto
un gigante che vien dalla deserta Libia:.... a similitudine delle
formiche furiando.... su per l’arbore abbattuto dalla scure del rigido
villano.

Questo gigante era nato nel Mont’Atalante, ed era un eroe, e ebbe a
contrastare cogli Egizî e Arabi, Medi e Persi, viveva in mare delle
balene, de’ gran capidogli e de’ navilî.

Marte temendo della vita, s’era fuggito sotto la (sedia) di Giove....

E per la gran caduta parve la provincia tutta tremasse.



LE PROFEZIE E LE FACEZIE.



LE PROFEZIE DEGLI ANIMALI RAZIONALI.


I. — PROFEZIA.

Vedrassi la specie leonina colle unghiate branche aprire la terra, e
nelle fatte spelonche seppellire sè insieme colli altri animali a sè
sottoposti.

Usciranno dalla terra animali vestiti di tenebre, i quali, con
maravigliosi assalti, assaliranno l’umana generazione, e quella da
feroci morsi fia, con confusione di sangue, da essi divorata.

Ancora, scorrerà per l’aria la nefanda specie volatile, la quale
assalirà li omini e li animali, e di quelli si ciberanno con gran
gridore: empieranno i loro ventri di vermiglio sangue.

Vedrassi il sangue uscire dalle stracciate carni, rigare le
superfiziali parti delli omini.

Verrà alli omini tal crudele malattia, che colle proprie unghie si
stracceranno le loro carni — sarà la rogna.

Vedrassi le piante rimanere sanza foglie, e i fiumi fermare i loro
corsi.

L’acqua del mare si leverà sopra l’alte cime de’ monti, verso il cielo,
e ricaderà sopra alle abitazioni delli omini — cioè per nuvoli.

Vederà i maggiori alberi delle selve essere portati dal furor de’ venti
dall’Oriente all’Occidente — cioè per mare.

Li omini getteranno via le proprie vettovaglie — cioè seminando.


II. — DE’ FANCIULLI CHE STANNO LEGATI NELLE FASCIE.

O città marine! io veggo in voi i vostri cittadini, così femmine come
maschi, essere istrettamente da forti legami, colle braccia e gambe,
esser legati da gente, che non intenderanno i nostri linguaggi; e
sol vi potrete isfogare li vostri dolori e perduta libertà mediante i
lagrimosi pianti e li sospiri e lamentazione in fra voi medesimi, chè
chi vi lega non v’intenderà, nè voi loro intenderete.


III. — DE’ PUTTI CHE TETTANO.

Molti Franceschi, Domenichi e Benedetti fingeranno quel che da altri
altre volte vicinamente è stato mangiato, che staranno molti mesi
avanti che possano parlare.


IV. — IL DORMIRE SOPRA LE PIUME DELL’UCCELLI.

Molta turba fia quella che, dimenticato loro essere e nome, staran come
morto sopra lo spoglie delli altri morti.


V. — DELLO SCRIVER LETTERE DA UN PAESE A UN ALTRO.

Parleransi li omini di remotissimi paesi l’uno all’altro, e
risponderansi.


VI. — DELLE PUTTE MARITATE.

Vedrassi ai padri donare le lor figliole alla lussuria delli omini, e
premiare, e abbandonare ogni passata guardia — quando si maritano le
putte.


VII. — DELLE DOTE DELLE FANCIULLE.

E dove prima la gioventù femminina non si potea difendere dalla
lussuria e rapina da’ maschi, nè per guardie di parenti, nè fortezze di
mura; verrà tempo che bisognerà, che padre e parenti d’esse fanciulle
le paghino di gran prezzo chi voglia dormire con loro, ancorachè esse
sien ricche, nobili e bellissime.

Certo e’ par qui che la natura voglia spegnere la umana specie, come
cosa inutile al mondo e guastatrice di tutte le cose create.


VIII. — DELLO SPEGNERE IL LUME A CHI VA AL LETTO.

Molti, per mandare fòri il fiato con troppa prestezza, perderanno il
vedere e in breve tutti i sentimenti.


IX. — DEL SOGNARE.

Andranno li omini, e non si moveranno; parleranno con chi non si trova;
sentiranno chi non parla.


X. — ANCORA DEL SOGNARE.

Alli omini parrà vedere nel cielo nove ruine; parrà in quello levarsi a
volo, e da quello fuggire con paura le fiamme, che di lui discendano;
sentiran parlare li animali, di qualunque sorta, il linguaggio umano;
scorreranno immediate colla lor persona in diverse parti del mondo,
sanza moto; vedranno nelle tenebre grandissimi splendori. — Oh!
maraviglia della umana spezie! Qual frenesia t’ha sì condotto? Parlerai
cogli animali di qualunque spezie, e quelli con teco in linguaggio
umano. Vedratti cadere di grandi alture, sanza tuo danno. I torrenti
t’accompagneranno.


XI. — DELL’OMBRA CHE SI MOVE COLL’UOMO.

Vedrannosi forme e figure d’uomini e d’animali, che seguiranno essi
animali o omini, dovunque fuggiranno: e tal fia il moto di lui qual è
dell’altro, ma parrà cosa mirabile delle varie grandezze in che essi si
trasmutano.


XII. — DELL’OMBRA CHE FA L’OMO DI NOTTE COL LUME.

Appariranno grandissime figure in forma umana, le quali quanto più le
ti farai vicino, più diminuiranno la loro immensa magnitudine.


XIII. — DELL’OMBRA DEL SOLE E DELLO SPECCHIARSI NELL’ACQUA IN UN
MEDESIMO TEMPO.

Vedrassi molte volte l’uno omo diventare tre, e tutti lo seguono: e
spesso l’uno, il più certo, l’abbandona.


XIV. — DELLE LINGUE DE’ DIVERSI POPOLI.

Verrà a tale la generazione umana, che non si intenderà il parlare
l’uno dell’altro — cioè un tedesco con un turco.


XV. — DE’ SOLDATI A CAVALLO.

Molti saran veduti portati da grandi animali, con veloce corso, alla
ruina della sua vita e prestissima morte. Per l’aria e per la terra
saranno veduti animali di diversi colori portarne con furore li omini
alla distruzione di lor vita.


XVI. — DE’ SEGATORI.

Saranno molti, che si moveran l’uno contra dell’altro, tenendo in mano
il tagliente ferro; questi non si faranno intra loro altro nocimento,
che di stanchezza, perchè quanto l’uno si caccerà innanzi, tanto
l’altro si ritirerà indirieto. Ma tristo chi si inframmetterà in mezzo,
perchè al fine rimarrà tagliato in pezzi.


XVII. — DE’ ZAPPATORI.

Molti fien quegli, che scorticando la madre, le arrovescieranno la sua
pelle addosso — i laboratori della terra.


XVIII. — DEL SEMINARE.

Allora la gran parte delli omini, che resteran vivi, gitteran fuori
delle lor case le serbate vettovaglie in libera preda delli uccelli e
animali terrestri, sanza curarsi d’esse in parte alcuna.


XIX. — LE TERRE LAVORATE.

Vedrassi voltare la terra sotto sopra, e risguardare l’oppositi
emisferi, e scoprire le spelonche a ferocissimi animali.


XX. — I CALZOLARI.

Li omini vederanno con piacere disfare, e rompere l’opere loro.


XXI. — DEL SEGARE DELLE ERBE.

Spegneransi innumerabili vite, e farassi sopra la terra innumerabili
buche.


XXII. — DEL GRANO E ALTRE SEMENZE.

Getteranno li omini fori delle lor proprie case quelle vettovaglie, le
quali eran dedicate a sostentar la lor vita.


XXIII. — DEL BATTERE IL GRANO.

Li omini batteranno aspramente chi fia causa di lor vita — batteranno
il grano.


XXIV. — DE’ GIOCATORI.

Le pelli delli animali removeranno li omini, con gran gridori e
bestemmie, dal lor silenzio — le balle da giuocare.


XXV. — DEL SUONO DELLA VITA.

Il vento, passato per le pelli delli animali, farà saltare li omini —
cioè la piva, che fa lo saltare.


XXVI. — DE’ DADI.

Vedrannosi l’ossa de’ morti, con veloce moto, trattare la fortuna del
suo motore — i dadi.


XXVII. — DE’ BATTUTI E SCOREGGIATI.

Li omini si nasconderanno sotto le scorze delle scorticate erbe,
e, quivi gridando, si daran martiri, con battimenti di membra, a sè
medesimi.


XXVIII. — LE LINGUE DE’ PORCI E VITELLI NELLE BUDELLE.

Oh! cosa spòrca, che si vedrà l’uno animale aver la lingua in culo
all’altro.


XXIX. — DE’ VILLANI IN CAMICIA CHE LAVORANO.

Verranno tenebre in mezzo l’Oriente, le quali con tanta oscurità
tigneranno il cielo, che copre l’Italia.


XXX. — DE’ BARBIERI.

Tutti li omini si fuggiranno in Africa.



LE PROFEZIE DEGLI ANIMALI IRRAZIONALI.


I. — TIRAN LE BOMBARDE.

I buoi fieno in gran parte causa delle ruine delle città, e similemente
cavalli e bufoli.


II. — DE’ BUOI CHE SI MANGIANO.

Mangeranno i padron delle possessioni i lor propri lavoratori.


III. — DELLI ASINI BASTONATI.

O natura trascurata, perchè ti se’ fatta parziale, facendoti ai
tua figli d’alcuni pietosa e benigna madre, ad altri crudelissima
e dispietata matrigna? Io veggo i tua figlioli esser dati in altrui
servitù, sanza mai benefizio alcuno; e in loco di remunerazione de’
fatti benefizi, esser pagati di grandissimi martirî; e spender sempre
la lor vita in benefizio del suo malefattore.


IV. — DELLI ASINI.

Le molte fatiche saran remunerate di fame, di sete, di disagio e di
mazzate e di punture e bestemmie e gran villanie.


V. — DELLE CAMPANELLE DE’ MULI CHE STANNO PRESSO AI LORO ORECCHI.

Sentirassi in molte parte dell’Europa strumenti di varie magnitudini
far diverse armonie, con grandissime fatiche di chi più presso l’ode.


VI. — DE’ MULI CHE PORTANO LE RICCHE SOME DELL’ARGENTO E ORO.

Molti tesori e gran ricchezze saranno appresso alli animali di quattro
piedi, i quali le porteranno in diversi lochi.


VII. — DE’ CAPRETTI.

Ritornerà il tempo d’Erode, perchè l’innocenti figliuoli saranno tolti
alle loro balie, e da crudeli omini, di gran ferite, moriranno.


VIII. — DELLE PECORE, VACCHE, CAPRE E SIMILI.

A innumerabili saran tolti i loro piccoli figlioli, e quelli scannati,
e crudelissimamente squartati.


IX. — DELLE GATTE CHE MANGIANO I TOPI.

A voi, città dell’Africa, si vedrà i vostri nati essere squarciati
nelle proprie case da crudelissimi e rapaci animali del paese vostro.


X. — LE API CHE FANNO LA CERA DELLE CANDELE.

Sarà annegato chi fa il lume al culto divino.

E quelli, che pascono l’erbe, faran della notte giorno — sevo.


XI. — DELL’API.

E a molti altri saran tolte le munizioni e lor cibi, e crudelmente, da
gente sanza ragione, saranno sommersi e annegati. O giustizia di Dio,
perchè non ti desti a vedere così malmenare i tua creati!


XII. — DELLE FORMICHE.

Molti popoli fien quelli, che nasconderan sè e sua figlioli e
vettovaglie dentro alle oscure caverne; e lì, nelli lochi tenebrosi,
ciberan sè e sua famiglia per molti mesi, sanza altro lume accidentale
o naturale.


XIII. — DELLE MOSCHE E ALTRI INSETTI.

Usciranno li omini dalle sepolture, convertiti in uccelli, e
assaliranno li altri omini togliendo loro il cibo dalle proprie mani e
mense — le mosche.

XIV. — DELLE CIVETTE O GUFI CON CHE S’UCCELLA ALLA PANIA.

Molti periranno di fracassamento di testa, e salteranno loro li occhi
in gran parte della testa, per causa d’animali paurosi usciti dalle
tenebre.


XV. — DELLE BISCIE PORTATE DALLE CICOGNE.

Vedrassi in grandissima altezza dell’aria lunghissimi serpi combattere
colli uccelli.


XVI. — I PESCI LESSI.

Li animali d’acqua moriranno nelle bollenti acque.


XVII. — DE’ PESCI CHE SI MANGIANO NON NATI.

Infinita generazione si perderà per la morte delle grandi.


XVIII. — DE’ NICCHI E CHIOCCIOLE CHE SONO RIBUTTATE DAL MARE, CHE
MARCISCONO DENTRO AI LOR GUSCI.

Oh! quanti fien quelli, che, poichè fien morti, marciranno nelle
lor proprie case, empiendo le circostanti parti piene di fetulente
[Sidenote: fetido] puzzo!


XIX. — DELL’OVA CHE SENDO MANGIATE NON POSSONO FARE I PULCINI.

Oh! quanti fien quegli, ai quali sarà proibito il nascere.


XX. — DELLE TACCOLE [Sidenote: specie di cornacchie] E STORNELLI.

Quelli che si fideranno abitare appresso di lui, che saranno gran
turbe, questi tutti moriranno di crudele morte, e si vedran i padri
e le madri, d’insieme colle sue famiglie, esser da crudeli animali
divorati e morti.


XXI. — DELLE API.

Vivono a popoli insieme, sono annegate per torle il miele; molti e
grandissimi popoli saranno annegati nelle lor proprie case.



LE PROFEZIE DELLE PIANTE.


I. — DELLE NOCI E ULIVE E GHIANDE E CASTAGNE E SIMILI.

Molti figlioli da dispietate bastonate fien tolti delle proprie braccia
delle lor madri, e gittati in terra, e poi lacerati.


II. — DE’ NOCI BATTUTI.

Quelli che avranno fatto meglio saranno più battuti, e i sua figliuoli
tolti e scorticati, overo spogliati, e rotte e fracassate le sue ossa.


III. — L’ULIVE CHE CADONO DAGLI ULIVI DANDOCI OLIO CHE FA LUME.

Discenderà con furia diverso la terra chi ci darà nutrimento e luce.


IV. — DE’ LEGNAMI CHE BRUCIANO.

Li alberi e arbusti delle gran selve si convertiranno in cenere.


V. — DELLI ALBERI CHE NUTRISCONO I NESTI [Sidenote: i ramoscelli
innestati sulla pianta].

Vedrannosi i padri e le madri fare molto più giovamento ai figliastri,
che ai lor veri figlioli.



LE PROFEZIE DELLE COSE MATERIALI.


I.

I. — DELLA SOLA DELLE SCARPE CHE SON DI BUE.

E si vedrà in gran parte del paese camminare sopra le pelli delli
grandi animali.


II. — DE’ CRIVELLI FATTI DI PELLE D’ANIMALI.

Vedrassi il cibo degli animali passar dentro alle lor pelli per ogni
parte, salvo che per la bocca, e penetrare dall’opposta parte insino
alla piana terra.


III. — DELLE LANTERNE.

Le feroci corna de’ possenti tori difenderanno la luce notturna
dall’impetuoso furor de’ venti.


IV. — DELLE MEDESIME.

I buoi, colle lor corna, difenderanno il foco dalla sua morte — la
lanterna.


V. — DELLE MANICHE DE’ COLTELLI FATTE DI CORNA DI CASTRONE.

Nelle corna delli animali si vedranno taglienti ferri, colli quali si
toglie la vita a molti della loro specie.


VI. — DELLI ARCHI FATTI COLLI CORNI DE’ BUOI.

Molti fien quelli che, per causa delle bovine corna, moriranno di
dolente morte.


VII. — DELLE PIUME NE’ LETTI.

Li animali volatili sosterran l’omini colle lor proprie penne.


VIII. — DEL PETTINE NEL TELAIO.

Molte volte la cosa disunita fia causa di grande unizione — cioè il
pettine, fatto dalla disunita canna, unisce le fila nella seta.


IX. — IL FILATOIO DA SETA.

Sentirassi le dolenti grida, le alte strida, le rauche e infocate voci
di quei che fieno con tormento spogliati, e al fine lasciati ignudi e
sanza moto: e questo fia per causa del motore, che tutto volge.


X. — DEL LINO CHE FA LA CURA DELLE GENTI.

Saran reveriti e onorati, e con reverenzia e amore ascoltati li sua
precetti, di chi prima fusse legato, sdraiato, o martirizzato da molte
e diverse battiture.


XI. — DEL MANICO DELLA SCURE.

Le selve partoriranno figlioli, che fiano causa della lor morte — il
manico della scure.


XII. — IL BASTONE CH’È MORTO.

Il movimento de’ morti farà fuggire, con dolore e pianto e con grida,
molti vivi.


XIII. — DE’ LACCIUOLI E TRAPPOLE.

Molti morti si moveran con furia, e piglieranno, e legheranno i vivi, e
servirannogli a’ lor nemici circa la lor morte e distruzione.


XIV. — DEL MOTO DELL’ACQUE CHE PORTANO I LEGNAMI CHE SON MORTI.

Corpi sanz’anima per sè medesimi si moveranno, e porteran con
seco innumerabile generazione di morti, togliendo le ricchezze a’
circustanti viventi.


XV. — DEI CARRI E NAVI.

Vedrassi i morti portare i vivi — i carri e navi in diverse parti.


XVI. — DELLE CASSE CHE RISERBANO MOLTI TESORI.

Troverassi dentro a de’ noci e delli alberi e altre piante tesori
grandissimi, i quali lì stanno occulti, e ben guardati.


XVII. — DEL NAVIGARE.

Vedrassi li alberi delle gran selve di Taurus e di Sinai, Apennino
e Atlante scorrere per l’aria da oriente a occidente, da aquilone a
meridie; e porteranno per l’aria gran moltitudine d’omini.

Oh! quanti vóti! oh! quanti morti! oh! quanta separazion d’amici! di
parenti! e quanti fien quelli, che non rivedranno più le lor provincie,
nè le lor patrie, e che moriranno sanza sepoltura, colle lor ossa
sparse in diversi siti del mondo!


XVIII. — DEL NAVIGARE.

Saranno gran venti, per li quali le cose orientali si faranno
occidentali; e quelle di mezzodì, in gran parte miste col corso de’
venti, seguirannolo per lunghi paesi.


XIX. — DE’ NAVILI CHE ANNEGANO.

Vedrannosi grandissimi corpi, sanza vita, portare con furia moltitudine
d’omini alla distruzione di lor vita.


XX. — LI ANIMALI CHE VAN SOPRA LE TERRE ANDANDO IN ZOCCOLO.

Saran sì grandi i fanghi, che li omini andranno sopra l’alberi de’ loro
paesi.


XXI. — DELLE BAGHE [Sidenote: sacchi, otri di pelle].

Le capre condurranno il vino alle città.


XXII. — DEL PARASOLE.

La percussione della spera del sole apparirà cosa che, chi la crederà
coprire, sarà coperto da lei.


II.

I. — DE’ SASSI CONVERTITI IN CALCINA DE’ QUALI SI MURANO LE PRIGIONI.

Molti, che fieno disfatti dal fuoco innanzi a questo tempo, torranno la
libertà a molti uomini.


II. — DELLO SPECCHIARE LE MURA DELLE CITTÀ NELL’ACQUA DE’ LOR FOSSI.

Vedrannosi l’alte mura delle gran città sotto sopra ne’ loro fossi.


III. — DEI FORNI.

A molti fia tolto il cibo di bocca — ai forni.


IV. — ANCORA DEI FORNI.

A quelli, che si imboccheranno per l’altrui mani, fia loro tolto il
cibo di bocca — il forno.


V. — DEL METTERE E TRARRE IL PANE DALLA BOCCA DEL FORNO.

Per tutte le città e terre e castelli e case si vedrà, per desiderio di
mangiare, trarre il proprio cibo di bocca l’uno all’altro, sanza poter
fare difesa alcuna.


VI. — DELLE FORNACI DI MATTONI E CALCINA.

Al fine la terra si farà rossa per lo infocamento di molti giorni, e le
pietre si convertiranno in cenere.


VII. — DELLE ARMI DA OFFENDERE.

L’umane opere fien cagione di lor morte — le spade e lance.


VIII. — IL FERRO USCITO DI SOTTO TERRA È MORTO, E SE NE FA L’ARME CHE
HA MORTI TANTI UOMINI.

I morti usciranno di sotto terra, e coi loro fieri movimenti cacceranno
dal mondo innumerabili creature umane.


IX. — DELLE SPADE E LANCE CHE PER SÈ MAI NUOCONO A NESSUNO.

Chi per sè è mansueto, e sanza alcuna offensione, si farà
spaventevole e feroce mediante la trista compagnia, e torrà la
vita crudelissimamente a molte genti; e più n’ucciderebbe, se corpi
sanz’anima, e usciti dalle spelonche, non li difendessino — cioè le
corazze di ferro.


X. — DELLE STELLE DELLI SPRONI.

Per causa delle stelle si vedranno li omini esser velocissimi, al pari
di qualunque animale veloce.


XI. — DEL FUOCO DELLE BOMBARDE.

Oh! quanti grandi edifizî fieno ruinati, per causa del fuoco!


XII. — DELLE BOMBARDE CH’ESCAN DELLA FOSSA E DELLA FORMA.

Uscirà di sotto terra chi, con ispaventevoli grida, stordirà i
circostanti vicini, e col suo fiato farà morire li omini, e ruinare le
città e castella.


XIII. — LA PIETRA DEL FUCILE, CHE FA FOCO CHE CONSUMA TUTTE LE SOME
DELLE LEGNE, CON CHE SI DISFAN LE SELVE; E CUOCERASSI CON ESSE LA CARNE
DELLE BESTIE.

I gran sassi de’ monti getteran fuoco tale che bruceranno il legname di
molte e grandissime selve, e molte fiere selvatiche e domestiche.


XIV. — DELL’ESCA.

Con pietra e con ferro si renderanno visibili le cose, che prima non si
vedeano.


XV. — DE’ METALLI.

Uscirà dalle oscure e tenebrose spelonche chi metterà tutta l’umana
specie in grandi affanni, pericoli e morte.

A molti seguaci lor, dopo molti affanni, darà diletto; ma chi non fia
suo partigiano, morrà con stento e calamità.

Questo commetterà infiniti tradimenti; questo aumenterà e persuaderà li
omini tutti alli assassinamenti e latrocini e le perfidie; questo darà
sospetto ai sua partigiani; questo torrà lo stato alle città libere;
questo torrà la vita a molti; questo travaglierà li omini infra loro
con molte arti, inganni e tradimenti.

O animal mostruoso! quanto sarebbe meglio agli omini che tu ti tornassi
nell’inferno: per costui rimarran diserte le gran selve delle lor
piante; per costui infiniti animali perderanno la vita.


XVI. — DE’ DANARI E ORO.

Uscirà dalle cavernose spelonche chi farà, con sudore, affaticare tutti
i popoli del mondo, con grandi affanni, ansietà, sudori, per essere
aiutato da lui.



LE PROFEZIE DELLE CERIMONIE.


I. — DE’ MORTI CHE SI VANNO A SOTTERRARE.

I semplici popoli porteran gran quantità di lumi per far lume ne’
viaggi a tutti quelli, che integralmente hanno perso la virtù visiva.


II. — DE LI UFFIZI, FUNERALI E PROCESSIONI E LUMI E CAMPANE E COMPAGNIA.

Agli omini saran fatti grandissimi onori e pompe, sanza lor saputa.


III. — DEL DÌ DE’ MORTI.

E quanti fien quelli che piangeranno i lor antenati morti, portando
lumi a quelli.


IV. — DEL PIANTO FATTO IL VENERDÌ SANTO.

In tutte le parti d’Europa sarà pianto di gran popoli per la morte d’un
solo omo, morto in Oriente.


V. — DE’ CRISTIANI.

Molti, che tengon la fede del figliolo, sol fan templi nel nome della
madre.


VI. — DEL TURIBOLO DELL’INCENSO.

Quelli che, con vestimenti bianchi, andranno con arroganti movimenti
minacciando con metallo e fuoco, chi non faceva lor detrimento alcuno.


VII. — DE’ PRETI CHE DICONO MESSA.

Molti fien quelli che, per esercitare la lor arte, si vestiran
ricchissimamente: e questo parrà esser fatto secondo l’uso de’
grembiali.


VIII. — DE’ PRETI CHE TENGONO L’OSTIA IN CORPO.

Allora tutti quasi i tabernacoli, dove sta il corpus domini, si
vedranno manifestamente per sè stessi andare per diverse strade del
mondo.


IX. — DE’ FRATI CONFESSORI.

Le sventurate donne, di propria volontà, andranno a palesare agli
uomini tutte le loro lussurie e opere vergognose e segretissime.


X. — DELLE PITTURE DE’ SANTI ADORATE.

Parleranno li omini alli omini, che non sentiranno; avran gli occhi
aperti, e non vedranno; parleranno a quelli, e non fia loro risposta;
chiederan grazia a chi avrà orecchi, e non ode; faran lume a chi è
orbo.


XI. — DELLE SCOLTURE.

Ohimè! che vedo il Salvatore di novo crocifisso.


XII. — DE’ CROCEFISSI VENDUTI.

Io vedo di nuovo venduto e crocifisso Cristo, e martirizzare i sua
santi.


XIII. — DELLA RELIGIONE DE’ FRATI CHE VIVONO PER LI LORO SANTI, MORTI
PER ASSAI TEMPO!

Quelli che saranno morti, dopo mille anni, fien quelli che daranno le
spese a molti vivi.


XIV. — DEL VENDERE IL PARADISO.

Infinita moltitudine venderanno pubblicamente e pacificamente cose di
grandissimo prezzo, sanza licenza del padrone di quelle, e che mai non
furon loro, nè in lor potestà, e a questo non provvederà la giustizia
umana.


XV. — DE’ FRATI CHE SPENDENDO PAROLE RICEVONO DI GRAN RICCHEZZE, E
DANNO IL PARADISO.

Le invisibili monete faran trionfare molti spenditori di quelle.


XVI. — DELLE CHIESE E ABITAZION DE’ FRATI.

Assai saranno, che lascieranno li esercizî e le fatiche e povertà
di vita e di roba, e andranno abitare nelle ricchezze e trionfanti
edifizî, mostrando questo esser il mezzo di farsi amico a Dio.



LE PROFEZIE DEI COSTUMI.


I. — DELLO SGOMBERARE L’OGNISSANTI.

Molti abbandoneranno le proprie abitazioni, e porteran seco i sua
valsenti [Sidenote: le loro ricchezze], e andranno abitare in altri
paesi.


II. — DELLI OMINI CHE DORMAN NELL’ASSE D’ALBERO.

Li omini dormiranno, e mangeranno, e abiteranno infra li alberi, nati
nelle selve e campagne.


III. — DEL BATTERE IL LETTO PER RIFARLO.

Verranno li omini a tanta ingratitudine che, chi darà loro albergo,
sanza alcun prezzo, sarà carico di bastonate, in modo che gran parte
delle interiora si spigneranno dal loco loro, e s’andranno rivoltanto
pel suo corpo.


IV. — I MEDICI CHE VIVONO DE’ MALATI.

Verranno li omini in tanta viltà, che avran di grazia che altri
trionfino sopra i loro mali, ovvero della perduta lor vera ricchezza —
cioè la sanità.


V. — DEL COMUNE.

Un meschino sarà soiato [Sidenote: adulato beffardamente] e essi
soiatori [Sidenote: adulatori] sempre fien sua ingannatori e rubatori,
e assassini d’esso meschino.


VI. — PROFEZIA.

Porterassi neve distante no’ lochi caldi, tolta dall’alte cime de’
monti, e si lascierà cadere nelle feste, alle piazze, nel tempo
dell’estate.



LE PROFEZIE DE’ CASI CHE NON POSSONO STARE IN NATURA.


I. — DELLA FOSSA.

Staran molti occupati in esercizio a levare di quella cosa, che tanto
crescerà, quanto se ne levò.


II. — DEL PESO POSTO SUL PIUMACCIO.

E a molti corpi nel vedere da lor levar la testa, si vedrà
manifestamente crescere, e, rendendo loro la levata testa,
immediatamente diminuiscono la grandezza.


III. — DEL PIGLIARE DE’ PIDOCCHI.

E’ saran molti cacciatori d’animali che, quanto più ne piglieranno,
manco n’avranno, e così, di converso, più n’avrà quanto men ne
piglieranno.


IV. — DELL’ATTIGNERE L’ACQUA CON DUE SECCHIE A UNA SOLA CORDA.

E rimarranno occupati molti che, quanto più tireranno in giù la cosa,
essa più se ne fuggirà in contrario moto.



LE PROFEZIE DELLE COSE FILOSOFICHE.


I. — DELL’AVARO.

Molti fieno quelli che, con ogni studio e sollecitudine, seguiranno con
furia quella cosa, che sempre li ha spaventati, non conoscendo la sua
malignità.


II. — DELLI UOMINI CHE QUANTO PIÙ INVECCHIANO PIÙ SI FANNO AVARI, CHE
AVENDOSI A STAR POCO DOVREBBERO FARSI LIBERALI.

Vedransi quelli, che son giudicati di più sperienza e giudizio,
quanto egli hanno men bisogno delle cose, con più avidità cercarle e
ricercarle.


III. — DEL DESIDERIO DI RICCHEZZA.

Li omini perseguiranno quella cosa, della qual più temono, cioè saran
miseri, per non venire in miseria.


IV. — DELLE COSE CHE SI MANGIANO, CHE PRIMA S’UCCIDONO.

Sarà morto da loro il loro nutritore, e flagellato con spietata morte.


V. — DELLA BOCCA DELL’OMO CH’È SEPOLTURA.

Usciranno gran romori dalle sepolture di quelli, che son finiti da
cattiva e violenta morte.


VI. — DEL CIBO STATO ANIMATO.

Gran parte de’ corpi animati passerà pe’ corpi de gli altri animali,
cioè le case disabitate passeran in pezzi per le case abitate, dando
a quelle un utile, e portando con seco i sua danni: quest’è, cioè,
la vita dell’omo si fa delle cose mangiate, le quali portan con se la
parte dell’omo, ch’è morta.


VII. — DELLA VITA DELLI OMINI CHE OGNI ANNO SI MUTANO CARNE.

Li omini passeran morti per le sue proprie budelle.


VIII. — DELLA CRUDELTÀ DELL’OMO.

Vedrannosi animali sopra della terra, i quali sempre combatteranno
infra loro e con danni grandissimi e, spesso, morte di ciascuna delle
parti.

Questi non avran termine nelle lor malignità: per le fiere membra
di questi verranno a terra gran parte delli alberi delle gran selve
dell’universo; e poi ch’essi avranno pasciuto, il nutrimento de’ loro
desideri sarà di dar morte e affanno e fatiche e guerre e furie a
qualunque cosa animata. E per la loro smisurata superbia questi si
vorranno levare inverso il cielo, ma la superchia gravezza delle lor
membra gli porrà in basso. Nulla cosa resterà sopra la terra, o sotto
la terra e l’acqua, che non sia perseguitata, remossa o guasta; e
quella dell’un paese remossa nell’altro; e ’l corpo di questi si farà
sepoltura e transito di tutti i già da lor morti corpi animati.

O mondo! come è che non t’apri a precipitarlo nell’alte fessure de’
tua gran baratri e spelonche, e non mostrare più al cielo sì crudele e
spietato mostro?


IX. — DELLA LETTURA DE’ BUONI LIBRI.

Felici fien quelli che presteranno orecchi alle parole de’ morti: —
leggere le bone opere, e osservarle.


X. — DE’ LIBRI CHE INSEGNANO PRECETTI.

I corpi sanz’anima ci daranno, con lor sentenzie, precetti utili al ben
morire.


XI. — DELLA FAMA.

Le penne leveranno li omini, siccome gli uccelli, inverso il cielo: —
cioè per le lettere, fatte da esse penne.


XII. — DELLE PELLI DELLI ANIMALI CHE TENGONO IL SENSO DEL TATTO, CHE
V’È SU LE SCRITTURE.

Quanto più si parlerà colle pelli, vesti del sentimento, tanto più
s’acquisterà sapienza.


XIII. — DELLA STORIA.

Le cose disunite s’uniranno, e riceveranno in sè tal virtù, che
renderanno la persa memoria alli omini: — cioè i papiri che son fatti
di peli disuniti, e tengono memoria delle cose e fatti delli omini.


XIV. — IN OGNI PUNTO DELLA TERRA SI PUÒ FARE DIVISIONE DE’ DUE EMISPERI.

Li omini tutti scambieranno emisperio immediate.


XV. — IN OGNI PUNTO È DIVISIONE DA ORIENTE A OCCIDENTE.

Moverannosi tutti li animali da oriente a occidente, e così da aquilone
a meriggio scambievolmente, e così di converso.


XVI. — DEGLI EMISPERI, CHE SONO INFINITI E DA INFINITE LINEE SON
DIVISI, IN MODO CHE SEMPRE CIASCUNO OMO N’HA UNA D’ESSE LINEE INFRA
L’UN DE’ PIEDI E L’ALTRO.

Parleransi, e toccheransi, e abbracceransi li omini, stanti dall’uno
all’altro emisperio, intenderansi i loro linguaggi.


XVII. — DELLE NUVOLE.

Gran parte del mare si fuggirà inverso il cielo e per molto tempo non
farà ritorno: — cioè pe’ nuvoli.


XVIII. — LA NEVE CHE FIOCCA, CHE È ACQUA.

L’acqua caduta dai nuvoli, ancora in moto sopra le spiagge de’ monti,
si fermerà per lungo spazio di tempo sanza fare alcun moto, e questo
accaderà in molte e diverse provincie.


XIX. — LA PALLA DELLA NEVE ROTOLANDO SOPRA LA NEVE.

Molti fien quelli, che cresceran nelle lor ruine.


XX. — DELLE PIOGGIE, CHE FANNO CHE I FIUMI INTORBIDATI PORTAN VIA LE
TERRE.

Verrà diverso il cielo chi trasmuterà gran parte dell’Africa, che
si mostra a esso cielo inverso l’Europa, e quelle di Europa inverso
l’Africa; e quelle delle provincie Scitiche si mescoleranno insieme con
gran rivoluzione.


XXI. — QUESTO SONO LI FIUMI, CHE PORTANO LE TERRE DA LORO LEVATE DALLE
MONTAGNE, E LE SCARICANO AI MARINI LITI; E DOVE ENTRA LA TERRA SI FUGGE
IL MARE.

Le grandissime montagne, ancorachè sieno remote da’ marini liti,
scacceranno il mare dal suo sito.


XXII. — DELL’ACQUA, CHE CORRE TORBIDA E MISTA CON TERRA, E DELLA
POLVERE E NEBBIA MISTA COLL’ARIA, E DEL FOCO MISTO COL SUO [Sidenote:
Sott.: elemento] E ALTRI CON CIASCUNO.

Vedrassi tutti li elementi insieme misti con gran rivoluzione,
trascorrere ora inverso il centro del mondo, ora inverso il cielo, e
quando dalle parti meridionali scorrere con furia inverso il freddo
settentrione, qualche volta dall’oriente inverso l’occidente, e così da
questo in quell’altro emisperio.


XXIII. — IL VENTO D’ORIENTE CHE SCORRERÀ IN PONENTE.

Vedrannosi le parti orientali discorrere nell’occidentali, e le
meridionali in settentrione, avviluppandosi per l’universo con grande
strepito e tremore o furore.


XXIV. — DELLA NOTTE CHE NON SI CONOSCE ALCUN COLORE.

Verrà a tanto che non si conoscerà differenza in fra’ colori, anzi si
faran tutti di nera qualità.


XXV. — DEL FOCO.

Nascerà di piccolo principio chi si farà con prestezza grande; questo
non stimerà alcuna creata cosa, anzi colla sua potenza quasi il tutto
avrà in potenza di trasformare il suo essere in un altro.


XXVI. — LO SPECCHIO CAVO ACCENDE IL FOCO COL QUALE SI SCALDA IL FORNO,
CHE HA IL FONDO, CHE STA SOTTO IL SUO CIELO.

I raggi solari accenderanno il foco in terra, col quale s’infocherà ciò
ch’è sotto il cielo, e, ripercossi nel suo impedimento, ritorneranno in
basso.


XXVII. — TRACCIA.

Restaci il moto, che separa il motore dal mobile.


XXVIII. — DEI PIANETI.

E molti terrestri e acquatici animali monteranno fra le stelle: — cioè
pianeti.


XXIX. — DEL CONSIGLIO.

E colui che sarà più necessario a chi avrà bisogno di lui, sarà
sconosciuto, cioè più sprezzato.


XXX. — DELLA PAURA DELLA POVERTÀ.

La cosa malvagia e spaventevole darà di sè tanto timore appresso a
detti omini che come matti, credendo fuggirla, concorreranno con veloce
moto alle sue smisurate forze.


XXXI. — DELLA BUGIA.

Tutte le cose, che nel verno fien nascoste sotto la neve, rimarranno
scoperte e palesi nell’estate: — detta per la bugìa, che non può stare
occulta.



LE FACEZIE.


I. — DI UN FRATE AD UN MERCANTE.

Usano i frati minori, a certi tempi, alcune loro quaresime, nelle
quali essi non mangiano carne ne’ lor conventi; ma in viaggio, perchè
essi vivono di limosine, hanno licenzia di mangiare ciò che è posto
loro innanzi. Onde, abbattendosi, in detti viaggi, una coppia d’essi
frati a un’osteria, in compagnia d’un certo mercantuolo, il quale,
essendo a una medesima mensa, alla quale non fu portato, per la povertà
dell’osteria, altro che un pollastro cotto; onde esso mercantuolo,
vedendo questo essere poco per lui, si volse a essi frati, e disse:
— se io ho ben di ricordo, voi non mangiate in tali dì ne’ vostri
conventi d’alcuna maniera di carne. — Alle quali parole i frati furono
costretti, per la lor regola, sanza altre cavillazioni, a dire ciò
essere la verità: onde il mercantuolo ebbe il suo desiderio; e così, si
mangiò essa pollastra; e i frati feciono il meglio poterono.

Ora, dopo tale desinare, questi commensali si partirono tutti e tre
di compagnia; e dopo alquanto di viaggio, trovato un fiume di bona
larghezza e profondità, essendo tutti e tre a piedi, — i frati per
povertà e l’altro per avarizia, — fu necessario, per l’uso della
compagnia, che uno de’ frati, essendo discalzi, passasse sopra i sua
omeri esso mercantuolo: onde datoli il frate a serbo i zoccoli, si
caricò di tale omo.

Onde accadde che, trovandosi esso frate in mezzo del fiume, esso ancora
si ricordò de la sua regola; e fermatosi, a uso di San Cristofano,
alzò la testa inverso quello che l’aggravava, e disse: — dimmi un poco,
hai tu nissun dinari addosso? — Ben sai, rispose questo, come credete
voi che mia pari mercatante andasse altrementi attorno? — Ohimè! disse
il frate, la nostra regola vieta, che noi non possiamo portare danari
addosso; — e sùbito lo gettò nell’acqua. La qual cosa conosciuta dal
mercatante, facetamente la già fatta ingiuria essere vendicata, con
piacente riso, pacificamente, mezzo arrossito por vergogna, la vendetta
sopportò.


II. — DI UN PITTORE AD UN PRETE.

Andando un prete per la sua parrocchia il sabato santo, dando, com’è
usanza, l’acqua benedetta per le case, capitò nella stanza d’un
pittore, dove spargendo essa acqua sopra alcuna sua pittura, esso
pittore, voltosi indirieto, alquanto scrucciato, disse, perchè facesse
tale spargimento sopra le sue pitture. Allora il prete disse essere
così usanza, e ch’era suo debito il fare così, e che faceva bene, e chi
fa bene debbe aspettare bene e meglio, che così promettea Dio, e che
d’ogni bene, che si faceva in terra, se n’avrebbe di sopra per ogni un
cento.

Allora il pittore, aspettato ch’elli uscisse fori, se li fece di sopra
alla finestra, e gittò un gran secchione d’acqua addosso a esso prete,
dicendo: — ecco che di sopra ti viene per ogni un cento, come tu
dicesti che accaderebbe del bene, che mi facevi colla tua acqua santa,
colla quale m’hai guasto mezzo le mie pitture. —


III. — MOTTO DI UN ARTIGIANO AD UN SIGNORE.

Uno artigiano, andando spesso a visitare uno signore, sanza altro
proposito dimandare al quale [Sidenote: senza che nulla gli occorresse
da chiedergli], il signore domandò quello, che andava facendo. Questo
disse, che veniva lì per avere de’ piaceri, che lui aver non potea;
perocchè volentieri vedova omini più potenti di lui, come fanno i
popolani, ma che ’l signore non potea vedere, se non omini di men possa
di lui: per questo i signori mancano d’esso piacere.


IV. — BELLA RISPOSTA AD UN PITAGOREO.

Uno, volendo provare colla autorità di Pitagora, come altre volte lui
era stato al mondo, e uno non li lasciava finire il suo ragionamento;
allor costui disse a questo tale: — e per tale segnale, che io altre
volte ci fussi stato, io mi ricordo che tu eri mulinaro. — Allora
costui, sentendosi mordere colle parole, gli confermò essere vero,
che per questo contrassegno lui si ricordava che questo tale era stato
l’asino, che gli portava la farina.


V. — RISPOSTA DI UN PITTORE.

Fu dimandato un pittore perchè, facendo lui di figure sì belle che
eran cose morte, per che causa esso avesse fatti i figlioli sì brutti.
Allora il pittore rispose, che le pitture le fece di dì e i figlioli di
notte.


VI. — UN AMICO AD UN MALDICENTE.

Uno lasciò lo usare con uno suo amico, perchè quello spesso li diceva
male delli amici sua. Il quale, lasciato l’amico, un dì, dolendosi
collo amico, e dopo il molto dolersi, lo pregò che li dicesse quale
fusse la cagione, che lo avesse fatto dimenticare tanta amicizia. Al
quale esso rispose: — io non voglio più usare con teco per ch’io ti
voglio bene, e non voglio che, dicendo tu male ad altri di me tuo
amico, che altri abbiano come me a fare trista impressione di te,
dicendo tu a quelli male di me tuo amico; onde non usando noi più
insieme parrà che noi siamo fatti nimici, e per il dire tu male di
me, com’è tua usanza, non sarai tanto da essere biasimato, come se noi
usassimo insieme. —


VII. — DETTO DI UN INFERMO.

Sendo uno infermo in articulo di morte, esso sentì battere la porta, e
domandato uno de’ sua servi chi era, che batteva l’uscio, esso servo
rispose esser una, che si chiamava madonna Bona. Allora l’infermo
alzate le braccia ringraziò Dio con alta voce; poi disse ai servi che
lasciassero venire presto questa, acciocchè potesse vedere una donna
bona innanzi che esso morisse, imperocchè in sua vita mai ne vide
nessuna.


VIII. — DETTO DI UN DORMIGLIONE.

Fu detto a uno che si levasse dal letto, perchè già era levato il sole,
e lui rispose: — se io avessi a fare tanto viaggio e faccende quanto
lui, ancora io sarei già levato, e però, avendo a fare sì poco cammino,
ancora non mi voglio levare. —


IX. — ARGUZIA.

Uno vedendo una femmina parata a tener tavola in giostra, guardò il
tavolaccio, e gridò vedendo la sua lancia: — ohimè! questo è troppo
picciol lavorante a sì gran bottega! —


X. — RISPOSTA AD UN MOTTO.

Uno vede una grande spada allato a un altro, e dice: — o poverello!
ell’è gran tempo ch’io t’ho veduto legato a questa arme: perchè non
ti disleghi, avendo le mani disciolte e possiedi libertà? — Al quale
costui rispose: — questa è cosa non tua, anzi è vecchia. — Questi,
sentendosi mordere, rispose: — io ti conosco sapere sì poche cose in
questo mondo, ch’io credevo che ogni divulgata cosa a te fussi per
nova. —


XI. — FACEZIA AD UN VANTATORE.

Uno disputando, e vantandosi di saper fare molti varî e belli giochi,
un altro de’ circostanti disse: — io so fare uno gioco, il quale farà
trarre le brache a chi a me parrà. — Il primo vantatore, trovandosi
sanza brache: — che no, disse, che a me non le farai trarre! E vadane
un paro di calze. — Il proponitore d’esso gioco, accettato lo ’nvito,
improntò [Sidenote: si procacciò] più para di brache, e trassele nel
volto al mettitore delle calze, e vinse il pegno.


XII. — RISPOSTA AD UN MOTTO.

Uno disse a un suo conoscente: — tu hai tutti li occhi trasmutati in
istrano colore. — Quello li rispose intervenirli spesso: — ma tu non
ci hai posto cura. — E quando t’addivien questo? — Rispose l’altro: —
ogni volta ch’e’ mia occhi veggono il tuo viso strano, per la violenza
ricevuta da sì gran dispiacere, s’impallidiscono, e mutano in istrano
colore. —


XIII. — LA STESSA.

Uno disse a un altro: — tu hai tutti li occhi mutati in istran
colore. —

Quello li rispose: — egli è perchè i mia occhi veggono il tuo viso
strano. —


XIV. — MOTTO.

Uno disse, che in suo paese nasceva le più strane cose del mondo.
L’altro rispose: — tu che vi se’ nato, confermi ciò esser vero, per la
stranezza della tua brutta presenza. —


XV. — FACEZIA DI UN PRETE.

Una lavava i panni, e pel freddo avea i piedi molto rossi; e passandole
appresso uno prete, domandò, con ammirazione, donde tale rossezza
derivassi; al quale la femmina subito rispose che tale effetto
accadeva, perchè ella avea sotto il foco. Allora il prete mise mano
a quello membro, che lo fece essere più prete che monaca, e, a quella
accostandosi, con dolce e sommessiva voce, pregò quella che ’n cortesia
li dovessi un poco accendere quella candela.


XVI. — FACEZIA.

Uno, andando a Modana, ebbe a pagare 5 soldi di Lira di gabella
della sua persona. Alla qual cosa cominciato a fare gran romore e
ammirazione, attrasse a sè molti circostanti; i quali domandando donde
veniva tanta maraviglia, ai quali Maso rispose: — oh! non mi debbo io
maravigliare? conciossia che tutto un omo non paghi altro che 5 soldi
di Lira, e a Firenze io, solo a metter dentro il c..., ebbi a pagare
10 ducati d’oro, e qui metto il c...., i c.... e tutto il resto per sì
piccol dazio. Dio salvi e mantenga tal città, e chi la governa! —


XVII. — MOTTO ARGUTO.

Due camminando di notte per dubbiosa via, quello dinanzi fece grande
strepito col culo; e disse l’altro compagno: — or veggo io ch’i’ son
da te amato. — Come? disse l’altro. — Quel rispose: — tu mi porgi la
coreggia, perch’io non caggia, nè mi perda da te. —


XVIII. — MOTTO DETTO DA UN GIOVANE A UN VECCHIO.

Dispregiando un vecchio pubblicamente un giovane, mostrando audacemente
non temer quello, onde il giovane li rispose che la sua lunga età li
faceva migliore scudo che la lingua o la forza.


XIX. — FACEZIA.

Perchè li Ungheri tengon la croce doppia.



NOTE.


[1] _De illustratione urbis Florentiæ_, Parigi, 1583, pag. 27.

[2] _Arch. Storico Italiano._ Firenze, 1672, serie III, vol. XVI, pag.
222.

[3] _Le Vite_ (ed. Milanesi). Firenze. Sansoni, 1379, vol. IV, pag. 22.

[4] UZIELLI, _Ric. int. a L. d. V._ Torino, Loescher, 1896, pag. 61.

[5] L. D. V., _The literary works_ (ed. Richter). Vol. II, pag. 395-396.

[6] PACIOLI, _Divine proportione_. Venezia, 1509, c. I v.

[7] LUZIO, _I precettori d’Isabella d’Este_, Ancona, Morelli, 1887.

[8] _Ricordi._ Venezia, 1555, c. 51 v.

[9] _Le Vite_, vol. IV, pag. 18, 49.

[10] ANONIMO, _Breve vita. Arch. Storico Italiano_, serie III, vol.
XVI, pag. 226.

[11] _Le Vite_, vol. IV, pag. 50-51, 21.

[12] LIBRI, _Histoire des sciences mathém. en Italie_. Parigi,
Renouard, 1840, vol. IV, pag. 17.

[13] UZIELLI, _Paolo dal Pozzo Toscanelli_, Roma, Rac. Colomb., 1894
pag. 520.

[14] _Le Vite_, vol. IV, pag. 50-51.

[15] VASARI, _Le Vite_, vol. IV, pag. 46.

[16] SOLMI, _Studî sulla filosofia naturale di L. d. V._ Modena,
Vincenzi, 1898, pag. 57.

[17] Cfr. _G_, cop. r.: «Partissi il magnifico Giuliano de’ Medici a
dì 9 di Gennaio 1515 in sull’aurora da Roma, per andare a sposare la
moglie in Savoia, e in tal dì ci fu la morte del re di Francia.»

[18] _Le Vite_, vol. IV, pag. 47: «Lionardo intendendo ciò, partì ed
andò in Francia.»

[19] _Arch. Storico Italiano_, serie III, vol. XVI, pag. 226.

[20] UZIELLI, _Ricerche intorno a L. d. V._ Roma, Salviucci, 1884, pag.
459.

[21] Cfr. _Atti della R. Accademia dei Lincei_. Roma, 1876, serie II,
vol. III, pag. 13.

[22] BOSSI, _Del Cenacolo di L. d. V._ Milano, Stamperia Reale, 1810,
pag. 19-22.

[23] _Arch. Storico Italiano_, serie III, vol. XVI, pag. 222.

[24] _Le Vite_, vol. IV, pag. 21, 40.

[25] BANDELLO, _Novelle_. Londra, Harding, 1740, vol. I, c. 363-364. Si
ricordi come Matteo Bandello fosse ascritto al convento di Santa Maria
delle Grazie. Cfr. QUETIF et ECHARD, _Script. Ord. Prædicat._, vol. II,
pag. 155.

[26] _Le Vite_, vol. IV, pag. 28-29.

[27] DU FRESNE, _Il trattato detta pittura di L. d. V._ Parigi, 1651.

[28] Si riscontri la TAVOLA DELLE SIGLE.

[29] Si veda: _Qui incomincia el Tesoro di_ BRUNETTO LATINO _di
Firense, e parla del nascimento e della natura di tutte le cose_.
Treviso, 1474. Lib. IV, cap. 4. (Ed. di Venezia, 1841. Vol. I, pag.
202), dalla quale opera Leonardo attinge la materia di questa favola.

[30] La leggenda qui narrata da Leonardo non ha nessun fondamento
storico, e si deve far risalire probabilmente al _Tractato de le
piu maravigliose cosse e piu notabile che si trovano in le parte del
mondo, redute e collecte sotto brevità in el presente compendio dal
strenuissimo cavalieri speron doro Johanne de_ MANDAVILLA. Milano,
1480. Folio _g._ 3 vº, opera che il Vinci stesso ricorda in una nota
del _Codice Atlantico_: folio 207 rº. Per analoghe leggende si veda
PRIDEAUX, _Life of Mahomet_. Pag. 82 e seg.; A. D’ANCONA, _La leggenda
di Maometto in Occidente_. Giorn. Stor. d. Letteratura Italiana.
Torino, 1897. Vol. XIII, pag. 238.

[31] Si veda: _Fiore di virtù che tratta tutti i vitti humani, et come
si deve acquistare la virtù_. Venezia, 1474. Cap. I, pag. 3-4, libro
ricordato da Leonardo nel _Codice Atlantico_: folio 207 rº, e che è la
fonte capitale di tutto il Bestiario del Vinci. Intorno a quest’ultimo
si veda: A. SPRINGER, _Ueber den Physiologus des Leonardo da Vinci_,
in _Berichte über die Verhandlung der k. sächs. Gesell. d. Wissen. zu
Leipzig. Philolog.-hist. Classe_. Leipzig, 1884. Fasc. 3-4; e GOLDSTAUB
und WENDRINER, _Ein tosco-venezianischer Bestiarius_. Halle, 1892. Pag.
240-254; _Anhang zu Kap. VI, Exkurs über den Bestiarius des Leonardo da
Vinci_, che riavvicina al testo del manoscritto _H_ passi di Solino,
di Alberto Magno, di Ugo da San Vittore, di Vincenzo di Beauvais, del
Neckam.

[32] _Fior di virtù_, Roma, 1740. Cap. III, pag. 22-23: _Del vizio
dell’invidia appropriato al nibbio_.

[33] _Ivi_, cap. IV, pag. 26: _Dell’allegrezza appropriata al gallo_.

[34] _Ivi_, cap. V, pag. 29: _Del vizio della tristizia appropriato al
corbo_.

[35] _Ivi_, cap. VII, pag. 34: _Della virtù della pace appropriata al
castoro_.

[36] _Ivi_, cap. VIII, pag. 37-38: _Del vizio dell’ira appropriato
all’orso_.

[37] _Ivi_, cap. IX, pag. 43: _Della virtù della misericordia, ed è
appropriata a’ figliuoli dell’uccello ipega_.

[38] _Ivi_, cap. XII, pag. 58: _Del vizio dell’avarizia appropriato
alla botta_.

[39] Donde Leonardo abbia tratta questa allegoria non mi è stato dato
di determinare.

[40] _Fior di virtù_, cap. X, pag. 47: _Del vizio della crudeltà
appropriato al basilisco_.

[41] _Ivi_, cap. XI, pag. 50: _Della virtù della liberalità appropriata
all’aquila_.

[42] _Ivi_, cap. XIII, pag. 62-63: _Della correzione appropriata al
lupo_.

[43] _Ivi_, cap. XIV, pag. 66: _Della lusinga appropriata alla sirena_.

[44] _Ivi_, cap. XV, pag. 69-70: _Della prudenza appropriata alla
formica_.

[45] _Ivi_, cap. XVI, pag. 76-77: _Della pazzia appropriata al bue
salvatico_.

[46] _Ivi_, cap. XVII, pag. 79-80: _Della giustizia appropriata al re
delle api_.

[47] _Ivi_, cap. XXI, pag. 98-99: _Della verità appropriata alla
pernice_.

[48] _Ivi_, cap. XIX, pag. 91: _Della lialtà appropriata alla grua_.

[49] _Ivi_, cap. XX, pag. 95: _Della falsità appropriata alla volpe_.

[50] _Ivi_, cap. XXII, pag. 102: _Della bugia appropriata alla
topinara_.

[51] _Ivi_, cap. XXIV, pag. 109: _Del timore appropriato alla lepre_.

[52] _Ivi_, cap. XXV, pag. 111: _Della magnanimità appropriata al
girifalco_.

[53] _Ivi_, cap. XXVI, pag. 112-113: _Della vanagloria appropriata allo
pavone_.

[54] _Ivi_, cap. XXVII, pag. 115-116: _Della constanzia appropriata
alla fenice_.

[55] _Ivi_, cap. XXVIII, pag. 117-118: _Della incostanzia appropriata
alla rondine_.

[56] _Ivi_, cap. XXIX, pag. 120-121: _Della temperanza appropriata al
cammello_.

[57] _Ivi_, cap. XXX, pag. 125: _Della intemperanza appropriata al
liocorno_.

[58] _Ivi_, cap. XXXI, pag. 128: _Della umiltà appropriata allo
agnello_.

[59] _Ivi_, cap. XXXII, pag. 133: _Della superbia appropriata al
falcone_.

[60] _Ivi_, cap. XXXIII, pag. 137: _Dell’astinenza appropriata
all’asino salvatico_.

[61] _Ivi_, cap. XXXIV, pag. 139: _Della gola appropriata
all’avvoltoio_.

[62] _Ivi_, cap. XXXV, pag. 141: _Della castità appropriata alla
tortora_.

[63] _Ivi_, cap. XXXVI, pag. 146: _Della lussuria appropriata al
pipistrello_.

[64] _Ivi_, cap. XXXVII, pag. 152-153: _Della moderanza appropriata
all’ermellino_.

[65] Si veda: CECCO ASCULANO, _Lacerba_. Venezia, 1492. Lib. III, cap.
III, folio 32 rº e vº: _Aquila_.

[66] _Ivi_, lib. III, cap. IV, folio 33 rº: _De la natura de lumerpa_.

[67] _Ivi_, lib. III, cap. V, folio 33 rº: _De la natura de plicano_.

[68] _Ivi_, lib. III, cap. VI, folio 33 vº: _De quatro animali che
vivono de quattro elementi et primo de salamandra_.

[69] _Ivi_, lib. III, cap. VII, folio 33 vº: _De cameleone_.

[70] _Ivi_, lib. III, cap. VII: _Alepo_.

[71] _Ivi_, lib. III, cap. VIII: _De la natura del struzo_.

[72] _Ivi_, lib. III, cap. X, folio 34 vº: _De la natura del cygno_.

[73] _Ivi_, lib. III, cap. XI, folio 35 rº: _De la natura de la
cicogna_.

[74] _Ivi_, lib. III, cap. XII, folio 35 rº e vº: _De la natura de la
cichada_.

[75] _Ivi_, lib. III, cap. XXX, folio 40 vº: _De la natura del
basalisco_.

[76] _Ivi_, lib. III, cap. XXXI, folio 40 vº e 41 rº: _Del aspido_. —
_Ivi_, lib. III, cap. XXXII, folio 41 rº: _Del dracone_.

[77] _Ivi_, lib. III, cap. XXXIII, folio 41 vº: _De la vipera_.

[78] _Ivi_, lib. III, cap. XXXIV, folio 41 vº e 42 rº: _Del scorpione_.

[79] _Ivi_, lib. III, cap. XXXV, folio 42 rº: _Del crocodilo_.

[80] _Ivi_, lib. III, cap. XXXVI, folio 42 vº: _Del botto_.

[81] Questa allegoria sembra originale di Leonardo.

[82] Questa allegoria sembra originale di Leonardo.

[83] Si veda la _Historia naturale di_ CAIO PLINIO SECONDO _tradocta
di lingua latina in florentina per Cristoforo Landino_. Venezia,
1476. Lib. VIII, cap. XVII e seg., opera che Leonardo ricorda, con la
parola _Plinio_, nel _Codice Atlantico_: folio 207 rº; e nel _Codice
Trivulziano_: folio 3 rº.

[84] Si veda C. PLINII SECUNDI _Naturalis Historia_ (ed. Detlefsen),
vol. I, Berlino, 1866; e per le discussioni, che si sono levate a
proposito della diretta derivazione di questi passi da Plinio, si veda
GOLDSTAUB und WENDRINER, _Ein tosco-venezianischer Bestiarius_, pag.
245-247.

[85] In Plinio non mi fu dato di riscontrare il testo di questo simbolo.

[86] C. PLINII _Nat. hist._, lib. VIII, cap. I, pag. 47; cap. IV, pag.
48; cap. V, pag. 49; cap. XII, pag. 53.

[87] _Ivi_, lib. VIII, cap. XII, pag. 53-54.

[88] _Ivi_, lib. VIII, cap. XIV, pag. 54 (36-37).

[89] _Ivi_, lib. VIII, cap. XIII, pag. 54 (37-38).

[90] _Ivi_, lib. VIII, cap. XV, pag. 54 (38-40).

[91] _Ivi_, lib. VIII, cap. XV, pag. 54-55 (40-41).

[92] Non mi è stato dato di precisare con esattezza la fonte di questo
simbolo.

[93] Cfr. C. PLINII _Nat. hist._, lib. X, cap. LXXIII, pag. 1.

[94] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 65.

[95] _Ivi_, lib. VIII, cap. XV, pag. 55 (41-42).

[96] _Ivi_, lib. VIII, cap. XVI, pag. 55.

[97] _Ivi_, lib. VIII, cap. XVI, pag. 57 (52-53).

[98] _Ivi_, lib. VIII, cap. XVII, pag. 59.

[99] _Ivi_, lib. VIII, cap. XVIII, pag. 59-60 (67-69).

[100] _Ivi_, lib. VIII, cap. XVIII, pag. 59 (66-67). Si noti nel brano
di Leonardo la confusione fra le parole _tigre_ e _pantera_.

[101] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXI, pag. 61 (77-78).

[102] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXI, pag. 61-62 (78-79).

[103] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXI, pag. 62 (79-80).

[104] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXIII, pag. 63 (85-86).

[105] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXIII, pag. 63(85-86).

[106] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXIII, pag. 63 (85-86).

[107] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXXIII, pag. 63 (86-88).

[108] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXIV, pag. 63.

[109] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXV, pag. 63-64.

[110] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXV, pag. 64.

[111] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXV, pag. 64-65.

[112] _Ivi_, lib. VIII. cap. XXVII, pag. 65.

[113] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 65.

[114] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 65 (97-98).

[115] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 65.

[116] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 65.

[117] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 65 (98-99).

[118] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 65 (99-100).

[119] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 65-66 (100-101).

[120] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 66.

[121] _Ivi_, lib. VIII, cap. XXVII, pag. 66 (101-102).

[122] La profonda osservazione, contenuta in questo passo, è stata
suggerita a Leonardo dalle contraddizioni e incertezze, in cui s’era
avvolta la meccanica presso gli antichi. La leva archimedea non
essendo una verga solida, ma una linea geometrica, poteva fornire agli
investigatori soltanto dei risultati matematici e astratti; più tardi
gli antichi, incautamente, fusero e confusero i dati della aritmetica
coi dati della esperienza, rendendo così più acuto quel contrasto fra
l’ideale e il reale, che la scienza greco-romana non riuscì a comporre.
Il Vinci, intuendo nettamente una scienza interprete e legislatrice
della natura, attenua qui il proposito di voler correggere, con critica
investigazione, le cifre discordanti, offerte dagli antichi testi. — Si
veda sulle caratteristiche dell’antica e della nuova scienza: HÖFFDING,
_Geschichte der neueren Philosophie_. Leipzig, 1895. Vol. I, pag. 84;
176-227. E su Leonardo: DÜHRING, _Kritische Geschichte der allgemeinen
Prinzipien der Mechanik_. Leipzig, 1877. Pag. 12 e seg.

[123] Questo passo, o più esattamente il seguente, che vi è contenuto,
e attinto al VALTURIO, _De re militari libri XII ad Sigismundum
Pandulfum Malatestam ........ edente Paulo Ramusio_. Verona, 1483. Pag.
12; opera da Leonardo ricordata nel _Codice Atlantico_: folio 207 rº,
con la indicazione: _De re militari_. Non hanno quindi nessuna ragione
le ricerche iniziate dal Müller Strubing in RICHTER, _The literary
works of Leonardo da Vinci_. London, 1883. Vol. I, pag. 16.

[124] Si veda ancora: VALTURIO, _De re militari_. Pag. 12, donde questo
frammento è stato tradotto parola a parola.

[125] Il passo qui riferito precede le splendide pagine di Leonardo
contro l’ipotesi filolaico-platonica, che assegnava rispettivamente
la figura di ciascuno dei cinque poliedri regolari (_figuræ mundanæ_)
agli elementi della terra, acqua, aria, fuoco e universo. — Sul valore
matematico di questo concetto, si veda lo CHASLES, _Aperçu historique
sur l’origine et sur le développement des méthodes en géométrie_,
Paris, 1875, pag. 512-515; e sui passi del Vinci ad esso relativi, i
miei _Studî sulla filosofia naturale di Leonardo da Vinci_. Modena,
1898, pag. 88-89. Per le fonti cfr. LUCA PACIOLI, _Divina proporzione_.
Venezia, 1509. Pag. LV.

[126] Leonardo, nelle sue ricerche lente e faticose sulla caduta dei
gravi, non giunse alla determinazione di quella legge degli spazi
proporzionali ai quadrati dei tempi, che rese immortale Galileo
Galilei. Il principio qui espresso è che il peso cadente è soggetto ad
una forza di accelerazione costante, la quale fa sì che l’aumento della
distanza fra i gravi discendenti è eguale e proporzionale ai tempi
della caduta. Intorno alle investigazioni di Leonardo sulla discesa dei
gravi si veda il VENTURI, _Essai sur les ouvrages phisico-mathématiques
de Léonard de Vinci_. Paris, 1797, pag. 16; e le acute pagine del
CAVERNI, _Storia del metodo sperimentale in Italia_. Firenze, 1895.
Vol. IV, pag. 69-80.

[127] Tale concetto intorno ai moti equabili, tratto dalla meccanica
aristotelica (_Quæstiones mechanicæ_. Opera. Venezia, 1560. Vol.
XI, cap. II), è affermato vero dal Vinci nei limiti naturali: «Se
una potenza moverà un corpo in alquanto tempo un alquanto spazio, la
medesima potenza moverà la metà di quel corpo nel medesimo tempo due
volte quello spazio, ovvero la medesima virtù moverà la metà di quel
corpo per tutto quello spazio nella metà di quel tempo.» Manoscritto
_F_, folio 26 vº. — Ciò che Leonardo combatte nel frammento LXII è
l’arbitraria estensione della legge al di là di ogni esperienza e
di ogni possibilità di natura, è la tendenza ingenita in certe menti
irrequiete di dar forma metafisica alle leggi fisiche, di applicare la
vuota astrattezza del termine _in infinito_ alla natura manifestantesi
nello spazio e nel tempo finito.

[128] Il frammento è stato compiutamente frainteso dal Ravaisson,
per la sostituzione della parola _frate_ alla parola _fructo_, che si
trova realmente nel manoscritto. (_Les manuscrits de Léonard de Vinci.
Manuscrits F et I de la bibliothèque de l’Institut._ Paris, 1889. _F_,
folio 72 vº.)

[129] Leonardo ha tradotto questo passo parola a parola dalla
_Prospettiva_ di GIOVANNI PECCKHAM († 1292). Si veda in fatti:
_Prospectiva communis domini Johanni Archiepischopi Cantuariensis
fratris ordinum minorum_. Milano, s. d., folio a, 2.

[130] Secondo le dottrine aristoteliche, era concesso alla mente umana
di conoscere la natura dei quattro elementi terra, acqua, aria e fuoco,
risultanti dalla varia mescolanza del grave col leggero, dell’umido col
secco, principî ultimi componenti la molteplice varietà delle cose.
Si veda ARISTOTILE, _De cœlo_. Lib. IV, cap. 4. — Leonardo nega qui
la possibilità di conoscere la natura degli elementi, che compongono
la realtà esterna; come altrove (_Codice Atlantico_, folio 79 rº, pag.
187) aveva negato, a somiglianza del suo contemporaneo Niccolò Cusano,
la possibilità di giungere alla conoscenza di elementi primitivi in
generale. Cfr. LASSWITZ, _Geschichte der Atomistik vom Mittelalter bis
Newton_. Hamburg und Leipzig, 1890. I, pag. 278.

[131] Son qui profondamente intravveduti gli effetti di quella coesione
intermolecolare, che fa che la gocciola d’acqua assume forma sferica
intorno al centro della propria figura; e gli effetti di quella più
vasta attrazione, che tiene raccolto l’elemento liquido intorno al
centro della Terra.

[132] Leonardo ricorda nel _Codice Atlantico_, folio 207 rº, con la
parola _Justino: Il libro di_ JUSTINO, _posto diligentemente in materna
lingua da Girolamo Squarzafico_. Venezia, 1477; libro che gli ispirava
questo memorabile frammento. Si veda G. D’ADDA, _Leonardo da Vinci e
la sua libreria_. Milano, 1872; e _The literary works of Leonardo da
Vinci_. Londra, 1883. I, pag. 419 e seg.

[133] _Pag. 108._ Piero di Braccio Martelli, ricordato altrove dal
Vinci (codice del _British Museum_: folio 202 vº. Cfr. RICHTER, _The
literary works_, vol. II, n. 1420), non solo fu cittadino di grande
integrità, ma matematico insigne, singolare ragione perchè fosse caro
a Leonardo. Sul principio del secolo XVI, benchè infermo di corpo,
se dobbiamo credere al Poccianti, egli compose: _Libri quattuor in
Mathematicas disciplinas, Epistolæ plures et elegantes, Epigrammata
non pauca et acutissima_; opere, che, smarrite durante il sacco di Roma
(1527), ci hanno forse tolto un nuovo esempio di quella efficacia, che
Leonardo da Vinci ebbe su alcuni matematici del tempo suo.

[134] La legge affermata qui da Leonardo è quella stessa che il
Galilei dichiarava nei _Dialoghi delle scienze nuove_ (_Opere_, ed.
Albèri. Vol. XIII, pag. 177): scendendo un corpo in varî modi, deviato
per obbliquità di rimbalzi, giunge al medesimo punto ch’egli avrebbe
toccato, se vi fosse pervenuto senza altro impedimento: «Ogni movimento
fatto dalla forza, scrive col suo stile limpido e conciso il Vinci,
conviene che faccia tal corso, quanto è la proporzione della cosa mossa
con quella che muove; e, se ella troverà resistente opposizione, finirà
la lunghezza del suo debito viaggio per circolar moto o per altri varî
risaltamenti e balzi, i quali, computato il tempo e il viaggio, fia
come se ’l corso fosse stato sanz’alcuna contraddizione.» Manoscritto
_A_, folio 60 vº.

[135] Leonardo accetta in questo frammento il principio che la
visione si compia nell’interno dell’occhio, in un punto indivisibile
o matematico. (Cfr. VITELLONE, _Optica edente Fred. Rixnero_.
Norimberga, 1535, libro ricordato da Leonardo nel _Codice Atlantico_,
folio 243 rº e folio 222 rº.) Fu più tardi, nel progresso delle sue
ottiche investigazioni, che egli giunse alla razionale convinzione
dell’esistenza di una superficie sensibile alla luce e ai colori, cioè
a quella che oggi si chiama _la retina_. Grandiosa conclusione, alla
quale è portato da una serie di scoperte non meno grandiose, raccolte
nel manoscritto _D_, e disperse nei manoscritti _F, K, E_.

[136] La fonte per le notizie sulle idee di Pitagora intorno
all’armonia delle sfere si deve ritenere, in ultima analisi, il _De
Cœlo_ d’Aristotele (lib. II, cap. IX); tuttavia il Vinci procede
indipendentemente dalle argomentazioni peripatetiche. Secondo la
filosofia pitagorea, ogni corpo, mosso rapidamente, genera un suono; i
corpi celesti, nel loro eterno movimento, producono anch’essi una serie
di suoni, la di cui altezza varia secondo la velocità e la velocità
secondo la distanza. Gli intervalli degli astri corrispondono, secondo
i pitagorei, agli intervalli dei suoni nell’ottava. — Si veda ZELLER,
_Geschichte der Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen
Entwicklung_. Tubinga, 1869. Vol. I, pag. 398 e 399.

[137] Leonardo si riferisce alla _Spera_ di GORO DATI [Firenze, 1478]
e agli _Hymni et epigrammata_ di MICHELE TARCANIOTA (MARULLO) [Firenze,
1497]. Nella prima di queste due opere, le strofe, che vanno dalla 16ª
alla 22ª, sono dedicate alle lodi del sole:

    Chiaro splendore e fiamma rilucente,
    Sopra tutt’altre creatura bella, ec.

e non è difficile rinvenirvi idee ed espressioni simili a quelle usate
dal Vinci.

Negli _Hymni et epigrammata_ del Marullo, il secondo dei _Libri
hymnorum naturalium_ si apre coll’inno al sole:

      _Quis novus hic animis furor incidit, unde repente_
    _Mens fremit horrentique sonant præcordia motu?_ ec.

Le notizie, che seguono nei frammenti L, LI, LII, intorno alle idee di
Epicuro sono tratte, più che da Lucrezio, che Leonardo nomina una sola
volta di seconda mano, dal _El libro de la vita de philosophi e delle
loro elegantissime sententie extracte da_ DIOGENE LAHERTIO _e da altri
antiquissimi auctori_. Venezia, 1480, lib. X (ed. Lipsia, 1833, vol.
II, pag. 223).

[138] Il tentativo d’incanalare l’Arno per bonificare tutto il piano
d’Empoli e dintorni, già suggerito da Luca Fancelli (si veda G.
UZIELLI, _La vita e i tempi di Paolo dal Pozzo Toscanelli_. Roma, 1890,
pag. 520), conduce il Vinci, dal campo strettamente pratico, ai più
alti problemi di idraulica e di geologia. Il Sasso della Gonfolina,
che si trova fra Signa e Montelupo, formava in antico un altissimo
argine, separatore di due vasti laghi, l’uno coperto dalle acque
salse, l’altro dalle acque dolci (si veda il frammento LXXXI). Secondo
GIOVANNI VILLANI († 1348), lontano ancora da ogni idea di dinamica
terrestre, la mano provvida dell’uomo avrebbe spezzata questa diga,
onde lasciare libero il transito al fiume (Cfr. _Croniche di Giovanni,
Matteo e Filippo Villani_. Trieste, 1861); Leonardo vede nell’opera
lenta dell’acqua la causa del benefico effetto. Alte e feconde sono le
conclusioni che il Vinci seppe trarre da questo e da simili fatti, ma
le puerili credenze del tempo (cfr. FRANCESCO PATRIZZI, _De antiquorum
rethorica_. Venezia, 1562) erano radicate così profondamente nell’anima
dei ricercatori, che, perfino due secoli dopo, ANTONIO VALLISNIERI
(_Opere fisico-mediche_. Venezia, 1733, vol. II), riguardato come il
padre della moderna scienza geologica, ne sa assai meno di lui intorno
all’esistenza delle conchiglie fossili e intorno alla meccanica delle
trasformazioni terrestri.

[139] Il problema della fine della vita nel mondo preoccupa, come
può scorgersi dai frammenti LXXXVII e LXXXVIII, Leonardo da Vinci; ma
ciò che è degno di considerazione è che egli, senza ricorrere ad una
volontà extramondana, riguarda il finale dissolvimento degli esseri
come una naturale conseguenza del successivo operare delle forze
fisiche. Due opposte conclusioni si potevano trarre dal trasformarsi
lento e continuo della superficie terrestre: nel corso dei secoli le
acque si troveranno rinserrate nel fondo di voragini senza fine, per il
lavorío dei fiumi che approfondiscono il proprio letto; nel corso dei
secoli l’acqua circonderà in ogni sua parte la terra, per l’abbassarsi
dei monti, in causa del dispogliamento del terreno, dovuto all’acqua.
La prima ipotesi è toccata e combattuta da ARISTOTELE nei _Libri
metheorologici_, lib. II, cap. I, § 1. Cfr. lib. II. cap. 1, § 1-17;
entrambe sono espresse qui dal Vinci.

[140] Secondo ANASSAGORA, ogni cosa nel mondo è composta da una somma
di componenti della stessa natura dell’intero, chiamati da lui stesso
σπέρματα (Fr. 1, 3, 6 [4]): questi principî ultimi si trovano sparsi da
per tutto, sempre eguali a sè stessi, ed entrano nella composizione
di ogni essere inorganico e organico. Si veda ZELLER, _Gesch. der
Philosophie der Griechen_. I, pag. 875-885. Le medesime espressioni
del frammento di Leonardo si trovano nel _De umbris idearum_, Berlino,
1868, pag. 28, del BRUNO, e risalgono probabilmente a LUCREZIO, _De
rerum natura_, lib. I, v. 830 e segg.

[141] Si veda: ROBERTO VALTURIO, _De re militari_. Parigi, 1534. Pag.
4, donde è tratto il frammento.

[142] Le notizie su queste costumanze dei selvaggi sono state tratte
dal MANDAVILLA, _Tractato de le più maravigliose cosse e più notabili
che si trovano in le parti del mondo_. Milano, 1480, folio _l_ 4
rº: «e se sono grassi di subito li mangiano, e se sono magri li
fano ingrassare.» L’opera del PLATINA qui citata è il _De la honesta
voluptate et valetudine et de li obsonij_. Venezia, 1487, ricordata nel
_Codice Atlantico_ con le parole: _De onesta voluptà_, folio 207 rº.

[143] Il _codice_, nel quale si trova questo frammento, contiene,
quasi esclusivamente, note intorno al trattato DI LUCE ED OMBRA. Il
_cavallo_, di cui qui si parla, è il modello per la statua equestre
a Francesco Sforza. _Jacomo Andrea_, nella casa del quale Leonardo
si reca a cena con il discepolo suo _Giacomo_, è Andrea da Ferrara,
profondo conoscitore di Vitruvio e architetto di alto grido, che morì,
ucciso per ordine del generale Trivulzio, nel 15 maggio 1500 (Cfr. G.
UZIELLI, _Ricerche intorno a Leonardo da Vinci_. Torino, 1896. Vol.
I, pag. 377-382). _Marco_ è Marco d’Oggionno, pittore e discepolo del
Vinci. _Galeazzo Sanseverino_, in casa del quale Leonardo dirige quella
giostra, che rimase poi sempre famosa in Milano (26 gennaio 1491), è
il capitano al quale Lodovico il Moro affiderà il proprio esercito nel
funesto 1499, e profondo conoscitore dell’arte militare. _Agostino da
Pavia_ è ricordato, insieme con Leonardo da Vinci, nella lettera che
Bartolomeo Calco, segretario dello Sforza, dirige al Referendario di
Pavia, in occasione del matrimonio di Lodovico con Beatrice d’Este e
d’Anna, sorella del duca Galeazzo, con Alfonso d’Este, per richiedere
il ritorno degli artisti che si trovavano in quella città (8 dicembre
1490:..... _Augustino et Magistro Leonardo_....., cfr. BELTRAMI, _Il
Castello di Milano_. Milano, 1895. Pag. 188). Finalmente _Gian Antonio_
è l’artista Gian Antonio Boltraffio, altro dei discepoli di Leonardo in
Milano. L’intero frammento è, quasi senza dubbio, un memoriale per il
risarcimento de’ danni e delle spese.

[144] Il frammento è di grande importanza per la biografia di Leonardo
e particolarmente per gli anni, che vanno dal 1513 al 1515. _Maestro
Giovanni degli Specchi_ e gli altri, ricordati qui vagamente, sono
lavoranti o meccanici tedeschi, della cui opera il Vinci si serviva
per attuare i suoi molteplici disegni di strumenti, come per esempio il
memorabile tornio ovale (si veda: _Codice Atlantico_, folio 121 rº: _fa
fare il tornio ovale al Tedesco_).

[145] _Pag. 228._ Non si può negare, come fa incautamente il RICHTER
(_The literary works of Leonardo da Vinci_. Vol. II, pag. 413), la
possibilità di una simile costumanza presso gli abitanti delle Indie,
data la scarsa conoscenza che possediamo delle pratiche superstiziose
popolari, soggiacenti ai principî più alti delle religioni asiatiche.
Ma è più probabile, e nello stesso tempo più naturale, che il Vinci si
riferisca, con le parole: _come ancora in alcuna regione dell’India_;
alle notizie che cominciavano a diffondersi sul principio del secolo
XVI in Europa intorno agli usi dei popoli americani: e allora le sue
parole trovano più di una luminosa conferma nelle pagine del FRAZER,
_The golden bough — a study in comparative religion_. Londra, 1890,
vol. II, pag. 79-81; e in quelle dell’ACOSTA, _Natural and moral
history of the Indies_. Londra, 1880, vol. II, pag. 356-360.

[146] Il nome di Momboso è adoperato per indicare il gruppo del Monte
Rosa da FLAVIO BIONDO, _Roma ristaurata ed Italia illustrata_, trad.
Venezia, 1542, pag. 165; e da LEANDRO ALBERTI, _Descrittione di tutta
Italia_. Venezia, 1588, pag. 435. «I quattro fiumi che rigan per
quattro aspetti contrarî tutta l’Europa,» sono «il Rodano a mezzodì
e ’l Reno a tramontana, il Danubio over Danoja a greco e ’l Po a
levante.» (_Mss. di Leicester_, c. 10 rº; RICHTER, _The literary
works_. Vol. II, pag. 247). L’osservazione intorno alla caduta della
grandine o «grésil,» quella, ancor più importante ed in contrasto con
le idee del tempo, della maggiore tenebrosità del cielo sereno a grandi
altezze, confermata più di tre secoli dopo dal DE SAUSSURE per le Alpi,
e dall’HUMBOLDT per le Cordigliere (KAEMTZ, _Cours de météorologie_.
Parigi, 1858, vol. V, pag. 315), portano a ritenere che Leonardo da
Vinci è salito oltre i 3000 metri.

[147] Le descrizioni di Leonardo ritraggono per lo più fenomeni
realmente osservati. A proposito del passo: «onde del mare di Piombino,
tutte d’acqua schiumosa»; si ricordi il disegno di un’onda coperta di
schiuma, che si trova nel manoscritto _L_ e la nota che lo accompagna:
«fatta al mare di Piombino» (anno 1502). LEONARDO DA VINCI, _Les
manuscrits G, L, M, de la bibliothèque de l’Institut_. Parigi, 1890,
vol. V, folio 6 vº.

[148] La questione del viaggio di Leonardo in Oriente, aperta dal
RICHTER nella _Zeitschrif für bildende Kunst._ Vienna, 1881, vol. XVI,
e esaminata a fondo dal DOUGLAS FRESHFIELD nei _Proceedings of the
Royal Geographical Society_. Londra, 1884. Vol. VI, pag. 323 e segg.;
può dirsi, non che risoluta, neppure proposta nei suoi veri termini. Se
da una parte la DIVISIONE DEL LIBRO suggerisce l’idea di una narrazione
fantastica, sia pure condotta con tutta la maggiore precisione
storica e geografica propria del genio di Leonardo; resta sempre il
spiegarsi l’origine di certe notizie; la ragione di certi schizzi,
grossolani e accurati nello stesso tempo, che riproducono uomini e
cose asiatiche; il senso di certe espressioni più vaghe su personaggi e
costumi orientali, che spuntano inaspettatamente nei manoscritti, come
rimembranze di cose vedute, poste ad esempio di principî prospettici o
idraulici. La stessa notizia dello splendore notturno del Tauro, può
dirsi, piuttosto che una riproduzione dai _Libri meteorologici_ di
ARISTOTELE, una rettifica del testo Aristotelico, fatta con argomenti
tratti dalla diretta conoscenza dei luoghi.

[149] Se si confronta questa specie di abbozzo del _Cenacolo_ con
l’opera finita, si ritroveranno facilmente alcuni degli elementi della
prima, seconda e terza figura descritte nella prima figura, alla destra
di Cristo (Giovanni); nella prima (Giacomo maggiore) e nella quarta
(Matteo), alla sua sinistra. L’artifizio del coltello; il gruppo
dell’uomo che parla e di quello che ascolta; l’episodio della tazza
rovesciata si ritrovano nell’atteggiamento della terza figura a destra
del Salvatore (Pietro), in quello delle due ultime figure a sinistra
(Taddeo e Simone), in quello di Giuda. L’uomo che posa le mani sulla
tavola e guarda è colla maggiore evidenza l’apostolo Bartolomeo della
pittura. La penultima figura a sinistra (Giacomo minore) conserva
qualche caratteristica delle ultime linee del frammento.

[150] Quale sia la fonte di questa e della seguente lettera mi è
stato impossibile determinare, sebbene qualche punto richiami certe
espressioni del _Morgante maggiore di Luigi Pulci_. Venezia 1488.
Ancora più difficile sarebbe precisare lo scopo del contenuto di questa
narrazione.



SOMMARII E RIFERIMENTI.


LE FAVOLE.

_Pag. 3._ L’irrequietezza. R. 1314. — La carta e l’inchiostro. R. 1322.
— L’acqua. R. 1271. — _4._ La fiamma e la candela. C. A. 67 r. — _5._
Quelli che s’umiliano, sono esaltati. R. 1314. — _6._ Sul medesimo
soggetto. C. A. 67 v. — La pietra. C. A. 172 v. — _7._ Il rasoio. C.
A. 172 v. — _8._ Il giglio. H. 44 r. — Il noce. C. A. 76 r. — _9._
Il fico. C. A. 76 r. — La pianta e il palo. C. A. 76 r. — Il cedro
e le altre piante. C. A. 76 r. — La vitalba. C. A. 76 r. — _10._ La
cattiva compagnia trascina i buoni nella propria rovina. R. 1314. —
Sul medesimo soggetto. R. 1314. — Il cedro. C. A. 76 r. — Il persico.
C. A. 76 r. — _11._ L’olmo e il fico. C. A. 76 r. — Le piante e il
pero. C. A. 76 r. — _12._ La rete. R. 1314. — Nasce rovina dal seguire
il falso splendore. C. A. 67 r. — _13._ Il castagno e il fico. C. A.
67 r. — _14._ Il rovistico e il merlo. C. A. 67 r. — _15._ La noce e
il campanile. C. A. 67 v. — _16._ Il salice e la zucca. C. A. 67 v.
— _19._ L’aquila. C. A. 67 v. — Il ragno. C. A. 67 v. — Il granchio.
R. 1314. — _20._ L’asino e il ghiaccio. C. A. 67 v. — La formica e il
chicco di grano. C. A. 67 v. — L’ostrica, il ratto e la gatta. H. 51
v. — Il falcone e l’anitra. H. 44 v. — _21._ L’ostrica e il granchio.
C. A. 67 v. — I tordi e la civetta. C. A. 67 v. — _22._ La scimmia e
l’uccelletto. C. A. 67 v. — Il cane e la pulce. C. A. 119 r. — _23._
Il topo, la donnola e il gatto. C. A. 67 v. — Il ragno e il grappolo
d’uva. R. 1314. — _24._ Sul medesimo soggetto. C. A. 67 v. — Traccia.
H 44. v. — Il villano e la vite. H. 44 v. — _25._ Leggenda del vino
e di Maometto. C. A. 67 r. — _26._ Traccia. R. 1281. — Le fiamme e la
caldaia. C. A. 116 v. — _27._ Lo specchio e la regina. R. 1324.


LE ALLEGORIE.

_Pag. 31._ Amore di virtù. H. 5 r. — _32._ Invidia. — Allegrezza. —
Tristezza. H. 5 v. — Pace. — _33._ Ira. H. 6 r. — Misericordia over
gratitudine. — Avarizia. — _34._ Ingratitudine. H. 6 v. — Crudeltà. H.
7 r. — Liberalità. — Correzione. H. 7 v. — _35._ Lusinghe over soie.
— Prudenza. — Pazzia. H. 8 r. — Giustizia. — _36._ Verità. H. 8 v. —
Fedeltà over lialtà. — Falsità. H. 9 r. — _37._ Bugia. — Timore over
viltà. H. 9 v. — Magnanimità. — Vanagloria. — _38._ Constanza. H. 10 r.
— Inconstanza. — Temperanza. — Intemperanza. H. 10 v. — _39._ Umiltà.
— Superbia. H. 11 r. — Astinenza. — Gola. — _40._ Castità. H. 11 v. —
Lussuria. — Moderanza. — Aquila. H. 12 r. — _41._ Lumerpa, fama. H.
12 v. — Pellicano. — Salamandra. — _42._ Camaleon. H. 13 r. — Alepo
pesce. — Struzzo. — Cigno. — Cicogna. H. 13 v. — _43._ Cicala. H. 14 r.
— Basalisco. — L’aspido, sta per la virtù. H. 14 v. — Drago. — Vipera.
— _44._ Scorpione. H. 15 r. — Cocodrillo, ipocresia. — Botta. H. 17 r.
— _45._ Bruco, della virtù in generale. — Ragno. H. 17 v. — Leone. H.
16 r. — _46._ Taranta. — Duco o civetta H. 18 v. — Leofante. H. 19, 20
r. e v. — _48._ Il dragone. H. 20 v. — _49._ Serpente. — Boa. H. 21 r.
— Macli pel sonno è giunta. — _50._ Bonaso noce colla fuga. H. 21 v.
— Palpistrello. — _51._ Pernice. — Rondine. H. 14 r. — Ermellino. H.
48 v. — Leoni, pardi, pantere, tigri. H. 22 r. — Leonessa. H. 22 v.
— _52._ Leone. — Pantere in Africa. H. 23 r. — Cammelli. H. 23 v. —
_53._ Tigre. — Catopleas. H. 24 r. — _54._ Basilisco. — Donnola over
bellola. — _55._ Ceraste. H. 24 v. — Amfesibene. — Iaculo. — Aspido.
H. 25 r. — _56._ Icneumone. — Cocodrillo. H. 25 v. — _57._ Delfino. H.
26 r. — _58._ Hippotamo. — Iris. — Cervi. H. 26 v. — _59._ Luserte. —
Rondine. — Bellola. — Cinghiale. H. 27 r. — Serpe. — Pantera. — _60._
Camaleonte. H. 27 v. — Corbo. — Magnanimità. — Gru. — Cardellino. H.
17 v. — _61._ Dell’antivedere. H. 98 r. — Per ben fare. H. 98 v. — Sul
medesimo soggetto. H 99 r. — Del lino. G. 88 v. — _62._ Frammento. G.
89 r.


I PENSIERI.

PENSIERI SULLA SCIENZA.

_Pag. 65._ La teoria e la pratica. R. 110. — Dell’error di quelli,
che usano la pratica sanza scienza. G. 8 r. — Paragone del pratico.
C. A. 76 r. — _66._ Precedenza della teorica alla pratica. I. 130 r.
— Sul medesimo soggetto. Lu. 405. — Consiglio al pittore. Lu. 750.
— Sul medesimo soggetto. Lu. 54. — _67._ Sul fatto anatomico dello
sviluppo grande del cranio nel fanciullo. Ash. I. 7 r. — Diversità
della teorica dalla pratica. C. A. 93 v. — _68._ Sterilità delle
scienze senza applicazione pratica. Lu. 9. — Sul medesimo soggetto.
R. 1169. — Ricordi di Leonardo. F. 2 v. — _69._ La distribuzione dei
suoi trattati. F. 23 r. — Valore intrinseco del sapere. C. A. 223 r.
— Naturale istinto dell’uomo al sapere. C. A. 119 r. — _70._ Piacere,
che nasce dalla contemplazione della natura. C. A. 91 v. — Leonardo
contro gli sprezzatori delle sue opere. C. A. 119 r. — _71._ Contro gli
sprezzatori della scienza. T. 41 v. — Riflessione sulla struttura del
corpo umano. R. 1178. — _72._ Contro gli uomini, che mirano solo alla
vita materiale. R. 1179. — I due campi della conoscenza. C. A. 365 v.
— Il supremo bene è il sapere. T. 2 r. — _73._ Valore del sapere nella
vita. C. A. 112 r. — Glorificazione della scienza. Lu. 65. — _74._ Come
per tutti’ viaggi si po’ imparare. Ash. I. 31 v. — L’inerzia guasta
la sottilità dell’ingegno. C. A. 284 v. — Lo studio senza voglia non
dà alcun frutto. R. 1175. — Sul medesimo soggetto. Ash. I. 34 r. —
_75._ Per giudicare l’opera propria bisogna riguardarla dopo lungo
intervallo. C. A. 122 v. — Antiquitas sæculi iuventus mundi. M. 58 v.
— Glorificazione della verità. V. U. 12 r. — _76._ Conseguenza delle
opposizioni alla verità. C. A. 118 r. — Definizione della scienza.
Lu. 1. — _78._ Valore delle regole date da Leonardo al pittore. C.
A. 218 v. — _79._ Legge, che governa lo svolgimento storico della
pittura e delle scienze. C. A. 141 r. — _80._ Contro il principio di
autorità nella scienza. C. A. 119 r. — _81._ Il seguace della natura e
il seguace della autorità degli scrittori. C. A. 117 r. — Superiorità
degli scopritori del vero sui commentatori delle opere altrui. C.
A. 117 r. — _82._ Contro gli umanisti. C. A. 119 r. — Reverenza di
Leonardo per gli antichi inventori. F. 27 v. — _83._ Valore della
autorità. C. A. 76 r. — Spontaneità della creazione artistica e
scientifica. C. A. 76 r. — Studio dell’antichità. C. A. 147 r. —
Necessità della esperienza e della matematica nelle scienze. Lu. 1. —
_84._ La esperienza. R. 1150. — La sperienza non falla, ma sol fallano
i nostri giudizi, promettendosi di lei cose, che non sono in sua
potestà. C. A. 154 r. — _85._ Necessità della successione dell’effetto
alla causa. C. A. 154 r. — La certezza delle matematiche. R. 1157.
— Generale applicabilità della matematica. K. 49 r. — _86._ Delle
scienze. G. 96. — Leonardo al lettore. R. 3. — Della meccanica. E. 8 r.
— La meccanica e la esperienza. R. 1156. — Accordo fra l’esperienza e
la ragione. C. A. 86 r. — _87._ La deduzione. R. 6. — Bisogna passare
dal noto all’ignoto. E. 54 r. — La legge di natura domina i fatti.
C. A. 147 v. — L’esperienza è il fondamento della scienza. H. 90 r.
— _88._ Sul medesimo soggetto. A. 31 r. — Dalla investigazione degli
effetti si scoprono le cause. E. 55 r. — Bisogna ripetere le esperienze
e variare le circostanze. A. 47 r. — _89._ Esempio della precedente
regola. M. 57 r. — Bisogna limitare la ragione alla esperienza, non
estendere la ragione al di là della esperienza. I. 102 r. e v. — _90._
A coloro che affermano l’acqua trovarsi alla sommità dei monti, perchè
il mare è più alto, che la terra. F. 72 v. — _91._ La prospettiva
e la matematica. C. A. 200 r. — _92._ La cognizione ha origine dal
senso. T. 20 v. — Conseguenza del predetto principio. R. 838. — _93._
La testimonianza del senso è il criterio del vero. Lu. 16. — _94._ Le
vere scienze sono quelle che si fondano sulla testimonianza dei sensi.
Lu. 33. — _96._ Inganno della mente abbandonata a sè stessa. Lu. 65.
— Sul medesimo soggetto. C. A. 153 v. — Contro la metafisica. B. 4 v.
— _97._ Superiorità degli animali sull’uomo. F. 96 v. — Dal dizionario
di Leonardo. T. 12 r. — Superiorità della scienza della pittura sulla
filosofia. Lu. 10. — Non si conosce l’essenza delle cose, ma i loro
effetti. C. A. 79 r. — _98._ Come la massa dell’acqua, che circonda la
terra, ha forma sferica. C. A. 75 v. — La divisibilità all’infinito
è un’astrazione mentale. C. A. 119 r. — _99._ L’infinito non si può
abbracciare colla ragione. C. A. 113 v. — Sul medesimo soggetto. H. 67
v. — La finalità delle cose trascende la mente umana. G. 47 r. — _100._
Gli antichi si sono proposti dei problemi insolubili. C. A. 119 r. —
Limiti alla definizione dell’anima. R. 837. — _101._ Contro gli ingegni
impazienti. R. 1210. — _103._ Della vita del pittore nel suo studio.
Ash. I. 27 v. — _104._ Consigli al pittore. Ash. II. 1 r. — _105._
Altro consiglio. Lu. 58. — _106._ Consiglio. L. 53. — Vita del pittore
filosofo ne’ paesi. C. A. 181 v. — _107._ Necessità della analisi. Ash.
I. 28 r. — _108._ Carattere delle opere di Leonardo. R. 4. — _109._ Suo
desiderio insaziabile di conoscere. R. 1339.

PENSIERI SULLA NATURA.

_Pag. 111._ Proemio. C. A. 119 r. — _112._ Natura e scienza. I. 18
r. — Leggi necessarie dominano i fatti della natura. R. 1135. — La
rispondenza degli effetti alla potenza della loro cagione è necessaria.
A. 24 r. — _113._ Le leggi della natura sono imprescindibili. E. 43
v. — Sul medesimo soggetto. C. 23 v. — L’effetto succede alla causa
necessariamente. C. A. 169 v. — Il miracolo sta nella rispondenza
dell’effetto alla sua causa. C. A. 337 v. — _114._ Ogni cosa obbedisce
alla propria legge. R. 156 r. — _115._ Passività e attività. T. 39 r.
— Provvidenza della natura nella conformazione del corpo umano. C. A.
116 r. — _116._ Provvidenzialità della dilatazione e restringimento
della pupilla. D. 5 r. — _117._ Contro coloro che si arrogano di
correggere la natura. C. A. 76 r. — Sul fenomeno della spinta delle
radici. C. A. 76 r. — _118._ Sulla struttura delle ali. E. 52 v. —
Sulla disposizione delle foglie nelle piante. Lu. 398. — _119._ Legge
universale delle cose. Ash. II. 4 r. — Sul medesimo soggetto. A. 60 r.
— _120._ Le cose fuori del loro stato naturale tendono a ritornarvi.
C. 26 v. — Legge del minimo sforzo. C. 28 v. — Ogni parte desidera
essere nel suo tutto. C. A. 59 r. — Suggetto colla forma. T. 6 r. —
_121._ Legge del minimo sforzo. G. 74 v. — La stessa. D. 4 r. — Ancora
la stessa. — La natura è variabile in infinito. C. A. 112 v. — _122._
Contro gli alchimisti. Lu. 501. — Ancora sulla varietà della natura.
C. A. 76 r. — Precetto al pittore. C. A. 1119 r. — _123._ Precetto.
Lu. 270. — Vi è una omogeneità di struttura negli esseri animati.
Lu. 107. — _124._ Concetto dell’energia. G. 5 v. — Legge universale.
G. 73 r. — La stessa. T. 36 v. — _125._ Definizione della forza. T.
36 v. — La stessa. H. 141 r. — La materia è inerte. A. 34 r. — Legge
della trasmissione del moto e della sua equivalenza. B. 63 r. — _126._
Principio d’inerzia. F. 74 v. — Origine della forza. E. 22 r. — _127._
Aspetti varî della forza. I. 68 r. — Ancora del principio d’inerzia.
R. 859. — Ancora. V. U. 13 r. — _128._ Sulla pitagorica armonia delle
sfere celesti. C. A. 122 v. — _129._ Sulla legge di gravità. F. 56 v.
— La stessa. F. 69 v. — _130._ La stessa. C. A. 153 v. — Laude del
sole. R. 860. — _131._ Segue la laude. F. 5 r. — _132._ Segue. F. 4
v. — _133._ Segue. F. 6 r. — Segue. F. 8 r. — _134._ Della prova che
’l sole è caldo per natura e non per virtù. F. 10 r. — Sul medesimo
soggetto. G. 34 r.; F. 34 v. — _135._ Propagazione dei raggi nello
spazio. F. 85 v. — _136._ Se le stelle han lume dal sole o da sè.
F. 86 r. — _137._ La terra è una stella. F. 57 r. — Essa risplende
nell’universo. R. 886. — _138._ Ordine del provare la terra essere una
stella. F. 56 v. — La terra sembra stella ai lontani. C. A. 112 v. —
_139._ La terra non è centro dell’universo. F. 25 v. — Come in un’età
lontana la terra aveva un più vivo splendore. F. 94 v. — Questioni
sulla natura della luna. F. 41 v. — _140._ Sulla gravità della luna.
F. 69 v. — _141._ Sul medesimo soggetto. R. 892. — I mondi gravitano
in seno ai proprî elementi. R. 902. — _142._ Il calore come principio
della vita. K. 1 r. — La terra è un grande vivente. R. 896. — _143._
Paragone dell’uomo e del mondo. C. A. 80 r. — Cominciamento del
trattato de l’acqua. R. 1000. — _144._ L’acqua. A. 55 v. — L’acqua
è il sangue e la linfa del mondo. R. 970. — _145._ Sul medesimo
soggetto. H. 77 r. — L’acqua sui monti. R. 965. — Trasformazioni dovute
all’acqua. H. 95 r. — _146._ Della vibrazion della terra. K. 2 r. —
Vaste trasformazioni nel passato e nell’avvenire. G. 49 v. — _147._
L’acqua nei fiumi. R. 953. — _148._ Su una conchiglia fossile. R. 954.
— Basta un piccolo segno per ricostruire l’intero passato. R. 955. —
_149._ Del diluvio e de’ nicchi marini. R. 984. — _151._ Di quelli che
dicono, che i nicchi sono per molto spazio e nati remoti dalli mari,
per la natura del sito e de’ cieli, che dispone e influisce tal loco a
simile creazione d’animali. R. 987. — _155._ Confutazione ch’è contro
coloro, che dicono i nicchi esser portati per molte giornate distanti
dalli mari per causa del diluvio, tant’alto che superasse tale altezza.
R. 988. — _158._ I fossili rispecchiano nel passato una vita analoga
a quella del presente. R. 989. — _161._ De’ nicchi ne’ monti. F. 80
r. — _162._ Sulla stratificazione geologica e contro il diluvio. R.
994. — Dubitazione. C. A. 155 r. — _163._ Quale sarà il termine della
vita nel mondo. R. 995. — _165._ La terra immersa nell’acqua per la
lenta consumazione de’ monti. F. 52 v. — Le leggi meccaniche dominano
i fenomeni inorganici e organici. V. U. 3 r. — Possibilità che ha
l’uomo d’imitare strumentalmente l’uccello volante. F. 52 r. — _166._
Ricordo, che ritorna all’anima del Vinci mentre scrive sul volo del
nibbio. C. A. 161 r. — _167._ Perchè li piccoli uccelli non volano in
grande altezza, nè li grandi uccelli si dilettano volare in basso. C.
A. 66 v. — Facciamo nostra vita coll’altrui morte. E. 43 r. — Come
il corpo dell’animale al continuo more e rinasce. H. 89 v. — _168._
Circolazione della materia. R. 483. — _169._ Sullo stesso soggetto. F.
49 v. — Ancora sullo stesso soggetto. C. A. 376 v. — Sulla esistenza
della morte e del dolore nel mondo. R. 846. — Sul medesimo soggetto.
R. 1219. — _170._ Desiderio di disfarsi nelle cose e negli esseri.
R. 1187. — _171._ Come i sensi sono offiziali dell’anima. R. 838. —
_173._ Meccanismo della sensazione. C. A. 90 r. — _175._ Sui movimenti
automatici. C. A. 119 r. — _176._ Come i nervi operano qualche volta
per loro, sanza comandamento delli altri offiziali dell’anima. R.
839. — Come l’uomo tende a riprodurre sè stesso nelle proprie opere.
Lu. 108. — _178._ Un istinto naturale dell’uomo lo guida a cercare
sè stesso nelle cose e negli esseri. Lu. 109. — _179._ Consiglio al
pittore. A. 23 r. — Sugli stessi soggetti. Lu. 499. — _180._ Sulla
natura dei sensi. T. 7 v. — Problema dei sogni. R. 1114. — Giudizi
inconscienti. I. 20 r. — _181._ Inganno dei sensi. Lu. 2. — _182._ Sul
tempo. R. 916. — Sul concetto del tempo. R. 917. — _183._ Sul concetto
del nulla. Ash. III. 27 v.; R. 918.

PENSIERI SULLA MORALE.

_Pag. 185._ Gli studi di Leonardo. R. 841. — Proemio della sua
anatomia. R. 796. — _187._ Passaggio dalla anatomia all’etica. R.
798. — Conseguenze etiche che discendono dagli studi anatomici. An.
A. 2 r. — _188._ Il metodo sperimentale e sue conseguenze sull’agire
umano. C. A. 119 r. — Limiti imposti da Leonardo alla scienza. R. 1.
— _189._ Contro la necromanzia. R. 1213. — _192._ Degli spiriti. —
_193._ Se lo spirito tiene corpo infra li elementi. R. 1214. — _194._
Se lo spirito, avendo preso corpo d’aria, si può per sè muovere o
no. R. 1215. — _195._ Se lo spirito può parlare o no. C. A. 187 v. —
_196._ Sul medesimo soggetto. — _197._ Sul medesimo soggetto. B. 4 v. —
Studi sulla fisonomia. Lu. 292. — _198._ Contro i ricercatori del moto
perpetuo. K. 101 v. — _199._ Segue. F. 30 v. — Sul medesimo soggetto.
R. 1206. — Avvertimento. E. 31 v. — Contro le scienze occulte. R.
796. — _200._ Contro i medici. R. 797. — Ancora. — Ancora. F. 96 v.
— _201._ Funzione del dolore nella vita animale. R. 100 — Perchè le
piante non hanno il dolore. H. 60 r. — _202._ Funzione delle passioni
a conservazion della vita. H. 32 r. — Animosità e paura. C. A. 76 r. —
Il corpo è specchio dell’anima. C. A. 76 r. — Indipendenza dell’anima
dalla materia corporea. T. 32 r. — _203._ La memoria. H. 33 v. — Lo
spirito è dominatore. T. 34 v. — Ragione e senso. T. 33 r. — Sentimento
e martirio. T. 23 v. — La virtù è il vero bene dell’uomo. Ash. I. 34
v. — _204._ La brevità del tempo è una illusione della mente. C. A.
76 r. — Illusioni della mente e del senso. C. A. 29 v. — Ideando un
orologio a piombo. C. A. 12 r. — _205._ La vita virtuosa. C. A. 71 v.
— Epigramma. C. A. 76 r. — L’attimo è fuggevole. T. 34 r. — Nobiltà
del lavoro. T. 34 r. — _206._ La vita laboriosa. T. 27 r. — Il tempo
distruggitore. C. A. 71 r. — Di quelli che biasimano chi disegna alle
feste e chi ’nvestiga l’opere di Dio. Lu. 77. — _207._ Preghiera. R.
1132. — Orazione. R. 1133. — _208._ Contro i cattivi religiosi. E.
5 v. — Ancora. T. 68. — Tutto è stato detto. T. 14 r. — Comparazione
della pazienza. C. A. 117 v. — Consigli al parlatore. G. 49 r. — _209._
Consiglio, miseria e giudizio. C. A. 80 v. — _210._ Sentenze, proverbi
e simboli. H. passim. — _214._ La verità. T. 38 r. — _215._ Il ben
fare. H. 48 v. — _216._ La ingratitudine. — La invidia. — _217._ La
fama. Ash. II. 22 v. — Piacere e dolore. R. 1196. — _218._ Inferiorità
fisiologica dell’uomo. R. 827. — _219._ Sua inferiorità etica. R. 844.
— _221._ Classificazione di Leonardo. R. 816. — L’uomo come animale.
C. A. 292 r. — Dagli animali all’uomo vi è un lento trapasso. E. 16 r.
— L’evoluzione della moda. Lu. 541. — _223._ Un discepolo di Leonardo:
Giacomo. C. 15 r. — _225._ Leonardo analizzatore dell’uomo. H. 137 v.
— Frammento di lettera a Giuliano de’ Medici. C. A. 243 v. — _227._
I miseri studiosi con che speranza e’ possono aspettare premio di lor
virtù? R. 1358. — _229._ Dialogo fra il cervello e lo spirito, che in
esso abitava. R. 1355. — Frammento di lettera. C. A. 360 r.

PENSIERI SULL’ARTE.

_Pag. 231._ Difesa della pittura contro le arti liberali. — Proemio.
Lu. 27. — Perchè la pittura non è connumerata nelle scienze? Lu. 34. —
_232._ La pittura è scienza universale. Lu. 7. — _233._ La pittura non
si può divulgare. Lu. 8. — _235._ Come la pittura avanza tutte l’opere
umane per sottile speculazione appartenente a quella. Ash. I. 19 v.
— _237._ La pittura crea la realtà. Lu 2. — _238._ Rappresentazione
e descrizione. Lu. 7. — Eccellenza dell’occhio. Lu. 24. — _239._
Il pittore va direttamente alla natura. Lu. 14. — _241._ Potenza
espressiva della pittura. Lu. 15; 25. — _245._ Importanza dell’occhio
nella vita animale. Lu. 16. — _246._ La pittura è una poesia muta. Lu.
18. — _247._ Segue della pittura e poesia. Lu. 20. — _248._ Segue.
Lu. 21. — _250._ La pittura si presenta all’occhio nel suo tutto in
istante. Lu. 22. — _251._ Segue. R. 658. — _257._ Come la scienza
dell’astrologia nasce dall’occhio, perchè mediante quello è generata.
Lu. 17. — Parla il poeta col pittore. Ash. I. 13 r. — _260._ Risposta
del re Mattia ad un poeta, che gareggiava con un pittore. Lu. 27. —
_262._ Altezza del mondo visibile. Lu. 27. — _263._ Arguizione del
poeta contro ’l pittore. Lu. 26. — _264._ Conclusione infra ’l poeta
e il pittore. Lu. 28. — _266._ Come la musica si dee chiamare sorella
e minore della pittura. Lu. 29. — _267._ Pittura e musica. Lu. 30; 31.
— _269._ Parla il musico col pittore. Lu. 30. — _270._ Conclusione del
poeta, pittore e musico. Lu. 32. — _273._ Causa della inferiorità in
cui è tenuta la pittura. Lu. 46.

_Pag. 274._ Il pittore e la pittura. — Vastità del campo della pittura.
Lu. 438. — Origine della pittura. Ash. I. 17 r. — Come ’l pittore è
signore d’ogni sorte di gente e di tutte le cose. Lu. 13. — _275._
La pittura è una seconda creazione. Lu. 9. — Come il pittore non è
laudabile se quello non è universale. Ash. I. 25 v. — _276._ Il pittore
e la natura. R. 520. — Come chi sprezza la pittura non ama la filosofia
della natura. Ash. I. 20 r. — _277._ Come nell’opere d’importanza l’omo
non si de’ fidare tanto della sua memoria, che non degni ritrarre di
naturale. Ash. I. 26 r. — _278._ Del giudicare la tua pittura. Ash.
I. 28 r. — _279._ Come ’l pittore debb’esser vago d’audire, nel fare
dell’opera sua, il giudizio d’ogni omo. Ash. I. 26 r. — _280._ Della
trista scusazione fatta da quelli che falsa — e indegnamente si fanno
chiamare pittori. Ash. I. 25 r. — Come lo specchio è ’l maestro de’
pittori. Ash. I. 24 v. — _282._ Precetto al pittore. G. 33 r. e v. —
La pittura è un discorso figurato. K. 110 v. — Ordine dello studio.
Ash. I. 17 v. — _283._ Sullo stesso soggetto. C. A. 196 v. — _284._
Del modo dello imparare bene a comporre insieme le figure nelle storie.
C. A. 27 v. — _285._ Dello studiare in sino quando ti desti o innanzi
t’addormenti nel letto, allo scuro. Ash. I. 26 r. — Modo d’aumentare
e destare lo ’ngiegno a varie invenzioni. Ash. I. 22 v. — _286._ La
stanza del pittore. Ash. I. 16 r. — L’idea e la pratica dell’arte. Lu.
57. — _287._ Progresso indefinito dell’arte. R. 498. — Quel pittore,
che non dubita, poco acquista. Lu. 62. — Precetti sulla pittura. Lu.
404.

_Pag. 289._ PARAGONE DELLA PITTURA COLLA SCULTURA. — I. Ash. I. 25 r. e
24 v. — _292._ II. Lu. 35. — III. Lu. 36. — _293._ IV. Lu. 33. — _295._
V. Lu. 40. — _296._ VI. Conclusione. Lu. 41.


I PAESI E LE FIGURE.

I PAESI.

_Pag. 301._ Un effetto di nubi sul lago Maggiore. R. 1021. — _302._
Un’ascensione al monte Rosa. R. 300. — _303._ Traccia. R. 471. — Altra
traccia. R. 605. — Varie colorazioni del mare. Lu. 237. — _304._ La
vegetazione di un colle. Lu. 606. — _306._ Del modo del figurare una
notte. Ash. I. 18 v. — _307._ Come si dee figurar una fortuna. Ash. I.
21 r. — _308._ Modo di figurare una battaglia. Ash. I. 30 v. — _313._
Figurazione del diluvio. G. 6 v. — _314._ Segue. R. 327. — _323._
L’isola di Cipro. R. 1104.

_Pag. 324._ Il viaggio in Oriente.-Divisione del libro. — _325. Lettera
I._-Descrizione del monte Tauro e del fiume Eufrates. — _327. Lettera
II._-Figura del monte Tauro. — _329._ Qualità e quantità del monte
Tauro. C. A. 145 r. e v. — _331. Lettera III._ C. A. 211 v. — _333._
Frammento. C. A. 189 v.


LE FIGURE.

_Pag. 335._ La pittura espressiva. C. A. 139 r. — _336._ Avvertimento
al pittore. Ash. I. 21 r. — La pittura deve mostrare la passione della
figura dipinta. Lu. 180. — _337._ Come il muto è maestro del pittore.
Lu. 115. — Il pregio della pittura sta nella rispondenza del segno
al significato. Ash. I. 20 r. — _338._ Segue. Ash. I. 27 r. — Varietà
infinita nell’espressione dei sentimenti. Lu. 373. — Le età dell’uomo.
Ash. I. 17 v. — _339._ Del figurare uno che parli infra più persone.
Ash. I. 21 r. — _340._ Appunti sulla composizione del Cenacolo. R. 666.
— _341._ Come si deve fare una figura irata. Ash. I. 29 r. — _342._
Come si figura uno disperato. Ash. I. 29 r.

_Pag. 342._ UN GIGANTE FANTASTICO. — _Lettera I._ C. A. 96 v. — _344.
Lettera II._ C. A. 304 r. — _346._ Frammento.


LE PROFEZIE E LE FACEZIE.

LE PROFEZIE.

_Pag. 349._ Le profezie degli animali razionali. — Profezia. I. 63
r. e v. — _350._ De’ fanciulli che stanno legati nelle fascie. C. A.
143 r. — _351._ De’ putti che tettano. I. 67 r. — Il dormire sopra le
piume dell’uccelli. R. 1297. — Dello scriver lettere da un paese a un
altro. C. A. 362 r. — Delle putte maritate. I. 64 r. — Delle dote delle
fanciulle. C. A. 362 v. — _352._ Dello spegnere il lume a chi va a
letto. C. A. 362 r. — Del sognare. C. A. 362 r. — Ancora del sognare.
C. A. 145 r. — _353._ Dell’ombra che si move coll’uomo. C. A. 362 r. —
Dell’ombra che fa l’omo di notte col lume. K. 50 v. — Dell’ombra del
sole e dello specchiarsi nell’acqua in un medesimo tempo. C. A. 362
r. — _354._ Delle lingue de’ diversi popoli. I. 64 v. — De’ soldati a
cavallo. C. A. 362 r. — De’ segatori. C. A. 362 v. — De’ zappatori.
I. 64 r. — _355._ Del seminare. — Le terre lavorate. C. A. 362 r. —
I calzolari. R. 1312. — Del segare delle erbe. R. 1311. — Del grano e
altre semenze. R. 1310. — _356._ Del battere il grano. I. 65 r. — De’
giocatori. I. 64 v. — Del suono della piva. I. 65 r. — De’ dadi. I. 65.
r. — De’ battuti e scoreggiati. C. A. 362 r. — _357._ Le lingue de’
porci e vitelli nelle budelle. C. A. 362 r. — De’ villani in camicia
che lavorano. — De’ barbieri. R. 1290.

_Pag. 357._ Le profezie degli animali irrazionali. — Tiran le bombarde.
R. 1297. — De’ buoi che si mangiano. C. A. 362 r. — _358._ Delli asini
bastonati. C. A. 143 r. — Delli asini. C. A. 362 r. — Delle campanelle
de’ muli che stanno presso ai loro orecchi. C. A. 362 r. — De’ muli
che portano le ricche some dell’argento e oro. L. 91 r. — _359._ De’
capretti. R. 1313. — Delle pecore, vacche, capre e simili. C. A. 143
r. — Delle gatte che mangiano i topi. C. A. 143 r. — Le api che fanno
la cera delle candele. R. 1297. — Dell’api. C. A. 143 r. — _360._ Delle
formiche. C. A. 143 r. — Delle mosche e altri insetti. I. 64 r. — Delle
civette o gufi con che s’uccella alla pania. C. A. 162 r. — Delle
biscie portate dalle cicogne. C. A. 127 v. — _361._ I pesci lessi.
C. A. 362 r. — De’ pesci che si mangiano non nati. C. A. 362 r. — De’
nicchi e chiocciole che sono ributtate dal mare, che marciscono dentro
ai lor gusci. I. 67 r. — Dell’ova che sendo mangiate non possono fare
i pulcini. C. A. 362 v. — Delle taccole e stornelli. G. 76 r. — _362._
Delle api. R. 1329.

_Pag. 362._ LE PROFEZIE DELLE PIANTE. — Delle noci e ulive e ghiande e
castagne e simili. C. A. 143 v. — De’ noci battuti. I. 65. v. — _363._
L’ulive che cadono dagli ulivi dannoci olio che fa lume. C. A. 362 r. —
De’ legnami che bruciano. C. A. 362 r. — Degli alberi che nutriscono i
nesti. R. 1310.

_Pag. 363._ LE PROFEZIE DELLE COSE MATERIALI. — I. Della sola delle
scarpe che son di bue. C. A. 362 r. — _364._ De’ crivelli fatti di
pelle d’animali. C. A. 362 r. — Delle lanterne. F. 64 v. — Delle
medesime. C. A. 362 r. — Delle maniche de’ coltelli fatte di corna di
castrone. C. A. 362 r. — Delli archi fatti colli corni de’ buoi. C.
A. 362 v. — _365._ Delle piume ne’ letti. C. A. 362 r. — Del pettine
nel telaio. F. 65 r. — Il filatoio da seta. C. A. 362 r. — Del lino
che fa la cura delle genti. C. A. 362 r. — Del manico della scure. F.
64 v. — _366._ Il bastone ch’è morto. C. A. 362 r. — De’ lacciuoli e
trappole. C. A. 362 r. — Del moto dell’acque che portano i legnami che
son morti. C. A. 362 r. — Dei carri e navi. I. 66 r. — Delle casse che
riserrano molti tesori. C. A. 362 r. — _367._ Del navigare. C. A. 362
v. — Del navigare. C. A. 362 v. — De’ navili che annegano. C. A. 362 r.
— Li animali che van sopra le terre andando in zoccolo. C. A. 362 r. —
_368._ Delle baghe. R. 1317. — Del parasole.

_Pag. 368._ II. De’ sassi convertiti in calcina de’ quali si murano le
prigioni. I. 66 v. — Dello specchiare le mura delle città nell’acqua
de’ lor fossi. C. A. 362 r. — Dei forni. I. 66 r. — _369._ Ancora dei
forni. I. 66 r. — Del mettere e trarre il pane dalla bocca del forno.
C. A. 362 r. — Delle fornaci di mattoni e calcina. C. A. 362 r. — Delle
armi da offendere. I. 64 v. — Il ferro uscito di sotto terra è morto,
e se ne fa l’arme che ha morti tanti uomini. R. 1297. — _370._ Delle
spade e lance che per sè mai nuocono a nessuno. C. A. 362 r. — Delle
stelle degli sproni. C. A. 362 r. — Del fuoco delle bombarde. R. 1297.
— Delle bombarde ch’escan della fossa e della forma. C. A. 197 v. —
_371._ La pietra del fucile, che fa foco che consuma tutte le some
delle legne, con che si disfan le selve; e cuocerassi con esse la carne
delle bestie. R. 1297. — Dell’esca. C. A. 362 r. — De’ metalli. C. A.
362 r. — _372._ De’ danari e oro. C. A. 36 r.

_Pag. 372._ LE PROFEZIE DELLE CERIMONIE. — De’ morti che si vanno
a sotterrare. C. A. 362 v. — De li uffizi funerali e processioni e
lumi e campane e compagnia. C. A. 143 v. — _373._ Del dì de’ morti.
C. A. 362 v. — Del pianto fatto il venerdì santo. C. A. 362 r. — De’
cristiani. C. A. 145 r. — Del turibolo dell’incenso. R. 1310. — De’
preti che dicono messa. C. A. 362 v. — De’ preti che tengono l’ostia
in corpo. I. 65 v. — _374._ De’ frati confessori. C. A. 362 v. — Delle
pitture de’ santi adorate. C. A. 362 r. — Delle scolture. I. 65 v. —
De’ crocefissi venduti. I. 66 v. — Della religione de’ frati che vivono
per li loro santi, morti per assai tempo! I. 66 v. — _375._ Del vendere
il Paradiso. C. A. 362 v. — De’ frati che spendendo parole ricevono
di gran ricchezze, e danno il Paradiso. C. A. 362 r. — Delle chiese e
abitazion de’ frati.

_Pag. 376._ LE PROFEZIE DEI COSTUMI. — Dello sgomberare l’Ognissanti.
C. A. 362 v. — Delli omini che dorman nell’asse d’albero. C. A. 145 r.
— Del battere il letto per rifarlo. C. A. 362 r. — I medici che vivono
de’ malati. I. 66. v. — _377._ Del comune. C. A. 36 r. — Profezia. G.
14 v.

_Pag. 377._ LE PROFEZIE DE’ CASI CHE NON POSSONO STARE IN NATURA. —
Della fossa. C. A. 362 r. — Del peso posto sul piumaccio. C. A. 362
r. — _378._ Del pigliare de’ pidocchi. C. A. 362 r. — Dell’attignere
l’acqua con due secchie a una sola corda. C. A. 362 r.

_Pag. 378._ LE PROFEZIE DELLE COSE FILOSOFICHE. — Dell’avaro. C. A. 362
r. — _379._ Delli uomini che quanto più invecchiano più si fanno avari,
chè avendosi a star poco dovrebbero farsi liberali. C. A. 362 r. —
Del desiderio di ricchezza. I. 64 v. — Delle cose che si mangiano, che
prima s’uccidono. C. A. 362 r. — Della bocca dell’omo ch’è sepoltura.
I. 65 v. — Del cibo stato animato. C. A. 145 r. — _380._ Della vita
delli omini che ogni anno si mutano carne. R. 1311. — Della crudeltà
dell’omo. C. A. 362 v. — _381._ Della lettura de’ buoni libri. I. 64
r. — De’ libri che insegnano precetti. C. A 362 r. — Della fuma. I. 64
v. — Delle pelli delli animali che tengono il senso del tatto, che v’è
sulle scritture. I. 64 v. — _382._ Della storia. I. 65 v. — In ogni
punto della terra si può fare divisione de’ due emisperi. C. A. 362
r. — In ogni punto è divisione da oriente a occidente. C. A. 362 r. —
Degli emisperi, che sono infiniti e da infinite linee son divisi, in
modo che sempre ciascuno omo n’ha una d’esse linee infra l’un de’ piedi
e l’altro. C. A. 362 v. — _383._ Delle nuvole. R. 1297. — La neve che
fiocca, che è acqua. R. 1297. — La palla della neve rotolando sopra
la neve. R. 1297. — Delle pioggie, che fanno che i fiumi intorbidati
portan via le terre. C. A. 362 r. — _384._ Questo sono li fiumi,
che portano la terre da loro levate dalle montagne, e le scaricano
ai marini liti; e dove entra la terra si fugge il mare. R. 1297. —
Dell’acqua, che corre torbida e mista con terra, e della polvere e
nebbia mista coll’aria, e del foco misto col suo e altri con ciascuno.
C. A. 362 r. — Il vento d’oriente che scorrerà in ponente. R. 1297.
— _385._ Della notte che non si conosce alcun colore. C. A. 362 r. —
Del foco. C. A. 362 r. — Lo specchio cavo accende il foco col quale si
scalda il forno, che ha il fondo, che sta sotto il suo cielo. R. 1297.
— Traccia. R. 1297. — _386._ Dei pianeti. I. 66 r. — Del consiglio. C.
A. 36 r. — Della paura della povertà. C. A. 36 r. — Della bugia. I. 39
v.

LE FACEZIE.

_Pag. 387._ Di un frate ad un mercante. C. A. 147 v. — _389._ Di
un pittore ad un prete. C. A. 117 r. — Motto di un artigiano ad un
signore. R. 1283. — _390._ Bella risposta ad un pitagoreo. M. 58 v. —
Risposta di un pittore. M. 58 v. — _391._ Un amico ad un maldicente.
C. A. 300 v. — Detto di un infermo. R. 1290. — _392._ Detto di un
dormiglione. R. 1292. — Arguzia. F. cop. v. — Risposta ad un motto. C.
A. 12 r. — _393._ Facezia ad un vantatore. C. A. 75 v. — Risposta ad un
motto. C. A. 75 v. — _394._ La stessa. C. A. 75 v. — Motto. C. A. 75 v.
— Facezia di un prete. C. A. 75 v. — _395._ Facezia. C. 19 v. — Motto
arguto. — _396._ Motto detto da un giovane ad un vecchio. T. 8 r. —
Facezia. H. 37 r.



INDICE


  Prefazione                                           Pag. V
  Tavola delle sigle                                    LXIII
  Le favole                                                 1
  Le allegorie                                             29
  I pensieri                                               63
    Pensieri sulla scienza                                 65
    Pensieri sulla natura                                 111
    Pensieri sulla morale                                 185
    Pensieri sull’arte                                    231
      Difesa della pittura contro le arti liberali        231
      Il pittore e la pittura                             274
      Paragone della pittura colla scultura               289
  I paesi e le figure                                     299
    I paesi                                               301
    Il viaggio in Oriente                                 324
    Le figure                                             335
      Un gigante fantastico                               342
  Le profezie e le facezie                                347
    Le profezie degli animali razionali                   349
    Le profezie degli animali irrazionali                 357
    Le profezie delle piante                              362
    Le profezie delle cose materiali                      363
    Le profezie delle cerimonie                           372
    Le profezie dei costumi                               376
    Le profezie de’ casi che non possono
      stare in natura                                     377
    Le profezie delle cose filosofiche                    378
    Le facezie                                            387
  Note                                                    397
  Sommarii e riferimenti                                  419



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Per comodità di lettura è
stato aggiunto un indice generale a fine volume.



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